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Questo proemio insieme a quello del canto 46 sono tra i più lunghi. La lunghezza da sola mostra
l’importanza dell’evento che è questa battaglia di Ravenna. Poco dopo il 1512. Quando vediamo
che si dice che a differenza di boiardo dove la storia interviene a interrompere la narrazione (es.
finale dell’Innamorato) il furioso cerca d’inglobare gli eventi costruendo paralleli tra le antiche e
moderne cose. Solitamente nel furioso è la contemporaneità a fare da incipit per riprendere il filo
della narrazione (proemio canto 17 con tutta la tirata anti tirannica sul fatto che i tiranni e gli
invasori vengono mandati in punizione per i peccati dei popoli; evidentemente il popolo cristiano in
generale aveva commesso tanti peccati per tutto ciò che stava passando in quel periodo e si
riallaccia alla narrazione).
Qui, come dice nella seconda ottava, stava confrontato le antiche e le moderne cose e cosi la gran
vittoria di Ravenna assomiglia alla vittoria che ebbero i saraceni perché grandi afflizioni avevano
dato i Franchi perché costretti a ritirarsi, come dice nella prima ottava, e avevano perso molti del
proprio esercito ma non i più illustri; allora Ariosto crea un parallelo con la battaglia di Ravenna
dove, con una serie di simbologie, dice che quella vittoria fu decisiva per l’intervento degli Este.
Questo fu vero storicamente perché fu uno scontro tra francesi e spagnoli per il possesso di
Ravenna e i francesi erano ai limiti della lotta quando con l’artiglieria degli este (Este famosi per
questa artiglieria che fu utile anche per battere Venezia) erano riusciti a salvare i francesi.
Un primo parallelo è quello del fatto che fosse stata una vittoria che ha dato (ottava 6) più conforto
che allegrezza -> fu una vittoria quindi fu un conforto, ma fu una vittoria sanguinosa dove morirono
il capitano di Francia e molti principi illustri e grandi ufficiali francesi -> e fin qui siamo ad un livello
di fredda lucida analisi dei danni della guerra e anche encomiastico perché si parla di una grande
vittoria di Alfonso (da osservare come in un canto si esalta Ippolito e in un altro Alfonso) e anche
perché lui parla di questo Fabrizio Colonna (famiglia feudale romana strettamente vicina e anche in
conflitto con il potere papale). Fabrizio fu preso prigioniero ma trattato come ospite, è stato mesi a
Ferrara trattato come un principe e fu regalato (cosa inconsueta perché di solito si chiedevano
riscatti) allo stato pontificio -> atto di magnanimità. C’è un fatto politico importantissimo: Alfonso
seppur avendo vinto era costantemente minacciato e così Ferrara era assediata da Venezia e dal
papato quindi si voleva restituire un grande dignitario che sarebbe stato legato da obblighi di
reciprocità dal potere estense e con Alfonso; infatti sarà poi Fabrizio Colonna che medierà per un
tentativo di pace con Giulio II e molto probabilmente salvò la vita ad Alfonso: quando andrà a
trattare con Giulio II, non ne ricaverà niente di certo e dovrà tornare nottetempo con gli uomini di
colonna che apriranno le porte e faranno fuggire per far tornare a Ferrara (non ha detto chi farà
fuggire).
Questo era il lato encomiastico ma anche un altro lato: quando si parla della povera Ravenna (“o
misera Ravenna…”) e si fa una rampogna e vediamo che questo elogio dei francesi non è privo di
ironia; infatti, si capisce che non tutti i francesi erano così nobili visto che si parla di Ravenna che
oppone resistenza e viene saccheggiata dai francesi -> inoltre, questo è un fatto storicamente
accertato e quindi diciamo che nello scegliere le iperbole Ariosto è molto preciso anche
storicamente. E nell’ottava 8 fa un apostrofe al re e gli dice di mandare uomini più continenti -> è
un attacco diretto all’alleato francese. Uno direbbe: questo è successo nel 32 e i francesi hanno già
perso la guerra e si fa un attacco a loro ed è un fatto normalissimo -> invece no perché già
nell’edizione del 16 con un distico diverso ma si dice la stessa cosa e addirittura si faceva menzione
dei vespri siciliani: si diceva ai francesi “fate attenzione ai francesi a mandare i soldati più rispettosi
degli italiani perché altrimenti ricordate che gli italiani sanno ribellarsi come è successo nei vespri
siciliani”; poi vediamo come avesse ragione perché questa ottava (8) certifica quello che era
realmente successo successivamente ovvero che i francesi avevano subito sconfitte sanguinose da
parte degli italiani.
