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Maria Cristina Riffero

Arrigo Boito
ovvero la musicalità
della parola poetica
Arrigo Boito
ovvero la musicalità della parola poetica

"Beati quelli che oltre all'arte di Arrigo Boito hanno


conosciuto la sua anima! Essi hanno respirato l'aria pura
delle vette e intravisti cieli alti e vasti"

dal necrologio di Arrigo Boito, Milano 11 Giugno 1918

Nel Giugno 2018 cadrà la ricorrenza del centenario dalla


morte di Arrigo Boito.
Occorre, dunque, preparare gli appassionati di musica e
teatro e, più in generale, le volenterose persone di cultura ad
incamminarsi verso questa celebrazione, con una visione, la
più chiara possibile, che permetta di capire chi sia stato
Arrigo Boito e che influsso abbia apportato al mondo della
cultura il suo percorso di uomo e di artista, iniziato con la
nascita a Padova il 24 Febbraio 1842.
Arrigo, figlio di una nobildonna polacca e di un artista
figurativo italiano, che molto trascurò la sua famiglia e fratello
minore dell'architetto e letterato Camillo, ebbe, in tutto il
corso della sua carriera artistica, come letterato,
drammaturgo e compositore, profondamente radicato nel
suo gusto creativo il senso dell'arte visiva, dell'estetica ottica
di ciò che nasceva dalla sua idea e dalla sua penna, a ciò si
unisce un interesse verso storie e leggende che ebbero una
maggiore fascinazione sui popoli nordici rispetto a quelli
latini.

