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VI

SodaleS
VI.1. OrIgIne ed eVOluzIOne dell’Opera a telaIO:
le attestazIOnI campane
Gioconda di luca, armando Cristilli

Questo contributo nasce dall’esigenza di risolvere una confusione che si è venu-


ta determinando nello studio sull’opus africanum, o “opera a telaio”, per usare una
definizione tutta italiana, con cui si è soliti designare una tessitura muraria a pila-
stri portanti e riempimento.
Nel corso degli anni, infatti, l’espressione è arrivata ad identificare una tipolo-
gia costruttiva davvero troppo varia, a prescindere da differenze cronologiche o solo
contestuali: e, così, proprio questa “etichetta” è stata imposta ai muri a telaio veri
e propri di Pompei, ma con una certa disinvoltura è stata attribuita pure agli appa-
recchi in semplici blocchi e riempimento di conci di alcuni esemplari siciliani o,
ancora, alle strutture monolitiche della Sardegna, dilatando a tal punto i limiti di
una formula, inizialmente ben precisa, da impedirne la funzionalità. Alla base di un
utilizzo così approssimativo, che, si vedrà, non è solo a livello terminologico, sta
prima di tutto la mancanza di una valida classificazione tipologica di questa tecni-
ca muraria, che, ad un esame più approfondito, ha mostrato una complessità di
carattere degna di attenzione e la cui ampia diffusione appare come una spia ine-
quivocabile.
Altro problema è quello dell’origine e della diffusione di tale tecnica. In verità,
fin dall’inizio, il nome è in stretta connessione con l’aspetto geografico, indicando-
ne l’area di massima diffusione: del resto, fino ad ora il maggior numero di cam-
pioni è stato offerto proprio dall’Africa mediterranea, seguita, anche se in modo più
contenuto, dalla Sicilia, dalla Sardegna e dal versante tirrenico dell’Italia centro-
meridionale. Eppure, questa dilatazione dello spazio geografico, a sua volta, crea
imbarazzo ad una definizione che risponde ad un ambito territoriale piuttosto esclu-
sivo, qual è quello africano.
In realtà, analisi sistematiche dell’opera a telaio a tutt’oggi non sono state anco-
ra sviluppate, e questo per ragioni sia di ordine pratico che scientifico: il motivo
principale, che giustifica il numero francamente troppo modesto dei lavori prodot-
ti (per lo più brevi note all’interno di opere monografiche a carattere regionale), è
innanzitutto la scarsità delle attestazioni di tale tecnica edilizia al di fuori
dell’Africa databili con sicurezza o, tutt’al più, associati ad elementi cronologica-
mente significativi. Già ritenuta dal Pace di origine punica e diffusa per il
Mediterraneo dai Romani dopo la conquista di Cartagine1, la muratura con ossatu-
ra portante di blocchi di gesso al posto di travi lignee e riempimento di pietre cal-
caree viene identificata per la prima volta come opus africanum da Lézine, dall’area
con il numero maggiore di evidenze2, mentre, quasi contemporaneamente, Lugli la
considera nata dall’unione dell’opera poligonale con la struttura cementizia3, rag-
gruppando confusamente sotto la stessa dicitura di muratura a “nervature litiche”
sia l’opera a telaio di Pompei (quella a grandi blocchi in cui s’innestano a distanze
regolari blocchi messi in opera per testa e quella a blocchi verticali e riempimento

1 PACE 1925, p. 165.


2 LÉZINE 1956, p. 26; LÉZINE 1963, p. 139.
3 LUGLI 1957, p. 379. Nell’opera non compare la dicitura opus africanum, perché probabilmente lo
studioso non conosceva l’intervento del Lézine.

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in opera incerta calcarea o di pietra lavica), a suo giudizio il più antico esempio noto
di impiego di tale tecnica nell’edilizia civile, sia le evidenze africane sia le struttu-
re a pilae lapideae con riempimento in incerto o in reticolato4. Ed un certo disordi-
ne si coglie anche nella nota del Martin sull’opera poligonale di Velia5: l’autore, nel
tentativo di classificare le tipologie di quest’ultima tecnica muraria nella colonia
focea, già in precedenza definita da lui «appareil rectangulaire irrégulier»6, distin-
gue una forma che, pur impiegando pietre sbozzate di varie dimensioni, si caratte-
rizza per la presenza negli angoli di assise regolari di blocchi pseudo-rettangolari e
giunti quasi orizzontali, trovando strette analogie in costruzioni di età fenicia di
Mozia e Selinunte. A parte la sintetica voce nel dizionario di Ginouvès e Martin,
quale muratura tipica dei Fenici e dell’area africana7, è l’Adam che, annoverandola
tra le murature miste, fissa più precisamente i caratteri dell’opera a telaio, come tec-
nica a catene verticali di blocchi messi in opera in senso orizzontale con specchi di
muratura di piccolo taglio e malta, derivata probabilmente dall’architettura carta-
ginese, quale derivazione dalla scarsa disponibilità di legname in loco8. Purtroppo,
l’architettura cartaginese dispone solo di rari esemplari di tale apparecchio murario
nella sua presunta terra d’origine, laddove, secondo Adam, muri in opera africana
della prima metà del IV sec. a.C. si ritrovano per lo più in Sicilia, a Mozia e
Selinunte9, mentre altri tardo-ellenistici sono a Solunto. Alla prima età sannitica
(425-200 a.C.) sarebbe da riferire la più antica opera a telaio di Pompei, con riem-
pimento di pietre calcaree ben tagliate ed accostate e legate con malta d’argilla; gli
esempi successivi, all’opposto, grazie all’uso di malte di calce, hanno riempimenti
in opus incertum o in pietre di piccole dimensioni, diverse per taglio e materiali10,
ancora in uso in età romana per la tendenza conservatrice dei Romani stessi, che pre-
feriscono utilizzare tecniche di tradizione locale11. Il Giuliani, invece, ha identifi-
cato l’opera a telaio con quella descritta da Vitruvio12, adoperata a Roma dalla fine
dell’età repubblicana e costituita da ortostati di blocchi litici nei punti di maggio-
re sollecitazione delle strutture e da tamponature di muratura di pietrame di pic-
cole dimensioni negli intervalli, ridotte a semplici paramenti13. Da ultimi, anche
se solo cronologicamente, vanno ricordati i lavori dell’Hanoune, che, descrivendo
alcune strutture di Bulla Regia, non va oltre una semplice, seppur utile, nota
bibliografica14, e del Peterse, che ha studiato in maniera approfondita l’opera a
telaio di Pompei, focalizzandosi sul problema delle origini della tecnica, ma senza

4 LUGLI 1957, pp. 380-382. Per l’associazione di blocchi squadrati e riempimento in opera incer-
ta o reticolata, già Catone, De agri cultura XIV 1.
5 MARTIN 1970, pp. 95 e 100-101, nota 5.
6 MARTIN 1965, pp. 385 e 417, fig. 186.
7 GINOUVÈS-MARTIN 1985, pp. 101-102.
8 ADAM 1988, pp. 130-132.
9 In realtà, in proposito le opinioni sono discordi: infatti, contrariamente alla tradizione, l’Adam
considera in opera africana il muro rinvenuto all’interno del tempio C di Selinunte, ritenendolo
relativo alle trasformazioni subite dall’area sacra in epoca tardo imperiale o ancora successiva-
mente (per Lugli addirittura in età bizantina). DI VITA 1953; LUGLI 1957, p. 382, fig. 85; ADAM
1988, p. 131.
10 Entrambi i tipi presentano una stessa peculiarità, cioè utilizzano murature di reimpiego. Infatti,
quasi tutte le case dell’elenco dei prospetti calcarei con blocchi a cuneo del Maiuri e datate,
appunto, tra il II e il I sec. a.C. (cioè in coincidenza con la diffusione del I stile), presentano i
muri interni con una tessitura di blocchi di calcare che inquadrano specchiature di grossi fram-
menti calcarei misti a malta. Al di sotto dei pavimenti di queste abitazioni, saggi di scavo hanno
messo in evidenza una precedente fase, questa volta in pappamonte, relativa all’occupazione san-
nitica. MAIURI 1942 e 1944-1945.
11 Ne è un esempio la Basilica di Bulla Regia, i cui muri presentano un poderoso zoccolo in bloc-
chi squadrati e un alzato costituito da pilastri verticali di pietra riempiti da specchiature di un
reticolato ancora irregolare semplicemente accostate. ADAM 1988, p. 132, fig. 280.
12 Vitruvio, II 8, 1-6.
13 GIULIANI 1990, p. 182.
14 HANOUNE 1990.

