Sei sulla pagina 1di 11

23 marzo

Finiamo la lettura con l’ottava 4 del proemio:


“Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore è chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensieri cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.”
Finisce la proposta della materia nella sistina e si dice che ricorderà tra gli illustri eroi che sta per
lodare (“s’apparecchia”) anche Ruggero che fu il capostipite, il ceppo vecchio, della stirpe estense e
farà sentire i suoi gesti illustri (gesti -> sta per gesta: sia i fatti e le imprese e anche la stirpe dalla
chanson de geste -> qui si intende come imprese gloriose) che vi farò ascoltare se mi date orecchio
e i vostri pensieri più alti/politici lasciano spazio ai miei versi in modo che io mi passa dilettare.
Se voi mi date orecchio -> come atteggiamento dubitativo anche sapendo come il signore dia poco
orecchio ai versi di Ariosto. La sestina propone l’ultimo argomento: le imprese di Ruggero.
Ruggero è un eroe pagano che deve convertirsi al cristianesimo anche perché la madre Galacella si
era già convertita. Il padre morto ucciso per prendergli il trono da Troiano e quindi Ruggero ha tutti
i motivi per potersi convertire; diciamo che quindi non si converte solo per motivi di religione ma
anche per motivi di ribellione nei confronti di chi gli ha procurato del male. Tanto più che anche
Ruggero deve essere ucciso a tradimento ed è già stato profetizzato da Boiardo nell’Orlando
innamorato e profetizzato anche nel Furioso. In realtà il poema si concluderà con il matrimonio di
Ruggero e il suo duello con Rodomonte dove Ruggero non muore ma anzi uccide il suo avversario.
Ruggero non sarà ucciso perché c’è sempre un problema di genere: cioè il furioso non è
propriamente un poema epico, o meglio ha delle movenze che rimanda a questo genere ma non lo
è fino in fondo e la conclusione con il matrimonio appartiene più alla commedia che al poema
epico. Oltre a questo, Ariosto evita sempre la tragedia, infatti, nel Furioso c’è raramente: un
esempio però potrebbe essere la morte di Isabella per mano di Rodomonte, oppure se pensiamo ad
episodi tragici come quello della missione di Clorinda ed Ermedoro (che ripete quella dell’Eneide e
della Tebaide) dove la tragedia è sfiorata ma non compiuta del tutto perché Ermedoro si salva e
sposerà angelica -> almeno in una parte è felice quindi il tono non è mai pienamente epico tragico.
Per quanto riguarda Bradamante diciamo che lei è sorella del paladino Rinaldo ma è un personaggio
nuovo perché pur rifacendosi alla tradizione (cioè quella della Camilla virgiliana come donna
guerriera; personaggio tipico del romanzo cavalleresco e del poema epico) Bradamante è un
personaggio corretto perché è anche un amante (assisteremo a lamenti di gelosia per Ruggero) e
insieme un’eroina e una donna. Ci sarà un personaggio solo che personificherà la donna guerriera:
Marfisa (sorella di Ruggero). Marfisa però non è un personaggio esente dal comico perché
nell’Orlando Furioso Ariosto scherza su Marfisa dicendo che scimmiotta il maschio.
Ruggero è però un po’ un nuovo Enea -> ovvero nel poema noi assistiamo alla crescita di questo
personaggio e che avviene attraverso le sue continue cadute (ad esempio già all’inizio lo vediamo
preda delle insidie amorose di Alcina, e poi lo vedremo rimandare la conversione e sfuggire al
matrimonio -> cioè è un personaggio che ha una serie di cadute prima di arrivare all’esito finale) ed
in questa crescita che si ritrova il modello di Enea. Ma va detto anche che di eroi nell’Orlando
Furioso non ce ne sono o quanto meno non ci sono personaggi che non sono soggetti a delle
cadute: esempio anche Rinaldo che ha un episodio di follia amorosa infatti sarà lui a combattere
contro il mostro della gelosia prima di diventare saggio e di rifiutarsi di bere al nappo che gli
avrebbe rilevato la fedeltà o meno della moglie. Astolfo che forse è l’alterego del narratore, il più
saggio, che dovrà andare sulla luna a recuperare il senno di Orlando. Astolfo lo incontriamo all’inizio
che è tramutato in mirto perché anche lui vittima delle insidie amorose di Alcina. I personaggi non
sono mai personaggi tutti d’un pezzo, ma sono personaggi più inclini alle cadute.
