Sei sulla pagina 1di 421

Fernando Ocáriz, professore ordinario di L’opera si rivolge principalmente a coloro che

Teologia Fondamentale e Dogmatica pres- affrontano per la prima volta in forma siste-
so la Pontificia Università della Santa matica lo studio teologico del mistero di Cristo,
Croce. Fa parte della Pontificia Accademia cioè di quelle questioni abitualmente sviluppa-
te nei trattati di cristologia e soteriologia. Si

IL MISTERO DI CRISTO
Teologica Romana ed è Consultore della
tratta, quindi, di un manuale particolarmente
Congregazione per la Dottrina della Fede.
adatto agli studenti delle facoltà ecclesiasti-

IL MISTERO
Tra le numerose pubblicazioni in ambito
che.
teologico e filosofico ricordiamo: Hijos de Il mistero di Cristo, giunto ormai alla terza
Dios en Cristo (1972), Amor a Dios, amor edizione in lingua spagnola e già tradotto in

DI CRISTO
a los hombres (1979), El Marxismo (1980), lingua inglese, nasce come manuale per l’in-
Voltaire: Tratado sobre la tolerancia (1979), segnamento universitario, ma è anche frutto
Teologia fondamentale (1997). di anni di docenza. La diversa provenienza
accademica di suoi tre autori evita il rischio di
Lucas F. Mateo-Seco, professore ordinario un’angolatura eccessivamente particolare in
e direttore del dipartimento di Teologia modo che, pur mantenendo una stretta unità
interna, il libro è frutto di esperienze diverse
Fondamentale e Dogmatica della Facoltà
in ambito accademico.
di Teologia dell’Università di Navarra
L’intenzione degli autori nel dare alla stam-
(Spagna).
Tra i suoi libri e articoli ricordiamo: San
Vicente de Lerins. Tratado en defensa de
Manuale di Cristologia pa questo libro non è solo di offrire un valido
supporto agli studiosi di cristologia, ma anche
di aiutarli a raggiungere quella pienezza della
la antigüedad y universalidad de la fe conoscenza di Cristo espressa da san Paolo
católica (1977), Lutero: la libertad escla- nella Lettera agli Efesini: «Siate in grado di
va (1978, Estudios sobre la cristología de comprendere con tutti i santi quale sia l’am-
San Gregorio de Nisa (1978), Teología de la
liberación (1981), Dimensión umana de la
Fernando Ocáriz - Lucas F. Mateo Seco - José Antonio Riestra piezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità,
e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni
Redención (1983), Dios Uno y Trino (1998). conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pie-
nezza di Dio» (Ef 3,18-19).
José Antonio Riestra, professore ordinario
di Teologia Dogmatica e Vicedecano della
Facoltà di Teologia presso la Pontificia
Università della Santa Croce. È autore di
parecchi libri e articoli, tra cui: La liber-
tad de enseñanza (1977), Karl Marx: Scritti
giovanili (1975), Cristo y la plenitud del
Cuerpo Místico. Estudios sobre la cristología
de Santo Tomás (1985), Algunas cuestiones
de cristología (1993).

Pontificia Università della Santa Croce Fernando


Ocáriz
Facoltà di Teologia
Lucas F.
Mateo Seco
José Antonio
Riestra

€ 30,00
EDUSC
coverRiestra.indd 1 13/02/13 13:31
Collana di manuali a cura della Facoltà di Teologia
della Pontificia Università della Santa Croce
Imprimatur
Vicariato di Roma
15 dicembre 1999

Titolo originale
El misterio de Jesucristo
© Copyright 1991 - Ediciones Universidad de Navarra, S.A. (EUNSA)
Plaza de los Sauces, 1 y 2. Barañain-Pamplona (España)
Copertina: Paola Grossi Gondi - Grafica: Liliana M. Agostinelli

Traduzione di Carla Rossi Espagnet

Ristampa della Prima Edizione del 2000

© Copyright 2013 - Edizioni Santa Croce s.c.ar.l


Via dei Pianellari, 41 - 00186 Roma
Tel. 0645493637 - Fax 0645493641
E-mail: info@EduSC.it

ISBN 978-88-8333-012-4
Fernando Ocáriz - Lucas F. Mateo-Seco - José Antonio Riestra

IL MISTERO DI CRISTO

Manuale di Cristologia

edusc
SOMMARIO

Prefazione 11
Principali abbreviazioni e sigle 17

I. La dinamica della speranza

Cap. I. La speranza e l’epistemologica escatologica 21


1. La passione e la virtù della speranza 22
2. La verità della speranza cristiana 34
3. L’incorruttibilità dell’anima umana 39
4. La coerenza antropologica dell’escatologia cristiana 47
5. La coerenza spirituale dell’escatologia cristiana 54
6. L’azione dello Spirito Santo, causa e potenza di speranza 56
7. La divinità e l’umanità della speranza 59

II. L’oggetto della speranza cristiana

Cap. II. Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria 65
1. La Parousia avrà mai luogo? 66
1. Il problema antropologico: timore della Parousia 66
2. Le implicazioni filosofiche della Parousia 68
3. La Parousia e la cosmologia scientifica 71
4. Il Nuovo Testamento insegna la Parousia? 73
2. Il realismo della Parousia: la testimonianza della Scrittura 81
1. Prevedendo una imminente Parousia 82
2. L’interpretazione dei testi che si riferiscono alla Parousia 84
3. I primi cristiani e la Parousia 92
3. La Parousia, speranza della Chiesa 96
1. La Parousia nella Scrittura e nella Liturgia 96

Cap. III. La resurrezione dei morti 105


1. La resurrezione nella Scrittura e nella teologia 106
1. Il carattere giudaico e cristiano della fede nella resurrezione 106

7
Sommario

2. La Resurrezione nell’Antico Testamento 110


3. Resurrezione dei morti nel Nuovo Testamento 118
4. Resurrezione, antropologia ed etica cristiana 126
2. Alcune implicazioni teologiche della resurrezione 135
1. La gloria e la novità del corpo risorto 135
2. L’identità del corpo risorto e terreno 141
3. La resurrezione di una vita che è stata vissuta 145
3. Resurrezione dei morti come oggetto di speranza 149

Cap. IV. I nuovi cieli e la terra nuova 153


1. Il Cosmo e la fine del mondo 154
2. Rinnovamento cosmico, scienza e attività umana 159
1. Rinnovamento cosmico, scienza e materia 159
2. Il valore perpetuo del lavoro e dell’agire umano 165

Cap. V. Il giudizio finale 171


1. Il giudizio nella Scrittura 172
2. Giudizio e salvezza: il ruolo di Cristo 175

Cap. VI. Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo 193


1. La vita eterna nella Scrittura 196
2. In cosa consistono la vita e la gloria eterne? 197
3. La vita eterna e la visione di Dio 207
4. Il cielo che non finisce mai: eternità e libertà 217
5. L’aspetto sociale della vita eterna e il ruolo della carità 221
6. Progresso, temporalità e resurrezione nella vita eterna 226
7. La vita eterna come comunione con la Trinità 229

Cap.VII. Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori 239


1. La condanna perpetua nella Scrittura e nei Padri 240
2. La punizione senza fine come frutto del peccato non pentito 249
3. Inferno, giustizia e misericordia 262
4. La possibilità della condanna 268
5. I cristiani possono “sperare” la salvezza di tutti? 272

III. Lo stimolo della speranza nel mondo

Cap. VIII. La presenza vivente della Parousia 279


1. La presenza e il dinamismo del Regno di Dio 281
2. La visibilità del Regno di Dio 286

8
Sommario

3. I segni della Parousia 289


4. Il flusso e riflusso del millenarismo 297

IV. Perfezionando e purificando la speranza cristiana

Cap. IX. La morte, fine del pellegrinaggio umano 309


1. Una fenomenologia della morte e dell’immortalità 310
2. Morte e peccato 317
3. La morte del cristiano, incorporazione alla Pasqua del Signore 324
4. La morte come fine del pellegrinaggio umano 333
5. Morte e giudizio particolare 340

Cap. X. Il purgatorio: la purificazione degli eletti 347


1. La dottrina del purgatorio nella Scrittura 348
2. La dottrina del purgatorio nei Padri e nella Liturgia 353
3. Ascetismo, teologia orientale e il Concilio di Firenze 355
4. Purgatorio, protestantesimo e Concilio di Trento 359
5. Lo scopo e le caratteristiche della purificazione post-mortem 364

Cap. XI. Le implicazioni di una “escatologia intermedia” 373


1. La dinamica dell’escatologia individuale e collettiva 373
2. Escatologia intermedia nella teologia protestante 378
3. La teoria della “resurrezione nel momento della morte” 384
4. Verso una concezione corretta dell’anima umana 391

V. Il potere e la luce della speranza

Cap. XII. Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia 395


1. Escatologia e cristologia 396
2. Escatologia, ecclesiologia e sacramenti 398
3. Escatologia ed antropologia 400
4. Escatologia ed etica 401
5. Escatologia e spiritualità 403

Bibliografia 405
Indice dei nomi 407

9
PREFAZIONE

Papa Benedetto XVI ha intitolato la sua Enciclica dell’anno 2007 Spe salvi,
“salvi nella speranza”, citando le parole di Paolo nella lettera ai Romani: «nella
speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8,24). La salvezza cristiana è segnata
dalla speranza. Il segreto della fede cristiana è speranza (Eb 11,1). Il contribu-
to più prezioso che il cristianesimo rende all’umanità è speranza. La speranza
rende possibile la crescita, il progresso, la storia, il perdono, la conversione, la
rettifica. Cristo, che parla agli uomini nel suo corpo, la Chiesa, non promet-
te la felicità perfetta o il compimento pieno sulla terra. La fede cristiana non
afferma di risolvere e spiegare qui ed ora i molti problemi e difficoltà presenti
nel mondo. In effetti, come leggiamo nella lettera agli Ebrei (13,14), «non abbia-
mo quaggiù una città stabile». Piuttosto, i cristiani credono che Dio, per mezzo
del suo Figlio Gesù Cristo, abbia offerto all’umanità la salvezza: la salvezza dal
peccato, la salvezza che porta verso l’eterna, amorosa comunione con la Trinità.
Ma la salvezza dal peccato è un processo graduale, laborioso, di tutta la vita. E
la perpetua, consapevole unione con Dio, sebbene totalmente derivante dalla
grazia, richiede una lunga ed ardua purificazione. Chi crede è salvato, certo, ma
non è ancora a salvo; non si è manifestato ancora la sua salvezza. Ecco perché
quando come cristiani diciamo “siamo salvati”, dobbiamo aggiungere, spe salvi,
siamo salvati nella speranza. I cristiani vivono di speranza. E la speranza è ciò
che dà vita, certezza, allegria, leggerezza, perseveranza, spinta; serve come lega-
me vivente tra le altre due virtù teologiche che dominano la vita cristiana: la
fede e la carità1. Perché il Vangelo cristiano, il potere salvifico di Cristo presente
nel mondo, è essenzialmente escatologico.
Lo scopo di questo manuale, Cristo speranza per l’umanità, è duplice.
Primo, intende presentare i principali elementi dell’escatologia cristiana, cioè
il contenuto o oggetto della speranza: la venuta di Gesù Cristo nella gloria alla

1
Charles Péguy paragona la speranza ad una fanciulla che fiduciosamente tiene le mani delle due
sorelle maggiori, che rappresentano la fede e la carità; si veda la sua opera Le porche du mystère de
la deuxième vertu, Gallimard, Paris 1929.

11
Prefazione

fine dei tempi, la resurrezione dai morti, il rinnovamento del cosmo e il giudizio
finale dell’umanità, seguito dalla vita eterna per coloro che sono stati fedeli a
Dio, o dalla sua perdita perpetua per coloro che non lo sono stati. In secondo
luogo, intende considerare lo stimolo della speranza sulla vita presente, come
dovrebbe e come di fatto influenza il comportamento e l’esperienza umani,
come dà forma all’antropologia, all’etica, alla spiritualità. E tutto ciò nel conte-
sto della grande sfida cui tutte le religioni cercano di rispondere: la morte, che
Paolo chiama «l’ultimo nemico» (1 Cor 15,26)2.
In numerosi aspetti si tratta di un opera di struttura classica. Ma molta
acqua è passata nel fiume dell’escatologia nell’ultimo secolo e mezzo, e gli
studiosi delle cose ultime, come Hans Urs von Balthasar ha detto una volta, di
recente hanno dovuto fare gli straordinari3. In ogni caso, desidero porre l’atten-
zione su sei caratteristiche salienti del testo.
Prima e principale, le fondamenta cristologiche di tutta l’escatologia. Cristo
infatti è la nostra speranza (1 Tm 1,1): egli è la via al Padre, ma nella sua persona
è anche la verità, l’oggetto ultimo della fede e la Realtà vivente che gli uomini
dovranno affrontare alla fine del loro pellegrinaggio terreno, e la vita, quella
vita donata da Dio agli uomini e destinata a diventare eterna, perpetua. Nessu-
no può «venire al Padre» né in questa vita né in quella futura, ci dice Gesù,
«se non per mezzo di me» (Gv 14,6). L’escatologia è totalmente condizionata
dalla cristologia. Ne è il complemento interno. Come Jean Daniélou ha mostrato
in modo convincente4, se la Chiesa dovesse perdere la sua escatologia, sarebbe
destinata presto o tardi a perdere il suo redentore e Salvatore, Gesù Cristo, e
di conseguenza la sua ecclesiologia, la sua antropologia, la sua etica e la sua
spiritualità. Gli studi biblici dell’ultimo secolo o giù di lì hanno mostrato, senza
ombra di dubbio, che l’identità, il messaggio e l’opera salvifica di Gesù Cristo
sono profondamente segnati dall’escatologia. Cristo è Colui che dà contenuto
e unità all’intero trattato di escatologia. In particolare, sosterrò che l’escatolo-
gia del Nuovo Testamento offre una rielaborazione cristologica del materiale
apocalittico tradizionale, una tesi che ho sviluppato a lungo altrove5. Cosa ciò
significhi, verrà chiarito nel procedere del testo.

2
Si veda il mio studio Death, con F. V. Tiso, Religions of the World: A Comprehensive Encyclopedia
of Beliefs and Practices, a cura di J. G. Melton e M. Baumann, ABC-CLIO, Santa Barbara (CA)
20102, vol. 2, 866-874.
3
Si veda H. U. von Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia 1967, 31.
4
J. Daniélou, Christologie et eschatologie, in Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und Gegenwart,
a cura di A. Grillmeier e H. Bacht, Echter, Würzburg 1954, vol. 3, 269-86.
5
Si veda la mia opera The Christological Assimilation of the Apocalypse: an Essay on Fundamental

12
Prefazione

Una seconda area di interesse è l’aspetto pneumatologico dell’escatologia.


Il Simbolo della fede situa l’escatologia nella terza ed ultima parte del Credo, la
parte che è presieduta, per così dire, dallo Spirito Santo. È vero che Cristo salva
coloro che credono in lui, comunica loro il premio della vita eterna, spiega loro
il contenuto dell’aldilà. Ma Gesù è il Cristo, l’Unto di Dio, Colui che è pieno di
Spirito Santo dal momento del suo concepimento. In quanto tale, egli ci salva
inviandoci – con il Padre – lo Spirito Santo, che è sempre lo “Spirito di Cristo”.
Perciò, come vedremo, lo Spirito è «causa e potenza di speranza», la forza che
aleggia sempre dietro la speranza, Colui che introduce la vita, l’amore e la fede
di Dio Padre nei cuori dei credenti, uno per uno, Colui che rende la speranza
concretamente possibile.
In terzo luogo, come abbiamo già detto, ciascun argomento verrà tratta-
to nel contesto ed entro l’orizzonte della speranza. Le “cose ultime” non sono
ancora a nostra disposizione, non sono ancora state definitivamente rivelate; le
stiamo, cioè, ancora sperando. Perciò la chiave epistemologica – l’ermeneutica –
per cogliere il significato delle affermazioni escatologiche è la speranza. Questo
principio è chiaro quando è riferito alla vita eterna, la perpetua unione con Dio,
cui siamo stati destinati come creature fatte «ad immagine e somiglianza di
Dio» (Gn 1,27). Un po’ più complessa, seppure non meno interessante, è l’appli-
cazione della dinamica della speranza ad altri aspetti della promessa escatologi-
ca, per esempio la resurrezione dei morti e il giudizio universale.
Una quarta area di considerevole importanza lungo l’opera è quello che può
essere chiamata la consistenza antropologica. Molti degli ostacoli sperimentati
dai credenti nei confronti dell’escatologia cristiana sono di tipo pratico, antro-
pologico. Ha senso dire che gli uomini vivranno per sempre? La visione di Dio
soddisferà completamente il cuore dell’uomo? O non assorbirà invece completa-
mente il soggetto umano? La promessa della comunione eterna con Dio distrarrà
gli uomini dal migliorare il mondo in cui vivono ora? Ha senso affermare che
alcuni uomini, a causa dei loro errori, saranno esclusi per sempre dalla presenza
del loro Creatore? Che destino spetta al corpo umano nel contesto della promes-
sa escatologica? Che genere di corpo risorgerà? Manterrà le sue caratteristiche
sessuali? Per quanto riguarda i beni che Dio ha creato per noi e ci ha dato – la
nostra storia, la società umana, i rapporti con gli altri, i frutti del nostro lavoro, il
mondo materiale – quanto di ciò vivrà per sempre? E quanto dovrà esser lasciato
indietro? Come vedremo, la risposta a questi quesiti antropologici deve essere

Eschatology, Four Courts, Dublin 2004, d’ora in poi abbreviato come CAA.

13
Prefazione

assicurata in termini strettamente teologici, perché l’escatologia è teologia, per il


fatto che Dio è Colui che crea l’uomo e promette il premio della vita eterna. Dio è
Colui che risponde (o dovrebbe rispondere) agli interrogativi e alle difficoltà che
sorgono nel cuore umano. Ma i doni di Dio sono escatologicamente condiziona-
ti, e così anche, di conseguenza, lo è la risposta umana. Comprenderemo piena-
mente quel che Dio vuole da noi, e in che cosa consista l’identità umana, solo alla
fine dei tempi. La nostra riflessione, cioè, sulle cose ultime è necessariamente
segnata da quel che si può chiamare la “riserva escatologica”6.
Quinto, dal punto di vista metodologico, il messaggio dell’intero Nuovo
Testamento è essenziale all’escatologia, per la semplice ragione che abbiamo
bisogno della Rivelazione divina per poter conoscere il contenuto della promes-
sa divina. Per sua stessa natura l’escatologia appoggia sulla “rivelazione” (la
traduzione del termine greco apokalypsis)7, sulla parola di promessa di Dio. Non
c’è bisogno, ovviamente, di specificare che la Scrittura deve essere interpreta-
ta in senso cristologico, dal momento che Cristo in persona è «la resurrezione
e la vita» (Gv 11,25). Inoltre, una speciale attenzione si è riservata, nel testo,
alle opere dei Padri della Chiesa, la cui teologia è sostanzialmente fondata sulla
Sacra Scrittura. Abbiamo attribuito particolare attenzione a Cipriano, Ireneo,
Origene, Tertulliano, Ilario di Poitiers, Gregorio di Nissa, Girolamo, Agostino
e Massimo il Confessore8.
In sesto luogo, tra i teologi che hanno ricevuto attenzione particolare, figu-
ra molto Tommaso d’Aquino. Per l’Aquinate il “fine ultimo” determina criti-
camente tutti gli aspetti della antropologia, della creazione e della vita etica,
e a sua volta è cristologicamente determinato; questo si può vedere nei prolo-
ghi rispettivamente della I-II e della III pars della Summa Theologiae9. Tra gli
autori contemporanei, ho frequentemente attinto dagli scritti del teologo lute-
rano Wolfhart Pannenberg, la cui intera teologia è strutturata da un punto di
vista escatologico. Molto è stato scritto sull’escatologia in campo dogmatico nei

6
L’espressione è di J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969, 113.
7
Per la traslitterazione dei termini greci ed aramaici, ho seguito le regole indicate in P. H.
Alexander et al. (a cura di), The SBL Style Handbook. For Ancient near Eastern, Biblical, and Early
Christian Studies, Hendrickson, Peabody (MA) 1999, 26-29. I titoli degli studi contenenti termini
greci, tuttavia, saranno citati come in originale.
8
Ho fatto un ampio uso di B. E. Daley, The Hope of the Early Church. A Handbook of Patristic
Eschatology, University Press, Cambridge 19953. Si veda anche G. Pons (a cura di), El más allá en
los Padres de la Iglesia, Ciudad Nueva, Madrid 2001.
9
Si veda M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, in Aquinas on Doctrine: a Critical
Introduction, a cura di T. G. Weinandy, D. A. Keating e J. Yocum, T. & T. Clark, London; New
York 2004, 225-40.

14
Prefazione

recenti decenni e sono disponibili diversi eccellenti manuali in una varietà di


lingue e di differenti ambienti teologici10.
Ho insegnato per molti anni escatologia, sia all’Università di Navarra a
Pamplona (Spagna) che alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma.
Il testo è il frutto di questa esperienza di insegnamento. Vorrei esprimere la
mia gratitudine ai miei studenti, che negli anni hanno pazientemente ascoltato
le mie lezioni, ed intelligentemente chiesto delucidazioni sui punti ancora da
chiarire. Ringrazio anche gli amici e i colleghi per le molte indicazioni e corre-
zioni che mi hanno fornito nella revisione del testo, in particolare i proff. J. José
Alviar, Giovanni Ancona, Nicola Ciola, Antonio Ducay, Justin Gillespie, Giulio
Maspero, Juan Rego e Santiago Sanz. Nella revisione del testo, desidero ringra-
ziare la collaborazione di Thomas Widmer e Francis Denis.

Una osservazione finale. Penso che con tutta probabilità l’aldilà si dimo-
strerà qualcosa di ben diverso da quel che ho tentato di presentare nelle pagine
seguenti. Il linguaggio umano è povero e goffo nei migliori dei casi, ma ancor

10
In ordine alfabetico degli autori, si veda: J. J. Alviar, Escatología, Eunsa, Pamplona 2004; G. Anco-
na, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003; G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book,
Milano 1984; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia in prospettiva trini-
taria, Dehoniane, Bologna 20002; G. Colzani, La vita eterna: inferno, purgatorio, paradiso, A. Mon-
dadori, Milano 2001; G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana,
Elle di Ci, Leumann (Torino), 1993; G. Greshake, Stärker als der Tod. Zukunft, Tod, Auferstehung,
Himmel, Hölle, Fegfeur, Mainz, M. Grünewald 1976; R. Guardini, Die letzen Dinge. Die christliche
Lehre vom Tode, der Laüterung nach dem Tode, Auferstehung, Gericht und Ewigkeit, Matthias Grü-
newald, Mainz 1940 (trad. it., Le cose ultime: la dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo
la morte, la resurrezione, il giudizio e l’eternità, Vita e pensiero, Milano 1997); Z. Hayes, Visions of
a Future. A Study of Christian Eschatology, M. Glazier, Wilmington, Delaware 1989; R. Lavatori, Il
Signore verrà nella gloria, Dehoniane, Bologna 2007; G. Moioli, L’«Escatologico» cristiano. Proposta
sistematica, Glossa, Milano 1994; A. Nitrola, Trattato di escatologia: vol. 1: Spunti per un pensare
escatologico; vol. 2: Pensare la venuta del Signore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001-2010; J. T.
O’Connor, Land of the Living: A Theology of the Last Things, Catholic Books, New York 1992; W.
Pannenberg, Systematische Theologie, vol. 3, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1993 (trad. it.,
Teologia sistematica, vol. 3, Queriniana, Brescia 1996; i primi due volumi della Teologia sistematica
di Pannenberg furono editati in tedesco nel 1988 e 1991, e in italiano nel 1990 e nel 1994); C. Pozo,
La teología del más allá, BAC, Madrid 19923 (trad. it., La teologia dell’aldilà, Paoline, Roma 19905);
J. Ratzinger, Eschatologie - Tod und ewiges Leben, F. Pustet, Regensburg 19784 (trad. it., Escatolo-
gia. Morte e vita eterna (Piccola Dogmatica Cattolica, 9), Cittadella, Assisi 1979); J. L. Ruiz de la
Peña, La pascua de la creación, BAC, Madrid 1996; M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2:
Von den letzten Dingen (orig., 1948), Hüber, München 1959 (trad. it., I novissimi, Marietti, Casale
Monferrato 19692); H. Schwarz, Eschatology, W. B. Eerdmans, Grand Rapids 2000; A. J. Kelly,
Eschatology and Hope, Orbis Books, Maryknoll, New York 2006; N. T. Wright, Surprised by Hope.
Rethinking Heaven, the Resurrection, and the Mission of the Church, HarperOne, New York 2008;
A. Ziegenaus, Katholische Dogmatik, vol. 8: Die Zukunft der Schöpfung in Gott: Eschatologie, MM,
Aachen 1996.

15
Prefazione

di più quando giunge ad esprimere l’amore umano o i misteri divini. Tuttavia,


almeno potrò contare come scusa sulle parole di Paolo, attinte dal profeta Isaia:
«quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore
di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9; cfr. Is 64,3).

16
PRINCIPALI ABBREVIAZIONI E SIGLE

AAS: Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano 1929ss.


BDAG: W. Bauer, F. W. Danker, W. F. Arndt, F. W. Gingrich (a cura di), A Greek-English
Lexicon of the New Testament and other Early Christian Literature, University of Chi-
cago Press, Chicago (IL); London 20003.
CAA: il mio studio The Christological Assimilation of the Apocalypse. An Essay on Funda-
mental Eschatology, Four Courts, Dublin 2004.
CCC: Catechismo della Chiesa Cattolica, Vaticana, Città del Vaticano 1999.
DS: J. Denzinger e A. Schönmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declaratio-
num de rebus fidei et morum, Herder, Barcelona 196332.
DTC: A. Vacant et al. (a cura di), Dictionnaire de théologie catholique, 18 vols, Letouzey et
Ané, Paris 1908-1972.
GS: Concilio Vaticano II, Const. Gaudium et spes (1965).
LG: Concilio Vaticano II, Const. Lumen gentium (1964).
LThK: M. Buchberger e W. Kasper (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, 11 vols,
Herder, Freiburg i. B. 1993-20013.
NIDNTT: L. Coenen, E. Beyreuther, H. Bietenhard e C. Brown (a cura di), The New Inter-
national Dictionary of New Testament Theology, 3 vols, Paternoster Press, Exeter 1978-
1986.
SS: Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi (2007).
TWNT: G. Kittel et al. (a cura di), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, 11 vols,
W. Kohlhammer, Stuttgart 1933-1979.
WA: M. Luther, Dr Martin Luthers Werke. Schriften, 73 vols, H. Böhlaus Nachfolger, Wei-
mar 1883-2000.

17
PARTE PRIMA

LA DINAMICA DELLA SPERANZA


Capitolo I

LA VIRTÙ CRISTIANA DELLA SPERANZA


E LE BASI EPISTEMOLOGICHE
DELL’ESCATOLOGIA CRISTIANA

L’escatologia: un problema umano senza risposta umana


Giacomo Biffi1

La speranza è il respiro dell’anima; la speranza è la memoria del futuro;


la speranza è il tessuto stesso di cui l’anima è fatta
Gabriel Marcel2

The brain is not interested in reality; it is interested in survival


John J. Medina3

O lo specifico cristiano è antropologicamente significativo, o non è nulla


H.U. von Balthasar4

Il cristianesimo, come l’ebraismo, è la religione della promessa di Dio. Dio,


nel creare il mondo e nel salvare l’umanità, non ha lasciato tutto predisposto
precisamente ed accuratamente fin dall’inizio. La sua azione creatrice ha dato
inizio al tempo. E il tempo ha aperto lo spazio per il progresso futuro: spazio
per Dio che continua ad agire, a creare, a conservare, a salvare, a prendersi cura
del mondo, a rinnovare, a ri-creare, e spazio per gli uomini cui è offerta ripetute
volte la possibilità di rispondere liberamente ai molteplici doni di Dio. L’incom-
pletezza del momento presente appartiene all’essenza stessa della rivelazione
cristiana. La lettera agli Ebrei ci ricorda che «non abbiamo quaggiù una città

1
G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, 7.
2
G. Marcel, Homo viator, Aubier-Montaigne, Paris 1944, 68, 79; Etre et avoir, Aubier-Montaigne,
Paris 1935, 117.
3
J. J. Medina, The Science of Thinking Smarter, «Harvard Business Review» (maggio 2008) 51-54, 54.
4
H. U. von Balthasar, Gloria, vol. 7: il nuovo patto, Jaca Book, Milano 1977, 80.

21
Capitolo I

stabile» (13,14). Non di meno, per quanto possa essere transitoria e manchevole
la situazione attuale, l’orizzonte ultimo della vita cristiana non è l’incompletez-
za e la transitorietà, dal momento che, secondo la Scrittura, Dio ha promesso in
Cristo la “vita eterna” a coloro che sono a Lui fedeli, “resurrezione dai morti”
per tutti e ciascuno, “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia”.
Il termine “escatologia” deriva dalla parola greca eschatos, “quel che viene
come ultimo”, “ciò che è alla fine”5. Originariamente, il termine faceva riferi-
mento a quel che è più in basso nella gerarchia dell’essere, proprio al fondo della
materia. Dal punto di vista cristiano, tuttavia, quel che viene alla fine non è la
materia decaduta, la più povera, la più meschina, la più debole, ma piuttosto la
pienezza, la completezza, la soddisfazione perfetta. Così l’escatologia è la scienza
delle “cose ultime”, l’oggetto della promessa divina di cui abbiamo speranza,
perché la speranza fa riferimento al futuro e dirige gli uomini verso i doni che
sono loro offerti. Prima di considerare l’oggetto della promessa cristiana (Parte
II), in questo primo capitolo considereremo brevemente alcuni aspetti della
dinamica della speranza in sé, oltre alle istanze epistemologiche ed ermeneu-
tiche che essa solleva. La questione fondamentale da porsi in questo capitolo è
la seguente: come possiamo accertare la verità delle affermazioni escatologiche
tratte dal Nuovo Testamento, dato che al momento non sono state ancora veri-
ficate? In altre parole, la Chiesa può responsabilmente predicare all’umanità la
promessa della resurrezione finale e della vita eterna?

1. La passione e la virtù della speranza


La speranza come passione.  Aristotele ha spiegato che la passione della speranza
sorge dalla percezione del bonum futurum arduum possibile, cioè, dal bene assen-
te che è arduo, sebbene possibile, da ottenere6. La speranza è generata innan-
zitutto dal bonum futurum, il bene assente, il bene percepito dal soggetto, ma
non ancora pienamente posseduto. In questo senso si può dire che la speran-
za è una forma di desiderio, che, per Aristotele, è anche una passione. Tuttavia,
speranza e desiderio non sono la medesima cosa. Gabriel Marcel ed altri filosofi
della speranza hanno insistito su questo aspetto7. È possibile desiderare qualco-

5
Si veda BDAG 397s., s.v. ἔσχατος.
6
Sulle passioni in Aristotele, si veda Metaph. IV,5, 1010 b33; De mem. et rem. 450 a3; De anima II,
3, 427 b18. Si veda anche H. Bonitz, Index Aristotelicus, Akademische Druck- und Verlaganstalt,
Graz 19552, 555-7 (pathos), 239 (elpis).
7
Su questo punto in Marcel, si veda il mio studio La metafísica de la esperanza y del deseo en

22
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

sa, senza aver mai realmente “sperato” di possederla, cioè, senza esser convinti
della reale possibilità di ottenerla. Di fatto, la speranza aggiunge al desiderio la
convinzione interiore che sia possibile ottenere o possedere l’oggetto desiderato,
a dispetto della difficoltà in merito. In altre parole, il bene desiderato è un bene
assente arduo sebbene possibile. Significativamente, secondo Tommaso d’Aquino,
che ha sviluppato le riflessioni di Aristotele sulle passioni8, anche gli uccelli rapa-
ci ed altri animali sperimentano la passione della speranza9. Questo non dovreb-
be sorprendere. La percezione della preda risveglia l’appetito dell’uccello, che si
muta in speranza in quanto egli investe tutta la sua esperienza, le sue risorse,
energie, agilità e ingegnosità in uno sforzo per conquistare la sua vittima.
Può accadere, ovviamente, che il bene assente, sebbene percepito e deside-
rato, sia considerato semplicemente impossibile da ottenere. In questo caso non
si fa più esperienza della passione della speranza, ma piuttosto di quella della
disperazione. Questo può accadere sia perché il bene desiderato è oggettivamente
inottenibile, sia perché l’esperienza soggettiva accumulata ha prodotto la convin-
zione che ci sia poca o nessuna speranza di avere successo nell’ottenere l’ogget-
to desiderato10. Le passioni della speranza e della disperazione, in altre parole,
dipendono significativamente dalla nostra esperienza passata. È comune ritenere
che la facoltà umana cui la speranza faccia riferimento più direttamente sia quel-
la della memoria11, che integra, calibra e trattiene le esperienze passate, buone o
cattive, e fornisce all’uomo le basi per reagire spontaneamente in modo speran-
zoso (o disperato) di fronte a nuove situazioni. Coloro la cui memoria è larga-
mente dominata da esperienze negative tenderanno alla passione della dispera-
zione, piuttosto che alla speranza, in particolare se le esperienze in questione
hanno avuto luogo lungo un ampio periodo di tempo. Al contrario, coloro le
cui esperienze sono per la maggior parte positive e di breve durata, general-
mente hanno una disposizione speranzosa di fronte alle diverse situazioni che
si trovano davanti. San Tommaso suggerisce che per questa ragione in iuvenibus

Gabriel Marcel, «Anuario Filosófico» 22 (1989) 55-92, in particolare 55-7; 85; 89-92.
8
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 40.
9
Si veda ibid., a. 3.
10
L’Aquinate parla di una existimatio possibilitatis, «una valutazione delle possibilità» ibid., a. 5, c.
11
Sulla nozione di memoria in Agostino, si veda De Trinitate IX-XV e in particolare le Confessiones
X-XI. San Giovanni della Croce tratta della purificazione della memoria per poter sperare nel suo
Subida al Monte Carmelo, in particolare libri 2 e 3. Per una presentazione della loro posizione
sulla speranza, si veda l’opera un po’ datata ma eccellente di P. Laín Entralgo, La espera y la
esperanza. Historia y teoría del esperar humano (orig. 1956), Alianza, Madrid 1984, 56-70 e 115-
131, rispettivamente.

23
Capitolo I

et in ebriosis abundat spes: «i giovani e gli ubriaconi sono forti nella speranza»12,
perché sono inconsapevoli degli ostacoli che possono sorgere nell’ottenimento
del bene arduo che desiderano, o semplicemente non riflettono su di essi.

La speranza è una virtù? Fin’ora abbiamo parlato della speranza come una


passione, come un fattore dinamico che segna la vita umana (ed animale) in
generale, come qualcosa che accade alle persone, per così dire. In questo senso,
l’esperienza della passione della speranza è, in principio, una esperienza pre-
etica, anteriore alla virtù o al vizio morale13. Non l’abbiamo ancora considerata
come una virtù, cioè una disposizione stabile, positiva, della volontà, che preme
verso le buone azioni e le facilita, lega gli uomini sempre più strettamente al loro
fine ultimo, e rende possibile la loro auto-realizzazione14.
Molti filosofi antichi, in particolare tra gli stoici, consideravano l’esperien-
za della speranza come una alienazione, dannosa per gli uomini, e in nessun
caso virtuosa15. Guardavano alla speranza come fonte perenne di illusione, delu-
sione e sofferenza per l’umanità. L’aspirazione dell’uomo saggio dovrebbe essere
quella di vivere nec metu nec spe, “senza timore e senza speranza”16. Anche San
Paolo descrive i pagani come quelli «che non hanno speranza» (1 Ts 4,13; Ef
2,12). Vivere senza speranza, tuttavia, toglie ogni significato dalla vita. Gli studi
di Friedrich Guntermann sulle antiche iscrizioni tombali ci hanno fornito prove
convincenti della presenza diffusa di disperazione tra i pagani17. «Essi credeva-
no o che non ci fosse sopravvivenza dopo la morte», scrive Paul Hoffmann, «o
che la morte conducesse soltanto ad una triste, tetra esistenza negli inferi»18.
In tempi recenti il filosofo esistenzialista J.-P. Sartre († 1980) ha dato espressio-
ne alla mancanza di senso di una vita senza speranza, affermando che l’uomo
agisce e vive come “una passione inutile”19, detto diversamente, una passione

12
Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 40, a. 6, c.
13
Tuttavia l’Aquinate fa un chiaro riferimento al ruolo della ragione nella dinamica delle passioni
umane: S. Th. I, q. 76, a. 5. Egli conclude che le passioni sono rationales per participationem: S. Th.
I-II, q. 56, a. 4 ad 1.
14
Anche l’Aquinate si occupa della speranza come una virtù, virtù teologica, in S. Th. II-II, q. 17.
15
Si veda P. Laín Entralgo, La espera y la esperanza, 26-33. Nell’interessante opera di D. Konstan,
The Emotions of the Ancient Greeks. Studies in Aristotle and Classical Literature, University of
Toronto Press, Toronto; Buffalo; London 2007, sono considerate molte emozioni e passioni:
amore, paura, gratitudine pietà, gelosia, dolore, invidia, vergogna, ma non la speranza.
16
Forse dallo stoico Cicerone, Post reditum in Senatu 7,9.
17
Si veda F. Guntermann, Die Eschatologie des hlg. Paulus, Aschendorff, Münster 1932, 38.
18
P. Hoffmann, Die Toten in Christus. Eine religionsgeschichtliche und exegetische Untersuchung
zur paulinischen Eschatologie, Aschendorff, Münster 1966, 211.
19
Si veda J.-P. Sartre, L’être e le néant, Gallimard, Paris 1946.

24
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

che mai diventa virtù. Una disposizione simile si può trovare tra coloro che
credono nella dottrina della reincarnazione, nelle sue molteplici forme, sia anti-
che che moderne. In effetti, la reincarnazione imposta la vita futura come una
replica approssimativa di questa, e perciò per niente affatto oggetto di speranza
in quanto tale. Torneremo fra poco sull’argomento20.
Tuttavia, a dispetto delle numerose, sconvolgenti tragedie che hanno
segnato i tempi moderni, forse proprio a causa di queste, l’ultimo secolo dello
scorso millennio è stato, dal punto di vista letterario, filosofico e teologico, un
secolo segnato dalla riflessione sulla speranza21. Vale la pena considerare due
valutazioni filosofiche particolarmente apprezzati sulla speranza, quelle di
Ernst Bloch († 1977) e di Gabriel Marcel († 1973). Non sono le uniche, però sono
stati specialmente influenti.
La riflessione di Ernst Bloch sulla speranza come il “principio” della vita
umana è stata molto influente22, anche tra alcuni teologi. In un tentativo di
rileggere ed “umanizzare” l’antropologia di Karl Marx († 1883) sulla base di
una reinterpretazione di Aristotele, Bloch afferma che la speranza è la sorgente
dell’esistenza e dell’azione umana a tutti i livelli. La speranza è inscritta nella
struttura stessa della materia, del cosmo, del genere umano. Per questo autore,
tuttavia, essa non è diretta né da, né verso nessun tipo di Divinità trascendente,
personale. La speranza non attinge ad alcuna divina promessa. La vitalità proiet-
tata al futuro della materia stessa rende l’esistenza e l’azione di Dio superflue.
La speranza è l’esatta espressione del nocciolo vitale della realtà in evoluzione,
in cui gli uomini giocano un ruolo critico sia come pazienti che come agenti. In
termini reali, tuttavia, gli uomini non sperano realmente in qualcosa (o in qual-
cuno) a parte sé stessi e il mondo. Devono semplicemente lascarsi trascinare dal
processo cosmico, muovendosi verso il futuro sotto l’impulso della speranza.
Si può osservare che, sebbene Bloch parli ampiamente della novità del
futuro (che egli chiama il Novum Ultimum), in termini reali il futuro non
contiene una reale novità per l’umanità. Quel che avrà luogo in futuro è già a
nostra disposizione. Si potrebbe dire che Bloch tenta di mutare la passione della

20
Si veda il cap. III sulla resurrezione.
21
I voll. 3-4 dell’opera in cinque volumi di C. Möller, Littérature du XXème siècle et christianisme,
Casterman, Tournai; Paris 1954, sono di particolare interesse.
22
Si veda in particolare l’opera di Bloch, Il principio speranza, 3 vol., T. Cavallo, Garzanti, Milano
1994. L’originale fu pubblicato come Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1954-59.
Su quest’opera, si veda il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel and Ernst Bloch, «Irish
Theological Quarterly» 55 (1989) 215-39.

25
Capitolo I

speranza in una virtù, con una lettura secolarizzata della storia della salvezza
ebraica e cristiana23. Egli prova, letteralmente, a fare di necessità virtù.
Un’altra concezione interessante e apprezzata della speranza è fornita dal
filosofo personalista cristiano e drammaturgo Gabriel Marcel24. Vividamente,
Marcel dice che «la speranza è il tessuto stesso di cui la nostra anima è fatta»25.
Tuttavia la speranza non è qualcosa che semplicemente “accade” agli uomini in
modo anonimo o collettivo, né può essere identificata con la forza intrinseca che
guida il processo evolutivo. Piuttosto, la speranza nasce dall’apertura dell’uomo
a colui che liberamente gli offre un dono26. Marcel limita la sua descrizione della
dinamica della speranza alla sfera dei rapporti umani, ma – a differenza della
concezione di Bloch – la sua spiegazione si apre facilmente all’esistenza e all’a-
gire di una divinità suprema che dà vita alla speranza. Egli descrive la speranza,
tuttavia, in modo alquanto dialettico, dimostrando scarso interesse alla dina-
mica spontanea del desiderio e della corporalità umane27.
Una riflessione su questi due autori, assai diversi, è istruttiva per diversi
aspetti28, perché dimostra l’esistenza di una tensione perenne ed irrisolta, tra la
speranza diretta ad una divinità trascendente da una parte, e una speranza che
implica fino in fondo il mondo materiale e umano, dall’altra, in altre parole, tra
una speranza motivata teologicamente ed una motivata umanamente.
La speranza, come abbiamo visto, punta al futuro, ad un bene percepi-
to, ma non ancora posseduto. Perché la speranza sia possibile ed umanamente
significativa, perciò, il futuro in questione deve essere concepito come “supe-
riore” nel contenuto rispetto al passato, migliore di quel che si possiede già,
e sebbene “futuro”, deve implicare un bene più grande di quello ora offerto e
disponibile. Diversamente, non ci sarebbe nulla per cui “sperare”. Se si potesse
dimostrare che il futuro promesso o percepito sarà piuttosto inferiore al passa-
to (come suggerito per esempio da Sartre, Monod e Leopardi, tra gli altri)29, la

23
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 237.
24
Si veda in particolare l’opera di Marcel, Homo viator, 37-86; La Structure de l’Espérance, «Dieu
Vivant» 19 (1951) 71-80; Desire and Hope, in N. Lawrence e D. O’Connor (a cura di), Readings in
Existential Phenomenology, Prentice-Hall, New York 1967, 277-285. Si veda anche il mio studio,
già citato, La metafísica de la esperanza y del deseo en Gabriel Marcel.
25
G. Marcel, Desire and Hope, 283.
26
«Alla radice della speranza, letteralmente ci è dato qualcosa» G. Marcel, Homo viator, 80.
27
Si vedano le mie osservazioni sulla riflessione di Marcel in La metafísica de la esperanza y del
deseo en Gabriel Marcel, 75-92.
28
Si veda il mio studio Hope and Freedom in Marcel and Bloch.
29
Chi non crede in Dio (Sartre e Monod per esempio) ammette freddamente la fragilità metafisica
inerente a tutte le cose, e conclude che tutto quel che esiste si muove inesorabilmente verso il nulla.

26
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

speranza svanisce, non assume più alcun ruolo significativo nella vita umana, e
la disperazione sarebbe destinata, presto o tardi a prendere il suo posto.
Similmente, se si potesse dimostrare che il futuro semplicemente rispec-
chia il passato, cioè, che non contiene né più né meno che quel che offre il passa-
to, allora non ci sarebbe più spazio per la speranza di quanto ce ne sarebbe
per la disperazione, e nessuna delle due passioni potrebbe occupare uno spazio
rilevante nella vita umana. Un esempio di quest’ultima concezione è la cosid-
detta dottrina dell’eterno ritorno30, tipica dell’antica Grecia. Qui semplicemente
non c’è posto per la speranza come virtù, cioè per una inclinazione stabile della
volontà mediante la quale gli uomini possono liberamente sviluppare la loro
vera potenzialità. Elpis, il termine greco comunemente usato per la speranza, è
equivalente, al massimo, all’“attendere”31.
Ne Le opere e i giorni di Esiodo, quando Pandora apre il vaso mandato da
Zeus a Epimeteo, ne escono tutti i mali che affliggono l’umanità: malattia, dolo-
re, morte. Tutto quel che resta è la speranza, una vana consolazione per i mortali,
inutile per gli dei32. Perciò si dice che la speranza è “l’ultima a morire”. Ha valore
solo per il fatto di distrarci dal momento presente, dandoci una povera conso-
lazione, una tregua breve ed illusoria dal dolore e dalla sofferenza. Inoltre, essa
appartiene esclusivamente alla sfera umana, non divina. È incerta e ingannevole,
perché è tanto infedele e incostante quanto l’uomo stesso. I greci tentarono di
superare l’ambivalenza della speranza e di contribuire alla qualità del loro futuro
destino facendo ricorso ai sogni, alle previsioni razionali ed ai culti misterici33.
Ma ad ogni buon conto, la descrizione di Paolo dei pagani come di coloro «che
non hanno speranza» (1 Ts 4,13) rimane completamente giustificata.
Alcuni autori gnostici e cristiani ispirati da Origene († 253) ed altri, accet-
tavano tacitamente certi aspetti importanti della dottrina dell’eterno ritorno34.
Ma in genere essa veniva decisamente rifiutata da coloro che credevano nel radi-

Per Sartre, «il nulla si annida nel cuore degli esseri come un verme» L’Être e le néant, 57. La sua
concezione è anche più chiara in contesto psicologico. Egli spiega che la consapevolezza umana
(l’etre-pour-soi) riesce a superare precariamente la mortalità e l’opacità della materia (l’etre-en-
soi), solo per ricadere indietro, alla morte, in un oblio ed una inconsapevolezza totali. Secondo
Monod, l’universo si sta gradatamente raffreddando, e alla fine tornerà alla sua vera essenza, che
è il nulla: Le hasard et la nécessité: essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Seuil,
Paris 1970. Su Leopardi, si veda G. Biffi, Linee di escatologia, 12s.
30
Si veda in particolare l’opera classica di M. Eliade, L’eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975.
31
Si veda P. Laín Entralgo, La espera y la esperanza, 26-33. Si veda BDAG 319s., s.v. ἐλπίς.
32
Si veda Esiodo, Opere e giorni, 43-105.
33
Si veda P. Laín Entralgo, La espera, 29.
34
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 219.

27
Capitolo I

cale nuovo inizio che è il Vangelo, Gesù Cristo35. Con la venuta di Cristo, con
la sua vita, morte e Resurrezione, disse Sant’Agostino († 430), circuitus illi iam
explosi sunt36, gli eterni «cicli sono stati spezzati una volta per tutte».

Quando una passione diviene una virtù.  Fin’ora abbiamo parlato della speran-
za dal punto di vista dell’individuo, come una passione. Di fatto, tale passione
appartiene alla struttura dell’individuo il quale, sulla base della passata espe-
rienza e delle capacità presenti, si convince che un certo tipo di bene possa esse-
re ottenuto e posseduto. Questa convinzione spinge l’uomo ad applicare le sue
energie e il suo ingegno nel superare le difficoltà (l’arduum) implicate nell’otte-
nimento del bene desiderato.
Tuttavia, può accadere che il bonum futurum arduum diventi possibile non
solo per l’applicazione delle proprie energie nel superare gli ostacoli incontrati,
ma anche attraverso l’aiuto di altre persone37. La dinamica della passione della
speranza è così modificata ed ampliata tramite la relazione con qualcuno che
contribuisce nel volgere un semplice desiderio in una reale possibilità. Di fatto,
molte cose che sembrano impossibili da ottenere e possedere con il proprio impe-
gno diventano accessibili con l’aiuto di altri. Perciò, le persone che facilitano il
nostro raggiungimento di un bene più grande, diventano oggetti d’amore, benché
forse di un amore “interessato”. Poiché percepiamo che l’amore di coloro che ci
aiutano è duraturo, e la loro disposizione ad aiutarci assidua, costoro possono
diventare, inoltre, oggetto della nostra fede e fiducia. In questo modo, la speranza
cessa di essere una esperienza individuale, e diventa personale – o, meglio, inter-
personale – in quanto una persona impara a sperare in un’altra che è in grado di
aiutarla a trasformare il desiderio iscritto in lui da Dio in una realtà da Dio voluta.
Ma l’interrogativo permane: questa speranza è veramente una virtù, una
stabile inclinazione della volontà che gli uomini dovrebbero coltivare in vista del
proprio sviluppo, del raggiungimento del loro fine ultimo? Da una parte, le natu-
rali limitazioni di coloro che ci possono appoggiare nell’ottenere il nostro fine
ultimo servono come ricordo del fatto che fede e speranza assolute non possono
essere riposte in nessun uomo. Difatti, gli uomini sono spesso inaffidabili, inca-
paci di agire in modo interamente disinteressato. «Maledetto l’uomo che confida

35
J. L. Illanes, Interpretaciones y figuras de la historia, «Analecta Cracoviensia» 25 (1993) 155-68,
mette a fuoco il fatto che, laddove il pensiero cristiano prende distanza da una lettura metafisica
dell’eterno ritorno (il medesimo cosmo e la vita umana che continuamente ritornano), tacitamente
accetta una lettura storiografica (la tendenza alla ricorsività del medesimo tipo di eventi storici).
36
Si veda Agostino, De Civ. Dei XII, 20,4.
37
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 40, a. 7.

28
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

nell’uomo», dice il profeta Geremia (17,5). D’altra parte, gli uomini sono capaci di
aiutare gli altri solo in un modo limitato e temporale. Già l’esperienza ci insegna
che gli uomini aspirano ad un bene molto più grande della loro finitudine, ben
oltre quel che gli altri possono aiutare a raggiungere, e tendono verso l’Assoluto.
Il finito ricerca l’Infinito38, il mortale l’immortalità, la creatura la divinizzazione.
Per questa ragione, una speranza senza riserve in altre persone non sareb-
be totalmente virtuosa, non solo perché gli uomini sono spesso inaffidabili, ma
principalmente perché sono incapaci di provvedere al compimento totale o alla
definitiva realizzazione di coloro che sperano in loro. Cioè, la speranza indirizzata
esclusivamente ad altre persone non sarebbe una virtù, perché non sarebbe ordi-
nata al vero bene della persona. La rivelazione cristiana insegna inequivocabil-
mente che l’umana aspirazione alla felicità infinita può essere soddisfatta solo da
Dio, che ha creato gli uomini. In termini tecnici, la speranza è una virtù solo se è
una “virtù teologale”39. Il profeta Geremia aggiunge: «Benedetto l’uomo che confi-
da nel Signore e il Signore è la sua fiducia» (17,7). San Paolo, scrivendo ai Corinzi,
dice: «se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da
commiserare più di tutti gli uomini» (1 Cor 15,19). E papa Benedetto XVI nella
Spe Salvi scrive: «la grande speranza dei credenti può essere solo in Dio»40.
Lungo la storia, alcuni autori hanno affermato che la speranza, guidata
dal desiderio umano della perfetta felicità e soddisfazione, abbia costituito una
fondamentale forma di alienazione41. Lungi dal rappresentare la vera natura e
il destino dell’umanità, il desiderio della felicità perfetta, senza fine, sarebbe
un vano sforzo, una forma dannosa di proiezione di sé. In realtà, essi dicono,
dovrebbe essere epurata ed eliminata.
Ma il punto chiave, come abbiamo appena visto, è che la speranza è, in
senso stretto, una virtù teologale. È Dio colui che porge all’uomo il dono di una
inclinazione stabile, positiva, tematica, verso il suo fine ultimo, cioè, la virtù
della speranza. Così san Tommaso: «questa inclinazione della volontà che tende
verso il Bene eterno, percepito come possibile per mezzo della grazia, è l’atto
della speranza»42. E Dio è considerato (1) totalmente degno della nostra fiducia,

38
La controversia classica sul cosiddetto “naturale desiderio di vedere Dio” si occupa di questo
argomento. Si veda in particolare H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, Aubier-Montaigne,
Paris 1965; L. Feingold, The Natural Desire to See God according to St. Thomas Aquinas and his
Interpreters, Sapientia Press of Ave Maria University, Ave Maria 20102.
39
Si veda CCC 1817.
40
SS 31.
41
Si vedano le note 131ss, e il testo corrispondente.
42
San Tommaso d’Aquino, In III Sent., D. 26, q. 2, a. 3, sol. 1.

29
Capitolo I

(2) completamente capace di soddisfare i desideri umani di felicità infinita ed


eterna, e (3) pienamente determinato a farlo. Solo se è possibile dimostrare che
un tale Essere esiste, allora diventa possibile considerare la speranza una virtù,
e l’escatologia cristiana come qualcosa di reale e tangibile43. Papa Benedetto XVI
osserva che «giungere a conoscere Dio – il vero Dio – questo significa riceve-
re la speranza»44. Dio, infondendo la grazia, dona ai credenti una inclinazione
stabile, positiva, della volontà, attraverso la quale essi sperano di ottenere la loro
felicità e soddisfazione eterne da Lui.
L’escatologia cristiana si occupa della divina promessa della salvezza, e la
conseguente auto-realizzazione per gli uomini, che ha luogo tramite la potenza
di Dio resa manifesta in Gesù Cristo e realizzata attraverso la potenza dello
Spirito Santo. L’unione con il Padre che risulta dall’infusione della grazia divi-
nizzatrice ottenuta da Cristo sulla Croce è l’unico oggetto adeguato della virtù
della speranza.
Il trattato di escatologia cerca tra le altre cose di rispondere ai seguen-
ti interrogativi: le affermazioni dei credenti cristiani sul fatto che Dio abbia
promesso agli uomini un destino immortale di perfetta beatitudine, sono
giustificate?; come gli uomini dovrebbero vivere, perché questo diventi possibi-
le?; che implicazioni hanno l’escatologia cristiana e la dinamica della speranza
per gli altri aspetti della teologia: etica e politica, antropologia, ecclesiologia e
sacramenti, spiritualità, dottrina della Trinità?

Escatologia come teologia: le basi della speranza.  Come abbiamo visto, la speran-
za può essere considerata come una virtù solo per ragioni strettamente teologiche:
il Dio di Gesù Cristo è interamente degno della nostra fiducia, capace di soddi-
sfare i nostri desideri di infinitezza ed immortalità, ed ha effettivamente comu-
nicato la vita divina inviando il suo Figlio come nostro Salvatore. Eppure tutti gli
uomini, credenti e non credenti allo stesso modo, sono consapevoli che la virtù
della speranza non produce immediatamente il risultato sperato dell’unione con

43
Benedetto XVI in SS 7-8 analizza Eb 11,1, che la Vulgata traduce come est autem fides sperandarum
substantia rerum, argumentum non apparentium. Egli spiega che l’oggetto della speranza e della
fede cristiana non è una semplice convinzione nei confronti della fedeltà di Dio o del suo Amore,
come ritiene tradizionalmente la teologia protestante (in questo caso la fede sarebbe uno «star
saldi in ciò che si spera, esser convinti di ciò che non si vede»), ma la sostanza reale della vita di
Dio presente nell’uomo attraverso Cristo: perciò la fede (e con essa la speranza), «non è soltanto
un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa
ci dà qualcosa… una vera presenza» SS 7-8.
44
Ibid., n. 3.

30
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

Dio. Come ha mostrato Wolfhart Pannenberg45, l’escatologia cristiana, sebbene


implichi la divina promessa di grazia ed eterna gloria, non è originata da essa.
La promessa divina è fondata sul fatto precedente che Dio esiste, che è il Signo-
re dell’universo, che desidera salvare l’umanità ed ha rivelato questa sua volon-
tà e il potere di metterlo in atto. La dimostrazione della validità della promessa
divina – ciò che Pannenberg chiama la “giustificazione di Dio” – sarà realizzata
definitivamente solo quando, al compimento finale dell’universo, tutte le creatu-
re potranno vedere che il Dio di Gesù Cristo è il Creatore amoroso e misericor-
dioso (e perciò il Salvatore) del mondo, come proclama la fede cristiana46. Una
volta raggiunto il suo scopo, che è la definitiva comunione con Dio, la speranza in
senso stretto non esisterà più. Nel frattempo, tuttavia, la dinamica della speranza
si muove nel chiaroscuro di fede e fiducia. La speranza infatti è una realtà profon-
damente umana. Esaminiamo l’ultima affermazione più attentamente.

Escatologia come antropologia: l’umanità della speranza.  Anche se si può dimo-


strare che Dio ha promesso agli uomini la vita eterna e la felicità di vivere in
comunione con Lui (e intendiamo far questo nei capitoli successivi), ancora si
deve dimostrare che gli uomini sono tali da poter ricevere questo dono in modo
significativo. Se gli uomini non sono fatti per l’immortalità, allora dire che sono
destinati all’eterna comunione con Dio non avrebbe scopo, e la promessa divi-
na sarebbe tanto inutile per loro quanto per gli esseri creati inferiori. In altre
parole, gli uomini devono poter riconoscere e desiderare il compimento della
promessa divina come un beneficio per sé, come una vera e definitiva realizzazio-
ne del proprio essere, della propria natura e delle proprie potenzialità, che sono
già strutturate per l’immortalità. Pannenberg suggerisce che «finché i conte-
nuti dell’escatologia coincidono con quelli della promessa, bisognerà che essi
presentino una relazione positiva con la specificità degli uomini e del mondo,
con quella profonda brama cui essi si riferiscono»47. «L’antropologia costituisce
così pure il terreno sul quale si può argomentare su una speranza escatologica
cristiana dai tratti universalistici»48. E H. U. von Balthasar scrive: «O lo specifi-
co cristiano è antropologicamente significativo, o non è nulla»49.

45
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 566.
46
Si veda ibid., 658-674.
47
Ibid., 567.
48
Ibid.
49
H. U. von Balthasar, Gloria, vol. 7: il nuovo patto, Jaca Book, Milano 1977, 80.

31
Capitolo I

La prima lettera di Pietro invita i cristiani a «dar ragione della speranza


che è in» loro (1 Pt 3,15). Senza dubbio, la ragione fondamentale che devono
dare i credenti per la loro speranza è la promessa di Dio di premiare coloro che
credono in lui con il dono della vita eterna. Essi lo fanno indirizzando la propria
vita verso Cristo, nel quale le promesse di Dio sono compiute, e verso la Chie-
sa che trasmette tali promesse ai credenti. Tuttavia, la promessa ha significato
solo se gli uomini sono di fatto capaci di ricevere il dono di Dio e desiderano
farlo. Ma cosa implicano questa capacità e questo desiderio? Come abbiamo già
visto, Marcel distingue attentamente tra speranza e mero desiderio umano50,
considerando la prima come orientata a Dio, il secondo come alienante, chiuso
alla dinamica del dono. Al contrario, Bloch ritiene che la speranza inizi e termi-
ni nella sfera umana e costituisca la più potente, pervasiva e duratura forma
di desiderio umano. In altre parole, egli ritiene che la speranza sia veramente,
esclusivamente umana. La posizione di Bloch, sebbene escluda la promessa di
una Divinità trascendente come ultima base della speranza, almeno solleva la
questione della sua umanità e del suo realismo.
Abbiamo visto che la speranza deve essere considerata una virtù per il
fatto di corrispondere, e corrispondere in pienezza, alla verità su Dio: Dio solo
può portare gli uomini al compimento ed efficacemente lo desidera. Tuttavia
la speranza è una virtù anche perché risponde alla verità sull’uomo. In effetti,
la speranza non è imposta agli uomini, ma offerta ad essi da Dio indirettamen-
te, in modo da stimolare la loro generosità e la loro libera risposta, inclinando
delicatamente la volontà verso il fine ultimo, portandoli a reagire alle parole,
alla grazia e all’azione di Dio con il medesimo genere di modesto, munificente
amore con cui Dio stesso si è avvicinato all’umanità in Cristo inviando lo Spiri-
to Santo51. La speranza implica l’assunzione di un rischio. Richiede una conver-
sione del cuore, un salto nel profondo (Lc 5,4). Questo implica andare oltre sé e
le proprie risorse e certezze. Dio non rivela direttamente il suo volto, la sua vita
intima, le sue processioni trinitarie. Piuttosto rivela Se stesso in e attraverso le
sue opere: attraverso la creazione, attraverso i profeti dell’Antico Testamento, e
in particolare nelle parole e nelle opere del suo Figlio Incarnato, il nostro Salva-
tore Gesù Cristo. «Gesù… ha portato… l’incontro col Signore di tutti i signo-
ri», scrive papa Benedetto, «l’incontro con il Dio vivente e così l’incontro con

50
Si veda G. Marcel, Desire and Hope, 278.
51
Su questo, si veda il mio El testimonio de Cristo y de los cristianos. Una reflexión sobre el método
teológico, «Scripta Theologica» 38 (2005) 501-68, qui 548-56.

32
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo
trasformava dal di dentro la vita»52.

Speranze ultime e penultime.  Abbiamo visto che l’unico oggetto e motivo suffi-
ciente per la speranza cristiana è Dio, che è onnipotente, buono, misericordioso
e fedele alla sua parola. Tuttavia, in termini immediati e soggettivi, la speranza
degli uomini si indirizza in un primo momento ad una presenza inferiore, più
tangibile, quella delle creature, in cui l’amore di Dio si manifesta. I non salvati
possono avvicinarsi a Dio attraverso quelle creature in cui Egli fa sentire la sua
presenza (Mt 5,16), ma, non ancora svezzati dalle loro vie impazienti, peccami-
nose, possono ugualmente trovare in tali creature un ostacolo per avvicinarsi al
loro Creatore. Il mondo creato ci dovrebbe portare a Dio, ma di fatto può non
farlo (Rm 1,18-25). Cristo è venuto a salvare i peccatori (Mt 18,11), ma molti
hanno rifiutato il suo messaggio e la sua Persona, l’Unico in cui la pienezza
della divinità vive corporalmente (Col 2,9), per un amore disordinato alle crea-
ture (Mt 19,22; Lc 12,19). Perciò, senza rendersene conto, le speranze umane
possono prendere il posto di quelle divine, gli idoli il posto di Dio. Dietrich
Bonhöffer († 1945) ha parlato della tendenza endemica lungo tutta la storia a
confondere le speranze “penultime” con quelle “ultime”53. Questo fenomeno è
particolarmente notevole nella cosiddetta “teologia della speranza”54 di Jürgen
Moltmann ed altri, profondamente ispirata al pensiero di Bloch, che suggerisce
che la vera speranza cristiana, basata sul fatto della Resurrezione di Cristo, deve
essere diretta principalmente alla risoluzione dei problemi sociali del mondo55.
La speranza cristiana è basata sulla promessa di Dio; essa vive però entro
la vita degli uomini: essa è teologia ed è antropologia. Ed è ovvio che la speranza
cristiana non è una realtà consolidata nei credenti e completa nei suoi effetti;
essa dà avvio, piuttosto, ad un processo che implica l’uomo nella sua interezza:

52
SS 4.
53
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 193; C. Pozo, La teología del más allá, 155.
54
Secondo H. E. Tödt, Moltmann, nella sua opera Teologia della speranza, tenta di trasferire la
speranza dell’Ultimo al penultimo: H. E. Tödt, Aus einem Brief an Jürgen Moltmann, in W.-D.
Marsch (a cura di), Diskussion über die “Theologie der Hoffnung” von Jürgen Moltmann, Kaiser,
München 1967, 197-200. Tödt spiega che la posizione di Moltmann è inaccettabile da un punto
di vista luterano per il fatto di basarsi sulle “buone opere” e non sulla giustificazione per fede. Per
una ulteriore discussione della teologia della speranza di Moltmann, si veda C. Pozo, La teología
del más allá, 62-78, 150-161.
55
C. Pozo spiega bene questo nel suo saggio, Teología de la esperanza, in J. Daniélou e C. Pozo (a
cura di), Iglesia y secularización, BAC, Madrid 1973, 87-119.

33
Capitolo I

un processo che rende degni, arricchisce, divinizza, purifica, in cui la potenza e


l’amore di Dio diventano sempre più evidenti.

2. La verità della speranza cristiana


L’oggetto della speranza cristiana, come abbiamo visto, è la divina promes-
sa di salvezza resa presente all’umanità attraverso la vita, la morte e la resur-
rezione di Gesù Cristo, vero Testimone del Padre, e l’invio dello Spirito Santo.
E prima ci domandiamo sul contenuto di tale promessa. Per scoprirlo dobbia-
mo studiare attentamente la Sacra Scrittura. Tale studio costituirà la maggior
parte di questo trattato. Ma si deve porre una domanda ulteriore: il contenuto
di questa promessa è veritiero? Corrisponde di fatto a quel che Dio ha inteso per
l’umanità? È conforme alla natura umana? Alla fine dei tempi, ovviamente, il
contenuto e la verità della rivelazione escatologica coincideranno totalmente, nel
fatto che i santi nella gloria potranno vedere Dio «così come egli è» (1 Gv 3,2). Si
vedrà che quel che Dio ha promesso è vero: «E saprete che io sono il Signore» (Ez
24,24). Ma al momento presente, il discorso sul contenuto della divina promessa
(quel che Dio ha promesso a coloro che lo amano) può esser distinto in qualche
modo da quel che è la sua veridicità (il fatto che tale promessa sarà verificata)56.
Consideriamo la questione più attentamente.

Il contenuto dei testi biblici escatologici.  Sul contenuto dei testi escatologici
del Nuovo Testamento, sono state date numerose interpretazioni. Si possono
notare due posizioni estreme, che verranno spiegate più dettagliatamente nel
capitolo secondo.
Da una parte, l’interpretazione puramente apocalittica. Secondo il tenore
letterale del classico corpus apocalittico, il giudizio divino deve farsi presente nel
mondo in un futuro prossimo. Il mondo così come lo conosciamo sarà distrutto,
tutti gli uomini risorgeranno e saranno giudicati dalla potenza di Dio, i giusti
saranno accolti nel suo regno, i peccatori mandati all’eterna dannazione57. Si
considera che la scadenza finale del mondo è già perfettamente definita all’inter-
no del disegno di Dio, e presto sarà stabilito il bene una volta per tutte, eliminato
il male, ed inaugurato un’era nuova e definitiva. Sebbene molti elementi della
visione strettamente apocalittica si possano trovare nell’escatologia del Nuovo
Testamento, la validità di questa lettura è sostanzialmente confutata dal sempli-

56
Questa tematica è sviluppata nel mio studio El testimonio de Cristo y de los cristianos.
57
Per una descrizione dettagliata dell’escatologia apocalittica, si veda CAA 63-102.

34
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

ce fatto, da tutti costatabile, che la fine del mondo non ha di fatto avuto luogo58.
Inoltre, Cristo è venuto principalmente per aprire uno spazio di salvezza per tutti
gli uomini, prima di venire a giudicare l’umanità alla fine dei tempi.
È questa la differenza chiave tra l’escatologia apocalittica e quella neotesta-
mentaria: la prima è incentrata sul giudizio, la seconda sulla salvezza (e, in un
secondo momento, sul giudizio). In aggiunta, l’escatologia puramente apocalit-
tica può esser considerata mancante da un punto di vista antropologico, perché
attribuisce scarsa attenzione al valore e alla dignità dell’individuo, alla coscien-
za morale, alla responsabilità personale, ecc59. La posizione ha i suoi sostenito-
ri contemporanei, per esempio nella letteratura apocalittica popolare, sebbene
molto di meno nell’ambito della teologia accademica60.
D’altra parte, una interpretazione esistenziale dei testi escatologici del
Nuovo Testamento è stata comune lungo la storia, ma in particolare ultima-
mente, ad esempio negli scritti di Rudolf Bultmann61. I testi biblici che parla-
no della fine dei tempi, dell’aldilà, ecc., sono visti come espressioni storicizzate
dell’esperienza presente dell’azione salvifica di Dio, come un imperativo seppur
generico invito alla conversione. I testi escatologici richiamano gli uomini ad
una decisione libera, non-tematica di fede nella totale sovranità di Dio sull’u-
niverso. Sebbene utile dall’ottica antropologica, la posizione è problematica da
molti punti di vista62, principalmente perché trascura l’aspetto futuro, storico,
collettivo e corporeo dell’escatologia cristiana. Tende piuttosto ad una visione
presentista, individualistica e spirituale del compimento finale.
Prendendo spunto dagli scritti del filosofo analitico John L. Austin (†
1960), possiamo applicare il termine “performativo” alla concezione che Bult-
mann ha del linguaggio escatologico. Principalmente nella sua opera degli
anni ’50 How to Do Things with Words63, Austin spiega che non tutte le affer-
mazioni possono essere considerate come semplici asserzioni di verità o falsità,
di quel che è o che sarà. Molte dichiarazioni sono fatte in vista dell’ottenimento
di particolari effetti in coloro che le ascoltano (egli le chiama frasi “performa-
tive”), e non tanto per affermare verità o falsità (queste sono frasi “assertive”

58
Si veda il capitolo II sotto.
59
Si veda CAA 232-56.
60
CAA 1s.
61
Si veda CAA 38-43.
62
Si veda CAA 43ss.
63
Si veda J. L. Austin, How to Do Things with Words: the William James Lectures Delivered at
Harvard University in 1955 (orig. 1962), University Press, Oxford 19892 (trad. it., Quando dire è
fare, Marietti, Torino 1974).

35
Capitolo I

o “constatative”). Le affermazioni performative hanno il fine di produrre un


effetto o una reazione in chi le ascolta.
Un caso rilevante è la dottrina neotestamentaria della condanna eterna64.
Quando il Vangelo ci dice che i malvagi verranno condannati alla punizione
eterna per i loro peccati, alcuni autori65 suggeriscono che la Scrittura voglia
principalmente ottenere dagli ascoltatori una reazione salutare rispetto alla
propria vita peccaminosa, ed eventualmente una completa conversione cristia-
na. Nel terzo secolo Origene aveva già affermato che lo scopo dell’insegnamento
cristiano sulla condanna e sull’inferno è semplicemente quello di «infliggere il
terrore tra coloro che altrimenti non sarebbero trattenuti da un abbondanza di
peccati»66. Il teologo Karl Rahner († 1984) adotta una posizione simile67. Ugual-
mente, alcune delle letture “esistenzialiste” dei testi apocalittici del Nuovo Testa-
mento che considereremo nel secondo capitolo rientrano in questa categoria68.
La medesima questione si trova tra gli autori che si sono chiesti se la chiave
dell’escatologia cristiana si trova nell’eschaton oppure negli eschata69. L’eschaton,
letteralmente “l’ultima cosa”, farebbe riferimento all’evento finale, all’escatolo-
gia come una totalità, cioè alla Persona di Cristo che viene per salvare e giudica-
re l’umanità. Gli eschata al contrario fanno riferimento alle “cose ultime”, cioè i
differenti elementi che concorrono alla formazione della promessa escatologica:
giudizio, resurrezione, paradiso, inferno, purgatorio, ecc. Nel primo caso, l’esca-
tologia sarebbe compresa in termini inter-personali, esistenziali, come descri-
zioni dell’incontro definitivo tra Cristo e i credenti; nel secondo, si tratta di
fornire una descrizione più o meno precisa ed oggettiva dello stato finale cui gli

64
Si veda il capitolo VII.
65
Si veda l’attento riassunto di questa posizione in E. Castillo Pino, Los argumentos teológicos sobre
la posibilidad de la condenación eterna en la teología católica del siglo XX, Pontificia Università
della Santa Croce, Rome 2000, passim.
66
Origene, Contra Celsum 5,15; si veda De princip. II, 10,6.
67
«Quel che la Scrittura dice sull’inferno deve essere interpretato tenendo conto del loro carattere
letterario di “discorso-minaccioso”… Le persone sono messe davanti ad una decisione le cui
conseguenze sono irrevocabili» K. Rahner, Hölle, in Sacramentum Mundi, vol. 2, Herder, Basel;
Wein 1968, 735-739, qui 735s.
68
Si vedano le pp. 77ss.
69
Si veda G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 47. La teologia protestante si concentra sull’Eschaton,
in parte a causa del suo pessimismo antropologico: si veda S. Hjelde, Das Eschaton und die Eschata.
Eine Studie über den Sprachgebrauch und die Sprachverwirrung in protestantischen Theologie, von
der Orthodoxie bis zur Gegenwart, Kaiser, München 1987. La teologia ortodossa tende a muoversi
nella medesima direzione, sebbene non a causa di una concezione pessimistica dell’uomo. A.
Giudici lo spiega così: «il problema dell’escatologia si pone in un’alternativa essenziale: o eschaton
o eschata»: Escatologia, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich,
Paoline, Milano 1988, 382-411, qui 400.

36
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

uomini sono destinati. Nel primo caso, prevale una concezione “performativa”
o esistenziale dell’escatologia; nel secondo, piuttosto, quella apocalittica, quel
che Austin ha definito “assertiva”.
Va tenuto presente, tuttavia, che – come lo stesso Austin ha spiegato in
diverse occasioni – l’aspetto performativo e quello assertivo del linguaggio sono
semplicemente inseparabili l’uno dall’altro. Egli conclude che tutte le afferma-
zioni hanno un aspetto “performativo” (anche chiamato “illocutorio”) a cui,
però, non possono essere ridotte70. Anzi, l’aspetto performativo diventa signifi-
cativo solo sulla base della verità o falsità della frase in questione. Cioè, il perfor-
mativo è profondamente connesso all’assertivo. Solo se una affermazione è vera
allora diventa ragionevole per chi l’ascolta modificare la propria vita o le proprie
disposizioni. Per tornare all’esempio menzionato prima, l’affermazione che “i
peccatori impenitenti verranno condannati per sempre” costituirebbe un atto
di violenza gratuita per l’intelligenza dell’uomo, un insulto alla sua dignità, se
venisse dimostrata semplicemente falsa. Come abbiamo visto ora, la credibilità
stessa del messaggio di Gesù dipende dalla serietà data alle sue affermazioni su
tali questioni. Gesù si è identificato personalmente con il principio insegnato ai
suoi discepoli, «sia il vostro parlare “sì, sì”, “no, no”» (Mt 5,37).
La discussione precedente va a dimostrare, tra le altre cose, l’illegittimi-
tà dell’applicazione di una ermeneutica puramente filosofica ad una questione
teologica come l’interpretazione dei testi escatologici. L’ermeneutica applicata a
tali testi deve essere strettamente teologica, o meglio, cristologica, con la quale
il Salvatore e Giudice del mondo, l’Eschaton, Cristo nostra speranza, rivela ai
suoi discepoli quel che ha visto nella gloria del Padre, gli eschata71. Difatti, Gesù
Cristo in Persona è la Verità (Gv 14,6). Come abbiamo appena visto, l’escatolo-
gia cristiana non esclude né l’apocalittico né l’esistenziale, però supera queste
categorie: è costruita sulla base di una analisi critica ed un’assimilazione del
tradizionale materiale apocalittico intrapresa da Cristo stesso. In realtà l’esca-
tologia cristiana non può esser vista come una riduttiva rilettura di tali motivi
in termini semplicemente esistenziali oppure apocalittici. Essa, infatti, è intera-
mente incentrata sulla Persona di Cristo, poiché si tratta del culmine della sua
opera salvifica. Eppure Cristo ha spiegato ai suoi discepoli i tratti fondamentali
della vita futura in cui noi speriamo, oltre la decadenza e la morte72.

70
Si veda J. L. Austin, How to Do Things with Words, 133-64.
71
Sull’idea che Gesù abbia “visto” quel che ha vissuto e insegnato, si veda J. Ratzinger/Benedetto
XVI, Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 21-28.
72
Questa è la tesi principale della mia opera, The Christological Assimilation of the Apocalypse (CAA).

37
Capitolo I

La verità della escatologia neotestamentaria. Il contenuto delle affermazioni


escatologiche bibliche ci è reso noto attraverso le parole, le parabole e le opere di
Gesù. Ma la questione dell’interpretazione di tali testi ci porta ad una questio-
ne ulteriore, già menzionata e più fondamentale, che riguarda la loro veridicità.
In effetti, quando tentiamo di comprendere queste affermazioni, ci troviamo di
fronte alla semplice domanda se siano vere o meno. Di nuovo, il punto di riferi-
mento possono essere solo le parole e le opere di Cristo. Possiamo dire che egli sia
il vero Testimone non solo per il fatto che ci insegna quel che ha visto e udito dal
Padre suo, ma perché egli effettivamente ci dà quel che ha ricevuto dal Padre, quel
che Dio ha promesso all’umanità. In altre parole, Gesù non insegna solo circa la
vita eterna, la resurrezione finale, il giudizio universale. Egli insegna «come uno
che ha autorità, e non come gli scribi» (Mt 7,29), i quali comunicavano al popolo
il contenuto dei testi che avevano studiato, come mediatori esterni.
Cristo si presenta effettivamente come la sorgente della vita eterna, della
resurrezione, del giudizio: «Io sono la resurrezione e la vita» (Gv 11,25); è in perso-
na il Giudice dell’umanità (Gv 5,26s.). Questo punto si ripresenterà ancora nei
prossimi capitoli. Per quanto riguarda la vita eterna, Gesù ha comunicato ai disce-
poli la vita che egli ha vissuto con il Padre, la gloria che ha ricevuto prima che il
mondo fosse creato (Gv 17,24); per quanto riguarda la resurrezione, i discepoli
l’hanno visto morire, e risorgere nuovamente dopo la morte, «il primogenito di
quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18); per quanto riguarda il giudizio, le sue
parole e la sua stessa presenza stabilirono il regno di Dio e il giudizio tra le perso-
ne. Cioè, non solo le parole di Gesù, ma la sua intera vita, morte e resurrezione
testimoniano la verità del suo insegnamento73. Il valore e la portata delle afferma-
zioni escatologiche quindi si verificano in modo cristologico.
La verità delle affermazioni escatologiche del Nuovo Testamento può esse-
re sostenuta e presentata in modi differenti, tra i quali quattro verranno ora
considerati. Due di questi sono di tipo antropologico (compresi entro quel che
si può definire i praeambula spei, o “i preamboli della speranza”74, precondi-
zioni razionali per l’accettazione della possibilità e della ragionevolezza della
speranza cristiana), e due di un genere più spirituale. Primo, esamineremo a
quale livello sia possibile affermare razionalmente l’immortalità dell’uomo, in
particolare quella della sua anima (n. 3). Secondo, considereremo i differenti

73
Si veda il mio studio El testimonio de Cristo y de los cristianos, 530-43.
74
Ho usato il termine praeambula spei, i “preamboli della speranza”, nel mio studio La metafísica
de la esperanza en Gabriel Marcel (1989), 86.

38
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

componenti di ciò che si potrebbe definire una immortalità integrale (quella


della “vita” e quella del “sé”), come campo di verifica antropologica della vali-
dità delle affermazioni escatologiche (n. 4). Terzo, si rifletterà sulla percezione,
sperimentata da molti cristiani, del fatto che il prezzo (la morte) da pagare per
il compimento della promessa divina (la vita eterna, ecc.), sia semplicemente
eccessivo. Dio promette ogni cosa, sembrerebbe, ma chiede anche tutto quel
che abbiamo, tutto quel che ci ha dato, la nostra stessa vita. È possibile giustifi-
care questa estrema giustapposizione? (n. 5). Quarto ed ultimo, considereremo
brevemente la fermezza e consistenza della speranza cristiana (cioè, la veridici-
tà percepita delle affermazioni escatologiche) nella loro sorgente ultima, che è
l’azione dello Spirito Santo (n. 6). Queste quattro vie corrispondono più o meno
ai differenti approcci fondamentali alla verità75.

3. La razionalità della escatologia cristiana


e la questione dell’incorruttibilità dell’anima umana
Tradizionalmente, l’antropologia e l’escatologia cristiana sono basate sulla
nozione secondo la quale gli uomini sono composti di corpo ed anima, e che
l’anima, essendo spirituale, è incorruttibile, e perciò serve come base ontologica
per l’immortalità umana e per la continuità tra la questa vita e quella futura.
Questa idea è ben sviluppata nel pensiero di Agostino e dell’Aquinate, ed è stata
assunta dalla maggior parte dei teologi cristiani fino al secolo scorso76. È vero
anche che i problemi dell’esistenza dell’anima, della sua spiritualità ed immor-
talità, sebbene aperti alla ricerca filosofica, non sono facilmente dimostrabili77.

75
Le ho presentate nel mio studio El testimonio de Cristo y de los cristianos, 513-7; 566-8. Le quattro
vie alla verità considerate in questo studio sono: coerenza, consenso, pragmatismo e rivelazione.
76
Il manuale del 1948 di M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, segna
un cambiamento significativo. Sull’influenza della teoria dell’anima di Platone nelle religioni, si
veda M. Elkaisy-Friemuth e J. M. Dillon (a cura di) The Afterlife of the Platonic Soul: Reflections of
Platonic Psychology in the Monotheistic Religions, Brill, Leiden; Boston (MA) 2009.
77
Alcuni autori dell’opinione che secondo Tommaso d’Aquino si può dimostrare solo
l’incorruttibilità dell’anima, non la sua immortalità: W. Kluxen, Seele und Unsterblichkeit bei
Thomas von Aquin, in K. Kremer (a cura di), Seele: ihre Wirklichkeit ihr Verhältnis zum Leib
und zur menschlichen Person, E.J. Brill, Leiden 1984, 80; J. Mundhenk, Die Seele im System des
Thomas von Aquin: ein Beitrag zur Klärung und Beurteilung der Grundbegriffe der thomistischen
Psychologie, F. Meiner, Hamburg 1980, 119; G. Canobbio, Il destino dell’anima. Elementi per una
teologia, Morcelliana, Brescia 2009, 98s. Altri autori, come C. Fabro, L’anima nell’età patristica
e medievale, in M. F. Sciacca (a cura di), L’anima, Morcelliana, Brescia 1954, 98, considera che
Tommaso dimostri l’immortalità dell’anima. Lo stesso S. L. Brock, Tommaso d’Aquino e lo
statuto fisico dell’anima spirituale, in V. Possenti (a cura di), L’Anima. Annuario di Filosofia 2004,
Mondadori, Milano 2004, 67-87, 80. Il Concilio Lateranense V (1513) parla dell’aspetto razionale

39
Capitolo I

Tuttavia, Platone, parlando dell’anima, aveva intuito qualcosa di importante


quando disse: «vale la pena correre il rischio di credere nell’immortalità dell’a-
nima. È un bellissimo rischio da assumersi»78. Tuttavia, come vedremo, una
certa conoscenza filosofica dell’incorruttibilità dell’anima offre all’escatologia
cristiana una sorta di praeambulum spei.

Il protestantesimo e l’immortalità dell’anima.  La validità della nozione di un’a-


nima immortale, separata dal corpo, è stata posta in questione nei secoli recen-
ti, principalmente nell’ambito della teologia protestante. Questo non significa,
ovviamente, che i protestanti neghino la vita nell’aldilà in cui i credenti vivran-
no per sempre in comunione con la Divinità. Anzi, si può dire il contrario: la
teologia protestante è solidamente centrata sul momento escatologico79. Piutto-
sto si considera che la nozione di “anima immortale”, mutuata – si è detto – dal
pensiero platonico, abbia, attraverso un processo di ingiustificata “ellenizzazio-
ne”, erroneamente preso il posto della centrale dottrina biblica della resurrezio-
ne dei morti80. Per tornare alla purezza del Vangelo cristiano, perciò, la dottrina
dell’anima e della sua immortalità dovrebbe essere epurata81.
Storicamente, tuttavia, va tenuto presente che il cristianesimo non solo ha
evitato di opporre immortalità dell’anima e resurrezione dei morti, ma le ha inte-
grate con successo lungo la storia, e ha pacificamente impiegato la categoria di
“anima” per la maggior parte della storia della teologia82.
È interessante notare il suggerimento del teologo cattolico Ansgar
Ahlbrecht che la dottrina dell’“immortalità dell’anima” può esser stata compre-

della dimostrazione dell’esistenza e dell’immortalità dell’anima, però non insegna che sia
dimostrabile in senso stretto, secondo C. F. J. Martin, On a Mistake Commonly Made in Accounts
of Sixteenth-Century Discussions of the Immortality of the Soul, «American Catholic Philosophical
Quarterly» 69 (1995) 29-37.
78
Platone, Fedone, 63a. Sulla dinamica e l’importanza del rischio nella vita umana, si veda P. Wust,
Ungewissheit und Wagnis, A. Pustet, Salzburg 1937.
79
Si veda per esempio E. Kunz, Protestantische Eschatologie: von der Reformation bis zur
Aufklärung (Handbuch der Dogmengeschichte, 4.7.3.1), Herder, Freiburg i. B. 1980.
80
Tra i primi autori che apertamente difendevano questa posizione c’è O. Cullmann, Immortalité de
l’âme ou Résurrection des morts?, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1957. Si veda il capitolo XI, 406ss.
81
La questione è sviluppata dettagliatamente lungo il capitolo XI, 2.
82
Si veda il mio studio Anima, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, a cura di G.
Tanzella-Nitti e A. Strumìa, vol. 1, Urbaniana University Press; Città Nuova, Roma 2002, 84-101.
Sui problemi insiti del processo di “deellenizzazione” nell’ultimo secolo, si veda l’ultima parte
del discorso di Benedetto XVI a Regensburg, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni
(12.9.2006). Recentemente, si veda F. Bovon, The Soul’s Comeback: Immortality and Resurrection
in Early Christianity, «Harvard Theological Review» 103/4 (2010) 387-406; A. Nitrola, Trattato di
escatologia, vol. 2: Pensare la venuta del Signore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 98-137.

40
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

sa dai protestanti come un equivalente di quella della “giustificazione per le


opere”83. Se le anime degli uomini sono naturalmente immortali, i credenti
potrebbero sentirsi tentati di presentarsi compiaciuti davanti al loro Creatore
con una immortalità “loro propria”, ripudiando così sia il loro stato di creature
che la sovranità divina. Ciò sarebbe totalmente estraneo al Vangelo di Cristo
incentrato sulla potenza divina salvifica della grazia. Da ciò, la dottrina dell’im-
mortalità dell’“anima separata” dovrebbe essere stata abbandonata una volta
per tutte, cioè, come incompatibile con il Vangelo cristiano della grazia. Il calvi-
nista Karl Barth († 1968) muove la medesima critica in termini lievemente diffe-
renti: l’anima non può essere immortale, egli dice, per la semplice ragione che,
secondo la Scrittura (1 Tm 6,16), solo Dio lo è84.
Senza dubbio, la possibilità di concedere una innata (e potenzialmente
competitiva ed idolatrica) divinità all’anima umana potrebbe esser stata presen-
te nell’analisi di Platone dell’immortalità dell’anima e nella sua concezione della
divinità85. Il medesimo pericolo non si trova in verità nel contesto cristiano, perché
va da sé che l’anima, incorruttibile o meno, è sempre e solo il prodotto dell’azione
creatrice di Dio, e non gode di nessuna indipendenza metafisica propria. L’anima
è creata da Dio “dal nulla”86. Sia Clemente d’Alessandria († 215) che Teofilo d’An-
tiochia (II sec.) hanno affermato apertamente che anche l’immortalità è un dono
divino87. Ireneo di Lione († ca. 200) scrive: «l’anima stessa non è vita, ma partecipa
di quella vita donata ad essa da Dio»88. Forse l’immortalità dell’anima nel contesto

83
Si veda A. Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit in der evangelischen Theologie der Gegenwart,
Bonifatius, Paderborn 1964, 112-20; C. Pozo, La teología del más allá, 191. Tra gli autori
protestanti, questa posizione è tenuta per esempio da H. Thielicke, Tod und Leben. Studien zur
christlichen Anthropologie, Mohr, Tübingen 19462, annex 4; E. Jüngel, Tod, Kreuz, Stuttgart;
Berlin 19712, cap. 4.
84
Negando l’immortalità dell’anima, Barth cita 1 Tm 6,15s.: Dio, «il Re dei re e il Signore dei
signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo
ha mai visto, né può vederlo». Da ciò egli deduce che Dio solo è immortale. Si veda la sua opera
Die Auferstehung der Toten, Zollikon, Zürich 1953.
85
Si veda Platone, Leggi 726a; il mio articolo, Anima, 86.
86
Con le parole di papa Leone IX, «Anima non esse partem Dei, sed e nihilio creatam… credo et
praedico» Ep. Congratulamur vehementer (1053): DS 685. G. Gozzelino, Nell’attesa della beata
speranza, 174 (nota 18) spiega che i Padri della Chiesa deducono l’immortalità dell’anima per la
maggior parte dalla vocazione dell’uomo alla visione di Dio, e non principalmente dalla sua natura
spirituale e indivisibile.
87
Si veda Clemente d’Alessandria, Paedagogus 2,19,4-20; Teofilo, Ad Autolycum, 1,4. Sulla nozione
di immortalità per grazia nei recenti autori ortodossi, si veda lo studio di B. Petrà, Immortalità
dell’anima: per natura o per grazia? Un dibattito greco-ortodosso nel secolo ventesimo, «Vivens
Homo» 19 (2008) 299-308.
88
Ireneo, Adv. Haer. II, 34,4.

41
Capitolo I

cristiano può esser definita “dialogica”89, per il fatto che gli uomini appartengono
a quella parte del regno creato capace di vedere Dio90. Inoltre, la Scrittura non
trascura l’argomento dell’immortalità umana91.
Storicamente parlando, è probabilmente corretto dire che quando i recen-
ti autori protestanti hanno rifiutato la nozione di “immortalità dell’anima”, in
termini reali intendevano ripudiare una peculiare concezione razionalistica e
romantica di questa categoria92.
Karl Barth in particolare si oppose agli autori che videro nell’anima umana
spirituale, immortale, la base di una autonomia etica razionalmente fondata, in
cui Dio non occupasse un posto sostanziale93. Dieter Hattrup osserva che per
i protestanti l’“immortalità dell’anima” era percepita come una chiara manife-
stazione di una “religione entro i limiti della pura ragione”, per citare il titolo
di una delle opere più note di Kant94. Tuttavia, in tempi recenti, diversi studiosi
protestanti sono giunti a riconoscere il valore cristiano della nozione di anima e
della sua immortalità, e la sua rilevanza a livello metafisico95.

89
J. Ratzinger spiega che l’immortalità dell’anima è di carattere “dialogico”: Escatologia, 162-
165; su questo, si veda G. Nachtwei, Dialogische Unsterblichkeit. Eine Untersuchung zu Joseph
Ratzingers Eschatologie und Theologie, St. Benno, Leipzig 1986.
90
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 166s.
91
Sull’uso del termine “anima” in Mt 10,28, si veda C. Pozo, La teología del más allá, 246s.
Sull’immortalità nell’Antico Testamento, si veda R. J. Taylor, The Eschatological Meaning of Life
and Death in the Book of Wisdom I-V, «Ephemerides theologicae Lovanienses» 42 (1966) 72-137;
M. Kolarcik, The Ambiguity of Death in the Book of Wisdom 1-6: a Study of Literary Structure and
Interpretation, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1991; BDAG, 1098-1100, s.v. ψυχή. Recentemente,
si veda P. Sacchi, L’immortalità dell’anima negli apocrifi dell’Antico Testamento e a Qumran,
«Vivens Homo» 19 (2008) 219-38.
92
Si veda I. Escribano-Alberca, Eschatologie: von der Aufklärung bis zur Gegenwart (Handbuch
der Dogmengeschichte, 4.4.7.4), Herder, Freiburg i. B. 1987, 138-41. Su questo periodo, si veda
in particolare J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, Kösel, München 1968, 150-68. Spinoza dice che
mens nostra aeterna est, «la nostra mente è eterna»: Ethica V, 31, schol. L’immortalità dell’anima
come attributo naturale è stato comunemente mantenuto dai romantici, tra i quali Mendelssohn
e Robespierre. C. Stange l’ha definito «il dogma centrale dell’Aufklärung» nella sua opera Die
Unsterblichkeit der Seele, Bertelsmann, Gütersloh 1925, 105. È particolarmente chiaro in J.-G.
Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, Vorl. 3 (1794), in Sämtliche Werke,
De Gruyter, Berlin 1965, vol. 6, 313-23.
93
Barth cita ad esempio J. A. L. Wegscheider († 1834), che considera l’immortalità dell’anima
come il fondamento della norma etica. Karl Barth valuta come interamente razionalistica la sua
posizione. Si veda di quest’ultimo Protestant Theology in the Nineteenth Century (orig. 1947), W.
B. Eerdmans, Grand Rapids 2002), 460-7, in particolare 466.
94
Si veda D. Hattrup, Eschatologie, Bonifatius, Paderborn 1992, 309-16 e G. Gozzelino,
Nell’attesa, 341.
95
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 596-601; C. Hermann, Unsterblichkeit
der Seele durch Auferstehung. Studien zu den anthropologischen Implikationen der Eschatologie,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1997.

42
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

La conoscibilità dell’immortalità dell’anima. Si può notare che le difficoltà


incontrate da molti studiosi protestanti in relazione alla dottrina dell’anima e
alla sua immortalità si rivolgono in particolare alla questione se tale immor-
talità sia naturale oppure no e, di conseguenza, se sia filosoficamente conosci-
bile96. In effetti, il pensiero protestante classico, ispirato dalla filosofia e dalla
spiritualità del tardo Medioevo, fortemente influenzate dal nominalismo, non
nega l’esistenza e l’immortalità dell’anima in quanto tale, ma la considera un
articolo di fede, e perciò inconoscibile dalla sola ragione97. Perciò, l’esistenza
dell’anima e la sua immortalità possono solo essere percepite per fede, cioè, in
sottomissione alla parola della promessa di Dio, ma non con le capacità naturali
della mente: in umiltà, si potrebbe dire, e non in arroganza, con gratitudine,
e non dominio. La promessa divina della ricompensa eterna dovrebbe godere
assoluta precedenza su qualsiasi conoscenza che potremmo avere dell’esistenza
e dell’immortalità dell’anima. Posizioni simili si possono trovare negli scritti di
Duns Scoto († 1308), Guglielmo di Ockham († ca. 1349), Tommaso de Vio Caeta-
nus († 1534, solitamente detto Caietano, un contemporaneo di Lutero) ed altri98.
Si può notare che le posizioni appena descritte tendono a tornare ad una visio-
ne platonica (quindi, in qualche modo dualistica) della relazione tra il corpo e
l’anima, frequentemente assunta dai filosofi moderni da Cartesio in poi. Inoltre,
facilmente danno adito ad approcci fideistici all’escatologia e alla vita nell’aldilà,
compatibili non solo con alcuni principi della teologia protestante, ma anche con
il pessimismo post-moderno nei confronti del potere della ragione99.
Ma ai cristiani è chiesto di «dar ragione della speranza che è in» loro (1
Pt 3,15). Infatti, come abbiamo visto prima, l’escatologia cristiana ha senso
non solo a causa della divina promessa di vita eterna per i credenti, ma anche
perché tale promessa è considerata antropologicamente e razionalmente piena
di significato per gli uomini100. E se diciamo che la spiritualità (e l’immortalità)
dell’anima è razionalmente conoscibile, questo è possibile solo perché l’anima

96
Se l’anima è naturalmente immortale, in linea di principio dovrebbe essere possibile per la
ragione dedurre tale immortalità. Sulla conoscibilità dell’immortalità dell’anima, si veda Giovanni
Paolo II, Enc. Fides et ratio (1998), n. 39.
97
Si veda il mio studio Anima, 92s.
98
Secondo Duns Scoto, i filosofi possono dimostrare al massimo la possibilità che l’anima non sia
mortale; la ragione di ciò consiste nel fatto che l’anima non comunica l’essere al corpo, per il fatto
che il corpo è una realtà in sé (Op. Oxon IV, D. 48, q. 2, n. 16). Ockham afferma che le persone
semplicemente immaginano che l’anima, in quanto forma del corpo, sia immortale, laddove se
l’anima fosse veramente la forma del corpo, sarebbe corruttibile (Quodl. I, 10).
99
Si veda l’opera di J. Derrida, La dissémination, Seuil, Paris 1972.
100
Si vedano le pp. 13ss.

43
Capitolo I

è naturalmente spirituale, e perciò incorruttibile. Se non si può mostrare che


l’immortalità è strutturalmente radicata nella costituzione dell’uomo, la fede
può ben diventare fideistica, e di conseguenza la speranza utopica, e l’essere
cristiano marginale e settario.
Lasciando da parte per il momento il contenuto della promessa biblica del
compimento escatologico, che considereremo a breve, è interessante notare che
molti filosofi lungo la storia hanno offerto un’ampia varietà di spiegazioni più o
meno plausibili per il carattere naturale dell’immortalità dell’anima e, perciò,
per la sua conoscibilità tramite la ragione umana.

Ragioni filosofiche a favore dell’incorruttibilità naturale. Molti, se non la


maggior parte dei Padri della Chiesa ritengono che l’anima sia incorruttibile101.
Lo fanno, generalmente parlando, sulla base della concezione platonica dell’a-
nima. Le ragioni fornite da Platone per l’immortalità dell’anima, perciò, sono
di un certo interesse102.
Platone era convinto dell’immortalità dell’anima, la psychē, per quattro
ragioni103. Prima, egli dice, quel che giunge all’essere, è originato dal suo contra-

101
Da Tertulliano in poi, la maggior parte dei Padri greci e latini hanno condiviso una visione
più o meno platonica dell’anima, considerandola indistruttibile, cosciente e auto-determinata,
anticipando la vita eterna e il giudizio personale: si veda B. E. Daley, The Hope of the Early
Church, 220. Sull’immortalità dell’anima in Origene e Clemente d’Alessandria, si veda G. Ancona,
Escatologia cristiana, 146-9. La posizione di Origene è molto chiara: l’immortalità dell’anima è come
quella degli angeli: De princip. IV, 4,9. Lattanzio trova il fondamento dell’immortalità dell’anima
nella bontà divina, nel desiderio dell’anima per il bene più grande e nel suo diritto di ricevere una
ricompensa per la virtù: Div. Instit. VII, 9. Atanasio utilizza gli argomenti di Platone per spiegare
l’immortalità dell’anima: l’anima è immortale perché nella sua stessa essenza è fonte di movimento
(Or. C. Gentes 33), e perché aspira alla felicità (ibid., 32). Secondo Gregorio di Nissa l’anima deve
essere considerata immortale perché, dal momento che Dio ha predestinato l’uomo a condividere
con Lui tutti i beni spirituali, egli deve avergli conferito una natura corrispondente a questo fine.
L’eternità è uno di questi obiettivi; perciò l’uomo deve essere immortale (Orat. Catech. 5). Gregorio
insiste anche sulla semplicità dell’anima (De anima et res., 44). Per Agostino, siccome l’anima
conosce quel che è eterno ed immutabile, e a causa della sua intima relazione con la verità, non può
perire (De immort. animae; Soliloquia II, 2-4). L’anima è superiore al corpo, continua Agostino,
perché gli dà la vita; inoltre, è indipendente dal corpo ed eterna, sebbene Dio l’abbia creata e la
mantenga nell’essere (Ep. 3 ad Nebridium). Una posizione sostanzialmente identica si può trovare
nelle opere: De statu animae di Claudio Mamertino (sec. IV), nel De anima di Cassiodoro, nel
Opusc. de anima di Massimo il Confessore, nel Monologion di Anselmo, 68s., e nel De animae
ratione di Alcuino. Quest’ultimo ritiene che, a causa del peccato, parte dell’anima sia divenuta
mortale, sebbene il suo nucleo più profondo sia immortale per virtù della chiamata divina.
102
Scrisse Voltaire nella sua opusculo L’immortalitè de l’âme: «Sì, Platone, tu dici il vero: la nostra
anima è immortale; un Dio le parla, un Dio vive in lei. Se così non fosse, come avremmo questo gran
presentimento? Perché saremmo disgustati dei beni terreni? Perché avremmo l’orrore del nulla?»
103
All’origine del pensiero di Platone, il ruolo delle fonti non scritte (miti, ecc.), non può essere
negato. Si veda il mio studio Is Christianity a Religion? The Role of Violence, Myth and Witness in

44
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

rio (quando, per esempio, una cosa che è fredda diventa calda). In questo modo,
secondo il principio dell’eterno ritorno, la morte dev’essere l’inizio della vita104.
E così l’anima sopravvive alla morte, ed è immortale. Seconda ragione: Plato-
ne fonda la sua convinzione circa l’immortalità dell’anima sulla sua teoria della
conoscenza. Conoscere, per Platone, è ricordare. Prima della nascita gli uomini
hanno contemplato nell’eternità il Mondo delle Idee105. Al presente, conoscia-
mo concetti universali come il bene e la bellezza, anche se le cose cui applichia-
mo queste categorie sono sempre limitate. Questo ci mostra che l’anima non
appartiene a ciò che è mutevole. Perciò è incorruttibile e dura per sempre. Terza,
egli spiega che l’uguale, il giusto, il bene ecc. sono sempre identici, sebbene le
cose concrete cambino106. Quindi, ci sono due generi di cose, quelle invisibili
e quelle visibili. Le invisibili conservano la propria identità, mentre le visibili
non lo fanno. Dal momento che l’anima è simile alle cose invisibili, non cambie-
rà, non smetterà di esistere107. Quarta ed ultima ragione, Platone spiega che lo
scopo dell’anima è quello di dare la vita. Ma la vita per sua stessa natura non
può mutarsi nel suo contrario, la morte. Perciò l’anima dura per sempre. Egli
aggiunge che la convinzione della propria immortalità porta con sé il dovere di
aver cura della propria anima108.
Comprensibilmente, diversi tra i primi Padri della Chiesa non erano piena-
mente convinti della solidità delle prove platoniche, tra l’altro per il fatto che
Platone dava per scontato che gli uomini fossero divini nella loro costituzione
originaria, mentre l’anima non può esser altro che una creatura, con una esistenza
totalmente ricevuta. Perciò sia Giustino Martire († 165) che Ireneo si opposero
apertamente alla nozione greca dell’immortalità naturale dell’anima, affermando
che gli uomini continuano a vivere dopo la morte in uno stato d’esistenza oscura,
per grazia di Dio109. Di fatto, dimostrare l’immortalità dell’anima creata non è
così semplice come può sembrare. Ancora di più quando si tenta di considerare

Religion, «Fellowship of Catholic Scholars Quarterly» 29 (2006) 13-28, in particolare le pp. 20s. e
nota 72.
104
Si veda Platone, Fedone, 72b.
105
Si veda ibid., 75c.
106
Si veda ibid., 78d.
107
Si veda ibid., 79c-d.
108
Si veda ibid., 105b; si veda anche Fedro, 245c ss.
109
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph., 6,2; Taziano, Or. ad graecos, 9,4; Ireneo, Adv. Haer. II, 43;
Tertulliano, De anima, 14.

45
Capitolo I

il problema da un punto di vista aristotelico, cioè, in base alla convinzione che il


corpo mortale sia elemento essenziale del composto umano110.
Tommaso d’Aquino, attingendo ad elementi sia platonici che aristotelici,
offre tre ragioni fondamentali per l’immortalità dell’anima umana111, o meglio,
per la sua “incorruttibilità”, il termine che Tommaso preferisce adoperare.
Primo, si dice che l’anima sia incorruttibile perché è in grado di conoscere
tutte le cose materiali. Perciò, deve essere immateriale essa stessa, cioè, spiri-
tuale: se non lo fosse, sarebbe incapace di conoscere alcune cose materiali. Dal
momento che l’intelletto è spirituale, non si può decomporre, è incorruttibi-
le112. Secondo, l’Aquinate spiega che la corruzione e il morire sono il risultato
di condizioni contrarie. Tuttavia, il pensiero concepisce tutti i contrari insie-
me, e perciò non può essere soggetto alla loro influenza di decomposizione. Dal
momento che l’anima è la sede del pensiero, perciò, allo stesso modo è incorrut-
tibile. Terzo, San Tommaso osserva che tutti gli uomini desiderano vivere per
sempre; questo desiderio sarebbe vano se l’anima fosse corruttibile. È vero che
questo argomento manca in qualche modo in rigore, per il fatto di implicare
uno spostamento dal piano soggettivo a quello oggettivo113. Tuttavia l’Aquinate
ne accetta la validità per il fatto che si basa sull’esperienza umana universale114.
Le argomentazioni dell’Aquinate in favore dell’incorruttibilità dell’anima
umana appena presentate sono coerenti e convincenti, anche se non del tutto
irrefutabili perché si fondate su una particolare teoria della conoscenza. Senz’al-

110
Si veda il mio studio Anima, 86s.
111
L’Aquinate studia l’incorruttibilità dell’anima in II Sent., D. 19, q. l, a. 1; II C. Gent., 49-55;
79-81; Quodl. X, q. 3, a. 2; De Anima, a. 14; S. Th. I, q. 75, a. 2 & 6; Comp. Theol., 74, 79, 84. Altri
studi sull’argomento includono: E. Bertola, Il problema dell’immortalità dell’anima nelle opere di
Tommaso d’Aquino, «Rivista di filosofia neo-scolastica» 65 (1973) 248-302; A. C. Pegis, Between
Immortality and Death in the Summa Contra Gentiles, «The Monist» 58 (1974) 1-15; idem., The
Separated Soul and its Nature in St. Thomas, in St Thomas Aquinas 1274-1974. Commemorative
Studies, a cura di A. A. Maurer, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1974, 131-58; L.
Scheffczyk, Unsterblichkeit bei Thomas von Aquin auf dem Hintergrund der neuren Diskussion,
Bayerische Akademie der Wissenschaften, München 1989; L. Iammarrone, L’affermazione
razionale dell’immortalità dell’anima umana nel pensiero di S. Tommaso, in Pontificia Accademia
di san Tommaso, Antropologia Tomista, Vaticana, Città del Vaticano 1991, 7-21; J. Cruz Cruz,
¿Inmortalidad del alma o inmortalidad del hombre?: introducción a la antropología de Tomás de
Aquino, Eunsa, Pamplona 2006.
112
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 75, a. 6. Su questo argomento sottile però profondo di
Tommaso, si veda D. R. Foster, Aquinas on the Immateriality of the Intellect, «Thomist» 55 (1991)
415-38.
113
«Il compimento stesso [del desiderio] non è filosoficamente provato, è promessa della fede» W.
Kluxen, Seele und Unsterblichkeit, 82.
114
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 75, a. 6.

46
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

tro sono incapaci di “dimostrare” la dottrina cristiana della promessa divina di


vita eterna e perfetta comunione con il Dio Trino nel senso compiuto della paro-
la. Tuttavia, come abbiamo visto, la ricerca filosofica fornisce utili indirizzi che
riguardano la dimostrabilità del carattere incorruttibile dell’anima umana, e
rende, umanamente parlando, ragionevole e responsabile il rischio di accettare
la promessa divina della salvezza escatologica. Queste dimostrazioni forniscono
quindi ciò che abbiamo chiamato il praeambulum spei. Accettare la promessa
divina della vita eterna può implicare assumersi un rischio, il rischio della fede
e della speranza, ma anche Platone commenta, in un testo già citato, parlando
proprio dell’immortalità dell’anima, «è un bel rischio da assumere»115.

4. La coerenza antropologica dell’escatologia cristiana:


l’integrazione dell’immortalità della vita e del sé
Ad un livello empirico, non è difficile mostrare che tutti gli uomini, ne
siano consapevoli o meno, aspirino ad un qualche tipo di immortalità116. Che
sia nella memoria delle persone che conoscono, nei loro figli o colleghi od amici,
nelle azioni nobili che hanno compiuto, nella vita dopo la morte (immortalità
dell’anima, resurrezione, vita eterna), nella reincarnazione, o in qualsiasi altro
modo, le persone ragionevoli di ogni epoca, cultura, filosofia o religione hanno il
desiderio di continuare ad esistere. L’immortalità costituisce un bisogno istinti-
vo per l’uomo. Abbiamo già visto che, secondo Tommaso d’Aquino, l’immorta-
lità dell’anima è indicata dal semplice fatto che tutti gli uomini la desiderano117.
Il romanziere e filosofo Miguel de Unamuno († 1936) esprime, senza mezzi
termini, il suo sdegno per coloro che propongono una rassegnata accettazione
della mortalità umana, ed insiste nell’affermare che il desiderio di una immorta-
lità a pieno titolo, che la morte sembra canzonare, non è il segno di una auto-illu-
sione o di un improprio amore di sé. In questo desiderio, egli scrive in una lettera

115
Platone, Fedone, 63a.
116
La bibliografia sul tema dell’immortalità umana è vasta; come introduzione, si veda J. Gevaert,
L’affermazione filosofica dell’immortalità, «Salesianum» 28 (1966) 95-129; anche R. W. K. Pater-
son, Philosophy and the Belief in a Life after Death, McMillan; St. Martin’s Press, New York; Lon-
don 1995, 103-30; F. Kerr, Immortal Longings. Versions of Transcending Humanity, University of
Notre Dame Press, Notre Dame 1997.
117
Si veda Tommaso d’Aquino, II C. Gent. 55 (ed. Marietti, 1309); II C. Gent. 79 (n., 1602); De Anima,
a. 14; S. Th. I, q. 75, a. 6. Si veda J. F. Jolif, Affirmation rationelle de l’immortalité de l’âme chez Saint
Thomas, «Lumière et Vie» 4 (1955) 755-74, in particolare 769-771. G. St Hilaire, Does St Thomas really
prove the Soul’s Immortality?, «The New Scholasticism» 34 (1960) 340-356, afferma che l’argomento
dell’Aquinate tramite il desiderio fornisce la sola prova valida dell’immortalità dell’anima.

47
Capitolo I

ad un amico, «Non vedo alcun orgoglio… né sano né insano. Non sto dicendo di
meritare un aldilà, né che la sua esistenza possa essere provata. Sto dicendo che
ne ho bisogno, che me lo meriti o no, e questo è sufficiente! Sto dicendo che le
cose che passano non mi soddisfano, che ho sete di eternità, e che senza l’eternità
nulla è importante per me. Ne ho bisogno, né ho bi-so-gno! E senza di essa, non
c’è gioia nella vita; o le gioie della vita non hanno nessun tipo di significato. È
troppo semplice dire “dobbiamo vivere, dobbiamo essere contenti della vita per
quella che è!” E per quelli di noi che non siamo contenti, allora?»118.
Si può chiedere ancora: da dove viene l’aspirazione dell’uomo per l’im-
mortalità? Può essere il risultato di un qualche genere di alienazione culturale?
Forse il risultato di una immaginazione troppo accesa? Emmanuel Kant († 1804)
guarda all’immortalità al massimo come ad un postulato della ragion pratica119.
Potrebbe così accadere, come Ludwig Feuerbach († 1872) ed altri hanno sugge-
rito120, che gli uomini proiettino sistematicamente i propri desideri al di là della
loro situazione oggettiva, limitata, evocando mondi che non esistono, spostando
involontariamente la propria attenzione dal reale finito all’irreale infinito, imma-
ginando l’esistenza di mondi divini al di là della loro esperienza immediata, illu-
dendosi di esser fatti per cose più grandi, ed agendo di conseguenza “come se”
fossero destinati ad essere immorali? Friedrich Nietzsche († 1900), per esempio,
parla della «grande bugia dell’immortalità personale»121. «Siate fedeli alla terra»,
scrive, «e non credete in quelli che vi parlano di speranze eteree; sono velenosi,
che lo sappiano o no»122. Il pensiero marxista di fatto ha ritenuto coerentemente
che la vita umana autentica, onesta, implichi la rinuncia all’immortalità perso-
nale a vantaggio dell’immortalità dell’umanità come totalità123, e che un ecces-
sivo attaccamento a se stessi, o al proprio progetto di vita, è senza alcun dubbio
dannoso al progresso dell’umanità, e perciò origine di profonda alienazione.
Sebbene la convinzione di fondo a favore dell’immortalità dell’uomo sia
quasi universale nella storia del genere umano, filosofi e scrittori l’hanno dipin-

118
M. de Unamuno, «Revista de la Universidad de Buenos Aires» 9 (1951) 135.
119
Si veda I. Kant, Critica della ragione pratica, n. 220; si veda F. Copleston, History of Philosophy
VI: Wolff to Kant, Image Books, New York 1985, 338ss.
120
Si veda L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums, F. Frommann, Stuttgart 1903, la sezione
intitolata “il cielo cristiano, oppure l’immortalità personale”; si veda anche il suo Gedanken über
Tod und Unsterblichkeit, a cura di F. Jodl, F. Frommann, Stuttgart 1903. Su questo aspetto del
pensiero di Feuerbach, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 220-3.
121
F. Nietzsche, Der Antichrist, n. 43, in Nietzsche Werke, vol. 6/3, De Gruyter, Berlin 1969, 215.
122
Idem, Also sprach Zarathustra, Vorrede 3, in Nietzsche Werke, vol. 6/1, De Gruyter, Berlin
1968, 9.
123
Si veda K. Marx, Tesi su Feuerbach, del 1845.

48
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

ta in una miriadi di modi differenti. Ne vanno considerate due forme essenziali:


l’immortalità della vita umana, e l’immortalità del ‘sé’ umano124 .

L’immortalità della vita umana. Gli uomini istintivamente cercano riconosci-


mento, apprezzamento, accettazione, ammirazione, fama, onore, celebrità, repu-
tazione, amore. Vogliono essere ricordati, s’è possibile per sempre, dalle persone
con cui sono vissuti e che amano, e anche da coloro che non hanno mai conosciu-
to ed incontrato. Desiderano essere conosciuti ed apprezzati; desiderano essere
famosi, anche entro una cerchia limitata, sebbene alcuni si accontentano di essere
considerati famigerati. Ma nessuno è disposto ad essere trascurato o dimenticato.
Le persone vogliono lasciare un segno nella memoria degli dei o degli uomini per
le opere più o meno rilevanti e nobili di cui sono responsabili. La loro vita e le loro
azioni sono proiettate verso l’immortalità, verso la ricerca della permanenza. La
storia stessa non è altro che un tentativo di raccontare lo sviluppo di questo sforzo.
Il romanziere ceco Milan Kundera, riflettendo sul periodo dell’idealismo roman-
tico, considera la fama come la vera essenza dell’immortalità125.
La letteratura greca, dai tempi di Omero in poi, aveva il medesimo obietti-
vo. La poesia epica omerica ha conservato per l’umanità le gesta eroiche di Patro-
clo, Aiace, Ulisse ed altri durante la guerra di Troia. Erodoto ha scritto le sue
Storie con l’esplicita intenzione di assicurare che le imprese degli eroi non venis-
sero dimenticate dagli umani mortali126. Le tragedie greche (di Euripide, Sofocle,
Eschilo) confermano la medesima posizione in direzione opposta: gli uomini
ricercano costantemente la fama, la continuità e la gloria, si sforzano di raggiun-
gere l’immortalità, ma solitamente lo fanno invano; infatti non viene data alcuna
spiegazione per la loro sofferenza, alcuna giustificazione ai sacrifici che fanno127.
Cicerone, († 43 a.C.) ha riassunto questa comprensione di immortalità dicen-
do che «la morte è terribile per coloro per i quali con la vita finisce ogni cosa. Ma

124
Si veda H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 19592; A. Ruiz-
Retegui, La teleología humana y las articulaciones de la sociabilidad, in T. López et al. (a cura di),
Doctrina social de la Iglesia y realidad socio-económico en el centenario de la “Rerum Novarum”,
Eunsa, Pamplona 1991, 823-47.
125
M. Kundera, Immortality, Faber and Faber, London; Boston 1991. Kundera descrive
l’immortalità come “l’insostenibile leggerezza dell’essere”.
126
Erodoto ha scritto le sue Storie «affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano
nella dimenticanza e le imprese grandi e meravigliose, compiuti tanto da Greci che da Barbari,
non rimangano senza gloria» Storie I, 1.
127
Sul confronto tra tragedia greca e fede cristiana, si veda A.-J. Festugière, De l’essence de la
tragédie grecque, Aubier-Montaigne, Paris 1969, 11-28; C. Möller, Sagesse grecque et paradoxe
chrétien, Casterman, Paris 1948, 162-233.

49
Capitolo I

non è così per coloro che non muoiono nella stima delle persone»128. Gli uomini
desiderano fervidamente che ogni cosa per cui essi hanno vissuto sulla terra, tutto
quello che ha profondamente soddisfatto i loro cuori, duri per sempre nella memo-
ria dei propri familiari, dei propri amici, della propria gente, della propria razza.
Per questa ragione, secondo i greci, la città (polis) è considerata come un luogo
sacro, perché è destinata a conservare per le future generazioni la memoria di quel-
le passate. Distruggere una città non implica solamente che i suoi abitanti restino
senza casa finché non siano riusciti a ricostruirle; significa piuttosto distruggere
l’identità di un popolo, derubarlo della propria memoria, e in un certo senso, della
propria immortalità. L’organo della memoria collettiva è la città, e il suo agente è il
poeta, lo storico, l’artista e lo scultore. Essi sono quelli che assicurano che l’identità
razziale e la memoria siano conservate, se possibile accresciute, con il passaggio del
tempo; sono i garanti dell’immortalità. Tucidide, nella sua Guerra del Peloponneso,
racconta in modo memorabile il discorso di Pericle, governatore di Atene, al popo-
lo, dopo la vittoriosa battaglia di Maratona129, descrivendo la città come il luogo
della memoria degli dei e dell’immortalità del popolo130.
Secondo questa concezione dell’immortalità umana, tuttavia, la morte
segna la fine dell’esistenza umana individuale, l’estinzione della persona, per la
semplice ragione che la vita umana, in quanto tale, è necessariamente collegata
con la terra, la materia, il corpo, i sensi, il tempo, le altre persone, la storia, le
gioie e i dolori di un mondo che passa.
Il filosofo Epicuro († 270 a.C.) esprime questa esperienza in modo pittoresco
e drastico dicendo che «la morte non significa nulla per noi; infatti se ci siamo,
la morte non esiste, ma quando viene la morte, noi non ci siamo più»131. Così lo
stoico Solone ha affermato che non potremmo «definire nessun uomo felice fino
alla morte; al massimo, è fortunato»132. La medesima posizione, nei secoli recenti,
si trova per esempio tra gli umanisti marxisti, che attribuiscono l’immortalità
solo ad una generica “umanità”, ma non individualmente agli uomini, il cui sfor-
zo egoistico per raggiungere l’immortalità personale è considerato radice di ogni

128
«Mors est terribilis iis, quorum cum vita omnia extinguuntur, non iis quorum laus emori non
potest» Cicerone, Paradoxa 18.
129
Tucidide, La guerra del Peloponneso II, 41ss.
130
«La polis greca è l’unica base adeguata per l’immortalità delle persone… La storia personale
di ciascuno è conservata nella memoria; la memoria è l’organo dell’identità» A. Ruiz-Retegui,
La teleología humana, 832. «La caduta della polis causa la caduta di quel che veniva considerata
l’unica base per l’immortalità» ibid., 834.
131
Epicuro, Lettera a Menoceno, 125, cit. da Diogene Laerzio, Vitae phil. 10,125.
132
Solone, in Erodoto, Storie I, 32.

50
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

alienazione133. Con tutto, non è ingiusto dire che la filosofia utopica di Marx è
stata responsabile della distruzione di milioni di vite umane individuali, in nome
dell’umanità collettiva134. Esistenzialisti nichilisti, come Sartre e Camus, vanno
ancora più in là, guardando alla morte in termini di annullamento dell’esistenza
umana135, di conseguenza, alla vita stessa come qualcosa di assurdo.
La moderna tanatologia scientifica, una branca della medicina che si occu-
pa del processo del morire, si basa frequentemente su una concezione secondo
la quale la morte implica l’eliminazione dell’individuo136. La tanatologia non
richiede una fede in una vita dopo la morte, ma piuttosto il prendere in conside-
razione ed accettare l’idea che la morte è un processo alla fine del quale l’indi-
viduo scompare per sempre, un processo che tutti gli uomini devono imparare
ad accettare e, se possibile, ad accogliere.
Per quanto possa sembrare strano, elementi importanti dell’antropologia
dell’Antico Testamento si muovono nella medesima direzione: la morte secondo
la Bibbia ebraica praticamente elimina l’individuo, che sopravvive solo nella
famiglia, nella fama, nella reputazione morale, ed anche, in qualche modo vago,
nella mente di Dio. Dio infatti stabilisce un patto con il suo Popolo, non in
primo luogo con gli individui umani, presi uno per uno137. E il Popolo di Dio
sopravvive, l’Alleanza dura, attraverso le generazioni successive138. La gloria di

133
È la posizione tipica di Marx. Su questo argomento, si veda anche J. L. Ruiz de la Peña, El
hombre y su muerte, Aldecoa, Burgos 1971, e il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel
and Ernst Bloch.
134
Si veda S. Courtois, R. Kauffer, Il libro nero del comunismo: crimini, terrore, repressione, A.
Mondadori, Milano 19983.
135
Poco sopra abbiamo considerato le posizioni di Heidegger, Sartre e Monod. Anche Albert Camus
insiste nell’affermare che non dovremmo cercare alcuna consolazione nella speranza illusoria della
salvezza dopo la morte. Al contempo, riconosce che la mancanza di ogni speranza rende la vita
qualcosa di assurdo. Si veda la sua opera Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde, Gallimard, Paris 1943.
136
Sulla nozione contemporanea della scomparsa dell’uomo dopo la morte, si veda A. N. Flew,
Death, in A. N. Flew e A. MacIntyre (a cura di), New Essays in Philosophical Theology, SCM Press,
London 1955, 267-72. E. Kübler-Ross ed altri hanno contribuito in modo sostanziale alla nozione
di una “accettazione” terapeutica della morte, una scienza che è spesso definita “tanatologia”: si
veda E. Kübler-Ross, On Death and Dying, Macmillan, New York 1970; idem., Death: the Final
Stage of Growth, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (NJ) 1975; idem., Questions and Answers on
Death and Dying, Collier, New York 1979, ed anche E. Becker, The Denial of Death, Free Press, New
York 1973; R. E. Neale, The Art of Dying, Harper & Row, New York 1973; R. S. Anderson, Theology
of Death and Dying, Blackwell, Oxford; New York 1986. Per una critica di queste posizioni, si veda
B. Collopy, Theology and the Darkness of Death, «Theological Studies» 39 (1978) 22-54.
137
Sulla problematica della morte nella Sacra Scrittura, si veda la p. 317, nota 49.
138
Sull’immortalità e la memoria nell’ebraismo, si veda C. F. Burney, Israel’s Hope of Immortality:
Four Lectures, Clarendon Press, Oxford 1909; B. B. Schmidt, Memory as Immortality, in Judaism
in Late Antiquity, vol. 4, a cura di J. Neusner e A. J. Avery-Peck, E. J. Brill, Leiden 2000.

51
Capitolo I

Abramo è nei suoi discendenti, numerosi come la sabbia del mare. L’identità
di Israele è nella sua memoria delle grandi opere che Dio ha compiuto per lui:
«Benedici il Signore, anima mia», proclama il Salmista, «non dimenticare tutti
i suoi benefici» (Sal 103,2).

L’immortalità del ‘sé’ umano.  Il secondo genere di immortalità è più tipico dei
filosofi che non dei poeti, degli intellettuali piuttosto che dei militari, dei saggi
piuttosto che dei politici. È la considerazione dell’immortalità degli uomini nella
loro costituzione ontologica e spirituale. Nella sua essenza, l’uomo è considerato
una anima spirituale. Si considera che il “sé”, lo spirito individuale, sopravvi-
vendo alla morte, vivendo per sempre, è immortale139. Ciò che non raggiungerà
l’immortalità, tuttavia, è quel che è percepito come deperibile, corruttibile, effi-
mero: la vita come viene vissuta giorno dopo giorno, la dedizione appassionata
e il duro lavoro, il successo militare o politico, la fama, le ricchezze materiali,
la memoria storica, il corpo umano. Quel che rimane è l’anima immortale, e
accanto ad essa, casomai, le virtù acquisite e consolidate durante questa vita
tramite un distacco sistematico da qualsiasi cosa che di per sé non sia in grado
di partecipare dell’eternità e della permanenza140.
L’“immortalità del sé” è chiaramente differente dall’“immortalità della
vita”, spiegata sopra. La morte non implica più l’annientamento del singolo, ma
piuttosto la continuazione per sempre della parte migliore, spirituale, dell’uo-
mo, l’anima, non appena si sia scrollata di dosso definitivamente i legami della
carne, del mondo, di questa vita temporale, terrena. Questa posizione è tipica
dei pitagorici, in particolare di Platone, dei neo-platonici e degli gnostici, ed è
ricorrente nella storia delle religioni e dell’antropologia141.
Tuttavia, questa concezione dell’immortalità umana ha importanti incon-
venienti. Tende a trasformare la morte umana in qualcosa di banale, che non
implica né miglioramento né impoverimento dell’uomo ad un livello sostanzia-
le, ma semplicemente una continuità tra questa vita e quella futura per il nucleo
centrale dell’uomo, l’anima spirituale, immortale. Ne risulta una banalizzazio-

139
Sull’anima umana, si veda il mio studio Anima.
140
J. Ratzinger sottolinea come la concezione platonica dell’anima non implichi necessariamente
una concezione individualistica dell’uomo, perché per godere dell’immortalità l’uomo deve con-
solidare quelle virtù che contribuiscono allo svolgersi della vita pubblica, in particolare la giustizia:
Escatologia, 95; 154s.
141
Si veda l’opera classica di F. V. Cumont, Lux perpetua, Librairie P. Geunthuer, Paris 1949. Si
veda anche W. Jaeger, The Greek Ideas of Immortality, in Immortality and Resurrection, a cura di
K. Stendhal, Macmillan, New York 1965, 96-114, e il mio studio Anima, 84-87. Si veda A. Millán-
Puelles, La inmortalidad del alma humana, Rialp, Madrid 2008. Si vedano anche le pp. 39s. sopra.

52
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

ne della vita sulla terra, e al contempo, della materia, della corporeità umana,
della umana società e della storia, ciascuna delle quali va semplicemente persa e
resa superflua dall’ingresso dell’individuo nell’eternità.

Immortalità della vita ed immortalità del sé: sono compatibili l’una con l’altra?  È
ovvio che le due concezioni dell’immortalità umana appena presentate sono
differenti, anzi, opposte l’una all’altra. Per la prima, quel che dura è il frutto
della vita e degli sforzi umani. Sebbene più tangibile, è un genere precario di
immortalità, in quanto dura per l’umanità (non per l’individuo) e come esito
dello sforzo umano (producendo la memoria delle grandi azioni realizzate nel
passato). Nel secondo caso, l’immortalità è meno tangibile sebbene più robu-
sto a livello metafisico, almeno in apparenza, poiché quel che dura è quel che
è sempre esistito: le anime spirituali ed incorruttibili degli individui142. Si può
dire che il pensiero classico stabilisce «una alternativa insolubile: o la mia vita
permane ma io no; o io permango e la mia vita no… In altre parole, o immorta-
lità o eternità»143. In un altro senso, tuttavia, le due posizioni non sono del tutto
scollegate, in quanto condividono una comune (in qualche modo dualistica)
struttura metafisica, che può essere riassunta nella seguente formula: quel che è
deperibile e mutevole (la materia, il cosmo, il corpo, la vita umana e la storia) è
scollegato ed indipendente da ciò che è permanente e spirituale (l’anima).
Si deve tuttavia tener conto che queste spiegazioni dell’immortalità costi-
tuiscono le due impostazioni fondamentali per esprimere la spinta umana verso
la continuità e la sopravvivenza: la ricerca di una vita significativa, vissuta piena-
mente e liberamente in attiva solidarietà con il resto dell’umanità nel mezzo del
mondo, e l’impulso verso l’autonomia, la libertà spirituale e l’esistenza indivi-
duale. E si deve porre l’interrogativo: è possibile superare il dilemma tra queste
due visioni e parlare contemporaneamente dell’immortalità della vita umana e
dell’immortalità del “sé” umano?
Speriamo di poter mostrare, principalmente nel terzo capitolo (sulla resur-
rezione dei morti), nel quinto (sul giudizio finale) e nell’undicesimo (sull’escato-
logia intermedia), che le due “immortalità” si fondono e si integrano con succes-
so alla luce della rivelazione cristiana, diventando pienamente compatibili l’una
con l’altra. In questo modo risulta chiaro che l’escatologia cristiana fornisce una
chiave di volta per una antropologia ampia, coerente e integrale.

142
Secondo Socrate, quel che durerà per sempre esiste dal tutta l’eternità: Platone, Fedone 70d-72e.
143
A. Ruiz-Retegui, La teleología humana, 834.

53
Capitolo I

5. La coerenza spirituale dell’escatologia cristiana:


il premio e il prezzo del cielo
A dispetto dell’insistenza del Nuovo Testamento sulla promessa della vita
dopo la morte, accade che molte persone non credano in alcuna forma di aldi-
là. Coloro che lo accettano spesso lo fanno in modo minimalista, per esempio
accettando la dottrina della reincarnazione144. Molti altri semplicemente non
credono in un soluzione per la vita e la morte “felice per sempre”, come la fede
cristiana la esplica, e che la vita futura implicherà un definitivo compimento
e felicità. Una cosa è accettare l’esistenza di un aldilà, come una replica più o
meno perfetta della vita presente, tutt’altro – data la povertà e la miseria della
vita sulla terra – credere in una eternità di perfetta beatitudine in incontami-
nata comunione con Dio e l’umanità. Su questo punto vengono alla ribalta le
questioni morali e spirituali implicate nella fede cristiana. Nella sua enciclica
Spe salvi, papa Benedetto XVI pone francamente l’interrogativo: «vogliamo noi
davvero questo – vivere eternamente?» E suggerisce che «forse oggi molte perso-
ne rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una
cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la
fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo»145.
Anteriormente abbiamo visto che la speranza può essere considerata una
virtù in quanto implica una fede completa in (ed un amore per) una persona che
è capace di offrire quel che non si è in grado di ottenere da sé, in vista di una
compiuta auto-realizzazione146. Appare chiaro che se la speranza domanda un
amore fiducioso, richiede anche uno spirito di apertura ed umiltà. Dal punto
di vista del contenuto, il premio in questione deriva interamente da Colui che
dona, mentre il ricevente è invitato a riceverlo ed accoglierlo in umiltà e fede.
Coloro che ripongono speranza in un’altra persona possono alla fine trovarsi
arricchiti al di là dei loro sogni più audaci. Eppure ciò avviene al prezzo di una
sempre crescente dipendenza da colui in cui si spera. Ed il fatto è che gli uomini
in buona parte tendono a preferire dipendere dalle proprie risorse, per quan-
to limitate possano essere, piuttosto che accettare i doni che altri offrono loro,
temendo di sviluppare una dipendenza eccessiva da chi dona. Achille, l’eroe
della mitologia greca, dice che preferirebbe rimanere un mendicante per sempre
in questa vita piuttosto che un re delle ombre nella vita futura. Ugualmente, il

144
Si vedano le pp. 107s.
145
SS 10.
146
Si vedano le pp. 28s.

54
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

poeta John Milton († 1674) nel suo epico Paradiso Perduto parla di coloro che
preferiscono «regnare all’inferno piuttosto che servire in paradiso»147. Ovvia-
mente questa riluttanza e spirito di chiusura sono un segno di una peccami-
nosità originale, di mediazione spezzata, di uno spirito che non si fida di Dio la
cui bontà e totale sovranità non è riconosciuta, di eccessivo attaccamento alle
creature materiali. Tutto ciò che abbiamo è ricevuto da Dio. Perciò è impensabi-
le che l’uomo si possa realizzare sulla base delle proprie risorse, anche se vuole
farlo. Infatti l’angoscia sperimentata alla morte deriva frequentemente da un
attaccamento disordinato a questa vita, che gli uomini tendono ad afferrare e a
stringere secondo le loro proprie convinzioni148.
Tuttavia, Gesù nel redimere l’umanità dal peccato è entrato in questa
stessa dinamica, abbracciando liberamente la morte, “perdendo” la sua vita
per obbedienza al Padre, e poi, per potenza di Dio, unica sorgente di tutta la
vita, risorgendo ad un’esistenza nuova, gloriosa, immortale. Questa dinamica
di guadagno e perdita, o meglio, di guadagno tramite la perdita, è presente nel
cuore stesso del Vangelo cristiano. Gesù ha detto che «chi avrà tenuto per sé la
propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la trove-
rà» (Mt 10,39). In effetti, secondo la rivelazione cristiana, non solo Dio promette
ai credenti più di quanto essi possono ragionevolmente aspettarsi – la comunio-
ne eterna con la Trinità – ma Egli lo fa liberamente e magnanimamente, perché
«Dio è amore» (1 Gv 4,8). Tuttavia, ciò richiede una profonda conversione del
cuore da parte del credente, una fede senza riserve e incondizionata in Dio (Mt
18,4), al punto da esser pronti a “lasciare tutto” e seguire Cristo (Mt 19,27), fino
all’accettazione della morte. Detto diversamente, l’apertura nei confronti del
premio divino della vita eterna implica l’assunzione di un rischio, il rischio di
sacrificare la propria vita, il rischio di perdere tutto, il rischio della fede in Dio.
Santa Teresa di Lisieux († 1897), che guardava al cielo come ad un riversar-
si dell’amore divino sulla terra intera, esprime questa convinzione in termini
profondamente personali: «ho detto a Gesù che ero pronta a perdere l’ultima
goccia del mio sangue per confessare che esiste un cielo»149.
Possiamo dire con Bonhöffer che la grazia della vita eterna è una vera
grazia, però è una grazia “costosa”: Dio chiede a coloro che credono in lui, e
desiderano ricevere la vita eterna, la disponibilità a sacrificare la vita terrena

147
J. Milton, Il Paradiso Perduto I, 262.
148
Questo tema è ulteriormente sviluppato nelle pp. 332s.
149
Teresa di Lisieux, Storia di un’anima, MS C 7r, in Œuvres complètes, Cerf, Paris 1992, 243.

55
Capitolo I

come segno definitivo della loro fede in Dio. A prima vista ciò può sembrare una
contraddizione in termini. Tuttavia, alla luce della teologia della Croce (1 Cor
1), ciò è pienamente coerente con la stessa vita, morte e Resurrezione di Cristo,
e perciò con il messaggio spirituale cristiano.

6. La rivelazione interiore della verità dell’escatologia cristiana:


l’azione dello Spirito Santo, causa e potenza di speranza
Frequentemente lungo tutto il Nuovo Testamento, lo Spirito Santo è presen-
tato come il “secondo testimone”, accanto a Cristo (Gv 14,26; 16,14), accanto alla
Chiesa (Ap 22,17), accanto ai cristiani (Gv 15,26s.; At 5,32). Se il Vangelo procla-
ma Cristo come “la vita” (Gv 14,6), il Credo di Nicea-Costantinopoli chiama lo
Spirito il «Signore che dà la vita». È perciò chiaro che l’azione dello Spirito non
è semplicemente aggiunta a quella di Cristo, della Chiesa, dei singoli creden-
ti. Piuttosto, la consumazione escatologica della Chiesa (Corpo di Cristo) e di
ciascun cristiano è opera dello Spirito Santo, lo Spirito di Cristo150. Ciò significa
che in ogni singola azione (esteriore) di Cristo, della Chiesa, dei cristiani creden-
ti, l’azione dello Spirito Santo può essere considerata come il complemento inte-
riore che le dà la forza, che le rende possibile. L’azione dello Spirito Santo non
descrive, non rivela o insegna ai cristiani il contenuto promesso della vita eterna
e della Parousia. Come abbiamo visto, il contenuto della speranza escatologica
è chiaramente di carattere cristologico, è da “leggere” a partire dalla vita, dalle
parole e dalle opere di Gesù Cristo151, tramandate all’umanità di generazione in
generazione attraverso la Chiesa e i cristiani. Tuttavia, bisogna dire che lo Spirito
è Colui che rende presente ed operativa la realtà che sta dietro queste parole nella
mente e nei cuori degli uomini come un dono divino. Lo Spirito comunica o
impianta al livello più profondo possibile la veridicità del messaggio rivelato nel
cuore umano. Si potrebbe dire che lo Spirito è Colui che concretamente stabilisce
l’adaequatio tra la realtà rivelata e la mente e il cuore dell’uomo152.

150
Si veda i miei studi L’agire dello Spirito Santo, chiave dell’escatologia cristiana, «Annales
Theologici» 12 (1998) 327-73 e CAA 257-94, con un’ampia bibliografia nella nota 1. Si veda anche M.
Bordoni, Resurrezione, Parusia, Pneumatologia, in Servire Ecclesiae. Miscellanea in onore di Mons.
Pino Scabini, a cura di N. Ciola, Dehoniane, Bologna 1998, 229-40; N. Ciola, Intorno al rapporto
pneumatologia-escatologia, in Spirito, eschaton e storia, Mursia; Pontificia Università Lateranense,
Roma 1998, 7-16; J. J. Alviar, La dirección pneumatológica de la escatología, in J. J. Alviar (a cura di),
El tiempo del Espíritu: hacia una teología pneumatológica, Eunsa, Pamplona 2006, 211-34.
151
Si vedano le note 71s. sopra.
152
Ovviamente faccio riferimento alla classica definizione della verità come adaequatio rei et
intellectus.

56
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

Paolo dice ai Corinzi che «quelle cose che occhio non vide, né orecchio
udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo
amano» (1 Cor 2,9; cf. Is 64,3)153. Queste parole non intendono né oscurare il
messaggio di salvezza, né scoraggiare i credenti nella loro speranza. Piuttosto
il contrario. La promessa escatologica diventa per loro una sorta di luce e gioia
indicibile tramite lo Spirito che “spiega” quel che Dio ha preparato per coloro
che lo amano, rendendo questa realtà presente nella vita e nel cuore di ciascun
credente. Infatti, il testo paolino appena citato prosegue parlando delle «parole
di vita eterna», che «Dio ha rivelato a noi per mezzo dello Spirito» (1 Cor 2,10).
Lo Spirito Santo quindi è Colui che dà vita alla promessa escatologica divi-
na, rendendola concretamente presente – credibile, amabile, degna di speran-
za – nel cuore dei credenti cristiani. Lo Spirito fa questo risvegliando nel cuore
dei credenti un affectus, una profonda, addirittura infantile, convinzione, per
la quale l’accoglimento del premio infinito della vita eterna diventa una possi-
bilità reale. Si potrebbe dire che lo Spirito contagia i cristiani con qualcosa del
suo “élan de tendresse”154, quell’entusiasmo paterno-filiale e quella tenerezza che
costituisce il suo vero essere, il Dono ipostatico che esprime sia l’amore del Padre
che dà ogni cosa senza riserva al Figlio, sia l’ardente amore del Figlio che obbe-
disce e glorifica il Padre in tutto quel che fa. Con parole di Jean Giblet, lo Spiri-
to può essere considerato come “causa e potenza di speranza”155. Ugualmente la
liturgia pasquale nel rito latino parla del gustus spei156, il “gusto della speranza”,
frutto della grazia divina. San Paolo conferma questo principio, perché la princi-
pale ragione per cui «la speranza non delude», a dispetto delle tribolazioni e delle
difficoltà che possono sorgere, sta nel fatto che «l’amore di Dio è stato riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
Tuttavia, l’azione dello Spirito non è un potere o una influenza che gli
uomini provano in modo passeggero o fugace, come nei momenti di fervore
inaspettato o travolgente. Secondo Agostino, lo Spirito rivela Dio come amore

153
L’intero brano recita come segue: «Ma, come sta scritto: “Quelle cose che occhio non vide, né
orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”.
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche
le profondità di Dio. Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in
lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio» 1 Cor 2,9-11.
154
M.-J. Le Guillou, Le développement de la doctrine sur l’Esprit Saint dans les écrits du Nouveau
Testament, in Credo in Spiritum Sanctum, a cura di J. Saraiva Martins, vol. 1, Vaticana, Città del
Vaticano 1982, 729-39, qui 731.
155
J. Giblet, Pneumatologie et Eschatologie, in Credo in Spiritum Sanctum, vol. 2, 895-901, qui 899.
156
Ad Officium lectionis temp. pasch., Hymnum in feriis post octavam Paschae.

57
Capitolo I

in continuità e fedeltà157. La sua azione è diretta piuttosto a quel che è eterno e


permanente, dove il vero amore perdurerà. Perciò sarebbe un errore identificare
l’azione dello Spirito con ciò che è imprevisto, spettacolare o improvviso nella
vita cristiana, perché l’opera dello Spirito tende sempre a “creare una dimora”,
a generare “un amore che unisce per sempre”, nascondendosi, non parlando in
suo nome, non creando divisione, ma piuttosto ricordando e unendo158.
Quando lo Spirito porta i credenti cristiani a chiamare “Abbà, Padre” (Rm
8,15; Gal 4,6), non si tratta di una rivelazione di tipo gnostico riguardante ciò che
gli uomini già erano per natura (figli o figlie di Dio, fratelli e sorelle di Cristo), ciò
che potrebbe generare forse un senso di sterile auto-compiacimento. Lo Spirito
agisce sempre nel contesto di figliolanza adottiva (Rm 8,33; Gal 4,5; Ef 1,5), cioè,
per coloro che diventano figli di Dio per grazia, e sono destinati a ricevere l’ere-
dità familiare, la vita eterna, nella modalità di un infinito ed immeritato dono
del Padre. Lo Spirito fa questo come Colui che esprime ipostaticamente entro
la Trinità la traboccante e incondizionata reciproca donazione del Padre e del
Figlio che costituisce la vita della Trinità159. Il ruolo dello Spirito nella speranza
è precisamente quello di rendere presente nel credente qualcosa della relazione
tra il Padre e il Figlio, che è percepito dal credente come una ineffabile presenza
della vita divina come dono. Entrando nel cuore dell’uomo con l’infinita finezza
dell’amore divino160, lo Spirito permette che la Persona di Cristo sia conosciuta ed
amata dall’uomo, ed in Cristo che sia conosciuto e amato il Padre eterno. Obietti-
vamente parlando lo Spirito è il “protagonista” più diretto e reale della dinamica
della speranza nella vita dei cristiani, anche se non ne sono sempre consapevoli.

157
Si veda J. Ratzinger, Der Heilige Geist als communio. Zum Verhältnis von Pneumatologie und
Spiritualität bei Augustinus, in C. Heitmann e H. von Mühlen (a cura di), Erfahrung und Theologie
des Heiligen Geistes, Kösel, München 1974, 223-38.
158
Si veda ibid., 228-31.
159
S. N. Bulgàkov esprime bene questa nozione: «lo Spirito annuncia non ciò che è suo, ma il Figlio
del Padre. Egli è l’ambiente trasparente, impercettibile nella sua trasparenza. Non esiste per sé,
perché è tutto negli altri, nel Padre e nel Figlio; e il suo essere proprio è come un non-essere. Ma in
questo annientamento sacrificale si compiono la beatitudine dell’amore, l’auto-consolazione del
Consolatore, la gioia di sé, la bellezza, l’auto-dilezione, l’apice dell’amore. Così nell’amore che è la
santissima Trinità, la Terza ipostasi è l’Amore stesso, che realizza in sé, ipostaticamente, tutta la
pienezza dell’amore» S. Bulgàkov, Il Paraclito, Bologna 19872, 145.
160
«Se la pienezza della vita divina in Cristo è determinata dalla misura della natura divina, la
misura della ricettività dello Spirito Santo è determinata proprio dal grado di questa recettività:
la libertà umana interviene quale elemento primordiale di questa recettività. La grazia non fa
violenza alla libertà: la convince tuttavia e la sottomette… la correlazione tra la grazia e la libertà
della creatura (è) la caratteristica dell’azione della terza ipostasi in kénosis nel mondo» ibid., 404s.

58
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana

In breve, si può dire che lo Spirito Santo convince i credenti nella profon-
dità del loro essere che il bonum futurum arduum (la vita eterna), è possibile161.
Egli impianta nel cuore dei cristiani la certezza che quel che Dio ha rivelato in
Cristo tramite la Chiesa si realizza.

7. La divinità e l’umanità della speranza


Nella Parte II (capitoli 2-7), che segue, considereremo i differenti aspetti
dell’oggetto della speranza cristiana, il suo contenuto, che sopra abbiamo chia-
mato gli eschata, che derivano dalla Persona, dalle parole e dall’opera di Cristo,
l’Eschatos. Nei paragrafi precedenti abbiamo tentato di stabilire le coordinate
fondamentali per una riflessione teologicamente ed antropologicamente respon-
sabile su quello che la rivelazione cristiana ci dice circa un futuro che non ha
ancora reso pienamente sperimentabile la sua presenza. Abbiamo prestato parti-
colare attenzione al fatto che l’escatologia cristiana dovrebbe tentare di giustifi-
care la sua pretesa di proclamare la verità sul futuro destino dell’uomo. L’abbia-
mo fatto in quattro momenti: mostrando che l’incorruttibilità dell’anima umana
può essere razionalmente affermata; mostrando come l’escatologia cristiana sia
in grado di integrare le due spinte fondamentali verso l’immortalità presenti
nell’uomo, quella della vita e quella del sé, offrendo così la base per una antro-
pologia integrale; mostrando che l’apparente sproporzione tra prezzo (morte) e
premio (vita eterna) del compimento escatologico è ragionevole ed accettabile nel
contesto della spiritualità che deriva dal Vangelo della vita, morte e resurrezione
di Gesù Cristo; ed infine, che la verità della speranza escatologica è impressa nel
cuore umano direttamente dallo Spirito Santo, causa e potenza di speranza.

