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Capitolo 3 I fallimenti del mercato: aspetti macroeconomici della realtà


3.1 L’instabilità di un’economia (capitalistica) di mercato: i fallimenti macroeconomici
Sulla capacità dei mercati reali di svolgere il ruolo di “mano invisibile” non si possono trascurare
alcuni fenomeni non spiegabili con i fallimenti microeconomici, come disoccupazione, inflazione,
squilibri di bilancia dei pagamenti e sottosviluppo. Queste sono manifestazioni della instabilità
delle economie di mercato capitalistiche. I fallimenti macroeconomici sono quelli connessi con
l’instabilità delle economie di mercato. Essi sono fallimenti perché denotano la presenza di
inefficienze e/o iniquità; sono macroeconomici perché la teoria che meglio li spiega è quella
macroeconomica.
I sostenitori delle virtù della mano invisibile hanno tentato di spiegare alcuni di questi aspetti della
realtà, ad esempio la disoccupazione, alla luce della teoria dell’equilibrio economico generale,
introducendo ipotesi che spiegano il cattivo funzionamento dei prezzi (rigidità), fra queste ipotesi un
ruolo privilegiato ha avuto quella secondo cui l’intervento pubblico contribuirebbe a determinare tale
rigidità e quindi gli indicati fenomeni di crisi. Altri in maniera più convincente hanno sostenuto che
la causa dell’instabilità risiede in aspetti strutturali dei mercati che impediscono a questi ultimi di
funzionare nel modo e con i risultati previsti dalla teoria dell’equilibrio economico generale.
Aderendo a questa impostazione, chiamiamo macroeconomici fallimenti connessi con l’instabilità
dell’economia di mercato.
3.2 La disoccupazione
Con questo termine ci riferiamo essenzialmente alla disoccupazione involontaria connessa con il
livello di domanda, questa sorge quando vi sono lavoratori potenziali disposti a occuparsi al tasso di
salario reale vigente o anche uno leggermente inferiore, ma la domanda di lavoro è insufficiente per
occuparli. Nel secondo dopoguerra le economie di mercato hanno sperimentato situazioni di
occupazione e disoccupazione molto diverse nelle due fasi che possono grossomodo individuarsi:
prima del 1973 (data della prima crisi petrolifera) e dopo il 1973. Nella fase anteriore al 1973 la
disoccupazione è risultata in continua diminuzione in vari paesi, nella fase successiva, al contrario,
essa ha subito un consistente aumento fino alla metà degli anni 90. Da allora si è sempre ridotta, fino
al 2007 anno nel quale hanno cominciato a manifestarsi consistenti effetti reali negativi di una
rilevante crisi di origine finanziaria. Nei Paesi presi in considerazione (Stati Uniti, Canada, Francia,
Germania, Italia, Giappone, Svezia e Regno Unito) si è certamente lontani dagli ordini di grandezza
con i quali la disoccupazione si era manifestata durante la grande depressione degli anni 30, quando
si raggiunse un tasso di disoccupazione del 24% negli Stati Uniti e del 20% in Gran Bretagna.
Tuttavia il ritorno a valori a due cifre del tasso stesso è significativo della attualità del problema.

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L’esistenza di disoccupazione involontaria configura una perdita di efficienza statica e dinamica per
il sistema economico. Dal punto di vista statico essa implica la possibilità di migliorare la posizione
di alcuni individui, i disoccupati, senza peggiorare quella di altri. Inoltre, il prolungato mancato
utilizzo delle risorse umane ne implica il deperimento: infatti le probabilità del disoccupato di trovare
un’occupazione si riducono all’aumentare della durata della disoccupazione. Oltre a causare una
perdita di efficienza, la disoccupazione accresce l’ineguaglianza della distribuzione del reddito.
Le conseguenze economiche e sociali della disoccupazione possono essere temperate sul piano
personale da interventi pubblici di redistribuzione del reddito come l’indennità di disoccupazione.
L’indennità di disoccupazione, pur essendo stata introdotta in tutti i paesi sviluppati, è di misura e
durata variabili. La misura è minore in Italia, più consistente in altri paesi. In Italia esiste l’istituto
della cassa integrazione guadagni (CIG) introdotto nel 1945, per integrare il salario dei lavoratori che
vengono occupati a orario ridotto (anche a zero ore) per effetto di una flessione della domanda o per
ristrutturazioni e riorganizzazioni. L'esistenza di indennità di disoccupazione o integrazione dei
guadagni, se di misura consistente, facilita i licenziamenti o le sospensioni dal lavoro (lay off) con il
ridurne il costo per le imprese che, pur sostenendo parte del costo stesso, si ritrovano però di fronte a
ridotte resistenze da parte dei lavoratori. Le misure indicate costituiscono al tempo stesso strumenti
di integrazione dei redditi personali e di flessibilità del sistema produttivo e delle relazioni
industriali11.
Alcuni economisti sono contrari all’indennità di disoccupazione per il disincentivo all’offerta di
lavoro che ne scaturirebbe. Tuttavia l’evidenza empirica disponibile sembra mostrare che soltanto la
durata massima dell’indennità ha un effetto sull’offerta di lavoro e pertanto sulla durata della
disoccupazione.
Indennità di disoccupazione e integrazione dei guadagni costituiscono pur sempre un costo
economico per la società nel suo complesso. Questo costo si aggiunge ai costi sociali della
disoccupazione che possono essere ricondotti alla frustrazione, all’emarginazione, nonché la
possibilità di rivolgimenti sociali e all’aumento della criminalità.
L’esistenza di tutti questi costi può spiegare l’impegno a perseguire la piena occupazione che fu
assunto nel dopoguerra dai governi di molti paesi a economia di mercato.
Tuttavia si trattava di un impegno condizionato da almeno due punti di vista:
1. Anzitutto il termine piena occupazione non era inteso in senso letterale, l’impegno riguardava
essenzialmente la disoccupazione involontaria al di sopra di quella frizionale12 ritenendosi che
quest’ultima sia normale in presenza di imperfezioni del funzionamento del mercato.

11
termine che indica i rapporti che intercorrono tra datori di lavoro e lavoratori.
12
La disoccupazione frizionale è una forma di disoccupazione temporanea, generata dalle imperfezioni del mercato
del lavoro. Questo tipo di disoccupazione è detta "frizionale" in quanto ha origine dal normale turn over dei lavoratori

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2. Le posizioni di piena occupazione assumono la natura di precipizio: “il punto di pieno impiego
appare come un precipizio sul quale, una volta raggiunto il ciglio, il valore della moneta debba
ripiombare in un abisso senza fondo”. La spiegazione di ciò è l’incompatibilità di una
situazione di pieno impiego con il tradizionale sistema salariale del capitalismo liberale. Tale
incompatibilità può ricollegarsi al venir meno della disciplina esercitata dalla disoccupazione
sulle richieste salariali: l’assenza di un numero cospicuo di disoccupati capace di far
concorrenza ai lavoratori occupati riduce il timore di licenziamento e, così, l’impegno
nell’attività produttiva da parte di questi ultimi, al tempo stesso in cui incentiva le richieste di
aumenti salariali. Vi è, in altri termini, la possibilità che l’obiettivo della piena occupazione
entri in conflitto con quello della disciplina nelle fabbriche o della stabilità sociale e politica
del sistema di economia di mercato. L’emergere di questa situazione di conflitto tende a
manifestarsi, fra l’altro, attraverso quel fenomeno economico che è detto inflazione.
3.3 L’inflazione
In macroeconomia l'inflazione (dal latino inflāre «gonfiare») è l'aumento prolungato del livello medio
generale dei prezzi di beni e servizi in un dato periodo di tempo, che genera una diminuzione del
potere d'acquisto della moneta. Con l'innalzamento dei prezzi, ogni unità monetaria potrà comprare
meno beni e servizi. Conseguentemente, l'inflazione è anche un'erosione del potere d'acquisto dei
consumatori. Le tipologie di inflazione sono numerose si distinguono infatti:
Inflazione da domanda: i prezzi dei beni e servizi aumentano in conseguenza della crescita della
domanda dei consumatori e delle imprese. L'offerta non si adegua istantaneamente alla domanda
generando la crescita dei prezzi.
Inflazione finanziarie e inflazione creditizia sono forme di inflazione da domanda, innescate,
rispettivamente, da crescita della spesa pubblica finanziata in deficit ossia senza un pari aumento delle
entrate fiscali in condizione di prossimità il pieno impiego o da eccessiva creazione di credito da parte
del sistema bancario.
Inflazione da offerta: si verifica per effetto di shock che portano a ridurre l'offerta (calamità naturali,
guerre, necessità di sensibili ristrutturazioni produttive che nell'immediato riducono la capacità
produttiva).
Inflazione da costi: il rincaro dei prezzi non è causato dalla domanda, bensì dalla crescita dei costi
produttivi (es. petrolio, materie prime, salari, ecc.). L'inflazione da costi consiste nel trasferimento

e dalla difficoltà della domanda di lavoro di incontrare l'offerta di lavoro in poco tempo, a causa della scarsa mobilità
geografica e professionale dei lavoratori da una qualifica a un'altra e dalla scarsità delle informazioni. Queste frizioni
rendono difficoltoso il collocamento immediato dei disoccupati nei posti di lavoro disponibili e il processo di matching
( abbinamento ) tra i posti di lavoro disponibili e i lavoratori in cerca di occupazione

