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Sabino Fortunato

Insolvenza, crisi e continuità aziendale


nella riforma delle procedure concorsuali:
ovvero la commedia degli equivoci.

Sommario: 1. Insolvenza e crisi nei rapporti patrimoniali e nell’impresa: le divergenti concezioni


giuridico-aziendalistiche. – 2. Esteriorizzazione e irregolare adempimento delle obbligazioni attuali
quali elementi distintivi fra crisi e insolvenza? Insolvenza del “debitore” e crisi dell’ “impresa”. La
crisi come “probabilità di insolvenza”. – 3. Indicatori, indici e fondati indizi di crisi nella congerie
terminologica del Codice della crisi e dell’insolvenza. – 4. Le opzioni interpretative del Documento
CNDCEC del 19.10.2019. – 5. Insolvenza attuale e insolvenza prospettica (certa, probabile e
possibile). – 6. La continuità aziendale e gli indicatori di crisi.

1. L’insolvenza e la crisi costituiscono le nozioni di vertice del sistema delle


procedure e degli interventi (negoziali e non) per il risanamento o la ristrutturazione
e comunque la liquidazione di un “patrimonio in difficoltà”.
In realtà in questa generica accezione non è ancora chiaro se la prospettiva da
cui muovere per valutare la sussistenza di tali “presupposti oggettivi” debba essere
quella del soggetto (imprenditore, consumatore, professionista o in senso ampio
debitore) ovvero quella del patrimonio (garanzia generica per l’adempimento delle
obbligazioni) o ancora quella della attività (attività economica o attività di
godimento, etc.). Il binomio crisi/insolvenza evoca, infatti, una dialettica concettuale
fra nozioni economico-aziendali e nozioni giuridiche, fra tradizione e
modernità/postmodernità, fra analisi statiche e analisi prospettiche non sempre
agevole da dipanare.
Da più parti viene segnalato il mutamento di paradigma che nell’attuale
ordinamento delle crisi (genericamente intese) del debitore si viene realizzando: la
nozione di insolvenza nasce pur sempre nell’ambito delle concezioni
patrimonialistiche del rapporto debito-credito e con l’abbandono delle concezioni
puramente soggettive, in cui il rapporto viveva soprattutto nel vincolo individuale
che legava il debitore al creditore. La nozione di crisi è invece tributaria delle scienze
economico-aziendalistiche ed è legata all’impresa in quanto attività economica.
Come ricorda autorevole dottrina, ciò si rende evidente nel passaggio dall’economia
mercantile all’economia industriale e quindi all’economia finanziaria dei nostri
tempi1.
L’economia mercantile è fondamentalmente una economia di scambio, in cui
prevale il rapporto debito-credito in termini personalistici, una concezione della
1
Cfr. G. TERRANOVA, Le procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2019, passim, ma soprattutto 349 ss., 375 ss. e
395 ss. (si tratta di saggi contenuti anche in altre precedenti pubblicazioni). Ma v. anche F. DI MARZIO, Obbligazione,
insolvenza, impresa, Giuffè Francis Lefebvre, Milano, 2019, passim, ma soprattutto 79 ss.; ID., Fallimento. Storia di
un’idea, Giuffrè, Milano, 2018, ….
1
tutela del credito di tipo individuale che affonda le sue radici negli istituti di più
antica tradizione romanistica e che ha attraversato, pur con molteplici adattamenti,
secoli di storia giuridica, riflettendosi ancora a fine Ottocento nella sanzione penale
per debiti e nel discredito o addirittura infamia sociale.
L’economia industriale pone l’accento sul momento produttivo, piuttosto che
su quello dello scambio, e comincia a trasformare il rapporto personale in un
rapporto più squisitamente patrimoniale. Il diritto di credito (già nella elaborazione
di Bonelli2) trova la sua tutela nella responsabilità patrimoniale del debitore: il
rapporto non è più tanto fra persone, ma tra sfere patrimoniali; le attività
manifatturiere trovano stabilità negli ingenti investimenti produttivi che devono
contrassegnare il capitale proprio e di rischio dell’impresa, piuttosto che nel capitale
di credito, donde il moltiplicarsi - nella tutela del credito stesso - delle garanzie
patrimoniali che il debitore è in grado di offrire.
L’economia finanziaria sconvolge gli schemi tradizionali sotto molteplici profili.
Innanzitutto il rapporto debito-credito non solo si spersonalizza, ma direi che si
spatrimonializza quando al centro del processo produttivo si colloca un’impresa la
cui stabilità è valutata non più e non tanto in termini patrimoniali quanto in termini
prospettici di capacità reddituale, una capacità che è legata soprattutto alla forza
innovativa e dunque alle idee che l’impresa riesce a sviluppare nella produzione di
nuova ricchezza. Il patrimonio imprenditoriale che fa da garanzia del credito altrui è
perlopiù immateriale, si traduce in flussi finanziari programmati e si colloca in
strumenti finanziari che si scambiano in mercati impersonali e di massa. Ben inteso:
l’economia finanziaria non cancella di certo il momento dello scambio e il momento
della produzione, ma tutto riduce a valori finanziari, rendendo volatile e liquido
qualsiasi investimento e qualsiasi rapporto patrimoniale. Di qui la diminuita
importanza della capitalizzazione delle imprese societarie, con le srl, ma anche le
spa, a capitale sociale del tutto simbolico; e anche quando la dotazione patrimoniale
ha un suo specifico rilievo - come negli intermediari finanziari -, essa è correlata al
livello di rischio che incorpora il relativo investimento e dunque ad un fattore
dinamico e prospettico.
L’insolvenza, nel Codice della crisi - come nella legge fallimentare del 1942 -,
sembra ancora legata alla concezione patrimonialistica, laddove l’accento ricade
sugli “inadempimenti” o comunque sugli “altri fatti esteriori” che dimostrino
l’incapacità del debitore (id est: del suo patrimonio) a “soddisfare regolarmente le
proprie obbligazioni”. Uno “status” che, abbandonata la visione personalistica del
vincolo, investe pur sempre le sfere patrimoniali3.
2
G. BONELLI, Del fallimento. (Commentario al Codice di commercio), 2a ed., Vallardi, Milano, 1923, 3 ss., 54 ss. 646
ss.; ID., La cessazione dei pagamenti e l’art. 705 cod. comm., (Nota alla sentenza della Corte di Cassazione di. Torino
12/5/1898), in Foro It., 1898, I, c.731 ss.; ID., Sulla riforma del codice di commercio nella parte riflettente il fallimento,
in Il dir. fall., 1924, I, 5 ss.
3
F. DI MARZIO, Obbligazione, insolvenza, impresa, cit., XIII e 47 ss. parla di un “forte condizionamento culturale”, dato
dall’inquadramento dell’intera materia del diritto concorsuale “sotto il paradigma del rapporto obbligatorio”,
2
La nozione di crisi, invece, ha notevoli ascendenze aziendalistiche e, più che
alla situazione del patrimonio e/o del soggetto, fa riferimento all’impresa come
attività economica e agli indici di malfunzionamento della stessa: è una nozione
dinamica ancor più dell’insolvenza4. La crisi richiama inevitabilmente le cause di quel
malfunzionamento, mentre l’insolvenza ne prescinde e si preoccupa solo del
risultato, cioè della incapacità del patrimonio a soddisfare regolarmente le ragioni
dei creditori. E quelle cause possono essere di vario genere: disfunzioni
organizzative, perdita di sbocchi di mercato, costi produttivi insostenibili, etc. 5. La
crisi coinvolge una molteplicità di soggetti, non solo debitore e creditore
astrattamente considerati come nell’insolvenza, ma l’imprenditore e i creditori nei
differenti ruoli che assolvono per il corretto funzionamento dell’impresa (e allora
quali fornitori, lavoratori, finanziatori, investitori, etc.) e anche le attese del
territorio in cui l’impresa si trova ad operare (si parla in questo senso di una
allargata “comunità di pericolo”6).
Sotto un certo profilo la crisi appartiene alla fisiologia dell’impresa
contemporanea, considerato il continuo mutamento delle tecnologie e
dell’ambiente di mercato in cui si svolge l’attività economica7.

paradigma che sconta a mio avviso l’ambivalenza dell’obbligazione oscillante fra il rapporto tra soggetti e il rapporto
fra patrimoni. Il singolo rapporto obbligatorio è considerato non in sé, ma in quanto rende possibile diagnosticare una
incapacità strutturale del patrimonio del debitore a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Sul tema mi
permetto di rinviare a S. FORTUNATO, Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo, in A. JORIO (diretto
da)-M. FABIANI (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Zanichelli, Bologna, 2006, 1, 37 ss.; nonché ID., Crisi
dell'impresa o fallimento dell'imprenditore?, consultabile al sito
www.academia.edu/1592166/S._Fortunato_Fallimento_dellimprenditore_o_crisi_dellimpresa.
4
Un cenno di dinamicità nella nozione di insolvenza è introdotto dalla elaborazione giurisprudenziale che valorizza il
concetto di “insolvenza imminente”, su cui v. infra il successivo paragrafo 4.
5
Si parla in proposito di cause esogene e di cause endogene. Tra le cause esogene rientrano: (i) fenomeni macro
economici (andamento generale dell’economia, cambiamenti nei tassi di interesse, di cambio e nei prezzi dei fattori
produttivi, modifiche normative e mutamenti ambientali o sociodemografici); (ii) instabilità settoriale (variazione di
densità, domanda satura, tensioni competitive e innovazioni tecnologiche). Tra le cause endogene rientrano: (i) fattori
strategici (errori nella pianificazione aziendale, nella definizione degli obiettivi e delle responsabilità, nelle modalità di
gestione dell’azienda, processi di crescita non attentamente ponderati, inadeguatezza della struttura dei costi, errata
strategia economico-finanziaria, errata definizione del mix produttivo, del volume e delle modalità di produzione); (ii)
fattori operativi (problematiche riscontrate nel processo di acquisto-produzione-vendita e nelle operazioni finanziarie
correlate, assenza o inadeguatezza dei sistemi di controllo); (iii) fattori societari (inadeguatezza del governo societario,
operazioni di moral hazard o in contrasto con le finalità dell’impresa); (iv) fattori straordinari (eventi imprevisti, come
la morte o la malattia dell’imprenditore, incendi, furti o operazioni straordinarie inefficaci). Per una disamina delle
cause e del ruolo in proposito del management v. A. DANOVI-A. QUAGLI, Gestire la crisi d'impresa. Processi e
strumenti di risanamento, 4a ed., Ipsoa, Milano, 2015, 7 ss.
6
F. DI MARZIO, Fallimento. Storia di un’idea, Giuffrè, Milano, 2018, 211 ss. Il tema evoca ovviamente la problematica
della cd. responsabilità sociale dell’impresa (corporate social responsibility) su cui vedi da ultimo i numerosi saggi
raccolti in M. CASTELLANETA-F. VESSIA (a cura di), La responsabilità sociale d’impresa tra diritto societario e diritto
internazionale, ESI, Napoli, 2019, passim ove anche ulteriori riferimenti.
7
Osserva L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Egea, Milano, 1995, 15: “Per esperienza comune a
tutto il mondo capitalistico, la vita delle imprese si svolge con un’alternanza di periodi di successi e di insuccessi. Ciò
avviene talvolta con un ritmo di tipo periodico, cioè secondo una certa ciclicità: a questi alti e bassi le aziende di vari
settori sono abituate e, almeno quelle solide, non se ne allarmano più di tanto. Sanno che al periodo negativo seguirà
quello positivo: l’essenziale è che sappiamo prepararsi per tempo ai periodi cattivi. Chi non sa prepararsi, o si prepara
secondo regole sbagliate, non regge la fase negativa del ciclo e viene eliminato”.
3
In senso aziendalistico, peraltro, autorevole dottrina individua quattro
differenti momenti nell’evoluzione della crisi aziendale genericamente intesa e che,
in assenza di tempestive manovre di risanamento, possono condurre ad una
situazione di dissesto permanente e irreversibile: incubazione e maturazione (che
insieme costituirebbero il “declino” dell’impresa), insolvenza e dissesto (che insieme
individuerebbero la “crisi” vera e propria)8. Più specificatamente l’“incubazione”
rappresenta il momento in cui si manifestano i primi squilibri economici e finanziari
e le prime inefficienze gestionali senza che ancora si traducano in perdite; la
capacità reddituale viene erosa e l’immagine aziendale tende ad indebolirsi di fronte
ai propri stakeholder, contribuendo a creare una decadenza che può manifestarsi in
un peggioramento tanto delle qualità e dell’adeguatezza dei prodotti o dei servizi
offerti, quanto dei rapporti con clienti e fornitori. Nello stadio della “maturazione” si
assiste all’insorgere di perdite di valore del capitale e dei flussi reddituali che,
erodendo le risorse aziendali, possono rendere palese la situazione di crisi anche
all’esterno e possono comportare difficoltà nei rapporti con i creditori, finanziatori e
investitori. La fase dell’“insolvenza” (in senso aziendalistico) è già uno stadio
avanzato della crisi, in cui un processo di risanamento presenta rilevanti difficoltà,
che riducono le probabilità di successo. Un intervento in questa fase esige
cambiamenti radicali sia nella struttura del capitale sia nella struttura organizzativa e
spesso richiede operazioni straordinarie quali la cessione di rami d’azienda o
l’esternalizzazione di alcune fasi della produzione che non generano margini
sufficientemente elevati. L’ultimo stadio del processo di crisi è il “dissesto”: in
questo stadio la situazione di crisi diventa permanente e l’inversione di rotta non è

