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Direttore
Otello Lottini
Comitato scientifico
Fausta Antonucci, Isa Dardano Basso, Alessandra Contenti, Marino Freschi, Giulia
Lanciani, Filomena Liberatori, Giuli Liebman Parrinello, Letizia Norci Cagiano,
Valeria Pompejano, Marinella Rocca Longo, Giuliano Soria, Carla Maria Solivetti,
Paola Splendore, Krassimir Stantchev
Coordinamento editoriale
Maria Carella, Maria Cristina Desiderio, Rosa Di Paolo, Agnese Nobiloni Toschi,
Maddalena Pennacchia
Segreteria organizzativa
Daniela Tosoni
Il testo è disponibile sul sito Internet di Carocci editore nella sezione “PressonLine”.
Indice
Presentazione
di Otello Lottini
Anglistica
Problemi di forma nelle Irish Short Stories di Trollope, di John McCourt
Ritratto e identità: Joyce… Beckett… Pericoli, di Franca Ruggieri
«How to become yourself»: memoria e identità in Antjie Krog, Breyten
Breytenbach e Denis Hirson, di Paola Splendore
Lingua e cultura: (id)entità dialoganti, di Enrico Terrinoni
Il Canone manganelliano, di Fabio Luppi
Francesistica
Incrocio di carovane. Il viaggio di Usbek da Isfahan a Smirne, di Letizia
Norci Cagiano
Giorgio Caproni traduce Baudelaire: Le Voyage, di Luca Pietromarchi
Il corpo neutro. Il linguaggio bilingue in Mon corps en neuf parties/My
Body in Nine Parts di Raymond Federman, di Francesca Milaneschi
L’arte di rimanere fedeli. Note su alcune traduzioni italiane di Madame
Bovary, di Federica Sforazzini
Recensioni
Germanistica
Fremdenverkehr vs Tourismus: una nota, di Giuli Liebman Parrinello
Karl Kraus nelle lettere e nei diari di Franz Kafka, di Cristiano Bianchi
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INDICE
Ispanistica
Tradurre La vida es sueño oggi: alcune riflessioni, alcune proposte, di Fausta
Antonucci
Riflettendo su arte e potere sociale, di Otello Lottini
Julián del Casal e Gustave Moreau. Un epistolario tra letteratura e pittura,
tra La Habana e Parigi, di Giuliano Soria
Divinas Palabras di Ramón Del Valle-Inclán: dal teatro al cinema, di Simone
Trecca
Lo spagnolo come lingua straniera: la pragmatica applicata a un testo pub-
blicitario, di Arianna Alessandro
Lusitanistica
«In questo paese sono tutti divoratori d’uomini»: il Brasile avventuroso di
Salgari e Verne, di Giorgio de Marchis
Una rilettura intersemiotica di O Delfim, di Gian Luigi De Rosa
Sulla traducibilità: il “caso” Pessoa, di Giulia Lanciani
Sulle “orme” del portoghese: una riflessione sul calco nella traduzione verso
l’italiano, di Salvador Pippa
Slavistica
L’iconografia della vodka russa (le etichette), di Maria Carella
Il volto di una santa, di Iryna Borusovska
Lotta contro le eresie e/o contro il paganesimo. Alcuni paralleli e contrappo-
sizioni tra la Slavia ortodossa balcanica e quella orientale, di Simonetta Simi
Contributi esterni
Lenka Reinerová, ultima rappresentante della letteratura tedesca a Praga, di
Marta Bignami
Il problema dell’altro. Figure e forme dell’alterità nella poesia di Coleridge,
di Gioiella Bruni Roccia
Free Expression Is No Offence, di Rosa Manauzzi
PRESENTAZIONE
di Otello Lottini
Con viva commozione, dedichiamo questo numero del “Quaderno del Dipartimento di
Letterature Comparate” alla memoria di Ignazio Ambrogio, nel decennale della scom-
parsa (-).
Lo facciamo ripubblicando uno straordinario testo di Maria Carella, allieva e stret-
ta collaboratrice di Ignazio, «L’università è un’altra cosa…», che ne rievoca il profilo
didattico e il magistero culturale, con misura e limpidezza narrativa, pervasa di intensa
emozione umana.
Il testo è tratto dal volume Parole di memoria, per Ignazio Ambrogio (Biblioteca
Edizioni, Roma ), realizzato con il contributo di autorevoli studiosi e delle Autorità
accademiche, a ridosso della morte e a cui rimando, specie i giovani e i colleghi che non
l’hanno conosciuto, per una visione più ampia della personalità di Ignazio Ambrogio.
Come molti di voi sanno, Ambrogio, fondatore e direttore di questo Dipartimen-
to, con la sua guida carismatica, la sua complessa ideazione strategico-programmatica,
la sua profonda conoscenza dei meccanismi regolamentari e delle procedure formali e
di prassi della vita accademica, la sua grande disponibilità e generosità, era riuscito a
costruire un Dipartimento, per tanti versi esemplare, per il rigore dell’impostazione
teorica iniziale e per la sua capacità di direzione. Nel giro di pochi anni, lo ha fatto cre-
scere e sviluppare, fino a farlo diventare uno dei più grandi e autorevoli Dipartimenti
dell’Università “La Sapienza”, prima e, successivamente, dell’Università Roma Tre (che
nasce su sua ispirazione e su suo diretto impulso), per la qualità dei docenti e della
ricerca che si svolgeva e si svolge.
Partendo dalla complessa eredità di Ignazio Ambrogio, ci dobbiamo impegnare
tutti, per cercare di continuare nel solco da lui tracciato, per far crescere le potenzia-
lità, che lui aveva seminato, ponendoci ambiziosi obiettivi di sviluppo, pur nella consa-
pevolezza che oggi dobbiamo operare in un quadro normativo e legislativo diverso dal
passato, per cui sono necessari aggiornamenti e approfondimenti del profilo teorico e
culturale del Dipartimento.
I problemi sono tanti e bisogna trovare risposte equilibrate e, insieme, innovative,
sapendo che tutto ciò che è umano, anche le costruzioni più complesse e riuscite, come
questo Dipartimento, possono essere soggette al principio di deterioramento, ma che
possono essere perfettibili, se si individuano le soluzioni adeguate.
***
Personalità come quelle di Ignazio Ambrogio non muoiono mai del tutto. Permango-
no nel tempo, perché il loro influsso fluttua nell’aria e si espande, in modo particola-
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OTELLO LOTTINI
re, tra coloro che le conobbero e ne furono direttamente influenzati. E qui voglio
ricordare, accanto ai docenti di più lunga presenza nel Dipartimento, anche, e soprat-
tutto, gli allievi Carla Solivetti (che ha avuto il privilegio di succedergli nella cattedra)
e Krassimir Stantchev (che godeva di speciale stima e affetto, da parte di Ignazio) oltre
a Daniela Tosoni e Claudio Mosticone, che lo ebbero come Direttore, assieme a
Roberto Parlavecchio, Giuliano Passeri e Luigi Veraldi.
Persone come Ignazio entrano in noi, come se vi prendessero dimora, e, grati, per
il ricordo (come solo i morti sanno esserlo) ci lasciano in eredità tutte le loro virtù.
Per i giovani – e gli altri colleghi che non lo conobbero – questi pochi fiori che oggi
dedichiamo alla sua memoria possono evocare un ricordo confuso o sbiadito. Ma, per
molti di noi non è così, perché Ignazio Ambrogio è stato una positiva avventura umana,
culturale e intellettuale.
Nella sua personalità, coesistevano, accanto allo studioso e al docente, due grandi
virtù moderne, che voglio ricordare come attuale omaggio alla sua memoria: il senso del
dovere quotidiano e l’idealismo progettuale e propositivo, non astratto e velleitario. Nel
corso della sua vita, è stato un continuo esempio di queste straordinarie virtù etiche e
democratiche.
In primo luogo, il compimento del dovere. Come ci ha sempre insegnato Ignazio,
ognuno deve compiere il proprio dovere, nei diversi ruoli che occupa, con coerenza
e costanza, anche se tutto cambia, in maniera incessante, fuori e dentro di noi. Il
dovere inteso come lavoro anonimo, concreto, quotidiano, serio (senza fiori, e dai
frutti spesso invisibili o non immediatamente percepiti o apprezzati), ma che costi-
tuisce la base su cui poggia la vita universitaria e, più in generale, la vita sociale: è il
dovere del lavoro ben fatto, del saper stare in maniera adeguata e pertinente in una
comunità scientifica, con sobrietà di comportamento, senza eccessi e polemiche stru-
mentali (spesso in malafede e inconcludenti), con senso della dignità personale, con
eleganza mentale e comportamentale. In una parola: con stile. Giorno dopo giorno,
Ignazio Ambrogio ha compiuto il proprio dovere, il dovere di avere stile, sobrietà e
senso delle istituzioni, come misura della sua condizione di cittadino e di studioso,
dal forte sentimento civile e democratico.
E poi Ignazio Ambrogio era un idealista, un’altra sua grande virtù. Alla realtà
com’era, egli cercava di opporre una realtà come avrebbe voluto che fosse e sulla realtà
lavorava per fondare le sue idealità e si adoperava per raggiungere i suoi obiettivi di
modernizzazione e di rinnovamento culturale e morale dell’università e della società ita-
liane.
Chiamo idealismo questo stato d’animo, che era proprio di Ignazio. Egli lo aveva
da giovane e lo ha conservato da adulto (sappiamo che spesso nei giovani le varie forme
di ingiustizie, di prevaricazioni, di duplicità comportamentali, di squilibri e di mancan-
ze, ecc. suscitano indignazione; ma poi, molto spesso, da adulti, questo sentimento si
trasforma solo in nostalgia di indignazione).
Egli, invece, si mantenne sempre capace di entusiasmo, di passione e di indigna-
zione, perché non è mai stato come coloro che, nel corso della cosiddetta esperienza
umana, più che apprendere nuove verità, apprendono a dimenticare le verità, diventa-
te difficili, che, in precedenza, li spingevano a battersi per nuovi e più avanzati equili-
bri sociali.
Per questo, siamo sorpresi e ammirati quando troviamo personalità, come quella di
Ignazio Ambrogio, che, dopo anni, conservano intatte le passioni giovanili e le tensio-
ni ideali. Considero questa dote umana la seconda importante virtù democratica, giron-
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PRESENTAZIONE
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Anche questo terzo numero della rivista del Dipartimento di Letterature Comparate si
compone di un interessante e qualificato insieme di studi (alcuni di grande valore) e
raccoglie un significativo nucleo delle nostre attività di ricerca, articolato nei tradizio-
nali settori specialistici di riferimento (anglistica, francesistica, germanistica, ispanisti-
ca, lusitanistica, scandinavistica e slavistica).
Si tratta di riflessioni letterarie, culturali e linguistiche, con particolare attenzione
alle problematiche traduttologiche, ai dialoghi interculturali e intermediali, con appro-
priati e fecondi spunti metodologici comparativi. Nel complesso, un rilevante contri-
buto alla ricerca, che offriamo all’attenzione e alla riflessione della comunità scientifica
nazionale e internazionale.
La rivista ha mantenuto la sua struttura abituale, con l’apertura a contributi ester-
ni al Dipartimento (sezione importante, per aprirci al dialogo diretto con altri colleghi),
ma senza venir meno alle prioritarie finalità di spazio editoriale, dedicato alla produ-
zione scientifica interna.
Mi preme sottolineare la presenza di giovani studiosi e ricercatori, provenienti
dagli studi dottorali. È questo un merito ulteriore della nostra rivista. Noi abbiamo
ben chiaro che la missione, o, se preferite, il dovere dei Dipartimenti universitari è
quello di promuovere la ricerca di base e applicata, ma anche la formazione scientifi-
ca dei giovani studiosi. È ciò che stiamo facendo, con questa rivista. In questo senso,
ci sforziamo di vivere e operare all’altezza dei tempi, e, soprattutto, all’altezza delle idee
dei tempi, relativamente al ruolo dell’Università e della sua funzione sociale, che com-
porta un dovere di collaborazione intergenerazionale, quale base fondamentale per il
futuro del paese.
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Ogni anno era sempre la stessa cosa. A inizio del corso, la prima lezione lo preoccu-
pava sempre un po’, anche dopo tanti anni d’insegnamento. Una volta in aula, inizia-
va la lezione sempre con molta scioltezza, scherzava, rivolgendosi soprattutto alle
matricole, chiedeva loro perché avevano scelto il russo, e poi subito, quasi brutalmen-
te, diceva loro che si dovevano dimenticare la scuola che avevano lasciato da pochi
mesi, perché l’università «è tutta un’altra cosa… dimenticatevi quindi la storia della
letteratura, come l’avete studiata finora, le date, le storielle, e tutta quella roba lì… qui
è tutto un altro giro». Gli studenti lo guardavano un po’ intimoriti, quelli delle annua-
lità successive sorridevano, e a volte ridevano annuendo, già sapendo come sarebbe
continuato il discorso, e soprattutto dove voleva arrivare. E lui guardava sempre gli
studenti del primo anno, che si sedevano di solito alle prime file dei banchi, attenti,
ordinati, con i loro quaderni nuovi, le penne, le matite, tutti tesi ad ascoltare il pro-
fessore di letteratura russa che faceva loro anche “girare” un po’ la testa. Infatti, non
si sedeva mai alla scrivania, o in cattedra, come soleva dire scherzando. Dal primo
minuto di lezione sino all’ultimo, andava su e giù da un lato all’altro dell’aula, cammi-
nava avanti e indietro, ogni tanto si appoggiava alla scrivania, si sedeva sul bordo, ma
dopo qualche secondo ricominciava ad andare su e giù. E gli studenti lo seguivano con
gli occhi e con il capo, da un lato all’altro. A volte camminava lateralmente lungo la
parete per arrivare fino ai banchi in fondo e avvicinarsi anche agli studenti delle ulti-
me file, di solito quelli dei corsi successivi, «per farmi sentire pure da loro», diceva
ridendo, rispondendo così a qualche studente della prima fila, che non amava molto
vederselo scomparire ed essere costretto così a voltarsi continuamente, per seguirlo. I
volti timorosi ai primi banchi lentamente si rasserenavano, prendevano con diligenza
appunti e a volte lo fermavano, perché non avevano fatto in tempo a scrivere. Lui si
avvicinava, chiedeva dove s’erano interrotti e ripeteva la frase. La lezione così cresce-
va, tra concetti nuovi, nomi strani il più delle volte mai sentiti, battute scherzose e risa-
te fino agli ultimi cinque minuti. A questo punto lui guardava l’orologio e diceva:
«Beh, ora fatemi delle domande». Alla prima lezione erano di solito domande tecni-
che, su come funzionavano i corsi, cosa avrebbero studiato, i libri, i piani di studio.
Per tutte queste faccende diceva loro di non preoccuparsi, rispondeva comunque pun-
tualmente, e poi li rimandava a me: «Chiedete i dettagli a Maria, lei vi dirà tutto, lei sa
tutto». La lezione finiva, e non appena eravamo nel corridoio, mi chiedeva: «Che dici,
m’avranno capito?», «sono stato chiaro?», «dici che torneranno?», «quanti erano?».
Queste domande poi me le ripeteva mentre andavamo alla fermata dell’autobus: «Mi
sembravano attenti, curiosi, e poi, sai, devono capire subito che l’università è un’ altra
cosa, non gli possiamo raccontare la storiella». E tutti tornavano, le lezioni procede-
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MARIA CARELLA
***
Io imparavo intanto altre cose. Soprattutto dopo che divenne presidente del corso di
laurea in Lingue e letterature straniere. Lavoravo con lui alla conduzione del corso di
laurea. Cominciai a districarmi fra tutte le norme, le leggi, le tabelle, le discipline per
poter compilare i piani di studio. La prima volta che mi mostrò un modulo di piano di
studio – eravamo ancora a Piazza della Repubblica – mi disse: «Ora siediti, e studia
bene questi moduli, li devi imparare bene, ma non ti preoccupare, perché anch’io, ogni
tanto mi dimentico una materia». Non era vero, comunque li imparai meglio di lui, e
quando qualcuno si rivolgeva a lui per chiedergli un consiglio, indicava subito me: «Lei
sa tutto, te lo fa lei». A volte, quando lo sentivo parlare di leggi, posti di ruolo, leggine,
ordinamenti, gli dicevo che io non sarei mai stata in grado di orientarmi fra tutte quel-
le norme. Subito mi rassicurava: «Certo, è complicato. Io ho cominciato a Messina ad
occuparmi del lavoro di facoltà. All’inizio è difficile, poi, sai, le leggi le impari con la
frequentazione quotidiana, lavorandoci ogni giorno, e l’esperienza si fa così. Sai da
quanti anni io me ne occupo? E poi devi stare sempre attento, le leggi si trasformano e
le devi sempre applicare nel modo giusto». Durante uno dei primi consigli di corso di
laurea a cui partecipavo come rappresentante dei ricercatori, un suo collega pretende-
va di ottenere qualcosa che non poteva avere. Una norma precisa di legge non glielo
permetteva. Eppure insisteva. A questo punto perse la pazienza, anzi perse proprio le
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staffe. Aveva resistito fino allora, cercando in ogni modo di spiegare le motivazioni che
gli impedivano di accettare quella richiesta. Lo sentii alzare la voce, come mai mi era
capitato prima. Perdeva raramente la pazienza, si arrabbiava sì, discuteva animatamen-
te, si infiammava, ma non andava oltre. Quella volta era furioso, e rivolgendosi non al
suo collega, ma a tutto il Consiglio, senza guardare nessuno direttamente, urlò che la
discussione su quel punto era finita, che d’ora in avanti si sarebbe rifiutato di parlare
con chi non conosceva la legge, non disse le leggi, secondo me, disse la “Legge”. «Non
è ammissibile che non si conosca la legge». E pose fine alla discussione. Nessuno osò
replicare. Ed è per questo sicuramente che lo abbiamo sempre scelto ed eletto a tutte
le cariche che ha occupato nell’Università. Conosceva bene l’università e il suo obietti-
vo era uno solo, lavorare per una università aperta a tutti, efficiente, democratica, e se
possibile di alto livello scientifico.
***
MARIA CARELLA
***
Quando presi per la prima volta la supplenza di Lingua e letteratura russa, per l’an-
data fuori ruolo di Anjuta Lo Gatto, ero molto indecisa su quale tema svolgere il
corso monografico. Una sera squillò il telefono, come al solito dopo le sei. «Sai,
Maria, per il corso monografico, perché non fai qualcosa su letteratura e musica?».
Rimasi un attimo indecisa, sapeva del mio amore per la musica, che avevo studiato
pianoforte per quasi dieci anni: ne parlavamo di frequente, e soprattutto di balletto.
La mia passione esagerata per il balletto classico, che per me voleva dire solo il Bol-
scioj di Mosca e il Kirov di Leningrado, lo divertiva sempre. Ma io sapevo che anche
lui lo apprezzava, anche se le sue preferenze, da buono studioso di avanguardie,
erano per la musica contemporanea. Amava Berio, Luigi Nono, ma quando ci capi-
tava di parlarne, io quasi con riluttanza insistevo sempre sulla mia passione per la
musica “non molto moderna”. «Ma professore, che ci posso fare, a me la musica di
oggi non mi dice niente, non mi vengono i brividi,… non ci capisco niente!». Lui
rideva, scuoteva la testa, emetteva solo dei monosillabi: «Beh,… mah,… sai, a volte è
così, certo si può dire tutto e il contrario di tutto… però… certo…». Una volta, fra
il serio e il divertito gli dissi: «Ma niente niente sono un conservatore?!». Scoppiò a
ridere: «Ma no, è solo che ti piace quella musica e basta. Che c’entra, l’importante è
non ascoltarla come se ti trovassi ancora a quell’epoca». E proprio riguardo alle mie
“passioni” a volte si divertiva a prendermi, come dire, “in castagna”. Era successo un
paio di volte. Nelle sue lezioni introduttive, quando gli era capitato di parlare di
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Romanticismo, aveva citato un paio di volte Wagner. Spiegava con chiarezza alcune
tesi del grande tedesco, ma sapeva che solo a sentire quel nome facevo una smorfia
impercettibile, che tenevo comunque per me. Gli studenti non se ne accorgevano, ma
lui lo sapeva e mi “beccava” sempre con quella smorfia bella stampata sul viso. «È
inutile che fai quella faccia, dice delle cose giuste». Colta di sorpresa, e un po’ a disa-
gio davanti agli studenti, balbettavo forzatamente: «Ma no, io non ho detto niente,
certo che ha ragione, ma a me Wagner non piace». «E certo, per una verdiana di ferro
come te». «Ma io non sono una verdiana di ferro, solo non amo Wagner, mi piace solo
Tristano e Isotta». Tutti in classe erano divertiti, e la scenetta, che si era ripetuta un
paio di volte, finiva lì. Il corso monografico fu molto apprezzato dagli studenti. I suoi
consigli come al solito furono preziosi. E il tema su musica e letteratura si è ripetuto
negli anni successivi. A conclusione del corso, alla fine dell’anno organizzavo anche
una conferenza su balletto e letteratura. La mia insistenza sulla danza lo faceva un po’
divertire, mi diceva che ero fissata, ero una ballettomane inguaribile, e aggiungeva:
«Ma ora basta coi balletti, ci prenderanno per un dipartimento di spettacolo, diran-
no che stiamo sempre a ballare!». Ma io sapevo che era contento, le conferenze erano
sempre piene, egli stimava molto Concetta, la studiosa di danza, che aveva conosciu-
to quando era studentessa di russo, e a questi incontri venivano anche ospiti illustri
ad ascoltarla, come Sylvano Bussotti, Suso Cecchi D’Amico, Antonello Neri. Il ballo
gli piaceva comunque. Una sera mi telefonò e senza preamboli mi chiese: «Maria, ma
tu sai cosa vuol dire Cumparcita?». Rimasi di sasso. Fui presa alla sprovvista. Non riu-
scii a rispondere immediatamente e fra me pensai: «E che c’entra ora la Cumparci-
ta?». Mi ripresi dopo quell’attimo di perplessità e dissi: «No, non lo so… ma posso
chiedere a Concetta». «No, non importa, ho cercato sui dizionari, anche su quelli
spagnoli, ma non sono riuscito a trovare nulla». Rimanemmo lo stesso a parlare,
facemmo un po’ di congetture, molto vaghe, sentivo che voleva proprio sapere il
significato del titolo di questo famosissimo tango, ma non arrivammo a nessuna con-
clusione. Più in là, un giorno, seppi che amava moltissimo il tango.
***
Aveva però un’altra passione. Le penne. Ne aveva tante, di tutti i tipi e le marche, ma
con un elemento in comune: la punta. Doveva essere sottile, molto sottile. Ogni tanto
gliene compravo qualcuna. Era sempre felice. L’agguantava quasi, mentre gliela porge-
vo. La provava subito e io aspettavo il risultato. «Beh, è fina?» gli chiedevo. Alcune
volte sì, e ne era molto soddisfatto, altre volte meno. Allora subito aggiungeva: «Dove
l’hai comprata?». Glielo dicevo. «Bene, allora vai e vedi se hanno il ricambio a punta
fine». Poi il colore. L’inchiostro doveva essere possibilmente verde. Ogni volta che gli
vedevo una penna nuova, gli chiedevo: «Ma dove le mette tutte quelle penne? Sa, se
apriamo un banchetto, lì all’Università, facciamo un sacco di soldi». Rideva compia-
ciuto della sua nuova penna, me la faceva provare, e mi ripeteva che ne aveva cassetti
pieni. A volte giravo a lungo prima di trovargli la penna giusta. Sempre a punta fine. E
possibilmente verde. Una sera, fu l’ultima che mi chiese, mi telefonò, alla solita ora:
«Ah, Maria, hai lì accanto una penna a portata di mano?». «Sì» gli risposi. Quando mi
doveva dettare qualcosa, mi diceva sempre così. «Allora scrivi» e mi dettò qualcosa tipo
«Hi Tec Extra X-O». Avevo capito, ma non mi lasciai sfuggire la battuta: «Ma cos’è,
un missile? Ma ora mi vuol far comprare pure un missile?». No, certo. Era l’ultimo
modello di penna di una marca molto famosa, che amava particolarmente e con una
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MARIA CARELLA
punta fine. Molto, molto fine. Gliene presi un paio. E l’inchiostro regolarmente verde.
Sono state le ultime che gli ho comprato. Era maggio.
***
Tanti ricordi ormai, racconti, brevi lezioni, i suoi ricordi di scuola, Aristotele, che cita-
va ai suoi studenti in continuazione: «Sai, io al liceo avevo un professore di filosofia,
molto in gamba, ci aveva fatto studiare magnificamente la filosofia greca, e sai come:
il primo trimestre ci faceva fare solo Socrate, il secondo Platone e il terzo Aristotele.
Avevamo studiato solo questi. Tutti gli altri li aveva lasciati. Capisci,» continuava
ridendo «in questo modo avevamo letto tutto di e su Socrate, Platone e Aristotele. A
questo punto studiare gli altri è stata una passeggiata». Io lo ascoltavo e scuotevo il
capo sorridendo e invidiandolo di tutto cuore. Un giorno mi raccontò, tutto divertito,
che era uscito di casa alle dieci ed era tornato alle tre, per andare semplicemente a
comprare qualcosa in un negozio un po’ fuori mano. Pensava di risolvere tutto in un
paio d’ore. Mi narrò invece un’odissea incredibile di autobus, fermate solitarie sotto il
sole ad aspettare da solo un mezzo di trasporto, partenze ritardate, coincidenze man-
cate. «Sai, quando sono tornato a casa, capisci, Marco mi ha rimproverato molto seve-
ramente. Era preoccupato». «E lo credo», gli ho risposto. Nella circolare, finalmente
sulla via del ritorno, senza aver trovato oltretutto quello per cui era uscito, «sono pas-
sato sai, per la piazza dove ho vissuto da ragazzetto, tutto era cambiato, però era rima-
sto il palazzo dove ho abitato. Che strano! L’ho guardato dal finestrino dell’autobus,
pensa, ho visto pure le finestre dell’appartamento dove ho abitato, mi sono commos-
so e sono tornato a casa».
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ANGLISTICA
John McCourt
Franca Ruggieri
Paola Splendore
Enrico Terrinoni
Fabio Luppi
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PROBLEMI DI FORMA
NELLE IRISH SHORT STORIES DI TROLLOPE
di John McCourt
Quando pensiamo alla prosa vittoriana, il più delle volte concentriamo il nostro sguar-
do sul romanzo, di solito sul triple-decker ossia il romanzo in tre volumi e raramente
riserviamo particolari attenzioni a quella che Brander Matthews, in una delle più con-
vincenti analisi di questo genere letterario, ha descritto come «the minor art of the
Short-story» (Matthews, ). Secondo Matthews, gli scrittori americani producono
racconti migliori rispetto ai loro omologhi britannici, i quali non riescono, a suo pare-
re, a comprendere i requisiti formali del genere più breve. Troppo spesso
the English short story, as the machine makes it and as we see it in most English maga-
zines, is only a little English Novel, or an incident or episode from an English Novel.
[…] most of the brief tales in the English magazines are not true Short-stories at all, and
that they belong to a lower form of the art of fiction, in the department with the ampli-
fied anecdote. It is the three-volume Novel which has killed the Short-story in England
(ibid.).
Quando pensiamo ad Anthony Trollope, ci salta subito agli occhi la sua massiccia
produzione di ben quarantasette romanzi, che mette inevitabilmente in ombra le altre
sue opere. Fra queste, i suoi quaranta e più racconti vengono spesso bollati – e per-
tanto scartati – come semplici riempitivi o abbozzi di romanzi incompiuti o compiu-
ti solo a metà per mancanza di tempo. Troppo spesso, tuttavia, si nega a Trollope il
merito di ciò che Tony Bareham (, p. XVII) chiama «the restless energy with which
he tried out new forms and modes for his fiction». I suoi racconti, in realtà, ci mostra-
no più volte lo scrittore nell’atto di sperimentare nuovi stili, concedersi qualche
ambiguità e scrivere proprio contro quei valori vittoriani di cui è stato così spesso
considerato l’emblema.
Lo stesso Trollope ha rivolto la sua attenzione alle problematiche del racconto otto-
centesco in Gran Bretagna in uno dei suoi An Editor’s Tales (). Di solito, come sco-
pre a sue spese il narratore di The Panjandrum, il racconto non è considerato un genere
letterario con regole proprie, ma solo una versione breve del romanzo. The Panjandrum
narra lo sfortunato tentativo, da parte di un gruppo di letterati o intellettuali di belle spe-
ranze, di fondare a Londra una rivista con lo stesso nome. Nonostante la decisione una-
nime del gruppo di non pubblicare mai romanzi, il narratore (in prima persona) propo-
ne un racconto di suo pugno come contributo al primo numero della rivista, convinto
che la sua opera abbia tutti i requisiti per essere pubblicata e per alleggerire un somma-
rio altrimenti ingombrante. Dopo alcune discussioni, gli altri collaboratori e coredattori
deliberano: il narratore non potrà leggere il suo pezzo. Uno dei colleghi, Mr Churchill
Smith – una versione esplicitamente critica del compagno di George Eliot, George
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JOHN MCCOURT
Lewes, descritto come «generally dirty, unshorn, and, as I thought, disagreeable» (CSF,
p. ) – dichiara in modo dogmatico che «a novel is not a novel because it is long or
short. Such is the matter which we intended to declare that we would not put forth in
our magazine» (CSF, p. ).
Quindi per il comitato editoriale della nuova rivista qualsiasi tipo di prosa narrati-
va, indipendentemente dalla sua lunghezza, viene essenzialmente giudicata come una
forma di romanzo. Il racconto del narratore non trova pertanto un uditorio e il perio-
dico non riesce a decollare per le divergenze di opinione tra i membri del comitato. Il
racconto si conclude in un’atmosfera di delusione e frustrazione e sta al lettore imma-
ginare ciò che sarebbe potuto accadere. Tra i suoi “postumi” più interessanti, il rac-
conto lascia al lettore il compito di valutare le problematiche formali del racconto vit-
toriano. Che cos’è che rende un racconto qualcosa di diverso da un romanzo incom-
piuto o da una prosa più lunga mai completata? Quindici anni dopo la pubblicazione
del racconto di Trollope, prima nella “Saint Paul’s Magazine” (gennaio-febbraio )
e poi nella statunitense “The Galaxy” (febbraio-marzo ), Brander Matthews avreb-
be dato un sostegno tardivo ai tentativi frustrati del narratore di Trollope per afferma-
re la differenza fondamentale del racconto:
The difference between a Novel and a Short story is a difference of kind. A true Short-
story is something other and something more than a mere story which is short. A true
Short-story differs from the Novel chiefly in its essential unity of impression. […] A
Short-story deals with a single character, a single event, a single emotion, or the series
of emotions called forth by a single situation (Matthews, ).
In un successivo punto dell’articolo, tuttavia, Matthews avanza dei dubbi sulle capa-
cità di scrivere racconti da parte di un romanziere, e per dimostrare la sua tesi “usa”
Trollope. Secondo i commenti moralistici di Matthews, lo scrittore di «Short-sto-
ries» fa appello alla sua capacità inventiva e al suo ingegno mentre il romanziere
riproduce «a cross-section of real life». Pertanto, l’anti-inventivo Trollope può
benissimo essere un romanziere di grande successo e allo stesso tempo un più che
mediocre scrittore di racconti:
[…] there are not a few successful novelists lacking not only in fantasy and compres-
sion, but also in ingenuity and originality; they had other qualities, no doubt, but these
they had not. If an example must be given, the name of Anthony Trollope will occur to
all. Fantasy was a thing he abhorred, compression he knew not, and originality and
ingenuity can be conceded to him only by a strong stretch of the ordinary meaning of
the words. Other qualities he had in plenty, but not these. And, not having them, he was
not a writer of Short-stories. Judging from his essay on Hawthorne, one may even go so
far as to say that Trollope did not know a good Short-story when he saw it.
I have written Short-story with a capital S and a hyphen because I wished to
emphasize the distinction between the Short-story and the story which is merely short.
The Short-story is a high and difficult department of fiction. The story which is short
can be written by anybody who can write at all; and it may be good, bad, or indifferent,
but at its best it is wholly unlike the Short-story. In “An Editor’s Tales” Trollope has
given us excellent specimens of the story which is short; and the stories which make up
this book are amusing enough and clever enough, but they are wanting in the individ-
uality and in the completeness of the genuine Short-story. Like the brief tales to be seen
in the English monthly magazines and in the Sunday editions of American newspapers
into which they are copied, they are, for the most part, either merely amplified anec-
dotes or else incidents which might have been used in a Novel just as well as not. Now,
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the genuine Short-story abhors the idea of the Novel. It can be conceived neither as part
of a Novel nor as elaborated and expanded so as to form a Novel. A good Short-story
is no more the synopsis of a Novel than it is an episode from a Novel. A slight Novel,
or a Novel cut down, is a Novelette: it is not a Short-story (ibid.).
JOHN MCCOURT
quello inglese, generalmente poco interessato e, per questo motivo, porre l’accento
sulla sua esperienza diretta nel paese divenne una costante della sua scrittura:
The time went very pleasantly. Some adventures I had; – two of which I told in the Tales
of All Countries under the names of “The O’Conors of Castle Conor”, and “Father
Giles of Ballymoy”. I will not swear to every detail in these stories, but the main pur-
port of each is true (Trollope, , p. ).
Il primo racconto aneddotico, The O’Conors venne pubblicato su “Harpers” nel mag-
gio del e ristampato su Tales of All Countries l’anno successivo. Il secondo appar-
ve in “Argosy” nel maggio e fu ristampato in Lotta Schmidt and Other Stories. The
O’Conors narra del periodo che Archibald Green, alter ego trollopiano, trascorre nel
castello di Conor nella contea di Mayo – così chiamato per ricordare forse, con una
punta di ironia, il cognome O’Conor, uno dei più influenti nella storia d’Irlanda (la stir-
pe O’Conors diede i natali a ventiquattro re di Connacht e a undici High Kings d’Ir-
landa). Il racconto di Trollope descrive con brio l’arrivo di Green al castello senza le
sue scarpe da ballo e l’imbarazzante situazione in cui viene a trovarsi. Usando una nar-
razione in prima persona, Trollope fa raccontare a Green in che modo si presenta a una
piccola caccia irlandese, solo per farsi invitare dall’importante famiglia O’Conor a tra-
scorrere la serata al castello. Al suo arrivo, è deliziato di fare la conoscenza delle due
incantevoli figlie più grandi della famiglia, una delle quali – così pensa subito – potreb-
be essere per lui una moglie ideale. Ma rimane ben presto interdetto e imbarazzato
davanti ai sorrisi complici dell’impertinente sorella minore, di soli tredici anni. Salito al
piano superiore per cambiarsi velocemente d’abito per la cena e per il ballo a seguire,
scopre il motivo dei sorrisi. Si rende conto con orrore che il servitore della locanda dove
aveva alloggiato non ha mandato le scarpe da ballo che aveva chiesto ma le sue pesan-
ti ed enormi scarpe da caccia chiodate. Green viene preso dal panico finché non riesce
a ottenere in prestito da un domestico condiscendente le sue scarpe malconce. Lo stra-
no comportamento del servitore, che continua a inciampare e lamentarsi degli scomo-
di scarponi che Green l’ha costretto a calzare, svela alla fine il segreto del protagonista:
la scoperta scatena l’ilarità generale.
Il racconto giocoso, tributo all’ospitalità irlandese, fu scritto (o molto probabil-
mente riscritto) durante un soggiorno nei Pirenei nell’autunno del e forse servì a
Trollope come distrazione durante la stesura del suo Castle Richmond, romanzo dai
toni fortemente cupi sulla carestia irlandese. Il secondo racconto, Father Giles of Bal-
lymoy, anch’esso divertente, ha però accenti più tetri e in questo caso il narratore pro-
tagonista corre un rischio di molto superiore al mero imbarazzo. L’uso del narratore
in prima persona in entrambi i racconti è di grande impatto ed evoca il presunto lega-
me tra il racconto moderno e la più antica tradizione della narrazione orale . Il nar-
ratore in prima persona, Archibald Green, viene presentato come «stranger» in Irlan-
da, così come viene descritto in ogni racconto. In Father Giles of Ballymoy la sua con-
dizione di «traveller» e «spectator» (CSF, p. ) permette a Trollope di parlare del-
l’Irlanda con il divertito distacco di un forestiero invece che con la voce del narratore
coinvolto adottata nei suoi romanzi irlandesi più significativi, i quali esprimono diret-
tamente l’esperienza irlandese attraverso le voci ventriloquizzate irlandesi rese in un
credibile “Hiberno-English”, cioè l’inglese parlato dagli irlandesi. Trollope sottolinea
che il Green narratore è in entrambi i racconti alquanto «green», appunto, ossia ine-
sperto, nei suoi tentativi di cavarsela subito dopo il suo arrivo in Irlanda: «I was not,
at that time, so well acquainted with the manners of the people of Connaught as I
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became afterwards» (CSF, p. ). Nessuno dei due racconti potrebbe stare in piedi
senza questo protagonista inesperto, ingenuo e ignorante degli usi e costumi dell’Ir-
landa, funzione indispensabile per lo sviluppo dinamico e il dipanarsi della storia. È
proprio la sua “tipica” mancanza di informazione tutta inglese riguardo alle consue-
tudini irlandesi a fornire il pretesto di questi racconti minori. Father Giles of Bally-
moy così descrive l’ingresso di Green nella città di Ballymoy:
On this my fist visit into Connaught, I own that I was somewhat scared lest I should be
made a victim to the wild lawlessness and general savagery of the people, and I fancied,
as in the wet, windy gloom of the night, I could see the crowd of natives standing round
the doors of the inner, and just discern their naked legs and old battered hats, that Bal-
lymoy was probably one of those places so far removed from civilisation and law, as to
be an unsafe residence for an English Protestant (CSF, p. ).
Per questa descrizione, Trollope, almeno in parte, attinge al suo sapere in merito all’Ir-
landa, ma va anche a stuzzicare l’inveterato pregiudizio inglese sul paese. Il racconto
narra dello scompiglio di Archibald nel ritrovarsi uno strano uomo nel letto, nella sua
camera del piccolo hotel di Larry Kirwan, a Ballymoy. Sfortunatamente non aveva sen-
tito le parole della cameriera riguardo a un certo Padre Giles, perché la voce di lei era
smorzata dal suo «bending over the bed, folding down the bedclothes» (CSF, p. ).
Non aveva quindi capito che avrebbe diviso il letto con il prete e per questo reagisce
violentemente alla vista di «a tall, stout, elderly man standing with his back towards me,
in the middle of the room, brushing his clothes with the utmost care» (ibid.). L’uomo
cerca poi di infilarsi sotto le coperte scatenando la reazione di Archibald, che lo scara-
venta fuori dalla stanza e giù per le scale, procurandogli serie ferite. Anche se il rac-
conto procede in modi simili alla slapstick, Mr Green ha indubbiamente commesso un
grosso faux pas che metterà la sua vita a rischio:
I got him out. I remembered nothing whatever as to the suddenness of the stairs. I
had been fast asleep since I came up them, and hardly even as yet knew exactly where
I was. So, when I got him thorugh the aperture of the door, I gave him a push, as was
most natural, I think, for me to do. Down he went backwards, – down the stairs, all
in a heap, and I could hear that in his falls he had stumbled against Mrs Kirwan, who
was coming up, doubtless to ascertain the cause of all the trouble above her head
(CSF, p. ).
A seguito delle violente azioni di Green, si scatena un putiferio. Gli abitanti di Ballymoy
sono furiosi perché Green ha scacciato in malo modo il loro beneamato parroco. Qual-
cuno grida: «He shall be hanged if there’s law in Ireland» (CSF, p. ) mentre la padro-
na dell’albergo esclama, parimenti indignata: «Oh, you born blagghuard!… You thief
of the world! That the like of you should ever have darkened my door!» (CSF, p. ).
La gente del villaggio è sconvolta per quello che è successo al loro anziano parroco e
Archibald si trova a doversi seriamente preoccupare per la sua sicurezza:
I had heard of Irish murders, and heard also of the love of the people for their priests,
and I really began to doubt whether my life might not be in danger. […] I can hardly
explain the bitterness that was displayed against me. […] For vengeance they were now
beginning to clamour, and even before the sergeant of police had come, the two sub-
constables were standing over me; and I felt they were protecting me from the people
in order that they might give me up – to the gallows! (CSF, pp. -).
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JOHN MCCOURT
L’arrivo del dottore peggiora le cose perché egli insiste «on the terrible nature of the
outrage and the brutality shown by the assailant» (CSF, p. ). Green viene messo sotto
chiave per la notte allo scopo di garantire la sua incolumità. Alla fine, sarà lo stesso padre
Giles a salvarlo dicendo al dottore: «Be aisy, Tom… Tell the gentleman I ain’t so bad at
all» (CSF, p. ) e invitando Archibald a fare colazione con lui la mattina seguente: una
mossa strategica per convincere gli abitanti del villaggio a perdonarlo. Il racconto si con-
clude con un happy ending che vede vittima e aggressore divenuti amici intimi.
Questo racconto, come The O’Conors, offre una versione di slapstick letteraria leg-
gera, che si nutre di una serie di fraintesi secondo la tradizione della commedia all’e-
poca della Restaurazione. La sua energia proviene dai reiterati momenti di incompren-
sione tra i suoi protagonisti irlandesi e inglesi e dai momenti di umorismo fisico. Ma
porta anche con sé un pizzico di verità e Trollope fa notare con discrezione che gli even-
ti narrati precedono di trent’anni il primo soggiorno del narratore a Ballymoy e di
vent’anni il momento in cui è diventato «acquainted with one of the honestest fellows
and best Christians whom it has ever been my good fortune to know […] though he
was much my elder. As he has now been ten years beneath the sod, I may tell the story
of our first meeting» (CSF, p. ). Scrivendo il suo divertente racconto a spese del nar-
ratore, ma anche a spese del prete irlandese, Trollope non intendeva arrecare alcuna
offesa ma creare invece una distanza aspettando che il prete fosse morto da molto
tempo. È rilevante anche il fatto che il prete sia il latore del perdono, della tolleranza e
della riconciliazione poiché Trollope, nei suoi romanzi, avrebbe ritratto in questo modo
una serie di vecchi preti irlandesi, intuendo chiaramente l’importante funzione del cat-
tolicesimo irlandese – soprattutto quello dei preti formati in Francia – nel mantenere
l’ordine nel paese ribelle e nel promuovere il legame imperiale con l’Inghilterra. La sua
sarebbe stata l’unica voce all’interno della narrativa inglese, specialmente alla metà del
secolo, a tessere le lodi delle preziose qualità dei religiosi cattolici irlandesi.
Anche se vi possiamo scorgere temi più profondi, i primi racconti irlandesi di Trol-
lope tuttavia non si discostano molto dai modi dell’aneddoto orale di un tempo e
appartengono presumibilmente al bagaglio di storie divertenti sentite dall’autore sul-
l’Irlanda. Un genere di commedia di altro tipo, decisamente più noire, si trova invece
negli altri racconti di Trollope a forte contenuto irlandese: The Panjandrum e The
Turkish Bath. È più che probabile che il titolo del primo abbia un’origine irlandese dato
che il termine panjandrum, una parola senza senso coniata dal drammaturgo Samuel
Foote alla metà del XVIII secolo, era stato rimesso in circolazione da Maria Edgeworth,
scrittrice di romanzi irlandese che Trollope ammirava moltissimo e da cui trasse gran-
di insegnamenti. Foote compose un lungo scioglilingua per mettere alla prova la memo-
ria del suo collega, l’attore Charles Macklin, che affermava di poter ripetere qualunque
cosa dopo averla sentita una sola volta. Il testo di Foote recitava:
So she went into the garden to cut a cabbage-leaf to make an apple-pie; and at the same
time a great she-bear, coming up the street, pops its head into the shop. «What! No
soap?» So he died, and she very imprudently married the barber: and there were pre-
sent the Picninnies, and the Joblillies, and the Garyulies, and the grand Panjandrum
himself, with the little round button at top, and they all fell to playing the game of catch-
as-catch-can till the gunpowder ran out at the heels of their boots.
Maria Edgeworth, ad esempio quando il giardiniere loda la bellezza dei suoi garofani.
«One he called “The envy of the world, or the great panjandrum”». Successivamente,
in un altro punto del libro, la scrittrice cita il testo di Foote per intero e da quel momen-
to la parola panjandrum sembra essere tornata in uso più ampio come vocabolo con cui
“sgonfiare” una persona che si prende troppo sul serio. È un titolo che ben si addice al
gruppo di ferventi ma presuntuosi intellettuali che nel racconto di Trollope tentano di
fondare un periodico con lo stesso nome. Tra di loro figura un irlandese che il narrato-
re descrive in termini cordiali ed entusiastici:
My dearest friend among the number was Patrick Regan, a young Irish barrister, who
intended to shine at the English Bar. I think the world would have used him better had
his name been John Tomkins. The history of his career shows very plainly that the
undoubted brilliance of his intellect, and his irrepressible personal humour and good-
humour have been always unfairly weighted by those Irish names. What attorney, with
any serious matter in hand, would willingly go to a barrister who called himself Pat
Regan? And then, too, there always remained with him just a hint of a brogue, – and his
nose was flat in the middle! I do not believe that all the Irishmen with flattened noses
have had the bone of the feature broken by a crushing blow in a street row; and yet they
certainly look as though that peculiar appearance had been the result of a fight with
sticks. Pat has told me a score of times that he was born so, and I believe him. He had
a most happy knack of writing verses, which I used to think quite equal to Mr Barham’s
and he could rival the droll Latinity of Father Prout who was coming out at that time
with his “Dulcis Julia Callage”, and the like. Pat’s father was an attorney at Cork; but
not prospering, I think, for poor Pat was always short of money. He had however, paid
the fees, and was entitled to appear in wig and gown wherever common-law barristers
do congregate (CSF, p. ).
Ancora una volta Trollope sembra rivelare il suo affetto autentico per gli irlandesi, in
questo caso, per il suo personaggio Patrick Regan. Come avvocato, Regan ricalca le
orme di Phineas Finn, eroe eponimo del romanzo di Trollope che vede le stampe nel
, un anno prima del racconto in questione. Come e più di Phineas, Regan paga il
prezzo della sua irlandesità. Una costante di Trollope nel modo di presentare il caso
irlandese al pubblico inglese era il suo insistere sulla necessità di dare una pari oppor-
tunità agli irlandesi in Gran Bretagna, di offrire loro la possibilità di essere veramente
parte integrante dell’Unione dei due paesi. Era invece raro che le cose andassero in
questo modo, anche per avvocati competenti e pieni di buona volontà come Regan. I
motivi di tale situazione, come ci suggeriscono i commenti ironici di Trollope, risiedo-
no nello stereotipo razziale che gli inglesi hanno degli irlandesi. Basta l’inflessione dia-
lettale, the «hint of a brogue», a far saltare la mosca al naso agli inglesi. Gli irlandesi
vengono raffigurati in modo molto poco attraente dal punto di vista fisico: il naso piat-
to, ad esempio, restituisce l’immagine dell’irlandese ubriacone e violento negli scontri
di strada. Trollope si oppone con la scrittura a tali stereotipi suggerendo che gli irlan-
desi hanno indubbiamente un aspetto diverso, dovuto però alla genia e non alla cattiva
condotta. In ogni caso, questo irlandese in particolare, come diversi personaggi irlan-
desi di Trollope, viene descritto in termini positivi e ricordato per le sue qualità di
«undoubted brilliance of his intellect, and his irrepressible personal humour and good-
humour» (ibid.), per le quali rimanda sia a Richard Harris Barham che a Father Prout.
Barham era un prete anglicano inglese, più noto con il suo nom de plume Thomas
Ingoldsby, e autore di una serie di racconti grotteschi in versi dal titolo The Ingoldsby
Legends. Sotto lo pseudonimo di Father Prout si celava l’ex prete irlandese, il reveren-
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JOHN MCCOURT
do Francis Sylvester Mahony, autore del popolare poema The Bells of Shandon e di
numerosi poemi satirici e false traduzioni in latino e greco (il quale scrisse anche sotto
il nom de plume di Don Jeremy Savonarola). È interessante notare come Trollope col-
leghi il sedicente autore irlandese del suo racconto con due altri scrittori che hanno
cambiato nome per portare avanti una carriera pubblica come scrittori. Pat Regan esa-
mina la possibilità di cambiare nome, come gli altri collaboratori della nuova rivista.
All’inizio «Pat wanted to call himself “The O’Blazes”, but he was at last persuaded to
adopt the quieter name of “Tipperary”». Con la scelta di Pat del suo “nome di penna”,
Trollope sembra muovere una critica alla consuetudine di alcuni irlandesi che a Londra
usavano modificare il nome per “gonfiare” la loro irlandesità. La sua scelta del nome è
comica: in The O’Blazes si trasforma l’esclamazione blazes, sinonimo di hell, di uso
comune nell’Hiberno-English (lo troviamo in Carleton, ad esempio, in frasi quali «you
villin o’ blazes!», «you hard-hearted ould scut o’ blazes») in un nome proprio. Alla
fine, però, Pat opta per Tipperary, il nome della contea in cui Trollope e sua moglie vis-
sero durante i loro primi anni in Irlanda, nella città di Clonmel.
Il rimando di Regan a Prout e Barham conferisce al personaggio di Trollope una
certa credibilità. Come Prout, Regan è un valente traduttore e la sua traduzione in lati-
no di Lord Bateman è, a credere al narratore, ben fatta. «Our friend Regan has done
“Lord Bateman” into Latin verse with a Latinity and a rhythm so excellent that it will
go far to make us at any rate equal to anything else in that line» (CSF, p. ). Il poema
che Trollope ha in mente è la popolare The Loving Ballad of Lord Bateman, trascritta
nel da Thackeray, con note di Dickens e illustrazioni di George Cruikshank, di
ampia circolazione al tempo in cui è ambientato The Panjandrum, ossia nel . È inte-
ressante notare che Regan non è l’unico personaggio di Trollope a tradurre il poema. Il
reverendo Josiah Crawley di Hogglestock, il curato in disgrazia di Hogglestock in The
Last Chronicle of Barset (), ne verga anche una versione in greco. Sebbene il narra-
tore creda che «the translation was certainly as good as the ballad», viene respinta dagli
altri perché Mrs St Quinten pensa sia inappropriata. Il modo di Regan di accettare il
rifiuto è esemplare: Pat, così leggiamo, «was the kindest fellow in the world. […] bore
with him the utmost patience a restless energy which must often have troubled him
sorely» (CSF, p. ).
Tutti i commenti favorevoli su Pat Regan sono attribuiti al narratore ma è chiaro
che questo sia palesemente il portavoce di Trollope: narratore e autore hanno molto in
comune dal punto di vista politico. Il narratore in The Panjandrum dichiara:
It must be remembered that things and ideas have advanced so quickly during the last
thirty years, that the conservatism of goes infinitely further in the cause of general
reform than did the radicalism of . I was regarded as a democrat because I was loud
against the Corn Laws; and was accused of infidelity when I spoke against the Irish
Church Endowments. I take some pride to myself that I should have seen these evils to
be evils even thirty years ago (CSF, p. ).
Queste posizioni sono molto vicine a quelle di Trollope, anche se sembrano precedere
(secondo quanto menzionato in un racconto ambientato nel ) la loro affermazione
ufficiale da parte dell’autore nel suo saggio del The Irish Church, in cui sosteneva
la necessità di separare la Chiesa anglicana irlandese dallo Stato e di effettuare una più
equa ripartizione del denaro raccolto in Irlanda per garantire alla Chiesa cattolica
romana la sua parte. Trollope si era espresso anche a favore dell’abolizione delle “Corn
Laws”.
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[…] some there are who carry it under the arm, – simply as a towel; but these are they
who, from English perversity, wilfully rob the institution of that picturesque orientalism
which should be its greatest charm. A few are able to wear the article as a turban, and
that no doubt should be done by all who are competent to achieve the position. We
have observed that men who can do so enter the bathroom with an air and are received
there with a respect which no other arrangement of the towel will produce (CSF, p. ).
JOHN MCCOURT
modo più flessibile possibile al romanzo di Trollope per riuscire a «see into the sha-
dows» della storia (O’Connor, , p. ).
Il bagno turco era stato da poco introdotto in Gran Bretagna e Irlanda dal diplo-
matico e politico David Urquhart, che aveva descritto il sistema dei bagni con il vapo-
re in uso in Spagna, in Marocco e nell’Impero ottomano nel suo libro The Pillars of
Hercules (). Sei anni dopo, il primo bagno turco moderno nel Regno Unito venne
aperto non in Gran Bretagna ma in Irlanda, a Blarney, nella contea di Cork. L’anno suc-
cessivo venne costruito un bagno turco a Manchester e il vide il primo impianto
di Londra, nei pressi di Marble Arch. Nel , l’“Illustrated London News” riferì che
si era costituita la società London and Provincial Turkish Bath allo scopo di realizzare
«Mr Urquart’s wish in the establishment of a genuine “hammam” or “hot-air bath”».
Urquart divenne il direttore della società e sotto la sua supervisione vennero costruiti i
bagni di St Jermyn Street.
Così quando Trollope scelse di ambientare il suo racconto nei Jermyn Street Turki-
sh Baths, era perfettamente consapevole dell’attualità del luogo che egli descrive con
«delicious wonder». Come commenta John Potvin:
Medical journals were full of glowing accounts for, and acrimonious accounts against,
the Turkish baths. Pamphlets were published, lectures held, and discussion groups
assembled. «The Turkish baths cured everything,» some said. «Urquart was a charla-
tan,» said others. General Sir George Whitlock said, «I was confined to my bed as a
result of a kidney and liver infection, but after the third bath, I could ride my horse
home at : in the morning all by myself».
Some doctors claimed the Turkish bath was a good treatment for mental illnesses.
And Dr Robertson from Essex said the bath was good for «constipation, bronchitis,
asthma, fever, cholera, diabetes, edema, syphillus, baldness, alcoholism, and not to men-
tion the fact that the health of the average bather was improved» (Potvin, , p. ).
Secondo Potvin, l’hammam di Jermyn Street di Urquhart (in cui è ambientato il rac-
conto di Trollope)
figured prominently in the Victorian imaginary as a privatised public space erected for
the cleaning, cleansing, detoxification, and relaxation of the male body. Located in the
ultra fashionable West End, the Hammam offered its patrons a location distinct from
the harried and polluted streets outside its exotic doors. As the sheath defining and pro-
tecting masculine bodily integrity and health, skin and architecture were equally impli-
cated in the defining of an ideal, normative healthy male body (ibid.).
of the Hammam furnished an ideal venue for a queer constituency to experience safe-
ly – at the levels of the visual and the corporeal – homoerotic desire. In this all-male
environment, the performances enacted in the hammam centred on a scopic and
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somatic pleasure which enlivened a distinctly illicit homoerotic desiring gaze and sub-
sequent queer appropriation of its space, despite its best attempts to keep things clean
and pure (ibid.).
The first thing we saw was the tattered glove; and then we immediately recognised the
stout middle-aged entleman whom we had seen on the other side of Jermyn Street as
we entered the bathing establishment. It had never before occurred to us that the two
persons were the same […]. Nevertheless we had known and distinctly recognised his
outward gait and mien, both with and without his clothes. One tattered glove he now
wore, and the other he carried in his gloved hand (CSF, pp. -).
JOHN MCCOURT
come un irlandese effeminato totalmente dipendente dalla moglie, vero pilastro della
famiglia: «She was a strong hearty-looking woman of about forty, with that mixture in
her face of practical kindness with severity in details, which we often see in strong-min-
ded women who are forced to take upon themselves the management and government
of those around them» (CSF, p. ). La femminilizzazione di Molloy è estrema in con-
fronto a quella di Phineas Finn (che dipende anche lui dalle donne per assicurarsi un
supporto politico e finanziario), mentre Molloy è ridotto a usare il suo corpo per cat-
turare l’attenzione del direttore del giornale inglese, l’io narrante del racconto, che lo
trova attraente nella sua seminudità e ne apprezza la sua «peculiar and captivating
grace» (CSF, p. ), e non è per niente offeso dal suo gesto apertamente omossessuale
di “trailing” del suo asciugamano.
Nel momento chiave del loro incontro, Trollope fa fare al narratore il passaggio da
un plurale pubblico «we» a un singolare privato «I». Quest’uso della forma singolare è
insolito in un racconto intenzionalmente narrato al plurale, scelta che Trollope si pren-
de la briga di giustificare nell’incipit:
This little story records the experience of one individual man; but our readers, we hope,
will, without a grudge, allow us the use of the editorial we. We doubt whether the story
could be told at all in any other form (CSF, p. ).
Questa motivazione merita un esame più attento. Perché il racconto non avrebbe potu-
to essere narrato in un’altra forma? Perché, per quasi tutta la storia, Trollope sceglie di
privare se stesso di una narrazione in prima o terza persona singolare e, pertanto, di una
presenza e una voce narrante più complesse, intime e stratificate affidandosi invece a
un alquanto indistinto editorial «we»? Perché sceglie di interrompere la coesa relazio-
ne stabilita tra il narratore e il lettore? La risposta sembra risiedere nel fatto che il rac-
conto, nel tentativo di trattare dell’omosessualità e di una situazione di ambiguità ses-
suale, tematiche tabù nella sensibilità vittoriana, doveva rinunciare all’io narrante per
evitare che questo fosse identificato con Trollope stesso. Questo importante passaggio
merita un ulteriore commento. Come nei romanzi di Trollope, la voce narrante ufficia-
le dei racconti possiede una personalità peculiare piena di buonsenso ed è «male or at
least “manly”» e ha un tono amichevole anche quando esprime «sound moral values»
(Navakas, , p. ). Questo narratore «manly» instaura inevitabilmente una relazio-
ne di fiducia con il lettore, che si suppone essere del medesimo avviso. Per spezzare
questo rapporto che si è instaurato, dunque, il passaggio dal collettivo «we» all’indivi-
duale «I» è importante soprattutto in quanto «I» rappresenta qui l’io privato del desi-
derio proibito, come viene dimostrato in due occasioni. La prima è il momento in cui
il narratore si rende conto che lo straniero è irlandese:
I thought that I detected just a hint of an Irish accent in his tone; but if so the dear
brogue of his country, which is always delightful to me, had been so nearly banished by
intercourse with other tongues as to leave the matter still a suspicion, – a suspicion, or
rather a hope. […] My hope had now become an assurance (CSF, p. ).
La seconda è il punto in cui il narratore commenta, dopo che l’irlandese gli ha offerto
un sigaro, quanto l’uomo sia attraente:
I accepted his offer, and when we had walked round the chamber to a light provided
for the purpose we reseated ourselves. His manner of moving about the place was so
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good that I felt it to be a pity that he should ever have a rag on more than he wore at
present (CSF, p. ).
Questi due momenti vedono il direttore del giornale usare la forma «I» per esprimere
ammirazione nei riguardi dell’irlandesità di Molloy e della sua sessualità, due qualità
per lo più tabù nella Gran Bretagna vittoriana. Sono due momenti asincroni con l’im-
perturbabilità del narratore in terza persona. È come se la voce narrante alla terza per-
sona funzionasse come i già discussi vestiti del racconto: presenta l’uomo pubblico con
i suoi pensieri decenti e virili mentre la prima persona singolare corrisponde all’uomo
nudo ed è usata per comunicare pensieri privati e proibiti. La società è costruita sulla
decorosa terza persona ma sotto la superficie si annidano desideri e pensieri che mina-
no la facciata pubblica:
«And yet,» said we, «men do depend much on their outward paraphernalia.»
«Indeed and they do,» said our friend. «And why? Because they can trust their tailors
when they can’t trust themselves» (CSF, p. ).
Note
. Recensione non firmata col dal titolo Mr Le Fanu’s Irish Stories, in “New York Times”, December
, (http://query.nytimes.com/mem/archive-free/pdf?res=BEDEEFACA
DEDCF)
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JOHN MCCOURT
. Tutti i riferimenti a Trollope () verranno d’ora in poi abbreviati con la sigla CSF.
. “The Galaxy, an Illustrated Magazine of Entertaining Reading” venne pubblicata a New York
dal al . Trollope vi collaborava regolarmente.
. H. James, A Posthumous Reevaluation (), ristampato in Bareham (, p. ).
. Anche il racconto Mrs General Talboys ambientato a Roma ha un personaggio irlandese, il ven-
ticinquenne Mr Charles O’Brien che si lascia volontariamente soggiogare da Mrs Talboys. Viene super-
ficialemente tratteggiato da Trollope come l’orribile e avida Mrs Greene nel racconto The Man Who
Kept His Money in a Box. In ambedue i casi, la loro irlandesità non è delineata con grande accuratez-
za da Trollope e non rappresenta un elemento determinante per i suoi personaggi o per il loro ruolo
all’interno dei racconti.
. Per un’analisi sulle possibili radici del racconto nella tradizione orale cfr. May ().
. Il termine stranger era spesso usato dagli irlandesi per descrivere gli inglesi in Irlanda ed è pro-
babile che anche Trollope abbia voluto suggerire questa accezione insieme al normale significato di
outsider. Cfr. Father Giles of Ballymoy (CSF, p. ).
. Carleton (-).
. Carleton ().
. Trollope allude a Lord Bateman anche in Dr Thorne (): «Frank Gresham was absent from
Greshamsbury twelve months and a day: a day is always added to the period of such absences, as
shown in the history of Lord Bateman and other noble heroes» (Trollope, , p. ).
. Trollope scrisse diversi articoli sull’argomento: cfr. Trollope (, ).
. M. Aaland, The “Turkish Bath” Visits Europe and North America (http://www.cyberbohe-
mia.com/Pages/TBINUSA.htm).
Bibliografia
RITRATTO E IDENTITÀ:
JOYCE… BECKETT… PERICOLI
di Franca Ruggieri
. Il volto e l’identità-pensiero che esso esprime, il volto e il ritratto del volto, il ritrat-
to come sintesi del personaggio, non fotografia-documento è il tema che James Joyce
affrontava in quel work in progress che è la scrittura del Ritratto dell’artista da giovane
e che lo tiene impegnato per i primi quindici anni del secolo scorso, soprattutto nella
versione del Ritratto del .
Era il gennaio del , quando James Joyce, giovane scrittore alla ricerca di sé,
scriveva quel testo – rifiutato dall’editore e rinnegato subito da lui stesso, pubblicato
solo postumo – che è A Portrait of the Artist, primo di un processo ternario di ridefini-
zione dell’essere artista e della sua identità, che, nel corso di dieci anni, sarebbe passato
attraverso due prove successive, opposte eppure complementari tra di loro, quasi due
processi inversi, uno di dilatazione inclusiva, con Stephen Hero nel , e l’ultimo di rin-
novata, consapevole sintesi finale con A Portrait of the Artist as a Young Man, l’italiano
Dedalus della traduzione di Cesare Pavese, licenziato da Joyce alle stampe nel .
Il titolo più antico, Un ritratto dell’artista, era di per sé evocativo di una tensione, di
una ricerca diffusa e ricorrente, propria, in particolare, dell’arte degli ultimi due decen-
ni del secolo XIX. Era in effetti una ricerca di totalità impossibili, che aveva già coinvol-
to forme e generi diversi di arte, dal “Worttondrana” alla prosa d’arte, alla composizio-
ne musicale, all’analisi dell’“anima” del lettore o del soggetto di un quadro, alla nozione
di drama come necessità. Era una tensione che passava per Wagner e per Nietzsche, per
Pater e per Wilde, per raggiungere d’Annunzio, e anche Joyce. Per loro l’arte vera, che
ha nome di poesia o di dramma, non si materializzava in un solo, irripetibile mezzo mate-
riale o in una particolare espressione formale. Pietra, colore, nota, parola, prosa, poesia,
teatro non segnano confini o percorsi privilegiati per la realizzazione dell’arte perché
l’arte vera non si lega a un mezzo, a un genere, a una modalità. Da qui la ricerca ricor-
rente di totalità integrate e di essenze, come pure di definizioni dell’identità dell’artista,
l’impegno a sciogliere il mistero dell’arte, o anche dell’ansia di arte, cogliendo il nucleo
di quel mistero e di quell’ansia nei tratti del volto dell’autore, di chi crea l’arte, dell’uo-
mo creatore. Da qui ha origine quel gioco di rimandi dell’artista verso se stesso nella
ricerca di sé, da un ritratto ad un autoritratto, che passa, tra tante citazioni possibili, dal-
l’autoritratto di Cézanne, a quello di Gauguin, o di Van Gogh, o di Courbet, o anche al
fumatore di Cézanne, un altro ritratto forse dai lineamenti innocentemente joyciani:
tutte ricerche che vorrebbero cogliere la cifra dell’artista nel volto, individualizzare e
afferrare il carattere, attraverso quei lineamenti, per esprimere la «storia – particolare e
universale ad un tempo – di un’anima».
E il ritratto-autoritratto dell’artista di Joyce non è forse una prova di scrittura e di
racconto della marca del carattere del soggetto, che prova a sfidare l’incisività ben
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FRANCA RUGGIERI
diversa dei segni del ritratto pittorico, nella sua essenzialità senza parole? E racconti
dell’anima non saranno dichiaratamente i ritratti, i disegni, le acqueforti, che Tullio
Pericoli avrebbe dedicato a James Joyce e più numerosi a Samuel Beckett?
La necessità che sembra assumere la scelta del ritratto e dell’autoritratto dell’arti-
sta come uomo totale, «everyman» ideale, per Joyce esprime la sola mediazione possi-
bile della realtà, perché se ogni conoscenza ha origine dalla conoscenza del “sé”, allora
ogni scrittura, al di là del confine tra biografia, autobiografia, fiction, è scrittura del
ritratto-autoritratto. Nel saggio del si pone in tutta la sua eccezionale necessità, sin
dal primo paragrafo, l’esigenza di una ricerca, che è individuazione, affermazione della
propria identità nel rapporto con la realtà e che esprime inevitabilmente l’impulso a
recuperare il passato e cogliere il senso dell’unico passato conoscibile che è quello di
chi scrive. Nella tensione del ritratto c’è ancora la rivelazione nietzscheana, che «il pas-
sato grava su di noi con una irrimediabile somma di sventure» (Colli, , p. ) e già si
avverte “l’incubo della storia” sentito dal poeta Mangan prima ancora che dall’artista
Stephen Dedalus-Telemaco. Così, «fabled by the daughters of memory» (Joyce, ,
p. ), l’ansia della storia viene filtrata dalla memoria per via dell’«imagination», già
madre di tutte le cose, «the mother of things», nostra memoria che si espande nella
grande memoria di Giordano Bruno, come nell’anima mundi di Henry Moore e di Wil-
liam Butler Yeats.
Memoria e immaginazione, dato della realtà e dimensione simbolica, temi antichi e
recenti dell’analisi del pensiero si confrontano nel ritratto dell’artista; «The features of
infancy are not commonly reproduced in the adolescent portrait for, so capricious are
we, that we cannot or will not conceive the past in any other than its iron memorial
aspect» (Joyce, , p. ). L’incipit sembra suggerire la tensione verso un ritratto pitto-
rico, sembra evocare la necessità di una sintesi misteriosa e allusiva che riproponga insie-
me passato e presente, come in quel sorriso misterioso della Gioconda, dove Walter
Pater vedeva iscriversi insieme l’essenza della tradizione e la cifra della «modern idea».
Nel ritratto dell’adolescente vanno in genere perduti i tratti dell’infanzia, perché, nella
nostra incostanza, condannati come siamo al mutamento esteriore, che è più vistoso e
veloce di quello dell’anima, fatalmente volubili come siamo, pure fermiamo quel passa-
to in un aspetto ferreo e monumentale, quasi una grottesca sfida a quel mutare inesora-
bile. Ma nel passato, e qui passa la nozione bergsoniana della durata, «è indubbiamente
implicita una sequenza fluida di presenti, lo sviluppo di una entità, di cui il nostro pre-
sente è solo una fase» (Joyce, , p. ). Il passato che viene recuperato è quindi un
passato che è stato già presente, come il presente che si dà ora e che per questo suo con-
tinuo divenire presente e non esistere più come tale aiuta a comprendere un presente che
gli appartiene. Il nostro mondo invece si riconosce in base a caratteristiche esterne e con-
venzionalmente obiettive, quali la barba e l’altezza, e non riconosce l’impegno di chi
cerca attraverso qualche arte, attraverso qualche processo della mente ancora non regi-
strato di liberare dall’agglomerato informe della materia quel particolare, «individuating
rhythm» (Joyce, , p. ), che è il rapporto primario e formale delle parti componen-
ti. E qui i dati esteriori, quindi obiettivi per convenzione, della descrizione, sono quelli
più comuni, visivi, del ritratto pittorico, che la scrittura vuole assumere, sembrerebbe,
anche in negativo, quasi a riaffermare quella dimensione totale e unitaria dell’arte e della
critica d’arte, suggerita, quasi un programma, nel primo paragrafo e di cui tanto si era
parlato nelle discussioni e nei progetti fin de siècle tra Londra e Parigi. Per Joyce il ritrat-
to è «the curve of an emotion» (ibid.), non carta di identità, ma diagramma di un’emo-
zione, ricerca di identità, non affermazione definitiva di identità. «Non domandatemi
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chi sono», avrebbe detto Michel Foucault nell’Introduzione a L’archeologia del sapere, «e
non domandatemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri docu-
menti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere» (Foucault, , p. ). Si sareb-
be espresso così, per Foucault, il rifiuto del dato ufficiale, della dichiarazione di identità,
come documento e sfiducia nei confronti della scrittura definitoria, che non può comu-
nicare il fluire, il “passare” del pensiero. Foucault sfuggiva alla domanda sulla propria
identità, perché un’identità che diventa etichetta e dato obiettivo, incontrovertibile,
paralizza persino il gesto del pensare, rende omaggio ad un ordine, laddove pensare
significa passare: «No, non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo»
(ibid.). Anche Tullio Pericoli registra una situazione di disagio di fronte a una certa
modalità di disvelamento di sé, di fronte all’eventualità di indagarsi e definirsi, quando
registra – e lo fa nel saggio L’anima del volto – il fallimento di un suo tentativo di proce-
dere con una breve serie di interviste a persone di sua conoscenza, scelte in quanto per-
sone note, perché parlassero dei loro volti, li leggessero e analizzassero. L’intenzione era
quella di fare alla fine «dei ritratti, che sarebbero risultati come da un gioco a quattro
mani. […] Ebbi l’impressione che volessero scappare dalle loro facce; dal rapporto con
le loro facce, quale che fosse. Si sottrassero alla responsabilità di essere coautori e com-
plici del proprio ritratto» (Pericoli, , p. ).
Il problema della descrizione del personaggio, del ritratto del protagonista se
l’era posto anche Laurence Sterne, e aveva pensato che Momo, il dio della critica,
potesse, o piuttosto volesse posizionare uno specchio, anzi una finestra nel petto del
soggetto per poter vedere l’anima al nudo, coglierne i movimenti e le macchinazioni
e farne il ritratto (Ruggieri, ). Era quello il problema di definire l’io e il sé, cono-
scere la propria identità e avere il coraggio di proporne in breve l’essenza. Definire
infatti la propria identità, dare in pochi tratti il senso del sé, magari declinando le
proprie generalità, nome e cognome, forse, l’indirizzo, come quella carta di identità
a cui alludeva Joyce nel Portrait del , insieme a qualche altro dettaglio fisiogno-
mico, non è semplice. Ma soprattutto non esiste una risposta adeguata alla richiesta
di identità: il soggetto, interrogato dal burocrate perché gli dia in sintesi la definizio-
ne di chi è, si trova in difficoltà, avverte un profondo disagio, evita di declinare le
proprie generalità, per non congelare quel suo “io” labile e sfuggente. Accade così a
Tristram, quando incontra il commissario mandato dall’ufficio postale per conse-
gnargli un assurdo ordine di pagamento alla posta reale di sei lire e rotti per un per-
corso di terra che lui, Tristram, non seguirà, dal momento che ha già deciso di pro-
seguire lungo il Rodano. Il commissario, che già si era macchiato della colpa di basto-
nare l’asino, che ingombrava l’ingresso alla locanda di Monsieur Le Blanc, spiega a
Tristram, «tirando su ambo le spalle», con senso di impotenza che quella ingiunzio-
ne viene da parte del re. Segue subito uno scambio di battute tra i due, che si con-
clude con l’enunciazione dell’imbarazzo del definirsi:
– Mio buon amico – dissi – com’è vero che io sono io e voi siete voi…
– E chi siete voi? – domandò.
– Non mettetemi in imbarazzo – risposi (Sterne, , p. ).
E qui, come nel corso del breve incontro di Tristram con la legge, impersonata nel testo
dalla persona del commissario, viene espresso il disagio della definizione “burocratica”
del sé, più tardi, nel secondo volume di Un viaggio sentimentale, Yorick si troverà ad
affrontare ancora una situazione “burocratica”, che porrà l’esigenza di una rapida
informazione sulla sua identità. È l’episodio XLVII, intitolato Il passaporto – Versailles. Il
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FRANCA RUGGIERI
capitolo inizia con l’incontro tra Yorick e il Conte di B***. È un incontro informale:
non è stato preannunciato e Yorick spiega di essere «venuto senza presentazione alcu-
na», sapendo che lì avrebbe incontrato un amico comune, che si sarebbe assunto per
lui questa incombenza. L’amico comune è il connazionale di Yorick, Shakespeare, e
infatti i “tomi” della sua opera sono sparsi sullo scrittoio del Conte. La presentazione
tra i due è certamente molto originale e passa attraverso l’opera letteraria per eccellen-
za, il testo di Shakespeare. La chiacchierata che segue è infatti molto varia. I due par-
lano «di questo e di quello… di libri, di questioni politiche, di uomini… e infine di
donne» (Sterne, , vol. I, p. ). È su quest’ultimo tema che la chiacchierata dilaga:
Yorick dichiara di amarle con tutte le loro debolezze e nonostante tanta satira sia stata
scritta contro di loro. L’interesse del parroco laico per le donne provoca il commento
del Conte sul proposito del viaggio di Yorick: certamente non è venuto allora in Fran-
cia «a spiare la nudità della nostra terra» e neanche «quella delle nostre donne», ma
forse gradirebbe incontrarne. E allora Yorick fa la dichiarazione del suo progetto:
«Potrei invece desiderare, continuai, di spiare la nudità dei loro cuori, e attraversando
i vari travestimenti dei costumi, dei climi e della religione, scovare quanto c’è nei loro
di buono» (ivi, vol. I, p. ). Yorick, come già Tristram, non è interessato al Palais
Royal, al Luxembourg, alla facciata del Louvre, ad ampliare i cataloghi di quadri, sta-
tue e chiese. Per Yorick ogni persona è bella come un tempio, e di quel tempio vor-
rebbe vedere i disegni originali e gli schizzi, più interessanti che la stessa trasfigurazio-
ne di Raffaello. È una sete questa che è come quella dell’amatore d’arte e lo spinge a
proseguire nel suo viaggio verso la Francia e l’Italia. Ma il suo è «un quieto viaggio del
cuore alla ricerca della Natura e di quegli affetti che in lei germogliano, e ci inducono
ad amarci l’un l’altro… ad amare il mondo intero, più e meglio di quanto non faccia-
mo» (ivi, vol. I, p. ). Nelle ultime righe del capitolo, il Conte si dichiara obbligato a
Shakespeare che è stato l’artefice della loro conoscenza, ma che, grande com’è, ha
dimenticato «solo una piccola clausola del cerimoniale, quella di annunciarmi il suo
nome… e ciò – come si diceva – costringerà lei a provvedere da solo» (ibid.). Il Conte
pone così a Yorick la domanda della sintesi della sua identità, quella che si esprime in
breve attraverso nome e cognome, laddove Shakespeare, la scrittura, la letteratura
hanno già introdotto, presentato e messo in comunicazione le loro Nature. La doman-
da di nome allude alla distanza tra lo spessore del carattere, della Natura e del suo
ritratto e la povertà scarsamente significante e comprensiva del dato anagrafico. La
domanda ancora una volta viene formulata e inserita alla Sterne, naturalmente, come
«piccola clausola del cerimoniale, quella di annunciarmi il suo nome… e ciò costringerà
lei a provvedere da solo» (ibid.). La risposta di Yorick è l’incipit dell’episodio successi-
vo e si carica di tutto il senso profondo che può assumere la messa in discussione
costante della dichiarazione anagrafico-burocratica dell’identità, per riaffermare il
significato diversamente comunicativo di senso del mito fondato sulla pagina letteraria.
Non c’è, nella vita, compito che mi imbarazzi di più del dover prendere l’iniziativa di
dire a qualcuno chi sono… perché non c’è naturalmente persona al mondo, di cui non
potrei dare miglior notizia di quella che so dare di me; ed ho spesso desiderato di poter-
lo eseguire con una sola parola… e di chiuderla lì. Quella fu la sola volta e la sola cir-
costanza in vita mia in cui io abbia potuto sbrigarmela così, ad ogni buon conto […]
perché, visto che Shakespeare era deposto lì sul tavolo (ivi, vol. I, pp. -).
chini, nel quinto atto» mette l’indice su Yorick, e puntando il dito sul nome aggiunge
«Me voici, – dissi» (ivi, vol. I, p. ). Il nome può spiegare, comunicare, essere “il
ritratto” del personaggio, quando si carica del senso che la letteratura attraverso i
secoli ha lasciato sedimentare. «Per un carattere (nel senso teatrale e romanzesco)
come Yorick, nascosto tra le pieghe dei suoi pseudonimi e delle sue tergiversazioni»,
lo dice, in una nota a quella che è la migliore traduzione italiana di Un viaggio senti-
mentale, Giancarlo Mazzacurati «è una confessione quasi ovvia» (ivi, vol. II, pp. -
). E Mazzacurati procedeva così:
Su una linea che tracci l’ideale storia del soggetto (e della soggettività) moderna, la
dichiarazione è invece una tappa significativa di quelle progressive scissioni che, da
Amleto ai personaggi pirandelliani, sgretolano l’identità metafisica e morale dell’io clas-
sico, poi cartesiano; e lo riducono talvolta ad un gruppo di pulsioni e di contraddizio-
ni, di cui l’io triadico Sterne-Tristram-Yorick è già un archetipo; e come tale sarà senti-
to, dopo Amleto, dallo stesso Pirandello, nel suo saggio su L’umorismo, nonché in Uno,
nessuno e centomila (ivi, vol. II, p. ).
D’altra parte alcuni amici e corrispondenti identificavano Sterne con Tristram e per
questa via, in un gioco di allusioni e scambi tra Shakespeare e Sterne, e tra i due Yorick,
l’episodio si conclude sulla nota autoironica di una conferma dell’equivoco: «…Et
Monsieur, est il Yorick? – esclamò il Conte. – Je le suis, – dissi. – Vous?… – Moi… moi
qui ai l’honneur de vous parler, Monsieur le Compte… – Mon Dieu –, disse lui abbrac-
ciandomi – …Vous etes Yorick» (ivi, vol. II, p. ) per aprirsi a quella che nell’episodio
successivo, sempre in bilico tra patetico e ludico, sarà l’apologia della letteratura, non
solo mediazione di identità, come in questo caso, ma soprattutto spazio della libertà e
della trasposizione, sempre alternativo al mondo empirico.
L’affermazione del senso del sé passa, quindi, attraverso un personaggio – Yorick –
che è mito letterario, e l’identità può essere enunciata attraverso un nome, perché quel
nome si fa carico del significato stratificato nella storia della letteratura e della lettura.
Per questa via, letteraria, prende forma la sola risposta possibile alla richiesta di decli-
nare le proprie generalità. Vengono qui suggeriti i lineamenti di un probabile ritratto di
Yorick che appartiene alla storia e al mito della letteratura, e che dalla storia e dal mito
deriva senso e significato: il nome dell’ultimo Yorick ripropone e attualizza, nel prota-
gonista di Un viaggio sentimentale, lo Yorick-Sterne autore dei Sermoni, e rimanda
indietro, fino a includere lo Yorick nell’Amleto di Shakespeare e quello di Horwendil-
lus «nella Historia Danica di Saxo Gramaticus. E il nome, che descrive l’identità, acqui-
sisce il significato filtrato dalla tradizione che lo esprime.
. «Ho fatto molti ritratti negli anni. Tanti. Tantissimi. Nella convinzione, sempre, che
l’individuo è nel volto» (Pericoli, , p. ). Così Tullio Pericoli inizia la riflessione
sulla propria esperienza di pittore e disegnatore di volti, che è anche il racconto dei suoi
ritratti e della sua ricerca, appunto, dell’“anima del volto”, perché nel volto, che è la
parte di noi con cui abbiamo a che fare di più – nel nostro continuo rapporto con noi
stessi e con l’altro – è incisa la nostra cifra: il nostro volto aggiorna ogni momento il rac-
conto della nostra storia. «Ciascuno di noi», aggiunge il pittore, «sa scrivere racconti.
Ne scriviamo uno per tutto il tempo della vita, usando abilmente una lingua che non
sappiamo di possedere. Questa lingua non è fatta di parole, né di colori, né di linee; e
tuttavia la sua composizione è molto simile a linguaggi a noi noti. Sulla superficie che
la natura ha predisposto alla nostra inconsapevole manipolazione, sulla faccia, scrivia-
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FRANCA RUGGIERI
mo ogni giorno il nostro racconto» (ivi, pp. -). È del resto un discorso lineare, sem-
plice ed efficace, quello con il quale, poche righe dopo nello stesso saggio, Pericoli riaf-
ferma l’unitarietà del pensiero e il diritto di pensare per immagini, di elaborare concet-
ti «senza aver bisogno del linguaggio delle parole», il diritto di fare veri e propri ragio-
namenti per immagini, come spiegava Calvino nelle Lezioni americane. Al centro c’è il
volto, poi il ritratto che ne coglie il senso. Nel caso di un letterato, «un’opera letteraria
importante e decisiva» cambia anche la faccia del suo autore, come accade al volto di
Beckett, che è modellato dai suoi scritti. E allora il pittore-ritrattista non può non anda-
re in cerca «della scrittura secca in quella mappa e in quell’intrico di rughe del volto
dell’autore di Finale di partita, quella faccia-paesaggio «in cui si esprime prepotente-
mente l’anima» (ivi, p. ). Si viene a realizzare così, nel ritratto, un’immagine totale,
comprensiva, sulla base della quale l’artista ricostruisce «biografie come sintesi visive:
facce riassunto». Il risultato è un volto che, pur somigliando al volto vero, è «ancora più
vero, perché ne racconta la storia» (ivi, p. ).
I ritratti di Joyce – quell’acquaforte così essenziale, al centro la figurina dalla
giacca rossa, perplessa e dinoccolata, specchio enigmatico, quasi caricaturale del pro-
prio tempo – quelli più numerosi di Beckett, con cui Tullio Pericoli fissa «il più bel
volto del secolo» e ne fa la rappresentazione tormentata di un’epoca, insieme ai ritrat-
ti di Proust, di Kafka, di Calvino, di Borges, di Almodóvar, di Montale, di Eco, di
Freud, di Stevenson, di Robinson, raccontano ogni volta il soggetto e il suo tempo,
perché «il ritratto dipinto, o disegnato», come dice Tullio Pericoli, «è un racconto
che racconta un altro racconto, e racconta la storia che noi, giorno dopo giorno, scri-
viamo sulla nostra faccia. Scriviamo quello che facciamo sulla faccia; quello che pen-
siamo» (ivi, p. ).
Per i ritratti Tulio Pericoli lavora spesso con delle fotografie e ha spiegato il meto-
do e le tappe successive con cui procede nelle prove, fino al momento della creazio-
ne, quando «dalla staticità delle foto, che in qualche modo, come nota Barthes, ucci-
dono la persona ritratta […] il volto emerge in trasparenza sotto il foglio» (ivi, p. ).
Più di una fotografia è all’origine del ritratto di James Joyce, riprodotto, nel ,
dalle Poste irlandesi sul francobollo da centesimi per celebrare il centenario di
Bloomsday (FIG. ). C’è la nota fotografia, scattata da Gisèle Freund, di Joyce che
legge un libro con il doppio sussidio degli occhiali e della lente di ingrandimento. È
un Joyce sinuoso, che con il proprio corpo forma una “esse” e, a gambe accavallate,
sghembo funambolo, crea un ritmo quasi simile al movimento sinusoidale di un
bastone da passeggio – nella forma di “cane”, “staff”, “ashplant”, “alpenstock”, sem-
pre così essenziale nell’iconografia dell’artista dei primi scritti joyciani, di An Encoun-
ter in Dubliners, di Stephen Dedalus ovunque voglia andare tra Dublino e l’Europa.
Solidamente in bilico, la figurina avvolta nella macchia rossa della giacca, poggia su
un solo piede e sembra imporsi sulle regolari geometrie inclinate dei
libri degli scaffali, che occupano tutto lo sfondo, allo stesso tempo
sostegno e contrafforte di quella libreria linearmente sghemba, men-
tre solo un punto, molto forte, del gomito destro sembrerebbe tene-
re dritto il bastone.
L’altra foto, su cui per questo ritratto ha lavorato il pittore, è quel-
la del maggio , ancora uno scatto di Gisèle Freund, che riprende
James Joyce a Parigi, in compagnia di Sylvia Beach e Adrienne Mon-
nier nella libreria Shakespeare and Company. Shakespeare domina
nel nome della libreria e nel suo ritratto, che campeggia sulla parete
Figura di fondo.
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Note
. Cfr. anche W. Blake, A Vision of the Last Judgement (), plate .
Bibliografia
PAOLA SPLENDORE
za e incisività nell’opera degli scrittori afrikaner (ma non solo) dopo il crollo delle
certezze alla base della loro identità. Come afferma Shaun Irlam: «The old certainties
of a culture once united by race, language, nation, religion, and common suffering
have given way to a new culture of interrogation in which the deeds of the elders are
subject to close scrutiny and reexamination» (Irlam, , p. ).
Le opere che propongo di prendere in esame in questo articolo – Country of My
Skull di Antjie Krog (), Dog Heart di Breyten Breytenbach () e White Scars di
Denis Hirson () – sono difficili da rubricare in generi letterari definiti. Sono esem-
pi di una scrittura obliqua di un io che si rivela a tratti e che procede per frammenti,
interruzioni, deviazioni; in cui si fondono linguaggi e registri diversi, che vanno dal
reportage giornalistico alla testimonianza, dal memoir alla critica letteraria, dalla foto-
grafia alla poesia; in cui è proprio l’uso libero, mescolato, dei linguaggi e dei codici, a
evidenziare il disagio dell’io narrante nel mettere in gioco il passato e comprendere il
senso dell’identità presente. Nella molteplicità dei discorsi ricorrenti in queste opere
e delle letture possibili ho qui privilegiato quella che porta allo scoperto la matrice
autobiografica del testo e la sua relazione con la storia “pubblica” del paese. In cia-
scuna di queste opere l’io narrante si trova inserito in un contesto di forte impatto
emotivo con cui deve misurarsi: in Country of My Skull questo è rappresentato dalle
udienze della TRC e dal resoconto che l’autrice è chiamata a fare inglobandovi la sua
sofferta dichiarazione di appartenenza al paese. In Dog Heart è il ritorno di Breyten-
bach dall’esilio di Parigi, dopo le elezioni del , ai luoghi familiari dell’infanzia, a
fornirgli l’occasione per una riflessione sull’elusività dell’identità personale e naziona-
le, specie nel contesto del nuovo Sudafrica. Mentre in White Scars è la lettura di quat-
tro libri ad aiutare Hirson a superare i traumi dell’infanzia e il silenzio della scrittura,
a spingerlo a rivisitare episodi di una storia privata e familiare sconvolta dall’a-
partheid, e a interrogarsi su un’identità negata.
Le strategie testuali adottate in queste opere sono molto diverse, come diversi sono,
per provenienza e formazione, i loro autori: Antije Krog, poetessa afrikaner di ceppo
boero, nata nel nella provincia del Free State e fortemente legata alla sua cultura;
Breyten Breytenbach, poeta e pittore afrikaner, nato nel a Bonnievale, nel Western
Cape, sostenitore di un’idea di “bastardaggine” alla base dell’identità afrikaner; Denis
Hirson, poeta e scrittore di famiglia ebrea russa immigrata in Sudafrica agli inizi del XX
secolo, nato a Cambridge nel , poi espatriato a Parigi. Ma a collegarli, oltre all’uso
non del tutto scontato della lingua inglese, sono la capacità di fusione di una memoria
pubblica e privata, il profondo legame emotivo con luoghi e spazi del Sudafrica e le
irruzioni di un io nascosto che mette allo scoperto la lacerazione interiore dei loro auto-
ri; un io lirico, che sa utilizzare il linguaggio figurato dei sogni e delle metafore, e che a
tratti esplode in forma di poesia rompendo la compattezza della pagina-documento. La
forma composita e frammentaria delle tre opere, espressione in primo luogo della dif-
ficoltà degli autori di giungere a una narrazione unitaria e lineare, produce così la deco-
struzione e la reinvenzione di un modello formale dichiarato inadeguato e che può solo
ormai scriversi in forme ibride.
fessione, ma la più nota poetessa afrikaner, con otto volumi di poesia alle spalle, tutti
in lingua afrikaans, e la fama di intellettuale impegnata nella lotta contro l’apartheid.