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origine ed evoluzione dell’opera a telaio

approfondire la questione15: escludendo, in opposizione all’Adam16, l’influsso san-


nita sulle modifiche dell’opera a telaio e sostenendo che, tutt’al più, i Sanniti avreb-
bero assimilato e fatta propria la tecnica, suggerisce una somiglianza tra il tipo A
pompeiano ed alcune murature etrusche di Populonia e Cerveteri di VII-VI sec. a.C.
In maniera del tutto inaspettata, però, è stata proposta anche una diversa linea di
ricerca, orientata sull’affascinante teoria di un’origine punica dell’opera a telaio, benché
gli studi si siano limitati alla Sardegna, parzialmente alla Sicilia e, naturalmente,
all’Africa del Nord. Secondo Isserlin e Du Plat Taylor, la tecnica comparirebbe non
prima del IV sec. a.C. nelle colonie fenicie d’Occidente come frutto della tecnica a pila-
stri di conci mediata dall’opera quadrata greca, trovando la massima applicazione
lungo la fascia litoranea del Mediterraneo centroccidentale17. Per Elayi e Sharon le
prime realizzazioni ad ortostati andrebbero attribuite a gruppi proto-fenici della secon-
da metà del II millennio a.C. influenzati dall’architettura hittita, di cui hanno preser-
vato la tradizione fino all’inizio del millennio successivo, essendo questa una tecnica di
costruzione assai solida e poco dispendiosa18. Tuttavia, secondo Elayi non ci sarebbe
una reale corrispondenza tra “tecnica a pilastri”, “opera a telaio” e strutture a colonne
monolitiche, come vuole la tradizione, sebbene ci si basi sull’identico principio costrut-
tivo del muro che regge il peso in alcuni punti e non per tutta la sua estensione longi-
tudinale: infatti, a parte le differenze compositive, nell’opera a telaio e nei muri a pila-
stri di conci i piloni ed il riempimento sono collegati, risultando concepiti nello stesso
tempo, e sarebbero impiegati sia in muri interni che esterni, laddove nella tecnica a
colonne monolitiche non c’è collegamento, per cui non necessariamente sarebbero idea-
te insieme, e il suo uso si limiterebbe a tramezzi di ridotta estensione19. Sulla stessa
linea si è posto Fantar, per il quale l’Africa romana avrebbe assorbito elementi del suo
passato punico (materiali, tecniche edilizie, forme architettoniche), perdurando sino
alla dominazione arabo-islamica, che ne apprezzò tutti i vantaggi20.
Come accennato, una certa attenzione ha avuto lo studio dell’opus africanum della
Sardegna, considerata come tipica dell’architettura romana d’Africa e annoverata tra
le sopravvivenze dell’elemento punico nell’ambito dell’architettura sarda21: nell’i-
sola la tecnica si caratterizza per l’impiego di grossi blocchi a guisa di pilastri a
distanza variabile, associati a riempimenti in rozza muratura di piccolo pietrame di
vario taglio, che evitano una costruzione totalmente massiccia, pur con eguali
garanzie di sicurezza statica. Bondì ha evidenziato il ruolo svolto in Sardegna, così
come in Sicilia, dall’Africa del Nord tra III e I sec. a.C., all’origine della diffusione
degli stimoli innovatori di massima consistenza, al seguito di flussi migratori spon-
tanei o coatti: tale processo, innestato su un patrimonio culturale propriamente car-
taginese e già profondamente radicato nell’isola, avrebbe favorito la continuità di
un’ulteriore fase di fioritura punica nella Sardegna di età romana, giustificando l’at-
tardamento, solo in apparenza sorprendente, di tale sostrato22.
Questa rapida disamina degli studi, come si può ben vedere, evidenzia quanto
affermato inizialmente circa la confusione terminologica e la varietà di posizioni sul-
l’origine dell’opera a telaio. Con questo studio, dunque, si è cercato di dare un asset-
to alla situazione, chiarendo prima di tutto l’inizio dell’espediente tecnico in esame,
al fine di individuare al meglio le eventuali applicazioni precedenti su cui esso si
15 PETERSE 1999.
16 ADAM 1988, p. 131.
17 ISSERLIN-DU PLAT TAYLOR 1974, pp. 90-91; anche SHARON 1987, p. 39.
18 ELAY 1980 e 1987; SHARON 1987. Questa tecnica avrebbe avuto il massimo sviluppo in epoca
persiana nei siti fenici, il che spiegherebbe la diffusione di tipi architettonici simili nelle colo-
nie fenicie a partire proprio da tale periodo.
19 ELAYI 1980, p. 180; anche VAN BEEK-VAN BEEK 1981 (p. 72).
20 FANTAR 1990.
21 PUGLIESI 1943; BONDÌ 1990.
22 BONDÌ 1990; contra MEZZOLANI 1994.

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dHer

basava, e tracciando più tardi l’evoluzione di un sistema costruttivo che risale ad un


periodo che si è dimostrato di molto precedente l’età romana. Tuttavia, in questa
sede non sarà proposta alcuna tipologia generale della muratura, come per esempio
è stato fatto per l’opera a telaio di Pompei23, in quanto gli esempi raccolti sono
caratterizzati da differenze sostanziali, dovute alle diverse risposte elaborate da sito
a sito e, quindi, insufficienti per la definizione di una categoria vera e propria.

A.C.

1. le attestazIOnI campane
Nel sud della penisola italiana le aree di diffusione dell’opera a telaio sono piutto-
sto ristrette e geograficamente ben delimitate. Molto probabilmente, però, la scarsità
delle informazioni va imputata più ad una documentazione archeologica lacunosa che
non ad una reale assenza di evidenze sul territorio. Ma, stando così le cose, qualsiasi
congettura rimane da verificare, perché i dati disponibili sono, di fatto, parziali.
Ciò nonostante, non è sembrato inutile registrare le evidenze ad oggi note nella
regione campana. Infatti, benché i pochi esemplari godibili impediscano di creare
una casistica particolareggiata o solo di categorizzare i dati presenti e futuri, così da
disporre di un valido strumento di studio, è pur vero che l’annotazione puntuale
(laddove consentito) di quanto disponibile sul territorio permetterebbe di porre in
essere una serie di quesiti validi e di relative risoluzioni, seppur da verificare, ma
sempre funzionali, ai fini della ricerca sull’opera a telaio in Campania. In virtù di
una simile opportunità, si è provveduto, pertanto, a considerare nello specifico gli
esempi di tale tecnica muraria offerte dall’area campana.

1.1. Capua

Il sito dell’antica Capua restituisce un unico esempio di tecnica a telaio nei resti di
abitazioni in via Ricciardi, nel comune di S. Maria Capua Vetere (Ce), che per i mate-
riali ceramici associati sono databili tra il IV ed il III sec. a.C.24: il muro presenta gros-
si pilastri di blocchi, con riempimento di blocchetti squadrati di dimensioni variabili,
la cui disposizione di piano e di taglio è molto simile al tipo A individuato dal Peterse
a Pompei25. Tale tecnica, inoltre, è confrontata dal de Franciscis con esempi pompeia-
ni di età “presannitica” e con le strutture del “Quartiere meridionale” di Velia26.

G.D.L.

1.2. Calatia

Nel territorio dell’odierna Maddaloni (Ce) si conservano due diversi tratti di muri in
opera a telaio, entrambi a blocchetti irregolari legati da malta terrosa. Di essi, il primo,
rinvenuto lungo la Via Appia (verosimilmente il Decumanus Maximus della città antica),
è stato considerato dallo Zevi come potenzialmente relativo alle operazioni militari
durante la II Guerra Punica, proprio sulla base della presunta origine cartaginese del-
l’apparecchio murario in questione27. L’altro esempio, messo in luce durante una cam-

23 PETERSE 1999.
24 DE FRANCISCIS 1956 e 1971.
25 PETERSE 1999, pp. 62-70.
26 DE FRANCISCIS 1956, p. 74 e 1971, p. 114.
27 ZEVI 1981.