8
Cfr. sempre L. GUATRI, Turnaround. Declino, crisi, cit., 111 ss., ma già ID., Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè,
Milano, 1986; nonchè C. SOTTORIVA, Crisi e declino dell'impresa. Interventi di turnaround e modelli previsionali,
Giuffrè, Milano, 2012, 1 ss. (secondo cui “una crisi d’impresa può essere definita anche come l’epilogo di una
situazione di degrado delle risorse immateriali fondamentali (conoscenza e fiducia) che invece di seguire il circolo
virtuoso di arricchimento del patrimonio aziendale, favorendo lo sviluppo d’impresa, innescano un circuito vizioso che,
in assenza di interventi di risanamento, conduce alla perdita di fiducia all’ interno e all’esterno dell’azienda); T.
PENCARELLI (a cura di), Le crisi d’impresa. Diagnosi, previsione e procedure di risanamento, FrancoAngeli, Milano,
2013, 11 ss.; e il Quaderno SAF (ODCEC Milano) n. 71 D. BERNARDI-M. TALONE (a cura di), Sistemi di allerta interna,
Milano, 2017, 8 ss. In quest’ultimo contributo si individuano cinque fasi, distinguendosi la fase di crisi in “crisi
conclamata” e “insolvenza reversibile”; A. DANOVI-A. QUAGLI, Gestire la crisi d'impresa, cit., 5 ss. Da ultimo P. BASTIA,
Crisi aziendali e piani di risanamento, Giappichelli, Torino, 2019, passim. Ad una classificazione in cinque fasi del
declino (blinded stage, inaction stage, faulty action stage, crisis, dissolution) fa riferimento F. PACILEO, Continuità e
solvenza nella crisi di impresa, Giuffrè, Milano, 2017, 63 ss. riprendendo quella formulata da W. WEITZEL-E. JONSSON,
Decline in Organizations: A Literature Integration and Extension, in Administrative Science Quarterly, 34, 1989, 91 ss.
Sul piano giuridico la distinzione in quattro fasi di Guatri è ripresa da N. ROCCO DI TORREPADULA, La crisi
dell’imprenditore, in Giur. comm., 2009, I, 216 ss. e 228 ss.; S. PACCHI, Crisi di impresa e procedure concorsuali
alternative, in Riv. dir. fallim., 1998, 996 ss. parla genericamente di “una perturbazione o improvvisa modificazione di
un’attività economica organizzata, prodotta da molteplici cause ora interne al singolo organismo, ora esterne, ma
comunque capaci di minarne l’esistenza o la continuità”. Per una puntualizzazione sulla nozione di “crisi” prima del
Codice della crisi v. A. M. AZZARO, Appunti sulla nozione giuridica di “crisi” d’impresa come stato di non solvenza
(irreversibile), in Studi Urbinati, 2016, 181 ss.
Va sottolineato, comunque, che sul piano aziendalistico l’insolvenza è una species della più ampia nozione di crisi,
come anche sul piano giuridico, a legge fallimentare vigente (art. 160, comma 3). Nel Codice della crisi l’impostazione
mi sembra addirittura capovolta, come si dirà più avanti nel testo.
4
più possibile senza raggiungere un accordo con tutti i creditori per tagliare le
rispettive esposizioni e ristrutturare il debito. In quest’ultima fase spesso l’unico
modo per riconvertire il processo di crisi è attraverso l’attivazione di procedure
concorsuali. Se nessuno degli interventi tentati nei quattro diversi momenti della
crisi d’azienda è andato a buon fine e lo stato d’insolvenza diviene strutturale e
permanente, l’unica soluzione potrebbe rivelarsi quella della cessazione e la
liquidazione dell’impresa nell’ottica di soddisfare almeno parzialmente i creditori.
“In buona sostanza – è stato da ultimo efficacemente sintetizzato – , il
concetto aziendalistico di crisi si concreta in un processo dinamico degenerativo che,
originato da cause interne e/o esterne all’impresa, si riflette attraverso squilibri
economici, finanziari e patrimoniali, richiedendo l’adozione di misure correttive
urgenti ed indifferibili, in mancanza delle quali il deterioramento sfocia in condizioni
irreversibili di insolvenza e dissesto”9.
Oltre all’aspetto dinamico e di (generalmente) lenta maturazione del processo
di crisi ampiamente inteso, un altro profilo mi sembra necessario segnalare dal
punto di vista aziendalistico: la crisi è un fenomeno complesso e multidimensionale,
che non investe il solo profilo finanziario ma anche e forse soprattutto quello
economico, oltre che patrimoniale. E’ stato osservato che “la sola presenza di uno
squilibrio avanzato sul piano economico (insufficienza attuale e prospettica delle
vendite/ricavi rispetto ai consumi/acquisti) evidenzia già di per sé una condizione di
deterioramento/crisi che, al di là della riserva di liquidità eventualmente consentita
dall’accesso al ceto creditorio, rischia di divenire irreversibile, se non
tempestivamente corretta”10. Attendere che la crisi si manifesti con un effetto
negativo finanziario (che può essere celato – fra l’altro – dal normale sfasamento
temporale del circuito finanziario rispetto al circuito economico) può rendere
eccessivamente tardivo ogni intervento correttivo e di risanamento11.

9
S. ADAMO, Il nuovo Codice della crisi è già in crisi?, in R.I.R.E.A., 2019, 262 ss., ivi 264.
10
Così sempre S. ADAMO, Il nuovo Codice della crisi, cit., 267, il quale sottolinea il rischio di porre in secondo piano
“l’aspetto economico che, invece, costituisce la premessa indispensabile ai fini del congruo ritorno finanziario”. In tal
modo si compie un “errore concettuale” che appare tipico delle strategie di finanza dinamica proprie del contesto
nord-americano, in cui l’attività economica è collocata come servente rispetto alla finanza, laddove “è la finanza a
doversi porre al servizio dell’attività economico-produttiva” (nt. 10).
11
Sullo stretto collegamento fra perdite economiche (di redditività e di valore) e ripercussioni sui flussi finanziari v. L.
GUATRI, Turnaround. Declino, crisi, cit., 7 e 108 ss.; G. BERTOLI, Crisi d’impresa, ristrutturazione e ritorno al valore,
Giuffrè, Milano, 2000, 14 s.; M. BELCREDI, Crisi d’impresa e ristrutturazione finanziaria, Giuffrè, Milano, 1995, passim;
C. SOTTORIVA, Crisi e declino dell'impresa, cit., 6 s.; S. SCIARELLI, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di
risanamento nelle piccole e medie imprese, Cedam, Padova, 1995, 4 ss. (il quale parla di crisi d’impresa “quando si crea
uno squilibrio economico-finanziario, destinato a perdurare e a portare all’insolvenza e al dissesto in assenza di
opportuni interventi di risanamento”); M. RUTIGLIANO, Equilibrio economico e finanziario di impresa.Piani di
risanamentoe accordi di ristrutturazione dei debiti, ruolo della banca, in Riv. dott. comm., 2010,134 ss. Fra i giuristi: A.
PACIELLO, Riflessioni a proposito della continuità aziendale, in Riv. dir. comm., 2015, I, 289 s. . Peraltro, v’è chi osserva
che “lo sviluppo della finanza globale, l’adozione di strumenti finanziari di elevata complessità nonchè l’impiego di
tecniche di finanziamento come il leveraged buyout, uniti ad un contesto di crisi macroeconomica, anch’essa globale,
di natura soprattutto finanziaria, … fanno sì che oggi sempre più spesso si verifichino crisi imprenditoriali di natura
squisitamente finanziaria”: F. PACILEO, Continuità e solvenza, cit., 72.
5
2. Ma allora la crisi in senso aziendalistico coincide con la nozione che ne
viene offerta nel Codice della crisi12? La risposta non può che essere negativa allo
stato della disciplina recata dal Codice e soprattutto se si considera l’esigenza di un
early warning che consenta un intervento precoce e tempestivo su quella che gli
indirizzi comunitari indicano come una impresa sana ma in difficoltà finanziaria13.
Ad una prima lettura gli elementi differenziali fra insolvenza e crisi che
emergono dalle definizioni del Codice parrebbero ruotare intorno a due profili: (i) la
esteriorizzazione o meno dei fatti/indici dell’insolvenza o della crisi; (ii) l’attualità o

12
Occorre precisare che, a seguito della emergenza sanitaria (ed economica) determinata dalla pandemia legata alla
diffusione del virus Covid-19, l’art. 5 d.l. 8 aprile 2020, n. 23 ha differito al 1° settembre 2021 l’entrata in vigore del
Codice della crisi, sulla base della considerazione che il sistema degli strumenti di allerta, teso a provocare l’emersione
anticipata della crisi d’impresa, “è stato concepito nell’ottica di un quadro economico stabile e caratterizzato da
oscillazioni fisiologiche, all’interno del quale, quindi, la preponderanza delle imprese non sia colpita dalla crisi”;
mentre in una situazione “in cui l’intero tessuto economico mondiale risulta colpito da una gravissima forma di crisi,
(...) gli indicatori non potrebbero svolgere alcun concreto ruolo selettivo, finendo di fatto per mancare quello che è il
proprio obiettivo ed anzi generando effetti potenzialmente sfavorevoli” (così la relazione accompagnatoria). Peraltro si
vanno moltiplicando le iniziative anche in termini di proposte di legge per porre rimedio nel frattempo alla grave
situazione di crisi economica che ha colpito l’intero tessuto produttivo del Paese: a parte la improcedibilità dei ricorsi
di fallimento depositati fra il 9 marzo e il 30 giugno 2020, sancita dall’art. 10 d.l. n. 23/2020 (su cui S. AMBROSINI,
L’improcedibilità delle istanze di fallimento: ratio legis, tassatività della deroga e corollari applicativi, in www.ilcaso.it,
pubbl. 29.05.2020), v. G. CORNO-L. PANZANI, Proposta di legge per una moratoria straordinaria volta a gestire
l’emergenza, tramite l’istituzione della procedura di “amministrazione vigilata”, ivi, pubbl. 7.05.2020; F. BENASSI, F.
CESARE, D. GALLETTI, G. LIMITONE, P. PANNELLA, Appello al legislatore, ivi, pubbl. 11.05.2020; CENTRO CRISI-Centro
Ricerca Università di Torino, Procedura semplificata di composizione assistita della crisi - Proposta legislativa, ivi,
pubbl. 14.05.2020. V. comunque in generale i contributi raccolti in M. IRRERA (a cura di), Il diritto dell’emergenza:
profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, Res, Torino, 2020, passim; S. AMBROSINI-S. PACCHI, Crisi
d’impresa ed emergenza sanitaria, Zanichelli, Roma-Bologna, 2020, passim.
13
Va ricordato che il meccanismo di allerta e composizione assistita della crisi dovrebbe dare attuazione alle numerose
sollecitazioni comunitarie in materia di early warning, già prefigurato dalla Raccomandazione della Commissione
2014/135/UE, che invitava a “garantire alle imprese sane in difficoltà finanziaria, ovunque siano stabilite nell’Unione,
l’accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in
modo da evitare l’insolvenza, massimizzandone pertanto il valore totale per creditori, dipendenti, proprietari e per
l’economia in generale”: e v. S. PACCHI, La Raccomandazione della Commissione UE su un nuovo approccio
all’insolvenza anche alla luce di una prima lettura del Regolamento UE 848/2015, in Giust. Civ., 2015, 537 ss.; G. LO
CASCIO, Il rischio di insolvenza nell’attuale concezione della Commissione Europea, in Fall., 2014, 733 ss.; F. DI MARZIO,
Su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza, disponibile in giustiziacivile.com; U. MACRI’, La
raccomandazione della Commissione UE su un nuovo approccio all’insolvenza. Un commento a prima lettura , in Fall.,
2014, 398 ss. Un ulteriore passaggio si è avuto con la proposta di direttiva del 22.11.2016 in cui gli early warning tools
erano rappresentati da obblighi nella redazione dei bilanci e nel monitoraggio dell’attività oltre che nel dovere di terzi
in possesso di informazioni rilevanti, quali i revisori, le autorità incaricate della riscossione delle imposte e dei
contributi previdenziali, di segnalare uno sviluppo negativo: cfr. L. PANZANI, La proposta di Direttiva della
Commissione UE: early warning, ristrutturazione e seconda chance, in S. AMBROSINI (diretto da), Fallimento, soluzioni
negoziate della crisi e disciplina bancaria, Zanichelli, Bologna, 2017, 1087 e ss.; A. NIGRO, La proposta di direttiva
comunitaria in materia di disciplina della crisi delle imprese, in Riv. dir. comm., 2017, 201 e ss.; L. STANGHELLINI, La
proposta dci Direttiva UE in materia di insolvenza, in Fall., 2017, 873 ss.; P. DE CESARI-G. MONTELLA, Osservatorio
internazionale sull’insolvenza - La Relazione della Commissione del Parlamento UE sulla proposta di direttiva della
Commissione del 22 novembre 2016, in Fall., 2018, 1350 ss.; L. BOGGIO, UE e disciplina dell’insolvenza (I parte) -
Confini ed implicazioni dell’ambito di applicazione delle nuove regole UE, in Giur. it., 2018, 222 ss.; P. PIAZZA, La
proposta di direttiva UE in materia di insolvenza e le forme di autotutela della controparte in bonis, in Giur. comm.,
2018, 691 ss. Si è infine pervenuti alla direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019, Preventive restructuring framework,
che dovrà essere recepita entro il 17 luglio 2021 e che introduce obblighi di interventi preventivi, dal contenuto “più
blando” rispetto alla proposta di direttiva del 2016, volti ad agevolare la ristrutturazione dell’impresa in presenza di
“probabilità di insolvenza” (insolvency likelihood): cfr. P. VELLA, L’allerta nel Codice della crisi e dell’insolvenza alla luce
6
meno delle obbligazioni disattese. Da un canto, infatti, si pone l’insolvenza, che –
come nella sua classica configurazione giuridica – è fondata sulla esteriorizzazione
dei “fatti” (innanzitutto l’inadempimento) che ne manifestano il relativo stato
nonché sulla irregolare soddisfazione delle “obbligazioni” del debitore, intese quali
obbligazioni attuali14; d’altro canto si colloca la crisi, che invece individua “lo stato di
difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore”,
laddove quelle difficoltà non vengono ulteriormente declinate per ogni tipologia di
debitore ma solo per l’imprenditore (in verità la disposizione parla di “imprese”,
come se fossero soggettivate o forse e ambiguamente per tener conto dell’aspetto
oggettivo e dinamico dell’attività). Per l’imprenditore quelle difficoltà si identificano
nella “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle
obbligazioni pianificate”, con una evidente accentuazione del solo profilo
finanziario15. Apparentemente alcun riferimento emerge, nella definizione della crisi,
a “fatti esteriori” che la manifestino, ma – quanto all’imprenditore – al solo profilo
finanziario a carattere prospettico, che evidentemente può cogliersi solo con analisi
interne in termini di “indici”; e inoltre la proiezione verso il futuro riemerge riguardo