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Abile conoscitore delle lingue antiche, nonché di quelle
moderne, tale da poter svolgere anche l'attività di traduttore
per prestigiose case editrici milanesi, nonostante un diploma
in musica al Conservatorio e, l'essere autore, oltre che del
libretto anche della musica di due melodrammi Mefistofele e
Nerone, la vera vena musicale di Boito va ricercata nei suoi
testi e nella sua poesia e nell'incredibile capacità di rendere
musicale la parola, al punto che i testi dei drammi in musica,
scritti per se o per altri autori, possono vivere benissimo
anche senza la musica, con la sola lettura o recitazione del
testo poetico.
Il suo essere al 100% uomo di teatro va, inoltre, ricercato
nella incredibile capacità di creare nei suoi libretti situazioni
drammaturgiche.
Boito non fu solo un paroliere, come altri autori di libretti nella
storia del melodramma dell'Ottocento italiano, fu un vero e
proprio creatore di situazioni sceniche, atte a catturare
l'attenzione dello spettatore.
Giovanissimo, affascinato dal mito di Faust, scrisse il
Mefistofele che, dopo l'insuccesso della prima
rappresentazione, della prima versione, alla Scala di Milano
nel 1868, vide il successo, nella seconda versione riveduta e
abbreviata, del Teatro Comunale di Bologna, nell'Ottobre del
1875.
I critici dicevano che Boito, nella sua creazione, era rimasto
fedele al poema di Goethe più di quanto non lo fosse stato
Gounoud nel scrivere il suo Faust e, il testo dell'opera
rappresentata a Bologna, dai critici, era definito un vero e
proprio poema, non un libretto perché dicevano:
"il bellissimo lavoro del Boito non merita l'appellativo di
libretto perché si legge con molto diletto anche scompagnato
dalla musica e tra i versi c'è ne sono di soavi".
Nel passaggio dalla prima alla seconda versione, Boito
passò da voce di baritono a voce di tenore il personaggio di
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Faust e, pur essendo, il suo lavoro, un trionfo della parola
sulla musica, anche sotto questo secondo aspetto riuscì ad
escogitare alcune trovate geniali, come ad esempio nel
momento in cui Faust crede che il frate grigio, sotto il cui saio
si nasconde Mefistofele, stia tessendo attorno a lui
claustrofobici lacci, per creare un contatto con la sua vittima,
la musica di Boito segue la situazione scenica, in modo così
sublime, che lo spettatore prova un senso di angoscia e di
paura.
Anche la scelta di come fare cantare i suoi personaggi è
molto moderna e prelude a scelte che poi saranno di altri
musicisti del Novecento, che entreranno giovanissimi in
contatto con Boito e, tra questi, GianFrancesco Malipiero,
che Boito introdurrà a Casa Ricordi.
I recitativi, i declamati, quasi da teatro di prosa, che saranno
propri delle creazioni teatrali novecentesche di Malipiero,
Boito li fa già suoi nella parte di Mefistofele, che è priva,
come dicono certi critici, di vere e proprie arie per cui farsi
applaudire, lo stesso dicasi per i cherubini del Prologo in
cielo, i quali hanno un canto quasi parlato e così insistente
che crea nello spettatore come un vero e proprio senso di
avvicinamento di questi esseri alati soprannaturali.
L'atto quarto del primo Mefistofele, poi soppresso e, derivato
dal secondo Faust di Goethe, è un'ambientazione a corte in
cui Mefistofele fa comparire, per i cortigiani, un teatro
fantastico, su cui viene inscenato l'episodio mitologico del
rapimento di Elena che è narrato, con voce fuori campo,
dall'astrologo di corte, imbeccato da Mefistofele.
Faust, incantato dalla figura di Elena, assiste alla
raffigurazione sul teatro del rapimento della regina greca e si
slancia verso il teatro per derimere la situazione e liberare la
rapita, portando alla scomparsa di questo.
Una scelta drammaturgica, derivata da Goethe, che ha
tantissime affinità con quella scelta da De Falla per il suo
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Retablo de Maese Pedro, derivata da Cervantes, in entrambi
i casi però, c'è un episodio di teatro nel teatro, con intervento
dell'eroe che dissipa e distrugge questa seconda
fascinazione scenica.
Questo esempio, per dire che certe idee sceniche del
Novecento erano già state nella mente e nella penna del
giovane Boito.
Inoltre, tra la prima e la seconda versione, è mutato in parte il
testo dell'aria che Margherita canta, in stato di follia quasi
ipnotica, nella scena del carcere, nella prima stesura, poi
scomparsa nella versione definitiva, dice:
"Tutti cantano canzoni su di me, m'han messa in favola. Così
fan le rime e i suoni"
quasi un annuncio preveggente del poeta di quanti ancora
testi drammatici e letterari saranno scritti su Faust e il suo
amore per Margherita.
Nella seconda versione Boito aggiunge anche un duetto tra
Margherita e Faust, sempre nella scena del carcere e, a
leggere il testo e la ritmica di questo con attenzione, ci
rendiamo conto che ha delle profonde affinità con il duetto
che Boito, sotto lo pseudonimo di Tobia Gorrio, assegna a
Laura ed Enzo, nello scrivere il testo letterario per la
Gioconda di Amilcare Ponchielli, infatti:
"Laggiù nelle tenebre ignote sta il segno del nostro cammin,
nell'onde, nell'ombre, nei venti, fidenti, ridenti, fuggenti,
gittiamo la vita e il destin"
ha molti rimandi, ritmico poetici, al testo del duetto di Faust e
Margherita "Lontano, lontano, lontano", specie nel finale del
testo che recita:
"La fuga dei liberi amanti. Migranti, speranti, raggianti. Dirige
a quell'isola il vol".
Possono cambiare le parole e anche l'autore della musica,
ma la mano del poeta ha un marchio di fabbrica
inconfondibile, del resto la prima rappresentazione della
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Gioconda avvenne nel 1876 e, quindi, è plausibile supporre
che, mentre creava il testo per il collega musicista, Boito
stesse ricreando anche il testo del suo Mefistofele e,
trovando lirico il duetto degli innamorati lo introdusse, con
opportune variazioni, in entrambi i testi.
E, sempre per restare al marchio di fabbrica del poeta, Boito
fa dire ad Alvise, uno dei cattivi della storia di Gioconda,
quando vede la moglie Laura, che pensa morta ma che, in
realtà, è solo addormentata per aver bevuto una pozione
letargica al posto del veleno, che il marito le aveva dato per
uccidersi e salvare l'onore della famiglia:
"La morte è il nulla e vecchia fola è il ciel"
frase che farà poi dire, alcuni anni dopo ad un altro cattivo
della storia, Jago, al termine del suo Credo, non derivato da
Shakespeare, ma scritto appositamente per il dramma Otello
di Giuseppe Verdi.
In Gioconda si trovano altri elementi che avranno peso nella
poetica di Arrigo Boito, ovvero le maschere della Commedia
dell'Arte.
Infatti, nel primo atto, c'è un ballabile con Arlecchini e
Pantaloni, in numero di sei per ciascuna delle due maschere
e nelle disposizioni sceniche, giunteci solo in parte e relative
al primo atto, Boito prescrive per l'opera del collega la
necessità che il teatro si doti delle maschere e delle palette di
legno, per vestire in maschera gli Arlecchini e delle mezze
maschere, per occultare il viso dei Pantaloni.
Ed una maschera, che deriva dalla maschere comiche dalla
Commedia dell'Arte italiana, Boito introdusse anche nel suo
Mefistofele infatti e, magari sfugge ad una lettura distratta del
libretto, nella scena festosa della Domenica di Pasqua, con
cui si apre il primo atto, è richiesta la presenza in scena di
Hanswurst, la maschera comica del teatro popolare tedesco,
che è un misto tra i vari caratteri di comicità delle maschere
della Commedia dell'Arte italiana.
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Al mondo delle maschere Arrigo Boito dedicò il testo, scritto
nel dialetto del suo nativo Veneto, Basi e Bote.
Tale commedia, ambientata a Venezia, che ha per
protagonisti le maschere principali della Commedia dell'Arte,
Arlecchino con Colombina, Florindo con Rosaura, Pantalone
e Tartaglia, aggiungendo anche Pierrot e, che vedrà il teatro
solo nel Novecento, con le musiche di Riccardo
Pick-Mangiagalli, al su esordio nel mondo del melodramma,
nel 1927, Boito l'aveva scritta, per musicarla lui stesso e per
destinarla ad una esecuzione molto particolare, ovvero
l'aveva pensata come commedia in musica per teatro di
marionette.
Di questo suo desiderio, non portato a termine, fa cenno il
letterato-drammaturgo e, migliore amico di Arrigo Boito,
Giuseppe Giacosa, nell'introduzione al suo testo teatrale Il
Filo del 1883, ideato per Eleonora Duse, che per un periodo
fu compagna di vita di Arrigo Boito e che, pur dopo la
separazione, sempre lo considerò come il grande amore
della sua vita e, che è ambientato nel magazzino di un teatro
di marionette.
Giacosa dice di essersi ispirato per questo testo a Basi e
Bote dell'amico letterato, che avrebbe potuto benissimo
considerarsi il coautore dell'opera e, a cui la breve
commedia era dedicata.
Basi e Bote è un'opera basata sul gioco della parola e
dell'onomatopea, diventa parola anche il rumore delle
bastonate che i personaggi si danno di frequente nel corso
della storia:
"Patatì! Patatà!"
effetto sonoro delle legnate, compare quindi più volte nel
testo.
Gli effetti scenici hanno dei suoni e la parola, oltre che la
musica, è il modo sonoro per esprimere tali effetti di scena.