Potremmo dire che Ariosto scherza su di sé: da un lato ammicca sull’essere il nuovo Virgilio e
questo anche per indicare che è il suo scarto da Boiardo ma allo stesso tempo è anche un Virgilio
dimidiato. Un esempio è nel canto 3 dove vengono illustrati i successori estensi e viene indicato
quale è il compito di Bradamante nella stirpe degli estensi: progenitrice della stirpe.
Canto 3 ottava 56:
“Quel ch’in pontificale abito imprime
del purpureo capel la sacra chioma,
è il liberal, magnanimo, sublime,
gran Cardinal de la Chiesa di Roma
Ippolito, ch’a prose, a versi, a rime
dará materia eterna in ogni idioma;
la cui fiorita etá vuol il ciel iusto
ch’abbia un Maron, come un altro ebbe Augusto.”
Si sta elogiando Ippolito che ricordiamo essere il destinatario dell’opera. Cardinal = Ippolito. “darà
materia eterna in ogni idioma” = sarà elogiato in ogni lingua. “Maron” dovrebbe essere il cantore di
Ippolito come Virgilio lo è stato di Augusto, ma il gioco è un gioco ironico perché Marone Andrea è
un poeta della corte estense, un poeta di non particolar valore che sarà poi ricordato nel canto 46.
È chiaro che se Ippolito ha come cantore Marone che corrisponde (ironicamente) a Virgilio, anche
in questo caso Ariosto non si risparmia mai un sorriso ironico -> questo marone può essere Virgilio
ma soprattutto può essere quel Marone elogiato poi nel canto 46 che tutto è tranne il nuovo
Virgilio.
È chiaro che anche se non vogliamo parlare di ironia ma certamente Ariosto tende a relativizzare, a
ridurre ed è un discorso che va d’accordo con il fatto che non fa mai un poema epico.
Si è parlato per il furioso di epos comico, questo però non ha niente a che vedere con quello che
sarà l’eroicomico con Tassoni, cioè volgere in burla l’epica, una riscrittura comica dell’epica, ma tra i
registri stilistici del Furioso il comico non è escluso; basta pensare anche alla componente
novellistica fino ad arrivare alla novella di Astolfo Fiammetta e Giocondo nel canto 28 che tocca
registri di basso comico -> è chiaro che il registro è ampio. Non a caso Tasso quando nei discorsi del
poema eroico parlerà di come si costruisce un poema epico parlando degli stili escluderà il comico
dalla serie dei registri. Cioè secondo Tasso un poema epico può mantenere il lirico e il tragico (-> il
più alto) ma non il comico; quindi, è chiaro che siamo ancora al di qua di un vero poema epico ->
nel Furioso c’è una componente epica visibile come nel proemio appena visto ma non lo possiamo
considerare un poema epico.
Uno di questi aspetti di ambiguità è stato messo in luce nella 3 e 4 ottava di questo proemio, qui
Ariosto si riferisce ad un signore -> il quale è direttamente Ippolito; ma in realtà, proprio per questa
oscillazione, nel poema epico il narratore deve scomparire e la narrazione deve farsi oggettiva (il
poeta compare solo per chiedere ispirazione alla musa) nel romanzo cavalleresco invece, e in
particolare con Boiardo, il narratore include nel poema l’atto di recitazione e abbiamo insistito su
questo a lezione facendo vedere come Boiardo ricrea nel poema la finzione di recitazione di fronte
ad un pubblico definito abbastanza precisamente.