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sui prezzi dell'aumento dei costi dell'impresa, e in particolare dei costi variabili, salari, materie prime,
energia, imposte specifiche.
Inflazione da profitti: è connessa con l'aumento del margine di profitto reso possibile dall'esistenza
di forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta.
Inflazione importata: è connessa con un prolungato aumento delle esportazioni del paese
considerato, stimolate da un eccesso di domanda del paese estero ovvero con un cospicuo afflusso di
capitali che faccia crescere la base monetaria e stimoli così la domanda; o infine con un aumento del
costo di materie prime e semilavorati acquistati all'estero.
La distinzione fra i vari tipi di inflazione non va enfatizzata in quanto possono presentarsi con
frequenza situazioni nelle quali le varie cause si combinano.
Quanto alla misura con la quale si manifesta la crescita dei prezzi si parla di:
 inflazione strisciante quando tale fenomeno risulta assai contenuto, ad esempio del 2/3%
all'anno,
 inflazione moderata se la crescita dei prezzi è minore del 10% annuo
 inflazione galoppante quando i prezzi aumentano i tassi annui di due o perfino di 3 cifre
 iperinflazione se il tasso è almeno nell'ordine di grandezza del 300% annuo.
La misurazione dell'inflazione può avvenire utilizzando i vari indici di prezzo disponibili: deflatore
implicito del PIL13, prezzi all'ingrosso, prezzi alla produzione, prezzi al consumo ecc.

Questi indicatori, come è noto, differiscono per il contenuto del paniere di riferimento14.
L'inflazione nel dopoguerra ha subito andamenti molto diversi nei paesi sviluppati e in quelli
sottosviluppati. In alcuni di questi ultimi sono normali situazione di inflazione galoppante e
iperinflazione. Nell'ambito dei paesi sviluppati, a parte l'immediato dopoguerra, l'inflazione avuto
normalmente carattere strisciante fino alle crisi petrolifera del 1973 e del 1979. Negli anni successivi
alle crisi petrolifere il fenomeno ha manifestato una tendenza generalizzata ad accentuarsi, senza mai
assumere, tuttavia, i connotati dell'iperinflazione. Prima della Seconda Guerra Mondiale si erano
avuti invece numerosi casi di inflazione galoppante. Inoltre prima del 1914 era frequente il succedersi
di fasi inflazionistiche a periodi di deflazione, si manifestava un ciclo di tipo classico nel quale i
prezzi tendevano a crescere nelle fasi di espansione, decrescendo, poi in quelle recessive.
Nel secondo dopoguerra non soltanto la riduzione dei prezzi si è accompagnata all'insorgere della
recessione ma, addirittura, si sono verificate situazioni nelle quali erano compresenti stagnazione
della domanda e inflazione, da cui il termine stagflazione.

13
Il deflatore del PIL è un indice che permette di valutare l'aumento dei prezzi fra 2 anni presi in considerazione.
14
Ogni anno, l'Istat rivede l'elenco dei prodotti che compongono il paniere di riferimento della rilevazione dei prezzi al
consumo finalizzata alla misura dell'inflazione. L'aggiornamento tiene conto delle novità emerse nelle abitudini di
spesa delle famiglie e in alcuni casi arricchisce la gamma dei prodotti che rappresentano consumi consolidati. Nel
paniere utilizzato nel 2017 figurano 1.481 prodotti elementari, raggruppati in 920 prodotti, a loro volta raccolti in 405
aggregati.

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Una pressione inflazionistica sorge ogni volta che chi percepisce i vari redditi monetari (salari,
profitti, rendite) cerchi di accrescere la propria quota nella distribuzione del reddito reale prodotto, a
scapito degli altri (ovvero dei consumatori). Dalle resistenze degli altri scaturisce l'aumento dei prezzi
(Caffè 1990). Questa definizione di inflazione copre le tipologie base di inflazione, quella da costi e
da domanda, e mostra che l'inflazione è sintomo di una lotta sociale e talvolta, nelle sue
manifestazioni più esasperate e incontrollate, di una disgregazione della società.
In aggiunta ad una redistribuzione del reddito, l'inflazione di norma implica anche una redistribuzione
della ricchezza, infatti, il valore di un'obbligazione che sia fissa in termini nominali si riduce in
termini reali: se ne avvantaggiano i debitori (tipicamente le imprese, spesso gli enti pubblici) mentre
risultano svantaggiati i creditori (tipicamente le famiglie).
Ovviamente la misura della redistribuzione del reddito e della ricchezza dipende da numerose
circostanze, fra le quali il grado in cui l'inflazione sia stata prevista dai singoli operatori, nonché il
loro potere negoziale e quindi la capacità che ognuno di essi ha di adeguare il prezzo del bene offerto.
Al fine di essere tutelati nei confronti di imprevisti aumenti del livello generale dei prezzi, alcuni
operatori riescono a introdurre meccanismi di indicizzazione, che legano il loro compenso alle
variazioni del livello generale dei prezzi. Il caso più noto in Italia era quello della scala mobile, in
vigore nel dopoguerra fino al 1991: con essa periodicamente il salario monetario veniva parzialmente
adeguato alle variazioni dei prezzi di un predeterminato paniere di beni di consumo.
A parte i meccanismi di indicizzazione, l'inflazione prevista, assistita da sufficiente capacità
negoziale, tende a mantenere invariata la distribuzione del reddito e della ricchezza. I costi provocati
dalla redistribuzione del reddito e della ricchezza per alcuni individui, si cancellano per la società nel
suo complesso, perché ad essi fanno riscontro guadagni per altri.
L'inflazione ha, invece, costi netti per la società nel suo complesso, in quanto fa sorgere oneri specifici
per l'adeguamento dei listini o delle apparecchiature automatiche per il pagamento (detti menù costs
o slot machine costs).
A parte ciò, i costi per la società dell’inflazione strisciante o moderata sono relativamente modesti, in
particolare rispetto a quelli connessi con la disoccupazione, con la quale può esservi una relazione di
sostituibilità o trade off. D'altro canto la riduzione dell'inflazione può diventare un obiettivo di politica
economica per due motivi essenziali:
 l'affievolimento dei conflitti sociali ad essa legati
 il timore che possa innescarsi un fenomeno incontrollabile di iperinflazione. I costi sociali
dell'inflazione galoppante dell'iperinflazione sono, infatti, certamente più rilevanti.

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3.4 Disoccupazione e inflazione nella teoria economica: l’insufficiente capacità


riequilibratrice del mercato
3.4.1La teoria keynesiana
Per la visione della macroeconomia classica i fenomeni economici appaiono come manifestazioni di
leggi naturali e non come il prodotto del contesto istituzionale esistente; il sistema economico ha un
ordine naturale che gli conferisce carattere di stabilità, in particolare nel senso di assicurare la piena
occupazione delle risorse. I classici considerano come unica istituzione il mercato. Anche se non
ignorano l'esistenza della moneta, pensano che l'essenza del funzionamento del sistema economico
dal punto di vista reale possa essere rappresentata prescindendo dalla considerazione della moneta.
La legge di Say: egli sosteneva che in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate,
poiché l'offerta crea la domanda. Difatti, in una economia di libero mercato ciascun soggetto sceglie
di essere compratore o venditore ai prezzi di mercato. Se in un dato momento si ha un eccesso di
offerta, i prezzi tenderanno a scendere. La discesa dei prezzi renderà conveniente nuova domanda. È
in tal senso che l'offerta è sempre in grado di creare la propria domanda. In caso di crisi da
sovrapproduzione il rimedio non doveva, secondo Say, ricercarsi in un intervento dello Stato ma in
una capacità autoregolatoria del mercato. In ogni caso, poi, il libero scambio fungerebbe di per sé da
rimedio, portando alla formazione di un nuovo equilibrio economico. Questa legge è detta pure legge
degli sbocchi, poiché ogni produzione troverebbe sempre un naturale sbocco sul mercato. Say era
convinto che il mercato lasciato a sé stesso tende a raggiungere l'equilibrio di piena occupazione.
La legge di Say fu criticata aspramente sia da K. Marx sia da Keynes, che videro nella sua accettazione
il motivo per cui l’economia classica non riusciva a spiegare il manifestarsi di crisi economiche.
La critica di Keynes: John Maynard Keynes, nella sua Teoria generale dell'occupazione,
dell'interesse e della moneta, ha criticato la legge sostenendo che il detentore di moneta può essere
motivato a trattenerla invece che a spenderla; il venditore, quindi, può non diventare consumatore,
circostanza questa che causa una domanda aggregata insufficiente.
Secondo Keynes, l'inflazione dei prezzi si verifica solo quando l'economia raggiunge la sua piena
capacità produttiva. Prima di allora, l'aumento della domanda richiede un aumento dell'offerta: se un
numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di ‘beni e servizi', allora
la domanda e l'offerta si alzeranno insieme.
Keynes in tutta la sua opera critica l'impostazione classica e mostra l'inesistenza della mano invisibile
in termini macroeconomici. Rispetto alla pretesa dei classici secondo i quali le variazioni dei prezzi
relativi sarebbero sempre in grado di garantire un livello di domanda globale corrispondente al pieno
impiego, il punto di vista keynesiano è che i movimenti dei prezzi sono lenti rispetto alle variazioni
delle quantità (vischiosità dei prezzi).