Il suo resoconto, scritto in inglese, pur essendo qualificato come reportage, non è
imparziale, non si ferma ai fatti né alla trascrizione delle deposizioni; non teme di
mettere in questione – dall’inizio alla fine – una delle regole base del giornalismo,
l’implicito patto di verità: «The word “Truth” makes me uncomfortable. The word
“truth” still trips the tongue. […] I hesitate at the word, I am not used to using it.
Even when I type it, it ends up as either turth or trth» (Krog, , pp. -), affer-
ma Krog a pochi giorni dall’inizio del suo lavoro e più avanti, a chi le fa notare di
avere svisato la verità, spiega che il suo impegno si limita a offrire la sua verità,
«[s]een from my perspective, shaped by my state of mind at the time» (ivi, p. ).
Il suo è dunque un racconto soggettivo, carico di emotività e dolore, un racconto
che mentre restituisce con tutta l’immediatezza e la forza della cronaca diretta, la
sofferenza e le voci di una terra lacerata, mette a nudo il dramma personale dell’au-
trice, la cui identità afrikaner di sudafricana bianca, donna, figlia e madre, è conti-
nuamente chiamata in causa a esprimere i propri sensi di colpa, inadeguatezze, ver-
gogna, angoscia. «Country of My Skull», ha dichiarato di recente l’autrice, «is my
own, highly personalized version of experiences at the TRC. Country of My Skull is
NOT a journalistic or factual report of the Truth Commission. In fact, the problem
of truth, the ethical questions around the “making” of truth, the use of other peo-
ple’s truths, the relation between power and truth, and other factors at play in the
execution of truth, all form part of the text itself» (Krog, , p. ).
Davanti al pianto che interrompe una delle prime deposizioni, quella di Nomonde
Calata, vedova di un attivista politico ucciso brutalmente dalla polizia, e alla richiesta
del vescovo Tutu di aggiornare la seduta di dieci minuti, Krog scrive: «For me, this
crying is the beginning of the Truth Commission – the signature tune, the definitive
moment, the ultimate sound of what the process is about» (Krog, , pp. -). Quel
«suono» è il racconto delle migliaia di vittime dell’apartheid, per lo più parenti delle
vittime, i sopravvissuti, gente comune, come quella che si incontra ogni giorno per la
strada, in autobus o in treno. Gente che porta sul corpo e sui vestiti i segni della povertà
e del duro lavoro. È la prima volta nella storia del paese che le loro voci spezzate, nelle
lingue native, dominano i notiziari. Tra loro c’è chi ha dovuto identificare ossa ingialli-
te, corpi straziati, come la madre di Guguletu che ha dovuto riconoscere il proprio
figlio dai piedi, chi ha perso la virilità per effetto delle torture, chi ha visto distrutta la
sua vita familiare, chi ha visto bruciare sua madre con un copertone incendiato intorno
al collo, senza poter fare niente. Matidza, il più anziano testimone, nato nel , ha
perso casa mobili e bestiame, ma rivuole i suoi alberi. Come è già accaduto per le came-
re a gas nei campi di sterminio nazisti, Krog si chiede come sia stato possibile che nes-
suno sapesse, che così pochi facessero qualcosa, e «what kind of hatred makes animals
of people?» (ivi, p. ), una domanda che ritorna di frequente tra le vittime. Se lo chie-
de a volte anche il torturatore che racconta il tormento della sua vita privata a causa di
quello che riteneva l’adempimento di un compito necessario alla difesa della patria, o
meglio di quella «white nation» cui appartiene la minoranza bianca del paese.
La densità dell’immagine evocata dal titolo dell’opera aiuta a comprendere in tutta
la sua portata il legame dell’autrice con il suo paese. Country of my Skull mette di fron-
te a un’immagine quasi surreale eppure intensamente fisica che, mentre rinvia a un
senso di appartenenza biologica e viscerale, fa anche pensare a un paese interiore o
immaginario, creato dalla sua mente, quasi una figura di compensazione del senso di
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PAOLA SPLENDORE
Between us all distance is erased. Was there perhaps never a distance except the one I
have built up with great effort within myself over the years? […] In some way or anoth-
er, all Afrikaners are related. […] What I have in common with them is a culture – and
part of that culture over decades hatched the abominations for which they are respon-
sible» (ibid.).
I think of the piece that my mother wrote. How easily and naturally the story shifts from
politics to language. And is this not where the heart lies? It has been stated openly that
Afrikaans is the price that Afrikaners will have to pay for Apartheid. Was it not a debate
for years on Robben Island: What do we do with the language of the boere? (ivi, p. ).
Un commento che in parte contraddice la logica della citazione, mettendo a nudo le dif-
ficoltà di Krog a “tradire” la lingua degli antenati. In un’opera successiva, A Change of
Tongue, la scrittrice ritorna sull’idea del tradimento:
I feel at times embarrassed that I want to be read in English, like I have sold out,
betrayed something, or revealed a shameful desire […] and I am not clear how much
of it has to do with a resistance to colonization, giving in to power, being owned, accept-
ed by the colonizer’s hand – because English has become the door to the Father, if you
know what I mean (Krog, , p. ).
speechless I stand
whence will words now come?
[…]
what does one say?
what the hell does one do
with this load of decrowned skeletons origins shame and ash
(Krog, , p. ).
La poesia – da cui è anche tratta la citazione posta in esergo a questo articolo – elabo-
ra allo stesso tempo il motivo del «fierce belonging» (Krog, , p. ) dell’autrice al
proprio paese, un paese interiorizzato fino dentro le viscere, assumendone i ritmi del
respiro e i battiti del cuore. In sintonia col cambiamento del paese, e utilizzando imma-
gini di fuoco e di pelle bruciata, Krog enfatizza la propria trasformazione ad opera delle
storie ascoltate, la comparsa di una nuova pelle e la nascita di una nuova se stessa:
it breathes becalmed
after being wounded
in its wondrous throat
in the cradle of my skull
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PAOLA SPLENDORE
it sings, it ignites
my tongue, my inner ear, the cavity of heart
[…]
because of a thousand stories
I was scorched
a new skin.
I am changed forever (Krog, , p. ).
I left here young and my childhood was spent in other places. […] Why do I then feel
at home among these hills, along the slopes of this river? Does one only later decipher
the gestures and the songs of the ancestors? I recognise how much I resemble my peo-
ple […] so that I may be the equal of the oumense, the old ones, all those I used to
call “uncle” and “aunt”… I bear the scars they had when they were as old as I am
now» (ivi, pp. -).
Ma non al punto di impedirgli di provare un forte senso di estraneità per quella stessa
terra: «I know this land, and yet I’m a stranger here. I have been away too long. I have
to find a way of getting under its skin» (ivi, p. ). Non a caso l’autore si attribuisce, in
quest’opera, la maschera di “Dog” che, secondo Johan U. Jacobs, è «the most crypti-
cally presented of Breytenbach’s African masks, and also the one with whom his own
identity is most syncretically merged» (Jacobs, ).
Articolato in frammenti intitolati a luoghi e persone o semplicemente Memory, Dog
Heart può definirsi un esercizio di memoria scritto al tempo presente, in cui si alterna-
no narrazioni, poesie, fotografie, riflessioni. È il primo impatto dello scrittore con la sua
terra per un periodo prolungato, dopo il lungo esilio di Parigi, ed è dedicato a ritro-
vare luoghi e persone, a visitare la sua vecchia scuola, i musei locali alla ricerca di vec-
chie fotografie dei pionieri, i cimiteri di villaggio; a visitare i moribondi e incontrare
vecchi compagni di scuola e persone dimenticate, a ritrovare insomma i vivi e i morti,
incluso se stesso, in quello che definisce «the slow minuet of spectres» (Breytenbach,
, p. ). A recuperare le sue radici e soprattutto a ripensarle: «Why have we beco-
me so obsessed with origins and beginnings?» (ivi, p. ). Se il progetto di scrittura alla
base di Dog Heart si realizza in una sorta di pellegrinaggio, e infine di ricongiungimen-
to mistico con la sua terra, questo comporta la messa in questione dei concetti di iden-
tità e di purezza su cui si fonda la sua appartenenza a quei luoghi: «What I want to write
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My tongue speaks about moving away from the known, about overflowing into the
unknown, about making; of dispossessing, plundering, enslavement, mixing […] I may
add that our specific language, Afrikaans, is the visible history and the ongoing process
not only of bastardisation, but also of metamorphosis (Breytenbach, , pp. -).
Analogamente lo scrittore vuole mostrare che anche gli afrikaner sono un popolo
bastardo e nella ricostruzione della propria genealogia familiare, paterna e materna, egli
ritrova tracce risalenti a molti secoli addietro, di unioni miste e di misgeneation. Così
Breytenbach rivisita le proprie origini alla luce di un processo di “melanizzazione” che
Zoe Wicomb identifica al centro della scrittura afrikaner degli anni Ottanta e Novanta
(Wicomb, ).
Dunque il libro si sviluppa secondo la ricostruzione di una memoria storica, oltre
che privata, che si stempera nelle figurazioni di un linguaggio poetico e onirico. Per
Breytenbach memoria e storia sono diverse: la memoria è forse illusoria, serve a pro-
teggerci dall’impossibilità di fermare il tempo, mentre la storia ci dà sostanza e presen-
za, ci consola dell’abisso dell’assenza (Breytenbach, , p. ). Bisogna tuttavia stare
in guardia dai ricordi, perché «Intense remembering has scorched one’s memory. I
insert too much meaning in the gaps and the cracks» (ivi, p. ). L’immagine della
memoria ustionata dai troppi ricordi evoca quella delle pelle bruciata di Krog per le
troppe storie che ha ascoltato. Ma se per Krog questa si traduce in un’immagine di rina-
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PAOLA SPLENDORE
scita, per Breytenbach comporta l’obliterazione della memoria, un evento che potreb-
be portare a una perdita di identità, perché:
Just as you cannot survive without dreams, you cannot move on without the memory of
where you come from, even if that journey is fictitious. Is what we call identity not that
situation made up of the bits and pieces which we remember from previous encounters,
events and situations, memory hanging from the branches? (ivi, p. ).
Con una contraddizione tipica della sua scrittura, Breytenbach afferma tuttavia l’im-
portanza di entrare nella stanza dell’oblio e abbandonarsi allo scavo nella memoria
messo in moto dalla scrittura:
To write is to make memory visible, and this memory uncovers a new landscape. When
the tree of memory is shaken all manner of things come crashing down – fruit, empty
tin cans with exotic labels, birds still calling their names, birds’ nests, books, bicycles,
even dead resistance fighters or a lamed angel who was hiding among the leaves from
the wings of darkness (ivi, p. ).
Anche per Denis Hirson la memoria è come un albero scosso da una forte perturba-
zione – «My memory was like a tree that had been shaken by some great disturbance,
and the sky was filled with wheeling birds» – che riporta indietro, in un irresistibile
gioco associativo, scene e oggetti dimenticati: «the tiny, inter-meshed, resurfacing co-
ordinates of a gone world» (Hirson, , p. ). All’origine di White Scars sembra
esserci, come per tutta l’opera di Hirson, un progetto dichiaratamente autobiografi-
co, nonostante il sottotitolo – On Reading and Rites of Passage – lo annunci come un
saggio sulla lettura e sui riti di passaggio. Divisa in quattro parti, ciascuna dedicata a
un libro cui l’autore si è rivolto in maniera ossessiva in certi periodi della sua vita, l’o-
pera si articola in maniera frammentaria e composita. All’interno di ogni sezione si
alternano materiali disparati: analisi testuali, descrizioni di eventi, ricordi personali,
poesie, a volte differenziati nei font e nei corpi tipografici, cui fa seguito una sorta di
appendice linguistica, intitolata Wordkeys, in cui Hirson riflette sul percorso storico e
ideologico di singole parole evidenziate nei testi precedenti. Si tratta per lo più di ter-
mini del lessico dell’apartheid, come location e township, pass, island, oppure collega-
ti all’esperienza dello sradicamento, come expat, unsettler, elsewhere, refugee, nomad
exile; mentre un’altra area semantica raggruppa parole e spazio, come land e border:
su tutte l’autore riflette sulla base di considerazioni etimologiche, personali, letterarie.
I libri da cui parte Hirson sono: un documentario fotografico del massacro di Shar-
peville, Shooting at Sharpeville; due raccolte di poesie, Die Ysterkoei Moet Sweet di
Breyten Breytenbach e In a Marine Light di Raymond Carver; il memoir Je me souviens
di George Perec, ma sono molte altre le letture cui si fa riferimento nel volume, Nadi-
ne Gordimer, Chinua Achebe, Edmond Jabès.
Lungo tutte le pagine di White Scars Hirson modula il motivo della perdita e del
tradimento. Il fantasma che aleggia su tutti, con cui di continuo l’autore si confronta, è
quello del padre, lo storico Baruch Hirson, militante del gruppo African Resistance
Movement, arrestato per sabotaggio nel e condannato a anni di carcere. L’arre-
sto del padre, di cui il bambino non capisce le ragioni, è vissuto da Hirson come “tra-
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dimento” nei suoi confronti, un qualcosa da affrontare in segreto chiudendosi nel silen-
zio. Sarà un libro scoperto per caso nella stanza dei genitori, camuffato dalla copertina
di un altro volume, Il rosso e il nero di Stendhal, Shooting at Sharpeville, ad aiutarlo
creando un collegamento tra il suo dolore represso e il mondo esterno. Si tratta di un
libro fotografico che documenta il massacro di Sharpeville, da cui il bambino è mor-
bosamente attratto per le foto dei ragazzi lasciati morti sul terreno e di cui non riuscirà
mai a parlare con nessuno. Il libro diventa così un territorio di silenzio, manifestazione
del mutismo in cui lui stesso si è chiuso:
The photographs […] were part of another kind of secret, outside of my family, greater
than anything I could find words for, joined somehow to the silence I kept concerning
my father. They were always there waiting for me and I kept returning to them, as one
returns to the crack in a door because there is something one must know yet fears to
find out (ivi, p. ).
PAOLA SPLENDORE
che non solo si può, si deve: «Si deve scrivere a partire da questa spaccatura, da que-
sta ferita continuamente aperta» (Raimondi, , p. ).
Se Jabès gli dà dunque, per così dire, l’autorizzazione alla scrittura, il “metodo” di
Perec libera in lui i ricordi del Sudafrica offrendogli una forma in cui farlo: «Here was
a way of setting down in brief, pointillist fashion the details of a gone world, creating a
pattern that seemed to reflect the syntax of memory itself» (Hirson, , p. ). Ed è
imitando Perec che Hirson scrive due piccoli libri che gli servono a riannodare il filo
della memoria con il suo paese, fatti di frasi che cominciano tutte con le parole «I
remember»: I Remember King Kong (The Boxer) () e We Walk Straight So You Bet-
ter Get Out the Way (). Ma si tratta di una memoria oggettivata, per così dire, libe-
ra da ogni riferimento strettamente personale, «[a] more selfless place, a shared city»
(ivi, p. ), quasi un luogo dell’oblio in cui il dolore privato e indicibile si stempera nel
ritmo ipnotico e incantatorio dell’atto stesso del ricordo. È da questo lavoro prepara-
torio che nasce White Scars, un’opera che è al tempo stesso elaborazione del lutto,
superamento del trauma, storia familiare. Il titolo dell’opera è ripreso da un passo del
discorso di accettazione del premio Nobel di Derek Walcott, in cui il poeta parla del-
l’amore di chi ricompone i frammenti di un vaso rotto, ripristinando la forma origina-
ria. È un tipo di amore, dice Walcott, analogo a quello che ci spinge a ricomporre, a
rimettere insieme i nostri frammenti africani e asiatici, «the cracked heirlooms whose
restoration shows its white scars» (Walcott, , p. ). Analogamente Hirson rifiuta
di costruire la narrazione come continuum, ma giustappone i frammenti della memoria
lasciando visibili le giunture. La forma composita e frammentaria di White Scars corri-
sponde al bisogno di scandagliare la propria esperienza, spostando di continuo la pro-
spettiva, dal piano linguistico a quello personale, dal piano letterario a quello storico,
nel tentativo di ricomporre, almeno sulla pagina, qualcosa della sua eredità incrinata,
sudafricana, europea, ebraica: «I needed the gap between the fragments, the imperfect
fit, the unspoken thought and hidden cause, the unsealed entrance between uneven
edges. Energy runs between these edges, released by the force that first cracked them
apart» (Hirson, , p. ). Il frammento dà a Hirson la possibilità – come spiega nella
conclusione – di lasciare irrisolti i suoi dilemmi, le divisioni della sua personalità: «there
will always be a gap between father and land, as between mother and tongue, home and
traveller, the walls of before and the door to the future. And this is my breathing space,
my footloose disappearing point, the place between places that these words come
from» (ivi, p. ).
Note
. Istituita da Nelson Mandela e presieduta dal vescovo Desmond Tutu, la Commissione per la
verità e la riconciliazione ha operato nel periodo compreso tra la fine del e il , mettendo in
scena il drammatico confronto tra le vittime dell’apartheid e i loro carnefici, i quali solo dopo avere
reso piena confessione avevano la possibilità di chiedere il perdono e l’amnistia. Qualche dato: sono
state . le testimonianze delle vittime; . le richieste di amnistia, che è stata concessa solo a
persone.
. In un saggio sulle strategie retoriche messe in atto nel post-apartheid Ingrid De Kok mette in
guardia dalla possibilità che anche l’espressione artistica possa cedere alla pressione dei media: «There
is a strong impulse in the country, supported and sustained by the media, for a grand concluding nar-
rative, which will accompany entry into a globalized economy and international interaction with the
world. […] This impulse has the potential to produce newly energetic registers, but equally it has the
potential for amnesia» (cit. in Nuttall, Coetzee, eds., p. ).
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. Nel commento a questi versi Jane Wilkinson afferma che: «Yet the future is necessarily
uncertain, both for Krog […] and for the nation seeking to emerge from the harrowing divisions
of its past. Unlike the mythical feathers of the phoenix, the new skin the stories have created main-
tains the traces and the history of its scorching» (cit. in Contenti, Guarducci, Splendore, a cura di,
p. ).
. Nel corso della precedente visita di Breytenbach in Sudafrica, del , lo scrittore pronunciò
il discorso A View from Outside in cui definisce gli afrikaner un popolo bastardo: «We are a bastard
people with a bastard language. Our nature is one of bastardy […] And like all bastards – uncertain
of their identity – we began to adhere to the concept of purity. This is apartheid. Apartheid is the law
of the bastard» (Breytenbach, , p. ).
. «Narratives from the late s onwards […] are crucially concerned with a laundered Afrika-
ner ethnicity, its whiteness effaced through an association with blackness» (Wicomb, , p. ).
. Hirson aveva già scritto la storia della sua famiglia di ebrei russi emigrata dalla Russia in Suda-
frica agli inizi del Novecento, in The House Next to Africa (), un libro emerso, nell’esilio di Parigi,
da un mutismo doloroso, e seguito, per i venti anni successivi, da un altro lungo silenzio.
. Accompagnato dalla testimonianza del vescovo di Johannesburg, Ambrose Reeves, molto atti-
vo nel movimento antiapartheid, il libro fu immediatamente bandito dal regime e l’autore deportato in
Inghilterra, questo spiega il camuffamento del volume sullo scaffale del padre.
. In un’intervista con Paige Dorkin, Hirson dichiara: «Scars assume a wound. In the book, I
quote the French poet Edmond Jabès who says, “every wound is a source”, and in a way this has beco-
me a leitmotif for me. What one has gone through of the order of wounding is not necessarily
something one is a victim of, but actually a resource, a form of energy to be transformed. The one exi-
stential position that is untenable is that of the victim» (Dorkin, ).
. Su questo interrogativo e questa affermazione torna non a caso anche Krog nel capitolo di
Country of My Skull.
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PAOLA SPLENDORE
Molti decenni orsono, sulla scorta di osservazioni che affondano le proprie radici in
studi appassionati sulle lingue degli indiani d’America, il linguista e antropologo
Edward Sapir scrisse che gli esseri umani «are very much at the mercy of the particu-
lar language which has become the medium of expression for their society» (Mandel-
baum, , p. ) («sono, diciamo, alla mercé della lingua specifica che è divenuta il
medium espressivo della loro società»). L’affermazione parte dalla consapevolezza che
la struttura della lingua utilizzata da un determinato gruppo di parlanti influenzi visce-
ralmente il modo di pensare, e quindi di agire, degli stessi.
L’ipotesi che una lingua determini la maniera in cui il nostro pensiero viene a for-
marsi procede dall’idealismo di pensatori quali Herder e Humboldt (Steiner, , pp.
-). Oggigiorno la sua affidabilità tout court può essere messa in dubbio con discre-
ta facilità, ricorrendo alla oramai ridondante “arbitrarietà” dei significanti, e alle diver-
se teorie che ne derivano. Eppure, un sostrato di verità è ancora rinvenibile nella con-
siderazione di cui sopra, soprattutto se ci volgiamo a riflettere su come un certo tipo di
associazioni semantiche possano essere caratteristiche di una cultura ma non di un’al-
tra, o anche come un certo livello di competenza linguistica fornisca l’accesso ad una
cultura, ovvero ne prevenga il contatto. Forse converrà, già a questo punto, che mi affi-
di ad un esempio per essere più chiaro.
Prendiamo un termine abbastanza comune tratto dal lessico dell’inglese quale joy-
ride. Il suo utilizzo in un contesto informale rimanda ad una pratica adolescenziale in
voga presso le giovani generazioni residenti in località suburbane britanniche o irlan-
desi, ma anche americane. Si tratta di un passatempo altamente discutibile dal punto
di vista dell’etica pubblica, nonché pericoloso per le persone che vi si dedicano, poi-
ché consiste sostanzialmente nel rubare un’auto al fine di compiere scorribande ad alta
velocità, con testacoda da capogiro, brusche frenate a concludere corse sfrenate, sor-
passi azzardati al limite della follia, e altre spericolate violazioni del codice stradale
poco raccomandabili a chiunque abbia a cuore la propria salute fisica e mentale. Nel
caso del lessema joyride il New Oxford Dictionary, per rigor di cronaca, rimanda soler-
te, seppure in maniera meno completa rispetto a quanto appena accennato, a questa
denotazione. Eppure, accanto a tale definizione, ci capita di incontrare anche una
spiegazione alquanto più rassicurante, riferita a scenari maggiormente sereni e fami-
liari: «A ride for enjoyment in a vehicle or aircraft» («Un giro di divertimento in mac-
china o in aereo»).
Ora, risulta più che chiaro come tra i significati del termine in questione figurino
entrambi i riferimenti, ed è altrettanto pacifico che, in condizioni di normalità, sarà il
contesto in cui esso ricorre a suggerirci una chiave di lettura anziché l’altra. A titolo d’e-
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ENRICO TERRINONI
Un po’ di buon senso e una minima dose di familiarità sia con il context of situation, per
dirla alla Halliday, sia con il lessico dello slang e con le sue possibili associazioni seman-
tiche faranno immaginare come possa essere scartata a priori e senza troppi indugi la
possibilità che P abbia in mente di invitare l’amico ad imbarcarsi su un qualunque
aereo da turismo. Una simile interpretazione, seppure plausibile in via puramente teo-
rica, non è quella che P dà dell’enunciato, come appare chiaro sia dalla familiarità con
l’ipotesi alquanto spericolata paventata dal suo interlocutore sia con il suo conseguen-
te sprone ad optare per un “motore” che non sia lento come quello della volta passata.
Anche l’ipotesi di un giro di piacere è da accantonare, poiché il riferimento di P
al brivido della velocità mal si concilia con quella tranquillità un po’ soporifera tipica
delle giterelle fuori porta. È facile dedurre, quindi, che P e P siano entrambi d’ac-
cordo nel sottrarre, seppure temporaneamente, ad un qualche anonimo proprietario
un’automobile dalla discreta potenza per poter fare un giro non proprio all’insegna del
rilassamento.
Ora, proviamo ad estendere la prospettiva fino ad includere un terzo parlante, P,
non madrelingua, anzi, alle prese con l’apprendimento dell’inglese nella sua fase inizia-
le, e dunque legato al dizionarietto tascabile come un ubriaco alla sua boccia di vino.
Immaginiamo che costui, fraintendendo completamente le intenzioni dei due compari,
si inserisca nel discorso affermando:
Oppure in alternativa:
Vista la consueta transitorietà dei testi, si sarebbe tentati di pensare che una costellazio-
ne di possibilità venga aperta da tale nuovo scenario. Alcune di queste sono meno pro-
babili di altre. Ad esempio, dando per scontato che P abbia compreso il significato
dello scambio di battute tra P e P, il secondo testo può essere interpretato come un’e-
spressione ironica, a segnalare non tanto la paura determinata dalle esplicite intenzioni
di P e P, quanto invece una completa adesione, un po’ sardonica e sufficiente, ai loro
propositi. Oppure, nel caso del primo enunciato, potremmo immaginare che P, com-
pletamente consapevole del rischio all’orizzonte, ed esperto in materia per averlo pro-
vato sulla propria pelle, non ami ripeterlo ancora una volta, e intenda dunque declinare
l’offerta.
Invece, se poniamo l’accento su un fattore fondamentale quale la conoscenza
imperfetta della lingua in uso da parte di P, e dunque sulla sua scarsa capacità di
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cogliere tutte le implicature e le sfumature del breve scambio dialogico a cui ha assisti-
to, si consolida per forza di cose l’impressione che egli si sia erroneamente affidato,
forse per ingenuità, alla seconda definizione del dizionario anziché alla prima. In que-
sto caso, se è vero che, generalizzando molto, ad ogni cultura corrisponde vagamente
un sistema lingua di riferimento, le differenze culturali divengono automaticamente lin-
guistiche, o meglio, agiscono sul piano linguistico. Infatti, nel caso presente, è una par-
ziale familiarità con le strutture di una lingua d’apprendimento a determinare l’incom-
prensione a livello culturale, e quindi uno scarto comunicativo che produce fraintendi-
menti e incontri ermeneutici mancati.
In realtà, la relazione tra lingua è cultura è estremamente più stratificata e com-
plessa di quanto l’esempio ameno di cui sopra possa rivelare. Nel tentativo di sem-
plificare la questione per un uditorio composto principalmente da studenti, Claire
Kramsch (, p. ) suggerisce che tale relazione può essere intesa a tre livelli: la lin-
gua . esprime la realtà culturale; . dà corpo alla realtà culturale; . simboleggia la
realtà culturale.
Il primo aspetto rimanda alla funzione comunicativa del linguaggio, e fa pensare,
come suggerisce Widdowson (, p. ), che chiunque ne faccia uso vi si rivolga per
ottenere un fine, ovvero per veicolare un discorso, e giammai per produrre un testo che
si configuri come fine a se stesso. Ciò vale per ogni tipologia testuale, persino quelle let-
terariamente più sofisticate, e potrebbe facilmente confutare, se venisse applicato, ad
esempio, a teorie estetiche dell’arte, il noto assioma de l’art pour l’art. Per assurdo,
anche un testo che si proponga, ovvero, venga proposto dal suo “padre putativo”, l’au-
tore materiale, quale autoesaurientesi nella sua funzione prettamente estetica, non
potrà dirsi non sia stato prodotto per raggiungere un qualche fine, per quanto ineffa-
bile o self-concluded esso sia. La lingua esprime la realtà nel senso che la rende, se
vogliamo, narrativa, le dona un telos, la riorganizza, e dunque la ripropone perché si
presti prima a una fruizione autonoma da parte dell’individuo-spettatore, e poi all’in-
terpretazione da parte di chi vorrà a sua volta “farne uso”.
Il secondo suggerimento, complementare al primo, ci dice che la realtà è la lingua,
poiché noi ci avviciniamo ad essa inevitabilmente attraverso un medium, un filtro, che
non può se non essere legato ad una codificazione semiotica della stessa tramite risor-
se linguistiche. Ciò rimanda in qualche modo all’uso idiosincratico che fa Derrida della
realtà come testualità, nel presupporre continuamente che non vi sia nulla oltre la lin-
gua, nulla oltre il testo, e dunque che tutto sia testo. Nonostante il fascino innegabile di
una tale formulazione, intenderla tout court quale verità inconfutabile conduce inevita-
bilmente ad un vicolo cieco dal quale sarebbe difficile uscire. Se è vero, infatti, che ogni
manifestazione della realtà può essere intesa come una rappresentazione, nel suo intrec-
cio, dotata di texture, e quindi affine ad una narrazione, è altrettanto credibile che esi-
stono realtà a cui non assistono partecipanti, o alla cui “messa in scena” è presente ad
esempio un solo testimone, spesso nel ruolo doppio di autore e spettatore. In questi casi
viene a mancare una delle condizioni necessarie alla testualità, ovvero ciò di cui si
discorreva prima: il suo fine. Un fine si dà solo allorquando il testo si configuri, se
vogliamo, come modalità di un transfer comunicativo, come una negoziazione di
impressioni, un sovrapporsi di effetti, e dunque, in definitiva, un qualche tipo di inter-
scambio semantico, contenutistico o formale che sia. Suggerire che tutto sia testo, e far
coincidere realtà e testualità, equivarrebbe ad escludere dalla realtà ciò che testo non
potrà mai essere, nei casi in cui non sia reperibile la possibilità di una sua fruizione. In
altre parole, la realtà come la incontriamo normalmente è, nel suo complesso, testuale
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ENRICO TERRINONI
in quanto viene percepita come narrazione. Ma esistono fette di realtà non narrate – un
po’ come i libri non letti – le quali sono sì reali, ma mancano di testualità in quanto non
entrano mai in circolazione. Ciò a dire che ridurre tutto a testo creerebbe immancabil-
mente uno scontro difficilmente sanabile tra natura e cultura, in quanto vorrebbe far
corrispondere le due entità, distinte seppur dialoganti, come fossero identità.
Il terzo postulato, tendente a suggerire che la lingua operi nei confronti della realtà
in maniera simbolica, riguarda l’aspetto semiotico della comunicazione. Si tratta ovvia-
mente di una semiotica sociale, in quanto viene presupposta, quale condizione sine qua
non dell’esistenza stessa di una testualità, la sua necessità di operare all’interno di un
sistema socioculturale. In altre parole, la lingua è capace di “simboleggiare” solo allor-
quando si diano le possibilità per uno scambio che realizzi il momento della produzio-
ne esplicitamente nell’ambito delle dinamiche ricettive. Un messaggio esiste poiché è
possibile renderlo attraverso simboli e/o segni; ma questi a loro volta non possono pre-
scindere dal fruitore, il quale in condizioni ottimali, quanto surreali e inarrivabili, gli
restituisce “quasi la stessa” vita sottrattagli parzialmente al momento del completa-
mento del processo della sua produzione materiale.
In questo senso, il testo in quanto segno e al tempo stesso veicolo di segni, diviene
una sorta di punto di incontro tra intenzionalità e interpretazione, una zona franca dove
è plausibile rinvenire la famosa negoziazione da cui derivano le potenzialità di un con-
tatto comunicativo. Tutto ciò, ad esempio, è affine alla traduzione, anch’essa ambito in
cui si inverano processi di semiosi che chiamiamo sociale per via della sua natura dia-
logica. Se ci si concentra principalmente sull’aspetto testuale della traduzione, si è spes-
so naturalmente inclini a convenire che un segmento di testo venga “semplicemente”
replicato con altre parole. Di frequente ci si dimentica, tuttavia, che esso viene in primo
luogo riprodotto con le parole di un altro. In breve, il contesto culturale in cui operano
i sistemi lingua trattiene un’influenza diretta su quanto articolato e veicolato tramite il
testo, proprio in virtù del fatto che esso si configura, tramite dinamiche interpersonali,
come un luogo di contatto e confronto tra diverse visioni del mondo. Ciò poiché non è
in alcun modo possibile prescindere dalla dimensione teleologica della testualità. Que-
sto probabilmente è uno dei concetti sottesi alla famosa “funzione ideazionale” attra-
verso cui si realizza il “linguaggio come semiotica sociale” di Halliday.
Ma resta da chiedersi – e non si tratta di domanda superflua – quale sia quel mondo
che vogliamo ricreare attraverso il linguaggio. Si tratta di una sfera del reale, o, come
apparirebbe ovvio dati gli strumenti linguistici che ne definirebbero il profilo, di una
del possibile, un universo re-inventato attraverso le potenzialità del verbo in atto? E
soprattutto, è davvero credibile l’ipotesi che vorrebbe una dimensione reale trasfigura-
ta, e quindi modificata, attraverso risorse linguistiche? Esiste seriamente la possibilità
di una simile transustanziazione? Con tutta probabilità, è a questo punto che entra in
gioco la cultura; ma questioni terminologiche sostanziali continuano ad attendere solu-
zione, e si rende necessaria una qualche chiarificazione preventiva.
Chiedersi oggi cosa sia la cultura è probabilmente tanto ovvio quanto rischioso. Si
tratta di una di quelle domande che non sembrano necessitare risposte, in quanto que-
ste sono già note a tutti, oppure, come nel nostro caso, hanno occupato gli esperti per
molto tempo. Valga per la presente discussione la definizione di cultura che danno
Lotman e Uspensky. Essa sarebbe, secondo i due semiologi, «the non-hereditary
memory of the community» (Lotman, Uspensky, , p. ) («la memoria non-eredi-
taria della comunità»). Si tratta, ovviamente, di una memoria che in qualche modo non
può se non essere registrata. La sua stessa sopravvivenza, non assicurata da fattori
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genetici, dipende sempre da forme di testualità. In questo modo, ben si vede come
essa appartenga di diritto e di fatto alla comunità, in un senso che diremmo materiale
nonostante la sua naturale affinità con ciò che materia non è, la memoria appunto.
Potremmo immaginare la cultura come una sorta di ponte testuale che mette in comu-
nicazione il palcoscenico del mondo esterno con coloro che lo frequentano, lo inter-
pretano, e lo riscrivono continuamente attraverso le risorse della lingua.
La cultura in quanto memoria pone il presente a contatto con il passato poiché
entrambe le dimensioni si danno nel loro aspetto testuale, e dunque inevitabilmente
teleologico. Ogni narrazione, per quanto circolare, ha sempre un andamento progres-
sivo, e procede verso uno scalo d’arrivo che può di continuo riconfigurarsi come un
ulteriore punto di partenza. La cultura che si materializza attraverso la lingua è ciò che
crea le condizioni per un dialogo non solo interpersonale, ma anche ideazionale, nel suo
conformarsi a schemi di rappresentazione, e testuale, dal momento che ogni scambio
avverrà secondo dinamiche di intertestualità. Immaginare il passato e il presente come
testi dialoganti è possibile solo allorquando l’orizzonte in cui inscriviamo tale dinami-
smo sia di tipo culturale. È forse più facile pensare al futuro come ad una narrazione,
in quanto ciò che ancora non è non può se non esser immaginato, e dunque “racconta-
to”. Raccontare il futuro da un punto di vista strettamente testuale non è poi così
distante dal far rivivere il passato attraverso una storia che lo evochi, oppure dal dar
voce al presente interrogandolo e interpretandolo.
Tutto ciò non si configura come un qualcosa di deliberato, ma appartiene intera-
mente alla natura dell’uomo in quanto animale sociale. Ogni forma di socialità viene
modulata attraverso tipologie di dialogo, proprio per via dell’aspetto semiotico non
solo della comunicazione, ma in primo luogo del contatto tra gli individui. Ovviamen-
te, tale contatto sopporta una serie di mediazioni, di cui alcune, come quelle linguisti-
co-semiotiche, appartengono alla natura dell’uomo, e dunque rappresentano un fatto-
re “ereditario”, nonostante sia difficile pensare ad esse in tale luce. Se la coerenza del-
l’interscambio linguistico è affine alla cultura nel suo essere un aspetto non mutuabile
per via genetica, le risorse che direi “materiali” – pensiamo a quelle fonologiche, ad
esempio – attraverso cui avviene tale interscambio sono ereditarie nel senso che solo in
parte esse si costituiscono per imitazione.
Altre dinamiche di intermediazione tra l’uomo e il mondo, come ad esempio quel-
le messe a disposizione dalla tecnologia, contribuiscono a rendere le due dimensioni,
l’umana (soggettiva) e la reale (oggettiva) – per quanto questa contrapposizione abbia
dell’ipotetico – funzionali, e dunque, in definitiva, testuali. A tale riguardo, Roger
Fowler (, p. ) suggerisce che:
[H]uman beings do not engage directly with the objective world, but relate to it by
means of systems of classification which simplify objective phenomena, and make them
manageable, economical subjects for thought and action. In a sense, human beings cre-
ate the world twice over, first transforming it through technology, and then reinterpret-
ing it by projecting classifications on to it. Because classification appears to be natural,
members of a community regard their assumptions and types as “common sense”. It
would be more accurate to call these attitudes “world-view” or “theory” or “hypothesis”
or “ideology”.
(Gli esseri umani non incontrano direttamente il mondo oggettivo, ma si relazionano ad
esso attraverso sistemi di classificazione che semplificano i fenomeni oggettivi e li tra-
sformano in soggetti per il pensiero e l’azione, maneggevoli ed economici. In un certo
senso, gli esseri umani creano il mondo una seconda volta, prima trasformandolo attra-
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ENRICO TERRINONI
intenzioni dei suoi manipolatori attraverso la ricezione, proprio quei fattori culturali
che più su si è tentato di descrivere alla stregua di una cornice, uno sfondo, su cui
proiettare le dinamiche naturali, regolate e mediate dall’uso delle risorse del linguaggio.
Leggere la cultura come entità testuale dialogante, e non solo in quanto contesto, aiuta
a comprendere come ogni tipo di contatto tra individui che fanno uso delle risorse del
linguaggio per relazionarsi gli uni agli altri sia per sua natura eminentemente interte-
stuale. Comunicare equivale, in un certo senso, a rimandare un interlocutore a narra-
zioni altre, parallele, nascoste, o futuribili. Potremmo dire, senza troppa approssima-
zione, che ogni tipo di contatto tra parlanti è a suo modo un tentativo di rievocare altri
discorsi, ponendoli in comunicazione attraverso le relative reinterpretazioni e riscrittu-
re che subiscono sia nella loro mente sia negli atti locutori prodotti.
Comunicare, in definitiva, significa citare, e la narrazione dell’umanità è in sé una
gigantesca citazione. In tal modo, la cultura da contesto diviene co-testo, e ciò per via
della sua necessaria e naturale attitudine ad essere rappresentata. Potremmo aggiunge-
re, la cultura interagisce con le dinamiche della rappresentazione, e in qualche modo ne
riformula e rimodella i percorsi. Un enunciato, o anche solo un significante, può assu-
mere valori diversi, addirittura contrapposti, a seconda della cultura in cui esso si inscri-
ve, ma anche per via della cultura che lo riscrive. Appare chiaro, dunque, come la cultu-
ra intesa quale fattore dialogante che informa sempre inevitabilmente la significazione si
presti ad esser letta come parallela alla lingua. Entrambe condividono un’essenza per
così dire naturale, ma necessitano, perché diventino visibili e tangibili, di una realizza-
zione di tipo testuale. Lungi dal voler porre in relazione di equivalenza cultura e lingua,
immagino sarebbe opportuno e fruttuoso comprendere come esse non siano se non
astrazioni, finché non subiscono una rielaborazione, per così dire, dialogante, che le
renda “utili” e fruibili. Da quest’ultima affermazione si evince come porre l’accento sulla
materializzazione di entità astratte affinché le si possa “utilizzare” a fini comunicativi,
rende possibile l’ipotesi di un passaggio dalla potenza all’atto come ultima, ineluttabile
condizione attraverso cui poter riconoscere l’umanità e la “praticabilità” di concetti
come lingua e cultura.
In un testo recente in cui David Crystal si propone di divulgare al grande pubbli-
co una visione non troppo distante dalla presente, leggiamo un aneddoto interessante
che aiuta a comprendere la natura sempre provvisoria della lingua, ma anche l’intima
e persistente transitorietà del suo scopo, ovvero rappresentare una cultura. Crystal
racconta di un artista che ha occupato una vita intera a dipingere una natura morta in
innumerevoli versioni al fine di rinvenire quella giusta. Dall’altra parte vi è un secon-
do artista, il quale dipinge continuamente la stessa scena secondo varie angolature,
con l’intento di ottenerne ogni volta nuove rivelazioni. In entrambi i casi si tratterà di
un processo infinito, con la speranza che sia sempre il prossimo dipinto a realizzare
l’intenzione tanto agognata (Crystal, , p. XII). Nel commentare la storiella, lo stu-
dioso suggerisce come vi siano affinità tra una tale situazione di continua e perenne
ricerca di perfezione e lo studio della lingua. In un certo senso, l’aneddoto ci riporta
al precedente concetto di comunicazione come citazione, e al mondo come rappre-
sentazione.
Verrebbe da chiedersi perché i due artisti di cui s’è parlato si affannino a cerca-
re ciò che non arriva mai. Perché anelare a qualcosa che per esperienza pregressa si
sa esser localizzato in un futuro forse irrealizzabile? Tutto ciò ricorda molto la situa-
zione di quegli etilisti sempre convinti che il prossimo bicchiere sarà il penultimo. A
ben guardare, la provvisorietà della lingua intesa come “lingua in atto” sta proprio
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ENRICO TERRINONI
Note
. Traduzione mia, come per tutte le versioni che seguono salvo altra indicazione.
. «A fast and dangerous ride in a stolen vehicle» (The New Oxford Dictionary, Oxford Univer-
sity Press, Oxford , p. ) («Un giro veloce e pericoloso in un veicolo rubato»).
. Ibid.
. Per coerenza si intenda qui il modo in cui i concetti e le relazioni che sottendono al mondo
testuale sono «vicendevolmente accessibili e rilevanti» (de Beaugrande, Dressler, , p. ).
. Si consideri che ciò varrebbe anche per il rapporto testo-lettore.
Bibliografia
IL CANONE MANGANELLIANO
di Fabio Luppi
A me piacciono questi posti che non sono centrali. Mi piacciono i posti periferici. Si
possono chiamare i posti dove la storia non passa e che quindi sono posti dove si depo-
sitano degli strani, non saprei se sedimenti o escrementi, che hanno una certa loro qua-
lità profetica.
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FABIO LUPPI
Mi piace molto la periferia. Io sono convinto che il vero centro sia periferico e che il
centro ufficiale è una gibigiana giornalistica.
Questo discorso viene affrontato in relazione ai viaggi e quindi alle mete predilette, tutti
i posti periferici che ha visitato e di cui ci ha dato testimonianza con le sue cronache di
viaggio. Ma allo stesso tempo il ragionamento è esportabile ad altri ambiti, e proprio in
relazione alla letteratura il paradosso sopraccitato si applica alla perfezione:
Finisce che la letteratura viene trattata come centrale, come una rivelazione, come una
cosa seria, e allora avviene un errore fatale. La letteratura trattata come centrale diven-
ta molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La letteratura è centrale solo
quando si capisce che è periferica. Allora va bene.
[…] this book is terribly important – if you believe that literature itself is important,
quite noble – if you believe that “nobility” is still a viable concept in intellectual life.
Possiamo solo immaginare quali divertenti paradossi Manganelli avrebbe posto a chio-
sa di una tale affermazione. Tanto più che, aggiunge in più occasioni Manganelli, se la
letteratura deve essere in principio vista come periferia, così all’interno di questa peri-
feria egli predilige e cerca ciò che vi sia di più periferico. Quello che chiameremmo
canone manganelliano è agli antipodi rispetto al canone occidentale di Bloom, perife-
ria contro centro. E il canone manganelliano potrebbe essere, almeno in parte, rappre-
sentato dagli autori di cui ci parla nei saggi compresi nel suo volume di critica più famo-
so, La letteratura come menzogna (Manganelli, ). Gli articoli qui raccolti, senza
curarsi di distinguere tra autori canonici o periferici, maggiori o minori, presentano
sotto una stessa bandiera Frederick Rolfe ed E. T. A. Hoffmann, W. B. Yeats e Walter
Scott, R. L. Stevenson e Ronald Firbank. In questo caso la scelta di Manganelli non è
troppo lontana da quel gusto che fece coniare ad Edmund Wilson il termine prazzesco
per descrivere un certa predilezione che sembrava mostrare il Praz quando scovava
eccentrici personaggi delle storie artistiche e letterarie.
In ogni modo l’operazione svolta da Giorgio Manganelli appare particolarmente
significativa se la si considera inserita nel contesto in cui è nata, gli anni Sessanta; si
potrebbe dire che essa assuma una valenza politica.
In quel momento mi premeva (come mi preme sempre) porre la letteratura in una posi-
zione anti-umanistica. Noi siamo stati per molti anni, direi per una generazione, perse-
guitati da una lettura umanistica della letteratura, che era fondamentalmente una lette-
ratura affettiva, patetica, pedagogica e didascalica.
IL CANONE MANGANELLIANO
Il concetto di impegno non è mai stato di stretta pertinenza letteraria. Introduce sur-
rettiziamente categorie morali, delle quali uno scrittore non può tenere conto.
Proprio il rischio che la letteratura fosse vista come qualcosa di centrale, grave ed
importante, questo caricarla di responsabilità morali è la sfida contro la quale si arma
lo spirito manganelliano della letteratura come menzogna, raccogliendo «una serie di
saggi dedicati a scrittori certo non allineati allo spirito del tempo, scrittori particolar-
mente sospetti di disimpegno, considerati minori, se non addirittura irrilevanti».
Così Manganelli propugna questa idea di letteratura come menzogna, ovvero pra-
tica amorale e non immorale come vorrebbe alla fine farci credere giocando con i suoi
infiniti paradossi ed esagerando fino a stravolgere i propri orientamenti letterari. Prati-
ca disonesta perché non segue ideologie o leggi particolari, e se lo fa, non è che una
scelta di comodo, mai un patto indissolubile o un vincolo. Ecco, per la letteratura vale
davvero il karamazoviano «tutto è permesso»:
[…] la letteratura può essere o coerente a se stessa, cioè intimamente disonesta, od esse-
re la cosa che noi sappiamo, cioè una varia forma di giornalismo o di sermone, e basta,
non ci sono alternative. Quindi non c’è nessun progresso, non ci sono gradi intermedi
tra il metodista e la cortigiana. La letteratura è libertaria, è anarcoide, neanche anarchi-
ca, perché se fosse anarchica vorrebbe dire che c’è una ideologia della disubbidienza.
No, no, è proprio losca, è proprio meschina. Infatti i poeti si vendono. È questa una
cosa che ha sempre turbato i metodisti, vedere che i poeti si vendono. Proprio questa
condizione anarcoide è la piaga e il privilegio della condizione letteraria.
Ma è bene non radicalizzare, non possiamo certo pensare che lo studio di Manganelli
si sia concentrato esclusivamente sui minori, per quanto nelle sue osservazioni estre-
mizzi questo suo modo di vedere. Del resto, scrittori meno conosciuti, o quantomeno
non antologizzabili nelle storie della letteratura come Baron Corvo o Ronald Firbank o
Abbott, sono accostati da Manganelli ai nomi di Defoe, Dickens e Yeats, certo autori
fra i maggiori della letteratura inglese. Eppure anche nell’accostarsi a Milton, per il
quale il nostro nutriva una certa predilezione o a Yeats sul quale ritorna più e più volte
in diversi anni, la ricerca consiste nell’escogitare il modo di estrarre lo scrittore dal
canone, indagare come poterlo redimere dalla macchia che lo ha fatto finire in una sto-
ria letteraria, o che gli ha dato così gran lustro presso la critica, riscattare il suo buon
nome di scrittore disonesto, e per questo apprezzabile.
Mi viene naturale cercare un modo per trasformare i maggiori in minori. E quindi ria-
doperarli; cioè, impedire al maggiore di coagularsi definitivamente il monumento, nel-
l’opus, nell’impiccio e l’impaccio di un itinerario letterario.
Il discorso di centro e periferia si ripropone così anche per i singoli autori, una sorta di
gioco del critico letterario che ricerca nei grandi scrittori quelle eccentricità che possa-
no deviarli verso l’inconsueto, verso le nicchie nascoste o utilizzando un termine caro a
Manganelli, verso gli angiporti della letteratura:
Cerco di trasformare i maggiori in minori. Vediamo quello che c’è di periferico nel
cosiddetto maggiore. […] Però vediamo se invece non c’è qualche cosa di intrinseca-
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FABIO LUPPI
Ma questo gusto del paradosso e dell’estremizzazione non vuol dire che sia seguito
esclusivamente un criterio di rottura o anticonformismo a tutti i costi. Può essere una
tensione, ma le motivazioni profonde di una scelta sono diverse. Innanzitutto, è sempre
bene ricordare che Manganelli non è certo un dilettante della letteratura, anche se alle
volte si compiace di sminuire la sua competenza. L’idea di essere attratto dalle zone peri-
feriche piuttosto che da quelle centrali non è la causa del suo scegliere, ma la descrizio-
ne di un modo di porsi di fronte alla letteratura. Si potrebbe dire che è quindi l’effetto
prodotto dalla sua idea sulla letteratura. È, in altri termini, un’osservazione di ciò che
pare naturale all’indole e alle predilezioni di Manganelli lettore e critico letterario.
Osservando quello che più gli è gradito, trova come minimo comune denominatore que-
sta caratteristica di marginalità, e l’attrazione per gli aspetti che rendono marginale
anche un maggiore. Ma la scelta di uno scrittore avviene in un’altra maniera, è innanzi-
tutto un’affinità elettiva.
Nel venne affidata a Manganelli insieme a Dante Isella la curatela di una nuova
collana di classici della Fondazione Bembo per la casa editrice Guanda. Ci si chiederà
come conciliare questo progetto con l’idea che si è data di un Manganelli che rifuggiva
dagli autori maggiori. Ma a ben guardare in primo luogo egli non disdegnava affatto i
classici, semmai, come ricordato, ricercava ciò che accomunasse un classico ad un
minore. E in secondo luogo, per chiarire cosa intendesse per “scelta di classici”, si
vedranno le successive citazioni a proposito del tipo di recupero da mettere in pratica
attraverso queste nuove pubblicazioni. Una recensione a questa iniziativa editoriale sul
“Corriere della Sera” titolava, significativamente, I classici con divertimento e il recen-
sore annotava:
Nella presentazione di un’opera che s’immagina paludata la parola più ricorrente è stata
[…] “piacere”, ma un piacere come si prova andando al cinema o a teatro.
Si parlava di affinità elettive. Manganelli esprime il suo amore per la letteratura, cosa
che vuole trasmettere e sottolineare: l’idea di una letteratura come divertimento,
troppe volte censurata o rimossa da un certo tipo di critica, la stessa critica, proba-
bilmente che si cura di stilare canoni di maggiori e minori, la classifica dei migliori,
di chi ha un posto permanente nelle storie letterarie e chi invece a rotazione, secon-
do corsi e ricorsi o più semplicemente con il variare delle mode, avrà una qualche
influenza marginale e temporanea sulla letteratura a venire. Ecco dunque che l’idea
di “classico” si espande a dismisura, il critico si fa archeologo e scava nel passato
della tradizione letteraria italiana, riscopre oltre ai classici ormai monumentalizzati,
quelli più nascosti, perché
IL CANONE MANGANELLIANO
inglese che venivano sottoposti alla sua attenzione. In queste occasioni l’analisi del
testo si accompagna sempre con qualche nota un poco più personale; troviamo, oltre
alla consueta lucidità di visione, un aspetto più intimo che avvicina o allontana Manga-
nelli dal proprio oggetto di studio. Si consideri comunque che in queste brevi note
Manganelli poteva permettersi un tale atteggiamento, proprio perché non erano desti-
nate alla pubblicazione, non dovevano cioè avere quel carattere scientifico proprio
delle pubblicazioni ufficiali. Sembra evidente che Manganelli di fronte al testo è allo
stesso tempo critico e scrittore in proprio e conseguentemente la sua obiettività acca-
demica si mescola con le sue propensioni stilistiche e letterarie. Da questa doppia pro-
spettiva nascono queste schede. Significativo esempio, la nota relativa a The Dalkey
Archive di Flann O’Brian:
È una assai curiosa e amabile grulleria che […] serve a corroborare quanti hanno una
qualche indulgenza per le invenzioni di una dilettosa follia. […] Non dirò che sia tutta
follia da Re Lear, ma ha una qualità plebea e svagata, una sciatteria casalinga (non è l’a-
stratta demenza dell’umorismo britannico), un disordine da affettuoso ubriacone, che
non mi dispiace. Il racconto non sta molto in piedi, come si addice ad una camminata
di persona ebbra ma senza furore: ma anche questo suo barcollare da un’idea a una tro-
vata, come se fossero fraterni lampioni, ha una sua indecorosa grazia. Confesso una
certa parzialità per libri cosiffatti.
Il piacere che ricaviamo dalla lettura di questa breve noterella è già indizio della sinto-
nia che si era instaurata tra il recensore e il libro recensito. Si potrebbe addirittura
sostenere che per Manganelli, nell’atto della lettura, rilettura e studio, l’affinità con
l’autore, anzi più propriamente con il testo, assuma un carattere passionale:
Perché una pagina di uno scrittore mi disturba, mi coinvolge, mi adesca, direi, altre,
invece, mi lasciano in una virtuosa autocoscienza per cui non mi accade nulla? Non
so perché succede questo, ma succede. De Quincey, per esempio, che non è il più
grosso autore della letteratura inglese, ha un fascino su di me come lo ha Milton. C’è
una consanguineità mentale, qualcosa che mi disturba e in modo così profondo che
desidero continuare ad essere disturbato. Dostoevskij mi irretisce in forza del males-
sere che mi comunica e di questo malessere sono costretto ad accettare la qualità
innamorativa.
E questa apparente perdita di distanza dall’oggetto di studio apparirà ancora più evi-
dente se si pensa al titolo di una delle sue recensioni: Odio e amore per T. S. Eliot (Man-
ganelli, a, vol. II, pp. -). Infatti, non dovrebbe un critico sempre prescindere dai
propri orientamenti e gusti personali? Come si può quindi parlare di «amore e odio»?
Ma questi ragionamenti potrebbero indurre a credere che si voglia sminuire la capacità
critica o l’obiettività di vedute di Manganelli. Accanto a T. S. Eliot, F. R. Leavis, L. Mac-
Neice, Manganelli è scrittore-critico, la sua grandezza sta, parafrasando il saggio su
Eliot, in quella “faziosità” che rimprovera proprio all’autore dei Four Quartets e nel
saper essere fazioso ma non angusto, «saper scegliere quel genere di angustia che con-
senta la più profonda proiezione prospettica».
FABIO LUPPI
Insegna che la letteratura è un grande gioco, che non ha però regole molto precise.
[…] Insegna che la letteratura è divertente. Che occuparsi di letteratura è roba da
gente spiritosa. Che non è necessario essere tediosi cattedratici […] e per l’aspetto
umorale, evviva! Finalmente ci si prende con la letteratura una libertà che per mezzo
secolo era stata negata. Forse – mi auguro – è finita la fase della fruizione esclusiva-
mente accademica della materia e, quindi, anche un giocoliere come il nostro Dosse-
na è il benvenuto.
Manganelli ci redarguisce dal perdere la capacità di provare gusto nella lettura e nello
studio. È interessante notare l’atteggiamento che tiene proprio nei confronti della cri-
tica letteraria. La letteratura è divertimento; lo studio della letteratura e perfino la
pedanteria non sono lavoro da miniera, che si affrontano con rassegnazione e soppor-
tazione. Per questo, recensendo una collettanea di poesie di Jonathan Swift curata dal-
l’allora giovane anglista, Attilio Brilli, fa notare come
Avere un senso fisico della lingua è non solo una necessità dello scrittore, ma anche del
critico. Una delle cose più sgradevoli nella maggior parte della critica di oggi è la man-
canza di sensualità intellettuale.
Al letterato spettano in primo luogo obblighi di stile: odio e disprezzo, sentimenti del
tutto naturali in una sana intelligenza letteraria, vogliono buone letture e periodi impec-
cabili.
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IL CANONE MANGANELLIANO
Bisogna chiarire di cosa si parla quando parliamo di critica; qual è il vero oggetto della
critica letteraria. Anche qui Manganelli indulge in paradossi, e dobbiamo estrapolare
dall’esagerazione il punto chiave del discorso. Proprio dalle idee fin qui esplicitate – il
minore che viene preferito al maggiore, la repulsione per una letteratura impegnata, le
affinità elettive con certi autori o inclinazioni personali per un determinato gusto (e a
maggior ragione per Manganelli che oltre ad essere critico, o forse andrebbe detto
prima di essere critico, è scrittore in proprio) – si sviluppa il concetto base della lette-
ratura come menzogna. Appare chiaro che l’interesse di Manganelli non è mai per un
soggetto, un tema o un’idea, ma per la sua trasposizione, per il mezzo che la racconta,
la parola, la struttura e la forma.
Detesto le idee. Ecco perché mi piace il Barocco. Non ha idee ma parole, chiacchiere.
Io ho molto rispetto per la chiacchiera che ritengo una delle forme più limpide… l’han-
no praticata grandi scrittori e il caso più illuminante è quello di Petrarca. Attraverso la
pura verbalità la sua lacerazione diventa gioia…
Sono interessato soprattutto all’atteggiamento di spirito dei barocchi. Per loro, tutto è
un affare di tecnica: la scrittura non è una questione di sentimento ma di chiasmi e di
tmesi. Amo molto questo modo di opporre una struttura fredda alla brutalità dell’emo-
zione.
E infine, repetita iuvant, egli continua a sottolineare questa qualità fondamentale della
letteratura, qualità che si era già compresa dal Cinquecento non solo nella pratica poe-
tica ma evidentemente anche a livello teorico, come si vede dalla maniera in cui Bembo,
a detta di Manganelli, parla del Petrarca:
Bembo, il cui testo data al , su Petrarca, non dice mai, come sarebbe impossibile
non dire oggi, che Petrarca è il poeta dell’amore; non parla che di ritmi, di accenti, di
figure, poiché l’amore per Petrarca è anzitutto una figura, un atto retorico; come la
disperazione di Leopardi è un altro problema retorico, non una piccola sofferenza per-
sonale.
L’idea di una struttura come base portante di uno stile letterario e quella di vedere fin
anche un tema semplicemente come funzione della realizzazione della poesia diviene
un elemento essenziale per Manganelli nella determinazione del suo personale canone
letterario.
I temi proposti dai singoli autori sembrano diventare secondari ed aver valore
quanto una metafora o un’analogia, assumono importanza in quanto figura, atto reto-
rico funzionale allo sviluppo dell’opera letteraria. Che si teorizzi sul concetto dell’amo-
re, si parli di politica o di esoterismo, nulla ha veramente importanza, in quanto tutto
è lecito quando il fine è quello di costruire una struttura necessaria allo sviluppo della
poesia.
FABIO LUPPI
La prova evidente della validità di questa tesi si palesa già con l’Adone di Gian Battista
Marino:
La verità letteraria non ha nulla a che vedere con la verità del mondo reale. Questa ulti-
ma citazione può ben dirsi una trasposizione letterale delle parole di Yeats nell’intro-
duzione ad A Vision nell’edizione del . L’affinità di vedute con la teoria manganel-
liana pare completa:
Qualcuno si chiederà se io creda all’effettiva esistenza dei miei circuiti solari e lunari…
A tale domanda io posso rispondere soltanto che, se, talvolta sopraffatto dal miracolo
come lo sono tutti coloro che vi vivono in mezzo, ho preso questi periodi alla lettera, la
mia ragione ha ben presto preso il sopravento; ed ora che il sistema si presenta chiara-
mente alla mia immaginazione, io li considero come disposizioni stilistiche dell’espe-
rienza, paragonabili ai cubi nei disegni di Wyndham Lewis e agli ovoidi nella scultura
di Brancusi.
Quest’affermazione dello Yeats maturo, con l’esemplificazione concreta dei due esem-
pi tratti dalle arti figurative, è estremamente significativa. Stupisce anzi che Manganelli
non abbia mai preso a prestito queste parole come dimostrazione delle sue tesi. Eppu-
re proprio Yeats era stato un costante oggetto di studio da parte del nostro. Final-
mente uno scrittore – e per di più uno dei maggiori, uno che nelle storie letterarie
occupa uno spazio considerevole – sulla scorta dell’idea blakiana secondo cui «esiste
un luogo oltre le tombe, ove i contrari sono ugualmente veri», dà dimostrazione delle
tesi di Manganelli senza che vi sia bisogno di chiosa o esegesi. Yeats descrive le teorie
esposte nelle sue opere come semplici strutture del gioco retorico letterario, dove non
conta cosa si dice, ma come, dove la parola è centro di un discorso che esiste in primo
luogo per se stessa. È il caso della letteratura come menzogna consapevole della sua
vera natura:
Ma tutta la letteratura ha avuto, a vari livelli, la coscienza della propria qualità mistifi-
catoria, della propria qualità di inganno, di frode, di allucinazione, di visione, e quindi
della sua origine intrinsecamente “notturna”, della sua collocazione periferica.
Note
IL CANONE MANGANELLIANO
Bibliografia
Altri testi
BLOOM H. (), The Western Canon, Riverhead Books, New York.
DOSSENA G. (), Storia confidenziale della letteratura italiana, Rizzoli, Milano.
MELCHIORI G. (), Yeats, simbolismo e magia, in Id., Verso i funamboli. Le collaborazioni a “Lo
Spettatore Italiano” - (http://www.e-bookfree.com/libriPdf/CL.pdf).
PRAZ M. (), Il patto col serpente, Mondadori, Milano.
ZINGARELLI N. (), Lo Zingarelli . Vocabolario della lingua italiana, a cura di M. Dogliotti,
L. Rosiello, a ed., Zanichelli, Bologna.
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FRANCESISTICA
Francesca Milaneschi
Federica Sforazzini
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INCROCIO DI CAROVANE.
IL VIAGGIO DI USBEK DA ISFAHAN A SMIRNE
di Letizia Norci Cagiano
Forse che l’erba non si è disseccata, dal momento che questo popolo,
svuotato di ogni ricchezza dello spirito, si è attaccato alla lettera, che
è arida e senza vita?
San Bernardo di Chiaravalle, Lodi alla Vergine, I omelia,
Itinerari
ne, in cui Montesquieu cerca di essere il più possibile fedele alla realtà così come pote-
va apparire attraverso le testimonianze dei contemporanei.
Se consideriamo dunque gli accenni a Qom nella prima lettera persiana (il roman-
zo comincia proprio con l’arrivo in questa città) troviamo l’eco delle descrizioni di
Chardin, mentre i tempi di percorrenza tra le diverse tappe sono ripresi ora da Taver-
nier ora da Chardin. La carovana dei persiani immaginari impiega venticinque giorni
da Qom a Tabriz (oggi capoluogo dell’Azerbaigian orientale), dieci giorni per raggiun-
gere Erevan (che faceva ancora parte della Persia) e dodici per Erzurum, ormai in ter-
ritorio di dominazione turca.
Sempre restando nell’ambito delle prime lettere da Erzurum, si può notare come i
riferimenti ai costumi delle donne persiane e alla vita del serraglio, fedelmente ripre-
si da Chardin, si rivestano di valenze che esulano dalla pura descrizione o anche
dalla maniera. Niente appare più accattivante delle missive delle mogli di Usbek, che
lasciano trapelare indiscrezioni sul luogo misterioso in cui vivono rinchiuse, rivelan-
do allo stesso tempo i segreti dei loro diversi caratteri: l’erotismo sensibile di Zachi,
quello appassionato di Fathmé, l’umore capriccioso di Zéphis si manifestano attra-
verso le rievocazioni e il rimpianto della presenza di Usbek. L’unica a non scrivere è
Roxane, la nuova moglie, che entrerà in scena solo nella lettera XX (una delle ultime
scritte da Usbek prima di lasciare le coste dell’Asia Minore), ricordata dal suo signo-
re come colei che ha sulle altre «l’avantage que […] la vertu peut ajouter à la
beauté». Nelle descrizioni del serraglio Montesquieu va incontro a un gusto per il
mondo esotico e per i racconti libertini di gran moda all’inizio del Settecento: ne è
prova il successo strabiliante che ebbe la prima traduzione francese delle Mille e una
notte ad opera di Antoine Galland a partire dal ; né bisogna dimenticare l’ope-
retta galante, Le temple de Cnide, che lo stesso Montesquieu scrisse subito dopo le
Lettres persanes, nel -. Tuttavia la corrispondenza con Isfahan non lascia spa-
zio al compiacimento: il rovescio inquietante della vita nell’harem si manifesta fin
dalla seconda lettera inviata da Usbek al suo primo eunuco negro. «Tu es le fléau du
vice et la colonne de la fidélité», dice il padrone nella tragica consapevolezza che la
virtù e la fedeltà delle sue mogli non sono garantite dall’amore, ma dall’instancabile
vigilanza di uno schiavo evirato, simbolo dell’antinatura. Di questa forzatura delle
leggi naturali e di tutta l’amarezza che ne deriva, padrone e schiavo sono profonda-
mente consapevoli. Usbek riconosce di non amare in realtà le mogli, ma di essere
divorato da una gelosia segreta (lettera VI), mentre il primo eunuco fa una spietata
analisi della sua condizione di uomo castrato nel corpo ma non degli istinti e costret-
to a violare la natura nei suoi stessi riguardi prima ancora che nei confronti delle sue
vittime (lettera IX).
A queste e ad altre constatazioni si può collegare la domanda rivolta ad Usbek da
un amico rimasto in Persia, Mirza: gli uomini possono raggiungere la felicità grazie ai
piaceri e alla soddisfazione dei sensi, o non piuttosto con la pratica della virtù? Attra-
verso la voce di Usbek Montesquieu introduce un dilemma che gli sta molto a cuore –
che già aveva trattato e discusso in seno all’Académie de Bordeaux –, destinato ad esse-
re approfondito dai filosofi illuministi nel corso del Settecento.
Usbek risponde con un apologo, il primo e il più lungo dei tre (tutti di ambienta-
zione orientale) intercalati nelle Lettres persanes. Si tratta della storia dei trogloditi (let-
tere XI-XIV), popolo vissuto in epoche e luoghi remoti, che riscopre progressivamente i
benefici della virtù, apportatrice di pace, di ricchezza, di felicità. Questa riscoperta
coincide con un comportamento secondo natura perché la virtù è insita nell’uomo,
antecedente a qualsiasi organizzazione sociale, politica o religiosa; tutto sta assecon-
darla e coltivarla. L’impresa però non è facile e anche i buoni trogloditi, che si erano
abituati a vivere in pace senza alcun’altra costrizione che quelle dettate dalla loro sag-
gezza, stabiliscono di eleggere un re che li governi. Il vecchio saggio che viene prescel-
to vede tutto il pericolo di questa decisione:
Je vois bien ce que c’est, ô Troglodytes! Votre vertu commence à vous peser. Dans l’état
où vous êtes, n’ayant point de chef, il faut que vous soyez vertueux malgré vous. […]
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Mais ce joug vous paraît trop dur; vous aimez mieux être soumis à un prince et obéir à
ses lois, moins rigides que vos mœurs. […] Ô Troglodytes! je suis à la fin de mes jours;
mon sang est glacé dans mes veines; je vais bientôt revoir vos sacrés aïeux. Pourquoi
voulez-vous que je les afflige, et que je sois obligé de leur dire que je vous ai laissés sous
un autre joug que celui de la Vertu? (lettera XIV).
L’idea di una fondamentale tendenza alla virtù nella natura umana – che contrasta con
le teorie di Hobbes – e il principio che le leggi non sono un bene assoluto, ma un
mezzo necessario contingente, sono spunti su cui si svilupperà la riflessione di Monte-
squieu, anche nelle opere future.
Tuttavia le teorie espresse da Usbek nell’apologo dei Trogloditi contrastano col suo
comportamento: le sue imposizioni fanno sì che la virtù delle mogli non sia frutto di
libera scelta, ma di costrizioni (quindi non più virtù): «Comment auriez-vous pu briser
ces verrous et ces portes qui vous tiennent enfermée», scrive a Zachi che vanta la sua
fedeltà, «Vous vous vantez d’une vertu qui n’est pas libre» (lettera XX). In generale egli
cerca di controllare a distanza le sue donne e i suoi eunuchi col timore, rivolgendosi a
loro con toni da padrone a schiavi privati di ogni volontà e libertà (lettere XXI-XXII).
Tale comportamento provoca un inasprimento delle passioni ed arreca danni irrepara-
bili, come avverrà nel serraglio di Isfahan.
Ecco dunque che l’incontro con Chardin e con Tavernier sulla carovaniera ha spalan-
cato molteplici prospettive che Montesquieu segue ed approfondisce nel corso del
romanzo, per poi raccoglierne i fili nel tragico finale: tra queste prospettive la visione
di un mondo che sollecita fantasie erotiche, ma induce anche a riflettere con maggiore
libertà su problemi più vasti, che riguardano l’uomo nella sua dimensione universale.
Da questo punto di vista l’Oriente – quello dei viaggiatori e quello della fantasia – ser-
virà a dar vita e corpo anche all’Occidente descritto dai persiani a partire dal loro sbar-
co a Livorno, nell’aprile del .
Nel corso delle Lettres persanes la Francia della fine del regno di Luigi XIV e dell’i-
nizio della Reggenza viene anatomizzata nei suoi aspetti più significativi; tuttavia, come
osserva Jean Starobinski, la realtà occidentale vi può anche apparire come astratta, resa
distante dallo sguardo estraneo dei persiani:
En France les Persans ne s’engagent pas, ne se lient à rien. […] Ainsi le lecteur français
est-il invité à prendre ses distances pour examiner, du point de vue de l’étranger, les
usages de son propre pays, tandis qu’il est admis, en revanche, dans l’intimité des âmes
et des corps de la Perse lointaine: le lecteur est entraîné dans un jeu qui l’éloigne de son
milieu actuel, et qui le rend indiscrètement présent à un monde absent (Montesquieu,
, pp. -).
J’ai souvent recherché quel était le gouvernement le plus conforme à la raison. Il m’a
semblé que le plus parfait est celui qui va à son but à moins de frais; de sorte que celui
qui conduit les hommes de la manière qui convient le plus à leur penchant et à leur
inclination est le plus parfait.
In questa lettera il racconto di Galland sul governo della Turchia dà spunto ad una
riflessione che supera il fatto storico per allargarsi ad una dimensione universale. Nello
stesso modo la lettera seguente (lettera LXXXI), dedicata alle conquiste dei tartari, avan-
za alcune considerazioni generali ispirandosi a un altro viaggiatore, François Pétis de la
Croix, che percorse il Medio Oriente da Costantinopoli ad Isfahan negli anni -;
autore, sulla scia di Galland, di una libera traduzione di racconti persiani destinata al
successo, Les mille et un jours (-), ma anche di una Histoire du Grand Gen-
ghizkhan (Jombert, Paris ) costruita su fonti originali arabe.
Avanzando con la lettura delle Lettres persanes ci si accorge che la carovaniera percor-
sa da Usbek e Rica si popola progressivamente di miriadi di personaggi al seguito gli
uni degli altri: Pétis de la Croix, ad esempio, ma anche gli storici e geografi orientali a
cui si è ispirato, da Abu’l-Khayr ad Abulfeda, al-Marrakushi, Abu’l-Farag con tutte le
loro fonti. I grandi caravanserragli di fango che ancora oggi, semidistrutti, appaiono nel
deserto, lungo l’itinerario di Usbek e Rica, o quelli dalle splendide architetture che si
conservano nei suk delle città orientali, si manifestano come luoghi d’incontro fecondi,
ma così affollati che l’incontro diventa un groviglio che gli esegeti delle Lettres persanes
non hanno ancora finito di sbrogliare. Anche perché quei caravanserragli, sotto muta-
te spoglie, hanno i loro prolungamenti a Parigi, a Roma, a Napoli, a Venezia e in tutti
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gli altri luoghi d’Europa dove fermentano quegli interessi che si configureranno più
tardi in una vera e propria scienza dell’Oriente. Analogamente il mondo orientale era
aperto ai viaggiatori e alla cultura occidentale con esiti stupefacenti: pensiamo all’in-
flusso di artisti europei, e soprattutto italiani, in monumenti celeberrimi, dalle grandi
moschee di Costantinopoli al Taj Mahal, o anche al ruolo di quegli architetti armeni
che facendo la spola fra Isfahan, Genova e Venezia, trasmisero da un paese all’altro
forme e motivi decorativi che hanno trovato realizzazioni diverse, ma caratterizzate da
una matrice comune, come diversi bocci da uno stesso stelo.
Se torniamo a quel Pétis de la Croix che aveva suscitato l’entusiasmo di Monte-
squieu per la storia dei tartari, troviamo tra le sue fonti anche il Jardin du plaisir dello
storico persiano Mircondo, il cui manoscritto era stato affidato da Herbelot, grande
studioso del mondo orientale, alla Bibliothèque du Roi. Con tutte le precauzioni del
caso, il settore orientalistico della Bibliothèque, con i prolungamenti che aveva al
Collège de France e all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, potrebbe essere
considerato come uno splendido caravanserraglio, trasportato per incanto a Parigi e
rivestito di tutti gli attributi occidentali. Incanto voluto da Colbert in favore della sua
politica coloniale che aveva incoraggiato, fra l’altro, la formazione di giovani esperti
nelle lingue e nelle culture orientali, ricercatori e traduttori di manoscritti preziosi e
diffusori di quell’interesse per i paesi esotici che, come dimostrano le Lettres persa-
nes, non sarà soltanto una moda, ma la chiave per una nuova interpretazione del-
l’uomo e del mondo che lo circonda. Caravanserraglio si può proprio definire la
Bibliothèque du Roi non solo perché lì s’incontravano idealmente gli studiosi con gli
autori di una ricchissima raccolta di manoscritti orientali, ma anche perché vi con-
fluivano personaggi provenienti da paesi lontani, ricchi di informazioni, pronti alla
discussione e al confronto.
Tra questi è rimasto celebre il cinese Wang che Montesquieu incontra proprio alla
Bibliothèque nel ; attraverso le conversazioni con questo orientale colto e ormai abi-
tuato ai costumi parigini, il signore di La Brède ha modo di notare quanto sia diversa
dalla realtà l’immagine della Francia che, probabilmente ad opera dei missionari gesui-
ti, si era diffusa in Cina:
J’ai ouï dire au sieur Wang qu’étant arrivé nouvellement de la Chine, il avait laissé son
chapeau dans l’église, parce qu’on lui avait dit, à la Chine, que les mœurs étaient si
pures en Europe et qu’il y avait une si grande charité. Qu’o n’y entendait jamais parler
de vols ni d’exécutions de justice, et qu’il fut fort étonné d’entendre qu’on allait pendre
un assassin (Montesquieu, -, Spicilège, vol. II, p. ).
Non solo dunque sulle carovaniere polverose dell’Asia descritte dai viaggiatori, non
solo nella biblioteca di La Brède dove vanno accumulandosi le opere sull’Oriente, ma
anche nel cuore di Parigi Montesquieu può immergersi in quel mondo lontano che si
appresta ad interpretare ed a tradurre in un linguaggio che è il suo, ma non è il suo nella
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misura in cui egli parla attraverso le voci estranee dei persiani, delle loro mogli, dei loro
eunuchi; e quanto più ciò che egli dice gli sta a cuore, tanto più le voci sembrano pro-
venire da lontano.
Nell’economia delle Persanes, l’insieme delle lettere “orientali” costituisce una sto-
ria compiuta (con un inizio, uno sviluppo e una fine) in cui il pensiero dell’autore trova
libero corso: l’Oriente appare come la terra dell’immaginazione, dell’uccello multico-
lore, dove, nel racconto delle mogli di Usbek, può scatenarsi ogni fantasia romanzesca,
ogni evocazione libertina; «dans l’imaginaire érotique», osserva Starobinski, «la Perse
est proche» (Montesquieu, , p. ). Nei suoi vivaci colori, la vicenda della rivolta
del serraglio e della sua tragica e cruenta conclusione si presenta lineare e forse anche
prevedibile fin dall’inizio, ma piena di sorprese per tutte le implicazioni che rimanda-
no a situazioni che coinvolgono anche la sensibilità occidentale. L’Oriente serve mira-
bilmente a spiegare l’Occidente, fornendo immagini e parole molto più ricche di quan-
to non sia disponibile o permesso nel linguaggio occidentale.
Meno lineare si presenta la parte riservata all’Occidente, nella quale spiccano i due
gruppi di lettere dedicate ai costumi (spostate verso l’inizio, quando i due persiani si
meravigliano di tutto quello che vedono) e alla politica (raggruppate verso la fine, quan-
do alla meraviglia subentra la riflessione). Quattro lettere, distribuite simmetricamen-
te, allargano lo sguardo dalla Francia verso altri paesi europei (Venezia, la Russia, l’In-
ghilterra e la Svezia), mentre altre, più pedanti malgrado lo spirito dell’autore, costitui-
scono dei piccoli trattati: uno sulle biblioteche ed uno (oggetto ancora oggi dell’atten-
zione dei demografi) sullo spopolamento dell’Europa. Non mancano infine missive
dedicate ad argomenti scottanti come la filosofia e la religione, affrontati con coraggio,
ma volontariamente diluiti nell’insieme dell’opera.
Tutto il romanzo si svolge secondo una progressione cronologica verosimile
comune alla parte orientale e a quella occidentale: le lettere sono datate in piena cor-
rispondenza con i fatti narrati, siano essi inventati o reali; bisogna però avere l’ac-
corgimento di sostituire i nomi dei mesi persiani, utilizzati nel romanzo, con quelli
del sistema gregoriano. L’ibridazione del calendario lunare persiano con quello sola-
re europeo, praticata con disinvoltura da Montesquieu, ha suscitato le critiche di
alcuni puristi; mi sembra tuttavia che anche questo accorgimento faccia parte di quel-
l’inscindibile simbiosi tra i due mondi che è l’essenza delle Lettres persanes. Abbiamo
già avuto modo di osservare, infatti, che l’Oriente di Montesquieu si riveste di valen-
ze che esulano dalla pura descrizione o dalla maniera: quel mondo non è poi così eso-
tico, dal momento che la lontananza gli permette di perdere consistenza fino a diven-
tare un luogo della mente dove proiettare non solo fantasie romanzesche o libertine,
ma anche i sogni più cari.
Da questo punto di vista l’Oriente di Montesquieu diventa solo colore, apparen-
za o, come la datazione fittizia delle lettere, una cornice esotica dove ambientare una
vicenda intellettuale di dimensione universale; diventa anche espressione dell’Occi-
dente, cui appare indissolubilmente legato dalle comuni contraddizioni e dai mede-
simi interrogativi. Oriente ed Occidente sono dunque due facce di una stessa realtà
che Montesquieu sdoppia e ricongiunge nel corso dell’opera, con la disinvoltura di
un grande romanziere.
L’incrocio dei viaggiatori occidentali con Usbek e Rica sulla carovaniera evolve
dunque in un incontro denso di significati, in un’unione indissolubile e prolifica che dà
vita ad una rappresentazione ibrida, ma efficace dei due mondi, in cui si può leggere
attraverso la descrizione dell’uno, la situazione dell’altro; in cui lo scambio delle pro-
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spettive permette di dar voce a chi non può parlare e azione a chi, pur parlando, non
riesce ad agire. Le mogli di Usbek, per esempio, non possono esprimere le loro opi-
nioni, ma le manifestano per loro i protagonisti di un dibattito che rimbalza da una
parte all’altra delle Persanes.
Partendo dal concetto, già ampiamente enunciato nell’apologo sui trogloditi, che non
dovrebbero essere le leggi o le costrizioni a determinare i comportamenti virtuosi, ma
quella tendenza naturale che è insita nell’uomo, i due persiani si pongono la domanda
se sia opportuno lasciare una certa libertà alle donne. Rica, che ormai ha preso gusto
alla dialettica francese, cerca di esaminare serenamente i pro e i contro della questione
in una lettera (lettera XXXVIII) ricca di argomentazioni che vanno dalla legge naturale
(l’uomo è per natura superiore alla donna?), ai costumi di vari popoli (in Egitto e a
Roma il potere era in mano al gentil sesso), alla questione dell’educazione femminile
(«les forces seraient égales si l’éducation l’était aussi»).
L’atteggiamento di Usbek nei confronti di questo stesso argomento appare più tor-
mentato e incoerente: il problema è affrontato da lontano, dall’osservazione che il divie-
to di bere vino induce i grandi signori islamici a degli eccessi degradanti, mentre i prin-
cipi cristiani, per i quali non esistono impedimenti, sanno fare un uso moderato del-
l’alcol (lettera XXXIII). Ci troviamo di fronte a un dilemma ancora attuale (si pensi al
proibizionismo o alle leggi sulle droghe) che subito Usbek estende alla questione fem-
minile: sono forse le costrizioni a determinare comportamenti virtuosi nelle donne, o
non piuttosto il senso della virtù che ci trasmette la natura? Su questo punto le opinio-
ni raccolte da Usbek sono diverse: a quelle del francese lungimirante che parla nella let-
tera XXXIV, si oppongono i ragionamenti della sposa Zélis (lettera LXII); alle descrizio-
ni di Rica, ormai pienamente inserito nella società parigina (lettera LXIII), fanno da con-
trappunto le severe teorie del capo degli eunuchi (lettera LXIV).
Usbek è tanto più portato a sentire queste contraddizioni in quanto, attraverso i
suoi intensi contatti epistolari col serraglio di Isfahan, può constatare gli effetti di un
atteggiamento repressivo. Tutti i dubbi che si sono affacciati alla sua mente sembrano
materializzarsi nel disordine dell’harem: le regole ferree della vita claustrale hanno
generato indisciplina e ribellione incrinando un’armonia dovuta soltanto all’obbedien-
za. La reazione di Usbek è viscerale: tutto il suo filosofeggiare si converte in violenza e
la rivolta sarà repressa nel sangue.
Usbek dunque non agisce come parla, mentre chi agisce è la silenziosa Roxane, la
moglie “virtuosa”, non nel senso che gli attribuisce il suo signore e padrone, ma in quel-
lo caro a Montesquieu: Roxane non si sottomette alla schiavitù del serraglio, ma alle
leggi della natura.
Gli osservatori meravigliati, ironici, indignati; i ragionatori che confrontano e cer-
cano spiegazioni, i loquaci persiani e l’autore che li fa parlare cessano improvvisamen-
te il loro ruolo nel momento in cui tali leggi appaiono minacciate. A questo punto
subentra l’azione, la sovversione, con atti drammatici ed estremi; ma si noti la differen-
za tra il gesto composto con cui Roxane si toglie la vita (mentre il veleno scorre nelle
sue vene, ella continua a ragionare lucidamente) e la cieca e sanguinosa violenza con cui
gli eunuchi imperversano sul serraglio. Ancora una volta, l’ordine prevale sul caos, l’o-
pera di Roxane non è opera di distruzione, ma opera riformatrice: «J’ai pu vivre dans
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la servitude, mais j’ai toujours été libre: j’ai reformé tes lois sur celles de la Nature, et
mon esprit s’est toujours tenu dans l’indépendance» (lettera CLXI).
I comportamenti di Usbek non sono che la proiezione, in un individuo, di tenden-
ze presenti su vasta scala, e così il gesto di Roxane, che trova risonanze nella letteratu-
ra di tutti i tempi. Lo stretto rapporto tra comportamento dei singoli e situazioni più
generali, che va di pari passo con le analogie tra Oriente ed Occidente, si manifesta con
evidenza crescente attraverso lo sviluppo “occidentale” del romanzo, segnato dal pro-
gredire delle conoscenze dei due persiani, dalle considerazioni che ne conseguono, e
dall’incalzare degli eventi storici in cui si trovano coinvolti e che si concludono col ter-
ribile crash del sistema di Law. I francesi che avevano investito nella carta moneta fidan-
dosi della garanzia del sovrano, si sentono traditi. Alle gravi perdite economiche si
aggiunge quella della fiducia nelle istituzioni che dovrebbero invece proteggere i citta-
dini (lettera CXLVI). Il fatto che Montesquieu neppure in questa lettera faccia nomi di
persone o di istituzioni occidentali (il re è indicato come «un prince», Law come «un
ministre», e gli avvenimenti descritti sono ambientati «dans les Indes») conferisce alle
vicende narrate un valore esemplare: i fatti e le conseguenze che ne derivano possono
essere applicati anche ad altri tempi o luoghi.
Un procedimento speculare è adottato per l’Oriente. La corruzione e le tragiche
vicende dell’harem di Usbek sono probabilmente ispirate dalla storia persiana: il regno
dei Safanidi, che si era illustrato nel secolo precedente per splendore e raffinatezza, era
ormai minato dalla corruzione e dall’incapacità della classe dirigente e Montesquieu
sembra quasi prevederne il crollo, che avvenne nel in seguito all’invasione degli
afghani. Tuttavia la storia del serraglio può essere intesa anche come un’esemplifica-
zione, o una variazione (ricca di nomi, dettagli e indagini psicologiche) di quanto avve-
niva in Francia in quegli stessi anni. Spesso basta sostituire qualche nome per ottenere
descrizioni, commenti e riflessioni assolutamente disinibite su eventi europei. Abbiamo
visto che se nell’ultima lettera occidentale (lettera CXLVI) sostituiamo le Indie con la
Francia e diamo un nome al ministro che ha dato il «mauvais exemple», abbiamo una
denuncia veemente e circostanziata della disastrosa situazione che seguì il fallimento di
Law. Ma la denuncia si aggrava con l’ultima lettera orientale (la lettera CLXI, che chiu-
de anche il romanzo) che appare come la condanna irrevocabile di una situazione a cui
ci si deve ribellare, anche a costo della vita: sostituiamo al nome di Roxane, «un popo-
lo», e a quello di Usbek, «un sovrano», e la condanna si estende non solo alla Francia,
ma a tutti i paesi governati dal dispotismo.
Il suicidio di Roxane è espressione dell’amara consapevolezza che all’uomo non è
consentito tornare alla sua natura primigenia, ma fa anche intuire le difficoltà di ogni
alternativa basata almeno sul buon senso. La nostalgia impotente di Montesquieu, cui
fa eco quella più oscura di Usbek, si volge dunque non solo verso quelle leggi naturali
cui sente che non è possibile tornare, ma anche verso un modello di civiltà che sappia
proporre rimedi razionali alle deviazioni inevitabili dell’uomo.
Alla costruzione di modelli di civiltà, intesi come mali necessari, Montesquieu dedi-
cherà tutta la vita. In questo modo il percorso da Isfahan a Smirne trova prolungamenti
inattesi nello spazio, ma anche nel tempo; gli sguardi dei viaggiatori si volgono indie-
tro, ma soprattutto in avanti verso un futuro che si vorrebbe migliore, verso soluzioni
pacifiche, basate sul rispetto delle convenzioni civili e sulla tolleranza. Da queste pro-
spettive si avvia un dibattito che dall’epoca dei philosophes si protrae ancora oggi, con
le medesime attese e con i medesimi insuccessi. L’eroismo di Montesquieu consiste nel
condurre una battaglia in nome della ragione, pur essendo convinto che la felicità del-
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Note
. Sulle molteplici letture che hanno ispirato le Lettres persanes sono usciti numerosi ed importanti
studi, che danno un’idea di quanto vasto sia il background di questo romanzo. Le bibliografie più
aggiornate si possono trovare nelle edizioni recenti delle Lettres persanes, tra le quali segnaliamo quel-
la uscita nel ad Oxford, presso la Voltaire Foundation, nell’ambito di una pubblicazione dell’O-
pera completa di Montesquieu ancora in corso.
. L’anarchia virtuosa suggerita da Montesquieu è un tema non privo di valenze poetiche (che già
troviamo, per esempio, nelle Aventures de Télémaque di Fénelon) che si oppone alle teorie di Hobbes
secondo le quali espressione immediata della natura umana non è la tendenza alla virtù, ma piuttosto
una forma passionale di egoismo che solo la ragione può controllare.
. Cfr. sull’argomento anche ivi, pp. -.
. Pierre Martino ha mostrato con chiarezza e con abbondanza di esempi come alcuni tratti del
carattere orientale, positivi (come l’ospitalità), ma più spesso negativi (come il despotismo o l’esosità
fiscale) siano stati utilizzati dai philosophes (e da Montesquieu per primo) come metafore di certi com-
portamenti occidentali (Martino, , pp. -). Celebre è rimasta un’operetta di Crébillon, Les
amours de Zeokinizul (), dove Luigi XV sarebbe rappresentato sotto i tratti di un monarca asiatico.
. R. Grimsley ha magistralmente individuato questa preoccupazione costante nell’opera di Mon-
tesquieu (L’idée de nature dans les Lettres persanes, in “French Studies”, October ): la ragione cor-
risponde alla natura delle cose e non è un principio astratto; quindi il miglior governo è quello che si
adatta meglio allo spirito generale che dipende dal clima, dalla geografia, dalla religione: in questo
modo va “à son but à moins de frais”.
. Galland, com’è noto, ebbe modo di approfondire la sua conoscenza della Turchia, durante un
soggiorno a Costantinopoli, ospite dell’ambasciatore Nointel.
. Pensiamo, per fare un solo esempio, al Collegio di Propaganda Fide.
. Nella misura in cui la Russia può essere considerata un grande paese orientale, e comunque
tenendo conto dei suoi importanti scambi culturali con la Persia, può essere opportuno ricordare il
ruolo fondamentale degli artisti occidentali nella costruzione di San Pietroburgo.
