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Teologia Fondamentale e Dogmatica pres- affrontano per la prima volta in forma siste-
so la Pontificia Università della Santa matica lo studio teologico del mistero di Cristo,
Croce. Fa parte della Pontificia Accademia cioè di quelle questioni abitualmente sviluppa-
te nei trattati di cristologia e soteriologia. Si
IL MISTERO DI CRISTO
Teologica Romana ed è Consultore della
tratta, quindi, di un manuale particolarmente
Congregazione per la Dottrina della Fede.
adatto agli studenti delle facoltà ecclesiasti-
IL MISTERO
Tra le numerose pubblicazioni in ambito
che.
teologico e filosofico ricordiamo: Hijos de Il mistero di Cristo, giunto ormai alla terza
Dios en Cristo (1972), Amor a Dios, amor edizione in lingua spagnola e già tradotto in
DI CRISTO
a los hombres (1979), El Marxismo (1980), lingua inglese, nasce come manuale per l’in-
Voltaire: Tratado sobre la tolerancia (1979), segnamento universitario, ma è anche frutto
Teologia fondamentale (1997). di anni di docenza. La diversa provenienza
accademica di suoi tre autori evita il rischio di
Lucas F. Mateo-Seco, professore ordinario un’angolatura eccessivamente particolare in
e direttore del dipartimento di Teologia modo che, pur mantenendo una stretta unità
interna, il libro è frutto di esperienze diverse
Fondamentale e Dogmatica della Facoltà
in ambito accademico.
di Teologia dell’Università di Navarra
L’intenzione degli autori nel dare alla stam-
(Spagna).
Tra i suoi libri e articoli ricordiamo: San
Vicente de Lerins. Tratado en defensa de
Manuale di Cristologia pa questo libro non è solo di offrire un valido
supporto agli studiosi di cristologia, ma anche
di aiutarli a raggiungere quella pienezza della
la antigüedad y universalidad de la fe conoscenza di Cristo espressa da san Paolo
católica (1977), Lutero: la libertad escla- nella Lettera agli Efesini: «Siate in grado di
va (1978, Estudios sobre la cristología de comprendere con tutti i santi quale sia l’am-
San Gregorio de Nisa (1978), Teología de la
liberación (1981), Dimensión umana de la
Fernando Ocáriz - Lucas F. Mateo Seco - José Antonio Riestra piezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità,
e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni
Redención (1983), Dios Uno y Trino (1998). conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pie-
nezza di Dio» (Ef 3,18-19).
José Antonio Riestra, professore ordinario
di Teologia Dogmatica e Vicedecano della
Facoltà di Teologia presso la Pontificia
Università della Santa Croce. È autore di
parecchi libri e articoli, tra cui: La liber-
tad de enseñanza (1977), Karl Marx: Scritti
giovanili (1975), Cristo y la plenitud del
Cuerpo Místico. Estudios sobre la cristología
de Santo Tomás (1985), Algunas cuestiones
de cristología (1993).
€ 30,00
EDUSC
coverRiestra.indd 1 13/02/13 13:31
Collana di manuali a cura della Facoltà di Teologia
della Pontificia Università della Santa Croce
Imprimatur
Vicariato di Roma
15 dicembre 1999
Titolo originale
El misterio de Jesucristo
© Copyright 1991 - Ediciones Universidad de Navarra, S.A. (EUNSA)
Plaza de los Sauces, 1 y 2. Barañain-Pamplona (España)
Copertina: Paola Grossi Gondi - Grafica: Liliana M. Agostinelli
ISBN 978-88-8333-012-4
Fernando Ocáriz - Lucas F. Mateo-Seco - José Antonio Riestra
IL MISTERO DI CRISTO
Manuale di Cristologia
edusc
SOMMARIO
Prefazione 11
Principali abbreviazioni e sigle 17
Cap. II. Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria 65
1. La Parousia avrà mai luogo? 66
1. Il problema antropologico: timore della Parousia 66
2. Le implicazioni filosofiche della Parousia 68
3. La Parousia e la cosmologia scientifica 71
4. Il Nuovo Testamento insegna la Parousia? 73
2. Il realismo della Parousia: la testimonianza della Scrittura 81
1. Prevedendo una imminente Parousia 82
2. L’interpretazione dei testi che si riferiscono alla Parousia 84
3. I primi cristiani e la Parousia 92
3. La Parousia, speranza della Chiesa 96
1. La Parousia nella Scrittura e nella Liturgia 96
7
Sommario
8
Sommario
Bibliografia 405
Indice dei nomi 407
9
PREFAZIONE
Papa Benedetto XVI ha intitolato la sua Enciclica dell’anno 2007 Spe salvi,
“salvi nella speranza”, citando le parole di Paolo nella lettera ai Romani: «nella
speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8,24). La salvezza cristiana è segnata
dalla speranza. Il segreto della fede cristiana è speranza (Eb 11,1). Il contribu-
to più prezioso che il cristianesimo rende all’umanità è speranza. La speranza
rende possibile la crescita, il progresso, la storia, il perdono, la conversione, la
rettifica. Cristo, che parla agli uomini nel suo corpo, la Chiesa, non promet-
te la felicità perfetta o il compimento pieno sulla terra. La fede cristiana non
afferma di risolvere e spiegare qui ed ora i molti problemi e difficoltà presenti
nel mondo. In effetti, come leggiamo nella lettera agli Ebrei (13,14), «non abbia-
mo quaggiù una città stabile». Piuttosto, i cristiani credono che Dio, per mezzo
del suo Figlio Gesù Cristo, abbia offerto all’umanità la salvezza: la salvezza dal
peccato, la salvezza che porta verso l’eterna, amorosa comunione con la Trinità.
Ma la salvezza dal peccato è un processo graduale, laborioso, di tutta la vita. E
la perpetua, consapevole unione con Dio, sebbene totalmente derivante dalla
grazia, richiede una lunga ed ardua purificazione. Chi crede è salvato, certo, ma
non è ancora a salvo; non si è manifestato ancora la sua salvezza. Ecco perché
quando come cristiani diciamo “siamo salvati”, dobbiamo aggiungere, spe salvi,
siamo salvati nella speranza. I cristiani vivono di speranza. E la speranza è ciò
che dà vita, certezza, allegria, leggerezza, perseveranza, spinta; serve come lega-
me vivente tra le altre due virtù teologiche che dominano la vita cristiana: la
fede e la carità1. Perché il Vangelo cristiano, il potere salvifico di Cristo presente
nel mondo, è essenzialmente escatologico.
Lo scopo di questo manuale, Cristo speranza per l’umanità, è duplice.
Primo, intende presentare i principali elementi dell’escatologia cristiana, cioè
il contenuto o oggetto della speranza: la venuta di Gesù Cristo nella gloria alla
1
Charles Péguy paragona la speranza ad una fanciulla che fiduciosamente tiene le mani delle due
sorelle maggiori, che rappresentano la fede e la carità; si veda la sua opera Le porche du mystère de
la deuxième vertu, Gallimard, Paris 1929.
11
Prefazione
fine dei tempi, la resurrezione dai morti, il rinnovamento del cosmo e il giudizio
finale dell’umanità, seguito dalla vita eterna per coloro che sono stati fedeli a
Dio, o dalla sua perdita perpetua per coloro che non lo sono stati. In secondo
luogo, intende considerare lo stimolo della speranza sulla vita presente, come
dovrebbe e come di fatto influenza il comportamento e l’esperienza umani,
come dà forma all’antropologia, all’etica, alla spiritualità. E tutto ciò nel conte-
sto della grande sfida cui tutte le religioni cercano di rispondere: la morte, che
Paolo chiama «l’ultimo nemico» (1 Cor 15,26)2.
In numerosi aspetti si tratta di un opera di struttura classica. Ma molta
acqua è passata nel fiume dell’escatologia nell’ultimo secolo e mezzo, e gli
studiosi delle cose ultime, come Hans Urs von Balthasar ha detto una volta, di
recente hanno dovuto fare gli straordinari3. In ogni caso, desidero porre l’atten-
zione su sei caratteristiche salienti del testo.
Prima e principale, le fondamenta cristologiche di tutta l’escatologia. Cristo
infatti è la nostra speranza (1 Tm 1,1): egli è la via al Padre, ma nella sua persona
è anche la verità, l’oggetto ultimo della fede e la Realtà vivente che gli uomini
dovranno affrontare alla fine del loro pellegrinaggio terreno, e la vita, quella
vita donata da Dio agli uomini e destinata a diventare eterna, perpetua. Nessu-
no può «venire al Padre» né in questa vita né in quella futura, ci dice Gesù,
«se non per mezzo di me» (Gv 14,6). L’escatologia è totalmente condizionata
dalla cristologia. Ne è il complemento interno. Come Jean Daniélou ha mostrato
in modo convincente4, se la Chiesa dovesse perdere la sua escatologia, sarebbe
destinata presto o tardi a perdere il suo redentore e Salvatore, Gesù Cristo, e
di conseguenza la sua ecclesiologia, la sua antropologia, la sua etica e la sua
spiritualità. Gli studi biblici dell’ultimo secolo o giù di lì hanno mostrato, senza
ombra di dubbio, che l’identità, il messaggio e l’opera salvifica di Gesù Cristo
sono profondamente segnati dall’escatologia. Cristo è Colui che dà contenuto
e unità all’intero trattato di escatologia. In particolare, sosterrò che l’escatolo-
gia del Nuovo Testamento offre una rielaborazione cristologica del materiale
apocalittico tradizionale, una tesi che ho sviluppato a lungo altrove5. Cosa ciò
significhi, verrà chiarito nel procedere del testo.
2
Si veda il mio studio Death, con F. V. Tiso, Religions of the World: A Comprehensive Encyclopedia
of Beliefs and Practices, a cura di J. G. Melton e M. Baumann, ABC-CLIO, Santa Barbara (CA)
20102, vol. 2, 866-874.
3
Si veda H. U. von Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia 1967, 31.
4
J. Daniélou, Christologie et eschatologie, in Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und Gegenwart,
a cura di A. Grillmeier e H. Bacht, Echter, Würzburg 1954, vol. 3, 269-86.
5
Si veda la mia opera The Christological Assimilation of the Apocalypse: an Essay on Fundamental
12
Prefazione
Eschatology, Four Courts, Dublin 2004, d’ora in poi abbreviato come CAA.
13
Prefazione
6
L’espressione è di J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969, 113.
7
Per la traslitterazione dei termini greci ed aramaici, ho seguito le regole indicate in P. H.
Alexander et al. (a cura di), The SBL Style Handbook. For Ancient near Eastern, Biblical, and Early
Christian Studies, Hendrickson, Peabody (MA) 1999, 26-29. I titoli degli studi contenenti termini
greci, tuttavia, saranno citati come in originale.
8
Ho fatto un ampio uso di B. E. Daley, The Hope of the Early Church. A Handbook of Patristic
Eschatology, University Press, Cambridge 19953. Si veda anche G. Pons (a cura di), El más allá en
los Padres de la Iglesia, Ciudad Nueva, Madrid 2001.
9
Si veda M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, in Aquinas on Doctrine: a Critical
Introduction, a cura di T. G. Weinandy, D. A. Keating e J. Yocum, T. & T. Clark, London; New
York 2004, 225-40.
14
Prefazione
Una osservazione finale. Penso che con tutta probabilità l’aldilà si dimo-
strerà qualcosa di ben diverso da quel che ho tentato di presentare nelle pagine
seguenti. Il linguaggio umano è povero e goffo nei migliori dei casi, ma ancor
10
In ordine alfabetico degli autori, si veda: J. J. Alviar, Escatología, Eunsa, Pamplona 2004; G. Anco-
na, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003; G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book,
Milano 1984; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia in prospettiva trini-
taria, Dehoniane, Bologna 20002; G. Colzani, La vita eterna: inferno, purgatorio, paradiso, A. Mon-
dadori, Milano 2001; G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana,
Elle di Ci, Leumann (Torino), 1993; G. Greshake, Stärker als der Tod. Zukunft, Tod, Auferstehung,
Himmel, Hölle, Fegfeur, Mainz, M. Grünewald 1976; R. Guardini, Die letzen Dinge. Die christliche
Lehre vom Tode, der Laüterung nach dem Tode, Auferstehung, Gericht und Ewigkeit, Matthias Grü-
newald, Mainz 1940 (trad. it., Le cose ultime: la dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo
la morte, la resurrezione, il giudizio e l’eternità, Vita e pensiero, Milano 1997); Z. Hayes, Visions of
a Future. A Study of Christian Eschatology, M. Glazier, Wilmington, Delaware 1989; R. Lavatori, Il
Signore verrà nella gloria, Dehoniane, Bologna 2007; G. Moioli, L’«Escatologico» cristiano. Proposta
sistematica, Glossa, Milano 1994; A. Nitrola, Trattato di escatologia: vol. 1: Spunti per un pensare
escatologico; vol. 2: Pensare la venuta del Signore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001-2010; J. T.
O’Connor, Land of the Living: A Theology of the Last Things, Catholic Books, New York 1992; W.
Pannenberg, Systematische Theologie, vol. 3, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1993 (trad. it.,
Teologia sistematica, vol. 3, Queriniana, Brescia 1996; i primi due volumi della Teologia sistematica
di Pannenberg furono editati in tedesco nel 1988 e 1991, e in italiano nel 1990 e nel 1994); C. Pozo,
La teología del más allá, BAC, Madrid 19923 (trad. it., La teologia dell’aldilà, Paoline, Roma 19905);
J. Ratzinger, Eschatologie - Tod und ewiges Leben, F. Pustet, Regensburg 19784 (trad. it., Escatolo-
gia. Morte e vita eterna (Piccola Dogmatica Cattolica, 9), Cittadella, Assisi 1979); J. L. Ruiz de la
Peña, La pascua de la creación, BAC, Madrid 1996; M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2:
Von den letzten Dingen (orig., 1948), Hüber, München 1959 (trad. it., I novissimi, Marietti, Casale
Monferrato 19692); H. Schwarz, Eschatology, W. B. Eerdmans, Grand Rapids 2000; A. J. Kelly,
Eschatology and Hope, Orbis Books, Maryknoll, New York 2006; N. T. Wright, Surprised by Hope.
Rethinking Heaven, the Resurrection, and the Mission of the Church, HarperOne, New York 2008;
A. Ziegenaus, Katholische Dogmatik, vol. 8: Die Zukunft der Schöpfung in Gott: Eschatologie, MM,
Aachen 1996.
15
Prefazione
16
PRINCIPALI ABBREVIAZIONI E SIGLE
17
PARTE PRIMA
1
G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, 7.
2
G. Marcel, Homo viator, Aubier-Montaigne, Paris 1944, 68, 79; Etre et avoir, Aubier-Montaigne,
Paris 1935, 117.
3
J. J. Medina, The Science of Thinking Smarter, «Harvard Business Review» (maggio 2008) 51-54, 54.
4
H. U. von Balthasar, Gloria, vol. 7: il nuovo patto, Jaca Book, Milano 1977, 80.
21
Capitolo I
stabile» (13,14). Non di meno, per quanto possa essere transitoria e manchevole
la situazione attuale, l’orizzonte ultimo della vita cristiana non è l’incompletez-
za e la transitorietà, dal momento che, secondo la Scrittura, Dio ha promesso in
Cristo la “vita eterna” a coloro che sono a Lui fedeli, “resurrezione dai morti”
per tutti e ciascuno, “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia”.
Il termine “escatologia” deriva dalla parola greca eschatos, “quel che viene
come ultimo”, “ciò che è alla fine”5. Originariamente, il termine faceva riferi-
mento a quel che è più in basso nella gerarchia dell’essere, proprio al fondo della
materia. Dal punto di vista cristiano, tuttavia, quel che viene alla fine non è la
materia decaduta, la più povera, la più meschina, la più debole, ma piuttosto la
pienezza, la completezza, la soddisfazione perfetta. Così l’escatologia è la scienza
delle “cose ultime”, l’oggetto della promessa divina di cui abbiamo speranza,
perché la speranza fa riferimento al futuro e dirige gli uomini verso i doni che
sono loro offerti. Prima di considerare l’oggetto della promessa cristiana (Parte
II), in questo primo capitolo considereremo brevemente alcuni aspetti della
dinamica della speranza in sé, oltre alle istanze epistemologiche ed ermeneu-
tiche che essa solleva. La questione fondamentale da porsi in questo capitolo è
la seguente: come possiamo accertare la verità delle affermazioni escatologiche
tratte dal Nuovo Testamento, dato che al momento non sono state ancora veri-
ficate? In altre parole, la Chiesa può responsabilmente predicare all’umanità la
promessa della resurrezione finale e della vita eterna?
5
Si veda BDAG 397s., s.v. ἔσχατος.
6
Sulle passioni in Aristotele, si veda Metaph. IV,5, 1010 b33; De mem. et rem. 450 a3; De anima II,
3, 427 b18. Si veda anche H. Bonitz, Index Aristotelicus, Akademische Druck- und Verlaganstalt,
Graz 19552, 555-7 (pathos), 239 (elpis).
7
Su questo punto in Marcel, si veda il mio studio La metafísica de la esperanza y del deseo en
22
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
sa, senza aver mai realmente “sperato” di possederla, cioè, senza esser convinti
della reale possibilità di ottenerla. Di fatto, la speranza aggiunge al desiderio la
convinzione interiore che sia possibile ottenere o possedere l’oggetto desiderato,
a dispetto della difficoltà in merito. In altre parole, il bene desiderato è un bene
assente arduo sebbene possibile. Significativamente, secondo Tommaso d’Aquino,
che ha sviluppato le riflessioni di Aristotele sulle passioni8, anche gli uccelli rapa-
ci ed altri animali sperimentano la passione della speranza9. Questo non dovreb-
be sorprendere. La percezione della preda risveglia l’appetito dell’uccello, che si
muta in speranza in quanto egli investe tutta la sua esperienza, le sue risorse,
energie, agilità e ingegnosità in uno sforzo per conquistare la sua vittima.
Può accadere, ovviamente, che il bene assente, sebbene percepito e deside-
rato, sia considerato semplicemente impossibile da ottenere. In questo caso non
si fa più esperienza della passione della speranza, ma piuttosto di quella della
disperazione. Questo può accadere sia perché il bene desiderato è oggettivamente
inottenibile, sia perché l’esperienza soggettiva accumulata ha prodotto la convin-
zione che ci sia poca o nessuna speranza di avere successo nell’ottenere l’ogget-
to desiderato10. Le passioni della speranza e della disperazione, in altre parole,
dipendono significativamente dalla nostra esperienza passata. È comune ritenere
che la facoltà umana cui la speranza faccia riferimento più direttamente sia quel-
la della memoria11, che integra, calibra e trattiene le esperienze passate, buone o
cattive, e fornisce all’uomo le basi per reagire spontaneamente in modo speran-
zoso (o disperato) di fronte a nuove situazioni. Coloro la cui memoria è larga-
mente dominata da esperienze negative tenderanno alla passione della dispera-
zione, piuttosto che alla speranza, in particolare se le esperienze in questione
hanno avuto luogo lungo un ampio periodo di tempo. Al contrario, coloro le
cui esperienze sono per la maggior parte positive e di breve durata, general-
mente hanno una disposizione speranzosa di fronte alle diverse situazioni che
si trovano davanti. San Tommaso suggerisce che per questa ragione in iuvenibus
Gabriel Marcel, «Anuario Filosófico» 22 (1989) 55-92, in particolare 55-7; 85; 89-92.
8
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 40.
9
Si veda ibid., a. 3.
10
L’Aquinate parla di una existimatio possibilitatis, «una valutazione delle possibilità» ibid., a. 5, c.
11
Sulla nozione di memoria in Agostino, si veda De Trinitate IX-XV e in particolare le Confessiones
X-XI. San Giovanni della Croce tratta della purificazione della memoria per poter sperare nel suo
Subida al Monte Carmelo, in particolare libri 2 e 3. Per una presentazione della loro posizione
sulla speranza, si veda l’opera un po’ datata ma eccellente di P. Laín Entralgo, La espera y la
esperanza. Historia y teoría del esperar humano (orig. 1956), Alianza, Madrid 1984, 56-70 e 115-
131, rispettivamente.
23
Capitolo I
et in ebriosis abundat spes: «i giovani e gli ubriaconi sono forti nella speranza»12,
perché sono inconsapevoli degli ostacoli che possono sorgere nell’ottenimento
del bene arduo che desiderano, o semplicemente non riflettono su di essi.
12
Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 40, a. 6, c.
13
Tuttavia l’Aquinate fa un chiaro riferimento al ruolo della ragione nella dinamica delle passioni
umane: S. Th. I, q. 76, a. 5. Egli conclude che le passioni sono rationales per participationem: S. Th.
I-II, q. 56, a. 4 ad 1.
14
Anche l’Aquinate si occupa della speranza come una virtù, virtù teologica, in S. Th. II-II, q. 17.
15
Si veda P. Laín Entralgo, La espera y la esperanza, 26-33. Nell’interessante opera di D. Konstan,
The Emotions of the Ancient Greeks. Studies in Aristotle and Classical Literature, University of
Toronto Press, Toronto; Buffalo; London 2007, sono considerate molte emozioni e passioni:
amore, paura, gratitudine pietà, gelosia, dolore, invidia, vergogna, ma non la speranza.
16
Forse dallo stoico Cicerone, Post reditum in Senatu 7,9.
17
Si veda F. Guntermann, Die Eschatologie des hlg. Paulus, Aschendorff, Münster 1932, 38.
18
P. Hoffmann, Die Toten in Christus. Eine religionsgeschichtliche und exegetische Untersuchung
zur paulinischen Eschatologie, Aschendorff, Münster 1966, 211.
19
Si veda J.-P. Sartre, L’être e le néant, Gallimard, Paris 1946.
24
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
che mai diventa virtù. Una disposizione simile si può trovare tra coloro che
credono nella dottrina della reincarnazione, nelle sue molteplici forme, sia anti-
che che moderne. In effetti, la reincarnazione imposta la vita futura come una
replica approssimativa di questa, e perciò per niente affatto oggetto di speranza
in quanto tale. Torneremo fra poco sull’argomento20.
Tuttavia, a dispetto delle numerose, sconvolgenti tragedie che hanno
segnato i tempi moderni, forse proprio a causa di queste, l’ultimo secolo dello
scorso millennio è stato, dal punto di vista letterario, filosofico e teologico, un
secolo segnato dalla riflessione sulla speranza21. Vale la pena considerare due
valutazioni filosofiche particolarmente apprezzati sulla speranza, quelle di
Ernst Bloch († 1977) e di Gabriel Marcel († 1973). Non sono le uniche, però sono
stati specialmente influenti.
La riflessione di Ernst Bloch sulla speranza come il “principio” della vita
umana è stata molto influente22, anche tra alcuni teologi. In un tentativo di
rileggere ed “umanizzare” l’antropologia di Karl Marx († 1883) sulla base di
una reinterpretazione di Aristotele, Bloch afferma che la speranza è la sorgente
dell’esistenza e dell’azione umana a tutti i livelli. La speranza è inscritta nella
struttura stessa della materia, del cosmo, del genere umano. Per questo autore,
tuttavia, essa non è diretta né da, né verso nessun tipo di Divinità trascendente,
personale. La speranza non attinge ad alcuna divina promessa. La vitalità proiet-
tata al futuro della materia stessa rende l’esistenza e l’azione di Dio superflue.
La speranza è l’esatta espressione del nocciolo vitale della realtà in evoluzione,
in cui gli uomini giocano un ruolo critico sia come pazienti che come agenti. In
termini reali, tuttavia, gli uomini non sperano realmente in qualcosa (o in qual-
cuno) a parte sé stessi e il mondo. Devono semplicemente lascarsi trascinare dal
processo cosmico, muovendosi verso il futuro sotto l’impulso della speranza.
Si può osservare che, sebbene Bloch parli ampiamente della novità del
futuro (che egli chiama il Novum Ultimum), in termini reali il futuro non
contiene una reale novità per l’umanità. Quel che avrà luogo in futuro è già a
nostra disposizione. Si potrebbe dire che Bloch tenta di mutare la passione della
20
Si veda il cap. III sulla resurrezione.
21
I voll. 3-4 dell’opera in cinque volumi di C. Möller, Littérature du XXème siècle et christianisme,
Casterman, Tournai; Paris 1954, sono di particolare interesse.
22
Si veda in particolare l’opera di Bloch, Il principio speranza, 3 vol., T. Cavallo, Garzanti, Milano
1994. L’originale fu pubblicato come Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1954-59.
Su quest’opera, si veda il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel and Ernst Bloch, «Irish
Theological Quarterly» 55 (1989) 215-39.
25
Capitolo I
speranza in una virtù, con una lettura secolarizzata della storia della salvezza
ebraica e cristiana23. Egli prova, letteralmente, a fare di necessità virtù.
Un’altra concezione interessante e apprezzata della speranza è fornita dal
filosofo personalista cristiano e drammaturgo Gabriel Marcel24. Vividamente,
Marcel dice che «la speranza è il tessuto stesso di cui la nostra anima è fatta»25.
Tuttavia la speranza non è qualcosa che semplicemente “accade” agli uomini in
modo anonimo o collettivo, né può essere identificata con la forza intrinseca che
guida il processo evolutivo. Piuttosto, la speranza nasce dall’apertura dell’uomo
a colui che liberamente gli offre un dono26. Marcel limita la sua descrizione della
dinamica della speranza alla sfera dei rapporti umani, ma – a differenza della
concezione di Bloch – la sua spiegazione si apre facilmente all’esistenza e all’a-
gire di una divinità suprema che dà vita alla speranza. Egli descrive la speranza,
tuttavia, in modo alquanto dialettico, dimostrando scarso interesse alla dina-
mica spontanea del desiderio e della corporalità umane27.
Una riflessione su questi due autori, assai diversi, è istruttiva per diversi
aspetti28, perché dimostra l’esistenza di una tensione perenne ed irrisolta, tra la
speranza diretta ad una divinità trascendente da una parte, e una speranza che
implica fino in fondo il mondo materiale e umano, dall’altra, in altre parole, tra
una speranza motivata teologicamente ed una motivata umanamente.
La speranza, come abbiamo visto, punta al futuro, ad un bene percepi-
to, ma non ancora posseduto. Perché la speranza sia possibile ed umanamente
significativa, perciò, il futuro in questione deve essere concepito come “supe-
riore” nel contenuto rispetto al passato, migliore di quel che si possiede già,
e sebbene “futuro”, deve implicare un bene più grande di quello ora offerto e
disponibile. Diversamente, non ci sarebbe nulla per cui “sperare”. Se si potesse
dimostrare che il futuro promesso o percepito sarà piuttosto inferiore al passa-
to (come suggerito per esempio da Sartre, Monod e Leopardi, tra gli altri)29, la
23
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 237.
24
Si veda in particolare l’opera di Marcel, Homo viator, 37-86; La Structure de l’Espérance, «Dieu
Vivant» 19 (1951) 71-80; Desire and Hope, in N. Lawrence e D. O’Connor (a cura di), Readings in
Existential Phenomenology, Prentice-Hall, New York 1967, 277-285. Si veda anche il mio studio,
già citato, La metafísica de la esperanza y del deseo en Gabriel Marcel.
25
G. Marcel, Desire and Hope, 283.
26
«Alla radice della speranza, letteralmente ci è dato qualcosa» G. Marcel, Homo viator, 80.
27
Si vedano le mie osservazioni sulla riflessione di Marcel in La metafísica de la esperanza y del
deseo en Gabriel Marcel, 75-92.
28
Si veda il mio studio Hope and Freedom in Marcel and Bloch.
29
Chi non crede in Dio (Sartre e Monod per esempio) ammette freddamente la fragilità metafisica
inerente a tutte le cose, e conclude che tutto quel che esiste si muove inesorabilmente verso il nulla.
26
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
speranza svanisce, non assume più alcun ruolo significativo nella vita umana, e
la disperazione sarebbe destinata, presto o tardi a prendere il suo posto.
Similmente, se si potesse dimostrare che il futuro semplicemente rispec-
chia il passato, cioè, che non contiene né più né meno che quel che offre il passa-
to, allora non ci sarebbe più spazio per la speranza di quanto ce ne sarebbe
per la disperazione, e nessuna delle due passioni potrebbe occupare uno spazio
rilevante nella vita umana. Un esempio di quest’ultima concezione è la cosid-
detta dottrina dell’eterno ritorno30, tipica dell’antica Grecia. Qui semplicemente
non c’è posto per la speranza come virtù, cioè per una inclinazione stabile della
volontà mediante la quale gli uomini possono liberamente sviluppare la loro
vera potenzialità. Elpis, il termine greco comunemente usato per la speranza, è
equivalente, al massimo, all’“attendere”31.
Ne Le opere e i giorni di Esiodo, quando Pandora apre il vaso mandato da
Zeus a Epimeteo, ne escono tutti i mali che affliggono l’umanità: malattia, dolo-
re, morte. Tutto quel che resta è la speranza, una vana consolazione per i mortali,
inutile per gli dei32. Perciò si dice che la speranza è “l’ultima a morire”. Ha valore
solo per il fatto di distrarci dal momento presente, dandoci una povera conso-
lazione, una tregua breve ed illusoria dal dolore e dalla sofferenza. Inoltre, essa
appartiene esclusivamente alla sfera umana, non divina. È incerta e ingannevole,
perché è tanto infedele e incostante quanto l’uomo stesso. I greci tentarono di
superare l’ambivalenza della speranza e di contribuire alla qualità del loro futuro
destino facendo ricorso ai sogni, alle previsioni razionali ed ai culti misterici33.
Ma ad ogni buon conto, la descrizione di Paolo dei pagani come di coloro «che
non hanno speranza» (1 Ts 4,13) rimane completamente giustificata.
Alcuni autori gnostici e cristiani ispirati da Origene († 253) ed altri, accet-
tavano tacitamente certi aspetti importanti della dottrina dell’eterno ritorno34.
Ma in genere essa veniva decisamente rifiutata da coloro che credevano nel radi-
Per Sartre, «il nulla si annida nel cuore degli esseri come un verme» L’Être e le néant, 57. La sua
concezione è anche più chiara in contesto psicologico. Egli spiega che la consapevolezza umana
(l’etre-pour-soi) riesce a superare precariamente la mortalità e l’opacità della materia (l’etre-en-
soi), solo per ricadere indietro, alla morte, in un oblio ed una inconsapevolezza totali. Secondo
Monod, l’universo si sta gradatamente raffreddando, e alla fine tornerà alla sua vera essenza, che
è il nulla: Le hasard et la nécessité: essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Seuil,
Paris 1970. Su Leopardi, si veda G. Biffi, Linee di escatologia, 12s.
30
Si veda in particolare l’opera classica di M. Eliade, L’eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975.
31
Si veda P. Laín Entralgo, La espera y la esperanza, 26-33. Si veda BDAG 319s., s.v. ἐλπίς.
32
Si veda Esiodo, Opere e giorni, 43-105.
33
Si veda P. Laín Entralgo, La espera, 29.
34
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 219.
27
Capitolo I
cale nuovo inizio che è il Vangelo, Gesù Cristo35. Con la venuta di Cristo, con
la sua vita, morte e Resurrezione, disse Sant’Agostino († 430), circuitus illi iam
explosi sunt36, gli eterni «cicli sono stati spezzati una volta per tutte».
Quando una passione diviene una virtù. Fin’ora abbiamo parlato della speran-
za dal punto di vista dell’individuo, come una passione. Di fatto, tale passione
appartiene alla struttura dell’individuo il quale, sulla base della passata espe-
rienza e delle capacità presenti, si convince che un certo tipo di bene possa esse-
re ottenuto e posseduto. Questa convinzione spinge l’uomo ad applicare le sue
energie e il suo ingegno nel superare le difficoltà (l’arduum) implicate nell’otte-
nimento del bene desiderato.
Tuttavia, può accadere che il bonum futurum arduum diventi possibile non
solo per l’applicazione delle proprie energie nel superare gli ostacoli incontrati,
ma anche attraverso l’aiuto di altre persone37. La dinamica della passione della
speranza è così modificata ed ampliata tramite la relazione con qualcuno che
contribuisce nel volgere un semplice desiderio in una reale possibilità. Di fatto,
molte cose che sembrano impossibili da ottenere e possedere con il proprio impe-
gno diventano accessibili con l’aiuto di altri. Perciò, le persone che facilitano il
nostro raggiungimento di un bene più grande, diventano oggetti d’amore, benché
forse di un amore “interessato”. Poiché percepiamo che l’amore di coloro che ci
aiutano è duraturo, e la loro disposizione ad aiutarci assidua, costoro possono
diventare, inoltre, oggetto della nostra fede e fiducia. In questo modo, la speranza
cessa di essere una esperienza individuale, e diventa personale – o, meglio, inter-
personale – in quanto una persona impara a sperare in un’altra che è in grado di
aiutarla a trasformare il desiderio iscritto in lui da Dio in una realtà da Dio voluta.
Ma l’interrogativo permane: questa speranza è veramente una virtù, una
stabile inclinazione della volontà che gli uomini dovrebbero coltivare in vista del
proprio sviluppo, del raggiungimento del loro fine ultimo? Da una parte, le natu-
rali limitazioni di coloro che ci possono appoggiare nell’ottenere il nostro fine
ultimo servono come ricordo del fatto che fede e speranza assolute non possono
essere riposte in nessun uomo. Difatti, gli uomini sono spesso inaffidabili, inca-
paci di agire in modo interamente disinteressato. «Maledetto l’uomo che confida
35
J. L. Illanes, Interpretaciones y figuras de la historia, «Analecta Cracoviensia» 25 (1993) 155-68,
mette a fuoco il fatto che, laddove il pensiero cristiano prende distanza da una lettura metafisica
dell’eterno ritorno (il medesimo cosmo e la vita umana che continuamente ritornano), tacitamente
accetta una lettura storiografica (la tendenza alla ricorsività del medesimo tipo di eventi storici).
36
Si veda Agostino, De Civ. Dei XII, 20,4.
37
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 40, a. 7.
28
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
nell’uomo», dice il profeta Geremia (17,5). D’altra parte, gli uomini sono capaci di
aiutare gli altri solo in un modo limitato e temporale. Già l’esperienza ci insegna
che gli uomini aspirano ad un bene molto più grande della loro finitudine, ben
oltre quel che gli altri possono aiutare a raggiungere, e tendono verso l’Assoluto.
Il finito ricerca l’Infinito38, il mortale l’immortalità, la creatura la divinizzazione.
Per questa ragione, una speranza senza riserve in altre persone non sareb-
be totalmente virtuosa, non solo perché gli uomini sono spesso inaffidabili, ma
principalmente perché sono incapaci di provvedere al compimento totale o alla
definitiva realizzazione di coloro che sperano in loro. Cioè, la speranza indirizzata
esclusivamente ad altre persone non sarebbe una virtù, perché non sarebbe ordi-
nata al vero bene della persona. La rivelazione cristiana insegna inequivocabil-
mente che l’umana aspirazione alla felicità infinita può essere soddisfatta solo da
Dio, che ha creato gli uomini. In termini tecnici, la speranza è una virtù solo se è
una “virtù teologale”39. Il profeta Geremia aggiunge: «Benedetto l’uomo che confi-
da nel Signore e il Signore è la sua fiducia» (17,7). San Paolo, scrivendo ai Corinzi,
dice: «se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da
commiserare più di tutti gli uomini» (1 Cor 15,19). E papa Benedetto XVI nella
Spe Salvi scrive: «la grande speranza dei credenti può essere solo in Dio»40.
Lungo la storia, alcuni autori hanno affermato che la speranza, guidata
dal desiderio umano della perfetta felicità e soddisfazione, abbia costituito una
fondamentale forma di alienazione41. Lungi dal rappresentare la vera natura e
il destino dell’umanità, il desiderio della felicità perfetta, senza fine, sarebbe
un vano sforzo, una forma dannosa di proiezione di sé. In realtà, essi dicono,
dovrebbe essere epurata ed eliminata.
Ma il punto chiave, come abbiamo appena visto, è che la speranza è, in
senso stretto, una virtù teologale. È Dio colui che porge all’uomo il dono di una
inclinazione stabile, positiva, tematica, verso il suo fine ultimo, cioè, la virtù
della speranza. Così san Tommaso: «questa inclinazione della volontà che tende
verso il Bene eterno, percepito come possibile per mezzo della grazia, è l’atto
della speranza»42. E Dio è considerato (1) totalmente degno della nostra fiducia,
38
La controversia classica sul cosiddetto “naturale desiderio di vedere Dio” si occupa di questo
argomento. Si veda in particolare H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, Aubier-Montaigne,
Paris 1965; L. Feingold, The Natural Desire to See God according to St. Thomas Aquinas and his
Interpreters, Sapientia Press of Ave Maria University, Ave Maria 20102.
39
Si veda CCC 1817.
40
SS 31.
41
Si vedano le note 131ss, e il testo corrispondente.
42
San Tommaso d’Aquino, In III Sent., D. 26, q. 2, a. 3, sol. 1.
29
Capitolo I
Escatologia come teologia: le basi della speranza. Come abbiamo visto, la speran-
za può essere considerata come una virtù solo per ragioni strettamente teologiche:
il Dio di Gesù Cristo è interamente degno della nostra fiducia, capace di soddi-
sfare i nostri desideri di infinitezza ed immortalità, ed ha effettivamente comu-
nicato la vita divina inviando il suo Figlio come nostro Salvatore. Eppure tutti gli
uomini, credenti e non credenti allo stesso modo, sono consapevoli che la virtù
della speranza non produce immediatamente il risultato sperato dell’unione con
43
Benedetto XVI in SS 7-8 analizza Eb 11,1, che la Vulgata traduce come est autem fides sperandarum
substantia rerum, argumentum non apparentium. Egli spiega che l’oggetto della speranza e della
fede cristiana non è una semplice convinzione nei confronti della fedeltà di Dio o del suo Amore,
come ritiene tradizionalmente la teologia protestante (in questo caso la fede sarebbe uno «star
saldi in ciò che si spera, esser convinti di ciò che non si vede»), ma la sostanza reale della vita di
Dio presente nell’uomo attraverso Cristo: perciò la fede (e con essa la speranza), «non è soltanto
un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa
ci dà qualcosa… una vera presenza» SS 7-8.
44
Ibid., n. 3.
30
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
45
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 566.
46
Si veda ibid., 658-674.
47
Ibid., 567.
48
Ibid.
49
H. U. von Balthasar, Gloria, vol. 7: il nuovo patto, Jaca Book, Milano 1977, 80.
31
Capitolo I
50
Si veda G. Marcel, Desire and Hope, 278.
51
Su questo, si veda il mio El testimonio de Cristo y de los cristianos. Una reflexión sobre el método
teológico, «Scripta Theologica» 38 (2005) 501-68, qui 548-56.
32
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo
trasformava dal di dentro la vita»52.
Speranze ultime e penultime. Abbiamo visto che l’unico oggetto e motivo suffi-
ciente per la speranza cristiana è Dio, che è onnipotente, buono, misericordioso
e fedele alla sua parola. Tuttavia, in termini immediati e soggettivi, la speranza
degli uomini si indirizza in un primo momento ad una presenza inferiore, più
tangibile, quella delle creature, in cui l’amore di Dio si manifesta. I non salvati
possono avvicinarsi a Dio attraverso quelle creature in cui Egli fa sentire la sua
presenza (Mt 5,16), ma, non ancora svezzati dalle loro vie impazienti, peccami-
nose, possono ugualmente trovare in tali creature un ostacolo per avvicinarsi al
loro Creatore. Il mondo creato ci dovrebbe portare a Dio, ma di fatto può non
farlo (Rm 1,18-25). Cristo è venuto a salvare i peccatori (Mt 18,11), ma molti
hanno rifiutato il suo messaggio e la sua Persona, l’Unico in cui la pienezza
della divinità vive corporalmente (Col 2,9), per un amore disordinato alle crea-
ture (Mt 19,22; Lc 12,19). Perciò, senza rendersene conto, le speranze umane
possono prendere il posto di quelle divine, gli idoli il posto di Dio. Dietrich
Bonhöffer († 1945) ha parlato della tendenza endemica lungo tutta la storia a
confondere le speranze “penultime” con quelle “ultime”53. Questo fenomeno è
particolarmente notevole nella cosiddetta “teologia della speranza”54 di Jürgen
Moltmann ed altri, profondamente ispirata al pensiero di Bloch, che suggerisce
che la vera speranza cristiana, basata sul fatto della Resurrezione di Cristo, deve
essere diretta principalmente alla risoluzione dei problemi sociali del mondo55.
La speranza cristiana è basata sulla promessa di Dio; essa vive però entro
la vita degli uomini: essa è teologia ed è antropologia. Ed è ovvio che la speranza
cristiana non è una realtà consolidata nei credenti e completa nei suoi effetti;
essa dà avvio, piuttosto, ad un processo che implica l’uomo nella sua interezza:
52
SS 4.
53
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 193; C. Pozo, La teología del más allá, 155.
54
Secondo H. E. Tödt, Moltmann, nella sua opera Teologia della speranza, tenta di trasferire la
speranza dell’Ultimo al penultimo: H. E. Tödt, Aus einem Brief an Jürgen Moltmann, in W.-D.
Marsch (a cura di), Diskussion über die “Theologie der Hoffnung” von Jürgen Moltmann, Kaiser,
München 1967, 197-200. Tödt spiega che la posizione di Moltmann è inaccettabile da un punto
di vista luterano per il fatto di basarsi sulle “buone opere” e non sulla giustificazione per fede. Per
una ulteriore discussione della teologia della speranza di Moltmann, si veda C. Pozo, La teología
del más allá, 62-78, 150-161.
55
C. Pozo spiega bene questo nel suo saggio, Teología de la esperanza, in J. Daniélou e C. Pozo (a
cura di), Iglesia y secularización, BAC, Madrid 1973, 87-119.
33
Capitolo I
Il contenuto dei testi biblici escatologici. Sul contenuto dei testi escatologici
del Nuovo Testamento, sono state date numerose interpretazioni. Si possono
notare due posizioni estreme, che verranno spiegate più dettagliatamente nel
capitolo secondo.
Da una parte, l’interpretazione puramente apocalittica. Secondo il tenore
letterale del classico corpus apocalittico, il giudizio divino deve farsi presente nel
mondo in un futuro prossimo. Il mondo così come lo conosciamo sarà distrutto,
tutti gli uomini risorgeranno e saranno giudicati dalla potenza di Dio, i giusti
saranno accolti nel suo regno, i peccatori mandati all’eterna dannazione57. Si
considera che la scadenza finale del mondo è già perfettamente definita all’inter-
no del disegno di Dio, e presto sarà stabilito il bene una volta per tutte, eliminato
il male, ed inaugurato un’era nuova e definitiva. Sebbene molti elementi della
visione strettamente apocalittica si possano trovare nell’escatologia del Nuovo
Testamento, la validità di questa lettura è sostanzialmente confutata dal sempli-
56
Questa tematica è sviluppata nel mio studio El testimonio de Cristo y de los cristianos.
57
Per una descrizione dettagliata dell’escatologia apocalittica, si veda CAA 63-102.
34
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
ce fatto, da tutti costatabile, che la fine del mondo non ha di fatto avuto luogo58.
Inoltre, Cristo è venuto principalmente per aprire uno spazio di salvezza per tutti
gli uomini, prima di venire a giudicare l’umanità alla fine dei tempi.
È questa la differenza chiave tra l’escatologia apocalittica e quella neotesta-
mentaria: la prima è incentrata sul giudizio, la seconda sulla salvezza (e, in un
secondo momento, sul giudizio). In aggiunta, l’escatologia puramente apocalit-
tica può esser considerata mancante da un punto di vista antropologico, perché
attribuisce scarsa attenzione al valore e alla dignità dell’individuo, alla coscien-
za morale, alla responsabilità personale, ecc59. La posizione ha i suoi sostenito-
ri contemporanei, per esempio nella letteratura apocalittica popolare, sebbene
molto di meno nell’ambito della teologia accademica60.
D’altra parte, una interpretazione esistenziale dei testi escatologici del
Nuovo Testamento è stata comune lungo la storia, ma in particolare ultima-
mente, ad esempio negli scritti di Rudolf Bultmann61. I testi biblici che parla-
no della fine dei tempi, dell’aldilà, ecc., sono visti come espressioni storicizzate
dell’esperienza presente dell’azione salvifica di Dio, come un imperativo seppur
generico invito alla conversione. I testi escatologici richiamano gli uomini ad
una decisione libera, non-tematica di fede nella totale sovranità di Dio sull’u-
niverso. Sebbene utile dall’ottica antropologica, la posizione è problematica da
molti punti di vista62, principalmente perché trascura l’aspetto futuro, storico,
collettivo e corporeo dell’escatologia cristiana. Tende piuttosto ad una visione
presentista, individualistica e spirituale del compimento finale.
Prendendo spunto dagli scritti del filosofo analitico John L. Austin (†
1960), possiamo applicare il termine “performativo” alla concezione che Bult-
mann ha del linguaggio escatologico. Principalmente nella sua opera degli
anni ’50 How to Do Things with Words63, Austin spiega che non tutte le affer-
mazioni possono essere considerate come semplici asserzioni di verità o falsità,
di quel che è o che sarà. Molte dichiarazioni sono fatte in vista dell’ottenimento
di particolari effetti in coloro che le ascoltano (egli le chiama frasi “performa-
tive”), e non tanto per affermare verità o falsità (queste sono frasi “assertive”
58
Si veda il capitolo II sotto.
59
Si veda CAA 232-56.
60
CAA 1s.
61
Si veda CAA 38-43.
62
Si veda CAA 43ss.
63
Si veda J. L. Austin, How to Do Things with Words: the William James Lectures Delivered at
Harvard University in 1955 (orig. 1962), University Press, Oxford 19892 (trad. it., Quando dire è
fare, Marietti, Torino 1974).
35
Capitolo I
64
Si veda il capitolo VII.
65
Si veda l’attento riassunto di questa posizione in E. Castillo Pino, Los argumentos teológicos sobre
la posibilidad de la condenación eterna en la teología católica del siglo XX, Pontificia Università
della Santa Croce, Rome 2000, passim.
66
Origene, Contra Celsum 5,15; si veda De princip. II, 10,6.
67
«Quel che la Scrittura dice sull’inferno deve essere interpretato tenendo conto del loro carattere
letterario di “discorso-minaccioso”… Le persone sono messe davanti ad una decisione le cui
conseguenze sono irrevocabili» K. Rahner, Hölle, in Sacramentum Mundi, vol. 2, Herder, Basel;
Wein 1968, 735-739, qui 735s.
68
Si vedano le pp. 77ss.
69
Si veda G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 47. La teologia protestante si concentra sull’Eschaton,
in parte a causa del suo pessimismo antropologico: si veda S. Hjelde, Das Eschaton und die Eschata.
Eine Studie über den Sprachgebrauch und die Sprachverwirrung in protestantischen Theologie, von
der Orthodoxie bis zur Gegenwart, Kaiser, München 1987. La teologia ortodossa tende a muoversi
nella medesima direzione, sebbene non a causa di una concezione pessimistica dell’uomo. A.
Giudici lo spiega così: «il problema dell’escatologia si pone in un’alternativa essenziale: o eschaton
o eschata»: Escatologia, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich,
Paoline, Milano 1988, 382-411, qui 400.
36
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
uomini sono destinati. Nel primo caso, prevale una concezione “performativa”
o esistenziale dell’escatologia; nel secondo, piuttosto, quella apocalittica, quel
che Austin ha definito “assertiva”.
Va tenuto presente, tuttavia, che – come lo stesso Austin ha spiegato in
diverse occasioni – l’aspetto performativo e quello assertivo del linguaggio sono
semplicemente inseparabili l’uno dall’altro. Egli conclude che tutte le afferma-
zioni hanno un aspetto “performativo” (anche chiamato “illocutorio”) a cui,
però, non possono essere ridotte70. Anzi, l’aspetto performativo diventa signifi-
cativo solo sulla base della verità o falsità della frase in questione. Cioè, il perfor-
mativo è profondamente connesso all’assertivo. Solo se una affermazione è vera
allora diventa ragionevole per chi l’ascolta modificare la propria vita o le proprie
disposizioni. Per tornare all’esempio menzionato prima, l’affermazione che “i
peccatori impenitenti verranno condannati per sempre” costituirebbe un atto
di violenza gratuita per l’intelligenza dell’uomo, un insulto alla sua dignità, se
venisse dimostrata semplicemente falsa. Come abbiamo visto ora, la credibilità
stessa del messaggio di Gesù dipende dalla serietà data alle sue affermazioni su
tali questioni. Gesù si è identificato personalmente con il principio insegnato ai
suoi discepoli, «sia il vostro parlare “sì, sì”, “no, no”» (Mt 5,37).
La discussione precedente va a dimostrare, tra le altre cose, l’illegittimi-
tà dell’applicazione di una ermeneutica puramente filosofica ad una questione
teologica come l’interpretazione dei testi escatologici. L’ermeneutica applicata a
tali testi deve essere strettamente teologica, o meglio, cristologica, con la quale
il Salvatore e Giudice del mondo, l’Eschaton, Cristo nostra speranza, rivela ai
suoi discepoli quel che ha visto nella gloria del Padre, gli eschata71. Difatti, Gesù
Cristo in Persona è la Verità (Gv 14,6). Come abbiamo appena visto, l’escatolo-
gia cristiana non esclude né l’apocalittico né l’esistenziale, però supera queste
categorie: è costruita sulla base di una analisi critica ed un’assimilazione del
tradizionale materiale apocalittico intrapresa da Cristo stesso. In realtà l’esca-
tologia cristiana non può esser vista come una riduttiva rilettura di tali motivi
in termini semplicemente esistenziali oppure apocalittici. Essa, infatti, è intera-
mente incentrata sulla Persona di Cristo, poiché si tratta del culmine della sua
opera salvifica. Eppure Cristo ha spiegato ai suoi discepoli i tratti fondamentali
della vita futura in cui noi speriamo, oltre la decadenza e la morte72.
70
Si veda J. L. Austin, How to Do Things with Words, 133-64.
71
Sull’idea che Gesù abbia “visto” quel che ha vissuto e insegnato, si veda J. Ratzinger/Benedetto
XVI, Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 21-28.
72
Questa è la tesi principale della mia opera, The Christological Assimilation of the Apocalypse (CAA).
37
Capitolo I
73
Si veda il mio studio El testimonio de Cristo y de los cristianos, 530-43.
74
Ho usato il termine praeambula spei, i “preamboli della speranza”, nel mio studio La metafísica
de la esperanza en Gabriel Marcel (1989), 86.
38
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
75
Le ho presentate nel mio studio El testimonio de Cristo y de los cristianos, 513-7; 566-8. Le quattro
vie alla verità considerate in questo studio sono: coerenza, consenso, pragmatismo e rivelazione.
76
Il manuale del 1948 di M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, segna
un cambiamento significativo. Sull’influenza della teoria dell’anima di Platone nelle religioni, si
veda M. Elkaisy-Friemuth e J. M. Dillon (a cura di) The Afterlife of the Platonic Soul: Reflections of
Platonic Psychology in the Monotheistic Religions, Brill, Leiden; Boston (MA) 2009.
77
Alcuni autori dell’opinione che secondo Tommaso d’Aquino si può dimostrare solo
l’incorruttibilità dell’anima, non la sua immortalità: W. Kluxen, Seele und Unsterblichkeit bei
Thomas von Aquin, in K. Kremer (a cura di), Seele: ihre Wirklichkeit ihr Verhältnis zum Leib
und zur menschlichen Person, E.J. Brill, Leiden 1984, 80; J. Mundhenk, Die Seele im System des
Thomas von Aquin: ein Beitrag zur Klärung und Beurteilung der Grundbegriffe der thomistischen
Psychologie, F. Meiner, Hamburg 1980, 119; G. Canobbio, Il destino dell’anima. Elementi per una
teologia, Morcelliana, Brescia 2009, 98s. Altri autori, come C. Fabro, L’anima nell’età patristica
e medievale, in M. F. Sciacca (a cura di), L’anima, Morcelliana, Brescia 1954, 98, considera che
Tommaso dimostri l’immortalità dell’anima. Lo stesso S. L. Brock, Tommaso d’Aquino e lo
statuto fisico dell’anima spirituale, in V. Possenti (a cura di), L’Anima. Annuario di Filosofia 2004,
Mondadori, Milano 2004, 67-87, 80. Il Concilio Lateranense V (1513) parla dell’aspetto razionale
39
Capitolo I
della dimostrazione dell’esistenza e dell’immortalità dell’anima, però non insegna che sia
dimostrabile in senso stretto, secondo C. F. J. Martin, On a Mistake Commonly Made in Accounts
of Sixteenth-Century Discussions of the Immortality of the Soul, «American Catholic Philosophical
Quarterly» 69 (1995) 29-37.
78
Platone, Fedone, 63a. Sulla dinamica e l’importanza del rischio nella vita umana, si veda P. Wust,
Ungewissheit und Wagnis, A. Pustet, Salzburg 1937.
79
Si veda per esempio E. Kunz, Protestantische Eschatologie: von der Reformation bis zur
Aufklärung (Handbuch der Dogmengeschichte, 4.7.3.1), Herder, Freiburg i. B. 1980.
80
Tra i primi autori che apertamente difendevano questa posizione c’è O. Cullmann, Immortalité de
l’âme ou Résurrection des morts?, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1957. Si veda il capitolo XI, 406ss.
81
La questione è sviluppata dettagliatamente lungo il capitolo XI, 2.
82
Si veda il mio studio Anima, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, a cura di G.
Tanzella-Nitti e A. Strumìa, vol. 1, Urbaniana University Press; Città Nuova, Roma 2002, 84-101.
Sui problemi insiti del processo di “deellenizzazione” nell’ultimo secolo, si veda l’ultima parte
del discorso di Benedetto XVI a Regensburg, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni
(12.9.2006). Recentemente, si veda F. Bovon, The Soul’s Comeback: Immortality and Resurrection
in Early Christianity, «Harvard Theological Review» 103/4 (2010) 387-406; A. Nitrola, Trattato di
escatologia, vol. 2: Pensare la venuta del Signore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 98-137.
40
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
83
Si veda A. Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit in der evangelischen Theologie der Gegenwart,
Bonifatius, Paderborn 1964, 112-20; C. Pozo, La teología del más allá, 191. Tra gli autori
protestanti, questa posizione è tenuta per esempio da H. Thielicke, Tod und Leben. Studien zur
christlichen Anthropologie, Mohr, Tübingen 19462, annex 4; E. Jüngel, Tod, Kreuz, Stuttgart;
Berlin 19712, cap. 4.
84
Negando l’immortalità dell’anima, Barth cita 1 Tm 6,15s.: Dio, «il Re dei re e il Signore dei
signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo
ha mai visto, né può vederlo». Da ciò egli deduce che Dio solo è immortale. Si veda la sua opera
Die Auferstehung der Toten, Zollikon, Zürich 1953.
85
Si veda Platone, Leggi 726a; il mio articolo, Anima, 86.
86
Con le parole di papa Leone IX, «Anima non esse partem Dei, sed e nihilio creatam… credo et
praedico» Ep. Congratulamur vehementer (1053): DS 685. G. Gozzelino, Nell’attesa della beata
speranza, 174 (nota 18) spiega che i Padri della Chiesa deducono l’immortalità dell’anima per la
maggior parte dalla vocazione dell’uomo alla visione di Dio, e non principalmente dalla sua natura
spirituale e indivisibile.
87
Si veda Clemente d’Alessandria, Paedagogus 2,19,4-20; Teofilo, Ad Autolycum, 1,4. Sulla nozione
di immortalità per grazia nei recenti autori ortodossi, si veda lo studio di B. Petrà, Immortalità
dell’anima: per natura o per grazia? Un dibattito greco-ortodosso nel secolo ventesimo, «Vivens
Homo» 19 (2008) 299-308.
88
Ireneo, Adv. Haer. II, 34,4.
41
Capitolo I
cristiano può esser definita “dialogica”89, per il fatto che gli uomini appartengono
a quella parte del regno creato capace di vedere Dio90. Inoltre, la Scrittura non
trascura l’argomento dell’immortalità umana91.
Storicamente parlando, è probabilmente corretto dire che quando i recen-
ti autori protestanti hanno rifiutato la nozione di “immortalità dell’anima”, in
termini reali intendevano ripudiare una peculiare concezione razionalistica e
romantica di questa categoria92.
Karl Barth in particolare si oppose agli autori che videro nell’anima umana
spirituale, immortale, la base di una autonomia etica razionalmente fondata, in
cui Dio non occupasse un posto sostanziale93. Dieter Hattrup osserva che per
i protestanti l’“immortalità dell’anima” era percepita come una chiara manife-
stazione di una “religione entro i limiti della pura ragione”, per citare il titolo
di una delle opere più note di Kant94. Tuttavia, in tempi recenti, diversi studiosi
protestanti sono giunti a riconoscere il valore cristiano della nozione di anima e
della sua immortalità, e la sua rilevanza a livello metafisico95.
89
J. Ratzinger spiega che l’immortalità dell’anima è di carattere “dialogico”: Escatologia, 162-
165; su questo, si veda G. Nachtwei, Dialogische Unsterblichkeit. Eine Untersuchung zu Joseph
Ratzingers Eschatologie und Theologie, St. Benno, Leipzig 1986.
90
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 166s.
91
Sull’uso del termine “anima” in Mt 10,28, si veda C. Pozo, La teología del más allá, 246s.
Sull’immortalità nell’Antico Testamento, si veda R. J. Taylor, The Eschatological Meaning of Life
and Death in the Book of Wisdom I-V, «Ephemerides theologicae Lovanienses» 42 (1966) 72-137;
M. Kolarcik, The Ambiguity of Death in the Book of Wisdom 1-6: a Study of Literary Structure and
Interpretation, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1991; BDAG, 1098-1100, s.v. ψυχή. Recentemente,
si veda P. Sacchi, L’immortalità dell’anima negli apocrifi dell’Antico Testamento e a Qumran,
«Vivens Homo» 19 (2008) 219-38.
92
Si veda I. Escribano-Alberca, Eschatologie: von der Aufklärung bis zur Gegenwart (Handbuch
der Dogmengeschichte, 4.4.7.4), Herder, Freiburg i. B. 1987, 138-41. Su questo periodo, si veda
in particolare J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, Kösel, München 1968, 150-68. Spinoza dice che
mens nostra aeterna est, «la nostra mente è eterna»: Ethica V, 31, schol. L’immortalità dell’anima
come attributo naturale è stato comunemente mantenuto dai romantici, tra i quali Mendelssohn
e Robespierre. C. Stange l’ha definito «il dogma centrale dell’Aufklärung» nella sua opera Die
Unsterblichkeit der Seele, Bertelsmann, Gütersloh 1925, 105. È particolarmente chiaro in J.-G.
Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, Vorl. 3 (1794), in Sämtliche Werke,
De Gruyter, Berlin 1965, vol. 6, 313-23.
93
Barth cita ad esempio J. A. L. Wegscheider († 1834), che considera l’immortalità dell’anima
come il fondamento della norma etica. Karl Barth valuta come interamente razionalistica la sua
posizione. Si veda di quest’ultimo Protestant Theology in the Nineteenth Century (orig. 1947), W.
B. Eerdmans, Grand Rapids 2002), 460-7, in particolare 466.
94
Si veda D. Hattrup, Eschatologie, Bonifatius, Paderborn 1992, 309-16 e G. Gozzelino,
Nell’attesa, 341.
95
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 596-601; C. Hermann, Unsterblichkeit
der Seele durch Auferstehung. Studien zu den anthropologischen Implikationen der Eschatologie,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1997.
42
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
96
Se l’anima è naturalmente immortale, in linea di principio dovrebbe essere possibile per la
ragione dedurre tale immortalità. Sulla conoscibilità dell’immortalità dell’anima, si veda Giovanni
Paolo II, Enc. Fides et ratio (1998), n. 39.
97
Si veda il mio studio Anima, 92s.
98
Secondo Duns Scoto, i filosofi possono dimostrare al massimo la possibilità che l’anima non sia
mortale; la ragione di ciò consiste nel fatto che l’anima non comunica l’essere al corpo, per il fatto
che il corpo è una realtà in sé (Op. Oxon IV, D. 48, q. 2, n. 16). Ockham afferma che le persone
semplicemente immaginano che l’anima, in quanto forma del corpo, sia immortale, laddove se
l’anima fosse veramente la forma del corpo, sarebbe corruttibile (Quodl. I, 10).
99
Si veda l’opera di J. Derrida, La dissémination, Seuil, Paris 1972.
100
Si vedano le pp. 13ss.
43
Capitolo I
101
Da Tertulliano in poi, la maggior parte dei Padri greci e latini hanno condiviso una visione
più o meno platonica dell’anima, considerandola indistruttibile, cosciente e auto-determinata,
anticipando la vita eterna e il giudizio personale: si veda B. E. Daley, The Hope of the Early
Church, 220. Sull’immortalità dell’anima in Origene e Clemente d’Alessandria, si veda G. Ancona,
Escatologia cristiana, 146-9. La posizione di Origene è molto chiara: l’immortalità dell’anima è come
quella degli angeli: De princip. IV, 4,9. Lattanzio trova il fondamento dell’immortalità dell’anima
nella bontà divina, nel desiderio dell’anima per il bene più grande e nel suo diritto di ricevere una
ricompensa per la virtù: Div. Instit. VII, 9. Atanasio utilizza gli argomenti di Platone per spiegare
l’immortalità dell’anima: l’anima è immortale perché nella sua stessa essenza è fonte di movimento
(Or. C. Gentes 33), e perché aspira alla felicità (ibid., 32). Secondo Gregorio di Nissa l’anima deve
essere considerata immortale perché, dal momento che Dio ha predestinato l’uomo a condividere
con Lui tutti i beni spirituali, egli deve avergli conferito una natura corrispondente a questo fine.
L’eternità è uno di questi obiettivi; perciò l’uomo deve essere immortale (Orat. Catech. 5). Gregorio
insiste anche sulla semplicità dell’anima (De anima et res., 44). Per Agostino, siccome l’anima
conosce quel che è eterno ed immutabile, e a causa della sua intima relazione con la verità, non può
perire (De immort. animae; Soliloquia II, 2-4). L’anima è superiore al corpo, continua Agostino,
perché gli dà la vita; inoltre, è indipendente dal corpo ed eterna, sebbene Dio l’abbia creata e la
mantenga nell’essere (Ep. 3 ad Nebridium). Una posizione sostanzialmente identica si può trovare
nelle opere: De statu animae di Claudio Mamertino (sec. IV), nel De anima di Cassiodoro, nel
Opusc. de anima di Massimo il Confessore, nel Monologion di Anselmo, 68s., e nel De animae
ratione di Alcuino. Quest’ultimo ritiene che, a causa del peccato, parte dell’anima sia divenuta
mortale, sebbene il suo nucleo più profondo sia immortale per virtù della chiamata divina.
102
Scrisse Voltaire nella sua opusculo L’immortalitè de l’âme: «Sì, Platone, tu dici il vero: la nostra
anima è immortale; un Dio le parla, un Dio vive in lei. Se così non fosse, come avremmo questo gran
presentimento? Perché saremmo disgustati dei beni terreni? Perché avremmo l’orrore del nulla?»
103
All’origine del pensiero di Platone, il ruolo delle fonti non scritte (miti, ecc.), non può essere
negato. Si veda il mio studio Is Christianity a Religion? The Role of Violence, Myth and Witness in
44
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
rio (quando, per esempio, una cosa che è fredda diventa calda). In questo modo,
secondo il principio dell’eterno ritorno, la morte dev’essere l’inizio della vita104.
E così l’anima sopravvive alla morte, ed è immortale. Seconda ragione: Plato-
ne fonda la sua convinzione circa l’immortalità dell’anima sulla sua teoria della
conoscenza. Conoscere, per Platone, è ricordare. Prima della nascita gli uomini
hanno contemplato nell’eternità il Mondo delle Idee105. Al presente, conoscia-
mo concetti universali come il bene e la bellezza, anche se le cose cui applichia-
mo queste categorie sono sempre limitate. Questo ci mostra che l’anima non
appartiene a ciò che è mutevole. Perciò è incorruttibile e dura per sempre. Terza,
egli spiega che l’uguale, il giusto, il bene ecc. sono sempre identici, sebbene le
cose concrete cambino106. Quindi, ci sono due generi di cose, quelle invisibili
e quelle visibili. Le invisibili conservano la propria identità, mentre le visibili
non lo fanno. Dal momento che l’anima è simile alle cose invisibili, non cambie-
rà, non smetterà di esistere107. Quarta ed ultima ragione, Platone spiega che lo
scopo dell’anima è quello di dare la vita. Ma la vita per sua stessa natura non
può mutarsi nel suo contrario, la morte. Perciò l’anima dura per sempre. Egli
aggiunge che la convinzione della propria immortalità porta con sé il dovere di
aver cura della propria anima108.
Comprensibilmente, diversi tra i primi Padri della Chiesa non erano piena-
mente convinti della solidità delle prove platoniche, tra l’altro per il fatto che
Platone dava per scontato che gli uomini fossero divini nella loro costituzione
originaria, mentre l’anima non può esser altro che una creatura, con una esistenza
totalmente ricevuta. Perciò sia Giustino Martire († 165) che Ireneo si opposero
apertamente alla nozione greca dell’immortalità naturale dell’anima, affermando
che gli uomini continuano a vivere dopo la morte in uno stato d’esistenza oscura,
per grazia di Dio109. Di fatto, dimostrare l’immortalità dell’anima creata non è
così semplice come può sembrare. Ancora di più quando si tenta di considerare
Religion, «Fellowship of Catholic Scholars Quarterly» 29 (2006) 13-28, in particolare le pp. 20s. e
nota 72.
104
Si veda Platone, Fedone, 72b.
105
Si veda ibid., 75c.
106
Si veda ibid., 78d.
107
Si veda ibid., 79c-d.
108
Si veda ibid., 105b; si veda anche Fedro, 245c ss.
109
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph., 6,2; Taziano, Or. ad graecos, 9,4; Ireneo, Adv. Haer. II, 43;
Tertulliano, De anima, 14.
45
Capitolo I
110
Si veda il mio studio Anima, 86s.
111
L’Aquinate studia l’incorruttibilità dell’anima in II Sent., D. 19, q. l, a. 1; II C. Gent., 49-55;
79-81; Quodl. X, q. 3, a. 2; De Anima, a. 14; S. Th. I, q. 75, a. 2 & 6; Comp. Theol., 74, 79, 84. Altri
studi sull’argomento includono: E. Bertola, Il problema dell’immortalità dell’anima nelle opere di
Tommaso d’Aquino, «Rivista di filosofia neo-scolastica» 65 (1973) 248-302; A. C. Pegis, Between
Immortality and Death in the Summa Contra Gentiles, «The Monist» 58 (1974) 1-15; idem., The
Separated Soul and its Nature in St. Thomas, in St Thomas Aquinas 1274-1974. Commemorative
Studies, a cura di A. A. Maurer, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1974, 131-58; L.
Scheffczyk, Unsterblichkeit bei Thomas von Aquin auf dem Hintergrund der neuren Diskussion,
Bayerische Akademie der Wissenschaften, München 1989; L. Iammarrone, L’affermazione
razionale dell’immortalità dell’anima umana nel pensiero di S. Tommaso, in Pontificia Accademia
di san Tommaso, Antropologia Tomista, Vaticana, Città del Vaticano 1991, 7-21; J. Cruz Cruz,
¿Inmortalidad del alma o inmortalidad del hombre?: introducción a la antropología de Tomás de
Aquino, Eunsa, Pamplona 2006.
112
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 75, a. 6. Su questo argomento sottile però profondo di
Tommaso, si veda D. R. Foster, Aquinas on the Immateriality of the Intellect, «Thomist» 55 (1991)
415-38.
113
«Il compimento stesso [del desiderio] non è filosoficamente provato, è promessa della fede» W.
Kluxen, Seele und Unsterblichkeit, 82.
114
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 75, a. 6.
46
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
115
Platone, Fedone, 63a.
116
La bibliografia sul tema dell’immortalità umana è vasta; come introduzione, si veda J. Gevaert,
L’affermazione filosofica dell’immortalità, «Salesianum» 28 (1966) 95-129; anche R. W. K. Pater-
son, Philosophy and the Belief in a Life after Death, McMillan; St. Martin’s Press, New York; Lon-
don 1995, 103-30; F. Kerr, Immortal Longings. Versions of Transcending Humanity, University of
Notre Dame Press, Notre Dame 1997.
117
Si veda Tommaso d’Aquino, II C. Gent. 55 (ed. Marietti, 1309); II C. Gent. 79 (n., 1602); De Anima,
a. 14; S. Th. I, q. 75, a. 6. Si veda J. F. Jolif, Affirmation rationelle de l’immortalité de l’âme chez Saint
Thomas, «Lumière et Vie» 4 (1955) 755-74, in particolare 769-771. G. St Hilaire, Does St Thomas really
prove the Soul’s Immortality?, «The New Scholasticism» 34 (1960) 340-356, afferma che l’argomento
dell’Aquinate tramite il desiderio fornisce la sola prova valida dell’immortalità dell’anima.
47
Capitolo I
ad un amico, «Non vedo alcun orgoglio… né sano né insano. Non sto dicendo di
meritare un aldilà, né che la sua esistenza possa essere provata. Sto dicendo che
ne ho bisogno, che me lo meriti o no, e questo è sufficiente! Sto dicendo che le
cose che passano non mi soddisfano, che ho sete di eternità, e che senza l’eternità
nulla è importante per me. Ne ho bisogno, né ho bi-so-gno! E senza di essa, non
c’è gioia nella vita; o le gioie della vita non hanno nessun tipo di significato. È
troppo semplice dire “dobbiamo vivere, dobbiamo essere contenti della vita per
quella che è!” E per quelli di noi che non siamo contenti, allora?»118.
Si può chiedere ancora: da dove viene l’aspirazione dell’uomo per l’im-
mortalità? Può essere il risultato di un qualche genere di alienazione culturale?
Forse il risultato di una immaginazione troppo accesa? Emmanuel Kant († 1804)
guarda all’immortalità al massimo come ad un postulato della ragion pratica119.
Potrebbe così accadere, come Ludwig Feuerbach († 1872) ed altri hanno sugge-
rito120, che gli uomini proiettino sistematicamente i propri desideri al di là della
loro situazione oggettiva, limitata, evocando mondi che non esistono, spostando
involontariamente la propria attenzione dal reale finito all’irreale infinito, imma-
ginando l’esistenza di mondi divini al di là della loro esperienza immediata, illu-
dendosi di esser fatti per cose più grandi, ed agendo di conseguenza “come se”
fossero destinati ad essere immorali? Friedrich Nietzsche († 1900), per esempio,
parla della «grande bugia dell’immortalità personale»121. «Siate fedeli alla terra»,
scrive, «e non credete in quelli che vi parlano di speranze eteree; sono velenosi,
che lo sappiano o no»122. Il pensiero marxista di fatto ha ritenuto coerentemente
che la vita umana autentica, onesta, implichi la rinuncia all’immortalità perso-
nale a vantaggio dell’immortalità dell’umanità come totalità123, e che un ecces-
sivo attaccamento a se stessi, o al proprio progetto di vita, è senza alcun dubbio
dannoso al progresso dell’umanità, e perciò origine di profonda alienazione.
Sebbene la convinzione di fondo a favore dell’immortalità dell’uomo sia
quasi universale nella storia del genere umano, filosofi e scrittori l’hanno dipin-
118
M. de Unamuno, «Revista de la Universidad de Buenos Aires» 9 (1951) 135.
119
Si veda I. Kant, Critica della ragione pratica, n. 220; si veda F. Copleston, History of Philosophy
VI: Wolff to Kant, Image Books, New York 1985, 338ss.
120
Si veda L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums, F. Frommann, Stuttgart 1903, la sezione
intitolata “il cielo cristiano, oppure l’immortalità personale”; si veda anche il suo Gedanken über
Tod und Unsterblichkeit, a cura di F. Jodl, F. Frommann, Stuttgart 1903. Su questo aspetto del
pensiero di Feuerbach, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 220-3.
121
F. Nietzsche, Der Antichrist, n. 43, in Nietzsche Werke, vol. 6/3, De Gruyter, Berlin 1969, 215.
122
Idem, Also sprach Zarathustra, Vorrede 3, in Nietzsche Werke, vol. 6/1, De Gruyter, Berlin
1968, 9.
123
Si veda K. Marx, Tesi su Feuerbach, del 1845.
48
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
124
Si veda H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 19592; A. Ruiz-
Retegui, La teleología humana y las articulaciones de la sociabilidad, in T. López et al. (a cura di),
Doctrina social de la Iglesia y realidad socio-económico en el centenario de la “Rerum Novarum”,
Eunsa, Pamplona 1991, 823-47.
125
M. Kundera, Immortality, Faber and Faber, London; Boston 1991. Kundera descrive
l’immortalità come “l’insostenibile leggerezza dell’essere”.
126
Erodoto ha scritto le sue Storie «affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano
nella dimenticanza e le imprese grandi e meravigliose, compiuti tanto da Greci che da Barbari,
non rimangano senza gloria» Storie I, 1.
127
Sul confronto tra tragedia greca e fede cristiana, si veda A.-J. Festugière, De l’essence de la
tragédie grecque, Aubier-Montaigne, Paris 1969, 11-28; C. Möller, Sagesse grecque et paradoxe
chrétien, Casterman, Paris 1948, 162-233.
49
Capitolo I
non è così per coloro che non muoiono nella stima delle persone»128. Gli uomini
desiderano fervidamente che ogni cosa per cui essi hanno vissuto sulla terra, tutto
quello che ha profondamente soddisfatto i loro cuori, duri per sempre nella memo-
ria dei propri familiari, dei propri amici, della propria gente, della propria razza.
Per questa ragione, secondo i greci, la città (polis) è considerata come un luogo
sacro, perché è destinata a conservare per le future generazioni la memoria di quel-
le passate. Distruggere una città non implica solamente che i suoi abitanti restino
senza casa finché non siano riusciti a ricostruirle; significa piuttosto distruggere
l’identità di un popolo, derubarlo della propria memoria, e in un certo senso, della
propria immortalità. L’organo della memoria collettiva è la città, e il suo agente è il
poeta, lo storico, l’artista e lo scultore. Essi sono quelli che assicurano che l’identità
razziale e la memoria siano conservate, se possibile accresciute, con il passaggio del
tempo; sono i garanti dell’immortalità. Tucidide, nella sua Guerra del Peloponneso,
racconta in modo memorabile il discorso di Pericle, governatore di Atene, al popo-
lo, dopo la vittoriosa battaglia di Maratona129, descrivendo la città come il luogo
della memoria degli dei e dell’immortalità del popolo130.
Secondo questa concezione dell’immortalità umana, tuttavia, la morte
segna la fine dell’esistenza umana individuale, l’estinzione della persona, per la
semplice ragione che la vita umana, in quanto tale, è necessariamente collegata
con la terra, la materia, il corpo, i sensi, il tempo, le altre persone, la storia, le
gioie e i dolori di un mondo che passa.
Il filosofo Epicuro († 270 a.C.) esprime questa esperienza in modo pittoresco
e drastico dicendo che «la morte non significa nulla per noi; infatti se ci siamo,
la morte non esiste, ma quando viene la morte, noi non ci siamo più»131. Così lo
stoico Solone ha affermato che non potremmo «definire nessun uomo felice fino
alla morte; al massimo, è fortunato»132. La medesima posizione, nei secoli recenti,
si trova per esempio tra gli umanisti marxisti, che attribuiscono l’immortalità
solo ad una generica “umanità”, ma non individualmente agli uomini, il cui sfor-
zo egoistico per raggiungere l’immortalità personale è considerato radice di ogni
128
«Mors est terribilis iis, quorum cum vita omnia extinguuntur, non iis quorum laus emori non
potest» Cicerone, Paradoxa 18.
129
Tucidide, La guerra del Peloponneso II, 41ss.
130
«La polis greca è l’unica base adeguata per l’immortalità delle persone… La storia personale
di ciascuno è conservata nella memoria; la memoria è l’organo dell’identità» A. Ruiz-Retegui,
La teleología humana, 832. «La caduta della polis causa la caduta di quel che veniva considerata
l’unica base per l’immortalità» ibid., 834.
131
Epicuro, Lettera a Menoceno, 125, cit. da Diogene Laerzio, Vitae phil. 10,125.
132
Solone, in Erodoto, Storie I, 32.
50
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
alienazione133. Con tutto, non è ingiusto dire che la filosofia utopica di Marx è
stata responsabile della distruzione di milioni di vite umane individuali, in nome
dell’umanità collettiva134. Esistenzialisti nichilisti, come Sartre e Camus, vanno
ancora più in là, guardando alla morte in termini di annullamento dell’esistenza
umana135, di conseguenza, alla vita stessa come qualcosa di assurdo.
La moderna tanatologia scientifica, una branca della medicina che si occu-
pa del processo del morire, si basa frequentemente su una concezione secondo
la quale la morte implica l’eliminazione dell’individuo136. La tanatologia non
richiede una fede in una vita dopo la morte, ma piuttosto il prendere in conside-
razione ed accettare l’idea che la morte è un processo alla fine del quale l’indi-
viduo scompare per sempre, un processo che tutti gli uomini devono imparare
ad accettare e, se possibile, ad accogliere.
Per quanto possa sembrare strano, elementi importanti dell’antropologia
dell’Antico Testamento si muovono nella medesima direzione: la morte secondo
la Bibbia ebraica praticamente elimina l’individuo, che sopravvive solo nella
famiglia, nella fama, nella reputazione morale, ed anche, in qualche modo vago,
nella mente di Dio. Dio infatti stabilisce un patto con il suo Popolo, non in
primo luogo con gli individui umani, presi uno per uno137. E il Popolo di Dio
sopravvive, l’Alleanza dura, attraverso le generazioni successive138. La gloria di
133
È la posizione tipica di Marx. Su questo argomento, si veda anche J. L. Ruiz de la Peña, El
hombre y su muerte, Aldecoa, Burgos 1971, e il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel
and Ernst Bloch.
134
Si veda S. Courtois, R. Kauffer, Il libro nero del comunismo: crimini, terrore, repressione, A.
Mondadori, Milano 19983.
135
Poco sopra abbiamo considerato le posizioni di Heidegger, Sartre e Monod. Anche Albert Camus
insiste nell’affermare che non dovremmo cercare alcuna consolazione nella speranza illusoria della
salvezza dopo la morte. Al contempo, riconosce che la mancanza di ogni speranza rende la vita
qualcosa di assurdo. Si veda la sua opera Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde, Gallimard, Paris 1943.
136
Sulla nozione contemporanea della scomparsa dell’uomo dopo la morte, si veda A. N. Flew,
Death, in A. N. Flew e A. MacIntyre (a cura di), New Essays in Philosophical Theology, SCM Press,
London 1955, 267-72. E. Kübler-Ross ed altri hanno contribuito in modo sostanziale alla nozione
di una “accettazione” terapeutica della morte, una scienza che è spesso definita “tanatologia”: si
veda E. Kübler-Ross, On Death and Dying, Macmillan, New York 1970; idem., Death: the Final
Stage of Growth, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (NJ) 1975; idem., Questions and Answers on
Death and Dying, Collier, New York 1979, ed anche E. Becker, The Denial of Death, Free Press, New
York 1973; R. E. Neale, The Art of Dying, Harper & Row, New York 1973; R. S. Anderson, Theology
of Death and Dying, Blackwell, Oxford; New York 1986. Per una critica di queste posizioni, si veda
B. Collopy, Theology and the Darkness of Death, «Theological Studies» 39 (1978) 22-54.
137
Sulla problematica della morte nella Sacra Scrittura, si veda la p. 317, nota 49.
138
Sull’immortalità e la memoria nell’ebraismo, si veda C. F. Burney, Israel’s Hope of Immortality:
Four Lectures, Clarendon Press, Oxford 1909; B. B. Schmidt, Memory as Immortality, in Judaism
in Late Antiquity, vol. 4, a cura di J. Neusner e A. J. Avery-Peck, E. J. Brill, Leiden 2000.
51
Capitolo I
Abramo è nei suoi discendenti, numerosi come la sabbia del mare. L’identità
di Israele è nella sua memoria delle grandi opere che Dio ha compiuto per lui:
«Benedici il Signore, anima mia», proclama il Salmista, «non dimenticare tutti
i suoi benefici» (Sal 103,2).
L’immortalità del ‘sé’ umano. Il secondo genere di immortalità è più tipico dei
filosofi che non dei poeti, degli intellettuali piuttosto che dei militari, dei saggi
piuttosto che dei politici. È la considerazione dell’immortalità degli uomini nella
loro costituzione ontologica e spirituale. Nella sua essenza, l’uomo è considerato
una anima spirituale. Si considera che il “sé”, lo spirito individuale, sopravvi-
vendo alla morte, vivendo per sempre, è immortale139. Ciò che non raggiungerà
l’immortalità, tuttavia, è quel che è percepito come deperibile, corruttibile, effi-
mero: la vita come viene vissuta giorno dopo giorno, la dedizione appassionata
e il duro lavoro, il successo militare o politico, la fama, le ricchezze materiali,
la memoria storica, il corpo umano. Quel che rimane è l’anima immortale, e
accanto ad essa, casomai, le virtù acquisite e consolidate durante questa vita
tramite un distacco sistematico da qualsiasi cosa che di per sé non sia in grado
di partecipare dell’eternità e della permanenza140.
L’“immortalità del sé” è chiaramente differente dall’“immortalità della
vita”, spiegata sopra. La morte non implica più l’annientamento del singolo, ma
piuttosto la continuazione per sempre della parte migliore, spirituale, dell’uo-
mo, l’anima, non appena si sia scrollata di dosso definitivamente i legami della
carne, del mondo, di questa vita temporale, terrena. Questa posizione è tipica
dei pitagorici, in particolare di Platone, dei neo-platonici e degli gnostici, ed è
ricorrente nella storia delle religioni e dell’antropologia141.
Tuttavia, questa concezione dell’immortalità umana ha importanti incon-
venienti. Tende a trasformare la morte umana in qualcosa di banale, che non
implica né miglioramento né impoverimento dell’uomo ad un livello sostanzia-
le, ma semplicemente una continuità tra questa vita e quella futura per il nucleo
centrale dell’uomo, l’anima spirituale, immortale. Ne risulta una banalizzazio-
139
Sull’anima umana, si veda il mio studio Anima.
140
J. Ratzinger sottolinea come la concezione platonica dell’anima non implichi necessariamente
una concezione individualistica dell’uomo, perché per godere dell’immortalità l’uomo deve con-
solidare quelle virtù che contribuiscono allo svolgersi della vita pubblica, in particolare la giustizia:
Escatologia, 95; 154s.
141
Si veda l’opera classica di F. V. Cumont, Lux perpetua, Librairie P. Geunthuer, Paris 1949. Si
veda anche W. Jaeger, The Greek Ideas of Immortality, in Immortality and Resurrection, a cura di
K. Stendhal, Macmillan, New York 1965, 96-114, e il mio studio Anima, 84-87. Si veda A. Millán-
Puelles, La inmortalidad del alma humana, Rialp, Madrid 2008. Si vedano anche le pp. 39s. sopra.
52
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
ne della vita sulla terra, e al contempo, della materia, della corporeità umana,
della umana società e della storia, ciascuna delle quali va semplicemente persa e
resa superflua dall’ingresso dell’individuo nell’eternità.
Immortalità della vita ed immortalità del sé: sono compatibili l’una con l’altra? È
ovvio che le due concezioni dell’immortalità umana appena presentate sono
differenti, anzi, opposte l’una all’altra. Per la prima, quel che dura è il frutto
della vita e degli sforzi umani. Sebbene più tangibile, è un genere precario di
immortalità, in quanto dura per l’umanità (non per l’individuo) e come esito
dello sforzo umano (producendo la memoria delle grandi azioni realizzate nel
passato). Nel secondo caso, l’immortalità è meno tangibile sebbene più robu-
sto a livello metafisico, almeno in apparenza, poiché quel che dura è quel che
è sempre esistito: le anime spirituali ed incorruttibili degli individui142. Si può
dire che il pensiero classico stabilisce «una alternativa insolubile: o la mia vita
permane ma io no; o io permango e la mia vita no… In altre parole, o immorta-
lità o eternità»143. In un altro senso, tuttavia, le due posizioni non sono del tutto
scollegate, in quanto condividono una comune (in qualche modo dualistica)
struttura metafisica, che può essere riassunta nella seguente formula: quel che è
deperibile e mutevole (la materia, il cosmo, il corpo, la vita umana e la storia) è
scollegato ed indipendente da ciò che è permanente e spirituale (l’anima).
Si deve tuttavia tener conto che queste spiegazioni dell’immortalità costi-
tuiscono le due impostazioni fondamentali per esprimere la spinta umana verso
la continuità e la sopravvivenza: la ricerca di una vita significativa, vissuta piena-
mente e liberamente in attiva solidarietà con il resto dell’umanità nel mezzo del
mondo, e l’impulso verso l’autonomia, la libertà spirituale e l’esistenza indivi-
duale. E si deve porre l’interrogativo: è possibile superare il dilemma tra queste
due visioni e parlare contemporaneamente dell’immortalità della vita umana e
dell’immortalità del “sé” umano?
Speriamo di poter mostrare, principalmente nel terzo capitolo (sulla resur-
rezione dei morti), nel quinto (sul giudizio finale) e nell’undicesimo (sull’escato-
logia intermedia), che le due “immortalità” si fondono e si integrano con succes-
so alla luce della rivelazione cristiana, diventando pienamente compatibili l’una
con l’altra. In questo modo risulta chiaro che l’escatologia cristiana fornisce una
chiave di volta per una antropologia ampia, coerente e integrale.
142
Secondo Socrate, quel che durerà per sempre esiste dal tutta l’eternità: Platone, Fedone 70d-72e.
143
A. Ruiz-Retegui, La teleología humana, 834.
53
Capitolo I
144
Si vedano le pp. 107s.
145
SS 10.
146
Si vedano le pp. 28s.
54
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
poeta John Milton († 1674) nel suo epico Paradiso Perduto parla di coloro che
preferiscono «regnare all’inferno piuttosto che servire in paradiso»147. Ovvia-
mente questa riluttanza e spirito di chiusura sono un segno di una peccami-
nosità originale, di mediazione spezzata, di uno spirito che non si fida di Dio la
cui bontà e totale sovranità non è riconosciuta, di eccessivo attaccamento alle
creature materiali. Tutto ciò che abbiamo è ricevuto da Dio. Perciò è impensabi-
le che l’uomo si possa realizzare sulla base delle proprie risorse, anche se vuole
farlo. Infatti l’angoscia sperimentata alla morte deriva frequentemente da un
attaccamento disordinato a questa vita, che gli uomini tendono ad afferrare e a
stringere secondo le loro proprie convinzioni148.