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origine ed evoluzione dell’opera a telaio

pagna di scavo più recente in località I Torrioni, cioè in una zona corrispondente all’a-
rea dell’abitato urbano antico, è stato considerato in via preliminare dal Rescigno e dalla
Quilici come riferibile al IV sec. a.C., alzando così, nonostante si tratti della medesima
tecnica, la datazione proposta dallo Zevi per il primo caso considerato28.

G.D.L.

1.3. Cumae

La c.d. Aula Sillana, una struttura posta sul lato sud del Foro di Cuma29, presenta
una zoccolatura in opera quadrata, da cui spicca l’elevato in reticolato intervallato da
ortostati di blocchi sovrapposti (Fig. 1), collocati nei punti di maggior esigenza statica,
trovando significativi riscontri in edifici dell’Africa Settentrionale, come, solo per cita-
re un esempio, la Basilica di Bulla Regia. L’opinione corrente sulla particolare realizza-
zione della struttura si è focalizzata essenzialmente sull’impiego, considerato precoce,
dell’opus raeticulatum. In questa prospettiva, l’ipotesi più accreditata è sembrata quella di
immaginare una sfiducia nelle capacità statiche dell’opera reticolata, con un conseguen-
te ricorso ai pilastri di blocchi per rafforzare il muro e renderlo più resistente nei punti
soggetti a maggiore solle-
citazione. Ciò nonostante,
è possibile avanzare anche
una seconda ipotesi, che
porta a considerare questo
tipo di realizzazione più
come un attardamento che
non come un’innovazione:
1. Cuma,
all’origine della tecnica Aula Sillana.
impiegata nella struttura Lato ovest
cumana potrebbe esserci, a
questo punto, la ben nota e
già usata opera a telaio,
reinterpretata, però, sulla
base dei materiali a disposizione in loco. Insomma, a Cuma si sarebbe determinato un pro-
cesso analogo a quello che deve essersi verificato in Africa al momento della diffusione
dell’opera reticolata. Si aggiunga, inoltre, che l’associazione di opera reticolata e pilastri
di blocchi litici si ritrova anche in altre strutture dello stesso foro cumano, come, per
esempio, quelle degli angoli sud-occidentale e sud-orientale, dove, in particolare, gli
ortostati costituiscono elementi essenziali per scaricare il peso della copertura, in quanto
i tramezzi degli ambienti sono realizzati in opera cementizia e paramento in reticolato
con uno spessore di appena 60 cm ca. e semplicemente appoggiati ad un muro est-ovest
in opera quadrata, che ne costituisce la parete di fondo.

G.D.L.

1.4. puteoli

Relativa al territorio puteolano è solo una vaga notizia del Sommella30, che
ricorda il rinvenimento di un muro in opera a telaio, di età sannitica, portato alla
luce durante gli interventi di scavo sotto Piazzetta San Liborio (1971) e già citato

28 QUILICI GIGLI-RESCIGNO 1996.


29 CAPUTO et alii 1996, p. 158; GASPARRI 1998.
30 SOMMELLA 1978, p. 77, nota 40.

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dHer

dal de Franciscis31: secondo Sommella si tratterebbe di strutture «che presentano


muri in opera a telaio», mentre nella nota del de Franciscis si legge «tratto di muro
con tecnica a corsi di tufelli alternati a blocchi verticali», rimandando alle struttu-
re sannitiche di Capua per la datazione.
Non essendo fornita alcuna documentazione fotografica della struttura in que-
stione e considerando, inoltre, la discordanza tra le uniche due notizie esistenti, si
potrebbe anche avanzare l’ipotesi che tale struttura possa essere relativa ad un riu-
tilizzo tardo di ambienti di piena età imperiale. Quest’ultima affermazione potreb-
be essere suffragata dalla mancanza totale a Pozzuoli di altre attestazioni di questo
tipo di apparecchio murario, anzi, per meglio dire, dalla quasi totale mancanza nella
cittadina flegrea di testimonianze archeologiche che rimontino ad un contesto cro-
nologico così antico, senza escludere anche la possibilità che possa trattarsi di una
lacuna nella documentazione disponibile.

G.D.L.

1.5. pOmpeI

Finora non sono stati ancora ben chiariti né l’origine né lo sviluppo dell’opera a
telaio a Pompei, dove la situazione appare molto complessa.
La comparsa di questo apparecchio murario nel centro campano è collegata al primo
sviluppo urbanistico della città, veri-
ficatosi verosimilmente tra la fine del
IV ed il III sec. a.C.32, in concomi-
tanza con l’uso del c.d. calcare del
Sarno in sostituzione del tradizionale
“pappamonte”. Le prime evidenze in
tal senso si riscontrano nella Regio VI,
dove la maggior parte delle domus di
2. Pompei, questo periodo presentano la facciata
Insula VI 5, 14.
Triclinio. Lato in blocchi squadrati di calcare del
nord Sarno e talvolta anche blocchi reim-
piegati, provenienti dallo smantella-
mento delle mura cittadine più anti-
che, mentre i muri divisori interni
sono realizzati in opera a telaio33; il
riempimento, invece, è costituito da
pietre calcaree alquanto regolari
tenute insieme con malta d’argilla.
Nelle case più modeste e nelle taber-
nae dello stesso quartiere (VI 5, 14-
3. Pompei, 15, solo per fare un esempio), invece,
Insula VI 5, 15. la struttura muraria è interamente
Pistrinum. realizzata in opera a telaio (Figg. 2-
Veduta d’insieme
da nord 3). Gli studiosi pongono concorde-
mente questa prima urbanizzazione
programmata dopo la prima avanza-
ta sannitica (seconda metà del V sec.

31 DE FRANCISCIS 1971; SOMMELLA 1978, p. 77.


32 Da ultimo DE CARO 1985 e 1986.
33 La casa di questo periodo è ad atrium testudinatum senza impluvio. LA ROCCA-DE VOS 2000, p. 37.

460
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

a.C.). Pertanto, se relative strutture residen-


ziali riadoperano i blocchi dell’antica cinta
urbica smantellata prima del 400 a.C. ca.,
sembra accettabile la datazione proposta per
esse al IV-III sec. a.C.34.
La tecnica a telaio restò in uso a Pompei
almeno fino alla fine della II Guerra Punica, 4. Pompei,
allorquando venne soppiantata dall’impie- Casa di Sallustio.
go sempre più diffuso dell’opera cementizia Facciata d’ingresso
associata prima all’opus incertum e poi al reti-
colato, più facile da realizzare e meno costo-
so35. Ma, paradossalmente, l’introduzione
della nuova tecnica trovò le prime applica-
zioni proprio con l’opera a telaio. Il Peterse,
nel suo studio sulla Steinwerke pompeiana,
distingue almeno tre tipi principali di
telaio (A, B e C) a seconda della regolarità
dell’ordito murario. In particolare, nel tipo 5. Pompei,
Insula VI 2, 2.
C, talvolta, il riempimento è costituito da Taberna.
tamponature di cementizio con scapoli di Lato ovest
tufo grigio di Nocera e di tufo giallo dei
Campi Flegrei36.
Nello specifico, gli esemplari fruibili a
Pompei paiono concentrarsi in maniera omogenea a nord e ad est del Foro, vale a dire
nelle Regiones I e VI, principalmente, e poi nelle Regiones II-III, V e IX, con sporadiche
attestazioni nelle Regiones VII-VIII.
Il numero più cospicuo si registra nella Regio VI nelle case di Sallustio37, di Pansa38,
del Fauno39, del Naviglio40, solo per citarne alcune (Figg. 4-7); nella Regio I esempla-
ri significativi sono nelle case del Citarista41 (Fig. 8) e di Amarantus42, mentre nella
Regio II si individuano per lo più nel settore meridionale dell’Insula 3. Tra i pochi esem-
pi della Regio III si enumerano la fullonica di Ululutremulus e la Casa di Trebius Valens
lungo Via dell’Abbondanza43. Nella Regio V è realizzata in opera a telaio la maggior
parte delle strutture affacciate su via di Nola, come la casa V 3, 11, in cui la tecnica è
associata ad una finestra a gola di lupo, generalmente relativa a pitture di I stile e, quin-
di, riferibile al tipo più antico di abitazioni pompeiane. Nella Regio IX, l’opera è atte-
stata, ad esempio, nella Casa di Obellius Firmus44, mentre quasi tutta l’Insula Occidentalis
presenta apparecchi murari a telaio. Infine, nella Regio VIII, le scarse attestazioni sono
per lo più costituite da piccole abitazioni e botteghe anonime (Figg. 9-10).