Cosa succede con Ariosto? Dopo l’uscita del furioso e dopo la riscoperta della poetica aristotelica e
dopo le riflessioni intorno all’epica il poema ariostesco viene criticato:
Lo Speroni a proposito dell’Ariosto dice: “Ora parlerò del mondo in cui che tengono questi detti
romanzi di parlare non dà se ma agli auditori” Non ad un pubblico ampio e indefinito ma proprio a
chi sta ascoltando. “E dico che il Boiardo fu il primo che ciò fece perché anche al principio del libro
parlò agli auditori e lui fece bene di fare di tanto in tanto e di libro in libro” cioè quello che Ariosto
fece all’inizio del libro divenne poi una costante nel poema, ovvero continua a rivolgersi al suo
pubblico (signori e cavalieri) dall’inizio alla fine del poema e fece bene a far così perché lui era un
compositore di romanzi. “Ma l’Ariosto che non comincia così non fa bene a dare licenza nel fin dei
canti agli auditori che non avea prima invitati e nel principio tornar a parlare loro però dico sian belli
quanto si vuole i proemi dell’Ariosto sono sempre inetti e molte volte non catenati e congiunti alla
prosa del poema” ovvero l’Ariosto all’inizio del poema non inizia come Boiardo ma imitando le
movenze del poema epico fa male a congedare il suo pubblico in maniera canterina. Cioè Ariosto
innesca dei sistemi di comunicazione contraddittori fra loro, confonde il lettore che non sa se sta
leggendo un romanzo o un poema epico -> se è romanzo ci si può rivolgere agli ascoltatori ma se
invece siamo nel poema epico non si può fare, non ci si può rivolgere agli ascoltatori.
Questa contraddizione esiste già ed è stata vista da Bruscali nell’uso del termine signore -> “signor”
può essere contemporaneamente un singolare o un plurale. Quando ha detto “signor nell’altro
canto mi dicea” quel signore ad un pubblico abituato all’Orlando innamorato viene accolto al
plurale cioè ai signori ma molte altre volte indica esplicitamente il signore Ippolito o Alfonso.
Per questo potremmo dare un occhiata al proemio 15:
“Fu il vincer sempremai laudabil cosa,
vincasi o per fortuna o per ingegno:
gli è ver che la vittoria sanguinosa
spesso far suole il capitan men degno;
e quella eternamente è gloriosa,
e dei divini onori arriva al segno,
quando servando i suoi senza alcun danno,
si fa gl’inimici in rotta vanno.

La vostra, Signor mio, fu degna loda,


quando al Leone, in mar tanto feroce,
ch’avea occupata l’una e l’altra proda
del Po, da Francolin sin alla foce,
faceste sì, ch’ancor che ruggir l’oda,
s’io vedrò voi, non tremerò alla voce.
Come vincer si de’, ne simostraste;
ch’uccideste i nemini, e noi salvaste.”
Qui la questione è che abbiamo l’assegno di Parigi e Rodomonte è riuscito a oltrepassare le mura
con i saraceni e succede che c’è una trappola da parte di cristiani in cui cadono e dove muoiono la
maggior parte degli uomini di rodomonte e lui invece si salva saltando il fosso con un salto
sovraumano (questo succede nel canto 14).
Nel canto 15 Ariosto pone un paragone tra le antiche e moderne cose -> cioè ricorda, per
paragonare a quel che sta dicendo un fatto reale, la battaglia di Polesella del 1509 dove i veneziani
si erano inoltrati in alto sul Po per mettere alle stretta Ferrara e Ippolito riuscì a mettere in atto una
trappola (dobbiamo dire che probabilmente la storia di rodomonte non è quella di Polsella) e
devastare la flotta veneziana tanto che questi ultimi non tentarono più azioni di sfondamento verso
l’altro versante del Po e così salvò Ferrara. Da questo punto di vita il paragone serve sia per un
punto di vista encomiastico, per cercare di dare risalto ad una vittoria che Ippolito aveva compiuto
ma il cui onore aveva lasciato al fratello (ricordiamoci che Ippolito era cardinale della santa romana
chiesa che tra l’altro in questo momento era in una posizione difficile dovuta al fatto che lui
dovrebbe essere con il papato ma il papato non voleva questa battaglia quindi nonostante fosse
stato lui a vincere la battaglia essendo con il papato lascia gli onori al fratello)
Ariosto cerca di costruire una narrazione ideologica/politica dei fatti (Ariosto non è il solo, anzi è
uno degli ultimi che va a raccontarla perché già circolavano molte narrazioni storiche in prosa e in
ottave, scritte con il metro del poema cavalleresco ma non erano poemi cavallereschi e cercavano
di raccontare la guerra contro Venezia), cerca di ricostruire le ragioni di Ferrara e l’onore di Ippolito
che ha vinto, ma oltre all’encomiastico c’è anche una definizione importante dal punto di vista
ideologico e politico: quello che importa ad Ariosto è che Ippolito dimostrò come si doveva vincere,
cioè lui vinse la flotta avversaria ma riuscì anche a salvare il proprio esercito. Il fatto di aver ideato
un agguato non è visto come un atto di vigliaccheria come succedeva nei poemi cavallereschi delle
chanson classiche, ma qui invece è riportato come un atto di ingegno positivo perché non importa
che ci si sia rapportati agli avversari alla pari e personalmente, ma è importante che siamo riusciti a
salvare noi stessi, i propri e a risolvere la disputa -> esaltazione della pace e la conservazione del
nucleo sociale.