Tuttavia, Gesù nel redimere l’umanità dal peccato è entrato in questa
stessa dinamica, abbracciando liberamente la morte, “perdendo” la sua vita
per obbedienza al Padre, e poi, per potenza di Dio, unica sorgente di tutta la
vita, risorgendo ad un’esistenza nuova, gloriosa, immortale. Questa dinamica
di guadagno e perdita, o meglio, di guadagno tramite la perdita, è presente nel
cuore stesso del Vangelo cristiano. Gesù ha detto che «chi avrà tenuto per sé la
propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la trove-
rà» (Mt 10,39). In effetti, secondo la rivelazione cristiana, non solo Dio promette
ai credenti più di quanto essi possono ragionevolmente aspettarsi – la comunio-
ne eterna con la Trinità – ma Egli lo fa liberamente e magnanimamente, perché
«Dio è amore» (1 Gv 4,8). Tuttavia, ciò richiede una profonda conversione del
cuore da parte del credente, una fede senza riserve e incondizionata in Dio (Mt
18,4), al punto da esser pronti a “lasciare tutto” e seguire Cristo (Mt 19,27), fino
all’accettazione della morte. Detto diversamente, l’apertura nei confronti del
premio divino della vita eterna implica l’assunzione di un rischio, il rischio di
sacrificare la propria vita, il rischio di perdere tutto, il rischio della fede in Dio.
Santa Teresa di Lisieux († 1897), che guardava al cielo come ad un riversar-
si dell’amore divino sulla terra intera, esprime questa convinzione in termini
profondamente personali: «ho detto a Gesù che ero pronta a perdere l’ultima
goccia del mio sangue per confessare che esiste un cielo»149.
Possiamo dire con Bonhöffer che la grazia della vita eterna è una vera
grazia, però è una grazia “costosa”: Dio chiede a coloro che credono in lui, e
desiderano ricevere la vita eterna, la disponibilità a sacrificare la vita terrena
147
J. Milton, Il Paradiso Perduto I, 262.
148
Questo tema è ulteriormente sviluppato nelle pp. 332s.
149
Teresa di Lisieux, Storia di un’anima, MS C 7r, in Œuvres complètes, Cerf, Paris 1992, 243.
55
Capitolo I
come segno definitivo della loro fede in Dio. A prima vista ciò può sembrare una
contraddizione in termini. Tuttavia, alla luce della teologia della Croce (1 Cor
1), ciò è pienamente coerente con la stessa vita, morte e Resurrezione di Cristo,
e perciò con il messaggio spirituale cristiano.
150
Si veda i miei studi L’agire dello Spirito Santo, chiave dell’escatologia cristiana, «Annales
Theologici» 12 (1998) 327-73 e CAA 257-94, con un’ampia bibliografia nella nota 1. Si veda anche M.
Bordoni, Resurrezione, Parusia, Pneumatologia, in Servire Ecclesiae. Miscellanea in onore di Mons.
Pino Scabini, a cura di N. Ciola, Dehoniane, Bologna 1998, 229-40; N. Ciola, Intorno al rapporto
pneumatologia-escatologia, in Spirito, eschaton e storia, Mursia; Pontificia Università Lateranense,
Roma 1998, 7-16; J. J. Alviar, La dirección pneumatológica de la escatología, in J. J. Alviar (a cura di),
El tiempo del Espíritu: hacia una teología pneumatológica, Eunsa, Pamplona 2006, 211-34.
151
Si vedano le note 71s. sopra.
152
Ovviamente faccio riferimento alla classica definizione della verità come adaequatio rei et
intellectus.
56
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
Paolo dice ai Corinzi che «quelle cose che occhio non vide, né orecchio
udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo
amano» (1 Cor 2,9; cf. Is 64,3)153. Queste parole non intendono né oscurare il
messaggio di salvezza, né scoraggiare i credenti nella loro speranza. Piuttosto
il contrario. La promessa escatologica diventa per loro una sorta di luce e gioia
indicibile tramite lo Spirito che “spiega” quel che Dio ha preparato per coloro
che lo amano, rendendo questa realtà presente nella vita e nel cuore di ciascun
credente. Infatti, il testo paolino appena citato prosegue parlando delle «parole
di vita eterna», che «Dio ha rivelato a noi per mezzo dello Spirito» (1 Cor 2,10).
Lo Spirito Santo quindi è Colui che dà vita alla promessa escatologica divi-
na, rendendola concretamente presente – credibile, amabile, degna di speran-
za – nel cuore dei credenti cristiani. Lo Spirito fa questo risvegliando nel cuore
dei credenti un affectus, una profonda, addirittura infantile, convinzione, per
la quale l’accoglimento del premio infinito della vita eterna diventa una possi-
bilità reale. Si potrebbe dire che lo Spirito contagia i cristiani con qualcosa del
suo “élan de tendresse”154, quell’entusiasmo paterno-filiale e quella tenerezza che
costituisce il suo vero essere, il Dono ipostatico che esprime sia l’amore del Padre
che dà ogni cosa senza riserva al Figlio, sia l’ardente amore del Figlio che obbe-
disce e glorifica il Padre in tutto quel che fa. Con parole di Jean Giblet, lo Spiri-
to può essere considerato come “causa e potenza di speranza”155. Ugualmente la
liturgia pasquale nel rito latino parla del gustus spei156, il “gusto della speranza”,
frutto della grazia divina. San Paolo conferma questo principio, perché la princi-
pale ragione per cui «la speranza non delude», a dispetto delle tribolazioni e delle
difficoltà che possono sorgere, sta nel fatto che «l’amore di Dio è stato riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
Tuttavia, l’azione dello Spirito non è un potere o una influenza che gli
uomini provano in modo passeggero o fugace, come nei momenti di fervore
inaspettato o travolgente. Secondo Agostino, lo Spirito rivela Dio come amore
153
L’intero brano recita come segue: «Ma, come sta scritto: “Quelle cose che occhio non vide, né
orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”.
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche
le profondità di Dio. Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in
lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio» 1 Cor 2,9-11.
154
M.-J. Le Guillou, Le développement de la doctrine sur l’Esprit Saint dans les écrits du Nouveau
Testament, in Credo in Spiritum Sanctum, a cura di J. Saraiva Martins, vol. 1, Vaticana, Città del
Vaticano 1982, 729-39, qui 731.
155
J. Giblet, Pneumatologie et Eschatologie, in Credo in Spiritum Sanctum, vol. 2, 895-901, qui 899.
156
Ad Officium lectionis temp. pasch., Hymnum in feriis post octavam Paschae.
57
Capitolo I
157
Si veda J. Ratzinger, Der Heilige Geist als communio. Zum Verhältnis von Pneumatologie und
Spiritualität bei Augustinus, in C. Heitmann e H. von Mühlen (a cura di), Erfahrung und Theologie
des Heiligen Geistes, Kösel, München 1974, 223-38.
158
Si veda ibid., 228-31.
159
S. N. Bulgàkov esprime bene questa nozione: «lo Spirito annuncia non ciò che è suo, ma il Figlio
del Padre. Egli è l’ambiente trasparente, impercettibile nella sua trasparenza. Non esiste per sé,
perché è tutto negli altri, nel Padre e nel Figlio; e il suo essere proprio è come un non-essere. Ma in
questo annientamento sacrificale si compiono la beatitudine dell’amore, l’auto-consolazione del
Consolatore, la gioia di sé, la bellezza, l’auto-dilezione, l’apice dell’amore. Così nell’amore che è la
santissima Trinità, la Terza ipostasi è l’Amore stesso, che realizza in sé, ipostaticamente, tutta la
pienezza dell’amore» S. Bulgàkov, Il Paraclito, Bologna 19872, 145.
160
«Se la pienezza della vita divina in Cristo è determinata dalla misura della natura divina, la
misura della ricettività dello Spirito Santo è determinata proprio dal grado di questa recettività:
la libertà umana interviene quale elemento primordiale di questa recettività. La grazia non fa
violenza alla libertà: la convince tuttavia e la sottomette… la correlazione tra la grazia e la libertà
della creatura (è) la caratteristica dell’azione della terza ipostasi in kénosis nel mondo» ibid., 404s.
58
la virtù cristiana della speranza e le basi epistemologiche dell’escatologia cristiana
In breve, si può dire che lo Spirito Santo convince i credenti nella profon-
dità del loro essere che il bonum futurum arduum (la vita eterna), è possibile161.
Egli impianta nel cuore dei cristiani la certezza che quel che Dio ha rivelato in
Cristo tramite la Chiesa si realizza.
161
Si vedano le pp. 22s.
59
PARTE SECONDA
1
DS 30.
2
DS 150.
3
Concilio Vaticano II, Const. Dei verbum, n. 4.
4
Paolo VI, Credo del Popolo di Dio (1968), n. 12.
5
CCC 1038.
63
Capitolo II
1
B. Sesboüé, Le retour du Christ dans l’économie de la foi chrétienne, in Le retour du Christ, a cura
di C. Perrot, Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1983, 121-66, qui 149.
2
Sulla dottrina neotestamentaria della Parousia, si vedano gli studi di A. Feuillet, Le sens du mot
Parousie dans l’évangile de Matthieu. Comparaison entre Matth. xxiv et Jac. v, i-xi, in Background
of the New Testament and its Eschatology, a cura di D. Daube e W. D. Davies, University Press,
Cambridge 1956, 261-80; Parousie, in Dictionnaire de la Bible, Supplément 6 (1960) 1331-1419; A.
Oepke, παρουσία, in TWNT 5, 856-69; BDAG, 780s., s.v. παρουσία.
3
Si vedano Mt 24,3.27.37.39; At 7,52; 13,24; 1 Cor 15,23; 1 Ts 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; 2 Ts 2,1.8.9;
Gc 5,7-8; 2 Pt 1,16; 3,4-12. Paolo usa il termine anche parlando della venuta di Tito (2 Cor 7,6s.)
e della sua propria (Fil 1,26).
4
Si veda A. Oepke, παρουσία, 858.
65
Capitolo II
5
Si veda BDAG, 385s., s.v. ἐπιφάνεια.
6
Si veda BDAG, 112, s.v. ἀποκάλυψις.
7
Così W. Kasper, La speranza nella venuta finale di Gesù Cristo nella gloria, «Communio (ed.
italiana)» 79 (1985) 32-48, qui 39. Il fatto è che nel Nuovo Testamento non si parla del ritorno di
Cristo, ma piuttosto della “venuta” o di “Colui che viene”: I. Biffi, Linee di escatologia, 25. Così, in
Mc 11,9: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
66
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
corpo8 convince poco, per altri, sembra trattarsi del ritorno alla prigione del
corpo9. Anzi, può venir considerata come l’opposto stesso della salvezza, almeno
per chi possiede una mentalità platonica. La distruzione e il rinnovamento del
cosmo, accompagnate da segni spettacolari di tumulto, caos e devastazione del
nostro habitat naturale, non è molto rassicurante. E, peggiore di tutti, forse, è la
Parousia stessa, il ritorno di Cristo, non come Salvatore, ma come Giudice, Signo-
re del cielo e della terra, per soppesare tutte le azioni degli uomini, e pronun-
ciare una sentenza definitiva sulla vita dei singoli individui e dell’umanità inte-
ra. Veramente è difficile immaginare che la Parousia possa essere un oggetto,
e meno ancora l’oggetto primario, della speranza cristiana. Tradizionalmente i
cristiani hanno descritto il ritorno del Signore Gesù con una varietà di espressio-
ni differenti, che non suscitano né entusiasmo né affetto: la “seconda venuta”, “la
fine del mondo”, “la fine della storia”, “il giorno del giudizio”, ecc. Dies irae, dies
illae, canta l’inno Medioevale, parafrasando il libro del profeta Sofonia (1,14-18),
«un giorno d’ira, quel giorno»; dies magna et amara valde, «un giorno di meravi-
glia e spettacolo, amaro fino al fondo»10.
Perciò non sorprende molto che i cristiani, attraverso la storia, abbiano
guardato al ritorno del Signore Gesù giudice dell’umanità con una certa dose
di timore e trepidazione. Le rappresentazioni artistiche del giudizio finale, con
un glorioso, e spesso severo, Cristo al centro della scena, circondato da angeli e
santi, che dispensa giustizia ai giusti e ai peccatori, sono ben note11. Il fatto che
alcuni individui abbiano perpetrato, in differenti momenti della storia dell’u-
manità, molteplici crimini indicibili, spesso non vendicati, difficilmente può
servire come consolazione per il resto dell’umanità. Nel XVI secolo Lutero (†
1546) registra la sua personale esperienza di timore ed angoscia al solo sentir
nominare “Gesù”12. Jean Delumeau, nei suoi influenti studi La paura in Occi-
8
Per una panoramica religiosa e sociologica della fede nella resurrezione nel Medioevo, si veda C.
W. Bynum, The Resurrection of the Body in Western Christianity, 200-1336, Columbia University
Press, New York 1995.
9
Si tratta della critica neo-platonica diretta contro la fede nella resurrezione finale, tratta dal
gioco di parole di Platone tra sōma (corpo) e sēma (tomba) in Cratilo 400bc. «Per l’anima il corpo
è una prigione ed una tomba», dice Plotino: Enneadi IV, 8,3.
10
Sull’inno Dies irae, si veda B. Capelle, Le “Dies irae”, chant d’espérance?, «Questions liturgiques
et paroissiales» 18 (1937) 217-24; F. Rädle, Dies irae, in Im Angesicht des Todes. Ein interdiszi-
plinäres Kompendium, a cura di H. Becker et al., vol. 1, EOS, St. Ottilien 1987, 331ss.; P. Stefani,
Dies irae. Immagini della fine, Il Mulino, Bologna 2001.
11
Si veda A. M. Cocagnac, Le jugement dernier dans l’art, Cerf, Paris 1955.
12
Lutero racconta il suo senso di terrore alla semplice pronuncia del nome di Gesù, particolarmente
il suo senso di vertigine di fronte alle prime parole del Canone Romano durante la sua prima
67
Capitolo II
dente e Il peccato e la paura13 che ripercorrono un periodo che va dal XIV secolo
al XVI, documenta il fenomeno del timore, del timore teologicamente fonda-
to, anche tra i cristiani, spesso in relazione con la fine dei tempi. Nello svilup-
po di devastanti fattori sociali come la peste, Delumeau rintraccia l’influenza
della dottrina del giudizio finale nell’insorgenza di una attitudine generalizzata
di timore nella società occidentale durante il tardo Medioevo e fino ai tempi
moderni. Anche se non fosse del tutto valida questa analisi, non sorprende
che l’aspetto collettivo della speranza cristiana (centrato sulla Parousia) abbia
ricevuto sempre meno attenzione negli studi sistematici di escatologia, laddove
gli aspetti individuali (salvezza personale) sono venuti ad occupare un posto
centrale14. Nella sfera dell’antropologia teologica e della spiritualità la trascu-
ratezza per l’escatologia della fine del mondo è andata di pari passo con l’enfasi
sull’unione interiore, intimistica, dell’individuo con Dio attraverso la grazia, e
sulla lotta ascetica individuale, non compresa nel contesto della vita della grazia
e dell’appartenenza alla Chiesa, all’impegno apostolico.
In breve, la paura della fine del mondo ha contribuito ad una certa diminu-
zione di consapevolezza tra i cristiani dell’importanza teologica decisiva della
Parousia. Dal punto di vista della fede, ovviamente, la paura non è un parame-
tro affidabile; infatti «chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18). Tuttavia,
altri importanti fattori, forse in reazione a tale timore, hanno contribuito da
parte loro a mettere in discussione la Parousia.
Messa: «Te igitur clementissime Pater, per Iesum Christum Filium tuum Dominum nostrum…».
Si veda la sua opera In Gen. 25,21: WA 43,382.
13
Si veda J. Delumeau, La peur en Occident, XIVe-XVIIIe siècles. Une cité assiégée, Fayard, Paris
1978, in particolare il capitolo 6; Le péché et le peur. La culpabilisation en Occident, XIIIe-XVIIIe
s., Fayard, Paris 1983. Si veda anche C. Carozzi e H. Taviani-Carozzi, La fin des temps. Terreurs et
prophéties au Moyen Age, Stock, Paris 1982.
14
Di questo si occupano molti manuali classici di escatologia. Pars pro toto, si veda L. Billot,
Quaestiones de Novissimis, Pont. Univ. Gregoriana, Roma 19387, che segue il seguente ordine di
capitoli: morte, giudizio personale, inferno, purgatorio, paradiso, resurrezione, giudizio finale.
15
Sulla relazione tra Hegel e l’escatologia cristiana, si veda P. Cornehl, Die Zukunft der Versöhnung.
68
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
Una valutazione della visione hegeliana. Nel difendere questa posizione Hegel
ha la preoccupazione di correggere un certo approccio individualistico alla
salvezza escatologica cristiana, cui abbiamo fatto riferimento sopra. Egli inten-
de recuperare la dimensione storica, collettiva, corporea, pubblica, globale,
terrena, dell’azione riconciliatrice di Dio in Cristo nel mondo.
Il prezzo pagato da Hegel, tuttavia, è alto, perché in un’escatologia così
“mondana” l’attualizzazione o riconciliazione della collettività (o dell’umanità
intera) può esser raggiunta solo a prezzo di quella individuale. Tale principio
emerge in particolar modo nel pensiero marxista, in cui il fondamentale princi-
pio escatologico cristiano della salvezza trascendente dopo la morte è eliminato
Eschatologie und Emanzipation in der Aufklärung, bei Hegel und in der Hegelschen Schule,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971; I. Escribano-Alberca, Eschatologie, 122-9; D. Hattrup,
Eschatologie, 124-38; W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 663s.
16
Ibid., 663.
69
Capitolo II
17
R. Otto, The Kingdom of God and the Son of Man, The Lutterworth Press, London 1938, 32.
18
Si veda in modo particolare: A. N. Whitehead, Process and Reality, Harper, New York 1960,
ed anche J. B. Cobb e D. R. Griffin, Process Theology. An Introductory Exposition, Westminster,
Philadelphia; Westminster (USA) 1976. Per una critica di questa posizione, si veda R. C. Neville,
Creativity and God, Seabury Press, New York 1980, 3-20; W. Temple, Nature, Man and God,
Macmillan, London 1949, 257ss.; L. Gilkey, Maker of Heaven and Earth. The Christian Doctrine of
Creation in the Light of Modern Knowledge, University Press of America, Lanham 19852, 48ss.; W.
Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 25-28.
19
D. D. Williams, Response to Pannenberg, in E. W. Cousins (a cura di), Hope and the Future of
Man, Fortress, Philadelphia 1972, 86s.
20
J. B. Cobb, Pannenberg and Process Theology, in C. E. Braaten and P. Clayton (a cura di), The
Theology of Wolfhart Pannenberg, Augsburg, Minneapolis 1988, 54-74, qui 60.
70
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
21
Si veda la bibliografia nella nota 2 sopra.
22
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 615ss.
23
Ne parleremo più avanti, nelle pp. 289s.
24
Il XX secolo è stato segnato da una considerevole crescita di interesse nella possibilità della fine
del mondo: si veda per esempio T. Daniels, Millennialism: an International Bibliography, Garland,
London; New York 1992; R. A. Landes (a cura di), Encyclopedia of Millennialism and Millennial
movements, Routledge, New York; London 2000.
25
Si vedano, per esempio, le opere di H. H. Wendt, W. Hermann e E. Hirsch.
71
Capitolo II
cosmo, si è detto, hanno le loro proprie leggi, distinte da quelle dell’anima e dello
spirito, mentre l’opera salvifica di Cristo andrebbe collegata principalmente alla
sfera spirituale. In termini approssimativi, si potrebbe dire che tale approccio è
in accordo con l’idea che Cristo è il Salvatore degli uomini ma non il Creatore
dell’universo, il Verbo attraverso cui tutte le cose sono state fatte (Gv 1,3).
Recenti sviluppi scientifici. Sul fronte scientifico, tuttavia, le cose sono cambiate
abbastanza negli ultimi decenni, dal momento che le teorie newtoniane e mecca-
nicistiche sull’universo fisico – indifferenti allo spirito – sono state gradualmen-
te modificate e alla fine rigettate26. I fisici si sono convinti che l’universo non
può più esser considerato come uno spazio fisso e indefinitamente esteso, ma
piuttosto come un processo di espansione e persino di crescita. In questo senso,
il futuro compimento o la fine dell’intero cosmo non può esser escluso a priori
su base scientifica, se viene spiegato in termini di principio di entropia, o come
la scomparsa della materia nei buchi neri27.
È interessante notare, inoltre, che le idee apocalittiche incentrate su una
totale distruzione e un rinnovamento del nostro ambiente terreno sono diven-
tate di nuovo popolari, e forse anche eccessivamente, non solo sulla base delle
riflessioni bibliche, ma spesso con il sostegno apparente delle scoperte scientifi-
che28. Per una curiosa stranezza del destino, nello stesso tempo in cui la meta-
fisica hegeliana ha iniziato ad esser screditata e il pensiero scientifico è diventa-
to sempre meno precluso alla possibilità di un significativo compimento finale
dell’intero universo, interpretazioni non-cosmiche ed anti-cosmiche della Scrit-
tura sono diventate sempre più comuni tra i teologi e gli esegeti biblici, i quali,
comprensibilmente, guardavano con sistematico sospetto e disdegno alle visioni
apocalittiche popolari.
In ogni caso, come esito degli sviluppi scientifici e filosofici, di cui abbiamo
già fatto menzione, due idee sono giunte a prevalere nel pensiero escatologico
nella prima metà del ventesimo secolo, in particolare tra gli autori protestanti:
primo, che i testi escatologici del Nuovo Testamento fanno riferimento princi-
palmente alla definitività del momento presente e non ad un futuro cronologica-
26
Si veda G. F. R. Ellis (a cura di), The Far-Future Universe. Eschatology from a Cosmic Perspective,
Templeton Foundation Press, Philadelphia; London 2002.
27
Si veda il mio studio Resurrezione, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, vol. 2, 1218-
31.
28
Si veda l’opera suggestiva di F. J. Tipler, The Physics of Immortality. God, Cosmology and the
Resurrection of the Dead, Doubleday, New York 1994. Anche J. C. Polkinghorne, The God of Hope
and the End of the World, SPCK, London 2002.
72
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
29
La posizione classica è di J. Wellhausen (XIX secolo), che ha fornito una prospettiva prettamente
psicologica ai testi apocalittici, considerandoli originali creazioni letterarie che davano un nuovo
significato alla situazione presente; si veda CAA 122.
30
Si veda J. Weiss, Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes (orig. 1892), Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 19002. Traduzione italiana: J. Weiss, La predicazione di Gesù sul Regno di Dio, M.
D’Auria, Napoli 1993. Per studi precedenti di Weiss, si veda CAA 23s., nota 12.
31
Si veda A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, J. C. B. Mohr, Tübingen 19849.
L’opera fu pubblicata la prima volta nel 1906 e fu intitolata Von Reimarus zu Wrede. Eine
Geschichte der Leben-Jesu-Forschung. Traduzione italiana: Storia della ricerca sulla vita di Gesù,
Paideia, Brescia 1986. Su quest’opera di Schweitzer, si veda CAA 24, nota 13.
32
Si veda M. Werner, Die Entstehung des christlichen Dogmas, P. Haupt, Bern 1941; Der
protestantische Weg des Glaubens, P. Haupt, Bern 1955, vol. 1.
33
Tra gli autori protestanti, si vedano in particolare le opere di E. Grässer, F. Buri, G. Bornkamm,
W. Marxsen, E. Käsemann, W. Schmithals, E. P. Sanders, D. C. Allison, dettagliate in CAA 24s.,
note 16-24. Tra i cattolici, il primo a difendere questa posizione fu Alfred Loisy. Si vedano anche le
posizioni di E. Castellucci, J. P. Meier, R. H. Hiers, C. Sullivan, dettagliate in CAA 25, note 25-27.
34
Cit. in W. D. Davies, From Schweitzer to Scholem: Reflections on the Sabbatai Svi, «Journal of
Biblical Literature» 95 (1976) 529-58, qui 558.
73
Capitolo II
35
Si veda M. Werner, Der protestantische Weg des Glaubens, vol. 1, 106ss. Si veda la sintesi di J. L.
Ruiz de la Peña, La otra dimensión, EAPSA, Madrid 1975, 107-11.
36
Si veda CAA 63-136.
37
Si veda BDAG, 270, s.v. ἐγγίζω.
38
Per l’uso del termine “etica del interim”, si veda T. Söding, Interimsethik, in LThK 5,559s.; E.
Grässer, Zum Stichwort ‘Interimsethik’, in Neues Testament und Ethik. Für Rudolf Schnackenburg,
a cura di H. Merklein, Herder, Freiburg; Basel; Wein 1989, 16-30.
74
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
Tuttavia, secondo questi autori, fu a questo punto che sorse una grande
crisi nella vita di Gesù. I discepoli tornarono dalla loro missione (Lc 10,17-20)
chiaramente consapevoli che il regno atteso non era di fatto arrivato, sebbene
Gesù ne avesse annunciato la venuta. Così, Gesù non avrebbe più considerato se
stesso come profeta destinato ad inaugurare il regno dei cieli, ma come il Messia
promesso destinato a diventare “il Figlio dell’uomo”, colui che, secondo il libro di
Daniele, doveva inaugurare il definitivo regno di Dio. Questa convinzione non
sarebbe stata verificata fino alla sua resurrezione. Il segreto messianico di Gesù,
comunque, fu rivelato dall’apostolo Giuda, e Gesù fu arrestato e posto a giudi-
zio a causa del suo falso affermare di essere il Messia. Prima di morire, Gesù
dice in effetti che Lui era il Messia, e conferma che la sua reale identità sarebbe
stata rivelata nella resurrezione (Mt 26,24). Questa avrebbe ratificato il suo ruolo
messianico e inaugurato l’avvento definitivo del regno di Dio.
Dopo la morte di Gesù i discepoli effettivamente incontrarono il Signore
risorto, ci dicono i fautori dell’escatologia “conseguente”. Dovettero però impa-
rare a superare una nuova crisi generata dal fatto che la resurrezione di Gesù
non fosse del tipo ultimo e definitivo che loro si erano aspettati; infatti il “Figlio
dell’uomo” non tornò in maestà e potenza, circondato dai suoi angeli, per sepa-
rare i giusti dagli ingiusti come il grano si separa dalla pula. Gli apostoli scopri-
rono che, invece di sedersi sui troni per giudicare le dodici tribù di Israele, il loro
compito era quello di continuare a preparare la Parousia definitiva, attraverso un
ampio ministero di predicazione, battesimo, e diffusione della fede nel Signore
Gesù fino al suo ritorno nella gloria (Mt 28,16-20; At 1,11). In preparazione di ciò,
viene amministrato il sacramento del Battesimo, che conferisce un anticipo dei
beni del regno (il perdono dei peccati e il dono dello Spirito). Tuttavia, col passare
del tempo, quando la possibilità della venuta finale del Figlio dell’uomo divenne
sempre più remota, i cristiani aggiustarono il messaggio originale di Gesù, secon-
do le necessità delle comunità di fede. Tale processo di adattamento, sostengono
Weiss, Schweitzer e Werner, è continuato inalterato fino al giorno d’oggi.
In breve, tutti gli insegnamenti di Gesù, dei suoi discepoli, di Paolo, erano
stati fondati, verificati e determinati dall’attesa di un imminente e definitiva
irruzione del regno di Dio. Ma dal momento che il regno promesso di fatto non
è arrivato, affermano tali autori, gli insegnamenti di Gesù devono esser consi-
derati, nella migliore delle ipotesi, condizionati e fuorvianti, nella peggiore,
tendenziosi e addirittura falsi39. Gesù stesso sarebbe un profeta ben intenzionato,
39
Werner tenta di rispondere al seguente interrogativo: se l’insegnamento di Gesù è totalmente
75
Capitolo II
illusorio, che cosa significa essere cristiani? Risponde dicendo che il messaggio cristiano può
esser mantenuto dicendo “sì” a Dio, a dispetto però di una storia in cui non si può ritrovare
alcun disegno divino. Si veda M. Werner, Der Gedanke der Heilsgeschichte und die Sinnfrage der
menschlichen Existenz, «Schweizerische Theologische Umschau» 3 (1962) 129ss. Difficilmente la
si può considerare una risposta soddisfacente.
40
M. Werner, Die Entstehung des christlichen Dogmas, 30.
41
O. Cullmann critica apertamente la posizione di Schweitzer. «Con la sua lettura esegetica
estremamente consistente, ma puramente ipotetica degli insegnamenti di Gesù e l’evidente
inconsistenza della sue conclusioni pratiche, l’imponente opera teologica di Schweitzer lascia
dietro di sé interrogativi scottanti e senza risposta, e tuttavia ha determinato il dibattito attuale
al punto tale che è difficile riconoscere le parti oggi in gioco» Salvation in History, SCM, London
1967, 32. Per ulteriori critiche, si veda anche D. Flusser, Salvation Present and Future, in Types
of Redemption, a cura di R. J. Z. Werblowsky e C. J. Bleeker, E. J. Brill, Leiden 1970, 46-61; D. E.
Aune, The Significance of the Delay of the Parousia for Early Christianity, in G. F. Hawthorne (a
cura di), Current Issues in Biblical and Patristic Interpretation (FS M. C. Tenney), W. B. Eerdmans,
Grand Rapids 1975, 87-109.
42
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 15, a. 3, s. c.
76
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
bile irruzione della promessa futura del compimento escatologico nel mondo, e
della conseguente provvisorietà del suo stato attuale. Forse questo è il motivo
per cui l’esegeta luterano Ernst Käsemann († 1998) suggerisce che l’apocalittica,
cuore dell’insegnamento di Gesù, sia la «madre di tutta la teologia cristiana»43.
Tuttavia è ancora da dimostrare che la lettura che tali teologi fanno del Nuovo
Testamento, sebbene in qualche misura convincente, sia sostanzialmente corret-
ta44. Molti autori al giorno d’oggi la considerano quanto meno di parte45.
Andrebbe notato, tuttavia, che laddove Weiss e Schweitzer affermavano
che l’insegnamento di Cristo fosse basato sulla sua convinzione dell’immi-
nente irruzione del regno di Dio, e condizionato da essa, altri esegeti hanno
proposto la posizione diametralmente opposta: la vita stessa di Gesù e il suo
insegnamento portarono con sé il pieno compimento del regno di Dio sulla
terra. Cioè, la salvezza cristiana ha a che fare con il presente, non con il futu-
ro; l’evento finale ha già avuto luogo. Quest’ultima posizione è frequentemente
definita “escatologia realizzata”.
43
Si veda E. Käsemann, Die Anfänge christlicher Theologie. Si veda il mio studio La Biblia en la
configuración de la teología, «Scripta Theologica» 36 (2004) 855-75.
44
Si vedano le pp. 87ss.
45
Si veda la critica di O. Cullmann nella nota 41 qui sopra. C. Duquoc sottolinea il fatto che se la
Parousia è una manifestazione della morte e resurrezione di Cristo, la negazione della Parousia
implicherebbe la negazione della Pasqua: Christologie: essai dogmatique, vol. 2: Le Messie, Cerf,
Paris 1972, 281-317. Emil Brunner dice che «una fede in Cristo che non attenda la Parousia è
come una rampa di scale che non porta da nessuna parte» Das Ewige als Zukunft und Gegenwart,
Zwingli, Zürich 1953, 219.
46
Si veda C. H. Dodd, The Parables of the Kingdom, London, 19606, ed anche opere successive come
The Apostolic Preaching and its Developments, London, 19442; History and the Gospel, Nisbet,
London 1938; The Interpretation of the Fourth Gospel (orig. 1950), Cambridge University Press,
London 1965. Si vedano le traduzioni all’italiano: L’interpretazione del quarto Vangelo, Paideia,
Brescia 1974; La predicazione apostolica e il suo sviluppo, Paideia, Brescia 19782; Le parabole del
Regno, Paideia, Brescia 19762. Sulla teoria di Dodd, si veda CAA 31, nota 45.
47
Per altri autori che appoggiano la posizione di Dodd, si veda CAA 31, nota 46. Tra i più
significativi sostenitori di un Gesù “non-escatologico” oggi va incluso J. D. Crossan. Si vedano le
sue opere The Servant Parables of Jesus, in G. W. MacRae (a cura di), Society of Biblical Literature
1973 Seminar Papers, Society of Biblical Literature, Cambridge, Mass. 1973, vol. 2, 94-119; The
Historical Jesus. The Life of a Mediterranean Jewish Peasant, Harper, San Francisco 1991; The Birth
77
Capitolo II
of Christianity: Discovering What Happened in the Years Immediately after the Execution of Jesus,
Harper, San Francisco 1998. Per una critica, si veda CAA 31s., nota 47.
48
Nella prefazione di una edizione del 1960 di The Parables of the Kingdom, Dodd afferma: «il
mio lavoro ha preso avvio teso alla medesima problematica da cui ha preso le mosse Schweitzer».
49
L’idea va ricercata nella “escatologia inaugurata” di G. Florovsky, e nell’espressione di J. Jeremias
“sich realisierende Eschatologie”, tradotta come “una escatologia in corso di realizzazione”: The
Parables of Jesus, SCM, London 1963, 230. Va notato che si tratta di una critica alla teoria di Dodd.
50
Si veda C. H. Dodd, The Parables of the Kingdom, 82s.; The Apostolic Preaching and its
Developments, 80s.
51
Si veda O. Cullmann, Salvation in History, 204, che scrive: «C. H. Dodd offre una reinterpretazione
dell’escatologia secondo una nuova modalità, particolarmente in una appendice del suo libro, The
Apostolic Preaching and its Development, intitolata “Eschatology and History”. Egli non vede nulla
di essenziale negli eventi futuri, perché, secondo la sua visione, l’aspettativa del regno di Dio è già
pienamente compiuta in Gesù. Qualsiasi cosa debba aver luogo in un evento futuro… è da lui
interpretata filosoficamente. La sua filosofia, tuttavia, non deriva da Heidegger, né da Bultmann,
ma piuttosto dal platonismo. Egli quindi parla di una eternità, per la quale le immagini temporali
del futuro sono semplici simboli, e dell’Assoluto, della realtà senza tempo, del “Totalmente Altro”
che ha fatto irruzione nella storia (Rudolph Otto ha influenzato Dodd su questo)» ibid., 204.
78
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
52
Si veda C. H. Dodd, The Apostolic Preaching and its Developments, 102.
53
Si veda V. Balabanski, Eschatology in the Making: Mark, Matthew and the Didache, University
Press, Oxford 1997, 9.
54
Di Bultmann, si veda in particolare la Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia
19922; The Christian Hope and the Problem of Demythologizing, «Expository Times» 65 (1954)
228-30; 276-8; Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia 1989; Nuovo Testamento e mitologia. Il
problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario, in Nuovo Testamento e mitologia.
Il manifesto della demitizzazione, Queriniana, Brescia 19906, pp. 103-174. Sull’escatologia di
Bultmann, si veda CAA 39, nota 73.
79
Capitolo II
la parusia del Cristo non ha avuto luogo così prontamente come si attendeva
il Nuovo Testamento. La storia del mondo ha continuato e – come ritiene ogni
persona sensata – continuerà ancora»55.
Secondo Bultmann, la convinzione di Gesù riguardante l’imminenza della
venuta del regno è una espressione della nozione biblica centrale della sovranità
di Dio, nei confronti di cui il mondo è come nulla. In altre parole, la sostanza
della predicazione escatologica di Gesù non fa riferimento ad alcuna possibile
“fine dei tempi” che debba venire, ma piuttosto al fatto che Dio trascende la
storia, mentre pone gli uomini davanti al loro fine ultimo, e li porta a sottomet-
tersi alla maestà divina56. Il fatto che l’aspettativa di Gesù circa la fine dei tempi
non si sia verificata appieno non significa che il contenuto del suo messaggio sia
vuoto o falso. Piuttosto è ora manifesto il suo vero significato: gli uomini sono
chiamati a rispondere urgentemente alla parola di Dio nel momento attuale.
Il regno non viene dal di fuori, per così dire, in un contesto cosmico, con una
mediazione materiale. Piuttosto viene dal di dentro, nel contesto esistenziale di
una radicale decisione di fede.
Bultmann ammette che non solo i Sinottici, ma anche San Paolo parla
chiaramente di una Parousia situata nel futuro. Tuttavia, osserva che, dica quel-
lo che dica nelle sue prime lettere (1 e 2 Ts; 1 Cor), Paolo nelle sue ultime lettere
parla dell’importanza salvifica della decisione della fede nel momento presente
piuttosto che del dramma finale di distruzione, rinnovamento e salvezza. La
storia del mondo, la storia su scala globale, è di poca importanza; ciò che conta è
la libera decisione individuale di fede. Al massimo, Bultmann potrebbe ammet-
tere – in modo individualista – che “l’Ultimo Giorno” è un concetto mitologico,
che deve essere scambiato con il linguaggio del thanatos, o morte dell’indivi-
duo57. Questo suggerimento gli viene probabilmente da Martin Heidegger (†
1976) secondo cui l’uomo è «un essere fatto per la morte»58. «In ogni momento
è sopita la possibilità dell’istante escatologico», scrive. «Devi risvegliarla»59. «Il
significato della storia sta nel presente», dice Bultmann, «e quando il presente
55
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, 110.
56
Si veda ibid., 123ss.
57
Ibid., 177s. Si confronti con le parole di J. Weiss: «Il mondo continuerà ad esistere, ma noi,
come individui, lo lasceremo presto. Tuttavia, potremo almeno approssimarci all’atteggiamento
di Cristo in modo differente, se metteremo alla base della nostra vita il precetto “vivi come se stessi
per morire”» La predicazione di Gesù, 195.
58
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 32-5; R. Jolivet, Le
problème de la mort chez M. Heidegger et J.-P. Sartre, Eds de Fontenelle, Abbaye Saint Wandrille 1950.
59
R. Bultmann, Storia e escatologia, 190.
80
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
60
Ibid.
61
Per esempio, si veda Gv 5,28ss.; 6,39.40.44.54; 12,48. Si veda R. Schnackenburg, Kirche und
Parusie, in J. B. Metz et al. (a cura di), Gott in Welt: für Karl Rahner, Herder, Freiburg i. B. 1964.
62
Per un’ulteriore critica di Bultmann, si veda il mio studio Fides Christi. The Justification Debate,
Four Courts, Dublin 1997, 155-8.
63
A. Schweitzer, Das Messianitäts- und Leidensgeheimnis. Eine Skizze des Lebens Jesu (orig. 1901),
J. C. B. Mohr, Tübingen 19563, pref., cit. da W. G. Kümmel, L’eschatologie conséquent d’Albert
Schweitzer jugée par ses contemporains, 61. E nella sua opera sulla storia della ricerca paolina,
Schweitzer ha tentato di svincolare Paolo dal giudaismo del suo tempo suggerendo che tra una
apocalisse fantastica e un rabbinismo senz’anima, tertium non dabatur: A. Schweitzer, Geschichte
der paulinischen Forschung, J. C. B. Mohr, Tübingen 1911, 36.
81
Capitolo II
Feine, parafrasando Weiss, dice che Gesù Cristo ha predicato la fine apocalit-
tica del tempo, o ha fondato la Chiesa cristiana, ma non entrambe le cose64. Si
può dire qualcosa del genere anche per Dodd e Bultmann: se il regno di Dio è
ora presente e attivo come sarà sempre, allora non c’è da attendere alcun futu-
ro compimento teologicamente rilevante. Questo approccio è abbastanza tipico
di alcuni studiosi protestanti, sebbene il teologo riformato Oscar Cullmann (†
1999) si sia notoriamente opposto ad esso nell’affermare che l’escatologia cristia-
na è caratterizzata da un approccio “già e non ancora”65.
In ogni caso, può risultare utile esaminare alcuni testi dei vangeli Sinottici
che parlano di una attesa della fine imminente per l’epoca presente, che non
ha ancora avuto luogo. A prima vista essi sembrano dar ragione alle posizio-
ni proposte da Weiss, Schweitzer e Werner, ma vedremo come questi testi, se
presi insieme ad altri dei medesimi vangeli, assumono un significato più ricco e
profondo, che permettono simultantamente una lettura “conseguente” e “realiz-
zata” dei testi biblici. Infine, esamineremo dei testi di Paolo e di Giovanni che,
a dispetto di un certo “presentismo”, parlano inequivocabilmente della venuta
futura del Signore Gesù66.
64
Si veda P. Feine, Die Erneuerung des paulinischen Christentums durch Luther, «Theologisches
Literaturblatt» 24 (1903) 440.
65
Vedi le note 41 e 51 sopra.
66
Si vedano le pp. 90s.
67
Si veda W. D. Davies e D. C. Allison, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel
according to Saint Matthew, T. & T. Clark, Edinburgh 1988-97, vol. 2, 189s.; J. Gnilka, Das
Matthäusevangelium, Herder, Freiburg i. B.; Basel 1988, vol. 1, 378s.
82
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
in Paolo (Rm 11,12.25s), viene attribuito da Matteo non ad Israele, quanto piut-
tosto ai Gentili (24,21). Altri hanno suggerito che il testo si riferisce alla distru-
zione di Gerusalemme e del Tempio, tema chiave nel vangelo di Matteo68. Così
com’è, tuttavia, il testo sembra voler semplicemente affermare che “la venuta del
Figlio dell’uomo” (che gli evangelisti associano invariabilmente e direttamente
al giudizio universale a alla Parousia)69 avrà luogo entro un periodo limitato di
tempo, prima che gli Apostoli diffondano la predicazione della Buona Novella
attraverso le città di Israele70. In altre parole, il compimento finale è imminente.
Mt 16,28. Si può trovare una dottrina simile in Mt 16. Dopo aver profetizzato
la propria messa a morte e successiva resurrezione, Gesù insiste che i disce-
poli devono essere preparati per seguirlo fino alla fine, prendendo ciascuno la
propria croce, perdendo la propria vita per salvarla (Mt 16,21-26). Conclude
il Signore promettendo la salvezza escatologica tramite il giudizio, «perché il
Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e
allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27). Ma poi aggiunge: «In
verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver
visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno» (Mt 16,28).
Il testo è seguito in tutti e tre i Sinottici dall’episodio della Trasfigurazione di
Gesù71. È perciò comprensibile che Mt 16,28 venga letto in riferimento alla gloriosa
apparizione di Gesù accompagnato da Mosè ed Elia, davanti a Pietro, Giacomo e
Giovanni, sulla cima di un monte, alcuni giorni dopo la profezia72. Contro questo
argomento, tuttavia, si può notare che durante i sei giorni intermedi, difficilmente
si può dire che i tre apostoli, testimoni della Trasfigurazione, abbiano sperimenta-
to le fatiche e le persecuzioni richieste dalla sequela del Signore al punto di dare la
68
Si veda la nota 98 sotto.
69
Si veda Mt 13,41; 16,27; 24,27-44; 25,31.
70
Questa è la posizione di M. Künzi, Das Naherwartungslogion Markus 9,1 par: Geschichte seiner
Auslegung: mit einem Nachwort zur Auslegungsgeschichte von Markus 13,30 par., J. C. B. Mohr
(Paul Siebeck), Tübingen 1977; P. E. Bonnard, L’Évangile selon Saint Matthieu, Delachaux et
Niestlé, Neuchâtel 19702, su Mt 10,23; R. H. Gundry, Matthew. A Commentary on his Literary and
Theological Art, W. B. Eerdmans, Grand Rapids, Mich. 1983, 194-95; D. A. Hagner, Matthew, 2
vols (Word Biblical Commentary, 33), Word Books, Dallas (TX) 1993-95, 279.
71
Il collegamento tra la predicazione della fine dei tempi e la Trasfigurazione è particolarmente
degno di nota in Marco. Si veda G. H. Boobyer, St. Mark and the Transfiguration Story, T. & T.
Clark, Edinburgh 1942; W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 2, 677s.
72
Mt 16,28 è riferito alla Trasfigurazione da Clemente d’Alessandria, Efrem il Siro, Ilario di
Gerusalemme, Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo, Agostino, Cirillo d’Alessandria,
spiegati in CAA 142s., nota 29. Per ulteriori riferimenti, si veda U. Luz, Matthew 8-20. A
Commentary, Fortress, Minneapolis 2001, 387.
83
Capitolo II
propria vita per Lui. Così, molti autori si limitano a riferire il testo alla venuta del
Figlio dell’uomo nella Parousia e nel giudizio finale73. Tuttavia, in questo caso, il
testo ugualmente sembra indicare che la fine del mondo è vicina.
Mt 24,34. Dopo aver spiegato ai discepoli il significato del fico che mette fuori le
foglie come un segno che la fine dei tempi si sta avvicinando, Gesù aggiunge: «In
verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga»
(Mt 24,34). Un testo simile si trova poco prima del discorso escatologico: «Vi dico
infatti che non mi vedrete più fino a quando non direte: “Benedetto colui che
viene nel nome del Signore!”» (Mt 23,39). L’intero contesto di Mt 23-25 sembre-
rebbe indicare che l’oggetto principale di Mt 23,39 e 24,34 sia la Parousia e il
giudizio finale che deve aver luogo alla “fine del mondo” (Mt 24,3)74. Di nuovo,
Gesù predice che la fine del mondo sta per venire.
73
Si veda A. Plummer, An Exegetical Commentary on the Gospel according to St. Matthew, 236;
W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 2, 678s.; L. Sabourin, Matthieu 10.23 et 16.28 dans la
perspective apocalyptique, «Science et Esprit» 37 (1985) 353-64; J. Gnilka, Matthäusevangelium,
vol. 2, 89; W. Grundmann, Das Evangelium nach Matthäus; R. H. Gundry, Matthew, in hoc loco;
U. Luz, Matthew 8-20, 386-8.
74
Si veda W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 3, 367; C. L. Blomberg, Matthew, Broadman
Press, Nashville 1992, in hoc loco.
75
Si veda CAA 143-50.
76
Si veda G. Strecker, Der Weg der Gerechtigkeit: Untersuchung zur Theologie des Matthäus,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19713, 43s.; H. C. Kee, Christian Origins in Sociological
84
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
Perspective, SCM, London 1980, 143; S. Schulz, Die Stunde der Botschaft. Einführung in die
Theologie der vier Evangelisten, Furche, Hamburg 1967, 229.
77
Sulla comunità di Matteo ed in particolare sul suo senso di missione universale, si veda B.
Maggioni, Alcune comunità cristiane del Nuovo Testamento: coscienza di sé, tensioni e comunione,
«Scuola Cattolica» 113 (1985) 404-31, in particolare 417-24.
78
Si veda G. Strecker, Der Weg, 44; S. Schulz, Die Stunde, 229; T. L. Donaldson, Jesus on the
Mountain. A Study in Matthean Theology, JSOT Press, Sheffield 1985, 166s. «La fine di questa epoca,
riguardante la ricerca dei discepoli sull’interrogativo del v. 3, non può giungere immediatamente,
ma deve essere preceduta da un periodo di evangelizzazione universale. La parousia perciò deve
subire un ritardo» D. A. Hagner, Matthew, 696.
79
B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 17.
80
Il visitatore angelico, parlando della Chiesa costruita come una torre, dice: «Folli! Non vedete la
torre ancora in costruzione? Appena la torre sarà terminata e costruita, allora giungerà la fine; e vi
assicuro che verrà terminata presto. Non chiedetemi altro. Siate contenti voi e tutti i santi… per il
mio rinnovamento del vostro spirito» Erma, Vis. 3,8,9.
85
Capitolo II
lo di senape (Mt 13,31s.)81, del lievito (Mt 13,33)82, del grano e della zizzania
(Mt 13,24-30)83. Tutto sommato, il ritorno del Signore, secondo le parabole di
Matteo, sembra rinviato indefinitamente, e il suo tempo semplicemente scono-
sciuto agli uomini (Mt 24,36.39.42.44.50; 25,13)84. Il fatto che un ampio spazio
sia riservato, nel primo vangelo, al primato dello sforzo etico pure suggerisce un
interim relativamente esteso affinché la giustizia del regno di Dio si manifestas-
se85. Così le promesse fatte da Gesù sembrano presupporre un lungo tempo di
attesa86. Clemente di Roma († 101), parlando della fine dei tempi nella sua lettera
ai Corinzi, spiega che le cose hanno bisogno di tempo per giungere a maturazio-
ne, anche all’interno della Chiesa87.
81
W. D. Davies e D. C. Allison, Matthew, vol. 2, 417, spiegano così la parabola del granello
di senape: «molti studiosi moderni direbbero che il tema non è la crescita ma il contrasto – il
contrasto tra il regno celato nel presente e il suo glorioso futuro». J. Jeremias, The Parables of Jesus,
148s., segue la stessa linea: «Nel Talmud (b. Sanh. 90b), in Paolo (1 Co 15,35-38), in Giovanni
(12,24), in 1 Clemente (24,4-5), il seme è l’immagine della resurrezione, il simbolo del mistero
della vita oltre la morte. La mentalità orientale vede due situazioni totalmente differenti: da una
parte il seme morto, dall’altra, la spiga di grano che si muove al vento, qui, la morte, là, tramite il
potere creatore divino, la vita… L’uomo moderno, che passa attraverso il campo arato, pensa su
quello che accade sotto il sole, e prevede uno sviluppo biologico. Il popolo della Bibbia, passando
attraverso il medesimo campo arato, guarda e vede miracolo su miracolo, niente meno che la
resurrezione dei morti. Così coloro che ascoltavano Gesù compresero la parabola del granello
di senape e del lievito parabole del contrasto». Tuttavia, N. A. Dahl probabilmente ha ragione
quando dice: «la crescita del seme e la regolarità della vita della natura è nota ai contadini fin
da quando si è iniziato a coltivare la terra… l’idea di crescita organica era tutt’altro che estranea
agli uomini antichi; per gli ebrei e i cristiani la crescita organica non era altro che l’altro aspetto
del lavoro creativo di Dio che solo porta alla crescita» Jesus the Christ. The Historical Origins of
Christological Doctrine, Augsburg, Minneapolis 1991, 149s. Secondo R. Otto, il regno è «una sfera
escatologica di salvezza, che irrompe, con un piccolo inizio senza pretese, miracolosamente si
sviluppa, e si incrementa: come un “campo d’energia” divina si estende e si espande sempre più
lontano» The Kingdom of God and the Son of Man, 124.
82
Si veda M. J. Lagrange, Évangile selon saint Matthieu, Lecoffre; Gabalda, Paris 19415, 187-90.
83
La parabola è chiaramente considerata una reazione a coloro che tentano di giudicare ora anziché
lasciare il giudizio a Dio. Al di là del contenuto paranetico, tuttavia, l’immagine escatologica
utilizzata è piuttosto chiara nel suo contenuto: il regno di Dio verrà al tempo di Dio.
84
Si veda D. A. Hagner, Imminence and Parousia in the Gospel of Matthew, in T. Fornberg e D.
Hellholm (a cura di), Texts and Contexts. Biblical Texts in Their Textual and Situational Contexts.
Essays in Honor of Lars Hartman, Scandinavian University Press, Oslo 1995, 77-92; Excursus
Imminence, Delay and Matthew’s εὑθέως, in Matthew, 711-3.
85
Si veda D. A. Hagner, Matthew’s Eschatology, 60s. Si veda in particolare Mt 5-7; 9,15; 12,33-7;
16,21-7; 18,21s.; 22,15-21; 23,8-11.
86
Si veda ibid., 61. I testi biblici includono: Mt 18,20; 28,20; 6,33; 7,11; 17,20; 21,21s.
87
Si veda Clemente Romano, Ep. in Cor. 23,3-4. Si veda O. B. Knoch, Eigenart und Bedeutung
der Eschatologie im theologischen Aufriss des ersten Klemensbriefes: eine auslegungsgeschichtliche
Untersuchung, P. Hanstein, Bonn 1964.
86
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
Lo spiegamento graduale della Parousia. Molti autori ritengono che gli eventi
finali profetizzati da Gesù in Mt 10,23; 16,28; 24,34 ed altri testi non facciano
riferimento alla Parousia in quanto tale, cioè alla venuta definitiva del Figlio
dell’uomo con il potere di giudicare i vivi e i morti, ma piuttosto ad altri momen-
ti critici per il compimento della missione di Cristo, precedenti alla Parousia e
ad essa preparatori88. Si tratta della posizione comune tra i Padri, gli Scolastici
e gli autori riformati, fino al XVIII secolo, quando per la prima volta il prote-
stante Samuel Reimarus († 1768) cercò di spiegare i testi biblici di difficile inter-
pretazione, appena menzionati, suggerendo che non siano stati pronunciati da
Gesù, ma inventati dopo di lui dai suoi discepoli ed interpolati dalla Chiesa89.
Come abbiamo visto prima, il fatto che alcuni pensatori protestanti assumano,
di fronte agli argomenti escatologici, una posizione di “o tutto o niente”, porta
facilmente ad una interpretazione del genere.
Al contrario, i Padri della Chiesa ed altri teologi cristiani leggono questi
testi in riferimento ad un’ampia varietà di momenti che segnano la storia della
salvezza: la riunione pre-pasquale di Gesù con i suoi discepoli al ritorno dalle
loro spedizioni missionarie90, la Trasfigurazione91, la morte92 o la Resurrezio-
ne93 di Gesù, o forse la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste94. Tradizio-
nalmente si è soliti riferire le parole di Gesù al consolidamento della missione
cristiana e della Chiesa95, alle differenti tappe della presenza attiva del regno di
Dio sulla terra. Come vedremo più avanti, i sacramenti, ed in modo particola-
re l’eucaristia, rappresentano una irruzione particolare del potere e dell’amo-
88
Su questo argomento, si veda P. Gaechter, Das Matthäusevangelium: ein Kommentar, Tyrolia,
Innsbruck; Wien 1964, in hoc loco.
89
Samuel Reimarus dice che Mt 16,28 non fa riferimento ad una parousia prossima, in quanto
implicherebbe un errore da parte di Gesù o della prima Chiesa: si veda C. H. Talbot (a cura di),
Reimarus: Fragments, II, § 38, Fortress, Philadelphia 1970, 215-18. Autori protestanti liberali
successivi, come F. C. Baur, H. A. W. Meyer, C. H. Weisse, O. Pfleiderer e H. J. Holtzmann,
ritennero che non si trattasse di una frase pronunciata effettivamente da Gesù. Sulla storia dell’uso
di questo testo, si veda M. Künzi, Das Naherwartungslogion Matthäus 10,23, 105-12; U. Luz,
Matthew 8-20, 387.
90
Si veda per esempio, Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. 34,1 (su Mt 10,23).
91
Si veda CAA 142, nota 28.
92
Si veda R. Clark, Eschatology and Matthew 10,23, «Restoration Quarterly» 7 (1963) 73-81.
93
Questa posizione è piuttosto recente, probabilmente posteriore alla riforma protestante. Per
dettagli, si veda CAA 147, nota 52.
94
Questa spiegazione è tipica anche dei teologi protestanti; si veda CAA 147, nota 53.
95
È abbastanza tipico anche tra i Padri identificare il regno di Dio, semplicemente, con la Chiesa.
Si veda per esempio, San Gregorio Magno, Hom. 32,7; Beda il Venerabile, In Marci Evangelii
Expositio III, 8. Tra gli autori recenti, si veda CAA 147, nota 54. Mt 24,34 è stato considerato così
anche da Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. 17,1; Eusebio, Fram. in Luc., su Lc 21,32.
87
Capitolo II
96
Si veda Benedetto XVI, Es. Apost. Sacramentum caritatis (2007), n. 31.
97
Questo è tipico di Origene. Nel suo Comm. in Joh. 12,33, per esempio, dice che Mt 16,28 fa
riferimento alla visione spirituale personale del glorioso Verbo di Dio che supera tutte le cose.
L’apocrifo (e probabilmente gnostico) Vangelo di Tommaso, log. 1, parla allo stesso modo,
dicendo che quelli che comprendono le parole di Gesù vivente non moriranno, una idea suggerita
forse in Gv 8,51.
98
Soprattutto tra gli autori protestanti. Per dettagli, si veda CAA 148s., nota 57.
99
Si veda CAA 150-4.
100
Si veda il mio studio Il mistero dell’incarnazione e la giustificazione. Una riflessione sul rapporto
antropologia-cristologia alla luce della Gaudium et spes 22, in M. Gagliardi (a cura di), Il mistero
dell’incarnazione e il mistero dell’uomo, Vaticana, Città del Vaticano 2009, 87-97.
101
Si vedano le pp. 286ss. sotto, sul Regno di Dio.
102
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II: dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurre-
zione, Vaticana, Città del Vaticano 2011, 59.
103
M. Künzi, Das Naherwartungslogion Markus 9,1 par, 188s.
104
D. A. Hagner, Matthew, 711. Per tutte le somiglianze che Mt 24-25 ha «con gli scritti apocalittici,
88
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
ci sono allo stesso tempo alcune differenze importanti. La più significativa: il discorso non tenta di
definire un calendario per la fine dei tempi. Sono vistosamente assenti informazioni riguardanti
il tempo della parousia, negate anche dalla figura centrale di Matteo, il Figlio dell’uomo stesso
(24,36). Il testo non intende infiammare l’aspettativa di una fine imminente, o anche di una fine
prevedibile. Se non altro, raffredda tale idea. Le tribolazioni che avrebbero dovuto significare una
fine imminente sono descritte così: “ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori” (24,8). L’unico
che è certo nel discorso è il fatto della fine. Il tempo è lasciato appositamente indeterminato. Di
conseguenza, il discorso conserva la sua importanza per tutte le generazioni cristiane» ibid., 684.
105
Ibid., 711. Questo spiegherebbe perché, dice Hagner, «subito dopo la tribolazione di quei
giorni… comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo… e [le tribù della terra]… vedranno il
Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria» (Mt 24,29s.). Sul termine
“subito” (eutheos), che E. Grässer, in Das Problem der Parusieverzögerung in den synoptischen
Evangelien und in der Apostelgeschichte, Töpelmann, Berlin 1957, 218, definisce il “puzzle di
Matteo”, si veda F. C. Burkitt, On Immediately in Mt 24.29, «Journal of Theological Studies» 12
(1911) 460s. Si veda BDAG, 405, s.v. εὐθέως.
106
Così H. van der Kwaak, Die Klage über Jerusalem (Matth. xxiii 37-39), «Novum Testamentum»
8 (1966) 156-70, ed in particolare D. C. Allison, in un articolo largamente accettato: Matt. 23,39 =
Luke 12,35b as a Conditional Prophecy, «Journal for the Study of the New Testament» 18 (1983)
75-84. Si veda anche CAA 149, nota 62.
107
Non si tratta di una posizione recente. Infatti Ronald Knox ha già descritto Mt 16,28 come una
«profezia condizionale, dipendente per il suo compimento alla realizzazione di certe condizioni
umane» R. A. Knox, Off the Record, Sheed & Ward, London; New York 1953, 36. Per una analisi
ulteriore, si veda CAA 150, nota 63.
108
C. F. Allison, Matt. 23,39 = Luke 12,35b as a Conditional Prophecy, 77, 80. Allison sostiene que-
sta tesi in quattro modi: primo, la fede nella contingenza del tempo della redenzione finale è ben
testimoniata da fonti giudaiche del secondo secolo e posteriori; secondo, il termine “finché” (hēos)
può indicare uno stato contingente in espressione greca in cui la realizzazione dell’apodosi dipende
89
Capitolo II
La Parousia in Paolo e Giovanni. Sia per Paolo che per Giovanni l’articolazione
tra gli aspetti presenti e futuri della Parousia è complessa e ha radici profonde.
San Paolo parla apertamente del futuro della Parousia nel contesto della
dottrina della resurrezione finale. Nelle sue prime lettere112, per esempio 1 e 2
Ts e 1 Cor, parla della salvezza escatologica in termini esplicitamente futuri.
Nella prima, Paolo esclama: «perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce
dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal Cielo» (1 Ts 4,16).
In 1 Cor 15 egli si rivolge ai cristiani che, o a causa del loro eccessivo attacca-
mento all’esperienza carismatica e apocalittica, o sotto l’influenza della menta-
lità greca, nemica del corpo fisico113, interpretavano la dottrina della resurre-
zione finale in termini spirituali, o come qualcosa che già è stata raggiunta nel
Battesimo (una sorte di escatologia realizzata). Paolo insegna che anche se la
nuova vita del battesimo costituisce una reale anticipazione della resurrezione,
la trasformazione finale deve ancora avvenire. «È necessario infatti che questo
dalla realizzazione della protasi - così il termine è più simile ad “a meno che” che non ad un “fin-
ché”; terzo, la struttura di Mt 23,39 indica una interpretazione condizionale secondo la tradizione
rabbinica; quarto, il contesto non sembra implicare né un annuncio assoluto della salvezza, né il
suo totale rifiuto, ma piuttosto una via di mezzo tra i due. Si veda anche BDAG, 422-4, s.v. ἕως.
109
Si veda BDAG, 937s., s.v. σπεύδω, 2.
110
Si veda la mia opera Fides Christi, 161-9.
111
Si vedano le pp. 289ss. sotto.
112
Sull’escatologia paolina in generale, si veda S. Zedda, L’escatologia biblica, vol. 2: Nuovo
Testamento, Paideia, Brescia 1975, 9-256; diversi studi sull’escatologia di Paolo in H.-J. Eckstein,
C. Landmesser, H. Lichtenberger (a cura di), Eschatologie – Eschatology, J.C.B. Mohr, Tübingen
2011, 173-246.
113
Si veda B. Maggioni, Alcune comunità cristiane del Nuovo Testamento.
90
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
114
Si veda S. Zedda, L’escatologia biblica, vol. 2, 195ss.
115
Si veda Rm 2,5-11; 14,10-13; 2 Cor 4,5; Ef 5,5; Col 4,24; Eb 10,27-29.
116
Si veda H. Schlier, Das, worauf alles wartet. Eine Auslegung von Römer 8, 18-30, in Das Ende der
Zeit. Exegetische Aufsätze und Vorträge, Herder, Freiburg i. B.; Basel 1971, 250-71.
117
Non è convinzione di pochi che la parte più antica del corpus giovanneo ricalchi la tradizione
sinottica: M.-É. Boismard, L’évolution du thème eschatologique dans les traditions johanniques,
«Revue Biblique» 68 (1961) 507-24; H.-J. Eckstein, Die Gegenwart des Kommenden und die Zukunft
des Gegenwärtigen. Zur Eschatologie im Johannesevangelium, in H.-J. Eckstein, C. Landmesser, H.
Lichtenberger (a cura di), Eschatologie – Eschatology, J.C.B. Mohr, Tübingen 2011, 149-69.
91
Capitolo II
riferimento ad un evento futuro («chi mangia la mia carne e beve il mio sangue
ha la vita eterno e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» Gv 6,54), che avrà luogo
“nell’ultimo giorno” (Gv 6,39.40.44.54), insieme al giudizio (Gv 12,48). La prima
lettera di Giovanni parla sia del grande giorno del giudizio (1 Gv 4,17) che della
manifestazione finale del Signore (1 Gv 2,28). Inoltre, il libro dell’Apocalisse, che
appartiene al corpus giovanneo, è totalmente rivolto al ritorno definitivo del
Signore Gesù nella gloria118.
118
Si veda S. Zedda, L’escatologia biblica, vol. 2, 427-515; U. Vanni, Dalla venuta dell’“ora” alla
venuta di Cristo. La dimensione storico-cristologica dell’escatologia nell’Apocalisse, in L’Apocalisse:
ermeneutica, esegesi, teologia, Dehoniane, Bologna 1988, 305-32.
119
Si veda J. Dupont, ΣΥΝ ΧΡΙΣΤΩΙ. L’union avec le Christ suivant saint Paul, Abbaye de Saint-
André; Nauwelaerts, Bruges; Louvain 1952, 40s., 43; B. Maggioni, L’escatologia nelle lettere ai
Tessalonicesi, «Rivista di Pastorale Liturgica» 9 (1972) 308-13.
120
I Tessalonicesi, per quanto sembra, erano certi della venuta della Parousia, ma erano preoccupati
per i defunti, temendo che questi non avrebbero partecipato alla gioia della venuta del Signore
a causa del tempo eccessivo trascorso tra la Parousia e la resurrezione/giudizio. Quel che Paolo
sottolinea, tuttavia, è importante: la Parousia e la resurrezione/giudizio coincidono. Perciò, coloro
che saranno ancora vivi alla venuta di Gesù godranno della compagnia di coloro che erano morti ed
ora risorti. Per questa ragione i vivi non avranno alcun vantaggio rispetto ai morti.
92
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
cesi parla del momento in cui «si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme
agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente» (2 Ts 1,7), anche se Paolo stesso
nota che il ritorno del Signore non è propriamente imminente (2 Ts 2,1-3).
Come abbiamo visto, alcuni autori affermano che il fenomeno descritto da
San Paolo sarebbe dovuto ad una consapevole falsificazione da parte di Gesù o
dei suoi discepoli. La spiegazione più ragionevole, invece, è questa: la comuni-
tà cristiana, povera e perseguitata, provava una profonda nostalgia per l’amato
Salvatore che aveva promesso di essere sempre con loro, è sperava che il Cristo
tornasse da loro il prima possibile, pronunciando di nuovo quelle parole inef-
fabili, «la pace sia con voi» (Lc 24,36; Gv 20,19) che egli aveva detto quando era
apparso loro dopo la Resurrezione, facendoli sentire perdonati per i loro peccati
ed inviati ad evangelizzare il mondo intero.
Il filosofo Maurice Blondel, criticando la teoria della “escatologia conse-
guente” di Weiss in un’opera del 1904, osservava che quest’ultimo non aveva
preso con sufficiente serietà la vita vissuta dei cristiani, la loro fede e il martirio.
«Se l’opera di Gesù è sopravvissuta alla sua morte, se ha superato tutte le delu-
sioni, non è solo per la fermezza nell’attesa della realizzazione della Parousia,
che aveva infiammato la speranza dei Giudei, ma perché i cristiani hanno in
cuore quel che è essenziale ad ogni movimento spirituale, un amore, una dedi-
zione invincibili per l’adorata persona del Buon Maestro»121.
121
M. Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophiques de l’exégèse moderne, in Les premiers
écrits de Maurice Blondel, PUF, Paris 1956, 149-228, qui 179s. In questo suo testo del 1904, Blon-
del analizza e critica l’esegesi storica della Scrittura.
122
Sui Padri della Chiesa, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 3s.; J. Timmermann,
Nachapostolisches Parusiedenken untersucht im Hinblick auf seine Bedeutung für einen
Parusiebegriff christlichen Philosophierens, Max Hüber, München 1968, 38-91.
123
Ignazio d’Antiochia, Ad Eph. 11,1; Ad Mag. 5,1.
124
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph. 28; 32,40.
125
Si veda Giustino, 1 Apol. 28, 45; Dial. cum Tryph. 39.
126
Si veda Ireneo, Adv. Haer. V, 28,3.
93
Capitolo II
quell’epoca, «alla sera della storia»127. San Cipriano († 258) esprime spesso la sua
convinzione secondo la quale la storia umana aveva raggiunto il suo tramonto128.
Egli afferma: «il mondo sta fallendo, passando via, e testimonia la sua rovina non
per la sua età, ma per la fine di tutte le cose»129. Lattanzio (III-IV sec.) pure affer-
ma che la terra dovrà durare soltanto 6000 anni, e che in questo momento siamo
testimoni «dell’età estremamente avanzata di un mondo stanco e decadente»130.
Secondo Eusebio di Cesarea († ca 339)131, l’attesa popolare di una immedia-
ta fine del mondo sembra aver raggiunto un tono febbrile in diverse parti della
cristianità occidentale durante il terzo secolo, specialmente nell’epoca delle
persecuzioni. Comunemente si riteneva che il mondo fosse già vecchio, e stesse
giungendo alla fine, quel che gli stoici chiamavano la senectus mundi, la vecchia-
ia del mondo132. San Giovanni Crisostomo († 407) insegna che la profezia di
Matteo riguardante l’evangelizzazione universale si è già compiuta e che la fine
è vicinissima133. Agostino lo dice così: «Ti sorprende che il mondo si sta perden-
do? Che sia diventato vecchio? Pensa all’uomo: nasce, cresce, diventa vecchio.
La vecchiaia porta con sé molti malanni: la tosse, le agitazioni, la vista manca,
l’ansietà aumenta, grande stanchezza. L’uomo si invecchia, è pieno di lamentele.
Il mondo è vecchio; è strapieno di tribolazioni pressanti… Non trattieni l’uomo
vecchio, il mondo; non smetti di ricuperare la tua gioventù in Cristo, che ti dice:
“Il mondo passa, il mondo si perde, al mondo gli manca il fiato. Non temere:
la tua gioventù sarà rinnovato come un’aquila”»134. Papa San Gregorio Magno
(† 604), nel mezzo delle tribolazioni causate dalla caduta dell’Impero Romano,
era convinto che la fine fosse imminente135. Nella Vita di San Gregorio scritta
da Giovanni il Diacono, leggiamo che «in tutte le sue parole e i suoi atti Grego-
rio considerava che il giorno finale e il giudizio venturo erano imminenti; più
sentiva vicina la fine del mondo, con i suoi numerosi disastri e calamità, più
127
Ibid., V, 15,4. Su questo aspetto dell’escatologia di Ireneo, si veda W. C. Van Unnik, Der
Ausdruck “In den letzen Zeiten”, in Neotestamentica et Patristica. Festschrift O. Cullmann, a cura
di W. C. Van Unnik, E. J. Brill, Leiden 1962, 293-304.
128
Si veda Cipriano, Ep. 63,16.
129
Cipriano, De mort. 25 (= Ep. 56); si veda Ep. 61,4; 67,7.
130
Si veda Lattanzio, Div. Instit. VII, 14.
131
Si veda Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl. 6,7.
132
Sulla nozione stoica di senectus mundi, si veda M. Spanneut, Le stoïcisme des Pères de l’Église:
De Clément de Rome à Clément d’Alexandrie, Seuil, Paris 1957, 258; B. E. Daley, The Hope of the
Early Church, 33-43.
133
Si veda Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth., 10,5s.; In Hebr. Hom. 21,3.
134
Sant’Agostino, Sermo 81, 8.
135
Si veda C. Dagens, La fin des temps et l’Église selon Saint Grégoire le Grand, «Recherches de
science religieuse» 58 (1970) 273-88.
94
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
analizzava con attenzione le vicende umane»136. «Il mondo non sta solamente
annunciando la propria fine», dice Gregorio, «ma si indirizza direttamente ad
essa»137. La ragione per i malanni sociali che abbondano, dice, giace nel fatto che
il mondo è invecchiato138 ed è giunto alla sua agonia finale139.
Tuttavia, è importante sottolineare che i Padri nel loro insieme riteneva-
no che la venuta del Figlio di Dio nella carne costituisse un primo stadio della
Parousia140. Per questa ragione, Crisostomo considera che il nostro interes-
se riguardante la fine del mondo costituisce una forma di vana curiosità, e si
domanda: «non è il compimento del mondo, per ciascuno di noi, la fine della
vita personale? Perché vi preoccupate e temete per la fine comune?… Il tempo
del compimento ha preso inizio con Adamo, e la fine di ciascuna della nostra
vita è una immagine del compimento. Non si sbaglierebbe, dunque, nel definirla
la fine del mondo»141.
Ancora, si potrebbe chiedere: che cosa hanno da dire i Padri della Chiesa
e i primi scrittori cristiani sul fatto che la Parousia promessa, di fatto, non si è
verificata immediatamente, come la Scrittura sembrava esigere? Il fatto che essi
reagiscano pacificamente allo spostamento della Parousia è un segno che tale
ritardo non abbia generato alcuna crisi particolare tra i credenti. Si è data comu-
nemente una lettura spirituale al ritardo della Parousia. Agostino commenta:
«quest’ultima ora è lontana a venire; ma è l’ultima»142. Cándido Pozo conclude
quindi che negli scritti dei Padri della Chiesa, «non c’è alcun indizio storico di
una qualsiasi crisi. I cristiani vivevano nel modo più naturale possibile la loro
esperienza del ritardo nella Parousia»143.
Quel che è degno di nota, tuttavia, durante i primi tre secoli del cristiane-
simo, è il fenomeno del millenarismo, ovvero la predicazione di un più o meno
imminente regno millenario di pace sulla terra (a cui fa riferimento i libro
dell’Apocalisse 20,2-7) prima che la Parousia avesse luogo. Torneremo su questo
argomento più avanti144.
136
Giovanni il Diacono, Vita Greg. 4,65.
137
Gregorio Magno, Dial. 3,38,3.
138
Si veda Gregorio Magno, Hom. in Ev. 1,1,1.
139
Si veda ibid., 5.
140
In buona misura, Ignazio d’Antiochia insegnò una escatologia realizzata (Ad Eph. 19,3), e
definiva la venuta di Gesù, appunto, “parousia” (Ad Philad. 9,2). Sul tema, si veda l’opera di D.
E. Aune, The Cultic Setting of Realized Eschatology in Early Christianity, E. J. Brill, Leiden 1972.
141
Giovanni Crisostomo, In Ep. 1 ad Thess. 9,1.
142
Agostino, In I Ep. Jo. tr. 3,3, su 1 Gv 2,18.
143
C. Pozo, La teología del más allá, 114s.
144
Si vedano le pp. 297ss.
95
Capitolo II
La speranza gioiosa nella venuta del Signore. Il Nuovo Testamento è molto chiaro
nell’affermare che non solo i cristiani aspettano il ritorno di Gesù nella gloria, ma
anche che la sua venuta è oggetto di gioiosa speranza. «Quando cominceranno ad
accadere queste cose», dice Gesù, parlando dei segni escatologici, «risollevatevi
ed alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Il desiderio dei
cristiani perché la potenza di Dio si manifesti al mondo intero è contenuta nella
vibrante supplica della Preghiera Domenicale, «venga il tuo regno»146.
Paolo esorta Tito e tutti gli altri credenti a «vivere in questo mondo con
sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della mani-
festazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,12-
14). Altri testi paolini si esprimono nella stessa maniera. «La nostra cittadinanza
infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil
3,20). A Timoteo dice: «ti ordino di conservare senza macchia e in modo irre-
prensibile il comandamento, fino alla manifestazione (epiphaneia) del Signo-
re nostro Gesù Cristo» (1 Tm 6,14). Mentre nella seconda lettera a Timoteo
leggiamo: «ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, giudice
giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che
hanno atteso con amore (egapekosi) la sua manifestazione» (2 Tm 4,8). Così sia
145
Così E. Brunner, Das Ewige, 149.
146
Sulla stretta relazione tra escatologia e il “Padre nostro”, si veda CCC 2818 e J. Jeremias, Paroles
de Jésus: le Sermon sur la montagne, le Notre-Père, Cerf, Paris 1969, 70.
96
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
in Giacomo (5,7-8) che in Pietro (1 Pt; 2 Pt 3,1-9) è chiaro che la speranza nel
ritorno del Signore Gesù costituisce per i cristiani un invito alla vigilanza e alla
perseveranza nella fede.
La fine del libro dell’Apocalisse offre un crescendo di speranza gioiosa
nella venuta finale del Signore Gesù: «Lo Spirito e la sposa dicono “Vieni!” E
chi ascolta, ripeta “Vieni!” Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente
l’acqua della vita… colui che attesta queste cose dice “Sì, vengo presto!” Amen.
Vieni Signore Gesù!» (Ap 22,17-20).
Il posto della Parousia nella liturgia della Chiesa. Scrivendo ai Corinzi, San
Paolo parla della celebrazione dell’eucaristia del Signore Gesù «finché egli venga»
(1 Cor 11,26). Effettivamente, la celebrazione eucaristica, il mistero della fede,
permette ai credenti di pregustare la futura venuta del Signore147. «La speranza
cristiana dei tempi antichi è soprattutto una speranza liturgica», osserva Henri
Bourgeois148. Un esempio di ciò è la preghiera dei primi cristiani chiamata
Didachē, o la “Dottrina dei dodici apostoli”, che contiene le seguenti intercessio-
ni liturgiche: «Venga la grazia e passi questo mondo. Maranatha, vieni Signore
Gesù [o, in alternativa, “il Signore Gesù è venuto”]»149.
La prima liturgia della Chiesa Romana150 si riferiva direttamente alla
speranza nella Parousia, la venuta del Signore Gesù nella gloria. Tale liturgia
è incentrata sulla figura di Cristo come nostro Mediatore. La preghiera della
Chiesa è diretta a Dio Padre, attraverso Cristo nostro intercessore. Egli è situato
“accanto a noi”, per così dire; può considerarsi come il “prolungamento” verso
Dio della Chiesa e dei cristiani. Perciò, tutte le preghiere della celebrazione sono
dirette a Dio, per Christum Dominum nostrum, “per Cristo nostro Signore”.
147
Sulla relazione tra escatologia ed Eucaristia, si veda inter alia, P. de Haes, Eucaristia e escatologia,
in Aa.vv., Eucaristia. Aspetti e problemi dopo il Vaticano II, Cittadella, Assisi 1968, 158-78; J. Ntedika,
e
L’évocation
e
de l’au-delà dans la prière pour les morts: étude de patristique et de liturgie latines (IV -
VIII s.), Nauwelaerts, Louvain; Paris 1971; F.-X. Durrwell, Eucharistie et Parousie, «Lumen Vitae»
26 (1971) 89-128; E. Martínez y Martínez, La escatología en la liturgia romana antigua, Instituto
Superior de Pastoral, Salamanca; Madrid 1976; G. Wainwright, Eucharist and Eschatology; N. Conte,
Benedetto Colui che viene. L’eucaristia e l’escatologia, Dehoniane, Napoli 1987.
148
H. Bourgeois, L’espérance maintenant et toujours, Desclée, Paris 1985, 90.
149
Anon., Didachē 10,6. C. Pozo, La teología del más allá, 122s., afferma che la forma normale è
quella futura, non quella presente. 1 Co 16,22 pure usa il termine maranatha; si veda R. B. Brown,
1 Corinthians (The Broadman Bible Commentary), Broadman Press, Nashville, 1970, 397; F. F.
Bruce, 1 and 2 Corinthians, Oliphants, London 1971, 162; H. D. Wendland, Die Briefe und die
Korinther, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19547, 143; BDAG 626, s.v. μαράνα.
150
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 125-8. Pozo si basa sull’opera del 1925 del liturgista J.
A. Jungmann, Die Stellung Christi im Liturgischen Gebet, Aschendorff, Münster 19622; e K. Adam,
Christus unser Bruder, J. Habbel, Regensburg 19508, 46-80.
97
Capitolo II
151
Si vedano le pp. 66s.
98
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
152
Catechismo del Concilio di Trento (Catechismo Romano) I, 7,2. Trad. L. Andrianopoli, Il Cate-
chismo Romano Commentato, Ares, Milano 1987, 95.
153
Concilio Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, nn. 8, 102.
154
E. Keller, Eucharistie und Parusie: Liturgie- und theologiegeschichtliche Untersuchungen zur
eschatologischen Dimension der Eucharistie anhand ausgewählter Zeugnisse aus frühchristlicher und
patristischer Zeit, Universitätsverlag, Fribourg (Suisse) 1989.
155
Si veda J. Leclercq, Jacques (Liturgie de Saint), in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de
liturgie, vol. 7/2, col. 2116-21.
99
Capitolo II
156
Si veda L. Gougand, Celtiques (Liturgies), in ibid., vol. 2, col. 2973-5. Lo stesso si può dire delle
liturgie di San Marco, San Giovanni Crisostomo, San Basilio, così come del rito Ambrosiano e
Mozarabico: si veda J. J. Alviar, Escatología, 74s.
157
Dalla celebrazione Siro-Malabrese dell’eucaristia.
158
Dal Qurbono Siro-Malankarese.
159
Si veda l’opera classica di F. J. Dölger, Sol Salutis. Gebet und Gesang im christlichen Altertum:
mit besonderer Rücksicht auf die Ostung in Gebet und Liturgie, Aschendorff, Münster 19202. Si
veda anche J. M.-R. Tillard, L’Eucharistie, sacrement de l’espérance ecclésiale, «Nouvelle Revue
Théologique» 83 (1961) 561-92; J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2001, 70-80; U. M. Lang, Rivolti al Signore: l’orientamento nella preghiera
liturgica, Cantagalli, Siena 2006.
160
Si veda D. E. Aune, The Cultic Setting of Realized Eschatology; W. Rordorf, Liturgie et
eschatologie, «Augustinianum» 18 (1978) 153-61.
161
Si veda V. Pavan, La veste bianca battesimale, indicium escatologico nella Chiesa dei primi secoli,
«Augustinianum» 18 (1978) 257-71.
162
B. Sesboüé, Le retour du Christ, 155.
100
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
163
Giovanni Paolo II, Enc. Ecclesia de Eucharistia (2003), n. 18. Si veda Benedetto XVI, Es. apost.
Sacramentum caritatis (2007), nn. 30-32.
164
Si veda H. Irsigler, Gottesgericht und Jahwetag. Die Komposition Zef 1,2-2,3, untersucht auf der
Grundlage der Literarkritik des Zefanjabuches, EOS, St. Ottilien 1977.
165
Si veda anche Is 13,6-9; 22,5; 34,8; 63,4.
166
Ci sono molti esempi lungo tutto il Nuovo Testamento. Mt 24,36 utilizza l’espressione “quel
giorno”, Rm 2,5, il «giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio». 1 Cor 3,13
afferma: «quel Giorno farà conoscere… l’opera di ciascuno». I Ts 5,2: «il giorno del Signore verrà
come un ladro di notte»; 2 Tm 1,12 parla di Paolo che custodisce «fino a quel giorno ciò che gli
è stato affidato». In 2 Tm 4,8 si parla della «corona di giustizia [che] il Signore giudice giusto,
mi consegnerà in quel giorno». Gc 5,3: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni». 2 Pt 3,12
parla dei cristiani mentre «aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio». Ap 16,14 parla dei
re e dei demoni che si raduneranno «per la battaglia del grande giorno di Dio, l’Onnipotente».
101
Capitolo II
Sull’equivalenza tra “il giorno del Signore” del Antico Testamento e la Parousia del Nuovo
Testamento, si veda C. Pozo, La teología del más allá, 104-10.
167
A. Feuillet considera il tema della Parousia tra i più complessi dell’intero Nuovo Testamento:
Parousie, col. 1141.
102
Parousia: la venuta futura del Signore Gesù nella gloria
103
Capitolo III
1
G. Marcel, Structure de l’Esperance, 79.
2
R. Guardini, Le cose ultime, 72.
3
Si veda in particolare il mio studio Resurrezione, nel Dizionario Interdisciplinare di Scienza e
Fede, cit., vol. 2., 1218-31 cui fanno stretto riferimento le prossime pagine.
4
Tertulliano, De res., 1.
5
Su questa espressione, si veda in particolare il mio studio La fórmula “Resurrección de la carne” y
su significado para la moral cristiana, «Scripta Theologica» 21 (1989) 777-803.
105
Capitolo III
6
DS 150.
7
DS 76.
8
Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 28.
9
Si veda CCC 992-1004.
10
Si veda M. Hengel, Judaism and Hellenism. Studies in their Encounter in Palestine during the
Early Hellenistic Period, SCM, London 1981, vol. 1, 196, note 574-5, sugli aspetti non-rivelati della
dottrina della resurrezione.
11
Si veda H. H. Rowley, The Faith of Israel. Aspects of Old Testament Thought, SCM, London
1956, 161ss.; H. Wissmann, Auferstehung der Toten I/1: Religionsgeschichtlich, in Theologische
Realenzyklopädie, a cura di G. Krause e G. Müller, vol. 4, De Gruyter, Berlin; New York 1979,
106
La resurrezione dei morti
so puramente naturale, riservato in ogni caso a coloro i cui corpi siano stati in
qualche modo conservati, per esempio tramite il processo della mummifica-
zione. Nel Rig-Veda indiano (precedente al 2000 a.C.), si descrive come l’anima
del morto venisse presa dal dio-fuoco e «ricevesse un nuovo corpo, più “sotti-
le”, e la sua vita fosse una replica della vita umana sulla terra, sebbene libera
da tutte le imperfezioni che qui sono inseparabili dal corpo»12. Alcuni autori
hanno suggerito che la dottrina della resurrezione derivi dalla teologia della
salvezza persiana, che, in effetti, utilizza il linguaggio della resurrezione13. La
concezione ebraica e quella persiana della resurrezione, tuttavia, sono netta-
mente distinte l’una dall’altra. Per gli Ebrei, la resurrezione implica il risveglio
dei corpi sepolti tramite la potenza di Dio. Per i Persiani, che esponevano i corpi
alla dissoluzione degli elementi, la resurrezione è concepita come un risorgere
della vita mediante l’azione degli elementi stessi della natura; si trattava inol-
tre di un processo selettivo, non universale14. Il che significa che l’intervento
speciale della potenza divina non è considerato necessario, com’è invece per la
resurrezione universale. In breve, sebbene si possono trovare delle contiguità
linguistiche tra gli insegnamenti ebrei e persiani riguardo la vita dopo la morte,
non c’è però consonanza per quanto riguarda la modalità (resurrezione), la
causa (la potenza di Dio) e l’estensione (universale)15.
442s.; J. H. Charlesworth, The Origin and Development of Resurrection Beliefs, in Aa.vv., The
Origin and Future of a Biblical Doctrine, T. & T. Clark, New York 2006, 218-231.
12
R. C. Zähner, Hinduism, Oxford University Press, London 1962, 75.
13
Si veda A. Bertholet, The Pre-Christian Belief in the Resurrection of the Body, «American Journal
of Theology» 20 (1916) 1-30.
14
Si veda W. F. Albright, From the Stone Age to Christianity, The John Hopkins Press, Baltimore
19572, 358; R. H. Charles, A Critical History of the Doctrine of a Future Life in Israel, in Judaism,
and in Christianity, Black, Adam & Charles, London 19132, 139ss.
15
Si veda W. F. Albright, From the Stone Age, 361; R. C. Zähner, The Dawn and Twilight of
Zoroastrianism, Wiedenfeld and Nicolson, London 1961, 57.
16
I. Lévy, La légende de Pythagore de Grèce en Palestine, Leroux, Paris 1927, 255; T. F. Glasson,
Greek Influence in Jewish Eschatology, with Special Reference to the Apocalypses and Pseudepigraphs,
SPCK, London 1961, 29.
17
Si veda Tertulliano, De res. 1,5.
18
Pars pro toto, si veda L. Bukovski, La réincarnation selon les Pères de l’Église, en «Gregorianum»
9 (1928) 65-91; A. de Georges, La réincarnation des âmes selon les traditions orientales et
107
Capitolo III
108
La resurrezione dei morti
zione è accettabile, dice Taziano (II sec.), «ma non secondo la modalità stabilita
dagli stoici; per essi infatti le stesse cose nascono e muoiono in periodi ciclici»24.