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Anche dove fosse assicurata la flessibilità dei prezzi non si avrebbero effetti favorevoli sulle capacità
riequilibratrice del sistema. Considerando ad esempio la rigidità del salario monetario, secondo i
classici la flessibilità del salario reale, ottenuta attraverso una riduzione del salario monetario e una
riduzione dei prezzi, consentirebbe il raggiungimento di un reddito di piena occupazione, secondo
Keynes invece una riduzione del salario monetario e reale può far crescere l'occupazione soltanto a
condizione che non ne resti negativamente influenzata la domanda globale, bisogna quindi tener conto
dell'effetto della riduzione del salario sulle variabili dalle quali la domanda stessa dipende:
propensione al consumo, efficienza marginale del capitale, tasso di interesse.
Gli effetti di variazione del salario monetario e reale su queste tre variabili sono molteplici,
ricordiamo quelli più rilevanti:
1) la caduta del salario reale induce una redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori a favore
delle altre classi, fra le quali i rentiers, che hanno una più bassa propensione al consumo;
2) la riduzione del salario di un paese migliora la competitività delle merci del paese stesso, nelle
ipotesi che i salari restino invariati all'estero;
3) la riduzione dei prezzi connessa con la caduta del salario monetario provoca un aumento del valore
reale dei debiti, con possibilità di fallimenti di imprese o comunque con una riduzione della
propensione ad investire.
In linea generale, la molteplicità degli effetti prodotti da variazioni del salario reale induce a dubitare
del fatto che essi possano assicurare l'equilibrio del mercato del lavoro.
A questo si aggiunge il fatto che in un'economia monetaria l'acquisizione dei redditi è separata dalle
decisioni di spendere, in sostanza abbiamo l'esistenza di due distinte classi di operatori, i risparmiatori
e gli investitori e se gli imprenditori non hanno aspettative ottimistiche sul rendimento futuro
dell'investimento, non investiranno i profitti realizzati e la domanda globale tenderà a cadere.
La preferenza per la liquidità è un'espressione utilizzata da J.M. Keynes per indicare i diversi motivi
che spingono gli individui a conservare scorte monetarie, ed in seguito impiegata in riferimento
all'intera teoria keynesiana della moneta. Per i neoclassici l'unica funzione della moneta è quella di
fungere da intermediario negli scambi; per Keynes invece la moneta ha anche un'altra funzione che
gli economisti neoclassici sottovalutano. La moneta in un sistema di mercato è anche ricchezza, è una
riserva di valore. Chi possiede moneta può farla valere in ogni momento, può convertirla come vuole
in questa o in quella merce. Il possesso della moneta procura il vantaggio della liquidità, poiché essa
gode della proprietà di convertirsi all'istante in qualsiasi altro bene. Secondo gli economisti
neoclassici il bisogno di moneta, la domanda di scorte liquide che gli operatori trattengono presso di
loro, è giustificato esclusivamente dal motivo delle transazioni: poiché gli incassi ed i pagamenti non
si verificano per tutti gli operatori nel medesimo istante, nel sistema economico vi sarà sempre una

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certa quota di moneta circolante. Per Keynes, invece, gli operatori economici sono posti di fronte a
due diverse scelte, da operare avendo a disposizione un certo reddito:
 fissare la quota del reddito disponibile da impiegare in consumi e quella destinata al risparmio;
 una volta operata tale scelta, decidere come impiegare il risparmio accumulato. Questo, infatti,
può essere trattenuto in forma liquida oppure essere investito in qualche attività finanziaria. È
chiaro che nel primo caso il vantaggio è quello di avere sempre una certa somma
immediatamente disponibile che tuttavia non frutta alcun interesse ed è inoltre soggetta a
deprezzamenti a causa dell'inflazione. Nel secondo caso, pur producendo un certo interesse,
la somma investita non può essere immediatamente disponibile in caso di necessità. Mentre
la prima decisione non è strettamente legata al saggio di interesse (il reddito di una famiglia
serve in primo luogo a soddisfare le necessità quotidiane), la seconda ne è fortemente
influenzata.
I motivi che spingono i soggetti economici a domandare moneta possono quindi essere distinti in:
 transattivo, connesso alla mancanza di sincronia tra la periodicità degli incassi ed il ritmo
quotidiano dei pagamenti. La quantità di moneta domandata per fini transattivi è influenzata
dal reddito, poiché cresce all'aumentare delle entrate della famiglia;
 precauzionale: la quantità di moneta che viene trattenuta per far fronte ad eventi incerti.
Imprese e famiglie per far fronte ad eventi sfavorevoli e imprevedibili accantonano moneta da
utilizzare all'occorrenza. Si può supporre che anche questa domanda dipenda direttamente dal
reddito nazionale: quanto più una collettività è ricca, tanto più essa può permettersi di
trattenere moneta per scopo precauzionale;
 speculativo: riguarda in particolare i risparmiatori ed è legato all'opportunità di avere delle
somme a disposizione per poter effettuare investimenti finanziari. Il movente speculativo è
quello più importante per lo sviluppo dell'analisi keynesiana in quanto l'alternativa tra il
detenere moneta infruttifera ed investirla, dipende, in questo caso, unicamente dal saggio
d'interesse corrisposto. Keynes afferma che l'acquisto delle varie forme di attività finanziarie
(depositi, buoni del Tesoro, obbligazioni, azioni ecc.) è influenzato dalle aspettative degli
operatori circa il livello futuro dei tassi di interessi. Se il prezzo dei titoli è alto (tasso di
interesse basso) si determina la tendenza a vendere titoli ed a conservare moneta in forma
liquida; d'altro canto se il prezzo dei titoli è basso (alto saggio di interesse) la tendenza sarà
quella di comprare. In definitiva, il tesoreggiamento di moneta per scopi speculativi varierà
con il tasso di interesse: quanto più basso sarà il saggio di interesse, tanto maggiore sarà
l'ammontare di contante che il pubblico desidererà detenere.

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Per tutte queste ragioni in un sistema capitalistico la domanda globale e l'occupazione sono instabili
e possono assestarsi su livelli lontani dal pieno impiego. Nel pensiero di Keynes l’intervento pubblico
sotto forma di politica monetaria e, soprattutto, di politica fiscale è l'unica forza capace di riportare
queste variabili ai livelli corrispondenti alla piena occupazione.
L'analisi keynesiana spiega non soltanto casi di carenza di domanda globale ma anche all'opposto
situazioni di eccesso di domanda, che egli analizzò sotto la spinta dei problemi posti dal conflitto
mondiale. In situazioni belliche c’è infatti la tendenza ad una crescita eccessiva della domanda,
soprattutto a causa delle spese militari. Questo era accaduto nel corso della grande guerra, la spesa
pubblica era stata finanziata in deficit dapprima con emissione di titoli del debito pubblico, mentre si
era cercato di contenere la spesa privata attraverso l'aumento del tasso di interesse. Il tentativo di
contenere l'inflazione non aveva però riscosso successo. La ricetta suggerita da Keynes in occasione
della Seconda Guerra Mondiale fu invece quella di razionare consumi privati, proibire alcune forme
di impiego del risparmio quali acquisto di beni durevoli o preziosi e titoli di imprese con produzione
civile e incanalare il risparmio stesso verso i depositi bancari, utilizzati per sottoscrivere titoli del
debito pubblico, emessi a tasso di interesse basso per ridurre il costo del finanziamento.
Questa forma di canalizzazione del risparmio ha preso il nome di circuito dei capitali.
L’analisi di Keynes è molto ricca di riflessioni sul funzionamento di un'economia capitalista e mette
in luce numerose e diffuse ragioni per le quali è difficile pensare che lo stato normale di una simile
economia sia quello della piena occupazione.
Subito dopo l’uscita alle stampe de La Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta
che rimase per almeno trent'anni la più importante opera economica a occuparsi di temi
macroeconomici, sir John Hicks formalizzò il sistema keynesiano elaborando uno schema che
considera congiuntamente gli aspetti reali e monetari. Si parla di schema delle curve IS-LM
(investment-saving, investimento-risparmio; liquidity-money, liquidità-denaro) o della sintesi
neoclassica-keynesiana, poiché il modello IS-LM unisce la rappresentazione del settore reale (curva
IS) con quella del settore monetario (LM). Oggi lo schema è completato dalle curve AD-AS
(domanda aggregata-offerta aggregata). L'equilibrio generale macroeconomico si ha quando i due
mercati sono simultaneamente in equilibrio, vale a dire quando nel settore reale la domanda aggregata
è uguale all'offerta aggregata e quando nel settore monetario la domanda di moneta è uguale all'offerta
di moneta. L'equilibrio è simultaneo in quanto i due mercati presentano variabili comuni, e dunque
essi sono interdipendenti. In questo modello soltanto la presenza della trappola della liquidità, il
verificarsi quindi di una situazione particolare, puoi impedire al sistema di raggiungere una posizione
di piena occupazione.