Fattore encomiastico + analisi/argomentazione etica + lettura tragica e critica della realtà corrono
sempre insieme. Ariosto è interessato alla questione encomiastica ma non è vero che sia solo
spostato da questo lato perché c’è anche la volontà di difendere la misera gente.
In questi casi il “Voi” e il “Signor” -> Ippolito e Alfonso, ci sono casi in cui la cosa è ambigua. Ad
esempio, nell’esordio canto 7 (dove siamo nel pieno del contesto del meraviglioso perché poi c’è
tutto il problema della credibilità del meraviglioso: tasso ci dirà che il meraviglioso deve essere
verosimile mentre per l’Ariosto questo non importa deve essere solo percepito come meraviglioso):
(1) Chi va lontan da la sua patria, vede
cose, da quel che giá credea, lontane;
che narrandole poi, non se gli crede,
e stimato bugiardo ne rimane:
che ’l sciocco vulgo non gli vuol dar fede,
se non le vede e tocca chiare e piane.
Per questo io so che l’inesperïenza
fará al mio canto dar poca credenza.
È difficile credere a quello che io dirò perché è strano e in genere lo sciocco ha bisogno di prove per
credere.
(2) Poca o molta ch’io ci abbia, non bisogna
ch’io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro.
A voi so ben che non parrá menzogna,
che ’l lume del discorso avete chiaro;
et a voi soli ogni mio intento agogna
che ’l frutto sia di mie fatiche caro.
Io vi lasciai che ’l ponte e la riviera
vider, che ’n guardia avea Erifilla altiera.
Chi è questo VOI? Certamente è un pubblico che si oppone al pubblico sciocco e ignaro che ad
Ariosto non interessa, ma non è neanche solo il signore ma è quel pubblico a cui il suo intento
agogna, cioè quello che vuole conquistare, quello che lui vuole che sia il suo pubblico -> è ambiguo
perché non riusciamo a capire se è il dedicatario del poema, Ippolito o Alfonso oppure un pubblico
imprecisato rispetto a quello boiardesco e soprattutto non definito sulla base dell’appartenenza
sociale -> si presume invece una capacità intellettuale cioè quelli che saranno in grado di capire lo
stesso il lume del discorso -> è chiaro che questo voi e questo signor restano volutamente
imprecisati all’interno del testo (ambiguità che allo Speroni non piaceva).
Il pubblico di Boiardo è una proiezione del pubblico reale invece Ariosto crea un pubblico funzionale
al racconto, cioè un pubblico letterario/ideale e lo si vede quando si riferisce alle donne ma non a
caso se prendiamo l’esordio del canto 28 Ariosto sta per raccontare l’episodio di Fiammetta e
Giocondo e lo sta raccontandolo in un momento di accesa misoginia:
(1)Donne, e voi che le donne avete in pregio,
per Dio, non date a questa istoria orecchia,
a questa che l' ostier dire in dispregio
e in vostra infamia e biasmo s' apparecchia;
ben che né macchia vi può dar né fregio
lingua sì vile, e sia l' usanza vecchia
che 'l volgare ignorante ognun riprenda,
e parli più di quel che meno intenda.
Anche questo è un proemio molto denso -> qui si sta per raccontare una storia fortemente
misogina di due uomini che condividono la stessa donna e quindi Ariosto chiama in causa il pubblico
femminile, il quale è funzionale a questa storia, non resta esterno e fisso, ma è un pubblico che fa
parte già dell’universo narrato. Quindi Boiardo delimita un pubblico della corte estense (di cui fanno
parte anche signori, cavalieri, dame e damigelle) ed è costante nel racconto e appartiene a quella
situazione di comunicazione che è esterna al racconto -> non c’è collegamento tra pubblico che
ascolta e il racconto che si svolge. È il suo pubblico, appartiene alla situazione della comunicazione;
Ariosto invece crea il suo pubblico di volta in volta per funzionalizzarlo al racconto che stiamo
facendo: stiamo raccontando un fatto misogino e lui deve chiedere scusa alle donne, ma quelle
donne li non sono donne precise ma sono soprattutto appartenenti all’universo narrativo. Pubblico
funzionale a quella storia lì. È proprio farlo diventare parte alla narrazione.
Infatti, lui si rivolge a loro dicendo che la storia va a infamia e biasimo delle donne e le invita a
lasciare il canto dicendo (e anche qui c’è un sistema di comunicazione contraddittorio) si fa
riferimento ad un testo e a un lettore che deve saltare le pagine per non leggere quello che c’è
scritto -> quindi situazione completamente diversa da quella della narrazione orale che viene usata
in un altro contesto, una retorica diversa.