La resurrezione non è confrontabile con la reincarnazione, in primo luogo
perché lo scopo della trasmigrazione è la perfetta purificazione dell’anima trami-
te la sua definitiva separazione dalla materia, mentre la resurrezione implica la
perpetua ed armonica riunificazione di anima e corpo, di spirito e materia. Le
antropologie implicate sono differenti, addirittura opposte, essendo la natura
umana definita dall’unità di corpo e anima (resurrezione), non dalla loro defi-
nitiva e perpetua separazione (reincarnazione). In secondo luogo, la resurrezione
differisce dalla trasmigrazione nel fatto che la seconda può aver luogo molte volte
per un’anima particolare (finché la purificazione sia completa), o indefinitamen-
te, mentre la resurrezione (e la medesima vita umana) ha luogo una sola volta.
Perciò, una fede nella resurrezione finale ha come conseguenza che gli uomini
possano vivere una volta sola (come Cristo ha vissuto, è morto ed è risorto dalla
morte, ephapax, “solo una volta”, come leggiamo nella lettera agli Ebrei)25. La
moderna fede nella reincarnazione, che prevede la ripetizione indefinita del ciclo-
vitale umano, quindi, tende a consacrare il provvisorio, mettere a repentaglio la
fedeltà, banalizzare la vita quotidiana26. Terzo, se la trasmigrazione è applicata
al destino e alla purificazione individuale, la resurrezione si riferisce all’intera
umanità, perché avrà luogo contemporaneamente per tutti gli uomini alla fine
dei tempi. Quarto, mentre la reincarnazione possa fornire una giustificazione
per le ineguaglianze sociali, la resurrezione è sviluppata nella Scrittura come uno
strumento divino per assicurare la giustizia definitiva, e quindi l’uguaglianza tra
gli uomini27. Quinto ed ultimo, mentre la trasmigrazione è normalmente consi-
derata un processo naturale, nel quale le anime spontaneamente passano da un
corpo al successivo, la resurrezione dipende interamente dal potere ri-creatore di
24
Taziano, Or. ad graecos, 6.
25
Sull’unicità e irripetibilità della morte e Resurrezione di Cristo come base per rifiutare la
reincarnazione, si veda C. Schönborn, La vie éternelle, 141-3. Commentando l’ampio studio di
John Hick sulla dottrina della reincarnazione, Death and Eternal life, Collins, London 1976, 297-
396, W. Pannenberg nota: «stranamente, nelle sue riflessioni sul rapporto tra cristianesimo e idea
di reincarnazione [Death and Eternal Life, 365-73], Hick non approfondisce questo punto. Egli
ricorda l’interesse del cristianesimo per l’unicità della redenzione attraverso la morte di Gesù
Cristo [ibid., 372], non però il correlato antropologico di questa fede nell’interesse per l’unicità
della vita terrena», Teologia sistematica, vol. 3, 592, nota 128. Sul termine ephapax, si veda BDAG,
97, s.v. ἅπαξ; 417, s.v. ἐφάπαξ.
26
G. Colzani dice che la reincarnazione fornisce «un genere di felice permanente vacanza che
permette a ciascuno di eludere le scelte drammatiche della vita quotidiana» G. Colzani, La vita
eterna, 15. Massimo il Confessore chiama la reincarnazione una “morte perpetua”.
27
Si veda il mio studio La muerte y la esperanza, Palabra, Madrid 2004, 97-109.
109
Capitolo III
Dio. Quest’ultimo è quel che rende la fede nella resurrezione strettamente teolo-
gica e in modo caratteristico giudaico-cristiana28.
28
G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 426, suggerisce le seguenti obiezioni alla fede nella
reincarnazione: la nullificazione del soggetto umano personale; lo svilimento del corpo umano,
considerato come un mero ricettacolo dello spirito; la rimozione di ogni senso di responsabilità
dalla vita personale; la giustificazione ideologica per le ineguaglianze sociali.
29
Si veda L. Wächter, Der Tod im Alten Testament, Calwer, Stuttgart 1967; J. Ratzinger, Escatologia,
96-107.
30
Si veda per esempio Lv 19,31; 20,6; Is 8,19. L’Antico Testamento incontrò nel culto degli
antenati una forma di competizione con la fede in Dio come l’unico che ha potere sul futuro. Su
questo argomento, si veda L. Wächter, Der Tod, 187s.; J. Ratzinger, Escatologia, 99s., così come
l’opera classica di A. Lods, La croyance à la vie future et le culte des morts dans l’antiquité israélite,
Fischbacher, Paris 1906.
31
Sullo she’ol e refa’im, si veda R. Martin-Achard, De la mort à la résurrection d’après l’Ancien
110
La resurrezione dei morti
Testament, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1956; L. Wächter, Der Tod, 181-98; C. Pozo, La
teología del más allá, 200-20.
32
Il termine “she’ol” è molto vicino al greco hadēs o regno degli spiriti, secondo l’opera classica di E.
Rohde, Psyche. The Cult of Souls and Belief in Immortality among the Greeks (orig. 1891), Harcourt
Brace, London; New York 1925, 236ss.; si veda anche G. Deiana, L’inferno. She’ol, Geenna, Ade: il
castigo dell’inferno, in G. Bortone (a cura di), I novissimi nella Bibbia, ISSRA, L’Aquila 1999, 93-113;
L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo, A. Mondadori, Milano 20002, 123-49. Per una analisi dettagliata, si
veda P. S. Johnson, Shades of Sheol. Death and Afterlife in the Old Testament, Inter-Varsity, Downers
Grove (IL) 2002; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 138-50. Si veda lo studio classico di G. L.
Prestige, Hades in the Greek Fathers, «Journal of Theological Studies» 24 (1923) 476-85.
33
Si veda Gb 3,13-17s.; Na 3,18. R. Martin-Achard, De la mort à la résurrection, trova le origini
dell’idea di refa’im tra le divinità della fertilità sotterranee. Tra le altre cose, questo spiegherebbe
la paura dei morti.
34
Si veda Is 38,18; Sal 88,11ss.; 30,10; Sir 17,22.
35
Questa è la spiegazione fornita da C. Pozo, La teología del más allá, 200-10.
36
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 159.
111
Capitolo III
37
Si veda P. Grelot, De la mort a la vie éternelle: études de théologie biblique, Cerf, Paris 1971, 105,
ritiene che la dottrina dell’immortalità sia caratteristica dell’Antico Testamento. Si veda C. Pozo,
La teología del más allá, 227-37 e BDAG, 23, s.v. ἀθανασία.
38
Si vedano le pp. 119s.
39
Sulla teologia della resurrezione nell’Antico Testamento, si veda J. Becker, Auferstehung der
Toten im Urchristentum, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1976; P. Hoffmann, Die Toten in
Christus; U. Kellermann, Überwindung des Todesgeschicks in der alttestamentlichen Frömmigkeit
vor und neben dem Auferstehungsglauben, «Zeitschrift für Theologie und Kirche» 73 (1976) 259-
82; G. Greshake e J. Kremer, Resurrectio Mortuorum. Zum theologischen Verständnis der leiblichen
Auferstehung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1992; C. Pozo, La teología del
más allá, 324-41; É. Puech, La croyance des Esseniens en la vie future: immortalité, résurrection,
vie éternelle?: histoire d’une croyance dans le judaïsme ancien, 2 vol., Gabalda, Paris 1993; J. D.
Levenson, Resurrection and the Restoration of Israel: the Ultimate Victory of the God of Life, Yale
University Press, New Haven 2006; K. Madigan and J. D. Levenson, Resurrection; J. Gillespie, The
Development of Belief in the Resurrection within the Old Testament, Edusc, Roma 2009; A. Nitrola,
Pensare la venuta del Signore, 150-86.
40
Si veda R. Martin-Achard, De la mort, 57-84; D. Cox, “As Water Spilt on the Ground”: Death in
112
La resurrezione dei morti
the Old Testament, «Studia Missionalia» 31 (1982) 1-17; C. Marucci, Teologia della morte nell’A.
T., in G. Bortone, I novissimi nella Bibbia, 3-30.
41
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 327-30; G. Colzani, La vita eterna, 99s.
42
Si veda R. J. Tournay, L’eschatologie individuelle dans les Psaumes, «Revue Biblique» 57 (1949)
481-506; M. Dahood, Psalms: Introduction, Translation, and Notes (The Anchor Bible, vol. 16, 17,
17.1), Doubleday and Co., Garden City 1981-2; C. Pozo, La teología del más allá, 214-20.
43
Sull’argomento del Messianismo temporale e la sua perenne propensione alla rivoluzione, si
veda G. Scholem, Sabbatai Tsevi. Le Messie mystique, 1626-1676, Verdier, Paris 1985.
44
In Salmi 73,23-26.28 leggiamo: «Ma io sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra.
Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria. Chi avrò per me nel cielo? Con
te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del
mio cuore, mia parte per sempre… Per me il mio bene è stare vicino a Dio; nel Signore Dio ha
posto il mio rifugio, per narrare tutte le tue opera».
45
W. Pannenberg dice che «la fede in una futura vita individuale, oltre la morte, diventa oggetto di
speranza soltanto quando si combina con l’aspettativa di una vita migliore, soprattutto se vissuta
in comunione con la divinità. Ed è questa la seconda e più profonda radice della fede biblica nella
resurrezione» Teologia sistematica, vol. 3, 593.
46
Tra i testi apocalittici si veda per esempio Syr. Bar. 50,2-4. Si veda anche Gv 5,29; At 24,15.
47
Si veda la nota 19 sopra.
48
Si veda 1 Sam 2,6; Am 9,1-2; Sal 16,9s.; Sap 16,13s.
49
Si veda Sal 88,11; 139,8-12; Gb 14,13s.
113
Capitolo III
hai potere sulla vita e sulla morte, conduci alle porte del regno dei morti e fai
risalire» (Sap 16,13). La medesima dottrina si trova nell’insegnamento di Gesù
rispetto al «seno di Abramo» (Lc 16,22); esso probabilmente fa riferimento ad
una parte del mondo sotterraneo in cui il potere salvifico di Dio è attivo50.
In terzo luogo, Jahve si distingue dagli dei pagani (che gelosamente si attac-
cano alla vita e tentano di dominarla) per il fatto che Egli è il “Dio vivente” (1 Sam
17,26-36; Sal 18,47), la fonte (Sal 36,10; Ger 2,13) da cui la vita zampilla incessan-
temente e senza misura (Dn 14,25). Inoltre, si può ritrovare una chiara continuità
tra la dottrina della creazione e quella della resurrezione come manifestazioni del
Dio che dà la vita51. Tale motivo è fortemente presente lungo tutta la Scrittura.
Quarto, come conclusione di quanto detto sopra, la morte e la corruzio-
ne definitiva non appartengono al piano originario di Dio; infatti egli ha creato
ogni cosa per la vita. In realtà la morte è entrata nel mondo attraverso il peccato
dell’uomo52. «Non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita,
non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani; perché Dio non ha creato
la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,12s.). Ci occuperemo della
questione della relazione tra peccato e morte più avanti53. Può bastare, tuttavia,
per il momento dire che la vittoria di Dio sul peccato, cioè la redenzione, è stret-
tamente collegata alla vittoria sulla morte, cioè alla resurrezione, che diventa una
manifestazione centrale del potere salvifico di Dio. La Scrittura spesso afferma,
inoltre, che coloro che vivono in unione con Dio saranno liberati dalla morte54.
In quinto luogo, materiale letterario utile per descrivere la resurrezione si
trova nei libri dei Re, che spiegano come i santi profeti Elia ed Eliseo abbia-
no compiuto resurrezioni miracolose55. Ugualmente, la “assunzione” al cielo di
Enoc56 e di Elia57 forniscono una chiara indicazione della generale accettazio-
ne della possibilità che l’intera vita corporea venga restituita all’uomo dopo la
50
Sull’immagine del “seno di Abramo” si vedano le differenti interpretazioni presentate da J.
Nolland, Luke 9,21-18,34 (Word Biblical Commentary, 38), Word Books, Dallas 1993, 829. Si
veda anche BDAG, 556s., s.v. κόλπος, 1, con bibliografia. L’espressione fa riferimento al luogo di
onore e rispetto nell’altro mondo.
51
Si veda N. T. Wright, The Resurrection of the Son of God, Fortress, Minneapolis 2003, 123.
52
Si veda Gn 3,17-19; Sap 1,13-14; 2,23-24; Rm 5,21; 6,23; Gc 1,15.
53
Si vedano le pp. 317ss.
54
Si veda Gb 14,10-21; Sir 14,16.
55
Si veda 1 Re 17,17-24; 2 Re 2,9s.; 4,31-7; Sir 48,5-14.
56
Si veda Gn 5,24; Sir 44,16 & 49,14.
57
Si veda 2 Re 2,1-11; Sir 48,9.
114
La resurrezione dei morti
58
Così Ireneo, Adv. Haer. V, 5. Si veda anche H. C. C. Cavallin, Life after Death. Paul’s Argument
for the Resurrection of the Dead in I Cor 15, vol. 1: An Enquiry into the Jewish Background, Gleerup,
Lund 1974, 23.
59
Si veda E. Haag, Ez 37 und der Glaube an die Auferstehung der Toten, «Trierer theologische
Zeitschrift» 82 (1973) 78-92. Vedi i commenti di W. Zimmerli, Ezekiel: a Commentary on the
Book of the prophet Ezekiel, vol. 2, Fortress, Philadelphia 1983, cap. 25-48; J. Blenkinsopp, Ezekiel.
Interpretation: A Bible Commentary for Teaching and Preaching, John Knox Press, Louisville,
Kentucky 1990; C. J. H. Wright, The Message of Ezekiel: a New Heart and a New Spirit, Inter-
Varsity, Leicester 2001; L. C. Allen, Ezekiel 20-48, Word Books, Dallas 1990; D. I. Block, The Book
of Ezekiel, 2 vols, W. B. Eerdmans, Grand Rapids (MI); Cambridge 1997-98; M. Greenberg, Ezekiel
21-37: a new Translation with Introduction and Commentary, Doubleday, New York 1997.
115
Capitolo III
duto: «queste ossa sono tutta la casa di Israele» (Ez 37,11). È chiaro che questi
testi prevedono il ritorno collettivo, terreno del popolo di Dio alla sua gloria
passata, piuttosto che la resurrezione individuale dei morti. Il “nuovo esodo” è
formulato in termini di resurrezione corporea. Tuttavia, e si tratta della quar-
ta osservazione, il fatto che l’immagine utilizzata per parlare della rinascita di
Israele sia precisamente quella della resurrezione corporea è molto rilevante,
data la relazione di entrambe con creazione ed Esodo60. Inoltre, la metafora della
pianura di ossa inaridite che tornano alla vita è spesso stata usata in contesto
artistico e liturgico per spiegare la dottrina della resurrezione finale61.
60
Si veda J. D. Levenson, Resurrection and the Restoration of Israel, 163.
61
Si veda E. Dassmann, Sündenvergebung durch Taufe, Busse und Märtyrerfürbitte in den Zeugnissen
frühchristlicher Frömmigkeit und Kunst, Aschendorff, Münster 1973, 60, 70, 220s. Si veda R. M.
Jensen, Born Again. The Resurrection of the Body and the Restoration of Eden, in Understanding
Early Christian Art, Routledge, London; New York 2000, 156-82, in particolare 167ss.
62
Si veda G. F. Hasel, Resurrection in the Theology of the Old Testament Apocalyptic, «Zeitschrift
für die alttestamentliche Wissenschaft» 92 (1980) 267-84; L. J. Greenspoon, The Origins of the
Idea of Resurrection, in Traditions in Transformation, a cura di B. Halpern e J. D. Levenson,
Eisenbrauns, Winona Lake (IN) 1981, 247-321; M. S. Moore, Resurrection and Immortality: Two
Motifs Navigating Confluent Theological Streams in the Old Testament (Dan 12,1-4), «Theologische
Zeitschrift» 39 (1983) 17-34. Martin-Achard considera che sia Is 26 che Ez 37 facciano riferimento
alla resurrezione personale, come anche G. F. Hasel e L. J. Greenspoon.
63
Si veda B. J. Alfrink, L’idée de résurrection d’après Dn 12,1-2, «Biblica» 40 (1959) 355-71; A.
Bonora, Il linguaggio di resurrezione in Dn 12,1-3, «Rivista Biblica» 30 (1982) 111-25; CAA 89-92.
116
La resurrezione dei morti
64
Alcuni autori ritengono che il testo parli solo di resurrezione “per i vivi”; per gli altri ci sarà
la morte eterna, e non la resurrezione: così J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 82; P.
Grelot, De la mort a la vie éternelle, 184, nota 4. Non si tratta, tuttavia, della posizione più comune.
65
Secondo R. H. Charles, la resurrezione è «un tipo di proprietà escatologica, un mezzo attraverso
il quale i membri delle nazioni si presenteranno davanti a Dio per ricevere la loro ricompensa
finale» Eschatology, in Encyclopedia Biblica 2 (1901) 1355.
66
Si veda CAA 91s.
67
Secondo R. Martin-Achard, De la mort à la résurrection, 453, l’espressione fa letteralmente
riferimento a “i molti”; per altri autori si riferisce a “tutti e ciascuno”: E. F. Sutcliffe, The Old
Testament and the Future Life, Burns, Oates & Washbourne, London 19472, 138-40; J. Jeremias,
The Eucharistic Words of Jesus, SCM, London 1966. Si veda la recente riflessione, in contesto
liturgico, di M. Hauke, Versato per molti: studio per una fedele traduzione del pro multis nelle
parole della consacrazione, Cantagalli, Siena 2008.
68
Si veda U. Kellermann, Auferstanden in den Himmel. 2 Makkabäer 7 und die Auferstehung der
Märtyrer, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1979, che afferma che il testo è strettamente correlato
con Dn 12.
117
Capitolo III
69
Si veda H. Bückers, Die Unsterblichkeitslehre des Weisheitsbuches, Aschendorff, Münster 1938;
P. Beauchamp, La salut corporel des justes et la conclusion du Livre de la Sagesse, «Biblica» 45
(1964) 491-526; G. Dautzenberg, Sein Leben bewahren. Ψυχ in den Herrenworten der Evangelien,
Kösel, München 1966, 42ss.; P. Grelot, L’eschatologie de la Sagesse et les Apocalyptiques juives, in
De la mort, 187-99; C. Larcher, Études sur le livre de la sagesse, Gabalda; Lecoffre, Paris 1969; C.
Pozo, La teología del más allá, 227-37; M. V. Fabbri, Creazione e salvezza nel libro della Sapienza:
esegesi di Sapienza 1,13-15, Armando, Roma 1998; idem., Incorruttibilità e salvezza corporale. Il
significato del termine ἀφθαρσία in Sap. 2,23, «Annales Theologici» 24 (2010) 293-326.
70
Si veda G. W. E. Nickelsburg, Resurrection, Immortality and Eternal Life in Intertestamental
Literature, Harvard University Press; Oxford University Press, Cambridge; London 1972; CAA
86-92.
71
Si veda J. Pryke, Eschatology in the Dead Sea Scrolls, in The Scrolls and Christianity, a cura di M.
Black, SPCK, London 1969, 45-57; CAA 87, nota 119.
72
Si veda CAA 87, nota 120; 92s.
73
Si veda K. Schubert, Die Entwicklung der Auferstehungslehre von der nachexilischen bis zur
frührabbinischen Zeit, «Biblische Zeitschrift» 6 (1962) 177-214; E. Schürer, The History of the
118
La resurrezione dei morti
si lagnò con Gesù di aver permesso la morte di suo fratello Lazzaro, e Gesù
replicò che egli sarebbe risorto di nuovo, ella esclamò: «So che risorgerà nella
resurrezione dell’ultimo giorno» (Gv 11,24). Sembra che la resurrezione fosse
una credenza comune. Tuttavia, nel Nuovo Testamento si trovano diversi aspet-
ti nuovi della dottrina della resurrezione74. Se ne possono menzionare cinque.
Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 B. C. - A. D. 135), vol. 2, T. & T. Clark, Edinburgh 1979,
462-500; G. Stemberger, Der Leib der Auferstehung. Studien zur Anthropologie und Eschatologie
des palästinischen Judentums im neutestamentlichen Zeitalter (ca. 170 v. Chr. -100 n. Chr.), Biblical
Institute Press, Roma 1972; BDAG, 71s., s.v. ἀνάστασις, 2.
74
Si veda L. Coenen e C. Brown, Resurrection, in NIDNTT 3, 259-79; il mio studio Resurrezione;
A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 189-246.
75
Sui sadducei e farisei, si veda CAA 88, note 123s.; recentemente, si veda J. Neusner e B. Chilton
(a cura di), In Quest of the Historical Pharisees, Baylor University, Waco (Texas) 2007.
76
Si veda CAA 164, nota 143.
77
Così l’opera classica di L. Finkelstein, The Pharisees. The Social Background of their Faith,
Fortress, Philadelphia 1938, 145-59.
78
Su questo testo nella versione di Marco, si veda F.-G. Dreyfus, L’argument scripturaire de Jésus
en faveur de la résurrection des morts (Mc 12,26-27), «Revue Biblique» 66 (1959) 213-24; B. Rigaux,
Dieu l’a ressuscité. Exégèse et théologie biblique, Duculot, Gembloux 1973, 30-60; G. Greshake e J.
Kremer, Resurrectio Mortuorum, 53-6.
119
Capitolo III
79
Sul significato di “angeli” in questo testo, si veda CAA 164.
80
Si può trovare il medesimo insegnamento in San Paolo. Paolo in 1 Cor 15 rifiuta l’idea ebraica
secondo la quale il corpo risorto sarà identico a quello terreno: F. Mussner, Die Auferstehung Jesu,
Kösel, München 1969, 101ss.
81
Questa universalità è conforme col contesto farisaico di Paolo: si veda P. Volz, Die Eschatologie
der jüdischen Gemeinde im neutestamentlichen Zeitalter nach den Quellen der rabbinischen,
apokalyptischen und apokryphen Literatur, Mohr, Tübingen 19342, 229-71; J. Bonsirven, Le
judaïsme palestinien au temps de Jésus-Christ: sa théologie, Beauchesne, Paris 19352, vol. 1, 468-85.
82
Si veda per esempio la Didachē 16,4-5. Policarpo (Phil 2,2) dice che la resurrezione è destinata
a coloro che «compiono la volontà [di Dio], seguono i suoi comandamenti ed amano quel che
egli ama». Su Policarpo, si veda A. Bovon-Thurneyson, Ethik und Eschatologie im Philipperbrief
des Polycarp von Smyrna, «Theologische Zeitschrift» 29 (1973) 241-56. Si veda anche Ignazio
d’Antiochia, Trall. 9,2; Ad Smyrn. 5,3. Secondo Ad Smyrn. 2,1, i condannati sono destinati ad una
esistenza incorporea. Sulla questione nella letteratura apocalittica e rabbinica, si veda CAA 88s.;
H. L. Strack e P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, C. H.
Beck, München 19654, vol. 4, 799-976. Sull’intera questione, E. Lohse, Märtyrer und Gottesknecht:
Untersuchungen zur urchristlichen Verkündigung vom Sühnetod Jesu Christi, Vandenhoeck &
Ruprecht, Göttingen 19632, 50s.
120
La resurrezione dei morti
alla “resurrezione dei viventi” come dottrina rivolta non ai pagani, ma ai fedeli
cristiani, legati tramite il battesimo alla morte e resurrezione di Gesù. Di fatti,
quando Giovanni (Gv 6,55-57) e Paolo (1 Cor 15,14ss.) parlano di resurrezione
dei viventi, si stanno chiaramente riferendo ai credenti.
83
Si veda il mio studio Muerte y esperanza, 55-74.
84
CCC 994.
85
Congregazione per la Dottrina della Fede, Doc. Recentiores episcoporum Synodi (1979), n. 2
(trad. it., Alcune questioni di escatologia, «Enchiridion Vaticanum» 6, nn. 1528-1549). Dal punto
di vista biblico, si veda B. M. Ahern, The Risen Christ in the Light of the Pauline Doctrine of the
Risen Christian (1 Co 15,35-37), in Resurrexit. Actes du Symposium international sur la résurrec-
tion de Jésus, a cura di E. Dhanis, Vaticana, Città del Vaticano 1974, 423-39.
86
Si veda At 24,14s.; 1 Ts 4,14-17; Ef 2,5s.; 3,1-4; Fil 3,10s.; 1 Cor 15.
87
Sullo scopo di 1 Cor 15, se sia destinata a coloro che dicono che la resurrezione ha già avuto
luogo, o per coloro che semplicemente la negano, si veda W. Schmithals, Die Gnosis in Korinth.
Eine Untersuchung zu den Korintherbriefen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1956; H.
Rusche, Die Leugner der Auferstehung von den Toten in der korinthischen Gemeinde, «Münchener
Theologische Zeitschrift» 10 (1959) 149ss.; G. Sellin, Der Streit um die Auferstehung der Toten,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986; B. S. Rosner, ‘With What Kind of Body Do they Come?’
(1 Corinthians 15:35b): Paul’s Conception of Resurrection Bodies, in P. J. Williams, B. W. Winter
(a cura di), The New Testament in its First Century Setting, W.B. Eerdmans, Grand Rapids (MI);
121
Capitolo III
to. Egli mette questa dottrina al centro stesso della fede cristiana: «Se non vi
è resurrezione dei morti», dice, «neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non
è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la nostra fede» (1
Cor 15,13s.). Invece «Cristo è risorto dai morti», aggiunge, «primizia di coloro
che sono morti» (1 Cor 15,20). Quindi, «come eravamo simili all’uomo terreno,
così saremo simili all’uomo celeste» (1 Cor 15,49). Se Cristo non fosse risorto,
non ci sarebbe resurrezione dei morti, perché la sua resurrezione è origine della
resurrezione degli uomini. In questo senso Cristo non è un caso particolare
entro la regola generale, il primo da risorgere, ma nel pieno senso del termine è
la “primizia” di coloro che sono morti88.
Paolo spiega anche che la resurrezione è anticipata nella vita presente per
coloro che partecipano alla morte e resurrezione di Cristo nel Battesimo89. In
questo senso si potrebbe dire che ad un certo grado la resurrezione dell’uomo
ha già avuto luogo, sebbene Paolo associ la resurrezione principalmente con la
Parousia alla fine dei tempi90.
Cambridge 2004, 190-205; M. Teani, Il contributo di Paolo per ripensare corporeità e resurrezione,
in F. Scanziani (a cura di), Ripensare la resurrezione, Glossa, Milano 2009, 163-93.
88
In questo senso la resurrezione di Cristo implica quella degli uomini, ma non al contrario:
si veda G. Bucher, Auferstehung Christi und Auferstehung der Toten, «Münchener Theologische
Zeitschrift» 25 (1976) 1-32; J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 155.
89
Si veda Rm 6,3-11; Ef 2,6; Col 3,1ss.
90
Questo aspetto è ben documentato da P. Lengsfeld, Adam et le Christ: la typologie Adam-Christ
dans le Nouveau Testament et son utilisation dogmatique par M. J. Scheeben et K. Barth, Aubier-
Montaigne, Paris 1970, 56s.; G. Greshake e J. Kremer, Resurrectio Mortuorum, 112-4.
91
Si veda 1 Cor 6,14s. J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 156, insiste su questo punto:
la resurrezione non può essere nullificata, perché e corporativa e corporale. Si veda anche J. A. T.
Robinson, The Body. A Study in Pauline Theology, SCM, London 1961, 88s.: «Sarebbe un errore
considerare il testo paolino secondo l’idea moderna che la resurrezione dei corpi è in qualche
modo correlata con il momento della morte… Nessun passo del Nuovo Testamento stabilisce
una relazione essenziale tra la resurrezione e il momento della morte. I momenti chiave… sono il
Battesimo e la Parousia».
92
Si veda F. Mussner, Die Auferstehung Jesu; R. H. Gundry, Sōma in Biblical Theology with
122
La resurrezione dei morti
123
Capitolo III
ci dice Marco 16,12) deriva dal fatto che Nostro Signore è risorto non in modo
temporaneo e terreno, come Lazzaro, ma con un corpo glorioso (Fil 3,21), e non
muore più (Rm 6,9). Sebbene da principio gli apostoli non lo riconobbero come
quell’unico e medesimo soggetto umano, in un secondo momento lo hanno potu-
to fare102. Sebbene vivendo ancora nello spazio e agendo in relazione con il mondo,
il Cristo risorto non appartiene più né dipende da questo mondo. Da allora in
avanti, la sua kenosis redentiva («svuotare se stesso», Fil 2,7) viene lasciata indie-
tro. Con la kenosis aveva rinunziato al suo prestigio e ai suoi privilegi103, ma ora,
«nel nome di Gesù, ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e
ogni lingua proclami: “Cristo Gesù è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (ibid., 10s.).
Inoltre, i cristiani istintivamente intuivano due importanti aspetti nella
resurrezione di Cristo. Primo, essa forniva un segno incontrovertibile dell’amo-
re fedele e misericordioso di Dio per l’umanità, malgrado l’aperto rifiuto di tale
amore da parte degli uomini che mettevano Gesù a morte sulla Croce, e avreb-
bero potuto, secondo giustizia, incorrere nell’ira eterna di Dio (Mt 21,40s.).
Inoltre, Gesù risorto quando appare, dice ai discepoli: «“Pace a voi”… Detto
questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i
peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdo-
nati”» (Jn 20,21-23).
Secondo, la resurrezione di Cristo costituisce un beneficio importante per
gli stessi uomini, una promessa sicura per l’intera umanità. Cristo è risorto, il
“primogenito” (Rm 8,29), e di conseguenza tutti coloro che gli appartengono
dovranno pure risorgere (1 Cor 15,12; 2 Cor 4,14). La resurrezione diventa un
catalizzatore non solo per la speranza e per la missione della Chiesa, ma anche
per la teologia della Chiesa, ed in particolare per la sua antropologia ed etica,
come vedremo fra poco.
102
Si veda Lc 24,16-31; Gv 20,15-16.
103
Così BDAG, 539, s.v. κενόω, 1,b.
104
Si veda The Pneumatological Interpretation of New Testament Apocalyptic, in CAA 257-94.
105
Si veda G. Martelet, Résurrection, eucharistie et genèse de l’homme. Chemins théologiques d’un
renouveau chrétien, Desclée de Brouwer, Paris 1972; G. Wainwright, Eucharist and Eschatology.
106
Si veda At 10,38; Rm 8,9; 2 Cor 3,17.
124
La resurrezione dei morti
se lo Spirito di Dio, che ha resuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha
resuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali, per mezzo
del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). Come abbiamo mostrato altrove,
«lo Spirito… è Colui che applica, comunica e rende presente il contenuto della
rivelazione e il potere salvifico che deriva interamente dalle parole e dalle opere
di Gesù Cristo, l’Unto di Dio»107. E in secondo luogo, la Scrittura ci insegna che
lo Spirito dimora nel nostro corpo come in un tempio; perciò il corpo è segnato
per la resurrezione, per diventare un “corpo spirituale” (1 Cor 15,44). Ai Corinzi
Paolo scrive: «non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è
in voi?» (1 Cor 6,19; cf. 1 Cor 3,16).
Sant’Ireneo parla chiaramente dell’opera dello Spirito Santo per portare
avanti la resurrezione finale: «lo Spirito di Cristo è colui che riunisce le membra
sparse dei morti che sono disperse sulla terra, e le porta nel regno dei cieli»108.
Ilario di Poitiers († 367) dice che la resurrezione è il frutto dell’unione della
carne umana con lo Spirito, il suo sposalizio eterno109. Un autore recente para-
frasa l’articolo finale del Credo degli apostoli dicendo che i cristiani credono
«nello Spirito Santo, nella santa Chiesa per la resurrezione della carne»110.
Nello stesso senso la resurrezione di Cristo sarà estesa a coloro che si nutro-
no del suo corpo risorto, l’Eucaristia. «Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). Ancora
Ireneo, seguendo il Vangelo di Giovanni, insiste sul ruolo dell’Eucaristia in un
contesto cosmico, come garanzia e preparazione della resurrezione. Dice che lo
Spirito Santo agisce principalmente tramite l’Eucaristia111. «Come il pane che è
frutto della terra, una volta invocata la benedizione divina su di esso, non è più
pane comune, ma Eucaristia, composta da due realtà, una terrena, l’altra celeste,
così anche i nostri corpi che ricevono l’Eucaristia non saranno più corruttibili,
dal momento che portano in sé il seme della resurrezione»112. Ignazio d’Antio-
chia, sulla via per Roma per ricevere la corona del martirio, definisce l’Eucari-
stia “medicina di immortalità”113.
107
CAA 273.
108
Ireneo, Adv. Haer. V, 9,4.
109
Si veda Ilario di Poitiers, In Matth. 27,4.
110
Si veda P. Nautin, Je crois à l’Esprit Saint dans la sainte Église pour la résurrection de la chair,
Cerf, Paris 1947.
111
Si veda Ireneo, Adv. Haer. V, 2,2-3.
112
Ibid., IV, 18,4-5.
113
Ignazio d’Antiochia, Ad Eph. 20,2.
125
Capitolo III
114
Si veda A. Winklhofer, Das Kommen seines Reiches: von den Letzten Dingen, Josef Knecht,
Frankfurt a. M. 19622, 272; J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 157, 167. Il secondo
difende l’idea di resurrezione semplicemente come salvezza.
115
Cirillo d’Alessandria, In Joann. 6, su Gv 10,10.
116
Si veda P. Althaus, Die letzten Dinge, Bertelsmann, Gütersloh 19649, 116, 122.
117
Sullo sviluppo della dottrina della “resurrezione della carne” nei primi secoli cristiani, si
veda H. B. Swete, The Resurrection of the Flesh, «Journal of Theological Studies» 18 (1917)
135-41; L. E. Boliek, The Resurrection of the Flesh. A Study of a Confessional Phrase, Jacob van
Campen, Amsterdam 1962; G. Kretschmar, Auferstehung des Fleisches. Zur Frühgeschichte einer
theologischen Lehrformel, in Leben angesichts des Todes. Beiträge zum theologischen Problem des
Todes. Helmut Thielicke zum 60. Geburtstag, a cura di M.-L. Henry, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck),
Tübingen 1968, 101-37; A. Fierro, Las controversias sobre la resurrección en los siglos II-V, «Revista
Española de Teología» 28 (1968) 3-21; T. H. C. von Eijk, La résurrection des morts chez les pères
apostoliques, Beauchesne, Paris 1974; C. W. Bynum, The Resurrection of the Body; G. Greshake
and J. Kremer, Resurrectio Mortuorum; il mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’; A.
Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 247-80.
118
Si veda Giustino, Dial. cum Tryph. 80,4.
126
La resurrezione dei morti
119
Si veda Ps.-Giustino, De resurrectione. Molti autori non riconoscono la paternità giustiniana
di questo testo: si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 230, nota 1. Alcuni tuttavia
considerano il testo autentico, per esempio P. Prigent, Justin et l’Ancien Testament, Cerf, Paris
1964, 50-61.
120
Atenagora, De resurrectione mortuorum. Su questo testo, si veda M. Marcovich, On the
Text of Athenagoras, “De resurrectione”, «Vigiliae Christianae» 33 (1979) 375-82; G. Filoramo,
L’escatologia e la retribuzione negli scritti dei Padri, Borla, Roma 1997, 218-21; B. E. Daley, The
Hope of the Early Church, 23s., 230, nota 4.
121
Si veda Ireneo, Adv. Haer. V. Sulla sua escatologia, si veda A. S. Wood, The Eschatology of
Irenaeus, «Evangelical Quarterly» 41 (1969) 30-41; P.-J. Carle, Irénée de Lyon et les fins dernières,
«Divinitas» 34 (1990) 57-72; 151-71; A. Orbe, Gloria Dei vivens homo, «Gregorianum» 73 (1992)
205-68; J. J. Ayán Calvo, Escatología cósmica y Sagrada Escritura en Ireneo de Lyon, «Annali di
Storia dell’Esegesi» 16 (1999) 197-233.
122
Si veda Tertulliano, De resurrectione carnis. Si veda Y.-M. Duval, Tertullien contre Origène sur
la résurrection de la chair dans le Contra Iohannem Hierosolymitanum, 23-36 de saint Jérôme,
«Revue des études augustiniennes» 17 (1971) 227-78; P. Siniscalco, L’escatologia di Tertulliano:
tra rivelazione scritturale e dati razionali, ‘psicologici’, naturali, «Annali di Storia dell’Esegesi» 17
(2000) 73-89.
123
Non ci sono opere di Origene sulla resurrezione, nonostante egli abbia scritto molto sul
argomento. Tuttavia, si veda C. Cels. 1,5 e 8. Sul suo insegnamento, si veda W. L. Knox, Origen’s
Conception of the Resurrection Body, «Journal of Theological Studies» 39 (1938) 247ss.; H.
Chadwick, Origen, Celsus and the Resurrection of the Body, «Harvard Theological Review» 41
(1948) 83-102; H. Crouzel, Les critiques adressées par Méthode et ses contemporains à la doctrine
origénienne du corps ressuscité, «Gregorianum» 53 (1972) 679-714; M. Alexandre and T. J. Dennis,
Gregory on the Resurrection of the Body, in The Easter Sermons of Gregory of Nyssa, a cura di A.
Spira e C. Klock, Patristic Foundation, Cambridge; Philadelphia 1981, 55-80.
124
Si veda Metodio, De resurrectione. Si veda l’opera classica di G. N. Bonwetsch, Die Theologie des
Methodius von Olympus, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1903; H. Crouzel, Les critiques
adressées par Méthode.
125
Si veda Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 18.
126
Si veda Gregorio di Nissa, De anima et resurrectione dialogus. Su quest’opera, si veda J.
Daniélou, La résurrection des corps chez Grégorie de Nysse, «Vigiliae Christianae» 2 (1953) 154-70;
L. F. Mateo-Seco, La muerte y su más allá en el ‘Diálogo sobre el alma y la resurrección’ de Gregorio
de Nisa, «Scripta Theologica» 3 (1971) 75-107; A. Le Boulluec, Corporéité ou individualité? La
condition finale des ressuscités selon Grégoire de Nysse, «Augustinianum» 35 (1995) 307-26; L.
F. Mateo-Seco, Resurrezione, in L. F. Mateo-Seco e G. Maspero (a cura di), Gregorio di Nissa.
Dizionario, Città Nuova, Roma 2007, 488-91.
127
Si veda in particolare Agostino, De Civ. Dei XXII. Sul suo pensiero, si veda P. Goñi, La
resurrección de la carne según San Agustín, Catholic University of America Press, Washington
D.C. 1961; K. E. Börresen, Augustin, interprète du dogme de la résurrection, «Studia Theologica»
(1969), 143-55; M. Alfeche, The Rising of the Dead in the Works of Augustine (1 Co. 15,35-57),
«Augustiniana» 39 (1989) 54-98; P. A. Ferrisi, La resurrezione della carne nel ‘De fide et symbolo’
di S. Agostino, «Augustinianum» 33 (1993) 213-32.
127
Capitolo III
128
Si veda Giovanni Crisostomo, De resurrectione mortuorum homilia. Si veda A. Miranda, La
resurrezione dei corpi nel Cristostomo (In 1 Cor 15). Una nuova percezione della realtà ‘corporea’
tra IV e V secolo, «Aquinas» 78 (2001) 387-404.
129
B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 220.
130
Si veda R. M. Jensen, Born Again. The Resurrection of the Body and the Restoration of Eden, 156-
82. Sulla resurrezione di Lazzaro nell’arte, si veda E. Mâle, La résurrection de Lazarus dans l’art,
«Revue des arts» 1 (1951) 44-52.
131
La translitterazione latina coemeterium fu utilizzata probabilmente per la prima volta da
Tertulliano in De anima, 51.
132
Sui termini greci koimētērion e nekrotaphiōn, si veda G. W. H. Lampe, A Greek Patristic Lexicon,
Clarendon Press, Oxford 19785, 760, 902; BDAG, 551, s.v. κοιμητήριον.
128
La resurrezione dei morti
ro, che era morto: «io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Cicerone disse anche che
somnus est imago mortis133, “il sonno è immagine della morte”.
La Chiesa ha tradizionalmente dissuaso i credenti dalla pratica della
cremazione, cioè dalla distruzione intenzionale tramite il fuoco del corpo dopo
la morte. Tuttavia, se si evita lo scandalo, la cremazione è tuttavia considera-
ta lecita134. Nel Codice di Diritto Canonico leggiamo: «La Chiesa raccomanda
vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti;
tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per
ragioni contrarie alla dottrina cristiana… Devono essere privati delle esequie
ecclesiastiche… coloro che scelsero la cremazione del proprio corpo per ragioni
contrarie alla fede cristiana»135. Qualche secolo fa, infatti, era piuttosto comune
per gli apostati richiedere, prima della morte, la cremazione, per confermare
pubblicamente la loro negazione della fede cristiana136.
È interessante notare che nei riti funerari orientali (specialmente quelli
associati alla religione Indù) il corpo è completamente consumato dal fuoco con
legna da ardere resinosa, e le ceneri vengono sparse sui fiumi o sul mare. In questo
modo, si spera che lo spirito possa liberarsi dal corpo mortale137 e raggiungere la
moksha, o illuminazione, rompendo il ciclo di nascita, morte e reincarnazione.
Dal punto di vista della potenza di Dio, ovviamente, la resurrezione è
possibile ugualmente per coloro che sono stati cremati come per coloro che sono
stati sepolti. Tuttavia, se si fa opzione per la cremazione al fine di professare la
propria credenza nel carattere deperibile della materia, negare la vita dopo la
morte o la potenza di Dio sul corpo, la pratica allora sarebbe illecita. «Se coloro
che non credono nella resurrezione della carne» seppelliscono i corpi dei morti,
dice Sant’Agostino, «a maggior ragione dovrebbero farlo i credenti, perché
i corpi morti verranno resuscitati e rimarranno per sempre, e questa diventa
una testimonianza pubblica alla vera fede»138. Con tutto, dunque, la sepoltura è
raccomandata in preferenza alla cremazione139, che può essere considerata come
133
Cicerone, Tuscolane I, 38.
134
Si veda Commissione Teologica Internazionale, Problemi di escatologia (1992) n. 6,4;
Sant’Ufficio, La cremazione dei cadaveri (1963). Sulla storia della cremazione, si veda J. L. Angué,
Incinération et rituel des funérailles, «Études» (1985), 663-76 e Z. Suchecki, La cremazione dei
cadaveri nel Diritto Canonico, Pontificia Università Lateranense, Roma 1990.
135
Codice di Diritto Canonico (1983), n. 1176, § 3; 1184, § 1, 2.
136
Si veda P. Palazzini, Cremazione, in Enciclopedia cattolica, vol. 4, Vaticana, Città del Vaticano
1950, col. 838-42.
137
Sul significato della cremazione nelle religioni pagane, si veda F. Cumont, Lux perpetua, 390.
138
Agostino, De cura pro mortuis gerenda 18,22.
139
Sulla preferibilità della sepoltura alla cremazione, si veda I. Lotzika, Incinération: malaise
129
Capitolo III
La sfida teologica e filosofica della dottrina della resurrezione. Fin dai primi
tempi della predicazione cristiana, la perplessità dei pagani141, e dei cristiani
stessi142, nei confronti di questo nuovo insegnamento, era palpabile. Predicando
all’Areopago di Atene san Paolo trovò una buona platea di ascoltatori mentre
parlava delle divinità, delle pratiche rituali ed etiche. Ma «quando sentirono
parlare di resurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, ed altri dicevano “Su
questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17,32). Davanti a Festo ed Agrippa a
Cesarea, Paolo parlò ancora di resurrezione, finché Festo lo apostrofò dicendo:
«Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24). L’apostolo
mise in guardia Timoteo due individui, Imeneo e Fileto, «i quali hanno deviato
dalla verità, sostenendo che la resurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la
fede di alcuni» (2 Tm 2,17s.). Allo stesso modo, tra i credenti di Corinto c’erano
dei dubbi rilevanti nei confronti della resurrezione143. Ciò spiega l’insistenza di
Paolo sul fatto che «se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono
dire alcuni tra voi che non vi è resurrezione dai morti?» (1 Cor 15,12). E replica
categoricamente: «Se non vi è resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!
Ma se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la
vostra fede» (1 Cor 15,13s.).
I primi scrittori cristiani erano fortemente consapevoli delle difficoltà
implicate nella resurrezione. Origene diceva che «il mistero della resurrezione è
anche sulla labbra degli infedeli, ma per loro è causa di ridicolo, perché essi non
lo comprendono»144. Tertulliano scrisse che «anche noi abbiamo riso di queste
cose»145. «Nessun articolo della fede cristiana è più ripudiato della resurrezione
della carne», annota Agostino146. E Gregorio Magno afferma che «molti dubita-
pour un dernier adieu, «Études» (1985), 657-62; G. Gozzelino, Nell’attesa, 446s.; V. Croce, La
sepoltura, nuovo e ultimo battesimo, in Cristo nel tempo della Chiesa: teologia dell’azione liturgica,
dei sacramenti e dei sacramentali, LDC, Leumann 1992, 454s.
140
Si veda J. L. Schlegel, Logiques de l’incinération, «Études» n. 363 (1985) 677-80.
141
Si veda At 17,16-34; 26,25.
142
Si veda 1 Cor 15,12; 2 Tm 2,17.
143
Si vedano le note 80 e 87 sopra.
144
Origene, C. Cels. 1,7.
145
Tertulliano, Apol. 18,4.
146
Agostino, Enn. in Ps. 88,2.
130
La resurrezione dei morti
no della resurrezione, come noi al nostro tempo»147. Sono due le difficoltà fonda-
mentali suggerite dagli oppositori pagani148.
Prima, la dottrina della resurrezione finale era messa in questione perché
sembrava contraria al senso comune e alle leggi di natura. La materia e il cosmo,
secondo la mentalità greca, segnati dal determinismo e dal dualismo cosmici,
sono inevitabilmente legati al tempo e alla corruzione, e non possono in alcun
modo partecipare della gloria e dell’immortalità che appartengono solo agli dei.
Il pagano Porfirio († 305) cita il caso ipotetico del cadavere di un uomo annega-
to, divorato da un pesce, e del pesce successivamente mangiato da un pescatore,
e questi successivamente dai cani, e i cani dagli avvoltoi. Comprensibilmente,
egli pone l’interrogativo: con quale corpo gli uomini risorgono? Nel criticare la
dottrina cristiana della resurrezione, egli non risparmia né satira né cinismo149.
Secondo, sul piano più filosofico, la dottrina della resurrezione era comune-
mente rifiutata entro il contesto cosmologico e antropologico di tipo neo-plato-
nico allora in voga. Nella cosmologia greca, la materia era considerata intrinse-
camente impervia o estranea allo spirito. Perciò, l’anima umana poteva essere
considerata semplicemente prigioniera del corpo, o, nel migliore dei casi, il suo
pilota, legata ad esso estrinsecamente150. Per la mentalità platonica, la resurre-
zione costituirebbe un vergognoso ritorno alla prigionia del corpo, considera-
ta l’origine di tutti il mali, la disgrazia e il limite, l’epitome della non-salvezza;
dopo tutto, l’uomo è la sua anima e il corpo è una mera aggiunta accidentale151.
Gli autori cristiani replicarono in modi differenti alla sfida dei filoso-
fi pagani. L’argomentazione principale presentata era, tuttavia, strettamente
teologica: Dio è il sovrano, onnipotente e fedele Creatore della terra e del genere
umano; perciò egli è capace di resuscitare gli uomini dai morti, e ha promesso
di farlo attraverso i miracoli operati tramite Cristo, ed in particolare facendolo
risorgere dalla morte. Questa stessa potenza sarà effusa su tutti gli uomini alla
fine dei tempi attraverso lo Spirito di Cristo. Giustino Martire dice che «riceve-
remo nuovamente i nostri corpi, sebbene siano morti e gettati sotto terra; infatti
sappiamo che per Dio nulla è impossibile»152.
147
Gregorio Magno, Hom. in Ev. II, 26, n. 12.
148
Seguiamo qui C. Pozo, La teología del más allá, 353-8.
149
Si veda Porfirio, Contra christianos, fr. 94.
150
Si vedano le pp. 45s sopra.
151
Si veda Porfirio, Contra christianos, fr. 94.
152
Giustino, 1 Apol. 18s. Allo stesso modo Atenagora parla della potenza di Dio implicata nella
resurrezione: De res. 9. Sullo stesso argomento, si veda anche Tertulliano, De res. 11,3-10; Agostino,
De cura pro mortuis gerenda 2,4; Gregorio Magno, Hom. in Ev. II, 26.
131
Capitolo III
153
Minucio Felice, Octavius 34.
154
Si veda Clemente Romano, Ep. in Cor. 24-26; Tertulliano, De res. 13; Cirillo di Gerusalemme,
Catech. Myst. 18,8; Eusebio, Vita Const. 4,72; Lattanzio, De ave Phoenice. Si veda R. Van den
Brock, The Myth of the Phoenix according to Classical and Early Christian Tradition, E. J. Brill,
Leiden 1972; B. R. Reichenbach, Is Man the Phoenix? A Study of Immortality, Christian University
Press, Washington D. C. 1978.
155
Si veda Clemente Romano, Ep. in Cor. 24s.
156
Si veda C. S. Lewis, Miracles, Sheed and Ward, London 1947, 112ss., 147ss.
157
Si veda il mio studio Cristocentrismo y antropocentrismo en el horizonte de la teología. Una
reflexión en torno a la epistemología teológica, in J. Morales et al. (a cura di), Cristo y el Dios de
los cristianos, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1998, 367-398;
e Resurrezione.
158
Si veda il mio studio Anima, 86s., 91s.
159
Si veda M. Brown, Aquinas on the Resurrection of the Body, «Thomist» 56 (1992) 165-207;
M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, 229-34; A. Nitrola, Pensare la venuta del
Signore, 280-90. La medesima cosa si può dire di Atenagora, secondo M. Marcovich, On the Text
of Athenagoras, De resurrectione.
160
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 79.
132
La resurrezione dei morti
umana per natura è fatta per dare forma al corpo. Tuttavia l’anima separata
mantiene quel che l’Aquinate chiama una commensuratio al proprio corpo161, cui
sarà di nuovo unito alla fine del tempo per la potenza di Dio. Perciò, egli dice, «la
resurrezione è il suo fine naturale, poiché è naturale per l’anima essere la forma
del corpo; mentre il suo principio agente non è naturale, ma è causato unicamen-
te dalla potenza divina»162. Detto in breve, «la causa finale della resurrezione è la
natura umana, ma la causa efficiente è Dio»163.
Così, Gregorio di Nissa descrive vividamente come l’anima (eidos), alla
ricerca del proprio corpo, lo porta a sé, «attraendo ancora a sé quel che è suo»164.
E la ragione per cui questo è possibile è che l’anima resta unita in qualche modo
al corpo: «non c’è alcuna forza che possa strappare [l’anima] dalla sua coesione
con [le sue membra]»165.
161
Si veda ibid., 80.
162
Ibid., 81; si veda S. Th. III, Suppl., q. 75, a. 3.
163
M. Brown, Aquinas on the Resurrection, 186.
164
Gregorio di Nissa, De hom. opif. 27,5,2.
165
Gregorio di Nissa, De anima et res.
166
Si vedano le pp. 45s, sopra.
167
I. Kant, La religione nei limiti della pura ragione, n. 119.
133
Capitolo III
168
Si vedano le pp. 47s.
169
Si veda il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel and Ernst Bloch, 216-22.
170
Si vedano le pp. 79s sopra. La posizione di Bultmann è stata ripetuta di recente per esempio
da A. Torres Queiruga, Repensar la resurrección: la diferencia cristiana en la continuidad de las
religiones y de la cultura, Trotta, Madrid 20053.
171
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, 109s.
134
La resurrezione dei morti
172
Così W. Beider, Auferstehung des Fleisches oder des Leibes? Eine biblischtheologische und
dogmengeschichtliche Studie, «Theologische Zeitschrift» 1 (1945) 105-20.
173
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 67s, 74s.
174
Si vedano le pp. 79s sopra.
175
Su questo, si veda A. Fierro, Las controversias sobre la resurrección.
176
Sul tema, cf. ad esempio S. C. Barton, The Resurrection and Practical Theology with Particular
Reference to Death and Dying in Christ, in H.-J. Eckstein, C. Landmesser, H. Lichtenberger (a cura
di), Eschatologie – Eschatology, J.C.B. Mohr, Tübingen 2011, 305-30.
177
Si veda in particolare Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 84ss.
135
Capitolo III
178
Si veda Origene, Comm. in Matth. 17,2.
179
Si veda Tertulliano, De res. 62,1-4.
180
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 54, su differenti interpretazioni tra i Padri.
Metodio di Olimipo era in aperta opposizione ad Origene (si veda ibid., 62-4), come anche
Epifanio di Salamina, nella sua opera Ancoratus.
181
Così Tertulliano, De res. 38,7; Agostino, Enchirid. 84; Serm. ad catech. 9; Giovanni Crisostomo,
Hom. 40,2.
182
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 2,41.
183
Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 18.
184
Si veda Giovanni Crisostomo, Hom. 40,2.
185
Agostino, Enchirid., 84. Si veda anche Ep. 102 ad Deogratias.
186
Comprensibilmente, gli autori contemporanei evitano di entrare in troppi dettagli nei confronti
della natura della resurrezione finale: J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 166-8; M.
Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 248s.
187
CCC 1000.
136
La resurrezione dei morti
che ci permettono ad apprezzare in che modo Paolo “avesse visto” Gesù Risor-
to (2 Cor 12,2-4). Tenendo a mente il realismo corporale del Cristo risorto, di
cui abbiamo già parlato188, e seguendo le riflessioni di San Tommaso sullo stato
risorto (che a loro volta si ispirano a Sant’Agostino189 e a diversi Padri della Chie-
sa190) e di M.-J. Scheeben († 1888)191, può essere utile fare le seguenti riflessioni192.
Caratteristiche del corpo risorto. San Tommaso insegna che le proprietà del
corpo risorto sono tre: spiritualizzazione, immortalità e incorruttibilità193.
In primo luogo, la spiritualizzazione: «è seminato corpo animale, risorge
corpo spirituale» (1 Cor 15,44). Ovviamente l’uomo non diventa uno spirito
(un “angelo”); piuttosto il corpo umano assume in una certa misura le proprie-
tà dell’anima. Tertulliano disse che i nostri corpi risorti spiritalem subeant
dispositionem, «assumono una disposizione spirituale»194. Con la resurrezione,
dice l’Aquinate, l’anima (che è la forma corporis) si unisce perfettamente con il
corpo, o meglio ‘forma’ il corpo, e così «il corpo diventa totalmente soggetto
all’anima, non solo in relazione al suo essere, ma anche alle sue azioni e passioni
e movimenti»195. Giovanni Paolo II nella sua catechesi sul corpo umano assume
questa idea e dice che «la “spiritualizzazione” significa non soltanto che lo spiri-
188
Si veda le pp. 123ss. sopra.
189
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 12-21; Sermo 242-3; Enchirid. 23,84-93.
190
Si veda Girolamo, Ad Pammachium, che si oppone agli insegnamenti di Origene e fa riferimento
a quelli di Tertulliano; si veda Y.-M. Duval, Tertullien contre Origène sur la résurrection de la
chair. Gregorio di Nissa, nella sua opera De anima et res. parla dei corpi riportati al loro stato
originale, incapaci di debolezza, corruzione o sofferenza, soffusi di onore, grazia e gloria: si veda
M. Alexandre and T. J. Dennis, Gregory on the Resurrection of the Body. Si veda anche Ugo di San
Vittore, De sacramentis II, 17,14-18; Pietro Lombardo, IV Sent., D. 44.
191
Si veda M.-J. Scheeben, I misteri del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1949, § 95, 673-682.
192
Pannenberg ha questo da dire: «Questo futuro non si contrappone con la realtà che l’individuo
e pure la società vivono attualmente, quasi si trattasse di una realtà affatto diversa, dove anzi la
stessa vita che attualmente si vive va intesa come manifestazione e processo di un’essenza che
si manifesterà in modo pieno soltanto nei tempi escatologici» Teologia sistematica, vol. 3, 633s.
Nello stato di resurrezione, la vita degli uomini sarà «purificata da mescolanze eterogenee, da
deformazioni e lesioni nel modo d’esistere terreno: se non dalle tracce della croce, certo dalle
tracce e dalle conseguenze del male che le creature producono quando si ergono contro il loro
Dio» ibid., 634. Si veda anche L. Audet, Avec quel corps les justes ressuscitent-ils? Analyse de 1Cor
15,44, «Studies in Religion» 1 (1971) 165-77.
193
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 79-86; IV C. Gent., 84-86.
194
Tertulliano, De res. 62. Nel suo periodo montanista Tertulliano affermava che il corpo umano
risorto sarà come gli angeli dal momento che «saremo cambiati in un momento nella sostanza
degli angeli» Ad Marc. 3,24.
195
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 86.
137
Capitolo III
to domini sul corpo, ma anche che permeerà pienamente il corpo, che le forze
dello spirito permeeranno le energie del corpo»196.
Come risultato della spiritualizzazione, l’immortalità: «è necessario infatti
che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale
si vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito di
incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della
Scrittura: “la morte è stata inghiottita nella vittoria”» (1 Cor 15,53s.). Spiegando
la dottrina della resurrezione ai Sadducei, lo stesso Gesù dice, nel vangelo di
Luca, che «non possono più morire» (20,36). Anche se lo volessero, gli uomini
non potranno morire, poiché le loro anime immortali informano permanente-
mente il loro intero essere197. La loro immortalità non è di tipo prelapsario (un
posse non mori, come la definisce Agostino198), ma un non posse mori: i risorti
non possono più morire; divengono definitivamente immortali.
E in fine, secondo l’Aquinate, il corpo risorto è incorruttibile. «È seminato
nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità» (1 Cor 15,42). Cioè, nello stato
di resurrezione non c’è più generazione, né sviluppo fisico, né rinnovamento
organico. «Né il mangiare, né il bere, né il dormire, né il generare appartengono
allo stato di resurrezione», dice san Tommaso, poiché «tutte queste attività sono
connesse alla vita corporale»199.
Il fatto che Gesù abbia contrapposto lo stato angelico di resurrezione con
lo stato del matrimonio fa pensare che la procreazione non avrà luogo in cielo:
«alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). In base
a questo insegnamento, alcuni scrittori cristiani hanno suggerito che non ci sarà
alcuna distinzione sessuale tra gli uomini nello stato di resurrezione. Questa posi-
zione è stata assunta per esempio da Origene, sebbene sia stata rigettata dal Sinodo
di Costantinopoli nell’A.D. 534200. Secondo Cassiodoro († ca. 583) la medesima
idea era sostenuta da Papa Vigilio I201. Ugualmente sia Basilio che Gregorio di
Nissa ritenevano che il corpo umano alla resurrezione sarà asessuato202.
La maggioranza dei Padri della Chiesa, tuttavia, insegnarono che uomini e
donne rimarranno tali nello stato di resurrezione, perché la distinzione sessuale
196
Giovanni Paolo II, Udienza La resurrezione porterà la persona alla perfezione (9.12.1981), in
Insegnamenti Giovanni Paolo II, 4/2, Vaticana, Città del Vaticano 1982, 880.
197
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 80, a. 1.
198
Si veda Agostino, De Gen. ad litt., 6,36.
199
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 81, a. 4c.
200
DS 407.
201
Si veda Cassiodoro, De institutione div. litt.
202
Questa è, per esempio, la posizione di Gregorio di Nissa, De mortuis or.
138
La resurrezione dei morti
appartiene, secondo il libro della Genesi (1,27), alla natura umana stessa, e non
può essere considerata risultato della primitiva caduta, aperta alla redenzione
da Cristo. «Colui che ha stabilito entrambi i sessi, li ristabilirà entrambi… Nulla
del corpo verrà perso, in modo tale che in esso tutto sarà secondo la regola», dice
Agostino203. In un primo momento, San Girolamo († ca. 420) seguì la posizione
di Origene204, ma più tardi rettificò e insegnò che gli uomini risorti avranno lo
stesso sesso che avevano sulla terra205. Ugualmente Teodoreto di Ciro († ca. 466)
insegna che la differenza sessuale rimane, in assenza della procreazione206.
C. S. Lewis spiega, inoltre, che l’unione sessuale in quanto tale sarà super-
flua in cielo dovuto all’intensa gioia di essere definitivamente uniti con Dio207.
È chiaro che lo scopo del confronto stabilito da Gesù tra lo stato di resurrezione
e la vita angelica era quello di aiutare i credenti ad evitare una visione eccessi-
vamente materialistica e terrena della resurrezione finale, insistendo piuttosto
sulla sua gloria e permanenza208.
La gloria dei giusti. Oltre alle caratteristiche generali del corpo risorto – spiri-
tualità, immortalità ed incorruttibilità – San Tommaso spiega anche che i giusti
saranno glorificati nello stato di resurrezione in un modo particolare209. In primo
luogo non ci saranno sofferenze: «Non avranno più fame né avranno più sete, non
li colpirà il sole né arsura alcuna… E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»
(Ap 7,16s.). Lo stato di resurrezione sarà uno stato di completa armonia, in cui
la perfetta assimilazione di corpo ed anima permetterà alla gloria di quest’ulti-
ma di riversarsi totalmente nel primo. L’Aquinate parla anche di sottigliezza210.
Ancora, la stessa apparizione di Gesù come Colui che è risorto ci fornisce lo
spunto: egli si fece presente tra gli apostoli nonostante le porte chiuse (Gv 20,19).
Questo non significa, tuttavia, che il corpo glorificato di Gesù fosse totalmen-
te etereo: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e
203
Agostino, De Civ. Dei XXII, 17 e 19,1. Si veda lo studio di T. J. Van Bavel, Augustine’s View on
Women, «Augustiniana» 39 (1989) 1-53.
204
Si veda Girolamo, In Eph. 5,29; Adv. Jovinianum 1,36.
205
Si veda Girolamo, Ep. 108,23s.
206
Teodoreto di Ciro (attrib.), Quaest. et respons. 60,53.
207
Sull’assenza di attività sessuale in cielo, si veda C. S. Lewis, Miracles, 165s. Lewis ritiene che
l’interrogativo “ci sarà unione sessuale in cielo?” sia simile alla domanda di un bambino: “sarà
possibile mangiare caramelle durante l’unione sessuale?”
208
Si veda sopra le pp. 121s.
209
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., qq. 81-5. In questo Tommaso è seguito da M.-J.
Scheeben, I misteri del cristianesimo, 673-82, per quanto riguarda la sottigliezza, l’incorruttibilità
e l’agilità dei risorti.
210
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 83, a. 1.
139
Capitolo III
guardate; un fantasma non ha carne ed ossa, come vedete che io ho» (Lc 24,39).
San Gregorio Magno dice: «nella gloria della resurrezione, i nostri corpi saranno
sicuramente sottili, in seguito alla loro potenza spirituale, ma saranno tangibili
per la loro reale natura»211. San Tommaso lo spiega così: «secondo la sua propria
natura il corpo glorificato è tangibile, ma per una potenza soprannaturale è in
grado, quando desidera, di non essere percepito da un corpo non-glorificato»212.
Inoltre, Tommaso afferma che il corpo risorto dei giusti sarà anche agile e
attivo213. Il corpo, dice San Paolo, «è seminato nella debolezza, risorge nella poten-
za» (1 Cor 15,43). L’uomo risorto, pieno dello Spirito, in qualche modo partecipa
alla potenza stessa di Dio, al suo dinamismo e alla sua onnipresenza. «Quanti
sperano nel Signore», dice il profeta Isaia, «riacquistano forza, mettono ali come
aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31). E nel
libro della Sapienza: «Nel giorno del loro giudizio [le anime dei giusti] risplende-
ranno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. Governeranno le nazioni,
avranno potere sui popoli» (Sap 3,7s.). Agostino dice che il corpo risorto avrà «una
meravigliosa agilità di movimento, una meravigliosa leggerezza»214. È giunto ad
affermare che la perfetta integrazione tra l’interiore e l’esteriore nell’uomo risorto
è tale che ciascuna persona conoscerà ogni altra perfettamente, anche nei pensieri
più profondi215. Ovviamente in tale stato non rimarrà alcun peccato, che sarebbe
causa di vergogna e dolore insopportabile. Giuliano Pomerio († 498) afferma che
la percezione e il movimento saranno rapidi come la volontà stessa, dal momento
che non resterà alcuna condizione che rallenti la risposta del corpo216.
Infine, San Tommaso afferma che il giusti che risorgeranno saranno pieni
di bellezza (claritas). «Tale bellezza è generata dal riflesso della gloria dell’anima
nel corpo glorioso, nello stesso modo in cui il colore di un corpo racchiuso in
un vaso di vetro si mostra attraverso il vetro»217. Una qualche idea della gloriosa
bellezza dei risorti si può trovare nella descrizione che il libro dell’Esodo fa del
volto di Mosè disceso dal monte Sinai: «Mosè non sapeva che la pelle del suo
viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui… Ebbero timore di
211
Gregorio Magno, Mor. in Job, 14,72. Si veda Y.-M. Duval, La discussion entre l’apocrisiaire
Grégoire et le patriarche Eutychios au sujet de la résurrection de la chair, in Grégoire le Grand, a
cura di J. Fontaine, R. Gillet e S. Pellistrandi, Éditions du CNRS, Paris 1986, 347-65.
212
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 83, a. 6c.; IV C. Gent., 84.
213
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 84.
214
Agostino, Sermo 242,8.
215
Si veda Agostino, Sermo 243,5s.
216
Si veda Giuliano Pomerio, De vita contemplativa, 1,11.
217
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 85, a. 1c.
140
La resurrezione dei morti
avvicinarsi a lui» (Es 34,29s.). Ugualmente, nella Trasfigurazione, «il suo volto
[quello di Gesù] brillò come il sole, e le sue vesti divennero candide come la
luce» (Mt 17,2). Nella parabola della separazione del grano dalla zizzania, Gesù
conclude: «allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro»
(Mt 13,43). Ovviamente questa bellezza non è altro che comunicazione della
bellezza propria di Cristo a coloro che credono in lui e diventano suoi discepoli,
facendo la volontà del Padre in tutto: «tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle
tue labbra è diffusa la grazia» scrive il salmista (Sal 45,3) in un contesto chia-
ramente messianico. Ireneo ugualmente parla della “inimmaginabile bellezza”
dello stato di resurrezione218. Gregorio di Nissa parla dell’umanità risorta «con
una più brillante, più estasiante bellezza»219.
L’autore medioevale Onorio di Autun († 1137) riassume le caratteristiche dei
corpi risorti come segue: «avranno sette glorie speciali del corpo, e sette dell’ani-
ma: nel corpo, bellezza, rapidità, forza, libertà, piacere (voluptas), salute, immorta-
lità; nell’anima, saggezza, amicizia, armonia, potenza, onore, sicurezza, gioia»220.
Al contrario dei giusti, conclude San Tommaso, i condannati nello stato
di resurrezione saranno segnati dalle qualità opposte221: sofferenza, goffaggine,
pesantezza, bruttezza222.
218
Si veda Ireneo, Adv Haer. IV, 33,11; 39,2.
219
Gregorio di Nissa, De anima et res.
220
Onorio di Autun, Elucidarium II, 17. Teresa d’Avila offre la sua versione dello stato dei corpi
risorti nel Libro de la vida, 28,2s.
221
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 86.
222
La medesima nozione si trova in Ilario di Poitiers, In Matth. 5,8.
223
Si veda il mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’.
141
Capitolo III
Ilario di Poitiers lo spiega come segue: «i corpi di coloro che risorgeranno non
verranno formati da materia estranea, né saranno adoperate qualità naturali
di origine estranea o fonti estrinseche; il medesimo corpo nascerà, reso nuovo
per l’eterna bellezza, e quel che in esso è nuovo avverrà per cambiamento, e non
per creazione»224. San Girolamo afferma che resurrectionis veritas sine carne
et ossibus, sine sanguine et membris, intelligi non potest225, cioè «la verità circa
la resurrezione senza carne ed ossa, senza sangue e membra, è semplicemente
incomprensibile». Anche Gregorio di Nissa insiste nel dire che ci sarà una ovvia
identità e continuità tra il corpo terrestre e risorto226.
224
Ilario di Poitiers, In Ps. 2,41. Si veda G. Blasich, La resurrezione dei corpi nell’opera esegetica di
S. Ilario di Poitiers, «Divus Thomas (Piacenza)» 69 (1966) 72-90.
225
Girolamo, C. Joh., 31.
226
Si veda Gregorio di Nissa, De mortuis or.
227
La riproposizione classica di questa posizione si trova in F. Segarra, De identitate corporis
mortalis et corporis resurgentis, Razón y fe, Madrid 1929.
228
Si veda Teofilo d’Antiochia, Autol. 2,26.
229
Si veda Taziano, Or. ad graecos, 6.
230
Si veda Atenagora, De res. 2,4-6.
231
Si veda Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 2,41.
232
Si veda Origene, Hom. In Jer. 18,4.
233
Sulle implicazioni filosofiche della identità risorta, si veda G. Gillet, Identity and Resurrection,
«Heythrop Journal» 49 (2008) 254-68.
234
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 370-2; J. Ratzinger, Escatologia, 188s.
142
La resurrezione dei morti
235
Si veda Durando di San Porciano, In Sent. L. 4, D. 44, q. 1, n. 6.
236
È stato seguito in tempi recenti da neo-tomisti quali F. Hettinger, H. Schell, L. Billot, A. Michel e
D. Feuling; si veda J. Ratzinger, Escatologia, 190; M.-J. Nicolas, Le corps humain et sa résurrection,
«Revue Thomiste» 87 (1979) 533-45.
237
Si veda Origene, Sel. Ps. 1; Comm. in Ps. 1, 5,22. Si vedano gli studi citati in nota 123 sopra.
238
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 195s. Si veda in particolare l’opera perduta
di Filopono, De resurrectione.
239
Vedi le note 124 e 126 sopra, rispettivamente.
240
Si vedano le pp. 122s sopra.
241
Si veda J. Ratzinger, Auferstehungsleib, in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. 1 (1957) 1052-
53; DS 1822. Si veda anche G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 447s. Sull’importanza
delle reliquie in contesto religioso e sociale, si veda N. Herrmann-Mascard, Les reliques des saints:
formation costumière d’un droit, Klincksieck, Paris 1975; J. Bentley, Restless Bones: the Story of
Relics, Constable, London 1985.
242
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 121s. Si veda Congregazione per la Dottrina della Fede, Doc.
Recentiores episcoporum Synodi (1979), n. 6.
243
Si veda G. Colzani, La vita eterna, 122.
244
Si veda il mio studio La fórmula ‘Resurrección de la carne’. Clemente Romano usa l’espressione
143
Capitolo III
144
La resurrezione dei morti
peccato, sarà in futuro un ricettacolo di onore, utile al Signore per tutte le opere
buone; se invece sarà contaminata dal peccato, in futuro sarà un ricettacolo d’ira
per la distruzione»253. Questa posizione è stata assunta da molti altri scrittori
cristiani254 ed è riassunta nella seguente dichiarazione del Concilio Lateranense
IV, riunito nel 1215 per contrastare gli insegnamenti medioevali neo-gnostici:
«Tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti, per ricevere, secondo che
le loro opere, siano state buone o malvagie, gli uni la pena eterna con il diavolo,
gli altri la gloria eterna col Cristo»255.
Tale spiegazione chiarifica che la resurrezione finale non si distingue né
dal ritorno del Signore Gesù risorto nella gloria (la Parousia), né dal giudizio
generale. Essa è, infatti, il primo frutto della Parousia, e precondizione per il
giudizio finale. Da ciò che abbiamo appena visto emerge che la resurrezione
non può essere considerata, come pensavano gli gnostici valentiniani, come
un semplice sinonimo di salvezza (il Nuovo Testamento insegna che mentre la
salvezza non è necessariamente universale, la resurrezione lo sarà strettamente),
ma risponde alla fedeltà di Dio alla sua decisione di creare gli uomini, in corpo
ed anima, come esseri immortali.
253
Tiranio Rufino, Comm. in Symb. Apost. n. 46.
254
Per esempio, Minucio Felice, Octavius 34, 12; Ps.-Giustino De res. 2; Ireneo, Demonstr. 41; Adv
Haer. V, 11: Tertulliano, De res, 14; Gregorio di Elvira, Tract. Orig. XVIII, 6, 19-32.
255
DS 801.
256
Gregorio di Nissa, De vita Moysi II, 2-3.
257
A. Vonier, The Life of the World to Come, Burns & Oates, London 1935, 150.
145
Capitolo III
si è già vissuta, nei confronti della relazione con le altre persone, e – nel prossi-
mo capitolo – nei confronti della relazione con il cosmo.
258
Si veda per esempio K. Barth, Kirchliche Dogmatik, III/2, Evangelischer Verlag; Zollikon, Zürich
1948, 761s. E. Jüngel scrive: «Dio è la mia identità più in là. Alla resurrezione, la nostra persona
sarà… la nostra storia manifestata» Tod, 156s. Jüngel non accetta l’idea della resurrezione come
una dissoluzione e una vittoria su tutti i limiti. La resurrezione è promessa in modo che la vita
umana in quanto tale sia salvata, perché la salvezza non è possibile al di là della vita come è stata
vissuta, in quanto rimane nascosta nella vita risorta di Cristo. Su Jüngel, si veda il mio studio La
muerte y la esperanza, 72, nota 42. Ugualmente in W. Pannenberg, la storia e la vita di ciascuna
persona è, per così dire, “codificata” o registrata in Dio, in vista della resurrezione futura, che è
«l’atto attraverso il quale Dio, per mezzo del suo Spirito, restituisce la forma dell’essere-per-sé ad
un’esistenza delle creature che egli conserva nella sua eternità» Teologia sistematica, vol. 3, 634.
È da notare tuttavia che nella spiegazione di Pannenberg (e di Jüngel) l’identità metafisica del
soggetto umano, in quanto distinta da quella storica, non è pienamente descritta (si veda CAA
56). A. Ruiz-Retegui spiega la medesima idea nei seguenti termini: «La inocencia de la infancia, la
generosidad de la juventud pujante, las brillantes realizaciones de la madurez… todo esto que la
vida va envejeciendo sin piedad, nos será entregado de nuevo, si nos resistimos a la tentación de
conservarlos únicamente en cintas magnetoscópicos, o fotografías, o poemas gloriosos, o diarios
íntimos, y los confiamos a Dios, al Dios eterno que se entrega en Cristo» La teleología humana,
838s. E conclude: «el problema clave de la Resurrección de los muertos no es únicamente el
problema de la nueva unión del alma con el cuerpo, la identidad de éste, etc. sino el problema de
la recepción de la vida que es la que configura la identidad personal. Quizá la recepción del cuerpo
en la resurrección se identifique con la recepción de la vida que se ha vivido» ibid., 837. Il teologo
cattolico W. Breuning esprime questo come segue: «la resurrezione della carne significa che nulla
va perso per Dio, dal momento che egli ama il genere umano. Tutte le lacrime verranno raccolte,
nessun sorriso è perso in lui. La resurrezione della carne significa che in Dio l’uomo ritroverà
non solo il suo ultimo momento sulla terra, ma la sua intera storia» Mysterium salutis. Grundriss
heilsgeschichtlicher Dogmatik, a cura di J. Feiner and M. Löhrer, vol. 5, Benzinger, Zürich 1976,
882s. Von Balthasar esprime la medesima idea nei seguenti termini: «La nostra vita vissuta sulla
terra rimane in cielo non solo come un ricordo, ma come qualcosa che è presenza perenne. Come
ciò sia possibile si spiega di nuovo con la reciprocità di cielo e terra: il vissuto frammentario e
incompleto della terra ha sempre avuto la sua profondità ultima in cielo; nessuno istante terreno
può completamente estinguersi (è il problema del Faust di Goethe), ciò che nasconde in sé di
contenuto eterno è riposto per noi in cielo… Perciò la nostra (terrena) esistenza – e noi abbiamo
una sola esistenza – avrà lassù una verissima, per quanto inconcepibile, presenza» L’ultimo atto
(Teodrammatica, 5), Jaca Book, Milano 1985, 343. La stessa idea si può trovare in J. T. O’Connor,
Land of the Living: A Theology of the Last Things, Catholic Books, New York 1992, 258-60, e G.
Ancona, Escatologia cristiana, 354s., che cita B. Sesboüé. Teilhard de Chardin, commentando Ap
14,13, esprime l’idea come segue: «Se noi amiamo Dio, niente della nostra attività interiore, della
nostra operatio, andrà mai perduto. Non verrà l’opera delle nostre menti, dei nostri cuori e delle
nostre mani – cioè i nostri successi, quello che abbiamo determinate, la nostra opus – non sarà
tutto ciò, pure, in qualche senso, “eternalizzato” e salvato?… Dimostra ai tuoi fedeli, Signore, in
quale senso così pieno e vero che “le loro opere li seguiranno” [Ap 14,13] nel tuo regno – opera
sequuntur illos» The Divine Milieu, Harper & Row, New York 1960, 55s.
146
La resurrezione dei morti
lio Vaticano II Gaudium et spes, dice: «Cosa sarebbe un Gutenberg risorto con un
corpo identico al suo corpo terreno fatto di carne, ma senza alcuna relazione con la
scoperta che l’ha reso famoso? Cosa sarebbe un pittore cristiano senza la sua opera,
un musicista senza le sue sinfonie, un poeta senza le poesie? E non dovrebbe rima-
nere nulla dei formidabili sforzi della industria moderna, degli ingegneri e degli
operai? Dobbiamo continuare a dire con il detto medioevale: solvet saeculum in
favilla?»259 Nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) il beato Giovanni Paolo
II, parlando degli sforzi umani, dice che «niente verrà perso o sarà stato invano»260.
Theodor Bovet riassume la stessa idea quando dice che «il volto di una persona
umana contiene in modo stenografico la sua biografia»261.
Due autori in particolare sono degni di menzione, il poeta Gerard Manley
Hopkins († 1889), e il teologo Romano Guardini († 1968).
Hopkins nel suo poema L’eco di piombo e l’eco d’oro incoraggia il suo lettore
ad offrire tutto a Dio, proprio le cose migliori, senza tenere nulla per sé, in quanto
Dio le restituirà tutte, purificate e rese eterne, alla fine dei tempi. «Renda la bellez-
za, la bellezza, renda la bellezza a Dio, della bellezza l’essenza e il donatore. Vedete,
non un capello, né un ciglio, non il minimo ciglio è perduto; ogni capello, ogni
capello del capo è contato… Ah, allora, allora perché, stanche, andare? Perché
siamo tanto scarne di cuore, rattratte, sfatte nell’affanno, affaticate, fastidite, delu-
se, e così oppresse, quando la cosa che liberamente impegniamo è custodita con
cura più amorosa, più amorosa della nostra cura, custodita con una tanto più
amorosa cura… Dove custodita? Dicci soltanto dove è custodita, dove? – Lassù
– Quanto in alto! Noi seguiamo, ora seguiamo. – Lassù, sì lassù, lassù, lassù»262. I
versi di Hopkins evocano l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli ad «accumulare
tesori in cielo» (Mt 6,20). San Pietro Crisologo (V sec.) afferma: quod tu alteri non
reliqueris, non habebis: «quello che non hai dato agli altri, lo perderai»263. Alla fin
fine, come dice Charles Péguy († 1914), «tutto quello che non è dato è perso».
Romano Guardini pone i seguenti interrogative riguardanti la natura del
corpo risorto: «“Corpo” non è solo forma presente nello spazio; esso ha anche
259
H. Rondet, The Theology of Work, in H. Vorgrimler (a cura di), Commentary on the Documents
of Vatican II, vol. 5, Burns & Oates; Herder e Herder, London; New York 1969, 197, su GS 39.
Solvet saeculum in favilla: “il mondo si dissolverà tra le ceneri”.
260
Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis (1987), n. 48.
261
L’autore riflette sulle rughe del volto di sua moglie: Die Ehe, P. Haupt, Tübingen, 19723, 139.
262
G. M. Hopkins, Poesia The Leaden Echo and the Golden Echo, in The Works of Gerald Manley
Hopkins, Wordsword Editions, Hertfordshire 1994, 55s, traduzione italiana: L’eco di piombo e
l’eco d’oro, in A. Guidi (a cura di), Poesie di G. M. Hopkins, Guanda, Parma 1952, 105.
263
Pietro Crisologo, Sermo 43.
147
Capitolo III
storia. Dalla nascita alla morte assume numerosissime forme. Quale di esse è
la vera? Quella del bambino, quella dell’uomo maturo, quello del vecchio?». E
dice: «La risposta può essere una sola: ciascuna è essenziale, poiché la singo-
la fase non è finalizzata alla successiva – il che significherebbe che tutte sono
finalizzate all’ultima, la morte; ciascuna è l’uomo, ciascuna è insostituibile
nell’arco della vita. Il “corpo” dell’uomo è quindi in verità un numero infinito
di forme, che devono essere tutte presenti nel corpo risorto. Esso deve avere
una nuova dimensione, quella del tempo, più precisamente quella del tempo
assunto nell’eternità, in modo che il presente contenga la sua storia, e il puro
adesso comprenda la continua successione delle forme… Lo stesso vale non solo
per il suo sviluppo immediato, ma anche per ciò che ha fatto e vissuto: gioie
e sofferenze, inibizioni e affrancamenti, vittorie e sconfitte, amore e odio. Gli
infiniti eventi dell’anima si sono espressi nel corpo, hanno compenetrato il suo
essere sviluppandolo, ostacolandolo o distruggendolo. Sono conservati in esso,
e sono presenti nel corpo risorto. Lo stesso vale per le esperienze e gli incontri;
e la resurrezione del corpo significa la resurrezione di tutta la vita passata, del
bene e del male… “Resurrezione” significa quindi che risorge non solo la forma,
ma anche la storia; non solo la sostanza, ma anche la vita dell’uomo. Nulla di
ciò che è stato viene distrutto. L’essenza delle azioni e dei destini dell’uomo è in
lui e, liberata dalla limitatezza della storia, esisterà nell’eternità. Ma non in virtù
della propria forza, come ultima fase di uno sviluppo intrinseco, bensì grazie
alla chiamata del Signore, l’onnipotente, e in virtù del suo Spirito»264.
264
R. Guardini, Le cose ultime, 71s.
265
Questa frase è di Arnaud Chartrain nell’opera di Marcel La soif.
266
John Donne, Devotion upon Emergent Occasions, 17 in Complete Poetry and Selected Prose, a
cura di J. Hayward, The Nonsuch Press, London 1949, 538.
148
La resurrezione dei morti
mente “risorta”, se non include quella parte di me che sono le altre persone, che
è la mia storia personale vissuta con loro e in loro.
La spiegazione appena posta fornisce una spiegazione coerente per poter
integrare “l’immortalità della vita” e “l’immortalità del io”, come abbiamo enun-
ciato nel primo capitolo267. Offre una base per spiegare la dignità di ciascuno e tutti
gli uomini, non solo riguardo alla loro individualità metafisica, ma nei confronti
del valore eterno della vita concreta che hanno vissuto insieme agli altri268.
267
Si vedano le pp. 47s.
268
Si veda M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, 233s. L’Aquinate spiega che «la
resurrezione non è finalizzata alla continuità della specie, perché questa sarebbe salvaguardata
dalla generazione. Essa deve, quindi, essere finalizzata alla continuità dell’individuo: ma non
dell’anima sola; infatti l’anima ha già la sua continuità prima della resurrezione. Perciò riguarda la
continuità del composto» IV C. Gent., 82.
269
Tertulliano, De res. 1.
270
Ignazio d’Antiochia, Ad Rom. 6,2s.
271
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30,4.
149
Capitolo III
mondo, essa distrae gli uomini dalla vita presente e dalla lotta per la giustizia
e l’uguaglianza272. Secondo entrambi l’umanità raggiungerà la sua pienezza in
questa vita, nel mondo così come lo conosciamo, o non la raggiunge affatto.
Tuttavia, sebbene la loro visione della storia e del progresso vuole incentrare
tutto sulla vita nel mondo, la loro impostazione ha l’effetto di banalizzare anche
questa vita, dal momento che tutto quello che gli uomini fanno o raggiungono
non può durare per sempre, non può assumere valore eterno. Non sorprende il
fatto che alcuni autori di tendenza marxista, come Teodoro Adorno († 1969),
abbiano detto che sarebbe necessaria la resurrezione della carne perché giustizia
definitiva venga fatta nel mondo273.
È qui che la spiegazione appena data della resurrezione finale diventa
pienamente significativa. Essa non è una nuova creazione nel senso stretto della
parola; non si tratta di una vita completamente nuova, irriconoscibile. Piuttosto,
è la resurrezione della carne nella potenza di Dio, l’eternalizzazione della vita
vissuta sulla terra, la permanenza palpitante della narrativa umana. La resur-
rezione così dà significato e profondità e valore alle cose e azioni ed eventi più
umili e materiali della vita. In realtà la speranza nella resurrezione finale è quel
che rende possibile vivere ogni momento «con vibrazione d’eternità», per usare
una frase cara a San Josemaría Escrivá († 1975)274.
Alcuni autori accettano che la resurrezione finale consista davvero nella
restaurazione delle nostre relazioni con gli altri e con il mondo, ma ritengo-
no che questo non implichi l’eternità della materia, ma piuttosto una sorte di
comunione spirituale e condivisione tra gli uomini in Cristo275. Tuttavia, una
vita risorta completamente sganciata dalla materia, oltre ad essere in disaccor-
do con diversi aspetti della dottrina della fede, specialmente la Resurrezione di
Cristo, non prende la vita umana, come è vissuta sulla terra, in tutta la sua serie-
tà e concretezza. La dottrina della resurrezione dei morti ci porta a parlare di un
autentico “materialismo cristiano”276. Se la materia è esclusa dallo stato risorto,
272
Si vedano le riflessioni del papa Benedetto XVI, in SS 20s.
273
Si veda T. W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966, 205, 393. Questo
testo è citato anche in SS 42.
274
Si veda San Josemaría Escrivá, Amici di Dio, n. 239b; Forgia n. 917.
275
Si veda A. Schmemann, O Death, Where is Thy Sting?, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood,
NY 2003.
276
San Josemaría ha scritto: «Il senso cristiano autentico – che professa la resurrezione di ogni
carne – si è sempre opposto, come è logico, alla disincarnazione, senza tema di essere tacciato di
materialismo. È consentito, pertanto, parlare di un materialismo cristiano, che si oppone audacemente
ai materialismi chiusi allo spirito» Colloqui con Mons. Escrivá de Balaguer, Ares, Milano 1968, 144.
150
La resurrezione dei morti
Marx avrebbe avuto ragione nel dubitare delle buone intenzioni dei cristiani
che sostengono che l’escatologia è una forza di responsabilizzazione per coloro
che vogliono stabilire la giustizia nel mondo. Questo ci porta a considerare il
contesto cosmico per la vita dei risorti, quello che la Scrittura definisce “i cieli
nuovi e la terra nuova”.
151
Capitolo IV
1
C. Péguy, Le Mystère des Saints-Innocents.
2
Agostino, Conf. IX, 10.
3
Cf. A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 337-85.
4
Si veda M. Bordoni, Gesù di Nazaret Signore e Cristo, Herder; Pontificia Università Lateranense,
Roma 1986, vol. 3, 611s.