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La trappola della liquidità è una situazione in cui la politica monetaria non riesce più ad esercitare
alcuna influenza sulla domanda, e dunque sull'economia. In condizioni normali, la politica monetaria
ha la possibilità di agevolare la crescita economica sia aumentando l'offerta di moneta in circolazione
sia abbassando i tassi di interesse; le imprese sono così incentivate ad indebitarsi e quindi ad investire
e, nel contempo, si riduce la propensione delle famiglie al risparmio, aumentandone la propensione
al consumo. Come si cade nella trappola: la spiegazione tipica delle cause della trappola della liquidità
indica le aspettative da parte degli operatori economici di eventi negativi (come deflazione, guerra
civile o conflitti internazionali, caduta della domanda aggregata) che li inducono ad una maggiore
preferenza per la liquidità. Il segno distintivo della trappola è la caduta dei tassi di interesse a breve
vicino a zero e il verificarsi della circostanza che variazioni della base monetaria non si riflettono in
corrispondenti variazioni nell'indice generale dei prezzi. In questa situazione, con i tassi d’interesse
nominali ormai a zero o vicini a zero, le banche centrali non possono farli scendere ulteriormente, e
gli strumenti a disposizione della politica monetaria si esauriscono.
Il vero motore dei consumi, infatti, come aveva intuito Keynes, risiede nella fiducia prima ancora che
nei tassi. Se la fiducia viene meno, nemmeno tassi di interesse nulli o un aumento della base monetaria
possono far ripartire i consumi. Quando le aspettative negative si diffondono all'intera economia, esse
tendono ad autoalimentarsi in un circolo vizioso. Accumulando liquidità anziché spendere, gli
operatori economici inconsapevolmente realizzano le loro peggiori aspettative: senza domanda di
beni, si innesca la recessione, che conduce ad un aumento della disoccupazione, a minori redditi, e
dunque a minori consumi e investimenti, e così via, in una spirale che si autoalimenta.
3.4.2 La disoccupazione naturale e le limitazioni dell'intervento pubblico secondo Friedman
A differenza di Keynes, Friedman e i monetaristi percepiscono il sistema economico di mercato come
intrinsecamente stabile. Essi non negano l'instabilità che si presenti in molteplici casi reali, ma la
attribuiscono all'azione pubblica piuttosto che al comportamento del settore privato.
Nel ventesimo secolo si sono scontrate due teorie essenziali. L'una, elaborata da Keynes, porta ad un
più ampio intervento dello Stato nell'economia; l'altra, rivitalizzata dalla scuola monetarista di Milton
Friedman, prende le mosse dagli economisti classici dell'800 e contiene una difesa della libertà
d'intrapresa privata. Keynes è spesso visto come uno statalista e le sue implicazioni vanno
indubbiamente in tal senso15. Egli contesta principalmente l'estrema fiducia nel modo in cui si
formano i prezzi nel "libero scambio", nutrita da tutti gli economisti che lo avevano preceduto e che
chiama "classici"16. Keynes fa piazza pulita dei presupposti smithiani a cominciare dalla "mano

15
Da lui trassero giustificazioni teoriche, le socialdemocrazie nordiche, ma anche molti governi italiani durante l'arco
di tutto il dopoguerra: si pensi all’esperienza del centro-sinistra (dal 1963) che prese avvio con la nazionalizzazione
dell’ENEL.
16
Tra loro è da annoverare anche Marx, che partì da una concezione smithiana del capitalismo.

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invisibile" che guiderebbe le scelte degli agenti (consumatori e produttori), sostenendo che una simile
situazione può crearsi solo con un'effettiva "perfetta conoscenza" di tutti i parametri: questa, nel
modello classico del mercato, è garantita dalla presenza di un banditore che, come succede nelle aste,
fornisce ogni informazione a chi poi scambierà merci con denaro o viceversa. Il banditore 17 è
un'invenzione teorica, ma Keynes sostiene che senza di lui il modello classico non può funzionare:
senza di lui entrano in gioco l'incertezza, le aspettative e le previsioni; la moneta assume un ruolo di
sicurezza, soprattutto per i consumatori finali. Questi, di fronte all'incertezza sui prezzi di mercato
dovuta all'assenza del coordinamento, mostrano preferenza per la detenzione di una certa quantità di
moneta liquida, in modo da garantirsi da sbalzi futuri e imprevedibili. Preferiscono quindi risparmiare
piuttosto che spendere almeno una parte del proprio denaro. Così facendo, si creano nei mercati le
crisi da insufficienza di domanda di beni di consumo, a causa delle quali le imprese vendono meno,
non vedono affluire capitali e non dispongono di risorse per investimenti.
La ricetta keynesiana contro la disoccupazione, riassunta nel motto "sostenere la domanda", parte
proprio da qui. Keynes fu il primo economista ad accorgersi dell'esistenza, nei cicli economici, di
crisi di breve periodo, cioè inferiori ad un anno. In una simile situazione, con salari e prezzi fissi,
affermò che la disoccupazione dipende dall'insufficiente domanda di beni da parte dei consumatori:
essa infatti determina scarsi ricavi per le imprese che non hanno propensione ad investire e ad
assumere. "Sostenendo la domanda", cioè invogliando i consumatori ad acquistare beni, si farebbero
arrivare gettiti "freschi" di capitali alle imprese ed esse potrebbero poi, per produrre di più, reinvestirli
ed assumere nuova forza lavoro, portando il sistema ad uscire dalla crisi occupazionale.
Ma come fare per aumentare la base di consumatori? Keynes consiglia di aumentare la quantità di
moneta circolante e ciò può essere raggiunto sostanzialmente in due modi: o aumentando la spesa
pubblica a parità d'imposte18 o diminuendo le imposte per lasciare ai cittadini una più ampia
disponibilità del loro denaro. Il secondo metodo è però sconsigliabile perché i consumatori potrebbero
decidere di non destinare al consumo il denaro risparmiato con la diminuzione delle imposte.
Il fatto che l'analisi di Keynes sia concentrata nel breve periodo non è comunque l'unico suo limite,
Milton Friedman, nel suo tentativo di ridefinire le teorie liberiste rifondando la scuola monetarista,
ne indica un altro. Friedman non ripone fiducia nel sostegno della domanda: egli ritiene che il sistema
economico spesso non riuscirebbe a soddisfare una domanda crescente poiché già presenta un livello
di produzione di equilibrio e poiché non v'è ragione per le imprese di modificare una produzione già
in equilibrio, maggiore domanda si tradurrebbe in un puro aumento dei prezzi.

17
Teoria formulata dall'inglese Edgeworth
18
Keynes arrivò a sostenere che se il Governo assumesse disoccupati per impiegarli in lavori improduttivi (come
scavare buche e poi riempirle nuovamente), ciò, per quanto assurdo, sortirebbe comunque l'effetto positivo di dare
disponibilità di denaro e di spesa a persone che prima non l'avevano.

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La scuola monetarista ha analizzato il concetto di disoccupazione, trovando che essa dipende sovente
da imperfezioni del mercato del lavoro, in altre parole da eterogeneità di qualifiche o di territorio o
da scarsità d’informazioni. Questo fa sì che esistano contemporaneamente posti da occupare e
disoccupati. Ad esempio possono esistere posti vacanti da operaio e disoccupati che aspirano a un
posto da impiegato (eterogeneità di qualifiche), oppure posti vacanti in Veneto e disoccupati in
Campania (eterogeneità di territorio), o infine non esistono informazioni sufficienti circa i posti
vacanti (scarsa trasparenza del mercato).
Questa disoccupazione, ignorata da Keynes, è detta "volontaria" e le è associato un "tasso naturale di
disoccupazione" definito come un numero di disoccupati pari al numero di posti vacanti: è ad essa
che corrisponde l'equilibrio "naturale19".
Friedman sostiene che gli effetti della politica monetaria sul reddito sono di norma temporanei e
associati a inflazione; più precisamente la politica monetaria non può controllare durevolmente né il
tasso di interesse di mercato, né il tasso di disoccupazione corrente, mantenendoli al di sotto dei valori
rispettivamente del tasso di interesse naturale e del saggio di disoccupazione naturale, a meno di non
causare crescente inflazione.
Curva di Phillips Nel 1958 l'economista inglese A. W. Phillips pubblicò un ampio studio dedicato
all'osservazione del livello dei salari nel Regno Unito nel corso di quasi cento anni (1861-1957).
Phillips notò l'esistenza di una correlazione negativa fra il tasso di cambiamento dei salari ed il tasso
di disoccupazione: i salari, cioè, aumentavano tanto più rapidamente quanto minore era il tasso
di disoccupazione. Ciò è spiegabile dalla circostanza che per livelli bassi di disoccupazione, le
imprese hanno difficoltà a trovare la forza lavoro di cui necessitano; di conseguenza, esse sono
disposte ad offrire salari più alti che determinano un aumento dei prezzi e, quindi, dell'inflazione.
Se, invece, si è in presenza di un alto tasso di disoccupazione, la concorrenza fra i lavoratori terrà
bassi i salari.
Graficamente, ponendo sull'asse delle ordinate il tasso di variazione percentuale dei salari, sull'asse
delle ascisse il tasso di disoccupazione, la relazione trovata dà origine ad una curva che presenta
alcune interessanti caratteristiche. Innanzitutto, è inclinata negativamente: a minori tassi di
disoccupazione corrispondono tassi di variazione dei salari più alti. Inoltre, nel punto in cui la curva
incontra l'asse orizzontale, il tasso di variazione dei salari è nullo (Tasso naturale di disoccupazione).
Oltre questo punto, quando cioè il tasso di disoccupazione è maggiore del tasso naturale, il tasso di
variazione dei salari è negativo.