Lui dice: (canto 15, 3 ottava)
Questo il pagan, troppo in suo danno audace,
non seppe far; che i suoi nel fosso spinse,
dove la fiamma subita e vorace
non perdonò ad alcun, ma tutti estinse.
A tanti non saria stato capace
tutto il gran fosso, ma il fuoco restrinse,
restrinse i corpi e in polve li ridusse,
acciò ch’abile a tutti il luogo fusse.
Questo è fondamentale e lo ripete anche nel canto precedente. Ariosto non spiega cosa sta
succedendo o quello che succederà, ma avviene tutto come cinematograficamente, un evento
dopo l’altro: vediamo questi mori che sfondano e avanzano, i cristiani che passano il fosso indenni e
poi questa esplosione (canto 14):
(133) Tornò la fiamma sparsa, tutta in una,
che tra una ripa e l’altra ha ’l tutto pieno;
e tanto ascende in alto, ch’alla luna
può d’appresso asciugar l’umido seno.
Sopra si volve oscura nebbia e bruna,
che ’l sole adombra, e spegne ogni sereno.
Sentesi un scoppio in un perpetuo suono,
simile a un grande e spaventoso tuono.
(134) Aspro concento, orribile armonia
d’alte querele, d’ululi e di strida
de la misera gente che peria
nel fondo per cagion de la sua guida,
istranamente concordar s’udia
col fiero suon de la fiamma omicida.
Non piú, Signor, non piú di questo canto;
ch’io son giá rauco, e vo’ posarmi alquanto.
Della guida di Rodomonte quindi si ha un’immagine bella e terribile perché lui confronta l’urlare e le
strida della misera gente con il fiero suono della fiamma omicida -> talmente erano alte queste
grida che si confondevano con lo stridore della fiamma. Rodomonte aveva perciò fatto un atto
eccessivo per la sicurezza di vincere e aveva condannato i suoi al martirio.
Speroni rimprovera questo: ovvero guardiamo il distico finale di questo canto (Non più, Signor…).
Questo signor è il pubblico circostante ma soprattutto è un modulo tipicamente canterino che
allude al fatto che ha cantato troppo e vuole riposarsi. Non li aveva invitati all’ascolto e perché
adesso li congeda? Questo distico è un momento di interruzione brusco del tono alto precedente,
siamo in un momento quasi di sublime. Ariosto se vuole sa toccare questo registro alto ma quando
arriva all’apice c’è questo smorzamento del tono, quello che dicevamo che si può sfiorare la
tragedia ma poi questa viene regolarmente evitata anche grazie questi sbalzi stilistici -> questo
“Signor” è un modo per troncare il tragico di questo evento. Succede qualcosa di simile anche
nell’evento di Clorinda e Ermidoro quando c’è una formula di chiusura proprio nel momento più
drammatico quando i due stanno fuggendo con il corpo del loro signore -> apice della tragedia.
[noi sappiamo che il furioso ha avuto una notevole fortuna; Ariosto fa di tutto per mettersi sulla
lunghezza d’onda di Boiardo per poi correggerla e questo serve a garantirsi quel pubblico che aveva
amato l’Orlando innamorato di Boiardo. Sicuramente queste Formule di imbonimento, non hanno
più a che vedere tanto con la situazione reale, di comunicazione, ma diventano un espediente
retorico, uno stratagemma per quella finalità li.]
Proemio canto 14:
(1) Nei molti assalti e nei crudel conflitti, (2) Ebbon vittorie cosí sanguinose,
ch’avuti avea con Francia, Africa e che lor poco avanzò di che allegrarsi.
Spagna, E se alle antique le moderne cose,
morti erano infiniti, e derelitti invitto Alfonso, denno assimigliarsi;
al lupo, al corvo, all’aquila griffagna; la gran vittoria, onde alle virtuose
e ben che i Franchi fossero piú afflitti, opere vostre può la gloria darsi,
che tutta avean perduta la campagna, di ch’aver sempre lacrimose ciglia
piú si doleano i Saracin, per molti Ravenna debbe, a queste s’assimiglia:
principi e gran baron ch’eran lor tolti.
il capitan di Francia e de l’impresa;
e seco avere una procella absorto.