161
Si vedano le pp. 22s.

59
PARTE SECONDA

L’OGGETTO DELLA SPERANZA CRISTIANA


Il Simbolo Apostolico apertamente insegna che Gesù Cristo «verrà a giudi-
care i vivi e i morti»1. E il Simbolo di Nicea-Costantinopoli dice praticamente
la stessa cosa: «di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo
regno non avrà fine»2. La Costituzione del Concilio Vaticano II, Dei Verbum,
sulla rivelazione, parla anche della «gloriosa manifestazione del Signore nostro
Gesù Cristo»3. E Paolo VI, nel Credo del Popolo di Dio scrive: «è salito al cielo e
di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti»4. Infine, nel Catechi-
smo della Chiesa Cattolica leggiamo: «La resurrezione di tutti i morti… prece-
derà il Giudizio finale… Allora Cristo “verrà nella sua gloria, con tutti i suoi
angeli…”»5. In effetti, secondo la dottrina della fede, Gesù Cristo, il Figlio di
Dio incarnato, che visse e morì tra di noi duemila anni fa, e dopo la sua resur-
rezione salì al cielo per poter inviare lo Spirito Santo, verrà di nuovo alla terra
nella sua gloria risorta, dopo un periodo che soltanto Dio conosce, per poter
giudicare definitivamente l’umanità intera. Dall’ottica della fede si tratta della
fine della storia umana. Questo evento è chiamato normalmente Parousia, cioè
“manifestazione” finale di Cristo. Tornerà il Cristo per giudicare non soltan-
to coloro che sono morti prima della sua venuta, ma anche coloro che in quel
momento ancora vivono. È questo ciò che la Chiesa insegna.
Ugualmente la Chiesa professa che la venuta di Cristo per giudicare l’uma-
nità seguirà direttamente dalla resurrezione di tutti i morti, che a sua volta
porta con sé la distruzione e il rinnovamento del cosmo così come lo cono-
sciamo adesso. Come vedremo più avanti, questi quattro elementi – la venuta
o Parousia di Cristo, la resurrezione dei morti, la distruzione e rinnovamento
del cosmo, e il giudizio finale – sono fortemente legati tra di loro. In effetti, alla
fine dei tempi il potere del Signore risorto verrà definitivamente comunicato
all’umanità e a tutta la creazione, e l’effetto sarà la resurrezione di tutti, vivi e
morti, giusti e ingiusti, in un contesto pienamente cosmico, e di conseguenza, il
loro giudizio pubblico.
Consideriamo questi elementi uno per uno nei prossimi capitoli.

1
DS 30.
2
DS 150.
3
Concilio Vaticano II, Const. Dei verbum, n. 4.
4
Paolo VI, Credo del Popolo di Dio (1968), n. 12.
5
CCC 1038.

63
Capitolo II

PAROUSIA: LA VENUTA FUTURA


DEL SIGNORE GESÙ NELLA GLORIA

Il ritorno di Cristo non sarà né un tremendo atto di potere,


né la consolazione per una lunga, prolungata frustrazione,
ma il compimento di un dono promesso da principio
e già segretamente presente
Bernard Sesboüé1

L’universo finirà in un sussurro


T.S. Eliot

La venuta futura di Gesù Cristo nella gloria è comunemente chiamata


Parousia2. Il termine Parousia, derivato dal verbo greco pareimi, “esser presen-
te”, si trova in molti libri del Nuovo Testamento che fanno riferimento diretto
alla futura venuta di Cristo alla fine dei tempi3. Nella letteratura greca e roma-
na questo termine è spesso utilizzato in riferimento all’entrata solenne in una
provincia o in una città di un re o di un imperatore, come conquistatore che
proclama la propria vittoria, o come figura quasi-divina, salvatrice, che dà inizio
ad una nuova epoca4. Il termine epiphaneia, usato per esempio nel vangelo di
Matteo per designare la presentazione di Gesù Bambino ai Magi (2,1-12), ha

1
B. Sesboüé, Le retour du Christ dans l’économie de la foi chrétienne, in Le retour du Christ, a cura
di C. Perrot, Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1983, 121-66, qui 149.
2
Sulla dottrina neotestamentaria della Parousia, si vedano gli studi di A. Feuillet, Le sens du mot
Parousie dans l’évangile de Matthieu. Comparaison entre Matth. xxiv et Jac. v, i-xi, in Background
of the New Testament and its Eschatology, a cura di D. Daube e W. D. Davies, University Press,
Cambridge 1956, 261-80; Parousie, in Dictionnaire de la Bible, Supplément 6 (1960) 1331-1419; A.
Oepke, παρουσία, in TWNT 5, 856-69; BDAG, 780s., s.v. παρουσία.
3
Si vedano Mt 24,3.27.37.39; At 7,52; 13,24; 1 Cor 15,23; 1 Ts 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; 2 Ts 2,1.8.9;
Gc 5,7-8; 2 Pt 1,16; 3,4-12. Paolo usa il termine anche parlando della venuta di Tito (2 Cor 7,6s.)
e della sua propria (Fil 1,26).
4
Si veda A. Oepke, παρουσία, 858.

65
Capitolo II

un significato simile5. Il termine greco apokalypsis, tradotto di consueto come


“rivelazione”, è pure simile6, oltre ad essere il titolo dato all’ultimo libro del
Nuovo Testamento. Tuttavia, Parousia, così come viene utilizzato nella Scrittu-
ra e nella teologia cristiana, evoca qualcosa di più definitivo, pubblico, univer-
sale, vittorioso e incontrovertibile di quanto facciano gli altri termini citati.
Secondo alcuni autori, tradurre Parousia come “ritorno di Cristo” non è del
tutto corretto7, nel senso che il Cristo risorto non ha, parlando in senso stretto,
“abbandonato” il mondo da lui redento, con l’idea di “ritornarvi” in un secondo
momento, ma Egli rimane pienamente presente, sebbene in parte nascosto, nel
suo Corpo, la Chiesa. Con il termine Parousia, o “seconda venuta”, tuttavia, la
presenza e l’azione di Cristo non sarà più discreta, nascosta, paziente e silente,
come è accaduto nella sua prima venuta, quando il Verbo si è incarnato e ha
vissuto tra gli uomini, e come accade, per certi versi, nella sua presenza attuale
in e attraverso la Chiesa. Quando Cristo verrà nella gloria, alla fine dei tempi, la
sua presenza diventerà decisiva, pubblica e definitiva per l’intera umanità.
Prima di cercare di capire che cosa implichi la venuta gloriosa, definitiva
di Gesù Cristo alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti, si può notare che
questa affermazione centrale per la fede e la speranza cristiane è stata apertamente
messa in discussione, specialmente negli ultimi secoli. Questo malgrado il ruolo
centrale che giochi nella teologia, nella liturgia, nell’etica e nella spiritualità.

1. La Parousia avrà mai luogo?


La speranza nella Parousia come un evento certo benché futuro è stata
contestata in tempi recenti in quattro aree di pensiero: quella antropologica,
filosofica, scientifica ed esegetica. Esaminiamole una per volta.

1. Il problema antropologico: timore della Parousia


Per molti secoli i cristiani hanno associato il ritorno del Signore Gesù alla
fine dei tempi al timore, piuttosto che alla gioia, all’angoscia piuttosto che alla
speranza. E comprensibilmente. Per molti credenti l’idea di resurrezione del

5
Si veda BDAG, 385s., s.v. ἐπιφάνεια.
6
Si veda BDAG, 112, s.v. ἀποκάλυψις.
7
Così W. Kasper, La speranza nella venuta finale di Gesù Cristo nella gloria, «Communio (ed.
italiana)» 79 (1985) 32-48, qui 39. Il fatto è che nel Nuovo Testamento non si parla del ritorno di
Cristo, ma piuttosto della “venuta” o di “Colui che viene”: I. Biffi, Linee di escatologia, 25. Così, in
Mc 11,9: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».

66
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

corpo8 convince poco, per altri, sembra trattarsi del ritorno alla prigione del
corpo9. Anzi, può venir considerata come l’opposto stesso della salvezza, almeno
per chi possiede una mentalità platonica. La distruzione e il rinnovamento del
cosmo, accompagnate da segni spettacolari di tumulto, caos e devastazione del
nostro habitat naturale, non è molto rassicurante. E, peggiore di tutti, forse, è la
Parousia stessa, il ritorno di Cristo, non come Salvatore, ma come Giudice, Signo-
re del cielo e della terra, per soppesare tutte le azioni degli uomini, e pronun-
ciare una sentenza definitiva sulla vita dei singoli individui e dell’umanità inte-
ra. Veramente è difficile immaginare che la Parousia possa essere un oggetto,
e meno ancora l’oggetto primario, della speranza cristiana. Tradizionalmente i
cristiani hanno descritto il ritorno del Signore Gesù con una varietà di espressio-
ni differenti, che non suscitano né entusiasmo né affetto: la “seconda venuta”, “la
fine del mondo”, “la fine della storia”, “il giorno del giudizio”, ecc. Dies irae, dies
illae, canta l’inno Medioevale, parafrasando il libro del profeta Sofonia (1,14-18),
«un giorno d’ira, quel giorno»; dies magna et amara valde, «un giorno di meravi-
glia e spettacolo, amaro fino al fondo»10.
Perciò non sorprende molto che i cristiani, attraverso la storia, abbiano
guardato al ritorno del Signore Gesù giudice dell’umanità con una certa dose
di timore e trepidazione. Le rappresentazioni artistiche del giudizio finale, con
un glorioso, e spesso severo, Cristo al centro della scena, circondato da angeli e
santi, che dispensa giustizia ai giusti e ai peccatori, sono ben note11. Il fatto che
alcuni individui abbiano perpetrato, in differenti momenti della storia dell’u-
manità, molteplici crimini indicibili, spesso non vendicati, difficilmente può
servire come consolazione per il resto dell’umanità. Nel XVI secolo Lutero (†
1546) registra la sua personale esperienza di timore ed angoscia al solo sentir
nominare “Gesù”12. Jean Delumeau, nei suoi influenti studi La paura in Occi-

8
Per una panoramica religiosa e sociologica della fede nella resurrezione nel Medioevo, si veda C.
W. Bynum, The Resurrection of the Body in Western Christianity, 200-1336, Columbia University
Press, New York 1995.
9
Si tratta della critica neo-platonica diretta contro la fede nella resurrezione finale, tratta dal
gioco di parole di Platone tra sōma (corpo) e sēma (tomba) in Cratilo 400bc. «Per l’anima il corpo
è una prigione ed una tomba», dice Plotino: Enneadi IV, 8,3.
10
Sull’inno Dies irae, si veda B. Capelle, Le “Dies irae”, chant d’espérance?, «Questions liturgiques
et paroissiales» 18 (1937) 217-24; F. Rädle, Dies irae, in Im Angesicht des Todes. Ein interdiszi-
plinäres Kompendium, a cura di H. Becker et al., vol. 1, EOS, St. Ottilien 1987, 331ss.; P. Stefani,
Dies irae. Immagini della fine, Il Mulino, Bologna 2001.
11
Si veda A. M. Cocagnac, Le jugement dernier dans l’art, Cerf, Paris 1955.
12
Lutero racconta il suo senso di terrore alla semplice pronuncia del nome di Gesù, particolarmente
il suo senso di vertigine di fronte alle prime parole del Canone Romano durante la sua prima

67
Capitolo II

dente e Il peccato e la paura13 che ripercorrono un periodo che va dal XIV secolo
al XVI, documenta il fenomeno del timore, del timore teologicamente fonda-
to, anche tra i cristiani, spesso in relazione con la fine dei tempi. Nello svilup-
po di devastanti fattori sociali come la peste, Delumeau rintraccia l’influenza
della dottrina del giudizio finale nell’insorgenza di una attitudine generalizzata
di timore nella società occidentale durante il tardo Medioevo e fino ai tempi
moderni. Anche se non fosse del tutto valida questa analisi, non sorprende
che l’aspetto collettivo della speranza cristiana (centrato sulla Parousia) abbia
ricevuto sempre meno attenzione negli studi sistematici di escatologia, laddove
gli aspetti individuali (salvezza personale) sono venuti ad occupare un posto
centrale14. Nella sfera dell’antropologia teologica e della spiritualità la trascu-
ratezza per l’escatologia della fine del mondo è andata di pari passo con l’enfasi
sull’unione interiore, intimistica, dell’individuo con Dio attraverso la grazia, e
sulla lotta ascetica individuale, non compresa nel contesto della vita della grazia
e dell’appartenenza alla Chiesa, all’impegno apostolico.
In breve, la paura della fine del mondo ha contribuito ad una certa diminu-
zione di consapevolezza tra i cristiani dell’importanza teologica decisiva della
Parousia. Dal punto di vista della fede, ovviamente, la paura non è un parame-
tro affidabile; infatti «chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18). Tuttavia,
altri importanti fattori, forse in reazione a tale timore, hanno contribuito da
parte loro a mettere in discussione la Parousia.

2. Le implicazioni filosofiche della Parousia


Di particolare interesse è il contributo fornito da Hegel († 1831) per la nostra
comprensione della Parousia e della fine dei tempi. Nella sua Filosofia della Storia
Hegel considera il corso del tempo come una specie di teodicea, cioè il mani-
festarsi storico del confronto tra un Dio buono e onnipotente e la presenza del
male, in un mondo che Egli ha creato e governa15. Lo Spirito vincerà gradualmen-

Messa: «Te igitur clementissime Pater, per Iesum Christum Filium tuum Dominum nostrum…».
Si veda la sua opera In Gen. 25,21: WA 43,382.
13
Si veda J. Delumeau, La peur en Occident, XIVe-XVIIIe siècles. Une cité assiégée, Fayard, Paris
1978, in particolare il capitolo 6; Le péché et le peur. La culpabilisation en Occident, XIIIe-XVIIIe
s., Fayard, Paris 1983. Si veda anche C. Carozzi e H. Taviani-Carozzi, La fin des temps. Terreurs et
prophéties au Moyen Age, Stock, Paris 1982.
14
Di questo si occupano molti manuali classici di escatologia. Pars pro toto, si veda L. Billot,
Quaestiones de Novissimis, Pont. Univ. Gregoriana, Roma 19387, che segue il seguente ordine di
capitoli: morte, giudizio personale, inferno, purgatorio, paradiso, resurrezione, giudizio finale.
15
Sulla relazione tra Hegel e l’escatologia cristiana, si veda P. Cornehl, Die Zukunft der Versöhnung.

68
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

te e definitivamente la negatività e la riluttanza presente nel mondo, dice Hegel,


causando così, col tempo, una completa riconciliazione (Versöhnung) della realtà.
Ciò implica principalmente la riconciliazione dello spirito finito (l’uomo) con lo
Spirito Assoluto (Dio) attraverso la rinuncia, da parte del primo, dell’autonomia
e della distinzione dalla Divinità, la totale incorporazione del finito nell’eterno,
l’unione della natura umana con la natura divina. In modo eccezionale e para-
digmatico questa sintesi è già stata raggiunta, ci dice Hegel, nell’Incarnazione,
morte e resurrezione del Verbo di Dio in Cristo Gesù.
Tuttavia, secondo Hegel, siccome la morte (e, ultimamente, l’eliminazione)
dell’individuale è una parte necessaria del processo della “venuta-in-sé dello
Spirito Assoluto”, non è necessario alcun futuro compimento alla fine dei tempi
al di là di questo mondo, che richiederebbe la resurrezione dei morti e il giudi-
zio finale al di sopra e al di là del mondo come lo conosciamo adesso. Il proces-
so di definitiva “riconciliazione” avrà luogo, piuttosto, entro il mondo come è.
Con parole di Wolfhart Pannenberg che riassume la posizione di Hegel, «Nella
religione cristiana il presente dell’éschaton esige soltanto di essere realizzato nel
mondo… [Esso] si sarebbe poi dovuto realizzare su scala mondiale all’insegna
della libertà cristiana proclamata dalla Riforma»16. In altre parole, la teodicea
di Hegel – la riconciliazione dell’azione divina con la presenza della finitezza e
del male nel mondo – ha luogo entro il mondo così com’è, e raggiungerà il suo
compimento senza andare al di là dell’attuale cornice del mondo. Non è neces-
sario quindi aggiungere alcuna Parousia avente la sua origine in Dio.

Una valutazione della visione hegeliana.  Nel difendere questa posizione Hegel
ha la preoccupazione di correggere un certo approccio individualistico alla
salvezza escatologica cristiana, cui abbiamo fatto riferimento sopra. Egli inten-
de recuperare la dimensione storica, collettiva, corporea, pubblica, globale,
terrena, dell’azione riconciliatrice di Dio in Cristo nel mondo.
Il prezzo pagato da Hegel, tuttavia, è alto, perché in un’escatologia così
“mondana” l’attualizzazione o riconciliazione della collettività (o dell’umanità
intera) può esser raggiunta solo a prezzo di quella individuale. Tale principio
emerge in particolar modo nel pensiero marxista, in cui il fondamentale princi-
pio escatologico cristiano della salvezza trascendente dopo la morte è eliminato

Eschatologie und Emanzipation in der Aufklärung, bei Hegel und in der Hegelschen Schule,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971; I. Escribano-Alberca, Eschatologie, 122-9; D. Hattrup,
Eschatologie, 124-38; W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 663s.
16
Ibid., 663.

69
Capitolo II

in modo definitivo. Al contrario, come sottolinea Rudolf Otto († 1937), è essen-


ziale alla letteratura apocalittica che «la beatitudine e la giustificazione, l’essere-
giustificate, siano semplicemente impossibili nello stato di cose mondano, ma
solo entro un modo d’essere totalmente differente che Dio darà; d’altro canto,
non possono esser presenti in “questa età”, ma solo “nell’età nuova”; non posso-
no accadere in “questo mondo”, ma solo “in cielo” e “nel regno dei cieli”»17. La
visione di Hegel, tuttavia, mentre segnava sempre di più la teologia cristiana, ha
messo in seria difficoltà l’enfasi “sull’ultra-mondano” dei testi apocalittici.

“La filosofia del processo” e negazione della Parousia.  Lo sviluppo filosofico e


teologico del ventesimo secolo, prendendo spunto dagli scritti di Hegel, ha reso
la Parousia irrilevante anche in un altro senso18. Autori come Alfred Whitehead
(† 1947) e John Cobb ritengono che il mondo, del cui accrescimento interno Dio
è il primo protagonista, continuerà a svilupparsi per sempre, essendo il mondo
eterno tanto quanto Dio. Perciò, dal momento che la Divinità non raggiungerà
il suo apice o il suo fine, ma continuerà a svilupparsi indefinitamente, non ci
sarà alcuna fine del mondo comune o collettiva; infatti «l’azione creativa di Dio
non giungerà mai a termine»19. Secondo Whitehead, il futuro è indeterminato,
«perché non ci sarà mai fine ai nuovi eventi che accadono, nessun significato
definitivo dell’evento»20.
Appare chiaro tuttavia come questa posizione, che seriamente sottovaluta
la trascendenza del Creatore nei confronti della creatura, giunga ad eliminare
la storia in senso globale, perché elimina la fine della storia, quanto insieme a
qualsiasi tipo di finalità significativa. Qualcosa del genere si trova anche sul
fronte scientifico.

17
R. Otto, The Kingdom of God and the Son of Man, The Lutterworth Press, London 1938, 32.
18
Si veda in modo particolare: A. N. Whitehead, Process and Reality, Harper, New York 1960,
ed anche J. B. Cobb e D. R. Griffin, Process Theology. An Introductory Exposition, Westminster,
Philadelphia; Westminster (USA) 1976. Per una critica di questa posizione, si veda R. C. Neville,
Creativity and God, Seabury Press, New York 1980, 3-20; W. Temple, Nature, Man and God,
Macmillan, London 1949, 257ss.; L. Gilkey, Maker of Heaven and Earth. The Christian Doctrine of
Creation in the Light of Modern Knowledge, University Press of America, Lanham 19852, 48ss.; W.
Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 25-28.
19
D. D. Williams, Response to Pannenberg, in E. W. Cousins (a cura di), Hope and the Future of
Man, Fortress, Philadelphia 1972, 86s.
20
J. B. Cobb, Pannenberg and Process Theology, in C. E. Braaten and P. Clayton (a cura di), The
Theology of Wolfhart Pannenberg, Augsburg, Minneapolis 1988, 54-74, qui 60.

70
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

3. La Parousia e la cosmologia scientifica


Tradizionalmente, sia la teologia cattolica che protestante, sulla base di
testi ben noti del Nuovo Testamento come la seconda lettera di Pietro (3,10-13)
e il libro dell’Apocalisse (21,1), danno per scontato che la Parousia implichi la
distruzione totale e definitiva dell’intero universo attraverso il fuoco, e il suo
successivo rinnovamento tramite la potenza di Dio21.
Con lo sviluppo degli studi astronomici e fisici, alcuni teologi sono giunti
a limitare tale scenario al nostro sistema solare, e addirittura a ridurla al piane-
ta Terra22. Sembra che abbia poco senso affermare che l’intera creazione, gli
incommensurabili confini di tempo e spazio, debbano essere delimitati dalla
dinamica della fede cristiana, o possano in qualche modo dipendere da eventi
“spirituali” che si verificano in un pianeta apparentemente insignificante, e da lì
si estendano al resto dell’universo. Tali promesse si limiterebbero al massimo – si
è detto – alla resurrezione finale degli uomini. Infatti, la convinzione popolare
tra i credenti, secondo cui le diffuse convulsioni cosmiche naturali porteranno
alla fine del mondo23, è giunta gradatamente ad esser considerata come ingenua
ed anche fondamentalista. Affermazioni precipitose da parte di alcuni cristiani
circa l’imminenza della fine dei tempi sono servite solo a rafforzare tale convin-
zione24. Seguaci dello studioso biblico Albrecht Ritschl († ca. 1860) sono giunti
ad affermare che quel che la Bibbia dice circa la fine del mondo trova il suo vero
significato non in una serie di catastrofi cosmiche che colpiranno l’intera umani-
tà e il resto dell’universo, ma semplicemente nella morte degli individui25. È
pressappoco come dire che il “mondo” finisce con la morte di ogni persona, non
quando l’universo viene distrutto dal fuoco e riedificato dalla potenza di Dio.
Come risultato, gli sviluppi nel campo della fisica non solo hanno portato
i pensatori cristiani ad avere una certa cautela nel collegare la Parousia cristiana
con possibili mutazioni nell’universo fisico, ma anche a dubitare del fatto che
gli eventi della fine dei tempi possano in qualsiasi modo collegarsi al tempo
cronologico, alla materia fisica e alla sua possibile “eternalizzazione”. Materia e

21
Si veda la bibliografia nella nota 2 sopra.
22
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 615ss.
23
Ne parleremo più avanti, nelle pp. 289s.
24
Il XX secolo è stato segnato da una considerevole crescita di interesse nella possibilità della fine
del mondo: si veda per esempio T. Daniels, Millennialism: an International Bibliography, Garland,
London; New York 1992; R. A. Landes (a cura di), Encyclopedia of Millennialism and Millennial
movements, Routledge, New York; London 2000.
25
Si vedano, per esempio, le opere di H. H. Wendt, W. Hermann e E. Hirsch.

71
Capitolo II

cosmo, si è detto, hanno le loro proprie leggi, distinte da quelle dell’anima e dello
spirito, mentre l’opera salvifica di Cristo andrebbe collegata principalmente alla
sfera spirituale. In termini approssimativi, si potrebbe dire che tale approccio è
in accordo con l’idea che Cristo è il Salvatore degli uomini ma non il Creatore
dell’universo, il Verbo attraverso cui tutte le cose sono state fatte (Gv 1,3).

Recenti sviluppi scientifici.  Sul fronte scientifico, tuttavia, le cose sono cambiate
abbastanza negli ultimi decenni, dal momento che le teorie newtoniane e mecca-
nicistiche sull’universo fisico – indifferenti allo spirito – sono state gradualmen-
te modificate e alla fine rigettate26. I fisici si sono convinti che l’universo non
può più esser considerato come uno spazio fisso e indefinitamente esteso, ma
piuttosto come un processo di espansione e persino di crescita. In questo senso,
il futuro compimento o la fine dell’intero cosmo non può esser escluso a priori
su base scientifica, se viene spiegato in termini di principio di entropia, o come
la scomparsa della materia nei buchi neri27.
È interessante notare, inoltre, che le idee apocalittiche incentrate su una
totale distruzione e un rinnovamento del nostro ambiente terreno sono diven-
tate di nuovo popolari, e forse anche eccessivamente, non solo sulla base delle
riflessioni bibliche, ma spesso con il sostegno apparente delle scoperte scientifi-
che28. Per una curiosa stranezza del destino, nello stesso tempo in cui la meta-
fisica hegeliana ha iniziato ad esser screditata e il pensiero scientifico è diventa-
to sempre meno precluso alla possibilità di un significativo compimento finale
dell’intero universo, interpretazioni non-cosmiche ed anti-cosmiche della Scrit-
tura sono diventate sempre più comuni tra i teologi e gli esegeti biblici, i quali,
comprensibilmente, guardavano con sistematico sospetto e disdegno alle visioni
apocalittiche popolari.
In ogni caso, come esito degli sviluppi scientifici e filosofici, di cui abbiamo
già fatto menzione, due idee sono giunte a prevalere nel pensiero escatologico
nella prima metà del ventesimo secolo, in particolare tra gli autori protestanti:
primo, che i testi escatologici del Nuovo Testamento fanno riferimento princi-
palmente alla definitività del momento presente e non ad un futuro cronologica-

26
Si veda G. F. R. Ellis (a cura di), The Far-Future Universe. Eschatology from a Cosmic Perspective,
Templeton Foundation Press, Philadelphia; London 2002.
27
Si veda il mio studio Resurrezione, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, vol. 2, 1218-
31.
28
Si veda l’opera suggestiva di F. J. Tipler, The Physics of Immortality. God, Cosmology and the
Resurrection of the Dead, Doubleday, New York 1994. Anche J. C. Polkinghorne, The God of Hope
and the End of the World, SPCK, London 2002.

72
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

mente situato; e che l’eschaton cristiano non riguarda né la materia né il cosmo,


ma piuttosto l’interiorità umana, lo spirito e l’umanità nel suo insieme29.

4. Il Nuovo Testamento insegna la venuta finale di Cristo nella gloria?


La dottrina della venuta finale di Gesù Cristo nella gloria, la Parousia, è
stata messa in dubbio in ripetute occasioni lungo il XX secolo, partendo da basi
strettamente bibliche. Due posizioni meritano una menzione particolare: la
cosiddetta “escatologia conseguente” di Weiss, Schweitzer ed altri, da una parte,
e la “escatologia realizzata” di Dodd, al fianco della “escatologia sopra-tempora-
le” di Bultmann, dall’altra. Consideriamole brevemente.

La scuola della “escatologia conseguente”.  La teoria della “escatologia conseguen-


te” è stata esposta per la prima volta nelle opere di Johannes Weiss, in particolare
nel suo studio del 1892 La proclamazione di Gesù del Regno di Dio30, successiva-
mente da Albert Schweitzer, nella sua opera del 1906, La ricerca del Gesù stori-
co31, e più avanti da Martin Werner nel suo La formazione del dogma cristiano,
pubblicato nel 194132. Molti altri teologi protestanti ed alcuni cattolici33 hanno
sviluppato le loro riflessioni sulla base di tale teoria, con l’intenzione, come disse
una volta Schweitzer, di «preservare l’intensità immaginativa dell’apocalisse
senza il suo illusorio fanatismo»34.
Secondo Weiss e Schweitzer, la chiave per comprendere la predicazione di
Gesù Cristo si trova nella dottrina del regno di Dio escatologico, che va compre-
sa in termini di netto distacco e opposizione tra due differenti epoche: la vecchia

29
La posizione classica è di J. Wellhausen (XIX secolo), che ha fornito una prospettiva prettamente
psicologica ai testi apocalittici, considerandoli originali creazioni letterarie che davano un nuovo
significato alla situazione presente; si veda CAA 122.
30
Si veda J. Weiss, Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes (orig. 1892), Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 19002. Traduzione italiana: J. Weiss, La predicazione di Gesù sul Regno di Dio, M.
D’Auria, Napoli 1993. Per studi precedenti di Weiss, si veda CAA 23s., nota 12.
31
Si veda A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, J. C. B. Mohr, Tübingen 19849.
L’opera fu pubblicata la prima volta nel 1906 e fu intitolata Von Reimarus zu Wrede. Eine
Geschichte der Leben-Jesu-Forschung. Traduzione italiana: Storia della ricerca sulla vita di Gesù,
Paideia, Brescia 1986. Su quest’opera di Schweitzer, si veda CAA 24, nota 13.
32
Si veda M. Werner, Die Entstehung des christlichen Dogmas, P. Haupt, Bern 1941; Der
protestantische Weg des Glaubens, P. Haupt, Bern 1955, vol. 1.
33
Tra gli autori protestanti, si vedano in particolare le opere di E. Grässer, F. Buri, G. Bornkamm,
W. Marxsen, E. Käsemann, W. Schmithals, E. P. Sanders, D. C. Allison, dettagliate in CAA 24s.,
note 16-24. Tra i cattolici, il primo a difendere questa posizione fu Alfred Loisy. Si vedano anche le
posizioni di E. Castellucci, J. P. Meier, R. H. Hiers, C. Sullivan, dettagliate in CAA 25, note 25-27.
34
Cit. in W. D. Davies, From Schweitzer to Scholem: Reflections on the Sabbatai Svi, «Journal of
Biblical Literature» 95 (1976) 529-58, qui 558.

73
Capitolo II

e la nuova, la terrestre e la celeste, la naturale e la soprannaturale, la demoniaca


e la divina, la temporale e la celeste35. Tale distacco va ricercato nella cosiddetta
letteratura apocalittica36. Le due età, o i due mondi, secondo questi testi, sono
semplicemente opposti e incompatibili l’uno all’altro. La predicazione di Gesù
riguardante le tribolazioni, le sofferenze, la venuta del Figlio dell’uomo, il giudi-
zio finale e la resurrezione, la nuova creazione e tutto il resto, sostengono questi
autori, fa tutta riferimento alla venuta dell’epoca finale. Dal momento che la
venuta del regno è considerata da Gesù un evento da collocarsi totalmente nel
futuro, essi sostengono che il messaggio del Nuovo Testamento è totalmente, o
“in tutta la sua consistenza”, escatologico (da qui il termine escatologia “conse-
guente”, o, in tedesco, Konsequent Eschatologie).
Secondo questi autori, Gesù, oltre a considerare la venuta del regno come
un evento futuro, vi fa anche riferimento come ad un evento imminente. Sia
Matteo (4,17) che Marco (1,15) parlano infatti della “prossimità” o della “presen-
za” del regno, utilizzando il termine greco engiken, che può avere significato sia
spaziale che temporale, come il termine italiano “vicino”37. I fautori dell’escato-
logia “conseguente” sostengono che questi testi indicano che il regno è cronolo-
gicamente vicino, cioè che apparirà da un momento all’altro. Questa aspettativa
imminente, insistono, fornisce la chiave per comprendere lo scopo, la missione
e il ministero pubblico di Gesù: Egli tenta urgentemente di preparare i discepoli
e il popolo all’imminente irruzione del regno, con la conversione radicale e la
penitenza «prima che il Figlio dell’uomo venga» (Mt 10,23).
A questo scopo Gesù manda i suoi discepoli a predicare nelle città e nei
villaggi, dicendo che «il regno dei cieli è vicino [greco, engiken]» (Mt 10,7). In toni
più cupi, egli avverte che coloro che non si convertiranno saranno giudicati più
severamente degli abitanti di Sodoma e Gomorra (Mt 10,15), che sono stati puniti
duramente nel loro giorno (Gn 19,24s.). I precetti etici che Gesù assegna ai suoi
discepoli (contenuti principalmente nel Discorso della Montagna) sono partico-
larmente esigenti, affermano questi autori, e sarebbe impossibile la loro pratica
se non nella situazione d’emergenza rispetto alla fine dei tempi in cui vivevano i
discepoli. L’etica di Gesù, in altri termini, era strettamente di tipo interim38.

35
Si veda M. Werner, Der protestantische Weg des Glaubens, vol. 1, 106ss. Si veda la sintesi di J. L.
Ruiz de la Peña, La otra dimensión, EAPSA, Madrid 1975, 107-11.
36
Si veda CAA 63-136.
37
Si veda BDAG, 270, s.v. ἐγγίζω.
38
Per l’uso del termine “etica del interim”, si veda T. Söding, Interimsethik, in LThK 5,559s.; E.
Grässer, Zum Stichwort ‘Interimsethik’, in Neues Testament und Ethik. Für Rudolf Schnackenburg,
a cura di H. Merklein, Herder, Freiburg; Basel; Wein 1989, 16-30.

74
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

Tuttavia, secondo questi autori, fu a questo punto che sorse una grande
crisi nella vita di Gesù. I discepoli tornarono dalla loro missione (Lc 10,17-20)
chiaramente consapevoli che il regno atteso non era di fatto arrivato, sebbene
Gesù ne avesse annunciato la venuta. Così, Gesù non avrebbe più considerato se
stesso come profeta destinato ad inaugurare il regno dei cieli, ma come il Messia
promesso destinato a diventare “il Figlio dell’uomo”, colui che, secondo il libro di
Daniele, doveva inaugurare il definitivo regno di Dio. Questa convinzione non
sarebbe stata verificata fino alla sua resurrezione. Il segreto messianico di Gesù,
comunque, fu rivelato dall’apostolo Giuda, e Gesù fu arrestato e posto a giudi-
zio a causa del suo falso affermare di essere il Messia. Prima di morire, Gesù
dice in effetti che Lui era il Messia, e conferma che la sua reale identità sarebbe
stata rivelata nella resurrezione (Mt 26,24). Questa avrebbe ratificato il suo ruolo
messianico e inaugurato l’avvento definitivo del regno di Dio.
Dopo la morte di Gesù i discepoli effettivamente incontrarono il Signore
risorto, ci dicono i fautori dell’escatologia “conseguente”. Dovettero però impa-
rare a superare una nuova crisi generata dal fatto che la resurrezione di Gesù
non fosse del tipo ultimo e definitivo che loro si erano aspettati; infatti il “Figlio
dell’uomo” non tornò in maestà e potenza, circondato dai suoi angeli, per sepa-
rare i giusti dagli ingiusti come il grano si separa dalla pula. Gli apostoli scopri-
rono che, invece di sedersi sui troni per giudicare le dodici tribù di Israele, il loro
compito era quello di continuare a preparare la Parousia definitiva, attraverso un
ampio ministero di predicazione, battesimo, e diffusione della fede nel Signore
Gesù fino al suo ritorno nella gloria (Mt 28,16-20; At 1,11). In preparazione di ciò,
viene amministrato il sacramento del Battesimo, che conferisce un anticipo dei
beni del regno (il perdono dei peccati e il dono dello Spirito). Tuttavia, col passare
del tempo, quando la possibilità della venuta finale del Figlio dell’uomo divenne
sempre più remota, i cristiani aggiustarono il messaggio originale di Gesù, secon-
do le necessità delle comunità di fede. Tale processo di adattamento, sostengono
Weiss, Schweitzer e Werner, è continuato inalterato fino al giorno d’oggi.
In breve, tutti gli insegnamenti di Gesù, dei suoi discepoli, di Paolo, erano
stati fondati, verificati e determinati dall’attesa di un imminente e definitiva
irruzione del regno di Dio. Ma dal momento che il regno promesso di fatto non
è arrivato, affermano tali autori, gli insegnamenti di Gesù devono esser consi-
derati, nella migliore delle ipotesi, condizionati e fuorvianti, nella peggiore,
tendenziosi e addirittura falsi39. Gesù stesso sarebbe un profeta ben intenzionato,

39
Werner tenta di rispondere al seguente interrogativo: se l’insegnamento di Gesù è totalmente

75
Capitolo II

sebbene in errore, nonostante abbia saputo inspirare molte persone. Ovviamente


tale posizione mette la sostanza stessa del cristianesimo, la sua etica, la sua spiri-
tualità e il suo messaggio di salvezza in grossa difficoltà. «Quanto più si protrasse
il non-compimento della Parousia di Cristo e gli eventi finali ad essa connessa»,
conclude Werner, «tanto più si indebolì la convinzione che la fine del mondo
dovesse verificarsi nell’età apostolica e che la morte e resurrezione di Gesù avesse,
corrispondentemente, un significato escatologicamente fondante»40.

Difficoltà derivanti dalla dottrina dell’escatologia “conseguente”.  La posizione dei


fautori dell’escatologia “conseguente” è problematica da molti punti di vista, alcu-
ni piuttosto ovvi, primo dei quali il fatto che si dia per scontato che Gesù Cristo
fosse sostanzialmente inconsapevole della sua identità e missione, e malgrado la
sua vita retta e le sue intenzioni ammirevoli, non sia degno di alcun genere di
fiducia o fede41. Se Cristo fosse in errore sugli aspetti centrali della sua missio-
ne e insegnamento, coloro che lo seguono sarebbero letteralmente come «ciechi
guidati da un cieco» (Mt 15,14). Come Tommaso d’Aquino afferma quando parla
della consapevolezza che Cristo aveva della sua persona e della sua missione salvi-
fica, ignorantia per ignorantiam non tollitur, «l’ignoranza non può esser vinta
dall’ignoranza»42: Cristo non potrebbe averci salvato senza conoscerci e senza
comprendere fino in fondo la missione ricevuta dal Padre.
Tuttavia, gli studi di Weiss, Schweitzer, Werner ed altri hanno avuto il meri-
to di mostrare che, almeno secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, la
vita, la spiritualità, l’etica e l’attività missionaria cristiana hanno un carattere
profondamente escatologico. Si sono sviluppate entro la prospettiva di una possi-

illusorio, che cosa significa essere cristiani? Risponde dicendo che il messaggio cristiano può
esser mantenuto dicendo “sì” a Dio, a dispetto però di una storia in cui non si può ritrovare
alcun disegno divino. Si veda M. Werner, Der Gedanke der Heilsgeschichte und die Sinnfrage der
menschlichen Existenz, «Schweizerische Theologische Umschau» 3 (1962) 129ss. Difficilmente la
si può considerare una risposta soddisfacente.
40
M. Werner, Die Entstehung des christlichen Dogmas, 30.
41
O. Cullmann critica apertamente la posizione di Schweitzer. «Con la sua lettura esegetica
estremamente consistente, ma puramente ipotetica degli insegnamenti di Gesù e l’evidente
inconsistenza della sue conclusioni pratiche, l’imponente opera teologica di Schweitzer lascia
dietro di sé interrogativi scottanti e senza risposta, e tuttavia ha determinato il dibattito attuale
al punto tale che è difficile riconoscere le parti oggi in gioco» Salvation in History, SCM, London
1967, 32. Per ulteriori critiche, si veda anche D. Flusser, Salvation Present and Future, in Types
of Redemption, a cura di R. J. Z. Werblowsky e C. J. Bleeker, E. J. Brill, Leiden 1970, 46-61; D. E.
Aune, The Significance of the Delay of the Parousia for Early Christianity, in G. F. Hawthorne (a
cura di), Current Issues in Biblical and Patristic Interpretation (FS M. C. Tenney), W. B. Eerdmans,
Grand Rapids 1975, 87-109.
42
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 15, a. 3, s. c.

76
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

bile irruzione della promessa futura del compimento escatologico nel mondo, e
della conseguente provvisorietà del suo stato attuale. Forse questo è il motivo
per cui l’esegeta luterano Ernst Käsemann († 1998) suggerisce che l’apocalittica,
cuore dell’insegnamento di Gesù, sia la «madre di tutta la teologia cristiana»43.
Tuttavia è ancora da dimostrare che la lettura che tali teologi fanno del Nuovo
Testamento, sebbene in qualche misura convincente, sia sostanzialmente corret-
ta44. Molti autori al giorno d’oggi la considerano quanto meno di parte45.
Andrebbe notato, tuttavia, che laddove Weiss e Schweitzer affermavano
che l’insegnamento di Cristo fosse basato sulla sua convinzione dell’immi-
nente irruzione del regno di Dio, e condizionato da essa, altri esegeti hanno
proposto la posizione diametralmente opposta: la vita stessa di Gesù e il suo
insegnamento portarono con sé il pieno compimento del regno di Dio sulla
terra. Cioè, la salvezza cristiana ha a che fare con il presente, non con il futu-
ro; l’evento finale ha già avuto luogo. Quest’ultima posizione è frequentemente
definita “escatologia realizzata”.

La “escatologia realizzata” di Charles Dodd.  Il più conosciuto esponente della


cosiddetta dottrina della “escatologia realizzata” è l’esegeta congregazionista
Charles H. Dodd († 1973). La sua prima opera sull’argomento, intitolata Le para-
bole del regno, è stata pubblicata nel 193546, e la sua posizione ha avuto un ampio
seguito47. Dodd tenta di contrastare la “scoperta” di Schweitzer di Gesù come falso

43
Si veda E. Käsemann, Die Anfänge christlicher Theologie. Si veda il mio studio La Biblia en la
configuración de la teología, «Scripta Theologica» 36 (2004) 855-75.
44
Si vedano le pp. 87ss.
45
Si veda la critica di O. Cullmann nella nota 41 qui sopra. C. Duquoc sottolinea il fatto che se la
Parousia è una manifestazione della morte e resurrezione di Cristo, la negazione della Parousia
implicherebbe la negazione della Pasqua: Christologie: essai dogmatique, vol. 2: Le Messie, Cerf,
Paris 1972, 281-317. Emil Brunner dice che «una fede in Cristo che non attenda la Parousia è
come una rampa di scale che non porta da nessuna parte» Das Ewige als Zukunft und Gegenwart,
Zwingli, Zürich 1953, 219.
46
Si veda C. H. Dodd, The Parables of the Kingdom, London, 19606, ed anche opere successive come
The Apostolic Preaching and its Developments, London, 19442; History and the Gospel, Nisbet,
London 1938; The Interpretation of the Fourth Gospel (orig. 1950), Cambridge University Press,
London 1965. Si vedano le traduzioni all’italiano: L’interpretazione del quarto Vangelo, Paideia,
Brescia 1974; La predicazione apostolica e il suo sviluppo, Paideia, Brescia 19782; Le parabole del
Regno, Paideia, Brescia 19762. Sulla teoria di Dodd, si veda CAA 31, nota 45.
47
Per altri autori che appoggiano la posizione di Dodd, si veda CAA 31, nota 46. Tra i più
significativi sostenitori di un Gesù “non-escatologico” oggi va incluso J. D. Crossan. Si vedano le
sue opere The Servant Parables of Jesus, in G. W. MacRae (a cura di), Society of Biblical Literature
1973 Seminar Papers, Society of Biblical Literature, Cambridge, Mass. 1973, vol. 2, 94-119; The
Historical Jesus. The Life of a Mediterranean Jewish Peasant, Harper, San Francisco 1991; The Birth

77
Capitolo II

profeta48, una scoperta davvero umiliante per i credenti cristiani, e interpreta la


religione cristiana come una religione che riconosce pienamente e comprende in
sé la realtà storica e temporale, evita con decisione la dottrina dell’eterno ritorno,
e difende un approccio nettamente teleologico alla vita umana.
Da una parte, Dodd afferma che il regno “escatologico” di Dio è già piena-
mente presente tra i credenti nella vita, le parole, i miracoli, e la morte e resurre-
zione di Gesù Cristo49. Queste realtà non costituiscono il preludio alla definiti-
va venuta del regno, ma vanno semplicemente identificate con la sua venuta. In
altre parole, il regno di Dio è già al completo, raggiunto o “realizzato”; non c’è
nulla di sostanzialmente differente da aspettare nel futuro. Questa posizione va
rinvenuta, afferma Dodd, in molti passi del Nuovo Testamento, ma in partico-
lare nel Vangelo di Giovanni, incentrato sulla seguente affermazione di Gesù:
«colui che crede [ora] ha la vita eterna»50.
D’altra parte, i testi della Scrittura che fanno inequivocabilmente riferimen-
to ad un futuro escatologico, sono interpretati da Dodd come motivi apocalittici
inseriti dagli evangelisti per scopi contingenti, oppure strumenti letterari fina-
lizzati ad esprimere la trascendenza del regno nella situazione storica presente.
Comunque, non dovrebbero essere considerati come previsioni letterali di even-
ti futuri. Non è che Dodd neghi completamente che certi eventi “escatologici”
posano aver luogo in futuro, ma egli insiste che, per quel che sono, non avranno
alcuna rilevanza teologica51. Al contrario di Schweitzer, Dodd afferma che Gesù
non si è sbagliato nei suoi insegnamenti; l’errore se c’è sta, piuttosto, nella prima

of Christianity: Discovering What Happened in the Years Immediately after the Execution of Jesus,
Harper, San Francisco 1998. Per una critica, si veda CAA 31s., nota 47.
48
Nella prefazione di una edizione del 1960 di The Parables of the Kingdom, Dodd afferma: «il
mio lavoro ha preso avvio teso alla medesima problematica da cui ha preso le mosse Schweitzer».
49
L’idea va ricercata nella “escatologia inaugurata” di G. Florovsky, e nell’espressione di J. Jeremias
“sich realisierende Eschatologie”, tradotta come “una escatologia in corso di realizzazione”: The
Parables of Jesus, SCM, London 1963, 230. Va notato che si tratta di una critica alla teoria di Dodd.
50
Si veda C. H. Dodd, The Parables of the Kingdom, 82s.; The Apostolic Preaching and its
Developments, 80s.
51
Si veda O. Cullmann, Salvation in History, 204, che scrive: «C. H. Dodd offre una reinterpretazione
dell’escatologia secondo una nuova modalità, particolarmente in una appendice del suo libro, The
Apostolic Preaching and its Development, intitolata “Eschatology and History”. Egli non vede nulla
di essenziale negli eventi futuri, perché, secondo la sua visione, l’aspettativa del regno di Dio è già
pienamente compiuta in Gesù. Qualsiasi cosa debba aver luogo in un evento futuro… è da lui
interpretata filosoficamente. La sua filosofia, tuttavia, non deriva da Heidegger, né da Bultmann,
ma piuttosto dal platonismo. Egli quindi parla di una eternità, per la quale le immagini temporali
del futuro sono semplici simboli, e dell’Assoluto, della realtà senza tempo, del “Totalmente Altro”
che ha fatto irruzione nella storia (Rudolph Otto ha influenzato Dodd su questo)» ibid., 204.

78
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

comunità cristiana, nel fatto che le affermazioni “apocalittiche” di Gesù siano


state reinterpretate in termini temporali52.
Con tutto, la validità di molti aspetti della critica di Dodd a Schweitzer non
basta per giustificare la sua posizione. Risulta eccessivo affermare, come egli fa,
che la prima comunità cristiana abbia “escatologizzato” la dottrina di Gesù sul
regno, e nello spazio di pochi anni, vedendo che l’attesa Parousia di fatto non
era arrivata, abbia continuato a “di-escatologizzarla” di nuovo. D’altra parte,
sebbene Gesù non abbia accettato la visione apocalittica del mondo nella sua
interezza, è difficile affermare che certi elementi apocalittici non siano presenti
ed essenziali al suo stesso insegnamento53.

Il sovra-temporalismo di Bultmann. L’esegeta luterano Rudolf Bultmann (†


1976) ha lasciato un segno duraturo nell’esegesi biblica contemporanea. La sua
posizione ha in comune con quella di Dodd il fatto che egli collega la pienez-
za escatologica inequivocabilmente con il momento presente: il regno di Dio è
già pienamente attivo nei credenti come sempre sarà, è interamente presente e
aperto a loro. Tuttavia si differenzia da Dodd nel non porre attenzione a quan-
do il regno di Dio sia stato stabilito tra di noi. In altre parole, per Bultmann il
passato pesa tanto quanto il futuro; solo il presente conta. I particolari storici
della salvezza (la historia salutis), e particolarmente la vita concreta di Gesù
Cristo, non contengono alcun messaggio teologico preciso. Bultmann ritiene
che il personale incontro con la parola predicata (il kerygma) non mette l’uomo
in contatto con delle realtà storicamente rivelate da condividere con altri poten-
ziali o attuali credenti, ma piuttosto offre la possibilità, in una libera e perso-
nale decisione di fede, di aprire la propria esistenza inautentica ad un’autenti-
ca esistenza umana fondata sull’evento di Cristo (Christusereignis). Gli eventi
storici raccontati dai Vangeli sono teologicamente irrilevanti, egli dice, poiché
non hanno a che vedere con la realtà della fede, più o meno come il “Gesù della
storia” non ha a che vedere con il “Cristo della fede”54. Scrive: «In fondo anche
l’escatologia mitica [quella apocalittica] viene liquidata dal semplice fatto che

52
Si veda C. H. Dodd, The Apostolic Preaching and its Developments, 102.
53
Si veda V. Balabanski, Eschatology in the Making: Mark, Matthew and the Didache, University
Press, Oxford 1997, 9.
54
Di Bultmann, si veda in particolare la Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia
19922; The Christian Hope and the Problem of Demythologizing, «Expository Times» 65 (1954)
228-30; 276-8; Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia 1989; Nuovo Testamento e mitologia. Il
problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario, in Nuovo Testamento e mitologia.
Il manifesto della demitizzazione, Queriniana, Brescia 19906, pp. 103-174. Sull’escatologia di
Bultmann, si veda CAA 39, nota 73.

79
Capitolo II

la parusia del Cristo non ha avuto luogo così prontamente come si attendeva
il Nuovo Testamento. La storia del mondo ha continuato e – come ritiene ogni
persona sensata – continuerà ancora»55.
Secondo Bultmann, la convinzione di Gesù riguardante l’imminenza della
venuta del regno è una espressione della nozione biblica centrale della sovranità
di Dio, nei confronti di cui il mondo è come nulla. In altre parole, la sostanza
della predicazione escatologica di Gesù non fa riferimento ad alcuna possibile
“fine dei tempi” che debba venire, ma piuttosto al fatto che Dio trascende la
storia, mentre pone gli uomini davanti al loro fine ultimo, e li porta a sottomet-
tersi alla maestà divina56. Il fatto che l’aspettativa di Gesù circa la fine dei tempi
non si sia verificata appieno non significa che il contenuto del suo messaggio sia
vuoto o falso. Piuttosto è ora manifesto il suo vero significato: gli uomini sono
chiamati a rispondere urgentemente alla parola di Dio nel momento attuale.
Il regno non viene dal di fuori, per così dire, in un contesto cosmico, con una
mediazione materiale. Piuttosto viene dal di dentro, nel contesto esistenziale di
una radicale decisione di fede.
Bultmann ammette che non solo i Sinottici, ma anche San Paolo parla
chiaramente di una Parousia situata nel futuro. Tuttavia, osserva che, dica quel-
lo che dica nelle sue prime lettere (1 e 2 Ts; 1 Cor), Paolo nelle sue ultime lettere
parla dell’importanza salvifica della decisione della fede nel momento presente
piuttosto che del dramma finale di distruzione, rinnovamento e salvezza. La
storia del mondo, la storia su scala globale, è di poca importanza; ciò che conta è
la libera decisione individuale di fede. Al massimo, Bultmann potrebbe ammet-
tere – in modo individualista – che “l’Ultimo Giorno” è un concetto mitologico,
che deve essere scambiato con il linguaggio del thanatos, o morte dell’indivi-
duo57. Questo suggerimento gli viene probabilmente da Martin Heidegger (†
1976) secondo cui l’uomo è «un essere fatto per la morte»58. «In ogni momento
è sopita la possibilità dell’istante escatologico», scrive. «Devi risvegliarla»59. «Il
significato della storia sta nel presente», dice Bultmann, «e quando il presente

55
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, 110.
56
Si veda ibid., 123ss.
57
Ibid., 177s. Si confronti con le parole di J. Weiss: «Il mondo continuerà ad esistere, ma noi,
come individui, lo lasceremo presto. Tuttavia, potremo almeno approssimarci all’atteggiamento
di Cristo in modo differente, se metteremo alla base della nostra vita il precetto “vivi come se stessi
per morire”» La predicazione di Gesù, 195.
58
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 32-5; R. Jolivet, Le
problème de la mort chez M. Heidegger et J.-P. Sartre, Eds de Fontenelle, Abbaye Saint Wandrille 1950.
59
R. Bultmann, Storia e escatologia, 190.

80
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

viene considerato come il presente escatologico della fede cristiana, il significato


della storia viene realizzato»60.
Per appoggiare la sua posizione, comprensibilmente, Bultmann si serve
principalmente del vangelo di Giovanni, ma anche in parte dei Sinottici, che
parlano apertamente del compimento escatologico nel futuro. Egli afferma
che questi ultimi testi debbano essere interpretati alla luce quelli di Giovanni.
Tuttavia, anche se la sua interpretazione fosse valida, Bultmann deve forzare
non poco le cose per proporre una “redazione ecclesiastica” di molti testi di
Giovanni che pure parlano del compimento futuro61. Come è risaputo, l’opera
di Bultmann, se pure esegetica, dipende in larga misura da una serie di presup-
posti filosofici e teologici che si radicano direttamente dalla tradizione liberale
protestante e dalla filosofia esistenzialista di Martin Heidegger62.
Le posizioni rispettive degli escatologisti “conseguenti” e “realizzati” sono
chiaramente differenti le une dalle altre. Ma coincidono entrambe nella nega-
zione della Parousia come dottrina di fede (e di speranza), come fine oggettivo
del mondo e del tempo. Si tratta tuttavia ancora di vedere se questa sia l’unica
lettura legittima dei testi del Nuovo Testamento.

2. Il realismo della Parousia: la testimonianza della Scrittura


Dal punto di vista strettamente escatologico il difetto principale di entram-
be le scuole di pensiero appena esaminate – l’escatologia conseguente e quella
realizzata – si trova nel loro approccio che si potrebbe chiamare “o tutto o nien-
te”: o il regno di Dio appare interamente – ora o in un prossimo futuro – o non
appare affatto. Nessuna delle due posizioni prevede la possibilità che il regno di
Dio appaia in modo reale sebbene graduale o nascosto. «Il pensiero di Gesù era
escatologico o non-escatologico, ma non entrambe nello stesso tempo», afferma
significativamente Schweitzer63. Mettendola in termini un po’ differenti, Paul

60
Ibid.
61
Per esempio, si veda Gv 5,28ss.; 6,39.40.44.54; 12,48. Si veda R. Schnackenburg, Kirche und
Parusie, in J. B. Metz et al. (a cura di), Gott in Welt: für Karl Rahner, Herder, Freiburg i. B. 1964.
62
Per un’ulteriore critica di Bultmann, si veda il mio studio Fides Christi. The Justification Debate,
Four Courts, Dublin 1997, 155-8.
63
A. Schweitzer, Das Messianitäts- und Leidensgeheimnis. Eine Skizze des Lebens Jesu (orig. 1901),
J. C. B. Mohr, Tübingen 19563, pref., cit. da W. G. Kümmel, L’eschatologie conséquent d’Albert
Schweitzer jugée par ses contemporains, 61. E nella sua opera sulla storia della ricerca paolina,
Schweitzer ha tentato di svincolare Paolo dal giudaismo del suo tempo suggerendo che tra una
apocalisse fantastica e un rabbinismo senz’anima, tertium non dabatur: A. Schweitzer, Geschichte
der paulinischen Forschung, J. C. B. Mohr, Tübingen 1911, 36.

81
Capitolo II

Feine, parafrasando Weiss, dice che Gesù Cristo ha predicato la fine apocalit-
tica del tempo, o ha fondato la Chiesa cristiana, ma non entrambe le cose64. Si
può dire qualcosa del genere anche per Dodd e Bultmann: se il regno di Dio è
ora presente e attivo come sarà sempre, allora non c’è da attendere alcun futu-
ro compimento teologicamente rilevante. Questo approccio è abbastanza tipico
di alcuni studiosi protestanti, sebbene il teologo riformato Oscar Cullmann (†
1999) si sia notoriamente opposto ad esso nell’affermare che l’escatologia cristia-
na è caratterizzata da un approccio “già e non ancora”65.
In ogni caso, può risultare utile esaminare alcuni testi dei vangeli Sinottici
che parlano di una attesa della fine imminente per l’epoca presente, che non
ha ancora avuto luogo. A prima vista essi sembrano dar ragione alle posizio-
ni proposte da Weiss, Schweitzer e Werner, ma vedremo come questi testi, se
presi insieme ad altri dei medesimi vangeli, assumono un significato più ricco e
profondo, che permettono simultantamente una lettura “conseguente” e “realiz-
zata” dei testi biblici. Infine, esamineremo dei testi di Paolo e di Giovanni che,
a dispetto di un certo “presentismo”, parlano inequivocabilmente della venuta
futura del Signore Gesù66.

1. Prevedendo una imminente Parousia


I seguenti tre testi del vangelo di Matteo che predicono una imminen-
te Parousia dovrebbero mostrare sufficientemente l’insegnamento del Nuovo
Testamento. Altri simili si possono ritrovare in Marco e Luca, ed altrove nel
Nuovo Testamento.

Mt 10,23. Parlando delle persecuzioni che attendevano i dodici mandati in


missione, Gesù dice: «Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra;
in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che
venga il Figlio dell’uomo» (Mt 10,23). Alcuni autori67 hanno dato una interpre-
tazione di questo brano secondo la quale il giudizio finale non avrà luogo finché
l’intero Israele non sarà evangelizzato. Tuttavia, questo motivo, presente anche

64
Si veda P. Feine, Die Erneuerung des paulinischen Christentums durch Luther, «Theologisches
Literaturblatt» 24 (1903) 440.
65
Vedi le note 41 e 51 sopra.
66
Si vedano le pp. 90s.
67
Si veda W. D. Davies e D. C. Allison, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel
according to Saint Matthew, T. & T. Clark, Edinburgh 1988-97, vol. 2, 189s.; J. Gnilka, Das
Matthäusevangelium, Herder, Freiburg i. B.; Basel 1988, vol. 1, 378s.

82
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

in Paolo (Rm 11,12.25s), viene attribuito da Matteo non ad Israele, quanto piut-
tosto ai Gentili (24,21). Altri hanno suggerito che il testo si riferisce alla distru-
zione di Gerusalemme e del Tempio, tema chiave nel vangelo di Matteo68. Così
com’è, tuttavia, il testo sembra voler semplicemente affermare che “la venuta del
Figlio dell’uomo” (che gli evangelisti associano invariabilmente e direttamente
al giudizio universale a alla Parousia)69 avrà luogo entro un periodo limitato di
tempo, prima che gli Apostoli diffondano la predicazione della Buona Novella
attraverso le città di Israele70. In altre parole, il compimento finale è imminente.

Mt 16,28.  Si può trovare una dottrina simile in Mt 16. Dopo aver profetizzato
la propria messa a morte e successiva resurrezione, Gesù insiste che i disce-
poli devono essere preparati per seguirlo fino alla fine, prendendo ciascuno la
propria croce, perdendo la propria vita per salvarla (Mt 16,21-26). Conclude
il Signore promettendo la salvezza escatologica tramite il giudizio, «perché il
Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e
allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27). Ma poi aggiunge: «In
verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver
visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno» (Mt 16,28).
Il testo è seguito in tutti e tre i Sinottici dall’episodio della Trasfigurazione di
Gesù71. È perciò comprensibile che Mt 16,28 venga letto in riferimento alla gloriosa
apparizione di Gesù accompagnato da Mosè ed Elia, davanti a Pietro, Giacomo e
Giovanni, sulla cima di un monte, alcuni giorni dopo la profezia72. Contro questo
argomento, tuttavia, si può notare che durante i sei giorni intermedi, difficilmente
si può dire che i tre apostoli, testimoni della Trasfigurazione, abbiano sperimenta-
to le fatiche e le persecuzioni richieste dalla sequela del Signore al punto di dare la

68
Si veda la nota 98 sotto.
69
Si veda Mt 13,41; 16,27; 24,27-44; 25,31.
70
Questa è la posizione di M. Künzi, Das Naherwartungslogion Markus 9,1 par: Geschichte seiner
Auslegung: mit einem Nachwort zur Auslegungsgeschichte von Markus 13,30 par., J. C. B. Mohr
(Paul Siebeck), Tübingen 1977; P. E. Bonnard, L’Évangile selon Saint Matthieu, Delachaux et
Niestlé, Neuchâtel 19702, su Mt 10,23; R. H. Gundry, Matthew. A Commentary on his Literary and
Theological Art, W. B. Eerdmans, Grand Rapids, Mich. 1983, 194-95; D. A. Hagner, Matthew, 2
vols (Word Biblical Commentary, 33), Word Books, Dallas (TX) 1993-95, 279.
71
Il collegamento tra la predicazione della fine dei tempi e la Trasfigurazione è particolarmente
degno di nota in Marco. Si veda G. H. Boobyer, St. Mark and the Transfiguration Story, T. & T.
Clark, Edinburgh 1942; W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 2, 677s.
72
Mt 16,28 è riferito alla Trasfigurazione da Clemente d’Alessandria, Efrem il Siro, Ilario di
Gerusalemme, Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo, Agostino, Cirillo d’Alessandria,
spiegati in CAA 142s., nota 29. Per ulteriori riferimenti, si veda U. Luz, Matthew 8-20. A
Commentary, Fortress, Minneapolis 2001, 387.

83
Capitolo II

propria vita per Lui. Così, molti autori si limitano a riferire il testo alla venuta del
Figlio dell’uomo nella Parousia e nel giudizio finale73. Tuttavia, in questo caso, il
testo ugualmente sembra indicare che la fine del mondo è vicina.

Mt 24,34.  Dopo aver spiegato ai discepoli il significato del fico che mette fuori le
foglie come un segno che la fine dei tempi si sta avvicinando, Gesù aggiunge: «In
verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga»
(Mt 24,34). Un testo simile si trova poco prima del discorso escatologico: «Vi dico
infatti che non mi vedrete più fino a quando non direte: “Benedetto colui che
viene nel nome del Signore!”» (Mt 23,39). L’intero contesto di Mt 23-25 sembre-
rebbe indicare che l’oggetto principale di Mt 23,39 e 24,34 sia la Parousia e il
giudizio finale che deve aver luogo alla “fine del mondo” (Mt 24,3)74. Di nuovo,
Gesù predice che la fine del mondo sta per venire.

2. L’interpretazione dei testi che si riferiscono alla Parousia


Se le tre predizioni appena riportate fanno riferimento inequivocabilmente
alla Parousia, dobbiamo dire che per Gesù la fine definitiva del tempo fosse vici-
na. E se è così, o egli sbagliava nelle sue predizioni, o gli evangelisti hanno inter-
polato i testi per fini propri. La prima opzione darebbe sostegno alla “escatologia
conseguente”, la seconda propende per la “escatologia realizzata”. Entrambe le
interpretazioni, tuttavia, equivarrebbero ad una lettura semplicistica dei testi
del vangelo. Facciamo cinque osservazioni.

Parousia, Chiesa ed evangelizzazione.  Sebbene i testi citati indicano l’imminen-


za della fine dei tempi, altri testi del vangelo di Matteo sembrano escludere una
simile prossimità75. Matteo ha sviluppato la nozione di “Chiesa” nella sua isti-
tuzionalità (Mt 16,28s.; 28,19s.), con strutture organizzative e disciplinari ben
definite (Mt 18,15-35). Tali strutture, che indicano stabilità e permanenza, non
sarebbero state necessarie se la fine dei tempi fosse stata vicina76. Inoltre, la Chie-

73
Si veda A. Plummer, An Exegetical Commentary on the Gospel according to St. Matthew, 236;
W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 2, 678s.; L. Sabourin, Matthieu 10.23 et 16.28 dans la
perspective apocalyptique, «Science et Esprit» 37 (1985) 353-64; J. Gnilka, Matthäusevangelium,
vol. 2, 89; W. Grundmann, Das Evangelium nach Matthäus; R. H. Gundry, Matthew, in hoc loco;
U. Luz, Matthew 8-20, 386-8.
74
Si veda W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 3, 367; C. L. Blomberg, Matthew, Broadman
Press, Nashville 1992, in hoc loco.
75
Si veda CAA 143-50.
76
Si veda G. Strecker, Der Weg der Gerechtigkeit: Untersuchung zur Theologie des Matthäus,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19713, 43s.; H. C. Kee, Christian Origins in Sociological

84
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

sa per Matteo ha essenzialmente carattere missionario, diretta in primo luogo ad


Israele, e poi ai Gentili (Mt 9,47; 10,42; 28,16-20)77. Gesù sprona i suoi discepoli
ad «andare e fare discepoli tutti i popoli… fino alla fine del mondo» (Mt 28,19s.).
Se la missione della Chiesa intende essere universale, non ha senso pensare che
la fine dei tempi sia così vicina78. È tuttavia degno di nota, che alcuni dei primi
scritti cristiani come il Pastore di Erma (II sec.) abbiano una visione differente
della cosa: sebbene la Chiesa e la sua missione costituisca «il segno escatologico
centrale»79, non di meno si sostiene che la fine sia vicina80.

Le parabole della crescita e dell’attesa.  Da un punto di vista strettamente esege-


tico, diverse parabole del discorso escatologico di Matteo sembrano indicare
che la fine dei tempi non è affatto imminente. Nella parabola dei servi fedeli ed
infedeli (Mt 24,45-51), il servo malvagio pensa in cuor suo che «il mio padrone
tarda» (v. 48), solo per scoprire che «il padrone… arriverà in un giorno in cui
non se l’aspetta e a un’ora che non sa» (v. 50). Allo stesso modo, nella parabola
delle vergini (Mt 25,1-13), lo «sposo tardava, [e] si assopirono tutte e si addor-
mentarono» (v. 5) prima del suo arrivo. Nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30)
ai servi era stata affidata la proprietà del padrone ed ebbero tempo sufficien-
te per fare affari con essa; infatti «dopo molto tempo il padrone di quei servi
ritornò e volle regolare i conti con loro» (v. 19). Altre parabole del vangelo di
Matteo sembrano indicare che il definitivo consolidamento del regno alla fine
dei tempi implichi un lungo intervallo; si pensi per esempio a quella del granel-

Perspective, SCM, London 1980, 143; S. Schulz, Die Stunde der Botschaft. Einführung in die
Theologie der vier Evangelisten, Furche, Hamburg 1967, 229.
77
Sulla comunità di Matteo ed in particolare sul suo senso di missione universale, si veda B.
Maggioni, Alcune comunità cristiane del Nuovo Testamento: coscienza di sé, tensioni e comunione,
«Scuola Cattolica» 113 (1985) 404-31, in particolare 417-24.
78
Si veda G. Strecker, Der Weg, 44; S. Schulz, Die Stunde, 229; T. L. Donaldson, Jesus on the
Mountain. A Study in Matthean Theology, JSOT Press, Sheffield 1985, 166s. «La fine di questa epoca,
riguardante la ricerca dei discepoli sull’interrogativo del v. 3, non può giungere immediatamente,
ma deve essere preceduta da un periodo di evangelizzazione universale. La parousia perciò deve
subire un ritardo» D. A. Hagner, Matthew, 696.
79
B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 17.
80
Il visitatore angelico, parlando della Chiesa costruita come una torre, dice: «Folli! Non vedete la
torre ancora in costruzione? Appena la torre sarà terminata e costruita, allora giungerà la fine; e vi
assicuro che verrà terminata presto. Non chiedetemi altro. Siate contenti voi e tutti i santi… per il
mio rinnovamento del vostro spirito» Erma, Vis. 3,8,9.

85
Capitolo II

lo di senape (Mt 13,31s.)81, del lievito (Mt 13,33)82, del grano e della zizzania
(Mt 13,24-30)83. Tutto sommato, il ritorno del Signore, secondo le parabole di
Matteo, sembra rinviato indefinitamente, e il suo tempo semplicemente scono-
sciuto agli uomini (Mt 24,36.39.42.44.50; 25,13)84. Il fatto che un ampio spazio
sia riservato, nel primo vangelo, al primato dello sforzo etico pure suggerisce un
interim relativamente esteso affinché la giustizia del regno di Dio si manifestas-
se85. Così le promesse fatte da Gesù sembrano presupporre un lungo tempo di
attesa86. Clemente di Roma († 101), parlando della fine dei tempi nella sua lettera
ai Corinzi, spiega che le cose hanno bisogno di tempo per giungere a maturazio-
ne, anche all’interno della Chiesa87.

81
W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 2, 417, spiegano così la parabola del granello
di senape: «molti studiosi moderni direbbero che il tema non è la crescita ma il contrasto – il
contrasto tra il regno celato nel presente e il suo glorioso futuro». J. Jeremias, The Parables of Jesus,
148s., segue la stessa linea: «Nel Talmud (b. Sanh. 90b), in Paolo (1 Co 15,35-38), in Giovanni
(12,24), in 1 Clemente (24,4-5), il seme è l’immagine della resurrezione, il simbolo del mistero
della vita oltre la morte. La mentalità orientale vede due situazioni totalmente differenti: da una
parte il seme morto, dall’altra, la spiga di grano che si muove al vento, qui, la morte, là, tramite il
potere creatore divino, la vita… L’uomo moderno, che passa attraverso il campo arato, pensa su
quello che accade sotto il sole, e prevede uno sviluppo biologico. Il popolo della Bibbia, passando
attraverso il medesimo campo arato, guarda e vede miracolo su miracolo, niente meno che la
resurrezione dei morti. Così coloro che ascoltavano Gesù compresero la parabola del granello
di senape e del lievito parabole del contrasto». Tuttavia, N. A. Dahl probabilmente ha ragione
quando dice: «la crescita del seme e la regolarità della vita della natura è nota ai contadini fin
da quando si è iniziato a coltivare la terra… l’idea di crescita organica era tutt’altro che estranea
agli uomini antichi; per gli ebrei e i cristiani la crescita organica non era altro che l’altro aspetto
del lavoro creativo di Dio che solo porta alla crescita» Jesus the Christ. The Historical Origins of
Christological Doctrine, Augsburg, Minneapolis 1991, 149s. Secondo R. Otto, il regno è «una sfera
escatologica di salvezza, che irrompe, con un piccolo inizio senza pretese, miracolosamente si
sviluppa, e si incrementa: come un “campo d’energia” divina si estende e si espande sempre più
lontano» The Kingdom of God and the Son of Man, 124.
82
Si veda M. J. Lagrange, Évangile selon saint Matthieu, Lecoffre; Gabalda, Paris 19415, 187-90.
83
La parabola è chiaramente considerata una reazione a coloro che tentano di giudicare ora anziché
lasciare il giudizio a Dio. Al di là del contenuto paranetico, tuttavia, l’immagine escatologica
utilizzata è piuttosto chiara nel suo contenuto: il regno di Dio verrà al tempo di Dio.
84
Si veda D. A. Hagner, Imminence and Parousia in the Gospel of Matthew, in T. Fornberg e D.
Hellholm (a cura di), Texts and Contexts. Biblical Texts in Their Textual and Situational Contexts.
Essays in Honor of Lars Hartman, Scandinavian University Press, Oslo 1995, 77-92; Excursus
Imminence, Delay and Matthew’s εὑθέως, in Matthew, 711-3.
85
Si veda D. A. Hagner, Matthew’s Eschatology, 60s. Si veda in particolare Mt 5-7; 9,15; 12,33-7;
16,21-7; 18,21s.; 22,15-21; 23,8-11.
86
Si veda ibid., 61. I testi biblici includono: Mt 18,20; 28,20; 6,33; 7,11; 17,20; 21,21s.
87
Si veda Clemente Romano, Ep. in Cor. 23,3-4. Si veda O. B. Knoch, Eigenart und Bedeutung
der Eschatologie im theologischen Aufriss des ersten Klemensbriefes: eine auslegungsgeschichtliche
Untersuchung, P. Hanstein, Bonn 1964.

86
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

Lo spiegamento graduale della Parousia.  Molti autori ritengono che gli eventi
finali profetizzati da Gesù in Mt 10,23; 16,28; 24,34 ed altri testi non facciano
riferimento alla Parousia in quanto tale, cioè alla venuta definitiva del Figlio
dell’uomo con il potere di giudicare i vivi e i morti, ma piuttosto ad altri momen-
ti critici per il compimento della missione di Cristo, precedenti alla Parousia e
ad essa preparatori88. Si tratta della posizione comune tra i Padri, gli Scolastici
e gli autori riformati, fino al XVIII secolo, quando per la prima volta il prote-
stante Samuel Reimarus († 1768) cercò di spiegare i testi biblici di difficile inter-
pretazione, appena menzionati, suggerendo che non siano stati pronunciati da
Gesù, ma inventati dopo di lui dai suoi discepoli ed interpolati dalla Chiesa89.
Come abbiamo visto prima, il fatto che alcuni pensatori protestanti assumano,
di fronte agli argomenti escatologici, una posizione di “o tutto o niente”, porta
facilmente ad una interpretazione del genere.
Al contrario, i Padri della Chiesa ed altri teologi cristiani leggono questi
testi in riferimento ad un’ampia varietà di momenti che segnano la storia della
salvezza: la riunione pre-pasquale di Gesù con i suoi discepoli al ritorno dalle
loro spedizioni missionarie90, la Trasfigurazione91, la morte92 o la Resurrezio-
ne93 di Gesù, o forse la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste94. Tradizio-
nalmente si è soliti riferire le parole di Gesù al consolidamento della missione
cristiana e della Chiesa95, alle differenti tappe della presenza attiva del regno di
Dio sulla terra. Come vedremo più avanti, i sacramenti, ed in modo particola-
re l’eucaristia, rappresentano una irruzione particolare del potere e dell’amo-

88
Su questo argomento, si veda P. Gaechter, Das Matthäusevangelium: ein Kommentar, Tyrolia,
Innsbruck; Wien 1964, in hoc loco.
89
Samuel Reimarus dice che Mt 16,28 non fa riferimento ad una parousia prossima, in quanto
implicherebbe un errore da parte di Gesù o della prima Chiesa: si veda C. H. Talbot (a cura di),
Reimarus: Fragments, II, § 38, Fortress, Philadelphia 1970, 215-18. Autori protestanti liberali
successivi, come F. C. Baur, H. A. W. Meyer, C. H. Weisse, O. Pfleiderer e H. J. Holtzmann,
ritennero che non si trattasse di una frase pronunciata effettivamente da Gesù. Sulla storia dell’uso
di questo testo, si veda M. Künzi, Das Naherwartungslogion Matthäus 10,23, 105-12; U. Luz,
Matthew 8-20, 387.
90
Si veda per esempio, Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. 34,1 (su Mt 10,23).
91
Si veda CAA 142, nota 28.
92
Si veda R. Clark, Eschatology and Matthew 10,23, «Restoration Quarterly» 7 (1963) 73-81.
93
Questa posizione è piuttosto recente, probabilmente posteriore alla riforma protestante. Per
dettagli, si veda CAA 147, nota 52.
94
Questa spiegazione è tipica anche dei teologi protestanti; si veda CAA 147, nota 53.
95
È abbastanza tipico anche tra i Padri identificare il regno di Dio, semplicemente, con la Chiesa.
Si veda per esempio, San Gregorio Magno, Hom. 32,7; Beda il Venerabile, In Marci Evangelii
Expositio III, 8. Tra gli autori recenti, si veda CAA 147, nota 54. Mt 24,34 è stato considerato così
anche da Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. 17,1; Eusebio, Fram. in Luc., su Lc 21,32.

87
Capitolo II

re di Dio nell’epoca presente96. Autori come Origene hanno interpretato i testi


spiritualmente, parlando della presenza eterna del regno di Dio nei cuori dei
cristiani in assenza di manifestazioni esterne97. Negli ultimi secoli si è comu-
nemente proposto che la predicazione di Gesù facesse direttamente riferimento
alla profanazione del Tempio e alla distruzione di Gerusalemme nell’A.D. 7098.
Secondo la dottrina della “escatologia conseguente” la futura venuta del
Regno di Dio non deve essere accettata, perché non ha lasciato un segno tangibile
nella storia, come i testi apocalittici affermavano che sarebbe dovuto accadere.
Sembra, tuttavia, che nel far questo, «vogliano vedere un segno» (Mt 12,38)99. La
loro ricerca annullerebbe sia la logica dell’Incarnazione come “auto-svuotamento”
di Dio nel prendere forma umana, storica100, sia la necessità della fede per la salvez-
za, sia l’inevitabile chiaroscuro del pellegrinaggio cristiano sulla terra, presieduto
dalla Croce di Cristo. Il regno escatologico di Dio è presente e attivo con grande
potere, vivo sebbene nascosto, in attesa della rivelazione finale dei figli di Dio (Rm
8,19)101. «Mi sembra ovvio», scrive Joseph Ratzinger, «che alcune parabole di Gesù
– la parabola della rete con i pesci buoni e cattivi (Mt 13,47-50), la parabola della
zizzania nel campo (Mt 13,24-39) – parlino di questo tempo della Chiesa. Nella
pura prospettiva dell’escatologia immediata non danno alcun senso»102.
In ogni caso, in qualsiasi modo si debba intendere questi testi, è chiaro che il
loro graduale o parziale compimento lungo la storia della salvezza costituisce una
sorte di “prefigurazione tipologica”103 della Parousia finale e gloriosa. L’esegeta
Donald Hagner conclude, perciò, che «sebbene Gesù abbia predicato l’imminente
caduta di Gerusalemme, non ha predicato l’imminenza della Parousia, lascian-
dola ad un indeterminato futuro»104. Egli suggerisce, tuttavia, che «i discepoli,

96
Si veda Benedetto XVI, Es. Apost. Sacramentum caritatis (2007), n. 31.
97
Questo è tipico di Origene. Nel suo Comm. in Joh. 12,33, per esempio, dice che Mt 16,28 fa
riferimento alla visione spirituale personale del glorioso Verbo di Dio che supera tutte le cose.
L’apocrifo (e probabilmente gnostico) Vangelo di Tommaso, log. 1, parla allo stesso modo,
dicendo che quelli che comprendono le parole di Gesù vivente non moriranno, una idea suggerita
forse in Gv 8,51.
98
Soprattutto tra gli autori protestanti. Per dettagli, si veda CAA 148s., nota 57.
99
Si veda CAA 150-4.
100
Si veda il mio studio Il mistero dell’incarnazione e la giustificazione. Una riflessione sul rapporto
antropologia-cristologia alla luce della Gaudium et spes 22, in M. Gagliardi (a cura di), Il mistero
dell’incarnazione e il mistero dell’uomo, Vaticana, Città del Vaticano 2009, 87-97.
101
Si vedano le pp. 286ss. sotto, sul Regno di Dio.
102
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II: dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurre-
zione, Vaticana, Città del Vaticano 2011, 59.
103
M. Künzi, Das Naherwartungslogion Markus 9,1 par, 188s.
104
D. A. Hagner, Matthew, 711. Per tutte le somiglianze che Mt 24-25 ha «con gli scritti apocalittici,

88
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

sentendo la profezia della distruzione del tempio, abbiano pensato immediata-


mente alla Parousia e alla fine dei tempi. Sapendo che Gesù aveva predicato l’im-
minenza della caduta del tempio, naturalmente hanno immaginato l’imminenza
della Parousia. Nelle loro menti, le due cose erano inseparabili»105. Tale posizione
non era probabilmente atipica tra i cristiani della prima ora (1 Ts 4,13-17).

La partecipazione dell’uomo nell’avvenimento della Parousia. Commentan-


do Mt 23,39 («Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non dire-
te “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”»), diversi autori106 hanno
suggerito che i testi sulla fine imminente di Matteo costituiscono un genere di
profezia condizionale107. Dale Allison interpreta Mt 23,39 come segue: «il testo
non significa: “Quando il Messia verrà, il suo popolo lo benedirà”; ma piut-
tosto, “Quando il suo popolo lo benedirà, il Messia verrà”. In altre parole, il
momento della redenzione dipende dall’accettazione da parte di Israele della
persona e dell’opera di Gesù… Egli afferma che, se vorrà, Gerusalemme potrà,
alla fine, benedire nel nome del Signore colui che verrà, e il suo far questo, cioè,
il suo pentimento, porterà alla liberazione»108. La fine dei tempi, perciò, dipen-

ci sono allo stesso tempo alcune differenze importanti. La più significativa: il discorso non tenta di
definire un calendario per la fine dei tempi. Sono vistosamente assenti informazioni riguardanti
il tempo della parousia, negate anche dalla figura centrale di Matteo, il Figlio dell’uomo stesso
(24,36). Il testo non intende infiammare l’aspettativa di una fine imminente, o anche di una fine
prevedibile. Se non altro, raffredda tale idea. Le tribolazioni che avrebbero dovuto significare una
fine imminente sono descritte così: “ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori” (24,8). L’unico
che è certo nel discorso è il fatto della fine. Il tempo è lasciato appositamente indeterminato. Di
conseguenza, il discorso conserva la sua importanza per tutte le generazioni cristiane» ibid., 684.
105
Ibid., 711. Questo spiegherebbe perché, dice Hagner, «subito dopo la tribolazione di quei
giorni… comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo… e [le tribù della terra]… vedranno il
Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria» (Mt 24,29s.). Sul termine
“subito” (eutheos), che E. Grässer, in Das Problem der Parusieverzögerung in den synoptischen
Evangelien und in der Apostelgeschichte, Töpelmann, Berlin 1957, 218, definisce il “puzzle di
Matteo”, si veda F. C. Burkitt, On Immediately in Mt 24.29, «Journal of Theological Studies» 12
(1911) 460s. Si veda BDAG, 405, s.v. εὐθέως.
106
Così H. van der Kwaak, Die Klage über Jerusalem (Matth. xxiii 37-39), «Novum Testamentum»
8 (1966) 156-70, ed in particolare D. C. Allison, in un articolo largamente accettato: Matt. 23,39 =
Luke 12,35b as a Conditional Prophecy, «Journal for the Study of the New Testament» 18 (1983)
75-84. Si veda anche CAA 149, nota 62.
107
Non si tratta di una posizione recente. Infatti Ronald Knox ha già descritto Mt 16,28 come una
«profezia condizionale, dipendente per il suo compimento alla realizzazione di certe condizioni
umane» R. A. Knox, Off the Record, Sheed & Ward, London; New York 1953, 36. Per una analisi
ulteriore, si veda CAA 150, nota 63.
108
C. F. Allison, Matt. 23,39 = Luke 12,35b as a Conditional Prophecy, 77, 80. Allison sostiene que-
sta tesi in quattro modi: primo, la fede nella contingenza del tempo della redenzione finale è ben
testimoniata da fonti giudaiche del secondo secolo e posteriori; secondo, il termine “finché” (hēos)
può indicare uno stato contingente in espressione greca in cui la realizzazione dell’apodosi dipende

89
Capitolo II

de non solo dalla storia, divinamente predeterminata, ma anche dalla rispo-


sta degli uomini all’offerta divina di salvezza. Dato che i nuovi cieli e la terra
nuova dovevano venire, Pietro dice nella sua seconda lettera: «quale deve essere
la vostra vita nella santità, nella condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e
affrettate la venuta del giorno di Dio» (3,11s.). Il termine “affrettate” è una tradu-
zione di speudontas, che significa “accelerare” o “insistere”109. Forse la visione
luterana della Scrittura che non vuole associare la salvezza con le buone opere,
potrebbe considerare inaccettabile una tale sintesi tra l’azione divina e la rispo-
sta umana110. Tuttavia, se il ruolo umano è critico nel contesto della salvezza
individuale, come la Scrittura insegna con chiarezza, perché lo sforzo etico non
dovrebbe giocare un ruolo di preparazione per la Parousia, che è la salvezza
dell’insieme? Torneremo più avanti a questa problematica111.

La Parousia in Paolo e Giovanni.  Sia per Paolo che per Giovanni l’articolazione
tra gli aspetti presenti e futuri della Parousia è complessa e ha radici profonde.
San Paolo parla apertamente del futuro della Parousia nel contesto della
dottrina della resurrezione finale. Nelle sue prime lettere112, per esempio 1 e 2
Ts e 1 Cor, parla della salvezza escatologica in termini esplicitamente futuri.
Nella prima, Paolo esclama: «perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce
dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal Cielo» (1 Ts 4,16).
In 1 Cor 15 egli si rivolge ai cristiani che, o a causa del loro eccessivo attacca-
mento all’esperienza carismatica e apocalittica, o sotto l’influenza della menta-
lità greca, nemica del corpo fisico113, interpretavano la dottrina della resurre-
zione finale in termini spirituali, o come qualcosa che già è stata raggiunta nel
Battesimo (una sorte di escatologia realizzata). Paolo insegna che anche se la
nuova vita del battesimo costituisce una reale anticipazione della resurrezione,
la trasformazione finale deve ancora avvenire. «È necessario infatti che questo

dalla realizzazione della protasi - così il termine è più simile ad “a meno che” che non ad un “fin-
ché”; terzo, la struttura di Mt 23,39 indica una interpretazione condizionale secondo la tradizione
rabbinica; quarto, il contesto non sembra implicare né un annuncio assoluto della salvezza, né il
suo totale rifiuto, ma piuttosto una via di mezzo tra i due. Si veda anche BDAG, 422-4, s.v. ἕως.
109
Si veda BDAG, 937s., s.v. σπεύδω, 2.
110
Si veda la mia opera Fides Christi, 161-9.
111
Si vedano le pp. 289ss. sotto.
112
Sull’escatologia paolina in generale, si veda S. Zedda, L’escatologia biblica, vol. 2: Nuovo
Testamento, Paideia, Brescia 1975, 9-256; diversi studi sull’escatologia di Paolo in H.-J. Eckstein,
C. Landmesser, H. Lichtenberger (a cura di), Eschatologie – Eschatology, J.C.B. Mohr, Tübingen
2011, 173-246.
113
Si veda B. Maggioni, Alcune comunità cristiane del Nuovo Testamento.

90
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di


immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito di incorrutti-
bilità e questo corpo mortale di immortalità, si compirà la parola della Scrittura
“La morte è stata inghiottita dalla vittoria”» (1 Cor 15,53s.).
Le ultime lettere di Paolo si concentrano più sull’attualità della fede in
Cristo114. Meno attenzione viene data alla fine dei tempi e alla futura salvezza,
sebbene l’ultima non venga messa mai in discussione. Il “Giorno di Jahve” di cui
parlano i profeti dell’Antico Testamento, definito il “Giorno del Signore” in 1 Ts
e 1 Cor, diventa il “giorno del giudizio” negli ultimi scritti di Paolo115, il giorno
della resurrezione dei morti (Rm 8,11; Fil 3,21), della manifestazione della gloria
(Rm 8,18; Col 3,4), della fine dei tempi presente (Ef 1,21; 2,7; 4,30).
Inoltre, le esortazioni di Paolo ai credenti fanno costante riferimento al
carattere essenzialmente transitorio “della carne” e di tutto lo sforzo umano,
poiché «passa la figura di questo mondo» (1 Co 7,31). I cristiani infatti sono
spe salvi, trovano la salvezza solo nella speranza (Rm 8,24)116, e perciò vivono
«nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro
grande Dio e del Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13). Celebrando l’eucaristia
«finché egli [Cristo] venga» (1 Cor 11,26), essi devono svolgere una vita retta,
nella pazienza, con perseveranza nelle buone opere, nel distacco, nella preghiera
vigilante, nella carità fraterna e nella gioia.
È risaputo che il vangelo di Giovanni dà un’enfasi particolare al caratte-
re presente della salvezza cristiana, come correttamente Dodd ed altri esegeti
hanno sottolineato. Tuttavia, l’aspetto futuro della salvezza non è in alcun modo
escluso117. Ben lungi dal negare l’aspetto escatologico della salvezza cristiana,
forse si può dire che il quarto vangelo dà espressione ad un movimento che va
dal futuro verso il presente. Senza dubbio, la “vita eterna” – termine chiave in
questo vangelo – è già presente ed attiva tra i credenti al momento attuale, dal
momento che colui che crede già partecipa alla vita eterna, o la possiede (Gv
3,36; 5,24; 6,47). Tuttavia, la promessa della resurrezione finale fa chiaramente

114
Si veda S. Zedda, L’escatologia biblica, vol. 2, 195ss.
115
Si veda Rm 2,5-11; 14,10-13; 2 Cor 4,5; Ef 5,5; Col 4,24; Eb 10,27-29.
116
Si veda H. Schlier, Das, worauf alles wartet. Eine Auslegung von Römer 8, 18-30, in Das Ende der
Zeit. Exegetische Aufsätze und Vorträge, Herder, Freiburg i. B.; Basel 1971, 250-71.
117
Non è convinzione di pochi che la parte più antica del corpus giovanneo ricalchi la tradizione
sinottica: M.-É. Boismard, L’évolution du thème eschatologique dans les traditions johanniques,
«Revue Biblique» 68 (1961) 507-24; H.-J. Eckstein, Die Gegenwart des Kommenden und die Zukunft
des Gegenwärtigen. Zur Eschatologie im Johannesevangelium, in H.-J. Eckstein, C. Landmesser, H.
Lichtenberger (a cura di), Eschatologie – Eschatology, J.C.B. Mohr, Tübingen 2011, 149-69.

91
Capitolo II

riferimento ad un evento futuro («chi mangia la mia carne e beve il mio sangue
ha la vita eterno e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» Gv 6,54), che avrà luogo
“nell’ultimo giorno” (Gv 6,39.40.44.54), insieme al giudizio (Gv 12,48). La prima
lettera di Giovanni parla sia del grande giorno del giudizio (1 Gv 4,17) che della
manifestazione finale del Signore (1 Gv 2,28). Inoltre, il libro dell’Apocalisse, che
appartiene al corpus giovanneo, è totalmente rivolto al ritorno definitivo del
Signore Gesù nella gloria118.

3. Come i cristiani hanno interpretato la promessa del ritorno del Signore

I cristiani della prima ora aspettavano il ritorno di Gesù in un breve spazio di


tempo?  È probabile che alcuni dei primi cristiani aspettassero sinceramente
che il loro amato Salvatore tornasse sulla terra nella gloria durante la loro vita
terrena. Dopo tutto, egli aveva promesso che sarebbe tornato per stare con gli
Apostoli (Lc 17,22; Gv 13,36; 14,3; 18,28). Nella prima lettera ai Tessalonice-
si, probabilmente il primo testo del Nuovo Testamento, Paolo fa riferimento
ad un grave problema sorto tra i cristiani preoccupati per la salvezza dei loro
cari, morti prima del ritorno del Signore Gesù119. Egli insegna chiaramente che
sebbene Cristo non fosse ancora tornato, la sua venuta futura era certa. «Non
vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti,
perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza… Sulla parola
del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in
vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono
morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo… discen-
derà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e
che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare
incontro al Signore in alto» (1 Ts 4,13-15-17)120. La seconda lettera ai Tessaloni-

118
Si veda S. Zedda, L’escatologia biblica, vol. 2, 427-515; U. Vanni, Dalla venuta dell’“ora” alla
venuta di Cristo. La dimensione storico-cristologica dell’escatologia nell’Apocalisse, in L’Apocalisse:
ermeneutica, esegesi, teologia, Dehoniane, Bologna 1988, 305-32.
119
Si veda J. Dupont, ΣΥΝ ΧΡΙΣΤΩΙ. L’union avec le Christ suivant saint Paul, Abbaye de Saint-
André; Nauwelaerts, Bruges; Louvain 1952, 40s., 43; B. Maggioni, L’escatologia nelle lettere ai
Tessalonicesi, «Rivista di Pastorale Liturgica» 9 (1972) 308-13.
120
I Tessalonicesi, per quanto sembra, erano certi della venuta della Parousia, ma erano preoccupati
per i defunti, temendo che questi non avrebbero partecipato alla gioia della venuta del Signore
a causa del tempo eccessivo trascorso tra la Parousia e la resurrezione/giudizio. Quel che Paolo
sottolinea, tuttavia, è importante: la Parousia e la resurrezione/giudizio coincidono. Perciò, coloro
che saranno ancora vivi alla venuta di Gesù godranno della compagnia di coloro che erano morti ed
ora risorti. Per questa ragione i vivi non avranno alcun vantaggio rispetto ai morti.

92
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

cesi parla del momento in cui «si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme
agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente» (2 Ts 1,7), anche se Paolo stesso
nota che il ritorno del Signore non è propriamente imminente (2 Ts 2,1-3).
Come abbiamo visto, alcuni autori affermano che il fenomeno descritto da
San Paolo sarebbe dovuto ad una consapevole falsificazione da parte di Gesù o
dei suoi discepoli. La spiegazione più ragionevole, invece, è questa: la comuni-
tà cristiana, povera e perseguitata, provava una profonda nostalgia per l’amato
Salvatore che aveva promesso di essere sempre con loro, è sperava che il Cristo
tornasse da loro il prima possibile, pronunciando di nuovo quelle parole inef-
fabili, «la pace sia con voi» (Lc 24,36; Gv 20,19) che egli aveva detto quando era
apparso loro dopo la Resurrezione, facendoli sentire perdonati per i loro peccati
ed inviati ad evangelizzare il mondo intero.
Il filosofo Maurice Blondel, criticando la teoria della “escatologia conse-
guente” di Weiss in un’opera del 1904, osservava che quest’ultimo non aveva
preso con sufficiente serietà la vita vissuta dei cristiani, la loro fede e il martirio.
«Se l’opera di Gesù è sopravvissuta alla sua morte, se ha superato tutte le delu-
sioni, non è solo per la fermezza nell’attesa della realizzazione della Parousia,
che aveva infiammato la speranza dei Giudei, ma perché i cristiani hanno in
cuore quel che è essenziale ad ogni movimento spirituale, un amore, una dedi-
zione invincibili per l’adorata persona del Buon Maestro»121.

I Padri della Chiesa, la Parousia e il millennio. Alcuni dei Padri Apostolici


pensavano che i testi Sinottici (ed altri testi biblici) abbiano collegato la Parousia
all’imminente fine dei tempi122. Ignazio d’Antiochia († ca. 108) disse apertamente
che «gli ultimi giorni sono qui»123. Così pure fece Giustino Martire124, sebbene
aggiungesse che la fine non sarebbe venuta finché il numero dei giusti non fosse
completo125. Anche Ireneo era dell’opinione che la fine dei tempi fosse vicina. Dato
che, secondo l’opinione comune, la fine del mondo era prevista 6000 anni dopo la
sua creazione126, egli riteneva che l’Incarnazione del Verbo avesse avuto luogo in

121
M. Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophiques de l’exégèse moderne, in Les premiers
écrits de Maurice Blondel, PUF, Paris 1956, 149-228, qui 179s. In questo suo testo del 1904, Blon-
del analizza e critica l’esegesi storica della Scrittura.
122
Sui Padri della Chiesa, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 3s.; J. Timmermann,
Nachapostolisches Parusiedenken untersucht im Hinblick auf seine Bedeutung für einen
Parusiebegriff christlichen Philosophierens, Max Hüber, München 1968, 38-91.
123
Ignazio d’Antiochia, Ad Eph. 11,1; Ad Mag. 5,1.
124
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph. 28; 32,40.
125
Si veda Giustino, 1 Apol. 28, 45; Dial. cum Tryph. 39.
126
Si veda Ireneo, Adv. Haer. V, 28,3.

93
Capitolo II

quell’epoca, «alla sera della storia»127. San Cipriano († 258) esprime spesso la sua
convinzione secondo la quale la storia umana aveva raggiunto il suo tramonto128.
Egli afferma: «il mondo sta fallendo, passando via, e testimonia la sua rovina non
per la sua età, ma per la fine di tutte le cose»129. Lattanzio (III-IV sec.) pure affer-
ma che la terra dovrà durare soltanto 6000 anni, e che in questo momento siamo
testimoni «dell’età estremamente avanzata di un mondo stanco e decadente»130.
Secondo Eusebio di Cesarea († ca 339)131, l’attesa popolare di una immedia-
ta fine del mondo sembra aver raggiunto un tono febbrile in diverse parti della
cristianità occidentale durante il terzo secolo, specialmente nell’epoca delle
persecuzioni. Comunemente si riteneva che il mondo fosse già vecchio, e stesse
giungendo alla fine, quel che gli stoici chiamavano la senectus mundi, la vecchia-
ia del mondo132. San Giovanni Crisostomo († 407) insegna che la profezia di
Matteo riguardante l’evangelizzazione universale si è già compiuta e che la fine
è vicinissima133. Agostino lo dice così: «Ti sorprende che il mondo si sta perden-
do? Che sia diventato vecchio? Pensa all’uomo: nasce, cresce, diventa vecchio.
La vecchiaia porta con sé molti malanni: la tosse, le agitazioni, la vista manca,
l’ansietà aumenta, grande stanchezza. L’uomo si invecchia, è pieno di lamentele.
Il mondo è vecchio; è strapieno di tribolazioni pressanti… Non trattieni l’uomo
vecchio, il mondo; non smetti di ricuperare la tua gioventù in Cristo, che ti dice:
“Il mondo passa, il mondo si perde, al mondo gli manca il fiato. Non temere:
la tua gioventù sarà rinnovato come un’aquila”»134. Papa San Gregorio Magno
(† 604), nel mezzo delle tribolazioni causate dalla caduta dell’Impero Romano,
era convinto che la fine fosse imminente135. Nella Vita di San Gregorio scritta
da Giovanni il Diacono, leggiamo che «in tutte le sue parole e i suoi atti Grego-
rio considerava che il giorno finale e il giudizio venturo erano imminenti; più
sentiva vicina la fine del mondo, con i suoi numerosi disastri e calamità, più

127
Ibid., V, 15,4. Su questo aspetto dell’escatologia di Ireneo, si veda W. C. Van Unnik, Der
Ausdruck “In den letzen Zeiten”, in Neotestamentica et Patristica. Festschrift O. Cullmann, a cura
di W. C. Van Unnik, E. J. Brill, Leiden 1962, 293-304.
128
Si veda Cipriano, Ep. 63,16.
129
Cipriano, De mort. 25 (= Ep. 56); si veda Ep. 61,4; 67,7.
130
Si veda Lattanzio, Div. Instit. VII, 14.
131
Si veda Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl. 6,7.
132
Sulla nozione stoica di senectus mundi, si veda M. Spanneut, Le stoïcisme des Pères de l’Église:
De Clément de Rome à Clément d’Alexandrie, Seuil, Paris 1957, 258; B. E. Daley, The Hope of the
Early Church, 33-43.
133
Si veda Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth., 10,5s.; In Hebr. Hom. 21,3.
134
Sant’Agostino, Sermo 81, 8.
135
Si veda C. Dagens, La fin des temps et l’Église selon Saint Grégoire le Grand, «Recherches de
science religieuse» 58 (1970) 273-88.

94
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

analizzava con attenzione le vicende umane»136. «Il mondo non sta solamente
annunciando la propria fine», dice Gregorio, «ma si indirizza direttamente ad
essa»137. La ragione per i malanni sociali che abbondano, dice, giace nel fatto che
il mondo è invecchiato138 ed è giunto alla sua agonia finale139.
Tuttavia, è importante sottolineare che i Padri nel loro insieme riteneva-
no che la venuta del Figlio di Dio nella carne costituisse un primo stadio della
Parousia140. Per questa ragione, Crisostomo considera che il nostro interes-
se riguardante la fine del mondo costituisce una forma di vana curiosità, e si
domanda: «non è il compimento del mondo, per ciascuno di noi, la fine della
vita personale? Perché vi preoccupate e temete per la fine comune?… Il tempo
del compimento ha preso inizio con Adamo, e la fine di ciascuna della nostra
vita è una immagine del compimento. Non si sbaglierebbe, dunque, nel definirla
la fine del mondo»141.
Ancora, si potrebbe chiedere: che cosa hanno da dire i Padri della Chiesa
e i primi scrittori cristiani sul fatto che la Parousia promessa, di fatto, non si è
verificata immediatamente, come la Scrittura sembrava esigere? Il fatto che essi
reagiscano pacificamente allo spostamento della Parousia è un segno che tale
ritardo non abbia generato alcuna crisi particolare tra i credenti. Si è data comu-
nemente una lettura spirituale al ritardo della Parousia. Agostino commenta:
«quest’ultima ora è lontana a venire; ma è l’ultima»142. Cándido Pozo conclude
quindi che negli scritti dei Padri della Chiesa, «non c’è alcun indizio storico di
una qualsiasi crisi. I cristiani vivevano nel modo più naturale possibile la loro
esperienza del ritardo nella Parousia»143.
Quel che è degno di nota, tuttavia, durante i primi tre secoli del cristiane-
simo, è il fenomeno del millenarismo, ovvero la predicazione di un più o meno
imminente regno millenario di pace sulla terra (a cui fa riferimento i libro
dell’Apocalisse 20,2-7) prima che la Parousia avesse luogo. Torneremo su questo
argomento più avanti144.

136
Giovanni il Diacono, Vita Greg. 4,65.
137
Gregorio Magno, Dial. 3,38,3.
138
Si veda Gregorio Magno, Hom. in Ev. 1,1,1.
139
Si veda ibid., 5.
140
In buona misura, Ignazio d’Antiochia insegnò una escatologia realizzata (Ad Eph. 19,3), e
definiva la venuta di Gesù, appunto, “parousia” (Ad Philad. 9,2). Sul tema, si veda l’opera di D.
E. Aune, The Cultic Setting of Realized Eschatology in Early Christianity, E. J. Brill, Leiden 1972.
141
Giovanni Crisostomo, In Ep. 1 ad Thess. 9,1.
142
Agostino, In I Ep. Jo. tr. 3,3, su 1 Gv 2,18.
143
C. Pozo, La teología del más allá, 114s.
144
Si vedano le pp. 297ss.

95
Capitolo II

3. La Parousia, la speranza della Chiesa


Dopo aver tentato di chiarire alcune questioni teologiche ed esegetiche
sollevate dai testi escatologici del Nuovo Testamento, possiamo ora rivolgere la
nostra attenzione all’oggetto principale di questo capitolo: il contenuto e il signi-
ficato della speranza dei cristiani, la speranza della Chiesa, ovvero la Parousia o
venuta finale di Gesù Cristo nella gloria, «il tema che domina tutti gli altri» nel
Nuovo Testamento145. In primo luogo considereremo la dottrina della Parou-
sia nella Scrittura ed in alcuni testi liturgici. Poi esamineremo alcune delle sue
caratteristiche in quanto vittoria pubblica, definitiva, di Dio in Cristo sul potere
del male, cioè il compimento della storia.

1. La Parousia nella Scrittura e nella Liturgia


Nella Sacra Scrittura e nella tradizione liturgica della Chiesa, la Parousia
occupa un ruolo centrale.

La speranza gioiosa nella venuta del Signore.  Il Nuovo Testamento è molto chiaro
nell’affermare che non solo i cristiani aspettano il ritorno di Gesù nella gloria, ma
anche che la sua venuta è oggetto di gioiosa speranza. «Quando cominceranno ad
accadere queste cose», dice Gesù, parlando dei segni escatologici, «risollevatevi
ed alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Il desiderio dei
cristiani perché la potenza di Dio si manifesti al mondo intero è contenuta nella
vibrante supplica della Preghiera Domenicale, «venga il tuo regno»146.
Paolo esorta Tito e tutti gli altri credenti a «vivere in questo mondo con
sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della mani-
festazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,12-
14). Altri testi paolini si esprimono nella stessa maniera. «La nostra cittadinanza
infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil
3,20). A Timoteo dice: «ti ordino di conservare senza macchia e in modo irre-
prensibile il comandamento, fino alla manifestazione (epiphaneia) del Signo-
re nostro Gesù Cristo» (1 Tm 6,14). Mentre nella seconda lettera a Timoteo
leggiamo: «ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, giudice
giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che
hanno atteso con amore (egapekosi) la sua manifestazione» (2 Tm 4,8). Così sia

145
Così E. Brunner, Das Ewige, 149.
146
Sulla stretta relazione tra escatologia e il “Padre nostro”, si veda CCC 2818 e J. Jeremias, Paroles
de Jésus: le Sermon sur la montagne, le Notre-Père, Cerf, Paris 1969, 70.

96
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

in Giacomo (5,7-8) che in Pietro (1 Pt; 2 Pt 3,1-9) è chiaro che la speranza nel
ritorno del Signore Gesù costituisce per i cristiani un invito alla vigilanza e alla
perseveranza nella fede.
La fine del libro dell’Apocalisse offre un crescendo di speranza gioiosa
nella venuta finale del Signore Gesù: «Lo Spirito e la sposa dicono “Vieni!” E
chi ascolta, ripeta “Vieni!” Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente
l’acqua della vita… colui che attesta queste cose dice “Sì, vengo presto!” Amen.
Vieni Signore Gesù!» (Ap 22,17-20).

Il posto della Parousia nella liturgia della Chiesa.  Scrivendo ai Corinzi, San
Paolo parla della celebrazione dell’eucaristia del Signore Gesù «finché egli venga»
(1 Cor 11,26). Effettivamente, la celebrazione eucaristica, il mistero della fede,
permette ai credenti di pregustare la futura venuta del Signore147. «La speranza
cristiana dei tempi antichi è soprattutto una speranza liturgica», osserva Henri
Bourgeois148. Un esempio di ciò è la preghiera dei primi cristiani chiamata
Didachē, o la “Dottrina dei dodici apostoli”, che contiene le seguenti intercessio-
ni liturgiche: «Venga la grazia e passi questo mondo. Maranatha, vieni Signore
Gesù [o, in alternativa, “il Signore Gesù è venuto”]»149.
La prima liturgia della Chiesa Romana150 si riferiva direttamente alla
speranza nella Parousia, la venuta del Signore Gesù nella gloria. Tale liturgia
è incentrata sulla figura di Cristo come nostro Mediatore. La preghiera della
Chiesa è diretta a Dio Padre, attraverso Cristo nostro intercessore. Egli è situato
“accanto a noi”, per così dire; può considerarsi come il “prolungamento” verso
Dio della Chiesa e dei cristiani. Perciò, tutte le preghiere della celebrazione sono
dirette a Dio, per Christum Dominum nostrum, “per Cristo nostro Signore”.

147
Sulla relazione tra escatologia ed Eucaristia, si veda inter alia, P. de Haes, Eucaristia e escatologia,
in Aa.vv., Eucaristia. Aspetti e problemi dopo il Vaticano II, Cittadella, Assisi 1968, 158-78; J. Ntedika,
e
L’évocation
e
de l’au-delà dans la prière pour les morts: étude de patristique et de liturgie latines (IV -
VIII s.), Nauwelaerts, Louvain; Paris 1971; F.-X. Durrwell, Eucharistie et Parousie, «Lumen Vitae»
26 (1971) 89-128; E. Martínez y Martínez, La escatología en la liturgia romana antigua, Instituto
Superior de Pastoral, Salamanca; Madrid 1976; G. Wainwright, Eucharist and Eschatology; N. Conte,
Benedetto Colui che viene. L’eucaristia e l’escatologia, Dehoniane, Napoli 1987.
148
H. Bourgeois, L’espérance maintenant et toujours, Desclée, Paris 1985, 90.
149
Anon., Didachē 10,6. C. Pozo, La teología del más allá, 122s., afferma che la forma normale è
quella futura, non quella presente. 1 Co 16,22 pure usa il termine maranatha; si veda R. B. Brown,
1 Corinthians (The Broadman Bible Commentary), Broadman Press, Nashville, 1970, 397; F. F.
Bruce, 1 and 2 Corinthians, Oliphants, London 1971, 162; H. D. Wendland, Die Briefe und die
Korinther, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19547, 143; BDAG 626, s.v. μαράνα.
150
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 125-8. Pozo si basa sull’opera del 1925 del liturgista J.
A. Jungmann, Die Stellung Christi im Liturgischen Gebet, Aschendorff, Münster 19622; e K. Adam,
Christus unser Bruder, J. Habbel, Regensburg 19508, 46-80.

97
Capitolo II

Nella successiva liturgia carolingia, che si è sviluppata sulla scia della


condanna dell’arianesimo, in un contesto che qualche volta assume gli elemen-
ti positivi del monofisismo, la preghiera è diretta alla Trinità, Padre, Figlio e
Spirito Santo. Cristo è rappresentato ora come colui che “appartiene”, per così
dire, alla Divinità, e non più come Colui che ci introduce al Padre. La ragione di
questa diversa sottolineatura, che ha influenzato non solo le liturgie Occidentali
e Orientali in genere, ma la liturgia romana stessa, è stato il tentativo di elimina-
re qualsiasi rischio di subordinazionismo nella cristologia, nel solco della crisi
ariana. Questa liturgia carolingia quindi tende ad esprimere di più l’aspetto
“discendente” della mediazione di Cristo e presenta Cristo nella sua Divinità.
I seguenti esempi di tale fenomeno nell’attuale liturgia latina, non comu-
ni nella precedente liturgia romana, possono essere interessanti. Primo, nella
preghiera dopo l’embolismo del “Padre Nostro” durante il rito della Comunio-
ne, sentiamo: «Signore Gesù Cristo… non guardare ai nostri peccati, ma alla fede
della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni
nei secoli dei secoli». Qui la preghiera che invoca perdono e soccorso è diretta a
Cristo come Dio. Secondo, nella preghiera che precede direttamente il rito della
comunione, leggiamo «Signore Gesù Cristo… morendo hai dato vita al mondo».
Ancora troviamo l’invocazione ad una azione divina da parte di Cristo, in cui è
implicata una mediazione discendente. Terzo esempio: la liturgia latina termina la
sua preghiera più solenne con l’invocazione: «per il Signore nostro Gesù Cristo,
tuo Figlio, che è Dio e vive e regna con te in unità con lo Spirito Santo». Qui Cristo
è chiaramente posto “entro” la Trinità, insieme al Padre e allo Spirito Santo.
Ovviamente non si tratta di trovare opposizione dottrinale tra le due tradi-
zioni liturgiche. Nessuna delle due mette in dubbio la divinità o l’umanità di
Gesù Cristo. Si tratta soltanto di differenti sottolineature. Lo stile della liturgia
carolingia, tuttavia, che è diventata prevalente sia in Oriente che in Occidente,
risponde meglio al senso di pessimismo escatologico nei confronti della Parou-
sia che abbiamo riportato sopra151. Con tutto, la Chiesa non ha mai perduto
il suo senso di gioia serena e piena di aspettativa rispetto alla venuta del suo
Signore e Salvatore nella gloria. Nel Catechismo del Concilio di Trento (1576)
leggiamo: «Come dal principio del mondo in poi il desiderio degli uomini si
volse ardente al giorno in cui il Signore avrebbe rivestito l’uomo come per libe-
rare l’umanità, così dopo la morte e l’ascensione del Figlio di Dio dobbiamo
volgerci con lo stesso ardente desiderio a quel secondo giorno del Signore nel

151
Si vedano le pp. 66s.

98
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

quale, secondo la nostra santa speranza, avverrà la manifestazione della gloria


del nostro grande Dio»152.
La riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II voleva mettere in rilie-
vo la venuta finale di Cristo nella gloria. «Nella liturgia terrena… aspettiamo
come Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo», si legge nel Sacrosanctum Conci-
lium, «fino a quando egli comparirà, egli che è la nostra vita, e noi saremo mani-
festati con lui nella gloria… Nel corso dell’anno… [la Chiesa] distribuisce l’in-
tero mistero di Cristo dall’Incarnazione e dalla Natività fino all’ascensione, nel
giorno di Pentecoste e all’attesa della beata speranza e del ritorno del Signore»153.
Dopo la consacrazione eucaristica, la proclamazione del mistero della fede
fa ripetutamente riferimento al passato (croce e resurrezione), al presente (libera-
zione dal peccato), e al futuro: “nell’attesa della tua venuta”. Mentre l’anamnesis,
pronunciata subito dopo la consacrazione, non fa riferimento alla Parousia nella
prima e seconda delle Preghiere Eucaristiche, tutte le altre vi fanno esplicito rife-
rimento. Nella terza leggiamo: «Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto
per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della
sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e
santo». Nella quarta: «In questo memoriale della nostra redenzione celebriamo,
Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua resurre-
zione e ascensione al cielo dove siede alla tua destra; e, in attesa della sua venuta
nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue». All’embolismo del “Padre
Nostro” si aggiunge: «Liberaci, o Signore, da tutti i mali… e con l’aiuto della
tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento,
nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo».
Allo stesso modo, la liturgia dell’Avvento non solo punta verso la nascita
del Salvatore e la gioiosa ricorrenza di questa festa, ma anche deve portare i
cristiani a guardare con speranza verso la venuta futura di Cristo nella gloria,
la Parousia, in ricordo dell’attesa paziente, riempita da preghiera, di Simeone e
Anna (Lc 2,21-40). Si può notare, tra l’altro, che molte liturgie antiche menzio-
nano esplicitamente la Parousia154. La cosiddetta Liturgia di Giacomo155 parla del

152
Catechismo del Concilio di Trento (Catechismo Romano) I, 7,2. Trad. L. Andrianopoli, Il Cate-
chismo Romano Commentato, Ares, Milano 1987, 95.
153
Concilio Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, nn. 8, 102.
154
E. Keller, Eucharistie und Parusie: Liturgie- und theologiegeschichtliche Untersuchungen zur
eschatologischen Dimension der Eucharistie anhand ausgewählter Zeugnisse aus frühchristlicher und
patristischer Zeit, Universitätsverlag, Fribourg (Suisse) 1989.
155
Si veda J. Leclercq, Jacques (Liturgie de Saint), in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de
liturgie, vol. 7/2, col. 2116-21.

99
Capitolo II

«secondo glorioso e tremendo ritorno di Cristo». La liturgia del Messale Stowe,


di origini celtiche, contiene la seguente anamnesis: «Fa questo, in ogni momen-
to, in memoria di me. Annuncerai la mia passione e testimonierai la mia resur-
rezione. Vivrai nella speranza del mio ritorno finché io verrò ancora dal cielo»156.
Nella pre-anafora dalla liturgia Siro-Malabarese leggiamo la seguente
descrizione del sacrificio eucaristico: «ci hai ordinato, Signore, nostro Dio, di
preparare un posto sull’altare santo a questi misteri, gloriosi e santi, vivificanti
e divini, fino alla seconda gloriosa venuta di Cristo dal cielo, a lui gloria e lode,
adorazione ed onore, nei secoli dei secoli»157. Nell’anamnesi della liturgia Siro-
Malankarese, situata dopo la consacrazione, leggiamo: «La tua Chiesa, Signore,
ricorda tutte le tue opere e la tua seconda venuta tremenda, quando darai ad
ognuno la sua ricompensa secondo le proprie opere»158.
La pratica comune di rivolgersi ad Oriente durante la celebrazione euca-
ristica è essa stessa indicativa, perché è da lì che Cristo, Sole della Giustizia,
verrà159. Al contrario il Battesimo, in cui Satana viene ripudiato, può essere cele-
brato guardando ad Occidente, luogo, per contrasto, di buio ed oscurità160. La
veste bianca indossata dai bambini nel Battesimo è un segno del Regno di Dio già
presente sulla terra161. Con le parole di Sesboüé, «proprio come l’eucaristia è una
specie di “Parousia sacramentale”, così anche la vita della Chiesa è un “sacramen-
to del futuro”. La realtà definitiva degli ultimi tempi progredisce tramite l’incon-
tro con il Signore Gesù che è sempre presente ed incessantemente nuovo»162.
Il beato Giovanni Paolo II († 2005) nella sua enciclica del 2003 Ecclesia de
Eucharistia scrive: «L’acclamazione che il popolo pronuncia dopo la consacra-
zione opportunamente si conclude manifestando la proiezione escatologica che

156
Si veda L. Gougand, Celtiques (Liturgies), in ibid., vol. 2, col. 2973-5. Lo stesso si può dire delle
liturgie di San Marco, San Giovanni Crisostomo, San Basilio, così come del rito Ambrosiano e
Mozarabico: si veda J. J. Alviar, Escatología, 74s.
157
Dalla celebrazione Siro-Malabrese dell’eucaristia.
158
Dal Qurbono Siro-Malankarese.
159
Si veda l’opera classica di F. J. Dölger, Sol Salutis. Gebet und Gesang im christlichen Altertum:
mit besonderer Rücksicht auf die Ostung in Gebet und Liturgie, Aschendorff, Münster 19202. Si
veda anche J. M.-R. Tillard, L’Eucharistie, sacrement de l’espérance ecclésiale, «Nouvelle Revue
Théologique» 83 (1961) 561-92; J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2001, 70-80; U. M. Lang, Rivolti al Signore: l’orientamento nella preghiera
liturgica, Cantagalli, Siena 2006.
160
Si veda D. E. Aune, The Cultic Setting of Realized Eschatology; W. Rordorf, Liturgie et
eschatologie, «Augustinianum» 18 (1978) 153-61.
161
Si veda V. Pavan, La veste bianca battesimale, indicium escatologico nella Chiesa dei primi secoli,
«Augustinianum» 18 (1978) 257-71.
162
B. Sesboüé, Le retour du Christ, 155.

100
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

contrassegna la Celebrazione eucaristica (1 Cor 11,26): “nell’attesa della tua venu-


ta”. L’Eucaristia è tensione verso la meta, pregustazione della gioia piena promes-
sa da Cristo (Gv 15,11); in certo senso, essa è anticipazione del Paradiso, “pegno
della gloria futura”. Tutto, nell’Eucaristia, esprime l’attesa fiduciosa perché “si
compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”. Colui che si
nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere l’aldilà per ricevere la vita eter-
na: la possiede già sulla terra, come primizia della pienezza futura, che riguarderà
l’uomo nella sua totalità. Nell’Eucaristia riceviamo infatti anche la garanzia della
resurrezione corporea alla fine del mondo: “Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).
Questa garanzia della futura resurrezione proviene dal fatto che la carne del
Figlio dell’uomo, data in cibo, è il suo corpo nello stato glorioso di risorto. Con
l’Eucaristia si assimila, per così dire, il “segreto” della resurrezione»163.

La Parousia come vittoria finale e pubblica di Dio. La Parousia è spesso descritta


da San Paolo come il momento della definitiva vittoria di Dio sul peccato, sulla
morte e sul diavolo. I profeti dell’Antico Testamento aspettavano il “Giorno del
Signore” in cui Dio avrebbe agito con potenza in favore del suo popolo, distrug-
gendo i nemici una volta per tutte. Questo motivo è presente soprattutto negli
scritti del profeta Sofonia164, ed anche in Zaccaria, Isaia, Geremia ed Amos.
Quest’ultimo scrive: «Guai a coloro che attendono il Giorno del Signore! Che
cosa sarà per voi il Giorno del Signore? Tenebre e non luce!… e oscurità, senza
splendore alcuno» (Am 5,18-20). A sua volta, Geremia parla del “Giorno del
Signore” come dell’inizio di una nuova epoca (46,10)165.
Nel Nuovo Testamento, tuttavia, il “giorno del Signore” diventa il “giorno
di Cristo”166. Dal momento che la Parousia implica la definitiva vittoria del bene
sul male, si tratta chiaramente di un avvenimento pubblico, come il termine

163
Giovanni Paolo II, Enc. Ecclesia de Eucharistia (2003), n. 18. Si veda Benedetto XVI, Es. apost.
Sacramentum caritatis (2007), nn. 30-32.
164
Si veda H. Irsigler, Gottesgericht und Jahwetag. Die Komposition Zef 1,2-2,3, untersucht auf der
Grundlage der Literarkritik des Zefanjabuches, EOS, St. Ottilien 1977.
165
Si veda anche Is 13,6-9; 22,5; 34,8; 63,4.
166
Ci sono molti esempi lungo tutto il Nuovo Testamento. Mt 24,36 utilizza l’espressione “quel
giorno”, Rm 2,5, il «giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio». 1 Cor 3,13
afferma: «quel Giorno farà conoscere… l’opera di ciascuno». I Ts 5,2: «il giorno del Signore verrà
come un ladro di notte»; 2 Tm 1,12 parla di Paolo che custodisce «fino a quel giorno ciò che gli
è stato affidato». In 2 Tm 4,8 si parla della «corona di giustizia [che] il Signore giudice giusto,
mi consegnerà in quel giorno». Gc 5,3: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni». 2 Pt 3,12
parla dei cristiani mentre «aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio». Ap 16,14 parla dei
re e dei demoni che si raduneranno «per la battaglia del grande giorno di Dio, l’Onnipotente».

101
Capitolo II

stesso “Parousia” indica. La Parousia sarà decisamente differente dalla prima


venuta del Salvatore, nella quale Gesù ha gentilmente bussato ai cuori degli
uomini, cercando la loro libera risposta (Ap 3,20). Nella Parousia egli verrà in
potere e gloria, per giudicare i vivi e i morti. E il suo giudizio sarà definitivo e
senza appello. Nessuno potrà evitare di incontrare il Figlio dell’uomo che viene,
dal momento che la Parousia sarà evidente ed innegabile per chiunque. San
Matteo spiega che la novità della venuta del Signore non si comunicherà da una
persona all’altra, ma direttamente all’intera umanità. «Allora, se qualcuno vi
dirà “Ecco, il Cristo è qui!”, oppure “è là”, non credeteci; perché sorgeranno falsi
cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli… Se, dunque, vi diranno
“Ecco, è nel deserto”, non andateci; “Ecco, è in casa” non credeteci. Infatti come
la folgore viene da oriente e brilla fino ad occidente, così sarà la venuta del Figlio
dell’uomo… Subito dopo le tribolazioni di quei gironi il sole si oscurerà… e le
potenze dei cieli saranno sconvolte. Allora comparirà in cielo il segno del Figlio
dell’uomo, e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno
il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria; egli
manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi elet-
ti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli» (Mt 24,23.26s.;29-31). Il
ritardo nella venuta finale ha lo scopo di spingere il popolo a riflettere sulla
misericordia di Dio: «O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemen-
za e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla
conversione?» (Rm 2,4-6; cf. 2 Pt 3,9).

In cosa consisterà la Parousia?  Il più delle volte è rischioso tentare di descrivere il


modo di agire di Dio nei confronti delle sue creature. Ancora di più, forse, sarebbe
il tentativo di fornire una descrizione della Parousia167. Tuttavia, la Scrittura offre
alcune indicazioni che possono essere d’aiuto nell’immaginare in cosa consiste-
rà la venuta finale di Gesù nella gloria. Gli apostoli, fissando gli occhi sul cielo
dopo l’Ascensione del Signore, sentirono queste parole dall’angelo: «Uomini di
Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato
assunto al cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
Il punto di riferimento per la Parousia, quindi, sarà l’umanità risorta e gloriosa
di Gesù. Tuttavia, in un certo senso quest’affermazione semplicemente rimanda

Sull’equivalenza tra “il giorno del Signore” del Antico Testamento e la Parousia del Nuovo
Testamento, si veda C. Pozo, La teología del más allá, 104-10.
167
A. Feuillet considera il tema della Parousia tra i più complessi dell’intero Nuovo Testamento:
Parousie, col. 1141.

102
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria

il problema di descrivere la Parousia, in quanto la Scrittura ci narra che poco


possiamo dire del corpo risorto, spiritualizzato (1 Cor 15,44), quello di Cristo e
dell’uomo. Eppure è vero che il testo appena citato dagli Atti degli Apostoli indica
che la Parousia richiede la venuta di Cristo la cui gloria sarà visibile a tutti. La sua
manifestazione non sarà più circoscritta a coloro che credono, come è avvenuto
nelle apparizioni verificatesi dopo la sua resurrezione, ma sarà visto dall’intera
umanità, anche da coloro che sono lontani da Dio.
Inoltre, la Parousia non consisterà tanto in un movimento di Cristo verso
l’umanità, dal cielo alla terra, sebbene tale espressione sia utile da un punto di vista
metaforico. Le apparizioni successive alla resurrezione di Gesù a Maria Madda-
lena o agli apostoli possono facilitare la nostra comprensione: forse l’incontro di
Paolo con Gesù sulla via di Damasco è indicativo. Teologicamente parlando, è più
preciso dire quel che segue. Come l’intero mondo è stato creato per mezzo di Lui
(Gv 1,3), in Lui e in vista di Lui (Col 1,16); come inoltre, Gesù con la sua Resurre-
zione è diventato il Signore del cielo e della terra (Fil 2,9-11), così si può affermare
che la Parousia consisterà in una nuova, più profonda relazione dell’intero cosmo
con Cristo, una relazione definitiva, sulla base della fondamentale relazione tra
Lui ed il cosmo stabilita nella creazione e rinnovata dalla redenzione. Forse si
potrebbe dire che la Parousia consiste nella definitiva attualizzazione della rela-
zione fondamentale tra Cristo e la creazione. A quel punto Cristo «consegnerà
il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza
e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici
sotto ai suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte… E quando
tutto gli sarà sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha
sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,24-28).

103
Capitolo III

LA RESURREZIONE DEI MORTI

La promessa della resurrezione è l’anima della storia


Gabriel Marcel1

La resurrezione del corpo significa la resurrezione di tutta la vita vissuta


Romano Guardini2

Non voglio raggiungere l’immortalità con il mio lavoro.


Voglio ottenere l’immortalità non morendo
Woody Allen

La fede nella resurrezione dei morti per la potenza di Dio è profondamente


radicata nell’Antico Testamento ed è centrale per la fede cristiana3. Tertulliano
(† ca. 220) è giunto a dire che «la speranza dei cristiani è la resurrezione dei
morti»4. Ed è così per la semplice ragione che la resurrezione finale dell’uma-
nità è il frutto definitivo della Resurrezione di Cristo (che è il fondamento della
nostra speranza), e della sua gloriosa Parousia (la manifestazione definitiva della
nostra speranza). Possiamo dire che il primo ed immediato effetto della venuta
di Gesù Cristo nella gloria sarà quello della resurrezione dei morti.
La Chiesa ha insegnato questa dottrina fin dai primi tempi. Il Credo
degli Apostoli parla ripetutamente della “resurrezione della carne”5, mentre il

1
G. Marcel, Structure de l’Esperance, 79.
2
R. Guardini, Le cose ultime, 72.
3
Si veda in particolare il mio studio Resurrezione, nel Dizionario Interdisciplinare di Scienza e
Fede, cit., vol. 2., 1218-31 cui fanno stretto riferimento le prossime pagine.
4
Tertulliano, De res., 1.
5
Su questa espressione, si veda in particolare il mio studio La fórmula “Resurrección de la carne” y
su significado para la moral cristiana, «Scripta Theologica» 21 (1989) 777-803.

105
Capitolo III

Credo di Nicea-Costantinopoli dice: «aspettiamo la resurrezione dei morti»6. Il


Quicumque o Simbolo Ps.-Atanasiano dice: «e alla sua venuta tutti risorgeran-
no, ciascuno con il proprio corpo, per rendere conto delle proprie opere»7. Paolo
VI nel Credo del popolo di Dio dice: «la morte sarà definitivamente sconfitta nel
giorno della resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai loro corpi»8.
Ugualmente, il Catechismo della Chiesa Cattolica fornisce un ampio trattamen-
to a questo elemento fondamentale della fede e della speranza dei cristiani9.
In questo capitolo considereremo la resurrezione nelle sue fonti scritturi-
stiche, patristiche ed ecclesiali, e poi esamineremo alcune questioni relative alla
teologia della resurrezione e alle sue implicazioni.

1. La fede nella resurrezione nella Scrittura, nella teologia


e nella vita della Chiesa
In primo luogo vediamo la dottrina della resurrezione dei morti nella
Scrittura e attraverso la storia, secondo quattro direttrici: (1) l’origine giudaica e
cristiana della fede nella resurrezione; (2) la resurrezione nell’Antico Testamento;
(3) la resurrezione nel Nuovo Testamento; e (4) le testimonianze cristiane della
fede nella resurrezione, e il suo influsso sull’antropologia e sull’etica cristiana.

1. Il carattere giudaico e cristiano della fede nella resurrezione

Fonti antiche.  Sebbene autori antichi come Esculapio riportino sporadicamente


la possibilità della resurrezione dei morti, una tale nozione è stata considerata
perlopiù impensabile dai filosofi e dai poeti greci come Omero, Eschilo, Platone
e Sofocle. Senza dubbio la possibilità della resurrezione universale era esclusa10.
Comunque, tracce significative della fede nella resurrezione si trovano nei riti di
fertilità degli antichi Egiziani11, sebbene la spiegazione sia lontana dal pensiero
ebraico. Per gli egiziani, in effetti, la resurrezione è considerata come un proces-

6
DS 150.
7
DS 76.
8
Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 28.
9
Si veda CCC 992-1004.
10
Si veda M. Hengel, Judaism and Hellenism. Studies in their Encounter in Palestine during the
Early Hellenistic Period, SCM, London 1981, vol. 1, 196, note 574-5, sugli aspetti non-rivelati della
dottrina della resurrezione.
11
Si veda H. H. Rowley, The Faith of Israel. Aspects of Old Testament Thought, SCM, London
1956, 161ss.; H. Wissmann, Auferstehung der Toten I/1: Religionsgeschichtlich, in Theologische
Realenzyklopädie, a cura di G. Krause e G. Müller, vol. 4, De Gruyter, Berlin; New York 1979,

106
La resurrezione dei morti

so puramente naturale, riservato in ogni caso a coloro i cui corpi siano stati in
qualche modo conservati, per esempio tramite il processo della mummifica-
zione. Nel Rig-Veda indiano (precedente al 2000 a.C.), si descrive come l’anima
del morto venisse presa dal dio-fuoco e «ricevesse un nuovo corpo, più “sotti-
le”, e la sua vita fosse una replica della vita umana sulla terra, sebbene libera
da tutte le imperfezioni che qui sono inseparabili dal corpo»12. Alcuni autori
hanno suggerito che la dottrina della resurrezione derivi dalla teologia della
salvezza persiana, che, in effetti, utilizza il linguaggio della resurrezione13. La
concezione ebraica e quella persiana della resurrezione, tuttavia, sono netta-
mente distinte l’una dall’altra. Per gli Ebrei, la resurrezione implica il risveglio
dei corpi sepolti tramite la potenza di Dio. Per i Persiani, che esponevano i corpi
alla dissoluzione degli elementi, la resurrezione è concepita come un risorgere
della vita mediante l’azione degli elementi stessi della natura; si trattava inol-
tre di un processo selettivo, non universale14. Il che significa che l’intervento
speciale della potenza divina non è considerato necessario, com’è invece per la
resurrezione universale. In breve, sebbene si possono trovare delle contiguità
linguistiche tra gli insegnamenti ebrei e persiani riguardo la vita dopo la morte,
non c’è però consonanza per quanto riguarda la modalità (resurrezione), la
causa (la potenza di Dio) e l’estensione (universale)15.

Resurrezione e reincarnazione.  Alcuni autori16, raccogliendo un suggerimento


di Tertulliano17, hanno trovato qualcosa di simile alla fede nella resurrezione
nella dottrina orfica e pitagorica della “trasmigrazione” (o metempsychosis) delle
anime, che ha portato alla dottrina popolare, ricorrente lungo la storia, della
“reincarnazione”18. L’antica dottrina della trasmigrazione prevede la liberazio-

442s.; J. H. Charlesworth, The Origin and Development of Resurrection Beliefs, in Aa.vv., The
Origin and Future of a Biblical Doctrine, T. & T. Clark, New York 2006, 218-231.
12
R. C. Zähner, Hinduism, Oxford University Press, London 1962, 75.
13
Si veda A. Bertholet, The Pre-Christian Belief in the Resurrection of the Body, «American Journal
of Theology» 20 (1916) 1-30.
14
Si veda W. F. Albright, From the Stone Age to Christianity, The John Hopkins Press, Baltimore
19572, 358; R. H. Charles, A Critical History of the Doctrine of a Future Life in Israel, in Judaism,
and in Christianity, Black, Adam & Charles, London 19132, 139ss.
15
Si veda W. F. Albright, From the Stone Age, 361; R. C. Zähner, The Dawn and Twilight of
Zoroastrianism, Wiedenfeld and Nicolson, London 1961, 57.
16
I. Lévy, La légende de Pythagore de Grèce en Palestine, Leroux, Paris 1927, 255; T. F. Glasson,
Greek Influence in Jewish Eschatology, with Special Reference to the Apocalypses and Pseudepigraphs,
SPCK, London 1961, 29.
17
Si veda Tertulliano, De res. 1,5.
18
Pars pro toto, si veda L. Bukovski, La réincarnation selon les Pères de l’Église, en «Gregorianum»
9 (1928) 65-91; A. de Georges, La réincarnation des âmes selon les traditions orientales et

107
Capitolo III

ne finale dell’anima dopo ripetute incarnazioni purificatrici in diversi corpi,


umani oppure animali. Tale dottrina è contenuta nei concetti indù e buddista di
samsāra, il ciclo di nascita e morte, e karma, la somma accumulata delle conse-
guenze etiche delle proprie azioni19; negli insegnamenti di Pitagora, Platone e
degli orfici in Grecia, e tra gli gnostici e stoici. Recenti spiegazioni di “reincar-
nazione” (sviluppati dai teosofisti, antroposofisti e spiritualisti), tuttavia, riten-
gono che l’anima continuerà per sempre ad occupare corpi umani differenti.
Tale posizione è diventata di recente piuttosto popolare, particolarmente nel
contesto delle spiritualità “New Age”20.
Sia la resurrezione che la reincarnazione sottolineano il fatto che il destino
immortale degli uomini è collegato in modo significativo al corpo. Comunque,
sebbene alcuni testi della Scrittura sembrino insegnare la dottrina della rein-
carnazione21, in realtà tale dottrina è lontana dalla fede cristiana ed ebraica22. I
Padri della Chiesa, e i successivi teologi lo hanno spesso ripetuto23. La resurre-

occidentales, Michel, Paris 1966; J. L. Ruiz de la Peña, ¿Resurrección o reencarnación?, «Communio


(ed. española)» 2 (1980) 287-299; L. Scheffczyk, Die Reinkarnationslehre und die Geschichtlichkeit,
«Münchener Theologische Zeitschrift» 31 (1980) 122-129; A. Couture, Réincarnation ou
résurrection? Revue d’un débat et amorce d’une recherche, «Sciences Ecclésiastiques» 36 (1984)
351-374; 37 (1985) 75-96; H. Waldenfels, Auferstehung, Reinkarnation, Nichts? Der Mensch auf der
Suche nach seiner Zukunft, «Lebendiges Zeugnis» 41 (1986) 39-50; P. Thomas, La Réincarnation,
oui ou non?, Centurion, Paris 1987; H. Beck, Reinkarnation oder Auferstehung: Ein Widerspruch?,
Resch, Innsbruck 1988; M. Kehl, Wiedergeburt – Häresie oder Hoffnung?, «Geist und Leben» 63
(1990) 445-57; C. Schönborn, La vie éternelle. Réincarnation. Résurrection. Divinisation, Mame,
Paris 1992; S. Del Cura Elena, Escatología contemporánea. La reencarnación como tema ineludible,
in Aa.vv, Teología en el tiempo. Veinticinco años de quehacer teológico, Facultad de Teología del
Norte de España, Burgos 1994, 309-58; B. Kloppenburg, Reincarnaçao, Vozes, Petrópolis 2003.
19
La dottrina della reincarnazione si trova nella nozione Indù di karma (la somma dei
comportamenti buoni o cattivi nella vita di una persona), che deve essere espiato. Sulla complessa
relazione tra karma e reincarnazione, si veda B. Pandit, Karma and Reincarnation, in The Hindu
Mind, New Age Books, New Delhi 2001, 117-26. Secondo il Buddismo il Bodhissattva rifiuta
di immergersi nel nirvāna finché ci sarà anche solo una persona nell’inferno. «Dietro questa
immagine impressionante della religiosità asiatica appare per il cristiano la figura dell’autentico
Bodhisattva – del Cristo – nel quale si è realizzato il sogno dell’Asia» J. Ratzinger, Escatologia, 198.
20
Si veda A. Feder, Reinkarnationshypothese in der New-Age-Bewegung, Steyler, Nettetal 1991; M.
Introvigne, La sfida della reincarnazione, Effedieffe, Milano 1993.
21
È comune citare testi come Mt 14,1-2; 16,14; 17,12; Gv 1,21; 9,2; 2 Cor 5,10; Gal 6,7 in sostegno
della dottrina della reincarnazione. Si veda la confutazione classica di A. Orbe, Textos y pasajes de
la Escritura interesados en la teoría de la reincorporación, «Estudios Eclesiásticos» 33 (1959) 77-92.
22
Si veda L. Scheffczyk, Die Reinkarnationslehre; C. Schönborn, La vie éternelle.
23
Si veda H. Cornélis et al., La résurrection de la chair, Cerf, Paris 1962, 165-262; H. J. Weber, Die
Lehre von der Auferstehung der Toten in den Haupttraktaten der scholastischen Theologie, Herder,
Freiburg i. B. 1973, 83ss.

108
La resurrezione dei morti

zione è accettabile, dice Taziano (II sec.), «ma non secondo la modalità stabilita
dagli stoici; per essi infatti le stesse cose nascono e muoiono in periodi ciclici»24.
La resurrezione non è confrontabile con la reincarnazione, in primo luogo
perché lo scopo della trasmigrazione è la perfetta purificazione dell’anima trami-
te la sua definitiva separazione dalla materia, mentre la resurrezione implica la
perpetua ed armonica riunificazione di anima e corpo, di spirito e materia. Le
antropologie implicate sono differenti, addirittura opposte, essendo la natura
umana definita dall’unità di corpo e anima (resurrezione), non dalla loro defi-
nitiva e perpetua separazione (reincarnazione). In secondo luogo, la resurrezione
differisce dalla trasmigrazione nel fatto che la seconda può aver luogo molte volte
per un’anima particolare (finché la purificazione sia completa), o indefinitamen-
te, mentre la resurrezione (e la medesima vita umana) ha luogo una sola volta.
Perciò, una fede nella resurrezione finale ha come conseguenza che gli uomini
possano vivere una volta sola (come Cristo ha vissuto, è morto ed è risorto dalla
morte, ephapax, “solo una volta”, come leggiamo nella lettera agli Ebrei)25. La
moderna fede nella reincarnazione, che prevede la ripetizione indefinita del ciclo-
vitale umano, quindi, tende a consacrare il provvisorio, mettere a repentaglio la
fedeltà, banalizzare la vita quotidiana26. Terzo, se la trasmigrazione è applicata
al destino e alla purificazione individuale, la resurrezione si riferisce all’intera
umanità, perché avrà luogo contemporaneamente per tutti gli uomini alla fine
dei tempi. Quarto, mentre la reincarnazione possa fornire una giustificazione
per le ineguaglianze sociali, la resurrezione è sviluppata nella Scrittura come uno
strumento divino per assicurare la giustizia definitiva, e quindi l’uguaglianza tra
gli uomini27. Quinto ed ultimo, mentre la trasmigrazione è normalmente consi-
derata un processo naturale, nel quale le anime spontaneamente passano da un
corpo al successivo, la resurrezione dipende interamente dal potere ri-creatore di

24
Taziano, Or. ad graecos, 6.
25
Sull’unicità e irripetibilità della morte e Resurrezione di Cristo come base per rifiutare la
reincarnazione, si veda C. Schönborn, La vie éternelle, 141-3. Commentando l’ampio studio di
John Hick sulla dottrina della reincarnazione, Death and Eternal life, Collins, London 1976, 297-
396, W. Pannenberg nota: «stranamente, nelle sue riflessioni sul rapporto tra cristianesimo e idea
di reincarnazione [Death and Eternal Life, 365-73], Hick non approfondisce questo punto. Egli
ricorda l’interesse del cristianesimo per l’unicità della redenzione attraverso la morte di Gesù
Cristo [ibid., 372], non però il correlato antropologico di questa fede nell’interesse per l’unicità
della vita terrena», Teologia sistematica, vol. 3, 592, nota 128. Sul termine ephapax, si veda BDAG,
97, s.v. ἅπαξ; 417, s.v. ἐφάπαξ.
26
G. Colzani dice che la reincarnazione fornisce «un genere di felice permanente vacanza che
permette a ciascuno di eludere le scelte drammatiche della vita quotidiana» G. Colzani, La vita
eterna, 15. Massimo il Confessore chiama la reincarnazione una “morte perpetua”.
27
Si veda il mio studio La muerte y la esperanza, Palabra, Madrid 2004, 97-109.

109
Capitolo III

Dio. Quest’ultimo è quel che rende la fede nella resurrezione strettamente teolo-
gica e in modo caratteristico giudaico-cristiana28.

2. La Resurrezione nell’Antico Testamento


La dottrina della resurrezione dei morti non è stata espressamente svilup-
pata nei primi libri dell’Antico Testamento. Di fatto, essi fanno a mala pena
qualche riferimento alla possibilità di una vita umana significativa oltre la
morte29. La ragione di ciò si trova probabilmente nella possibilità che il culto dei
morti che ne sarebbe risultato avrebbe potuto diventare occasione di pratiche
idolatriche, contrastanti con la pratica dell’adorazione del solo Dio30.

La vita dopo la morte nell’Antico Testamento.  Tuttavia, l’accettazione del desti-


no immortale dell’uomo è espressa in diversi modi nell’Antico Testamento, tre
dei quali sono degni di nota.
Primo, l’immortalità umana è compresa essenzialmente nei termini
dell’immortalità del Popolo di Dio. Secondo la fede di Israele, il Popolo di Dio
rimarrà per sempre, essendo fondato sul patto che Dio ha stabilito con esso e
sulla promessa che Egli ha fatto ad Abramo. «Poiché i doni e la chiamata di Dio
sono irrevocabili», sentenzia Paolo nella lettera ai cristiani di Roma (Rm 11,29).
Per questa ragione, per le persone sposate il fatto di non avere figli era conside-
rato segno definitivo di disgrazia, dal momento che la prole veniva considerata
segno della benedizione di Dio, garanzia certa dell’appartenenza al suo Popo-
lo, contribuzione alla sua immortalità (Gn 24,60; Es 1,21; 23,26). Nel contesto
dell’Alleanza, quel che di meglio si affermava degli individui membri del popolo
di Dio è che essi «moriranno vecchi e sazi di giorni» (Gn 25,7s.).
In secondo luogo, l’Antico Testamento parla frequentemente di una certa
sopravvivenza “dei morti” (detti refa’im) nell’oltretomba (lo she’ol)31.

28
G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 426, suggerisce le seguenti obiezioni alla fede nella
reincarnazione: la nullificazione del soggetto umano personale; lo svilimento del corpo umano,
considerato come un mero ricettacolo dello spirito; la rimozione di ogni senso di responsabilità
dalla vita personale; la giustificazione ideologica per le ineguaglianze sociali.
29
Si veda L. Wächter, Der Tod im Alten Testament, Calwer, Stuttgart 1967; J. Ratzinger, Escatologia,
96-107.
30
Si veda per esempio Lv 19,31; 20,6; Is 8,19. L’Antico Testamento incontrò nel culto degli
antenati una forma di competizione con la fede in Dio come l’unico che ha potere sul futuro. Su
questo argomento, si veda L. Wächter, Der Tod, 187s.; J. Ratzinger, Escatologia, 99s., così come
l’opera classica di A. Lods, La croyance à la vie future et le culte des morts dans l’antiquité israélite,
Fischbacher, Paris 1906.
31
Sullo she’ol e refa’im, si veda R. Martin-Achard, De la mort à la résurrection d’après l’Ancien

110
La resurrezione dei morti

Lo she’ol, l’oltretomba, è la buia dimora dei morti, un luogo di impurità, nel


quale non è offerto alcun culto a Dio. Serve come segno dell’assenza di Dio, ed è
simile all’hadēs greco abitato dagli spiriti32. Giobbe lo descrive come segue: «Non
sono poca cosa i miei giorni? Lasciami, che io possa respirare un poco prima che
me ne vada, senza ritorno, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra
di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,20-22).
La radice del termine refa’im, “i morti”, è râfa, che indica ciò che è debo-
le o languido. Quindi i refa’im sono rappresentati come una specie di replica
degli uomini, delle ombre povere ma reali della loro esistenza terrena, un nucleo
personale semi-consapevole, letargico e totalmente inattivo33. Si parla dei refa’im
in modo generalmente collettivo, dal momento che i morti vivono senza una
individualità personale. Non possono lodare Dio34 e sono appena consapevoli di
esistere (1 Sam 28,8-19). Tuttavia, è vero anche che dal momento che lo she’ol non
coincide con il luogo di sepoltura o la tomba, i refa’im non possono essere iden-
tificati semplicemente con i cadaveri umani. Con la dottrina dei refa’im, quindi,
l’Antico Testamento insegna che rimane un qualcosa di spirituale degli uomini
dopo la morte, che va al di là dell’immortalità che corrisponde alla memoria
collettiva35. La letteratura sapienziale è più aperta alla sopravvivenza dei morti e
alla loro immortalità (Sap 3). Eppure per lo più, nell’Antico Testamento la morte
non viene considerata come una liberazione, né lo she’ol un luogo di speranza.
La rivelazione cristiana parla della vita nell’aldilà invece in termini molto più
positivi. Ciononostante, è giusto dire che la dottrina cristiana assume dall’Antico
Testamento la nozione dei morti (refa’im) che abitano lo she’ol, sebbene corretta
cristologicamente36.