. Interesse che viene alimentato anche da storici seicenteschi a partire dal padre Martini e da
Alvaro Semedo, fino a Palafox e a Dampier (cfr. Montesquieu, , p. , nota e p. , nota ).
. Fanno eccezione alcune sviste segnalate da Robert Shackleton: la lettera XXIV segnala la promul-
gazione della bolla Unigenitus nel invece che nel ; la lettera XXXV, datata , parla della “Que-
relle d’Homère” che scoppiò solo l’anno seguente; la lettera CXXXII anticipa di un anno la crisi finanzia-
ria di Law (cfr. The Moslem Chronology of the “Lettres persanes”, in “French Studies”, , p. ).
. La storia dei trogloditi, per esempio, è ambienta in Arabia, in un’epoca remota e indefinita, e
lì Montesquieu colloca il suo ideale di virtù; allo stesso modo Voltaire proietta le sue più care utopie
in paesi lontanissimi nel tempo e nello spazio (come il favoloso regno dei gangaridi nel racconto della
Princesse de Babylone).
. Citiamo, per fare un solo esempio, il celebre distico di Dante a proposito di Catone l’Uticen-
se: «Libertà va cercando, ch’è sì cara, / Come sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio, I, -), ripreso
poi dal Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Bibliografia
MARTINO H. (), L’Orient dans la littérature française au XVIIe et au XVIIIe siècle, Slatkine
Reprints, Genève (ed. or. ).
MONTESQUIEU CH. DE (-), Œuvres complètes, édité par R. Caillois, Gallimard (“Bibliothèque
de la Pléiade”), Paris ( voll.).
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TAVERNIER J.-B. (), Les six voyages de J.B.T. qu’il a fait en Turquie, en Perse et aux Indes pen-
dant l’espace de ans, s.l. [Amsterdam].
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«Come tutti i veri poeti, Baudelaire è pressoché intraducibile». Giorgio Caproni (,
p. ) concludeva con queste parole la sintetica Introduzione che accompagnava la sua
traduzione dei Fiori del Male, pubblicata dall’editore Armando Curcio nel . Il para-
dosso di un poeta che dichiara l’intraducibilità di un testo poetico nel momento in cui
si accinge a presentarne la traduzione, va sottolineato e interrogato. Esso sottintende
delle implicazioni di ordine traduttologico che possono costituire la necessaria pre-
messa ad alcune annotazioni sulla traduzione caproniana del componimento che chiu-
de la seconda edizione dei Fiori del Male, Le Voyage.
Perché ho tradotto, o cercato di tradurre nonostante i rischi, René Char? Quale simpa-
tia irresistibile mi ha spinto al tentativo – il più delle volte disperato, almeno per i miei
mezzi – d’un’imitazione italiana? Dico imitazione perché mi rendo conto che una resti-
tuzione perfetta rimane sempre una chimera, non fosse che per l’inevitabile usura che le
parole, come le monete, subiscono attraverso il cambio (Caproni, , p. ).
LUCA PIETROMARCHI
E questo è il punto – ch’egli non dimentichi un solo istante se stesso: ch’egli batta sul-
l’unico banco di prova di se stesso la doppia moneta della sua e dell’altrui parola, sì da
far scaturire dal suono una serie di armonici diversi, ma tali comunque da avvicinarsi
quanto più possibile al valore dell’originale (ivi, p. ).
Rimossa quindi ogni sudditanza del traduttore nei confronti del tradotto, egli accetta la
sfida di abbandonare l’ambito “minuscolo” offerto dal senso lessicale, nonché le pas-
serelle orizzontali che la semantica appronta per agevolare il passaggio da una lingua
all’altra, per calarsi, lungo la fune intrecciata del ritmo e della metrica lanciata dal testo,
nelle proprie stanze interiori e scoprire, portandoli alla luce, quei movimenti lirici, quel-
le lievitazioni lessicali e sintattiche che la lettura ha potuto generare. Si legge ancora
nelle Divagazioni di Monselice:
[La traduzione] ci obbliga a calarci sempre più a fondo non soltanto del testo ma, in
primo luogo, in noi stessi, appunto per scorgere e catturare in noi stessi, e nel modo più
chiaro, la genuina forza del testo reclamante la nostra voce (ivi, p. ).
Eppure, il tessuto metaforico sul quale sono imbastite le riflessioni di Monselice può
consentire di riconoscere come Caproni, nel parlare di traduzione e del rapporto tra il
poeta da tradurre e il poeta-traduttore, attribuisse a questo rapporto il senso di una
fecondazione: come se nel grembo della parola del traduttore, a cui rinvia l’insistenza
dell’espressione «in noi stessi», si generasse una terza entità, che riceve corpo dall’uno,
e voce dall’altro. Caproni paragona difatti in modo esplicito la lettura ad una feconda-
zione in cui
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il lettore [leggi traduttore] rimane perfettamente solo a sentirsi investito d’un pote-
re – d’un’interiore libertà: d’uno slancio vitale e d’un coraggio morale – che per un
istante egli crede di ricevere femminilmente dall’esterno, mentre poi s’accorge che
tale ricchezza era già in lui, sonnecchiante ma presente, come se il poeta non avesse
fatto che risvegliarla, non inventando, ma scoprendo; e quindi suscitando un moto,
più che d’ammirazione, di gratitudine (Caproni, , p. ).
E le parole che in una conferenza pronunciata nel Caproni userà per definire il
prodotto di questo rapporto gli riconoscono quella stessa parte di indipendenza e di
dipendenza, di somiglianza nella diversità, che può servire a definire l’identità di un
figlio nei confronti del genitore: «un testo che, pur rassomigliando alla personalità del
tradotto e a quella del traduttore, non è precisamente né l’uno né l’altro» (Caproni,
, p. ).
«Né l’uno né l’altro», ovvero dell’uno quanto dell’altro: questa impostazione tra-
duttologica svincola difatti il traduttore dalla sua subordinazione al tradotto e lo pone,
sempre nell’ambito del massimo rispetto, su di un piano di piena eguaglianza. Sogget-
tivamente ciò comporta, in Caproni, come già in Quasimodo, in Ungaretti o in Bon-
nefoy, il rifiuto di considerare l’attività di traduttore secondaria rispetto alla propria
attività creatrice:
Invero, non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in
proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per
quanto mi concerne, si tratta soltanto di cercar di esprimere me stesso nel modo miglio-
re: nel cercar di far bene qualcosa che valga a esprimer bene quanto ho in animo
(Caproni, , p. ).
Tradurre dunque per «esprimere me stesso»: per portare alla luce quel che di proprio,
di intimamente legato alla personalità del traduttore, il testo da tradurre ha risvegliato.
La lettura scopre ciò che di nascosto giace nella sensibilità del lettore, in quella parte di
«me stesso» che attende di essere tradotta in parola e che senza l’ausilio del tradotto
sarebbe rimasta inespressa, familiare ma sconosciuta (Testa, , p. XV). «Nell’atto
della traduzione», prosegue Caproni, « – non sembri un paradosso – chi scopre non è
il traduttore, ma il poeta che vien tradotto, il quale investendo il traduttore del suo
potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò che era in lui ma dormiente, notturno e
quindi ignorato (Caproni, , p. ).
Nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche
si carica di una serie pressoché infinita di significati “armonici” (e dico “armonici”
usando il termine com’è usato nella fisica e nella musica) che ne forma la sua peculiare
forma espressiva. […] Basta spostare un vocabolo – un accento – e l’incanto è rotto.
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Viene a mancare, appunto, l’energia espressiva della Musica. Della Musica, dico, non
della musicalità. E quindi resta polverizzata la poesia (Caproni, , pp. -).
La metafora musicale era d’altronde centrale, come ha rilevato Elisa Bricco (,
pp. -), nella conferenza di Monselice, lì dove Caproni paragonava la traduzione
poetica alla trascrizione per violino di un pezzo in origine composto per flauto, doven-
do il traduttore rispettare «l’idea musicale originale attraverso l’ineliminabile differen-
za dei timbri e delle relative risonanze» (Caproni, , p. ). Rispetto di cui Caproni
stesso a più riprese ha detto la difficoltà, se non l’impossibilità: al punto che l’attività di
Caproni traduttore sembra generarsi da un sentimento non di sfida nei confronti della
Musica dell’originale, ma dalla lucida rassegnazione di chi sa di essere costretto ad ope-
rare nell’approssimazione della musicalità, accompagnato dalla certezza di dover
affrontare l’opera disponendo degli strumenti appena necessari ad avvicinare quell’o-
rizzonte che traccia la linea musicale del testo di partenza. Linea che in virtù della dol-
cezza dei suoi armonici designa uno spazio di purezza e di perfezione in cui idealmen-
te risuona «la musica del paradiso» evocata da Dylan Thomas, ma destinata a rimane-
re se non inaudibile, quanto meno intraducibile.
Ancora nel , rivedendo la sua comunicazione di Monselice, Caproni sentì l’esi-
genza di evocare il nome di Dante per ribadire la propria consapevolezza del carattere
riduttivo di ogni traduzione a fronte dell’integrità musicale del testo di partenza:
Sull’impossibilità [di una traduzione che sia perfetto double dell’originale] resto ben
fermo a quanto Dante ha scritto nel suo Convivio: «E però sappia ciascuno che nulla
cosa per legame musaico armonizzata si può dalla sua loquela in altra trasmutare senza
rompere tutta sua dolcezza e armonia» (Caproni, , p. ).
Come riprodurre infatti, nella nostra lingua piana e plurisillabica, il ritmo, il suono,
soprattutto il timbro di quelle due semicrome iniziali quasi fuse in una? Per me Le cime-
tière marin resterà sempre l’esempio più lampante dell’impossibilità pressoché assoluta
di tradurre la poesia.
Ritmo, suono, timbro: è nel loro intreccio che risiede l’essenza della poesia stessa, situa-
ta in una dimensione, quella della pura Musica, irraggiungibile se non alla contempla-
zione dell’ascolto, e che lascia alla portata della traduzione il solo involucro esteriore e
prosastico costituito dal senso semantico delle parole, «il segnale convenuto d’un trasfe-
ribilissimo codice», il codice su cui si fonda quella che Mallarmé chiamava la «lingua
della tribù».
Lungi dunque dall’aver sciolto il paradosso che sottolineavamo all’inizio, l’insieme
di queste citazioni, che coprono l’intero arco cronologico dell’attività traduttoria di
Caproni, acclarano come quella protesta di intraducibilità riferita all’opera di Baude-
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laire non debba essere intesa come una occasionale captatio benevolentiae nei confron-
ti del lettore, ma rispecchi invece la sua intima convinzione relativa alla «pressoché
assoluta» impossibilità di tradurre un testo senza «perderne», o «traviarne», o «rom-
pere», o «polverizzarne» l’essenza musicale. Sono difatti questi i verbi che segnalano la
costanza del pensiero di Caproni a tale proposito.
La consapevolezza della intraducibilità della poesia costituisce quindi il fonda-
mento non solo tecnico, ma ontologico della traduzione poetica caproniana: essa si
ritrae dalla dimensione in qualche modo metafisica della restituzione fedele, pronta,
come nel caso dei Fiori del Male, a optare per la prosa, rimanendo aderente ai sen-
tieri scoscesi e terrestri della parola del traduttore che, se lo conducono talvolta lon-
tano dall’originale, lo avvicinano quanto più a se stesso. «Il n’y a pas de paradis». Il
verso dell’amato Frénaud potrebbe quindi, alla luce di queste considerazioni, inten-
dersi: non c’è traduzione perfetta, ma la sola cronaca di un viaggio teso all’approssi-
mazione di un nouveau che la coscienza, per quanto ne subisca il richiamo, come i Re
Magi di Frénaud davanti alla Cometa, non smette di proclamare, come i viaggiatori
di Baudelaire, forse inesistente.
Nell’ottobre , l’editore Curcio dava alle stampe, corredata da sedici tavole a colori
di Orfeo Tamburi, la traduzione di Giorgio Caproni dei Fiori del Male, ripubblicata
quindi nel con il testo a fronte. La versione di Caproni si collocava nell’ambito già
relativamente ricco a quella data delle traduzioni italiane di Baudelaire, ma precedeva
la grande stagione a cui avrebbe dato inizio la prima versione dei Fiori del Male di
Raboni nel (Mondadori): seguiranno difatti Bertolucci, in prosa (Garzanti ),
Mucchi (Einaudi ), Bufalino (Mondadori ), Muscetta (Laterza ), Delmay
(Sansoni ), Frezza (Rizzoli ), Bonfantini (Mursia ), Ortesta (Giunti ),
Rendina (Newton ), Prete (Feltrinelli ), Monda (Barbera ). Caproni anno-
verava tra i suoi predecessori, senza contare la prima traduzione di Sonzogno del ,
Errante (Liocorno ), Sofianopulo (Cappelli ), Airoldi (Licinium ), De Nar-
dis (Neri Pozza ), Furlan (Club del Libro ).
Ma ciò che anzitutto distingue la traduzione di Caproni, è che essa, come farà quel-
la di Attilio Bertolucci, volge in prosa il metro baudelairiano.
Accingendosi a tradurre I Fiori del Male, Caproni ha già maturato un’importante
esperienza traduttoria dal francese, iniziata nel con Il Tempo ritrovato (Einaudi)
proseguita con numerose versioni da Henri Thomas, Prévert, Apollinaire, Supervielle,
Aragon, Eluard, e soprattutto Char, con il volume Poesia e Prosa, pubblicato da Feltri-
nelli nello stesso anno dei Fiori del Male. Seguiranno, nel , la memorabile tradu-
zione di Mort à crédit di Céline (Garzanti ) e del già citato Non c’è paradiso di Fré-
naud (Rizzoli ). Quali dunque le motivazioni che hanno potuto indurre uno dei
grandi passeurs della letteratura francese in Italiano a optare per la prosa dovendo
affrontare Baudelaire? In assenza di esplicite dichiarazioni di Caproni, un’eventuale
risposta può essere desunta dalla Introduzione che accompagna l’edizione Curcio, lì
dove si legge:
La lingua francese è (nei Fiori del Male) piegata alle più sottili sfumature, raggiunge le
altezze dei cieli e gli abissi dell’inferno, e tutto – il naturalismo allora imperante, il misti-
cismo, la volgarità plateale, la sofferenza, il dolore, l’estasi, l’abbrutimento d’una vita
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dominata dall’utile e dal sesso, la bestemmia e la più profonda pietà – trova qui il suo
trionfo con la precisione di contorni d’un’opera classica, e la morbidezza dell’opera più
moderna (più nostra) che conosciamo.
Caproni mira all’essenza stessa della poetica di Baudelaire, quella «alleanza della geo-
metria con la musica» di cui parla Macchia (, p. ) (Baudelaire e la poesia della
malinconia fu ripubblicato nel ), ovvero del rigoroso formalismo metrico e retori-
co – il crogiolo raciniano dei «Vers polis, treillis d’un pur métal» di À une Madone –
entro cui precipita la materia melmosa della realtà. «Tu m’as donné ta boue, j’en ai tiré
de l’or». Caproni riconosce la potenza del contrasto che informa I Fiori del Male,
distinguendo la «precisione» dell’opera classica e la «morbidezza» dell’opera moder-
na, ma sembra dichiararsi consapevole di non poter condividere la fiducia baudelai-
riana nelle virtù catartiche del classicismo che racchiude quella morbidezza, da acco-
gliere nella sua accezione etimologica e francese, nella guaina di un contorno netto:
l’inciso «più nostra» è relativo alla modernità dell’opera, che Caproni ascrive all’im-
maginazione poetica di Baudelaire, rinunciando ad assumerne la morale estetica.
Rimane il tessuto metaforico del testo, offerto alla versatilità della prosa, che ne
riceve la ricchezza e la violenza, ma senza più disporre di quel «privilegio dell’Arte»,
come si legge in una pagina di Baudelaire dedicata a Gautier, «che consente all’or-
ribile, artisticamente espresso, di diventare bellezza, e al dolore ritmato e cadenzato
di colmare lo spirito di gioia calma». A questo livello, la traduzione non imita, ma
restituisce, per riprendere la distinzione di cui sopra, confinandosi nel sostrato di
immagini sul quale poggia la poesia, e rinunciando, con ammissione del tutto capro-
niana, ad accedere a quelle «regioni della poesia pura» che sono le regioni del clas-
sicismo baudelairiano. È questo sentimento tragico della modernità fondato sulla
consapevolezza di non poter travalicare l’immanenza della prosa, ricorrendo alla
“semplice” musicalità della prosodia e non alla Musica del verso, che può aver
determinato l’opzione caproniana. Una scelta riduttiva, forse sofferta, e per questo
contrastata, come imposta dalla certezza di una intraducibilità ontologica, la quale
potrebbe essere eventualmente aggirata solo dall’anacronistico ritorno alla fiducia
classicista di un «nuovo Vincenzo Monti»:
Come tutti i veri poeti, Baudelaire è pressoché intraducibile; e per questo, alla presun-
zione d’un rifacimento in versi italiani (per il che occorrerebbe un nuovo Vincenzo
Monti), abbiamo preferito la semplice traduzione in prosa (Caproni, , p. ).
Se queste furono le intenzioni di Caproni, esse non sono state del tutto rispettate.
Egli difatti volse in prosa le sezioni Spleen et Idéal, Tableaux parisiens, Le vin, Fleurs
du Mal e le poesie condannate, corrispondenti a più dei quattro quinti dell’opera,
ma decise di tradurre in versi le due ultime sezioni, Révolte e La Mort, compren-
denti: Le Reniement de Saint Pierre, Abel et Caïn, Les Litanies de Satan, La Mort des
amants, La Mort des pauvres, La Mort des artistes, La Fin de la journée, Le Rêve d’un
curieux e Le Voyage.
Questo ritorno al verso, e quindi la disomogeneità che introduceva nell’insieme
della traduzione, non dovette piacere all’editore, il quale si assunse la grave responsa-
bilità di far ridurre redazionalmente in prosa le versioni in metro di Caproni, nego-
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ziando con il poeta un controverso consenso in cambio del rispetto della sola traduzio-
ne in versi del Voyage. Fatto sta che il poeta concludeva in questi termini la sua Intro-
duzione:
[…] abbiamo preferito la semplice traduzione in prosa, facendo una sola deroga a pro-
posito del Viaggio, troppo strettamente legato a certe nostre avventure personali perché
potessimo resistere alle tentazioni della sirena. Della qual licenza chiediamo, fin d’ora,
venia al Lettore.
Nel , la ristampa Curcio della traduzione di Caproni inseriva il testo originale a
fronte ma sopprimeva la traduzione delle poesie condannate, suscitando nel poeta una
sempre più marcata insofferenza sia per il rifacimento in prosa che per l’amputazione
subita, che lo condusse, in un’intervista del , a prendere le distanze da quell’edi-
zione: «Va in giro un Baudelaire col mio nome, il quale non è affatto mio, tant’è che è
stato riveduto e scorretto, forse sul modello di più pregiate traduzioni fino al punto da
spianare in prosa (rifatta) anche il luogo che invece era ondulato in versi». Discono-
sciuta quindi l’edizione Curcio, Caproni non rinunciò per questo alla sua traduzione
dei Fiori del Male, che rielaborò profondamente nel corso degli anni successivi, pur
mantenendo il doppio registro della prosa e del verso. È questo rifacimento che l’edi-
tore Marsilio ha ora in corso di pubblicazione nella collana “I fiori blu”.
Allorché, nel , Giulio Einaudi, sull’istanza di Pier Vincenzo Mengaldo e di
Franco Fortini, invitò Caproni a comporre un volume antologico delle sue traduzioni
poetiche, egli ne riservò a Baudelaire le ultime pagine, indicando tre poesie: Il viaggio,
Le litanie di Satana e Le vecchine. La prima recuperava la traduzione in versi dell’edi-
zione Curcio, la seconda riportava alla misura del verso quella traduzione che l’editore
aveva sciaguratamente «spianato», mentre la terza presentava il nuovo rifacimento in
prosa. Delle nove traduzioni in versi dei Fiori del Male, ne rimanevano pertanto inedi-
te sette, che figurano ora nell’edizione Marsilio.
Le ragioni che hanno potuto indurre Caproni a tralasciare la prosa per tradurre le
due ultime sezioni dei Fiori del Male sono racchiuse nell’inciso della citazione più sopra
riportata, relativo al Voyage, ma certamente estensibile alle altre versioni sacrificate:
poesie «troppo strettamente legat(e) a certe nostre avventure personali perché potessi-
mo resistere alle tentazioni della sirena». È difatti riconoscibile, a livello tematico, una
strettissima consonanza tra quelle poesie e i nuclei centrali dell’universo poetico di
Caproni, così come esso si configura a partire dal Congedo del viaggiatore cerimonioso.
La fine dei Fiori del Male suscita nel poeta, volendo riprendere alla lettera quando egli
aveva detto a Monselice, «e in lui rende diurno, ciò che era in lui ma dormiente, not-
turno e quindi ignorato».
LUCA PIETROMARCHI
Eppure, per quanto la quartina chiuda e allontani l’evocazione della «terra straniera»
in un cerchio sigillato dalla ripetizione dell’avverbio negativo, rinforzata dalla catena
consonantica in /ce/, lo stesso Muro si chiuderà sul grido del viaggiatore che esorta il
«vetturale» a non arrestare la sua corsa, a non smettere di cercare quella “terra”, stra-
niera e forse promessa, ma che non si distingue dalla prosastica semplicità di un campo:
È questo il luogo del testo caproniano in cui più esplicitamente affiora il ricordo del
Voyage di Baudelaire. L’urlo al vetturale fa eco al grido del viaggiatore baudelairiano
che tenta un’ultima fuga davanti al Tempo che lo ha raggiunto:
“Le Voyage”
Le Voyage è l’ultima e più ampia ( versi) poesia dei Fiori del Male, inserita a conclu-
sione dell’edizione del . Con le sue otto sezioni, essa costituisce l’ultimo pannello
del trittico baudelairiano dedicato al viaggio, formato da L’invitation au voyage (LIII),
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Il poeta dei Fiori del Male recupera difatti in questa ultima poesia, e solo qui, la prima
persona del plurale che aveva contrassegnato la poesia liminare della raccolta, Au Lec-
teur: ora come allora, «de tibi narrantur fabula». Il patto di verità e di forzata compli-
cità che il ricorso al pronome «nous» stringeva tra il poeta e il lettore è qui rinnovato:
la vanità di ogni viaggio riguarda l’esperienza diretta del poeta e del suo «ipocrita let-
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tore», «mon semblable, mon frère», uniti nella condivisione di un personale e tragico
destino. Ma la tensione drammatica del dialogo tra «je» e «tu» è come nascosta dietro
al frontone classico del «nous». Il verso baudelairiano assorbe nella sua scansione e
nella sua compostezza sintattica ogni urgenza drammatica, producendo il miracoloso
equilibrio di un registro alto che tende alla distanziazione allegorica, sfiorando la sen-
tenziosità del discorso moralistico, pur conservando intatta la tensione nervosa di un’e-
sperienza personale. Alla complessità di questo registro è confrontato il traduttore ita-
liano, erede di una tradizione linguistica che lo costringe ad optare, dinanzi alla media-
nità del registro classico francese, per un’alternanza di registri alti e bassi. Esemplare,
in questo senso, la scelta di Caproni rispetto alla forma pronominale della seconda stro-
fa, che egli scioglie in forma impersonale:
Valori attenuativi
LUCA PIETROMARCHI
Caproni sottrae al distico i due perni che ne reggevano la struttura chiasmica: la ripeti-
zione del sostantivo «monde» e la simmetria incrociata degli emistichi relativi alla gran-
dezza del mondo immaginato e alla piccolezza di quello ricordato. Optando per due
versi di identica struttura, confinando il contrasto grande-piccolo negli emistichi ini-
ziali, egli sottrae il distico alla sua originaria valenza che sottolinea la natura claustrofo-
bica dello spazio, per enfatizzare invece il contrasto tra gli opposti sguardi dell’imma-
ginazione e della memoria. Se Baudelaire marca l’illusoria grandezza dello spazio, ciò
che il «lume» dei versi di Caproni rischiara è la relatività dello sguardo del soggetto che
guarda: quel soggetto che in Baudelaire si cela dietro l’impersonale metonimia «aux
yeux du souvenir» e che il traduttore porta invece allo scoperto, e alla ribalta della clau-
sola, nella forma pronominale e verbale «colui che ricorda». La versione predilige l’a-
zione all’immagine, dissipa nella concretezza di un’esperienza personale il tenore alle-
gorico della strofa baudelairiana, limitandosi a recuperare la solennità del suo impian-
to simmetrico nella nervosa insistenza ritmica generata dalla scansione delle allittera-
zioni in /k/ dell’ultimo verso.
Partire e andare. La traduzione della quinta strofa muove nella stessa direzione,
sciogliendo in un andamento corsivo e volubile, l’andare cieco ma lineare della strofa,
e dei viaggiatori, baudelairiani:
La scelta caproniana di tradurre il verbo partir con andare (così come al v. tra-
duce fuir con lasciare), la neutralizzazione della figura etimologica proverbiale «par-
tire per partire» con «vanno per andare», smorzata dalla traduzione brachilogica che
inserisce il deittico «così», la dislocazione a destra dell’intera struttura sintattica,
inclinano verso il basso il registro della strofa, sostituendo alla fatalità del viaggio la
casualità di un’erranza cieca che si svincola dalla linea tracciata dall’impianto verba-
le del testo baudelairiano, sostituita dal cerchio disegnato dalla scansione anaforica
della strofa («Ma son- Che- Sono- Che»). Il viaggiatore di Caproni, il quale ignora la
propulsione dell’ultima esclamazione verbale («Allons!»), non precipita verso l’igno-
to, ma si smarrisce lungo sentieri casuali, privi di orizzonte metafisico, che segue con
il passo lento, che sarà il passo del Franco cacciatore, ritmato dall’avverbio pentasilla-
bico («unicamente») inserito al secondo verso.
I polisillabi. Il ricorso agli avverbi polisillabici (cfr. Mengaldo, , pp. -) costi-
tuisce una costante nella traduzione di Caproni. La loro funzione rallentante frena
la discesa nel gorgo e crea un effetto di sosta ritmica, permettendo al viaggiatore di
riprendere il controllo del suo passo. L’unico impiego di avverbio trisillabico nel
Voyage è testimoniato dal v. – [les soleils] «Effacent lentement la marque des bai-
sers» – con perfetta coincidenza di effetto ritmico e valore semantico. La traduzio-
ne di Caproni ricalca lessicalmente l’originale, ma potenzia ulteriormente l’effetto di
pianissimo collocando l’avverbio in posizione di iperbato: «Cancellano la traccia,
lentamente, dei baci». Questa gestione iconica dell’avverbio che spezza il sintagma
baudelairiano, letteralmente cancella nel bacio la connotazione di marchio di dolo-
re, e trattiene la pressione dinamica accumulata dai cinque verbi presenti nei versi
che precedono, enfatizzando il senso di un allontanamento in forma di lenta disso-
luzione.
In altri due luoghi del Voyage Caproni inserisce in clausola di strofa un avverbio
pentasillabico:
LUCA PIETROMARCHI
Lo spasimo ritmico. Questa maggiore nervosità del ritmo caproniano che scompone le
grandi arcate sintattiche del verso francese e la sua tramatura di giochi fonici, può
anche emergere in modo flagrante, come nel seguente verso, che costituisce un esem-
pio di ipertraduzione ritmica a rischio di cacofonia:
Des femmes dont les dents et les ongles sont teints, (v. )
Donne con le unghie tinte, donne con tinti i denti
Il gioco della tripla assonanza francese in /on/ incrociata alla protratta allitterazione in
/d/, la traduzione di Caproni la esalta e la moltiplica per dar luogo ad un doppio set-
tenario ipermetro il quale ricalca l’omofonia «dont-sont» nella ripetizione della con-
giunzione «con», potenziata dalla coppia aggettivale «tinte-tinti», e quindi prolungata
con il sostantivo «denti» che arditamente riprende il nesso consonantico /nt/. Ma que-
sta partitura paronomastica, già satura di asillabazioni, è ulteriormente complicata dalla
ripetizione simmetrica di «donne» che moltiplica l’effetto procurato dall’allitterazione
serpeggiante delle dentali. Infine, la stridente assonanza in /i / posta in clausola sosti-
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Tradurre e ricordare
Tutti gli esempi precedenti possono essere ascritti alla medesima intenzione di allontanare
il Voyage dal suo orizzonte metafisico, imprimendogli il senso, così caproniano, di un incer-
to e perplesso confronto con l’ignoto, svincolato dalla sentenziosa solennità del canto fran-
cese. Ma questa inclinazione è fortemente controbilanciata sul piano lessicale dalla ten-
denza ad innalzare il registro poetico verso un piano di aulica letterarietà, come a voler
recuperare un afflato epico che le opzioni traduttorie hanno sin qui fortemente attenuato.
Significativamente, questa tendenza è vistosamente riscontrabile nei due luoghi
in cui Baudelaire inserisce lo smalto aulico di un riferimento a figure mitologiche:
concessione al classicismo che risveglia la memoria classicista del traduttore, propria
a quel Vincenzo Monti che solo, come scriveva Caproni, avrebbe potuto affrontare il
metro originale:
L’elisione dell’immagine del cuore, di cui abbiamo già detto, si accompagna alla can-
cellazione del gesto delle braccia che fraternamente si tendono verso il naufrago, a favo-
re di una risoluzione questa volta iconica della scena grazie alla riduzione ad uno dei
quattro pronomi possessivi francesi. L’impersonalità è quindi rafforzata dalla lettera-
rietà del lessico, che al semplice «nuotare» preferisce quel «remigare» dalla forte con-
notazione montaliana (la cicogna di Sotto la pioggia che, nelle Occasioni, «rèmiga verso
la Città del Capo»). Ma come se la citazione mitologica calamitasse un lessico aulico, si
segnala il dantesco «adocchia», a cui farà eco, nella strofa successiva, il verbo «adug-
gia» (v. , già presente al v. ), che addensa la patina di toscanismi soffusa su tutta
la traduzione (bimbo, avvampato, infocati, voltola, ciarlona, ganzi, uggia, giacché).
Discreto ma persistente è anche il sostrato lessicale leopardiano, ravvisabile sin
dalla traduzione, al v. , di «berceaux» con “natia culla», nonché nel «vien di lontano»
al v. . Ma lì dove in tutta evidenza agisce la memoria letteraria di Caproni è nel penul-
timo verso del componimento, dove al baudelairiano «Plonger au fond du gouffre» è
fatto corrispondere il leopardiano «Naufragar nel gorgo», che immette nel campo
semantico proprio alla drammatica catabasi l’allusione attenuativa all’idea di infinito,
spezzando la vertiginosa verticalità che caratterizza l’«Inconnu» verso cui è invece fatto
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precipitare il viaggiatore, nella disperata ricerca del «nouveau», che è l’ultima parola
della poesia, e dei Fiori del Male, ma non nella traduzione di Caproni.
Ma allo stesso tempo è anche possibile riconoscere l’ombra di quel che sarà il viaggia-
tore caproniano nella traduzione del Voyage, lì dove il traduttore rinuncia al lascito
romantico che ancora attribuisce alla Morte una funzione iniziatica e garantisce all’esi-
stenza uno sbocco metafisico. Nel traduttore che, nell’ultima strofa, apostrofa e non
invoca il «vecchio capitano», che fa della partenza un naufragio, è già avvertibile il
poeta della Lapalissade in forma di stornello: «Rosa di maggio. / La morte non è un
luogo. / Tantomeno un passaggio».
Rosa di maggio dunque come fiore del male, creazione risvegliata dalla traduzione,
così come la traduzione del Voyage avrà risvegliato in Caproni il tema latente della
Bestia che misteriosa scorazzerà attraverso le pagine del Conte di Kevenhüller (-).
Essa è assente dal testo di Baudelaire, ma presente nella traduzione di Caproni: è la raf-
figurazione che egli liberamente assegna al Tempo, «l’ennemi vigilant et funeste» (v. )
a cui alcuni sanno dare la morte «sans quitter leur berceau» (v. ). Metafora che
Caproni trasforma in: «la belva, vigilante e funesta, / Il Tempo! […] e c’è anche / chi
riesce ad ammazzarlo senza uscir dalle tane». Belva e tane, lessico destinato a diventa-
re prettamente caproniano, sono il dono del poeta al traduttore: il dono dell’originale.
Si ricordino allora le parole di Monselice: il poeta «investe il traduttore del suo potere,
suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò che era in lui ma dormiente, notturno e quindi
ignorato». Dormiente era la metafora della bestia, che la traduzione risveglia e di cui il
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poeta si appropria nutrendone e la traduzione stessa e la sua opera. E se negli anni che
separano la traduzione dalla redazione del Conte, la Belva perderà il suo nome, il
Tempo, essa manterrà tutta quella carica di mistero terribile che Caproni avrà impara-
to a conoscere traducendo Baudelaire, e che egli tradurrà nella sua poesia, a riprova che
il nouveau, in poesia, non è mai assolutamente tale.
Note
. Benjamin (, p. ). Che si tratti di una facile coincidenza, o di una non verificata conoscen-
za del testo di Benjamin da parte di Caproni, rimane che, dovendo dare un esempio del diverso regi-
stro connotativo, ovvero dei diversi “significati armonici” che una stessa parola riceve in due lingue,
egli addusse la differenza tra l’inglese bread e il «cattolicissimo pane» (Caproni, , p. ), lì dove
Benjamin, con lo stesso intento, adduceva la differenza tra brot e pain (ivi, p. ).
. Caproni (), testo ripreso e ampliato in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico,
Guerini e Associati, Milano , pp. -, e quindi, nella sua prima stesura, in Caproni (, pp. -).
. In due articoli del e del , recuperati da E. Bricco (), già tralignava il ricorso alla
metafora monetaria per dire l’intraducibilità del testo poetico percorrendo la via della restituzione:
«La prosa è sempre traducibile, la poesia lo è solo pagando un forte (e spesso fallimentare) tasso di
sconto»; «Le parole corrono tra gli uomini come le monete. […] E si sa che le monete straniere sono
valuta estera – in questo caso, sempre valuta che nel cambio perde per quell’ineliminabile diritto d’u-
sura che, in tal commercio, va sempre a discapito del primitivo potere d’acquisto. Così ecco perché
volgarmente si dice che tradurre equivale a impoverire un testo» (Caproni, ).
. Il riferimento è all’aneddoto secondo cui Dylan Thomas avrebbe un giorno detto di voler far
sentire, attraverso la sua poesia, “la musica del paradiso”. André Frénaud ha riportato queste parole
in chiusura della sua poesia Il n’y a pas de paradis (), che in italiano ebbe traduzione di Luzi ()
e di Caproni (). L’analisi contrastiva di queste due traduzioni, con particolare riferimento al detto
thomasiano, è stata brillantemente condotta da P. V. Mengaldo (, pp. -).
. G. Caproni, Il Valéry di Tutino, in “La Nazione”, novembre , ora in Id. (, pp. -).
. Caproni (, p. ). Si ricordi quanto aveva scritto Baudelaire al suo avvocato alla vigilia del
processo: «A un blasphème, j’opposerai des élancements vers le Ciel, à une obscénité, des fleurs pla-
toniques» (Baudelaire, , p. ).
. Fusées, Macchia (, p. ).
. Altomonte (). Si tratta di una dichiarazione giornalistica e deve essere considerata una scon-
fessione di quell’edizione, e non della traduzione in quanto tale. Risulta pertanto difficilmente giusti-
ficabile l’esclusione di questo importante lavoro dalla Bibliografia che correda l’edizione delle Poesie
nei “Meridiani” Mondadori.
. Baudelaire (in stampa).
. Ragioni editoriali non permisero di portare a compimento il progetto, che è stato invece egre-
giamente realizzato nel , sulla base delle compiute indicazioni di Caproni, da Enrico Testa (Capro-
ni, b).
. Le Reniement de Saint Pierre, Abel et Caïn, La Mort des amants, La Mort des pauvres, La Mort
des artistes, La Fin de la journée e Le Rêve d’un curieux.
. Pensiero pio (Caproni, a, Il muro della terra, p. ).
. Deus absconditus (ivi, p. ).
. Il Pastore (ivi, p. ).
. Ivi, pp. e .
. Ivi, p. .
. Né può risultare estraneo il più ovvio ricordo di Spleen IV, la «folle danza» evocando anche il volo
cieco dell’«Espérance» mutata in pipistrello, «Et se cognant la tête à des plafonds pourris», verso che
Espérance richiama nel suo penultimo distico: «Guardai la finestra. Murata. / La porta. Condannata».
. I campi (Caproni, a, Il muro della terra, p. ).
. Il passaggio d’Enea (ivi, Le stanze, p. ). Cfr. Dei (, p. ).
. Effetto non dissimile è procurato dal v. : «[Faites] Passer sur nos esprits, tendus comme une
toile, / Vos souvenirs […]», che Caproni traduce: “«[la fronte] Ventilateci, tesa com’è tesa la tela, /
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Con i vostri ricordi […]». Lì dove la semplice allitterazione francese in /t/ dà luogo ad una prolifera-
zione allitterativa procurata dalla doppia ribattuta dell’accento che, con la sua nervosità ritmica, dram-
matizza fortemente l’immagine. Esempio di quella costante nelle traduzioni poetiche di Caproni rile-
vata da E. Testa, costituita dai «frequentissimi effetti allitterativi da cui germinano, talvolta, echi ana-
grammatici che risillabano, incrementandola, la partitura originale» (Testa, , p. XIX).
. Inferno, XVIII, ; XXIX, .
. Inferno, XV, ; Purgatorio, XX, .
. Tale scelta non può essere ascritta a ragioni di rima, ché «nuovo», in luogo di «Ignoto», avrebbe
costituito un’assonanza perfetta con «fuoco». Ringrazio Andrea Afribo, al cui occhio metrico nulla sfugge.
Bibliografia
Vuole la leggenda che i traduttori arabi fossero soliti bruciare gli originali greci dopo
averli tradotti: una tecnica che ricorda quella strategico-militare di bruciare le tracce
lasciate sul terreno per eliminare ogni residuo mezzo di sostentamento al nemico. Se
per nemico, in un simile immaginario di eserciti in fuga, si può forse individuare colui
che conosce entrambe le lingue – e può dunque criticare la traduzione, pretendere di
discuterne la fedeltà e la veridicità ed esattezza –, l’azione mirante ad eliminare il rap-
porto con la tradizione eliminando quello con la traduzione e ponendo il testo super-
stite come unico e quindi in un certo senso originale, incarna un procedimento che
ricorda in parte quelli in uso presso le avanguardie letterarie, quelle storiche come quel-
le tardonovecentesche. Porsi metaforicamente come “gli uccisori del chiaro di luna”,
gli assassini di tutti gli Chopin, di tutti gli Strauss: autoproclamarsi come la diga che
arresti lo scorrere di ogni “Danubio blu”.
La tradizione oggi in vigore esige un traduttore servo fedele all’originale, e consa-
pevole del suo ruolo di garante: garante di un testo, garante del passaggio di un mes-
saggio, garante spesso già di una tradizione traduttologica. Unica licenza a questa legge
del nostro tempo (benché sappiamo quanto la storia della cultura sia ricca di traduzio-
ni infedeli e di ogni sorta di adattamenti) si ha nel caso della traduzione d’autore.
Sebbene i casi di bilinguismo letterario siano oggi sempre più frequenti, più rara è
l’incidenza di autori che siano anche autotraduttori (cfr. Gentes, in stampa): il caso più
celebre in questo senso è probabilmente quello dell’opera di Samuel Beckett, autotra-
duttore di quasi tutti i propri testi. La critica del bilinguismo beckettiano – su cui evi-
terò di soffermarmi in questa sede – è uno dei filoni più nutriti e ancora in espansione
degli studi su Samuel Beckett, che una volta provocatoriamente offrì, a chi gli chiede-
va il perché del passaggio alla lingua francese come lingua letteraria, questa sgramma-
ticata risposta: «Pour faire remarquer moi».
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Amico del celebre autore irlandese, e critico accademico pioniere degli studi americani
su Samuel Beckett, Raymond Federman, – scrittore e critico bilingue nato in Francia a
Montrouge nel e oggi cittadino americano – inscrive la propria opera nel solco del-
l’autotraduzione e negli scritti teorici riflette spesso sulla sua condizione di creatura
bilingue. Tra i maggiori esponenti della letteratura e della teoria critica postmoderna,
Federman pratica sistematicamente l’autotraduzione di tutti i testi brevi e di tutti quel-
li poetici (che in alcuni casi esistono anche in una terza lingua, ovvero il tedesco), pro-
cedendo talvolta nel senso di stesure parallele del testo: «J’ai l’impression que l’original
n’est pas achevé tant qu’il n’a pas son équivalent français ou anglais» (Federman, c,
p. ). Sentendo ogni testo incompleto finché non è tradotto nell’altra lingua che parla
in lui, sia essa l’inglese o il francese, Federman ha finora tradotto in inglese tutti i roman-
zi scritti in francese e rivede personalmente tutte le traduzioni allografe in francese dei
romanzi americani, anche se queste traduzioni non possono definirsi autotraduzioni e
sono di fatto affidate alla responsabilità di terzi.
Sin dalla primissima esperienza di trasposizione di un testo dal francese all’ingle-
se, – ovvero la traduzione del romanzo Amer Eldorado () in Take It or Leave It
() – Federman si rivela molto lontano dalla prassi ortodossa della traduzione. In
questo caso il passaggio di lingua si svolge nell’ambito di quella che viene definita con
termine tecnico version, ovvero la trasposizione dalla lingua materna alla lingua appre-
sa, mentre in Beckett si dà sia il caso della version, sia soprattutto quello del thème,
che descrive il passaggio dalla lingua straniera alla lingua d’origine.
Le autotraduzioni di Federman, che sono però improntate, ancor più di quelle
beckettiane, a principi di assoluta libertà dell’autore rispetto al testo da tradurre, e che
lo stesso autore non definisce traduzioni, ma transactions, presentano spesso una forte
componente amplificatoria e digressiva rispetto al testo originale.
Dalla disamina del primo romanzo autotradotto Amer Eldorado/Take It or Leave
It, emerge come la trasposizione che Federman realizza del proprio testo dal francese
all’inglese avvenga principalmente secondo tre modalità, in cui il grado di trasforma-
zione e stravolgimento del testo originale si articola e si definisce. Tali modalità – di
volta in volta modulate diversamente secondo l’arbitrio dell’autore – non aderiscono
esattamente alle tipologie classiche di traduzione in uso nella linguistica e per comodità
di analisi potremmo descriverle come segue:
. Translation: caratterizzata dall’assenza di scarti o differenze rilevanti tra le due ver-
sioni del testo, corrispondente alla traduzione «naturalizzante» (cfr. Berman, ;
Oustinoff, ).
. Transaction: caratterizzata dalla presenza massiccia di modifiche, aggiunte e omis-
sioni, corrispondente alla traduzione «decentrata» (ibid.).
. Digression: caratterizzata dall’aggiunta di parti nuove (come ad esempio il pretext
di Take It or Leave It, del tutto assente in Amer Eldorado), in genere digressioni di tipo
metaromanzesco: impensabile come via di traduzione ortodossa, se non in quanto con-
nessa all’esperienza stessa di riscrittura da parte dell’autore.
Le successive esperienze di autotraduzione di Federman non si inscrivono sempre
e necessariamente nella medesima fenomenologia, tuttavia essa può rappresentare uno
strumento utile e funzionale all’analisi del suo corpus autotradotto. Caratteristica comu-
ne a tutti i testi che cadono sotto l’egida del passaggio da una lingua all’altra è invece la
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presenza di scarti del testo più ad un livello macroscopico che non microscopico: a
livello cioè più della struttura generale del testo che non all’interno della singola frase,
la cui forma venga assunta come unità da trasportare, salvaguardare o modificare nel
passaggio da una lingua all’altra.
La singola frase, qualora rientri nella più tradizionale delle tre modalità sopra
descritte, e possa cioè essere ascritta alla categoria della latina traslatio, viene comun-
que sistematicamente stravolta: possiamo dunque parlare di traduzione «naturalizzan-
te» solo in termini molto relativi, e sempre e solo in relazione alle altre modalità utiliz-
zate da Federman, ancor meno rispettose dell’unità originaria del testo da tradurre.
Esito estremo e maturo di un lungo percorso di autotraduzione e frutto di una
consapevolezza ludica e autoriflessiva tipicamente postmoderna è l’opera doppia,
pubblicata prima in francese nel con il titolo Mon corps en neuf parties, e poi
edita nella versione americana (rivista e ampliata) My Body in Nine Parts del . Si
tratta di un romanzo sui generis, di un viaggio nel corpo dell’autore attraverso alcune
parti del suo corpo: ad ogni parte chiamata in causa è dedicato un capitolo, accom-
pagnato dalla relativa fotografia in bianco e nero. Presi a pretesto per raccontare di
sé, e introdotti da un eloquente distico del Cimetière marin di Paul Valéry («Quel
corps me traîne à sa fin paresseuse, / quel front l’attire à cette terre osseuse?»), capel-
li, naso, dita dei piedi, voce, organo sessuale, molare rotto, orecchie, occhi, mano e
cicatrici, più una «lista di quella che faccio al mio corpo ogni giorno»: nove elementi
fisici che fanno da viatico in questo singolare, ironico e malinconico viaggio con quel-
lo che è l’irrinunciabile e inseparabile compagno di ogni vita umana. Sorta di danza
macabra ilare e postmoderna, di baudelairiana «sublime pantomima sull’orlo dell’a-
bisso», l’opera ripercorre una vita ricca di aneddoti, talvolta divergenti dalla versione
francese alla versione inglese del testo, aprendo un ventaglio di digressioni potenzial-
mente infinite.
Dall’infanzia povera ed ebraica vissuta a Montrouge prima della deportazione
della famiglia (padre, madre e due sorelle), passando per il maggio francese, lo strut-
turalismo, le partite di tennis in doppio con sua moglie, senza trascurare una tirade
sul suo ingombrante naso giudeo degna del Cyrano di Rostand: Il mio corpo in nove
parti è un romanzo che ricorda gli Esercizi di stile di un Queneau bilingue, che come
Céline ha attraversato l’oceano e vissuto di mille espedienti, che scrive in una lingua
che è insieme colta, altamente consapevole e al tempo stesso parlata, argotica nella
versione francese, quasi cruda nella nudità della versione inglese, invasa e pervasa da
un incessante ritmo di jazz.
Seguendo una procedura analitica che ricorderà forse quella della lettrice post-
moderna del romanzo di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore, – anco-
ra un romanzo molto “oulipiano” nella tecnica di composizione, costituito da una
serie di incipit di romanzo – ho isolato nell’opera bilingue autotradotta i più rilevanti
scarti testuali, considerati alla stregua di varianti adiafore del testo (ovvero tutte
ugualmente valide, perché varianti d’autore, dovute a mutamenti della volontà del-
l’autore giunti alla pubblicazione non postumi). Un sintetico catalogo di tali “varian-
ti” o “scarti testuali”, – dunque non corrispondenti alla categoria della traslatio, ma
alle categorie nuove della transaction e della digression caratteristiche della tradu-
zione d’autore o autotraduzione – rileva che la maggior parte degli scarti individua-
ti rientrano nella categoria della digression (capelli, supplemento capelli, naso, dita
dei piedi, supplemento orecchie, cicatrici). I mutamenti più sottili invece, ascrivibi-
li alla categoria della transaction e che non danno luogo a parti nuove, ma a casi di
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«Ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti,
ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura
del racconto e al linguaggio»
Così parlava Calvino (, p. ), o immaginava di parlare, mentre progettava la prima
delle conferenze che avrebbe poi costituito il corpus delle sue celebri Lezioni america-
ne. Il romanzo bilingue e a dir poco sui generis che Raymond Federman dedica al pro-
prio corpo – composto in occasione di una conferenza di semiotica davanti a un pub-
blico di attempati semiologi tedeschi che si erano rivolti all’autore, attempato profes-
sore ebreo franco-americano di letteratura e noto performer della postmodernità sta-
tunitense, per un intervento sul corpo – ha tutta l’apparenza di un’opera leggera, di
piacevole lettura, che affronta in modo scanzonato e divertito, se non superficiale, il
tema della propria decadente fisicità, documentata parte per parte da un corredo di
dieci fotografie in bianco e nero, scattate all’autore dal fotografo Steve Murez.
Il già citato distico di Paul Valéry posto in esergo all’opera, seguito da due motti
dell’autore (nelle vesti del più comune dei suoi alter ego, ovvero Moinous) costituisce
un evidente e tragico memento mori, che stride con i toni ludici, talvolta esasperata-
mente ludici, di questo racconto di una vita attraverso il corpo, comprese le cicatrici e
la storia dei suoi tagli di capelli. Il distico di Valéry recita:
Con tutta evidenza è presente, in questi due versi, l’interrogarsi sul proprio corpo che fa
di esso un corpo estraneo e passibile di fredda osservazione: qualcosa che muta, decli-
na, attirato dall’irresistibile magnetismo che lo condurrà, un giorno, sotto terra. La fron-
te, che è teschio e dunque osso, trascina verso la terra ossosa, presumibilmente perché
abitata già dalle ossa che ci precedono. Su un argomento sommamente macabro qual è
questa variazione sul tema et in pulverem reverteris, un Federman/Osiride (Osiride già
ucciso e fatto in pezzi dal fratello Seth, secondo il mito egizio, poi ricomposto e fatto
resuscitare dalle arti magiche della sorella/amata Iside) istituisce un proprio carnem vale
(l’“addio alla carne”, il carnevale che precede appunto il giorno delle Ceneri), la propria
carnevalesca, grottesca e tragica, danza macabra, sull’orlo dell’abisso che tutti ci atten-
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de, «le gouffre d’en haut» di cui parlava Baudelaire, che è anche il precipizio spesso pre-
sente, insieme ad altre catastrofi, come topos nell’opera di Federman. La dinamica della
dilatazione del testo che passa dal francese all’inglese è probabilmente legata anche al
contesto esperienziale reale che il testo riporta o rievoca sulla pagina, sempre di natura
artificiosamente autofictiva, di Federman. Il francese può permettersi di essere più iro-
nico perché in esso manca la dimensione dialogica, la dimensione relazionale che invece
il narratore ricostruisce nel contesto americano e anglofono, così come il sopravvissuto
alla guerra e all’Olocausto ricostruisce in esso la propria vita e la propria identità, sim-
boleggiata dall’immagine dei capelli-piume (evidente riferimento al nome Federman, o
uomo-piuma, o uomo-penna):
Mais un jour, quand je faisais encore la déprime, et je parlais même de suicide, elle me
dit, Tu sais c’est pas ton bouquin des nouilles qui te rend comme ça, c’est tes cheveux,
oui tes tifs qui foutent le camp. Tu te déplumes, et veux pas l’admettre (Federman,
a, p. ).
But one day, when I was really deep into the depression, and I was even talking suicide,
she said, You know it’s not your noodle novel that puts you in this mood, it’s your hair.
Yes, your crop of hair is thinning. You’re losing your feathers Federman, and you won’t
admit it. I know how much your hair means to you. Now it’s taking its revenge for hav-
ing been neglected when you were a boy.
She was right.
If only I had known. I am sure all men lament the loss of their hair by the fact they
neglected it when they were young (Federman, c, p. ).
Sebbene nel testo in inglese il discorso sul processo di scrittura, – qui pretestuosa-
mente messo in relazione con il problema, un po’ umiliante e ridicolizzante, del
taglio dei capelli – sia posto con maggiore evidenza, dato il carattere sempre autori-
flessivo che le versioni americane dei testi di Federman hanno rispetto alle versioni
francesi, in entrambe la rivoluzione del taglio in avanti sembra riprodurre il rappor-
to con la scrittura che si vuole proiettata in avanti e non attaccata al passato. Nel sag-
gio teorico Surfiction c’è un passaggio assai eloquente in merito alla necessaria auto-
referenzialità (anche involontaria e inconscia) della scrittura e alla poetica dell’auto-
re che nega fortemente la pre-esistenza di un senso rispetto al processo in divenire
della produzione (e non ri-produzione) del senso nell’atto dello scrivere:
Pendant des siècles, l’écriture a été considérée comme la simple transmission d’un mes-
sage qui précédait le discours. Celui qui écrivait ne faisait qu’interpréter, transcrire, tra-
duire pour le lecteur une signification qui était censée exister, comme un objet invisible,
quelque part dans l’univers. Donc, grâce au discours, grâce à l’écriture, le lecteur entrait
en contact avec ce sens caché, vrai, absolu et universel. On partait du principe qu’il y
avait quelque chose qui pré-existait à l’acte d’écrire, un signifié, pour reprendre la ter-
minologie du linguiste français Ferdinand de Saussure, et que l’écriture était là pour
révéler ce signifié et en faire un signifiant. […] Mais il arriva quelque chose à ce petit
système bien réglé et l’on se rendit compte que l’écriture fonctionnait comme signifié
tandis que la lecture était le signifiant […]. Cela revient à dire qu’écrire, c’est produire
du sens, et pas seulement reproduire un sens pré-existant (Federman, c, pp. -).
Se nella raccolta di saggi pubblicata sotto il titolo Surfiction, come ovunque nella sua
opera, – dal primo testo critico del sui primi romanzi di Samuel Beckett fino alla
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propria auto-fiction – Federman non si stanca di sostenere che in ultima analisi la scrit-
tura, il linguaggio, ma soprattutto il linguaggio letterario nella sua gratuità e autorefe-
renzialità, non ha in realtà altro oggetto che se stesso, allora va da sé che il corpo fatto
a pezzi che Federman ci espone, con leggerezza e ilarità, quasi con una superficialità
che produce un inspiegabile fastidio, non è solo quel corpo. Esso è anche, come inse-
gnavano gli archineaniskòi nei misteri antichi di iniziazione alla gnosi, «il corpo vanifi-
cato, fatto a pezzi, di Osiris-logos» (Bologna, , p. ):
Anche il “lamento sul dio morto” di Federman, sui suoi capelli cadenti e sulla sua
nuova «coupe de cheveux impériale à la César» (Federman, a, p. ), si conclu-
de tutto sommato con una scoperta di gioia, di salvezza dagli affanni, o quanto meno
con la scoperta della propria via per la Laughterature. Ed è solo in inglese che tale
metodo può essere descritto in tutta la sua reale ampiezza e portata liberatoria non-
ché ludica e irriverente, prendendo il suo necessario spazio sulla pagina, proprio
come l’uomo-errante Federman aveva conquistato lottando contro l’angelo della
dannazione-benedizione il proprio spazio per la vita, l’opposto in positivo di quel
Lebensraum in nome del quale un intero popolo aveva dovuto subire l’orrore dello
sterminio:
C’est aussi à partir de ce jour que j’ai compris comment il fallait écrire le roman de
nouilles. En avant en fou rire, en me projetant dans l’histoire sans me soucier de ce qui
pourrait arriver (ibid.).
It’s also that memorable day that I understood how I had to write the noodle novel.
Straight forward in mad laughter, without worrying about what was left behind, simply
projecting myself into the story without worrying about what would happen, or would
not happen. That day I invented the leap-frog technique. Better known as Laughtera-
ture (Federman, c, p. ).
come alfa e omega, come estremo tentativo, potenzialmente fallimentare, di ricerca del
“senso perduto” (o “esautorato” di cui già parlava John Barth):
Il y aussi une autre raison de vouloir s’auto-traduire: puisque nous savons que c’est le
langage qui nous mène où nous voulons aller et en même temps nous en empêche (je
paraphrase ici Samuel Beckett), en ayant recours donc à un autre langue, cette autre
langue qui est en nous, il se peut que nous ayons une meilleure chance d’arriver où nous
voulions aller, une meilleur chance de dire ce que nous voulions dire, ou au moins une
deuxième chance de réussite. En d’autres termes, nous avons ainsi la possibilité de cor-
riger les erreurs du texte original.
L’acte originel de création, c’est bien connu, s’accomplit toujours dans le noir, dans
l’ignorance, dans l’erreur. Bien que l’acte de traduction (et en particulier de l’auto-tra-
duction) soit aussi un acte créateur, il s’effectue toujours dans la lumière du texte origi-
nal, en pleine connaissance du texte qui existe déjà, et donc il s’effectue sans erreur, au
moins au départ (Federman, c, pp. -).
Comment s’étaient-t-ils rencontrés? Par hasard, comme tout le monde. Comment s’ap-
pelaient-ils? Que vous importe? D’où venaient-ils? Du lieu le plus prochain. Où
allaient-ils? Est-ce que l’on sait où l’on va? Que disaient-ils? Le maître ne disait rien; et
Jacques disait que son capitaine disait que tout ce qui nous arrive de bien et de mal ici-
bas était écrit là-haut (Diderot, , p. ).
L’analogia dei due celebri incipit è assai evidente (se si esclude la scelta beckettiana di eli-
minare le dialettiche “risposte” di Diderot, come pure la scelta di eliminare dalla narra-
zione l’altro, l’interlocutore, sia esso il padrone o il servo, per non lasciare che le inquie-
tanti domande di una voce monologante) e in entrambi la scrittura si riconosce sorta dal
caso e diretta verso l’ignoto. Ma presto entrambi i testi rivelano scopertamente il proprio
artificio retorico, che il monito diderottiano assez de baratin! sembrerebbe denunciare.
«C’est de la réthorique» ammette Beckett, e il servo Jacques non aveva forse già detto che
«chaque balle qui partait d’un fusil avait son billet», quasi a suggerire di non credere allo
scrittore, neppure quando afferma di mentire, di non sapere dove va e perché?
Il mio corpo in nove parti non è il corpo di un uomo, dell’autore di autofiction
Raymond Federman. Lo è, ovviamente. Ma non è di questo che si sta parlando.
Della «profondeur des couches de ma chair» aveva appunto già parlato il Monsieur
Teste dell’antiromanzesco Valéry. La scrittura, secondo Federman già sin dal suo
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primo testo teorico del su Samuel Beckett, non ha in realtà altro oggetto che se
stessa. Si serve dei materiali più disparati: luoghi, date, personaggi, linguaggi, stili,
forme, per nient’altro che per parlare di sé. Un po’ come accade alla psiche nel
sogno: è noto che il sogno è una rielaborazione dei materiali della psiche che pren-
de ad oggetto il materiale della vita del soggetto sognante. Un teatro mentale. In
questo senso, anche il linguaggio, umile servo del messaggio, è un codice che ha per
fine se stesso. Un servo al servizio di se stesso.
Ogni lettore del celebre antiromanzo di Diderot Jacques le fataliste avrà facil-
mente notato l’affinità tra i dialoghi del servo Jacques e del suo padrone e gli pseu-
do-dialoghi delle pseudo-coppie beckettiane, di Hamm e Clov in Finale di partita, ad
esempio: nel rivolgersi alla lingua francese come lingua della creazione letteraria,
Beckett sceglieva di inscrivere la propria opera nel solco della tradizione antiroman-
zesca, autocritica e autoriflessiva, uno dei cui ultimi rappresentanti – secondo le
Lezioni americane di Calvino – è il Georges Perec di La vie, mode d’emploi, con i suoi
capitoli e le sue “storie d’appartamento” (che ricordano nel numero i canti di
cui è composta la Commedia dantesca).
Il romanzo a pezzi, che racconta il corpo fatto a pezzi, di Raymond Federman attua
un’operazione strutturalmente analoga nel principio di scomposizione dell’oggetto: in
esso il corpo in ballo, insieme al corpo fisico dell’autore, è il corpo del linguaggio (che
annuncia nove parti, e offre in realtà un Cenacolo di tredici elementi, o sezioni, giacché
alle nove parti annunciate nel titolo si aggiungono quattro supplementi).
Il messaggio, in questo caso, fa la spola tra due testi che costituiscono l’opera nel
suo insieme, così come le due lingue costituiscono le modalità di decodificazione ed
espressione del pensiero nell’individuo bilingue.
«Veux-tu être le maître ou l’esclave, et l’esclave le plus malmené? Choisis» ci si
chiede nel testo di Diderot.
Servo e padrone coincidono e si invertono, carnevalescamente, per dirla in termini
bachtiniani. O meglio il messaggio qui è l’Arlecchino servo di due padroni, libero in
realtà di servirsi di entrambi e vero padrone dell’azione. In questo testo composto come
si è detto in occasione di un convegno di semiotica sul corpo, il vero messaggio è allo-
ra la funzione comunicativa, il contenitore, la creta da plasmare: il corpo neutro del lin-
guaggio. Il clown malinconico con il suo corpo mezzo a chiazze, mezzo abbozzato e
lasciato incompiuto, privo di colore e determinazioni, seduto e ritratto in una posa di
pensosa dignità, come il celebre Arlecchino di Picasso, il cui corpo (tranne la testa e una
spalla) emerge dall’indistinto colore sullo sfondo, tratteggiato e abbozzato e voluta-
mente lasciato in bianco dal pittore nel .
Bibliografia
ALMEIDA ALVES DE ABREU M. M. (), Ecriture et mémoire: écrire après la Shoah, (Ph. D. thesis)
Universidade do Minho, Braga (Portugal).
BAETENS J. (), Raymond Federman et la visualité d’un livre parlé: Take It Or Leave It, in “Rivi-
sta di letterature moderne comparate”, LIV (nuova serie), aprile-giugno, pp. -.
BARTHES R. (), Le degré zéro de l’écriture, Seuil, Paris.
ID. (), Le plaisir du texte, Seuil, Paris.
BECKETT S. (), L’Innommable, Minuit, Paris.
BERMAN A. (), Pour une critique des traductions: John Donne, Gallimard, Paris.
BERMAN A. et al. (), Les tours de Babel, Trans-Europe-Express, Mauvezin (France).
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Senza ambire alla sistematicità di uno studio traduttologico, questo lavoro si basa sulla
persuasione che la grande scommessa della traduzione letteraria sia far passare da una
lingua all’altra tutta l’intenzione estetica di un autore al fine di superare il «curieux
nationalisme internationalisé» (Kundera, , p. ) di cui parla Milan Kundera nel-
l’articolo intitolato L’art de la fidélité. Detentore di un’esperienza attiva quanto passiva
della traduzione, Kundera, come tutti gli autori che seguono i propri traduttori, parte
da un’implicita esigenza di fedeltà pur consapevole dei limiti che questo termine com-
porta, poiché nessuna parola di una lingua trova un suo equivalente assoluto in un’al-
tra: «La fidélité d’une traduction n’est pas chose mécanique, mais exige inventive et
créativité. La fidélité en traduction est un art» (ibid.).
L’arte di rimanere fedeli al senso di un testo letterario si fa del resto imperativa di
fronte a quello che Kundera ha definito il primo «roman devenu poésie» (Kundera,
, p. ) il romanzo cioè pronto ad assumere le più alte esigenze della poesia, come
l’intenzione di cercare sopra ogni cosa la bellezza, l’importanza di ogni singola parola,
l’intensa melodia del testo, il richiamo dell’originalità applicato ad ogni particolare.
Pubblicato in Francia nel , Madame Bovary viene tradotto per la prima volta in Ita-
lia nel , quando l’eco dello scandalo dovuto ai contenuti dell’opera ne offuscava le
novità della prosa con cui l’autore lanciava una sfida audace alla poesia (Donatelli,
, p. ). Proprio nell’anno in cui, con la pubblicazione delle Fleurs du mal, la poe-
sia lirica trovava la sua essenza, il romanzo ambiva ad emanciparsi dalla tirannia del nar-
rativo facendo della precisione semantica il suo tratto distintivo. Per la prima volta nella
storia della letteratura la forma non è più al servizio dell’idea, ma costituisce un tutt’u-
no con essa: «Où la Forme, en effet, manque, l’Idée n’est plus. Chercher l’un c’est cher-
cher l’autre. Ils sont aussi inséparables que la substance l’est de la couleur, et c’est pour
cela que l’art est la vérité même» (Corr., II, p. ).
Carne stessa del pensiero, la forma inseguita dall’autore di Madame Bovary ambi-
sce al ritmo e alla sonorità del verso, affinché ogni frase sia unica e irripetibile nel suo
tentativo di restituzione del reale, valendo così quella che per Flaubert è una vera e pro-
pria “discesa agli inferi” (ivi, pp. , ). Unire la poesia della forma alla prosa del
contenuto è quindi l’ambizione di un Flaubert ormai trentenne che sceglie espressa-
mente un intreccio banale per fare dello stile la sola ed unica ragione di scrivere.
Numerosi studi, a partire da quello di Marcel Proust nel (Proust, , pp. -
) hanno accertato l’esito assolutamente positivo di questo progetto estetico, rile-
vando la sorprendente modernità della scrittura di Flaubert, il suo soggettivismo nella
selezione di pronomi, tempi verbali, congiunzioni, avverbi e preposizioni che non meri-
tano meno attenzione delle scoperte esistenziali custodite in Madame Bovary. Proprio
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perché in Flaubert (come più tardi in Proust) la singolarità dello stile coincide con la
singolarità del pensiero e soltanto determinate soluzioni formali consentono al roman-
ziere di gettare una luce nuova sul mondo umano.
Ora, tenere presente questo parallelismo tematico dello scritto e dell’umano è
indispensabile per cogliere il valore estetico di Madame Bovary che, per la portata
della sua scoperta, non appartiene esclusivamente al contesto nazionale di origine,
ma a quello europeo. Come tutte le grandi opere entrate a far parte della storia del
romanzo europeo, Madame Bovary fa capo al contesto della Weltliteratur goethiana
e si configura pertanto come un testamento suscettibile tanto di tradimento quanto
di fedeltà da parte dei suoi traduttori. In altre parole, una traduzione fedele è la con-
ditio sine qua non per cogliere il valore estetico dell’opera anche al di fuori del suo
contesto nazionale.
Secondo Kundera, per giudicare un romanzo non occorre conoscere la sua lingua
originale, anzi «un recul géographique éloigne l’observateur du contexte locale et lui
permet d’embrasser le grand contexte de la Weltliteratur, seul capable de faire apparaî-
tre la valeur esthétique d’un roman, c’est-à-dire: les aspects jusqu’à alors inconnus de
l’existence que ce roman a su éclairer; la nouveauté de la forme qu’il a su trouver»
(Kundera, , pp. -). Dostoevskij, ad esempio, non è mai stato capito così profon-
damente come da un francese: Gide (che non sapeva il russo); Ibsen da un irlandese:
George Bernard Shaw (che ignorava il norvegese); Dos Passos da Sartre (che non lo ha
letto in originale). Sono tutti esempi dell’esito che può e deve avere una traduzione
fedele: far passare da una lingua all’altra l’intento estetico di un autore.
Nel caso di Flaubert, un traduttore fedele dovrebbe preoccuparsi non soltanto
del lato semantico e sintattico, ma anche di quello stilistico, metrico e fonosimboli-
co, tenendo sempre presente che, in Madame Bovary, la distinzione perorata da
Umberto Eco tra prosa e poesia (Eco, a, pp. -) si fa infima, poiché gli effetti
passionali suggeriti dal romanzo non vanno confusi con l’intento dell’autore di fare
un “esercizio di stile” finalizzato a una scrittura strutturata non sull’intreccio ma sul-
l’espressione. Questo spiega perché la battaglia combattuta dai primi traduttori ita-
liani di Flaubert fosse particolarmente disperata: influenzati dai naturalisti che lo
eleggevano a loro maestro e da storici della letteratura che si ostinavano a chiamar-
lo un realista, antecedenti sia alla prima edizione delle opere complete comparsa in
Francia soltanto nel , sia al noto studio di Proust datato, come abbiamo detto,
, e distratti per giunta dal processo seguito alla pubblicazione del romanzo, gli
autori delle prime traduzioni di Madame Bovary sono «più da compatire che da con-
dannare», non avendo avuto, a differenza dei loro successori, una sufficiente cono-
scenza dello stile personale del romanziere. È a partire dagli anni Trenta che una
maggiore consapevolezza della rivoluzione copernicana compiuta da Flaubert inizia
a delinearsi: note e prefazioni dei traduttori, insieme a saggi di illustri studiosi ita-
liani, come Benedetto Croce, Mario Bonfantini, Vittorio Lugli e Cesare De Lollis,
fanno chiarezza sul malinteso a cui è inizialmente dovuta la fama dell’autore di
Madame Bovary, dove la trasgressione riguarda meno la morale della storia della
poetica del racconto e delle regole formali del genere (Croce, , pp. -; Lugli,
, pp. -; Bonfantini, , pp. -; De Lollis, , pp. -). Basando-
mi su una selezione di sequenze narrative e di passaggi descrittivi che pongono
Madame Bovary al di là del texte lisible tradizionale, verificherò il lavoro di dician-
nove traduttori italiani, la loro tensione alla fedeltà e al tradimento di fronte alla sin-
golarità di un romanzo dove ogni frase assume l’ambiguità propria del verso per
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che consente di non scegliere tra due approcci (tematico o stilistico), ma di parlare di
«lecture double, de la nécessité étrange de lire simultanément de deux façons incompa-
tibles, tantôt en profondeur, tantôt à la surface d’un texte à la fois opaque et transpa-
rent» (Falconer, , p. ). È il caso delle traduzioni di Cenacchi, p. ; Bideri, p. ;
Salani, p. ; Zanghieri, p. ; Lazzeri, p. ; Valeri, pp. -; Angioletti, p. ; Oddera, p.
. Ma l’ambiguità del testo fonte si perde in tutte le altre edizioni: Achille, oltre a sman-
tellare il corpo tipografico della descrizione che nel testo fonte non forma un capoverso
a sé, si è limitato a inserire il verbo «cominciava» (Achille, p. ), ignorando gli avverbi
che lo seguono; meno grave è l’infedeltà del Campana e della Ruggi, i quali traducono
«ensuite» con «finalmente» (Campana, p. ) e «infine» (Ruggi, p. ); del tutto fuori
luogo è invece il «réflexe de synonimisation» (Kundera, , p. ) di Oreste Del
Buono: «commençait» diventa «aveva inizio» e «ensuite» «poi» (Del Buono, pp. -);
un altro esempio di pratica sinonimizzatrice lo troviamo nella versione di Cecchi, dove
«puis» diventa «quindi» e «ensuite» «poi» (Cecchi, p. ), di Bigiaretti, il quale tradisce
la forma attiva del testo fonte scrivendo «era costituito» (Bigiaretti, p. ), e di Spaziani,
che addirittura scrive «prendeva a girare» (Spaziani, p. ); da segnalare è inoltre la sop-
pressione di «ensuite», da parte di Ginzburg, p. e Morandi, p. , e la ripetizione di
«poi» in Carifi, p. . In conclusione, questa tendenza alla soppressione e alla sinonimiz-
zazione finisce per alterare definitivamente l’ambiguità della scrittura flaubertiana che
trova proprio in apertura di romanzo la sua espressione privilegiata.
Il caos linguistico su cui si chiude la scena ci pone a un analogo bivio interpretati-
vo: bersaglio dell’ironia graffiante degli alunni, Charles potrebbe essere qui descritto
indirettamente affinché emerga, sin dalle prime pagine del romanzo, tutta la sua gof-
faggine (Hamon, , p. ), ma nel contempo il delirio cacofonico affidato al ritmo
quaternario sembra essere il vero protagonista della sequenza, come se Flaubert miras-
se principalmente all’evocazione dell’incoerenza linguistica che anche nella prima ver-
sione della Tentation de saint Antoine aveva associato alle folle. Al traduttore non è
chiesto di chiarire, soltanto di attenersi alla monotonia ritmica della frase che, per la
rappresentazione del collasso linguistico, accomuna gli alunni di Madame Bovary agli
eretici della prima Tentation:
Ce fut un vacarme qui s’élança d’un bond, monta en crescendo, avec des éclats de voix
aigus (on hurlait, on aboyait, on trépignait, on répétait: Charbovary! Charbovary!), puis
qui roula en notes isolées, se calmant à grand’ peine, et parfois qui reprenait tout à coup
sur la ligne d’un banc où saillissait encore çà et là, comme un pétard mal éteint, quelque
rire étouffé (MB, p. ).
Esaminando le traduzioni, emerge che solamente in tre di esse la monotonia del ritmo
quaternario è stata rispettata: si tratta delle versioni di Salani, Del Buono e Angioletti,
i quali si sono concessi un’unica licenza ampiamente accettabile rinunciando a tradur-
re letteralmente «on trépignait». Salani ha scritto «si schiamazzava», Del Buono «si tre-
pestava», Angioletti, ponendo come soggetto «tutti», ha scelto «scalpitavano». Il risul-
tato, in tutte e tre le versioni, è la preservazione del livello ritmico del testo fonte:
Come ha infatti scritto Eco citando Leonardo Bruni, il traduttore «deve affidarsi al giu-
dizio dell’udito per non rovinare e sconvolgere ciò che (in un testo) è espresso con ele-
ganza e senso del ritmo» (Eco, a, p. ). La mancanza di questa riuscita negoziazio-
ne è infatti all’origine dell’infedeltà di altre traduzioni. Traducendo letteralmente («si
battevano i piedi»), hanno spezzato la monotonia ritmica della frase. Costituiscono inol-
tre esempi di tradimenti del testamento di Flaubert le versioni di Giachini e Spaziani: il
primo ha soppresso la sequenza, la seconda ha usato la parola «ritornello» per definire
le urla degli allievi, ma con questo termine ha finito per lenire la brutalità dell’urlo col-
lettivo che il testo fonte lascia intendere: […] urla, lastrati, scalpitii sul ritornello: Char-
bovary, Charbovary! (Spaziani, p. ). Non è il caso invece di parlare di tradimento nei
testi di Bideri, Lazzeri e Ginzburg, i quali hanno sostituito la costruzione verbale con
quella nominale senza però sacrificare la monotonia ritmica nata, come abbiamo detto,
dalla rielaborazione (e non dalla rimozione) della giovinezza letteraria di Flaubert. A
mero titolo esemplificativo cito la versione di Natalia Ginzburg: «[…] era un urlare, un
abbaiare, uno scalpitare, un ripetere Charbovarì! Charbovarì!» (Ginzburg, p. ).
Il conflitto tra significante e significato si consuma anche e soprattutto nella resa
degli spazi, dove Flaubert alterna un comportamento di matrice realista a tecniche di
espressione verbale basate sull’indigestione di ornamenti testuali e tematici. In entram-
bi i casi, l’autore produce ipotiposi per elenco, vale a dire per enumerazione di elementi
(animali, oggetti o dettagli paesaggistici) che, se in relazione con i personaggi o con l’a-
zione narrativa, incoraggiano un approccio tematico e non presentano particolari pro-
blemi per il traduttore. La descrizione della fattoria dei Bertaux, ad esempio, anticipa
l’azione narrativa poiché il catalogo degli oggetti connota il tema della monotonia e
della stagnazione preparando così il lettore all’apparizione dell’eroina e al conflitto con
l’ambiente a cui essa è destinata:
C’était une ferme de bonne apparence. On voyait dans les écuries, par le dessus des
portes ouvertes, de gros chevaux de labour qui mangeaient tranquillement dans des
râteliers neufs. Le long des bâtiments s’étendait un large fumier; de la buée s’en élevait,
et, parmi les poules et les dindons, picoraient dessus cinq ou six paons, luxe des basses
courts cauchoises. La bergerie était longue, la grange était haute, à murs lisses comme
la main. Il y avait sous le hangar deux grandes charrettes et quatre charrues, avec leurs
fouets, leurs colliers, leurs équipages complets, dont les toisons de laine bleue se salis-
saient à la poussière fine qui tombait des greniers. La court allait en montant, plantée
d’arbres symétriquement espacés, et le bruit gai d’un troupeau d’oies retentissait près
de la mare (MB, pp. -).
con «beatamente» (Spaziani, p. ), come se Flaubert non avesse di proposito scelto per
questa descrizione un lessico essenziale (Brombert, , p. ).
Di tutt’altra natura è il registro a cui Flaubert affida il catalogo bulimico riserva-
to alla lunga descrizione di Yonville-L’Abbaye. Qui l’effetto babelico è dato dalla pre-
senza di similitudini, come «les toits de chaume» paragonati a «bonnets de fourrure
rabattus sur des yeux» o i vetri delle finestre «garnis d’un nœud dans le milieu, à la
façon des culs des bouteilles» (MB, p. ), e di oggetti quali «un fagot de fougères
[…] la forge d’un maréchal» (ibid.) che producono effets de réel nella misura in cui
danno al testo l’illusione referenziale ritenuta da Barthes il significante stesso del rea-
lismo (Barthes, , p. ).
Questo lusso di dettagli “inutili” dispensati dal narratore esterno appare piena-
mente recuperato nei testi d’arrivo. In tutte le traduzioni troviamo un fedele transcoda-
ge degli ornamenti testuali e tematici con cui Flaubert ha sovraccaricato la descrizione
di Yonville, rivelando la trasgressione in cui sta l’originalità del suo stile. A onor del
vero, soltanto la Ginzburg e la Spaziani hanno dimostrato di aver capito questa tra-
sgressione che, al di là dell’incontro di cui parla Barthes tra l’oggetto e la sua espres-
sione, si consuma in modo più discreto, quasi impercettibile, nell’evocazione della casa
del notaio: «[…] c’est la maison du notaire, et la plus belle du pays» (MB, p. ).
[…] è la casa del notaio, ed è la più bella del paese (Ginzburg, p. ).
[…] è la casa del notaio, e la più bella del paese (Spaziani, p. ).
tout auteur d’une certaine valeur transgresse le «beau style» et c’est dans cette trans-
gression que se trouve l’originalité (et, partant, la raison d’être) de son art. Le premier
effort du traducteur devrait être la compréhension de cette transgression. Ce n’est pas
difficile lorsque celle-ci est évidente, comme, par exemple, chez Rabelais, chez Joyce,
chez Céline. Mais il y a des auteurs dont la transgression du «beau style» est délicate, à
peine visible, cachée, discrète; en ce cas il n’est pas facile de la saisir. N’empêche que
c’est d’autant plus important (Kundera, , pp. -).
Onore al merito: Natalia Ginzburg e Maria Luisa Spaziani hanno avuto il coraggio di
ribellarsi alla propria lingua obbedendo non all’autorità del bell’italiano, ma a quella
dello stile personale dell’autore, a differenza di tutti gli altri traduttori che hanno sop-
presso la «et» scrivendo «[…] è la casa del notaio, la più bella del paese».
Sempre Proust ha osservato:
[…] ce qui jusqu’à Flaubert était action devient impression. Les choses ont autant de
vie que les hommes, car c’est le raisonnement qui après assigne à tout phénomène indi-
viduel des causes extérieures, mais dans l’impression première que nous recevons cette
cause n’est pas impliquée (Proust, , pp. -).
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[…] elle regardait le disque du soleil irradiant au loin, dans la brume, sa pâleur éblouis-
sante; mais elle tourna la tête: Charles était là. Il avait sa casquette enfoncée sur les sour-
cils, et ses deux grosses lèvres tremblotaient, ce qui ajoutait à son visage quelque chose
de stupide; son dos même, son dos tranquille était irritant à voir, et elle y trouvait éta-
lée sur la redingote toute la platitude du personnage (MB, p. ).
[…] poi voltò il capo: Carlo era là. Aveva il berretto calcato sulle sopracciglia, e le lab-
bra grosse gli tremolavano aggiungendo al suo viso qualche cosa di stupido; perfino la
schiena, la sua schiena tranquilla, era irritante a vedersi e lei vi trovava spiegata sulla
finanziera tutta la insulsaggine dell’individuo (Achille, p. ).
Quanto agli altri traduttori, la soppressione dei due punti a favore della coniugazione
del verbo vedere non può essere considerata un buon lavoro, poiché comporta uno
stravolgimento del senso. Si pensi alla traduzione del Valeri:
[…] ma, volgendo la testa, vide Carlo. Egli era là, col berretto calcato fino alle soprac-
ciglia e le grosse labbra tremolanti – e questo aggiungeva qualcosa di stupido al suo
viso; – perfino la schiena, la sua schiena tranquilla, era irritante da vedere; essa vi leg-
geva, come affiorata e distesa, tutta la mediocrità di quell’essere (Valeri, p. ).
Il faut être du métier pour savoir quelle difficulté il y a à camper debout, en plain lumiè-
re, un héros imbécile. La nullité, par elle-même, reste grise, neutre, sans accent aucun.
Or ce pauvre homme, Charles, a un relief incroyable. Il emplit le livre de sa médiocri-
té; on le voit à chaque page, pauvre médecin, pauvre mari, pauvre et malencontreux en
toute chose. Et cela, sans aucune exagération grotesque. Il n’est que bête, tandis que les
deux amants d’Emma, Rodolphe et Léon, sont d’une vérité d’égoïsme effroyable (Zola,
, p. ).
Charles était triste: la clientèle n’arrivait pas. […] Puis, que de choses endommagées ou
perdues dans le transport de Tostes à Yonville, sans compter le curé de plâtre, qui, tom-
bant de la charrette à un cahot trop fort, s’était écrasé en mille morceaux sur le pavé de
Quincampoix! (MB, pp. -).
L’ironia riposa qui sulla punteggiatura: senza il punto esclamativo finale non avremmo
infatti la certezza del cattivo gusto estetico di Charles, il quale si fa un cruccio della
rottura di un prete di stucco, come se si trattasse di una statua di marmo. La stra-
grande maggioranza dei nostri traduttori è stata fedele alla divaricazione ironica tra
autore e personaggio, poiché ha citato il «curé de plâtre», che segna peraltro l’ingres-
so del Kitsch nella storia letteraria, e nel contempo ha rispettato la punteggiatura del
testo fonte (Salani, p. ; Zanghieri, p. ; Lazzeri, p. ; Valeri, p. ; Achille, p. ;
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Angioletti, p. ; Bigiaretti, p. ; Ginzburg, p. ; Morandi, p. ; Carifi, p. ;
Ruggi, p. ; Spaziani, p. . Traditrici invece le versioni di Bideri e Giachini, che
non hanno citato il prete di gesso, tanto quanto quella di Oreste Cenacchi, il quale
non ha terminato la frase con un punto esclamativo.
Sempre un punto esclamativo, ma stavolta meno rilevante del vocabolario, enfatiz-
za il “comico che non fa ridere” nel momento in cui Charles attribuisce una statura
mitica e universale al suo personale destino quando incontra per l’ultima volta
Rodolphe: «C’est la faute de la fatalité!» (MB, p. ). Si tratta, secondo Giacomo
Debenedetti, di un autoinganno tipicamente romantico (Debenedetti, , pp. -)
che il narratore ha cura di demolire proprio attraverso le parole dell’autore di quella
misteriosa e inclemente fatalità. La stessa parola veicola infatti il ricorso di Rodolphe al
Kitsch letterario allorché appare consapevole di accampare scuse per interposta cita-
zione: «Est-ce ma faute? […] n’en accusez que la fatalité! Voilà un mot qui fait toujours
de l’effet» (MB, p. ). Ora, soltanto tre traduttori hanno compiuto l’errore di non
«far sentire il rinvio intertestuale» (Eco, a, p. ), sostituendo «fatalità» con «desti-
no». Oddera lo ha scritto nel riportare le parole di Charles, Campana e Angioletti nel
riferire quelle di Rodolphe:
Tutte le altre traduzioni, in compenso, si sono attenute a tale rinvio: la ripetizione della
parola «fatalità» (Cenacchi, pp. , ; Bideri, pp. , ; Salani, pp. , ; Zan-
ghieri, pp. , ; Lazzeri, pp. , ; Valeri, pp. , ; Achille, pp. , ; Gia-
chini, pp. , ; Del Buono, pp. , ; Cecchi, pp. , ; Bigiaretti, pp. , ;
Ginzburg, pp. , ; Morandi, pp. , ; Carifi, pp. , ; Ruggi, pp. , ;
Spaziani, pp. , ) ha permesso, in ognuna di esse, il recupero dell’intenzione este-
tica dell’autore, ovvero porre in antitesi i due personaggi facendo loro pronunciare le
stesse parole con intenti concettualmente opposti. La presa di distanza ironica dall’ali-
bi romantico è quindi filtrata dall’intertestualità: Charles e Rodolphe «use the same lan-
guage, but mean different things» (Prendergast, , p. ). Lo stesso linguaggio vei-
cola il libertinismo di Rodolphe e l’ingenuità di Charles. Tra Rodolphe ed Emma acca-
de esattamente la stessa cosa: l’adulterio si configura prima di tutto come una tragico-
mica storia linguistica che investe e altera il mimetismo narrativo destinato all’impasse
della ripetizione. Lo scambio delle «métaphores les plus vides» (MB, p. ) tra i due
amanti porta alla luce i limiti del linguaggio attribuiti da Flaubert alla realtà culturale
del suo tempo in cui il trionfo dell’idée reçue costringe il romanziere a prendere atto dei
paradossi terminali dell’impresa mimetica. Per Julian Barnes la domanda che assilla
l’autore di Madame Bovary è: «Is the writer much more than a sophisticated parrot»?
(Barnes, , p. ). Al di là della metafora: può ancora l’arte rappresentare la realtà in
un’epoca in cui la bêtise ha infiltrato il linguaggio? Nel brano riflessivo che ha per pro-
tagonista Rodolphe la meditazione dell’autore si lega al suo personaggio:
Il ne distinguait pas, cet homme plein de pratique, la dissemblance des sentiments sous
la parité des expressions. Parce que des lèvres libertines ou vénales lui avaient murmuré
des phrases pareilles, il ne croyait que faiblement à la candeur de celles-là; on en devait
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rabattre, pensait-il, les discours exagérés cachant les affections médiocres: comme si la
plénitude de l’âme ne débordait pas quelquefois par les métaphores les plus vides, pui-
sque personne, jamais, ne peut donner l’exacte mesure de ses besoins, ni de ses con-
ceptions, ni de ses douleurs, et que la parole humaine est comme un chaudron fêlé où
nous battons des mélodies à faire danser les ours, quand on voudrait attendrir les étoiles
(MB, p. . Il corsivo è mio).
Siamo qui troppo vicini ai principi estetici di Flaubert perché non si tratti della sua
voce. L’esplorazione dell’io del personaggio diventa così l’estrema unzione data alla
letteratura: le ragioni del libertino incontrano il disincanto del romanziere nel seppelli-
re le capacità cognitive della parola destinata a testimoniare (e non a svelare) il mistero
della vita. Fedeli al rintocco funebre dato da Flaubert all’impresa mimetica, i nostri tra-
duttori hanno mantenuto l’esattezza assoluta della riflessione rispettando la similitu-
dine finale che costituisce una spiegazione obliqua delle incertezze testuali contenute
nel romanzo, compresa la variante tutta flaubertiana del discorso indiretto libero, dove,
per usare le parole di Wetherill (, p. ), «la vision “interne” s’allie à une parole où
se mêlent focalisation de personnage et focalisation d’auteur».
Come ha osservato Kundera, «la beauté de la réflexion se révèle dans les formes poé-
tiques de la réflexion» (Kundera, , p. ). La forma poetica della riflessione flauber-
tiana è in questo caso la metafora-definizione «chaudron fêlé». A giudicare dalla diversità
delle versioni, questa parola ha posto molti problemi ai nostri traduttori. Etimologica-
mente, chaudron risale al latino imperiale caldaria, il che giustifica la decisione di Achil-
le, Campana, Cecchi, Angioletti e Morandi, di tradurre «caldaia incrinata», «caldaia di
rame incrinato», «caldaia di rame spaccato». Tuttavia, in senso figurato, chaudron è anche
uno strumento musicale che emette un pessimo suono: probabilmente tenendo presen-
te questa definizione la grande maggioranza dei traduttori ha rinunciato all’approccio eti-
mologico preferendo non allontanarsi dalla versione del valoroso Oreste Cenacchi: «vec-
chio secchio fesso». Tuttavia né la caldaia né il secchio sono oggetti che emettono suoni.
Ecco perché ho trovato maggiormente fedele al valore tematico della parola la definizio-
ne di Riccardo Mainardi. Peccato non averla trovata in un’edizione di Madame Bovary,
ma nella traduzione italiana di Flaubert’s parrot: «La lingua è simile a un vecchio bollito-
re ammaccato sul quale battiamo ritmicamente un motivo per far ballare gli orsi, mentre
aneliamo senza posa a muovere le stelle a compassione» (Barnes, , p. ). Inutile
quanto un vecchio bollitore ammaccato, la parola è anche il solo strumento a disposizio-
ne del romanziere al quale non resta che trasgredire le procedure mimetiche tradizionali
per sondare non soltanto il limite, ma anche il merito del linguaggio.
A questo scopo, la riflessione estetica contenuta nell’epistolario traspare da quelle
che Proust definisce immagini «autres que des images inévitables» (Proust, , p. ).
Immagini “evitabili” su cui la scrittura di stampo realista avrebbe sorvolato e non insi-
stito ossessivamente. Il pasto nuziale, l’arrivo degli invitati, la cena e le donne alla
Vaubyessard sono oggetto di descrizioni indigeste quanto inevitabili. Leggiamo nella
Correspondance:
Come Mary Neiland ha ampiamente dimostrato (Neiland, , pp. -), la tavola
imbandita a dismisura, che accomuna il pranzo nuziale e la cena alla Vaubyessard, è
teatro di un’indagine testuale e tematica. La vera e propria “indigestione dello stile”
esibita nelle descrizioni gastronomiche rivela l’intenzione di Flaubert di estendere
l’universo linguistico al fine di portare alla luce frammenti della realtà inesplorati,
nuove possibili configurazioni di senso. Il risultato è un’inclusione (e non un’esclu-
sione) di dettagli sistematicamente evacuati dalla tradizione realista: «De grands
plats de crème jaune, qui flottaient d’eux-mêmes au moindre choc de la table, pré-
sentaient, dessinés sur leur surface unie, les chiffres des nouveaux époux en arabe-
sques de nonpareille» (MB, p. ).