(3) quando cedendo Morini e Picardi,
tanti principi illustri, ch’a difesa
l’esercito normando e l’aquitano,
dei regni lor, dei lor confederati,
voi nel mezzo assaliste li stendardi
di qua da le fredd’Alpi eran passati.
del quasi vincitor nimico ispano,
seguendo voi quei gioveni gagliardi, (7) Nostra salute, nostra vita in questa
che meritâr con valorosa mano vittoria suscitata si conosce,
quel dí da voi, per onorati doni, che difende che ’l verno e la tempesta
l’else indorate e gl’indorati sproni. di Giove irato sopra noi non crosce:
ma né goder potiam, né farne festa,
(4) Con sí animosi petti che vi fôro
sentendo i gran ramarichi e l’angosce,
vicini o poco lungi al gran periglio,
ch’in veste bruna e lacrimosa guancia
crollaste sí le ricche Giande d’oro,
le vedovelle fan per tutta Francia.
sí rompeste il baston giallo e
vermiglio, (8) Bisogna che proveggia il re Luigi
ch’a voi si deve il trionfale alloro, di nuovi capitani alle sue squadre,
che non fu guasto né sfiorato il Giglio. che per onor de l’aurea Fiordaligi
D’un’altra fronde v’orna anco la castighino le man rapaci e ladre,
chioma che suore, e frati e bianchi e neri e bigi
l’aver servato il suo Fabrizio a Roma. violato hanno, e sposa e figlia e
madre;
(5) La gran Colonna del nome romano,
gittato in terra Cristo in sacramento,
che voi prendeste, e che servaste
per torgli un tabernaculo d’argento.
intera,
vi dá piú onor che se di vostra mano (9) O misera Ravenna, t’era meglio
fosse caduta la milizia fiera, ch’al vincitor non fêssi resistenza;
quanta n’ingrassa il campo ravegnano, far ch’a te fosse inanzi Brescia speglio,
e quanta se n’andò senza bandiera che tu lo fossi a Arimino e a Faenza.
d’Aragon, di Castiglia e di Navarra, Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio,
veduto non giovar spiedi né carra. ch’insegni a questi tuoi piú
continenza,
(6) Quella vittoria fu piú di conforto
e conti lor quanti per simil torti
che d’allegrezza; perché troppo pesa
stati ne sian per tutta Italia morti.
contra la gioia nostra il veder morto

Questo proemio insieme a quello del canto 46 sono tra i più lunghi. La lunghezza da sola mostra
l’importanza dell’evento che è questa battaglia di Ravenna. Poco dopo il 1512. Quando vediamo
che si dice che a differenza di boiardo dove la storia interviene a interrompere la narrazione (es.
finale dell’Innamorato) il furioso cerca d’inglobare gli eventi costruendo paralleli tra le antiche e
moderne cose. Solitamente nel furioso è la contemporaneità a fare da incipit per riprendere il filo
della narrazione (proemio canto 17 con tutta la tirata anti tirannica sul fatto che i tiranni e gli
invasori vengono mandati in punizione per i peccati dei popoli; evidentemente il popolo cristiano in
generale aveva commesso tanti peccati per tutto ciò che stava passando in quel periodo e si
riallaccia alla narrazione).
Qui, come dice nella seconda ottava, stava confrontato le antiche e le moderne cose e cosi la gran
vittoria di Ravenna assomiglia alla vittoria che ebbero i saraceni perché grandi afflizioni avevano
dato i Franchi perché costretti a ritirarsi, come dice nella prima ottava, e avevano perso molti del
proprio esercito ma non i più illustri; allora Ariosto crea un parallelo con la battaglia di Ravenna
dove, con una serie di simbologie, dice che quella vittoria fu decisiva per l’intervento degli Este.
Questo fu vero storicamente perché fu uno scontro tra francesi e spagnoli per il possesso di
Ravenna e i francesi erano ai limiti della lotta quando con l’artiglieria degli este (Este famosi per
questa artiglieria che fu utile anche per battere Venezia) erano riusciti a salvare i francesi.