Testament, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1956; L. Wächter, Der Tod, 181-98; C. Pozo, La
teología del más allá, 200-20.
32
Il termine “she’ol” è molto vicino al greco hadēs o regno degli spiriti, secondo l’opera classica di E.
Rohde, Psyche. The Cult of Souls and Belief in Immortality among the Greeks (orig. 1891), Harcourt
Brace, London; New York 1925, 236ss.; si veda anche G. Deiana, L’inferno. She’ol, Geenna, Ade: il
castigo dell’inferno, in G. Bortone (a cura di), I novissimi nella Bibbia, ISSRA, L’Aquila 1999, 93-113;
L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo, A. Mondadori, Milano 20002, 123-49. Per una analisi dettagliata, si
veda P. S. Johnson, Shades of Sheol. Death and Afterlife in the Old Testament, Inter-Varsity, Downers
Grove (IL) 2002; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 138-50. Si veda lo studio classico di G. L.
Prestige, Hades in the Greek Fathers, «Journal of Theological Studies» 24 (1923) 476-85.
33
Si veda Gb 3,13-17s.; Na 3,18. R. Martin-Achard, De la mort à la résurrection, trova le origini
dell’idea di refa’im tra le divinità della fertilità sotterranee. Tra le altre cose, questo spiegherebbe
la paura dei morti.
34
Si veda Is 38,18; Sal 88,11ss.; 30,10; Sir 17,22.
35
Questa è la spiegazione fornita da C. Pozo, La teología del más allá, 200-10.
36
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 159.

111
Capitolo III

Terzo, il termine “immortalità” (athanasia) appare per la prima volta nell’An-


tico Testamento nel libro della Sapienza37. Sebbene l’immortalità considerata come
ricordo e fama non venga esclusa (Sap 8,13), questo libro associa l’immortalità
principalmente con la vita retta dell’anima umana. «Le anime dei giusti… sono
nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà» (Sap 3,1). «Sì, Dio ha creato l’uo-
mo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura» (Sap 2,23),
«La giustizia infatti è immortale» (Sap 1,15). «I giusti… vivono per sempre, la loro
ricompensa è presso il Signore, e di essi ha cura l’Altissimo» (Sap 5,15).
La dottrina della resurrezione universale dei morti appare esplicitamente
solo negli ultimi testi dell’Antico Testamento, dal 200 a.C. in poi, specialmente
in quelli di genere apocalittico. Ciò significa che a livello esplicito non si può
dire che si trattasse di una dottrina antica, sebbene le sue radici possono essere
rinvenute nei primi passi della Scrittura, come Gesù stesso insegna38. La dottri-
na della resurrezione si sviluppa secondo tre passaggi39: le fondazioni teologiche
e letterarie; gli insegnamenti dell’Antico Testamento sulla resurrezione perso-
nale; infine, la dottrina del Nuovo Testamento.

Le fonti letterarie e teologiche della dottrina della resurrezione. Nell’Anti-


co Testamento le basi per la dottrina della resurrezione si esplicano in diversi
modi, sia letterari che teologici, lungo un esteso periodo di tempo. Si può dar
nota dei sei successivi.
In primo luogo, la consapevolezza del destino umano dopo la morte40 suscita
un dilemma penoso per coloro che tentano di vivere una vita retta: mentre il giusto
si è sforzato di servire Dio, ma spesso ha dovuto sopportare disgrazie e tragedie, i

37
Si veda P. Grelot, De la mort a la vie éternelle: études de théologie biblique, Cerf, Paris 1971, 105,
ritiene che la dottrina dell’immortalità sia caratteristica dell’Antico Testamento. Si veda C. Pozo,
La teología del más allá, 227-37 e BDAG, 23, s.v. ἀθανασία.
38
Si vedano le pp. 119s.
39
Sulla teologia della resurrezione nell’Antico Testamento, si veda J. Becker, Auferstehung der
Toten im Urchristentum, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1976; P. Hoffmann, Die Toten in
Christus; U. Kellermann, Überwindung des Todesgeschicks in der alttestamentlichen Frömmigkeit
vor und neben dem Auferstehungsglauben, «Zeitschrift für Theologie und Kirche» 73 (1976) 259-
82; G. Greshake e J. Kremer, Resurrectio Mortuorum. Zum theologischen Verständnis der leiblichen
Auferstehung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1992; C. Pozo, La teología del
más allá, 324-41; É. Puech, La croyance des Esseniens en la vie future: immortalité, résurrection,
vie éternelle?: histoire d’une croyance dans le judaïsme ancien, 2 vol., Gabalda, Paris 1993; J. D.
Levenson, Resurrection and the Restoration of Israel: the Ultimate Victory of the God of Life, Yale
University Press, New Haven 2006; K. Madigan and J. D. Levenson, Resurrection; J. Gillespie, The
Development of Belief in the Resurrection within the Old Testament, Edusc, Roma 2009; A. Nitrola,
Pensare la venuta del Signore, 150-86.
40
Si veda R. Martin-Achard, De la mort, 57-84; D. Cox, “As Water Spilt on the Ground”: Death in

112
La resurrezione dei morti

peccatori spesso godono i beni della vita in modo apparentemente sproporzionato


ai propri meriti41. Questo è osservabile soprattutto nei Salmi cosiddetti “mistici”
(1, 16, 49 e 73)42. In alcuni casi il salmista giunge alla conclusione che il giusto
trionferà alla fine, persino durante il suo pellegrinaggio terreno. Ma il sospetto
che la giustizia non sarebbe arrivata, neppure dopo la morte, porta il salmista a
disperare di Dio e degli altri, cadendo in una tripla spirale di ribellione e blasfe-
mia, poi di violente rimostranze (messianismo temporale)43, e in fine all’idolatria
e al paganesimo (alla ricerca della protezione di altre divinità in aspetti della vita
apparentemente trascurati da Jahve). In ogni caso, il dilemma era particolarmente
doloroso per i giusti nell’Antico Testamento e la loro percezione della problemati-
ca era chiara: o la giustizia è ottenuta qui sulla terra, o non verrà mai raggiunta44.
Ed è questa ricerca della giustizia definitiva personale ciò che prepara la
scena per la dottrina della resurrezione finale45. Essa quindi non è destinata solo
ai gusti, ma, piuttosto, è un prerequisito affinché giustizia venga fatta46. Qual-
cosa del genere si può ritrovare nelle religioni orientali: il nirvāna si compirà
quando la giustizia verrà definitivamente stabilita47.
Secondo, l’Antico Testamento insegna che la potenza liberatrice di Jahve è
presente ovunque, anche nello she’ol, il luogo di riposo dei morti48. Cioè, nessu-
no sfuggirà la giustizia divina49. «Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia
anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia
vita nello she’ol, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa» (Sal 16,9s.). «Tu infatti

the Old Testament, «Studia Missionalia» 31 (1982) 1-17; C. Marucci, Teologia della morte nell’A.
T., in G. Bortone, I novissimi nella Bibbia, 3-30.
41
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 327-30; G. Colzani, La vita eterna, 99s.
42
Si veda R. J. Tournay, L’eschatologie individuelle dans les Psaumes, «Revue Biblique» 57 (1949)
481-506; M. Dahood, Psalms: Introduction, Translation, and Notes (The Anchor Bible, vol. 16, 17,
17.1), Doubleday and Co., Garden City 1981-2; C. Pozo, La teología del más allá, 214-20.
43
Sull’argomento del Messianismo temporale e la sua perenne propensione alla rivoluzione, si
veda G. Scholem, Sabbatai Tsevi. Le Messie mystique, 1626-1676, Verdier, Paris 1985.
44
In Salmi 73,23-26.28 leggiamo: «Ma io sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra.
Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria. Chi avrò per me nel cielo? Con
te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del
mio cuore, mia parte per sempre… Per me il mio bene è stare vicino a Dio; nel Signore Dio ha
posto il mio rifugio, per narrare tutte le tue opera».
45
W. Pannenberg dice che «la fede in una futura vita individuale, oltre la morte, diventa oggetto di
speranza soltanto quando si combina con l’aspettativa di una vita migliore, soprattutto se vissuta
in comunione con la divinità. Ed è questa la seconda e più profonda radice della fede biblica nella
resurrezione» Teologia sistematica, vol. 3, 593.
46
Tra i testi apocalittici si veda per esempio Syr. Bar. 50,2-4. Si veda anche Gv 5,29; At 24,15.
47
Si veda la nota 19 sopra.
48
Si veda 1 Sam 2,6; Am 9,1-2; Sal 16,9s.; Sap 16,13s.
49
Si veda Sal 88,11; 139,8-12; Gb 14,13s.

113
Capitolo III

hai potere sulla vita e sulla morte, conduci alle porte del regno dei morti e fai
risalire» (Sap 16,13). La medesima dottrina si trova nell’insegnamento di Gesù
rispetto al «seno di Abramo» (Lc 16,22); esso probabilmente fa riferimento ad
una parte del mondo sotterraneo in cui il potere salvifico di Dio è attivo50.
In terzo luogo, Jahve si distingue dagli dei pagani (che gelosamente si attac-
cano alla vita e tentano di dominarla) per il fatto che Egli è il “Dio vivente” (1 Sam
17,26-36; Sal 18,47), la fonte (Sal 36,10; Ger 2,13) da cui la vita zampilla incessan-
temente e senza misura (Dn 14,25). Inoltre, si può ritrovare una chiara continuità
tra la dottrina della creazione e quella della resurrezione come manifestazioni del
Dio che dà la vita51. Tale motivo è fortemente presente lungo tutta la Scrittura.
Quarto, come conclusione di quanto detto sopra, la morte e la corruzio-
ne definitiva non appartengono al piano originario di Dio; infatti egli ha creato
ogni cosa per la vita. In realtà la morte è entrata nel mondo attraverso il peccato
dell’uomo52. «Non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita,
non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani; perché Dio non ha creato
la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,12s.). Ci occuperemo della
questione della relazione tra peccato e morte più avanti53. Può bastare, tuttavia,
per il momento dire che la vittoria di Dio sul peccato, cioè la redenzione, è stret-
tamente collegata alla vittoria sulla morte, cioè alla resurrezione, che diventa una
manifestazione centrale del potere salvifico di Dio. La Scrittura spesso afferma,
inoltre, che coloro che vivono in unione con Dio saranno liberati dalla morte54.
In quinto luogo, materiale letterario utile per descrivere la resurrezione si
trova nei libri dei Re, che spiegano come i santi profeti Elia ed Eliseo abbia-
no compiuto resurrezioni miracolose55. Ugualmente, la “assunzione” al cielo di
Enoc56 e di Elia57 forniscono una chiara indicazione della generale accettazio-
ne della possibilità che l’intera vita corporea venga restituita all’uomo dopo la

50
Sull’immagine del “seno di Abramo” si vedano le differenti interpretazioni presentate da J.
Nolland, Luke 9,21-18,34 (Word Biblical Commentary, 38), Word Books, Dallas 1993, 829. Si
veda anche BDAG, 556s., s.v. κόλπος, 1, con bibliografia. L’espressione fa riferimento al luogo di
onore e rispetto nell’altro mondo.
51
Si veda N. T. Wright, The Resurrection of the Son of God, Fortress, Minneapolis 2003, 123.
52
Si veda Gn 3,17-19; Sap 1,13-14; 2,23-24; Rm 5,21; 6,23; Gc 1,15.
53
Si vedano le pp. 317ss.
54
Si veda Gb 14,10-21; Sir 14,16.
55
Si veda 1 Re 17,17-24; 2 Re 2,9s.; 4,31-7; Sir 48,5-14.
56
Si veda Gn 5,24; Sir 44,16 & 49,14.
57
Si veda 2 Re 2,1-11; Sir 48,9.

114
La resurrezione dei morti

morte, benché in un contesto transitorio e terreno, in particolare per coloro che


sono specialmente preferiti da Dio58.
Infine, molti testi profetici – in particolare del periodo post-Esilio – parla-
no della caduta e della resurrezione di Israele in termini di morte corporea e
resurrezione. L’idea si trova in Is 25,8, un testo che San Paolo più tardi utilizzerà
per insegnare la resurrezione corporea (1 Cor 15,54s.), così come in Is 26,19:
«Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi
ed esultate, voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa,
la terra darà luce alle ombre [refa’im]». La stessa idea è presente in Osea 6,1-3.
L’esempio più chiaro di questo motivo è presente in Ezechiele 37,1-14, che parla
del popolo di Israele che risorge dalla prostrazione in termini di resurrezione e
rianimazione di una pianura di ossa inaridite. Mosso da Dio, il profeta pronun-
cia queste parole: «Ossa inaridite, udite la parola del Signore… ecco io faccio
entrare in voi lo spirito, e rivivrete. Metterò su di voi i nervi, e farò crescere su di
voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò lo spirito e rivivrete. Saprete
che io sono il Signore» (Ez 37,4-6). «Io profetizzai come mi aveva comandato”,
dice Ezechiele, «e lo spirito ritornò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in
piedi; erano un esercito grande, sterminato» (Ez 37,10).
Su questo testo si possono fare diverse osservazioni59. Prima, che la resur-
rezione, così com’è, è il frutto della potenza dello Spirito di Dio, sebbene Dio
abbia inspirato il profeta rendendolo uno strumento nel processo di resurrezio-
ne dei morti. Seconda, parlando di “carne” e di “spirito”, il testo di Ezechiele si
presenta come glossa del racconto yahevista della creazione di Gn 2-3 (si veda in
particolare Gn 2,7). Così la credenza nella resurrezione non deve essere conside-
rata una imprevedibile o irrazionale manifestazione di potenza divina, perché
è in continuità con l’opera creatrice del Dio che dà la vita. Terza osservazione:
Ezechiele non insegna apertamente la resurrezione personale, dal momento che
il testo fa chiaramente riferimento alla resurrezione del popolo di Israele deca-

58
Così Ireneo, Adv. Haer. V, 5. Si veda anche H. C. C. Cavallin, Life after Death. Paul’s Argument
for the Resurrection of the Dead in I Cor 15, vol. 1: An Enquiry into the Jewish Background, Gleerup,
Lund 1974, 23.
59
Si veda E. Haag, Ez 37 und der Glaube an die Auferstehung der Toten, «Trierer theologische
Zeitschrift» 82 (1973) 78-92. Vedi i commenti di W. Zimmerli, Ezekiel: a Commentary on the
Book of the prophet Ezekiel, vol. 2, Fortress, Philadelphia 1983, cap. 25-48; J. Blenkinsopp, Ezekiel.
Interpretation: A Bible Commentary for Teaching and Preaching, John Knox Press, Louisville,
Kentucky 1990; C. J. H. Wright, The Message of Ezekiel: a New Heart and a New Spirit, Inter-
Varsity, Leicester 2001; L. C. Allen, Ezekiel 20-48, Word Books, Dallas 1990; D. I. Block, The Book
of Ezekiel, 2 vols, W. B. Eerdmans, Grand Rapids (MI); Cambridge 1997-98; M. Greenberg, Ezekiel
21-37: a new Translation with Introduction and Commentary, Doubleday, New York 1997.

115
Capitolo III

duto: «queste ossa sono tutta la casa di Israele» (Ez 37,11). È chiaro che questi
testi prevedono il ritorno collettivo, terreno del popolo di Dio alla sua gloria
passata, piuttosto che la resurrezione individuale dei morti. Il “nuovo esodo” è
formulato in termini di resurrezione corporea. Tuttavia, e si tratta della quar-
ta osservazione, il fatto che l’immagine utilizzata per parlare della rinascita di
Israele sia precisamente quella della resurrezione corporea è molto rilevante,
data la relazione di entrambe con creazione ed Esodo60. Inoltre, la metafora della
pianura di ossa inaridite che tornano alla vita è spesso stata usata in contesto
artistico e liturgico per spiegare la dottrina della resurrezione finale61.

Resurrezione personale dei morti nell’Antico Testamento.  La resurrezione perso-


nale nell’Antico Testamento62 è tacitamente espressa in Gb 19,25ss., e aperta-
mente nel libro di Daniele. Quest’opera canonica, che appartiene al corpus della
letteratura apocalittica ed è stato scritto intorno al 165 a.C.63, colloca la dottrina
della resurrezione finale nel contesto della persecuzione degli Ebrei da parte di
Antioco Epifane e del “re del mezzogiorno” (Dn 11). Il profeta Daniele anzitutto
descrive la prova patita dagli Ebrei e il divino proposito comunicato tramite il
profeta. Leggiamo: «sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stata dal
sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo,
chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione
della polvere si risveglieranno; gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e
per l’infamia eterna» (Dn 12,1-2).
Questo testo ebbe origine a seguito del martirio di alcuni dei giusti di Isra-
ele, e ha lo scopo di spiegare come questi saranno vendicati. Il profeta ci dice
che Dio assicurerà la giustizia, anche dopo la morte, risuscitando alla vita sia i
traditori che perseguitarono i giusti (per l’infamia eterna) sia coloro che hanno

60
Si veda J. D. Levenson, Resurrection and the Restoration of Israel, 163.
61
Si veda E. Dassmann, Sündenvergebung durch Taufe, Busse und Märtyrerfürbitte in den Zeugnissen
frühchristlicher Frömmigkeit und Kunst, Aschendorff, Münster 1973, 60, 70, 220s. Si veda R. M.
Jensen, Born Again. The Resurrection of the Body and the Restoration of Eden, in Understanding
Early Christian Art, Routledge, London; New York 2000, 156-82, in particolare 167ss.
62
Si veda G. F. Hasel, Resurrection in the Theology of the Old Testament Apocalyptic, «Zeitschrift
für die alttestamentliche Wissenschaft» 92 (1980) 267-84; L. J. Greenspoon, The Origins of the
Idea of Resurrection, in Traditions in Transformation, a cura di B. Halpern e J. D. Levenson,
Eisenbrauns, Winona Lake (IN) 1981, 247-321; M. S. Moore, Resurrection and Immortality: Two
Motifs Navigating Confluent Theological Streams in the Old Testament (Dan 12,1-4), «Theologische
Zeitschrift» 39 (1983) 17-34. Martin-Achard considera che sia Is 26 che Ez 37 facciano riferimento
alla resurrezione personale, come anche G. F. Hasel e L. J. Greenspoon.
63
Si veda B. J. Alfrink, L’idée de résurrection d’après Dn 12,1-2, «Biblica» 40 (1959) 355-71; A.
Bonora, Il linguaggio di resurrezione in Dn 12,1-3, «Rivista Biblica» 30 (1982) 111-25; CAA 89-92.

116
La resurrezione dei morti

sopportato la persecuzione (per la vita eterna)64. Teologicamente parlando, la


novità di Daniele 12 è degna di gran nota: la resurrezione non è affatto terrena
e collettiva, riservata al popolo di Dio in quanto tale, ma piuttosto trascende
la morte e si applica agli individui, Ebrei o pagani, sulla base delle loro azioni,
buone o cattive. In breve, si può dire che in Daniele l’aspetto etico della vita
umana prende il posto di quello etnico. Resurrezione non è più sinonimo di
salvezza del popolo, ma ha una profonda relazione con il raggiungimento della
giustizia per l’umanità65.
È da notare anche che secondo Daniele, la resurrezione non sembra essere
destinata a tutti; infatti egli parla di “molti di quelli che dormono nella regione
della polvere”. Sembrerebbe che Dio vendichi solo alcuni gravi crimini e certe
vite eroiche. Altri testi apocalittici non canonici, tuttavia, parlano della resurre-
zione per tutti66. Inoltre, molti autori affermano che nel contesto generale della
letteratura apocalittica, che è chiaramente di carattere universale, il termine
“molti” è, di fatto, equivalente a “tutti”67.
Un messaggio simile si può trovare nel secondo libro dei Maccabei (7,1-29),
che è all’incirca contemporaneo al libro di Daniele e ne sviluppa gli insegna-
menti68. Questo testo presenta la resurrezione nei termini di una ricompensa
per l’eroica obbedienza alla legge del Signore, per la fede in Lui fino al martirio.
Uno dei giovani minacciato dal re grida: «Dal Cielo ho queste membra e per le
sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo» (2 Mac 7,11). Allo
stesso modo suo fratello dichiara: «È preferibile morire per mano degli uomini,
quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati» (2 Mac
7,14). Ed aggiunge, rivolgendosi al re: «ma per te non ci sarà davvero resurrezio-

64
Alcuni autori ritengono che il testo parli solo di resurrezione “per i vivi”; per gli altri ci sarà
la morte eterna, e non la resurrezione: così J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 82; P.
Grelot, De la mort a la vie éternelle, 184, nota 4. Non si tratta, tuttavia, della posizione più comune.
65
Secondo R. H. Charles, la resurrezione è «un tipo di proprietà escatologica, un mezzo attraverso
il quale i membri delle nazioni si presenteranno davanti a Dio per ricevere la loro ricompensa
finale» Eschatology, in Encyclopedia Biblica 2 (1901) 1355.
66
Si veda CAA 91s.
67
Secondo R. Martin-Achard, De la mort à la résurrection, 453, l’espressione fa letteralmente
riferimento a “i molti”; per altri autori si riferisce a “tutti e ciascuno”: E. F. Sutcliffe, The Old
Testament and the Future Life, Burns, Oates & Washbourne, London 19472, 138-40; J. Jeremias,
The Eucharistic Words of Jesus, SCM, London 1966. Si veda la recente riflessione, in contesto
liturgico, di M. Hauke, Versato per molti: studio per una fedele traduzione del pro multis nelle
parole della consacrazione, Cantagalli, Siena 2008.
68
Si veda U. Kellermann, Auferstanden in den Himmel. 2 Makkabäer 7 und die Auferstehung der
Märtyrer, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1979, che afferma che il testo è strettamente correlato
con Dn 12.

117
Capitolo III

ne per la vita». In breve, la potenza salvifica e vivificatrice di Dio, la realizzazio-


ne della giustizia divina, non è da sperimentare o da aspettare esclusivamente
in un contesto terreno e collettivo, come avevano insegnato i profeti precedenti,
ma al di là della morte e – in principio – per l’intera umanità, santi e peccatori.
Come in Isaia ed in Ezechiele, la dottrina della resurrezione in Daniele e
nei Maccabei è in linea con la dottrina della creazione, poiché il Dio che dà vita
ed esistenza le darà in pienezza alla fine a coloro che credono in lui. Infatti il
passaggio dei Maccabei si conclude con l’esortazione della madre del giovane,
che dice: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è
in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti [una sorprendente allu-
sione alla dottrina della creazione]; tale è anche l’origine del genere umano…
Accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno
della misericordia» (2 Mac 7,28s.).
C’è da aggiungere che la letteratura sapienziale, sebbene si occupi ampia-
mente dell’immortalità in generale, attribuisce poca attenzione alla resurrezio-
ne in quanto tale69. Inoltre, mentre i testi apocalittici del periodo intertesta-
mentario accettano generalmente la dottrina della resurrezione70, gli autori dei
Manoscritti del Mar Morto (del Qumran) erano esitanti su tale argomento71.
Nondimeno tutti e tre accettano la nozione di immortalità dell’anima72.

3. Resurrezione dei morti nel Nuovo Testamento


La dottrina della resurrezione così come si era sviluppata nel percorso
dell’Antico Testamento sembra essere stata accettata pacificamente da molti se
non dalla maggior parte degli Ebrei ai tempi di Nostro Signore73. Quando Marta

69
Si veda H. Bückers, Die Unsterblichkeitslehre des Weisheitsbuches, Aschendorff, Münster 1938;
P. Beauchamp, La salut corporel des justes et la conclusion du Livre de la Sagesse, «Biblica» 45
(1964) 491-526; G. Dautzenberg, Sein Leben bewahren. Ψυχ in den Herrenworten der Evangelien,
Kösel, München 1966, 42ss.; P. Grelot, L’eschatologie de la Sagesse et les Apocalyptiques juives, in
De la mort, 187-99; C. Larcher, Études sur le livre de la sagesse, Gabalda; Lecoffre, Paris 1969; C.
Pozo, La teología del más allá, 227-37; M. V. Fabbri, Creazione e salvezza nel libro della Sapienza:
esegesi di Sapienza 1,13-15, Armando, Roma 1998; idem., Incorruttibilità e salvezza corporale. Il
significato del termine ἀφθαρσία in Sap. 2,23, «Annales Theologici» 24 (2010) 293-326.
70
Si veda G. W. E. Nickelsburg, Resurrection, Immortality and Eternal Life in Intertestamental
Literature, Harvard University Press; Oxford University Press, Cambridge; London 1972; CAA
86-92.
71
Si veda J. Pryke, Eschatology in the Dead Sea Scrolls, in The Scrolls and Christianity, a cura di M.
Black, SPCK, London 1969, 45-57; CAA 87, nota 119.
72
Si veda CAA 87, nota 120; 92s.
73
Si veda K. Schubert, Die Entwicklung der Auferstehungslehre von der nachexilischen bis zur
frührabbinischen Zeit, «Biblische Zeitschrift» 6 (1962) 177-214; E. Schürer, The History of the

118
La resurrezione dei morti

si lagnò con Gesù di aver permesso la morte di suo fratello Lazzaro, e Gesù
replicò che egli sarebbe risorto di nuovo, ella esclamò: «So che risorgerà nella
resurrezione dell’ultimo giorno» (Gv 11,24). Sembra che la resurrezione fosse
una credenza comune. Tuttavia, nel Nuovo Testamento si trovano diversi aspet-
ti nuovi della dottrina della resurrezione74. Se ne possono menzionare cinque.

La natura della resurrezione finale.  Ai tempi del Nuovo Testamento, il partito


dei sadducei, che accettava solo i primi cinque libri della Scrittura (il Pentateu-
co), negava la dottrina della resurrezione, e ogni genere di vita oltre la morte.
Al contrario, i farisei insegnavano apertamente queste dottrine75. «I sadducei
infatti affermano che non c’è resurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei invece
professano tutte queste cose», ci dice Paolo (At 23,8). Sebbene Daniele consi-
derasse che la resurrezione avesse luogo dopo la morte, come abbiamo appena
visto, il partito dei farisei considera la resurrezione in termini più materialistici
e terreni (forse qualcosa di non dissimile dalla reincarnazione)76. La loro visione
era più vicina a quella profetica di Isaia ed Ezechiele, in cui Dio è visto interve-
nire direttamente nelle vicende terrene in favore di Israele77. Alla domanda dei
sadducei su che genere di resurrezione sarebbe spettata ad una donna che aveva
sposato successivamente sette fratelli (Mt 22,23-33; cf. Dt 25,5), Gesù risponde:
«Vi ingannate, perché non conoscete le Scritture e neppure la potenza di Dio.
Alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli
nel cielo. Quanto poi alla resurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è
stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe?
Non è il Dio dei morti, ma dei viventi!» (Mt 22,29-32)78.

Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 B. C. - A. D. 135), vol. 2, T. & T. Clark, Edinburgh 1979,
462-500; G. Stemberger, Der Leib der Auferstehung. Studien zur Anthropologie und Eschatologie
des palästinischen Judentums im neutestamentlichen Zeitalter (ca. 170 v. Chr. -100 n. Chr.), Biblical
Institute Press, Roma 1972; BDAG, 71s., s.v. ἀνάστασις, 2.
74
Si veda L. Coenen e C. Brown, Resurrection, in NIDNTT 3, 259-79; il mio studio Resurrezione;
A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 189-246.
75
Sui sadducei e farisei, si veda CAA 88, note 123s.; recentemente, si veda J. Neusner e B. Chilton
(a cura di), In Quest of the Historical Pharisees, Baylor University, Waco (Texas) 2007.
76
Si veda CAA 164, nota 143.
77
Così l’opera classica di L. Finkelstein, The Pharisees. The Social Background of their Faith,
Fortress, Philadelphia 1938, 145-59.
78
Su questo testo nella versione di Marco, si veda F.-G. Dreyfus, L’argument scripturaire de Jésus
en faveur de la résurrection des morts (Mc 12,26-27), «Revue Biblique» 66 (1959) 213-24; B. Rigaux,
Dieu l’a ressuscité. Exégèse et théologie biblique, Duculot, Gembloux 1973, 30-60; G. Greshake e J.
Kremer, Resurrectio Mortuorum, 53-6.

119
Capitolo III

Contro la negazione della resurrezione finale da parte dei Sadducei, Gesù


dice che avrà luogo, tramite la potenza di Dio dei viventi, cioè «il Dio di Abra-
mo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe» (Mt 22,32 = Es 3,6). Nel far ciò il Signo-
re significativamente rintraccia le fondamenta teologiche della fede nella resur-
rezione (la potenza e sovranità di Dio sull’intero ordine del creato) dal libro
dell’Esodo, che i sadducei dicevano di accettare. Contro l’insegnamento dei
farisei, tuttavia, Gesù insegnò che la resurrezione non sarebbe segnata dal ritor-
no allo stato terreno, corruttibile, ma da uno stato di trasformazione, glorioso e
permanente: «alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si
è come angeli del cielo» (Mt 22,30)79. In questo modo Gesù dà piena espressione
agli insegnamenti di Daniele e del secondo libro dei Maccabei80.

La resurrezione universale.  Il Nuovo Testamento conferma quello che era già


stato detto nell’Antico: essendo la potenza di Dio sulla creazione illimitata e la
salvezza guadagnata da Cristo destinata a tutti, la resurrezione sarà universale.
In Gv 5,28s., che si riferisce chiaramente a Dn 12,2 e lo sviluppa, leggiamo:
«viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usci-
ranno, quanti fecero il bene per una resurrezione di vita e quanti fecero il male
per una resurrezione di condanna». Paolo, parlando di fronte ai pagani, insegna
la stessa cosa: «ci sarà una resurrezione dei giusti e degli ingiusti» (At 24,15)81.
Tuttavia, l’idea che la resurrezione sia riservata solo ai santi si può trovare
in alcuni dei primi scrittori cristiani82. Probabilmente questo fu inevitabile, dal
momento che nel Nuovo Testamento viene attribuita una particolare attenzione

79
Sul significato di “angeli” in questo testo, si veda CAA 164.
80
Si può trovare il medesimo insegnamento in San Paolo. Paolo in 1 Cor 15 rifiuta l’idea ebraica
secondo la quale il corpo risorto sarà identico a quello terreno: F. Mussner, Die Auferstehung Jesu,
Kösel, München 1969, 101ss.
81
Questa universalità è conforme col contesto farisaico di Paolo: si veda P. Volz, Die Eschatologie
der jüdischen Gemeinde im neutestamentlichen Zeitalter nach den Quellen der rabbinischen,
apokalyptischen und apokryphen Literatur, Mohr, Tübingen 19342, 229-71; J. Bonsirven, Le
judaïsme palestinien au temps de Jésus-Christ: sa théologie, Beauchesne, Paris 19352, vol. 1, 468-85.
82
Si veda per esempio la Didachē 16,4-5. Policarpo (Phil 2,2) dice che la resurrezione è destinata
a coloro che «compiono la volontà [di Dio], seguono i suoi comandamenti ed amano quel che
egli ama». Su Policarpo, si veda A. Bovon-Thurneyson, Ethik und Eschatologie im Philipperbrief
des Polycarp von Smyrna, «Theologische Zeitschrift» 29 (1973) 241-56. Si veda anche Ignazio
d’Antiochia, Trall. 9,2; Ad Smyrn. 5,3. Secondo Ad Smyrn. 2,1, i condannati sono destinati ad una
esistenza incorporea. Sulla questione nella letteratura apocalittica e rabbinica, si veda CAA 88s.;
H. L. Strack e P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, C. H.
Beck, München 19654, vol. 4, 799-976. Sull’intera questione, E. Lohse, Märtyrer und Gottesknecht:
Untersuchungen zur urchristlichen Verkündigung vom Sühnetod Jesu Christi, Vandenhoeck &
Ruprecht, Göttingen 19632, 50s.

120
La resurrezione dei morti

alla “resurrezione dei viventi” come dottrina rivolta non ai pagani, ma ai fedeli
cristiani, legati tramite il battesimo alla morte e resurrezione di Gesù. Di fatti,
quando Giovanni (Gv 6,55-57) e Paolo (1 Cor 15,14ss.) parlano di resurrezione
dei viventi, si stanno chiaramente riferendo ai credenti.

La resurrezione di Cristo e la resurrezione dell’umanità.  L’elemento più caratte-


ristico dell’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo la resurrezione è che
essa avrà luogo non solo attraverso la potenza vivificatrice di Dio, ma in virtù
della resurrezione di Gesù Cristo dai morti per effusione dello Spirito Santo83. Il
Catechismo della Chiesa Cattolica afferma quanto segue: «Gesù lega la fede nella
resurrezione alla sua stessa Persona… Sarà lo stesso Gesù a risuscitare nell’ultimo
giorno coloro che avranno creduto in lui»84. Gesù risuscitato fornisce in persona la
promessa, la garanzia, l’esempio e la pregustazione della resurrezione universale,
che è da considerarsi la «estensione della resurrezione di Cristo agli uomini»85.
Più specificatamente, secondo San Giovanni, Gesù in persona afferma di
essere «la resurrezione e la vita» (Gv 11,25), essendo egli «il Figlio del Dio viven-
te» (Gv 11,27), Colui nel quale «la vita si manifestò» (1 Gv 1,2). Ed egli spiega:
«come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di
avere la vita in se stesso… Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri
udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una resurrezione di
vita, e quanti fecero il male per una resurrezione di condanna» (Gv 5,26.28s.).
Così San Paolo insiste con forza sulla dottrina della resurrezione finale in
termini cristologici86. Cristo è «il primogenito fra molti fratelli» (Rm 8,29; cf.
Col 1,18). Paolo attribuisce particolare attenzione alla resurrezione finale in 1
Cor 1587, e spiega che essa dipende interamente dalla potenza del Cristo risor-

83
Si veda il mio studio Muerte y esperanza, 55-74.
84
CCC 994.
85
Congregazione per la Dottrina della Fede, Doc. Recentiores episcoporum Synodi (1979), n. 2
(trad. it., Alcune questioni di escatologia, «Enchiridion Vaticanum» 6, nn. 1528-1549). Dal punto
di vista biblico, si veda B. M. Ahern, The Risen Christ in the Light of the Pauline Doctrine of the
Risen Christian (1 Co 15,35-37), in Resurrexit. Actes du Symposium international sur la résurrec-
tion de Jésus, a cura di E. Dhanis, Vaticana, Città del Vaticano 1974, 423-39.
86
Si veda At 24,14s.; 1 Ts 4,14-17; Ef 2,5s.; 3,1-4; Fil 3,10s.; 1 Cor 15.
87
Sullo scopo di 1 Cor 15, se sia destinata a coloro che dicono che la resurrezione ha già avuto
luogo, o per coloro che semplicemente la negano, si veda W. Schmithals, Die Gnosis in Korinth.
Eine Untersuchung zu den Korintherbriefen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1956; H.
Rusche, Die Leugner der Auferstehung von den Toten in der korinthischen Gemeinde, «Münchener
Theologische Zeitschrift» 10 (1959) 149ss.; G. Sellin, Der Streit um die Auferstehung der Toten,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986; B. S. Rosner, ‘With What Kind of Body Do they Come?’
(1 Corinthians 15:35b): Paul’s Conception of Resurrection Bodies, in P. J. Williams, B. W. Winter
(a cura di), The New Testament in its First Century Setting, W.B. Eerdmans, Grand Rapids (MI);

121
Capitolo III

to. Egli mette questa dottrina al centro stesso della fede cristiana: «Se non vi
è resurrezione dei morti», dice, «neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non
è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la nostra fede» (1
Cor 15,13s.). Invece «Cristo è risorto dai morti», aggiunge, «primizia di coloro
che sono morti» (1 Cor 15,20). Quindi, «come eravamo simili all’uomo terreno,
così saremo simili all’uomo celeste» (1 Cor 15,49). Se Cristo non fosse risorto,
non ci sarebbe resurrezione dei morti, perché la sua resurrezione è origine della
resurrezione degli uomini. In questo senso Cristo non è un caso particolare
entro la regola generale, il primo da risorgere, ma nel pieno senso del termine è
la “primizia” di coloro che sono morti88.
Paolo spiega anche che la resurrezione è anticipata nella vita presente per
coloro che partecipano alla morte e resurrezione di Cristo nel Battesimo89. In
questo senso si potrebbe dire che ad un certo grado la resurrezione dell’uomo
ha già avuto luogo, sebbene Paolo associ la resurrezione principalmente con la
Parousia alla fine dei tempi90.

L’aspetto sociale e corporale della resurrezione. Un’altra conseguenza della


resurrezione di Cristo è che la resurrezione degli uomini sarà sia corporativa che
corporale91. Questo ci porta a considerare l’umanità risorta di Cristo, in tutta la
sua oggettività e realismo, come punto di riferimento critico per la verità e la
qualità tangibile della resurrezione finale, così come è stata testimoniata dagli
apostoli e tramandata nella Chiesa a tutti i credenti. Quattro elementi attestano
il valore storico ed oggettivo della loro testimonianza92 e perciò la significatività
e la tangibilità della fede nella resurrezione finale.

Cambridge 2004, 190-205; M. Teani, Il contributo di Paolo per ripensare corporeità e resurrezione,
in F. Scanziani (a cura di), Ripensare la resurrezione, Glossa, Milano 2009, 163-93.
88
In questo senso la resurrezione di Cristo implica quella degli uomini, ma non al contrario:
si veda G. Bucher, Auferstehung Christi und Auferstehung der Toten, «Münchener Theologische
Zeitschrift» 25 (1976) 1-32; J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 155.
89
Si veda Rm 6,3-11; Ef 2,6; Col 3,1ss.
90
Questo aspetto è ben documentato da P. Lengsfeld, Adam et le Christ: la typologie Adam-Christ
dans le Nouveau Testament et son utilisation dogmatique par M. J. Scheeben et K. Barth, Aubier-
Montaigne, Paris 1970, 56s.; G. Greshake e J. Kremer, Resurrectio Mortuorum, 112-4.
91
Si veda 1 Cor 6,14s. J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 156, insiste su questo punto:
la resurrezione non può essere nullificata, perché e corporativa e corporale. Si veda anche J. A. T.
Robinson, The Body. A Study in Pauline Theology, SCM, London 1961, 88s.: «Sarebbe un errore
considerare il testo paolino secondo l’idea moderna che la resurrezione dei corpi è in qualche
modo correlata con il momento della morte… Nessun passo del Nuovo Testamento stabilisce
una relazione essenziale tra la resurrezione e il momento della morte. I momenti chiave… sono il
Battesimo e la Parousia».
92
Si veda F. Mussner, Die Auferstehung Jesu; R. H. Gundry, Sōma in Biblical Theology with

122
La resurrezione dei morti

1. La tomba vuota. La realtà storica della «tomba vuota di Gesù indica


l’identità corporale tra colui che è stato crocifisso e colui che è risorto»93. Di fatti
sia 1 Cor 15,3-4 che At 2,31, fanno riferimento all’unico e medesimo soggetto
umano prima e dopo la resurrezione94. Al contrario, la possibilità di una decom-
posizione miracolosamente accelerata del corpo di Cristo prima del terzo gior-
no, suggerita da alcuni95, o l’idea che il corpo potrebbe essere stato consumato
da animali selvaggi96, sono spiegazioni difficilmente plausibili97.
2. La terminologia dell’apparizione. Le apparizioni di Gesù sono espresse così:
Gesù “si manifesta” (ophthe)98, o «si fa vedere»99. Dal momento che il verbo ophthe
ha la forma in aoristo, nella forma passiva, il testo sembra suggerire un reale incon-
tro faccia a faccia con il corpo fisico di Cristo, e non una mera visione soggettiva.
3 Il riconoscimento. A dispetto della paura, dell’apprensione e dell’incre-
dulità degli apostoli, Gesù li porta a riconoscerlo invitandoli a «toccare e guar-
dare» (Lc 24,39), e mangiando un pezzo di pesce fritto in loro compagnia100. In
particolare, egli non li invita a guardare al suo volto, ma piuttosto «le mie mani
e i miei piedi, sono proprio io!» (Lc 24,39). Questo perché le sue mani e i suoi
piedi portavano il segno della crocifissione e provavano la sua identità come di
Colui che era stato crocefisso101.
4. La gloriosa resurrezione di Gesù. Le difficoltà che gli apostoli hanno trova-
to nel riconoscere Gesù (egli apparve loro en hetera morphē, “sotto altro aspetto”,

Emphasis on Pauline Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 1976; S. T. Davis,


Christian Belief in the Resurrection of the Body, «New Scholasticism» 62 (1988) 72-97; C. Pozo, La
venida del Señor, 34-39.
93
F. Mussner, Die Auferstehung Jesu, 134. Si veda J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II,
282-6. «Se il sepolcro vuoto come tale certamente non può provare la resurrezione, essa resta però
un presupposto necessario per la fede nella resurrezione, dal momento che essa si riferisce proprio
al corpo e, per suo tramite, alla persona nella sua totalità» ibid., 283.
94
Si veda F. Mussner, Die Auferstehung Jesu, 133s.; A. Schmitt; Ps. 16, 8-11, als Zeugnis der
Auferstehung in Apg, «Biblische Zeitschrift» 17 1973) 229-48.
95
Per esempio X. Léon-Dufour, Résurrection de Jésus et message pascal, Seuil, Paris 1971, 204.
96
Questa posizione è suggerita da. D. Crossan, The Historical Jesus. The Life of a Mediterranean
Jewish Peasant, Harper, San Francisco 1991, che a sua volta è criticato da W. L. Craig, John
Dominic Crossan on the Resurrection of Jesus, in The Resurrection. An Interdisciplinary Symposium
on the Resurrection of Jesus, a cura di S. T. Davis, D. Kendall e G. O’Collins, Oxford University
Press, Oxford 1997, 249-71.
97
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 272ss., con bibliografia.
98
Si veda 1 Cor 15,3-8; 1 Tm 3,16; Lc 24,34; At 9,17; 13,31; 26,16.
99
Si veda F. Zorell, Lexicon Graecum Novi Testamenti, P. Lethielleux, Paris 1931, 928; BDAG,
719s., s.v. ὁράω.
100
Si veda Lc 24,42s.; C. M. Martini, L’apparizione agli Apostoli in Lc 24, 36-43 nel complesso
dell’opera lucana, in Resurrexit, 230-45.
101
Si veda Gv 20,20.25.27; F. Mussner, Die Auferstehung Jesu, 102-6.

123
Capitolo III

ci dice Marco 16,12) deriva dal fatto che Nostro Signore è risorto non in modo
temporaneo e terreno, come Lazzaro, ma con un corpo glorioso (Fil 3,21), e non
muore più (Rm 6,9). Sebbene da principio gli apostoli non lo riconobbero come
quell’unico e medesimo soggetto umano, in un secondo momento lo hanno potu-
to fare102. Sebbene vivendo ancora nello spazio e agendo in relazione con il mondo,
il Cristo risorto non appartiene più né dipende da questo mondo. Da allora in
avanti, la sua kenosis redentiva («svuotare se stesso», Fil 2,7) viene lasciata indie-
tro. Con la kenosis aveva rinunziato al suo prestigio e ai suoi privilegi103, ma ora,
«nel nome di Gesù, ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e
ogni lingua proclami: “Cristo Gesù è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (ibid., 10s.).
Inoltre, i cristiani istintivamente intuivano due importanti aspetti nella
resurrezione di Cristo. Primo, essa forniva un segno incontrovertibile dell’amo-
re fedele e misericordioso di Dio per l’umanità, malgrado l’aperto rifiuto di tale
amore da parte degli uomini che mettevano Gesù a morte sulla Croce, e avreb-
bero potuto, secondo giustizia, incorrere nell’ira eterna di Dio (Mt 21,40s.).
Inoltre, Gesù risorto quando appare, dice ai discepoli: «“Pace a voi”… Detto
questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i
peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdo-
nati”» (Jn 20,21-23).
Secondo, la resurrezione di Cristo costituisce un beneficio importante per
gli stessi uomini, una promessa sicura per l’intera umanità. Cristo è risorto, il
“primogenito” (Rm 8,29), e di conseguenza tutti coloro che gli appartengono
dovranno pure risorgere (1 Cor 15,12; 2 Cor 4,14). La resurrezione diventa un
catalizzatore non solo per la speranza e per la missione della Chiesa, ma anche
per la teologia della Chiesa, ed in particolare per la sua antropologia ed etica,
come vedremo fra poco.

La resurrezione, lo Spirito Santo e l’Eucaristia.  Inoltre, il Nuovo Testamento attri-


buisce la resurrezione escatologica all’azione dello Spirito Santo104 e all’Eucaristia105.
Il Nuovo Testamento presenta lo Spirito Santo come l’agente, per così
dire, della “estensione” della resurrezione di Cristo ai credenti. È così anzitutto
perché Lui è lo “Spirito di Cristo”106. Perciò leggiamo nella lettera ai Romani: «e

102
Si veda Lc 24,16-31; Gv 20,15-16.
103
Così BDAG, 539, s.v. κενόω, 1,b.
104
Si veda The Pneumatological Interpretation of New Testament Apocalyptic, in CAA 257-94.
105
Si veda G. Martelet, Résurrection, eucharistie et genèse de l’homme. Chemins théologiques d’un
renouveau chrétien, Desclée de Brouwer, Paris 1972; G. Wainwright, Eucharist and Eschatology.
106
Si veda At 10,38; Rm 8,9; 2 Cor 3,17.

124
La resurrezione dei morti

se lo Spirito di Dio, che ha resuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha
resuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali, per mezzo
del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). Come abbiamo mostrato altrove,
«lo Spirito… è Colui che applica, comunica e rende presente il contenuto della
rivelazione e il potere salvifico che deriva interamente dalle parole e dalle opere
di Gesù Cristo, l’Unto di Dio»107. E in secondo luogo, la Scrittura ci insegna che
lo Spirito dimora nel nostro corpo come in un tempio; perciò il corpo è segnato
per la resurrezione, per diventare un “corpo spirituale” (1 Cor 15,44). Ai Corinzi
Paolo scrive: «non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è
in voi?» (1 Cor 6,19; cf. 1 Cor 3,16).
Sant’Ireneo parla chiaramente dell’opera dello Spirito Santo per portare
avanti la resurrezione finale: «lo Spirito di Cristo è colui che riunisce le membra
sparse dei morti che sono disperse sulla terra, e le porta nel regno dei cieli»108.
Ilario di Poitiers († 367) dice che la resurrezione è il frutto dell’unione della
carne umana con lo Spirito, il suo sposalizio eterno109. Un autore recente para-
frasa l’articolo finale del Credo degli apostoli dicendo che i cristiani credono
«nello Spirito Santo, nella santa Chiesa per la resurrezione della carne»110.
Nello stesso senso la resurrezione di Cristo sarà estesa a coloro che si nutro-
no del suo corpo risorto, l’Eucaristia. «Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). Ancora
Ireneo, seguendo il Vangelo di Giovanni, insiste sul ruolo dell’Eucaristia in un
contesto cosmico, come garanzia e preparazione della resurrezione. Dice che lo
Spirito Santo agisce principalmente tramite l’Eucaristia111. «Come il pane che è
frutto della terra, una volta invocata la benedizione divina su di esso, non è più
pane comune, ma Eucaristia, composta da due realtà, una terrena, l’altra celeste,
così anche i nostri corpi che ricevono l’Eucaristia non saranno più corruttibili,
dal momento che portano in sé il seme della resurrezione»112. Ignazio d’Antio-
chia, sulla via per Roma per ricevere la corona del martirio, definisce l’Eucari-
stia “medicina di immortalità”113.

107
CAA 273.
108
Ireneo, Adv. Haer. V, 9,4.
109
Si veda Ilario di Poitiers, In Matth. 27,4.
110
Si veda P. Nautin, Je crois à l’Esprit Saint dans la sainte Église pour la résurrection de la chair,
Cerf, Paris 1947.
111
Si veda Ireneo, Adv. Haer. V, 2,2-3.
112
Ibid., IV, 18,4-5.
113
Ignazio d’Antiochia, Ad Eph. 20,2.

125
Capitolo III

In questo contesto, tuttavia, si può chiedere come i condannati, coloro che


non sono uniti a Cristo, in cui non dimora lo Spirito Santo, risorgeranno dalla
morte, dato che la resurrezione sembra essere praticamente sinonimo di salvez-
za114. Cirillo d’Alessandria insiste sull’universalità della resurrezione, cioè sul
fatto che tutti risorgeranno, e spiega che «la grazia della resurrezione è stata data
all’intera [umana] natura»115.
L’autore protestante Paul Althaus afferma che la resurrezione dei pecca-
tori avverrà non per azione dello Spirito di Cristo, ma in seguito alla «comune
azione creativa di Dio»116. In ogni caso, come abbiamo visto prima, esiste un
forte legame tra l’azione creatrice di Dio e la resurrezione dei morti. Tuttavia,
né il ruolo dello Spirito Santo né quello dell’Eucaristia devono essere totalmente
esclusi dalla resurrezione dei condannati. Infatti lo Spirito è lo Spirito creatore,
colui che ha creato l’intero universo, spirituale e materiale, e lo deve portare a
compimento e perfezione alla fine dei tempi. E per quanto riguarda l’Eucaristia,
San Paolo spiega che la condanna non è senza relazione alla comunione eucari-
stica; infatti, «chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia
e beve la propria condanna» (1 Cor 11,29).

4. La testimonianza cristiana della fede nella resurrezione: i primi passi


dell’antropologia e dell’etica cristiane
La dottrina della resurrezione finale è stata apertamente e gioiosamente inse-
gnata dai cristiani fin dal principio della vita della Chiesa117. Giustino Martire ha
dichiarato che essa è la garanzia dell’ortodossia cristiana118. Di fatti, nessun aspetto

114
Si veda A. Winklhofer, Das Kommen seines Reiches: von den Letzten Dingen, Josef Knecht,
Frankfurt a. M. 19622, 272; J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 157, 167. Il secondo
difende l’idea di resurrezione semplicemente come salvezza.
115
Cirillo d’Alessandria, In Joann. 6, su Gv 10,10.
116
Si veda P. Althaus, Die letzten Dinge, Bertelsmann, Gütersloh 19649, 116, 122.
117
Sullo sviluppo della dottrina della “resurrezione della carne” nei primi secoli cristiani, si
veda H. B. Swete, The Resurrection of the Flesh, «Journal of Theological Studies» 18 (1917)
135-41; L. E. Boliek, The Resurrection of the Flesh. A Study of a Confessional Phrase, Jacob van
Campen, Amsterdam 1962; G. Kretschmar, Auferstehung des Fleisches. Zur Frühgeschichte einer
theologischen Lehrformel, in Leben angesichts des Todes. Beiträge zum theologischen Problem des
Todes. Helmut Thielicke zum 60. Geburtstag, a cura di M.-L. Henry, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck),
Tübingen 1968, 101-37; A. Fierro, Las controversias sobre la resurrección en los siglos II-V, «Revista
Española de Teología» 28 (1968) 3-21; T. H. C. von Eijk, La résurrection des morts chez les pères
apostoliques, Beauchesne, Paris 1974; C. W. Bynum, The Resurrection of the Body; G. Greshake
and J. Kremer, Resurrectio Mortuorum; il mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’; A.
Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 247-80.
118
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph. 80,4.

126
La resurrezione dei morti

dell’escatologia cristiana è stato considerato con maggiore accuratezza dai Padri


della Chiesa e dagli scrittori ecclesiastici della resurrezione dei morti. Pseudo-
Giustino119, Atenagora (II sec.)120, Ireneo121, Tertulliano122, Origene123, Metodio124,
Cirillo di Gerusalemme († 386)125, Gregorio di Nissa († ca 395)126, Agostino127,

119
Si veda Ps.-Giustino, De resurrectione. Molti autori non riconoscono la paternità giustiniana
di questo testo: si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 230, nota 1. Alcuni tuttavia
considerano il testo autentico, per esempio P. Prigent, Justin et l’Ancien Testament, Cerf, Paris
1964, 50-61.
120
Atenagora, De resurrectione mortuorum. Su questo testo, si veda M. Marcovich, On the
Text of Athenagoras, “De resurrectione”, «Vigiliae Christianae» 33 (1979) 375-82; G. Filoramo,
L’escatologia e la retribuzione negli scritti dei Padri, Borla, Roma 1997, 218-21; B. E. Daley, The
Hope of the Early Church, 23s., 230, nota 4.
121
Si veda Ireneo, Adv. Haer. V. Sulla sua escatologia, si veda A. S. Wood, The Eschatology of
Irenaeus, «Evangelical Quarterly» 41 (1969) 30-41; P.-J. Carle, Irénée de Lyon et les fins dernières,
«Divinitas» 34 (1990) 57-72; 151-71; A. Orbe, Gloria Dei vivens homo, «Gregorianum» 73 (1992)
205-68; J. J. Ayán Calvo, Escatología cósmica y Sagrada Escritura en Ireneo de Lyon, «Annali di
Storia dell’Esegesi» 16 (1999) 197-233.
122
Si veda Tertulliano, De resurrectione carnis. Si veda Y.-M. Duval, Tertullien contre Origène sur
la résurrection de la chair dans le Contra Iohannem Hierosolymitanum, 23-36 de saint Jérôme,
«Revue des études augustiniennes» 17 (1971) 227-78; P. Siniscalco, L’escatologia di Tertulliano:
tra rivelazione scritturale e dati razionali, ‘psicologici’, naturali, «Annali di Storia dell’Esegesi» 17
(2000) 73-89.
123
Non ci sono opere di Origene sulla resurrezione, nonostante egli abbia scritto molto sul
argomento. Tuttavia, si veda C. Cels. 1,5 e 8. Sul suo insegnamento, si veda W. L. Knox, Origen’s
Conception of the Resurrection Body, «Journal of Theological Studies» 39 (1938) 247ss.; H.
Chadwick, Origen, Celsus and the Resurrection of the Body, «Harvard Theological Review» 41
(1948) 83-102; H. Crouzel, Les critiques adressées par Méthode et ses contemporains à la doctrine
origénienne du corps ressuscité, «Gregorianum» 53 (1972) 679-714; M. Alexandre and T. J. Dennis,
Gregory on the Resurrection of the Body, in The Easter Sermons of Gregory of Nyssa, a cura di A.
Spira e C. Klock, Patristic Foundation, Cambridge; Philadelphia 1981, 55-80.
124
Si veda Metodio, De resurrectione. Si veda l’opera classica di G. N. Bonwetsch, Die Theologie des
Methodius von Olympus, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1903; H. Crouzel, Les critiques
adressées par Méthode.
125
Si veda Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 18.
126
Si veda Gregorio di Nissa, De anima et resurrectione dialogus. Su quest’opera, si veda J.
Daniélou, La résurrection des corps chez Grégorie de Nysse, «Vigiliae Christianae» 2 (1953) 154-70;
L. F. Mateo-Seco, La muerte y su más allá en el ‘Diálogo sobre el alma y la resurrección’ de Gregorio
de Nisa, «Scripta Theologica» 3 (1971) 75-107; A. Le Boulluec, Corporéité ou individualité? La
condition finale des ressuscités selon Grégoire de Nysse, «Augustinianum» 35 (1995) 307-26; L.
F. Mateo-Seco, Resurrezione, in L. F. Mateo-Seco e G. Maspero (a cura di), Gregorio di Nissa.
Dizionario, Città Nuova, Roma 2007, 488-91.
127
Si veda in particolare Agostino, De Civ. Dei XXII. Sul suo pensiero, si veda P. Goñi, La
resurrección de la carne según San Agustín, Catholic University of America Press, Washington
D.C. 1961; K. E. Börresen, Augustin, interprète du dogme de la résurrection, «Studia Theologica»
(1969), 143-55; M. Alfeche, The Rising of the Dead in the Works of Augustine (1 Co. 15,35-57),
«Augustiniana» 39 (1989) 54-98; P. A. Ferrisi, La resurrezione della carne nel ‘De fide et symbolo’
di S. Agostino, «Augustinianum» 33 (1993) 213-32.

127
Capitolo III

Giovanni Crisostomo128 ed altri, consapevoli della novità della dottrina, scrisse-


ro tutti ex professo opere sulla resurrezione finale. Daley dice che «gli scrittori
cristiani sottolinearono la necessità di prendere alla lettera la promessa biblica
della resurrezione, e osarono in modo straordinario nel sostenere che una tale
speranza non è né impossibile né indegna per la dignità umana»129. La ragione di
ciò è semplice. Non solo i Padri ritenevano che la resurrezione di Gesù Cristo fosse
il centro vitale della fede e della missione cristiane (At 4,33 ecc.), e che la promessa
di resurrezione finale fosse il suo necessario compimento, ma si rendevano conto
anche che questo insegnamento entrava in profondo conflitto con le antropologie,
con le cosmologie e con i sistemi etici prevalenti al loro tempo (in particolare con
il neoplatonismo e con lo gnosticismo).

Alcune implicazioni della fede nella resurrezione: liturgia, cremazione. Fin


dal primo inizio, come abbiamo visto, i cristiani attribuirono una ecceziona-
le importanza all’evento della resurrezione di Cristo e all’insegnamento della
resurrezione universale che ne deriva. I cristiani decoravano le loro tombe con
epitaffi che rappresentavano la resurrezione di Lazzaro, la pianura di Ezechie-
le di ossa inaridite che tornano alla vita, il profeta Giona che esce dalla bocca
della balena dopo tre giorni (una prefigurazione della resurrezione di Cristo:
Mt 12,40)130. Mentre i pagani chiamavano il luogo della sepoltura nekropolis o
nekrotaphiōn, che significano luogo o città dei morti, il termine comune utiliz-
zato dai cristiani fu koimētērion, traslitterato nel latino coemeterium131, cimi-
tero, letteralmente, luogo di riposo, di sonno, cioè dormitorio,132 da cui i morti
verranno alla fine risvegliati a nuova vita. È probabile che il termine si sviluppò
nel contesto delle parole che Cristo rivolse alla giovane che risuscitò da morte:
«la fanciulla non è morta, ma dorme» (Mt 9,24), e dello stato del amico Lazza-

128
Si veda Giovanni Crisostomo, De resurrectione mortuorum homilia. Si veda A. Miranda, La
resurrezione dei corpi nel Cristostomo (In 1 Cor 15). Una nuova percezione della realtà ‘corporea’
tra IV e V secolo, «Aquinas» 78 (2001) 387-404.
129
B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 220.
130
Si veda R. M. Jensen, Born Again. The Resurrection of the Body and the Restoration of Eden, 156-
82. Sulla resurrezione di Lazzaro nell’arte, si veda E. Mâle, La résurrection de Lazarus dans l’art,
«Revue des arts» 1 (1951) 44-52.
131
La translitterazione latina coemeterium fu utilizzata probabilmente per la prima volta da
Tertulliano in De anima, 51.
132
Sui termini greci koimētērion e nekrotaphiōn, si veda G. W. H. Lampe, A Greek Patristic Lexicon,
Clarendon Press, Oxford 19785, 760, 902; BDAG, 551, s.v. κοιμητήριον.

128
La resurrezione dei morti

ro, che era morto: «io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Cicerone disse anche che
somnus est imago mortis133, “il sonno è immagine della morte”.
La Chiesa ha tradizionalmente dissuaso i credenti dalla pratica della
cremazione, cioè dalla distruzione intenzionale tramite il fuoco del corpo dopo
la morte. Tuttavia, se si evita lo scandalo, la cremazione è tuttavia considera-
ta lecita134. Nel Codice di Diritto Canonico leggiamo: «La Chiesa raccomanda
vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti;
tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per
ragioni contrarie alla dottrina cristiana… Devono essere privati delle esequie
ecclesiastiche… coloro che scelsero la cremazione del proprio corpo per ragioni
contrarie alla fede cristiana»135. Qualche secolo fa, infatti, era piuttosto comune
per gli apostati richiedere, prima della morte, la cremazione, per confermare
pubblicamente la loro negazione della fede cristiana136.
È interessante notare che nei riti funerari orientali (specialmente quelli
associati alla religione Indù) il corpo è completamente consumato dal fuoco con
legna da ardere resinosa, e le ceneri vengono sparse sui fiumi o sul mare. In questo
modo, si spera che lo spirito possa liberarsi dal corpo mortale137 e raggiungere la
moksha, o illuminazione, rompendo il ciclo di nascita, morte e reincarnazione.
Dal punto di vista della potenza di Dio, ovviamente, la resurrezione è
possibile ugualmente per coloro che sono stati cremati come per coloro che sono
stati sepolti. Tuttavia, se si fa opzione per la cremazione al fine di professare la
propria credenza nel carattere deperibile della materia, negare la vita dopo la
morte o la potenza di Dio sul corpo, la pratica allora sarebbe illecita. «Se coloro
che non credono nella resurrezione della carne» seppelliscono i corpi dei morti,
dice Sant’Agostino, «a maggior ragione dovrebbero farlo i credenti, perché
i corpi morti verranno resuscitati e rimarranno per sempre, e questa diventa
una testimonianza pubblica alla vera fede»138. Con tutto, dunque, la sepoltura è
raccomandata in preferenza alla cremazione139, che può essere considerata come

133
Cicerone, Tuscolane I, 38.
134
Si veda Commissione Teologica Internazionale, Problemi di escatologia (1992) n. 6,4;
Sant’Ufficio, La cremazione dei cadaveri (1963). Sulla storia della cremazione, si veda J. L. Angué,
Incinération et rituel des funérailles, «Études» (1985), 663-76 e Z. Suchecki, La cremazione dei
cadaveri nel Diritto Canonico, Pontificia Università Lateranense, Roma 1990.
135
Codice di Diritto Canonico (1983), n. 1176, § 3; 1184, § 1, 2.
136
Si veda P. Palazzini, Cremazione, in Enciclopedia cattolica, vol. 4, Vaticana, Città del Vaticano
1950, col. 838-42.
137
Sul significato della cremazione nelle religioni pagane, si veda F. Cumont, Lux perpetua, 390.
138
Agostino, De cura pro mortuis gerenda 18,22.
139
Sulla preferibilità della sepoltura alla cremazione, si veda I. Lotzika, Incinération: malaise

129
Capitolo III

un “anti-segno”, un tentativo di eliminare i luoghi di sepoltura cristiani e di


preghiera per i morti, ed anche di banalizzare la morte stessa140.

La sfida teologica e filosofica della dottrina della resurrezione.  Fin dai primi
tempi della predicazione cristiana, la perplessità dei pagani141, e dei cristiani
stessi142, nei confronti di questo nuovo insegnamento, era palpabile. Predicando
all’Areopago di Atene san Paolo trovò una buona platea di ascoltatori mentre
parlava delle divinità, delle pratiche rituali ed etiche. Ma «quando sentirono
parlare di resurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, ed altri dicevano “Su
questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17,32). Davanti a Festo ed Agrippa a
Cesarea, Paolo parlò ancora di resurrezione, finché Festo lo apostrofò dicendo:
«Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24). L’apostolo
mise in guardia Timoteo due individui, Imeneo e Fileto, «i quali hanno deviato
dalla verità, sostenendo che la resurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la
fede di alcuni» (2 Tm 2,17s.). Allo stesso modo, tra i credenti di Corinto c’erano
dei dubbi rilevanti nei confronti della resurrezione143. Ciò spiega l’insistenza di
Paolo sul fatto che «se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono
dire alcuni tra voi che non vi è resurrezione dai morti?» (1 Cor 15,12). E replica
categoricamente: «Se non vi è resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!
Ma se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la
vostra fede» (1 Cor 15,13s.).
I primi scrittori cristiani erano fortemente consapevoli delle difficoltà
implicate nella resurrezione. Origene diceva che «il mistero della resurrezione è
anche sulla labbra degli infedeli, ma per loro è causa di ridicolo, perché essi non
lo comprendono»144. Tertulliano scrisse che «anche noi abbiamo riso di queste
cose»145. «Nessun articolo della fede cristiana è più ripudiato della resurrezione
della carne», annota Agostino146. E Gregorio Magno afferma che «molti dubita-

pour un dernier adieu, «Études» (1985), 657-62; G. Gozzelino, Nell’attesa, 446s.; V. Croce, La
sepoltura, nuovo e ultimo battesimo, in Cristo nel tempo della Chiesa: teologia dell’azione liturgica,
dei sacramenti e dei sacramentali, LDC, Leumann 1992, 454s.
140
Si veda J. L. Schlegel, Logiques de l’incinération, «Études» n. 363 (1985) 677-80.
141
Si veda At 17,16-34; 26,25.
142
Si veda 1 Cor 15,12; 2 Tm 2,17.
143
Si vedano le note 80 e 87 sopra.
144
Origene, C. Cels. 1,7.
145
Tertulliano, Apol. 18,4.
146
Agostino, Enn. in Ps. 88,2.

130
La resurrezione dei morti

no della resurrezione, come noi al nostro tempo»147. Sono due le difficoltà fonda-
mentali suggerite dagli oppositori pagani148.
Prima, la dottrina della resurrezione finale era messa in questione perché
sembrava contraria al senso comune e alle leggi di natura. La materia e il cosmo,
secondo la mentalità greca, segnati dal determinismo e dal dualismo cosmici,
sono inevitabilmente legati al tempo e alla corruzione, e non possono in alcun
modo partecipare della gloria e dell’immortalità che appartengono solo agli dei.
Il pagano Porfirio († 305) cita il caso ipotetico del cadavere di un uomo annega-
to, divorato da un pesce, e del pesce successivamente mangiato da un pescatore,
e questi successivamente dai cani, e i cani dagli avvoltoi. Comprensibilmente,
egli pone l’interrogativo: con quale corpo gli uomini risorgono? Nel criticare la
dottrina cristiana della resurrezione, egli non risparmia né satira né cinismo149.
Secondo, sul piano più filosofico, la dottrina della resurrezione era comune-
mente rifiutata entro il contesto cosmologico e antropologico di tipo neo-plato-
nico allora in voga. Nella cosmologia greca, la materia era considerata intrinse-
camente impervia o estranea allo spirito. Perciò, l’anima umana poteva essere
considerata semplicemente prigioniera del corpo, o, nel migliore dei casi, il suo
pilota, legata ad esso estrinsecamente150. Per la mentalità platonica, la resurre-
zione costituirebbe un vergognoso ritorno alla prigionia del corpo, considera-
ta l’origine di tutti il mali, la disgrazia e il limite, l’epitome della non-salvezza;
dopo tutto, l’uomo è la sua anima e il corpo è una mera aggiunta accidentale151.
Gli autori cristiani replicarono in modi differenti alla sfida dei filoso-
fi pagani. L’argomentazione principale presentata era, tuttavia, strettamente
teologica: Dio è il sovrano, onnipotente e fedele Creatore della terra e del genere
umano; perciò egli è capace di resuscitare gli uomini dai morti, e ha promesso
di farlo attraverso i miracoli operati tramite Cristo, ed in particolare facendolo
risorgere dalla morte. Questa stessa potenza sarà effusa su tutti gli uomini alla
fine dei tempi attraverso lo Spirito di Cristo. Giustino Martire dice che «riceve-
remo nuovamente i nostri corpi, sebbene siano morti e gettati sotto terra; infatti
sappiamo che per Dio nulla è impossibile»152.

147
Gregorio Magno, Hom. in Ev. II, 26, n. 12.
148
Seguiamo qui C. Pozo, La teología del más allá, 353-8.
149
Si veda Porfirio, Contra christianos, fr. 94.
150
Si vedano le pp. 45s sopra.
151
Si veda Porfirio, Contra christianos, fr. 94.
152
Giustino, 1 Apol. 18s. Allo stesso modo Atenagora parla della potenza di Dio implicata nella
resurrezione: De res. 9. Sullo stesso argomento, si veda anche Tertulliano, De res. 11,3-10; Agostino,
De cura pro mortuis gerenda 2,4; Gregorio Magno, Hom. in Ev. II, 26.

131
Capitolo III

Inoltre, facendo riferimento ad immagini prese dalla natura – il sorgere


e tramontare del sole, lo sbocciare di semi e fiori153, la fenice che risorge dalle
sue ceneri154, una immagine usata per la prima volta da Clemente Romano155 – i
cristiani hanno spiegato come la dottrina della resurrezione non contraddice la
dinamica della natura e del cosmo. La potenza di Dio che resuscita dai morti
non è contrapposta alle leggi di natura, ma piuttosto le porta a compimento, e le
dà un nuovo, definitivo gusto di vita.
In questo senso, come afferma C. S. Lewis († 1963), il miracolo della resur-
rezione è ciò che dà significato alla natura, e non il contrario156. Le argomenta-
zioni puramente cosmologiche ed antropologiche contro la resurrezione sono
sfidate dalla promessa divina della resurrezione. Alla luce dell’eterno disegno di
Dio, espresso nella dottrina dell’Incarnazione, morte e Resurrezione del Verbo
Eterno, la materia e il corpo umano acquistano un ruolo e una dignità al di là
di ogni aspettativa. Alla luce della resurrezione finale, la materia, sebbene creata
e corruttibile, ci si rivela con una vera vocazione all’eternità. Inoltre, è giusto
affermare che la dottrina della resurrezione escatologica è servita per suscitare
una antropologia nuova, unitaria, flessibile e di grande apertura157.
A dispetto della tendenza platonica riemersa durante il primo Medioevo,
Tommaso d’Aquino, prendendo spunto dalla teoria aristotelica dell’unità sostan-
ziale del composto umano (l’anima forma corporis)158, insistette sulla centralità
della dottrina della resurrezione dei morti non solo come dottrina di fede ma
anche come dottrina aperta alla riflessione filosofica159. Egli insegnava che l’ani-
ma separata dal corpo è in uno stato «contrario alla natura»160, poiché l’anima

153
Minucio Felice, Octavius 34.
154
Si veda Clemente Romano, Ep. in Cor. 24-26; Tertulliano, De res. 13; Cirillo di Gerusalemme,
Catech. Myst. 18,8; Eusebio, Vita Const. 4,72; Lattanzio, De ave Phoenice. Si veda R. Van den
Brock, The Myth of the Phoenix according to Classical and Early Christian Tradition, E. J. Brill,
Leiden 1972; B. R. Reichenbach, Is Man the Phoenix? A Study of Immortality, Christian University
Press, Washington D. C. 1978.
155
Si veda Clemente Romano, Ep. in Cor. 24s.
156
Si veda C. S. Lewis, Miracles, Sheed and Ward, London 1947, 112ss., 147ss.
157
Si veda il mio studio Cristocentrismo y antropocentrismo en el horizonte de la teología. Una
reflexión en torno a la epistemología teológica, in J. Morales et al. (a cura di), Cristo y el Dios de
los cristianos, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1998, 367-398;
e Resurrezione.
158
Si veda il mio studio Anima, 86s., 91s.
159
Si veda M. Brown, Aquinas on the Resurrection of the Body, «Thomist» 56 (1992) 165-207;
M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, 229-34; A. Nitrola, Pensare la venuta del
Signore, 280-90. La medesima cosa si può dire di Atenagora, secondo M. Marcovich, On the Text
of Athenagoras, De resurrectione.
160
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 79.

132
La resurrezione dei morti

umana per natura è fatta per dare forma al corpo. Tuttavia l’anima separata
mantiene quel che l’Aquinate chiama una commensuratio al proprio corpo161, cui
sarà di nuovo unito alla fine del tempo per la potenza di Dio. Perciò, egli dice, «la
resurrezione è il suo fine naturale, poiché è naturale per l’anima essere la forma
del corpo; mentre il suo principio agente non è naturale, ma è causato unicamen-
te dalla potenza divina»162. Detto in breve, «la causa finale della resurrezione è la
natura umana, ma la causa efficiente è Dio»163.
Così, Gregorio di Nissa descrive vividamente come l’anima (eidos), alla
ricerca del proprio corpo, lo porta a sé, «attraendo ancora a sé quel che è suo»164.
E la ragione per cui questo è possibile è che l’anima resta unita in qualche modo
al corpo: «non c’è alcuna forza che possa strappare [l’anima] dalla sua coesione
con [le sue membra]»165.

La crescente irrilevanza della fede nella resurrezione.  È interessante notare che


la dottrina della resurrezione, sia di Cristo che degli uomini, sebbene general-
mente non negata nel tardo Medioevo, dalla Riforma Protestante e nei tempi
moderni, gradatamente è giunta a perdere la sua capacità di sfidare e catalizzare
la riflessione scientifica, filosofica e teologica. Una ragione di ciò si trova nel
ritorno pervasivo dei principi fondamentali e della terminologia del pensiero
platonico, in antropologia ed escatologia166. Di conseguenza, anche la filosofia e
la spiritualità hanno spostato la loro attenzione, sempre di più, in nome dell’in-
teriorità biblica, verso la soggettività umana, la res cogitans, e si sono allonta-
nante dal corpo, la res extensa, per usare la terminologia di Cartesio († 1650).
I filosofi danno sempre meno valore alla resurrezione. Emmanuel Kant, per
esempio, dichiarava di non vedere «alcuna ragione per trascinare un corpo per
il resto dell’eternità, un corpo che, per quanto possa essere stato purificato, sarà
comunque sempre fatto di materia»167.
Il risultato fu che il giudizio dell’uomo e la salvezza escatologica sono diven-
tate argomento principalmente connesso all’etica e all’anima individuale immor-
tale, e non più alla resurrezione finale, che per sua stessa natura implicherebbe la
manifestazione del vero stato dell’individuo, non solo davanti a Dio, ma anche

161
Si veda ibid., 80.
162
Ibid., 81; si veda S. Th. III, Suppl., q. 75, a. 3.
163
M. Brown, Aquinas on the Resurrection, 186.
164
Gregorio di Nissa, De hom. opif. 27,5,2.
165
Gregorio di Nissa, De anima et res.
166
Si vedano le pp. 45s, sopra.
167
I. Kant, La religione nei limiti della pura ragione, n. 119.

133
Capitolo III

nella sua integrità corporale e storica davanti al resto dell’umanità. Abbiamo


considerato questo argomento nel primo capitolo168. Il giudizio finale compreso
in modo non-corporeo si presta facilmente ad una visione etica e spirituale che
è individualistica, interiore, spiritualistica, soggettiva e che ignora la società e la
natura, sia umana che cosmica. Questo approccio, insieme ad una visione plato-
nica del soggetto umano, tipica del periodo moderno, porta nella pratica ad una
comprensione riduzionista e simbolica della resurrezione (di Cristo e dell’uma-
nità) che è diventata abbastanza comune nel ventesimo secolo. La Buona Novella
della Resurrezione di Cristo e (in Lui) dell’umanità farebbe riferimento solo alla
vita interiore e personale, alla novità della conversione, ma avrebbe poco o nulla
da dire nell’ambito del mondo materiale, dell’azione politica o della corporeità
umana. La materia con le sue leggi e proprietà, rimarrebbe, di conseguenza, sotto
il dominio esclusivo della scienza. Gli scienziati e i filosofi marxisti come Ernst
Bloch hanno sviluppato teorie riguardanti l’origine e lo sviluppo della materia,
della vita e del cosmo che col tempo sono giunte ad un completo divorzio dalla
trascendenza169. Di particolare importanza ed influenza, a questo riguardo, è il
pensiero dell’esegeta biblico luterano Rudolf Bultmann170.
Bultmann ha interpretato il Nuovo Testamento e i primi testi cristiani che
parlano della resurrezione (di Cristo e dell’umanità) in termini di personale
decisione di fede di tipo individualistico ed esistenzialistico: la resurrezione di
Cristo può essere considerata un evento, un evento vero, egli dice, per i cristiani.
Tramite la loro fede in Cristo, i cristiani sono già risorti dai morti; i credenti
sono già salvati. Tuttavia, secondo Bultmann, l’universo fisico in quanto tale
è impermeabile alla potenza della grazia: «Grazie alla conoscenza delle forze
e delle leggi della natura è liquidata la credenza negli spiriti e nei demoni… I
miracoli del Nuovo Testamento, perciò, sono liquidati in quanto tali… Non ci
si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia
ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo
degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento. La fede in spiriti e
demoni è stata liquidata dalla conoscenza delle forze e delle leggi di natura»171.
Perciò i miracoli del Nuovo Testamento, ed in particolare i racconti della resur-

168
Si vedano le pp. 47s.
169
Si veda il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel and Ernst Bloch, 216-22.
170
Si vedano le pp. 79s sopra. La posizione di Bultmann è stata ripetuta di recente per esempio
da A. Torres Queiruga, Repensar la resurrección: la diferencia cristiana en la continuidad de las
religiones y de la cultura, Trotta, Madrid 20053.
171
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, 109s.

134
La resurrezione dei morti

rezione, non dovrebbero essere considerati come spiegazioni letterali o eventi


reali. Il termine “resurrezione della carne”, ad esempio, costituirebbe un tipo di
ellenizzazione dell’autentica teologia ebraica che è di carattere personale e non
sostanziale (o oggettivo)172.
Come abbiamo visto prima, la posizione di Bultmann annulla il realismo
e la capacità catalizzatrice della dottrina della resurrezione, e ha influenzato
la riflessione teologica in molti modi, principalmente accordando agli oggetti
materiali un valore meramente simbolico nell’ordine religioso173. Il suo inse-
gnamento è stato, tuttavia, fortemente contestato da autori sia protestanti che
cattolici negli ultimi decenni174.

2. Alcune implicazioni teologiche della resurrezione


Si tratta ora di considerare due aspetti specifici della dottrina cristiana della
resurrezione finale: la novità del corpo risorto, glorificato, e la sua identità con il
corpo terreno175. È ovvio che entrambi gli aspetti sono in diretta relazione con la
dinamica della resurrezione di Cristo e della sua effusione, in virtù dello Spirito
Santo, sull’umanità: il Gesù storico che è vissuto in Palestina ed è morto a Gerusa-
lemme è identico al Cristo risorto dai morti in uno stato di gloria, e che ora “siede
alla destra del Padre”. Lungo tutta la successiva discussione diventerà chiaro come
la fede nella resurrezione determini criticamente gli aspetti centrali dell’etica,
dell’antropologia, della spiritualità cristiana, e del dialogo con le scienze176.

1. La gloria e la novità del corpo risorto


Il corpo risorto è chiaramente distinto nella sua forma dal corpo terreno
per il fatto che sarà glorificato, incorruttibile, impassibile ed immortale177. Gesù
ha detto che i risorti saranno «come gli angeli in cielo» (Mc 12,25), un testo
interpretato quasi letteralmente da Origene (che dice che il corpo risorto non
sarà più rozzo e terreno, ma celeste, delicato, etereo, luminoso e spirituale, cioè

172
Così W. Beider, Auferstehung des Fleisches oder des Leibes? Eine biblischtheologische und
dogmengeschichtliche Studie, «Theologische Zeitschrift» 1 (1945) 105-20.
173
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 67s, 74s.
174
Si vedano le pp. 79s sopra.
175
Su questo, si veda A. Fierro, Las controversias sobre la resurrección.
176
Sul tema, cf. ad esempio S. C. Barton, The Resurrection and Practical Theology with Particular
Reference to Death and Dying in Christ, in H.-J. Eckstein, C. Landmesser, H. Lichtenberger (a cura
di), Eschatologie – Eschatology, J.C.B. Mohr, Tübingen 2011, 305-30.
177
Si veda in particolare Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 84ss.

135
Capitolo III

angelico)178, ma più figurativamente da Tertulliano179 e dalla grande maggioran-


za dei primi teologi cristiani180.
San Paolo nella sua estesa riflessione sulla resurrezione in 1 Cor 15 afferma
chiaramente che il corpo risorto sarà “un corpo spirituale” (sōma pneumatikon:
1 Co 15,44). Questa convinzione è chiaramente fondata sull’esperienza cristiana
della resurrezione di Gesù dai morti per potenza dello Spirito Santo. «La nostra
cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù
Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo
glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,20s.;
cf. Rm 6,5). Nel Credo degli apostoli l’articolo “la vita eterna” è stato aggiunto a
“resurrezione della carne” al fine di assicurare che questo non venga compreso
come una resurrezione temporale, legata alla terra, come quella di Lazzaro, ma
una reale resurrezione eterna e gloriosa181. Ilario di Poitiers dice: resurgit non
aliud corpus, quamvis in aliud, «non un altro corpo risorge, ma il corpo risorge
in un altro modo»182. E Cirillo di Gerusalemme: «il medesimo corpo risorge, ma
non è più lo stesso»183. Giovanni Crisostomo insegna la medesima dottrina184.
Agostino dice che «noi parliamo della resurrezione della carne, non come della
resurrezione di qualcosa che poi morirà, ma per la vita eterna (resurrectio carnis
in aeternam vitam), proprio come la carne di Cristo risorto»185.
Non è facile descrivere lo stato di resurrezione degli uomini, del “corpo
spirituale”186. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che il “come” della resur-
rezione finale «supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro
intelletto; è accessibile solo nella fede. Ma la nostra partecipazione all’Eucaristia
ci fa già pregustare la trasfigurazione del nostro corpo per opera di Cristo»187.
Tuttavia, la prima lettera ai Corinzi (15,35-54) ci fornisce alcune indicazioni

178
Si veda Origene, Comm. in Matth. 17,2.
179
Si veda Tertulliano, De res. 62,1-4.
180
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 54, su differenti interpretazioni tra i Padri.
Metodio di Olimipo era in aperta opposizione ad Origene (si veda ibid., 62-4), come anche
Epifanio di Salamina, nella sua opera Ancoratus.
181
Così Tertulliano, De res. 38,7; Agostino, Enchirid. 84; Serm. ad catech. 9; Giovanni Crisostomo,
Hom. 40,2.
182
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 2,41.
183
Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 18.
184
Si veda Giovanni Crisostomo, Hom. 40,2.
185
Agostino, Enchirid., 84. Si veda anche Ep. 102 ad Deogratias.
186
Comprensibilmente, gli autori contemporanei evitano di entrare in troppi dettagli nei confronti
della natura della resurrezione finale: J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 166-8; M.
Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 248s.
187
CCC 1000.

136
La resurrezione dei morti

che ci permettono ad apprezzare in che modo Paolo “avesse visto” Gesù Risor-
to (2 Cor 12,2-4). Tenendo a mente il realismo corporale del Cristo risorto, di
cui abbiamo già parlato188, e seguendo le riflessioni di San Tommaso sullo stato
risorto (che a loro volta si ispirano a Sant’Agostino189 e a diversi Padri della Chie-
sa190) e di M.-J. Scheeben († 1888)191, può essere utile fare le seguenti riflessioni192.

Caratteristiche del corpo risorto.  San Tommaso insegna che le proprietà del
corpo risorto sono tre: spiritualizzazione, immortalità e incorruttibilità193.
In primo luogo, la spiritualizzazione: «è seminato corpo animale, risorge
corpo spirituale» (1 Cor 15,44). Ovviamente l’uomo non diventa uno spirito
(un “angelo”); piuttosto il corpo umano assume in una certa misura le proprie-
tà dell’anima. Tertulliano disse che i nostri corpi risorti spiritalem subeant
dispositionem, «assumono una disposizione spirituale»194. Con la resurrezione,
dice l’Aquinate, l’anima (che è la forma corporis) si unisce perfettamente con il
corpo, o meglio ‘forma’ il corpo, e così «il corpo diventa totalmente soggetto
all’anima, non solo in relazione al suo essere, ma anche alle sue azioni e passioni
e movimenti»195. Giovanni Paolo II nella sua catechesi sul corpo umano assume
questa idea e dice che «la “spiritualizzazione” significa non soltanto che lo spiri-

188
Si veda le pp. 123ss. sopra.
189
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 12-21; Sermo 242-3; Enchirid. 23,84-93.
190
Si veda Girolamo, Ad Pammachium, che si oppone agli insegnamenti di Origene e fa riferimento
a quelli di Tertulliano; si veda Y.-M. Duval, Tertullien contre Origène sur la résurrection de la
chair. Gregorio di Nissa, nella sua opera De anima et res. parla dei corpi riportati al loro stato
originale, incapaci di debolezza, corruzione o sofferenza, soffusi di onore, grazia e gloria: si veda
M. Alexandre and T. J. Dennis, Gregory on the Resurrection of the Body. Si veda anche Ugo di San
Vittore, De sacramentis II, 17,14-18; Pietro Lombardo, IV Sent., D. 44.
191
Si veda M.-J. Scheeben, I misteri del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1949, § 95, 673-682.
192
Pannenberg ha questo da dire: «Questo futuro non si contrappone con la realtà che l’individuo
e pure la società vivono attualmente, quasi si trattasse di una realtà affatto diversa, dove anzi la
stessa vita che attualmente si vive va intesa come manifestazione e processo di un’essenza che
si manifesterà in modo pieno soltanto nei tempi escatologici» Teologia sistematica, vol. 3, 633s.
Nello stato di resurrezione, la vita degli uomini sarà «purificata da mescolanze eterogenee, da
deformazioni e lesioni nel modo d’esistere terreno: se non dalle tracce della croce, certo dalle
tracce e dalle conseguenze del male che le creature producono quando si ergono contro il loro
Dio» ibid., 634. Si veda anche L. Audet, Avec quel corps les justes ressuscitent-ils? Analyse de 1Cor
15,44, «Studies in Religion» 1 (1971) 165-77.
193
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 79-86; IV C. Gent., 84-86.
194
Tertulliano, De res. 62. Nel suo periodo montanista Tertulliano affermava che il corpo umano
risorto sarà come gli angeli dal momento che «saremo cambiati in un momento nella sostanza
degli angeli» Ad Marc. 3,24.
195
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 86.

137
Capitolo III

to domini sul corpo, ma anche che permeerà pienamente il corpo, che le forze
dello spirito permeeranno le energie del corpo»196.
Come risultato della spiritualizzazione, l’immortalità: «è necessario infatti
che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale
si vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito di
incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della
Scrittura: “la morte è stata inghiottita nella vittoria”» (1 Cor 15,53s.). Spiegando
la dottrina della resurrezione ai Sadducei, lo stesso Gesù dice, nel vangelo di
Luca, che «non possono più morire» (20,36). Anche se lo volessero, gli uomini
non potranno morire, poiché le loro anime immortali informano permanente-
mente il loro intero essere197. La loro immortalità non è di tipo prelapsario (un
posse non mori, come la definisce Agostino198), ma un non posse mori: i risorti
non possono più morire; divengono definitivamente immortali.
E in fine, secondo l’Aquinate, il corpo risorto è incorruttibile. «È seminato
nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità» (1 Cor 15,42). Cioè, nello stato
di resurrezione non c’è più generazione, né sviluppo fisico, né rinnovamento
organico. «Né il mangiare, né il bere, né il dormire, né il generare appartengono
allo stato di resurrezione», dice san Tommaso, poiché «tutte queste attività sono
connesse alla vita corporale»199.
Il fatto che Gesù abbia contrapposto lo stato angelico di resurrezione con
lo stato del matrimonio fa pensare che la procreazione non avrà luogo in cielo:
«alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). In base
a questo insegnamento, alcuni scrittori cristiani hanno suggerito che non ci sarà
alcuna distinzione sessuale tra gli uomini nello stato di resurrezione. Questa posi-
zione è stata assunta per esempio da Origene, sebbene sia stata rigettata dal Sinodo
di Costantinopoli nell’A.D. 534200. Secondo Cassiodoro († ca. 583) la medesima
idea era sostenuta da Papa Vigilio I201. Ugualmente sia Basilio che Gregorio di
Nissa ritenevano che il corpo umano alla resurrezione sarà asessuato202.
La maggioranza dei Padri della Chiesa, tuttavia, insegnarono che uomini e
donne rimarranno tali nello stato di resurrezione, perché la distinzione sessuale

196
Giovanni Paolo II, Udienza La resurrezione porterà la persona alla perfezione (9.12.1981), in
Insegnamenti Giovanni Paolo II, 4/2, Vaticana, Città del Vaticano 1982, 880.
197
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 80, a. 1.
198
Si veda Agostino, De Gen. ad litt., 6,36.
199
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 81, a. 4c.
200
DS 407.
201
Si veda Cassiodoro, De institutione div. litt.
202
Questa è, per esempio, la posizione di Gregorio di Nissa, De mortuis or.

138
La resurrezione dei morti

appartiene, secondo il libro della Genesi (1,27), alla natura umana stessa, e non
può essere considerata risultato della primitiva caduta, aperta alla redenzione
da Cristo. «Colui che ha stabilito entrambi i sessi, li ristabilirà entrambi… Nulla
del corpo verrà perso, in modo tale che in esso tutto sarà secondo la regola», dice
Agostino203. In un primo momento, San Girolamo († ca. 420) seguì la posizione
di Origene204, ma più tardi rettificò e insegnò che gli uomini risorti avranno lo
stesso sesso che avevano sulla terra205. Ugualmente Teodoreto di Ciro († ca. 466)
insegna che la differenza sessuale rimane, in assenza della procreazione206.
C. S. Lewis spiega, inoltre, che l’unione sessuale in quanto tale sarà super-
flua in cielo dovuto all’intensa gioia di essere definitivamente uniti con Dio207.
È chiaro che lo scopo del confronto stabilito da Gesù tra lo stato di resurrezione
e la vita angelica era quello di aiutare i credenti ad evitare una visione eccessi-
vamente materialistica e terrena della resurrezione finale, insistendo piuttosto
sulla sua gloria e permanenza208.

La gloria dei giusti.  Oltre alle caratteristiche generali del corpo risorto – spiri-
tualità, immortalità ed incorruttibilità – San Tommaso spiega anche che i giusti
saranno glorificati nello stato di resurrezione in un modo particolare209. In primo
luogo non ci saranno sofferenze: «Non avranno più fame né avranno più sete, non
li colpirà il sole né arsura alcuna… E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»
(Ap 7,16s.). Lo stato di resurrezione sarà uno stato di completa armonia, in cui
la perfetta assimilazione di corpo ed anima permetterà alla gloria di quest’ulti-
ma di riversarsi totalmente nel primo. L’Aquinate parla anche di sottigliezza210.
Ancora, la stessa apparizione di Gesù come Colui che è risorto ci fornisce lo
spunto: egli si fece presente tra gli apostoli nonostante le porte chiuse (Gv 20,19).
Questo non significa, tuttavia, che il corpo glorificato di Gesù fosse totalmen-
te etereo: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e

203
Agostino, De Civ. Dei XXII, 17 e 19,1. Si veda lo studio di T. J. Van Bavel, Augustine’s View on
Women, «Augustiniana» 39 (1989) 1-53.
204
Si veda Girolamo, In Eph. 5,29; Adv. Jovinianum 1,36.
205
Si veda Girolamo, Ep. 108,23s.
206
Teodoreto di Ciro (attrib.), Quaest. et respons. 60,53.
207
Sull’assenza di attività sessuale in cielo, si veda C. S. Lewis, Miracles, 165s. Lewis ritiene che
l’interrogativo “ci sarà unione sessuale in cielo?” sia simile alla domanda di un bambino: “sarà
possibile mangiare caramelle durante l’unione sessuale?”
208
Si veda sopra le pp. 121s.
209
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., qq. 81-5. In questo Tommaso è seguito da M.-J.
Scheeben, I misteri del cristianesimo, 673-82, per quanto riguarda la sottigliezza, l’incorruttibilità
e l’agilità dei risorti.
210
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 83, a. 1.

139
Capitolo III

guardate; un fantasma non ha carne ed ossa, come vedete che io ho» (Lc 24,39).
San Gregorio Magno dice: «nella gloria della resurrezione, i nostri corpi saranno
sicuramente sottili, in seguito alla loro potenza spirituale, ma saranno tangibili
per la loro reale natura»211. San Tommaso lo spiega così: «secondo la sua propria
natura il corpo glorificato è tangibile, ma per una potenza soprannaturale è in
grado, quando desidera, di non essere percepito da un corpo non-glorificato»212.
Inoltre, Tommaso afferma che il corpo risorto dei giusti sarà anche agile e
attivo213. Il corpo, dice San Paolo, «è seminato nella debolezza, risorge nella poten-
za» (1 Cor 15,43). L’uomo risorto, pieno dello Spirito, in qualche modo partecipa
alla potenza stessa di Dio, al suo dinamismo e alla sua onnipresenza. «Quanti
sperano nel Signore», dice il profeta Isaia, «riacquistano forza, mettono ali come
aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31). E nel
libro della Sapienza: «Nel giorno del loro giudizio [le anime dei giusti] risplende-
ranno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. Governeranno le nazioni,
avranno potere sui popoli» (Sap 3,7s.). Agostino dice che il corpo risorto avrà «una
meravigliosa agilità di movimento, una meravigliosa leggerezza»214. È giunto ad
affermare che la perfetta integrazione tra l’interiore e l’esteriore nell’uomo risorto
è tale che ciascuna persona conoscerà ogni altra perfettamente, anche nei pensieri
più profondi215. Ovviamente in tale stato non rimarrà alcun peccato, che sarebbe
causa di vergogna e dolore insopportabile. Giuliano Pomerio († 498) afferma che
la percezione e il movimento saranno rapidi come la volontà stessa, dal momento
che non resterà alcuna condizione che rallenti la risposta del corpo216.
Infine, San Tommaso afferma che il giusti che risorgeranno saranno pieni
di bellezza (claritas). «Tale bellezza è generata dal riflesso della gloria dell’anima
nel corpo glorioso, nello stesso modo in cui il colore di un corpo racchiuso in
un vaso di vetro si mostra attraverso il vetro»217. Una qualche idea della gloriosa
bellezza dei risorti si può trovare nella descrizione che il libro dell’Esodo fa del
volto di Mosè disceso dal monte Sinai: «Mosè non sapeva che la pelle del suo
viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui… Ebbero timore di

211
Gregorio Magno, Mor. in Job, 14,72. Si veda Y.-M. Duval, La discussion entre l’apocrisiaire
Grégoire et le patriarche Eutychios au sujet de la résurrection de la chair, in Grégoire le Grand, a
cura di J. Fontaine, R. Gillet e S. Pellistrandi, Éditions du CNRS, Paris 1986, 347-65.
212
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 83, a. 6c.; IV C. Gent., 84.
213
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 84.
214
Agostino, Sermo 242,8.
215
Si veda Agostino, Sermo 243,5s.
216
Si veda Giuliano Pomerio, De vita contemplativa, 1,11.
217
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 85, a. 1c.

140
La resurrezione dei morti

avvicinarsi a lui» (Es 34,29s.). Ugualmente, nella Trasfigurazione, «il suo volto
[quello di Gesù] brillò come il sole, e le sue vesti divennero candide come la
luce» (Mt 17,2). Nella parabola della separazione del grano dalla zizzania, Gesù
conclude: «allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro»
(Mt 13,43). Ovviamente questa bellezza non è altro che comunicazione della
bellezza propria di Cristo a coloro che credono in lui e diventano suoi discepoli,
facendo la volontà del Padre in tutto: «tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle
tue labbra è diffusa la grazia» scrive il salmista (Sal 45,3) in un contesto chia-
ramente messianico. Ireneo ugualmente parla della “inimmaginabile bellezza”
dello stato di resurrezione218. Gregorio di Nissa parla dell’umanità risorta «con
una più brillante, più estasiante bellezza»219.
L’autore medioevale Onorio di Autun († 1137) riassume le caratteristiche dei
corpi risorti come segue: «avranno sette glorie speciali del corpo, e sette dell’ani-
ma: nel corpo, bellezza, rapidità, forza, libertà, piacere (voluptas), salute, immorta-
lità; nell’anima, saggezza, amicizia, armonia, potenza, onore, sicurezza, gioia»220.
Al contrario dei giusti, conclude San Tommaso, i condannati nello stato
di resurrezione saranno segnati dalle qualità opposte221: sofferenza, goffaggine,
pesantezza, bruttezza222.

2. L’identità del corpo risorto e terreno: le implicazioni della speranza


nella resurrezione per l’etica e la spiritualità
Nonostante il suo essere immortale e glorioso, il corpo risorto sarà identi-
co al corpo terreno, per il fatto che la medesima persona umana risorgerà dalla
morte. Questa verità fondamentale è contenuta nella gioiosa esclamazione degli
Apostoli in presenza di Gesù risorto: «è il Signore!» (Gv 21,7). Inoltre, la Chie-
sa ha insegnato insistentemente non solo la resurrezione dei morti in generale,
ma la resurrezione «di questo corpo» (o di questa carne)223. Infatti il termine
stesso “resurrezione” (sollevarsi) suggerisce questo, riferendosi ad una realtà
precedente, decaduta, che assume una vita nuova, definitiva. Questo fornisce un
tono fortemente realistico alle affermazioni patristiche sulla resurrezione finale.

218
Si veda Ireneo, Adv Haer. IV, 33,11; 39,2.
219
Gregorio di Nissa, De anima et res.
220
Onorio di Autun, Elucidarium II, 17. Teresa d’Avila offre la sua versione dello stato dei corpi
risorti nel Libro de la vida, 28,2s.
221
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 86.
222
La medesima nozione si trova in Ilario di Poitiers, In Matth. 5,8.
223
Si veda il mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’.

141
Capitolo III

Ilario di Poitiers lo spiega come segue: «i corpi di coloro che risorgeranno non
verranno formati da materia estranea, né saranno adoperate qualità naturali
di origine estranea o fonti estrinseche; il medesimo corpo nascerà, reso nuovo
per l’eterna bellezza, e quel che in esso è nuovo avverrà per cambiamento, e non
per creazione»224. San Girolamo afferma che resurrectionis veritas sine carne
et ossibus, sine sanguine et membris, intelligi non potest225, cioè «la verità circa
la resurrezione senza carne ed ossa, senza sangue e membra, è semplicemente
incomprensibile». Anche Gregorio di Nissa insiste nel dire che ci sarà una ovvia
identità e continuità tra il corpo terrestre e risorto226.

Identità materiale o formale?  L’affermazione dell’identità del corpo risorto con


quello terreno, tuttavia, non richiede una identità strettamente materiale tra gli
elementi fisici della nostra condizione terrestre e quelli dello stato di resurrezio-
ne, come sembrano suggerire227 Teofilo d’Antiochia228, Taziano229, Atenagora230
ed Ilario di Poitiers231. Difatti, come spiega Origene nel suo commento all’im-
magine di Geremia (18,6) del vasaio232, la materia del corpo risorto non è nume-
ricamente identica a quella del corpo terreno233. In ogni caso, come abbiamo già
visto, la resurrezione ha luogo per potenza di Dio. Inoltre, è ben saputo che il
metabolismo umano è tale che gli elementi fisici e chimici del composto umano
sono ciclicamente sostituiti in un periodo limitato di anni.
Alcuni autori, al contrario, hanno suggerito che l’identità formale, che
implica semplicemente l’identità dell’anima umana (che è “l’unica forma del
corpo”)234, sarebbe sufficiente ad assicurare l’identità umana alla resurrezio-
ne. In altre parole, la medesima anima che informa la materia assicurerebbe
l’identità della medesima persona, indipendentemente dalla materia fisica che la
persona aveva avuto nella vita. Questa teoria è stata proposta durante il Medio-

224
Ilario di Poitiers, In Ps. 2,41. Si veda G. Blasich, La resurrezione dei corpi nell’opera esegetica di
S. Ilario di Poitiers, «Divus Thomas (Piacenza)» 69 (1966) 72-90.
225
Girolamo, C. Joh., 31.
226
Si veda Gregorio di Nissa, De mortuis or.
227
La riproposizione classica di questa posizione si trova in F. Segarra, De identitate corporis
mortalis et corporis resurgentis, Razón y fe, Madrid 1929.
228
Si veda Teofilo d’Antiochia, Autol. 2,26.
229
Si veda Taziano, Or. ad graecos, 6.
230
Si veda Atenagora, De res. 2,4-6.
231
Si veda Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 2,41.
232
Si veda Origene, Hom. In Jer. 18,4.
233
Sulle implicazioni filosofiche della identità risorta, si veda G. Gillet, Identity and Resurrection,
«Heythrop Journal» 49 (2008) 254-68.
234
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 370-2; J. Ratzinger, Escatologia, 188s.

142
La resurrezione dei morti

evo da Durando († 1334)235, ed è stata seguita in tempi recenti da diversi neo-


tomisti236. Nella medesima direzione, Origene, che si rifà all’immagine della
resurrezione di san Paolo, in termini del germogliare del seme (1 Cor 15,35),
parla di una eidos (forma, struttura) spirituale negli uomini che rimane immu-
tata attraverso tutte le mutazioni della vita e dopo la glorificazione237. Allo stes-
so modo Giovanni Filopono († dopo il 565), un filosofo alessandrino e cristia-
no monofisita, ritiene che la resurrezione implichi la completa ricreazione del
corpo umano, come il corpo risorto di Gesù è differente in specie (eidos) dal
corpo mortale che è morto238.
Si potrebbe notare che, in epoca patristica, la comprensione spiritualista
di Origene della resurrezione era apertamente contrastata da diversi autori, tra
i quali Metodio di Olimpo (IV sec.) e Gregorio di Nissa239. Sembrerebbe che la
posizione origeniana non dia peso sufficiente al realismo e all’oggettività della
resurrezione di Gesù240 che non esclude affatto la realtà terrestre e corporea del
Cristo. E neppure prenda in sufficiente considerazione le implicazioni escato-
logiche della pratica liturgica di venerare le reliquie corporee dei santi (ogni
liturgia è celebrata in previsione della Parousia)241, e il dogma dell’Assunzione
di Nostra Signora in cielo242. Di fatti, la spiegazione di Durando sull’identità in
termini formali potrebbe essere letta come un equivalente della dottrina della
trasmigrazione delle anime, o reincarnazione243.

Resurrezione, identità umana ed etica.  Di particolare interesse nel periodo patri-


stico è l’attenzione attribuita all’espressione “resurrezione della carne”244. Si trat-

235
Si veda Durando di San Porciano, In Sent. L. 4, D. 44, q. 1, n. 6.
236
È stato seguito in tempi recenti da neo-tomisti quali F. Hettinger, H. Schell, L. Billot, A. Michel e
D. Feuling; si veda J. Ratzinger, Escatologia, 190; M.-J. Nicolas, Le corps humain et sa résurrection,
«Revue Thomiste» 87 (1979) 533-45.
237
Si veda Origene, Sel. Ps. 1; Comm. in Ps. 1, 5,22. Si vedano gli studi citati in nota 123 sopra.
238
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 195s. Si veda in particolare l’opera perduta
di Filopono, De resurrectione.
239
Vedi le note 124 e 126 sopra, rispettivamente.
240
Si vedano le pp. 122s sopra.
241
Si veda J. Ratzinger, Auferstehungsleib, in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. 1 (1957) 1052-
53; DS 1822. Si veda anche G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 447s. Sull’importanza
delle reliquie in contesto religioso e sociale, si veda N. Herrmann-Mascard, Les reliques des saints:
formation costumière d’un droit, Klincksieck, Paris 1975; J. Bentley, Restless Bones: the Story of
Relics, Constable, London 1985.
242
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 121s. Si veda Congregazione per la Dottrina della Fede, Doc.
Recentiores episcoporum Synodi (1979), n. 6.
243
Si veda G. Colzani, La vita eterna, 122.
244
Si veda il mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’. Clemente Romano usa l’espressione

143
Capitolo III

ta di una formula di carattere fondamentalmente anti-gnostico245, che fornisce la


base teologica per affermare il valore della materia e del corpo umano246. La Chie-
sa ha recentemente insistito sulla proprietà di utilizzare l’espressione letterale
nella liturgia, “resurrezione della carne” piuttosto che “resurrezione del corpo”247.
Tuttavia, l’espressione “resurrezione della carne” può anche essere compresa nei
termini della espressione aramaica kol-basar (“ogni carne”, una espressione che
si trova spesso nell’Antico Testamento: Sal 65,3; 136,25; Ger 25,31), e così indi-
cherebbe l’universalità della resurrezione finale248. Infatti gli gnostici valentiniani
cercavano di restringere il numero di coloro che erano destinati alla resurre-
zione, in quanto, considerando resurrezione sinonimo di salvezza, affermavano
che solo i prescelti o spirituali (pneumatakoi), che erano già salvati, ne avessero
diritto249. Ma come abbiamo visto prima, la resurrezione è destinata a tutti250 e
non può perciò essere considerata ipso facto sinonimo di salvezza.
Concretamente, la formula “resurrezione di questo corpo” è nata come
tentativo di esprimere la continuità etica che esiste tra questa vita e quella
successiva, e quindi l’eterna proiezione e valore delle azioni umane compiute in
un contesto limitato, temporale e materiale251. Tertulliano succintamente rias-
sume la posizione degli gnostici dicendo che «nessuno vive così tanto secondo
la carne come coloro che negano la resurrezione della carne»252. Tiranio Ruffino
nel suo commento del Simbolo della fede dice: «la Chiesa ci insegna la resurre-
zione della carne, specificandola con il termine huius, “questa”. “Questa”, senza
dubbio, perché così i fedeli sappiano che la loro carne, se conservata libera dal

“resurrezione della carne (sarx)” in Ep. in Cor. 24s.


245
Così H. B. Swete, The Resurrection of the Flesh, T. H. C. von Eijk, La résurrection des morts.
Sull’escatologia nel periodo gnostico, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 25-8.
246
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph., 80; Erma, Simil., 5,7,2; Ireneo, Adv. Haer. I, 27,3; II, 31,2;
Tertulliano, De res., 19,2.
247
È interessante notare che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha insistito in un
documento del 1983 sulla necessita di fornire una traduzione letterale di resurrectio carnis nei testi
liturgici, perciò: “resurrezione della carne”: L’Articolo ‘Carnis Resurrectionem’ (1983), «Notitiae»
20 (1984) 180s.
248
Così G. Kretschmar, Auferstehung des Fleisches, 108-11.
249
Si veda per esempio Ep. ad Rheginos; e Evang. Philippi, sent. 23. Sulla questione, si veda
F.-M.-M. Sagnard, La gnose valentinienne et le témoignage de saint Irénée, Vrin, Paris 1947; A.
Orbe, La mediación entre los valentinianos, «Studia Missionalia» 21 (1972) 265-301; D. Devoti,
Temi escatologici nello gnosticismo valentiniano, «Augustinianum» 18 (1978) 75-88; A. Magris,
L’escatologia valentiniana, «Annali di Storia dell’Esegesi» 16 (1999) 133-39; B. E. Daley, The Hope
of the Early Church, 231, nota 6.
250
Si vedano le pp. 120s.
251
Questa è la tesi del mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’.
252
Tertulliano, De res. 11,1.

144
La resurrezione dei morti

peccato, sarà in futuro un ricettacolo di onore, utile al Signore per tutte le opere
buone; se invece sarà contaminata dal peccato, in futuro sarà un ricettacolo d’ira
per la distruzione»253. Questa posizione è stata assunta da molti altri scrittori
cristiani254 ed è riassunta nella seguente dichiarazione del Concilio Lateranense
IV, riunito nel 1215 per contrastare gli insegnamenti medioevali neo-gnostici:
«Tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti, per ricevere, secondo che
le loro opere, siano state buone o malvagie, gli uni la pena eterna con il diavolo,
gli altri la gloria eterna col Cristo»255.
Tale spiegazione chiarifica che la resurrezione finale non si distingue né
dal ritorno del Signore Gesù risorto nella gloria (la Parousia), né dal giudizio
generale. Essa è, infatti, il primo frutto della Parousia, e precondizione per il
giudizio finale. Da ciò che abbiamo appena visto emerge che la resurrezione
non può essere considerata, come pensavano gli gnostici valentiniani, come
un semplice sinonimo di salvezza (il Nuovo Testamento insegna che mentre la
salvezza non è necessariamente universale, la resurrezione lo sarà strettamente),
ma risponde alla fedeltà di Dio alla sua decisione di creare gli uomini, in corpo
ed anima, come esseri immortali.

3. La resurrezione di una vita che è stata vissuta


La sottolineatura sulla rilevanza etica della resurrezione finale ci porta ad
una conclusione significativa: che lo stato di resurrezione cui gli uomini sono
elevati per potenza di Dio consiste nella manifestazione e nella perpetuazione
della vita storica personale, la narrativa di ognuno. Tutto quel che le persone
fanno e sono durante la loro vita, anche i più piccoli avvenimenti ed azioni,
quelle apparentemente più nascoste, rimarrà per sempre impresso nei loro corpi
risorti, sigillando la loro identità eterna. Gregorio di Nissa dice che tramite le
nostre azioni diventiamo «genitori di noi stessi»256. Anscar Vonier dice che «la
resurrezione dei morti è l’atto di Dio mediante il quale Egli ci restituisce… l’in-
tero regno dell’attività sensibile, che aveva smesso di esistere»257. Considereremo
la dinamica della resurrezione finale in tre passaggi: nei confronti della vita che

253
Tiranio Rufino, Comm. in Symb. Apost. n. 46.
254
Per esempio, Minucio Felice, Octavius 34, 12; Ps.-Giustino De res. 2; Ireneo, Demonstr. 41; Adv
Haer. V, 11: Tertulliano, De res, 14; Gregorio di Elvira, Tract. Orig. XVIII, 6, 19-32.
255
DS 801.
256
Gregorio di Nissa, De vita Moysi II, 2-3.
257
A. Vonier, The Life of the World to Come, Burns & Oates, London 1935, 150.

145
Capitolo III

si è già vissuta, nei confronti della relazione con le altre persone, e – nel prossi-
mo capitolo – nei confronti della relazione con il cosmo.

Resurrezione di una vita vissuta.  Che la Parousia determinerà la resurrezione della


vita che è già stata vissuta è una posizione comune tra molti teologi recenti, sia
protestanti che cattolici258. Henri Rondet, commentando la costituzione del Conci-

258
Si veda per esempio K. Barth, Kirchliche Dogmatik, III/2, Evangelischer Verlag; Zollikon, Zürich
1948, 761s. E. Jüngel scrive: «Dio è la mia identità più in là. Alla resurrezione, la nostra persona
sarà… la nostra storia manifestata» Tod, 156s. Jüngel non accetta l’idea della resurrezione come
una dissoluzione e una vittoria su tutti i limiti. La resurrezione è promessa in modo che la vita
umana in quanto tale sia salvata, perché la salvezza non è possibile al di là della vita come è stata
vissuta, in quanto rimane nascosta nella vita risorta di Cristo. Su Jüngel, si veda il mio studio La
muerte y la esperanza, 72, nota 42. Ugualmente in W. Pannenberg, la storia e la vita di ciascuna
persona è, per così dire, “codificata” o registrata in Dio, in vista della resurrezione futura, che è
«l’atto attraverso il quale Dio, per mezzo del suo Spirito, restituisce la forma dell’essere-per-sé ad
un’esistenza delle creature che egli conserva nella sua eternità» Teologia sistematica, vol. 3, 634.
È da notare tuttavia che nella spiegazione di Pannenberg (e di Jüngel) l’identità metafisica del
soggetto umano, in quanto distinta da quella storica, non è pienamente descritta (si veda CAA
56). A. Ruiz-Retegui spiega la medesima idea nei seguenti termini: «La inocencia de la infancia, la
generosidad de la juventud pujante, las brillantes realizaciones de la madurez… todo esto que la
vida va envejeciendo sin piedad, nos será entregado de nuevo, si nos resistimos a la tentación de
conservarlos únicamente en cintas magnetoscópicos, o fotografías, o poemas gloriosos, o diarios
íntimos, y los confiamos a Dios, al Dios eterno que se entrega en Cristo» La teleología humana,
838s. E conclude: «el problema clave de la Resurrección de los muertos no es únicamente el
problema de la nueva unión del alma con el cuerpo, la identidad de éste, etc. sino el problema de
la recepción de la vida que es la que configura la identidad personal. Quizá la recepción del cuerpo
en la resurrección se identifique con la recepción de la vida que se ha vivido» ibid., 837. Il teologo
cattolico W. Breuning esprime questo come segue: «la resurrezione della carne significa che nulla
va perso per Dio, dal momento che egli ama il genere umano. Tutte le lacrime verranno raccolte,
nessun sorriso è perso in lui. La resurrezione della carne significa che in Dio l’uomo ritroverà
non solo il suo ultimo momento sulla terra, ma la sua intera storia» Mysterium salutis. Grundriss
heilsgeschichtlicher Dogmatik, a cura di J. Feiner and M. Löhrer, vol. 5, Benzinger, Zürich 1976,
882s. Von Balthasar esprime la medesima idea nei seguenti termini: «La nostra vita vissuta sulla
terra rimane in cielo non solo come un ricordo, ma come qualcosa che è presenza perenne. Come
ciò sia possibile si spiega di nuovo con la reciprocità di cielo e terra: il vissuto frammentario e
incompleto della terra ha sempre avuto la sua profondità ultima in cielo; nessuno istante terreno
può completamente estinguersi (è il problema del Faust di Goethe), ciò che nasconde in sé di
contenuto eterno è riposto per noi in cielo… Perciò la nostra (terrena) esistenza – e noi abbiamo
una sola esistenza – avrà lassù una verissima, per quanto inconcepibile, presenza» L’ultimo atto
(Teodrammatica, 5), Jaca Book, Milano 1985, 343. La stessa idea si può trovare in J. T. O’Connor,
Land of the Living: A Theology of the Last Things, Catholic Books, New York 1992, 258-60, e G.
Ancona, Escatologia cristiana, 354s., che cita B. Sesboüé. Teilhard de Chardin, commentando Ap
14,13, esprime l’idea come segue: «Se noi amiamo Dio, niente della nostra attività interiore, della
nostra operatio, andrà mai perduto. Non verrà l’opera delle nostre menti, dei nostri cuori e delle
nostre mani – cioè i nostri successi, quello che abbiamo determinate, la nostra opus – non sarà
tutto ciò, pure, in qualche senso, “eternalizzato” e salvato?… Dimostra ai tuoi fedeli, Signore, in
quale senso così pieno e vero che “le loro opere li seguiranno” [Ap 14,13] nel tuo regno – opera
sequuntur illos» The Divine Milieu, Harper & Row, New York 1960, 55s.

146
La resurrezione dei morti

lio Vaticano II Gaudium et spes, dice: «Cosa sarebbe un Gutenberg risorto con un
corpo identico al suo corpo terreno fatto di carne, ma senza alcuna relazione con la
scoperta che l’ha reso famoso? Cosa sarebbe un pittore cristiano senza la sua opera,
un musicista senza le sue sinfonie, un poeta senza le poesie? E non dovrebbe rima-
nere nulla dei formidabili sforzi della industria moderna, degli ingegneri e degli
operai? Dobbiamo continuare a dire con il detto medioevale: solvet saeculum in
favilla?»259 Nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) il beato Giovanni Paolo
II, parlando degli sforzi umani, dice che «niente verrà perso o sarà stato invano»260.
Theodor Bovet riassume la stessa idea quando dice che «il volto di una persona
umana contiene in modo stenografico la sua biografia»261.
Due autori in particolare sono degni di menzione, il poeta Gerard Manley
Hopkins († 1889), e il teologo Romano Guardini († 1968).
Hopkins nel suo poema L’eco di piombo e l’eco d’oro incoraggia il suo lettore
ad offrire tutto a Dio, proprio le cose migliori, senza tenere nulla per sé, in quanto
Dio le restituirà tutte, purificate e rese eterne, alla fine dei tempi. «Renda la bellez-
za, la bellezza, renda la bellezza a Dio, della bellezza l’essenza e il donatore. Vedete,
non un capello, né un ciglio, non il minimo ciglio è perduto; ogni capello, ogni
capello del capo è contato… Ah, allora, allora perché, stanche, andare? Perché
siamo tanto scarne di cuore, rattratte, sfatte nell’affanno, affaticate, fastidite, delu-
se, e così oppresse, quando la cosa che liberamente impegniamo è custodita con
cura più amorosa, più amorosa della nostra cura, custodita con una tanto più
amorosa cura… Dove custodita? Dicci soltanto dove è custodita, dove? – Lassù
– Quanto in alto! Noi seguiamo, ora seguiamo. – Lassù, sì lassù, lassù, lassù»262. I
versi di Hopkins evocano l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli ad «accumulare
tesori in cielo» (Mt 6,20). San Pietro Crisologo (V sec.) afferma: quod tu alteri non
reliqueris, non habebis: «quello che non hai dato agli altri, lo perderai»263. Alla fin
fine, come dice Charles Péguy († 1914), «tutto quello che non è dato è perso».
Romano Guardini pone i seguenti interrogative riguardanti la natura del
corpo risorto: «“Corpo” non è solo forma presente nello spazio; esso ha anche

259
H. Rondet, The Theology of Work, in H. Vorgrimler (a cura di), Commentary on the Documents
of Vatican II, vol. 5, Burns & Oates; Herder e Herder, London; New York 1969, 197, su GS 39.
Solvet saeculum in favilla: “il mondo si dissolverà tra le ceneri”.
260
Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis (1987), n. 48.
261
L’autore riflette sulle rughe del volto di sua moglie: Die Ehe, P. Haupt, Tübingen, 19723, 139.
262
G. M. Hopkins, Poesia The Leaden Echo and the Golden Echo, in The Works of Gerald Manley
Hopkins, Wordsword Editions, Hertfordshire 1994, 55s, traduzione italiana: L’eco di piombo e
l’eco d’oro, in A. Guidi (a cura di), Poesie di G. M. Hopkins, Guanda, Parma 1952, 105.
263
Pietro Crisologo, Sermo 43.

147
Capitolo III

storia. Dalla nascita alla morte assume numerosissime forme. Quale di esse è
la vera? Quella del bambino, quella dell’uomo maturo, quello del vecchio?». E
dice: «La risposta può essere una sola: ciascuna è essenziale, poiché la singo-
la fase non è finalizzata alla successiva – il che significherebbe che tutte sono
finalizzate all’ultima, la morte; ciascuna è l’uomo, ciascuna è insostituibile
nell’arco della vita. Il “corpo” dell’uomo è quindi in verità un numero infinito
di forme, che devono essere tutte presenti nel corpo risorto. Esso deve avere
una nuova dimensione, quella del tempo, più precisamente quella del tempo
assunto nell’eternità, in modo che il presente contenga la sua storia, e il puro
adesso comprenda la continua successione delle forme… Lo stesso vale non solo
per il suo sviluppo immediato, ma anche per ciò che ha fatto e vissuto: gioie
e sofferenze, inibizioni e affrancamenti, vittorie e sconfitte, amore e odio. Gli
infiniti eventi dell’anima si sono espressi nel corpo, hanno compenetrato il suo
essere sviluppandolo, ostacolandolo o distruggendolo. Sono conservati in esso,
e sono presenti nel corpo risorto. Lo stesso vale per le esperienze e gli incontri;
e la resurrezione del corpo significa la resurrezione di tutta la vita passata, del
bene e del male… “Resurrezione” significa quindi che risorge non solo la forma,
ma anche la storia; non solo la sostanza, ma anche la vita dell’uomo. Nulla di
ciò che è stato viene distrutto. L’essenza delle azioni e dei destini dell’uomo è in
lui e, liberata dalla limitatezza della storia, esisterà nell’eternità. Ma non in virtù
della propria forza, come ultima fase di uno sviluppo intrinseco, bensì grazie
alla chiamata del Signore, l’onnipotente, e in virtù del suo Spirito»264.

Resurrezione e società.  In modo speciale la resurrezione finale implica la rico-


stituzione della società umana, che la morte e il peccato hanno danneggiato.
Gabriel Marcel considera l’immortalità e il dramma della morte in modo stret-
tamente interpersonale; così la vita umana non è completa finché tutte le rela-
zioni interrotte sono sanate e ricostituite. «Ama chi dice all’altro: tu non dovre-
sti mai morire»265. L’immortalità senza l’amore umano non avrebbe senso. Il
poeta John Donne († 1631) dice la stessa cosa in un passaggio memorabile: «La
morte di ciascun uomo sminuisce me, perché sono implicato nel genere umano;
e perciò non domandare per chi suonano le campane a morto; suonano per
te»266. Detto diversamente, la vita umana non è mai completa, non è mai piena-

264
R. Guardini, Le cose ultime, 71s.
265
Questa frase è di Arnaud Chartrain nell’opera di Marcel La soif.
266
John Donne, Devotion upon Emergent Occasions, 17 in Complete Poetry and Selected Prose, a
cura di J. Hayward, The Nonsuch Press, London 1949, 538.

148
La resurrezione dei morti

mente “risorta”, se non include quella parte di me che sono le altre persone, che
è la mia storia personale vissuta con loro e in loro.
La spiegazione appena posta fornisce una spiegazione coerente per poter
integrare “l’immortalità della vita” e “l’immortalità del io”, come abbiamo enun-
ciato nel primo capitolo267. Offre una base per spiegare la dignità di ciascuno e tutti
gli uomini, non solo riguardo alla loro individualità metafisica, ma nei confronti
del valore eterno della vita concreta che hanno vissuto insieme agli altri268.

3. Resurrezione dei morti come oggetto di speranza


«La resurrezione dei morti è la speranza dei cristiani», dice Tertulliano269.
La resurrezione è la speranza dei cristiani in primo luogo per il suo contenuto,
in quanto nella resurrezione dai morti gli uomini raggiungeranno la pienez-
za che Dio ha voluto per loro. Ignazio d’Antiochia scrisse ai cristiani di Roma
del suo fervente desiderio di martirio, concludendo così: «quando lo raggiun-
gerò, sarò pienamente uomo»270. Agostino disse che alla fine dei tempi, nos ipsi
erimus, «saremo veramente noi stessi»271. Secondo, la resurrezione è oggetto di
speranza nel senso stretto (teologico) della parola, perché si crede nella potenza
e bontà di Dio solo; in effetti, solo Dio è capace di farci risorgere dalla morte e
di distruggere tutta la corruzione. Ciò significa che nessun agente umano è in
grado di rendere possibile la resurrezione degli uomini, cioè di stabilire la vera e
definitiva giustizia sulla terra. E in terzo luogo, la resurrezione dei morti è l’og-
getto della speranza in quanto serve da stimolo a vivere una vita morale retta e
cristiana che sarà pienamente ed eternamente palese davanti a Dio e all’umanità
in e attraverso la resurrezione.

Resurrezione, relazioni e materia. Forse la sfida principale per l’escatologia


cristiana negli ultimi secoli è venuta da Hegel e Marx. È risaputo che Hegel
accusò i cristiani di «sprecare in cielo tesori destinati alla terra». Marx, si sa,
considerava la religione “oppio dei popoli” perché, occupandosi di un altro

267
Si vedano le pp. 47s.
268
Si veda M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, 233s. L’Aquinate spiega che «la
resurrezione non è finalizzata alla continuità della specie, perché questa sarebbe salvaguardata
dalla generazione. Essa deve, quindi, essere finalizzata alla continuità dell’individuo: ma non
dell’anima sola; infatti l’anima ha già la sua continuità prima della resurrezione. Perciò riguarda la
continuità del composto» IV C. Gent., 82.
269
Tertulliano, De res. 1.
270
Ignazio d’Antiochia, Ad Rom. 6,2s.
271
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30,4.

149
Capitolo III

mondo, essa distrae gli uomini dalla vita presente e dalla lotta per la giustizia
e l’uguaglianza272. Secondo entrambi l’umanità raggiungerà la sua pienezza in
questa vita, nel mondo così come lo conosciamo, o non la raggiunge affatto.
Tuttavia, sebbene la loro visione della storia e del progresso vuole incentrare
tutto sulla vita nel mondo, la loro impostazione ha l’effetto di banalizzare anche
questa vita, dal momento che tutto quello che gli uomini fanno o raggiungono
non può durare per sempre, non può assumere valore eterno. Non sorprende il
fatto che alcuni autori di tendenza marxista, come Teodoro Adorno († 1969),
abbiano detto che sarebbe necessaria la resurrezione della carne perché giustizia
definitiva venga fatta nel mondo273.
È qui che la spiegazione appena data della resurrezione finale diventa
pienamente significativa. Essa non è una nuova creazione nel senso stretto della
parola; non si tratta di una vita completamente nuova, irriconoscibile. Piuttosto,
è la resurrezione della carne nella potenza di Dio, l’eternalizzazione della vita
vissuta sulla terra, la permanenza palpitante della narrativa umana. La resur-
rezione così dà significato e profondità e valore alle cose e azioni ed eventi più
umili e materiali della vita. In realtà la speranza nella resurrezione finale è quel
che rende possibile vivere ogni momento «con vibrazione d’eternità», per usare
una frase cara a San Josemaría Escrivá († 1975)274.
Alcuni autori accettano che la resurrezione finale consista davvero nella
restaurazione delle nostre relazioni con gli altri e con il mondo, ma ritengo-
no che questo non implichi l’eternità della materia, ma piuttosto una sorte di
comunione spirituale e condivisione tra gli uomini in Cristo275. Tuttavia, una
vita risorta completamente sganciata dalla materia, oltre ad essere in disaccor-
do con diversi aspetti della dottrina della fede, specialmente la Resurrezione di
Cristo, non prende la vita umana, come è vissuta sulla terra, in tutta la sua serie-
tà e concretezza. La dottrina della resurrezione dei morti ci porta a parlare di un
autentico “materialismo cristiano”276. Se la materia è esclusa dallo stato risorto,

272
Si vedano le riflessioni del papa Benedetto XVI, in SS 20s.
273
Si veda T. W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966, 205, 393. Questo
testo è citato anche in SS 42.
274
Si veda San Josemaría Escrivá, Amici di Dio, n. 239b; Forgia n. 917.
275
Si veda A. Schmemann, O Death, Where is Thy Sting?, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood,
NY 2003.
276
San Josemaría ha scritto: «Il senso cristiano autentico –  che professa la resurrezione di ogni
carne – si è sempre opposto, come è logico, alla disincarnazione, senza tema di essere tacciato di
materialismo. È consentito, pertanto, parlare di un materialismo cristiano, che si oppone audacemente
ai materialismi chiusi allo spirito» Colloqui con Mons. Escrivá de Balaguer, Ares, Milano 1968, 144.

150
La resurrezione dei morti

Marx avrebbe avuto ragione nel dubitare delle buone intenzioni dei cristiani
che sostengono che l’escatologia è una forza di responsabilizzazione per coloro
che vogliono stabilire la giustizia nel mondo. Questo ci porta a considerare il
contesto cosmico per la vita dei risorti, quello che la Scrittura definisce “i cieli
nuovi e la terra nuova”.

151
Capitolo IV

I NUOVI CIELI E LA TERRA NUOVA

Dans ma ciel, il y aura des choses


Charles Péguy1

Cercavamo tra di noi, alla presenza della Verità che Tu sei,


quale sarebbe stata la vita dei santi
Sant’Agostino in conversazione con santa Monica2

In stretta continuità con la dottrina della resurrezione dei morti e il giudi-


zio finali, il ritorno del Signore Gesù Cristo nella gloria implicherà la distruzio-
ne, la purificazione e il rinnovamento del cosmo materiale, che nella Scrittura
viene descritto come la nuova creazione (Mt 19,28; Rm 8,18-25; Gal 6,15)3. Il
libro della Genesi (Gn 1,26-28) insegna che gli uomini sono destinati a governa-
re il mondo, in quanto immagini o ambasciatori di Dio4. Non è però meno vero
che gli uomini appartengono al mondo nel senso più radicale possibile, data la
loro condizione corporale. In altre parole, il processo umano di morte e resur-
rezione, in tutto il suo realismo, richiede qualche processo complementario di
morte e resurrezione da parte del cosmo intero, la rovina e il rinnovamento
del mondo materiale. Giuliano di Toledo († 690), tra altri autori, ha riassunto
il pensiero della patristica occidentale nei seguenti termini: «il mondo, essendo
stato rinnovato per il meglio, sarà convenientemente adattato agli uomini che
pure saranno stati rinnovati per il meglio nella carne»5. Allo stesso modo Ugo

1
C. Péguy, Le Mystère des Saints-Innocents.
2
Agostino, Conf. IX, 10.
3
Cf. A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 337-85.
4
Si veda M. Bordoni, Gesù di Nazaret Signore e Cristo, Herder; Pontificia Università Lateranense,
Roma 1986, vol. 3, 611s.
5
Giuliano di Toledo, Prognosticon futuri saeculi 2,46.

153
Capitolo IV

di San Vittore ha stabilito una chiara relazione tra la resurrezione finale e il


rinnovamento del mondo6. Nella vita che verrà, scrive San Tommaso d’Aquino,
«l’intera creazione corporale verrà modificata in modo appropriato per essere in
armonia con lo stato di coloro che la abiteranno»7.

1. Il Cosmo e la fine del mondo


I documenti del Concilio Vaticano II prestano particolare attenzione all’a-
spetto cosmico della fine del mondo. La Chiesa, leggiamo nella Lumen Gentium,
«“non avrà il suo compimento se non nella gloria del cielo, quando verrà il
tempo della restaurazione di tutte le cose” (At 3,21), e quando col genere umano
anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo
di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo (cf. Ef 1,10;
Col 1,20; 2 Pt 3,10-13)»8. Questo non accadrà, continua dicendo il medesimo
documento, «fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali
la giustizia ha la sua dimora (cf. 2 Pt 3,13)»9. Nella costituzione pastorale sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo, la Gaudium et spes, il messaggio è ripetuto:
«Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato (1 Cor 7,31;
Ireneo, Adv. Haer. V, 36,1). Sappiamo, però, dalla rivelazione che Dio prepara
una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia (2 Cor 5,2; 2 Pt
3,13), e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che
salgono nel cuore degli uomini (1 Cor 2,9; Ap 21,4-5). Allora, vinta la morte, i
figli di Dio saranno risuscitati in Cristo… e restando la carità con i suoi frutti (1
Cor 13,8), sarà liberata dalla schiavitù della vanità tutta quella realtà (Rm 8,19-
21), che Dio ha creato appunto per l’uomo»10.
Infine, il Catechismo della Chiesa Cattolica si occupa lungamente di questo
argomento11. «L’universo visibile stesso è destinato ad essere trasformato, “affinché
il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al
servizio dei giusti”, partecipando alla loro glorificazione in Gesù Cristo risorto»12.

6
Ugo di San Vittore, De sacramentis II, 18,1. Ugo spiega che il mondo sarà trasformato secondo
il modello della resurrezione.
7
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 97.
8
LG 48a.
9
Ibid., 48c.
10
GS 39a.
11
CCC 1042-50.
12
CCC 1047; che include una citazione di Ireneo, Adv. Haer. V, 32,1.

154
I nuovi cieli e la terra nuova

Rinnovamento e materia. Questa dottrina serve per esprimere pienamente


il realismo della dottrina della resurrezione finale. Nel far questo la Chiesa si
distanzia nel suo insegnamento dall’origenismo (e da Bultmann), che suggerisce
che il mondo materiale e corporale, così come noi lo conosciamo, verrà distrut-
to, e rimarranno solo le realtà spirituali13, di cui la realtà materiale non è altro
che un simbolo.
La nozione di ri-creazione materiale del mondo era comune nell’età suba-
postolica, sebbene sia stata meno considerata dai Padri Apostolici14. Tra gli
Apologisti era comunemente insegnata, sebbene spesso associata alla dottrina
del millenarismo15. Citando il testo fondamentale di Rm 8,21 («la creazione verrà
liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei
figli di Dio»), San Tommaso d’Aquino insegna che ciò si riferisce anche alla
creazione materiale16.
Il fatto è che il compimento dell’uomo non può che implicare la materia-
lità, la corporalità, il cosmo. Il poeta William Wordsworth († 1840) descrisse la
nostra felicità in questo mondo così:
Non in Utopia – campi sotterranei, –
O in qualche isola segreta, il Cielo sa dove!
Ma nel mondo stesso, che è il mondo
Di tutti noi, – il luogo dove, infine,
Noi troviamo la felicità, o nulla affatto!17
Walter Kasper spiega questo concetto nei seguenti termini: «La fedeltà di
Dio non riguarda solo la storia della salvezza, ma anche l’incrollabile esistenza
degli ordini naturali, che più ancora suscitano stupore in chi li osserva e lode
al Creatore nelle persone pie. Entrambi gli aspetti, la contingenza storica e gli
ordini duraturi, erano posti in relazione tra loro nel tardo Antico Testamento e
nei primi scritti apocalittici ebraici. L’Apocalisse include la natura e i suoi ordini
nel piano di salvezza storico di Dio»18. E Leo Scheffczyk († 2005) scrive: «nella

13
Si veda il Concilio di Costantinopoli (553), can. 10, in J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova
collectio, Akademische Druck-und Verlaganstalt Graz, Graz 1901, vol. 9, col. 399; si veda anche
DS 1361. Sul pensiero di Bultmann, si veda CAA 38-44.
14
La nozione di ri-creazione materiale del mondo è comune nell’età sub-apostolica;
successivamente, tra i Padri Apostolici, è in qualche modo decaduta: si veda A. O’Hagan, Material
Re-Creation in the Apostolic Fathers, Academie, Berlin 1968, 141.
15
L’idea di ri-creazione materiale è chiara in Ireneo, Adv. Haer. V, 32, nei suoi insegnamenti
riguardante al millenarismo (si vedano le pp. 297ss.).
16
Si veda Tommaso d’Aquino, In Rom. 8, l. 4 (ed. Marietti, n. 660).
17
W. Wordsworth, The Prelude, X-XI, righe 724-9.
18
W. Kasper, The Logos Character of Reality, «Communio (English ed.)» 15/3 (1988) 282.

155
Capitolo IV

trasformazione del cosmo gli uomini riconosceranno il segreto della conformità


con Cristo presente nel mondo materiale, e in tutto ciò che ne fa parte»19.

La distruzione dell’universo.  La Scrittura fa riferimento ad un’ampia varietà di


segni di distruzione e di portenti che saranno preludio alla fine del mondo20.
«Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’i-
nizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà» (Mt 24,21s.). Diversi di questi
segni sono menzionati lungo il Nuovo Testamento: la distruzione della socie-
tà umana; il trionfo dell’idolatria e dell’irreligiosità; la diffusione della guerra;
diverse calamità cosmiche. Tra le ultime leggiamo nel vangelo di Matteo: «Subi-
to dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la
sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte…»
(24,29), «e vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi» (24,7).
La Scrittura parla apertamente della discontinuità tra il cosmo presente
e il futuro mondo glorificato21, ma non della totale eliminazione del primo,
perché ci sarà anche una reale continuità tra i due. Nel sottolineare la continuità
tra creazione e salvezza in contrasto con lo Gnosticismo di Marcione († 160),
Tertulliano osserva acutamente che «Dio è giudice perché Signore, e Signore
perché Creatore, e Creatore perché è Dio»22. Il giudizio difficilmente sarebbe
pienamente giusto se la resurrezione fosse compresa solo nei termini di una
violenta, singolare ed imprevedibile intrusione da parte di Dio nell’ordine crea-
to esistente. Dopo tutto, il Dio che giudica è allo stesso tempo il solo Creatore e
Signore dell’universo e di tutto ciò che contiene, e il Salvatore dell’uomo.

Il “mondo nuovo” nella Scrittura.  Tuttavia, il fatto che il mondo così come lo
conosciamo sia sotto una minaccia di distruzione non significa che esso sarà
completamente distrutto o annientato, in quanto Dio, come ci dice la Scrittura,
ha promesso che sarà generato un “nuovo mondo”, dei “nuovi cieli e la terra
nuova”, una “nuova creazione”.
La promessa di un cosmo rinnovato è presente nell’Antico Testamento. In
Is 65,17 per esempio leggiamo: «Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra;

19
Si veda L. Scheffczyk, Die Wiederkunft Christi in ihrer Heilsbedeutung für die Menschheit und
den Kosmos, in Weltverständnis im Glauben, a cura di J. B. Metz, Matthias-Grünewald, Mainz
19662, 161-83, qui 180. Si veda anche J. H. Wright, The Consummation of the Universe in Christ,
«Gregorianum» 39 (1958) 285-94.
20
Si veda CAA 150-4.
21
Si veda Rm 8,19-21; 2 Pt 3,10-13; Ap 21,1-2.
22
Tertulliano, De res. 14,6.

156
I nuovi cieli e la terra nuova

non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioi-
rà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia,
e il suo popolo per il gaudio» (Is 65,17s.). Il rinnovamento è spesso presentato
in termini di ritorno al paradiso (Is 11,6-9). Poi il ciclo di distruzione, novità e
ricreazione viene alla ribalta in particolare nei testi apocalittici23.
Nel Nuovo Testamento si può trovare la medesima dottrina, in diverse
occasioni. Matteo fa riferimento al crollo dell’ordine cosmico attuale come un
segno dell’arrivo del Figlio dell’uomo (24,29), ma anche di una nuova creazione
(19,28: paliggenesia) che coincide con la sua venuta24. La lettera ai Romani parla
del nuovo mondo che Dio ha promesso, e della situazione della creazione nei
termini di una nuova nascita. «L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è
protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta
alla caducità –  non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta –
nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della
corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19-21)25.
Anche il libro dell’Apocalisse parla di un rinnovamento del cosmo operato
dalla potenza misericordiosa di Dio, in una chiara parafrasi di Is 65,17s. «E vidi un
cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e
il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere
dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una
voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro
Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né
lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”» (Ap 21,1-4).
Forse il testo più chiaro è da ricercarsi nella seconda lettera di Pietro (3,10-
13) che descrive la distruzione del mondo e la sua sostituzione con una nuova
creazione: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in
un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra,
con tutte le sue opere, sarà distrutta… i cieli in fiamme si dissolveranno e gli
elementi incendiati fonderanno!» (vv. 10-12). I credenti sono esortati, perciò, ad
essere vigilanti: «Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo,
quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere,
mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio» (vv. 11s.). Tuttavia,

23
Si veda CAA 79-81.
24
Per una analisi di questo testo, si veda CAA 167-9. Si veda anche BDAG, 752, s.v. παλιγγενεσία.
25
Su questo testo, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 182-5.

157
Capitolo IV

prosegue il testo, «noi, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una
terra nuova, nei quali abita la giustizia» (v. 13). La lettera continua ad esortare i
credenti: «Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio
vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia» (v. 14).
Il testo insegna che il mondo così come lo conosciamo sarà distrutto e
ricreato di nuovo dalla potenza di Dio. Per questa ragione i credenti sono inco-
raggiati a vivere in virtù e vigilanza, per poter entrare nel regno di Dio quando
arriverà nella sua pienezza.

Un profilo del paradiso.  Conviene con tutto evitare le rappresentazioni sempli-


cistiche o le descrizioni dettagliate di ciò che potrà essere il paradiso escatolo-
gico, i “nuovi cieli e la terra nuova”26. Possiamo comunque menzionare alcune
opinioni. Secondo San Tommaso d’Aquino, non solo mangiare, dormire e gene-
rare saranno assenti nello stato risorto; neppure ci saranno animali, né piante,
né minerali. Tuttavia, assumendo da dottrina di Aristotele che le stelle siano
immobili e incorruttibili (egli infatti ritiene che siano divine), Tommaso accetta
che il firmamento celeste occuperà uno spazio permanente nella vita futura27.
Altri autori sono più ottimisti, comunque. Ispirati forse dagli scritti degli anti-
chi, molte delle prime opere cristiane parlano di un paradiso eterno, con pasco-
li, sorgenti e fiumi28. Nell’opera Passione di Perpetua e Felicita, del secondo seco-
lo, si legge che il paradiso consisterà in «un ampio luogo, un giardino di piacere,
con alberi e rose, e ogni sorta di altri fiori, con le cime degli alberi come quelle
del cipresso»29. San Girolamo era convinto della continuità della vita animale e
vegetativa in cielo30, così come lo era C. S. Lewis, che credeva che in paradiso ci
saranno gli animali, in particolare quelli domestici come i cani e i gatti31. L’au-
tore medioevale Arnoldo di Bonneval († 1156) suggerì le seguenti caratteristiche
escatologiche del paradiso: intimità con Dio, alberi e fiori che dilettino il tatto
e l’olfatto, nessun male e tutto un incanto, il lavoro caratterizzato da una crea-
tività senza sforzo32. Sia Crisostomo33 che Sant’Agostino, tuttavia, utilizzarono

26
Per una sobria riflessione in materia, si veda G. Ancona, Escatologia cristiana, 359.
27
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 91, a. 5; Comp. Theol. 170.
28
Si veda Virgilio, Eneide VI, 640-59, che parla di pascoli, sorgenti e fiumi.
29
Passio Perpetuae et Felicitatis, 4,11s.
30
Si veda Girolamo, In Is. 18,17s.
31
Si veda C. S. Lewis, Miracles, 166s.; The Problem of Pain, Macmillan, New York 1948, 117-31. È
significativo il fatto che Lewis parli qui di animali domestici, non selvatici. Questo per dire che la
possibile presenza di animali nella vita futura è antropologicamente qualificata.
32
Arnoldo di Bonneval, De operibus sex dierum.
33
Si veda Giovanni Crisostomo, In Ep. ad Rom. 14.

158
I nuovi cieli e la terra nuova

un approccio più allegorico e spirituale ai testi della Scrittura che parlano di


un paradiso escatologico. Agostino, per esempio, parlò del nuovo mondo che
esisterà per amore della bellezza34.

2. Rinnovamento cosmico, scienza e attività umana


Considereremo ora due aspetti della promessa dei nuovi cieli e della terra
nuova, con tutto ciò che essa implica riguardo alla novità e alla continuità, argo-
menti che sono già stati considerati nel capitolo terzo sulla resurrezione finale.
Primo, le implicazioni che la resurrezione e il rinnovamento cosmico hanno per
la cosmologia scientifica, e secondo il significato e il valore dell’attività umana
alla luce della fede in un mondo che alla fine sarà distrutto e ricreato da Dio.

1. Rinnovamento cosmico, scienza e materia


La cosmologia classica (quella di Aristotele e Platone, fino ad Isaac Newton,
† 1727) considerava il mondo in termini prevalentemente fissi o meccanici. Gli
dei, concordemente alla loro natura immortale, immobile, lasciano il cosmo
infinito più o meno come è stato fatto, con le sue leggi permanenti, immutabi-
li, con delle graduali benché regolari fluttuazioni e modulazioni35. Allo stesso
modo, nel pensiero classico si considerava che le anime umane interagissero con
i loro corpi in modo estrinseco. In effetti, l’aspetto problematico delle relazioni
tra scienza e religione implica di solito la descrizione delle diverse mediazioni
che esistono tra il mondo dello spirito e quello della materia. Così, una partico-
lare azione divina sul corpo, quale che sia, viene considerata come “intromis-
sione”, intervento forse catastrofico e distruttivo. Tale è il caso di molti autori
di area deistica36. Sarebbe stato il caso dei miracoli, che interferiscono con il
cosmo, operati da Cristo direttamente o attraverso l’intercessione dei santi; lo
stesso si potrebbe dire della fede nella resurrezione e della ricreazione cosmica,
che hanno tratto origine nel contesto della letteratura apocalittica37.

Resurrezione, scienza e cosmo. Si tratta di considerare la seguente alternati-


va. La promessa di resurrezione e rinnovamento cosmico è un fenomeno che
appartiene alle potenzialità della natura, già iscritte nelle sue leggi stabilite e

34
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 30.
35
Si veda W. G. Stoeger, Cosmologia, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, vol. 1, 285-9.
36
Per una storia classica del deismo, si veda J. Forget, Déisme, in DTC 4 (1918) col. 232-243.
37
Si veda CAA 86ss.

159
Capitolo IV

nel suo processo evolutivo (come succede con i riti della fertilità egiziani)?38 O,
in alternativa, la resurrezione sarà il risultato di un intervento divino che deve
ignorare, superare o alterare sostanzialmente le leggi della natura, una sorte di
seconda creazione che passi sopra il mondo esistente, che rifletta una visione di
doppio-piano, o addirittura dualistica, della realtà?
È chiaro che qualsiasi sistema etico o spirituale, non importa quanto tenti
di conferire dignità all’uomo e alle sue azioni, se rimane lontano dalla realtà e
dal dinamismo dell’universo, compresa la materialità e la corporeità umane,
corre il rischio di diventare senza significato, impraticabile e irrilevante. Inoltre,
il progresso nel campo della fisica ha fatto sorgere una consapevolezza generale
secondo cui la materia e le sue leggi non sono soggette esclusivamente all’in-
fluenza di leggi implacabili e prevedibili39. È frequente considerare il mondo
fisico soggetto ad un processo dinamico che si muove tra, da una parte, una
crescente entropia (che produce una sempre maggiore distruzione o dissolu-
zione degli esseri), e, dall’altra, una strutturazione sempre maggiore, in cui i
processi fisici hanno luogo in sistemi aperti piuttosto che chiusi40. Tali processi
di fatto possono non essere impermeabili a fattori di tipo personale o spiritua-
le41. Allo stesso modo, gli sviluppi nella contemporanea antropologia filosofica
sono basati, in grande misura, su studi concernenti la fenomenologia del corpo
umano42; ciò va contro la predominanza goduta dalle antropologie e psicologie
spirito-centriche dei secoli recenti.
Una consapevolezza di questi fattori ha portato molti autori del ventesi-
mo secolo a tentare una ripresa delle implicazioni strettamente cosmologiche
ed antropologiche della salvezza cristiana, e in particolare della dottrina della
resurrezione e del rinnovamento cosmico. L’opera salvifica di Cristo, infatti,
implica non solo la vittoria (negativa) sulla disarmonia del peccato e della morte
che ha origine nella primordiale disobbedienza dell’uomo, ma anche un aspetto
positivo, in cui il cosmo creato avanza sotto la potenza divina verso la definiti-
va, gloriosa pienezza. In questo senso la resurrezione di Cristo dalla morte (e la

38
Si vedano le pp. 106s.
39
Si vedano le pp. 71s.
40
Su questo argomento, si veda H. Wehrt, Über Irreversibilität, Naturprozesse und Zeitstruktur, in
Offene Systeme, a cura di E. U. von Weizsäcker, vol. 1, Klett, Stuttgart 1974, 114-99.
41
Si veda il mio studio Whose Future? Pannenberg’s Eschatological Verification of Theological
Truth, «Irish Theological Quarterly» 66 (2001) 19-49, specialmente 42.
42
Si veda C. Bruaire, Philosophie du corps, Seuil, Paris 1968; M. Merleau-Ponty, L’union de l’âme
et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson, Vrin, Paris 1978; M. Henry, Une philosophie de la
chair, Seuil, Paris 2000.