La connotazione erotica che la Curry ha individuato in questo passaggio (Curry,
, p. ) si perde unicamente nelle traduzioni di Achille, Campana, Morandi e
Ruggi, dove non c’è accordo tra il soggetto e il verbo di movimento: «Grandi piatti di
crema gialla, tremolante alla minima scossa della tavola […]» (Achille, p. ). Ma quel
che è peggio è che Achille, Campana e Morandi hanno mancato anche l’effetto di dub-
bio gusto borghese che Flaubert ha condensato nelle «chiffres de nouveaux époux en
arabesques de nonpareille». L’effetto langue anche nei testi di Cenacchi, Bideri, Salani,
Zanghieri e Oddera, i quali hanno compiuto l’errore di considerare «nonpareille» non
un sostantivo, ma un aggettivo. Cenacchi ha scritto: «le cifre dei nuovi sposi in arabe-
schi di strettissimo nastro» (Cenacchi, p. ) compiendo un errore che è poi trapassato
nelle edizioni successive, dove «nonpareille» diventa «impareggiabili» (Bideri, p. ),
«non mai veduti» (Salani, p. ), «minuti» (Achille, p. ; Morandi, p. ), «sottili»
(Zanghieri, p. ; Campana, p. ; Oddera, p. ). Questo errore, in apparenza non
grave, finisce per attenuare definitivamente il valore tematico della descrizione che è
invece molto chiaro nelle fedeli traduzioni di Lazzeri, Valeri, Del Buono, Cecchi,
Angioletti, Bigiaretti, Ginzburg, Carifi e Spaziani, i quali hanno tutti scritto «arabeschi
di confettini». Grazie alla resa di un solo dettaglio, di cui Flaubert ha fatto un indice
della mancanza di immaginazione della sua epoca, il passaggio risulta legato all’azione
narrativa e, in particolare, foriero della descrizione della pièce montée, monumento
all’ingordigia borghese spacciata per fecondità plastica.
Parafrasando Jean-Pierre Richard, si mangia molto nei romanzi di Flaubert
(Richard, , p. ): leccornie, come abbiamo visto, che rimandano al cattivo gusto
piccolo borghese, ma anche raffinatezze culinarie da veri decadenti che ingombrano la
tavola imbandita alla Vaubyessard. In entrambi i casi, Flaubert «presents food as being
alive» (Neiland, , p. ) associando a ogni piatto un verbo di movimento: «Les pat-
tes rouges des homards dépassaient les plats; de gros fruits dans des corbeilles à jour s’é-
tageaient sur la mousse; les cailles avaient leurs plumes, des fumées montaient…» (MB,
p. , il corsivo è mio).
L’uso dei verbi di movimento consente a queste pietanze di acquisire quell’autono-
mia conferita costantemente da Flaubert agli oggetti al fine di connotare un determi-
nato ambiente che, in questo caso, è quello morbido e raffinato dall’aristocrazia fin de
siècle. L’estenuata mollezza dell’ambiente s’intuisce nella quasi totalità delle traduzioni
che hanno aderito alle scelte verbali dell’autore. Chi invece, come Zanghieri, Angiolet-
ti e Spaziani, non ha resistito al richiamo della sinonimizzazione, ha tradito l’intenzio-
ne estetica dell’autore che non ha indugiato gratuitamente nella descrizione gastrono-
mica: come ha osservato Mary Neiland (, p. ), vediamo il ballo alla Vaubyessard
attraverso lo sguardo avido di Emma, ipnotizzata dai fasti aristocratici quanto Antoine
da quelli esotici del banchetto di Nabuchodonosor.
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C’erano piatti colmi di gamberi, cestelli traforati, con le frutta adagiate sul musco; qua-
glie servite colle penne; odori succulenti ad ogni portata (Zanghieri, p. ).
Le zampe rosse delle aragoste sporgevano dai piatti; grosse frutta erano ammonticchia-
te sul musco, entro cestini traforati; le quaglie erano presentate ancora con le penne, tra
nuvole di vapore (Angioletti, p. ).
Le zampe rosse delle aragoste spuntavano dai vassoi; i grossi frutti s’ammonticchiavano
sul muschio in canestri traforati; le quaglie erano presentate con tutte le loro penne, l’a-
ria era piena di vapori (Spaziani, p. ).
Il vago potere allucinatorio che il ballo alla Vaubyessard esercita su Emma è ulterior-
mente enfatizzato dalla descrizione delle donne aristocratiche morcelées dallo sguardo
dell’eroina:
Sur la ligne des femmes assises, les éventails peints s’agitaient, les bouquets cachaient à
demi le sourire des visages et les flacons à bouchon d’or tournaient dans des mains
entr’ouvertes dont les gants blancs marquaient la forme des ongles et serraient la chair
au poignet. Les garnitures de dentelles, les broches de diamant, les bracelets à
médaillon frissonnaient aux corsages, scintillaient aux poitrines, bruissaient sur les bras
nus. Les chevelures, bien collées sur le front et tordues à la nuque, avaient, en cou-
ronnes, en grappes ou en rameaux, des myosotis, du jasmin, des fleurs du grenadier, des
épis ou des bleuets (MB, p. ).
Al fine di rimanere fedeli, qui la precisione lessicale non è sufficiente, poiché la scom-
posizione delle donne in parti anatomiche e in dettagli propri dell’imagerie decadente
non è meno importante del ritmo ternario che dà un tono incantatorio al testo. Questo
spiega perché le traduzioni di Bideri e Morandi possano essere considerate traditrici. Il
primo ha drasticamente tagliato la descrizione omettendo sia il ritmo ternario sia gran
parte dei dettagli selezionati dallo sguardo di Emma:
Sulla linea delle signore si agitavano i ventagli variopinti, nascondendo a mezzo i sorri-
si, e le fiale dai turaccioli dorati passavano tra le mani, a cui i guanti bianchi stringeva-
no la carne ai polsi. Gli spilli di brillanti scintillavano sui petti, i braccialetti di meda-
glioni tintinnavano sulle braccia nude (Bideri, p. ).
Sulla fila delle donne sedute s’agitavano i ventagli dipinti; i mazzolini nascondevano a
mezzo i sorrisi, e le boccette dal tappo dorato brillavano tra mani calzate di guanti bian-
chi che segnavano la forma delle unghie e stringevano la carne sul polso. Le guarnizio-
ni di merletto, le spille di diamanti, i braccialetti col medaglione fremevano sui corset-
ti, scintillavano sui seni, tintinnavano sulle braccia nude (Morandi, pp. -).
Il rispetto, in tutte le altre traduzioni, delle scelte ritmiche di Flaubert consente invece
di evincere lo snobismo di Emma, la sua attrazione sofferta per l’ambiente aristocrati-
co e spiega perché l’autore ponga il ballo alla Vaubyessard in ironico contrasto con la
festa nuziale.
Questo contrasto, che abbiamo già visto nei dettagli culinari, riguarda anche gli
invitati. Nei ritratti collettivi del banchetto nuziale, l’incontinenza metaforica fa capo
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all’universo animale noto a Flaubert. Gli invitati sono dipinti come pecore, ognuno
«tondu à neuf» per l’occasione, tutti con «ces grosses faces blanches épanouies» (MB,
p. ) da cui traspare la «haine du populaire» (Corr., II, p. ) che l’autore della Cor-
respondance non ha mai nascosto. Tuttavia non è stato facile per i nostri traduttori
restituire l’intento parodistico di questo ritratto collettivo. La disumanizzazione dei
personaggi non è stata colta in ben dieci traduzioni. Vediamo perché: «tondu à neuf»
è stato reso con «rasati da poco», «appena tosati», «capelli tagliati di fresco», «fre-
schi di parrucchiere» rispettivamente da Zanghieri, p. , Campana, p. e Cecchi,
p. ; Angioletti, p. , Oddera, p. e Ruggi, p. . Il risultato è che l’effetto comico
del testo fonte si perde. Quanto ai volti paffuti, l’errore più comune riguarda l’ag-
gettivo «épanouies» che se reso con «aperte» (Valeri, p. ; Campana, p. ), «indi-
fese» (Del Buono, p. ; Ruggi, p. ), «smorte» (Oddera, p. ), risulta del tutto
privo della sua funzione semantica. Passiamo ora alle note di merito. Buone sono le
traduzioni di Cenacchi, p. , Salani, p. , Lazzeri, p. , Bigiaretti, p. e Spaziani,
p. , poiché fedeli allo stile metaforico del testo. Ma manca loro l’effetto comico che
le restanti versioni hanno. Leggiamo, ad esempio, nella versione di Oreste Cenacchi
(p. , il corsivo è mio):
Tutti erano tosati di fresco ed avevano le orecchie a cartoccio; tutti si erano rasi da poco:
alcuni balzati dal letto prima dell’alba non avendoci veduto bene a farsi la barba, avevano
dei tagli diagonalmente sul naso o lungo la guancia, degli sfregi larghi come scudi da tre
lire, che l’aria aperta aveva infiammate per la strada, che marmorizzavano un poco di chiaz-
ze rosse tutte quelle grosse facce bianche e contente.
Tutta la risibile fierezza borghese vive nel «tutti erano rapati di fresco» con «quegli alle-
gri faccioni bianchi» di Achille, pp. - e Morandi, p. , e nel «tutti apparivano tosa-
ti a nuovo» con «quelle grosse facce bianche trionfanti» della Ginzburg, p. .
Un romanzo che si apre e insiste sull’evocazione individuale quanto collettiva della
bêtise, che confina la sua eroina a un ambiente in categorico accordo con le conquiste
scientifiche (e con le conseguenti perdite culturali) dell’epoca, non poteva non conclu-
dersi con il trionfo di un personaggio come Homais, in cui già Zola vedeva «l’impor-
tance provinciale, la science de canton, la bêtise satisfaite de tout un pays» (Zola, ,
p. ). La «croix d’honneur», che Homais «vient de recevoir» (MB, p. ), costituisce,
secondo Benjamin Bart, la vera tragedia di un romanzo che è principalmente una sto-
ria di distruzione:
That a living Emma Bovary was weeping in twenty villages of France distressed him, but
it enraged him that uncounted men such as Homais were building futures that would
give them the Legion of Honor. And this was Flaubert’s ultimate message (Bart, ,
p. ).
duttori, i quali si sono attenuti alla costruzione frastica peraltro inconsueta per lo
stile del romanziere: «Ha ricevuto da poco la croce d’onore» (Cenacchi, p. ; Zan-
ghieri, p. ; Angioletti, p. ), «Egli ha testè ricevuto la croce di cavaliere»,
«Recentemente ha avuto la croce d’onore» (Valeri, p. ; Ginzburg, p. ), «È
stato da poco insignito della croce d’onore» (Lazzeri, p. ; Achille, p. ; Campa-
na, p. ; Morandi, p. ; Spaziani, p. ), «Di recente ha ricevuto la croce d’o-
nore» (Del Buono, p. ; Bigiaretti, p. ; Carifi, p. ; Ruggi, p. ), «Di recen-
te ha ottenuto la croce d’onore» (Cecchi, p. ), «Gli hanno appena conferito la
Legion d’Onore» (Oddera, p. ). La sola traduzione traditrice appartiene al Bide-
ri: «Ha anche ricevuto la croce della Legion d’onore!». Neanche per il suo primo
romanzo Flaubert poteva scegliere un finale così lirico. Tutto il pessimismo dell’ar-
tista che non può immaginare il futuro senza il trionfo di dispensatori di luoghi
comuni come Homais è una verità romanzesca non pronunciabile al di fuori della
«forme profondément littéraire» (Corr., III, p. ) di Madame Bovary al cui “rispet-
to giuridico” è tenuta ogni traduzione.
Note
. Nella versione del Bideri, l’immagine è stata soppressa. Leggiamo a p. : «Tutti erano rasi di
fresco e siccome alcuni lo avevano fatto prima dell’alba, recavano ancora qualche sfregio o qualche
segno rosso sulle mascelle».
. Salani, p. . Qui l’infedeltà lessicale non deforma la semantica della frase.
. Bideri, p. . Nell’edizione Giachini la frase è soppressa.
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RECENSIONI
A. Fraser, Gli amori del Re Sole. Luigi XIV e le donne, Mondadori, Milano ,
pp.
FRANCESISTICA
criteri della grande letteratura classica che illustrò il regno di Luigi XIV: l’opera d’arte,
secondo il parere dei grandi teorici e delle Accademie dell’epoca, non doveva mai man-
care di “verosimiglianza”. Poco importava che il fatto narrato non fosse vero, purché
fosse razionalmente accettabile, “credibile” appunto. L’aspirazione di Antonia Fraser
alla credibilità appare tuttavia come un understatement molto britannico, perché nella
misura in cui le tante fonti utilizzate sono affidabili, il racconto, le ipotesi avanzate, le
conclusioni raggiunte forniscono un quadro non soltanto credibile, ma anche storica-
mente verificabile.
Lungi dal limitarsi ad un elenco di avventure e di relazioni all’interno di un quadro
storico, l’autrice avanza diverse problematiche la cui portata esula da quanto è stretta-
mente indicato nel titolo. Innanzitutto non si riduce a considerare le vicende delle
amanti del grande re, ma cerca di mettere a fuoco il suo rapporto col gentil sesso in
generale: madre, figlie, nipoti, amanti, giovani parenti e amiche, domandandosi qual
era in realtà il ruolo di queste donne che, a quanto pare, il re non amava che si interes-
sassero agli affari di Stato. «Alla bellezza che domina i nostri piaceri», era solito dire,
«non è stato mai permesso d’intrattenerci sui nostri affari», e tuttavia le donne hanno
influito sulla sua vita e certamente anche sulla sua politica: nessuno può ignorare i con-
dizionamenti generati all’epoca dell’infanzia dai suoi rapporti con la madre o, nella vec-
chiaia, con Madame de Maintenon.
Resta tuttavia da chiedersi quanto le donne di Luigi XIV, pur avendo influito sulla
sua vita, siano state in grado di dominare i propri destini. Le scelte del re dovevano
necessariamente tenere conto di una ragione di Stato che opponeva alla galanteria la
religione e al semplice sentimento la manifestazione di un’ineguagliabile magnificenza.
Per quest’ultimo motivo egli dovette rinunciare al suo primo amore, la giovane Maria
Mancini, per un matrimonio di Stato con la figlia del re di Spagna. L’allontanamento di
Maria coincide con la morte del potente zio, il cardinale Mazarino, che era stato primo
ministro, consigliere ed amico di Anna d’Austria durante la minore età del giovane
Luigi che sale al trono nel , con l’intenzione di governare in prima persona e con la
ferma volontà di stabilire un potere assoluto. Mazarino, abruzzese di origine e fami-
gliare dei Barberini, aveva favorito gli influssi dell’arte, del teatro e della musica italia-
na in Francia, tenendo viva una tradizione culturale che risaliva al Rinascimento; con la
sua morte e con la rinuncia di Luigi ai suoi amori italiani sembra che il cordone ombe-
licale che da secoli legava la Francia all’Italia venga definitivamente reciso. Gli studi più
recenti mostrano come l’influsso italiano, magari sotto forme diverse, non abbia mai
cessato di agire sull’arte francese; tuttavia non si può negare che col si inaugura un
periodo in cui la Francia assume un’immagine sempre più autoreferenziale, incentrata
sulla figura dominante del sovrano.
È in questo contesto e con i vincoli imposti da questo contesto, nella cornice super-
ba di una Versailles dove fervono incessantemente lavori d’ingrandimento e di abbelli-
mento, che si snodano le storie delle donne che contarono nella vita del re. La prima
fra queste è naturalmente la regina, anche se la sua figura non è tra le più brillanti della
Corte: fisicamente insignificante, ma anche priva di vivacità di spirito e poco propensa
ad abbandonare la sua piccola cerchia castigliana per sostenere con magnificenza il suo
ruolo di sposa del re di Francia, l’infanta di Spagna assicura tuttavia la successione al
trono dando alla luce un figlio maschio. Nel frattempo Luigi cerca distrazioni nella fre-
quentazione della cognata, la principessa Enrichetta d’Inghilterra, elegante ballerina e
meravigliosa amazzone. La passione del re per la danza e per la caccia trovano in Enri-
chetta una complice ideale; ma la situazione è delicata e la principessa suggerisce a
Quaderno DEF per VARO.Qxp 8-10-2008 11:49 Pagina 133
RECENSIONI
Luigi di coprire la loro relazione, peraltro ancora platonica, fingendo interesse per una
giovane del suo seguito, Louise de la Vallière.
Louise, avvenente, ma non bella, fu la prima amante che, in segreto, diede al re sei
figli e lo amò con dedizione totale: quest’amore aveva per sfondo una corte che diventa-
va ogni giorno più magnifica e affollata a simboleggiare il crescente splendore del regno
di Francia. Fatalmente, la riservata Louise dovette cedere il passo a una donna più bril-
lante, ma non tradì mai il suo amore, conducendo una vita ritirata e pronunciando defi-
nitivamente i voti, nel , col nome di suor Louise della Misericordia. In quegli anni
anche colei che aveva preso il suo posto nel cuore e nel letto del re, la brillante e sensua-
le Athénaïs de Montespan, era ormai stata sostituita a sua volta; tuttavia il suo regno era
stato splendido ed era durato ben diciassette anni. Bionda, con occhi azzurri imperiosi e
intelligenti, Madame de Montespan suscitava l’ammirazione ma anche il timore dei con-
temporanei: è celebre infatti il suo spirito beffardo, la sua tendenza a prendere in giro con
implacabile arguzia. Athénaïs, scelta anche lei tra le dame del seguito della famiglia reale,
anzi proprio della regina, non solo conquistò il re con le sue arti voluttuose, ma s’impose
come un vero e proprio gioiello all’interno di una splendida corte, soddisfacendo così non
solo la passione, ma anche la vanità del sovrano e la sua esigenza di grandeur.
Gli episodi di questa lunga relazione sono narrati dalla Fraser nel contesto di una
società affollata di personaggi famosi, attraverso lo sguardo e i racconti di memorialisti
celebri, con occhio attentissimo alle vicende storiche e alle implicazioni di queste negli
amori del re. La gloire che Luigi va cercando di raggiungere intorno agli anni -
(«la passione per la gloria», dichiarerà molti anni dopo, «era senza dubbio la passione
principale della mia anima»), si incarna nelle imprese belliche, nella magnificenza della
corte e delle feste di Versailles e anche nella maîtresse en titre, l’amante ufficiale. Que-
sto ruolo della Montespan non impediva tuttavia a Luigi di avere altre relazioni con
donne più o meno importanti, più o meno significative per la sua vita e il suo regno.
Athénaïs diede al sovrano diversi figli la cui educazione fu affidata ad un’amica,
Françoise d’Aubigné, vedova dello scrittore Scarron. Quest’austera ma dolce figura
materna affascinò il re, ed insensibilmente assunse un ruolo non solo di amante, sop-
piantando la Montespan, ma di consigliera, di madre (porterà infatti a compimento il
desiderio della regina Anna d’Austria di convertire il figlio a una vita più austera e
devota) e addirittura di moglie fedele; infatti, alla morte della regina Maria Teresa, Luigi
sposa segretamente Françoise, divenuta nel frattempo Madame de Maintenon, con un
matrimonio morganatico. Di questo matrimonio non esistono prove concrete, anche se
è dato per certo; d’altra parte la segretezza ne garantisce il piacere e la durata, come
osserva con perspicacia la principessa Liselotte, cognata del re: «Se fossero sposati, dif-
ficilmente il loro amore sarebbe tanto forte. Ma forse la segretezza aggiunge il pepe di
cui non si gode in un legame matrimoniale ufficiale».
Il libro della Fraser unisce la documentazione storica ad una narrazione lieve, tal-
volta spregiudicata (la scrittrice non esita infatti a penetrare nell’alcova reale o nei più
indiscreti pettegolezzi della corte) che ha la capacità di attualizzare un mondo lontano,
retto da canoni molto diversi dai nostri. Il rischio, frequente in questi casi, di appiatti-
re o di semplificare un’epoca descrivendola con chiavi interpretative moderne, è scon-
giurato grazie ad un’attenta ricostruzione basata in gran parte su documenti contem-
poranei (dai Mémoires di Madame de Motteville ai Souvenirs della contessa de Caylus),
come mostra la ricca bibliografia che conclude il lavoro.
FRANCESISTICA
Il volume Roma Triumphans? L’attualità dell’antico nella Francia del Settecento riunisce,
a cura di Letizia Norci Cagiano, gli atti del Convegno internazionale omonimo tenuto-
si a Roma dal all’ marzo . Per quanto copiosa sia oggi la messe dei lavori scien-
tifici sul ruolo e l’influenza di Roma nella ricezione dell’antico nella Francia dei Lumi,
gli studi riuniti nel volume provano in modo evidente quanto sia ancora possibile emet-
tere nuove e interessanti ipotesi in merito, e moltiplicare quindi le prospettive, i modi
e i metodi di ricerca sull’argomento.
Lo studio avviene essenzialmente attraverso un sapiente intreccio di relazioni e di
combinazioni prospettiche sulla materia oggetto d’indagine. Si tiene fondamentalmen-
te conto degli scambi incessanti tra la Francia del XVIII secolo e la Roma coeva senza
mai trascurare l’attenzione che in Francia suscita l’arrivo di reperti, vestigia, statue e
disegni antichi da una parte, e dall’altra l’opinione che di Roma si fanno i francesi che
vi soggiornano. Adottando un taglio multidisciplinare, il volume ricostruisce in cinque
tappe, che sono altrettante sezioni del libro (Il modello romano, La formation des
esprits, Tecniche e sapere scientifico, L’antico come fonte ispiratrice, Gli artisti), il dialo-
go ininterrotto tra la Francia del Settecento e l’antico.
Tentiamo allora di dar conto del volume a partire da una delle innumerevoli logi-
che che lo percorrono e lo strutturano.
Apriamo con un’ipotesi. Immaginiamo cioè di poter dare una risposta, poco importa in
questa sede se affermativa o negativa, al quesito posto dal Convegno di studi: «Roma
triumphans?». Un avallo alla validità metodologica di questa congettura è offerto dalle
parole di Umberto Todini che, in appendice – Sul buon uso di Roma (e della Grecia) –,
esprime apertamente e letteralmente il dubbio: «Roma triumphans? Sì o no?» (p. ),
rilanciando così il tentacolare quesito di fronte al quale Edouard Pommier (Roma
Triumphans!), proprio in apertura della lunga e interessante serie di comunicazioni,
non esita a utilizzare il punto esclamativo per affermare categoricamente: «Roma
triumphans!» (p. ).
La Roma antica, e con essa o tramite essa parte dell’antico assoggettato, rivive in
epoca settecentesca in seno all’Urbe stessa diventata ormai un luogo nevralgico dove
convergono studiosi e artisti e che, allo stesso tempo, emana l’antico in direzione di altri
Stati europei. Roma, capitale permanente dell’antico, diventa, nella seconda metà del
Settecento, il centro europeo del gusto neoclassico nelle arti moderne.
Come testimoniano gli interventi di molti studiosi all’interno del volume, a Roma e
da Roma, luogo di attrazione e di trasmissione, il ritorno all’antico e dell’antico si mani-
festa nel Settecento anche attraverso un nuovo interesse scientifico per le vestigia stori-
che e artistiche della capitale. In questo senso, di eccezionale portata appare, ad esem-
pio, la figura del conte di Caylus, uno dei padri dell’archeologia come scienza, sul quale
riflettono ben due interventi. Autore di un Recueil d’antiquités égyptiennes, étrusques,
grecques, romaines et gauloises pubblicato tra il e il , Caylus fu soprattutto uno
studioso, un antiquario e un collezionista. Egli per primo enfatizza il ruolo degli ogget-
ti dell’antichità (dai reperti artistici ai più comuni oggetti del quotidiano) e dichiara la
loro preminenza sui testi. Caylus spiega questa eccellenza degli oggetti sottolineando il
loro statuto privilegiato: essi si offrono infatti come testimonianze dirette, come tracce
che spiegano materialmente quei costumi e chiariscono quelle pratiche di cui furono
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RECENSIONI
parte integrante e di cui nessuno studio libresco o nessuna testimonianza scritta potrà
mai rendere conto con la stessa esattezza.
Un profilo dettagliato del conte è quello delineato da Marc Fumaroli (Le comte de
Caylus et les origines françaises du “retour à l’antique” européen). Nel suo contributo lo
studioso mostra come, anche attraverso i viaggi nei paesi del Mediterraneo (che, in Ita-
lia, lo portano a Roma, Pompei ed Ercolano) e gli studi, Caylus diventi il primo vero
paladino del retour à l’antique in Francia. Nella sua battaglia ingaggiata contro il gusto
rocaille (tendenza moderna diffusasi durante la Reggenza di Filippo d’Orléans) il conte
invita a coltivare un gusto e uno stile neo-ellenici, quindi a riallacciare i rapporti con il
grand goût del passato. A questo fine egli predilige la strada più concreta e si interessa
così, tra l’altro, alle pietre incise perché la durezza della pietra ha meglio conservato le
tracce delle tecniche di lavorazione.
Questo interesse rivela una più generale attenzione coeva per lo studio tecnico sui
reperti che, come testimonia il contributo di Maria Teresa Caracciolo (Una querelle tra
Parigi e Roma: la riscoperta della tecnica antica dell’encausto dal conte di Caylus all’aba-
te Requeno), accende gli animi in articolate discussioni come quella nata attorno all’an-
tica tecnica dell’encausto. La studiosa parla infatti di una vera e propria querelle sul
tema che non smette di riaccendersi nel dibattito-scontro (condotto a colpi di pamph-
lets, pubblicazioni e sperimentazioni in laboratorio) tra Diderot e Caylus. A prescinde-
re dagli esiti, la diatriba testimonia ancora una volta quella fervida e rinnovata esplora-
zione dell’antico condotta attraverso l’applicazione di metodi di studio tecnico-scienti-
fici che, almeno in principio, tentano un ritorno materiale al passato.
Nelle pagine che Pascal Griener consacra a Ottaviano di Guasco (Ottaviano di
Guasco, intermédiaire entre la philosophie française et les antiquités de Rome) troviamo
un’attestazione ulteriore di questo tipo di approccio. Nel saggio De l’usage des statues
chez les anciens, la cui elaborazione avviene a Roma, Ottaviano di Guasco raccomanda
lo studio in contesto degli objets d’art, invitando cioè all’analisi di statue o medaglie
senza mai prescindere dai contesti che li hanno prodotti. Guasco adatta agli oggetti del-
l’arte lo stesso metodo che Montesquieu applica allo studio delle leggi: insistendo sulla
distanza ermeneutica e sul fatto di non giudicare le antichità alla luce di un’ottica
moderna, egli esorta lo studioso a evitare anacronismi. Nella spiegazione della storia
l’interesse scientifico dell’approccio di Guasco si concretizza dunque nel rifiuto cate-
gorico del modello provvidenziale (paradigma adottato, per esempio, da Bossuet) e
nella fedeltà a un quadro di pensiero assai deterministico.
L’attenzione speculativa che Caylus professa per gli oggetti attraverso metodi esat-
ti di ricerca o il determinismo di Guasco sono realtà sintomatiche del clima culturale
che i papi del Settecento instaurano a Roma. Il conte di Caylus, per esempio, non si
limita ad accumulare e affastellare oggetti come semplici curiosa ma organizza gli stes-
si secondo rigorosi princìpi di catalogazione e di repertorio che proprio nel Settecento
diventano sempre più diffusi. La collezione smette così di essere un assemblaggio quasi
accidentale o anarchico e prende a essere governata da un’esigenza classificatoria sem-
pre più urgente al fine di connettere gli oggetti radunati con la loro storia e il loro pas-
sato (d’altro canto il sapere antiquario sposa le nuove realtà scientifiche e le più recen-
ti scoperte archeologiche). Saranno proprio le scienze naturali a fornire modelli classi-
ficatori (si pensi a Winckelmann che trae dall’osservazione degli organismi viventi e
dalla loro evoluzione il modello che spiega l’evoluzione degli stili nella storia) assai cari
al secolo dei Lumi e che permetteranno di distribuire logicamente opere, oggetti e
vestigia in genere all’interno di archivi, musei, e altri spazi appositamente concepiti per
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FRANCESISTICA
la salvaguardia e la mostra dei reperti. Edouard Pommier descrive bene in che modo la
politica culturale dei papi nel Settecento, in continuità con la stessa linea politica già
praticata dai loro predecessori in età rinascimentale, tende a catalogare, dunque a
museificare le opere d’arte dell’antichità. Queste opere sono esposte, estratte dalle col-
lezioni private e messe a disposizione di tutti quei viaggiatori, turisti e studiosi che, nel
Settecento, convergono a Roma da ogni parte d’Europa. Ma questa politica dell’osten-
tazione è consustanziale a un’altra azione strategica che mira a schedare, archiviare,
catalogare, tesaurizzare, capitalizzare, in altri termini a esercitare un controllo che con-
solidi il potere temporale e spirituale dei papi sulla città.
RECENSIONI
Impossibile non vedere, accanto al modello di una Roma trionfante nel cataliz-
zare l’antico, l’altra faccia della città che, in modo quasi barbaro, ignora, impedisce
la circolazione dei saperi, rifiuta di aprirsi. È questo quanto accade per esempio nella
storia del sapere scientifico, dove Roma si mostra insensibile a quanto la scuola elle-
nica aveva elaborato in materia di astronomia, matematica e fisica, e dove nessun
uomo romano ha dato apporti creativi (con rare felici eccezioni come, ad esempio,
quella di Lucrezio e del suo De rerum natura o ancora quella del Seneca delle Natu-
rales questiones). Italo Scardovi (Illuminismo scientifico e sapere antico) mostra nel
suo contributo come il sostanziale ritorno all’antico operato dai vari Lagrange,
Laplace, Diderot, Maupertuis si concretizzi in una ripresa del pensiero scientifico
greco non filtrato da apporti romani.
Anche se in ambito scientifico le immagini di Roma e dell’antico tendono diffi-
cilmente a coincidere, Roma continua tuttavia a veicolare la Grecia (l’antico) e a
sovrapporsi a essa. Umberto Todini ci ricorda come « […] esplorando l’influsso pur
dominante che il modello greco ebbe nella Rivoluzione [francese], si giunge poi a
scoprirne il doppio, Roma» (p. ); o ancora, per moltiplicare i paralleli che nasco-
no dalla disamina delle influenze greche e romane sull’elaborazione della Rivoluzio-
ne francese: «Anche in quel momento erano in gioco due Grecie, due Rome: tra
ragione e violenza, tra libertà di pochi e schiavitù di molti» (p. ). Questo sdoppia-
mento non è un fenomeno circoscritto. Esso è, a ben vedere, sintomatico di una mol-
tiplicazione infinita che Roma e l’antico subiscono nel processo di appropriazione
della cultura greca da parte dei Romani. Con la crescente ellenizzazione del ceto diri-
gente romano, l’arte depredata non riesce più a far fronte alla richiesta di opere d’ar-
te. Gli originali greci non bastano più a decorare ville e abitazioni delle classi colte
romane: allora, per colmare questo desiderio di oggetti d’arte che tanto amore per la
cultura greca produce, si ricorre alla produzione di copie, alla fabbrica di repliche
romane di opera nobilia greche. Appare evidente come questa vera e propria indu-
stria delle copie, che diffonde l’ideale greco di bellezza sotto forme replicabili, esem-
plifichi la nostra idea di partenza sulla moltiplicazione delle immagini di sé e del-
l’antico che Roma lega ai posteri.
Di fronte a questi sdoppiamenti e alla moltiplicazione delle influenze che la tradi-
zione antica subisce nelle riprese che ne farà il Settecento francese si assiste anche a
manifestazioni che dicono una sostanziale impossibilità della ripresa e della resurrezio-
ne dell’antico nel secolo dei Lumi.
Un vero sentimento di impossibilità si evince dalla ricognizione di Benedetta
Papasogli – Travestimenti di Télémaque (e metamorfosi di Mentor) – sull’elaborato
lavoro intertestuale che alcuni romanzieri del Settecento francese tentano a partire
dal Télémaque di Fénelon. Se il personaggio di Telemaco, già frutto di una riscrit-
tura concepita a partire dal modello omerico, sopravvive nel Settecento e si presta
alla riscrittura, il personaggio di Mentor resiste a ogni tentativo di rielaborazione.
Questa irriducibilità, nota la studiosa, è sintomatica dell’impossibile recupero dei
valori religiosi propri del mondo classico (a causa della diffusione di una religiosità
senza dogmi e nuova, comunque diversa da quella seicentesca). Similmente Gianni
Iotti (Ethos eroico e pathos sentimentale nelle tragedie romane di Voltaire), nel suo
studio sulla permanenza del modello romano nelle tragedie di Voltaire, approda a
una conclusione assai perentoria nei termini: «Il modello romano, dopo essere stato
insieme condizione necessaria ed elemento refrattario all’affermazione del modello
sentimentale, si avvia a diventare pressoché improponibile a teatro» (p. ). Tra
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FRANCESISTICA
Rileggiamo per esteso Du Bellay: «Nouveau venu qui cherche Rome en Rome, / Et
rien de Rome en Rome n’aperçois, / Ces vieux palais, ces vieux arcs que tu vois, /
Et ces vieux murs, c’est ce que Rome on nomme» (Du Bellay, Les Antiquités de
Rome, sonetto III). L’antanaclasi, da noi estratta a bella posta in precedenza, è in
verità inserita, come mostra la citazione dell’intera quartina, in un gioco semantico
più complesso: la diafora oppone infatti la città ai suoi abitanti (i Romani del Cin-
quecento) ma anche il passato al presente, ovvero la gloria antica alla mediocrità
presente. La Roma antica, quella degli splendidi monumenti e del trionfo della
civiltà, vive nel presente attraverso l’immagine degradata che di essa riflettono vec-
chi palazzi, vecchi archi e vecchi muri. Du Bellay ammoniva: nulla è rimasto della
Roma antica nella Roma moderna, solo rovine o parti di complessi e strutture non
più articolate come un tempo. L’incostanza distrugge, il tempo erode, corrode,
disintegra, annienta. Ma se il Du Bellay viaggiatore e fruitore della città eterna trova
spunto nelle rovine per una riflessione quasi cosmica, i suoi compatrioti settecente-
schi sono assai lontani dalle modalità con cui il poeta della Pléiade cantava l’Urbe.
Anche se due sole accezioni di Roma si leggono nel componimento di Du Bellay, il
nome della città torna cinque volte nella quartina (ben quattro ripetizioni si con-
centrano nel solo primo distico) come se già in questi versi, al di là della dialettica
passato vs presente, Roma si moltiplicasse, disseminasse il suo nome e, con esso,
altrettante immagini della città.
Lo sdoppiamento osservato da Du Bellay è dunque, nominalmente, anche una
moltiplicazione. È proprio nel Settecento, come testimonia il volume Roma
Triumphans?, che si assisterà a una vera moltiplicazione di Roma e delle antichità
che tornano, pullulano, circolano, vengono inventate durante tutto il secolo dei
Lumi. Infatti, accanto a una Roma telle quelle, ovvero la Roma o l’antichità che si
vuole scientificamente far rivivere attraverso lo studio esatto delle tracce materiali
dell’antichità (sculture, oggetti, tecniche artistiche), si moltiplicano le Rome o le
antichità: invenzione, immaginazione e visioni servono altrettanto, parimenti, alla
ricezione dell’antico.
Torna nel Settecento quasi la stessa idealizzazione che il classicismo del XVII
secolo aveva fatto dell’antichità. Una lettura che si conclude con questa osservazio-
ne è per esempio quella data da Stéphane Solier (L’enseignement du latin au dix-hui-
tième siècle: enjeux politiques et idéologiques). Attraverso lo studio degli enjeux poli-
tici e ideologici che strutturano l’insegnamento del latino nel XVIII secolo presso i
gesuiti e nelle scuole gianseniste, Solier non esita ad affermare che «[…] la littéra-
ture antique est une sorte de fonds commun dans lequel les textes contemporains
de l’époque puisent pour élaborer leurs propres images de l’antiquité» (p. ), e
conclude ricordando come «[…] l’image du monde antique prend la forme d’un
rêve d’une société idéale, sans conflits, où l’harmonie préside aux rapports humains,
une nouvelle société de l’âge d’or» (pp. -).
Il modello classico, sia esso romano che antico, rivive in un altro da sé. Liliana Bar-
roero (L’Exemplum Virtutis tra Roma e Parigi) studia come il pittore Domenico Corvi,
attraverso riletture personali di alcuni testi dell’antichità, giunge a trasporre alcune
scene e altrettanti exempla virtutis sulle sue tele. Sylvie Léoni invece (Rousseau et Fabri-
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RECENSIONI
cius ou le théâtre de l’identité) legge la prosopopea di Fabricius alla luce del resto del-
l’opera di Rousseau (mostrando l’equilibrio che si instaura tra la rilettura dei testi anti-
chi su Fabricius e l’interpretazione originale che ne dà Rousseau), e arriva, nelle con-
clusioni della sua comunicazione, a evocare lo sdoppiamento della parola del filosofo e
la distanza da sé che la prosopopea mette in scena. Sotto il doppio dell’autore è un
nuovo Fabricius, uno dei possibili Fabricius, che (ri)vive nel contesto di un’antichità
ricreata quasi all’uopo.
Filtrati o moltiplicati, moltiplicati perché filtrati, Roma e l’antico risorgono dunque
in una sorta di antro immaginario. L’antichità rivive nel sogno, in frantumi, e si creano
immagini di Roma e/o dell’antico frutto di una visione frammentata in modo quasi
caleidoscopico. Per Winckelmann, come ricorda Jackie Pigeaud (Torniamo a Roma) lo
scopo dell’arte è il bello, ovvero l’espressione dell’ideale e non del reale. La bellezza si
raggiunge creando, estraendo dalla natura una tipologia che avrà proporzioni esatte,
“nobiltà semplice e calma grandezza” nel movimento e dove nulla deve alterare i con-
torni dell’insieme. Quel che si cerca negli objets d’art a cui si accennava pocanzi non è
allora solo la loro realtà fisica e, attraverso la loro verginità, la testimonianza di un lavo-
ro manuale, materico, antico. Attraverso questi oggetti si cerca piuttosto di far rivivere
la loro anima che in verità è in noi, di cui noi siamo i depositari senza esserne coscien-
ti, e di evocare quindi un ideale poetico. In questo gioco in cui l’ideale si serve della
materia per manifestarsi, dunque per esistere, la mania dell’antico prende un’allure
visionaria. Come comprendere altrimenti, ad esempio, il legame strettissimo che lega
Winckelmann alla Grecia, a questa terra del Mediterraneo di cui il padre della storia
dell’arte celebra i capolavori ma che mai visiterà? Winckelmann non si recherà mai in
Grecia perché non ne ha bisogno. Egli inventerà la Grecia fondando il trionfo dell’an-
tico nel senso di un’affermazione nostalgica per un passato da molti indovinato e a
pochissimi noto.
La ricerca sul ruolo di Roma nel complesso e quanto mai ramificato processo di appro-
priazione delle culture antiche nella Francia del Settecento resta un quesito aperto.
Questo è quanto avverte già nell’introduzione Letizia Norci Cagiano ma anche una
delle possibili valutazioni finali della lettura del volume.
La disamina attenta dei vari aspetti toccati dagli studiosi si svolge sotto l’egida della
multidisciplinarietà che non scade mai in un discorso generale ma intreccia ad arte fili
quanto mai difficili da tessere. Il discorso critico incalza così tra la costante attenzione
portata ai diversi aspetti della cultura, delle arti, della letteratura, della scultura, delle
arti plastiche, senza dimenticare tuttavia la teoria.
Chi cerca risposte esatte e definitive sarà, a ragion veduta, deluso. Il volume si
legge come una serie di “colpi di sonda” o campioni realizzati nella materia a parti-
re da punti diversi di prospezione. Abbiamo mostrato all’inizio come alla risposta
entusiasta di Edouard Pommier in apertura del volume faccia eco, in appendice, il
dubbio di Umberto Todini, quasi a voler rilanciare l’interrogativo posto sin dal tito-
lo. Forse il lettore l’avrà già capito: la varietà degli approcci di cui è oggetto il tema
del ritorno dell’antico, via Roma, nella Francia del Settecento, oltre a fornire rispo-
ste ha soprattutto il merito di rilanciare l’interrogativo e aprire nuove vie di ricerca.
Non ci si può non augurare allora che nuove felici circostanze occorrano perché
possano rinnovarsi e moltiplicarsi le occasioni di scambio sulla questione: Roma
Triumphans?
Luigi Magno
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FRANCESISTICA
A quasi tre secoli di distanza dalla pubblicazione dell’opera – stampata per la prima
volta in Olanda nel e poi nuovamente edita e ampiamente manipolata in varie
edizioni (, , , , ), fino all’edizione postuma definitiva del –,
esce finalmente, per i tipi dell’Epos di Palermo e con un’Introduzione di Letizia
Norci Cagiano, il Viaggio in Italia di François-Maximilien Misson (?-). La
prima traduzione italiana del Nouveau Voyage, celebre classico della letteratura di
viaggio del Settecento, è dunque oggi disponibile nella versione curata da Gianni
Eugenio Viola, che riproduce buona parte dell’edizione dell’Aja, dal titolo ori-
ginale Nouveau Voyage d’Italie, avec un Mémoire contenant des avis utiles à ceux qui
voudront faire le mesme voyage. Di questa guida, che è anche un giornale di viaggio
in forma epistolare, il curatore sceglie di presentare le lettere ove il Misson riferisce
quella parte del suo itinerario – che procede dall’Inghilterra passando in Fiandra, in
Olanda e in Svizzera – specificamente dedicata all’Italia (dalla lettera XIII alla XXVII),
mantenendo una rotta costituita soprattutto da un susseguirsi di città (com’è tipico
della letteratura odeporica sull’Italia). Precettore al seguito del giovane conte di
Arran, figlio del duca di Ormond, partendo dal Brennero e da Trento Misson passa
dunque per Verona, Padova, Venezia, scende per Ancona e Loreto, si ferma a lungo
a Roma e a Napoli – limite hic sunt leones per quasi tutti i viaggiatori del tempo, che
difficilmente si spingevano oltre – per poi risalire verso Firenze, Modena, Milano,
Pavia, Genova, fino a Torino, uscendo infine da Ginevra, ove il reportage sull’Italia
si conclude.
Quattro importanti appendici corredano l’opera: un estratto dal Mémoire pour les
voyageurs, una lettera XXVIII (dall’edizione del ) che si sofferma sulla leggenda della
Papessa Giovanna (soggetto già ampiamente trattato da Misson – ugonotto figlio di un
pastore protestante francese rifugiatosi in Inghilterra – nelle lettere su Roma, ma che
forniva come è noto ai protestanti un sapido pretesto di polemica e umorismo anticle-
ricale e anticattolico), un supplemento sul monte Vesuvio e il rapido aneddoto sulla Sto-
ria compendiata della famosa Escalade di Ginevra.
RECENSIONI
Misson evita appositamente di tornare su soggetti e luoghi comuni fin troppo fre-
quentati da altri autori, per esprimere piuttosto giudizi originali su soggetti meno
importanti o trascurati: è questo anche il senso del costante dialogo con le fonti classi-
che, così come del notevole ricorso all’erudizione e alle massime, di tradizione morali-
sta. Egli non rinuncia mai al confronto critico con la realtà e a una verifica concreta che
attualizzi il testo classico, spunto e pretesto di frequenti e continue citazioni, ma anche
di visite mirate e di un’aneddotica di prima e di seconda mano, se si considera «il con-
fronto delle citazioni pullulanti negli itinerari settecenteschi» (Introduzione, p. ). E se
è innegabile che Misson osservi luoghi e opere secondo i canoni estetici tradizionali del-
l’epoca, ovvero l’avversione per l’arte e l’urbanistica medievale e l’ammirazione per le
forme classiche, nel suo scrupoloso catalogo delle opere degne di nota egli dimostra di
possedere una cultura artistica non meno notevole del proprio spirito critico, nonché
la necessaria competenza iconografica per ciò che concerne ad esempio la pittura. La
relazione di viaggio è con tutta evidenza successiva ad un ampio lavoro di documenta-
zione, che non si vuole tuttavia trattato né esaustivo né sistematico: la scelta di Misson
è anzi assai libera e perfettamente aderente alla varietà e soggettività concessa dalla
forma epistolare, in cui egli si rivolge ad un amico, il fittizio e anonimo “Signore” cui
sono destinate le lettere dall’Italia.
Figlio in questo del suo secolo, Misson non indugia granché sul territorio extra-
urbano, e dalla sua guida non emerge una particolare sensibilità per la natura, se non
ove fornisca spunto per osservazioni di agronomia e addomesticamento del paesaggio
a fini pratici. Egli si prodiga però in consigli assai concreti su ogni aspetto materiale del
viaggio – e dunque acquisti, guide, maestri di lingua, alberghi, residenze, luoghi di
svago e finanche la tipologia del calesse adatto – senza trascurare, naturalmente, la non
facile questione dell’itinerario, pur ammettendo che «è quasi impossibile suggerire il
percorso a quelli che vorranno fare il viaggio d’Italia» (p. ).
A quasi tutto si può ovviare, suggerisce Misson, con l’adeguata spesa di denaro, –
su cui il viaggiatore che voglia davvero profittare del viaggio non dovrà mai lesinare –
avendo cura di scegliere con attenzione i propri servitori e prestando la giusta atten-
zione agli usi e costumi locali:
Sono davvero innumerevoli le sapide osservazioni di colore locale con cui Misson con-
disce il suo Voyage: lo sguardo ironico, ma decisamente affascinato, del protestante
dedito a riferire le molte ipocrisie e superstizioni popolari legate al cattolicesimo, al
culto delle reliquie, degli ex voto (cfr. p. ) e in generale ai retaggi dell’eredità pagana,
sa risvegliare nel nordico autore ugonotto il demone del narratore comico ben più della
storia dell’arte.
Pur preservando e mantenendo una libertà intellettuale non allineata con le diret-
tive dell’intellighenzia protestante (anche a costo di polemiche con i suoi correligiona-
ri e di un progressivo isolamento negli anni che precedono la sua morte, nel ), Mis-
son gode di una formazione culturale classica che assorbe lo spirito razionalista, divul-
gatore, enciclopedico e internazionale del suo tempo e delle “Nouvelles de la Républi-
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FRANCESISTICA
que des Lettres” dirette da Pierre Bayle: come le “Nouvelles” del resto, il Nouveau
Voyage è un’opera clandestina e tale rimarrà fino al . Solo allora il “Misson” sarà
ufficialmente venduto in Francia, rimanendo tuttavia un libro vietato e a rischio di con-
fisca all’interno dello Stato Pontificio – confisca che non risparmiò nel Charles de
Brosses, costretto suo malgrado a ripiegare «su una piatta e lunga descrizione di Roma
di Deseine» (p. ).
La censura colpisce dunque l’opera, ma non il suo autore protestante che non
incontra, nel corso del viaggio, atteggiamenti d’intolleranza o discriminazione di gran-
de rilievo e ha accesso quasi ovunque. Il massimo rischio, per un protestante in Italia,
è semmai quello di essere ignorato come tale, considerato cioè con indifferenza come
“non cristiano”. Offeso in una componente fondamentale della propria identità di ugo-
notto, per il cui credo è vittima in Francia di durissime persecuzioni, un protestante
come Misson è dunque particolarmente sensibile alla sopravvivenza del paganesimo
nella religione cattolica: a tale sopravvivenza nei luoghi e nelle pratiche del culto egli
assiste senza indignazione, ma con uno sguardo sempre piuttosto divertito, seppure in
assenza di un sufficiente approfondimento storico e inquadramento socio-antropologi-
co riguardo alle ragioni di persistenza dell’eredità pagana in Italia. Il suo umorismo
assai anglosassone si scatena, come è prevedibile, soprattutto dando luogo ad una fero-
ce e divertente aneddotica sul clero e sull’autorità papale.
Non è certo un dato secondario in quest’opera il fatto che il narratore Misson
non parli mai di sé se non nel rigoroso contesto relativo ai dettagli, sempre asciutti e
sobri, del viaggio: nessun riferimento al proprio stato d’animo o ad avventure priva-
te (l’esatto opposto di quel che farà Goethe, circa un secolo più tardi, col proprio
Viaggio in Italia).
La frequenza delle osservazioni volte a mettere in ridicolo gli aspetti grotteschi e
ipocriti delle pratiche del cattolicesimo (seppur in totale assenza di acrimonia o disprez-
zo per la religione cattolica in sé e per sé) colpisce con tanto maggiore evidenza perché
sono queste le uniche distrazioni, forse le uniche divagazioni personali che lo scrupo-
loso Misson si concede nel proprio rigoroso giornale di viaggio, dimostrando di apprez-
zarne il carattere teatrale (le chiama infatti “commedie”):
Non mancate di assistere una volta alla cerimonia delle anime devote che si flagellano
all’oratorio di San Francesco Saverio, o a quello del Padre Carovita, vicino al Collegio
Romano. È una delle cose più piacevoli che si vedano a Roma. Si recita anche un’altra
commedia assai divertente, alla chiesa della Pace, dietro piazza Navona, quando si esor-
cizzano i posseduti. Son cose da non perdere (p. ).
«L’insistenza di Misson su questo punto mostra quanto la ferita dell’esilio sia ancora
aperta», ben si dice nell’Introduzione (p. ): Misson non è affatto esente da intenti di
“evangelizzazione” su certi temi, e non perde occasione per porre in primo piano que-
stioni ancora assai scottanti, quali le persecuzioni religiose, il problema della tolleran-
za, infine le controversie sull’origine delle religioni e sul problema dei culti.
La forma impiegata per tale funzione di attacco è apparentemente piuttosto anodi-
na: Misson non si serve di alcun sarcasmo, non sovraccarica la propria descrizione di
alcun aggettivo che connoti l’aneddoto riportato nel senso del grottesco o del ridicolo.
Assai di rado gli sfugge qualcosa che assomigli ad un commento, una definizione di tali
“scene” che smascheri la loro natura fortemente rituale e teatrale, ove l’ipocrisia non
viene però esplicitamente attribuita né agli “attori” né ai più istruiti e consapevoli “offi-
cianti” nelle file del clero. Solo l’accostamento e la semplice e nuda narrazione dei fatti,
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RECENSIONI
e il distacco di uno sguardo che si vuole non coinvolto in tali manifestazioni di un credo
religioso e magico insieme, ne restituiscono tutta la portata comica, sempre lieve e al
tempo stesso spietata.
Non stupisce in fondo che un’opera dallo stile svelto, colloquiale e persuasivo, dal tono
narrativo semplice e disadorno, di così grande fortuna e diffusione in ambito europeo
(e che anticipa felicemente modelli di qualità letteraria più alta e raffinata nell’ambito
del genere epistolare settecentesco), abbia dovuto attendere così a lungo per uscire dal-
l’oblio per il lettore italiano, che può finalmente godere di quest’edizione elegante-
mente presentata, curata nei dettagli e nella bella traduzione di Gianni Eugenio Viola:
e non stupisce neppure che il Nouveau Voyage abbia potuto trovare già nel nella
tollerante Olanda lo spazio e la libertà per essere pubblicato.
Francesca Milaneschi
Note
. Cfr., a p. , le osservazioni sulle infinite “specializzazioni” e molteplicità non soltanto dei
santi, quanto delle varie “madonne” italiane.
. Cfr., in merito, anche p. .
. Cfr. il supplemento sul Vesuvio alle pp. -.
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GERMANISTICA
Cristiano Bianchi
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FREMDENVERKEHR VS TOURISMUS:
UNA NOTA
di Giuli Liebman Parrinello
to che con il significato di viaggio di piacere il francese tour passa all’inglese e diventa
un internazionalismo diffuso in Europa, con le sue derivazioni appunto Tourist e Tou-
rismus anche in ambito tedesco (Opaschowski, , ; Petrucci, -).
Nel considerare Tourismus, va prestata però attenzione agli internazionalismi pre-
cedentemente attestati Tour e Tourist e all’eventuale specificità tedesca delle loro valen-
ze semantiche (Tour col significato di qualcosa che gira è già affermato in tedesco nel
XVII secolo). Probabilmente per effetto della cultura romantica la figura del turista
coincide spesso con quella del Wanderer, ma in particolare del Wanderer im Gebirg,
ossia dell’alpinista, Bergsteiger. I Touristenvereine ad esempio nascono già nella secon-
da metà Ottocento in Austria per rendere attraenti le zone di montagna. Emerge anzi
talora, come nel Brockhaus’ Konversations-Lexikon del una differenza specifica fra
i turisti tedeschi, Fußwanderer, e altri turisti europei, come i francesi, assimilati ai cicli-
sti, quasi diverse anime del turismo (Petrucci, -).
Nel dizionario dei fratelli Grimm, alla voce Tourist si ritrova peraltro anche la defi-
nizione di un viaggiatore che si muove per diletto, più simile quindi al turista inglese
che a quello tipicamente tedesco: «[…] der zu seinem Vergnügen, ohne festes Ziel, zu
längerem Aufenthalt sich in fremde Länder begibt, meist mit dem Nebensinn des rei-
chen, vornehmen, unabhängigen Mannes» (Grimm, Grimm, , col. ).
Per Tourismus i dizionari tedeschi contemporanei rimandano per lo più a Frem-
denverkehr. Non ci sembra esistano importanti elaborazioni concettuali. Va ricordato
peraltro il Duden. Das große Wörterbuch der deutschen Sprache, del , con una defi-
nizione che ci riporta alla motivazione culturale: «[…] das Reisen, der Reiseverkehr (in
organisierter Form) zum Kennen lernen fremder Orte u. Länder u. zur Erholung»
(Drosdowski, , p. ).
Un’integrazione del campo semantico di Tourismus-Fremdenverkehr viene inoltre
dal termine Touristik nato verso la fine dell’Ottocento (Grimm, Grimm, ; Opa-
schowski, ). Sempre il Brockhaus’ Konversations-Lexikon del la definisce
un’attività escursionistica in contatto con la natura, nei suoi risvolti fisici ma anche
spirituali.
Ancora sotto il nazionalsocialismo Touristik sta ad indicare un’attività sportiva, ma
a questa si aggiunge specie a partire dall’incremento turistico del miracolo economico,
il significato di viaggio organizzato, anche se i dizionari stentano a tenere il passo. Negli
ultimi decenni Touristik si è comunque conservato come termine impiegato nel lin-
guaggio specialistico professionale specie degli operatori turistici, degli uffici turistici
ecc. (Opaschowski, ).
Va osservato a margine che sarebbe peraltro errato pensare che il tedesco sia sol-
tanto debitore nell’ambito del campo semantico del turismo: una volta affermatosi il
turismo tedesco come fenomeno anche europeo verso la fine dell’Ottocento specie in
quanto turismo alpino, il tedesco diventa lingua donatrice attraverso numerosi termini
(Alpenstock, Rucksack, Halt, Kursaal) che si trasformano in veri e propri internaziona-
lismi (Opaschowski, ).
Venendo più specificamente a Fremdenverkehr, si tratta di un termine autoctono
per entrambi i componenti, ma esso entra in effetti nell’uso in quanto tale in Germania
appena a partire dalla seconda metà dell’Ottocento (Opaschowski, ).
Di qualche interesse può essere il confronto con le lingue nordiche. Un termine
composto coincidente solo a metà si incontra anche nei paesi scandinavi (norvegese
turisttrafikk, svedese turisttrafik), dove -trafik(k) corrisponde a -verkehr, mentre per il
primo componente si assume l’internazionalismo; il nederlandese presenta invece un
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del superamento spaziale, ma anche quella del rapporto e del contatto fra persone,
sino a quello sessuale.
Malgrado il passo compiuto da Enzensberger, bisognerà andare ben oltre il mira-
colo economico e attendere gli anni Settanta per vedere la definitiva affermazione nel-
l’uso corrente sanzionato dai dizionari per Tourismus nei confronti di Fremdenverkehr.
Sembrano essere decisivi la diffusione del viaggio organizzato e la massificazione
del fenomeno; l’importante Brockhaus Enzyklopädie, a p. dell’edizione del defi-
nisce Tourismus come «Gesammtbegriff für den Fremdenverkehr, bes. für seine orga-
nisierten Formen (Massentourismus), auch für seine soziolog. Aspekte».
Si viene così condotti linearmente agli aspetti più propriamente sociologici del
fenomeno. Il noto romanziere Theodor Fontane, critico della Germania bismarckiana
e guglielmina può essere considerato come una sorta di sociologo del turismo ante lit-
teram, in quanto la sua attenzione viene attratta dal nuovo fenomeno turistico, definito
peraltro viaggio, Reise. In una serie di scritti narrativi, intitolati appunto Von, vor und
nach der Reise (Fontane, ) emerge già un universo sociale che vede il crescente
intreccio del viaggio e del turismo con la dimensione del discorso quotidiano e della
rappresentazione sociale, segno che il processo stava permeando radicalmente i ceti
sociali in ascesa, specie il Bildungs- e il Besitzbürgertum.
Non sorprende allora che tutte le implicazioni di questa questione solo apparente-
mente terminologica si focalizzino nelle prime riflessioni di sociologia del turismo, che
riguardano una disciplina i cui inizi coincidono con gli studi scientifici sul turismo in
generale, e devono quindi incentrarsi su aspetti teorici fondanti, sulla Lehre, sulla
Kunde, come fanno spesso capire i titoli (Bormann, ; Glücksmann, ), e sulla
Begriffsbestimmung.
Il breve saggio di Simmel intitolato Exkurs über den Fremden del (poche affa-
scinanti pagine quasi una sorta di divagazione ed approfondimento della sua sociolo-
gia) ebbe grande diffusione non solo in Germania, ma in seguito anche nel mondo
anglosassone e le prime riflessioni sul turismo in Germania prendono spunto proprio
da esso. Simmel sottolinea:
Die Einheit von Nähe und Entferntheit, die jegliches Verhältnis zwischen Menschen
enthält. […] Die Distanz innerhalb des Verhältnisses bedeutet, daß der Nahe fern ist,
das Fremdsein aber, daß der Ferne nah ist (Simmel, , p. ).
Inoltre, fa emergere la specificità dei rapporti che si instaurano nelle relazioni fra lo
straniero e i locali (ivi, pp. -).
Il grande sociologo tedesco fornisce gli strumenti per una ricerca che si muova
nella dimensione sociologica dello spazio. Si vedrà ancora come il discorso sullo stra-
niero, che può da un lato essere interpretato come un tipo sociale unico associato alla
modernità, venga in effetti ad articolarsi in un ampio ventaglio che getta luce su diver-
se problematiche sociali (Tabboni, ).
Preceduto dal tentativo riuscito in Italia, a cura di Angelo Mariotti, di portare gli
studi turistici alla dignità delle aule universitarie, l’ambiente berlinese attorno a Robert
Glücksmann dei primi anni Trenta si rivela come un vero e proprio laboratorio di ricer-
ca, addirittura come una sorta di comunità scientifica, punto di riferimento per studio-
si internazionali di turismo. Il Forschungsinstitut für den Fremdenverkehr fondato nel
e la rivista “Archiv für den Fremdenverkehr”, inaugurata nel (la pubblicazio-
ne fu interrotta nel dall’avvento del nazionalsocialismo) vanno per alcuni anni di
pari passo, avvalorando l’immagine di una fucina di studi turistici (Spode, ). Si
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affaccia a questo punto anche il problema del collegamento con gli aspetti più pro-
priamente linguistici, e ci si deve chiedere in che misura in quell’epoca questi contas-
sero o venissero invece sottovalutati, dato che in Germania prevaleva la teorizzazione
basata sulla terminologia del Fremdenverkehr. Nell’impossibilità di ricostruire la situa-
zione comunicativa, ci si chiede come il discorso scientifico potesse mantenere un lin-
guaggio comune in tutta Europa malgrado l’innegabile effettiva diversità terminologi-
ca, e si può ipotizzare da un lato una conoscenza linguistica del tedesco molto diffusa,
dall’altro comunque una padronanza attiva e passiva di più lingue straniere.
La teoria del noto sociologo Leopold von Wiese è impensabile senza la premessa
simmeliana: essa privilegia le Beziehungen, l’interazione fra i soggetti sociali. Il suo
breve saggio dedicato al turismo Fremdenverkehr als zwischenmenschliche Beziehungen
fu pubblicato significativamente in apertura del primo numero della rivista “Archiv für
den Fremdenverkehr” (von Wiese, ). Basandosi sulle interrelazioni umane, esso
distingue tre tipi principali di stranieri: il primo si presenta come funzionario o signo-
re, conquistatore occupante; il secondo, indifferente, non cerca un avvicinamento, è il
vero e proprio straniero che «non vuole essere ospite»; il terzo tipo invece, «commer-
ciante, ricercatore, viaggiatore di piacere, collega di traffici, interessato alla dimesti-
chezza con gli abitanti», è il vero e proprio «Gast», ospite, con cui si rapportano i diver-
si tipi di abitanti. Il sociologo mette anche in luce i pericoli del carattere casuale, tran-
seunte, stereotipico di questa specie di interazione sociale (von Wiese, , pp. -, tra-
duzione mi?).
Rilevante ci sembra soprattutto l’attenzione filologica di Robert Glücksmann, stu-
dioso di turismo sensibile agli aspetti sociologici, che apre il suo libro Fremdenverkehrs-
kunde (Glücksmann, ) col concetto di Fremdenverkehr e la sua etimologia, basan-
dosi sull’analisi linguistica sia di Fremd che di Verkehr, e individuando nel turismo uno
scambio di relazioni fra appartenenti e non appartenenti ad un luogo. La sua defini-
zione del turismo («als die Summe der Beziehungen zwischen einem am Orte seines
Aufenthalts nur vorübergehend befindlichen Menschen und Menschen an diesem
Orte», ivi, p. ) contiene elementi fondamentali che troveranno ulteriori sviluppi.
Sembra di seguire un preciso filo storico col fatto che l’opera di Glücksmann – vit-
tima del nazionalsocialismo – venne pubblicata in Svizzera nel .
Walter Hunziker e Kurt Krapf, che sono considerati i padri fondatori e fra i mag-
giori studiosi della dottrina turistica e facevano capo all’Università di San Gallo rispet-
tivamente al Forschungsinstitut für Fremdenverkehr di Berna ancora oggi esistente,
sono senz’altro debitori a Glücksmann (Spode, ). Essi hanno inoltre ben presente
durante la guerra la missione di preservazione del sapere turistico che compete alla
Svizzera e il significato mondiale della dottrina del turismo (Hunziker, ). A loro si
deve la nota definizione del turismo, Fremdenverkehr, come
Inbegriff der Beziehungen und Erscheinungen, die sich aus der Reise und dem Aufent-
halt Ortsfremder ergeben, sofern durch den Aufenthalt keine Niederlassung begründet
und damit keine Erwerbstätigkeit verbunden wird (Hunziker, Krapf, , p. ).
D’altro canto va detto che nella sociologia dello straniero (Simmel, Schütz, Merton),
che pure individua diversi tipi di straniero, non si avverte un collegamento immediato,
ma solo forzatamente voluto, col turismo, ossia piuttosto con fenomeni attuali come
l’immigrazione, a sua volta da collegare al turismo.
Esiste certamente un risvolto positivo sul versante antropologico di Fremden-
verkehr, e tutta la ricchezza del momento dell’estraneità si rivela a livello dell’incontro
antropologico e delle relazioni interculturali, che vanno dal rapporto fra singoli indivi-
dui a quello fra gruppi e con la comunità locale. Ci sembra che un’eredità aggiornata
di questo discorso di zwischenmenschliche Beziehungen si ritrovi ancora non a caso
nella svizzera Marion Thiem, che scava nelle dimensioni plurime di questo incontro
interculturale (Thiem, ).
Va sottolineato comunque ancora che il privilegiare lo straniero e i suoi rapporti
con la popolazione locale non dovrebbe andare a scapito di quell’aspetto fondamen-
tale che è la dimensione individuale del turista che viaggia per diletto, in quanto il
turista con la sua matrice di provenienza, le sue motivazioni, le sue rappresentazioni
sociali, i gruppi di riferimento ecc., con il circuito del viaggio d’andata e di ritorno,
che forma appunto il ciclo dell’esperienza turistica, rappresenta l’ossatura portante
del fenomeno. In Fremdenverkehr è in effetti assente la fluidità dell’innegabile espe-
rienza circolare di Tourismus.
La definizione dell’United Nations World Tourism Organization (UNWTO), neces-
sariamente riduttiva, fornisce d’altro canto l’indicazione di dove possa portare l’accen-
to su un’“attività di persone” sia pure con le loro motivazioni, ma senza una prospetti-
va globale:
[…] the activities of persons traveling to and staying in places outside their usual
environment for not more than one consecutive year for leisure, business and other
purposes.
In conclusione, non si può prescindere dall’eredità della scuola tedesca e svizzera, dal
suo quadro globale che prefigura, malgrado l’accento sull’estraneità, l’intera sfaccetta-
tura del fenomeno turistico. L’indicibile Inbegriff di Hunziker e Krapf, anche se diven-
tato più realisticamente una Gesamtheit, si presenta come un molteplice insieme di rela-
zioni e fenomeni (Kaspar, ) e rappresenta un quadro di riferimento fondamentale.
Pochi studiosi di turismo sembrano esserne ormai consapevoli (Sessa, ), e spesso si
ritrova nei loro studi un riferimento implicito all’eredità della scuola tedesca e svizzera
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senza un’espressa citazione. Una qualche eredità della nozione organica di turismo di
scuola svizzera si constata ad esempio anche abbastanza recentemente nella nota defi-
nizione di turismo dell’inglese Tribe:
[…] the sum of phenomena and relationships arising from the interaction in generating
and host regions, of tourists, business suppliers, governments, communities, and envi-
ronments (Tribe, , p. ).
Ma, ahimé, l’ampio retroterra culturale, compreso il discorso etimologico degli studio-
si è sparito, venuta meno la solidità dello spessore dovuto alla conoscenza delle grandi
lingue straniere, essendo crollata l’importanza del tedesco di fronte al monolinguismo
anglosassone. Eppure sembrano queste le condizioni necessarie per cogliere appieno
sia l’individualità del turista che la totalità del fenomeno, la dimensione psicologica e
quella più generalmente sociologica dello stesso. L’esigenza di Begriffsbestimmung si
rivela una volta di più determinante ed essenziale.
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Il presente studio si propone di valutare i riferimenti a Karl Kraus e alla sua opera pre-
senti nei diari e nelle corrispondenze epistolari di Franz Kafka, allo scopo di compren-
dere meglio l’atteggiamento del praghese nei confronti del polemista austriaco.
Prima di procedere all’analisi, occorre innanzitutto ricordare che, se il nome di
Kraus ricorre in ben otto occasioni nelle pagine dei Tagebücher e dei Briefe kafkiani,
lo scrittore di Vienna, al contrario, non accenna mai in nessuna circostanza al con-
temporaneo, un “silenzio” che dà adito a molteplici ipotesi, fra le quali trovano posto
la disputa di quegli anni con Max Brod (-) e la rinuncia alla fede ebraica da
parte del viennese.
Tra i riferimenti di Kafka, infatti, ha un’importanza del tutto particolare la let-
tera del giugno in quanto, partendo dalla rilettura dell’operetta satirica in due
atti Literatur oder man wird doch da sehn che Kraus scrive e pubblica nel pren-
dendosi gioco della ricerca stilistica dei poeti espressionisti, lo scrittore ceco confi-
da proprio a Brod le sue opinioni riguardo, in particolare, alle abilità linguistiche di
Kraus:
Vor längerer Zeit habe ich Literatur von Kraus gelesen, Du kennst es wohl? Nach dem
damaligen Eindruck, der sich seither natürlich schon sehr abgeschwächt hat, schien es
mir außerordentlich treffend, ins Herz treffend zu sein. In dieser kleinen Welt der
deutsch jüdischen Literatur herrscht er wirklich oder vielmehr das von ihm vertretene
Prinzip, dem er sich so bewunderungswürdig untergeordnet hat, daß er sich sogar mit
dem Prinzip verwechselt und andere diese Verwechslung mitmachen läßt. Ich glaube,
ich sondere ziemlich gut, das, was in dem Buch nur Witz ist, allerdings prachtvoller,
dann was erbarmungswürdige Kläglichkeit ist, und schließlich was Wahrheit ist, zumin-
dest so viel Wahrheit, als es meine schreibende Hand ist, auch so deutlich und beäng-
stigend körperlich (Kafka, , p. ).
Sebbene l’entusiasmo per la Operette si sia col tempo vieppiù affievolito, Kafka rico-
nosce all’austriaco il ruolo di incontrastato dominatore della deutsche-jüdische Literatur
grazie, in particolare, alla capacità della sua Sprache di riflettere e rappresentare le
caratteristiche culturali della comunità di scrittori ebrei di lingua tedesca.
Ad ogni modo il praghese non ha soltanto delle parole di elogio per Kraus e il tono
sembra mutare profondamente quando, nel prosieguo della lettera, Kafka afferma:
Der Witz ist hauptsächlich das Mauscheln, so mauscheln wie Kraus kann niemand,
trotzdem doch in dieser deutsch jüdischen Welt kaum jemand etwas anderes als mau-
scheln kann, das Mauscheln im weitesten Sinn genommen, in dem allein es genom-
men werden muß, nämlich als die laute oder stillschweigende oder auch selbstquäle-
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rische Anmaßung eines fremden Besitzes, den man nicht erworben, sondern durch
einen (verhältnismäßig) flüchtigen Griff gestohlen hat und der fremder Besitz bleibt,
auch wenn nicht der einzigste Sprachfehler nachgewiesen werden könnte, denn hier
kann ja alles nachgewiesen werden durch den leisesten Anruf des Gewissens in einer
reuigen Stunde (ibid.).
Kafka sembra dunque non “voler perdonare” a Kraus la sfrontatezza con cui il vienne-
se ha scelto non solo di allontanarsi dalla comunità ebraico-tedesca ma anche di deri-
derla e si esprime in maniera ancor più caustica quando, scrivendo ancora a Brod,
aggiunge:
Die deutsche Literatur hat auch vor dem Freiwerden der Juden gelebt und in großer
Herrlichkeit, vor allem war sie, soviel ich sehe, im Durchschnitt niemals etwa weniger
mannigfaltig als heute, vielleicht hat sie sogar heute an Mannigfaltigkeit verloren. Und
daß dies beides mit dem Judentum als solchem zusammenhängt, genauer mit dem Ver-
hältnis der jungen Juden zu ihrem Judentum, mit der schrecklichen inneren Lage die-
ser Generationen, das hat doch besonders Kraus erkannt oder richtiger, an ihm gemes-
sen ist es sichtbar geworden. Er ist etwas wie der Großvater in der Operette, von dem
er sich nur dadurch unterscheidet, daß er statt bloß oi zu sagen, auch noch langweilige
Gedichte macht. Er ist etwas wie der Großvater in der Operette, von dem er sich nur
dadurch unterscheidet, daß er statt bloß oi zu sagen, auch noch langweilige Gedichte
macht (Kafka, , p. ).
L’ironico paragone fra Kraus e il nonno, che nel corso dell’operetta commenta gli even-
ti con il verso lapidario «oi», sembra indicare chiaramente come Kafka consideri il vien-
nese rappresentante della vecchia generazione di ebrei ancora legata alla tradizione, da
cui il giornalista austriaco si distinguerebbe soltanto grazie al fatto di scrivere poesie,
definite peraltro “noiose” (langweile Gedichte).
Quest’ultima sarcastica affermazione rivela un elemento importante per definire il
giudizio di Kafka nei confronti di Kraus: al di là della dichiarata ammirazione per l’uso
della lingua, il praghese dimostra non solo di non gradire le qualità liriche del vienne-
se ma anche di avere riserve circa la modernità della sua satira.
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Vale la pena tuttavia ricordare che il passo sopraccitato resta l’unico caso isolato in
cui l’autore di Der Prozess si esprime in maniera esplicita su Kraus. Nei riferimenti
che seguono le parole del praghese risultano talvolta “criptiche”, talvolta contro-
verse e non è sempre possibile interpretare in modo univoco la natura dell’interesse
di Kafka per Kraus.
Un esempio in proposito può essere fornito dalla lettera del giugno , in cui,
chiedendo all’amico Robert Klopstock (-) di inviargli una copia del celebre
giornale diretto da Karl Kraus, “Die Fackel”, Franz Kafka precisa:
Dagegen würde ich Sie wohl bitten, wenn eine neue Fackel erscheinen sollte – sehr
lange ist sie schon ausgeblieben – und sie nicht zu teuer ist, nach dem Durchlesen sie
mir zu schicken, diese süße Speise aller guten und bösen Triebe will ich mir nicht ver-
sagen (ivi, p. ).
Oltre a rivelare chiaramente un grande interesse per la rivista, il praghese sembra anche
“divertirsi” a scegliere l’arzigogolata perifrasi süße Speise aller guten und bösen Triebe
per descrivere il giornale diretto da Kraus. In tale definizione Kafka sembra tendere ad
un simbolismo ben lontano dal tono confidenziale utilizzato nelle lettere, raggiungen-
do, forse intenzionalmente, una potenzialità allusiva e un registro aforistico che, per
certi versi, si avvicinano proprio alla Sprache krausiana e che ritornano anche nella let-
tera del febbraio , quando, ringraziando Klopstock per la spedizione di “Die
Fackel”, il romanziere ceco aggiunge:
Mein lieber Robert, es geht nicht, ich kann nicht schreiben, kann Ihnen kaum danken
für alles Gute, womit Sie mich überhäufen (die prachtvolle Chokolade, die ich erst vor
ein paar Tagen bekam oder vielmehr, um die Wahrheit nicht zu verschleiern, die wir
bekamen und dann die Fackel, mit der ich die Ihnen schon bekannten entnervenden
Orgien abendlich getrieben habe, einmal während der Onkel und Dora entzückt,
anders wohl entzückt als ich, bei einer Krausvorlesung waren) (ivi, p. ).
Se l’uso del passato prossimo (getrieben haben) indica chiaramente che l’abitudine
di leggere ogni sera “Die Fackel” sembra essere finita, risulta, invece, particolar-
mente difficile stabilire che cosa lo scrittore ceco intendesse realmente dire con l’af-
fermazione entnervenden Orgien. La scelta dell’aggettivo entnervenden può forse
suggerire l’ipotesi che il praghese potesse considerare le suddette letture per l’ap-
punto “snervanti” (per non dire forse “inconcludenti”), mentre il sostantivo Orgien
sembra ben rappresentare l’incontenibile foga con cui Kafka leggeva ed analizzava
gli articoli di Kraus.
Le parole di Kafka risultano più “oscure” quando riferisce della Vorlesung di
Kraus, cui ha assistito insieme alla compagna Dora Diamant (-) e a Siegfried
Löwy (-). A tal proposito, vale la pena ricordare brevemente come la gesch-
riebene Schauspielkunst di Kraus trovi la sua più importante consacrazione proprio
nelle Vorlesungen cominciate nel ; la “camaleontica” e carismatica voce del vien-
nese ipnotizza il pubblico della Mitteleuropa per oltre vent’anni, facendosi portavo-
ce del progetto del Theater der Dichtung, vale a dire l’ambizioso tentativo di sensi-
bilizzare la decaduta società di inizio secolo attraverso la lettura di propri scritti
nonché di opere dei grandi letterati. Le letture pubbliche di Karl Kraus hanno luogo
in diverse città e capitali, tra cui anche Berlino, Parigi, Budapest e per l’appunto
Praga.
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Nel passo in questione egli si preoccupa, infatti, di specificare che il suo entusia-
smo è “ben diverso” (anders wohl) rispetto a quello della fidanzata e dello zio, senza
tuttavia argomentarne le motivazioni. Anche in questo caso appare oltremodo intrica-
to riuscire ad intuire quale tipo di interesse si nasconda nelle parole del praghese.
Das Krausbuch habe ich bekommen, schön, lieb und verschwenderisch war es, daß Sie
es geschickt haben, es ist lustig, wenn es auch nur eine Nachgeburt der “Letzten Tage”
ist (ivi, p. ).
Il Krausbuch cui il praghese allude è Untergang der Welt durch schwarze Magie, l’apo-
calittica e polemica raccolta di saggi compresi tra il e il che Kraus sceglie di
pubblicare in una silloge nel . Pur limitando le impressioni sul libro al solo agget-
tivo lustig, Kafka tiene a ricordare che il testo dev’essere considerato una “placenta”
(Nachgeburt) della tragedia Die letzten Tage der Menschheit, la colossale opera teatrale
scritta da Kraus nel e pubblicata sempre nel .
Lo scrittore ceco dimostra pertanto di orientarsi con scioltezza fra le opere di Karl
Kraus e non stupisce il fatto che, descrivendo il proprio stato di salute all’amico Max
Brod in una cartolina del settembre , utilizzi persino una frase del viennese:
Was mich betrifft: eine kleine Gewichtszunahme ist da, äußerlich kaum zu merken,
dafür aber jeden Tag irgendein größerer Mangel, es rieselt im Gemäuer, wie Kraus sagt
(ivi, p. ).
Franz Kafka sceglie di utilizzare la celebre frase «es rieselt im Gemäuer» (DF, -,
Oktober , p. ), con cui Kraus si era preso gioco della rivista rivale “Die Neue
Freie Presse” alla fine della prima guerra mondiale, per descrivere con più efficacia il
progressivo ed inesorabile incedere della malattia. La suddetta citazione risulta, a tal
riguardo, estremamente emblematica di quanto la Sprache krausiana fosse “entrata a far
parte” della lingua e, per certi versi, persino dei pensieri dello scrittore ceco.
Oltre a conoscere le opere del polemista austriaco, Kafka dimostra di essere interessa-
to anche alle critiche mosse dagli intellettuali dell’epoca al viennese, come, ad esempio,
dimostra la lettera a Milena Jesenská (-) del novembre , dove il nome di
Kraus compare in via del tutto estemporanea:
In sich ist ja Ehrenstein gewiß sehr stark; was er Abend vorlas war ungemein schön
(allerdings wieder mit Ausnahme gewisser Stellen im Krausbuch) (DF, -, Okto-
ber , pp. -).
Kafka riferisce le sue impressioni sulla Vorlesung che il poeta espressionista Albert
Ehrenstein (-) tiene al Mozarteum di Praga l’ novembre ; pur elogiando il
carisma del Vorleser e la qualità del programma proposto, il praghese sottolinea di non
aver apprezzato alcuni passi del saggio emblematicamente intitolato Kraus (Krausbuch)
e pubblicato nell’agosto del , con cui Ehrenstein era entrato ufficialmente in pole-
mica con l’editore di “Die Fackel”.
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Il nome del viennese sembra tuttavia confondersi nella moltitudine di artisti, pitto-
ri ed intellettuali della Vienna di inizio Novecento, come nel caso del brevissimo riferi-
mento del marzo , quando Kafka annota sulle pagine del diario il passo che
segue: «Früher Vortrag Loos und Kraus» (Kafka, , p. ).
Il praghese sembra in questo caso voler registrare semplicemente la partecipazione
alla conferenza del giornalista, anche se la scelta di associare il nome di Kraus a quel-
lo di Adolf Loos (-) potrebbe sollevare l’ipotesi che l’autore ceco considerasse
i due intellettuali viennesi gli “indivisibili” esponenti della rovente polemica contro il
vacuo decorativismo artistico della Vienna di inizio secolo.
Caso simile è anche quello della lettera a Klopstock del dicembre , in cui lo
scrittore ceco torna ad associare Kraus ad un altro grande rappresentante del fermen-
to culturale viennese dell’epoca, il pittore Oskar Kokoschka (-), come si legge
nel passo seguente:
Was ist denn hier Kraus, Kokoschka u. s. w.? Diese Namen nennt man in diesen Krei-
sen Dresdens täglich so oft wie in Matlar die Lomnitzer Spitzen und bestenfalls im glei-
chen Sinn: die ewige Monotonie der Berge müßte einen verzweifeln lassen, wenn man
sich nicht manchmal zwingen könnte, sie schön zu finden (Kafka, , p. ).
Il praghese sembra in questo caso persino “annoiato” dalla frequenza con cui il
nome di Kraus e degli altri esponenti dello Jung Wien ricorre nei circoli culturali. Il
“curioso” paragone con il paesaggio montano di Lomnitz sembra con tutta proba-
bilità voler anche alludere alla ripetitività che Kafka riscontra nelle opere e nello
stile di Kraus.
Ma la descrizione più emblematica di Kraus è quella contenuta in occasione del
colloquio che lo scrittore ceco intrattiene con il giovane poeta Gustav Janouch (-
) nel , di cui si riporta il passo seguente:
Ich brachte Kafka ein neues Heft der von Karl Kraus in Wien herausgegeben Fackel. –
Er zerpflückt die Journalisten wunderbar- Sagte er beim durchblättern. – Nur ein geris-
sener Wilddieb kann so ein strenger Waldhüter sein (Janouch, , p. ).
Note
. I riferimenti a Karl Kraus sono compresi fra il novembre del e il febbraio .
. Karl Kraus entra in polemica con Max Brod nel (cfr. “Die Fackel”, , Juni , pp. -, in
Kraus, d’ora in avanti abbreviato in DF, seguito dal numero, dalla data e dalla pagina della rivista).
. Con la pubblicazione del saggio Eine Krone für Zion del , Karl Kraus proclama il suo allon-
tanamento dalla jüdische Gemeinschaft e rinnega l’ebraismo. Nel lo scrittore austriaco si converte
in un primo momento al cattolicesimo, tornando indietro sulla scelta nel ed assumendo poi una
posizione di critica “indifferenza” verso ogni forma di culto.
. Fra le traduzioni italiane più autorevoli del verbo Mauscheln si trova “parlare yiddish” oppure
“parlare con accento yiddish”. Pare ad ogni modo impossibile tradurre con efficacia un termine così
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Bibliografia
Letteratura primaria
Letteratura secondaria
ISPANISTICA
Fausta Antonucci
Otello Lottini
Giuliano Soria
Simone Trecca
Arianna Alessandro
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. Sono di diversi ordini i problemi che si propongono a chi, oggi, voglia affrontare la
traduzione di un grande classico del teatro spagnolo come La vida es sueño. Cercherò
di darne conto in modo il più possibile rapido, prima di analizzare comparativamente
alcune concrete proposte di traduzione.
Non è mia intenzione fare una premessa di carattere teorico, per ragioni sia di spa-
zio sia di incapacità personale: la prassi traduttiva ha sempre preceduto la teoria, nella
mia esperienza, e anzi dovrei dire che la predisposizione e l’interesse a tradurre sono
sempre stati in me di gran lunga maggiori rispetto alla predisposizione e all’interesse
per la teoria del tradurre. Potrei fare mia senza alcuna difficoltà, fatte le debite diffe-
renze di esperienza e cultura, un’affermazione del poeta e traduttore Mario Luzi, cita-
ta dal filologo e traduttore di poesia Giuseppe Sansone: «[…] non ho mai pensato
davvero di poter io teorizzare un oggetto eminentemente empirico come, gira e rigira,
ha sempre finito per apparirmi la traduzione» (Luzi, , p. , cit. in Sansone, ,
p. ). Una declinazione più generalizzante di questa affermazione è quella che si legge
in un interessante intervento di Angelo Morino, studioso di letteratura e traduttore di
narrativa e di poesia: «[…] chi teorizza sul tradurre non traduce e chi traduce non teo-
rizza sul tradurre. Nel caso della traduzione, esiste una frattura fra la teoria e la prati-
ca: o si sta da una parte o si sta dall’altra. Si potrebbe anche metterla così: […] chi tra-
duce si sporca troppo le mani per avere voglia di formulare teorie sulla propria atti-
vità». Al di là della boutade (perché credo sia questo il senso da attribuire alle parole
di Morino), ritengo peraltro, con Sansone, che «anche nel più umile fare un’oncia di
sottesa speculazione pur sempre serpeggia» (Sansone, , p. ). Proprio a
quest’«oncia» vorrei fare riferimento, apportando anche, per chi legge, alcuni riferi-
menti bibliografici specifici sul problema della traduzione di testi teatrali del Siglo de
Oro, frutto della riflessione e dell’esperienza di studiosi e filologi che non hanno
disdegnato di «sporcarsi le mani» (per riprendere la metafora di Morino) con la tra-
duzione di opere letterarie.
Se, per tornare all’inizio di questo discorso, il testo da tradurre è La vida es sueño,
non si potrà prescindere da una considerazione previa delle sue caratteristiche specifi-
che. Quelle di assoluta rilevanza per le scelte del traduttore sono almeno tre: si tratta
di un testo composto per la rappresentazione teatrale; si tratta di un testo composto –
come d’abitudine nel teatro aureo – in una varietà di forme metriche e strofiche (poli-
metrico); si tratta di un testo composto in una lingua che non solo è ormai lontana
dallo spagnolo odierno ma è anche caratterizzata da una peculiare densità stilistica e
retorica, soprattutto in alcune sequenze. Tutte queste caratteristiche, considerate con-
giuntamente, dovrebbero portare il traduttore a scegliere senza esitazioni la traduzio-
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ne in versi. Come dice Maria Grazia Profeti, la traduzione in prosa (opzione troppo a
lungo seguita dai traduttori in italiano delle grandi opere del teatro aureo spagnolo)
cancella «el brillante tejido polimétrico de la comedia española, su complejidad rítmi-
co-fónica»; cancella, in una parola, la «forma» propria del testo, che non è soltanto
forma dell’espressione, per dirla con Hjelmslev, ma anche forma del contenuto (Pro-
feti, , p. ). Non solo; come opportunamente fa notare Profeti, la traduzione in
prosa di queste opere, oltre a cancellare la ricchezza formale e simbolica dell’origina-
le, è anche inservibile a fini teatrali:
Perdido el apoyo del verso y de la rima, las metáforas, las figuras retóricas, parecen, en
esas viejas traducciones, harapos de insoportable presunción; no hay que maravillarse si
el lector cerraba con hastío el libro, y si ningún hombre de teatro pensaba en montar
textos tan “desarreglados” y “raros” (ibid.).
Le riflessioni di Profeti, qui riportate in una versione del ma già espresse in forma
analoga quasi dieci anni prima (Profeti, ), compendiano le ragioni metodologiche
di un “nuovo corso” nelle traduzioni italiane del teatro del Siglo de Oro, che ricevette
un impulso notevolissimo dall’operato, come traduttore e come organizzatore editoria-
le, di Carmelo Samonà. Nel Samonà tradusse infatti El nacimiento de Cristo di
Lope de Vega, per la collana Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”. Scriveva Samonà
nella Nota del traduttore:
osserva Profeti, «en los últimos años no se han visto en los escenarios italianos las joyas
de la comedia áurea española; peor aún: no se ha visto ninguna de las obras que enton-
ces se tradujeron» (Profeti, , p. ).
Una testimonianza recente dell’impatto di quelle traduzioni e del criterio che le
ispirava, la si può trovare in un denso saggio nel quale Alfonso D’Agostino esamina le
diverse operazioni che comporta l’atto traduttivo di un testo così complesso come La
vida es sueño, mettendo a confronto diverse traduzioni e proponendone a sua volta di
proprie. Il saggio si apre con una dichiarazione dal tono non certo programmatico,
anzi, dubitativo almeno in parte: «Da tempo vado pensando che la resa d’un’opera poe-
tica in altra lingua implichi probabilmente la necessità di tradurre in versi» (D’Agosti-
no, , p. ). E poiché, come già Luzi, Sansone e Morino, anche D’Agostino è del
parere che «in casi come questi, francamente, conta forse più la pratica che la teoria»,
egli trae delle conclusioni, operative e teoriche insieme, solo al termine della sua pun-
tuale disamina delle diverse opzioni traduttive esistenti per il monologo di Rosaura che
apre La vida es sueño. La scelta esplicitata da Samonà per la sua traduzione di El naci-
miento de Cristo, più sopra citata, analoga a quella già effettuata da Mario Socrate per
El caballero de Olmedo e riportata a sua volta da Profeti che la condivide appieno, è
fatta propria anche da D’Agostino, che afferma: «Si tratta evidentemente non solo della
posizione più assennata da un punto di vista pratico, ma anche di quella che meglio
risponde al criterio dell’udibilità del testo poetico da conquistare fra opacità e vischio-
sità» (ivi, p. ). Essendo l’udibilità «il complesso di caratteristiche che costituiscono il
testo come opera di poesia, rendendolo riconoscibile in quanto tale»; l’opacità «l’im-
possibilità di rendere tutte le componenti linguistico-stilistiche dell’opera»; la vischio-
sità quell’effetto, opposto, per cui i testi originali «attirano e invischiano, trattengono
nella loro orbita linguistico-stilistica la versione» (ivi, p. ). L’opzione che D’Agostino
dichiara di condividere con Socrate, Samonà e Profeti – e alla quale si attengono otti-
me traduzioni incluse nella già più volte citata raccolta Teatro del “Siglo de Oro” come
quella del Castigo sin venganza di Lope de Vega condotta da Maria Grazia Profeti, o
dell’Alcalde de Zalamea di Calderón condotta da Giovanni Caravaggi – risponde dun-
que alla tipologia della versione metrica semimimetica, che rispetta la forma strofica e la
misura dei versi dell’originale, «mentre la ricerca di rime o d’assonanze corrispondenti
è molto più aleatoria» (ivi, pp. -).