Un primo parallelo è quello del fatto che fosse stata una vittoria che ha dato (ottava 6) più conforto
che allegrezza -> fu una vittoria quindi fu un conforto, ma fu una vittoria sanguinosa dove morirono
il capitano di Francia e molti principi illustri e grandi ufficiali francesi -> e fin qui siamo ad un livello
di fredda lucida analisi dei danni della guerra e anche encomiastico perché si parla di una grande
vittoria di Alfonso (da osservare come in un canto si esalta Ippolito e in un altro Alfonso) e anche
perché lui parla di questo Fabrizio Colonna (famiglia feudale romana strettamente vicina e anche in
conflitto con il potere papale). Fabrizio fu preso prigioniero ma trattato come ospite, è stato mesi a
Ferrara trattato come un principe e fu regalato (cosa inconsueta perché di solito si chiedevano
riscatti) allo stato pontificio -> atto di magnanimità. C’è un fatto politico importantissimo: Alfonso
seppur avendo vinto era costantemente minacciato e così Ferrara era assediata da Venezia e dal
papato quindi si voleva restituire un grande dignitario che sarebbe stato legato da obblighi di
reciprocità dal potere estense e con Alfonso; infatti sarà poi Fabrizio Colonna che medierà per un
tentativo di pace con Giulio II e molto probabilmente salvò la vita ad Alfonso: quando andrà a
trattare con Giulio II, non ne ricaverà niente di certo e dovrà tornare nottetempo con gli uomini di
colonna che apriranno le porte e faranno fuggire per far tornare a Ferrara (non ha detto chi farà
fuggire).
Questo era il lato encomiastico ma anche un altro lato: quando si parla della povera Ravenna (“o
misera Ravenna…”) e si fa una rampogna e vediamo che questo elogio dei francesi non è privo di
ironia; infatti, si capisce che non tutti i francesi erano così nobili visto che si parla di Ravenna che
oppone resistenza e viene saccheggiata dai francesi -> inoltre, questo è un fatto storicamente
accertato e quindi diciamo che nello scegliere le iperbole Ariosto è molto preciso anche
storicamente. E nell’ottava 8 fa un apostrofe al re e gli dice di mandare uomini più continenti -> è
un attacco diretto all’alleato francese. Uno direbbe: questo è successo nel 32 e i francesi hanno già
perso la guerra e si fa un attacco a loro ed è un fatto normalissimo -> invece no perché già
nell’edizione del 16 con un distico diverso ma si dice la stessa cosa e addirittura si faceva menzione
dei vespri siciliani: si diceva ai francesi “fate attenzione ai francesi a mandare i soldati più rispettosi
degli italiani perché altrimenti ricordate che gli italiani sanno ribellarsi come è successo nei vespri
siciliani”; poi vediamo come avesse ragione perché questa ottava (8) certifica quello che era
realmente successo successivamente ovvero che i francesi avevano subito sconfitte sanguinose da
parte degli italiani.
Fattore encomiastico + analisi/argomentazione etica + lettura tragica e critica della realtà corrono
sempre insieme. Ariosto è interessato alla questione encomiastica ma non è vero che sia solo
spostato da questo lato perché c’è anche la volontà di difendere la misera gente.
In questi casi il “Voi” e il “Signor” -> Ippolito e Alfonso, ci sono casi in cui la cosa è ambigua. Ad
esempio, nell’esordio canto 7 (dove siamo nel pieno del contesto del meraviglioso perché poi c’è
tutto il problema della credibilità del meraviglioso: tasso ci dirà che il meraviglioso deve essere
verosimile mentre per l’Ariosto questo non importa deve essere solo percepito come meraviglioso):
(1) Chi va lontan da la sua patria, vede
cose, da quel che giá credea, lontane;
che narrandole poi, non se gli crede,
e stimato bugiardo ne rimane:
che ’l sciocco vulgo non gli vuol dar fede,
se non le vede e tocca chiare e piane.
Per questo io so che l’inesperïenza
fará al mio canto dar poca credenza.
È difficile credere a quello che io dirò perché è strano e in genere lo sciocco ha bisogno di prove per
credere.
(2) Poca o molta ch’io ci abbia, non bisogna
ch’io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro.
A voi so ben che non parrá menzogna,
che ’l lume del discorso avete chiaro;
et a voi soli ogni mio intento agogna
che ’l frutto sia di mie fatiche caro.
Io vi lasciai che ’l ponte e la riviera
vider, che ’n guardia avea Erifilla altiera.