160
I nuovi cieli e la terra nuova

nostra promessa di resurrezione in Lui) non è solo un segno tangibile dell’amore


gioioso del Padre verso il Figlio per il suo esser stato «obbediente fino alla morte,
e alla morte di Croce» (Fil 2,7), e della promessa del perdono divino per l’uo-
mo. Costituisce anche la suprema e perpetua affermazione da parte di Dio del
valore dell’universo creato e materiale, del suo desiderio di manifestare la Sua
sovranità sulla creazione non distruggendola od umiliandola, ma assumendo
e confermando la sua realtà interiore, e elevandola in Cristo alla pienezza della
gloria e dello splendore.

La scienza e il “Cristo cosmico”.  Uno degli autori che ha parlato con più forza
della continuità tra lo sviluppo umano e il progresso del Regno di Dio è stato
Pierre Teilhard de Chardin († 1955) nella sua dottrina del “Cristo cosmico”43.
Dal punto di vista scientifico, Teilhard considerava il processo dell’evoluzione
dell’universo come la convergenza di tutti i fenomeni verso un “Punto Omega”
di perfezione ultima. Teologicamente parlando, dice, ciò coincide con la “cristi-
ficazione” escatologica dell’universo. Quando il processo di “incarnazione” del
Verbo giungerà a compimento, egli nota, Cristo diventerà, secondo le parole
dell’Apostolo, il plērōma, o pienezza della creazione44.
Le riflessioni di Teilhard sul Cristo cosmico hanno fornito una espressione
utile di un aspetto centrale della comprensione cristiana del mondo, che era
stata in qualche modo sottovalutata nei secoli precedenti. Diversi autori hanno
preso le mosse a partire dalle sue intuizioni45, alcuni con più successo di altri.
Ci si è chiesti, comunque, se il “Cristo cosmico” di Teilhard – di cui egli
parla come di una misteriosa super-umana “terza” persona in Cristo – faccia
riferimento all’umanità di Cristo ipostaticamente unita al Padre, oppure alla
sua divinità, consustanziale al Padre46. Nel primo caso, Teilhard sembrerebbe
estendere l’unione ipostatica all’intero cosmo, e non solo alla umanità storica di
Gesù di Nazaret. Chiaramente, la dissoluzione della concreta umanità di Gesù

43
Si veda C. F. Mooney, Teilhard de Chardin and the Mystery of Christ, W. Collins, London
1966; J. A. Lyons, The Cosmic Christ in Origen and Teilhard de Chardin, Oxford University Press,
Oxford 1982.
44
Si veda L. Galleni, Teilhard de Chardin, Pierre, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede,
vol. 2, 2111-24.
45
Si veda É. Mersch, Le Christ, l’homme et l’univers, Desclée de Brouwer, Paris 1962; G. Martelet,
Résurrection, eucharistie et genèse de l’homme, Desclée de Brouwer, Paris 1972; J.-M. Maldamé, Le
Christ et le cosmos, Desclée, Paris 1993; e anche nella teologia ortodossa: O. Clément, Le Christ,
terre des vivants: le “Corps spirituel”, le “Sens de la terre”, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-
Mauges 1976.
46
J.-M. Maldamé, Le Christ et le cosmos, 183s.

161
Capitolo IV

che ciò comporta sarebbe fuori luogo. Nel secondo caso, la sua comprensio-
ne potrebbe mettere in pericolo la distinzione tra Dio e l’universo creato. In
entrambi i casi, una certa visione “pancristica” dell’universo si trova nel pensie-
ro di Teilhard, una possibilità cui fa riferimento Papa Pio XII nella sua enciclica
del 1943, Mystici corporis47.
Si dovrebbe inoltre notare che i testi della Scrittura citati da Teilhard in
riferimento all’aspetto strettamente cosmico della Cristologia (per esempio Col
1,17; 2,10; 3,11) pongono l’attenzione solo al lato escatologico del ruolo cosmico
di Cristo (Cristo come il “Punto Omega” della creazione), e trascurano in qual-
che modo il ruolo strettamente protologico giocato dal Verbo Eterno di Dio nella
creazione del mondo (Cristo come il “Punto Alfa” del creato)48. La compren-
sione esclusivamente escatologica della “cristificazione” cosmica suggerita da
Teilhard può prestarsi sia (1) ad una considerazione estrinseca dell’intervento
di Dio sulla natura che può essere rettificata solo da forti affermazioni di tipo
pancristico o anche panteistico, o (2) a una confusione tra il male da una parte,
e la semplice limitazione cosmica che deriva dall’atto divino della creazione,
dall’altra. Di fatto, una comprensione autenticamente cristiana dell’universo e
della materia alla luce della resurrezione escatologica può trovare fondamento
solo in una visione della creazione pienamente cristologica49.

Cristo tra creazione e consumazione.  Il teologo luterano Wolfhart Pannenberg,


spiega che la resurrezione di Cristo dà espressione al necessario equilibrio di enfa-
si tra l’aspetto escatologico e quello protologico nella riflessione. Parlando dei testi
della Scrittura che si riferiscono all’azione di Cristo sul cosmo, dice: «sono enun-
ciati che io stesso ho sviluppato nei miei Grundzüge der Christologie del 1964…
insieme ad un altro gruppo di affermazioni cristologiche del Nuovo Testamento,
quelle che riguardano l’elezione divina, o la predestinazione di Gesù Cristo ad
essere Capo di una nuova umanità… Qui l’affermazione della mediazione creati-
va del Figlio è da intendersi anzitutto in senso finalistico, in quanto sta a dire che
soltanto in Gesù Cristo la creazione del mondo conoscerà il proprio compimen-
to. Ma per quanto si tratti di una prospettiva corretta alla luce degli enunciati
neotestamentari già ricordati, vero è anche che la mediazione creatrice del Figlio
non può essere limitata a tale aspetto. La finalizzazione al manifestarsi di Gesù
Cristo presuppone che le creature abbiano già nel Figlio l’origine del proprio esse-

47
Si veda DS 3816.
48
Per esempio nell’opera di Teilhard del 1924, Mon univers, Seuil, Paris 1965.
49
Si veda il mio studio, Il realismo e la teologia della creazione, «Per la filosofia» 12 (1995) 98-110.

162
I nuovi cieli e la terra nuova

re ed esistere. Se così non fosse, la ricapitolazione finale di tutte le cose nel Figlio
rimarrebbe esterna alle cose, con la conseguenza che essa non sarebbe nemmeno
il compimento definitivo di un essere propriamente creaturale»50.
Difatti, secondo il pensiero platonico e neoplatonico, si dice che Dio abbia
creato (o formato) l’universo, una volta e per tutte, in modo statico e immu-
tabile, attraverso l’azione esterna e temporanea di un Demiurgo, o Logos, che
svolge una funzione di intermediario tra l’eternità e la trascendenza del Divino
da una parte, e l’intrattabile corruttibilità della materia, dall’altra. Per i platonici
il Logos è stato posto in essere per lo scopo preciso di portare ordine (kosmos)
nell’universo. Espressioni simili si possono trovare nel Nuovo Testamento: Dio
ha creato il mondo attraverso il Verbo (Gv 1,3), o attraverso Cristo (1 Co 8,6; Col
1,16). Ma il Nuovo Testamento va ben oltre la posizione platonica, utilizzando
altri due modi di considerare la relazione tra il Verbo (Cristo) e il mondo: il
mondo è fatto per Cristo, e in Cristo.

Il mondo fatto “per” Cristo.  La lettera ai Colossesi (1,16) insegna chiaramente


che l’universo è stato creato non solo attraverso Cristo, ma anche per Lui, “in
vista di Lui”. Perciò Cristo, il Verbo incarnato, non è semplicemente un mezzo
o uno strumento per la creazione e la perfezione del mondo, un mezzo cioè
che potrebbe benissimo essere subordinato ad un fine ultimo diverso (come ad
esempio la bontà o la bellezza dell’universo), e perciò ultimamente sacrificabile.
Ciò significa che, se il “Verbo” creatore venisse considerato alla fin fine subordi-
nato alla perfezione finale della creazione, non sarebbe pienamente divino ma
contingente, come ritiene Ario († 336) nella sua lettura neoplatonica del Nuovo
Testamento51. Secondo la fede cristiana, invece, Cristo – il Verbo divino desti-
nato all’incarnazione – è, Lui stesso e solo Lui, il fine e lo scopo supremo dell’u-
niverso. Con le parole di Tertulliano, «tutto ciò che è stato impresso sulla terra è
il pensiero di Cristo, la venuta dell’uomo, il Verbo fatto carne, benché non fosse
niente più che fango e terra»52. In altre parole, l’universo fin dalla sua origine è
teso a nient’altro che la sua perfezione ultima, Gesù Cristo, il Verbo eterno di
Dio fatto carne, il risorto Signore di tutta la creazione che «unificherà in Sé tutte
le cose» (Ef 1,10), in modo tale che Dio sia “tutto in tutti” (1 Cor 15,28).

50
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 35s.
51
Spiego questo tema in modo più dettagliato in L’incontro tra fede e ragione nella ricerca della
verità, in G. Maspero, M. Pérez de Laborda (a cura di), Fede e ragione: l’incontro e il cammino. In
occasione del decimo anniversario dell’enciclica Fides et ratio, Cantagalli, Siena 2011, 35-59, 44-49.
52
Tertulliano, De res., 6.

163
Capitolo IV

In altre parole, il ruolo finalistico di Cristo specifica ulteriormente ed


intensifica il suo ruolo di mediatore: l’espressione “per Lui” qualifica l’espres-
sione “attraverso di lui”. È chiaro inoltre che laddove nel pensiero neoplatonico
il Verbo è prodotto a causa del mondo, nel pensiero cristiano è esattamente
l’opposto, essendo il mondo fatto a causa del Verbo. Secondo il primo, perciò,
il Verbo è contingente e prodotto, dipendendo sia Dio che dal mondo; per il
secondo, il Verbo è necessario tanto quanto Dio, e dipende totalmente ed esclu-
sivamente dal Padre nell’essere generato, ma in nessun modo dal mondo, che
nei suoi confronti è metafisicamente contingente53.

Il mondo fatto “in” Cristo.  Paolo spesso dichiara che non solo noi siamo salvati
da Cristo e viviamo “in” lui, ma anche che siamo stati creati in Cristo: «in lui
tutte le cose sussistono» (Col 1,16); «Egli [il Figlio]… sostiene l’universo con
la sua parola potente» (Eb 1,3)54. Cristo, in altro parole, non è una mera causa
strumentale della creazione, che dà forma al mondo una volta per tutte quando
è stato costituito molto tempo fa, non è solo la sua causa finale nel senso che
tutta la creazione tende ad esso come ad un fine lontano. Cristo non è la mera
causa estrinseca di una creazione che aspira ad una perfezione al di là delle
proprie capacità. Piuttosto, come una divinità creatrice in senso pieno, Egli è
continuamente presente alla creazione, mantenendola in esistenza (conserva-
zione), muovendo tutti gli esseri ad agire secondo la propria natura (concorso),
portandoli verso il loro fine ultimo (provvidenza), poiché «in lui viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). Proprio come nell’Antico Testamento Jahve
era considerato sorgente di vita, così anche nel Nuovo Gesù è colui che dà la vita
(Gv 4,10). Può far questo perché «come infatti il Padre ha la vita in se stesso,
così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26). Perciò si
può dire che tutte le cose create ricevono esistenza, sussistenza, vitalità, intel-
ligibilità e consistenza dalla fonte inesauribile di Vitalità che è il Verbo. L’uni-
verso nella sua totalità può essere considerato come una realtà vivente, filiale,
creata, animata, conservata e alla fine portata alla perfezione escatologica dal
di dentro, attraverso l’azione del Verbo-Figlio di Dio fatto uomo. Il culmine di
questo processo, nella sfera umana e cosmica, consiste nella resurrezione finale e

53
Questa è la ragione per cui il Concilio di Nicea (325) dichiarò la “consustianzialità” divina del
Verbo con il Padre: DS 125.
54
Sul motivo paolino “in Cristo”, si veda il mio studio The Inseparability of Holiness and Apostolate.
The Christian “alter Christus, ipse Christus” in the Writings of Blessed Josemaría Escrivá, «Annales
Theologici» 16 (2002) 135-64, qui 139-46.

164
I nuovi cieli e la terra nuova

ricreazione cosmica, realizzata tramite la potenza di Chi, in persona, è «la resur-


rezione e la vita» (Gv 11,27).

Riassumendo.  La fede nella resurrezione finale per la potenza di Dio (basata


sulla testimonianza degli Apostoli che hanno “visto” il Signore Gesù Cristo
risorto) ha agito come un potente catalizzatore lungo la storia per lo sviluppo e
il consolidamento dell’etica e dell’antropologia cristiana. Inoltre, essa insegna
qualcosa che il mondo antico non aveva osato pensare, e cioè: che la materia
corruttibile è stata creata da Dio con vocazione all’eternità. Tuttavia, la cosmo-
logia classica, considerando l’universo in modo rigido e meccanico, rende diffi-
cile la comprensione della dottrina della resurrezione se non come qualcosa di
discontinuo, intervenzionista ed apocalittico, o forse anche puramente simbo-
lico o spirituale. Per questo senso di disagio, la fede nella resurrezione in tempi
moderni finì per perdere ogni significato, e divenne superflua nei confron-
ti dell’indagine scientifica e anche della filosofia. Tuttavia, la consapevolezza
crescente di una visione più dinamica ed aperta delle leggi dell’universo fisico
ha reso possibile il chiarimento e il recupero del lato pienamente cosmologico
della fede nella resurrezione, che ovviamente non è mai mancata nella vita, nella
spiritualità e nella liturgia, nell’arte e nella devozione eucaristica della Chiesa.

2. Il valore perpetuo del lavoro e dell’agire umano


Abbiamo visto che il mondo così come lo conosciamo, danneggiato dal
peccato, sarà distrutto, e rinnovato (o ri-creato) di nuovo nella potenza di Dio,
diventando i “cieli nuovi e la terra nuova”. Proprio come lo stato di resurrezione
degli uomini porta con sé la novità della gloria eterna, così ci sarà una netta
discontinuità tra la terra così come la conosciamo adesso e il mondo rinnovato,
da un punto di vista cosmico ed antropologico. Ma ci sarà anche continuità
ed identità tra le due tappe. I testi biblici che abbiamo visto prima collocano
questa continuità principalmente ad un livello etico: le virtù esercitate durante
il nostro pellegrinaggio terrestre rimarranno per sempre, in particolare la carità
(1 Cor 13,8). Per potenza divina il nuovo mondo sarà colmo di pace e di giusti-
zia. Coloro che vogliono farne parte devono vivere ora queste virtù.
Tuttavia, oltre e al di là delle virtù e i comportamenti che i cristiani svilup-
pano durante il loro soggiorno terrestre, rimarrà qualcos’altro nei “cieli nuovi
e nella terra nuova” dei frutti del lavoro e di ciò che l’uomo ha compiuto sulla
terra? Se l’uomo è fatto “ad immagine di Dio” per governare la terra e sottomet-
terla (Gn 1,26s.), non è pensabile che nel nuovo mondo sia accompagnato, per

165
Capitolo IV

così dire, dai frutti delle sue fatiche, almeno quelli in cui Dio è stato glorificato
ed obbedito, e altri uomini amati e serviti? Circa questo argomento, tra gli anni
’50 e ’60 del secolo XX sono emerse due posizioni contrastanti, una chiamata
“escatologismo” e l’altra “incarnazionismo”55. La questione è diventata popolare
nel periodo successivo al Concilio Vaticano II nel contesto del dialogo che alcu-
ni cristiani tentavano di stabilire con il pensiero marxista.
Gli escatologisti tendono ad enfatizzare la discontinuità tra questo mondo
e il futuro, ritenendo che l’unica continuità di cui si possa parlare consiste nelle
virtù che i cristiani acquistano «accumulando tesori in cielo» (Mt 6,20; 19,21),
specialmente la virtù della carità. Tale posizione guarda il mondo e l’agire
umano in un modo pessimistico. Gli incarnazionisti, al contrario, pensano che
il realismo dell’Incarnazione del Verbo ci esiga di parlare di una netta continu-
ità tra questo mondo e quello futuro, come quella che esiste tra la vita di Gesù
sulla terra, e quella sua gloriosa attuale, seduto alla destra del Padre.
Uno dei primi tentativi di sviluppare la posizione incarnazionista è stato
quello di Teilhard de Chardin, che abbiamo considerato sopra56. In seguito,
alcuni autori hanno affermato che si possono ben fare paragoni tra l’incarna-
zionismo e alcune forme di umanesimo marxista, in particolare quello di Ernst
Bloch. Come abbiamo già visto, questi considera che la “speranza”, fondata sul
dinamismo della materia e non nell’azione divina, è il motore della storia, e che
attraverso un lavoro guidato dalla speranza potremo stabilire sulla terra l’uma-
nità che tutti sogniamo.
Che i cristiani tentino di dialogare con il pensiero marxista, date le radi-
ci cristiane del secondo, è in qualche modo comprensibile. Tuttavia, in fin dei
conti, le differenze tra i due mondi sono profonde ed insormontabili, special-
mente per quel che concerne la dottrina di Dio e la dignità della persona umana.
Per il marxismo, la progressiva umanizzazione del mondo, così come avviene, è
la diretta conseguenza o prodotto dello sforzo umano. Parlando teologicamen-
te, si tratta di un’impostazione nettamente “pelagiana”: l’uomo salva se stesso.
Al contrario, la venuta del Regno di Dio sulla terra – che sia palese e visibile
come pensano gli incarnazionisti, o nascosto ed invisibile come suggeriscono
gli escatologisti – è sempre il risultato dell’azione di Dio attraverso Cristo nello
Spirito. E finché Cristo tornerà nella gloria, la sua opera salvifica sarà presente

55
Sul dibattito, si veda L. Malevez, Deux théologies catholiques de l’histoire, «Bijdragen» 10 (1949)
224-40; J. L. Illanes, Cristianismo, historia, mundo, Eunsa, Pamplona 1973; C. Pozo, La teología del
más allá, 128-37; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 358-70.
56
Si vedano le pp. 161s.

166
I nuovi cieli e la terra nuova

sempre nel mondo sotto il segno della Croce, cioè sotto il segno della grazia e
della debolezza, dell’ambivalenza e dell’apparente fallimento.
Per i marxisti, l’uomo, avendo preso il posto di Dio, costruisce il futuro;
per il cristiani, Dio è la fonte dell’avvenire, Dio che conta, ovviamente, sulla
intelligente collaborazione umana. Non è del tutto preciso dire che gli uomi-
ni “co-operino” a questo processo, data l’incommensurabilità dell’azione delle
creature con quella del Creatore; forse sarebbe più corretto dire che gli uomini
utilizzano i talenti che Dio ha dato loro per accogliere con gioia i doni – di natu-
ra e di grazia – di cui Dio li ha abbondantemente forniti57. «Cercate anzitutto il
suo regno e la sua giustizia», dice Gesù «e tutte queste cose [cibo, vestiti, ecc.] vi
saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).

Preparando il “nuovo cosmo”: alcuni recenti documenti della Chiesa.  La discus-


sione tra incarnazionisti ed escatologisti trova un’eco anche nelle discussioni del
Concilio Vaticano II. Alcuni Padri conciliari richiesero l’inserimento di un rife-
rimento chiaro alla discontinuità tra questo mondo e quello futuro – citando 2
Pietro 3,10-13, già esaminato – per non «favorire l’opinione di coloro che hanno
detto che questo mondo deve raggiungere la gloria così come è stato costituito
dagli uomini»58. Il suggerimento è stato accettato e il testo petrino è stato inclu-
so nella Lumen Gentium59.
Anche la costituzione Gaudium et spes si è occupata del problema, insisten-
do sulla distinzione tra questo mondo e quello futuro, e tuttavia insiste sull’im-
portanza del progresso temporale per il Regno di Dio. «Certo, siamo avvertiti
che niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso (Lc
9,25). Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto
stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel
corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che
adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere
il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in
cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di gran-
de importanza per il regno di Dio»60.
Forse in considerazione delle interpretazioni troppo ottimistiche date
a queste ben impostate affermazioni conciliari (per esempio nell’ambito della

57
Si veda il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel and Ernst Bloch, 232.
58
Si veda Acta Concilii Vaticani, III, 3, 8, 140; si veda C. Pozo, La teología del más allá, 141-4.
59
LG 48c.
60
GS 39b, che cita il Papa Pio XI, Enc. Quadragesimo anno (1931).

167
Capitolo IV

teologia della liberazione) una Lettera della Congregazione per la Dottrina della
Fede sull’escatologia del 1979 ha voluto dire: «Il cristiano… deve credere, da una
parte, alla continuità fondamentale che esiste, per virtù dello Spirito Santo, tra la
vita presente nel Cristo e la vita futura – in effetti, la carità è la legge del regno di
Dio, ed è precisamente la nostra carità quaggiù che sarà la misura della nostra
partecipazione alla gloria del cielo; ma, d’altra parte, il cristiano deve discernere
la rottura radicale tra il presente ed il futuro in base al fatto che, al regime della
fede, si sostituisce quello della piena luce…»61.
Il beato Giovanni Paolo II nella sua enciclica del 1981 Laborem exercens,
parlando della spiritualità del lavoro, solleva nuovamente la questione e indi-
ca la necessità di prendere in considerazione il ruolo della Croce nel progres-
so dinamico e nella preparazione dei “cieli nuovi e terra nuova”. «Nel lavoro,
grazie alla luce che dalla resurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo
sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio
dei “nuovi cieli e di una terra nuova” (2 Pt 3,13), i quali proprio mediante la fati-
ca del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo. Mediante la fatica – e
mai senza di essa»62.
Infine, nell’Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione (1986) della
Santa Sede, proprio sul tema della teologia della liberazione, si legge che la cristia-
na «speranza non attenua l’impegno per il progresso della città terrena, ma al
contrario gli dà senso e forza… [La] distinzione tra progresso terrestre e crescita
del regno… non è una separazione; infatti, la vocazione dell’uomo alla vita eterna
non elimina, anzi conferma il suo compito di mettere in atto le energie ed i mezzi,
che ha ricevuti dal Creatore per sviluppare la sua vita temporale… Illuminata
dallo Spirito del Signore, la Chiesa di Cristo può discernere nei segni dei tempi
quelli che promettono la liberazione e quelli che sono ingannevoli ed illusori…
Essa è cosciente che tutti questi beni: dignità umana, unione fraterna, libertà, che
costituiscono il frutto di sforzi conformi alla volontà di Dio, noi li ritroveremo
“purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, quando Cristo rimetterà al
Padre il regno eterno e universale”, che è un regno di libertà. La vigile ed operosa
attesa della venuta del regno è pure quella di una giustizia finalmente perfetta
per i vivi e per i morti, per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che Gesù
Cristo, costituito giudice supremo, instaurerà… Una tale promessa, che supera
tutte le possibilità umane, riguarda direttamente la nostra vita in questo mondo.

61
Congregazione per la Dottrina della Fede, Recentiores episcoporum Synodi, n. 7.
62
Giovanni Paolo II, Enc. Laborem exercens (1981), n. 27e.

168
I nuovi cieli e la terra nuova

Infatti, una vera giustizia deve estendersi a tutti, portare la risposta all’immen-
so cumulo di sofferenze che gravano su tutte le generazioni. In realtà, senza la
resurrezione dei morti e il giudizio del Signore non c’è giustizia nel senso pieno
di questo termine. La promessa della resurrezione viene gratuitamente incontro
al desiderio di vera giustizia, che abita nel cuore umano»63.

Sperando per i nuovi cieli e la nuova terra.  È comprensibile che i cristiani abbia-
no guardato alla promessa distruzione e purificazione del cosmo con timore e
trepidazione, piuttosto che con speranza e gioia. Seguendo la logica della Croce
e Resurrezione di Cristo, tuttavia, è chiaro che oltre alla distruzione del cosmo
giunge la promessa di rinnovamento, il ritorno al paradiso, la gloriosa bellezza
dell’opera compiuta da Dio. Prendendo in considerazione quel che è stato detto
sulla resurrezione di una vita un tempo vissuta e la dimensione sociale di questo
mistero, è ragionevole affermare che molto di ciò che gli uomini hanno compiuto
sulla terra, insieme agli altri uomini, utilizzando il meglio delle loro energie ed
intelligenza date da Dio, vivrà per sempre: nelle opere d’arte e d’architettura, opere
legislative e letterarie, opere di sviluppo ed educazione, e via dicendo. La dottrina
del giudizio finale, che ora considereremo, viene solo a conferma di questo.

63
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiane e la liberazione (1986),
n. 60, che cita GS 39c.

169
Capitolo V

IL GIUDIZIO FINALE

E saprete che io sono il Signore


Ez 24,24

Alla sera della nostra vita, saremo giudicati sull’amore


San Giovanni della Croce1

Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza


Benedetto XVI2

La fede cristiana proclama apertamente che quando Gesù verrà nella gloria
alla fine dei tempi, non solo i morti risorgeranno per potenza di Dio a somi-
glianza del Risorto, non solo il cosmo sarà rinnovato, ma l’intera umanità verrà
giudicata dal Signore del cielo e della terra. I Simboli della fede sono pratica-
mente unanimi nel proclamare il giudizio finale come motivo principale della
gloriosa venuta di Cristo: egli «tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti»3.
L’enciclica di papa Benedetto XVI Spe salvi ha attribuito particolare attenzione
alla dottrina del giudizio. In essa leggiamo: «la prospettiva del Giudizio, già dai
primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come
criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza
e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio»4.
La Chiesa insegna che il giudizio avrà luogo in due momenti: alla morte,
gli uomini sono giudicati da Dio per la vita che hanno vissuto, e alla fine dei
tempi, l’umanità nella sua totalità verrà giudicata dal Signore Gesù che verrà

1
«En la tarde de nuestra vida, seremos juzgados por el amor», Giovanni della Croce, Palabras de
luz y de amor, n. 57.
2
Si veda SS 42.
3
DS 150.
4
Si veda SS 41-48, qui n. 41.

171
Capitolo V

nella gloria. Il secondo è solitamente chiamato “giudizio finale od universale”, il


primo, che considereremo più avanti, il “giudizio particolare”5.

1. Il giudizio nella Scrittura


L’Antico Testamento parla frequentemente del giudizio di Dio sull’umanità,
in particolare sul Popolo dell’Alleanza6. Tramite i profeti Dio ha insegnato agli
Ebrei a fare la sua volontà e a vivere come “suo popolo”, grazie ad una pedagogia
di ricompensa e punizione. In una miriade di modi diversi ha mostrato loro la
fedeltà o meno all’alleanza. Tutti i successi, i fallimenti, le catastrofi, i trionfi, gli
avvenimenti favorevoli o avversi, erano visti provenire da Dio, che proteggeva,
istruiva, consolava, correggeva e puniva il suo popolo. Tuttavia, il giudizio, così
com’era, era rappresentato principalmente in riferimento al popolo come una
totalità, e non tanto sugli individui. Era dato per scontato che i peccati dei padri
sarebbero ricaduti sui figli (Ger 31,29)7. Inoltre, il giudizio di Dio e la punizione
erano limitati per lo più a questa vita, al mondo così com’è adesso (Gb 42,7-
17). La dottrina del giudizio, come ricompensa e punizione escatologici, dopo la
morte, rimase qualcosa di non sviluppato8. Ad un livello più profondo, tuttavia,
l’affermazione di un giudizio divino è di carattere strettamente teologico, nel
senso che si tratta di una manifestazione della totale e pubblica sovranità di
Jahve sull’intero universo, e ne è la conseguenza9. «E allora saprete che io sono
il Signore» (Ez 24,24). Al fondo, l’affermazione del giudizio divino è di carattere
anti-idolatra: Dio solo è giudice su tutto l’universo, perché Dio solo è il Signore.
È interessante notare che sia Tertulliano che l’Aquinate derivino la dottrina del
giudizio da quella della creazione: ogni cosa che esiste, senza alcuna eccezione,
viene direttamente da Dio; perciò al giudizio finale ciascuna persona e ogni
singola cosa riceveranno quel che è loro dovuto10.

Il passaggio dal profetico all’apocalittico.  Secondo i profeti, il Popolo dell’Al-


leanza, nel mezzo della desolazione che ha caratterizzato il periodo successivo

5
Sul giudizio particolare, si veda Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., 242; IV C. Gent., 91;
Catechismo Romano, I, art. 7; CCC 1022. Si vedano le pp. 340s.
6
Sul giudizio nella Scrittura, si veda W. Schneider, Judgment, in NIDNTT 1, 362-7; CAA 96-9;
159-62.
7
Sulla nozione di personalità corporativa nell’Antico Testamento, si veda CAA 72s.
8
Si veda J. J. Alviar, Escatología, 195.
9
Sulla centralità di Dio come Signore, si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 553-
558.
10
Si veda Tertulliano, De res. 14,6; Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 88, a. 1.

172
Il giudizio finale

all’esilio, era tentato di pensare che Dio non si sarebbe più preso cura di esso,
che nessun profeta sarebbe più sorto, e che lo Spirito si fosse “spento”, per usare
una espressione di San Paolo (1 Ts 5,19). Si dava per scontato che il popolo di
Dio non avrebbe più trionfato sulla terra, che la piena giustizia non sarebbe mai
stata raggiunta11. Al massimo, la giustizia sarebbe stata ottenuta dopo la morte,
in una sfera trascendente, per potenza di Dio e quando Lui voleva.
L’ultima posizione trova espressione in alcune opere profetiche12, in parti-
colare quelle di Amos, di Sofonia e di Gioele. Il profeta Sofonia13 è degno di nota
non solo per la sua interpretazione severa e definitiva della dottrina del giudizio
divino, ma anche perché afferma che tale giudizio sarà applicato ai popoli, e non
solo a Giuda. «Tutto farò sparire dalla terra. Oracolo del Signore… eliminerò
l’uomo dalla terra. Oracolo del Signore… quelli che si allontanano dal seguire il
Signore, che non lo cercano né lo consultano. Silenzio, alla presenza del Signore
Dio, perché il giorno del Signore è vicino… Punirò in quel giorno chiunque salta
la soglia, chi riempie di rapine e di frodi… In quel tempo perlustrerò Gerusa-
lemme con lanterne e farò giustizia di quegli uomini che, riposando come vino
nella feccia, pensano: “Il Signore non fa né bene né male”… Giorno d’ira, quel
giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno
di tenebre e di oscurità e giorno di nube e di caligine» (Sof 1,2-4.6s.9.12.15; 2,5).
E per il profeta Gioele, il “Giorno di Jahve”14 è il giorno del giudizio definitivo
delle nazioni e della vendetta di Giuda. Parlando del “giorno del Signore” (Gl
1,15; 2,1-2.10s.), egli dice: «Poiché, ecco, in quei giorni e in quel tempo, quando
ristabilirò le sorti di Giuda e Gerusalemme, riunirò tutte le genti e le farò scen-
dere nella valle di Giòsafat, e là verrò a giudizio con loro… Si affrettino e salga-
no le nazioni alla vale di Giòsafat, poiché lì siederò per giudicare tutte le nazioni
dei dintorni… folle immense, nella valle della Decisione!» (Gl 4,1s.12.14).
Questi testi (oltre a molti altri) preparano la strada per il cosiddetto movi-
mento “apocalittico” che inizia a consolidarsi circa 250 anni prima della venuta

11
Il profeta Abacuc sembra accusare Dio: «Perché, vedendo i perfidi taci, mentre il malvagio ingoia
chi è più giusto di lui?» (Ab 1,13). Sulla dinamica dell’ingiustizia e dell’oppressione nell’Antico
Testamento, si veda Qo 4,1-3.
12
Si veda Y. Hoffmann, The Day of the Lord as a Concept and a Term in the Prophetic Literature,
«Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie» 93 (1981) 37-50; M. Cimosa, Il giorno del
Signore e l’escatologia nell’Antico Testamento, in Dizionario di spiritualità biblico-patristica, 16:
Escatologia, Borla, Roma 1997, 20-45; G. de Carlo, Il giudizio di Dio nell’A. T. Il giorno di JHWH,
in G. Bortone (a cura di), I novissimi nella Bibbia, 33-78.
13
Si veda H. Irsigler, Gottesgericht und Jahwetag. Die Komposition Zef 1,2-2,3, untersucht auf der
Grundlage der Literarkritik des Zefanjabuches, EOS, St. Ottilien 1977.
14
Si veda J. Bourke, Le jour de Jahvé dans Joël, «Revue Biblique» 66 (1959) 5-31; 192-212.

173
Capitolo V

di Cristo15. Per gli apocalittici, il giudizio non è più considerato in termini di un


processo graduale, che ha luogo nel mondo così come lo conosciamo. Piuttosto,
è visto come un evento definitivo, futuro, pubblico ed universale, probabilmente
imminente, tramite il quale Dio trionferà direttamente su tutto il male e deter-
minerà l’intero corso della storia umana. «Quando l’Altissimo creò il mondo…
la prima cosa che preparò fu il giudizio, e tutto ciò che ne fa parte» leggiamo in
4 Ezra (7,70), un importante testo apocalittico giudaico, del primo secolo a.C.
Lo sviluppo principale nella dottrina del giudizio entro l’Antico Testamen-
to sta nel fatto che laddove nelle opere più antiche (particolarmente di genere
profetico) Dio riservava al popolo ebraico un giudizio etnico e restrittivo tramite
l’agenzia dei profeti, nelle opere apocalittiche, Dio in persona (o tramite l’azio-
ne del “Figlio dell’uomo”) applica un criterio etico all’intera umanità16. Cioè,
ogni persona sarà giudicata in base ai propri meriti, da Dio stesso, non sempli-
cemente sulla base dell’appartenenza esteriore al popolo di Dio. Le origini di
questo cambiamento si ritrovano per esempio negli scritti del profeta Ezechiele,
che afferma chiaramente che «chi pecca morirà» (Ez 18,4)17. È così si apre un
panorama nuovo, universale, dove la responsabilità individuale davanti a Dio
diventa prevalente, rispetto alla responsabilità collettiva.

Il giudizio nel Nuovo Testamento.  Giovanni Battista, nella sua predicazione,


assume apertamente il motivo apocalittico imminente nei confronti del giudi-
zio finale18. «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro:
“Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?…
Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon
frutto viene tagliato e gettato nel fuoco”» (Mt 3,7.10). Di colui che deve venire,
disse, «tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel
granaio, ma brucerà la paglia con fuoco inestinguibile» (Mt 3,12)19.
Nei vangeli sinottici Gesù, usando liberamente un linguaggio apocalittico,
proclama non solo la dottrina del giudizio finale, ma, più significativamente,
che egli stesso sarà il Giudice20. Questo è chiaro specialmente nel vangelo di

15
Si veda CAA 63-136.
16
Si veda CAA 96-9.
17
Nei primi libri dell’Antico Testamento, la solidarietà nella colpa è la caratteristica più comune: Es
20,5s.; Ger 31,29; Ez 18,2. Successivamente, compare il castigo personale che corrisponde alla colpa
individuale: Ger 17,10; 31,30-4; Ez 18,20-30; 28,24-6; 33,12-20.25-9, come anche Giobbe e Qoèlet.
18
Si veda CAA 193-200.
19
Sul giudizio nel vangelo di Matteo, si veda D. L. Marguerat, Le jugement dans l’évangile de
Matthieu, Labor et fides, Geneva 19952; CAA 158-62.
20
Si veda la nota 57 sotto.

174
Il giudizio finale

Matteo, che culmina nella famosa scena del giudizio (Mt 25,31-46)21. «Perché
il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e
allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27). «Quando il Figlio
dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui», continua Matteo,
«siederà sul trono della gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.
Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e
porrà le pecore alla sua destra, le capre alla sua sinistra» (Mt 25,31-33).
Gli elementi principali della dottrina del giudizio finale sono riassunti
nella seconda lettera di San Paolo ai Corinzi: «Tutti infatti dobbiamo comparire
davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa per le opere
compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5,10). La mede-
sima idea è presente nel libro dell’Apocalisse. Per esempio: «E vidi: ecco una
nube bianca, e sulla nube stava seduto uno simile a un Figlio dell’uomo: aveva
sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal
tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube, “Getta la tua
falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”.
Allora colui che era seduto sulla nube lanciò la sua falce sulla terra e la terra fu
mietuta» (Ap 14,14-16).
Tra i Padri della Chiesa, la dottrina del giudizio è generalmente accettata.
San Basilio in modo particolare insiste sul questo insegnamento, mentre riget-
ta la dottrina origenista di riconciliazione universale (apokatastasis), che, egli
afferma, equivarrebbe ad una negazione del giudizio finale22.

2. Giudizio e salvezza: il ruolo di Cristo


È da notare, tuttavia, che l’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo
al giudizio23 segna un distanziamento dalla comprensione strettamente apocalit-
tica, perché è mitigato e contestualizzato dalla dottrina della salvezza promessa e
ottenuta da Cristo24. Si tratta di una novità importante che caratterizza il Nuovo
Testamento. Gesù prima di tutto è il Salvatore dell’umanità, colui che ha porta-

21
CAA 158-62.
22
Su Basilio, si veda M. Girardi, Il giudizio finale nella omiletica di Basilio di Cesarea,
«Augustinianum» 18 (1978) 183-90; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 81s. Nel prologo a
Moralia “sul giudizio di Dio”, Basilio rifiuta l’idea di Origene di apokatastasis. Si veda anche il suo
Regulae brevius tractatae, resp. 267.
23
Laddove il giudizio è fondamentale per Matteo, né Marco né Luca vi prestano particolare
attenzione; si veda CAA 159, nota 109.
24
Questa è la tesi fondamentale del mio studio CAA; si veda ibid., 232-56.

175
Capitolo V

to il peso del peccato al punto di morire per il genere umano, che ci ha offerto
redenzione e perdono divino per i nostri peccati. Possiamo parlare di Lui come
Giudice solo a partire dal suo essere nostro Salvatore25. Si potrebbe dire che egli
giudicherà coloro che ha salvato, o, più precisamente, che giudicherà coloro cui
ha offerto la salvezza26. E la salvezza è espressa in due forme nel Nuovo Testamen-
to: come resurrezione e come redenzione personale. Consideriamole di seguito.

Giudizio, resurrezione e verità.  La dottrina del giudizio escatologico si sviluppa


parallelamente a quella della resurrezione finale. In ciò, gli insegnamenti del
Nuovo Testamento attingono al libro di Daniele, e ad altre fonti apocalittiche27.
Abbiamo già visto che la ricerca della giustizia definitiva è quel che prepara la
strada per la dottrina della resurrezione dei morti28. E la giustizia viene raggiun-
ta, una volta per tutte, tramite il giudizio universale. Nell’Epistola di Barna-
ba (II sec.) leggiamo che c’è certezza sul giudizio e sulla punizione, sia per i
giusti che per i peccatori, e l’epistola aggiunge: «per questa ragione ci sarà una
resurrezione»29. Aristide (II sec.) disse che la giustizia dei cristiani è da attribu-
irsi alla loro speranza nella resurrezione, cui seguiranno il giudizio e la ricom-
pensa eterna30. Nel suo Adversus haereses Ireneo dice che ci sarà la resurrezione
sia per i giusti che per gli ingiusti31, sebbene nella Demonstratio parla di resur-
rezione solo per i credenti32, cioè per coloro che possiedono lo Spirito Santo33.
Tertulliano lo diceva apertamente: il giudizio «è proprio quella realtà che rende

25
«Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo
abbandonato da Dio, prendendola su di sé» SS 43.
26
«Whereas the classical apocalyptic envisaged the prompt coming of God in power in terms of
divine wrath being unleashed upon impenitent sinners, and as deserved consolation for the just
who are already saved, according to Matthew Jesus came as God’s Messiah in the first place to
save sinners. Because he gave his whole life to this mission, that is, because he was our Savior,
he would be in a position to later judge the world in perfect justice, since humans will have been
given every possible opportunity of responding fully to saving grace. He carried out the work of
salvation, according to the first evangelist, by carrying the weight of a sinful, downtrodden world
on his shoulders, by taking the place of sinners, by going so far as to endure in his person the
punishments apocalyptic texts seem to have reserved for the reprobate» CAA 297.
27
CAA 165-9.
28
Si veda le pp. 109s. Sulla relazione tra resurrezione e giustizia, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La
pascua de la creación, 178-80.
29
Ep. Barn., 21,1; si veda 5,6s.
30
Si veda Aristide, Apol. 15s.
31
Si veda Ireneo, Adv. Haer. II, 33,5.
32
Si veda Ireneo, Demonstratio, 42.
33
Su questo argomento si veda J. Arroniz, La salvación de la carne en S. Ireneo, «Scriptorium
Victoriense» 12 (1965) 7-29.

176
Il giudizio finale

la resurrezione del tutto necessaria»34. E Cirillo di Gerusalemme scrive: «sare-


mo resuscitati, perciò, tutti con i nostri corpi eterni… i giusti per conversare con
gli angeli, e i peccatori per bruciare nel fuoco eterno»35.
La promessa di resurrezione fornisce la chiave di comprensione del giudi-
zio, perché lo rende possibile. «Giustizia non può esservi, senza resurrezione dei
morti», scrive papa Benedetto XVI36. E allo stesso tempo, la giustizia riempie
di significato la resurrezione, che costituisce la definitiva, totale manifestazione
davanti a Dio e alle creature dalla piena e definitiva identità di ogni persona. Quel
che era nascosto o sconosciuto sulla terra, in bene o in male, sarà pienamente rive-
lato. Il giudizio finale sarà, semplicemente, il momento di verità decisivo e supre-
mo, il momento in cui il mistero dell’incrocio straordinariamente complesso tra
Provvidenza Divina e risposta umana sarà rivelato, una volta per tutte.

Giudizio e salvezza personale.  Dal momento che il giudizio è strettamente colle-


gato alla resurrezione, che è necessariamente universale, tale giudizio può essere
considerato come una forma di salvezza solo in quanto intervento divino per
resuscitare i vivi e i morti, portando così la natura umana al suo compimento.
Però il giudizio fa riferimento principalmente alla salvezza individuale. Questo
non significa, tuttavia, che il giudizio sia una forma alternativa di salvezza
personale, come qualcuno ha ritenuto37. Di fatti, la salvezza, l’azione di Dio in
Cristo, e non il giudizio occupa il posto centrale nella rivelazione cristiana. Gesù
«non è venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47).
Forse si può dire che con il giudizio la salvezza raggiunge il suo culmine. Con le
parole di Ratzinger, «la Verità che giudica l’uomo ha preso essa stessa l’iniziativa
per salvarlo»38. Comunque, il giudizio è il giudizio, e la salvezza è la salvez-

34
Tertulliano, De res. 14,8.
35
Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 18,1.19. Sull’escatologia di Cirillo, si veda G. Hellemo,
Adventus Domini. Eschatological Thought in 4th-century Apses and Catecheses, E. J. Brill, Leiden
1989, 146-98.
36
SS 42. «Sì, esiste la resurrezione della carne. Esiste una giustizia» ibid., n. 43.
37
F. J. Nocke non accetta l’idea che Gesù, che è stato il nostro Salvatore, sarà poi in nostro
Rimuneratore, poiché questo implica un cambiamento dall’esperienza presente a quella futura.
Noi già sperimentiamo Cristo come giudice, afferma: Eschatologie, Patmos, Düsseldorf 19883, pp.
71s., 75, 139-43. La Scrittura, conclude, non insegna il giudizio ma la riconciliazione. Così anche
W. Pannenberg è dell’opinione che Cristo è venuto solo per salvare, e che «il messaggio di Gesù che
costituirà il criterio in base al quale si verrà giudicati» Teologia sistematica, vol. 3, 643. Perciò egli
parla della «trasformazione redentrice del giudizio» ibid., 645, prendendo spunto da J. Ratzinger,
Escatologia, 215s. Sul collegamento tra giudizio e purificazione si veda W. Pannenberg, Teologia
sistematica, vol. 3, 645-648. Su questo argomento, si veda anche J. J. Alviar, Escatología, 203s.
38
J. Ratzinger, Escatologia, 216.

177
Capitolo V

za. Alla fine dei tempi l’uomo sarà giudicato, non giustificato. Infatti il verbo
‘giudicare’ usato da Giovanni nel testo sopra citato (12,47), krinō, in realtà signi-
fica ‘condanna’39. Perciò il giudizio può essere considerato come la definitiva ed
universale rivelazione del dono della salvezza, accolta oppure rifiutata, che ha
consolidato in ogni vita umana vissuta storicamente: esso è la manifestazione
stessa del significato della storia40. La salvezza è offerta agli uomini, ma tale
offerta non può durare indefinitamente. Il giudizio segna la fine della concre-
ta offerta di misericordia da parte di Dio. Dopo il giudizio il pentimento non
sarà più possibile, poiché i giusti rimarranno per sempre separati dagli ingiusti.
Come dice Marguerat, «la misericordia finisce con il giudizio»41.

La scala, la misura e lo scopo del giudizio escatologico.  Secondo il Nuovo Testa-


mento il giudizio può essere definito da tre caratteristiche: sarà universale,
fondato sulla carità e definitivo42.
Primo, il giudizio escatologico sarà universale, perché «davanti a lui verran-
no radunati tutti i popoli» (Mt 25,32). Da una parte, questo è in armonia con il
carattere apocalittico dell’escatologia del Nuovo Testamento: il giudizio si fonda
su un criterio etico, e non etnico, si applica all’universalità degli individui, non
al gruppo. Al fine di ottenere l’accesso alla «gioia del tuo padrone» (Mt 25,21.23),
non basta “appartenere” passivamente ad Israele, oppure alla Chiesa. Giovanni
il Battista aveva già avvertito alcuni farisei e sadducei che avrebbero dovuto
«fare un frutto degno della conversione», senza presumere di «dire dentro voi
stessi “Abbiamo Abramo per padre”» (Mt 3,8-9)43. Nel discorso della Montagna,
Gesù ripete: «Non dunque chi mi dice “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei
cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). «Sbaglia-
no pensando che la discendenza fisica da Abramo garantisca loro una immunità
automatica dall’ira escatologica di Dio», nota Hagner44. È chiaro che l’appar-

39
G. R. Beasley-Murray, John (Word Biblical Commentary), Word Books, Waco 1987, 51, ritiene
che il termine “giudizio” in Giovanni possa essere compreso sia come “separazione” che come
“condanna”. Si veda BDAG, 567s., s.v. κρίνω, 2,b.
40
Teodoreto di Ciro spiega che il giudizio e la salvezza non sono equivalenti «poiché tutti gli uomini
saranno rivestiti di incorruttibilità, ma non tutti godranno della Gloria divina» In II Cor., 5,3.
41
D. L. Marguerat, Le jugement dans l’évangile de Matthieu, 166.
42
CAA 161s.
43
«L’Israele visibile e il popolo di Dio non sono più la stessa cosa», commentano W. D. Davies
e D. C. Allison su questo testo: Matthew, vol. 1, 308. Sul modo in cui il giudaismo dell’Antico
Testamento supera la visione collettiva della salvezza, si veda Is 55,7; Ez 18,21s.; 33,11. Più avanti,
si veda in particolare Filone d’Alessandria, De praemiis et poenis, 152.
44
D. A. Hagner, Matthew, 50.

178
Il giudizio finale

tenenza esteriore al popolo di Dio sarà di poca utilità in mancanza di un retto


comportamento personale. D’altra parte, l’universalità del giudizio è in accordo
anche con il carattere missionario ed ecclesiale dell’escatologia del Nuovo Testa-
mento. «Questo vangelo del regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne
sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine» (Mt 24,14).
Sembrerebbe che questo passaggio da un criterio etnico ad un criterio
etico di giudizio, tipico delle opere apocalittiche e del Nuovo Testamento, possa
dare adito all’idea di uno standard giudiziale astratto e fortemente oggettivo,
in cui «è tracciata una esatta corrispondenza tra la qualità del peccato e quel-
la della punizione»45. I testi apocalittici classici si esprimono così46. Tuttavia,
questo introdurrebbe un elemento prevalentemente impersonale nel giudizio e,
di conseguenza, nell’etica cristiana nella sua totalità, che difficilmente si accor-
derebbe con l’insegnamento morale del Nuovo Testamento in generale e con lo
spirito delle Beatitudini in particolare.
Questo ci porta a considerare la seconda caratteristica del giudizio nel Nuovo
Testamento: quel che potrebbe essere definito il suo carattere “interpersonale”. Il
fatto è che, diversamente dalla letteratura apocalittica, la carità occupa il posto
centrale nella vita cristiana. Il discorso di Matteo sul giudizio non lascia alcun
dubbio nei riguardi del verdetto finale. Non è possibile nessun appello. Tutta-
via, sia i salvati che i condannati sembrano sorpresi della decisione presa, ci dice
Matteo (25,37.44). E le spiegazioni date dal Signore agli interessati, in entrambi i
casi, sono di tipo personale, o meglio, “interpersonale”. Gesù non offre una detta-
gliata e rigorosa lista di trasgressioni, ma piuttosto un unico criterio, che spiega il
significato intrinseco delle trasgressioni commesse e delle buone opere compiu-
te. «Tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli»,
dice, «lo avete fatto a me» (Mt 25,40.45). Cioè, le trasgressioni peccaminose che
gravemente offendono Dio si riferiscono principalmente al rifiuto di servire ed
assistere Cristo non riconoscendolo nei bisogni concreti dei “più piccoli”. Questo
si ricollega alla prima osservazione (l’universalità del giudizio), perché tra “i più
piccoli” vanno inclusi non solo i poveri o i bambini (Mt 18,6) ma anche coloro
che sono stati mandati ad evangelizzare in nome di Gesù (Mt 10,1-15.33; 11,20-
4). La salvezza non fa riferimento più ad una passiva, esteriore appartenenza al
popolo di Dio, o ad una mera esteriore realizzazione della legge, ma ad una unio-
ne interiore, mediante la carità, con Cristo e con coloro che appartengono a Lui,

45
CAA 97.
46
Si veda CAA 96-8.

179
Capitolo V

coloro per i quali egli ha dato la vita. La carità, che secondo San Paolo rimarrà
per sempre (1 Cor 13,13), sarà il metro di giudizio. Valore speciale avranno quelle
buone azioni che solo Dio può vedere; per queste, infatti, «il Padre tuo, che vede
nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6). «Alla sera della nostra vita», scrisse San
Giovanni della Croce, «saremo giudicati sull’amore»47.
“Appartenere a Cristo” attraverso la fede e la carità, vivere in conformità
con lui, richiede ovviamente sia la rettitudine morale (accoglienza intelligente
della legge di Dio che Cristo ha rivelato ai suoi discepoli, ed alla quale egli esige-
va obbedienza)48 sia una reale appartenenza alla Chiesa, essendo quest’ultima il
corpo di Cristo. Ma è chiaro che il criterio ultimo di giudizio è l’appartenenza a
Cristo, la conformità con Lui, tramite la fede e la carità.
Terzo ed ultimo, il giudizio universale è caratterizzato dal fatto di essere
pubblico e definitivo. Secondo la parabola del vangelo (Mt 13,24-30), il grano e
la zizzania spesso non sono separati l’uno dall’altra in questa vita. Difatti può
essere difficile dissociarli49. Ma nel giudizio, la separazione verrà fatta. Il padro-
ne di casa dirà: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e
al momento delle mietitura dirò ai miei mietitori: “raccogliete prima la zizzania
e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”» (Mt
13,30). Alla fine dei tempi, dice San’Agostino, ci saranno solo due possibilità,
aut vitis, aut ignis50: o la vita, che è unione eterna con Cristo, la vite (Gv 15,1), o
il fuoco, separazione perpetua da lui. Sul fatto che la misericordia di Dio ha un
limite temporale, torneremo più avanti51.

Solo Dio giudica.  Dal punto di vista antropologico, il giudizio finale deve esse-
re considerato un evento assoluto e onnicomprensivo: (1) in quanto definitivo,
parla del destino immortale degli uomini; (2) riferito alla resurrezione, coinvol-
ge la corporeità umana; (3) in quanto “interpersonale”, si collega direttamente
al carattere personale e sociale degli uomini. In altre parole, il giudizio dà luogo,
o meglio ancora manifesta, la “definizione” ultima ed eterna di ogni perso-
na umana, la sua vocazione e identità, e quella dell’umanità nella sua totalità
agli occhi del Creatore, Redentore e Giudice. Il giudizio quindi è il momento
antropologico supremo e definitivo. Ed è chiaro che nessun altro se non Dio, il

47
San Giovanni della Croce, Palabras de luz y de amor, n. 57.
48
Si veda Gv 14,15.21.23; 15,10; 1 Gv 2,5.
49
Si veda D. A. Hagner, Matthew, 381-4; 391-5.
50
Agostino, In Io. Ev. tr. 15,6.
51
Sul momento della Parousia, si vedano le pp. 279s.

180
Il giudizio finale

Creatore di tutte le cose, è in grado di pronunciare un tale giudizio, di rivelare


il nome nascosto di ogni uomo (Ap 2,17), di comprendere i suoi pensieri più
profondi (Sir 42,18). Tertulliano lo dice in un testo già citato: Dio è «giudice
perché è il Signore, è il Signore perché è il Creatore, è il Creatore perché è Dio»52.
Nell’Antico Testamento, infatti, è chiaro che Dio, e Dio solo, giudica53. Solo
Dio può creare, ricompensare, punire, consolare, rinvigorire e perdonare. «Chi
può perdonare i peccati, se non Dio solo?», leggiamo sulle labbra e nei cuori di colo-
ro che ascoltavano Gesù (Mc 2,7). Ma che significa dire che Dio giudica l’uomo?
Quando diciamo che Dio è giusto, o che Dio giudica, o che la giustizia è un attri-
buto divino, significa semplicemente che Dio misura l’azione umana per garantire
che sia conforme ad uno standard prestabilito, e premia o punisce di conseguenza?
Si possono fare tre osservazioni. Prima osservazione: come abbiamo già
visto, il giudizio è situato dopo la giustificazione (o salvezza) e dipende dalla
risposta dell’uomo alla grazia divina della conversione; in altri termini, la “giusti-
zia di Dio” deve essere considerata principalmente come un attributo attivo (nel
senso che Dio giustifica i peccatori, offrendo loro il dono della grazia salvifi-
ca), e solo in base a ciò, di conseguenza, come attributo passivo (per il fatto che
Dio premia o punisce a seconda della risposta reale dell’uomo alla grazia)54. La
consapevolezza della condizione peccatrice di tutti gli uomini porta il salmista
ad invocare: «non entrare in giudizio con il tuo servo: davanti a te nessun vivente
è giusto» (Sal 143,2). E nel Nuovo Testamento si può trovare la medesima convin-
zione: «siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che dovevamo fare» (Lc 17,10). E
Pietro: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8).
Seconda, essendo Dio il Creatore dell’universo, Egli è l’unico che conosce
pienamente l’uomo e comprende il suo cuore, e perciò è l’unico in grado di giudi-
care. Per questa ragione teologica in diverse occasioni Gesù esorta i suoi disce-
poli a non giudicare gli altri (Mt 7,1-5). La saggezza e il giudizio umano contano
poco; San Paolo infatti dice «la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a
Dio» (1 Cor 3,19). Dovuto alla conoscenza che Dio ha dell’umanità, nessuna cosa
creata, nessun aspetto della vita umana, «è esclusa da o eliminata nel giudizio
di Dio»55. Infine, la terza osservazione: Dio solo, creando il mondo e rivelando il
mistero della vita divina, è il solo che può decidere quale debba essere il “metro”

52
Tertulliano, De res. 14,6.
53
Si veda 4 Ezra 7,33ss.
54
Su questo tema, si veda il mio studio Fides Christi, 186-94.
55
CAA 135.

181
Capitolo V

di giudizio, e l’ha rivelato attraverso la natura creata (Rm 1,18-23) e (definitiva-


mente) nella vita, morte e Resurrezione del suo Verbo-Figlio, Gesù Cristo56.
Si può far luce ulteriormente su questo tema considerando il fatto che,
secondo il Nuovo Testamento, il giudice supremo dei vivi e dei morti non sarà
altro che Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio fatto uomo57.

Cristo riceve il potere di giudicare da suo Padre.  La venuta del Figlio di Dio fatto
uomo sulla terra è stata segnata da semplicità, dall’essere indifeso, da una condi-
zione trasparente e apparentemente debole. Egli è venuto bussando alla porta
del cuore umano (Ap 3,20), egli è venuto «a cercare e a salvare ciò che era perdu-
to» (Lc 19,10). Gesù era ed è il nostro Salvatore misericordioso. Ma egli era ed è
anche il nostro Signore, e per questa ragione i cristiani chiamavano Gesù risorto
Kyrios, “Signore”, fin dai primi tempi. Egli parlava come uno che ha autorità
(Lc 4,32). La sua presenza imponeva rispetto ed anche timore (Lc 4,30; 8,37,
Gv 18,6). I suoi miracoli erano potenti ed innegabili (Gv 2,22s.), il suo potere su
Satana evidente (Lc 8,32s.). Egli parlava con Dio, come fece Mosè, il legislatore
ed il giudice (Lc 9,29). Di Gesù, Pietro proclamò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente» (Mt 16,16). La sua presenza, le sue parole ed azioni infiammavano di
entusiasmo ed amore, così come di rabbia e rifiuto. Pur non creando “discordia”
nel senso comune della parola, nondimeno egli divideva gli spiriti di coloro che
incontrava (Gv 6,66). «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra»,
egli dice, «sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,34). I demoni
apertamente resistevano alla sua presenza ed azione (Mt 12,28; 13,25.28.39; Gv
8,43s.; 12,31). Mostrandosi come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), era impos-
sibile rimanere indifferenti davanti a lui. Se teniamo a mente che per Giovanni
“giudizio” equivale a “condanna”, le seguenti parole sono imponenti: «chi non
crede [ora] è già stato giudicato» (Gv 3,18)58. Quando Gesù bambino fu presen-
tato nel tempio, Simone profetizzò a sua madre che «egli è qui per la caduta e
la resurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a

56
Si può trovare il medesimo messaggio nel Discorso della Montagna: si veda Mt 6,4.6.15.18; 10,28
& par. Si veda anche 1 Pt 4,5; Ap 20,11; in Paolo, Rm 2,3ss.; 3,6; 14,10; 1 Cor 5,13; 2 Ts 1,5.
57
Si veda Mt 7,22s.; 13,41-3; 16,27; 25,31-46; Lc 13,25-27; 1 Ts 4,6; 1 Cor 4,4s.; 11,32; 2 Cor
5,10, e particolarmente in Gv 5,22-30. «E [Cristo] ci ha ordinato di annunciare al popolo e di
testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (At 10,42). Si veda CAA
154-8, sul significato della venuta del “Figlio dell’Uomo”. Alcuni autori ritengono che l’idea di
Gesù come giudice non sia particolarmente importante nel Nuovo Testamento: si veda H. Merkel,
Gericht Gottes IV, in Theologische Realenzyklopädie, vol. 12, W. De Gruyter, Berlin 1984, 484-92;
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 641s.
58
Si veda la nota 39.

182
Il giudizio finale

te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»
(Lc 2,34s.). Gesù nel suo pellegrinaggio terreno, sebbene umano, vulnerabile e
apparentemente debole, era già il Signore e Giudice dell’umanità.
È chiaro tuttavia che gli atti e le parole di Gesù che già sulla terra rivelava-
no e separavano i santi dai peccatori (o meglio, i peccatori pentiti da quelli non
pentiti) erano principalmente atti di salvezza, e non di giudizio. Egli era venuto
per salvare il genere umano, e l’avrebbe fatto nel modo più potente ed effica-
ce possibile, appellandosi al cuore umano fino al punto di lasciarsi giudicare e
condannare dai peccatori59. Quando fu portato davanti alle autorità romane,
Pilato gli chiese: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). E Gesù gli rispose: «Il mio
regno non è di (ek) questo mondo; se il mio regno fosse di (ek) questo mondo,
i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei;
ma il mio regno non è di quaggiù (enteuthen)» (Gv 18,36). Nondimeno, Gesù
fece vedere a Pilato senza alcun dubbio che egli era un re, spiegando che questo
costituiva la sua vera identità e missione: «Per questo io sono nato e per questo
sono venuto al mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla
verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37).
Tre elementi emergono da questo testo. Primo, che Gesù è un re; tuttavia
che il suo regno non ha la sua origine (ek) in nessun tipo di autorità umana (quel
che egli chiama “questo mondo”). Dicendo che “il suo regno non è di questo
mondo”, Gesù non afferma di non avere autorità propria. Piuttosto il contrario.
Perciò in termini reali egli non è soggetto a nessuno sulla terra: «non credi che
io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me
stesso; ma il Padre che rimane in me, compie le sue opere» (Gv 14,10); «Perché
mi cercavate?», disse Gesù ai suoi genitori. «Non sapevate che io devo occupar-
mi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Coloro che ascoltavano Gesù restava-
no sbalorditi, «egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità (exousia),
e non come i loro scribi» (Mt 7,29). Ecco perché Gesù deve esser considerato
come Giudice, come spiega in modo particolare il quinto capitolo del vangelo
di Giovanni: «il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al
Figlio… In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui
che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato
dalla morte alla vita. In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in
cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata,

59
Si veda CAA 187-231, in particolare 226-30, sulla donazione che Cristo ha fatto della sua vita
come “riscatto” per molti (Mt 20,28).

183
Capitolo V

vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche


al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare, perché è
il Figlio dell’Uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti quelli
che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per
la resurrezione di vita e quanti fecero il male per una resurrezione di condan-
na. Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio
giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi
ha mandato» (Gv 5,22.24-30). Il potere di Gesù di giudicare deriva fondamen-
talmente dalla sua Divinità, dalla sua unione con il Padre. Tuttavia questo testo
fornisce anche la chiave per comprendere perché Gesù è stato costituito Giudice
nella sua condizione umana, ed è questa: egli fa la volontà del Padre in ogni cosa,
poiché «il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34).
In secondo luogo, dal fatto che la sua autorità non deriva “da questo mondo”
Gesù deduce il corollario che, paradossalmente, egli non ricerca alcuna forma
di difesa umana, violenta o meno, per sottrarsi dalla drammatica situazione in
cui si trova per sua stessa volontà (Gv 10,17). Alla presenza di Pilato i peccatori
ingiustamente accusano Colui che alla fine dei tempi verrà pubblicamente, in
piena giustizia, per giudicare loro e il resto dell’umanità. Questo non significa,
ovviamente, che la sua autorità manchi di forza o di rilevanza nelle faccende
umane. Piuttosto il contrario. «Del Signore è la terra e quanto contiene» (Sal
24,1). «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,22s.). Il
Padre di Gesù avrebbe potuto mandare dodici legioni in sua difesa (Mt 26,53)
ma non l’ha fatto. Si tratta appunto di una autorità che non è “dal” mondo, ma
certamente è “sul” mondo.
Questo ci porta al terzo punto. Il regno di Gesù, ricevuto dal Padre, abbia-
mo detto, è un regno di verità. La sua vita intera è stata una testimonianza della
verità, e coloro che sono aperti a Dio (quelli che sono “dalla verità”, Gv 18,37)
ascoltano la voce di Gesù, riconoscono il buon pastore (Gv 10,4.8.14). Coloro
invece che non sono pronti a pentirsi, coloro che non sono “dalla verità”, e non
gli prestano attenzione, tentano, piuttosto, di sbarazzarsi di lui, di giudicarlo,
cioè, di condannarlo, alla fine di ucciderlo (Gv 7,19), mettendolo nel numero
“dei trasgressori” (Is 53,12). “Verità” è il metro secondo il quale Gesù, avendo
ricevuto tutta l’autorità dal Padre suo, giudicherà. È interessante notare come
Platone, nel Gorgia, parli in modo simile60.

60
Si veda Platone, Gorgia 525a-526c, in SS 44.

184
Il giudizio finale

Trinità, giudizio e rivelazione della verità.  “Rivelazione” è il termine comune-


mente usato per tradurre la parola greca apokalypsis61. È chiaro, perciò, che la
Parousia apocalittica, la gloriosa venuta di Cristo che produce la resurrezione
dei morti e porta al giudizio finale dell’umanità, non è altro che il momento
della suprema e definitiva rivelazione. Il termine “apokalypsis”, sebbene etimo-
logicamente non escatologico, in realtà si riferisce alla fine dei tempi. Cristo è il
Verbo di Dio, Colui nel quale il Padre esprime se stesso perfettamente ed inte-
ramente, Colui attraverso il quale Dio ha creato l’universo (Gv 1,3). E il Verbo
incarnato costituisce la definitiva rivelazione di Dio al mondo creato, in parti-
colare agli uomini, sebbene questo non sarà rivelato fino alla fine dei tempi.
Prima, rivelazione salvifica… e poi rivelazione escatologica. Prima, Gesù come
Salvatore… e poi come Giudice.
In effetti, la rivelazione divina diventa definitiva quando Cristo glorioso
apertamente affronta e giudica il mondo da lui creato e redento. Il Padre ricerca
la somiglianza con il Cristo risorto che ogni creatura era destinata ad assume-
re durante il pellegrinaggio terrestre. In questo senso, piuttosto che un verdetto
divino estrinseco all’umanità, è più corretto considerare il giudizio finale come
una definitiva manifestazione dell’umanità stessa per la potenza di Dio62. Questo
non significa, come ha suggerito Pietro Lombardo († 1160), che il giudizio rive-
lerà a tutta l’umanità i peccati delle persone, anche quelli già perdonati63. Dato il
tenore dei testi della Scrittura («Venite, benedetti dal Padre mio», «via, lontano
da me, maledetti» Mt 25,34.41), forse si potrebbe dire che il giudizio sarà la defi-
nitiva manifestazione della verità della creazione davanti al suo Creatore, dalla
quale sorge spontaneamente un verdetto perfettamente giusto ed inappellabile64.
Va notato, ovviamente, che al momento della Parousia la rivelazione divi-
na verrà comunicata dal Verbo per potenza dello Spirito Santo, il quale «conosce
bene ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,10)65. Nell’ordine dell’eco-
nomia, «lo Spirito è Colui che applica, comunica e rende presente il contenuto

61
Si veda BDAG, 112, s.v. ἀποκάλυψις.
62
Così J. Ratzinger: «In questa caduta delle maschere che si verifica nella morte consiste il giudizio. Il
giudizio è semplicemente la verità stessa, il suo rivelarsi. Tuttavia questa verità non è un neutrum…
La verità che giudica l’uomo ha presso essa stessa l’iniziativa di salvarlo» Escatologia, 216.
63
Si veda Pietro Lombardo, IV Sent., D. 43, a. 2.
64
J. J. Alviar delinea tre tematiche del giudizio nella Scrittura: retribuzione, discernimento, e
rivelazione: Escatología, 198-201.
65
Pannenberg spiega che il giudizio è opera dello Spirito Santo, come è la glorificazione di Dio
da parte degli uomini, e degli uomini da parte di Dio: Teologia sistematica, vol. 3, 650-654. Su
escatologia e Spirito Santo, si veda CAA 257-98.

185
Capitolo V

della rivelazione e del potere salvifico che deriva interamente dalle parole e dalle
opere di Gesù»66. Gesù, egli stesso la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6), ci dice nel
vangelo di Giovanni che «quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a
tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito
e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è
mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,13s.). Con le parole di Gregorio di Nissa, lo Spiri-
to di Dio è colui che «accompagna il Verbo e rivela la sua efficacia»67. Tommaso
d’Aquino lo espresse così: «Il Figlio ci ha dato la dottrina, essendo egli il Verbo,
ma lo Spirito Santo ci rende capaci di ricevere la sua dottrina»68. E per M.-J. Le
Guillou «lo Spirito è colui che interiorizza nei cristiani la conoscenza del miste-
ro di Cristo»69. Il che significa che il giudizio è un evento trinitario: Dio giudica
attraverso il Verbo nella potenza dello Spirito Santo70.
«Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato», dice il vangelo di Luca,
«né di segreto che non sarà conosciuto. Quindi ciò che avete detto nelle tenebre
sarà udito in piena luce, e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più inter-
ne sarà annunciato dalle terrazze» (Lc 12,2s.). E nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, leggiamo: «il Giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso
di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa
la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola
definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della
creazione e di tutta l’economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie
attraverso le quali la Provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo
fine ultimo. Il Giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte
le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della
morte»71. «La questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in
ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna», conclude
Benedetto XVI parlando del giudizio finale72.

L’“umanità” del giudizio di Cristo.  Il fatto che Dio abbia dato tutto il potere di
giudicare a suo Figlio Gesù Cristo è una semplice conseguenza del fatto che Gesù

66
CAA 273.
67
Gregorio di Nissa, Orat. Catech. 5,29.
68
Tommaso d’Aquino, In Ioann. Ev. 14, l. 6 (su Gv 14,26).
69
M.-J. Le Guillou, Le développement de la doctrine sur l’Esprit Saint, 734.
70
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 319.
71
CCC 1040. San Roberto Bellarmino nella sua opera De arte bene moriendi offre un’ampia varietà
di ragioni favorevoli al giudizio universale: si veda G. Ancona, Escatologia cristiana, 213.
72
SS 43.

186
Il giudizio finale

è il Verbo-Figlio di Dio incarnato, la cui Sovranità sulla creazione si è manifesta-


ta nella resurrezione e brillerà ancora una volta e per sempre quando Egli verrà
nella gloria. Che Cristo sia il giudice è appropriato per diverse ragioni, tra la quali
tre che fanno riferimento – in mancanza di una parola migliore – alla “umanità”
del giudizio finale. Queste ragioni corrispondono ai tre aspetti dell’attività di Dio
come giudice menzionati sopra: Dio che giustifica e agisce secondo giustizia; Dio
che conosce il cuore dell’uomo; Dio che stabilisce il metro di giudizio73.
La prima ragione per cui è appropriato a Cristo l’essere Giudice è che Colui
che giudicherà l’umanità è colui che a costo della sua vita ha offerto all’uma-
nità, nel modo più umano possibile, il dono prezioso della salvezza, che alcuni
accettano ed altri rifiutano74. Colui che giustifica, alla fine giudicherà. Colui che
ha offerto misericordia, stabilirà poi la giustizia: l’offerta di misericordia è per
stabilire la giustizia, allo stesso tempo che la giustizia è presente per assicurare
che la misericordia divina non sia senza senso e non vada sprecata.
In secondo luogo, Gesù conosce la condizione umana perfettamente. Egli è
stato «in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15); San Giovanni ci dice
che Gesù «conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25). Non solo Gesù cono-
sceva gli uomini, quel che c’è nella mente e nel cuore di ciascuno. Soprattutto,
egli li ama di un amore appassionato, misericordioso e paziente, che lo porta a
fare tutto quel che è in suo potere per salvarli, perché «non spezzerà una canna
già incrinata, né spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare
la giustizia, nel suo nome spereranno tutte le nazioni» (Mt 12,20s.).
E terzo, se il giudizio è compreso come la definitiva manifestazione dell’in-
tero mondo creato (ed in particolare dell’umanità) davanti a Dio, allora si potreb-
be dire che la resurrezione, che è come se fosse l’estensione della resurrezione
di Cristo all’umanità, può essere identificata con il giudizio. L’umanità risorta
mostrerà, in tutta la sua ricchezza e varietà, la storia etica e spirituale di ogni
persona umana, l’influenza delle azioni di ciascuno sugli altri, il carattere irri-
petibile della loro vita75. Dio infatti è colui che stabilisce la misura per giudicare
gli uomini; ma la misura, la concreta, vivente misura, è Gesù Cristo in persona. E
ancora, la misura di Gesù è quella di essere il perfetto Figlio; per questa ragione
egli esorta i suoi discepoli a vivere una vita santa come figli di Dio, cioè ad essere
«perfetti come è perfetto il Padre vostro nei cieli» (Mt 5,48). Anzi, il giudizio

73
Si vedano le pp. 178s.
74
Si veda CAA 227-31.
75
Si vedano le pp. 145ss.

187
Capitolo V

costituirà la rivelazione finale della saggezza di Dio davanti all’intera creazione76.


Al momento del giudizio, si vedrà che “Cristo rivela l’uomo all’uomo”77.

La presenza e il ruolo degli angeli e dei santi nel giudizio.  In diverse occasioni,
la Scrittura parla degli angeli e dei santi che accompagneranno Cristo quando
ritornerà nella gloria. «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti
gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31). E prima: «in
verità io vi dico: voi che mi avrete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto
sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su
dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28). San Paolo, quando
scrive ai fedeli di Corinto e li avverte di non denunciarsi gli uni gli altri davanti
ai tribunali civili, afferma categoricamente: «Non sapete che i santi giudicheran-
no il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi
di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli?» (1 Cor 6,2s.).
Ed altrove: «l’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter
essere giudicato da nessuno» (1 Cor 2,15).
Se Cristo è l’unico Giudice, in quanto Figlio-Verbo di Dio fatto uomo, quale
ruolo supplementare possono svolgere gli angeli e i santi nel giudizio? In che
modo si può dire che essi giudicano gli uomini? Se si tiene a mente il fatto che il
giudizio è principalmente manifestazione, piuttosto che verdetto, dovrebbe esser
chiaro che gli angeli e i santi, redenti da Cristo, e perfettamente conformi a lui
secondo la vocazione personale di ciascuno, non giudicano in quanto tali, ma
servono come misura divina, punto di riferimento vivente e concreto per quel
che significa dare gloria a Dio, fare la volontà del Padre, essere come Cristo. In
quanto Cristo stesso vive e agisce in coloro che lo seguono (Gal 2,20) essi sono
destinati a vivere come “altri Cristi”, come “Cristo stesso”, per usare un’espres-
sione di San Josemaría78. La presenza vivente degli angeli e dei santi con Cristo
costituirà un giudizio silenzioso e potente su un mondo che non ha accettato la
parola di Dio, un mondo in cui non si trovava la verità. La loro vita ipso facto
serve sia per accusare i peccatori di non aver vissuto in conformità con Cristo,
che per confermare la loro condanna. Partecipando alla santità e alla giustizia di
Cristo, perciò, essi partecipano, se pure indirettamente, al suo ruolo di giudice.

76
Sulla nozione di “saggezza escatologica”, in particolare in Agostino e san Tommaso, si veda M.
L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, già citata, e Wisdom Eschatology in Augustine and
Aquinas, Aquinas the Augustinian, a cura di M. Dauphinais, B. David e M. W. Levering, Catholic
University of America Press, Washington (DC) 2007, 258-75.
77
Secondo la conosciuta espressione della Gaudium et spes, 22.
78
Si veda il mio studio The Inseparability of Holiness and Apostolate.

188
Il giudizio finale

Inoltre, il giudizio costituisce un momento di glorificazione del Padre


tramite Cristo nello Spirito. «Quando la grazia avrà unito uomini e angeli», affer-
ma Gregorio di Nissa, «essi canteranno insieme il medesimo inno di lode»79. Così
anche Ilario di Poitiers: «La ragione per cui gli angeli attendono è la beatitudine
degli uomini… Essi desiderano vedere il Vangelo promesso realizzato: e una volta
che questa promessa è stata compiuta, sono chiamati a dare gloria con noi per il
premio della beatitudine»80. Ancora Gregorio: «la gioia degli angeli sarà grande
quando vedranno l’unità della creazione spirituale ricostituita di nuovo»81.
La Scrittura fa riferimento in diverse occasioni al luogo del giudizio. Il libro
di Gioele, in un testo già citato, parla per esempio della “valle di Giòsafat”, dove
Dio, «riunirà tutte le genti… e… là verrà a giudizio con loro… Si affrettino e
salgano le nazioni, alla valle di Giòsafat, poiché lì siederò per giudicare tutte le
nazioni dei dintorni» (Gl 4,2.12).
Che sorgesse un interesse circa la località fisica del giudizio è comprensibi-
le dato il realismo della dottrina della resurrezione e del rinnovamento cosmi-
co così come la presenta la Scrittura, tanto quanto l’universalità del giudizio.
Infatti molti musulmani ed ebrei, come anche alcuni cristiani credono che il
giudizio finale avrà veramente luogo nella “valle di Giòsafat”. Tuttavia il termine
“Giòsafat” letteralmente significa “Dio giudica”. Quindi “la valle di Giòsafat”
vuole dire semplicemente “dove Dio giudica”. Altrove, il profeta Gioele la chia-
ma la «valle della decisione» (Gl 4,14). Solo nel IV secolo d.C. la cosiddetta “valle
di Giòsafat” è stata identificata con la valle di Cedron, a sud-est dalla spianata
del Tempio di Gerusalemme82. Inoltre, se consideriamo che la Parousia implica
principalmente una nuova, più profonda relazione di Cristo con l’intero cosmo,
sulla base sia della relazione originaria creativa tra Lui e l’universo, e la sua
opera di redenzione83, non c’è alcun rischio di negare il realismo del giudizio
evitando di parlare di un luogo fisico del giudizio.

Giudizio e speranza.  L’ultimo interrogativo: può il giudizio finale essere consi-


derato oggetto di speranza cristiana? Si deve rispondere al positivo. Tradizio-
nalmente, tuttavia, una tale affermazione sembrerebbe azzardata, dal momento
che il giudizio è normalmente visto come qualcosa che suscita paura piuttosto

79
Gregorio di Nissa, Hom. in Ps. 9.
80
Cit. da J. Daniélou, Les anges et leur mission d’après les Pères de l’Église, Desclée, Paris 1951, 152.
81
Ibid., 153.
82
Così in Onomasticon di Eusebio e nel Comm in Joel. di San Girolamo.
83
Si vedano le pp. 162s.

189
Capitolo V

che speranza84. Malgrado ciò, papa Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi
chiarisce che «la fede nel giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza»85.
Già lo aveva detto Karl Barth: «il ritorno di Gesù Cristo per giudicare i vivi e i
morti è un messaggio di gioia»86.
È probabilmente giusto affermare che i cristiani per la maggior parte non
pregano per la venuta del giudizio. Tuttavia, invocare Cristo per il giudizio defi-
nitivo non è diverso che invocare Dio per la perfetta giustizia, una giustizia
cui gli uomini sembrano incapaci di darsi da sé, almeno in modo durevole. Il
desiderio di giustizia (Mt 5,6) e il desiderio del giudizio hanno molto in comu-
ne. Infatti il libro dell’Apocalisse parla del desiderio che i cristiani hanno del
giudizio, poiché questo segnerà il trionfo definitivo della giustizia, la sconfitta
finale del diavolo.
Questo si può scorgere primo nella preghiera dei cristiani martiri per la
giustizia. «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo», leggiamo nel libro dell’Apo-
calisse, «vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della
parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran
voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”» (Ap 6,9s.).
Secondo, il giudizio può essere visto come la definitiva sconfitta del diavolo.
«Allora udii una voce potente dal cielo che diceva: “Ora si è compiuta la salvez-
za, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato
precipitato l’accusatore dei nostri fratelli [“accusatore”, satanas, è l’espressio-
ne giovannea di designare il diavolo, Ap 12,9], colui che li accusava davanti al
nostro Dio giorno e notte”» (Ap 12,10).
Come abbiamo visto sopra, il giudizio finale, più che altro, è la manifesta-
zione finale, l’inaugurazione definitiva della verità nella sua totalità. Per i giusti
costituirà un momento di grande speranza, gioia e meraviglia: «non vi è infatti
nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non
debba essere messo in luce» (Mc 4,22). E il giusto non teme questo momento di
verità. Come dice San Giovanni, «chi crede in lui [Cristo] non è condannato; ma
chi non crede è già stato giudicato [krinetai, “condannato”]» (Gv 3,18). Con le
parole di Gozzelino, «l’azione giudicatrice divina va attesa, desiderata, invocata,

84
Sul giudizio come oggetto di timore o di speranza, si veda A. M. Sicari, Il giudizio e il suo
esito, «Communio (ed. italiana)» 13 (1985) 8-13. Sul giudizio nella storia dell’arte, si veda A. M.
Cocagnac, Le jugement dernier dans l’art.
85
SS 43.
86
K. Barth, Dogmatica in sintesi, Città nuova, Roma 1969, 199.

190
Il giudizio finale

e poi recepita, comunque si presenti… con gaudio e riconoscenza pari all’ap-


prezzamento dell’assoluto valore del futuro assoluto»87.
«La resurrezione del corpo avrà luogo alla fine dei tempi», dice Sant’Ago-
stino, «e, attraverso il giudizio finale, introdurrà alcuni nella seconda morte,
altri in quella vita in cui non c’è morte»88. La resurrezione dei morti e il rinno-
vamento del cosmo… poi il giudizio finale… e alla fine la separazione definitiva
di giusti ed ingiusti. Esamineremo questa separazione nei prossimi due capitoli.

87
G. Gozzelino, Nell’attesa, 369.
88
Agostino, De Civ. Dei XXII, 6,2.

191
Capitolo VI

IL CIELO: LA VITA ETERNA NELLA GLORIA DI CRISTO

Deus…: duae istae syllabae sunt totum quod expectamus


Agostino1

Qualcosa di amichevole da lontano deve essere vicino a me


Friedrich Hölderlin2

La mia speranza sfiora l’infinito


Teresa di Lisieux3

L’esito del giudizio finale è inequivocabile: vita eterna o eterna perdizione.


La promessa fatta da Dio mediante il suo Figlio è chiara: per coloro che Lo
seguono e credono in Lui, il Padre ha promesso il dono della comunione eter-
na; coloro che non credono perderanno la promessa divina. E la causa stessa
del cristianesimo tiene o cede sulla speranza fornita da questa promessa.
Nel lessico cristiano, si possono usare diversi termini più o meno equivalenti
per designare la medesima realtà della vita nell’aldilà4. Primo, forse il termine più
comune, “cielo” (in greco ouranos)5, che indica intuitivamente sia la trascendenza
che l’origine divina dello stato finale, il contrasto tra il sole (che dà calore, luce,

1
Agostino, In Ep. I Jo. 4,6.
2
F. Hölderlin, Il lamento di Menone per Diotima.
3
Santa Teresa di Lisieux, Œuvres complètes, 224.
4
Sulle differenti immagini e descrizioni del paradiso eterno, si veda per esempio, F. J. Nocke,
Eschatologie, 135-41. Diverse opere recenti si sono occupate della realtà del paradiso nell’arte, nel-
la letteratura e nella storia, per esempio: C. McDannell e B. Lang, Heaven: a History, Yale Univer-
sity Press, London; New Haven 1988 (trad. it., Storia del Paradiso nella religione, nella letteratura,
nell’arte, Garzanti, Milano 1991); J. B. Russell, A History of Heaven: the Singing Silence, Princeton
University Press, Princeton 1997 (trad. it., Storia del Paradiso, GLF Editori; Laterza, Roma; Bari
2002); J. Delumeau, Une histoire du paradis, Hachette Littératures, Paris, 3 vol., 2002-3; A. E.
McGrath, A Brief History of Heaven, Blackwell, Oxford 2003. Si veda anche A. Nitrola, Pensare la
venuta del Signore, 408-504.
5
Si veda BDAG, 737-9, s.v. οὐρανός.

193
Capitolo VI

vita, divinità) e la terra (che suggerisce freddo, buio, polvere, morte), tra giustizia
e colpa, tra attività e passività. “Cielo”, poi, è dove Cristo abita (Gv 17,5), dove è
andato a preparare un posto per i suoi discepoli (Gv 14,2s.; 2 Cor 5,1); nel cielo
gli angeli contemplano Dio (Mt 18,10) e i accumulano tesori divini (Mc 10,21).
Poi, “visione beatifica”, che spiega il cielo come contemplazione di Dio che
sfocia nel compimento definitivo per gli uomini (1 Cor 13,12; 1 Gv 3,1s.); per
alcuni autori la visione di Dio costituisce la vera essenza della vita eterna6. Terzo,
“comunione” con Dio, che esprime il legame di amore con la Divinità, Dio Uno
e Trino, una unione che non elimina il soggetto umano ma lo porta a pienezza.
Quarto, “felicità perpetua”, che indica in modo antropologico la completezza e
stabilità che deriva all’uomo dall’unione con Dio7. Quinto, “paradiso” (in greco
paradeisos8, dal termine persiano pairidaêza che significa “giardino recintato”)
che evoca l’aspetto più materiale e corporeo del compimento umano (Gn 2,10-
14; Is 65,17-25; Ap 2,7; 22,2-5)9.
Sesto, la Scrittura spesso si riferisce all’aldilà con il termine “gloria” (in
greco, doxa)10, una espressione che denota onore, ricchezza, potere, influenza.
Ovviamente, “gloria” è in primo luogo un attributo di Dio che non condivide
con altri (Is 42,8; 48,11). Anzi, è un nome proprio di Dio (Sal 66,2; 79,9). La
gloria di Dio, inoltre, è rivelata nei fenomeni naturali (Es 24,15-18; 33,18s.; Ez
1,4). In questo senso “dare gloria a Dio” significa semplicemente riconoscere la
sua maestà e sovranità (At 12,23; Rm 4,20). Ma la gloria di Dio è presente ed è
stata rivelata in Cristo (Gv 1,14; 11,4.40). Ai credenti è promessa la contempla-
zione escatologica della sua gloria (1 Cor 13,12) e una partecipazione diretta alla
gloria di Cristo (Gv 17,22; Rm 8,17s.; Fil 3,21).
Settimo ed ultimo, il termine “vita eterna” (in greco, zōē aiōnia), fornisce
forse la definizione più accurata e completa della vita nell’aldilà dal punto di
vista biblico e teologico, frequente particolarmente nel vangelo e nelle lettere
di Giovanni11. Il Dio della Bibbia è il Dio “dei viventi” (Mc 12,27), il Dio che

6
È così particolarmente in San Tommaso d’Aquino, che situa il suo studio sulla visione beatifica
all’inizio della sua trattazione sulla legge morale e la grazia: S. Th. I-II, q. 3, a. 8.
7
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 348s.
8
Si veda BDAG, 761, s.v. παράδεισος.
9
Si vedano le pp. 226s.
10
Si veda BDAG, 256-8, s.v. δόξα.
11
Si può trovare l’espressione in altri testi del Nuovo Testamento, oltre a quelli di Giovanni: Mt
19,16.29; 25,46 & par.; Lc 18,30; At 13,46.48; Rm 2,7; 5,21; 6,22s.; Gal 6,8; 1 Tm 1,16; 6,12; Tt 1,2;
3,7; Gd 1,21. Su “vita” nel Nuovo Testamento, si veda H.-G. Link, Life, in NIDNTT 2, 476-83, in
particolare 482s.; BDAG, 430s., s.v. ζωή.

194
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

dà la vita tramite suo Figlio (Gv 5,21.26), che porta i credenti a partecipare a
questa vita. Ad un certo livello il termine “vita” suggerisce il dinamismo, l’atti-
vità, la pienezza, l’interiorità, l’autonomia, la continuità, la felicità, ecc. Ma ad
un altro livello, più profondo, implica una partecipazione alla vita intima di Dio,
in quanto Dio è l’unica sorgente della vita, e solo Dio è eterno. In questo senso il
dono della “vita eterna” è equivalente semplicemente alla pienezza della vita che
viene da Dio, il dono di Dio stesso. “Vita eterna” è la radice, la causa e l’espres-
sione sintetica del premio che Dio ha destinato a coloro che credono in Lui: del
cielo, della visione, della comunione, della felicità, del paradiso, della gloria.
Accanto alla dottrina della resurrezione finale, il credo di Nicea-Costanti-
nopoli proclama che noi «aspettiamo la vita del mondo che verrà»12. Il medesimo
credo professa che il regno di Cristo «non avrà fine»13. Il Credo Apostolico profes-
sa semplicemente la fede «nella vita eterna»14. Il Credo dell’Antifonario di Bangor
(VIII secolo) contiene la seguente ricca professione di fede che fornisce il titolo
per questo capitolo: «Io credo nella vita dopo la morte e la vita eterna nella gloria
di Cristo»15. Infine, nella costituzione di Benedetto XII, Benedictus Deus (1336)
leggiamo che i giusti in cielo «saranno veramente benedetti e avranno la vita e
il riposo eterno»16. È degno di nota il fatto che in tutti i casi la dottrina della vita
eterna è collocata nella terza parte del credo, che riguarda la Persona e l’azione dello
Spirito Santo. In precedenza, in diverse occasioni, abbiamo fatto riferimento all’a-
spetto pneumatologico dell’escatologia. L’argomento ritornerà in questo capitolo.
La Lumen gentium riassume la dottrina cristiana della vita eterna nei seguen-
ti termini: «Cristo, quando fu elevato in alto da terra, attirò tutti a sé… risorgen-
do dai morti immise negli apostoli il suo Spirito vivificante, per mezzo del quale
costituì il suo corpo, che è la Chiesa, come un sacramento universale di salvezza;
sedendo alla destra del Padre opera continuamente nel mondo… col nutrimento
del proprio corpo e del proprio sangue, per renderli [i credenti] partecipi della
sua vita gloriosa»17. «Uniti dunque a Cristo nella Chiesa e segnati dal sigillo dello
Spirito Santo… con verità siamo chiamati, e lo siamo, figli di Dio… ma non siamo
ancora apparsi con Cristo nella gloria… nella quale saremo simili a Dio, perché lo

12
DS 150.
13
Ibid.
14
DS 10.
15
DS 29. Il Credo dell’Antifonario di Bangor è uno sviluppo del Simbolo degli Apostoli, datato nel
tardo ottavo secolo in Irlanda. Su questo documento, si veda il mio studio The Bangor Antiphonary
Creed: Origins and Theology, «Annales Theologici» 6 (1992) 255-87, in particolare 282s.
16
DS 1000.
17
LG 48b.

195
Capitolo VI

vediamo qual è»18. In cielo, continua lo stesso documento, i giusti saranno «nella
gloria, contemplando “chiaramente Dio uno e trino, quale è”»19.
Studieremo l’argomento della vita eterna in questo ordine: prima, la vita
eterna nella Scrittura; poi la teologia patristica della vita eterna considerata nei
termini della definitiva “divinizzazione” dei cristiani. Poi considereremo la
relazione tra vita eterna e visione beatifica. Dopo questo, considereremo diversi
aspetti antropologici della “vita eterna” e le loro conseguenze, per una corretta
comprensione della libertà umana; poi, vedremo il carattere sociale e interperso-
nale della vita eterna; il luogo del progresso, della temporalità e della resurrezione
entro la vita eterna. L’ultima sezione si occuperà di altre questioni legate ai gradi
di vita e della gloria eterna, e al ruolo giocato in essi da Cristo e dallo Spirito.

1. La vita eterna nella Scrittura


Abbiamo già visto che la Scrittura presenta Jahve come il Dio dei viventi, il
Dio che dà la vita20. Paragonato agli dei morti e impotenti dei pagani (1 Re 18,20-
39) – lo stesso si potrebbe dire degli idoli di ogni genere, passati e presenti – Dio
è Colui che dà la vita all’intera creazione, la rinnova costantemente, e la concede
in pienezza offrendo agli uomini la possibilità di partecipare della sua stessa vita.
Laddove nell’Antico Testamento si dice che Dio dà la “vita” in generale, il
Nuovo parla in modo specifico del dono della vita “eterna”. Ciò costituisce una
novità significativa dal punto di vista teologico, in quanto il termine “eterna”
(aionios), strettamente parlando, può essere attribuito a Dio solo21. Se la vita in
generale è sempre dono di Dio, la “vita eterna” è un dono di tipo particolare,
in quanto implica un dono che porta coloro che lo ricevono a partecipare per
sempre alla vita propria di Dio, vivendo come figli e non come schiavi.
La nozione di vita eterna è sviluppata in particolare nel vangelo di Giovan-
ni22, dove Gesù la descrive come una realtà misteriosa già esistente, attiva e
vivente tra i credenti, e aperta alla fruizione eterna. Vale la pena sottolineare i
seguenti aspetti della dottrina di Giovanni.

18
Ibid., 48d.
19
Ibid., 49a, che cita il Concilio di Firenze, Decretum pro Graecis, DS 1305.
20
Si vedano le pp. 119s.
21
Si veda J. Schneider, God, in NIDNTT 2, 70-82, in particolare 77s.; BDAG, 33, s.v. αἰώνιος, 2. La
frase “vita eterna” si trova anche in Dn 12,2, dove si parla della resurrezione.
22
Si veda F. Mussner, “Zoé”. Die Anschauung vom “Leben” im vierten Evangelium unter
Berücksichtigung der Johannesbriefe. Ein Beitrag zur biblischen Theologie, K. Zink, München 1952;
C. Pozo, La teología del más allá, 382ss. Si veda anche BDAG, 429-31, s.v. ζωγρέω, specialmente n. 2.

196
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

Primo, se Dio è origine e sorgente di vita nell’Antico Testamento, in quan-


to «il Padre ha la vita in se stesso» (Gv 5,26), nel Nuovo, «ha concesso anche al
Figlio di avere la vita in se stesso» (ibid). «Dio ci ha donato la vita eterna, e questa
vita è nel suo Figlio» (1 Gv 5,11). Nel Verbo «era la vita e la vita era la luce degli
uomini» (Gv 1,4). Attraverso la fede (Gv 1,12) e il battesimo (Gv 3,5) si diventa
figlio di Dio in Cristo per partecipare a questa nuova vita. In altre parole, la vita
eterna è direttamente legata alla nostra unione con Gesù Cristo nella fede.
In secondo luogo, forse la caratteristica più significativa della dottrina
di Giovanni sulla vita eterna è che essa è ottenuta da coloro che nel momento
presente credono. Gesù insegna ciò solennemente e in ripetute occasioni. «In
verità, in verità, io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha
mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla
morte alla vita» (Gv 5,24). «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita
eterna» (Gv 6,24). E in negativo: «chiunque odia il proprio fratello è omicida,
e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui» (1 Gv
3,15). «Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita» (1 Gv
5,12)23. Questa nuova vita è reale nei viventi, seppur nascosta come un seme, che
cresce pian piano finché non raggiunge la pienezza (1 Gv 3,9).
Terzo, San Giovanni distingue due modi in cui Dio dona la vita in un
contesto escatologico: come vita eterna per coloro che credono nel momento
presente, e come resurrezione di tutti che avrà luogo alla fine dei tempi. «Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo resuscite-
rò alla fine dei giorni» (Gv 6,54). In altre parole, sebbene congiunte nell’unità
della divina Sorgente di vita, la vita eterna e la resurrezione sono distinte l’una
dall’altra, appartenendo l’una alla presenza invisibile della fede, l’altra al futuro
tangibile della pienezza corporea.

2. In cosa consistono la vita e la gloria eterne?


Dato che la vita eterna implica una misteriosa partecipazione alla vita divi-
na, i credenti spesso provano difficoltà nell’immaginare che cosa effettivamen-
te sia. La Scrittura conferma questa perplessità, dicendo che «quelle cose che
occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha
preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9; cf. Is 64,3). Comunque, le rifles-
sioni seguenti possono essere utili.

23
Altri testi includono: Gv 3,36; 6,54; 1 Gv 2,25; 5,20.

197
Capitolo VI

L’apparente futilità del desiderio umano di pienezza.  Tutti gli uomini desidera-
no una pienezza di felicità e soddisfazione. La loro speranza guarda all’infinito,
all’eterno24. Tuttavia, molti dubitano che la “vita eterna” promessa da Dio a coloro
che credono nel suo Figlio sia in grado di dare tale felicità e pienezza. E si tratta di
una questione critica. Sulla base di questa promessa di perfetta felicità e compi-
mento totale, Cristo chiede ai suoi discepoli una reale capacità di sacrificio, uno
spirito missionario universale, una sincera disposizione a dare la propria vita fino
al punto di accettare il martirio. «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o padre,
o madre, o figli, o campi per il mio nome», ci dice Matteo, «riceverà cento volte
tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Non si può negare che la speranza
nella vita eterna sia stata costantemente il vero motore della vita dei santi25. Tutta-
via, molte persone metterebbero spontaneamente in discussione il fatto stesso
dell’esistenza del cielo, e quindi della validità del suo potere motivazionale.
Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Spe salvi pone apertamente questo
interrogativo in un testo già citato: «Vogliamo noi davvero questo – vivere eter-
namente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la
vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita
eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo,
piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più
una condanna che un dono… Vivere sempre, senza termine – questo, tutto
sommato, può essere solo noioso, e alla fine insopportabile»26.
Non è insolito tra gli autori pensare che la prospettiva di una “vita eterna”
implichi una specie di noia perpetua ed ininterrotta27. Una simile vita sarebbe
poco attraente per gli uomini, e difficilmente potrebbe essere oggetto di desi-
derio appassionato o sorgente di zelo apostolico infaticabile, come nel caso, per
esempio, di Santa Teresa d’Avila28. La possibilità che la vita eterna diventi una

24
Si vedano le pp. 34s.
25
Abbiamo già citato il testo di Ignazio d’Antiochia, Ad Rom. 6,2-3.
26
SS 10.
27
Sulla noia possibile associate alla “vita eterna”, si veda M.-J. Le Guillou, Qui ose encore parler
de bonheur?, Mame, Paris 1998, che fa riferimento a R. Le Senne, A. Gide, S. de Beauvoir, H.
de Montherlant. Si veda anche A. Frossard, Dieu en questions, Desclée de Brouwer, Paris 1990,
195s., che parla della paura di Cartesio di annoiarsi contemplando Dio per 10.000 anni. Frossard
commenta in modo criptico che Cartesio «non aveva l’idea chiara e distinta che forse Dio si sarebbe
annoiato molto più velocemente di contemplare Cartesio» ibid., 196. La medesima obiezione si
può trovare in M. Vernet, L’ateismo moderno, Ed. Riuniti, Roma 1963, 197. L’agnostico spagnolo
E. Tierno Galván ha affermato: «no hay nada que más contradiga al hombre y a su finitud esencial
que la sobrevida u otra vida» ¿Qué es ser agnóstico?, Tecnos, Madrid 19864, 85.
28
Si veda Teresa d’Avila, Libro de la Vida I, 1,5.

198
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

vita di noia eterna è stata descritta visivamente, se pure in modo poco riveren-
te, dall’autore esistenzialista Miguel de Unamuno. «Una visione beatifica, una
contemplazione amorosa in cui l’anima è assorbita in Dio, e persa, per così dire,
in Lui, è percepita o come un reale annientamento, o come una forma prolun-
gata di noia secondo il nostro comune modo di vedere. Questa convinzione ha
generato quel sentimento che spesso abbiamo avuto occasione di sentire, in
modo satirico, irriverente o empio, secondo cui l’esito di un cielo di eterna gloria
sarà una dimora di eterna noia. E non ha senso disprezzare questi sentimenti,
così spontanei e naturali, o ridicolizzarli»29. Alcune figure classiche addirittura
sembrano preferire l’attività e divertimento (immaginate) dell’inferno, popolato
da una moltitudine di personalità interessanti30. Che significato può avere la
speranza quando la prospettiva futura della vita umana è di questo genere?
Il termine “vita” suggerisce attività, movimento, dinamismo, laddove “eter-
nità” evoca la nozione di riposo, pace, tranquillità, permanenza, in breve, inatti-
vità. Durante il nostro pellegrinaggio terreste l’attività e il riposo, il movimento
e la permanenza, sono strettamente intrecciati in ogni aspetto dell’esistenza. Da
una parte, l’attività facilmente genera stanchezza e spossatezza, e spinge a cerca-
re pace e riposo. D’altra parte, il riposo porta la noia e la debolezza, che si cerca
di superare con l’attività e il movimento. In effetti, la comune esperienza umana
ci mostra che una totale attività e il completo riposo sono difficili da conciliare
l’uno con l’altro; al massimo sono in reciproca relazione dialettica. La donna
che Gesù incontrò al pozzo di Giacobbe in Samaria, al pozzo di Sicar, espresse
ciò chiedendo al Signore di darle l’acqua di cui aveva parlato, «perché io non
abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4,15). Gesù
era pienamente consapevole del fatto che ovviamente chiunque beva l’acqua del
pozzo «avrà di nuovo sete» (Gv 4,13).

Possibili soluzioni al dilemma.  Attraverso la storia della filosofia e della religio-


ne, sono state escogitate diverse soluzioni per dar conto del desiderio umano
di perfetta felicità e compimento, in cui sia l’attività che il riposo siano armo-
nizzate ed integrate.
Le religioni orientali comunemente pensano che dopo la morte gli uomini
incontreranno la perfetta tranquillità e pace, in quanto ogni forma di coscienza

29
M. de Unamuno, El sentimento trágico de la vida, cap. 10, in Ensayos, vol. 2, Aguilar, Madrid
1945, 915.
30
Si veda il romanzo francese medioevale, Aucassin et Nicolette, in C. McDannell e B. Lang,
Heaven: a History, 100s.

199
Capitolo VI

autonoma ed attività cesseranno31. In un certo senso, l’uomo deve scompari-


re, al fine di essere felice; il prezzo da pagare per la felicità è quello dell’esi-
stenza individuale e dell’autonomia. Secondo l’insegnamento Indù contenuto
nella cosiddetta Upanishad, l’anima umana è destinata alla dissoluzione, alla
fusione con il Brahman. «Proprio come un grano di sale lanciato nell’acqua si
dissolve e non può più esser trovato, ma piuttosto l’acqua diviene salata ed il
sale è presente ovunque, così l’Uno, l’Infinito, l’Illimitato, il Tutto-spirito»32.
Secondo il pensiero buddista, che non parla di vita nell’aldilà in quanto tale, lo
sforzo e l’attività individuali sono considerate la vera causa del dolore e della
sofferenza, dell’alienazione in generale. L’uomo cresce definitivamente quando
le passioni sono eliminate, si realizza, quando la vita è spenta (comunemente
detto Nirvāna). In termini semplicistici, si può dire che la salvezza nelle religioni
orientali implica l’eliminazione dell’attività e della coscienza individuale, e la
perpetuazione del riposo e dell’immobilità. Essa può essere eterna, o meglio,
permanente, ma difficilmente può esser descritta come “vita”.
All’estremo opposto si può trovare la posizione, tipica di alcuni filosofi
illuministi, in particolare Johann G. Fichte († 1814), che affermano che la felicità
umana consiste solamente nel movimento, nell’attività, nella piena coscienza
individuale, in quanto, affermano, la “vita” non è la capacità di movimento, ma
il movimento stesso33.
Entrambe le concezioni, a dispetto delle loro evidenti differenze, hanno una
cosa in comune: gli uomini hanno la responsabilità di rendersi felici da sé, con
le proprie risorse ed attività, che sia con l’accumulo di buone opere (karma), o
con la loro attività autonoma e creativa. Friedrich Nietzsche comprese allo stesso
modo il raggiungimento della felicità umana, e l’ha espresso con la sua abituale
incisività e chiarezza. «Una cosa è necessaria», egli dice nella Gaia Scienza, ed è
che «l’uomo raggiunga il compimento da sé e attraverso se stesso, con la poesia, o
con l’arte…»34. In breve, gli uomini sono interamente responsabili della propria
auto-realizzazione e felicità. Invece la fede cristiana considera la felicità eterna in
modo ben diverso.

31
Si veda W. Rahula, What the Buddha Taught, G. Fraser, London 1978.
32
Brihad-Aranyaka-Upanishad 2,4,12s. «Veramente il Brahman è felicità e chi lo ammette diventa
il Brahman felice» ibid., 4,4,25.
33
J. Fichte, Anweisung zum seligen Leben, 6. Vorlesung: Sämtliche Werke II, W. de Gruyter, Berlin
1965, 299.
34
F. Nietzsche, Fröhliche Wissenschaft, n. 290, in Nietzsche Werke, vol. 5/2, De Gruyter, Berlin
1973, 210s. Corsivo aggiunto.

200
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

Vita eterna e divinizzazione.  I Padri della Chiesa, in particolare quelli orientali,


hanno spiegato la vita di Cristo nei cristiani in termini di “divinizzazione” (greco,
theosis), cioè, letteralmente, la conversione degli uomini in dei35. Si può ritene-
re che i due termini – vita eterna e divinizzazione – siano co-estensivi, se non
equivalenti, in quanto il primo fa riferimento alla vita di Cristo nei credenti, e il
secondo è il frutto dell’Incarnazione del Verbo nella sfera creata. Come abbiamo
già visto, “vita eterna”, vuole dire partecipazione alla vita di Dio stesso, che è eter-
no e glorioso, fonte di vita. Tuttavia la vita eterna, ci dice Giovanni, è il frutto di
una nuova nascita (Gv 3,3), la nascita di Dio nell’uomo. Sant’Ireneo spiega la vita
eterna in termini di compagnia con Dio e partecipazione alla sua vita. Per lui la
visione di Dio non deriva solo dalla divinizzazione, ma la partecipazione alla vita
di Dio proviene dalla visione. «Infatti Dio è colui che deve ancora esser visto, e la
visione di Dio produce l’immortalità, ma l’immortalità ci rende vicini a Dio»36.
Il dono della divinizzazione del cristiano, in tutto il suo realismo, ci può
aiutare a comprendere la dinamica della vita eterna. Dire che i credenti sono
divinizzati non significa semplicemente che essi si trovano alla presenza divina,
in uno stato d’animo celeste, un paradiso spirituale, un cielo pacifico. La feli-
cità del cielo non consiste semplicemente nell’essere con Dio, “in presenza” di
Dio, “in compagnia” della Divinità. Piuttosto, coloro che hanno ricevuto la vita
eterna sono soddisfatti in cielo perché Dio li soddisfa, perché Dio li colma con
qualcosa della sua vita, gloria e beatitudine. In altri termini, se il cielo non gene-
rasse compimento e felicità, la colpa non sarebbe tanto da imputare agli uomini,
quanto a Dio. Per fede sappiamo che Dio è in se et ex se beatissimus37, “in sé e
per sé beatissimo”. Per fede e speranza i cristiani credono nella bontà e nella
potenza di Dio, nella sua determinazione a comunicare qualcosa della propria
beatitudine agli uomini. Gli innamorati non solo affermano la loro convinzione
con un “tu sarai felice con me”; la loro determinazione, piuttosto, è questa: “io

35
La questione della divinizzazione è considerata nel contesto dell’escatologia da G. Ancona,
Escatologia cristiana, 220s. Sul tema in generale, si veda J. Gross, La divinisation du chrétien
d’après les pères grecs. Contribution historique à la doctrine de la grâce, Lecoffre, Paris 1938; G.
Bardy, I. H. Dalmais e E. Des Places, Divinisation, I-III, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. 3,
Beauchesne, Paris 1957, coll. 1370-98; l’introduzione a J.-C. Larchet, La divinisation de l’homme
selon saint Maxime le Confesseur, Cerf, Paris 1996, 20-59.
36
Si veda Sant’Ireneo, Adv. Haer. IV, 38,3. Sulla visione beatifica e la divinizzazione in Ireneo,
si veda M. Aubineau, Incorruptibilité et divinisation selon saint Irénée, «Recherches de science
religieuse» 44 (1956) 25-52; E. Lanne, La vision de Dieu dans l’œuvre de saint Irénée, «Irénikon»
33 (1960) 311-20; J. Arroniz, La inmortalidad como deificación en S. Ireneo, «Scriptorium
Victoriense» 8 (1961) 262-87.
37
DS 3025.

201
Capitolo VI

ti farò felice”. Perciò si può dire che la vita eterna consiste nella «partecipazio-
ne al dinamismo illimitato delle relazioni divine»38. Come vedremo più avanti,
questo non significa che i salvati perdano la loro libertà in cielo39.
La Scrittura stessa suggerisce questa comprensione della vita eterna. I
credenti non verranno delusi nella loro attesa, ci dice Paolo scrivendo ai Roma-
ni, «perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La Neo-vulgata traduce le parole di
Gesù come segue: Intra in gaudium Domini tui: «Bene, servo buono e fedele,
sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gloria del tuo
padrone» (Mt 25,23). Ecco cosa implica la vita eterna: una eterna partecipazione
alla vita, alla gloria e alla beatitudine stesse di Dio, per grazia.
Inoltre, come sottolinea Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speran-
za, “l’eternità” della vita eterna non implica tanto «il susseguirsi di giorni del
calendario», che prima o poi produrrebbe noia, «ma qualcosa come il momento
colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totali-
tà. Sarebbe il momento dell’immergersi in un oceano di infinito amore, nel quale
il tempo – il prima e il dopo – non esiste più… un sempre nuovo immergersi
nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia»40.

Il cielo come lode divina, attività e riposo.  Che cosa offre la dottrina della divi-
nizzazione per la comprensione della dialettica sopra riportata tra vita e riposo,
tra attività e permanenza? Nell’incontro di Gesù con la donna samaritana al
pozzo di Giacobbe, cui già abbiamo fatto riferimento, leggiamo: «Se tu cono-
scessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto
a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). E Gesù prosegue spiegando:
«Chiunque beve di quest’acqua avrà ancora sete, ma chi berrà dell’acqua che io
gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui
una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14s.). Cioè, il dono
della grazia divinizzante produce nei beati un eterna sorgente di preghiera ed
adorazione, e di conseguenza, una perfetta integrazione tra attività e riposo nel
soggetto umano.
Sant’Efrem il Siro († 373) descrive il cielo come un “Paradiso”: le “tende”
in cui i giusti dimoreranno sono gli alberi del giardino, ciascuno dei quali offre

38
B. Forte, Teologia della storia, Paoline, Cinisello Balsamo 1991, 358.
39
Si vedano le pp. 217s.
40
SS 12.

202
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

rifugio, frutta, e profumo, deliziando ciascuno dei sensi41. Ma al centro del


giardino, Cristo sta come l’albero della vita, illuminando il Paradiso con la sua
radiosità; tutti gli alberi si inchinano in suo omaggio42. Il ciclo delle stagioni
sparirà, e l’intero anno sarà benedetto da fiori e frutta, brezze rinfrescanti e
fragranze deliziose43.
Sant’Agostino dipinge la vita eterna come «un santo e perpetuo riposo
privo di ogni fatica e peso; tuttavia non implica una indolenza inattiva, ma una
pace ineffabile colma di dilettevoli attività… Implica la preghiera a Dio, senza
sforzo delle membra, senza ansia e preoccupazione; qui non ci sarà successione
di riposo e lavoro, e non si può dire che l’attività inizia quando cessa il riposo»44.
In cielo, egli dice, tutti i nostri desideri saranno soddisfatti; infatti si trove-
ranno là «vita, benessere, cibo, ricchezza, gloria, onore, pace e tutto il bene»45.
Agostino spiega inoltre che la nostra attività in cielo non sarà impedita dalla
contemplazione di Dio: «allora potremo vedere meglio perché saremo supre-
mamente liberi. Quando, dopo tutto, noi siamo totalmente liberi dal lavoro,
eccetto quando questi tempi di fatica, questi tempi di avversità in cui ora siamo
intrappolati, saranno passati?… Saremo liberi, allora, e vedremo Dio quale egli
è, e quando lo vedremo lo loderemo. E questa sarà la vita dei santi, l’attività di
coloro che riposano: loderemo senza interruzione»46. In cielo, egli dice, «tutta
la nostra attività sarà “Amen” e “Alleluia”»47. In un testo rabbinico del II secolo
d.C. si legge: «Nel mondo dell’avvenire cessano tutti i sacrifici, ma rimane eter-
no il sacrificio della gratitudine. Così pure cessano tutte le professioni di fede,
ma rimane eterna la professione della gratitudine»48.
Secondo molti autori, la lode divina sarà l’attività principale dei beati nella
gloria. San Cipriano dice che «come cristiani vivremo con Cristo nella gloria,
saremo benedetti in Dio Padre, vivendo la vita eterna della gioia davanti al volto
di Dio, pieni di allegria ininterrotta e rendendo grazie a Dio per sempre. Perché
solo colui che ha provato la morte ma è stato innalzato sopra tutte le preoccupa-

41
Si veda Efrem, Inni sul paradiso, 9,3-6; 7,16.18. Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early
Church, 75s.
42
Efrem, Inni, 3,2.15.
43
Ibid., 9,7-17; 10,2-4.6-9; 11,9-15.
44
Agostino, Ep. 55 ad Iannerion, 9,17.
45
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30,1.
46
Agostino, Sermo 362, 30s.
47
Ibid., 28s.
48
Dal periodo tannaitico, Pesiq. 79 a 17-19.

203
Capitolo VI

zioni all’immortalità, può essere per sempre grato»49. Quodvultdeus di Cartagi-


ne († 453), un contemporaneo di Agostino, include tra le promesse che Dio fa ai
giusti risorti «il continuo canto dell’Alleluia da parte dei santi»50. Ugualmente
il monofisita Severo d’Antiochia († 538) dice: «E questo… è il cibo di coloro che
vivranno la vita attesa: continui canti di lode e la sublima contemplazione di cui
si alimentano anche gli angeli, e gioia ed esaltazione inesplicabili, in una vita che
non ha fine»51. Secondo Cesario d’Arles († 542), in cielo non ci sarà bisogno di
cibo né di sonno, non ci sarà invidia (a dispetto dei differenti gradi di gloria di
ciascuno) né ulteriori possibilità di commettere peccato. I giusti saranno perfet-
tamente felici, e «non si stancheranno mai di rendere grazie» per la loro eredità
eterna52. Commentando l’Apocalisse, Andrea, un vescovo di Cesarea del VI seco-
lo, dice che i giusti saranno come gli angeli, godendo della loro lode del Dio Trino,
sebbene questa partecipazione della vita angelica «eccede ogni comprensione»53.
Nel mito assiro-babilonese di Gilgamesh (III millennio a.C.) leggiamo:
«Gilgamesh, dove stai andando, dove girovaghi? La vita che tu cerchi non la
troverai! Infatti quando gli dei hanno creato l’uomo, gli hanno dato loro la
morte, ma la vita se la sono tenuta per sé»54. Si tratta di una conferma in nega-
tivo nella dottrina rivelata: nell’ordine creato, gli uomini sono semplicemente
incapaci con le proprie forze di realizzarsi, di ottenere vita e pace perpetua. Solo
“gli dei” sono in grado di far questo. E gli uomini possono raggiungere questa
vita solo attraverso il dono divinizzante della vita eterna, per la quale sono libe-
ramente mossi a lodare Dio eternamente. Così la preghiera di Sant’Agostino,
profondamente radicata nella tradizione classica e nella fede cristiana: «il nostro
cuore non trova pace finché non riposa in te»55. La vita eterna, afferma, dà agli
uomini una vitalità di gran lunga oltre ogni possibilità sulla terra, con perfet-
to possesso di sé, senza distrazione, o pesantezza di spirito, o riluttanza della
volontà, senza esitazione o pigrizia56.

49
Cipriano, Ad Demetr., 26.
50
Quodvultdeus, Liber de Promissionibus, 31. Quest’opera è stata tradizionalmente attribuita a
Prospero di Aquitania, ma appartiene quasi sicuramente a Quodvultdeus. Si vedano i commenti
di R. Braun nell’edizione dell’opera in Sources chrétiennes (n. 101, Cerf, Paris 1964), 88-103.
51
Severo d’Antiochia, Epist. 96.
52
Cesario d’Arles, Sermo 58, 4. Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 208s.
53
Andrea di Cesarea, Comm. in Apoc., 203,11s.; 205,18.
54
Su questo mito, si veda S. N. Kraner, Ancient Near Eastern Texts relating to the Old Testament,
University Press, Princeton 1950, 106-8. Si veda anche L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo, 18-20.
55
Agostino, Conf. I, 1,1.
56
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 675-81. Si veda
Ambrogio, In Luc. 10,121.

204
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

Lodare Dio ed essere lodati da Dio: la gioia dei beati.  «Sopraffatti dalla gioia»,
dice Benedetto XVI nel testo citato prima della Spe salvi. E C. S. Lewis spiega
che la frase di Matteo «bene, servo buono e fedele, prendi parte alla gloria del
tuo padrone» (Mt 25,23) esprime perfettamente l’essenza della gioia dei cieli.
Lewis dice che i giusti, una volta sentite queste parole pronunciate per loro da
Dio stesso, saranno colmi di quella squisita gioia che prova un bambino quando
viene lodato da un superiore57. E ovviamente tutti coloro che credono davvero
sono in spirito come bambini; altrimenti non «entreranno nel regno dei cieli»
(Mt 18,3). I giusti si rallegreranno in modo speciale per la definitiva glorificazio-
ne e “giustificazione” di Dio agli occhi della creazione58.
Tertulliano suggerisce che la gioia dei beati sarà motivata anche dallo spet-
tacolo del castigo divino per gli ingiusti59. Ugualmente Pietro Lombardo parla
della gioia e soddisfazione che i giusti provano per la condanna dei peccato-
ri60. Alcuni autori hanno suggerito piuttosto che i giusti si rallegrano venden-
do realizzata la giustizia di Dio, anche di fronte alla condanna dei loro amici e
parenti61. Tuttavia, queste affermazioni non sono facilmente giustificabili, perché
la carità che colma il cuore del santo è incompatibile con qualsiasi tipo di invidia
o spirito vendicativo. San Tommaso d’Aquino ritiene semplicemente che i giusti,
essendo perfettamente identificati con la volontà di Dio, non siano rattristati per
le punizione che la giustizia divina infligge ai condannati62.

57
C. S. Lewis nel suo saggio The Weight of Glory, in Screwtape Proposes a Toast and other Pieces,
Collins, London 1965, 94-110, esprime l’essenza del cielo come segue: «“Bene, servo buono e
fedele”. Con ciò, gran parte di tutto quello che avevo pensato in tutta la mia vita cadde come un
castello di carte. Mi sono improvvisamente ricordato che nessuno può entrare nel regno dei cieli
se non come un bambino; e nulla è così ovvio per un bambino… quanto l’immenso ed evidente
piacere di essere lodato… è il piacere più creaturale, anzi, il piacere specifico dell’inferiore: il
piacere di un animale davanti ad un uomo, di un bambino di fronte a suo padre, di uno studente
davanti al suo insegnante, di una creatura davanti al suo Creatore. Non mi sto dimenticando di
quanto orribilmente questo piacere innocentissimo venga falsato nelle nostre umane ambizioni,
o di quanto velocemente, nella mia esperienza personale, il legittimo piacere della lode da parte di
coloro che era in mio potere compiacere si trasformi nel veleno mortale dell’auto-compiacimento.
Ma ho pensato di poter individuare un momento – un momento molto, molto breve – prima che
questo accadesse, durante il quale la soddisfazione di aver compiaciuto coloro che veramente
amavo e temevo è stato puro» 102s.
58
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 658ss., sulla “giustificazione di Dio mediante
lo Spirito” in un contesto escatologico.
59
Si veda Tertulliano, De Spect. 30.
60
Si veda Pietro Lombardo, In IV Sent., D. 50, q. 2.
61
Si veda A. Royo-Marín, ¿Se salvan todos?: estudio teológico sobre la voluntad salvífica universal
de Dios, BAC, Madrid 1995, che propone una soluzione ottimistica alla questione della salvezza
dell’umanità.
62
Si veda Tommaso d’Aquino S. Th. I, q. 89, a. 8.

205
Capitolo VI

“L’eternità” del cielo.  Come abbiamo visto sopra, la comunione escatologica


con Dio è presentata nella Scrittura come perpetua, veramente senza fine. Dal
momento che questa comunione è con Dio, ed è il frutto della grazia diviniz-
zante di Dio, il termine “eterno” è più corretto di “perpetuo”, in quanto i giusti
non solo godranno la vita divina per sempre, ma parteciperanno direttamente
della vita e dell’eternità proprie di Dio. La liturgia della Chiesa usa un’espres-
sione equivalente, raddoppiata, in molte delle sue preghiere quando parla della
vita divina e della ricompensa eterna che dura “nei secoli dei secoli”63. Altri
testi della Scrittura parlano chiaramente del carattere permanente del dono di
Dio. Matteo descrive la ricompensa escatologica in termini di “vita eterna” (Mt
19,16.29; 25,46); Luca fa riferimento alle “dimore eterne” (Lc 16,9); Paolo alla
“corona che non appassisce” (1 Cor 9,25), alla “quantità smisurata ed eterna di
gloria” (2 Cor 4,17) e alla “dimora eterna” (2 Cor 5,1); Pietro alla “corona di
gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).
Ovviamente nel vangelo di Giovanni l’eternità della unione del cristiano
con Dio occupa un posto centrale, come abbiamo visto sopra64. L’eternità è qual-
cosa in più della mera permanenza e continuazione della vita divina, perché
implica una reale partecipazione all’eternità di Dio stesso, nel quale il passato, il
presente e il futuro creati si fondono l’un con l’altro65. «Chi berrà dell’acqua che
io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in
lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,13s.). Nel discorso
eucaristico di Giovanni 6, leggiamo come Gesù dice ai suoi discepoli: «io sono
il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete,
mai!» (Gv 6,35). Di conseguenza, al suo ritorno, quando porterà i suoi nel regno
dei cieli, egli dice loro che «la vostra gioia sarà piena» (Gv 16,24).
Vale la pena notare in questo contesto la definizione di “eternità” data dal
filosofo cristiano Boezio († 526): aeternitas est interminabilis vitae tota simul
et perfecta possessio66. In termini oggettivi, l’eternità implica una vita che non
finisce (interminabilis vita), ma ad un livello personale consiste propriamente

63
La formula è molto frequente nel Nuovo Testamento: si veda Rm 11,36; 16,27; Gal 1,5; Ef 3,21;
Fil 4,20; 1 Tm 1,17; 2 Tm 4,18; Eb 13,21; 1 Pt 4,11; Ap 1,6; 4,9.10; 5,13; 7,12; 10,6; 11,15; 14,11;
15,7; 19,3; 20,10; 22,5.
64
Si vedano le pp. 196s.
65
È così in particolare in Agostino. Si veda M. L. Lamb, Eternity Creates and Redeems Time: a Key
to Augustine’s Confessions within a Theology of History, in Divine creation in Ancient, Medieval,
and Early Modern Thought: Essays presented to the Re’vd Dr. Robert D. Crouse, a cura di M.
Treschow, W. Otten e W. Hannam, Brill, Leiden; Boston (MA) 2007, 117-40.
66
Boezio, De consol. phil. 5, pr. 6,4.

206
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

parlando in un possessio, un “simultaneo e perfetto possesso della vita che non


ha fine”. Coloro che sono divinizzati condividono ad un certo grado l’eternità
propria di Dio, il suo Essere che è al di sopra del tempo, la sua vita interiore.
I beati, ci dice Agostino, «conosceranno tutto totalmente e simultaneamente
senza alcuna successione di tempo»67. Il filosofo e Dottore della Chiesa Edith
Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce, † 1942) ha detto la medesima cosa in
termini leggermente differenti: «il mio essere agogna non solo di continuare per
sempre, ma anche un pieno possesso di questo essere»68.
La vita eterna, leggiamo nella Spe salvi, «sarebbe il momento dell’immer-
gersi in un oceano di infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo –
non esiste più»69.

3. La vita eterna e la visione di Dio


Vita e luce (in greco, zōē, phōs) sono qualità complementari nel vangelo
di Giovanni. Da una parte, come abbiamo già visto, Giovanni ci dice che «chi
crede nel Figlio ha la vita eterna». Dall’altra parte, secondo il medesimo testo,
«chi non obbedisce [apeithōn] al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane
su di lui» (Gv 3,36). Cioè, “avere la vita” è legato, o reso equivalente, a “vedere
la vita”. Avere la vita eterna, essere divinizzati, in altre parole, non significa che
i cristiani arriveranno ad essere in qualche modo fusi con la divina sostanza,
perdendo così la propria esistenza autonoma, creata. La persona è divinizzata,
soffusa della vita divina, ma allo stesso tempo vede Dio. Ma se Dio viene visto,
allora non c’è fusione dei soggetti, perché colui che vede e colui che è visto per
definizione devono essere distinti l’uno dall’altro. Agostino riassume breve-
mente l’unità che esiste tra unione e visione, tra divinizzazione e distinzione,
quando dice di Dio: «vederti è possederti»70.

Visione di Dio e distinzione da Dio.  La spiegazione precedente dà espressione


ad un elemento particolarmente essenziale dell’antropologia e dell’escatologia
cristiane: Dio e il soggetto umano non si fondono mai ontologicamente l’uno
nell’altro, né per grazia sulla terra né per gloria in cielo. Dio è colui che diviniz-
za, che impartisce la vita divina, eppure la sua azione unisce gli uomini con Lui

67
Agostino, Conf. XII, 15.
68
E. Stein, L’Être fini et l’être éternel, Nauwelaerts, Louvain 1972, 60s.
69
SS 12.
70
Agostino, Soliloquia I, 1,3. E P. Teilhard de Chardin trae la conclusione: “o vediamo o periamo”
The Phenomenon of Man, Harper, New York 1959, 31.

207
Capitolo VI

senza distruggere né la natura umana né l’umana personalità, cioè, il carattere


distintivo e singolare della persona nei confronti della Divinità. Di fatto, in cielo
i credenti incontreranno pienamente la propria “personalità”, diventeranno
pienamente se stessi.
Questo aspetto apparentemente elementare ma critico dell’antropologia
cristiana è stato al centro di una controversia sulla corretta interpretazione
degli scritti di Aristotele durante il Medioevo71. Autori come Averroè († 1198)
e Maimonide († 1204) avevano affermato che l’intelletto umano (o una parte
importante di esso) appartiene alla divinità. La dispersione che si sperimen-
ta attualmente nel pensiero umano, presente nell’esistenza individuale, verrà
superata alla morte, ritenevano questi, e tutto verrà riassorbito nel sorgente
divino di pensiero e vita, in un unico intelletto.
Questa posizione è inaccettabile, hanno insistito Tommaso d’Aquino ed
altri, anche da un punto di vista strettamente filosofico72. Papa Leone Magno
(† 461) aveva già detto altrettanto: «Proprio come Dio non cambia nell’esercizio
della sua misericordia, così anche gli uomini non sono consumati nella loro
dignità»73. E nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo: «Vivere in cielo è
“essere con Cristo”. Gli eletti vivono “in lui”, ma conservando, anzi, trovando la
loro vera identità, il loro proprio nome»74.
Che il divinizzato “veda” Dio per sempre è un’espressione della reale
distinzione tra Dio e il mondo creato al livello più profondo possibile, della
trascendenza di Dio da una parte, della autonomia della creazione dall’altra.
Ovviamente la dottrina della visione di Dio è ben sviluppata nella Scrittura e
nella storia della teologia. Che questa visione sia definita “beatifica” è un sempli-
ce corollario del fatto che i santi contemplano Colui che è tutto Bontà, Bellezza,
Armonia e Potenza. Questo necessariamente li rende pienamente beati.

Visione escatologica di Dio nella Scrittura.  Tre testi principali del Nuovo Testa-
mento parlano della visione di Dio: 1 Cor 13,12, 1 Gv 3,1-2 e Mt 5,8.
Alla fine dell’inno della carità nella sua prima lettera ai Corinzi, Paolo scri-
ve: «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece
vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora cono-

71
La bibliografia è ampia sull’argomento. Si veda per esempio R. McInerny, Aquinas Against the
Averroists: on There Being Only One Intellect, Purdue University Press, West Lafayette 1993.
72
Si vedano le pp. 46s.
73
Leone Magno, Ep. 28 ad Flav., 4.
74
CCC 1025.

208
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

scerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1 Cor 13,12)75. Su questo


testo si possono fare diverse osservazioni. Prima, esso esprime una chiara
tensione escatologica tra “l’adesso” e “l’allora”, con la fede riservata al presente
e la visione al futuro. Seconda, la visione di Dio di cui si parla è aperta e chiara,
“faccia a faccia”, ci dice Paolo. La possibilità di vedere Dio si trova nell’Antico
Testamento, dove esprime amicizia ed intimità con Dio76. Tuttavia, non sareb-
be corretto dire che i giusti “vedono” Dio faccia a faccia nel senso che le loro
capacità visive sono semplicemente amplificate, come se Dio fosse una sorte di
suprema creatura che solo coloro che sono provvisti in modo speciale sono in
grado di conoscere, per mezzo di un concetto supremo. Si può dire che i giusti
vedono Dio nel senso che Dio si fa vedere; perciò il testo paolino aggiunge «come
anche io sono [da Dio] conosciuto»77. Gli uomini giungono a conoscere Dio (e
con tutta probabilità le altre cose in Dio, che le ha create) in quanto partecipano
della conoscenza di Dio, quella che ha di sé e delle sue creature. Terza, il testo
mette in stretta relazione la visione di Dio e la virtù della carità. Torneremo tra
poco su questo argomento78.
Un altro testo importante si trova nella prima lettera di Giovanni (3,1-2). Il
testo si occupa delle caratteristiche e delle conseguenze della figliolanza divina,
una importante espressione, sia per Paolo che per Giovanni, della partecipazione
dei cristiani alla vita divina, ovvero della divinizzazione. «Carissimi, noi fin d’ora
[questo “ora” richiama l’insegnamento di Giovanni sul “ora” della vita eterna
in chi crede] siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché
lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2). Come le parole di Paolo ai Corinzi, il
testo è strutturato escatologicamente, guardando al futuro a partire dal presente,
come la dottrina della resurrezione finale (Gv 6,54): «ciò che saremo…», «saremo
simili a lui…», «lo vedremo». Come accennato sopra, l’affermazione di Giovanni
è fondata sulla divinizzazione dei cristiani attraverso la fede, «noi siamo figli di
Dio… saremo simili a lui». Si può notare che la divinizzazione non è solo la causa
della visione («fin d’ora noi siamo figli di Dio») ma è anche causata dalla visione:

75
Su questo testo, si veda A. Robertson e A. Plummer, The First Epistle of St Paul to the Corinthians
(orig. 1911), T. & T. Clark, Edinburgh 1994, 298s.
76
Si veda Es 33,11s.; Nm 12,8; si veda anche Gv 16,29.
77
Il testo è nella forma «passiva come una perifrasi del soggetto divino» W. F. Orr and J. A. Wal-
ther, 1 Corinthians (Anchor Bible, 32), Doubleday, Garden City 1976, in hoc loco. R. Bultmann
distingue chiaramente in questo testo tra la nozione di conoscenza di Dio di Paolo e quella tipica
degli gnostici: γινὠσκω, in TWNT 1, 680-719, qui 710.
78
Si vedano le pp. 221s.

209
Capitolo VI

«noi saremo simili a lui, perché lo vedremo…». La divinizzazione, in altre parole,


rende possibile la visione, e la visione a sua volta fornisce piena espressione alla
divinizzazione. Tra poco torneremo a questo testo per considerare l’oggetto della
visione, cioè, chi o cosa è effettivamente visto, se Dio o Cristo79.
La conseguenza pratica dell’insegnamento di Giovanni è presto detta.
«Chiunque ha questa speranza in lui si purifica come egli è puro» (1 Gv 3,3). La
speranza di vedere Dio muove il credente alla santificazione dell’intera esisten-
za, in preparazione al momento dell’incontro definitivo. Si tratta di una chiara
ripetizione di quel che Gesù aveva detto nel Discorso della Montagna: «Beati i
puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8), un testo che serve come ulteriore
espressione della visione escatologica di Dio80.

La comprensione della “visione di Dio” nella storia. I Padri della Chiesa, in


particolare quelli di tradizione alessandrina, hanno parlato ampiamente della
contemplazione di Dio e della visione eterna. San Cipriano è tra i primi a spiegare
che la visione di Dio è necessariamente una sorgente di felicità per i salvati; da ciò
il qualificativo “visione beatifica”: «Quanto grande sarà la vostra gloria e felicità»,
egli dice, «nel poter vedere Dio, nell’avere l’onore di partecipare alla gioia della
salvezza e della luce eterna con Cristo vostro Signore e Dio… di godere nella gioia
dell’immortalità nel Regno dei cieli con i giusti e gli amici di Dio»81. La visione
di Dio era particolarmente centrale per Origene: «ci sarà una attività per coloro
che sono giunti ad essere con Dio tramite il Verbo che è con lui: conoscere Dio»82.
Così anche sant’Agostino83, San Giovanni Crisostomo84 e i Padri Cappadoci85,
parlano frequentemente della visione beatifica. Per Agostino, la visione di Dio è
il centro vitale della beatitudine eterna86. «In certo modo, la mente umana muore
e diventa divina, ed è inebriata dalle ricchezze della casa di Dio»87. Crisostomo lo
esprime come segue: «perché noi viviamo, perché respiriamo, cosa siamo, se non

79
Si vedano le pp. 234s.
80
La medesima nozione si trova in Ap 22,4, che dice che gli eletti «vedranno il suo [dell’Agnello]
volto, e porteranno il suo nome sulla fronte».
81
Cipriano, Ep. 58, 10,1.
82
Origene, Comm. In Jo., 1, 16,92.
83
Si veda Agostino, Conf. IV, 10-13; IX, 10.
84
Si veda Giovanni Crisostomo, Ad Theod. lapsum tract., 11.
85
Per esempio Gregorio di Nazianzeno, Or. 8, 23.
86
Si veda Agostino, Enn. in Ps. 26, 2,9 & 43,5; Sermo 362, 29,30-30,31; Ep. 130, 14,27. Sugli aspetti
filosofici della visione di Dio in Agostino, si veda L. Cilleruelo, Deum videre en San Agustín,
«Salmanticensis» (1965), 1-31; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 145s. Agostino afferma
che la visione di Dio è la base reale della nostra unione con Lui: Ep. 147, 37.
87
Agostino, Enn. in Ps. 35,14.

210
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

riceviamo una partecipazione a questa visione?… O beati, tre volte beati, molte
volte beati sono coloro che saranno degni di vedere tale gloria!»88
Nel quarto secolo Eunomio († ca. 392), un seguace di Ario, insegnò che la
conoscenza che ciascun essere vivente può avere di Dio è del medesimo genere,
e strettamente limitata89. Questo principio è applicabile, egli dice, agli uomini,
agli angeli e a Cristo stesso, il Verbo, che gli ariani considerano come la prima
creatura, derivata da Dio e a Lui subordinata. Come conseguenza, Dio non può
essere visto direttamente dalle creature; e in ogni caso tutte le creature vedranno
la divinità sostanzialmente nel medesimo modo. Alcuni Padri della Chiesa, in
particolare Giovanni Crisostomo, hanno reagito energicamente contro questa
dottrina. Lo hanno fatto però giungendo all’estremo opposto, insegnando che
Cristo vede la sostanza divina (essendo egli consustanziale con il Padre), e gli
angeli e gli uomini non lo vedono. Cioè, secondo Crisostomo, il Padre è visto
solo dal Figlio e dallo Spirito90. Al massimo, le creature possono vedere Dio
indirettamente; vedranno la sua gloria ma non la sua sostanza.
Di fronte alla sfida ariana, che sembra contraddire l’insegnamento di San
Paolo circa la visione faccia a faccia91, la reazione di Crisostomo era compren-
sibile. La sua posizione era condivisa da Teodoreto di Ciro92, che affermava che
quando nell’Antico Testamento viene detto che gli uomini “vedevano” Dio –
Mosè è il caso più noto – non vedevano l’essenza divina (ousia) in quanto tale,
ma solo una sorte di splendore glorioso (doxa), essendo essi creature. Una posi-
zione simile era tenuta nella Chiesa Bizantina nel tardo Medioevo da Gregorio
Palamas († 1359)93. Palamas insisteva sull’assoluta invisibilità della divinità, ed
affermava che gli uomini sono in grado di contemplare solo la gloria che irradia
dall’essenza divina. Questa gloria è eterna ed increata (Palamas parla di “divi-
ne energie”), e non può essere identificata con l’essenza divina che appartiene

88
Giovanni Crisostomo, In Io. Hom. 12,3.
89
Secondo Socrate, Hist. Eccl. 4,7, Eunomio ritiene che «la conoscenza che Dio ha di sé non
è diversa dalla nostra. Il suo essere non è più chiaro per lui che per noi. Tutto quello che noi
sappiamo di lui egli lo sa nel medesimo modo, e tutto quel che sa di sé lo troviamo facilmente e
senza differenza in noi».
90
Si veda Giovanni Crisostomo, De Incomprehens. Dei natura, 1,6; In Io. Hom., 15,1.
91
Si veda Basilio, Ep. 8,7 sulla visione diretta in 1 Co 13,12.
92
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 375-7. L’opera principale di Teodoreto al riguardo è
Eranistes seu Polymorphus, dial. I.
93
Sulla teoria della divinizzazione di Palamas è stato scritto molto, per esempio lo studio classico
M. Jugie, Palamas, in DTC 11 (1930) col. 1735-76. Contro Jugie, si veda V. Lossky, Théologie
mystique de l’Église d’Orient, Cerf, Paris 1944 e J. Meyendorff, St. Gregory Palamas and Orthodox
Spirituality, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood 1974. Recentemente, si veda A. N. Williams,
The Ground of Union. Deification in Aquinas and Palamas, Clarendon Press, Oxford 1999.

211
Capitolo VI

all’ambito della trascendenza inconoscibile di Dio, ma piuttosto con le ener-


gie divine: grazia, gloria e splendore. Questa divina gloria si è manifestata per
esempio durante la Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, ed era, dice Pala-
mas, la base della visione che gli Apostoli avevano di Dio, e l’inizio della divina
conoscenza mistica sperimentata da molti santi sulla terra94.
Nel contesto della distinzione fatta da Teodoreto tra l’essenza e la gloria
divina, Gregorio Magno trova nella dottrina delle energie divine il rischio di
compromettere la semplicità divina. «In tale semplicissima e immutabile essen-
za», egli dice, «non è possibile distinguere tra la chiarezza/gloria e l’essenza; in
Dio infatti la natura è la chiarezza; la chiarezza è natura»95. In vita sua Pala-
mas fu accusato, ingiustamente come poi emerse, di duo-teismo96. Ma il fatto è
che, mentre la sua dottrina era stata accolta ufficialmente al Sinodo della Chiesa
Bizantina nel 1352, il Concilio di Firenze nel 1439 non la accolse. Convocato in
vista di portare unità tra Latini e Greci, il Concilio proclamò che «la anime di
coloro che… sono stati purificati… vedono chiaramente Dio stesso, uno e trino,
come Egli è»97. La dottrina di Palamas fu discussa durante il Concilio, però
nei suoi decreti non si trova menzione della visione della “gloria divina”. Tutta-
via, il Concilio insistette sulla gradualità della visione, una dottrina abbracciata
da molti autori orientali, come Origene, Pseudo-Dionigi l’Aeropagita (V sec.) e
Massimo il Confessore († 662). Secondo il Concilio di Firenze, i giusti «vedono
chiaramente Dio, uno e trino, come egli è, ma alcuni in modo più perfetto di
altri, a seconda della diversità dei meriti»98. Un secolo prima, Papa Benedetto
XII († 1342), in un contesto alquanto differente99, insegnò la medesima dottri-
na: le anime di coloro che sono stati purificati «hanno visto e vedono l’essenza
divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza che ci sia, in
ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura, rivelandosi invece a
loro l’essenza divina in modo immediato (divina essentia immediate se… osten-
dente), scoperto, chiaro e palese»100. La medesima dottrina si trova nel Catechi-
smo della Chiesa Cattolica101.

94
Si veda Gregorio Palamas, Triadi I, 3; II, 3: III.
95
Gregorio Magno, Mor. in Iob, 18, 54,90.
96
L’ha fatto il suo avversario Barlaam di Calabria. Si veda J. Jugie, Palamas, col. 1754.
97
DS 1305 (il Decretum pro graecis).
98
DS 1305. Su questo si veda G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 130s.
99
Si vedano le pp. 339s.
100
DS 1000.
101
Si veda CCC 1028.

212
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

Questioni teologiche implicate dalla visione diretta di Dio.  Va tenuto presente


che quando la teologia orientale parla della visione che i giusti hanno di Dio, sta
tentando di difendere un aspetto particolarmente centrale della fede cristiana,
quello della divina trascendenza. Come si può dire che gli uomini e gli angeli
guardano il volto di Dio nello stesso modo di Cristo, Figlio e Verbo di Dio?
È interessante notare che in molte versioni del primo articolo del Credo
Apostolico si fa una menzione particolare di Dio non solo come onnipotente,
ma anche come invisibile102. La Scrittura insiste su questo punto. Quando Mosè
chiese di contemplare la gloria di Dio, ricevette questa risposta: «farò passare
davanti a te tutta la mia bontà, e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te.
A chi vorrò far grazia, farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò miseri-
cordia. Ma tu non potrai vedere il mio volto; perché nessun uomo può vedermi e
restare vivo» (Es 33,19s.). Infatti, molti testi dell’Antico Testamento parlano di
coloro che desiderano vedere Dio103, ma sono consapevoli che è impossibile, e
che una tale visione ne provocherebbe la morte104.
Il Nuovo Testamento conferma questa dottrina. Nel prologo del vangelo
di Giovanni leggiamo che «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1,18). San Paolo,
parlando degli attributi divini, dice che Dio è «il beato e unico Sovrano, il Re
dei re, il Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce
inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Tm 6,15s.).
Tuttavia, come diversi Padri della Chiesa evidenziano105, Dio è detto invi-
sibile in senso specifico: le creature non possono contemplare la Divinità con
le proprie forze. Questo ovviamente non significa che Dio non sia in grado di
rendersi visibile dalle creature, se lo volesse. Piuttosto che un limite per la divi-
nità, o una espressione della divina incapacità, l’invisibilità è un attributo che
esprime la trascendenza e l’alterità divina, cioè, la completa indipendenza meta-
fisica di Dio nei confronti delle creature. Essere visibile, in un certo senso, sareb-
be un segno di debolezza da parte di Dio, segno di passività o vulnerabilità, un
potere che le creature avrebbero nei confronti del Creatore. Infatti il testo appe-
na citato del prologo di Giovanni, «nessuno ha mai visto Dio», procede procla-
mando che «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha

102
Si veda DS 16, 21, 22, 29.
103
Si veda Gb 19,26; 42,5; Sal 16,5.
104
Si veda Es 19,21; Lv 16,2; Nm 4,20.
105
Alcuni Padri della Chiesa che parlano dell’impossibilità di vedere Dio “faccia a faccia”
intendono semplicemente escludere la possibilità di vedere Dio con le proprie forze; si veda ad
esempio Basilio, Adv. Eunomium, 1,14; Didimo il Cieco, De Trin., 3,16.

213
Capitolo VI

rivelato» (Gv 1,18). In senso stretto questo testo non parla dell’effettivo vedere
Dio faccia a faccia. Tuttavia, è chiaro che il Verbo del Padre può rivelare agli
uomini quello che loro sono totalmente incapaci di vedere da sé per le proprie
forze. «La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta», leggiamo
altrove nel Prologo di Giovanni. «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illu-
mina ogni uomo… E il Verbo si fece carne… e noi abbiamo contemplato la sua
gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre» (Gv 1,5.9.14).
Agostino dice che «Dio è invisibile per natura, ma può esser visto quan-
do vuole, come vuole»106. Ed aggiunge che noi non vediamo Dio con la vista
fisica: «Dio non si vede in un luogo, ma da un cuore puro; né può esser visto
dagli occhi del corpo, né compreso dalla vista, né percepito con il tatto, né udito
come suono, né sentito per invasione»107. Brevemente il Catechismo della Chie-
sa Cattolica riassume questo insegnamento come segue: «A motivo della sua
trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando egli stesso apre il
suo Mistero alla contemplazione immediata e gliene dona la capacità»108. Consi-
deriamo ora in cosa consista questa “capacità”.

La “capacità di vedere Dio” e il “lumen gloriae”.  Il Concilio di Vienne (1312)


prese posizione contro gli autori neo-gnostici che ritenevano che la sostanza
divina potesse essere vista dagli eletti con le proprie forze, dato che in termini
reali essi da sempre appartengono alla sostanza divina109. Il Concilio ha chiarito
che la stretta unione tra Dio e l’anima, e la visione diretta che ne risulta, non è
dovuta alle forze insite nella natura, ma al dono soprannaturale di Dio. «L’ani-
ma ha bisogno del lume della gloria (lumen gloriae), che la elevi a vedere Dio e a
goderlo beatamente», insegna il Concilio110. La nozione di “luce” speciale che è
infusa nei giusti così che possano vedere Dio è suggerita in diversi testi biblici.
Per esempio nel Salmo 36,10 leggiamo: «è in te la sorgente della vita; alla tua luce
vediamo la luce». E nel libro dell’Apocalisse, «Ci sarà il trono di Dio e dell’Agnel-
lo [nella Nuova Gerusalemme]: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto
e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte, e non avranno più

106
Agostino, Ep. 147, 37: «Deum… invisibilem esse natura, videtur autem cum vult, sicut vult».
107
Dio non si vede con la vista umana, dice Agostino: «Nec in loco Deus videtur, sed mundo corde;
nec corporalibus oculis quaeritur, nec circumscributur visu, nec tactu tenetur, nec auditur effatu,
nec sentitur incessu» De Civ. Dei XXII, 29.
108
CCC 1028.
109
La Chiesa condanna per esempio la posizione dei Beguini che affermava che ogni contemplazione
è contemplatio beatorum: DS 895.
110
DS 895; si veda anche Pio XII, Enc. Mystici Corporis Christi (1943): DS 3815.