L’opzione della versione metrica mimetica (che cerca cioè di riprodurre assonanze
e rime in corrispondenza a quelle dell’originale) viene scartata esplicitamente da Pro-
feti, quando afferma che «la conservación del verso y de la rima […] funciona muy bien
con el endecasílabo y los versos de la tradición noble italiana (soneto, octava, silva),
pero el sonsonete del octosílabo, en el romance o la redondilla, resulta cansado y suena
a retahíla de juego de niños a un oído italiano» (Profeti, , p. ); una posizione con
la quale si dichiara pienamente d’accordo D’Agostino, soprattutto per quanto riguarda
la traduzione di redondillas, quintillas e décimas, cioè le forme strofiche con rima con-
sonante e versi ottosillabi. Il fatto è che, nella poesia spagnola, il verso di otto sillabe,
sia in serie astrofiche e assonanzate nei pari come il romance, sia nelle già menzionate
forme strofiche con rima consonante (redondillas, quintillas, décimas), ha un’antica e
nobile tradizione, precedente a quella dei versi italiani. Al contrario, nella poesia italia-
na l’ottonario non ha una tradizione analoga, essendo utilizzato in modo molto spora-
dico e discontinuo nel tempo: nelle canzoni a ballo del Quattrocento, in associazione
col settenario nelle Canzonette del Chiabrera e, poi, in alcune del Metastasio, e, infine,
in alcuni poeti di fine Ottocento (Pazzaglia, , pp. -). Si tratta, insomma, di un
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verso così poco praticato da evocare, più che echi intertestuali di tipo letterario, memo-
rie di filastrocche e rime facili.
Obietterei tuttavia che questo, in fin dei conti, è un problema di ricezione, che ha
a che vedere non tanto con l’imperizia del traduttore quanto con i riferimenti interte-
stuali e l’orizzonte di attesa del lettore colto; molto maggiore mi appare invece l’altro
rischio che può comportare il mantenimento della rima “a tutti i costi”: quello di for-
zare la resa del testo originale, piegandola alle esigenze della rima e distogliendola dal
rispetto sostanziale, formale e semantico, del tessuto poetico dell’originale. È un
rischio al quale non sfugge l’unica versione di La vida es sueño che si propone di ripro-
durre versi, misura metrica e rima dell’originale: condotta nel da Luisa Orioli e
pubblicata per Adelphi (Calderón de la Barca, ), sarà la prima delle due “pietre di
paragone” sulle quali si baserà la mia analisi comparativa, in cerca non tanto di “erro-
ri”, quanto di spunti di riflessione sulle varie opzioni traduttive di un originale assai
complesso. La seconda traduzione che analizzerò qui di seguito è quella realizzata da
Dario Puccini nel per il terzo volume della già più volte citata raccolta Teatro del
“Siglo de Oro” diretta da Samonà ed edita da Garzanti. Nell’Avvertenza del traduttore
Puccini spiega di aver tradotto in versi, specificando che «Alla rima e spesso anche alla
assonanza si è creduto opportuno rinunciare» (Calderón de la Barca, , p. ); non
sempre tuttavia la sua traduzione risponde al criterio generale della versione metrica
semimimetica, in quanto presenta frequenti modifiche metriche e ritmiche rispetto
all’originale. Ho scelto di prendere a termine di confronto e riflessione queste due tra-
duzioni, perché sono le uniche due versioni metriche tuttora disponibili sul mercato
librario, e io stessa, nella nuova traduzione che sto realizzando per la collana “Dulci-
nea” della casa editrice Marsilio, ho adottato il criterio della versione metrica (nel mio
caso, semimimetica con rispetto rigoroso della misura dei versi dell’originale).
L’analisi comparativa che condurrò sulle due traduzioni appena citate, affiancan-
dovi la mia personale proposta traduttiva, prenderà in esame due passi di La vida es
sueño, i vv. -, del secondo atto, e i vv. -, del terzo atto. Altri studiosi
hanno già comparato, con metodi diversi, il monologo iniziale di Rosaura (vv. -), l’i-
nizio del lamento di Segismundo in décimas (vv. -), il monologo di Segismundo
che chiude il secondo atto (vv. -) (rispettivamente, D’Agostino, ; Profeti,
; Soria, ). I due passi che ho scelto di analizzare comparativamente ai fini della
traduzione, pur non essendo tra i più famosi dell’opera, fanno parte di sequenze assai
significative: la prima, in redondillas, drammatizza il primo incontro fra il re Basilio e
suo figlio Segismundo a palazzo; la seconda, in ottave, rappresenta lo sconcerto e la
desolazione che si impadroniscono di Basilio di fronte alla guerra civile che devasta la
Polonia, quando il re si rende conto che tutte le sue precauzioni non sono servite a evi-
tare il disastro, ma anzi, con ogni probabilità, l’hanno provocato. Dal punto di vista
metrico, sono due campioni efficaci per misurare la fattibilità di una versione metrica
mimetica in quanto entrambe le forme strofiche prevedono schemi di rime consonan-
ti; nel primo caso, tuttavia, il traduttore deve rendere versi ottosillabi, nel secondo, versi
endecasillabi.
Come si ricorderà, Basilio non ha voluto mostrarsi a suo figlio quando questi si è sve-
gliato a palazzo dal sonno indotto dal narcotico, e ha delegato a Clotaldo, aio e carce-
riere di Segismundo, il compito di spiegargli il motivo di un cambiamento così repen-
tino di spazio e di condizione. Segismundo, al suo risveglio, si incontra quindi succes-
sivamente con Clotaldo, con Astolfo e con Estrella; con i primi due entra subito in attri-
to, sfogando la sua aggressività repressa; con Estrella, vorrebbe invece dare libero corso
a un’ammirazione che non esclude il contatto fisico, ma, quando cerca di prenderle la
mano, viene ammonito sia dalla principessa sia da un cortigiano, che, fedele ad Astolfo,
vuole evitare a quest’ultimo i tormenti della gelosia. Stizzito, Segismundo finisce per
gettare giù da un balcone il cortigiano che ha osato contraddirlo; ed è proprio questo
il momento che Basilio sceglie per affrontare finalmente un faccia a faccia col figlio.
L’incontro si apre così, invece che con un abbraccio, con una recriminazione e un rim-
provero; recriminazione e rimprovero ai quali Segismundo ribatte colpo su colpo, rin-
facciando a sua volta al padre di averlo fatto crescere lontano da lui, infliggendogli una
prigionia crudele e ingiusta. È un passo di grande tensione dialettica, nel quale si
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Orioli, d’accordo con il criterio che informa la sua traduzione, ha cercato in questo
passo di riprodurre lo schema rimico della redondilla calderoniana (ABBA), con suc-
cesso, tranne nel caso dei vv. e («dolore» non rima con «avvenire») e e
(«rinunciare» non rima con «rigore»). La misura metrica degli ottosillabi è, nella
stragrande maggioranza dei versi, rispettata, con un’eccezione importante al v.
(nove sillabe metriche, anche effettuando sinalefe tra «snudato» e «il»); sono da
segnalare inoltre i due casi (vv. e ) nei quali la misura ottosillabica si ottiene
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soltanto grazie a una dialefe. Ora, la dialefe è una figura metrica che nella lingua poe-
tica del Siglo de Oro è ammessa solo in rari casi, tanto è vero che nel testo originale
non se ne rintraccia nessuna; il suo uso nella versione italiana rende più difficoltoso
e duro il ritmo del verso, rompendo la fluidità che caratterizza al contrario l’ottosil-
labo calderoniano. A mio avviso, andrebbe fatto il possibile per evitarla, se si vuole
essere fedeli, non solo alla misura del verso originale, ma anche al suo andamento
musicale e ritmico.
Veniamo adesso ai problemi che comporta il tentativo di mantenimento della rima.
È in nome di questo obiettivo che, in più occasioni, il testo originale viene modificato
a tal punto da determinare un risultato che, sebbene “gradevole” per le ricorrenze foni-
che delle rime, finisce per tradire il significato dei versi in misura a mio parere inaccet-
tabile. I vv. - («pensando hallarte advertido, / de hados y estrellas triunfando»)
ripetono un concetto centrale nell’esperimento di Basilio, quello della capacità dell’uo-
mo di vincere il destino scritto negli astri; la traduzione («per trovarti ravveduto / sul
destino e l’avvenire») cancella il concetto di “trionfo”, sostituendolo con quello di “rav-
vedimento”, del tutto estraneo al testo originale. I vv. - trasformano il «que no
sienta» del testo originale (v. ) in «senza un grido» (v. ), e «sangriento […]
lugar» del v. in un «sangue ardente» che riproduce, è vero, almeno in parte la tes-
situra fonica dell’originale (anche se in sede diversa), ma esaspera in modo improprio
gli elementi orrorifici del testo calderoniano. Senza contare che, con questa traduzione,
va persa la ripetizione di «lugar sangriento» al v. , che invece andrebbe conservata.
Tralasciando i luoghi in cui la stessa traduttrice chiarisce in nota che la resa traduttiva
si discosta molto rispetto all’originale, segnalo infine altri tre casi nei quali il testo ori-
ginale viene modificato per esigenze di rima, in modo meno violento rispetto ai due già
analizzati ma con risultati, a mio parere, comunque discutibili. L’aggettivo «dolce» tra-
duce solo un componente semantico dell’originale «amorosos» (v. ); «mi cresce in
una tana» (v. ) ha una bella forza perlocutiva, ma cancella il parallelismo dell’origi-
nale tra «como a una fiera» di questo verso e «como a un monstruo» del successivo;
infine, non è proprio la stessa cosa pregare la morte per il figlio («se per me la morte
prega», v. ) che “procurargliela”, che è il significato corretto dell’originale solicitar
(«solicita»).
Ecco qui di seguito la traduzione di Puccini:
Il primo criterio che ho seguito nel tradurre è stato quello di mantenere la misura
sillabica del verso originale, senza nessuna ipo- o ipermetria. In secondo luogo, pur
non essendomi prefissa di riprodurre lo schema di rime della redondilla, per le ragio-
ni abbondantemente esposte più sopra, ho cercato di comunque di ricostruire una
rete di ripetizioni foniche in sede finale di verso: soprattutto assonanze (vv. -
; -; -; -; ---), ma anche consonanze (vv.
-; -). Ho anche posto molta attenzione a mantenere o riprodurre, nei
limiti del possibile, il denso tessuto dell’originale, non solo a livello ritmico-fonico,
ma anche semantico e retorico; cercando quindi di non cambiare troppo l’ordine
delle parole nel verso né la struttura dei sintagmi, e di rispettare le ripetizioni di
parole a distanza, ripetizioni che per lo più sono portatrici di rimandi significativi
importanti. Per esempio, l’originale spagnolo ha per tre volte (vv. , , ) la
parola muerte (prima nel sintagma «dar muertes / dieron muerte», poi come sem-
plice sostantivo); se la prima occorrenza si può rendere in italiano con «dar morte»,
la seconda no, per ragioni di compatibilità con la misura del verso (una traduzione
corretta e letterale sarebbe “a un altro uomo è stata data la morte”, undici sillabe
metriche); la terza occorrenza, infine, dubito che possa essere resa correttamente
con “morte”, quando il suo senso è quello, attivo, di “uccisione”. Considerando
tutte queste ragioni, ho optato per riprodurre la ripetizione dell’originale con il
verbo «uccidere» e il suo sostantivo, «uccisione» (per non ripetere «omicidio» del v.
, in spagnolo homicidio). Più difficile e problematica è la resa in italiano della
serie di ripetizioni (e di rime) «brazos / lazos» (“braccia / lacci”). Mentre, per quan-
to riguarda il secondo termine, ho scelto di tradurre con «lacci» in entrambe le
occorrenze (vv. , ), per quanto riguarda «brazos» (ben cinque occorrenze:
vv. , , , , ) ho scelto di tradurre sempre con «abbracci/abbrac-
cio», che mi permettevano di mantenere al tempo stesso la misura del verso e la rete
di ripetizioni. L’oscillazione fra il singolare e il plurale è motivata dal desiderio di
mantenere, laddove possibile, la rima consonante che per ben due volte fa entrare in
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eco «brazos» con «lazos» (vv. - e -). L’oscillazione, comunque mini-
ma, non cancella il parallelismo, sommamente significativo, fra il v. (pronuncia-
to da Basilio) e il v. (pronunciato da Segismundo); parallelismo che nessuna
delle due traduzioni esistenti manteneva.
. Trascrivo di seguito il testo originale del secondo passo che mi propongo di analiz-
zare, selezionando peraltro solo le tre ottave pronunciate da Basilio:
Siamo nel terzo atto. Segismundo è stato liberato dall’esercito dei ribelli, che non
vogliono giurare fedeltà ad Astolfo, re straniero, preferendo l’erede legittimo. Dopo
aver esitato, Segismundo accetta di capeggiare i ribelli e muovere guerra a suo padre,
avendo ben presente tuttavia la lezione ricevuta nel secondo atto: che, cioè, tutti i
beni di questo mondo sono transitori, soprattutto il potere, e che dunque occorre
agire sempre per il meglio. La scena che si apre con le ottave riportate vede Basilio
prendere atto della sconfitta imminente; da un lato, nella prima ottava, il re sembra
dare la colpa del disastro al «volgo» superbo; dall’altro, nella terza ottava, inizia a
farsi strada in lui la consapevolezza di aver sbagliato nel modo di contrastare il desti-
no. Si tratta di un momento chiave dell’opera, che prelude direttamente al confron-
to tra Basilio e Segismundo che conduce allo scioglimento dell’opera; è un momento
tragico, perché in esso si descrivono gli effetti disastrosi della guerra civile, perché
alcuni protagonisti corrono personalmente un forte rischio, ma soprattutto perché
Basilio si rende conto per la prima volta del suo errore tragico (nel vocabolario della
tragedia, si tratta della hamartia). Andranno quindi specialmente preservati, nella tra-
duzione, i vocaboli che rimandano alla concezione classica del tragico (“orrore”,
“rappresentazione”, “teatro”).
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L’isosillabismo è sempre perfetto, tranne che nel v. , ipermetro; si tratta in genera-
le di una traduzione assai efficace e fedele, sia nella resa fonico-ritmica, sia nella resa
semantica. Con alcune obiezioni da fare, tuttavia: «sboccato» (v. ) ha nell’italiano
di oggi un senso prevalentemente figurato (“sguaiato”, “volgare”), essendosi persa la
memoria linguistica dell’originale significato letterale (“che ha perso il freno”); così
anche «scatenato» (v. ) suona abbastanza improprio per la corrente di un fiume,
senza contare che il termine spagnolo «despeñado» rientra nel campo semantico della
“caduta”, cui non appartiene il termine usato per la traduzione. Tradurre «horror
segundo» con «orrore immondo» è una pesante forzatura spiegabile soltanto con l’esi-
genza di mantenere la rima consonante; non solo si usa un aggettivo semanticamente
estraneo ai concetti usati nell’originale, ma si evita di interpretare quel «a segunda
intención, a horror segundo» che, giocando con la ripetizione dilogica dell’aggettivo
ordinale, vuol dire “a diversa intenzione” (rispetto a quella originaria di giurare fedeltà
a Astolfo), “a nuovo orrore” (perché vorrebbe rinnovare lo scandalo della presenza
aggressiva di Segismundo a palazzo). Un importante fraintendimento è poi la traduzio-
ne dello spagnolo «previene» (v. ) con l’omofono italiano, dal significato opposto:
infatti, nella lingua del Siglo de Oro, prevenir può anche voler dire, come qui, “predi-
sporre”, “favorire”, non “evitare”, che è il senso che diamo al termine in italiano e che
rende incomprensibile il verso, soprattutto perché entra in contraddizione con il suc-
cessivo v. . Tutte le obiezioni fatte fin qui alla traduzione di Orioli, come si può
vedere, riguardano errori o forzature che discendono dall’aver subordinato al manteni-
mento della rima consonante altre esigenze non meno importanti, quali l’assoluta per-
spicuità semantica della traduzione e la sua fedeltà all’originale.
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Errori e forzature che, in questo caso, non si trovano nella traduzione di Puccini,
più limpida e semanticamente fedele:
Le sole obiezioni di una certa entità che si possono avanzare a questa traduzione sono
concentrate nella terza ottava. Innanzitutto, i vv. - presentano due importanti
travisamenti semantici: addirittura, devo dire di non comprendere il senso italiano del
primo di questi due versi (il senso dell’originale è chiaro: “è molto rischioso prevede-
re gli eventi”); «si ha de ser», del v. , che sottintende «lo previsto» del v. anterio-
re, non vuol dire «se una cosa s’avvera», come traduce Puccini, ma “qualcosa che si
realizzerà comunque”. A livello ritmico, e pur nel mantenimento della misura endeca-
sillabica, il v. , con accenti in --, determina un inciampo in un contesto di sche-
mi accentuativi più canonici, prevalentemente in -. Infine, non si capisce bene il
perché della traduzione «sconfitto» per «perdido», laddove una traduzione con “per-
duto” avrebbe anche recuperato un’assonanza con il verso finale dell’ottava.
Propongo infine la mia traduzione:
. Non è mia intenzione chiudere queste pagine con una conclusione vera e propria;
credo che un discorso sulla traduzione di un testo possa soltanto procedere per esem-
pi, per analisi puntuali, per proposte, come ho tentato di fare qui. La traduzione,
come dice Umberto Eco, è innanzitutto un processo di negoziazione: come tale, i suoi
risultati sono, almeno virtualmente, continuamente rinegoziabili. Citando ancora
Eco, «Ogni traduzione presenta dei margini di infedeltà rispetto a un nucleo di pre-
sunta fedeltà, ma la decisione circa la posizione del nucleo e l’ampiezza dei margini
dipende dai fini che si pone il traduttore» (Eco, , p. ). Ogni traduzione può
essere rifatta, perfezionata, modificata, nella direzione di un sempre maggiore avvici-
namento all’obiettivo di una migliore resa dell’originale: a riprova, io stessa, nello
scrivere queste pagine, sono ritornata su alcune soluzioni della mia traduzione che
avevo creduto definitive e che, invece, dal confronto più puntuale con le altre tradu-
zioni esistenti, mi sono apparse inadeguate, bisognose di modifica. Con questo,
voglio dire anche che ogni traduttore deve moltissimo a chi lo ha preceduto sulla stes-
sa strada; per quanto possano oggi apparire discutibili tante sue scelte (come ho evi-
denziato nell’analisi comparativa condotta fin qui), sono proprio quelle scelte che,
per confronto e per contrasto, aiutano il nuovo traduttore a trovare soluzioni miglio-
ri. Infatti, come ho già avuto modo di affermare in un’altra sede (Antonucci, in stam-
pa), l’analisi puntuale delle traduzioni già esistenti rende particolarmente chiari e
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visibili i punti difficili del testo originale, e dunque invita a una migliore compren-
sione dello stesso, e, di riflesso, a una migliore resa traduttiva.
Note
. Morino (, p. ). Ringrazio Camilla Cattarulla per avermi segnalato questo intervento.
. D’Agostino menziona addirittura «le storie di Bibì e Bibò del Corriere dei Piccoli» (D’Agosti-
no, , p. ).
. Non credo quindi che una traduzione metrica mimetica pienamente soddisfacente sia impossi-
bile; penso solo che sia estremamente difficile affrontarla con successo. Traduzioni metriche mimeti-
che molto fedeli ed esteticamente riuscite mi pare siano quelle che Barbara Fiorellino ha realizzato di
Peribáñez e il Commendatore di Ocaña e di El perro del hortelano (Vega, , ), e de El divino Nar-
ciso (Cruz, ).
. D’Agostino (, p. ) afferma che si tratta di una «versione metrica non ben definibile».
. Ho quindi scartato la versione di Gherardo Marone (Calderón de la Barca, ) che secondo
D’Agostino (, p. ) è una versione metrica semimimetica; e quella di Enrica Cancelliere (Calderón
de la Barca, ) che secondo D’Agostino (, p. ) è una versione alineare, «quella cioè in cui a ogni
verso dell’originale si fa corrispondere un rigo» senza preoccuparsi della forma metrica; in realtà, la ver-
sione della Cancelliere è, come dichiara la stessa traduttrice, piuttosto una versione in verso libero, per-
ché non necessariamente ciascun rigo della traduzione coincide nel significato con il verso corrispondente
dell’originale.
. Per il testo spagnolo, riproduco quello stabilito per l’edizione di La vida es sueño da me curata
(Calderón de la Barca, in stampa).
. Stupisce che sia Orioli sia Puccini, nell’affrontare il primo verso della battuta di Basilio, non
abbiano ritenuto di mantenere la misura ottosillabica, traducendo con un verso di sette sillabe; questa
scelta crea infatti un forte contrasto ritmico fra l’andamento del verso iniziale (dei due versi iniziali, nel
caso della traduzione di Puccini) e quello dei versi successivi.
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MORINO A. (), Le mani sporche. Appunti sul tradurre letteratura, in R. Carnero, G. Landolfi
(a cura di), Sentieri narrativi stranieri contemporanei, Interlinea, Novara, pp. -.
PAZZAGLIA M. (), Manuale di metrica italiana, Sansoni, Firenze.
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. La frattura radicale fra arte e pubblico nasce all’inizio del secolo scorso dalla scis-
sione tra avanguardie e consuetudini artistiche della società, per cui tra i valori estetici
delle esperienze d’avanguardia e la massa si scava un abisso, in quanto l’arte si allonta-
na dal suo immediato orizzonte di comprensione. Essa non si dirige alla generalità del
pubblico, ma a una minoranza scelta, dotata di sensibilità nuova e ricettiva ai valori
puramente estetici.
Pertanto, non si propone di unificare la società, ma di dividerla, d’accordo con
linee di frattura, che riflettono strutture di sensibilità, oltre che sociali (ed economiche).
Il senso profondo delle ricerche di avanguardia sta proprio nella loro radicale necessità
di cercare un’altra arte, ma come “creando dal nulla”, cioè voltando le spalle all’arte del
passato e alla storia. L’arte si realizza come una continua esplorazione di possibilità lin-
guistiche e diventa teorica, critica, autoriflessiva, antiteleologica e perentoria nei suoi
rifiuti. È una dissociazione radicale che si veniva preparando da oltre mezzo secolo, a
partire da Mallarmé, in poesia, Debussy, in musica e Cézanne, in pittura.
Con i linguaggi d’avanguardia, avviene una radicale distinzione tra arte e vita, tra
esperienza artistica ed esperienza vitale. L’arte rifiuta ogni rappresentazione mimetica
della realtà, perché il suo obiettivo è quello di purificare gli elementi dell’opera (temi e
forme), in modo da suscitare sentimenti specificamente estetici e piaceri intellettuali,
non sentimentali o emotivi.
La negazione delle forme sensibili e umane è un mezzo, non un fine; è la conse-
guenza della volontà di autonomia dell’arte. Essa si affranca dal reale, emancipando il
segno e vivendo della propria libertà di creazione: lo stile d’avanguardia non implica
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una concezione del mondo, ma una concezione dell’arte, per cui richiede che si instau-
ri un nuovo codice di comunicazione, diverso dall’usuale modo di vivere le cose.
Libertà dell’arte, ma anche dell’artista. L’autonomia è coniugata come specifico
lavoro sul linguaggio, ma anche come autoemarginazione dell’artista. Il gesto di
ribellione dell’arte nasce da una scommessa e da una fragile umiltà. Se, per esempio,
nell’Ottocento l’arte offriva al pubblico almeno una utopia parallela a quella delle
grandi costruzioni filosofiche, religiose e politiche, all’inizio del Novecento si spo-
glia di ogni ambizione metafisica e, divorata da una corrosiva ironia, si allontana
dalla zona “seria” della vita e diventa intrascendente, trasformandosi in qualcosa di
marginale e di periferico.
La riconquista dell’autonomia e della specificità del proprio statuto, compromesso
quando l’arte si era mescolata alla vita, ha avuto un prezzo: essa ha dovuto abbando-
nare il “regno”, per conquistare il “luogo” dell’esistenza. L’arte rimane solo arte, priva
di trascendenza, senz’altre pretese.
In questo ritrarsi in se stessa, rinchiudendosi nel proprio recinto, ritrova la capacità
di obiettivarsi e di avere leggi proprie al margine della vita: è una forma di ensimisma-
miento, che si fonda sulla specifica attenzione alla soggettività interiore (specialmente,
a partire dal momento germinale dell’astrattismo).
In seguito, anche la materia diventa il supporto all’evasione dalla realtà e non solo
l’idea, cioè le necessità intime e creative dell’artista. Allora, l’arte non è più mondo di
secondo grado, né soggettività obiettivata, ma è pura presentazione e non designa
nient’altro che se stessa. L’opera è il proprio linguaggio e in essa ciò che accade è l’av-
ventura del linguaggio, mentre il segno è liberato da ogni equivalenza rappresentativa.
L’autonomia è docile sottomissione dell’opera a se stessa, ai materiali che la costi-
tuiscono e non più fuga dalla realtà esteriore. Nella loro obiettiva presenza, i materiali
costituiscono una pratica, un dato estetico puro (geometrico, gestuale, tecnologico
ecc.), un gioco strutturale e combinatorio, per cui l’opera diventa pura contemplazio-
ne estetica e anche puro oggetto di analisi.
Ma quando l’arte si è liberata di ogni scoria sentimentale e “umana”, si libera anche
della persona dell’artista. Il trionfo dell’arte sull’umano è totale. L’artista deve allora
officiare un culto ancestrale e anonimo, volto a svelare la “verità estetica”, e far sì che
la materia si mostri e parli da sola: la creatività diventa un atto di rivelazione o svela-
mento, a partire dai materiali, nella loro eterogenea e sovrana indeterminazione (cfr.
Rubert de Ventós, ).
Solo quei pochi artisti che hanno in se stessi un forte potere regolatore possono
sopravvivere, in qualche modo; chi ne è privo, può fare e dire qualsiasi cosa, ma pro-
duce sempre lo stesso risultato: la disattenzione pubblica.
Nella nostra società, come si è detto in precedenza, l’artista vive recluso in un pic-
colo circolo di gente vicino al suo lavoro. È circondato da una sorta di pellicola, che lo
nasconde e gli impedisce che venga visto dal grande corpo sociale, per cui vive ai mar-
gini dell’esistenza collettiva. E ciò conferisce irrealtà sociale al suo lavoro creativo.
Alcuni artisti, che hanno una certa notorietà, si illudono di stare sul proscenio, ma
c’è un equivoco di fondo: oggi, se un artista è conosciuto non significa che gode della
stima del pubblico e neppure che la sua opera sia realmente nota. Di norma, poiché gli
artisti non hanno più un ruolo sociale, sono più conosciuti che visti e più visti che vera-
mente capiti.
E ciò costituisce un grave problema, perché non si possono affrontare le grandi
sfide attuali e il destino futuro dell’uomo senza l’intervento dell’arte (e del pensiero e
della letteratura).
anche, per tanti versi, produttiva e stimolante, almeno rispetto all’arte tradizionale
naturalistico-veristica, immediatamente precedente.
Oggi, invece, dinanzi agli sconcertanti e accelerati sviluppi della società mediatica,
la provocazione d’avanguardia, intesa a cambiare la storia della percezione e del lin-
guaggio (come è avvenuto finora), ha le armi spuntate: la memoria torna a diventare un
dovere primario, per la stessa sopravvivenza della specie. Altrimenti, si entra nel campo
della rimozione, che è una patologia sociale e non una polemica scelta estetica, la cui
validità, nelle attuali condizioni, è praticamente nulla. La memoria del passato è anche
un diritto, perché noi siamo quello che abbiamo fatto e pensato. Un passato non inte-
so come ricostruzione di se stesso, ma come dimensione storica, al servizio del presen-
te; cioè, un problema di continuità della coscienza.
Nella società attuale, il surplus di informazione condiziona la nostra vita. All’inizio
del secolo scorso, il problema era la carenza di informazioni e, dunque, si trattava di
ottenerne di più. Oggi, invece, il vero problema è come avere meno informazioni, cioè
come “eliminare” dal nostro universo una quantità di informazioni che spesso ci avvol-
gono e ci soffocano. Il grande problema è il “filtro”; senza di esso, si rischia l’anarchia
del sapere e il naufragio nella banalità.
Perciò, è necessario ritrovare la freschezza dello sguardo, la capacità di riscoprire,
non solo lo spazio, ma anche il tempo, perché la quantità di informazioni, che ci lega al
presente e alla superficie delle cose, è superiore alla capacità di selezione dell’individuo.
La saturazione dell’informazione ci costringe a fare i conti con la memoria infinita dei
computer, che incombe sull’uomo, nella sua massiccia, neutra e inerte indifferenza.
Pertanto, dobbiamo recuperare la memoria, che è scelta e gerarchia e non accumulo e
stoccaggio di notizie, che vivono una giornata e muoiono all’imbrunire come le mosche
effimere, rischiando di farci diventare ciechi e ignoranti.
Da oltre mezzo secolo i mezzi di comunicazione – spostamento di persone, tra-
sferimento di prodotti e trasmissione di informazioni – hanno avvicinato i popoli e
unificato la vita del pianeta. Il numero e l’importanza delle scoperte e il ritmo del loro
impiego effettivo in questo tempo brevissimo superano tutto il passato umano, preso
nel suo insieme. L’effettiva trasformazione tecnica del mondo è un fatto recentissimo
e questo cambiamento sta producendo conseguenze radicali, come l’improvvisa ridu-
zione della dimensione del mondo, con il conseguente cambiamento delle coordinate
spazio-temporali.
L’arte, così, diventa una delle ultime difese dinanzi a questi nuovi rischi, inediti
nella storia dell’umanità, perché solo l’artista può gerarchizzare la realtà e i suoi valori,
mentre il combinato di TV, computer e Internet può produrre ricchezza, ma a costo di
una memoria omogeneizzata e inerte (cfr. Ortega y Gasset, , pp. - e passim).
anche perché queste attività creative sono forme di comunicazioni elettroniche e non
forme artistiche. Il loro status, infatti, le mette al di sopra dell’arte soggettiva e
manuale (astratta o figurativa), e le relega in un empireo pericolosamente avulso da
ogni creatività autonoma.
Il legame tra corpo umano e creazione artistica è qualcosa di insostituibile e di
intrasferibile, almeno in quelle forme espressive che richiedono un coinvolgimento
della nostra corporeità, intesa in senso globale (e non solo nella pittura e nella scultu-
ra, ma anche nella danza, nel teatro, nella musica ecc.). È impossibile immaginare, per
esempio, un disegno di Morandi o di Klee se non fatto direttamente dalla mano del-
l’artista, perché l’intervento del corpo anima e vivifica il tracciato, il colore ecc.
Il prolungamento ideale dell’io dell’artista, che si traduce in segno grafico, in bron-
zo, in marmo ecc. non può essere realizzato, se non attraverso una estrinsecazione cor-
porea, assolutamente indispensabile.
. Infine, emerge sempre più nitidamente che, nel cuore inquieto della società con-
temporanea, percorsa dagli effetti delle profonde trasformazioni scientifico-tecnologi-
che, l’uomo sente l’esigenza di uscire dalla materialità delle cose e di attingere una
diversa sensibilità spirituale: nasce da qui la ripresa di un dialogo tra le polarità della
cultura laica e della fede religiosa (Lottini, , pp. ss.).
La crisi in cui è immerso il mondo attuale si precisa come perdita dei punti di rife-
rimento essenziali ed ultimi, per cui le persone non riescono più a trovare guide effica-
ci per la loro condotta e la loro vita e hanno la consapevolezza di vivere tra cose penul-
time e non ultime.
Perciò, la situazione sta diventando sempre più difficile, in quanto il mondo ha ces-
sato di essere “fermo” ed è diventato fluido, problematico, insicuro.
Nell’attualità, le istanze ultime si riducono, essenzialmente, a una sola: la fidu-
cia nella ragione, come strumento universale a disposizione dell’uomo per risolvere
tutti i problemi; ragione intesa come capacità di pensare con verità e, pertanto, di
conoscere l’essere delle cose. La crisi radicale che sta vivendo oggi il mondo signifi-
ca che è diventato problematico il cuore stesso della ragione, non questa o quella
teoria razionale.
Dinanzi alle inquietudini del presente e alle incertezze sul futuro, dunque, l’uomo
sente l’esigenza di ricorrere sempre più spesso alla dimensione del sacro. Questa umana
aspirazione trova negli artisti interlocutori privilegiati, perché, con le loro antenne sen-
sibili, riescono a cogliere per primi i sintomi dei disagi e dei turbamenti spirituali degli
individui, aprendo la strada a nuovi percorsi culturali, ispirati alla trascendenza.
Nella sua linea dominante, l’arte del Novecento, appena trascorso, è vissuta come ubi-
quità alienata e si è smarrita fin nei meandri degli “ambienti”, riducendosi alla presen-
za-assenza, come in un deserto emotivo. Essa è stata come un pianeta che ha perso la
forza di gravità, che la teneva appoggiata alle ragioni dell’uomo e della storia, e si è vola-
tilizzata nell’impotenza di altri mondi.
Oggi, invece, è sempre più necessario che l’arte esca dal magico recinto in cui si era
consapevolmente rinchiusa per respirare a pieni polmoni tra le peripezie della vita e
della storia. Gli artisti devono tuffarsi di nuovo nella vita pubblica e sociale, per por-
tarvi tutte le virtù e le qualità che utilizzano nel lavoro artistico. A loro incombe il dove-
re di elevare la serietà e il rigore della vita sociale, grazie alla disciplina dell’intelletto e
all’acutezza della sensibilità.
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La società è arrivata a un crocevia, che implica una grande svolta. Essa si può sal-
vare, se c’è la collaborazione degli artisti. Perché oggi bisogna inventare nuovi destini e
nuove anatomie per la realtà e per il mondo, norme pubbliche, alte ed efficaci, diversi
progetti di vita nazionale e planetaria, cioè, risposte complesse a problemi complessi.
Per poter raggiungere questa nuova pienezza della cultura, e per occupare il posto
che le spetta nel recinto spirituale della Spagna, dell’Europa e in quello del pianeta, l’ar-
te deve collocarsi al livello dei problemi attuali, unificando la società intorno a nuovi
valori e a nuovi ideali. Il suo essere consiste nel sollevarsi più in là della realtà, influen-
zandola simbolicamente, come accade con la stella polare e la sua influenza sulla navi-
gazione, dove Nord e Sud non sono punti dove si possa arrivare, ma gesti remoti e
ultrareali, che definiscono rotte e creano direzioni.
Note
Bibliografia
Il poeta cubano Julián del Casal (L’Avana, -) era il più sensibile e delicato tra i
modernisti ispano-americani. La vita lo costrinse a prove molto severe: gravi problemi
di salute ne limitarono i movimenti e parallelamente un acceso anticonformismo lo pose
in contrasto con i valori della società del tempo. La sua unica via di fuga fu la costru-
zione di un mondo artificiale, che sostituisse una realtà difficile da accettare. Il fascino
per il sogno e per l’arte, la passione per l’esotico ed il macabro furono per Casal il rifu-
gio scelto come protezione dalle sofferenze fisiche e morali della sua quotidianità.
In questo difficile quadro esistenziale, i suoi contatti epistolari rivestivano un ruolo
insostituibile, quasi un pilastro di salvezza in un contesto di isolamento interiore. L’e-
lenco delle sue corrispondenze fornisce un ampio quadro dell’intellettualità cubana di
fine Ottocento: Cirilo Villaverde, Esteban e Juana Borrero, Aurelia Castillo del Gonzá-
lez, América Du Bouchet ed Edouard Cornelius Price. Ma nella sua ansia di condivi-
dere emozioni e cultura, si spinse molto al di là dei confini della sua isola, entrando in
contatto con Rubén Darío, Manuel Gutiérrez Nájera, Louis G. Urbina, Francisco A. de
Icaza, Enrique Gómez Carillo, José Maria Bustillos, Paul Verlaine, il Conte Robert de
Montesquiou-Fézansac, Joris-Karl Huysmans e Gustave Moreau. Nomi importanti con
cui relazionarsi, che davano a Casal il sollievo di sentirsi parte di una cerchia di eleva-
to spessore culturale. Un motivo di orgoglio, che lo spingeva a mostrare ad amici e col-
leghi tutte le lettere ricevute.
Purtroppo poche di queste sono giunte fino a noi, per ragioni principalmente fami-
liari. Dopo la morte del poeta, la sorella Carmen custodì le carte con esasperata gelo-
sia, rendendole inaccessibili agli studiosi. Meno problematica sarebbe stata la consul-
tazione dell’epistolario tra Casal e la sorella Juana, ma la morte di Dulce María Borre-
ro ne impedì la pubblicazione.
Alcune lettere che Casal scrisse ai suoi contemporanei sono comunque venute alla
luce, anche se in esiguo numero rispetto alla sua totalità. Una copia della prima lette-
ra del poeta a Luis Urbina fu pubblicata nel numero di aprile della “Revista
Moderna de México”. Cinque brevi appunti furono raccolti da José Antonio Fernán-
dez de Castro e pubblicati nel numero del marzo di “Social”. Tre lettere furono
trovate da Gustavo Duplessis e integrate nella sua dissertazione di dottorato pubbli-
cata nel dalla “Revista Bimestre Cubana”. Nel decennio successivo, José María
Chacón y Calvo entrò in possesso di quattro nuove lettere, pubblicate con materiale
già noto nel numero dell’autunno del “Boletín de la Academia Cubana de la Len-
gua”. Altri due appunti furono scoperti nel , quando il Consejo Nacional de Cul-
tura de Cuba curò la pubblicazione delle opere del poeta in occasione del centenario
della nascita di Casal.
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Venendo infine all’argomento centrale di questa nota, di recente gli studiosi hanno
potuto accedere a una dozzina di lettere inviate da Casal al pittore francese Gustave
Moreau, fra l’ agosto e il ° gennaio . Una sola è scritta in spagnolo, le altre
undici sono rese nel francese non esente da errori, ma particolarmente espressivo del
poeta.
Le lettere rivestono un’importanza da non trascurare. Forniscono nuovi elementi
sul livello di acquisizione della lingua francese da parte di Casal, ma soprattutto chiari-
scono un aspetto della sua biografia rimasto finora quasi totalmente nell’ombra: i rap-
porti del poeta con la sua fonte d’ispirazione nel mondo dell’arte simbolista, Gustave
Moreau, per cui nutriva una devozione incondizionata.
Un interesse artistico e un’affinità culturale portarono allo scambio epistolare. I
quadri di Moreau furono il punto di partenza per arrivare, oltreoceano, alle liriche di
Casal: ispirandosi ai capolavori del pittore, che viveva e operava a Parigi, il poeta com-
pose a Cuba i dieci sonetti raccolti sotto il titolo Mi Museo Ideal. Il risultato è un auten-
tico diario dell’ispirazione e insieme uno dei più compiuti esempi dell’incontro tra pit-
tura e letteratura. Le lettere approfondiscono le circostanze di questo processo di tra-
sposizione in versi di percezioni visive: i sonetti di Mi Museo Ideal sono ri-creazioni pit-
toriche, che illustrano come i modernisti si appropriarono dei segni della cultura
egemonica per sovvertirli, in uno sforzo di risemantizzazione dei testi volto a reinter-
pretare la vita e la morte, a esplorare il mondo spirituale, il tedio, i valori eterodossi e
la condizione dell’artista ancorato alla routine della vita modernista.
Non abbiamo elementi concreti per individuare con precisione il momento del primo
incontro di Casal con l’opera di Moreau, ma l’impatto dev’essere stato di grande inten-
sità. Com’era nelle sue abitudini quando riconosceva una sensibilità affine, il poeta
cubano si adoperò con entusiasmo per aprire un contatto epistolare a Parigi, con lo
scopo esplicito di procurarsi le riproduzioni dei quadri. Huysmans fu l’intermediario
per rendere possibile le comunicazioni al di là dell’oceano, verosimilmente attivate già
nella prima metà del , comunque non oltre l’estate: il termine ante quem è il set-
tembre , data della pubblicazione sulla rivista “La Habana Elegante” del sonetto
Salomé, il primo dei dieci cuadros che poi troveremo in Mi Museo Ideal. Possiamo dedur-
ne che nel periodo precedente il poeta cubano aveva già preso accordi con Huysmans
per passare al pittore francese i suoi messaggi e così
[…] de la lointaine Cuba […] un des grands poètes de la littérature latino-américaine, envoyait
a l’artiste des lettres enflammées. Il se faisait expédier par Huysmans des photographies des
tableaux de Moreau et composait d’après elles Mi Museo Ideal, recueil de sonnets en espagnol
destinés à les accompagner (Mathieu, , p. ).
sappiamo che vennero comprate presso Photographie des Beaux-Arts, rue Bonaparte,
Parigi, e che sul retro di ciascuna era riportato un numero di catalogo. Il problema era
che di nessuna opera veniva chiarito il titolo: Casal identificò con certezza L’Apparition,
Hercule et l’Hydre de Lerne e Prométhée. Sulle restanti undici fotografie dovette affidarsi
all’intuizione: si convinse di aver riconosciuto il soggetto in otto casi (lettera datata ago-
sto , righe -), ma rimase nel dubbio circa le altre tre riproduzioni e ciò dispiacque
non poco al poeta cubano (lettera datata agosto , righe -).
Casal poté scrivere, così, sette nuovi sonetti: Prometeo, La Aparición, Hércules ante
la Hidra, Venus Anadyomena, Una Peri, Júpiter y Europa e Hércules y las Estinfálides.
Poche settimane dopo Elena e Galatea, il agosto “La Habana Elegante”
pubblicò i successivi dieci ispirati da Moreau. Le liriche furono raggruppate sotto il
generico titolo di Mi Museo Ideal, con sottotitolo Cuadros de Gustavo Moreau. A segui-
re una citazione di quattro righe di Joséphin Soulary, completata da una dedica a
Eduardo Rosell, amico di Casal.
Il trasporto emotivo del poeta cubano trovò ulteriore alimento dalla ricezione della
prima lettera da Moreau: quattro giorni dopo, il settembre , Casal inviò al pitto-
re una copia della versione di Mi Museo Ideal pubblicata su “La Habana Elegante” e
una sua fotografia, scattata da Ignacio Misa da un ritratto che Armando Menocal gli
aveva fatto poco tempo prima. Sul retro era scritto:
A
Gustave Moreau,
au
maitre venerable et impeccable
en temoignage de profond’ admiration
et de reconnaissance infinie,
cet portrait est respectuensement
dediè, par son fervent et obscur
admirateur
Julián del Casal
Tre le ragioni che spinsero Casal a inviare questo dono a Moreau: esprimere la sua
devozione per il pittore con un segno concreto; rimediare alla prevedibile impossibilità
di incontrare di persona Moreau, a causa delle proprie condizioni di salute; ottenere da
Moreau la spedizione di una sua foto, cui dimostrò di tenere molto, per contraccam-
biare il gesto.
Le prove di stima e devozione di Casal proseguirono: il dicembre inviò all’ar-
tista francese due composizioni in anteprima esclusiva: Sueño de gloria e Vestíbulo. Il
primo era una genuina espressione dei propri sentimenti, mentre il secondo era un ritrat-
to in parole di Moreau. Casal mandò in stampa questi due inediti solo dopo averli dati
in lettura al pittore. Sueño de gloria uscì su “La Habana Literaria” il dicembre ,
mentre Vestíbulo, presentata con il titolo Gustave Moreau, apparve su “El Fígaro” il
gennaio e su “El País” il gennaio dello stesso anno. Nelle intenzioni di Casal,
come documenta il passaggio di una lettera a Moreau, la raccolta Nieve avrebbe dovuto
essere pubblicata nell’inverno -; Mi Museo Ideal era destinata a costituire la terza
sezione del libro (lettera datata agosto , righe -).
Per motivi ancora da chiarire, le cose andarono diversamente: per la pubblicazio-
ne di Nieve si dovette attendere la primavera del , mentre Mi Museo Ideal fu spo-
stato al secondo posto del volume. Inoltre il titolo alternativo utilizzato da Casal per le
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Julián del Casal in Mi Museo Ideal traduce in poesia le creazioni pittoriche di Gustave
Moureau e, nello stesso tempo, filtra e rende propria ogni scena descritta nei suoi quadri.
La linea che caratterizza la poetica di Casal è tracciata in un’intensa sete di bellezza for-
male, manifestando uno stile personale e muovendosi tra temi in precedenza poco consi-
derati dalla letteratura ispano-americana. Nei suoi versi appaiono tutte le sfaccettature
così peculiari del movimento modernista e tutti gli elementi che ne costituiscono la tema-
tica profonda, al punto che in pochi altri artisti si può ritrovare, in maniera così intensa,
«la nueva y morbosa sensibilidad del alma contemporánea» (Ureña, , p. ).
Un’analisi puntuale dei dieci sonetti della raccolta evidenzia la concezione tipica-
mente decadente e modernista della poesia casaliana. Secondo il poeta forma e conte-
nuto, idee ed espressione devono essere in perfetta armonia ed equilibrio tra loro. Tra
i due, la forma è sicuramente l’elemento più importante poiché in poesia la bellezza for-
male permette di dare il giusto valore alle idee che vengono espresse; il contenuto, di
conseguenza, non è l’aspetto fondamentale di una poesia e ciò che essa deve trasmette-
re in primo luogo è la pura bellezza. Si spiega così l’inclinazione di Casal verso un gene-
re poetico intimista e prezioso.
L’opera poetica, come la pittura secondo Moreau, deve essere sincera ed esprime-
re sentimenti veri ma, contemporaneamente, deve rappresentare atmosfere misteriose
ed esotiche. Proprio il mistero e l’esotismo che il poeta cubano inserisce costantemen-
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te nelle sue liriche rispondono al desiderio di evasione tipico del decadentismo e del
modernismo. Lo stesso Casal, in una delle sue prose, afferma che
Los poetas son, por regla general, seres quiméricos, descontentos y antojadizos. Sólo creerían
encontrarse bien si se encontrarán, como gime uno de ellos, en el sitio en que no están. Si estu-
vieran en el cielo, tendrían la nostalgia de la tierra, como estando en la tierra tienen nostalgia del
cielo (del Casal, ).
La sua critica alla società contemporanea, non si risolve, però, in un tentativo concreto
di cambiare le cose; al contrario, egli si isola, si abbandona all’illusione che esista un
mondo migliore. In Mi Museo Ideal questo mondo corrisponde all’antica civiltà classi-
ca e in particolare a quella greca, immortalata dalle tante leggende e racconti mitologi-
ci. Nei dieci sonetti l’autore ne ripropone alcuni tra i più noti: le fatiche di Ercole, la
guerra di Troia, l’eterna dannazione di Prometeo, la nascita di Venere. Fanno eccezio-
ne soltanto i primi due componimenti, in cui il tema è strettamente biblico, e l’ottavo,
dedicato alla tradizione popolare persiana.
Dopo aver glorificato il suo divino maestro in Mi Museo Ideal, Casal compose cinque
ballades e varie odelettes su ispirazione dell’opera di Moreau (lettera datata marzo
, righe -; e lettera datata giugno , righe -). Purtroppo, nessuna di que-
ste liriche è mai stata rinvenuta; così come sono irreperibili le note preliminari che
Casal aveva steso per una prevista monografia sulla vita e le opere di Gustave Moreau.
Per prepararsi allo studio, Casal aveva programmato di leggere tutto quanto fosse stato
scritto sul pittore (lettera datata febbraio , righe -). Successivamente, si
sarebbe recato a Parigi per incontrare Moreau e lavorare al libro. Secondo quanto
aveva previsto, il suo soggiorno parigino avrebbe dovuto durare due mesi. Dopo aver
completato la monografia, avrebbe chiesto all’artista un suo franco parere e se Moreau
non fosse stato in grado di intendere perfettamente lo spagnolo, avrebbe chiesto ad un
amico bilingue, probabilmente Cornelius Price, di tradurre lo scritto in francese (lette-
ra datata ° gennaio , righe -).
Ma come già accaduto più volte in passato, il poeta non ebbe la fortuna di veder
realizzato il suo sogno. Molto probabilmente il degenerare delle sue condizioni di salu-
te causarono questa nuova delusione, anche se non ci sono pervenute prove documen-
tarie al riguardo.
Nella primavera del , Casal era di nuovo afflitto da febbri, crisi di svenimenti,
perdita di capacità visiva e paralisi. La sofferenza poteva essere così acuta da impedir-
gli di impugnare la penna (lettera datata marzo , righe -). Erano sintomi di
una malattia molto grave, inizialmente confusa per una cardiopatia (lettera datata
settembre , righe -). La diffusione di questo terribile morbo nel corpo di Casal
diminuì la sua capacità di sopportare i disagi fisici che un viaggio dall’Avana a Parigi
avrebbe comportato, ponendo altri ostacoli alla realizzazione del suo sogno. Anzitutto,
ne ridusse notevolmente le risorse finanziarie.
Casal non godeva di una buona situazione economica, anzi, aveva sempre avuto pro-
blemi finanziari, ma, verso la metà del , il peggioramento delle sue condizioni gli rese
sempre più difficile affrontare la vita di ogni giorno. Oltre a limitarne le capacità mate-
riali, questa malattia, che sembrava quasi succhiargli il gusto della vita, nocque grave-
mente al suo equilibrio emotivo. Da un lato, aumentava la frequenza con cui egli si rifu-
giava nel mondo privato della sua fantasia, in grado di allontanarlo dalle miserie della
vita reale; dall’altro ne comprometteva le capacità di autocontrollo, quando la cruda
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realtà irrompeva nell’aura dei sogni che il poeta si era creato con tanto sforzo. Lo squi-
librio appare evidente nella sua relazione epistolare con Moreau. Nelle sue lettere, infat-
ti, Casal esprimeva un livello emotivo che andava al di là della normalità e vedendo che
Moreau era riluttante a ricambiare con altrettanto afflato, finì con l’adottare il tono sup-
plichevole dell’amante deluso il cui oggetto d’amore non ha mostrato con esplicita
dichiarazione di ricambiarne la passione. La sua delusione raggiunse il culmine quando
Moreau si rifiutò d’inviargli un suo ritratto, come Casal insistentemente richiedeva.
Questione apparentemente trascurabile, ma non per Casal. Molti i documenti che
provano la sua abitudine di inviare proprie foto a persone che ammirava e di chiedere
di contraccambiare con una loro fotografia. I tentativi di Casal di avere un’immagine di
Moreau iniziarono nel settembre . I mesi passavano senza riscontro da parte del pit-
tore, al punto che il poeta scriveva: «N’avez pas vous reçu une lettre a moi, en vous
demandant votre portrait Son envoi vous couterais sì peu et me rendrerai heureux, si
heureux!» (lettera datata giugno , righe -). Moreau rispose di aver ricevuto le
lettere, ma di preferire non inviare sue foto.
Il rifiuto del pittore non intendeva ferire la sensibilità di Casal, ma era dettato dalla
sua sincera convinzione che, mentre l’opera d’arte deve essere accessibile al pubblico,
l’artista deve restare nell’ombra. Anche se Casal comprese le ragioni di Moreau, per
oltre quattro mesi non rispose al suo venerato maestro; tra i vari motivi era deluso
anche dal fatto che non fosse stata fatta eccezione per lui. Al tempo stesso, temeva di
stancare Moreau continuando a profondersi in complimenti ed ossequi. L’occasione del
primo gennaio gli fornì un pretesto per scrivere ancora una volta al pittore france-
se. Con rinnovata costanza, inviò a Moreau gli auguri per il nuovo anno, dicendosi spe-
ranzoso di riuscire, prima o poi, a fargli visita personalmente a Parigi. A quanto risul-
ta, Moreau non rispose mai a quella lettera e Casal non gli riscrisse più.
Tuttavia, non c’è nulla che confermi che Casal smise del tutto di restare il «Très
fidèle, très loyal et très passionnè admirateur» del pittore francese (lettera datata ° gen-
naio , righe -).
Casal racchiude in sé i tratti caratteristici della personalità tipica del decadentismo fran-
cese. Alcuni elementi della sua esistenza sono oggettivi: la malattia, la sventura della sua
famiglia, l’isolamento geografico e il suo essere orfano. Altre situazioni sono il risultato
di una maturazione legata al modello francese. La vita, il comportamento e l’immagi-
nario psicologico di Casal diventano quelli dell’eroe decadente. Nelle sue lettere a
Gustave Moreau si comporta come emblema dell’uomo innamorato del mondo visio-
nario caro al pittore. I temi più ricorrenti nella sua poesia sono, innanzitutto, un pessi-
mismo profondo, il senso ineluttabile della morte e della malattia, una grande attrazio-
ne per atmosfere e situazioni decadenti e morbose, l’angoscia esistenziale e il senti-
mento di cosmopolitismo.
L’analisi del rapporto epistolare tra Julián del Casal e Gustave Moreau è un tassel-
lo fondamentale per la comprensione dei sonetti di Mi Museo Ideal. Gli spunti intro-
dotti in questa nota verranno sviluppati in un mio volume di imminente pubblicazione
per l’editore Bulzoni. In particolare, verranno presentate le riproduzioni della docu-
mentazione relativa al legame epistolare tra i due artisti (di ogni lettera vi sarà la ver-
sione in lingua originale e la relativa traduzione in italiano). L’opera contiene inoltre un
significativo contributo di Eleonora Mozziconi nel quale l’autrice chiarisce un dubbio
di attribuzione in relazione alla corrispondenza tra il soggetto del sonetto Una Peri di
Casal e quello dell’omonima opera pittorica di Moreau. Il materiale attinente al carteg-
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gio è stato reperito presso l’archivio del Musée Gustave Moreau, situato a Parigi, in rue
de la Rochefoucauld, .
Note
. Scrittrice cubana, figlia di Esteban Borrero, riceve un’educazione umanistica sin dall’infanzia.
Nel si trasferisce a Key West con la famiglia. Torna a Cuba nel , al termine della guerra d’in-
dipendenza. È tra i membri dell’Accademia Nazionale delle Arti e delle Lettere fin dalla fondazione,
avvenuta nel , dirige gli “Anales” con Miguel Ángel Carbonell e arriva alla direzione del Diparti-
mento Cultura del Ministero dell’Educazione. Nel fonda l’Associazione Bibliografica di Cuba.
Attiva nella lotta per i diritti delle donne, ha collaborato con le riviste “Cuba Contemporanea”, “Revi-
sta Cubana”, “Revista Bimestre Cubana”, “El Fígaro”.
. Gustave Moreau (Parigi -). Massimo rappresentante del movimento pittorico simboli-
sta della seconda metà dell’Ottocento.
. Cfr. in proposito R. Glickman, Julián del Casal: Letters to Gustave Moreau, in “Revista Hispá-
nica Moderna”, XXXVII, -, -, pp. -.
. Sull’epistolario è in via di pubblicazione il mio volume: Mondi trasfigurati da Parigi a L’Avana,
da Gustave Moreau a Julián del Casal (Bulzoni, Roma).
. Tra le più importanti raccolte di Julián del Casal: Hojas al viento, Imprenta la Moderna, La
Habana ; Nieve, Imprenta la Moderna, La Habana ; Bustos y Rimas, Imprenta la Moderna, La
Habana . Tra le opere postume, vale la pena segnalare la collezione completa Poesías, Edición del
Centenario, prólogo y notas de M. Parajón, Consejo Nacional de Cultura, la Habana .
. Per ulteriori notizie su Gustave Moreau cfr. G. Lacambre, Gustave Moreau e l’Italia, Skira,
Milano ; B. Mantura, G. Lacambre, Gustave Moreau. L’elogio del poeta, Leonardo-De Luca Edi-
tori, Roma ; P. L. Mathieu, Gustave Moreau. Sa vie, son oeuvre, Office du Livre, Fribourg .
. Joris-Karl Huysmans nel suo romanzo A rebours così descrive l’arte di Gustave Moreau: «Il y
avait dans ses oeuvres désespérées et érudites un enchantement singulier, une incantation vous
remuant jusqu’au fond des entrailles, comme celle de certains poèmes de Baudelaire, et l’on demeurait
ébahi, songeur, déconcerté, par cet art qui franchissait les limites de la peinture, empruntait à l’art d’é-
crire ses plus subtiles évocations» (Huysmans, , p. ).
. José María de Heredia (Santiago di Cuba, -Houdan, Francia, ). Nato a Cuba, ma di ori-
gini francesi, compie i suoi studi in Francia e diviene discepolo di Leconte de Lisle, capofila dei par-
nassiani, e consacra la sua vita alla poesia. Per lui il poeta è indifferente al suo tempo; è un erudito ed
uno “scultore” del linguaggio.
. Casal considerava Soulary (Lione, -) uno dei migliori poeti europei. L’epigrafe che Casal
scelse per Mi Museo Ideal fu la seconda stanza del prologo del dicembre , che introduceva Les
Jeux divins di Soulary: «Pour nous, fils de l’Art, rien ne vaut / Le mythe et sa légende rose / Nous mou-
rons de la vie en prose / Où le merveilleux fait défaut».
Bibliografia
ALLEN W. P. (), Cinco estudios sobre la literatura mexicana moderna. Julián del Casal en Méxi-
co, Secretaría de Educación Pública, México.
BLANCO-FOMBONA R. (), Letras y letrados de Hispanoamérica, Sociedad de Ediciones Litera-
rias y Artísticas, Paris.
ID. (), Julián del Casal (-). El modernismo y los poetas modernistas, Editorial Mundo
Latino, Madrid.
CABRERA R. (), Julián del Casal. Vida y obra poética, Las Américas, New York.
CALCAGNO F. (), Diccionario biográfico cubano, La Habana (ora in Editorial Cubana, Miami
).
DARÍO R. (), Julián del Casal, en J. Monners Sans (ed.), Julián del Casal y el modernismo hispa-
noamericano, Edición el Colegio de México, México.
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DIVINAS PALABRAS
DI RAMÓN DEL VALLE-INCLÁN:
DAL TEATRO AL CINEMA
di Simone Trecca
La precisa e documentata ricostruzione che fa Juan Aguilera Sastre () della vicenda
della prima teatrale, nel , del Divinas palabras diretto da Rivas Cherif e interpretato
dalla Compagnia di Margarita Xirgu, non solo risolve questioni più volte riprese dalla
critica circa gli interventi del regista sull’opera dell’amico drammaturgo, ma offre anche
spunti di riflessione sul lavoro stesso dell’adattamento finalizzato alla messa in scena, in
particolare nel caso di quello che lo stesso Valle-Inclán riteneva un testo da riaggiustare
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Lee D. Ramón como debe hablar cada actor, y su voz pasa de la inflexión varonil y grave
al cascado balbuceo de las viejas, a la argentina transparencia del parloteo de las
mozas… No faltan los guturales graznidos del idiota, sin expresión ni sentido…
Parole che all’adattatore di oggi devono forse far rimpiangere di non aver potuto assi-
stere a una tale interpretazione d’autore, per potersi meglio muovere all’interno di quel-
l’articolata composizione polifonica che è Divinas palabras: «[…] las voces tienen aquí
un valor extraordinario. Por eso habrá que ensayarla como se ensaya una orquesta».
Opera limite nel percorso del drammaturgo, Divinas palabras offre già, in effetti,
tutta una serie di suggestioni proto-esperpentiche, aprendo il cammino verso un lin-
guaggio scenico di stampo espressionista, dove il grottesco tende a soverchiare il tono
tragico, che pure potrebbe affiorare prepotentemente in molti punti del dramma,
diluendolo in un imprecisato luogo dell’animo in cui l’uomo entra in profondo contat-
to con la propria animalità, vedendo inesorabilmente sfumare qualsiasi possibilità di
toccare un’eventuale scintilla divina depositata chissà dove da un dio che sembra sem-
pre più disinteressarsi dei destini umani. Il perfetto equilibrio tragicomico raggiunto,
una volta per tutte, da Valle-Inclán con questa opera, attraverso un sapiente dosaggio
di toni e personaggi, voci e corpi, desideri e tabù, folklore e teatralità, è forse l’elemen-
to più complesso da portare sulla scena, senza cadere nei molti tranelli sia di un tragi-
co puro, sia di un burlesco sfacciato, che in ogni momento rischiano di sbilanciare l’as-
setto, non solo sul piano del contenuto, ma soprattutto su quello espressivo.
Può essere utile, prima di avviare la trattazione specifica dei problemi dell’adattamen-
to, ricordare brevemente la trama della tragicommedia, suddivisa per comodità esposi-
tiva nelle tre jornadas.
La trama
Prima jornada
La mendicante Juana la Reina muore improvvisamente lasciando il figlio nano idrocefalo Lau-
reano, come unica eredità, alla sorella Marica del Reino e al fratello Pedro Gailo, sacrestano della
parrocchia di San Clemente. Dopo lungo trattare, in vista dei profitti ricavabili chiedendo l’ele-
mosina per il malnato, i due risolvono di gestire il “carretto” tre giorni ciascuno la settimana, e a
domeniche alterne.
Seconda jornada
Marica del Reino, con alcune vicine, si lamenta della cognata, la Mari-Gaila, che non rispetta i
patti e consegna sempre in ritardo il povero demente. Si insinua inoltre il dubbio sulla fedeltà
della donna nei confronti del marito Pedro Gailo.
Nel frattempo, Mari-Gaila, in compagnia di vari mendicanti, è diretta a Viana del Prior, dove
conta di ottenere buoni ricavi con le elemosine, in occasione della fiera. Qui incontra l’imbro-
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DIVINAS PALABRAS DI RAMÓN DEL VALLE - INCLÁN : DAL TEATRO AL CINEMA
glione Séptimo Miau, che inizia a corteggiarla, interessato soprattutto al possibile affare che
intravede nello sfruttamento della disgrazia di Laureano e della bellezza della donna. Nella chie-
sa di San Clemente, intanto, Marica del Reino dà apertamente voce al proprio disappunto e a
quello delle malelingue, avvisando il fratello Pedro Gailo che la moglie non rispetta i patti, nem-
meno quelli coniugali, e spronandolo a riprendere in mano il suo onore. Mari-Gaila, dopo aver
ceduto al corteggiamento del Compadre Miau sulla spiaggia di Viana, scopre che Laureano è
morto, e decide di tornare a casa, dove intanto Pedro Gailo, ubriaco, tenta blandamente di
approfittare della figlia Simoniña. Sul cammino, di notte, Mari-Gaila incontra il demonio in
forma di Caprone, che si offre di riportarla a casa sulla sua groppa. Di nuovo a San Clemente, la
famiglia dei Gailos decide di lasciare il carretto con il demente morto davanti alla porta di Mari-
ca del Reino, per non doversi occupare del cadavere.
Terza jornada
Marica, al risveglio, trova il carretto circondato dai maiali che, durante la notte, hanno rosic-
chiato il corpo di Laureano, e una volta appurato che questi era già morto prima della riconse-
gna, lo riporta al fratello, il quale decide di esporre il cadavere per continuare a chiedere l’ele-
mosina, stavolta per il rito funebre dello sventurato. Intanto, Séptimo Miau riesce a concordare
un nuovo appuntamento con Mari-Gaila, ma i due vengono scoperti e la donna è presa e ripor-
tata, nuda, dal marito. Pedro Gailo, dopo un grottesco tentativo di suicidio gettandosi dal cam-
panile, entra in chiesa a prendere il messale e dall’atrio recita il versetto del Vangelo dell’adulte-
ra, prima in castigliano, senza alcun esito, poi in latino. Gli animi si placano e ognuno torna alle
proprie faccende. Mari-Gaila viene condotta in chiesa dal marito.
Premesso che, come si sarà forse già intuito, la messa in scena teatrale è qui considera-
ta, in sé, come fenomeno di adattamento, in quanto comporta, come minimo, una tra-
scrizione intersemiotica e/o intercodica tanto delle strutture quanto di alcuni dei con-
tenuti del testo drammatico, appare altresì chiaro che Divinas palabras pone all’adatta-
tore ulteriori problematiche da sciogliere, come del resto succede con la maggior parte
dei testi teatrali di Valle-Inclán, anche precedenti la fase dell’esperpento.
Al fine di enucleare alcuni degli aspetti fondamentali della messa in scena teatrale
di Divinas palabras, per poi confrontarli con certe soluzioni filmiche riscontrate nel
lavoro di García Sánchez del , è utile tornare a fare riferimento, stavolta in modo
più dettagliato, all’allestimento preparato da Rivas Cherif durante l’epoca della secon-
da repubblica spagnola, nel , ed è necessario e certamente proficuo farlo conside-
rando attentamente le preziose informazioni raccolte nel già citato lavoro di Aguilera
Sastre. Lo studioso, infatti, offre una descrizione precisa del documento trovato negli
archivi del Ministerio de Cultura, contenente la versione del testo per la rappresenta-
zione, inviato dall’impresa del teatro Español alla Dirección General de Seguridad
affinché fosse sottoposto alle abituali pratiche di censura. Si sapeva già (confusamen-
te), grazie alla lettura delle cronache e delle recensioni teatrali dell’epoca, che la refun-
dición del regista madrileno aveva ridotto il numero delle scene, sebbene non fosse
affatto chiaro se si trattasse di tagli o, come poi si è dimostrato, di fusione di più qua-
dri, e soprattutto di che natura fossero le eventuali soppressioni e quale fosse il criterio
con cui Rivas aveva operato tutte le modifiche.
Lo studio del documento d’archivio mostra chiaramente che nessuna scena era
stata eliminata, ma che il passaggio da a nella seconda jornada e da a nella terza
era dovuto all’unificazione di alcune di esse; è altrettanto evidente, inoltre, che le eli-
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minazioni erano relativamente limitate, la maggior parte senza alcuna particolare rile-
vanza, altre semplicemente strutturali (dovute cioè all’operazione di raggruppamento
delle scene), poche veramente importanti, di cui si parlerà a breve. Da segnalare, però,
che la fusione delle prime quattro scene del secondo atto in due comporta anche una
loro riorganizzazione:
DIVINAS PALABRAS DI RAMÓN DEL VALLE - INCLÁN : DAL TEATRO AL CINEMA
Il criterio si pplica poi anche in alcune scene successive, ad esempio la (che equivale
alla sesta dell’originale):
PEDRO GAILO: […] ¡Es la mujer la perdición del hombre! ¡Ave María, si así no fuera,
quedaban por cumplir las Escrituras! ¡De la mujer se revira la serpiente! ¡Vaya si se
revira! ¡La serpiente de las siete cabezas!
[…]
¡Mujer, pagarás tu vilipendio con la cabeza rebanada!… Te quedas huérfana, y lo mere-
ces por rebelde.
[…]
¡Oveja que descarría, clamará en cortaduría! (DP, pp. , -)
dove il marito tradito si sfoga con la figlia Simoniña e dove, è importante sottolinearlo,
ha luogo il fallito tentativo di incesto da parte del padre. Infine, nella penultima scena
dell’ultimo atto, tra gli insulti rivolti dalla gente della aldea a Mari-Gaila, colta in fla-
grante mentre compie adulterio, ne sparisce solo uno, pronunciato da una voce anoni-
ma che esclama: «¡Perra salida!» (DP, p. ).
È evidente la volontà dell’adattatore (e forse la forbice era in questo caso guidata
tanto dalla mano del regista quanto da quella della stessa Xirgu) di sfumare il più pos-
sibile il preconcetto dell’immanenza del peccato nell’essenza della donna, attraverso
l’eliminazione dei riferimenti alla parentela tra questa e il serpente, soprattutto nelle sue
connotazioni più apertamente lussuriose e passionali; intervento, questo, che se va ad
associarsi alla riorganizzazione delle scene (e degli spazi) della seconda jornada produ-
ce, eccome, uno sfasamento del discorso drammatico rispetto a quello costruito da
Valle-Inclán. Viene infatti a mancare, nell’azione che si svolge all’interno dello spazio
scenico che ruota attorno alla chiesa di San Clemente (compresa, quindi, la casa di
Pedro Gailo), un elemento fortemente presente nel testo dell’autore galiziano: il vinco-
lo indissolubile tra l’oralità popolare, con i suoi valori tradizionali e conservatori, e la
scrittura – in questo caso, come evidenzia una delle battute di Pedro eliminate, la Scrit-
tura con la maiuscola – che quei valori sembra dover perpetuare. Questo legame visce-
rale costituirebbe un’attenuante per il sacrestano, come pure per Marica e gli altri pae-
sani, se non fosse associato ad un altro motore altrettanto profondo e incontrollabile:
l’avarizia. È in realtà l’insieme equilibrato di tali elementi che in Divinas palabras fa
risaltare maggiormente l’atteggiamento ipocrita che verrà messo poi a tacere dalle
“divine parole” pronunciate da Pedro Gailo, parole che, a livello del discorso teatrale,
manifestano la loro potenza proprio grazie alla sapiente costruzione e organizzazione
dei contenuti. Lo sbilanciamento generato da alcuni dei tagli operati da Rivas Cherif
intacca, in tal senso, l’efficacia comunicativa, mutilando il discorso di quelle parti che
preparano lo scioglimento finale, il quale non va letto, evidentemente, come afferma-
zione di innocenza, bensì come sottomissione collettiva alla potenza del «latín ignoto
de las DIVINAS PALABRAS» (DP, p. ). Le scelte dell’adattatore si muovono in una dire-
zione tutto sommato precisa: attenuare la connotazione esplicitamente carnale e pecca-
minosa attribuibile alle azioni del personaggio di Mari-Gaila, pur non arrivando ad eli-
minarle se, come fa notare Aguilera Sastre, si è mantenuta praticamente inalterata la
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famosa scena dove la donna, dopo la morte del nano, incontra il Trasgo Cabrío, scena
cui non rinuncia il regista, visto il grande impatto che essa produce dal punto di vista
della teatralità.
Non si tratta certamente qui di esprimere giudizi di valore su questo storico alle-
stimento della tragicommedia, tuttavia è opportuno sottolineare come il testo dramma-
tico, in quanto genere, presti il fianco a tutta una serie di potenziali meccanismi di adat-
tamento che esulano dalla semplice (per modo di dire) traduzione per la scena, e come,
in effetti, anche modifiche apparentemente innocenti alla struttura, se associate tra loro
e con altri tipi di interventi sul testo, possono produrre significativi cambiamenti nel
contesto della ricezione teatrale. Ci si trova perciò di fronte alla necessità di considera-
re alcuni elementi extratestuali per comprendere appieno certe decisioni: l’estrema
consapevolezza del mestiere di quell’uomo di teatro che fu Rivas Cherif; la forte perso-
nalità di Margarita Xirgu, che solo pochi mesi prima aveva portato in scena, nel teatro
romano di Mérida, la Medea di Seneca, tradotta appositamente da Unamuno; il conte-
sto storico-culturale della seconda repubblica e, forse, la prossimità dell’evento teatra-
le con le consultazioni elettorali del , dove in Spagna, si badi bene, viene applicato
per la prima volta il suffragio universale maschile e femminile.
Sfumare certe connotazioni, come pure riorientare la percezione emotiva degli
spazi scenici può comportare, come si è visto, un riassestamento del discorso dram-
matico non completamente in tono con il testo d’autore: può, ad esempio, crearsi un
sistema di attese che associa allo spazio della aldea e della chiesa di San Clemente il
luogo dell’ipocrisia e dell’avarizia, in contrapposizione allo spazio di Viana del Prior
in cui invece si giocherebbe il vero e proprio dramma della miseria umana e dell’il-
lusione di libertà, incarnato nella figura di Mari-Gaila, sedotta e abbandonata da uno
sfruttatore, un po’ come Medea, prima usata da Giasone nella ricerca del Vello d’oro,
poi ripudiata, per questioni altrettanto utilitaristiche. Il discorso drammatico di
Valle-Inclán non sembra ammettere tali possibilità, forse più consone al linguaggio
della tragedia, né consente di indugiare troppo su aspetti che guidino la partecipa-
zione dello spettatore ai destini dei personaggi. Piuttosto, in Divinas palabras si pre-
senta una composita fauna umana, attenta a mantenere i suoi riti, attraverso una serie
di comportamenti che lasciano un ristrettissimo margine di libertà, e in questo con-
testo va interpretato il titolo della tragicommedia, come pure il suo epilogo, che
segna, tutto sommato, un ritorno all’ordine e, di certo, un’elevazione degli animi
affatto momentanea. Il sacrestano, pronunciando il versetto evangelico in latino
(dopo averlo fatto inefficacemente in castigliano) sancisce la potenza della parola,
potenza che i villani possono solo intuire come un miracolo, mentre tornano alle loro
faccende abituali. Tale intuizione popolare si fonda, a ben vedere, soprattutto su
quelle parti di dialogo che le cesoie dell’adattatore hanno scartato, dove emergeva un
discorso, altrettanto intuitivo e popolare, sul ruolo della donna nel mondo come pie-
tra di scandalo. È in gioco, a livello drammatico, l’equivalenza tra vox populi e vox
dei, in perfetto equilibrio tragicomico nel testo di Valle-Inclán, decisamente sbilan-
ciata nella versione di Rivas Cherif.
Esce nel Divinas palabras, film per il cinema diretto da José Luis García Sánchez,
libero adattamento, come precisano i titoli di testa, dell’omonima opera di Valle-Inclán.
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DIVINAS PALABRAS DI RAMÓN DEL VALLE - INCLÁN : DAL TEATRO AL CINEMA
Sarà allora il caso di segnalare da subito quali libertà si sono presi regista e sceneggia-
tori rispetto al testo teatrale: certamente hanno diluito il tempo degli eventi, rispon-
dendo alle esigenze di quello che, giova ricordarlo, è un linguaggio prettamente narra-
tivo; oltre a ciò, però, il film presenta una serie di altri meccanismi tipici dell’adatta-
mento cinematografico, soprattutto aggiunte, variazioni e spostamenti, i quali contri-
buiscono alla costruzione di un discorso filmico che, anche in questo caso, orienta lo
spettatore in una direzione non del tutto coincidente con quella dell’originale.
Anzitutto, è da notare un’evidente espansione temporale in corrispondenza degli
eventi presentati nella seconda jornada della tragicommedia. Ciò che qui veniva accen-
nato o raccontato brevemente dai personaggi, nel film diventa oggetto di narrazione
cinematografica, portando così l’azione ad occupare più della metà della durata del-
l’intera pellicola, e a coprire l’imprecisato lasso di tempo trascorso, nel testo dramma-
tico, tra la fine del primo atto e l’inizio del secondo. Anche in questo caso, inoltre, vi è
una sostanziale riorganizzazione delle sequenze, che interessa di nuovo le scene da a
del testo valleinclaniano, proiettandosi significativamente, come si vedrà, anche sulle
due successive. Le varie aggiunte che si innestano in questa parte del film, in effetti,
presentano diverse situazioni che preparano gli eventi ambientati alla fiera di Viana del
Prior, mostrando varie occasioni di sfruttamento dell’invalidità di Laureano da parte sia
di Mari-Gaila che di Marica del Reino, e moltiplicando i momenti in cui quest’ultima
parla male della cognata con le vicine e con il fratello Pedro. Il mezzo cinematografico
facilita di certo l’uso della frammentazione scenica, possibilità che il regista riesce a
mettere a frutto, seppure operando, curiosamente, scelte di montaggio che ricordano
un po’ quelle che Rivas Cherif aveva fatto per il palcoscenico. Come nella rappresenta-
zione del , difatti, si opta per far precedere alle lamentele di Marica e alle voci delle
malelingue le sequenze che ritraggono Mari-Gaila con l’idrocefalo e con il Compadre
Miau, producendo, al contempo, la motivazione oggettiva di quelle lamentele (i ritardi
con cui la donna riconsegna la carretta) e di quelle voci (la frequentazione del farandul
e dell’intera compagnia dei mendicanti). Certo, grazie ad un montaggio frammentato,
non si arriva alla netta bipartizione degli spazi di cui si è parlato sopra, però si perde
quella funzione di cornice che nel testo di Valle-Inclán svolgono le scene e , dove gli
interventi di Marica rispettivamente anticipano gli eventi e preparano lo spettatore alle
loro conseguenze (l’adulterio e la morte di Laureano). Laddove, pertanto, l’allestimen-
to teatrale del eccedeva nell’unificare, qui si eccede nel moltiplicare: in entrambe
le occasioni, a risentirne può essere la struttura del discorso, sebbene, è il caso di insi-
stere su ciò, questo meccanismo di trasposizione nel film potrebbe rispondere ad esi-
genze del tutto pertinenti con il linguaggio cinematografico, senza necessariamente
comportare una scelta interpretativa volta ad orientare le attese dello spettatore.
Sarà tuttavia sufficiente anche una visione ingenua del lavoro di García Sánchez
per scorgervi una volontà in tal senso, vale a dire l’intento di fornire una lettura pre-
cisa degli eventi e, perciò, di guidare, facendo un attento uso di alcuni strumenti del
codice audiovisivo, il punto di vista del pubblico. Per entrare correttamente nei mean-
dri di questo testo filmico, occorre in primo luogo riferirsi esplicitamente ad alcune
sequenze aggiunte, oltre a quelle già segnalate: ad esempio, diversamente dalla tragi-
commedia, Mari-Gaila compare da subito, assieme alla figlia Simoniña, e poi, in chie-
sa, mentre intona un canto vicino a Pedro che suona l’organo; subito dopo la si ritro-
va in casa, occupata nelle faccende domestiche, situazione in cui verrà ritratta più volte
nel film, dove quindi si sottolinea un atteggiamento umile della donna, sottomessa ai
suoi doveri di moglie e madre. Significativamente, in tre di queste scene Pedro Gailo
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SÉPTIMO MIAU: Marte en Ceres: un hombre se acerca. Venus en Escorpio [mostra il sette
di spade]: la tentación.
MARI-GAILA: Las tentaciones se vencen.
SÉPTIMO MIAU: Sol en Júpiter: placeres ocultos, sensaciones desconocidas, miedo.
La scena, che condensa due momenti distinti del testo teatrale (il primo in II, ; l’altro
in II, ) costituisce nel film una sorta di indizio tragico, ripreso, oltre che nella sequen-
za del delirio di Mari-Gaila, già in una delle scene aggiunte, immediatamente dopo
quella in parte trascritta poco fa, in cui Marica del Reino, giocando a carte con le vici-
ne, sparla della cognata: la sua ultima parola è sottolineata dal gesto di calare violente-
mente sul tavolo proprio un sette di spade, inquadrato in primo piano dalla camera.
L’altro fenomeno cui si faceva riferimento sopra riguarda invece uno spostamento sicu-
ramente strategico dal punto di vista comunicativo: si sceglie, infatti, di invertire l’or-
dine delle due scene forse più decisive della tragicommedia, la e la del secondo atto,
dove, rispettivamente, Mari-Gaila si concede al farandul e Pedro Gailo tenta di avere
un rapporto incestuoso con Simoniña. Ora, la decisione di montare la pellicola facen-
do precedere all’atto adulterino della donna il comportamento deviante del marito
rientra evidentemente in un progetto narrativo coerente e definito, in linea con tutti gli
altri interventi analizzati. Il ritratto di Mari-Gaila si compone così anche per contrasto
con quello del sacrestano: da un lato si attua un processo di umanizzazione e vittimiz-
zazione (eccessivo, rispetto ai canoni prosopografici valleinclaniani), dall’altro si insiste
su un’istintività animale a stento mascherata dietro un codice morale e sociale conser-
vatore e stantio, o, per converso, sbandierata come manifestazione di libertà.
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DIVINAS PALABRAS DI RAMÓN DEL VALLE - INCLÁN : DAL TEATRO AL CINEMA
Così la donna, vittima del marito e delle malelingue, prima, e degli inganni di Sép-
timo Miau (con la complicità di altri mendicanti) in seguito, cede, come per un fatum
tragico (quel sette di spade su cui insiste tanto la regia), alla tentazione di una illusoria
libertà. Non si può non notare, a questo punto, che la carta premonitrice, nel testo di
Valle-Inclán, è rappresentata in una situazione drammatica completamente diversa,
apertamente tragicomica:
Dopo questa breve analisi è possibile confermare che, effettivamente, di libero adatta-
mento si tratta: non solo nel senso che si è messo in atto un meccanismo di narrativizza-
zione degli eventi – di per sé, come già detto, coerente con il codice cinematografico –
che comporta necessariamente degli interventi sul testo; bensì perché il discorso filmico
– e con esso l’orientamento dello spettatore – si è liberamente spostato rispetto a quello
teatrale ordito dall’autore galiziano. Mari-Gaila acquisisce un protagonismo eccessivo, a
confronto con la coralità polifonica della tragicommedia, assumendo le connotazioni di
un’eroina che a tratti ricorda certi personaggi femminili lorchiani. Questo protagoni-
smo si riflette addirittura sull’epilogo, in cui la donna, in piedi davanti l’atrio della chie-
sa, sotto i colpi delle sassate, e mentre Pedro è dentro a prendere il messale, si toglie la
sottana (l’unico indumento che ha ancora addosso) come segno allo stesso tempo di resa
e di candore. È questo gesto, prima ancora delle divine parole, a bloccare le mani dei
lapidatori inferociti e a placare gli animi; è il corpo nudo, che tutti gli uomini hanno desi-
derato e tutte le donne odiato, che viene privato di qualsiasi connotazione sessuale, a
dare forza al versetto del Vangelo. Un corpo innocente e angelico come quello del pove-
ro Laureano, sulla cui inquadratura partono i titoli di coda, e si chiude il film.
Note
. In riferimento alla storia del testo di Divinas palabras, si rimanda all’accurata edizione critica di
Luis Iglesias Feijoo (R. del Valle-Inclán, Divinas palabras, Espasa Calpe, Madrid ), dalla quale sono
tratte anche tutte le citazioni, che saranno segnalate con la sigla DP, cui seguirà l’indicazione del nume-
ro della pagina. Sull’inaugurazione del nuovo teatro Valle-Inclán e sull’allestimento di Gerardo Vera cfr.
le recensioni nelle versioni digitali: R. Torres, El teatro Valle-Inclán inicia su andadura con “Divinas pala-
bras”, in “El País”, de febrero de (http://www.elpais.com/articulo/espectaculos/teatro/Valle-
Inclan/inicia/andadura/Divinas/palabras/elpepuesp/elpepiesp_/Tes); R. Torres, La universal
“Divinas palabras” inaugura el teatro Valle-Inclán, in “El País”, de febrero de
(http://www.elpais.com/articulo/cultura/universal/Divinas/palabras/inaugura/teatro/Valle-Inclan/-
elpepucul/elpepicul_/Tes); EFE, Lujuria, avaricia y muerte, in “El Mundo”, de febrero de
(http://www.elmundo.es/metropoli////teatro/.html); SD, Gran comedia bárba-
ra, in “ABC”, de julio de (http://www.abc.es/hemeroteca/historico---/abc/Cata-
lunya/gran-comedia-barbara_.html).
. Per approfondire questo aspetto cfr., in particolare, i seguenti lavori: Aznar Soler (, pp. -
), Aguilera Sastre (, in particolare pp. -), Iglesias Santos (, pp. -).
. Sulla fortuna scenica di Divinas palabras, cfr. l’introduzione alla edizione critica di Iglesias
Feijoo: DP, pp. -.
. Cfr., per ulteriori approfondimenti, il progetto «Especial Divinas palabras», curato da Josefa
Bauló e pubblicato, anche se ancora incompleto, sul sito web della rivista telematica “El pasajero”
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Come base di lavoro adottiamo le linee che della pragmatica enuncia Graciela Reyes
(, p. ), secondo la quale tale disciplina consiste nello studio del linguaggio in fun-
zione della comunicazione e, all’interno di questo, delle condizioni sia di adeguamento
al contesto sia di interazione tra i parlanti e le circostanze situazionali in cui gli enun-
ciati prendono forma. In questa prospettiva, è evidente come l’applicazione della prag-
matica in ambito didattico abbia reso necessario combinare e completare lo studio del
codice linguistico propriamente detto (la grammatica intesa come astrazione e sistema)
con quello di elementi non linguistici. Ci riferiamo in particolare all’analisi di quei fat-
tori che determinano il grado di successo del messaggio trasmesso quali: la relazione
mittente-destinatario, il ruolo di ognuno di essi, l’argomento trattato, le conoscenze
condivise, il canale e il codice, solo per citare i principali. Essi costituiscono la cosid-
detta “situazione comunicativa” (in spagnolo marco situacional), nozione che ritrovia-
mo nei manuali destinati all’insegnamento delle lingue straniere e, di conseguenza,
anche dello spagnolo come LS/L e che è alla base del metodo comunicativo-funzio-
nale, attualmente il più diffuso in ambito glottodidattico.
Sulla base di tali considerazioni, riteniamo che effettuare un’analisi pragmatica
delle componenti del discorso pubblicitario in chiave didattica consenta al docente di
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spagnolo come LS/L di proporre ai propri studenti una riflessione sulla natura dei fat-
tori che intervengono nell’atto comunicativo, così come sul loro funzionamento.
D’accordo con la teoria della cooperazione di Paul Grice (), consideriamo l’at-
to comunicativo come un atto al quale partecipano un mittente e un destinatario, ognu-
no con una funzione specifica. Compito del mittente è mostrare, ossia scegliere delle
forme linguistiche che permettano la comunicazione; il destinatario, dal canto suo, ha
invece la funzione di inferire, a partire dal messaggio trasmesso dal mittente, ciò che
quest’ultimo ha voluto comunicare. Tanto il mittente quanto il destinatario hanno una
visione personale del mondo circostante che utilizzeranno per elaborare e interpretare
i messaggi. Il contesto comunicativo – il cosiddetto «ambiente cognitivo», nella termi-
nologia già adottata da Dan Sperber e Deirdre Wilson () – non va quindi conside-
rato come qualcosa di rigido limitato a contenere i parlanti, ma piuttosto come l’insie-
me di idee e stimoli necessari a interpretare un messaggio. Di conseguenza, come sostie-
ne Salvador Pons Bordería (, pp. -), il messaggio è oggetto di un’interpretazio-
ne soggettiva, personale. Da qui deriva la possibilità che due parlanti non arrivino a una
decodifica, e quindi a una comprensione, completa del messaggio; tuttavia, trattandosi
di un atto cooperativo basato su un accordo mutuo tra i partecipanti, si suppone che
entrambi si impegnino affinché la comunicazione funzioni e sia efficace, vada a buon
fine, ossia raggiunga l’intenzione con cui è stata stabilita.
Sperber e Wilson () ritengono che il processo comunicativo sia governato dal
“principio della rilevanza” secondo il quale, semplificando molto i termini, nel comu-
nicare cerchiamo di ottimizzare la relazione tra novità dell’informazione e costo del
processamento, ossia tra gli elementi informativi nuovi apportati dal mittente e lo sfor-
zo di elaborazione che la ricezione di tali elementi richiede al destinatario. Le lingue
naturali consentono di trasmettere una grande quantità di informazione in forma ridot-
ta, permettendo di comunicare molto più di quanto si codifichi verbalmente: un’affer-
mazione come «Fa freddo» in una stanza con una finestra aperta molto probabilmente
non sarà soltanto un’osservazione relativa alla temperatura, ma anche una richiesta
indiretta di chiudere la finestra.
Come teorizzato da Paul Grice (), si va dunque dal “detto” – ciò che il parlan-
te codifica – al “comunicato” – la sua intenzione comunicativa reale – attraverso una
forma di ragionamento inferenziale (processo inferenziale), che parte da una premessa e
arriva a delle conclusioni recuperando implicature, ossia nuovi significati impliciti con-
tenuti negli interventi dei parlanti.
È evidente quindi che usare il linguaggio non consiste solo nel codificare e decodi-
ficare; il recupero di implicature è imprescindibile ai fini di una corretta interpretazio-
ne del messaggio, tanto nella lingua materna come in quella straniera. È essenziale quin-
di che il discente di spagnolo come LS/L, nel proprio percorso formativo acquisti con-
sapevolezza del funzionamento dei meccanismi che regolano il processo comunicativo
e arrivi a sviluppare capacità inferenziali che gli permettano di andare al di là di quan-
to si codifica in modo esplicito, cercando nell’interpretazione del messaggio quanto
comunicato complessivamente, attraverso un’analisi dei fattori che lo costituiscono.
Una volta richiamate le componenti della comunicazione e le fasi principali del
processo interpretativo di un messaggio, è il momento di soffermarci brevemente su ciò
che spinge i parlanti a comunicare, dando avvio alla fitta rete di meccanismi fin qui
descritta. La prima risposta può essere ovvia: le necessità e le intenzioni comunicative.
Al fine di soddisfarle, i parlanti manipolano il linguaggio, realizzano, come affermato a
partire da John Langshaw Austin (), atti linguistici, stabilendo delle relazioni tra
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forme linguistiche (la grammatica, il sistema di regole e di unità lessicali) e funzioni che
queste compiono negli atti comunicativi (funzioni pragmatiche).