della direttiva (UE) 2019/1023, in www.ilcaso.it, pubbl. 24.07.2019; L. PANZANI, Il preventive restructuring framework
nella direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze, www.ilcaso.it , 14 ottobre
2019 e in Bancaria 14.10.2019. Panzani sottolinea correttamente che, rispetto al nostro Codice della crisi, “ad un
esame più attento emergono aporie e difetti di coordinamento, cui dovrà rimediare il decreto correttivo di prossima
emanazione”. Tuttavia, l’A. per un verso puntualizza che nel Ventiquattresimo Considerando il regime di
ristrutturazione teso ad evitare l’insolvenza deve essere disponibile prima che il debitore divenga appunto insolvente
secondo la normativa nazionale (quando l’insolvenza comporta normalmente la nomina di un liquidatore ed il totale
spossessamento del debitore); per altro verso evidenzia l’opportunità che le difficoltà finanziarie del debitore
presentino una probabilità di insolvenza e che il piano di ristrutturazione sia tale da impedire l’insolvenza e garantire la
sostenibilità economica dell’impresa. Secondo Panzani “il codice della crisi è in linea con questa precisazione del
legislatore europeo, perché mantiene lo stato di crisi quale condizione di ingresso al concordato preventivo ed ha cura
di offrirne una definizione come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza”. Il
problema nasce, però, dalla circostanza che nel Codice della crisi la “probabilità di insolvenza”, quando si esaminano
gli indicatori e gli indici di crisi, è declinata in un ristretto arco temporale (sei mesi) che l’avvicina pericolosamente alla
“insolvenza prospettica ovvero imminente”, su cui v. infra il paragrafo 4.
14
La definizione di insolvenza data dall’art. 2, comma 1, lett. b) è la seguente: “lo stato del debitore che si manifesta
con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare
regolarmente le proprie obbligazioni”.
15
La definizione di crisi recata dall’art. 2, comma 1, lett. a) è la seguente: “lo stato di difficoltà economico-finanziaria
che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa
prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. Mentre la definizione di insolvenza ripercorre
quella tradizionale della legge fallimentare (art. 5), la definizione di crisi costituisce una novità sul piano giuridico,
disposta peraltro dal principio direttivo dell’art. 2 della legge delega che richiedeva di “introdurre una definizione dello
stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto della elaborazione della scienza
aziendalistica”. S. ADAMO, Il nuovo Codice della crisi, cit., 264 nt. 6 lamenta che “la ‘scienza aziendalistica’ risulta,
invero, clamorosamente assente, in quanto nessuna delle associazioni/società scientifiche esistenti in Italia è stata
adeguatamente coinvolta nel lungo processo legislativo. Da altro lato, neanche la presenza (peraltro debole) della
prassi professionale rappresentata dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e gli Esperti Contabili, sembra
aver inciso efficacemente sull’articolato in parola”. Sia detto en passant, e con il dovuto rispetto al Presidente Rordorf
e ai membri tutti della Commissione dal medesimo presieduta per l’enorme lavoro spiegato, l’articolato finale risente
di una sbilanciata presenza della componente giudiziaria anche a danno di quella accademica e di altre espressioni
professionali/imprenditoriali, oltre che della fretta (ad essi non imputabile) con cui si sono dovuti chiudere i lavori.
7
alla regolare soddisfazione non delle sole obbligazioni (attuali?) ma più estesamente
delle “obbligazioni pianificate”16.
Consentitemi un primo rilievo critico: la definizione di insolvenza è riferita ad
ogni tipo di “debitore”, benchè in verità trovi le sue storiche radici nella tradizionale
definizione concepita per l’imprenditore commerciale (mercante o commerciante in
altri periodi storici); la definizione di crisi si scinde in una prima parte generale
dedicata ad ogni debitore ed in una parte specifica riferita all’imprenditore tout
court. La originaria tendenza universalistica del Codice della crisi fa brutti scherzi17:
da un lato si estende la nozione di insolvenza dall’imprenditore a tutti i debitori
(anche professionisti e consumatori) e dall’altro lato ci si accorge della difficoltà di
una specificazione della crisi che, al di là del generico carattere di difficoltà
economica o finanziaria (e perchè non anche patrimoniale? 18), non sempre appare
agevolmente estensibile dall’impresa ai consumatori e ai professionisti. La
situazione è aggravata dalla circostanza che la stessa nozione di
sovraindebitamento, che dovrebbe appunto applicarsi a soggetti non imprenditori,
ricomprende in sé, alla stregua di una categoria di genere, le stesse definizioni di
crisi e insolvenza già prima enucleate19. E anche perchè fra i debitori sovraindebitati
possono ritrovarsi altresì esercenti attività d’impresa non fallibili.
Mi sembra evidente che occorre muoversi con circospezione nell’adeguare
quelle definizioni alle caratteristiche proprie della tipologia di debitore coinvolto 20, e
16
Sulla distinzione fra crisi e insolvenza nel Codice della crisi v. anche S. ADAMO, Il nuovo Codice della crisi, cit., 262 ss.;
M.C. CARDARELLI, Insolvenza e stato di crisi tra scienza giuridica e aziendalistica, in Il dir. fall. e delle soc. comm., 2019,
11 ss. e anche in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali, Scritti in ricordo di Michele Sandulli,
Giappichelli, Torino, 2019, 156 ss. ; S. AMBROSINI, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto
ordinamentale: considerazioni problematiche, ivi, 47 ss.; A. DI CARLO, La fase di pre-insolvenza tra economia aziendale
e regolamentazione in alcuni paesi europei, ivi, 292 ss.; M. PERRINO, Crisi di impresa e allerta: indici, strumenti e
procedure, ivi, 532 ss.; ASSONIME, Le nuove regole societarie sull’emersione anticipata della crisi d’impresa e gli
strumenti di allerta, Circ. n. 9 del 2 agosto 2019, 12 ss.;….
17
Su questa tendenza universalistica, rimasta nelle sole intenzioni iniziali e che però ha lasciato tracce sparse
nell’articolato del Codice della crisi, mi permetto di rinviare a S. FORTUNATO, Codice della crisi e Codice civile: impresa,
assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. soc., 2019, 952 ss. Quella tendenza appare evidente nell’art. 1 del Codice,
ove al comma 1 si delinea l’ambito di applicazione in questi termini: “Il presente codice disciplina le situazioni di crisi o
insolvenza del debitore, sia esso consumatore o professionista, ovvero imprenditore che eserciti, anche non a fini di
lucro, un'attività commerciale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente
collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici”; ma già nei commi
successivi si elencano le ulteriori eccezioni, riducendo notevolmente l’ambito soggettivo di applicazione del Codice
medesimo.
18
Questo profilo viene recuperato nell’art. 13, comma 1, del Codice della crisi, laddove gli “indicatori di crisi” vengono
identificati negli “squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario” (sottolineatura mia).
19
La definizione di sovraindebitamento è specificata nell’art. 2, comma 1, lett. c) come segue: “lo stato di crisi o di
insolvenza del consumatore, del professionista, dell'imprenditore minore, dell'imprenditore agricolo, delle start-up
innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012,
n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta
amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o
insolvenza”.
20
Giustamente A. BASSI, I presupposti delle procedure concorsuali nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Giur. it.,
2019, 1948 ss. rileva che “partendo dal riferimento al debitore, e quindi a tutti i debitori, il legislatore ha inserito nel
codice della crisi sia la disciplina della legge fallimentare del 1942, con le sue successive modifiche (a partire da quelle
del d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5), che riguarda fondamentalmente l’imprenditore commerciale, sia la disciplina della
8
forse in sede di decreto correttivo potrebbe rivelarsi opportuno differenziare le
relative nozioni a seconda che ci si trovi di fronte ad un imprenditore ovvero ad un
debitore civile21.
D’altro canto la nozione di crisi in concreto dovrebbe avere un suo specifico
rilievo esclusivamente con riguardo alle imprese, posto che il suo rilievo autonomo
(rispetto all’insolvenza) dovrebbe emergere ai fini della attivazione delle misure di
allerta e di composizione assistita della crisi, che sono riservate esclusivamente “ai
debitori che svolgono attività imprenditoriale” (art. 12, commi 1 e 4). Crisi e
insolvenza, invece, sono sempre indifferentemente richiamate come presupposti dei
piani di risanamento attestati, del concordato preventivo, degli accordi di
ristrutturazione e delle procedure da sovraindebitamento.
Ma torniamo alla differenziazione fra insolvenza e crisi.
Il primo elemento di differenziazione si dovrebbe cogliere sul piano della
esteriorizzazione o meno dei fatti/indici che ne manifestano il rispettivo stato. Ma è
proprio così? O la definizione, posta a raffronto con le indicazioni che provengono
dalla disciplina delle misure di allerta, mostra una qualche forma di “ipocrisia
normativa”?
Gli obblighi, interni od esterni, di segnalazione all’OCRI sono infatti spesso
collegati a veri e propri inadempimenti dell’imprenditore, insomma a fatti esteriori
che ben potrebbero porsi a fondamento di un vero e proprio stato di insolvenza:
l’art. 13, comma 1, fra gli indicatori di crisi annovera i “ritardi nei pagamenti reiterati
e significativi”, tenendo conto degli ammontari precisati all’art. 24 22; l’art. 15 fonda
l’obbligo di segnalazione dei creditori pubblici qualificati sulla circostanza che

legge sul sovraindebitamento (a partire dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3), che riguarda il debitore non soggetto alle
procedure concorsuali… il codice della crisi ha un contenuto eterogeneo… Si tratta di procedure con presupposti,
regole e finalità diverse, e non basta ad una loro unificazione concettuale il fatto che le rispettive discipline oggi si
trovino collocate in un unico testo legislativo, e il fatto che, alla fine dei conti, in entrambi i casi, si tratta sempre di
debitori inadempienti”.
21
In questo ordine di idee anche F. LAMANNA-D. GALLETTI, Il primo correttivo al Codice della crisi e dell’insolvenza,
Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2020, 11, ove il suggerimento – in verità un po’ criptico – che per il debitore non
imprenditore la crisi possa definirsi pur sempre come squilibrio tra flussi e passività ma “non necessariamente in
proiezione prospettica…entro un prefissato periodo futuro di 6 mesi, ma già con riferimento alla situazione rilevante
nell’attualità”.
22
Debiti per retribuzioni scadute da almeno 60 giorni pari ad almeno oltre la metà delle retribuzioni mensili
complessive; debiti verso fornitori scaduti da almeno 120 giorni per importi superiori a quello dei debiti non scaduti.
Ma secondo R. DELLA SANTINA, Indicatori e indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta: l’interpretazione
sistematica e di metodo offerta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, in
www.ilcaso.it, pubbl. 28.01.2020, “ al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 24 CCI, rimane… comunque onere
dell’organo di controllo (e ancor prima degli amministratori) valutare situazioni di ritardi nei pagamenti che siano
significative, in quanto ripetute e rilevanti”, ancor prima che raggiungano i limiti segnati dal citati artt. 24 e 15 Codice
della crisi. Analogamente S. LEUZZI, Indicizzazione della crisi d’impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine
del nuovo sistema, in www.ilcaso.it, pubbl. 28.10.2019: “La disposizione pare allora ammettere che pure
inadempimenti diversi da quelli esplicitati possano configurare “fondati indizi” di crisi, quale che sia la misura
dell’importo non versato, l’inesattezza compiuta o la consistenza della mora”.
9
ricorrano debiti scaduti per importi significativi e ritardi nei versamenti parimenti
importanti23.
Peraltro si potrebbe pensare che sussistono indici di crisi non dotati del
requisito della esteriorizzazione, sì che la crisi anticipi (almeno in questi casi)
sufficientemente l’insolvenza, benchè si tratterebbe di comprendere come conciliare
indicatori pur sempre di crisi, che sostanzialmente coincidono con sintomi di vera e
propria insolvenza, con quegli altri che l’anticipano in misura apprezzabile 24. Ma
ancora una volta si ripropone la domanda: questi ulteriori indici sfuggono davvero al
principio di esteriorizzazione?