Chi è questo VOI? Certamente è un pubblico che si oppone al pubblico sciocco e ignaro che ad
Ariosto non interessa, ma non è neanche solo il signore ma è quel pubblico a cui il suo intento
agogna, cioè quello che vuole conquistare, quello che lui vuole che sia il suo pubblico -> è ambiguo
perché non riusciamo a capire se è il dedicatario del poema, Ippolito o Alfonso oppure un pubblico
imprecisato rispetto a quello boiardesco e soprattutto non definito sulla base dell’appartenenza
sociale -> si presume invece una capacità intellettuale cioè quelli che saranno in grado di capire lo
stesso il lume del discorso -> è chiaro che questo voi e questo signor restano volutamente
imprecisati all’interno del testo (ambiguità che allo Speroni non piaceva).
Il pubblico di Boiardo è una proiezione del pubblico reale invece Ariosto crea un pubblico funzionale
al racconto, cioè un pubblico letterario/ideale e lo si vede quando si riferisce alle donne ma non a
caso se prendiamo l’esordio del canto 28 Ariosto sta per raccontare l’episodio di Fiammetta e
Giocondo e lo sta raccontandolo in un momento di accesa misoginia:
(1)Donne, e voi che le donne avete in pregio,
per Dio, non date a questa istoria orecchia,
a questa che l' ostier dire in dispregio
e in vostra infamia e biasmo s' apparecchia;
ben che né macchia vi può dar né fregio
lingua sì vile, e sia l' usanza vecchia
che 'l volgare ignorante ognun riprenda,
e parli più di quel che meno intenda.

(2) Lasciate questo canto, che senza esso


può star l' istoria, e non sarà men chiara.
Mettendolo Turpino, anch' io l’ho messo,
non per malivolenzia né per gara.
Ch' io v' ami, oltre mia lingua che l' ha espresso,
che mai non fu di celebrarvi avara,
n' ho fatto mille prove; e v' ho dimostro
ch' io son, né potrei esser se non vostro.

(3) Passi, chi vuol, tre carte o quattro, senza


leggerne verso, e chi pur legger vuole,
gli dia quella medesima credenza
che si suol dare a finzïoni e a fole.
Ma tornando al dir nostro, poi ch’udienza
apparecchiata vide a sue parole,
e darsi luogo incontra al cavalliero,
cosí l’istoria incominciò l’ostiero.

Anche questo è un proemio molto denso -> qui si sta per raccontare una storia fortemente
misogina di due uomini che condividono la stessa donna e quindi Ariosto chiama in causa il pubblico
femminile, il quale è funzionale a questa storia, non resta esterno e fisso, ma è un pubblico che fa
parte già dell’universo narrato. Quindi Boiardo delimita un pubblico della corte estense (di cui fanno
parte anche signori, cavalieri, dame e damigelle) ed è costante nel racconto e appartiene a quella
situazione di comunicazione che è esterna al racconto -> non c’è collegamento tra pubblico che
ascolta e il racconto che si svolge. È il suo pubblico, appartiene alla situazione della comunicazione;
Ariosto invece crea il suo pubblico di volta in volta per funzionalizzarlo al racconto che stiamo
facendo: stiamo raccontando un fatto misogino e lui deve chiedere scusa alle donne, ma quelle
donne li non sono donne precise ma sono soprattutto appartenenti all’universo narrativo. Pubblico
funzionale a quella storia lì. È proprio farlo diventare parte alla narrazione.
Infatti, lui si rivolge a loro dicendo che la storia va a infamia e biasimo delle donne e le invita a
lasciare il canto dicendo (e anche qui c’è un sistema di comunicazione contraddittorio) si fa
riferimento ad un testo e a un lettore che deve saltare le pagine per non leggere quello che c’è
scritto -> quindi situazione completamente diversa da quella della narrazione orale che viene usata
in un altro contesto, una retorica diversa.
Ariosto ironizza perché è chiaro che invitare a non leggere stimola la curiosità e la lettura stessa. E
ironizza sul fatto che non può far a meno di mettere questo canto perché lo ha messo Turpino - >
che già Boiardo usava in funzione ironica: boiardo diceva che Turpino non aveva scritto al conte
perché dispettoso, qui invece è il contrario: ce l’ha messo Turpino quindi ce lo devo mettere anche
io. Comunque, il motivo fondamentale che dobbiamo tener presente in questo esordio è la
creazione di sistema ambigui di comunicazione: abbiamo forme che si contraddicono perché prima
ci diceva che era rauco e stanco e ora invita le donne a saltare le pagine e non leggere quelle pagine
li -> oralità e scrittura si mescolano in modo contraddittorio.