Disponiamo attualmente di varie classificazioni degli atti linguistici; una delle più
accettate, e a cui faremo riferimento nella nostra analisi del testo pubblicitario, conti-
nua ad essere quella proposta da John Roger Searle (), basata sulla distinzione tra:
– atti rappresentativi (asseverativi, argomentativi): caratterizzati da una dimensione
valutativa che implica le nozioni di vero o falso (affermare, asserire, concludere ecc.);
– atti direttivi (esortativi o impositivi): hanno come scopo suscitare una reazione nel
destinatario affinché realizzi un’azione manifestata nel contenuto proposizionale (chie-
dere, invitare, ordinare, comandare, consigliare ecc.);
– atti commissivi: attraverso di essi il parlante manifesta l’intenzione di compromet-
tersi a realizzare una qualche azione futura a vantaggio o svantaggio di altri (minaccia-
re, promettere, offrire ecc.);
– atti espressivi: manifestano nel contenuto proposizionale uno stato emotivo del mit-
tente in risposta a un’azione o qualità relativa ad egli stesso o al suo interlocutore (rin-
graziare, scusarsi, deplorare, dare il benvenuto ecc.);
– atti dichiarativi: volti a provocare un cambiamento immediato nella realtà extra-lin-
guistica (scomunicare, battezzare ecc.).
Sulla base della famosa tripartizione di Austin (), secondo la quale in un atto lin-
guistico si realizzano simultaneamente un atto locutivo, uno illocutivo e uno perlocuti-
vo, María Victoria Escandell Vidal (, p. ) specifica che gli atti locutivi sono prov-
visti di significato, gli illocutivi di forza e i perlocutivi di effetto. Si potrebbe dunque pen-
sare che a un determinato significato locutivo corrisponda sempre una determinata forza
illocutiva, cosicché, ad esempio, la presenza del verbo “promettere” garantirebbe esclu-
sivamente una promessa o l’uso dell’imperativo corrisponderebbe unicamente a un ordi-
ne. In realtà sappiamo che tale relazione biunivoca “una forma-una funzione” non è
sempre effettiva: i casi di discrepanza tra struttura linguistica dell’orazione e funzione
illocutiva che essa compie determinano atti linguistici indiretti. Il riconoscimento della
forza illocutiva di un enunciato e, di conseguenza, la sua corretta interpretazione dipen-
deranno quindi dal contesto, vale a dire dalla situazione comunicativa in cui avviene l’in-
terazione. Per uno studente di una lingua straniera, nel nostro caso dello spagnolo, le dif-
ficoltà risiedono da una parte nel riconoscere le vere intenzioni che soggiacciono all’e-
secuzione degli atti linguistici e, dall’altra, nell’apprendere a realizzare atti conformi alle
norme grammaticali, pragmatiche e socio-culturali della lingua studiata.
Come segnalato da Salvador Gutiérrez Ordóñez (, p. ), uno dei passi prope-
deutici a un’analisi pragmatica di un testo è la sua corretta ubicazione nelle coordinate
enunciative: in primo luogo spazio, tempo, genere e soggetti del discorso. Per quanto
riguarda le coordinate spazio-temporali, i dati si ricavano dal mezzo in cui appare il
messaggio pubblicitario, nel nostro caso i riferimenti relativi al quotidiano da cui abbia-
mo tratto il testo oggetto di analisi (data di pubblicazione, tipologia del giornale, ubi-
cazione e conformazione tipografica dell’annuncio).
Rispetto al genere, lo stesso Gutiérrez Ordóñez afferma che:
Una delle peculiarità del messaggio pubblicitario è la sua pluricodicità, vale a dire
l’impiego simultaneo di vari codici (nel caso dell’annuncio grafico, quello verbale e
iconico) con l’obiettivo di attirare l’attenzione del destinatario e favorirne la memo-
rizzazione.
Consideriamo quindi il discorso pubblicitario come un atto comunicativo in cui
intervengono tutti gli elementi propri di una interazione standard; è tuttavia possibile
affermare che la sua specificità risieda nel muoversi intorno a due assi principali: il refe-
rente e il destinatario, ossia l’oggetto o prodotto pubblicizzato e le motivazioni che
dovrebbero persuadere il destinatario ad acquistarlo.
Esaminiamo ora come le componenti implicate nella comunicazione verbale e i
principi pragmatici citati in precedenza agiscono sul discorso pubblicitario:
. Il mittente dell’annuncio: un messaggio promozionale è essenzialmente polifonico,
afferma Gutiérrez Ordóñez (ivi, p. ). Da un lato riconosciamo infatti un autore mate-
riale del messaggio, che possiamo identificare con l’agenzia pubblicitaria e, dall’altro, il
soggetto dell’enunciazione che coincide con il proprietario del prodotto annunciato
(individuo, società o altri). Il mittente può essere il creativo o agente pubblicitario, il
quale, dietro l’anonimato dell’impersonalità, esprime le intenzioni del proprietario del
prodotto o, più raramente, il proprietario stesso il quale, in linea di massima, non com-
pare nel messaggio ma va cercato nella “firma” o marchio dell’annuncio. Generalmen-
te il mittente rimane al margine dell’inserto promozionale, non si rivela esplicitamente,
tuttavia in alcuni casi riscontriamo la presenza di un mittente interno che avalla e con-
siglia con fallace sincerità (le opinioni di personaggi famosi – attori, nomi noti della
televisione e dello spettacolo ecc. – o le dichiarazioni dei reali responsabili del prodot-
to con l’obiettivo di conferire autorità a quanto affermato). La pubblicità si definisce
come una comunicazione unidirezionale: non c’è reale interazione comunicativa o
scambio tra mittente e destinatario; tuttavia, benché non ci sia possibilità di risposta né
di partecipazione immediata da parte del ricevente, da un punto di vista pragmatico la
comunicazione pubblicitaria implica una relazione mittente-destinatario. Questa infat-
ti esige una valutazione finale o controllo del livello di efficacia comunicativa con una
verifica dei cambiamenti di comportamento nei destinatari: eventuale aumento delle
vendite per l’incidenza diretta della campagna pubblicitaria.
. Il messaggio: nell’elaborazione del messaggio, il mittente deve tenere presente che
i destinatari sono molteplici ed eterogenei, difatti il suo annuncio sarà visto e letto da
varie persone, più o meno motivate, con preferenze e conoscenze diverse ecc. Tali fat-
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reciproca, solo per citarne alcuni, sono elementi che determinano le scelte formali del
discorso. Infine, anche il contesto linguistico, ciò che si conosce come co-testo, può
condizionare l’interpretazione dell’annuncio.
Insieme alle componenti basilari del processo comunicativo, l’analisi di un testo
pubblicitario deve tenere in considerazione anche fattori più propriamente pragmatici.
Innanzitutto è necessario riconoscere l’intenzione comunicativa del parlante: sappiamo
che alla base di qualsiasi processo comunicativo non c’è unicamente uno scambio di
informazione, ma anche la volontà di esercitare un’azione sul destinatario; sappiamo
inoltre che la pubblicità si definisce in primo luogo per la sua finalità perlocutiva.
John Langshaw Austin () con la sua già citata teoria degli atti linguistici ha
messo in evidenza la sottile strategia illocutiva implicata nell’attività comunicativa; indi-
viduare quali atti linguistici soggiacciono al messaggio pubblicitario seguendo la classi-
ficazione di Searle proposta in precedenza ci consente da un lato di specificarne l’in-
tenzione comunicativa e, dall’altro, da una prospettiva più propriamente didattica, di
osservare come si compiono determinati atti, vale a dire come determinate funzioni
pragmatiche acquistano forma linguistica.
Poiché il discorso pubblicitario va inteso come un processo comunicativo con
intenzione persuasiva, l’atto linguistico principale sarà di tipo perlocutivo; a questo si
integrano gli altri atti (rappresentativi, espressivi, commissivi ecc.), a seconda del pro-
dotto annunciato e della configurazione del messaggio.
All’intenzione comunicativa del parlante e agli atti linguistici compiuti per tra-
smetterla, sono legate le funzioni del linguaggio pubblicitario. Tenendo conto delle sue
peculiarità, è possibile stabilire nella comunicazione pubblicitaria una gerarchia fun-
zionale: prevale la funzione conativa o appellativa, la quale fa sì che il destinatario si
convinca e acquisti il prodotto annunciato; si tratta della funzione predominante, le
altre dipendono infatti dalla sua realizzazione. In particolare, la funzione referenziale
che consta dell’informazione relativamente oggettivata del prodotto e la funzione poe-
tica o estetica, che la pubblicità condivide con la letteratura: per attirare l’attenzione e
favorire le vendite, il messaggio presenta una studiata veste formale (economia espres-
siva, impiego di figure retoriche, rottura del sistema linguistico consueto ecc.). Come
sostiene Gutiérrez Ordóñez (, p. ), possiamo rintracciare elementi propri della
funzione fatica anche in quelle strategie impiegate dal mittente per attirare l’attenzione
del destinatario/acquirente e mantenere attivo il canale di comunicazione: la posizione
e la quantità di spazio occupata nelle pagine di un giornale, i caratteri tipografici, la
configurazione, il disegno, il colore, il tema ecc.
Per quel che concerne gli atti linguistici, la funzione conativa può realizzarsi in
modo diretto (per mezzo di imperativi verbali con proposito esortativo o attraverso
consigli espliciti) o, più spesso, indiretto, potendosi desumere da parametri ricavati
delle funzioni referenziale, fatica o estetica.
Infine, non va tralasciato il processo inferenziale e il relativo recupero di implica-
ture che il destinatario deve compiere. Nei messaggi pubblicitari, per la loro concen-
trazione e concisione (necessità di trasmettere molta informazione in poco spazio) così
come per il ricorso a strategie specifiche capaci di attirare l’attenzione del pubblico, tro-
viamo una quantità considerevole di implicature che richiedono, in certi casi, l’esecu-
zione di un complesso processo di inferenza pragmatica per recuperare l’informazione
sottintesa. Compiere tale processo con studenti di spagnolo LS/L gli consente di
imparare a districare il complesso meccanismo della comunicazione e di riconoscere la
presenza del significato implicito insieme all’esplicito; inoltre, poiché le implicature
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dipendono dal contesto situazionale, socio-storico e linguistico, tale lavoro può favori-
re l’acquisizione di contenuti culturali e sociali specifici della lingua straniera.
parli in prima persona singolare). L’uso della prima persona plurale aumenta la sensa-
zione di relazione personale, di vicinanza e familiarità tra il mittente reale e i destinata-
ri; contribuisce inoltre a dare l’impressione che l’impresa sia formata da un gruppo di
persone coordinate che parlano ed agiscono all’unisono.
b) Chi è il destinatario? Il testo è stato pubblicato su “El País”, quotidiano di mag-
giore diffusione nazionale in Spagna, il quale – stando alle ultime inchieste – registra
un’incidenza più alta tra lettori con un livello di istruzione superiore o universitario di
età compresa tra i diciotto e i quarantacinque anni. Si tratta dunque di una fascia di
pubblico abbastanza ampia (come conferma anche l’elaborazione formale del testo, la
cui struttura grammaticale – costruzione sintattica e lessico – non è eccessivamente
ricercata) che comprende tanto i singoli, quanto le imprese e le istituzioni pubbliche e
private che possono essere interessate ai servizi offerti da Acciona o ad investimenti
nella società.
c) Qual è il referente di cui si parla nell’annuncio? L’oggetto della campagna pubblici-
taria è la società Acciona e i servizi che questa gestisce.
d) Come si annuncia?
– Conformazione esterna dell’annuncio. Il messaggio pubblicitario impiega mezzi lin-
guistici, iconici e iconografici, come l’immagine della bilancia per simboleggiare l’equi-
librio tra progresso economico e rispetto dell’ambiente. È evidente la funzione di
“ancoraggio” dell’immagine con la parola chiave dell’annuncio, sostenibilidad, nella
quale si inserisce la bilancia con funzione di lettera dell’alfabeto, preceduta dall’acro-
nimo SOS con il fine di enfatizzare la situazione di allarme e sottolineare la necessità
urgente di provvedere a un’inversione di marcia nella gestione delle risorse naturali.
Dal punto di vista tipografico, si ricorre all’uso di caratteri di misure diverse: la gra-
fia dell’intestazione «Hola ¿Qué tal?» ha una dimensione maggiore rispetto al corpo
del testo per attirare l’attenzione del lettore; inoltre, si evidenziano alcuni segmenti con
sottolineature, frecce o circoli. Trattandosi di un testo abbastanza lungo, caratteristica
non consueta nei messaggi pubblicitari generalmente piuttosto brevi per adattarsi a una
fruizione rapida, si ricorre alla strategia della sottolineatura per fissare l’attenzione del
destinatario sulle idee principali.
– Analisi del testo verbale. Rispetto alla tipologia testuale, ci troviamo di fronte a un
testo essenzialmente argomentativo, il cui proposito è avvalorare e dimostrare una tesi
con l’obiettivo di persuadere un ricevente, ossia con una finalità perlocutiva.
L’argomentazione, per quanto importante, non si presenta generalmente allo stato
puro, ma combinata con l’esposizione; possiamo rintracciare elementi espositivi legati al
proposito informativo ed esplicativo nei dati relativi allo sviluppo industriale spagnolo –
la Spagna come «[…] octava potencia económica mundial» – e alla posizione dell’a-
zienda nel mercato finanziario «[…] primer accionista de Endesa». La struttura argo-
mentativa ha qui l’obiettivo di convincere i destinatari della possibilità di combinare lo
sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente; tale condizione si può raggiungere,
secondo quanto ci suggerisce l’annuncio, servendosi dei servizi offerti da Acciona.
L’argomentazione è uno degli espedienti tipici del linguaggio pubblicitario essendo
il suo proposito dimostrare, convincere e far cambiare idea; è solita organizzare il con-
tenuto in tre sezioni principali: introduzione, sviluppo argomentativo e conclusione.
La sezione introduttiva ha la funzione di attirare l’attenzione del destinatario e pre-
disporlo alla lettura. L’intestazione «Hola ¿Qué tal?», tipica formula di saluto e di aper-
tura dell’interazione comunicativa, ha un’evidente funzione fatica nel tentativo di sta-
bilire un contatto con l’interlocutore (a ciò contribuisce la strategia tipografica con
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l’impiego di una grafia di dimensioni maggiori rispetto al corpo del testo). In termini di
atti linguistici, la sequenza «Hola ¿Qué tal?» ha come forza illocutiva la richiesta di
attenzione e come effetto perlocutivo coinvolgere l’interlocutore.
Rientrano nell’introduzione anche i primi due paragrafi. L’indicazione spaziale di
apertura, «En este país», contiene un riferimento esplicito alla nazione spagnola e uno
implicito al suo popolo, provocando un effetto di generalizzazione amplificato dall’uso
della prima persona plurale. Nel secondo e nel terzo paragrafo si allude ad aspetti per
i quali la Spagna si contraddistingue a livello internazionale: l’ospitalità (argomento
sociale, tradizionale) e la crescita produttiva unita allo sviluppo industriale (argomento
economico). Segue un terzo paragrafo in cui si presentano tre valori positivi – la libertà,
la trasparenza e le buone idee – in antitesi a tre negativi – rispettivamente i modelli
anchilosati, i convenzionalismi e le idee obsolete; è evidente che i tre valori positivi ven-
gono presentati come quelli che hanno permesso alle multinazionali spagnole di rag-
giungere un alto livello di competitività e sono, di conseguenza, i valori che stanno alla
base del loro successo. Seguendo un ragionamento di tipo sillogistico, la conclusione a
cui dovrebbe giungere il destinatario è la seguente: essendo Acciona una multinaziona-
le spagnola, tali valori sono presenti anche nel suo lavoro. Questa sezione costruisce un
ponte tra una realtà generale (la Spagna e le multinazionali spagnole) e una particolare
(Acciona come una multinazionale spagnola) legando l’introduzione al corpo argo-
mentativo del testo, che coincide con il quarto paragrafo. Una congiunzione consecu-
tiva, «por eso», collega attraverso una struttura causale le affermazioni precedenti con
i contenuti del suddetto paragrafo, riferiti specificamente alle attività di Acciona, stabi-
lendo una forte relazione di coerenza tra le sezioni costitutive del testo.
I contenuti dei primi tre paragrafi si iscrivono nel quarto attraverso la pronomina-
lizzazione effettuata dal pronome dimostrativo neutro «eso», la cui funzione anaforica
fa sì che racchiuda non solo i valori semantici, ma anche le connotazioni pragmatiche
associate ai paragrafi precedenti. Sono proprio questi valori e queste connotazioni a
sostenere la relazione argomentativa.
L’ultimo paragrafo funge da conclusione e concretizza l’intenzione perlocutiva
attraverso l’enunciato: «Queremos que el mundo se mueva con nuestra energía». L’in-
tenzione perlocutiva, vendere i servizi di Acciona, non è esplicitata. Ciò che si afferma
nell’annuncio, la finalità manifesta, non è il guadagno economico, bensì la protezione
dell’ambiente e la possibilità di un futuro migliore. Si richiede al destinatario il compi-
mento di un processo inferenziale che permetta il recupero dell’informazione su cui si
regge la finalità perlocutiva: affinché sia possibile assicurare la salvaguardia delle risor-
se ambientali, è necessario avvalersi dei servizi offerti da Acciona. Argomenti come la
protezione della natura e la preoccupazione per le condizioni di vita future hanno una
presa notevole sulla società, di conseguenza possono costituire un espediente strategi-
co efficace per convincere il destinatario e guadagnarsi la sua fiducia. Ciò avviene nono-
stante la generale consapevolezza che il fine ultimo di qualsiasi impresa come della rela-
tiva pubblicità commerciale sia di tipo lucrativo.
La coesione testuale è garantita da un lato dalla relazione argomentativa che esiste
tra le parti che compongono il testo e, dall’altro, dalla coerenza lessicale e pragmatica
nel registro linguistico utilizzato. Il destinatario è il grande pubblico: il testo non può
ricorrere a un linguaggio minoritario né a strategie formali troppo sottili e ricercate.
e) Quali sono gli obiettivi del messaggio? Come si raggiungono?
L’intenzione comunicativa si concretizza nell’enunciato «Queremos que el mundo
se mueva con nuestra energía». Da un punto di vista pragmatico si tratta di una richie-
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sta con funzione perlocutiva: si chiede al destinatario che acquisti i servizi proposti. Si
tratta però di atto linguistico direttivo indiretto: la richiesta avviene tramite una strut-
tura di tipo espressivo e non direttivo. Insieme ad atti di tipo direttivo ed espressivo,
troviamo anche atti rappresentativi, per esempio nelle affermazioni relative allo svilup-
po economico della Spagna e al successo internazionale delle multinazionali. A questi
si aggiungono atti di tipo compromissivo, come l’enunciato «[…] hemos decidido con-
vertirnos […] y dedicar […]», attraverso i quali l’impresa afferma di voler puntare sulla
ricerca e sullo sviluppo delle energie rinnovabili e di impegnarsi nel consolidamento di
un modello di sviluppo sostenibile («[…] dedicar toda nuestra energía a conseguir un
mundo mejor»). Ovviamente, tali affermazioni hanno come obiettivo principale con-
vincere il destinatario delle buone intenzioni di Acciona, guadagnarsi la sua fiducia e,
di conseguenza, spingerlo a comprare i servizi pubblicizzati: tutto è sotteso all’inten-
zione perlocutiva.
La funzione del linguaggio predominante nel nostro testo, come nella maggior parte
degli annunci pubblicitari, è l’appellativa o conativa, poiché il linguaggio mira a provo-
care una reazione nel destinatario determinando una modifica nel suo comportamento.
Generalmente in un testo convivono varie funzioni che si integrano e si completa-
no a vicenda. Nel nostro caso, funzioni accessorie e sussidiare dell’annuncio di Accio-
na sono:
– la funzione referenziale, orientata al referente e che trasmette contenuti legati alla
realtà extralinguistica: qui le informazioni relative allo sviluppo economico della Spa-
gna e la presentazione dei servizi di Acciona;
– la funzione espressiva (o emotiva) che permette di dedurre elementi propri della
soggettività del mittente: nel nostro caso il desiderio di impegnarsi nella salvaguardia
dell’ambiente espresso da Acciona e la sua preoccupazione per il futuro e il benessere
della società;
– la funzione fatica, presente nella formula di saluto e apertura «Hola ¿Qué tal?»
con l’obiettivo di stabilire un canale di comunicazione e attirare l’attenzione dell’in-
terlocutore;
– la funzione poetica, incentrata sul messaggio stesso e sulla sua struttura formale,
come costante del linguaggio pubblicitario. Il testo oggetto della nostra analisi è abba-
stanza semplice, non presenta strategie retoriche particolari, né espressioni idiomatiche
o giochi di parole, come invece può accadere in certi annunci promozionali; tuttavia è
evidente una certa attenzione nell’organizzazione formale del messaggio.
Conclusioni
Note
. Cfr., tra gli altri, Leech (), Levinson (), Sperber, Wilson (), Mey (), Reyes (),
Yule (), Escandell Vidal (), Verschueren ().
. I destinatari del modulo sono studenti di spagnolo Lingua Straniera/Lingua Seconda (d’ora in
avanti LS/L) di livello intermedio, corrispondente ai livelli B-B del Marco Común Europeo de Refe-
rencia para las Lenguas (Quadro comune europeo di riferimento per le lingue) (Consejo de Europa,
).
. Realizziamo richieste attraverso domande («¿Te importaría pasarme la sal?») o esprimiamo
ordini per mezzo di quesiti (il capoufficio al suo segretario: «¿Le puedo pedir que se quede un par de
horitas más esta tarde?») o, ancora, trasmettiamo richieste attraverso enunciati dichiarativi («Con este
calor, apetece una cerveza») ecc. Allo stesso modo, un medesimo atto (richiesta) si può realizzare per
mezzo di strutture linguistiche diverse (domanda, affermazione, ordine ecc.).
. Per il concetto di funzione del linguaggio, rimandiamo a Bühler (), Jakobson () e
Hallyday ().
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LUSITANISTICA
Giorgio de Marchis
Gian Luigi De Rosa
Giulia Lanciani
Salvador Pippa
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Caheti (Caetés), che «sono ben peggiori degli Eimuri» (LUDF, p. ). Se all’elenco
aggiungiamo anche il pericolo di essere inghiottiti prima dalle onde del mare durante il
naufragio iniziale e poi, più volte, dalle sabbie mobili, non possiamo che convenire con
Diogo Álvares Correia, quando questi afferma: «Che siano tutti accaniti contro le
nostre polpe e affamati di carne bianca in questo maledetto paese! La cosa comincia a
diventare un po’ noiosa» (LUDF, p. ).
L’immagine del Brasile di Salgari è, pertanto, ambigua: il paradiso brasiliano è,
ancora una volta, infernale e la lettura del romanzo si snoda attraverso un susseguirsi di
situazioni antitetiche, caratterizzate rispettivamente dalla bellezza della natura e dalla
bontà dei suoi frutti (nei motivi statici e descrittivi), oppure dalla pericolosità e voracità
dei suoi abitanti (negli episodi narrativi, disposti in base a una logica distributiva degli
eventi piuttosto inverosimile, che ubbidisce solo a un principio di redditività diegetica
per supplire a una costante necessità di suspense). Una condizione ossimorica dello
spazio brasiliano efficacemente espressa mediante alcuni dialoghi particolarmente chia-
rificatori:
– Che paese meraviglioso! – esclamò Alvaro, entusiasmato. – Non l’avevo prima osserva-
to; peccato però che queste spiagge siano abitate da antropofagi ributtanti, che si dice
abbiano soprattutto una passione spiccata per la carne degli uomini bianchi (LUDF, p. ).
– […] noi dobbiamo essere sbarcati sulle rive del paradiso terrestre, – rispose il mozzo.
– Bel paradiso dove gli abitanti a due gambe sono più feroci dei leoni e delle tigri che
popolano le selve ed i deserti dell’Asia e dell’Africa (LUDF, p. ).
Sebbene, l’insistenza sui pericoli della fauna brasiliana non sia altrettanto ossessiva in
Verne – che si limita a narrare l’aggressione subita dall’equipaggio della jangada da
parte di tre caimani e l’attacco di un gimnoto a un palombaro immerso nelle acque del
Rio delle Amazzoni – da un punto di vista narrativo, il Brasile che presentano i due
romanzieri è, però, lo stesso: si tratta di uno spazio da attraversare, una sorta di paren-
tesi naturale fuori dalla storia. Così, se nel romanzo di Verne, come si è detto, la fami-
glia Garral e i suoi ospiti attraversano la foresta amazzonica per giungere dal Perú all’o-
ceano Atlantico, allo stesso modo, gli sfortunati naufraghi di Salgari si augurano di rag-
giungere al più presto le città spagnole sulla costa venezuelana. Non può essere, quin-
di, casuale che entrambi i romanzieri si siano interessati alla celebre vicenda di Isabel
Godin des Odonais, l’aristocratica peruviana che, verso la fine del , partì dal Perú
alla volta della Guyana francese per raggiungere il marito, affrontando un lungo viag-
gio, attraverso un Brasile colmo di ogni pericolo, in cui tutti i membri della spedizione
trovarono la morte, tranne questa donna che riuscì, come scrive ammirato Salgari, ad
«attraversare a piedi tutte le immense foreste che separano il Perú dalla foce del più
grande fiume del mondo, l’immenso Amazzoni» (Salgari, , vol. I, p. ). Se l’autore
della Figlia del corsaro nero dedica a madame Godin il racconto intitolato Perduta fra le
solitudini dell’Amazzoni, Verne preferisce, invece, ricorrere a una mise en abîme, facen-
do raccontare da Manoel Valdez alla giovane Minha Garral, a bordo della jangada che
solca il Rio delle Amazzoni, la vicenda della donna che, prima di lei, per amore del
marito non esitò ad attraversare l’Amazzonia (LJ, pp. -). Per questi due romanzieri,
il viaggio attraverso il Brasile non è altro, quindi, che un mezzo per unire due estremità
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civili, separate dallo sterminato caos di barbarie in cui vive il principale ostacolo al
progresso: l’indio.
Anche per quanto riguarda la rappresentazione degli indigeni, vi sono tra Salgari e
Verne alcune divergenze che, però, non contraddicono l’ideologia comune che permea
le due opere in esame. Nell’Uomo di fuoco, Salgari descrive gli indios, riproponendo
molti degli elementi caratteristici dell’immagine tradizionalmente negativa dell’antro-
pofago brasiliano elaborata sin dagli anni immediatamente successivi alla scoperta
cabralina. Ritroviamo, allora, nel romanziere italiano una giustificazione meramente
golosa del cannibalismo; il riferimento alla condizione di continua belligeranza vigen-
te tra queste vendicative popolazioni, che invalida la visione del Brasile come pacifico
Eden; la natura ingenua e feroce di un’umanità ferma a uno stadio evolutivo infantile
e bestiale. L’uomo di fuoco ripropone, quindi, più di quattrocento anni dopo la sco-
perta del Brasile, una riduzione dell’indio alla sfera animale – all’interno della quale
si mantiene anche il riconoscimento di un maggior grado di bestialità e ferocia delle
tribù dell’interno rispetto agli abitanti delle regioni costiere – avvicinandosi così alle
posizioni di alcuni dei primi interpreti cinquecenteschi del Brasile. Tuttavia, se è pro-
babile che lì dove, nel XVI secolo, si possa ancora parlare di fraintendimento dell’Altro,
qui, nei primi anni del XX secolo, si deve piuttosto parlare di misconoscimento dell’al-
terità, riconoscendo una specifica strategia narrativa paraletteraria, volta a suscitare
l’interesse del lettore mediante la presentazione di una realtà quanto più possibile estra-
nea e ignota. Come, infatti, ricordava Charchatov:
Salgari, alla base dei suoi romanzi d’avventura, pone materiale poco studiato, attinto da
una realtà di per se stessa contenente elementi capaci di suscitare quell’elevato interes-
se che, solitamente, nei romanzi d’avventure nasce da una trama complessa. […] L’in-
venzione viene compensata con l’esotismo (Viglongo, , p. XI).
Una tecnica diversa da quella usata da Jules Verne che, come giustamente scrisse
Robert Louis Stevenson:
al suo attivo ha una sorta di immaginazione prosaica e pedestre fatta apposta per con-
quistare l’adesione dei lettori del diciannovesimo secolo. […] avrebbe potuto benissi-
mo creare delle storie più stravaganti, ma non è la stravaganza lo scopo che persegue
con la sua penna audace e al tempo stesso discreta. Quello a cui mira è soltanto di
andare un gradino più in là rispetto al possibile, e niente di più: superare appena di un
minimo la sua generazione, un passo più in là rispetto al mondo abitato (Stevenson,
, pp. -).
Proprio tale indifferenza verniana nei confronti della stravaganza fa sì che l’immagine
del Brasile presente nella Jangada sia diversa da quella offerta dall’Uomo di fuoco; non
solo questo Brasile è molto meno pericoloso, ma anche gli indios non sono più i diavo-
li feroci e temibili che, nel , perseguitavano i protagonisti salgariani. È lo stesso
Verne, commentando un pacifico incontro tra i viaggiatori diretti a Belém e un gruppo
di guerrieri Muras lungo il Rio delle Amazzoni, a riconoscerlo: «Fortunatamente quei
Muras non fecero dimostrazioni ostili, benché nutrano per i bianchi un odio profondo.
Essi non hanno però il coraggio dei loro antenati» (LJ, p. ).
Gli indios non sono più, quindi, quelli di una volta ma, come si è detto, nel ,
anche il Brasile ha ormai da tempo smesso di esserlo; «sul Rio delle Amazzoni», infat-
ti, «vi sono molte stazioni di posta, villaggi, Missioni in gran numero. Non è più un
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deserto quello che l’immenso corso d’acqua attraversa, è un bacino che si colonizza
ogni giorno di più» (LJ, p. ). I terreni coltivati hanno sostituito le foreste e non è un
caso che il romanzo si chiuda con la notizia che, pochi giorni dopo il matrimonio tra
Manoel e Minha, sarebbe stato inaugurato un servizio di trasporto fluviale a vapore,
grazie a un battello che «non avrebbe impiegato che una settimana a risalire quel Rio
delle Amazzoni che la jangada aveva impiegato tanti mesi per scendere» (LJ, p. ).
Dal punto di vista dell’immagine del Brasile che presentano, La jangada e L’uomo di
fuoco parrebbero, dunque, essere romanzi assai diversi. In realtà, lo sono meno di quan-
to possa sembrare e veicolano, anzi, la medesima ideologia. L’unica differenza è che
l’ambientazione cinquecentesca adottata dal più celebre scrittore italiano di romanzi
d’avventure lo costringe a presentare l’inizio di un processo di colonizzazione di cui
Verne mostra, invece, l’inevitabile esito. Il Brasile del XVI secolo con il quale si confron-
ta Diogo Álvares Correia è un caos infernale solo perché l’uomo bianco non ha potuto
ancora imprimervi la propria marca, iscrivendolo nella storia; per farlo, deve solo servirsi
della tecnica che già padroneggia (l’archibugio e la polvere da sparo) e rimuovere il prin-
cipale ostacolo alla sua opera di europeizzazione: l’indio. L’avventura salgariana nasce da
questo scontro originario e si conclude con l’elezione da parte dei Tupinambi dell’av-
venturiero portoghese come loro gran capo. Verne, descrivendo tre secoli più tardi gli
abitanti della città di Manaus, mostra gli sviluppi di questa infausta elezione:
Uomini d’alta statura, con giubba nera, cappello di seta, scarpe di vernice, guanti color
chiaro, diamanti al nodo della cravatta: donne coperte di abiti chiassosi, vesti con fal-
balas, cappelli all’ultima moda; indiani, insomma, che si stanno europeizzando, in modo
da distruggere tutto quanto poteva restare loro del colore locale in quella parte centra-
le del bacino del Rio delle Amazzoni (LJ, p. ).
Allo stesso modo, è significativo che all’inizio del processo di colonizzazione l’indio sal-
gariano non sia stato ancora privato della parola – sebbene la sua voce non sia altro che
«una serie di ruggiti e di urla rauche, che ben poco avevano di umano» (LUDF, p. )
e richieda, comunque, la mediazione dell’interprete spagnolo per essere compresa –
mentre gli indigeni di Verne, definitivamente esclusi dalla civiltà perché inassimilabili
al cosmo costruito dai bianchi, vengono mantenuti durante tutta l’opera in un silenzio
assoluto, quasi a simbolizzare, in un romanzo che fa di un manoscritto crittografato la
chiave di volta per risolvere un mistero che è il principale motore della sua trama, la
sconfitta di una civiltà orale mediante il suo definitivo silenziamento.
Non basta, pertanto, riconoscere sporadicamente il coraggio o la formidabile abi-
lità delle popolazioni locali per esimere Salgari da una visione imperialista e talora
anche razzista. Come Verne, il romanziere italiano celebra il trionfo dell’Ottocento,
della scienza e del sapere europei, l’incontrastabile dominio dell’uomo bianco sul pia-
neta e la sua vittoria sulla natura ancora indomita e selvaggia. Il Brasile di questi due
autori è un Eden immerso nel liquido amniotico dell’umanità che, però, per nascere alla
Storia, deve necessariamente essere strappato ai suoi abitanti mediante un parto che,
come dimostrano le parole dell’autore di Vingt mille lieues sous les mers, alla fine del
XIX secolo veniva ancora considerato naturale e inevitabile:
ogni moneta ha il suo rovescio: il progresso non si compie se non a scapito delle razze
indigene. Sì, il fiume dei Tunantins è press’a poco spopolato, e non vi sono più che
poche famiglie nomadi d’indiani alla foce dello Jurua. Il Teffé è quasi abbandonato, e
non rimangono più che pochi avanzi della grande tribù Umaua, presso le sorgenti dello
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Japura. Il Coari è deserto; pochi indiani Muras rimangono sulle rive del Purus. Degli
antichi Manaos non si incontrano che poche famiglie nomadi. Sulle sponde del Rio
Negro, non si notano che dei meticci di portoghesi e d’indigeni, là dove si contavano
perfino ventiquattro tribù differenti. È il prezzo del progresso. Gli indiani scompaiono.
Di fronte alla razza anglosassone, australiani e tasmaniani sono scomparsi; di fronte ai
conquistatori del Far West scompaiono gli indiani dell’America Settentrionale. Un gior-
no forse gli arabi saranno distrutti dalla colonizzazione francese (LJ, p. ).
Prima di concludere, però, non si può non ricordare come appena venticinque anni
dopo la pubblicazione dell’Uomo di fuoco, Freud avrebbe attribuito al progresso un
prezzo ben maggiore, riconoscendo come anche i colonizzatori non potessero esimersi
dal pagarne le spese. Parlando di società nevrotiche, l’autore del Disagio della civiltà
arriverà, infatti, a mettere in dubbio il valore ai fini della felicità individuale dell’incivi-
limento, mostrando come il progresso civile si paghi sempre con la perdita della felicità
dell’individuo, oppresso dall’aumento del senso di colpa.
L’ottimismo di Verne e Salgari appartiene, però, a un’altra epoca. Molto più vicini
a Gobineau che a Freud, il Brasile di questi due romanzieri è ancora un fardello che
l’uomo bianco ha il dovere di portare per liberare anche questo luogo da tale «gente
irrequieta e sfrenata – popoli truci da poco soggetti, mezzo demoni e mezzo bambini»
(Kipling, , p. ).
Note
. Ovviamente, per poter stabilire il numero esatto, sarebbe necessario analizzare l’intero corpus
romanzesco pubblicato in appendice sui quotidiani portoghesi dell’epoca. In ogni caso, tutti gli studi,
per quanto ancora limitati e parziali, confermano un generale disinteresse dei romanzieri popolari por-
toghesi nei confronti dei temi e degli sfondi brasiliani. Cfr. Rodriguês (); Rêgo, Castelo Branco
().
. J. da Silva Mendes Leal, Os mosqueteiros d’África (); D. Fernandes das Neves, Itinerário de
uma viagem à caça dos elephantes (); F. Leite Bastos, Os dramas d’África: grande romance de sensa-
são (); A. E. Vitória Pereira, Portuguezes e inglezes em África (); A. Rodrigues Braga, Impres-
sões d’África (); Ó. Leal, Atravez da Europa e da África (); J. da Fonseca Lage, Os bandidos
d’Angola (); H. Lopes de Mendonça, Lanças n’África ().
. F. L. Gomes, Os Brahamanes (); M. Pinheiro Chagas, A jóia do Vice-Rei (); Id., A desco-
berta da Índia (-); H. Lopes de Mendonça, Os orphãos de Calecut: romance histórico-marítimo ori-
ginal (); L. Cayolla, O despertar de um sonho (); Ó. Leal, Um marinheiro do século XV: roman-
ce histórico sobre a descoberta da Índia (); Cândido de Figueiredo, Amores de um marinheiro ();
A. Lobo d’Ávila, A descoberta e conquista da Índia pelos portuguezes: romance histórico (); J. A. de
Oliveira Mascarenhas, Tragédias da Índia: romance histórico e de costumes indianos (); A. de Cam-
pos Júnior, A estrela de Nagasaki (); F. da Fonseca, Viagem maravilhosa: romance histórico ();
H. Lopes de Mendonça, Fumos na Índia (s.d.).
. Poiché questo contributo riguarda solo il romanzo d’avventure a sfondo esotico, non è stata
presa in considerazione la copiosa produzione di opere parastoriche ambientate in Portogallo duran-
te la Reconquista, la crisi de , la Restauração, l’invasione napoleonica e le guerre civili dell’epoca
liberale.
. Perduta fra le solitudini dell’Amazzoni; Nelle foreste vergini; Il boa delle caverne. Cfr. Salgari
().
. Le citazioni tratte da Verne () e da Salgari () saranno abbreviate, d’ora in avanti, rispet-
tivamente con le sigle LJ e LUDF.
. «Erano palme gigantesche, alte più di sessanta metri» (LUDF, p. ); «una temperatura soffo-
cante, che rendeva la respirazione difficile come se l’aria non potesse più circolare fra quegli ammassi
di foglie gigantesche» (LUDF, p. ).
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. «Canne smisurate cominciavano a prendere il posto delle palme, a ciuffi enormi» (LUDF, p. );
«stretta da liane smisurate e da arbusti di radici enormi» (LUDF, p. ).
. «Era una foresta di cuiera, piante enormi che producono delle zucche mostruose» (LUDF, p. );
«un serpente enorme lo aveva avvolto fra le sue spire e così strettamente da soffocarlo. Era un sucuriù
chiamato anche boa anaconda, il più enorme dei rettili brasiliani» (LUDF, p. ); «Il liboia era spavente-
vole a vedersi. Quel serpente, che è il più enorme a vedersi, superando per mole tutti gli altri conosciuti,
aveva stretto il disgraziato capo così bene, da non potersi più vedere» (LUDF, p. ).
. «[…] summameira colossali» (LUDF, p. ).
. «Un numero infinito di uccelli garriva fra quei vegetali; ed in mezzo ai ceppi delle convolvula-
cee svolazzavano miriadi di quei vaghi uccellini chiamati beja flores» (LUDF, p. ); «un numero infi-
nito di liane serpeggianti in tutte le direzioni» (LUDF, p. ).
. Lo stupore del compagno di Correia trova un equivalente nello sbigottimento della giovane
Minha Garral che, durante una passeggiata nella foresta, osservando le «meraviglie del regno vegeta-
le», non può esimersi dall’esclamare: «Quante meraviglie!» (LJ, p. ).
. La rigida e inverosimile consequenzialità sintattica dell’intreccio dell’Uomo di fuoco – roman-
zo in cui si privilegia la natura meramente strumentale di ogni singolo episodio, a scapito della plausi-
bilità semantica dell’organizzazione della trama – rende quest’opera salgariana esemplare della strut-
tura sinusoidale propria del romanzo d’appendice e, più in generale, della strategia compositiva a ite-
razione ritmica caratteristica dei feuilletonnistes. A questo proposito, cfr. Eco (), Calabrese ()
e Couégnas ().
. «Con due armi da fuoco noi diverremo invincibili e tenteremo anche la traversata dell’Ameri-
ca fino agli stabilimenti spagnuoli. Non ho alcun desiderio di finire la mia vita fra questi ributtanti
antropofagi» (LUDF, p. ); «Allora mio caro, andremo verso la costa e con qualche scialuppa salire-
mo al nord fino a trovare gli stabilimenti del Venezuela» (LUDF, p. ).
. Le città di Iquitos e Belém ma anche le due caravelle (quella portoghese, naufragata a largo
della costa brasiliana, e quella francese che ricondurrà il protagonista e la moglie Paraguazu in Fran-
cia) che, nel romanzo salgariano, rappresentano l’estrema propaggine dell’Europa nel Nuovo Mondo.
. «La loro corsa non durò più di un quarto d’ora, poiché ben presto si videro costretti a ral-
lentarla in causa delle innumerevoli difficoltà che presentava quella foresta, diventata da un momen-
to all’altro un vero caos di cespugli, di tronchi, di liane e di radici smisurate» (LUDF, p. ); «Era
anche più intrecciata essendo composta d’una infinita varietà di piante che crescevano confusamente
le une accanto alle altre, strette da liane smisurate e da arbusti e da radici enormi che sorgevano da
tutte le parti non trovando più posto nel sottosuolo» (LUDF, p. ); «La foresta […] era un caos di
palme d’ogni specie, di jatolá enormi, di summameira colossali; di bombanasse, di massarandube ecc.
che crescevano le une addosso alle altre e avvolte fra un numero infinito di liane serpeggianti in tutte
le direzioni» (LUDF, p. ); «Le due tribù procedevano senza ordine alcuno ma in ranghi serrati,
giunti a cento metri l’una dall’altra, posero mano agli archi e alle gravatane saettandosi reciprocamen-
te» (LUDF, p. ).
. «Questione di abitudini e di costumi signore, – rispose Diaz. – Da noi si mangiano i buoi ed i
vitelli, qui si divorano gli uomini come fossero bistecche» (LUDF, p. ).
. «[…] lo stupore non durò molto in quei selvaggi abituati a vivere in continua guerra fra tribù
e tribù» (LUDF, p. ).
. «Uno stupore impossibile a descriversi si era impadronito di quegli ingenui, per quanto fero-
ci figli delle foreste americane» (LUDF, p. ).
. «[…] sono belve feroci costoro e non uomini» (LUDF, p. ).
. Il fraintendimento, in effetti, non è l’espressione di un’assenza di comprensione, ma è una
forma di «eroismo della comprensione», che non si arresta neppure di fronte all’inadeguatezza dei
mezzi a disposizione. Al contrario, il misconoscimento esprime una deliberata volontà di incompren-
sione. Cfr. Fortuna (, p. ).
. La tendenza salgariana a privilegiare l’elemento esotico si ritrova, inoltre, nelle «false analo-
gie» che continuamente propone ai suoi giovani lettori; un procedimento descrittivo che dovrebbe
chiarire la natura dell’oggetto o dell’animale sconosciuto viene in realtà usato dall’autore per raddop-
piare i riferimenti esotici, rimandando il lettore a una realtà altrettanto ignota ma geograficamente
diversa: «Erano dei superbi canindè, somiglianti ai cacatoa australiani e grossi come pappagalli»
(LUDF, p. ); «Un animale che aveva la statura d’un lupo siberiano» (LUDF, p. ); «Era un super-
bo giaguaro, grosso quasi quanto una tigre malese» (LUDF, p. ).
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. Un’interpretazione tuttora condivisibile, come conferma questo brano tratto da una recente
biografia del romanziere francese: «E, soprattutto, una scienza che potrebbe benissimo esistere, inven-
zioni cui manca solo l’inventore. Le estrosità della fantascienza, dove macchine e materiali vanno al
passo con l’immaginazione dell’autore, non fanno per Jules Verne. I suoi avventurosi personaggi devo-
no darsi da fare per sviluppare la propria scienza e si avvalgono di strumenti, materiali e invenzioni già
esistenti per crearne di nuovi. Quando da una base in Florida Verne manda sulla Luna una capsula
spaziale abitata, equipaggiata con retrorazzi e cibo condensato per gli astronauti, e fa ricadere l’equi-
paggio sano e salvo nelle acque del Pacifico, anticipa i voli Apollo dei giorni nostri, come ricordano
con ammirazione gli astronauti, che spesso da bambini erano appassionati di Verne. Ovviamente gli
esplosivi di Verne non sarebbero stati efficaci come li faceva apparire. Le sue capsule spaziali non
avrebbero potuto raggiungere la Luna, le sue macchine volanti non sarebbero riuscite a volare, ai suoi
sottomarini mancava il carburante creato per loro in epoca moderna. Ma spesso si avvicinavano molto
alla futura realtà» (Lottman, , p. ).
. Da questo punto di vista, l’infelice adattamento cinematografico del romanzo di Verne capo-
volge completamente l’immagine del Brasile proposta dal romanziere francese. Nel film, infatti, in
un’ottica più vicina al romanzo di Salgari che a quello verniano, la foresta amazzonica è ancora un
luogo estremamente pericoloso, lungi dall’essere stato colonizzato: oltre che dai piranha e dagli alliga-
tori, i viaggiatori devono guardarsi anche dai «pirati del fiume» e dai bellicosi indios Muras. Cfr.
leagues down the Amazons, diretto da Luis Llosa (USA, ).
. Le considerazioni di Verne sulla modernizzazione del pianeta e sui suoi inevitabili effetti col-
laterali (la distruzione delle culture indigene) sono il frutto di una visione eurocentrica e ottimistica del
progresso scientifico ottocentesco. In ambito portoghese, Antero de Quental aveva già espresso, nel
, considerazioni simili a quelle del romanziere francese, giustificando il dominio coloniale solo in
nome della superiorità morale del progresso: «As conquistas sobre as nações atrasadas, por via de
regra, não são justas nem injustas. Justificam-se ou condenam-nas os resultados, o uso que mais tarde
se faz do domínio estabelecido pela força. As conquistas romanas são hoje justificadas pela filosofia da
história, porque criaram uma civilização superior àquela de que viviam os povos conquistados. A con-
quista da Índia pelos Ingleses é justa, porque é civilizadora. A conquista da Índia pelos Portugueses,
da América pelos Espanhóis, foi injusta, porque não civilizou. Ainda quando fossem sempre vitoriosas
as nossas armas, a Índia ter-nos-ia escapado, porque sistematicamente alheávamos os espíritos, aterrá-
vamos as populações, cavávamos pelo espírito religioso e aristocrático um abismo entre a minoria dos
conquistadores e a maioria dos vencidos» (de Quental, , pp. -). A conferma di come l’euforia
positivista (di cui Antero non si può, comunque, considerare una voce esemplare) non fosse, però, una-
nime all’interno della cultura europea finisecolare, è possibile ricordare le parole del personaggio quei-
rosiano Fradique Mendes presenti nella sua lettera indirizzata all’ingegnere Bertrand, responsabile
della costruzione della linea ferroviaria Gerusalemme-Jaffa: «Um único sítio na Terra permanecia
ainda com os apectos, os costumes, com que o tinham visto, e de que tinham partilhado, os homens
que deram ao mundo uma das suas mais altas transformações: – e esse sítio era um pedaço de Judeia,
da Samaria e da Galileia. Se ele for grosseiramente modernizado, nivelado ao protótipo social, queri-
do do século, que é o distrito de Liverpool ou o departamento de Marselha […] que profanação, que
devastação bruta e bárbara!» (Eça de Queirós, , p. ). Benché io non ritenga questa opposizio-
ne (disforia/euforia) funzionale alla determinazione di un discrimine netto tra la sfera letteraria e quel-
la paraletteraria, si conferma comunque l’esistenza di diagnosi diverse circa le sorti progressive del seco-
lo, come già affermato da Lindeza Diogo e Silvestre, partendo da un confronto tra un altro celebre per-
sonaggio verniano e Fradique: «Fogg e Fradique […] configuram diagramas algo diferentes do sécu-
lo, e essa diferença é talvez a que se estabelece entre uma alegoria da Aufklarung e uma outra em que
as luzes se vão apagando, entre o diagnóstico optimista porque feito do lado da indústria, do capital e
do comum cidadão, e o diagnóstico céptico em que o epistemológico, como o sociológico e o estético,
da rejeição dos excessos cientistas de oitocentos, é docemente envolto na nostalgia do mundo aristo-
crático pré-moderno e pré-democrático; e que é talvez, nos seus modelos de representação, a distância
entre o paraliterário e o literário» (Lindeza Diogo, Silvestre, , p. ).
. «Tutta una tribù di centocinquanta o duecento indiani dei dintorni di Iquitos, senza contare
la popolazione del villaggio, era venuta ad assistere a quell’interessante spettacolo. Quella folla stupi-
ta guardava ed era quasi in profondo silenzio» (LJ, p. ); «Alcuni indigeni dalla testa rasa, tatuati sulle
guance e sulla fronte, che portavano, alle pinne del naso e al di sotto del labbro inferiore, dei dischi di
metallo, apparvero un istante sulle rive. Erano armati di frecce e di cerbottane, ma non ne fecero uso,
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e non cercarono neppure di entrare in comunicazione con la jangada» (LJ, p. ). Per quanto riguarda
il confronto in ambito brasiliano tra il potere colonizzatore della riproduzione scritturale e la natura
effimera e statica (poiché incapace di valicare il cerchio della sua audizione) dell’oralità indigena, si
veda quanto affermato da Michel de Certeau nella sua analisi dell’opera di Jean de Léry, Histoire d’un
voyage faict en la terre du Brésil: «La scrittura è, nella mano, «la spada» che prolunga il gesto ma non
ne modifica il soggetto. Sotto questo profilo, ripete e diffonde i suoi prototipi. Il potere che il suo
espansionismo lascia intatto è, nel suo principio, colonizzatore. Si estende senza essere cambiato. È
tautologico, immunizzato tanto contro l’alterità che potrebbe trasformarlo quanto contro quella che
potrebbe resistergli. È preso nel gioco di una doppia riproduzione, quella, storica e ortodossa, che pre-
serva il passato, e quella, missionaria, che conquista lo spazio moltiplicando gli stessi segni. […] A que-
sta scrittura che invade lo spazio e capitalizza il tempo, si oppone la parola che non va lontano e che
non conserva» (De Certeau, , pp. -).
. «Garcia, amico mio, – disse il signor Correa, – se noi avremo da affrontare di quei selvaggi non
so come potremo cavarcela. Gli uomini che sfidano simili pericoli devono avere del coraggio da ven-
dere anche a noi. […] Se Pizarro ed Almagro fossero sbarcati qui invece che nel Perù, non avrebbero
così facilmente conquistate tante regioni. Gli inchi, in paragone di questi selvaggi, erano dei conigli se
non peggio» (LUDF, p. ); «Ha fatto una bella scuola sotto i selvaggi! I selvaggi! Eh! Ne sanno più di
noi e possiamo, per ora, chiamarli maestri… degli europei» (LUDF, p. ).
. Da questo punto di vista, non è casuale che, come Verne, anche Salgari, nel racconto Alla con-
quista della luna, non esiti a presentare – una volta portato a termine il processo di europeizzazione del
Brasile, con la conseguente rimozione dell’ostacolo delle “razze indigene” – proprio due cittadini brasi-
liani (gli scienziati Carvalho e Souza, membri dell’Accademia delle scienze di Rio de Janeiro) come dei
campioni del progresso: «Rassicuratevi, non abbiamo alcuna intenzione di disputare al governo spa-
gnuolo la proprietà dell’isola, né di recare danno alcuno ai suoi sudditi. Noi siamo due tranquilli scien-
ziati brasiliani, incaricati di tentare un grande esperimento che farà epoca nel mondo: andiamo a tentare
la conquista della luna» (Salgari, , vol. III, p. ). Sulla scia di quanto affermato da Edward Said (),
è possibile, quindi, considerare i romanzi di Salgari e Verne delle forme culturali associate all’imperiali-
smo; l’espressione popolare e paraletteraria di una struttura di atteggiamento e riferimento tesa al raffor-
zamento, all’interno delle culture nazionali europee, dell’egemonia dell’Occidente sulle periferie del
mondo e al consolidamento del consenso generale circa il dominio di lontani territori e popoli nativi.
. «Anche se il saggio non è forse ben costruito, ciò corrisponde perfettamente all’intento di pre-
sentare il senso di colpa come il problema più importante dell’incivilimento e di dimostrare che il pro-
gresso civile ha un prezzo, pagato in perdita di felicità a mano a mano che aumenta il senso di colpa»
(Freud, , p. ).
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Una soggettiva stilistica, una voce comincia a narrare: «Cá estou. Precisamente no
mesmo quarto onde, faz hoje um ano, me instalei na minha primeira visita» (Cardoso
Pires, b, p. ). Poi, la cinepresa passa a un primo piano, forse un dettaglio: il volto,
lo sguardo, la bocca del personaggio: «É nele que penso também – nisto tudo, na
aldeia, nos montes em redor e nos seres que a habitam» (ibid.); lentamente il campo si
allarga, inglobando una stanza e un paesaggio. A questo punto, l’obiettivo della cine-
presa si allontana in un campo lungo in cui il personaggio diviene parte integrante della
scena descritta da una voce in off: «Temos, pois, o Autor instalado na janela duma pen-
são de caçadores. Sente vida por baixo e à volta dele, sim, pode senti-la, mas por
enquanto, fixa-se unicamente, e com intenção, no tal sopro de nuvens que é a lagoa»
(ivi, p. ). Con questo incipit José Cardoso Pires dà inizio a quello che la maggior parte
della critica ritiene, a giusta ragione, il suo capolavoro: O Delfim.
I parallelismi tra linguaggio cinematografico e la scrittura piresiana potrebbero
continuare, poiché in questo romanzo sono evidenti una spiccata propensione al visua-
le e una crescente approssimazione al linguaggio filmico, così come ben rileva Fernan-
do Lopes, regista dell’omonimo film: «Toda a gente, quando lê O Delfim, diz que o
filme está ali já, mas não é simples assim; pelo contrário. É preciso recriar em imagens
a riqueza da escrita».
La struttura del romanzo con una narrazione frammentaria e continui interseca-
menti sull’asse diacronico del tempo dà quasi la sensazione di trovarsi dinanzi ad un
montaggio cinematografico, in cui i flash-back si dilatano fino a riempire la quasi tota-
lità della narrazione; il passato si confonde con il presente che, ormai svuotato di senso,
diventa una semplice appendice del passato.
O Delfim è un romanzo di memoria, una memoria narrante che si dilata nel tempo e
si distende sul lettore grazie allo sguardo di un testimone che illustra, attraverso la sua
esperienza “urbana”, la realtà di Gafeira e della sua gente. Il narratore rielabora gli avve-
nimenti tramite il racconto di alcuni abitanti e ricostruisce la storia, «a glória e o apocali-
pse de um nó esquecido da Terra» (Cardoso Pires, b, p. ), attraverso l’ausilio della
memoria storica trascritta nella Monografia dell’abate Agostinho Saraiva, «um inventário
de ruínas e de coisas paradas» (ivi, p. ). Gradualmente prende vita un grandioso affre-
sco metaforico di un paese ritratto sul finire degli anni Sessanta e contrassegnato dalla
guerra coloniale in Africa, dalla lenta agonia di Salazar e del suo regime fascista.
Sin dal titolo, sottilmente ironico e fortemente allegorico, il lettore comprende che
si trova dinanzi a un romanzo che trasuda politica finanche nelle sue pause, ma che ha
l’ardire di presentarsi – in un periodo in cui vigeva l’olho vivo della censura salazarista –
come un libro «epurato» e, beffardamente, ad usum Delphini, «como nas gravuras anti-
gas» (ivi, p. ).
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Sul piano contenutistico, Fernando Lopes riesce a cogliere molti aspetti e a scio-
gliere alcuni dei nodi narrativi che Cardoso Pires intreccia nelle sue pagine, arrivando
a sviluppare felicemente una serie di elementi che si arricchiscono di una diversa con-
sistenza rispetto al testo letterario; è il caso del personaggio di Maria das Mercês, inter-
pretata dall’affascinante Alexandra Lencastre, che diventa un fondamentale polo d’at-
trazione del film, oscurando, con la sua femminilità soffocata e la sua sessualità repres-
sa – a tratti eccessiva – parte della narrazione filmica. Malgrado ciò, il profondo biso-
gno che sente Fernando Lopes di attenersi eccessivamente al testo letterario limita la
sua creatività e ridimensiona in parte il suo testo estetico, soprattutto quando accresce
i silenzi e le pause del testo, appesantendone la fruizione.
Nel film, la musica e la colonna sonora assumono, insieme ai colori, un ruolo fon-
damentale. Infatti, la scelta cromatica è stata indirizzata verso tonalità forti e accese per
le scene all’aperto e chiaroscuri baroccheggianti con lampi di luce sui volti in evidenza,
per le scene notturne o al chiuso. Un cromatismo bivalente che arricchisce di interes-
santi sfumature l’opera filmica. Per quel che riguarda la colonna sonora, oltre al peren-
ne rombare della Jaguar e ai latrati dei cani, sono i rumori della lagoa che invadono e
fanno da sottofondo alla narrazione filmica, mentre la musica attinge a piene mani dal
repertorio sacro della tradizione musicale portoghese, rielaborando soprattutto le musi-
che di uno dei suoi più illustri compositori: Marcos de Portugal.
Il film si apre e si chiude sulla lagoa: all’inizio la cinepresa plana e riprende dall’al-
to il paesaggio con una voce in off che accompagna e introduce lo spettatore nella sto-
ria che si sta per narrare; nel finale la lagoa si vede dal basso, la cinepresa segue gli stor-
mi di folaghe che si levano in volo.
La struttura circolare del tempo, fondamentale cardine della costruzione narrati-
va del romanzo, perde molto della sua forza nel testo filmico. Lo stesso ruolo del cac-
ciatore-scrittore, voce narrante del romanzo, subisce un ridimensionamento obbliga-
torio nel momento in cui il regista deve scegliere cosa raccontare e come raccontare la
storia – nel film appare soprattutto all’inizio e alla fine, lasciando la centralità del rac-
conto cinematografico alla storia dell’infante. La sua è una figura a tratti superflua, che
fa da corollario ad una narrazione già di per sé autosufficiente. Infatti, allo spettatore
che è all’oscuro del testo letterario, il suo ruolo, soprattutto nel finale, non è del tutto
comprensibile. La sua collocazione all’interno del racconto filmico è periferica, non è
essenziale come nel romanzo, e quando a lui viene data la chiosa finale, tutto il senso
di oblio, sogno o incubo che è contenuto nelle parole del libro perde di significato e
risulta poco decifrabile.
A dire il vero, il montaggio cinematografico di Lopes non si propone di rivoluzio-
nare la narrazione piresiana, né di sconvolgerne l’ordine originale. Nei primi capitoli
del libro, Cardoso Pires focalizza progressivamente l’ambiente in cui si svolge la storia,
fornendo le coordinate spazio-temporali e introducendo i personaggi. È la memoria del
narratore che ricostruisce gli eventi, eventi di un passato abbastanza prossimo che assu-
mono le fattezze di un passato lontano nel tempo, così come si evince dalla presenta-
zione dell’ingegnere Tomás Palma Bravo e del suo seguito: moglie, cani, criado e Jaguar:
«Dois cães e um escudeiro, como numa tapeçaria medieval, e só depois se apresenta o
amo em toda a sua figura: avançado na praça com a esposa pela mão: blazer negro,
lenço de seda ao pescoço» (Cardoso Pires, b, p. ).
Lopes segue quasi alla lettera l’intreccio del romanzo; infatti, subito dopo la scena
della lagoa si passa alla scena nella piazza centrale di Gafeira, con l’accompagnamento
musicale del Sanctus della Messe Solennelle di Hector Berlioz. La simbologia in questa
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scena che equivale al primo capitolo, O largo, è ricca di dettagli e di rimandi: la croce
dei paramenti sacramentali si dissolve nella croce dello spiazzo, alla cui base si staglia
una lucertola, «Parda, imóvel, parecia um estilhaço de pedra sobre outra pedra maior
e mais antiga» (ivi, p. ). Infine, l’inquadratura si allarga, riprendendo per intero la fac-
ciata della chiesa.
O Delfim, «saga desta nossa Gafeira de nove milhões de almas» (Cardoso Pires,
a, p. ), è pieno di riferimenti e allusioni alla condizione politica in cui versava
il paese. La prossimità tra la lucertola, rettile sauro diretto discendente dei dinosau-
ri, e la croce è un chiaro riferimento in chiave metaforica alla prossimità tra lo Stato
e la Chiesa nel Portogallo salazarista. Il film ha il pregio di conservare i sottili riferi-
menti al contesto politico, impliciti e velati, che il testo piresiano intesse nel suo ince-
dere narrativo, dandone una lettura più esplicita nello sfogo finale del velho cautelei-
ro, non presente nella versione letteraria, così come è estranea al romanzo la scena
della telefonata tra Maria das Mercês e l’amica, anche se i pesanti giudizi di Maria su
Pazinha Soares, «a poetisa da gaita» (ivi, p. ), sono proferiti nel libro da Tomás
Palma Bravo.
Il romanzo sembra avere a prima vista tutti gli elementi del genere poliziesco: due
morti, un caso di adulterio e un fuggiasco, quasi certamente il responsabile di una delle
due morti. Tuttavia, l’indagine e la ricostruzione dei fatti che il narratore, pseudode-
tective, ripercorre attraverso la propria memoria e le chiacchiere della popolazione, non
mirano tanto alla soluzione del giallo, quanto piuttosto ad una presa d’atto che ci si è
liberati da una figura dispotica.
L’ingegnere, l’infante, il delfino Tomás Palma Bravo è colui che racchiude in sé tutti
i difetti e i vizi del salazarismo e ne è chiaramente una proiezione allegorica, come del
resto gli altri personaggi e lo stesso paesaggio, con un loro preciso ruolo.
Più che poliziesco, al capolavoro piresiano si addice la definizione di opera enig-
matica. Il libro, e in parte il film, apre ad una serie di ipotesi e di rimandi intertestuali,
principalmente sulla figura del Delfino: chi è il Delfino o meglio esiste più di un Delfi-
no? Se si sfoglia un dizionario enciclopedico alla voce Delfino si legge che tale titolo
veniva attribuito nel Medioevo al signore del Delfinato e che da un certo momento in
poi ha iniziato a designare il primogenito del re, cioè, l’erede al trono. In un romanzo
enigmatico, quale è O Delfim, in cui esiste sempre una lettura molteplice dei fatti e dove
alla storia ufficiale spesso si contrappone la storia ufficiosa, come nel caso della morte
di Maria das Mercês e di Domingos, si può interpretare la relazione Tomás Palma
Bravo/Domingos non solo come padrone/servo, ma anche come padre/figlio. Il servo
mulatto, l’intoccabile Domingos, modellato dall’ingegnere «aos seus passos» (ivi, p.
), potrebbe essere il primogenito tanto agognato che la sterilità di Maria das Mercês
non gli ha permesso di avere, l’erede al trono dei Palma Bravo, cioè, il Delfino. Tale
visione si potrebbe allargare ancor di più, avendo sempre presente il contesto storico-
politico in cui è stato ideato e scritto O Delfim, e vedere “l’incestuoso” tradimento di
Domingos, come un ulteriore rimando allegorico, cioè, l’avvio del processo di decolo-
nizzazione delle colonie portoghesi in Africa e il problema della successione a Salazar.
Tra fantasmi e miti rinnovati, Fernando Lopes ha diverse intuizioni felici, portan-
do in scena in modo abile anche la rappresentazione della follia, di chiara matrice
shakespeariana. Infatti, oltre al personaggio di Maria das Mercês, «tresloucada de
todo» (ivi, p. ) – che ricalca le orme della bella Ofelia fino alle estreme conseguenze,
trovando la morte nell’acqua –, il regista approfondisce anche il personaggio del foul,
impersonato qui dal velho cauteleiro, già ben delineato da Cardoso Pires e che Lopes
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caratterizza pregevolmente, creando per lui il monologo finale in cui tuona contro il
despota Palma Bravo e la sua fine tragicomica. Quest’invettiva si carica di profondi
significati, contenendo una sottile critica alla società civile lusitana inerte dinanzi alle
angherie dittatoriali dell’Infante/dittatore e capace di reagire rumorosamente soltanto
quando tutto è ormai finito. L’universo umano delineato da Cardoso Pires, e portato
sullo schermo da Lopes, è popolato da vivi-morenti e da morti-viventi. I fantasmi rac-
contati dalla memoria collettiva e dai libri sono presenti e vivi, mentre i detentori della
memoria, prigionieri nel tempo, cercano rifugio dalle inquietudini del presente, rele-
gandosi a vivere nel ricordo e nella reminiscenza del passato e ad espiare quel profon-
do senso di colpa collettiva che accomuna un intero popolo, incapace di reagire pron-
tamente alle circostanze storiche. Ciò si evidenzia ancor più, quando nel film, dopo le
imprecazioni del vecchio cauteleiro che sembra porre il punto finale alla storia, arriva-
no le parole e le paure del giovane prete che dice di aver visto l’infante dirigersi verso
Gafeira. Tutto viene rimesso in discussione, il potenziale ritorno dell’Infante riporta alla
luce le paure della popolazione, ma soprattutto rinnova nostalgici miti lusitani, tingen-
do di un fosco sebastianismo la figura di Tomás Palma Bravo.
Note
Bibliografia
Filmografia
te, glossate a margine, molte di esse a matita e dunque non solo illeggibili per la grafia,
ma anche per l’attenuazione del tratto dovuta al passare del tempo: tutte lezioni alter-
native tra le quali Pessoa non aveva ancora voluto o saputo scegliere, o sulle quali si
misura l’insoddisfazione del poeta, quando espunge segmenti testuali che talvolta ricu-
pera in un secondo momento, come risulta sia direttamente dai manoscritti che dalla
collazione tra questi e i pochi componimenti pubblicati. A ciò si aggiunga l’idiosincra-
sia di Pessoa nei confronti di ogni “comprensione”: la sua poesia rifiuta, per principio,
la solarità di un significato irreversibile.
È questa dunque la situazione in cui si trovano ad operare i due editori sopramen-
zionati: i quali, sia per lo stato delle carte sia anche per la loro totale inesperienza filo-
logica, quasi sempre si sostituiscono all’autore, tagliando il nodo gordiano e decidendo
dove il poeta non aveva deciso: con il risultato di divulgare un Pessoa che, nella miglio-
re delle ipotesi, appare depauperato proprio della complessità e della densità semanti-
ca che la non-scelta conferiva alla sua opera. Nella peggiore – quando l’operazione edi-
toriale privilegia una variante cancellata ma che agli organizzatori sembra lezione
“migliore”, o quando le difficoltà di decifrazione li inducono in gravi errori – esibisco-
no un prodotto che lo stesso Pessoa aveva, o avrebbe, ricusato. Ad essi, comunque, si
deve la prima edizione di molta parte degli inediti, pubblicata dalla casa editrice Ática:
nel bene e nel male, l’ostensione al Portogallo e al mondo di Fernando Pessoa.
Una volta divenute le carte pessoane di pubblico dominio, si è avvertita l’esigenza
di approntare edizioni scientificamente valide, che tenessero conto dello stato effettivo
dei manoscritti, ripubblicando i testi secondo quella che poteva essere ragionevolmen-
te definita l’ultima volontà dell’autore, ma informando anche sulle alternative tra le
quali egli non aveva ancora compiuto la sua scelta. Il risultato è un Pessoa più autenti-
co, naturalmente con tutte le limitazioni dovute alle difficoltà reali cui si è accennato,
alle quali si somma lo stravolgimento ad opera dei primi editori di un possibile assetto
originario dato alle carte dallo stesso autore: un Pessoa molto diverso da quello che il
pubblico aveva conosciuto e amato. Un noto scrittore lusitano non esitò a esprimere
pubblicamente il suo disappunto al proposito, affermando:
Sappiamo oggi che quella lettura [il riferimento è alla prima edizione postuma, pubbli-
cata dalla Ática] conteneva numerosi errori, tanti che, in molti casi, quel che conosceva-
mo di Pessoa e che ci aveva indotto ad ammirarlo (perché lo abbiamo ammirato attra-
verso l’errore) non era suo. […] Alcuni versi che avevamo imparato a memoria, che ci
avevano emozionato, che avevamo ritenuti sublimi, non erano suoi. […] Qual è il vero
Pessoa?, ammesso che mi interessi conoscere il “vero” Pessoa e non mi contenti invece
di un qualsiasi Pessoa resistente a tutti gli errori? […] Letto malamente da Gaspar
Simões, è stato questo […] il Pessoa che mi ha incantato, quello che ancora oggi model-
la molte delle mie emozioni. Che m’importa se molti di quei versi non sono davvero suoi
se li ho perfino imparati a memoria? Ho deciso: non esito più, resto fedele all’edizione
dell’Ática, perché è stata questa che mi ha fatto conoscere il Poeta, perché essa si è intrec-
ciata con la mia stessa vita.
Il Libro dell’inquietudine conosce la sua prima edizione nel , considerata dagli
esecutori completa (Pessoa, ). Ma che cosa hanno gli editori tra le mani allorché si
accingono a dare alla luce quest’opera? Non altro che una collezione disorganica di
materiali, appunti, annotazioni, abbozzi, progetti, redatti in funzione della composizio-
ne del Livro, di un libro che ci è praticamente inaccessibile, ma che ha assorbito quasi
l’intera vita del poeta, una sorta di proiezione esistenziale e al contempo proiezione del
suo divenire letterario, l’immagine stessa della complessa rete di progressi e di regressi
in cui questo farsi si è sempre istituito e il Livro, nella sua essenza, necessariamente
riproduce. Quasi l’intera vita, dicevo: infatti, già nel egli pubblica, come suo primo
testo letterario, nella rivista Águia, il frammento Na floresta do alheamento (Nella fore-
sta dello straniamento), con l’indicazione che esso appartiene al Livro do Desassossego;
e nel , tre anni prima della morte, in una lettera all’amico Gaspar Simões, espo-
nendo il piano di pubblicazione che prevede per la sua opera, vi include anche il Libro
dell’inquietudine, che egli esplicitamente attribuisce a Bernardo Soares. E in un punto
di tale piano si legge l’avvertenza che Bernardo Soares è un semieteronimo, poiché ha
personalità simile alla sua, ma mutila: «Sono io, meno il raziocinio e l’affettività».
Il nucleo originale di appunti per il Livro è costituito da un blocco di fogli, in parte
dattiloscritti, in parte manoscritti, di cui solo alcuni datati, suddiviso in cinque buste
con l’indicazione autografa «L. de D.». Oggi, nel Fondo pessoano custodito nella
Biblioteca Nazionale di Lisbona, troviamo ben nove buste relative a quest’opera, poi-
ché i vari editori che si sono succeduti hanno pensato bene di aggiungere frammenti a
frammenti, ritenendoli, ciascuno per ragioni diverse (tematiche, cronologiche ecc.),
appartenenti al Livro.
Un abbozzo di libro, un progetto di libro. Per Pessoa, il sogno di un libro. Per gli
editori, non un’ipotesi di libro, ma il Libro.
Quanto al Faust, nel Eduardo Freitas da Costa, cugino di Fernando Pessoa,
pubblica settanta pagine di frammenti inediti in verso libero ritrovate nella già allora
mitica arca, e selezionate con criteri a dir poco discutibili. Per più di trent’anni l’esi-
stenza di un coacervo faustiano molto più sostanzioso doveva passare inosservata e i
frammenti, che costituiscono l’opera, avrebbero visto la luce solo nel a cura del
brasiliano Duilio Colombini (edizione anch’essa ben poco affidabile per vari aspetti) e
nel a Lisbona a cura di Teresa Sobral Cunha, con il titolo Fausto e il sottotitolo
Tragédia subjectiva (Pessoa, ).
I problemi che si presentavano per la ricostituzione del dramma, e che a mio avvi-
so non sono stati ancora del tutto risolti e forse non potranno mai esserlo, erano mol-
teplici e di vario genere.
Innanzitutto, l’interpretazione della grafia pessoana. Ebbene, dei documenti fau-
stiani del Fondo Pessoa, appena sette sono dattiloscritti e datati, il resto è redatto a
mano e non reca segno di datazione. Chi ha esperienza di manoscritti pessoani, marto-
riati, come si è detto, da cancellature e reiscrizioni, può capire il timore e il rischio cui
va incontro chi si avventura in quella foresta di segni: e l’incomprensione o la cattiva
interpretazione della prima parola di un frammento può scatenare un’ondata di asso-
ciazioni spurie nei confronti di successivi segmenti testuali o di singole parole anch’es-
si di dubbia lettura, e così il testo originario viene sfigurato in una versione che resterà
in attesa del felice momento di una decifrazione riparatrice o custodirà per sempre il
suo segreto inaugurale.
Inoltre, anche per il Fausto, bisogna fare i conti con la poetica pessoana del fram-
mentario: «I miei scritti, tutti, sono rimasti incompiuti; si sono sempre interposti nuovi
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pensieri straordinari, inescludibili associazioni di idee il cui termine era l’infinito. Non
posso evitare l’odio che i miei pensieri hanno nel portare a termine qualsiasi cosa». E
del resto, ciò che designiamo come opera pessoana, lo abbiamo visto, è in realtà un
insieme di opere-frammenti al contempo autonomi e collegati gli uni con gli altri per il
fatto che ognuno di essi è la manifestazione di un’esperienza unica e inesauribile: ovve-
ro, quella dell’assenza dell’Io a se stesso e al Mondo.
Di qui la difficoltà di articolare in successione, in una dinamica d’insieme, i vari
frammenti, di cui solo dieci, su , lo ripeto, recano un riferimento cronologico: e l’im-
portanza di una datazione, tra le altre informazioni possibili, ha un peso significativo
nell’abbordaggio, anche se periferico, del processo di formazione di un testo.
Nonostante alcuni di questi dieci frammenti datati portino l’indicazione degli anni
, , , tutti gli indizi ricavabili dalla grafia e dai materiali utilizzati (inchiostro
e carta e tipo di penna o di lapis) oltre che, evidentemente, i pochi frammenti esplici-
tamente assegnati a quest’epoca, fanno pensare che la presenza del Faust cominci ad
abitare Pessoa fin dall’età di vent’anni (la data più antica è del ), e prosegua incom-
bente, sebbene divergendo dalla prima matrice strutturale, durante la grande esaltazio-
ne eteronimica e negli anni seguenti.
La produzione di testi per un Faust deve essere iniziata in un tempo in cui era
molto forte in Pessoa un primo fascino per Goethe, e inoltre un’ansia giovanile di emu-
larne la grandezza: il poeta si propone di elaborare una sorta di replica, in portoghese,
alla maestosa saga del romanticismo tedesco. Ne deriva il progetto di un Primeiro, di
un Segundo e di un Terceiro Fausto, cui alludono alcune annotazioni autografe: un dise-
gno grandioso da realizzare in quella periferia d’Europa, dove del resto il mito contava
già una tradizione antichissima, con un certo Frate Gil che – proprio come il primitivo
Faust tedesco – si era invischiato in patti demoniaci; un Faust ante litteram, sulla cui
esistenza fantastica, definita da Pessoa «like a real Faust-legend», avevano già prima
disquisito il romantico Almeida Garrett e il grande Eça de Queirós.
Di questo primo periodo creativo sono quasi sicuramente i frammenti che conten-
gono più numerosi segni di inquadramento scenico e che si presentano più cripto-
goethiani: ovvero quelli che immaginano Faust nel suo laboratorio, interrogandosi sulla
vita, la morte, il mistero infinito ecc., i dialoghi embrionali con i discepoli, l’esperienza
amorosa vissuta con Maria, il suo «orrore metafisico dell’Altrove», l’ansia così tipica
dell’eteronimo Álvaro de Campos di sperimentare ogni cosa, quella «terribile eccita-
zione della vita» che il vecchio gli offre in istanze di morte, e i vari momenti, truculen-
ti, delle scene nella taverna che evocano efficacemente l’atmosfera di Auerbach. E di
questo primo periodo sono probabilmente anche i Planos e projectos editoriais che si
riferiscono ai tre Faust.
Ma a mano a mano che Pessoa avanza nell’elaborazione, si va gradualmente impo-
nendo il monologo, il discorso solipsista che è il punto più alto della riflessione Pessoa-
altro Faust. E la preoccupazione drammatica obbediente a un disegno previo va sfu-
mando in favore di una deriva di tipo filosofico così ortonimamente Pessoa di altri
momenti poetici, che il monologo prolungato e analitico sostanzia e nutre (cfr.
Gusmão, ; Lanciani, ).
Dalla totalità dell’acervo faustiano, così come è disponibile oggi (ovvero così come
è stato organizzato dall’ultimo editore), emerge un’unica dramatis persona – le altre voci
non ne sono che rifrazioni –, che nell’erranza del suo stesso itinerario interiore si per-
corre, si indaga, si esplora, si inquisisce, si isterilisce: «Pensar, pensar e não poder
viver». La tragedia soggettiva, che è la vera protagonista della condizione esistenziale
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Ebbene, cosa c’entra tutto quel che precede con la traduzione, o meglio con la tra-
ducibilità dell’opera pessoana? C’entra, e a pieno titolo. Poiché in realtà quel che un
traduttore verte dal portoghese in altra lingua non è il testo di Pessoa, che non esiste
come tale, ma è sempre la traduzione di una costruzione, o delle costruzioni create
dai vari editori, portoghesi e no, sulla base di un materiale fluido, inafferrabile nel suo
continuo divenire, in fin dei conti impenetrabile, qual è appunto il materiale custo-
dito nella mitica arca: sicché, dal Panarese, il primo in Italia ad essersi occupato del
fenomeno Pessoa, seguito poi dal Tavani e dal Tabucchi, e oggi da uno stuolo di tra-
duttori che sarebbe lungo menzionare, ciò che il lettore italiano legge firmato Pessoa
è tutt’altra cosa.
Ma in fondo quel che agli austeri filologi appare come crimine di lesa maestà,
immagino che invece diverta nell’alto dei cieli il grande simulatore, il creatore di
maschere, che prosegue in tal modo il suo viaggio nella persona degli altri, di eteroni-
mi che oggi si chiamano Ivo Castro, João Dionísio, Teresa Rita Lopes, Gaspar Simões,
Maria Aliete Galhoz, Teresa Sobral Cunha, Jerónimo Pizarro ecc., attraverso i quali egli
continua a perseguire il disperato tentativo di ritrovare, attraverso l’eterogeneità – tutta
giocata tra un io che si traveste da altri e da altri che sono io –, una sua omogeneità
smarrita. Attraverso i suoi editori, insomma, Pessoa continua a mascherarsi, a trave-
stirsi, per rivendicare, anche da morto, il diritto di “inventarsi la vita”, senza soggiace-
re alle costrizioni della storia, cercando ostinatamente e decisamente di opporre al
potere e alle sue norme una diversa grammatica della rappresentazione: una grammati-
ca che sovverte e mente, ben sapendo di sovvertire e di mentire.
Bibliografia
[]
Si può contattare un esperto della materia / É possivel contactar um experto do assunto
(perito/especialista)
[]
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pria mensagem um ficheiro ou uma coligação (ligação)
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delle strutture e dell’uso. In effetti, dall’esame dei testi tradotti dal portoghese verso
l’italiano emerge con evidenza che il calco si produce anche quando il traduttore si
accinge a rendere il testo fonte nella propria lingua madre, l’italiano. Si tratta talvol-
ta di interferenze che accomunano la traduzione all’interpretazione simultanea. Nel
caso degli interpreti, tuttavia, la tendenza al calco nel passaggio da una lingua roman-
za come il portoghese verso l’italiano viene comprensibilmente ad accentuarsi per le
condizioni specifiche dell’interpretazione e in modo particolare per i vincoli tempo-
rali, ossia per la necessità di una rapida resa in italiano dei segmenti testuali porto-
ghesi appena ascoltati. Questi, in un certo qual modo, si impongono all’attenzione
dell’interprete e lo trascinano facilmente verso il calco (di tipo fonetico, sintattico e
lessicale) o comunque verso una riproduzione pedissequa delle forme e delle struttu-
re presenti nel testo di partenza. A ciò si ovvia, o almeno si dovrebbe, nell’interpre-
tazione simultanea, mediante l’acquisizione di una tecnica che include strategie di
attesa che permettono di “staccarsi” dalla struttura superficiale del testo di partenza
e di scegliere una riformulazione accettabile nella lingua di arrivo sfruttando il con-
testo precedente e successivo al segmento da interpretare. Se, nell’interpretazione
simultanea, il peso e l’influsso delle forme linguistiche portoghesi si può spiegare per
i vincoli temporali e per l’impossibilità di un monitoraggio sull’intero testo, ciò sem-
brerebbe meno prevedibile e plausibile nella traduzione scritta verso l’italiano dove
il traduttore non è incalzato dal tempo o dalle porzioni di testo che fluiscono senza
soluzione di continuità. Egli potrebbe, anzi, trarre vantaggio dalla possibilità di gesti-
re il testo nella sua interezza e complessità per offrire una traduzione appropriata e
fruibile per il destinatario. Ma questa ipotesi non sembra confortata dall’osservazio-
ne di alcuni fenomeni rilevati in taluni dei testi tradotti. In questi si riscontra, in effet-
ti, un tipo di interferenza che si concretizza in una serie di calchi a livello lessicale e
in costruzioni abbastanza “lontane” dalla lingua italiana. Si evidenzia, in particolare,
la selezione di parole più o meno imparentate etimologicamente ma veicolanti un
significato diverso o comunque non pertinente alla situazione specifica. In tali casi, la
competenza del traduttore a livello di conoscenza del lessico della lingua di partenza
e di quello della lingua di arrivo è determinante, così come la capacità di usare in
modo efficiente il dizionario monolingue, o quanto meno l’abilità nell’avvertire il
pericolo di cadere in un calco e di scegliere una soluzione alternativa attraverso l’uso
di termini sinonimici o di espressioni parafrastiche. Così, nei testi esaminati, si osser-
vano numerosi calchi lessicali come in:
[]
É aqui que começa a face negra de todo o processo / È qui che comincia la faccia nera
di tutto il processo (il lato oscuro)
[]
A brutal exploração de que são vítimas os imigrantes / La brutale esplorazione di cui
sono vittime gli immigrati (sfruttamento)
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[]
Ou que o possam dissuadir a tentar arranjar trabalho / O che lo possano dissuadere a
tentare di trovare lavoro (dissuadere dal tentare)
In questo caso l’uso inappropriato della preposizione “a” in italiano non viene infatti a
toccare la comprensibilità del segmento testuale nel quale è inserita.
In altre occasioni, invece, con determinate parole di funzione, ad esempio i pos-
sessivi, il calco produce una rottura della coesione frasale o interfrastica. Tale rottura
non viene ad incidere sulla coerenza testuale allo stesso modo. Infatti, se in taluni casi,
il “problema” è isolabile a livello del sintagma interessato, in altri il calco ha un effetto
più esteso, coinvolgendo la catena sintagmatica, la coesione e la coerenza testuale. Al
lettore spetterà il compito di “rettificare” la catena anaforica spezzata nonché di rico-
struire, se possibile, il senso veicolato dal segmento testuale in questione:
[]
A qualquer Estado assiste […] o direito de poder limitar a entrada no seu território de
imigrantes. As diferentes leis sobre imigração estabelecem os critérios da sua entrada /
A ogni Stato spetta […] il diritto di poter limitare l’ingresso degli immigrati nel proprio
territorio. Le diverse leggi sull’immigrazione stabiliscono i criteri del suo ingresso (del
loro ingresso)
Alla luce degli esempi sopra menzionati si constata che con l’interferenza a livello di
parole grammaticali si può passare, in una scala crescente di gravità, da una resa impre-
cisa e “innaturale” dove il calco evidenzia un uso che il parlante/scrivente nativo italia-
no escluderebbe dal proprio repertorio ma che non intacca la coesione e la coerenza
del messaggio veicolato, a situazioni inaccettabili in cui viene provocata una grave
distorsione del significato in seguito alla traduzione erronea che investe il senso di una
frase o di una parte ancora più estesa del testo.
Da quanto si è potuto constatare, a partire dalle riflessioni sull’incidenza delle inter-
ferenze e dei calchi lessicali e sintattici nelle traduzioni dal portoghese verso l’italiano in
soggetti di lingua madre italiana, emerge l’urgenza di ribadire l’opportunità del supera-
mento di un approccio alla traduzione tendente alla transcodifica (Garzone, , pp.
-). Occorre insomma insistere affinché i traduttori che si stanno formando alla pro-
fessione si orientino maggiormente verso una reale, profonda e soprattutto autonoma
comprensione del testo fonte. Al riguardo, sembra imprescindibile uno sforzo di elabo-
razione che tenga conto sia del livello analitico e della rappresentazione linguistica dei
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singoli elementi testuali che del livello globale, ossia della rappresentazione semantica e
delle situazioni evocate dal testo stesso, mettendo in relazione le singole informazioni
con il contesto linguistico e con le proprie conoscenze dell’argomento trattato e più in
generale con le conoscenze del mondo (Zanetti, Miazza, , pp. -). Per quanto
attiene alla riformulazione in italiano sarà opportuno insistere sul superamento di un
approccio mot à mot verso un modello traduttivo che si muova piuttosto verso la
“riscrittura” (Garzone, , p. ).
Resta comunque il fatto che determinate soluzioni e deviazioni rispetto ad even-
tuali soluzioni traduttive riscontrabili in testi originali italiani si debbano alla “natura”
particolare della traduzione, atto che Neubert definisce «di creatività derivata» (ivi, pp.
-) il che assottiglia i margini di manovra del traduttore, riducendo e “rendendo
meno disponibile” in qualche misura la sua competenza della lingua madre italiana. Ciò
nei testi analizzati ha messo in evidenza dei problemi di riformulazione non solo del les-
sico ma anche a livello della correttezza di certe forme grammaticali denominate gene-
ricamente “parole di funzione”, nella maggior parte dei casi preposizioni e aggettivi
possessivi. In ragione di ciò, sembra alquanto raccomandabile, sia per trasmettere cor-
rettamente le intenzioni dell’autore del testo fonte che per garantire una fruizione age-
vole al lettore del testo tradotto, insistere per sviluppare nel traduttore una strategia di
controllo sul testo nella sua globalità, un approccio che affronti le problematiche e le
caratteristiche macrotestuali che coinvolgono il contenuto e la funzione del testo stes-
so (Wills, , pp. -). D’altra parte è ineludibile un approccio microtestuale che
renda il traduttore sensibile a quegli elementi e componenti del testo che apparente-
mente meno “significative” contribuiscono in modo essenziale alla coesione e alla coe-
renza del testo nelle sue interconnessioni.
Note
. Gli esempi che seguono sono tratti da un corpus di traduzioni svolte da studenti del terzo
anno del corso di laurea triennale presso la SSLMIT di Trieste, rispettivamente traduzioni dall’italia-
no verso il portoghese (esempi , , , e ) e dal portoghese verso l’italiano (esempi , , e ).
Bibliografia
SLAVISTICA
Maria Carella
Iryna Borusovska
Simonetta Simi
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Possiamo cominciare a parlare della vodka citando una frase che racchiude in sé quat-
tro icone dell’immaginario contemporaneo: la vodka, un personaggio-icona, un attore-
icona e un altro ingrediente, il Martini, diventato in seguito quasi icona di un’altra frase,
pronunciata da un altro personaggio. Si tratta della celebre battuta, «Agitato, non
mescolato», di James Bond che ordina il suo Vodka Martini. La frase è abusata, ma nes-
suno riesce a non pronunciarla quando vuole bere il suo cocktail. James Bond è un per-
sonaggio-icona del cinema sin dagli anni Sessanta, è diventato icona il suo interprete,
Sean Connery, sex-symbol per decenni; in seguito, anche il Martini rimanderà a un altro
sex-symbol-icona degli ultimi anni, George Clooney, al quale, per una pubblicità, viene
rivolta una frase altrettanto abusata: «No Martini, no party». Si è creata così una cate-
na, un turbinio di icone una dietro l’altra, partendo da un solo elemento: la vodka.
Il nome vodka per questa bevanda, già di per sé un’icona della Russia, si è affer-
mato relativamente tardi nella lingua russa e non aveva il significato che oggi diamo a
questa parola, che si è invece “fissato” solo all’inizio del Novecento. Lentamente, la
parola vodka che «fino al XIII secolo aveva il significato di “acqua” ha cominciato a tra-
sformarsi ed è passata a indicare la bevanda nazionale russa» (Pochlëbkin, , p. ).
Ma il cammino è stato lunghissimo e complesso.
Vodka nella lingua russa è un diminutivo del vocabolo vodà (acqua), e potremmo tra-
durlo in italiano con “acquetta”. Ma com’è che l’acquetta è diventata la denominazio-
ne di uno dei distillati alcolici più forti? Quando osserviamo una bottiglia di vodka
notiamo subito che il liquido che la riempie è trasparente, puro, simile all’acqua, e si
può pensare che questa somiglianza possa aver giustificato la scelta del nome, in forma
di diminutivo.
Il termine vodka è nato molto tardi, e prima del Quattrocento non ci è pervenuto
nessun documento che riporti questo vocabolo, assente da tutti i dizionari etimologici
della lingua russa e della lingua anticorussa, dove appare soltanto il vocabolo vodà.