3. Qui occorre aprire una parentesi e districarsi nella congerie terminologica,


segnalata da più parti, che sembra aver assalito il legislatore del Codice della crisi. Di
indici o indizi non v’è cenno nella definizione di crisi offerta nell’art. 2. In compenso,
nella sede dedicata agli strumenti di allerta e proprio in funzione dell’obbligo di
segnalazione e di una eventuale composizione assistita della crisi, quei riferimenti
abbondano e peraltro con espressioni sempre abbastanza diversificate25.
23
Nei confronti dell’Agenzia delle Entrate per IVA pari ad almeno il 30% del volume d’affari del periodo e volta a volta
non inferiori a € 25 mila per volumi d’affari del precedente periodo sino ad € 2 mln, non inferiori ad € 50 mila per
volumi sino ad € 10 mln, e non inferiori ad € 100 mila per volumi oltre € 10 mln; nei confronti dell’INPS ritardo di oltre
sei mesi nel versamento di contributi previdenziali pari ad oltre il 50% di quelli dovuti per l’anno precedente e
superiori ad € 50 mila; nei confronti dell’Agente di riscossione debito per oltre € 500 mila quanto alle imprese
individuali e per oltre € 1 mln quanto alle imprese collettive.
24
V. quanto osservato supra alla nt. 13. Sulla emersione anticipata della crisi, ricorda S. LEUZZI, Indicizzazione della
crisi d’impresa, cit., che “sin dal 2003, si girava attorno al tema dell’allerta. Se ne era lungamente discusso durante i
lavori della prima "Commissione Trevisanato", allorchè il manipolo propenso ad accogliere la sfida venne
drasticamente sconfitto dalla maggioranza di quanti guardavano a detti dispositivi come un corpo estraneo rispetto al
cono visivo dell'imprenditore, arbitro di scegliere se, come e quando partecipare ad un nucleo ristretto di creditori o
all'intera collettività di essi il proprio stato di crisi”. Mi permetto di sottolineare che anch’io facevo parte di quel
“manipolo” uscito sconfitto, per questa parte, da una maggioranza non ancora pronta ad un radicale mutamento di
clima culturale. Quelle resistenze, peraltro, si sono riproposte sotto diversa forma nel Codice della crisi, nella misura in
cui i segnali di allerta sono costruiti come eccessivamente tardivi ad intercettare una crisi sufficientemente
rimediabile.
25
Di indicatori e indici di crisi si discute da tempo nella letteratura aziendalistica: cfr. A. DANOVI-A. QUAGLI, Gestire la
crisi d'impresa, cit., 12 ss. e 145 ss., ove ulteriori riferimenti e in particolare il richiamo all’indicatore cd. Z-score di
Altman basato su cinque variabili, predittivi di una futura insolvenza (E. I. ALTMAN, Financial Ratios, Discriminant
Analysis, and the Prediction of Corporate Bankruptcy, in Journal of Finance, XXIII, 1968, 589 ss.; e più di recente E. I.
ALTMAN-E. HOCHKISS, Corporate Financial Distress and Bankruptcy: Predict and Avoid Bankruptcy, Analyze and Invest
in Distressed Debt, Wiley, 2005). Sulla distinzione fra indici statici e indici dinamici v. F. PACILEO, Continuità e solvenza,
cit., 65 s. Le tecniche di previsione delle insolvenze aziendali si fondano, peraltro, oltre che su indici, anche su modelli
intuitivi e su modelli di previsione: G. SIRLEO, La crisi d’impresa e i piani di ristrutturazione, Aracne, Roma, 2009, 37 ss.
Fra i primi commenti in tema di indicatori e indici di crisi nel disegno di legge delega v. R. RANALLI, Gli indicatori di
allerta nel testo del disegno di legge delega della riforma fallimentare approvato dalla Camera; esame critico; rischi
per il sistema delle imprese, in www.ilcaso.it, pubbl. 14.02.2017, il quale evidenziava il rischio dell’adozione di indici
sintetici retrospettici “frutto di medie astratte” cui potevano collegarsi la segnalazione di cd. “falsi positivi”, cioè “di
allerta in assenza di una concreta situazione di crisi”. Successivamente sempre R. RANALLI, Il codice della crisi e gli
“indicatori significativi”: la pericolosa conseguenza di un equivoco al quale occorre porre rimedio , ivi, pubbl.
12.11.2018 segnalava l’esigenza di correggere il testo del Codice nella formulazione varata dal C.d.M. dell’8.11.2018
soprattutto nell’art. 13, esprimendo dubbi sia sulla qualificazione in termini di indicatori di crisi di taluni indici sintetici
che dovevano semmai collocarsi fra quelli affidati alla elaborazione del CNDCEC sia sulla effettiva capacità predittiva
degli stessi indici. Sul testo definitivo v. L. PANZANI, Allerta interna, indicatori ed indici. Alcune riflessioni sulla
disciplina del codice della crisi e dell’insolvenza e sulla disciplina delle società a controllo pubblico , in D’ARRIGO, DE
10
Così nell’art. 12, comma 1, si parla degli obblighi di segnalazione finalizzati
(unitamente agli obblighi organizzativi) alla “tempestiva rilevazione degli indizi di
crisi dell’impresa”; l’art. 13 si apre con la rubrica denominata “indicatori di crisi”,
che peraltro sono declinati nel comma 1 quali “squilibri di carattere reddituale,
patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e
dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di
costituzione e di inizio dell’attività”; ma tali squilibri sarebbero a loro volta “rilevabili
attraverso appositi indici”, i quali “diano evidenza” a due elementi prospettici, e
cioè (i) alla “sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi” e (ii) alle
“prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata
residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei
mesi successivi”. Ma come se non bastasse il secondo periodo del comma 1 rincara
la dose, poiché “a questi fini” (quali?) sono “indici significativi” altri due che
vengono specificati come (i) misura della “sostenibilità degli oneri
dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare”, e come
(ii) misura della “adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi”26.
L’espressione “indicatori di crisi” torna infine nel terzo periodo a qualificare i
“ritardi nei pagamenti reiterati e significativi” di cui si è già parlato.
Nel comma 2 dell’art. 13, nel definire i compiti affidati al CNDCEC (Consiglio
Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili), si fa riferimento alla
elaborazione degli “indici di cui al comma 1 che, valutati unitariamente, fanno
ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa”; nonché
ad “indici specifici” relativi a particolari tipologie di imprese (start-up innovative,
PMI innovative, società in liquidazione, imprese neocostituite da meno di due anni).
Nel comma 3, per l’impresa che non ritiene adeguati alle proprie caratteristiche gli
indici così tipizzati, si parla di “indici idonei a far ragionevolmente presumere la
sussistenza del suo stato di crisi”, personalizzati e attestati come adeguati da
professionista indipendente in relazione alla “specificità dell’impresa”.
L’art. 14, comma 1, da ultimo, nel definire gli obblighi di allerta interna a capo
degli organi di controllo societari, di revisore contabile e di società di revisione,
collega l’obbligo di segnalazione verso l’organo amministrativo alla esistenza di
“fondati indizi di crisi”27.
SIMONE, DI MARZIO, LEUZZI (a cura di), Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, Collana “I
Quaderni in eXecutivis”, 2019, 71 ss.; M. BINI, Procedure di allerta: indicatori della crisi ed obbligo di segnalazione da
parte degli organi di controllo, in Società, 2019, 430 ss.; M. PERRINO, Crisi di impresa e allerta: indici, strumenti e
procedure, in Corriere giur., 2019, 653 ss.
26
La proposta di decreto correttivo del Codice della crisi ai sensi dell’art. 1, comma 1, legge 8 marzo 2019, n. 20,
approvata dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020, correttamente declina gli appositi indici e gli indici significativi
di cui nel testo in forma negativa, parlando rispettivamente di “non sostenibilità dei debiti”, “dell’assenza di
prospettive di continuità aziendale”, di “non sostenibilità degli oneri dell’indebitamento” e de “l’inadeguatezza dei
mezzi propri”. Per un primo commento v. F. LAMANNA-D. GALLETTI, Il primo correttivo, cit., 20 ss.
27
La proposta di decreto correttivo aggiunge condivisibilmente all’art. 14, comma 2, del Codice della crisi un periodo
finale del seguente tenore: “Gli organi di controllo societario, quando effettuano la segnalazione, ne informano senza
indugio anche il revisore contabile o la società di revisione; allo stesso modo, il revisore contabile o la società di
11
Indizi di crisi, indicatori di crisi, appositi indici, indici significativi, indici
specifici, indici idonei, fondati indizi di crisi sono tutte espressioni equivalenti? E a
quale funzione assolvono nella rilevazione dello stato di crisi?

4. Il documento elaborato il 19 ottobre 2019 dal CNDCEC, e in attesa di


approvazione da parte del MiSE28, offre certamente un pregevole contributo a
sbrogliare la intricata matassa terminologica, optando per una interpretazione
definita ad albero e gerarchica degli indicatori di crisi nonché per una
interpretazione combinata degli indici di crisi. La sequenza fondamentale posta dal
Documento CNDCEC è fra indicatori e indici, a loro volta riconducibili con importanti
specificazioni alla nozione di “fondati indizi di crisi”, quale presupposto essenziale
dell’obbligo di segnalazione per l’allerta interna.
Gli indicatori di crisi, che si pongono al vertice del sistema di allerta,
sarebbero sostanzialmente tre: (A) i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi; (B)
la mancanza delle “prospettive di continuità aziendale” per almeno i successivi sei
mesi, di cui mi parrebbe far parte l’emersione di un patrimonio netto negativo o
inferiore al minimo legale; (C) la non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi
successivi, anche indicata come DSCR (Debt Service Coverage Ratio).
V’è una gerarchia anche fra questi indicatori? La questione non è sempre
chiara. Certo si afferma che preliminare è la valutazione del Patrimonio Netto
negativo o inferiore al minimo legale rispetto al DSCR e – suppongo – anche rispetto
ad altri segnali prospettici. E’ stato peraltro osservato che l’emersione di un
“patrimonio netto negativo” si colloca in una fase di crisi conclamata e dunque di
insolvenza attuale29, distonica rispetto all’approccio forward looking cui rinvia a dire

revisione informano l’organo di controllo della segnalazione effettuata”. Viene così recepito parzialmente un
suggerimento reso dall’Assirevi, per il quale si rinvia alla nt. 43 che segue. La disposizione viene altresì integrata
estendendo l’esonero dall’obbligo di riservatezza dei sindaci ex art. 2407, comma 1, c.c. anche al revisore ex art. 9-bis,
commi 1 e 2, d.lgs. n. 39/2010. Cfr. F. LAMANNA-D. GALLETTI, Il primo correttivo, cit., 24 s., ove anche il disappunto
per il mancato recepimento di altro suggerimento avanzato da S.A. CERRATO, Ulteriori osservazioni e proposte di
modifica al decreto legislativo 12 gennaio 2019 n. 14, in www.centrocrisi.it, a proposito del monitoraggio delle s.r.l.
prive di organi interni di controllo. Si è infatti auspicato che per tali società, piuttosto numerose, il potere di
segnalazione potesse essere esteso a ciascun socio cui spetta il controllo ex art. 2476, comma 2, c.c., sia pure con il
sostegno della relazione di un professionista attestante la sussistenza degli indizi della crisi.
28
Allo stato il documento è ancora rubricato come “bozza” sul sito CNDCEC e non risulta aver conseguito
l’approvazione del Ministero per lo Sviluppo Economico ai sensi di legge. Per i primi commenti v. S. LEUZZI,
Indicizzazione della crisi d’impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, in www.ilcaso.it,
pubbl. 28.10.2019; R. DELLA SANTINA, Indicatori e indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta:
l’interpretazione sistematica e di metodo offerta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti
Contabili, in www.ilcaso.it, pubbl. 28.01.2020; R. RANALLI, Definiti gli indici di crisi e il percorso di rilevazione dei suoi
fondati indizi, in www.ilfallimentarista.it, Focus 23.09.2019; P. BASTIA, Crisi, insolvenza e indicatori nelle società e nei
gruppi aziendali, in www.osservatorio-oci.org, dicembre 2019, il quale lamenta che il Codice si limiti a prevedere indici
quantitativi e non contempli anche “indici e dati segnaletici afferenti la dimensione qualitativa della performance
aziendale, parametrabili e non”, con il rischio di un irrigidimento burocratico del sistema di allerta; AIDC Milano,
Adeguati assetti societari, continuità aziendale e indici di crisi, Circolare n. 14 del 27 agosto 2019;
29
V. quanto afferma Cass. 1.12.2005, n. 26217, in Fall., 2006, 965: “anche il dato di un assai marcato sbilanciamento
tra l'attivo e il passivo patrimoniale accertati, pur se non fornisce, di per sè solo, la prova dell'insolvenza – potendo
comunque essere superato dalla prospettiva di un favorevole andamento futuro degli affari, o da eventuali
12
il vero il solo indicatore del Debt Service Coverage Ratio. Ma verrebbe da dire che
altrettanto evidente è il rilievo dell’indicatore relativo ai pagamenti ritardati reiterati
e significativi, anch’esso espressione di un approccio retrospettivo piuttosto che
prospettico. Peraltro la valutazione del DSCR, che invece si muove nell’ottica
forward looking, viene espressamente subordinata alla disponibilità dei relativi dati
prospettici e comunque alla loro affidabilità, di cui restano giudici gli stessi soggetti
su cui fa carico l’obbligo di segnalazione. La valutazione negativa sotto questo profilo
(affidata al giudizio professionale degli organi interni onerati dell’obbligo di
segnalazione) porta al passo successivo.
In seconda battuta, infatti, vengono gli indici di crisi, che il Documento elabora
in numero di cinque, tenendo conto delle indicazioni desumibili dall’art. 13 del
Codice e le cui soglie di rilevanza si differenziano e si adattano per settore
merceologico secondo la relativa classificazione Istat (indice di sostenibilità degli
oneri finanziari derivante dal rapporto oneri finanziari/fatturato; indice di
adeguatezza patrimoniale derivante dal rapporto patrimonio netto/debiti totali;
indice di ritorno di liquidità sull’attivo: cash flow/attivo; indice di liquidità a breve:
attivo a breve/passivo a breve; indice di indebitamento previdenziale e tributario:
debiti previdenziali e tributari/attivo)30. Tali indici devono essere “valutati
unitariamente”, il che comporta – secondo il Documento – che le soglie di rilevanza
devono essere superate contemporaneamente in tutti gli indici. E tuttavia anche in
questa ipotesi essi sarebbero soggetti ad una valutazione professionale di rilevanza
da parte degli organi a ciò deputati, affinchè possano fondare l’obbligo di
segnalazione. E ciò perchè gli indici di crisi non si tradurrebbero automaticamente in
“indicatori di crisi”, potendo dietro ad essi celarsi cd. “falsi positivi”, insomma non