214
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà.


E regneranno nei secoli dei secoli» (22,3-5).
Secondo la teoria classica, la conoscenza umana delle cose create ha luogo
per mezzo delle specie (o forme) intellegibili, astratte dalla mente dai differenti
oggetti, od ottenute per illuminazione. Ovviamente la visione di Dio richie-
de una spiegazione ulteriore, non essendo Dio un semplice oggetto creato. San
Tommaso d’Aquino lo spiega nei seguenti termini: «Quando l’intelletto crea-
to vede l’essenza divina, la stessa essenza divina diventa la forma intellegibile
dell’intelletto»111. In effetti, dal momento che «la capacità naturale dell’intel-
letto creato è insufficiente per vedere l’essenza di Dio, il potere conoscitivo del
singolo deve essere accresciuto (superaccrescere) dalla grazia divina»112. Altrove
l’Aquinate dice che perché questa visione abbia luogo, gli uomini devono essere
divinizzati: «per mezzo di questa luce, i beati sono deificati»113. Con una breve
formula, dice che l’essenza divina è quod videtur et quo videtur114: Dio stesso
nella sua essenza è “ciò che è visto [Dio come oggetto della visione] e ciò per cui
Dio è visto [che viene definito l’oggetto formale quo della visione]”.
Tuttavia, se fu necessario evitare la posizione gnostica che nega la gratuità
della visione beatifica e con essa la trascendenza di Dio rispetto agli uomini,
un’altra difficoltà sorse in epoca medioevale, esemplificata negli scritti di Enrico
di Gand (detto anche Gandavio, † 1293). Gandavio riteneva che la ricezione della
lumen gloriae fosse certamente un dono, ma che generasse un’assimilazione
della sostanza dell’anima con quella di Dio115. Si tratta di una sfida importante:
se l’essenza divina è ciò per cui vediamo Dio (quo videtur Deum), come possia-
mo evitare che Dio diventi sostanzialmente identico con il nostro intelletto? O

111
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 12, a. 5c.
112
Ibid.
113
Ibid.
114
Tommaso d’Aquino, III C. Gent. 51.
115
Si veda Gandavio, Quodl. 13, q. 12. Altri autori come Scoto Eriugena parlarono dell’unione con
Dio senza alcuna mediazione: «Non ipsum Deum per semetipsum videmus, quia neque angeli
vident; hoc enim creaturae impossibile est… sed quasdam factas ab eo in nobis theophanias
contemplabimur» De divisione naturae I, 1,10. Si può trovare la medesima posizione in
Alessandro di Hales, Ugo di Saint-Cher, e Ugo di San Vittore: si veda G. Moioli, L’“Escatologico”
cristiano, 126s. Almarico di Bène disse: «creator non videtur nisi tamquam sub operimento
universi», mentre secondo gli autori aristotelici, il divino è conosciuto solo tramite gli effetti
creati. Entrambe le posizioni, l’una portando al panteismo, l’altra al materialismo, sono state
rifiutate dall’Università di Parigi nel 1214: «quod divina essentia in se nec ab homine nec ab angelo
videbitur». Sull’argomento, si veda H.-F. Dondeine, L’objet et le ‘medium’ de la vision béatifique
chez les théologiens du XIIIe siècle, «Recherches de théologie ancienne et médiévale» 19 (1952)
60-99.

215
Capitolo VI

ad un livello più pratico: cosa significa essere pienamente umani quando si è


completamente assorbiti – a livello psicologico ed ontologico – dalla vita propria
di Dio? Caietano tentò di chiarire la questione dicendo che nella visione beati-
fica l’intelletto umano è introdotto nell’essere stesso di Dio, non a livello fisico
però, ma a livello di intenzione o rappresentazione116. Come dice l’Aquinate nel
testo citato sopra, l’essenza divina “diventa forma intellegibile dell’intelletto”.

Ascoltando la parola di Dio. Sebbene l’unione escatologica con la Divinità


implica certamente la visione, cioè la definitiva rivelazione della gloria di Dio,
va tenuto presente che la comunicazione divina con gli uomini per gran parte
della Scrittura è centrata principalmente sul verbo117, sulla parola. Così Meister
Eckhart († 1327) centrò pienamente il punto, seppure con qualche imprecisio-
ne, dicendo: «nella vita eterna saremo molto più beati in considerazione dell’u-
dito che della vista. Questo perché l’atto di udire il Verbo Eterno è interno a
me, mentre l’atto di vedere va fuori di me»118. Hans Urs von Balthasar nota che
la teologia della visio ha trascurato quella dell’auditio, ed insiste con Eckhart
che «il Figlio di Dio rimane per sempre il Verbo del Padre»119. Per l’eternità noi
siamo destinati a «ricevere il Verbo di Dio nello Spirito Santo del Padre»120, cui
rispondiamo con meraviglia e lode.
Questa osservazione ci porta di nuovo a considerare alcune delle principali
implicazioni antropologiche della dottrina della vita eterna, della divinizzazio-
ne e della visione beatifica. Riguardano rispettivamente la libertà, la socialità e
la temporalità di coloro che godono della visione di Dio (di cui ci occuperemo
nelle sezioni successive, nn. 4, 5 e 6). Fin dall’inizio bisogna affermare che la
visione faccia a faccia di Dio non solo non distrugge la libertà, la socialità e
la temporalità della condizione umana, ma, al contrario, le accresce e dà loro
pieno significato. Anzi, in assenza del complemento escatologico, non saremmo
in grado di comprendere alla luce della fede questi elementi fondamentali che
caratterizzano la condizione umana attuale.

116
Si veda Caietano, In S. Th. I, q. 12, a. 2.
117
Si veda il mio studio Alcune implicazioni giuridiche e antropologiche della comunicazione della
parola di Dio, in Parola di Dio e missione della Chiesa. Aspetti giuridici, a cura di C. J. Errázuriz e
F. Puig, Edusc, Roma 2009, 27-57.
118
Meister Eckhart, Sermo 58, in Deutsche Predigten und Traktate, a cura di J. Quint, C. Hanser,
München 19693, 430s.
119
Si veda H. U. von Balthasar, Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 372s. Corsivo aggiunto.
120
Ibid.

216
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

Nelle sezioni seguenti considereremo alcuni aspetti antropologici della vita


dei beati sulla base di una semplice ma legittima intuizione cristiana: che il dono
della vita eterna (che alla fin fine include quello della resurrezione finale) dovreb-
be costituire la piena realizzazione della persona umana, e quindi il punto di rife-
rimento per comprendere cosa significhi essere uomini nella situazione attuale, e
il fatto che nessun vero bene per la vita umana e la natura sarà assente in cielo121.

4. Il cielo che non finisce mai: eternità e libertà


In che cosa consiste nella vita dell’uomo in cielo, cioè per tutta l’eternità,
la libertà umana?

La negazione di Origene dell’eternità del cielo.  Per apprezzare le implicazio-


ni antropologiche dell’eternità del cielo, vale la pena esaminare alcuni aspetti
dell’escatologia di Origene122.
Secondo Origene, nella sua opera De principiis, Dio, onnipotente e sommo
bene, non può essere inattivo, e perciò ha creato le cose da tutta l’eternità123. In
principio tutti gli esseri spirituali creati godevano di una perfetta uguaglian-
za, e contemplavano il Verbo di Dio. Tuttavia, essendo spiriti liberi, molti di
loro peccarono124. E il mondo materiale fu creato in funzione di questo pecca-
to, principalmente come mezzo di punizione e purificazione. La differenza che
esiste tra i diversi esseri spirituali deriva dalla maggiore o minore intensità
del peccato di ciascuno. Gli spiriti che peccarono più gravemente diventarono
il demonio e i suoi angeli, che vengono puniti sotto terra. Coloro che hanno
peccato in maggior o minor grado sono uomini, che vivono sulla terra, rivestiti
di corpi umani. Gli spiriti che non hanno peccato e che sono stati pienamente
fedeli a Dio, sono gli angeli, gli spiriti puri. Origene accetta la dottrina della
pre-esistenza delle anime, e considera il mondo materiale come un agente per la
purificazione dei peccatori.

121
Si veda il mio studio La muerte y la esperanza, 64-74; Cristo revela el hombre al propio hombre,
«Scripta Theologica» 41 (2009) 85-111.
122
Si veda Origene, De princip. I, 5.
123
«Proprio come nessuno può essere padre senza avere un figlio, né un padrone senza avere uno
schiavo, nemmeno Dio può essere chiamato onnipotente se non ci sono altri esseri su cui egli
possa esercitare il suo potere. Perciò, affinché Dio possa mostrare la sua potenza, le cose devono
essere esistite così che egli potesse ricevere questo titolo» Origene, De princip. I, 2,10.
124
Secondo Origene in De princip. II, 3, l’uomo è sempre libero. In questo modo egli può mantenere
un continuo dinamismo dell’uomo da e verso Dio. La libertà umana non è mai definitivamente
fissata.

217
Capitolo VI

Dopo la purificazione ottenuta durante la vita sulla terra, secondo Orige-


ne, ognuno e tutti torneranno allo stato originale precedente al peccato. Questo
processo sarà completo alla fine dei tempi, e Origene lo designa con il termine greco
apokatastasis, usato nella Scrittura (At 3,21), che significa riconciliazione univer-
sale125. Tuttavia, anche quando questa riconciliazione/restaurazione avrà luogo, gli
uomini manterranno la loro libertà, ed in linea di principio non c’è ragione perché
non debbano essere in grado di separarsi da Dio ancora con il peccato, anche se in
base alla rivelazione biblica, Origene non accetta questa ipotesi.
Al di là dei meriti o demeriti della lettura che Origene fa dell’antropologia
e soteriologia cristiane, quel che egli ha sicuramente chiarito è che la libertà
umana e l’eternità della vita si oppongono tra di loro, perlomeno in apparenza.
Se gli uomini sono liberi, prima o poi alcuni di loro sicuramente rifiuteranno il
dono della comunione con Dio, e così non è più eterna. D’altra parte, se il cielo
è eterno, se dura per sempre, allora gli uomini perdono la loro libertà. In altre
parole, l’eternità del cielo è correlativa all’assenza di peccato degli uomini. Allo-
ra come possiamo spiegare tale eternità senza negare la libertà umana?

Libertà umana e vita eterna.  Sono state proposte due soluzioni principali per
spiegare l’eternità della visione beatifica. Da una parte alcuni autori, con un
approccio scotista, affermano che la visione di Dio non impone alcuna neces-
sità assoluta agli uomini di amarlo ed evitare il peccato, in modo tale che la
volontà ritiene la propria libertà “in esercizio” e “in specificazione”, non solo
nei confronti del mondo creato, ma anche nei confronti del Bene Supremo, che
è Dio. L’assenza di peccato nei beati sarebbe dovuta perciò ad una straordinaria
grazia provvidenziale che li preserva dal deviare dal compimento della volontà
di Dio. Cioè, il regno dei cieli sarà eterno più o meno per decreto divino126.
Questa soluzione non manca di difficoltà, perché sembra che Dio sia obbli-
gato a disfare l’opera della creazione (quando fece gli uomini liberi) al fine di
concedere loro la ricompensa definitiva. La libertà umana sembra essere il
problema, non la soluzione. Inoltre, la libertà è considerata in modo restrittivo,
in termini di pura indifferenza ed arbitrarietà rispetto al bene.

125
Si veda ibid., III, 6,6. Si veda H. Crouzel, L’hadès et la géhenne selon Origène, «Gregorianum»
59 (1978) 291-329; J. R. Sachs, Apocatastasis in Patristic Theology, «Theological Studies» 54 (1993)
617-40. Sul termine biblico, si veda BDAG, 112, s.v. ἀποκατάστασις.
126
Si veda Duns Scoto, Oxon. IV, D. 49, q. 4. Su questo, si veda H. Lennerz, De novissimis,
Gregoriana, Roma 19505, 30-3.

218
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

L’altra soluzione è offerta da Tommaso d’Aquino, che tenta di spiegare


l’eternità (e perciò la mancanza di peccato) dello stato celeste senza fare ricor-
so ad uno speciale decreto divino127. Gli uomini rimarranno certamente liberi
nel senso di capaci di scegliere differenti oggetti creati. Tuttavia, l’oggetto della
volontà umana non è propriamente la scelta, ma il bene. Finché si trova sulla
terra, il bene connesso alle scelte particolari è reso presente agli uomini con
maggiore o minore intensità; in ogni caso, generalmente non si impone. Per
questa ragione, gli uomini sono in grado di scegliere, e, data la loro condizione
decaduta e limitata, possono farlo erroneamente, peccando. Ma l’oggetto della
volontà è sempre e solo il bene. Perciò, quando contempla Dio faccia a faccia
l’uomo diventa semplicemente incapace di scegliere qualcosa che escluda la
Divinità. E questo per due ragioni. Primo, perché Dio, che è direttamente cono-
sciuto, è un bene più grande di tutti gli altri beni parziali. E secondo, perché le
creature, sebbene possono offrire agli uomini in terra la tentazione di mettere
da parte il Dio che non vedono, hanno ricevuto nell’atto della creazione la bontà
stessa che esse possiedono, una bontà che “rimanda” al Creatore. Chi contempla
Dio percepisce questa donazione. Questo rende impossibile offendere Dio nel
cielo, rifiutare il Creatore in nome delle creature. L’Aquinate afferma: «Essen-
do Dio in sé la Bontà per essenza, egli non può scontentare nessuna volontà.
Chiunque lo veda nella sua essenza non può odiarlo»128, cioè, non può peccare.
In altre parole, per mezzo di un processo psicologico immanente, in piena
consonanza con la natura umana, è semplicemente impossibile per gli uomi-
ni abbandonare la visione di Dio una volta che l’abbiano ottenuta. In un certo
senso hanno perso la loro libertà, per il fatto che non possono più peccare
(l’Aquinate ritiene che il poter peccare non sia parte della libertà umana, ma
piuttosto segno della libertà decaduta)129, ma nel senso più vero della parola essi
liberamente non vogliono peccare. Percependo Iddio a faccia a faccia, gli uomini
sono semplicemente incapaci di abbandonare la Sorgente di tutto il bene per
raggiungere un bene minore. L’Aquinate nota: «i beati sono soddisfatti da Colui
in cui si trova la vera felicità; le altre cose non soddisferebbero completamente
il loro desiderio»130. Sulla terra la possibilità di peccare rimane sempre aperta,
dal momento che Dio non è conosciuto direttamente, ma solo attraverso le sue

127
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 92. Si veda S. Gaine, Will there be Free Will in Heaven?:
Freedom, Impeccability, and Beatitude, T. & T. Clark, London; New York 2003.
128
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 98, a. 5c.
129
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 62, a. 8 ad 3.
130
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent. 96.

219
Capitolo VI

parole ed opere. La sua presenza e bontà, perciò, non si impongono sugli uomini
durante il loro soggiorno terreno, perché Dio vuole ottenere una risposta libera,
generosa dalle creature che devono sforzarsi con il Suo aiuto di superare l’attra-
zione disordinata delle creature verso il peccato, pur percependo indirettamente
e meno tangibilmente l’azione e l’amore divino131.

Il significato ultimo della libertà umana.  Seguendo Paolo ed Agostino, si potreb-


be dire che la libertà in senso cristiano si identifica soprattutto con la liberazio-
ne, la libertà che Cristo ci ha guadagnato (Gal 5,1). Più che un atto o una capaci-
tà (“il libero arbitrio”), la libertà è uno stato. La libertà acquisita da un cristiano
attraverso il battesimo e nella vita eterna implica anzitutto il superamento della
schiavitù, ciò che Paolo chiama la «libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm
8,21). Paradossalmente, spesso sulla terra incappano nella schiavitù coloro che
vogliono godere pienamente della loro libertà, lasciando aperte tutte le opzio-
ni, rifiutando di affidarsi, identificando la libertà con la semplice possibilità di
scelta. In cielo, tuttavia, gli uomini incontrano la perfetta identificazione con
se stessi e con le loro aspirazioni, una completa assenza di agitazione, insoddi-
sfazione e nostalgia, la realizzazione di tutto quello che avevano cercato – forse
senza rendersene conto completamente – durante il loro soggiorno terreno, la
gioia di aver ottenuto il Bene Assoluto per sempre, la pienezza della felicità. La
libertà caratteristica della vita eterna è quel che dà pieno significato all’esercizio
della libertà sulla terra (dove il Bene illumina la scelta e delicatamente muove
la volontà), e non viceversa (che la scelta detti o crei il bene). Riflettendo sulla
vita eterna, Agostino parla di «una libertà che è al di là della capacità della sola
natura umana ma è data a coloro che sono participes Dei, una libertà così gran-
de da escludere la possibilità di peccato». Egli continua dicendo che ai santi
«non manca la libera volontà perché sono incapaci di dilettarsi con il peccato. Al
contrario, la loro volontà è così totalmente libera dal dilettarsi nel peccato che è
liberata da un costante diletto nel non peccare»132.

131
È interessante notare che, probabilmente, Origene considerò il Verbo contemplato dagli spiriti
creati in maniera subordinazionista: si veda J. Daniélou, Origène, Cerf, Paris 1948, 249ss.; Origene,
De princip. IV, 4,1. Gli spiriti perciò non vedono Dio, ma solo il Verbo, inferiore a Dio, e perciò
non sono “obbligati” dalla visione ad evitare il peccato. Cioè, il possibile subordinazionismo di
Origene e la sua negazione dell’eternità della ricompensa e punizione vanno di pari passo. Questo
spiegherebbe anche perché l’idea di una percezione indiretta di Dio non sarebbe sufficiente per
render conto dell’eternità e della pienezza della comunione escatologica con Dio, come Teodoreto
di Ciro, Palamas ed altri suggerirono.
132
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30.

220
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

Ma si può domandare: la visione di Dio esclude la possibilità dell’azione


libera nella sfera creata? O i beati in cielo sono capaci di compiere scelte reali
riguardanti la loro vita quotidiana? Tommaso d’Aquino sembra negarlo. Per i
risorti in cielo, egli dice, «si può vedere che tutte le occupazioni della vita atti-
va cesseranno… Solo l’occupazione della vita contemplativa rimarrà»133. Autori
come Gregorio di Nissa, tuttavia, sembrano ritenere il contrario: l’uomo, mentre
contempla Dio, sarà in grado di scegliere liberamente entro l’ordine creato134.

5. L’aspetto sociale della vita eterna e il ruolo


della carità cristiana
Se la visione di Dio non esclude la libertà, ma la porta a pienezza, è logi-
co che l’atto supremo della libertà umana, che consiste nell’amore di Dio e del
prossimo, pure raggiungerà il suo culmine nel cielo.

Visione di Dio e carità.  Come abbiamo visto sopra, Paolo in 1 Cor 13 associa la
visione di Dio con la carità. Vedere Dio non equivale ad un tipo di contemplazio-
ne fredda, puramente intellettuale. Piuttosto, la visione è l’atto finale, supremo, di
carità. La fede sarà sostituita dalla visione (conoscenza), la speranza dalla presen-
za (gioia), ma la carità accompagnerà sempre la visione, perché «la carità non
avrà mai fine» (1 Cor 13,8). «La carità è immortale e non cambia essenzialmente
natura quando si trasforma nella gloria»135. La legge della carità, dice Sant’Ago-
stino, raggiungerà il suo compimento solo «in quella vita quando vedremo Dio
faccia a faccia»136. E Ugo di San Vittore († 1141) ha scritto che Dio in cielo «sarà
visto senza la fede, sarà amato senza avversione, verrà lodato senza fatica»137.
La controversia tra Tommaso d’Aquino e Bonaventura († 1274) sulla questio-
ne della priorità tra conoscenza e carità nella vita cristiana e nella vita eterna,
è degna di nota138. San Tommaso assume la classica massima agostiniana nihil
amatur nisi cognitum, “niente è amato o voluto se non è prima conosciuto”139.

133
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 83.
134
La vita è considerata uno scambio tra due agenti liberi, nessuno dei quali può disporre dell’altro.
Quindi, secondo Gregorio, la vita umana in piena libertà durerà per sempre: si veda G. Maspero,
La Trinità e l’uomo. L’Ad Ablabium di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2004.
135
F. Prat, La théologie de Saint Paul, vol. 2, Beauchesne, Paris 1930, 405.
136
Agostino, De spir. et litt. 36,64.
137
«Sine fide videbitur, sine fastidio amabitur, sine fatigatio laudabitur» Ugo di San Vittore, De
sacramentis II,18,20.
138
Si veda Tommaso d’Aquino S. Th. I-II, q. 3, a. 4; Bonaventura, In III Sent., D. 31, a. 3, q. 1.
139
Per esempio in Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 60, a. 1, s. c., da Agostino X de Trin.

221
Capitolo VI

Cioè, la conoscenza – e perciò la visione – viene prima dell’amore, rendendo


l’amore possibile. Il cielo consisterebbe anzitutto in un atto di conoscenza trami-
te la visione, da cui necessariamente sorge l’amore. San Bonaventura, al contra-
rio, insiste sulla priorità dell’amore sulla visione, della volontà sul conoscere140.
La vita eterna consiste anzitutto nell’amore di Dio riversato nel cuore dell’uomo,
portandolo a rispondere con un amore di corrispondenza. È un atto principal-
mente della volontà, superiore alla mera conoscenza. Anzi, è la fonte della cono-
scenza. La posizione di Bonaventura trova un riscontro nella famosa frase di
Blaise Pascal († 1662): «l’amore ha le sue ragioni che la ragione non conosce»141.
È chiaro che l’amore è reso possibile dalla conoscenza, ma è anche vero che
l’atto di conoscenza è stimolato e conservato dall’amore di ciò che è conosciuto.
È interessante notare che in ebraico i termini “amare” e “conoscere” sono effet-
tivamente equivalenti142. Forse non è del tutto necessario distinguere tra questi
due aspetti della vita eterna, in quanto chi è posseduto dall’uomo è Dio, in cui la
Verità e il Bene coincidono assolutamente, e alla cui Vita i beati partecipano. In
ogni caso, va tenuto presente che la vita eterna è anzitutto un dono divino che
produce nei cristiani una partecipazione alla vita della Trinità, cioè, medesimo
allo stesso tempo, produce la conoscenza e l’amore verso le Persone divine.

Il ruolo delle altre creature nella vita eterna.  Lungo la storia, la dottrina della
vita eterna è stata considerata principalmente nei termini della visione e dell’a-
more di Dio. Dio è Colui che rende possibile la vita eterna attraverso la grazia,
ed è l’oggetto diretto della visione. Infatti, gli uomini si muovono sempre nella
sfera di Dio, spesso senza conoscerlo, a volte anche ignorandolo di proposito.
Nel regno dei cieli questa ignoranza sarà impossibile, dal momento che Dio
riceverà necessariamente l’intera attenzione dell’uomo. Comprensibilmente,
autori spirituali a volte insistono nel dire che la prospettiva di vedere Dio e vive-
re in comunione con Lui per sempre dovrebbe muovere i credenti a tralasciare
consapevolmente le creature come distrazioni sulla loro strada per la perfetta
unione con Dio. Ad un livello oggettivo, tuttavia, questo non significa che la
conoscenza e la carità che uniscono i beati a Dio non li uniscano anche alle altre
creature, in particolare al “prossimo” con cui hanno condiviso il pellegrinaggio
terreno. Si tratta di un aspetto della dottrina della “comunione dei santi”143. In

140
Si veda Bonaventura, In III Sent., D. 31, a. 3, q. 1.
141
B. Pascal, Pensées (ed. Brunschvig), n. 277.
142
E. D. Schmitz. To Know, in NIDNTT 2, 392-406, in particolare 395.
143
Si veda il mio studio Comunión de los santos, in C. Izquierdo, J. Burggraf e F. M. Arocena (a

222
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

effetti, nella vita eterna gli uomini si uniscono non solo con Dio in Cristo, ma
anche con il resto dell’umanità e del creato. Questa idea è espressa nell’insegna-
mento del Vaticano II sulla vocazione escatologica della Chiesa intera144.
In modo specifico, la Gaudium et spes dice che la fede porta le persone a
«comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, col dare la
speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio»145. Se così accade
per la comunione con la Chiesa nel suo stato presente, molto più sarà così tra i
beati stessi nel cielo. Nel capitolo sulla Chiesa pellegrina, la Lumen gentium parla
infatti di tre stati nella Chiesa – pellegrina, purificante, celeste – e pone Cristo e
lo Spirito da lui mandato come base della loro unità. «Tutti… sebbene in grado e
modo diverso, comunichiamo nella stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo
al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti quelli che sono in Cristo, infatti, aven-
do il suo Spirito, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in lui»146. Il testo
continua: «a causa infatti della loro più intima unione con Cristo i beati rinsalda-
no tutta la Chiesa nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra
e in molteplici maniere contribuiscono a una sua più ampia edificazione»147.
Molti Padri della Chiesa e teologi ritengono che in cielo incontrere-
mo la pienezza del mistero della creazione. Agostino dice che «dovunque
volgeremo gli occhi vedremo Dio, la sua presenza diffusa dappertutto, il suo
governo anche dell’universo materiale, per mezzo dei corpi che avremo e che
scorgeremo»148. Gregorio Magno dice che nel contemplare Dio i beati vedran-
no tutte le cose149. E Ugo di San Vittore spiega che i beati vedranno tutto quel-
lo che accade nell’universo150.

La comunione tra i salvati nel regno dei cieli.  La comunione con gli eletti è una
parte essenziale della gioia del cielo. Questa dottrina è chiaramente presente,
seppure implicitamente, nella Scrittura, quando si parla del cielo in termini di
un sontuoso banchetto (Mt 22,1-14), con abbondanza di cibo (Mt 22,4), bevande
(Gv 2,1-11), e luce (Mt 22,13), un banchetto che Dio stesso ha preparato per la

cura di), Diccionario de Teología, Eunsa, Pamplona 2006, 142-6.


144
Si veda LG 48.
145
GS 18b.
146
LG 49.
147
Ibid.
148
Agostino, De Civ. Dei XXII, 29.
149
Secondo Gregorio Magno, nel contemplare Dio il giusto conosce tutte le cose: Mor. in Job 12 21,26.
150
Si veda Ugo di San Vittore, De sacramentis II, 18,16-20.

223
Capitolo VI

delizia degli eletti – anche servendoli al tavolo (Lc 12,37) – insistendo sul fatto
che essi devono parteciparvi (Mt 22,3-4.7-10)151.
Diversi Padri della Chiesa spiegano in effetti che la comunione tra gli eletti
è parte essenziale della gioia del cielo. San Cipriano scrisse ai fedeli in una occa-
sione nei seguenti termini: «che gloria, che piacere sarà quando sarete ammessi
a vedere Dio, quando sarete considerati degni dell’onore di gioire con Cristo,
vostro Signore e Dio, la gioia della salvezza e della luce eterna, la gioia di salutare
Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i Patriarchi, gli Apostoli, i profeti e i martiri, di
gioire con i giusti e gli amici di Dio nel regno dei cieli»152. Ed altrove: «là ci aspet-
ta la moltitudine di coloro che abbiamo amato, i nostri genitori, fratelli e sorelle,
figli, che sono certi della loro salvezza, ma premurosi per la nostra. Raggiungere
la loro presenza, il loro abbraccio, che grande gioia sarà per noi e per loro!»153
Gregorio di Nissa parla della beatitudine, della pienezza di gioia e felicità che i
giusti, come figli di Dio illuminati dal Sole della grazia divina, comunicano gli
uni gli altri154. Secondo Sant’Ambrogio († 397) un aspetto essenziale della vita
celeste è l’unione dei beati l’uno con l’altro nell’amore che li unisce, come testi-
moniato in molte orazioni funebri da lui tenute155.
Nella sua opera De Civitate Dei, Agostino descrive la vita eterna come «una
vita comune (societas) perfettamente ordinata ed armoniosa di coloro che godo-
no di Dio e del proprio simile in Dio»156. Ed altrove: «chi non desidera questa
città dove nessun amico se ne va e nessun nemico entra, dove nessuno ci mette
alla prova o ci disturba, nessuno divide il popolo di Dio, dove nessuno sfinisce la
Chiesa di Dio a servizio del diavolo?… Avremo Dio come nostra comune visio-
ne (spectaculum), avremo Dio come possesso comune, avremo Dio come pace
comune»157. Anche se ci saranno molte differenze tra i giusti, non ci sarà sconten-
to o invidia tra i cittadini del cielo158, poiché tutti godranno la pace che distingue
la città celeste. Inoltre, Agostino insegna frequentemente che i giusti godranno

151
Si veda P. Rouillard, Aspect communautaire de la béatitude, «Vie spirituelle» 44 (1962) 217-21.
152
Cipriano, Ep. 58,27.
153
Cipriano, De mort. 26. Per altri testi, si veda J. T. O’Connor, The Land of the Living, 264.
154
Si veda Gregorio di Nissa, De vita Moys. 2.
155
Si veda Ambrogio, De obitu Theodos. or., 29,32; De obitu Valentiniani consolatio, 71,77; De bono
mortis, 11.
156
Agostino, De Civ. Dei XIX, 13,17.
157
Agostino, Enn. in Ps. 84,10.
158
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30.

224
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

della compagnia degli angeli, la societas angelorum159. «Con gli angeli [i beati]
possederanno in comune la santa e dolce comunione della città di Dio»160.
Ugualmente San Beda il Venerabile († 735) dice che la beatitudine consi-
ste nella «gioia di una società fraterna»161. Tommaso d’Aquino, abbiamo visto,
sottolinea in modo particolare l’aspetto contemplativo della vita eterna, mentre
considera più sobriamente l’aspetto materiale dell’umanità risorta, dal momen-
to che il mangiare, il bere, il dormire, ecc. non avranno più scopo nei cieli162.
Il teologo Karl Adam († 1966), quando fa riferimento a coloro che sono
uniti nella carità, parla del “respiro dei beati”. E il filosofo Gabriel Marcel ha
parlato della presenza dei defunti come di una “volta palpitante” che circonda e
protegge l’intera creazione.

Amore di Dio e amore degli altri.  Gli autori di spiritualità cristiana hanno spes-
so affermato che amare Dio con un amore totale, radicale (“lasciando tutto”,
Mt 19,27), potrebbe essere, ma non è necessariamente, un ostacolo per amare le
altre persone, quando questo amore è correttamente ordinato. Potrebbe sembra-
re che se l’amore di Dio in cielo diventa una passione che consuma tutto, l’amore
per gli altri dovrebbe essere effettivamente eliminato o decisamente diminuito.
Questa visione antropomorfica dell’amore di Dio in termini competitivi non
tiene conto però del fatto che l’amore con cui amiamo Dio, si fonde con l’amore
per il prossimo, cioè la carità, che trova una duplice espressione: lodare e ringra-
ziare Dio e fare la sua volontà, da una parte, e dare incondizionatamente agli
altri quel che si è ricevuto da Dio per loro, dall’altra parte. Entro la dinamica
della carità, i cristiani prendono parte alla corrente dell’amore che è la medesima
vita della Trinità Beata, che Dio vuole comunicare all’umanità non solo diret-
tamente alla persona del credente, ma anche indirettamente attraverso le altre
persone. Quando amiamo gli altri, in qualche modo Dio li sta amando tramite
noi. «Per quanto tu ami, non amerai mai abbastanza», scrive San Josemaría. «Il
cuore umano ha un enorme coefficiente di dilatazione. Quando ama si allarga in
un crescendo di affetto che supera tutti gli ostacoli. Se tu ami il Signore, non ci
sarà creatura che non trovi spazio nel tuo cuore»163. Più si ama Dio, più si amerà
il prossimo, intensivamente ed estensivamente. Quando l’amore per Dio giunge

159
Agostino, Sermo 19, 5. Per testi simili, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 146s.
160
Agostino, De Civ. Dei XXII, 29.
161
Beda il Venerabile, De Tabernac. et vasis eius 2,13.
162
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 81, a. 4c.
163
San Josemaría Escrivá, Via crucis, 8,5.

225
Capitolo VI

a perfezione nella vita eterna, l’amore per gli altri crescerà non solo in intensità
ed estensione, ma forse, soprattutto, in costanza. L’amore tra gli uomini non
sarà più fluttuante e imprevedibile.
Tommaso d’Aquino dice che nella visione beatifica, si «vede Dio nella sua
essenza e le altre cose in Dio (et alia videt in Deo), proprio come Dio stesso,
conoscendo sé, conosce tutte le altre cose»164. Cioè, il beati contemplano non
solo Dio, ma anche gli altri, in Dio. Si può dedurre, perciò, che essi amano Dio,
e amano anche gli altri, in Dio. Il vero amore umano non sarà impedito o elimi-
nato dalla visione di Dio; sarà purificato, forse, ed intimamente connesso con
l’amore di Dio. Perciò l’amore di Dio includerà un amore vero e ordinato per la
Madonna, gli angeli e i santi, per tutti i salvati, in particolare coloro che ci sono
vicini, che sono stati nostro “prossimo”. San Josemaría scrive: «Dopo la morte
vi accoglierà l’Amore. E nell’amore di Dio ritroverete tutti gli amori limpidi che
avete avuto sulla terra»165.

6. Il ruolo del progresso, della temporalità e della resurrezione


nella vita eterna
È legittimo parlare di progresso e sviluppo umano nel regno dei cieli?
Sostanzialmente parlando, no, in quanto il premio del cielo, la vita eterna, è
stato ottenuto una volta per tutte, e non può essere perduto. Tuttavia, se è vero
che la vita dei beati è umana nel senso più completo del termine, non è impensa-
bile che gli uomini si arricchiscano sempre di più nella vita eterna. Sant’Ireneo
per esempio dice che in cielo il Figlio racconterà sempre nuove cose sul Padre166.
E Gregorio di Nissa ritiene che la vita eterna implicherà una crescita infinita167.
San Bernardo († 1153) era della stessa opinione168.

Tempo ed eternità.  Si potrebbe tuttavia chiedere che significato abbia parlare


del tempo o della successione entro le categorie della vita eterna, dal momento
che, se la vita è eterna, allora è senza tempo. Se è senza tempo, allora non ci sarà

164
«Hominis autem Christi est duplex cognitio. Una quidem deiformis, secundum quod Deum
per essentiam videt, et alia videt in Deo, sicut et ipse Deus intelligendo seipsum, intelligit omnia
alia, per quam visionem et ipse Deus beatus est, et omnis creatura rationalis perfecte Deo fruens»
Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., n. 216.
165
San Josemaría Escrivá, Amici di Dio, Ares, Milano 1982, n. 221b.
166
Si veda Ireneo, Adv. Haer. IV, 20,5-7; II, 28,3.
167
Si veda Gregorio di Nissa, In cant. Hom. 9; su questo testo, si veda H. U. von Balthasar, Présence
et pensée. Essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, Beauchesne, Paris 1942, 67-80.
168
Si veda Bernardo, Tractatus de vita sol.; Ep. 253.

226
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

cambiamento, né progresso169. Allora, e come possono gli uomini che parte-


cipano dell’eternità di Dio rimanere nel tempo? Chiaramente, si tratta di una
questione complessa, ma importante… come la pone un autore, «il rapporto tra
tempo ed eternità costituisce un problema chiave per l’escatologia»170.
È chiaro che i beati non fanno esperienza della perfetta unione di passato,
presente e futuro che caratterizza l’eternità di Dio, dal momento che si tratta di
creature le cui azioni hanno luogo necessariamente una dopo l’altra, in succes-
sione, perché ciascuna azione è incapace di esprimere l’interezza del proprio
essere. Al contempo, essi partecipano all’eternità di Dio, e non fanno esperienza
del tempo come si fa in terra. Il tempo terreno è la caratteristica dello stato del
pellegrino: si tratta di uno spazio di crescita e conversione, l’opportunità che
Dio dà per dimostrare la propria fedeltà ed amore. In questo senso il tempo
come opportunità non si troverà più in cielo171. Ma siccome gli uomini rimar-
ranno sempre creature, le loro azioni saranno molteplici e non-coincidenti,
perpetuamente susseguentisi le une alle altre. La loro vita non sarà assorbita, per
così dire, in Dio, ma sarà caratterizzata sempre da una qualche forma di succes-
sione172, simile forse all’aevum che segna l’esistenza angelica173. Si potrebbe dire
che come creature i beati in cielo partecipano «dell’eternità come un posses-
so interiore della totalità di vita», per usare un’espressione di Karl Barth174. Un
altro autore recente sostiene che «se la vita ora ha significato perché il nostro
tempo è colmo dell’attività di Dio, sembra che non ci siano ragioni perché un
processo temporale dopo la morte non possa acquisire una simile o più grande
significatività perché il medesimo Dio è lì attivo»175.

169
In SS 12, Papa Benedetto XVI dice che la vita eterna è «come immergersi in un oceano di
infinito amore, un momento in cui il tempo – il prima e il dopo – non esistono più».
170
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 623.
171
Secondo l’Aquinate, non c’è successione in cielo: III C. Gent., 61. La medesima idea è espressa
da M.-J. Scheeben, I misteri del cristianesimo, 664.
172
Pannenberg lo dice così: «La finitudine degli esseri che hanno conseguito il proprio
compimento… non presenta più la forma di una successione di momenti temporali tra loro
separati, ma piuttosto la nostra esistenza terrena nella sua interezza» Teologia sistematica, vol. 3,
588.
173
Parlando dell’aevum, l’Aquinate dice: «aevum differt a tempore et ab aeternitate… Aeternitas
non habet prius et posterius; tempus autem habet prius et posterius cum innovatione et veteratione;
aevum habet prius et posterius sine innovatione et veteratione… Aevum habet principium, sed
non finem» S. Th. I, q. 10, a. 5c.
174
K. Barth, Kirchliche Dogmatik II/1, Evangelischer Verlag; Zollikon, Zürich 1940, 688s. Barth si
è spostato da una opposizione dualistica tra eternità e tempo, verso una visione più vicina a quella
di Boezio, e, in fondo, di Plotino.
175
R. F. Aldwinckle, Death in the Secular City, W. B. Eerdmans, Grand Rapids 1974, 160. Secondo

227
Capitolo VI

Resurrezione e vita eterna.  La resurrezione finale non coincide con la vita eterna,
non solo perché questa realmente ha inizio sulla terra tramite la fede176, ma anche
perché – secondo una unanime ed antica tradizione cristiana – i martiri e coloro
che sono stati perfettamente purificati saranno in grado di vedere Dio prima che
la resurrezione abbia luogo177. Tuttavia, non si può dire che il soggetto umano sia
perfettamente costituito in quanto umano in assenza del complemento corporale
che la resurrezione fornisce178. Quindi, sebbene distinguibili l’una dall’altra, il
Simbolo cristiano ha sempre associato la vita eterna e la resurrezione dei morti.
Gesù stesso promise che «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita
eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). Solo quando la resurrezio-
ne ha luogo, quando la società e corporalità umana è completamente ricostituita,
quando la sovranità di Dio è definitivamente manifestata, allora si può dire che la
vita eterna ha raggiunto il suo culmine e il suo scopo finale. Ecco perché, prima
della resurrezione dei morti, l’anima beata «è attraversata dal desiderio che la sua
stessa fruizione di Dio si riversi e ridondi anche sul corpo»179.
Come abbiamo già visto, Gregorio di Nissa parla della vita eterna come di
un processo di graduale assimilazione a Dio, che inizia con la morte e culmi-
na quando Dio sarà “tutto in tutti”180. Alla resurrezione, egli dice, gli uomini,
liberi dall’invecchiamento e dalla decadenza, saranno consumati da un sempre
crescente desiderio di Dio, che trascende i loro stessi limiti costantemente in una
«meravigliosa passione di insaziabilità»181. «Questo è realmente quel che significa
vedere Dio» conclude Gregorio, «non esser mai sazi nel proprio desiderio; guar-
dare sempre verso ciò cui è possibile, muovendo verso il desiderio di vedere di
più, ed essere ulteriormente infiammati»182. Giovanni Crisostomo dice che anche
Abramo e Paolo «stanno aspettando che tu abbia raggiunto il compimento, per
poter poi ricevere la loro ricompensa. Infatti a meno che anche noi siamo presenti,
il Salvatore ha detto che non la darà loro, proprio come un padre buono e gentile

Ruiz de la Peña, la visione dinamica della vita eterna è attualmente una posizione maggioritaria:
La pascua de la creación, 216, nota 58.
176
Si veda le pp. 196s.
177
Si veda la p. 336 e nota 140.
178
Si veda M. Brown, Aquinas on the Resurrection of the Body.
179
Tommaso d’Aquino, S.Th. I-II, q. 4, a. 5 ad 4.
180
Si veda G. Filoramo, L’escatologia e la retribuzione negli scritti dei Padri, 272.
181
Gregorio di Nissa, De mortuis or.
182
Gregorio di Nissa, Vita Moys. 2,239.

228
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

potrebbe dire a suo figlio, che ha lavorato duramente e servito bene, che non gli
darà nulla da mangiare finché non arriveranno i suoi fratelli e le sue sorelle»183.
Agostino dice: «Quando la resurrezione avrà luogo, allora la gioia dei buoni
sarà più grande, e i tormenti dei malvagi peggiori, dal momento che saranno
torturati [o ricompensati] insieme ai loro corpi»184. Nell’interim tra la morte e
la resurrezione, egli nota, si verifica solo «una piccola parte della promessa»185.
«Infatti il giorno della ricompensa verrà quando i nostri corpi ci saranno resti-
tuiti e l’uomo intero riceverà quel che ha meritato»186. Nella Liturgia pasqua-
le del Breviario Romano si proclama questa preghiera: «colma la speranza dei
defunti, così che possano ottenere la resurrezione nella venuta di Cristo»187.

7. Riflessioni conclusive: la vita eterna come comunione


con la Trinità
Quando abbiamo considerato sopra la questione della visione beatifica,
ci siamo imbattuti nella possibilità e nel pericolo di porre una presenza quasi-
sostanziale di Dio in colui che lo contempla direttamente, «senza che ci sia, in
ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura»188. Abbiamo visto
anche che la caratteristica specifica della salvezza cristiana sta nel fatto che
l’unione divinizzante con Dio richiede, come complemento interiore, la distin-
zione personale dell’uomo dalla Divinità. Se non si mantenesse questa distin-
zione, l’esito sarebbe il panteismo, di tipo ontologico oppure esistenzialistico.
In quest’ultima sezione considereremo due questioni correlate che chiariscono
la problematica: i cosiddetti “gradi” e la relativa infinità della vita eterna dei
cristiani, e il ruolo mediatore di Cristo e dello Spirito nella vita eterna.

I gradi e la relativa infinità della vita eterna.  Il dono della divinizzazione fornisce
ai credenti una dignità quasi divina. Diventando figli di Dio i cristiani ricevono
l’eredità eterna, per entrare nella casa del Padre e lodarlo per sempre. Tuttavia,
questo non significa che la partecipazione alla vita divina implichi una completa
identificazione con Dio, perché gli uomini sono divinizzati, certo, ma non diven-

183
Giovanni Crisostomo, In Hebr. Hom. 28,1.
184
Agostino, In Io. Ev. tr. 49,10.
185
Agostino, Sermo 280, 5.
186
Ibid.
187
«Spem defunctorum adimple, ut in adventu Christi resurrectionem assequantur» Preces, ad II
Vesp., Fer. VI, Haeb. VII Paschae. Si veda anche Bernardo, Sermo 3, sul banchetto di tutti i santi.
188
DS 1000.

229
Capitolo VI

tano della stessa sostanza della Divinità189. L’intelletto umano, sebbene diretta-
mente unito a Dio, è incapace di abbracciare l’infinitamente ricca perfezione di
Dio senza perdere se stesso. Come dice il libro dell’Esodo: «ma tu non potrai
vedere il mio volto; perché nessuno può vedermi e restare vivo» (33,20). La Scola-
stica descrive questo aspetto dell’unione con Dio dicendo che i beati potranno
vedere Dio totus sed non totaliter190; essi vedono “tutto” di Dio, in quanto Dio
non può esser visto in parte a causa della sua semplicità; tuttavia, la profondità
della loro conoscenza dipende dalla loro personale capacità e situazione. In altre
parole i limiti della conoscenza (e amore) dei beati non deriva da Dio, ma da loro
stessi. Si potrebbe dire che in cielo Dio dà alle persone tutto l’amore e la cono-
scenza che sono in grado di ricevere. In altre parole, ci sono gradi in cielo.
Che nel cielo si danno ricompense differenti per persone differenti è comu-
ne tra i Padri della Chiesa. Secondo San Cipriano, più il martire o il confesso-
re soffre, «più alta sarà la sua corona»191. Coloro che si consacrano a Dio nella
verginità, egli dice, riceveranno una “doppia gloria”, il centuplo192.
Il Concilio di Firenze (1439) insegna chiaramente che l’intensità della
visione dipende dai meriti di ciascuno; i beati vedranno «chiaramente Dio stes-
so, uno e trino, come Egli è, ma alcune in modo più perfetto di altre, a seconda
della diversità dei meriti»193. Come bottiglie piene di vino, ciascun’anima verrà
riempita fino all’orlo, anche se ciascuna bottiglia può essere di misura molto
diversa dalle altre194. E Giacomo Biffi: «Ciascuno dei beati avrà una bellezza
propria, espressione non solo del grado d’amore di Dio che ciascuno abbia, ma
anche del modo diverso in cui ha amato durante la propria vita»195.
L’idea che ci siano diversi gradi nella vita eterna e nella visione beatifica venne
messa in dubbio da Lutero, che affermava che siccome la salvezza dipende solo
dalla grazia di Dio e non dalle opere umane, ciascuno riceverà semplicemente quel
che Dio gli dà. Gli uomini possono rifiutare il dono della vita eterna, ma qualsiasi
diversità ci possa essere tra i beati dipende interamente dalla grazia di Dio196.

189
Si veda Tommaso d’Aquino, De Ver., q. 8, a. 2 ad 3; III C. Gent., 55; S. Th. I, q. 12, a. 7.
190
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 2, a. 7 ad 3; q. 12, a. 7 ad 3.
191
Cipriano, Ep. 37,3.
192
Cipriano, Ep. 76,6.
193
DS 1305.
194
Questa spiegazione si trova nel Catechismo della Conferenza Episcopale Tedesca: Deutsche
Bischofskonferenz, Katholischer Erwachsenen-Katechismus: das Glaubensbekenntnis der Kirche,
Butzon und Bercker, Kevelaer 19852, vol. 2, 421s. Si veda anche Teresa d’Avila, Libro de la vida, 37,2.
195
G. Biffi, L’al di là, Paoline, Roma 1960, 76.
196
Sui gradi di gloria nella teologia protestante, si veda E. Disley, Degrees of Glory. Protestant
Doctrine and the Concept of Rewards Hereafter, «Journal of Theological Studies» 42 (1991) 77-105.

230
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

San Paolo considera la ricompensa eterna in relazione alla fedeltà e la dedi-


zione personale. «Ora mi resta solo la corona di giustizia», egli dice, «che il Signo-
re, Giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti
coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (2 Tm 4,8). Senza
dubbio, l’Apostolo dà priorità al dono di Dio, ma lo sforzo e la corrispondenza del
credente non è affatto esclusa: «né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo
Dio che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno
riceverà la propria ricompensa secondo il suo lavoro» (1 Cor 3,7s.). Altrove Paolo
si esprime figurativamente sulla varietà dei doni di Dio: «altro è lo splendore
del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle. Ogni stella
infatti differisce dall’altra nello splendore» (1 Cor 15,41). Nel vangelo di Giovan-
ni, Gesù ci dice che «nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2).
Tuttavia, nella parabola degli operai della pubblica piazza (Mt 20,1-16), Gesù
sembra insegnare che la paga data sarà uguale per tutti, a dispetto della differenza
nello sforzo e nel numero di ore lavorate da ciascuno. Comprendendo la parabola
in un senso escatologico, sembrerebbe che la ricompensa eterna sia la stessa per
ciascun lavoratore, non importa quanto egli abbia lavorato rispondendo al dono di
Dio197. Questo sembrerebbe dare appoggio la posizione di Lutero. Tuttavia, i Padri
della Chiesa hanno interpretato la parabola in molti modi differenti198. Tommaso
d’Aquino la spiega come segue. «L’unicità della paga indica la situazione simile
tra i beati nei confronti dell’oggetto [Dio]. Ma la diversità dei luoghi [Gv 14,2] fa
riferimento alla diversità di beatitudine secondo i differenti gradi di gioia»199. Il
dono è sostanzialmente il medesimo, ma la qualità di ricezione può variare molto.
L’Aquinate specifica che «colui che ha più carità parteciperà di più alla luce della
gloria; colui che ama di più vedrà Dio più perfettamente e sarà più beato»200.
Tuttavia, San Tommaso insegna anche che il grado della gloria dipende
fondamentalmente dalla grazia di Dio, perché la risposta umana alla grazia è
essa stessa frutto di grazia201.

197
Si veda D. A. Hagner, Matthew, 573s.
198
Si veda Gregorio di Nazianzeno, Or. 40,20; Gregorio Magno, Hom. in Ev., 10.
199
«Unitas denarii significat unitatem beatitudinis ex parte obiecti. Sed diversitas mansionum
significat diversitatem beatitudinis secundum diversum gradum fruitionis» Tommaso d’Aquino,
S. Th. I-II, q. 5, a. 2 ad 1.
200
«Plus autem participabit de lumine gloriae, qui plus habet de caritate, quia ubi est maior caritas,
ibi est maius desiderium; et desiderium quodammodo facit desiderantem aptum et paratum ad
susceptionem desiderati. Unde qui plus habebit de caritate, perfectius Deum videbit, et beatior
erit» Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 12, a. 6c.
201
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 112, a. 4c.

231
Capitolo VI

Il ruolo di Cristo nella vita eterna.  Questo capitolo è intitolato “Vita eterna nella
gloria di Cristo”. Il cielo è, infatti, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica,
«la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in Cristo»202.
È chiaro dalla Scrittura che la situazione dei beati (tanto quanto quella dei condan-
nati) dipende direttamente dalla persona e dall’azione salvifica del Signore risorto.
«Venite, benedetti dal Padre mio», dice Cristo ai giusti (Mt 25,34). E ai reprobi:
«Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41). E al ladrone pentito
sulla Croce: «in verità io ti dico: oggi con me sarai in paradiso» (Lc 23,43).
Era comprensibile l’invocazione del diacono Stefano a Gesù, proprio
prima della morte, «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (At 7,59). Saulo – poi
San Paolo – era tra coloro che testimoniarono e permisero la sua morte (At 8,1).
Paolo espresse il proprio riconoscimento per il mistero e la presenza di Cristo
nel morire, e nella «vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 6,23) nei
seguenti termini: «sono stretto infatti tra queste due cose. Ho il desiderio di
lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio. Ma per voi
è più necessario che io rimanga nel corpo» (Fil 1,23s.). Ai Filippesi ha confida-
to anche: «Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua
ricchezza con magnificenza, in Gesù Cristo» (Fil 4,19).
Perciò, essere con Dio nella vita eterna significa essere con Cristo. La dottri-
na è chiaramente enunciata nel vangelo di Giovanni. «Nella casa del Padre mio
vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò
con me, perché dove vado io siate anche voi» (Gv 14,2-3). Dopo che l’aposto-
lo Tommaso gli ha chiesto «come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5), Gesù
riassume la sua identità nei seguenti termini: «Io sono la via, la verità e la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).
Possiamo chiedere, tuttavia, che cosa implichi questa presenza di Cristo nella
vita eterna. Egli semplicemente accompagna i credenti in cielo, come fanno i santi e
gli angeli, o effettivamente unisce i beati con il Padre? Cioè: il suo ruolo è meramen-
te esistenziale o è anche teologico, è decorativo oppure metafisico? La chiarezza dei
testi del Nuovo Testamento appena citati sembrano suggerire la seconda posizione.
Eppure potremmo porre un interrogativo ulteriore: una volta che Gesù abbia unito
i credenti con Dio, il suo compito è terminato, o egli darà perpetua continuità a
questa unione? Come abbiamo visto prima, la visione di Dio in cielo è una visio-
ne diretta, «senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna

202
CCC 1026.

232
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

creatura»203. Così sembra che una volta che Cristo abbia stabilito la comunione dei
salvati con il Padre, una volta che ci abbia redento dai nostri peccati, il suo compito
sia finito, dal momento che le creature vedono Dio “faccia a faccia”. La questione,
tuttavia, è un po’ più complessa. Si possono fare tre osservazioni.
Prima, Cristo è l’unico mediatore della salvezza cristiana204, di cui la vita
eterna è una parte integrale. «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno
conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio
e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27). Seguendo l’immagine del
banchetto celeste, Cristo non solo invita, ammette e accompagna gli invitati, ma
li serve anche al tavolo (Lc 12,37; Mt 20,28).
In secondo luogo, è giusto considerare eterna la mediazione di Cristo205. In
contrasto con il sacerdozio levitico, Cristo, «poiché resta per sempre, possiede
un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per
mezzo di Lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro
favore» (Eb 7,24s.). Il medesimo principio si trova nel Credo della Chiesa: «il suo
regno non avrà mai fine»206. Al Concilio di Costantinopoli (381) questa formula
fu aggiunta al Credo di Nicea (325) per evitare la posizione di alcuni autori che
ritenevano che l’Incarnazione del Verbo sarebbe giunta al termine alla fine dei
tempi207, nello stesso momento in cui l’opera di “redenzione” (cioè il perdono dei
peccati in senso stretto, e la liberazione dalla schiavitù del peccato) fosse compiu-
ta, cioè una volta che Cristo consegnasse il regno al Padre suo (1 Cor 15,28).
Terza osservazione: la permanenza del sacerdozio di Cristo è direttamente
collegata con la gloria eterna dei santi. Tommaso d’Aquino fa notare due punti
interessanti al rispetto. Primo, la ragione fondamentale perché si dice che Cristo
abbia avuto la visione immediata di Dio sulla terra è perché alla fine egli l’avreb-
be comunicata ai salvati208. Secondo, l’Aquinate ritiene che la gloria dei salva-

203
DS 1000.
204
Si veda Gv 14,6; 1 Tm 2,5.
205
Si veda lo studio di J. Alfaro, Cristo glorioso, Revelador del Padre, «Gregorianum» 39 (1958)
222-70.
206
Credo di Nicea-Constantinopoli, DS 150.
207
L’idea è ispirata da Origene e si trova qualche traccia negli scritti di Marcello di Ancira e Evagrio
Pontico, come in alcuni autori protestanti che seguono Calvino. Per una buona visione d’insieme,
si veda J. F. Jansen, I Cor 15,24-28 and the Future of Jesus Christ, «Scottish Journal of Theology»
40 (1987) 543-70.
208
Sulla visione beatifica terrena di Cristo, si vedano i recenti studi di R. Wielockx, Incarnation
et vision béatifique. Aperçus théologiques, «Revue des sciences philosophiques et théologiques»
86 (2002) 601-39; T. J. White, The Voluntary Action of the Earthly Christ and the Necessity of the
Beatific Vision, «Thomist» 69 (2005) 497-534; M. Hauke, La visione beatifica di Cristo durante la

233
Capitolo VI

ti dipenda da Cristo. Commentando il testo della lettera agli Ebrei citato sopra
(“egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore”), l’Aquinate scrive: «i
santi in cielo non avranno bisogno di espiazione per i loro peccati, infatti, una
volta che siano stati espiati, devono essere consumati da Cristo stesso, da cui
dipende la loro gloria (a quo gloria eorum dependet)»209. È chiaro che l’umanità
di Cristo non è in quanto tale l’oggetto primario della visione beatifica. Se lo
fosse, non ci sarebbe più una diretta visione del Padre. Tuttavia, nell’ordine di ciò
che l’Aquinate chiama il medium sub quo della conoscenza (che non determina
il contenuto della conoscenza ma la rende possibile)210, o che altrove chiama la
vim cognoscendi211, “il potere di conoscere”, è ragionevole supporre che l’azione
strumentale dell’umanità di Cristo sia in qualche modo implicata non solo nella
ricezione ma anche nel mantenimento della visione perpetua di Dio212.

Vedere e glorificare il Padre e il Figlio nello Spirito Santo.  Sopra abbiamo consi-
derato il testo della prima lettera di Giovanni che parla della visione beatifica.
«Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora
rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a
lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2). Da un punto di vista esegetico,
non è completamente chiaro dal testo quale si intenda essere l’oggetto della visio-
ne, se Dio o Cristo. Dato che Dio è il soggetto della frase, Dio, semplicemente,
dovrebbe essere l’oggetto della visione. Questa è l’interpretazione più comune e
tradizionale213, che il Concilio Vaticano II e gli ultimi documenti liturgici hanno
adottato214. Tuttavia, l’uso del termine “manifestato” (phanerōthe: “quando egli

Passione. La dottrina di San Tommaso d’Aquino e la teologia contemporanea, «Annales Theologici»


21 (2007) 381-98.
209
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 22, a. 5 ad 1.
210
Si veda Tommaso d’Aquino, In IV Sent., D. 49, q. 2, a. 1 ad 15, e S. Th. I, q. 12, a. 5 ad 2.
211
Si veda Tommaso d’Aquino, In IV Sent., D. 49, q. 2, a. 1 ad 15.
212
Si veda J. A. Riestra, Cristo y la plenitud del cuerpo místico, Eunsa, Pamplona 1985, 170-6.
213
Così Agostino, In Io. Ev. Tr. 4; De Civ. Dei XXII, 29,1; Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 12, a. 5
c. La medesima idea si può trovare in C. Spicq, Agapé dans le Nouveau Testament, vol. 2, Lecoffre,
Paris 1959, 101, nota 3. Spicq conclude che «Dio in persona è l’oggetto della visione» ibid.
214
In LG 48d, leggiamo: «… non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (si veda Col 3,4) nella
quale saremo come Dio, infatti lo vedremo come egli è (si veda 1 Jn 3,2)». Nel documento del 1979
della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’escatologia, Recentiores espiscoporum Synodi,
leggiamo: «saremo con Cristo e “vedremo Dio” (si veda 1 Jn 3,2)» in Enchiridion Vaticanum, 6, n.
1545. Verso la fine della III Preghiera Eucaristica, il testo di Giovanni è parafrasato come segue:
«Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo
mondo; concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere della tua gloria, quando, asciugata ogni
lacrima, i nostri occhi vedranno il tuo volto e noi saremo simili a te e canteremo per sempre la tua
lode, in Cristo nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene».

234
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

sarà manifestato”), sembrerebbe indicare che il soggetto della frase sia Cristo. In
effetti, alla Parousia chi apparirà e sarà manifestato è il Cristo215, non il Padre.
Invece di parlare della visione di Dio, perciò, si dovrebbe capire che il testo si
riferisca alla nostra visione di Cristo.
Alternativamente, si potrebbe dire che la visione di Dio dovrebbe di fatto
escludere Cristo, perché, come abbiamo letto in 1 Cor 15,28, alla fine dei tempi
Cristo consegnerà il Regno al Padre, e Dio sarà “tutto in tutti”. Così sembrereb-
be che si possano applicare due possibili letture: la visione escatologica è diretta
o a Cristo o al Padre.
Forse non c’è alcun reale bisogno di mettere in contrasto le due letture.
Dopo tutto, vedere Cristo «come Egli è» (auton kathōs estin: 1 Gv 3,2) significa
percepire la sua divinità, che è sempre consustanziale ed inseparabile da quel-
la del Padre. Il testo, in altre parole, può semplicemente indicare che vedere
Dio significa vedere il Padre e il Figlio nella loro distinzione e reciproco amore.
Durante l’Ultima Cena, Filippo chiede a Gesù, «“Signore, mostraci il Padre, e
ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai cono-
sciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre… Non credi che io sono nel
Padre e il Padre è in me?”» (Gv 14,8-10). Più tardi, durante la preghiera sacerdo-
tale, Gesù dice: «E questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e
colui che hai mandato, Gesù Cristo… E ora, Padre, glorificami davanti a te con
quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse… Padre, voglio
che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contem-
plino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della
creazione del mondo» (Gv 17,3.5.24). Nel vedere Cristo così come egli è, come
l’unigenito Verbo-Figlio del Padre, i beati vedranno ipso facto il Padre216. Inol-
tre, per quanto riguarda il Figlio che consegna il Regno al Padre (1 Cor 15,28),
Ilario di Poitiers commenta: «egli consegnerà il Regno al Padre, non nel senso

215
1 Gv 2,28 e 1 Gv 3,5, immediatamente prima e dopo il testo che abbiamo considerato, entrambi
applicano a Cristo il termine “manifestato”. Sul termine phanerōthe, si veda BDAG, 1048, s.v.
φανερόω.
216
Si veda A. Fernández, La escatología en el siglo II, Aldecoa, Burgos 1979, 271ss.; R. Winling,
Une façon de dire le salut: la formule “être avec Dieu – être avec Jésus Christ” dans les écrits de l’ère
dite des Pères Apostoliques, «Revue des sciences religieuses» 54 (1980) 97-108. Secondo Ireneo,
«Dio sarà visto nel regno dei cieli; il Figlio ci porterà al Padre» Adv. Haer IV, 20,5. Origene dice:
«Allora, si vedrà il Padre e le cose del Padre da sé, come fa il Figlio, non più solamente riconoscendo
nell’immagine la realtà di colui di cui è l’immagine. E penso che questo sarà la fine, quando il Figlio
consegno il regno di Dio al Padre suo, e quando Dio diventerà tutto in tutti» Comm. in Io., 20,7,47s.

235
Capitolo VI

che rassegnerà il suo potere nella consegna, ma che noi, diventati conformi alla
gloria del suo corpo, formeremo il Regno di Dio»217.
Seguendo la spinta di base del Nuovo Testamento è chiaro che Cristo è
colui che rivela il Padre (Gv 1,18 ecc.). E dato che la nostra unione con Cristo è
il frutto della grazia, della donazione di sé di Dio, è chiaro anche che la nostra
conoscenza del Figlio, e del Padre nel Figlio, ha luogo nello Spirito Santo, «che
interiorizza nei cristiani la conoscenza del mistero di Cristo»218. Come abbiamo
visto sopra, lo Spirito non è solo Colui che comunica la grazia di Dio, ma anche
colui che perennemente ricorda ai credenti il carattere donato di tale grazia219.
Lo Spirito Santo è «Colui che esprime ipostaticamente entro la Trinità la traboc-
cante e incondizionata donazione reciproca del Padre e del Figlio che costituisce
la vita della Trinità». Lo Spirito rende «presente nel credente la pienezza della
relazione tra il Padre e il Figlio, che è percepita come una presenza ineffabile di
vita divina nella perpetua modalità di donazione»220.
Pannenberg parla dell’opera dello Spirito come del raggiungimento nelle
creature della glorificazione e lode di Dio. «Nell’idea di glorificazione il riferi-
mento a Dio Padre consente una saldatura tra la vita nuova della resurrezione
e il momento del giudizio implicito nella trasformazione di questa vita terrena:
a lode di Dio. Glorificazione di Dio in questo senso ampio è appunto l’opera
propria ed ultima dello Spirito, il quale è anche il creatore della vita, la fonte di
ogni conoscenza, ma anche della fede, speranza e carità. Ed allora egli è anche lo
Spirito della libertà e della pace, della vita pienamente realizzata, quando, come
già prefigurato nella comunità ecclesiale, le creature vivranno riconoscendosi le
une le altre. In tutto questo l’attività dello Spirito è già orientata verso la glori-
ficazione di Dio nel creato, per affermarsi poi in modo travolgente nell’attività
escatologica, quella che ricapitolerà e trasformerà tutte le cose»221.
Parlando dello Spirito Santo, Louis Bouyer († 2004) ugualmente scrive
che «quanto più i contemplativi, gli amici di Dio, hanno potuto personalmente
sperimentare “quant’è buono il Signore”, tanto più hanno affermato senz’ombra
di dubbio che colui che essi hanno conosciuto resterà sconosciuto fino al gior-
no definitivo, fino al giorno della Parousia, nel quale finalmente conosceremo

217
Ilario di Poitiers, De Trin. 11,39. Sulla dottrina di Ilario, si veda M.-J. Rondeau, Remarques sur
l’anthropologie de saint Hilaire, «Studia patristica» 6 (1962) 197-210.
218
M.-J. Le Guillou, Le développement de la doctrine sur l’Esprit Saint, 734.
219
Si vedano le pp. 56s.
220
CAA 291.
221
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 651s. Egli spiega che nel Nuovo Testamento, lo
Spirito e la gloria di Dio sono la stessa cosa: si veda ibid., 652.

236
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo

come siamo stati conosciuti fin dall’eternità. Ma è anche vero, come doveva dire
san Gregorio di Nissa, che mai noi saremo capaci di assorbire, di interiorizza-
re completamente questa conoscenza: è essa, al contrario, che ci assorbirà, che
attraverso superamenti senza fine ci immergerà in un abisso di luce, del quale
solo allora e sempre di più conosceremo fino a che punto sia insondabile»222.

222
L. Bouyer, Il Consolatore. Spirito Santo e vita della grazia, Paoline, Roma 1983, 464s.

237
Capitolo VII

INFERNO: IL CASTIGO PERPETUO DEI PECCATORI

L’inferno è non amare più


Georges Bernanos1

Che i peccatori impenitenti saranno condannati per sempre è un elemento


non-negoziabile del patrimonio dottrinale cristiano. Questo non vuol dire che
i cristiani “credono” nell’inferno in quanto tale. Ancor meno sono obbligati a
credere che alcuni particolari individui siano stati o saranno condannati. O che
una certa percentuale dei credenti hanno perso, o perderanno, la vita eterna per
sempre. Piuttosto essi credono in un Dio che ha creato gli uomini in modo tale
che essi siano capaci di perdere liberamente il premio della comunione da Lui
promesso a coloro che sono fedeli, e che lo facciano in piena consapevolezza, in
modo responsabile ed irrevocabile, così che la loro alienazione da Dio diventi
insuperabile. L’accettazione della dottrina della punizione eterna (comunemen-
te chiamata “inferno”) ha importanti implicazioni antropologiche, e ancor più
importanti teologiche. Implicazioni antropologiche, perché gli uomini saranno
colpevoli della propria perdizione; teologiche, perché la perdizione eterna non è
niente meno che la perdita di Dio, del Dio che ha creato tutti gli uomini con la
capacità di accogliere oppure rifiutare un amore che Egli non ha voluto impor-
re su di essi. Paradossalmente, l’esistenza dell’inferno – o, più precisamente, la
reale possibilità della punizione eterna o “morte eterna”2 – è basata su due delle
più sublimi e liberanti verità della fede cristiana: che Dio è un Dio fedele, che
ama, e che gli uomini sono veramente liberi.
La Chiesa ha costantemente insegnato questa dottrina lungo la sua storia3.
Per quanto riguarda le recenti dichiarazioni della Chiesa, possono essere suffi-

1
G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, A. Mondadori, Milano 1965, 158.
2
Sulle questioni terminologiche, si veda J. J. Alviar, Escatología, 245s.
3
Il Simbolo Quicumque professa che «coloro che fanno il bene andranno alla vita eterna; coloro
che fanno il male, al fuoco eterno» DS 76. Il Papa Vigilio al Sinodo di Costantinopoli (543) ha

239
Capitolo VII

cienti le seguenti tratte dal Concilio Vaticano II e dal Catechismo della Chiesa
Cattolica. La Lumen gentium parla della vigilanza che i cristiani dovrebbero
avere, «affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui
[il Signore] di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati, né ci
si comandi, come a servi cattivi e pigri (Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (Mt
25,41), nelle tenebre esterne dove “ci sarà pianto e stridore di denti” (Mt 22,23
e 25,30)»4. E nel Catechismo leggiamo: «La Chiesa nel suo insegnamento affer-
ma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono
in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli
inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, “il fuoco eterno”»5.
In questo capitolo sulla punizione eterna considereremo le seguenti cinque
questioni: lo sviluppo della dottrina della condanna eterna nella Scrittura e nei
Padri della Chiesa; la natura dell’inferno da un punto di vista teologico; la sua
relazione con la giustizia e la misericordia divina; quanto sia reale la possibilità
di essere condannati; e la questione della speranza nella salvezza universale.

1. La condanna perpetua nella Scrittura e nei Padri


La nozione di una qualche forma di castigo dopo la morte è stata accettata
generalmente da molte, se non dalla maggior parte, delle visioni religiose con
cui il popolo di Israele ha avuto contatto6. Ciò non ci sorprende, dato il perenne
desiderio umano sia per l’immortalità che per la giustizia. L’uomo non è mai
stato capace di vivere con il pensiero che i gravi delitti rimanessero impuniti. Il
consolidamento della dottrina dell’inferno è la naturale conseguenza di questo
desiderio di giustizia: gli uomini devono pagare, prima o dopo la morte, per il
loro crimini, a meno che siano pronti a riparare e a fare ammenda.

condannato la posizione di Origene rispetto al carattere temporaneo della punizione: DS 411.


Papa Innocenzo II nella sua Professione di fede al Concilio Laterano IV (1215) ha proclamato
l’eternità della condanna: DS 801. Egli ha anche insegnato che «la punizione per il peccato originale
è l’esclusione dalla visione di Dio, mentre quella per i peccati effettivi è il tormento perpetuo
nella Geenna» DS 780. Altri documenti della Chiesa medioevale parlano in termini simili: DS
858 e 1306. Paolo VI nella sua Professione di Fede del 1968 ha insegnato che «coloro che si sono
opposti a Dio alla fine andranno al fuoco eterno», n. 12. Il documento del 1979 sull’escatologia
della Congregazione per la Dottrina della Fede insegna che «la Chiesa, fedelmente al Nuovo
Testamento e alla Tradizione, crede nella felicità del giusto… e che una punizione perpetua aspetti
i peccatori, che saranno privati della visione divina; la Chiesa crede anche che tale punizione
colpirà l’intero essere dei peccatori» Recentiores espiscoporum Synodi, n. 7.
4
LG 48d.
5
CCC 1035.
6
Si veda indicazioni in L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo, passim.

240
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

Potrebbe invece sorprendere, però, che tra gli Ebrei l’idea della castigo post-
mortem per i peccatori non fosse comune, o meglio, che si sia consolidata grada-
tamente come uno sviluppo dottrinale posteriore. Altrove abbiamo brevemente
considerato la questione7. Da una parte, gli Israeliti temevano che una dottrina
della punizione dopo la morte avrebbe potuto facilitare lo sviluppo del culto per
i morti, e desideravano evitarlo a causa del rischio di idolatria8. D’altra parte, i
profeti per la maggior parte erano convinti che Dio avrebbe portato la giustizia
qui sulla terra, come aveva fatto in altre occasioni9. In ogni caso la dottrina della
punizione perpetua nell’altro mondo non si consolidò se non più tardi.

L’Antico Testamento.  Nello sviluppo della dottrina nella Scrittura si possono


notare diversi momenti10. Primo, il dilemma della punizione dei peccatori, già
considerato quando abbiamo visto le origini della dottrina della resurrezione
finale11. La medesima difficoltà si può trovare nel libro di Giobbe. All’inizio
Giobbe era incapace di comprendere il perché delle sue afflizioni e punizioni,
e si ribellava contro l’apparente arbitrarietà e durezza di Dio. Più avanti, tutta-
via, scoprì che non aveva il diritto di contestare il mistero divino (Gb 38-42).
Gradualmente gli divenne chiaro che Dio avrebbe vendicato i giusti e punito i
peccatori, ma non necessariamente in questa vita, ma piuttosto dopo la morte.
In secondo luogo, si può osservare una certa evoluzione nell’insegnamento
dell’Antico Testamento riguardante gli “inferi”, o lo she’ol. Infatti, lo she’ol, che
ha molto in comune con l’hadēs greca, è considerata nei primi testi biblici iden-
tica per tutti i morti, giusti o ingiusti. Piano piano, tuttavia, sono emersi per
così dire differenti “livelli” entro lo she’ol. Ciò si nota particolarmente nei profe-
ti (Ez 32,22ss.; Is 14,15) e nei Salmi. Per questo, si disse che i giusti sarebbero
stati salvati dalle profondità dello she’ol (Sal 15; 48; 72). Il Libro della Sapien-
za contrappone la situazione dei peccatori nello she’ol (Sap 4,19) con quella dei
giusti (Sap 5,3-13) che vivono nel “seno di Abramo” (Lc 16,22).
Terzo, il libro di Isaia parla di un luogo vicino a Gerusalemme in cui i pecca-
tori sarebbero stati tormentati per sempre. Il profeta descrive la futura restaura-

7
Si vedano le pp. 112s.
8
Si veda la p. 110, nota 30.
9
Si veda ibid.
10
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 424ss.; M. Tábet, La misericordia/giustizia divina e lo
sheol veterotestamentario, in S. M. Lanzetta (a cura di), Inferno e dintorni: è possibile un’eterna
dannazione? La verità escatologica dell’inferno e le sue implicazioni antropologico-teologiche,
Cantagalli, Siena 2010, 11-24.
11
Si vedano le pp. 113s.

241
Capitolo VII

zione di Israele, in particolare il trionfo di Gerusalemme, dove gli eletti andranno


a contemplare la gloria di Dio e a portare le loro offerte (Is 66,18-20). Poi, lasciando
la città, il profeta ci dice che i pellegrini «vedranno i cadaveri degli uomini che
si sono ribellati [al Signore]; poiché il loro verme non morirà, il loro fuoco non
si spegnerà e saranno un abominio per tutti» (Is 66,24). Questo testo è di parti-
colare interesse per il fatto che Giovanni Battista e Gesù stesso lo utilizzano per
parlare della punizione eterna. Infatti, il termine utilizzato nel Nuovo Testamento
per designare l’inferno, gēnna o Geenna (Mt 5,30; 10,28, ecc.)12, sembra derivare
dal termine “Ge-hinnòm”’, il medesimo luogo in cui i cadaveri venivano crema-
ti, probabilmente la valle di Hinnon, vicino a Gerusalemme (Ger 7,31ss.; 19,4-7),
dove è stato commesso l’abominio del sacrificio umano offerto a Moloch.

Il Nuovo Testamento.  I riferimenti alla punizione eterna nel Nuovo Testamento


sono abbondanti e coerenti. C’è una notevole continuità linguistica e tematica
con i testi dell’Antico Testamento. Giovanni il Battista, sin dall’inizio della sua
predicazione, parla della punizione di coloro che non si convertiranno. «Ogni
albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3,10).
Quando il Messia arriverà nel tempo del raccolto, dice, «brucerà la paglia con
un fuoco inestinguibile» (Mt 3,12).
Con tutto, si possono notare cinque elementi dottrinali negli insegnamenti
di Gesù e degli Apostoli.
Primo, si parla dell’esistenza di un peccato imperdonabile, solitamente colle-
gato all’opposizione allo Spirito Santo e al rifiuto di aprire il proprio cuore al perdo-
no di Dio. «A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parle-
rà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo, né in quello
futuro» (Mt 12,32). Nel vangelo di Giovanni il peccato imperdonabile è riferito
alla mancanza di fede in Gesù, poiché egli dice agli scribi e ai farisei: «morirete nei
vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono» (Gv 8,24). In ciò egli ripete quel
che aveva detto prima nel vangelo: «chi non crede è già stato condannato, perché
non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,18).
In secondo luogo, Gesù stabilisce una chiara distinzione tra i buoni e i
malvagi, i salvati e i condannati, anche se la distinzione tra loro sarà rivelata solo
alla fine dei tempi. «Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separe-
ranno i cattivi dai buoni» (Mt 13,49). Questa idea è ripetuta spesso all’interno
dei vangeli (Mt 24,31; 24,40ss., ecc.). Per esempio, il locus classicus: «Quando il

12
Si veda CAA 100. Si veda BDAG, 190s., s.v. γέεννα.

242
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui… separerà gli uni
dagli altri come il pastore separa le pecore dalla capre» (Mt 25,31s.).
Terzo, San Paolo parla frequentemente dell’esclusione dei peccatori dalla
“vita eterna” o dal regno. «Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di
Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodo-
miti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno
il regno di Dio» (1 Cor 6,9s.). Parlando di certi tipi di peccati, sorge la medesima
idea (Gal 5,19ss.; Ef 5,5). Si tratta dell’equivalente paolino del modo in cui Gesù
spiegava la condanna come un definitivo allontanamento da Dio: «Via, lontano da
me maledetti…» (Mt 25,41); «Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai cono-
sciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”» (Mt 7,23). Alle vergini stol-
te, lo Sposo proclama: «In verità io vi dico, non vi conosco» (Mt 25,12). L’inferno
è presentato quindi nel Nuovo Testamento non semplicemente come una neutra
“mancanza” o assenza della vita eterna, ma piuttosto come una vera privazione di
quello cui gli uomini sono stati destinati, una condanna da parte di Dio.
Quarto, il Nuovo Testamento entra in qualche dettaglio nello spiegare la
natura della punizione eterna, in particolare del «fuoco della gēnna». «Se il tuo
occhio ti è motivo di scandalo», scrive Marco, «gettalo via: è meglio per te entra-
re nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella
gēnna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Mc 9,47s.; cf. Mt
5,29), una effettiva ripetizione di Is 66,24, già citato. Come abbiamo visto sopra,
l’espressione “gēnna” sembra equivalente a “fornace di fuoco” (Mt 13,42.50).
In questa fornace, ci dice Matteo, «sarà pianto [“Ge-hinnòn” si può tradurre
come la “valle del gemito”] e stridore dei denti» (Mt 13,50). Le tre espressioni
più comuni nel Nuovo Testamento sono perciò: “fornace di fuoco”, il “verme
che non muore” e lo “stridore di denti”. Secondo i Salmi (37,12; 112,10) quest’ul-
tima espressione probabilmente fa riferimento allo sgomento, alla frustrazione
e all’invidia dei cattivi nel vedere la ricompensa dei virtuosi.
Quinto ed ultimo, il Nuovo Testamento parla chiaramente del carattere
perpetuo della punizione escatologica. L’inferno implica, come abbiamo visto,
un peccato imperdonabile, una esclusione dal regno, un fuoco che non si spegne.
La permanenza e l’impenitenza sono essenziali. Ovviamente il termine “eterno”
è più propriamente riferito al cielo che all’inferno, in quanto il primo implica la
partecipazione alla vita propria (eterna) di Dio, ed il secondo richiede piuttosto
la separazione da Dio. Comunque, Matteo parla di “fuoco eterno” (Mt 25,41) e
di “punizione eterna” (Mt 25,46). Ai Tessalonicesi Paolo parla di “distruzione
eterna” (2 Ts 1,9). Il libro dell’Apocalisse utilizza la formula liturgica “nei seco-

243
Capitolo VII

li dei secoli” – equivalente ad “eterno” – come caratteristica dell’inferno: «e il


fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né
giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua» (Ap 14,11).

Interpretando i testi del Nuovo Testamento che parlano dell’inferno.  La fran-


chezza e la frequenza con cui il Nuovo Testamento parla di punizione eterna è
innegabile. Data la durezza e insistenza di questi testi, alcuni dei quali abbiamo
appena citati, è comprensibile che diversi autori li abbiano considerati aperti ad
interpretazioni alternative, non letterali, forse di tipo esistenzialista o performa-
tivo13. Come abbiamo visto in precedenza, tali interpretazioni sono state propo-
ste per esempio da Origene e da Rahner14. Si ritiene comunemente che lo scopo
dei testi che parlano dell’inferno sia quello di provocare una salutare reazione
tra i cristiani o i potenziali convertiti, al fine di assicurarsi che prendano sul
serio la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo. Questo implica che non
bisogna prendere questi testi alla lettera, come predizioni circa il futuro, ma
come espressioni del potere e della trascendenza di Dio che non tollera rivali. Su
questa posizione si possono fare due osservazioni.
In primo luogo, il linguaggio usato nella Scrittura per parlare di argomenti
escatologici è chiaramente di tipo metaforico15. La ragione di ciò è semplice: la
realtà del premio e della punizione va oltre qualsiasi esperienza che abbiamo
o possiamo avere sulla terra. Quindi c’è bisogno di utilizzare metafore. Tutta-
via, come osserva Pannenberg, «metaforico non è il contenuto, ma soltanto la
forma dell’enunciato. Non è ammissibile che si parta dalla forma metaforica del
discorso per poi concludere all’irrealtà del contenuto tradotto in linguaggio»16.
Espressioni come la “fornace di fuoco”, o “il verme che non muore”, il “pianto
e stridore di denti” sono chiaramente aperte a diverse forme di interpretazio-
ne. Invece espressioni che fanno riferimento, per esempio, al carattere perpetuo
della condanna difficilmente possono essere considerate metaforiche. Se queste
espressioni non corrispondono a quel che sembrano dire, sarebbero evidente-
mente fuorvianti in una materia di enorme significato, e non potrebbero essere
considerate parte di un testo ispirato.

13
Si veda CAA 46.
14
Si veda Origene, C. Cels. 5,15; De princip. II, 10,6. La medesima posizione si può trovare in K.
Rahner: si veda la p. 36 sopra, note 66.
15
Sulla questione del linguaggio metaforico nella teologia, cf. R. Díaz Dorronsoro, Los nombres
de Dios, de Jesucristo y de la Iglesia: el recurso a la metáfora y a la analogía, Edicep, Valencia 2009.
16
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 649.

244
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

Secondo, l’apparente ingiustizia e durezza che è tipica dei classici testi


apocalittici non dovrebbe esser presa come misura per interpretare le affer-
mazioni del Nuovo Testamento riguardanti l’esistenza e la natura dell’inferno.
Andrebbero prese piuttosto nel senso opposto. Secondo i testi apocalittici, Dio
punirà subito i malvagi, senza dar loro una possibilità di pentirsi, e premierà
i giusti che sono così fortunati da trovarsi dalla parte giusta quando il Figlio
dell’uomo farà la sua apparizione17. Secondo la Scrittura, invece, né premi né
punizioni saranno ingiuste o improprie, perché la salvezza è già stata estesa a
tutti da Cristo, offerta, inoltre, nel modo più umano ed accessibile possibile.
«Laddove i classici testi apocalittici prevedevano l’immediata venuta di Dio
nella sua potenza in termini di ira divina scatenata sui peccatori impenitenti,
oppure come meritata consolazione per i giusti che sono già salvi», secondo
il Nuovo Testamento «Gesù viene come il Messia di Dio anzitutto per salvare
i peccatori. Poiché egli ha dato la sua intera vita per questo fine, cioè, poiché è
stato il nostro Salvatore, egli potrà giudicare poi il mondo in perfetta giusti-
zia, dal momento che agli uomini sarà stata data ogni opportunità possibile
di rispondere pienamente alla grazia salvifica… Colui che assegnerà la puni-
zione escatologica è lo stesso e il medesimo che per primo l’ha sofferta. Perciò,
gli uomini non sono semplicemente oggetti di punizione arbitraria per la loro
peccaminosità, o di premio preordinato per la loro bontà. Tutti gli uomini sono
in grado di rispondere liberamente e responsabilmente alla potenza salvifica che
Cristo mette loro a disposizione, e allo stesso tempo sono invitati a comunicare
il messaggio salvifico di Cristo al resto del genere umano»18.
Perciò non c’è ragione per non prendere le affermazioni del Nuovo Testa-
mento come sono, in modo sostanzialmente letterale.

La condanna perpetua tra i Padri della Chiesa.  Si possono trovare tre posizioni
principali tra i Padri della Chiesa sul tema della punizione eterna.
In primo luogo, i primi Padri perlopiù ripetono le affermazioni del Nuovo
Testamento rispetto alla punizione eterna, così come sono. Accade così per
Ignazio d’Antiochia, il Martirio di Policarpo, la Lettera ai Corinzi di Clemente,
ecc. Gli apologisti – Giustino, per esempio – tentano di fare presa su questa
dottrina e spiegarla in maggiore profondità. Ugualmente, Ireneo distingue tra la
punizione eterna e quella temporale19. La Lettera a Diogneto riflette sulla gravi-

17
Si veda CAA 79-81, 99s., 253.
18
CAA 297.
19
Si veda Ireneo, Adv. Haer. IV, 28,2.

245
Capitolo VII

tà dell’inferno20. Tuttavia, la forza principale dell’insegnamento cristiano nei


primi due o tre secoli si incentra sul fatto che Cristo ha portato la buona novella
della salvezza e della misericordia divina, e che i condannati non saranno neces-
sariamente una maggioranza21.
In secondo luogo, particolare attenzione andrebbe attribuita alla posizione
di Origene22. Quest’ultimo considera le pene dell’inferno come temporanee e
medicinali. Alla fine tutti i peccatori saranno purificati dai peccati che libera-
mente hanno commesso, egli dice, e saranno salvati: questa viene generalmen-
te definita la dottrina della apokatastasis, o della riconciliazione universale23.
Per Origene, la ragione per cui la Chiesa dovrebbe predicare l’eterna danna-
zione è per infliggere «terrore in coloro che altrimenti non si terrebbero lonta-
ni dal peccare abbondantemente»24. Le masse ignoranti devono essere istruite
con durezza, sebbene i veri credenti cristiani sono certi che la punizione eter-
na è una minaccia puramente verbale. «Comunicare queste cose (speculazioni
circa la gēnna), apertamente e a lungo, con inchiostro e penna e pergamena,
mi sembra incauto», osserva Origene25. Il carattere medicinale della punizione
nell’“inferno”, egli dice, deve essere celato da «coloro che sono ancora “i piccoli”
in relazione alla loro età spirituale»26. Nondimeno, egli insiste nel dire che la
punizione dell’inferno, sebbene temporale, sia di un dolore terrificante.

20
Si veda Anon., Lettera a Diogneto, 10,7s.
21
Si veda A. Michel, Elus, (Nombre des), in DTC 4, col. 2350-78, qui, col. 2364s.
22
Si vedano le pp. 36s. Sull’argomento dell’inferno compreso come deterrente, si veda Origene,
Hom. in Jer. 12,4. Si veda anche B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 56s.; P. Nemeshegyi, La
paternité de Dieu chez Origène, Desclée, Paris; Tournai: 1960, 203-24; J. Rius-Camps, La hipótesis
origeniana sobre el fin último (peri telous). Intento de valoración, in Arché e telos: l’antropologia di
Origene e di Gregorio di Nissa: analisi storico-religiosa, a cura di U. Bianchi e H. Crouzel, Vita e
pensiero, Milano 1981, 58-117.
23
Si vedano le pp. 217s. Origene dubita di questa dottrina nei suoi primi scritti, per esempio
nella sua Lettera ad un amico ad Alessandria (231) documentata da Girolamo, Apol. adv. Ruf.
2,18s. Secondo C. C. Richardson, The Condemnation of Origen, in «Church History» 6 (1937)
50-64, e H. Crouzel, A Letter from Origen “to Friends in Alexandria”, in The Heritage of the Early
Church. Essays in Honor of the very reverend Georges Vasilievich Florovsky, a cura di D. Neiman e
M. Schatkin, Pontificium Istitutum Studiorum Orientalium, Roma 1973, 135-50, Origene rifiuta
decisamente la redenzione del diavolo. Più avanti, tuttavia, almeno secondo la traduzione fatta da
Ruffino del De principiis, la questione è lasciata aperta al lettore.
24
Origene, C. Cels. 5,15.
25
Origene, Comm. Serm. in Matth. 16.
26
Origene, Hom. I in Ezek., 3. Origene cita 1 Cor 3,11-15 per giustificare questa teoria della
purificazione medicinale: si veda H. Crouzel, L’exégèse origénienne de 1 Co 3,11-25 et la purification
eschatologique, in Epektasis. Mélanges patristiques offerts au cardinal Jean Daniélou, Beauchesne,
Paris 1972, 273-83. Tutti vengono inviati, dice Origene, a quella che egli chiama “scuola delle

246
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

Gli insegnamenti di Origene hanno esercitato una influenza significativa sui


cristiani, in particolare quelli di tendenza gnostica o spiritualistica, e sono stati
accettati da altri scrittori ecclesiastici, come Evagrio Pontico († 399) e Didimo il
Cieco27. Alcuni Padri della Chiesa, cosiddetti “padri misericordiosi”28, Gregorio
di Nissa29, Ambrogio30 e Girolamo31, l’hanno accettata per un certo tempo.

anime” De princip. II, 11,6, che la Scrittura chiama paradiso o Gerusalemme celeste. La salvezza per
tutti, egli dice, è parte della promessa di San Paolo in 1 Cor 15,24-8, e costituirà la fine di ogni male.
27
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 90s.
28
Ambrogio, Ambrosiaster e Girolamo sono generalmente considerate “padri misericordiosi”,
e ritengono che gli uomini per la maggior parte verranno salvati tramite purificazione. Contro
Novaziano si disse che i fedeli verranno salvati, perché, sebbene peccatori, sono ancora parte
della Chiesa, a meno che l’abbiano abbandonata per apostasia o eresia. Si veda H. De Lavalette,
L’interprétation du Psaume 1,5 chez les Pères “miséricordieux”, «Recherches de science religieuse»
48 (1960) 544-63.
29
Su Gregorio di Nissa, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 85-9; J. Daniélou,
L’apocatastase chez Saint Grégoire de Nysse, «Revue des sciences religieuses» 30 (1940) 328-47; B.
Salmona, Origene e Gregorio di Nissa sulla resurrezione dei corpi e l’apocatastasi, «Augustinianum»
18 (1978) 383-88. Gregorio rifiuta apertamente la dottrina di Origene della pre-esistenza delle
anime, poiché anche una vita di contemplazione celeste non assicura dal peccato. La dottrina
di Origene potrebbe implicare un ciclo senza fine di cadute e restaurazioni, spiega Gregorio, De
An. et Res. In alcuni testi Gregorio sembra condividere la speranza di Origene per la salvezza
universale, sebbene altri escludano i peccatori dal regno di Dio, per esempio: In Inscr. Psal. 2,16; De
Paup. Amand. Sulla questione, si veda C. N. Tsirpanlis, Greek Patristic Theology: Basic Doctrines
in Eastern Church Fathers, EO Press, New York 1979, 41-56. La ragione fornita da Gregorio per
questo è che il male non può durare per sempre, non essendo una sostanza per sé. Solo il bene
può assumere il carattere della permanenza: De An. et res.; De hom. opif. 21,1; De Tridui Spatio. Su
questo argomento, si veda J. Daniélou, Le comble du mal et l’eschatologie de S. Grégoire de Nysse,
in Festgabe Joseph Lortz, a cura di E. Iserloh e P. Manns, vol. 2, Grimm, Baden-Baden 1958, 27-45.
Male e morte, al contrario, sono creazioni degli uomini (De Virg. 12), laddove ogni vita si muove
verso il bene, specialmente per mezzo della resurrezione: si veda J. Daniélou, La résurrection des
corps chez Grégorie de Nysse, «Vigiliae Christianae» 2 (1953) 154-70. Tuttavia, come sottolinea
Maspero, la dottrina della riconciliazione universale in Gregorio è riferita alla natura umana come
totalità, non a ciascuno ed ogni singolo individuo: G. Maspero, La Trinità e l’uomo, 176-200.
30
Ugualmente, Ambrogio (In Ps. 1) ritiene che la punizione sia interamente medicinale e perciò
temporale: si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 98s. Egli ripete l’idea di Gregorio
secondo cui il male non è una sostanza, e perciò non può durare per sempre. Daley riassume
questa posizione come segue: «Dio ci costringe al pentimento tramite la sofferenza, così che il
male che conosciamo come iniquità viene bruciato e consumato dal pentimento, e scompare. Così
quella regione dell’anima, che era posseduta dalla malvagità per accidente, verrà aperta per poter
ricevere virtù e grazia» The Hope of the Early Church, 98s. I tempi della purificazione sono collegati
con la prima e la seconda resurrezione, e «così Ambrogio trasforma la tradizione millenaria… in
una allegoria dello stato di “interim” tra morte e resurrezione generale» ibid., 99. Su Ambrogio,
si veda J. Derambure, Le millénarisme de S. Ambroise, «Revue des études anciennes» 17 (1910)
545-56. Egli insiste sulla misericordia di Dio per tutti (In Ps. 39,17; 118,20,29), ma la beatitudine è
riservata solo a coloro che sono «uniti alla santa Chiesa» De Exc. Frat. 116.
31
Girolamo tiene una posizione simile a quella di Origene nelle sue prime opere. Egli dice che
«tutte le creature razionali vedranno la gloria di Dio nel tempo che verrà», tutti verranno salvati,
anche gli “angeli rinnegati” In Eph. 1,2,7. Però in altri opere di questo periodo, egli dice che i

247
Capitolo VII

Altri come Giovanni Crisostomo erano apertamente critici nei confronti


della spiegazione pedagogica di Origene32. «È impossibile che la punizione e la
gēnna non esistano», dice33. «Se Dio prende così a cuore che noi non pecchiamo
e va incontro a tali difficoltà per correggerci, è chiaro che egli punisce i peccatori
e incorona i retti»34. Le punizioni «sono per la nostra correzione», certamente,
«ma poi saranno per la nostra retribuzione»35. Allo stesso modo sant’Agosti-
no apertamente rifiuta l’interpretazione allegorica che Origene fa dell’insegna-
mento della Scrittura sull’eternità dell’inferno36. La permanenza dell’inferno e
l’eternità del cielo, egli afferma, sono due lati della stessa medaglia37.
La dottrina della apokatastasis non è stata alla fine accettata dalla Chiesa,
dal momento che la seguente posizione origenista è stata respinta al Sinodo di
Costantinopoli del 543: «la punizione dei demoni e degli uomini empi è tempo-
ranea, e giungerà al termine ad un certo tempo, o ci sarà una completa salvezza
(apokatastasis) dei demoni e degli uomini empi»38.
Terzo, la maggior parte dei Padri della Chiesa del terzo e quarto secolo in
poi non solo affermarono il carattere eterno dell’inferno, ma anche sembrano
dire che la maggior parte dell’umanità fosse destinata alla condanna. Questa
posizione è stata assunta, inoltre, da molti fra i principali teologi e autori spiri-
tuali fino all’epoca moderna, come anche da molti teologi orientali e protestan-
ti39. La posizione di Tommaso d’Aquino, sebbene espressa in termini positivi,

peccatori non avranno alcuna possibilità di pentimento e purificazione: In Eccl. 7,16. Nelle opere
successive, tuttavia, la punizione eterna è chiaramente riservata per il diavolo e i nemici di Cristo:
Comm. in Matth. 1,10,28; 2,22,11s.; 4,25,46.
32
E. Michaud, St. Jean Chrysostome et l’apokatastase, «Revue internationale de théologie» 18 (1910)
672-796, tenta di mostrare che l’escatologia di Giovanni fosse origenista. Tuttavia, S. Schiewietz,
Die Eschatologie des hl. Johannes Chrysostomus und ihr Verhältnis zu der Origenistischen, «Der
Katholik» (Strasbourg) 4,12 (1913-1914), 445-55; 4,13 (1914) 45-63, 200-216, 271-281, 370-379,
436-448, mostra in modo convincente il contrario.
33
Giovanni Crisostomo, In I Thess. 8,4.
34
Giovanni Crisostomo, In Rom. Hom. 31,4. «Egli dice di aver preparato la Geenna, per non dover
gettare nella Geenna» In Ps. 7,12.
35
Giovanni Crisostomo, In Rom. Hom. 3,1
36
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 23.
37
Agostino lo spiega come segue: «Cristo ha incluso sia la punizione che la vita in una e
la medesima frase, nella quale ha detto: “E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti
invece alla vita eterna” (Mt 25,46). Se entrambe sono “eterne”, ne consegue necessariamente che
entrambe debbano essere considerate durare a lungo ma finite, oppure che entrambe sono senza
fine e perpetue. Le espressioni “supplizio eterno” e “vita eterna” sono parallele e sarebbe assurdo
usarle in una e la medesima frase per indicare “la vita eterna sarà infinta, mentre la punizione
eterna avrà una fine”» De Civ. Dei XXI: 23. Si veda anche il suo Ad Orosium, 6,7.
38
DS 411.
39
A. Michel, nel suo studio Elus, afferma che secondo molti Padri della Chiesa, maior pars

248
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

non è atipica: pauciores sunt qui salvantur40: “quelli che sono salvati sono pochi
in numero”. Più avanti, torneremo su questa sconcertante affermazione41.

2. La punizione senza fine come frutto del peccato non pentito


In che cosa consiste effettivamente la condanna eterna? Da una parte, le
affermazioni della Scrittura, sebbene in molti casi metaforiche, offrono utili indi-
cazioni circa la natura dell’inferno. D’altra parte, dato che la condanna eterna
è il prodotto finale e definitivo del peccato, ha senso cercare di comprenderla
considerando la natura teologica del peccato e le sue conseguenze, non solo i
suoi tratti psicologici o antropologici. Dovremmo tenere a mente, tuttavia, che
l’inferno rivela le profondità del peccato, e non il contrario. Possiamo meglio
comprendere il peccato quando consideriamo ciò che il peccato ha occasionato:
la morte del Figlio di Dio sulla Croce e la condanna perpetua dei peccatori. La
realtà del peccato non pentito è percepita e sperimentata quando si trasforma
nel suo prodotto finale, che è appunto la condanna perpetua. «L’inferno è nella
sua più intima realtà un mistero: il mistero del peccato, perché è l’effetto e l’espe-
rienza del peccato mortale; come il Cielo è la pienezza dell’unione con Dio, così
l’inferno è la pienezza del peccato»42.

Il peccato e il suo esito.  Tommaso d’Aquino spiega che così come ci sono due
componenti nel peccato grave, allo stesso modo ci sono due componenti o
aspetti che possono essere attribuiti all’inferno: il dolore della perdita e il dolore
dei sensi. «Ci sono due elementi nel peccato» scrive. «Uno è l’allontanamento
dal Dio immutabile [solitamente chiamata l’aversio a Deo], e in ciò il peccato è
infinito. L’altro è il disordinato rivolgersi ai beni mutevoli [la conversio ad crea-
turas], e in ciò il peccato è finito. La pena della dannazione corrisponde nell’al-
lontanamento da Dio, la perdita di un bene infinito. Mentre il dolore dei sensi

hominum damnatur, la maggior parte dell’umanità sarà condannata: così Basilio, Giovanni
Crisostomo, Gregorio di Nazianzeno, Ilario, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Leone Magno;
durante il Medioevo e successivamente, Bernardo, Tommaso d’Aquino, Molina, Suárez, Alfonso
de Liguori, ecc.
40
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 23, a. 7 ad 3.
41
Si vedano le pp. 268s.
42
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 467 (trad. it., 437). Con le
parole di G. Minois, l’inferno «è lo specchio dei tentativi falliti di ciascuna civiltà di risolvere i suoi
problemi sociali; è un segno dell’ambiguità della condizione umana» Histoire des enfers, Fayard,
Paris 1991, 7.

249
Capitolo VII

corrisponde al disordinato volgersi verso le creature»43. Invece di sottomettersi


a Dio, l’uomo che pecca si allontana dalla Divinità e consolida un attaccamento
disordinato alle creature. Esaminiamo questi due aspetti dell’inferno: il dolore
della perdita e il dolore dei sensi.

Il dolore della perdita.  «La pena principale dell’inferno», dice il Catechismo della
Chiesa Cattolica, «è l’eterna separazione da Dio»44. Abbiamo già visto differen-
ti espressioni di questo aspetto del peccato e dell’inferno, per esempio quando
Gesù disse ai peccatori: «Via, lontano da me maledetti» (Mt 25,41), e «non vi
ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità» (Mt 7,23). È
chiaro che l’inferno non è semplicemente la continuazione della situazione di
peccato; piuttosto è presentato come un atto di Dio che bandisce per sempre le
creature che Lo hanno rifiutato. L’inferno non è solamente una mancanza o una
assenza di Dio, ma «la privazione della visione di Dio», come afferma un docu-
mento della Chiesa del 197945. Detto diversamente, Dio rifiuta la sua comunione
con coloro che hanno ripudiato la sua amicizia: «In verità io vi dico: io non vi
conosco» (Mt 25,12). Sentire queste parole da Gesù, dice San Giovanni Crisosto-
mo, «vedere il suo volto mite scostarsi, vedere il suo sguardo sereno prendere le
distanze da noi, non permetterci di guardarlo più, sarà peggio che essere bruciati
da un migliaio di fulmini»46. San Basilio ha la stessa cosa da dire: quel che va
temuto maggiormente è l’essere eternamente rimproverati da Dio; l’uomo soffre
un’insopportabile tristezza interiore a causa dell’eterna vergogna e della perpe-
tua visione della sua colpa47. Tertulliano dice che il fuoco inestinguibile uccide
«senza annullare nessuna delle sostanze [l’anima e la carne]: provoca una “morte
senza fine”, ed è più formidabile di un omicidio solamente umano»48.
Sulla terra i peccatori possono non rendersi conto completamente delle
sconvolgenti implicazioni di ciò che significa essere separati dal proprio Creato-

43
«Poena proportionatur peccato. In peccato autem duo sunt. Quorum unum est aversio ab
incommutabili bono, quod est infinitum, unde ex hac parte peccatum est infinitum. Aliud quod
est in peccato, est inordinata conversio ad commutabile bonum. Et ex hac parte peccatum est
finitum, tum quia ipsum bonum commutabile est finitum; tum quia ipsa conversio est finita,
non enim possunt esse actus creaturae infiniti. Ex parte igitur aversionis, respondet peccato
poena damni, quae etiam est infinita, est enim amissio infiniti boni, scilicet Dei. Ex parte autem
inordinatae conversionis, respondet ei poena sensus, quae etiam est finita» Tommaso d’Aquino,
S. Th. I-II, q. 87, a. 4c.
44
CCC 1035.
45
Congregazione per la dottrina della fede, Recentiores episcoporum Synodi, n. 7.
46
Si veda Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth., 23,8.
47
Si veda Basilio, Hom. in Ps. 33.
48
Tertulliano, De res. 35,6.

250
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

re, fino al punto di essere sorpresi dal verdetto divino di condanna (Mt 25,44).
In questo mondo sia i santi che i peccatori beneficiano e sono confortati dai doni
di Dio: «il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni,
e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). «Cattivi e buoni» (Mt 22,10)
sono stati invitati alla festa di matrimonio. Il grano rimane accanto alla zizza-
nia fino al tempo del giudizio (Mt 13,30). Eppure il ricco sepolto nella gēnna,
pieno di angoscia, contrappone ai beni di cui ha goduto sulla terra l’intollerabile
tormento dell’inferno (Lc 16,19-31). La profondità del peccato è rivelata solo
nella vita futura, in cui l’uomo non sperimenta più l’apparente irrilevanza delle
sue azioni peccaminose, né il conforto tranquillizzante fornito dai doni creati
da Dio che egli non riconobbe come tali, con gratitudine, gioia ed adorazione.
Così come il cielo costituisce la massima espressione di adorazione divina, così
anche la condanna rappresenta il rifiuto supremo di Dio da parte della creatura.
Insieme alle indicazioni fornite dalla Rivelazione, l’esperienza personale
di coloro che hanno tentato di vivere come se Dio non esistesse possono essere
interessanti da documentare. Molti romanzieri, poeti e filosofi del XX secolo – e
di altri periodi – hanno fornito utili immagini di quel che può significare essere
separati da Dio per sempre. Si possono notare tre aspetti specifici: frustrazione,
disperazione e solitudine.

1. Frustrazione.  Gli uomini sono fatti ad immagine e somiglianza di Dio (Gn


1,26) e sono destinati a vivere in eterna comunione con Lui. Sono strutturati
perciò secondo una innata apertura alla Divinità, con la «capacità di conosce-
re ed amare il proprio Creatore»49 e di lodarlo per sempre. Nell’inferno questa
capacità rimarrà ma sarà eternamente frustrata, a causa della colpa personale
del peccatore. In assenza della calda rassicurazione fornita dalle consolazio-
ni create, la contraddizione e la frustrazione saranno particolarmente acute e
inevitabili. Nietzsche, parlando dell’assenza di Dio tra gli uomini, scrive: «Dio
è morto: Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso! Potremo mai essere consolati,
assassini di tutti gli assassini? Il più Santo e più Potente che il mondo abbia mai
conosciuto sta morendo dissanguato sotto i nostri coltelli. E così, chi ci può
assolvere per i suo sangue?»50 L’inferno non è semplicemente un effetto collate-
rale indesiderato dell’egoismo, del male, della cattiva fortuna; è una vera e defi-

49
GS 12c.
50
F. Nietzsche, Fröhliche Wissenschaft, n. 125,15-19, in Nietzsche Werke, vol. 5/2, 159.

251
Capitolo VII

nitiva frustrazione metafisica. Invece di lodare gioiosamente Dio, i condannati


si riempiono per sempre di odio51 e di tristezza52.

2. Disperazione.  «Lasciate ogni speranza voi che entrate»; così dice l’iscrizione
che Dante Alighieri († 1321), nella sua Divina Commedia53, collocò sulla trave
della porta dell’inferno. La disperazione, così come è sperimentata sulla terra,
deriva dall’impossibilità di raggiungere obiettivi che ci si è posti: stabilire una
amicizia, trovare un lavoro, terminare un progetto, ecc. Ma qualcosa di speran-
za rimane sempre, perché si può perdere la speranza in certi obiettivi, ma se ne
possono individuare ed ottenere altri. La speranza, ci hanno detto gli autori
classici, è l’ultima cosa che si perde54. Nell’inferno non è più così, perché il vero
e solo oggetto di speranza, il fondamento di ogni speranza, è perduto irrime-
diabilmente, e l’intera dinamica della speranza semplicemente crolla. Nessuna
speranza, nessuna distrazione55, nessuna scappatoia, nessun amore, nessuna
vita, nessun piacere possono entrare nel dominio dell’eterna dannazione. In una
tale situazione, scrive Benedetto XVI, «non ci sarebbe più niente di rimediabile
e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile»56.

3. Solitudine.  Il vangelo parla apertamente della solitudine di coloro che hanno


perso il Cristo, che è l’unica via al Padre. Dopo la promessa dell’Eucaristia alcu-
ni di coloro che ascoltavano Gesù lo abbandonarono, ed egli chiese agli altri,
«Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). A ciò Pietro rispose «Signore, da chi
andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Il peccato implica primaria-
mente separazione, la distruzione della comunione: la separazione da Dio, dagli
altri e da se stessi. La natura intrinsecamente sociale dell’uomo – il bisogno
quindi di condividere la propria vita con altre persone – rimarrà per sempre
frustrata. Nell’inferno i condannati non avranno un’altro “dio” cui rivolgersi;
gli idoli che hanno inventato e per la quale precaria esistenza hanno vissuto
saranno apprezzati nella loro reale nullità. Saranno lasciati a se stessi, tutti soli,
per sempre. Jean-Paul Sartre lo disse bene, seppure in modo opposto, scrivendo

51
Tommaso d’Aquino, Suppl., q. 98, a. 5, c.
52
Si veda ibid., a. 8. Isidoro di Siviglia dice che «nell’inferno, il fuoco brucia i corpi ma la tristitia
brucia le menti» Sent. I, 28,1.
53
Si veda Dante Alighieri, Divina Commedia III, 9.
54
Si vedano le pp. 22ss.
55
Sul ruolo e l’importanza della distrazione nella vita umana si veda B. Pascal, Pensées (ed.
Brunschvig), nn. 210-5.
56
SS 45.

252
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

che l’«inferno è l’altra persona»57. C. S. Lewis ha espresso la medesima idea nel


suo racconto fantastico Il Grande Divorzio, che rappresenta la totale separazione
tra cielo ed inferno, attribuendo agli abitanti del secondo una singolare capacità:
quella di poter creare a proprio piacimento una casa in una grande città, grigia,
e perlopiù disabitata, nel momento in cui la presenza delle altre persone diven-
tasse minimamente sgradevole58.

Il dolore dei sensi.  Come abbiamo visto, la Scrittura parla di punizione eterna
in termini di tormenti fisici inflitti da Dio al corpo umano. Da una parte c’è la
questione su come un’anima spirituale possa soffrire tortura fisica, difficile da
soluzionare solo nel contesto di un’antropologia platonica. Dall’altra parte, ci
chiediamo se non sarebbe corretto fin dall’inizio considerare tali pene in modo
puramente metaforico, come una vivida espressione delle ripercussioni sogget-
tivi sullo spirito umano del dolore derivante dalla perdita di Dio? Questa posi-
zione è stata difesa per esempio da Origene59. Egli ha detto che «ogni peccatore
accende da sé la fiamma del proprio fuoco, e non è immerso in un fuoco che è
stato acceso da qualcun altro o che esistesse prima di lui»60. Questo dolore è una
febbre interiore, egli disse, derivante da una coscienza profondamente turbata61.
È totalmente prodotta dal peccatore stesso62.
Tuttavia, la maggior parte dei Padri della Chiesa non considera il fuoco
dell’inferno come una mera metafora63. Girolamo trova la posizione di Origene
particolarmente inquietante64. Gregorio di Nazianzeno († 390), commentando le
parole di Gesù, «sono venuto a gettare fuoco sulla terra… » (Lc 12,49), dice: «io
so anche di un fuoco che non pulisce, ma vendica… l’inappagabile fuoco che
è associato al verme che non muore, il fuoco eterno per i malvagi. Infatti essi
appartengono tutti al potere distruttivo – sebbene alcuni preferiscono, anche su
questo punto, assumere una visione più misericordiosa di questo fuoco, una più
degna di colui che castiga»65.

57
Questo è il messaggio centrale dell’opera di J.-P. Sartre, Huis-clos.
58
Si veda C. S. Lewis, The Great Divorce, Macmillan, New York 1946.
59
Inter alia, si veda H.-J. Horn, Ignis aeternus: une interprétation morale du feu éternel chez Origène,
«Revue des études grecques» 82 (1969) 76-88; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 274s.
60
Origen, De princip. II, 10,4.
61
Si veda ibid. 5s.
62
Si veda Origene, Hom. 3 in Ezek. 7; Hom. in Lev. 8,8.
63
Si veda A. Michel, Feu de l’enfer, in DTC 5, col. 2208-16; A. Piolanti, La communione dei santi e la
vita eterna, Vaticana, Città del Vaticano 1992, 435-7; C. Pozo, La teología del más allá, 448-53, 458.
64
Si veda Girolamo, Ep. 124 ad Avitum 7; In Eph. 3 (su Ef 5,6); Apol. adv. Ruf. 2,7.
65
Gregorio di Nazianzeno, Or. 40,36, sul santo Battesimo.

253
Capitolo VII

Senza dubbio, la “pena di perdita” è più semplice da comprendere di quella


dei sensi, dal momento che è il diretto risultato del grave peccato liberamente
commesso dalla persona umana: Dio allontana dalla sua presenza coloro che
hanno apertamente rifiutato il suo amore. Ma come si spiega che Dio – se pure
indirettamente, attraverso enti creati – effettivamente giunga ad infliggere puni-
zioni sulle creature condannate? Dopo tutto, una cosa è la giustizia, tutt’altra la
crudele vendetta.

Dio e fuoco nella Scrittura.  Nell’Antico Testamento66, il fuoco è comunemente


considerato un simbolo della presenza di Dio, della sua gloria, grazia ed amore,
ed anche della sua ira e del suo giudizio, di punizione e prove. «Il monte Sinai
era tutto fumante, perché su di esso era disceso il Signore nel fuoco» (Es 19,18).
Come punizione per l’idolatria di Nadab e Abiu, «un fuoco uscì dalla presenza
del Signore e li divorò, e morirono così davanti al Signore». E Mosè spiegò: «Di
questo ha parlato il Signore quando ha detto: “In coloro che mi stanno vicino
mi mostrerò santo e alla presenza di tutto il popolo sarò glorificato”» (Lv 10,2s.).
Detto in breve, anche se il “fuoco” nell’Antico Testamento a volte è usato come
metafora (per esempio in Is 47,17; Sir 21,9), è generalmente presentato come
strumento dell’azione di Dio, in particolare della sua punizione.
Nel Nuovo Testamento, si fa frequentemente riferimento al fuoco dell’in-
ferno in termini altamente realistici, particolarmente nei Sinottici: primo, come
spiegazione di una metafora (Mt 13,40) e perciò non come la metafora in sé; e
secondo come una realtà che esiste in precedenza per coloro che lo soffrono;
infatti si dice che il fuoco è stato «preparato per il diavolo e per i suoi angeli»
(Mt 25,41). Sembra perciò che il fuoco “esista” già al fine di infliggere punizione
su coloro che si comportano come il diavolo e i suoi angeli. Schmaus conclude:
«Dalla frequenza e precisione con cui Cristo parla del fuoco dell’inferno, risul-
ta che è inteso un fuoco reale»67. Questa, come abbiamo visto, sembra essere
la posizione maggioritaria dei Padri della Chiesa, in opposizione agli insegna-
menti di Origene. Ugualmente, diversi documenti della Chiesa hanno parla-
to in termini realistici del fuoco dell’inferno, nel contesto dell’affermazione
della doppia punizione, quella della perdita e quella dei sensi68. Dal punto di

66
Sulla nozione di fuoco nella Scrittura, si veda H. Bietenhard, Fire, in NIDNTT 1, 652-8; BDAG,
898s., s.v. πῦρ.
67
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 492 (trad. it., 461).
68
Si veda DS 76, 409, 411, 801, 1002, 1351, 858, 1306; Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 12;
CCC 1034-6.

254
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

vista della Scrittura, tuttavia, diversi autori hanno notato che “il fuoco è tutto
nell’inferno”69, nel senso che il fuoco, ciò che è opposto al Regno di Dio (Mt
25,34.41), esprime la totalità della punizione infernale.

Che genere di fuoco?  Nei secoli recenti i teologi hanno saggiamente abbandonato
l’idea popolare secondo la quale i condannati e coloro che vengono purificati
partecipano ad una punizione tramite il fuoco collocato in qualche luogo sotto la
superficie della terra70. Nondimeno, possiamo chiedere dove la distinzione tra il
dolore della perdita (la privazione di Dio) e il dolore dei sensi (la punizione di Dio
attraverso gli enti creati) ha trovato inizio e si sia sviluppata. Forse la seguente
spiegazione, suggerita in diversi modi da Gregorio Magno71, Tommaso d’Aqui-
no72 e più recentemente da Alois Winklhofer ed altri73, può essere interessante.
Abbiamo già visto come la separazione da Dio (il dolore della perdita) corri-
sponda a quell’aspetto del peccato chiamato l’aversio a Deo, che produce per così
dire una aversio Dei ab homine, in cui Dio allontana da se stesso il peccatore che
consapevolmente rifiuta il suo amore salvifico. Ma il peccato è generato in primo
luogo da una conversio ad creaturas, quando la persona permette a se stessa di
essere attirata in modo disordinato dall’attrattiva degli esseri creati, che fino ad
un certo punto giungono ad occupare il posto che spetta solo a Dio nella loro
vita74. Il dolore dei sensi, perciò, può essere considerato come una sorte di conver-

69
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 230. Si veda anche Mt 13,43.50; 18,9.
Su questa questione si veda F.-X. Remberger, Zum Problem des Höllenfeuers, in Aa.vv., Christus
vor uns. Studien zur christlichen Eschatologie, Gerhard Kaffke, Frankfurt a. M. 1966, 75-83, in
particolare 78-80.
70
Secondo l’Aquinate, l’inferno è collocato sotto la superficie della terra: S. Th. III, Suppl., q. 97,
a. 7. Più recentemente, si veda J.-M. Hervé, Manuale Theologiae Dogmaticae IV: De Novissimis,
Berché et Pagis, Paris 1929, 617.
71
Si veda Gregorio Magno, Dial. 4,29,32.
72
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 70, a. 3: il fuoco agisce sui condannati «alio modo,
secundum quod est instrumentum divinae iustitiae vindicantis: hoc enim divinae iustitiae ordo
exigit, ut anima quae peccando se rebus corporalibus subdidit, eis etiam in poenam subdatur».
73
A. Winklhofer, Das Kommen seines Reiches, 99. Si veda anche C. Journet, Le mal. Essai théologique,
Desclée, Paris 1961, 224; F.-X. Remberger, Zum Problem des Höllenfeuers, 80s.; J. Ratzinger, Hölle,
in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. 5 (1960), 449; G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 150-3.
74
Così Tommaso d’Aquino, in S. Th. I-II, q. 84, a. 1, commentando 1 Tm 6,10: «l’avidità del
denaro (cupiditas) è la radice di tutti i mali». L’Aquinate distingue tra i peccati che implicano
direttamente Dio e quelli riferiti alle creature. «In quolibet peccato mortali est quodammodo
aversio a bono incommutabili et conversio ad bonum commutabile, sed aliter et aliter. Nam
principaliter consistunt in aversione a bono incommutabili peccata quae opponuntur virtutibus
theologicis, ut odium Dei, desperatio et infidelitas, quia virtutes theologicae habent Deum pro
obiecto, ex consequenti autem important conversionem ad bonum commutabile, inquantum
anima deserens Deum consequenter necesse est quod ad alia convertatur. Peccata vero alia
principaliter consistunt in conversione ad commutabile bonum, ex consequenti vero in aversione

255
Capitolo VII

sio creaturarum in hominem: le creature si volgono in qualche modo contro colui


che, sebbene fatto ad immagine e somiglianza di Dio e destinato a stabilire un
dominio divino su di esse (Gn 1,26s.), ha tentato disordinatamente di esercita-
re un dominio improprio, distruttivo, sulle altre creature. Infatti il peccato non
offende solo il Creatore, ma anche le creature che vengono maltrattate, il cui fine,
verità e dignità interiore, viene contrastato. Il peccato, insiste San Paolo, non solo
allontana gli uomini da Dio, ma li rende schiavi delle creature. A causa del pecca-
to dell’uomo l’intera creazione, egli dice, è «sottoposta alla caducità» (Rm 8,19), e
la creazione vendicherà questo disordine introdotto dal peccato, per essere «libe-
rata dalla schiavitù della corruzione» (Rm 8,21).
Il peccatore «ha divinizzato il mondo e se ne è fatto servo; ora deve provare
ciò che significa quando il mondo tratta l’uomo come suo schiavo. L’uomo speri-
menta un presentimento della schiavitù in cui la creazione lo incatena non appe-
na egli la divinizza e quindi le tributa l’onore che compete soltanto al Dio vivente,
allorché la creazione si abbatte annientatrice su di lui, allorché il fuoco e l’acqua
estinguono la sua vita»75. I condannati «sperimenteranno il mondo non come
accogliente, ma come luogo inospite che li schiaccia e opprime senza sosta, da
cui non c’è via di scampo, perché sono legati ad esso per la propria appartenen-
za al mondo»76. Giovanni Moioli († 1984) suggerisce che l’inferno debba essere
considerato in termini di «una materializzazione dell’essere razionale, per una
specie di inversione di rapporti tra lo spirito e materia»77. Ugualmente, Gozzeli-
no fa riferimento al «rifiuto del mondo creato di lasciarsi snaturare da una falsa
assolutizzazione dei valori»78, poiché “fuoco” non è solo un simbolo della divina
trascendenza, ma soprattutto una applicazione della punizione divina79.
Siccome il peccato è commesso principalmente per il rivolgersi disordinato
verso le creature, da cui deriva un essenziale distanziamento o separazione da Dio80,
così anche la punizione per il peccato fa immediatamente riferimento al mondo
creato che eternamente mette in schiavitù ed opprime i condannati, rendendo loro
impossibile vivere secondo «la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). San

ab incommutabili bono, non enim qui fornicatur intendit a Deo recedere, sed carnali delectatione
frui, ex quo sequitur quod a Deo recedat» S. Th. II-II, q. 20, a 1 ad 1.
75
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 485s. (trad. it., 455).
76
J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 240.
77
G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 152.
78
G. Gozzelino, Nell’attesa, 414.
79
Oltre agli autori menzionati sopra (nota 73), altri testi di H. Rondet, K. Rahner, H. U. von Balthasar,
J. A. Robillard, J. Guitton, A. M. Sicari, si possono trovare in G. Gozzelino, Nell’attesa, 415s.
80
Si veda nota 74 sopra.

256
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

Tommaso d’Aquino nota che l’effetto immediato del fuoco sui corpi viventi è un
effetto di alligatio, di legame, di costrizione, limitazione, chiusura81.

Inferno come punizione per il peccato.  Non è inusuale ritenere che l’inferno sia
semplicemente una continuazione dello stato peccaminoso in cui gli uomini si
trovano sulla terra. Autori tanto diversi come Scoto Eriugena († 877), Nietzsche
e George B. Shaw82 hanno tentato di spiegare che l’inferno non è un luogo di
punizione, ma piuttosto un luogo scelto dalle persone per ragioni di intima affi-
nità. Nietzsche suggerisce che l’uomo potrebbe essere felice e realizzarsi senza
nessun Dio. Su questa linea di pensiero si può affermare che gli uomini proget-
tano e costruiscono il proprio futuro. Altri teologi hanno suggerito una dottrina
simile. «L’inferno non è qualcosa che ci caschi addosso. Non è qualcosa che Dio
impone dopo aver preso in esame i nostri misfatti. Non c’è nulla di grande, di
estremo, di bruciante, di soffocante nell’inferno. Esso è semplicemente l’uomo
stesso, che si identifica interamente con ciò che egli è, con ciò che egli vuole
ottenere e realizzare con le proprie forze. È il modo di esistenza di un uomo,
che è contento di se stesso: per tutta una eternità. Che non ha più nulla e non
aspira più a nulla, se non a se stesso. L’inferno non è una minaccia, ma la proie-
zione su un piano di essere della nostra piccolezza. Non esiste nessuna tragedia
dell’inferno, poiché in fondo non può esistere un inferno come “luogo”. Esiste
soltanto il sentire del cuore. Tutto vive nel cielo, poiché Dio ha creato il mondo
in ordine al cielo. Ma questo cielo viene vissuto alla luce del sentire interiore.
Chi è divenuto povero, ne può sperimentare la bellezza. Chi è rimasto ricco, si
deve accontentare della propria ricchezza»83.
Questa posizione è giusta da molti punti di vista, come abbiamo visto
prima. Gli uomini creano responsabilmente il proprio destino. Dio non è da
incolpare per la loro condanna. Tuttavia, la spiegazione non tiene conto suffi-
cientemente della natura profonda del peccato. Il peccato non è un semplice
errore nel proprio progetto di vita. Il peccato soprattutto genera una frattura,
una separazione dalle altre persone, dal cosmo cui apparteniamo, dal nostro
essere. Implica un sostanziale spostamento nella nostra posizione spirituale
entro il mondo creato e increato. Il peccato genera offesa a Dio, frattura nella

81
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 90. La medesima nozione si trova in F. Suárez, De
Angelis 8,14,9.
82
Si veda in particolare Giovanni Eriugena, Periphyseon, 2,593b. Nietzsche parla nello stesso
modo in Uomo e Superuomo.
83
L. Boros, Noi siamo futuro, Queriniana, Brescia 1970, 235s.

257
Capitolo VII

società, alienazione nel cosmo, ed alla fin fine, la propria morte. Per queste
ragioni, si deve dire che l’inferno non è semplicemente la continuazione del sé,
alienato da Dio, ma veramente una punizione, nella quale l’intera realtà – e Dio,
in primo luogo – deve ricollocarsi rispetto al peccatore. In breve, dire che l’in-
ferno implichi semplicemente la continuazione dello stato peccaminoso, sugge-
rirebbe una antropologia individualistica e spiritualistica, almeno anti-corpo-
rale. Gli uomini non si costruiscono soli, come vorrebbero Fichte, Nietzsche,
Sartre ed altri. Sviluppano se stessi e il proprio futuro in un dialogo vivente
con tutto e con tutti quelli che li circondano, che lo vogliano o meno. Perciò
le loro azioni immorali introducono un oggettivo disordine entro il cosmo che
domanda il ri-stabilimento e la ri-sistemazione della totalità della realtà. L’in-
ferno è precisamente la cristallizzazione e l’espressione finale della convinzione
più profonda del peccatore non pentito: quella di desiderare di esistere ed agire
come se nient’altro esistesse ed agisse o, meglio, come se ogni altra cosa esistente
soggiacesse sotto il suo esclusivo, dispotico dominio.

Il carattere perpetuo della condanna. La Scrittura parla apertamente, come


abbiamo visto, della natura perpetua dell’inferno. È chiaro, comunque, come
dice l’Aquinate, che «nell’inferno non c’è una vera eternità, ma piuttosto un tipo
di tempo suggerito dal Salmo 81,16 “quelli che odiano il Signore gli sarebbero
sottomessi, e la loro sorte sarebbe segnata per sempre”»84. Inoltre, come è stato
detto, la Chiesa non accetta l’insegnamento di Origene sull’apokatastasis, o la
riconciliazione universale. Lo scrittore francese Georges Bernanos († 1948) nel
suo Diario di un curato di campagna, dice che «l’inferno è non amare più»85. C.
S. Lewis lo spiega più dettagliatamente: «Amare significa, in ogni caso, essere
vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà
a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certez-
za che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale.
Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni
tipo di coinvolgimento; chiudetelo con lucchetto nello scrigno, o nella bara,
del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sotto
vuoto – esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile,
irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia, è la dannazione. L’unico

Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 10, a. 3 ad 2.


84

G. Bernanos, Diario di un curato, 158. Questo riflette l’espressione dello scrittore russo Fydor
85

Dostoevskij († 1881) che ugualmente ha detto che l’inferno significa «non amare più» I Fratelli
Karamazov, VI, 3,1.

258
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli
e i turbamenti dell’amore è l’inferno»86.
Il teologo Lessius († 1623) insegna che i quattro misteri più difficili della
nostra fede sono la Trinità, l’Incarnazione, l’Eucaristia e la pena eterna dell’in-
ferno87. In effetti, la nozione della perpetuità della condanna genera serie diffi-
coltà, due in particolare. Prima, perché coloro che non sono riusciti a pentirsi
dei propri peccati in questa vita dovrebbero diventare incapaci di farlo nella vita
futura? In che modo la loro volontà diventerà incallita e stabilita per sempre?
Seconda, perché un atto finito, o una serie finita di atti finiti, dovrebbe genera-
re una situazione che durerà perpetuamente, una situazione che – almeno su
base cumulativa – diventerà infinita? In altre parole, come possiamo rispondere
all’impressione secondo la quale la punizione eterna per i peccati sembra spro-
porzionata ed ingiusta?

Come la volontà dei dannati sarà fissata per sempre?  Ovviamente si potrebbe
risolvere il problema della perpetua ostinazione dei peccatori non pentiti con
l’aiuto di ciò che potremmo chiamare una “teologia del decreto”: Dio che in
qualche modo forza la volontà del peccatore all’immobilità. Sebbene questo sia
sempre possibile, non sembra tener conto del realismo della natura umana come
Dio l’ha prevista e il senso della libertà umana. Tommaso d’Aquino ha suggerito
due possibili alternative per spiegare perché l’inferno dura per sempre.
Una è che Dio semplicemente non salva coloro che sono morti in pecca-
to mortale88. Nessuno può obbligare Dio ad offrire la sua grazia ed amicizia
per sempre, e con la morte e il giudizio la magnanimità di Dio giunge il punto
finale, poiché egli non offre più la grazia che renderebbe possibile la conversio-
ne. Questa posizione ha l’inconveniente di non prendere sufficientemente sul
serio la misericordia divina, che non trae alcuna soddisfazione nella perdita dei
peccatori (Sap 1,13).
L’altra possibilità89 è che l’uomo dopo la morte sopravviva come “anima
separata”, come spirito che si è irrevocabilmente impegnato con Dio o contro di

86
C. S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, Milano 1980, 111.
87
Si veda L. Lessius, Tractatus de beatitudine, actibus humanis et legibus, in Opera 3/1, a cura di I.
Neubaur, Lanier, Paris 1852, 395.
88
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 93. Si veda anche M. Premm, Katholische Glaubenskunde,
vol. 4, Herder, Wien 19614, 656. Su questo argomento, si veda G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano,
154s. e M. Bordoni, Dimensioni antropologiche della morte, Herder, Roma 1969, 263-9.
89
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 95; De Ver. q. 24, a. 11; C. Journet, Le mal, 210-24; H.
Rondet, Les peines de l’enfer, «Nouvelle Revue Théologique» 67 (1940) 397-427; F.-X. Remberger,
Zum Problem des Höllenfeuers.

259
Capitolo VII

Lui, come fanno gli angeli e i demoni. Per ragioni puramente antropologiche,
si suggerisce che i peccatori impenitenti non sono più in grado di modificare
la propria volontà, che rimane per sempre fissata contro Dio. Questa posizione
è stata assunta da Giovanni Crisostomo90. Ugualmente Bonaventura suggeri-
sce che i condannati sono amareggiati per la loro punizione ma non rimpian-
gono il proprio peccato: «la volontà di peccare sopravvive in loro, anche se a
causa del dolore introdotto dalla loro punizione sono impediti dal peccare
effettivamente»91. Giacomo Biffi suggerisce che «la ragione vera sia da ricercare
nello stato ultraterreno e ultratemporale che ci aspetta dopo la morte e che,
essendo privo di successione, non ammette cambiamenti»92.
In teoria, la seconda soluzione rispetta di più la giustizia divina, per il
fatto che si considera che gli uomini determinino il proprio futuro. Però è una
soluzione problematica per diverse ragioni. Prima, perché gli uomini non sono
angeli e non agiscono come loro; infatti secondo la Scrittura quel che distin-
gue gli angeli dagli uomini è l’incapacità dei primi di pentirsi, e la capacità dei
secondi di farlo (Lc 15,10)93. Seconda, diversamente da coloro che contemplano
l’essenza divina e la cui volontà è fissa in Dio94, non è chiaro perché i condanna-
ti dovrebbero ratificare dopo la morte, per sempre, le decisioni che hanno preso
quando erano in vita, e non piuttosto pentirsene (Lc 16,19-31). Terza ed ulti-
ma, anche se si potesse parlare di una certa somiglianza esistente tra gli angeli
e le anime separate, questo non sarebbe possibile dopo la resurrezione finale:
non sarebbe possibile per le persone, pienamente ricostituite in anima e corpo,
cambiare di nuovo la propria volontà?
Agostino ammette che la nozione di punizione perpetua sembra contrad-
dittoria ai suoi avversari pagani, in quanto l’antropologia classica generalmente
associa la sofferenza alla corruzione, e assume che tale sofferenza deve giungere
alla fine ad un certo punto95. Nondimeno, egli spiega che la radice delle soffe-
renze non è la situazione intra-animica delle persone condannate, ma la loro

90
Crisostomo dice che non ci sarà pentimento dopo la morte. Una volta che l’anima sarà separata
dal corpo non saremo più «padroni della nostra conversione», perché ci manca la libertà di
cambiare il nostro orientamento fondamentale: De Laz. Conc. 2,3. I condannati sperimenteranno
una sorta di pentimento, egli aggiunge, ma sarà del tutto vano: In II Cor. 9,4.
91
Cit. da G. Biffi, Linee, 59.
92
Ibid.
93
Si vedano le pp. 262s.
94
Si vedano le pp. 217s.
95
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 2. Si veda A. Lehaut, L’éternité des peines de l’enfer dans S.
Augustin, Beauchesne, Paris 1912; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 148s.

260
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

tormentata relazione con Dio; essi saranno «torturati dal pentimento infrut-
tuoso», egli dice96. Alle diverse posizioni che sembrano parlare di un perdono
divino universale, Agostino offre la medesima risposta: «la Scrittura, l’infal-
libile Scrittura»: la Bibbia ci dice che tutti i peccatori saranno consegnati alla
punizione senza fine97.
Tutto sommato, non si può trovare alcuna soluzione semplice, teologica od
antropologica, per spiegare come la condanna può diventare perpetua.

La possibilità di annientamento.  Diversi autori, acutamente consapevoli della


gravità del messaggio del Nuovo Testamento rispetto alla condanna eterna,
hanno suggerito, sulla base di alcuni testi biblici98 e di altre autorità99, che i
peccatori impenitenti saranno, con tutta probabilità, semplicemente annientati
dopo la morte100. Il testo di Bernanos citato sopra suggerisce che se gli uomini
condannati non sono effettivamente annientati, in ogni caso saranno enorme-

96
Agostino, De Civ. Dei XXI, 9.
97
Si veda ibid., 23.
98
Si veda lo studio del 1988 di B. J. Korosak in nota 100 sotto. Si veda per esempio Mt 10,28;
Lc 20,36.
99
La posizione è sorta non infrequentemente lungo la storia, per esempio tra i sociniani: si veda G.
Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 67. Sulla dottrina di Socino, si veda G. Pioli, Fausto Socino: vita,
opere, fortuna. Contributo alla storia del liberalismo religioso moderno, U. Guanda, Modena 1952;
M. Martini, Fausto Socino et la pensée socinienne: un maitre de la pensée religieuse (1539-1604),
Klincksieck, Paris 1967. La medesima posizione è stata assunta dai protestanti liberali con lo scopo
di superare l’apparente irragionevolezza della condanna eterna. Per un certo grado ciò portò alla
visione ottimistica di Barth sulla predestinazione che implica la salvezza di tutti. In tempi recenti,
Berdiaev ha parlato dell’impossibiltà dell’esistenza eterna contemporanea del bene e del male.
100
La posizione è difesa particolarmente da B. J. Korosak, Credo nella vita eterna. Compendio
di escatologia, Pontificia Università Urbaniana, Roma 1983, 74; L’eternità dell’inferno, «Euntes
Docete» 41 (1988) 483-94; Pensare l’oltre: l’inferno esiste? E quale inferno?, in Aa.vv., Sulle cose
prime e ultime, Augustinus, Palermo 1991, 71-84, che riprende argomenti della teologia di
von Balthasar, Bouillard, Brunner e Malevez. La posizione è assunta anche da T. Sartory e G.
Sartory, In der Hölle brennt kein Feuer, Deutsches Taschenbuch, München 1968, 61-248; A.
Schmied, Ewige Strafe oder endgültiges Zunichtewerden?, «Theologie der Gegenwart» 18 (1975)
178-83; M. F. Lacan, Le mystère de l’enfer, «Communio (éd. fr.)» (1979), 76-81; J.-M. Perrin, À
travers la mort l’Esprit nous recrée pour la vie sans fin, «Nouvelle Revue Théologique» 103 (1981)
58-75; J. Delumeau, Ce que je crois, Grasset, Paris 1985, 80-82; E. Schillebeeckx, Umanità: la
storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992, 180-85; A. Rizzi, L’inferno: dogma da cancellare o da
ripensare?, «Servitium» 24 (1990) 42-49; J. R. Sachs, Current Eschatology: Universal Salvation
and the Problem of Hell, «Theological Studies» 52 (1991) 227-54; A. Tornos, Escatología, vol. 2,
Publicaciones de la Universidad Pontificia Comillas, Madrid 1991, 226-31; J. L. Kvanvig, The
Problem of Hell, University Press, New York; Oxford 1993; M.-É. Boismard, Faut-il encore parler
de “résurrection”?: les données scripturaires, Cerf, Paris 1995, 164ss. E. Jüngel, Tod, 117-20, parla
della possibilità dell’auto-annullamento dell’uomo. La posizione è rifiutata da autori protestanti
come F. Heidler, Die biblische Lehre von der Unsterblichkeit der Seele, Sterben, Tod, ewiges Leben
im Aspekt lutherischer Anthropologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1983, 122-39.

261
Capitolo VII

mente diminuiti nelle loro capacità naturali; egli parla dei condannati come di
«quelle pietre roventi che furono degli uomini»101.
È vero che i condannati debbano essere considerati come uomini mancati
e gravemente diminuiti, e perciò, “meno” uomini di coloro che sono salvati.
Tuttavia, questa spiegazione non prende in considerazione il fatto che Dio ha
costituito tutti gli uomini a sua immagine e somiglianza, come esseri immor-
tali102, e che se annientasse i peccatori induriti, andrebbe contro il suo disegno
originario103. Inoltre, la proposta non si accorda bene con l’ovvio significato dei
testi della Scrittura104. «Tu infatti ami tutte le cose che esistono», leggiamo nel
libro della Sapienza, «e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussi-
stere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non
fu chiamato all’esistenza?» (Sap 11,24s.).
Inoltre, la possibilità di annullamento implicherebbe una ingiustificata
confusione tra l’ordine della grazia/salvezza e quello della umana natura/crea-
zione105. È vero che la “morte” e nullità derivano in qualche modo dal peccato106.
Ma gli uomini non godono del completo controllo sulla propria vita, e sono
incapaci di un totale suicidio metafisico. Anche nell’inferno il dominio di Dio
e la sua Sovranità saranno rispettate. Sebbene gravemente diminuiti, quindi, i
condannati rimarranno uomini per sempre.

3. Giustizia e misericordia divine nella concezione


del mistero dell’inferno
La punizione temporale ha uno scopo comprensibile: intende purificare e
correggere il peccatore. La punizione perpetua, invece, appartiene ad un altro
ordine, in quanto sembra non ottenere nulla per la persona condannata. La vita
del condannato diventa inutile, irrilevante, sterile, e così per sempre. Ora, come
un Dio onnipotente ed onnisciente potrebbe creare un uomo che alla fine possa

101
«L’errore comune a tutti è di attribuire a codeste creature abbandonate ancora qualcosa di noi,
della nostra perpetua mobilità, mentre esse sono fuori del tempo, fuori del movimento, fissate per
sempre… La disgrazia, l’inconcepibile disgrazia di quelle pietre roventi che furono degli uomini, è
che non hanno più nulla da condividere» G. Bernanos, Diario di un curato, 158.
102
Si vedano le pp. 39ss. sopra.
103
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 244s.
104
Si veda G. Colzani, La vita eterna, 160s.
105
Sulla sopravvivenza dell’anima umana tra la morte e la resurrezione, si vedano le pp. 391s sotto.
106
Si vedano le pp. 317s sotto.

262
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

cadere in questa situazione? La tragedia scritta in questa domanda è espressa


nelle parole stesse di Gesù: «il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui;
ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per
quell’uomo se non fosse mai nato» (Mt 26,24). Meglio non essere mai nati che
essere condannati per sempre. Allora perché un Dio onnisciente ha creato esseri
che alla fine potrebbero essere condannati? Da parte di Dio, la condanna eterna
sembra essere, almeno ad un certo livello, se non ingiusta, certamente non mise-
ricordiosa. Comprensibilmente, autori come Gregorio di Nissa giungono alla
conclusione che Dio non punisce in modo vendicativo, ma solo per «separare il
buono dal cattivo e porlo nella comunione della beatitudine»107. Kierkegaard (†
1855) lo esprime così: «che Dio possa creare creature libere al suo cospetto è la
croce che la filosofia non è capace di portare, ma che deve accollarsi»108.
Tuttavia, potrebbe essere utile considerare alcune questioni preliminari.

Sulla giustizia e la misericordia. In termini precisi la condanna eterna non


implica una ingiustizia da parte di Dio, dal momento che Dio dà a ciascuno
secondo i suoi meriti. I peccatori, tentando di esercitare un dominio dispotico
sugli esseri creati da Dio, cercano con superbia la propria auto-sufficiente soli-
tudine. Ciò va contro la vera natura e il vero destino che Dio ha preparato per
loro. La comunione personale con Dio diventa semplicemente impossibile. Gli
uomini sono condannati per loro stessa colpa. Non possono incolpare altri che
se stessi. Secondo la dottrina della fede, Dio offre agli uomini tramite Cristo e lo
Spirito le opportunità di cui hanno bisogno per pentirsi dei propri peccati109. Il
loro rifiuto nel farlo è tanto un triste ricordo della insistenza paziente e miseri-
cordiosa di Dio nel salvarli, quanto della sua giustizia.
Eppure, sebbene si possa dire che la condanna non implica l’ingiustizia da
parte di Dio, sembra certamente implicare una mancanza di misericordia, l’“attri-
buto” che dovrebbe caratterizzare l’agire divino nei confronti del peccatore110. Da
una parte, va notato che Dio fino ad un certo punto esercita la misericordia verso
i peccatori per il fatto che, secondo molti autori, egli li punisce meno di quan-
to meriterebbero111. Ad un livello più sostanziale, tuttavia, è facile condividere le

107
Gregorio di Nissa, De anima et Res.
108
S. Kierkegaard, Diario II, A, 752.
109
Questa è una conseguenza della dottrina della volontà di salvezza universale di Dio: 1 Tm 2,4;
DS 624; CCC 605.
110
Si veda Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia (1980), passim.
111
La misericordia di Dio si estende anche ai più grandi peccatori, dice Agostino, per «il fatto
che egli li farà soffrire punizioni meno orribili di quelle che meritano», De Civ. Dei XXII, 24.

263
Capitolo VII

proteste fiduciose di Santa Caterina da Siena († 1380) per il fatto che lei non sareb-
be stata contenta finché uno solo di coloro che sono uniti a lei in natura o grazia
sia stato condannato. Lei implora Dio che, se possibile, l’inferno venga semplice-
mente distrutto112. I suoi sentimenti sono stati e sono condivisi da moltissimi.
Si dovrebbero ricordare tuttavia che la misericordia di Dio non rende vana
la consistenza e il realismo dell’azione umana. Un Dio misericordioso non è un
Dio indifferente. E in Cristo Dio ha impegnato totalmente se stesso al fine di
redimere il genere umano, fino ad accettare la morte del suo unico Figlio sulla
Croce113. Se le azioni peccaminose degli uomini fossero di poca rilevanza nella
loro relazione con Dio, qualcosa del genere si potrebbe dire delle loro azioni
buone che meritano la salvezza. La grandezza dell’amore di Dio è manifestata
dalla serietà con cui egli considera le nostre azioni, buone e cattive. La miseri-
cordia ha poco a che fare con la tollerante trascuratezza, con il disinteresse per la
situazione reale degli uomini. San Tommaso d’Aquino dice che «la misericordia
non rende la giustizia superflua, ma, per così dire, è la pienezza della giustizia
(quaedam iustitiae plenitudo)»114.
Il contrasto che noi sentiamo tra la giustizia e la misericordia deriva dall’im-
perfezione con cui gli uomini vivono queste virtù. Ma in Dio la giustizia si iden-
tifica con misericordiosa, perché Dio conosce la fragilità di colui che ha fatto a
sua immagine e somiglianza, e lo tratta di conseguenza. Di più, la misericordia
è completamente giusta, perché Dio amorevolmente dà a ciascuno più di quello
di cui ha realmente bisogno e che merita. Inoltre, si dovrebbe ricordare che la
situazione di condanna è diversa per ciascuno. Le anime «discendono all’infer-
no», dice il II Concilio di Lione (1274), «anche se punite con pene differenti»115.
Tutti i condannati numericamente condividono la medesima aversio a Deo, ma

Ugualmente, Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 99, a. 2 ad 1. Si veda A. Royo-Marín,


Teología de la salvación, Editorial Católica, Madrid 1956, 363-7. San Francesco di Sales dice la
medesima cosa: «le punizioni inflitte [all’inferno] sono molto inferiori della colpa e dei crimini per
cui sono loro imposte» Trattato sull’amore di Dio, 9,1.
112
Santa Caterina dice: «Signore, come potrò essere contenta fino a che uno di questi, creati come
me a tua immagine e somiglianza, perisca o si tolga dalle tue mani? Io non voglio che nemmeno
uno dei miei fratelli, che sono congiunti miei per natura e per grazia, si perda… Se la tua verità
e la tua giustizia lo permettessero, io vorrei che l’inferno fosse distrutto, o almeno che nessuna
anima, di qui in avanti, vi scendesse. Se, salva l’unione della tua carità, io fossi posta sulla bocca
dell’inferno per chiuderla sì che nessuno vi potesse entrare, sarebbe per me cosa gratissima, perché
così si salverebbero tutti i miei prossimi» Vita di S. Caterina scritta dal B. Raimundo di Capua,
Cantagalli, Siena 1982, 27.
113
Si veda CAA 209-12.
114
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 21, a. 3 ad 2.
115
DS 858.

264
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

ci sono diversi gradi di conversio ad creatura, di quel disordinato attaccamento


alle creature che ha generato la separazione da Dio in primo luogo. Parlando di
coloro che hanno maltrattato le vedove, per esempio, Gesù dice chiaramente che
«essi riceveranno una condanna più severa» (Lc 20,47)116. Inoltre, la loro situa-
zione non sarà né migliorata né peggiorata nell’inferno, perché essi saranno
semplicemente confermati nel peccato per sempre117.