19
L'aggettivo naturale associato alla disoccupazione non implica costanza nel tempo o impossibilità per la politica
economica di influenzarlo, ma semplicemente che l'azione pubblica potrà influire soltanto sui fattori strutturali dai
quali scaturisce.

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La relazione fra salari e disoccupazione risente anche della fase congiunturale: quando l'economia è
in ripresa, l'occupazione, anche se bassa, tende ad aumentare e, in tal caso, l'aumento dei salari sarà
più elevato. Secondo le ricerche di Phillips, nel periodo da lui osservato, il tasso di disoccupazione
naturale in Gran Bretagna era pari al 5% circa. L'economista stimava un livello minimo di
disoccupazione, definita strutturale, al di sotto del quale era impossibile scendere (intorno all'1% della
popolazione lavorativa), a prescindere dall'aumento dei salari.
La curva di Phillips venne considerata una specie di ricettario per la politica economica. Da un lato
essa indicava che una certa disoccupazione aveva come costo un determinato aumento del livello dei
prezzi; dall'altro lato, che la stabilità dei prezzi aveva come costo un determinato livello di
disoccupazione. La scelta consisteva nel combinare in modo ottimale inflazione e disoccupazione.
Nel corso degli anni '60 le politiche adottate dai diversi paesi furono costantemente volte a sostenere
l'occupazione ad un livello di inflazione considerato socialmente accettabile.
Gli anni '70, tuttavia, furono caratterizzati da una situazione completamente nuova: nonostante tutti i
tentativi di combattere l'inflazione, questa continuava a crescere anche in presenza di elevati tassi di
disoccupazione (Stagflazione). La teoria di Phillips sembrava, dunque, essere saltata. Si cominciò,
allora, a rivalutare le critiche che alcuni autori avevano rivolto a questa interpretazione della curva.
Già nel 1967, infatti, Friedman aveva sostenuto che la curva di Phillips fosse una relazione valida
solo nel breve periodo e che nel lungo periodo non esistesse alcun trade-off fra tasso di variazione
dei prezzi e disoccupazione poiché quest'ultima tendeva sempre a stabilizzarsi intorno al tasso
naturale di disoccupazione e che, inoltre, anche nel breve periodo, giocavano un ruolo fondamentale
le aspettative degli operatori economici.
Secondo Friedman, infatti, i lavoratori non sono interessati ai salari nominali, ma a quelli reali poiché
solo questi ultimi determinano la loro effettiva capacità d'acquisto. Al momento della contrattazione
salariale, dunque, i lavoratori terranno ben presente il tasso d'inflazione atteso e sulla base di questo
chiederanno dei salari adeguati a mantenere costante, anche nel futuro, la loro capacità d'acquisto.
Pertanto, se essi vogliono assicurarsi un aumento del salario reale, poniamo del 5%, possono
accontentarsi di un aumento del salario nominale del 5% soltanto a condizione che non si preveda un
aumento dei prezzi. Questo permette di spiegare perché è possibile avere contemporaneamente
inflazione e disoccupazione crescenti: quanto più è elevato il tasso atteso di inflazione, tanto maggiore
è il tasso di inflazione corrispondente ad un determinato tasso di disoccupazione. Alla luce di queste
considerazioni si può dire che.
1) La politica monetaria secondo i neo-quantitativisti è efficace soltanto nel breve periodo, e
riesce a mantenere il tasso di disoccupazione di mercato a un livello minore di quello naturale
soltanto per breve tempo, la possibilità di farlo per un tempo più lungo implica che venga

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aumentata ulteriormente la quantità di moneta, il che genera ulteriore inflazione inizialmente


inattesa dai lavoratori e, quindi, la possibilità di un tasso di disoccupazione minore di quello
naturale, pertanto, soltanto una crescente inflazione può garantire un tasso di disoccupazione
minore di quello naturale.
2) Nel lungo periodo la curva di Phillips secondo i monetaristi è verticale ossia, per qualunque
tasso di inflazione la disoccupazione resta al tasso naturale, non vi è pertanto un trade-off
(ossia non vi è sostituibilità) tra disoccupazione e inflazione se non nel breve periodo.
Quale ruolo assegnano dunque i neo-quantitativisti all'azione monetaria?
La regola semplice di Friedman: La moneta deve svolgere il ruolo di lubrificante dell'economia: la
variazione della quantità di moneta deve essere pari alla variazione media della sua domanda che
corrisponde alla variazione del reddito reale in un ambito di stabilità dei prezzi. Pertanto un semplice
rimedio consiste nell'aumentare la quantità di moneta in circolazione ad un tasso equivalente a quello
dell'aumento del reddito reale del sistema economico, se si suppone che il ritmo di crescita del
prodotto nazionale sia del 3% in un arco sufficientemente lungo di tempo anche l'offerta di moneta
deve variare del 3%. Questa è l'essenza della regola che Friedman oppone agli interventi discrezionali
delle autorità monetarie.
Il controllo dell'inflazione attraverso l'applicazione di questa regola semplice (aumento dell'offerta di
moneta equivalente all'aumento del prodotto nazionale) presuppone che il sistema economico,
lasciato a sé stesso, possa raggiungere il suo equilibrio naturale. In tale ipotesi, le politiche keynesiane
(aumento della pressione fiscale o aumento della spesa pubblica) possono avere effetti soltanto nel
breve periodo, ma provocheranno un aumento dell'inflazione, senza alcun beneficio per il sistema
economico, nel lungo periodo.
I monetaristi ritengono, inoltre, che la politica monetaria non sia in grado di controllare il tasso di
interesse, nel senso di mantenerlo a lungo ad un livello prefissato, mediante la variazione dei mezzi
monetari. L'artificioso mantenimento dei tassi di interesse nominali in linea con quello naturale
sarebbe realizzabile soltanto mediante manovre espansive dei mezzi monetari sempre più intense;
tuttavia, questo porterebbe ad un’inflazione crescente. La politica monetaria non è altresì in grado di
mantenere l'occupazione delle forze di lavoro ad un livello prefissato. Il tasso naturale di
disoccupazione è, infatti, quello compatibile con le forze reali del sistema economico e con
l'accuratezza delle previsioni dei soggetti economici. La disoccupazione può essere mantenuta al di
sotto o al di sopra di questo livello accelerando, rispettivamente, l'inflazione o la deflazione.
L'unico obiettivo raggiungibile con la politica monetaria è quello del controllo dell'inflazione
attraverso il controllo del tasso di incremento annuo della quantità di moneta. Anziché ampliare o
restringere la creazione di mezzi monetari, in relazione agli andamenti congiunturali e con l'intento

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di ottenere determinati effetti sulla domanda globale, le autorità monetarie dovrebbero dare un ritmo
costante all'incremento annuo dei mezzi monetari per adeguarlo nel tempo alle esigenze connesse con
la crescita del reddito nazionale.
Riguardo alla politica fiscale, i monetaristi, partendo dal presupposto secondo cui la spesa pubblica
dovrebbe aumentare allo stesso ritmo del gettito tributario, sono favorevoli a tagli fiscali come mezzo
di riduzione della spesa pubblica, pur affermando che la manovra fiscale non ha alcuna incidenza
sull'andamento del prodotto interno lordo.
Il pensiero monetarista ha largamente influenzato numerosi interventi di politica economica. In
particolare, il controllo dell'offerta di moneta è diventato uno degli strumenti più importanti di politica
monetaria di vari Stati, tra cui gli USA che nel 1979 adottarono una nuova strategia volta a controllare
la quantità di moneta in circolazione. Le politiche monetariste con l'obiettivo di ridurre il tasso di
inflazione trovarono poi una sistematica applicazione anche in Inghilterra durante il periodo dei
diversi governi Thatcher.
Le ricette monetariste sono state accolte anche dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) che ha
spesso imposto a vari paesi, attraverso gli accordi di stand-by: un maggiore controllo della propria
politica monetaria e fiscale, per ridurre l'indebitamento estero ed il tasso di inflazione interno.
3.4.3 L'inefficacia dell'intervento pubblico nella nuova macroeconomia classica
La Nuova Macroeconomia Classica (NMC) sviluppatasi intorno agli anni '80, riprende le tematiche
fondamentali del pensiero economico classico inserendole in un contesto macroeconomico; i
maggiori esponenti di questa scuola sono Lucas e Sargent negli USA e Minford in UK.
Gli economisti che appartengono a questa scuola portano alle estreme conseguenze le idee dei
monetaristi concentrando la loro attenzione su due aspetti particolari del sistema economico: la
flessibilità dei salari e dei prezzi ed il ruolo delle aspettative razionali nell'influenzare l'operato dei
soggetti economici.
Nell'analisi dei monetaristi uno dei presupposti principali era la flessibilità dei prezzi e dei salari nel
lungo periodo: essi ammettevano che nel breve periodo è possibile avere una situazione di squilibrio
temporaneo, pur precisando che il mercato avrebbe colmato tale squilibrio nel lungo periodo. I
principali esponenti della nuova macroeconomia classica, invece, negano la possibilità che il sistema
economico possa essere in squilibrio anche nel breve periodo; ogni livello di disoccupazione che si
realizza nel sistema economico rappresenta un tasso di disoccupazione di equilibrio, o, secondo la
terminologia di questi autori, disoccupazione volontaria. Ogni aumento della disoccupazione
rappresenta il risultato di una scelta volontaria da parte dei lavoratori, i quali decidono di non lavorare
perché non sostenuti da adeguati incentivi; ciò è vero, secondo questi economisti, soprattutto in
presenza di sussidi alla disoccupazione.