Nel dizionario di Vladimir I. Dal’, il più completo e particolareggiato, non è inserita la
voce autonoma “vodka” nel significato specifico di bevanda distillata dai cereali, e pur
basandosi su «materiale lessicale anteriore agli anni Sessanta dell’Ottocento il duplice
riferimento dell’autore al concetto di “vodka” attesta che la parola “vodka” fino alla
seconda metà del secolo scorso non era ancora ampiamente diffusa col significato di
bevanda alcolica, per quanto già nota e impiegata nel popolo» (Pochlëbkin, , p. ).
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Il termine “vodka” tuttavia si è rafforzato saldamente nel lessico medico, ma per molto
tempo non è entrato nel linguaggio quotidiano, né tanto meno in quello più ufficiale,
per indicare la vodka-bevanda, solo perché in forza di quelle stesse tradizioni medieva-
li […] una bevanda alcolica doveva conservare la denominazione di “vinó”. […] nel
Cinquecento la vodka […] aveva nomi diversi: “vinó” come bevanda e “vodka” come
farmaco (ivi, p. ).
Lentamente, la vodka viene sempre più associata alla bevanda e questo a cominciare dal
XVII secolo. Molto esplicita è una supplica dell’archimandrita Varfolomèj del dove
si legge: «Lo Starec [monaco anziano] Efrém […] ora vive in una cella, e da bere, il
vino e la votka [sic] glieli portano di nascosto i ragazzi» (ivi, pp. -). Ma, a parte que-
sto esempio, i russi continuarono ancora a usare il termine vinó per indicare la vodka.
«Russkoe vinó» era la denominazione ufficiale che appariva nei documenti che tratta-
vano del commercio della vodka. Pur non utilizzando la definizione russa, preferendo
il più noto vinó, l’aggiunta di russkoe già indicava una sorta di distinzione nazionale che
si voleva evidenziare. I viaggiatori che si recavano nello Stato della Moscovia, dopo aver
assaporato e apprezzato il gusto di questa bevanda, non sapendo come chiamarla, usa-
vano – come facevano i tedeschi e gli svedesi – addirittura la denominazione della pro-
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pria lingua per indicare i distillati di cereali. Johann de Rodes, uno svedese vissuto a
lungo in Russia la chiamava hwass, da non confondere con un’altra bevanda russa
molto antica, il kvas. Con la parola hwass de Rodes si riferiva effettivamente alla vodka,
in quanto se pur hwass fa pensare foneticamente a Wasser (acqua), semanticamente «in
svedese antico hwass indica “qualcosa di acuto, affilato, penetrante, forte”» (ivi, p. ),
anche se praticamente gli stranieri di Mosca dell’epoca, soprattutto di origine tedesca,
intendevano la parola hwass nel senso di Wasser. In qualche modo si era creata lingui-
sticamente l’equivalenza russa di vodà-vodka. De Rodes quindi, per questa bevanda
distillata dai cereali, «ha cercato nella lingua svedese una parola che per senso signifi-
casse “forte”, ma che nel gergo specifico degli stranieri residenti a Mosca significasse
“acqua”. Nel complesso l’“acqua forte moscovita” rendeva molto bene il concetto di
“vodka”, intraducibile in tutte le altre lingue» (ibid.).
Nel corso del Settecento il termine vodka è stato usato anche in documenti ufficiali,
ma indicava bevande alcoliche aromatizzate, colorate, con gusti diversi, all’anice, al pepe-
roncino, alle bacche, al timo ecc., che venivano quindi sottoposte a doppia distillazione,
chiamata “vodka raddoppiata”. La vodka diventa pian piano una bevanda raffinata, sia
nel senso della preparazione – con una distillazione lentissima, che non doveva superare
il % del volume – sia di élite. Da Pietro I a Caterina II, lo Stato si era preoccupato di
non trasformare la vodka in prodotto di consumo e di mercato, lasciando il privilegio di
occuparsene e “servirsene” alla sola nobiltà, che prometteva ai sovrani di conservarla
come “privilegio di classe”. Ciò ampliò «i privilegi della nobiltà in materia di distillazio-
ne casalinga, liberandola da qualsiasi controllo e tassa, […] tutta la produzione di vodka
doveva servire unicamente per le esigenze personali, domestiche, familiari della nobiltà»
(ivi, p. ). In queste particolari condizioni la qualità della vodka fu straordinariamente
elevata, ogni famiglia aristocratica faceva a gara per produrre la vodka più pura, con
caratteristiche diverse, tanto da mettere in secondo piano i vini e i famosi cognac france-
si. La stessa «Caterina II non solo non si vergognava di offrire una vodka simile a sovrani
del calibro di Federico II di Prussia e Gustavo III di Svezia, per non parlare dei signorot-
ti di Italia e Germania, ma la inviava come bevanda esotica e ricercata anche a un perso-
naggio come Voltaire, che ben s’intendeva di vini francesi» (ibid.).
La vodka sin dal suo apparire è sempre stata una proprietà statale.
Tra il e il in Russia si “inventò” e cominciò a essere prodotta quella che
sarà la vodka, grazie alla fermentazione e distillazione dei cereali ricavati dalla segale.
Contemporaneamente «viene introdotto il monopolio sulla produzione e sulla vendita
non soltanto del distillato di cereali, ma anche di tutte le altre bevande alcoliche, idro-
mele e birra, mai tassate prima. La produzione di alcolici dal diviene una regalìa
stabile (fissata documentalmente), statale, dello zar» (ivi, p. ).
Secondo Pochlëbkin la distillazione potrebbe essere iniziata già tra il e il ,
ma non vi sono documenti che ne attestino la nascita, mentre il fatto che «la distilla-
zione fosse una pratica corrente tra il e il è confermato dall’insieme dei fatti
storici, economici, sociali, di costume, e da ipotesi si trasforma in conclusione del tutto
fondata» (ivi, p. ).
La produzione di questo nuovo distillato si diffuse tra la popolazione, il prodotto
aveva «già acquisito un preciso standard e […] una qualità di livello ben stabilito»
(ibid.), il che fa pensare a una sua distillazione precedente alle date indicate da
Pochlëbkin. La qualità aumentava e di conseguenza aumentò il consumo tra la popola-
zione, per regolarne la produzione fu introdotto il monopolio statale, che fu imposto
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per la prima volta tra il e il . Vennero tassate per la prima volta anche altre
bevande alcoliche, molto diffuse e prodotte ancor prima della vodka, come l’idromele
e la birra. Le monopolizzazioni furono altalenanti, e non sempre molto rigide: se ne
ebbero cinque sino al , e sempre motivate dal forte aumento dell’alcolismo tra la
popolazione, ma anche da motivi economici. Lo Stato a volte delegava produttori o
nuove aziende produttrici di bevande alcoliche a usufruire degli introiti, ma questi non
venivano corrisposti allo Stato nelle cifre stabilite.
I termini principali con cui veniva indicata la vodka furono diversi, ufficiali e quo-
tidiani, ma anche gergali, come gorjacˇee vinó (vino che brucia), apparso nel , e alter-
nandosi ad altri, resistette sino alla fine del XIX secolo e poco oltre; gor’koe vinó (vino
amaro), attestato nel , scomparso e poi riapparso verso la fine del XVIII secolo; ogon’
da vodà (fuoco e acqua), sorto nell’ambiente della nobiltà o dei piccoli proprietari,
quindi nel Settecento, quando la vodka era soprattutto una produzione privata, come
abbiamo visto, e di ottima qualità. Lo stesso valeva per la chlebnaja slezà (lacrime di
cereali), che nonostante il nome, era una vodka prodotta dalla grande aristocrazia del-
l’Ottocento, quindi di qualità eccellente. Altri erano comunque i nomi, e il più delle
volte per denominare un prodotto di pessima qualità, come la ben nota samogon o
vodka fatta in casa, in proprio, come suggerisce il prefisso sam (se stesso, proprio), ter-
mine apparso all’inizio del Novecento che indicava appunto un distillato fatto in manie-
ra autonoma, con mezzi e tecniche casalinghi, prodotto il più delle volte illegalmente,
ma soprattutto da chi la vodka non poteva acquistarla, però non poteva più farne a
meno. Termini che si susseguivano, si sostituivano l’uno con l’altro, ma non riuscirono
a debellare il nome “vodka” che, al contrario, si rafforzò e proprio tra la fine dell’Ot-
tocento e l’inizio del nuovo secolo sostituì completamente lo stesso termine vinó.
L’etichetta (Этикетка)
Sappiamo che l’etichetta è un «cartellino munito dei dati che permettono di riconosce-
Nella lingua russa il sostantivo Этикетка (etiketka) viene dal tedesco Etikett, paro-
re o classificare un oggetto o un contenuto» (Devoto, Oli, , s.v.).
la penetrata in Russia sin dal , o indirettamente dal francese étiquette (antico fran-
Il termine этикет sempre dal tedesco Etikett (XVIII sec.) e dal francese étiquette, si dif-
cese estichier).
a motivo del consumo locale dei prodotti, che la gente conosceva bene, e anche se ven-
duti in barattoli, cartoni o bottiglie non necessitavano di nessuna informazione. Anche
la vastità del territorio russo faceva sì che i prodotti raramente oltrepassassero i confi-
ni della propria regione dove venivano distribuiti e, se pure si fossero superati, non si
sentiva ancora la necessità di usare etichette o semplici indicazioni scritte.
Nel caso di prodotti confezionati da un farmacista, le indicazioni non potevano
essere ritenute “etichette”, in quanto rappresentavano soltanto una forma di utilità e
sicurezza dello stesso “produttore” (il farmacista) per far riconoscere i suoi composti.
L’etichetta appare quindi – non solo in Russia – quando nasce la concorrenza tra
prodotti uguali e il mercato ha necessità di distinguerli, e i proprietari devono attirare
il compratore elencando succintamente, oltre il nome, le caratteristiche del prodotto.
Non è ancora sorta la pubblicità su larga scala che servirà alla grande industria per ven-
dere i propri prodotti, ma non erano «più i tempi in cui i consumatori cercavano i pro-
dotti. L’affermarsi della civiltà industriale a livello dei consumatori aveva aperto una
nuova era commerciale: quella in cui i prodotti cercavano i consumatori» (Buttitta,
Lupo, Troisi, , p. ).
In Russia l’etichetta appare per la prima volta subito dopo il , anno fondamentale,
perché viene abolita la servitù della gleba, e gli spazi russi in qualche modo si “restrin-
gono”, e gli spostamenti sono più frequenti. Se si muovono le persone, vuol dire che si
costruiscono nuove strade, ferrovie e cominciano a viaggiare anche le merci. Curiosa-
mente è proprio in Siberia, territorio enorme e all’epoca difficilmente raggiungibile, che
appare una prima etiketka, negli anni della cosiddetta “febbre dell’oro”. Sulle etichette
viene indicato il nome del prodotto, del padrone, e in alcuni casi appare già un segno,
un marchio di fabbrica. Sono etichette che reclamizzano la vodka, vino e altre bevande,
sono molto varie, per forme e disegno, alcune in bianco e nero, semplicissime, che ripor-
tano le indicazioni essenziali (FIGG. -), ed altre molto colorate, che indicano il tipo,
come ad esempio la “Vodka Rozovaja Sladkaja” (Vodka rosée dolce) (FIG. ). L’aggetti-
vo rosée (rosata), fa pensare che sia stata aromatizzata con qualche frutto di bosco. In
basso è scritto il nome della fabbrica, cioè del proprietario, Judin, e ancora più sotto il
nome della città, Krasnojarsk. Tutte queste informazioni circondano un disegno classi-
cheggiante, due puttini che reggono dei medaglioni e in basso una testa: di Bacco? I
colori predominanti sono solo due, il rosso e il giallo-oro, tecnica, quella dei due colo-
ri, che si conserverà quasi sempre nelle etichette della vodka, anche negli anni dell’U-
nione sovietica. Molto curiosa è l’etichetta “Vodočnyj Zavod Jarilova” (Vodka Fabbri-
ca Jarilov), dove una buffa coppia (FIG. ) si appresta a un picnic con vodka. I colori
sono uguali alla precedente, il che fa pensare che sia stata realizzata dalla stessa tipo-
grafia. Un esempio di etichetta, molto semplice nella sua composizione, reclamizza un
liquore prodotto in Ucraina a base di lampone e presenta una doppia scritta, con carat-
teri cirillici, “Kievskaja Nalivka – Malinovaja”, e in caratteri latini, “Liqueur Imperial”.
Lo sfondo è semplicissimo, molto lineare, i colori sempre due, giallo-oro e rosa e un
medaglione centrale. La stessa semplicità la ritroviamo nell’etichetta che reclamizza una
“Vodka Bal’zamnaja”, della fabbrica Danilov, sempre di Krasnojarsk, con due colori
prevalenti, un turchese centrale, che fa da sfondo ad un edificio. L’aggettivo bal’zamnaja
(balsamica) informa che la vodka possiede qualità curative.
Nella città di Krasnojarsk il luglio venne aperta la prima tipografia. Qui veni-
va stampato il quotidiano locale, cioè del governatorato, l’“Enisejskie gubernskie vedo-
mosti” (Bollettino del governatorato dello Enisej). Seguirono altre tipografie dove si
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pubblicavano, oltre a giornali e riviste, anche opuscoli con notizie varie e fogli con pub-
blicità e annunci. Ma l’etichetta vera e propria ancora non veniva stampata. Un mer-
cante dello stesso governatorato nel XIX secolo le faceva stampare a Mosca, oppure a
il nome: F. F. Sivers (Ф. Ф. Сиверс), o F. Ejler (Ф. Эйлер). Solo alla fine dello stesso
Stoccolma. Le tipografie di Mosca erano in mano a stranieri come indica chiaramente
Tra il e il i prodotti alcolici furono nuovamente, e in modo drastico, mono-
polizzati dallo Stato; furono create etichette molto semplici, senza molta attrattiva, sem-
pre uguali, standard. E proprio “Russkij Standart” fu una delle marche di vodka russa
più prestigiose, apparsa già nel . Interrotta la produzione dopo la Rivoluzione d’Ot-
tobre, oggi è ritornata sul mercato con lo stesso nome, ed è una delle nuove vodke,
diciamo, postsovietiche.
Nella tipografia statale di Krasnojarsk si stampavano etichette per bevande alcoli-
che, ma anche per bottiglie di acqua minerale o naturale.
Dal , con il nuovo regime sovietico, le etichette dovevano rispondere a precise
indicazioni, diverse per i diversi tipi di bevande, e dal , il GOST, l’ente statale adi-
bito alla cura e distribuzione, anche all’estero, delle bevande alcoliche e no, diede indi-
cazioni precise per la composizione dell’etichetta, e si cominciò a parlare di design. La
standardizzazione sovietica aveva creato comunque etichette e bottiglie di estrema ele-
ganza come la vodka “Moskovskaya Osobaya”, che sarà la vera icona delle vodke
sovietiche che si affermerà all’estero. Subito dopo la perestrojka, ma soprattutto dopo
la caduta del regime sovietico, negli anni Novanta, le etichette subiscono un processo
parallelo, evolutivo, ma ne vengono create anche di pessimo gusto: «Sul mercato della
confederazione russa appaiono etichette di alta qualità per il materiale utilizzato, ven-
gono introdotti audaci progetti dal punto di vista del design, e utilizzate nuove tecno-
logie. L’etichetta diventa chiara, interessante e ricca d’informazioni».
Siamo quindi in pieno mercato e concorrenza.
caso. Tutti i mezzi moderni della tecnologia, dalla carta alle incisioni, alle applicazioni
in rilievo, al vetro stesso hanno lo scopo di attirare il compratore, il quale di fronte a
tante bottiglie deve essere attratto solo dall’“etichetta giusta”. Come accade in Occi-
dente, l’etichetta deve ispirare fiducia nel prodotto e la condizione è una sola: il pro-
dotto deve essere di alta qualità. La nuova etichetta deve essere originale nella compo-
sizione, vale a dire difficilmente copiabile, ed ecco vengono in aiuto immagini e stam-
pati in rilievo, a volte anche sul tappo, la carta metallizzata ha riflessi e sfumature dora-
te e argentate. L’etichetta in questo modo colpisce immediatamente il compratore che
riconosce subito il prodotto di qualità, potrà evitare le imitazioni e contraffazioni e pro-
verà soddisfazione a riconoscere l’etichetta giusta.
Prima di addentrarci nella giungla delle etichette e analizzare quelle che sono state
create negli anni Novanta – quando la Russia postsovietica, accanto alle più belle e
ricercate, ha immesso sul mercato anche vodke di scarsa qualità con relative etichette
banali o semplicistiche – vediamo quelle che sono state le etichette della vodka sovieti-
ca. Dopo la Rivoluzione molte fabbriche di bevande alcoliche furono chiuse, di conse-
guenza alcune marche di vodka di altissima qualità, come la “Russkij Standart”, termi-
narono la produzione o furono sovietizzate. Alcune, come la “Ikon”, di cui si parlerà
più dettagliatamente in seguito, rimasero in produzione per poi conquistare il mercato
americano pur rimanendo vodke russe, prodotte in Russia.
Riguardo alla vodka sovietica, il primo luogo comune da respingere è che l’Unione
Sovietica abbia prodotto solo merce standardizzata, ripetitiva, noiosa e priva di fanta-
sia. Un po’ di conservatorismo nella ripetitività di alcune immagini e definizioni fu ine-
vitabile, ma dobbiamo sempre tener conto che ci troviamo a che fare con un popolo
ricco di talento in campo artistico, e la creazione di una semplice etichetta non doveva
presentare difficoltà insormontabili. Ciò che mancava erano la tecnologia e le risorse
avanzate, e in tale situazione l’URSS non poteva competere con le tecnologie all’avan-
guardia dei ricchi paesi occidentali.
Inizialmente, come abbiamo visto, la vodka è stata chiamata con i termini più vari,
come stolovoe vinó (vino da tavola), denominazione che si preferì stampare sulle prime
etichette, sino alla fine del XIX secolo. La vodka per eccellenza, sin dai suoi primi anni
di produzione, è stata sempre accompagnata da un aggettivo che la definiva in manie-
ra precisa: moskovskaja. Tutti immediatamente la associamo a un prodotto made in
USSR: è la vodka con l’etichetta verde, la più esportata, soprattutto dopo la Seconda
guerra mondiale. Essa è la più antica tra i distillati dell’era sovietica, ma la sua denomi-
nazione è legata alla capitale, non tanto per un omaggio alla città, quanto per una serie
di circostanze ben precise.
A cominciare dal XV secolo, Mosca era diventata il centro politico della Russia e i con-
tatti politici e soprattutto economici con i paesi più importanti dell’Europa occidentale
diventavano sempre più intensi. Lo Stato moscovita era molto legato a Bisanzio, per moti-
vi storici e religiosi, aveva ambasciatori in India, Persia e Turchia e si trovava sulla rotta
verso l’Oriente, percorsa da ambasciatori e viaggiatori provenienti dagli Stati occidentali.
Il nuovo distillato, che ancora non era chiamato vodka ma chlebnoe vinó (letteralmente
vino di grano), si stava sempre più diffondendo e si sentiva la necessità dell’introduzione
di un monopolio che ne controllasse la produzione e incamerasse gli enormi introiti. Tutto
ciò sarebbe stato possibile solo in uno Stato centralizzato, assolutistico, autocratico, cioè a
Mosca. L’espressione moskovskaja vodka nata nel XVII secolo si rafforzò successivamente
pian piano sino al XIX secolo, quando il nome vodka si fissò definitivamente. La produ-
zione subito dopo la sua prima distillazione e la coscienza che era stato creato un prodot-
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to nuovo, diverso dagli altri distillati o bevande alcoliche come la birra o l’idromele, por-
tarono a migliorarne sempre più la qualità e, se il prodotto era stato distillato in altri luo-
ghi, il fatto che venisse denominato moskovskaja vodka, come capitava per altri prodotti
tipici, significava «garanzia, riconoscimento, elogio della qualità» (Pochlëbkin, , p. ).
A rafforzare questa convinzione, molti anni dopo, «nel periodo di sviluppo del capitali-
smo, quando si cominciò a produrre vodka quasi ovunque in Russia, non la si chiamò né
kievskaja [di Kiev], né tverskàja [di Tver’], né peterburskaja [di Pietroburgo], nè rjazàn-
skaja [di Rjazan’], ma rimase sempre moskovskaja» (ibid.). Altro motivo per questa affer-
mazione fu che il primo locale, il carskij kabak (osteria statale, dello zar), dove si cominciò
a vendere vodka fu aperto a Mosca, allorché prevarrà definitivamente la dicitura vodka.
La scelta del nome vinó – vocabolo penetrato dal latino nella lingua anticoslava
direttamente dalle traduzioni del Vangelo alla fine del IX secolo –, poteva portare a con-
fusione, tanto più che di vini ve n’erano tanti, che si distinguevano per il colore, per l’a-
cidità, il luogo di origine, le finalità di utilizzo, come il vinó cerkovnoe (vino da chiesa),
vinó služebnoe (vino per le funzioni religiose), il vinó vétchoe (vino pregiato), vinó nera-
stvorënnyj (vino non diluito), e ciò per differenziarlo dal vino che si beveva a tavola, che
secondo l’usanza greco-bizantina veniva diluito con acqua. Furono queste le motiva-
zioni per cui una vodka, se era di alta qualità, era definita moskovskaja. Le altre e nume-
rose denominazioni con cui si cercò di sostituire in diversi periodi il nome di vodka,
quasi a volerne nobilitare il prodotto, come stolovoe vinó, che “dominò” nel corso del
XIX secolo, furono tutte respinte da Dmitrij Ivànovič Mendeleev, illustre chimico, che
collaborò alla modernizzazione della tecnologia per la produzione della vodka e insi-
stette «per un’unica denominazione ufficiale, “vodka”, che rifletteva con maggior preci-
sione il carattere della bevanda e nello stesso tempo era la denominazione russa più
nazionale» (ivi, p. ). Nel venne anche stabilita «la norma in base alla quale la
vodka autentica, la moskovskaja vodka, deve avere un preciso rapporto di alcol e acqua,
corrispondente a gradi alcolici» (ibid.). Fu sempre Mendeleev con la sua ricetta del
a stabilire il rapporto ideale peso-volume per la vodka, e in conseguenza la moskov-
skaja originale deve essere a tripla distillazione del grano di cereali diluita con acqua
purissima. Da questa data, alla moskovskaja verrà attribuita la definizione di osobennaja,
cioè particolare. Nel un altro chimico M. G. Kučerov modificò leggermente la ricet-
ta, perfezionando il processo di preparazione, la denominazione osobennaja cambiò in
osobaja (speciale), conferendo alla moskovskaja una sorta di categoria.
Negli ultimi decenni del secolo scorso sono state messe in commercio altre vodke
sovietiche. Fra le tante, senza addentrarci nelle caratteristiche del prodotto, le etichet-
te più interessanti le ritroviamo con i marchi di fabbrica Russkaja e Pscenichnaya. Per
la prima, già la scelta del nome porta alla composizione di una serie di etichette ad hoc.
La più accattivante, subito riconoscibile, e che rimanda all’amore per la terra russa, è
la riproduzione di un celeberrimo quadro – Bogatyri () – di V. M. Vasnecov (-
), uno dei più grandi pittori russi dell’Ottocento, dove sono raffigurati i tre eroi
popolari russi, i bogatyr appunto, che, possenti nelle fattezze, dall’alto di una collina
difendono i confini della patria russa. Apparsa nei primi anni Novanta, questa etichet-
ta (FIG. ) trascina dietro di sé altre immagini-simbolo della Russia passata, la grande
patria, che va difesa. Le etichette riproducono quindi simboli statali, autoritari, che
ricordano la Russia degli zar, ed ecco un’etichetta con lo stemma araldico, l’aquila a
due teste, una trojka che corre in un campo di neve, un orso, e l’uccello di fuoco. Que-
st’ultima riproduzione è la più inattesa per rappresentare un prodotto come la vodka,
ma i personaggi di fiabe e i titoli, ad esempio, delle fiabe di Puškin sono stati molto uti-
lizzati per altri prodotti made in USSR, basti pensare alle coloratissime scatole dei cioc-
colatini (konfety) e alle carte che li avvolgono, che si rifanno alle fiabe popolari.
L’uccello di fuoco, pur essendo stato poco utilizzato, rimanda per analogia ad
un’altra figura del bestiario favolistico del folclore russo, apparso con più frequenza su
altri prodotti, vale a dire zolotoj petušok, il galletto d’oro. Queste immagini che svilup-
pavano temi e immaginario folcloristico e «simboli del periodo zarista – lo stemma, l’a-
quila imperiale, la corona ecc. – furono molto sfruttati agli inizi degli anni Novanta, e
ciò aveva un senso. Le immagini luminose, di grande attrattiva piacevano al comprato-
re. Faceva molto effetto anche la novità di queste immagini sulle etichette della vodka,
in forza dell’impossibilità del loro utilizzo in epoca sovietica».
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Il tema della terra russa, in questo caso della vasta campagna, lo ritroviamo svilup-
pato sulle etichette che reclamizzavano un’altra vodka, la “Pšeničnaja”. Nata anch’essa
negli ultimi due decenni del secolo, come prodotto la “Pšeničnaja” non poteva in alcun
modo fare concorrenza alle precedenti, ma portava nel suo nome la più autentica tra-
dizione della vodka, cioè il grano. L’etichetta base riproduce in un piccolo ovale un
pezzo di terra dorato, il grano appunto, con degli alberi in lontananza e un cielo azzur-
ro sul fondo – un piccolo quadretto campagnolo –, il tutto su un’etichetta bianca che
riporta in alto il nome scritto ad arco, “Pšeničnaja vodka”. A seguire sono state svilup-
pate due linee artistiche, una paesaggistica e un’altra che raffigura l’elemento principa-
le da cui è ricavata la vodka, vale a dire le spighe di grano. Ecco quindi campi di grano,
spighe al vento, covoni di spighe, un contadino dietro le spighe raccolte e unite in fasci,
e piccoli paesaggi. I colori sono quelli della natura, di giornate assolate, dove tutto è
giallo-oro, verde e azzurro.
Al di là della qualità della vodka, la scelta di questi soggetti – dalla simbologia
nostalgica della Russia degli zar alla grande campagna e a figure iconografiche, che
agli occhi di uno straniero sono legate all’universo “Russia”, come la trojka, il samo-
var, la matrëška, l’orso – non ha avuto vita lunga. L’attrattiva di queste immagini,
riportate sulle etichette della vodka, era dovuta al fatto che nel periodo sovietico
non si potevano riprodurre, ma i nuovi produttori che non presentavano il marchio
sovietico rifiutarono anche queste scelte, e alla fine degli anni Novanta non si sono
più viste sulle bottiglie. I produttori, in effetti, cominciano ad allontanarsi anche
dallo standard qualitativo della vodka sovietica – che per quelle più famose, soprat-
tutto d’esportazione, è sempre stato elevato – per iniziare a produrre più vodke aro-
matizzate, già pronte per i vari cocktail, che si allontanano dal gusto originale della
bevanda vodka. Gli anni Novanta sono molto difficili, la qualità a mano a mano
scade e, per arginare il secolare problema dell’alcolismo, lo Stato chiude alcune fab-
briche di vodka riciclandole per altri prodotti. La sfrenata concorrenza dei nuovi
produttori immette sul mercato interno nuove bottiglie, ed anche nuove etichette,
che testimoniano il momento difficile che sta attraversando la Russia di El’cin allo
sbando economico. Una delle etichette che meglio riflette questo periodo riprende
una famosa domanda di Černyševskij, che divenne molto più famosa allorché
Lenin la riprese per un suo scritto politico: Čto delat’? (Che fare?). L’etichetta, bian-
ca e rossa, riporta il nome in russo “Čto delat’?!” (anche con il punto esclamativo),
e in alto la traduzione in inglese, “What to do” (ma senza punto interrogativo). Que-
sta domanda – che è diventata una domanda quasi icona dei russi, che la ripetono a
volte ironicamente – è utilizzata per un prodotto di una nuova impresa, sia pure sta-
tale: la Liksar della città di Saratov. La domanda è un «cliché del periodo sovietico
[…] conferendo una sfumatura d’ironia nascosta, un gioco d’immaginazione, quasi
una storiella tra commensali».
La vodka continua ad essere prodotta e le più titolate hanno il vantaggio di esse-
re esportate sul mercato estero, rappresentando pur sempre un importante introito
per le casse dello Stato, ma accanto ad esse molte altre piccole imprese producono
vodka e la qualità non è sempre elevata, peggiorando ancor più la drammatica situa-
zione degli alcolisti. Bisogna quindi pensare a come attirare i compratori verso il
proprio prodotto. C’è bisogno di una buona pubblicità, ma soprattutto di un’eti-
chetta che faccia presa, al di là della purezza della bevanda. Tutto è permesso: uti-
lizzare il passato, la tradizione, i personaggi storici – del passato e contemporanei –
con frasi dal chiaro doppio senso. L’etichetta in generale è semplice, colorata, attira
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con pochi elementi, anche perché si rivolge a una base popolare, provinciale. Il
carattere a volte giocoso che si intravede in alcune di esse pian piano scivola verso il
kitsch. È interessante come «il kitsch presenti un carattere regionale molto marcato,
cioè riflette pienamente l’attacamento sociale e popolare ad una data sfera cittadina
(urbana)». Ogni città ha qualcuno da ricordare, un eroe, un personaggio politico,
un semplice cittadino, famoso solo “da loro”. Ed ecco l’etichetta con Kolčak, il
generale delle guardie bianche durante la Rivoluzione, ma anche con Budënnyj, il
più famoso generale delle guardie rosse. Un’etichetta con colori seppia, stile antica-
to, raffigura tre ussari, seduti a un tavolo per un banchetto con vodka e chitarra,
un’altra etichetta, molto colorata, raffigura due simpatici ubriachi che si sorreggono
a vicenda. La Siberia raffigura un solare suonatore di fisarmonica, su sfondo celeste,
per un invito a tavola. Accanto alle glorie locali, immagini e scene di situazioni
comuni, il kitsch non risparmia grandi personaggi, nella serie che possiamo chiama-
re ritrattistica. I produttori di vodke sovietiche, fatta eccezione per la vodka “Dol-
gorukij”, il fondatore di Mosca, avevano evitato le importanti personalità, ma con la
perestrojka, certamente per l’influenza della pubblicità occidentale, i personaggi
della storia passata e contemporanea cominciano ad apparire sulle etichette, come
Aleksandr Nevskij, che occupa in verticale tutta l’etichetta che riproduce un famo-
so trittico di P. Korin (-), di cui Aleksandr Nevskij è la parte centrale. Dal
quadro del è stato eliminato lo stendardo alle spalle di Nevskij, è rimasta sullo
sfondo in basso una veduta della città di Pskov e il cielo un po’ grigio e nuvoloso è
stato sostituito da un luminoso color azzurro appena rannuvolato. Il principe di
Pskov, che sconfisse i cavalieri teutoni in una memorabile battaglia sul lago ghiac-
ciato, è raffigurato, dal basso in alto, in tutta la sua imponenza e fa pensare al mani-
festo del film di Sergej M. Ejzenštejn. Importante la scelta dei colori. Saranno casua-
li? Sono bianco, rosso e azzurro, i colori della nuova bandiera della Confederazione
russa. In basso, un po’ declassata, ma comunque presente, l’aquila imperiale a due
teste, in un color oro non invadente, dove è ripetuto, al centro, il nome del grande
eroe (FIG. ).
Segue una serie di altri ritratti, come Kutuzov, il generale che sconfisse Napoleone,
una generica etichetta “Romanov”, che rimanda alla dinastia degli zar, ed anche
“Lenin”, raffigurato in un piccolo tondo in alto, in una fantasmagorica etichetta dove
prevalgono i colori della nuova bandiera, con l’azzurro tempestato di stellette e strisce
rosse in basso su fondo bianco, che fanno immediatamente pensare alla bandiera ame-
ricana (FIG. ). Forse Lenin si sarà rivoltato nella tomba, non meno di Aleksandr Nev-
skij, ma ormai la macchina del mercato non guarda in faccia nessuno.
Anche le celebrazioni, jubulei, servono a creare nuove etichette, per festeggiare gli
anniversari di personalità locali o nazionali, come Boris N. El’cin, grande estimatore
della bevanda nazionale, che la fabbrica di Krasnojarsk ha celebrato con una serie di
etichette, dai titoli indicativi: “Zar Boris”, “Il nostro presidente” e “Il primo presiden-
te”, vodke di cui il Cremlino era ben fornito. Un’etichetta curiosa che ha prodotto un
doppione falso è quella dedicata a un personaggio come Rasputin. Di produzione tede-
sca, questa vodka è entrata nel mercato russo, suscitando in verità curiosità più per il
personaggio riprodotto sull’etichetta che per la sua qualità. Ai lati del ritratto di Raspu-
tin vengono riportate la data di nascita, , sbagliata, e quella di morte. I russi ne
riprendono l’etichetta e producono questa vodka in patria, ma non possono fare a
meno di correggere la data di nascita, . In tal modo, il russo che comprava questa
vodka sapeva di comprare quella “russa” leggendo la data esatta.
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grazie alle etichette che non subiscono cambiamenti. Così la “Moskovskaya” conserva
la sua famosa etichetta verde come la “Stolichnaya”, ma accanto alla vodka pura, liscia,
di solo grano, sempre della stessa gradazione – o volume, come preferisce sostenere
Pochlëbkin –, cioè °, si producono della stessa marca varianti con l’aggiunta di
aromi, in produzione anche durante il passato regime, ma destinate al mercato interno.
La vodka ritorna agli antichi fasti, ma presenta dei cambiamenti: sulle etichette, sempre
semplici, solo il nome e le notizie relative a composizione e gradazione, ma si trasforma
lentamente la bottiglia. La forma è sempre lineare, snella, la rotondità antica è lasciata
alle due bottiglie più conosciute, ma ne appaiono di nuove. Ritornano vecchi marchi
come la “Russkij Standart”, di S. Pietroburgo, distillata per la prima volta in occasione
della creazione di un premio patrocinato dallo zar nel e ripresa all’inizio del nuovo
millennio, che gioca sempre sul contrasto di due colori fondamentali, nero sfumato e
grigio, effetto “gelo”. Presenta una bottiglia snella e tonda, seguita da un’altra bottiglia
tagliata a forma esagonale, che nella parte bassa si allarga leggermente. Sul lato princi-
pale manca l’etichetta cartacea, il nome “Imperia” è inciso verticalmente sul vetro. Il
colore nero iniziale si trasforma in rosso bruno, come il tappo, più lungo del normale, è
riportata la data della sua prima produzione, , e il nome di S. Pietroburgo (FIG. ).
La pubblicità la presenta con tutti gli onori:
Che sono: «: deve essere una vodka russa originale. Preparata per la prima volta in
Russia nel XIII secolo, la vodka è diventata la bevanda nazionale, che esprime lo spirito
e il carattere russi. Essa rappresenta una parte importante delle nostre tradizioni». Le
altre verità risaltano le qualità di purezza cristallina, il gusto vellutato, l’irripetibilità
della sua composizione, lo stile, un modello inarrivabile. Un’altra bottiglia, che si diffe-
renzia dalle precedenti e che vanta anch’essa qualità di purezza, tanto che la pubblicità
la presenta come la “Classic Russian vodka”, è la “Jewel of Russia”. La forma è un
parallelepipedo in vetro spesso, trasparente; non presenta etichetta, ma ha una ceralac-
ca color rosso mattone, su cui è stampato a fuoco il nome. La bottiglia pur nella sua
apparente pesantezza è elegante e ormai classica.
La vera trasformazione avviene con bottiglie ed etichette che escono dagli studi di
design. Ed è proprio un marchio famoso, in patria come all’estero, la “Stolichnaya”, che
presenta una bottiglia diversa. Lontanissima dalla bottiglia madre (FIG. ), simile alla
“Moskovskaya”, la “Elit” è tutta design e computer (FIG. ). Bottiglia sottile, che non
ricorda più la rotonda morbidezza della precedente: è lineare, taglio semplice, ma ricer-
cato, base larga che a mano a mano si restringe leggermente per finire con un tappo
semplice, ma diverso dagli altri. Ha sempre due colori di base, grigio scuro, quasi nero,
ma anche blu, e grigio più chiaro effetto ghiaccio, su cui risalta la scritta in caratteri lati-
ni “Elit”, e in caratteri cirillici “Элит”. L’antica scritta “Stolichnaya”, nel suo tradizio-
nale segno grafico molto semplice, è ben visibile alla base del collo della bottiglia, ed è
stampata leggermente inclinata. È l’unico tratto di morbidezza, in una bottiglia molto
geometrica, algida, pensata dai nuovi designers. La “Elit” è una combinazione di «ele-
ganza e misticismo», «nobiltà e purezza», «prestigio e piacere». L’etichetta è quasi
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minimalista, sopra il nome in alto, in un triangolo in rilievo nel vetro, sventola il lembo
estremo di una vela scarlatta. La “Elit” è ritenuta dagli specialisti una vodka perfetta,
ma altri marchi, anche non russi, aspirano a questo titolo, come la francese “Grey
Goose” che vanta un metodo di doppia distillazione e ben quattro fasi di filtraggio in
cui viene usato l’argento per eliminare ogni traccia di impurità, e quindi riposa per dieci
ore in botti ad una temperatura di –°.
Per la creazione non tanto delle etichette – che riportano di regola, oltre al nome
in gran rilievo, le indicazioni essenziali del prodotto –, ma delle bottiglie, la Russia
non si serve più esclusivamente dei propri designers, come lo studio Klimov Design,
e la Design Studia o la Goodvin, ma si rivolge anche a prestigiosi designers stranie-
ri. E da uno di questi laboratori è uscita una bottiglia esclusiva, ricercata per sotto-
lineare il prestigio del prodotto. La vodka si chiama “Jupiter”, nome nuovo per i
prodotti russi, sopratutto in epoca sovietica, dove non si era mai fatto ricorso alla
mitologia classica. Lo Studio Claessens Inc., tra i più noti della Gran Bretagna,
inventa una bottiglia tagliata come un diamante a goccia, in cristallo di Boemia (FIG.
). Adagiata nel suo cofanetto blu notte sembra una bottiglia di profumo. La botti-
glia, trasparente proprio come deve essere un diamante, ha l’etichetta stampata sul
cristallo, e ciò produce un effetto di trasparenza ancora maggiore e il riflesso del
nome su ogni lato. Anche un’altra bottiglia – più discreta della “Jupiter” – presenta
due modelli, che si differenziano per il colore dell’etichetta, molto tradizionale, car-
tacea, azzurra per la vodka classica e rossa per quella aromatizzata, su cui è scritto il
nome “Russkij Brilliant”. È apparsa sul mercato nel , squadrata, ma tagliata
all’altezza del collo come un diamante, anch’essa opera di una società francese, la
Saver Glass.
Un esempio di design russo è il modello uscito dallo studio Klimov Design: una
bottiglia con una base quadrata piccola e un collo lungo, di colore nero, che porta
l’impegnativo nome “Legenda Kremlja”. L’etichetta stampata in basso in color oro è
sovrastata dallo stemma dell’aquila a due teste in risalto, sempre in “oro”. Una storia
a sé riguarda la collezione “Tsarskaja Kollekcija” (Collezione imperiale), che ha crea-
to tre modelli classici, bottiglia tonda, vetro appannato effetto gelo ed etichetta stam-
pata su vetro. La prima, “Tsarskaja” (Vodka imperiale) è stata prodotta nel , per
celebrare i anni dalla fondazione di Pietroburgo. Vodka, come dice la presenta-
zione, composta sulla base di una ricetta dell’epoca di Pietro il Grande, aromatizza-
ta al miele di tiglio, con infuso di fiori di tiglio, che presenta un’etichetta, dove in un
tondo dorato, con l’aquila imperiale, è raffigurato lo stesso zar, fondatore della città,
e vi sono trascritti, con una soluzione di grande effetto, i versi di Aleksandr S. Puškin,
dedicati alla capitale del Nord (FIG. ). Nello stesso anno fu presentata un’altra bot-
tiglia, che vantava una ricetta trovata negli archivi del museo di Tsarskoe Selo, la resi-
denza estiva degli zar, e che porta quindi lo stesso nome. Anche questa vodka è aro-
matizzata ai frutti di bosco e la bottiglia è la copia di un modello uscito nel per
celebrare i anni della dinastia dei Romanov. La terza bottiglia di questa collezio-
ne è certamente unica ed è la più pregiata. Per la sua composizione ci sono voluti due
anni di lavoro: è la “Tsarskaja Zolotaja” (Vodka imperiale d’oro), aromatizzata al
miele di un solo fiore, infuso di fiore di tiglio, che nell’ultimo stadio di preparazione
viene filtrata e purificata con l’aggiunta di un filo d’oro. L’etichetta è altrettanto son-
tuosa e preziosa: per le decorazioni che incorniciano il ritratto di Pietro il Grande è
stato utilizzato oro a carati. È ovvio che queste tre bottiglie hanno fatto incetta di
premi in Russia e all’estero.
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Le etichette dei primi anni del nuovo millennio seguono e riflettono in qualche modo
le vicende e le trasformazioni epocali del paese. Si fissano le antiche e gloriose etichet-
te sovietiche, ma la concorrenza spinge a creare una serie di etichette che rispondano
con più incisività al mercato. La Russia è cambiata, e cambia anche lo stile delle eti-
chette, che sono sopraffatte in qualche modo dalle bottiglie che attirano l’attenzione di
un compratore sempre più esigente. Sono segni che indicano un prodotto da consu-
mare, che «amplificati ed enfatizzati in simboli, fanno consistere le ragioni e il senso del
loro esistere, del loro agire e del loro morire. I segni non divengono simboli per caso o
per capriccio […] sono sempre il risultato di concreti processi storici e delle loro tessi-
ture ideologiche» (Buttitta, Lupo, Troisi, , p. ). E la vodka è un «simbolo rico-
noscibile e sicuro».
Tra le etichette che si sono affermate in Russia nel passato, non si può non accen-
nare a una vodka apparsa già nel . Un ricco mercante Vasilij Vasilevič Aleksandrov
fu incaricato dallo stesso zar di produrre una vodka esclusiva per la nobiltà russa. Nac-
que la vodka “Ikon”, la cui notorietà presto oltrepassò i confini dell’impero. Negli anni
della Rivoluzione la “Ikon” non terminò la sua produzione, né emigrò all’estero (come
avevano fatto altri produttori famosi come la “Smirnoff”, che si stabilì negli Stati Uniti),
né diminuì la sua popolarità. Anzi divenne la vodka preferita della classe operaia, ma
anche degli artisti e dell’intelligentcija. Scomparve lentamente dal mercato interno, e si
affermò all’estero, in Canada e negli Stati Uniti, dove è diventata una delle vodke più
consumate. È ammantata da una sorta di fanatismo ed esclusività, alla “Ikon” sono dedi-
cati dei siti, ci sono riviste dove si parla solo della “Ikon”, si fanno party solo a base di
“Ikon”, c’è un marketing di gadget solo con il nome “Ikon” e manifesti che ricordano il
passato del marchio, come una “Ikon” che sovrasta un corpo di soldati che sventolano
bandiere rosse (FIG. ). La bottiglia, semplice e tonda, dal vetro trasparente, presenta
sempre la stessa etichetta: una fascetta stretta che riproduce una spiga di grano disegna-
ta in giallo oro e in verticale la scritta “Ikon”, con caratteri che risaltano in bianco e nero,
dando un effetto tridimensionale. Una dicitura assicura che si tratta di vodka russa ori-
ginale. Il mistero, se così si può definire, è che la Russia continua a produrre questa
vodka sul suo territorio, in una fabbrica a . chilometri da Mosca, ma non la vende
all’interno del paese. Nessun russo infatti conosce la “Ikon”, ma essa non è conosciuta
neanche in un paese come l’Italia, che ha un buon consumo di vodka di tutte le marche
migliori. C’è una sorta di ossessione da parte di Canada e Stati Uniti ad avere in esclusi-
va questa mitica vodka (FIG. ), che ha anche un costo accessibile, e solo recentemente
una prestigiosa azienda francese ha avuto la possibilità di commercializzarla anche in
Francia. La “Ikon” fa incetta di medaglie, ne ha già conquistate sette d’oro nelle varie
esibizioni internazionali, e nel è stata dichiarata “Vodka dell’anno”. La sua noto-
rietà tra gli specialisti è tale che è stato creato uno slogan, che da solo dice tutto: «Make
your own Icons in Life. Make Ikon your vodka».
Aleksandrov), in collaborazione con le aziende di distillati che fanno capo alle Alko-
gol’nye zavody Gross, ha disegnato una nuova etichetta per una nuova vodka, che
doveva richiamare l’atmosfera del tradizionale buffet russo (bufetnaja tradicija), locale
del passato, dove si consumavano zakuski, veloci spuntini, accompagnati da tè ma
soprattutto da vodka o spumante russo. Scopo di questa nuova etichetta era inventare
un nome che richiamasse una nota di nostalgia, e non si confondesse con le altre mar-
che. Molte sono state le definizioni proposte, tra le quali “Pjumočnaja” (Mescita), “Pri-
malka” (Esca), “Nostal’gija” (Nostalgia), “Bufetnaja” (Al buffet), “Zabytaja melodija”
(Melodia dimenticata). Fra tutte queste il produttore optò per “Bufetnaja”, e su questa
scelta fu disegnata l’etichetta della bottiglia e soprattutto l’immagine simbolo per la
campagna pubblicitaria.
Una bella ragazza si sporge quasi dal manifesto in primo piano, ha una crestina sui
capelli biondi, è una bufetcˇica, una cameriera di buffet, con alle spalle uno scaffale con
bicchieri piatti e una fila di bottiglie di vodka “Buffetnaja” bene in vista. Il tratto del
disegno è raffinato, molto glamour, colore flou seppia che fa pensare a un vecchio
manifesto degli anni Cinquanta. L’agenzia Aleksandrov ha disegnato anche la botti-
glia, semplice, tonda ma che si allarga leggermente verso il basso. Le etichette tradi-
zionalmente cartacee e colorate, che indicano le diverse aromatizzazioni, la scritta
“Bufetnaja” al centro in bianco grassetto e sotto la parola tradicija, con caratteri quasi
invisibili. Un leggero reticolato a rombi gira intorno alla bottiglia nella parte bassa.
L’immagine è stata inserita in Internet per conoscere il giudizio dei futuri compratori.
Molti hanno apprezzato il ritorno ad uno stile passato, una nostalgia non tanto forse
del regime, quanto di un’atmosfera, di un modo di vita, di luoghi che non ci sono più,
come il buffet, un locale che nelle città più grandi è scomparso, soffocati da nuovi loca-
li, bar e altro nello stile occidentale. Ai designers sono stati fatti degli appunti precisi
riguardo soprattutto alla ragazza, la quale non possiede per nulla i tratti di una ragaz-
za russa, anzi «somiglia troppo a Marilyn Monroe, e soprattutto somiglia a una ameri-
cana»; «i colori sono vistosi», e peggio «sembra la réclame della Coca Cola» (FIG. ).
Molti non sopportano, a parte l’immagine, che la vodka sia troppo aromatizzata e
quasi urlano «ma che, è vodka questa? La vodka deve essere classica, classica, al mas-
simo aromatizzata al limone».
Non si rovina un monumento nazionale!
Un’altra azienda di distillati, nel ha lanciato sul mercato interno una nuova
marca, la “Pyc(Rus)”, con un’idea curiosa e brillante per l’etichetta. È apparsa per la
prima volta nelle regioni dell’estremo oriente della Confederazione russa, e immediata-
mente ha attirato l’attenzione grazie all’etichetta. È una vodka con una sua individua-
lità territoriale, il motivo è semplice, l’etichetta riporta sulla fascetta la sigla delle diver-
se regioni, cioè il numero di riconoscimento, ad esempio “Pyc(Rus)” indica S. Pie-
troburgo, “Pyc(Rus)” è la targa della regione di Tomsk, “Pyc(Rus)” della regione
di Saratov, “Pyc(Rus)” si riferisce alla regione della Čitinskaja. Oltre a ciò sulla bot-
tiglia, semplicissima, la solita, è disegnata, su fondo color grigio che fa risaltare i nume-
ri della sigla in nero, la carta geografica della regione, con i nomi delle città, i fiumi e i
laghi colorati in azzurro, e le strade. Un successo.
Molte etichette delle bottiglie “sovietiche” sono rimaste sul mercato attuale di alcu-
ne repubbliche dell’ex URSS. La “Moskovskaya” (osobaja) come la “Stolychnaya”, la
“Pšeničnaja” sono sempre sul mercato dei nuovi paesi che hanno ottenuto l’indipen-
denza, come l’Ucraina, e hanno conservato, non fosse altro che per sfruttarne la fama,
le vecchie etichette, oppure le hanno sostituite con produzioni originali sottolineando
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la paternità con la scelta di nomi legati al paese. Ecco quindi due etichette ucraine che
comunicano la più nazionale definizione di appartenenza: la “Drevnyokiyvska Vodka”,
un omaggio all’antica capitale Kiev, presenta una bottiglia color verde scuro, squadra-
ta, e un’etichetta color rosso che si alterna al giallo dorato di una specie di cornice che
rimanda alla forma di un’icona, con un disegno anticheggiante e la scritta
“Drevnyokiyvska Vodka”, in caratteri ricercati, come in un documento anticoslavo. La
“Kievskaja Rus Vodka” è ancora più significativa, perché rimanda alla prima capitale
dell’antica Rus’; presenta su una semplice bottiglia tonda un’etichetta con l’immagine
di un antico guerriero, possente e anche un po’ minaccioso. Accanto a queste sono state
create altre etichette che ricordano il territorio, la storia, i personaggi storici. La più
appariscente è la “Kozak Vodka”, una bottiglia color grigio chiaro appannato, a forma
di cosacco in costume tradizionale con le braccia incrociate sul petto. L’etichetta ha
come sfondo della scritta in rosso “Kozak” il disegno dei ricami delle tovaglie e delle
camicie tradizionali ucraine. Il tappo, anch’esso rosso fiammante, è a forma di colbac-
co. Un autentico kitsch!
Le repubbliche baltiche hanno seguito la stessa politica e su una bottiglia che ricor-
da in tutto la “Stolychnaya”, con i colori bianco e rosso inconfondibili, si legge “Lithua-
nian Vodka”. Vi sono altre etichette, ma con nomi nuovi e per un mercato soprattutto
interno, come la Lettonia e l’Estonia, che presenta più marche, una delle quali ricorda
una vodka del passato, l’“Estonia Crystal Vodka”. Molto più numerose le etichette del
Kazachstan, che oltre alle “vecchie” vodke ne ha prodotto una nuova, originale, che sta
conquistando lentamente il mercato estero. L’etichetta , su una bottiglia di colore bian-
co appannato per l’effetto gelo, giustificato anche dal nome “Snow Queen”, rimanda
all’Oriente e raffigura in bianco e azzurro una regina con lo scettro in mano che sovra-
sta un castello da favola. Anche la Mongolia ha prodotto una sua vodka, una soltanto,
importante, e con un grande nome, “Genghis Khan”. Sull’etichetta è raffigurato un
ritratto in bianco e nero, che è una ricostruzione di quello che si crede sia stato il volto
del leggendario condottiero.
La concorrenza alla vodka russa è stata negli anni passati rappresentata dai marchi
polacchi e svedesi. È stata certamente la Polonia la grande rivale della Russia nella pro-
duzione della vodka. Ha preteso di aver “inventato” la vodka e, forte di questa con-
vinzione, nel ha intrapreso una causa per avere l’esclusiva del nome:
Nel il monopolio statale della vodka della Repubblica popolare polacca affermò
che in Polonia, ossia sul territorio statale degli ex regni di Polonia, granducato di Litua-
nia e Rzeczpospolita, comprendenti la Grande e la Piccola Polonia, la Mazovia, la
Kujàwy, la Pomerelia, la Galizia, la Volinia, la Podolia e l’Ucraina con la fortificazione
cosacca di Zaporož’e (Zaporožskaja seč), la vodka era stata inventata e prodotta prima
che nell’Impero russo, o nello stesso periodo in cui veniva prodotta nello Stato russo e
moscovita, e che, in forza di questo, il diritto di commercializzare e pubblicizzare la pro-
pria merce sui mercati stranieri col nome di “vodka” doveva averlo solo la Polonia
(Pochlëbkin, , pp. -).
I mercati internazionali, ma soprattutto i tribunali, hanno perciò preteso dai russi «una
dimostrazione puramente formale, documentaria o comunque giuridica e storica con-
vincente, che attesti una precisa data di invenzione, di prima esportazione o di produ-
zione della merce, tale da permettere di stabilire il diritto esclusivo di uno dei conten-
denti su una certa invenzione o produzione» (Pochlëbkin, , p. ).
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La Polonia vanta certamente una produzione di vodka di elevata qualità e nel secolo
scorso l’etichetta che l’ha fatta conoscere ad un mercato più vasto è stata la “Wódka
Wyborowa” (FIG. ): bottiglia trasparente e un’etichetta che gioca sui colori del bianco e
azzurro, immediatamente riconoscibile come lo è la “Moskovskaya”. Negli ultimi decen-
ni la Polonia ha arricchito la sua produzione di vodka e sono sorte etichette nuove, la più
appariscente delle quali è quella che reca stampato il profilo del sommo Chopin. Ogni
paese ha inventato una serie di nomi, che si legano al prodotto, ma soprattutto al paese
produttore, e utilizza luoghi famosi, immagini simboli e personaggi del passato, che ven-
gono immediatamente identificati con il paese di produzione. La Polonia, si può dire, non
ha potuto fare a meno di adoperare il delicato profilo di Chopin, per immettere sul mer-
cato una vodka preparata con patate, come è nella tradizione polacca. La “Wyborowa”,
come molte altre vodke importanti, presenta con lo stesso nome una serie di varianti, che
può essere la gradazione (%, % e %), o aromatizzata con diversi frutti, come limo-
ne, arancia, pesca ecc., e in questo caso l’etichetta si arricchisce del colore o del disegno
del frutto. Molte altre etichette riportano denominazione di città, come Cracovia, o sono
dedicate a storici personaggi, come Jan III Sobieski, e un nome che molte aziende hanno
utilizzato, vale a dire “Millennium”. Interessante una vodka dedicata a Shakespeare il cui
ritratto, stampato sull’etichetta incollata su vetro appannato, è sormontato dalla scritta
«Shakespeare. Gusta la poesia». In basso è raffigurata, come una litografia, una bella
immagine di Londra dell’epoca elisabettiana.
La Polonia produce anche una vodka particolare, la “Rebeka”, una vodka dry
kosher, aromatizzata all’arancia, sotto la supervisione del Manchester Beth Din Rabbi-
nical Court, ed è riconoscibile dall’etichetta che raffigura il candelabro ebraico stilizza-
to, con sfondo variamente colorato, e nomi diversi, a seconda del gusto.
La Svezia, altro importante produttore di vodka, presenta un numero minore di
etichette ma vanta la famosissima “Absolut”, vodka di raffinata classe, anch’essa rico-
noscibile dalla bottiglia a vetro trasparente, che si presenta quasi tozza, a causa di un
collo molto piccolo. L’etichetta cartacea manca, ma la scritta è stampata su vetro in
un bel blu. Come si vede, stile e colori si ripetono, il bianco e il blu, o il grigio appan-
nato rimandano sempre al freddo, all’effetto gelo. La Svezia si affida, al contrario dei
paesi dell’est europeo, a campagne pubblicitarie che la portano su tutte le riviste,
molto ricercate e raffinate, come le tre bottiglie Absolut, che ricordano lo stile di
Andy Warhol (FIG. ).
Molto curiosa un’etichetta realizzata da un paese vicino alla Svezia e alla Russia,
quindi del gran freddo, e cioè la Finlandia. Accanto a bottiglie in vetro trasparente un
po’ elaborate, con etichette tradizionali, come “Finlandia Vodka”, o “Finlandia Cran-
berry Vodka”, nella sua variante aromatizzata, questo paese ha creato per il mercato
interno una bottiglia piatta, con un profilo molto stilizzato, in cui la vodka, di color
rosso acceso, ha il nome stampato a caratteri gotici: “Dracula vodka. Original vodka
from Transilvania”.
Il consumo di vodka nel mondo – che, come abbiamo visto, è aumentato considere-
volmente – ha portato anche a un’invasione sul mercato di “vodke” prodotte da molti
paesi, che utilizzano solo gli ingredienti base, ma ne sfruttano il nome per presentare
bevande molto aromatizzate che spesso sono più dei liquori o cocktail già preparati. È
il caso di molti paesi dei Caraibi, che hanno sul mercato bottiglie coloratissime, con
pappagalli e vegetazione lussureggiante disegnati sulle etichette, e che alla vodka
aggiungono aromi di frutta tipici dei tropici.
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Altri paesi, con una tradizione secolare di distillati importanti, hanno cominciato a
produrre ottima vodka sul proprio territorio, come la Francia, l’Inghilterra, la stessa
Italia e persino la Svizzera.
La Francia ha immesso sul mercato una “Grey Goose Vodka”, che ha conquistato
il gusto dei più appassionati e specialisti. Creata e prodotta nel da un importatore
di bevande di New York, non decollò per mancanza di mezzi e strutture. Il marchio
venne ceduto qualche anno dopo alla Bacardi Ltd., che forte per struttura, fama e soldi,
la portò al successo.
È una vodka completamente produite en France, nella regione del Cognac, per la
quale è stato usato il frumento più selezionato, ma soprattutto le acque di una sorgen-
te alimentata da una fonte sotterranea che raccoglie le acque provenienti dai ghiacciai
delle Alpi e che si purifica naturalmente scorrendo su rocce porose. La bottiglia è simi-
le a tante altre, snella, appannata come un bicchiere appena uscito dal freezer, di un
colore argenteo-grigio e ha stampato sul vetro un paesaggio alpino, gelido, con delle
oche in volo. L’etichetta su vetro, apparentemente semplice, è invece molto elaborata.
Una delle oche raffigurate, molto grande, fa da sfondo a un paesaggio alpino inverna-
le, con laghetto e montagne. Il disegno è stato inciso all’interno della bottiglia, provo-
cando un effetto ottico tridimensionale. Guardando la bottiglia, sembra che il paesag-
gio si trovi sul lato opposto, e che le oche volino sul laghetto (FIG. ). L’allestimento di
ogni bottiglia richiede circa ore di lavoro.
Ma il design non poteva non toccare un paese così attento allo stile e alla moder-
nità come la Francia, ed ecco apparire quella che la pubblicità presenta come la prima
bottiglia senza collo. La stilizzazione della “Elit” viene ancora più estremizzata, e una
bottiglia completamente nera, perfettamente cilindrica, elegante e raffinata esce dallo
studio della Nonobject, disegnata da uno dei designers più interessanti ed “estremisti”,
Branco Lukic. Manca l’etichetta cartacea tradizionale, ma le informazioni sono leggibi-
li lungo la linea del nome e sulla bottiglia risalta il nome di questa nuova vodka france-
se: “Vertikal” (FIG. ). Scopo ulteriore di questo progetto è che la bottiglia, una volta
usata, può essere riutilizzata o trasformarsi in un vaso.
Le aziende inglesi, comunque, all’inizio del millennio immettono sul mercato due
bottiglie uscite da famosi studi di design. La prima ha forma tradizionale, lunga, in
un elegante vetro trasparente, che la pubblicità presenta come «Semplicemente il
meglio senza compromessi». È la “Vodka Ice Filtered” della Blackwood Distillers
delle Shetland. L’acqua purissima delle sorgenti di Heglibister è filtrata prima con
carbone di legno di betulla e successivamente a ghiaccio. L’etichetta cartacea presen-
ta un’immagine ben lontana dalla Russia, vi è stampata una nave dall’inconfondibile
stile vikingo, con una vela gonfiata dal vento. La temperatura, una volta raggiunto il
grado ottimale, fa colorare di rosso la vela-logo in cima al pennone (FIG. ). Anche
questa vodka è stata insignita della medaglia d’oro al World Awards. Ma se questa
bottiglia rimanda ai miti nordici e all’antica terra di Scozia, l’altra bottiglia, sempre
della stessa azienda, diventa, possiamo dire, icona del modo mitico contemporaneo.
Il nome spiega tutto, “Vodka Diva” (FIG. ), bottiglia dritta, senza collo, elegantissi-
ma, tappo argentato, sembra una bottiglia di profumo. Tripla distillazione, doppio fil-
traggio come la precedente con carbone di betulla, la sua esclusività, oltre al nome –
quasi un autografo di una famosa diva –, è nella colonnina inserita nel vetro della bot-
tiglia che contiene le gemme preziose che sono servite al secondo filtraggio di puli-
tura, e sono pietre provenienti da giacimenti della Repubblica Ceca, colorate,
luminose come brillanti. L’etichetta sparisce inevitabilmente, le pietre attirano tutta
l’attenzione, possono cambiare a seconda delle preferenze – non della vodka – e nella
colonnina vengono inseriti cristalli Swarovski nei colori di alcune pietre preziose: zaf-
firo, smeraldo, topazio, o rosa e nero come piccoli diamanti. Le pietre possono esse-
re scelte anche personalmente dal cliente. È la vodka più costosa del mondo.
Anche la Svizzera, forte della professionalità e qualità tecniche delle sue distillerie, non
ha voluto privarsi della sua vodka. La “Xellent” è un prodotto di primissima qualità in
quanto prodotta con materie prime purissime: segale svizzera e acqua proveniente dai
ghiacciai situati nel cuore delle montagne. La bottiglia è tonda, collo basso, vetro color
rosso bruno, su cui sono incisi il nome, lo stemma della Repubblica elvetica e, con orgo-
glio, la dicitura “Swiss Vodka”.
L’Italia non ha etichette prestigiose. Forse l’unico nome presente sul mercato è noto
più per la linea della bottiglia che per la qualità del prodotto, che in effetti è andato
sempre più scadendo, poiché nel nostro paese alla vodka pura, di grano o segale, si
preferiscono bevande miscelate, dove prevale l’aroma dei vari frutti o essenze, allon-
tanando il compratore. Stiamo parlando della “Keglevich”, che ha una bottiglia molto
lavorata, elegante, riconoscibilissima, e un’etichetta semplice, bianca con lo stemma
dell’aquila a due teste, ma dell’Impero austro-ungarico, la scritta vodka in rosso e sotto
il nome della casa (FIG. ). La “Keglevich”, preparata secondo la ricetta originale del
conte ungherese Stephan Keglevich, fu acquisita dalla Stock di Trieste che continua a
produrla.
Una vodka di alta qualità, con grano selezionato e acqua purissima dei monti del
Piemonte, è prodotta da un famoso stilista, Roberto Cavalli, il quale ha disegnato una
bottiglia che fa pensare a “Diva” per l’eleganza della linea. Il vetro è bianco traslucido,
con un piccolo serpente in rilievo (simbolo della casa Cavalli), che l’avvolge nelle sue
spire (FIG. ). Vuole essere la vodka “tentatrice”, sull’etichetta risalta il nome del suo
creatore, e la parola vodka è scritta immediatamente sotto. Anche questa bottiglia raf-
finata, forse un po’ leziosa, fa pensare a una bottiglia di profumo piuttosto che a una
vodka a °.
Le etichette dei primi anni del nuovo millennio seguono anch’esse – alcune più, altre
meno – le vicende e le trasformazioni della nuova Russia. Sono rimaste le antiche e glo-
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riose etichette “sovietiche”, ma la forte concorrenza spinge a creare una serie di eti-
chette che rispondano al mercato. Quelle cartecee lentamente spariscono, e le immagi-
ni e le denominazioni sono fissate sul vetro a tutto vantaggio del design della bottiglia,
che attira l’attenzione del compratore. Le vecchie e tradizionali etichette con l’immagi-
ne e una denominazione specifica rimandano sempre alla storia del paese di produzio-
ne e servono ad affermare la propria identità nazionale, a distinguersi dall’altro, come
le etichette delle repubbliche ex sovietiche. Come i Paesi Baltici, che ripetono il nome
del proprio paese o città per affermare la loro visibilità. L’Ucraina ha scelto nomi che
ricordano il suo passato nella storia e ha creato due etichette che ricordano l’antica Kiev
quale prima capitale dell’antica Rus’.
La vodka, al di là del mercato e del profitto che procura, rappresenta un prodot-
to distintivo e riconoscibile per un paese intero, è il passato e il presente, è ciò che
«ogni uomo aspira a possedere […] come esibizione concreta della propria identità»
(Buttitta, Lupo, Troisi, , p. ). Le etichette mettono in evidenza l’appartenenza
alla terra, alla tradizione, alla storia e alla cultura di un paese. Una grande differenza
infatti si nota tra le denominazioni delle etichette dei paesi dell’est europeo, soprat-
tutto quelle russe, in confronto con quelle occidentali, dove i nomi sono sradicati dal
territorio di produzione e ogni nome va bene. L’importante è vendere; a volte si fa il
verso al paese d’origine della vodka, “scimmiottando” molti nomi o definizioni legate
all’immaginario russo-sovietico, ma spesso si scelgono denominazioni lontane dal con-
testo di luogo e storia.
Per finire un’ultima etichetta, anzi una bottiglia, dove prevale un design semplicissimo,
un cubo regolare con le facce quadrate, collo cortissimo con un tappo rosso, colori sem-
pre due, rosso e nero, la scritta “Vodka Quadro”, «Distilled and bottled in Russia» su
vetro molto appannato, che sembra un grosso cubetto di ghiaccio (FIG. ).
Sono state analizzate tante etichette, descritte tante bottiglie, russe e straniere,
diversissime per stile e denominazione, e su ognuna di esse è scritta un’indicazione che
tutti osservano diligentemente. La “Vodka Quadro”, con la sua forma a cubetto di
ghiaccio ce lo ricorda anche visivamente: la vodka va bevuta ghiacciata!
Note
. Vil’liam Vasil’evič Pochlëbkin ha scritto il suo studio fondamentale (Pochlëbkin, ) sulla sto-
ria della vodka, intraprendendo, su invito del governo sovietico, la sua ricerca dopo due tentativi di
appropriarsi del nome “vodka”: il primo, da parte degli Stati Uniti, con la pretesa di essere stati il
primo paese a produrre ufficialmente sul proprio territorio la vodka, e il secondo, più serio e perico-
loso, da parte della Polonia, che vantava anch’essa l’originalità della produzione della vodka sul pro-
prio territorio
. Nello Slovar’ drevnerusskogo jazyka (XI-XIV vv.) [Dizionario della lingua anticorussa, XI-XIV sec.],
a cura di R. I. Avanesov (Russkij jazyk, Moskva ), la parola «vodka» non appare.
. Cfr. più dettagliatamente Pochlëbkin (, pp. -).
. Il kvas è attestato in documenti in slavo antico sin dalla metà del IX secolo. Se ne parla già nella
Cronaca dei tempi passati, primo grande monumento letterario dell’antica Rus’, anche se la sua com-
posizione non corrisponde esattamente al kvas attuale. Era una bevanda più o meno acida, alcolica.
. Le monopolizzazioni si susseguirono con alterne vicende, dovute soprattutto alla corruzione, al
profitto che aumentava allorché lo Stato appaltava ad esempio ai tavernieri la vendita di vodka. Libe-
ri da controlli regolari da parte delle amministrazioni statali, a nome dello zar che era “ufficialmente”
il proprietario di tutte le taverne e locali di vendita della vodka, i tavernieri agivano come appaltatori
dello Stato, amministravano gli introiti della vendita delle bevande alcoliche, ma praticamente erano i
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veri monopolizzatori. Nel -, di fronte agli abusi finanziari e la corruzione degli amministratori
governativi, venne abolito il sistema degli appalti, vennero chiusi i locali statali a i pochi privati, la stes-
sa chiesa intervenne contro la produzione di bevande alcoliche, di fronte all’alcolismo galoppante, ma
la soluzione non portò a cambiamenti, e soprattutto non migliorò la situazione. Gli appalti si alterna-
rono alle monopolizzazioni, sino a quelle del XX secolo, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e del con
la perestrojka. Cfr. più dettagliatamente Pochlëbkin (, pp. -).
. Per indicare la denominazione di questa famosissima vodka, useremo la traslitterazione come
appare sull’etichetta, cioè «Moskovskaya», negli altri casi useremo la traslitterazione esatta: moskov-
skaja.
. Prosto etiketka. Mir napitkov (http://drinks.internet.ru/) (traduzione mia).
. Per una completa analisi della terminologia dei distillati di cereali e di vino cfr. più dettagliata-
mente Pochlëbkin (, pp. -).
. Evoljucija vodocnoj etiketki. -e gody XX veka (http://drinks.internet.ru/) (traduzione mia).
. Pšcenica, in russo vuol dire grano, frumento, quindi l’elemento base e unico, per produrre la
vodka.
. Nel uno dei primi drastici interventi di Michail Gorbačëv, per controllare l’abuso delle
bevande alcoliche, soprattutto della vodka, fu la «riconversione di alcuni stabilimenti di vodka a pro-
duzione non alcoliche, con conseguente peggioramento delle condizioni di vita del popolo: code per
acquistare la vodka, distillazione clandestina (samogon), speculazioni e sofisticazioni» (Pochlëbkin,
, p. ).
. Nikolaj G. Černyševskij (-), scrisse Che fare? in meno di quattro mesi nella fortezza di
Pietro e Paolo a Pietroburgo nel .
. E. Chudonogova, Kitč na vodočnoj etiketke (http://drinks.internet.ru/) (traduzione mia).
. Ibid.
. Il lubok era un quadro in legno di tiglio, molto leggero, su cui erano incise illustrazioni, che in
seguito potevano essere stampate, ma erano anche dei quadri con soggetti popolari di qualsiasi gene-
re, dove venivano trascritte canzoni popolari, proverbi, ritornelli, comprensibili a tutti.
. Chudonogova, Kitč na vodočnoj etiketke, cit.
. Ibid.
. Riguardo alle indicazioni delle gradazioni alcoliche indicate sulle bottiglie, sino al il con-
tenuto di alcol era espresso in volumi, ma attualmente in Russia deve essere indicato in percentuale sul
peso. Nei paesi occidentali, per gli altri alcolici come il whisky, il gin ecc., il contenuto alcolico è espres-
so in volumi, ad esempio % volumi. I russi si sono dovuti adattare per inserirsi nel mercato estero,
e sulle etichette della vodka, ed esempio la “Moskovskaya osobaya” è indicata la gradazione %,
annullando di fatto la differenza di principio tra vodka e whisky. Cfr. più dettagliatamente Pochlëbkin
(, pp. -, -).
. http://www.russianstandard.com/imperialvodka/ (traduzione mia).
. Ibid.
. http://www.adme.ru/vodka (traduzione mia).
. Ibid.
. In precedenza era stata sollevata la stessa questione da parte di aziende concorrenti che
mettevano in discussione il diritto dell’URSS di commercializzazione della vodka, «sostenendo che
la loro produzione aveva avuto inizio prima di quella sovietica» (Pochlëbkin, , p. ). Furono
soprattutto aziende statunitensi che avanzarono questo diritto, affermando che «in varie zone del-
l’Europa occidentale e negli USA già nel periodo - vari ex fabbricanti russi “bianchi”, fuggiti
dalla Russia sovietica, avevano avviato imprese per la produzione di vodka» (ibid.). Questa con-
vinzione era basata sul fatto che in URSS, la produzione della vodka era iniziata nel con un
decreto del Comitato centrale. I russi non ebbero difficoltà a mostrare che il governo sovietico nel
aveva interrotto la produzione di vodka per ovviare al forte aumento di alcolismo sul territo-
rio e la ripresero nel . Questa politica di interrompere e riprendere a produrre vodka fu un
espediente a cui erano ricorsi più di una volta gli zar, per le stesse motivazioni, quindi al nuovo
stato sovietico non fu difficile dimostrare che la vodka era già stata prodotta sul territorio russo da
parecchi anni, «in epoca medievale» e dimostrassero gli altri di aver prodotto la vodka «per la
prima volta» in quel periodo.
. Per le vicende giudiziarie, ma soprattutto sulle ricerche a vasto raggio nel campo linguistico,
storico, finanziario, politico e sociale cfr., in modo particolareggiato, Pochlëbkin ().
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Bibliografia
BUTTITTA A., LUPO S., TROISI S. (), From Palermo to America. L’iconografia commericale dei
limoni di Sicilia, Catalogo della mostra (Palermo, marzo- aprile).
DEVOTO G., OLI G. C. (), Vocabolario illustrato della lingua italiana, Le Monnier-Selezione dal
Reader’s Digest, Firenze-Milano.
FASMER M. (), Etimologiceskij slovar’ russkogo jazyka, Russkij jazyk, Moskva.
POCHLËBKIN V.V. (), Il liquore che viene dal freddo. Storia della vodka, traduzione di B. Osimo,
Slow Food, Bra (CN) (ed. or. Istorija vodki, IX-XX vv., Inter-Verso, Moskva ).
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Nella galleria dei santi slavi il volto che ne apre la folta schiera è femminile. «La prima
dei russi che entrò nel Regno dei Cieli». È santa Ol’ga: donna, moglie, principessa,
madre, reggente, nonna. Riconosciuta come prima cristiana, Ol’ga è diventata il volto
della fede. È glorificata nelle terre slave dell’Est, ed anche oggi è un importante sim-
bolo del patriottismo nazionale.
Il suo culto, probabilmente, risale al periodo della traslazione delle sue reliquie
(anno c.a.) nella chiesa kieviana di Santissima Madre di Dio, detta Desyatinnaya,
da parte di suo nipote, principe Vladimir. Di Ol’ga, tuttavia, si conosce ancora poco.
Nonostante il fatto che i testi antichi a lei dedicati siano stati scoperti, studiati e pub-
blicati da tempo, rimangono diverse questioni legate alla loro comprensione a livello
storico, culturale, linguistico, strutturale, semantico ecc. Inoltre, va considerato che la
presentazione del personaggio nelle opere scritte è sempre stata legata alla finalità dei
diversi generi. Il genere nella letteratura antica russa rappresentava un evento non stret-
tamente letterario ed era reso complesso dall’utilizzo concreto delle opere nella vita
ecclesiastica, politica e in quella quotidiana (Lichačev, , pp. -). Dunque, nello
studio dei testi dedicati a Ol’ga, bisogna anche tener presente se si tratta della vita da
santa che fa parte degli uffici religiosi e non può essere modificata, o di cronaca – docu-
mento storico e giuridico – che aveva un suo utilizzo sociale e politico e poteva rap-
presentare il suo protagonista sotto un altro punto di vista.
I testi che ci raccontano di Ol’ga fanno parte delle raccolte classificate, e non si tro-
vano le varianti dei manoscritti a se stanti. Inoltre, mancano completamente i testi vici-
ni al periodo della sua vita, della sua attività e della sua canonizzazione. Secondo A. D.
Sedel’nikov, una delle spiegazioni di tale mancanza sta nel fatto che i migliori testi in
antichità venivano copiati e moltiplicati ma, dopo aver raggiunto un certo numero di
copie, si eliminavano dalla circolazione (Sedel’nikov, , vol. VL, II, p. ). Inoltre, il
giogo dei mongoli fece ridurre l’attività letteraria dei monaci e solo poche opere che
attiravano l’attenzione dei trascrittori del XIV o del XV sec., sono arrivate agli studiosi
dei nostri tempi.
La mancanza delle prime fonti si fece sentire già nei secoli XI-XII quando, nella Rus’
di Kyiv, per la redazione delle opere agiografiche e delle cronache gli autori dovevano
largamente ricorrere alle allusioni bibliche e colmare i vuoti con i racconti popolari
(Rička, , p. ). In più, i testi delle opere antiche dedicate ad Ol’ga e a Vladimir,
secondo l’opinione di N. I. Serebrjanskij (Serebrjanskij, II, ), potevano essere ispi-
rati alle vite greche dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena. Ciò portava nuovi
elementi alle loro vite.
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Igor: «В год 6411 (903). Когда Игорь вырос, то сопровождал Олега и слушал его, и
Nel Racconto dei tempi passati Ol’ga appare al momento del suo sposalizio con
привели ему жену из Пскова, именем Ольгу» [Nell’anno (). Quando Igor fu
cresciuto, accompagnava Oleg e lo ascoltava, e gli portarono la moglie di Pskov, di
La seguente citazione di Ol’ga la vede già madre di Svyatoslav – «В год 6453 (945).
nome Ol’ga].
particolarità dei testi anche qui fanno pensare ad una fonte precedente più antica che
si è conservata esclusivamente nelle trascrizioni mantenendo, tuttavia, la struttura e
le espressioni del testo originale.
Il volto di una santa che «essendo donna di corpo, aveva un’intelligenza da uomo»,
una donna che lega nella sua persona la Rus’ pagana con la Rus’ cristiana, diventò sim-
bolo della saggezza regale e l’esempio per le donne russe nel corso dei secoli. La miste-
riosa origine di Ol’ga, le descrizioni della sua bellezza e dell’intelligenza, la vendetta
contro i drevlyany, l’amministrazione dei dazi, la ricerca della fede, il viaggio a Costan-
tinopoli, il battesimo, la benedizione del patriarca e altre notizie su Ol’ga, minuziosa-
mente raccolte nei separati capitoli tematici del libro Stepennaja kniga, insieme al det-
tagliato commento, presto saranno tradotti e proposti al pubblico italiano per far cono-
scere meglio le grandi donne dell’Oriente e gli eventi dei tempi passati a loro legati.
Bibliografia
Nel tentativo di stabilire il ruolo e la funzione assunti dai cosiddetti “sermoni e ammae-
stramenti contro il paganesimo” all’interno della tradizione letteraria medievale e pre-
moderna della Slavia ortodossa orientale, deve necessariamente essere affrontata anche
la questione del loro rapporto con la polemica antiereticale. A questo scopo verranno
qui esaminati sia i riferimenti alle eresie presenti nei testi in questione, sia quelli rin-
tracciabili nel loro convoglio (konvoj, secondo la terminologia di Dmitrij Sergeevič
Lichačev), ovvero negli ulteriori componimenti delle raccolte e miscellanee in cui sono
inseriti. Poiché, in ambito slavo, la prima grande eresia attestata è il bogomilismo,
sorto nel Primo impero bulgaro durante il secolo X, ci si è immediatamente domanda-
ti se non esistesse un qualche parallelo tipologico o legame genetico tra la tradizione
slava orientale dei sermoni rivolti contro le sopravvivenze del paganesimo e la lettera-
tura antibogomila balcanica.
Sebbene per alcuni dei testi antipagani sia plausibile ipotizzare anche una datazio-
ne largamente anteriore a quella dei manoscritti in cui sono inseriti (il codice più anti-
co finora rintracciato è tuttavia la miscellanea Sankt Peterburg, RNB, Q.I.., risalente al
XIII secolo), solamente per un esiguo numero di componimenti è possibile supporre
una provenienza slavo-meridionale. Si può, per esempio, ritenere (Pypin, ) che le
parti del Sermone sulla creazione e sul giorno chiamato domenica in cui viene criticato il
culto della domenica, non intesa come Resurrezione di Cristo, siano delle aggiunte slave
ad un probabile originale greco, giunto nella Rus’ di Kiev attraverso la tradizione lette-
raria antico-bulgara. Si presume anche che possa esistere una traduzione antico-bulga-
ra della Vita di san Giovanni l’Elemosiniere, sebbene non sia mai stato trovato il brano
da essa tratto e facente parte del Sermone di san Giovanni l’Elemosiniere sulla dipartita
dell’anima in un manoscritto slavo-meridionale; l’operazione di estrapolazione e di
adattamento, dunque, fu compiuta molto probabilmente in ambito slavo-orientale.
Alcuni studiosi ipotizzano anche un’origine antico-bulgara del Sermone di san Gregorio
rintracciato tra i commenti su come inizialmente i popoli, essendo pagani, servivano gli
idoli e come molti lo fanno finora, tuttavia anche questo testo rimane sconosciuto alla
tradizione manoscritta balcanica che sembrerebbe aver fornito solamente la traduzione
dell’opera greca sulla quale si basa questa rielaborazione: il Sermone per l’Epifania di
Gregorio Nazianzeno. Gli unici componimenti che si configurano come rielaborazioni
certe di un’opera antico-bulgara, il Racconto dell’infame Petr di Petăr Černorizec, sono
il Sermone dei santi padri sul digiuno del regolamento ecclesiastico e il Sermone per il
digiuno della Quaresima.
Alcuni studiosi (Rudnev, ; Kazačkova, ; Mil’kov, , ; Podskal’skij,
; Budanov, ) hanno invece proposto anche recentemente di collocare i sermo-
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[…] (e dissero) […] come è fatto l’uomo. E lui disse come e dissero che Dio si lavò in
un lavatoio e che sudò e scese dal cielo sulla terra e Satana e Dio disquisirono su chi
dovesse creare l’uomo e il diavolo creò l’uomo, mentre Dio mise in lui l’anima. Così
quando l’uomo muore, il corpo va sulla terra e l’anima verso Dio […] e disse Jan: quel
dio che siede nell’abisso è un demone, Dio invece siede sul trono nei cieli.
Le parole del mago, secondo cui Satana avrebbe creato il corpo umano e Dio vi avreb-
be infuso l’anima, rivelano un dualismo che si avvicinerebbe molto alle concezioni
bogomile. La terza testimonianza risale al e riguarda un certo Dmitrij imprigiona-
to per eresia dal vescovo Nikita.
Le notizie forniteci dalle cronache non bastano dunque a testimoniare l’esistenza
di sette bogomile nella Rus’. Anche l’episodio apparentemente più significativo, il rac-
conto del mago sulla creazione dell’uomo, potrebbe, infatti, riflettere le credenze paga-
ne delle tribù finne che abitavano nella Rus’ settentrionale. Supporre che idee bogomi-
le fossero penetrate nella Slavia orientale o che almeno i monaci fossero a conoscenza
della letteratura antibogomila è certamente possibile, tuttavia le cronache non ne for-
niscono prova certa.
Sebbene anche nei sermoni e negli ammaestramenti contro il paganesimo non ci
siano, in realtà, passi che si riferiscono esplicitamente al bogomilismo, alcuni studiosi
hanno tentato di stabilire un legame con questa eresia solo sulla base di pochi frammenti
testuali. I bulgari Ančo Kalojanov, Todor Mollov e l’ucraino Mikola Ivanovič Zubov, per
esempio, hanno interpretato come una polemica nei confronti del bogomilismo i seguen-
ti passi del già citato Sermone di san Gregorio rintracciato tra i commenti […]:
E ancora:
[…] per questo i Saraceni, i Bulgari e i Turkmeni e quanti ci sono di questa fede inizia-
rono a lavare il deretano e versano questo risciacquo nella bocca. Per questo gli Elleni
[leggi: “pagani”] iniziarono ad allestire una mensa per Rod e per le rozˇanicy, così
[fanno] anche gli Egiziani e anche i Romani e [ciò] è arrivato perfino presso gli Slavi. E
questi Slavi iniziarono ad allestire una mensa per Rod e per le rozˇanicy.
Nonostante il termine “bulgaro” sia spesso usato per indicare gli eretici (bogomili e non
solo), in questo brano il compilatore si riferisce evidentemente ai bulgari del Volga; qui,
infatti, si parla dei turchi, dei saraceni, di tutti coloro che, essendo di fede musulmana,
avrebbero tramandato, tramite gli elleni, certe usanze anche agli slavi.
Un ipotetico riferimento al bogomilismo è stato rintracciato anche in due opere
omiletiche più tarde concernenti il digiuno: il Sermone dei ss. padri sul digiuno secondo
il regolamento ecclesiastico e il Sermone sul digiuno quaresimale e [per la vigilia delle
feste] di san Pietro e di san Filippo. Nei due testi è inserito il racconto, ampiamente dif-
fuso nella letteratura dell’antica Rus’, sul sole che, come se fosse un solo giorno, non
tramonta per l’intera Settimana Santa. Nikolaj Michailovič Gal’kovskij (, pp. -,
-) ritiene che l’origine della narrazione apocrifa sia bizantina o che si possa trattare
di una bogomil’skaja basnja, uno degli ingannevoli racconti bogomili. Stando, tuttavia,
agli studi di R. Pavlova, secondo cui l’autore del Sermone di Petr Černorizec sarebbe
da identificare con lo zar bulgaro Pietro o con un appartenente alla sua cerchia (va
ricordato che proprio lo zar Pietro dette inizio alla lotta contro il bogomilismo), pare
poco credibile che nei due sermoni siano presenti tracce di un’ideologia bogomila. Si
deve inoltre osservare che l’immagine del sole-Cristo risorto che non tramonta duran-
te la Settimana Santa è talmente diffusa, sia nell’Oriente che nell’Occidente cristiano,
da influire anche nella prassi liturgica (la liturgia non varia a seconda dei diversi giorni
di quest’ebdomada).
Lo studioso ucraino (Zubov, , pp. -) rintraccia un intento antibogomilo
nei sermoni contro il paganesimo in cui a Dio viene contrapposto Rod, la divinità pro-
tettrice degli antenati e delle nascite; nel Brano sull’insufflazione dell’anima nell’uomo è
scritto:
[…] e fu l’uomo con un anima viva; ma non è Rod che, stando nell’aria, getta il petto
sulla terra e da ciò nascono i figli, e poi l’angelo gli insuffla l’anima e così Dio giudicherà
un altro degli uomini o degli angeli, come alcuni eretici dicono [avendo appreso] dai
libri saraceni e dai maledetti Bulgari […] non avendo capito chi sia il loro creatore il
quale li ha creati e ha instillato in loro lo spirito della vita e insufflato l’anima attiva, poi-
ché è Dio il creatore di tutte le cose e non Rod .
Mikola Ivanovič Zubov identifica Rod con Satana, colui che crea la materia e che si con-
trappone a Dio, origine dell’anima; quest’opposizione viene considerata dallo studioso,
parimenti all’interpretazione data da altri del discorso tra Jan syn Vyšatin e il mago,
come un’espressione delle tipiche concezioni dualistiche bogomile.
Il culto pagano di Rod e delle rožanicy (le divinità femminili, simili alle bereginy, che
dovevano proteggere la stirpe e i nascituri) nei sermoni in questione è spesso messo in
relazione con la venerazione della Madonna, considerata non tanto come Madre di Dio
(Bogorodica), quanto come madre del Gesù-uomo, una donna che partorisce e soffre.
Nel Sermone di san Gregorio rintracciato tra i commenti […], per esempio, leggiamo:
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[…] cominciando dal tempo del paganesimo, anche fino ad ora, [non possono fare a
meno] di questa maledetta preparazione della seconda mensa per Rod e per le rožanicy,
con grande scandalo per i devoti cristiani, con offesa del santo battesimo e con l’ira di
Dio, dopo il santo battesimo, i popi che servono il ventre stabilirono di associare il tro-
pario in onore della nascita della Madre di Dio alla mensa delle rožanicy, mettendo da
parte […].
Sebbene il riferimento alle due mense, preparate (il giorno seguente) in onore della
Madonna e delle rožanicy, si configuri come un evidente esempio di dvoeverie, di com-
mistione tra paganesimo e cristianesimo, Mikola Ivanovič Zubov ritiene che debba
essere interpretato come una forma ereticale, derivante dall’apollinarismo/nestoriane-
simo, collegabile con l’attività del vescovo Feodorec. Con questi, infatti, assieme all’i-
nasprimento delle polemiche sull’osservanza dei digiuni i mercoledì e i venerdì festivi,
si sarebbe anche diffusa a Vladimir la concezione di tipo nestoriano, secondo cui la
Madonna avrebbe dovuto essere considerata solo come madre del Gesù-uomo.
Durante il XII secolo si ebbero numerosi concili ecclesiastici, ma nessuno di questi
fu indetto contro i bogomili o altri movimenti ereticali: le dispute, come afferma G.
Podskal’skij (, p. ), riguardarono più le questioni di disciplina ecclesiastica, come
la regolamentazione dei digiuni, che quelle di tipo teologico.
Eccetto alcuni casi che analizzeremo più avanti, i riferimenti ai movimenti eretica-
li non sono specifici nei sermoni contro il paganesimo. In realtà, in questi testi si tende,
così come succede anche nella letteratura bizantina (ivi, pp. -), a non distinguere i
singoli movimenti eterodossi, ma ad accomunarli. Come abbiamo visto nella prima cita-
zione, tratta dal Sermone di san Gregorio rintracciato tra i commenti […], anche i latini
vengono considerati eretici alla stregua dei pagani elleni, degli ebrei e dei musulmani; i
termini “pagano” ed “eretico”, infatti, nella polemica ecclesiastica vengono comune-
mente assimilati ed utilizzati come sinonimi anche nelle dispute con i cattolici. Nel Dei
franchi e degli altri latini (Popov, , pp. -), per esempio, circa il culto della Madre
di Dio viene detto:
Non chiamano la Madre del nostro Signore Gesù Cristo Madre di Dio, [Bogorodica],
ma solo Maria.
Allo stesso modo, anche il termine “ebreo” assume spesso il significato di “eretico”; nel
Sermone di un certo amante di Cristo è scritto:
[…] e rallegrandosi dei propri idoli non sono peggiori dei giudei e degli eretici che sono
nella fede e nel battesimo, eppure fanno così.
E ancora, nel sermone Sulla creazione e sul giorno chiamato domenica si dice:
[…] e anche se ascoltano, non capiscono. […] così come i giudei e gli eretici, pur aven-
do letto molti libri, ma non sapendo ragionare bene, non accettarono la fede di Cristo
e perirono.