G.D.L.

34 CAROCCI et alii 1990, pp. 179, 199-210 e 217-226.


35 LUGLI 1957, p. 414.
36 In realtà, già Lugli osservava che verso la fine dell’età sannitica, quando ormai l’impiego dell’o-
pera cementizia va sempre più diffondendosi, il riempimento delle pareti a telaio diventa misto
di pietre squadrate, caementa di tufo ed elementi di reimpiego, tenuti insieme da malta sabbio-
sa, e che il passo successivo è l’eliminazione delle pilae dall’orditura muraria, come si ritrova nella
fase più antica della Villa dei Misteri. LUGLI 1957, p. 413.
37 LAIDLAW 1993; LA ROCCA-DE VOS 2000, pp. 340-341.
38 DE ALBENTIIS 1989; PIRSON 1997.
39 Tra gli altri, HOFFMANN 1996; ZEVI 2000.
40 COARELLI-PESANDO 2006, p. 41.
41 FULFORD et alii 1999; LA ROCCA-DE VOS 2000, pp. 174-180.
42 LA ROCCA-DE VOS 2000, pp. 228 e 239-241.
43 LA ROCCA-DE VOS 2000, pp. 331-334.
44 MINIERO-GASPERETTI-DI GIOVANNI 1991-1992, pp. 20-21 e 24-25; MINIERO 1995, p. 247.

461
dHer

6. Pompei.
Casa di Pansa.
Taberna. Lato est

7. Pompei.
Casa del Fauno.
Triclinio (34),
veduta d’insieme
da sud-ovest

8. Pompei,
Casa del Citarista.
Facciata d’ingresso
su Via Stabiana

9. Pompei,
Insula VIII 4, 27.
Taberna, veduta
d’insieme da
nord-est

10. Pompei,
Insula VIII 4, 27.
Taberna, lato
ovest. Particolare

462
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

1.6. gragnanO

Nel 1984 a Gragnano (Na) uno scavo di emergenza in proprietà privata ha messo in
luce un tratto di muratura in opera a telaio, forse da riferirsi ad un impianto rustico,
lungo un canale o un corso d’acqua, abbandonato a seguito della distruzione sillana del-
l’oppidum di Stabiae nell’89 a.C.45. Il muro46, con andamento nord-sud, si conserva per
una lunghezza di 4 m ed un’altezza di circa 2 m ed è definito da tre pilastri di blocchi
di tufo con anathyrosis47, a cui è associato un riempimento di blocchetti tufacei (20 cm
x 30 cm ca.) e pietre calcaree di forma irregolare. Il materiale ceramico associato alla
struttura spinge per una datazione di quest’ultima tra la fine IV e del III sec. a.C.

A.C.
1.7. Surrentum

Nella Penisola Sorrentina la ricostruzione delle fasi urbanistiche dei siti antichi
è resa assai difficile dal fatto che i centri moderni coincidono perfettamente con le
loro aree di insediamento. Tuttavia, negli ultimi anni, grazie soprattutto a scavi d’e-
mergenza, per lo più in proprietà private, è stato possibile recuperare un discreto
numero di informazioni utili a ricostruire le vicende antiche.
Recenti indagini nel centro di Sorrento, durante i lavori per la costruzione del
muro di cinta del palazzo della Curia Arcivescovile, in via Santa Maria della Pietà,
hanno permesso di approfondire l’esame di alcune strutture rinvenute sotto il livello
stradale moderno, che presentavano un articolata storia edilizia. La fase più antica è
costituita da due pareti in opera a telaio pertinenti ad un edificio che doveva svilup-
parsi nell’area oggi occupata dalla Cattedrale e crollato durante l’eruzione vesuviana
del 79 d.C.48: l’apparecchio murario consta di grossi blocchi di tufo locale posti ver-
ticalmente, alternati a blocchi orizzontali più piccoli, con riempimento in opus incer-
tum di pietre calcaree e scapoli tufacei, mentre nella parte superiore si notano rifaci-
menti e restauri in opera reticolata. Infine, la ceramica recuperata sotto il pavimento,
sprofondato per i movimenti tellurici che accompagnarono l’eruzione, copre un ampio
arco cronologico che va dal IV sec. a.C. al 79 d.C. In età medievale le strutture sono
state obliterate e riadattate per la costruzione di un muro di terrazzamento, a cui va
attribuita la completa distruzione della facciata principale del complesso.
Considerando che la frequentazione dell’area è testimoniata dal IV sec. a.C. e valutan-
do i dati ricavati dallo studio delle altre emergenze di questo periodo a Sorrento, per
lo più realizzate in blocchi squadrati di tufo grigio, spesso reimpiegate in costruzioni
in opera a telaio, potrebbe essere verosimile attribuire l’edificio di via Santa Maria
della Pietà alla fase urbanistica di piena età sannitica, dunque intorno al II sec. a.C.49.

A.C.

45 Lunghezza 4 m; altezza 2 m ca. MINIERO-GASPERETTI-DI GIOVANNI 1991-1992; 1995, p. 217.


46 I blocchi orizzontali misurano 1 m x 20 cm, quelli verticale 90 cm x 40 cm.
47 La struttura era ricoperta dagli strati eruttivi contenenti i frammenti delle tegole di copertura.
48 BUDETTA 1996.
49 ELAYI 1980, pp. 177-179; VAN BEEK-VAN BEEK 1981, pp. 71-72; SHARON 1987, pp. 21-24. In
realtà, già Fantar considerava la tecnica a pilastri come un’acquisizione dall’Oriente semitico che
i Punici avrebbero arricchito con altri apporti, per lo più greci, adattandola al proprio universo.
FANTAR 1992, p. 94.

463
dHer

2. OsserVazIOnI sull’OrIgIne dell’Opera a telaIO


Come accennato, l’Africa del Nord sembra essere stata la zona maggiormente
interessata da questo tipo di tecnica muraria, tanto che da essa le viene attribuito il
nome di opus africanum. Pertanto, appare naturale considerare l’Africa Settentrionale
come un punto nodale nell’indagine sulla genesi dell’opera a telaio, per quanto le
attestazioni più antiche si ritrovano altrove nel bacino del Mediterraneo. Infatti, il
muro a pilastri monolitici, come a ragione è stato notato50, fa la sua prima compar-
sa verosimilmente in area fenicia per essere utilizzato senza soluzione di continuità
dal X al II sec. a.C.51: è probabile che, nonostante la datazione imprecisa, le testi-
monianze più antiche siano da ritenersi quelle di Bethel (XII-XI sec. a.C.) e della
vicina Ai (1200-1000 a.C.) in territorio israeliano52, anche se la forma più classica di
questo apparecchio è quella rintracciabile a Tell Abū Hawām, dove alcuni ambienti
presentano muri divisori a pilastri, datati al 1150-1125 a.C. ca.53, e a cui vanno avvi-
cinate anche le evidenze di Beth Semesh e di Khibet Abu Twain (VIII-VII sec. a.C.),
sebbene relative ad un periodo successivo (tra 980-918 a.C. e VIII-VII sec. a.C.)54.
Gli esempi rintracciati sulle colline israeliane sono per lo più in mattoni crudi e,
molto probabilmente, vanno interpretati come imitazioni locali, oltre ad essere cro-
nologicamente riferibili al periodo di massima influenza fenicia sul territorio.
Viceversa, la realizzazione più recente è un’altra struttura di Tell Abū Hawām di V-
IV sec. a.C., in cui curiosamente la tecnica a pilastri è impiegata esclusivamente per
i muri divisori55. Così, in base a quanto osservato, si può affermare con sicurezza che
l’opera a pilastri appare sulla costa mediterranea del Vicino Oriente almeno tra la
Media e la Tarda età del Bronzo e che essa sia già pienamente sviluppata nella prima
età del Ferro, continuando ad essere usata fino al Proto-Ellenismo.
Circa la sua evoluzione, invece, è plausibile, sempre sulla scorta di quanto regi-
strato, che la tecnica più antica sia da individuare in quella a ortostati monolitici e
che da essa si siano sviluppate le diverse realizzazioni successive56. In effetti, l’espe-
diente di rinforzare i muri con pilastri monolitici o di mattoni sovrapposti di testa
e di piano è molto diffusa anche in ambienti lontanissimi da questo ipotetico cen-
tro di diffusione, sebbene tutti concentrati nel bacino del Mediterraneo. A ben
vedere, però, la maggior parte dei casi coincide con i siti interessati dall’espansione
dei Fenici, in pratica una popolazione che tende a creare una “nuova Fenicia” in ogni
regione toccata. Oltre ogni risultato programmatico, va sottolineato che la persi-
stenza per oltre un millennio di tale apparecchio murario va imputata innanzitutto
al fatto che la tecnica a pilastri ha rappresentato una soluzione assai funzionale al
sostegno del tetto o di un piano superiore o, ancora, per reggere il peso notevole
della copertura di una corte. Inoltre, è poco costosa, perché offre un eccellente com-
promesso tra gli economici, ma instabili, muri di pietrisco ed i dispendiosi muri a
conci, e costituisce un notevole sistema di rinforzo in pietre grezze o a conci irre-
golari esteticamente molto valida, anche lasciando il muro senza stuccatura.