ricapitalizzazioni dell'impresa - nondimeno deve essere attentamente valutato, non potendosene per converso
radicalmente prescindere, perché l'eventuale eccedenza del passivo sull'attivo patrimoniale costituisce, pur sempre,
nella maggior parte dei casi, uno dei tipici "fatti esteriori" che, a norma dell'art. 5 l. fall., si mostrano rivelatori
dell'impotenza dell'imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni”; analogamente Cass., 20 novembre 2018, n.
29913, in www.ilcaso.it: “È fuor di dubbio infatti che l’accertamento dell'insolvenza, come sopra intesa, non
s'identifica in modo necessario e automatico con il mero dato contabile fornito dal raffronto tra l'attivo ed il passivo
patrimoniale dell'impresa; ed è parimenti indubbio che in presenza di un eventuale sbilancio negativo è pur possibile
che l'imprenditore continui a godere di credito e sia di fatto in condizione di soddisfare regolarmente e con mezzi
normali le proprie obbligazioni, configurandosi l'eventuale difficoltà in cui egli versa come meramente transitoria. Al
tempo stesso ove - all'opposto - l'eccedenza di attivo dipenda dal valore di beni patrimoniali non agevolmente
liquidabili, o la cui liquidazione risulterebbe incompatibile con la permanenza dell'impresa sul mercato e con il
puntuale adempimento di obbligazioni già contratte, il presupposto dell'insolvenza può esser egualmente riscontrato.
Nondimeno – conclude la decisione qui diffusamente riportata – è un fatto logicamente incontrovertibile che
l'eventuale eccedenza del passivo sull'attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, e nella maggior parte dei casi, uno
dei tipici "fatti esteriori" che dimostrano l'impotenza dell'imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni”.
30
Si tratta sostanzialmente di indici di bilancio, ricavabili dunque da dati consuntivi e piegati alla valutazione del rischio
di credito dell’impresa in un’ottica predittiva. Sullo sviluppo di tale metodologia v. F. PIERRI, A. BURCHI, E.
STANGHELLINI, La capacità predittiva degli indicatori di bilancio: un metodo per le Pmi, in Riv. Piccola Impresa/Small
Business, 2013, 85 ss. M. MASTROGIACOMO, Indici dell’allerta: più piani previsionali che bilanci d’esercizio, in
www.Ilcaso.it 21.02.2019, ritiene che, in base alle disposizioni del Codice sugli indicatori e indici di crisi, “riacquistano
così un ruolo previsionale anche dati di stock ricavabili dai bilanci d’esercizio o dalla contabilità. L’impressione che si
ricava è che la norma richieda un’interlocuzione tra dati storici e flussi previsionali ricavabili da appositi piani”, donde
l’importanza e la necessità di una adeguata pianificazione dell’attività d’impresa.
13
costituirebbero automaticamente fondati indizi di crisi ai fini dell’obbligo di
segnalazione31.
Va poi ulteriormente precisato che per talune tipologie di imprese (start-up
innovative, PMI innovative, società in liquidazione e imprese costituite da meno di
due anni) il CNDCEC è chiamato ad elaborare indici specifici: ferma per esse,
comunque, l’applicazione dei tre indicatori di crisi, gli indici sono sostituiti per le
prime due categorie (start-up e PMI innovative) da un unico indice: la capacità di
ottenere le risorse finanziarie per la prosecuzione dell’attività di studio e di sviluppo,
laddove un momento di criticità è costituito dalla sua sospensione per almeno 12
mesi. L’indice è applicabile in presenza di debito attuale o derivante dagli impegni
assunti, ed è misurato tramite il DSCR. Quanto alle società in liquidazione, in assenza
di prosecuzione dell’attività mediante l’esercizio provvisorio ex art. 2487 c.c., gli
indici “ordinari” sono sostituiti dal rapporto tra il valore di realizzo dell’attivo
liquidabile e il debito complessivo della società. Rilevano inoltre come indici della
crisi (anche in presenza di un valore del rapporto uguale o maggiore di uno) il DSCR
minore di uno ovvero l’indicatore rappresentato dai ritardi dei pagamenti reiterati e
significativi. Non sono invece significativi, per evidenti motivi, l’indicatore
rappresentato dal pregiudizio alla continuità e l’indice costituito dalla presenza di un
patrimonio netto negativo, che potrebbe derivare da un minor valore di libro degli
assets rispetto a quanto realizzabile dalla loro liquidazione. Infine, per le imprese
costituite da meno di due anni, l’unico indice che rileva è il solo patrimonio netto
negativo. Si applicano tuttavia gli indici di settore nel caso in cui l’impresa o la
società neo-costituita sia succeduta ad altra o sia subentrata ad altra nella
conduzione o nella titolarità dell’azienda.
Va poi, da ultimo, considerato che gli indici tutti, elaborati ai sensi del comma
2 art. 13 (quindi quelli di settore, ma anche quelli specifici) possono essere derogati
dalla singola impresa che non li ritenga adeguati in relazione alle “proprie
caratteristiche. Sussiste però, in tal caso, un obbligo di specifica motivazione da
riportare nella nota integrativa al bilancio d’esercizio, ove occorrerà anche indicare
“gli indici idonei a far ragionevolmene presumere la sussistenza del suo stato di
crisi”. Alla nota integrativa dovrà anche allegarsi, per farne parte integrante, una
attestazione resa da “professionista indipendente” in merito alla “adeguatezza di tali
indici in rapporto alla specificità dell’impresa”. Mi preme sottolineare come, in tal
modo, gli “indici personalizzati e attestati” (o “sartoriali” o tailor made, come li
31
R. DELLA SANTINA, Indicatori e indici della crisi, cit., “Il concetto di «indicatori» deve pertanto desumersi più ampio
del concetto di «indici», che fanno invece riferimento a confronti tra grandezze economiche, patrimoniali e finanziarie
e che sono sintetizzati in «ratios» la cui elaborazione è alimentata da dati di matrice contabile. Siffatta impostazione
comporta che i tre indicatori assumano rilevanza autonoma, in quanto tra loro non concorrenti, ai fini
dell’accertamento dei fondati indizi di crisi, cosicché l’esistenza anche di una sola delle tre condizioni determinerà
comunque, per l’organo di controllo societario, l’obbligo di segnalazione di cui all’art. 14, comma 1 CCI. Il sistema degli
indici costituisce anch’esso un fondato indizio della crisi, ma, a differenza degli indicatori, che hanno rilevanza
segnaletica autonoma, per esso si richiede una valutazione complessiva di tutti gli elementi che lo compongono, da
effettuarsi secondo la sequenza indicata nel Documento”.
14
definisce Salvo Leuzzi) costituiscano parte integrante dei documenti che
compongono il bilancio di esercizio e sono pertanto soggetti all’approvazione
dell’assemblea generale dei soci, con tutte le conseguenze che ne possono
discendere sul piano della eventuale invalidità della deliberazione approvativa per
vizi di contenuto della nota integrativa.
Da quanto precede emerge che gli indici di crisi non si risolvono
automaticamente in “fondati indizi di crisi” tali da imporre l’obbligo di segnalazione
interna agli organi di controllo e al revisore contabile.
Insomma anche fra gli indici andrebbe compiuta una discriminazione: fra
indici che integrano gli estremi dei “fondati indizi di crisi” e gli indici che ne restano
fuori.
Sono questi ultimi del tutto irrilevanti?
Tutti gli indicatori di crisi fin qui segnalati, compresi i cinque indici settoriali
valutati unitariamente, parrebbero significativi in termini di insolvenza o di
probabilità di insolvenza, secondo l’accezione di crisi accolta dal Codice. Ma v’è chi
ritiene che gli indizi a fini interni “debbano ricomprendere non solo segnali
sintomatici di insolvenza probabile ma anche indicatori premonitori di un’insolvenza
anche soltanto possibile”, e ciò in funzione della tempestività di accesso alle
procedure di allerta. Si è osservato, insomma, che “la rilevazione degli indicatori
della possibilità di crisi sono essenziali [forse meglio: è essenziale] per garantire la
rilevazione tempestiva della probabilità di insolvenza che impone l’attivazione
dell’OCRI (o dell’OCC)”32.
Una spia in questa direzione può forse discendere dalla circostanza che l’art.
12 al comma 2 consente l’accesso alla composizione assistita della crisi non solo
“all’esito dell’allerta”, ma “anche prima della sua attivazione”, lasciando lo spazio ad
una composizione che si muova nell’ottica non solo dei fondati indizi ma altresì degli
indici non ancora pienamente significativi nell’ottica dell’obbligo di segnalazione.
Va inoltre segnalato che il Codice della crisi non sembra occuparsi della
rilevazione di indicatori e indici di crisi a livello di gruppo di imprese, ciò che
potrebbe trovare la sua giustificazione nella circostanza che la innovativa
regolazione della crisi o insolvenza del gruppo introdotta dal Codice (art. 284)
mantiene l’autonomia delle masse attive e passive delle singole imprese di gruppo e
rinvia agli equilibri (squilibri) di ciascuna di esse anche ai fini dell’individuazione del
presupposto oggettivo di accesso alla procedura del concordato di gruppo o degli
strumenti negoziali stragiudiziali. Giustamente, però, si evidenzia che indici
significativi per la crisi delle singole imprese dovrebbero potersi desumere anche

32
Cfr. P. MONTALENTI, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta dalla “Proposta Rordorf” al
Codice della crisi, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali, cit., 482 ss. ivi 488 s.
15
dalla situazione di gruppo e in particolare dal bilancio consolidato 33, sì che sarebbe
auspicabile che anche di ciò si tenesse conto in un prossimo decreto correttivo.