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Le aspettative razionali, invece, sono delle previsioni compiute dagli operatori economici sulla base
delle informazioni di cui dispongono: saranno proprio queste aspettative, formulate razionalmente in
base all'analisi dei dati disponibili, a condizionare l'operato di tutti i soggetti economici, siano essi
consumatori che produttori. Tuttavia, poiché queste aspettative sono formulate sulla base di
informazioni imperfette, molto probabilmente non saranno corrette. Nondimeno, questi errori saranno
casuali in quanto le previsioni potranno essere approssimate sia per difetto che per eccesso.
Sommando gli errori positivi e negativi si può affermare, come fanno gli economisti della nuova
macroeconomia classica, che, in media, le previsioni degli operatori saranno corrette.
3.5 La crescita e lo sviluppo
La crescita consiste nell'aumento del reddito e della ricchezza materiale di un paese.
Lo sviluppo è un concetto più generale, che comprende quello di crescita, ma in aggiunta, considera
altre cause del mutamento economico e sociale; si ha sviluppo se si assiste a un miglioramento delle
condizioni di vita.
Nel 1990 le nazioni unite definirono l'idea che gli ordinamenti sociali vanno giudicati dalla misura
con cui promuovono il bene dell'uomo. Lo sviluppo umano è definito quindi come un processo di
ampliamento delle possibilità di scelta della gente, che corrispondono alle capacità delle persone di
dar forma a obiettivi, impegni, valori (Amartya Sen 1967).
Le nazioni unite sottolineano le ragioni per le quali il reddito non può essere considerato un buon
criterio di misura delle opzioni umane, ossia delle possibilità di scelta delle persone.
Il reddito è un mezzo, non un fine, può essere usato tanto per farmaci essenziali quanto per beni
superflui o anche nocivi come le droghe. L'esperienza mostra casi di elevati livelli di sviluppo umano
associati a bassi livelli di reddito e viceversa.
Il reddito corrente di un paese può essere scarsamente indicativo delle sue prospettive di crescita
futura, che dipendono largamente da quanto si sia investito nel cosiddetto capitale umano, ossia nelle
conoscenze e nella formazione professionale delle persone.
Le misure del reddito pro capite correntemente usate anche a fini di comparazione nel tempo e nello
spazio nascondono spesso problemi rilevanti, anzitutto, trattandosi di medie, non tengono conto delle
disuguaglianze nella distribuzione; in secondo luogo, esprimendo il reddito pro capite in termini di
una moneta comune, ad esempio i dollari, trascurano la considerazione del diverso potere d'acquisto
nei vari paesi, che non viene riflesso nel cambio corrente ufficiale.
La misurazione dell'indicatore di sviluppo umano (ISU) si concentra su tre elementi essenziali della
vita umana: longevità, grado di conoscenza e standard di vita. La longevità viene indicata nella
speranza di vita alla nascita; la conoscenza dalla alfabetizzazione degli adulti e dalla media degli anni

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di scolarità; gli standard di vita sostanzialmente dal reddito pro capite in dollari alla parità dei poteri
d'acquisto.
Il grado di sviluppo dei vari paesi secondo l'ISU appare notevolmente diverso da quello secondo
l'indicatore tradizionale del PIL.
3.6 I fallimenti del mercato nelle teorie della crescita
3.6.1 La teoria della crescita esogena di Harrod-Domar
La teoria della crescita economica, oggetto di studio degli economisti classici e di Marx, ha riacceso
nuovi interessi negli anni più vicini a noi.
Teoria classica. Secondo gli economisti classici, segnatamente Ricardo, l'aumento di ricchezza
generato dall'economia di un paese in un determinato periodo di tempo è funzione diretta del
reimpiego dei profitti. Ne deriva che lo studio della crescita economica non può prescindere dalla
definizione delle leggi che governano la distribuzione del reddito (salari, rendite, profitti) tra le classi
che partecipano al processo produttivo. I lavoratori percepiscono un reddito appena sufficiente a
garantire il livello di sussistenza e, con esso, il perpetuarsi, nel tempo della forza lavoro20. I
proprietari terrieri godono della rendita. I capitalisti, invece, beneficiano di profitti, configurabili
come sovrappiù, che vengono, in buona parte, reinvestiti nella produzione. Questo reimpiego
determina un'espansione che, tuttavia, ha un limite esterno: tende ad arrestarsi quando la crescente
ricchezza provoca un aumento della popolazione che, a sua volta, determina una pressione dei mezzi
di sussistenza. A quel punto, infatti, si impone il massimo sfruttamento delle terre già utilizzate e la
messa a coltura di nuove, ancorché meno fertili. Tuttavia, la produttività decrescente del suolo genera
l'impoverimento di chi lo lavora (caduta dei salari) e l'arricchimento di chi possiede le terre migliori,
in misura direttamente proporzionali alla pressione demografica sulla disponibilità globale di terra.
Effetti immediati dell'aumento della rendita sono la contrazione della domanda e l'aumento dei prezzi
dei beni legati al fattore terra (risorse naturali in genere); in altre parole: abbassamento del saggio di
profitto, quindi, degli investimenti.
Teoria marxiana. L'approccio di Marx, che, a differenza degli economisti classici, considera
l'economia capitalistica quale causa dei suoi stessi limiti, si fonda sull'instabilità del processo di
accumulazione e sulle ragioni che la producono. Queste possono essere sintetizzate come segue:
 individualismo, legato alle diverse attese di profitto, che caratterizza le decisioni degli imprenditori
e che determina un'allocazione delle risorse, tra produzione di beni strumentali e di consumo, non
idonea a far crescere l'economia in modo regolare e continuo nel tempo;
 subordinazione del processo di accumulazione al fattore che lo alimenta: vale a dire al plusvalore
e alla sua incerta realizzazione (vendita dei beni prodotti);

20
secondo quella che Lassalle definirà legge bronzea dei salari

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 progresso tecnologico, che, se da un lato, con l'introduzione di nuovi macchinari provoca una
riduzione dei costi, inducendo gli imprenditori a privilegiare il capitale costante (impianti e
macchinari), suscita, per converso, una caduta tendenziale del saggio di profitto e, in estrema
analisi, degli investimenti.
Il modello Harrod-Domar: Precursori delle moderne teorie sulla crescita economica, gli economisti
Harrod e Domar partendo da considerazioni elaborate autonomamente pervengono agli stessi risultati.
Per ambedue il tasso di crescita è determinato dalla propensione al risparmio, considerata costante.
Il modello è pensato per spiegare come far aumentare la produzione in una situazione di sotto-utilizzo
della capacità produttiva. Ingrediente fondamentale per lo sviluppo economico è la mobilitazione di
risparmio in grado di generare investimenti sufficienti per far partire e “decollare” l’economia
facendo accelerare la crescita economica → l’impostazione è keynesiana.
Questo modello suggerisce che il risparmio fornisce i fondi necessari ai fini degli investimenti e che
il tasso di crescita dell’economia dipende dal livello di risparmio e dalla produttività degli
investimenti, ovvero dal rapporto capitale/prodotto. (Es: Se $10 di capitale producono ognuno $1 di
output annuale, abbiamo un rapporto capitale-prodotto di 10 a 1. Un rapporto di 3 a 1 del rapporto
capitale-prodotto indica che solo $3 di capitale sono richiesti per produrre $1 di output annualmente.)
Il modello venne concepito come modello di analisi del ciclo economico. Successivamente venne
adottato per spiegare la crescita economica. Applicato allo sviluppo, il modello stabilisce che:
 La crescita economica dipende dall’ammontare di offerta di lavoro (L) e capitale fisico (K);
 Dato che i paesi in via di sviluppo (PVS) hanno spesso un’abbondante offerta di lavoro (L),
è un’insufficienza di capitale fisico (K) che lascia indietro questi paesi.
 Maggiore capitale fisico K genera una crescita economica più alta
 Investimenti netti più alti portano ad una maggiore accumulazione di capitale, che genera
maggiore prodotto e reddito.
 Un più alto reddito genera maggiore risparmio.
La logica dell’equazione è: per crescere, un’economia deve risparmiare e investire una certa porzione
del PIL ⇒ più risparmia e investe, più velocemente essa può crescere.
La ricetta per favorire la crescita economica e lo sviluppo è di aumentare il risparmio nazionale e gli
investimenti. Se il saggio di risparmio è più basso del livello desiderato occorre colmare questo gap
di risparmio attraverso l’aiuto estero e gli investimenti diretti esteri.
Implicazioni del modello di Harrod-Domar Elemento fondamentale del processo di crescita
economica è l’espansione degli investimenti, sia in termini di capitale fisico che di capitale umano.
Per raggiungere questo obiettivo sono necessarie politiche che incoraggiano il risparmio e il progresso