50 Purtroppo, poche attestazioni possono essere chiamate in causa per illustrare le peculiarità di
questa opera muraria, sia per la sistematica distruzione della maggior parte delle opere architet-
toniche ed artistiche dei Fenici ad opera dei conquistatori greci e romani, sia per il fatto che,
eccetto le opere difensive, il legno costituiva la materia prima, mentre la pietra (per lo più messa
in opera appena sbozzata) era impiegata soprattutto per le fondazioni e per la parte inferiore degli
edifici. WHITAKER 1991, pp. 3-14.
51 VAN BEEK-VAN BEEK 1981, p. 71.
52 VAN BEEK-VAN BEEK 1981, p. 71.
53 VAN BEEK-VAN BEEK 1981, pp. 71-72.
54 Ibid., p. 72.
55 Ibid., p. 75.
56 Si pensi, per esempio, ai rinvenimenti di Cartagena (Murcia), riferibili all’impianto punico di
Qart-Hadasch, la futura Carthago Nova. MARTÍN CAMINO-ROLDÁN BERNAL 1997.

464
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

Singolarmente, rimangono fuori da questa sorta di koinè architettonica, nonostante


l’elemento fenicio vi sia ampiamente attestato, Malta e, anche se non completamente,
la Spagna57, per le cui aree si deve pensare o ad una successiva influenza esterna
(greca?), che ha importato metodi costruttivi più vantaggiosi della tecnica a pilastri,
oppure bisogna attribuire tale assenza al tipo di materia prima disponibile in loco, che
non poteva essere impiegata in modo appropriato con questa tecnica58. Del resto, nello
sviluppo dell’edilizia fenicio-punica si può parlare giustamente di un’autonoma ten-
denza alla ricezione di soluzioni nuove, oltre che alternative, qualora queste si fossero
rivelate, dal punto di vista dell’economia architettonica, più efficaci. Quindi, l’adatta-
mento all’ambiente, senza perdere di vista la funzionalità operativa delle realizzazioni
strutturali, costituisce l’elemento di maggior peso di una simile esperienza costruttiva
e va ben oltre anche la destinazione dell’edificio stesso59. Un comportamento analogo
può essere, per esempio, registrato in Corsica60: qui, nonostante i frequenti contatti con
la vicina Sardegna e con le colonie del Mediterraneo Occidentale, non si rileva traccia
di opera a telaio, ma si costruisce con ciottoli uniti a secco o con poco legante. Ma, ciò
che appare più interessante, è che qui in età romana si costruisce utilizzando l’opera
incerta di ciottoli legati da malta o, al massimo, l’opus testaceum. Tutto questo non può
essere giustificato se non dal fatto che qualsiasi tipo di pietra da taglio doveva essere
importata, data la scarsità di materiale da costruzione nell’isola.
Tuttavia, nonostante sia comune, e a ragione, la teoria di un’origine orientale di
questo genere di apparecchio murario e della sua trasmissione dal Vicino Oriente
all’Africa Settentrionale e al Mediterraneo Occidentale (beninteso laddove è possi-
bile), resta ancora da chiarire con precisione quali siano stati i tempi ed i modi di
un tale processo di diffusione. Il problema principale a riguardo risiede nella forma
della “colonizzazione” fenicia: infatti, non trovandoci alla presenza di un fenomeno
apparentemente organizzato, non è possibile stabilire se le tecniche murarie delle
aree interessate da questo processo siano frutto di interventi diretti della “madre-
patria” o se, al contrario, siano il risultato di successivi apporti mediati, quantun-
que provenienti sempre da essa.
È pur vero che in Africa, e principalmente in area cartaginese, dove non si cono-
scono finora esempi di opera a telaio anteriori al IV sec. a.C.61, si avverte a partire
dal III sec. a.C. una certa influenza delle tecniche greche, che arriva a diventare pre-
dominante dopo la metà del secolo successivo62: in questa fase gli ortostati non sono

57 AUBET SEMMLER 1983; ACQUARO-AUBER-FANTAR 1993, pp. 143-185.


58 DE SOCIO 1983, p. 106. L’autore sostiene, tra l’altro, che dopo la distruzione di Mozia, con l’in-
troduzione dell’opera a telaio, nell’isola si adotta l’arenaria, che non era stata mai usata in prece-
denza nelle costruzioni.
59 TEATINI 1996.
60 Come accennato, l’Africa Settentrionale sembra essere la zona in maggior misura interessata dall’ope-
ra a telaio, con scarse attestazioni precedenti l’età ellenistica che aumentano sensibilmente in età roma-
na (I sec. a.C.-IV sec. d.C.). Gli esemplari più antichi, riferibili al IV-III sec. a.C., sono principalmente
in Tunisia, a Kerkouane e a Cartagine, e in Libia, ad Utica, distinguendosi per alzati a pilastri mono-
litici o a blocchi squadrati e riempimento di pietre sbozzate o di materiale di reimpiego (conci quasi
regolari e mattoni), mentre gli esempi di Mactar (per esempio, la Basilica ed il “Monumento a
vasche”), Sufetula e Thuburbo Maius sono compresi tra l’età ellenistica e la tarda età imperiale. Tra la
fine del I sec. a.C. e gli inizi del secolo successivo la tecnica è impiegata solo nelle fondazioni, mentre
dopo compare anche negli alzati, rimanendo in uso fino al V-VI sec. d.C. e dilatando la sua area di
diffusione fino all’Algeria. LÉZINE 1968, pp. 38-42; FANTAR 1970; VAN BEEK-VAN BEEK 1981, p.
72; FANTAR 1984; SHARON 1987, p. 35; FANTAR 1992, 1993a, 1993b; DUVAL 1994.
61 SHARON 1981, p. 36. Per l’autore si tratta di una mistione di tecniche greche e locali. In realtà,
in tutti i centri fenici e punici, anche nei momenti di maggiore tensione, la quantità di prodot-
ti greci d’importazione è sempre stata elevata, stando a quanto proverebbero i rinvenimenti di
vasi ed oggetti di metallo. Dallo stesso santuario cartaginese della dea Tanit, per esempio, pro-
vengono reperti vascolari greci databili nella seconda metà del VI sec. a.C., molti esemplari
corinzi ed anche imitazioni locali. BOARDMAN 1986, pp. 230-236.
62 ELAYI 1980, p. 179.