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Ancora, in questa commedia è presente
drammaturgicamente l'orologio della casa di Pantalone che
deve ripetere il suo "Cucù" in determinati momenti della
storia e, ad Arlecchino e Colombina viene richiesto, nelle loro
parti, di fare con le labbra il suono che corrisponde al
richiamo per gatti, in un duetto che procede descrivendo i
versi tipici del gatto, quando si dice:
"El fa fron fron. El fa ron ron"
forse per questi motivi la commedia affascinò un musicista
come Pick-Mangiagalli, formatosi quando in Italia era in voga
la corrente artistica del Futurismo, che dava molto peso alla
fonetica dei suoni o lettere e parole in libertà.
Inoltre Colombina lega Arlecchino a dei fili e lo fa muovere a
mo’ di marionetta dicendo:
"la mia bela marioneta"
un pensiero drammaturgico di futuri interpreti legati a fili nelle
mani del burattinaio.
Se Basi e Bote fosse andato in porto, vivente Boito, forse a
lui sarebbe toccato il privilegio di riportare in voga, nel teatro
musicale, i personaggi della Commedia dell'Arte dopo un
lungo oblio, merito che invece toccherà a Pietro Mascagni,
con le sue Maschere del 1901.
Questo interesse per il mondo delle maschere e delle
marionette, come già per il mondo magico di Faust, avvicina
Boito ad un altro musicista, che ebbe dei legami con il
Maestro di Padova, Ferruccio Busoni che, come Boito,
scriveva da se i testi letterari delle sue opere, in tedesco,
dato che fin dalla giovinezza, dalla natia Italia, aveva scelto
la Germania come patria di vita, che però in Boito avrebbe
voluto l'autore del libretto di una sua eventuale opera in
lingua italiana, mai nata e che avrebbe voluto che Boito
traducesse in italiano, per una prima rappresentazione in
Italia, la sua prima opera La Sposa Sorteggiata.