5. Ma torniamo al tema della esteriorizzazione quale requisito distintivo


dell’insolvenza rispetto alla crisi. Fra gli indicatori di crisi, s’è detto, sussistono
certamente alcuni che rinviano a fatti esteriori; ma anche quelli prospettici, come
l’assenza di prospettive di continuità aziendale e la insostenibilità dei debiti per i
successivi sei mesi, benchè riferibili a valutazioni prognostiche e non a “fatti” in
senso stretto, sono spesso pur essi esteriorizzati attraverso il bilancio d’esercizio, la
relazione sulla gestione e la nota integrativa di bilancio (art. 2428, commi 1 e 2;
comma 3, n. 6)34. L’elemento della esteriorizzazione è dunque fortemente dubbio
come discriminante fra insolvenza e crisi.
Forse resta un possibile spazio rispetto al secondo elemento, e cioè che per
l’insolvenza si deve trattare di “fatti”, piuttosto che di “valutazioni”, che si traducano
in indici di incapacità strutturale a soddisfare obbligazioni attuali, già scadute,
piuttosto che pianificate e a scadere.
E qui si apre il vero problema che porta alcuni a distinguere fra insolvenza
attuale e insolvenza prospettica, e ancora rispetto a quest’ultima fra insolvenza
certa, insolvenza probabile e insolvenza possibile.
Insomma, la crisi – nata nell’ottica del paradigma dell’attività economica,
meglio ancora dell’impresa – si declina in termini giuridici con le categorie
dell’insolvenza, legata più all’ottica patrimonialistica delle sfere patrimoniali
inidonee a sopportare il peso delle obbligazioni. La nozione di crisi, che
nell’impostazione delle riforme del 2005-2007 costituiva il genus di cui la species era
rappresentata dalla insolvenza, diventa con il Codice della Crisi apparentemente una
species pariordinata alla insolvenza, di fatto una qualificazione della insolvenza che
diventa allora il genus rilevante. Mi sembra un ribaltamento di prospettiva e di
paradigma di non poco conto35.
33
E v. G. RACUGNO, Gli indicatori della crisi d’impresa nel passaggio dal bilancio d’esercizio al bilancio consolidato, in Il
dir. fall., 2020, 324 ss.; nonché P. BASTIA, Crisi, insolvenza e indicatori nelle società e nei gruppi aziendali, in
www.osservatorio-oci.org, dicembre 2019, 18 ss.
34
V. sempre P. MONTALENTI, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi, cit., 489; ma anche Cass. 20 novembre 2018,
n. 29913 in www.ilcaso.it secondo cui “è un fatto logicamente incontrovertibile che l’eventuale eccedenza del passivo
sull’attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, e nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che
dimostrano l’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni”; e già Cass. 25 luglio 2008, n. 20476;
Cass. 5 luglio 2002, n. 9815; nonché Trib. Bologna 6 giugno 2005, in Dir. fall., 2006, II, 692 ss. con nota di V. PICCININI,
Prova della conoscenza dello stato di insolvenza e indici presuntivi risultanti dai bilanci.
35
Alle medesime conclusioni, e se possibile in termini ancor più radicali, mi sembra pervenga S. ADAMO, Il nuovo
Codice della crisi, cit., 265, laddove osserva: “in effetti, la nuova definizione codicistica [il riferimento è alla “crisi”]
sembra correlarsi maggiormente ad uno stato di insolvenza prospettica (di imminente, se non pressochè certa,
verificazione) piuttosto che ad una condizione di insolvenza solo probabile e, quindi, ancora incerta poiché futura. In
entrambi i casi, ciò che rileva decisamente (e negativamente) non è tanto (o non solo) l’orizzonte temporale
prospettico, immediato nell’un caso e imminente nell’altro (considerato il ridottissimo orizzonte temporale di sei
mesi), bensì… le dimensioni dello squilibrio che non sembrano rivelare le caratteristiche di un’insolvenza temporanea
o comunque reversibile. Da ciò ne consegue, di fatto, la codificazione di una duplice dimensione di insolvenza [corsivo
mio]: l’insolvenza immediata o attuale… l’insolvenza imminente o prospettica…”.
16
E’ in questa ottica che già si muovono le prime interpretazioni
giurisprudenziali. Un recente decreto del Tribunale di Milano del 3 ottobre 2019,
relatrice la Presidente Paluchowski, affronta con queste categorie una istanza in cui
si chiede dichiararsi il fallimento per insolvenza prospettica 36. Nella specie alcuni
obbligazionisti hanno chiesto il fallimento della società emittente il prestito,
lamentando che “la società debitrice, per affrontare una cronica situazione di crisi di
liquidità e al fine di ricavare le risorse necessarie a far fronte alle ripetute scadenze
finanziarie (in particolare nei confronti del sistema bancario), sia sistematicamente
ricorsa ad operazioni di vendita con parti correlate delle navi di maggior pregio,
sostituite con naviglio di rilevante minor valore, così depauperando il patrimonio
sociale e mettendo a rischio il pagamento dei crediti di prossima scadenza di cui essi
sono portatori”. Il Tribunale respinge l’istanza per carenza di “insolvenza attuale”,
data l’assenza di fatti esteriori sintomatici della stessa.
Il Tribunale non nega che l’insolvenza si risolva in un giudizio prognostico,
dovendosi in realtà, partendo da quei fatti esteriori, valutare la irreversibilità della
incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni. Ma a questi fini può ben
assumere rilievo anche una situazione in cui la condizione di irreversibilità sia al
momento asintomatica e tuttavia inadempimenti o altri fatti esteriori stiano per
manifestarsi rendendo così evidente in tutta la sua gravità la situazione (di crisi) in
cui versa il debitore. Si tratterebbe però, anche in tal caso, pur sempre di insolvenza
irreversibile immediatamente apprezzabile e, come tale, integrante ex se il
presupposto oggettivo richiesto per l’ammissione alla procedura concorsuale del
fallimento.
Diverso è invece il caso in cui “la crisi è solo intrinseca, e come fatto esterno
non si manifesta ancora con inadempimenti o altri fatti esteriori”, né sia
apprezzabile un’imminente loro manifestazione. Insomma l’insolvenza prospettica e
non già imminente (benchè non proprio attuale) abbraccerebbe – secondo il
Tribunale ambrosiano – un periodo più ampio, oggi definito dal Codice della crisi in
un orizzonte temporale di sei mesi. Dunque, l’insolvenza prospettica si
identificherebbe con lo stato di crisi di cui al Codice stesso, una situazione di
pericolo idonea ad avviare la procedura di allerta ma non anche la liquidazione
giudiziale.
Il decreto in commento sembra così distinguere fra una insolvenza
conclamata e risalente ed una insolvenza imminente pur asintomatica, entrambe
tuttavia riconducibili alla previsione dell’art. 5 l.f. (e dunque all’art. 2, comma 1, lett.
b) Codice della crisi); e ancora e ulteriormente una insolvenza prospettica (priva pur
essa di fatti esteriori) che avrebbe trovato espressione nella nozione di crisi definita

36
Vedi il decreto in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22557 - pubb. 22/10/2019 e ivi la nota di R. DELLA SANTINA, Crisi
d’impresa e insolvenza prospettica dell’imprenditore: questioni aperte nell’imminenza dell’entrata in vigore del d. lgs.
n. 14/2019; nonché in www.ilfallimentarista.it, con nota di SANZO, Istanza di fallimento ed insolvenza prospettica:
ovvero le regole della crisi prima che entri in vigore la disciplina dell’allerta…
17
dall’art. 2, comma 1, lett. a) Codice della crisi commisurata a un periodo temporale
di sei mesi.
Va però precisato che la giurisprudenza (e la dottrina) – se non vedo male – ha
sino ad ora individuato nella “insolvenza prospettica” proprio quella situazione in cui
è ragionevole prevedere che “l’imprenditore attualmente in grado di adempiere
‘regolarmente’ le obbligazioni assunte, entro un prevedibile futuro non ne sarà più
in grado”, non essendovi prospettive di ripristino della continuità aziendale neppure
con un piano di risanamento fattibile, allora assimilandola alla insolvenza attuale ai
fini dell’art. 5 l.f. (id est: art. 2, comma 1, lett. b) Codice della crisi)37.
L’ultima parte del decreto contiene poi una sorta di «raccomandazione»
rivolta all’organo amministrativo e, in via sussidiaria, al collegio sindacale, “di
attivarsi senza indugio per l’adozione o l’attuazione di uno degli strumenti previsti
dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità
aziendale”.
L’insolvenza prospettica in senso proprio coinciderebbe dunque con la
probabilità di insolvenza in cui dovrebbe risolversi lo stato di crisi, reso rilevante in
senso giuridico ex art. 2, comma 1, lett. a) Codice della crisi38.

37
E v. per questa ricostruzione F. PACILEO, Continuità e solvenza, cit., 261 ss. L’A. sottolinea come la nozione di
insolvenza prospettica, ricavata fondamentalmente da analisi di bilancio e in mancanza di altri fatti esteriori come
inadempimenti etc., sia stata spesso utilizzata per la declaratoria di insolvenza delle banche, nonché dell’Alitalia s.p.a.
(Trib. Roma 5 settembre 2008 inedita). Cfr. anche Trib. Torino, 14 novembre 2008, Bertone s.p.a., in www.ilcaso.it,
secondo cui, ove l’esaurirsi della liquidità rappresenti un evento che può «essere ritenuto in anteprima con assoluta
certezza», deve senz’altro ravvisarsi lo “stato di insolvenza, non ancora attuale ma di imminente (ed anzi a brevissimo
termine) verificazione, non rimediabile (soprattutto nel ridotto lasso di tempo a disposizione, appunto prima
dell’esaurirsi della liquidità) con l’alienazione dei cespiti patrimoniali”; nonché da ultimo Cass. 20 novembre 2018, n.
29913 citata alla nt. 28 che precede. E tanto nell’ottica di evitare l’incremento dei danni derivanti da una tardiva
rilevazione dell’insolvenza imminente ma già certa e non puramente probabile o possibile. Adde D. GALLETTI, in
Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Giuffrè, Milano, 2010, 99 ss.; S. AMBROSINI, Crisi e
insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo, cit., 55 ss.
38
Prefigurava questo possibile esito interpretativo S. AMBROSINI, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo,
cit., 64 nt. 59, laddove osserva che “ricollegandosi alla tematica affrontata sul terzo paragrafo, va inoltre rilevato che il
citato disposto dell’art. 13 potrebbe essere invocato allo scopo di “confinare” il ricorso al concetto di insolvenza
prospettica al verificarsi dell’insolvenza medesima in un periodo inferiore a sei mesi, giacché la sostenibilità dei debiti
per almeno sei mesi è espressamente associata dalla legge – come si è visto – alla nozione di crisi”. Così anche S.
LEUZZI, Indicizzazione della crisi d’impresa, cit., afferma che “la nozione di crisi è, dunque, un embrione d’insolvenza” e
che “il segnale [di allerta] rischia di giungere troppo tardi”. In questa direzione R. DELLA SANTINA, Indicatori e indici
della crisi, cit., secondo cui la definizione di crisi data dall’art. 2, comma 1, lett. a) Codice della crisi “è chiaramente
orientata al modello del debito, [e] riconduce la crisi nell’alveo dell’insolvenza”. Tuttavia lo stesso A. riconosce che “ci
si può chiedere se la tipizzazione della crisi prevista dal CCI esaurisca tutto lo spazio relativo a situazioni di difficoltà
dell’impresa rilevanti sul piano giuridico. La questione riguarda, per esempio, l’obbligo della rilevazione tempestiva
della crisi dell’impresa (e della perdita della continuità aziendale) previsto dal novellato articolo 2086 c.c. Rimane
infatti da chiarire se la crisi cui si riferisce la norma coincida con la previsione di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) del CCI
oppure se afferisca ad un concetto più ampio, che prescinda dallo stato di insolvenza, seppur prospettica, per
approdare ad un dimensione della crisi più aziendalista, che tenga in conto le dinamiche economiche e produttive
dell’impresa. Così come si pone anche la necessità di definire e sistematizzare tra loro i concetti di equilibrio
economico-finanziario, prevedibile andamento della gestione (cfr. art. 14, comma 1 CCI) e perdita (e recupero) della
continuità aziendale (cfr. art. 2086 c.c.); di chiarire infine se esista, e quale sia, il rapporto tra tali concetti e la crisi
d’impresa tipizzata nel CCI”.
18
Ma sta di fatto che gli indicatori di crisi codificati non sempre rinviano a quella
probabilità intesa anche come assenza di fatti esteriori (e pur escludendovi prognosi
da indici di bilancio), essendo spesso quegli indicatori più prossimi alla insolvenza
certa o imminente39.
Alcuni indicatori, come si è già sottolineato, evidenziano fatti esteriori di
inadempimenti reiterati e significativi che si protraggono da oltre sessanta o
centoventi giorni o addirittura da oltre sei mesi e forse anche da un anno: si tratta
insomma di indici di insolvenza certa che solo un piano fattibile di ristrutturazione
potrebbe rendere reversibile; altri indicatori hanno natura prospettica, ma l’arco
temporale di previsione del manifestarsi della insolvenza ruota intorno al semestre,
e mi parrebbe che - più che nell’ottica di una probabilità di insolvenza – quella
previsione si muova nell’ottica di una insolvenza imminente, anch’essa reversibile
solo con drastici interventi di turnaround.
La probabilità di insolvenza dovrebbe a mio avviso fondarsi su una prognosi di
più ampio respiro temporale, dovendo favorire il risanamento dell’impresa in

39
Sul punto A. ROSSI, Dalla crisi tipica ex cci alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle
situazioni di crisi atipica, in www.ilcaso.it, 11 gennaio 2019, così si esprime: “Ebbene, una prima caratteristica della
crisi tipica del CCI è la sua prossimità ad uno stato di vera e propria insolvenza. Vero è che l’art. 2.1.c della L.n.
155/2017 e l’art. 2.1.a del CCI riconducono la nozione ad una “probabilità di insolvenza” e che, verosimilmente, con
questa espressione s’intende evocare una reversibilità (per vero non enunciata) della situazione di crisi allo stato dei
fattori della produzione e dell’organizzazione d’impresa, ma neppure si può dimenticare che una attuale
“inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (su un orizzonte
temporale di sei mesi: arg. ex art. 13.1 CCI, ove si parla di ‘sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi’), è
oggi ricondotta da attenta dottrina ad un attuale stato d’insolvenza…. D’altra parte, il fatto che la crisi tipica ex CCI,
nella migliore delle ipotesi, sia in sé prossima (più che ‘probabile’) insolvenza ovvero, forse più correttamente, sia già
insolvenza prospettica, risulta anche dall’art. 13 CCI che, tra gli ‘indicatori della crisi’, al di là di indici che attenta
dottrina ritiene ben poco attendibili, evoca ‘ritardi nei pagamenti reiterati e significativi’, ovvero ciò che già oggi, anche
a proposito di azione revocatoria fallimentare, costituisce indice sintomatico di un vero e proprio stato d’insolvenza”;
v. anche G.B. NARDECCHIA, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, NelDiritto ed., Molfetta, 2019, 8 s.;
P. BASTIA, Crisi, insolvenza e indicatori nelle società e nei gruppi aziendali, in www.osservatorio-oci.org, dicembre
2019, il quale dopo aver delineato il finalismo perseguito dal Codice nella sequenza pre-crisi (in cui si collocano gli
obblighi organizzativi), crisi (insolvenza probabile) e insolvenza, avanza “la perplessità che il concetto di crisi espresso
dal CCI – in quanto rivelatore di un pericolo di insolvenza – sia troppo restrittivo e tardivo: risulterebbero infatti esclusi
dal concetto di crisicosì gravemente enunciata gli stati patologici di deterioramento del modello di business, di
inefficienze operative, di grave incoerenza dell’orientamento strategico di fondo, che ancora non impattano sulle
dinamiche attese dei flussi finanziari”.
Segnalo che secondo una indagine congiunta di CNDCEC e Cerved di febbraio 2020, condotta su 104.570 società
(escluse immobiliari e finanziarie) che, stando ai bilanci 2017 o 2018 presenti nel database Cerved, hanno l’obbligo di
nominare l’organo di controllo (le spa e le srl che per due anni consecutivi hanno superato i 4 milioni di attivo, oppure i
4 milioni di ricavi, oppure i 20 dipendenti), circa 3.800 (3,7%) potrebbero essere segnalate agli OCRI. Il numero
salirebbe a 59.000 ove si considerassero tutte le società di capitali (benchè molte di esse non sarebbero segnalate: il
25-30% di esse hanno infatti avviato una procedura concorsuale, una liquidazione o hanno già cessato l’attività; altre
saranno probabilmente ricapitalizzate prima). Dopo l’emergenza sanitaria legata alla pandemia Covid-19 ogni
previsione statistica è radicalmente alterata in senso peggiorativo. E infatti l’art. 11 d.l. n. 9 del 2020 ha prorogato al
15 febbraio 2021 l’entrata in vigore degli obblighi di segnalazione di cui agli articoli 14 e 15 del Codice della crisi.
Peraltro già il cd. decreto Milleproroghe 2020 (art. 8, comma 6-sexies), modificando l’art. 319, comma 3, primo
periodo Codice della crisi, ha rinviato il termine per la nomina degli organi di controllo e del revisore legale dei conti
nelle s.r.l. dal 16 dicembre 2019 alla data di approvazione dei bilanci relativi all’esercizio 2019 (data ulteriormente
generalizzata ai 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio in deroga alla norma codicistica e sempre per l’emergenza
sanitaria…..)
19
difficoltà finanziaria, e ancor più l’insolvenza meramente possibile. Al riguardo
occorrerebbe impostare un giudizio prognostico in base ad una pianificazione
attendibile dell’attività della specifica impresa per un arco temporale
sufficientemente adeguato al fine di sollecitare interventi di risanamento e di
ristrutturazione che possano avere ragionevolmente un esito positivo. Diversamente
ogni tentativo eccessivamente prossimo all’insolvenza potrebbe rivelarsi velleitario
e poco credibile. Non dico che sia impossibile un salvataggio dell’apparato
produttivo di una impresa di certa o imminente insolvenza; dico solo che questa non
è la crisi dell’impresa sana ma in difficoltà finanziaria su cui si dovrebbero appuntare
le attenzioni di una allerta che possa aspirare alla tempestività della segnalazione e
al successo di un piano di recupero credibile.
Altro problema è poi se sia davvero opportuno che la distinzione fra crisi e
insolvenza debba orientarsi, ai fini dei presupposti oggettivi di accesso alle varie
procedure, in termini di differenziazione netta o se non sarebbe stato preferibile
mantenere il rapporto di genere a specie che oggi abbraccia l’art. 160 l.f. 40.