Giustizia ed ordine.  Sopra abbiamo visto che la punizione temporale ha senso


per il fatto di offrire ai trasgressori la possibilità di riparare e di convertirsi. La
punizione eterna invece sembra essere inutile per i peccatori presi individual-
mente. Si dovrebbe tenere a mente tuttavia che la punizione inflitta per i crimi-
ni di ogni genere non solo implica la possibile riparazione e purificazione del
criminale individuale, ma anche i ristabilimento dell’ordine cosmico e sociale
disturbato dall’azione peccaminosa. Come abbiamo visto prima, il peccato non
danneggia solo chi pecca, perché danneggia la sua relazione spirituale con la
Divinità, ma pregiudica anche – e seriamente – la relazione con l’intero tessuto
sociale e l’ordine cosmico. Ed è così per la semplice ragione che gli uomini sono
sociali e cosmici nel più profondo del proprio essere. Le loro azioni influiscono
direttamente su queste sfere.
Le azioni buone e cattive non solo lasciano effetti buoni e cattivi tangibili,
ma anche effetti più profondi e nascosti, che la società può tentare di riparare
con mezzi legali ed esterni, ma che Dio certamente ricorderà nel rendiconto
finale. La condanna dei peccatori, sebbene inutile per il condannato a livello
personale, costituisce in essenza un atto da parte di Dio di restituzione di giusti-
zia ed ordine nell’intera società e nel contesto cosmico. «Dio infligge punizioni,
non per il gusto di farlo, come se traesse piacere in esse, ma per amore d’altro:
cioè in considerazione dell’ordine che deve essere imposto sulle creature, ordine
nel quale consiste il bene dell’universo»118. Cioè, si può dire che l’inferno serve
per l’insieme, sebbene non necessariamente per la parte. La riparazione diventa
un evento pubblico, per così dire, quando la venuta di Cristo nella gloria rende
possibile la resurrezione finale e il giudizio universale. Infatti solo una conce-

116
Si veda Mt 16,27; Sap 6,7-9; 2 Cor 5,10; Ap 18,7.
117
Alcuni autori considerano che le sofferenze dei condannati possono essere alleviate o modificate
in modo temporale: si veda A. Piolanti, La comunione dei santi, 448s. Eppure San Tommaso dice
che «è più certo e più semplice dire che i suffragi non sono di alcuna utilità per i dannati e che la
Chiesa non dovrebbe pregare per loro» S. Th. III, Suppl., q. 71, a. 5 c.
118
Tommaso d’Aquino, III C. Gent., 144.

265
Capitolo VII

zione individualistica dell’uomo ci permetterebbe di pensare che l’inferno sia


inutile, che non raggiunga nulla.
Nella sua opera autobiografica, Varcare la soglia della speranza, il beato
Giovanni Paolo II parla della ragionevolezza della punizione eterna nel contesto
dei tremendi crimini, sia pubblici che privati, che gli uomini hanno commes-
so e continuano a commettere. «C’è qualcosa nella stessa coscienza morale
dell’uomo che reagisce davanti alla perdita di una tale prospettiva [la negazione
dell’inferno]: il Dio che è Amore non è anche Giustizia definitiva? Può accettare
questi terribili crimini, possono essi passare impuniti? La pena definitiva non
è in qualche modo necessaria per ottenere l’equilibrio morale nella storia così
intricata dell’umanità? Un inferno non è in un certo senso “l’ultima tavola di
salvezza” per la coscienza morale dell’uomo?»119

Gli uomini sono capaci di commettere peccati degni di condanna?  Ci domandia-


mo: che livello di libertà è richiesto dalle persone per commettere peccati che
durino per sempre e distruggano il loro intero progetto di vita? Vanno fatte due
osservazioni120.
Prima, come è stato suddetto, la punizione eterna non è causata dall’azione
peccaminosa in quanto tale, ma da una azione peccaminosa non pentita. Forse è
quel che si intende quando si parla di peccato “contro lo Spirito Santo”: il pecca-
to che non solo separa da Dio, forse per debolezza o passione, ma un’attitudine
che si indurisce, in modo tale che colui che lo commette si chiude al pentimento,
ed alla fine ne diventa di fatto incapace.
Secondo, diverse scuole della moderna psicologia hanno suggerito che le
azioni umane sono spesso prodotte senza piena volontà121. In termini teologici,
si potrebbe dire che le inclinazioni peccaminose lasciate dal peccato originale
personale riducono la responsabilità in maggiore o minore grado. Nondimeno,
la Scrittura parla della possibilità di chiudere il proprio cuore definitivamente
alla grazia di Dio tramite certe azioni, e che questa chiusura merita la perdi-
ta perpetua della comunione con Dio. Piuttosto che dare per scontato che la
libertà umana sia incapace di gravi crimini e dedurre da ciò che l’inferno è una
assurdità, è più corretto, almeno teologicamente parlando, considerare l’infer-

119
Giovanni Paolo II e V. Messori, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, 202.
120
Si vedano le interessanti riflessioni di J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 236, note
38s., sul legame tra colpa, responsabilità, libertà e la tendenza a negare la prima e poi le altre due.
121
Si veda per esempio B. F. Skinner, nelle sue opere Beyond Freedom and Dignity, Knopf, New
York 1972, passim; Walden Two, McMillan, New York 1976, 286.

266
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

no come una reale possibilità che parla di una volontà libera con la capacità di
chiudere se stesso all’amicizia e all’amore di Dio. In effetti, la possibilità di puni-
zione eterna è ciò che rivela, sebbene indirettamente, la profondità e il potere
della libertà umana. Nicholas Berdiaev († 1948) afferma che sono inseparabili
nell’uomo personalità, libertà e possibilità di condanna. Perciò, «se affermia-
mo sistematicamente personalità e libertà dobbiamo essere pronti ad accettare
la possibilità dell’inferno. È facile passare sopra l’idea dell’inferno, ma nel far
questo si tralasciano sia la personalità che la libertà»122.
Una tale possibilità potrebbe anzitutto suggerire una visione pessimistica
della società, del mondo e della libertà umana. Non dovrebbe essere così. Se gli
uomini dovessero essere considerati non veramente liberi e responsabili per i
crimini che commettono, la sola conclusione cui giungeremmo, dal momento
che gli uomini commettono crimini tremendamente gravi che causano soffe-
renze indicibili lungo la storia, sarebbe che il male è una parte intrinseca della
struttura della realtà. Il fatto che il male abbia origine nell’ordine della volontà,
tuttavia, significa nell’insieme che gli uomini sono, almeno in via di principio,
in grado di cambiare, di convertirsi e che il mondo può essere redento. Questo è
il Vangelo, la “buona novella” della fede cristiana.
Per concludere questa sezione, possiamo far riferimento alla concezione
“misericordiosa” dell’inferno di san Girolamo. «Dovremmo lasciar ciò alla
conoscenza di Dio solo, che ha sulla sua bilancia non solo la misericordia ma
la punizione, e che conosce coloro che deve giudicare, ed in che modo, e per
quanto. Permettiamoci solo di dire, come si addice alla fragilità umana: “Signo-
re, non punirmi nella tua ira, non castigarmi nel tuo furore” (Sal 6,1). E come
crediamo che il diavolo e tutti gli apostati e gli empi peccatori, che dicono nei
loro cuori “non esiste alcun Dio” (Sal 53,2), subiranno la punizione eterna, così
consideriamo che coloro che sono peccatori – anche empi – e tuttavia cristiani,
avranno le loro opere provate e purgate nel fuoco, ma riceveranno dal giudice
una moderata sentenza, mista alla misericordia»123.

122
N. Berdiaev, Esprit et liberté. Essai de philosophie chrétienne, Je Sers, Paris 1933, 342. Questo
autore tuttavia finisce col negare l’esistenza dell’inferno: si veda C. Journet, Le mal, 205s.
123
Girolamo, In Is. 18,66,24.

267
Capitolo VII

4. Quanto è reale la possibilità che qualche persona


venga condannata?
L’interrogativo va ora posto: dato che la condanna è una possibilità che
non contraddice apertamente la rivelazione, si tratta di una possibilità reale, o
solo di una ipotesi dottrinale che esprime, forse indirettamente, la potenza di
Dio in Cristo e il ruolo centrale della libertà umana nella salvezza? Molti saran-
no condannati? O forse pochi, o nessuno? Per ovvie ragioni, non si può dare una
risposta chiara a queste domande. Non c’è modo per dimostrare da un punto
di vista sistematico che tutti verranno (necessariamente) salvati, come Origene
tenta di fare, senza pregiudicare seriamente l’interpretazione giusta della Scrit-
tura ed opporsi all’insegnamento tradizionale della Chiesa. Questo non signi-
fica che siamo obbligati a credere che qualcuno dovrà necessariamente essere
condannato. Se ciascuna ed ogni persona può essere salvata, allora tutti i membri
dell’umanità, presi ad uno ad uno, possono essere salvati. Cioè, la salvezza di
tutti gli uomini non è una contraddizione in termini. Si può aggiungere che
laddove la Chiesa attraverso il processo di canonizzazione ha proclamato che
alcuni cristiani hanno con certezza raggiunto il cielo, non ha mai preso la strada
opposta, dichiarando che tale o tal’altra persona è stata condannata124. Tuttavia,
sarebbe scorretto dedurre una necessità sistematica o teologica nei confronti
della salvezza di tutti da una possibile universalità a posteriori125.
Quello che va tenuto a mente, come abbiamo visto sopra, è il fatto che
mentre al giorno d’oggi la maggior parte degli autori considerano l’inferno
come una possibilità estrema, una eccezione, molti altri autori cristiani lungo i
secoli – una buona parte dei teologi, scrittori spirituali e santi – hanno ritenuto
che la maggior parte dell’umanità sarà condannata126, ciò che possiamo chiama-
re la posizione massimalista. Come si può spiegare tutto ciò?

Precisando e situando la posizione massimalista.  Si possono fare alcune osser-


vazioni rispetto alla posizione che Tommaso d’Aquino riassume nella frase
pauciores sunt qui salvantur127, “quelli che sono salvati sono pochi in numero”.

124
Si veda A. Royo-Marín, La teología de la salvación, 374-7.
125
Si veda G. Biffi, Linee, 61. Durante il Concilio Vaticano II, alcuni Padri hanno richiesto che
si facesse esplicita menzione della condanna reale di alcuni. La Commissione Dottrinale replicò
che non c’era bisogno di farlo, perché la affermazioni di Gesù in materia sono espresse in tempo
futuro, non ipotetico o condizionale: si veda Acta Synodalia S. Conc. Œc. Vat. II, III, 8, Vaticana,
Città del Vaticano 1976, 144ss.
126
Si veda nota 39 sopra, e l’articolo di A. Michel, Elus (Nombre des).
127
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 23, a. 7 ad 3.

268
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

In primo luogo, che gli autori in questione, Padri della Chiesa e santi, sono
consapevoli di non avere a che fare con un articolo di fede nel senso stretto della
parola, ma piuttosto con una sorte di convinzione spirituale. Secondo, nei primi
tre secoli, i Padri della Chiesa per la maggior parte hanno assunto una posizione
meno severa, e la reazione posteriore che suggerisce la condanna della maggio-
ranza è stata in certo modo condizionata dall’insegnamento di Origene sulla
riconciliazione universale. Terzo, esiste una certa confusione negli scritti dei
Padri della Chiesa tra condanna eterna e purgatorio128. I due saranno pienamente
distinti solo durante il Medioevo. Che la maggior parte degli uomini (compresi i
credenti cristiani) debbano essere sottomessi ad una purificazione temporanea,
nell’aldilà, ovviamente, è accettabile, sebbene a giudicare dalle cose non è quel di
cui parlavano i Padri della Chiesa. Quarto, le sfide pastorali generate dall’ampia
diffusione e dal conseguente raffreddamento della fede e della vita cristiana a
partire dal quarto secolo, dall’influenza della apokatastasis di Origene, e dall’ot-
timismo superficiale che caratterizzava il pelagianesimo, spinse molti pastori ad
insistere sulla serietà della minaccia della perdizione eterna.
Va tenuto a mente che la posizione massimalista vide una ripresa di vitalità
tra i protestanti, a partire dalla dottrina calvinista della predestinazione, e tra
i cattolici, nel giansenismo, secondo cui molti o la maggior parte degli umani
saranno condannati. Malgrado le coincidenze materiali, questa dottrina ha subi-
to un cambiamento di direzione rispetto ai reali insegnamenti dei Padri, poiché
la certezza della condanna della maggioranza è diventata nei secoli recenti una
posizione dogmatica irrigidita, piuttosto che una espressione della convinzione
spirituale e della sfida pastorale. Si è accettato che Dio ha creato (alcuni) uomini
e li ha predestinati alla condanna, ed altri alla salvezza. Il potere del pecca-
to e della corruzione della volontà umana andranno solo a confermare questa
concezione. È interessante notare tuttavia che sebbene molti santi e scrittori
spirituali dei secoli recenti (Santa Teresa d’Avila, per esempio)129 hanno ritenuto
che la maggioranza dell’umanità andrà perduta, altri sono più ottimisti (forse
San Francesco di Sales)130. La testimonianza dei santi è di particolare valore in
considerazione della loro familiarità con l’operare della grazia di Dio nell’anima
e la loro profonda comprensione del mistero del peccato e della malizia.

128
Si vedano le pp. 363ss. sotto.
129
Si veda Teresa d’Avila, Moradas del Castillo Interior V, 2,14.
130
A. Michel, Elus (Nombre des), col. 2370.

269
Capitolo VII

Il messaggio del Vangelo.  Gesù «passava insegnando per città e villaggi, mentre
era in cammino verso Gerusalemme», ci racconta San Luca (13,22). «Un tale
gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Disse loro: “Sforzatevi di
entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma
non ci riusciranno”» (Lc 13,23s.). Gesù prosegue nello spiegare che è impossibile
essere salvati con le proprie forze, e i condannati sentiranno queste parole: «Voi,
non so di dove siete… Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da
mezzogiorno, e siederanno alla mensa del regno di Dio» (Lc 13,27.29).
Testi simili abbondano, in particolare nei vangeli sinottici. «Entrate per la
porta stretta; perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione,
e molti sono quelli che vi entrano», leggiamo in Matteo, «quanto stretta è la porta
e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Mt
7,13s.). «Perché molti sono chiamati», dice Gesù, «ma pochi eletti» (Mt 22,14)131.
Su questo testo si possono fare quattro osservazioni.
Prima, a colui che chiede della salvezza Gesù dà la giusta risposta alla
domanda sbagliata. La salvezza non appartiene ad un gruppo di persone in
quanto tale, ma agli individui, presi uno per uno. Come abbiamo visto sopra,
il Nuovo Testamento si sposta decisamente da un criterio etnico ad uno etico
quando si tratta di salvezza e di giudizio132. L’appartenenza esterna al popolo di
Dio – Israele o la Chiesa – implica una seria responsabilità di santità ed aposto-
lato, ma non la certezza di essere salvati. Seconda, i cristiani devono sforzarsi
con perseveranza nel fare la volontà di Dio per essere salvati. «Se il giusto a
stento si salverà», dice la Scrittura, «che ne sarà dell’empio e del peccatore?» (1
Pt 4,18). La salvezza è il frutto della grazia ma richiede un’ardua corrisponden-
za personale. Con le parole di M.-J. Lagrange, «Gesù non intende fornire una
risposta diretta di tipo speculativo. È più importante sapere quello per cui ci
dobbiamo sforzare per entrare nel palazzo»133.
Terza, il termine “molti” non equivale alla “maggioranza”, piuttosto è
opposto a “pochi”134. E per Gesù, che è venuto «a cercare e a salvare ciò che era
perduto» (Lc 19,10), “molti” che si condannano possono sembrare pochi per
noi, in quanto egli era pronto a lasciare «le novantanove pecore nel deserto ed
andare in cerca di quella perduta, finché (heōs) la trova» (Lc 15,4). In questo
senso, si può dire che anche una sola persona condannata è già troppo per Dio.

131
Si veda CAA 139s.
132
Si vedano le pp. 172s.
133
M.-J. Lagrange, Évangile selon Saint Luc, J. Gabalda, Paris 1927, 388.
134
Si veda la p. 117, note 67s.

270
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

In ogni caso, quarta, Gesù non desidera offrire una soluzione statistica ad un
problema personale. Il fatto che somiglianze superficiali possano esistere tra
due persone non significa che se l’una è salvata, così avverrà automaticamente
per l’altra. I doni di Dio di natura e grazia sono differenti per ciascuno. Dio può
chiedere molto ad una persona cui ha dato molto, nel cui caso la negligenza sarà
severamente punita (Mt 25,14-30); ed invece ad uno che ha ricevuto poco, sarà
richiesto molto meno, e se la sua risposta sarà più generosa, la sua eterna unione
con Dio sarà più ricca.

Il numero dei salvati.  Il libro dell’Apocalisse parla in differenti occasioni di un


numero particolare di coloro che saranno salvati, 144.000 (Ap 7,4; 14,1.3). È
sottinteso che il resto andrà perduto. Va tenuto a mente, tuttavia, che il numero
in questione fa riferimento anzitutto alla perfezione e alla straordinaria abbon-
danza dell’agire divino: 12x12, il numero delle tribù di Israele, 4, il numero degli
elementi (terra, aria, fuoco, acqua) oppure le quattro parti della terra (terra,
mare, cielo, abissi); 10x10x10, la quantità perfetta135. Questa tipologia si può
trovare altrove nel libro dell’Apocalisse, in cui la cifra 144.000 è come un segno
della perfezione nella costituzione della Gerusalemme celeste (Ap 21,17).
In ogni caso, sembra più logico che pochi saranno perduti e la maggioran-
za sarà salvata, dati i seguenti fattori: l’abbondanza della misericordia divina,
massimo attributo di Dio136; la giustizia divina, perché, come disse Santa Teresa
di Lisieux, i cristiani aspettano tanto dalla giustizia di Dio quanto dalla sua
misericordia137; la dottrina della volontà di salvezza universale di Dio (1 Tm 2,4),
che «non gode della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua
malvagità e viva» (Ez 33,11)138; l’abbondanza dell’opera di redenzione di Cristo,
poiché «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20; cf. Gn 3,16);
la potente intercessione della Madonna per i peccatori; ed in ultimo le molte vie
per le quali i peccatori possono essere purificati, in particolare in purgatorio.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica conclude: «Le affermazioni della
Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un

135
Si veda M.-É. Boismard, L’Apocalypse, in A. Robert e A. Feuillet (a cura di), Introduction à la
Bible, vol. 2: Nouveau Testament, Desclée, Paris 1959, 709-42, in particolare, 715.
136
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 21, a. 3; Giovanni Paolo II, Enc. Dives in Misericordia;
Dominum et vivificantem (1986), nn. 53s.; Redemptoris Missio (1990), nn. 10 & 28.
137
«J’espère autant de la justice du Bon Dieu que de sa miséricorde» Teresa di Lisieux, Lettera al
P. Roulland datata il 9 maggio 1897, in Lettres de sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus, Office central,
Lisieux 1948, 226.
138
Si veda anche 2 Cor 5,15; 1 Gn 2,2.

271
Capitolo VII

appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in
vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante
appello alla conversione»139.

5. I cristiani possono “sperare” la salvezza di tutti?


Sebbene sia possibile ad un livello ipotetico che tutti saranno salvati (se
uno per uno possono essere salvati, ciascuno e tutti potrebbero esserlo), è chia-
ramente ingiustificato credere nella salvezza di tutti, poiché la dottrina della
fede insegna che coloro che muoiono in stato di peccato mortale saranno eter-
namente condannati. Ogni costruzione teologica che sistematicamente implichi
la salvezza di tutti (viene in mente particolarmente la apokatastasis di Origene)
deve essere esclusa. In effetti, l’atto di fede cristiana è diretto a Dio, che credia-
mo darà a tutti gli uomini la grazia necessaria alla conversione. Tuttavia questo
nostro atto non può includere la risposta personale di ciascun individuo, richie-
sta per la salvezza.
Infatti è divenuto piuttosto comune ultimamente ritenere che tutti gli
uomini, senza eccezione, verranno salvati. Questa è la posizione dei protestanti
Karl Barth140 e Wilhelm Michaelis141, anche se molti evangelici non condividano
la loro posizione, per il fatto che allontanerebbe dalla serietà del giudizio divi-
no142. Sebbene gli autori orientali tradizionalmente rifiutarono l’apokatastasis
di Origene, alcuni recenti teologi ortodossi, come Sergei Bulgàkov and Pavel
Evdokimov († 1970) sono più aperti ad essa143. Questo per ragioni simili a quelle
avanzate da Scoto Eriugena144 ed altri, e cioè per il fatto che se Dio non elimi-
nasse tutto il male, alla fine, la realtà del male e della perversione costituirebbe

139
CCC 1036.
140
La posizione di Barth è sottile: «Apokatastasis panton? [La riconciliazione di tutti?] No, perché
una grazia che raggiunge ed abbraccia tutti e ciascuno non sarebbe libera grazia, non sarebbe
grazia divina. Ma se è grazia divina, come impediamo a Dio di riconciliare tutti?» Die Botschaft
von der freien Gnade Gottes, Evangelisches Verlag, Zürich; Zollikon 1947, 8. Altrove egli scrive:
«Chiunque non creda nella apokatastasis è un bue, chiunque dica di farlo è un asino» Dogmatik im
Dialog, vol. 1: Die Kirche und die Letzten Dinge, a cura di F. Buri et al., Mohn, Gütersloh 1973, 314.
141
W. Michaelis, Die Versöhnung des Alls, Haller, Bern 1950.
142
Si veda per esempio P. Althaus, Die letzten Dinge, Bertelsmann, Gütersloh 19649, 187-96; E.
Brunner, Das Ewige als Zukunft, 197ss. P. Maury, L’eschatologie, Labor et Fides, Genève 1959,
assume la seguente posizione: «dobbiamo rifiutare la falsa dottrina evangelica, come quella di
Origene, della restaurazione di ogni cosa, che in ultima analisi sarebbe il ri-stabilimento di tutto
il peccato» 85.
143
Si veda M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 130-2.
144
Si veda Scoto Eriugena, De divisione naturae V, 28s.

272
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

un principio eterno, coesistente a fianco di Dio. Una posizione simile è stata


assunta da Charles Péguy145.
Altri autori sono dell’opinione che laddove sarebbe improprio credere
nella salvezza di tutti, i cristiani al contrario dovrebbero sperare nella salvezza
di tutti146. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo: «Dio non predestina
nessuno ad andare all’inferno; questo è la conseguenza di una avversione volon-
taria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia
eucaristica e nelle preghiere quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la mise-
ricordia di Dio, il quale non vuole “che alcuno perisca, ma che tutti abbiano
modo di pentirsi” (2 Pt 3,9): “Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che
ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: disponi nella tua pace i
nostri giorni, salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti”
(Canone Romano)»147. Il testo appena citato del Canone Romano (o I Preghiera
Eucaristica) sembra una petizione a Dio per la salvezza di tutti, perché nessu-
no sia condannato. E come dice Tommaso d’Aquino, oratio est interpretativa
spei148, “la preghiera interpreta la speranza”: chiediamo a Dio quel che abbiamo
diritto di sperare da Lui. Inoltre, essendo una preghiera liturgica, la preghiera
della Chiesa intera, una tale petizione deve avere un valore speciale.

La posizione di von Balthasar.  L’autore che ha difeso più strenuamente la posi-


zione secondo la quale dobbiamo sperare nella salvezza di tutti è Hans Urs von
Balthasar149. Egli ritiene che questa dottrina sia insegnata, oltre ad Origene, da
importanti scrittori cristiani come Gregorio di Nissa, Didimo il Cieco e Massi-
mo il Confessore. La base della loro argomentazione è duplice, egli sostiene:
primo, che nel disegno di Dio la fine coincide con l’inizio: perciò tutti gli esseri
spirituali alla fine devono essere riconciliati; e secondo, che il male, essendo
una realtà finita, non può durare per sempre. Dal punto di vista spirituale e
cristologico, von Balthasar aggiunge che la morte di Cristo in Croce e la sua

145
Si veda E. Mounier, La pensée de Charles Péguy, Plon, Paris 1931, 182s.
146
Karl Rahner parla in termini simili: «in quanto cristiana, l’umanità ha il diritto e il sacro
“dovere” di sperare che la storia della libertà avrà, per sé e per gli altri, una fine felice» G. Mann –
K. Rahner, Weltgeschichte und Heilsgeschichte, in Christlicher Glaube in moderner Gesellschaft 23,
Herder, Basel; Wein 1982, 87-125, qui 114. La medesima idea si trova in O. González de Cardedal,
Madre y muerte, Sígueme, Salamanca 1993, 115.
147
CCC 1037.
148
S. Th. II-II, q. 17, a. 2 ad 3.
149
Le opere principali di von Balthasar sull’argomento si trovano in Sperare per tutti, Jaca Book,
Milano 1997. Sono state pubblicate originariamente come Was dürfen wir hoffen? e Kleiner
Diskurs über die Hölle, Johannes, Einsiedeln 1986.

273
Capitolo VII

successiva “discesa agli inferi” (la suprema espressione della kenosis, o dell’auto-
svuotamento di Dio) è così radicale da trasformare il cuore stesso della realtà, le
stesse profondità dell’inferno, il cuore di tutti i peccatori150.
Dal punto di vista storico, tuttavia, è certo che Didimo abbia assunto la
posizione di Origene, però la dottrina della riconciliazione universale non si
incontra in Gregorio e Massimo. Gregorio di Nissa, come abbiamo già visto,
parla della riconciliazione della natura come totalità, ma non di ciascuno e di
ogni individuo151. La necessità di distinguere tra natura è persona va al fondo
stesso della sua teologia trinitaria. Ugualmente per Massimo il Confessore il
progetto di Dio richiede la salvezza della natura, ma non di ogni persona152.
Inoltre, lo studioso biblico Pierre Grelot dice che «nessun testo della Scrit-
tura offre il minimo fondamento» per la dottrina dell’apokatastasis153. Gli autori
che insegnano questa dottrina sbagliano quando tentano di estendere l’univer-
sale al particolare, identificando la volontà di Dio di salvare tutti con l’effettiva
salvezza di tutti154. Il fatto è che Dio non può condannare l’uomo senza il consen-
so dell’uomo. E l’uomo è capace di prendere decisioni irrevocabili155. Parlando

150
Si veda H. U. von Balthasar, Theologie der drei Tage: Mysterium Pasquale, Benzinger, Zurich
1969; Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 277-284. Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi ha questo
da dire: «Cristo è disceso nell’“inferno” e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui
le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. È sorta, tuttavia,
la stella della speranza – l’ancora del cuore giunge fino al trono di Dio» SS 37.
151
Si veda la nota 29 sopra.
152
Si veda Massimo il Confessore, Quaest. ad Thal. 22,59,63. Massimo non riteneva che la salvezza
per tutti fosse una speranza legittima: Quaest. et dubia 1,13. Von Balthasar, nella sua opera su
Massimo, Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus’ des Bekenners, Johannes, Einsiedeln 19612,
segue la posizione di E. Michaud, S. Maxime le confesseur et l’apocatastase, «Revue internationale
de théologie» 10 (1902) 257-72, che afferma che Massimo in realtà insegna l’apokatastasis.
Tuttavia, studi successivi hanno mostrato in modo definitivo che questa non era la posizione di
Massimo, in particolare quelli di S. Schiewietz (in nota 32); P. Sherwood, The Earlier Ambigua
of saint Maximus Confessor and his Refutation of Origenism, Herder; Pontificium Institutum S.
Anselmi, Roma 1955; B. E. Daley, Apokatastasis and “Honorable Silence” in the Eschatology of
Maximus the Confessor, in Maximus Confessor. Actes du symposium sur Maxime le Confesseur
(1980), a cura di F. Heinzer and C. Schönborn, Editions Universitaires, Fribourg 1982, 309-39;
e The Hope of the Early Church, 202. Von Balthasar si dice non convinto di questa critica: Was
dürfen wir hoffen?, 51s., nota 38.
153
P. Grelot, Le monde à venir, Le Centurion, Paris 1974, 120.
154
Inter alia, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 241-4.
155
Autori come J. R. Sachs, Current Eschatology: Universal Salvation and the Problem of Hell,
«Theological Studies» 52 (1991) 227-54, spiega che l’irrevocabilità del “no” dell’uomo deve derivare
dalla libertà umana, non dalla grazia. E ciò, egli ritiene, non è possibile. In questo senso la volontà
dell’uomo sarà sempre in grado di rivolgersi a Dio. Autori come K. Rahner, Ewigkeit aus Zeit, in
Schriften zur Theologie, vol. 14, Benzinger, Einsiedeln; Zürich 1980, 422-34, su cui Sachs basa la
sua discussione, dicono tuttavia che la libertà è “costitutivamente abilitata”, e capace di scegliere
una volta per tutte. È così perché, secondo Rahner, nel suo profondo la libertà è intrinsecamente

274
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori

della possibilità di condanna eterna, Joseph Ratzinger dice che quel che è pecu-
liare del cristianesimo «emerge qui nella affermazione della grandezza dell’uo-
mo: la sua vita è un caso di estrema serietà». Al contrario, «l’aspettativa di una
riconciliazione universale consegue dal sistema, ma non dalla testimonianza
biblica»156. Ritenere il contrario equivarrebbe ad una visione totalitaria della
salvezza, che Torres Queiruga denomina “verticalismo teocentrico”157. Sesboüé
ritiene inoltre che la concezione di von Balthasar che parla di Cristo che si assu-
me le sofferenze dei condannati, tenta di comprendere l’incomprensibile158, e in
termini reali tende alla apokatastasis.

Sperare la salvezza per tutti?  Ma cosa si può dire del concetto di von Balthasar
secondo cui i cristiani dovrebbero sperare la salvezza di tutti? L’oggetto della
speranza cristiana è duplice: la gloriosa Parousia di Cristo alla fine dei tempi; e
la salvezza di ciascuno degli eletti. È chiaro che la speranza comune dei cristiani
è costituita dalla venuta di Cristo nella gloria, con il quale il mondo sarà rinno-
vato, i morti fatti risorgere, l’umanità definitivamente giudicata e resa giustizia
una volta per tutte. È anche chiaro che ciascun cristiano debba sperare per la
propria salvezza. Perdere la speranza implicherebbe una colpevole sfiducia in
Dio che ha promesso in Cristo di offrire la sua grazia salvifica a tutti. In altre
parole, la speranza dell’individuo per la salvezza e la sua personale risposta alla
grazia coincidono in re.
Tuttavia, anche se la speranza cristiana deve includere la fede nella bene-
volenza di Dio verso ogni uomo, semplicemente non può includere la risposta
di ciascuno alla grazia di Dio, essendo questa risposta diritto e dovere esclusivo
per ciascun credente cristiano, per ogni persona. L’atto di speranza dell’uomo
include ipso facto la sua propria risposta a Dio, ma non la risposta personale
degli altri. È giusto dire che i cristiani possano e debbano desiderare la salvezza
per tutti, dal momento che Dio la cerca (1 Tm 2,4). Inoltre, dovrebbero cercare
di raggiungere questo scopo con la grazia di Dio e nel tentativo di comunicar-
la al resto dell’umanità. Tuttavia, la salvezza per ciascuno ed ognuno non può
in quanto tale essere considerata come oggetto adeguato di speranza cristiana

legata con la grazia, con il “soprannaturale esistenziale”. In ogni caso Rahner, da un punto di vista
puramente antropologico, ritiene che la definitiva esclusione da Dio sia possibile.
156
J. Ratzinger, Escatologia, 225s.
157
A. Torres Queiruga, ¿Qué queremos decir cuando decimos “infierno”?, Sal Terrae, Santander
1995, 98.
158
Si veda B. Sesboüé, Bullétin de Théologie Dogmatique: Christologie, «Recherches de science
religieuse» 59 (1971) 88s.

275
Capitolo VII

nel senso stretto della parola. Se Dio stesso non ha intenzione di soppiantare
o sopprimere la libera volontà di ciascun cristiano, su quale base altri uomini
dovrebbero essere in grado di farlo? Gli elementi collettivi ed individuali della
escatologia cristiana sono strettamente correlati, senza dubbio, ma non si posso-
no ridurre l’uno l’altro.

276
PARTE TERZA

LO STIMOLO DELLA SPERANZA NEL MONDO


Capitolo VIII

LA PRESENZA VIVENTE DELLA PAROUSIA

Mia vita, non ti lascerò andare a meno che tu mi benedica,


ma poi ti lascerò andare
Karen Blixen1

Non resistiamo alla prima venuta,


così che la seconda possa non sorprenderci
Agostino2

Quia tu Domine singulariter in spe constituisti me


Sal 4,9

Quando avrà luogo la Parousia?  Come abbiamo visto prima, il momento in cui
la Parousia avrà luogo dipenderà, fino ad un certo punto, dalla corrispondenza
umana (o dalla sua mancanza) ai doni e all’illuminazione di Dio3. In Mt 23,39
leggiamo: «vi dico infatti che non mi vedrete più finché direte: “Benedetto colui
che viene nel nome del Signore”». Questo non significa “quando il Messia verrà,
il suo popolo lo benedirà”, ma piuttosto l’opposto, “quando il suo popolo lo bene-
dirà, il Messia verrà”4. Questa dichiarazione è confermata dall’ammonizione di
Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Con tutto, il ritorno del Signore Gesù nella gloria è fondamentalmente un
atto di Dio, un atto di potenza divina. Dio è l’unico Sovrano, l’unico Signore, il
solo in grado di decidere quando l’umanità è veramente pronta, il solo capace
di far risorgere i morti e giudicare gli uomini. Perciò, «quanto… a quel giorno
o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre»

1
I. Dinesen (ps. Karen Blixen), Out of Africa – Shadows on the Grass, Vintage International, New
York 1989, 265. Si veda Gn 32,27.
2
Agostino, Enn. in Ps. 95,14.
3
Si vedano le pp. 89s.
4
Si veda la p. 89, note 106s.

279
Capitolo VIII

(Mc 13,32; cf. Mt 24,36). Mentre saliva al cielo, Gesù conferma questo messagio
per i suoi discepoli: «non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre
ha riservato al suo potere» (At 1,7). Ed Agostino commenta: «Chiunque affer-
ma che il Signore verrà presto, forse sta parlando in un modo pericolosamente
sbagliato»5. «Infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro
di notte», scrive Paolo ai Tessalonicesi. «E quando la gente dirà “c’è pace e sicu-
rezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna
incinta; e non potranno fuggire» (1 Ts 5,2s.).
Sembra accertata la posizione di Bonaventura, che suggerisce che non
sappiamo l’ora del giudizio finale perché non ne abbiamo realmente bisogno
per assicurarci la salvezza6. Schweitzer e la scuola dell’escatologia “conseguente”
insegnano che la vaghezza ed imprecisione del Nuovo Testamento riguardo alla
fine del mondo e al ritorno del Messia indicano che Gesù fosse inconsapevo-
le della sua missione e sbagliava rispetto alla propria identità7. Sembra piutto-
sto che questa imprecisione, per quel che vale, sia alla base di una importante
affermazione teologica: solo Dio sa quando il tempo è pronto per la raccolta
(Mt 3,12); e manderà suo Figlio dalla sua destra per giudicare il mondo quando
ritiene meglio, né prima né dopo. «Lasciate che l’una e l’altro [la zizzania e il
grano] crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai
mietitori, “raccogliete prima la zizzania”» (Mt 13,30).
Tuttavia, appare chiaro dalla Scrittura e dall’esperienza della vita cristia-
na, che il potere e la presenza della Parousia si facciano già sentire qui sulla
terra prima che la definitiva venuta del Signore Gesù avrà luogo. Come abbiamo
visto in precedenza, l’escatologia cristiana non è interamente riferita al futu-
ro; è anche, sebbene non solo, una escatologia “realizzata”8. Gli “ultimi giorni”
stanno già in atto. La salvezza ottenuta da Cristo è come un fermento viven-
te, costantemente animato dallo Spirito Santo, che agisce e muove e cambia i
cuori e la vita degli uomini, spingendoli verso il regno di Dio. Per Agostino, una
immagine chiave per l’economia della salvezza si trova nel carattere pellegri-
nante della Chiesa, mentre spera e desidera ardentemente la sua piena realizza-
zione. La Chiesa, egli dice, «come uno straniero in una terra lontana, prosegue
tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio»9. Massimo il Confessore

5
Agostino, Ep. 199 de fine saeculi.
6
Bonaventura, In IV Sent., D 48, a. 1.
7
Si vedano le pp. 76ss.
8
Si vedano le pp. 77s.
9
Agostino, De Civ. Dei XVIII, 51,2.

280
La presenza vivente della Parousia

spiega che per quanto riguarda l’avvicinarsi di Dio a noi, la “fine dei tempi” è già
arrivata, ma per quanto riguarda il nostro avvicinarci a Dio, è ancora avanti a
noi, e finora è presente solo in “tipi e modelli”, attraverso la grazia10.
In questo capitolo considereremo la questione della presenza vivificante
della Parousia nella vita attuale, lo stimolo della speranza nel mondo, da quattro
punti di vista. Primo, considereremo come, secondo la testimonianza del Nuovo
Testamento, il “Regno di Dio” è presente e attivo durante il soggiorno terreno di
Cristo e lungo tutta la vita della Chiesa, in particolare nell’azione sacramentale e
nella predicazione della parola. Poi descriveremo tre modi in cui il Regno di Dio
diventa umanamente visibile e tangibile: nei testi della Scrittura che parlano
della visibilità del Regno; nei “segni” o portenti della fine dei tempi che, secondo
il Nuovo Testamento, segnalano la presenza del Signore ed indicano la vicinan-
za della Parousia; e nelle differenti manifestazioni lungo la storia del fenome-
no del millenarismo, che ha importanti conseguenze per la comprensione del
grado in cui l’escatologia si sia “realizzata”11.

1. La presenza e il dinamismo del Regno di Dio


I cristiani non sanno come e quando la potenza di Dio si manifesterà final-
mente, né «i tempi o momenti che il Padre ha riservato» (At 1,7). Tuttavia, ci
viene detto negli Atti degli Apostoli, da Cristo gli Apostoli riceveranno «la forza
dallo Spirito Santo che scenderà su di voi; e di me sarete testimoni a Gerusalem-
me, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). L’escato-
logia cristiana è indirizzata ad un futuro, ha un elemento definitivo, pubblico ed
universale, ma ha anche un inizio qui sulla terra con l’opera salvifica di Cristo,
che ha inviato lo Spirito Santo, e ha mandato i suoi Apostoli e discepoli ad evan-
gelizzare il mondo finché non verrà di nuovo nella gloria. Lo Spirito di Cristo è
così presente e attivo che san Paolo ha potuto dire che «non vivo più, ma Cristo
vive in me» (Gal 2,20). Ovviamente se Dio è il Creatore di tutto quello che esiste,
la sua Signoria sull’universo non può essere concepita in termini puramente
escatologici. Dio è stato, è e sarà sempre, il Signore dell’universo, anche se il
suo dominio non ci è sempre evidente, tangibile. In questo senso, l’universo e
tutto ciò che contiene è il regno di Dio, il dominio di Dio, il reame dell’effettiva
sovranità di Dio. E se certi aspetti ed elementi del mondo creato de facto non si

10
Massimo il Confessore, Quaest. ad Thal. 22.
11
Nel capitolo I, pp. 56ss., abbiamo già considerato un aspetto essenziale della presenza e dello
stimolo della speranza nel mondo, che sostiene tutto il resto, cioè l’azione dello Spirito Santo.

281
Capitolo VIII

trovano attualmente sotto la sovranità di Dio, ciò è dovuto principalmente alla


peccaminosità umana12.
Il tema del “regno di Dio” è assolutamente centrale nella predicazione di
Cristo; il termine (basileia tou Theou) ricorre più di 120 volte nel Nuovo Testa-
mento, almeno un centinaio nei Sinottici, e una novantina di volte sulle labbra
di Gesù stesso13. Invece del termine “regno di Dio”, il vangelo di Matteo parla del
“regno dei cieli”. Le due espressioni sono rigorosamente equivalenti. La seconda,
tuttavia, doveva essere di maggior gradimento tra gli Ebrei, per i quali Matteo
scrive questo vangelo, in quanto essi utilizzano il nome proprio di Dio con la
massima moderazione possibile. Ma la natura “celeste” del regno di Dio non indi-
ca in nessun modo che questo appartiene o fa riferimento ad una sfera esclusiva-
mente spirituale, nascosta o ultraterrena. La sovranità di Dio è e dovrebbe essere
assoluta sulla terra quanto in cielo: così i cristiani pregano nel Padre Nostro (Mt
6,10). Cioè, proprio come gli angeli e i santi si sottomettono liberamente a Dio in
ogni cosa, così dovrebbero fare anche gli uomini e l’intero universo.

Cristo come manifestazione definitiva del Regno di Dio.  Nell’Antico Testamento


viene detto che il regno di Dio è presente sulla terra, provvisoriamente, come
in aspettativa. Dio esercita la sua regalità attraverso strumenti umani (giudici,
profeti, veggenti e re), ma soprattutto promette che quando il Messia (il Cristo)
verrà, il suo regno si stabilirà sulla terra definitivamente.
Fin dall’inizio del Nuovo Testamento la venuta del regno di Dio è messa in
relazione con il pentimento del peccato e con la salvezza. Gesù nostro Salvatore
annuncia che con la sua venuta, «il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino;
convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15). In effetti, il diavolo che induce gli
uomini a peccare era diventato in un certo senso «il principe (archōn) di questo
mondo» (Gv 12,31), e Gesù, il vero Signore, è venuto per “gettarlo fuori” (ibid.).
Tuttavia, l’elemento più critico dell’insegnamento del Nuovo Testamento sul
regno di Dio non si trova tanto nel fatto che la sovranità divina diventa presente
ed attiva con la venuta di Cristo. Perché Gesù non solo proclama il regno, ma
Egli è, in persona, la sua manifestazione principale.

12
Sul ruolo centrale del Regno di Dio nell’escatologia cristiana, si veda J. Ratzinger, Escatologia, 44-55;
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 553-558; J. J. Alviar, Escatología, 96-151. Sull’estesa
bibliografia disponibile sull’argomento, si veda l’opera recente di L. D. Chrupcala, The Kingdom of
God: a Bibliography of 20th Century Research, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2007.
13
Si veda BDAG, 168s., s.v. βασιλεία, specialmente 1, b, β.

282
La presenza vivente della Parousia

La Costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano II riassume questa


dottrina come segue: «questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle
parole, nelle opere e nella presenza di Cristo»14. Nelle sue parole, principalmente
attraverso le parabole (si pensi per esempio al seme piantato in un campo che
cresce per la raccolta: Mc 4,14.26-9)15; nelle sue opere, in particolare nei miracoli
(per esempio la cacciata dei demoni: «se invece io scaccio i demoni con il dito
di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio», Lc 11,20); e nella sua stessa presen-
za. Infatti, la Lumen gentium specifica che «innanzitutto il regno si manifesta
nella stessa persona di Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto a
“servire e a dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10,45)»16. André Feuillet spiega
che «la presenza del Regno di Dio non si trova solo nell’azione, ma nella persona
stessa di Gesù; questo è suggerito nei Sinottici con l’enfasi speciale data all’“Io”
di Gesù»17. Ethelbert Stauffer lo esprime così: «Gesù pone fine ad un’epoca reli-
giosa inaugurandone un’altra totalmente dipendente da lui stesso»18.
Joseph Ratzinger pone attenzione al fatto che mentre nei vangeli (in parti-
colare nei Sinottici), l’argomento del Regno di Dio è assolutamente centrale, in
altri scritti del Nuovo Testamento (gli Atti, le lettere di Paolo, Giovanni, ecc.), è
quasi totalmente assente. Potrebbe essere così, si chiede, perché Gesù ha sbaglia-
to nella sua predicazione, o perché i primi cristiani sono stati infedeli alla sua
parola? Alfred Loisy era forse nel giusto quando diceva all’inizio del XX secolo
che «Gesù ha predicato il regno ma è apparsa invece la Chiesa»19? Da una parte,
si può dire che tra i primi Padri della Chiesa il termine escatologico “regno”
sia stato sostituito in buona parte dal termine “resurrezione”20. D’altra parte,
Ratzinger fornisce un’altra spiegazione, più convincente e coerente, del fenome-
no: «ci si può anche chiedere se proprio questo cambiamento della parola guida

14
LG 5a.
15
Si vedano le pp. 85ss.
16
LG 5a.
17
A. Feuillet, Règne de Dieu III: Évangiles synoptiques, in Dictionnaire de la Bible, Supplément, vol.
10, col. 61-165, qui 67s.
18
E. Stauffer, Das christologische ἐγό, in TWNT 2, 243-8.
19
A. Loisy, L’Évangile et l’Église, Bellevue, Paris 19043, 155.
20
Così, W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 553s. e R. Frick, Die Geschichte des Reich-
Gottes-Gedankens in der alten Kirche bis zu Origenes und Augustinus, Töpelmann, Giessen 1928,
40. Pannenberg nota anche che con l’anti-gnosticismo di Ireneo, la dottrina della creazione
acquista importanza, in modo tale che il Regno di Dio può essere considerato già stabilito. In
altre parole, la base dell’insegnamento di Cristo sul Regno è la creazione, non l’escatologia. Con lo
gnostico Marcione, tuttavia, si è pensato che il Regno di Dio abbia inizio con la venuta di Cristo:
ibid., 554, nota 7. Secondo Giovanni Damasceno (De fide orth. 4,27), l’escatologia è derivata dalla
resurrezione e dal giudizio, e non fa riferimento al Regno.

283
Capitolo VIII

non sia forse indicativo del modo in cui lo stesso tema si mantiene valido in
circostanze differenti»21. In effetti, quando Gesù parla nei Sinottici della venuta
del regno di Dio, sta parlando fondamentalmente di sé stesso, che è esattamente
quel che fanno gli altri scrittori del Nuovo Testamento22. Questa consapevo-
lezza porta Origene ad affermare che Cristo è l’autobasileia, il “regno di Dio
in persona”23, e Tertulliano: In Evangelio est Dei regnum Christus ipse24, “nel
Vangelo il Regno di Dio è Cristo stesso”.

Come Cristo stabilisce il regno di Dio?  In che modo Cristo fonda ed erige il regno
di Dio sulla terra, essendo egli stesso la manifestazione definitiva del regno?
Primo, dobbiamo esaminare quel che Cristo ha ottenuto con la sua azione salvi-
fica, e poi come l’ha ottenuto.
Il dominio di Dio sull’universo creato è ed è sempre stato assoluto. Inoltre,
tutte le cose sono state create tramite il Verbo (Gv 1,3), il Verbo che si è incarnato
in Gesù di Nazaret per salvare l’umanità. La sovranità di Dio è incompletamen-
te manifestata solo laddove il peccato (ed i suoi correlati: la morte e il diavolo)
prevale. Perciò Cristo stabilisce il regno di Dio principalmente sconfiggendo la
triplice schiavitù di cui parla la Scrittura: del diavolo, della morte e del peccato.
Del diavolo (Lc 11,20; Eb 2,14s.), vincendo le tentazioni dirette contro di lui25,
del potere della morte, identificandosi con la mortalità umana e vincendola
tramite la Resurrezione, come vedremo nel capitolo successivo26, e del peccato,
redimendo gli uomini e offrendo loro una straordinaria abbondanza di grazia
filiale, riconciliatrice (Gv 1,16; Rm 5,20).
E come Cristo ha ottenuto la salvezza dell’umanità? Per stabilire il regno
di Dio sulla terra, Cristo, che continuamente contemplava il volto del Padre, ha
permesso alla potenza e alla presenza del Padre di penetrare nelle profondità
del suo essere, dando a Dio un dominio completo su ogni aspetto e pensiero ed
azione presente in lui. Gesù rivela il regno di Dio anzitutto facendo la volontà
del Padre in ogni cosa. «Il mio cibo è fare la volontà di chi mi ha mandato» (Gv
4,34). «La sua intera vita rivela Dio come Signore», osserva Schmaus27. Sopra
abbiamo notato l’identificazione di Gesù con il regno di Dio in termini dell’“Io”

21
J. Ratzinger, Escatologia, 45.
22
La medesima nozione è sviluppata in J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret I, 69-86.
23
Origene, Comm. in Matth., 14,7, su Mt 18,28.
24
Tertulliano, Adv. Marc. 4,33.
25
CAA 200-6.
26
Si vedano in particolare le pp. 324ss.
27
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 104 (trad. it., 101).

284
La presenza vivente della Parousia

di Cristo, per esempio quando dice “in verità, in verità Io vi dico”, o usa espres-
sioni simili. È chiaro tuttavia che il potere che egli dispensa con notevole facilità
nella sua predicazione e nei suoi miracoli è un potere divino, ricevuto dal Padre
suo, a cui si sottomette incondizionatamente (Mt 7,29).
Il mistero dell’amorosa obbedienza di Cristo culmina, per così dire, duran-
te la sua Passione e Morte. Nell’obbedienza, «fino alla morte, e a una morte
di Croce» (Fil 2,8), «Gesù ha rinunciato all’intera sovranità sulla sua vita, la
volontà propriamente umana di poter controllare la propria vita»28. Colui che è
morto sulla Croce era il Servo di Jahve (Is 49 ss.). E attraverso la sua apparente
sconfitta, Gesù non solo manifesta la sovranità del Padre sul Figlio e sull’uni-
verso, ma riceve, inoltre, dal Padre tramite la Resurrezione il potere completo e
perenne sulla creazione. «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di
sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria
di Dio Padre» (Fil 2,9-11). Attraverso la Resurrezione, leggiamo nella lettera ai
Romani, Gesù è stato costituito Figlio e Signore sull’intera creazione (Rm 1,4).
Gesù eserciterà questa potenza in modo supremo e definitivo al momento
del giudizio. Tuttavia, anche ora è attiva e tangibile nella vita della Chiesa, in e
attraverso tutti coloro che credono in lui.

La presenza e l’azione del Signore risorto nella liturgia della Chiesa.  I sacramenti
non sono solo segni che commemorano il passato, rappresentando la Passione,
Morte e Resurrezione del Signore, né semplici simboli operativi della grazia di
Dio al momento presente. In più, i sacramenti costituiscono una promessa di
gloria futura29, una prefigurazione della Parousia sperata. In quanto tali sono
destinati a scomparire alla fine dei tempi30, quando la Realtà prenderà il posto
dell’immagine. Parlando del Sacramento della Penitenza, Schmaus dice che in
esso «si esprime il giudizio che il Padre ha fatto nella morte di Cristo sull’u-
manità incorsa nel peccato… Ma contemporaneamente nel sacramento della
penitenza viene anticipato il giudizio futuro del peccatore… Se viene anticipato
nel sacramento della penitenza, perché il peccatore richiede che venga tenuto

28
Ibid., 105 (trad. it., 100).
29
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 60, a. 3. L’Aquinate parla del sacramento come signum
rememorativum, demonstrativum, prognosticum. Su questo, si veda J. M.-R. Tillard, La triple
dimension du signe sacramentel. A propos de Sum. Theol., III, 60, 3, «Nouvelle Revue Théologique»
83 (1961) 225-54.
30
LG 48c.

285
Capitolo VIII

fin d’ora su di lui, non sarà più di terrore nel futuro»31. Cioè, nel sacramento la
presenza definiva di Cristo nei credenti si “fa avanti”, si anticipa.
Di particolare importanza è l’aspetto escatologico dell’Eucaristia. In effetti, la
celebrazione eucaristica non solo applica tutta la potenza e l’efficacia del sacrificio
di Cristo sulla Croce, ma in modo reale ci dona una anticipazione della Parousia,
in quanto ci invita ad aspettare la venuta finale del Signore. Paolo è assai consape-
vole di questa presenza anticipatrice quando descrive la celebrazione eucaristica
nei seguenti termini: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete questo
calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11,26). In
diverse occasioni i documenti del Vaticano II parlano di questa presenza, come
fanno i testi liturgici lungo tutti i periodi della storia32. Con parole attribuite a Pier
Damiani, «i cittadini di entrambe le città vivono del medesimo Pane»33.

La qualità visibile e tangibile del regno di Dio.  Il regno di Dio è attivo e presen-
te nel mondo, e si spinge potentemente verso la pienezza escatologica. È una
potenza vivente, tuttavia, che non si impone. Urge, invita e provoca reazioni:
«La legge e i profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il Regno
di Dio e ognuno si sforza di entrarvi» (Lc 16,16). Eppure è un potere che rispet-
ta pienamente la libertà umana; più esattamente, suscita l’umana risposta nel
modo più umano possibile34. Esamineremo ora le differenti modalità con cui la
Scrittura descrive come il Regno di Dio diviene visibile e tangibile all’umani-
tà: testi che parlano della visibilità del Regno, ‘segni’ della Parousia. Nel primo
capitolo abbiamo già considerato ciò che è più centrale in questo processo:
l’azione dello Spirito Santo nel suscitare la speranza35.

2. La visibilità del Regno di Dio


È chiaro che Dio è il Signore dell’universo, e che anche ora Cristo esercita
la potenza divina sull’intera creazione, come Grande Re dell’universo36. È anche
certo che Dio regnerà in modo totalmente tangibile e pubblico solo quando Cristo

31
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2, 116 (trad. it., 112). La medesima idea si
trova in A.-M. Roguet, Les sacrements nous jugent, «Vie spirituelle» 45 (1963) 516-23.
32
Si vedano le pp. 97ss.
33
«Uno pane vivunt cives utriusque patriae» Pier Damiani (attrib.), Med. 26: Rhythmus de gloria
paradisi.
34
Si veda il mio studio Is Christianity a Religion?
35
Si vedano le pp. 56s.
36
Si veda l’enciclica di Pio XI, Quas primas (1925).

286
La presenza vivente della Parousia

tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, cioè, per rivelare una volta per
tutte il regno di Dio in tutto il suo splendore e potenza. Nel frattempo, si può
domandare, fino a che punto è visibile il regno di Dio? O meglio, come dovrebbe
essere visibile? Cristo ora regna in cielo, efficacemente (Rm 8,34; Eb 7,25), in
modo non ancora visibile dagli uomini in terra. La sua autorità (exousia)37 è eser-
citata sulla terra in modi differenti e derivati, attraverso l’attività della famiglia,
dello Stato, della Chiesa, ecc. (Rm 13,1-7). Ma fino a che punto può e deve essere
tangibile questa sua autorità? O, al contrario: a che livello le autorità umane parte-
cipano direttamente dell’autorità di Cristo? Quando Gesù disse ai suoi discepoli:
«verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio
dell’uomo, ma non lo vedrete» (Lc 17,22), sembra suggerire che la sua potenza e
presenza saranno assenti, almeno apparentemente, in certi periodi e luoghi, nella
vita della Chiesa e del mondo. Consideriamo la “visibilità” del Regno in un testo
immediatamente precedente a quello appena citato (Lc 17,20s.).
Alcuni farisei, considerando la venuta del Regno di Dio in termini di un
segno tangibile che porta con sé la sconfitta pubblica dei nemici di Dio, chiesero
a Gesù quando sarebbe arrivato il regno di Dio. Cercavano segni visibili della
potenza di Dio. Ed egli rispose: «il regno di Dio non viene in modo da attirare
l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là!” Perché, ecco, i
regno di Dio è in mezzo a voi (entos humōn estin)» (Lc 17,20s.). Gesù insegna che
il regno non sarà osservabile visibilmente (egli usa il termine paratērēseōs), né
il suo dinamismo sarà aperto ad una diagnosi chiara. Piuttosto è entos humōn
estin, tradotto nella Neovulgata come intra vos es, «in mezzo a voi». Lungo la
storia, il testo è stato letto in tre modi38.
Primo, alcuni hanno tradotto l’espressione nel senso “il regno di Dio
arriverà improvvisamente tra di voi”. Questa traduzione, recente, che è quasi
impossibile da giustificare linguisticamente, si basa sulla teoria della “escatolo-
gia conseguente”, secondo la quale il regno di Dio non è ancora apparso ma è sul
punto di farlo in qualsiasi momento39.
In secondo luogo, è stato tradizionale, almeno dal tempo di Origene40,
tradurre il testo come: “il regno di Dio è dentro di voi”41. Cioè, il regno non è

37
Sull’uso di questo termine nella Scrittura, si veda BDAG, 352s., s.v. ἐξουσία.
38
Seguendo J. Ratzinger, Escatologia, 49ss.
39
Su questa lettura, si veda F. Mussner, Praesentia salutis. Gesammelte Studien zu Fragen und
Themen des Neuen Testamentes, Patmos, Düsseldorf 1967, 95; J. Jeremias, Neutestamentliche
Theologie, G. Mohn, Gütersloh 1971, vol. 1, 104.
40
Origene, Or. 25,1.
41
Questa lettura è piuttosto tipica in contesto monastico. Si può trovare per esempio in Atanasio,

287
Capitolo VIII

esterno, osservabile tramite segni, ma interiore e spirituale, presente nel cuore


dei credenti. Questa è la traduzione più corretta del testo greco, ed è totalmen-
te in armonia con molti altri aspetti degli insegnamenti di Gesù, per esempio,
quando egli esorta i farisei a «pulire prima l’interno [l’unico altro uso nel Nuovo
Testamento di entos]42 del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!» (Mt
23,26)43. La difficoltà di questa interpretazione, tuttavia, è che le parole di Gesù
sono dirette a diverse persone contemporaneamente, e non solo ad una.
Terzo, è comune al giorno d’oggi tradurre la frase di Luca entos humōn estin
come “in mezzo a voi”. Così la traduzione italiana attuale della CEI. È vero che
l’espressione “tra voi”, “in mezzo a voi” è solitamente tradotta nel Nuovo Testa-
mento come en mesō (per esempio, «io sto in mezzo a voi come colui che serve»,
Lc 22,27). Tuttavia, tenendo in mente che (1) Gesù stava parlando con i farisei e
voleva enfatizzare la necessità di evitare la pura esteriorità, e (2) la frase è diretta
ad una pluralità di persone, è ragionevole tradurla come “in mezzo a voi”. Questo
approccio non implica una interpretazione meramente collettiva oppure esterna
dell’azione di Dio in contrasto ad una individuale, interiore. Se si ricorda che
Gesù stesso è il regno di Dio in persona, allora certamente il regno di Dio (Cristo
stesso) è in mezzo ai credenti, è operativo ed efficace, sebbene forse non nel modo
in cui i farisei avevano aspettato dal Messia. In questo senso Lc 17,20s. può essere
considerato come una espressione parallela di Lc 11,20: «se invece io scaccio i
demoni con il dito di Dio, allora è giunto in mezzo a voi il regno di Dio»44. Un
simile insegnamento si può trovare in Mt 18,20, in cui Gesù dice: «Perché dove
sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Riassumendo, la presenza del Regno di Dio che caratterizza il periodo
precedente alla Parousia deriva dalla persona di Cristo, ed è sia interiore che
ecclesiale, sia personale che collettivo.
Giovanni Battista, dalla prigione, mandò i suoi discepoli a chiedere a Gesù:
«sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?» (Lc 7,19). Forse
Giovanni stava aspettando l’apparizione di segni inequivocabilmente apoca-
littici, che avrebbero vendicato i giusti (tra loro, Giovanni stesso, che aveva
accusato Erode di gravi crimini) e punito i peccatori45. Gesù replicò riferendo i

Vita Ant., n. 20, dove il Regno di Dio rappresenta una vita alla ricerca della perfezione monastica.
42
Si veda BDAG, 340s., s.v. ἐντός.
43
La medesima posizione è affermata da M. Meinertz, Theologie des Neuen Testaments, Hanstein,
Bonn 1940, 34s.
44
Così R. Otto, The Kingdom of God and the Son of Man, 135.
45
CAA 193-200.

288
La presenza vivente della Parousia

segni messianici riportati in Is 35,5-6. Nel far questo ha mostrato che i “segni”
del potere salvifico di Dio operanti in lui non sarebbero stati, almeno per il
momento, di tipo spettacolare, visibile, violento ed incontrovertibile. Avrebbero
rivelato, piuttosto, l’amore misericordioso di Dio per le sue creature. «Andate e
riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli
zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano,
ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7,22)46.
Quelli che appartengono a Cristo, quelli in cui Cristo vive (Gal 2,20), vivo-
no nel mondo come portatori del loro Signore e Salvatore, come alter Christus,
ipse Christus, come “altri Cristi, Cristo stesso”, per usare una espressione di san
Josemaría Escrivá47. Così, attraverso i credenti cristiani, che sono portatori di
Cristo, il Regno di Dio è reso sempre più presente, attivo ed efficace nel mondo.

3. I segni della Parousia


Le opere apocalittiche classiche parlano costantemente di una serie di
segni e portenti che stanno ad indicare che il compimento finale sta alle porte48,
come fanno anche i testi messianici dell’Antico Testamento. In senso ampio, i
segni in questione mostrano la decadenza peccaminosa di un mondo destinato
alla distruzione e poi alla restaurazione per la potenza di Dio49. Questi segni
coinvolgono ogni aspetto della vita umana e cosmica: la rottura della solidarietà
umana, calamità cosmiche, prodigi ed abomini umani, guerre e conflitti ange-
lici. Segni simili si trovano nel Nuovo Testamento50. Sebbene meno drammatici
e tragici di quelli presenti nel corpus apocalittico, i segni di cui parla il Nuovo
Testamento servono come indicatori del fatto che i Regno di Dio è presente ed
è in crescita, che la Parousia è vicina. Forse la differenza principale tra i due
si trova nel fatto che i segni del Nuovo Testamento, situati tra le due venute di
Gesù, sono strettamente collegati all’azione evangelizzatrice della Chiesa, alla
predicazione della Buona Novella in tutto il mondo51.
La Didachē del primo secolo presenta i segni della fine dei tempi in questa
sequenza: l’estendersi di una Croce nei cieli, lo squillo di una tromba, e la resur-

46
Su questo passaggio, CAA 198s.
47
Si veda il mio studio The Inseparability of Holiness and Apostolate.
48
CAA 79-81.
49
Si vedano le pp. 294s.
50
CAA 150-4.
51
Si veda J. J. Alviar, Escatología, 89-93.

289
Capitolo VIII

rezione dei santi che si uniscono a Gesù in una marcia trionfale in paradiso.
Origene considera i segni della fine dei tempi in modo più spirituale: la fame per
la venuta di Cristo rinvia alla fame dei cristiani per un significato più profondo
nella Scrittura52; l’Anticristo rappresenta simbolicamente le false interpretazio-
ni53. Nella sua opera La città di Dio, Agostino riassume i segni come segue: «la
venuta di Elia il Tesbite, la conversione dei Giudei, la persecuzione dell’Anticri-
sto, il giudizio ad opera di Cristo, la resurrezione dei morti, la discriminazio-
ne dei buoni e dei cattivi, la conflagrazione del mondo e il suo rinnovamento.
Tutti questi eventi bisogna credere che si verificheranno; come e in quale ordi-
ne, sarà allora l’esperienza in atto a mostrarlo, più di quanto non riesca ora
ad afferrare compiutamente l’intelligenza umana. Credo tuttavia che l’ordine
degli eventi sarà quello da me indicato»54. Lo studioso biblico Franz Mussner
presenta i seguenti sette segni: la predicazione del vangelo nel mondo, la venuta
di molti falsi Cristi e falsi profeti, la diffusione dell’iniquità e il raffreddamento
dell’amore e della fede, una grande apostasia, disastrose calamità cosmiche, la
manifestazione dell’Anticristo, la conversione degli Ebrei55.
È giusto dire che i segni principali si possono ridurre a tre: la predicazione
universale del Vangelo, la conversione di Israele, e la venuta dell’Anticristo che
provoca l’apostasia generale dei credenti. All’ultimo si possono aggiungere cala-
mità di tipo cosmico, come indica il seguente testo: «poiché vi sarà allora una
tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora,
né mai più vi sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe;
ma grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati» (Mt 24,21s.).
L’interpretazione di questi segni come precursori della Parousia è una
questione davvero complessa. Evidentemente, spiegazioni nette e chiare sono
sconsigliabili, addirittura rischiose. Da una parte, non è chiaro fino a che
punto i segni devono compiersi al fine di assicurare che si possa dire che la
venuta del Signore è imminente. D’altra parte, anche se si potesse dimostrare
che i segni sono stati pienamente compiuti, sarebbe impossibile dire quanto
tempo dovrebbe trascorrere prima che la Parousia possa effettivamente avere
luogo. Come abbiamo visto sopra, la Parousia dipende in buona misura dalla

52
Origene. Comm. in Matth. 37.
53
Ibid., 33.
54
Agostino, De Civ. Dei XX, 30,5.
55
Si veda F. Mussner, Kennzeichen des nahen Endes nach dem Neuen Testament, in Weisheit
Gottes, Weisheit der Welt. Festschrift für Joseph Kardinal Ratzinger zum 60. Geburtstag, vol. 2,
EOS, St. Ottilien 1987, 1295-308.

290
La presenza vivente della Parousia

corrispondenza e dalla fede umana, ma è originariamente un atto misterioso


di Dio che legge il cuore dell’uomo.

La predicazione universale del Vangelo. Nel vangelo di Matteo leggiamo:


«questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia
data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine» (24,14). Non sembra
necessario applicare questa profezia a tutti gli individui nella storia, ma piut-
tosto ai popoli e alle nazioni nella loro interezza, forse ai gruppi culturalmente
identificabili (At 2,9-11). Il testo chiarifica tuttavia che il compito dell’evangeliz-
zazione è lo scopo proprio per cui la Chiesa esiste, e solo quando il compito sarà
raggiunto il mondo potrà finire. Il tempo che passa tra l’incarnazione del Verbo
e la sua venuta nella gloria costituisce anzitutto una spazio ed una opportunità
per l’evangelizzazione56. È interessante notare che questo segno “missionario”
è interamente assente dalle opere apocalittiche classiche, perché queste ultime
parlano della imminente rivelazione dei buoni e dei cattivi, del giudizio, ma non
della salvezza dei peccatori57.

La conversione di Israele. L’evangelizzazione di tutti i popoli è strettamente


connessa con la conversione di Israele, di cui Paolo parla apertamente nella lettera
ai Romani: «non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non
siate presuntuosi: l’ostinazione d’una parte di Israele è in atto fino a quando non
saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,25s.).
La vera ragione per la salvezza finale di Israele non è contingente. Non è questione
dell’unità nazionale, culturale o politica del popolo ebraico. Il fatto è che Gesù non
è stato riconosciuto come il Messia dal suo popolo (Gv 1,11), ma fu rifiutato da
molti di loro, sebbene suo Padre l’abbia vendicato per amore degli eletti facendolo
risorgere dai morti (At 2,14-28). La ragione per cui Paolo è sicuro che la conversio-
ne degli Ebrei avrà luogo alla fine dei tempi ha fondamenta profondamente teologi-
che: «infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). La preghiera
di Gesù, «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34), è
più potente del rifiuto di «una parte di Israele» (Rm 11,25), più potente de «il suo
sangue ricada su di noi e sui nostri figli!» (Mt 27,25). In questo senso, la conversione
di Israele non è tanto un segno, quanto piuttosto una profezia58.

56
CAA 144s. su questo motivo nel vangelo di Matteo.
57
Agostino prende la conversione dei peccatori come un segno della fine del mondo: Ep. 197,4;
199,46-51; De Civ. Dei XX, 30.
58
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 210.

291
Capitolo VIII

Sia per Gesù che per Paolo la salvezza finale del proprio popolo era letteral-
mente questione di vita o di morte: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi
i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te [si tratta di azioni che meritano
giudizio e punizione escatologica], quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli,
come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!
Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta. Vi dico infatti che non mi vedrete
più, fino a quando non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”»
(Mt 23,37-9). E Paolo: «Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.
Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei
fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozio-
ne a figli, la gloria, le alleanze, le legislazioni, il culto, le promesse; a loro appar-
tengono i patriarchi e da loro proviene Cristo, secondo la carne» (Rm 9,3-5).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume la questione nei seguenti
termini: «la venuta del Messia glorioso è sospesa in ogni momento della storia
al riconoscimento di lui da parte di “tutto Israele”… La “partecipazione tota-
le” degli Ebrei alla salvezza messianica a seguito della partecipazione totale dei
pagani permetterà al popolo di Dio di arrivare “alla piena maturità di Cristo”
(Rm 11,12) nella quale “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28)»59.

L’Anticristo, la persecuzione e l’apostasia.  È comprensibile che i cristiani mentre


evangelizzano debbano incontrare resistenza ed opposizione da un mondo
peccaminoso ed ostile. Gesù stesso ne ha incontrate, ed hanno determinato la
sua morte. Egli ha avvertito i suoi discepoli: «guardatevi dagli uomini, perché
vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe, e sarete
condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro
ed ai pagani… Il fratello farà morire il fratello, il padre il figlio, e i figli si alze-
ranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del
mio nome» (Mt 10,17s.21s.). Gesù prosegue spiegando perché sono perseguitati
i cristiani: «un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più gran-
de del suo signore» (Mt 10,24). E più apertamente durante l’Ultima Cena: «se
hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20).
Questi testi chiarificano che l’opposizione sistematica alla vita e alla
missione della Chiesa non è il semplice esito di una evangelizzazione incom-
presa, inopportuna, che manca di tatto. È una battaglia contro il potere del
peccato e del diavolo. «La nostra battaglia infatti non è contro la carne o il

59
CCC 674.

292
La presenza vivente della Parousia

sangue», scrive Paolo, «ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori


di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni
celesti» (Ef 6,12)60.
Il Nuovo Testamento parla infatti della venuta di una figura che si oppone
apertamente al Salvatore. Questa figura è chiamata l’“Anticristo” negli scritti
di Giovanni (1 Gv 2,18.22; 4,3; 1 Gv 7), ed è presentata come un insieme di
diverse forze malvagie, un aggressivo, diabolico spirito anti-cristiano61. «Gli
anticristi sono molti», dice Giovanni (1 Gv 2,18). Al contrario, Paolo parla
dell’“uomo dell’iniquità”, “il figlio della perdizione”, o l’“empio” (2 Ts 2,3.8), che
sembra essere, piuttosto, un unico, concreto individuo. In ogni caso l’Anticristo
combatterà contro i cristiani ed otterrà una vittoria molto importante, sebbene
parziale, che causerà una grande apostasia tra i credenti62.
Il seguente ampio testo della seconda lettera ai Tessalonicesi descrive la
figura paolina dell’“uomo dell’iniquità”63. «Prima [della Parousia] infatti verrà
l’apostasia, e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avver-
sario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino
ad insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio… Il mistero dell’i-
niquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo
trattiene. Allora l’empio sarà rivelato, e il Signore lo distruggerà con il soffio
della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta [parousia]. La
venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli
e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di
quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere
salvati» (2 Ts 2,3-4.7-10).
Ugualmente in Ap 13 l’azione dell’Anticristo è descritta vividamente nei
termini delle due bestie che salgono dal mare. La prima è adorata dagli uomini
che esclamano: «Chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?» (Ap
13,4). L’Anticristo avrà tre anni e mezzo per esercitare la sua falsa autorità prima

60
Tra i Padri della Chiesa, per esempio Ambrosiaster, Girolamo e Gregorio Magno, l’Anticristo è
considerato l’incarnazione del demonio. Su Gregorio, si veda H. Savon, L’Antéchrist dans l’œuvre
de Grégoire le Grand, in Grégoire le Grand [Chantilly Colloquium, 1982], a cura di J. Fontaine et
al., Éditions du CNRS, Paris 1986, 389-404.
61
Sul tema dell’Anticristo nel contesto dell’escatologia, si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik,
vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 170-88.
62
Ibid., 173s.
63
Si veda E. Ghini, La parusia di Cristo e dell’anticristo nelle lettere ai Tessalonicesi, «Parola, Spirito
e Vita» 8 (1983) 119-32.

293
Capitolo VIII

di essere sconfitto dall’Agnello. La seconda bestia «opera grandi prodigi, fino a


far scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini» (Ap 13,13)64.
L’Anticristo tenta di provocare l’apostasia tra i cristiani per mezzo delle
persecuzioni fino al martirio. «Coloro che credono nel mondo devono perse-
guitare i credenti in Cristo, anche se sono a loro uniti con i più stretti vincoli di
sangue», scrive Schmaus. «La persecuzione di coloro che credono in Cristo, da
parte di coloro che credono nel mondo, non si fonda quindi su un malinteso o
su una inettitudine od una mancanza di tattica nei cristiani, ma si fonda sulla
natura della fede in Cristo e della fede nel mondo»65.
Parlando dell’Anticristo e del Cristo che viene, Paolo scrive nella medesi-
ma lettera ai Tessalonicesi: «e ora voi sapete che cosa lo trattiene [Cristo] perché
non si manifesti se non nel suo tempo» (2 Ts 2,6). La persecuzione dei cristiani
e la preghiera dei martiri alla fine provocherà l’ira divina (Ap 6,9s.). Infatti le
sofferenze dei cristiani sono come il travaglio di una nuova creazione (Rm 8,23).
L’apologeta Aristide dice: «non dubito che la fervente preghiera dei cristiani sia
capace di conservare l’esistenza del mondo»66. E Giustino Martire: «La rovina
dell’universo, la distruzione dell’intero mondo, come quella degli angeli e degli
uomini condannati, è rimandata grazie al tenero seme del cristianesimo»67. La
storia del cristianesimo fino a che la Parousia avrà luogo, imita e riflette la vita
terrena di Gesù. Perciò ha senso dire che il passaggio finale della storia sarà
accompagnato da abbondanti espressioni di sofferenza ed odio. Eppure alla fine,
quando il numero dei fedeli sarà completo (Ap 6,11), Cristo apparirà, anche se la
Scrittura sembra indicare che molti credenti avranno fallito. In effetti, Gesù si
chiede: «quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).

I segni e i portenti della fine dei tempi: un invito alla vigilanza.  Paolo incoraggia
fermamente i Tessalonicesi a non essere impazienti e creduloni a riguardo dei
segni e ai portenti della fine dei tempi. «Riguardo alla venuta del Signore nostro
Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi

64
Si veda la collezione di testi di F. Sbaffoni (a cura di), Testi sull’anticristo: sec I-II; sec. III, 2
vols, Nardini, Firenze 1992. Sull’Anticristo nei primi secoli della cristianità, si veda G. C. Jenks,
The Origins and Early Development of the Antichrist Myth, De Gruyter, Berlin 1991; B. McGinn,
Antichrist. Two Thousand Years of the Human Fascination with Evil, HarperSan Francisco, San
Francisco 1994; L. J. L. Peerbolte, The Antecedents of Antichrist. A Traditio-Historical Study of the
Earliest Christian Views on Eschatological Opponents, E. J. Brill, Leiden; New York; Köln 1996; C.
Badilita, Métamorphoses de l’antéchrist chez les Pères de l’Église, Beauchesne, Paris 2005.
65
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 162 (trad. it., 162).
66
Aristide, Apol., 16,6.
67
Giustino, II Apol. 6.

294
La presenza vivente della Parousia

troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi,


né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore
sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’aposta-
sia [l’Anticristo] e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione» (2 Ts
2,1.3). Efrem il Siro insegna nel medesimo spirito, ma è meno specifico dell’apo-
stolo: «Anche se il Signore ha indicato i segni della sua venuta, non conosciamo
la loro cadenza finale, dal momento che essi verranno con molte variazioni,
passeranno e saranno ancora in atto»68.
In molte occasioni lungo il Nuovo Testamento la prospettiva del glorioso
ritorno di Gesù Cristo è stata vista come una occasione per i cristiani di rinno-
vare il loro senso di vigilanza. «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le
lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna
dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei
servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità, io vi dico, si
stringerà le vesti ai fianchi, li metterà a tavola e passerà a servirli… Anche voi
tenetevi pronti, perché nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo»
(Lc 12,35-37.40)69. Marco parla ripetutamente della necessità della vigilanza:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento… Vegliate
dunque, voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà… Quello che dico a
voi, lo dico a tutti: “Vegliate”» (Mc 13,33.35.37)70.
Il medesimo messaggio si trova nella prima lettera di Pietro e in altri scritti
del Nuovo Testamento. «La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque modera-
ti e sobri, per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). La seconda lettera di Pietro
(3,9), spiega che Dio non ha voluto giudicare gli uomini immediatamente dopo
la vita terrena di Cristo, dando così loro l’opportunità di pentirsi. In questo
modo possiamo vedere che la pazienza di Dio invita i credenti non all’indo-
lenza e all’irresponsabilità, ma alla vigilanza e alla gratitudine. Il medesimo
messaggio si trova nella lettera di Paolo ai Romani: «O disprezzi le ricchezze
della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere
che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con il tuo cuore duro
e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del

68
Efrem, Comm. in Diatess. 18,16. Per l’escatologia di Efrem si vedano i suoi Inni sul Paradiso. Si
veda anche I. Ortiz de Urbina, Le paradis eschatologique d’après saint Ephrem, «Orientalia Christia-
na Periodica» 21 (1955) 467-72; J. Teixidor, Muerte, cielo y seol en san Efrém, ibid. 27 (1961) 82-114.
69
Si veda anche Lc 12,42-48; Mt 24,42-51; 25,1-13;14-30.
70
La vigilanza è un motivo frequente nel Nuovo Testamento: 1 Cor 16,13; Ef 5,15; 6,18; 1 Tm 4,16;
2 Tm 4,5; Eb 12,15; 1 Pt 1,13; 5,8; Ap 3,3; 16,15.

295
Capitolo VIII

giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,4-6).
E nel libro dell’Apocalisse sono scritte le seguenti parole, alla chiesa di Sardi:
«Conosco le tue opere; ti credi vivo, e sei morto. Sii vigilante, rinvigorisci ciò che
rimane e sta per morire… se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che
tu sappia a che ora io verrò da te» (Ap 3,1-3).
Sant’Efrem dice che Gesù «nasconde il tempo della Parousia, così che noi
siamo vigilanti e ciascuno si convinca che possa accadere in qualsiasi giorno.
Se il giorno della sua venuta fosse stato rivelato, avrebbe avuto poco impatto,
né la sua manifestazione sarebbe stata oggetto di speranza per le nazioni e i
popoli… In questo modo la speranza della sua venuta è mantenuta viva per tutti
i popoli e per tutti i tempi»71. Ilario di Poitiers dice che non sappiamo quando il
mondo avrà fine, ma Dio nella sua bontà ci offre «un ampio spazio di tempo per
pentirci, ci tiene sempre vigilanti per la nostra paura dell’ignoto»72. «Siamo felici
di ignorare quando la fine verrà, perché Dio desidera che lo ignoriamo», dice
Agostino73, ed esorta i cristiani a «non resistere alla prima venuta, così che la
seconda non possa sorprenderci»74. Perciò, dice che dovremmo evitare di tenta-
re di calcolare la fine dei tempi75.
Al contrario, Gregorio Magno considera che la fine dei tempi è davvero
imminente76. Nondimeno, c’è ancora del tempo per la preparazione e l’evange-
lizzazione. Lo scopo principale dell’urgenza di Gregorio non era quello di diffon-
dere tristezza oppure preoccupazione tra i credenti, ma di muovere chi l’ascoltava
al timore di Dio e dei suoi giudizi, e «di sollevare la sua mente nella speranza
della gloria che verrà»77. Tommaso d’Aquino dice che questi segni non intendono
soddisfare la nostra vana curiosità, ma piuttosto «muovere il nostro cuore a sotto-
metterci al Giudice che deve venire»78. Benedetto XVI scrive: «vigilanza significa
fare qui e ora la cosa giusta, come si dovrebbe compierla sotto gli occhi di Dio»79.
Il fatto che la futura venuta di Gesù sia prefigurata in segni che spingono
i credenti alla vigilanza e alla conversione non significa che tali promesse siano
puramente simboliche, funzionali o performative. Se la Parousia promessa alla

71
Efrem, Comm. in Diatess. 19,15.
72
Ilario di Poitiers, In Matth., 26,4.
73
Agostino, Enn. in Ps. 6,2.
74
Agostino, Enn. in Ps. 95,14.
75
Agostino, Sermo 199 de fine saeculi.
76
Si vedano i testi in B. E. Daley, The Hope, 211s.
77
Gregorio Magno, Mor. in Job,13, 24,28. Si veda Hom. in Ev. 1, 1,1.
78
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 73, a. 1c.
79
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II, 60.

296
La presenza vivente della Parousia

fine non avesse luogo, allora le promesse e i segni stessi sarebbero senza signifi-
cato e ingannevoli80. Tommaso d’Aquino in una espressione molto nota dice che
«l’atto di fede non si ferma all’enunciato, ma indica la realtà stessa cui l’afferma-
zione fa riferimento»81. Lo stesso si può dire qui. L’oggetto della speranza cristia-
na non è anzitutto la descrizione della Parousia fornita dalla Bibbia, i segni che la
precedono e la loro immediata rilevanza, ma piuttosto le future realtà promesse
cui le descrizioni fanno riferimento in tutto il loro misterioso realismo.
Gozzelino riassume il significato dei segni nel contesto del ritardo della
Parousia come segue: «l’abilitazione alla lettura di fede della storia, l’invito alla
vigilanza, la dissoluzione delle illusioni, il sostegno del coraggio, e l’incremento
della azione missionaria della Chiesa»82.

4. Il flusso e riflusso del millenarismo


Nel libro dell’Apocalisse Giovanni racconta la seguente visione spettacolare:
«e vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’Abisso e una
grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è il diavolo e il Satana, e lo
incatenò per mille anni; lo gettò nell’Abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di
lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento di mille anni» (Ap
20,1-3). Una volta che il diavolo sarà stato incatenato, Giovanni continua, i giusti
(cioè, i martiri e coloro che non hanno adorato la bestia), «regneranno con Cristo
per mille anni», mentre «gli altri morti non torneranno alla vita fino al compi-
mento dei mille anni. Questa è la prima resurrezione» (Ap 20,4s.).
Il testo parla della promessa di un regno di mille anni di libertà e pace per
i credenti cristiani, durante il quale il diavolo sarà incatenato. Dopo che i mille
anni saranno passati, tuttavia, il diavolo «deve essere lasciato libero per un po’
di tempo» (Ap 20,3); «e uscirà per sedurre le nazioni che stanno ai quattro angoli
della terra» (Ap 20,8). Tuttavia, quando il diavolo e la sua armata attaccheranno
i santi, secondo la visione, «un fuoco scese dal cielo e li divorò. E il diavolo, che
li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco… saranno tormentati giorno e
notte per i secoli dei secoli» (Ap 20,9s.)83.

80
CAA 46s.
81
Tommaso d’Aquino, S. Th. II-II, q. 1, q. 2 ad 2.
82
G. Gozzelino, Nell’attesa, 388.
83
Dal punto di vista esegetico, si veda per esempio M. Gourgues, The Thousand-Year Reign (Rev 20,1-
6): Terrestrial or Celestial?, «Catholic Biblical Quarterly» 47 (1985) 676-81; U. Vanni, Apocalisse
e interpretazioni millennaristiche, in Spirito, Eschaton e storia, a cura di N. Ciola, Mursia, Roma
1998, 189-215; C. H. Giblin, The Millennium (Rev 20,1-6) as Heaven, «New Testament Studies» 45

297
Capitolo VIII

Comprensibilmente, Ap 20, insieme ad altri importanti testi biblici con


contenuti numerici, come anche Gn 1 (i sei giorni della creazione seguiti da un
giorno di riposo), Sal 90,5 («Mille anni sono per te come il giorno di ieri che
è passato») e 2 Pt 3,8 («davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e
mille anni come un solo giorno»), hanno dato agli autori cristiani ampio mate-
riale per sviluppare una teologia della storia che copre una sorte di cronaca
del cosmo e della salvezza: un periodo pluri-ciclico di 7000 anni con un’ampia
varietà di modulazioni84.
La teoria del regno di mille anni è conosciuta come “millenarismo” (o
“chiliasmo” da chiloi, la parola greca per “mille”). Lungo i secoli ha assunto
una varietà di forme85, sia secolari che spirituali, sebbene in diverse occasioni
le due si sono mescolate l’una all’altra. Norman Cohn ha suggerito che «per
lunghi periodi la storia del cristianesimo si è identificata con la lotta per stabilire
l’impero dei Mille Anni»86. Nonostante quel che si possa dire dei particolari, i
cristiani erano convinti che la vera speranza dovesse lasciare un segno visibile
e tangibile nella storia, sulle persone, sulle istituzioni, sulla Chiesa, sulla società
e sulla vita politica. Sono emerse e si sono consolidate tre forme principali di
millenarismo che possiamo chiamare: apocalittica, mondana e spirituale.

(1999) 553-70; R. Lux, Was sagt die Bibel zur Zukunft des Menschen? Eine biblisch-kerygmatische
Besinnung zur Jahrtausendwende, «Kerygma und Dogma» 46 (2000) 2-21; A. Yarbro Collins, The
Apocalypse of John and its Millennial Themes, in Apocalyptic and Eschatological Heritage. The
Middle East and Celtic Realms, a cura di M. McNamara, Four Courts, Dublin 2003, 50-60.
84
In particolare Ireneo, Adv. Haer. V, 28,3 e 33,2.
85
Sulla storia del millenarismo si veda L. Gry, Le millénarisme dans ses origines et son développement,
Picard, Paris 1904; N. Cohn, The Pursuit of the Millennium. Revolutionary Millennaria and Mystical
Anarchists of the Middle Ages, University Press, Oxford 1970; B. McGinn, Early Apocalypticism:
the Ongoing Debate, in The Apocalypse in English Renaissance Thought and Literature, a cura di
C. A. Patrides and J. Wittreich, Manchester University Press, Manchester 1984, 2-39; T. Daniels,
Millennialism: an International Bibliography; C. E. Hill, Regnum caelorum: Patterns of Future
Hope in Early Christianity, W. B. Eerdmans, Grand Rapids 20012; S. Hunt (a cura di), Christian
Millennarianism. From the Early Church to Waco, Hurst & Co., London 2001; R. A. Landes (a
cura di), Encyclopedia of Millennialism and Millennial Movements, Routledge, New York; London
2000. Nel contesto dell’escatologia si veda J. Moltmann, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana
(orig. 1995), Queriniana, Brescia 1998, 164-226; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 385-407.
86
Cit. da J. Moltmann, L’avvento di Dio, 165.

298
La presenza vivente della Parousia

Millenarismo apocalittico.  Diversi tra i primi autori cristiani87, come Cerinto88,


Papia89, Giustino90, Ireneo91, Tertulliano92 e Lattanzio93, hanno proposto una

87
Sulla questione del millenarismo tra i Padri della Chiesa, si veda B. E. Daley, The Hope, passim;
C. Nardi, Il regno millenario nelle attese dei primi cristiani, in La fine dei tempi. Storia e escatologia,
a cura di M. Naldini, Nardini, Fiesole 1994, 50-75; C. Nardi (a cura di), Il millenarismo: testi dei
secoli I-II, Nardini, Firenze 1995; C. Nardi, Il millenarismo nel cristianesimo primitivo. Cronografia
e scansione del tempo, in Apocalittica e liturgia del compimento, a cura di A. N. Terrin, Messaggero;
Abbazia di S. Giustina, Padova 2000, 145-83; M. Simonetti, L’Apocalisse e l’origine del millennio,
«Vetera Christianorum» 26 (1989) 337-50; Il millenarismo cristiano dal I al V secolo, «Annali
di Storia dell’esegesi» 15 (1998) 7-20. Sulla presenza del millenarismo nella liturgia si veda B.
Botte, Prima resurrectio. Un vestige de millénarisme dans les liturgies occidentales, «Recherches de
théologie ancienne et médiévale» 15 (1948) 5-17.
88
Si veda L. Gry, Le Millenarisme, 65.
89
Su Papia, si veda Ireneo, Adv. Haer. V, 33,3-4, che riporta l’opera di Papia, Esposizione degli
oracoli del Signore. Si veda B. E. Daley, The Hope, 18; G. Pani, Il millenarismo: Papia, Giustino e
Ireneo, «Annali di Storia dell’esegesi» 15 (1998) 53-84.
90
Giustino parla dei credenti cristiani che regnano con Cristo nella nuova Gerusalemme per un
migliaio di anni, nello stato di prosperità raffigurato da Is 65,17-25: Dial. cum Tryph. 80s. Questa
situazione, egli dice, è un preludio della resurrezione e del castigo finale: «dopo di che avrà luogo
la generale, e, per dirla in breve, eterna resurrezione e giudizio di tutti» ibid., 81. Egli parla anche
del possesso eterno della Terra Santa da parte dei santi «dopo la santa resurrezione» ibid., 113,
139. Sul pensiero di Giustino, si veda A. L. W. Barnard, Justin Martyr’s Eschatology, «Vigiliae
Christianae» 19 (1965) 94-95; G. Pani, Il millenarismo.
91
B. E. Daley, The Hope, 31 riassume gli insegnamenti di Ireneo come segue: «è adatto ai giusti
prima ricevere la promessa dell’eredità che Dio ha promesso ai padri, e di regnare in essa, quando
risorgeranno per contemplare Dio in questa creazione che sarà rinnovata, e che il giudizio abbia
luogo in seguito (5,32,1)». Ireneo insiste nel dire che «l’insegnamento dell’Antico Testamento sulla
ricompensa dei giusti non va considerata allegoricamente»: Adv. Haer. V, 35,1-2. Egli dice che il
millenarismo è appropriato, per preparare i credenti «a partecipare della natura divina» Adv. Haer.
V, 32,1. Ancora, la sua «fondamentale preoccupazione sembra essere quella di difendere l’inclusione
del aspetto materiale della creazione nel piano unificato della salvezza di Dio» B. E. Daley, The
Hope, 31. Sulla concezione di Ireneo del millenarismo, si veda E. Norelli, Il duplice rinnovamento
del mondo nell’escatologia di San Ireneo, «Augustinianum» 18 (1978) 98-106; M. O. R. Boyle,
Irenaeus’ Millennial Hope. A Polemical Weapon, «Recherches de théologie ancienne et médiévale»
36 (1969) 5-16; C. Mazzucco e E. Pietrella, Il rapporto tra la concezione del millennio dei primi autori
cristiani e l’apocalisse di Giovanni, «Augustinianum» 18 (1978) 29-45; C. R. Smith, Chiliasm and
Recapitulation in the Theology of Irenaeus, «Vigiliae Christianae» 48 (1994) 313-31; S. Tanzarella,
Alcuni aspetti antropologici del millenarismo di Ireneo di Lione, in Cristologia e antropologia. In
dialogo con M. Bordoni, a cura di C. Greco, Ave, Roma 1994, 131-46; “Ogni acino spremuto darà
venticinque metrete di vino” (Adversus haereses V,33,3): il problema delle fonti del millenarismo di
Ireneo, «Vetera Christianorum» 34 (1997) 67-85; R. Polanco Fermandois, El milenarismo de Ireneo
o teología antignóstica de la caro capax Dei, «Teología y Vida» 41 (2000) 16-29.
92
Su Tertulliano, si veda B. E. Daley, The Hope, 35s. Tertulliano parla di una Gerusalemme celeste
restaurata (Adv. Marc. 3,24) in ricompensa per tutto quello che è stato perduto. Alla fine dei
mille anni, ci sarà una grande distruzione e conflagrazione. In altre parole, Tertulliano assume un
approccio più allegorico, per esempio in De res. 26.
93
Lattanzio tratta del millenarismo nel suo Divinae institutiones. Egli offre una visione potente
sebbene eclettica di quello che verrà. Parla della «estrema vecchiaia di un mondo stanco e
fatiscente» Div. Inst. VII,14. «Solo duecento anni sono rimasti» Div. Instit. VII, 25. «Roma cadrà»,

299
Capitolo VIII

lettura più o meno letterale di Ap 20. Essi ritengono che per un periodo di un
migliaio di anni il diavolo non potrà tentare i cristiani, che vivranno nella pace e
nell’armonia di Cristo; è ciò che Giovanni chiama “la prima resurrezione”. Una
volta trascorso questo periodo, il diavolo verrà liberato di nuovo, dicono, e il suo
attacco breve ma feroce contro i credenti – strettamente connesso con la venuta
dell’Anticristo e la conseguente apostasia di molti cristiani – finirà con la sua
totale sconfitta, il ritorno dell’Agnello nella gloria, e la “seconda resurrezione”.
Sebbene la visione apocalittica letterale sia stata abbandonata per lo più in
seguito, veniva ritenuto da diversi Padri per evitare le speculazioni gnostiche
implicanti una antropologia e una escatologia spiritualistiche94. In modo signi-
ficativo, Paul Althaus nota che «la motivazione teologica più importante che si
adduce per giustificare il chiliasmo è il richiamo alla dimensione più terrena che
necessariamente accompagna la speranza cristiana»95.

Millenarismo mondano.  Lo storico della Chiesa Eusebio di Cesarea († 339) consi-


dera l’Impero Romano come una diretta preparazione per la venuta del cristia-
nesimo, una vera preparatio evangelica, che giunge al suo culmine con l’incoro-
nazione dell’imperatore Costantino. La fusione tra cristianesimo e Roma generò
l’avvento del cosiddetto “Sacro Romano Impero”. Quest’ultimo è caratterizzato
dalla formula pax romana, pax cristiana, che può essere tradotta pressappoco
così: “pace nell’impero garantisce pace per i cristiani”. Egli rifiuta la posizione
degli autori precedenti, come Papia, per il loro approccio eccessivamente apoca-
littico o oltremondano alla presenza di Dio nel mondo96. «Quando il Messia di
Dio apparirà… il compimento seguirà in esatta corrispondenza alle profezie»,
scrive Eusebio. «Infatti tra i Romani ogni governo dei molti è stato subito abolito,
quando Augusto ha assunto l’unico potere nel momento stesso in cui il nostro
Redentore è apparso [Lc 2,1]»97. Nella sua Orazione al Tricennalia, lo stesso Euse-

egli dice, «e l’Oriente governerà ancora. L’Anticristo dispenserà tre anni e mezzo di persecuzione,
ma poi Dio manderà un grande re dal cielo per distruggerlo» Div. Instit. VII, 17-19. Ciò sarà
seguito da un’era di pace. Lattanzio ha influito molto sul pensiero del Medioevo; la sua dottrina
«era destinata ad avere vita a sé» B. E. Daley, The Hope, 68. Sul suo insegnamento, si veda V.
Fàbrega, Die chiliastische Lehre des Laktanz, «Jahrbuch für Antike und Christentum» 17 (1974)
126-46; B. E. Daley, The Hope, 66-8; M. Simonetti, Il millenarismo in Occidente: Commodiano e
Lattanzio, «Annali di Storia dell’esegesi» 15 (1998) 181-89.
94
In particolare Ireneo e Tertulliano: si veda B. E. Daley, The Hope, 31.
95
P. Althaus, Die letzen Dinge, 314, cit. da J. Moltmann, L’avvento di Dio, 171.
96
Eusebio, Hist. Eccl. 3,39,13; 7,24,1. Sul pensiero di Eusebio, si veda J. Eger, Kaiser und Kirche in der
Geschichtstheologie Eusebius’ von Cäsaräa, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft»
38 (1939), 97-115.
97
Eusebio, Praep. Evang. 1,4-5; Hist. Eccl. 10,4,53.

300
La presenza vivente della Parousia

bio ha interpretato l’incoronazione di Costantino come imperatore come un


compimento letterale di Dn 7,18: «i santi è l’Altissimo riceveranno il regno»98.
L’Impero Romano, egli disse, si è fuso irrevocabilmente con il regno universale
di Cristo. È comprensibile che Eusebio sia noto come «il primo teologo politico
nella Chiesa cristiana»99. Il regno di Cristo si è stabilito con fermezza sulla terra,
e l’imperatore era il suo rappresentante. Hermann Dörries riassume la visione di
Eusebio nella formula seguente: «un Dio, un Logos, un imperatore»100.
Sotto Costantino e i suoi successori, la Chiesa e lo Stato costituirebbero, in
linea di massima, una struttura singola, seppure articolata. Questa posizione,
che conta dei precedenti tra gli Ebioniti e i Montanisti101, rimase comune ed
anche prevalente per molti secoli nel mondo cristiano, come si può vedere negli
scritti di autori tanto lontani come Otto von Freising nel XII secolo, e Jacques
B. Bossuet nel XVII102. Il medesimo principio si trova comunemente tra i teologi
dell’Impero Bizantino ed Orientale103. Charles Taylor descrive convinzione che
c’è dietro nei seguenti termini: «la promessa della Parousia, che Dio sarà tutto in
tutti, può essere realizzata qui, benché in forma ridotta e limitata»104.

Millenarismo spirituale. Origene fu apertamente sprezzante nei confronti


dell’interpretazione apocalittica dei testi millenaristi, considerandoli interpreta-
zioni “ebree” della Scrittura che idealizzano falsamente la beatitudine terrestre105.
Egli interpretava questi testi, come era solito, in modo allegorico. Vittorino di
Pettau, che morì martire durante la persecuzione di Diocleziano (304), sviluppò

98
Eusebio, De laudibus Constantini; Hist. Eccl. 10,4. Sul testo, J. Moltmann, L’avvento di Dio, 179.
99
J. Eger, Kaiser und Kirche.
100
H. Dörries, Konstantin der Grosse, Kohlhammer, Stuttgart 1958, 146ss.
101
Si veda A. M. Berruto, Millenarismo e montanismo, «Annali di Storia dell’esegesi» 15 (1998)
85-100; B. E. Daley, The Hope, 18.
102
Otto von Freising, Chronicon sive historia de duabus civitatibus (scritto tra 1143-6). L’opera di
Otto si fonda sul De Civitate Dei di Agostino, ma è più ottimistica e semplicistica nei toni. L’autore
scrive: «Io tento di scrivere la storia di due città, quella di Dio e quella dell’uomo. Guardando ai
fatti, però, mi sono reso conto che le due si congiungono quando i re e i popoli sono tutti cristiani.
C’è solo una città, la civitas christiana, la Chiesa dei re e dei popoli e perciò una sola storia». La
medesima posizione si trova, sostanzialmente inalterata, nell’opera di J. B. Bossuet, Discours sur
l’histoire universelle (1681).
103
W. Brandes, Endzeiterwartung und Kaiserkritik in Byzanz um 500 n. Chr., «Byzantinische
Zeitschrift» 90 (1997) 24-63.
104
C. Taylor, A Secular Age, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge MA; London
2007, 243.
105
Origene, De princip. II, 11,2; Comm. in Matth. 17,35. Si veda G. Moioli, L’“Escatologico”
cristiano, 62s.

301
Capitolo VIII

l’intuizione di Origene106. Egli parlò della prima resurrezione e dei mille anni
in senso spirituale, non materiale, e insegnò che la resurrezione ci libererà dal
mangiare, dal bere e da ogni genere di attività corporea107.
Questa lettura si trova anche in Marcello di Ancira († 374) che parla dell’im-
minente età dello Spirito108, quando l’Incarnazione del Verbo e il Regno di Cristo
avranno fine, non essendo più necessarie quando la redenzione sarà raggiunta109.
È interessante notare come una visione spiritualistica della salvezza cristiana sia
associata con una diminuzione della rilevanza del mistero dell’Incarnazione.
Ugualmente, Girolamo ritiene che il millenarismo letterale, apocalittico,
sia solo una favola110. Egli non considera il consolidamento de facto del Impero
di Costantino come una valida espressione dell’avvento del regno di Cristo, tra
le altre ragioni perché diede origine ad una caduta nel fervore religioso tra i
credenti. «Come la Chiesa guadagnò i principi alla sua causa, crebbe in potere e
ricchezza, ma peggiorò in virtù»111. Ad un certo livello, questo facilitò la cresci-
ta della vita monastica, considerata in molti casi però come una sorte di fuga
mundi112. Nondimeno, una volta evitate le speranze materialistiche ebraiche,
dice Girolamo, la tradizione millenaristica può essere considerata venerabile.
Così Ap 20 può essere considerato come un riferimento allegorico alla Chiesa
storica113. Egli ritiene, inoltre, che ci sarà un periodo di “silenzio” tra la sconfitta
dell’Anticristo e il giudizio114.
Nei suoi primi scritti Agostino era piuttosto aperto alle credenze mille-
nariste. Nei successivi, tuttavia, presentò il millenarismo come una “grottesca
favola”115. La ragione è semplice: dal momento che Cristo ha redento il mondo,

106
Su Vittorino, si veda C. Curti, Il regno millenario di Vittorino di Petovio, «Augustinianum» 18
(1978) 419-33; B. E. Daley, The Hope, 65s. Si veda in particolare il suo Comm. in Matth. 24, e il suo
Commento sull’Apocalisse di Giovanni. Girolamo, De Vir. 3,74, riassume la sua posizione.
107
Vittorino, Comm. in Mt. 11.
108
Si veda A. Grillmeier, Christ in Christian Tradition, vol. 1, J. Knox, London; Mowbray 1975,
281s.; J. F. Jansen, I Cor 15,24-28 and the Future of Jesus Christ; M.-T. Nadeau, Qu’adviendra-t-il
de le souveraineté du Christ à la fin des temps?, «Science et Esprit» 55 (2003) 61-74.
109
Marcello fu costretto a ritrattare in un Sinodo romano nel 340, secondo Epifanio, Panarion
72,2,6s.
110
Girolamo, In Dan. 2,7,17s.; In Is. 16,59,14. Si veda B. E. Daley, The Hope, 102.
111
Girolamo, Vita Mal. Monach. 1.
112
Si veda J. Galot, Eschatologie, in Dictionnaire de la Spiritualité, vol. 4/1 (1960) col. 1047.
113
Girolamo, In Ezek. 11,36. Egli fa riferimento a Tertulliano, Vittorino, Ireneo ed Apollinare.
114
Girolamo, In Dan. 4,12,12.
115
Agostino, De Civ. Dei XXII, 7,1. Sul suo pensiero, si veda W. Kamlah, Christentum und
Geschichtlichkeit: Untersuchungen zur Entstehung des Christentums und zu Augustinus ‘Bürgerschaft
Gottes’, W. Kohlhammer, Stuttgart; Köln 19512; M. G. Mara, Agostino e il millenarismo, «Annali di
Storia dell’esegesi» 15 (1998) 217-30.

302
La presenza vivente della Parousia

il diavolo è stato definitivamente sconfitto ed incatenato116. Perciò la “prima


resurrezione” fa riferimento al Battesimo, e la “seconda resurrezione” al corpo
umano e alla fine dei tempi117. Agostino, ovviamente, insiste sulla potente sebbe-
ne ambivalente influenza del regno di Cristo (che egli chiama la “Città di Dio”)
sul mondo e sulla storia secolare118. Ma egli distingue chiaramente tra l’uno e
l’altro. La critica del millenarismo esposta da Ambrogio119 e Ticonio120 è in linea
con quella di Agostino.
Tuttavia, la forma più influente di millenarismo spiritualista durante il
Medioevo è stata sviluppata dall’abate Gioacchino da Fiore († 1202)121. Gioac-
chino parlò di tre epoche nella storia umana: quella dei primi tempi dell’Antico
Testamento, un periodo personificato da Dio Padre, caratterizzato da schiavitù
e legge, e reso visibile nel popolo di Israele; quella del Nuovo Testamento, del
Figlio di Dio, segnato dalla libertà dalla legge e reso visibile nella Chiesa con il
suo sacerdozio gerarchico; e infine, l’epoca dello Spirito, caratterizzato da liber-
tà perfetta e spontanea in cui i santi regneranno sul mondo, in cui il punto di
riferimento predominante saranno i cristiani consacrati. L’avvento dell’ultima
epoca, egli disse, costituisce l’inizio del millennio definitivo. Infatti, Gioacchino
suggerisce che dovrebbe iniziare intorno all’anno 1260. Questo regno definitivo
dello Spirito prenderebbe il posto del millenarismo monarchico e costantiniano
sostenuto da Eusebio ed altri.
La posizione di Gioacchino costituisce una chiara rottura con quella di
Agostino122, dal momento che quest’ultimo non prevede una divisione diacro-
nica tripartita della storia e una particolare età dello Spirito separata da quella
del Padre e del Figlio. Agostino, al contrario, ritiene che inseparabilia sunt opera
Trinitatis, “le opere della Trinità sono inseparabili l’una dall’altra”, cioè, le tre

116
Agostino, De Civ. Dei XX, 7-8.
117
Agostino, De Civ. Dei XXII, 6,1-2.
118
Agostino, De Civ. Dei XIV, 28.
119
J. Derambure, Le millénarisme de S. Ambroise, «Revue des études anciennes» 17 (1910) 545-56.
Ambrogio vede il periodo tra “prima” e “seconda” resurrezione come un tempo di purificazione
intermedia.
120
Ticonio, Comm. in Rev.
121
Sulla concezione di Gioacchino del millenarismo, si veda R. E. Lerner, Refrigerio dei santi.
Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale (Opere di Gioacchino da Fiore, 5), Viella, Roma
1995; per una breve introduzione e critica, CAA 270-3. Una posizione simile si trova in Almarico
di Bène, un contemporaneo di Gioacchino, i cui insegnamenti sulle tre epoche furono condannati
da un Sinodo celebrato a Parigi nel 1210. Si veda anche B. D. Dupuy, Joachimisme, in Catholicisme,
vol. 6, Letouzey et Ané, Paris 1967, col. 887-99.
122
Si veda R. E. Lerner, Refrigerio dei santi, 194.

303
Capitolo VIII

Persone agiscono sempre all’unisono123. Perciò non esiste alcuna ragione teolo-
gica per parlare di tre epoche consecutive.
La visione di Gioacchino si presenta con sorprendente frequenza durante
il secondo millennio in una varietà di forme filosofiche, religiose e politiche,
quelle ad esempio di Lessing e Comte, di Hegel, Kant124 e Marx, di Engels e
Nietzsche125. Può sembrare strano, però quel che è iniziato come un movimento
spirituale è spesso diventato un movimento altamente politicizzato, estremista
e materialista. Ugualmente, il millenarismo si trova comunemente negli inse-
gnamenti di alcune sette protestanti fondamentaliste126. Al tempo di Lutero,
Thomas Müntzer predicava l’imminente regno millenario in un contesto rivo-
luzionario. In Nord America William Miller predisse la prossima venuta del
regno millenario, dando vita a quello che ora è chiamato movimento “Avven-
tista del settimo giorno”. Posizioni simili si trovano tra gruppi religiosi come i
Testimoni di Geova e i Mormoni127.

Reinterpretando il millennio. Dal terzo secolo in poi, come abbiamo visto,


forme letterali e apocalittiche di millenarismo sono state apertamente rifiuta-
te da Origene (sulla base della sua interpretazione spirituale o allegorica dei
testi della Scrittura), così come da Girolamo, Agostino, ed altri. Da una parte,
i Padri della Chiesa volevano evitare di strumentalizzare la dottrina cristiana e
la vita della Chiesa per gli scopi affini a filosofie politiche materialiste, oppure
per escatologie non-trascendenti. D’altra parte, era ovvio che il numero “1000”
significhi, più di qualsiasi altra cosa, la perfezione di un’opera divina (10x10x10),
e perciò la trascendenza del compimento escatologico, distinta dalla sua manife-
stazione tangibile. In questo contesto Agostino, nella sua opera De Civitate Dei,
ha presentato una teologia della storia in cui il male non sarebbe completamente
sopraffatto, sebbene temporaneamente, fino alla finale venuta di Cristo. Sebbe-

123
Agostino, Sermo 213, 6; si veda anche CAA 274s.
124
Althaus parla del chiliasmo filosofico di Kant: «il chiliasmo dei filosofi è chiaramente una
secolarizzazione del chiliasmo teologico, ed in generale dell’escatologia cristiana» Die letze Dinge, 23.
125
Il processo è stato attentamente documentato da N. Cohn, The Pursuit of the Millennium e
da H. de Lubac, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Lethielleux; Culture et Vérité, Paris;
Namur, 2 vol., 1979-1981.
126
Si veda T. Daniels, A Doomsday Reader. Prophets, Predictors, and Hucksters of Salvation, New
York University Press, New York; London 1999.
127
Il Santo Ufficio in un Decreto datato 21 luglio 1944 ha presentato come pericolosa la posizione
del sacerdote cileno, Manuel de Lacunza y Díaz (in un opera sul ritorno di Cristo scritto del 1810),
secondo il quale Cristo ritornerebbe visibile sulla terra per regnare prima che il giudizio finale
abbia luogo (DS 3839).

304
La presenza vivente della Parousia

ne egli tendesse a identificare il regno di Dio con la Chiesa128, mise in guardia


contro i sogni di un futuro regno terrestre e materiale di Cristo. Il realismo e la
visibilità del regno definitivo di Cristo non sarà rivelata fino alla fine dei tempi,
con la resurrezione dei morti e il giudizio finale, cioè, una volta che la morte,
“l’ultimo nemico” (1 Cor 15,26), sarà stato sconfitto.
Senza dubbio, la promessa della Parousia in cui Dio regnerà efficacemente,
visibilmente e definitivamente sull’umanità e su ogni aspetto della realtà crea-
ta, serve come uno stimolo per la speranza cristiana. E la speranza è una virtù
teologica, che ha come oggetto il possesso di Dio, e come fonte l’azione di Dio129.
La promessa e la presenza divina non si possono identificare con una progetto
puramente umano o, ancor meno, con una utopia materialista, proprio come il
Regno di Dio non si identifica con la società politica. «Rendete dunque a Cesare
quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,12), diceva Gesù.
Come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, il fatto che le Scritture non
tentino di specificare quando il mondo avrà fine (Mc 13,32) non significa che
Cristo o i cristiani fossero confusi su questo argomento; piuttosto, significa che
la venuta del Regno è un’opera divina.
Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus annus (1991) mette in
guardia dai danni dello spirito utopico tra i cristiani: «Quando gli uomini
ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda
impossibile il male, ritengono anche di poter utilizzare tutti i mezzi, anche la
violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una “religione
secolare”, che si illude di costruire il paradiso in questo mondo. Ma qualsiasi
società politica, che possiede la sua propria autonomia e le sue proprie leggi, non
potrà mai essere confusa con il Regno di Dio. La parabola evangelica del buon
grano e della zizzania (Mt 13,24-30.36-43) insegna che spetta solo a Dio separa-
re i sudditi del Regno dai sudditi del Maligno, e che siffatto giudizio avrà luogo
solo alla fine dei tempi. Pretendendo di anticipare fin da ora il giudizio, l’uomo
si sostituisce a Dio e si oppone alla sua pazienza»130.
Ugualmente papa Benedetto XVI nell’enciclica del 2005, Deus caritas est,
dice che «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia poli-
tica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al
posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini della lotta

128
Agostino De Civ. Dei, passim; Ep. 199.
129
Si vedano le pp. 29s.
130
Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus, n. 25c.

305
Capitolo VIII

per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e


deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richie-
de anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può
essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’ado-
perarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà
alle esigenze del bene la interessa profondamente»131.

131
Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 28a.

306
PARTE QUARTA

PERFEZIONANDO E PURIFICANDO
LA SPERANZA CRISTIANA
Capitolo IX

LA MORTE, FINE DEL PELLEGRINAGGIO UMANO

Instabilità.
È orribile sentire che tutto quello che possediamo si dissolve
Blaise Pascal1

La morte è un passaggio veramente stretto e difficile –


non costruito certo per i superbi
Georges Bernanos2

Credo di capire cosa sia la morte.


Alla morte saremo aperti a quello
che abbiamo vissuto durante la nostra vita
Gabriel Marcel3

Con la morte la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva


Benedetto XVI4

La morte verrà alla fine, e verrà per tutti. Seneca († 65) conferma questa
comune convinzione e dichiara che non c’è nulla di più certo della morte5. Eppu-
re la morte, per come si presenta agli uomini, costituisce un enigma profondo.
Noi non sappiamo che cosa essa debba raggiungere, se non un limite alla popo-
lazione mondiale, assicurando che le generazioni si susseguano l’una all’altra,
evitando così il ristagno culturale dell’umanità. Siamo certi che spesso la morte
implichi sofferenza, dolore e, forse più di ogni altra cosa, un acuto senso di
perdita. La sua presenza pervasiva sembra infondere una nebbia di tristezza e
mancanza di significato sulla vita. Gli spiriti più ottimisti potrebbero guardarla

1
B. Pascal, Pensées (ed. Brunschvig), n. 212.
2
G. Bernanos, Diario di un curato, 151.
3
G. Marcel, La soif, Desclée, Paris 1938.
4
SS 45.
5
Seneca, Ep. 99,9.

309
Capitolo IX

come una forma di liberazione definitiva, ed immaginare l’anima umana sorge-


re al di sopra e al di là della materia corruttibile.
Ma tutto sommato, è logico che le persone vogliano interrogarsi sul suo
significato, la sua origine e il suo scopo. Non sorprende il fatto che la morte sia
stata spiegata in una enorme varietà di maniere6. Una riflessione cristiana sulla
morte dovrebbe, ovviamente, tenere conto non solo del fenomeno della morte
in tutte le sue implicazioni antropologiche, ma anche del fatto che la salvez-
za dell’umanità è stata portata avanti da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, proprio
morendo in Croce. Se la morte non è una questione marginale per la religione
in generale, non lo è certo per il cristianesimo.
In questo capitolo esamineremo le seguenti questioni. In primo luogo,
indagheremo alcuni aspetti della fenomenologia della morte e dell’immortalità,
e le domande che pongono. Lo faremo secondo tre direttrici: la presenza della
morte nella vita; il carattere maligno e la potenza distruttiva della morte; e la
morte alla luce della promessa dell’immortalità. Poi, secondo, considereremo la
visione cristiana della morte secondo le medesime tre direttrici, sebbene in un
ordine lievemente differente:
– la morte come manifestazione esteriore della peccaminosità umana,
cioè, come punizione per il peccato (che corrisponde alla riflessione filosofica
sulla morte nella sua malvagità);
– la morte come incorporazione della vita cristiana alla morte e resurrezio-
ne di Cristo (morte e immortalità);
– la morte come fine del pellegrinaggio umano (la presenza della morte
nella vita umana).

1. Una fenomenologia della morte e dell’immortalità


Si tratta di considerare la fenomenologia della morte umana: la presenza
della morte nella vita stessa; la morte come malvagia; la morte alla luce dell’im-
mortalità.

La morte è presente nel mezzo della vita.  Gli uomini condividono la mortalità
con tutti i viventi. Come tutti gli esseri multicellulari, l’uomo morirà certamen-
te. Eppure tra tutti gli esseri viventi, egli è l’unico ad esserne consapevole, e a
tentare di affrontarla e di fare tutto quello che può per ritardarla od evitarla7.

6
Si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 43.
7
M. Scheler, Tod und Fortleben, in Gesammelte Werke, vol. 10, A. Franke, München; Bern 1957, 9.

310
La morte, fine del pellegrinaggio umano

La morte infatti è percepita come una rottura di tutte le relazioni che danno
significato alla sua vita. Alla morte, scrive san Josemaría, c’è «sempre la solitu-
dine, perché – anche se siamo circondati di affetto – ognuno muore solo»8. La
morte è il «trionfo della totale irrelazionalità», secondo Eberhard Jüngel9. «Tutti
gli uomini muoiono soli. La solitudine della morte sembra perfetta», dice Karl
Jaspers († 1969)10. Eppure questa graduale rottura ha luogo giorno per giorno,
anno per anno, e ci ricorda che la morte si avvicina inesorabilmente.
Papa Gregorio Magno parla della prolixitas mortis11, della graduale inva-
sione della morte nella vita umana. Poi l’inno medioevale recita: media vita in
morte sumus, “nel mezzo di questa vita siamo già immersi nella morte”12. Così
anche il poeta George Herbert († 1633): «La morte sta lavorando come una talpa,
e scava la mia tomba ad ogni spostamento»13. Questa consapevolezza ha portato
molti cristiani, durante il Medioevo, a sviluppare un genere letterario definito
la ars moriendi, la scienza e l’arte del sapere come morire14. Platone aveva già
parlato della “pratica del morire”15, e così ha fatto anche il cristiano neo-plato-
nico Clemente d’Alessandria16.
Il filosofo Max Scheler († 1928) offre una potente descrizione della vita
umana che si muove verso la morte, percepita come un restringimento sempre
crescente delle possibilità che sono a disposizione di ogni persona17. Il filoso-
fo Martin Heidegger spiega la morte in termini di annientamento futuro, che
si fa avanti nel momento presente della vita umana, gravando ed avvelenando
quest’ultima con la sua nullità. Egli perciò definisce l’uomo come un essere-

8
San Josemaría Escrivá, Solco, n. 881.
9
E. Jüngel, Tod, 150.
10
K. Jaspers, Philosophie, vol. 2: Existenzerhellung, Springer, Göttingen 1956, 221.
11
Gregorio Magno, Hom. in Lc. 14,25.
12
Il motivo originale si trova nelle Lamentazioni del benedettino Notker detto “il Balbettante”
(† 912), e recita: «Media vita in morte sumus, quem quaerimus adiutorem, nisi te, Domine, qui
pro peccatis nostris juste irasceris» in J.-P. Migne (a cura di), Patrologia. Series Latina, 87,58b.
Ugualmente, si veda Gerhoh di Richterberg (ibid., 193,1642c) e Sicardo di Cremona (ibid.,
213,272a). L’inno seguente è del medesimo periodo: «et ideo media vita in morte sumus, ego anima
inter spiritum et corpus media vita, quae non est aliud quam divina essentia» ibid., 194,970b.
13
G. Herbert, Grace, in The Complete English Poems, a cura di J. Tobin, Penguin Books, London;
New York 1991: «Death is working like a mole, and digs my grave at each remove».
14
Ars moriendi è il titolo di un piccolo pio manoscritto anonimo, datato approssimativamente
intorno al XIV secolo. Opere sullo stesso argomento si trovano in Henry Suso, Jean Gerson.
Roberto Bellarmino e poi Alfonso M. de Liguori hanno scritto su questo argomento. Sull’ultimo,
si veda Apparecchio alla morte, a cura di P. A. Orlandi, Gribaudi, Torino 1995.
15
Platone, Fedone 81a.
16
Clemente d’Alessandria, Strom. II, 20,109,1.
17
Si veda M. Scheler, Tod und Fortleben.

311
Capitolo IX

per-la-morte, e lo incoraggia a vivere “autenticamente”, aprendosi alla certezza


dell’annientamento futuro con piena libertà e consapevolezza18.

La morte come qualcosa che non dovrebbe accadere.  La morte si presenta alla
coscienza umana come qualcosa di improprio, ripugnante, malvagio, non
voluto. Sembra riassumere ed esprimere ogni possibile male. Non solo il male
presente nella natura, ma quella presente in ogni persona. Di conseguenza molte
persone tentano di banalizzare la morte, rifiutando di pensarci, o consideran-
dola come qualcosa che riguarda la natura umana in generale, ma non se stessi
personalmente19. Il poeta inglese Edward Young († 1765) scrisse: «Gli uomini
pensano che tutti gli uomini siano mortali, tranne se stessi»20. Edgar Morin dice
che «la tragedia moderna consiste in una fuga dalla tragedia. Ciò che veramente
intralcia la tragedia della morte è lo sforzo di dimenticarla. Questo diventa la
vera tragedia»21. I tentativi degli uomini di dimenticare la morte servono solo
a provare il loro desiderio di evitare di pensare a qualcosa che trovano profon-
damente ripugnante. Infatti sappiamo istintivamente che la morte è un male;
semplicemente non dovrebbe accadere; facciamo di tutto per evitarla.
Pietro Crisologo dice che la morte è tutta bruttezza e malvagità, «la padro-
na della disperazione, la madre dell’incredulità, la sorella della decadenza,
la genitrice dell’inferno, la sposa del diavolo, la regina di tutti i mali»22. «La
morte non è mai benvenuta», dice nel medesimo sermone, «mentre la vita ci
piace sempre»23. Egli osserva che l’innegabile utilità e valore della morte ha
erroneamente portato alcuni cristiani a parlare della morte come qualcosa di
buono, come una liberazione dai problemi della vita24, facendo forse riferimento
all’opera, contemporanea alla sua, di sant’Ambrogio, De bono mortis. Crisolo-

18
M. Heidegger, Sein und Zeit, 266, 384s.
19
È comune al giorno d’oggi parlare della morte come di qualcosa di “naturale” o anche banale.
Max Scheler e Theodor Adorno hanno notato la pratica diffusa della rimozione della morte
dalla consapevolezza umana, la tendenza ad evitare di riflettere sulla propria morte. Su questo
argomento si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 32-43; G. Scherer, Das Problem des Todes
in der Philosophie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1979, 33-42; L.-V. Thomas,
Anthropologie de la mort, Payot, Paris 1988. Sul concetto di rifiuto della morte, si veda D. Clark (a
cura di), The Sociology of Death, Blackwell, Oxford 1993.
20
E. Young, Night Thoughts, in Works, J. Taylor, London 1774, vol. 3, 17.
21
E. Morin, Le vif du sujet, Seuil, Paris 1969, 321.
22
Pietro Crisologo, Sermo 118,3. Sulla sua escatologia, si veda J. Speigl, Petrus Chrysologus über
die Auferstehung der Toten, in Jenseitsvorstellungen in Antike und Christentum. Gedenkschrift für
Alfred Stuiber, Aschendorff, Münster 1982, 140-53, e l’opera classica di F. J. Peters, Petrus Chryso-
logus als Homilet, Köln 1918, in particolare 69-75; 83s.
23
Pietro Crisologo, Sermo 118,2.
24
Ibid., 6.

312
La morte, fine del pellegrinaggio umano

go continua: «quelli che cercano di scrivere della “morte come bene” sono in
errore, fratelli e sorelle. Non c’è nulla di strano in questo: i saggi del nostro
mondo pensano di essere grandi e brillanti se riescono a persuadere la gente
semplice che il più grande male è in realtà il più grande bene… Ma la verità
elimina queste idee, fratelli e sorelle, la Scrittura le fa cadere, la fede le sfida,
gli Apostoli le riducono e Cristo le distrugge, Cristo che, mentre ristabilisce il
bene che la vita è, smaschera e condanna il male che è la morte, e la bandisce dal
mondo»25. Comprensibilmente, Crisologo conclude che «l’intera speranza della
fede cristiana è costruita sulla resurrezione dei morti»26.
Contro ciò, tuttavia, alcuni autori hanno considerato la morte in una luce
altamente positiva. La Scrittura talvolta sembra portare a ciò. «Per me vivere
è Cristo e morire un guadagno», dice Paolo ai Filippesi (1,21). «Beati i morti
che muoiono nel Signore», leggiamo nel libro dell’Apocalisse (14,13)27. Abbiamo
già fatto riferimento al De bono mortis di Ambrogio28. Così moderni filosofi
romantici come Moses Mendelssohn († 1786), Johann W. Von Goethe († 1832),
Friedrich Hölderlin († 1843) e Rainer M. Rilke († 1926), affermano tutti che la
morte è qualcosa di supremamente desiderabile, perché tramite essa, l’uomo
raggiunge la definitiva auto-realizzazione29. Ludwig Wittgenstein († 1951) ha
detto che «la paura della morte è il più grande segno di una vita falsa, di una vita
malvagia»30. Questa posizione ha influenzato filosofi più recenti, come Martin
Heidegger, e tramite lui teologi come Karl Rahner e Ladislao Boros31.

25
Ibid.
26
Ibid., 1.
27
Si veda anche 2 Sam 14,14; 1 Re 2,2.
28
In SS 10, Benedetto XVI fa riferimento al lato benefico della morte, citando Ambrogio.
29
Su questo periodo, si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 67-119. La questione da porsi è
la seguente: se la vita e la morte sono naturali, come possono essere entrambe buoni? F. Schiller
suggerisce che «la morte non può essere male se è qualcosa di generale» Zu Karoline von Wolzogen.
Schillers Leben, J. G. Cotta, Tübingen 1830, 268ss., cit. da J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 68.
A. Schopenhauer dice lo stesso di Schiller in modo pessimistico: «Non temete! Con la morte non
sarete più nulla. Infatti sarebbe stato meglio che non abbiate mai iniziato ad essere» Sämtliche
Werke, vol. 2, F. A. Brockhaus, Leipzig 19162, 1288. «Al fondo siamo qualcosa che non avremmo
dovuto essere; per questa ragione smetteremo di esserlo un giorno» ibid., 1295. Ed egli aggiunge:
«forse la nostra morte sarà per noi la cosa più meravigliosa del mondo» ibid., 1270. Secondo R. M.
Rilke, la morte è «l’intima invasione della terra», cit. da R. Guardini, Le cose ultime, 31. Hölderlin
invece considera la morte come la consumazione della vita.
30
L. Wittgenstein, Notebooks, 1914-1916, a cura di G. H. von Wright e G. E. M. Anscombe, B.
Blackwell, Oxford 1961, annotazione del 8.7.1916.
31
Si veda K. Rahner, Sulla teologia della morte (orig. 1961), Morcelliana, Brescia 19723; L. Boros,
Mysterium Mortis, Queriniana, Brescia 1969. Anche G. Gozzelino, Nell’attesa, 431, parla della morte
come un evento soddisfacente e gioioso (una trasformazione), piuttosto che occulto (rottura).

313
Capitolo IX

Tuttavia, da un punto di vista puramente fenomenologico sarebbe diso-


nesto e fuorviante parlare della morte in modo inequivocabilmente positivo.
La morte non è naturale, ma violenta. «Non esiste nulla di simile ad una morte
naturale», dice Simone de Beauvoir. «Tutti gli uomini sono mortali, ma per
ciascuno la morte è un accidente che costituisce sempre una sorta di ingiusti-
ficata violenza, non importa quanto la riconosciamo od accettiamo»32. Anche
Jean-Paul Sartre riflette sull’assurdità della morte, dicendo: «ogni cosa che esiste
è nata senza ragione, si protrae in debolezza, e muore per puro caso»33. Egli
attacca in modo convincente la visione superficialmente ottimistica della vita e
della morte promossa da Heidegger, spiegando che la morte è la vera cosa, forse
l’unica cosa, che non si possa efficacemente “integrare” nella vita dell’uomo34.
Nello stesso modo, il filosofo esistenzialista Søren Kierkegaard rifiuta sdegno-
samente la posizione di coloro che guardano alla morte come ad una “notte di
riposo”, “un dolce sonno”, ecc35.
San Tommaso d’Aquino in modo lucido e profondamente realistico insiste
sul fatto che la morte è un male, il male più terribile che esista nell’ordine crea-

32
S. de Beauvoir dice: «il n’y a pas de mort naturelle… Tous les hommes sont mortels: mais pour
chaque homme sa mort est un accident et, même s’il la connaît et lui consent, une violence indue»,
Une mort si douce, «Les Temps modernes» 20 (1964) 1985.
33
«Tout existant naît sans raison, se prolonge par faiblesse et meurt par rencontre» Roquentin,
in J.-P. Sartre, La Nausée, Gallimard, Paris 1938, 174. Non si può dire, tuttavia, che la morte sia
innaturale, dice Sartre, per la semplice ragione che non esiste qualcosa come una natura umana
definibile nei confronti della quale «il carattere assurdo della morte possa essere verificato» L’Étre
et le Néant, 671.
34
Secondo Sartre, L’Étre et le Néant, 615-38, ogni esperienza che io ho è una mia esperienza,
che nessun altro può vivere per me. «Il n’y a aucune vertu personnalisante qui soit particulière à
ma mort. Bien au contraire, elle ne devient ma mort que si je me place déjà dans la perspective
de la subjectivité; c’est ma subjectivité, définie par le Cogito préréflexif, qui fait de ma mort un
irremplaçable subjectif et non la mort qui donnerait l’ipséité irremplaçable à mon pour-soi» ibid.,
618s. «Nous avons, en effet, toutes les chances de mourir avant d’avoir rempli notre tâche ou,
au contraire, de lui survivre… Cette perpétuelle apparition du hasard au sein de mes projets ne
peut être saisie comme ma possibilité, mais, au contraire, comme la néantisation de toutes mes
possibilités, néantisation qui elle-même ne fait plus partie de mes possibilités. Ainsi, la mort n’est
pas ma possibilité de ne plus réaliser de présence dans le monde, mais une néantisation toujours
possible de mes possibles, qui est hors de mes possibilités» ibid., 620s. «Puisque la mort ne paraît
pas sur le fondement de notre liberté, elle ne peut qu’ôter à la vie toute signification» ibid., 623.
«La réalité humaine demeurerait finie, même si elle était immortelle, parce qu’elle se fait finie
en se choisissant humaine. Etre fini, en effet, c’est se choisir, c’est-à-dire se faire annoncer ce
qu’on est en se projetant vers un possible, à l’exclusion des autres. L’acte même de liberté est donc
assomption et création de finitude» ibid., 631.
35
S. Kierkegaard, Christelige Taler, in Søren Kierkegaards samlede Værker, vol. 10, Gyldendals
Forlag, Copenhagen 1928, 260.

314
La morte, fine del pellegrinaggio umano

to36, per la semplice ragione che con essa, la vita giunge a termine, e la vita è il più
grande dono creato da Dio37. La morte è «la più grande delle sfortune umane»38,
conclude. L’Aquinate accetta la dottrina della sopravvivenza dell’anima, sebbene
non in termini assolutamente positivi, perché il ruolo dell’anima è precisamen-
te quello di “informare” il corpo e renderlo umano, ed è incapace di svolgere
questo compito dopo la morte39. La morte perciò è oscurità, è la fine40, è una
passio maxime involuntaria41, una tendenza che è completamente contraria alle
sane inclinazioni umane. Nelle parole di Canobbio, «a causa del peccato l’anima
è depotenziata»42.
Ovviamente ciò apre un importante interrogativo: se la morte è qualco-
sa di male, qualcosa che non dovrebbe accadere, qualcosa di improprio, allora
che valore ha? Da cosa deriva? Come può Cristo assumere la morte per salvare
l’umanità? E perciò, quale ruolo gioca nella vita umana? Che significato ha?
Torneremo fra poco a queste domande.

L’orizzonte dell’immortalità.  Il contenuto e il significato della morte può esse-


re colto solo comprendendo il contesto dell’immortalità che gli uomini sperano
o ricercano oltre la morte. Gli uomini istintivamente si ritraggono dalla morte
non solo perché essa è spesso una esperienza dolorosa e sempre sconosciuta, ma
soprattutto per paura di quel che li aspetta quando muoiono, il «terrore di qual-
cosa dopo la morte. – Il paese sconosciuto, da cui nessun viaggiatore ritorna», per
citare l’Amleto di Shakespeare43. «Se io temo la morte», dice il filosofo Nicholas
Malebranche († 1715), «è perché so bene quel che perdo, e non so nulla di quel che
guadagno»44. Il romanziere Jorge Luis Borges († 1986) spiega la sua esperienza al
riguardo quando si pone di fronte alla prospettiva della morte dicendo: «non ho

36
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 72, a. 2c; II C. Gent., 80; De Anima, q. 14, arg. 14. Sull’argomento
della morte in Tommaso, si veda L. F. Mateo-Seco, El concepto de muerte en la doctrina de S.
Tomás de Aquino, «Scripta Theologica» 6 (1974) 173-208; J. I. Murillo Gómez, El valor revelador
de la muerte: estudio desde Santo Tomás de Aquino, Servicio de Publicaciones de la Universidad
de Navarra, Pamplona 1999.
37
Tommaso d’Aquino, De Ver. q. 26, a. 6, ad 8.
38
Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., 227.
39
Si vedano le pp. 46s. sopra.
40
Si veda in particolare B. Collopy, Theology and the Darkness of Death, «Theological Studies» 39
(1978) 22-54, in particolare 44, 47-50.
41
Tommaso d’Aquino, In II Sent., D. 30, q. 1, a. 1, arg 6.
42
G. Canobbio, Il destino dell’anima: elementi per una teologia, Morcelliana, Brescia 2009, 103,
nota 42.
43
W. Shakespeare, Hamlet III,1,78: «the dread of something after death. –The undiscover’d
country, from whose bourn no traveller returns».
44
N. Malebranche, Entretiens sur la mort, in Œuvres complètes, vol. 12-13, J. Vrin, Paris 19843, 436.

315
Capitolo IX

paura della morte. Ho visto molte persone morire. Ma mi fa paura l’immortalità.


Sono stanco di essere Borges»45. L’evento della morte così si presenta come l’ini-
zio di una possibile esistenza immortale che gli uomini desiderano dal profondo
del loro cuore, o forse di un vuoto perpetuo che temono vivamente.
In ogni caso, il destino finale degli uomini, la loro immortalità, in qualsiasi
cosa consista, è l’orizzonte ultimo che dà significato alla vita terrena e mortale, e
quindi della morte stessa. In altre parole, né la morte né la vita sulla terra posso-
no rendere conto di sé; il loro significato sarà totalmente compreso solo alla luce
della vita immortale che aspetta gli uomini dopo la morte, sia che si tratti di
una vita di grazia o disgrazia, di pienezza o vuoto, di eroismo o mediocrità. Per
questo san Cipriano esorta i cristiani di «non pensare alla morte ma all’immor-
talità; non a sofferenze temporali ma alla gloria eterna»46.
Ma che genere di immortalità aspetta gli uomini dopo la morte? Qual è il
vero oggetto della nostra paura (come direbbe Platone), della nostra stanchezza
(nell’esperienza di Borges), della nostra noia (come la comprende Unamuno),
della nostra speranza (per i credenti cristiani)?
Qui c’è un paradosso reale. Da una parte la morte segna la fine dell’esistenza
umana; essa sembra beffare ogni promessa di immortalità. D’altra parte, parlare
di immortalità, in linea di principio, equivale al negare la morte. L’immortalità
sembra sottrarre alla morte il suo potere e valore, mutandola in una minore fase
di passaggio, un mero passo verso il destino finale. Cioè, l’immortalità tende ad
eliminare la morte. Coloro che sono immortali, per definizione, non muoiono.
Questa è la regola d’oro della filosofia religiosa greca: gli dei sono immorta-
li, non possono morire, l’anima è ugualmente immortale, e perciò gli uomini
non muoiono realmente. Il punto è che, ovviamente, lo stato di immortalità,
qualsiasi forma assuma alla fine, implica un modo di vita che è chiaramente
distinto da questa “vita mortale”, dal momento che quest’ultima è determinata
dalla temporalità, la corruttibilità e la decadenza, mentre la prima non lo è. E la
morte è il punto di passaggio tra le due; definisce una frontiera tra il transitorio
e il permanente. Ecco dove si colloca la sua importanza. È chiaro, nondimeno,
che la vita immortale, per quello che è, richiede un qualche genere di continu-
ità con la vita mortale. Invece quanto più la vita mortale e quella immortale si
confondono l’una con l’altra, il potere e l’influenza della morte sono attenuate.

45
Si veda J. L. Borges, El Inmortal, in El Aleph, Alianza; Emecé, Buenos Aires 1981, 7-28. Su Bor-
ges, si veda J. Stewart, Borges on Immortality, «Philosophical Literature» 17 (1993) 295-301.
46
Cipriano, Epist. 6, 2,1

316
La morte, fine del pellegrinaggio umano

Sebbene la spinta di fondo verso l’immortalità sia universale nella storia


del genere umano, filosofi, scrittori e teologi hanno considerato l’immortalità
umana in una miriade di modi diversi. Nel primo capitolo47, abbiamo conside-
rato due forme fondamentali: l’immortalità della vita umana, e l’immortalità
del “se” umano. Nel capitolo tre, che si occupa della resurrezione dei morti48,
abbiamo visto che le due forme sono compatibili l’una all’altra nella prospettiva
cristiana: sulla base della dottrina della resurrezione finale è possibile integrare
l’immortalità della vita umana con quella del “se” umano; gli individui umani
vivranno per sempre con la pienezza della loro corporeità, storia, relazioni,
identità e individualità.
Ma dobbiamo ancora ricercare quello che la rivelazione cristiana dice
riguardo le origini e il significato della morte, e come possa essere compresa,
vissuta e superata.

2. La morte come manifestazione esteriore della peccaminosità umana


Al fine di comprendere il significato della morte alla luce della fede cristia-
na, dobbiamo in primo luogo considerarne le origini. Esistono due spiegazioni
possibili49.

La morte come risultato del peccato.  Come abbiamo visto prima, gli uomini
concepiscono spontaneamente la morte come qualcosa di indesiderabile, qual-
cosa di improprio, ripugnante e cattivo. È comprensibile perciò che i cristiani
abbiano ritenuto che la morte non sia qualcosa che il Dio buono abbia voluto fin
dall’inizio, ma qualcosa che è venuto al mondo per ragioni indipendenti dalla
volontà divina. In particolare, la morte sarebbe il risultato di un incidente sfor-
tunato, ma non definitivo, all’interno della realtà creata stessa, cioè, il peccato
degli uomini, la loro ribellione contro il Dio, la loro decisione di staccarsi dalla
Sorgente della vita. Perciò, la morte non apparterrebbe al disegno originale
di Dio, essendo semplicemente una punizione per il peccato. A dispetto delle

47
Si vedano le pp. 47s.
48
Si vedano le pp. 145ss.
49
Sulla morte nella Scrittura, si veda per esempio P. Hoffmann, Die Toten in Christus; L. Wächter,
Der Tod im Alten Testament; N. J. Tromp, Primitive Conceptions of Death and the Netherworld in
the Old Testament, Pontifical Biblical Institute, Rome 1969; P. Grelot, L’homme devant la mort, in
De la mort à la vie éternelle: études de théologie biblique, Cerf, Paris 1971, 51-102; A.-L. Decamps,
La mort selon l’Écriture, in J. Ries (a cura di), La mort selon la Bible dans l’antiquité classique et
selon le manichéisme, Centre d’histoire des religions, Louvain-la-Neuve 1983, 15-89; L. Coenen e
W. Schmithals, Death; Dead, in NIDNTT 1, 429-447.

317
Capitolo IX

apparenze, questa spiegazione non implica una valutazione negativa del mondo
e della creazione. Piuttosto il contrario. Oscar Cullmann nota che un riconosci-
mento positivo della creazione implica una visione negativa della morte. «Dietro
ad una concezione pessimistica della morte è nascosta una visione positiva della
creazione», egli dice. «Al contrario, quando la morte è considerata una libera-
zione, per esempio nel platonismo, allora il mondo visibile non è riconosciuto
come divina creazione»50.
La Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, insegna apertamen-
te che la morte è una punizione per il peccato dei nostri progenitori51. Espellendo
Adamo dal Giardino dell’Eden, Dio ha dichiarato: «maledetto il suolo per causa
tua; con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita… con il sudore
del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei
stato tratto» (Gn 3,17.19). Nel libro della Sapienza si parla dell’origine della morte:
«Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha
creato tutte le cose perché esistano… Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte
è entrata nel mondo» (Sap 1,13s.; 2,23s.)52. Nella lettera ai Romani, si ripete il
medesimo messaggio: «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo,
e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché
tutti hanno peccato» (Rm 5,12). Più avanti, Paolo riassume questo messaggio
dicendo: «il salario del peccato è la morte» (Rm 6,23). E infine l’apostolo Giaco-
mo afferma tassativamente: «le passioni concepiscono e generano il peccato e il
peccato, una volta commesso, produce la morte» (Gc 1,15).
I Padri della Chiesa per la maggior parte ripetono questa posizione, in parti-
colare Agostino53. I maggiori Concili ecumenici la insegnano54. La Gaudium et
spes spiega che «la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se
non avesse peccato, insegna la fede cristiana che sarà vinta, quando l’uomo sarà

50
O. Cullmann, Immortalité de l’âme ou résurrection des morts?, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel
1957, 36.
51
Inter alia, si veda B. Domergue, Le péché et la mort, «Christus» 25 (1976) 422-33.
52
Si veda L. Mazzinghi, ‘Dio non ha creato la morte’ (Sap 1,13). Il tema della morte nel libro della
Sapienza, «Parola, Spirito e Vita» 32 (1995) 63-75.
53
Agostino, De Civ. Dei XIII, 6.
54
Quello di Trento, per esempio, quando spiega la dottrina del peccato originale nella sua V
seduta: DS 1512.

318
La morte, fine del pellegrinaggio umano

restituito allo stato perduto per il peccato, dall’onnipotenza e dalla misericordia


del Salvatore»55. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ripete la medesima dottrina56.

La morte come elemento integrante del disegno di Dio?  Tuttavia, sembra avere
più senso sostenere che la morte sia una semplice caratteristica del creato stesso,
un segno di come stanno le cose, della finitudine degli esseri creati, della qualità
deperibile che segna tutta la vita multicellulare. In altre parole, la morte sarebbe
semplicemente naturale, e gli uomini dovrebbero accettarla umilmente e reali-
sticamente in quanto tale, piuttosto che combatterle contro o cercare di giusti-
ficarla in termini etici o mitici. Per un credente cristiano, tuttavia, che crede in
Dio Creatore, questo significherebbe che la morte andrebbe presa, più o meno,
come volontà di Dio, come parte integrante del progetto da Lui tracciato per la
creazione. La conseguenza logica sarebbe, perciò, che il passaggio della morte
sarebbe semplicemente la condizione per la nostra definitiva auto-realizzazione
come uomini. In altre parole, la morte in quanto tale avrebbe un lato chiara-
mente positivo57.
Voltaire sentenzia: «L’uomo è nato per morire, come ogni altra cosa che
nasce»58. Karl Barth suggerisce che «la morte appartiene alla vita delle creatu-
re e perciò è loro necessaria»59. Ugualmente, Karl Rahner descrive la morte nei
seguenti termini: «la fine dell’uomo come persona spirituale è attivo compimento
dall’interno, un attivo portarsi-a-compimento, generazione crescente e compro-
vante il risultato della vita e totale prendersi-in-possesso della persona, è un aver-
realizzato-se-stessi e pienezza della realtà personale attuata liberamente»60.
Tuttavia, questa posizione presenta seri inconvenienti. Se la morte è un
aspetto integrante della natura umana, positivamente voluta da Dio, allora la
vita umana sulla terra può facilmente essere considerata come una fase passeg-
gera, più o meno rilevante, e si dovrebbe accettare la morte con una qualche
forma di rassegnazione razionalizzata.

Fino a che punto la morte dipende dal peccato? Spunti storici.  Clemente d’Ales-
sandria, sulla base di una antropologia platonica bipartita (gli uomini sono

55
GS 18.
56
CCC 1008.
57
2 Sam 14,14; Gn 3,19. Su questa posizione, si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 429s.
58
F. M. A. Voltaire, Dizionario filosofico, G. Einaudi, Torino 1950, 358.
59
K. Barth, Kirchliche Dogmatik III/2, 779.
60
K. Rahner, Sulla teologia della morte, 30. Secondo Rahner, il lato positivo della morte, il risultato
di una coincidenza tra la morte e lo stato attuale della vita, è richiesto dalla configurazione dello
spirito umano in quanto libero; perciò la morte è un atto definitivo di compimento umano.

319
Capitolo IX

composti di corpo e anima) e in continuità con Origene61, ha suggerito una


soluzione un poco semplicistica al problema dell’origine della morte. Disse che
la morte è naturale per gli uomini62, in quanto implica solo la distruzione del
corpo, mentre il peccato – che è il frutto della nostra ignoranza del Padre63 –
genererebbe solo la morte dell’anima64. Atanasio († 373) sostiene che la morte
sia naturale nel senso che la possibilità della morte è inscritta nella natura,
mentre il fatto concreto della morte è dovuto al peccato: né l’uno né l’altro sono
sufficienti perché la morte abbia luogo, perché agiscono in modo concomitan-
te65. Questa posizione è diventata abbastanza comune tra i Padri della Chiesa.
Atanasio ritiene che se non fosse per il peccato originale, gli uomini sarebbero
immortali in corpo ed anima, una posizione assunta più tardi da Gregorio di
Nissa66 e Agostino67. L’ultimo ritiene che la “morte”, frutto del peccato originale,
sia corporale, e non dovrebbe essere confusa con la “seconda morte” (cioè, il
peccato personale e la condanna) di cui parla la Scrittura (Ap 2,11; 20,6.14; 21,8).
Questa posizione è stata assunta in buona parte dalla teologia cattolica: la morte
è punizione per il peccato.
Con una buona dose di buon senso, Tommaso d’Aquino riassume l’in-
segnamento cristiano sull’origine della morte nella seguente formula: necessi-
tas moriendi partim ex natura, partim ex peccato68: “la necessità di morire per
gli uomini deriva in parte dalla natura, dalla condizione fisica, biologica degli
uomini, in parte dal peccato”. Non è, ovviamente, che il peccato e la natura
abbiano una parte equivalente nel processo, per la semplice ragione che non
sono categorie commensurabili, ed in quanto tali non si possono confronta-
re quantitativamente. Il peccato non è un “aspetto” della natura (equivalente
per esempio alla sua limitatezza), come hanno pensato alcuni filosofi69; proprio

61
Origene, De princip. I, 2,4.
62
Clemente d’Alessandria, Strom. IV, 12,5.
63
Ibid., II, 34,2.
64
Ibid., III, 64,1.
65
Atanasio, De inc. 4.
66
Gregorio di Nissa, Orat. Catech. 8,1s.
67
Agostino, De Civ. Dei XIII, 6.
68
Tommaso d’Aquino, III Sent., D. 16, q. 1, arg. 1, c. Altrove, egli dice: “mors est et naturalis…
et est poenalis” S. Th. II-II, q. 164, a. 1 ad 1; “mors quodammodo est secundum naturam et
quodammodo contra naturam” De malo, q. 5, a. 5 ad 17. Su questo argomento, si veda J. Pieper,
Tod und Unsterblichkeit, 67-119.
69
Il termine che Aristotele usa per “peccato” è hamartia, che letteralmente significa “sbagliare
l’obiettivo”, cioè, più o meno, commettere un errore, il quale è semplice risultato dell’ignoranza.
In un contesto differente, P. Teilhard de Chardin presenta il male morale principalmente come un

320
La morte, fine del pellegrinaggio umano

come la materia creata non è una manifestazione del peccato, come potrebbe
suggerire la teoria di Origene della creazione come caduta70.
Quel che è originale nel piano di Dio è l’immortalità; il peccato, che fa
spegnere la vita umana e in linea di massima tenta di distruggerla, è un acciden-
te, seppure un accidente importante71. «Non è la morte il dato “naturale”», scrive
Canobbio, «se con questo termine si intende “originale”, bensì l’immortalità»72.
«Dio che ha creato l’uomo è onnipotente», dice Tommaso. «E quindi per un
dono gratuito tolse all’uomo nella sua prima costituzione la necessità di morire
che derivava da tale materia. Ma questo beneficio fu ritirato per colpa dei nostri
progenitori. Perciò la morte è naturale per la condizione della materia, ma è un
castigo per la perdito del dono divino che preservava dalla morte»73.
Dato il fatto che la teologia protestante tende ad associare strettamente crea-
zione e caduta, peccato e natura, almeno a livello esistenziale, non sorprende che
la spiegazione classica della morte come punizione per il peccato sia stata messa
alla prova nei tempi della Riforma74. Già nel XVI secolo, Socino considerava la
dottrina offensiva75. Man mano che il pensiero protestante ha assunto toni più
liberali e ottimistici, e l’insegnamento sul peccato originale è stato gradualmente
messo da parte, la mortalità è stata concepita semplicemente come un aspetto in
più della finitezza della natura umana. Solo per i peccatori può esser presa come
espressione coerente della punizione divina. Infatti solo la soggettiva esperienza
della morte (paura, angoscia, ecc.) può essere concepita come risultato del pecca-
to76. Questa posizione è stata assunta dai filosofi dell’Enciclopedia (Diderot, †
1784; D’Alembert, † 1783; Voltaire, † 1778)77 che pensavano che la morte fosse

limite entro la condizione umana nei confronti della perfezione futura che corrisponde al Punto
Omega. Si veda in particolare la sua opera Comment je crois, in Œuvres, vol. 11, Seuil, Paris 1971.
70
Origene, De princip. I.
71
Secondo l’Aquinate l’immortalità nell’uomo è originariamente dovuta all’azione creatrice di
Dio: S. Th. I-II, q. 85, a. 6c. Si veda Comp. Theol. 152.
72
G. Canobbio, Il destino dell’anima, 88.
73
Tommaso d’Aquino, S.Th. II-II, q. 164, a. 1 ad 1.
74
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 304-316. Nella teologia cattolica, si veda H.
Köster, Urstand, Fall und Erbsünde in der katholischen Theologie unseres Jahrhunderts, F. Pustet,
Regensburg 1983.
75
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 268, nota 196.
76
Si veda per esempio F. Schleiermacher, Der christliche Glaube (orig. 1830), W. de Gruyter, Berlin
1960 § 76, 2; su questa opera, si veda E. Herms, Schleiermachers Eschatologie nach der zweiten
Auflage der ‘Glaubenslehre’, «Theologische Zeitschrift» 46 (1990) 97-130. Si veda anche A. Ritschl,
Die christliche Lehre von der Rechtfertigung und Versöhnung, vol. 3: Die positive Entwicklung der
Lehre, A. Marcus, Bonn 1888, 330, 336s., 339s.
77
Si veda, D. Hattrup, Eschatologie, Bonifatius, Paderborn 1992, 120-4.