5
Giuliano di Toledo, Prognosticon futuri saeculi 2,46.
153
Capitolo IV
6
Ugo di San Vittore, De sacramentis II, 18,1. Ugo spiega che il mondo sarà trasformato secondo
il modello della resurrezione.
7
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 97.
8
LG 48a.
9
Ibid., 48c.
10
GS 39a.
11
CCC 1042-50.
12
CCC 1047; che include una citazione di Ireneo, Adv. Haer. V, 32,1.
154
I nuovi cieli e la terra nuova
13
Si veda il Concilio di Costantinopoli (553), can. 10, in J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova
collectio, Akademische Druck-und Verlaganstalt Graz, Graz 1901, vol. 9, col. 399; si veda anche
DS 1361. Sul pensiero di Bultmann, si veda CAA 38-44.
14
La nozione di ri-creazione materiale del mondo è comune nell’età sub-apostolica;
successivamente, tra i Padri Apostolici, è in qualche modo decaduta: si veda A. O’Hagan, Material
Re-Creation in the Apostolic Fathers, Academie, Berlin 1968, 141.
15
L’idea di ri-creazione materiale è chiara in Ireneo, Adv. Haer. V, 32, nei suoi insegnamenti
riguardante al millenarismo (si vedano le pp. 297ss.).
16
Si veda Tommaso d’Aquino, In Rom. 8, l. 4 (ed. Marietti, n. 660).
17
W. Wordsworth, The Prelude, X-XI, righe 724-9.
18
W. Kasper, The Logos Character of Reality, «Communio (English ed.)» 15/3 (1988) 282.
155
Capitolo IV
Il “mondo nuovo” nella Scrittura. Tuttavia, il fatto che il mondo così come lo
conosciamo sia sotto una minaccia di distruzione non significa che esso sarà
completamente distrutto o annientato, in quanto Dio, come ci dice la Scrittura,
ha promesso che sarà generato un “nuovo mondo”, dei “nuovi cieli e la terra
nuova”, una “nuova creazione”.
La promessa di un cosmo rinnovato è presente nell’Antico Testamento. In
Is 65,17 per esempio leggiamo: «Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra;
19
Si veda L. Scheffczyk, Die Wiederkunft Christi in ihrer Heilsbedeutung für die Menschheit und
den Kosmos, in Weltverständnis im Glauben, a cura di J. B. Metz, Matthias-Grünewald, Mainz
19662, 161-83, qui 180. Si veda anche J. H. Wright, The Consummation of the Universe in Christ,
«Gregorianum» 39 (1958) 285-94.
20
Si veda CAA 150-4.
21
Si veda Rm 8,19-21; 2 Pt 3,10-13; Ap 21,1-2.
22
Tertulliano, De res. 14,6.
156
I nuovi cieli e la terra nuova
non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioi-
rà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia,
e il suo popolo per il gaudio» (Is 65,17s.). Il rinnovamento è spesso presentato
in termini di ritorno al paradiso (Is 11,6-9). Poi il ciclo di distruzione, novità e
ricreazione viene alla ribalta in particolare nei testi apocalittici23.
Nel Nuovo Testamento si può trovare la medesima dottrina, in diverse
occasioni. Matteo fa riferimento al crollo dell’ordine cosmico attuale come un
segno dell’arrivo del Figlio dell’uomo (24,29), ma anche di una nuova creazione
(19,28: paliggenesia) che coincide con la sua venuta24. La lettera ai Romani parla
del nuovo mondo che Dio ha promesso, e della situazione della creazione nei
termini di una nuova nascita. «L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è
protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta
alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta –
nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della
corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19-21)25.
Anche il libro dell’Apocalisse parla di un rinnovamento del cosmo operato
dalla potenza misericordiosa di Dio, in una chiara parafrasi di Is 65,17s. «E vidi un
cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e
il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere
dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una
voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro
Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né
lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”» (Ap 21,1-4).
Forse il testo più chiaro è da ricercarsi nella seconda lettera di Pietro (3,10-
13) che descrive la distruzione del mondo e la sua sostituzione con una nuova
creazione: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in
un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra,
con tutte le sue opere, sarà distrutta… i cieli in fiamme si dissolveranno e gli
elementi incendiati fonderanno!» (vv. 10-12). I credenti sono esortati, perciò, ad
essere vigilanti: «Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo,
quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere,
mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio» (vv. 11s.). Tuttavia,
23
Si veda CAA 79-81.
24
Per una analisi di questo testo, si veda CAA 167-9. Si veda anche BDAG, 752, s.v. παλιγγενεσία.
25
Su questo testo, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 182-5.
157
Capitolo IV
prosegue il testo, «noi, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una
terra nuova, nei quali abita la giustizia» (v. 13). La lettera continua ad esortare i
credenti: «Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio
vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia» (v. 14).
Il testo insegna che il mondo così come lo conosciamo sarà distrutto e
ricreato di nuovo dalla potenza di Dio. Per questa ragione i credenti sono inco-
raggiati a vivere in virtù e vigilanza, per poter entrare nel regno di Dio quando
arriverà nella sua pienezza.
26
Per una sobria riflessione in materia, si veda G. Ancona, Escatologia cristiana, 359.
27
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 91, a. 5; Comp. Theol. 170.
28
Si veda Virgilio, Eneide VI, 640-59, che parla di pascoli, sorgenti e fiumi.
29
Passio Perpetuae et Felicitatis, 4,11s.
30
Si veda Girolamo, In Is. 18,17s.
31
Si veda C. S. Lewis, Miracles, 166s.; The Problem of Pain, Macmillan, New York 1948, 117-31. È
significativo il fatto che Lewis parli qui di animali domestici, non selvatici. Questo per dire che la
possibile presenza di animali nella vita futura è antropologicamente qualificata.
32
Arnoldo di Bonneval, De operibus sex dierum.
33
Si veda Giovanni Crisostomo, In Ep. ad Rom. 14.
158
I nuovi cieli e la terra nuova
34
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 30.
35
Si veda W. G. Stoeger, Cosmologia, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, vol. 1, 285-9.
36
Per una storia classica del deismo, si veda J. Forget, Déisme, in DTC 4 (1918) col. 232-243.
37
Si veda CAA 86ss.
159
Capitolo IV
nel suo processo evolutivo (come succede con i riti della fertilità egiziani)?38 O,
in alternativa, la resurrezione sarà il risultato di un intervento divino che deve
ignorare, superare o alterare sostanzialmente le leggi della natura, una sorte di
seconda creazione che passi sopra il mondo esistente, che rifletta una visione di
doppio-piano, o addirittura dualistica, della realtà?
È chiaro che qualsiasi sistema etico o spirituale, non importa quanto tenti
di conferire dignità all’uomo e alle sue azioni, se rimane lontano dalla realtà e
dal dinamismo dell’universo, compresa la materialità e la corporeità umane,
corre il rischio di diventare senza significato, impraticabile e irrilevante. Inoltre,
il progresso nel campo della fisica ha fatto sorgere una consapevolezza generale
secondo cui la materia e le sue leggi non sono soggette esclusivamente all’in-
fluenza di leggi implacabili e prevedibili39. È frequente considerare il mondo
fisico soggetto ad un processo dinamico che si muove tra, da una parte, una
crescente entropia (che produce una sempre maggiore distruzione o dissolu-
zione degli esseri), e, dall’altra, una strutturazione sempre maggiore, in cui i
processi fisici hanno luogo in sistemi aperti piuttosto che chiusi40. Tali processi
di fatto possono non essere impermeabili a fattori di tipo personale o spiritua-
le41. Allo stesso modo, gli sviluppi nella contemporanea antropologia filosofica
sono basati, in grande misura, su studi concernenti la fenomenologia del corpo
umano42; ciò va contro la predominanza goduta dalle antropologie e psicologie
spirito-centriche dei secoli recenti.
Una consapevolezza di questi fattori ha portato molti autori del ventesi-
mo secolo a tentare una ripresa delle implicazioni strettamente cosmologiche
ed antropologiche della salvezza cristiana, e in particolare della dottrina della
resurrezione e del rinnovamento cosmico. L’opera salvifica di Cristo, infatti,
implica non solo la vittoria (negativa) sulla disarmonia del peccato e della morte
che ha origine nella primordiale disobbedienza dell’uomo, ma anche un aspetto
positivo, in cui il cosmo creato avanza sotto la potenza divina verso la definiti-
va, gloriosa pienezza. In questo senso la resurrezione di Cristo dalla morte (e la
38
Si vedano le pp. 106s.
39
Si vedano le pp. 71s.
40
Su questo argomento, si veda H. Wehrt, Über Irreversibilität, Naturprozesse und Zeitstruktur, in
Offene Systeme, a cura di E. U. von Weizsäcker, vol. 1, Klett, Stuttgart 1974, 114-99.
41
Si veda il mio studio Whose Future? Pannenberg’s Eschatological Verification of Theological
Truth, «Irish Theological Quarterly» 66 (2001) 19-49, specialmente 42.
42
Si veda C. Bruaire, Philosophie du corps, Seuil, Paris 1968; M. Merleau-Ponty, L’union de l’âme
et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson, Vrin, Paris 1978; M. Henry, Une philosophie de la
chair, Seuil, Paris 2000.
160
I nuovi cieli e la terra nuova
La scienza e il “Cristo cosmico”. Uno degli autori che ha parlato con più forza
della continuità tra lo sviluppo umano e il progresso del Regno di Dio è stato
Pierre Teilhard de Chardin († 1955) nella sua dottrina del “Cristo cosmico”43.
Dal punto di vista scientifico, Teilhard considerava il processo dell’evoluzione
dell’universo come la convergenza di tutti i fenomeni verso un “Punto Omega”
di perfezione ultima. Teologicamente parlando, dice, ciò coincide con la “cristi-
ficazione” escatologica dell’universo. Quando il processo di “incarnazione” del
Verbo giungerà a compimento, egli nota, Cristo diventerà, secondo le parole
dell’Apostolo, il plērōma, o pienezza della creazione44.
Le riflessioni di Teilhard sul Cristo cosmico hanno fornito una espressione
utile di un aspetto centrale della comprensione cristiana del mondo, che era
stata in qualche modo sottovalutata nei secoli precedenti. Diversi autori hanno
preso le mosse a partire dalle sue intuizioni45, alcuni con più successo di altri.
Ci si è chiesti, comunque, se il “Cristo cosmico” di Teilhard – di cui egli
parla come di una misteriosa super-umana “terza” persona in Cristo – faccia
riferimento all’umanità di Cristo ipostaticamente unita al Padre, oppure alla
sua divinità, consustanziale al Padre46. Nel primo caso, Teilhard sembrerebbe
estendere l’unione ipostatica all’intero cosmo, e non solo alla umanità storica di
Gesù di Nazaret. Chiaramente, la dissoluzione della concreta umanità di Gesù
43
Si veda C. F. Mooney, Teilhard de Chardin and the Mystery of Christ, W. Collins, London
1966; J. A. Lyons, The Cosmic Christ in Origen and Teilhard de Chardin, Oxford University Press,
Oxford 1982.
44
Si veda L. Galleni, Teilhard de Chardin, Pierre, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede,
vol. 2, 2111-24.
45
Si veda É. Mersch, Le Christ, l’homme et l’univers, Desclée de Brouwer, Paris 1962; G. Martelet,
Résurrection, eucharistie et genèse de l’homme, Desclée de Brouwer, Paris 1972; J.-M. Maldamé, Le
Christ et le cosmos, Desclée, Paris 1993; e anche nella teologia ortodossa: O. Clément, Le Christ,
terre des vivants: le “Corps spirituel”, le “Sens de la terre”, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-
Mauges 1976.
46
J.-M. Maldamé, Le Christ et le cosmos, 183s.
161
Capitolo IV
che ciò comporta sarebbe fuori luogo. Nel secondo caso, la sua comprensio-
ne potrebbe mettere in pericolo la distinzione tra Dio e l’universo creato. In
entrambi i casi, una certa visione “pancristica” dell’universo si trova nel pensie-
ro di Teilhard, una possibilità cui fa riferimento Papa Pio XII nella sua enciclica
del 1943, Mystici corporis47.
Si dovrebbe inoltre notare che i testi della Scrittura citati da Teilhard in
riferimento all’aspetto strettamente cosmico della Cristologia (per esempio Col
1,17; 2,10; 3,11) pongono l’attenzione solo al lato escatologico del ruolo cosmico
di Cristo (Cristo come il “Punto Omega” della creazione), e trascurano in qual-
che modo il ruolo strettamente protologico giocato dal Verbo Eterno di Dio nella
creazione del mondo (Cristo come il “Punto Alfa” del creato)48. La compren-
sione esclusivamente escatologica della “cristificazione” cosmica suggerita da
Teilhard può prestarsi sia (1) ad una considerazione estrinseca dell’intervento
di Dio sulla natura che può essere rettificata solo da forti affermazioni di tipo
pancristico o anche panteistico, o (2) a una confusione tra il male da una parte,
e la semplice limitazione cosmica che deriva dall’atto divino della creazione,
dall’altra. Di fatto, una comprensione autenticamente cristiana dell’universo e
della materia alla luce della resurrezione escatologica può trovare fondamento
solo in una visione della creazione pienamente cristologica49.
47
Si veda DS 3816.
48
Per esempio nell’opera di Teilhard del 1924, Mon univers, Seuil, Paris 1965.
49
Si veda il mio studio, Il realismo e la teologia della creazione, «Per la filosofia» 12 (1995) 98-110.
162
I nuovi cieli e la terra nuova
re ed esistere. Se così non fosse, la ricapitolazione finale di tutte le cose nel Figlio
rimarrebbe esterna alle cose, con la conseguenza che essa non sarebbe nemmeno
il compimento definitivo di un essere propriamente creaturale»50.
Difatti, secondo il pensiero platonico e neoplatonico, si dice che Dio abbia
creato (o formato) l’universo, una volta e per tutte, in modo statico e immu-
tabile, attraverso l’azione esterna e temporanea di un Demiurgo, o Logos, che
svolge una funzione di intermediario tra l’eternità e la trascendenza del Divino
da una parte, e l’intrattabile corruttibilità della materia, dall’altra. Per i platonici
il Logos è stato posto in essere per lo scopo preciso di portare ordine (kosmos)
nell’universo. Espressioni simili si possono trovare nel Nuovo Testamento: Dio
ha creato il mondo attraverso il Verbo (Gv 1,3), o attraverso Cristo (1 Co 8,6; Col
1,16). Ma il Nuovo Testamento va ben oltre la posizione platonica, utilizzando
altri due modi di considerare la relazione tra il Verbo (Cristo) e il mondo: il
mondo è fatto per Cristo, e in Cristo.
50
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 35s.
51
Spiego questo tema in modo più dettagliato in L’incontro tra fede e ragione nella ricerca della
verità, in G. Maspero, M. Pérez de Laborda (a cura di), Fede e ragione: l’incontro e il cammino. In
occasione del decimo anniversario dell’enciclica Fides et ratio, Cantagalli, Siena 2011, 35-59, 44-49.
52
Tertulliano, De res., 6.
163
Capitolo IV
Il mondo fatto “in” Cristo. Paolo spesso dichiara che non solo noi siamo salvati
da Cristo e viviamo “in” lui, ma anche che siamo stati creati in Cristo: «in lui
tutte le cose sussistono» (Col 1,16); «Egli [il Figlio]… sostiene l’universo con
la sua parola potente» (Eb 1,3)54. Cristo, in altro parole, non è una mera causa
strumentale della creazione, che dà forma al mondo una volta per tutte quando
è stato costituito molto tempo fa, non è solo la sua causa finale nel senso che
tutta la creazione tende ad esso come ad un fine lontano. Cristo non è la mera
causa estrinseca di una creazione che aspira ad una perfezione al di là delle
proprie capacità. Piuttosto, come una divinità creatrice in senso pieno, Egli è
continuamente presente alla creazione, mantenendola in esistenza (conserva-
zione), muovendo tutti gli esseri ad agire secondo la propria natura (concorso),
portandoli verso il loro fine ultimo (provvidenza), poiché «in lui viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). Proprio come nell’Antico Testamento Jahve
era considerato sorgente di vita, così anche nel Nuovo Gesù è colui che dà la vita
(Gv 4,10). Può far questo perché «come infatti il Padre ha la vita in se stesso,
così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26). Perciò si
può dire che tutte le cose create ricevono esistenza, sussistenza, vitalità, intel-
ligibilità e consistenza dalla fonte inesauribile di Vitalità che è il Verbo. L’uni-
verso nella sua totalità può essere considerato come una realtà vivente, filiale,
creata, animata, conservata e alla fine portata alla perfezione escatologica dal
di dentro, attraverso l’azione del Verbo-Figlio di Dio fatto uomo. Il culmine di
questo processo, nella sfera umana e cosmica, consiste nella resurrezione finale e
53
Questa è la ragione per cui il Concilio di Nicea (325) dichiarò la “consustianzialità” divina del
Verbo con il Padre: DS 125.
54
Sul motivo paolino “in Cristo”, si veda il mio studio The Inseparability of Holiness and Apostolate.
The Christian “alter Christus, ipse Christus” in the Writings of Blessed Josemaría Escrivá, «Annales
Theologici» 16 (2002) 135-64, qui 139-46.
164
I nuovi cieli e la terra nuova
165
Capitolo IV
così dire, dai frutti delle sue fatiche, almeno quelli in cui Dio è stato glorificato
ed obbedito, e altri uomini amati e serviti? Circa questo argomento, tra gli anni
’50 e ’60 del secolo XX sono emerse due posizioni contrastanti, una chiamata
“escatologismo” e l’altra “incarnazionismo”55. La questione è diventata popolare
nel periodo successivo al Concilio Vaticano II nel contesto del dialogo che alcu-
ni cristiani tentavano di stabilire con il pensiero marxista.
Gli escatologisti tendono ad enfatizzare la discontinuità tra questo mondo
e il futuro, ritenendo che l’unica continuità di cui si possa parlare consiste nelle
virtù che i cristiani acquistano «accumulando tesori in cielo» (Mt 6,20; 19,21),
specialmente la virtù della carità. Tale posizione guarda il mondo e l’agire
umano in un modo pessimistico. Gli incarnazionisti, al contrario, pensano che
il realismo dell’Incarnazione del Verbo ci esiga di parlare di una netta continu-
ità tra questo mondo e quello futuro, come quella che esiste tra la vita di Gesù
sulla terra, e quella sua gloriosa attuale, seduto alla destra del Padre.
Uno dei primi tentativi di sviluppare la posizione incarnazionista è stato
quello di Teilhard de Chardin, che abbiamo considerato sopra56. In seguito,
alcuni autori hanno affermato che si possono ben fare paragoni tra l’incarna-
zionismo e alcune forme di umanesimo marxista, in particolare quello di Ernst
Bloch. Come abbiamo già visto, questi considera che la “speranza”, fondata sul
dinamismo della materia e non nell’azione divina, è il motore della storia, e che
attraverso un lavoro guidato dalla speranza potremo stabilire sulla terra l’uma-
nità che tutti sogniamo.
Che i cristiani tentino di dialogare con il pensiero marxista, date le radi-
ci cristiane del secondo, è in qualche modo comprensibile. Tuttavia, in fin dei
conti, le differenze tra i due mondi sono profonde ed insormontabili, special-
mente per quel che concerne la dottrina di Dio e la dignità della persona umana.
Per il marxismo, la progressiva umanizzazione del mondo, così come avviene, è
la diretta conseguenza o prodotto dello sforzo umano. Parlando teologicamen-
te, si tratta di un’impostazione nettamente “pelagiana”: l’uomo salva se stesso.
Al contrario, la venuta del Regno di Dio sulla terra – che sia palese e visibile
come pensano gli incarnazionisti, o nascosto ed invisibile come suggeriscono
gli escatologisti – è sempre il risultato dell’azione di Dio attraverso Cristo nello
Spirito. E finché Cristo tornerà nella gloria, la sua opera salvifica sarà presente
55
Sul dibattito, si veda L. Malevez, Deux théologies catholiques de l’histoire, «Bijdragen» 10 (1949)
224-40; J. L. Illanes, Cristianismo, historia, mundo, Eunsa, Pamplona 1973; C. Pozo, La teología del
más allá, 128-37; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 358-70.
56
Si vedano le pp. 161s.
166
I nuovi cieli e la terra nuova
sempre nel mondo sotto il segno della Croce, cioè sotto il segno della grazia e
della debolezza, dell’ambivalenza e dell’apparente fallimento.
Per i marxisti, l’uomo, avendo preso il posto di Dio, costruisce il futuro;
per il cristiani, Dio è la fonte dell’avvenire, Dio che conta, ovviamente, sulla
intelligente collaborazione umana. Non è del tutto preciso dire che gli uomi-
ni “co-operino” a questo processo, data l’incommensurabilità dell’azione delle
creature con quella del Creatore; forse sarebbe più corretto dire che gli uomini
utilizzano i talenti che Dio ha dato loro per accogliere con gioia i doni – di natu-
ra e di grazia – di cui Dio li ha abbondantemente forniti57. «Cercate anzitutto il
suo regno e la sua giustizia», dice Gesù «e tutte queste cose [cibo, vestiti, ecc.] vi
saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).
57
Si veda il mio studio Hope and Freedom in Gabriel Marcel and Ernst Bloch, 232.
58
Si veda Acta Concilii Vaticani, III, 3, 8, 140; si veda C. Pozo, La teología del más allá, 141-4.
59
LG 48c.
60
GS 39b, che cita il Papa Pio XI, Enc. Quadragesimo anno (1931).
167
Capitolo IV
teologia della liberazione) una Lettera della Congregazione per la Dottrina della
Fede sull’escatologia del 1979 ha voluto dire: «Il cristiano… deve credere, da una
parte, alla continuità fondamentale che esiste, per virtù dello Spirito Santo, tra la
vita presente nel Cristo e la vita futura – in effetti, la carità è la legge del regno di
Dio, ed è precisamente la nostra carità quaggiù che sarà la misura della nostra
partecipazione alla gloria del cielo; ma, d’altra parte, il cristiano deve discernere
la rottura radicale tra il presente ed il futuro in base al fatto che, al regime della
fede, si sostituisce quello della piena luce…»61.
Il beato Giovanni Paolo II nella sua enciclica del 1981 Laborem exercens,
parlando della spiritualità del lavoro, solleva nuovamente la questione e indi-
ca la necessità di prendere in considerazione il ruolo della Croce nel progres-
so dinamico e nella preparazione dei “cieli nuovi e terra nuova”. «Nel lavoro,
grazie alla luce che dalla resurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo
sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio
dei “nuovi cieli e di una terra nuova” (2 Pt 3,13), i quali proprio mediante la fati-
ca del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo. Mediante la fatica – e
mai senza di essa»62.
Infine, nell’Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione (1986) della
Santa Sede, proprio sul tema della teologia della liberazione, si legge che la cristia-
na «speranza non attenua l’impegno per il progresso della città terrena, ma al
contrario gli dà senso e forza… [La] distinzione tra progresso terrestre e crescita
del regno… non è una separazione; infatti, la vocazione dell’uomo alla vita eterna
non elimina, anzi conferma il suo compito di mettere in atto le energie ed i mezzi,
che ha ricevuti dal Creatore per sviluppare la sua vita temporale… Illuminata
dallo Spirito del Signore, la Chiesa di Cristo può discernere nei segni dei tempi
quelli che promettono la liberazione e quelli che sono ingannevoli ed illusori…
Essa è cosciente che tutti questi beni: dignità umana, unione fraterna, libertà, che
costituiscono il frutto di sforzi conformi alla volontà di Dio, noi li ritroveremo
“purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, quando Cristo rimetterà al
Padre il regno eterno e universale”, che è un regno di libertà. La vigile ed operosa
attesa della venuta del regno è pure quella di una giustizia finalmente perfetta
per i vivi e per i morti, per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che Gesù
Cristo, costituito giudice supremo, instaurerà… Una tale promessa, che supera
tutte le possibilità umane, riguarda direttamente la nostra vita in questo mondo.
61
Congregazione per la Dottrina della Fede, Recentiores episcoporum Synodi, n. 7.
62
Giovanni Paolo II, Enc. Laborem exercens (1981), n. 27e.
168
I nuovi cieli e la terra nuova
Infatti, una vera giustizia deve estendersi a tutti, portare la risposta all’immen-
so cumulo di sofferenze che gravano su tutte le generazioni. In realtà, senza la
resurrezione dei morti e il giudizio del Signore non c’è giustizia nel senso pieno
di questo termine. La promessa della resurrezione viene gratuitamente incontro
al desiderio di vera giustizia, che abita nel cuore umano»63.
Sperando per i nuovi cieli e la nuova terra. È comprensibile che i cristiani abbia-
no guardato alla promessa distruzione e purificazione del cosmo con timore e
trepidazione, piuttosto che con speranza e gioia. Seguendo la logica della Croce
e Resurrezione di Cristo, tuttavia, è chiaro che oltre alla distruzione del cosmo
giunge la promessa di rinnovamento, il ritorno al paradiso, la gloriosa bellezza
dell’opera compiuta da Dio. Prendendo in considerazione quel che è stato detto
sulla resurrezione di una vita un tempo vissuta e la dimensione sociale di questo
mistero, è ragionevole affermare che molto di ciò che gli uomini hanno compiuto
sulla terra, insieme agli altri uomini, utilizzando il meglio delle loro energie ed
intelligenza date da Dio, vivrà per sempre: nelle opere d’arte e d’architettura, opere
legislative e letterarie, opere di sviluppo ed educazione, e via dicendo. La dottrina
del giudizio finale, che ora considereremo, viene solo a conferma di questo.
63
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiane e la liberazione (1986),
n. 60, che cita GS 39c.
169
Capitolo V
IL GIUDIZIO FINALE
La fede cristiana proclama apertamente che quando Gesù verrà nella gloria
alla fine dei tempi, non solo i morti risorgeranno per potenza di Dio a somi-
glianza del Risorto, non solo il cosmo sarà rinnovato, ma l’intera umanità verrà
giudicata dal Signore del cielo e della terra. I Simboli della fede sono pratica-
mente unanimi nel proclamare il giudizio finale come motivo principale della
gloriosa venuta di Cristo: egli «tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti»3.
L’enciclica di papa Benedetto XVI Spe salvi ha attribuito particolare attenzione
alla dottrina del giudizio. In essa leggiamo: «la prospettiva del Giudizio, già dai
primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come
criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza
e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio»4.
La Chiesa insegna che il giudizio avrà luogo in due momenti: alla morte,
gli uomini sono giudicati da Dio per la vita che hanno vissuto, e alla fine dei
tempi, l’umanità nella sua totalità verrà giudicata dal Signore Gesù che verrà
1
«En la tarde de nuestra vida, seremos juzgados por el amor», Giovanni della Croce, Palabras de
luz y de amor, n. 57.
2
Si veda SS 42.
3
DS 150.
4
Si veda SS 41-48, qui n. 41.
171
Capitolo V
5
Sul giudizio particolare, si veda Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., 242; IV C. Gent., 91;
Catechismo Romano, I, art. 7; CCC 1022. Si vedano le pp. 340s.
6
Sul giudizio nella Scrittura, si veda W. Schneider, Judgment, in NIDNTT 1, 362-7; CAA 96-9;
159-62.
7
Sulla nozione di personalità corporativa nell’Antico Testamento, si veda CAA 72s.
8
Si veda J. J. Alviar, Escatología, 195.
9
Sulla centralità di Dio come Signore, si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 553-
558.
10
Si veda Tertulliano, De res. 14,6; Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 88, a. 1.
172
Il giudizio finale
all’esilio, era tentato di pensare che Dio non si sarebbe più preso cura di esso,
che nessun profeta sarebbe più sorto, e che lo Spirito si fosse “spento”, per usare
una espressione di San Paolo (1 Ts 5,19). Si dava per scontato che il popolo di
Dio non avrebbe più trionfato sulla terra, che la piena giustizia non sarebbe mai
stata raggiunta11. Al massimo, la giustizia sarebbe stata ottenuta dopo la morte,
in una sfera trascendente, per potenza di Dio e quando Lui voleva.
L’ultima posizione trova espressione in alcune opere profetiche12, in parti-
colare quelle di Amos, di Sofonia e di Gioele. Il profeta Sofonia13 è degno di nota
non solo per la sua interpretazione severa e definitiva della dottrina del giudizio
divino, ma anche perché afferma che tale giudizio sarà applicato ai popoli, e non
solo a Giuda. «Tutto farò sparire dalla terra. Oracolo del Signore… eliminerò
l’uomo dalla terra. Oracolo del Signore… quelli che si allontanano dal seguire il
Signore, che non lo cercano né lo consultano. Silenzio, alla presenza del Signore
Dio, perché il giorno del Signore è vicino… Punirò in quel giorno chiunque salta
la soglia, chi riempie di rapine e di frodi… In quel tempo perlustrerò Gerusa-
lemme con lanterne e farò giustizia di quegli uomini che, riposando come vino
nella feccia, pensano: “Il Signore non fa né bene né male”… Giorno d’ira, quel
giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno
di tenebre e di oscurità e giorno di nube e di caligine» (Sof 1,2-4.6s.9.12.15; 2,5).
E per il profeta Gioele, il “Giorno di Jahve”14 è il giorno del giudizio definitivo
delle nazioni e della vendetta di Giuda. Parlando del “giorno del Signore” (Gl
1,15; 2,1-2.10s.), egli dice: «Poiché, ecco, in quei giorni e in quel tempo, quando
ristabilirò le sorti di Giuda e Gerusalemme, riunirò tutte le genti e le farò scen-
dere nella valle di Giòsafat, e là verrò a giudizio con loro… Si affrettino e salga-
no le nazioni alla vale di Giòsafat, poiché lì siederò per giudicare tutte le nazioni
dei dintorni… folle immense, nella valle della Decisione!» (Gl 4,1s.12.14).
Questi testi (oltre a molti altri) preparano la strada per il cosiddetto movi-
mento “apocalittico” che inizia a consolidarsi circa 250 anni prima della venuta
11
Il profeta Abacuc sembra accusare Dio: «Perché, vedendo i perfidi taci, mentre il malvagio ingoia
chi è più giusto di lui?» (Ab 1,13). Sulla dinamica dell’ingiustizia e dell’oppressione nell’Antico
Testamento, si veda Qo 4,1-3.
12
Si veda Y. Hoffmann, The Day of the Lord as a Concept and a Term in the Prophetic Literature,
«Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie» 93 (1981) 37-50; M. Cimosa, Il giorno del
Signore e l’escatologia nell’Antico Testamento, in Dizionario di spiritualità biblico-patristica, 16:
Escatologia, Borla, Roma 1997, 20-45; G. de Carlo, Il giudizio di Dio nell’A. T. Il giorno di JHWH,
in G. Bortone (a cura di), I novissimi nella Bibbia, 33-78.
13
Si veda H. Irsigler, Gottesgericht und Jahwetag. Die Komposition Zef 1,2-2,3, untersucht auf der
Grundlage der Literarkritik des Zefanjabuches, EOS, St. Ottilien 1977.
14
Si veda J. Bourke, Le jour de Jahvé dans Joël, «Revue Biblique» 66 (1959) 5-31; 192-212.
173
Capitolo V
15
Si veda CAA 63-136.
16
Si veda CAA 96-9.
17
Nei primi libri dell’Antico Testamento, la solidarietà nella colpa è la caratteristica più comune: Es
20,5s.; Ger 31,29; Ez 18,2. Successivamente, compare il castigo personale che corrisponde alla colpa
individuale: Ger 17,10; 31,30-4; Ez 18,20-30; 28,24-6; 33,12-20.25-9, come anche Giobbe e Qoèlet.
18
Si veda CAA 193-200.
19
Sul giudizio nel vangelo di Matteo, si veda D. L. Marguerat, Le jugement dans l’évangile de
Matthieu, Labor et fides, Geneva 19952; CAA 158-62.
20
Si veda la nota 57 sotto.
174
Il giudizio finale
Matteo, che culmina nella famosa scena del giudizio (Mt 25,31-46)21. «Perché
il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e
allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27). «Quando il Figlio
dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui», continua Matteo,
«siederà sul trono della gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.
Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e
porrà le pecore alla sua destra, le capre alla sua sinistra» (Mt 25,31-33).
Gli elementi principali della dottrina del giudizio finale sono riassunti
nella seconda lettera di San Paolo ai Corinzi: «Tutti infatti dobbiamo comparire
davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa per le opere
compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5,10). La mede-
sima idea è presente nel libro dell’Apocalisse. Per esempio: «E vidi: ecco una
nube bianca, e sulla nube stava seduto uno simile a un Figlio dell’uomo: aveva
sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal
tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube, “Getta la tua
falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”.
Allora colui che era seduto sulla nube lanciò la sua falce sulla terra e la terra fu
mietuta» (Ap 14,14-16).
Tra i Padri della Chiesa, la dottrina del giudizio è generalmente accettata.
San Basilio in modo particolare insiste sul questo insegnamento, mentre riget-
ta la dottrina origenista di riconciliazione universale (apokatastasis), che, egli
afferma, equivarrebbe ad una negazione del giudizio finale22.
21
CAA 158-62.
22
Su Basilio, si veda M. Girardi, Il giudizio finale nella omiletica di Basilio di Cesarea,
«Augustinianum» 18 (1978) 183-90; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 81s. Nel prologo a
Moralia “sul giudizio di Dio”, Basilio rifiuta l’idea di Origene di apokatastasis. Si veda anche il suo
Regulae brevius tractatae, resp. 267.
23
Laddove il giudizio è fondamentale per Matteo, né Marco né Luca vi prestano particolare
attenzione; si veda CAA 159, nota 109.
24
Questa è la tesi fondamentale del mio studio CAA; si veda ibid., 232-56.
175
Capitolo V
to il peso del peccato al punto di morire per il genere umano, che ci ha offerto
redenzione e perdono divino per i nostri peccati. Possiamo parlare di Lui come
Giudice solo a partire dal suo essere nostro Salvatore25. Si potrebbe dire che egli
giudicherà coloro che ha salvato, o, più precisamente, che giudicherà coloro cui
ha offerto la salvezza26. E la salvezza è espressa in due forme nel Nuovo Testamen-
to: come resurrezione e come redenzione personale. Consideriamole di seguito.
25
«Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo
abbandonato da Dio, prendendola su di sé» SS 43.
26
«Whereas the classical apocalyptic envisaged the prompt coming of God in power in terms of
divine wrath being unleashed upon impenitent sinners, and as deserved consolation for the just
who are already saved, according to Matthew Jesus came as God’s Messiah in the first place to
save sinners. Because he gave his whole life to this mission, that is, because he was our Savior,
he would be in a position to later judge the world in perfect justice, since humans will have been
given every possible opportunity of responding fully to saving grace. He carried out the work of
salvation, according to the first evangelist, by carrying the weight of a sinful, downtrodden world
on his shoulders, by taking the place of sinners, by going so far as to endure in his person the
punishments apocalyptic texts seem to have reserved for the reprobate» CAA 297.
27
CAA 165-9.
28
Si veda le pp. 109s. Sulla relazione tra resurrezione e giustizia, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La
pascua de la creación, 178-80.
29
Ep. Barn., 21,1; si veda 5,6s.
30
Si veda Aristide, Apol. 15s.
31
Si veda Ireneo, Adv. Haer. II, 33,5.
32
Si veda Ireneo, Demonstratio, 42.
33
Su questo argomento si veda J. Arroniz, La salvación de la carne en S. Ireneo, «Scriptorium
Victoriense» 12 (1965) 7-29.
176
Il giudizio finale
34
Tertulliano, De res. 14,8.
35
Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 18,1.19. Sull’escatologia di Cirillo, si veda G. Hellemo,
Adventus Domini. Eschatological Thought in 4th-century Apses and Catecheses, E. J. Brill, Leiden
1989, 146-98.
36
SS 42. «Sì, esiste la resurrezione della carne. Esiste una giustizia» ibid., n. 43.
37
F. J. Nocke non accetta l’idea che Gesù, che è stato il nostro Salvatore, sarà poi in nostro
Rimuneratore, poiché questo implica un cambiamento dall’esperienza presente a quella futura.
Noi già sperimentiamo Cristo come giudice, afferma: Eschatologie, Patmos, Düsseldorf 19883, pp.
71s., 75, 139-43. La Scrittura, conclude, non insegna il giudizio ma la riconciliazione. Così anche
W. Pannenberg è dell’opinione che Cristo è venuto solo per salvare, e che «il messaggio di Gesù che
costituirà il criterio in base al quale si verrà giudicati» Teologia sistematica, vol. 3, 643. Perciò egli
parla della «trasformazione redentrice del giudizio» ibid., 645, prendendo spunto da J. Ratzinger,
Escatologia, 215s. Sul collegamento tra giudizio e purificazione si veda W. Pannenberg, Teologia
sistematica, vol. 3, 645-648. Su questo argomento, si veda anche J. J. Alviar, Escatología, 203s.
38
J. Ratzinger, Escatologia, 216.
177
Capitolo V
za. Alla fine dei tempi l’uomo sarà giudicato, non giustificato. Infatti il verbo
‘giudicare’ usato da Giovanni nel testo sopra citato (12,47), krinō, in realtà signi-
fica ‘condanna’39. Perciò il giudizio può essere considerato come la definitiva ed
universale rivelazione del dono della salvezza, accolta oppure rifiutata, che ha
consolidato in ogni vita umana vissuta storicamente: esso è la manifestazione
stessa del significato della storia40. La salvezza è offerta agli uomini, ma tale
offerta non può durare indefinitamente. Il giudizio segna la fine della concre-
ta offerta di misericordia da parte di Dio. Dopo il giudizio il pentimento non
sarà più possibile, poiché i giusti rimarranno per sempre separati dagli ingiusti.
Come dice Marguerat, «la misericordia finisce con il giudizio»41.
39
G. R. Beasley-Murray, John (Word Biblical Commentary), Word Books, Waco 1987, 51, ritiene
che il termine “giudizio” in Giovanni possa essere compreso sia come “separazione” che come
“condanna”. Si veda BDAG, 567s., s.v. κρίνω, 2,b.
40
Teodoreto di Ciro spiega che il giudizio e la salvezza non sono equivalenti «poiché tutti gli uomini
saranno rivestiti di incorruttibilità, ma non tutti godranno della Gloria divina» In II Cor., 5,3.
41
D. L. Marguerat, Le jugement dans l’évangile de Matthieu, 166.
42
CAA 161s.
43
«L’Israele visibile e il popolo di Dio non sono più la stessa cosa», commentano W. D. Davies
e D. C. Allison su questo testo: Matthew, vol. 1, 308. Sul modo in cui il giudaismo dell’Antico
Testamento supera la visione collettiva della salvezza, si veda Is 55,7; Ez 18,21s.; 33,11. Più avanti,
si veda in particolare Filone d’Alessandria, De praemiis et poenis, 152.
44
D. A. Hagner, Matthew, 50.
178
Il giudizio finale
45
CAA 97.
46
Si veda CAA 96-8.
179
Capitolo V
coloro per i quali egli ha dato la vita. La carità, che secondo San Paolo rimarrà
per sempre (1 Cor 13,13), sarà il metro di giudizio. Valore speciale avranno quelle
buone azioni che solo Dio può vedere; per queste, infatti, «il Padre tuo, che vede
nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6). «Alla sera della nostra vita», scrisse San
Giovanni della Croce, «saremo giudicati sull’amore»47.
“Appartenere a Cristo” attraverso la fede e la carità, vivere in conformità
con lui, richiede ovviamente sia la rettitudine morale (accoglienza intelligente
della legge di Dio che Cristo ha rivelato ai suoi discepoli, ed alla quale egli esige-
va obbedienza)48 sia una reale appartenenza alla Chiesa, essendo quest’ultima il
corpo di Cristo. Ma è chiaro che il criterio ultimo di giudizio è l’appartenenza a
Cristo, la conformità con Lui, tramite la fede e la carità.
Terzo ed ultimo, il giudizio universale è caratterizzato dal fatto di essere
pubblico e definitivo. Secondo la parabola del vangelo (Mt 13,24-30), il grano e
la zizzania spesso non sono separati l’uno dall’altra in questa vita. Difatti può
essere difficile dissociarli49. Ma nel giudizio, la separazione verrà fatta. Il padro-
ne di casa dirà: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e
al momento delle mietitura dirò ai miei mietitori: “raccogliete prima la zizzania
e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”» (Mt
13,30). Alla fine dei tempi, dice San’Agostino, ci saranno solo due possibilità,
aut vitis, aut ignis50: o la vita, che è unione eterna con Cristo, la vite (Gv 15,1), o
il fuoco, separazione perpetua da lui. Sul fatto che la misericordia di Dio ha un
limite temporale, torneremo più avanti51.
Solo Dio giudica. Dal punto di vista antropologico, il giudizio finale deve esse-
re considerato un evento assoluto e onnicomprensivo: (1) in quanto definitivo,
parla del destino immortale degli uomini; (2) riferito alla resurrezione, coinvol-
ge la corporeità umana; (3) in quanto “interpersonale”, si collega direttamente
al carattere personale e sociale degli uomini. In altre parole, il giudizio dà luogo,
o meglio ancora manifesta, la “definizione” ultima ed eterna di ogni perso-
na umana, la sua vocazione e identità, e quella dell’umanità nella sua totalità
agli occhi del Creatore, Redentore e Giudice. Il giudizio quindi è il momento
antropologico supremo e definitivo. Ed è chiaro che nessun altro se non Dio, il
47
San Giovanni della Croce, Palabras de luz y de amor, n. 57.
48
Si veda Gv 14,15.21.23; 15,10; 1 Gv 2,5.
49
Si veda D. A. Hagner, Matthew, 381-4; 391-5.
50
Agostino, In Io. Ev. tr. 15,6.
51
Sul momento della Parousia, si vedano le pp. 279s.
180
Il giudizio finale
52
Tertulliano, De res. 14,6.
53
Si veda 4 Ezra 7,33ss.
54
Su questo tema, si veda il mio studio Fides Christi, 186-94.
55
CAA 135.
181
Capitolo V
Cristo riceve il potere di giudicare da suo Padre. La venuta del Figlio di Dio fatto
uomo sulla terra è stata segnata da semplicità, dall’essere indifeso, da una condi-
zione trasparente e apparentemente debole. Egli è venuto bussando alla porta
del cuore umano (Ap 3,20), egli è venuto «a cercare e a salvare ciò che era perdu-
to» (Lc 19,10). Gesù era ed è il nostro Salvatore misericordioso. Ma egli era ed è
anche il nostro Signore, e per questa ragione i cristiani chiamavano Gesù risorto
Kyrios, “Signore”, fin dai primi tempi. Egli parlava come uno che ha autorità
(Lc 4,32). La sua presenza imponeva rispetto ed anche timore (Lc 4,30; 8,37,
Gv 18,6). I suoi miracoli erano potenti ed innegabili (Gv 2,22s.), il suo potere su
Satana evidente (Lc 8,32s.). Egli parlava con Dio, come fece Mosè, il legislatore
ed il giudice (Lc 9,29). Di Gesù, Pietro proclamò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente» (Mt 16,16). La sua presenza, le sue parole ed azioni infiammavano di
entusiasmo ed amore, così come di rabbia e rifiuto. Pur non creando “discordia”
nel senso comune della parola, nondimeno egli divideva gli spiriti di coloro che
incontrava (Gv 6,66). «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra»,
egli dice, «sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,34). I demoni
apertamente resistevano alla sua presenza ed azione (Mt 12,28; 13,25.28.39; Gv
8,43s.; 12,31). Mostrandosi come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), era impos-
sibile rimanere indifferenti davanti a lui. Se teniamo a mente che per Giovanni
“giudizio” equivale a “condanna”, le seguenti parole sono imponenti: «chi non
crede [ora] è già stato giudicato» (Gv 3,18)58. Quando Gesù bambino fu presen-
tato nel tempio, Simone profetizzò a sua madre che «egli è qui per la caduta e
la resurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a
56
Si può trovare il medesimo messaggio nel Discorso della Montagna: si veda Mt 6,4.6.15.18; 10,28
& par. Si veda anche 1 Pt 4,5; Ap 20,11; in Paolo, Rm 2,3ss.; 3,6; 14,10; 1 Cor 5,13; 2 Ts 1,5.
57
Si veda Mt 7,22s.; 13,41-3; 16,27; 25,31-46; Lc 13,25-27; 1 Ts 4,6; 1 Cor 4,4s.; 11,32; 2 Cor
5,10, e particolarmente in Gv 5,22-30. «E [Cristo] ci ha ordinato di annunciare al popolo e di
testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (At 10,42). Si veda CAA
154-8, sul significato della venuta del “Figlio dell’Uomo”. Alcuni autori ritengono che l’idea di
Gesù come giudice non sia particolarmente importante nel Nuovo Testamento: si veda H. Merkel,
Gericht Gottes IV, in Theologische Realenzyklopädie, vol. 12, W. De Gruyter, Berlin 1984, 484-92;
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 641s.
58
Si veda la nota 39.
182
Il giudizio finale
te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»
(Lc 2,34s.). Gesù nel suo pellegrinaggio terreno, sebbene umano, vulnerabile e
apparentemente debole, era già il Signore e Giudice dell’umanità.
È chiaro tuttavia che gli atti e le parole di Gesù che già sulla terra rivelava-
no e separavano i santi dai peccatori (o meglio, i peccatori pentiti da quelli non
pentiti) erano principalmente atti di salvezza, e non di giudizio. Egli era venuto
per salvare il genere umano, e l’avrebbe fatto nel modo più potente ed effica-
ce possibile, appellandosi al cuore umano fino al punto di lasciarsi giudicare e
condannare dai peccatori59. Quando fu portato davanti alle autorità romane,
Pilato gli chiese: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). E Gesù gli rispose: «Il mio
regno non è di (ek) questo mondo; se il mio regno fosse di (ek) questo mondo,
i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei;
ma il mio regno non è di quaggiù (enteuthen)» (Gv 18,36). Nondimeno, Gesù
fece vedere a Pilato senza alcun dubbio che egli era un re, spiegando che questo
costituiva la sua vera identità e missione: «Per questo io sono nato e per questo
sono venuto al mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla
verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37).
Tre elementi emergono da questo testo. Primo, che Gesù è un re; tuttavia
che il suo regno non ha la sua origine (ek) in nessun tipo di autorità umana (quel
che egli chiama “questo mondo”). Dicendo che “il suo regno non è di questo
mondo”, Gesù non afferma di non avere autorità propria. Piuttosto il contrario.
Perciò in termini reali egli non è soggetto a nessuno sulla terra: «non credi che
io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me
stesso; ma il Padre che rimane in me, compie le sue opere» (Gv 14,10); «Perché
mi cercavate?», disse Gesù ai suoi genitori. «Non sapevate che io devo occupar-
mi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Coloro che ascoltavano Gesù restava-
no sbalorditi, «egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità (exousia),
e non come i loro scribi» (Mt 7,29). Ecco perché Gesù deve esser considerato
come Giudice, come spiega in modo particolare il quinto capitolo del vangelo
di Giovanni: «il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al
Figlio… In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui
che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato
dalla morte alla vita. In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in
cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata,
59
Si veda CAA 187-231, in particolare 226-30, sulla donazione che Cristo ha fatto della sua vita
come “riscatto” per molti (Mt 20,28).
183
Capitolo V
60
Si veda Platone, Gorgia 525a-526c, in SS 44.
184
Il giudizio finale
61
Si veda BDAG, 112, s.v. ἀποκάλυψις.
62
Così J. Ratzinger: «In questa caduta delle maschere che si verifica nella morte consiste il giudizio. Il
giudizio è semplicemente la verità stessa, il suo rivelarsi. Tuttavia questa verità non è un neutrum…
La verità che giudica l’uomo ha presso essa stessa l’iniziativa di salvarlo» Escatologia, 216.
63
Si veda Pietro Lombardo, IV Sent., D. 43, a. 2.
64
J. J. Alviar delinea tre tematiche del giudizio nella Scrittura: retribuzione, discernimento, e
rivelazione: Escatología, 198-201.
65
Pannenberg spiega che il giudizio è opera dello Spirito Santo, come è la glorificazione di Dio
da parte degli uomini, e degli uomini da parte di Dio: Teologia sistematica, vol. 3, 650-654. Su
escatologia e Spirito Santo, si veda CAA 257-98.
185
Capitolo V
della rivelazione e del potere salvifico che deriva interamente dalle parole e dalle
opere di Gesù»66. Gesù, egli stesso la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6), ci dice nel
vangelo di Giovanni che «quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a
tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito
e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è
mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,13s.). Con le parole di Gregorio di Nissa, lo Spiri-
to di Dio è colui che «accompagna il Verbo e rivela la sua efficacia»67. Tommaso
d’Aquino lo espresse così: «Il Figlio ci ha dato la dottrina, essendo egli il Verbo,
ma lo Spirito Santo ci rende capaci di ricevere la sua dottrina»68. E per M.-J. Le
Guillou «lo Spirito è colui che interiorizza nei cristiani la conoscenza del miste-
ro di Cristo»69. Il che significa che il giudizio è un evento trinitario: Dio giudica
attraverso il Verbo nella potenza dello Spirito Santo70.
«Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato», dice il vangelo di Luca,
«né di segreto che non sarà conosciuto. Quindi ciò che avete detto nelle tenebre
sarà udito in piena luce, e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più inter-
ne sarà annunciato dalle terrazze» (Lc 12,2s.). E nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, leggiamo: «il Giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso
di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa
la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola
definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della
creazione e di tutta l’economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie
attraverso le quali la Provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo
fine ultimo. Il Giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte
le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della
morte»71. «La questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in
ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna», conclude
Benedetto XVI parlando del giudizio finale72.
L’“umanità” del giudizio di Cristo. Il fatto che Dio abbia dato tutto il potere di
giudicare a suo Figlio Gesù Cristo è una semplice conseguenza del fatto che Gesù
66
CAA 273.
67
Gregorio di Nissa, Orat. Catech. 5,29.
68
Tommaso d’Aquino, In Ioann. Ev. 14, l. 6 (su Gv 14,26).
69
M.-J. Le Guillou, Le développement de la doctrine sur l’Esprit Saint, 734.
70
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa della beata speranza, 319.
71
CCC 1040. San Roberto Bellarmino nella sua opera De arte bene moriendi offre un’ampia varietà
di ragioni favorevoli al giudizio universale: si veda G. Ancona, Escatologia cristiana, 213.
72
SS 43.
186
Il giudizio finale
73
Si vedano le pp. 178s.
74
Si veda CAA 227-31.
75
Si vedano le pp. 145ss.
187
Capitolo V
La presenza e il ruolo degli angeli e dei santi nel giudizio. In diverse occasioni,
la Scrittura parla degli angeli e dei santi che accompagneranno Cristo quando
ritornerà nella gloria. «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti
gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31). E prima: «in
verità io vi dico: voi che mi avrete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto
sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su
dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28). San Paolo, quando
scrive ai fedeli di Corinto e li avverte di non denunciarsi gli uni gli altri davanti
ai tribunali civili, afferma categoricamente: «Non sapete che i santi giudicheran-
no il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi
di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli?» (1 Cor 6,2s.).
Ed altrove: «l’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter
essere giudicato da nessuno» (1 Cor 2,15).
Se Cristo è l’unico Giudice, in quanto Figlio-Verbo di Dio fatto uomo, quale
ruolo supplementare possono svolgere gli angeli e i santi nel giudizio? In che
modo si può dire che essi giudicano gli uomini? Se si tiene a mente il fatto che il
giudizio è principalmente manifestazione, piuttosto che verdetto, dovrebbe esser
chiaro che gli angeli e i santi, redenti da Cristo, e perfettamente conformi a lui
secondo la vocazione personale di ciascuno, non giudicano in quanto tali, ma
servono come misura divina, punto di riferimento vivente e concreto per quel
che significa dare gloria a Dio, fare la volontà del Padre, essere come Cristo. In
quanto Cristo stesso vive e agisce in coloro che lo seguono (Gal 2,20) essi sono
destinati a vivere come “altri Cristi”, come “Cristo stesso”, per usare un’espres-
sione di San Josemaría78. La presenza vivente degli angeli e dei santi con Cristo
costituirà un giudizio silenzioso e potente su un mondo che non ha accettato la
parola di Dio, un mondo in cui non si trovava la verità. La loro vita ipso facto
serve sia per accusare i peccatori di non aver vissuto in conformità con Cristo,
che per confermare la loro condanna. Partecipando alla santità e alla giustizia di
Cristo, perciò, essi partecipano, se pure indirettamente, al suo ruolo di giudice.
76
Sulla nozione di “saggezza escatologica”, in particolare in Agostino e san Tommaso, si veda M.
L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, già citata, e Wisdom Eschatology in Augustine and
Aquinas, Aquinas the Augustinian, a cura di M. Dauphinais, B. David e M. W. Levering, Catholic
University of America Press, Washington (DC) 2007, 258-75.
77
Secondo la conosciuta espressione della Gaudium et spes, 22.
78
Si veda il mio studio The Inseparability of Holiness and Apostolate.
188
Il giudizio finale
79
Gregorio di Nissa, Hom. in Ps. 9.
80
Cit. da J. Daniélou, Les anges et leur mission d’après les Pères de l’Église, Desclée, Paris 1951, 152.
81
Ibid., 153.
82
Così in Onomasticon di Eusebio e nel Comm in Joel. di San Girolamo.
83
Si vedano le pp. 162s.
189
Capitolo V
che speranza84. Malgrado ciò, papa Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi
chiarisce che «la fede nel giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza»85.
Già lo aveva detto Karl Barth: «il ritorno di Gesù Cristo per giudicare i vivi e i
morti è un messaggio di gioia»86.
È probabilmente giusto affermare che i cristiani per la maggior parte non
pregano per la venuta del giudizio. Tuttavia, invocare Cristo per il giudizio defi-
nitivo non è diverso che invocare Dio per la perfetta giustizia, una giustizia
cui gli uomini sembrano incapaci di darsi da sé, almeno in modo durevole. Il
desiderio di giustizia (Mt 5,6) e il desiderio del giudizio hanno molto in comu-
ne. Infatti il libro dell’Apocalisse parla del desiderio che i cristiani hanno del
giudizio, poiché questo segnerà il trionfo definitivo della giustizia, la sconfitta
finale del diavolo.
Questo si può scorgere primo nella preghiera dei cristiani martiri per la
giustizia. «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo», leggiamo nel libro dell’Apo-
calisse, «vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della
parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran
voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”» (Ap 6,9s.).
Secondo, il giudizio può essere visto come la definitiva sconfitta del diavolo.
«Allora udii una voce potente dal cielo che diceva: “Ora si è compiuta la salvez-
za, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato
precipitato l’accusatore dei nostri fratelli [“accusatore”, satanas, è l’espressio-
ne giovannea di designare il diavolo, Ap 12,9], colui che li accusava davanti al
nostro Dio giorno e notte”» (Ap 12,10).
Come abbiamo visto sopra, il giudizio finale, più che altro, è la manifesta-
zione finale, l’inaugurazione definitiva della verità nella sua totalità. Per i giusti
costituirà un momento di grande speranza, gioia e meraviglia: «non vi è infatti
nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non
debba essere messo in luce» (Mc 4,22). E il giusto non teme questo momento di
verità. Come dice San Giovanni, «chi crede in lui [Cristo] non è condannato; ma
chi non crede è già stato giudicato [krinetai, “condannato”]» (Gv 3,18). Con le
parole di Gozzelino, «l’azione giudicatrice divina va attesa, desiderata, invocata,
84
Sul giudizio come oggetto di timore o di speranza, si veda A. M. Sicari, Il giudizio e il suo
esito, «Communio (ed. italiana)» 13 (1985) 8-13. Sul giudizio nella storia dell’arte, si veda A. M.
Cocagnac, Le jugement dernier dans l’art.
85
SS 43.
86
K. Barth, Dogmatica in sintesi, Città nuova, Roma 1969, 199.
190
Il giudizio finale
87
G. Gozzelino, Nell’attesa, 369.
88
Agostino, De Civ. Dei XXII, 6,2.
191
Capitolo VI
1
Agostino, In Ep. I Jo. 4,6.
2
F. Hölderlin, Il lamento di Menone per Diotima.
3
Santa Teresa di Lisieux, Œuvres complètes, 224.
4
Sulle differenti immagini e descrizioni del paradiso eterno, si veda per esempio, F. J. Nocke,
Eschatologie, 135-41. Diverse opere recenti si sono occupate della realtà del paradiso nell’arte, nel-
la letteratura e nella storia, per esempio: C. McDannell e B. Lang, Heaven: a History, Yale Univer-
sity Press, London; New Haven 1988 (trad. it., Storia del Paradiso nella religione, nella letteratura,
nell’arte, Garzanti, Milano 1991); J. B. Russell, A History of Heaven: the Singing Silence, Princeton
University Press, Princeton 1997 (trad. it., Storia del Paradiso, GLF Editori; Laterza, Roma; Bari
2002); J. Delumeau, Une histoire du paradis, Hachette Littératures, Paris, 3 vol., 2002-3; A. E.
McGrath, A Brief History of Heaven, Blackwell, Oxford 2003. Si veda anche A. Nitrola, Pensare la
venuta del Signore, 408-504.
5
Si veda BDAG, 737-9, s.v. οὐρανός.
193
Capitolo VI
vita, divinità) e la terra (che suggerisce freddo, buio, polvere, morte), tra giustizia
e colpa, tra attività e passività. “Cielo”, poi, è dove Cristo abita (Gv 17,5), dove è
andato a preparare un posto per i suoi discepoli (Gv 14,2s.; 2 Cor 5,1); nel cielo
gli angeli contemplano Dio (Mt 18,10) e i accumulano tesori divini (Mc 10,21).
Poi, “visione beatifica”, che spiega il cielo come contemplazione di Dio che
sfocia nel compimento definitivo per gli uomini (1 Cor 13,12; 1 Gv 3,1s.); per
alcuni autori la visione di Dio costituisce la vera essenza della vita eterna6. Terzo,
“comunione” con Dio, che esprime il legame di amore con la Divinità, Dio Uno
e Trino, una unione che non elimina il soggetto umano ma lo porta a pienezza.
Quarto, “felicità perpetua”, che indica in modo antropologico la completezza e
stabilità che deriva all’uomo dall’unione con Dio7. Quinto, “paradiso” (in greco
paradeisos8, dal termine persiano pairidaêza che significa “giardino recintato”)
che evoca l’aspetto più materiale e corporeo del compimento umano (Gn 2,10-
14; Is 65,17-25; Ap 2,7; 22,2-5)9.
Sesto, la Scrittura spesso si riferisce all’aldilà con il termine “gloria” (in
greco, doxa)10, una espressione che denota onore, ricchezza, potere, influenza.
Ovviamente, “gloria” è in primo luogo un attributo di Dio che non condivide
con altri (Is 42,8; 48,11). Anzi, è un nome proprio di Dio (Sal 66,2; 79,9). La
gloria di Dio, inoltre, è rivelata nei fenomeni naturali (Es 24,15-18; 33,18s.; Ez
1,4). In questo senso “dare gloria a Dio” significa semplicemente riconoscere la
sua maestà e sovranità (At 12,23; Rm 4,20). Ma la gloria di Dio è presente ed è
stata rivelata in Cristo (Gv 1,14; 11,4.40). Ai credenti è promessa la contempla-
zione escatologica della sua gloria (1 Cor 13,12) e una partecipazione diretta alla
gloria di Cristo (Gv 17,22; Rm 8,17s.; Fil 3,21).
Settimo ed ultimo, il termine “vita eterna” (in greco, zōē aiōnia), fornisce
forse la definizione più accurata e completa della vita nell’aldilà dal punto di
vista biblico e teologico, frequente particolarmente nel vangelo e nelle lettere
di Giovanni11. Il Dio della Bibbia è il Dio “dei viventi” (Mc 12,27), il Dio che
6
È così particolarmente in San Tommaso d’Aquino, che situa il suo studio sulla visione beatifica
all’inizio della sua trattazione sulla legge morale e la grazia: S. Th. I-II, q. 3, a. 8.
7
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 348s.
8
Si veda BDAG, 761, s.v. παράδεισος.
9
Si vedano le pp. 226s.
10
Si veda BDAG, 256-8, s.v. δόξα.
11
Si può trovare l’espressione in altri testi del Nuovo Testamento, oltre a quelli di Giovanni: Mt
19,16.29; 25,46 & par.; Lc 18,30; At 13,46.48; Rm 2,7; 5,21; 6,22s.; Gal 6,8; 1 Tm 1,16; 6,12; Tt 1,2;
3,7; Gd 1,21. Su “vita” nel Nuovo Testamento, si veda H.-G. Link, Life, in NIDNTT 2, 476-83, in
particolare 482s.; BDAG, 430s., s.v. ζωή.
194
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
dà la vita tramite suo Figlio (Gv 5,21.26), che porta i credenti a partecipare a
questa vita. Ad un certo livello il termine “vita” suggerisce il dinamismo, l’atti-
vità, la pienezza, l’interiorità, l’autonomia, la continuità, la felicità, ecc. Ma ad
un altro livello, più profondo, implica una partecipazione alla vita intima di Dio,
in quanto Dio è l’unica sorgente della vita, e solo Dio è eterno. In questo senso il
dono della “vita eterna” è equivalente semplicemente alla pienezza della vita che
viene da Dio, il dono di Dio stesso. “Vita eterna” è la radice, la causa e l’espres-
sione sintetica del premio che Dio ha destinato a coloro che credono in Lui: del
cielo, della visione, della comunione, della felicità, del paradiso, della gloria.
Accanto alla dottrina della resurrezione finale, il credo di Nicea-Costanti-
nopoli proclama che noi «aspettiamo la vita del mondo che verrà»12. Il medesimo
credo professa che il regno di Cristo «non avrà fine»13. Il Credo Apostolico profes-
sa semplicemente la fede «nella vita eterna»14. Il Credo dell’Antifonario di Bangor
(VIII secolo) contiene la seguente ricca professione di fede che fornisce il titolo
per questo capitolo: «Io credo nella vita dopo la morte e la vita eterna nella gloria
di Cristo»15. Infine, nella costituzione di Benedetto XII, Benedictus Deus (1336)
leggiamo che i giusti in cielo «saranno veramente benedetti e avranno la vita e
il riposo eterno»16. È degno di nota il fatto che in tutti i casi la dottrina della vita
eterna è collocata nella terza parte del credo, che riguarda la Persona e l’azione dello
Spirito Santo. In precedenza, in diverse occasioni, abbiamo fatto riferimento all’a-
spetto pneumatologico dell’escatologia. L’argomento ritornerà in questo capitolo.
La Lumen gentium riassume la dottrina cristiana della vita eterna nei seguen-
ti termini: «Cristo, quando fu elevato in alto da terra, attirò tutti a sé… risorgen-
do dai morti immise negli apostoli il suo Spirito vivificante, per mezzo del quale
costituì il suo corpo, che è la Chiesa, come un sacramento universale di salvezza;
sedendo alla destra del Padre opera continuamente nel mondo… col nutrimento
del proprio corpo e del proprio sangue, per renderli [i credenti] partecipi della
sua vita gloriosa»17. «Uniti dunque a Cristo nella Chiesa e segnati dal sigillo dello
Spirito Santo… con verità siamo chiamati, e lo siamo, figli di Dio… ma non siamo
ancora apparsi con Cristo nella gloria… nella quale saremo simili a Dio, perché lo
12
DS 150.
13
Ibid.
14
DS 10.
15
DS 29. Il Credo dell’Antifonario di Bangor è uno sviluppo del Simbolo degli Apostoli, datato nel
tardo ottavo secolo in Irlanda. Su questo documento, si veda il mio studio The Bangor Antiphonary
Creed: Origins and Theology, «Annales Theologici» 6 (1992) 255-87, in particolare 282s.
16
DS 1000.
17
LG 48b.
195
Capitolo VI
vediamo qual è»18. In cielo, continua lo stesso documento, i giusti saranno «nella
gloria, contemplando “chiaramente Dio uno e trino, quale è”»19.
Studieremo l’argomento della vita eterna in questo ordine: prima, la vita
eterna nella Scrittura; poi la teologia patristica della vita eterna considerata nei
termini della definitiva “divinizzazione” dei cristiani. Poi considereremo la
relazione tra vita eterna e visione beatifica. Dopo questo, considereremo diversi
aspetti antropologici della “vita eterna” e le loro conseguenze, per una corretta
comprensione della libertà umana; poi, vedremo il carattere sociale e interperso-
nale della vita eterna; il luogo del progresso, della temporalità e della resurrezione
entro la vita eterna. L’ultima sezione si occuperà di altre questioni legate ai gradi
di vita e della gloria eterna, e al ruolo giocato in essi da Cristo e dallo Spirito.
18
Ibid., 48d.
19
Ibid., 49a, che cita il Concilio di Firenze, Decretum pro Graecis, DS 1305.
20
Si vedano le pp. 119s.
21
Si veda J. Schneider, God, in NIDNTT 2, 70-82, in particolare 77s.; BDAG, 33, s.v. αἰώνιος, 2. La
frase “vita eterna” si trova anche in Dn 12,2, dove si parla della resurrezione.
22
Si veda F. Mussner, “Zoé”. Die Anschauung vom “Leben” im vierten Evangelium unter
Berücksichtigung der Johannesbriefe. Ein Beitrag zur biblischen Theologie, K. Zink, München 1952;
C. Pozo, La teología del más allá, 382ss. Si veda anche BDAG, 429-31, s.v. ζωγρέω, specialmente n. 2.
196
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
23
Altri testi includono: Gv 3,36; 6,54; 1 Gv 2,25; 5,20.
197
Capitolo VI
L’apparente futilità del desiderio umano di pienezza. Tutti gli uomini desidera-
no una pienezza di felicità e soddisfazione. La loro speranza guarda all’infinito,
all’eterno24. Tuttavia, molti dubitano che la “vita eterna” promessa da Dio a coloro
che credono nel suo Figlio sia in grado di dare tale felicità e pienezza. E si tratta di
una questione critica. Sulla base di questa promessa di perfetta felicità e compi-
mento totale, Cristo chiede ai suoi discepoli una reale capacità di sacrificio, uno
spirito missionario universale, una sincera disposizione a dare la propria vita fino
al punto di accettare il martirio. «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o padre,
o madre, o figli, o campi per il mio nome», ci dice Matteo, «riceverà cento volte
tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Non si può negare che la speranza
nella vita eterna sia stata costantemente il vero motore della vita dei santi25. Tutta-
via, molte persone metterebbero spontaneamente in discussione il fatto stesso
dell’esistenza del cielo, e quindi della validità del suo potere motivazionale.
Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Spe salvi pone apertamente questo
interrogativo in un testo già citato: «Vogliamo noi davvero questo – vivere eter-
namente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la
vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita
eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo,
piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più
una condanna che un dono… Vivere sempre, senza termine – questo, tutto
sommato, può essere solo noioso, e alla fine insopportabile»26.
Non è insolito tra gli autori pensare che la prospettiva di una “vita eterna”
implichi una specie di noia perpetua ed ininterrotta27. Una simile vita sarebbe
poco attraente per gli uomini, e difficilmente potrebbe essere oggetto di desi-
derio appassionato o sorgente di zelo apostolico infaticabile, come nel caso, per
esempio, di Santa Teresa d’Avila28. La possibilità che la vita eterna diventi una
24
Si vedano le pp. 34s.
25
Abbiamo già citato il testo di Ignazio d’Antiochia, Ad Rom. 6,2-3.
26
SS 10.
27
Sulla noia possibile associate alla “vita eterna”, si veda M.-J. Le Guillou, Qui ose encore parler
de bonheur?, Mame, Paris 1998, che fa riferimento a R. Le Senne, A. Gide, S. de Beauvoir, H.
de Montherlant. Si veda anche A. Frossard, Dieu en questions, Desclée de Brouwer, Paris 1990,
195s., che parla della paura di Cartesio di annoiarsi contemplando Dio per 10.000 anni. Frossard
commenta in modo criptico che Cartesio «non aveva l’idea chiara e distinta che forse Dio si sarebbe
annoiato molto più velocemente di contemplare Cartesio» ibid., 196. La medesima obiezione si
può trovare in M. Vernet, L’ateismo moderno, Ed. Riuniti, Roma 1963, 197. L’agnostico spagnolo
E. Tierno Galván ha affermato: «no hay nada que más contradiga al hombre y a su finitud esencial
que la sobrevida u otra vida» ¿Qué es ser agnóstico?, Tecnos, Madrid 19864, 85.
28
Si veda Teresa d’Avila, Libro de la Vida I, 1,5.
198
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
vita di noia eterna è stata descritta visivamente, se pure in modo poco riveren-
te, dall’autore esistenzialista Miguel de Unamuno. «Una visione beatifica, una
contemplazione amorosa in cui l’anima è assorbita in Dio, e persa, per così dire,
in Lui, è percepita o come un reale annientamento, o come una forma prolun-
gata di noia secondo il nostro comune modo di vedere. Questa convinzione ha
generato quel sentimento che spesso abbiamo avuto occasione di sentire, in
modo satirico, irriverente o empio, secondo cui l’esito di un cielo di eterna gloria
sarà una dimora di eterna noia. E non ha senso disprezzare questi sentimenti,
così spontanei e naturali, o ridicolizzarli»29. Alcune figure classiche addirittura
sembrano preferire l’attività e divertimento (immaginate) dell’inferno, popolato
da una moltitudine di personalità interessanti30. Che significato può avere la
speranza quando la prospettiva futura della vita umana è di questo genere?
Il termine “vita” suggerisce attività, movimento, dinamismo, laddove “eter-
nità” evoca la nozione di riposo, pace, tranquillità, permanenza, in breve, inatti-
vità. Durante il nostro pellegrinaggio terreste l’attività e il riposo, il movimento
e la permanenza, sono strettamente intrecciati in ogni aspetto dell’esistenza. Da
una parte, l’attività facilmente genera stanchezza e spossatezza, e spinge a cerca-
re pace e riposo. D’altra parte, il riposo porta la noia e la debolezza, che si cerca
di superare con l’attività e il movimento. In effetti, la comune esperienza umana
ci mostra che una totale attività e il completo riposo sono difficili da conciliare
l’uno con l’altro; al massimo sono in reciproca relazione dialettica. La donna
che Gesù incontrò al pozzo di Giacobbe in Samaria, al pozzo di Sicar, espresse
ciò chiedendo al Signore di darle l’acqua di cui aveva parlato, «perché io non
abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4,15). Gesù
era pienamente consapevole del fatto che ovviamente chiunque beva l’acqua del
pozzo «avrà di nuovo sete» (Gv 4,13).
29
M. de Unamuno, El sentimento trágico de la vida, cap. 10, in Ensayos, vol. 2, Aguilar, Madrid
1945, 915.
30
Si veda il romanzo francese medioevale, Aucassin et Nicolette, in C. McDannell e B. Lang,
Heaven: a History, 100s.
199
Capitolo VI
31
Si veda W. Rahula, What the Buddha Taught, G. Fraser, London 1978.
32
Brihad-Aranyaka-Upanishad 2,4,12s. «Veramente il Brahman è felicità e chi lo ammette diventa
il Brahman felice» ibid., 4,4,25.
33
J. Fichte, Anweisung zum seligen Leben, 6. Vorlesung: Sämtliche Werke II, W. de Gruyter, Berlin
1965, 299.
34
F. Nietzsche, Fröhliche Wissenschaft, n. 290, in Nietzsche Werke, vol. 5/2, De Gruyter, Berlin
1973, 210s. Corsivo aggiunto.
200
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
35
La questione della divinizzazione è considerata nel contesto dell’escatologia da G. Ancona,
Escatologia cristiana, 220s. Sul tema in generale, si veda J. Gross, La divinisation du chrétien
d’après les pères grecs. Contribution historique à la doctrine de la grâce, Lecoffre, Paris 1938; G.
Bardy, I. H. Dalmais e E. Des Places, Divinisation, I-III, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. 3,
Beauchesne, Paris 1957, coll. 1370-98; l’introduzione a J.-C. Larchet, La divinisation de l’homme
selon saint Maxime le Confesseur, Cerf, Paris 1996, 20-59.
36
Si veda Sant’Ireneo, Adv. Haer. IV, 38,3. Sulla visione beatifica e la divinizzazione in Ireneo,
si veda M. Aubineau, Incorruptibilité et divinisation selon saint Irénée, «Recherches de science
religieuse» 44 (1956) 25-52; E. Lanne, La vision de Dieu dans l’œuvre de saint Irénée, «Irénikon»
33 (1960) 311-20; J. Arroniz, La inmortalidad como deificación en S. Ireneo, «Scriptorium
Victoriense» 8 (1961) 262-87.
37
DS 3025.
201
Capitolo VI
ti farò felice”. Perciò si può dire che la vita eterna consiste nella «partecipazio-
ne al dinamismo illimitato delle relazioni divine»38. Come vedremo più avanti,
questo non significa che i salvati perdano la loro libertà in cielo39.
La Scrittura stessa suggerisce questa comprensione della vita eterna. I
credenti non verranno delusi nella loro attesa, ci dice Paolo scrivendo ai Roma-
ni, «perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La Neo-vulgata traduce le parole di
Gesù come segue: Intra in gaudium Domini tui: «Bene, servo buono e fedele,
sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gloria del tuo
padrone» (Mt 25,23). Ecco cosa implica la vita eterna: una eterna partecipazione
alla vita, alla gloria e alla beatitudine stesse di Dio, per grazia.
Inoltre, come sottolinea Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speran-
za, “l’eternità” della vita eterna non implica tanto «il susseguirsi di giorni del
calendario», che prima o poi produrrebbe noia, «ma qualcosa come il momento
colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totali-
tà. Sarebbe il momento dell’immergersi in un oceano di infinito amore, nel quale
il tempo – il prima e il dopo – non esiste più… un sempre nuovo immergersi
nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia»40.
Il cielo come lode divina, attività e riposo. Che cosa offre la dottrina della divi-
nizzazione per la comprensione della dialettica sopra riportata tra vita e riposo,
tra attività e permanenza? Nell’incontro di Gesù con la donna samaritana al
pozzo di Giacobbe, cui già abbiamo fatto riferimento, leggiamo: «Se tu cono-
scessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto
a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). E Gesù prosegue spiegando:
«Chiunque beve di quest’acqua avrà ancora sete, ma chi berrà dell’acqua che io
gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui
una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14s.). Cioè, il dono
della grazia divinizzante produce nei beati un eterna sorgente di preghiera ed
adorazione, e di conseguenza, una perfetta integrazione tra attività e riposo nel
soggetto umano.
Sant’Efrem il Siro († 373) descrive il cielo come un “Paradiso”: le “tende”
in cui i giusti dimoreranno sono gli alberi del giardino, ciascuno dei quali offre
38
B. Forte, Teologia della storia, Paoline, Cinisello Balsamo 1991, 358.
39
Si vedano le pp. 217s.
40
SS 12.
202
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
41
Si veda Efrem, Inni sul paradiso, 9,3-6; 7,16.18. Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early
Church, 75s.
42
Efrem, Inni, 3,2.15.
43
Ibid., 9,7-17; 10,2-4.6-9; 11,9-15.
44
Agostino, Ep. 55 ad Iannerion, 9,17.
45
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30,1.
46
Agostino, Sermo 362, 30s.
47
Ibid., 28s.
48
Dal periodo tannaitico, Pesiq. 79 a 17-19.
203
Capitolo VI
49
Cipriano, Ad Demetr., 26.
50
Quodvultdeus, Liber de Promissionibus, 31. Quest’opera è stata tradizionalmente attribuita a
Prospero di Aquitania, ma appartiene quasi sicuramente a Quodvultdeus. Si vedano i commenti
di R. Braun nell’edizione dell’opera in Sources chrétiennes (n. 101, Cerf, Paris 1964), 88-103.
51
Severo d’Antiochia, Epist. 96.
52
Cesario d’Arles, Sermo 58, 4. Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 208s.
53
Andrea di Cesarea, Comm. in Apoc., 203,11s.; 205,18.
54
Su questo mito, si veda S. N. Kraner, Ancient Near Eastern Texts relating to the Old Testament,
University Press, Princeton 1950, 106-8. Si veda anche L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo, 18-20.
55
Agostino, Conf. I, 1,1.
56
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 675-81. Si veda
Ambrogio, In Luc. 10,121.
204
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
Lodare Dio ed essere lodati da Dio: la gioia dei beati. «Sopraffatti dalla gioia»,
dice Benedetto XVI nel testo citato prima della Spe salvi. E C. S. Lewis spiega
che la frase di Matteo «bene, servo buono e fedele, prendi parte alla gloria del
tuo padrone» (Mt 25,23) esprime perfettamente l’essenza della gioia dei cieli.
Lewis dice che i giusti, una volta sentite queste parole pronunciate per loro da
Dio stesso, saranno colmi di quella squisita gioia che prova un bambino quando
viene lodato da un superiore57. E ovviamente tutti coloro che credono davvero
sono in spirito come bambini; altrimenti non «entreranno nel regno dei cieli»
(Mt 18,3). I giusti si rallegreranno in modo speciale per la definitiva glorificazio-
ne e “giustificazione” di Dio agli occhi della creazione58.
Tertulliano suggerisce che la gioia dei beati sarà motivata anche dallo spet-
tacolo del castigo divino per gli ingiusti59. Ugualmente Pietro Lombardo parla
della gioia e soddisfazione che i giusti provano per la condanna dei peccato-
ri60. Alcuni autori hanno suggerito piuttosto che i giusti si rallegrano venden-
do realizzata la giustizia di Dio, anche di fronte alla condanna dei loro amici e
parenti61. Tuttavia, queste affermazioni non sono facilmente giustificabili, perché
la carità che colma il cuore del santo è incompatibile con qualsiasi tipo di invidia
o spirito vendicativo. San Tommaso d’Aquino ritiene semplicemente che i giusti,
essendo perfettamente identificati con la volontà di Dio, non siano rattristati per
le punizione che la giustizia divina infligge ai condannati62.
57
C. S. Lewis nel suo saggio The Weight of Glory, in Screwtape Proposes a Toast and other Pieces,
Collins, London 1965, 94-110, esprime l’essenza del cielo come segue: «“Bene, servo buono e
fedele”. Con ciò, gran parte di tutto quello che avevo pensato in tutta la mia vita cadde come un
castello di carte. Mi sono improvvisamente ricordato che nessuno può entrare nel regno dei cieli
se non come un bambino; e nulla è così ovvio per un bambino… quanto l’immenso ed evidente
piacere di essere lodato… è il piacere più creaturale, anzi, il piacere specifico dell’inferiore: il
piacere di un animale davanti ad un uomo, di un bambino di fronte a suo padre, di uno studente
davanti al suo insegnante, di una creatura davanti al suo Creatore. Non mi sto dimenticando di
quanto orribilmente questo piacere innocentissimo venga falsato nelle nostre umane ambizioni,
o di quanto velocemente, nella mia esperienza personale, il legittimo piacere della lode da parte di
coloro che era in mio potere compiacere si trasformi nel veleno mortale dell’auto-compiacimento.
Ma ho pensato di poter individuare un momento – un momento molto, molto breve – prima che
questo accadesse, durante il quale la soddisfazione di aver compiaciuto coloro che veramente
amavo e temevo è stato puro» 102s.
58
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 658ss., sulla “giustificazione di Dio mediante
lo Spirito” in un contesto escatologico.
59
Si veda Tertulliano, De Spect. 30.
60
Si veda Pietro Lombardo, In IV Sent., D. 50, q. 2.
61
Si veda A. Royo-Marín, ¿Se salvan todos?: estudio teológico sobre la voluntad salvífica universal
de Dios, BAC, Madrid 1995, che propone una soluzione ottimistica alla questione della salvezza
dell’umanità.
62
Si veda Tommaso d’Aquino S. Th. I, q. 89, a. 8.
205
Capitolo VI
63
La formula è molto frequente nel Nuovo Testamento: si veda Rm 11,36; 16,27; Gal 1,5; Ef 3,21;
Fil 4,20; 1 Tm 1,17; 2 Tm 4,18; Eb 13,21; 1 Pt 4,11; Ap 1,6; 4,9.10; 5,13; 7,12; 10,6; 11,15; 14,11;
15,7; 19,3; 20,10; 22,5.
64
Si vedano le pp. 196s.
65
È così in particolare in Agostino. Si veda M. L. Lamb, Eternity Creates and Redeems Time: a Key
to Augustine’s Confessions within a Theology of History, in Divine creation in Ancient, Medieval,
and Early Modern Thought: Essays presented to the Re’vd Dr. Robert D. Crouse, a cura di M.
Treschow, W. Otten e W. Hannam, Brill, Leiden; Boston (MA) 2007, 117-40.
66
Boezio, De consol. phil. 5, pr. 6,4.
206
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
67
Agostino, Conf. XII, 15.
68
E. Stein, L’Être fini et l’être éternel, Nauwelaerts, Louvain 1972, 60s.
69
SS 12.
70
Agostino, Soliloquia I, 1,3. E P. Teilhard de Chardin trae la conclusione: “o vediamo o periamo”
The Phenomenon of Man, Harper, New York 1959, 31.
207
Capitolo VI
Visione escatologica di Dio nella Scrittura. Tre testi principali del Nuovo Testa-
mento parlano della visione di Dio: 1 Cor 13,12, 1 Gv 3,1-2 e Mt 5,8.
Alla fine dell’inno della carità nella sua prima lettera ai Corinzi, Paolo scri-
ve: «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece
vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora cono-
71
La bibliografia è ampia sull’argomento. Si veda per esempio R. McInerny, Aquinas Against the
Averroists: on There Being Only One Intellect, Purdue University Press, West Lafayette 1993.
72
Si vedano le pp. 46s.
73
Leone Magno, Ep. 28 ad Flav., 4.
74
CCC 1025.
208
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
75
Su questo testo, si veda A. Robertson e A. Plummer, The First Epistle of St Paul to the Corinthians
(orig. 1911), T. & T. Clark, Edinburgh 1994, 298s.
76
Si veda Es 33,11s.; Nm 12,8; si veda anche Gv 16,29.
77
Il testo è nella forma «passiva come una perifrasi del soggetto divino» W. F. Orr and J. A. Wal-
ther, 1 Corinthians (Anchor Bible, 32), Doubleday, Garden City 1976, in hoc loco. R. Bultmann
distingue chiaramente in questo testo tra la nozione di conoscenza di Dio di Paolo e quella tipica
degli gnostici: γινὠσκω, in TWNT 1, 680-719, qui 710.
78
Si vedano le pp. 221s.
209
Capitolo VI
79
Si vedano le pp. 234s.
80
La medesima nozione si trova in Ap 22,4, che dice che gli eletti «vedranno il suo [dell’Agnello]
volto, e porteranno il suo nome sulla fronte».
81
Cipriano, Ep. 58, 10,1.
82
Origene, Comm. In Jo., 1, 16,92.
83
Si veda Agostino, Conf. IV, 10-13; IX, 10.
84
Si veda Giovanni Crisostomo, Ad Theod. lapsum tract., 11.
85
Per esempio Gregorio di Nazianzeno, Or. 8, 23.
86
Si veda Agostino, Enn. in Ps. 26, 2,9 & 43,5; Sermo 362, 29,30-30,31; Ep. 130, 14,27. Sugli aspetti
filosofici della visione di Dio in Agostino, si veda L. Cilleruelo, Deum videre en San Agustín,
«Salmanticensis» (1965), 1-31; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 145s. Agostino afferma
che la visione di Dio è la base reale della nostra unione con Lui: Ep. 147, 37.
87
Agostino, Enn. in Ps. 35,14.
210
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
riceviamo una partecipazione a questa visione?… O beati, tre volte beati, molte
volte beati sono coloro che saranno degni di vedere tale gloria!»88
Nel quarto secolo Eunomio († ca. 392), un seguace di Ario, insegnò che la
conoscenza che ciascun essere vivente può avere di Dio è del medesimo genere,
e strettamente limitata89. Questo principio è applicabile, egli dice, agli uomini,
agli angeli e a Cristo stesso, il Verbo, che gli ariani considerano come la prima
creatura, derivata da Dio e a Lui subordinata. Come conseguenza, Dio non può
essere visto direttamente dalle creature; e in ogni caso tutte le creature vedranno
la divinità sostanzialmente nel medesimo modo. Alcuni Padri della Chiesa, in
particolare Giovanni Crisostomo, hanno reagito energicamente contro questa
dottrina. Lo hanno fatto però giungendo all’estremo opposto, insegnando che
Cristo vede la sostanza divina (essendo egli consustanziale con il Padre), e gli
angeli e gli uomini non lo vedono. Cioè, secondo Crisostomo, il Padre è visto
solo dal Figlio e dallo Spirito90. Al massimo, le creature possono vedere Dio
indirettamente; vedranno la sua gloria ma non la sua sostanza.
Di fronte alla sfida ariana, che sembra contraddire l’insegnamento di San
Paolo circa la visione faccia a faccia91, la reazione di Crisostomo era compren-
sibile. La sua posizione era condivisa da Teodoreto di Ciro92, che affermava che
quando nell’Antico Testamento viene detto che gli uomini “vedevano” Dio –
Mosè è il caso più noto – non vedevano l’essenza divina (ousia) in quanto tale,
ma solo una sorte di splendore glorioso (doxa), essendo essi creature. Una posi-
zione simile era tenuta nella Chiesa Bizantina nel tardo Medioevo da Gregorio
Palamas († 1359)93. Palamas insisteva sull’assoluta invisibilità della divinità, ed
affermava che gli uomini sono in grado di contemplare solo la gloria che irradia
dall’essenza divina. Questa gloria è eterna ed increata (Palamas parla di “divi-
ne energie”), e non può essere identificata con l’essenza divina che appartiene
88
Giovanni Crisostomo, In Io. Hom. 12,3.
89
Secondo Socrate, Hist. Eccl. 4,7, Eunomio ritiene che «la conoscenza che Dio ha di sé non
è diversa dalla nostra. Il suo essere non è più chiaro per lui che per noi. Tutto quello che noi
sappiamo di lui egli lo sa nel medesimo modo, e tutto quel che sa di sé lo troviamo facilmente e
senza differenza in noi».
90
Si veda Giovanni Crisostomo, De Incomprehens. Dei natura, 1,6; In Io. Hom., 15,1.
91
Si veda Basilio, Ep. 8,7 sulla visione diretta in 1 Co 13,12.
92
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 375-7. L’opera principale di Teodoreto al riguardo è
Eranistes seu Polymorphus, dial. I.
93
Sulla teoria della divinizzazione di Palamas è stato scritto molto, per esempio lo studio classico
M. Jugie, Palamas, in DTC 11 (1930) col. 1735-76. Contro Jugie, si veda V. Lossky, Théologie
mystique de l’Église d’Orient, Cerf, Paris 1944 e J. Meyendorff, St. Gregory Palamas and Orthodox
Spirituality, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood 1974. Recentemente, si veda A. N. Williams,
The Ground of Union. Deification in Aquinas and Palamas, Clarendon Press, Oxford 1999.