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L'autore di Arlecchino e Dottor Faust scriverà, nel 1918, sul
giornale di Zurigo un bellissimo saggio In memoriam di
Arrigo Boito mancato da pochi giorni.
E' doveroso altresì ricordare che nella cultura polacca di
teatro popolare, cultura che da parte di madre era patrimonio
di Boito, come alcuni testi danno prova, sono prese
parallelamente in considerazione le figure di Faust e di
Arlecchino e ci sono delle stampe del Settecento che
mostrano la fusione teatrale tra questi due personaggi, una
di queste mostra l'attore inglese John Rich in The
Necromanter come Arlecchino-Dottor Faust.
La passione per il mondo della Commedia dell'Arte ritornerà
più tardi a farsi sentire nel Boito librettista quando, nel 1893,
vedrà la luce l'ultimo dramma in musica di Giuseppe Verdi,
Falstaff.
Così come i personaggi della Commedia dell'Arte
ricomparivano con gli stessi nomi in diversi scenari, magari
vivendo delle situazioni diverse e, quindi subendo tutta una
evoluzione del personaggio, in Shakespeare, un'affinità con
il mondo della Commedia dell'Arte lo si trova proprio nel
personaggio di Falstaff, il quale subisce un'evoluzione, lui ed
i personaggi che gli sono di contorno, perché, oltre a
comparire nelle più celebri e comiche Allegre comari di
Windsor, questi personaggi compaiono anche nei drammi
storici Enrico IV, diviso in due parti e, Bardolfo e Pistola,
compari di Falstaff, anche in Enrico V e, proprio
all'evoluzione di questi personaggi nei tre drammi di
Shakespeare, Boito si ispirò per scrivere il testo poetico per
Giuseppe Verdi, creando, altresì, delle modifiche
drammaturgiche, per la concisione dell'opera di notevole
effetto, come il fare buttare la cesta del bucato, che contiene
Falstaff, dalla finestra con la conclusione di mostrarlo a tutti
mentre galleggia nel canale, è una resa drammatica e
scenica di ottimo effetto ma, nonostante, la sapiente
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maestria con cui rielaborò i testi shakespiriani, qualche
purista dei drammi del letterato inglese disse che Boito era
irrispettoso nel trattare le storie del poeta di Stratford, specie
quando aveva scritto il Credo per Jago nell'Otello che non
era di matrice shakespiriana.
Inoltre, per quel che riguarda Otello del 1887, scritto per
Verdi, molti accusavano Boito di avere omesso dalla
drammaturgia il primo atto del testo di Shakespeare,
ambientato a Venezia, il quale, secondo alcuni, permetteva
di capire il carattere di Otello e ci si domandava se tale scelta
l'avesse operata il Boito musicista o il Boito poeta, che fece
del libretto un'opera d'arte tale da dare a Verdi la possibilità
di creare un vero dramma musicale, con forte presenza
melodica ma anche con dei recitativi di unica bellezza.
I primi critici dicevano che il Credo di Jago sarebbe stato uno
dei pezzi sempre ascoltati con viva attenzione ad ogni
ripresa dello spettacolo.
Boito però aveva già avuto dei legami con il mondo di
Shakespeare prima della stesura dei testi per Verdi, quando
per il teatro di prosa tradusse l'Antonio e Cleopatra, perché
la sua amata Eleonora Duse potesse confrontarsi con il
personaggio della regina d'Egitto e, quando rielaborò la
storia di Amleto principe di Danimarca per Franco Faccio,
compositore e direttore d'orchestra, di cui Boito era amico e
che ebbe una prima rappresentazione al Carlo Felice di
Genova nel 1865 e, che termina con Amleto che uccide
Claudio, lo zio usurpatore del trono e assassino del padre del
principe e non con la morte di Amleto stesso, come invece
era nell'idea originale dell'opera e, che fu ciò che vide il
pubblico di Genova, perché la versione più corta, che ha
termine con la sola vendetta di Amleto, fu la ripresa che si
fece dell'opera di Faccio alla Scala nel Febbraio del 1871.