6. Un’ultima riflessione va dedicata alla perdita della continuità aziendale,


nozione a mio avviso ambigua e ambiguamente utilizzata nel Codice della crisi. A
dire il vero, l’ambiguità si manifesta già nella diversa terminologia utilizzata, posto
che nel novellato art. 2086 c.c. si fa riferimento agli assetti organizzativi “anche in
funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della
continuità aziendale”, allora ponendo l’obbligo di “attivarsi senza indugio per
l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il
superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. E si badi, nell’art. 3
dedicato ai “principi generali” sui “doveri del debitore” gli adeguati assetti
organizzativi sembrano limitati “ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi
e dell’assunzione di idonee iniziative”, dimenticando che l’art. 2086 (pur richiamato)
opera una funzionalizzazione di quegli assetti anche alla tempestiva rilevazione della
perdita della continuità aziendale e all’utilizzo degli strumenti per il relativo
recupero. Di qui il primo dubbio: sussiste identità fra crisi/stato di crisi e perdita
della continuità aziendale? O si tratta di nozioni distinte e separate? E la “perdita” di

40
E v. A. JORIO, La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure
concorsuali, cit., 414 ss., il quale considera erroneo “l’aver voluto distinguere, a livello concettuale e giuridico, la crisi
dall’insolvenza, laddove questa distinzione può essere utile tutt’al più per consentire, e non per impedire, l’accesso a
determinati istituti di composizione delle difficoltà dell’impresa, e quindi per allargare lo spettro delle situazioni
passibili di intervento e non per precludere. In altri termini, se è stato corretto assumerne l’accessibilità alla procedura
di concordato anche per le imprese non ancora insolventi ma già in crisi, e si è opportunamente ricondotta, nella
riforma del 2005, la nozione di insolvenza nell’ambito del concetto economico di crisi […] lo steccato che rischia di
essere alzato tra crisi e insolvenza ai fini della fruizione dei nuovi istituti disegnati dalla riforma in itinere, seppur in
sintonia con le indicazioni dell’Unione, rischia nel nostro Paese di creare gravi ostacoli alla concreta applicazione di
meritorie innovazioni”. Anche A. ROSSI, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli
organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, in Ilcaso.it, 11 gennaio 2019, pp. 4 ss., considera di dubbia utilità la
distinzione fra crisi e insolvenza dettata dal legislatore. Contra S. AMROSINI, Crisi e insolvenza nel passaggio fra
vecchio e nuovo, cit., 60 ss.
20
continuità aziendale individua una situazione statica di cessazione dell’attività,
addirittura definitiva e irreversibile?
Senonchè “l’assenza41 di prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in
corso o, quando la durata dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a
sei mesi, per i sei mesi successivi” (art. 13, comma 1, Codice della crisi) costituisce
indice di rilevazione degli “indicatori di crisi”, così stabilendosi una relazione fra crisi
e “assenza di prospettive di continuità aziendale”. Ma quale relazione? Peraltro qui
l’assenza sembra riferita ad un elemento dinamico, alle “prospettive di continuità
aziendale” più che alla sua perdita42.
L’origine di quella nozione è bilancistica, appartiene cioè ai principi contabili e
invero ai postulati che governano la redazione del bilancio di esercizio o – come si
suol dire – dell’impresa in funzionamento43. La sua enucleazione forse più esaustiva
si trova, peraltro, nei “principi di revisione”, il cd. ISA Italia 570 44, nel quale la
41
Utilizzo già l’espressione integrata nella forma negativa dalla proposta del “decreto correttivo”, su cui v. nt. 26 che
precede.
42
Sul carattere “ambiguo e polivalente” dell’espressione continuità aziendale, ora da intendendersi in senso statico
ora in senso dinamico, rinvio alle osservazioni da me formulate in S. FORTUNATO, Codice della crisi e Codice civile, cit.,
….
43
Com’è noto l’art. 2423-bis c.c. lo colloca fra i “principi di redazione del bilancio”, limitandosi a stabilire, al n. 1, che
“la valutazione delle voci deve essere fatta [secondo prudenza e] nella prospettiva della continuazione dell’attività”,
senza tuttavia fornire alcuna definizione in proposito (il disposto attua la direttiva 2013/34/UE, art. 6, par. 1 lett. a) che
fra i “principi generali di bilancio” include la presunzione di continuità aziendale dell’impresa). L’OIC 11 (“Finalità e
postulati del bilancio d’esercizio”, marzo 2018) interpreta tale prospettiva come il tener conto “del fatto che l’azienda
costituisce un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito” (par. 21), per cui “nella fase di
preparazione del bilancio, la direzione aziendale deve effettuare una valutazione prospettica della capacità
dell’azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per
un prevedibile arco temporale futuro, relativo a un periodo di almeno dodici mesi dalla data di riferimento del
bilancio”. I successivi par. 23 e 24 si occupano poi delle ipotesi in cui “nell’arco temporale futuro di riferimento, non vi
sono ragionevoli alternative alla cessazione dell’attività” a seconda che rispettivamente non siano accertate o siano
state accertate cause di scioglimento. Cfr. anche OIC 5 (“Bilanci di liquidazione”, giugno 2008), par. 2.3 e 7, 7.1 e 7.2;
nonché OIC 29 (“Cambiamenti di principi contabili, cambiamenti di stime contabili, correzione di errori, fatti
intervenuti dopo la chiusura dell’esercizio”, dicembre 2017), par. 59 c). Lo IAS 1, relativo alla “presentazione del
bilancio” e nella versione vigente, analogamente dispone nel par. 25 che “nella fase di preparazione del bilancio, la
direzione aziendale deve effettuare una valutazione della capacità dell'entità di continuare a operare come un'entità
in funzionamento. Un'entità deve redigere il bilancio nella prospettiva della continuazione dell'attività a meno che la
direzione aziendale non intenda liquidare l'entità o interromperne l'attività, o non abbia alternative realistiche a ciò.
Qualora la direzione aziendale sia a conoscenza, nel fare le proprie valutazioni, di significative incertezze relative ad
eventi o condizioni che possano comportare l'insorgere di seri dubbi sulla capacità dell'entità di continuare a operare
come un'entità in funzionamento, l'entità deve evidenziare tali incertezze. Qualora un'entità non rediga il bilancio
nella prospettiva della continuazione dell'attività, essa deve indicare tale fatto, unitamente ai criteri in base ai quali ha
redatto il bilancio e alla ragione per cui l'entità non è considerata in funzionamento”. Il par. 26 prosegue ulteriormente
chiarendo che “nel determinare se il presupposto della prospettiva della continuazione dell'attività è applicabile, la
direzione aziendale tiene conto di tutte le informazioni disponibili sul futuro, che è relativo ad almeno, ma non
limitato a, dodici mesi dopo la data di chiusura dell'esercizio. Il grado dell'analisi dipende dalle specifiche circostanze di
ciascun caso. Se l'entità ha un pregresso di attività redditizia e dispone di facile accesso alle risorse finanziarie, si può
raggiungere la conclusione che il presupposto della continuità aziendale sia appropriato senza effettuare analisi
dettagliate. In altri casi, la direzione aziendale può aver bisogno di considerare una vasta gamma di fattori relativi alla
redditività attuale e attesa, ai piani di rimborso dei debiti e alle potenziali fonti di finanziamento alternative, prima di
ritenere che sussista il presupposto della continuità aziendale”.
44
Questo Principio dedicato alla “Continuità aziendale” costituisce la traduzione, con adeguamento alle specificità del
quadro normativo italiano, del corrispondente principio internazionale facente parte degli International Standards of
Auditing (ISA Clarified 2009 successivamente integrati) emanati dall’ International Auditing and Assurance Standards
21
sussistenza della continuità aziendale è valutata al momento della redazione
annuale del bilancio dell’esercizio già chiuso e si proietta normalmente nell’arco
temporale di un anno (dodici mesi) a far data da quella chiusura, e può e deve in
date circostanze proiettarsi anche oltre45.
Nell’ottica di redazione del bilancio il presupposto della continuità aziendale si
realizza quando “un’impresa viene considerata in grado di continuare a svolgere la
propria attività in un prevedibile futuro”46, sì che “le attività e le passività vengono
contabilizzate in base al presupposto che l’impresa sarà in grado di realizzare le
proprie attività e far fronte alle proprie passività durante il normale svolgimento
dell’attività aziendale”. Qui prevale una nozione dinamica e prospettica della
continuità aziendale.
La perdita o mancanza della stessa, che impone il mutamento dei criteri
valutativi ai fini bilancistici, sembra comportare invece la “cessazione dell’attività