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tecnologico ⇒ consentono alle imprese di produrre un output più alto con minore capitale o di ridurre
il loro rapporto capitale/prodotto.
La principale critica che può essere fatta a questa teoria è che i risparmi e gli investimenti sono
condizione necessaria ma non sufficiente per accelerare il tasso di crescita economica.
Problemi del modello di Harrod-Domar
1. Crescita economica e sviluppo economico non sono la stessa cosa e non sono interscambiabili.
2. È difficile stimolare il risparmio, soprattutto nei PVS, dove i redditi sono particolarmente bassi.
3. Richiedere prestiti dall’estero, per colmare il gap con i paesi più industrializzati, può portare
problemi di rimborso di questi prestiti (problema del debito nei PVS).
4. La teoria dei rendimenti decrescenti potrebbe suggerire che l’incremento del capitale può diminuire
la produttività del capitale e quindi condurre ad un aumento del rapporto capitale/prodotto ⇒ il
rapporto capitale prodotto non è costante
5.Se il saggio di risparmio è più basso del livello desiderato occorre colmare il gap di risparmio
attraverso gli aiuti estero allo sviluppo e gli investimenti diretti esteri.
3.6.2 Teoria neoclassica.
Gli studiosi neoclassici hanno individuato un meccanismo automatico che assicura la convergenza
del tasso di crescita garantito verso quello naturale, nella variazione del rapporto capitale-prodotto.
Il modello di crescita neoclassico è riferito alla sostituibilità dei fattori (capitale e lavoro) che
compongono la funzione di produzione. Vi è, quindi, una implicita critica al modello di Harrod-
Domar che a quella funzione attribuirebbe, eccessiva rigidità.
Secondo tale scuola di pensiero, oltre certe condizioni, è possibile fissare un mix capitale-lavoro
idoneo a garantire un tasso di crescita pari a quello indotto dall'aumento dell'offerta di lavoro. A
differenza di quanto postulato dal modello Harrod-Domar, che lo assume come costante, il tasso
garantito di crescita è funzione del grado di sostituibilità tra capitale e lavoro. In particolare, si
presuppone una sostituibilità dal lato della produzione.
Robert Solow presenta intorno ai primi anni Cinquanta quello che si rivelerà il modello dominante
nella teoria economica della crescita fino alla metà degli anni Ottanta, il modello di crescita
neoclassico. Come negli autori classici il progresso tecnico è guidato da forze esogene al sistema
economico ma, eliminata la divisione in classi degli individui componenti un'economia, si assume
che ognuno indirizzi una parte costante del proprio reddito al risparmio e quindi all'accumulazione.
Il rapporto fra la quantità di risparmio e reddito prende il nome di saggio di risparmio.
Tuttavia il ragionamento di Solow presuppone che le decisioni di investimento si basino sempre sulla
disponibilità relativa di capitale di lavoro e non sulle aspettative degli imprenditori circa il futuro.
Con una simile ipotesi, non può mai esservi squilibrio sul mercato dei beni e si rimuove, così, il

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problema che era la base della dell'analisi keynesiana (ossia quello dell'autonomia delle decisioni di
investimento) e che nella versione dinamica della teoria dava luogo all'instabilità di Harrod.
Un importante risultato di questo filone, che contrasta con quanto sostenuto dagli economisti classici,
è che il tasso di crescita dell'economia è stabilito dal progresso tecnico e il saggio di risparmio
determina esclusivamente il livello di reddito ma non il tasso di crescita. Questa conclusione implica
però una convergenza nei tassi di crescita dei diversi paesi e contrasta quindi fortemente con
l'evidenza empirica. Da qui nasce la ricerca di un più soddisfacente modello di crescita, in cui il
progresso tecnico non sia più assunto come esogeno, ma possa essere spiegato all'interno del modello
stesso (crescita endogena).
Il modello neokeynesiano. Critiche al modello Harrod-Domar vengono anche dal versante
neokeynesiano e concernono la scarsa influenza attribuita alla distribuzione del reddito.
I neokeynesiani asseriscono che la propensione al risparmio è correlata alla suddivisione del reddito
tra salari e profitti e alle caratteristiche della spesa di capitalisti e lavoratori. Ne consegue che, data
per scontata una propensione al risparmio dei lavoratori minore di quella dei capitalisti, il saggio di
crescita è funzione dell'incidenza salariale sul reddito nazionale.
Tuttavia, l'analisi post keynesiana, non introduce come fa la teoria neoclassica, ipotesi che negano
l'esistenza di un problema di domanda effettiva. L'accumulazione del capitale è l'elemento trainante
dell'economia capitalistica, in quanto consente di creare occupazione e profitti, tuttavia il suo carattere
mutevole, ben evidenziato da Keynes, costituisce il principale limite del capitalismo di mercato.
3.6.3 Teoria della crescita endogena.
Le teorie discusse nei due paragrafi precedenti hanno una comune impostazione, esse concordano nel
ritenere che il tasso di crescita di lungo periodo di un sistema economico sia pari a quello naturale e
rinunciano ad indagare sulle forze del lungo periodo che determinano la crescita, assumendole come
note e date (crescita esogena). Questa caratteristica rappresenta un primo limite delle teorie stesse.
Una seconda limitazione deriva dal realismo delle conseguenze di questa impostazione teorica,
alludiamo al fatto che la teoria neoclassica della crescita implica, in evidente contrasto con la realtà,
la convergenza nel lungo periodo delle varie economie allo stesso tasso di crescita e, nel caso di
uguale propensione al risparmio, allo stesso livello di reddito pro capite.
I contributi più importanti alla teoria della crescita economica da parte dalla dottrina contemporanea
riguardano i cosiddetti cambiamenti strutturali; più precisamente, le influenze del progresso tecnico
sui meccanismi di accumulazione. Correlando le innovazioni tecnologiche a due variabili primarie
come l'attività di ricerca e l'investimento in capitale umano, le teorie sul progresso tecnico muovono
dalla critica alle argomentazioni dell'economista statunitense Solow, che assunta l'innovazione

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tecnologica come variabile esogena, la inserisce nella funzione di produzione e la considera come
l'unico elemento capace di mitigare il rendimento decrescente dei fattori produttivi.
La nuova corrente di pensiero che fa capo ad Arrow invece, introduce il concetto di crescita endogena.
Partendo dalla nozione learning by doing21, Arrow sottolinea come un atto produttivo, se ripetuto,
generi economie di scala e determini una crescita nella produttività del lavoro che diventa funzione
del capitale disponibile e, quindi, indipendente da cause esterne.
Per l'economista Romer, invece, la quantità di lavoro è un aggregato di conoscenze a disposizione
degli operatori economici. Ed è assimilabile ad un bene pubblico fruibile, una volta sul mercato, da
tutti; l'innovazione tecnologica è un patrimonio a disposizione dell'economia (esternalità). Tuttavia,
laddove esistono forme di tutela (ad es. brevetti) che impediscano un utilizzo generalizzato dei
risultati dell'attività di ricerca, possono configurarsi ipotesi monopolistiche attenuabili solo in
presenza di meccanismi imitativi.
Secondo le teorizzazioni di Lucas l'accumulazione di capitale umano dipende dalla gestione del tempo
ascrivibile al singolo soggetto: vale a dire, alla suddivisione tra lavoro, tempo libero e apprendimento
di nuove tecniche operative. Le conclusioni cui giunge lo studioso dimostrano che l'aumento di
produttività è direttamente proporzionale al grado di preparazione raggiunto sia a livello di singola
azienda che dell'economia nel suo complesso. Proprio quest'effetto esterno, alla stregua di quanto
postulato da Romer, genera economie di scala e influenza la crescita. Il tasso di crescita sarà tanto più
alto quanto maggiore è il capitale umano a disposizione e migliore il grado di preparazione di questo.
3.7 Gli squilibri di bilancia dei pagamenti
La bilancia dei pagamenti (BdP) è: «uno schema contabile che registra le transazioni tra i residenti in
un’economia e i non residenti, in un dato periodo di tempo. Una transazione è un’interazione tra due
entità istituzionali che avviene per mutuo consenso o per legge e comporta, tipicamente, uno scambio
di valori (beni, servizi, diritti, attività finanziarie) o, in alcuni casi, il loro trasferimento senza
contropartita.»
In Italia la bilancia dei pagamenti è redatta dalla Banca d'Italia, secondo specifiche regole dettate dal
Fondo monetario internazionale, che sono a loro volta coerenti con le convenzioni internazionali in
materia di contabilità nazionale.
Viene registrata a debito ogni transazione che comporti l'esborso di valute (importazioni di merci e
servizi, trasferimenti unilaterali all'estero, deflussi di capitale); è registrata a credito ogni transazione
che comporti un afflusso di valute (esportazioni di merci e servizi, trasferimenti unilaterali dall'estero,
afflussi di capitale).