211
Capitolo VI
94
Si veda Gregorio Palamas, Triadi I, 3; II, 3: III.
95
Gregorio Magno, Mor. in Iob, 18, 54,90.
96
L’ha fatto il suo avversario Barlaam di Calabria. Si veda J. Jugie, Palamas, col. 1754.
97
DS 1305 (il Decretum pro graecis).
98
DS 1305. Su questo si veda G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 130s.
99
Si vedano le pp. 339s.
100
DS 1000.
101
Si veda CCC 1028.
212
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
102
Si veda DS 16, 21, 22, 29.
103
Si veda Gb 19,26; 42,5; Sal 16,5.
104
Si veda Es 19,21; Lv 16,2; Nm 4,20.
105
Alcuni Padri della Chiesa che parlano dell’impossibilità di vedere Dio “faccia a faccia”
intendono semplicemente escludere la possibilità di vedere Dio con le proprie forze; si veda ad
esempio Basilio, Adv. Eunomium, 1,14; Didimo il Cieco, De Trin., 3,16.
213
Capitolo VI
rivelato» (Gv 1,18). In senso stretto questo testo non parla dell’effettivo vedere
Dio faccia a faccia. Tuttavia, è chiaro che il Verbo del Padre può rivelare agli
uomini quello che loro sono totalmente incapaci di vedere da sé per le proprie
forze. «La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta», leggiamo
altrove nel Prologo di Giovanni. «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illu-
mina ogni uomo… E il Verbo si fece carne… e noi abbiamo contemplato la sua
gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre» (Gv 1,5.9.14).
Agostino dice che «Dio è invisibile per natura, ma può esser visto quan-
do vuole, come vuole»106. Ed aggiunge che noi non vediamo Dio con la vista
fisica: «Dio non si vede in un luogo, ma da un cuore puro; né può esser visto
dagli occhi del corpo, né compreso dalla vista, né percepito con il tatto, né udito
come suono, né sentito per invasione»107. Brevemente il Catechismo della Chie-
sa Cattolica riassume questo insegnamento come segue: «A motivo della sua
trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando egli stesso apre il
suo Mistero alla contemplazione immediata e gliene dona la capacità»108. Consi-
deriamo ora in cosa consista questa “capacità”.
106
Agostino, Ep. 147, 37: «Deum… invisibilem esse natura, videtur autem cum vult, sicut vult».
107
Dio non si vede con la vista umana, dice Agostino: «Nec in loco Deus videtur, sed mundo corde;
nec corporalibus oculis quaeritur, nec circumscributur visu, nec tactu tenetur, nec auditur effatu,
nec sentitur incessu» De Civ. Dei XXII, 29.
108
CCC 1028.
109
La Chiesa condanna per esempio la posizione dei Beguini che affermava che ogni contemplazione
è contemplatio beatorum: DS 895.
110
DS 895; si veda anche Pio XII, Enc. Mystici Corporis Christi (1943): DS 3815.
214
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
111
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 12, a. 5c.
112
Ibid.
113
Ibid.
114
Tommaso d’Aquino, III C. Gent. 51.
115
Si veda Gandavio, Quodl. 13, q. 12. Altri autori come Scoto Eriugena parlarono dell’unione con
Dio senza alcuna mediazione: «Non ipsum Deum per semetipsum videmus, quia neque angeli
vident; hoc enim creaturae impossibile est… sed quasdam factas ab eo in nobis theophanias
contemplabimur» De divisione naturae I, 1,10. Si può trovare la medesima posizione in
Alessandro di Hales, Ugo di Saint-Cher, e Ugo di San Vittore: si veda G. Moioli, L’“Escatologico”
cristiano, 126s. Almarico di Bène disse: «creator non videtur nisi tamquam sub operimento
universi», mentre secondo gli autori aristotelici, il divino è conosciuto solo tramite gli effetti
creati. Entrambe le posizioni, l’una portando al panteismo, l’altra al materialismo, sono state
rifiutate dall’Università di Parigi nel 1214: «quod divina essentia in se nec ab homine nec ab angelo
videbitur». Sull’argomento, si veda H.-F. Dondeine, L’objet et le ‘medium’ de la vision béatifique
chez les théologiens du XIIIe siècle, «Recherches de théologie ancienne et médiévale» 19 (1952)
60-99.
215
Capitolo VI
116
Si veda Caietano, In S. Th. I, q. 12, a. 2.
117
Si veda il mio studio Alcune implicazioni giuridiche e antropologiche della comunicazione della
parola di Dio, in Parola di Dio e missione della Chiesa. Aspetti giuridici, a cura di C. J. Errázuriz e
F. Puig, Edusc, Roma 2009, 27-57.
118
Meister Eckhart, Sermo 58, in Deutsche Predigten und Traktate, a cura di J. Quint, C. Hanser,
München 19693, 430s.
119
Si veda H. U. von Balthasar, Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 372s. Corsivo aggiunto.
120
Ibid.
216
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
121
Si veda il mio studio La muerte y la esperanza, 64-74; Cristo revela el hombre al propio hombre,
«Scripta Theologica» 41 (2009) 85-111.
122
Si veda Origene, De princip. I, 5.
123
«Proprio come nessuno può essere padre senza avere un figlio, né un padrone senza avere uno
schiavo, nemmeno Dio può essere chiamato onnipotente se non ci sono altri esseri su cui egli
possa esercitare il suo potere. Perciò, affinché Dio possa mostrare la sua potenza, le cose devono
essere esistite così che egli potesse ricevere questo titolo» Origene, De princip. I, 2,10.
124
Secondo Origene in De princip. II, 3, l’uomo è sempre libero. In questo modo egli può mantenere
un continuo dinamismo dell’uomo da e verso Dio. La libertà umana non è mai definitivamente
fissata.
217
Capitolo VI
Libertà umana e vita eterna. Sono state proposte due soluzioni principali per
spiegare l’eternità della visione beatifica. Da una parte alcuni autori, con un
approccio scotista, affermano che la visione di Dio non impone alcuna neces-
sità assoluta agli uomini di amarlo ed evitare il peccato, in modo tale che la
volontà ritiene la propria libertà “in esercizio” e “in specificazione”, non solo
nei confronti del mondo creato, ma anche nei confronti del Bene Supremo, che
è Dio. L’assenza di peccato nei beati sarebbe dovuta perciò ad una straordinaria
grazia provvidenziale che li preserva dal deviare dal compimento della volontà
di Dio. Cioè, il regno dei cieli sarà eterno più o meno per decreto divino126.
Questa soluzione non manca di difficoltà, perché sembra che Dio sia obbli-
gato a disfare l’opera della creazione (quando fece gli uomini liberi) al fine di
concedere loro la ricompensa definitiva. La libertà umana sembra essere il
problema, non la soluzione. Inoltre, la libertà è considerata in modo restrittivo,
in termini di pura indifferenza ed arbitrarietà rispetto al bene.
125
Si veda ibid., III, 6,6. Si veda H. Crouzel, L’hadès et la géhenne selon Origène, «Gregorianum»
59 (1978) 291-329; J. R. Sachs, Apocatastasis in Patristic Theology, «Theological Studies» 54 (1993)
617-40. Sul termine biblico, si veda BDAG, 112, s.v. ἀποκατάστασις.
126
Si veda Duns Scoto, Oxon. IV, D. 49, q. 4. Su questo, si veda H. Lennerz, De novissimis,
Gregoriana, Roma 19505, 30-3.
218
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
127
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 92. Si veda S. Gaine, Will there be Free Will in Heaven?:
Freedom, Impeccability, and Beatitude, T. & T. Clark, London; New York 2003.
128
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 98, a. 5c.
129
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 62, a. 8 ad 3.
130
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent. 96.
219
Capitolo VI
parole ed opere. La sua presenza e bontà, perciò, non si impongono sugli uomini
durante il loro soggiorno terreno, perché Dio vuole ottenere una risposta libera,
generosa dalle creature che devono sforzarsi con il Suo aiuto di superare l’attra-
zione disordinata delle creature verso il peccato, pur percependo indirettamente
e meno tangibilmente l’azione e l’amore divino131.
131
È interessante notare che, probabilmente, Origene considerò il Verbo contemplato dagli spiriti
creati in maniera subordinazionista: si veda J. Daniélou, Origène, Cerf, Paris 1948, 249ss.; Origene,
De princip. IV, 4,1. Gli spiriti perciò non vedono Dio, ma solo il Verbo, inferiore a Dio, e perciò
non sono “obbligati” dalla visione ad evitare il peccato. Cioè, il possibile subordinazionismo di
Origene e la sua negazione dell’eternità della ricompensa e punizione vanno di pari passo. Questo
spiegherebbe anche perché l’idea di una percezione indiretta di Dio non sarebbe sufficiente per
render conto dell’eternità e della pienezza della comunione escatologica con Dio, come Teodoreto
di Ciro, Palamas ed altri suggerirono.
132
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30.
220
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
Visione di Dio e carità. Come abbiamo visto sopra, Paolo in 1 Cor 13 associa la
visione di Dio con la carità. Vedere Dio non equivale ad un tipo di contemplazio-
ne fredda, puramente intellettuale. Piuttosto, la visione è l’atto finale, supremo, di
carità. La fede sarà sostituita dalla visione (conoscenza), la speranza dalla presen-
za (gioia), ma la carità accompagnerà sempre la visione, perché «la carità non
avrà mai fine» (1 Cor 13,8). «La carità è immortale e non cambia essenzialmente
natura quando si trasforma nella gloria»135. La legge della carità, dice Sant’Ago-
stino, raggiungerà il suo compimento solo «in quella vita quando vedremo Dio
faccia a faccia»136. E Ugo di San Vittore († 1141) ha scritto che Dio in cielo «sarà
visto senza la fede, sarà amato senza avversione, verrà lodato senza fatica»137.
La controversia tra Tommaso d’Aquino e Bonaventura († 1274) sulla questio-
ne della priorità tra conoscenza e carità nella vita cristiana e nella vita eterna,
è degna di nota138. San Tommaso assume la classica massima agostiniana nihil
amatur nisi cognitum, “niente è amato o voluto se non è prima conosciuto”139.
133
Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 83.
134
La vita è considerata uno scambio tra due agenti liberi, nessuno dei quali può disporre dell’altro.
Quindi, secondo Gregorio, la vita umana in piena libertà durerà per sempre: si veda G. Maspero,
La Trinità e l’uomo. L’Ad Ablabium di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2004.
135
F. Prat, La théologie de Saint Paul, vol. 2, Beauchesne, Paris 1930, 405.
136
Agostino, De spir. et litt. 36,64.
137
«Sine fide videbitur, sine fastidio amabitur, sine fatigatio laudabitur» Ugo di San Vittore, De
sacramentis II,18,20.
138
Si veda Tommaso d’Aquino S. Th. I-II, q. 3, a. 4; Bonaventura, In III Sent., D. 31, a. 3, q. 1.
139
Per esempio in Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 60, a. 1, s. c., da Agostino X de Trin.
221
Capitolo VI
Il ruolo delle altre creature nella vita eterna. Lungo la storia, la dottrina della
vita eterna è stata considerata principalmente nei termini della visione e dell’a-
more di Dio. Dio è Colui che rende possibile la vita eterna attraverso la grazia,
ed è l’oggetto diretto della visione. Infatti, gli uomini si muovono sempre nella
sfera di Dio, spesso senza conoscerlo, a volte anche ignorandolo di proposito.
Nel regno dei cieli questa ignoranza sarà impossibile, dal momento che Dio
riceverà necessariamente l’intera attenzione dell’uomo. Comprensibilmente,
autori spirituali a volte insistono nel dire che la prospettiva di vedere Dio e vive-
re in comunione con Lui per sempre dovrebbe muovere i credenti a tralasciare
consapevolmente le creature come distrazioni sulla loro strada per la perfetta
unione con Dio. Ad un livello oggettivo, tuttavia, questo non significa che la
conoscenza e la carità che uniscono i beati a Dio non li uniscano anche alle altre
creature, in particolare al “prossimo” con cui hanno condiviso il pellegrinaggio
terreno. Si tratta di un aspetto della dottrina della “comunione dei santi”143. In
140
Si veda Bonaventura, In III Sent., D. 31, a. 3, q. 1.
141
B. Pascal, Pensées (ed. Brunschvig), n. 277.
142
E. D. Schmitz. To Know, in NIDNTT 2, 392-406, in particolare 395.
143
Si veda il mio studio Comunión de los santos, in C. Izquierdo, J. Burggraf e F. M. Arocena (a
222
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
effetti, nella vita eterna gli uomini si uniscono non solo con Dio in Cristo, ma
anche con il resto dell’umanità e del creato. Questa idea è espressa nell’insegna-
mento del Vaticano II sulla vocazione escatologica della Chiesa intera144.
In modo specifico, la Gaudium et spes dice che la fede porta le persone a
«comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, col dare la
speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio»145. Se così accade
per la comunione con la Chiesa nel suo stato presente, molto più sarà così tra i
beati stessi nel cielo. Nel capitolo sulla Chiesa pellegrina, la Lumen gentium parla
infatti di tre stati nella Chiesa – pellegrina, purificante, celeste – e pone Cristo e
lo Spirito da lui mandato come base della loro unità. «Tutti… sebbene in grado e
modo diverso, comunichiamo nella stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo
al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti quelli che sono in Cristo, infatti, aven-
do il suo Spirito, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in lui»146. Il testo
continua: «a causa infatti della loro più intima unione con Cristo i beati rinsalda-
no tutta la Chiesa nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra
e in molteplici maniere contribuiscono a una sua più ampia edificazione»147.
Molti Padri della Chiesa e teologi ritengono che in cielo incontrere-
mo la pienezza del mistero della creazione. Agostino dice che «dovunque
volgeremo gli occhi vedremo Dio, la sua presenza diffusa dappertutto, il suo
governo anche dell’universo materiale, per mezzo dei corpi che avremo e che
scorgeremo»148. Gregorio Magno dice che nel contemplare Dio i beati vedran-
no tutte le cose149. E Ugo di San Vittore spiega che i beati vedranno tutto quel-
lo che accade nell’universo150.
La comunione tra i salvati nel regno dei cieli. La comunione con gli eletti è una
parte essenziale della gioia del cielo. Questa dottrina è chiaramente presente,
seppure implicitamente, nella Scrittura, quando si parla del cielo in termini di
un sontuoso banchetto (Mt 22,1-14), con abbondanza di cibo (Mt 22,4), bevande
(Gv 2,1-11), e luce (Mt 22,13), un banchetto che Dio stesso ha preparato per la
223
Capitolo VI
delizia degli eletti – anche servendoli al tavolo (Lc 12,37) – insistendo sul fatto
che essi devono parteciparvi (Mt 22,3-4.7-10)151.
Diversi Padri della Chiesa spiegano in effetti che la comunione tra gli eletti
è parte essenziale della gioia del cielo. San Cipriano scrisse ai fedeli in una occa-
sione nei seguenti termini: «che gloria, che piacere sarà quando sarete ammessi
a vedere Dio, quando sarete considerati degni dell’onore di gioire con Cristo,
vostro Signore e Dio, la gioia della salvezza e della luce eterna, la gioia di salutare
Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i Patriarchi, gli Apostoli, i profeti e i martiri, di
gioire con i giusti e gli amici di Dio nel regno dei cieli»152. Ed altrove: «là ci aspet-
ta la moltitudine di coloro che abbiamo amato, i nostri genitori, fratelli e sorelle,
figli, che sono certi della loro salvezza, ma premurosi per la nostra. Raggiungere
la loro presenza, il loro abbraccio, che grande gioia sarà per noi e per loro!»153
Gregorio di Nissa parla della beatitudine, della pienezza di gioia e felicità che i
giusti, come figli di Dio illuminati dal Sole della grazia divina, comunicano gli
uni gli altri154. Secondo Sant’Ambrogio († 397) un aspetto essenziale della vita
celeste è l’unione dei beati l’uno con l’altro nell’amore che li unisce, come testi-
moniato in molte orazioni funebri da lui tenute155.
Nella sua opera De Civitate Dei, Agostino descrive la vita eterna come «una
vita comune (societas) perfettamente ordinata ed armoniosa di coloro che godo-
no di Dio e del proprio simile in Dio»156. Ed altrove: «chi non desidera questa
città dove nessun amico se ne va e nessun nemico entra, dove nessuno ci mette
alla prova o ci disturba, nessuno divide il popolo di Dio, dove nessuno sfinisce la
Chiesa di Dio a servizio del diavolo?… Avremo Dio come nostra comune visio-
ne (spectaculum), avremo Dio come possesso comune, avremo Dio come pace
comune»157. Anche se ci saranno molte differenze tra i giusti, non ci sarà sconten-
to o invidia tra i cittadini del cielo158, poiché tutti godranno la pace che distingue
la città celeste. Inoltre, Agostino insegna frequentemente che i giusti godranno
151
Si veda P. Rouillard, Aspect communautaire de la béatitude, «Vie spirituelle» 44 (1962) 217-21.
152
Cipriano, Ep. 58,27.
153
Cipriano, De mort. 26. Per altri testi, si veda J. T. O’Connor, The Land of the Living, 264.
154
Si veda Gregorio di Nissa, De vita Moys. 2.
155
Si veda Ambrogio, De obitu Theodos. or., 29,32; De obitu Valentiniani consolatio, 71,77; De bono
mortis, 11.
156
Agostino, De Civ. Dei XIX, 13,17.
157
Agostino, Enn. in Ps. 84,10.
158
Agostino, De Civ. Dei XXII, 30.
224
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
della compagnia degli angeli, la societas angelorum159. «Con gli angeli [i beati]
possederanno in comune la santa e dolce comunione della città di Dio»160.
Ugualmente San Beda il Venerabile († 735) dice che la beatitudine consi-
ste nella «gioia di una società fraterna»161. Tommaso d’Aquino, abbiamo visto,
sottolinea in modo particolare l’aspetto contemplativo della vita eterna, mentre
considera più sobriamente l’aspetto materiale dell’umanità risorta, dal momen-
to che il mangiare, il bere, il dormire, ecc. non avranno più scopo nei cieli162.
Il teologo Karl Adam († 1966), quando fa riferimento a coloro che sono
uniti nella carità, parla del “respiro dei beati”. E il filosofo Gabriel Marcel ha
parlato della presenza dei defunti come di una “volta palpitante” che circonda e
protegge l’intera creazione.
Amore di Dio e amore degli altri. Gli autori di spiritualità cristiana hanno spes-
so affermato che amare Dio con un amore totale, radicale (“lasciando tutto”,
Mt 19,27), potrebbe essere, ma non è necessariamente, un ostacolo per amare le
altre persone, quando questo amore è correttamente ordinato. Potrebbe sembra-
re che se l’amore di Dio in cielo diventa una passione che consuma tutto, l’amore
per gli altri dovrebbe essere effettivamente eliminato o decisamente diminuito.
Questa visione antropomorfica dell’amore di Dio in termini competitivi non
tiene conto però del fatto che l’amore con cui amiamo Dio, si fonde con l’amore
per il prossimo, cioè la carità, che trova una duplice espressione: lodare e ringra-
ziare Dio e fare la sua volontà, da una parte, e dare incondizionatamente agli
altri quel che si è ricevuto da Dio per loro, dall’altra parte. Entro la dinamica
della carità, i cristiani prendono parte alla corrente dell’amore che è la medesima
vita della Trinità Beata, che Dio vuole comunicare all’umanità non solo diret-
tamente alla persona del credente, ma anche indirettamente attraverso le altre
persone. Quando amiamo gli altri, in qualche modo Dio li sta amando tramite
noi. «Per quanto tu ami, non amerai mai abbastanza», scrive San Josemaría. «Il
cuore umano ha un enorme coefficiente di dilatazione. Quando ama si allarga in
un crescendo di affetto che supera tutti gli ostacoli. Se tu ami il Signore, non ci
sarà creatura che non trovi spazio nel tuo cuore»163. Più si ama Dio, più si amerà
il prossimo, intensivamente ed estensivamente. Quando l’amore per Dio giunge
159
Agostino, Sermo 19, 5. Per testi simili, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 146s.
160
Agostino, De Civ. Dei XXII, 29.
161
Beda il Venerabile, De Tabernac. et vasis eius 2,13.
162
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 81, a. 4c.
163
San Josemaría Escrivá, Via crucis, 8,5.
225
Capitolo VI
a perfezione nella vita eterna, l’amore per gli altri crescerà non solo in intensità
ed estensione, ma forse, soprattutto, in costanza. L’amore tra gli uomini non
sarà più fluttuante e imprevedibile.
Tommaso d’Aquino dice che nella visione beatifica, si «vede Dio nella sua
essenza e le altre cose in Dio (et alia videt in Deo), proprio come Dio stesso,
conoscendo sé, conosce tutte le altre cose»164. Cioè, il beati contemplano non
solo Dio, ma anche gli altri, in Dio. Si può dedurre, perciò, che essi amano Dio,
e amano anche gli altri, in Dio. Il vero amore umano non sarà impedito o elimi-
nato dalla visione di Dio; sarà purificato, forse, ed intimamente connesso con
l’amore di Dio. Perciò l’amore di Dio includerà un amore vero e ordinato per la
Madonna, gli angeli e i santi, per tutti i salvati, in particolare coloro che ci sono
vicini, che sono stati nostro “prossimo”. San Josemaría scrive: «Dopo la morte
vi accoglierà l’Amore. E nell’amore di Dio ritroverete tutti gli amori limpidi che
avete avuto sulla terra»165.
164
«Hominis autem Christi est duplex cognitio. Una quidem deiformis, secundum quod Deum
per essentiam videt, et alia videt in Deo, sicut et ipse Deus intelligendo seipsum, intelligit omnia
alia, per quam visionem et ipse Deus beatus est, et omnis creatura rationalis perfecte Deo fruens»
Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., n. 216.
165
San Josemaría Escrivá, Amici di Dio, Ares, Milano 1982, n. 221b.
166
Si veda Ireneo, Adv. Haer. IV, 20,5-7; II, 28,3.
167
Si veda Gregorio di Nissa, In cant. Hom. 9; su questo testo, si veda H. U. von Balthasar, Présence
et pensée. Essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, Beauchesne, Paris 1942, 67-80.
168
Si veda Bernardo, Tractatus de vita sol.; Ep. 253.
226
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
169
In SS 12, Papa Benedetto XVI dice che la vita eterna è «come immergersi in un oceano di
infinito amore, un momento in cui il tempo – il prima e il dopo – non esistono più».
170
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 623.
171
Secondo l’Aquinate, non c’è successione in cielo: III C. Gent., 61. La medesima idea è espressa
da M.-J. Scheeben, I misteri del cristianesimo, 664.
172
Pannenberg lo dice così: «La finitudine degli esseri che hanno conseguito il proprio
compimento… non presenta più la forma di una successione di momenti temporali tra loro
separati, ma piuttosto la nostra esistenza terrena nella sua interezza» Teologia sistematica, vol. 3,
588.
173
Parlando dell’aevum, l’Aquinate dice: «aevum differt a tempore et ab aeternitate… Aeternitas
non habet prius et posterius; tempus autem habet prius et posterius cum innovatione et veteratione;
aevum habet prius et posterius sine innovatione et veteratione… Aevum habet principium, sed
non finem» S. Th. I, q. 10, a. 5c.
174
K. Barth, Kirchliche Dogmatik II/1, Evangelischer Verlag; Zollikon, Zürich 1940, 688s. Barth si
è spostato da una opposizione dualistica tra eternità e tempo, verso una visione più vicina a quella
di Boezio, e, in fondo, di Plotino.
175
R. F. Aldwinckle, Death in the Secular City, W. B. Eerdmans, Grand Rapids 1974, 160. Secondo
227
Capitolo VI
Resurrezione e vita eterna. La resurrezione finale non coincide con la vita eterna,
non solo perché questa realmente ha inizio sulla terra tramite la fede176, ma anche
perché – secondo una unanime ed antica tradizione cristiana – i martiri e coloro
che sono stati perfettamente purificati saranno in grado di vedere Dio prima che
la resurrezione abbia luogo177. Tuttavia, non si può dire che il soggetto umano sia
perfettamente costituito in quanto umano in assenza del complemento corporale
che la resurrezione fornisce178. Quindi, sebbene distinguibili l’una dall’altra, il
Simbolo cristiano ha sempre associato la vita eterna e la resurrezione dei morti.
Gesù stesso promise che «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita
eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). Solo quando la resurrezio-
ne ha luogo, quando la società e corporalità umana è completamente ricostituita,
quando la sovranità di Dio è definitivamente manifestata, allora si può dire che la
vita eterna ha raggiunto il suo culmine e il suo scopo finale. Ecco perché, prima
della resurrezione dei morti, l’anima beata «è attraversata dal desiderio che la sua
stessa fruizione di Dio si riversi e ridondi anche sul corpo»179.
Come abbiamo già visto, Gregorio di Nissa parla della vita eterna come di
un processo di graduale assimilazione a Dio, che inizia con la morte e culmi-
na quando Dio sarà “tutto in tutti”180. Alla resurrezione, egli dice, gli uomini,
liberi dall’invecchiamento e dalla decadenza, saranno consumati da un sempre
crescente desiderio di Dio, che trascende i loro stessi limiti costantemente in una
«meravigliosa passione di insaziabilità»181. «Questo è realmente quel che significa
vedere Dio» conclude Gregorio, «non esser mai sazi nel proprio desiderio; guar-
dare sempre verso ciò cui è possibile, muovendo verso il desiderio di vedere di
più, ed essere ulteriormente infiammati»182. Giovanni Crisostomo dice che anche
Abramo e Paolo «stanno aspettando che tu abbia raggiunto il compimento, per
poter poi ricevere la loro ricompensa. Infatti a meno che anche noi siamo presenti,
il Salvatore ha detto che non la darà loro, proprio come un padre buono e gentile
Ruiz de la Peña, la visione dinamica della vita eterna è attualmente una posizione maggioritaria:
La pascua de la creación, 216, nota 58.
176
Si veda le pp. 196s.
177
Si veda la p. 336 e nota 140.
178
Si veda M. Brown, Aquinas on the Resurrection of the Body.
179
Tommaso d’Aquino, S.Th. I-II, q. 4, a. 5 ad 4.
180
Si veda G. Filoramo, L’escatologia e la retribuzione negli scritti dei Padri, 272.
181
Gregorio di Nissa, De mortuis or.
182
Gregorio di Nissa, Vita Moys. 2,239.
228
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
potrebbe dire a suo figlio, che ha lavorato duramente e servito bene, che non gli
darà nulla da mangiare finché non arriveranno i suoi fratelli e le sue sorelle»183.
Agostino dice: «Quando la resurrezione avrà luogo, allora la gioia dei buoni
sarà più grande, e i tormenti dei malvagi peggiori, dal momento che saranno
torturati [o ricompensati] insieme ai loro corpi»184. Nell’interim tra la morte e
la resurrezione, egli nota, si verifica solo «una piccola parte della promessa»185.
«Infatti il giorno della ricompensa verrà quando i nostri corpi ci saranno resti-
tuiti e l’uomo intero riceverà quel che ha meritato»186. Nella Liturgia pasqua-
le del Breviario Romano si proclama questa preghiera: «colma la speranza dei
defunti, così che possano ottenere la resurrezione nella venuta di Cristo»187.
I gradi e la relativa infinità della vita eterna. Il dono della divinizzazione fornisce
ai credenti una dignità quasi divina. Diventando figli di Dio i cristiani ricevono
l’eredità eterna, per entrare nella casa del Padre e lodarlo per sempre. Tuttavia,
questo non significa che la partecipazione alla vita divina implichi una completa
identificazione con Dio, perché gli uomini sono divinizzati, certo, ma non diven-
183
Giovanni Crisostomo, In Hebr. Hom. 28,1.
184
Agostino, In Io. Ev. tr. 49,10.
185
Agostino, Sermo 280, 5.
186
Ibid.
187
«Spem defunctorum adimple, ut in adventu Christi resurrectionem assequantur» Preces, ad II
Vesp., Fer. VI, Haeb. VII Paschae. Si veda anche Bernardo, Sermo 3, sul banchetto di tutti i santi.
188
DS 1000.
229
Capitolo VI
tano della stessa sostanza della Divinità189. L’intelletto umano, sebbene diretta-
mente unito a Dio, è incapace di abbracciare l’infinitamente ricca perfezione di
Dio senza perdere se stesso. Come dice il libro dell’Esodo: «ma tu non potrai
vedere il mio volto; perché nessuno può vedermi e restare vivo» (33,20). La Scola-
stica descrive questo aspetto dell’unione con Dio dicendo che i beati potranno
vedere Dio totus sed non totaliter190; essi vedono “tutto” di Dio, in quanto Dio
non può esser visto in parte a causa della sua semplicità; tuttavia, la profondità
della loro conoscenza dipende dalla loro personale capacità e situazione. In altre
parole i limiti della conoscenza (e amore) dei beati non deriva da Dio, ma da loro
stessi. Si potrebbe dire che in cielo Dio dà alle persone tutto l’amore e la cono-
scenza che sono in grado di ricevere. In altre parole, ci sono gradi in cielo.
Che nel cielo si danno ricompense differenti per persone differenti è comu-
ne tra i Padri della Chiesa. Secondo San Cipriano, più il martire o il confesso-
re soffre, «più alta sarà la sua corona»191. Coloro che si consacrano a Dio nella
verginità, egli dice, riceveranno una “doppia gloria”, il centuplo192.
Il Concilio di Firenze (1439) insegna chiaramente che l’intensità della
visione dipende dai meriti di ciascuno; i beati vedranno «chiaramente Dio stes-
so, uno e trino, come Egli è, ma alcune in modo più perfetto di altre, a seconda
della diversità dei meriti»193. Come bottiglie piene di vino, ciascun’anima verrà
riempita fino all’orlo, anche se ciascuna bottiglia può essere di misura molto
diversa dalle altre194. E Giacomo Biffi: «Ciascuno dei beati avrà una bellezza
propria, espressione non solo del grado d’amore di Dio che ciascuno abbia, ma
anche del modo diverso in cui ha amato durante la propria vita»195.
L’idea che ci siano diversi gradi nella vita eterna e nella visione beatifica venne
messa in dubbio da Lutero, che affermava che siccome la salvezza dipende solo
dalla grazia di Dio e non dalle opere umane, ciascuno riceverà semplicemente quel
che Dio gli dà. Gli uomini possono rifiutare il dono della vita eterna, ma qualsiasi
diversità ci possa essere tra i beati dipende interamente dalla grazia di Dio196.
189
Si veda Tommaso d’Aquino, De Ver., q. 8, a. 2 ad 3; III C. Gent., 55; S. Th. I, q. 12, a. 7.
190
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 2, a. 7 ad 3; q. 12, a. 7 ad 3.
191
Cipriano, Ep. 37,3.
192
Cipriano, Ep. 76,6.
193
DS 1305.
194
Questa spiegazione si trova nel Catechismo della Conferenza Episcopale Tedesca: Deutsche
Bischofskonferenz, Katholischer Erwachsenen-Katechismus: das Glaubensbekenntnis der Kirche,
Butzon und Bercker, Kevelaer 19852, vol. 2, 421s. Si veda anche Teresa d’Avila, Libro de la vida, 37,2.
195
G. Biffi, L’al di là, Paoline, Roma 1960, 76.
196
Sui gradi di gloria nella teologia protestante, si veda E. Disley, Degrees of Glory. Protestant
Doctrine and the Concept of Rewards Hereafter, «Journal of Theological Studies» 42 (1991) 77-105.
230
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
197
Si veda D. A. Hagner, Matthew, 573s.
198
Si veda Gregorio di Nazianzeno, Or. 40,20; Gregorio Magno, Hom. in Ev., 10.
199
«Unitas denarii significat unitatem beatitudinis ex parte obiecti. Sed diversitas mansionum
significat diversitatem beatitudinis secundum diversum gradum fruitionis» Tommaso d’Aquino,
S. Th. I-II, q. 5, a. 2 ad 1.
200
«Plus autem participabit de lumine gloriae, qui plus habet de caritate, quia ubi est maior caritas,
ibi est maius desiderium; et desiderium quodammodo facit desiderantem aptum et paratum ad
susceptionem desiderati. Unde qui plus habebit de caritate, perfectius Deum videbit, et beatior
erit» Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 12, a. 6c.
201
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 112, a. 4c.
231
Capitolo VI
Il ruolo di Cristo nella vita eterna. Questo capitolo è intitolato “Vita eterna nella
gloria di Cristo”. Il cielo è, infatti, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica,
«la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in Cristo»202.
È chiaro dalla Scrittura che la situazione dei beati (tanto quanto quella dei condan-
nati) dipende direttamente dalla persona e dall’azione salvifica del Signore risorto.
«Venite, benedetti dal Padre mio», dice Cristo ai giusti (Mt 25,34). E ai reprobi:
«Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41). E al ladrone pentito
sulla Croce: «in verità io ti dico: oggi con me sarai in paradiso» (Lc 23,43).
Era comprensibile l’invocazione del diacono Stefano a Gesù, proprio
prima della morte, «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (At 7,59). Saulo – poi
San Paolo – era tra coloro che testimoniarono e permisero la sua morte (At 8,1).
Paolo espresse il proprio riconoscimento per il mistero e la presenza di Cristo
nel morire, e nella «vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 6,23) nei
seguenti termini: «sono stretto infatti tra queste due cose. Ho il desiderio di
lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio. Ma per voi
è più necessario che io rimanga nel corpo» (Fil 1,23s.). Ai Filippesi ha confida-
to anche: «Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua
ricchezza con magnificenza, in Gesù Cristo» (Fil 4,19).
Perciò, essere con Dio nella vita eterna significa essere con Cristo. La dottri-
na è chiaramente enunciata nel vangelo di Giovanni. «Nella casa del Padre mio
vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò
con me, perché dove vado io siate anche voi» (Gv 14,2-3). Dopo che l’aposto-
lo Tommaso gli ha chiesto «come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5), Gesù
riassume la sua identità nei seguenti termini: «Io sono la via, la verità e la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).
Possiamo chiedere, tuttavia, che cosa implichi questa presenza di Cristo nella
vita eterna. Egli semplicemente accompagna i credenti in cielo, come fanno i santi e
gli angeli, o effettivamente unisce i beati con il Padre? Cioè: il suo ruolo è meramen-
te esistenziale o è anche teologico, è decorativo oppure metafisico? La chiarezza dei
testi del Nuovo Testamento appena citati sembrano suggerire la seconda posizione.
Eppure potremmo porre un interrogativo ulteriore: una volta che Gesù abbia unito
i credenti con Dio, il suo compito è terminato, o egli darà perpetua continuità a
questa unione? Come abbiamo visto prima, la visione di Dio in cielo è una visio-
ne diretta, «senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna
202
CCC 1026.
232
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
creatura»203. Così sembra che una volta che Cristo abbia stabilito la comunione dei
salvati con il Padre, una volta che ci abbia redento dai nostri peccati, il suo compito
sia finito, dal momento che le creature vedono Dio “faccia a faccia”. La questione,
tuttavia, è un po’ più complessa. Si possono fare tre osservazioni.
Prima, Cristo è l’unico mediatore della salvezza cristiana204, di cui la vita
eterna è una parte integrale. «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno
conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio
e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27). Seguendo l’immagine del
banchetto celeste, Cristo non solo invita, ammette e accompagna gli invitati, ma
li serve anche al tavolo (Lc 12,37; Mt 20,28).
In secondo luogo, è giusto considerare eterna la mediazione di Cristo205. In
contrasto con il sacerdozio levitico, Cristo, «poiché resta per sempre, possiede
un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per
mezzo di Lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro
favore» (Eb 7,24s.). Il medesimo principio si trova nel Credo della Chiesa: «il suo
regno non avrà mai fine»206. Al Concilio di Costantinopoli (381) questa formula
fu aggiunta al Credo di Nicea (325) per evitare la posizione di alcuni autori che
ritenevano che l’Incarnazione del Verbo sarebbe giunta al termine alla fine dei
tempi207, nello stesso momento in cui l’opera di “redenzione” (cioè il perdono dei
peccati in senso stretto, e la liberazione dalla schiavitù del peccato) fosse compiu-
ta, cioè una volta che Cristo consegnasse il regno al Padre suo (1 Cor 15,28).
Terza osservazione: la permanenza del sacerdozio di Cristo è direttamente
collegata con la gloria eterna dei santi. Tommaso d’Aquino fa notare due punti
interessanti al rispetto. Primo, la ragione fondamentale perché si dice che Cristo
abbia avuto la visione immediata di Dio sulla terra è perché alla fine egli l’avreb-
be comunicata ai salvati208. Secondo, l’Aquinate ritiene che la gloria dei salva-
203
DS 1000.
204
Si veda Gv 14,6; 1 Tm 2,5.
205
Si veda lo studio di J. Alfaro, Cristo glorioso, Revelador del Padre, «Gregorianum» 39 (1958)
222-70.
206
Credo di Nicea-Constantinopoli, DS 150.
207
L’idea è ispirata da Origene e si trova qualche traccia negli scritti di Marcello di Ancira e Evagrio
Pontico, come in alcuni autori protestanti che seguono Calvino. Per una buona visione d’insieme,
si veda J. F. Jansen, I Cor 15,24-28 and the Future of Jesus Christ, «Scottish Journal of Theology»
40 (1987) 543-70.
208
Sulla visione beatifica terrena di Cristo, si vedano i recenti studi di R. Wielockx, Incarnation
et vision béatifique. Aperçus théologiques, «Revue des sciences philosophiques et théologiques»
86 (2002) 601-39; T. J. White, The Voluntary Action of the Earthly Christ and the Necessity of the
Beatific Vision, «Thomist» 69 (2005) 497-534; M. Hauke, La visione beatifica di Cristo durante la
233
Capitolo VI
ti dipenda da Cristo. Commentando il testo della lettera agli Ebrei citato sopra
(“egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore”), l’Aquinate scrive: «i
santi in cielo non avranno bisogno di espiazione per i loro peccati, infatti, una
volta che siano stati espiati, devono essere consumati da Cristo stesso, da cui
dipende la loro gloria (a quo gloria eorum dependet)»209. È chiaro che l’umanità
di Cristo non è in quanto tale l’oggetto primario della visione beatifica. Se lo
fosse, non ci sarebbe più una diretta visione del Padre. Tuttavia, nell’ordine di ciò
che l’Aquinate chiama il medium sub quo della conoscenza (che non determina
il contenuto della conoscenza ma la rende possibile)210, o che altrove chiama la
vim cognoscendi211, “il potere di conoscere”, è ragionevole supporre che l’azione
strumentale dell’umanità di Cristo sia in qualche modo implicata non solo nella
ricezione ma anche nel mantenimento della visione perpetua di Dio212.
Vedere e glorificare il Padre e il Figlio nello Spirito Santo. Sopra abbiamo consi-
derato il testo della prima lettera di Giovanni che parla della visione beatifica.
«Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora
rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a
lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2). Da un punto di vista esegetico,
non è completamente chiaro dal testo quale si intenda essere l’oggetto della visio-
ne, se Dio o Cristo. Dato che Dio è il soggetto della frase, Dio, semplicemente,
dovrebbe essere l’oggetto della visione. Questa è l’interpretazione più comune e
tradizionale213, che il Concilio Vaticano II e gli ultimi documenti liturgici hanno
adottato214. Tuttavia, l’uso del termine “manifestato” (phanerōthe: “quando egli
234
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
sarà manifestato”), sembrerebbe indicare che il soggetto della frase sia Cristo. In
effetti, alla Parousia chi apparirà e sarà manifestato è il Cristo215, non il Padre.
Invece di parlare della visione di Dio, perciò, si dovrebbe capire che il testo si
riferisca alla nostra visione di Cristo.
Alternativamente, si potrebbe dire che la visione di Dio dovrebbe di fatto
escludere Cristo, perché, come abbiamo letto in 1 Cor 15,28, alla fine dei tempi
Cristo consegnerà il Regno al Padre, e Dio sarà “tutto in tutti”. Così sembrereb-
be che si possano applicare due possibili letture: la visione escatologica è diretta
o a Cristo o al Padre.
Forse non c’è alcun reale bisogno di mettere in contrasto le due letture.
Dopo tutto, vedere Cristo «come Egli è» (auton kathōs estin: 1 Gv 3,2) significa
percepire la sua divinità, che è sempre consustanziale ed inseparabile da quel-
la del Padre. Il testo, in altre parole, può semplicemente indicare che vedere
Dio significa vedere il Padre e il Figlio nella loro distinzione e reciproco amore.
Durante l’Ultima Cena, Filippo chiede a Gesù, «“Signore, mostraci il Padre, e
ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai cono-
sciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre… Non credi che io sono nel
Padre e il Padre è in me?”» (Gv 14,8-10). Più tardi, durante la preghiera sacerdo-
tale, Gesù dice: «E questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e
colui che hai mandato, Gesù Cristo… E ora, Padre, glorificami davanti a te con
quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse… Padre, voglio
che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contem-
plino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della
creazione del mondo» (Gv 17,3.5.24). Nel vedere Cristo così come egli è, come
l’unigenito Verbo-Figlio del Padre, i beati vedranno ipso facto il Padre216. Inol-
tre, per quanto riguarda il Figlio che consegna il Regno al Padre (1 Cor 15,28),
Ilario di Poitiers commenta: «egli consegnerà il Regno al Padre, non nel senso
215
1 Gv 2,28 e 1 Gv 3,5, immediatamente prima e dopo il testo che abbiamo considerato, entrambi
applicano a Cristo il termine “manifestato”. Sul termine phanerōthe, si veda BDAG, 1048, s.v.
φανερόω.
216
Si veda A. Fernández, La escatología en el siglo II, Aldecoa, Burgos 1979, 271ss.; R. Winling,
Une façon de dire le salut: la formule “être avec Dieu – être avec Jésus Christ” dans les écrits de l’ère
dite des Pères Apostoliques, «Revue des sciences religieuses» 54 (1980) 97-108. Secondo Ireneo,
«Dio sarà visto nel regno dei cieli; il Figlio ci porterà al Padre» Adv. Haer IV, 20,5. Origene dice:
«Allora, si vedrà il Padre e le cose del Padre da sé, come fa il Figlio, non più solamente riconoscendo
nell’immagine la realtà di colui di cui è l’immagine. E penso che questo sarà la fine, quando il Figlio
consegno il regno di Dio al Padre suo, e quando Dio diventerà tutto in tutti» Comm. in Io., 20,7,47s.
235
Capitolo VI
che rassegnerà il suo potere nella consegna, ma che noi, diventati conformi alla
gloria del suo corpo, formeremo il Regno di Dio»217.
Seguendo la spinta di base del Nuovo Testamento è chiaro che Cristo è
colui che rivela il Padre (Gv 1,18 ecc.). E dato che la nostra unione con Cristo è
il frutto della grazia, della donazione di sé di Dio, è chiaro anche che la nostra
conoscenza del Figlio, e del Padre nel Figlio, ha luogo nello Spirito Santo, «che
interiorizza nei cristiani la conoscenza del mistero di Cristo»218. Come abbiamo
visto sopra, lo Spirito non è solo Colui che comunica la grazia di Dio, ma anche
colui che perennemente ricorda ai credenti il carattere donato di tale grazia219.
Lo Spirito Santo è «Colui che esprime ipostaticamente entro la Trinità la traboc-
cante e incondizionata donazione reciproca del Padre e del Figlio che costituisce
la vita della Trinità». Lo Spirito rende «presente nel credente la pienezza della
relazione tra il Padre e il Figlio, che è percepita come una presenza ineffabile di
vita divina nella perpetua modalità di donazione»220.
Pannenberg parla dell’opera dello Spirito come del raggiungimento nelle
creature della glorificazione e lode di Dio. «Nell’idea di glorificazione il riferi-
mento a Dio Padre consente una saldatura tra la vita nuova della resurrezione
e il momento del giudizio implicito nella trasformazione di questa vita terrena:
a lode di Dio. Glorificazione di Dio in questo senso ampio è appunto l’opera
propria ed ultima dello Spirito, il quale è anche il creatore della vita, la fonte di
ogni conoscenza, ma anche della fede, speranza e carità. Ed allora egli è anche lo
Spirito della libertà e della pace, della vita pienamente realizzata, quando, come
già prefigurato nella comunità ecclesiale, le creature vivranno riconoscendosi le
une le altre. In tutto questo l’attività dello Spirito è già orientata verso la glori-
ficazione di Dio nel creato, per affermarsi poi in modo travolgente nell’attività
escatologica, quella che ricapitolerà e trasformerà tutte le cose»221.
Parlando dello Spirito Santo, Louis Bouyer († 2004) ugualmente scrive
che «quanto più i contemplativi, gli amici di Dio, hanno potuto personalmente
sperimentare “quant’è buono il Signore”, tanto più hanno affermato senz’ombra
di dubbio che colui che essi hanno conosciuto resterà sconosciuto fino al gior-
no definitivo, fino al giorno della Parousia, nel quale finalmente conosceremo
217
Ilario di Poitiers, De Trin. 11,39. Sulla dottrina di Ilario, si veda M.-J. Rondeau, Remarques sur
l’anthropologie de saint Hilaire, «Studia patristica» 6 (1962) 197-210.
218
M.-J. Le Guillou, Le développement de la doctrine sur l’Esprit Saint, 734.
219
Si vedano le pp. 56s.
220
CAA 291.
221
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 651s. Egli spiega che nel Nuovo Testamento, lo
Spirito e la gloria di Dio sono la stessa cosa: si veda ibid., 652.
236
Il cielo: la vita eterna nella gloria di Cristo
come siamo stati conosciuti fin dall’eternità. Ma è anche vero, come doveva dire
san Gregorio di Nissa, che mai noi saremo capaci di assorbire, di interiorizza-
re completamente questa conoscenza: è essa, al contrario, che ci assorbirà, che
attraverso superamenti senza fine ci immergerà in un abisso di luce, del quale
solo allora e sempre di più conosceremo fino a che punto sia insondabile»222.
222
L. Bouyer, Il Consolatore. Spirito Santo e vita della grazia, Paoline, Roma 1983, 464s.
237
Capitolo VII
1
G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, A. Mondadori, Milano 1965, 158.
2
Sulle questioni terminologiche, si veda J. J. Alviar, Escatología, 245s.
3
Il Simbolo Quicumque professa che «coloro che fanno il bene andranno alla vita eterna; coloro
che fanno il male, al fuoco eterno» DS 76. Il Papa Vigilio al Sinodo di Costantinopoli (543) ha
239
Capitolo VII
cienti le seguenti tratte dal Concilio Vaticano II e dal Catechismo della Chiesa
Cattolica. La Lumen gentium parla della vigilanza che i cristiani dovrebbero
avere, «affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui
[il Signore] di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati, né ci
si comandi, come a servi cattivi e pigri (Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (Mt
25,41), nelle tenebre esterne dove “ci sarà pianto e stridore di denti” (Mt 22,23
e 25,30)»4. E nel Catechismo leggiamo: «La Chiesa nel suo insegnamento affer-
ma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono
in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli
inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, “il fuoco eterno”»5.
In questo capitolo sulla punizione eterna considereremo le seguenti cinque
questioni: lo sviluppo della dottrina della condanna eterna nella Scrittura e nei
Padri della Chiesa; la natura dell’inferno da un punto di vista teologico; la sua
relazione con la giustizia e la misericordia divina; quanto sia reale la possibilità
di essere condannati; e la questione della speranza nella salvezza universale.
240
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
Potrebbe invece sorprendere, però, che tra gli Ebrei l’idea della castigo post-
mortem per i peccatori non fosse comune, o meglio, che si sia consolidata grada-
tamente come uno sviluppo dottrinale posteriore. Altrove abbiamo brevemente
considerato la questione7. Da una parte, gli Israeliti temevano che una dottrina
della punizione dopo la morte avrebbe potuto facilitare lo sviluppo del culto per
i morti, e desideravano evitarlo a causa del rischio di idolatria8. D’altra parte, i
profeti per la maggior parte erano convinti che Dio avrebbe portato la giustizia
qui sulla terra, come aveva fatto in altre occasioni9. In ogni caso la dottrina della
punizione perpetua nell’altro mondo non si consolidò se non più tardi.
7
Si vedano le pp. 112s.
8
Si veda la p. 110, nota 30.
9
Si veda ibid.
10
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 424ss.; M. Tábet, La misericordia/giustizia divina e lo
sheol veterotestamentario, in S. M. Lanzetta (a cura di), Inferno e dintorni: è possibile un’eterna
dannazione? La verità escatologica dell’inferno e le sue implicazioni antropologico-teologiche,
Cantagalli, Siena 2010, 11-24.
11
Si vedano le pp. 113s.
241
Capitolo VII
12
Si veda CAA 100. Si veda BDAG, 190s., s.v. γέεννα.
242
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui… separerà gli uni
dagli altri come il pastore separa le pecore dalla capre» (Mt 25,31s.).
Terzo, San Paolo parla frequentemente dell’esclusione dei peccatori dalla
“vita eterna” o dal regno. «Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di
Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodo-
miti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno
il regno di Dio» (1 Cor 6,9s.). Parlando di certi tipi di peccati, sorge la medesima
idea (Gal 5,19ss.; Ef 5,5). Si tratta dell’equivalente paolino del modo in cui Gesù
spiegava la condanna come un definitivo allontanamento da Dio: «Via, lontano da
me maledetti…» (Mt 25,41); «Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai cono-
sciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”» (Mt 7,23). Alle vergini stol-
te, lo Sposo proclama: «In verità io vi dico, non vi conosco» (Mt 25,12). L’inferno
è presentato quindi nel Nuovo Testamento non semplicemente come una neutra
“mancanza” o assenza della vita eterna, ma piuttosto come una vera privazione di
quello cui gli uomini sono stati destinati, una condanna da parte di Dio.
Quarto, il Nuovo Testamento entra in qualche dettaglio nello spiegare la
natura della punizione eterna, in particolare del «fuoco della gēnna». «Se il tuo
occhio ti è motivo di scandalo», scrive Marco, «gettalo via: è meglio per te entra-
re nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella
gēnna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Mc 9,47s.; cf. Mt
5,29), una effettiva ripetizione di Is 66,24, già citato. Come abbiamo visto sopra,
l’espressione “gēnna” sembra equivalente a “fornace di fuoco” (Mt 13,42.50).
In questa fornace, ci dice Matteo, «sarà pianto [“Ge-hinnòn” si può tradurre
come la “valle del gemito”] e stridore dei denti» (Mt 13,50). Le tre espressioni
più comuni nel Nuovo Testamento sono perciò: “fornace di fuoco”, il “verme
che non muore” e lo “stridore di denti”. Secondo i Salmi (37,12; 112,10) quest’ul-
tima espressione probabilmente fa riferimento allo sgomento, alla frustrazione
e all’invidia dei cattivi nel vedere la ricompensa dei virtuosi.
Quinto ed ultimo, il Nuovo Testamento parla chiaramente del carattere
perpetuo della punizione escatologica. L’inferno implica, come abbiamo visto,
un peccato imperdonabile, una esclusione dal regno, un fuoco che non si spegne.
La permanenza e l’impenitenza sono essenziali. Ovviamente il termine “eterno”
è più propriamente riferito al cielo che all’inferno, in quanto il primo implica la
partecipazione alla vita propria (eterna) di Dio, ed il secondo richiede piuttosto
la separazione da Dio. Comunque, Matteo parla di “fuoco eterno” (Mt 25,41) e
di “punizione eterna” (Mt 25,46). Ai Tessalonicesi Paolo parla di “distruzione
eterna” (2 Ts 1,9). Il libro dell’Apocalisse utilizza la formula liturgica “nei seco-
243
Capitolo VII
13
Si veda CAA 46.
14
Si veda Origene, C. Cels. 5,15; De princip. II, 10,6. La medesima posizione si può trovare in K.
Rahner: si veda la p. 36 sopra, note 66.
15
Sulla questione del linguaggio metaforico nella teologia, cf. R. Díaz Dorronsoro, Los nombres
de Dios, de Jesucristo y de la Iglesia: el recurso a la metáfora y a la analogía, Edicep, Valencia 2009.
16
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 649.
244
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
La condanna perpetua tra i Padri della Chiesa. Si possono trovare tre posizioni
principali tra i Padri della Chiesa sul tema della punizione eterna.
In primo luogo, i primi Padri perlopiù ripetono le affermazioni del Nuovo
Testamento rispetto alla punizione eterna, così come sono. Accade così per
Ignazio d’Antiochia, il Martirio di Policarpo, la Lettera ai Corinzi di Clemente,
ecc. Gli apologisti – Giustino, per esempio – tentano di fare presa su questa
dottrina e spiegarla in maggiore profondità. Ugualmente, Ireneo distingue tra la
punizione eterna e quella temporale19. La Lettera a Diogneto riflette sulla gravi-
17
Si veda CAA 79-81, 99s., 253.
18
CAA 297.
19
Si veda Ireneo, Adv. Haer. IV, 28,2.
245
Capitolo VII
20
Si veda Anon., Lettera a Diogneto, 10,7s.
21
Si veda A. Michel, Elus, (Nombre des), in DTC 4, col. 2350-78, qui, col. 2364s.
22
Si vedano le pp. 36s. Sull’argomento dell’inferno compreso come deterrente, si veda Origene,
Hom. in Jer. 12,4. Si veda anche B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 56s.; P. Nemeshegyi, La
paternité de Dieu chez Origène, Desclée, Paris; Tournai: 1960, 203-24; J. Rius-Camps, La hipótesis
origeniana sobre el fin último (peri telous). Intento de valoración, in Arché e telos: l’antropologia di
Origene e di Gregorio di Nissa: analisi storico-religiosa, a cura di U. Bianchi e H. Crouzel, Vita e
pensiero, Milano 1981, 58-117.
23
Si vedano le pp. 217s. Origene dubita di questa dottrina nei suoi primi scritti, per esempio
nella sua Lettera ad un amico ad Alessandria (231) documentata da Girolamo, Apol. adv. Ruf.
2,18s. Secondo C. C. Richardson, The Condemnation of Origen, in «Church History» 6 (1937)
50-64, e H. Crouzel, A Letter from Origen “to Friends in Alexandria”, in The Heritage of the Early
Church. Essays in Honor of the very reverend Georges Vasilievich Florovsky, a cura di D. Neiman e
M. Schatkin, Pontificium Istitutum Studiorum Orientalium, Roma 1973, 135-50, Origene rifiuta
decisamente la redenzione del diavolo. Più avanti, tuttavia, almeno secondo la traduzione fatta da
Ruffino del De principiis, la questione è lasciata aperta al lettore.
24
Origene, C. Cels. 5,15.
25
Origene, Comm. Serm. in Matth. 16.
26
Origene, Hom. I in Ezek., 3. Origene cita 1 Cor 3,11-15 per giustificare questa teoria della
purificazione medicinale: si veda H. Crouzel, L’exégèse origénienne de 1 Co 3,11-25 et la purification
eschatologique, in Epektasis. Mélanges patristiques offerts au cardinal Jean Daniélou, Beauchesne,
Paris 1972, 273-83. Tutti vengono inviati, dice Origene, a quella che egli chiama “scuola delle
246
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
anime” De princip. II, 11,6, che la Scrittura chiama paradiso o Gerusalemme celeste. La salvezza per
tutti, egli dice, è parte della promessa di San Paolo in 1 Cor 15,24-8, e costituirà la fine di ogni male.
27
Si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 90s.
28
Ambrogio, Ambrosiaster e Girolamo sono generalmente considerate “padri misericordiosi”,
e ritengono che gli uomini per la maggior parte verranno salvati tramite purificazione. Contro
Novaziano si disse che i fedeli verranno salvati, perché, sebbene peccatori, sono ancora parte
della Chiesa, a meno che l’abbiano abbandonata per apostasia o eresia. Si veda H. De Lavalette,
L’interprétation du Psaume 1,5 chez les Pères “miséricordieux”, «Recherches de science religieuse»
48 (1960) 544-63.
29
Su Gregorio di Nissa, si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 85-9; J. Daniélou,
L’apocatastase chez Saint Grégoire de Nysse, «Revue des sciences religieuses» 30 (1940) 328-47; B.
Salmona, Origene e Gregorio di Nissa sulla resurrezione dei corpi e l’apocatastasi, «Augustinianum»
18 (1978) 383-88. Gregorio rifiuta apertamente la dottrina di Origene della pre-esistenza delle
anime, poiché anche una vita di contemplazione celeste non assicura dal peccato. La dottrina
di Origene potrebbe implicare un ciclo senza fine di cadute e restaurazioni, spiega Gregorio, De
An. et Res. In alcuni testi Gregorio sembra condividere la speranza di Origene per la salvezza
universale, sebbene altri escludano i peccatori dal regno di Dio, per esempio: In Inscr. Psal. 2,16; De
Paup. Amand. Sulla questione, si veda C. N. Tsirpanlis, Greek Patristic Theology: Basic Doctrines
in Eastern Church Fathers, EO Press, New York 1979, 41-56. La ragione fornita da Gregorio per
questo è che il male non può durare per sempre, non essendo una sostanza per sé. Solo il bene
può assumere il carattere della permanenza: De An. et res.; De hom. opif. 21,1; De Tridui Spatio. Su
questo argomento, si veda J. Daniélou, Le comble du mal et l’eschatologie de S. Grégoire de Nysse,
in Festgabe Joseph Lortz, a cura di E. Iserloh e P. Manns, vol. 2, Grimm, Baden-Baden 1958, 27-45.
Male e morte, al contrario, sono creazioni degli uomini (De Virg. 12), laddove ogni vita si muove
verso il bene, specialmente per mezzo della resurrezione: si veda J. Daniélou, La résurrection des
corps chez Grégorie de Nysse, «Vigiliae Christianae» 2 (1953) 154-70. Tuttavia, come sottolinea
Maspero, la dottrina della riconciliazione universale in Gregorio è riferita alla natura umana come
totalità, non a ciascuno ed ogni singolo individuo: G. Maspero, La Trinità e l’uomo, 176-200.
30
Ugualmente, Ambrogio (In Ps. 1) ritiene che la punizione sia interamente medicinale e perciò
temporale: si veda B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 98s. Egli ripete l’idea di Gregorio
secondo cui il male non è una sostanza, e perciò non può durare per sempre. Daley riassume
questa posizione come segue: «Dio ci costringe al pentimento tramite la sofferenza, così che il
male che conosciamo come iniquità viene bruciato e consumato dal pentimento, e scompare. Così
quella regione dell’anima, che era posseduta dalla malvagità per accidente, verrà aperta per poter
ricevere virtù e grazia» The Hope of the Early Church, 98s. I tempi della purificazione sono collegati
con la prima e la seconda resurrezione, e «così Ambrogio trasforma la tradizione millenaria… in
una allegoria dello stato di “interim” tra morte e resurrezione generale» ibid., 99. Su Ambrogio,
si veda J. Derambure, Le millénarisme de S. Ambroise, «Revue des études anciennes» 17 (1910)
545-56. Egli insiste sulla misericordia di Dio per tutti (In Ps. 39,17; 118,20,29), ma la beatitudine è
riservata solo a coloro che sono «uniti alla santa Chiesa» De Exc. Frat. 116.
31
Girolamo tiene una posizione simile a quella di Origene nelle sue prime opere. Egli dice che
«tutte le creature razionali vedranno la gloria di Dio nel tempo che verrà», tutti verranno salvati,
anche gli “angeli rinnegati” In Eph. 1,2,7. Però in altri opere di questo periodo, egli dice che i
247
Capitolo VII
peccatori non avranno alcuna possibilità di pentimento e purificazione: In Eccl. 7,16. Nelle opere
successive, tuttavia, la punizione eterna è chiaramente riservata per il diavolo e i nemici di Cristo:
Comm. in Matth. 1,10,28; 2,22,11s.; 4,25,46.
32
E. Michaud, St. Jean Chrysostome et l’apokatastase, «Revue internationale de théologie» 18 (1910)
672-796, tenta di mostrare che l’escatologia di Giovanni fosse origenista. Tuttavia, S. Schiewietz,
Die Eschatologie des hl. Johannes Chrysostomus und ihr Verhältnis zu der Origenistischen, «Der
Katholik» (Strasbourg) 4,12 (1913-1914), 445-55; 4,13 (1914) 45-63, 200-216, 271-281, 370-379,
436-448, mostra in modo convincente il contrario.
33
Giovanni Crisostomo, In I Thess. 8,4.
34
Giovanni Crisostomo, In Rom. Hom. 31,4. «Egli dice di aver preparato la Geenna, per non dover
gettare nella Geenna» In Ps. 7,12.
35
Giovanni Crisostomo, In Rom. Hom. 3,1
36
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 23.
37
Agostino lo spiega come segue: «Cristo ha incluso sia la punizione che la vita in una e
la medesima frase, nella quale ha detto: “E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti
invece alla vita eterna” (Mt 25,46). Se entrambe sono “eterne”, ne consegue necessariamente che
entrambe debbano essere considerate durare a lungo ma finite, oppure che entrambe sono senza
fine e perpetue. Le espressioni “supplizio eterno” e “vita eterna” sono parallele e sarebbe assurdo
usarle in una e la medesima frase per indicare “la vita eterna sarà infinta, mentre la punizione
eterna avrà una fine”» De Civ. Dei XXI: 23. Si veda anche il suo Ad Orosium, 6,7.
38
DS 411.
39
A. Michel, nel suo studio Elus, afferma che secondo molti Padri della Chiesa, maior pars
248
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
non è atipica: pauciores sunt qui salvantur40: “quelli che sono salvati sono pochi
in numero”. Più avanti, torneremo su questa sconcertante affermazione41.
Il peccato e il suo esito. Tommaso d’Aquino spiega che così come ci sono due
componenti nel peccato grave, allo stesso modo ci sono due componenti o
aspetti che possono essere attribuiti all’inferno: il dolore della perdita e il dolore
dei sensi. «Ci sono due elementi nel peccato» scrive. «Uno è l’allontanamento
dal Dio immutabile [solitamente chiamata l’aversio a Deo], e in ciò il peccato è
infinito. L’altro è il disordinato rivolgersi ai beni mutevoli [la conversio ad crea-
turas], e in ciò il peccato è finito. La pena della dannazione corrisponde nell’al-
lontanamento da Dio, la perdita di un bene infinito. Mentre il dolore dei sensi
hominum damnatur, la maggior parte dell’umanità sarà condannata: così Basilio, Giovanni
Crisostomo, Gregorio di Nazianzeno, Ilario, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Leone Magno;
durante il Medioevo e successivamente, Bernardo, Tommaso d’Aquino, Molina, Suárez, Alfonso
de Liguori, ecc.
40
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 23, a. 7 ad 3.
41
Si vedano le pp. 268s.
42
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 467 (trad. it., 437). Con le
parole di G. Minois, l’inferno «è lo specchio dei tentativi falliti di ciascuna civiltà di risolvere i suoi
problemi sociali; è un segno dell’ambiguità della condizione umana» Histoire des enfers, Fayard,
Paris 1991, 7.
249
Capitolo VII
Il dolore della perdita. «La pena principale dell’inferno», dice il Catechismo della
Chiesa Cattolica, «è l’eterna separazione da Dio»44. Abbiamo già visto differen-
ti espressioni di questo aspetto del peccato e dell’inferno, per esempio quando
Gesù disse ai peccatori: «Via, lontano da me maledetti» (Mt 25,41), e «non vi
ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità» (Mt 7,23). È
chiaro che l’inferno non è semplicemente la continuazione della situazione di
peccato; piuttosto è presentato come un atto di Dio che bandisce per sempre le
creature che Lo hanno rifiutato. L’inferno non è solamente una mancanza o una
assenza di Dio, ma «la privazione della visione di Dio», come afferma un docu-
mento della Chiesa del 197945. Detto diversamente, Dio rifiuta la sua comunione
con coloro che hanno ripudiato la sua amicizia: «In verità io vi dico: io non vi
conosco» (Mt 25,12). Sentire queste parole da Gesù, dice San Giovanni Crisosto-
mo, «vedere il suo volto mite scostarsi, vedere il suo sguardo sereno prendere le
distanze da noi, non permetterci di guardarlo più, sarà peggio che essere bruciati
da un migliaio di fulmini»46. San Basilio ha la stessa cosa da dire: quel che va
temuto maggiormente è l’essere eternamente rimproverati da Dio; l’uomo soffre
un’insopportabile tristezza interiore a causa dell’eterna vergogna e della perpe-
tua visione della sua colpa47. Tertulliano dice che il fuoco inestinguibile uccide
«senza annullare nessuna delle sostanze [l’anima e la carne]: provoca una “morte
senza fine”, ed è più formidabile di un omicidio solamente umano»48.
Sulla terra i peccatori possono non rendersi conto completamente delle
sconvolgenti implicazioni di ciò che significa essere separati dal proprio Creato-
43
«Poena proportionatur peccato. In peccato autem duo sunt. Quorum unum est aversio ab
incommutabili bono, quod est infinitum, unde ex hac parte peccatum est infinitum. Aliud quod
est in peccato, est inordinata conversio ad commutabile bonum. Et ex hac parte peccatum est
finitum, tum quia ipsum bonum commutabile est finitum; tum quia ipsa conversio est finita,
non enim possunt esse actus creaturae infiniti. Ex parte igitur aversionis, respondet peccato
poena damni, quae etiam est infinita, est enim amissio infiniti boni, scilicet Dei. Ex parte autem
inordinatae conversionis, respondet ei poena sensus, quae etiam est finita» Tommaso d’Aquino,
S. Th. I-II, q. 87, a. 4c.
44
CCC 1035.
45
Congregazione per la dottrina della fede, Recentiores episcoporum Synodi, n. 7.
46
Si veda Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth., 23,8.
47
Si veda Basilio, Hom. in Ps. 33.
48
Tertulliano, De res. 35,6.
250
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
re, fino al punto di essere sorpresi dal verdetto divino di condanna (Mt 25,44).
In questo mondo sia i santi che i peccatori beneficiano e sono confortati dai doni
di Dio: «il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni,
e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). «Cattivi e buoni» (Mt 22,10)
sono stati invitati alla festa di matrimonio. Il grano rimane accanto alla zizza-
nia fino al tempo del giudizio (Mt 13,30). Eppure il ricco sepolto nella gēnna,
pieno di angoscia, contrappone ai beni di cui ha goduto sulla terra l’intollerabile
tormento dell’inferno (Lc 16,19-31). La profondità del peccato è rivelata solo
nella vita futura, in cui l’uomo non sperimenta più l’apparente irrilevanza delle
sue azioni peccaminose, né il conforto tranquillizzante fornito dai doni creati
da Dio che egli non riconobbe come tali, con gratitudine, gioia ed adorazione.
Così come il cielo costituisce la massima espressione di adorazione divina, così
anche la condanna rappresenta il rifiuto supremo di Dio da parte della creatura.
Insieme alle indicazioni fornite dalla Rivelazione, l’esperienza personale
di coloro che hanno tentato di vivere come se Dio non esistesse possono essere
interessanti da documentare. Molti romanzieri, poeti e filosofi del XX secolo – e
di altri periodi – hanno fornito utili immagini di quel che può significare essere
separati da Dio per sempre. Si possono notare tre aspetti specifici: frustrazione,
disperazione e solitudine.
49
GS 12c.
50
F. Nietzsche, Fröhliche Wissenschaft, n. 125,15-19, in Nietzsche Werke, vol. 5/2, 159.
251
Capitolo VII
2. Disperazione. «Lasciate ogni speranza voi che entrate»; così dice l’iscrizione
che Dante Alighieri († 1321), nella sua Divina Commedia53, collocò sulla trave
della porta dell’inferno. La disperazione, così come è sperimentata sulla terra,
deriva dall’impossibilità di raggiungere obiettivi che ci si è posti: stabilire una
amicizia, trovare un lavoro, terminare un progetto, ecc. Ma qualcosa di speran-
za rimane sempre, perché si può perdere la speranza in certi obiettivi, ma se ne
possono individuare ed ottenere altri. La speranza, ci hanno detto gli autori
classici, è l’ultima cosa che si perde54. Nell’inferno non è più così, perché il vero
e solo oggetto di speranza, il fondamento di ogni speranza, è perduto irrime-
diabilmente, e l’intera dinamica della speranza semplicemente crolla. Nessuna
speranza, nessuna distrazione55, nessuna scappatoia, nessun amore, nessuna
vita, nessun piacere possono entrare nel dominio dell’eterna dannazione. In una
tale situazione, scrive Benedetto XVI, «non ci sarebbe più niente di rimediabile
e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile»56.
51
Tommaso d’Aquino, Suppl., q. 98, a. 5, c.
52
Si veda ibid., a. 8. Isidoro di Siviglia dice che «nell’inferno, il fuoco brucia i corpi ma la tristitia
brucia le menti» Sent. I, 28,1.
53
Si veda Dante Alighieri, Divina Commedia III, 9.
54
Si vedano le pp. 22ss.
55
Sul ruolo e l’importanza della distrazione nella vita umana si veda B. Pascal, Pensées (ed.
Brunschvig), nn. 210-5.
56
SS 45.
252
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
Il dolore dei sensi. Come abbiamo visto, la Scrittura parla di punizione eterna
in termini di tormenti fisici inflitti da Dio al corpo umano. Da una parte c’è la
questione su come un’anima spirituale possa soffrire tortura fisica, difficile da
soluzionare solo nel contesto di un’antropologia platonica. Dall’altra parte, ci
chiediamo se non sarebbe corretto fin dall’inizio considerare tali pene in modo
puramente metaforico, come una vivida espressione delle ripercussioni sogget-
tivi sullo spirito umano del dolore derivante dalla perdita di Dio? Questa posi-
zione è stata difesa per esempio da Origene59. Egli ha detto che «ogni peccatore
accende da sé la fiamma del proprio fuoco, e non è immerso in un fuoco che è
stato acceso da qualcun altro o che esistesse prima di lui»60. Questo dolore è una
febbre interiore, egli disse, derivante da una coscienza profondamente turbata61.
È totalmente prodotta dal peccatore stesso62.
Tuttavia, la maggior parte dei Padri della Chiesa non considera il fuoco
dell’inferno come una mera metafora63. Girolamo trova la posizione di Origene
particolarmente inquietante64. Gregorio di Nazianzeno († 390), commentando le
parole di Gesù, «sono venuto a gettare fuoco sulla terra… » (Lc 12,49), dice: «io
so anche di un fuoco che non pulisce, ma vendica… l’inappagabile fuoco che
è associato al verme che non muore, il fuoco eterno per i malvagi. Infatti essi
appartengono tutti al potere distruttivo – sebbene alcuni preferiscono, anche su
questo punto, assumere una visione più misericordiosa di questo fuoco, una più
degna di colui che castiga»65.
57
Questo è il messaggio centrale dell’opera di J.-P. Sartre, Huis-clos.
58
Si veda C. S. Lewis, The Great Divorce, Macmillan, New York 1946.
59
Inter alia, si veda H.-J. Horn, Ignis aeternus: une interprétation morale du feu éternel chez Origène,
«Revue des études grecques» 82 (1969) 76-88; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 274s.
60
Origen, De princip. II, 10,4.
61
Si veda ibid. 5s.
62
Si veda Origene, Hom. 3 in Ezek. 7; Hom. in Lev. 8,8.
63
Si veda A. Michel, Feu de l’enfer, in DTC 5, col. 2208-16; A. Piolanti, La communione dei santi e la
vita eterna, Vaticana, Città del Vaticano 1992, 435-7; C. Pozo, La teología del más allá, 448-53, 458.
64
Si veda Girolamo, Ep. 124 ad Avitum 7; In Eph. 3 (su Ef 5,6); Apol. adv. Ruf. 2,7.
65
Gregorio di Nazianzeno, Or. 40,36, sul santo Battesimo.
253
Capitolo VII
66
Sulla nozione di fuoco nella Scrittura, si veda H. Bietenhard, Fire, in NIDNTT 1, 652-8; BDAG,
898s., s.v. πῦρ.
67
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 492 (trad. it., 461).
68
Si veda DS 76, 409, 411, 801, 1002, 1351, 858, 1306; Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 12;
CCC 1034-6.
254
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
vista della Scrittura, tuttavia, diversi autori hanno notato che “il fuoco è tutto
nell’inferno”69, nel senso che il fuoco, ciò che è opposto al Regno di Dio (Mt
25,34.41), esprime la totalità della punizione infernale.
Che genere di fuoco? Nei secoli recenti i teologi hanno saggiamente abbandonato
l’idea popolare secondo la quale i condannati e coloro che vengono purificati
partecipano ad una punizione tramite il fuoco collocato in qualche luogo sotto la
superficie della terra70. Nondimeno, possiamo chiedere dove la distinzione tra il
dolore della perdita (la privazione di Dio) e il dolore dei sensi (la punizione di Dio
attraverso gli enti creati) ha trovato inizio e si sia sviluppata. Forse la seguente
spiegazione, suggerita in diversi modi da Gregorio Magno71, Tommaso d’Aqui-
no72 e più recentemente da Alois Winklhofer ed altri73, può essere interessante.
Abbiamo già visto come la separazione da Dio (il dolore della perdita) corri-
sponda a quell’aspetto del peccato chiamato l’aversio a Deo, che produce per così
dire una aversio Dei ab homine, in cui Dio allontana da se stesso il peccatore che
consapevolmente rifiuta il suo amore salvifico. Ma il peccato è generato in primo
luogo da una conversio ad creaturas, quando la persona permette a se stessa di
essere attirata in modo disordinato dall’attrattiva degli esseri creati, che fino ad
un certo punto giungono ad occupare il posto che spetta solo a Dio nella loro
vita74. Il dolore dei sensi, perciò, può essere considerato come una sorte di conver-
69
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 230. Si veda anche Mt 13,43.50; 18,9.
Su questa questione si veda F.-X. Remberger, Zum Problem des Höllenfeuers, in Aa.vv., Christus
vor uns. Studien zur christlichen Eschatologie, Gerhard Kaffke, Frankfurt a. M. 1966, 75-83, in
particolare 78-80.
70
Secondo l’Aquinate, l’inferno è collocato sotto la superficie della terra: S. Th. III, Suppl., q. 97,
a. 7. Più recentemente, si veda J.-M. Hervé, Manuale Theologiae Dogmaticae IV: De Novissimis,
Berché et Pagis, Paris 1929, 617.
71
Si veda Gregorio Magno, Dial. 4,29,32.
72
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 70, a. 3: il fuoco agisce sui condannati «alio modo,
secundum quod est instrumentum divinae iustitiae vindicantis: hoc enim divinae iustitiae ordo
exigit, ut anima quae peccando se rebus corporalibus subdidit, eis etiam in poenam subdatur».
73
A. Winklhofer, Das Kommen seines Reiches, 99. Si veda anche C. Journet, Le mal. Essai théologique,
Desclée, Paris 1961, 224; F.-X. Remberger, Zum Problem des Höllenfeuers, 80s.; J. Ratzinger, Hölle,
in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. 5 (1960), 449; G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 150-3.
74
Così Tommaso d’Aquino, in S. Th. I-II, q. 84, a. 1, commentando 1 Tm 6,10: «l’avidità del
denaro (cupiditas) è la radice di tutti i mali». L’Aquinate distingue tra i peccati che implicano
direttamente Dio e quelli riferiti alle creature. «In quolibet peccato mortali est quodammodo
aversio a bono incommutabili et conversio ad bonum commutabile, sed aliter et aliter. Nam
principaliter consistunt in aversione a bono incommutabili peccata quae opponuntur virtutibus
theologicis, ut odium Dei, desperatio et infidelitas, quia virtutes theologicae habent Deum pro
obiecto, ex consequenti autem important conversionem ad bonum commutabile, inquantum
anima deserens Deum consequenter necesse est quod ad alia convertatur. Peccata vero alia
principaliter consistunt in conversione ad commutabile bonum, ex consequenti vero in aversione
255
Capitolo VII
ab incommutabili bono, non enim qui fornicatur intendit a Deo recedere, sed carnali delectatione
frui, ex quo sequitur quod a Deo recedat» S. Th. II-II, q. 20, a 1 ad 1.
75
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 485s. (trad. it., 455).
76
J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 240.
77
G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 152.
78
G. Gozzelino, Nell’attesa, 414.
79
Oltre agli autori menzionati sopra (nota 73), altri testi di H. Rondet, K. Rahner, H. U. von Balthasar,
J. A. Robillard, J. Guitton, A. M. Sicari, si possono trovare in G. Gozzelino, Nell’attesa, 415s.
80
Si veda nota 74 sopra.
256
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
Tommaso d’Aquino nota che l’effetto immediato del fuoco sui corpi viventi è un
effetto di alligatio, di legame, di costrizione, limitazione, chiusura81.
Inferno come punizione per il peccato. Non è inusuale ritenere che l’inferno sia
semplicemente una continuazione dello stato peccaminoso in cui gli uomini si
trovano sulla terra. Autori tanto diversi come Scoto Eriugena († 877), Nietzsche
e George B. Shaw82 hanno tentato di spiegare che l’inferno non è un luogo di
punizione, ma piuttosto un luogo scelto dalle persone per ragioni di intima affi-
nità. Nietzsche suggerisce che l’uomo potrebbe essere felice e realizzarsi senza
nessun Dio. Su questa linea di pensiero si può affermare che gli uomini proget-
tano e costruiscono il proprio futuro. Altri teologi hanno suggerito una dottrina
simile. «L’inferno non è qualcosa che ci caschi addosso. Non è qualcosa che Dio
impone dopo aver preso in esame i nostri misfatti. Non c’è nulla di grande, di
estremo, di bruciante, di soffocante nell’inferno. Esso è semplicemente l’uomo
stesso, che si identifica interamente con ciò che egli è, con ciò che egli vuole
ottenere e realizzare con le proprie forze. È il modo di esistenza di un uomo,
che è contento di se stesso: per tutta una eternità. Che non ha più nulla e non
aspira più a nulla, se non a se stesso. L’inferno non è una minaccia, ma la proie-
zione su un piano di essere della nostra piccolezza. Non esiste nessuna tragedia
dell’inferno, poiché in fondo non può esistere un inferno come “luogo”. Esiste
soltanto il sentire del cuore. Tutto vive nel cielo, poiché Dio ha creato il mondo
in ordine al cielo. Ma questo cielo viene vissuto alla luce del sentire interiore.
Chi è divenuto povero, ne può sperimentare la bellezza. Chi è rimasto ricco, si
deve accontentare della propria ricchezza»83.
Questa posizione è giusta da molti punti di vista, come abbiamo visto
prima. Gli uomini creano responsabilmente il proprio destino. Dio non è da
incolpare per la loro condanna. Tuttavia, la spiegazione non tiene conto suffi-
cientemente della natura profonda del peccato. Il peccato non è un semplice
errore nel proprio progetto di vita. Il peccato soprattutto genera una frattura,
una separazione dalle altre persone, dal cosmo cui apparteniamo, dal nostro
essere. Implica un sostanziale spostamento nella nostra posizione spirituale
entro il mondo creato e increato. Il peccato genera offesa a Dio, frattura nella
81
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 90. La medesima nozione si trova in F. Suárez, De
Angelis 8,14,9.
82
Si veda in particolare Giovanni Eriugena, Periphyseon, 2,593b. Nietzsche parla nello stesso
modo in Uomo e Superuomo.
83
L. Boros, Noi siamo futuro, Queriniana, Brescia 1970, 235s.
257
Capitolo VII
società, alienazione nel cosmo, ed alla fin fine, la propria morte. Per queste
ragioni, si deve dire che l’inferno non è semplicemente la continuazione del sé,
alienato da Dio, ma veramente una punizione, nella quale l’intera realtà – e Dio,
in primo luogo – deve ricollocarsi rispetto al peccatore. In breve, dire che l’in-
ferno implichi semplicemente la continuazione dello stato peccaminoso, sugge-
rirebbe una antropologia individualistica e spiritualistica, almeno anti-corpo-
rale. Gli uomini non si costruiscono soli, come vorrebbero Fichte, Nietzsche,
Sartre ed altri. Sviluppano se stessi e il proprio futuro in un dialogo vivente
con tutto e con tutti quelli che li circondano, che lo vogliano o meno. Perciò
le loro azioni immorali introducono un oggettivo disordine entro il cosmo che
domanda il ri-stabilimento e la ri-sistemazione della totalità della realtà. L’in-
ferno è precisamente la cristallizzazione e l’espressione finale della convinzione
più profonda del peccatore non pentito: quella di desiderare di esistere ed agire
come se nient’altro esistesse ed agisse o, meglio, come se ogni altra cosa esistente
soggiacesse sotto il suo esclusivo, dispotico dominio.
G. Bernanos, Diario di un curato, 158. Questo riflette l’espressione dello scrittore russo Fydor
85
Dostoevskij († 1881) che ugualmente ha detto che l’inferno significa «non amare più» I Fratelli
Karamazov, VI, 3,1.
258
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli
e i turbamenti dell’amore è l’inferno»86.
Il teologo Lessius († 1623) insegna che i quattro misteri più difficili della
nostra fede sono la Trinità, l’Incarnazione, l’Eucaristia e la pena eterna dell’in-
ferno87. In effetti, la nozione della perpetuità della condanna genera serie diffi-
coltà, due in particolare. Prima, perché coloro che non sono riusciti a pentirsi
dei propri peccati in questa vita dovrebbero diventare incapaci di farlo nella vita
futura? In che modo la loro volontà diventerà incallita e stabilita per sempre?
Seconda, perché un atto finito, o una serie finita di atti finiti, dovrebbe genera-
re una situazione che durerà perpetuamente, una situazione che – almeno su
base cumulativa – diventerà infinita? In altre parole, come possiamo rispondere
all’impressione secondo la quale la punizione eterna per i peccati sembra spro-
porzionata ed ingiusta?
Come la volontà dei dannati sarà fissata per sempre? Ovviamente si potrebbe
risolvere il problema della perpetua ostinazione dei peccatori non pentiti con
l’aiuto di ciò che potremmo chiamare una “teologia del decreto”: Dio che in
qualche modo forza la volontà del peccatore all’immobilità. Sebbene questo sia
sempre possibile, non sembra tener conto del realismo della natura umana come
Dio l’ha prevista e il senso della libertà umana. Tommaso d’Aquino ha suggerito
due possibili alternative per spiegare perché l’inferno dura per sempre.
Una è che Dio semplicemente non salva coloro che sono morti in pecca-
to mortale88. Nessuno può obbligare Dio ad offrire la sua grazia ed amicizia
per sempre, e con la morte e il giudizio la magnanimità di Dio giunge il punto
finale, poiché egli non offre più la grazia che renderebbe possibile la conversio-
ne. Questa posizione ha l’inconveniente di non prendere sufficientemente sul
serio la misericordia divina, che non trae alcuna soddisfazione nella perdita dei
peccatori (Sap 1,13).
L’altra possibilità89 è che l’uomo dopo la morte sopravviva come “anima
separata”, come spirito che si è irrevocabilmente impegnato con Dio o contro di
86
C. S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, Milano 1980, 111.
87
Si veda L. Lessius, Tractatus de beatitudine, actibus humanis et legibus, in Opera 3/1, a cura di I.
Neubaur, Lanier, Paris 1852, 395.
88
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 93. Si veda anche M. Premm, Katholische Glaubenskunde,
vol. 4, Herder, Wien 19614, 656. Su questo argomento, si veda G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano,
154s. e M. Bordoni, Dimensioni antropologiche della morte, Herder, Roma 1969, 263-9.
89
Si veda Tommaso d’Aquino, IV C. Gent., 95; De Ver. q. 24, a. 11; C. Journet, Le mal, 210-24; H.
Rondet, Les peines de l’enfer, «Nouvelle Revue Théologique» 67 (1940) 397-427; F.-X. Remberger,
Zum Problem des Höllenfeuers.
259
Capitolo VII
Lui, come fanno gli angeli e i demoni. Per ragioni puramente antropologiche,
si suggerisce che i peccatori impenitenti non sono più in grado di modificare
la propria volontà, che rimane per sempre fissata contro Dio. Questa posizione
è stata assunta da Giovanni Crisostomo90. Ugualmente Bonaventura suggeri-
sce che i condannati sono amareggiati per la loro punizione ma non rimpian-
gono il proprio peccato: «la volontà di peccare sopravvive in loro, anche se a
causa del dolore introdotto dalla loro punizione sono impediti dal peccare
effettivamente»91. Giacomo Biffi suggerisce che «la ragione vera sia da ricercare
nello stato ultraterreno e ultratemporale che ci aspetta dopo la morte e che,
essendo privo di successione, non ammette cambiamenti»92.
In teoria, la seconda soluzione rispetta di più la giustizia divina, per il
fatto che si considera che gli uomini determinino il proprio futuro. Però è una
soluzione problematica per diverse ragioni. Prima, perché gli uomini non sono
angeli e non agiscono come loro; infatti secondo la Scrittura quel che distin-
gue gli angeli dagli uomini è l’incapacità dei primi di pentirsi, e la capacità dei
secondi di farlo (Lc 15,10)93. Seconda, diversamente da coloro che contemplano
l’essenza divina e la cui volontà è fissa in Dio94, non è chiaro perché i condanna-
ti dovrebbero ratificare dopo la morte, per sempre, le decisioni che hanno preso
quando erano in vita, e non piuttosto pentirsene (Lc 16,19-31). Terza ed ulti-
ma, anche se si potesse parlare di una certa somiglianza esistente tra gli angeli
e le anime separate, questo non sarebbe possibile dopo la resurrezione finale:
non sarebbe possibile per le persone, pienamente ricostituite in anima e corpo,
cambiare di nuovo la propria volontà?
Agostino ammette che la nozione di punizione perpetua sembra contrad-
dittoria ai suoi avversari pagani, in quanto l’antropologia classica generalmente
associa la sofferenza alla corruzione, e assume che tale sofferenza deve giungere
alla fine ad un certo punto95. Nondimeno, egli spiega che la radice delle soffe-
renze non è la situazione intra-animica delle persone condannate, ma la loro
90
Crisostomo dice che non ci sarà pentimento dopo la morte. Una volta che l’anima sarà separata
dal corpo non saremo più «padroni della nostra conversione», perché ci manca la libertà di
cambiare il nostro orientamento fondamentale: De Laz. Conc. 2,3. I condannati sperimenteranno
una sorta di pentimento, egli aggiunge, ma sarà del tutto vano: In II Cor. 9,4.
91
Cit. da G. Biffi, Linee, 59.
92
Ibid.
93
Si vedano le pp. 262s.
94
Si vedano le pp. 217s.
95
Si veda Agostino, De Civ. Dei XXII, 2. Si veda A. Lehaut, L’éternité des peines de l’enfer dans S.
Augustin, Beauchesne, Paris 1912; B. E. Daley, The Hope of the Early Church, 148s.
260
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
tormentata relazione con Dio; essi saranno «torturati dal pentimento infrut-
tuoso», egli dice96. Alle diverse posizioni che sembrano parlare di un perdono
divino universale, Agostino offre la medesima risposta: «la Scrittura, l’infal-
libile Scrittura»: la Bibbia ci dice che tutti i peccatori saranno consegnati alla
punizione senza fine97.