465
dHer

più costituiti da blocchetti squadrati,


bensì blocchi di notevoli dimensioni (tal-
volta uno solo per assise); la lunghezza
degli intervalli diventa minore e tende ad
essere sempre più regolare; la muratura del
riempimento è più accurata, con caementa
più grossi, meglio tagliati e di dimensioni
più regolari, dando quasi l’impressione di
un apparecchio pseudo-isodomo63.
È molto probabile, quindi, che dalla
11. Dougga, struttura “punica” a pilastri sia derivato un
Capitolium. tipo di tecnica muraria diffusa in età roma-
Pronao
na nelle antiche colonie fenicie dell’Africa
Settentrionale, indicata appunto come opus
africanum, in cui gli ortostati sono formati
da conci assemblati sempre più regolarmen-
te, che diventano vere e proprie catene verti-
cali di blocchi sovrapposti per testa e separa-
ti da ulteriori blocchi messi in orizzontale. L’esempio più illustre (Fig. 11), e per noi
più illuminante, è costituito dal Capitolium di Dougga (II sec. d.C.), in cui sia i pilastri
sia il riempimento sono realizzati in blocchetti accuratamente squadrati e messi in
opera64. Talvolta è possibile trovare strutture realizzate nella tecnica a pilastri, ma con
il riempimento in reticolato, come nel “Quartiere dei monumenti in opera reticolata”
di Bulla Regia, le cui strutture presentano i muri costituiti da una zoccolatura di bloc-
chi squadrati reimpiegati (con numerosi segni di lavorazione) con l’elevato scandito da
catene verticali di grossi blocchi, intervallate da specchiature in opera reticolata irre-
golare, a loro volta interrotte da catene di blocchi posti in orizzontale65: come già evi-
denziato dal Lézine, si tratterebbe di una muratura nata dalla fusione di una più anti-
ca tecnica locale con un’imitazione della più recente opera mista romana66.
In Sicilia l’opera a telaio compare nell’ultimo periodo di occupazione cartaginese
tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C. e per gran parte di quello seguente (409-
205 a.C.)67. A questo riguardo, vanno tenuti in considerazione due elementi basilari:
a) sull’isola l’incontro tra le comunità indigene ed i gruppi fenici deve essere avvenu-
to già nel X-IX sec. a.C., sebbene le più antiche testimonianze archeologiche rimon-
tino al massimo alla fine dell’VIII sec. a.C. per Mozia, all’ultimo quarto del VII sec.
a.C. per Palermo e alla seconda metà del VI sec. a.C. per Erice; b) gli edifici indigeni
di fine VIII sec. a.C. presentano alzati in mattoni crudi impostati su muri realizzati
in piccoli pani di conglomerato e pietrisco, cementati da malta terrosa (per esempio,
a Mozia, dove, però, scompare dopo la distruzione della città). Tucidide68 presenta il
territorio siciliano distinto tra colonie greche e colonie fenicie, di cui enumera le città
ancora esistenti ai suoi tempi, la cui urbanistica attentamente pianificata appare

63 VAN BEEK-VAN BEEK 1981, p. 75.


64 I cubilia misurano ca. 10 cm di lato e sono messi in opera secondo un criterio non perfettamen-
te geometrico. BESCHAOUCH-HANOUNE-THÉBERT 1977, pp. 18-22.
65 Per Lézine le influenze all’origine di questa mistione proverrebbero per lo più dalla Sicilia, a cui
l’architettura africana civile sarebbe ispirata già dal II sec. a.C. LÉZINE 1963, pp. 41-42.
66 TUSA 1970, 1972 e 1972-1973; CIASCA 1980; VAN BEEK-VAN BEEK, 1981, p. 75; TUSA 1983;
DE SOCIO 1983; ITALIA-LIMA 1987; BONDÌ 1989; RAFFIOTTA 1991; WHITAKER 1991, pp. 48-92,
117-160 e 199-200; LANCEL-MOREL 1992, pp. 105-108; ACQUARO-AUBET-FANTAR 1993; DI
STEFANO 1993; DE MIRO 1994; TUSA 1995; ZIRONE 1999 e 2003.
67 Thuc., VI 2, 6.
68 BERNARDINI 1990. La fondazione fenicia risale alla prima metà dell’VIII sec. a.C., come provereb-
bero i materiali recuperati nel tofet (dall’VIII sec. a.C. all’età romana), e mostra di avere avuto con-
tatti con l’area fenicia della costa iberica, con Pithecusa e con i siti siriani di Al Mina e Tell Sukas.

466
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

incentrata su alcuni elementi imprescindibili: 1) cortina muraria esterna; 2) collega-


mento diretto dell’insediamento con la costa; 3) bacino di carenaggio o cothon; 4) il
luogo sacrificale dei fanciulli o tofet a ridosso delle mura urbane; 5) necropoli alla peri-
feria cittadina. Gli esempi di murature a telaio rinvenuti a Mozia, caratterizzati da
pilastri monolitici posti ad intervalli di circa 1 m e riempimento di pietrame legato
con malta terrosa, vanno datati nel corso del IV sec. a.C., come pure le strutture sul-
l’acropoli di Selinunte, dove si registra un passaggio diretto dall’opera quadrata all’o-
pera a telaio, tanto da suggerire quasi l’idea che dopo la distruzione della città (409
a.C.) la tecnica muraria classica sia stata completamente abbandonata in favore di un
tipo di struttura distinta dall’uso di materiali di risulta, inquadrati da grandi blocchi
litici che ne costituiscono l’ossatura, che diventa, invece, l’unica tecnica adoperata nei
muri delle numerose case e botteghe di età ellenistica. A Lilibeo, Panormo, Erice e
Solunto, essenzialmente nelle aree degli abitati, la fase punica è attestata da resti
murari in opera a telaio, non di rado associato a mattoni crudi, relativi per lo più a
complessi residenziali, mentre a Morgantina sono nella tecnica a pilastri monolitici
sia i contrafforti del terrazzamento della cittadella ellenistica presso l’Agorà sia la
“Casa dei Capitelli dorati” sia alcune strutture del Santuario di Kore.
Più articolata, invece, appare la questione in Sardegna, dove a parte gli esempla-
ri più antichi (VII sec. a.C.) di Sulci69, Monte Sirai, Tharros70 e Bithia71, non abbia-
mo ulteriori testimonianze per il momento propriamente fenicio. Il resto delle evi-
denze, invece, va riferito in parte all’età punica (Cartagine conquista la Sardegna
intorno al 535 a.C., mantenendone il controllo fino alla fine della I Guerra Punica)
e in parte al periodo romano (limitatamente a qualche villa di I sec. a.C.-I sec. d.C.).
Ad un primo ampliamento e potenziamento di questi centri fenici (intorno al VII
sec. a.C.), segue un periodo di massiccia influenza greca (tra IV e III sec. a.C.), come
si rileva dalla produzione artigianale e dalle monumentali costruzioni72, chiaro
riflesso del loro carattere costiero. In quest’ottica sono da considerare sia il sistema di
fortificazione di Tharros e di Monte Sirai sia i resti di strutture domestiche, anche di
tipo punico, e di un complesso termale punico-ellenistico a Nora (VI-II sec. a.C.), la
cui tecnica muraria usa indifferentemente pilastri monolitici e blocchi sovrapposti73.
In questi stessi centri, l’opera a telaio perdura senza soluzione di continuità fino ad
età romana, come provano le abitazioni di Cagliari (pianta ad atrio e peristilio) con
muri a blocchi portanti e riempimento di pietre di piccolo taglio legate con malta
terrosa. Altri esemplari coevi si ritrovano ad Olbia, Nora, Tharros, Sulcis, Bithia e
in gran parte dei siti romani dell’isola, sebbene molto spesso si tratti di strutture iso-
late sul territorio, non sempre identificabili con precisione, anche se per lo più lega-
te all’edilizia privata74. Anzi, andando oltre i limiti cronologici che questo studio si
impone, in Sardegna si ritrovano attestazioni ancora nel VI-VII sec. d.C., come indi-
cano, per esempio, i ritrovamenti di Alghero o, ancora meglio, di Cossoine75.
Interessanti risultano i centri nuragici di Terreseu di Narcao (loc. Strumpu Bagoi),

69 L’abitato di Su muru mannu risale alla prima metà dell’VIII sec. a.C. e già nel corso del VI sec.
a.C., le sue oreficerie appaiono di gran lunga superiori a quelle di Cartagine. LANCEL 1992, pp.
100-103; ACQUARO 1995.
70 Il centro fenicio sorge intorno alla fine dell’VIII sec. a.C. per le esigenze dell’emporía fenicia.
ZUCCA 1994.
71 Per esempio, PESCE 1961a.
72 PESCE 1961b, pp. 57-60.
73 Da ultimi, BONDÌ 1990 e MEZZOLANI 1994.
74 BASOLI 1989, pp. 29 e 41-44.
75 Degna di nota è la collocazione di questi siti presso i santuari “a pozzo” nuragici dedicati alla
Dea Madre (e ad un paredro): la semplice sostituzione in età successiva della divinità indigena
con la greca Demetra, a mio parere, costituisce la cifra di un atteggiamento culturale locale, che
tende a conservare la tradizione, oltre che rappresentare una lampante conferma della forte per-
sistenza di forme culturali sardo-puniche perpetuate fino ad età imperiale. BARRECA 1983.