Nel Sermone di san Dionigi per coloro che piangono i morti si trova, invece, un riferi-
mento più circostanziato: si narra di un’eresia sadducea. Con questo termine venivano
generalmente designati coloro che non credevano nella resurrezione e nel culto dei
morti ed in particolar modo gli strigol’niki e i giudaizzanti (anche costoro venivano
accusati di non commemorare i defunti). Il sermone in questione, in effetti, è proprio
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accusatorio nei confronti di coloro che non credono nella resurrezione dei defunti, si
disperano per loro e, negando la stessa resurrezione di Cristo, rischiano di incorrere
nell’eresia sadducea.
Nel testo è scritto:
[…] e saranno cacciati nel fuoco inestinguibile [assieme ai] giudei, eretici e sadducei…
molti cadono nell’eresia sadducea.
Nonostante la scarsità dei dati forniti, dunque, pare ragionevole supporre che il ser-
mone sia stato composto con un intento accusatorio nei confronti dell’eresia dei giu-
daizzanti.
Il legame tra le tematiche trattate nei sermoni contro il paganesimo e la polemica
antiereticale risulta evidente anche dall’analisi del konvoj (convoglio) che accompagna
questi componimenti nei diversi testimoni manoscritti fino ad oggi pervenutici. Nei
codici di tipo Izmaragd di II redazione, possono essere rintracciati, per esempio, ser-
moni contro l’ubriachezza, sulle eresie, sugli ebrei, sui digiuni e sui popi che non si
comportano secondo le norme cristiane. Nei manoscritti di questo tipo sono presen-
ti la Parabola sui ricchi, tratta dai libri bulgari e due sermoni tratti dai capitoli e
del Discorso del presbitero Cosma. Nella miscellanea Sankt Peterburg, RNB, Sof. , si
trovano la Disputa con i Saraceni e i Bulgari, il sermone dall’incipit «I santi padri sta-
bilirono i giorni di digiuno» e il Sermone sulla fede; nella miscellanea Moskva, RGADA,
ROMGAMID , è inserito il sermone Sia noto a tutti come l’eretico Nestorio insegnò ad
allestire la mensa per le rožanicy, considerando la Madre di Dio madre dell’uomo. Nei
codici di tipo nomocanone sono presenti norme e divieti riguardanti le pene da inflig-
gere ai popi e ai monaci che non seguono correttamente la liturgia, agli appartenen-
ti ad altre fedi, agli eretici, a chi fa uso della magia, oppure regolamenti sui digiuni,
e sulle assunzioni di cibo e di bevande alcoliche. Nei Trebniki possono essere osser-
vate, assieme alle descrizioni delle pratiche liturgiche per il battesimo e la cresima, le
formule di abiura che devono essere pronunciate dagli ebrei, dai musulmani, dai paga-
ni o dagli eretici.
Intendendo confutare la fondatezza della tesi secondo cui i riferimenti alle eresie
nelle omelie contro il paganesimo alluderebbero al bogomilismo, si deve inevitabil-
mente rivolgere lo sguardo al Primo impero bulgaro, dove questo movimento eretica-
le nacque, come già detto, nel secolo X. Del periodo precedente alla riconquista bizan-
tina (anno ) ci è pervenuta solo un’opera antibogomila, il famoso Discorso (Beseda)
del presbitero Cosma che ebbe notevole successo presso gli slavi orientali, sia come
testo integrale sia in forma di estrapolazioni e rielaborazioni (Begunov, ) general-
mente utilizzate contro gli eretici: se ne servirono addirittura i vecchi credenti nelle
loro controversie con i nikoniani, considerati eretici e qualificati come “nuovi bogo-
mili” (Stantchev, , p. ).
Nel Discorso del presbitero Cosma, tuttavia, i pagani vengono menzionati solamen-
te in cinque citazioni del Nuovo Testamento (Davidov, , p. ), nella più significa-
tiva delle quali si afferma che se gli eretici (cioè i bogomili) non osservano gli insegna-
menti degli apostoli, sono da considerare più infedeli dei pagani (ivi, p. ). Lo stesso
fenomeno si riscontra nell’omiletica antico-bulgara. Nelle omelie del celebre allievo di
Cirillo e Metodio, Clemente di Ochrida († ), il lessema “pagano” (inteso come
sostantivo o come aggettivo) è usato complessivamente cinque volte, mentre in due
occasioni ci si riferisce al paganesimo (Christova, , p. ) in funzione stilistica,
senza concretezza concernente i destinatari dei sermoni e le loro credenze; anche in
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seguito, ai tempi del pope Bogomil, nei sermoni di Petăr Černorizec, che dette inizio
alla lotta contro la nuova eresia, non si parla in modo specifico né di eretici, né di pra-
tiche pagane. Alcune usanze pagane sono, invece, descritte in un unico testo del
Primo impero bulgaro, le note Risposte di papa Nicolò I alle domande dei bulgari (Izvo-
ri za bălgarskata istorija, VII. Latinski izvori, II, Sofija , pp. -) dove tuttavia non
ci si riferisce alle credenze e alle abitudini degli slavi, ma a quelle dei protobulgari (o
dei pagani in generale); quest’opera, comunque, non si ricollega in alcun modo alla
polemica antipagana, così come ci è testimoniata dai sermoni contro il paganesimo
della tradizione slava orientale: si tratta di un testo documentario in cui il papa disap-
prova le credenze e le abitudini precristiane e approva le misure adottate contro di esse
dal principe Boris.
Il bogomilismo crebbe e si diffuse anche in altri paesi, balcanici e no, alcuni suoi
predicatori probabilmente giunsero nella Rus’ di Kiev, altri diffusero le idee dualistiche
tra i Catari e gli Albigesi. Durante il Secondo impero bulgaro (secoli XIII-XIV) l’eresia
dei bogomili iniziò a perdere alcune sue caratteristiche, a mescolarsi con altre dottrine
ereticali (quella degli adamiti, per esempio) e forse con alcune pratiche pagane di carat-
tere magico. Nella seconda metà del XIV secolo, ciò provocò una violenta reazione da
parte della chiesa ortodossa capeggiata dai rappresentanti della nuova corrente mistica
dell’Esicasmo; infatti, la Slavia meridionale aveva recuperato (già nel XII-XIII sec.) quel
patrimonio letterario, precedentemente migrato nella Rus’, che adesso faceva ritorno
nelle terre balcaniche, attraverso la tradizione atonita. Questa interdipendenza ebbe la
sua acme proprio intorno alla seconda metà del XIV secolo per influsso dell’esicasmo
bizantino, corrente mistica che, nel corso di qualche decennio, da movimento margi-
nale e quasi ereticale (), si sarebbe imposta come capo e garante della Chiesa greca
e slava e avrebbe dato vita a nuove tendenze liturgico-letterarie, destinate ad estender-
si a tutta l’omiletica slavo-ecclesiastica.
Furono l’ultimo patriarca della Bulgaria medievale, Eutimio di Tărnovo (-
), alcuni suoi confratelli e allievi, come Kiprian (il futuro metropolita di Kiev e poi
di Mosca) o come Grigorij Camblak (metropolita di Kiev) i più ferventi difensori del-
l’ortodossia. La lotta intrinseca che costoro intrapresero sia contro le eresie e le altre
religioni, sia contro le dilaganti pratiche di ispirazione pagana deve, infatti, essere anno-
verata tra le numerose iniziative con cui si mirava a consolidare il mondo slavo-orto-
dosso, minacciato dalle lotte intestine e dall’invasione ottomana. Anche i tentativi di
restaurazione ed ellenizzazione della lingua letteraria e dell’ortografia cirillo-metodia-
ne, compiuti da Eutimio e dai suoi allievi devono essere considerati proprio come il
risultato di quella ricerca di purezza e di veridicità dei testi per mezzo della quale l’or-
todossia sarebbe stata difesa dalle possibili deviazioni ereticali. L’unità linguistica e
ortografica voluta da Eutimio, e che poi avrebbe coinvolto in diversa misura tutto il
mondo ortodosso, avrebbe dovuto evitare che i testi religiosi, e dunque la parola di Dio,
potessero essere interpretati in un’accezione personale e individualistica, non control-
labile dalla Chiesa.
Nel Sermone panegirico per il nostro Santo padre Eutimio, patriarca di Tărnovo
(Rusev et al., ), Grigorij Camblak descrisse due episodi caratteristici. Nel primo
(paragrafi -) raccontò del fuggiasco di Costantinopoli di nome Pirono, «fervente
adepto dell’eresia di Nestorio e di quella di Akindin e Barlaam [i principali oppositori
degli esicasti] e inoltre milite dell’Iconoclasmo» (cosa, quest’ultima, che potrebbe allu-
dere alla negazione delle icone da parte dei bogomili) che, venuto a Tărnovo, vi trovò
un seguace di nome Fudul. Nell’episodio è aggiunto che «questa coppia maligna dete-
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riorava il corpo della Chiesa con insegnamenti perversi […] con magie e invenzioni
demoniache» e che Eutimio la combatté, radunando la gente nella chiesa e predicando
(di queste prediche di Eutimio purtroppo non è rimasta traccia). Nel paragrafo , si
racconta, poi, delle cattive abitudini dei cittadini di Tărnovo che, radunatisi per la festa
della Dormizione/Assunzione della Madonna (a Ferragosto), festeggiavano per otto
giorni, lasciandosi al peccato della fornicazione e ad ogni impurità. In questo caso Euti-
mio non agì con delle prediche, ma emise semplicemente il divieto di festeggiare la
ricorrenza in questo modo.
Intrecciando la predica al divieto, anche il metropolita Kiprian agì contro simili
fenomeni, diffusisi nelle diocesi di Kiev e poi di Mosca (e di tutta la Russia), tra la fine
del XIV e l’inizio del XV secolo († ). Kiprian, e più tardi Grigorij Camblak, Pacho-
mij Serb ed altri, furono i principali protagonisti della cosiddetta “Seconda influenza
slavo-meridionale” il cui periodo più intenso (fine XIV-metà XV secolo) coincise proprio
con la formazione e l’iniziale massiccia diffusione delle raccolte e miscellanee nelle quali
sono collocati i sermoni contro il paganesimo.
Come abbiamo già accennato, infatti, sebbene possano essere tutt’ora accettate
diverse ipotesi circa il periodo della loro formazione, indubbiamente può essere stabi-
lito il periodo della loro massima diffusione. Questa risale certamente all’epoca in cui,
sotto il metropolita di Kiev e «di tutta la Russia», Pietro (), presero avvio quei pro-
cessi politici ed ecclesiastici che avrebbero caratterizzato il periodo successivo alla bat-
taglia di Kulikovo. Negli anni in cui fu metropolita Pietro († ) possono già essere
osservate sia la tendenza allo spostamento del centro culturale e religioso da Kiev ai
principati di Vladimir e Mosca (lo stesso Petr risiedeva a Vladimir), sia le prime cor-
renti di rinnovamento precedentemente menzionate che, nascenti a Bisanzio e nei Bal-
cani, avrebbero raggiunto la Rus’ alla fine del secolo con i futuri metropoliti Kiprian
e Fozio. Nella seconda metà del XIV secolo predominarono due centri di potere, Tver’
e Mosca, nella lotta per la sede del granducato; Mosca si affermò come la città più
importante della Slavia nord orientale e divenne sia sede del granduca che della massi-
ma autorità spirituale, il metropolita. La predominanza di questa città sulle altre iniziò
sotto Ivan Kalita (-) e si consolidò definitivamente una ventina di anni più tardi
sotto Dmitrij Donskoj; Mosca si trovò a dover fronteggiare ad occidente lo Stato litua-
no, ormai impadronitosi di ampie zone della vecchia Rus’, e ad oriente l’Orda d’Oro.
Come affermò il noto studioso R. Picchio:
Dalla fine del XIV all’inizio del XVI secolo, la vita delle terre russe è caratterizzata da tre
grandi movimenti: la lotta contro i Tartari, le contrastanti politiche egemoniche di
Mosca e della Lituania-Polonia, il diffondersi di correnti ereticali e riformatrici in
campo religioso (Picchio, , p. ).
È in questo periodo che nella Rus’, minacciata dai mongoli, dai turchi, dalle altre reli-
gioni (cattolica e musulmana) e dalle popolazioni ancora pagane, si ebbe un’intensa
reazione da parte della Chiesa ortodossa, probabilmente influenzata dalla lotta con-
tro le eterodossie e le altre fedi che i rappresentanti della nuova corrente mistica del-
l’esicasmo stavano intraprendendo nel Secondo impero bulgaro. Dalla Slavia balca-
nica si riversò in quella orientale, e principalmente a Mosca, un’ondata di rinnova-
mento dottrinale e linguistico di «carattere soprastatale e sopranazionale» (ivi, p. )
che non consistette in una mera influenza culturale, ma in un più complesso proces-
so evolutivo. Lo sviluppo di quella corrente che nella Rus’ era stata portata dalla
“seconda influenza slavo-meridionale” e che il metropolita Fozio, successore di
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Note
. Feodorec venne eletto al posto del vescovo Leontij dal principe Andrej Bogoljubskij, che vole-
va a Vladimir una metropolia indipendente da quella di Kiev, comprendente anche la diocesi di Suz-
dal’. Le posizioni del vescovo si avvicinarono a tal punto a quelle degli “eretici” latini, che con il con-
cilio del fu condannato per eresia.
. Kormčaja del , Mosca, GIM, Sin. .
. Zlataja Cep’ della fine XIV secolo-inizio XV secolo, Moskva, RGB, Tr. .
. Miscellanea Paisievskij Sbornik della fine del XIV secolo-inizio XV secolo, Sankt Peterburg, RNB,
Kir.-Bel. /.
. Lo Strigol’ničestvo fu il primo consistente movimento ereticale che scosse la Chiesa ortodossa
orientale. Esso sorse a Pskov e Novgorod tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV e fu capeggiato dal
monaco tonsore Karp e dal diacono Nikita, condannati per eresia ed uccisi a Novgorod nel . L’o-
rigine del nome di questo movimento non è ancora del tutto chiara e viene collegata con alcuni speci-
fici mestieri (tonsura), con un particolare rito di iniziazione, o con una corruzione del termine strekol’-
niki, cioè “flagellanti”. Gli appartenenti allo Strigol’ničestvo non credevano nel valore dei sacramenti
amministrati da sacerdoti indegni, rifiutavano l’utilità della confessione individuale e la necessità delle
ufficiature per i defunti. L’altra eresia a cui ci si riferisce è quella dei cosiddetti giudaizzanti. Costoro,
opponendosi agli ordinamenti ecclesiastici, negarono i dogmi fondamentali del cristianesimo e lotta-
rono contro il conservatorismo della metropolia e dell’alto clero, fino a scuotere la cristianità tradizio-
nale. Circa i rapporti tra i giudaizzanti e la prima riforma, cfr. De Michelis (, ); Ronchi, De
Michelis ().
. Izmaragd di II redazione del XVI e XVII secolo, Moskva, RGB, Tr. .
. Moskva, RGB, Tr. e Moskva, RGB, Tr. .
. Nomocanone, RGB, Volok. .
. Cfr. il Racconto sulla fede saracena del manoscritto Moskva, RGB, Volok. .
. Nomocanone, RNB, Sobr. SPbDA .
. Per un’analisi del Trebnik ruteno di Petro Mohyla del , cfr. Brogi Bercoff ().
. Petăr Černorizec probabilmente è identificabile con lo car Petăr (-, † ).
. I sermoni di Petăr Černorizec, che si trovano spesso nelle raccolte russe del tipo Izmaragd e
Zlatoust, ma anche nel Prolog e nelle Minee čet’e e fanno parte del konvoj dei sermoni oggetto del pre-
sente studio, sono stati analizzati e pubblicati da Pavlova ().
. A Bisanzio vi fu un grande processo contro il bogomilo Basilio (XII secolo).
. Circa l’influenza dell’esicasmo nella tradizione slavo-ecclesiastica cfr. anche (Diddi, ).
. Circa l’attività letteraria del patriarca Eutimio cfr. Ka/lužniacki (), Ivanova ().
. Circa la scuola di Eutimio e le tendenze fondamentali della sua riforma, cfr. Stančev ().
. La sede del metropolita fu trasferita a Mosca nel .
. È doveroso ricordare che lo stesso metropolita Kiprian riconoscendo l’importanza del ruolo
ricoperto dal metropolita Pietro, gli dedicò quattro componimenti di carattere agiografico e innogra-
fico. Per un’analisi su questo periodo storico, cfr. Goldblatt ().
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CONTRIBUTI
Marta Bignami
Gioiella Bruni Roccia
Rosa Manauzzi
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Quaderno DEF per VARO.Qxp 8-10-2008 11:50 Pagina 291
«Se si vuole sapere come parlava Kafka, basta ascoltare la Reinerová», così Klaus
Wagenbach commenta, Lenka Reinerová, che oggi ha anni e che è l’ultima scrittrice
cecoslovacca di lingua tedesca ancora vivente.
Prima di tre figlie di una famiglia della buona borghesia ebrea praghese ha esordi-
to nei lontani anni Trenta come giornalista e redattrice di diverse testate tra le quali la
“Arbeiter Illustrierte Zeitung”.
Dotata di un carattere indipendente, a soli diciotto anni si trasferisce in una picco-
la mansarda del centro storico di Praga, dove cerca di guadagnarsi da vivere con i suoi
primi articoli. L’occupazione nazista la costringe tuttavia a numerosi trasferimenti, che
segneranno la sua non facile vita e di conseguenza i suoi scritti marcatamente autobio-
grafici.
Mentre la sua famiglia decide di rimanere nella Praga occupata dai tedeschi, Lenka,
passando per Bucarest, dove doveva effettuare alcune interviste, approda avventurosa-
mente a Parigi.
Amerà tantissimo questa città con tutto ciò che la rende diversa e seducente. Pur-
troppo però non riesce ad ottenere un permesso di soggiorno ed ovvia a questo incon-
veniente trasferendosi a Versailles, che appartiene ad un diverso dipartimento. Qui tra-
scorrerà un anno circondata dai suoi amici esuli cecoslovacchi, primo tra tutti il repor-
ter e suo caro mentore Hans Egon Kisch, che a differenza di lei non avrà il piacere di
rivedere mai più la sua amata Praga.
È proprio in Francia, dopo l’arrivo a Parigi delle armate tedesche, che la Reinerová
subisce il primo di una serie di internamenti. Queste sofferenze, come è ovvio, la segna-
no profondamente e unicamente il suo spirito combattivo e ottimista le permette di
cogliere anche nelle circostanze tragiche un aspetto positivo: l’amicizia che lega le per-
sone nel momento del bisogno, la solidarietà e la capacità di fare tesoro del proprio vis-
suto per poi trasmetterlo agli altri.
Arrivata a Marsiglia, dove una nave la deve portare in Messico insieme ad un grup-
po di italiane, viene trattenuta per diverse settimane nel porto con il pretesto di dover
sbrigare le formalità burocratiche. Un volta salpata, la nave non si dirige verso il Mes-
sico bensì verso le coste africane e al largo del Marocco Lenka viene prelevata insieme
alle sue compagne di viaggio per finire nell’ennesimo campo di concentramento situa-
to nel deserto. Di lì scappa con un sotterfugio e trova un’altra sistemazione a Casa-
blanca. In attesa di proseguire il suo viaggio verso l’esilio, trascorre molti mesi immer-
sa in un’atmosfera esotica, circondata da odori, profumi e colori seducenti. Grazie alla
sua tenacia riesce finalmente a trovare un posto su una nave diretta in Messico, dove i
suoi amici cecoslovacchi la stanno aspettando.
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Dal al abiterà quindi in questo paese che ha accolto generosamente gli
esuli di tutte le nazioni europee. Durante quegli anni vivrà esperienze determinanti per
la sua vita di donna e di scrittrice: il matrimonio con il giornalista e medico jugoslavo,
anche lui di lingua tedesca, Theodor Balk; le esperienze dei vari terremoti; il contatto
con la natura meravigliosa, ma crudele, di Città del Messico, circondata da grandi vul-
cani; la convivenza con la gente del posto, così tanto diversa da lei per mentalità ed
aspetto, e tante altre cose ancora.
Il è l’anno in cui, su un rimorchiatore jugoslavo, lei e il marito approdano nuo-
vamente nell’Europa del dopoguerra. Nella Belgrado liberata da Tito nasce la figlia
Anna. Seguiranno anni di stenti in cui la famiglia dovrà imparare a sopravvivere con la
scarsezza di mezzi e l’autarchia di un paese distrutto dalla guerra.
Solo due anni dopo avrà modo di rivedere la sua amata Praga, ma non sarà un ritor-
no molto felice. Delle persone che lei amava e conosceva non è rimasto nessuno, anche
la sua famiglia è scomparsa nei campi di concentramento.
Le sofferenze e le tribolazioni non sono tuttavia ancora terminate. Vittima delle
epurazioni staliniane, verrà tenuta mesi in isolamento, di cui un intero anno con gli
occhi bendati.
La repressione della Primavera di Praga del le vale il divieto di pubblicazione,
cosa che vive con una sofferenza ancora maggiore dell’internamento. Non abbando-
nerà tuttavia più la sua città dove vive tutt’oggi ricordando la sua vita così avventurosa
e ricca di esperienze, durante la quale però non ha mai cessato di cercare le quattro
pareti dove sentirsi a casa.
Intervistata da “Le Figaro” dichiara:
Probabilmente il rancore non fa parte della mia indole. Ho avuto la fortuna di raggiun-
gere un’età molto avanzata e gioisco di ogni giorno che mi è ancora dato di vivere:
soprattutto del fatto che la mia testa funziona ancora a dovere e che posso continuare a
scrivere. Il mio destino è stato quello di tutta la mia generazione e penso che i soprav-
vissuti non abbiano solo il dovere di ricordare, ma che sia ovvio che debbano trasmet-
tere le loro esperienze agli altri.
Come già accennato tutti i suoi scritti contengono un carattere fortemente autobiogra-
fico o comunque evocano esperienze vissute dalla sua generazione durante anni di
grandi sconvolgimenti.
Il libro tradotto, per esempio, non a caso inizia con un racconto intitolato: A casa
a Praga, a volte anche altrove (ZHP, pp. -).
Come pretesto per il racconto di quella che in fondo si rivela essere la sua vita, la
Reinerová chiama in causa una barbona accovacciata sui gradini della Royal Festival
Hall che farà da filo conduttore per tutta la narrazione.
Il primo dei quattro racconti contenuti nel libro dà anche il titolo al volumetto
edito nel a Berlino. Anche gli altri tre, comunque, enfatizzano le atmosfere evo-
cate, gli atteggiamenti e gli stati d’animo della scrittrice.
Il secondo si intitola L’angelo domestico (ZHP, pp. -), ovvero una figura che in
realtà non esiste in nessuna religione e che non è da confondere con l’angelo custode
tipicamente di riferimento cattolico. Quello che lei vuole indicare con questa sua crea-
zione immaginaria, forse, è la voce della coscienza che ci induce a scegliere tra un’azio-
ne e l’altra e ci pone sempre di fronte agli ostacoli che dobbiamo superare per passare
da una zona oscura della vita a una di luce. È però anche un supporto, un’ancora cui
aggrapparsi, una voce interiore che ognuno di noi deve creare per se stesso.
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La terza novella dal titolo Il biglietto della nave (ZHP, pp. -) ha come filo con-
duttore quello della solitudine che pervade gli esiliati. Il protagonista Michal Racek si
trova a Marsiglia in attesa del biglietto della nave che lo deve portare in America. Pas-
sando per la solitudine più profonda e le attese snervanti negli uffici dell’emigrazione,
verrà in contatto con un’organizzazione clandestina dove conoscerà il calore dell’amo-
re e della solidarietà. Anche qui vediamo ricorrere i temi dell’esilio, delle privazioni,
della malattia, del coraggio e della volontà di sopravvivere a tanta sofferenza.
Il quarto e ultimo racconto (Il mezzo volto) (ZHP, pp. -) si snoda in un sana-
torio dove approda Anna, dal cuore affaticato. Si ritroverà immersa nelle atmosfere più
contrastanti: di isolamento nella sua stanza dove hanno visto bene di non lasciare nulla
che le permettesse di comunicare con l’esterno; a quella gioiosa e chiassosa che regna
durante i pasti. Anche qui però si ripresenta il tema della solitudine e dell’esigenza di
ricreare un ambiente familiare lontano da quello originario, argomenti che abbiamo
trovato nei racconti precedenti e che ricorrono non a caso. Uno dei personaggi pre-
senti, ovvero un uomo con mezzo volto sfigurato dall’esplosione di una caldaia della
fabbrica dove lavorava, impersona più di ogni altro l’isolamento in cui sono costretti a
vivere i “diversi”. L’ottimismo della scrittrice non può venire meno neanche in questo
caso e la figura, vittima di solitudine e isolamento, viene – come anche nei racconti pre-
cedenti – reintegrata: e la forza che supera ogni altra e che permette di sormontare le
sofferenze è sempre la stessa, la solidarietà.
Lo stile della Reinerová, come dice lei stessa, è spontaneo e fortemente condizio-
nato da influssi dialettali austriaci. Nell’intervista al “Figaro” confida che i momenti
più felici sono quelli in cui si dedica alla stesura dei suoi articoli e libri. Per lei nulla è
così vivo e importante come le esperienze che le ha riservato il destino e nutre una gran-
de fiducia negli esseri umani con i quali, proprio per questo motivo, è indispensabile
comunicare, metterli al corrente di ciò che è accaduto e che accade nel mondo.
Note
. L. Reinerová, A casa a Praga, a volte anche altrove, Edizioni dell’Altana, Roma (in corso di stam-
pa) (ed. or. Zu Hause in Prag. Manchmal auch anderswo. Erzählungen, Aufbau Taschenbuch Verlag,
Berlin . Da ora in avanti ZHP, seguito dal numero di pagina).
. MDR Figaro, Das Kultur-Radio des Mitteldeutschen Rundfunks (http://www.mdr.de/mdr-figa-
ro/journal/.html).
. Editio princeps presso lo stesso editore di cui alla nota .
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IL PROBLEMA DELL’ALTRO.
FIGURE E FORME DELL’ALTERITÀ
NELLA POESIA DI COLERIDGE
di Gioiella Bruni Roccia
to, ossia la capacità di uno sguardo inedito e trasformante sull’essere e sul mondo. Ed
è ancora l’autore della Biographia Literaria che attribuisce alla poesia la facoltà di rive-
lare il volto contraddittorio e mutevole del reale: infatti la parola dell’artista non teme
il contrasto, ma piuttosto lo suscita e lo trascende, lasciando che gli opposti coesista-
no ed accogliendo in sé la sfida del paradosso e dell’aporia. Anche per questo, fra l’al-
tro, la vera letteratura ha un suo particolare e irrinunciabile carattere di liminarità.
Come la voce del profeta nell’Antico Testamento, così il linguaggio poetico si spinge
fino ai limiti dell’indicibile: perché soltanto da quell’estremo margine è possibile con-
templare il centro, ossia nominare l’alterità che abita il cuore della vita. La parola let-
teraria dà voce all’Altro che abita in noi, ed in tal modo ci consente di definire la
nostra più vera identità.
Accade così che un rinnovato e più ampio dibattito critico, all’incrocio di prospet-
tive molteplici e lontane rispetto a tutto ciò che normalmente è definito “letterario”,
venga oggi a convergere sul testo, dove il termine stesso – textus, “tessuto” – rimanda
allo statuto di una specifica, costitutiva alterità. Sintomatica in tal senso è la riflessione
teorica che ricollega i principali libri di Derek Attridge: da Peculiar Language, oggi nuo-
vamente disponibile nella riedizione del , a The Singularity of Literature, apparso
nel medesimo anno, subito seguito da J. M. Coetzee and the Ethics of Reading: Litera-
ture in the Event . Soprattutto in questi ultimi due studi, sulla scorta del pensiero di
Lévinas e di Derrida, la questione della singolarità assoluta dell’opera letteraria è ricon-
dotta alla categoria di «evento». In altri termini, entra qui in gioco l’intero processo
della comunicazione, per cui ogni lettura responsabile si pone come un atto performa-
tivo, che effettivamente ha il potere di attualizzare e rinnovare – in un modo sempre
inedito e diverso – l’intrinseca peculiarità del testo letterario. D’altronde, non è certo
nuovo il richiamo ad una precisa responsabilità da parte del lettore. È questo un tema
che ricorre con vibrante intensità nei saggi di George Steiner, per il quale una lettura
attenta e seria, una lettura rispettosa dell’alterità del testo, è sempre e comunque un
incontro con una «vera presenza» (Steiner, ). In effetti, Steiner insiste sulla reci-
procità del rapporto che si instaura fra l’interprete e l’opera letteraria, in quel coinvol-
gimento radicale che contraddistingue ogni lecture bien faite. Se indubbiamente il
testo «ha bisogno della collaborazione del lettore per mantenere intatta la sua vitalità»,
ossia per dischiudere le potenzialità ancora sopite del senso, nondimeno, anche il let-
tore ha bisogno del testo per accedere alle zone d’ombra della propria identità (Steiner,
, p. ).
Su una linea sostanzialmente analoga si sviluppa l’argomentazione di Ezio Rai-
mondi in un conciso, limpidissimo saggio apparso di recente (Raimondi, ). Qui, in
particolare, si mette in luce la funzione della tradizione come alterità rispetto al lettore:
ovvero come scarto, che nel contempo distanzia e ricollega il passato, a cui l’opera
appartiene, con il presente in cui comunque si attua l’esperienza sempre viva e diversa
della lettura:
Sincronizzandosi attivamente con l’energia della parola che lo interpella, sulla traccia o
sul confine di un’alterità, il lettore ne realizza il disegno di senso traducendolo nell’ori-
ginalità inalienabile del proprio presente. E a contatto con i motivi e i problemi di una
nuova storia, quella del lettore e della sua risposta creativa, il testo svela dimensioni e
profondità sconosciute e imprevedibili del proprio significato (ivi, pp. -).
Accade, allora, che quanto più il lettore si protende verso il testo, sforzandosi di coglie-
re in esso i tratti e i toni caratteristici di un’alterità irripetibile, tanto più vi riconosce i
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segni della propria storia, vi riscopre le tracce di una memoria collettiva che è radicata
nella sua più profonda identità. Ma è vero anche l’opposto. Quanto più il lettore attira
il testo nel suo universo di esperienza e di senso, quanto più lo interpella con doman-
de autentiche, trattandolo come un vero interlocutore dei suoi interessi e dei suoi biso-
gni vitali, tanto più lo rispetta e lo preserva nella sua integrità e nella sua differenza.
It is an ancient Mariner,
And he stoppeth one of three.
«By thy long grey beard and glittering eye,
Now wherefore stopp’st thou me?
The Rime of the Ancient Mariner si apre con una formula di immediata, impersonale
drammaticità, che rende subito presente sulla scena il personaggio del vecchio Mari-
naio. Questi è colui che proviene da altrove e che irrompe all’improvviso: simbolica
apparizione dello Straniero, privo di qualsiasi relazione con quanto lo circonda, senza
legami e senza appartenenza, individuato unicamente tramite i connotati di una visi-
va, sorprendente alterità. È significativo, peraltro, che i tratti caratterizzanti del Mari-
naio – la lunga barba grigia e l’occhio scintillante – siano riportati attraverso lo sguar-
do dell’interlocutore, il giovane convitato che si sta recando alla festa nuziale. «By thy
long grey beard and glittering eye […]»: sono le prime parole con cui il giovane rea-
gisce di fronte allo straniero, quasi a volerne fissare l’aspetto nell’oggettività di un lin-
guaggio condiviso, esorcizzando l’apprensione che l’incontro con l’altro ha suscitato.
All’estraneità del Marinaio, il quale è subito percepito come una presenza inopportu-
na, come una vera e propria intrusione nel contesto della festa nuziale, il convitato
contrappone la propria identità: «I am next of kin». Egli si definisce parente stretto
dello sposo, sottolineando così il rapporto di appartenenza che lo lega ad un gruppo
sociale e che lo rende partecipe di una collettività. A lui, al «Wedding-Guest» spetta
quindi di introdurre lo scenario della festa di nozze, metafora esemplare di ogni vin-
colo di alleanza e di comunione tra gli uomini; a lui compete di ricomporre il quadro
di un rituale nel quale aspira a prender posto, perché precisamente in quella “posi-
zione” egli riconosce la propria identità.
È opportuno allora, per il lettore, analizzare più da vicino taluni significati implici-
ti in questa sequenza iniziale, dialogica e descrittiva, spesso relegata al ruolo di struttu-
ra-cornice, e come tale rapidamente accantonata. Eppure, alla luce della problematica
che qui interessa, è evidente che solo sulla trama di una socialità convenzionale, pro-
priamente intesa nei suoi valori e nei suoi codici espressivi, è possibile far emergere la
figura emblematica dell’Altro. La scena che apre la Ballata, dunque, e che descrive l’in-
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«There was a ship»: l’inizio mitico e fiabesco dischiude subito una dimensione di tota-
le alterità nel tempo e nello spazio, che dà l’avvio alla straordinaria e irripetibile vicen-
da del vecchio Marinaio. Ma dal punto di vista soggettivo di colui che racconta, si trat-
ta di una storia di colpa e di espiazione che contiene il senso stesso del suo esistere e
del suo peregrinare di terra in terra, simile a Caino e all’Ebreo errante. È dunque la sua
storia personale, che egli è costretto a rivivere ogni volta con intimo tormento. È que-
sto il suo racconto, «his tale», come recitano le glosse in prosa: ovvero è il mito di una
individuale e singolarissima esperienza, che viene a contrapporsi al grande rito della
socialità. Precisamente nell’unicità irripetibile di quanto egli ha vissuto, precisamente
in ciò che lo separa dal consorzio civile di tutti gli altri uomini, il Marinaio riconosce la
propria identità.
S’intravede allora la possibilità di cogliere una duplice valenza nel titolo stesso del
poemetto, The Rime of the Ancient Mariner, dove «the Ancient Mariner» può adem-
piere la funzione di genitivo oggettivo o soggettivo. Se per rime si intende un compo-
nimento metrico in strofe rimate, caratterizzato da particolari moduli e stilemi retorici,
allora la Ballata di Coleridge si configura come una forma che riprende e rinnova
profondamente il genere medievale, assumendo a tema la vicenda del peregrinante eroe
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romantico. Ma il termine rime può essere inteso pure in un’accezione originale e pre-
gnante, come equivalente della “parola poetica”: in tal senso, allora, esso verrebbe a
designare quello «strange power of speech» che è prerogativa essenziale del vecchio
Marinaio, e che coincide con il suo personalissimo racconto di colpa e di espiazione
(TR, v. ). Nel primo caso si tende a privilegiare il punto di vista della tradizione, sto-
rica e letteraria, e quindi si mette in luce l’oggettività della vicenda narrata, con tutto il
carico della sua irriducibile alterità. Nel secondo caso, invece, si pone l’accento sul
«ritmo individualizzante» della parola soggettiva, evidenziando l’identità inalienabile
di cui essa è portatrice.
Naturalmente le due interpretazioni non si elidono, ma piuttosto si rafforzano e si
completano a vicenda, suggerendo un percorso ermeneutico che è affidato, in ultima
istanza, alla capacità di “ascolto” e di approfondimento del lettore. Muovendo dalla
situazione esterna della festa di nozze, il senso oggettivo appare dominante, conferma-
to peraltro dalle rigide formule della consuetudine e del rito collettivo. La figura dello
straniero viene allora percepita come una presenza ostile, che interrompe e spezza la
successione ordinata delle azioni e la continuità richiesta da ogni pratica rituale. Ma
allorché si entra nella rievocazione personale del vecchio Marinaio, il pensiero mitico
prevale: e con esso si afferma una modalità di progressione attraverso “inizi” sempre
nuovi, con l’inserimento di passaggi repentini e di precisi scarti differenziali. E qui
certo, l’alterità continuamente insorge dall’interno in maniera ancora più inquietante,
rivelando il volto mutevole e proteiforme della vita, a cui fanno riscontro i differenti
stadi della coscienza soggettiva.
zante e rigorosa. D’altronde, nel rievocare il momento della partenza, il soggetto nar-
rante lascia intravedere l’emozione che accomuna i marinai («did we drop»), allorché
essi vedono i segni familiari della propria terra scomparire l’uno dopo l’altro, sotto la
linea dell’orizzonte. In effetti, nella scena iniziale l’equipaggio è rappresentato come un
solo uomo, mentre la nave salpa verso Sud, solcando il mare aperto fino all’equatore.
La prima variazione che interviene a modificare il corso degli eventi, imprimendo un
movimento forzato al viaggio della nave, è il sopraggiungere dell’Uragano, che per la
sua violenza è personificato nella figura del nemico (TR, vv. -):
«And now» (TR, vv. e ): la ripresa sottolinea l’insorgere di un mutamento inaspet-
tato, pur nella continuità di un percorso che comunque prosegue, in direzione del polo
sud, sotto l’impeto incalzante di venti tempestosi. Per la prima volta si manifesta qui l’al-
terità della natura, sotto l’aspetto temibile dell’Uragano – «the Storm-Blast» –, personi-
ficato nel suo potere tirannico e furioso. D’altra parte, allo sconvolgimento naturale
corrisponde, per la prima volta nella Ballata di Coleridge, la “rottura” dello schema
metrico abituale. Si dispiega allora, nell’arco di sei versi, la suggestiva similitudine in cui
la nave, con gli alberi inclinati e con la prua sommersa, viene paragonata a colui che, fug-
gendo, si protende in avanti, mentre «calpesta l’ombra del nemico» che lo sovrasta nel-
l’inseguimento (TR, v. ). Viene quindi raggiunto il polo sud, «the land of ice, and of
fearful sounds», come recita la corrispondente glossa in prosa (TR, p. ): dove il volto
ostile e inospitale della natura si estende ad ogni aspetto dello scenario percepibile, in
un crescendo pauroso di rumori sinistri e di immagini di gelo (TR, vv. -):
La nave a questo punto appare completamente circondata dai ghiacci, tra bagliori e
suoni di impressionante potenza, che la parola poetica lascia appena intuire attraverso
espressioni onomatopeiche. Nessuna forma vivente si profila all’orizzonte. Tutto ciò
che si offre alla percezione visiva e uditiva dell’equipaggio, tutto ciò che traspare dal
racconto del vecchio Marinaio, non può che confermare l’immagine agghiacciante di
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«Thorough the fog it came»: penetrando la cortina di nebbia e nevischio che chiude
interamente l’orizzonte, al di là di ogni possibile attesa e previsione, l’Albatro viene
come un segno divino, come la muta parola dell’invisibile. Estraneo a tutto ciò che lo
circonda, accetta il cibo che gli viene offerto, prende parte alle azioni dei marinai. La
sua comparsa rappresenta un evento di assoluta, irriducibile singolarità. Con il suo
subitaneo apparire, con il suo silenzioso accompagnare la nave, con il suo puntuale
ritornare ogni giorno come per un tacito appuntamento, l’Albatro afferma la sua inti-
ma e sovrana libertà. È l’Ospite per eccellenza, simbolo della vita divina che pervade
l’universo, in sintonia con tutti gli elementi del creato, eppure non assimilabile a nes-
suno. Nella sua venuta sorprendente e inaspettata, nella sua eterogenea presenza, nel
suo esserci, l’Albatro esprime un moto di incondizionata gratuità: accoglierlo, per i
marinai, significa essere accolti a loro volta in quelle medesime regioni, che poco prima
si erano rivelate totalmente inospitali.
Ad un tratto, senza alcuna spiegazione, il vecchio Marinaio colpisce il grande uccel-
lo marino con la sua balestra. L’indicibile colpa su cui è imperniato l’intero poemetto
di Coleridge è l’uccisione dell’Albatro, ovvero l’atto ingiustificato e sacrilego con cui
l’essere umano uccide l’altro: e non il nemico da cui ci si sente minacciati, bensì l’ospi-
te che mitemente ci si è fatto incontro. Per quanto inconsulto e immotivato possa appa-
rire il gesto del Marinaio, ciò nondimeno questi ne è responsabile in prima persona,
come attesta la sua concisa testimonianza: «With my cross-bow / I shot the Albatross»
(TR, vv. -). Significativamente, su queste parole si chiude la parte iniziale della Bal-
lata. Ed è la prima volta che l’io lirico compare – come si è già evidenziato –, isolando
l’individualità del vecchio Marinaio e lasciando intravedere una fessurazione nella
coscienza soggettiva di colui che parla.
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Significativa è qui la comparsa del pronome di prima persona singolare, che a questo
punto stacca l’identità del Marinaio dal resto dell’equipaggio. Sul piano verbale, dun-
que, il soggetto si appropria dell’azione commessa, manifestandola con essenziale inci-
sività. Ma l’espressione del volto, e in particolare lo sguardo del Marinaio, tradiscono
l’intimo tormento che egli prova nel rievocare il suo misfatto. E il riferimento ai demo-
ni, da parte dell’interlocutore, evoca proprio l’immagine inquietante di una “doppia”
personalità. Diversamente angosciosa è l’agonia interiore che occupa gran parte della
quarta sezione del poemetto, fulcro dell’esperienza spirituale del personaggio. E qui la
divisione da se stesso si manifesta appieno, mentre l’intimo dissidio della volontà rag-
giunge l’acme nel vano e ripetuto tentativo del soggetto di pregare, e soprattutto nel suo
non poter morire: «and yet I could not die» (TR, v. ). Ma l’espressione più eloquente
di un’alterità che scaturisce dal profondo, e a cui non è possibile opporre resistenza, si
trova nella parte conclusiva, laddove l’eremita pone al Marinaio la domanda cruciale
sulla sua identità. E a quella domanda il Marinaio viene afferrato da un’atroce agonia,
che lo costringe a narrare la sua storia. E poi sempre, da allora (TR, vv. -):
. Molto è stato detto a proposito di The Rime of the Ancient Mariner come di un’o-
pera di pura immaginazione. E tale giudizio, in certo senso, è stato confermato dallo stes-
so autore, il quale tuttavia sapeva bene che l’immaginazione può essere più vera del
“reale”. D’altra parte, proprio a Coleridge si deve una penetrante intuizione critica, circa
l’opportunità, talora, di sottrarre realismo alla storia narrata, «in order to give a deeper
reality to the truths intended» (Coleridge, , p. ). Riportare alla luce questa «dee-
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per reality», riconoscere la «realtà più profonda» che dimora nelle regioni oscure del-
l’inconscio e dell’immaginario testuale, è compito del lettore. In effetti, tra la lettura e la
vita si determina un procedimento di osmosi: può essere un truismo affermare che si
comprende veramente solo ciò che per esperienza si è conosciuto e sofferto; d’altro
canto, l’opera letteraria insegna a riconoscere ciò che forse talora si è intuito, ciò che
fugacemente si è incontrato, senza avere tuttavia la capacità di definirlo, di nominarlo, di
fissare l’impressione di un evento nella materialità della parola. La letteratura aiuta a
dare un nome all’Altro da sé, verso cui si sperimenta un duplice sentimento di desiderio
e di apprensione, di curiosità e di interesse da un lato, ma anche di riguardo e di timo-
re. Del resto, è un’esperienza comune: l’alterità dell’opera letteraria – la sua componen-
te immaginativa, direbbe Coleridge – svela a noi stessi la nostra più profonda identità.
Ci riconosciamo: ovvero identifichiamo, trovandola nominata, quell’alterità che non riu-
scivamo ad esprimere – o almeno non così bene, non così compiutamente. Questa pos-
sibilità di riconoscersi nella parola dell’altro, o comunque di scoprirvi una modalità
diversa dell’essere, è il dono vitale che la letteratura è in grado di offrire. D’altronde, se
l’esperienza della lettura diventa, come vuole Steiner, un autentico incontro con la pre-
senza viva dell’altro, allora può anche accadere che sia il lettore ad arricchire l’opera di
una vita ulteriore, di una possibilità di risonanze nuove nel presente.
In una delle sue ben note definizioni, Calvino afferma che «i classici sono quei libri
che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra»
(Calvino, , p. ). E certo, la rilettura odierna di un grande classico della letteratura
romantica, quale è The Rime of the Ancient Mariner, non può prescindere totalmente
da questo sfondo di presenze e di voci, da questo intreccio di incontri vivi e vitali con
l’alterità della parola poetica, dispiegati ormai nell’arco di due secoli. Lo dice bene Rai-
mondi in un breve saggio che si è già citato: «Tra i fenomeni umani che rientrano nelle
figure della pagina scritta vi è anche la società degli altri lettori nel tempo, con il loro
carico di sofferenza e di speranza, che non si può rimuovere senza tradire la propria
stessa umanità» (Raimondi, , p. ). Non sembra dunque inopportuno riproporre
in questa sede, alla luce delle riflessioni che sono emerse, una “riscrittura” alquanto
recente del capolavoro di Coleridge, che prende le mosse da un celebre verso della
parte conclusiva (TR, v. ). Si tratta di una poesia composta da Primo Levi il feb-
braio , intitolata Il superstite, inclusa nella raccolta Ad ora incerta, il cui titolo
emblematicamente allude al medesimo verso della Rime.
È difficile concepire una lettura del poemetto di Coleridge che possa ridire il senso bru-
ciante di quella «uncertain hour», come lo dice Primo Levi in questi versi scritti «dopo
di allora, ad ora incerta» – come soltanto lui forse può dire. È difficile attribuire una
consistenza più drammaticamente reale all’incubo della «Vita in Morte» e della «Morte
in Vita», figure pervasive e dominanti dell’immaginario di Coleridge. È difficile pensa-
re di poter racchiudere in un’unica parola, ossessivamente ripetuta, vuota e nel con-
tempo satura di presenze, il rapporto sempre conflittuale con l’Altro da sé. «Nessuno è
morto in vece mia. Nessuno».
Secondo Steiner (, p. ), «l’esperienza autentica della comprensione, quando
un essere umano o un poema si rivolge a noi, è un’esperienza di responsabilità in rispo-
sta all’altro». Comprendere un’opera, interpretarla, significa in senso etimologico
rispondere all’alterità assoluta della parola poetica: cioè significa accoglierla, ricono-
scerla nella sua irriducibile singolarità, ospitarla durevolmente in noi come per render-
cela un poco familiare. Significa ripeterla di tanto in tanto, «ad ora incerta»; significa
eseguirla fino a conoscerla col cuore: «to know by heart», non è questo il segreto della
memoria? Secondo Steiner, la vera ermeneutica di un’opera è la sua esecuzione, ovve-
ro quella “messa in atto” di significati e di valori che passa attraverso un’appropriazio-
ne esistenziale della parola altrui. È solo in virtù di questo coinvolgimento personale,
di questa autentica risposta, che l’interprete restituisce alla parola dell’altro la possibi-
lità di essere se stessa veramente, la possibilità di esserci. Ed “esserci” nel suo più
profondo, per la parola del Poeta, significa immancabilmente nominare l’Altro da sé,
l’Altro assoluto che a tutti appartiene, quella zona d’ombra sfuggente, proteiforme, che
accoglie l’indicibile, l’imponderabile: la Morte, l’ultimo nemico, all’orizzonte della vita
di ogni uomo, che imperiosamente chiede di diventare Ospite.
Note
. Della vasta produzione di Emmanuel Lévinas vanno almeno ricordate due opere fondamenta-
li: Totalità e infinito e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. In rapporto alla tematica specifica che
qui interessa, si vedano i due titoli inclusi nella Bibliografia: Tra noi. Saggi sul pensare all’altro e Dal-
l’altro all’io. Per un approfondimento della concezione di Lévinas cfr. Augusto Ponzio (, ).
. Rimane emblematica l’opera di Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema del-
l’altro, pubblicata originariamente a Parigi nel . Sul medesimo tema è incentrato il suggestivo libro
di Stephen Greenblatt, Marvelous Possessions (). D’altra parte, passando a contesti e a problema-
tiche più attuali, rimane tuttavia costante il motivo guida della riflessione: cfr. il recentissimo volume
di Raimon Panikkar, Massimo Cacciari e Jean-Léonard Touadi, intitolato Il problema dell’altro ().
. Cfr. Politiche dell’amicizia e soprattutto Sull’ospitalità. Quest’ultimo testo riproduce due sedu-
te del seminario dedicato all’ospitalità, tenuto da Derrida nel all’École des hautes études en scien-
ces sociales di Parigi, insieme alle riflessioni di Anne Dufourmantelle che lo accompagnano. Per una
lucida introduzione al pensiero di Jacques Derrida, con esplicito riferimento alle tematiche in esame,
cfr. Caterina Resta ().
. Basti citare, a questo proposito, la rievocazione della genesi delle Lyrical Ballads, all’inizio del
capitolo XIV della Biographia Literaria, dove Coleridge attribuisce alla poesia «the power of giving the
interest of novelty by the modifying colours of imagination» (Coleridge, , p. ).
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. Lo stesso Attridge individua nel concetto di “otherness” il filo rosso che ricollega i tre libri,
nella Preface che introduce l’ultima edizione di Peculiar Language (). Vale la pena di citare le
parole dell’autore, il quale peraltro riconosce espressamente il suo debito nei confronti della conce-
zione di Lévinas e di Derrida: «My own publications since Peculiar Language have engaged with a
number of kindred topics, particularly as they relate to Joyce’s writing and to questions of poetic
form, but the books that are closest to its concerns, and could be said to extend and amplify them,
are […] The Singularity of Literature and J. M. Coetzee and the Ethics of Reading: Literature in the
Event. Both books take the question of the specificity of literary language in a new direction, influen-
ced by Emmanuel Lévinas’s account of ethics and Derrida’s response to that account. That is to say,
the continuing importance in Western cultural history of a welcoming of the “other” in the creation
and the reception of art has become clear to me in a way it wasn’t during the writing of Peculiar Lan-
guage» (Attridge, ; reissued , p. XIV).
. L’espressione, tratta da Charles Péguy, dà il titolo ad un celebre saggio di Steiner (, pp. -).
. S. T. Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner, in Id. (), The Major Works, Oxford Uni-
versity Press, Oxford, pp. -. Il testo riproduce l’edizione del , arricchita dalle glosse marginali
in prosa. I versi citati corrispondono alle prime due strofe del poemetto (vv. -). Per tutte le successi-
ve citazioni dalla Rime sarà data indicazione dei versi corrispondenti, preceduti dalla sigla TR; per le
glosse sarà invece indicata la pagina, preceduta sempre dalla sigla TR, con riferimento alla suddetta
edizione. Le eventuali, brevissime traduzioni sono mie.
. Parlando dell’incontro con l’altro, George Steiner attribuisce un valore pregnante al termine
“apprensione”, che indica sia la percezione visiva dell’alterità, sia la paura che ne scaturisce (cfr. Stei-
ner, , p. ).
. L’espressione compare nel capitolo XIV della Biographia Literaria, dove l’autore menziona
«that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith» (Coleridge,
, p. ).
. L’espressione figura nel paragrafo iniziale del Ritratto dell’artista di James Joyce (), in Id.,
Racconti e romanzi, a cura di G. Melchiori, Mondadori (“I Meridiani”), Milano , p. .
. La scelta di rendere il termine “Storm-Blast” con “uragano”, rispetto alla traduzione più cor-
rente e letterale di “tempesta”, è dovuta proprio all’esigenza di mantenere la personificazione maschi-
le dell’elemento naturale, chiaramente indicata dal pronome “he”. Tale scelta è suggerita da Franco
Buffoni nell’edizione da lui curata della Ballata del vecchio marinaio (Mondadori, Milano ).
. Cfr. Table Talk, May , in Coleridge (, pp. -).
. Non si può fare a meno di sottolineare, a questo proposito, come la dimensione morale assu-
ma una rilevanza decisiva nell’opera di Steiner. Ma non diversamente il concetto di “esecuzione”, ovve-
ro di performance, viene strettamente associato all’«etica della lettura» nell’ultimo libro di Attridge; e
su una direttiva sostanzialmente analoga si muove la riflessione di Ezio Raimondi, come testimonia il
titolo del saggio citato in queste pagine. È Steiner, comunque, che ci interpella con la parola più pro-
vocatoria: «A differenza del recensore, del critico letterario, del vivisettore e giudice accademico, l’e-
secutore investe il proprio essere nel processo interpretativo. Le letture, le “messe in atto” di signifi-
cati e valori che l’esecutore sceglie di compiere non sono quelle dell’osservatore esterno. Egli assume
il rischio dell’impegno, di una risposta che è, nel senso etimologico, responsabile. A chi o a che cosa,
tranne al proprio orgoglio intellettuale e all’opinione dei colleghi, devono rendere conto il recensore,
il critico, lo specialista accademico?» (Steiner, , p. ).
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Nel , in occasione dei anni della Penguin, Lisa Appignanesi, scrittrice polacca
di formazione anglosassone, a capo dell’organizzazione mondiale degli scrittori PEN
(Poets, Essayists and Novelists) ha curato un libro che pochi oggi troverebbero neces-
sario senza un attento esame dei mutamenti della realtà sociale europea, e britannica in
particolare, sotto la pressione di un paventato terrorismo da una parte e il sicuro tra-
ballamento delle radici culturali dall’altra.
Il risultato editoriale, Free Expression Is No Offence, comprende interventi di
Monica Ali, Hanif Kureishi, Salman Rushdie, Gurpreet Kaur Bhatti, Rowan Atkinson,
Hari Kunzru e altri artisti di primo piano nella scena intellettuale britannica.
Lontanamente, una scelta simile potrebbe somigliare agli ultimi scritti polemici di
Oriana Fallaci; alla base, anche in questo caso, ci sono il timore religioso e la paura di
perdere il privilegio della libertà acquisita nella cosiddetta “civiltà” occidentale. Tutta-
via Fallaci scriveva in un clima fobico, all’indomani di eventi tragici, e non certo in con-
testi di lucido dibattito culturale e religioso, con pro e contro dei lettori. Qui in Italia
lo scontro tra civiltà rimane ai margini dei dibattiti seri, ed è sempre strumentalizzato
dai poteri clericali o, peggio, si concretizza in qualche ridicola difesa della razza e delle
strade alla ricerca di consenso politico. Del resto, il disinteresse verso le culture di
ingresso da noi ha una lunga tradizione; un po’ più attenta è la criminologia etnica o
almeno sono attenti i media a diffondere a senso unico le tematiche ad essa correlate.
Un altro dato importante è che siamo talmente assuefatti all’ingerenza di chi detta le
regole del pubblico pudore e alle sue censure che neppure si ha lo stimolo a creare
qualcosa che sia artisticamente censurabile.
Altrove, e nello specifico nel Regno Unito, dove più etnie e più religioni hanno
fatto il loro ingresso da tempo, coesiste una vasta varietà culturale e con essa pericoli
diversi e occasioni più numerose. Il timore religioso non va di pari passo con una pas-
siva accettazione del politically correct, invocato talvolta pur di non scalfire l’establish-
ment. Il dibattito oggi si fa aspro intorno a due tematiche principali: la minaccia dell’I-
slam e della censura.
È antica la storia del controllo delle gerarchie sulla cultura: dal la regina ha
avuto diritto decisionale sui libri, insieme ai suoi arcivescovi e al cancelliere dell’Uni-
versità di Oxford o di Cambridge. Milton scrive l’Areopagitica affermando la libertà
d’espressione. Vittime eccellenti sono cadute sotto i colpi della censura, dal radicale
John Wilkies finito nella Torre nel , ai dissidenti, a Thomas Paine, D. H. Lawren-
ce, e nel “Gay News”, per non parlare delle censure teatrali del passato. Alla fine
del libro Free Expression Is No Offence appare non a caso un’interessante scia di proi-
bizioni letterarie, da Lysistrata di Aristofane ( a. C.) all’uccisione di Theo van Gogh,
regista olandese del film Submission.
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Secondo una statistica dell’associazione PEN sono poco meno di mille gli scrittori
in prigione, dodici sono stati uccisi, molti sono scomparsi, dati aggiornati all’anno .
A Iran e Bangladesh spetta il primato delle fata-wa contro gli scrittori. E il clima repres-
sivo non è sempre così distante come sembra.
I paradossi non mancano nella politica inglese. Un governo Tory ha difeso Salman
Rushdie dalla fatwa dell’Ayatollah Khomeini e I versi satanici si è così salvato dall’ac-
cusa di blasfemia. Il governo laburista è stato invece autore di una legge che sta diven-
tando la spina nel fianco degli artisti e che avrebbe senz’altro condannato lo stesso
autore: il Racial and Religious Hatred Act del contro l’incitamento all’odio reli-
gioso. La legge prevede il carcere e multe salate per chiunque inciti all’odio su basi reli-
giose. Considerando che l’arte può essere per natura offensiva, come sostiene Howard
Jacobson in un saggio contenuto in Free Expression Is No Offence, i rischi sono più per
gli scrittori che per i religiosi offesi: «Art at home in society is not art. Art is anathema»
(Appignanesi, , p. ).
Nel si apre un aspro dibattito contro la legge che dovrebbe tutelare dall’odio raz-
ziale e religioso; portavoce della protesta, titolata “Free expression is no offence”, si è
detto, è l’associazione English PEN. All’inizio dell’anno oltre quattrocento intellettuali,
sottoscrivono un appello al segretario di Stato per l’Interno, Charles Clarke.
Nella lettera si legge tra l’altro.
Looking beyond Britain will quickly show that where the State intervenes in religious
matters, there is no possibility of a plurality of equals.
Finally, as writers of many faith and none, we must emphasize that if religious lead-
ers had their way, we would have little literature, less art and no humour. […]
The new legislation encourages rather than combats intolerance. We do not need it.
What we need is a signal from Government that it wishes to defend true democracy and
its many virtues, including those of dissent and the freedom of expression (ivi, p. ).
legge può dar seguito alle proteste di gruppi religiosi contro l’opera di turno, come è
accaduto a Jerry Springer – The Opera, condannata dai cristiani, o Behzti, altra opera
teatrale condannata dai sikh, è meglio per uno scrittore dedicarsi al giardinaggio o alla
moda, o a qualsiasi altro mestiere verso il quale non si prova particolare interesse, con-
clude Ali. E cita l’esempio dell’India, dove al posto di una legge, vista la lunga espe-
rienza di convivenza tra più credi religiosi, si auspica, più semplicemente, maggiore dia-
logo e confronto.
La campagna dell’English PEN ha celebrato la vittoria, per la modifica del Racial
and Religious Hatred Bill, al Garrick Club il marzo . Erano presenti i fautori
delle mozioni e il parlamentare Evan Harris, che ha sempre osteggiato la legge insieme
a molti altri simpatizzanti della rettifica proposta dall’English PEN. L’associazione è ora
impegnata nella creazione di una commissione permanente sulla libertà d’espressione.
Ogni suo membro ha espresso soddisfazione per il risultato che, secondo alcuni, ha
ripristinato la fiducia nel Parlamento inglese e nella possibilità di azioni comuni a favo-
re della libera espressione.
La raccolta di saggi Free Expression Is No Offence denuncia senza mezzi termini lo
stato di censura che in molte parti del globo domina i sistemi di informazione. Offre
anche un resoconto storico, non dimenticando la traduzione della Bibbia bandita dal
Sinodo di Canterbury nel secolo XV, ed elencando anche i libri messi all’indice dai vari
papi. Informa inoltre su episodi inquietanti e inaspettati più recenti, per esempio l’eli-
minazione nel , in molte scuole degli Stati Uniti, di Huckleberry Finn di Mark
Twain. Il merito maggiore della pubblicazione sta, tra l’altro, nell’aver riaperto un
dibattito che sembrava essersi chiuso insieme alla definizione del termine “tolleranza”,
che a quanto pare sta diventando sempre più una categoria di possibilità semantiche
suscettibile dei tempi.
Alcuni degli articoli del libro rappresentano le risposte che gli scrittori hanno volu-
to dare direttamente al governo britannico laburista, contro la legge con cui si inten-
deva criminalizzare l’odio religioso. L’opinione dell’associazione PEN è racchiusa in
questa affermazione:
[it] serves as a sanction for censorship of a kind which would constrain writers and
impoverish our cultural life. Rather than averting intolerance, it would encourage the
culture of intolerance that already exists in all religions.
Insieme a Salman Rushdie, Monica Ali, Hari Kunzru, Hanif Kureishi c’è anche Gurpreet
Kaur Bhatti, la cui opera teatrale, Behzti, è stata violentemente attaccata dai sikh, al
punto da costringere l’autrice a vivere nascosta, dopo aver tolto, ovviamente, la stessa
opera dalla programmazione del Birmingham Repertory Theatre.
che tratti tali argomenti in modo scurrile e offensivo e rappresenti, per questo motivo,
pericolo per la pace.
L’ultimo accusato per blasfemia risale al : John William Gott è stato condan-
nato a nove mesi di lavori forzati per aver paragonato Gesù a un clown da circo.
Nel la portavoce di una campagna moralista, Mary Whitehouse, denuncia la
rivista Gay News per la pubblicazione di una poesia, The Love that Dares to Speak Its
Name, in cui si parla di un centurione innamorato di Cristo.
Ben più nota è la vicenda che riguarda lo scrittore Salman Rushdie, accusato di
vilipendio da alcuni musulmani per il libro I versi satanici. Di fatto però la legge ha
sempre e solo tutelato la chiesa anglicana. Per questo alcuni hanno lamentano il
vuoto legislativo riguardo altre fedi o modalità all’interno dello stesso cristianesimo,
un vuoto che la legge contro l’incitamento all’odio razziale e religioso dovrebbe riu-
scire a colmare. Trevor Phillips, capogruppo della commissione per l’uguaglianza raz-
ziale (Commission for Racial Equality) afferma che ad esempio non c’è una legge che
protegga il metodismo, a cui egli stesso appartiene. Altri sostengono che non è lo
Stato a doversene occupare e le fedi dovrebbero essere abbastanza forti da uscire
indenni da ogni accusa. Così mentre Trevor Phillips afferma che è insostenibile non
avere garanzie in una società multireligiosa, l’associazione britannica degli umanisti
(British Humanist Association) ritiene un errore formulare delle leggi apposite che
ridurrebbero soltanto la libertà d’espressione. Quest’ultima affermazione è sostenu-
ta, tra l’altro, dalla Convenzione europea per i Diritti umani, parte integrante della
legislazione britannica. Dal in poi, a seguito della dichiarazione del sottosegre-
tario di Stato all’Interno, David Blunkett, ci si aspettava la cancellazione della legge,
ormai ritenuta obsoleta e inutile, invece la legge continua ad esistere, rinvigorita da
nuove aspettative e particolare suscettibilità. Contro l’abrogazione si sono espresse la
Chiesa anglicana, l’Associazione Christian Voice (che ha accusato i legislatori di non
temere più Dio) e alcuni gruppi musulmani e di altre religioni che vorrebbero l’e-
stensione della legge anche a loro, appello rimasto inascoltato. E neppure la deside-
rata legge contro l’incitamento all’odio religioso, secondo alcuni, può essere una
garanzia per le minoranze religiose, mentre lo è la legge che protegge dagli insulti raz-
ziali (ritenuto un crimine molto grave).
La legge contestata
Il Racial and Religious Hatred Act del è una legge del Parlamento del Regno
Unito che stabilisce il reato di incitamento all’odio su base religiosa. È il risultato del
terzo tentativo di stabilire questo tipo di reato da parte del governo. Esistevano già
dei provvedimenti come parte dell’Anti-Terrorism, Crime and Security Bill del ,
ma erano decaduti dopo le obiezioni da parte della Camera dei Lord. La misura era
stata di nuovo proposta come parte del Serious Organised Crime and Police Bill nel
-, di nuovo senza successo. La legge, nella sua interezza, è stata proposta prima
delle elezioni generali del . Il partito laburista ne ha praticamente fatto il proprio
manifesto:
It remains our firm intention to give people of all faiths the same protection against
incitement to hatred on the basis of their religion. We will legislate to outlaw it and will
continue the dialogue we have started with faith groups from all backgrounds about
how best to balance protection, tolerance and free speech.
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La legge contiene delle modifiche al preesistente Public Order Act del . Molte sono
state le critiche mosse, in particolare per “l’intenzionalità” implicita riconosciuta al tipo
di reato: «A person who uses threatening words or behaviour, or displays any written
material which is threatening, is guilty of an offence if he intends thereby to stir up reli-
gious hatred». Secondo questa definizione persino la Bibbia o il Corano rischiano di
essere offensivi, così come lo sarebbero artisti ed intellettuali che osassero esprimere
una qualsiasi opinione sulla religione che non sia gradita ad alcuni gruppi religiosi. Il
comico Rowan Atkinson (noto per le interpretazioni di Mr Bean) che ha da sempre uti-
lizzato parodie di background cristiano, ha combattuto in prima linea contro la legge,
appellandosi direttamente ai politici a nome di tutti gli artisti. Pur apprezzando il ten-
tativo di tutelare gruppi religiosi non ancora protetti dalla legge, ne ha fortemente
denunciato i limiti: «I appreciate that this measure is an attempt to provide comfort and
protection to them but unfortunately it is a wholly inappropriate response far more
likely to promote tension between communities than tolerance» (Demetriou, ).
Già nel , in una lettera al “Times”, dopo aver premesso che il tema fisso della sua
arte comica è la sua formazione di cristiano credente, sosteneva che non si può esclu-
dere alcun soggetto dalla parodia o qualsiasi altra forma critica, religione inclusa.
Anche i rappresentanti dei maggiori gruppi religiosi e della National Secular
Society, oltre all’English PEN, si sono schierati contro la legge.
La Camera dei Lord è riuscita a modificare l’emendamento criticato del attra-
verso l’aggiunta di una terza parte, all’interno del Racial and Religious Hatred Act ,
con l’inserimento di nuove sezioni, dalla A alla N. Si tratta di parti che intendono
meglio definire nuove offese per atti intesi a fomentare l’odio religioso.
Ha di fatto rimosso il concetto di offesa e ora si riconosce il reato non più solo per
la possibilità di commetterlo ma, come si è riportato sopra, esplicitamente per l’inten-
zionalità di offendere o favorire l’odio religioso.
Il governo ha tentato di rigettare la modifica ma ha perso ai voti presso la Camera
dei Comuni il gennaio .
Il febbraio dello stesso anno la legge ha ricevuto il consenso reale.
I punti controversi che mettevano in pericolo la libertà di espressione sono: il signi-
ficato di odio religioso (Section A), ovvero l’odio contro un gruppo di persone che si
riconoscono in un credo religioso o nella mancanza di un credo religioso.
Nella Section B si sostiene che una persona che usa parole o comportamenti di
minaccia, o mostra qualsiasi materiale scritto che risulti minaccioso, è colpevole di offe-
sa se intende incitare all’odio religioso. Questa “intenzione” è stata causa di confusio-
ne e alcuni critici sostengono che anche il Corano e la Bibbia risulterebbero illegali
secondo l’interpretazione di comodo che si vuol dare. Chi si occupa di satira e i comi-
ci finiscono nel mirino della legge. Il pericolo è che la tensione finisca per aggravarsi
perché ogni pezzo di satira o opera scritta può risultare un’offesa.
Lisa Appignanesi, a capo della campagna dell’English PEN, fa notare che l’opera
Behtzi di Gurpreet Kaur Bhatti ha suscitato la protesta violenta dei sikh, che hanno
accusato l’autrice di essere sacrilega verso la religione sia perché donna sia per i temi
religiosi trattati. Dopo aver subito minacce di morte, vive nascosta al pubblico per sal-
vaguardarsi la vita.
Il risultato quindi, finora, è stato di impedire la libera rappresentazione di un’ope-
ra e di condannare alla vita clandestina un’autrice. Fiona Mactaggart, parlamentare sot-
tosegretario per l’eguaglianza razziale, dice ancora Appignanesi, avrebbe affermato, sul
“Daily Telegraph” del dicembre , che la libertà di espressione di chi protesta è
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Similarly, we might deplore, on the grounds of “responsibility”, the lie spread, without
any medical evidence, by the Roman Catholic Church in Africa that the use of condoms
is useless against the transmission of HIV (Appignanesi, , p. ).
Alla luce di un uso politico della parola, che può avvenire con ogni mezzo o persona di
potere, la censura che sembra implicita nel provvedimento legislativo a molti artisti è
sembrato un grave ritorno al passato.
Monica Ali ironizza dicendo che un tempo forse non chiederà a qualcuno se ricor-
da i giorni in cui si poteva iniziare una barzelletta dicendo c’era un pachistano, un irlan-
dese, un ebreo, ma piuttosto si ritroverà seduta al computer a pensare a quanto era
bello una volta poter vedere sulla BBC un Gesù gay col perizoma e poter poi aprire un
dibattito libero, acceso e legittimo.
Jerry Springer – The Opera è un musical nato dalla penna di Stewart Lee and Richard
Thomas. Si basa sullo show televisivo The Jerry Springer Show, noto per la rivisitazione
profana di temi giudaico-cristiani. Dall’aprile del al febbraio sono state ben
le repliche a Londra, prima di iniziare un tour nel Regno Unito nel .
L’organizzazione Christian Voice ha istituito un procedimento legale per blasfemia
contro il secondo canale della BBC, che ha trasmesso il musical Jerry Springer – The
Opera. Prima della messa in onda, e quindi prima di conoscerne effettivamente il con-
tenuto, la rete televisiva britannica ha ricevuto . lamentele, ma anche molte chia-
mate ed e-mail di sostegno. Nell’opera che da tre anni viene recitata nei teatri di Lon-
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dra, destinata in futuro al pubblico di Broadway, l’ospite Jerry Springer riceve transes-
suali e appartenenti al Ku Klux Klan che ballano il tip-tap. Inoltre appaiono Gesù,
Maria e Dio, con un contorno di bestemmie e . parolacce in tutto. Gesù, in
perizoma, è un coprofilo che ha discussioni oscene contro il diavolo e contro la madre,
accusano i cristiani. È solo un uomo in preda alle allucinazioni, dichiarano spettatori
simpatizzanti.
La BBC da parte sua difende l’opera e trova positivo che sia stata seguita da molte
più persone di quelle che si pensava: «We are pleased that a wider audience has been
able to see an important piece of contemporary culture».
L’obiettivo era del resto offrire uno spettacolo “diverso” per soddisfare tutti i gusti
degli spettatori. Gli accusatori riuniti per due giorni, fuori dai cancelli della BBC, hanno
esibito cartelli con su scritto “Blasphemy Broadcasting Corporation”. Forse l’aspetto
più squallido della vicenda, qualsiasi sia l’opinione che si possa avere riguardo alla rap-
presentazione teatrale, è stata la violazione della privacy utilizzata come offesa ai danni
dei singoli impiegati della BBC e delle loro famiglie: telefonate minacciose e la pubbli-
cazione dei numeri di telefono su un sito web del gruppo dei contestatori, minacce di
morte. Stessa dinamica verso lo staff del Cambridge Theatre di Londra, tanto che sono
state assunte guardie per la sicurezza degli attori e del pubblico. Non ha avuto seguito
l’accusa contro la BBC, respinta sia dai magistrati sia dall’alta Corte di Giustizia, mentre
continuano le proteste, anche su Internet.
Come di consueto, su suggerimento di un lettore, la BBC on line ha aperto un forum
di discussione per stabilire se è stato un bene trasmettere Jerry Springer – The Opera in
TV. Le opinioni sono diversissime, alcune difendono il diritto alla libertà di espressione
artistica e la possibilità di poter vedere qualsiasi tipo di spettacolo (poiché si fa sempre
in tempo a cambiare canale se non lo si trova di proprio gradimento), altre attaccano
duramente la BBC accusandola di cattivo gusto e di mancanza di rispetto verso ciò che
è sacro. Qualcuno insinua che non sarebbe mai stato trasmesso uno spettacolo in cui si
vede Maometto con il pannolone.
Non mancano i simpatizzanti cristiani credenti che trovano giusta e coraggiosa la
scelta della BBC di soddisfare tutti i gusti e di non essersi lasciati condizionare dai “tel-
lyban”, un termine che una lettrice di Londra scrive nel suo post, ricordando la volontà
estremista dei talebani.
La BBC, da parte sua, ha avvisato i telespettatori che l’opera che stava per essere tra-
smessa avrebbe potuto offendere la sensibilità di qualcuno, sia prima della messa in
onda che tra il primo e il secondo atto.
Tutto è iniziato all’Edinburgh Festival, nel , per poi passare al National Thea-
tre di Londra nel e infine al Cambridge Theatre. Rappresenta la combustione tra
arte raffinata e trash, curiosità vouyeristica e feticismo di personaggi sfortunati che si
incontrano in uno show di Jerry Springer.
Nonostante le divergenze critiche, l’opera ha vinto numerosi premi importanti:
“Olivier Awards-Best New Musical”, “Best Sound Design”, “Best Actor in a Musical”
(David Bedella) e “Best Performance in a Supporting Role in a Musical” (il coro); inol-
tre “Best Musical” nel , “Critics’ Circe Awards”, “Evening Standard Awards”; nel
“Whatsonstage.com Theatregoers’ Choice Awards Best New Musical and London
Newcomer of the Year” (Benjamin Lake). E quattro oscar al NowtDo.Com del :
“Best Actor in a Musical” (David Bedella), “Best Actress in a Musical” (Alison Jiear),
“Best London Show”, “Most Entertaining Show”. Nel lo show vince il “Best Tou-
ring Production” al Theatrical Management Association Awards. È il primo ed unico
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spettacolo ad aver vinto quattro premi tanto importanti come miglior musical. Un elen-
co incredibile che evidenzia un’acclamazione artistica da parte della critica contro la
condanna religiosa e populista.
La novità sta proprio nel trattamento dissacrante di una forma artistica sempre ben
stilizzata e nella ostentata mancanza di rispetto verso la religione. Non a caso, prima di
essere dirottato su Broadway, è stato necessario il passaggio in una città abituata alla
libertà artistica, e non solo, come S. Francisco.
Da novembre l’opera è stata resa disponibile su DVD nel Regno Unito, ma
alcuni distributori hanno smesso di venderlo a seguito delle proteste dei clienti. Nel
prologo di presentazione all’interno del DVD si afferma che non è stato possibile prose-
guire il tour dello show nel Regno Unito a causa di gruppi religiosi. Ma dall’uscita del
DVD il tour va avanti. E dal maggio proseguono anche gli spettacoli a Chicago.
La nuova legge contro l’odio religioso intende difendere le persone dagli insulti su base
religiosa e non solo in base alla razza. Precedentemente non veniva garantita alcuna
tutela al riguardo, se non per gli ebrei e i sikh, considerati razze distinte. Ma per grup-
pi più numerosi che non costituiscono etnie specifiche non c’era nessuna legge ad hoc.
Diverso il caso dell’Irlanda del Nord che ha leggi proprie contro la discriminazione set-
taria tra protestanti e cattolici.
Esistono invece regolamenti a livello europeo che mettono al bando la discrimina-
zione religiosa nei luoghi di lavoro, e il concetto di libertà religiosa è incorporato nella
legislazione inglese, tramite la legge sui diritti umani. I giudici inoltre possono inaspri-
re le pene in caso di attacco ai luoghi di culto.
Esisteva già invece il reato di incitamento, per cui è fuori legge spingere qualcuno
a commettere un atto criminale. E i critici della nuova legge affermano che questo
sarebbe bastato a tenere a freno i più bigotti.
A chi accusa il governo, come il comico Rowan Atkinson, secondo il quale non
sarebbero state più possibili barzellette e battute sulla religione, il governo risponde che
ciò che viene definito “incitamento” è talmente grave da garantire dibattiti esattamen-
te come avveniva prima. La versione finale della legge contiene norme specifiche sulla
libertà di parola, trovando un certo grado di colpevolezza solo per chi risulta minac-
cioso e non semplicemente critico o in disaccordo. Ed è proprio questo il punto che
Atkinson tiene a sottolineare:
To criticize people for their race is manifestly irrational but to criticize their religion –
that is right. That is a freedom. The freedom to criticize ideas – any ideas, even if they
are sincerely held beliefs – is one of the fundamental freedoms of society and a law
which attempts to say you can criticize or ridicule ideas as long as they are not religious
ideas is a very peculiar law indeed. It promotes the idea that there should be a right not
to be offended, when in my view, the right to offend is far more important than any
right not to be offended, simply because one represents openness, the other represents
oppression (Appignanesi, , p. ).
nelle piazze esattamente come anni prima era accaduto a I versi Satanici di Salman
Rushdie. Paradossalmente, nonostante proprio gli artisti corrano il rischio di diventare
i primi colpevoli, nessuno ha pensato di chiamarli in causa prima o durante la prepara-
zione della legge, cosa che invece è avvenuta per i gruppi religiosi.
Di fatto, in tre anni si sono registrati meno di cento casi di “incitamento all’odio
religioso”: questo proverebbe che la legge può essere applicata con ragionevolezza.
Il piano originario della legge quindi non è più passato grazie all’azione comune, in
parte casuale, di laburisti ribelli, astensionisti, assenti, e opposizionisti di entrambi gli
schieramenti. Il voto di Blair, nella seconda votazione, sarebbe stato decisivo, ma il pre-
mier non c’era e i ministri alla fine sono stati costretti ad accettare gli emendamenti dei
Lord. Come ha sostenuto qualcuno, nel complesso è stato «a moment of defeat for
Blair, but a victory for free speech».
La sconfitta dei laburisti e la conseguente marcia indietro sul Religious Hatred Bill
sono state motivo di gioia tra gli scrittori. Non è stato della stessa opinione il Consiglio
britannico dei musulmani (The Muslim Council of Britain) che ha definito «unjust» il
risultato. Questo perché musulmani e induisti speravano di veder chiuso finalmente il
gap con le altre religioni che rimangono, a loro dire, più tutelate sotto le vecchie leggi
per blasfemia (cristiani, ebrei e sikh sono esplicitamente citati).
Lo scrittore Hari Kunzru ha affermato che grazie alla campagna degli intellettuali
e scrittori per la libertà di espressione, da una sconfitta del governo, colpevole di tra-
scurare sempre più le libertà civili, si è giunti alla migliore stesura possibile della legge.
Alla quale, del resto, qualcosa di importante è stato aggiunto, proprio per togliere ogni
dubbio sul fatto di trascurare alcune fedi religiose:
The legal loophole which Muslims and others felt did not afford them the same pro-
tection as Christians, Sikhs and Jews has now been closed. It will now be criminal to
publish posters showing women of many colours in hijabs with the slogan “Muslims go
home” and English PEN welcomes this commitment to our plural society. The intention
to incite hatred on religious grounds by using threatening words or images will remain
a criminal act.
C’è un’interessante linea-guida sulla libertà di parola in Internet, a cura di David Smith
e Luc Torres di cui vorrei sottolineare alcuni punti cruciali poiché sembrano stretta-
mente correlati a quanto detto finora. Nel Galileo Galilei cede alle pressioni del tri-
bunale dell’Inquisizione, dopo aver precedentemente affermato che il sole non gira
intorno alla terra. Nella guida non c’è, ma è un’affermazione pronunciata dall’attuale
papa, quando era ancora cardinale, in un discorso tenuto a Parma, secondo il quale,
riprendendo le parole del filosofo austriaco, agnostico scettico, Feyerabend, il proces-
so a Galileo sarebbe stato ragionevole e giusto. Ora, per quanto si vogliano giustificare
queste parole, sostenendo che non sono del Papa e che la fine del discorso non è con-
tro la razionalità ma contro «la sua fondamentale affermazione», non sfugge un tono
che vieta a priori una visione laica e libera. Perché è chiaro che ogni cosa rientra in un
disegno più grande, ma non può ancora essere giustificato il processo a un uomo che
ha pagato per il desiderio innato dell’esplorazione, lanciando un messaggio che poco
spazio lascia a un’interpretazione più morbida da parte di chi si occupa di ricerca e il
cui libero arbitrio contiene già dei limiti morali non imponibili dall’alto.
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If publishers and editors exert themselves to keep certain topics out of print, it is not
because they are frightened of prosecution but because they are frightened of public
opinion. In this country intellectual cowardice is the worst enemy a writer or journalist
has to face, and that fact does not seem to me to have had the discussion it deserves.
Ciò che più colpisce di questo tipo di censura, dice l’autore, è che non fa parte di un
piano del governo, come ci si potrebbe aspettare in tempo di guerra, ma è semplice-
mente “volontario” e risponde solo al timore di un ipotetico giudizio del pubblico. Ciò
che è impopolare viene taciuto, senza il bisogno di alcuna messa al bando. Orwell non
si riferisce soltanto ad Animal Farm, bocciato dagli editori per quella che lui definisce
“russomania”, una simpatia acritica verso la Russia necessaria contro l’opposto estre-
mismo del nazifascismo. E le parole tornano attuali e sempre valide nel postulato appa-
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rentemente scontato secondo cui la libertà intellettuale, tratto distintivo della civiltà
occidentale, significa avere il diritto di dire o pubblicare ciò che si vuole, purché non
offenda in modo inequivocabile il resto della comunità:
If the intellectual liberty which without a doubt has been one of the distinguishing
marks of western civilization means anything at all, it means that everyone shall have the
right to say and to print what he believes to be the truth, provided only that it does not
harm the rest of the community in some quite unmistakable way.
Note
. Manifesto del Labour Party, Forward Not Back, , pp. -.
. «Public Order Act , Chapter , A, th November .
Intentional harassment, alarm or distress
A person is guilty of an offence if, with intent to cause a person harassment, alarm or distress, he
(a) uses threatening, abusive or insulting words or behaviour, or disorderly behaviour, or
(b) displays any writing, sign or other visible representation which is threatening, abusive or insul-
ting, thereby causing that or another person harassment, alarm or distress» (http://www.webtribe.net).
. “The Observer”, Sunday, February , , p. .
. Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger): «Il processo della Chiesa contro Galileo fu ragionevo-
le e giusto e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione. […] Sarebbe
assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a par-
tire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua
inscrizione in una ragionevolezza più grande. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che evi-
denzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecni-
ca» (frase pronunciata il marzo , ancora cardinale, in un discorso tenuto presso la città di Parma;
http://www.fidesvita.org/index.php/ecco-le-vere-parole-su-galileo/).
. G. Orwell, The Original “Suppressed” Preface to “Animal Farm”, plus the “Preface to the Ukrai-
nian Edition” (), in “The Freedom of the Press”, Monday, May , (on line version:
http://ancientliberty.blogspot.com/[//]).
Bibliografia
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http://news.bbc.co.uk//hi/entertainment/tv_and_radio/.stm [//]).
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shing/ [//]).
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sion: http://www.mediawatchwatch.org.uk/?p= [//]).
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ATTIVITÀ SCIENTIFICA
DEL DIPARTIMENTO
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CONVEGNI
CONVEGNI
Maddalena Pennacchia
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CONVEGNI
Con l’intento di rafforzare il carattere di scambio da cui è nata l’idea del convegno, gli
interventi hanno presentato un nodo teorico e/o traduttivo che è stato sottoposto al
dibattito. E al dibattito è stato dato largo spazio volutamente, in modo da offrire ai gio-
vani l’opportunità di misurarsi sullo scambio scientifico. Per far ciò sono state predi-
sposte alcune strategie mirate al coinvolgimento degli studenti: dalla diffusione degli
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abstract degli interventi, all’organizzazione della didattica per cui è stata prevista l’ela-
borazione di un dossier che raccogliesse i materiali del convegno su cui si sarebbe svol-
ta, almeno in parte, la preparazione in vista dell’esame finale.
Il tempo dei lavori, suddiviso tra le diverse aree disciplinari nelle quali la traduzio-
ne è coinvolta, è stato dedicato quindi a una vasta gamma di problematiche con i relati-
vi risvolti nella ricerca: dalla riflessione filosofica e teorica sulla lingua, alle varie prati-
che, inclusa quella letteraria, prevedendo interconnessioni e specificità di applicazione
in chiave didattica e informatica. Questi ultimi in particolare sono stati oggetto dell’in-
teresse dei numerosi studenti presenti dato che solo di recente sono entrati nei percorsi
formativi universitari in seguito al riconoscimento delle istituzioni accademiche.
Il titolo del Convegno, “Italianisti in Spagna, ispanisti in Italia: la traduzione”, è
indicativo di un’altra scelta: porre in primo piano il ruolo delle figure che nei due paesi
operano intorno allo studio specialistico sulla traduzione, evitando così di dare un’idea
astratta e poco operativa delle rispettive lingue.
Tra gli argomenti trattati sono emersi con evidenza sia il rapporto tra pratica tra-
duttiva e teorie linguistiche, sia la didattica della traduzione nella sua specificità. Il
luogo comune per cui a tradurre non si impara o si impara attraverso la pratica, è stato
esaminato da diversi punti di osservazione, arrivando a concludere che per quanto l’ac-
cumulazione dell’esperienza possa essere utile, essa sia anche poco sistematica e diffi-
cilmente trasmissibile date le combinazioni infinite che le lingue presentano. Nel corso
del dibattito è stato ribadito quindi che in sede di insegnamento ci si debba concentra-
re sul processo traduttivo, seguendo un metodo che prima di arrivare alla fase finale
insista su quella iniziale e intermedia in modo tale da evidenziare le caratteristiche del
testo e mettere in grado di condurre su di esso un’analisi che, per quanto finalizzata alla
traduzione, dispieghi tutte le destrezze richieste da qualsiasi analisi testuale. Un’atten-
zione particolare è stata dedicata perciò ai processi di formazione a cui sono interessa-
ti coloro che in prospettiva e per il loro lavoro futuro prevedono di servirsi delle com-
petenze traduttive.
CONVEGNI
CONVEGNI
Per quanto riguarda il restauro, ricordiamo che l’attenzione all’uso delle tecniche
della contemporaneità porta Marchegiani, già negli anni Sessanta, ad istituire e diri-
gere una Scuola di Restauro dell’arte contemporanea proprio pensando a chi, in futu-
ro, avrebbe restaurato le sue opere. È, oggi, art director della Scuola di restauro e
tutela degli oggetti d’arte e di cultura contemporanea del Comune di Morro d’Alba
nelle Marche.
Marchegiani ha, inoltre, eseguito e curato restauri di opere di Fontana, Manzoni,
Castellani e di moltissime altre tecnologicamente complesse. È del la sua ricostru-
zione del teatro futurista di Giacomo Balla, presentato alla Biennale di Venezia con il
titolo Ricostruiteli con i materiali della vostra epoca.
Dopo il seminario si è passati all’inaugurazione della mostra nel Centro d’Arte
Contemporanea (CEDAC), attiguo all’Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia,
dove sono state esposte (dall’ novembre all’ dicembre ) circa trenta opere di
Elio Marchegiani che illustrano la sua produzione iniziata alla fine degli anni
Cinquanta.
Questo spazio, realizzato dagli architetti Mario Panizza e Arnaldo Marino e inau-
gurato in occasione della mostra di Marchegiani, verrà utilizzato per mostre e attività
culturali (dibattiti, seminari ecc.). Esso vuole essere un punto di riferimento d’eccel-
lenza che documenti il fare artistico contemporaneo e indaghi sulle sue tecniche e i
suoi materiali; è aperto al dialogo con le istituzioni esterne e intende offrire l’opportu-
nità ai nostri studenti di avere un contatto diretto con l’arte contemporanea e gli artisti
al fine di arricchire la loro formazione culturale.
STRUMENTI TECNOLOGICI
***
La letteratura – cartacea e telematica – sui concetti che qui espongo brevemente non
solo è ingente, ma è anche in un processo di continua espansione, tale da rendere inop-
portuno qualsiasi riferimento particolare, soprattutto in questa sede e nel breve spazio
che si dedicherà a tali questioni. Certo, mi sembra però almeno doveroso, e in parte
intuitivo, rilevare che la presenza stessa di tali studi suggerisce, nel momento in cui ci
si trova a ripensare un sito web istituzionale, di tenere conto di una serie di criteri che
invece non sono intuitivi, bensì frutto dell’analisi e dell’osservazione attenta di feno-
meni che riguardano uno specifico tipo di comunicazione e uno specifico mezzo depu-
tato a veicolarla. È forse ridondante, ma altrettanto opportuno, aggiungere che in que-
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***
una forma audio (radiodramma, audiolibro ecc.), audiovisiva (film, sceneggiato, docu-
mentario televisivo ecc.) o darsi come scrittura elettronica (ipertesti, cybertesti), senza
tralasciare, naturalmente, la stampa. Nell’ambito di un approccio intermediale alla let-
teratura, tuttavia, il testo letterario non de-genera nell’adattarsi ai mass-media e ai per-
sonal-media, ma piuttosto si ri-genera in forme sempre nuove, per le quali diventa pro-
blematico far valere l’ordine gerarchico fra originale e adattamento.
Maddalena Pennacchia
***
Note
. Menzionerei qui, tra gli studi italiani più recenti, almeno il libro di M. Visciola, Usabilità dei siti
web. Curare l’esperienza d’uso in internet, Apogeo, Milano .
. N. Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano .
. F. A. Kittler, Literature, Media, Information Systems, OPA, Amsterdam .
. H. Oosterling, Sens(a)ble Intermediality and Interesse. Towards and Ontology of the In-Between,
in “Intermédialités”, , , pp. -.
. Ci limitiamo qui a segnalare, tra i recenti studi pubblicati in Italia, G. Manzoli, Cinema e lette-
ratura, Carocci, Roma , dov’è possibile trovare una buona bibliografia ragionata.
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