Ariosto ironizza perché è chiaro che invitare a non leggere stimola la curiosità e la lettura stessa. E
ironizza sul fatto che non può far a meno di mettere questo canto perché lo ha messo Turpino - >
che già Boiardo usava in funzione ironica: boiardo diceva che Turpino non aveva scritto al conte
perché dispettoso, qui invece è il contrario: ce l’ha messo Turpino quindi ce lo devo mettere anche
io. Comunque, il motivo fondamentale che dobbiamo tener presente in questo esordio è la
creazione di sistema ambigui di comunicazione: abbiamo forme che si contraddicono perché prima
ci diceva che era rauco e stanco e ora invita le donne a saltare le pagine e non leggere quelle pagine
li -> oralità e scrittura si mescolano in modo contraddittorio.
Gli esempi potrebbero essere molteplici ma dobbiamo dire che nell’Innamorato non lo abbiamo
visto ma c’era, e che Speroni critica all’Ariosto, e cioè che tra le tecniche canterine iniziava con una
formula di appello all’auditorio e si concludeva con formule di congedo che servono per salutare il
pubblico e invitarlo a una nuova seduta di recitazione. Questo modulo viene conservato sia da
Boiardo e sia da Ariosto -> sono formule dove si allude alla stanchezza, mancanza di voce e bisogno
di riposo (come abbiamo visto prima). Formule quindi che poi verranno eliminate dal poema epico
perché fortemente canterino e quindi popolare.
Un ultimo esempio che non è però proprio un congedo ma è più una ripresa ovvero quello del
canto 36 ottava 84:
quando un pianto s’udi da le vicine
valli sonar, che li fe’ tutti attenti.
A quella voce fan l’orecchie chine,
che di femina par che si lamenti.
Ma voglio questo canto abbia qui fine,
e di quel che voglio io, siate contenti;
che miglior cose vi prometto dire,
s’all’altro canto mi verrete a udire.
Qui siamo in piena in sintonia con Boiardo e con la tecnica dell’entrelancement perché il canto si
conclude con l’annuncio di un pericolo, una situazione di tensione, si sente un pianto e così il lettore
è incuriosito di capire chi sta piangendo ed è qui che il narratore tronca il racconto, per creare
questa tecnica anche molto moderna, ovvero quando proprio il lettore è più spinto a leggere per
curiosità il narratore lo interrompe e entra la tecnica che interessa la quartina (“Ma voglio questo
canto…” -> si usa udire perché è di tipo canterino).
C’è un’aggiunta: perché il narratore dice che è lui che decide, che vi piaccia o meno -> lo dice
sapendo di far un dispetto al suo auditorio (narratore autoritario) : tecnica di suspence e
frustrazione (ti aspetti una cosa e quella non ti viene data o viene rimandata). Infatti, nel canto 37 ci
mette un bel po’ prima di ritornare all’argomento (fino all’ottava 22) e in quelle ottave parla
genericamente delle donne e della gloria delle donne elogiandole ecc.
All’ottava 21 ci dice:
Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto
io n’ho desir, volessi porre in carte,
ne direi lungamente; ma non tanto,
ch’a dir non ne restasse anco gran parte:
e di Marfisa e dei compagni intanto
la bella istoria rimarria da parte,
la quale io vi promisi di seguire,
s’in questo canto mi verreste a udire.
“Se quanto dir se ne potrebbe” -> delle donne + “Volessi porre in carte” -> scrivere + “Restasse
anco gran parte” -> non potrei esaurire l’argomento. Ripresa anche letterale della formula di
congedo ad indicare che dopo questo lungo discorso ci si riconnette a quel punto in cui si era
interrotto il racconto e il pubblico ha dovuto aspettare.
(22) Ora essendo voi qui per ascoltarmi,
et io per non mancar de la promessa,
serberò a maggior ozio di provarmi
ch’ogni laude di lei sia da me espressa;
non perch’io creda bisognar miei carmi
a chi se ne fa copia da se stessa;
ma sol per satisfare a questo mio,
c’ho d’onoraria e di lodar, disio.
Quello che interessa è questa illazione e ripresa attraverso un modulo diverso da quello della
scrittura perché il lettore legge quanto gli pare mentre in quella orale tutto dipende dal narratore.
Nel passo precedente lo stacco crea un interesse, una suspence; qui invece taglia
un’argomentazione che stava diventando troppo dura dicendo che stava pressando la storia, che
stava lasciando da parte – le storie lasciate da parte nell’intreccio sono funzionali a equilibrarsi le
une con le altre senza mai venire a noia al lettore, nel momento in cui si stava dilungando troppo
oppure, al contrario, doveva parlare anche troppo ma non voleva alterare l’equilibrio del canto e
così può riprendere la storia messa da parte facendola entrare in gioco per cambiare il focus.