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Dal testo di questo Amleto si evince l'incredibile spiritualità
che albergava nell'anima di Boito, il Padre Nostro che recita
Claudio, tormentato dai rimorsi, nel terzo atto di Amleto:
"O Padre nostro che sei nel cielo. Sii benedetto nel tuo
splendor. Venga il tuo regno e sulla terra si compia l'alta tua
volontà. Me dona il pane quotidiano. O Padre santo, dolce
Sovran. Perdona al tristo le sue peccata, com'ei perdona agli
offensor!"
è l'incipit di quella serie di magnifiche preghiere che ci
trasmettono un profondo senso del sacro nel laico Boito.
Il senso della spiritualità che si ritrova in molti punti di
Mefistofele, nell'Ave Maria per Desdemona di Otello e che,
soprattutto, impregna il progetto drammaturgico e musicale
che, dalla giovinezza alla morte, accompagnerà tutta la vita
artistica di Boito, il Nerone, dove ritorna un Padre Nostro, alle
origini della drammaturgia del padovano, la preghiera di
Cristo è recitata dal colpevole Claudio, in Nerone è recitata,
sulle tombe della via Appia, da Rubria, la Vestale che si
avvicina al cristianesimo e che cerca conforto all'anima,
dopo aver subito violenza da parte di Nerone.
Sempre, nell'opera testamento, che segue il percorso di una
poliedrica vita artistica, ci sono i magnifici passi sacri
interpretati da Fanuel, il predicatore del cristianesimo a
Roma.
Fanuel nell'orto dei cristiani descrive ai fedeli le Beatitudini
pronunciate dal Cristo e, sul finire della seconda parte del
quarto atto, per accompagnare Rubria morente, vittima del
martirio nel circo al suo riposo perenne, la culla narrandole
l'episodio del lago e della vocazione degli apostoli-pescatori
di Cristo, che diventa quasi una ninna nanna sacra che
accompagna nel sonno eterno la Vestale.
Nerone sarà per Boito un viaggio nell'archeologia e nella
storia di Roma antica che vedrà le scene al Teatro alla Scala,
privo del quinto atto del progetto drammaturgico originale, il
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1° Maggio 1924, quando l'autore era già morto da quasi sei
anni.
In Nerone Boito crea un personaggio come Asteria, carattere
psichicamente disturbato, diviso tra il bene ed il male, che
altre compagne avrà nella grande drammaturgia del
Novecento.
Nella sua opera testamento Boito conclude un viaggio di
appassionato studioso del mondo classico che era
cominciato con la stesura del mito di Ero e Leandro, che
vedrà la messa in musica da parte di due musicisti, Bottesini
e Mancinelli, che diedero lettura assai diversa del dramma
classico boitiano.
Il primo vide in Ero e Leandro la storia di un idillio con
svolgimento tragico, il secondo invece trovò in questa storia,
per tre soli personaggi, i tratti di una forte tragedia lirica,
degna di scene importanti.
Tra gli altri drammi scritti da Boito per altri musicisti, si ricorda
ancora il dramma storico PierLuigi Farnese creato per
Costantino Palumbo, dove, nell'atto secondo, ripropone un
episodio di teatro nel teatro e, il teatro sulla scena propone
l'ambientazione mitica del Monte Olimpo e, dove il
personaggio di Gianni, in un brano, in cui si presenta come
"Son Giullare" esordisce dicendo:
"Tutto è demenza, il secolo ha un ghigno da
buffone...L'onore è un istrione"
parole che richiamano il marchio di fabbrica del poeta e ci
riportano al Falstaff verdiano, con la tirata sull'onore del
protagonista e con “Tutto nel mondo è burla” finale, che
rimanda alla teatralità della vita, vista dagli occhi di un
geniale uomo di teatro e, dove il duo tra Donata e Gianni
rimanda ai duetti, sopra descritti, tra Faust e Margherita e
Laura ed Enzo quando cantano:

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"Andiamo errabondi per tramite incerto...Andiam verso un
lido di roride fronde. Andiam verso un lido rifugio d'amor.
Andiam verso un nido cosparso di fior"
ed un duetto, che ha affinità con i tre citati in precedenza, è
quello che conclude La Falce che Boito scrive per Alfredo
Catalani.
Tra i protagonisti di questa storia orientale, ambientata nel
deserto, in cui soffia il vento Simun, una trovata scenica che
era molto in voga nel tardo Ottocento, in opere e balli, basti
pensare all'uso che se ne fa nel celebre Ballo Excelsior di
Manzotti, con musiche di Marenco, che fu anche il
coreografo della celebre Danza delle Ore della Gioconda,
questo duetto orientale dice:
"Andiam vagabondi per l'ampio deserto. l'amore ha scoperto
dei cieli e dei mondi. Noi pur troveremo un porto supremo, un
nido d'amor".
Il duetto di un viaggio verso lidi lontani accomuna alle altre
coppie di amanti, anche Ero e Leandro, nel terzo atto,
quando cantano a due:
"Andiam sovra i flutti profondi, in traccia dei ceruli mondi.
Sognati dal nostro pensier...Avvinti in un placido vol".
Un senso dell'andare sempre presente in questi duetti di
Boito, di trovare la pace in un'altra dimensione, che era forse
ciò che pure sperava il poeta, ovvero trovare un pubblico che
fosse in grado di riconoscere il suo valore creativo, dando un
po’ di pace e riposo alle sue ansie di creatore e, trovare un
rifugio sentimentale in un'anima affine per un interscambio
continuo di professionalità e di vita.
Un altro soggetto orientale, derivato dalle Mille e una notte,
Boito lo tratta scrivendo Iram nel 1873 in cui introduce, per il
protagonista, uno zingaro dedito al bere, l'aria "Il mondo è un
trillo" un testo poetico di forte sonorità musicale, in cui si
parla di suoni di flauti e di cetre che volano per l'etere e dove,
testimoniando la sua bravura sconfinata di creatore di testi e
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di musiche, fa fare al suo protagonista, Iram, una imitazione
di canto fermo, in cui ogni riga del brano inizia con una parola
che trova il suo incipit in una nota musicale, onde così creare
la scala con i soli inizi di riga Do-Re-Mi-Fa-Sol-La-Si-Do, in
un testo di inno al vino, che per intero così suona:
"Domine va in cantina. Recipe un'ampia tina. Misura cinque
gotti. Fa gorgogliar le botti. Solfeggerò così. Lavorando in tra
spina. Sino al novello dì. Domine va in cantina."
Quando poi Iram viene nominato re degli zingari canta un
inno al rame, battendo il martello sulla caldaia con uno stile
che ricorda certi effetti analoghi presenti nelle creazioni di
Richard Wagner, musicista che era caro al sentire creativo di
Boito.
Ed, il mondo dell'oriente, unito al mondo della storia e
dell'archeologia, Boito tocca quando scrive per Luigi San
Germano, la mai rappresentata, Semira regina di Babilù che
ha una ricchissima drammaturgia di scena ed anche un forte
senso della musica.
Boito scrive, infatti, che i Magi devono cantare accompagnati
dalle arpe in metro sacro mentre il popolo deve cantare in
metro profano.
E, a proposito delle metriche, è bene ricordare che, nel suo
Mefistofele nel Sabba classico di Grecia, Elena canta
sempre in versi classici e si innamora di Faust che, invece,
declama con la rima, tipica della poesia romantica e vuole da
lui conoscere i segreti di questo nuovo poetare.
La Semiramide di Boito è una donna meno crudele di altre
versioni sceniche del personaggio ed innamorata e il brano
che canta Ara, l'ufficiale innamorato di Semirama:
"Galoppa, galoppa, suberbo corsier, col demone in groppa
nei foschi sentier, e nei campi, nei clivi"
ricorda molto il senso ritmico del "Cammina, Cammina" con
cui Mefistofele incita Faust a seguirlo sulla vetta del Brocken,
per il sabba romantico.
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Boito scrisse ancora Un tramonto, nel 1873, per Coronaro e
iniziò la collaborazione con Verdi quando gli rielaborò, per la
ripresa del 1881, il Simon Boccanegra ristrutturando il
libretto che aveva creato Francesco Maria Piave.
Boito aggiunse la scena della sala del consiglio che
comprende il brano in cui Simon Boccanegra, diventato
Doge di Genova, invoca pace e amore sulle fazioni famigliari
che dilaniano la città che governa, inoltre, Boito fa crescere
di importanza il personaggio di Paolo, che diventa il motore
del dramma ed il perno dell'azione.
La sorprendente vita di Arrigo Boito è difficile da contenere
nelle righe di un articolo, che, per ovvie motivazioni editoriali,
non può avere delle vastità chilometriche.
La speranza è che queste parole trasmettano al lettore la
grande importanza di Boito come uomo di cultura, il suo
sconfinato senso del teatro, puro creatore di teatro, dal
dramma, alla musica, alla messa in scena.
Molti critici dissero che le opere di Boito, come testi o come
musica, non furono subito capite dal pubblico perché non
avevano una bella scena a completare l'effetto teatrale, ad
esempio, per Mefistofele si scrisse che, anziché essere
trasparente e creare un effetto etereo, la nebulosa del
Prologo in cielo era una brutta tela, coperta da incombenti
nuvolacce e, il duetto tra Enzo e Laura che, nella Gioconda,
si svolge in una fascinosa notte sul mare, a Venezia, non era
reso allo spettatore dall'impressione ottica, perché una
cornice di carta azzurra circondava il profilo della nave,
imitando sia il cielo che il mare e, visto che era un atto molto
affollato di personaggi, come del resto tutti gli atti di
Gioconda, che tra coristi, interpreti, ballerini e comparse,
richiedono anche cento e più persone in scena, i critici
dicevano che:

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"per poter realizzare il concetto di Boito bisognerebbe avere
un teatro grande quanto un porto di mare ed un vascello a tre
ponti per contenere le masse corali".
Sarà poi Ludovico Pogliaghi, scenografo del Nerone, a dare
all'opera una resa scenica da kolossal cinematografico, sulla
base degli schizzi presi da Boito, nei suoi sopralluoghi
archeologici e, a rendere quindi giustizia visiva alle creazioni
della fantasia del Maestro.
Boito inoltre, lo abbiamo visto, anche quando era solo
librettista era comunque, anche, sempre musicista perché il
suo senso della musica partiva dal senso della musicalità
della parola, da ogni lettera, ogni sillaba, ogni suono
dell'umana espressione.
Cosa ancora si può aggiungere, come ricordo biografico di
questo grande artista, che entrato ad 11 anni al
Conservatorio di Milano, ne uscì diplomato nel 1862, con un
premio speciale aggiunto di 2.000£?
Si può dire che furono suoi compagni di studi Catalani,
Ponchielli e Faccio, di cui sarà librettista e che, proprio negli
anni di Conservatorio scrisse due cantate, musicate in
collaborazione con Faccio ma di cui scrisse integralmente i
versi.
Erano cantate patriottiche perché, è bene ricordarlo, nel
1866, Boito seguirà, da camicia rossa, l'impresa di Garibaldi
in Trentino.
Una di queste cantate aveva titolo Le sorelle d'Italia e
trattava delle lotte di indipendenza di Ungheria, Polonia e
Grecia e, sfruttando la conoscenza del polacco, che era la
lingua di sua madre, tradusse anche in italiano delle poesie
patriottiche polacche.
La sua notevole preparazione linguistica e il suo interesse
per Wagner lo fece autore della versione ritmica italiana del
Rienzi quando ebbe il suo battesimo in Italia, alla Fenice di