Tutto sommato, non si può trovare alcuna soluzione semplice, teologica od
antropologica, per spiegare come la condanna può diventare perpetua.
96
Agostino, De Civ. Dei XXI, 9.
97
Si veda ibid., 23.
98
Si veda lo studio del 1988 di B. J. Korosak in nota 100 sotto. Si veda per esempio Mt 10,28;
Lc 20,36.
99
La posizione è sorta non infrequentemente lungo la storia, per esempio tra i sociniani: si veda G.
Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 67. Sulla dottrina di Socino, si veda G. Pioli, Fausto Socino: vita,
opere, fortuna. Contributo alla storia del liberalismo religioso moderno, U. Guanda, Modena 1952;
M. Martini, Fausto Socino et la pensée socinienne: un maitre de la pensée religieuse (1539-1604),
Klincksieck, Paris 1967. La medesima posizione è stata assunta dai protestanti liberali con lo scopo
di superare l’apparente irragionevolezza della condanna eterna. Per un certo grado ciò portò alla
visione ottimistica di Barth sulla predestinazione che implica la salvezza di tutti. In tempi recenti,
Berdiaev ha parlato dell’impossibiltà dell’esistenza eterna contemporanea del bene e del male.
100
La posizione è difesa particolarmente da B. J. Korosak, Credo nella vita eterna. Compendio
di escatologia, Pontificia Università Urbaniana, Roma 1983, 74; L’eternità dell’inferno, «Euntes
Docete» 41 (1988) 483-94; Pensare l’oltre: l’inferno esiste? E quale inferno?, in Aa.vv., Sulle cose
prime e ultime, Augustinus, Palermo 1991, 71-84, che riprende argomenti della teologia di
von Balthasar, Bouillard, Brunner e Malevez. La posizione è assunta anche da T. Sartory e G.
Sartory, In der Hölle brennt kein Feuer, Deutsches Taschenbuch, München 1968, 61-248; A.
Schmied, Ewige Strafe oder endgültiges Zunichtewerden?, «Theologie der Gegenwart» 18 (1975)
178-83; M. F. Lacan, Le mystère de l’enfer, «Communio (éd. fr.)» (1979), 76-81; J.-M. Perrin, À
travers la mort l’Esprit nous recrée pour la vie sans fin, «Nouvelle Revue Théologique» 103 (1981)
58-75; J. Delumeau, Ce que je crois, Grasset, Paris 1985, 80-82; E. Schillebeeckx, Umanità: la
storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992, 180-85; A. Rizzi, L’inferno: dogma da cancellare o da
ripensare?, «Servitium» 24 (1990) 42-49; J. R. Sachs, Current Eschatology: Universal Salvation
and the Problem of Hell, «Theological Studies» 52 (1991) 227-54; A. Tornos, Escatología, vol. 2,
Publicaciones de la Universidad Pontificia Comillas, Madrid 1991, 226-31; J. L. Kvanvig, The
Problem of Hell, University Press, New York; Oxford 1993; M.-É. Boismard, Faut-il encore parler
de “résurrection”?: les données scripturaires, Cerf, Paris 1995, 164ss. E. Jüngel, Tod, 117-20, parla
della possibilità dell’auto-annullamento dell’uomo. La posizione è rifiutata da autori protestanti
come F. Heidler, Die biblische Lehre von der Unsterblichkeit der Seele, Sterben, Tod, ewiges Leben
im Aspekt lutherischer Anthropologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1983, 122-39.
261
Capitolo VII
mente diminuiti nelle loro capacità naturali; egli parla dei condannati come di
«quelle pietre roventi che furono degli uomini»101.
È vero che i condannati debbano essere considerati come uomini mancati
e gravemente diminuiti, e perciò, “meno” uomini di coloro che sono salvati.
Tuttavia, questa spiegazione non prende in considerazione il fatto che Dio ha
costituito tutti gli uomini a sua immagine e somiglianza, come esseri immor-
tali102, e che se annientasse i peccatori induriti, andrebbe contro il suo disegno
originario103. Inoltre, la proposta non si accorda bene con l’ovvio significato dei
testi della Scrittura104. «Tu infatti ami tutte le cose che esistono», leggiamo nel
libro della Sapienza, «e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussi-
stere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non
fu chiamato all’esistenza?» (Sap 11,24s.).
Inoltre, la possibilità di annullamento implicherebbe una ingiustificata
confusione tra l’ordine della grazia/salvezza e quello della umana natura/crea-
zione105. È vero che la “morte” e nullità derivano in qualche modo dal peccato106.
Ma gli uomini non godono del completo controllo sulla propria vita, e sono
incapaci di un totale suicidio metafisico. Anche nell’inferno il dominio di Dio
e la sua Sovranità saranno rispettate. Sebbene gravemente diminuiti, quindi, i
condannati rimarranno uomini per sempre.
101
«L’errore comune a tutti è di attribuire a codeste creature abbandonate ancora qualcosa di noi,
della nostra perpetua mobilità, mentre esse sono fuori del tempo, fuori del movimento, fissate per
sempre… La disgrazia, l’inconcepibile disgrazia di quelle pietre roventi che furono degli uomini, è
che non hanno più nulla da condividere» G. Bernanos, Diario di un curato, 158.
102
Si vedano le pp. 39ss. sopra.
103
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 244s.
104
Si veda G. Colzani, La vita eterna, 160s.
105
Sulla sopravvivenza dell’anima umana tra la morte e la resurrezione, si vedano le pp. 391s sotto.
106
Si vedano le pp. 317s sotto.
262
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
107
Gregorio di Nissa, De anima et Res.
108
S. Kierkegaard, Diario II, A, 752.
109
Questa è una conseguenza della dottrina della volontà di salvezza universale di Dio: 1 Tm 2,4;
DS 624; CCC 605.
110
Si veda Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia (1980), passim.
111
La misericordia di Dio si estende anche ai più grandi peccatori, dice Agostino, per «il fatto
che egli li farà soffrire punizioni meno orribili di quelle che meritano», De Civ. Dei XXII, 24.
263
Capitolo VII
proteste fiduciose di Santa Caterina da Siena († 1380) per il fatto che lei non sareb-
be stata contenta finché uno solo di coloro che sono uniti a lei in natura o grazia
sia stato condannato. Lei implora Dio che, se possibile, l’inferno venga semplice-
mente distrutto112. I suoi sentimenti sono stati e sono condivisi da moltissimi.
Si dovrebbero ricordare tuttavia che la misericordia di Dio non rende vana
la consistenza e il realismo dell’azione umana. Un Dio misericordioso non è un
Dio indifferente. E in Cristo Dio ha impegnato totalmente se stesso al fine di
redimere il genere umano, fino ad accettare la morte del suo unico Figlio sulla
Croce113. Se le azioni peccaminose degli uomini fossero di poca rilevanza nella
loro relazione con Dio, qualcosa del genere si potrebbe dire delle loro azioni
buone che meritano la salvezza. La grandezza dell’amore di Dio è manifestata
dalla serietà con cui egli considera le nostre azioni, buone e cattive. La miseri-
cordia ha poco a che fare con la tollerante trascuratezza, con il disinteresse per la
situazione reale degli uomini. San Tommaso d’Aquino dice che «la misericordia
non rende la giustizia superflua, ma, per così dire, è la pienezza della giustizia
(quaedam iustitiae plenitudo)»114.
Il contrasto che noi sentiamo tra la giustizia e la misericordia deriva dall’im-
perfezione con cui gli uomini vivono queste virtù. Ma in Dio la giustizia si iden-
tifica con misericordiosa, perché Dio conosce la fragilità di colui che ha fatto a
sua immagine e somiglianza, e lo tratta di conseguenza. Di più, la misericordia
è completamente giusta, perché Dio amorevolmente dà a ciascuno più di quello
di cui ha realmente bisogno e che merita. Inoltre, si dovrebbe ricordare che la
situazione di condanna è diversa per ciascuno. Le anime «discendono all’infer-
no», dice il II Concilio di Lione (1274), «anche se punite con pene differenti»115.
Tutti i condannati numericamente condividono la medesima aversio a Deo, ma
264
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
116
Si veda Mt 16,27; Sap 6,7-9; 2 Cor 5,10; Ap 18,7.
117
Alcuni autori considerano che le sofferenze dei condannati possono essere alleviate o modificate
in modo temporale: si veda A. Piolanti, La comunione dei santi, 448s. Eppure San Tommaso dice
che «è più certo e più semplice dire che i suffragi non sono di alcuna utilità per i dannati e che la
Chiesa non dovrebbe pregare per loro» S. Th. III, Suppl., q. 71, a. 5 c.
118
Tommaso d’Aquino, III C. Gent., 144.
265
Capitolo VII
119
Giovanni Paolo II e V. Messori, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, 202.
120
Si vedano le interessanti riflessioni di J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 236, note
38s., sul legame tra colpa, responsabilità, libertà e la tendenza a negare la prima e poi le altre due.
121
Si veda per esempio B. F. Skinner, nelle sue opere Beyond Freedom and Dignity, Knopf, New
York 1972, passim; Walden Two, McMillan, New York 1976, 286.
266
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
no come una reale possibilità che parla di una volontà libera con la capacità di
chiudere se stesso all’amicizia e all’amore di Dio. In effetti, la possibilità di puni-
zione eterna è ciò che rivela, sebbene indirettamente, la profondità e il potere
della libertà umana. Nicholas Berdiaev († 1948) afferma che sono inseparabili
nell’uomo personalità, libertà e possibilità di condanna. Perciò, «se affermia-
mo sistematicamente personalità e libertà dobbiamo essere pronti ad accettare
la possibilità dell’inferno. È facile passare sopra l’idea dell’inferno, ma nel far
questo si tralasciano sia la personalità che la libertà»122.
Una tale possibilità potrebbe anzitutto suggerire una visione pessimistica
della società, del mondo e della libertà umana. Non dovrebbe essere così. Se gli
uomini dovessero essere considerati non veramente liberi e responsabili per i
crimini che commettono, la sola conclusione cui giungeremmo, dal momento
che gli uomini commettono crimini tremendamente gravi che causano soffe-
renze indicibili lungo la storia, sarebbe che il male è una parte intrinseca della
struttura della realtà. Il fatto che il male abbia origine nell’ordine della volontà,
tuttavia, significa nell’insieme che gli uomini sono, almeno in via di principio,
in grado di cambiare, di convertirsi e che il mondo può essere redento. Questo è
il Vangelo, la “buona novella” della fede cristiana.
Per concludere questa sezione, possiamo far riferimento alla concezione
“misericordiosa” dell’inferno di san Girolamo. «Dovremmo lasciar ciò alla
conoscenza di Dio solo, che ha sulla sua bilancia non solo la misericordia ma
la punizione, e che conosce coloro che deve giudicare, ed in che modo, e per
quanto. Permettiamoci solo di dire, come si addice alla fragilità umana: “Signo-
re, non punirmi nella tua ira, non castigarmi nel tuo furore” (Sal 6,1). E come
crediamo che il diavolo e tutti gli apostati e gli empi peccatori, che dicono nei
loro cuori “non esiste alcun Dio” (Sal 53,2), subiranno la punizione eterna, così
consideriamo che coloro che sono peccatori – anche empi – e tuttavia cristiani,
avranno le loro opere provate e purgate nel fuoco, ma riceveranno dal giudice
una moderata sentenza, mista alla misericordia»123.
122
N. Berdiaev, Esprit et liberté. Essai de philosophie chrétienne, Je Sers, Paris 1933, 342. Questo
autore tuttavia finisce col negare l’esistenza dell’inferno: si veda C. Journet, Le mal, 205s.
123
Girolamo, In Is. 18,66,24.
267
Capitolo VII
124
Si veda A. Royo-Marín, La teología de la salvación, 374-7.
125
Si veda G. Biffi, Linee, 61. Durante il Concilio Vaticano II, alcuni Padri hanno richiesto che
si facesse esplicita menzione della condanna reale di alcuni. La Commissione Dottrinale replicò
che non c’era bisogno di farlo, perché la affermazioni di Gesù in materia sono espresse in tempo
futuro, non ipotetico o condizionale: si veda Acta Synodalia S. Conc. Œc. Vat. II, III, 8, Vaticana,
Città del Vaticano 1976, 144ss.
126
Si veda nota 39 sopra, e l’articolo di A. Michel, Elus (Nombre des).
127
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 23, a. 7 ad 3.
268
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
In primo luogo, che gli autori in questione, Padri della Chiesa e santi, sono
consapevoli di non avere a che fare con un articolo di fede nel senso stretto della
parola, ma piuttosto con una sorte di convinzione spirituale. Secondo, nei primi
tre secoli, i Padri della Chiesa per la maggior parte hanno assunto una posizione
meno severa, e la reazione posteriore che suggerisce la condanna della maggio-
ranza è stata in certo modo condizionata dall’insegnamento di Origene sulla
riconciliazione universale. Terzo, esiste una certa confusione negli scritti dei
Padri della Chiesa tra condanna eterna e purgatorio128. I due saranno pienamente
distinti solo durante il Medioevo. Che la maggior parte degli uomini (compresi i
credenti cristiani) debbano essere sottomessi ad una purificazione temporanea,
nell’aldilà, ovviamente, è accettabile, sebbene a giudicare dalle cose non è quel di
cui parlavano i Padri della Chiesa. Quarto, le sfide pastorali generate dall’ampia
diffusione e dal conseguente raffreddamento della fede e della vita cristiana a
partire dal quarto secolo, dall’influenza della apokatastasis di Origene, e dall’ot-
timismo superficiale che caratterizzava il pelagianesimo, spinse molti pastori ad
insistere sulla serietà della minaccia della perdizione eterna.
Va tenuto a mente che la posizione massimalista vide una ripresa di vitalità
tra i protestanti, a partire dalla dottrina calvinista della predestinazione, e tra
i cattolici, nel giansenismo, secondo cui molti o la maggior parte degli umani
saranno condannati. Malgrado le coincidenze materiali, questa dottrina ha subi-
to un cambiamento di direzione rispetto ai reali insegnamenti dei Padri, poiché
la certezza della condanna della maggioranza è diventata nei secoli recenti una
posizione dogmatica irrigidita, piuttosto che una espressione della convinzione
spirituale e della sfida pastorale. Si è accettato che Dio ha creato (alcuni) uomini
e li ha predestinati alla condanna, ed altri alla salvezza. Il potere del pecca-
to e della corruzione della volontà umana andranno solo a confermare questa
concezione. È interessante notare tuttavia che sebbene molti santi e scrittori
spirituali dei secoli recenti (Santa Teresa d’Avila, per esempio)129 hanno ritenuto
che la maggioranza dell’umanità andrà perduta, altri sono più ottimisti (forse
San Francesco di Sales)130. La testimonianza dei santi è di particolare valore in
considerazione della loro familiarità con l’operare della grazia di Dio nell’anima
e la loro profonda comprensione del mistero del peccato e della malizia.
128
Si vedano le pp. 363ss. sotto.
129
Si veda Teresa d’Avila, Moradas del Castillo Interior V, 2,14.
130
A. Michel, Elus (Nombre des), col. 2370.
269
Capitolo VII
Il messaggio del Vangelo. Gesù «passava insegnando per città e villaggi, mentre
era in cammino verso Gerusalemme», ci racconta San Luca (13,22). «Un tale
gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Disse loro: “Sforzatevi di
entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma
non ci riusciranno”» (Lc 13,23s.). Gesù prosegue nello spiegare che è impossibile
essere salvati con le proprie forze, e i condannati sentiranno queste parole: «Voi,
non so di dove siete… Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da
mezzogiorno, e siederanno alla mensa del regno di Dio» (Lc 13,27.29).
Testi simili abbondano, in particolare nei vangeli sinottici. «Entrate per la
porta stretta; perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione,
e molti sono quelli che vi entrano», leggiamo in Matteo, «quanto stretta è la porta
e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Mt
7,13s.). «Perché molti sono chiamati», dice Gesù, «ma pochi eletti» (Mt 22,14)131.
Su questo testo si possono fare quattro osservazioni.
Prima, a colui che chiede della salvezza Gesù dà la giusta risposta alla
domanda sbagliata. La salvezza non appartiene ad un gruppo di persone in
quanto tale, ma agli individui, presi uno per uno. Come abbiamo visto sopra,
il Nuovo Testamento si sposta decisamente da un criterio etnico ad uno etico
quando si tratta di salvezza e di giudizio132. L’appartenenza esterna al popolo di
Dio – Israele o la Chiesa – implica una seria responsabilità di santità ed aposto-
lato, ma non la certezza di essere salvati. Seconda, i cristiani devono sforzarsi
con perseveranza nel fare la volontà di Dio per essere salvati. «Se il giusto a
stento si salverà», dice la Scrittura, «che ne sarà dell’empio e del peccatore?» (1
Pt 4,18). La salvezza è il frutto della grazia ma richiede un’ardua corrisponden-
za personale. Con le parole di M.-J. Lagrange, «Gesù non intende fornire una
risposta diretta di tipo speculativo. È più importante sapere quello per cui ci
dobbiamo sforzare per entrare nel palazzo»133.
Terza, il termine “molti” non equivale alla “maggioranza”, piuttosto è
opposto a “pochi”134. E per Gesù, che è venuto «a cercare e a salvare ciò che era
perduto» (Lc 19,10), “molti” che si condannano possono sembrare pochi per
noi, in quanto egli era pronto a lasciare «le novantanove pecore nel deserto ed
andare in cerca di quella perduta, finché (heōs) la trova» (Lc 15,4). In questo
senso, si può dire che anche una sola persona condannata è già troppo per Dio.
131
Si veda CAA 139s.
132
Si vedano le pp. 172s.
133
M.-J. Lagrange, Évangile selon Saint Luc, J. Gabalda, Paris 1927, 388.
134
Si veda la p. 117, note 67s.
270
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
In ogni caso, quarta, Gesù non desidera offrire una soluzione statistica ad un
problema personale. Il fatto che somiglianze superficiali possano esistere tra
due persone non significa che se l’una è salvata, così avverrà automaticamente
per l’altra. I doni di Dio di natura e grazia sono differenti per ciascuno. Dio può
chiedere molto ad una persona cui ha dato molto, nel cui caso la negligenza sarà
severamente punita (Mt 25,14-30); ed invece ad uno che ha ricevuto poco, sarà
richiesto molto meno, e se la sua risposta sarà più generosa, la sua eterna unione
con Dio sarà più ricca.
135
Si veda M.-É. Boismard, L’Apocalypse, in A. Robert e A. Feuillet (a cura di), Introduction à la
Bible, vol. 2: Nouveau Testament, Desclée, Paris 1959, 709-42, in particolare, 715.
136
Si veda Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 21, a. 3; Giovanni Paolo II, Enc. Dives in Misericordia;
Dominum et vivificantem (1986), nn. 53s.; Redemptoris Missio (1990), nn. 10 & 28.
137
«J’espère autant de la justice du Bon Dieu que de sa miséricorde» Teresa di Lisieux, Lettera al
P. Roulland datata il 9 maggio 1897, in Lettres de sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus, Office central,
Lisieux 1948, 226.
138
Si veda anche 2 Cor 5,15; 1 Gn 2,2.
271
Capitolo VII
appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in
vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante
appello alla conversione»139.
139
CCC 1036.
140
La posizione di Barth è sottile: «Apokatastasis panton? [La riconciliazione di tutti?] No, perché
una grazia che raggiunge ed abbraccia tutti e ciascuno non sarebbe libera grazia, non sarebbe
grazia divina. Ma se è grazia divina, come impediamo a Dio di riconciliare tutti?» Die Botschaft
von der freien Gnade Gottes, Evangelisches Verlag, Zürich; Zollikon 1947, 8. Altrove egli scrive:
«Chiunque non creda nella apokatastasis è un bue, chiunque dica di farlo è un asino» Dogmatik im
Dialog, vol. 1: Die Kirche und die Letzten Dinge, a cura di F. Buri et al., Mohn, Gütersloh 1973, 314.
141
W. Michaelis, Die Versöhnung des Alls, Haller, Bern 1950.
142
Si veda per esempio P. Althaus, Die letzten Dinge, Bertelsmann, Gütersloh 19649, 187-96; E.
Brunner, Das Ewige als Zukunft, 197ss. P. Maury, L’eschatologie, Labor et Fides, Genève 1959,
assume la seguente posizione: «dobbiamo rifiutare la falsa dottrina evangelica, come quella di
Origene, della restaurazione di ogni cosa, che in ultima analisi sarebbe il ri-stabilimento di tutto
il peccato» 85.
143
Si veda M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 130-2.
144
Si veda Scoto Eriugena, De divisione naturae V, 28s.
272
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
145
Si veda E. Mounier, La pensée de Charles Péguy, Plon, Paris 1931, 182s.
146
Karl Rahner parla in termini simili: «in quanto cristiana, l’umanità ha il diritto e il sacro
“dovere” di sperare che la storia della libertà avrà, per sé e per gli altri, una fine felice» G. Mann –
K. Rahner, Weltgeschichte und Heilsgeschichte, in Christlicher Glaube in moderner Gesellschaft 23,
Herder, Basel; Wein 1982, 87-125, qui 114. La medesima idea si trova in O. González de Cardedal,
Madre y muerte, Sígueme, Salamanca 1993, 115.
147
CCC 1037.
148
S. Th. II-II, q. 17, a. 2 ad 3.
149
Le opere principali di von Balthasar sull’argomento si trovano in Sperare per tutti, Jaca Book,
Milano 1997. Sono state pubblicate originariamente come Was dürfen wir hoffen? e Kleiner
Diskurs über die Hölle, Johannes, Einsiedeln 1986.
273
Capitolo VII
successiva “discesa agli inferi” (la suprema espressione della kenosis, o dell’auto-
svuotamento di Dio) è così radicale da trasformare il cuore stesso della realtà, le
stesse profondità dell’inferno, il cuore di tutti i peccatori150.
Dal punto di vista storico, tuttavia, è certo che Didimo abbia assunto la
posizione di Origene, però la dottrina della riconciliazione universale non si
incontra in Gregorio e Massimo. Gregorio di Nissa, come abbiamo già visto,
parla della riconciliazione della natura come totalità, ma non di ciascuno e di
ogni individuo151. La necessità di distinguere tra natura è persona va al fondo
stesso della sua teologia trinitaria. Ugualmente per Massimo il Confessore il
progetto di Dio richiede la salvezza della natura, ma non di ogni persona152.
Inoltre, lo studioso biblico Pierre Grelot dice che «nessun testo della Scrit-
tura offre il minimo fondamento» per la dottrina dell’apokatastasis153. Gli autori
che insegnano questa dottrina sbagliano quando tentano di estendere l’univer-
sale al particolare, identificando la volontà di Dio di salvare tutti con l’effettiva
salvezza di tutti154. Il fatto è che Dio non può condannare l’uomo senza il consen-
so dell’uomo. E l’uomo è capace di prendere decisioni irrevocabili155. Parlando
150
Si veda H. U. von Balthasar, Theologie der drei Tage: Mysterium Pasquale, Benzinger, Zurich
1969; Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 277-284. Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi ha questo
da dire: «Cristo è disceso nell’“inferno” e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui
le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. È sorta, tuttavia,
la stella della speranza – l’ancora del cuore giunge fino al trono di Dio» SS 37.
151
Si veda la nota 29 sopra.
152
Si veda Massimo il Confessore, Quaest. ad Thal. 22,59,63. Massimo non riteneva che la salvezza
per tutti fosse una speranza legittima: Quaest. et dubia 1,13. Von Balthasar, nella sua opera su
Massimo, Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus’ des Bekenners, Johannes, Einsiedeln 19612,
segue la posizione di E. Michaud, S. Maxime le confesseur et l’apocatastase, «Revue internationale
de théologie» 10 (1902) 257-72, che afferma che Massimo in realtà insegna l’apokatastasis.
Tuttavia, studi successivi hanno mostrato in modo definitivo che questa non era la posizione di
Massimo, in particolare quelli di S. Schiewietz (in nota 32); P. Sherwood, The Earlier Ambigua
of saint Maximus Confessor and his Refutation of Origenism, Herder; Pontificium Institutum S.
Anselmi, Roma 1955; B. E. Daley, Apokatastasis and “Honorable Silence” in the Eschatology of
Maximus the Confessor, in Maximus Confessor. Actes du symposium sur Maxime le Confesseur
(1980), a cura di F. Heinzer and C. Schönborn, Editions Universitaires, Fribourg 1982, 309-39;
e The Hope of the Early Church, 202. Von Balthasar si dice non convinto di questa critica: Was
dürfen wir hoffen?, 51s., nota 38.
153
P. Grelot, Le monde à venir, Le Centurion, Paris 1974, 120.
154
Inter alia, si veda J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 241-4.
155
Autori come J. R. Sachs, Current Eschatology: Universal Salvation and the Problem of Hell,
«Theological Studies» 52 (1991) 227-54, spiega che l’irrevocabilità del “no” dell’uomo deve derivare
dalla libertà umana, non dalla grazia. E ciò, egli ritiene, non è possibile. In questo senso la volontà
dell’uomo sarà sempre in grado di rivolgersi a Dio. Autori come K. Rahner, Ewigkeit aus Zeit, in
Schriften zur Theologie, vol. 14, Benzinger, Einsiedeln; Zürich 1980, 422-34, su cui Sachs basa la
sua discussione, dicono tuttavia che la libertà è “costitutivamente abilitata”, e capace di scegliere
una volta per tutte. È così perché, secondo Rahner, nel suo profondo la libertà è intrinsecamente
274
Inferno: il castigo perpetuo dei peccatori
della possibilità di condanna eterna, Joseph Ratzinger dice che quel che è pecu-
liare del cristianesimo «emerge qui nella affermazione della grandezza dell’uo-
mo: la sua vita è un caso di estrema serietà». Al contrario, «l’aspettativa di una
riconciliazione universale consegue dal sistema, ma non dalla testimonianza
biblica»156. Ritenere il contrario equivarrebbe ad una visione totalitaria della
salvezza, che Torres Queiruga denomina “verticalismo teocentrico”157. Sesboüé
ritiene inoltre che la concezione di von Balthasar che parla di Cristo che si assu-
me le sofferenze dei condannati, tenta di comprendere l’incomprensibile158, e in
termini reali tende alla apokatastasis.
Sperare la salvezza per tutti? Ma cosa si può dire del concetto di von Balthasar
secondo cui i cristiani dovrebbero sperare la salvezza di tutti? L’oggetto della
speranza cristiana è duplice: la gloriosa Parousia di Cristo alla fine dei tempi; e
la salvezza di ciascuno degli eletti. È chiaro che la speranza comune dei cristiani
è costituita dalla venuta di Cristo nella gloria, con il quale il mondo sarà rinno-
vato, i morti fatti risorgere, l’umanità definitivamente giudicata e resa giustizia
una volta per tutte. È anche chiaro che ciascun cristiano debba sperare per la
propria salvezza. Perdere la speranza implicherebbe una colpevole sfiducia in
Dio che ha promesso in Cristo di offrire la sua grazia salvifica a tutti. In altre
parole, la speranza dell’individuo per la salvezza e la sua personale risposta alla
grazia coincidono in re.
Tuttavia, anche se la speranza cristiana deve includere la fede nella bene-
volenza di Dio verso ogni uomo, semplicemente non può includere la risposta
di ciascuno alla grazia di Dio, essendo questa risposta diritto e dovere esclusivo
per ciascun credente cristiano, per ogni persona. L’atto di speranza dell’uomo
include ipso facto la sua propria risposta a Dio, ma non la risposta personale
degli altri. È giusto dire che i cristiani possano e debbano desiderare la salvezza
per tutti, dal momento che Dio la cerca (1 Tm 2,4). Inoltre, dovrebbero cercare
di raggiungere questo scopo con la grazia di Dio e nel tentativo di comunicar-
la al resto dell’umanità. Tuttavia, la salvezza per ciascuno ed ognuno non può
in quanto tale essere considerata come oggetto adeguato di speranza cristiana
legata con la grazia, con il “soprannaturale esistenziale”. In ogni caso Rahner, da un punto di vista
puramente antropologico, ritiene che la definitiva esclusione da Dio sia possibile.
156
J. Ratzinger, Escatologia, 225s.
157
A. Torres Queiruga, ¿Qué queremos decir cuando decimos “infierno”?, Sal Terrae, Santander
1995, 98.
158
Si veda B. Sesboüé, Bullétin de Théologie Dogmatique: Christologie, «Recherches de science
religieuse» 59 (1971) 88s.
275
Capitolo VII
nel senso stretto della parola. Se Dio stesso non ha intenzione di soppiantare
o sopprimere la libera volontà di ciascun cristiano, su quale base altri uomini
dovrebbero essere in grado di farlo? Gli elementi collettivi ed individuali della
escatologia cristiana sono strettamente correlati, senza dubbio, ma non si posso-
no ridurre l’uno l’altro.
276
PARTE TERZA
Quando avrà luogo la Parousia? Come abbiamo visto prima, il momento in cui
la Parousia avrà luogo dipenderà, fino ad un certo punto, dalla corrispondenza
umana (o dalla sua mancanza) ai doni e all’illuminazione di Dio3. In Mt 23,39
leggiamo: «vi dico infatti che non mi vedrete più finché direte: “Benedetto colui
che viene nel nome del Signore”». Questo non significa “quando il Messia verrà,
il suo popolo lo benedirà”, ma piuttosto l’opposto, “quando il suo popolo lo bene-
dirà, il Messia verrà”4. Questa dichiarazione è confermata dall’ammonizione di
Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Con tutto, il ritorno del Signore Gesù nella gloria è fondamentalmente un
atto di Dio, un atto di potenza divina. Dio è l’unico Sovrano, l’unico Signore, il
solo in grado di decidere quando l’umanità è veramente pronta, il solo capace
di far risorgere i morti e giudicare gli uomini. Perciò, «quanto… a quel giorno
o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre»
1
I. Dinesen (ps. Karen Blixen), Out of Africa – Shadows on the Grass, Vintage International, New
York 1989, 265. Si veda Gn 32,27.
2
Agostino, Enn. in Ps. 95,14.
3
Si vedano le pp. 89s.
4
Si veda la p. 89, note 106s.
279
Capitolo VIII
(Mc 13,32; cf. Mt 24,36). Mentre saliva al cielo, Gesù conferma questo messagio
per i suoi discepoli: «non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre
ha riservato al suo potere» (At 1,7). Ed Agostino commenta: «Chiunque affer-
ma che il Signore verrà presto, forse sta parlando in un modo pericolosamente
sbagliato»5. «Infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro
di notte», scrive Paolo ai Tessalonicesi. «E quando la gente dirà “c’è pace e sicu-
rezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna
incinta; e non potranno fuggire» (1 Ts 5,2s.).
Sembra accertata la posizione di Bonaventura, che suggerisce che non
sappiamo l’ora del giudizio finale perché non ne abbiamo realmente bisogno
per assicurarci la salvezza6. Schweitzer e la scuola dell’escatologia “conseguente”
insegnano che la vaghezza ed imprecisione del Nuovo Testamento riguardo alla
fine del mondo e al ritorno del Messia indicano che Gesù fosse inconsapevo-
le della sua missione e sbagliava rispetto alla propria identità7. Sembra piutto-
sto che questa imprecisione, per quel che vale, sia alla base di una importante
affermazione teologica: solo Dio sa quando il tempo è pronto per la raccolta
(Mt 3,12); e manderà suo Figlio dalla sua destra per giudicare il mondo quando
ritiene meglio, né prima né dopo. «Lasciate che l’una e l’altro [la zizzania e il
grano] crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai
mietitori, “raccogliete prima la zizzania”» (Mt 13,30).
Tuttavia, appare chiaro dalla Scrittura e dall’esperienza della vita cristia-
na, che il potere e la presenza della Parousia si facciano già sentire qui sulla
terra prima che la definitiva venuta del Signore Gesù avrà luogo. Come abbiamo
visto in precedenza, l’escatologia cristiana non è interamente riferita al futu-
ro; è anche, sebbene non solo, una escatologia “realizzata”8. Gli “ultimi giorni”
stanno già in atto. La salvezza ottenuta da Cristo è come un fermento viven-
te, costantemente animato dallo Spirito Santo, che agisce e muove e cambia i
cuori e la vita degli uomini, spingendoli verso il regno di Dio. Per Agostino, una
immagine chiave per l’economia della salvezza si trova nel carattere pellegri-
nante della Chiesa, mentre spera e desidera ardentemente la sua piena realizza-
zione. La Chiesa, egli dice, «come uno straniero in una terra lontana, prosegue
tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio»9. Massimo il Confessore
5
Agostino, Ep. 199 de fine saeculi.
6
Bonaventura, In IV Sent., D 48, a. 1.
7
Si vedano le pp. 76ss.
8
Si vedano le pp. 77s.
9
Agostino, De Civ. Dei XVIII, 51,2.
280
La presenza vivente della Parousia
spiega che per quanto riguarda l’avvicinarsi di Dio a noi, la “fine dei tempi” è già
arrivata, ma per quanto riguarda il nostro avvicinarci a Dio, è ancora avanti a
noi, e finora è presente solo in “tipi e modelli”, attraverso la grazia10.
In questo capitolo considereremo la questione della presenza vivificante
della Parousia nella vita attuale, lo stimolo della speranza nel mondo, da quattro
punti di vista. Primo, considereremo come, secondo la testimonianza del Nuovo
Testamento, il “Regno di Dio” è presente e attivo durante il soggiorno terreno di
Cristo e lungo tutta la vita della Chiesa, in particolare nell’azione sacramentale e
nella predicazione della parola. Poi descriveremo tre modi in cui il Regno di Dio
diventa umanamente visibile e tangibile: nei testi della Scrittura che parlano
della visibilità del Regno; nei “segni” o portenti della fine dei tempi che, secondo
il Nuovo Testamento, segnalano la presenza del Signore ed indicano la vicinan-
za della Parousia; e nelle differenti manifestazioni lungo la storia del fenome-
no del millenarismo, che ha importanti conseguenze per la comprensione del
grado in cui l’escatologia si sia “realizzata”11.
10
Massimo il Confessore, Quaest. ad Thal. 22.
11
Nel capitolo I, pp. 56ss., abbiamo già considerato un aspetto essenziale della presenza e dello
stimolo della speranza nel mondo, che sostiene tutto il resto, cioè l’azione dello Spirito Santo.
281
Capitolo VIII
12
Sul ruolo centrale del Regno di Dio nell’escatologia cristiana, si veda J. Ratzinger, Escatologia, 44-55;
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 553-558; J. J. Alviar, Escatología, 96-151. Sull’estesa
bibliografia disponibile sull’argomento, si veda l’opera recente di L. D. Chrupcala, The Kingdom of
God: a Bibliography of 20th Century Research, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2007.
13
Si veda BDAG, 168s., s.v. βασιλεία, specialmente 1, b, β.
282
La presenza vivente della Parousia
14
LG 5a.
15
Si vedano le pp. 85ss.
16
LG 5a.
17
A. Feuillet, Règne de Dieu III: Évangiles synoptiques, in Dictionnaire de la Bible, Supplément, vol.
10, col. 61-165, qui 67s.
18
E. Stauffer, Das christologische ἐγό, in TWNT 2, 243-8.
19
A. Loisy, L’Évangile et l’Église, Bellevue, Paris 19043, 155.
20
Così, W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 553s. e R. Frick, Die Geschichte des Reich-
Gottes-Gedankens in der alten Kirche bis zu Origenes und Augustinus, Töpelmann, Giessen 1928,
40. Pannenberg nota anche che con l’anti-gnosticismo di Ireneo, la dottrina della creazione
acquista importanza, in modo tale che il Regno di Dio può essere considerato già stabilito. In
altre parole, la base dell’insegnamento di Cristo sul Regno è la creazione, non l’escatologia. Con lo
gnostico Marcione, tuttavia, si è pensato che il Regno di Dio abbia inizio con la venuta di Cristo:
ibid., 554, nota 7. Secondo Giovanni Damasceno (De fide orth. 4,27), l’escatologia è derivata dalla
resurrezione e dal giudizio, e non fa riferimento al Regno.
283
Capitolo VIII
non sia forse indicativo del modo in cui lo stesso tema si mantiene valido in
circostanze differenti»21. In effetti, quando Gesù parla nei Sinottici della venuta
del regno di Dio, sta parlando fondamentalmente di sé stesso, che è esattamente
quel che fanno gli altri scrittori del Nuovo Testamento22. Questa consapevo-
lezza porta Origene ad affermare che Cristo è l’autobasileia, il “regno di Dio
in persona”23, e Tertulliano: In Evangelio est Dei regnum Christus ipse24, “nel
Vangelo il Regno di Dio è Cristo stesso”.
Come Cristo stabilisce il regno di Dio? In che modo Cristo fonda ed erige il regno
di Dio sulla terra, essendo egli stesso la manifestazione definitiva del regno?
Primo, dobbiamo esaminare quel che Cristo ha ottenuto con la sua azione salvi-
fica, e poi come l’ha ottenuto.
Il dominio di Dio sull’universo creato è ed è sempre stato assoluto. Inoltre,
tutte le cose sono state create tramite il Verbo (Gv 1,3), il Verbo che si è incarnato
in Gesù di Nazaret per salvare l’umanità. La sovranità di Dio è incompletamen-
te manifestata solo laddove il peccato (ed i suoi correlati: la morte e il diavolo)
prevale. Perciò Cristo stabilisce il regno di Dio principalmente sconfiggendo la
triplice schiavitù di cui parla la Scrittura: del diavolo, della morte e del peccato.
Del diavolo (Lc 11,20; Eb 2,14s.), vincendo le tentazioni dirette contro di lui25,
del potere della morte, identificandosi con la mortalità umana e vincendola
tramite la Resurrezione, come vedremo nel capitolo successivo26, e del peccato,
redimendo gli uomini e offrendo loro una straordinaria abbondanza di grazia
filiale, riconciliatrice (Gv 1,16; Rm 5,20).
E come Cristo ha ottenuto la salvezza dell’umanità? Per stabilire il regno
di Dio sulla terra, Cristo, che continuamente contemplava il volto del Padre, ha
permesso alla potenza e alla presenza del Padre di penetrare nelle profondità
del suo essere, dando a Dio un dominio completo su ogni aspetto e pensiero ed
azione presente in lui. Gesù rivela il regno di Dio anzitutto facendo la volontà
del Padre in ogni cosa. «Il mio cibo è fare la volontà di chi mi ha mandato» (Gv
4,34). «La sua intera vita rivela Dio come Signore», osserva Schmaus27. Sopra
abbiamo notato l’identificazione di Gesù con il regno di Dio in termini dell’“Io”
21
J. Ratzinger, Escatologia, 45.
22
La medesima nozione è sviluppata in J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret I, 69-86.
23
Origene, Comm. in Matth., 14,7, su Mt 18,28.
24
Tertulliano, Adv. Marc. 4,33.
25
CAA 200-6.
26
Si vedano in particolare le pp. 324ss.
27
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 104 (trad. it., 101).
284
La presenza vivente della Parousia
di Cristo, per esempio quando dice “in verità, in verità Io vi dico”, o usa espres-
sioni simili. È chiaro tuttavia che il potere che egli dispensa con notevole facilità
nella sua predicazione e nei suoi miracoli è un potere divino, ricevuto dal Padre
suo, a cui si sottomette incondizionatamente (Mt 7,29).
Il mistero dell’amorosa obbedienza di Cristo culmina, per così dire, duran-
te la sua Passione e Morte. Nell’obbedienza, «fino alla morte, e a una morte
di Croce» (Fil 2,8), «Gesù ha rinunciato all’intera sovranità sulla sua vita, la
volontà propriamente umana di poter controllare la propria vita»28. Colui che è
morto sulla Croce era il Servo di Jahve (Is 49 ss.). E attraverso la sua apparente
sconfitta, Gesù non solo manifesta la sovranità del Padre sul Figlio e sull’uni-
verso, ma riceve, inoltre, dal Padre tramite la Resurrezione il potere completo e
perenne sulla creazione. «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di
sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria
di Dio Padre» (Fil 2,9-11). Attraverso la Resurrezione, leggiamo nella lettera ai
Romani, Gesù è stato costituito Figlio e Signore sull’intera creazione (Rm 1,4).
Gesù eserciterà questa potenza in modo supremo e definitivo al momento
del giudizio. Tuttavia, anche ora è attiva e tangibile nella vita della Chiesa, in e
attraverso tutti coloro che credono in lui.
La presenza e l’azione del Signore risorto nella liturgia della Chiesa. I sacramenti
non sono solo segni che commemorano il passato, rappresentando la Passione,
Morte e Resurrezione del Signore, né semplici simboli operativi della grazia di
Dio al momento presente. In più, i sacramenti costituiscono una promessa di
gloria futura29, una prefigurazione della Parousia sperata. In quanto tali sono
destinati a scomparire alla fine dei tempi30, quando la Realtà prenderà il posto
dell’immagine. Parlando del Sacramento della Penitenza, Schmaus dice che in
esso «si esprime il giudizio che il Padre ha fatto nella morte di Cristo sull’u-
manità incorsa nel peccato… Ma contemporaneamente nel sacramento della
penitenza viene anticipato il giudizio futuro del peccatore… Se viene anticipato
nel sacramento della penitenza, perché il peccatore richiede che venga tenuto
28
Ibid., 105 (trad. it., 100).
29
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 60, a. 3. L’Aquinate parla del sacramento come signum
rememorativum, demonstrativum, prognosticum. Su questo, si veda J. M.-R. Tillard, La triple
dimension du signe sacramentel. A propos de Sum. Theol., III, 60, 3, «Nouvelle Revue Théologique»
83 (1961) 225-54.
30
LG 48c.
285
Capitolo VIII
fin d’ora su di lui, non sarà più di terrore nel futuro»31. Cioè, nel sacramento la
presenza definiva di Cristo nei credenti si “fa avanti”, si anticipa.
Di particolare importanza è l’aspetto escatologico dell’Eucaristia. In effetti, la
celebrazione eucaristica non solo applica tutta la potenza e l’efficacia del sacrificio
di Cristo sulla Croce, ma in modo reale ci dona una anticipazione della Parousia,
in quanto ci invita ad aspettare la venuta finale del Signore. Paolo è assai consape-
vole di questa presenza anticipatrice quando descrive la celebrazione eucaristica
nei seguenti termini: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete questo
calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11,26). In
diverse occasioni i documenti del Vaticano II parlano di questa presenza, come
fanno i testi liturgici lungo tutti i periodi della storia32. Con parole attribuite a Pier
Damiani, «i cittadini di entrambe le città vivono del medesimo Pane»33.
La qualità visibile e tangibile del regno di Dio. Il regno di Dio è attivo e presen-
te nel mondo, e si spinge potentemente verso la pienezza escatologica. È una
potenza vivente, tuttavia, che non si impone. Urge, invita e provoca reazioni:
«La legge e i profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il Regno
di Dio e ognuno si sforza di entrarvi» (Lc 16,16). Eppure è un potere che rispet-
ta pienamente la libertà umana; più esattamente, suscita l’umana risposta nel
modo più umano possibile34. Esamineremo ora le differenti modalità con cui la
Scrittura descrive come il Regno di Dio diviene visibile e tangibile all’umani-
tà: testi che parlano della visibilità del Regno, ‘segni’ della Parousia. Nel primo
capitolo abbiamo già considerato ciò che è più centrale in questo processo:
l’azione dello Spirito Santo nel suscitare la speranza35.
31
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2, 116 (trad. it., 112). La medesima idea si
trova in A.-M. Roguet, Les sacrements nous jugent, «Vie spirituelle» 45 (1963) 516-23.
32
Si vedano le pp. 97ss.
33
«Uno pane vivunt cives utriusque patriae» Pier Damiani (attrib.), Med. 26: Rhythmus de gloria
paradisi.
34
Si veda il mio studio Is Christianity a Religion?
35
Si vedano le pp. 56s.
36
Si veda l’enciclica di Pio XI, Quas primas (1925).
286
La presenza vivente della Parousia
tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, cioè, per rivelare una volta per
tutte il regno di Dio in tutto il suo splendore e potenza. Nel frattempo, si può
domandare, fino a che punto è visibile il regno di Dio? O meglio, come dovrebbe
essere visibile? Cristo ora regna in cielo, efficacemente (Rm 8,34; Eb 7,25), in
modo non ancora visibile dagli uomini in terra. La sua autorità (exousia)37 è eser-
citata sulla terra in modi differenti e derivati, attraverso l’attività della famiglia,
dello Stato, della Chiesa, ecc. (Rm 13,1-7). Ma fino a che punto può e deve essere
tangibile questa sua autorità? O, al contrario: a che livello le autorità umane parte-
cipano direttamente dell’autorità di Cristo? Quando Gesù disse ai suoi discepoli:
«verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio
dell’uomo, ma non lo vedrete» (Lc 17,22), sembra suggerire che la sua potenza e
presenza saranno assenti, almeno apparentemente, in certi periodi e luoghi, nella
vita della Chiesa e del mondo. Consideriamo la “visibilità” del Regno in un testo
immediatamente precedente a quello appena citato (Lc 17,20s.).
Alcuni farisei, considerando la venuta del Regno di Dio in termini di un
segno tangibile che porta con sé la sconfitta pubblica dei nemici di Dio, chiesero
a Gesù quando sarebbe arrivato il regno di Dio. Cercavano segni visibili della
potenza di Dio. Ed egli rispose: «il regno di Dio non viene in modo da attirare
l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là!” Perché, ecco, i
regno di Dio è in mezzo a voi (entos humōn estin)» (Lc 17,20s.). Gesù insegna che
il regno non sarà osservabile visibilmente (egli usa il termine paratērēseōs), né
il suo dinamismo sarà aperto ad una diagnosi chiara. Piuttosto è entos humōn
estin, tradotto nella Neovulgata come intra vos es, «in mezzo a voi». Lungo la
storia, il testo è stato letto in tre modi38.
Primo, alcuni hanno tradotto l’espressione nel senso “il regno di Dio
arriverà improvvisamente tra di voi”. Questa traduzione, recente, che è quasi
impossibile da giustificare linguisticamente, si basa sulla teoria della “escatolo-
gia conseguente”, secondo la quale il regno di Dio non è ancora apparso ma è sul
punto di farlo in qualsiasi momento39.
In secondo luogo, è stato tradizionale, almeno dal tempo di Origene40,
tradurre il testo come: “il regno di Dio è dentro di voi”41. Cioè, il regno non è
37
Sull’uso di questo termine nella Scrittura, si veda BDAG, 352s., s.v. ἐξουσία.
38
Seguendo J. Ratzinger, Escatologia, 49ss.
39
Su questa lettura, si veda F. Mussner, Praesentia salutis. Gesammelte Studien zu Fragen und
Themen des Neuen Testamentes, Patmos, Düsseldorf 1967, 95; J. Jeremias, Neutestamentliche
Theologie, G. Mohn, Gütersloh 1971, vol. 1, 104.
40
Origene, Or. 25,1.
41
Questa lettura è piuttosto tipica in contesto monastico. Si può trovare per esempio in Atanasio,
287
Capitolo VIII
Vita Ant., n. 20, dove il Regno di Dio rappresenta una vita alla ricerca della perfezione monastica.
42
Si veda BDAG, 340s., s.v. ἐντός.
43
La medesima posizione è affermata da M. Meinertz, Theologie des Neuen Testaments, Hanstein,
Bonn 1940, 34s.
44
Così R. Otto, The Kingdom of God and the Son of Man, 135.
45
CAA 193-200.
288
La presenza vivente della Parousia
segni messianici riportati in Is 35,5-6. Nel far questo ha mostrato che i “segni”
del potere salvifico di Dio operanti in lui non sarebbero stati, almeno per il
momento, di tipo spettacolare, visibile, violento ed incontrovertibile. Avrebbero
rivelato, piuttosto, l’amore misericordioso di Dio per le sue creature. «Andate e
riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli
zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano,
ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7,22)46.
Quelli che appartengono a Cristo, quelli in cui Cristo vive (Gal 2,20), vivo-
no nel mondo come portatori del loro Signore e Salvatore, come alter Christus,
ipse Christus, come “altri Cristi, Cristo stesso”, per usare una espressione di san
Josemaría Escrivá47. Così, attraverso i credenti cristiani, che sono portatori di
Cristo, il Regno di Dio è reso sempre più presente, attivo ed efficace nel mondo.
46
Su questo passaggio, CAA 198s.
47
Si veda il mio studio The Inseparability of Holiness and Apostolate.
48
CAA 79-81.
49
Si vedano le pp. 294s.
50
CAA 150-4.
51
Si veda J. J. Alviar, Escatología, 89-93.
289
Capitolo VIII
rezione dei santi che si uniscono a Gesù in una marcia trionfale in paradiso.
Origene considera i segni della fine dei tempi in modo più spirituale: la fame per
la venuta di Cristo rinvia alla fame dei cristiani per un significato più profondo
nella Scrittura52; l’Anticristo rappresenta simbolicamente le false interpretazio-
ni53. Nella sua opera La città di Dio, Agostino riassume i segni come segue: «la
venuta di Elia il Tesbite, la conversione dei Giudei, la persecuzione dell’Anticri-
sto, il giudizio ad opera di Cristo, la resurrezione dei morti, la discriminazio-
ne dei buoni e dei cattivi, la conflagrazione del mondo e il suo rinnovamento.
Tutti questi eventi bisogna credere che si verificheranno; come e in quale ordi-
ne, sarà allora l’esperienza in atto a mostrarlo, più di quanto non riesca ora
ad afferrare compiutamente l’intelligenza umana. Credo tuttavia che l’ordine
degli eventi sarà quello da me indicato»54. Lo studioso biblico Franz Mussner
presenta i seguenti sette segni: la predicazione del vangelo nel mondo, la venuta
di molti falsi Cristi e falsi profeti, la diffusione dell’iniquità e il raffreddamento
dell’amore e della fede, una grande apostasia, disastrose calamità cosmiche, la
manifestazione dell’Anticristo, la conversione degli Ebrei55.
È giusto dire che i segni principali si possono ridurre a tre: la predicazione
universale del Vangelo, la conversione di Israele, e la venuta dell’Anticristo che
provoca l’apostasia generale dei credenti. All’ultimo si possono aggiungere cala-
mità di tipo cosmico, come indica il seguente testo: «poiché vi sarà allora una
tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora,
né mai più vi sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe;
ma grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati» (Mt 24,21s.).
L’interpretazione di questi segni come precursori della Parousia è una
questione davvero complessa. Evidentemente, spiegazioni nette e chiare sono
sconsigliabili, addirittura rischiose. Da una parte, non è chiaro fino a che
punto i segni devono compiersi al fine di assicurare che si possa dire che la
venuta del Signore è imminente. D’altra parte, anche se si potesse dimostrare
che i segni sono stati pienamente compiuti, sarebbe impossibile dire quanto
tempo dovrebbe trascorrere prima che la Parousia possa effettivamente avere
luogo. Come abbiamo visto sopra, la Parousia dipende in buona misura dalla
52
Origene. Comm. in Matth. 37.
53
Ibid., 33.
54
Agostino, De Civ. Dei XX, 30,5.
55
Si veda F. Mussner, Kennzeichen des nahen Endes nach dem Neuen Testament, in Weisheit
Gottes, Weisheit der Welt. Festschrift für Joseph Kardinal Ratzinger zum 60. Geburtstag, vol. 2,
EOS, St. Ottilien 1987, 1295-308.
290
La presenza vivente della Parousia
56
CAA 144s. su questo motivo nel vangelo di Matteo.
57
Agostino prende la conversione dei peccatori come un segno della fine del mondo: Ep. 197,4;
199,46-51; De Civ. Dei XX, 30.
58
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 210.
291
Capitolo VIII
Sia per Gesù che per Paolo la salvezza finale del proprio popolo era letteral-
mente questione di vita o di morte: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi
i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te [si tratta di azioni che meritano
giudizio e punizione escatologica], quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli,
come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!
Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta. Vi dico infatti che non mi vedrete
più, fino a quando non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”»
(Mt 23,37-9). E Paolo: «Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.
Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei
fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozio-
ne a figli, la gloria, le alleanze, le legislazioni, il culto, le promesse; a loro appar-
tengono i patriarchi e da loro proviene Cristo, secondo la carne» (Rm 9,3-5).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume la questione nei seguenti
termini: «la venuta del Messia glorioso è sospesa in ogni momento della storia
al riconoscimento di lui da parte di “tutto Israele”… La “partecipazione tota-
le” degli Ebrei alla salvezza messianica a seguito della partecipazione totale dei
pagani permetterà al popolo di Dio di arrivare “alla piena maturità di Cristo”
(Rm 11,12) nella quale “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28)»59.
59
CCC 674.
292
La presenza vivente della Parousia
60
Tra i Padri della Chiesa, per esempio Ambrosiaster, Girolamo e Gregorio Magno, l’Anticristo è
considerato l’incarnazione del demonio. Su Gregorio, si veda H. Savon, L’Antéchrist dans l’œuvre
de Grégoire le Grand, in Grégoire le Grand [Chantilly Colloquium, 1982], a cura di J. Fontaine et
al., Éditions du CNRS, Paris 1986, 389-404.
61
Sul tema dell’Anticristo nel contesto dell’escatologia, si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik,
vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 170-88.
62
Ibid., 173s.
63
Si veda E. Ghini, La parusia di Cristo e dell’anticristo nelle lettere ai Tessalonicesi, «Parola, Spirito
e Vita» 8 (1983) 119-32.
293
Capitolo VIII
I segni e i portenti della fine dei tempi: un invito alla vigilanza. Paolo incoraggia
fermamente i Tessalonicesi a non essere impazienti e creduloni a riguardo dei
segni e ai portenti della fine dei tempi. «Riguardo alla venuta del Signore nostro
Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi
64
Si veda la collezione di testi di F. Sbaffoni (a cura di), Testi sull’anticristo: sec I-II; sec. III, 2
vols, Nardini, Firenze 1992. Sull’Anticristo nei primi secoli della cristianità, si veda G. C. Jenks,
The Origins and Early Development of the Antichrist Myth, De Gruyter, Berlin 1991; B. McGinn,
Antichrist. Two Thousand Years of the Human Fascination with Evil, HarperSan Francisco, San
Francisco 1994; L. J. L. Peerbolte, The Antecedents of Antichrist. A Traditio-Historical Study of the
Earliest Christian Views on Eschatological Opponents, E. J. Brill, Leiden; New York; Köln 1996; C.
Badilita, Métamorphoses de l’antéchrist chez les Pères de l’Église, Beauchesne, Paris 2005.
65
M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, 162 (trad. it., 162).
66
Aristide, Apol., 16,6.
67
Giustino, II Apol. 6.
294
La presenza vivente della Parousia
68
Efrem, Comm. in Diatess. 18,16. Per l’escatologia di Efrem si vedano i suoi Inni sul Paradiso. Si
veda anche I. Ortiz de Urbina, Le paradis eschatologique d’après saint Ephrem, «Orientalia Christia-
na Periodica» 21 (1955) 467-72; J. Teixidor, Muerte, cielo y seol en san Efrém, ibid. 27 (1961) 82-114.
69
Si veda anche Lc 12,42-48; Mt 24,42-51; 25,1-13;14-30.
70
La vigilanza è un motivo frequente nel Nuovo Testamento: 1 Cor 16,13; Ef 5,15; 6,18; 1 Tm 4,16;
2 Tm 4,5; Eb 12,15; 1 Pt 1,13; 5,8; Ap 3,3; 16,15.
295
Capitolo VIII
giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,4-6).
E nel libro dell’Apocalisse sono scritte le seguenti parole, alla chiesa di Sardi:
«Conosco le tue opere; ti credi vivo, e sei morto. Sii vigilante, rinvigorisci ciò che
rimane e sta per morire… se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che
tu sappia a che ora io verrò da te» (Ap 3,1-3).
Sant’Efrem dice che Gesù «nasconde il tempo della Parousia, così che noi
siamo vigilanti e ciascuno si convinca che possa accadere in qualsiasi giorno.
Se il giorno della sua venuta fosse stato rivelato, avrebbe avuto poco impatto,
né la sua manifestazione sarebbe stata oggetto di speranza per le nazioni e i
popoli… In questo modo la speranza della sua venuta è mantenuta viva per tutti
i popoli e per tutti i tempi»71. Ilario di Poitiers dice che non sappiamo quando il
mondo avrà fine, ma Dio nella sua bontà ci offre «un ampio spazio di tempo per
pentirci, ci tiene sempre vigilanti per la nostra paura dell’ignoto»72. «Siamo felici
di ignorare quando la fine verrà, perché Dio desidera che lo ignoriamo», dice
Agostino73, ed esorta i cristiani a «non resistere alla prima venuta, così che la
seconda non possa sorprenderci»74. Perciò, dice che dovremmo evitare di tenta-
re di calcolare la fine dei tempi75.
Al contrario, Gregorio Magno considera che la fine dei tempi è davvero
imminente76. Nondimeno, c’è ancora del tempo per la preparazione e l’evange-
lizzazione. Lo scopo principale dell’urgenza di Gregorio non era quello di diffon-
dere tristezza oppure preoccupazione tra i credenti, ma di muovere chi l’ascoltava
al timore di Dio e dei suoi giudizi, e «di sollevare la sua mente nella speranza
della gloria che verrà»77. Tommaso d’Aquino dice che questi segni non intendono
soddisfare la nostra vana curiosità, ma piuttosto «muovere il nostro cuore a sotto-
metterci al Giudice che deve venire»78. Benedetto XVI scrive: «vigilanza significa
fare qui e ora la cosa giusta, come si dovrebbe compierla sotto gli occhi di Dio»79.
Il fatto che la futura venuta di Gesù sia prefigurata in segni che spingono
i credenti alla vigilanza e alla conversione non significa che tali promesse siano
puramente simboliche, funzionali o performative. Se la Parousia promessa alla
71
Efrem, Comm. in Diatess. 19,15.
72
Ilario di Poitiers, In Matth., 26,4.
73
Agostino, Enn. in Ps. 6,2.
74
Agostino, Enn. in Ps. 95,14.
75
Agostino, Sermo 199 de fine saeculi.
76
Si vedano i testi in B. E. Daley, The Hope, 211s.
77
Gregorio Magno, Mor. in Job,13, 24,28. Si veda Hom. in Ev. 1, 1,1.
78
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 73, a. 1c.
79
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II, 60.
296
La presenza vivente della Parousia
fine non avesse luogo, allora le promesse e i segni stessi sarebbero senza signifi-
cato e ingannevoli80. Tommaso d’Aquino in una espressione molto nota dice che
«l’atto di fede non si ferma all’enunciato, ma indica la realtà stessa cui l’afferma-
zione fa riferimento»81. Lo stesso si può dire qui. L’oggetto della speranza cristia-
na non è anzitutto la descrizione della Parousia fornita dalla Bibbia, i segni che la
precedono e la loro immediata rilevanza, ma piuttosto le future realtà promesse
cui le descrizioni fanno riferimento in tutto il loro misterioso realismo.
Gozzelino riassume il significato dei segni nel contesto del ritardo della
Parousia come segue: «l’abilitazione alla lettura di fede della storia, l’invito alla
vigilanza, la dissoluzione delle illusioni, il sostegno del coraggio, e l’incremento
della azione missionaria della Chiesa»82.
80
CAA 46s.
81
Tommaso d’Aquino, S. Th. II-II, q. 1, q. 2 ad 2.
82
G. Gozzelino, Nell’attesa, 388.
83
Dal punto di vista esegetico, si veda per esempio M. Gourgues, The Thousand-Year Reign (Rev 20,1-
6): Terrestrial or Celestial?, «Catholic Biblical Quarterly» 47 (1985) 676-81; U. Vanni, Apocalisse
e interpretazioni millennaristiche, in Spirito, Eschaton e storia, a cura di N. Ciola, Mursia, Roma
1998, 189-215; C. H. Giblin, The Millennium (Rev 20,1-6) as Heaven, «New Testament Studies» 45
297
Capitolo VIII
(1999) 553-70; R. Lux, Was sagt die Bibel zur Zukunft des Menschen? Eine biblisch-kerygmatische
Besinnung zur Jahrtausendwende, «Kerygma und Dogma» 46 (2000) 2-21; A. Yarbro Collins, The
Apocalypse of John and its Millennial Themes, in Apocalyptic and Eschatological Heritage. The
Middle East and Celtic Realms, a cura di M. McNamara, Four Courts, Dublin 2003, 50-60.
84
In particolare Ireneo, Adv. Haer. V, 28,3 e 33,2.
85
Sulla storia del millenarismo si veda L. Gry, Le millénarisme dans ses origines et son développement,
Picard, Paris 1904; N. Cohn, The Pursuit of the Millennium. Revolutionary Millennaria and Mystical
Anarchists of the Middle Ages, University Press, Oxford 1970; B. McGinn, Early Apocalypticism:
the Ongoing Debate, in The Apocalypse in English Renaissance Thought and Literature, a cura di
C. A. Patrides and J. Wittreich, Manchester University Press, Manchester 1984, 2-39; T. Daniels,
Millennialism: an International Bibliography; C. E. Hill, Regnum caelorum: Patterns of Future
Hope in Early Christianity, W. B. Eerdmans, Grand Rapids 20012; S. Hunt (a cura di), Christian
Millennarianism. From the Early Church to Waco, Hurst & Co., London 2001; R. A. Landes (a
cura di), Encyclopedia of Millennialism and Millennial Movements, Routledge, New York; London
2000. Nel contesto dell’escatologia si veda J. Moltmann, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana
(orig. 1995), Queriniana, Brescia 1998, 164-226; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 385-407.
86
Cit. da J. Moltmann, L’avvento di Dio, 165.
298
La presenza vivente della Parousia
87
Sulla questione del millenarismo tra i Padri della Chiesa, si veda B. E. Daley, The Hope, passim;
C. Nardi, Il regno millenario nelle attese dei primi cristiani, in La fine dei tempi. Storia e escatologia,
a cura di M. Naldini, Nardini, Fiesole 1994, 50-75; C. Nardi (a cura di), Il millenarismo: testi dei
secoli I-II, Nardini, Firenze 1995; C. Nardi, Il millenarismo nel cristianesimo primitivo. Cronografia
e scansione del tempo, in Apocalittica e liturgia del compimento, a cura di A. N. Terrin, Messaggero;
Abbazia di S. Giustina, Padova 2000, 145-83; M. Simonetti, L’Apocalisse e l’origine del millennio,
«Vetera Christianorum» 26 (1989) 337-50; Il millenarismo cristiano dal I al V secolo, «Annali
di Storia dell’esegesi» 15 (1998) 7-20. Sulla presenza del millenarismo nella liturgia si veda B.
Botte, Prima resurrectio. Un vestige de millénarisme dans les liturgies occidentales, «Recherches de
théologie ancienne et médiévale» 15 (1948) 5-17.
88
Si veda L. Gry, Le Millenarisme, 65.
89
Su Papia, si veda Ireneo, Adv. Haer. V, 33,3-4, che riporta l’opera di Papia, Esposizione degli
oracoli del Signore. Si veda B. E. Daley, The Hope, 18; G. Pani, Il millenarismo: Papia, Giustino e
Ireneo, «Annali di Storia dell’esegesi» 15 (1998) 53-84.
90
Giustino parla dei credenti cristiani che regnano con Cristo nella nuova Gerusalemme per un
migliaio di anni, nello stato di prosperità raffigurato da Is 65,17-25: Dial. cum Tryph. 80s. Questa
situazione, egli dice, è un preludio della resurrezione e del castigo finale: «dopo di che avrà luogo
la generale, e, per dirla in breve, eterna resurrezione e giudizio di tutti» ibid., 81. Egli parla anche
del possesso eterno della Terra Santa da parte dei santi «dopo la santa resurrezione» ibid., 113,
139. Sul pensiero di Giustino, si veda A. L. W. Barnard, Justin Martyr’s Eschatology, «Vigiliae
Christianae» 19 (1965) 94-95; G. Pani, Il millenarismo.
91
B. E. Daley, The Hope, 31 riassume gli insegnamenti di Ireneo come segue: «è adatto ai giusti
prima ricevere la promessa dell’eredità che Dio ha promesso ai padri, e di regnare in essa, quando
risorgeranno per contemplare Dio in questa creazione che sarà rinnovata, e che il giudizio abbia
luogo in seguito (5,32,1)». Ireneo insiste nel dire che «l’insegnamento dell’Antico Testamento sulla
ricompensa dei giusti non va considerata allegoricamente»: Adv. Haer. V, 35,1-2. Egli dice che il
millenarismo è appropriato, per preparare i credenti «a partecipare della natura divina» Adv. Haer.
V, 32,1. Ancora, la sua «fondamentale preoccupazione sembra essere quella di difendere l’inclusione
del aspetto materiale della creazione nel piano unificato della salvezza di Dio» B. E. Daley, The
Hope, 31. Sulla concezione di Ireneo del millenarismo, si veda E. Norelli, Il duplice rinnovamento
del mondo nell’escatologia di San Ireneo, «Augustinianum» 18 (1978) 98-106; M. O. R. Boyle,
Irenaeus’ Millennial Hope. A Polemical Weapon, «Recherches de théologie ancienne et médiévale»
36 (1969) 5-16; C. Mazzucco e E. Pietrella, Il rapporto tra la concezione del millennio dei primi autori
cristiani e l’apocalisse di Giovanni, «Augustinianum» 18 (1978) 29-45; C. R. Smith, Chiliasm and
Recapitulation in the Theology of Irenaeus, «Vigiliae Christianae» 48 (1994) 313-31; S. Tanzarella,
Alcuni aspetti antropologici del millenarismo di Ireneo di Lione, in Cristologia e antropologia. In
dialogo con M. Bordoni, a cura di C. Greco, Ave, Roma 1994, 131-46; “Ogni acino spremuto darà
venticinque metrete di vino” (Adversus haereses V,33,3): il problema delle fonti del millenarismo di
Ireneo, «Vetera Christianorum» 34 (1997) 67-85; R. Polanco Fermandois, El milenarismo de Ireneo
o teología antignóstica de la caro capax Dei, «Teología y Vida» 41 (2000) 16-29.
92
Su Tertulliano, si veda B. E. Daley, The Hope, 35s. Tertulliano parla di una Gerusalemme celeste
restaurata (Adv. Marc. 3,24) in ricompensa per tutto quello che è stato perduto. Alla fine dei
mille anni, ci sarà una grande distruzione e conflagrazione. In altre parole, Tertulliano assume un
approccio più allegorico, per esempio in De res. 26.
93
Lattanzio tratta del millenarismo nel suo Divinae institutiones. Egli offre una visione potente
sebbene eclettica di quello che verrà. Parla della «estrema vecchiaia di un mondo stanco e
fatiscente» Div. Inst. VII,14. «Solo duecento anni sono rimasti» Div. Instit. VII, 25. «Roma cadrà»,
299
Capitolo VIII
lettura più o meno letterale di Ap 20. Essi ritengono che per un periodo di un
migliaio di anni il diavolo non potrà tentare i cristiani, che vivranno nella pace e
nell’armonia di Cristo; è ciò che Giovanni chiama “la prima resurrezione”. Una
volta trascorso questo periodo, il diavolo verrà liberato di nuovo, dicono, e il suo
attacco breve ma feroce contro i credenti – strettamente connesso con la venuta
dell’Anticristo e la conseguente apostasia di molti cristiani – finirà con la sua
totale sconfitta, il ritorno dell’Agnello nella gloria, e la “seconda resurrezione”.
Sebbene la visione apocalittica letterale sia stata abbandonata per lo più in
seguito, veniva ritenuto da diversi Padri per evitare le speculazioni gnostiche
implicanti una antropologia e una escatologia spiritualistiche94. In modo signi-
ficativo, Paul Althaus nota che «la motivazione teologica più importante che si
adduce per giustificare il chiliasmo è il richiamo alla dimensione più terrena che
necessariamente accompagna la speranza cristiana»95.
egli dice, «e l’Oriente governerà ancora. L’Anticristo dispenserà tre anni e mezzo di persecuzione,
ma poi Dio manderà un grande re dal cielo per distruggerlo» Div. Instit. VII, 17-19. Ciò sarà
seguito da un’era di pace. Lattanzio ha influito molto sul pensiero del Medioevo; la sua dottrina
«era destinata ad avere vita a sé» B. E. Daley, The Hope, 68. Sul suo insegnamento, si veda V.
Fàbrega, Die chiliastische Lehre des Laktanz, «Jahrbuch für Antike und Christentum» 17 (1974)
126-46; B. E. Daley, The Hope, 66-8; M. Simonetti, Il millenarismo in Occidente: Commodiano e
Lattanzio, «Annali di Storia dell’esegesi» 15 (1998) 181-89.
94
In particolare Ireneo e Tertulliano: si veda B. E. Daley, The Hope, 31.
95
P. Althaus, Die letzen Dinge, 314, cit. da J. Moltmann, L’avvento di Dio, 171.
96
Eusebio, Hist. Eccl. 3,39,13; 7,24,1. Sul pensiero di Eusebio, si veda J. Eger, Kaiser und Kirche in der
Geschichtstheologie Eusebius’ von Cäsaräa, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft»
38 (1939), 97-115.
97
Eusebio, Praep. Evang. 1,4-5; Hist. Eccl. 10,4,53.
300
La presenza vivente della Parousia
98
Eusebio, De laudibus Constantini; Hist. Eccl. 10,4. Sul testo, J. Moltmann, L’avvento di Dio, 179.
99
J. Eger, Kaiser und Kirche.
100
H. Dörries, Konstantin der Grosse, Kohlhammer, Stuttgart 1958, 146ss.
101
Si veda A. M. Berruto, Millenarismo e montanismo, «Annali di Storia dell’esegesi» 15 (1998)
85-100; B. E. Daley, The Hope, 18.
102
Otto von Freising, Chronicon sive historia de duabus civitatibus (scritto tra 1143-6). L’opera di
Otto si fonda sul De Civitate Dei di Agostino, ma è più ottimistica e semplicistica nei toni. L’autore
scrive: «Io tento di scrivere la storia di due città, quella di Dio e quella dell’uomo. Guardando ai
fatti, però, mi sono reso conto che le due si congiungono quando i re e i popoli sono tutti cristiani.
C’è solo una città, la civitas christiana, la Chiesa dei re e dei popoli e perciò una sola storia». La
medesima posizione si trova, sostanzialmente inalterata, nell’opera di J. B. Bossuet, Discours sur
l’histoire universelle (1681).
103
W. Brandes, Endzeiterwartung und Kaiserkritik in Byzanz um 500 n. Chr., «Byzantinische
Zeitschrift» 90 (1997) 24-63.
104
C. Taylor, A Secular Age, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge MA; London
2007, 243.
105
Origene, De princip. II, 11,2; Comm. in Matth. 17,35. Si veda G. Moioli, L’“Escatologico”
cristiano, 62s.
301
Capitolo VIII
l’intuizione di Origene106. Egli parlò della prima resurrezione e dei mille anni
in senso spirituale, non materiale, e insegnò che la resurrezione ci libererà dal
mangiare, dal bere e da ogni genere di attività corporea107.
Questa lettura si trova anche in Marcello di Ancira († 374) che parla dell’im-
minente età dello Spirito108, quando l’Incarnazione del Verbo e il Regno di Cristo
avranno fine, non essendo più necessarie quando la redenzione sarà raggiunta109.
È interessante notare come una visione spiritualistica della salvezza cristiana sia
associata con una diminuzione della rilevanza del mistero dell’Incarnazione.
Ugualmente, Girolamo ritiene che il millenarismo letterale, apocalittico,
sia solo una favola110. Egli non considera il consolidamento de facto del Impero
di Costantino come una valida espressione dell’avvento del regno di Cristo, tra
le altre ragioni perché diede origine ad una caduta nel fervore religioso tra i
credenti. «Come la Chiesa guadagnò i principi alla sua causa, crebbe in potere e
ricchezza, ma peggiorò in virtù»111. Ad un certo livello, questo facilitò la cresci-
ta della vita monastica, considerata in molti casi però come una sorte di fuga
mundi112. Nondimeno, una volta evitate le speranze materialistiche ebraiche,
dice Girolamo, la tradizione millenaristica può essere considerata venerabile.
Così Ap 20 può essere considerato come un riferimento allegorico alla Chiesa
storica113. Egli ritiene, inoltre, che ci sarà un periodo di “silenzio” tra la sconfitta
dell’Anticristo e il giudizio114.
Nei suoi primi scritti Agostino era piuttosto aperto alle credenze mille-
nariste. Nei successivi, tuttavia, presentò il millenarismo come una “grottesca
favola”115. La ragione è semplice: dal momento che Cristo ha redento il mondo,
106
Su Vittorino, si veda C. Curti, Il regno millenario di Vittorino di Petovio, «Augustinianum» 18
(1978) 419-33; B. E. Daley, The Hope, 65s. Si veda in particolare il suo Comm. in Matth. 24, e il suo
Commento sull’Apocalisse di Giovanni. Girolamo, De Vir. 3,74, riassume la sua posizione.
107
Vittorino, Comm. in Mt. 11.
108
Si veda A. Grillmeier, Christ in Christian Tradition, vol. 1, J. Knox, London; Mowbray 1975,
281s.; J. F. Jansen, I Cor 15,24-28 and the Future of Jesus Christ; M.-T. Nadeau, Qu’adviendra-t-il
de le souveraineté du Christ à la fin des temps?, «Science et Esprit» 55 (2003) 61-74.
109
Marcello fu costretto a ritrattare in un Sinodo romano nel 340, secondo Epifanio, Panarion
72,2,6s.
110
Girolamo, In Dan. 2,7,17s.; In Is. 16,59,14. Si veda B. E. Daley, The Hope, 102.
111
Girolamo, Vita Mal. Monach. 1.
112
Si veda J. Galot, Eschatologie, in Dictionnaire de la Spiritualité, vol. 4/1 (1960) col. 1047.
113
Girolamo, In Ezek. 11,36. Egli fa riferimento a Tertulliano, Vittorino, Ireneo ed Apollinare.
114
Girolamo, In Dan. 4,12,12.
115
Agostino, De Civ. Dei XXII, 7,1. Sul suo pensiero, si veda W. Kamlah, Christentum und
Geschichtlichkeit: Untersuchungen zur Entstehung des Christentums und zu Augustinus ‘Bürgerschaft
Gottes’, W. Kohlhammer, Stuttgart; Köln 19512; M. G. Mara, Agostino e il millenarismo, «Annali di
Storia dell’esegesi» 15 (1998) 217-30.
302
La presenza vivente della Parousia
116
Agostino, De Civ. Dei XX, 7-8.
117
Agostino, De Civ. Dei XXII, 6,1-2.
118
Agostino, De Civ. Dei XIV, 28.
119
J. Derambure, Le millénarisme de S. Ambroise, «Revue des études anciennes» 17 (1910) 545-56.
Ambrogio vede il periodo tra “prima” e “seconda” resurrezione come un tempo di purificazione
intermedia.
120
Ticonio, Comm. in Rev.
121
Sulla concezione di Gioacchino del millenarismo, si veda R. E. Lerner, Refrigerio dei santi.
Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale (Opere di Gioacchino da Fiore, 5), Viella, Roma
1995; per una breve introduzione e critica, CAA 270-3. Una posizione simile si trova in Almarico
di Bène, un contemporaneo di Gioacchino, i cui insegnamenti sulle tre epoche furono condannati
da un Sinodo celebrato a Parigi nel 1210. Si veda anche B. D. Dupuy, Joachimisme, in Catholicisme,
vol. 6, Letouzey et Ané, Paris 1967, col. 887-99.
122
Si veda R. E. Lerner, Refrigerio dei santi, 194.
303
Capitolo VIII
Persone agiscono sempre all’unisono123. Perciò non esiste alcuna ragione teolo-
gica per parlare di tre epoche consecutive.
La visione di Gioacchino si presenta con sorprendente frequenza durante
il secondo millennio in una varietà di forme filosofiche, religiose e politiche,
quelle ad esempio di Lessing e Comte, di Hegel, Kant124 e Marx, di Engels e
Nietzsche125. Può sembrare strano, però quel che è iniziato come un movimento
spirituale è spesso diventato un movimento altamente politicizzato, estremista
e materialista. Ugualmente, il millenarismo si trova comunemente negli inse-
gnamenti di alcune sette protestanti fondamentaliste126. Al tempo di Lutero,
Thomas Müntzer predicava l’imminente regno millenario in un contesto rivo-
luzionario. In Nord America William Miller predisse la prossima venuta del
regno millenario, dando vita a quello che ora è chiamato movimento “Avven-
tista del settimo giorno”. Posizioni simili si trovano tra gruppi religiosi come i
Testimoni di Geova e i Mormoni127.
123
Agostino, Sermo 213, 6; si veda anche CAA 274s.
124
Althaus parla del chiliasmo filosofico di Kant: «il chiliasmo dei filosofi è chiaramente una
secolarizzazione del chiliasmo teologico, ed in generale dell’escatologia cristiana» Die letze Dinge, 23.
125
Il processo è stato attentamente documentato da N. Cohn, The Pursuit of the Millennium e
da H. de Lubac, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Lethielleux; Culture et Vérité, Paris;
Namur, 2 vol., 1979-1981.
126
Si veda T. Daniels, A Doomsday Reader. Prophets, Predictors, and Hucksters of Salvation, New
York University Press, New York; London 1999.
127
Il Santo Ufficio in un Decreto datato 21 luglio 1944 ha presentato come pericolosa la posizione
del sacerdote cileno, Manuel de Lacunza y Díaz (in un opera sul ritorno di Cristo scritto del 1810),
secondo il quale Cristo ritornerebbe visibile sulla terra per regnare prima che il giudizio finale
abbia luogo (DS 3839).
304
La presenza vivente della Parousia
128
Agostino De Civ. Dei, passim; Ep. 199.
129
Si vedano le pp. 29s.
130
Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus, n. 25c.
305
Capitolo VIII
131
Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 28a.
306
PARTE QUARTA
PERFEZIONANDO E PURIFICANDO
LA SPERANZA CRISTIANA
Capitolo IX
Instabilità.
È orribile sentire che tutto quello che possediamo si dissolve
Blaise Pascal1
La morte verrà alla fine, e verrà per tutti. Seneca († 65) conferma questa
comune convinzione e dichiara che non c’è nulla di più certo della morte5. Eppu-
re la morte, per come si presenta agli uomini, costituisce un enigma profondo.
Noi non sappiamo che cosa essa debba raggiungere, se non un limite alla popo-
lazione mondiale, assicurando che le generazioni si susseguano l’una all’altra,
evitando così il ristagno culturale dell’umanità. Siamo certi che spesso la morte
implichi sofferenza, dolore e, forse più di ogni altra cosa, un acuto senso di
perdita. La sua presenza pervasiva sembra infondere una nebbia di tristezza e
mancanza di significato sulla vita. Gli spiriti più ottimisti potrebbero guardarla
1
B. Pascal, Pensées (ed. Brunschvig), n. 212.
2
G. Bernanos, Diario di un curato, 151.
3
G. Marcel, La soif, Desclée, Paris 1938.
4
SS 45.
5
Seneca, Ep. 99,9.
309
Capitolo IX
La morte è presente nel mezzo della vita. Gli uomini condividono la mortalità
con tutti i viventi. Come tutti gli esseri multicellulari, l’uomo morirà certamen-
te. Eppure tra tutti gli esseri viventi, egli è l’unico ad esserne consapevole, e a
tentare di affrontarla e di fare tutto quello che può per ritardarla od evitarla7.
6
Si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 43.
7
M. Scheler, Tod und Fortleben, in Gesammelte Werke, vol. 10, A. Franke, München; Bern 1957, 9.
310
La morte, fine del pellegrinaggio umano
La morte infatti è percepita come una rottura di tutte le relazioni che danno
significato alla sua vita. Alla morte, scrive san Josemaría, c’è «sempre la solitu-
dine, perché – anche se siamo circondati di affetto – ognuno muore solo»8. La
morte è il «trionfo della totale irrelazionalità», secondo Eberhard Jüngel9. «Tutti
gli uomini muoiono soli. La solitudine della morte sembra perfetta», dice Karl
Jaspers († 1969)10. Eppure questa graduale rottura ha luogo giorno per giorno,
anno per anno, e ci ricorda che la morte si avvicina inesorabilmente.
Papa Gregorio Magno parla della prolixitas mortis11, della graduale inva-
sione della morte nella vita umana. Poi l’inno medioevale recita: media vita in
morte sumus, “nel mezzo di questa vita siamo già immersi nella morte”12. Così
anche il poeta George Herbert († 1633): «La morte sta lavorando come una talpa,
e scava la mia tomba ad ogni spostamento»13. Questa consapevolezza ha portato
molti cristiani, durante il Medioevo, a sviluppare un genere letterario definito
la ars moriendi, la scienza e l’arte del sapere come morire14. Platone aveva già
parlato della “pratica del morire”15, e così ha fatto anche il cristiano neo-plato-
nico Clemente d’Alessandria16.
Il filosofo Max Scheler († 1928) offre una potente descrizione della vita
umana che si muove verso la morte, percepita come un restringimento sempre
crescente delle possibilità che sono a disposizione di ogni persona17. Il filoso-
fo Martin Heidegger spiega la morte in termini di annientamento futuro, che
si fa avanti nel momento presente della vita umana, gravando ed avvelenando
quest’ultima con la sua nullità. Egli perciò definisce l’uomo come un essere-
8
San Josemaría Escrivá, Solco, n. 881.
9
E. Jüngel, Tod, 150.
10
K. Jaspers, Philosophie, vol. 2: Existenzerhellung, Springer, Göttingen 1956, 221.
11
Gregorio Magno, Hom. in Lc. 14,25.
12
Il motivo originale si trova nelle Lamentazioni del benedettino Notker detto “il Balbettante”
(† 912), e recita: «Media vita in morte sumus, quem quaerimus adiutorem, nisi te, Domine, qui
pro peccatis nostris juste irasceris» in J.-P. Migne (a cura di), Patrologia. Series Latina, 87,58b.
Ugualmente, si veda Gerhoh di Richterberg (ibid., 193,1642c) e Sicardo di Cremona (ibid.,
213,272a). L’inno seguente è del medesimo periodo: «et ideo media vita in morte sumus, ego anima
inter spiritum et corpus media vita, quae non est aliud quam divina essentia» ibid., 194,970b.
13
G. Herbert, Grace, in The Complete English Poems, a cura di J. Tobin, Penguin Books, London;
New York 1991: «Death is working like a mole, and digs my grave at each remove».
14
Ars moriendi è il titolo di un piccolo pio manoscritto anonimo, datato approssimativamente
intorno al XIV secolo. Opere sullo stesso argomento si trovano in Henry Suso, Jean Gerson.
Roberto Bellarmino e poi Alfonso M. de Liguori hanno scritto su questo argomento. Sull’ultimo,
si veda Apparecchio alla morte, a cura di P. A. Orlandi, Gribaudi, Torino 1995.
15
Platone, Fedone 81a.
16
Clemente d’Alessandria, Strom. II, 20,109,1.
17
Si veda M. Scheler, Tod und Fortleben.
311
Capitolo IX
La morte come qualcosa che non dovrebbe accadere. La morte si presenta alla
coscienza umana come qualcosa di improprio, ripugnante, malvagio, non
voluto. Sembra riassumere ed esprimere ogni possibile male. Non solo il male
presente nella natura, ma quella presente in ogni persona. Di conseguenza molte
persone tentano di banalizzare la morte, rifiutando di pensarci, o consideran-
dola come qualcosa che riguarda la natura umana in generale, ma non se stessi
personalmente19. Il poeta inglese Edward Young († 1765) scrisse: «Gli uomini
pensano che tutti gli uomini siano mortali, tranne se stessi»20. Edgar Morin dice
che «la tragedia moderna consiste in una fuga dalla tragedia. Ciò che veramente
intralcia la tragedia della morte è lo sforzo di dimenticarla. Questo diventa la
vera tragedia»21. I tentativi degli uomini di dimenticare la morte servono solo
a provare il loro desiderio di evitare di pensare a qualcosa che trovano profon-
damente ripugnante. Infatti sappiamo istintivamente che la morte è un male;
semplicemente non dovrebbe accadere; facciamo di tutto per evitarla.
Pietro Crisologo dice che la morte è tutta bruttezza e malvagità, «la padro-
na della disperazione, la madre dell’incredulità, la sorella della decadenza,
la genitrice dell’inferno, la sposa del diavolo, la regina di tutti i mali»22. «La
morte non è mai benvenuta», dice nel medesimo sermone, «mentre la vita ci
piace sempre»23. Egli osserva che l’innegabile utilità e valore della morte ha
erroneamente portato alcuni cristiani a parlare della morte come qualcosa di
buono, come una liberazione dai problemi della vita24, facendo forse riferimento
all’opera, contemporanea alla sua, di sant’Ambrogio, De bono mortis. Crisolo-
18
M. Heidegger, Sein und Zeit, 266, 384s.
19
È comune al giorno d’oggi parlare della morte come di qualcosa di “naturale” o anche banale.
Max Scheler e Theodor Adorno hanno notato la pratica diffusa della rimozione della morte
dalla consapevolezza umana, la tendenza ad evitare di riflettere sulla propria morte. Su questo
argomento si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 32-43; G. Scherer, Das Problem des Todes
in der Philosophie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1979, 33-42; L.-V. Thomas,
Anthropologie de la mort, Payot, Paris 1988. Sul concetto di rifiuto della morte, si veda D. Clark (a
cura di), The Sociology of Death, Blackwell, Oxford 1993.
20
E. Young, Night Thoughts, in Works, J. Taylor, London 1774, vol. 3, 17.
21
E. Morin, Le vif du sujet, Seuil, Paris 1969, 321.
22
Pietro Crisologo, Sermo 118,3. Sulla sua escatologia, si veda J. Speigl, Petrus Chrysologus über
die Auferstehung der Toten, in Jenseitsvorstellungen in Antike und Christentum. Gedenkschrift für
Alfred Stuiber, Aschendorff, Münster 1982, 140-53, e l’opera classica di F. J. Peters, Petrus Chryso-
logus als Homilet, Köln 1918, in particolare 69-75; 83s.
23
Pietro Crisologo, Sermo 118,2.
24
Ibid., 6.
312
La morte, fine del pellegrinaggio umano
go continua: «quelli che cercano di scrivere della “morte come bene” sono in
errore, fratelli e sorelle. Non c’è nulla di strano in questo: i saggi del nostro
mondo pensano di essere grandi e brillanti se riescono a persuadere la gente
semplice che il più grande male è in realtà il più grande bene… Ma la verità
elimina queste idee, fratelli e sorelle, la Scrittura le fa cadere, la fede le sfida,
gli Apostoli le riducono e Cristo le distrugge, Cristo che, mentre ristabilisce il
bene che la vita è, smaschera e condanna il male che è la morte, e la bandisce dal
mondo»25. Comprensibilmente, Crisologo conclude che «l’intera speranza della
fede cristiana è costruita sulla resurrezione dei morti»26.