467
dHer

Villanovaforru, Abbasanta e Torralba, rimasti in vita fino all’età romana, dove, rela-
tivamente al V-III sec. a.C., si ritrovano strutture in opera a telaio intonacata di pie-
trame bruto di medie e piccole dimensioni cementato con malta di fango76.
Per il Bondì, di notevole importanza è stato lo stretto rapporto tra l’area norda-
fricana e la Sardegna tra il III e il I sec. a.C, a cui andrebbero imputati quegli stimoli
innovatori di massima consistenza, al seguito, verosimilmente, di flussi migratori
spontanei o coatti nell’isola. Pertanto, il processo di romanizzazione in Sardegna si
viene ad innestare su un solido patrimonio culturale cartaginese, profondamente
radicato nell’isola, che, nonostante tutto, riesce a sopravvivere, giustificando così l’at-
tardamento (a questo punto solo in apparenza sorprendente) di tale sostrato77. La
Mezzolani, invece, basandosi sulla datazione delle strutture in opera a telaio (I sec.
a.C.-I sec. d.C.), pur convinta dell’origine cartaginese della tecnica, sostiene un suo
arrivo in Sardegna dall’Italia e non dall’Africa, visto che, a suo parere, nel periodo in
questione ci sarebbe stato un legame molto più stretto e crescente con l’area medio-
italica, favorito dalle circostanze storiche78. L’equivoco di fondo, però, risiede nel
fatto che non solo non si tiene conto della realtà edilizia medio-italica di età tardo-
repubblicana/proto-imperiale, dominata dal cementizio, ma, soprattutto, si dimen-
ticano le attestazioni dell’opera a telaio nell’isola precedenti il I sec. a.C.
In Etruria79 l’opera a telaio è documentata a Casale Marittimo (“Tomba a tholos” –
inizi VI sec. a.C.), a Populonia (“Grande tumulo dei carri” nella necropoli di San
Cerbone – metà VI sec. a.C.), a Cerveteri (nelle tombe della zona I del “Vecchio recin-
to” della necropoli della Banditaccia – VI sec. a.C.)80 e a Tarquinia (contesti di IV-III
sec. a.C.)81. Considerando in primo luogo il ruolo degli Etruschi nelle rotte commer-
ciali mediterranee, non è difficile comprendere quali siano stati i canali di ricezione e
di apprendimento di questa tipologia di costruzione: infatti, i contatti con genti di
origine fenicio-punica rimontano ad una data precedente al VI sec. a.C. e sono molto
più antichi, intensi e diretti di quanto generalmente si suppone82. Del resto, tra XIII
e VIII sec. a.C. i Fenici si erano sostituiti ai Micenei nelle direttrici del traffico com-
merciale nel Mediterraneo, toccando tutti i centri nei quali si registrava la presenza di
questi ultimi83: si pensi, per esempio, al santuario di Pyrgi che ha restituito tracce
della presenza fenicia già agli inizi del VI sec. a.C.84, oppure a Populonia, che in età

76 BONDÌ 1990, nota 44; anche MOSCATI 1974; WILSON 1980-1981; ACQUARO 1986; BONDÌ 1986;
TEATINI 1996, pp. 113-115; PORTALE-ANGIOLILLO 2005, p. 189.
77 MEZZOLANI 1994, p. 999.
78 Scarse sono le conoscenze sull’edilizia etrusca, soprattutto perché la maggior parte delle strutture
note si conservano solo, o quasi, a livello delle fondazioni. Per quanto si può ricostruire, è stata avan-
zata l’ipotesi che le costruzioni private avessero muri in mattoni crudi su zoccolo in pietrisco, assu-
mendo l’aspetto di un’opera quadrata di piccolo apparecchio, e che i piccoli blocchi squadrati di tra-
vertino, spesso rinvenuti negli scavi, fossero verosimilmente inseriti in quei punti degli alzati dove
era essenziale una maggiore solidità. Ciò dimostra che quando è stato necessario far ricorso ad ele-
menti montanti, essi non erano in legno, come supposto, ma in pietra, applicando un principio che
non era dissimile da quello dell’opera a telaio, con la realizzazione di un’armatura, dove i pani di
argilla erano inseriti a filari. In realtà, già Vitruvio (II 3) si sofferma a lungo sull’impiego dei mat-
toni crudi, a dimostrazione del fatto che ancora alla sua epoca questi erano ampiamente usati.
79 PALLOTTINO 1972-1973; MOSCATI 1980-1981; STEINGRÄBER 1983, pp. 115, 124 e 431.
80 ROMANELLI 1948.
81 MOSCATI 1980-1981, p. 96; anche LANCEL 1992, pp. 34-41.
82 DE JULIIS 1996, pp. 26 e 50.
83 BLOCH 1986; GRAS 1997, pp. 65-66; anche BAGLIONE 2007. A Cartagine, invece, nella tomba
di un ricco mercante, è stata recuperata una tessera hospitalis sul cui retro si legge in etrusco «mi
puinel krthazie» (io – sono – un punico cartaginese), databile all’ultimo quarto del VI sec. a.C.;
inoltre, sul relitto della “nave del Giglio” (600 a.C. ca.) si sono recuperate anfore fenicie da tra-
sporto e una lucerna punica per uso di bordo. CRISTOFANI 1986, pp. 125-127.
84 I rapporti con la Sardegna, legati soprattutto alla ricerca di metalli, sono ben rappresentati da
una tomba femminile della necropoli Cavalupo a Vulci (VIII sec. a.C.), in cui compaiono bron-
zetti nuragici. Questa interferenza culturale tra Etruria meridionale e Sardegna è testimoniata
per tutto il VII sec. a.C. dal rinvenimento di bronzi nuragici a Populonia, Vetulonia, Gravisca,

468
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

arcaica intrattenne relazioni con gli ambienti indigeni della Sardegna, importante tra-
mite con le numerose comunità fenicie dell’isola85; o, ancora, all’emporion di Gravisca,
con i suoi numerosi luoghi di culto dedicati alle divinità protettrici degli scambi, da
cui proviene una gran quantità di materiale fenicio86. Non passi inosservato, inoltre,
che tra VI e V sec. a.C. l’Etruria diventa anche il principale interlocutore commercia-
le della Sicilia con l’Italia centro-settentrionale, oltre che del Mediterraneo
Occidentale, tanto che il santuario fenicio-punico di Cappiddazzu a Mozia, che tra
l’altro ha restituito numerosi buccheri etruschi, presenta una pianta vicina a quella del
santuario etrusco del Belvedere ad Orvieto di V sec. a.C.87, e che, infine, con la bat-
taglia di Alalia (540 a.C.) gli Etruschi affermarono il loro dominio totale sulla
Sardegna, mentre i Cartaginesi assunsero il controllo della Corsica88. Sulla scorta di
quanto emerso, dunque, è verosimile immaginare che in Etruria l’opera a telaio o, per
lo meno, il principio di base, costituisca un’assimilazione derivata dalla pluralità dei
contatti intrattenuti con ambienti fenicio-punici, in seguito sviluppata secondo esi-
genze più autonome e in relazione ai materiali disponibili sul territorio.
Nell’Italia meridionale peninsulare, le attestazioni dell’opera a telaio sono vera-
mente scarse, fatta eccezione per le aree archeologiche delle città di Velia e di
Pompei. A Velia l’impiego di tale tecnica edilizia sembra limitato alla media e tarda
età imperiale, senza poter riuscire, tuttavia, ad affermare con certezza quali siano
stati i canali attraverso i quali la tecnica vi sia giunta: infatti, non si conoscono
ancora attestazioni precedenti l’età romana, a meno che non si voglia considerare
come facenti parte di questa stessa tipologia edilizia i muri in opera “a scacchiera”
nell’Insula I del “Quartiere Meridionale”, che rappresentano quasi un unicum nel
panorama delle tecniche murarie d’Italia89: nei muri in opera cementizia, talvolta,
sono inseriti blocchi verticali a distanze irregolari, mentre in altri casi si registra il
reimpiego di elementi di altro genere, come, per esempio, colonne in mattoni;
oppure, infine, si rinforzano gli angoli con blocchetti più o meno squadrati che
ammorsano il cementizio. Tuttavia, la scarsa conservazione in altezza delle struttu-
re non consente di stabilire se si tratti di costruzioni a pilastri monolitici o se nel
corpo del muro erano inseriti elementi orizzontali a partire da una certa altezza.
Cronologicamente, invece, non è possibile attribuire questi interventi ad età prece-
dente la media o tarda età imperiale, specie per le vicende urbanistiche del sito90.