321
Capitolo IX

totalmente naturale, e il compito proprio di un individuo maturo fosse quello di


superare la paura della morte tramite la coltivazione della filosofia.
Durante il XX secolo, tuttavia, alcuni teologi protestanti hanno tentato di
recuperare il realismo del legame che mette in relazione peccato e morte di cui
la Scrittura parla chiaramente. Alcuni di questi, come Althaus, Brunner, Barth
e Jüngel, guardano alla morte come un giudizio divino sui peccatori, non solo
come manifestazione del senso di colpa dell’uomo, ma come espressione ogget-
tiva dell’ira di Dio78. Altri, come Oscar Cullmann, insistono nel sostenere che la
morte deriva direttamente dal peccato79. Il luterano Wolfhart Pannenberg spie-
ga che la morte è una conseguenza della finitezza umana80. Ma aggiunge: «La
differenza tra finitudine e morte qui si profila nel fatto che la non accettazione
del proprio carattere finito [Gn 3,5] espone il peccatore alla morte»81.

In che senso la morte è una punizione per il peccato?  Difatti, gli uomini ricono-
scono nella morte un segno della loro finitezza, della loro incapacità di salvarsi,
dell’essere creature che hanno ricevuto l’esistenza e tutto ciò che possiedono
da un Altro. Ma l’uomo si è ribellato contro il suo Creatore, tentando di vivere
come se Dio non ci fosse, come se potesse acquistare l’immortalità e la pienez-
za con un potere proprio. Anche se Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, la
struttura concreta dell’uomo è tale da degenerare e declinare se l’uomo non si
sottomette volentieri al Creatore. Si potrebbe dire che la morte, inscritta da Dio
nella natura umana come una potenzialità, sia una sorte di meccanismo di sicu-
rezza per assicurare che gli uomini, sebbene fatti ad immagine e somiglianza
di Dio, non tentino di sorpassare i limiti della propria natura, o almeno siano
corretti nel loro tentativo di farlo. Dal momento che gli uomini tentano di osta-
colare i piani di Dio tramite il peccato, però, la morte e la conseguente disgrazia
sono entrate nel mondo.
Dato che il peccato implica una separazione da Dio tanto quanto una alie-
nazione dalle altre persone e dal cosmo stesso, ha senso considerare la morte,
il “trionfo dell’irrelazionalità totale”, come la conseguenza interna e più logica
del peccato82. Tuttavia, si può domandare: cosa sarebbe successo se gli uomini

78
Si veda K. Barth, Kirchliche Dogmatik III/2, 765ss. Sugli altri autori, si veda W. Pannenberg,
Teologia sistematica, vol. 2, 309, nota 324.
79
Si veda O. Cullmann, Immortalité de l’âme, 33-46.
80
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 582-590.
81
Ibid., 587.
82
Su questo aspetto della morte, si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 440-3; J. Ratzinger, Escatologia,
96-116.

322
La morte, fine del pellegrinaggio umano

non avessero peccato? Sarebbero morti? Se l’argomento della “morte come fini-
tezza” è corretto, gli uomini sarebbero dovuti morire, prima o poi. Se la morte è
strettamente parlando una punizione per il peccato, allora si dovrebbe conclu-
dere che in sua assenza gli uomini avrebbero vissuto per sempre. Ma questo
non sembra adattarsi alla testimonianza biblica del fatto che la vita di Adamo
sulla terra, anche prima del peccato, fosse considerata una prova, un test della
fede, da compiere entro un tempo limitato, cioè destinata a terminare. La prova
avrebbe dovuto avere un termine.
Possiamo concludere che se l’uomo non avesse di fatto peccato, la fine
della vita sarebbe stata differente da come è ora. Invece della prospettiva di una
fine drammatica, o di una prolungata, dolorosa distruzione e decadenza della
propria vita, l’uomo avrebbe acquistato l’immortalità, anima e corpo, e con
essa, la vita eterna, alla conclusione della sua vita terrena. Non ci sarebbe alcuna
resurrezione finale per quelli già morti. Forse la situazione dell’umanità sarebbe
stata simile a quella della Madonna che, essendo stata concepita senza peccato,
e avendo vissuto con fede profonda e santità senza macchia, è stata assunta alla
fine della sua esistenza terrena in cielo anima e corpo, senza aver sofferto la
dissoluzione della vita umana nella tomba83.
Questa spiegazione della relazione tra la morte e il peccato è confermata
da Leo Scheffczyk, che ha suggerito che l’immortalità umana prima della cadu-
ta sarebbe consistito ne «la promessa, esclusa ogni paura della morte, di una
trasformazione interamente gratuita, alla fine della nostra esistenza terrena»84.
Si può trovare una posizione simile nella catechesi di Giovanni Paolo II del
198685. Parlando dell’originale stato di giustizia in cui gli uomini sono stati crea-
ti, il Papa insegna che l’uomo «possedeva e manteneva con se stesso un equili-
brio interiore, e non provava angoscia alla prospettiva della decadenza e della
morte»86. Al contrario, egli dice, parlando della caduta della natura umana,
«l’uomo è stato creato da Dio per l’immortalità: la morte, che sembra essere una
sorte di tragico salto nel buio, è la conseguenza del peccato, dovuto ad un tipo
di logica immanente, ma soprattutto dovuto alla punizione divina… Senza il

83
Germano di Costantinopoli disse che Maria è stata assunta in cielo «ut ex hoc etiam a resolutione
in pulverem deinceps sit alienum»: dal Breviario Romano, Officium Lectionis del 15 agosto.
84
L. Scheffczyk, Die Erbschuld zwischen Naturalismus und Existentialismus. Zur Frage nach der
Anpassung des Erbsündendogmas an das moderne Denken, «Münchener Theologische Zeitschrift»
15 (1964) 53.
85
Giovanni Paolo II, Udienza Il peccato dell’uomo e lo stato di giustizia originale (3.9.1986), in
Insegnamenti di Giovanni Paolo II 9/2 (1986) 526.
86
Ibid.

323
Capitolo IX

peccato, la fine della prova non sarebbe stata così drammatica»87. In altre parole,
in assenza del peccato, gli uomini in tutta probabilità avrebbero raggiunto la
fine della loro esistenza terrestre, o con una morte non drammatica (come quel-
la rappresentata dalla dormitio Mariae), o con una entrata diretta in cielo senza
morire. A causa del peccato, invece, essi muoiono, perché la fine dell’esistenza
umana sulla terra è stata maledetta88.
Tuttavia, se la morte è una reale punizione per il peccato, che significato
assume per un cristiano? Come viene risolta e trasformata da Cristo? Come
dovrebbe il cristiano prepararla e viverla?

3. La morte del cristiano come incorporazione alla Pasqua


del Signore
L’elemento centrale della predicazione cristiana, sin dall’inizio, è la Resur-
rezione di Gesù Cristo. Dal punto di vista antropologico, la Resurrezione rivela
sia il carattere incondizionato dell’amore di Dio per l’umanità, amore che perdo-
na, sia la futura identità dell’umanità stessa in uno stato risorto, immortale89.
Tuttavia è chiaro dal Nuovo Testamento che per i credenti la promessa di una
futura resurrezione è semplicemente inseparabile dal bisogno di seguire Gesù
in vita e in morte, portando «la croce di ogni giorno», come dice Luca (9,23). Il
passaggio della morte è la conditio sine qua non per la resurrezione, proprio come
è stato per Gesù: la ricompensa eterna che Dio destina a coloro che seguono suo
Figlio verrà dopo la loro morte, e a condizione della loro morte. Paolo insiste
ripetutamente su questo punto. «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in
Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?» (Rm 6,3)90. Questa è la vera
ragione per cui i cristiani possono esclamare: «beati i morti che muoiono nel
Signore» (Ap 14,13). È solo grazie alla promessa della resurrezione che Paolo può
dichiarare: «per me vivere è Cristo, e morire un guadagno» (Fil 1,21)91.
In breve, la Scrittura considera la morte dei cristiani come una vera parte-
cipazione alla morte di Cristo, e, di conseguenza, alla sua resurrezione. Quel
che ha avuto luogo in Gesù sarà replicato, entro un certo grado, in coloro che

87
Giovanni Paolo II, Udienza Lo “stato” di umanità decaduta, in Insegnamenti di Giovanni Paolo
II 9/2 (1986) 971.
88
E. Jüngel, Tod, 128.
89
Si veda il capitolo III.
90
Si veda Rm 6,4s.; Col 2,12.
91
Si veda anche Rm 8,3; Eb 2,14s.; 2 Cor 4,10.

324
La morte, fine del pellegrinaggio umano

credono in Lui92. È ciò che abbiamo già visto93: l’enigma della morte può essere
compreso e risolto alla luce del tipo di immortalità che ci aspettiamo, in questo
caso, l’immortalità rappresentata dalla resurrezione finale.
I cristiani sono incorporati nella morte e resurrezione di Cristo in modo
reale tramite la grazia del Battesimo e la pratica della vita cristiana. La morte di
un cristiano è tanto reale e dolorosa quanto la morte di chiunque altro, perché
costituisce la perdita della vita umana. Eppure in modo misterioso essa è trasfor-
mata, non solo indirettamente tramite la promessa della futura resurrezione, ma
anche direttamente, per il fatto che assume, almeno in parte, il significato e l’ef-
ficacia della morte stessa di Cristo. Cristo trionfa sulla morte, certamente, ma lo
fa sulla Croce: egli trionfa morendo. Consapevolmente e volontariamente egli
ha abbracciato uno stile di vita che ha portato ad una morte che non meritava94,
identificando se stesso con il principio di corruzione introdotto dal peccato, e
sconfiggendolo definitivamente. «Dio… mandando il proprio Figlio in una carne
simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato
nella carne…» (Rm 8,3). Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice così: «per
coloro che muoiono nella grazia di Cristo, [la morte] è una partecipazione alla
morte del Signore, per poter partecipare anche della sua Resurrezione»95.
Si possono dare due possibili spiegazioni per rendere conto dell’efficacia
dell’assunzione volontaria della morte da parte di Cristo: o che il morire ha un
potere proprio che è stato in qualche modo rilasciato al momento della sua morte;
o che l’accettazione di Cristo della morte ha generato l’effusione della potenza di
perdono e trasformazione da parte di Dio, di cui i credenti partecipano.

La morte ha un potere interiore che Cristo ha reso efficace?  Una possibilità è che
Gesù abbia assunto la morte perché essa contiene un potere interiore per l’auto-
realizzazione dell’uomo, che in Lui è reso perfettamente efficace, e di conseguen-
za anche nei credenti. La sua morte costituirebbe così per noi principalmente un
esempio di coraggio, lealtà ed amore96, non dissimile a quella di Socrate97. O più,

92
In questo senso la morte è una forma di “essere in Cristo” (2 Cor 5,1-8; Fil 1,21-4): si veda G.
Ancona, Escatologia cristiana, 104-8. Alviar nota che in questo senso, la morte può assumere un
valore positivo: Escatología, 298-301. G. Gozzelino, Nell’attesa, 193 parla della morte come del
dies natalis.
93
Si vedano le pp. 315s.
94
Gv 10,17. Sull’assunzione della mortalità da parte di Cristo, si veda Tommaso d’Aquino, S. Th.
III, q. 14, a. 1.
95
CCC 1006.
96
Si veda 1 Pt 2,21-5. Si veda anche Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 46.
97
Si veda O. Cullmann, L’immortalité de l’âme; J. Bels, Socrate et la mort individuelle, «Revue des

325
Capitolo IX

forse, la kenosis o l’auto-svuotamento implicato dalla morte di Cristo (Fil 2,7)


rifletterebbe una kenosis più profonda entro la Trinità stessa98: la morte di Cristo
sarebbe come un atto trinitario, generando direttamente l’effusione divina della
grazia. Alcuni autori hanno parlato della morte in questi termini, suggerendo
inoltre che ogni persona godrà di un momento di perfetta lucidità nell’istante
del proprio decesso, con cui potrà compiere la sua decisione finale per o contro
Dio. Cristo sarà presente in questo momento come una ispirazione e un conforto.
Tale teoria, ispirata alla filosofia dell’idealismo romantico e ad Heideg-
ger99, è stata insegnata da diversi studiosi cattolici100. In base ad essa, la morte
costituirebbe un momento singolo, irripetibile, in cui lo stato di pellegrinaggio
e lo stato finale si congiungono in un istante di lucidità perfetta, attiva. Karl
Rahner per esempio dice che «la morte per natura costituisce l’auto-realizzazio-
ne personale»101. Ladislao Boros spiega: «nella morte si apre la possibilità della
prima decisione pienamente personale dell’uomo. La morte è quindi il luogo della
presa di coscienza umana, dell’incontro con Dio e della decisione circa il desti-
no eterno»102. Lasciando da parte per il momento le radici filosofiche di questa
teoria103, sono state addotte diverse ragioni teologiche e pastorali per giustificarla.
Prima, si è detto che poco prima della morte le persone frequentemen-
te sperimentano un periodo di eccezionale chiarezza mentale, durante il quale
contemplano le loro vita e tutto quello che hanno fatto; questo permetterebbe
loro di fare il punto sulla loro reale situazione e prendere una decisione finale,

sciences philosophiques et théologiques» 72 (1988) 437-42.


98
Si veda H. U. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, Jaca Book, Milano 1985, 162.
99
Sul ruolo della morte in Heidegger, si veda R. Jolivet, Le problème de la mort chez M. Heidegger
et J.-P. Sartre.
100
La teoria prende avvio con gli studi di P. Glorieux, Endurcissement final et grâces dernières,
«Nouvelle Revue Théologique» 59 (1932) 869-92; e In hora mortis, in «Mélanges de Sciences
Religieuses» 6 (1949) 185-216. Si veda anche H. Rondet, Problèmes pour la réflexion chrétienne,
Spes, Paris 1945, 142-7; É. Mersch, La théologie du corps mystique, vol. 1, Desclée de Brouwer,
Paris 19543, 313-22. Successivamente, la teoria è stata divulgata da R. W. Gleason, The World to
Come, Sheed & Ward, New York 1958, 72-85; A. Winklhofer, Zur Frage der Endentscheidung im
Tode, «Theologie und Glaube» 57 (1967) 191-310; L. Boros, Mysterium mortis, passim; K. Rahner,
Sulla teologia della morte; J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 120-32; J. Troisfontaines, Je ne meurs
pas…, Éditions universitaires, Paris 1960, 121-49; L. Boff, Vita oltre la morte, Cittadella, Assisi
19843, 27-45. Si veda anche J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 299-315, il quale, sebbene
accetti la teoria in termini generali, sottolinea anche inconvenienti significativi.
101
K. Rahner, Sulla teologia della morte, 29.
102
L. Boros, Noi siamo futuro, 215.
103
Boros fonda la sua riflessione sulla filosofia di M. Blondel circa la volontà, su Maréchal, per
quanto riguarda la conoscenza, su Bergson nei confronti della percezione e della memoria, e su
Marcel riguardo all’amore.

326
La morte, fine del pellegrinaggio umano

irrevocabile, per Dio o contro Dio104. Seconda, la Chiesa è sempre stata sollecita
nell’amministrazione dell’ultimo sacramento ai morenti, l’Unzione dei malati.
Il momento della morte sembrerebbe perciò di essenziale importanza. Terza,
autori come Tommaso d’Aquino e Caietano citano un testo di Giovanni Dama-
sceno († 749) che stabilisce un parallelo tra la morte degli uomini e la decisione
primordiale, istantanea, fatta dagli angeli per o contro Dio. Hoc est hominibus
mors quod est angelis casus105, dice Tommaso, «la morte è per gli uomini quel che
per la caduta è stata per gli angeli». Tra le altre cose, questa teoria servirebbe a
spiegare la difficile questione riguardante la salvezza dei bambini non battezzati,
e la più ampia questione della salvezza dei non battezzati106. Inoltre, si è sugge-
rito che tale teoria possa fornire una conferma della teoria morale della “opzio-
ne fondamentale”, poiché alla morte si può compiere una decisione definitiva.
Quarta, teologicamente si vuole stabilire un parallelo tra la morte di Cristo e
quella di coloro che “muoiono nel Signore”. Come Gesù è morto lanciando un
forte grido, consegnando apertamente il suo spirito al Padre (Lc 23,46), mentre
la terra tremò (Mt 27,51), così anche, si è detto, gli uomini godranno di un istan-
te di perfetta consapevolezza al momento di morire107. Qualcuno anche sostiene
che la morte in Cristo costituisce una sorte di quasi-sacramento, che offre gli
uomini ex opere operato un momento privilegiato di grazia108.

Una critica della teoria della “decisione finale” al momento della morte.  La teoria
che abbiamo appena considerato tende a concentrare l’intero orizzonte escatolo-
gico sul momento stesso della morte: giudizio, resurrezione, Parousia, inizio della
vita eterna o della condanna, purificazione. Suggerisce inoltre una visione alquan-
to pelagiana della salvezza che considera il fenomeno della morte antropologica-
mente, senza il bisogno dell’intervento benevolo di Dio mediante la grazia. Inol-
tre, dal punto di vista della spiritualità cristiana, il profondo legame che associa la
vita e l’azione quotidiane da una parte, e l’eternità dall’altra, viene spezzato. Con
tutto, sappiamo che la vita eterna non è ottenuta né persa in un singolo momento,

104
Gregorio Magno nota che la morte spesso è un momento di illuminazione speciale: Dial. 4, 27,1.
105
Giovanni Damasceno, De fide orth., 2,4; cit. da Tommaso d’Aquino, De Ver., q. 24, q. 10, s. c.
4; S. Th. I, q. 64, a. 2. Anche Caietano cita Giovanni Damasceno: In S. Th. I, q. 64, a. 2, n. 18; q. 63,
a. 6, nn. 4 & 7.
106
Questo argomento, tra molti altri, è considerato nel documento della Commissione Teologia
Internazionale, La speranza di salvezza per i bambini che muoiono senza il Battesimo (19.1.2007).
107
Ruiz de la Peña ritiene con Rahner che la morte sia un atto (La pascua de la creación, 269, nota
98), anche se non è sufficientemente spiegato: G. Colzani, La vita eterna, 203.
108
Si veda L. Boros, Mysterium mortis, 209-242. «La morte è una situazione eminentemente
sacramentale» ibid., 241.

327
Capitolo IX

indipendentemente da quanto possa essere lucido ed importante, ma sulla base


delle ripetute azioni di tutta una vita, per cui si può dire che moriamo come abbia-
mo vissuto. «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere
su molto» (Mt 25,21)109. Inoltre, teorie di questo genere tendono ad interpretazioni
platoniche dell’antropologia, nelle quali la morte è vista come una liberazione dai
legami della materia, del tempo e del mondo. Infatti l’ipotesi della decisione finale
nel momento della morte è abbastanza rara ai nostri giorni110.
Come risposta alle quattro ragioni fornite qui sopra in favore della teoria, si
potrebbe dire, primo, che il momento di particolare chiarezza non è necessaria-
mente sperimentato da chiunque muoia, ed in ogni caso può essere spiegato con
le leggi della natura senza implicare quelle della grazia; secondo, il sacramento
dell’Unzione degli Infermi è un sacramento dei viventi, da ricevere – se possi-
bile – quando la persona inferma è ancora cosciente, non nel momento effettivo
della morte; terzo, la ragione storica (il testo di Giovanni Damasceno riportato
da Tommaso e Caietano) è debole non solo perché è unica, ma anche perché
è in disaccordo con altre posizioni degli stessi autori, in particolare riguardo
al carattere non angelico della natura umana; e quarto, un possibile parallelo
con la morte di Cristo non è applicabile agli uomini, dal momento che Egli è il
nostro Salvatore, e non ha ereditato la mortalità a causa del peccato come il resto
dell’umanità, ma l’ha assunta volontariamente (Gv 10,17). Esaminiamo l’ultima
questione più dettagliatamente.

La trasformazione della morte da Cristo.  Il secondo modo per spiegare l’incorpo-


razione del credente in Cristo nella morte (e successivamente nella resurrezione)
sta nel vederla in termini dell’effusione da parte di Dio della sua grazia e potenza
in virtù della perdita, frutto dell’obbedienza, del dono della vita da parte del suo
Figlio sulla Croce, come espressione di disponibilità alla sua missione di salva-
re l’umanità. Da se stessa, la morte non ha nessun potere o valore intrinseco di
salvezza, dal momento che costituisce semplicemente la perdita della vita. Infatti,
l’Aquinate insegna che la morte non ha né causa formale, né causa finale, né causa
efficiente; al massimo si può dire che abbia “causa deficiente”111. Per questo, la

109
Sul significato e le difficoltà della teoria dell’opzione fondamentale, si veda Giovanni Paolo II,
Enc. Veritatis splendor (1993), nn. 65-70.
110
Si veda la critica di J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 163-73; G. Gozzelino, Nell’attesa,
428, nota 32; G. Lorizio, Mistero della morte come mistero dell’uomo: un’ipotesi di confronto fra la
cultura laica e la teologia contemporanea, Dehoniane, Napoli 1982, 163-73.
111
Su questo, si veda L. F. Mateo-Seco, El concepto de muerte en la doctrina de Santo Tomás de
Aquino, 182-4.

328
La morte, fine del pellegrinaggio umano

morte di Cristo «è totalmente differente dalla morte di Socrate, dal momento che
quest’ultima rappresenta un lasciare questa condizione per una migliore»112.
Eppure Cristo infonde un nuovo valore alla morte, in modo tale che coloro
che sono incorporati a Lui tramite il Battesimo ottengono già i primi benefici
della resurrezione. Cristo redime i morti non solo esprimendo perfetta solida-
rietà con l’umanità decaduta, assumendola, ma anche mostrandosi pienamente
fedele, al punto di rinunciare alla propria vita, per volontà di suo Padre e per
amore a coloro per salvare i quali è stato mandato.
Che la morte di Gesù in Croce sia stato dolorosa lo sappiamo. Però più anco-
ra era vergognosa all’estremo. Era la morte riservata per i criminali: «Maledetto
chi è appeso al legno» (Dt 21,23; cf. Gal 3,13). Essa rappresentava, a giudicare
dalla apparenze, il fallimento della sua missione, la rovina di un intero proget-
to di vita113. «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non
splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolo-
ri che ben conosce il patire; come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era
disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Is 53,2s.; cf. Sal 22,6-8). Inoltre, e
si tratta dell’aspetto più sorprendente, Gesù ha assunto la morte volontariamente
(Gv 10,17), portando la vergogna dell’umanità sulle sue spalle, come se egli fosse
da incolpare per i peccati degli uomini, lasciando in questo modo i suoi discepoli
liberi (Gv 18,8). «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossa-
to i nostri dolori», leggiamo nel libro di Isaia, «e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato
per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le
sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,4-5; cf. Mt 8,17). San Tommaso spiega
che Cristo accettò la sofferenza e la morte con una volontarietà attuale: in unione
con il Verbo di Dio, lo spirito di Cristo aveva la capacità di evitare ogni sofferenza
e danno alla sua natura; perciò, non rifiutando l’anima di Cristo nessun danno
inferito al corpo, ma piuttosto volendo che la sua natura corporale fosse sotto-
messa a tale danno, si dice che consegnò il suo spirito, che morì liberamente114.
Infatti l’assunzione da parte di Gesù della sofferenza e del tremendo,
distruttivo potere della morte, è stato incapace di far crollare il suo amore filia-

112
C. Taylor, A Secular Age, 17.
113
CAA 211s.
114
«Quia spiritus eius habebat potestatem conservandi naturam carnis suae, ne a quocumque
laesivo inflicto opprimeretur. Quod quidem habuit anima Christi quia erat Verbo Dei coniuncta in
unitate personae, ut Augustinus dicit, in IV de Trin., quia ergo anima Christi non repulit a proprio
corpore nocumentum illatum, sed voluit quod natura corporalis illi nocumento succumberet,
dicitur suam animam posuisse, vel voluntarie mortuus esse» S. Th. III, q. 47, a. 1c.

329
Capitolo IX

le per il Padre e la sua dedizione incondizionata e fraterna agli uomini. Gesù,


autore stesso della vita (Gv 1,4), ha amato la vita più di chiunque altro115, e,
dice San Tommaso, «ha esposto la vita per amore nostro»116. Rinunciando al
dono più prezioso, quello della vita umana, non solo egli l’ha nobilitato, ma ha
dimostrato l’amore più grande possibile. «Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Nell’Antico Testamento
l’amore e la fedeltà sono mostrati in massimo grado dalla disponibilità ad accet-
tare il martirio (2 Mac 7). Ma Gesù non patisce una morte qualsiasi. Tutta la
sofferenza, tutta l’indifferenza, tutto il dolore e l’angoscia, tutta la stanchezza
e lo sgomento patiti dai profeti, dai patriarchi, dai “poveri di Jahve” sembrano
gravare su Gesù, schiacciandolo. Cristo ha sperimentato la morte più di chiun-
que altro, non solo a causa della perfezione della sua umanità, o perché il dolore
inflitto è stato straordinario, ma anche perché in modo mistico ha sofferto in
qualche modo la morte di tutti, ha affrontato i peccati dell’umanità117.
È stata l’accettazione attuale e volontaria, per amore di Dio e dell’umanità, di
quel che non aveva meritato, della perdita della vita (il dono più grande creato da
Dio), ciò che ha mutato il significato della morte, trasformandola in una sorgente
di grazia e redenzione. Né ad Abramo, né a Giobbe, né a Geremia, né ad alcuno
dei profeti è stato chiesto di confidare in Dio e di obbedire a lui tanto quanto è
stato chiesto a Gesù. Tutti e tre sono stati risparmiati all’ultimo momento (Gn
22,16s. nei confronti di Isacco; Gb 41s.; Ger 37-40), ma Gesù no. «Umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Dopo tutto,
«egli pensava… che Dio è capace di far risorgere anche dai morti» (Eb 11,19). In
effetti, come esito dell’obbedienza di Gesù, «Dio lo esaltò e gli donò il nome che
è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9). Gesù, leggiamo nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, «malgrado la sua angoscia di fronte alla morte,… la assunse in un atto
di totale e libera sottomissione alla volontà del Padre suo. L’obbedienza di Gesù
ha trasformato la maledizione della morte in benedizione»118.
Si possono delineare, a partire dalla riflessione precedente, tre conseguen-
ze: primo, la morte in quanto tale non è soppressa dall’incorporazione a Cristo
nel Battesimo, ma trasformata da maledizione in benedizione; poi, l’unione
con Cristo dissipa la paura della morte nei credenti; e infine, la mortificazio-

115
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 46, a. 6.
116
Ibid., ad 4.
117
Ibid., ad 4.
118
Si veda M. Hauke, La visione beatifica di Cristo durante la Passione.

330
La morte, fine del pellegrinaggio umano

ne cristiana, o la morte di sé, diventa pratica significativa, fruttuosa, davvero


necessaria, per lo sviluppo della vita cristiana.

La trasformazione della maledizione della morte in benedizione.  Sebbene Dio


tramite il Battesimo perdoni il peccato, questo sacramento non sopprime la
morte che deriva dal peccato119. Ma la trasforma. Per coloro che sono incorporati
in Cristo, la morte non è più una maledizione, una punizione. Diventa sorgente
di benedizioni, di grazia, di crescita, di fecondità. Diventa una opportunità per
dimostrare la qualità radicale dell’amore di Dio di chi “vive in Cristo”. Il creden-
te, «può trasformare la propria morte in un atto di obbedienza e di amore verso il
Padre, sull’esempio di Cristo», leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica120.
In sé stessa, ovviamente, la morte non raggiunge nulla, perché si tratta
della distruzione dell’uomo, la perdita della vita. Ma l’accettazione volontaria
della morte, con tutto ciò che implica, apre la possibilità a Cristo di stabilire
la propria vita interamente nel cuore dei credenti (Gal 2,20). Essi sono invitati
insistentemente da Gesù a «lasciare ogni cosa» (Mt 19,27), anche perché alla
fine della loro vita dovranno farlo comunque, abbandonando la vita, il conforto
fisico, la compagnia delle altre persone, i beni, i ricordi teneri, le altre cose che
concorrono a rendere la vita sulla terra degna di essere vissuta. La vita stessa,
tuttavia, deve diventare per i cristiani un processo di morire gradualmente, di
morire a sé, di morire al mondo. In questo senso, la morte acquista, in unione
con Cristo, un particolare valore corredentivo121; in effetti i cristiani portano
«sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di
Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,10).

Vincere la paura della morte. Un effetto specifico dell’incorporazione del


cristiano alla morte di Cristo è che non deve più temere la morte, in quanto
Cristo è entrato nelle sue stesse profondità e l’ha redenta. Nella lettera agli Ebrei
leggiamo che Cristo ha «ridotto all’impotenza mediante la morte colui che della
morte ha potere, cioè, il diavolo e liberato così quelli che, per timore della morte,
erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (2,14s.). La morte induce la paura
in tutti gli uomini, paura dell’ignoto, paura di un’altra vita, paura di perdere

119
L’Aquinate spiega che il Battesimo non sopprime la morte. Se lo facesse, le persone cercherebbero
questo sacramento per il beneficio corporale che occasiona (IV C. Gent., ed. Marietti, 3958b), e
sarebbero obbligate a credere (ibid., c). Piuttosto il Battesimo muta la morte da punizione ad
opportunità di vivere in conformità con Cristo (S. Th. III, q. 49, a. 3, ad 3).
120
CCC 1011.
121
Si veda G. Ancona, Escatologia cristiana, 331s.

331
Capitolo IX

quel che possediamo, paura di amare generosamente, paura del rischio, paura
della sofferenza. E non meno nei cristiani. Tuttavia, nella fede essi ottengono
la garanzia che il male della morte non li possederà più quando entreranno
nella gloria e saranno definitivamente ricolmi dell’amore di Dio. Questo amore
è già infuso nella vita dei credenti (Rm 5,5). E come dice Giovanni, «nell’amore
non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore
suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1 Gv 4,18).
Tommaso d’Aquino offre la seguente spiegazione: «tra i generi di paura
che si possono sperimentare sulla terra, il peggiore di tutti è la morte. Se l’uomo
supera questo genere di paura, egli supera tutti i generi… Ora, Cristo attraverso
la sua morte ha rotto questo legame, e ha rimosso la paura della morte… Quan-
do l’uomo considera che il Figlio di Dio, il Signore della morte, ha voluto morire,
non ha più alcuna paura della morte»122. E san Josemaría Escrivá: «Un figlio di
Dio non ha paura della vita e non ha paura della morte, perché il fondamento
della sua vita spirituale è il senso della filiazione divina: Dio è mio Padre, egli
pensa, ed è l’Autore di ogni bene, è tutta la Bontà»123.

La morte, la mortificazione e la purificazione della speranza.  La paura della


morte e la mancanza di familiarità con l’aldilà può esser vista anche nell’otti-
ca della umana tendenza ad accumulare febbrilmente dei beni che questa vita
offre, a restare aggrappato e a dipendere eccessivamente da essi. La Scrittu-
ra parla dell’uomo «che dice a se stesso: “anima mia, hai a disposizione molti
beni, per molti anni; riposati, mangia bevi e divertiti!” Ma Dio gli disse: “Stolto,
questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”» (Lc 12,19). Quel che è chiesto
ai cristiani, al contrario, è di «accumulare tesori in cielo» (Mt 6,20), di “lascia-
re tutto” (Mt 19,27) e seguire Cristo. Nel libero restituire a Dio, lungo tutto il
corso della propria vita, ogni cosa che Egli ha dato loro, in particolare la propria
volontà, ai discepoli di Cristo è promesso «cento volte tanto e in eredità la vita
eterna» (Mt 19,29). Come abbiamo visto nel capitolo sulla resurrezione finale124,
alla fine dei tempi Dio restituirà ai credenti, moltiplicato, purificato ed elevato,
tutto quello che hanno dato e cui hanno rinunciato senza riserve e con un cuore
puro, mentre erano sulla terra. Dio lo farà nella vita futura, ed anche, per un
certo grado, in questa. Forse è per questo che coloro che vivono il relictis omni-
bus, quelli che “lasciano tutto”, e che generosamente “mortificano” quel che è

122
Tommaso d’Aquino, Ad Heb. c. 2, su Eb 2,14s.
123
Josemaría Escrivá, Forgia, n. 987. Si veda Cammino, n. 739; Solco, n. 880.
124
Si vedano le pp. 145s.

332
La morte, fine del pellegrinaggio umano

a loro disposizione, vivono felicemente, fruttuosamente, senza sperimentare né


angosia nei confronti della vita, né eccessiva paura con la morte.

4. La morte come fine del pellegrinaggio umano


La morte è un punto di arrivo, ma non è la fine della vita umana. Segna la
fine della mortalità e l’inizio dell’immortalità. È un punto di svolta, un punto di
svolta critico. Infatti l’immortalità non è una situazione neutra per gli uomini,
né una situazione precedentemente garantita. Questo accade non solo perché la
vita nell’aldilà presenta per gli uomini un territorio sconosciuto, ma soprattut-
to perché sarà determinato, secondo il giudizio di Dio, dalla vita che ciascuno
ha vissuto, buona o cattiva che sia. La morte diventa una congiunzione critica,
un momento di “crisi” nel senso reale della parola (la parola krisis in greco,
“decisione”, viene da krinō, “giudicare”), la fine del pellegrinaggio terreno, l’ini-
zio dell’eternità. Considereremo ora diverse questioni che riguardano la morte
come la fine dei tempi di prova che Dio ha offerto agli uomini.
Primo, vedremo la testimonianza biblica e patristica del fatto che la morte
è la vera fine del pellegrinaggio umano. Secondo, l’insegnamento della Chiesa
sulla “retribuzione totale” dopo la morte, per coloro che sono stati purificati, in
cielo, e per coloro che sono morti in peccato mortale, all’inferno. Nella sezione
successiva, considereremo la questione del “giudizio particolare” che ha luogo
proprio dopo la morte e rende possibile la retribuzione piena.

La morte come fine del pellegrinaggio terrestre.  Nel libro del Qoèlet leggiamo:
«Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché
non ci sarà né attività, né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per
andare» (Qo 9,10)125. Il Nuovo Testamento punta nella medesima direzione: dopo
la morte non ci sarà l’opportunità di pentimento. Il discorso sul giudizio di Matteo
(Mt 25,24-46) rende chiaro che l’esito dipenderà dalle azioni che si sono compiute
in questa vita: nutrire gli affamati, dissetare gli assetati, ecc. Nel discorso di Luca
sulle beatitudini (Lc 6,20-6), leggiamo che la ricompensa futura dipende dalla vita
che si è vissuta su questa terra. «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati»
(v. 21). Anche nella parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30,36-43), è chia-
ro che il campo in cui i malvagi piantano i semi è “il mondo” (v. 38). Giovanni dice
anche: «chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo,

125
Per questa sezione, si veda C. Pozo, La teología del más allá, 468-73.

333
Capitolo IX

la conserverà per la vita eterna» (12,25). Forse il testo più chiaro è il seguente, della
lettera di Paolo ai Corinzi: «tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale
di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel
corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5,10).
Clemente di Roma scrive: «Mentre siamo sulla terra pentiamoci con tutto
il nostro cuore dei peccati che abbiamo commesso, così che il Signore possa
salvarci nel tempo della penitenza. Infatti quando lasceremo questo mondo non
potremo più fare opere di penitenza»126. Girolamo paragona colui che muore
con un tronco d’albero che cade e rimane dov’è127. Altrove egli spiega che la
morte segna il momento in cui il grano viene raccolto128.

Sarà possibile la conversione dopo la morte?  Un passaggio dalla prima lettera di


Pietro, parlando di Cristo “disceso agli inferi”, sembra indicare, tuttavia, che il
pentimento sarà possibile anche dopo la morte. Di conseguenza, quest’ultima
non segnerebbe più la fine del pellegrinaggio umano. Il testo recita come segue:
«perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati… e nello spirito
andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano
rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di
Noè, mentre si fabbricava l’arca» (1 Pt 3,18-20). Clemente d’Alessandria129 e altri
autori suggerirono che questo testo permette la possibilità di pentimento dopo
la morte, così da rendere possibile alla fine dei tempi una sorta di riconciliazione
universale130. Alcuni autori recenti mantengono la medesima posizione131.
Tra i Padri della Chiesa, tuttavia, l’interpretazione più comune di 1 Pt
3,18-20132 è che Cristo, discendendo negli inferi, comunicò la salvezza a coloro
che, castigati da Dio ai tempi di Noè, si erano pentiti prima di morire, e stavano
aspettando la salvezza «nel seno di Abramo» (Lc 16,22). La “prigione” in questio-
ne, cioè, non era l’inferno, lo stato di condanna definitiva, ma lo she’ol, gli inferi.

126
Clemente Romano, Ep. in Cor. 8,2.
127
Girolamo, Comm. in Eccl., 11.
128
Girolamo, In Gal., 3, 6,10, su Ga 6,9.
129
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 471s.
130
Su Agostino, si veda B. E. Daley, The Hope, 139.
131
L. Lochet, Jésus descendu aux enfers, Cerf, Paris 1979, 127-33; 169s.; J. R. Sachs, Current
Eschatology, 233ss. Si veda la documentazione raccolata da J. A. Trumbower, Rescue for the Dead:
the Posthumous Salvation of non-Christians in Early Christianity, Oxford University Press, Oxford
(UK); New York 2001.
132
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 443-5.

334
La morte, fine del pellegrinaggio umano

La piena retribuzione dopo la morte nella Scrittura.  Oltre ai testi che parlano
della morte come fine del pellegrinaggio terreno, la Scrittura insegna anche che
la piena retribuzione può aver luogo immediatamente dopo la morte. Rispetto
alla dannazione eterna, abbiamo già visto che non è possibile pentirsi del proprio
peccato dopo la morte133. Non c’è alcuna ragione perché Dio dovrebbe rimandare
la retribuzione personale ad un momento successivo. Nella parabola di Lazzaro
e del ricco (Lc 16,19-31), la ricompensa per entrambi, così sembra, giunge imme-
diatamente dopo la morte: «il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad
Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto» (v. 22). È chiaro, inoltre, che la situa-
zione di Lazzaro e del ricco non costituisce un tipo di passaggio intermedio di
attesa, che possa alla fine essere modificato; infatti Abramo dice al ricco: «tra
noi è voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare a
voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi» (v. 26). Sebbene lo scopo
della parabola non sia principalmente quello di spiegare la salvezza e la condan-
na escatologiche134, Gesù parla in questo modo per presentare una sfida etica
con delle conseguenze reali, cioè escatologiche. Inoltre, diversi Padri della Chiesa
comprendono il testo come una affermazione della retribuzione immediata135.
Tuttavia, è interessante notare che la questione della retribuzione piena
dopo la morte non è unanimemente risolta tra i Padri della Chiesa136.

La controversia riguardante la retribuzione piena tra i Padri.  I Padri Apostolici


ritengono che la piena retribuzione debba aver luogo subito dopo la morte137.
Cipriano, per esempio, disse che tutti quelli che vivono e muoiono fedeli a
Cristo saranno ammessi al Regno di Dio immediatamente dopo la morte138.
Altri autori come Giustino, Ireneo e Tertulliano, invece, mentre parlano della
differenza tra la situazione dei giusti e degli ingiusti, spiegano che tutti devono
aspettare fino a che il giudizio finale abbia luogo perché avvenga la definitiva
separazione139. Solo i martiri, che sono perfettamente uniti a Cristo, riceveran-

133
Si vedano le pp. 259s.
134
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 248-51.
135
Si veda per esempio Giovanni Crisostomo, In I Cor. hom., 42,3; In Ep. 6 ad Gal., 3; De Lazaro
Conc. 7,3.
136
Così C. Pozo, La teología del más allá, 473s., 490-2.
137
Così Clemente di Roma, Ignazio d’Antiochia, Policarpo, il Pastore di Erma.
138
Cipriano, Ad Fort. 13. La ricompensa immediata è destinata a coloro che «hanno abbandonato
e condannato i loro beni…», che «sono stati fermi nella fede e nel timore di Dio» ibid., 12. La
salvezza «è un dono della benevolenza di Dio, ed è accessibile a tutti» Ad Donat. 14.
139
Giustino dice che «le anime delle persone pie stanno in un posto migliore, mentre quelle
degli ingiusti e dei malvagi in uno peggiore, aspettando il giudizio» Dial. cum Tryph. 5,3. Questa

335
Capitolo IX

no una ricompensa immediata e definitiva140, sebbene alcuni Padri della Chiesa


estendano questo privilegio ai patriarchi, ai profeti e agli apostoli141. Il periodo
di attesa tra la morte e la resurrezione per i giusti è chiamato comunemente il
refrigerium interim142. Tertulliano, che probabilmente ha coniato questa espres-
sione143 nel suo periodo montanista, disse che «l’anima si sottopone a punizione
e consolazione nell’hadēs durante l’intervallo [tra la morte e la resurrezione],
mentre aspetta il giudizio, con una certa anticipazione di tristezza e gloria»144.
La posizione di Origene in materia non è molto chiara: a volte parla di retribu-
zione immediata, altre volte di una rinviata145.
La maggior parte dei Padri della Chiesa del quarto secolo, tuttavia, hanno
difeso la dottrina della retribuzione piena dopo la morte: Ilario di Poitiers146,
Gregorio di Nazianzeno147, Gregorio di Nissa, Epifanio, Cirillo d’Alessan-
dria148, Gregorio Magno149 e (più tardi) Giuliano di Toledo150. San Girolamo
dice: «dopo la resurrezione del Signore, i santi non sono più trattenuti negli

posizione probabilmente è determinata sia dagli insegnamenti ebrei che da quelli gnostici: «se
tu trovi qualche cristiano che dice che non c’è resurrezione dei morti, ma che al momento della
morte le anime sono assunte in cielo, non considerarlo cristiano» Dial. 80,4. Ireneo difende la
medesima posizione, Adv. Haer. V, 31,2; De anima 55.
140
Questa posizione è unanime tra i Padri della Chiesa. Si veda C. Noce, Il martirio. Testimonianze
e spiritualità nei primi secoli, Studium, Roma 1978, 55. I martiri sono tutti con Cristo, secondo
Ignazio d’Antiochia, Ad Rom. 6,1-2. Su Ignazio, si veda F. Bergamelli, Morte e vita in Ignazio
d’Antiochia, «Parola, Spirito e Vita» 32 (1995) 273-88. Anche Clemente di Roma ha questa
posizione, Ep. in Cor. I, 5,4-7; Ad Fort. 13; si veda Policarpo, Ad Phil. 9,2. Su quest’ultimo si veda
C. Burini, ‘… Questo giorno e questa ora’ (Mart. Polyc. 14,2), «Parola, Spirito e Vita» 32 (1995)
259-71. Si veda anche Tertulliano, De res. 43,4, che parla della particolare situazione dei martiri
come «una prerogativa che deriva dal loro martirio». Agostino dice: «Iniuria est pro martyre
orare, cuius nos debemus orationibus commendari» Sermo 159,1,1.
141
Si veda per esempio Ambrogio, In Luc. 7,4s.
142
Sulla nozione di refrigerium interim, si veda A. Stuiber, Refrigerium interim. Die Vorstellungen
vom Zwischenzustand und die frühchristliche Grabeskunst, Hanstein, Bonn 1957; L. De Bruyne,
Refrigerium interim, «Rivista di Archeologia cristiana» 34 (1958) 87-118, che offre una risposta
critica a Stuiber.
143
Secondo J. B. Russell, A History of Heaven, 68.
144
Tertulliano, De anima 58.
145
In alcune opere (per esempio De princip. I, praef. 5), Origene parla di retribuzione immediata, in
altre (In Lev. Hom. 7,2), di retribuzione alla fine dei tempi. Si veda H. Crouzel, Morte e immortalità
nel pensiero di Origene, in Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del III-V secolo, a cura di S.
Felici, Las, Roma 1985, 316-57; C. Noce, Il martirio; B. E. Daley, The Hope, 55s.
146
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 51,23.
147
Gregorio di Nazianzeno, Or. 7,21.
148
Cirillo d’Alessandria insegna chiaramente che la ricompensa o il premio è immediato dopo la
morte: In Joann. 12, on Gv 19,30.
149
Gregorio Magno, per quanto riguarda il cielo: Dial. 4,26,1s.; e l’inferno: Dial. 4,29.
150
Giuliano di Toledo, Prognost. fut. saec. II, 37.

336
La morte, fine del pellegrinaggio umano

inferi… Chiunque sia con Cristo sicuramente non rimane negli inferi»151. Così
anche Giovanni Crisostomo152.
Ci sono tuttavia delle eccezioni tra i Padri. Ambrogio dice che «tutti i
morti resteranno nell’hadēs fino al giudizio finale, alcuni attendendo il castigo,
altri la gloria e l’onore»153. Ugualmente Agostino riteneva che «tra la morte e
la resurrezione finale, le anime si trovano in un posto nascosto (abditis recep-
taculis), per il riposo, o la punizione, secondo i meriti che derivano dalla loro
vita sulla terra»154. Nella Liturgia delle ore si può leggere la seguente preghie-
ra: Spem defunctorum adimple, ut in adventu Christi resurrectionem assequan-
tur155: “Colma la speranza dei defunti di ottenere la resurrezione nella venuta di
Cristo”. Questo sembra indicare che la retribuzione piena è rinviata.
Dall’VIII secolo in poi, la piena retribuzione dopo la morte è la posizio-
ne generalmente accettata tra i Padri e i teologi. Restano alcun eccezioni: san
Bernardo in Occidente156, e Fozio di Costantinopoli († 891) e Teofilatto (XI sec.)
in Oriente157. Infatti, una parte considerevole della teologia orientale a partire dal
Medioevo rimanda il destino finale escatologico al tempo del giudizio finale158.

Le ragioni della dilazione della retribuzione.  Per giustificare la dilazione nella


piena retribuzione dopo la morte si adducono generalmente tre ragioni. Prima,
la questione della continuità dottrinale con la dottrina dell’Antico Testamento
sullo she’ol159. Tutti gli uomini discendono allo she’ol dopo la morte, aspettando
la venuta del Salvatore. Alla morte salvifica di Cristo le porte del cielo sono state

151
Girolamo, In Eccl. 9,10.
152
Crisostomo dice che la punizione e il premio iniziano subito dopo la morte. Si veda la sua
riflessione sulla parabola di Lazzaro e del ricco: In cap. 6 Ep. ad Gal. 3; De Lazaro Conc. 7,3. Per
quanto riguarda l’immediatezza della ricompensa, si veda De Beato Philogonio, 1.
153
Ambrogio, De bono mortis, 10,47. Su quest’opera, si veda R. Iacoangeli, La catechesi escatologica
di S. Ambrogio, «Salesianum» 41 (1979) 403-17.
154
Agostino, Enchirid., 109. Sul “seno di Abramo” e il paradiso, si veda Ep. 187, 2,6. Si può trovare
la medesima idea in In Io. Ev. tr. 49,10; Retract. I, 14,2 nei confronti della visione beatifica.
155
Preces ad II Vesp., Fer. VI, Haeb. VII Paschae. Secondo H. de Lubac, Cattolicesimo. Aspetti
sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1979, 201ss, Cristo stesso ha sperimentato una certa speranza
nei confronti della ricompensa finale.
156
Si veda per esempio Bernardo, Sermo in Nat. S. Victoris Conf., 5; Sermo 138, 4; De diligendo Deo,
30; Ep. 374 In trans. B. Malachiae, 2. Sulla posizione di Bernardo, si veda B. De Vrégille, L’attente
des saints d’après saint Bernard, «Nouvelle Revue Théologique» 70 (1948) 225-44.
157
Fozio, De Amphilochium quaest. 6,2 e Teofilatto, Exp. in Ep. ad Heb. 11,39s.
158
Si veda J. Meyendorff, Byzantine Theology. Historical Trends and Doctrinal Themes, Fordham
University Press, New York 1974, 218-22; sul viaggio dell’anima dopo la morte verso il giudizio,
si veda J.-C. Larchet, La vie après la mort selon la Tradition orthodoxe, Cerf, Paris 2001, 63-211.
159
Si veda le pp. 114s.

337
Capitolo IX

aperte, e la sua “discesa agli inferi” ha posto fine allo she’ol come stato sostan-
zialmente indifferenziato160. Tuttavia, dal momento che l’opera salvifica di Cristo
non cambia la dinamica della retribuzione rispetto al tempo, ma solo rispetto al
contenuto161, è possibile che la retribuzione piena sia rimandata. Contro questa
opinione, si può aggiungere che con l’Ascensione di Cristo in cielo non c’è ragio-
ne per cui Dio debba rimandare l’offerta del premio promesso agli uomini162.
Seconda, è chiaro a partire dalla Scrittura e dai Padri della Chiesa che la
resurrezione e il giudizio finale occupino uno spazio centrale nell’economia della
salvezza cristiana. Se l’opera salvifica di Cristo non è ancora completa, e lo sarà
solo nella Parousia, allora non è possibile una definitiva separazione tra i giusti e gli
ingiusti dopo la morte. Questa è la difficoltà che Agostino ha trovato circa la retri-
buzione immediata163. Tuttavia, bisogna considerare due punti: (1) come abbia-
mo visto prima164, il giudizio finale non è in senso stretto una forma di salvezza
dal peccato, ma piuttosto la manifestazione pubblica dell’atto salvifico che ad un
livello sostanziale ha già avuto luogo, o che non ha prodotto l’effetto desiderato;
(2) la resurrezione dei morti, che è il preludio al giudizio sia dei peccatori che dei
santi, non cambia in senso stretto la situazione delle persone nei confronti di Dio,
sebbene senza dubbio i giusti lo desiderino. Il libro dell’Apocalisse (6,9-11) nota
che i martiri – che secondo tutti i Padri hanno ottenuto il possesso pieno di Dio
in cielo – continuamente invocano la giustizia di Dio. Così, il giudizio definitivo
secondo giustizia non dovrebbe aver luogo fino alla fine dei tempi.
In terzo luogo, l’esitazione dei Padri nei confronti della piena retribuzione
può essere stata generata dalla loro opposizione al pensiero gnostico. Gli gnosti-
ci ritenevano che gli eletti fossero ammessi alla gloria nel momento stesso della
morte, nel senso che supponevano che la morte rompesse i legami (mondo,
corpo, materia) che li tenevano lontani dall’unità con la Divinità. Essi consi-
deravano la morte quindi come il passaggio definitivo verso la loro liberazione.
Questo spiegherebbe perché alcuni Padri avessero abbracciato la dottrina della
retribuzione rimandata.
È chiaro che la retribuzione immediata, per così dire, non è dovuta alla
dinamica della morte in quanto tale, che è in sé distruttiva piuttosto che libera-

160
CCC 635.
161
Così Giustino, Dial. cum Tryph. 5; I Apol. 18,20, ed Ireneo, Adv. Haer. II, 34,1.
162
Secondo J. Ratzinger, Escatologia, 150, la posizione dei Padri è fondata sull’idea ebrea dello
she’ol, ma molto più sul fatto che, con l’ascensione di Cristo, i cieli sono stati aperti.
163
Agostino, Rectrat. I, 13,3s.; C. Tibiletti, Le anime dopo la morte: stato intermedio o vicine di Dio?
(dalla Patristica al sec. XIV), «Augustinianum» 28 (1988) 631-59, in particolare 637.
164
Si vedano le pp. 177s.

338
La morte, fine del pellegrinaggio umano

trice. Invece, con la morte il pellegrinaggio umano si chiude, e Dio non ha ragio-
ni per rinviare l’offerta definitiva all’uomo della comunione eterna con Lui, s’è
pienamente purificato, o della perpetua condanna. In breve, possiamo conclude-
re dicendo che la morte non è la causa, ma l’occasione della piena retribuzione.

L’insegnamento della Chiesa sulla piena retribuzione nel XIV secolo. Durante


l’esilio del papato ad Avignone, la questione della piena retribuzione dopo la
morte è sorta di nuovo165. Papa Giovanni XXII († 1334), in una serie di sermoni
predicati a Parigi nel 1331, prendendo spunto dagli scritti di san Bernardo ed
altri, insegnò che le anime dei santi contemplano la sacra Umanità di Cristo,
sebbene la contemplazione dell’essenza divina sarà possibile per loro solo dopo
la resurrezione finale. In un’altra serie di sermoni, egli insegnò che le anime dei
peccatori, ugualmente, non entreranno all’inferno prima del giudizio finale; nel
frattempo, sono posti in uno stato intermedio e tormentati dal diavolo166.
In nessuna occasione sembra che il Papa intenda parlare in modo autore-
vole; ancor meno intendeva definire un nuovo dogma. Infatti egli ammetteva
apertamente di esser pronto a rettificare la posizione presa. Comprensibilmente,
tuttavia, le sue dichiarazioni diedero luogo ad una vivace polemica167, e la sua
posizione fu fermamente ripudiata da Guglielmo di Ockham ed altri168. Poco
prima di morire, Papa Giovanni ritrattò, e la sua ritrattazione fu resa pubblica
dal suo collaboratore e successore Benedetto XII169. Qualche tempo dopo, Bene-
detto promulgò la Costituzione Benedictus Deus (1336) con l’espresso desiderio
di definire la dottrina della piena retribuzione come un dogma della Chiesa.
Il documento parla anche della natura della visione beatifica, ma per quanto
riguarda la ricompensa dei giusti, dice quel che segue: «le anime di tutti i santi

165
Su questo periodo, si veda D. Douie, John XXII and the Beatific Vision, «Domincan Studies»
3 (1950) 154-74; F. Lakner, Zur Eschatologie bei Johannes XXII, «Zeitschrift für Katholische
Theologie» 72 (1950) 326-32; A. Tabarroni, Visio beatifica e Regnum Christi nell’escatologia di
Giovanni XXII, in La cattura della fine: variazioni dell’escatologia in regime di cristianità, a cura
di G. Ruggieri e A. Gallas, Marietti, Genova 1992, 123-49; C. Trottmann, La vision béatifique: des
disputes scolastiques à sa définition par Benôit XII, École française de Rome, Roma 1995; J. Gil-i-
Ribas, El debat medieval sobre la visió beatífica. Noves aportacions, «Revista Catalana de Teología»
27 (2002) 295-351; 28 (2003) 135-96.
166
Si veda M. Dykmans, Les sermons de Jean XXII sur la vision béatifique, Presses de l’université
Grégorienne, Roma 1973.
167
Si veda L. Ott e E. Naab, Eschatologie in der Scholastik (Handbuch der Dogmengeschichte
4.7.2), Herder, Basel; Wien 1990, 244-51.
168
Guglielmo di Ockham era un francescano, come lo era il successore di Giovanni XXII, Papa
Benedetto XII.
169
DS 990s.

339
Capitolo IX

che sono dipartite da questo mondo…, purché non avessero la necessità di alcu-
na purificazione al momento della morte… ed ancora le anime dei bambini
che sono stati fatti rinascere nel medesimo battesimo di Cristo… se sono morti
prima di ottenere l’uso della libera volontà: tutte queste anime, immediatamente
dopo la morte (mox post mortem) e, in caso di coloro che hanno bisogno di puri-
ficazione, dopo la purificazione… già prima di riprendere i loro corpi e prima
del giudizio generale, sono state, sono e saranno con Cristo in cielo… A partire
dalla passione e la morte del Signore Gesù Cristo, queste anime hanno visto e
vedono l’essenza divina con una visione intuitiva ed anche faccia a faccia… e in
questa visione godono dell’essenza divina»170. Per quanto riguarda i peccatori
non-penitenti, il testo conclude: «le anime di coloro che sono morti in peccato
mortale attuale scendono all’inferno immediatamente dopo la morte e lì soffro-
no le pene dell’inferno»171.
È chiaro perciò che la retribuzione avrà luogo subito dopo la morte, per
tutti gli uomini. La dottrina della Benedictus Deus è stata confermata frequen-
temente nell’insegnamento ufficiale della Chiesa, per esempio nel Concilio
di Firenze172, che contrastò le posizioni di Fozio e Teofilatto. Anche la Lumen
gentium173 del Concilio Vaticano II ripete questa dottrina come fa il Credo174 di
Paolo VI e il Catechismo della Chiesa Cattolica175.

5. Morte e giudizio particolare


Il Catechismo della Chiesa Cattolica, appena citato, dice quel che segue:
«ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale
la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che metterà la vita in rapporto a
Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamen-
te nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre»176.
Perché ci sia la piena retribuzione subito dopo la morte, ci deve essere qual-
che tipo di giudizio (o manifestazione) con il quale i peccatori siano separati
dai santi. Viene normalmente chiamato “giudizio particolare”, in quanto non
implica il giudizio dell’intera umanità, ma dei singoli individui, al momento

170
DS 1000.
171
DS 1002.
172
DS 1305ss.
173
LG 49.
174
Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 28.
175
CCC 1022.
176
Ibid.

340
La morte, fine del pellegrinaggio umano

della loro morte, uno per uno. Anche la Lumen gentium insegna la distinzio-
ne tra il giudizio particolare e il generale: «Prima infatti di regnare con Cristo
glorioso, noi tutti compariremo “davanti al tribunale di Cristo, perché ciascuno
ritrovi ciò che avrà fatto quando era nel suo corpo, sia in bene che in male” (2
Cor 5,10), e alla fine del mondo, “ne usciranno, chi ha operato il bene a resurre-
zione di vita, e chi ha operato il male, a resurrezione di condanna” (Gv 5,29)»177.
L’interpretazione data dal documento conciliare di 2 Cor 5 sembra essere che
prima di regnare con Cristo (la Parousia che avrà luogo “alla fine del mondo”),
ci sarà un giudizio precedente per ciascuno178.

Obiezioni al concetto di giudizio particolare.  La Scrittura parla spesso di giudi-


zio179, ma lo fa quasi sempre nel contesto del giudizio generale destinato all’in-
tera umanità e che avrà luogo alla fine dei tempi. È comprensibile perciò che
alcuni autori pongano in dubbio l’esistenza di un “giudizio particolare”. Comu-
nemente si presentano tre obiezioni.
In primo luogo, tale dottrina sembrerebbe implicare una duplicazione del
giudizio. Che senso avrebbe per gli uomini esser giudicati due volte da Dio, con
la possibilità che il primo giudizio sia rivisto nel secondo? Lutero una volta ha
dato espressione a tale argomento dicendo: «quando moriamo ciascuno avrà il
suo giudizio definitivo»180.
Un secondo argomento contro l’esistenza del giudizio particolare sugge-
risce che gli uomini sono così profondamente implicati nella loro situazione
sociale e nel mondo creato in cui vivono, e condizionati da essi, che parlare di
un grave peccato individuale, un giudizio personale e una retribuzione definiti-
va avrebbe poco senso da un punto di vista antropologico. Il peccato andrebbe
compreso anzitutto in termini sociali, si è detto, e sarà manifestato e giudicato
nel contesto dell’umanità comune che il giudizio finale renderà presente181.
Terzo, alcuni autori suggeriscono, in direzione decisamente opposta, che
ciascuna persona alla morte subirà (o meglio intraprenderà) una forma di auto-
giudizio. Cioè, il giudizio non avrà luogo come incontro tra Dio e l’uomo, conclu-

177
LG 48d.
178
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 556s.
179
Si vedano le pp. 172s.
180
Cit. da L. Scheffczyk, La teoria della “resurrezione nelle morte” come tentativo di identificazione
della dualità tra consumazione individuale e consumazione universale, Lezione tenuta alla Pontifi-
cia Università della Santa Croce, 1987, 28.
181
Secondo Hegel, l’uomo sarà giudicato dalla storia: si veda J. Milet, Le jugement de Dieu, mythe
ou réalité? Étude philosophique, «Esprit et vie» 98 (1988) 403-11; 417-25, qui 403s. Si veda anche
G. Gozzelino, Nell’attesa, 374.

341
Capitolo IX

dendosi con una sentenza divina. Piuttosto, ciascuno porrà se stesso nel luogo
che gli spetta182. Ciascuno costruisce la propria identità eterna. Ladislao Boros
esprime questa teoria come segue: «l’incontro con Cristo… si svolge nell’ombra
della nostra esistenza… La profondità ultima delle nostre esperienze di vita,
della nostra speranza, del nostro desiderio, della nostra ricerca di amicizia, di
bontà e di coesistenza, anzi, proprio la profondità delle nude e semplice azioni
di aiuto disinteressato è Gesù Cristo stesso»183.
Nondimeno, la dottrina del giudizio particolare trova basi sufficienti nella
Scrittura e nei Padri della Chiesa184.

La dottrina del giudizio particolare nella Scrittura.  Si possono fare due osserva-
zioni riguardo la presenza della dottrina del giudizio particolare nella Scrittura185.
Primo, nel Nuovo Testamento si possono trovare diversi testi che parlano
del giudizio individuale. Luca parla dell’uomo nobile che, una volta tornato a
casa, «fece chiamare i servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto
ciascuno avesse guadagnato» (Lc 19,15). Li chiamò separatamente, l’uno dopo
l’altro, e ciascuno fu giudicato in base ai propri meriti e demeriti, senza però
escludere il paragone con gli altri. Infatti quello che aveva fallito nell’investire
non fu in grado di trovare una scusa, e fu condannato «dalle sue stesse paro-
le» (Lc 19,22). Le parabole del povero Lazzaro (Lc 16,22) e del buon ladrone
(Lc 23,43) possono ben indicare che la situazione definitiva di ciascuna persona
davanti a Dio sarà chiarita subito dopo la morte. Il testo seguente dalla lette-
ra agli Ebrei suggerisce l’idea di un giudizio che ha luogo quando la persona
muore: «E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di
che viene il giudizio» (Eb 9,27)186.
In secondo luogo, quasi tutti i testi del Nuovo Testamento che parlano del
giudizio fanno riferimento alle azioni individuali, senza menzionare il preci-
so momento del giudizio. Abbiamo già citato 2 Cor 5,10: «ciascuno riceve la
ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo». Alla fine dei tempi le
persone saranno giudicate per le proprie azioni (Mt 25,35s.42s.). In altre parole,

182
Sulla nozione di corrispondenza tra peccato e punizione, si vedano le pp. 257s. sopra.
183
L. Boros, Noi siamo futuro, 233.
184
In base a Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 69, a. 2c, L. Beaudouin, Ciel et résurrection, in Aa.vv.,
Le mystère de la mort et sa célébration, Cerf, Paris 1951, 253-74, parla solo di una consapevolezza
generica dei peccatori di meriti o demeriti, e nega la dottrina del giudizio particolare.
185
Sulla nozione di giudizio graduale nell’Antico e nel Nuovo Testamento, si veda G. Gozzelino,
Nell’attesa, 376.
186
Si veda anche 2 Cor 5,8; Fil 1,23; 2 Tm 1,9s.; Eb 12,23.

342
La morte, fine del pellegrinaggio umano

non saranno giudicati come parti nascoste di un’anonima totalità. In ripetute


occasioni Gesù sottolinea che la rettitudine morale individuale è necessaria per
la salvezza, e che la semplice appartenenza al Popolo di Dio, che sia Israele o la
Chiesa, non è sufficiente ad assicurare la salvezza187. Una ecclesiologia cristia-
na, una antropologia cristiana, una etica basata sulla fede mettono la persona
umana con la propria responsabilità al centro. Per questa ragione, il giudizio
particolare diviene elemento essenziale dell’escatologia cristiana.

Il giudizio particolare nei Padri della Chiesa.  Comprensibilmente, i dubbi sorti


tra i Padri della Chiesa riguardanti la questione della piena retribuzione hanno
influenzato la loro opinione in materia di giudizio particolare. Tuttavia, molti di
loro ne parlano apertamente, tra questi Basilio188, Ilario di Poitiers189, Efrem190,
Giovanni Crisostomo191, Cirillo d’Alessandria192 e Girolamo. Quest’ultimo dice
senza esitazione che «quel che accadrà a tutti il giorno del giudizio, è già acca-
duto per ciascuno nel giorno della morte»193. Ambrogio dice che tutti coloro che
entrano in Paradiso devono passare dalla spada fiammeggiante del cherubino,
che è il fuoco di un doloroso giudizio personale194. Ugualmente Agostino, a dispet-
to dei suoi dubbi nei confronti della piena retribuzione, disse che «crediamo
fermamente… che le anime siano giudicate quando hanno lasciato i loro corpi,
prima di giungere a quel giudizio nel quale dovranno essere giudicate quando
recuperano i loro corpi»195. Infine, tra i teologi medioevali, Tommaso d’Aquino
dice che «c’è un altro giudizio divino nel quale, dopo la morte, ciascuno riceverà
la sentenza che si merita… Dopo tutto non si può pensare che la separazione
[tra i giusti e gli ingiusti] avvenga senza giudizio divino, o che questo giudizio
non venga esercitato sotto la potenza sovrana di Cristo»196.

La relazione tra giudizio particolare e generale.  Per quanto riguarda le obiezioni


sopra menzionate (la duplicità del giudizio; il giudizio collettivo o in termini
individuali), si può dire quel che segue.

187
Si vedano le pp. 270s.
188
Basilio, Hom. in Ps. 7,2.
189
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 2,49.
190
Efrem, Sermo in eos, qui in Christo dormierunt.
191
Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. 14,4.
192
Cirillo d’Alessandria, Hom. 14.
193
Girolamo, In Joel 2,1.
194
Ambrogio, In Ps. 118, 3,16.
195
Agostino, De anima II, 4,8.
196
Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., 242; IV C. Gent., 91. Si veda anche la spiegazione data nel
Catechismo Romano, I, art. 7.

343
Capitolo IX

La discussione precedente mostra che la dottrina del giudizio particola-


re non porta necessariamente ad un individualismo etico che non tenga conto
delle implicazioni sociali del peccato. Piuttosto fa riferimento ad un incontro
interamente personale con Dio che illumina l’intelletto pratico e manifesta a
ciascuno la vera situazione della propria coscienza. Perciò le persone sono salva-
te o condannate sulla base della propria vita, giudicata da Dio solo e non dal
resto dell’umanità, avendo come paragone Gesù in persona, e coloro che sono a
lui pienamente conformi, gli angeli e i santi197.
L’obiezione principale, tuttavia, è che sembra che le persone verranno
giudicate due volte, una volta al giudizio particolare, e di nuovo in quello gene-
rale. Una tale duplicazione sembra difficile da giustificare. Si dovrebbe tuttavia
tenere a mente che, come abbiamo già visto, il giudizio divino sfocia in una
manifestazione più che in un verdetto. Le persone non sono giudicate due volte,
perché la loro situazione etica al momento della morte non può mutare. Dopo la
morte, Dio manifesta la vera situazione della loro vita personale secondo la veri-
tà della propria coscienza. Su questa base, e non altra, riceveranno la ricompen-
sa dovuta. Alla fine dei tempi, invece, la loro vita sarà manifestata apertamente
davanti a Dio e davanti a tutta l’umanità, e riceveranno il giusto riconoscimento
pubblico, da Dio e dagli uomini, per il bene e il male che hanno compiuto, il bene
che pensano forse solo Dio possa vedere (Mt 6,4.6.18), e il male che speravano
nessuno vedesse mai (Gv 3,19). Quando Gesù dice ai suoi discepoli di invitare
i poveri, gli zoppi e i ciechi al banchetto invece di invitare coloro che possono
restituire il favore (Lc 14,12), dice loro esplicitamente che per la loro generosità
saranno «ricompensati alla resurrezione dei giusti» (Lc 14,14). La piena verità di
quel che egli ha spesso ripetuto, sarà manifesta: «Molti dei primi saranno ultimi
e gli ultimi saranno i primi» (Mc 10,31).
L’apparente raddoppiamento del giudizio riflette semplicemente il fatto che
gli uomini sono persone individuali e allo stesso tempo appartengono alla socie-
tà. Ciò significa inoltre che questi due elementi non possono essere separati l’uno
dall’altro, né fusi l’uno nell’altro198. Tommaso d’Aquino spiega che «ciascuno è,
nello stesso e medesimo tempo, una persona individuale e parte dell’intera razza
umana. Ha senso perciò che ci siano due giudizi. Uno è individuale, proprio
dopo la morte, e in esso ciascuno riceverà la sentenza corrispondente alle opere
compiute nel corpo, tuttavia non completamente, ma solo per quanto riguarda

197
Si vedano le pp. 188s.
198
Si vedano le pp. 148s.

344
La morte, fine del pellegrinaggio umano

l’anima. Ciascuno ha bisogno però di un altro giudizio per quanto riguarda la


nostra appartenenza alla razza umana di cui è parte. Quindi ciascuno sarà giudi-
cato quando il giudizio universale avverrà… tramite la separazione dei buoni
e dei cattivi. Ancora, Dio non giudica la medesima cosa due volte, perché non
punisce due volte lo stesso peccato. Piuttosto al giudizio finale la punizione che
non si è ancora affrontata prima di questo giudizio sarà completata»199.

Giudizio particolare come auto-giudizio?  E cosa si può dire della terza obiezio-
ne al giudizio particolare, che esprime l’idea che la persona giudichi se stessa?
Questa posizione sembra contare su un interessante precedente tra i Padri della
Chiesa. Agostino per esempio quando considera il biblico “libro della vita” (Ap
3,5; 13,8; 17,8) afferma che quest’ultimo fa riferimento ad «una forza e poten-
za divina attraverso le quali gli uomini ricordano tutte le loro opere, così che
possano vedersi, accusarsi od assolversi»200. Tommaso d’Aquino commenta il
seguente passo della lettera di Paolo ai Romani: «Essi dimostrano che quanto la
Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro
coscienza e dei loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono»
(2,15), e dice: «Dio al giudizio usa la coscienza dei peccatori come accusatrice»201.
L’anima, egli dice altrove, illuminata da luce divina, sa istantaneamente se è
degna di ricompensa o punizione202.
In modo interessante, Ilario di Poitiers203 e Zeno di Verona204 ritengono
che il giudizio finale si applica solo a “coloro che stanno in mezzo”, per così
dire, perché sia i buoni che i cattivi sono già stati giudicati alla morte205. Nella
medesima direzione, Ambrogio osserva che «Cristo giudica conoscendo i nostri
cuori, non domandandoci delle nostre azioni»206; infatti, le nostre stesse azioni
ci giudicano mentre le compiamo207.

199
Tommaso d’Aquino, In IV Sent., D. 47, q. 1, a. 1, ql. 1 ad 1.
200
Agostino, De Civ. Dei XX, 14.
201
Tommaso d’Aquino, S. Th. II-II, q. 67, a. 3 ad 1.
202
Tommaso d’Aquino, De Ver. q. 19, a. 1c. H. U. von Balthasar aderisce a questo insegnamento:
Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 264-7.
203
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 1,17; 57,7.
204
Zeno di Verona, Tract. 2,21. Egli dice che il giudizio «viene all’esistenza in situazioni di
ambiguità» ibid., 2,21,1.
205
Su questa questione, si veda B. E. Daley, The Hope, 94-7. Ambrogio dice che solo il “peccatore
credente” verrà giudicato: In Ps. 51. Paolino di Nola è concorde: In Carm. 7,24-36.
206
Ambrogio, In Luc. 10,46.
207
Ambrogio, Ep. 77,10,14.

345
Capitolo IX

La teoria dell’auto-giudizio intende soprattutto evitare che il giudizio venga


considerato estrinseco o ingiusto. Il giudizio dovrebbe, piuttosto, corrisponde-
re alla vera situazione delle persone per come si vedono in coscienza. Volen-
do evitare l’estrinsecismo divino e l’arbitrarietà, tuttavia, la teoria può arrivare
all’estremo opposto, mutando il giudizio in un non-giudizio. La coscienza infat-
ti non è la prima sorgente di moralità individuale. Non è l’espressione dell’au-
tonomia etica della persona nei confronti di Dio. Dio è il supremo protagoni-
sta della coscienza umana. Perciò solo Dio può giudicare gli uomini, premiare
i buoni portandoli alla partecipazione della propria vita, o punire gli ingiusti
bandendoli dalla sua presenza per sempre. Il peccato, il giudizio, la ricompen-
sa e la punizione sono tutte profondamente dialogiche per natura. Se ciascuna
persona giudicasse sé stessa, come possiamo interpretare la sorpresa provata
da coloro che vengono giudicati da Cristo, sia per il bene che per il male (Mt
25,37.44)? Nel Concilio di Trento leggiamo che «nessuno dovrebbe esprimere il
giudizio su di sé, né per giudizio umano né per il giudizio di Dio “che metterà in
luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno
riceverà da Dio la lode” (1 Cor 4,5)»208.

208
DS 1549.

346
Capitolo X

IL PURGATORIO: LA PURIFICAZIONE DEGLI ELETTI

Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?


Gv 21,15

L’alternativa all’inferno è il purgatorio


T. S. Eliot1

Anche le loro virtù erano state bruciate via


Flannery O’Connor2

“Purgatorio” designa lo stato di purificazione, dopo la morte, per coloro che


sono morti in amicizia con Dio ma sono macchiati dai resti del peccato. «Coloro
che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio», dice il Catechismo della Chiesa
Cattolica, «ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro
salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la morte, ad una purificazio-
ne, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gloria del cielo»3.
Comunemente si ritiene che la dottrina del purgatorio sia una delle dottrine
cristiane più “umane” ed integrative, dal momento che dà espressione (1) alla
santità di Dio che non può sopportare alcuna imperfezione in sua presenza, (2)
ad una realistica valutazione della condizione peccaminosa in cui molte, se non
la maggioranza, degli uomini si trovano alla fine della vita, e (3) all’unità della
Chiesa, corpo mistico di Cristo, che offre una misteriosa solidarietà che rende
possibile la purificazione dei suoi membri peccatori4. Con le parole di san Jose-

1
T. S. Eliot, The Idea of a Christian Society, Faber & Faber, London 1954, 24.
2
F. O’Connor, Revelation, in The Complete Stories (orig. 1971), Farrar, Straus and Giroux, New
York 2007, 508.
3
CCC 1030.
4
Si veda E. J. Fortman, Everlasting Life after Death, Alba House, New York 1976.

347
Capitolo X

maría Escrivá, «il Purgatorio è una misericordia di Dio, per purificare i difetti
di quanti vogliono identificarsi con Lui»5.
Dall’altra parte, la dottrina del purgatorio è tipicamente “cattolica”. I cristia-
ni ortodossi spiegano la purificazione dopo la morte in modo diverso dai catto-
lici. Tradizionalmente, i protestanti negano del tutto l’esistenza del purgatorio.
È anche vero che quest’ultimo non è stato ufficialmente definito dalla Chiesa
fino al Medioevo, e non sembra occupare un posto sostanziale nella Scrittura.
Tuttavia, la ragione per cui la Chiesa non aveva chiaramente definito la dottrina
della purificazione dopo la morte fino a quel momento è piuttosto semplice: in
termini reali, nessuno l’aveva veramente negata. E il fatto è che questa dottrina,
presente ad un livello implicito nella teologia e nella pratica della Chiesa, è anche
profondamente presente nella Scrittura, seppure ad un livello tacito.

1. La dottrina del purgatorio nella Scrittura


La Scrittura fornisce una solida base per la dottrina del purgatorio a livello
generale e in testi particolari. Considereremo i testi di tipo generale.

Il contesto scritturale del purgatorio.  Abbiamo accennato prima a tre fonda-


mentali ragioni che depongono a favore dell’esistenza del purgatorio. Tutte e tre
sono chiaramente testimoniate nella Scrittura.
Primo, Dio è santo e richiede al suo popolo una vita santa6. «Signore,
chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sulla tua santa montagna? Colui che
cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore» (Sal
15,1-2). «Non entrerà in essa [la Nuova Gerusalemme] nulla di impuro, né chi
commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita
dell’Agnello» (Ap 21,27). Nell’Antico Testamento si attribuisce grande impor-
tanza alla purezza rituale, che è sempre considerata una manifestazione di
purezza interiore7. Questa necessità era applicata in particolare ai sacerdoti,
che a motivo del loro ministero godevano di un contatto particolarmente stret-
to con il Signore (Lv 8-9). Quando Giovanni parla della promessa escatologica
della visione diretta di Dio (1 Gv 3,2), aggiunge la seguente esortazione: «chiun-
que ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1 Gv 3,3).
La prospettiva di vedere Dio faccia a faccia richiede che i credenti conseguano

5
Josemaría Escrivá, Solco, n. 889.
6
Sull’importanza di questo tema, si veda J. J. Alviar, Escatología, 334-40.
7
Si veda H.-G. Link e J. Schattenmann, Pure, in NIDNTT 3, 100-8.

348
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

una perfetta purificazione della propria vita. In effetti, durante il Discorso della
Montagna, Gesù disse: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).
Secondo, gli uomini sono generalmente consapevoli della potenza e del
carattere apparentemente insuperabile del peccato nella loro vita8. «Sì, le mie
iniquità io le conosco, il mio peccato mi sta sempre dinnanzi… ecco, nella colpa
io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre» (Sal 51,5.7). Gesù, che è
venuto «a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), fu impressionato dalla
debolezza umana: «vedendo le folle, né sentì compassione, perché erano stanche e
sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Paolo nella lettera ai Roma-
ni dà chiara espressione alla potenza del peccato presente nel cuore dell’uomo: «io
faccio non quello che voglio, ma quello che detesto… nel mio intimo acconsento
alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che combatte contro la
legge della mia ragione… Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?»
(Rm 7,15.22-24). Ovviamente, il fatto che tutti gli uomini siano peccatori depone
a favore della necessità di essere purificati dopo la morte.
Terzo, non solo i cristiani sono salvati da Cristo nella fede, ma questo avviene
nella Chiesa, anche tramite la preghiera e la penitenza degli altri credenti. Questa
dottrina è presente in particolare nell’insegnamento di Paolo circa il corpo misti-
co di Cristo, che più tardi è stato definito “comunione dei santi”9. Parlando
dell’unità del Corpo che è la Chiesa, nella lettera agli Efesini leggiamo: «agendo
secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che
è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la colla-
borazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in
modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15s.). «Dio ha disposto il corpo…
perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le
une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e
se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di
Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1 Cor 2,24-7). «Ora io
sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi», scrive Paolo ai Colossesi, «e do
compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del
suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Perciò, egli può esortare i cristiani a portare
«i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2).

8
Sulla presenza del peccato nella vita dei credenti, SS 46.
9
Si veda il mio studio Comunión de los santos.

349
Capitolo X

La medesima dottrina si può trovare negli scritti apocalittici10 ed anche in


Agostino, che dice, tra le altre cose, che «le anime dei fedeli defunti non sono
separate dalla Chiesa, che è il Regno di Cristo nel tempo»11. Quindi la solidarie-
tà del corpo mistico di Cristo, la Chiesa, rende possibile per i cristiani la parte-
cipazione alla purificazione di tutti i suoi membri, morti e vivi.
Inoltre, diversi testi della Scrittura parlano apertamente dell’esistenza del
purgatorio.

Il purgatorio nell’Antico Testamento.  Il testo più chiaro che parla dello stato di
purificazione post-mortem nell’Antico Testamento si trova nel secondo libro dei
Maccabei (12,40-45)12. Il testo si riferisce ai suffragi offerti dal capo delle tribù
d’Israele, Giuda Maccabeo, in favore dei soldati che avevano coraggiosamen-
te combattuto contro i loro avversari in difesa del Popolo Eletto da Dio, ma
nell’ora della battaglia avevano cercato l’assistenza di divinità pagane tramite
pratiche superstiziose. «Trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri
agli idoli di Iàmnia, che la legge proibisce agli ebrei… perciò si misero a prega-
re, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato» (2 Mac
12,40-2). Giuda, «fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dracme
d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio per il pecca-
to, compiendo così una azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della
resurrezione. Perché, se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero
resuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti… La sua conside-
razione era santa e devota… Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i
morti, perché fossero assolti dal peccato» (ibid., 43-45).
Da una parte, è chiaro che i soldati morirono combattendo per difende-
re Israele, il Popolo di Dio. D’altra parte, avevano peccato non fidandosi total-
mente della potenza del Signore, ma ricercando aiuto supplementare attraverso
pratiche idolatriche, che erano assolutamente proibite agli Ebrei a causa della
loro fede in Jahve come unico Signore. Si considerò, tuttavia, che il loro peccato
non fosse grave e imperdonabile, ma potesse essere perdonato e espiato anche
dopo la morte. Allo scopo di ottenere la purificazione perfetta, furono offer-
ti sacrifici in Gerusalemme. Il testo conferma che la pratica fosse un dato di

10
Si veda il Testamento di Abramo 12-14; Apoc. Moses 35,2; 36,1; 47; 1 Henoc 13,4; 15,2.
11
Agostino, De Civ. Dei XXII, 9,2.
12
Si veda E. O’Brien, The Scriptural Proof for the Existence of Purgatory from 2 Maccabees 12,43-45,
«Sciences Ecclésiastiques» 2 (1949) 80-108.

350
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

fatto13. Che non ci sia una esplicita menzione dello stato purgatoriale in quanto
tale è controbilanciato dalla naturalezza e logica interna della pratica di offrire
sacrifici per i morti.
Il testo è riferito al purgatorio da Efrem in Oriente, Agostino in Occidente,
e diversi altri Padri della Chiesa14. Inoltre, il Concilio Vaticano II, il Catechi-
smo della Chiesa Cattolica e Benedetto XVI citano questo testo a supporto della
dottrina del purgatorio15.

Il purgatorio nel Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento fa riferimento al


purgatorio in particolare nella prima lettera di Paolo ai Corinzi (3,10-15). Lo
riconoscono il Catechismo della Chiesa Cattolica e Papa Benedetto XVI16. Il
testo parla dei battezzati, di coloro che appartengono a Cristo, e vivono e muoio-
no in carità. «Ma ciascuno stia attento a come costruisce [sul fondamento posto
dall’Apostolo]. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che
già vi si trova, che è Gesù Cristo» (vv. 10s.). Il testo continua: «E se, sopra questo
fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia,
l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché
con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascu-
no. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una
ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tutta-
via egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco» (vv. 12-15).
Alcuni esegeti ritengono che questo testo non faccia riferimento alcuno
al purgatorio, ma offra semplicemente una immagine della rivelazione della
maestà di Dio, dell’inaccessibilità di Colui che è Santo17. Altri riconoscono

13
Per gli Ebrei, il rito del Kippur (Lv 4-5) veniva usato per redimere i peccati non solo dei viventi
ma anche dei morti. Secondo il testo rabbinico della scuola di Shammai, «nel giudizio ci sono tre
generi di persone: alcune sono destinate alla vita eterna, quelle completamente empie alla vergogna
e al disonore eterni; coloro che sono nel mezzo (né interamente buoni, né interamente cattivi,
un luogo intermedio) scendono nella geenna per essere provati e purificati; poi risorgeranno e
saranno salvati» cit. in F. de Fuenterrabía, El purgatorio en la literatura judía precristiana, in En
torno al problema de la escatología individual del Antiguo Testamento (Semana Bíblica Española
15, 1954), CSIC, Madrid 1955, 115-50, qui 145. Si veda anche A. Lods, La croyance à la vie future
et le culte des morts dans l’antiquité israélite.
14
«Se i seguaci dei Maccabei espiarono i delitti dei morti con sacrifici, quanto più i sacerdoti del
Figlio possono fare con le sante offerte e le preghiere delle loro labbra» Efrem, Testamentum, 78.
Si veda Agostino, De cura pro mortuis gerenda, 1,3.
15
LG 50; CCC 1032; SS 48.
16
Il Catechismo della Chiesa Cattolica riferisce 1 Cor 3 al purgatorio in CCC 1031, nota 605; così
fa Benedetto XVI in SS 46.
17
Per esempio, J. Gnilka, Ist I Kor 3,10-15 ein Schriftzeugnis für das Fegfeuer?, Triltsch, Düsseldorf
1955. Gnilka ritiene che la prova del “fuoco” nel “giorno del Signore” faccia riferimento al ritorno

351
Capitolo X

che il nucleo della dottrina del purgatorio sia presente in questo testo18. Forse
sarebbe corretto dire che il brano offre una buona spiegazione della dinami-
ca generale della purificazione cristiana. Ma il testo ha una innegabile cadenza
escatologica, e la manifestazione finale di cui parla avrà luogo in “quel giorno”,
che è equivalente alla Parousia, la fine dei tempi. Il pentimento personale in
quanto tale non è previsto, ma piuttosto avviene una purificazione dei peccatori.
Alcuni Padri della Chiesa hanno visto in questo testo una base per giustificare
la dottrina di Origene sulla riconciliazione universale o apokatastasis19. Altri,
come Giovanni Crisostomo, lo concepiscono nei termini di una purificazione
che caratterizza la vita cristiana in genere20. Eppure diversi Padri della Chiesa la
riferiscono direttamente al purgatorio21: Ambrogio22, Cesario d’Arles23, Grego-
rio Magno24 e in particolare Agostino25. Ugualmente, diversi teologi contempo-
ranei insegnano che questo testo contiene il nocciolo della dottrina del purgato-
rio, interpretando la purificazione del fuoco in senso cristologico. Torneremo a
considerare questi autori più avanti26.
Secondo Tertulliano27 e altri Padri, la dottrina del purgatorio è presente
anche nell’insegnamento di Gesù sulla necessità di riconciliarsi con l’accusato-

di Cristo per il giudizio finale. “Fuoco” sarebbe semplicemente «una immagine della maestà di Dio
che rivela se stesso, dell’inaccessibilità di Colui che è Santo» ibid., 126.
18
Per esempio C. Spicq, Purgatoire dans l’Ancien Testament, in Dictionnaire de la Bible, Supplément,
vol. 9 (1979), col. 555-7, qui col. 557; E. B. Allo, Première Épitre aux Corinthiens, Gabalda;
Lecoffre, Paris 1934, 60-63, 66s.; S. Cipriani, Insegna I Cor 3,10-15 la dottrina del Purgatorio?,
«Revue Biblique» 7 (1959) 25-43. Ugualmente, J. Michl, Gerichtsfeuer und Purgatorium zu I Kor
3,12-15, in Studiorum Paulinorum Congressus Internationalis Catholicus (1961), vol. 1, Pontificio
Istituto Biblico, Roma 1963, 395-401, ritiene che almeno il nucleo della dottrina del purgatorio si
possa trovare qui. Si veda anche A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 505-71.
19
Si veda H. Crouzel, L’exégèse origénienne de 1 Co 3,11-25 et la purification eschatologique,
qui 282.
20
Giovanni Crisostomo, 1 in Cor., hom. 9,3.
21
Si veda G. Moioli, G., L’“Escatologico” cristiano, 185-8.
22
Ambrogio, In Ps., 36,25.
23
Cesario d’Arles, Sermo 167,6s.; si veda Sermo 179.
24
Gregorio Magno parla di «un fuoco che purifica prima del giudizio per certe mancanze minori»
Dial. 4, 41,3s.
25
Si veda J. Ntedika, L’évolution de la doctrine du purgatoire chez S. Augustin, Études augustiniennes,
Paris 1966, specialmente 67s. In particolare Agostino dice che «alcuni dei fedeli, a causa del loro
amore per i beni passeggeri, saranno purificati, più o meno velocemente, per mezzo di un fuoco
purificatore» Enchirid. 109. Si veda Enn. in Ps., 37,3; De Civ. Dei XXI, 25-27. Si veda anche P. Jay,
Saint Augustin et la doctrine du purgatoire, «Recherches de théologie ancienne et médiévale» 36
(1969) 17-30.
26
Si vedano le pp. 371s.
27
Tertulliano, De anima 35; 58,8. Alcuni autori affermano che l’ultimo testo di Tertulliano non
faccia riferimento ad una sofferenza purificatrice limitata temporalmente, ma piuttosto in una

352
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

re, piuttosto che l’essere mandato in prigione: «in verità io ti dico: non uscirai
di là finché non avrai pagato anche l’ultimo spicciolo» (Mt 5,25s.). Il termine
“prigione” è spesso utilizzato come equivalente di hadēs o di inferi28. La dottrina
dell’Antico Testamento della permanenza nell’hadēs può ora esser vista come
«il purgatorio di cui tutti hanno bisogno»29.

2. La dottrina del purgatorio nei Padri e nella Liturgia


Ci sono molte chiare affermazioni della dottrina del Purgatorio tra i Padri
della Chiesa. Alcune sono appena state menzionate. I principali autori includo-
no Tertulliano30, Lattanzio31, Efrem32, Basilio33, Gregorio di Nissa34, Agostino35,
Cesario di Arles36 e Gregorio Magno37. Pars pro toto, il seguente testo di papa
Gregorio sarà sufficiente: «dobbiamo credere in un fuoco purificatore prima del
giudizio per alcune colpe minori»38.
È tuttavia particolarmente interessante notare che questa dottrina è chiara-
mente presente a partire dal primo inizio della Chiesa nella pratica della preghie-
ra liturgica per i morti39. La lettera della Congregazione per la Dottrina della

anticipazione temporale nell’anima del peccatore del suo destino eterno: si veda B. E. Daley,
The Hope, 37. Si veda anche A. J. Mason, Tertullian and Purgatory, «Journal of Theological
Studies» 3 (1902) 598-601 e H. Finé, Die Terminologie der Jenseitsvorstellungen bei Tertullian:
ein semasiologischer Beitrag zur Dogmengeschichte des Zwischenzustandes, Hanstein, Bonn 1958.
28
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 231, che cita E. Stauffer, Die Theologie des Neuen Testaments,
W. Kohlhammer, Stuttgart 19484, 196, 296, n. 697.
29
J. Fischer, Studien zum Todesgedanken in der alten Kirche. Die Beurteilung des natürlichen Todes
in der kirchlichen Literatur der ersten drei Jahrhunderte, H. Hüber, München 1954, 258.
30
Tertulliano, De anima, 58.
31
Lattanzio, Div. Instit. VII, 21,1-8.
32
Efrem, Testamentum, 72.
33
Basilio, In Ps. 7,2.
34
Gregorio di Nissa, De mortuis or.
35
Agostino, Enn. in Ps. 37,3. Egli dice: «In hac vita purges me et talem me reddas, cui iam
emendatorio igne non opus sit» De Gen. c. Manich. 2,20,30. Dopo questa vita, i peccatori avranno
«vel ignem purgationis vel poenam aeternam» De Civ. Dei XXI, 13; 24,2. Sulla preghiera per i
morti, si veda Enchirid. 69; 109-110.
36
Cesario d’Arles, Sermo 44, 2.
37
Gregorio Magno, Dial. 4, 39. Sull’insegnamento di Gregorio riguardante il purgatorio, si veda J.
Le Goff, La naissance du Purgatoire, Gallimard, Paris 1982, 121-31.
38
Gregorio Magno, Dial. 4, 41,3.
39
Sulla preghiera per i morti nel periodo patristico, si veda H. B. Swete, Prayer for the Departed
in the First Four Centuries, «Journal of Theological Studies» 8 (1907) 500-14; A. M. Triacca, La
commemorazione dei defunti nelle anafore del IV secolo: testimonianza pregata della sopravvivenza,
in Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del III-IV secolo, a cura di S. Felici, 161-96. Dopo
ciò, si veda J. Ntedika, L’évocation de l’au-delà dans la prière pour les morts: étude de patristique

353
Capitolo X

Fede del 1979 sull’escatologia fa riferimento all’importanza della liturgia nello


sviluppo della escatologia cristiana: «la Chiesa esclude ogni forma di pensiero
o di espressione, che renderebbe assurdi o inintelligibili la sua preghiera, i suoi
riti funebri, il suo culto dei morti, realtà che costituiscono, nella loro sostanza,
altrettanti luoghi teologici (loci theologici)»40. Il Catechismo della Chiesa Catto-
lica afferma che l’esistenza del purgatorio «poggia sulla pratica della preghiera
per i defunti… Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti
e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché,
purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio»41.
La logica è piuttosto semplice: le preghiere per i morti non sarebbero di
alcuna utilità né per coloro che sono già salvati, perché essi già godono della
presenza di Dio, né per i condannati, poiché hanno perduto il cielo per sempre.
Se i cristiani come totalità pregano per i morti, significa che questi ultimi posso-
no essere aiutati nella purificazione delle loro colpe. Molti Padri della Chiesa
sono convinti del valore delle preghiere offerte per i morti. Riferimenti a questa
pratica si trovano tra gli altri negli scritti di Tertulliano42, Cirillo d’Alessan-
dria43, Giovanni Crisostomo44, Agostino45, Gregorio Magno. Quest’ultimo in
particolare parla delle trenta Messe da offrire per un monaco chiamato Giusti-

et de liturgie latines (IVe-VIIIe s.), Nauwelaerts, Louvain; Paris 1971. Si veda anche P. A. Février,
Quelques aspects de la prière pour les morts, in Aa.vv, La prière au Moyen Age (littérature et
civilisation), Publications de l’Université, Aix-en-Provence 1981, 253-82.
40
Congregazione per la Dottrina della Fede, Recentiores episcoporum Synodi (1979), n. 4. Si veda
anche Paolo VI, Apost. Const. Indulgentiarum doctrina (1968), n. 3.
41
CCC 1032.
42
La Passione di Santa Perpetua (spesso attribuito a Tertulliano, forse nel periodo montanista)
racconta della visione che la santa ebbe del fratello Dinocrate, appena scomparso, che soffriva
grandemente. Perpetua comprese immediatamente che questa visione costituiva una richiesta di
preghiera, e poco dopo vide di nuovo il fratello, pulito, ben vestito, e totalmente guarito, contento.
A. Stuiber, Refrigerium interim, 61ss., considera che questa opera non sia di Tertulliano, e inoltre
che non si riferisca né alla colpa né alla punizione, ma a coloro che muoiono giovani. Si veda J.
Fischer, Studien zum Todesgedanken in der alten Kirche, 259s., che sostiene una posizione opposta.
43
Parlando della celebrazione eucaristica, Cirillo dice: «offriamo Cristo immolato per i nostri
peccati, propiziando la grazia divina per i vivi e per i morti» Catech. Mystag., 5,9.
44
«Come possiamo alleviare… i morti?», domanda Crisostomo. «Pregando per loro, chiedendo
agli altri di fare lo stesso, offrendo frequentemente l’elemosina ai poveri. Infatti queste regole sono
state stabilite dagli Apostoli stessi, in modo tale che nel mezzo di questi enormi misteri possiamo
ricordare coloro che sono morti… Sappiamo che i morti traggono grandi benefici da ciò» In ep.
ad Phil. hom., 3,4. «Facciamo loro ricorso e ricordiamoli. Se i figli di Giobbe vennero purificati dai
sacrifici del loro padre, perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro
consolazione? Non esitiamo ad assistere coloro che sono morti e ad offrire le nostre preghiere per
loro» Hom. in I ad Cor. 41,5.
45
«Non bisognerebbe negare ai morti il conforto delle preghiere della Chiesa, quando il sacrificio
[l’Eucaristia] è offerto per loro, o per loro sono fatte le elemosine» Agostino, Enchirid. 110. Si veda

354
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

no, che sarà poi «liberato dai tormenti del fuoco»46. Questo è l’origine della
pratica delle cosiddette “Messe gregoriane”, che sono comunemente celebrate
ogni giorno durante un mese dopo la morte dei credenti cristiani. Isidoro di
Siviglia († 636) offre la seguente spiegazione: «l’offerta del sacrificio [l’Eucari-
stia] per i morti… è una usanza osservata in tutto il mondo. Sembrerebbe che si
tratti di una usanza insegnata dagli apostoli stessi. In effetti, la Chiesa Cattolica
la osserva ovunque. Ora, se la Chiesa non credesse nella possibilità di perdono
per i peccati dei fedeli che sono morti, non farebbe le elemosine per le proprie
anime, né offrirebbe il sacrificio a Dio per esse»47. Gli studi archeologici dei siti
e degli artefatti cristiani rivelano un enorme numero di iscrizioni che attestano
l’usanza della preghiera per i defunti48.
La dottrina del purgatorio è sviluppata a livello teologico da Cipriano (nel
contesto della riconciliazione dei lapsi, quei cristiani che sono stati infedeli
durante le persecuzioni di Diocleziano)49, da Agostino (che ha insistito tutta-
via sul fatto che i martiri entrano in cielo senza passare dal purgatorio)50, e da
Gregorio Magno.

3. L’ascetismo, la teologia orientale e il Concilio di Firenze


Come abbiamo visto prima, per Tertulliano, nel suo periodo montanista
rigorista, il purgatorio è considerato come una specie di prigione (Mt 5,25s.) desti-
nata a tutti gli uomini almeno fino alla fine dei tempi. In questo contesto, tuttavia,
Tertulliano attenua il valore della preghiera della Chiesa; infatti, egli dice, ciascu-
no deve fare ammenda per le proprie trasgressioni. Ciò che è possibile prima della
morte (“mettiti presto d’accordo con il tuo avversario”) non lo è dopo (“finché non
avrai pagato fino all’ultimo spicciolo”). Con questa posizione Tertulliano ritor-

H. Kotila, Memoria mortuorum. The Commemoration of the Departed in Augustine, Institutum


Patristicum Augustinianum, Roma 1992.
46
Gregorio Magno, Dial. 57,14s. Sulle conseguenze della dottrina di Gregorio, si veda C. Vogel,
Deux conséquences de l’eschatologie grégorienne: la multiplication des messes privées et les moines-
prêtres, in Grégoire le Grand [Chantilly Colloquium, 1982], 267-76.
47
Isidoro di Siviglia, De eccl. offic., 1,18,11.
48
H. Leclercq nel suo articolo Purgatoire, in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie
14/2, col. 1979, cita le iscrizioni seguenti: “Spiritus tuus bene requiescat”, “Accepta sis in Christo”,
“Vivas in Domino Iesu”, “In pace Domini dormias”, “Vivas in Deo et roga”, “Viva sis cum fratribus
tuis”, “Solus Deus defendat animam tuam”, “In Christo vivas. Deum, te precor ut paradisum lucis
possit vivere”.
49
Si veda in particolare Cipriano, Ep. 55. Su questo testo, si veda J. Ratzinger, Escatologia, 240s.; P.
Jay, Saint Cyprien et la doctrine du purgatoire.
50
Si vedano le pp. 336s sopra.

355
Capitolo X

na, almeno i parte, alla dottrina gnostica della purificazione individualistica che
non lascia spazio per l’intervento della preghiera della Chiesa nella purificazione
degli uomini. Per lo gnostico Basilide (II sec.), per esempio, la purificazione post-
mortem costituisce una specie di reincarnazione51, una dottrina che è stata seguita
dai movimenti neo-gnostici nel Medioevo e nei tempi moderni52.

Il tentativo di Clemente d’Alessandria di sviluppare uno gnosticismo cristiano. In


questo contesto è interessante tener nota dello sforzo fatto da autori cristiani
come Clemente d’Alessandria di dialogare con il pensiero gnostico53. Clemente
parte dalla dottrina di Paolo della purificazione con il fuoco (1 Cor 3,10-15).
Gli gnostici considerano che gli eletti faranno a meno di questo fuoco, protetti
dall’acqua del Battesimo e dalla brezza dello Spirito. Il resto dell’umanità invece
viene bruciata dal fuoco per la propria educazione (paideia) e perché si distrug-
ga il male. La purificazione è designata come una sorte di “fuoco saggio”54.
Clemente ha assunto questo sistema e ha spiegato che la vita dei cristiani consi-
ste in un processo di spiritualizzazione graduale, ascendente, che culmina
nella resurrezione dei morti55. La medesima idea si può trovare in Gregorio di
Nissa, che dice che i credenti «o vengono purificati nella vita presente tramite la
diligenza e la “filosofia” [cioè, l’ascetismo], o dopo aver lasciato questo mondo
tramite la dissoluzione nel fuoco purificatore»56. Al contrario degli gnostici,
invece, Clemente include il correttivo critico cristiano: la purificazione non è un
processo cui ciascuno si sottopone da solo; piuttosto, l’intera Chiesa è coinvolta
nel percorso alla purificazione57.

51
Sulla posizione di Basilide, si veda Origene, Comm. in Matth. 38.
52
Sulla relazione tra Purgatorio e reincarnazione, si veda Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, in Aa.vv,
Le mystère de la mort et sa célébration, Cerf, Paris 1951, 279-336.
53
Si veda K. Schmöle, Läuterung nach dem Tode und pneumatische Auferstehung bei Klemens
von Alexandrien, Aschendorff, Münster 1974; J. Ratzinger, Escatologia, 242-245; B. E. Daley, The
Hope, 44-47.
54
Si veda W. C. Van Unnik, The “Wise Fire” in a Gnostic Eschatological Vision, in Kyriakon:
Festschrift Johannes Quasten, a cura di P. Granfield e J. A. Jungmann, vol. 1, Aschendorff, Münster
1970, 277-88.
55
«Il fuoco non santifica né la carne né il sacrificio, ma piuttosto le anime peccatrici – considerando
il fuoco non la fiamma che divora tutto della vita di ogni giorno, ma il fuoco che discerne, che
perfora l’anima che cammina attraverso di esso» Strom. 7,6,34,4. L’enfasi sulla purificazione come
parte del processo di divinizzazione differenzia le dottrine orientali in qualche modo dalla dottrina
latina dell’espiazione: si veda Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, 302-4.
56
Gregorio di Nissa, De mortuis or. Massimo il Confessore parla dell’esperienza purgative dopo la
morte in Quaest. et Dub. 1,10.
57
Sulla nozione di purificazione in Clemente ed Origene, si veda G. Anrich, Clemens und Origenes
als Begründer der Lehre vom Fegfeuer, in Theologische Abhandlungen für Heinrich Julius Holtzmann,

356
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

Il significato del fuoco del purgatorio.  Tutto sommato, e a dispetto della varietà
delle espressioni date, la dottrina della purificazione post-mortem è pacificamen-
te accettato in Oriente. Gregorio di Nissa ritiene che l’anima impura «dopo aver
lasciato il corpo, non possa partecipare della vita della divinità, a meno che il
fuoco purificatore abbia epurato le macchie dell’anima»58. Giovanni Crisostomo
sviluppa la dottrina del purgatorio sulla base di 1 Cor 3,10-15. Eppure egli rigetta la
spiegazione di Origene che conduce alla dottrina della riconciliazione universale
(apokatastatis) attraverso il fuoco, e propone invece l’idea che dopo la morte tutti
discenderanno negli inferi (lo she’ol) per essere purificati. Per gli autori orientali,
il purgatorio non è generalmente considerato come un luogo dove la sofferenza
è inflitta in espiazione per il peccato. Invece, i viventi, attraverso le loro preghie-
re, facendo l’elemosina, e partecipando all’eucaristia, possono ottenere sollievo e
conforto per le anime del purgatorio. Piuttosto che espiazione per le proprie colpe,
la purificazione implica un sollievo dei tormenti meritati per queste colpe59.
Nella teologia orientale il risultato è duplice. Primo, l’esistenza del purga-
torio è direttamente collegata al ritardo nella piena retribuzione dopo la morte,
che abbiamo considerato in precedenza60. Ciò genera una possibile confusione
tra il purgatorio e quel che è definito il refrigerium interim. E secondo, il purga-
torio è dissociato dal fuoco purificatore, in quanto quest’ultimo è considerato
un correlato necessario della apokatastasis di Origene. Consideriamo più da
vicino quest’ultimo punto.

La definizione del purgatorio nel Medioevo.  Dovrebbe ora essere chiaro perché
la questione della natura (o dell’esistenza) del purgatorio è diventata rilevante
nella relazione tra cristianesimo ortodosso e latino durante il Medioevo61. I
Padri latini dai tempi di Agostino e Gregorio Magno avevano accettato l’idea
del “fuoco” del purgatorio62. Tommaso d’Aquino non solo lo insegnava, ma

a cura di W. Nowack, J. C. B. Mohr, Tübingen 1902, 95-120; T. Spácil, La dottrina del purgatorio
in Clemente Alessandrino ed Origene, «Bessarione» 23 (1919) 131-45; K. Schmöle, Läuterung nach
dem Tode. Schmöle afferma che la purificazione dopo la morte offre «un tipo di ponte metafisico tra
il concetto platonico di immortalità dell’anima e resurrezione» ibid., 135. Si veda anche R. B. Eno,
The Fathers and the Cleansing Fire, «Irish Theological Quarterly» 53 (1987) 184-202.
58
Gregorio di Nissa, De mortuis or.
59
I. N. Karmirês, Abriss der dogmatischen Lehre der orthodoxen katholischen Kirchen, in Die
Orthodoxe Kirche in griechischer Sicht, a cura di P. I. Bratsiotis, vol. 1, Evangelisches Verlag,
Stuttgart 1959, 15-120, in particolare 113-7.
60
Si vedano le pp. 335s.
61
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 496s.
62
Si vedano le pp. 356s.

357
Capitolo X

affermava inoltre che il fuoco del purgatorio è identico a quello dell’inferno63.


Grazie al realismo di questo “fuoco”, era abbastanza comune considerare il
purgatorio come un luogo fisico64. Tuttavia, sia il realismo del fuoco dell’inferno
sia la sua localizzazione erano contestati dagli orientali65.
La controversia giunse al culmine nel XIII secolo in occasione di un incon-
tro tra due vescovi, uno greco-ortodosso e l’altro cattolico66. Il primo riteneva
che l’insistenza tra i cattolici sul fuoco dell’inferno fosse il segno di un ritor-
no alla apokatastasis di Origene, e perciò una negazione del carattere perpetuo
dell’inferno. Più tardi, il teologo ortodosso Simone di Tessalonica († 1430) affer-
ma che il latini «seguendo Origene, eliminano l’inferno, suggerendo un tipo di
purificazione invece che un tormento; in questo purgatorio i peccatori entrano,
e pagano le loro punizioni fino all’ultimo giorno. Questa dottrina non è accet-
tata dai santi, in quanto nega le parole del Signore che chiaramente afferma che
l’inferno è eterno, come la vita è eterna»67.
Quando nel 1439 al Concilio di Firenze si fece un tentativo di ristabilire
l’unità dottrinale tra ortodossi e cattolici, il tema del purgatorio fu affrontato,
e ci fu una solenne definizione68. Per coloro che sono «veramente penitenti e
muoiono nell’amore di Dio prima di aver soddisfatto con degni frutti di peni-
tenza per i loro peccati di opere ed omissione», dice il decreto conciliare, «le
loro anime sono purificate dopo la morte dalle punizioni del purgatorio (poenis

63
«Idem est ignis qui damnatos cruciat in inferno, et qui iustos in Purgatorio purgat» Tommaso
d’Aquino, Qu. de Purgatorio, a. 2c.
64
Si trova in Pietro Lombardo, IV Sent. D. 43 e Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 97, a. 7.
65
Si vedano gli studi di Anrich, Spácil e Schmöle citati in nota 57.
66
I protagonisti furono il Metropolita di Corfu, George Bardanes, e il frate francescano Bartolomeo.
Si veda M. Roncaglia, Georges Bardanes métropolite de Corfou et Barthelemy de l’ordre Franciscain,
Scuola Tipografica Italo-orientale ‘San Nilo’, Roma 1953; D. Stiernon, L’escatologia nelle Chiese
separate d’Oriente, in L’aldilà, a cura di A. Piolanti, Marietti, Torino 1956, 283-93, in particolare
284s.; C. Pozo, La teología del más allá, 529s.; J.-C. Larchet, La vie après la mort selon la Tradition
orthodoxe, 179-211.
67
Simone di Tessalonica, Dial. c. Haer., n. 23.
68
Per i testi controversi tra cattolici e ortodossi (in particolare Marco di Efeso, chiamato Eugenico)
durante il Concilio di Firenze, si veda J. Gill, G. Hofmann, L. Petit e G. Scholarius, De purgatorio
disputationes in Concilio Florentino habitae = Concilium Fiorentinum, vol. 8/2, Pontificium Institutum
Orientalium Studiorum, Roma 1969. Si veda anche A. d’Ales, La question du Purgatoire au Concile de
Florence 1438, «Gregorianum» 3 (1922) 9-50; J. Gill, Constance et Bâle-Florence, Éditions de l’orante,
Paris 1965; J. Jorgenson, The Debate over the Patristic Texts on Purgatory at the Council of Ferrara-
Florence 1438, «St. Vladimir’s Theological Quarterly» 30 (1986) 309-34; A. De Halleux, Problèmes de
méthode dans les discussions sur l’eschatologie au concile de Ferrare et de Florence, in Christian Unity,
a cura di G. Alberigo, Leuven University Press; Peeters, Leuven 1991, 251-99. Per un riassunto della
discussione tra latini ed ortodossi a Firenze, si veda J.-C. Larchet, La vie après la mort, 186-208, che
presenta in particolare la posizione di Marco di Efeso e Bessarione di Nicea.

358
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

purgatoriis), gli atti di intercessione (suffragia) dei fedeli viventi vanno a loro
vantaggio, cioè il sacrificio della Messa, le preghiere, le elemosine e le altre opere
di pietà che i fedeli sono soliti fare per gli altri fedeli secondo la pratica della
Chiesa»69. È da notare che nessuna menzione va fatta né del “fuoco” del purga-
torio né della sua possibile collocazione fisica. La Chiesa parlò del purgatorio
senza dire nulla del “fuoco” del purgatorio in due precedenti occasioni: il II
Concilio di Lione (1274)70 che come quello di Firenze tentò di ripristinare unità
dottrinale tra Oriente ed Occidente; e la Costituzione Benedictus Deus di Bene-
detto XII (1336)71. Alcuni minori documenti della Chiesa del Medioevo, tutta-
via, fanno menzione del “fuoco” del Purgatorio72, come fa il Credo del Popolo di
Dio73 di Paolo VI e il Catechismo della Chiesa Cattolica74 .

4. Purgatorio, protestantesimo e Concilio di Trento


Si può notare che la Chiesa, ispirata dall’usanza universale di pregare
per i morti, è giunta a definire solennemente l’esistenza del purgatorio come
un tentativo di ristabilire l’unità tra Oriente ed Occidente. Il fatto che la sua
esistenza non sia stata definita precedentemente dalla Chiesa non è difficile da
giustificare, dal momento che mai era stata apertamente negata.

Lo sviluppo medioevale della dottrina del purgatorio.  La dottrina del purgatorio


si è sviluppata in modo consistente durante il Medioevo. Anzitutto la distinzio-
ne tra peccati gravi e lievi (peccata capitalia et venialia)75 ha giocato un ruolo
significativo, così come la distinzione tra il reatus culpae e il reatus poenae (colpa
e punizione) per mano di Pietro Lombardo76. Anche l’idea che il purgatorio sia
fisicamente situato tra cielo ed inferno ha giocato un ruolo, e ha consolidato

69
Concilio di Firenze, Decretum pro Graecis: DS 1304.
70
DS 856.
71
DS 1000.
72
Per esempio una lettera di Papa Innocente IV mandata nel 1254 agli orientali, Sub catholica
professione (DS 838) e la lettera Super quibusdam (1351) di Papa Clemente VI (DS 1067).
73
«Credimus animas eorum omnium, qui in gratia Christi moriuntur – sive quae adhuc Purgatorii
igne expiandae sunt, sive quae statim ac corpore separatae… a Iesu in Paradisum suscipiuntur –
Populum Dei constituere post mortem» Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 28, in AAS 60
(1968) 445. La traduzione italiana presente nel «Enchiridion Vaticanum» 3,564 traduce il testo
semplicemente dicendo che le anime «saranno purificate ancora in purgatorio».
74
CCC 1031, citando Gregorio Magno, Dial. 4,39.
75
Alano di Lille, Liber poenitentialis; Simone di Tournai, Disputationes.
76
Pietro Lombardo, In Sent. IV, D. 17, q. 2; D. 18, q. 1; D. 21, D. 45.

359
Capitolo X

l’uso del termine locativo “purgatorio”, purgatorium, intorno all’anno 120077.


In effetti, a livello popolare, la purificazione non era considerata un semplice
processo o stato, ma piuttosto un luogo dove si incontra la giustizia divina, e
nel quale la Chiesa gioca un ruolo diretto, anche oltre la tomba. Infatti, alcuni
autori contemporanei hanno suggerito che la dottrina del “purgatorio” è emersa
in questo momento del tempo per ragioni prevalentemente sociologiche, econo-
miche e politiche, connesse all’emergere di una terza classe (quella media) nella
società medioevale, e con il consolidamento della giurisprudenza78. Altri auto-
ri hanno mostrato che queste ragioni, sebbene indicative, siano decisamente
deboli79. È vero, tuttavia, che l’insegnamento sul purgatorio ha avuto un grande
sviluppo in teologia, ed è stato associato alla dottrina delle indulgenze80. Questi
fattori, insieme alla relativa assenza di una aperta testimonianza del purgatorio
nella Scrittura, danno conto del fatto che tale dottrina è stata contestata aperta-
mente nel corso del XVI secolo dai teologi protestanti81.

La negazione del purgatorio.  Lutero, a dispetto della sua avversione per le indul-
genze e pratiche simili, inizialmente accettò la dottrina del purgatorio. A causa
dell’insistenza di Zwingli († 1531)82, tuttavia, nel 1519 giunse ad insegnare che
tale dottrina non si trova nella Scrittura. Questa affermazione implicava, tra
l’altro, un rifiuto della canonicità di 2 Maccabei83. Nel 1524 insegnò che non
si dovessero offrire Messe per i morti84. Nella sua opera del 1530, Rectractatio
purgatorii, in occasione della Dieta di Augusta85, egli ne negò l’esistenza, e nel

77
Sull’origine del termine “purgatorio”, si veda J. Le Goff, La naissance, 209-35.
78
Questa è la tesi di J. J. Le Goff, La naissance, 407-10. Si veda anche H. J. Berman, Law and
Revolution: the Formation of the Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cambridge
1983, capitolo 3.
79
Si veda per esempio L. Genicot, L’Occident du Xe au XIIe siècle, «Revue d’Histoire Ecclésiastique»
78 (1983) 397-429, qui 421-6; J.-G. Bougerol, Autour de “La naissance du Purgatoire”, «Archives
d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen-Age» 58 (1983) 7-59; M. P. Ciccarese, La nascita del
purgatorio, «Annali di Storia dell’esegesi» 17 (2000) 133-50.
80
Si veda l’ampia panoramica storica di A. Michel e M. Jugie, Purgatoire, in DTC 13 (1936) 1163-
357.
81
Si veda H. Wagner, Probleme der Eschatologie: ökumenische Perspektiven, «Catholica» 42 (1988)
209-23, in particolare 214.
82
Si veda H. Zwingli, Amica exegesis, id est: expositio eucharistiae negocii, ad Martinum Lutherum,
in Corpus Reformatorum, vol. 92, 716-8. Sulla dottrina di Lutero sul purgatorio, si veda L.
Cristiani, I novissimi nella dottrina di Lutero, in L’aldilà, a cura di A. Piolanti, 297-300; E. Kunz,
Protestantische Eschatologie, 21s.
83
Dalla disputa di Leipzig, la cui dottrina fu condannata poi da papa Leone X: DS 1487-90.
84
M. Lutero, De abroganda Missa.
85
M. Lutero, Rectractatio purgatorii, in WA 30/2,367-90.

360
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

1538, negli Articoli di Smalcalda lo definisce mera diaboli larva, “una mera larva
del diavolo”86. Ugualmente Zwingli e Calvino negarono apertamente l’esistenza
del purgatorio87. Per questo rifiuto sono state suggerite due ragioni, una basata
sulla teologia fondamentale (la dottrina della tradizione), l’altra sul dogma (l’in-
segnamento sulla giustificazione)88.
Per quanto riguarda la tradizione, Calvino riconobbe che fin dai primis-
simi tempi nella Chiesa esisteva l’usanza di pregare per i morti: «è stata pratica
per mille trecento anni quella di offrire preghiere per i morti». Tuttavia, osser-
vava, «ammetto che coloro che hanno compiuto tali pratiche si sono fatti pren-
dere dall’errore, dal momento che l’effetto comune della rozza credulità è la
distruzione del giudizio… Non li dovremmo imitare in questo»89. Per Calvino,
la testimonianza della liturgia e la vita della Chiesa non è del tutto affidabile. Le
inclinazioni umane, come quella di pregare Dio per gli amati defunti, non offre
una guida sicura in materia di fede, e in questo caso hanno portato i credenti
ad accettare dottrine di provenienze filosofiche e pagane che corrompono i veri
insegnamenti cristiani. Così Calvino.
La negazione del purgatorio è strettamente connessa anche con la dottrina
luterana della “giustificazione per sola fede”, cioè, senza le opere90. Secondo il
pensiero protestante, gli uomini o vengono salvati esclusivamente dalla grazia
di Dio, o sono condannati per i peccati che hanno sicuramente commesso. Gli
uomini non contribuiscono di per sé alla loro salvezza: Dio vede Cristo in colo-
ro che credono i lui, e così li salva. Gli insegnamenti del luteranesimo classico
secondo cui la giustificazione non produce principalmente un rinnovamento
interiore dei peccatori (che porta con sé una dolorosa purificazione dell’anima),
ma piuttosto una imputazione forense dei meriti di Cristo91. Zwingli ha insisti-
to con Lutero che la dottrina della giustificazione per fede era incompatibile con

86
M. Lutero, Artic. Smalcald. 2,11, in WA 50,204-7.
87
J. Calvino, Instit. christ. 3,5. Sulla posizione dei protestanti in generale, si veda Y. M.-J. Congar,
Le mystère de la mort, 280-93; T. F. Torrance, The Eschatology of the Reformation, in T. F. Torrance
e J. K. S. Reid (a cura di), Eschatology: Four Papers Read to the Society for the Study of Theology,
Oliver & Boyd, Edinburgh 1953, 36-90. In particolare sulla dottrina di Lutero, si veda P. Althaus,
Luthers Gedanken über die letzen Dinge, «Luther Jahrbuch» 23 (1941) 22-28, e su Calvino, si veda
H. Schutzeichel, Calvins Protest gegen das Fegfeuer, «Catholica» 36 (1982) 130-49.
88
L. Cristiani, I novissimi nella dottrina di Lutero; E. Kunz, Protestantische Eschatologie.
89
J. Calvino, Instit. christ. 3,5,10.
90
Si veda il mio studio Fides Christi, passim.
91
Si veda J. A. Möhler, Symbolik, Nationale Verlagsanstalt Buch, München; Regensburg 18949,
§§ 52s. Quest’opera mostra chiaramente un legame tra la negazione del purgatorio e la visione
protestante della giustificazione.

361
Capitolo X

quella della potestas clavium, o il potere delle chiavi, che la Chiesa esercita92.
Infatti, Calvino era dell’opinione che la dottrina del purgatorio fosse principal-
mente «una questione di mantenimento dei sacerdoti»93.
Le due ragioni sono collegate l’una all’altra. Gli uomini sono incapaci di
buone opere perché sono profondamente corrotti dal peccato. Questo rende più
agevole per loro accogliere le inclinazioni umane difettose, quella ad esempio
di pregare per i morti, invece che fidarsi dell’opera di Dio come unico punto di
riferimento per la loro fede. E per la medesima ragione, la forza giustificante di
Dio deve rimanere estrinseca agli uomini.

Il Concilio di Trento sul purgatorio Il Concilio di Trento non si occupò ampia-


mente della dottrina del purgatorio. Nella XXV sessione (1563) ricordò sempli-
cemente ai cristiani le questioni pastorali e pratiche che il purgatorio implica,
ripetendo le definizioni date in antecedenza94.
Tuttavia, l’insegnamento di Trento sia sul ruolo della tradizione nella
dottrina cristiana95 che sulla dottrina della giustificazione, forniscono il fonda-
mento dogmatico per l’insegnamento del purgatorio. Per quanto riguarda
quest’ultimo, non si accetta la posizione di chi «afferma che a qualsiasi pecca-
tore pentito dopo che ha ricevuto la grazia della giustificazione, viene rimessa
la colpa e cancellato il debito della pena eterna in modo tale che non gli rimane
alcun debito di pena temporale da scontare o in questa vita o in quella futura in
purgatorio, prima che gli siano aperte le porte del regno dei cieli»96. Inoltre, il
Concilio tentò di assicurare che nessun abuso venisse associato all’insegnamen-
to della Chiesa sul purgatorio97.

Purgatorio ed ecumenismo. La riflessione teologica cattolica sul purgato-


rio dopo Trento fu ampia e dettagliata98. Autori come Roberto Bellarmino (†

92
H. Zwingli, Amica exegesis, 718. Egli insiste con Lutero sul fatto che la dottrina del purgatorio è
incompatibile con la salvezza cristiana.
93
J. Calvino, Instit. christ. 4,5,9.
94
DS 1820. Sulla XXV sessione di Trento, si veda H. Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, vol.
4/2, Herder, Freiburg i. B. 1975; anche la XXII sessione sulla Messa fa riferimento al purgatorio:
DS 1753. Si veda anche DS 1867, 1986, 2534, 2642 ecc. Si veda P. Schäfer, Eschatologie. Trient und
Gegenreformation, Herder, Freiburg i. B. 1980.
95
Sessione IV: DS 1501-5.
96
DS 1580, dalla VI sessione de Iustificatione, can. 30.
97
DS 1820.
98
Si veda A. Michel, Purgatoire (1936). Sulla storia recente e sul declino della dottrina del
purgatorio, si veda G. Cuchet, Le crépuscule du purgatoire, A. Colin, Paris 2005.

362
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

1621)99 e Francisco Suárez († 1615)100 considerarono tale dottrina con attenzio-


ne, e tentarono di spiegare un’ampia varietà di questioni, come la localizzazione
del purgatorio, la sua durata ed intensità, la natura della pena del purgatorio. La
devozione alle anime sante in purgatorio andò oltre i limiti della comune prati-
ca liturgica; ordini religiosi, associazioni pie, gruppi di preghiera prestarono
particolare attenzione a coloro che avevano lasciato questo mondo pellegrino e
si trovavano nella necessità di purificazione.
L’esistenza e il ruolo della purificazione post-mortem non fu mai effetti-
vamente negato dai teologi ortodossi, non, cioè, prima del XVII secolo, proba-
bilmente sotto l’influenza della teologia protestante101. Un noto autore è Peter
Moghila († 1636), Metropolita di Kiev. Seppure accettasse la pratica della
preghiera per i defunti, rifiutava l’idea della purificazione dopo la morte a causa
del rischio di confusione con l’apokatastasis102 di Origene. Un altro autore,
Dosideus († 1707), Patriarca di Gerusalemme, in una lettera agli altri patriar-
chi ortodossi insistette sull’idea dell’immediata retribuzione, e sul fatto che il
purgatorio sarebbe una forma di inferno non-eterno, che, egli disse, è inaccet-
tabile103. Bordoni e Ciola riassumono la relazione tra concezione occidentale ed
orientale dell’escatologia nei seguenti termini: «i punti di divergenza tra oriente
e occidente riguardano soprattutto l’escatologia intermedia. Questa à concepita
come una continuazione del dramma della salvezza caratterizzata non da forme
di soddisfazione penale ma da una condizione di attesa attiva in cui l’uomo si
purifica, si libera da alcune imperfezioni e, nelle espressioni della teologia orto-
dossa attuale, anche dallo stato passato e di dannazione»104.
In modo sorprendente, forse, nell’ultimo secolo, diversi autori ortodossi, in
particolare Sergei Bulgàkov e Pavel Evdokimov, sono tornati ad una posizione
vicina all’apokatastasis di Origene. Bulgàkov afferma che in termini reali «l’in-
ferno è un purgatorio»105. I teologi ortodossi vogliono evitare una visione del

99
Roberto Bellarmino, Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis
haereticos, Bellagatta, Milano 1721; De Ecclesia quae est in purgatorio, in Opera omnia, vol. 2,
Napoli 1877, 351-414.
100
Si veda F. Suárez, De purgatorio, in De poenitentia, disp. 47.
101
Si veda G. Panteghini, Il purgatorio: l’incontro purificatore con Dio, «Credere oggi» 8 (1988)
79-91, qui, 86; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 126-34.
102
Si veda P. Moghila, La confession orthodoxe de Pierre Moghila, cit. da W. Pannenberg, Teologia
sistematica, vol. 3, 648. Si veda anche R. Zuzek, L’escatologia di Pietro Moghila, «Orientalia
Christiana Periodica» 54 (1988) 353-85.
103
Dosideus, Lettera ai Patriarchi (Confessione).
104
M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 133s.
105
S. Bulgàkov, L’orthodoxie, F. Alcan, Paris 1932, 255s.

363
Capitolo X

purgatorio centrata sulla soddisfazione penale. La purificazione post-mortem


non implica, dicono, «una punizione che purghi ma una continuazione del
destino del singolo: purificazione, liberazione, guarigione»106, «una ascesa senza
fine, in cui l’intera comunione dei santi – la Chiesa in cielo e la Chiesa sulla terra
– sono state avviate a Cristo»107. Si deve escludere, aggiunge l’ortodosso John
Meyendorff († 1992), «ogni visione legalistica della pastorale della Chiesa e dei
poteri sacramentale sia sui vivi che sui morti, od ogni precisa descrizione dello
stato delle anime defunte prima della resurrezione finale»108.
Con tutto, ad un livello sostanziale, non c’è un aperto disaccordo tra
cattolici ed ortodossi sulla dottrina della purificazione post-mortem109. Inoltre,
sebbene la dottrina del purgatorio sia stata tradizionalmente una delle princi-
pali aree controverse tra cattolici e protestanti, il moderno dialogo ecumenico,
in particolare nel campo della giustificazione, ha aperto le possibilità di una
futura riconciliazione dottrinale110. Tuttavia non si è ancora stabilita una piena
convergenza dottrinale111.

5. Lo scopo e le caratteristiche della purificazione post-mortem112


In primo luogo, è essenziale distinguere tra la punizione del purgatorio e
quella dell’inferno. La prima appartiene all’ambito della salvezza, ed è “teolo-

106
P. Evdokimov, L’orthodoxie, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel; Paris 1959, 293.
107
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 221. Sulla soteriologia ortodossa, si veda Y. Spiteris, Salvezza
e peccato nella tradizione orientale, Dehoniane, Bologna 1999.
108
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 221. Egli aggiunge che «l’Oriente non avrà mai una dottrina
delle “indulgenze”» ibid.
109
Sulla situazione attuale della teologia ortodossa, si veda I. N. Karmirês, Abriss der dogmatischen
Lehre der orthodoxen katholischen Kirchen, 112-120; P. N. Trembelas, Dogmatique de l’Église
orthodoxe catholique, vol. 3, Desclée, Paris 1968, 435-55.
110
Si veda E. Lanne, The Teaching of the Catholic Church on Purgatory, «One in Christ» 28 (1992)
13-30; D. M. Chapman, Rest and Light Perpetual. Prayer for the Departed in the Communion of
Saints, Ecumenical Society of the Blessed Virgin Mary, Surrey 1996; il mio studio Fides Christi.
The Justification Debate.
111
Autori protestanti come P. Maury, L’eschatologie, Labor et Fides, Genève 1959, 45s., e P. Althaus,
Die letzen Dinge, 209-20, per la maggior parte mantengono i tradizionali insegnamenti protestanti
per la medesima ragione di prima, sebbene il secondo non la rifiuti completamente: ibid., 210s.
Così anche P. Tillich, che parla di una graduale incorporazione in Dio tramite la morte. Su questo,
si veda H. Wohlgschaft, Hoffnung angesichts des Todes: das Todesproblem bei Karl Barth und in
der zeitgenössischen Theologie des deutschen Sprachraums, F. Schöningh, München 1977, 143,
146. Sulla preghiera per i dannati tra i protestanti, si veda F. Heidler, Die biblische Lehre von der
Unsterblichkeit der Seele, Sterben, Tod, ewiges Leben im Aspekt lutherischer Anthropologie, 189s.
112
Si veda G. L. Müller, “Fegfeuer”. Zur Hermeneutik eines umstrittenen Lehrstückes in der
Eschatologie, «Theologische Quartalschrift» 166 (1986) 523-41.

364
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

gicamente” più vicina alla vita eterna che alla condanna, che semplicemente
esclude la salvezza. La lettera del 1979 della Congregazione per la Dottrina della
Fede sull’escatologia afferma che la Chiesa crede «ad una eventuale purificazio-
ne degli eletti, preliminare alla visione di Dio, che è, tuttavia, del tutto diversa
dalla pena dei dannati»113. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice altrettan-
to: «la Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è
tutt’altra cosa dal castigo dei dannati»114. In generale, è rischioso indagare trop-
po attentamente la natura della vita dell’aldilà; il purgatorio non fa eccezione a
questa regola. Con tutto, nelle pagine successive esamineremo alcune posizione,
solidamente fondate sulla riflessione teologica e sull’esperienza spirituale, che
spiegano lo scopo e le caratteristiche del purgatorio, che Dante descrive nella
semplice formula: a farsi belli, portare gli uomini attraverso la grazia di Dio alla
pienezza dello splendore e della bellezza115.

La dottrina del purgatorio secondo Tommaso d’Aquino.  Secondo Tommaso, il


purgatorio è una vera punizione, da considerare in modo analogo alla punizione
eterna. Infatti in purgatorio c’è una doppia pena, «quella della dannazione (poena
damni) nel ritardo della visione, l’altra dei sensi tramite il fuoco corporale»116.
È ovvio che dal momento che le anime in purgatorio sono unite a Dio
nella carità, non hanno di fatto perso Dio. Sono temporaneamente private della
visione di Dio che desiderano lodare senza riserva, per cui si struggono profon-
damente117. Si tratta di una fonte di grandi sofferenze perché la situazione è
determinata dalla loro colpa personale, e anche perché quel che è perso, seppure
temporaneamente, è particolarmente doloroso. Gli uomini sono creati per gioi-
re della presenza di Dio. Perciò è un gran dolore essere fermati proprio sul punto
di ottenere il loro obiettivo. Neppure questo dolore è mitigato dalla distrazione,
dalla consolazione e dal conforto tangibile proveniente dal mondo creato, in cui
Dio è a mala pena percepito come necessario. Piuttosto, essi fanno esperienza

113
Congregazione per la Dottrina della Fede, Doc. Recentiores episcoporum Synodi, n. 7.
114
CCC 1031. Così anche il Catechismo della Conferenza Episcopale Italiana: «La purificazione
dopo l’esistenza terrena non può che essere opera d’amore, da parte di Dio e da parte dell’uomo.
Dio, per donarsi all’uomo in modo totale, rimuove ogni ostacolo per dilatare la capacità di acco-
glimento dell’uomo» Signore, da chi andremo? Il catechismo degli adulti, Fondazione di religione,
Roma 1988, 467.
115
Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorium II, 75.
116
Tommaso d’Aquino, Qu. de Purgatorio, a. 3c: «in purgatorio erit duplex poena: una damni,
inquantum scilicet retardantur a divina visione; alia sensus, secundum quod ab igne corporali
punientur».
117
Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorium V, 57: Dio «che del disìo di sé veder ne accora».

365
Capitolo X

del gusto amaro della loro vuotezza, perché il Solo che li può soddisfare, il Solo
che essi bramano di adorare, è per loro ancora assente118.
L’Aquinate, in linea con la maggior parte dei teologi latini119, ritiene che il
purgatorio implichi anche una pena inflitta ai sensi tramite il “fuoco”. Se si consi-
dera che il “fuoco” tramite cui i sensi sono tormentati corrisponda alla conver-
sio ad creaturas, il rivolgersi disordinato verso le creature, la sua affermazione
secondo cui il fuoco del purgatorio è uno e il medesimo del “fuoco” dell’inferno,
acquista significato120. Egli insegna anche che, dal momento che dopo la morte
non è possibile alcuna conversione o merito, il purgatorio non è una forma di
espiazione o satisfactio (Tommaso non utilizza mai questo termine in riferi-
mento al purgatorio) che le creature, mosse dalla grazia di Cristo, offrono a Dio.
Alcuni autori ortodossi hanno erroneamente affermato che la teologia cattolica
ammette la “soddisfazione” in purgatorio121. È più corretto dire che la purifica-
zione sia una specie di satispassio, una purificazione ricevuta da Cristo attraverso
la Chiesa, che gioca un ruolo attivo nella santificazione delle anime defunte122.
È interessante notare che, storicamente parlando, la negazione della dottrina del
purgatorio (e delle indulgenze) è andata di pari passo con la negazione del ruolo
della Chiesa nella giustificazione e purificazione dell’umanità peccatrice123.
Si ritiene comunemente che tre aspetti del peccato siano purgati dopo
la morte: la colpa dei peccati veniali rimasti alla fine della vita, l’inclinazione
della volontà al peccato, e la punizione temporale dovuta al peccato. In primo
luogo, la purificazione ottiene il perdono dei peccati veniali, che sono realmente
peccaminosi, sebbene non separino definitivamente gli uomini da Dio. L’Aqui-
nate ritiene che ciò abbia luogo con il primo atto di perfetto amore/contrizione
compiuto dopo la morte, quando l’anima percepisce la stortura del peccato e la
bontà di Dio124. Secondo, l’inclinazione al peccato, spesso definita il fomes pecca-

118
Caterina da Genova, Trattato del Purgatorio, Vita francescana, Genova 1954, 17. Su quest’opera,
si veda F. Holböck, Die Theologin des Fegefeuers. Hl. Catharina von Genua, Christiana, Stein am
Rhein 19912.
119
Si vedano le pp. 352s sopra.
120
Si vedano le pp. 255s sopra.
121
J. Meyendorff dice erroneamente che «il legalismo, che riferisce al destino umano individuale la
dottrina anselmiana della “soddisfazione”, è la ratio teologica della dottrina latina del purgatorio»
Byzantine Theology, 221.
122
Si veda in particolare F. Suárez, De purgatorio, in De poenitentia, disp. 47, 2,7.
123
È accaduto così tra i movimenti eretici del medioevo (Albigesi, Catari, e più avanti, Lutero).
J. Le Goff dice: «Questi eretici, che non amano la Chiesa, prendono l’occasione anche di negarle
qualsiasi ruolo dopo la morte, per assicurarsi che il suo potere non si estenda tra gli uomini» La
Naissance, 189.
124
Tommaso d’Aquino, De malo, q. 7, a. 11. Duns Scoto ritiene che essi siano perdonati alla morte

366
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

ti, o concupiscenza, viene purificata. Ovviamente non si tratta di peccato nel


senso stretto del termine, ma piuttosto quel disordine che «deriva dal peccato
e porta al peccato»125. Corrisponde alle abitudini profondamente radicate che
solo eccezionalmente vengono del tutto sradicate in questa vita126. La separa-
zione violenta degli uomini dal mondo e dalle creature, tramite la morte, certa-
mente contribuisce a questo aspetto della purificazione post-mortem127. L’anima
è obbligata a riconoscere Dio come unico Signore dell’universo, e deve imparare
di nuovo a lodarlo e a ringraziarlo. Terzo, nel purgatorio si supera la punizione
temporale dovuta al peccato, cioè il disordine introdotto nella propria vita, in
quella delle altre persone e anche nel cosmo creato, attraverso il peccato. «La
contrizione certamente cancella i peccati», dice Tommaso d’Aquino, «ma non
rimuove l’intero debito di punizione ad essi dovuto… La giustizia divina richie-
de il ristabilimento dell’ordine turbato tramite una punizione proporzionata…
Negare il purgatorio, perciò, significa bestemmiare contro la giustizia divina»128.
Mentre ciascun individuo deve assumersi personalmente la pena per la purifica-
zione della disordinata inclinazione al peccato, la punizione temporale dovuta
al peccato può essere compensata dalle preghiere dei fedeli e dalla intercessione
della Chiesa. Come dice Benedetto XVI, riflettendo sul purgatorio, «Nessuno
vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo»129.
Ne consegue che il purgatorio produce in coloro che vengono purificati
una unione perfetta e definitiva con Dio, con le altre persone e con il cosmo
intero130.

Maturazione personale, punizione temporale e l’insegnamento del Vaticano II.


Alcuni autori in tempi recenti hanno suggerito che il purgatorio dovrebbe essere
considerato non tanto in termini di una punizione che viene inflitta, ma piut-
tosto come uno sviluppo personale dell’individuo. Un autore scrive ad esem-

in virtù dei meriti precedenti: IV Sent. D. 21, a. 1.


125
DS 1515 (Concilio di Trento).
126
Ibid.
127
Si vedano le pp. 322s sopra.
128
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 71, a. 1.
129
SS 48. «Continuamente entra nella mia vita quella degli altri; in ciò che penso, dico, faccio,
opero. E viceversa, la mia entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia interces-
sione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte.
Nell’intreccio dell’essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui, può significare una
piccola tappa della sua purificazione» ibid.
130
Sull’aspetto “sociale” del purgatorio, si veda Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, 324; J. Ratzinger,
Escatologia, 240s.

367
Capitolo X

pio: «Questo ritorno dell’uomo [tramite la morte] all’essenza del suo sentire, si
chiama semplicemente purgatorio. È l’incontro dell’uomo con la sua essenza,
il condensarsi di tutta la sua esistenza, un istantaneo processo di autodivenire
nell’abisso della morte»131. Questo testo certamente accentua la responsabilità e
la partecipazione personale da parte del credente nel processo di purificazione.
Tuttavia, esprime in modo insufficiente la dottrina del purgatorio, attribuen-
do poca attenzione al fatto che la santità in primo luogo richiede la grazia di
Dio, non la personale auto-purificazione. Più in particolare, la spiegazione del
purgatorio come auto-maturazione rende superfluo l’aiuto che si può ricevere
dagli altri nella Chiesa nel superamento della “punizione temporale” dovuta al
disordine che i peccati introducono nel mondo creato. È interessante notare che
il contributo specifico che il Concilio Vaticano II ha voluto portare alla dottrina
del purgatorio, riguarda proprio la preghiera della Chiesa in favore dei morti132.
Il Concilio accetta la fede cristiana «circa la vitale unione con i fratelli che sono
nella gloria celeste o che ancora dopo la morte stanno purificandosi»133.
Ovviamente i cristiani non hanno conoscenza certa dell’efficacia delle loro
preghiere per i morti, né riguardo le singole persone, né in relazione al livello
di aiuto che possono portare. Con il libro della Sapienza, la Chiesa è contenta
di esclamare: «le anime dei giusti, sono nelle mani di Dio» (3,1). Probabilmente
è corretto affermare che le preghiere dei cristiani portino beneficio allo stesso
tempo a tutti coloro che vengono purificati. Inoltre, sulla base della dottrina della
comunione dei santi134, si ritiene comunemente che le anime in purgatorio possa-
no assistere con le loro preghiere coloro che sono ancora pellegrini sulla terra135.

131
L. Boros, Noi siamo futuro, 232. Si veda anche O. Betz, Il purgatorio come maturazione in Dio,
in Il cristiano e la fine del mondo, a cura di O. Betz, F. Mussner e L. Boros, Paoline, Roma 1969,
173-89.
132
LG 50a.
133
Ibid. 49.
134
Ibid. 49.
135
Gregorio di Nazianzeno dice: «Confidiamo per la nostra vita nei morti, e per quelle di chi, avendo
vissuto in un altro tempo, essendo morti prima di noi, sono già nella dimora eterna» Dissertat., 7.
Giuliano di Toledo scrive che «le anime in purgatorio non saranno battute in generosità, e offriranno
per noi suppliche di grazie e benedizioni» Prognost. fut. saec. II, 26. Anche F. Suárez mantiene
questa posizione, in De purgatorio, D. 47, a. 2. Si veda anche Sant’Alfonso Maria di Liguori, Il gran
mezzo della preghiera, in Opere ascetiche, vol. 2, Marietti, Torino 1846, nn. 42-6. Josemaría Escrivá
scrive: «Le anime sante in purgatorio. Per carità, giustizia, e per scusabile egoismo – hanno un tale
potere con Dio! – ricordiamole spesso nei nostri sacrifici e nelle nostre preghiere» Cammino, n. 571.
Che le anime sante possano pregare per noi è una posizione comune tra i teologi. Si veda l’opera
classica di J. B. Walz, Die Fürbitte der Armen Seelen und ihre Anrufung durch die Gläubigen auf
Erden. Ein Problem des Jenseits dogmatisch untersucht und dargestellt, Herder, Freiburg i. B., 1927.
Si può trovare la medesima posizione tra i teologi ortodossi: si veda J.-C. Larchet, La vie après la

368
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

Purgatorio e spiritualità. Agostino136, Isidoro di Siviglia137 e Tommaso d’Aqui-


no138 sono tutti dell’opinione che l’intensità delle sofferenze in purgatorio è più
grande di qualsiasi sofferenza possibile possa accadere sulla terra. Per l’Aquina-
te, come abbiamo visto, ciò è dovuto principalmente al ritardo nell’ottenimento
della visione di Dio. Molti autori ritengono, tuttavia, che le anime del purgato-
rio sperimentino una profonda consolazione dal fatto che la loro salvezza è già
garantita. In un certo senso la loro pena e la loro gioia hanno la stessa origine:
la vicinanza dell’amore di Dio, che li purifica, li conforta e li aiuta ad apprez-
zare il valore delle loro sofferenze. Tramite l’intercessione dei santi, inoltre, si
è detto che quelli che sono in purgatorio ottengono il solatium purgatorii, il
sollievo della purificazione. Questa è l’opinione di san Bernardino da Siena (†
1444), François Fénelon († 1715), Frederick W. Faber († 1863) e in particolare del
beato John H. Newman († 1890), nella sua opera Il sogno di Geronzio139. Santa
Caterina da Genova († 1510), nel suo Trattato sul purgatorio, parla spesso della
felicità sperimentata dalle anime del purgatorio, una gioia che è perfettamente
compatibile con la punizione che sopportano140. Il beato Giovanni Paolo II nella
sua catechesi sul purgatorio dice: «Anche se l’anima nel passaggio al cielo deve
sottoporsi alla purificazione per i resti del peccato in purgatorio, è piena di luce,
certezza, gioia, perché è sicura di appartenere a Dio per sempre»141.
Diversi autori spirituali sono giunti a valutare la realtà del purgatorio esami-
nando la dinamica della purificazione che i santi sperimentano in questa vita.
San Francesco d’Assisi († 1226), per esempio, parla della gioia della purificazione
qui sulla terra142. Giovanni della Croce († 1591) nel suo La notte oscura dell’ani-

mort, 241s. Si veda anche A. Minon, Peut-on prier les âmes du purgatoire?, «Revue Ecclésiastique de
Liège» 35 (1948) 329ss.; A. Rudoni, Escatologia, Marietti, Torino 1972, 195s.; M. Huftier, Purgatoire
et prière pour les morts, «Esprit et vie» 44 (1972) 609-17; A. Piolanti, La communione dei santi e la
vita eterna, 283-9. Si veda anche A.-M. Roguet, Les sacrements nous jugent, «Vie spirituelle» 45
(1963) 516-23, che argomenta contro questa posizione.
136
Agostino, Enn. in Ps., 37,3.
137
Isidoro, De ordine creat., 14,12.
138
Tommaso d’Aquino, Qu. de Purgatorio, a. 3c.
139
Si veda F. Holböck, Fegfeuer: Leiden, Freuden und Freunde der armen Seelen, Christiana, Stein
am Rhein 19782.
140
«Non credo che ci sia una felicità comparabile con quella di un’anima del Purgatorio, eccetto
quella dei santi nel paradiso. E questa felicità cresce ogni giorno per l’azione corrispondente di Dio
(corresponsio) in quell’anima, azione che consuma giorno dopo giorno tutto quello ch’è ostacolo»
Caterina da Genova, Trattato del Purgatorio, 5.
141
Giovanni Paolo II, Udienza Lo Spirito Santo, garanzia di speranza escatologica e determinazione
finale (3.7.1991), in Insegnamenti Giovanni Paolo II, 14/1 (1991) 27-38.
142
«Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto» Francesco d’Assisi, Fioretti, n. 8.