21
nella teoria economica della produzione, espressione che indica il progresso tecnico, e quindi il miglioramento
dell’efficienza, come risultato della familiarità con la tecnica acquisita nel corso del tempo.

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La bilancia dei pagamenti è articolata in tre sezioni:


 Conto corrente
 Conto capitale,
 Conto finanziario.
Il Conto corrente (detto anche Conto delle partite correnti) registra le transazioni internazionali in
merci e servizi, redditi e trasferimenti unilaterali correnti.
I crediti riportano le entrate derivanti da esportazioni di beni e servizi, nonché da prestazioni dei
fattori produttivi (lavoro di residenti, capitale di proprietà di residenti) utilizzate da altri paesi.
I debiti riportano le uscite per importazioni di beni e servizi e per prestazioni di fattori produttivi non
residenti.
I trasferimenti unilaterali correnti sono entrate o uscite senza contropartita che, modificando il reddito
disponibile, hanno un impatto sui consumi.
Più in dettaglio:
• merci: qualsiasi bene mobile che non rappresenti un'attività finanziaria;
• servizi: vi sono apposite sottosezioni per:
• trasporti di merci e di passeggeri;
• viaggi all'estero: soggiorni in Italia di non residenti, all'estero di residenti, per
turismo o per lavoro;
• comunicazioni: servizi postali e di corriere, servizi di telecomunicazione;
• costruzioni;
• assicurazioni: servizi assicurativi;
• servizi finanziari: i servizi di intermediazione finanziaria;
• servizi informatici e di informazione;
• royalties e licenze: sfruttamento di brevetti, di marchi di fabbrica, modelli,
disegni e know-how; diritti d'autore su opere musicali e letterarie; diritti
d'immagine;
• altri servizi alle imprese: servizi legati al commercio,
• redditi:
• redditi da lavoro: le retribuzioni lorde (salari e stipendi al lordo delle imposte
sul reddito, contributi sociali a carico del lavoratore trattenuti alla fonte dal
datore di lavoro) di coloro che prestano un'attività di lavoro dipendente in un
paese diverso da quello di residenza;
• redditi da capitale: interessi, dividendi e utili reinvestiti, con distinzione tra
redditi da investimenti diretti e da investimenti di portafoglio.
Il Conto capitale Comprende le operazioni commerciali e i trasferimenti relativi ad attività di
investimento: cessioni e acquisizioni di attività intangibili, quali i brevetti, i diritti d'autore, il valore
dell'avviamento commerciale, i trasferimenti finalizzati o condizionati a transazioni su beni capitali
(ad esempio, contributi per l'acquisto di attrezzature industriali).
I due conti insieme rilevano dunque movimenti di beni merci e servizi, a parte i trasferimenti
unilaterali.

Nel Conto finanziario vengono registrati:

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•investimenti diretti: acquisto o vendita di azioni e partecipazioni tali da garantire il


controllo di imprese localizzate all'estero;
• investimenti di portafoglio: gli investimenti in titoli (azioni e quote di fondi comuni,
titoli di debito quali le obbligazioni e i titoli di Stato) effettuati per fini speculativi;
• derivati: opzioni, futures, swap, ecc.;
• altri investimenti: può trattarsi di crediti commerciali, di prestiti, di flussi di banconote e
di movimentazione di depositi bancari, ecc.;
• riserve ufficiali: attività liquide detenute dall'autorità monetaria (la Banca d'Italia)
costituite da crediti vantati nei confronti di paesi non aderenti all'UEM e denominati in
valute diverse dall'euro (oro monetario, quota sottoscritta di partecipazione al FMI,
valute estere).
La somma dei tre conti, teoricamente, dovrebbe essere nulla. In realtà, ciò non è, ad esempio per il
fatto che non tutti gli esportatori segnalano i pagamenti loro effettuati dai non residenti sui conti
all'estero. La discrepanza è rilevata nella voce errori e omissioni, che può assumere valori elevati.
Il Saldo della Bilancia dei Pagamenti.
Un saldo negativo significa che le entrate di valuta non bastano a far fronte alle uscite, e se un paese
ha bisogno di importare perché manca di materie prime, necessariamente dovrà attrezzarsi per
aumentare anche le sue esportazioni in modo da riequilibrare il conto. Infatti non si può attingere alle
riserve valutarie all'infinito. Le riserve rischiano di esaurirsi e non possono essere usate per disavanzi
commerciali di lunga durata (detti anche strutturali). Si può anche fare ricorso a prestiti internazionali,
però anche i prestiti comportano un debito estero, che deve essere restituito.
Occorre quindi riequilibrare la bilancia, e questo si può fare in vari modi:
 attraverso le “politiche di aggiustamento strutturale”, che mirano a ridurre le importazioni
facendo diminuire la domanda interna attraverso l'abbassamento della spesa privata e
pubblica, e a incentivare le esportazioni attraverso la riduzione del costo del lavoro. I prestiti
del FMI sono condizionati all'attuazione di queste politiche, che comportano l'attraversamento
di una pesante crisi interna per il paese che le deve sostenere.
 una soluzione tipica è quella di ricorrere a politiche di protezionismo, ossia rendere più costose
le importazioni applicando dei dazi doganali, o agendo per via indiretta sostenere con sussidi
la produzione interna in modo che risulti più competitiva rispetto ai prodotti stranieri; si
possono anche limitare o vietare per legge le importazioni di determinati prodotti; in un modo
o nell'altro, questo tipo di politiche può scatenare ritorsioni commerciali da parte degli altri
paesi che rendono poi più difficili le esportazioni.
 Anche il tasso di interesse ha un'influenza sulla bilancia dei pagamenti; infatti se la parte
commerciale è in deficit, rialzando il tasso di interesse ufficiale si possono attirare capitali
dall'estero in cerca di buoni rendimenti e riequilibrare la bilancia con un avanzo nei movimenti
dei capitali. Però un rialzo dei tassi ha un effetto deprimente sull'economia del paese, rendendo

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più difficili gli investimenti e il credito – il che potrebbe d'altronde anche giovare ai fini del
riequilibrio della bilancia commerciale, perché un'economia depressa importa di meno.
 La soluzione tipica, che agisce automaticamente se ci si trova in un contesto di cambi
flessibili, è la svalutazione competitiva. Svalutando il cambio, si rendono più costose le valute
estere e quindi le importazioni, mentre si rendono più convenienti le esportazioni, così da
riequilibrare la bilancia (in poche parole: i tassi di cambio).
Riepilogo
1. I fallimenti macroeconomici del mercato sono riconducibili all'instabilità delle economie capitalistiche:
disoccupazione involontaria, inflazione, sottosviluppo, squilibri della bilancia dei pagamenti.
2. La disoccupazione involontaria e l'inflazione implicano inefficienze ed iniquità. Secondo i classici, i monetaristi
e i nuovi macroeconomisti classici un'economia capitalistica possiede un ordine naturale che ricorda la mano
invisibile: le variazioni dei prezzi assicurano stabilità e capacità di equilibrio a livello di pieno impiego. La politica
fiscale e quella monetaria sono, quindi, del tutto inefficaci, se non dannose, per gli effetti inflattivi che possono
provocare. Keynes critica le capacità riequilibratrici offerte dal sistema dei prezzi, in particolare dal saggio di
interesse e dal salario reale, e suggerisce l'intervento pubblico, in primis il ricorso alla politica della spesa
pubblica come soluzione dei problemi di disoccupazione.
3. L'aumento del reddito è un indicatore della crescita. Lo sviluppo è un concetto diverso, che considera altre
cause di progresso economico e sociale. In una prospettiva dinamica i problemi di occupazione possono essere
affrontati con riferimento al concetto di reddito potenziale. L'analisi dei problemi della crescita economica, a
partire da quella compiuta da Harrod e Domar che può essere considerata come un'estensione sul piano
dinamico dei problemi evidenziati da Keynes in un contesto statico, ha posto in luce numerosi fallimenti del
mercato. Le recenti teorie della crescita endogena individuano numerosi fattori di carattere cumulativo che
spiegano il progresso tecnico e la crescita economica, determinando la possibilità che le economie di mercato
crescano in misura insufficiente.
4. La bilancia dei pagamenti registra le transazioni economiche fra i residenti di un certo paese non residenti. Sia
gli avanzi che il disavanzo della bilancia dei pagamenti costituiscono posizioni di squilibrio e non sono sostenibili
nel lungo periodo.

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