Contro ciò, tuttavia, alcuni autori hanno considerato la morte in una luce
altamente positiva. La Scrittura talvolta sembra portare a ciò. «Per me vivere
è Cristo e morire un guadagno», dice Paolo ai Filippesi (1,21). «Beati i morti
che muoiono nel Signore», leggiamo nel libro dell’Apocalisse (14,13)27. Abbiamo
già fatto riferimento al De bono mortis di Ambrogio28. Così moderni filosofi
romantici come Moses Mendelssohn († 1786), Johann W. Von Goethe († 1832),
Friedrich Hölderlin († 1843) e Rainer M. Rilke († 1926), affermano tutti che la
morte è qualcosa di supremamente desiderabile, perché tramite essa, l’uomo
raggiunge la definitiva auto-realizzazione29. Ludwig Wittgenstein († 1951) ha
detto che «la paura della morte è il più grande segno di una vita falsa, di una vita
malvagia»30. Questa posizione ha influenzato filosofi più recenti, come Martin
Heidegger, e tramite lui teologi come Karl Rahner e Ladislao Boros31.
25
Ibid.
26
Ibid., 1.
27
Si veda anche 2 Sam 14,14; 1 Re 2,2.
28
In SS 10, Benedetto XVI fa riferimento al lato benefico della morte, citando Ambrogio.
29
Su questo periodo, si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 67-119. La questione da porsi è
la seguente: se la vita e la morte sono naturali, come possono essere entrambe buoni? F. Schiller
suggerisce che «la morte non può essere male se è qualcosa di generale» Zu Karoline von Wolzogen.
Schillers Leben, J. G. Cotta, Tübingen 1830, 268ss., cit. da J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 68.
A. Schopenhauer dice lo stesso di Schiller in modo pessimistico: «Non temete! Con la morte non
sarete più nulla. Infatti sarebbe stato meglio che non abbiate mai iniziato ad essere» Sämtliche
Werke, vol. 2, F. A. Brockhaus, Leipzig 19162, 1288. «Al fondo siamo qualcosa che non avremmo
dovuto essere; per questa ragione smetteremo di esserlo un giorno» ibid., 1295. Ed egli aggiunge:
«forse la nostra morte sarà per noi la cosa più meravigliosa del mondo» ibid., 1270. Secondo R. M.
Rilke, la morte è «l’intima invasione della terra», cit. da R. Guardini, Le cose ultime, 31. Hölderlin
invece considera la morte come la consumazione della vita.
30
L. Wittgenstein, Notebooks, 1914-1916, a cura di G. H. von Wright e G. E. M. Anscombe, B.
Blackwell, Oxford 1961, annotazione del 8.7.1916.
31
Si veda K. Rahner, Sulla teologia della morte (orig. 1961), Morcelliana, Brescia 19723; L. Boros,
Mysterium Mortis, Queriniana, Brescia 1969. Anche G. Gozzelino, Nell’attesa, 431, parla della morte
come un evento soddisfacente e gioioso (una trasformazione), piuttosto che occulto (rottura).
313
Capitolo IX
32
S. de Beauvoir dice: «il n’y a pas de mort naturelle… Tous les hommes sont mortels: mais pour
chaque homme sa mort est un accident et, même s’il la connaît et lui consent, une violence indue»,
Une mort si douce, «Les Temps modernes» 20 (1964) 1985.
33
«Tout existant naît sans raison, se prolonge par faiblesse et meurt par rencontre» Roquentin,
in J.-P. Sartre, La Nausée, Gallimard, Paris 1938, 174. Non si può dire, tuttavia, che la morte sia
innaturale, dice Sartre, per la semplice ragione che non esiste qualcosa come una natura umana
definibile nei confronti della quale «il carattere assurdo della morte possa essere verificato» L’Étre
et le Néant, 671.
34
Secondo Sartre, L’Étre et le Néant, 615-38, ogni esperienza che io ho è una mia esperienza,
che nessun altro può vivere per me. «Il n’y a aucune vertu personnalisante qui soit particulière à
ma mort. Bien au contraire, elle ne devient ma mort que si je me place déjà dans la perspective
de la subjectivité; c’est ma subjectivité, définie par le Cogito préréflexif, qui fait de ma mort un
irremplaçable subjectif et non la mort qui donnerait l’ipséité irremplaçable à mon pour-soi» ibid.,
618s. «Nous avons, en effet, toutes les chances de mourir avant d’avoir rempli notre tâche ou,
au contraire, de lui survivre… Cette perpétuelle apparition du hasard au sein de mes projets ne
peut être saisie comme ma possibilité, mais, au contraire, comme la néantisation de toutes mes
possibilités, néantisation qui elle-même ne fait plus partie de mes possibilités. Ainsi, la mort n’est
pas ma possibilité de ne plus réaliser de présence dans le monde, mais une néantisation toujours
possible de mes possibles, qui est hors de mes possibilités» ibid., 620s. «Puisque la mort ne paraît
pas sur le fondement de notre liberté, elle ne peut qu’ôter à la vie toute signification» ibid., 623.
«La réalité humaine demeurerait finie, même si elle était immortelle, parce qu’elle se fait finie
en se choisissant humaine. Etre fini, en effet, c’est se choisir, c’est-à-dire se faire annoncer ce
qu’on est en se projetant vers un possible, à l’exclusion des autres. L’acte même de liberté est donc
assomption et création de finitude» ibid., 631.
35
S. Kierkegaard, Christelige Taler, in Søren Kierkegaards samlede Værker, vol. 10, Gyldendals
Forlag, Copenhagen 1928, 260.
314
La morte, fine del pellegrinaggio umano
to36, per la semplice ragione che con essa, la vita giunge a termine, e la vita è il più
grande dono creato da Dio37. La morte è «la più grande delle sfortune umane»38,
conclude. L’Aquinate accetta la dottrina della sopravvivenza dell’anima, sebbene
non in termini assolutamente positivi, perché il ruolo dell’anima è precisamen-
te quello di “informare” il corpo e renderlo umano, ed è incapace di svolgere
questo compito dopo la morte39. La morte perciò è oscurità, è la fine40, è una
passio maxime involuntaria41, una tendenza che è completamente contraria alle
sane inclinazioni umane. Nelle parole di Canobbio, «a causa del peccato l’anima
è depotenziata»42.
Ovviamente ciò apre un importante interrogativo: se la morte è qualco-
sa di male, qualcosa che non dovrebbe accadere, qualcosa di improprio, allora
che valore ha? Da cosa deriva? Come può Cristo assumere la morte per salvare
l’umanità? E perciò, quale ruolo gioca nella vita umana? Che significato ha?
Torneremo fra poco a queste domande.
36
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 72, a. 2c; II C. Gent., 80; De Anima, q. 14, arg. 14. Sull’argomento
della morte in Tommaso, si veda L. F. Mateo-Seco, El concepto de muerte en la doctrina de S.
Tomás de Aquino, «Scripta Theologica» 6 (1974) 173-208; J. I. Murillo Gómez, El valor revelador
de la muerte: estudio desde Santo Tomás de Aquino, Servicio de Publicaciones de la Universidad
de Navarra, Pamplona 1999.
37
Tommaso d’Aquino, De Ver. q. 26, a. 6, ad 8.
38
Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., 227.
39
Si vedano le pp. 46s. sopra.
40
Si veda in particolare B. Collopy, Theology and the Darkness of Death, «Theological Studies» 39
(1978) 22-54, in particolare 44, 47-50.
41
Tommaso d’Aquino, In II Sent., D. 30, q. 1, a. 1, arg 6.
42
G. Canobbio, Il destino dell’anima: elementi per una teologia, Morcelliana, Brescia 2009, 103,
nota 42.
43
W. Shakespeare, Hamlet III,1,78: «the dread of something after death. –The undiscover’d
country, from whose bourn no traveller returns».
44
N. Malebranche, Entretiens sur la mort, in Œuvres complètes, vol. 12-13, J. Vrin, Paris 19843, 436.
315
Capitolo IX
45
Si veda J. L. Borges, El Inmortal, in El Aleph, Alianza; Emecé, Buenos Aires 1981, 7-28. Su Bor-
ges, si veda J. Stewart, Borges on Immortality, «Philosophical Literature» 17 (1993) 295-301.
46
Cipriano, Epist. 6, 2,1
316
La morte, fine del pellegrinaggio umano
La morte come risultato del peccato. Come abbiamo visto prima, gli uomini
concepiscono spontaneamente la morte come qualcosa di indesiderabile, qual-
cosa di improprio, ripugnante e cattivo. È comprensibile perciò che i cristiani
abbiano ritenuto che la morte non sia qualcosa che il Dio buono abbia voluto fin
dall’inizio, ma qualcosa che è venuto al mondo per ragioni indipendenti dalla
volontà divina. In particolare, la morte sarebbe il risultato di un incidente sfor-
tunato, ma non definitivo, all’interno della realtà creata stessa, cioè, il peccato
degli uomini, la loro ribellione contro il Dio, la loro decisione di staccarsi dalla
Sorgente della vita. Perciò, la morte non apparterrebbe al disegno originale
di Dio, essendo semplicemente una punizione per il peccato. A dispetto delle
47
Si vedano le pp. 47s.
48
Si vedano le pp. 145ss.
49
Sulla morte nella Scrittura, si veda per esempio P. Hoffmann, Die Toten in Christus; L. Wächter,
Der Tod im Alten Testament; N. J. Tromp, Primitive Conceptions of Death and the Netherworld in
the Old Testament, Pontifical Biblical Institute, Rome 1969; P. Grelot, L’homme devant la mort, in
De la mort à la vie éternelle: études de théologie biblique, Cerf, Paris 1971, 51-102; A.-L. Decamps,
La mort selon l’Écriture, in J. Ries (a cura di), La mort selon la Bible dans l’antiquité classique et
selon le manichéisme, Centre d’histoire des religions, Louvain-la-Neuve 1983, 15-89; L. Coenen e
W. Schmithals, Death; Dead, in NIDNTT 1, 429-447.
317
Capitolo IX
apparenze, questa spiegazione non implica una valutazione negativa del mondo
e della creazione. Piuttosto il contrario. Oscar Cullmann nota che un riconosci-
mento positivo della creazione implica una visione negativa della morte. «Dietro
ad una concezione pessimistica della morte è nascosta una visione positiva della
creazione», egli dice. «Al contrario, quando la morte è considerata una libera-
zione, per esempio nel platonismo, allora il mondo visibile non è riconosciuto
come divina creazione»50.
La Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, insegna apertamen-
te che la morte è una punizione per il peccato dei nostri progenitori51. Espellendo
Adamo dal Giardino dell’Eden, Dio ha dichiarato: «maledetto il suolo per causa
tua; con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita… con il sudore
del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei
stato tratto» (Gn 3,17.19). Nel libro della Sapienza si parla dell’origine della morte:
«Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha
creato tutte le cose perché esistano… Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte
è entrata nel mondo» (Sap 1,13s.; 2,23s.)52. Nella lettera ai Romani, si ripete il
medesimo messaggio: «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo,
e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché
tutti hanno peccato» (Rm 5,12). Più avanti, Paolo riassume questo messaggio
dicendo: «il salario del peccato è la morte» (Rm 6,23). E infine l’apostolo Giaco-
mo afferma tassativamente: «le passioni concepiscono e generano il peccato e il
peccato, una volta commesso, produce la morte» (Gc 1,15).
I Padri della Chiesa per la maggior parte ripetono questa posizione, in parti-
colare Agostino53. I maggiori Concili ecumenici la insegnano54. La Gaudium et
spes spiega che «la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se
non avesse peccato, insegna la fede cristiana che sarà vinta, quando l’uomo sarà
50
O. Cullmann, Immortalité de l’âme ou résurrection des morts?, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel
1957, 36.
51
Inter alia, si veda B. Domergue, Le péché et la mort, «Christus» 25 (1976) 422-33.
52
Si veda L. Mazzinghi, ‘Dio non ha creato la morte’ (Sap 1,13). Il tema della morte nel libro della
Sapienza, «Parola, Spirito e Vita» 32 (1995) 63-75.
53
Agostino, De Civ. Dei XIII, 6.
54
Quello di Trento, per esempio, quando spiega la dottrina del peccato originale nella sua V
seduta: DS 1512.
318
La morte, fine del pellegrinaggio umano
La morte come elemento integrante del disegno di Dio? Tuttavia, sembra avere
più senso sostenere che la morte sia una semplice caratteristica del creato stesso,
un segno di come stanno le cose, della finitudine degli esseri creati, della qualità
deperibile che segna tutta la vita multicellulare. In altre parole, la morte sarebbe
semplicemente naturale, e gli uomini dovrebbero accettarla umilmente e reali-
sticamente in quanto tale, piuttosto che combatterle contro o cercare di giusti-
ficarla in termini etici o mitici. Per un credente cristiano, tuttavia, che crede in
Dio Creatore, questo significherebbe che la morte andrebbe presa, più o meno,
come volontà di Dio, come parte integrante del progetto da Lui tracciato per la
creazione. La conseguenza logica sarebbe, perciò, che il passaggio della morte
sarebbe semplicemente la condizione per la nostra definitiva auto-realizzazione
come uomini. In altre parole, la morte in quanto tale avrebbe un lato chiara-
mente positivo57.
Voltaire sentenzia: «L’uomo è nato per morire, come ogni altra cosa che
nasce»58. Karl Barth suggerisce che «la morte appartiene alla vita delle creatu-
re e perciò è loro necessaria»59. Ugualmente, Karl Rahner descrive la morte nei
seguenti termini: «la fine dell’uomo come persona spirituale è attivo compimento
dall’interno, un attivo portarsi-a-compimento, generazione crescente e compro-
vante il risultato della vita e totale prendersi-in-possesso della persona, è un aver-
realizzato-se-stessi e pienezza della realtà personale attuata liberamente»60.
Tuttavia, questa posizione presenta seri inconvenienti. Se la morte è un
aspetto integrante della natura umana, positivamente voluta da Dio, allora la
vita umana sulla terra può facilmente essere considerata come una fase passeg-
gera, più o meno rilevante, e si dovrebbe accettare la morte con una qualche
forma di rassegnazione razionalizzata.
Fino a che punto la morte dipende dal peccato? Spunti storici. Clemente d’Ales-
sandria, sulla base di una antropologia platonica bipartita (gli uomini sono
55
GS 18.
56
CCC 1008.
57
2 Sam 14,14; Gn 3,19. Su questa posizione, si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 429s.
58
F. M. A. Voltaire, Dizionario filosofico, G. Einaudi, Torino 1950, 358.
59
K. Barth, Kirchliche Dogmatik III/2, 779.
60
K. Rahner, Sulla teologia della morte, 30. Secondo Rahner, il lato positivo della morte, il risultato
di una coincidenza tra la morte e lo stato attuale della vita, è richiesto dalla configurazione dello
spirito umano in quanto libero; perciò la morte è un atto definitivo di compimento umano.
319
Capitolo IX
61
Origene, De princip. I, 2,4.
62
Clemente d’Alessandria, Strom. IV, 12,5.
63
Ibid., II, 34,2.
64
Ibid., III, 64,1.
65
Atanasio, De inc. 4.
66
Gregorio di Nissa, Orat. Catech. 8,1s.
67
Agostino, De Civ. Dei XIII, 6.
68
Tommaso d’Aquino, III Sent., D. 16, q. 1, arg. 1, c. Altrove, egli dice: “mors est et naturalis…
et est poenalis” S. Th. II-II, q. 164, a. 1 ad 1; “mors quodammodo est secundum naturam et
quodammodo contra naturam” De malo, q. 5, a. 5 ad 17. Su questo argomento, si veda J. Pieper,
Tod und Unsterblichkeit, 67-119.
69
Il termine che Aristotele usa per “peccato” è hamartia, che letteralmente significa “sbagliare
l’obiettivo”, cioè, più o meno, commettere un errore, il quale è semplice risultato dell’ignoranza.
In un contesto differente, P. Teilhard de Chardin presenta il male morale principalmente come un
320
La morte, fine del pellegrinaggio umano
come la materia creata non è una manifestazione del peccato, come potrebbe
suggerire la teoria di Origene della creazione come caduta70.
Quel che è originale nel piano di Dio è l’immortalità; il peccato, che fa
spegnere la vita umana e in linea di massima tenta di distruggerla, è un acciden-
te, seppure un accidente importante71. «Non è la morte il dato “naturale”», scrive
Canobbio, «se con questo termine si intende “originale”, bensì l’immortalità»72.
«Dio che ha creato l’uomo è onnipotente», dice Tommaso. «E quindi per un
dono gratuito tolse all’uomo nella sua prima costituzione la necessità di morire
che derivava da tale materia. Ma questo beneficio fu ritirato per colpa dei nostri
progenitori. Perciò la morte è naturale per la condizione della materia, ma è un
castigo per la perdito del dono divino che preservava dalla morte»73.
Dato il fatto che la teologia protestante tende ad associare strettamente crea-
zione e caduta, peccato e natura, almeno a livello esistenziale, non sorprende che
la spiegazione classica della morte come punizione per il peccato sia stata messa
alla prova nei tempi della Riforma74. Già nel XVI secolo, Socino considerava la
dottrina offensiva75. Man mano che il pensiero protestante ha assunto toni più
liberali e ottimistici, e l’insegnamento sul peccato originale è stato gradualmente
messo da parte, la mortalità è stata concepita semplicemente come un aspetto in
più della finitezza della natura umana. Solo per i peccatori può esser presa come
espressione coerente della punizione divina. Infatti solo la soggettiva esperienza
della morte (paura, angoscia, ecc.) può essere concepita come risultato del pecca-
to76. Questa posizione è stata assunta dai filosofi dell’Enciclopedia (Diderot, †
1784; D’Alembert, † 1783; Voltaire, † 1778)77 che pensavano che la morte fosse
limite entro la condizione umana nei confronti della perfezione futura che corrisponde al Punto
Omega. Si veda in particolare la sua opera Comment je crois, in Œuvres, vol. 11, Seuil, Paris 1971.
70
Origene, De princip. I.
71
Secondo l’Aquinate l’immortalità nell’uomo è originariamente dovuta all’azione creatrice di
Dio: S. Th. I-II, q. 85, a. 6c. Si veda Comp. Theol. 152.
72
G. Canobbio, Il destino dell’anima, 88.
73
Tommaso d’Aquino, S.Th. II-II, q. 164, a. 1 ad 1.
74
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 304-316. Nella teologia cattolica, si veda H.
Köster, Urstand, Fall und Erbsünde in der katholischen Theologie unseres Jahrhunderts, F. Pustet,
Regensburg 1983.
75
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 2, 268, nota 196.
76
Si veda per esempio F. Schleiermacher, Der christliche Glaube (orig. 1830), W. de Gruyter, Berlin
1960 § 76, 2; su questa opera, si veda E. Herms, Schleiermachers Eschatologie nach der zweiten
Auflage der ‘Glaubenslehre’, «Theologische Zeitschrift» 46 (1990) 97-130. Si veda anche A. Ritschl,
Die christliche Lehre von der Rechtfertigung und Versöhnung, vol. 3: Die positive Entwicklung der
Lehre, A. Marcus, Bonn 1888, 330, 336s., 339s.
77
Si veda, D. Hattrup, Eschatologie, Bonifatius, Paderborn 1992, 120-4.
321
Capitolo IX
In che senso la morte è una punizione per il peccato? Difatti, gli uomini ricono-
scono nella morte un segno della loro finitezza, della loro incapacità di salvarsi,
dell’essere creature che hanno ricevuto l’esistenza e tutto ciò che possiedono
da un Altro. Ma l’uomo si è ribellato contro il suo Creatore, tentando di vivere
come se Dio non ci fosse, come se potesse acquistare l’immortalità e la pienez-
za con un potere proprio. Anche se Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, la
struttura concreta dell’uomo è tale da degenerare e declinare se l’uomo non si
sottomette volentieri al Creatore. Si potrebbe dire che la morte, inscritta da Dio
nella natura umana come una potenzialità, sia una sorte di meccanismo di sicu-
rezza per assicurare che gli uomini, sebbene fatti ad immagine e somiglianza
di Dio, non tentino di sorpassare i limiti della propria natura, o almeno siano
corretti nel loro tentativo di farlo. Dal momento che gli uomini tentano di osta-
colare i piani di Dio tramite il peccato, però, la morte e la conseguente disgrazia
sono entrate nel mondo.
Dato che il peccato implica una separazione da Dio tanto quanto una alie-
nazione dalle altre persone e dal cosmo stesso, ha senso considerare la morte,
il “trionfo dell’irrelazionalità totale”, come la conseguenza interna e più logica
del peccato82. Tuttavia, si può domandare: cosa sarebbe successo se gli uomini
78
Si veda K. Barth, Kirchliche Dogmatik III/2, 765ss. Sugli altri autori, si veda W. Pannenberg,
Teologia sistematica, vol. 2, 309, nota 324.
79
Si veda O. Cullmann, Immortalité de l’âme, 33-46.
80
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 582-590.
81
Ibid., 587.
82
Su questo aspetto della morte, si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 440-3; J. Ratzinger, Escatologia,
96-116.
322
La morte, fine del pellegrinaggio umano
non avessero peccato? Sarebbero morti? Se l’argomento della “morte come fini-
tezza” è corretto, gli uomini sarebbero dovuti morire, prima o poi. Se la morte è
strettamente parlando una punizione per il peccato, allora si dovrebbe conclu-
dere che in sua assenza gli uomini avrebbero vissuto per sempre. Ma questo
non sembra adattarsi alla testimonianza biblica del fatto che la vita di Adamo
sulla terra, anche prima del peccato, fosse considerata una prova, un test della
fede, da compiere entro un tempo limitato, cioè destinata a terminare. La prova
avrebbe dovuto avere un termine.
Possiamo concludere che se l’uomo non avesse di fatto peccato, la fine
della vita sarebbe stata differente da come è ora. Invece della prospettiva di una
fine drammatica, o di una prolungata, dolorosa distruzione e decadenza della
propria vita, l’uomo avrebbe acquistato l’immortalità, anima e corpo, e con
essa, la vita eterna, alla conclusione della sua vita terrena. Non ci sarebbe alcuna
resurrezione finale per quelli già morti. Forse la situazione dell’umanità sarebbe
stata simile a quella della Madonna che, essendo stata concepita senza peccato,
e avendo vissuto con fede profonda e santità senza macchia, è stata assunta alla
fine della sua esistenza terrena in cielo anima e corpo, senza aver sofferto la
dissoluzione della vita umana nella tomba83.
Questa spiegazione della relazione tra la morte e il peccato è confermata
da Leo Scheffczyk, che ha suggerito che l’immortalità umana prima della cadu-
ta sarebbe consistito ne «la promessa, esclusa ogni paura della morte, di una
trasformazione interamente gratuita, alla fine della nostra esistenza terrena»84.
Si può trovare una posizione simile nella catechesi di Giovanni Paolo II del
198685. Parlando dell’originale stato di giustizia in cui gli uomini sono stati crea-
ti, il Papa insegna che l’uomo «possedeva e manteneva con se stesso un equili-
brio interiore, e non provava angoscia alla prospettiva della decadenza e della
morte»86. Al contrario, egli dice, parlando della caduta della natura umana,
«l’uomo è stato creato da Dio per l’immortalità: la morte, che sembra essere una
sorte di tragico salto nel buio, è la conseguenza del peccato, dovuto ad un tipo
di logica immanente, ma soprattutto dovuto alla punizione divina… Senza il
83
Germano di Costantinopoli disse che Maria è stata assunta in cielo «ut ex hoc etiam a resolutione
in pulverem deinceps sit alienum»: dal Breviario Romano, Officium Lectionis del 15 agosto.
84
L. Scheffczyk, Die Erbschuld zwischen Naturalismus und Existentialismus. Zur Frage nach der
Anpassung des Erbsündendogmas an das moderne Denken, «Münchener Theologische Zeitschrift»
15 (1964) 53.
85
Giovanni Paolo II, Udienza Il peccato dell’uomo e lo stato di giustizia originale (3.9.1986), in
Insegnamenti di Giovanni Paolo II 9/2 (1986) 526.
86
Ibid.
323
Capitolo IX
peccato, la fine della prova non sarebbe stata così drammatica»87. In altre parole,
in assenza del peccato, gli uomini in tutta probabilità avrebbero raggiunto la
fine della loro esistenza terrestre, o con una morte non drammatica (come quel-
la rappresentata dalla dormitio Mariae), o con una entrata diretta in cielo senza
morire. A causa del peccato, invece, essi muoiono, perché la fine dell’esistenza
umana sulla terra è stata maledetta88.
Tuttavia, se la morte è una reale punizione per il peccato, che significato
assume per un cristiano? Come viene risolta e trasformata da Cristo? Come
dovrebbe il cristiano prepararla e viverla?
87
Giovanni Paolo II, Udienza Lo “stato” di umanità decaduta, in Insegnamenti di Giovanni Paolo
II 9/2 (1986) 971.
88
E. Jüngel, Tod, 128.
89
Si veda il capitolo III.
90
Si veda Rm 6,4s.; Col 2,12.
91
Si veda anche Rm 8,3; Eb 2,14s.; 2 Cor 4,10.
324
La morte, fine del pellegrinaggio umano
credono in Lui92. È ciò che abbiamo già visto93: l’enigma della morte può essere
compreso e risolto alla luce del tipo di immortalità che ci aspettiamo, in questo
caso, l’immortalità rappresentata dalla resurrezione finale.
I cristiani sono incorporati nella morte e resurrezione di Cristo in modo
reale tramite la grazia del Battesimo e la pratica della vita cristiana. La morte di
un cristiano è tanto reale e dolorosa quanto la morte di chiunque altro, perché
costituisce la perdita della vita umana. Eppure in modo misterioso essa è trasfor-
mata, non solo indirettamente tramite la promessa della futura resurrezione, ma
anche direttamente, per il fatto che assume, almeno in parte, il significato e l’ef-
ficacia della morte stessa di Cristo. Cristo trionfa sulla morte, certamente, ma lo
fa sulla Croce: egli trionfa morendo. Consapevolmente e volontariamente egli
ha abbracciato uno stile di vita che ha portato ad una morte che non meritava94,
identificando se stesso con il principio di corruzione introdotto dal peccato, e
sconfiggendolo definitivamente. «Dio… mandando il proprio Figlio in una carne
simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato
nella carne…» (Rm 8,3). Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice così: «per
coloro che muoiono nella grazia di Cristo, [la morte] è una partecipazione alla
morte del Signore, per poter partecipare anche della sua Resurrezione»95.
Si possono dare due possibili spiegazioni per rendere conto dell’efficacia
dell’assunzione volontaria della morte da parte di Cristo: o che il morire ha un
potere proprio che è stato in qualche modo rilasciato al momento della sua morte;
o che l’accettazione di Cristo della morte ha generato l’effusione della potenza di
perdono e trasformazione da parte di Dio, di cui i credenti partecipano.
La morte ha un potere interiore che Cristo ha reso efficace? Una possibilità è che
Gesù abbia assunto la morte perché essa contiene un potere interiore per l’auto-
realizzazione dell’uomo, che in Lui è reso perfettamente efficace, e di conseguen-
za anche nei credenti. La sua morte costituirebbe così per noi principalmente un
esempio di coraggio, lealtà ed amore96, non dissimile a quella di Socrate97. O più,
92
In questo senso la morte è una forma di “essere in Cristo” (2 Cor 5,1-8; Fil 1,21-4): si veda G.
Ancona, Escatologia cristiana, 104-8. Alviar nota che in questo senso, la morte può assumere un
valore positivo: Escatología, 298-301. G. Gozzelino, Nell’attesa, 193 parla della morte come del
dies natalis.
93
Si vedano le pp. 315s.
94
Gv 10,17. Sull’assunzione della mortalità da parte di Cristo, si veda Tommaso d’Aquino, S. Th.
III, q. 14, a. 1.
95
CCC 1006.
96
Si veda 1 Pt 2,21-5. Si veda anche Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 46.
97
Si veda O. Cullmann, L’immortalité de l’âme; J. Bels, Socrate et la mort individuelle, «Revue des
325
Capitolo IX
326
La morte, fine del pellegrinaggio umano
irrevocabile, per Dio o contro Dio104. Seconda, la Chiesa è sempre stata sollecita
nell’amministrazione dell’ultimo sacramento ai morenti, l’Unzione dei malati.
Il momento della morte sembrerebbe perciò di essenziale importanza. Terza,
autori come Tommaso d’Aquino e Caietano citano un testo di Giovanni Dama-
sceno († 749) che stabilisce un parallelo tra la morte degli uomini e la decisione
primordiale, istantanea, fatta dagli angeli per o contro Dio. Hoc est hominibus
mors quod est angelis casus105, dice Tommaso, «la morte è per gli uomini quel che
per la caduta è stata per gli angeli». Tra le altre cose, questa teoria servirebbe a
spiegare la difficile questione riguardante la salvezza dei bambini non battezzati,
e la più ampia questione della salvezza dei non battezzati106. Inoltre, si è sugge-
rito che tale teoria possa fornire una conferma della teoria morale della “opzio-
ne fondamentale”, poiché alla morte si può compiere una decisione definitiva.
Quarta, teologicamente si vuole stabilire un parallelo tra la morte di Cristo e
quella di coloro che “muoiono nel Signore”. Come Gesù è morto lanciando un
forte grido, consegnando apertamente il suo spirito al Padre (Lc 23,46), mentre
la terra tremò (Mt 27,51), così anche, si è detto, gli uomini godranno di un istan-
te di perfetta consapevolezza al momento di morire107. Qualcuno anche sostiene
che la morte in Cristo costituisce una sorte di quasi-sacramento, che offre gli
uomini ex opere operato un momento privilegiato di grazia108.
Una critica della teoria della “decisione finale” al momento della morte. La teoria
che abbiamo appena considerato tende a concentrare l’intero orizzonte escatolo-
gico sul momento stesso della morte: giudizio, resurrezione, Parousia, inizio della
vita eterna o della condanna, purificazione. Suggerisce inoltre una visione alquan-
to pelagiana della salvezza che considera il fenomeno della morte antropologica-
mente, senza il bisogno dell’intervento benevolo di Dio mediante la grazia. Inol-
tre, dal punto di vista della spiritualità cristiana, il profondo legame che associa la
vita e l’azione quotidiane da una parte, e l’eternità dall’altra, viene spezzato. Con
tutto, sappiamo che la vita eterna non è ottenuta né persa in un singolo momento,
104
Gregorio Magno nota che la morte spesso è un momento di illuminazione speciale: Dial. 4, 27,1.
105
Giovanni Damasceno, De fide orth., 2,4; cit. da Tommaso d’Aquino, De Ver., q. 24, q. 10, s. c.
4; S. Th. I, q. 64, a. 2. Anche Caietano cita Giovanni Damasceno: In S. Th. I, q. 64, a. 2, n. 18; q. 63,
a. 6, nn. 4 & 7.
106
Questo argomento, tra molti altri, è considerato nel documento della Commissione Teologia
Internazionale, La speranza di salvezza per i bambini che muoiono senza il Battesimo (19.1.2007).
107
Ruiz de la Peña ritiene con Rahner che la morte sia un atto (La pascua de la creación, 269, nota
98), anche se non è sufficientemente spiegato: G. Colzani, La vita eterna, 203.
108
Si veda L. Boros, Mysterium mortis, 209-242. «La morte è una situazione eminentemente
sacramentale» ibid., 241.
327
Capitolo IX
109
Sul significato e le difficoltà della teoria dell’opzione fondamentale, si veda Giovanni Paolo II,
Enc. Veritatis splendor (1993), nn. 65-70.
110
Si veda la critica di J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 163-73; G. Gozzelino, Nell’attesa,
428, nota 32; G. Lorizio, Mistero della morte come mistero dell’uomo: un’ipotesi di confronto fra la
cultura laica e la teologia contemporanea, Dehoniane, Napoli 1982, 163-73.
111
Su questo, si veda L. F. Mateo-Seco, El concepto de muerte en la doctrina de Santo Tomás de
Aquino, 182-4.
328
La morte, fine del pellegrinaggio umano
morte di Cristo «è totalmente differente dalla morte di Socrate, dal momento che
quest’ultima rappresenta un lasciare questa condizione per una migliore»112.
Eppure Cristo infonde un nuovo valore alla morte, in modo tale che coloro
che sono incorporati a Lui tramite il Battesimo ottengono già i primi benefici
della resurrezione. Cristo redime i morti non solo esprimendo perfetta solida-
rietà con l’umanità decaduta, assumendola, ma anche mostrandosi pienamente
fedele, al punto di rinunciare alla propria vita, per volontà di suo Padre e per
amore a coloro per salvare i quali è stato mandato.
Che la morte di Gesù in Croce sia stato dolorosa lo sappiamo. Però più anco-
ra era vergognosa all’estremo. Era la morte riservata per i criminali: «Maledetto
chi è appeso al legno» (Dt 21,23; cf. Gal 3,13). Essa rappresentava, a giudicare
dalla apparenze, il fallimento della sua missione, la rovina di un intero proget-
to di vita113. «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non
splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolo-
ri che ben conosce il patire; come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era
disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Is 53,2s.; cf. Sal 22,6-8). Inoltre, e
si tratta dell’aspetto più sorprendente, Gesù ha assunto la morte volontariamente
(Gv 10,17), portando la vergogna dell’umanità sulle sue spalle, come se egli fosse
da incolpare per i peccati degli uomini, lasciando in questo modo i suoi discepoli
liberi (Gv 18,8). «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossa-
to i nostri dolori», leggiamo nel libro di Isaia, «e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato
per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le
sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,4-5; cf. Mt 8,17). San Tommaso spiega
che Cristo accettò la sofferenza e la morte con una volontarietà attuale: in unione
con il Verbo di Dio, lo spirito di Cristo aveva la capacità di evitare ogni sofferenza
e danno alla sua natura; perciò, non rifiutando l’anima di Cristo nessun danno
inferito al corpo, ma piuttosto volendo che la sua natura corporale fosse sotto-
messa a tale danno, si dice che consegnò il suo spirito, che morì liberamente114.
Infatti l’assunzione da parte di Gesù della sofferenza e del tremendo,
distruttivo potere della morte, è stato incapace di far crollare il suo amore filia-
112
C. Taylor, A Secular Age, 17.
113
CAA 211s.
114
«Quia spiritus eius habebat potestatem conservandi naturam carnis suae, ne a quocumque
laesivo inflicto opprimeretur. Quod quidem habuit anima Christi quia erat Verbo Dei coniuncta in
unitate personae, ut Augustinus dicit, in IV de Trin., quia ergo anima Christi non repulit a proprio
corpore nocumentum illatum, sed voluit quod natura corporalis illi nocumento succumberet,
dicitur suam animam posuisse, vel voluntarie mortuus esse» S. Th. III, q. 47, a. 1c.
329
Capitolo IX
115
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 46, a. 6.
116
Ibid., ad 4.
117
Ibid., ad 4.
118
Si veda M. Hauke, La visione beatifica di Cristo durante la Passione.
330
La morte, fine del pellegrinaggio umano
119
L’Aquinate spiega che il Battesimo non sopprime la morte. Se lo facesse, le persone cercherebbero
questo sacramento per il beneficio corporale che occasiona (IV C. Gent., ed. Marietti, 3958b), e
sarebbero obbligate a credere (ibid., c). Piuttosto il Battesimo muta la morte da punizione ad
opportunità di vivere in conformità con Cristo (S. Th. III, q. 49, a. 3, ad 3).
120
CCC 1011.
121
Si veda G. Ancona, Escatologia cristiana, 331s.
331
Capitolo IX
quel che possediamo, paura di amare generosamente, paura del rischio, paura
della sofferenza. E non meno nei cristiani. Tuttavia, nella fede essi ottengono
la garanzia che il male della morte non li possederà più quando entreranno
nella gloria e saranno definitivamente ricolmi dell’amore di Dio. Questo amore
è già infuso nella vita dei credenti (Rm 5,5). E come dice Giovanni, «nell’amore
non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore
suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1 Gv 4,18).
Tommaso d’Aquino offre la seguente spiegazione: «tra i generi di paura
che si possono sperimentare sulla terra, il peggiore di tutti è la morte. Se l’uomo
supera questo genere di paura, egli supera tutti i generi… Ora, Cristo attraverso
la sua morte ha rotto questo legame, e ha rimosso la paura della morte… Quan-
do l’uomo considera che il Figlio di Dio, il Signore della morte, ha voluto morire,
non ha più alcuna paura della morte»122. E san Josemaría Escrivá: «Un figlio di
Dio non ha paura della vita e non ha paura della morte, perché il fondamento
della sua vita spirituale è il senso della filiazione divina: Dio è mio Padre, egli
pensa, ed è l’Autore di ogni bene, è tutta la Bontà»123.
122
Tommaso d’Aquino, Ad Heb. c. 2, su Eb 2,14s.
123
Josemaría Escrivá, Forgia, n. 987. Si veda Cammino, n. 739; Solco, n. 880.
124
Si vedano le pp. 145s.
332
La morte, fine del pellegrinaggio umano
La morte come fine del pellegrinaggio terrestre. Nel libro del Qoèlet leggiamo:
«Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché
non ci sarà né attività, né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per
andare» (Qo 9,10)125. Il Nuovo Testamento punta nella medesima direzione: dopo
la morte non ci sarà l’opportunità di pentimento. Il discorso sul giudizio di Matteo
(Mt 25,24-46) rende chiaro che l’esito dipenderà dalle azioni che si sono compiute
in questa vita: nutrire gli affamati, dissetare gli assetati, ecc. Nel discorso di Luca
sulle beatitudini (Lc 6,20-6), leggiamo che la ricompensa futura dipende dalla vita
che si è vissuta su questa terra. «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati»
(v. 21). Anche nella parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30,36-43), è chia-
ro che il campo in cui i malvagi piantano i semi è “il mondo” (v. 38). Giovanni dice
anche: «chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo,
125
Per questa sezione, si veda C. Pozo, La teología del más allá, 468-73.
333
Capitolo IX
la conserverà per la vita eterna» (12,25). Forse il testo più chiaro è il seguente, della
lettera di Paolo ai Corinzi: «tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale
di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel
corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5,10).
Clemente di Roma scrive: «Mentre siamo sulla terra pentiamoci con tutto
il nostro cuore dei peccati che abbiamo commesso, così che il Signore possa
salvarci nel tempo della penitenza. Infatti quando lasceremo questo mondo non
potremo più fare opere di penitenza»126. Girolamo paragona colui che muore
con un tronco d’albero che cade e rimane dov’è127. Altrove egli spiega che la
morte segna il momento in cui il grano viene raccolto128.
126
Clemente Romano, Ep. in Cor. 8,2.
127
Girolamo, Comm. in Eccl., 11.
128
Girolamo, In Gal., 3, 6,10, su Ga 6,9.
129
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 471s.
130
Su Agostino, si veda B. E. Daley, The Hope, 139.
131
L. Lochet, Jésus descendu aux enfers, Cerf, Paris 1979, 127-33; 169s.; J. R. Sachs, Current
Eschatology, 233ss. Si veda la documentazione raccolata da J. A. Trumbower, Rescue for the Dead:
the Posthumous Salvation of non-Christians in Early Christianity, Oxford University Press, Oxford
(UK); New York 2001.
132
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 443-5.
334
La morte, fine del pellegrinaggio umano
La piena retribuzione dopo la morte nella Scrittura. Oltre ai testi che parlano
della morte come fine del pellegrinaggio terreno, la Scrittura insegna anche che
la piena retribuzione può aver luogo immediatamente dopo la morte. Rispetto
alla dannazione eterna, abbiamo già visto che non è possibile pentirsi del proprio
peccato dopo la morte133. Non c’è alcuna ragione perché Dio dovrebbe rimandare
la retribuzione personale ad un momento successivo. Nella parabola di Lazzaro
e del ricco (Lc 16,19-31), la ricompensa per entrambi, così sembra, giunge imme-
diatamente dopo la morte: «il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad
Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto» (v. 22). È chiaro, inoltre, che la situa-
zione di Lazzaro e del ricco non costituisce un tipo di passaggio intermedio di
attesa, che possa alla fine essere modificato; infatti Abramo dice al ricco: «tra
noi è voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare a
voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi» (v. 26). Sebbene lo scopo
della parabola non sia principalmente quello di spiegare la salvezza e la condan-
na escatologiche134, Gesù parla in questo modo per presentare una sfida etica
con delle conseguenze reali, cioè escatologiche. Inoltre, diversi Padri della Chiesa
comprendono il testo come una affermazione della retribuzione immediata135.
Tuttavia, è interessante notare che la questione della retribuzione piena
dopo la morte non è unanimemente risolta tra i Padri della Chiesa136.
133
Si vedano le pp. 259s.
134
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 248-51.
135
Si veda per esempio Giovanni Crisostomo, In I Cor. hom., 42,3; In Ep. 6 ad Gal., 3; De Lazaro
Conc. 7,3.
136
Così C. Pozo, La teología del más allá, 473s., 490-2.
137
Così Clemente di Roma, Ignazio d’Antiochia, Policarpo, il Pastore di Erma.
138
Cipriano, Ad Fort. 13. La ricompensa immediata è destinata a coloro che «hanno abbandonato
e condannato i loro beni…», che «sono stati fermi nella fede e nel timore di Dio» ibid., 12. La
salvezza «è un dono della benevolenza di Dio, ed è accessibile a tutti» Ad Donat. 14.
139
Giustino dice che «le anime delle persone pie stanno in un posto migliore, mentre quelle
degli ingiusti e dei malvagi in uno peggiore, aspettando il giudizio» Dial. cum Tryph. 5,3. Questa
335
Capitolo IX
posizione probabilmente è determinata sia dagli insegnamenti ebrei che da quelli gnostici: «se
tu trovi qualche cristiano che dice che non c’è resurrezione dei morti, ma che al momento della
morte le anime sono assunte in cielo, non considerarlo cristiano» Dial. 80,4. Ireneo difende la
medesima posizione, Adv. Haer. V, 31,2; De anima 55.
140
Questa posizione è unanime tra i Padri della Chiesa. Si veda C. Noce, Il martirio. Testimonianze
e spiritualità nei primi secoli, Studium, Roma 1978, 55. I martiri sono tutti con Cristo, secondo
Ignazio d’Antiochia, Ad Rom. 6,1-2. Su Ignazio, si veda F. Bergamelli, Morte e vita in Ignazio
d’Antiochia, «Parola, Spirito e Vita» 32 (1995) 273-88. Anche Clemente di Roma ha questa
posizione, Ep. in Cor. I, 5,4-7; Ad Fort. 13; si veda Policarpo, Ad Phil. 9,2. Su quest’ultimo si veda
C. Burini, ‘… Questo giorno e questa ora’ (Mart. Polyc. 14,2), «Parola, Spirito e Vita» 32 (1995)
259-71. Si veda anche Tertulliano, De res. 43,4, che parla della particolare situazione dei martiri
come «una prerogativa che deriva dal loro martirio». Agostino dice: «Iniuria est pro martyre
orare, cuius nos debemus orationibus commendari» Sermo 159,1,1.
141
Si veda per esempio Ambrogio, In Luc. 7,4s.
142
Sulla nozione di refrigerium interim, si veda A. Stuiber, Refrigerium interim. Die Vorstellungen
vom Zwischenzustand und die frühchristliche Grabeskunst, Hanstein, Bonn 1957; L. De Bruyne,
Refrigerium interim, «Rivista di Archeologia cristiana» 34 (1958) 87-118, che offre una risposta
critica a Stuiber.
143
Secondo J. B. Russell, A History of Heaven, 68.
144
Tertulliano, De anima 58.
145
In alcune opere (per esempio De princip. I, praef. 5), Origene parla di retribuzione immediata, in
altre (In Lev. Hom. 7,2), di retribuzione alla fine dei tempi. Si veda H. Crouzel, Morte e immortalità
nel pensiero di Origene, in Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del III-V secolo, a cura di S.
Felici, Las, Roma 1985, 316-57; C. Noce, Il martirio; B. E. Daley, The Hope, 55s.
146
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 51,23.
147
Gregorio di Nazianzeno, Or. 7,21.
148
Cirillo d’Alessandria insegna chiaramente che la ricompensa o il premio è immediato dopo la
morte: In Joann. 12, on Gv 19,30.
149
Gregorio Magno, per quanto riguarda il cielo: Dial. 4,26,1s.; e l’inferno: Dial. 4,29.
150
Giuliano di Toledo, Prognost. fut. saec. II, 37.
336
La morte, fine del pellegrinaggio umano
inferi… Chiunque sia con Cristo sicuramente non rimane negli inferi»151. Così
anche Giovanni Crisostomo152.
Ci sono tuttavia delle eccezioni tra i Padri. Ambrogio dice che «tutti i
morti resteranno nell’hadēs fino al giudizio finale, alcuni attendendo il castigo,
altri la gloria e l’onore»153. Ugualmente Agostino riteneva che «tra la morte e
la resurrezione finale, le anime si trovano in un posto nascosto (abditis recep-
taculis), per il riposo, o la punizione, secondo i meriti che derivano dalla loro
vita sulla terra»154. Nella Liturgia delle ore si può leggere la seguente preghie-
ra: Spem defunctorum adimple, ut in adventu Christi resurrectionem assequan-
tur155: “Colma la speranza dei defunti di ottenere la resurrezione nella venuta di
Cristo”. Questo sembra indicare che la retribuzione piena è rinviata.
Dall’VIII secolo in poi, la piena retribuzione dopo la morte è la posizio-
ne generalmente accettata tra i Padri e i teologi. Restano alcun eccezioni: san
Bernardo in Occidente156, e Fozio di Costantinopoli († 891) e Teofilatto (XI sec.)
in Oriente157. Infatti, una parte considerevole della teologia orientale a partire dal
Medioevo rimanda il destino finale escatologico al tempo del giudizio finale158.
151
Girolamo, In Eccl. 9,10.
152
Crisostomo dice che la punizione e il premio iniziano subito dopo la morte. Si veda la sua
riflessione sulla parabola di Lazzaro e del ricco: In cap. 6 Ep. ad Gal. 3; De Lazaro Conc. 7,3. Per
quanto riguarda l’immediatezza della ricompensa, si veda De Beato Philogonio, 1.
153
Ambrogio, De bono mortis, 10,47. Su quest’opera, si veda R. Iacoangeli, La catechesi escatologica
di S. Ambrogio, «Salesianum» 41 (1979) 403-17.
154
Agostino, Enchirid., 109. Sul “seno di Abramo” e il paradiso, si veda Ep. 187, 2,6. Si può trovare
la medesima idea in In Io. Ev. tr. 49,10; Retract. I, 14,2 nei confronti della visione beatifica.
155
Preces ad II Vesp., Fer. VI, Haeb. VII Paschae. Secondo H. de Lubac, Cattolicesimo. Aspetti
sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1979, 201ss, Cristo stesso ha sperimentato una certa speranza
nei confronti della ricompensa finale.
156
Si veda per esempio Bernardo, Sermo in Nat. S. Victoris Conf., 5; Sermo 138, 4; De diligendo Deo,
30; Ep. 374 In trans. B. Malachiae, 2. Sulla posizione di Bernardo, si veda B. De Vrégille, L’attente
des saints d’après saint Bernard, «Nouvelle Revue Théologique» 70 (1948) 225-44.
157
Fozio, De Amphilochium quaest. 6,2 e Teofilatto, Exp. in Ep. ad Heb. 11,39s.
158
Si veda J. Meyendorff, Byzantine Theology. Historical Trends and Doctrinal Themes, Fordham
University Press, New York 1974, 218-22; sul viaggio dell’anima dopo la morte verso il giudizio,
si veda J.-C. Larchet, La vie après la mort selon la Tradition orthodoxe, Cerf, Paris 2001, 63-211.
159
Si veda le pp. 114s.
337
Capitolo IX
aperte, e la sua “discesa agli inferi” ha posto fine allo she’ol come stato sostan-
zialmente indifferenziato160. Tuttavia, dal momento che l’opera salvifica di Cristo
non cambia la dinamica della retribuzione rispetto al tempo, ma solo rispetto al
contenuto161, è possibile che la retribuzione piena sia rimandata. Contro questa
opinione, si può aggiungere che con l’Ascensione di Cristo in cielo non c’è ragio-
ne per cui Dio debba rimandare l’offerta del premio promesso agli uomini162.
Seconda, è chiaro a partire dalla Scrittura e dai Padri della Chiesa che la
resurrezione e il giudizio finale occupino uno spazio centrale nell’economia della
salvezza cristiana. Se l’opera salvifica di Cristo non è ancora completa, e lo sarà
solo nella Parousia, allora non è possibile una definitiva separazione tra i giusti e gli
ingiusti dopo la morte. Questa è la difficoltà che Agostino ha trovato circa la retri-
buzione immediata163. Tuttavia, bisogna considerare due punti: (1) come abbia-
mo visto prima164, il giudizio finale non è in senso stretto una forma di salvezza
dal peccato, ma piuttosto la manifestazione pubblica dell’atto salvifico che ad un
livello sostanziale ha già avuto luogo, o che non ha prodotto l’effetto desiderato;
(2) la resurrezione dei morti, che è il preludio al giudizio sia dei peccatori che dei
santi, non cambia in senso stretto la situazione delle persone nei confronti di Dio,
sebbene senza dubbio i giusti lo desiderino. Il libro dell’Apocalisse (6,9-11) nota
che i martiri – che secondo tutti i Padri hanno ottenuto il possesso pieno di Dio
in cielo – continuamente invocano la giustizia di Dio. Così, il giudizio definitivo
secondo giustizia non dovrebbe aver luogo fino alla fine dei tempi.
In terzo luogo, l’esitazione dei Padri nei confronti della piena retribuzione
può essere stata generata dalla loro opposizione al pensiero gnostico. Gli gnosti-
ci ritenevano che gli eletti fossero ammessi alla gloria nel momento stesso della
morte, nel senso che supponevano che la morte rompesse i legami (mondo,
corpo, materia) che li tenevano lontani dall’unità con la Divinità. Essi consi-
deravano la morte quindi come il passaggio definitivo verso la loro liberazione.
Questo spiegherebbe perché alcuni Padri avessero abbracciato la dottrina della
retribuzione rimandata.
È chiaro che la retribuzione immediata, per così dire, non è dovuta alla
dinamica della morte in quanto tale, che è in sé distruttiva piuttosto che libera-
160
CCC 635.
161
Così Giustino, Dial. cum Tryph. 5; I Apol. 18,20, ed Ireneo, Adv. Haer. II, 34,1.
162
Secondo J. Ratzinger, Escatologia, 150, la posizione dei Padri è fondata sull’idea ebrea dello
she’ol, ma molto più sul fatto che, con l’ascensione di Cristo, i cieli sono stati aperti.
163
Agostino, Rectrat. I, 13,3s.; C. Tibiletti, Le anime dopo la morte: stato intermedio o vicine di Dio?
(dalla Patristica al sec. XIV), «Augustinianum» 28 (1988) 631-59, in particolare 637.
164
Si vedano le pp. 177s.
338
La morte, fine del pellegrinaggio umano
trice. Invece, con la morte il pellegrinaggio umano si chiude, e Dio non ha ragio-
ni per rinviare l’offerta definitiva all’uomo della comunione eterna con Lui, s’è
pienamente purificato, o della perpetua condanna. In breve, possiamo conclude-
re dicendo che la morte non è la causa, ma l’occasione della piena retribuzione.
165
Su questo periodo, si veda D. Douie, John XXII and the Beatific Vision, «Domincan Studies»
3 (1950) 154-74; F. Lakner, Zur Eschatologie bei Johannes XXII, «Zeitschrift für Katholische
Theologie» 72 (1950) 326-32; A. Tabarroni, Visio beatifica e Regnum Christi nell’escatologia di
Giovanni XXII, in La cattura della fine: variazioni dell’escatologia in regime di cristianità, a cura
di G. Ruggieri e A. Gallas, Marietti, Genova 1992, 123-49; C. Trottmann, La vision béatifique: des
disputes scolastiques à sa définition par Benôit XII, École française de Rome, Roma 1995; J. Gil-i-
Ribas, El debat medieval sobre la visió beatífica. Noves aportacions, «Revista Catalana de Teología»
27 (2002) 295-351; 28 (2003) 135-96.
166
Si veda M. Dykmans, Les sermons de Jean XXII sur la vision béatifique, Presses de l’université
Grégorienne, Roma 1973.
167
Si veda L. Ott e E. Naab, Eschatologie in der Scholastik (Handbuch der Dogmengeschichte
4.7.2), Herder, Basel; Wien 1990, 244-51.
168
Guglielmo di Ockham era un francescano, come lo era il successore di Giovanni XXII, Papa
Benedetto XII.
169
DS 990s.
339
Capitolo IX
che sono dipartite da questo mondo…, purché non avessero la necessità di alcu-
na purificazione al momento della morte… ed ancora le anime dei bambini
che sono stati fatti rinascere nel medesimo battesimo di Cristo… se sono morti
prima di ottenere l’uso della libera volontà: tutte queste anime, immediatamente
dopo la morte (mox post mortem) e, in caso di coloro che hanno bisogno di puri-
ficazione, dopo la purificazione… già prima di riprendere i loro corpi e prima
del giudizio generale, sono state, sono e saranno con Cristo in cielo… A partire
dalla passione e la morte del Signore Gesù Cristo, queste anime hanno visto e
vedono l’essenza divina con una visione intuitiva ed anche faccia a faccia… e in
questa visione godono dell’essenza divina»170. Per quanto riguarda i peccatori
non-penitenti, il testo conclude: «le anime di coloro che sono morti in peccato
mortale attuale scendono all’inferno immediatamente dopo la morte e lì soffro-
no le pene dell’inferno»171.
È chiaro perciò che la retribuzione avrà luogo subito dopo la morte, per
tutti gli uomini. La dottrina della Benedictus Deus è stata confermata frequen-
temente nell’insegnamento ufficiale della Chiesa, per esempio nel Concilio
di Firenze172, che contrastò le posizioni di Fozio e Teofilatto. Anche la Lumen
gentium173 del Concilio Vaticano II ripete questa dottrina come fa il Credo174 di
Paolo VI e il Catechismo della Chiesa Cattolica175.
170
DS 1000.
171
DS 1002.
172
DS 1305ss.
173
LG 49.
174
Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 28.
175
CCC 1022.
176
Ibid.
340
La morte, fine del pellegrinaggio umano
della loro morte, uno per uno. Anche la Lumen gentium insegna la distinzio-
ne tra il giudizio particolare e il generale: «Prima infatti di regnare con Cristo
glorioso, noi tutti compariremo “davanti al tribunale di Cristo, perché ciascuno
ritrovi ciò che avrà fatto quando era nel suo corpo, sia in bene che in male” (2
Cor 5,10), e alla fine del mondo, “ne usciranno, chi ha operato il bene a resurre-
zione di vita, e chi ha operato il male, a resurrezione di condanna” (Gv 5,29)»177.
L’interpretazione data dal documento conciliare di 2 Cor 5 sembra essere che
prima di regnare con Cristo (la Parousia che avrà luogo “alla fine del mondo”),
ci sarà un giudizio precedente per ciascuno178.
177
LG 48d.
178
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 556s.
179
Si vedano le pp. 172s.
180
Cit. da L. Scheffczyk, La teoria della “resurrezione nelle morte” come tentativo di identificazione
della dualità tra consumazione individuale e consumazione universale, Lezione tenuta alla Pontifi-
cia Università della Santa Croce, 1987, 28.
181
Secondo Hegel, l’uomo sarà giudicato dalla storia: si veda J. Milet, Le jugement de Dieu, mythe
ou réalité? Étude philosophique, «Esprit et vie» 98 (1988) 403-11; 417-25, qui 403s. Si veda anche
G. Gozzelino, Nell’attesa, 374.
341
Capitolo IX
dendosi con una sentenza divina. Piuttosto, ciascuno porrà se stesso nel luogo
che gli spetta182. Ciascuno costruisce la propria identità eterna. Ladislao Boros
esprime questa teoria come segue: «l’incontro con Cristo… si svolge nell’ombra
della nostra esistenza… La profondità ultima delle nostre esperienze di vita,
della nostra speranza, del nostro desiderio, della nostra ricerca di amicizia, di
bontà e di coesistenza, anzi, proprio la profondità delle nude e semplice azioni
di aiuto disinteressato è Gesù Cristo stesso»183.
Nondimeno, la dottrina del giudizio particolare trova basi sufficienti nella
Scrittura e nei Padri della Chiesa184.
La dottrina del giudizio particolare nella Scrittura. Si possono fare due osserva-
zioni riguardo la presenza della dottrina del giudizio particolare nella Scrittura185.
Primo, nel Nuovo Testamento si possono trovare diversi testi che parlano
del giudizio individuale. Luca parla dell’uomo nobile che, una volta tornato a
casa, «fece chiamare i servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto
ciascuno avesse guadagnato» (Lc 19,15). Li chiamò separatamente, l’uno dopo
l’altro, e ciascuno fu giudicato in base ai propri meriti e demeriti, senza però
escludere il paragone con gli altri. Infatti quello che aveva fallito nell’investire
non fu in grado di trovare una scusa, e fu condannato «dalle sue stesse paro-
le» (Lc 19,22). Le parabole del povero Lazzaro (Lc 16,22) e del buon ladrone
(Lc 23,43) possono ben indicare che la situazione definitiva di ciascuna persona
davanti a Dio sarà chiarita subito dopo la morte. Il testo seguente dalla lette-
ra agli Ebrei suggerisce l’idea di un giudizio che ha luogo quando la persona
muore: «E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di
che viene il giudizio» (Eb 9,27)186.
In secondo luogo, quasi tutti i testi del Nuovo Testamento che parlano del
giudizio fanno riferimento alle azioni individuali, senza menzionare il preci-
so momento del giudizio. Abbiamo già citato 2 Cor 5,10: «ciascuno riceve la
ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo». Alla fine dei tempi le
persone saranno giudicate per le proprie azioni (Mt 25,35s.42s.). In altre parole,
182
Sulla nozione di corrispondenza tra peccato e punizione, si vedano le pp. 257s. sopra.
183
L. Boros, Noi siamo futuro, 233.
184
In base a Tommaso d’Aquino, S. Th. III, q. 69, a. 2c, L. Beaudouin, Ciel et résurrection, in Aa.vv.,
Le mystère de la mort et sa célébration, Cerf, Paris 1951, 253-74, parla solo di una consapevolezza
generica dei peccatori di meriti o demeriti, e nega la dottrina del giudizio particolare.
185
Sulla nozione di giudizio graduale nell’Antico e nel Nuovo Testamento, si veda G. Gozzelino,
Nell’attesa, 376.
186
Si veda anche 2 Cor 5,8; Fil 1,23; 2 Tm 1,9s.; Eb 12,23.
342
La morte, fine del pellegrinaggio umano
187
Si vedano le pp. 270s.
188
Basilio, Hom. in Ps. 7,2.
189
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 2,49.
190
Efrem, Sermo in eos, qui in Christo dormierunt.
191
Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. 14,4.
192
Cirillo d’Alessandria, Hom. 14.
193
Girolamo, In Joel 2,1.
194
Ambrogio, In Ps. 118, 3,16.
195
Agostino, De anima II, 4,8.
196
Tommaso d’Aquino, Comp. Theol., 242; IV C. Gent., 91. Si veda anche la spiegazione data nel
Catechismo Romano, I, art. 7.
343
Capitolo IX
197
Si vedano le pp. 188s.
198
Si vedano le pp. 148s.
344
La morte, fine del pellegrinaggio umano
Giudizio particolare come auto-giudizio? E cosa si può dire della terza obiezio-
ne al giudizio particolare, che esprime l’idea che la persona giudichi se stessa?
Questa posizione sembra contare su un interessante precedente tra i Padri della
Chiesa. Agostino per esempio quando considera il biblico “libro della vita” (Ap
3,5; 13,8; 17,8) afferma che quest’ultimo fa riferimento ad «una forza e poten-
za divina attraverso le quali gli uomini ricordano tutte le loro opere, così che
possano vedersi, accusarsi od assolversi»200. Tommaso d’Aquino commenta il
seguente passo della lettera di Paolo ai Romani: «Essi dimostrano che quanto la
Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro
coscienza e dei loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono»
(2,15), e dice: «Dio al giudizio usa la coscienza dei peccatori come accusatrice»201.
L’anima, egli dice altrove, illuminata da luce divina, sa istantaneamente se è
degna di ricompensa o punizione202.
In modo interessante, Ilario di Poitiers203 e Zeno di Verona204 ritengono
che il giudizio finale si applica solo a “coloro che stanno in mezzo”, per così
dire, perché sia i buoni che i cattivi sono già stati giudicati alla morte205. Nella
medesima direzione, Ambrogio osserva che «Cristo giudica conoscendo i nostri
cuori, non domandandoci delle nostre azioni»206; infatti, le nostre stesse azioni
ci giudicano mentre le compiamo207.
199
Tommaso d’Aquino, In IV Sent., D. 47, q. 1, a. 1, ql. 1 ad 1.
200
Agostino, De Civ. Dei XX, 14.
201
Tommaso d’Aquino, S. Th. II-II, q. 67, a. 3 ad 1.
202
Tommaso d’Aquino, De Ver. q. 19, a. 1c. H. U. von Balthasar aderisce a questo insegnamento:
Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 264-7.
203
Ilario di Poitiers, Tract. Ps. 1,17; 57,7.
204
Zeno di Verona, Tract. 2,21. Egli dice che il giudizio «viene all’esistenza in situazioni di
ambiguità» ibid., 2,21,1.
205
Su questa questione, si veda B. E. Daley, The Hope, 94-7. Ambrogio dice che solo il “peccatore
credente” verrà giudicato: In Ps. 51. Paolino di Nola è concorde: In Carm. 7,24-36.
206
Ambrogio, In Luc. 10,46.
207
Ambrogio, Ep. 77,10,14.
345
Capitolo IX
208
DS 1549.
346
Capitolo X
1
T. S. Eliot, The Idea of a Christian Society, Faber & Faber, London 1954, 24.
2
F. O’Connor, Revelation, in The Complete Stories (orig. 1971), Farrar, Straus and Giroux, New
York 2007, 508.
3
CCC 1030.
4
Si veda E. J. Fortman, Everlasting Life after Death, Alba House, New York 1976.
347
Capitolo X
maría Escrivá, «il Purgatorio è una misericordia di Dio, per purificare i difetti
di quanti vogliono identificarsi con Lui»5.
Dall’altra parte, la dottrina del purgatorio è tipicamente “cattolica”. I cristia-
ni ortodossi spiegano la purificazione dopo la morte in modo diverso dai catto-
lici. Tradizionalmente, i protestanti negano del tutto l’esistenza del purgatorio.
È anche vero che quest’ultimo non è stato ufficialmente definito dalla Chiesa
fino al Medioevo, e non sembra occupare un posto sostanziale nella Scrittura.
Tuttavia, la ragione per cui la Chiesa non aveva chiaramente definito la dottrina
della purificazione dopo la morte fino a quel momento è piuttosto semplice: in
termini reali, nessuno l’aveva veramente negata. E il fatto è che questa dottrina,
presente ad un livello implicito nella teologia e nella pratica della Chiesa, è anche
profondamente presente nella Scrittura, seppure ad un livello tacito.
5
Josemaría Escrivá, Solco, n. 889.
6
Sull’importanza di questo tema, si veda J. J. Alviar, Escatología, 334-40.
7
Si veda H.-G. Link e J. Schattenmann, Pure, in NIDNTT 3, 100-8.
348
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
una perfetta purificazione della propria vita. In effetti, durante il Discorso della
Montagna, Gesù disse: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).
Secondo, gli uomini sono generalmente consapevoli della potenza e del
carattere apparentemente insuperabile del peccato nella loro vita8. «Sì, le mie
iniquità io le conosco, il mio peccato mi sta sempre dinnanzi… ecco, nella colpa
io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre» (Sal 51,5.7). Gesù, che è
venuto «a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), fu impressionato dalla
debolezza umana: «vedendo le folle, né sentì compassione, perché erano stanche e
sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Paolo nella lettera ai Roma-
ni dà chiara espressione alla potenza del peccato presente nel cuore dell’uomo: «io
faccio non quello che voglio, ma quello che detesto… nel mio intimo acconsento
alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che combatte contro la
legge della mia ragione… Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?»
(Rm 7,15.22-24). Ovviamente, il fatto che tutti gli uomini siano peccatori depone
a favore della necessità di essere purificati dopo la morte.
Terzo, non solo i cristiani sono salvati da Cristo nella fede, ma questo avviene
nella Chiesa, anche tramite la preghiera e la penitenza degli altri credenti. Questa
dottrina è presente in particolare nell’insegnamento di Paolo circa il corpo misti-
co di Cristo, che più tardi è stato definito “comunione dei santi”9. Parlando
dell’unità del Corpo che è la Chiesa, nella lettera agli Efesini leggiamo: «agendo
secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che
è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la colla-
borazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in
modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15s.). «Dio ha disposto il corpo…
perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le
une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e
se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di
Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1 Cor 2,24-7). «Ora io
sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi», scrive Paolo ai Colossesi, «e do
compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del
suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Perciò, egli può esortare i cristiani a portare
«i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2).
8
Sulla presenza del peccato nella vita dei credenti, SS 46.
9
Si veda il mio studio Comunión de los santos.
349
Capitolo X
Il purgatorio nell’Antico Testamento. Il testo più chiaro che parla dello stato di
purificazione post-mortem nell’Antico Testamento si trova nel secondo libro dei
Maccabei (12,40-45)12. Il testo si riferisce ai suffragi offerti dal capo delle tribù
d’Israele, Giuda Maccabeo, in favore dei soldati che avevano coraggiosamen-
te combattuto contro i loro avversari in difesa del Popolo Eletto da Dio, ma
nell’ora della battaglia avevano cercato l’assistenza di divinità pagane tramite
pratiche superstiziose. «Trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri
agli idoli di Iàmnia, che la legge proibisce agli ebrei… perciò si misero a prega-
re, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato» (2 Mac
12,40-2). Giuda, «fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dracme
d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio per il pecca-
to, compiendo così una azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della
resurrezione. Perché, se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero
resuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti… La sua conside-
razione era santa e devota… Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i
morti, perché fossero assolti dal peccato» (ibid., 43-45).
Da una parte, è chiaro che i soldati morirono combattendo per difende-
re Israele, il Popolo di Dio. D’altra parte, avevano peccato non fidandosi total-
mente della potenza del Signore, ma ricercando aiuto supplementare attraverso
pratiche idolatriche, che erano assolutamente proibite agli Ebrei a causa della
loro fede in Jahve come unico Signore. Si considerò, tuttavia, che il loro peccato
non fosse grave e imperdonabile, ma potesse essere perdonato e espiato anche
dopo la morte. Allo scopo di ottenere la purificazione perfetta, furono offer-
ti sacrifici in Gerusalemme. Il testo conferma che la pratica fosse un dato di
10
Si veda il Testamento di Abramo 12-14; Apoc. Moses 35,2; 36,1; 47; 1 Henoc 13,4; 15,2.
11
Agostino, De Civ. Dei XXII, 9,2.
12
Si veda E. O’Brien, The Scriptural Proof for the Existence of Purgatory from 2 Maccabees 12,43-45,
«Sciences Ecclésiastiques» 2 (1949) 80-108.
350
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
fatto13. Che non ci sia una esplicita menzione dello stato purgatoriale in quanto
tale è controbilanciato dalla naturalezza e logica interna della pratica di offrire
sacrifici per i morti.
Il testo è riferito al purgatorio da Efrem in Oriente, Agostino in Occidente,
e diversi altri Padri della Chiesa14. Inoltre, il Concilio Vaticano II, il Catechi-
smo della Chiesa Cattolica e Benedetto XVI citano questo testo a supporto della
dottrina del purgatorio15.
13
Per gli Ebrei, il rito del Kippur (Lv 4-5) veniva usato per redimere i peccati non solo dei viventi
ma anche dei morti. Secondo il testo rabbinico della scuola di Shammai, «nel giudizio ci sono tre
generi di persone: alcune sono destinate alla vita eterna, quelle completamente empie alla vergogna
e al disonore eterni; coloro che sono nel mezzo (né interamente buoni, né interamente cattivi,
un luogo intermedio) scendono nella geenna per essere provati e purificati; poi risorgeranno e
saranno salvati» cit. in F. de Fuenterrabía, El purgatorio en la literatura judía precristiana, in En
torno al problema de la escatología individual del Antiguo Testamento (Semana Bíblica Española
15, 1954), CSIC, Madrid 1955, 115-50, qui 145. Si veda anche A. Lods, La croyance à la vie future
et le culte des morts dans l’antiquité israélite.
14
«Se i seguaci dei Maccabei espiarono i delitti dei morti con sacrifici, quanto più i sacerdoti del
Figlio possono fare con le sante offerte e le preghiere delle loro labbra» Efrem, Testamentum, 78.
Si veda Agostino, De cura pro mortuis gerenda, 1,3.
15
LG 50; CCC 1032; SS 48.
16
Il Catechismo della Chiesa Cattolica riferisce 1 Cor 3 al purgatorio in CCC 1031, nota 605; così
fa Benedetto XVI in SS 46.
17
Per esempio, J. Gnilka, Ist I Kor 3,10-15 ein Schriftzeugnis für das Fegfeuer?, Triltsch, Düsseldorf
1955. Gnilka ritiene che la prova del “fuoco” nel “giorno del Signore” faccia riferimento al ritorno
351
Capitolo X
che il nucleo della dottrina del purgatorio sia presente in questo testo18. Forse
sarebbe corretto dire che il brano offre una buona spiegazione della dinami-
ca generale della purificazione cristiana. Ma il testo ha una innegabile cadenza
escatologica, e la manifestazione finale di cui parla avrà luogo in “quel giorno”,
che è equivalente alla Parousia, la fine dei tempi. Il pentimento personale in
quanto tale non è previsto, ma piuttosto avviene una purificazione dei peccatori.
Alcuni Padri della Chiesa hanno visto in questo testo una base per giustificare
la dottrina di Origene sulla riconciliazione universale o apokatastasis19. Altri,
come Giovanni Crisostomo, lo concepiscono nei termini di una purificazione
che caratterizza la vita cristiana in genere20. Eppure diversi Padri della Chiesa la
riferiscono direttamente al purgatorio21: Ambrogio22, Cesario d’Arles23, Grego-
rio Magno24 e in particolare Agostino25. Ugualmente, diversi teologi contempo-
ranei insegnano che questo testo contiene il nocciolo della dottrina del purgato-
rio, interpretando la purificazione del fuoco in senso cristologico. Torneremo a
considerare questi autori più avanti26.
Secondo Tertulliano27 e altri Padri, la dottrina del purgatorio è presente
anche nell’insegnamento di Gesù sulla necessità di riconciliarsi con l’accusato-
di Cristo per il giudizio finale. “Fuoco” sarebbe semplicemente «una immagine della maestà di Dio
che rivela se stesso, dell’inaccessibilità di Colui che è Santo» ibid., 126.
18
Per esempio C. Spicq, Purgatoire dans l’Ancien Testament, in Dictionnaire de la Bible, Supplément,
vol. 9 (1979), col. 555-7, qui col. 557; E. B. Allo, Première Épitre aux Corinthiens, Gabalda;
Lecoffre, Paris 1934, 60-63, 66s.; S. Cipriani, Insegna I Cor 3,10-15 la dottrina del Purgatorio?,
«Revue Biblique» 7 (1959) 25-43. Ugualmente, J. Michl, Gerichtsfeuer und Purgatorium zu I Kor
3,12-15, in Studiorum Paulinorum Congressus Internationalis Catholicus (1961), vol. 1, Pontificio
Istituto Biblico, Roma 1963, 395-401, ritiene che almeno il nucleo della dottrina del purgatorio si
possa trovare qui. Si veda anche A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 505-71.
19
Si veda H. Crouzel, L’exégèse origénienne de 1 Co 3,11-25 et la purification eschatologique,
qui 282.
20
Giovanni Crisostomo, 1 in Cor., hom. 9,3.
21
Si veda G. Moioli, G., L’“Escatologico” cristiano, 185-8.
22
Ambrogio, In Ps., 36,25.
23
Cesario d’Arles, Sermo 167,6s.; si veda Sermo 179.
24
Gregorio Magno parla di «un fuoco che purifica prima del giudizio per certe mancanze minori»
Dial. 4, 41,3s.
25
Si veda J. Ntedika, L’évolution de la doctrine du purgatoire chez S. Augustin, Études augustiniennes,
Paris 1966, specialmente 67s. In particolare Agostino dice che «alcuni dei fedeli, a causa del loro
amore per i beni passeggeri, saranno purificati, più o meno velocemente, per mezzo di un fuoco
purificatore» Enchirid. 109. Si veda Enn. in Ps., 37,3; De Civ. Dei XXI, 25-27. Si veda anche P. Jay,
Saint Augustin et la doctrine du purgatoire, «Recherches de théologie ancienne et médiévale» 36
(1969) 17-30.
26
Si vedano le pp. 371s.
27
Tertulliano, De anima 35; 58,8. Alcuni autori affermano che l’ultimo testo di Tertulliano non
faccia riferimento ad una sofferenza purificatrice limitata temporalmente, ma piuttosto in una
352
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
re, piuttosto che l’essere mandato in prigione: «in verità io ti dico: non uscirai
di là finché non avrai pagato anche l’ultimo spicciolo» (Mt 5,25s.). Il termine
“prigione” è spesso utilizzato come equivalente di hadēs o di inferi28. La dottrina
dell’Antico Testamento della permanenza nell’hadēs può ora esser vista come
«il purgatorio di cui tutti hanno bisogno»29.
anticipazione temporale nell’anima del peccatore del suo destino eterno: si veda B. E. Daley,
The Hope, 37. Si veda anche A. J. Mason, Tertullian and Purgatory, «Journal of Theological
Studies» 3 (1902) 598-601 e H. Finé, Die Terminologie der Jenseitsvorstellungen bei Tertullian:
ein semasiologischer Beitrag zur Dogmengeschichte des Zwischenzustandes, Hanstein, Bonn 1958.
28
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 231, che cita E. Stauffer, Die Theologie des Neuen Testaments,
W. Kohlhammer, Stuttgart 19484, 196, 296, n. 697.
29
J. Fischer, Studien zum Todesgedanken in der alten Kirche. Die Beurteilung des natürlichen Todes
in der kirchlichen Literatur der ersten drei Jahrhunderte, H. Hüber, München 1954, 258.
30
Tertulliano, De anima, 58.
31
Lattanzio, Div. Instit. VII, 21,1-8.
32
Efrem, Testamentum, 72.
33
Basilio, In Ps. 7,2.
34
Gregorio di Nissa, De mortuis or.
35
Agostino, Enn. in Ps. 37,3. Egli dice: «In hac vita purges me et talem me reddas, cui iam
emendatorio igne non opus sit» De Gen. c. Manich. 2,20,30. Dopo questa vita, i peccatori avranno
«vel ignem purgationis vel poenam aeternam» De Civ. Dei XXI, 13; 24,2. Sulla preghiera per i
morti, si veda Enchirid. 69; 109-110.
36
Cesario d’Arles, Sermo 44, 2.
37
Gregorio Magno, Dial. 4, 39. Sull’insegnamento di Gregorio riguardante il purgatorio, si veda J.
Le Goff, La naissance du Purgatoire, Gallimard, Paris 1982, 121-31.
38
Gregorio Magno, Dial. 4, 41,3.
39
Sulla preghiera per i morti nel periodo patristico, si veda H. B. Swete, Prayer for the Departed
in the First Four Centuries, «Journal of Theological Studies» 8 (1907) 500-14; A. M. Triacca, La
commemorazione dei defunti nelle anafore del IV secolo: testimonianza pregata della sopravvivenza,
in Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del III-IV secolo, a cura di S. Felici, 161-96. Dopo
ciò, si veda J. Ntedika, L’évocation de l’au-delà dans la prière pour les morts: étude de patristique
353
Capitolo X
et de liturgie latines (IVe-VIIIe s.), Nauwelaerts, Louvain; Paris 1971. Si veda anche P. A. Février,
Quelques aspects de la prière pour les morts, in Aa.vv, La prière au Moyen Age (littérature et
civilisation), Publications de l’Université, Aix-en-Provence 1981, 253-82.
40
Congregazione per la Dottrina della Fede, Recentiores episcoporum Synodi (1979), n. 4. Si veda
anche Paolo VI, Apost. Const. Indulgentiarum doctrina (1968), n. 3.
41
CCC 1032.
42
La Passione di Santa Perpetua (spesso attribuito a Tertulliano, forse nel periodo montanista)
racconta della visione che la santa ebbe del fratello Dinocrate, appena scomparso, che soffriva
grandemente. Perpetua comprese immediatamente che questa visione costituiva una richiesta di
preghiera, e poco dopo vide di nuovo il fratello, pulito, ben vestito, e totalmente guarito, contento.
A. Stuiber, Refrigerium interim, 61ss., considera che questa opera non sia di Tertulliano, e inoltre
che non si riferisca né alla colpa né alla punizione, ma a coloro che muoiono giovani. Si veda J.
Fischer, Studien zum Todesgedanken in der alten Kirche, 259s., che sostiene una posizione opposta.
43
Parlando della celebrazione eucaristica, Cirillo dice: «offriamo Cristo immolato per i nostri
peccati, propiziando la grazia divina per i vivi e per i morti» Catech. Mystag., 5,9.
44
«Come possiamo alleviare… i morti?», domanda Crisostomo. «Pregando per loro, chiedendo
agli altri di fare lo stesso, offrendo frequentemente l’elemosina ai poveri. Infatti queste regole sono
state stabilite dagli Apostoli stessi, in modo tale che nel mezzo di questi enormi misteri possiamo
ricordare coloro che sono morti… Sappiamo che i morti traggono grandi benefici da ciò» In ep.
ad Phil. hom., 3,4. «Facciamo loro ricorso e ricordiamoli. Se i figli di Giobbe vennero purificati dai
sacrifici del loro padre, perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro
consolazione? Non esitiamo ad assistere coloro che sono morti e ad offrire le nostre preghiere per
loro» Hom. in I ad Cor. 41,5.
45
«Non bisognerebbe negare ai morti il conforto delle preghiere della Chiesa, quando il sacrificio
[l’Eucaristia] è offerto per loro, o per loro sono fatte le elemosine» Agostino, Enchirid. 110. Si veda
354
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
no, che sarà poi «liberato dai tormenti del fuoco»46. Questo è l’origine della
pratica delle cosiddette “Messe gregoriane”, che sono comunemente celebrate
ogni giorno durante un mese dopo la morte dei credenti cristiani. Isidoro di
Siviglia († 636) offre la seguente spiegazione: «l’offerta del sacrificio [l’Eucari-
stia] per i morti… è una usanza osservata in tutto il mondo. Sembrerebbe che si
tratti di una usanza insegnata dagli apostoli stessi. In effetti, la Chiesa Cattolica
la osserva ovunque. Ora, se la Chiesa non credesse nella possibilità di perdono
per i peccati dei fedeli che sono morti, non farebbe le elemosine per le proprie
anime, né offrirebbe il sacrificio a Dio per esse»47. Gli studi archeologici dei siti
e degli artefatti cristiani rivelano un enorme numero di iscrizioni che attestano
l’usanza della preghiera per i defunti48.
La dottrina del purgatorio è sviluppata a livello teologico da Cipriano (nel
contesto della riconciliazione dei lapsi, quei cristiani che sono stati infedeli
durante le persecuzioni di Diocleziano)49, da Agostino (che ha insistito tutta-
via sul fatto che i martiri entrano in cielo senza passare dal purgatorio)50, e da
Gregorio Magno.
355
Capitolo X
na, almeno i parte, alla dottrina gnostica della purificazione individualistica che
non lascia spazio per l’intervento della preghiera della Chiesa nella purificazione
degli uomini. Per lo gnostico Basilide (II sec.), per esempio, la purificazione post-
mortem costituisce una specie di reincarnazione51, una dottrina che è stata seguita
dai movimenti neo-gnostici nel Medioevo e nei tempi moderni52.
51
Sulla posizione di Basilide, si veda Origene, Comm. in Matth. 38.
52
Sulla relazione tra Purgatorio e reincarnazione, si veda Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, in Aa.vv,
Le mystère de la mort et sa célébration, Cerf, Paris 1951, 279-336.
53
Si veda K. Schmöle, Läuterung nach dem Tode und pneumatische Auferstehung bei Klemens
von Alexandrien, Aschendorff, Münster 1974; J. Ratzinger, Escatologia, 242-245; B. E. Daley, The
Hope, 44-47.
54
Si veda W. C. Van Unnik, The “Wise Fire” in a Gnostic Eschatological Vision, in Kyriakon:
Festschrift Johannes Quasten, a cura di P. Granfield e J. A. Jungmann, vol. 1, Aschendorff, Münster
1970, 277-88.
55
«Il fuoco non santifica né la carne né il sacrificio, ma piuttosto le anime peccatrici – considerando
il fuoco non la fiamma che divora tutto della vita di ogni giorno, ma il fuoco che discerne, che
perfora l’anima che cammina attraverso di esso» Strom. 7,6,34,4. L’enfasi sulla purificazione come
parte del processo di divinizzazione differenzia le dottrine orientali in qualche modo dalla dottrina
latina dell’espiazione: si veda Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, 302-4.
56
Gregorio di Nissa, De mortuis or. Massimo il Confessore parla dell’esperienza purgative dopo la
morte in Quaest. et Dub. 1,10.
57
Sulla nozione di purificazione in Clemente ed Origene, si veda G. Anrich, Clemens und Origenes
als Begründer der Lehre vom Fegfeuer, in Theologische Abhandlungen für Heinrich Julius Holtzmann,
356
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
Il significato del fuoco del purgatorio. Tutto sommato, e a dispetto della varietà
delle espressioni date, la dottrina della purificazione post-mortem è pacificamen-
te accettato in Oriente. Gregorio di Nissa ritiene che l’anima impura «dopo aver
lasciato il corpo, non possa partecipare della vita della divinità, a meno che il
fuoco purificatore abbia epurato le macchie dell’anima»58. Giovanni Crisostomo
sviluppa la dottrina del purgatorio sulla base di 1 Cor 3,10-15. Eppure egli rigetta la
spiegazione di Origene che conduce alla dottrina della riconciliazione universale
(apokatastatis) attraverso il fuoco, e propone invece l’idea che dopo la morte tutti
discenderanno negli inferi (lo she’ol) per essere purificati. Per gli autori orientali,
il purgatorio non è generalmente considerato come un luogo dove la sofferenza
è inflitta in espiazione per il peccato. Invece, i viventi, attraverso le loro preghie-
re, facendo l’elemosina, e partecipando all’eucaristia, possono ottenere sollievo e
conforto per le anime del purgatorio. Piuttosto che espiazione per le proprie colpe,
la purificazione implica un sollievo dei tormenti meritati per queste colpe59.
Nella teologia orientale il risultato è duplice. Primo, l’esistenza del purga-
torio è direttamente collegata al ritardo nella piena retribuzione dopo la morte,
che abbiamo considerato in precedenza60. Ciò genera una possibile confusione
tra il purgatorio e quel che è definito il refrigerium interim. E secondo, il purga-
torio è dissociato dal fuoco purificatore, in quanto quest’ultimo è considerato
un correlato necessario della apokatastasis di Origene. Consideriamo più da
vicino quest’ultimo punto.
La definizione del purgatorio nel Medioevo. Dovrebbe ora essere chiaro perché
la questione della natura (o dell’esistenza) del purgatorio è diventata rilevante
nella relazione tra cristianesimo ortodosso e latino durante il Medioevo61. I
Padri latini dai tempi di Agostino e Gregorio Magno avevano accettato l’idea
del “fuoco” del purgatorio62. Tommaso d’Aquino non solo lo insegnava, ma
a cura di W. Nowack, J. C. B. Mohr, Tübingen 1902, 95-120; T. Spácil, La dottrina del purgatorio
in Clemente Alessandrino ed Origene, «Bessarione» 23 (1919) 131-45; K. Schmöle, Läuterung nach
dem Tode. Schmöle afferma che la purificazione dopo la morte offre «un tipo di ponte metafisico tra
il concetto platonico di immortalità dell’anima e resurrezione» ibid., 135. Si veda anche R. B. Eno,
The Fathers and the Cleansing Fire, «Irish Theological Quarterly» 53 (1987) 184-202.
58
Gregorio di Nissa, De mortuis or.
59
I. N. Karmirês, Abriss der dogmatischen Lehre der orthodoxen katholischen Kirchen, in Die
Orthodoxe Kirche in griechischer Sicht, a cura di P. I. Bratsiotis, vol. 1, Evangelisches Verlag,
Stuttgart 1959, 15-120, in particolare 113-7.
60
Si vedano le pp. 335s.
61
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 496s.
62
Si vedano le pp. 356s.
357
Capitolo X
63
«Idem est ignis qui damnatos cruciat in inferno, et qui iustos in Purgatorio purgat» Tommaso
d’Aquino, Qu. de Purgatorio, a. 2c.
64
Si trova in Pietro Lombardo, IV Sent. D. 43 e Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 97, a. 7.
65
Si vedano gli studi di Anrich, Spácil e Schmöle citati in nota 57.
66
I protagonisti furono il Metropolita di Corfu, George Bardanes, e il frate francescano Bartolomeo.
Si veda M. Roncaglia, Georges Bardanes métropolite de Corfou et Barthelemy de l’ordre Franciscain,
Scuola Tipografica Italo-orientale ‘San Nilo’, Roma 1953; D. Stiernon, L’escatologia nelle Chiese
separate d’Oriente, in L’aldilà, a cura di A. Piolanti, Marietti, Torino 1956, 283-93, in particolare
284s.; C. Pozo, La teología del más allá, 529s.; J.-C. Larchet, La vie après la mort selon la Tradition
orthodoxe, 179-211.
67
Simone di Tessalonica, Dial. c. Haer., n. 23.
68
Per i testi controversi tra cattolici e ortodossi (in particolare Marco di Efeso, chiamato Eugenico)
durante il Concilio di Firenze, si veda J. Gill, G. Hofmann, L. Petit e G. Scholarius, De purgatorio
disputationes in Concilio Florentino habitae = Concilium Fiorentinum, vol. 8/2, Pontificium Institutum
Orientalium Studiorum, Roma 1969. Si veda anche A. d’Ales, La question du Purgatoire au Concile de
Florence 1438, «Gregorianum» 3 (1922) 9-50; J. Gill, Constance et Bâle-Florence, Éditions de l’orante,
Paris 1965; J. Jorgenson, The Debate over the Patristic Texts on Purgatory at the Council of Ferrara-
Florence 1438, «St. Vladimir’s Theological Quarterly» 30 (1986) 309-34; A. De Halleux, Problèmes de
méthode dans les discussions sur l’eschatologie au concile de Ferrare et de Florence, in Christian Unity,
a cura di G. Alberigo, Leuven University Press; Peeters, Leuven 1991, 251-99. Per un riassunto della
discussione tra latini ed ortodossi a Firenze, si veda J.-C. Larchet, La vie après la mort, 186-208, che
presenta in particolare la posizione di Marco di Efeso e Bessarione di Nicea.