Board (IAASB). In Italia il Principio è stato preceduto dal Documento n. 570 emanato nel 2007 dalla Commissione
paritetica CNDC e CNR. Sul tema cfr. anche il Documento Banca d'Italia/Consob/Isvap n. 2 del 6 febbraio 2009
“Informazioni da fornire nelle relazioni finanziarie sulla continuità aziendale, sui rischi finanziari, sulle verifiche per
riduzione di valore delle attività e sulle incertezze nell’utilizzo di stime”; ad esso ha fatto seguito il Documento Banca
d'Italia/Consob/Isvap n. 4 del 3 marzo 2010 su “Esercizi 2009 e 2010 - Informazioni da fornire nelle relazioni finanziarie
sulle verifiche per riduzione di valore delle attività (impairment test), sulle clausole contrattuali dei debiti finanziari,
sulle ristrutturazioni dei debiti e sulla ‘Gerarchia del fair value’ “.
45
Cfr. anche le “Osservazioni di ASSIREVI” in merito all’Atto del Governo n. 53 sullo “Schema di decreto legislativo
recante Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155” innanzi alla
Commissione Giustizia della Camera dei Deputati rese nella Seduta del 4 dicembre 2018. L’Assirevi evidenzia una sorta
di disallineamento fra i compiti propri del revisore e gli obblighi di monitoraggio e segnalazione che parrebbero
discendere dall’allora progetto di Codice della crisi: secondo i principi di revisione (richiamati anche dalla norma
primaria dell’art. 11 d.lgs. n. 39/2010) “il revisore trae le proprie conclusioni sulla sussistenza o meno della continuità
aziendale al termine dell’intero processo di revisione, a ridosso dell’emissione della propria relazione, sulla base degli
elementi disponibili fino a detto momento”; il Codice della crisi parrebbe invece attribuire agli organi di controllo e al
revisore (i) “di verificare che l’organo amministrativo valuti costantemente se l’assetto organizzativo dell’impresa è
adeguato e se sussiste il suo equilibrio economico-finanziario e qual è il prevedibile andamento della gestione”; e (ii) di
“segnalare immediatamente all’organo amministrativo della società l’esistenza di fondati indizi della crisi e, in caso di
omessa o inadeguata risposta dell’organo amministrativo, ovvero di mancata adozione delle misure ritenute
necessarie, informare senza indugio l’organismo chiamato ad assistere il debitore nella procedura assistita della crisi
(c.d. OCRI)”. Di qui la conclusione che “l’attività del revisore prevista dallo Schema di Codice della Crisi dovrà essere
correttamente collocata e posta in essere nell’ambito delle procedure svolte per la revisione del bilancio ai fini della
valutazione della sussistenza del requisito della continuità aziendale” e la proposta di modificare la disposizione che
poneva e pone a carico degli organi di controllo e del revisore l’obbligo di segnalazione “ciascuno nell’ambito delle
proprie funzioni”, altresì - quanto al revisore – “in conformità ai principi di revisione applicabili”. In parziale
accoglimento di questi rilievi, v. a nt. 27 che precede la proposta del “decreto correttivo”. Dal che discende – mi
parrebbe – che gli obblighi di monitoraggio e di eventuale segnalazione da parte del revisore nella rilevazione
tempestiva degli indici della crisi non possono ritenersi limitati alla fase finale di revisione in concomitanza alla
preparazione del bilancio d’esercizio. D’altro canto il par. 11 di ISA Italia 570 dispone che “ per tutta la durata della
revisione, il revisore deve prestare attenzione agli elementi probativi relativi a eventi o circostanze che possano far
sorgere dei dubbi significativi sulla capacità dell’impresa di continuare ad operare come un’entità in funzionamento”.
46
Come si è detto il “prevedibile futuro” è indicato nel par. 26 dello IAS 1 come “relativo ad almeno, ma non limitato
a, dodici mesi dopo la data di chiusura dell'esercizio”; e nel par. 13 ISA Italia 570 è disposto che, “se la valutazione della
direzione sulla capacità dell’impresa di continuare ad operare come un’entità in funzionamento copre un periodo
inferiore ai dodici mesi dalla data di riferimento del bilancio come illustrato nel principio di revisione internazionale
(ISA Italia) n. 560, il revisore deve richiedere alla direzione di estendere la sua valutazione ad un periodo di almeno
dodici mesi a partire da quella data”.
22
produttiva”47 che, peraltro, può essere volontaria o necessitata (oggettiva). E infatti il
normale presupposto della continuità aziendale, quale fondamento dei valori di
funzionamento dei cespiti aziendali, viene meno se “la direzione intenda liquidare
l’impresa o interromperne l’attività o … non abbia alternative realistiche a tale
scelta”48, laddove sembra prevalere una nozione statica di continuità aziendale.
Nell’ipotesi di cessazione volontaria dell’attività, identificabile nella prima
parte della proposizione riportata e che può essere determinata anche dal verificarsi
di una causa di scioglimento non incidente sulla situazione patrimoniale finanziaria
ed economica della società49, la perdita della continuità aziendale potrebbe essere
completamente disgiunta dallo “stato di crisi” dell’impresa, dandosi vita ad una
“liquidazione ordinata” del complesso aziendale e ad un regolare pagamento dei
creditori: donde l’impossibilità di una sovrapposizione fra i due concetti. Ma v’è di
più!
Anche nell’ipotesi di circostanze oggettive che incidono pregiudizievolmente
sulla situazione patrimoniale economica e finanziaria dell’impresa tali da
rappresentare stati di crisi o addirittura di insolvenza, la direzione deve valutare se
sussistano “alternative realistiche” alla liquidazione/interruzione dell’attività prima
di modificare i criteri valutativi, tanto che nella stessa fase liquidatoria è possibile
dar vita ad “esercizi provvisori” (anche per rami aziendali) o a cessioni in blocco di
rami produttivi e dunque non necessariamente ad un completo abbandono dei
47
E’ la tesi fatta propria dall’OIC 11, che esclude l’abbandono del presupposto della continuità aziendale anche ove
“nell’arco temporale futuro di riferimento, non vi sono ragionevoli alternative alla cessazione dell’attività, ma non si
siano ancora accertate ai sensi dell’art. 2485 del codice civile cause di scioglimento di cui all’art. 2484 del codice
civile”, per cui non essendo di fatto cessata l’attività “la valutazione delle voci di bilancio è pur sempre fatta nella
prospettiva della continuazione dell’attività, tenendo peraltro conto, nell’applicazione dei principi di volta in volta
rilevanti, del limitato orizzonte temporale residuo” (par. 23); inoltre, “quando, ai sensi dell’articolo 2485 del codice
civile, viene accertata dagli amministratori una delle cause di scioglimento di cui all’articolo 2484 del codice civile, il
bilancio d’esercizio è redatto senza la prospettiva della continuazione dell’attività, e si applicano i criteri di
funzionamento, così come previsti al paragrafo 23, tenendo conto dell’ancor più ristretto orizzonte temporale” (par.
24). Insomma, secondo l’OIC solo la effettiva cessazione di attività, cui consegua la disgregazione del complesso
aziendale, comporta il definitivo abbandono dei “criteri di funzionamento”. La tesi è criticata da G.E. COLOMBO, I
principi in tema di redazione del bilancio, in P. ABBADESSA-G.B. PORTALE (a cura di), Il nuovo diritto delle società. Liber
amicorum Gianfranco Campobasso, III, Utet, Torino, 2007, 153 ss.; L. TRONCI, Perdita della continuità aziendale e
strategie di risanamento, in Giur. comm., 2013, I, 1269 ss. ivi 1289 ss.; G. STRAMPELLI, Sub art. 2490, in Commentario
Marchetti delle società, Milano, 2016, 205; G. RACUGNO, Venir meno della continuità aziendale e adempimenti
pubblicitari, in Giur. comm., 2010, I, 214 s. e nt. 101; M. SPIOTTA, Continuità aziendale e doveri degli organi sociali,
Giuffrè, Milano, 2017, 116; M. G. MUSARDO, La problematica individuazione dei criteri di redazione del bilancio in caso
di perdita di continuità aziendale, in NLCC, 2016, 1099 ss. Conformi all’orientamento OIC A. PACIELLO, Riflessioni a
proposito della continuità aziendale, in Riv. dir. comm., 2016, I, 295; L. A. BIANCHI, I principi generali di bilancio, in ID.,
Bilanci, operazioni straordinarie e governo dell’impresa, Milano, 2013, 67; M. CARATOZZOLO, Sub artt. 2423 e 2423-bis
c.c., in Commentario romano al nuovo diritto delle società diretto da F. D’Alessandro, II, 2, Cedam, Padova, 2011, 622
s.; M. BUSSOLETTI-P. DE BIASI, Sub art. 2423, in G. Niccolini Società di capitali – Commentario, Napoli, 2004, 994.
48
Il par. 2 ISA Italia 570 riprende sostanzialmente il par. 25 IAS 1.
49
Cfr. in questo senso OIC 5, par. 7. Fra gli aziendalisti S. MONTELLA-C. STAIANO, La valutazione della continuità
aziendale nella crisi d’impresa, in Economia Aziendale Online, Vol. 3, 3-4, 2012, 420 nt. 4 osservano: “Occorre
evidenziare che non tutte le cause di scioglimento incidono sulla funzionalità dell’azienda: infatti quelle indicate
dall’art. 2484, 1° comma del codice civile ai n° 1, 2, 3, 5 e 6 non intaccano la sfera della capacità produttiva e non
pregiudicano
l’equilibrio economico – finanziario”.
23
criteri valutativi di funzionamento. Lo stato di crisi o addirittura di insolvenza, in
queste ipotesi, può convivere con il presupposto della continuità aziendale a fini
valutativi di bilancio50.
D’altro canto, e sempre ai fini informativi di bilancio, non v’è alcuna secca
alternativa fra sussistenza e assenza della continuità aziendale, essendo forse ben
più rilevanti nell’ottica dell’allerta tempestiva le situazioni intermedie in cui siano
identificabili “significative incertezze” (OIC 11, par. 22; IAS 1, par. 25) o “dubbi
significativi” (ISA Italia 570, par. 6, 9 e 10) sulla capacità dell’impresa di continuare
ad operare come una entità in funzionamento nel noto arco temporale di
prevedibile futuro. In altre parole fra “esistenza” ed “assenza” si collocano gli
eventi/indizi di “compromissione” della prospettiva della continuità aziendale, che
impongono di per sé per un verso doveri di segnalazione da parte del revisore (e
dell’organo interno di controllo) agli amministratori e per altro verso parimenti “la
valutazione dei piani d’azione futuri della direzione connessi alla sua valutazione
della continuità aziendale, la misura in cui la realizzazione di tali piani possa
migliorare la situazione e se tali piani siano attuabili nelle specifiche circostanze”
(ISA Italia 570, par. 16b).
Il Principio di revisione contiene poi una esemplificazione di “indicatori
finanziari”, “indicatori gestionali” e “altri indicatori” che, “considerati
individualmente o nel loro complesso, possono far sorgere dubbi significativi sul
presupposto della continuità aziendale” (ISA Italia 570, A2-A6). Com’è stato
osservato, alcuni indicatori – soprattutto finanziari – talvolta coincidono con fatti
esteriori/indici di insolvenza vera e propria, altri – soprattutto quelli gestionali – con
indici di crisi/declino in senso aziendalistico, altri ancora con squilibri finanziari o
economici o patrimoniali, indicatori tutti la cui portata è poi da valutare tenendo
conto dei piani di ristrutturazione programmati eventualmente dagli
amministratori51.
Sorge così un obbligo di valutazione prospettica della continuità aziendale
proiettata nel noto arco temporale, una valutazione che potrebbe coincidere con la
individuazione di indici di insolvenza addirittura irreversibile o anche solo di crisi
reversibile se adeguatamente affrontata o di mero declino, anch’esso non del tutto
irrilevante ai fini degli obblighi che conseguono in capo agli amministratori nonché a
sindaci e revisori.
Da quanto precede emerge la doppia anima del principio di continuità
aziendale, segnalata anche in un contributo di Assonime52: da un canto presupposto
50
Cenni in questa prospettiva in F. PACILEO, Continuità e solvenza, cit., 102 ss. che ritiene “necessario un
coordinamento fra diritto contabile e diritto concorsuale in tema di continuità aziendale”. Cfr. anche Cfr., S.
CASAMASSIMA, I bilanci di liquidazione nelle società per azioni, in Riv. notar., 2003, 84 ss.; R. ALESSI, I criteri di
valutazione nei bilanci di liquidazione, in Riv. dir. comm., 1994, 545, nt. 11; M. CARATOZZOLO, I bilanci straordinari, 2a
ed., Giuffrè, Milano, 2009, 747 ss. ; S. MONTELLA-C. STAIANO, La valutazione della continuità, cit., 423 ss.
51
E v. F. PACILEO, Continuità e solvenza, cit., 90 ss.
52
ASSONIME, La perdita di continuità aziendale quale causa di scioglimento delle società di capitali, Il caso 15/2017,
secondo cui vanno distinti i profili di diritto contabile inerenti “i criteri di iscrizione/valutazione delle poste di bilancio
24
di rilevazione e valutazione delle voci di bilancio di un complesso produttivo in
funzionamento, il cui venir meno si identifica con la cessazione effettiva dell’attività
cui consegue la disgregazione di quel complesso; d’altro canto prospettiva di
funzionamento dell’impresa proiettata in un prevedibile futuro, la cui
compromissione o la cui assenza determina l’insorgere di obblighi gestori e di
controllo negli amministratori, sindaci e revisori.
Per quanto possano esistere relazioni fra le due anime, sarebbe un grave
errore confonderle.
E tuttavia la seconda anima va poi coordinata con i doveri che in
corrispondenza della valutazione di perdita o di assenza di prospettive della
continuità aziendale vengono disegnati nel Codice della crisi.
Innanzitutto, ad evitare equivoci, sarebbe opportuno utilizzare le medesime
espressioni nel novellato art. 2086 c.c. e nell’art. 13, comma 1, Codice della crisi,
privilegiando la nozione dinamica piuttosto che statica di continuità aziendale. E
allora più che di “perdita” parlerei di “assenza di prospettive di continuità aziendale”
anche nell’art. 2086 se non altro per ragioni di coerenza lessicale. Capisco che sul
piano interpretativo si potrebbe giungere al medesimo risultato ove all’espressione
“perdita della continuità aziendale” si assegni il medesimo senso prospettico; ma
tanto vale allineare le due espressioni e chiarire l’ottica di prevenzione che si
accompagna alla doverosa valutazione della continuità aziendale non solo in
funzione dei criteri di rilevazione e valutativi delle voci di bilancio, ma anche di
doveri gestori e di controllo degli organi societari e dei revisori in termini di
segnalazione e di iniziative per il recupero della prospettiva di continuità aziendale.
V’è poi da fare i conti con la più limitata ottica temporale – a quanto parrebbe
– in cui l’assenza di quella prospettiva è idonea a tradursi in indicatore di crisi ai
sensi dell’art. 13, comma 1, del Codice e ad attivare i formalizzati obblighi di
segnalazione sulla “esistenza di fondati indizi della crisi” ai sensi del successivo art.
14. Qui la valutazione prospettica sembra abbreviata alla durata dell’esercizio in
corso o comunque ai sei mesi successivi al momento della valutazione, se quella
durata residua è inferiore al semestre. Nella ordinaria valutazione che in fase di
redazione del bilancio d’esercizio ne fanno i revisori e i sindaci la prospettiva copre i
dodici mesi dalla chiusura del bilancio di riferimento o – se necessario – anche un
periodo più lungo. Difficile dire se in concreto la dimensione temporale sia sempre
difforme nelle due ipotesi, considerato che normalmente la redazione del bilancio
d’esercizio chiuso si colloca entro i primi quattro mesi del nuovo esercizio, sì che la
durata residua di quest’ultimo ben potrebbe superare il semestre e finirebbe
comunque con il coincidere con il momento della ordinaria valutazione prospettica
della continuità aziendale. A dire il vero v’è la tendenza a ritenere che l’ordinaria

in ragione della finalità della rilevazione dei dati patrimoniali ed economici” da quelli di diritto commerciale inerenti
l’individuazione degli “specifici doveri di comportamento in capo agli amministratori in caso di crisi”.

25
valutazione della prospettiva di continuità copra l’esercizio in corso e quello
successivo, ma nei principi contabili e nel principio di revisione il riferimento
normale è ai dodici mesi dalla chiusura dell’esercizio di cui si deve redigere il
bilancio, che allora coincide con l’intero nuovo esercizio in corso.
Ma ancora una volta il rischio che si corre è quello di confondere la
valutazione della prospettiva di continuità ai fini dell’informativa di bilancio con
quella che il Codice parrebbe esigere nel monitoraggio della valutazione “costante”
(art. 14, comma 1), che incombe sugli amministratori, della idoneità degli assetti
organizzativi (che allora rinvia all’art. 2086 c.c. “anche in funzione della rilevazione
tempestiva… della perdita della continuità aziendale”), della sussistenza
dell’equilibrio economico finanziario e del prevedibile andamento della gestione,
con le conseguenti idonee iniziative.

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