Gli esempi potrebbero essere molteplici ma dobbiamo dire che nell’Innamorato non lo abbiamo
visto ma c’era, e che Speroni critica all’Ariosto, e cioè che tra le tecniche canterine iniziava con una
formula di appello all’auditorio e si concludeva con formule di congedo che servono per salutare il
pubblico e invitarlo a una nuova seduta di recitazione. Questo modulo viene conservato sia da
Boiardo e sia da Ariosto -> sono formule dove si allude alla stanchezza, mancanza di voce e bisogno
di riposo (come abbiamo visto prima). Formule quindi che poi verranno eliminate dal poema epico
perché fortemente canterino e quindi popolare.
Un ultimo esempio che non è però proprio un congedo ma è più una ripresa ovvero quello del
canto 36 ottava 84:
quando un pianto s’udi da le vicine
valli sonar, che li fe’ tutti attenti.
A quella voce fan l’orecchie chine,
che di femina par che si lamenti.
Ma voglio questo canto abbia qui fine,
e di quel che voglio io, siate contenti;
che miglior cose vi prometto dire,
s’all’altro canto mi verrete a udire.
Qui siamo in piena in sintonia con Boiardo e con la tecnica dell’entrelancement perché il canto si
conclude con l’annuncio di un pericolo, una situazione di tensione, si sente un pianto e così il lettore
è incuriosito di capire chi sta piangendo ed è qui che il narratore tronca il racconto, per creare
questa tecnica anche molto moderna, ovvero quando proprio il lettore è più spinto a leggere per
curiosità il narratore lo interrompe e entra la tecnica che interessa la quartina (“Ma voglio questo
canto…” -> si usa udire perché è di tipo canterino).
C’è un’aggiunta: perché il narratore dice che è lui che decide, che vi piaccia o meno -> lo dice
sapendo di far un dispetto al suo auditorio (narratore autoritario) : tecnica di suspence e
frustrazione (ti aspetti una cosa e quella non ti viene data o viene rimandata). Infatti, nel canto 37 ci
mette un bel po’ prima di ritornare all’argomento (fino all’ottava 22) e in quelle ottave parla
genericamente delle donne e della gloria delle donne elogiandole ecc.
All’ottava 21 ci dice:
Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto
io n’ho desir, volessi porre in carte,
ne direi lungamente; ma non tanto,
ch’a dir non ne restasse anco gran parte:
e di Marfisa e dei compagni intanto
la bella istoria rimarria da parte,
la quale io vi promisi di seguire,
s’in questo canto mi verreste a udire.
“Se quanto dir se ne potrebbe” -> delle donne + “Volessi porre in carte” -> scrivere + “Restasse
anco gran parte” -> non potrei esaurire l’argomento. Ripresa anche letterale della formula di
congedo ad indicare che dopo questo lungo discorso ci si riconnette a quel punto in cui si era
interrotto il racconto e il pubblico ha dovuto aspettare.
(22) Ora essendo voi qui per ascoltarmi,
et io per non mancar de la promessa,
serberò a maggior ozio di provarmi
ch’ogni laude di lei sia da me espressa;
non perch’io creda bisognar miei carmi
a chi se ne fa copia da se stessa;
ma sol per satisfare a questo mio,
c’ho d’onoraria e di lodar, disio.
Quello che interessa è questa illazione e ripresa attraverso un modulo diverso da quello della
scrittura perché il lettore legge quanto gli pare mentre in quella orale tutto dipende dal narratore.
Nel passo precedente lo stacco crea un interesse, una suspence; qui invece taglia
un’argomentazione che stava diventando troppo dura dicendo che stava pressando la storia, che
stava lasciando da parte – le storie lasciate da parte nell’intreccio sono funzionali a equilibrarsi le
une con le altre senza mai venire a noia al lettore, nel momento in cui si stava dilungando troppo
oppure, al contrario, doveva parlare anche troppo ma non voleva alterare l’equilibrio del canto e
così può riprendere la storia messa da parte facendola entrare in gioco per cambiare il focus.

Potrebbero piacerti anche