369
Capitolo X

ma, delinea con attenzione i paralleli che esistono tra la purificazione sulla terra e
nel purgatorio143. Parlando dell’esperienza mistica dei cristiani, l’autore spirituale
Mary Starkey-Greig suggerisce che «in purgatorio saremo tutti mistici»144. Altri
autori parlano del purgatorio come di un mistero di misericordia145, il luogo del
divino amore146, del fatto che abbiamo bisogno del purgatorio «per far piacere al
buon Dio»147, e che la sua esistenza parla della «sete per il Dio vivente»148.
Anche se alcuni autori contemporanei ritengono che la purificazione sia
istantanea e coincida con la morte stessa149, la tradizione cattolica in generale
insegna che la durata e l’intensità del purgatorio dipenderà dalla situazione di
ciascuna persona150. Seguendo Tommaso d’Aquino possiamo distinguere tra la
gravità oggettiva dei peccati commessi, e la profondità con cui i peccati sono
radicati nella volontà151. La pratica liturgica di pregare per i morti per un lungo
periodo sembra suggerire che una purificazione istantanea attraverso la morte
non sia accettabile152. Tuttavia, sarebbe rischioso parlare di “tempo” in purga-
torio in modo corrispondente alla cornice temporale terrena153. Senza dubbio,

143
Giovanni della Croce, Noche oscura del alma II, 7,7. Si veda anche Llama de amor viva I, 24.
Sull’aspetto purgatoriale della vita spirituale in generale e il parallelo che esiste tra purificazione
sulla terra e dopo la morte, si veda L. F. Mateo-Seco, Purgación y purgatorio en San Juan de la
Cruz, «Scripta Theologica» 8 (1976) 233-77. Si veda anche U. Barrientos, Doctrina de San Juan de
la Cruz sobre el Purgatorio a la luz de su sistema mistico, Angelicum, Roma 1959.
144
M. Starkey-Greig, The Divine Crucible of Charity, Burns, Oates & Washbourne, London 1940,
40. Su questa questione, si veda l’opera classica di J. Bautz, Das Fegfeuer: im Anschluss an die Scho-
lastik, mit Bezugnahme auf Mystik und Ascetik dargestellt, Kirchheim & Co., Mainz 1883. Si veda
anche R. Garrigou-Lagrange, Perfection chrétienne et contemplation, Desclée, Paris 1923, 182s.; Y.
M.-J. Congar, Le purgatoire, 319.
145
Si veda G. Lefebure, Le purgatoire, mystère de miséricorde, «Vie spirituelle» 45 (1963) 143-52.
146
B. Moriconi, Il purgatorio soggiorno dell’amore, «Ephemerides Carmeliticae» 31 (1980) 539-78.
147
P. de la Trinité, Il purgatorio. Che ne pensa S. Teresa di Lisieux, Teresianum, Roma 1972.
148
Si veda D. Carnovale Guiducci, Sete del Dio vivente: il purgatorio, preludio alla gioia piena,
Vaticana, Città del Vaticano 1992.
149
Si veda L. Boros, Mysterium mortis, 129-39; H. Rondet, Immortalité de l’âme ou résurrection de
la chair?, «Bulletin de littérature ecclésiastique» 74 (1973) 53-65; G. Martelet, L’au-delà retrouvé:
christologie des fins dernières, Desclée, Paris 1975, 140ss.; G. Greshake e G. Lohfink, Naherwartung.
Auferstehung. Unsterblichkeit, Herder, Freiburg i. B. 1975, 138; K. Lehmann, Was bleibt vom
Fegfeuer?, «Communio (Deutsche Ausg.)» (1980), 236-43, 239s. Interessante anche la riflessione
di J. Ratzinger, Escatologia, 228s.
150
Si veda E. Brisbois, Durée du purgatoire et suffrages pour les défunts, «Nouvelle Revue
Théologique» 81 (1959) 838-45.
151
«Acerbitas poenae proprie respondet quantitati culpae; sed diuturnitas respondet radicationi
culpae in subjecto; unde potest contingere quod aliquis diutius moretur qui minus affligitur, et e
converso» Qu. de Purgatorio, a. 8 ad 1.
152
Si vedano le pp. 367s sopra.
153
«Non c’è alcun bisogno di convertire il tempo terrestre in tempo di Dio: nella comunione delle
anime il tempo terreste è semplicemente rimpiazzato» SS 48.

370
Il purgatorio: la purificazione degli eletti

le sofferenze del purgatorio dovrebbero estendere il tempo della purificazione


almeno a livello soggettivo. Dopo tutto, «davanti al Signore, un solo giorno è
come mille anni e mille anni come un solo giorno» (2 Pt 3,8)154.
In ogni caso, la dottrina del purgatorio offre ai cristiani un vivido ricordo
della grazia di Dio, e un forte motivo per sperare nella propria strada verso la
santità155.

L’aspetto cristologico della purificazione.  Abbiamo già considerato l’insegna-


mento di Paolo ai Corinzi sulla purificazione della vita dei cristiani (1 Cor
3,10-15). Il testo è articolato in tre passaggi: parla dell’opera salvifica di Cristo,
seguita dal giudizio e poi dal “fuoco”156. La purificazione è presentata soprat-
tutto come l’opera di Cristo che rivela la situazione dei credenti e li purifica da
ogni macchia di peccato. L’opera di Cristo è l’opera di Dio, che è raffigurato
nella Scrittura come il fuoco che distrugge e purifica (Is 66,15s.). «Il fuoco della
santità divina in Cristo… rivelerà il valore delle diverse “costruzioni”, anche
distruggendo ciò che è caduco e scadente, ma salvando insieme chi ha inteso
costruire sul fondamento di Cristo»157. L’opera di Cristo è un’opera di giudizio
(in quanto egli cerca la conformità con Sé nei credenti) e di purificazione trami-
te il fuoco (perché Cristo purifica i credenti rendendoli conformi alla sua vita),
e come esito, di salvezza: egli forgia la nostra somiglianza a sé –  cioè, egli ci
salva – giudicandoci e purificandoci.
L’aspetto cristologico del purgatorio è stato sottolineato in particolare
da Yves Congar († 1995), Hans Urs von Balthasar e Giovanni Moioli. Congar
dice che «il mistero del purgatorio dovrebbe essere considerato nel contesto
complessivo del mistero cristiano, che è il mistero del passaggio di Cristo al

154
Prima della riforma liturgica che è seguita al Concilio Vaticano II, le indulgenze parziali venivano
calcolate sulla base dei giorni. Questo ovviamente non faceva riferimento al tempo da trascorrere
in purgatorio, ma piuttosto al numero di giorni di penitenza canonica cui corrispondono
particolari devozioni. Il fatto che coloro che portano lo Scapolare della Madonna del Carmelo
saranno liberati dal purgatorio il sabato dopo la loro morte (il cosiddetto privilegio sabbatino), è
una tradizione lunga e profondamente radicata nella Chiesa. Si veda B. Zimmermann, De Sacro
Scapulario Carmelitano, «Analecta Ordinis Carmelitarum Discalceatorum» 2 (1927-8) 70-80; L.
Sassi, Scapulaire, in Dictionnaire de la Spiritualité 14 (1990) col. 390-96, in particolare 393s. Si
parla di questo privilegio nel riassunto delle indulgenze delineato da Papa Innocenzo XI (1678) e
da Pio X (luglio 1908). Si veda anche san Josemaría Escrivá, Cammino, n. 500.
155
La divina misericordia che il purgatorio implica serve come supporto della speranza dei cristia-
ni: si veda K. Reinhardt, Das Verständnis des Fegfeuers in der neuern Theologie, «Trierer theologi-
sche Zeitschrift» 96 (1987) 111-22, in particolare 120-2.
156
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 616-20.
157
G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 183.

371
Capitolo X

Padre, tramite la “consumazione” del suo corpo. Questo passaggio che è quello
dell’umanità e ha la resurrezione generale come suo fine, continua anche dopo
che il velo della morte è caduto, con tre elementi essenziali: purificazione, libe-
razione ed espiazione»158. Il medesimo autore continua insistendo sul fatto che
il purgatorio dovrebbe essere concepito soteriologicamente, in relazione con la
dottrina della discesa di Cristo all’inferno159. Von Balthasar, seguendo Congar,
descrive il purgatorio come una «dimensione di giudizio, come l’incontro dei
peccatori con gli “occhi… come fiamma di fuoco, i suoi piedi… come bronzo
splendente” (Ap 1,14s. = Dn 10,6) di Cristo»160. E Moioli riassume questa posi-
zione dicendo: «Il Purgatorio sarebbe l’espressione dell’aspetto fondamentale
(quello storico-misterioso e non puramente biologico-fisico) della morte salvata,
come partecipazione della morte di Cristo, e quindi come definitiva distruzione
del peccato, nell’amore-carità e nella sofferenza»161. Papa Benedetto XVI vi fa
riferimento ugualmente nell’enciclica Spe salvi162.
Sulla base della comprensione cristologica del purgatorio, è facile rendersi
conto del fatto che una volta che Cristo tornerà nella gloria nella Parousia non
ci sarà più alcun bisogno del purgatorio. Questa è la posizione comune della
Chiesa, insegnata sia da Agostino163 che da Tommaso d’Aquino164.

158
Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, 335s.
159
Ibid., 284. Nella medesima direzione, anche le citazioni di J. Guitton e B. Sesboüé, in G.
Gozzelino, Nell’attesa, 457s.
160
Si veda H. U. von Balthasar, Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 329-37.
161
G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 194.
162
«Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso,
il Giudice e il Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo ci
fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare
veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota
millanteria, e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro
essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana
mediante una trasformazione certamente dolorosa “come attraverso il fuoco”. È, tuttavia, un
dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla
fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la
compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra
sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità
e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo» SS 47.
163
Agostino, De Civ. Dei XXI, 16.
164
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 74, a. 8 ad 5, a causa delle tremende sofferenze
implicate nella Parousia.

372
Capitolo XI

LE IMPLICAZIONI
DI UNA “ESCATOLOGIA INTERMEDIA”

Sono stretto infatti tra queste due cose:


ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo…
ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo
Fil 1,23s.

Riposerò nel seno di Abramo,


come fece Lazzaro, circondato da fiori
Aurelio Prudenzio1

1. La dinamica dell’escatologia individuale e collettiva


Per un lungo periodo di tempo l’escatologia cattolica riservò più attenzione
alle “cose ultime” riguardanti l’individuo: la morte, il giudizio particolare, cielo
oppure inferno, visione beatifica, purificazione personale, ecc2. Ovviamente
non è che gli altri aspetti critici siano stati esclusi. Come abbiamo visto nei capi-
toli precedenti, gli aspetti individuali dell’escatologia cristiana non avrebbero
significato se non fossero concepiti in un contesto interpersonale, collettivo e
corporeo. La morte, per esempio, implica separazione dagli altri. Il giudizio è
fondato sulle nostre azioni nei confronti delle altre persone. L’agente e la norma
di queste azioni è un Altro, Gesù Cristo. Cielo ed inferno si vivono in comunio-
ne con Dio e con altre persone, o separati da essi.

1
Aurelio Prudenzio, Inno per la sepoltura dei morti, 149-53.
2
Si veda la p. 68, nota 14.

373
Capitolo XI

Ancora di più, i diversi elementi che concorrono alla realizzazione della


Parousia in senso stretto (la venuta di Cristo nella gloria, la resurrezione e il
rinnovamento del cosmo, il giudizio universale) non sono mai stati esclusi dallo
studio tradizionale dell’escatologia. Ma probabilmente è vero che questi elementi
collettivi sono stati considerati per la maggior parte degli autori come aggiunte
accidentali di una struttura incentrata sull’unione dell’individuo con la Divini-
tà3. Era comune, per esempio, parlare di “gloria accidentale” che le anime beate
raggiungono attraverso la resurrezione4. Teologicamente parlando, l’espressio-
ne è del tutto legittima, ma l’impressione che ne può derivare è che la fine del
mondo sia di importanza secondaria nello studio dell’escatologia, mentre, come
abbiamo visto, tale fine fissa la scena ad un livello fondamentale per l’escatologia,
e si pone al cuore stesso della cristologia del Nuovo Testamento.
Da molti punti di vista questa sottolineatura sull’escatologia individuale
può esser vista come una benedizione camuffata, tra l’altro perché fornisce le
basi per una antropologia che dà valore all’individuo, che non permette che le
persone vengano considerate come sostituibili o elementi superflui di un aggre-
gato anonimo. L’escatologia cristiana dovrebbe riflettere – e tradizionalmente
l’ha fatto – il fatto che ciascun uomo, destinato da Dio all’immortalità, è prezio-
so ed unico. Tuttavia questa concezione ha portato ad una visione in qualche
modo ultramondana, spiritualistica ed individualistica del destino umano,
poco capace di ispirare una etica sociale incisiva, una spiritualità profondamen-
te impegnata per la trasformazione del mondo.
Il fatto è che il riconoscimento cristiano della natura intrinsecamente socia-
le dell’uomo ha gradualmente portato gli studiosi a tentare di ampliare la portata
dello studio dell’escatologia alla speranza della Chiesa tutta: la Parousia, la venu-
ta del Signore Gesù nella gloria alla fine dei tempi5. Una più grande consape-
volezza del carattere escatologico dell’intero Nuovo Testamento, il movimento
liturgico, la consapevolezza del ruolo dei fedeli cristiani e della santità all’inter-
no della società, gli sviluppi dell’ecclesiologia, la consapevolezza della chiamata
universale alla santità e dell’urgente necessità di evangelizzare e promuovere la

3
Sulla moderna storia dell’escatologia si veda P. Müller-Goldkuhle, Die Eschatologie in der Dogma-
tik des 19. Jahrhunderts, Ludgerus; Wingen, Essen 1966, 8-10; I. Escribano-Alberca, Eschatologie.
4
Sulla nozione scolastica di “gloria accidentale”, si veda Aa.vv., Sacrae theologiae summa, Editorial
Católica, Madrid 19644, 1014-6.
5
Gli aspetti individuali e collettivi dell’escatologia cristiana sono tra loro connessi, senza
separazione o confusione: si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 306; G. Pattaro, La svolta antropologica.
Un momento forte della teologia contemporanea, Dehoniane, Bologna 1991, 42; A. Rudoni,
Introduzione all’escatologia, Marietti, Torino 1988, 78s.

374
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

giustizia e la pace, tutto questo ha contribuito a questa nuova sottolineatura. In


effetti, l’escatologia cristiana, lungi dal promuovere un atteggiamento evasivo o
pietistico nei confronti della vita e del mondo, deve poterlo trasformare secondo
la potenza di Cristo6. Mentre i classici manuali di escatologia, sia protestanti che
cattolici7, si occupano principalmente di escatologia individuale, attualmente
l’attenzione ha iniziato a spostarsi verso una visione collettiva, incentrata princi-
palmente sulla Parousia. Tra i primi autori cattolici ad assumere questa posizione
si contano Romano Guardini8 nel 1940, e Michael Schmaus9 nel 1948.
Il beato Giovanni Paolo II, in un’ampia intervista del 1982 con André Fros-
sard, ha descritto questo processo nei seguenti termini: «Devo confessare che
è stato il Concilio Vaticano II che mi ha aiutato a trovare la sintesi della fede
personale, e in primo luogo il capitolo 7 della costituzione Lumen gentium inti-
tolato “Indole escatologica della Chiesa pellegrinante e sua unione con la Chiesa
celeste”. Ero già vescovo quando presi parte al Concilio. Prima, avevo ovvia-
mente studiato il trattato sui Novissimi… negli articoli della Somma teologica
concernenti tanto la beatitudine che la visione beatifica. Credo però che sia stata
la costituzione conciliare sulla Chiesa a permettermi di scoprire la sintesi di
quella realtà che noi speriamo. Ed è per questo che tengo a risponderle, per così
dire, col testo in mano. La scoperta che feci allora consiste in questo: mentre
prima consideravo soprattutto l’escatologia dell’uomo e il mio avvenire perso-
nale nell’aldilà, che è nelle mani di Dio, la costituzione del Concilio ha spostato
il centro di gravità verso la Chiesa e il mondo, il che dà alla dottrina delle realtà
finali dell’uomo la sua piena dimensione»10.
Questo cambiamento di accento da una escatologia individuale, quasi
privata, ad una collettiva, pubblica, è stato talvolta accompagnato e ispirato da
una socializzazione mondana e eccessivamente orizzontale nella spiritualità e
dell’etica cristiane. È emersa la tendenza a sostituire la spiritualità personale con
l’impegno sociale. Una escatologia a binario unico di tipo individuale e spiri-
tuale è stata sostituita da una escatologia a binario unico di genere collettivo,
utopistico e materiale. Da ciò, si è giunti ad abbandonare importanti elementi di

6
E. Troeltsch suggerisce che l’escatologia dovrebbe essere oggetto di predicazione e pietà, non di
studio: Glaubenslehre III, Dunker & Humbolt, München-Leipzig 1925, 36.
7
Si veda la p. 68, nota 14. Si veda il manuale del protestante D. Hollaz, Examen theologicum
acroamaticum, Stargard 1707, vol. 2, 370-416; vol. 3, § II, cap. 9-10.
8
Si veda R. Guardini, Le cose ultime.
9
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen.
10
Giovanni Paolo II e A. Frossard, “Non abbiate paura!”, Rusconi Milano 1983, 87-89. Si veda
anche Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, 197-200.

375
Capitolo XI

escatologia individuale: il giudizio particolare (sostituito dal giudizio generale),


la condanna dei peccatori impenitenti (sostituita dalla società nella sua totalità
come oggetto di salvezza), la visione beatifica (sostituita dalla comunione con
l’umanità), la separazione tra corpo e anima (sostituito dalla resurrezione al
momento della morte). L’individuo e la sua santificazione, in qualche modo, ha
perso il suo luogo nella realizzazione collettiva dell’umanità, assorbito da una
società umana aspirante alla perfezione.
Paradossalmente, le escatologie a binario unico di tipo individuale non
sono, teologicamente parlando, molto lontane da quelle di tipo collettivista
come si potrebbe supporre. Un monismo collettivista sostituisce facilmente un
monismo individualista, dal momento che l’umanità semplicemente prende
il posto dell’individuo, poiché la specie sostituisce la persona. Tornando alla
questione dell’aspetto collettivo o cosmico della salvezza escatologica nel capi-
tolo settimo della Lumen gentium, Giovanni Paolo II nella sua autobiografia del
1994 Varcare la soglie della speranza, ha scritto: «Ci si può chiedere se l’uomo
con la sua vita individuale, la sua responsabilità, il suo destino, con il suo perso-
nale futuro escatologico, il suo paradiso o inferno o purgatorio, non finisca per
smarrirsi in tale dimensione cosmica. Riconoscendo buone ragioni alla sua
domanda, bisogna rispondere onestamente di sì: l’uomo in una certa misura si è
smarrito, si sono smarriti anche i predicatori, i catechisti, gli educatori e, quindi,
hanno perso il coraggio di “minacciare l’inferno”»11. Ugualmente, Benedetto
XVI nella sua enciclica Spe salvi parla del bisogno di integrare di nuovo l’aspetto
individuale e quello collettivo della salvezza cristiana12.

Il bisogno di integrare l’escatologia individuale e collettiva.  Dal punto di vista


della fede cristiana, non va posta alcuna opposizione tra i due aspetti dell’esca-
tologia cristiana appena menzionati13. In effetti, gli individui non solo ricevo-

11
Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, 200.
12
Per i cristiani, «la salvezza è stata sempre considerata una realtà comunitaria… Questa vita
vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all’essere nell’unione essenziale con
un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”. Essa presuppone,
appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio “io”, perché solo nell’apertura di questo soggetto
universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio» SS 14.
13
La continuità tra le dimensioni individuale e collettiva della escatologia (e perciò tra la
morte e la resurrezione) è al centro di molti recenti studi: J. L. Ruiz de la Peña, Imagen de Dios.
Antropología teológica fundamental, Sal Terrae, Santander 1988, 149; G. Haeffner, Jenseits des
Todes. Überlegungen zur Struktur der christlichen Hoffnung, «Stimmen der Zeit» 193 (1975) 773-
84; in particolare 777; G. Greshake, Theologiegeschichtliche und systematische Untersuchungen
zum Verständnis der Auferstehung, in Resurrectio Mortuorum. Zum theologischen Verständnis der

376
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

no l’essere e la vita tramite altre persone, ma realizzano le proprie potenzialità


donandosi agli altri, ancor più, perdendosi per il bene altrui, seguendo l’esempio
di Cristo che ha redento il mondo morendo sulla Croce: «chi vuol salvare la
propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salve-
rà» (Lc 9,24)14. Una integrazione perfetta tra le due impostazioni, tuttavia, non
sarà raggiunta fino alla fine dei tempi. «Se l’evento della resurrezione venisse
posto nel momento temporale della morte dell’individuo, e non legato quindi al
ritorno di Cristo, non riusciremmo nemmeno a concepire tale avvenimento in
forma corporea… Proprio perché la resurrezione dei morti può essere immagi-
nata come un evento che alla fine di questo evo interesserà tutti gli individui, si
può sostenere anche uno stretto legame tra escatologia individuale e generale»15.
Questa delicata articolazione tra escatologia individuale e collettiva trova
una importante espressione nella corretta impostazione di quella che nella
teologia del XX secolo è stata conosciuta come la questione della “escatolo-
gia intermedia”, che concerne lo spazio o il tempo che trascorre tra la morte
(rappresentando il culmine della vita individuale) e la resurrezione (il culmine
della vita dell’umanità come totalità). In una escatologia a binario unico di tipo
individuale l’esistenza di una escatologia intermedia è data per scontata, ma
considerata praticamente irrilevante, in quanto la fine dei tempi aggiunge poco
o niente, antropologicamente o teologicamente parlando, alla salvezza. Una
escatologia a binario unico di tipo collettivo, invece, riduce tutto alla Parou-
sia, e elimina l’escatologia intermedia in direzione opposta, svuotando il ruolo
dell’individuo, il cui pellegrinaggio personale culmina al momento della morte.
L’una rende l’escatologia intermedia irrilevante, l’altra praticamente la abolisce.
Nel 1979 la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’esca-
tologia, più volta citata, esprime il proposito di proporre di nuovo «l’insegna-
mento della Chiesa in nome di Cristo in particolare per quanto riguarda quel
che accade tra la morte del cristiano e la resurrezione finale»16.
Considereremo la questione17 secondo le seguenti tre direzioni: l’escatolo-
gia intermedia nel contesto della teologia protestante; la teoria della “resurre-

leiblichen Auferstehung, a cura di G. Greshake e J. Kremer, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,


Darmstadt 19922, 252.
14
CAA 187-231, in particolare 227-30.
15
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 605.
16
Recentiores episcoporum Synodi, pref., in fine.
17
Sulla sezione seguente, si veda il mio studio La muerte y la esperanza, 75-96.

377
Capitolo XI

zione al momento della morte” e i suoi inconvenienti; la necessità di affermare


l’esistenza dell’anima umana.

2. Escatologia intermedia nella teologia protestante


La possibilità di eliminare “l’escatologia intermedia”, considerata come
uno spazio o un tempo che si estende dalla morte alla resurrezione, iniziò a
consolidarsi nel XIX secolo nella teologia biblica protestante.

La de-ellenizzazione del cristianesimo: l’esilio dell’anima. Con lo scopo di


promuovere una definitiva de-ellenizzazione della teologia cristiana, diver-
si autori protestanti hanno tentato di mettere da parte la nozione di “anima”
umana. Di questo abbiamo trattato nel primo capitolo18. L’idea di un nucleo
umano spirituale, sussistente, immortale, che sopravvive alla morte e vive per
sempre, è giunta ad essere considerata come una importazione inopportuna dal
pensiero platonico alla teologia cristiana. Sebbene altri autori protestanti abbia-
no preparato la via19, questa tesi è stata difesa apertamente dal teologo riforma-
to Oscar Cullmann in una famosa conferenza del 1955 intitolata Immortalità
dell’anima o resurrezione dei morti?20 Cullmann ha affermato che la chiave della
dottrina escatologica cristiana non è l’immortalità dell’anima, ma piuttosto la
resurrezione finale. Nella mente dei cristiani, tuttavia, la prima è andata ad occu-
pare il posto della seconda. Secondo Cullmann, invece, la concezione cristiana
della morte e resurrezione era «interamente determinata dalla storia della salvez-
za… ed è incompatibile con la credenza greca nell’immortalità dell’anima»21.
Tuttavia, gli autori protestanti nel loro insieme hanno considerato il reali-
smo della Parousia come un evento pubblico futuro, in cui Cristo ritornerà per
risuscitare i morti e giudicare l’umanità. Cioè, la morte dell’individuo e la resur-
rezione finale sono distinte nel tempo l’una dall’altra. Ma se è così, cosa si pone
allora tra i due eventi? Che cosa rimane dell’uomo se non esiste nulla di simile
ad un’anima spirituale? Gli autori protestanti offrono a questi due interrogativi
tre possibili soluzioni22.

18
Si vedano le pp. 39ss.
19
In particolare A. von Harnack, P. Althaus, K. Barth.
20
Si veda O. Cullmann, Immortalité de l’âme ou résurrection des morts?
21
Ibid., 18.
22
Si veda C. Stange, Die Unsterblichkeit der Seele: Vorlesung, Bertelsmann, Gütersloh 1925; C.
Pozo, La teología del más allá, 167ss.; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 111-26.

378
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

La prima, attribuibile a Carl Stange23 e Adolf von Schlatter († 1938)24, e


forse a Helmut Thielicke25, Werner Elert26 e Eberhard Jüngel27, suggerisce che
la morte implica la completa eliminazione dell’individuo, cioè, la “morte tota-
le” (Ganztod)28. La morte è il giudizio sul peccato ed implica l’eliminazione del
peccatore. «Con la morte siamo completamente presi», scrive Althaus, «il corpo
e l’anima scompaiono entrambi. La morte è il crollo dell’uomo in una fossa
senza fondo… È una uscita nel nulla»29. Jüngel dice apertamente che «alla morte
l’uomo è annullato»30. Perciò, la resurrezione può essere concepita solo come
una nuova creazione dell’uomo intero. Non può dirsi che esista un’escatologia
intermedia perché l’uomo non esiste più tra la morte e la resurrezione.
Altri autori come Karl Barth31 ed Emil Brunner († 1966)32 hanno suggeri-
to una seconda soluzione al dilemma. La morte è effettivamente distinta dalla
resurrezione, ma, essi dicono, la morte porta gli uomini verso la sfera del divi-
no, e perciò fuori dal tempo. Obiettivamente, quindi, c’è una escatologia inter-
media, ma soggettivamente non ce n’è nessuna. Ciascuna persona sperimenta
la resurrezione come un evento che accade nel momento della propria morte.
Diversi autori cattolici ugualmente seguono questa concezione “atemporale”
della escatologia intermedia33.

23
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 176s.
24
Si veda ibid., 170.
25
Si veda H. Thielicke, Tod und Leben. Studien zur christlichen Anthropologie, Mohr, Tübingen
19462. Su quest’opera, si veda C. Pozo, La teología, 176, nota 45.
26
Si veda W. Elert, Der christliche Glaube: Grundlinien der lutherischen Dogmatik, Furche, Hamburg
19563. Su questa posizione, si veda H. Wohlgschaft, Hoffnung angesichts des Todes, 131-7.
27
Si veda E. Jüngel, Tod.
28
Alcuni autori cattolici sembrano mantenere questa stessa posizione: P. Laín Entralgo, per
esempio, che era inorridito dalla nozione di anima separata, secondo J. L. Ruiz de la Peña, La
pascua de la creación, 273s.; anche X. Zubiri, in ibid., 274. Si veda anche J.-M. Pohier, «Concilium
(éd. français)» 11 (1975) 352-62.
29
P. Althaus, Die letzen Dinge, 83.
30
E. Jüngel, Tod, 140.
31
Si veda K. Barth, Kirchliche Dogmatik III/2, 524ss.; Die Auferstehung der Toten.
32
Si veda E. Brunner, Das Ewige als Zukunft und Gegenwart, Zwingli, Zürich 1953.
33
Per esempio O. Betz, Die Eschatologie in der Glaubensunterweisung, Echter, Würzburg 1965,
208-10; J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 335-84; G. Biffi, Linee di escatologia cristiana,
97-9; K. Rahner, The Intermediate State, in Theological Investigations, vol. 17, Darton, Longman
& Todd, London 1981; C. Tresmontant, Problèmes du christianisme, Seuil, Paris 1980, 102; F.-J.
Nocke, Eschatologie, 70s.; 115-25; H. U. von Balthasar, Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 315-37; J.
B. Libãnio and M. C. L. Bingemer, Escatologia cristã, Vozes, Petrópolis 1985, 214-24.

379
Capitolo XI

Una terza posizione è suggerita da Oscar Cullmann34 ed altri35 con l’idea


dell’“uomo interiore” che sopravvive tra la morte e la resurrezione, in uno stato
transitorio, imperfetto, di dormizione. Questa sopravvivenza è spiegata con un
intervento speciale dello Spirito Santo nei credenti. L’idea di uno stato inter-
medio come di un esteso periodo di sonno si può trovare nella Scrittura36, e fu
apertamente insegnata da Lutero37.

Le fondamenta teologiche.  Si possono sviluppare diverse osservazioni circa la


posizione assunta dagli autori appena menzionati.
Primo, la realtà vivente dell’escatologia intermedia, la comunione dei santi,
la “volta palpitante” come la chiama Gabriel Marcel, che è centrale nell’eccle-
siologia, liturgia e spiritualità cattoliche, è effettivamente eliminata. Appena c’è
spazio per l’intercessione della Madonna e dei santi, per la liturgia celeste e la
dottrina del purgatorio38. Si può notare che sebbene alcuni primi autori cristiani
abbiano suggerito che il periodo tra la morte e la resurrezione sia un periodo di
sonno, questa non è stata la posizione più comune39.
Secondo, gli autori menzionati applicano per la maggior parte il principio
della sola Scriptura40. In effetti, la Scrittura parla molto di più della resurrezione
dei morti di quanto fa riguardo l’immortalità, e meno ancora dell’anima. Non
è difficile perciò arrivare alla conclusione che l’anima sia considerata come un
costrutto platonico artificiosamente innestato sulla sostanza cristiana. Tuttavia, a
parte il fatto che l’esistenza dell’anima e la sua immortalità sono menzionate nel
libro della Sapienza41, l’Antico Testamento parla apertamente della sopravvivenza
tramite la morte delle ombre (refa’im) degli uomini42, ben prima che la dottrina
della resurrezione iniziasse ad occupare il suo legittimo posto centrale. L’immor-

34
Si veda O. Cullmann, L’immortalité de l’âme.
35
Si veda P. H. Menoud, Le sort des trépassés d’après le Nouveau Testament, Delachaux et Niestlé,
Neuchâtel 19662; J. J. von Allmen, Mort, in Vocabulaire biblique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel
1954, 187. Si veda anche il cattolico A. Hulsbosch, Die Unsterblichkeit der Seele, «Trierer
theologische Zeitschrift» 78 (1966) 296-304.
36
Si vedano le pp. 128s.
37
M. Lutero, Resolutiones Lutherianae super propositionibus suis Lipsiae disputi, in WA 2,422. P.
Hoffmann, Die Toten in Christus, 237s., non accetta questa posizione.
38
Alcuni autori protestanti ne sono consapevoli. Si veda A. Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit, 139ss.
39
Girolamo rifiuta la posizione di Vigilanzio – che ironicamente soprannomina Dormitanzio –
che ha adottato questa posizione: Ep. 109,1; Contra Vigilantium, 6 e 17. Si veda anche DS 3223.
40
Si veda il mio studio Sola Scriptura o tota Scriptura? Una riflessione sul principio formale della
teologia protestante, in La Sacra Scrittura, anima della teologia, a cura di M. Tábet, Vaticana, Città
del Vaticano 1999, 147-68.
41
Si vedano le pp. 112s.
42
Si vedano le pp. 111s.

380
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

talità dell’anima è generalmente considerata un concetto platonico e in quanto


tale appartiene ad una visione dualista delle cose. Tuttavia, la dottrina cristiana
dell’anima43 è tanto differente da quella platonica quanto la concezione del Logos
di cui parla il Concilio di Nicea lo è dal Logos neo-platonico di Ario. Per i cristia-
ni, l’anima è temporalmente separabile dal corpo e ne sarà nuovamente unita alla
resurrezione; laddove per i platonici, l’anima è destinata ad essere separata per
sempre dal corpo una volta che la sua purificazione sarà completa. Come abbia-
mo visto prima, la morte, che porta con sé la separazione dell’anima dal corpo,
secondo la fede cristiana, è il risultato del peccato44, ma per il platonico costituisce
il momento supremo della liberazione e della salvezza. Il fatto che la Chiesa abbia
assunto la terminologia platonica non significa che abbia acriticamente assunto
il contenuto filosofico platonico nella sua interezza. Israele era il popolo scelto,
ma l’aramaico non era la lingua scelta, o quella giudaica la cultura scelta. Tutto
sommato, perciò, sarebbe semplicistico opporre tra di loro il monismo giudaico e
il dualismo ellenico come alcuni degli autori menzionati cercano di fare45.
Un terzo fattore andrebbe tenuto presente per comprendere la posizione
protestante: la dottrina centrale della “giustificazione per fede”. Gli uomini, esse-
ri creati, peccatori e mortali, non sono in grado di contribuire in alcun modo
alla propria salvezza, perché far questo significherebbe negare presuntuosamen-
te la trascendenza e la sovranità di Dio, tanto quanto la decaduta natura umana.
Ritenere che gli uomini abbiano un’anima immortale, sembrerebbe equivalente
a dire che sono già salvati46. Solo Dio è immortale, afferma Barth, citando 1 Tm
6,1647. Si dovrebbe dire, tuttavia, che se l’anima è incorruttibile “per natura”, ciò
è dovuto interamente alla libera azione creatrice di Dio48. Storicamente parlan-
do, quando i protestanti negarono l’esistenza dell’anima immortale al fine di
essere fedeli alla Scrittura, stavano reagendo per la maggior parte ad una conce-
zione autonoma dell’anima tipica di alcuni filosofi moderni49. Ratzinger afferma

43
Si veda il mio articolo Anima.
44
Si vedano le pp. 317s.
45
Si tratta di una tesi fondamentale di M. Guerra, Antropologías y teología, Eunsa, Pamplona
1976, 370. G. W. E. Nickelsburg, Resurrection, Immortality and Eternal Life, 177-80 non accetta la
posizione di Cullmann che oppone l’ellenico al giudaico.
46
Su questo modo di focalizzare il problema, si veda Thielicke, Tod und Leben, Annex 4; A.
Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit, 112-20; E. Jüngel, Tod, capitolo 4.
47
Si veda K. Barth, Die Auferstehung der Toten.
48
Tommaso d’Aquino, II Sent., D. 19, q. l, a. l ad 7; De Anima, a. 14 ad 19; S. Th. I, q. 75, a. 6
ad 2. J. Ratzinger, Escatologia, 162-165, parla di una “immortalità dialogica”. Su questo concetto
nell’insegnamento di Ratzinger, si veda lo studio di G. Nachtwei, Dialogische Unsterblichkeit.
49
La nozione platonica e idealistica dell’immortalità dell’anima utilizzata da questi autori è

381
Capitolo XI

che «il concetto dell’anima, qual è stato usato nella liturgia e nella teologia fino
al Vaticano II, ha in comune con l’antichità altrettanto poco quanto il concet-
to di resurrezione»50. Perciò non c’è una ragione teologica a priori per negare
l’esistenza dell’anima e la sua immortalità, come ai nostri giorni diversi autori
protestanti hanno cominciato a riconoscere51.
Dal punto di vista antropologico, una quarta difficoltà può essere solleva-
ta nei confronti della concezione protestante della escatologia intermedia. Gli
autori in questione per la maggior parte ritengono che gli uomini sopravvivano,
temporaneamente, tra la morte e la resurrezione, ma in Dio. Nel caso dei difen-
sori della “morte totale”, Ganztod, la resurrezione è una forma di ri-creazione,
perché Dio dovrebbe creare la persona di nuovo. Allora, Dio lo farebbe sulla
base dell’essenza (o eidos) della persona in questione, che Lui deve in qualche
modo trattenere come memoria vivente. Qualcosa del genere è presente nella
dottrina della atemporalità della vita futura, tipica di Barth e Brunner. La coin-
cidenza di due eventi distinti – in questo caso morte e resurrezione – è possi-
bile solo in Dio per il quale il tempo non esiste, ma non negli uomini i cui atti
finiti si succedono l’uno all’altro. È tradizionale dire che gli esseri spirituali (per
esempio gli angeli) sperimentino nei loro atti un qualche tipo di successione,
che spesso viene definita aevum52. La simultaneità di morte e resurrezione, al

tutt’altra cosa rispetto alla concezione cristiana: si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 169-
88; W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 558s. Kant ed altri considerarono la resurrezione
di Gesù come qualcosa di simbolico, come un modo figurativo di esprimere la nozione di
immortalità: ibid., 559s. Ratzinger, Escatologia, 152s, considera la concezione cristiana dell’anima
come antitetica alla “pura” concezione dell’immortalità del rinascimento greco, che precedette
quello moderno, in particolare quella di P. Pomponazzi, la cui dottrina fu rifiutata dal Concilio
Lateranense V (1513).
50
J. Ratzinger, Escatologia, 162.
51
Pannenberg afferma: «La teologia del primo cristianesimo inizialmente, ed a ragione, valutava
con un certo scetticismo l’idea platonica dell’immortalità dell’anima… Sembrava una espressione
di un arrogante uguaglianza con Dio, come quella che caratterizza il peccato umano» Teologia
sistematica, vol. 3, 587; 595. Avendo all’inizio negato la dottrina dell’immortalità dell’anima, P.
Althaus inizia un certo ritorno ad essa nel suo importante studio: Retraktationen zur Eschatologie,
«Theologische Literaturzeitung» 75 (1950) 253-60. «C’è affinità tra filosofia e sapienza biblica
per quanto riguarda l’immortalità», egli dice. Per questa ragione «la teologia cristiana… non
ha bisogno di combattere l’“immortalità” in quanto tale». Inoltre, «l’idea di giudizio divino non
richiede che gli uomini siano ontologicamente annullati alla morte» ibid., 256. Ugualmente
l’autore luterano F. Heidler considera che l’immortalità dell’anima possa essere dimostrata: si veda
Die biblische Lehre von der Unsterblichkeit der Seele, Sterben, Tod, ewiges Leben. Per uno studio
più recente sull’argomento tra i protestanti, si veda C. Hermann, Unsterblichkeit der Seele durch
Auferstehung. Studien zu den anthropologischen Implikationen der Eschatologie, Vandenhoeck &
Ruprecht, Göttingen 1997.
52
Si veda la p. 227, nota 173.

382
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

contrario, potrebbe far pensare che gli uomini siano in qualche modo assorbiti,
pur temporaneamente, nella vita stessa di Dio53.
Infine, la posizione di Cullmann si muove nella medesima direzione. Egli
disse che la sopravvivenza di un nucleo umano tra la morte e la resurrezione è
dovuta ad un intervento speciale dello Spirito di Dio. «Lo Spirito Santo è un dono
che non si può perdere con la morte»54. Per Cullmann quel che perdura nella
morte è lo Spirito Santo in quanto tale. Ma cosa rimane dell’uomo stesso? La diffi-
coltà sorge qui in particolare nei confronti della sopravvivenza ed immortalità di
chi è dannato. Se lo Spirito Santo non è presente nella sua vita al momento della
morte, come si può dire che egli sopravviva? O tutti sono salvati dalla potenza
dello Spirito Santo, una posizione che diversi autori approvano, oppure i condan-
nati sono annullati, una posizione assunta da altri autori che condividono la visio-
ne di Cullmann55, ma indubbiamente problematica, come abbiamo già visto56.
La posizione assunta dagli autori protestanti risponde anche al fatto che la
teologia protestante nella sua interezza è stata portata a riferire l’escatologia inte-
ramente al futuro, in particolare alla fine del mondo57. Inoltre, il modo in cui gli
hanno presentato il problema suggerisce che quel che potrebbe esser definito un
“deficit metafisico”, per il fatto che essi non danno sufficiente peso alla persona
umana creata in quanto tale, come essere creato spirituale, distinguibile dall’ope-
rare immediato della grazia e del peccato58. In effetti, la teologia protestante tende
a prestare attenzione alla persona esclusivamente nel contesto della salvezza59.
Lutero stesso disse che fides facit personam60, “la fede fa la persona”. Emil Brunner
a sua volta disse che essere una persona emerge nel fatto stesso di rispondere alla

53
Per una critica dell’atemporalismo, si veda W. Künneth, Theologie der Auferstehung, Claudius,
München 1951, 230-5. Secondo Cullmann, Immortalité de l’âme, 66s., e Ahlbrecht, Tod und
Unsterblichkeit, 139ss., l’atemporalismo si fonda non sulla Scrittura ma su una dubbia filosofia.
54
O. Cullmann, Immortalité de l’âme, 75.
55
Per esempio, P. H. Menoud, Le sort des trépassés, 79.
56
Si vedano le pp. 261s sopra.
57
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 226.
58
La dottrina della morte totale (Ganztod) trova un certo precedente in una dottrina chiamata
“thnetosiquismo”, insegnata da alcuni autori arabi dei primi secoli dopo Cristo, secondo Eusebio
di Cesarea: Hist. Eccl. 6,37. Secondo loro, ci dice Eusebio, con la morte «l’anima umana muore nel
momento supremo insieme al corpo, e si corrompe con esso, ma tornerà alla vita, con il corpo, un
giorno, al momento della resurrezione» ibid.
59
Su questo argomento, si veda l’opera di H. Mühlen, Das Vorverständnis von Person und die
evangelisch-katholische Differenz. Zum Problem der theologischen Denkform, Münster, Aschendorff
1965 e gli studi di C. Morerod, La philosophie dans le dialogue catholique-luthérien, «Freiburger
Zeitschrift für Philosophie und Theologie» 44 (1997) 219-40; Œcuménisme et philosophie:
questions philosophiques pour renouveler le dialogue, Parole et silence, Paris 2004.
60
M. Lutero, Zirkulardisputation de veste nuptiali, in WA 39/1,293.

383
Capitolo XI

parola di Dio61. Affermazioni di questo genere tendono facilmente a sottovalutare


la dignità e originarietà create della persona umana, di ciascun uomo62. Altri auto-
ri, come Helmut Thielicke, si resero conto del pericolo della tendenza di ridurre la
persona ad una pura dinamica di fede interpersonale63.

3. La teoria della “resurrezione nel momento della morte”


Mentre l’insistenza sul realismo della Parousia futura è una caratteristi-
ca comune tra gli autori protestanti64, altri come Rudolf Bultmann assumono
una visione differente in materia65. Egli dice apertamente che in ogni occasio-
ne in cui il Nuovo Testamento parla della Parousia o dei suoi equivalenti, non
sta parlando della fine dei tempi, argomento che non ricopre alcun interesse
teologico, ma della thanatos, o morte dell’individuo66. Non c’è fine al tempo,
nel senso classico della parola, ma solo una fine della vita individuale, la morte
delle persone una dopo l’altra. Questa posizione è una diretta applicazione della
concezione di Bultmann della morte di Cristo come il momento in cui la sua
Resurrezione ha avuto luogo.

Lo sviluppo di una teoria.  La concezione di Bultmann della morte e resurrezione


ha influito sul pensiero di alcuni studiosi cattolici67. L’esegeta Anton Vögtle, per
esempio, pensa che il Nuovo Testamento non si occupi dell’idea di una fine del
mondo che abbia luogo per potere di Dio, ma piuttosto della fine di ciascuna vita

61
Si veda E. Brunner, Dogmatique, vol. 2, Labor et fides, Genève 1965, 69. Del medesimo autore,
si veda Wahrheit als Begegnung: sechs Vorlesungen über das christliche Wahrheitsverständnis,
Furche; Zwingli, Berlin; Zürich 1938.
62
Sul “deficit metafisico” in Cullmann, si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 257s.
63
Si veda H. Thielicke, Die Subjekthälftigkeit des Menschen, in L. Scheffczyk (a cura di), Der
Mensch als Bild Gottes, 352-58.
64
Si vede chiaramente nell’opera di W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 605-607, ed anche
in J. Moltmann, L’avvento di Dio, 285ss. Su Moltmann, si veda CAA 50-53.
65
Si vedano le pp. 79s.
66
R. Bultmann, Nuevo Testamento y mitologia, 177s.
67
Si veda per esempio J. M. Hernández Martínez, La asunción de María como paradigma de
escatología cristiana, «Ephemerides Mariologicae» 51 (2000) 249-71; G. Greshake, Auferstehung
im Tod. Ein parteiischer Rückblick auf eine theologische Diskussion, «Theologie und Philosophie»
73 (1998) 538-57; M.-É. Boismard, Faut-il encore parler de ‘résurrection’?; V. M. Fernández,
Inmortalidad, cuerpo y materia. Una esperanza para mi carne, «Aquinas» 78 (2001) 405-37;
G. Gozzelino, ‘Io sono stato conquistato da Cristo’ (Fil 3, 12): il compimento individuale nella
realizzazione del disegno di Dio. Dialettica dell’escatologia individuale con l’escatologia collettiva,
«Annali di Studi Religiosi» 2 (2001) 313-29; F. Brancato, Lo stadio intermedio – Status quaestionis,
«Sacra Doctrina» 47 (2002) 5-80; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 291-336. Altri
riferimenti si possono trovare in G. Gozzelino, Nell’attesa, 468, nota 201.

384
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

umana68. Ugualmente, secondo Gerhard Lohfink, è del tutto accettabile identifi-


care la Parousia con l’incontro che ogni persona farà con Dio alla morte69. Ad un
livello dogmatico, la nozione fu promossa da Ghisbert Greshake, che alla fine degli
anni ’60 iniziò a parlare della resurrezione che avviene nel momento stesso della
morte70. In uno studio scritto in collaborazione con Greshake71, Lohfink dice che
gli uomini sono una cosa sola con il mondo e con la storia, e quando sono presentati
davanti a Dio al momento della morte, il mondo e la storia giungono alla loro fine72.
In questo modo, gli uomini quando muoiono sperimentano in uno e il medesimo
momento il loro eschaton o “fine”, così come l’eschaton o fine del mondo e della
storia in generale. Sembra che la posizione di Lohfink sia connessa alla teoria della
escatologia “conseguente”73. Il fatto che il cristianesimo sia andato avanti e abbia
prosperato a dispetto del fatto che la promessa “fine” imminente non fosse arrivata,
serve solo a mostrare che la sovranità di Dio, resa presente nella Resurrezione, non
ha alcun bisogno di essere manifestata alla fine dei tempi, egli osserva, ma piuttosto
durante la storia, nella morte e resurrezione di ciascuno74.
In termini generali, si può dire che i teologi protestanti prestano più atten-
zione a quel che Dio fa per l’umanità in Cristo, e meno a quello che gli uomini
fanno da sé. Gli studiosi cattolici, al contrario, tendono a prestare più attenzio-
ne alla consistenza ontologica della creazione e degli uomini, prima e dopo la
morte, al realismo della grazia ricevuta in e attraverso l’“ora” della Chiesa, e non
così tanto al promesso, futuro, eschaton. Data, d’altra parte, la dottrina tradizio-
nale cattolica dell’accoglienza della punizione eterna mox post mortem, “subito

68
A. Vögtle, Das Neue Testament und die Zukunft des Kosmos, Patmos, Düsseldorf 1970.
69
G. Lohfink ritiene che la Parousia dovrebbe essere considerata come un incontro di ciascuno al
momento della morte: G. Greshake e G. Lohfink, Naherwartung. Auferstehung. Unsterblichkeit. Si
veda G. Canobbio, Fine o compimento? Considerazioni su un’ipotesi escatologica, in G. Canobbio,
F. Dalla Vecchia, G. P. Montini (a cura di), La fine del tempo, Morcelliana, Brescia 1998, 207-
38, 213. Il messaggio del Nuovo Testamento è un messaggio di salvezza, ritengono Greshake e
Lohfink, e non è di natura scientifica. La posizione di Greshake è vicina a quella di Vögtle.
70
Si veda G. Greshake, Auferstehung der Toten. Ein Beitrag zur gegenwärtigen theologischen
Diskussion über die Zukunft der Geschichte, Ludgerus, Essen 1969. Successivamente, Greshake ha
in qualche modo rettificato la sua posizione: Auferstehung im Tod (1998). Si veda anche L. Boff, A
Ressurreição de Cristo: a nossa ressurreição na morte, Vozes, Petrópolis 1975.
71
Si veda G. Greshake e G. Lohfink, Naherwartung. Auferstehung. Unsterblichkeit.
72
«L’uomo di fatto è un “pezzo” di mondo e storia, e quando si trova di fronte a Dio, il mondo e
la storia raggiungono il loro compimento: alla morte l’uomo sperimenta non solo il suo eschaton,
ma anche l’eschaton della storia in generale» ibid., 72.
73
Si vedano le pp. 73s.
74
Si veda G. Lohfink, Zur Möglichkeit christlicher Naherwartung, in G. Greshake e G. Lohfink,
Naherwartung. Auferstehung. Unsterblichkeit, 38-81, spec. 78-80.

385
Capitolo XI

dopo la morte”75, insieme alla differenza generale dalla nozione di un’anima


immortale separata, è comprensibile che la teoria della “resurrezione al momen-
to della morte” sia stata, per un certo periodo, largamente accettata.
La teoria fu tuttavia considerata nel 1979 dal documento della Congrega-
zione per la Dottrina della Fede sull’escatologia. Il testo centrale recita come
segue: «La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte, di
un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale
che l’“io umano” sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del
suo corpo. Per designare un tale elemento, la Chiesa adopera la parola “anima”,
consacrata dall’uso della S. Scrittura e dalla tradizione»76.
Ugualmente la teoria è stata criticata sia dai protestanti come Wolfhart
Pannenberg77, e cattolici come Juan Alfaro78, Joseph Ratzinger79 e altri80. Si
possono considerare i seguenti cinque argomenti.

Il significato di “resurrezione”. Da un punto di vista strettamente esegetico,


liturgico e storico, la nozione cristiana di “resurrezione”81 può essere riferita a
tre momenti della vita cristiana: il Battesimo, in cui l’uomo muore con Cristo
per risorgere ad una vita di grazia82; al momento presente della conversione
cristiana (Col 3,2; Fil 3,10) e della vita eucaristica (1 Cor 11,26); ed in fine, alla
resurrezione alla fine dei tempi, per il giudizio dei vivi e dei morti83. Quan-

75
Si vedano le pp. 339s.
76
Recentiores episcoporum Synodi, n. 3. Sottolineature aggiunte.
77
Si veda W. Pannenberg, Die Auferstehung Jesu und die Zukunft des Menschen, Minerva,
München 1978, 14-18; Teologia sistematica, vol. 3, 604-607.
78
Si veda J. Alfaro, La resurrección de los muertos en la discusión teológica sobre el porvenir de la
historia, «Gregorianum» 52 (1971) 537-54.
79
Si veda J. Ratzinger, Between Death and Resurrection: Some Supplementary Reflections, appendice
alla traduzione inglese della sua Escatologia: Eschatology. Death and Eternal Life, Catholic
University of America Press, Washington D.C. 1988, 241-60, e Zwischen Tod und Auferstehung,
«Communio (Deutsche Ausg.)» 9 (1980) 209-23.
80
Per una presentazione della posizione di Greshake e Lohfink, e un sunto della critica, si veda G.
Canobbio, Fine o compimento? Si veda anche A. Ziegenaus, Auferstehung im Tod: das geeigneter
Denkmodell?, «Münchener Theologische Zeitschrift» 28 (1977) 109-132, e Katholische Dogmatik,
vol. 8: Die Zukunft der Schöpfung in Gott: Eschatologie, MM, Aachen 1996, 65-135; C. Marucci,
Resurrezione nella morte? Esposizione e critica di una recente proposta, in G. Lorizio (a cura di),
Morte e sopravvivenza, 289-316; il mio studio La muerte y la esperanza, 75-96; G. Gozzelino,
Nell’attesa, 469, nota 199.
81
Sul significato del termine “resurrezione”, si veda G. Greshake e J. Kremer, Resurrectio
Mortuorum, 8-15; M. J. Harris, Raised Immortal. Resurrection and Immortality in the New
Testament, Marshall, Morgan & Scott, London 1986, 269-72.
82
Si veda Rm 6,3-8; 1 Cor 15,29; Col 2,12; 1 Pt 1,3; 3,21; Ap 20,5.
83
Si veda Gv 6; At 24,15; 1 Cor 15,12ss.

386
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

do Paolo scrive ai Romani, egli distingue appositamente, in termini temporali,


tra la morte spirituale e la resurrezione finale. «Se infatti siamo stati intima-
mente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza
della sua resurrezione» (Rm 6,5)84. Dal punto di vista storico ed esegetico non
c’è ragione per affermare che la nozione di “resurrezione” possa essere riferita
precisamente al momento della morte.
Su questo Joseph Ratzinger osserva: «da nessuna parte nell’annunzio pale-
ocristiano la sorte di coloro che muoiono prima della Parusia risulta equiparata
all’evento del tutto particolare della resurrezione di Gesù, il quale consegue dalla
posizione assolutamente unica e ineguagliabile che Gesù occupa nella storia
della salvezza»85. Marcello Bordoni sottolinea che se vogliamo essere coerenti
con la teologia di Paolo, il carattere “sociale” della morte esclude «l’idea di un
processo di resurrezione che si attuerebbe nel corso della storia attraverso tante
risurrezioni individuali di ognuno al momento della morte»86. Walter Kasper
scrive: «sulla base di questa interconnessione tra tutti gli uomini sarà completo
anche come singolo solo quando tutti gli altri saranno giunti insieme con lui al
loro compimento»87. L’esegeta anglicano J. A. T. Robinson in uno studio classico
sul corpo umano datato ben prima della recente controversia dice: «sarebbe un
errore considerare gli scritti di Paolo con l’idea moderna che la resurrezione
corporale sia in qualche modo connessa al momento della morte… In nessu-
na parte del Nuovo Testamento si può trovare una relazione essenziale tra la
resurrezione e il momento della morte. I momenti chiave [della resurrezione
cristiana]… sono il Battesimo e la Parousia»88.

La resurrezione “nel terzo giorno”.  È stato suggerito che quando la Scrittura


parla della resurrezione di Gesù dalla morte “il terzo giorno” (1 Cor 15,4), non
debba esser preso in senso cronologico, ma teologico. L’espressione “il terzo gior-
no”, si è detto, fornisce una espressione plastica del potere e della trascendenza
dell’azione salvifica di Dio, di come Egli stabilisce la sua Sovranità sull’intera

84
I testi usati per giustificare la resurrezione al momento della morte includono: Lc 23,43; Fil
1,23; 2 Cor 5,8; 1 Ts 5,10 e Col 3,1-4. Per quel che sono, comunque, questi testi semplicemente
insegnano che i giusti saranno premiati dopo la morte.
85
J. Ratzinger, Escatologia, 126.
86
M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 251.
87
W. Kasper, La speranza nella venuta finale, 41.
88
J. A. T. Robinson, The Body, 88s. La medesima posizione è sostenuta da F.-X. Durrwell, La
résurrection de Jésus, mystère de salut. Étude biblique, X. Mappus, Le Puy 19542, 300ss, e da J.
Blenkinsopp, Theological Synthesis and Hermeneutic Conclusion, «Concilium (English ed.)» 6
(1970/10) 144-160.

387
Capitolo XI

creazione89. Tuttavia, questa interpretazione dei testi della Scrittura, sebbene


non totalmente errata90, è in qualche modo unilaterale, dal momento che non
riflette a sufficienza la fede cristiana nella resurrezione del Signore. In effetti,
quest’ultima è basata sul “segno essenziale” della tomba vuota91. «Se Gesù fosse
risorto dalla Croce», nota sant’Ireneo nella sua critica della soteriologia gnosti-
ca, «senza alcun dubbio egli avrebbe raggiunto immediatamente il cielo abban-
donando il suo corpo sulla terra»92. E Ratzinger: «il terzo giorno non è una data
“teologica”, ma il giorno di un avvenimento che per i discepoli è diventata la
svolta decisiva dopo la catastrofe della croce»93.
Inoltre, la resurrezione del Signore è celebrata ogni domenica in comme-
morazione del giorno della Pasqua, il terzo giorno dopo la morte di Gesù, e non
il Venerdì Santo (il giorno in cui Gesù è morto), non il Sabato Santo (un giorno
a-liturgico nel Triduo Pasquale che esprime il “silenzio” della discesa di Gesù
negli inferi)94. La Chiesa nella sua liturgia celebra primariamente le azioni di Dio
sulla terra, i magnalia Dei, e non tanto la fede delle persone che queste azio-
ni fanno sorgere. La fede non produce l’evento; piuttosto l’evento, storicamente
inserito da Dio nel tempo creato, crea la fede che è celebrata dalla Chiesa. Difatti,
il Credo della Chiesa apertamente professa che Gesù è risorto “il terzo giorno”.
Lo spostamento al terzo giorno dopo la morte di Gesù non solo delle sue
apparizioni, ma dell’evento della Resurrezione stessa costituisce, di fatto, una
importante fondazione teologica per la possibilità di una escatologia intermedia.
Infatti vediamo che anche nel caso di Cristo, la morte e la Resurrezione non coin-

89
Questa posizione fu difesa in particolare da K. Lehmann, Auferweckt am dritten Tag nach der
Schrift: exegetische und fundamentaltheologische Studien zu 1 Kor. 15, 3b-5, Herder, Freiburg i. B.
19682. G. Greshake, Auferstehung im Tod, 549-552, che prendendo spunto dagli scritti di Adolf
Kopling e Hans Kessler, ritiene che il fondamento teologico per la resurrezione nel momento
della morte è precisamente la dinamica della morte/resurrezione di Gesù. Il “terzo giorno” fa
riferimento alla manifestazione a noi della sua gloria: ibid., 550. Si veda anche G. Greshake e
G. Lohfink, Naherwartung, 141ss.; M. Riebl, Auferstehung Jesu in der Stunde seines Todes?: zur
Botschaft von Mt 27,51b-53, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1978.
90
Nell’Antico Testamento il “terzo giorno” fa spesso riferimento alla realizzazione di un evento
decisivo imminente, sebbene la data esatta dell’evento sia sconosciuta: Gn 22,4; 42,17s; Es 19,10-
11,16; 2 Sm 1,2; 2 Re 20; Est 5,1; Gio 1,17; e specialmente Os 6,1s.
91 Si vedano gli studi di O’Collins e Davis, in S. T. Davis, D. Kendall e G. O’Collins (a cura di), The
Resurrection. Anche CCC 640, 657, e le pp. 121s sopra.
92
Ireneo, Adv. Haer. V, 31,1.
93
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II, 287. Sulla questione si vedano le pp. 286-8.
94
Nel Concilio Vaticano II leggiamo: «Per una tradizione tramandata dagli apostoli, che trae le
sue origini dal giorno stesso della resurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale
ogni settimo giorno, giorno che è adeguatamente chiamato il Giorno del Signore, o Domenica»
Sacrosanctum Concilium, n. 106.

388
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

cidono nel tempo95. Perciò il «realismo della Incarnazione e della Resurrezione


di Cristo esige il realismo della Parousia»96. Christoph Schönborn lo spiega così:
«la prima cosa che noi dobbiamo dire con certezza, a partire dalla resurrezione
di Gesù, per nostra propria resurrezione, è la chiara distinzione di morte e resur-
rezione… È perciò inconciliabile con la fede il ritenere che la resurrezione accada
nella morte… [Questo] va a urtare contro il dato di fatto elementare della depo-
sizione di Gesù nel sepolcro e della “resurrezione il terzo giorno”»97.

Il peso antropologico della resurrezione alla fine dei tempi.  L’idea di resurrezio-
ne al momento stesso della morte non si adatta alla fede e alla speranza in una
resurrezione finale per tutti gli uomini insieme alla fine dei tempi. Come abbia-
mo già visto98, la speranza nella resurrezione dei morti, concepita come una
rivelazione definitiva della gloria dei figli di Dio, nel giudizio universale, l’unica
e definitiva fine dell’umanità, lo scopo e obiettivo proprio della storia umana,
rafforza una antropologia cristiana integrale99, che esprime e difende la libertà,
la storicità, la condizione sociale e la caratteristica corporea degli uomini. Juan
Alfaro dice che i testi apocalittici dimostrano che «l’umanità come comunità
e storia nella sua totalità è sotto la sovranità salvifica di Dio in Cristo»100. Se
non ci fosse una fine assoluta della storia, egli dice, «Dio non sarebbe il Signore
della storia nella sua totalità, ma sarebbe solo sulla strada verso il dominio sulla
storia»101. Secondo Juan Luis Ruiz de la Peña, l’idea di resurrezione al momen-
to della morte implicherebbe semplicemente la privatizzazione dell’eschaton102 .

95
C. Pozo, La teología del más allá, 248ss., nota nel Nuovo Testamento si possono trovare diverse
indizi di escatologia intermedia: per esempio: Lc 16,19-31 (Lazzaro e il ricco); Lc 23,42ss. (il buon
ladrone). Anche Paolo parla dell’essere “con Cristo” dopo la morte, in particolare in 1 Cor 5,1-10.
96
J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 136.
97
C. Schönborn, Resurrezione e reincarnazione, Piemme, Casale Monferrato 1990, 24.
98
Si vedano le pp. 122s.
99
Si vedano le pp. 145s. e C. Ruini, Immortalità e resurrezione, 191.
100
J. Alfaro, La resurrección de los muertos, 550.
101
Ibid., 552. Si può trovare la medesima idea in A. de Giovanni, Escatologia come termine, o come
pienezza? Il problema dell’ultimità della storia, in Aa.vv., Mondo storico ed escatologia, Morcellia-
na, Brescia 1972, 244-9.
102
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 171. G. Canobbio fa riferimento alla
«privatizzazione dell’eschaton e quindi sulla dimenticanza della dimensione cosmica dello stesso.
Questo… aspetto della critica è apparso predominante negli ultimi anni in coincidenza con la
ripresa di interesse per la creazione da parte della teologia e con gli stimoli provenienti dalla
recente cosmologia. La considerazione della dimensione cosmica rischia però di appiattire la fine;
compimento del mondo con la fine; compimento della storia umana. Allo scopo di evitare tale
rischio si è proposto di tener conto del luogo ermeneutico delle asserzioni escatologiche, che è la
dinamica della libertà umana il cui esercizio in vista del compimento è reso possibile dall’apparire
dell’evento Cristo, che costituisce l’evento escatologico» Fine o compimento?, 237s. Egli aggiunge:

389
Capitolo XI

Wolfhart Pannenberg fa notare che con la teoria della resurrezione al momento


della morte «non riusciremmo nemmeno a concepire tale avvenimento in forma
corporea, dove l’individuo attuerebbe pienamente, nel suo rapporto salvifi-
co, a prescindere dal compimento dell’intera umanità. Ma proprio il nesso tra
compimento dell’individuo e del genere umano costituisce un momento essen-
ziale della speranza biblica di futuro»103.

Un ritorno al platonismo.  È interessante notare che le categorie propriamente


platoniche e spiritualizzanti che i difensori di questa teoria desiderano esorciz-
zare, tornano, a dispetto delle loro migliori intenzioni, a oltranza104. Greshake
dice che «la materia in quanto tale non può (in quanto atomi, molecole, organi)
raggiungere la perfezione. Se alla morte la libertà dell’uomo giunge al culmi-
ne, quindi, in quel momento stesso l’uomo è libero per sempre dal corpo, dal
mondo, dalla storia»105. La persona morta/risorta apparterrebbe ora al mondo
invisibile, quello dei puri spiriti; il corpo umano non parteciperebbe più alla
resurrezione. Con questa teoria sarebbe necessario postulare l’idea di due mondi
umani perpetuamente paralleli: quello degli uomini mortali/terreni sulla strada
verso la propria morte/resurrezione, e quello degli uomini già morti/risorti, in
una dualità che non sarà mai pienamente eliminata, perché non ci sarà fine
dei tempi. Inoltre, la dualità antropologica, se perpetuata, può presto o tardi
diventare dualismo (che richiede una duplice origine dell’universo), e facilmen-
te motivare delle spiritualità oltre-mondane106.

«Leggendo il NT si resta colpiti da come, a partire dei frammenti, si sia giunti a pensare a un esito
compiuto del tutto. Al fondo del processo del pensiero neotestamentario non sta una proiezione
del frammento sull’orizzonte (immaginato) del tutto. Sta piuttosto la lettura della realtà parziale
dal versante dell’opera di Dio compiuta in Gesù. L’idea del compimento, che implica una fine
anche di questo mondo, nasce dalla convinzione che la Signoria di Dio abbraccia il tutto, per il
fatto che è di Dio… L’affermazione della fine risulta così un’affermazione teo-logica» ibid., 237.
Egli osserva che Greshake e Lohfink di fatto sono in opposizione con la tendenza della moderna
teologia di recuperare l’integrazione di individui, storia e cosmo nella Parousia. Ed egli conclude:
«sullo sfondo delle posizioni qui richiamate sta una vicenda teologica che, accettando la sfida del
pensiero moderno, ha “preteso” di collocare la persona umana come vertice e ricapitolazione del
cosmo, e ha pensato si dovesse considerare quest’ultimo solo in relazione all’uomo» ibid., 225.
103
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 605.
104
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 156-158.
105
G. Greshake, Auferstehung der Toten, 387.
106
La posizione si può trovare tra i messaliani nel quarto secolo. Secondo le omelie dello Ps.-
Macario, la resurrezione ha luogo al momento della morte, d’accordo con la pratica della preghiera
e della vita ascetica: Hom. 32,1-6. Si veda B. E. Daley, The Hope, 118.

390
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”

La singolarità dell’Assunzione della Madonna.  La teoria della “resurrezione al


momento della morte” implica comunemente una reinterpretazione del dogma
dell’Assunzione della Madonna. La Chiesa insegna che, alla fine del suo soggior-
no terreno, Maria sia stata assunta corpo e anima in cielo107. Alcuni autori
sostengono che la sua situazione non sia sostanzialmente differente da quella
del resto dell’umanità. Come lei, infatti, si è detto che tutti risorgeranno nel
momento della loro morte108. Tuttavia, questa spiegazione non tiene conto del
fatto che sebbene Maria sia giunta alla fine del suo pellegrinaggio terreno come
tutti gli uomini, ella non ha meritato di soffrire la corruzione della morte109,
perché è stata concepita immacolata e non ha mai commesso alcun peccato110.
Papa Paolo VI ha fatto notare la singolarità dell’Assunzione: «Maria è l’unica
creatura umana, insieme con il Signore Gesù, suo Figlio, che è entrata in para-
diso anima e corpo, alla fine della sua vita terrena»111. Il documento del 1979
della Congregazione per la Dottrina della Fede afferma che «la Chiesa, nel suo
insegnamento sulla sorte dell’uomo dopo la sua morte, esclude ogni spiegazione
che toglierebbe il suo senso all’assunzione di Maria in ciò che essa ha di unico,
ossia il fatto che la glorificazione corporea della Vergine è l’anticipazione della
glorificazione riservata a tutti gli altri eletti»112.

4. Verso una concezione giusta dell’anima umana


Dovrebbe esser chiaro ora che la nozione di spirito umano (o anima) che
sopravviva dopo la morte non compromette la dottrina della resurrezione dei
morti. Piuttosto il contrario. In primo luogo perché la dottrina della resurre-
zione finale in assenza di uno spirito sussistente in precedenza non sarebbe più
una re-surrezione, un risorgere di nuovo “dei morti”, “della carne”, “del corpo”,
ma appunto una ri-creazione, letteralmente una nuova creazione113. La ragione

107
Pio XII, Bolla Munificentissimus Deus (1950): DS 3900-4.
108
Questa posizione fu difesa da D. Flanagan, Eschatology and the Assumption, «Concilium
(English ed.)» 5/1 (1969) 153-65; K. Rahner, The Intermediate State, in Theological Investigations,
vol. 17, 114s. L’ipotesi dell’assunzione per tutti fu suggerita anche da O. Karrer, Über unsterbliche
Seele und Auferstehung, «Anima» (1953), 332-36, e ripetuta più recentemente da J. M. Hernández
Martínez, La asunción de María como paradigma de escatología cristiana.
109
Si vedano le pp. 323s.
110
DS 1573, 2800-3.
111
Paolo VI, Udienza La luce di Cristo si trova nel Mistero dell’Assunzione (15.8.1975), in
Insegnamenti di Paolo VI 13 (1975), 849-53, qui 851.
112
Recentiores episcoporum Synodi, n. 6.
113
Si vedano le note 47ss. sopra.

391
Capitolo XI

per cui la prima Chiesa fece appena menzione dell’immortalità dell’anima fu


perché in realtà non era stata negata114. E, secondo, la nozione di una “anima”
naturalmente incorruttibile è accettabile, in un contesto cristiano, quando va
intesa come dono di Dio che lo crea così, spirituale e incorruttibile, e non come
un possesso perpetuo e innato, o come un potere umano provvisto da sé (come
pensavano Fichte e Nietzsche). Terzo, il fatto che l’anima rimarrà pur in qual-
che modo inattiva quando separata dal corpo non pregiudica la sua esistenza
continuata115, tra l’altro perché negli esseri creati l’essenza non si identifica con
l’atto116. Forse, la spiegazione migliore rimane quella di Tommaso: l’anima è per
sua propria essenza “forma del corpo”, anche se temporaneamente non esercita
questa funzione e rimane in uno stato diminuito, sebbene incorruttibile117.

114
J. Ratzinger, Escatologia, 146s.
115
Boros considera che l’idea di Dio che mantiene l’anima separata in essere senza l’attività di
informare il corpo, è bizzarra: L. Boros, Does Life have Meaning, «Concilium (English ed.)»
6/10 (1970) 32. Fino ad un certo punto, questa posizione corrisponde alla visione aristotelica
dell’anima, assunta da Tommaso d’Aquino. Una idea simile si trova nel teologo siriano Narsai: si
veda B. E. Daley, The Hope, 171-4.
116
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 474ss.
117
J. Ratzinger, Escatologia, 161, cita lo studio di A. C. Pegis, Some Reflections on the Summa contra
Gentiles II, 56. Si veda anche G. Gozzelino, Nell’attesa, 475s. Anche la posizione dell’Aquinate è
sostanzialmente assunta da G. Canobbio, Morte e immortalità. Elementi per una considerazione
dell’aspetto dogmatico, «Vivens Homo» 17 (2006) 307-20; Il destino dell’anima, 95-106. P.
Masset, Immortalité de l’âme, Résurrection des corps. Approches philosophiques, «Nouvelle Revue
Théologique» 105 (1983) 321-44, sostiene che la diminuzione dell’uomo realmente significa
amputazione, e così l’anima separata non può sopravvivere. F. Van Steenberghen, Plaidoyer pour
l’âme séparée, «Revue Thomiste» 75 (1987) 630-41, si mostra in disaccordo con Masset.

392
PARTE QUINTA

LA POTENZA E LA LUCE DELLA SPERANZA


Capitolo XII

IL RUOLO CENTRALE DELL’ESCATOLOGIA


CRISTIANA NELLA TEOLOGIA

La parola greca eschaton originariamente significa “fine”, forse anche


“feci”, nel senso più abietto del termine, equivalente in greco probabilmente a
peras. Sotto la potenza salvifica di Cristo e l’impulso della speranza, la teolo-
gia cristiana ha radicalmente trasformato il significato del termine eschaton
in “meta”, “traguardo” (più vicino al greco, telos), cioè, fine ultimo, obiettivo,
vertice o pienezza. Così il fatto che lo studio dell’escatologia cristiana sia tradi-
zionalmente stato collocato come l’ultimo dei dogmi, non significa affatto che
debba essere considerata semplicemente come il termine del percorso, dove
la riflessione cristiana, esaurita, dice la sua ultima parola e finisce. Piuttosto,
l’escatologia serve come il punto di riferimento definitivo da cui contemplare
l’interezza della rivelazione, della teologia, della spiritualità, dell’etica e della
sapienza cristiana. In questo capitolo considereremo brevemente alcuni modi in
cui l’escatologia è decisivamente presente nei principali trattati cristiani e nelle
diverse aree di studio del pensiero.
Molti autori sono dell’opinione che l’escatologia debba occupare un posto
cruciale nella riflessione della fede1. Il luterano Wolfhart Pannenberg parla
dell’«importanza costitutiva dell’escatologia per la stessa riflessione teologica»2.
Il teologo calvinista Karl Barth, usando la terminologia un po’ drastica che
caratterizzava le sue prime opere, dice che «un cristianesimo che non sia total-
mente e completamente escatologico non ha niente a che vedere con Cristo»3.
Il teologo ortodosso John Meyendorff afferma che «l’escatologia non può mai

1
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 79-81.
2
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 558. Il luterano Emil Brunner ha detto: «Una Chiesa
che non ha niente da insegnare sull’eternità futura, non ha niente da insegnare del tutto, ma è
fallita» Das Ewige als Zukunft und Gegenwart, 237.
3
K. Barth, Der Römerbrief, München 19222, 298.

395
Capitolo XII

realmente essere considerata come un capitolo separato della teologia cristiana,


perché qualifica il carattere della teologia come totalità»4. E Joseph Ratzinger
scrive: «l’escatologia si è spostata… al centro della scena teologica»5.
La medesima idea si può trovare al centro della dottrina di Tommaso
d’Aquino, articolata in tre elementi chiave. Primo, l’intera struttura della sua
antropologia ed etica, ci dice, è determinata dal finis ultimus, il fine ultimo6.
Cioè, le “cose ultime” non sono una mera appendice allo studio della teologia,
ma determinano dall’interno ogni aspetto della vita e dell’agire morale dell’uo-
mo, in particolare del credente, e dell’intera Chiesa. Secondo, per l’Aquinate,
il “fine ultimo” è determinato a sua volta dall’opera salvifica di Gesù Cristo7; è
essenzialmente cristologico nel contenuto e nella modalità. È perciò giusto dire
che l’escatologia, sebbene implicitamente, occupa un posto centrale nella sua
teologia. Terzo ed ultimo, la teologia come totalità è subalterna alla conoscenza
che i beati hanno di Dio8. In effetti, la teologia è essenzialmente escatologica nel
suo aspetto apofatico e in quello luminoso.

1. Escatologia e cristologia
Lungo tutto questo trattato, l’escatologia cristiana è stata ampiamente
presentata come applicazione, sviluppo e culmine dell’opera salvifica di Cristo9.
In senso stretto, l’escatologia non si identifica con il processo della salvezza
cristiana. Eppure l’escatologia è criticamente determinata da essa per il fatto che
porta a termine il processo di salvezza con il giudizio e la definitiva separazione
tra santi e peccatori. A sua volta, la vita e l’azione redentrice di Cristo sulla terra
segna un’inizio della divina offerta della misericordia salvifica ad una umanità
decaduta, e di un conto alla rovescia, per così dire, che giungerà ad un termine
definitivo con la Parousia.
Tuttavia, non basta dire che l’intera vita di Cristo, le sue parole ed opere,
sono responsabili della messa in moto del processo di salvezza che culmina nel

4
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 218.
5
J. Ratzinger, Escatologia, 25.
6
Tommaso d’Aquino, S.Th. I, q. 1, a.7.
7
«Quia Salvator noster Dominus Iesus Christus, teste angelo, populum suum salvum faciens a
peccatis eorum, viam veritatis nobis in seipso demonstravit, per quam ad beatitudinem immortalis
vitae resurgendo pervenire possimus, necesse est ut, ad consummationem totius theologici negotii,
post considerationem ultimi finis humanae vitae et virtutum ac vitiorum, de ipso omnium salvatore
ac beneficiis eius humano generi praestitis nostra consideratio subsequatur» S. Th. III, prol.
8
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 1, a. 2, e M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, 227.
9
Si veda in particolare il capitolo II.

396
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia

giudizio10. Piuttosto, si dovrebbe dire che Cristo è il nostro eschaton, o meglio,


eschatos, il fine in persona. Con la venuta di Cristo, l’incarnazione del Figlio
Unigenito, Dio ha detto la sua ultima Parola, e non ha alcuna ragione di “veni-
re” di nuovo all’umanità fino a che egli verrà di nuovo nella gloria. In Cristo, ci
dice Giovanni, la gloria escatologica di Dio è stata definitivamente rivelata (Gv
1,14.18). Secondo i Sinottici, la venuta di Cristo è presentata come la storia della
venuta del regno escatologico di Dio (Lc 10,20)11. Non solo le parole e le opere
di Cristo hanno un significato immediato e pratico per la situazione attuale
degli uomini, ma sono dirette anche al futuro definitivo dell’umanità. È ciò che
si intende con il cosiddetto senso “anagogico” (o finalistico) della Scrittura (il
termine deriva dall’espressione di Agostino di Dacia, quo tendis, anagogia)12. La
cristologia del Nuovo Testamento sin dai primi tempi ha uno stampo profonda-
mente escatologico, centrata sulla resurrezione di Cristo e sul suo ritorno nella
gloria, la Parousia (1 Ts). Ugualmente, la Signoria di Cristo è strettamente legata
alla sua resurrezione (At 2,33s.).
Con tutto, si dovrebbe anche aggiungere che nella persona e nell’opera
di Cristo, l’eschatos, ovvero la pienezza dei tempi, è stata realmente anticipa-
ta. Mentre l’escatologia presente negli scritti profetici dell’Antico Testamento
è indirizzato al futuro (sebbene riferita a questo mondo), in Cristo la fine dei
tempi ha già avuto inizio in modo reale. In termini tecnici, l’escatologia cristia-
na è una escatologia “realizzata”. Perciò è possibile dividere la storia della salvez-
za in tre periodi distinti: il tempo della promessa (Israele, i profeti), il tempo
della pienezza e dell’anticipazione (Cristo e la Chiesa), il tempo del compimen-
to perfetto (Parousia, resurrezione). L’escatologia è “realizzata”, abbiamo detto,
sebbene non del tutto. Infatti la salvezza escatologica cristiana non porta con
sé un trionfo immediato, tangibile e glorioso per i credenti cristiani. Il Regno
di Dio non è ancora pienamente stabilito. Piuttosto la realizzazione della storia
della salvezza assume e segue il ritmo temporale della vita stessa di Cristo: la
sua pazienza, la sua vigilanza, i suoi miracoli, la sua preghiera, le sue parole, e
specialmente la sua morte e resurrezione. In modo specifico, la morte di Cristo
sulla Croce rivela il carattere provvisorio della vita umana e del mondo in cui

10
Si veda M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 44-51.
11
Si vedano le pp. 84s.
12
Si veda il documento della Commissione Biblica Pontificia, L’interpretazione della Bibbia nella
Chiesa (1993), II, B; e il mio studio La Biblia en la configuración de la teología, 873s.

397
Capitolo XII

viviamo13, mentre la resurrezione proclama in forma tangibile la verità dell’im-


mortalità e della gloria promesse da Gesù.
Due ulteriori punti, ampiamente considerati nel corso del testo, andrebbe-
ro tenuti presenti. Primo, Cristo, il Verbo incarnato, è personalmente implicato
nella realizzazione della vita eterna e della resurrezione, della condanna degli
ingiusti, della purificazione dei peccatori e della resurrezione dei morti14. Sono
realtà cristologiche. E, secondo, l’azione di Cristo sui credenti ha luogo tramite
la discesa dello Spirito Santo, che può essere considerato «la causa e la potenza
della speranza»15.
Per riassumere, come Jean Daniélou ha coerentemente spiegato16, se la
Chiesa perdesse la sua escatologia, sarebbe ugualmente costretta a perdere il
suo redentore e Salvatore, Gesù Cristo, e di conseguenza la sua ecclesiologia,
sacramenti, antropologia, etica e spiritualità.

2. Escatologia, ecclesiologia e sacramenti


Il contributo del Concilio Vaticano II all’escatologia, come abbiamo visto, si
situa principalmente17 nella costituzione sulla Chiesa, Lumen gentium18. È logico
che un documento che presta particolare attenzione alla vita della Chiesa, alla
chiamata universale alla santità e alla varietà delle vocazioni e missioni presenti
in essa, finisca con una duplice nota: da una parte, l’oggetto del pellegrinaggio
del popolo di Dio, il cielo (capitolo 7, il cui titolo completo è “Indole escatologica
della Chiesa peregrinante e la sua unione con la Chiesa celeste”); dall’altra, il
supremo modello e obiettivo vivente della fede e della santità cristiane, la Madon-
na (capitolo 8: “La Beata Maria Vergine, Madre di Dio nel Mistero di Cristo e

13
Si veda M. Bordoni, Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, 1: Problemi di metodo, Herder; Pontificia
Università Lateranense, Roma 1982, 207-13.
14
Si vedano ad esempio le pp. 371s.
15
Si veda la p. 57, nota 155.
16
Si veda J. Daniélou, Christologie et eschatologie.
17
Anche la Costituzione Gaudium et spes considera alcune questioni escatologiche, come la morte
(n. 18) e il compimento dell’attività umana attraverso il Mistero Pasquale di Cristo (nn. 38s.).
18
Sull’escatologia della Lumen gentium, si vedano gli studi di N. Camilleri, Natura escatologica
della Chiesa, in A. Favale (a cura di), La costituzione dogmatica sulla Chiesa, Elle di Ci, Leumann
(Torino), 1965, 875-93; A. Molinari, L’indole escatologica della Chiesa, in G. Baraúna (a cura di),
La Chiesa del Vaticano II: studi e commenti intorno alla Costituzione dommatica ‘Lumen gentium’,
Vallecchi, Firenze 1965, 1113-31; G. Philips, L’Église et son mystère au IIe Concile du Vatican:
histoire, texte et commentaire de la constitution Lumen gentium, Desclée, Paris 1967-8, vol. 2, 161-
205; C. Pozo, La teología del más allá, 538-70; L. Sartori, La ‘Lumen gentium’: traccia di studio,
Messaggero, Padova 20032, 103-110; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 52-4.

398
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia

della Chiesa”). La Chiesa è il corpo di Cristo, protetta infallibilmente dal suo


Spirito. Tuttavia, vive come pellegrina nel mondo. Perciò, la Lumen gentium dice,
«la Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta»19.
In effetti, la Chiesa non ha ancora raggiunto la sua perfezione finale e vive, come
dice Agostino, «come una straniera in una terra estranea, fra le persecuzioni
del mondo e le consolazioni di Dio»20. Quindi, prosegue la Lumen gentium, «la
Chiesa, alla quale siamo tutti chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo
della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se non
nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose»21.
Perciò si può dire che l’escatologia è il culmine dell’ecclesiologia22 e dà un signifi-
cato definitivo alla vita della Chiesa e alla sua missione. Se lo scopo ultimo della
salvezza cristiana non fosse la vita eterna e la resurrezione finale, la missione
della Chiesa sarebbe completamente diversa da quel che è.
L’azione sacramentale della Chiesa è l’azione di Cristo stesso, che nella
potenza dello Spirito Santo prepara il popolo pellegrino ad essere con lui per
sempre nella gloria del Padre. La celebrazione di ogni sacramento, perciò, dovreb-
be riflettere questo fatto: Cristo ne è la fonte vivente, Cristo ne è il fine. Non solo i
sacramenti evocano la morte e resurrezione salvifiche di Cristo, non solo celebra-
no l’azione salvifica di Chi «è sempre vivo per intercedere a favore» dei credenti
(Eb 7,25); i sacramenti anticipano anche il glorioso ritorno di Cristo nella gloria.
È così in particolare con la Santa Eucaristia, ma anche degli altri sacramenti23.
Per questa ragione, ci dice Paolo, la Chiesa celebra l’Eucaristia, centro della sua
stessa esistenza, annunciando «la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor
11,26). Autori medioevali come Pietro di Poitiers e Ruperto di Deutz24 presta-
no particolare attenzione all’aspetto escatologico della vita sacramentale. Tradi-
zionalmente, infatti, lo studio sistematico dell’escatologia ha seguito quello dei

19
LG 48c. Si veda il mio studio The Holiness of the Church in “Lumen Gentium”, «Thomist» 52
(1988) 673-701; M. De Salis, Concittadini dei santi e familiari di Dio: studio storico-teologico sulla
santità della Chiesa, Edusc, Roma 2008.
20
Agostino, De Civ. Dei XVIII, 51,2, cit. in LG 8d.
21
LG 48a.
22
La posizione classica a questo riguardo è quella di F. A. Staudenmaier, che nella sua opera
in tre volumi, Die christliche Dogmatik, Herder, Freiburg i. B 1844-48, ritiene che l’escatologia
sia effettivamente una parte dell’ecclesiologia, dal momento che l’ecclesiologia è direttamente
connessa con l’opera salvifica di Cristo, la Redenzione.
23
Si vedano le pp. 285s.
24
Su Pietro di Poitiers, si veda In Sent. libri, V, cap. 1. Su Rupert, si veda W. Kahles, Geschichte als
Liturgie: die Geschichtstheologie des Ruperts von Deutz, Aschendorff, Münster 1960, 7s.

399
Capitolo XII

sacramenti25. Malgrado questa enfasi, ci dice la Lumen gentium, la vita sacra-


mentale della Chiesa come la conosciamo adesso giungerà al termine alla fine dei
tempi: «la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che
appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra
le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospira-
no la manifestazione dei figli di Dio»26.

3. Escatologia ed antropologia
L’interrogativo che gli uomini pongono più insistentemente, sebbene non
sempre più apertamente, fa riferimento al tipo di immortalità, se ce n’è una, che
li aspetta dopo la morte, cioè il loro destino escatologico. Come abbiamo visto,
Dio ha promesso a coloro che gli sono fedeli un premio eterno che consiste nella
unione perpetua con la Trinità, la vita eterna, la visione beatifica, nonché la
perfezione personale e collettiva, sia corporea che spirituale, tramite la resur-
rezione finale. Perciò la promessa escatologica riguarda l’antropologia in modo
decisivo, su tutti i fronti. Rende conto della spiritualità e dell’immortalità degli
uomini, e del loro desiderio dell’infinito; manifesta la loro insostituibile dignità
come persone umane (non avrebbe senso parlare della dignità di ogni uomo se
non vivesse per sempre come individuo); dà significato e profondità alla loro
temporalità e storicità, e spiega perché il soggiorno terrestre può essere conside-
rato come un tempo di prova e verifica; mostra lo scopo della corporeità umana,
dal momento che gli uomini sono destinati a vivere per sempre in una unione di
corpo e anima tramite la resurrezione; rivela la profondità e il potere della libera
volontà, dal momento che possono affrontare le scelte e le possibilità che daran-
no forma al loro destino eterno; spinge la virtù della speranza, nel suo aspetto
umano e divino. In breve, l’antropologia è stimolata, rinnovata e potenziata non
solo dall’antropologia teologica in senso stretto, cioè dalla dottrina della grazia,
ma anche, e forse in modo più essenziale, dall’escatologia, che mette l’uomo di
fronte al suo destino promesso e offre la possibilità di comprendere il significato
della vita nel senso più vasto e ricco possibile27.
Commentando la teologia di Gregorio di Nissa e di Massimo il Confessore,
il teologo ortodosso John Meyendorff parla della potente influenza che la nostra
conoscenza delle cose ultime ha sulla vita umana: «il fine ultimo è esso stesso

25
Si veda C. Pozo, La escatología del más allá, 6-16.
26
LG 48c.
27
Si veda M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 57-63; 82.

400
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia

uno stato dinamico dell’uomo e dell’intera creazione: il fine dell’esistenza crea-


ta non è, come insegnava Origene, una contemplazione statica dell’“essenza”
divina, ma una dinamica ascesa di amore, che non finisce mai, perché l’essen-
za trascendente di Dio è inesauribile, e contiene sempre nuove cose ancora da
scoprire (novissima) attraverso l’unione d’amore»28.

4. Escatologia ed etica
La struttura etica dell’esistenza umana, secondo Tommaso d’Aquino, è
basata sul fine o scopo della vita umana, che egli chiama finis ultimus, il “fine
ultimo”. Infatti, il suo studio della teologia morale (che corrisponde alla seconda
parte della Summa Theologiae) colloca la questione del “fine ultimo” proprio
all’inizio. Di seguito l’Aquinate inizia a riflettere sulla beatitudo, la felicità ed
il compimento umano, che culmina nella visione faccia a faccia di Dio29. Il suo
contributo più sostanziale all’escatologia, quindi, è direttamente legato all’eti-
ca cristiana. Parlando di escatologia nel contesto dell’immortalità dell’anima,
Blaise Pascal ha acutamente osservato: «è vero che la mortalità o l’immortali-
tà dell’anima deve fare una enorme differenza per la moralità. Eppure i filoso-
fi hanno costruito le loro etiche indipendentemente da ciò»30. Lo sforzo etico
dovrebbe essere diretto e determinato dall’esito permanente del progetto di vita
che Dio ha designato per l’insieme dell’umanità (la legge morale), e per quello
di ogni persona (la vocazione). Una escatologia cristiana mirata correttamente,
inoltre, può impedire che la ricerca etica si adagi in un mero consequenzialismo,
unilaterale e mondano. La promessa ultima della vita eterna è, o dovrebbe esse-
re, in grado di dirigere e coordinare la miriade di “fini parziali” di cui ogni vita
umana è fatta. È chiaro, inoltre, che la realtà della divina promessa di salvezza
eterna, accanto alla possibilità dell’eterna dannazione, offre un’indicazione del
valore decisivo della libera azione umana.
La dottrina della resurrezione finale significa, inoltre, che il destino immor-
tale della persona umana si deve comprendere in un contesto strettamente corpo-
rale. Ciò fornisce una solida base per affermare la dignità dell’uomo vivente,

28
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 219.
29
Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, qq. 1-5. Sulla profonda rilevanza dell’escatologia per l’Aquinate,
si vedano i due studi di P. Künzle, Thomas von Aquin und die moderne Eschatologie, «Freiburger
Zeitschrift für Philosophie und Theologie» 8 (1961) 109-20; Die Eschatologie im Gesamtaufbau der
wissenschaftlichen Theologie, «Anima» 20 (1965) 231-38, così come M. L. Lamb, The Eschatology
of St Thomas Aquinas.
30
B. Pascal, Pensées (ed. Brunschvig), n. 219.

401
Capitolo XII

tanto quanto il carattere inviolabile della sessualità umana31. Nello stesso modo,
la caratteristica comunitaria della resurrezione finale e del giudizio serve come
un invito pressante a vivere la carità e la giustizia con gli altri uomini32. Inoltre,
l’orizzonte escatologico di tutti gli insegnamenti cristiani impone una sistema-
tica “riserva escatologica” su tutte le teorie, filosofie politiche e sistemi etici, una
riserva che stabilisce e mantiene la distanza tra la realtà tangibile creata da una
parte, e l’essere e l’azione di Dio, il suo scopo salvifico, dall’altra parte. Infatti,
Dio ha promesso che «occhio non vide, né orecchio udì…» (1 Cor 2,9).

Perché i cristiani dovrebbero perdonare le offese altrui?  Il Vangelo insegna chia-


ramente che i credenti devono perdonare le offese altrui ed evitare ogni forma di
vendicatività e di giudizio sulle persone (Mt 7,1-5). Lo spirito della divina mise-
ricordia deve essere assimilato e vissuto da tutti coloro che credono che essa è
stata definitivamente rivelata in Cristo, in particolare a loro stessi (Mt 6,10). Il
fatto che gli uomini non debbano giudicare non significa ovviamente che Dio
non lo debba fare. Di fatto, significa che solo Dio può giudicare e punire il pecca-
tore in piena giustizia e misericordia, anche al punto di poterlo condannare per
sempre. Per essere fedele a se stesso, alla propria trascendenza e alla sua sovranità
sull’universo, Dio deve assicurare che tutte le cose siano portate o restituite allo
stato che egli aveva pensato e deciso nei loro confronti. Infatti Dio è il Signore
sull’intero Universo, e niente e nessuno può sdegnare le sue leggi e i suoi ordina-
menti. Coloro che lo fanno sono ipso facto esclusi dalla sua amicizia, e dal calore
e dall’accoglienza di un universo creato che ha lo scopo di proclamare sempre ed
in ogni cosa nient’altro che la gloria e la sovranità del suo Creatore.
Perdonare il prossimo, quindi, non implica né l’accettazione dei suoi
peccati, né un tentativo indifferente di minimizzare l’importanza dell’offesa
commessa. L’atto di perdonare non è un segno o un atto di debolezza o codardia.
Piuttosto, perdonare qualcuno costituisce in realtà un vibrante, vivente atto di
fede: di fede, speranza e di richiesta fiduciosa che Dio faccia giustizia: in questa
vita con l’accoglienza da parte del peccatore della grazia che giustifica (spesso
con la collaborazione della testimonianza e dell’apostolato dei cristiani)33; oppu-
re nell’altra vita attraverso la purificazione temporanea o la condanna finale del
peccatore che ostinatamente rifiuta di accettare tale grazia. Perdonare le offese

31
Si veda il mio studio La fórmula “Resurrección de la carne” y su significado para la moral cristiana.
32
Si veda la mia opera La muerte y la esperanza, 97ss., e in particolare l’enciclica del 2009 di
Benedetto XVI, Caritas in veritate.
33
CCC 2843.

402
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia

degli altri significa rinunciare al desiderio e alla pretesa di fare la parte di Dio.
Ma Dio stesso non rinuncerà a questo ruolo.

5. Escatologia e spiritualità
La dinamica della spiritualità cristiana, come quella dell’etica, è determi-
nata dall’orizzonte ultimo della vita umana, cioè, la comunione eterna con la
Trinità e con il resto dell’umanità salvata34. La comunione con la Trinità e la
contemplazione di Dio, faccia a faccia, colma di gioiosa adorazione, è il culmine
di un esteso processo che inizia in questa vita35. In questo senso tutta la spiri-
tualità cristiana è chiaramente escatologica: la vita spirituale punta oltre a sé,
anzi punta oltre la morte stessa.
L’orizzonte essenzialmente escatologico dell’esistenza cristiana è fonda-
mentale per la vita spirituale cristiana da diversi punti di vista. Primo, i creden-
ti devono essere purificati da tutti gli attaccamenti disordinati o idolatrici alle
cose passeggere della vita. Secondo, sono spronati a consolidare uno spirito di
preghiera perseverante che fiorirà gioiosamente come eterno dialogo contempla-
tivo con la Trinità. Terzo, dovrebbero imparare a rispettare le dinamiche natu-
rali della vita sociale, corporea e fisiologica che raggiungeranno il loro compi-
mento alla resurrezione finale. Quarto, devono vivere in comunione fiduciosa,
fraterna, con tutte le persone, con cui sono destinati a condividere la comunione
divina per sempre. E quinto, devono giungere e comprendere il tempo che passa
non come una perdita o un motivo di disperazione, ma come una opportuni-
tà, uno spazio spirituale, per crescere in amicizia con Dio e comunicare la sua
parola e il suo potere salvifico al resto dell’umanità.
Come abbiamo visto nel primo capitolo36, la consistenza spirituale del
messaggio cristiano deve essere dimostrata nel contesto del contrasto che c’è
tra quello che abbiamo chiamato il “premio” e il “prezzo” del cielo: la vita eterna
da una parte, cioè la perpetua comunione con la Trinità, e la morte, la perdi-
ta della vita umana, dall’altra. Al fine di poter accettare l’insegnamento della
Chiesa sull’escatologia, i credenti devono essere in grado di riconciliare, entro la
loro propria esperienza vivente, questi due estremi, accettando la magnanimità

34
Si veda J. L. Illanes, Tratado de teología espiritual, Eunsa, Pamplona 2007, 305-8.
35
Si veda L. Touze (a cura di), La contemplazione cristiana: esperienza e dottrina. Atti del IX
Simposio della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della S. Croce, Roma, Vaticana, Città
del Vaticano 2007.
36
Si vedano le pp. 54s.

403
Capitolo XII

del divino amore che promette agli uomini infinitamente di più di quanto essi
possano sognare di ottenere con i propri sforzi, ma fidandosi nella fedeltà di
Dio che richiede ai suoi figli, ai suoi discepoli, di «lasciare tutto e seguirlo» (Mt
19,27), di lasciare ogni cosa… compresa la vita stessa, che è il supremo dono di
Dio, con la speranza della resurrezione.

404
BIBLIOGRAFIA

Althaus, Paul, Die letzten Dinge, Bertelsmann, Gütersloh 19649.


Alviar, J. José, Escatología, Eunsa, Pamplona 2004.
Ancona, Giovanni, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003.
Biffi, Giacomo, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1984.
Bordoni, Marcello e Ciola, Nicola, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia in prospettiva
trinitaria, Dehoniane, Bologna 20002.
Brunner, Emil, Das Ewige als Zukunft und Gegenwart, Zwingli, Zürich 1953.
Colzani, Gianni, La vita eterna: inferno, purgatorio, paradiso, A. Mondadori, Milano 2001.
Daley, Brian E., The Hope of the Early Church. A Handbook of Patristic Eschatology, Univer-
sity Press, Cambridge 19953.
Daniélou, Jean, Christologie et eschatologie, in Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und
Gegenwart, a cura di A. Grillmeier and H. Bacht, Echter, Würzburg 1954, vol. 3, 269-
86.
Escribano-Alberca, Ignacio, Eschatologie: von der Aufklärung bis zur Gegenwart (Handbuch
der Dogmengeschichte, 4.4.7.4), Herder, Freiburg i. B. 1987.
Gozzelino, Giorgio, Nell’attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana, Elle di
Ci, Leumann (Torino) 1993.
Guardini, Romano, Le cose ultime: la dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo la
morte, la resurrezione, il giudizio e l’eternità, Vita e pensiero, Milano 1997 (orig. Die
letzen Dinge. Die christliche Lehre vom Tode, der Läuterung nach dem Tode, Auferste-
hung, Gericht und Ewigkeit, Matthias Grünewald, Mainz 1940).
Kunz, Erhard, Protestantische Eschatologie: von der Reformation bis zur Aufklärung (Hand-
buch der Dogmengeschichte, 4.7.3.1), Herder, Freiburg i. B. 1980.
Lavatori, Renzo, Il Signore verrà nella gloria, Dehoniane, Bologna 2007.
Moioli, Giovanni L’“Escatologico˝ cristiano. Proposta sistematica, Glossa, Milano 1994.
Moltmann, Jürgen, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1998 (orig.
Das Kommen Gottes. Christliche Eschatologie, Chr. Kaiser/Gütersloher Verlaghaus,
Gütersloh 1995).
Nitrola, Antonio, Trattato di escatologia: vol. 1: Spunti per un pensare escatologico; vol. 2:
Pensare la venuta del Signore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001-2010.
O’Callaghan, Paul, The Christological Assimilation of the Apocalypse: an Essay on Funda-
mental Eschatology, Four Courts, Dublin 2004.
—. La muerte y la esperanza, Palabra, Madrid 2004.
O’Connor, James T., Land of the Living: A Theology of the Last Things, Catholic Books, New
York 1992.
Pannenberg, Wolfhart, Teologia sistematica, vol. 3, Queriniana, Brescia 1996, 553-674 (orig.
Systematische Theologie, vol. 3, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1993).
Pieper, Josef, Tod und Unsterblichkeit, Kösel, München 1968.

405
Bibliografia

Pozo, Cándido, La teologia dell’aldilà, Paoline, Roma 19905 (orig. La teología del más allá,
BAC, Madrid 19923).
Rahner, Karl, Sulla teologia della morte, Morcelliana, Brescia 19723 (orig. Zur Theologie des
Todes. Mit einem Exkurs über das Martyrium, Herder, Basel 1961).
Ratzinger, Joseph, Escatologia. Morte e vita eterna (Piccola Dogmatica Cattolica, 9), Cit-
tadella, Assisi 1979 (orig. Eschatologie - Tod und ewiges Leben, F. Pustet, Regensburg
19784).
Ruiz de la Peña, Juan L., La pascua de la creación, BAC, Madrid 1996.
Scheffczyk, Leo e Ziegenaus, Anton, Katholische Dogmatik, vol. 8: Die Zukunft der Schöp-
fung in Gott: Eschatologie, MM, Aachen 1996.
Schmaus, Michael, Dogmatica cattolica, vol. 4.2: I novissimi, Marietti, Casale Monferrato
1964 (orig. Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, Hüber, München
1959).
Von Balthasar, Hans Urs, I novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia
1967 (orig. Eschatologie in Fragen der Theologie heute, a cura di J. Feiner, J. Trütsch e
F. Böckle, Johannes, Einsiedeln 19582, 403-421).
—. Teodrammatica, 5: L’ultimo atto, Jaca Book, Milano 1985 (orig. Theodramatik 4/2: Das
Endspiel, Johannes, Einsiedeln 1983).

406
INDICE DEI NOMI

Achille: 54 Aristide: 176, 294


Adam, K.: 97, 225 Aristotele: 22, 25, 158-59, 208, 320
Adorno, T. W.: 150, 312 Arndt, W. F.: 17
Agostino di Dacia: 397 Arnoldo di Bonneval: 158
Agostino, Sant’: 14, 23, 28, 39, 44, 57, 83, Arocena, F. M.: 222
94-95, 128-29, 130-32, 136-140, 149, 153, Arroniz, J.: 176, 201
158-59, 180, 184, 188, 191, 193, 203-204, Atanasio, Sant’: 44, 287, 320
206-207, 210, 214, 220-21, 223-25, 229, 234, Atenagora: 127, 131-32, 142
248-49, 260-61, 263, 279, 280, 290-91, 296, Aubineau, M.: 201
301-305, 318, 320, 334, 336-38, 343, 345, Audet, L.: 137
350-55, 357, 369, 372, 399 Aune, D. E.: 76, 95, 100
Ahern, B. M.: 121 Aurelio Prudenzio: 373
Ahlbrecht, A.: 40, 41, 380-81, 383 Austin, J. L.: 35, 37
Aiace: 49 Averroè: 208
Alano di Lille: 359 Avery-Peck, A. J.: 51
Alberigo, G.: 358 Ayán-Calvo, J. J.: 127
Albright, W. F.: 107
Alcuino: 44 Bacht, H.: 12, 405
Aldwinckle, R. F.: 227 Badilita, C.: 294
Alessandro di Hales: 215 Balabanski, V.: 79
Alexander, P. H.: 14 Baraúna, G.: 398
Alexandre, M.: 127, 137 Barbaglio, G.: 36
Alfaro, J.: 233, 386, 389 Bardanes, G.: 358
Alfeche, M.: 128 Bardy, G.: 201
Alfonso Maria di Liguori, San: 249, 311, 368 Barlaam di Calabria: 212
Alfrink, B. J.: 116 Barnard, A. L. W.: 299
Allen, L. C.: 115 Barrientos, U.: 370
Allen, W.: 105 Barth, K.: 41-42, 122, 146, 190, 227, 261, 272,
Allison, D. C.: 73, 82-84, 86, 89, 178 319, 322, 364, 378-79, 381-82, 395
Allo, E. B.: 352 Barton, S. C.: 135
Almarico di Bène: 215, 303 Basilide: 356
Althaus, P.: 126, 272, 300, 304, 322, 361, 364, Basilio, San: 100, 138, 175, 211, 213, 249-50,
378-79, 382, 405 343, 353
Alviar, J. J.: 15, 56, 100, 172, 177, 185, 239, 282, Bauer, W.: 17
289, 325, 348, 405 Baumann, M.: 12
Ambrogio, San: 204, 224, 247, 249, 303, 312- Baur, F. C.: 87
13, 336-37, 343, 345, 352 Bautz, J.: 370
Ambrosiaster: 247, 293 Beasley-Murray, G. R.: 178
Ancona, G.: 15, 44, 146, 158, 186, 201, 325, Beauchamp, P.: 118
331, 405 Beaudouin, L.: 342
Anderson, R. S.: 51 Beck, H.: 108
Andrea di Cesarea: 204 Becker, E.: 51
Angué, J. L.: 129 Becker, H.: 67
Anrich, G.: 356, 358 Becker, J.: 112
Anscombe, G. E. M.: 313 Beda il Venerabile, San: 87, 225
Anselmo, Sant’: 44 Beider, W.: 135
Arendt, H.: 49 Bellarmino, R.: 186, 311, 362-63
Ario: 163, 211, 381 Bels, J.: 325

407
Indice dei nomi

Benedetto XII: 195, 212, 339, 359 Boros, L.: 257, 313, 326-27, 342, 368, 370, 392
Benedetto XVI: 11, 17, 29, 30, 32, 37, 40, 54, Börresen, K. E.: 128
88, 101, 123, 150, 171, 177, 186, 190, 198, Bortone, G.: 111, 113, 173
202, 205, 227, 252, 274, 284, 296, 305-306, Bossuet, J.-B.: 301
309, 313, 351, 367, 372, 376, 388, 402 Botte, B.: 299
Bentley, J.: 143 Bougerol, J.-G.: 360
Berdiaev, N.: 261, 267 Bouillard, H.: 261
Bergamelli, F.: 336 Bourgeois, H.: 97
Bergson, H.: 160, 326 Bourke, J.: 173
Berman, H. J.: 360 Bouyer, L.: 236-37
Bernanos, G.: 239, 258, 261-62, 309 Bovet, T.: 147
Bernardino da Siena, San: 369 Bovon, F.: 40
Bernardo, San: 226, 229, 249, 337, 339 Bovon-Thurneyson, A.: 120
Berruto, A. M.: 301 Boyle, M. O. R.: 299
Bertholet, A.: 107 Braaten, C. E.: 70
Bertola, E.: 46 Brancato, F.: 384
Bessarione di Nicea: 356, 358 Brandes, W.: 301
Betz, O.: 368, 379 Bratsiotis, I.: 357
Beyreuther, E.: 17 Braun, R.: 204
Bianchi, U.: 246 Breuning, W.: 146
Bietenhard, H.: 17, 254 Brisbois, E.: 370
Biffi, G.: 15, 21, 26, 230, 260, 268, 379, 405 Brock, S. L.: 39
Biffi, I.: 66 Brown, C.: 17, 119
Billerbeck, P.: 120 Brown, M.: 132-33, 228
Billot, L.: 68, 143 Brown, R. B.: 97
Bingemer, M. C. L.: 379 Bruaire, C.: 160
Black, M.: 118 Bruce, F. F.: 97
Blasich, G.: 142 Brunner, E.: 77, 96, 261, 272, 322, 379, 382-84,
Bleeker, C. J.: 76 395, 405
Blenkinsopp, J.: 115, 387 Buchberger, M.: 17
Blixen, K.: 279 Bucher, G.: 122
Bloch, E.: 25-26, 32-33, 51, 134, 166-67 Bückers, H.: 118
Block, D. I.: 115 Bukovski, L.: 107
Blomberg, C. L.: 84 Bulgàkov, S. N.: 58, 272, 363
Blondel, M.: 93, 326 Bultmann, R.: 35, 73, 78-82, 134-35, 155, 209,
Böckle, F.: 406 384
Boezio: 206, 227 Burggraf, J.: 222
Boff, L.: 326, 385 Buri, F.: 73, 272, 336
Boismard, M.-É.: 91, 261, 271, 384 Burini, C.: 336
Boliek, L. E.: 126 Burkitt, F. C.: 89
Bonaventura, San: 221-22, 260, 280 Burney, C. F.: 51
Bonhöffer, D.: 33, 55 Bynum, C. W.: 67, 126
Bonitz, H.: 22
Bonnard, E.: 83 Caietano: 43, 216, 327-28
Bonora, A.: 116 Calvino, J.: 233, 361-62
Bonsirven, J.: 120 Camilleri, N.: 398
Bonwetsch, G. N.: 127 Camus, A.: 51
Boobyer, G. H.: 83 Canobbio, G.: 39, 315, 321, 385-86, 389, 392
Bordoni, M.: 15, 56, 136, 153, 259, 272, 299, Capelle, B.: 67
363, 378, 387, 397-98, 400, 405 Carle, J.: 127
Borges, J. L.: 315-16 Carnovale-Guiducci, D.: 370
Bornkamm, G.: 73 Carozzi, C.: 68

408
Indice dei nomi

Cartesio, R.: 43, 133, 198 Cousins, E. W.: 70


Cassiodoro: 44, 138 Couture, A.: 108
Castellucci, E.: 73 Cox, D.: 112
Castillo-Pino, E.: 36 Craig, W. L.: 123
Caterina da Genova, Santa: 366, 369 Cristiani, L.: 360-61
Caterina da Siena, Santa: 264 Croce, V.: 130
Cavallin, H. C. C.: 115 Crossan, J. D.: 77, 123
Cerinto: 299 Crouse, R. D.: 206
Cesario di Arles, San: 204, 352-53 Crouzel, H.: 127, 218, 246, 336, 352
Chadwick, H.: 127 Cruz Cruz, J.: 46
Chapman, D. M.: 364 Cuchet, G.: 362
Charles, R. H.: 107, 117 Cullmann, O.: 40, 76, 77-78, 82, 94, 318, 322,
Charlesworth, J. H.: 107 325, 378, 380-81, 383-84
Chilton, B.: 119 Cumont, F. V.: 52, 129
Chrupcala, L. D.: 282 Curti, C.: 302
Ciccarese, M.: 360
Cicerone: 24, 49-50, 129 D’Alembert, J.: 321
Cilleruelo, L.: 210 Dagens, C.: 94
Cimosa, M.: 173 Dahl, N. A.: 86
Ciola, N.: 15, 56, 136, 272, 297, 363, 378, 387, Dahood, M.: 113
397-98, 400, 405 Daley, B. E.: 14, 27, 44, 85, 93-94, 127-28, 136,
Cipriani, S.: 352 143-44, 175, 203-204, 210, 225, 246-47, 253,
Cipriano, San: 14, 94, 203-204, 210, 224, 230, 260, 274, 296, 299-302, 334, 336, 345, 353,
316, 335, 355 356, 390, 392, 405
Cirillo d’Alessandria, San: 83, 126, 336, 343, Dalla Vecchia, F.: 385
354 Dalmais, I.-H.: 201
Cirillo di Gerusalemme, San: 83, 127, 132, 136, Daniélou, J.: 12, 33, 127, 189, 220, 246-47, 398,
177 405
Clark, D.: 312 Daniels, T.: 71, 298, 304
Clark, R.: 87 Danker, F. W.: 17
Claudio Mamertino: 44 Dante Alighieri: 252, 365
Clayton, P.: 70 Dassmann, E.: 116
Clément, O.: 161 Daube, D.: 65
Clemente d’Alessandria, San: 41, 44, 83, 311, Dauphinais, M.: 188
319-20, 334, 356 Dautzenberg, G.: 118
Clemente Romano, San: 86, 132, 144, 334 David, B.: 188
Cobb, J. B.: 70 Davies, W. D.: 65, 73, 82-84, 86, 178
Cocagnac, A. M.: 67, 190 Davis, S. T.: 123, 388
Coenen, L.: 17, 119, 317 De Beauvoir, S.: 198, 314
Cohn, N.: 298, 304 De Bruyne, L.: 336
Collins, W.: 161 De Carlo, G.: 173
Collopy, B.: 51, 315 De Fuenterrabía, F.: 351
Colzani, G.: 15, 109, 113, 143, 262, 327, 405 De Georges, A.: 107
Commodiano: 299 De Haes, P.: 97
Comte, A.: 304 De Halleux, A.: 358
Congar, Y. M.-J.: 356, 361, 367, 370-72 De Lacunza y Díaz, M.: 304
Conte, N.: 97 De Lavalette, H.: 247
Copleston, F.: 48 De Lubac, H.: 29, 304, 337
Cornehl, P.: 68 De Montherlant, P.: 198
Cornélis, H.: 108 De Salis, M.: 399
Costantino: 300-302 De Unamuno, M.: 47-48, 199, 316
Courtois, S.: 51 De Vrégille, B.: 337

409
Indice dei nomi

Decamps, A. L.: 317 Eno, R. B.: 357


Deiana, G.: 111 Epicuro: 50
Del Cura Elena, S.: 108 Epifanio di Salamina: 136, 302, 336
Delumeau, J.: 67-68, 193, 261 Epimeteo: 27
Denis, F.: 15 Erma: 85, 144, 335
Dennis, T. J.: 127, 137 Erodoto: 49, 50
Denzinger, J.: 17 Errázuriz, C. J.: 216
Derambure, J.: 247, 303 Eschilo: 49, 106
Derrida, J.: 43 Escribano-Alberca, I.: 42, 69, 374, 405
Des Places, E.: 201 Esiodo: 27
Devoti, D.: 144 Eunomio: 211
Dhanis, E.: 121 Euripide: 49
Dianich, S.: 36 Eusebio di Cesarea: 87, 94, 132, 189, 300-301,
Díaz Dorronsoro, R.: 244 303, 383
Diderot, D.: 321 Eutychios: 140
Didimo il Cieco: 213, 247, 273-74 Evagrio Pontico: 233, 247
Dillon, J. M.: 39 Evdokimov, P.: 272, 363-64
Diocleziano: 301, 355
Diogene Laerzio: 50 Fabbri, M. V.: 118
Disley, E.: 230 Faber, F. W.: 369
Dodd, C. H.: 73, 77-79, 82, 91 Fàbrega, V.: 300
Dölger, F. J.: 100 Fabro, C.: 39
Domergue, B.: 318 Favale, P.: 398
Donaldson, T. L.: 85 Feder, A.: 108
Dondeine, H.-F.: 215 Feine, P.: 82
Donne, J.: 148-49 Feiner, J.: 146, 406
Dörries, H.: 301 Feingold, L.: 29
Dosideus: 363 Felici, S.: 336, 353
Dostoevskij, F.: 258 Fénelon, F.: 369
Douie, D.: 339 Fernández, A.: 235
Dreyfus, F. G.: 119 Fernández, V. M.: 384
Ducay, A.: 15 Ferrisi, A.: 128
Duns Scoto, Beato: 43, 218, 366 Festugière, A.-J.: 49
Dupont, J.: 92 Feuerbach, L.: 48
Dupuy, B.-D.: 303 Feuillet, A.: 65, 102, 271, 283
Duquoc, C.: 77 Feuling, D.: 143
Durando di san Porziano: 143 Février, A.: 354
Durrwell, F.-X.: 97, 387 Fichte, J.-G.: 42, 200, 258, 392
Duval, Y.-M.: 127, 137, 140 Fierro, A.: 126, 135
Dykmans, M.: 339 Filone d’Alessandria: 178
Filoramo, G.: 127, 228
Eckhart: 216 Finé, H.: 353
Eckstein, H.-J.: 90-91, 135 Finkelstein, L.: 119
Efrem il Siro, San: 83, 202-203, 295-96, 343, Fischer, J.: 353-54
351, 353 Flanagan, D.: 391
Eger, J.: 300-301 Flew, A. N.: 51
Elert, W.: 379 Florovsky, G.: 78, 246
Eliade, M.: 27 Flusser, D.: 76
Eliot, T. S.: 65, 347 Fontaine, J.: 140, 293
Elkaisy-Friemuth, M.: 39 Forget, J.: 159
Ellis, G. F. R.: 72 Fornberg, T.: 86
Engels, F.: 304 Forte, B.: 202

410
Indice dei nomi

Fortman, E. J.: 347 Giustino, San: 45, 93, 126-27, 131, 144-45,
Foster, D. R.: 46 245, 294, 299, 335, 338
Fozio: 337, 340 Glasson, T. F.: 107
Francesco d’Assisi, San: 369 Gleason, R. W.: 326
Francesco di Sales, San: 264, 269 Glorieux, P.: 326
Frick, R.: 283 Gnilka, J.: 82, 84, 351
Frossard, A.: 198, 375 Goethe, J. W.: 146, 313
Goñi, P.: 128
Gaechter, P.: 87 González de Cardedal, O.: 273
Gagliardi, M.: 88 Gougand, L.: 100
Gaine, S.: 219 Gourgues, M.: 297
Gallas, A.: 339 Gozzelino, G.: 15, 26, 41-42, 110, 130, 143,
Galleni, L.: 161 186, 190-91, 194, 256, 297, 313, 319, 322,
Galot, J.: 302 325, 328, 341-42, 372, 374, 383-84, 386, 392,
Gandavio: 215 405
Garrigou-Lagrange, R.: 370 Granfield, P.: 356
Genicot, L.: 360 Grässer, E.: 73-74, 89
Gerhoh di Richterberg: 311 Greco, C.: 299
Germano di Costantinopoli: 323 Greenberg, M.: 115
Gerson, J.: 311 Greenspoon, L. J.: 116
Gevaert, J.: 47 Gregorio di Elvira, San: 145
Ghini, E.: 293 Gregorio di Nazianzeno, San: 210, 249, 253,
Giblet, J.: 57 336, 368
Giblin, C. H.: 297 Gregorio di Nissa, San: 14, 44, 127, 133, 137-
Gide, A.: 198 38, 141-43, 145, 186, 189, 221, 224, 226, 228,
Gil-i-Ribas, J.: 339 237, 246-47, 263, 273-74, 320, 336, 353, 356-
Gilkey, L.: 70 57, 400
Gill, J.: 358 Gregorio Magno, San: 87, 94-95, 131-32, 140,
Gillespie, J.: 15, 112 212, 223, 231, 255, 293, 296, 311, 327, 336,
Gillet, G.: 142 352-55, 357, 359
Gillet, R.: 140 Gregorio Palamas: 211-12, 220
Gingrich, F. W.: 17 Grelot, P.: 112, 117-18, 274, 317
Gioacchino da Fiore: 303-304 Greshake, G.: 15, 112, 119, 122, 126, 370, 376-
Giovanni Crisostomo, San: 83, 87, 94-95, 100, 77, 384-86, 388, 390
128, 136, 158, 210-11, 228-29, 248-50, 260, Griffin, D. R.: 70
335, 337, 343, 352, 354, 357 Grillmeier, A.: 12, 302, 405
Giovanni Damasceno, San: 283, 327-28 Gross, J.: 201
Giovanni della Croce, San: 23, 171, 180, 369- Grundmann, W.: 84
70 Gry, L.: 298-99
Giovanni Filopono: 143 Guardini, R.: 15, 105, 147-48, 313, 375, 405
Giovanni il Diacono: 94, 95 Guerra, M.: 381
Giovanni Paolo II, Beato: 43, 100-101, 137-38, Guglielmo d’Ockham: 43, 339
147, 168, 263, 266, 271, 305, 323-24, 328, Guidi, A.: 147
369, 375-76 Guitton, J.: 256, 372
Girardi, M.: 175 Gundry, R. H.: 83-84, 122
Girolamo, San: 14, 137, 139, 142, 158, 189, Guntermann, F.: 24
246-47, 249, 253, 267, 293, 302, 304, 334,
336-37, 343, 380 Haag, E.: 115
Giudici, A.: 36 Haeffner, G.: 376
Giuliano di Toledo: 153, 336, 368 Hagner, D. H.: 83, 85-86, 88-89, 178, 180, 231
Giuliano Pomerio: 140 Halpern, B.: 116
Hannam, W.: 206

411
Indice dei nomi

Harris, M. J.: 386 Innocenzo XI: 371


Hartman, L.: 86 Introvigne, M.: 108
Hasel, G. F.: 116 Ireneo di Lione, Sant’: 14, 41, 45, 93-94, 115,
Hattrup, D.: 42, 69, 321 125, 127, 141, 144-45, 154-55, 176, 201, 226,
Hauke, M.: 117, 233, 330 235, 245, 283, 298-300, 302, 336, 338, 388
Hawthorne, G. F.: 76 Irsigler, H.: 101, 173
Hayes, Z.: 15 Iserloh, E.: 247
Hayward, J.: 149 Isidoro di Siviglia, Sant’: 252, 355, 369
Hegel, G. W. F.: 68-70, 150, 304, 341 Izquierdo, C.: 222
Heidegger, M.: 51, 78, 80-81, 311-14, 326
Heidler, F.: 261, 364, 382 Jaeger, W.: 52
Heinzer, F.: 274 James, W.: 35
Heitmann, C.: 58 Jansen, J. F.: 233, 302
Hellemo, G.: 177 Jaspers, K.: 311
Hellholm, D.: 86 Jay, P.: 352, 355
Hengel, M.: 106 Jedin, H.: 362
Henry, M.: 160 Jenks, G. C.: 294
Henry, M.-L.: 126 Jensen, R. M.: 116, 128
Herbert, G.: 311 Jeremias, J.: 78, 86, 96, 117, 287
Hermann, C.: 42, 382 Jodl, F.: 48
Hermann, W.: 71 Johnson, S.: 111
Herms, E.: 321 Jolif, J. F.: 47
Hernández Martínez, J. M.: 384, 391 Jolivet, R.: 80, 326
Herrmann-Mascard, N.: 143 Jorgenson, J.: 358
Hervé, J. M.: 255 Josemaría Escrivá, San: 150-51, 164, 188, 225-
Hettinger, F.: 143 26, 289, 311, 332, 348, 367-68, 371
Hick, J.: 109 Journet, C.: 255, 259, 267
Hiers, R. H.: 73 Jugie, M.: 211-12, 360
Hill, C. E.: 298 Jüngel, E.: 41, 146, 261, 311-22, 324, 379, 381
Hirsch, E.: 71 Jungmann, J. A.: 97, 356
Hjelde, S.: 36
Hoffmann, P.: 24, 112, 317, 380 Kahles, W.: 399
Hoffmann, Y.: 173 Kamlah, W.: 302
Hofmann, G.: 358 Kant, I.: 42, 48, 133, 304, 382
Holböck, F.: 366, 369 Karmirês, I. N.: 357, 364
Hölderlin, F.: 193, 313 Karrer, O.: 391
Hollaz, D.: 375 Käsemann, E.: 73, 77
Holtzmann, H. J.: 87, 356 Kasper, W.: 17, 66, 155, 387
Hopkins, G. M.: 147 Kauffer, R.: 51
Horn, H.-J.: 253 Keating, D. A.: 14
Huftier, M.: 369 Kee, H. C.: 84
Hulsbosch, A.: 380 Kehl, M.: 108
Hunt, S.: 298 Keller, E.: 99
Kellermann, U.: 112, 117
Iacoangeli, R.: 337 Kelly, A. J.: 15
Iammarrone, L.: 46 Kendall, D.: 123, 388
Ignazio d’Antiochia, Sant’: 93, 95, 120, 125, Kerr, F.: 47
149, 198, 245, 335-36 Kessler, H.: 388
Ilario di Poitiers, Sant’: 14, 83, 125, 136, 141- Kierkegaard, S.: 263, 314
42, 189, 235-36, 249, 296, 336, 343, 345 Kittel, G.: 17
Illanes, J. L.: 28, 166, 403 Klock, C.: 127
Innocenzo II: 240 Kloppenburg, B.: 108

412
Indice dei nomi

Kluxen, W.: 39, 46 Leone IX: 41


Knoch, O. B.: 86 Leone Magno, San: 208, 249
Knox, R. A.: 89 Leone X: 360
Knox, W. L.: 127 Leopardi, G.: 26
Kolarcik, M.: 42 Lerner, R. E.: 303
Konstan, D.: 24 Lessing, G. E.: 304
Kopling, A.: 388 Lessius, L.: 259
Korosak, B. J.: 261 Levenson, J. D.: 112, 116
Köster, H.: 321 Levering, M. W.: 188
Kotila, H.: 355 Lévy, I.: 107
Kraner, S. N.: 204 Lewis, C. S.: 132, 139, 158, 205, 253, 258-59
Krause, G.: 106 Libãnio, J.-B.: 379
Kremer, J.: 39, 112, 119, 122, 126, 377, 386 Lichtenberger, H.: 90-91, 135
Kretschmar, G.: 126, 144 Link, H.-G.: 194, 348
Kübler-Ross, E.: 51 Lochet, L.: 334
Kümmel, W. G.: 81 Lods, A.: 110, 351
Kundera, M.: 49 Lohfink, G.: 370, 385, 388, 390
Künneth, W.: 383 Löhrer, M.: 146
Kunz, E.: 40, 360-61, 405 Lohse, E.: 120
Künzi, M.: 83, 87-88 Loisy, A.: 73, 283
Künzle, P.: 401 López, T.: 49
Kvanvig, J. L.: 261 Lorizio, G.: 328, 386
Lortz, J.: 247
Lacan, M. F.: 261 Lossky, V.: 211
Lagrange, M.-J.: 86, 270 Lotzika, I.: 130
Laín Entralgo, P.: 23-24, 27, 379 Lutero, M.: 17, 43, 67, 82, 230-31, 304, 341,
Lakner, F.: 339 360-62, 366, 380, 383
Lamb, M. L.: 14, 132, 149, 188, 206, 396, 401 Lux, R.: 298
Lampe, G. W. H.: 128 Luz, U.: 83-84, 87
Landes, R. A.: 71, 298 Lyons, A.: 161
Landmesser, C.: 90-91, 135
Lang, B.: 193, 199 MacIntyre, A.: 51
Lang, U. M.: 100 MacRae, G. W.: 77
Lanne, E.: 201, 364 Madigan, K.: 112
Lanzetta, S. M.: 241 Maggioni, B.: 85, 90, 92
Larcher, C.: 118 Magris, A.: 144
Larchet, J.-C.: 201, 337, 358, 368 Maimonide: 208
Lattanzio: 44, 94, 132, 299-300, 353 Maldamé, J.-M.: 161
Lavatori, R.: 15, 405 Mâle, E.: 128
Lawrence, N.: 26 Malebranche, N.: 160, 315
Le Boulluec, A.: 127 Malevez, L.: 166, 261
Le Goff, J.: 353, 360, 366 Mann, G.: 273
Le Guillou, M.-J.: 57, 186, 198, 236 Manns, P.: 247
Le Senne, R.: 198 Mansi, J. D.: 155
Leclercq, H.: 355 Mara, M. G.: 302
Leclercq, J.: 99 Marcel, G.: 21-23, 25-26, 32, 38, 51, 105, 134,
Lefebure, G.: 370 148, 167, 225, 309, 326, 380
Lehaut, A.: 260 Marcello di Ancira: 233, 302
Lehmann, K.: 370, 388 Marcione: 156, 283
Lengsfeld, P.: 122 Marco di Efeso (Eugenicus): 358
Lennerz, H.: 218 Marcovich, M.: 127, 132
Léon-Dufour, X.: 123 Maréchal, J.: 326

413
Indice dei nomi

Marguerat, D. L.: 174, 178 Minois, G.: 249


Marsch, W.-D.: 33 Minon, A.: 369
Martelet, G.: 124, 161, 370 Minucio Felice: 132, 145
Martin, C. F. J.: 40 Miranda, A.: 128
Martin-Achard, R.: 110-112, 116-17 Moghila, P.: 363
Martínez y Martínez, E.: 97 Möhler, J. A.: 361
Martini, C. M.: 123 Moioli, G.: 15, 36, 212, 215, 255-56, 259, 261,
Martini, M.: 261 301, 352, 371-72, 405
Marucci, C.: 113, 386 Molina, L.: 249
Marx, K.: 25, 48, 51, 150-51, 304 Molinari, A.: 398
Marxsen, W.: 73 Möller, C.: 25, 49
Mason, A. J.: 353 Moltmann, J.: 33, 298, 300-301, 384, 405
Maspero, G.: 15, 127, 163, 221, 247 Monod, J.: 26-27, 51
Masset, P.: 392 Montini, G. P.: 385
Massimo il Confessore, San: 14, 44, 109, 212, Mooney, C. F.: 161
273-74, 280-81, 356, 400 Moore, M. S.: 116
Mateo-Seco, L. F.: 127, 315, 328, 370 Moraldi, L.: 111, 204, 240
Maurer, A. A.: 46 Morales, J.: 132
Maury, P.: 272, 364 Morerod, C.: 383
Mazzinghi, L.: 318 Moriconi, B.: 370
Mazzucco, C.: 299 Morin, E.: 312
McDannell, C.: 193, 199 Mounier, E.: 273
McGinn, B.: 294, 298 Mühlen, H.: 58, 383
McGrath, A. E.: 193 Müller, G.: 106
McInerny, R.: 208 Müller, G. L.: 364
McNamara, M.: 298 Müller-Goldkuhle, P.: 374
Medina, J. J.: 21 Mundhenk, J.: 39
Meier, J.: 73 Müntzer, T.: 304
Meinertz, M. P.: 288 Murillo-Gómez, J. I.: 315
Melton, J. G.: 12 Mussner, F.: 120, 122-23, 196, 287, 290, 368
Mendelssohn, M.: 42, 313
Menoud, H.: 380, 383 Naab, E.: 339
Merkel, H.: 182 Nachtwei, G.: 42, 381
Merklein, H.: 74 Nadeau, M. T.: 302
Merleau-Ponty, M.: 160 Naldini, M.: 299
Mersch, É.: 161, 326 Nardi, C.: 299
Messori, V.: 266 Narsai: 392
Metodio di Olimpo: 127, 136, 143 Nautin, P.: 125
Metz, J.-B.: 14, 81, 156 Neale, R. E.: 51
Meyendorff, J.: 211, 337, 364, 366, 395-96, Neiman, D.: 246
400-401 Nemeshegyi, P.: 246
Meyer, H. A. W.: 87 Neubaur, I.: 259
Michaelis, W.: 272 Neusner, J.: 51, 119
Michaud, E.: 248, 274 Neville, R. C.: 70
Michel, A.: 143, 246, 248, 253, 268-69, 360, Newman, Beato J. H.: 369
362 Newton, I.: 159
Michl, J.: 352 Nickelsburg, G. W. E.: 118, 381
Migne, J.-P.: 311 Nicolas, M.-J.: 143
Milet, J.: 341 Nietzsche, F.: 48, 200, 251, 257-58, 304, 392
Millán-Puelles, A.: 52 Nitrola, A.: 15, 40, 111-12, 119, 126, 132, 153,
Miller, W.: 304 166, 193, 298, 352, 384, 405
Milton, J.: 55 Noce, C.: 336

414
Indice dei nomi

Nocke, F. J.: 177, 193, 379 Peerbolte, L. J. L.: 294


Nolland, J.: 114 Pegis, A. C.: 46, 392
Norelli, E.: 299 Péguy, C.: 11, 148, 153, 273
Notker, San: 311 Pellistrandi, S.: 140
Novaziano: 247 Pérez de Laborda, M.: 163
Nowack, W.: 357 Pericle: 50
Ntedika, J.: 97, 352-53 Perrin, J.-M.: 261
Perrot, C.: 65
O’Brien, E.: 350 Peters, F. J.: 312
O’Callaghan, P.: 12, 17, 22, 25-26, 34, 37-40, Petit, L.: 358
43-44, 46, 51-52, 56, 72, 77, 81, 88, 90, 105, Petrà, B.: 41
109, 119, 121, 126, 132, 134, 141, 144, 146, Pfleiderer, O.: 87
160, 162, 164, 167, 175, 181, 188, 195, 216- Philippe de la Trinité: 370
17, 222, 286, 289, 349, 361, 364, 377, 380, Philips, G.: 398
386, 397, 399, 402, 405 Pieper, J.: 42, 310, 312-13, 320, 326, 382, 405
O’Connor, D.: 26 Pier Damiani, San: 286
O’Connor, F.: 347 Pietrella, E.: 299
O’Connor, J. T.: 15, 146, 224, 405 Pietro Crisologo, San: 147-48, 312
Oepke, A.: 65 Pietro di Poitiers: 399
Omero: 49, 106 Pietro Lombardo: 137, 185, 205, 358-59
Onorio di Autun: 141 Pio X, San: 371
Orbe, A.: 108, 127, 144 Pio XI: 167, 286
Origene: 14, 27, 36, 44, 88, 127, 130, 136-39, Pio XII: 162, 214, 391
142-43, 175, 210, 212, 217-18, 220, 233, 235, Piolanti, A.: 253, 265, 358, 360, 369
240, 244, 246-48, 253-54, 258, 268-69, 272- Pioli, G.: 261
74, 284, 287, 290, 301, 304, 320-21, 336, 352, Pitagora: 108
356-58, 363, 401 Platone: 39, 40-41, 44-45, 47, 52-53, 67, 106,
Orlandi, P. A.: 311 108, 159, 184, 311, 316
Orr, W. F.: 209 Plotino: 67, 227
Ortiz de Urbina, I.: 295 Plummer, A.: 84, 209
Ott, L.: 339 Pohier, J.-M.: 379
Otten, W.: 206 Polanco-Fermandois, R.: 299
Otto von Freising: 301 Policarpo, San: 120, 245, 335-36
Otto, R.: 70, 78, 86, 288 Polkinghorne, J. C.: 72
Pomponazzi, P.: 382
Palazzini, P.: 129 Pons, G.: 14
Pandit, B.: 108 Porfirio: 131
Pani, G.: 299 Possenti, V.: 39
Pannenberg, W.: 14-15, 31, 42, 68-71, 109, Pozo, C.: 15, 33, 41-42, 95, 97, 102, 111-13,
113, 137, 146, 160, 162-63, 172, 177, 182, 118, 122-23, 131, 142, 166-67, 196, 211, 241,
185, 205, 227, 236, 244, 282-83, 321-22, 363, 253, 333-35, 341, 357-58, 378-79, 389, 395-
371, 377, 382, 384, 386, 390, 395, 405 98, 400, 406
Panteghini, G.: 363 Prat, F.: 221
Paolino di Nola: 345 Premm, M.: 259
Paolo VI: 64, 106, 240, 254, 340, 354, 359, 391 Prestige, G. L.: 111
Papia: 299, 300 Prigent, P.: 127
Pascal, B.: 222, 252, 309, 401 Prospero di Aquitania: 204
Paterson, R. W. K.: 47 Pryke, J.: 118
Patrides, C. A.: 298 Ps.-Macario: 390
Patroclo: 49 Puech, É.: 112
Pattaro, G.: 374 Puig, F.: 216
Pavan, V.: 100

415
Indice dei nomi

Quasten, J.: 356 Russell, J. B.: 193, 336


Quint, J.: 216
Quodvultdeus di Cartagine: 204 Sabourin, L.: 84
Sacchi, P.: 42
Rädle, F.: 67 Sachs, J. R.: 218, 261, 274, 334
Rahner, K.: 36, 81, 244, 256, 273-75, 313, 319, Sagnard, F. M. M.: 144
326-27, 379, 391, 406 Salmona, B.: 247
Rahula, W.: 200 Sanders, E.: 73
Ratzinger, J.: 15, 37, 42, 52, 58, 88, 100, 108, Sanz, S.: 15
110-111, 123, 135, 142-43, 177, 185, 255, Saraiva-Martins, J.: 57
275, 282-84, 287, 290-91, 296, 322, 338, 353, Sartori, L.: 398
355-56, 367, 370, 381-82, 386-88, 390, 392, Sartory, G.: 261
396, 406 Sartory, T.: 261
Rego, J.: 15 Sartre, J.-P.: 24, 26-27, 51, 80, 252-53, 258,
Reichenbach, B. R.: 132 314, 326
Reid, J. K. S.: 361 Sassi, L.: 371
Reimarus, S.: 73, 87 Savon, H.: 293
Reinhardt, K.: 371 Sbaffoni, F.: 294
Remberger, F.-X.: 255, 259 Scanziani, F.: 121
Richardson, C. C.: 246 Schäfer, P.: 362
Riebl, M.: 388 Schatkin, M.: 246
Ries, J.: 317 Schattenmann, J.: 348
Riestra, J. A.: 234 Scheeben, M.-J.: 122, 137, 139, 227
Rigaux, B.: 119 Scheffczyk, L.: 46, 108, 155-56, 323, 341, 384,
Rilke, R. M.: 313 406
Ritschl, A.: 71, 321 Scheler, M.: 310-312
Rius-Camps, J.: 246 Schell, H.: 143
Rizzi, A.: 261 Scherer, G.: 312
Robert, A.: 271 Schiewietz, S.: 248, 274
Robertson, A.: 209 Schillebeeckx, E.: 261
Robillard, J. A.: 256 Schiller, F.: 313
Robinson, J. A. T.: 122, 387 Schlatter, A. von: 379
Roguet, A.-M.: 286, 369 Schlegel, J. L.: 130
Rohde, E.: 111 Schleiermacher, F.: 321
Roncaglia, M.: 358 Schlier, H.: 91
Rondeau, M.-J.: 236 Schmaus, M.: 15, 39, 80, 204, 249, 254, 256,
Rondet, H.: 146-47, 256, 259, 326, 370 284-86, 293-94, 375, 406
Rordorf, W.: 100 Schmemann, A.: 150
Rosner, B. S.: 121 Schmidt, B. B.: 51
Rouillard, P.: 224 Schmied, A.: 261
Roulland, P.: 271 Schmithals, W.: 73, 121, 317
Rowley, H. H.: 106 Schmitt, A.: 123
Royo-Marín, A.: 205, 264, 268 Schmitz, E. D.: 222
Rudoni, A.: 369, 374 Schmöle, K.: 357-58
Ruggieri, G.: 339 Schnackenburg, R.: 74, 81
Ruini, C.: 389 Schneider, W.: 172, 196
Ruiz de la Peña, J. L.: 15, 33, 48, 51, 74, 108, Scholarius, G.: 358
117, 122, 126, 136, 157, 176, 228, 255-56, Scholem, G.: 73, 113
262, 266, 274, 326-28, 376, 379, 389, 406 Schönborn, C.: 108-109, 274, 389
Ruiz-Retegui, A.: 49-50, 53, 146 Schönmetzer, A.: 17
Ruperto di Deutz: 399 Schopenhauer, A.: 313
Rusche, H.: 121 Schubert, K.: 118

416
Indice dei nomi

Schulz, S.: 85 Suárez, F.: 249, 257, 363, 366, 368


Schürer, E.: 118 Suchecki, Z.: 129
Schutzeichel, H.: 361 Sullivan, C.: 73
Schwarz, H.: 15 Suso, H.: 311
Schweitzer, A.: 73, 75-79, 81-82, 280 Sutcliffe, E. F.: 117
Sciacca, M. F.: 39 Swete, H. B.: 126, 144, 353
Scoto Eriugena: 215, 257, 272
Segarra, F.: 142 Tabarroni, A.: 339
Sellin, G.: 121 Tábet, M.: 241, 380
Seneca: 309 Talbot, C. H.: 87
Sesboüé, B.: 65, 100, 146, 275, 372 Tanzarella, S.: 299
Severo d’Antiochia: 204 Tanzella-Nitti, G.: 40
Shakespeare, W.: 315 Taviani-Carozzi, H.: 68
Shaw, G. B.: 257 Taylor, C.: 301, 329
Sherwood, P.: 274 Taylor, R. J.: 42
Sicardo di Cremona: 311 Taziano: 45, 109, 142
Sicari, A. M.: 190, 256 Teani, M.: 122
Simone di Tessalonica: 358 Teilhard de Chardin, P.: 146, 161-62, 166, 207,
Simone di Tournai: 359 320
Simonetti, M.: 300 Teixidor, J.: 295
Siniscalco, P.: 127 Temple, W.: 70
Skinner, B. F.: 266 Tenney, M. C.: 76
Smith, C. R.: 299 Teodoreto di Ciro: 139, 178, 211-12, 220
Socino, F.: 261, 321 Teofilatto: 337, 340
Socrate (filosofo): 53, 325, 329 Teofilo d’Antiochia: 41, 142
Socrate (storico): 211 Teresa d’Avila, Santa: 141, 198, 230, 269
Söding, T.: 74 Teresa di Lisieux, Santa: 55, 193, 271, 370
Sofocle: 49, 106 Terrin, A. N.: 299
Solone: 50 Tertulliano: 14, 44-45, 105, 107, 127-28, 130,
Spácil, T.: 357-58 132, 136-37, 144-45, 149, 156, 163, 172, 176-
Spanneut, M.: 94 77, 181, 205, 250, 284, 299-300, 302, 335-36,
Speigl, J.: 312 352-55
Spicq, C.: 234, 352 Thielicke, H.: 41, 126, 379, 381, 384
Spinoza: 42 Thomas, L.-V.: 312
Spira, A.: 127 Thomas, P.: 108
Spiteris, Y.: 364 Tibiletti, C.: 338
St. Hilaire, G.: 47 Ticonio: 303
Stange, C.: 42, 378-79 Tierno Galván, E.: 198
Starkey-Greig, M.: 370 Tillard, J. M.-R.: 100, 285
Staudenmaier, F. A.: 399 Tillich, P.: 364
Stauffer, E.: 283, 353 Timmermann, J.: 93
Stefani, P.: 67 Tipler, F. J.: 72
Stein, E.: 207 Tiranio Ruffino: 144
Stemberger, G.: 119 Tiso, F. V.: 12
Stendhal, K.: 52 Tobin, J.: 311
Stewart, J.: 316 Tödt, H. E.: 33
Stiernon, D.: 358 Tommaso d’Aquino, San: 14, 23-24, 28-29, 39,
Stoeger, W. G.: 159 46-47, 76, 132-33, 135, 137-41, 149, 154-55,
Strack, H. L.: 120 158, 172, 186, 194, 205, 208, 215-16, 219,
Strecker, G.: 84-85 221, 225-28, 230-31, 233-34, 248-50, 252,
Strumìa, A.: 40 255, 257-59, 264-65, 268, 271, 273, 285,
Stuiber, A.: 312, 336, 354 296-97, 314-15, 320-21, 325, 327-32, 342-

417
Indice dei nomi

45, 357-58, 365-67, 369-70, 372, 381, 392, Wagner, H.: 360
396, 401 Wainwright, G.: 97, 124
Tornos, A.: 261 Waldenfels, H.: 108
Torrance, T. F.: 361 Walther, J. A.: 209
Torres-Queiruga, A.: 134, 275 Walz, J. B.: 368
Tournay, R. J.: 113 Weber, H. J.: 108
Touze, L.: 403 Wegscheider, J. A. L.: 42
Trembelas, N.: 364 Wehrt, H.: 160
Treschow, M.: 206 Weinandy, T. G.: 14
Tresmontant, C.: 379 Weiss, J.: 73, 75-77, 80, 82, 93
Triacca, A. M.: 353 Weisse, C. H.: 87
Troeltsch, E.: 375 Wellhausen, J.: 73
Troisfontaines, J.: 326 Wendland, H. D.: 97
Tromp, N. J.: 317 Wendt, H. H.: 71
Trottmann, C.: 339 Werblowsky, R. J. Z.: 76
Trumbower, J. A.: 334 Werner, M.: 73-76, 82
Trütsch, J.: 406 White, T. J.: 233
Tsirpanlis, C. N.: 247 Whitehead, A. N.: 70
Tucidide: 50 Widmer, T.: 15
Wielockx, R.: 233
Ugo di Saint-Cher: 215 Williams, A. N.: 211
Ugo di San Vittore: 137, 154, 215, 221, 223 Williams, D. D.: 70
Ulisse: 49 Williams, P. J.: 121
Winklhofer, A.: 126, 255, 326
Vacant, A.: 17 Winling, R.: 235
Van Bavel, T. J.: 139 Winter, B. W.: 121
Van den Brock, R.: 132 Wissmann, H.: 106
Van der Kwaak, H.: 89 Wittgenstein, L.: 313
Van Steenberghen, F.: 392 Wittreich, J.: 298
Van Unnik, W. C.: 94, 356 Wohlgschaft, H.: 364, 379
Vanni, U.: 92, 297 Wood, A. S.: 127
Vernet, M.: 198 Wordsworth, W.: 155
Vigilanzio: 380 Wright, C. J. H.: 115
Vigilio I: 138, 239 Wright, J. H.: 156
Virgilio: 158 Wright, N. T.: 15, 114
Vittorino di Pettau: 301-302 Wust, P.: 40
Vogel, C.: 355
Vögtle, A.: 384-85 Yarbro-Collins, A.: 298
Voltaire (François-Marie Arouet): 44, 319, Yocum, J.: 14
321 Young, E.: 312
Volz, P.: 120
Von Allmen, J. J.: 380 Zähner, R. C.: 107
Von Balthasar, H. U.: 12, 21, 31, 146, 216, 226, Zedda, S.: 90-92
256, 261, 273-75, 326, 345, 371-72, 379, 406 Zeno di Verona: 345
Von Eijk, T. H. C.: 126, 144 Ziegenaus, A.: 15, 386, 406
Von Harnack, A.: 378 Zimmerli, W.: 115
Von Weizsäcker, E. U.: 160 Zimmermann, B.: 371
Von Wright, G. H.: 313 Zorell, F.: 123
Vonier, A.: 145-46 Zubiri, X.: 379
Vorgrimler, H.: 147 Zuzek, R.: 363
Zwingli, H.: 77, 360-62, 379, 384, 405
Wächter, L.: 110-11, 317

418

Potrebbero piacerti anche