358
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
purgatoriis), gli atti di intercessione (suffragia) dei fedeli viventi vanno a loro
vantaggio, cioè il sacrificio della Messa, le preghiere, le elemosine e le altre opere
di pietà che i fedeli sono soliti fare per gli altri fedeli secondo la pratica della
Chiesa»69. È da notare che nessuna menzione va fatta né del “fuoco” del purga-
torio né della sua possibile collocazione fisica. La Chiesa parlò del purgatorio
senza dire nulla del “fuoco” del purgatorio in due precedenti occasioni: il II
Concilio di Lione (1274)70 che come quello di Firenze tentò di ripristinare unità
dottrinale tra Oriente ed Occidente; e la Costituzione Benedictus Deus di Bene-
detto XII (1336)71. Alcuni minori documenti della Chiesa del Medioevo, tutta-
via, fanno menzione del “fuoco” del Purgatorio72, come fa il Credo del Popolo di
Dio73 di Paolo VI e il Catechismo della Chiesa Cattolica74 .
69
Concilio di Firenze, Decretum pro Graecis: DS 1304.
70
DS 856.
71
DS 1000.
72
Per esempio una lettera di Papa Innocente IV mandata nel 1254 agli orientali, Sub catholica
professione (DS 838) e la lettera Super quibusdam (1351) di Papa Clemente VI (DS 1067).
73
«Credimus animas eorum omnium, qui in gratia Christi moriuntur – sive quae adhuc Purgatorii
igne expiandae sunt, sive quae statim ac corpore separatae… a Iesu in Paradisum suscipiuntur –
Populum Dei constituere post mortem» Paolo VI, Credo del popolo di Dio, n. 28, in AAS 60
(1968) 445. La traduzione italiana presente nel «Enchiridion Vaticanum» 3,564 traduce il testo
semplicemente dicendo che le anime «saranno purificate ancora in purgatorio».
74
CCC 1031, citando Gregorio Magno, Dial. 4,39.
75
Alano di Lille, Liber poenitentialis; Simone di Tournai, Disputationes.
76
Pietro Lombardo, In Sent. IV, D. 17, q. 2; D. 18, q. 1; D. 21, D. 45.
359
Capitolo X
La negazione del purgatorio. Lutero, a dispetto della sua avversione per le indul-
genze e pratiche simili, inizialmente accettò la dottrina del purgatorio. A causa
dell’insistenza di Zwingli († 1531)82, tuttavia, nel 1519 giunse ad insegnare che
tale dottrina non si trova nella Scrittura. Questa affermazione implicava, tra
l’altro, un rifiuto della canonicità di 2 Maccabei83. Nel 1524 insegnò che non
si dovessero offrire Messe per i morti84. Nella sua opera del 1530, Rectractatio
purgatorii, in occasione della Dieta di Augusta85, egli ne negò l’esistenza, e nel
77
Sull’origine del termine “purgatorio”, si veda J. Le Goff, La naissance, 209-35.
78
Questa è la tesi di J. J. Le Goff, La naissance, 407-10. Si veda anche H. J. Berman, Law and
Revolution: the Formation of the Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cambridge
1983, capitolo 3.
79
Si veda per esempio L. Genicot, L’Occident du Xe au XIIe siècle, «Revue d’Histoire Ecclésiastique»
78 (1983) 397-429, qui 421-6; J.-G. Bougerol, Autour de “La naissance du Purgatoire”, «Archives
d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen-Age» 58 (1983) 7-59; M. P. Ciccarese, La nascita del
purgatorio, «Annali di Storia dell’esegesi» 17 (2000) 133-50.
80
Si veda l’ampia panoramica storica di A. Michel e M. Jugie, Purgatoire, in DTC 13 (1936) 1163-
357.
81
Si veda H. Wagner, Probleme der Eschatologie: ökumenische Perspektiven, «Catholica» 42 (1988)
209-23, in particolare 214.
82
Si veda H. Zwingli, Amica exegesis, id est: expositio eucharistiae negocii, ad Martinum Lutherum,
in Corpus Reformatorum, vol. 92, 716-8. Sulla dottrina di Lutero sul purgatorio, si veda L.
Cristiani, I novissimi nella dottrina di Lutero, in L’aldilà, a cura di A. Piolanti, 297-300; E. Kunz,
Protestantische Eschatologie, 21s.
83
Dalla disputa di Leipzig, la cui dottrina fu condannata poi da papa Leone X: DS 1487-90.
84
M. Lutero, De abroganda Missa.
85
M. Lutero, Rectractatio purgatorii, in WA 30/2,367-90.
360
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
1538, negli Articoli di Smalcalda lo definisce mera diaboli larva, “una mera larva
del diavolo”86. Ugualmente Zwingli e Calvino negarono apertamente l’esistenza
del purgatorio87. Per questo rifiuto sono state suggerite due ragioni, una basata
sulla teologia fondamentale (la dottrina della tradizione), l’altra sul dogma (l’in-
segnamento sulla giustificazione)88.
Per quanto riguarda la tradizione, Calvino riconobbe che fin dai primis-
simi tempi nella Chiesa esisteva l’usanza di pregare per i morti: «è stata pratica
per mille trecento anni quella di offrire preghiere per i morti». Tuttavia, osser-
vava, «ammetto che coloro che hanno compiuto tali pratiche si sono fatti pren-
dere dall’errore, dal momento che l’effetto comune della rozza credulità è la
distruzione del giudizio… Non li dovremmo imitare in questo»89. Per Calvino,
la testimonianza della liturgia e la vita della Chiesa non è del tutto affidabile. Le
inclinazioni umane, come quella di pregare Dio per gli amati defunti, non offre
una guida sicura in materia di fede, e in questo caso hanno portato i credenti
ad accettare dottrine di provenienze filosofiche e pagane che corrompono i veri
insegnamenti cristiani. Così Calvino.
La negazione del purgatorio è strettamente connessa anche con la dottrina
luterana della “giustificazione per sola fede”, cioè, senza le opere90. Secondo il
pensiero protestante, gli uomini o vengono salvati esclusivamente dalla grazia
di Dio, o sono condannati per i peccati che hanno sicuramente commesso. Gli
uomini non contribuiscono di per sé alla loro salvezza: Dio vede Cristo in colo-
ro che credono i lui, e così li salva. Gli insegnamenti del luteranesimo classico
secondo cui la giustificazione non produce principalmente un rinnovamento
interiore dei peccatori (che porta con sé una dolorosa purificazione dell’anima),
ma piuttosto una imputazione forense dei meriti di Cristo91. Zwingli ha insisti-
to con Lutero che la dottrina della giustificazione per fede era incompatibile con
86
M. Lutero, Artic. Smalcald. 2,11, in WA 50,204-7.
87
J. Calvino, Instit. christ. 3,5. Sulla posizione dei protestanti in generale, si veda Y. M.-J. Congar,
Le mystère de la mort, 280-93; T. F. Torrance, The Eschatology of the Reformation, in T. F. Torrance
e J. K. S. Reid (a cura di), Eschatology: Four Papers Read to the Society for the Study of Theology,
Oliver & Boyd, Edinburgh 1953, 36-90. In particolare sulla dottrina di Lutero, si veda P. Althaus,
Luthers Gedanken über die letzen Dinge, «Luther Jahrbuch» 23 (1941) 22-28, e su Calvino, si veda
H. Schutzeichel, Calvins Protest gegen das Fegfeuer, «Catholica» 36 (1982) 130-49.
88
L. Cristiani, I novissimi nella dottrina di Lutero; E. Kunz, Protestantische Eschatologie.
89
J. Calvino, Instit. christ. 3,5,10.
90
Si veda il mio studio Fides Christi, passim.
91
Si veda J. A. Möhler, Symbolik, Nationale Verlagsanstalt Buch, München; Regensburg 18949,
§§ 52s. Quest’opera mostra chiaramente un legame tra la negazione del purgatorio e la visione
protestante della giustificazione.
361
Capitolo X
quella della potestas clavium, o il potere delle chiavi, che la Chiesa esercita92.
Infatti, Calvino era dell’opinione che la dottrina del purgatorio fosse principal-
mente «una questione di mantenimento dei sacerdoti»93.
Le due ragioni sono collegate l’una all’altra. Gli uomini sono incapaci di
buone opere perché sono profondamente corrotti dal peccato. Questo rende più
agevole per loro accogliere le inclinazioni umane difettose, quella ad esempio
di pregare per i morti, invece che fidarsi dell’opera di Dio come unico punto di
riferimento per la loro fede. E per la medesima ragione, la forza giustificante di
Dio deve rimanere estrinseca agli uomini.
92
H. Zwingli, Amica exegesis, 718. Egli insiste con Lutero sul fatto che la dottrina del purgatorio è
incompatibile con la salvezza cristiana.
93
J. Calvino, Instit. christ. 4,5,9.
94
DS 1820. Sulla XXV sessione di Trento, si veda H. Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, vol.
4/2, Herder, Freiburg i. B. 1975; anche la XXII sessione sulla Messa fa riferimento al purgatorio:
DS 1753. Si veda anche DS 1867, 1986, 2534, 2642 ecc. Si veda P. Schäfer, Eschatologie. Trient und
Gegenreformation, Herder, Freiburg i. B. 1980.
95
Sessione IV: DS 1501-5.
96
DS 1580, dalla VI sessione de Iustificatione, can. 30.
97
DS 1820.
98
Si veda A. Michel, Purgatoire (1936). Sulla storia recente e sul declino della dottrina del
purgatorio, si veda G. Cuchet, Le crépuscule du purgatoire, A. Colin, Paris 2005.
362
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
99
Roberto Bellarmino, Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis
haereticos, Bellagatta, Milano 1721; De Ecclesia quae est in purgatorio, in Opera omnia, vol. 2,
Napoli 1877, 351-414.
100
Si veda F. Suárez, De purgatorio, in De poenitentia, disp. 47.
101
Si veda G. Panteghini, Il purgatorio: l’incontro purificatore con Dio, «Credere oggi» 8 (1988)
79-91, qui, 86; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 126-34.
102
Si veda P. Moghila, La confession orthodoxe de Pierre Moghila, cit. da W. Pannenberg, Teologia
sistematica, vol. 3, 648. Si veda anche R. Zuzek, L’escatologia di Pietro Moghila, «Orientalia
Christiana Periodica» 54 (1988) 353-85.
103
Dosideus, Lettera ai Patriarchi (Confessione).
104
M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 133s.
105
S. Bulgàkov, L’orthodoxie, F. Alcan, Paris 1932, 255s.
363
Capitolo X
106
P. Evdokimov, L’orthodoxie, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel; Paris 1959, 293.
107
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 221. Sulla soteriologia ortodossa, si veda Y. Spiteris, Salvezza
e peccato nella tradizione orientale, Dehoniane, Bologna 1999.
108
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 221. Egli aggiunge che «l’Oriente non avrà mai una dottrina
delle “indulgenze”» ibid.
109
Sulla situazione attuale della teologia ortodossa, si veda I. N. Karmirês, Abriss der dogmatischen
Lehre der orthodoxen katholischen Kirchen, 112-120; P. N. Trembelas, Dogmatique de l’Église
orthodoxe catholique, vol. 3, Desclée, Paris 1968, 435-55.
110
Si veda E. Lanne, The Teaching of the Catholic Church on Purgatory, «One in Christ» 28 (1992)
13-30; D. M. Chapman, Rest and Light Perpetual. Prayer for the Departed in the Communion of
Saints, Ecumenical Society of the Blessed Virgin Mary, Surrey 1996; il mio studio Fides Christi.
The Justification Debate.
111
Autori protestanti come P. Maury, L’eschatologie, Labor et Fides, Genève 1959, 45s., e P. Althaus,
Die letzen Dinge, 209-20, per la maggior parte mantengono i tradizionali insegnamenti protestanti
per la medesima ragione di prima, sebbene il secondo non la rifiuti completamente: ibid., 210s.
Così anche P. Tillich, che parla di una graduale incorporazione in Dio tramite la morte. Su questo,
si veda H. Wohlgschaft, Hoffnung angesichts des Todes: das Todesproblem bei Karl Barth und in
der zeitgenössischen Theologie des deutschen Sprachraums, F. Schöningh, München 1977, 143,
146. Sulla preghiera per i dannati tra i protestanti, si veda F. Heidler, Die biblische Lehre von der
Unsterblichkeit der Seele, Sterben, Tod, ewiges Leben im Aspekt lutherischer Anthropologie, 189s.
112
Si veda G. L. Müller, “Fegfeuer”. Zur Hermeneutik eines umstrittenen Lehrstückes in der
Eschatologie, «Theologische Quartalschrift» 166 (1986) 523-41.
364
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
gicamente” più vicina alla vita eterna che alla condanna, che semplicemente
esclude la salvezza. La lettera del 1979 della Congregazione per la Dottrina della
Fede sull’escatologia afferma che la Chiesa crede «ad una eventuale purificazio-
ne degli eletti, preliminare alla visione di Dio, che è, tuttavia, del tutto diversa
dalla pena dei dannati»113. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice altrettan-
to: «la Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è
tutt’altra cosa dal castigo dei dannati»114. In generale, è rischioso indagare trop-
po attentamente la natura della vita dell’aldilà; il purgatorio non fa eccezione a
questa regola. Con tutto, nelle pagine successive esamineremo alcune posizione,
solidamente fondate sulla riflessione teologica e sull’esperienza spirituale, che
spiegano lo scopo e le caratteristiche del purgatorio, che Dante descrive nella
semplice formula: a farsi belli, portare gli uomini attraverso la grazia di Dio alla
pienezza dello splendore e della bellezza115.
113
Congregazione per la Dottrina della Fede, Doc. Recentiores episcoporum Synodi, n. 7.
114
CCC 1031. Così anche il Catechismo della Conferenza Episcopale Italiana: «La purificazione
dopo l’esistenza terrena non può che essere opera d’amore, da parte di Dio e da parte dell’uomo.
Dio, per donarsi all’uomo in modo totale, rimuove ogni ostacolo per dilatare la capacità di acco-
glimento dell’uomo» Signore, da chi andremo? Il catechismo degli adulti, Fondazione di religione,
Roma 1988, 467.
115
Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorium II, 75.
116
Tommaso d’Aquino, Qu. de Purgatorio, a. 3c: «in purgatorio erit duplex poena: una damni,
inquantum scilicet retardantur a divina visione; alia sensus, secundum quod ab igne corporali
punientur».
117
Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorium V, 57: Dio «che del disìo di sé veder ne accora».
365
Capitolo X
del gusto amaro della loro vuotezza, perché il Solo che li può soddisfare, il Solo
che essi bramano di adorare, è per loro ancora assente118.
L’Aquinate, in linea con la maggior parte dei teologi latini119, ritiene che il
purgatorio implichi anche una pena inflitta ai sensi tramite il “fuoco”. Se si consi-
dera che il “fuoco” tramite cui i sensi sono tormentati corrisponda alla conver-
sio ad creaturas, il rivolgersi disordinato verso le creature, la sua affermazione
secondo cui il fuoco del purgatorio è uno e il medesimo del “fuoco” dell’inferno,
acquista significato120. Egli insegna anche che, dal momento che dopo la morte
non è possibile alcuna conversione o merito, il purgatorio non è una forma di
espiazione o satisfactio (Tommaso non utilizza mai questo termine in riferi-
mento al purgatorio) che le creature, mosse dalla grazia di Cristo, offrono a Dio.
Alcuni autori ortodossi hanno erroneamente affermato che la teologia cattolica
ammette la “soddisfazione” in purgatorio121. È più corretto dire che la purifica-
zione sia una specie di satispassio, una purificazione ricevuta da Cristo attraverso
la Chiesa, che gioca un ruolo attivo nella santificazione delle anime defunte122.
È interessante notare che, storicamente parlando, la negazione della dottrina del
purgatorio (e delle indulgenze) è andata di pari passo con la negazione del ruolo
della Chiesa nella giustificazione e purificazione dell’umanità peccatrice123.
Si ritiene comunemente che tre aspetti del peccato siano purgati dopo
la morte: la colpa dei peccati veniali rimasti alla fine della vita, l’inclinazione
della volontà al peccato, e la punizione temporale dovuta al peccato. In primo
luogo, la purificazione ottiene il perdono dei peccati veniali, che sono realmente
peccaminosi, sebbene non separino definitivamente gli uomini da Dio. L’Aqui-
nate ritiene che ciò abbia luogo con il primo atto di perfetto amore/contrizione
compiuto dopo la morte, quando l’anima percepisce la stortura del peccato e la
bontà di Dio124. Secondo, l’inclinazione al peccato, spesso definita il fomes pecca-
118
Caterina da Genova, Trattato del Purgatorio, Vita francescana, Genova 1954, 17. Su quest’opera,
si veda F. Holböck, Die Theologin des Fegefeuers. Hl. Catharina von Genua, Christiana, Stein am
Rhein 19912.
119
Si vedano le pp. 352s sopra.
120
Si vedano le pp. 255s sopra.
121
J. Meyendorff dice erroneamente che «il legalismo, che riferisce al destino umano individuale la
dottrina anselmiana della “soddisfazione”, è la ratio teologica della dottrina latina del purgatorio»
Byzantine Theology, 221.
122
Si veda in particolare F. Suárez, De purgatorio, in De poenitentia, disp. 47, 2,7.
123
È accaduto così tra i movimenti eretici del medioevo (Albigesi, Catari, e più avanti, Lutero).
J. Le Goff dice: «Questi eretici, che non amano la Chiesa, prendono l’occasione anche di negarle
qualsiasi ruolo dopo la morte, per assicurarsi che il suo potere non si estenda tra gli uomini» La
Naissance, 189.
124
Tommaso d’Aquino, De malo, q. 7, a. 11. Duns Scoto ritiene che essi siano perdonati alla morte
366
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
367
Capitolo X
pio: «Questo ritorno dell’uomo [tramite la morte] all’essenza del suo sentire, si
chiama semplicemente purgatorio. È l’incontro dell’uomo con la sua essenza,
il condensarsi di tutta la sua esistenza, un istantaneo processo di autodivenire
nell’abisso della morte»131. Questo testo certamente accentua la responsabilità e
la partecipazione personale da parte del credente nel processo di purificazione.
Tuttavia, esprime in modo insufficiente la dottrina del purgatorio, attribuen-
do poca attenzione al fatto che la santità in primo luogo richiede la grazia di
Dio, non la personale auto-purificazione. Più in particolare, la spiegazione del
purgatorio come auto-maturazione rende superfluo l’aiuto che si può ricevere
dagli altri nella Chiesa nel superamento della “punizione temporale” dovuta al
disordine che i peccati introducono nel mondo creato. È interessante notare che
il contributo specifico che il Concilio Vaticano II ha voluto portare alla dottrina
del purgatorio, riguarda proprio la preghiera della Chiesa in favore dei morti132.
Il Concilio accetta la fede cristiana «circa la vitale unione con i fratelli che sono
nella gloria celeste o che ancora dopo la morte stanno purificandosi»133.
Ovviamente i cristiani non hanno conoscenza certa dell’efficacia delle loro
preghiere per i morti, né riguardo le singole persone, né in relazione al livello
di aiuto che possono portare. Con il libro della Sapienza, la Chiesa è contenta
di esclamare: «le anime dei giusti, sono nelle mani di Dio» (3,1). Probabilmente
è corretto affermare che le preghiere dei cristiani portino beneficio allo stesso
tempo a tutti coloro che vengono purificati. Inoltre, sulla base della dottrina della
comunione dei santi134, si ritiene comunemente che le anime in purgatorio possa-
no assistere con le loro preghiere coloro che sono ancora pellegrini sulla terra135.
131
L. Boros, Noi siamo futuro, 232. Si veda anche O. Betz, Il purgatorio come maturazione in Dio,
in Il cristiano e la fine del mondo, a cura di O. Betz, F. Mussner e L. Boros, Paoline, Roma 1969,
173-89.
132
LG 50a.
133
Ibid. 49.
134
Ibid. 49.
135
Gregorio di Nazianzeno dice: «Confidiamo per la nostra vita nei morti, e per quelle di chi, avendo
vissuto in un altro tempo, essendo morti prima di noi, sono già nella dimora eterna» Dissertat., 7.
Giuliano di Toledo scrive che «le anime in purgatorio non saranno battute in generosità, e offriranno
per noi suppliche di grazie e benedizioni» Prognost. fut. saec. II, 26. Anche F. Suárez mantiene
questa posizione, in De purgatorio, D. 47, a. 2. Si veda anche Sant’Alfonso Maria di Liguori, Il gran
mezzo della preghiera, in Opere ascetiche, vol. 2, Marietti, Torino 1846, nn. 42-6. Josemaría Escrivá
scrive: «Le anime sante in purgatorio. Per carità, giustizia, e per scusabile egoismo – hanno un tale
potere con Dio! – ricordiamole spesso nei nostri sacrifici e nelle nostre preghiere» Cammino, n. 571.
Che le anime sante possano pregare per noi è una posizione comune tra i teologi. Si veda l’opera
classica di J. B. Walz, Die Fürbitte der Armen Seelen und ihre Anrufung durch die Gläubigen auf
Erden. Ein Problem des Jenseits dogmatisch untersucht und dargestellt, Herder, Freiburg i. B., 1927.
Si può trovare la medesima posizione tra i teologi ortodossi: si veda J.-C. Larchet, La vie après la
368
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
mort, 241s. Si veda anche A. Minon, Peut-on prier les âmes du purgatoire?, «Revue Ecclésiastique de
Liège» 35 (1948) 329ss.; A. Rudoni, Escatologia, Marietti, Torino 1972, 195s.; M. Huftier, Purgatoire
et prière pour les morts, «Esprit et vie» 44 (1972) 609-17; A. Piolanti, La communione dei santi e la
vita eterna, 283-9. Si veda anche A.-M. Roguet, Les sacrements nous jugent, «Vie spirituelle» 45
(1963) 516-23, che argomenta contro questa posizione.
136
Agostino, Enn. in Ps., 37,3.
137
Isidoro, De ordine creat., 14,12.
138
Tommaso d’Aquino, Qu. de Purgatorio, a. 3c.
139
Si veda F. Holböck, Fegfeuer: Leiden, Freuden und Freunde der armen Seelen, Christiana, Stein
am Rhein 19782.
140
«Non credo che ci sia una felicità comparabile con quella di un’anima del Purgatorio, eccetto
quella dei santi nel paradiso. E questa felicità cresce ogni giorno per l’azione corrispondente di Dio
(corresponsio) in quell’anima, azione che consuma giorno dopo giorno tutto quello ch’è ostacolo»
Caterina da Genova, Trattato del Purgatorio, 5.
141
Giovanni Paolo II, Udienza Lo Spirito Santo, garanzia di speranza escatologica e determinazione
finale (3.7.1991), in Insegnamenti Giovanni Paolo II, 14/1 (1991) 27-38.
142
«Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto» Francesco d’Assisi, Fioretti, n. 8.
369
Capitolo X
ma, delinea con attenzione i paralleli che esistono tra la purificazione sulla terra e
nel purgatorio143. Parlando dell’esperienza mistica dei cristiani, l’autore spirituale
Mary Starkey-Greig suggerisce che «in purgatorio saremo tutti mistici»144. Altri
autori parlano del purgatorio come di un mistero di misericordia145, il luogo del
divino amore146, del fatto che abbiamo bisogno del purgatorio «per far piacere al
buon Dio»147, e che la sua esistenza parla della «sete per il Dio vivente»148.
Anche se alcuni autori contemporanei ritengono che la purificazione sia
istantanea e coincida con la morte stessa149, la tradizione cattolica in generale
insegna che la durata e l’intensità del purgatorio dipenderà dalla situazione di
ciascuna persona150. Seguendo Tommaso d’Aquino possiamo distinguere tra la
gravità oggettiva dei peccati commessi, e la profondità con cui i peccati sono
radicati nella volontà151. La pratica liturgica di pregare per i morti per un lungo
periodo sembra suggerire che una purificazione istantanea attraverso la morte
non sia accettabile152. Tuttavia, sarebbe rischioso parlare di “tempo” in purga-
torio in modo corrispondente alla cornice temporale terrena153. Senza dubbio,
143
Giovanni della Croce, Noche oscura del alma II, 7,7. Si veda anche Llama de amor viva I, 24.
Sull’aspetto purgatoriale della vita spirituale in generale e il parallelo che esiste tra purificazione
sulla terra e dopo la morte, si veda L. F. Mateo-Seco, Purgación y purgatorio en San Juan de la
Cruz, «Scripta Theologica» 8 (1976) 233-77. Si veda anche U. Barrientos, Doctrina de San Juan de
la Cruz sobre el Purgatorio a la luz de su sistema mistico, Angelicum, Roma 1959.
144
M. Starkey-Greig, The Divine Crucible of Charity, Burns, Oates & Washbourne, London 1940,
40. Su questa questione, si veda l’opera classica di J. Bautz, Das Fegfeuer: im Anschluss an die Scho-
lastik, mit Bezugnahme auf Mystik und Ascetik dargestellt, Kirchheim & Co., Mainz 1883. Si veda
anche R. Garrigou-Lagrange, Perfection chrétienne et contemplation, Desclée, Paris 1923, 182s.; Y.
M.-J. Congar, Le purgatoire, 319.
145
Si veda G. Lefebure, Le purgatoire, mystère de miséricorde, «Vie spirituelle» 45 (1963) 143-52.
146
B. Moriconi, Il purgatorio soggiorno dell’amore, «Ephemerides Carmeliticae» 31 (1980) 539-78.
147
P. de la Trinité, Il purgatorio. Che ne pensa S. Teresa di Lisieux, Teresianum, Roma 1972.
148
Si veda D. Carnovale Guiducci, Sete del Dio vivente: il purgatorio, preludio alla gioia piena,
Vaticana, Città del Vaticano 1992.
149
Si veda L. Boros, Mysterium mortis, 129-39; H. Rondet, Immortalité de l’âme ou résurrection de
la chair?, «Bulletin de littérature ecclésiastique» 74 (1973) 53-65; G. Martelet, L’au-delà retrouvé:
christologie des fins dernières, Desclée, Paris 1975, 140ss.; G. Greshake e G. Lohfink, Naherwartung.
Auferstehung. Unsterblichkeit, Herder, Freiburg i. B. 1975, 138; K. Lehmann, Was bleibt vom
Fegfeuer?, «Communio (Deutsche Ausg.)» (1980), 236-43, 239s. Interessante anche la riflessione
di J. Ratzinger, Escatologia, 228s.
150
Si veda E. Brisbois, Durée du purgatoire et suffrages pour les défunts, «Nouvelle Revue
Théologique» 81 (1959) 838-45.
151
«Acerbitas poenae proprie respondet quantitati culpae; sed diuturnitas respondet radicationi
culpae in subjecto; unde potest contingere quod aliquis diutius moretur qui minus affligitur, et e
converso» Qu. de Purgatorio, a. 8 ad 1.
152
Si vedano le pp. 367s sopra.
153
«Non c’è alcun bisogno di convertire il tempo terrestre in tempo di Dio: nella comunione delle
anime il tempo terreste è semplicemente rimpiazzato» SS 48.
370
Il purgatorio: la purificazione degli eletti
154
Prima della riforma liturgica che è seguita al Concilio Vaticano II, le indulgenze parziali venivano
calcolate sulla base dei giorni. Questo ovviamente non faceva riferimento al tempo da trascorrere
in purgatorio, ma piuttosto al numero di giorni di penitenza canonica cui corrispondono
particolari devozioni. Il fatto che coloro che portano lo Scapolare della Madonna del Carmelo
saranno liberati dal purgatorio il sabato dopo la loro morte (il cosiddetto privilegio sabbatino), è
una tradizione lunga e profondamente radicata nella Chiesa. Si veda B. Zimmermann, De Sacro
Scapulario Carmelitano, «Analecta Ordinis Carmelitarum Discalceatorum» 2 (1927-8) 70-80; L.
Sassi, Scapulaire, in Dictionnaire de la Spiritualité 14 (1990) col. 390-96, in particolare 393s. Si
parla di questo privilegio nel riassunto delle indulgenze delineato da Papa Innocenzo XI (1678) e
da Pio X (luglio 1908). Si veda anche san Josemaría Escrivá, Cammino, n. 500.
155
La divina misericordia che il purgatorio implica serve come supporto della speranza dei cristia-
ni: si veda K. Reinhardt, Das Verständnis des Fegfeuers in der neuern Theologie, «Trierer theologi-
sche Zeitschrift» 96 (1987) 111-22, in particolare 120-2.
156
Si veda W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 616-20.
157
G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 183.
371
Capitolo X
Padre, tramite la “consumazione” del suo corpo. Questo passaggio che è quello
dell’umanità e ha la resurrezione generale come suo fine, continua anche dopo
che il velo della morte è caduto, con tre elementi essenziali: purificazione, libe-
razione ed espiazione»158. Il medesimo autore continua insistendo sul fatto che
il purgatorio dovrebbe essere concepito soteriologicamente, in relazione con la
dottrina della discesa di Cristo all’inferno159. Von Balthasar, seguendo Congar,
descrive il purgatorio come una «dimensione di giudizio, come l’incontro dei
peccatori con gli “occhi… come fiamma di fuoco, i suoi piedi… come bronzo
splendente” (Ap 1,14s. = Dn 10,6) di Cristo»160. E Moioli riassume questa posi-
zione dicendo: «Il Purgatorio sarebbe l’espressione dell’aspetto fondamentale
(quello storico-misterioso e non puramente biologico-fisico) della morte salvata,
come partecipazione della morte di Cristo, e quindi come definitiva distruzione
del peccato, nell’amore-carità e nella sofferenza»161. Papa Benedetto XVI vi fa
riferimento ugualmente nell’enciclica Spe salvi162.
Sulla base della comprensione cristologica del purgatorio, è facile rendersi
conto del fatto che una volta che Cristo tornerà nella gloria nella Parousia non
ci sarà più alcun bisogno del purgatorio. Questa è la posizione comune della
Chiesa, insegnata sia da Agostino163 che da Tommaso d’Aquino164.
158
Y. M.-J. Congar, Le Purgatoire, 335s.
159
Ibid., 284. Nella medesima direzione, anche le citazioni di J. Guitton e B. Sesboüé, in G.
Gozzelino, Nell’attesa, 457s.
160
Si veda H. U. von Balthasar, Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 329-37.
161
G. Moioli, L’“Escatologico” cristiano, 194.
162
«Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso,
il Giudice e il Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo ci
fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare
veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota
millanteria, e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro
essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana
mediante una trasformazione certamente dolorosa “come attraverso il fuoco”. È, tuttavia, un
dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla
fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la
compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra
sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità
e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo» SS 47.
163
Agostino, De Civ. Dei XXI, 16.
164
Tommaso d’Aquino, S. Th. III, Suppl., q. 74, a. 8 ad 5, a causa delle tremende sofferenze
implicate nella Parousia.
372
Capitolo XI
LE IMPLICAZIONI
DI UNA “ESCATOLOGIA INTERMEDIA”
1
Aurelio Prudenzio, Inno per la sepoltura dei morti, 149-53.
2
Si veda la p. 68, nota 14.
373
Capitolo XI
3
Sulla moderna storia dell’escatologia si veda P. Müller-Goldkuhle, Die Eschatologie in der Dogma-
tik des 19. Jahrhunderts, Ludgerus; Wingen, Essen 1966, 8-10; I. Escribano-Alberca, Eschatologie.
4
Sulla nozione scolastica di “gloria accidentale”, si veda Aa.vv., Sacrae theologiae summa, Editorial
Católica, Madrid 19644, 1014-6.
5
Gli aspetti individuali e collettivi dell’escatologia cristiana sono tra loro connessi, senza
separazione o confusione: si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 306; G. Pattaro, La svolta antropologica.
Un momento forte della teologia contemporanea, Dehoniane, Bologna 1991, 42; A. Rudoni,
Introduzione all’escatologia, Marietti, Torino 1988, 78s.
374
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
6
E. Troeltsch suggerisce che l’escatologia dovrebbe essere oggetto di predicazione e pietà, non di
studio: Glaubenslehre III, Dunker & Humbolt, München-Leipzig 1925, 36.
7
Si veda la p. 68, nota 14. Si veda il manuale del protestante D. Hollaz, Examen theologicum
acroamaticum, Stargard 1707, vol. 2, 370-416; vol. 3, § II, cap. 9-10.
8
Si veda R. Guardini, Le cose ultime.
9
Si veda M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen.
10
Giovanni Paolo II e A. Frossard, “Non abbiate paura!”, Rusconi Milano 1983, 87-89. Si veda
anche Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, 197-200.
375
Capitolo XI
11
Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, 200.
12
Per i cristiani, «la salvezza è stata sempre considerata una realtà comunitaria… Questa vita
vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all’essere nell’unione essenziale con
un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”. Essa presuppone,
appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio “io”, perché solo nell’apertura di questo soggetto
universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio» SS 14.
13
La continuità tra le dimensioni individuale e collettiva della escatologia (e perciò tra la
morte e la resurrezione) è al centro di molti recenti studi: J. L. Ruiz de la Peña, Imagen de Dios.
Antropología teológica fundamental, Sal Terrae, Santander 1988, 149; G. Haeffner, Jenseits des
Todes. Überlegungen zur Struktur der christlichen Hoffnung, «Stimmen der Zeit» 193 (1975) 773-
84; in particolare 777; G. Greshake, Theologiegeschichtliche und systematische Untersuchungen
zum Verständnis der Auferstehung, in Resurrectio Mortuorum. Zum theologischen Verständnis der
376
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
377
Capitolo XI
18
Si vedano le pp. 39ss.
19
In particolare A. von Harnack, P. Althaus, K. Barth.
20
Si veda O. Cullmann, Immortalité de l’âme ou résurrection des morts?
21
Ibid., 18.
22
Si veda C. Stange, Die Unsterblichkeit der Seele: Vorlesung, Bertelsmann, Gütersloh 1925; C.
Pozo, La teología del más allá, 167ss.; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 111-26.
378
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
23
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 176s.
24
Si veda ibid., 170.
25
Si veda H. Thielicke, Tod und Leben. Studien zur christlichen Anthropologie, Mohr, Tübingen
19462. Su quest’opera, si veda C. Pozo, La teología, 176, nota 45.
26
Si veda W. Elert, Der christliche Glaube: Grundlinien der lutherischen Dogmatik, Furche, Hamburg
19563. Su questa posizione, si veda H. Wohlgschaft, Hoffnung angesichts des Todes, 131-7.
27
Si veda E. Jüngel, Tod.
28
Alcuni autori cattolici sembrano mantenere questa stessa posizione: P. Laín Entralgo, per
esempio, che era inorridito dalla nozione di anima separata, secondo J. L. Ruiz de la Peña, La
pascua de la creación, 273s.; anche X. Zubiri, in ibid., 274. Si veda anche J.-M. Pohier, «Concilium
(éd. français)» 11 (1975) 352-62.
29
P. Althaus, Die letzen Dinge, 83.
30
E. Jüngel, Tod, 140.
31
Si veda K. Barth, Kirchliche Dogmatik III/2, 524ss.; Die Auferstehung der Toten.
32
Si veda E. Brunner, Das Ewige als Zukunft und Gegenwart, Zwingli, Zürich 1953.
33
Per esempio O. Betz, Die Eschatologie in der Glaubensunterweisung, Echter, Würzburg 1965,
208-10; J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 335-84; G. Biffi, Linee di escatologia cristiana,
97-9; K. Rahner, The Intermediate State, in Theological Investigations, vol. 17, Darton, Longman
& Todd, London 1981; C. Tresmontant, Problèmes du christianisme, Seuil, Paris 1980, 102; F.-J.
Nocke, Eschatologie, 70s.; 115-25; H. U. von Balthasar, Theodramatik 4/2: Das Endspiel, 315-37; J.
B. Libãnio and M. C. L. Bingemer, Escatologia cristã, Vozes, Petrópolis 1985, 214-24.
379
Capitolo XI
34
Si veda O. Cullmann, L’immortalité de l’âme.
35
Si veda P. H. Menoud, Le sort des trépassés d’après le Nouveau Testament, Delachaux et Niestlé,
Neuchâtel 19662; J. J. von Allmen, Mort, in Vocabulaire biblique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel
1954, 187. Si veda anche il cattolico A. Hulsbosch, Die Unsterblichkeit der Seele, «Trierer
theologische Zeitschrift» 78 (1966) 296-304.
36
Si vedano le pp. 128s.
37
M. Lutero, Resolutiones Lutherianae super propositionibus suis Lipsiae disputi, in WA 2,422. P.
Hoffmann, Die Toten in Christus, 237s., non accetta questa posizione.
38
Alcuni autori protestanti ne sono consapevoli. Si veda A. Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit, 139ss.
39
Girolamo rifiuta la posizione di Vigilanzio – che ironicamente soprannomina Dormitanzio –
che ha adottato questa posizione: Ep. 109,1; Contra Vigilantium, 6 e 17. Si veda anche DS 3223.
40
Si veda il mio studio Sola Scriptura o tota Scriptura? Una riflessione sul principio formale della
teologia protestante, in La Sacra Scrittura, anima della teologia, a cura di M. Tábet, Vaticana, Città
del Vaticano 1999, 147-68.
41
Si vedano le pp. 112s.
42
Si vedano le pp. 111s.
380
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
43
Si veda il mio articolo Anima.
44
Si vedano le pp. 317s.
45
Si tratta di una tesi fondamentale di M. Guerra, Antropologías y teología, Eunsa, Pamplona
1976, 370. G. W. E. Nickelsburg, Resurrection, Immortality and Eternal Life, 177-80 non accetta la
posizione di Cullmann che oppone l’ellenico al giudaico.
46
Su questo modo di focalizzare il problema, si veda Thielicke, Tod und Leben, Annex 4; A.
Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit, 112-20; E. Jüngel, Tod, capitolo 4.
47
Si veda K. Barth, Die Auferstehung der Toten.
48
Tommaso d’Aquino, II Sent., D. 19, q. l, a. l ad 7; De Anima, a. 14 ad 19; S. Th. I, q. 75, a. 6
ad 2. J. Ratzinger, Escatologia, 162-165, parla di una “immortalità dialogica”. Su questo concetto
nell’insegnamento di Ratzinger, si veda lo studio di G. Nachtwei, Dialogische Unsterblichkeit.
49
La nozione platonica e idealistica dell’immortalità dell’anima utilizzata da questi autori è
381
Capitolo XI
che «il concetto dell’anima, qual è stato usato nella liturgia e nella teologia fino
al Vaticano II, ha in comune con l’antichità altrettanto poco quanto il concet-
to di resurrezione»50. Perciò non c’è una ragione teologica a priori per negare
l’esistenza dell’anima e la sua immortalità, come ai nostri giorni diversi autori
protestanti hanno cominciato a riconoscere51.
Dal punto di vista antropologico, una quarta difficoltà può essere solleva-
ta nei confronti della concezione protestante della escatologia intermedia. Gli
autori in questione per la maggior parte ritengono che gli uomini sopravvivano,
temporaneamente, tra la morte e la resurrezione, ma in Dio. Nel caso dei difen-
sori della “morte totale”, Ganztod, la resurrezione è una forma di ri-creazione,
perché Dio dovrebbe creare la persona di nuovo. Allora, Dio lo farebbe sulla
base dell’essenza (o eidos) della persona in questione, che Lui deve in qualche
modo trattenere come memoria vivente. Qualcosa del genere è presente nella
dottrina della atemporalità della vita futura, tipica di Barth e Brunner. La coin-
cidenza di due eventi distinti – in questo caso morte e resurrezione – è possi-
bile solo in Dio per il quale il tempo non esiste, ma non negli uomini i cui atti
finiti si succedono l’uno all’altro. È tradizionale dire che gli esseri spirituali (per
esempio gli angeli) sperimentino nei loro atti un qualche tipo di successione,
che spesso viene definita aevum52. La simultaneità di morte e resurrezione, al
tutt’altra cosa rispetto alla concezione cristiana: si veda J. Pieper, Tod und Unsterblichkeit, 169-
88; W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 558s. Kant ed altri considerarono la resurrezione
di Gesù come qualcosa di simbolico, come un modo figurativo di esprimere la nozione di
immortalità: ibid., 559s. Ratzinger, Escatologia, 152s, considera la concezione cristiana dell’anima
come antitetica alla “pura” concezione dell’immortalità del rinascimento greco, che precedette
quello moderno, in particolare quella di P. Pomponazzi, la cui dottrina fu rifiutata dal Concilio
Lateranense V (1513).
50
J. Ratzinger, Escatologia, 162.
51
Pannenberg afferma: «La teologia del primo cristianesimo inizialmente, ed a ragione, valutava
con un certo scetticismo l’idea platonica dell’immortalità dell’anima… Sembrava una espressione
di un arrogante uguaglianza con Dio, come quella che caratterizza il peccato umano» Teologia
sistematica, vol. 3, 587; 595. Avendo all’inizio negato la dottrina dell’immortalità dell’anima, P.
Althaus inizia un certo ritorno ad essa nel suo importante studio: Retraktationen zur Eschatologie,
«Theologische Literaturzeitung» 75 (1950) 253-60. «C’è affinità tra filosofia e sapienza biblica
per quanto riguarda l’immortalità», egli dice. Per questa ragione «la teologia cristiana… non
ha bisogno di combattere l’“immortalità” in quanto tale». Inoltre, «l’idea di giudizio divino non
richiede che gli uomini siano ontologicamente annullati alla morte» ibid., 256. Ugualmente
l’autore luterano F. Heidler considera che l’immortalità dell’anima possa essere dimostrata: si veda
Die biblische Lehre von der Unsterblichkeit der Seele, Sterben, Tod, ewiges Leben. Per uno studio
più recente sull’argomento tra i protestanti, si veda C. Hermann, Unsterblichkeit der Seele durch
Auferstehung. Studien zu den anthropologischen Implikationen der Eschatologie, Vandenhoeck &
Ruprecht, Göttingen 1997.
52
Si veda la p. 227, nota 173.
382
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
contrario, potrebbe far pensare che gli uomini siano in qualche modo assorbiti,
pur temporaneamente, nella vita stessa di Dio53.
Infine, la posizione di Cullmann si muove nella medesima direzione. Egli
disse che la sopravvivenza di un nucleo umano tra la morte e la resurrezione è
dovuta ad un intervento speciale dello Spirito di Dio. «Lo Spirito Santo è un dono
che non si può perdere con la morte»54. Per Cullmann quel che perdura nella
morte è lo Spirito Santo in quanto tale. Ma cosa rimane dell’uomo stesso? La diffi-
coltà sorge qui in particolare nei confronti della sopravvivenza ed immortalità di
chi è dannato. Se lo Spirito Santo non è presente nella sua vita al momento della
morte, come si può dire che egli sopravviva? O tutti sono salvati dalla potenza
dello Spirito Santo, una posizione che diversi autori approvano, oppure i condan-
nati sono annullati, una posizione assunta da altri autori che condividono la visio-
ne di Cullmann55, ma indubbiamente problematica, come abbiamo già visto56.
La posizione assunta dagli autori protestanti risponde anche al fatto che la
teologia protestante nella sua interezza è stata portata a riferire l’escatologia inte-
ramente al futuro, in particolare alla fine del mondo57. Inoltre, il modo in cui gli
hanno presentato il problema suggerisce che quel che potrebbe esser definito un
“deficit metafisico”, per il fatto che essi non danno sufficiente peso alla persona
umana creata in quanto tale, come essere creato spirituale, distinguibile dall’ope-
rare immediato della grazia e del peccato58. In effetti, la teologia protestante tende
a prestare attenzione alla persona esclusivamente nel contesto della salvezza59.
Lutero stesso disse che fides facit personam60, “la fede fa la persona”. Emil Brunner
a sua volta disse che essere una persona emerge nel fatto stesso di rispondere alla
53
Per una critica dell’atemporalismo, si veda W. Künneth, Theologie der Auferstehung, Claudius,
München 1951, 230-5. Secondo Cullmann, Immortalité de l’âme, 66s., e Ahlbrecht, Tod und
Unsterblichkeit, 139ss., l’atemporalismo si fonda non sulla Scrittura ma su una dubbia filosofia.
54
O. Cullmann, Immortalité de l’âme, 75.
55
Per esempio, P. H. Menoud, Le sort des trépassés, 79.
56
Si vedano le pp. 261s sopra.
57
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 226.
58
La dottrina della morte totale (Ganztod) trova un certo precedente in una dottrina chiamata
“thnetosiquismo”, insegnata da alcuni autori arabi dei primi secoli dopo Cristo, secondo Eusebio
di Cesarea: Hist. Eccl. 6,37. Secondo loro, ci dice Eusebio, con la morte «l’anima umana muore nel
momento supremo insieme al corpo, e si corrompe con esso, ma tornerà alla vita, con il corpo, un
giorno, al momento della resurrezione» ibid.
59
Su questo argomento, si veda l’opera di H. Mühlen, Das Vorverständnis von Person und die
evangelisch-katholische Differenz. Zum Problem der theologischen Denkform, Münster, Aschendorff
1965 e gli studi di C. Morerod, La philosophie dans le dialogue catholique-luthérien, «Freiburger
Zeitschrift für Philosophie und Theologie» 44 (1997) 219-40; Œcuménisme et philosophie:
questions philosophiques pour renouveler le dialogue, Parole et silence, Paris 2004.
60
M. Lutero, Zirkulardisputation de veste nuptiali, in WA 39/1,293.
383
Capitolo XI
61
Si veda E. Brunner, Dogmatique, vol. 2, Labor et fides, Genève 1965, 69. Del medesimo autore,
si veda Wahrheit als Begegnung: sechs Vorlesungen über das christliche Wahrheitsverständnis,
Furche; Zwingli, Berlin; Zürich 1938.
62
Sul “deficit metafisico” in Cullmann, si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 257s.
63
Si veda H. Thielicke, Die Subjekthälftigkeit des Menschen, in L. Scheffczyk (a cura di), Der
Mensch als Bild Gottes, 352-58.
64
Si vede chiaramente nell’opera di W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 605-607, ed anche
in J. Moltmann, L’avvento di Dio, 285ss. Su Moltmann, si veda CAA 50-53.
65
Si vedano le pp. 79s.
66
R. Bultmann, Nuevo Testamento y mitologia, 177s.
67
Si veda per esempio J. M. Hernández Martínez, La asunción de María como paradigma de
escatología cristiana, «Ephemerides Mariologicae» 51 (2000) 249-71; G. Greshake, Auferstehung
im Tod. Ein parteiischer Rückblick auf eine theologische Diskussion, «Theologie und Philosophie»
73 (1998) 538-57; M.-É. Boismard, Faut-il encore parler de ‘résurrection’?; V. M. Fernández,
Inmortalidad, cuerpo y materia. Una esperanza para mi carne, «Aquinas» 78 (2001) 405-37;
G. Gozzelino, ‘Io sono stato conquistato da Cristo’ (Fil 3, 12): il compimento individuale nella
realizzazione del disegno di Dio. Dialettica dell’escatologia individuale con l’escatologia collettiva,
«Annali di Studi Religiosi» 2 (2001) 313-29; F. Brancato, Lo stadio intermedio – Status quaestionis,
«Sacra Doctrina» 47 (2002) 5-80; A. Nitrola, Pensare la venuta del Signore, 291-336. Altri
riferimenti si possono trovare in G. Gozzelino, Nell’attesa, 468, nota 201.
384
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
68
A. Vögtle, Das Neue Testament und die Zukunft des Kosmos, Patmos, Düsseldorf 1970.
69
G. Lohfink ritiene che la Parousia dovrebbe essere considerata come un incontro di ciascuno al
momento della morte: G. Greshake e G. Lohfink, Naherwartung. Auferstehung. Unsterblichkeit. Si
veda G. Canobbio, Fine o compimento? Considerazioni su un’ipotesi escatologica, in G. Canobbio,
F. Dalla Vecchia, G. P. Montini (a cura di), La fine del tempo, Morcelliana, Brescia 1998, 207-
38, 213. Il messaggio del Nuovo Testamento è un messaggio di salvezza, ritengono Greshake e
Lohfink, e non è di natura scientifica. La posizione di Greshake è vicina a quella di Vögtle.
70
Si veda G. Greshake, Auferstehung der Toten. Ein Beitrag zur gegenwärtigen theologischen
Diskussion über die Zukunft der Geschichte, Ludgerus, Essen 1969. Successivamente, Greshake ha
in qualche modo rettificato la sua posizione: Auferstehung im Tod (1998). Si veda anche L. Boff, A
Ressurreição de Cristo: a nossa ressurreição na morte, Vozes, Petrópolis 1975.
71
Si veda G. Greshake e G. Lohfink, Naherwartung. Auferstehung. Unsterblichkeit.
72
«L’uomo di fatto è un “pezzo” di mondo e storia, e quando si trova di fronte a Dio, il mondo e
la storia raggiungono il loro compimento: alla morte l’uomo sperimenta non solo il suo eschaton,
ma anche l’eschaton della storia in generale» ibid., 72.
73
Si vedano le pp. 73s.
74
Si veda G. Lohfink, Zur Möglichkeit christlicher Naherwartung, in G. Greshake e G. Lohfink,
Naherwartung. Auferstehung. Unsterblichkeit, 38-81, spec. 78-80.
385
Capitolo XI
75
Si vedano le pp. 339s.
76
Recentiores episcoporum Synodi, n. 3. Sottolineature aggiunte.
77
Si veda W. Pannenberg, Die Auferstehung Jesu und die Zukunft des Menschen, Minerva,
München 1978, 14-18; Teologia sistematica, vol. 3, 604-607.
78
Si veda J. Alfaro, La resurrección de los muertos en la discusión teológica sobre el porvenir de la
historia, «Gregorianum» 52 (1971) 537-54.
79
Si veda J. Ratzinger, Between Death and Resurrection: Some Supplementary Reflections, appendice
alla traduzione inglese della sua Escatologia: Eschatology. Death and Eternal Life, Catholic
University of America Press, Washington D.C. 1988, 241-60, e Zwischen Tod und Auferstehung,
«Communio (Deutsche Ausg.)» 9 (1980) 209-23.
80
Per una presentazione della posizione di Greshake e Lohfink, e un sunto della critica, si veda G.
Canobbio, Fine o compimento? Si veda anche A. Ziegenaus, Auferstehung im Tod: das geeigneter
Denkmodell?, «Münchener Theologische Zeitschrift» 28 (1977) 109-132, e Katholische Dogmatik,
vol. 8: Die Zukunft der Schöpfung in Gott: Eschatologie, MM, Aachen 1996, 65-135; C. Marucci,
Resurrezione nella morte? Esposizione e critica di una recente proposta, in G. Lorizio (a cura di),
Morte e sopravvivenza, 289-316; il mio studio La muerte y la esperanza, 75-96; G. Gozzelino,
Nell’attesa, 469, nota 199.
81
Sul significato del termine “resurrezione”, si veda G. Greshake e J. Kremer, Resurrectio
Mortuorum, 8-15; M. J. Harris, Raised Immortal. Resurrection and Immortality in the New
Testament, Marshall, Morgan & Scott, London 1986, 269-72.
82
Si veda Rm 6,3-8; 1 Cor 15,29; Col 2,12; 1 Pt 1,3; 3,21; Ap 20,5.
83
Si veda Gv 6; At 24,15; 1 Cor 15,12ss.
386
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
84
I testi usati per giustificare la resurrezione al momento della morte includono: Lc 23,43; Fil
1,23; 2 Cor 5,8; 1 Ts 5,10 e Col 3,1-4. Per quel che sono, comunque, questi testi semplicemente
insegnano che i giusti saranno premiati dopo la morte.
85
J. Ratzinger, Escatologia, 126.
86
M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 251.
87
W. Kasper, La speranza nella venuta finale, 41.
88
J. A. T. Robinson, The Body, 88s. La medesima posizione è sostenuta da F.-X. Durrwell, La
résurrection de Jésus, mystère de salut. Étude biblique, X. Mappus, Le Puy 19542, 300ss, e da J.
Blenkinsopp, Theological Synthesis and Hermeneutic Conclusion, «Concilium (English ed.)» 6
(1970/10) 144-160.
387
Capitolo XI
89
Questa posizione fu difesa in particolare da K. Lehmann, Auferweckt am dritten Tag nach der
Schrift: exegetische und fundamentaltheologische Studien zu 1 Kor. 15, 3b-5, Herder, Freiburg i. B.
19682. G. Greshake, Auferstehung im Tod, 549-552, che prendendo spunto dagli scritti di Adolf
Kopling e Hans Kessler, ritiene che il fondamento teologico per la resurrezione nel momento
della morte è precisamente la dinamica della morte/resurrezione di Gesù. Il “terzo giorno” fa
riferimento alla manifestazione a noi della sua gloria: ibid., 550. Si veda anche G. Greshake e
G. Lohfink, Naherwartung, 141ss.; M. Riebl, Auferstehung Jesu in der Stunde seines Todes?: zur
Botschaft von Mt 27,51b-53, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1978.
90
Nell’Antico Testamento il “terzo giorno” fa spesso riferimento alla realizzazione di un evento
decisivo imminente, sebbene la data esatta dell’evento sia sconosciuta: Gn 22,4; 42,17s; Es 19,10-
11,16; 2 Sm 1,2; 2 Re 20; Est 5,1; Gio 1,17; e specialmente Os 6,1s.
91 Si vedano gli studi di O’Collins e Davis, in S. T. Davis, D. Kendall e G. O’Collins (a cura di), The
Resurrection. Anche CCC 640, 657, e le pp. 121s sopra.
92
Ireneo, Adv. Haer. V, 31,1.
93
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret II, 287. Sulla questione si vedano le pp. 286-8.
94
Nel Concilio Vaticano II leggiamo: «Per una tradizione tramandata dagli apostoli, che trae le
sue origini dal giorno stesso della resurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale
ogni settimo giorno, giorno che è adeguatamente chiamato il Giorno del Signore, o Domenica»
Sacrosanctum Concilium, n. 106.
388
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
Il peso antropologico della resurrezione alla fine dei tempi. L’idea di resurrezio-
ne al momento stesso della morte non si adatta alla fede e alla speranza in una
resurrezione finale per tutti gli uomini insieme alla fine dei tempi. Come abbia-
mo già visto98, la speranza nella resurrezione dei morti, concepita come una
rivelazione definitiva della gloria dei figli di Dio, nel giudizio universale, l’unica
e definitiva fine dell’umanità, lo scopo e obiettivo proprio della storia umana,
rafforza una antropologia cristiana integrale99, che esprime e difende la libertà,
la storicità, la condizione sociale e la caratteristica corporea degli uomini. Juan
Alfaro dice che i testi apocalittici dimostrano che «l’umanità come comunità
e storia nella sua totalità è sotto la sovranità salvifica di Dio in Cristo»100. Se
non ci fosse una fine assoluta della storia, egli dice, «Dio non sarebbe il Signore
della storia nella sua totalità, ma sarebbe solo sulla strada verso il dominio sulla
storia»101. Secondo Juan Luis Ruiz de la Peña, l’idea di resurrezione al momen-
to della morte implicherebbe semplicemente la privatizzazione dell’eschaton102 .
95
C. Pozo, La teología del más allá, 248ss., nota nel Nuovo Testamento si possono trovare diverse
indizi di escatologia intermedia: per esempio: Lc 16,19-31 (Lazzaro e il ricco); Lc 23,42ss. (il buon
ladrone). Anche Paolo parla dell’essere “con Cristo” dopo la morte, in particolare in 1 Cor 5,1-10.
96
J. L. Ruiz de la Peña, La pascua de la creación, 136.
97
C. Schönborn, Resurrezione e reincarnazione, Piemme, Casale Monferrato 1990, 24.
98
Si vedano le pp. 122s.
99
Si vedano le pp. 145s. e C. Ruini, Immortalità e resurrezione, 191.
100
J. Alfaro, La resurrección de los muertos, 550.
101
Ibid., 552. Si può trovare la medesima idea in A. de Giovanni, Escatologia come termine, o come
pienezza? Il problema dell’ultimità della storia, in Aa.vv., Mondo storico ed escatologia, Morcellia-
na, Brescia 1972, 244-9.
102
Si veda J. L. Ruiz de la Peña, L’altra dimensione, 171. G. Canobbio fa riferimento alla
«privatizzazione dell’eschaton e quindi sulla dimenticanza della dimensione cosmica dello stesso.
Questo… aspetto della critica è apparso predominante negli ultimi anni in coincidenza con la
ripresa di interesse per la creazione da parte della teologia e con gli stimoli provenienti dalla
recente cosmologia. La considerazione della dimensione cosmica rischia però di appiattire la fine;
compimento del mondo con la fine; compimento della storia umana. Allo scopo di evitare tale
rischio si è proposto di tener conto del luogo ermeneutico delle asserzioni escatologiche, che è la
dinamica della libertà umana il cui esercizio in vista del compimento è reso possibile dall’apparire
dell’evento Cristo, che costituisce l’evento escatologico» Fine o compimento?, 237s. Egli aggiunge:
389
Capitolo XI
«Leggendo il NT si resta colpiti da come, a partire dei frammenti, si sia giunti a pensare a un esito
compiuto del tutto. Al fondo del processo del pensiero neotestamentario non sta una proiezione
del frammento sull’orizzonte (immaginato) del tutto. Sta piuttosto la lettura della realtà parziale
dal versante dell’opera di Dio compiuta in Gesù. L’idea del compimento, che implica una fine
anche di questo mondo, nasce dalla convinzione che la Signoria di Dio abbraccia il tutto, per il
fatto che è di Dio… L’affermazione della fine risulta così un’affermazione teo-logica» ibid., 237.
Egli osserva che Greshake e Lohfink di fatto sono in opposizione con la tendenza della moderna
teologia di recuperare l’integrazione di individui, storia e cosmo nella Parousia. Ed egli conclude:
«sullo sfondo delle posizioni qui richiamate sta una vicenda teologica che, accettando la sfida del
pensiero moderno, ha “preteso” di collocare la persona umana come vertice e ricapitolazione del
cosmo, e ha pensato si dovesse considerare quest’ultimo solo in relazione all’uomo» ibid., 225.
103
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 605.
104
Si veda J. Ratzinger, Escatologia, 156-158.
105
G. Greshake, Auferstehung der Toten, 387.
106
La posizione si può trovare tra i messaliani nel quarto secolo. Secondo le omelie dello Ps.-
Macario, la resurrezione ha luogo al momento della morte, d’accordo con la pratica della preghiera
e della vita ascetica: Hom. 32,1-6. Si veda B. E. Daley, The Hope, 118.
390
Le implicazioni di una “escatologia intermedia”
107
Pio XII, Bolla Munificentissimus Deus (1950): DS 3900-4.
108
Questa posizione fu difesa da D. Flanagan, Eschatology and the Assumption, «Concilium
(English ed.)» 5/1 (1969) 153-65; K. Rahner, The Intermediate State, in Theological Investigations,
vol. 17, 114s. L’ipotesi dell’assunzione per tutti fu suggerita anche da O. Karrer, Über unsterbliche
Seele und Auferstehung, «Anima» (1953), 332-36, e ripetuta più recentemente da J. M. Hernández
Martínez, La asunción de María como paradigma de escatología cristiana.
109
Si vedano le pp. 323s.
110
DS 1573, 2800-3.
111
Paolo VI, Udienza La luce di Cristo si trova nel Mistero dell’Assunzione (15.8.1975), in
Insegnamenti di Paolo VI 13 (1975), 849-53, qui 851.
112
Recentiores episcoporum Synodi, n. 6.
113
Si vedano le note 47ss. sopra.
391
Capitolo XI
114
J. Ratzinger, Escatologia, 146s.
115
Boros considera che l’idea di Dio che mantiene l’anima separata in essere senza l’attività di
informare il corpo, è bizzarra: L. Boros, Does Life have Meaning, «Concilium (English ed.)»
6/10 (1970) 32. Fino ad un certo punto, questa posizione corrisponde alla visione aristotelica
dell’anima, assunta da Tommaso d’Aquino. Una idea simile si trova nel teologo siriano Narsai: si
veda B. E. Daley, The Hope, 171-4.
116
Si veda G. Gozzelino, Nell’attesa, 474ss.
117
J. Ratzinger, Escatologia, 161, cita lo studio di A. C. Pegis, Some Reflections on the Summa contra
Gentiles II, 56. Si veda anche G. Gozzelino, Nell’attesa, 475s. Anche la posizione dell’Aquinate è
sostanzialmente assunta da G. Canobbio, Morte e immortalità. Elementi per una considerazione
dell’aspetto dogmatico, «Vivens Homo» 17 (2006) 307-20; Il destino dell’anima, 95-106. P.
Masset, Immortalité de l’âme, Résurrection des corps. Approches philosophiques, «Nouvelle Revue
Théologique» 105 (1983) 321-44, sostiene che la diminuzione dell’uomo realmente significa
amputazione, e così l’anima separata non può sopravvivere. F. Van Steenberghen, Plaidoyer pour
l’âme séparée, «Revue Thomiste» 75 (1987) 630-41, si mostra in disaccordo con Masset.
392
PARTE QUINTA
1
Si veda C. Pozo, La teología del más allá, 79-81.
2
W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol. 3, 558. Il luterano Emil Brunner ha detto: «Una Chiesa
che non ha niente da insegnare sull’eternità futura, non ha niente da insegnare del tutto, ma è
fallita» Das Ewige als Zukunft und Gegenwart, 237.
3
K. Barth, Der Römerbrief, München 19222, 298.
395
Capitolo XII
1. Escatologia e cristologia
Lungo tutto questo trattato, l’escatologia cristiana è stata ampiamente
presentata come applicazione, sviluppo e culmine dell’opera salvifica di Cristo9.
In senso stretto, l’escatologia non si identifica con il processo della salvezza
cristiana. Eppure l’escatologia è criticamente determinata da essa per il fatto che
porta a termine il processo di salvezza con il giudizio e la definitiva separazione
tra santi e peccatori. A sua volta, la vita e l’azione redentrice di Cristo sulla terra
segna un’inizio della divina offerta della misericordia salvifica ad una umanità
decaduta, e di un conto alla rovescia, per così dire, che giungerà ad un termine
definitivo con la Parousia.
Tuttavia, non basta dire che l’intera vita di Cristo, le sue parole ed opere,
sono responsabili della messa in moto del processo di salvezza che culmina nel
4
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 218.
5
J. Ratzinger, Escatologia, 25.
6
Tommaso d’Aquino, S.Th. I, q. 1, a.7.
7
«Quia Salvator noster Dominus Iesus Christus, teste angelo, populum suum salvum faciens a
peccatis eorum, viam veritatis nobis in seipso demonstravit, per quam ad beatitudinem immortalis
vitae resurgendo pervenire possimus, necesse est ut, ad consummationem totius theologici negotii,
post considerationem ultimi finis humanae vitae et virtutum ac vitiorum, de ipso omnium salvatore
ac beneficiis eius humano generi praestitis nostra consideratio subsequatur» S. Th. III, prol.
8
Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 1, a. 2, e M. L. Lamb, The Eschatology of St Thomas Aquinas, 227.
9
Si veda in particolare il capitolo II.
396
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia
10
Si veda M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 44-51.
11
Si vedano le pp. 84s.
12
Si veda il documento della Commissione Biblica Pontificia, L’interpretazione della Bibbia nella
Chiesa (1993), II, B; e il mio studio La Biblia en la configuración de la teología, 873s.
397
Capitolo XII
13
Si veda M. Bordoni, Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, 1: Problemi di metodo, Herder; Pontificia
Università Lateranense, Roma 1982, 207-13.
14
Si vedano ad esempio le pp. 371s.
15
Si veda la p. 57, nota 155.
16
Si veda J. Daniélou, Christologie et eschatologie.
17
Anche la Costituzione Gaudium et spes considera alcune questioni escatologiche, come la morte
(n. 18) e il compimento dell’attività umana attraverso il Mistero Pasquale di Cristo (nn. 38s.).
18
Sull’escatologia della Lumen gentium, si vedano gli studi di N. Camilleri, Natura escatologica
della Chiesa, in A. Favale (a cura di), La costituzione dogmatica sulla Chiesa, Elle di Ci, Leumann
(Torino), 1965, 875-93; A. Molinari, L’indole escatologica della Chiesa, in G. Baraúna (a cura di),
La Chiesa del Vaticano II: studi e commenti intorno alla Costituzione dommatica ‘Lumen gentium’,
Vallecchi, Firenze 1965, 1113-31; G. Philips, L’Église et son mystère au IIe Concile du Vatican:
histoire, texte et commentaire de la constitution Lumen gentium, Desclée, Paris 1967-8, vol. 2, 161-
205; C. Pozo, La teología del más allá, 538-70; L. Sartori, La ‘Lumen gentium’: traccia di studio,
Messaggero, Padova 20032, 103-110; M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 52-4.
398
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia
19
LG 48c. Si veda il mio studio The Holiness of the Church in “Lumen Gentium”, «Thomist» 52
(1988) 673-701; M. De Salis, Concittadini dei santi e familiari di Dio: studio storico-teologico sulla
santità della Chiesa, Edusc, Roma 2008.
20
Agostino, De Civ. Dei XVIII, 51,2, cit. in LG 8d.
21
LG 48a.
22
La posizione classica a questo riguardo è quella di F. A. Staudenmaier, che nella sua opera
in tre volumi, Die christliche Dogmatik, Herder, Freiburg i. B 1844-48, ritiene che l’escatologia
sia effettivamente una parte dell’ecclesiologia, dal momento che l’ecclesiologia è direttamente
connessa con l’opera salvifica di Cristo, la Redenzione.
23
Si vedano le pp. 285s.
24
Su Pietro di Poitiers, si veda In Sent. libri, V, cap. 1. Su Rupert, si veda W. Kahles, Geschichte als
Liturgie: die Geschichtstheologie des Ruperts von Deutz, Aschendorff, Münster 1960, 7s.
399
Capitolo XII
3. Escatologia ed antropologia
L’interrogativo che gli uomini pongono più insistentemente, sebbene non
sempre più apertamente, fa riferimento al tipo di immortalità, se ce n’è una, che
li aspetta dopo la morte, cioè il loro destino escatologico. Come abbiamo visto,
Dio ha promesso a coloro che gli sono fedeli un premio eterno che consiste nella
unione perpetua con la Trinità, la vita eterna, la visione beatifica, nonché la
perfezione personale e collettiva, sia corporea che spirituale, tramite la resur-
rezione finale. Perciò la promessa escatologica riguarda l’antropologia in modo
decisivo, su tutti i fronti. Rende conto della spiritualità e dell’immortalità degli
uomini, e del loro desiderio dell’infinito; manifesta la loro insostituibile dignità
come persone umane (non avrebbe senso parlare della dignità di ogni uomo se
non vivesse per sempre come individuo); dà significato e profondità alla loro
temporalità e storicità, e spiega perché il soggiorno terrestre può essere conside-
rato come un tempo di prova e verifica; mostra lo scopo della corporeità umana,
dal momento che gli uomini sono destinati a vivere per sempre in una unione di
corpo e anima tramite la resurrezione; rivela la profondità e il potere della libera
volontà, dal momento che possono affrontare le scelte e le possibilità che daran-
no forma al loro destino eterno; spinge la virtù della speranza, nel suo aspetto
umano e divino. In breve, l’antropologia è stimolata, rinnovata e potenziata non
solo dall’antropologia teologica in senso stretto, cioè dalla dottrina della grazia,
ma anche, e forse in modo più essenziale, dall’escatologia, che mette l’uomo di
fronte al suo destino promesso e offre la possibilità di comprendere il significato
della vita nel senso più vasto e ricco possibile27.
Commentando la teologia di Gregorio di Nissa e di Massimo il Confessore,
il teologo ortodosso John Meyendorff parla della potente influenza che la nostra
conoscenza delle cose ultime ha sulla vita umana: «il fine ultimo è esso stesso
25
Si veda C. Pozo, La escatología del más allá, 6-16.
26
LG 48c.
27
Si veda M. Bordoni e N. Ciola, Gesù nostra speranza, 57-63; 82.
400
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia
4. Escatologia ed etica
La struttura etica dell’esistenza umana, secondo Tommaso d’Aquino, è
basata sul fine o scopo della vita umana, che egli chiama finis ultimus, il “fine
ultimo”. Infatti, il suo studio della teologia morale (che corrisponde alla seconda
parte della Summa Theologiae) colloca la questione del “fine ultimo” proprio
all’inizio. Di seguito l’Aquinate inizia a riflettere sulla beatitudo, la felicità ed
il compimento umano, che culmina nella visione faccia a faccia di Dio29. Il suo
contributo più sostanziale all’escatologia, quindi, è direttamente legato all’eti-
ca cristiana. Parlando di escatologia nel contesto dell’immortalità dell’anima,
Blaise Pascal ha acutamente osservato: «è vero che la mortalità o l’immortali-
tà dell’anima deve fare una enorme differenza per la moralità. Eppure i filoso-
fi hanno costruito le loro etiche indipendentemente da ciò»30. Lo sforzo etico
dovrebbe essere diretto e determinato dall’esito permanente del progetto di vita
che Dio ha designato per l’insieme dell’umanità (la legge morale), e per quello
di ogni persona (la vocazione). Una escatologia cristiana mirata correttamente,
inoltre, può impedire che la ricerca etica si adagi in un mero consequenzialismo,
unilaterale e mondano. La promessa ultima della vita eterna è, o dovrebbe esse-
re, in grado di dirigere e coordinare la miriade di “fini parziali” di cui ogni vita
umana è fatta. È chiaro, inoltre, che la realtà della divina promessa di salvezza
eterna, accanto alla possibilità dell’eterna dannazione, offre un’indicazione del
valore decisivo della libera azione umana.
La dottrina della resurrezione finale significa, inoltre, che il destino immor-
tale della persona umana si deve comprendere in un contesto strettamente corpo-
rale. Ciò fornisce una solida base per affermare la dignità dell’uomo vivente,
28
J. Meyendorff, Byzantine Theology, 219.
29
Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, qq. 1-5. Sulla profonda rilevanza dell’escatologia per l’Aquinate,
si vedano i due studi di P. Künzle, Thomas von Aquin und die moderne Eschatologie, «Freiburger
Zeitschrift für Philosophie und Theologie» 8 (1961) 109-20; Die Eschatologie im Gesamtaufbau der
wissenschaftlichen Theologie, «Anima» 20 (1965) 231-38, così come M. L. Lamb, The Eschatology
of St Thomas Aquinas.
30
B. Pascal, Pensées (ed. Brunschvig), n. 219.
401
Capitolo XII
tanto quanto il carattere inviolabile della sessualità umana31. Nello stesso modo,
la caratteristica comunitaria della resurrezione finale e del giudizio serve come
un invito pressante a vivere la carità e la giustizia con gli altri uomini32. Inoltre,
l’orizzonte escatologico di tutti gli insegnamenti cristiani impone una sistema-
tica “riserva escatologica” su tutte le teorie, filosofie politiche e sistemi etici, una
riserva che stabilisce e mantiene la distanza tra la realtà tangibile creata da una
parte, e l’essere e l’azione di Dio, il suo scopo salvifico, dall’altra parte. Infatti,
Dio ha promesso che «occhio non vide, né orecchio udì…» (1 Cor 2,9).
31
Si veda il mio studio La fórmula “Resurrección de la carne” y su significado para la moral cristiana.
32
Si veda la mia opera La muerte y la esperanza, 97ss., e in particolare l’enciclica del 2009 di
Benedetto XVI, Caritas in veritate.
33
CCC 2843.
402
Il ruolo centrale dell’escatologia cristiana nella teologia
degli altri significa rinunciare al desiderio e alla pretesa di fare la parte di Dio.
Ma Dio stesso non rinuncerà a questo ruolo.
5. Escatologia e spiritualità
La dinamica della spiritualità cristiana, come quella dell’etica, è determi-
nata dall’orizzonte ultimo della vita umana, cioè, la comunione eterna con la
Trinità e con il resto dell’umanità salvata34. La comunione con la Trinità e la
contemplazione di Dio, faccia a faccia, colma di gioiosa adorazione, è il culmine
di un esteso processo che inizia in questa vita35. In questo senso tutta la spiri-
tualità cristiana è chiaramente escatologica: la vita spirituale punta oltre a sé,
anzi punta oltre la morte stessa.
L’orizzonte essenzialmente escatologico dell’esistenza cristiana è fonda-
mentale per la vita spirituale cristiana da diversi punti di vista. Primo, i creden-
ti devono essere purificati da tutti gli attaccamenti disordinati o idolatrici alle
cose passeggere della vita. Secondo, sono spronati a consolidare uno spirito di
preghiera perseverante che fiorirà gioiosamente come eterno dialogo contempla-
tivo con la Trinità. Terzo, dovrebbero imparare a rispettare le dinamiche natu-
rali della vita sociale, corporea e fisiologica che raggiungeranno il loro compi-
mento alla resurrezione finale. Quarto, devono vivere in comunione fiduciosa,
fraterna, con tutte le persone, con cui sono destinati a condividere la comunione
divina per sempre. E quinto, devono giungere e comprendere il tempo che passa
non come una perdita o un motivo di disperazione, ma come una opportuni-
tà, uno spazio spirituale, per crescere in amicizia con Dio e comunicare la sua
parola e il suo potere salvifico al resto dell’umanità.
Come abbiamo visto nel primo capitolo36, la consistenza spirituale del
messaggio cristiano deve essere dimostrata nel contesto del contrasto che c’è
tra quello che abbiamo chiamato il “premio” e il “prezzo” del cielo: la vita eterna
da una parte, cioè la perpetua comunione con la Trinità, e la morte, la perdi-
ta della vita umana, dall’altra. Al fine di poter accettare l’insegnamento della
Chiesa sull’escatologia, i credenti devono essere in grado di riconciliare, entro la
loro propria esperienza vivente, questi due estremi, accettando la magnanimità
34
Si veda J. L. Illanes, Tratado de teología espiritual, Eunsa, Pamplona 2007, 305-8.
35
Si veda L. Touze (a cura di), La contemplazione cristiana: esperienza e dottrina. Atti del IX
Simposio della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della S. Croce, Roma, Vaticana, Città
del Vaticano 2007.
36
Si vedano le pp. 54s.
403
Capitolo XII
del divino amore che promette agli uomini infinitamente di più di quanto essi
possano sognare di ottenere con i propri sforzi, ma fidandosi nella fedeltà di
Dio che richiede ai suoi figli, ai suoi discepoli, di «lasciare tutto e seguirlo» (Mt
19,27), di lasciare ogni cosa… compresa la vita stessa, che è il supremo dono di
Dio, con la speranza della resurrezione.
404
BIBLIOGRAFIA
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Bibliografia
Pozo, Cándido, La teologia dell’aldilà, Paoline, Roma 19905 (orig. La teología del más allá,
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Rahner, Karl, Sulla teologia della morte, Morcelliana, Brescia 19723 (orig. Zur Theologie des
Todes. Mit einem Exkurs über das Martyrium, Herder, Basel 1961).
Ratzinger, Joseph, Escatologia. Morte e vita eterna (Piccola Dogmatica Cattolica, 9), Cit-
tadella, Assisi 1979 (orig. Eschatologie - Tod und ewiges Leben, F. Pustet, Regensburg
19784).
Ruiz de la Peña, Juan L., La pascua de la creación, BAC, Madrid 1996.
Scheffczyk, Leo e Ziegenaus, Anton, Katholische Dogmatik, vol. 8: Die Zukunft der Schöp-
fung in Gott: Eschatologie, MM, Aachen 1996.
Schmaus, Michael, Dogmatica cattolica, vol. 4.2: I novissimi, Marietti, Casale Monferrato
1964 (orig. Katholische Dogmatik, vol. 4.2: Von den letzten Dingen, Hüber, München
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Von Balthasar, Hans Urs, I novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia
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F. Böckle, Johannes, Einsiedeln 19582, 403-421).
—. Teodrammatica, 5: L’ultimo atto, Jaca Book, Milano 1985 (orig. Theodramatik 4/2: Das
Endspiel, Johannes, Einsiedeln 1983).
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INDICE DEI NOMI
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Indice dei nomi
Benedetto XII: 195, 212, 339, 359 Boros, L.: 257, 313, 326-27, 342, 368, 370, 392
Benedetto XVI: 11, 17, 29, 30, 32, 37, 40, 54, Börresen, K. E.: 128
88, 101, 123, 150, 171, 177, 186, 190, 198, Bortone, G.: 111, 113, 173
202, 205, 227, 252, 274, 284, 296, 305-306, Bossuet, J.-B.: 301
309, 313, 351, 367, 372, 376, 388, 402 Botte, B.: 299
Bentley, J.: 143 Bougerol, J.-G.: 360
Berdiaev, N.: 261, 267 Bouillard, H.: 261
Bergamelli, F.: 336 Bourgeois, H.: 97
Bergson, H.: 160, 326 Bourke, J.: 173
Berman, H. J.: 360 Bouyer, L.: 236-37
Bernanos, G.: 239, 258, 261-62, 309 Bovet, T.: 147
Bernardino da Siena, San: 369 Bovon, F.: 40
Bernardo, San: 226, 229, 249, 337, 339 Bovon-Thurneyson, A.: 120
Berruto, A. M.: 301 Boyle, M. O. R.: 299
Bertholet, A.: 107 Braaten, C. E.: 70
Bertola, E.: 46 Brancato, F.: 384
Bessarione di Nicea: 356, 358 Brandes, W.: 301
Betz, O.: 368, 379 Bratsiotis, I.: 357
Beyreuther, E.: 17 Braun, R.: 204
Bianchi, U.: 246 Breuning, W.: 146
Bietenhard, H.: 17, 254 Brisbois, E.: 370
Biffi, G.: 15, 21, 26, 230, 260, 268, 379, 405 Brock, S. L.: 39
Biffi, I.: 66 Brown, C.: 17, 119
Billerbeck, P.: 120 Brown, M.: 132-33, 228
Billot, L.: 68, 143 Brown, R. B.: 97
Bingemer, M. C. L.: 379 Bruaire, C.: 160
Black, M.: 118 Bruce, F. F.: 97
Blasich, G.: 142 Brunner, E.: 77, 96, 261, 272, 322, 379, 382-84,
Bleeker, C. J.: 76 395, 405
Blenkinsopp, J.: 115, 387 Buchberger, M.: 17
Blixen, K.: 279 Bucher, G.: 122
Bloch, E.: 25-26, 32-33, 51, 134, 166-67 Bückers, H.: 118
Block, D. I.: 115 Bukovski, L.: 107
Blomberg, C. L.: 84 Bulgàkov, S. N.: 58, 272, 363
Blondel, M.: 93, 326 Bultmann, R.: 35, 73, 78-82, 134-35, 155, 209,
Böckle, F.: 406 384
Boezio: 206, 227 Burggraf, J.: 222
Boff, L.: 326, 385 Buri, F.: 73, 272, 336
Boismard, M.-É.: 91, 261, 271, 384 Burini, C.: 336
Boliek, L. E.: 126 Burkitt, F. C.: 89
Bonaventura, San: 221-22, 260, 280 Burney, C. F.: 51
Bonhöffer, D.: 33, 55 Bynum, C. W.: 67, 126
Bonitz, H.: 22
Bonnard, E.: 83 Caietano: 43, 216, 327-28
Bonora, A.: 116 Calvino, J.: 233, 361-62
Bonsirven, J.: 120 Camilleri, N.: 398
Bonwetsch, G. N.: 127 Camus, A.: 51
Boobyer, G. H.: 83 Canobbio, G.: 39, 315, 321, 385-86, 389, 392
Bordoni, M.: 15, 56, 136, 153, 259, 272, 299, Capelle, B.: 67
363, 378, 387, 397-98, 400, 405 Carle, J.: 127
Borges, J. L.: 315-16 Carnovale-Guiducci, D.: 370
Bornkamm, G.: 73 Carozzi, C.: 68
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Indice dei nomi
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Indice dei nomi
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Indice dei nomi
Fortman, E. J.: 347 Giustino, San: 45, 93, 126-27, 131, 144-45,
Foster, D. R.: 46 245, 294, 299, 335, 338
Fozio: 337, 340 Glasson, T. F.: 107
Francesco d’Assisi, San: 369 Gleason, R. W.: 326
Francesco di Sales, San: 264, 269 Glorieux, P.: 326
Frick, R.: 283 Gnilka, J.: 82, 84, 351
Frossard, A.: 198, 375 Goethe, J. W.: 146, 313
Goñi, P.: 128
Gaechter, P.: 87 González de Cardedal, O.: 273
Gagliardi, M.: 88 Gougand, L.: 100
Gaine, S.: 219 Gourgues, M.: 297
Gallas, A.: 339 Gozzelino, G.: 15, 26, 41-42, 110, 130, 143,
Galleni, L.: 161 186, 190-91, 194, 256, 297, 313, 319, 322,
Galot, J.: 302 325, 328, 341-42, 372, 374, 383-84, 386, 392,
Gandavio: 215 405
Garrigou-Lagrange, R.: 370 Granfield, P.: 356
Genicot, L.: 360 Grässer, E.: 73-74, 89
Gerhoh di Richterberg: 311 Greco, C.: 299
Germano di Costantinopoli: 323 Greenberg, M.: 115
Gerson, J.: 311 Greenspoon, L. J.: 116
Gevaert, J.: 47 Gregorio di Elvira, San: 145
Ghini, E.: 293 Gregorio di Nazianzeno, San: 210, 249, 253,
Giblet, J.: 57 336, 368
Giblin, C. H.: 297 Gregorio di Nissa, San: 14, 44, 127, 133, 137-
Gide, A.: 198 38, 141-43, 145, 186, 189, 221, 224, 226, 228,
Gil-i-Ribas, J.: 339 237, 246-47, 263, 273-74, 320, 336, 353, 356-
Gilkey, L.: 70 57, 400
Gill, J.: 358 Gregorio Magno, San: 87, 94-95, 131-32, 140,
Gillespie, J.: 15, 112 212, 223, 231, 255, 293, 296, 311, 327, 336,
Gillet, G.: 142 352-55, 357, 359
Gillet, R.: 140 Gregorio Palamas: 211-12, 220
Gingrich, F. W.: 17 Grelot, P.: 112, 117-18, 274, 317
Gioacchino da Fiore: 303-304 Greshake, G.: 15, 112, 119, 122, 126, 370, 376-
Giovanni Crisostomo, San: 83, 87, 94-95, 100, 77, 384-86, 388, 390
128, 136, 158, 210-11, 228-29, 248-50, 260, Griffin, D. R.: 70
335, 337, 343, 352, 354, 357 Grillmeier, A.: 12, 302, 405
Giovanni Damasceno, San: 283, 327-28 Gross, J.: 201
Giovanni della Croce, San: 23, 171, 180, 369- Grundmann, W.: 84
70 Gry, L.: 298-99
Giovanni Filopono: 143 Guardini, R.: 15, 105, 147-48, 313, 375, 405
Giovanni il Diacono: 94, 95 Guerra, M.: 381
Giovanni Paolo II, Beato: 43, 100-101, 137-38, Guglielmo d’Ockham: 43, 339
147, 168, 263, 266, 271, 305, 323-24, 328, Guidi, A.: 147
369, 375-76 Guitton, J.: 256, 372
Girardi, M.: 175 Gundry, R. H.: 83-84, 122
Girolamo, San: 14, 137, 139, 142, 158, 189, Guntermann, F.: 24
246-47, 249, 253, 267, 293, 302, 304, 334,
336-37, 343, 380 Haag, E.: 115
Giudici, A.: 36 Haeffner, G.: 376
Giuliano di Toledo: 153, 336, 368 Hagner, D. H.: 83, 85-86, 88-89, 178, 180, 231
Giuliano Pomerio: 140 Halpern, B.: 116
Hannam, W.: 206
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45, 357-58, 365-67, 369-70, 372, 381, 392, Wagner, H.: 360
396, 401 Wainwright, G.: 97, 124
Tornos, A.: 261 Waldenfels, H.: 108
Torrance, T. F.: 361 Walther, J. A.: 209
Torres-Queiruga, A.: 134, 275 Walz, J. B.: 368
Tournay, R. J.: 113 Weber, H. J.: 108
Touze, L.: 403 Wegscheider, J. A. L.: 42
Trembelas, N.: 364 Wehrt, H.: 160
Treschow, M.: 206 Weinandy, T. G.: 14
Tresmontant, C.: 379 Weiss, J.: 73, 75-77, 80, 82, 93
Triacca, A. M.: 353 Weisse, C. H.: 87
Troeltsch, E.: 375 Wellhausen, J.: 73
Troisfontaines, J.: 326 Wendland, H. D.: 97
Tromp, N. J.: 317 Wendt, H. H.: 71
Trottmann, C.: 339 Werblowsky, R. J. Z.: 76
Trumbower, J. A.: 334 Werner, M.: 73-76, 82
Trütsch, J.: 406 White, T. J.: 233
Tsirpanlis, C. N.: 247 Whitehead, A. N.: 70
Tucidide: 50 Widmer, T.: 15
Wielockx, R.: 233
Ugo di Saint-Cher: 215 Williams, A. N.: 211
Ugo di San Vittore: 137, 154, 215, 221, 223 Williams, D. D.: 70
Ulisse: 49 Williams, P. J.: 121
Winklhofer, A.: 126, 255, 326
Vacant, A.: 17 Winling, R.: 235
Van Bavel, T. J.: 139 Winter, B. W.: 121
Van den Brock, R.: 132 Wissmann, H.: 106
Van der Kwaak, H.: 89 Wittgenstein, L.: 313
Van Steenberghen, F.: 392 Wittreich, J.: 298
Van Unnik, W. C.: 94, 356 Wohlgschaft, H.: 364, 379
Vanni, U.: 92, 297 Wood, A. S.: 127
Vernet, M.: 198 Wordsworth, W.: 155
Vigilanzio: 380 Wright, C. J. H.: 115
Vigilio I: 138, 239 Wright, J. H.: 156
Virgilio: 158 Wright, N. T.: 15, 114
Vittorino di Pettau: 301-302 Wust, P.: 40
Vogel, C.: 355
Vögtle, A.: 384-85 Yarbro-Collins, A.: 298
Voltaire (François-Marie Arouet): 44, 319, Yocum, J.: 14
321 Young, E.: 312
Volz, P.: 120
Von Allmen, J. J.: 380 Zähner, R. C.: 107
Von Balthasar, H. U.: 12, 21, 31, 146, 216, 226, Zedda, S.: 90-92
256, 261, 273-75, 326, 345, 371-72, 379, 406 Zeno di Verona: 345
Von Eijk, T. H. C.: 126, 144 Ziegenaus, A.: 15, 386, 406
Von Harnack, A.: 378 Zimmerli, W.: 115
Von Weizsäcker, E. U.: 160 Zimmermann, B.: 371
Von Wright, G. H.: 313 Zorell, F.: 123
Vonier, A.: 145-46 Zubiri, X.: 379
Vorgrimler, H.: 147 Zuzek, R.: 363
Zwingli, H.: 77, 360-62, 379, 384, 405
Wächter, L.: 110-11, 317
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