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Venezia, nel 1874 e nelle riprese successive nei teatri della
penisola.
E, l'amore per la drammaturgia teatrale e, il gusto per la
collaborazione con altri autori, nel 1864, lo fece esordire
come autore di teatro di prosa, insieme ad Emilio Praga al
Teatro Carignano di Torino.
Senatore d'Italia, dal 1912, ricevette una laurea honoris
causa dall'università di Oxford e fu vice presidente e poi
presidente della Società Italiana degli Autori.
Sapeva intrecciare le parole con un magico senso e fu poeta
ma, anche, critico musicale prima di essere musicista, per
Boito la musica era uno stato di grazia che placava
l'inquietudine umana e, diceva che l'armonia si trova
nell'universo ed il musicista la deve sapere ascoltare.
Il lavoro archeologico su Nerone fu anche di archeologia
musicale, Boito voleva in questo lavoro scoprire le origini
storico, scientifiche e psicologiche dell'espressione
musicale.
Lavoro che, in origine, gli sembrò essere più spedito da
svolgere che non la ricerca storica, archeologica e religiosa
per la stesura del libretto ma, poi si rese conto che, andare
alle radici della nascita del pensiero musicale, era lavoro
assai complesso e, dunque, scrisse a Giulio Ricordi che
l'approcciarsi a musicare Nerone gli aveva fatto capire di non
conoscere la musica e, che doveva riprendere in modo serio
gli studi di armonia.
La grandezza di Boito sta proprio nel non considerarsi mai
arrivato, nell'essere sempre alla ricerca di un traguardo più
alto da tagliare e di studiare e ricercare sempre per cercare
di congiungere le sue creazioni all'armonia dell'universo.
Di se diceva nella poesia Dualismo:
"Son luce e ombra"
e Giuseppe Verdi, diceva del suo letterato:
"Boito fa passi da formica e stampa orme di rinoceronte".
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E' degna di nota una ulteriore curiosità su Boito, quando, nel
1886, fu invitato a contribuire all'Album commemorativo di
Vincenzo Bellini prese una Partita di Bach e la trascrisse per
canto, scrivendo lui stesso il testo poetico, molto cupo,
relativo ai dolori della vita, che è nuovamente una preghiera
di invocazione per la pace dello spirito, nella certezza che la
morte sarà l'unica realtà fedele all'uomo e, nella tomba si
troverà pace, invitato, inoltre, nell'estate di quello stesso
anno, a presenziare all'inaugurazione del monumento di
Bellini disse:
"Bellini lo porto nel cuore e ciò che si porta nel cuore non ha
bisogno d'altro"
la profondità dell'anima di Arrigo Boito ci viene donata anche
attraverso queste semplici citazioni e ne possiamo
conoscere la profondità e bellezza.
Che il 2018 possa essere un anno di riscoperta del valore di
Arrigo Boito, genio per davvero, non chiuso in se stesso a
cercare allori per se ma al servizio di altri e pronto a lanciare
nel mondo della musica nuovi talenti, senza invidie, gelosie o
rancori, un'anima generosa e bella e rara che vale la pena di
essere riscoperta interamente nella sua valenza umana ed
artistica.

Ad Arrigo Boito, che porto nel mio cuore e al suo genio


creativo, che produce una incredibile fonte di conoscenze e
stupore continuo in chi ha il privilegio di potere studiare il suo
mondo

Torino, Settembre 2017

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