G.D.L.

e, per il IX-VIII sec. a.C., di fibule, asce e rasoi etruschi in Sardegna. Molto probabilmente, tali
rinvenimenti sono da riferirsi a complessi movimenti di persone, non occasionali e sintetizzati
nei diversi matrimoni misti, che si ricostruiscono attraverso i contesti tombali noti. TORELLI
1986, p. 37; CRISTOFANI 1986, pp. 90-107.
85 TORELLI 1982.
86 ISSERLIN 1958; PENSABENE 1989; TUSA 2000. Sembrerebbe, inoltre, che proprio la Sicilia fosse stato
il centro di produzione dei noti sarcofagi marmorei con figura umana di stile greco su cassa archi-
tettonica, che avrebbero ripetuto una tipologia etrusca con un’iconografia cartaginese. PALLOTTINO
1972-1973, p. 63. Questa commistione di elementi fenici, punici, indigeni e greci è osservata dal
Fantar anche a proposito del culto di Demetra che in tutti i centri di tradizione fenicia prende il
posto della Grande Madre orientale ed assume caratteristiche e forme di culto simili, fino ad esse-
re fissata nel tipo della dea con porcellino, di derivazione siciliana. FANTAR 1993-1994.
87 GRAS 1997, pp. 230-236; LANCEL 1992, pp. 100-103.
88 ADAM 1988, pp. 129-130. Invece, Adam limita questo tipo di muro, oltre a Velia, solo a
Bolsena, Tarquinia ed Orvieto (necropoli della Cannicella) tra il IV e il II sec. a.C., laddove si
ritrovano pure a Selinunte e Soluto nello stesso periodo. ITALIA-LIMA 1987, p. 68, fig. 5/c.
89 KRINZINGER 1994.
90 Una conferma proviene anche dalla documentazione epigrafica, che consente di affermare che tra
l’inizio del VI e la fine del V sec. a.C. l’etrusco fu la lingua dominante in gran parte della
Campania. D’AGOSTINO 1988 (in particolare, pp. 565-566); DE JULIIS 1996, pp. 135-137. Sulla
documentazione epigrafica, DE SIMONE 1992. Da Calatia, tra l’altro, proviene un’iscrizione etru-
sca su un’anfora vinaria di un tipo ben attestato a Vulci, ma mai fuori dell’Etruria. COLONNA
1980-1981, p. 151; FREDERIKSEN 1984, p. 123, nota 36.

469
dHer

3. rIflessIOnI sull’OrIgIne e sulla dIffusIOne dell’Opera a


telaIO In campanIa

Nell’ambito della diffusione dell’opera a telaio, la regione campana pare inserir-


si in un rigoroso ordine di consequenzialità spazio-temporale.
In Campania i centri antichi di Calatia, Capua, Pompei, Gragnano e Sorrento
restituiscono, anche se limitatamente, evidenze piuttosto omogenee di un’opera a
telaio ormai evoluta nel IV-III sec. a.C. L’unica eccezione sembrerebbe Pozzuoli,
ma, come si è già fatto notare, per quest’ultima non disponiamo di dati certi. Per
quanto le attestazioni conosciute ed edite siano troppo esigue per creare non solo
una tipologia locale di tale apparecchio murario, ma realizzare anche solo una sem-
plice statistica di incidenza nel territorio, esse sembrano tutte limitate a zone che
per un motivo o un altro sono venute in contatto con genti etrusche o con gruppi
fortemente etruschizzati.
Tra la seconda metà del VII e per tutto il VI sec. a.C. la presenza etrusca in
Campania si rafforza a danno del sostrato indigeno ed in concorrenza con l’elemen-
to greco91: Capua è un centro autonomo ed organizzato già dalla fine del VII sec.
a.C., mentre intorno alla metà del VI sec. a.C. il controllo degli Etruschi si esten-
de fino ai centri di Nola, Nuceria Alfaterna, Pompei, Stabiae, Vico Equense, e Fratte
e Pontecagnano nell’agro Picentino, tendendo a raggiungere anche le coste setten-
trionali del Golfo di Napoli, con l’occupazione di Ercolano.
Un elemento importante, a questo punto, è il quadro culturale della Campania
in età arcaica, che, per il nostro discorso, vale quanto offerto in questo momento
dalla sua tradizione edilizia, se di tradizione si può già parlare. Le esperienze loca-
li, senza scendere nel dettaglio, perché ciò esulerebbe dall’argomento trattato,
dimostrano in modo chiaro quanto sia diffusa l’opera quadrata, il che andrebbe
facilmente spiegato con la presenza greca sul territorio fin dall’VIII sec. a.C. È natu-
rale che proprio questa presenza influenzi, in misura maggiore o minore a seconda
del caso, la componente indigena campana, anche in virtù della grande quantità di
materiale da costruzione disponibile sul territorio. Quindi, l’intensificarsi dei rap-
porti tra Campani ed Etruschi si verrebbe a collocare in un momento, appunto tra
la metà del VII ed il VI sec. a.C., in cui il patrimonio tecnico edilizio campano è
dominato essenzialmente dall’impiego dell’opera quadrata.
La natura di queste relazioni deve indurci a credere che le genti campane siano
in qualche modo entrate in contatto con le esperienze edilizie etrusche, di cui devo-
no aver apprezzato le qualità, e che abbiano fatto proprie certe idee di base, in pri-
mis l’uso delle nervature litiche nei punti di maggiore tensione statica.
L’elaborazione dell’opera a telaio e la sua diffusione, di conseguenza, sarebbe stata
facilitata dal patrimonio tradizionale locale, insieme, ancora una volta, alla dispo-
nibilità dei materiali reperibili con più facilità sul territorio. Sarebbe verosimile
ammettere, pertanto, che l’opera a telaio in Campania sia arrivata proprio tramite
la mediazione degli Etruschi: grazie ai loro rapporti fin dall’epoca arcaica con le
comunità fenicie e puniche, questi ultimi avrebbero avuto modo di apprezzare la
solidità della tecnica muraria e di assimilarne i principi struttivi per poi esportarla,
a loro volta, in altri centri culturalmente e geograficamente distanti, in primo luogo
la Campania. Ovviamente, con questa affermazione non si vuole affatto sostenere il
principio di una dominazione diretta degli Etruschi in Campania o, comunque, nei
siti in cui sono attestati muri in opera a telaio, al fine di giustificarne la presenza.
Al contrario, ciò che si vuole mettere in evidenza è il fatto che un simile espedien-
te tecnico nel patrimonio edilizio della Campania rappresenta una rilevante apertu-

91 ZEVI 1981.

470
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

ra verso nuove acquisizioni da parte di comunità e centri che vanno assumendo una
propria fisionomia socio-urbanistica più definita, valutando consapevolmente quan-
to viene offerto loro al momento sia dalla tradizione sia da esperienze assolutamen-
te innovative. E, a questo riguardo, sia consentito fare un’osservazione circa l’ipote-
si avanzata dallo Zevi di attribuire l’origine e la successiva diffusione dell’opera a
telaio di Calatia al passaggio degli eserciti annibalici durante la II Guerra Punica92.
Benché la congettura risulti suggestiva, soprattutto per il fatto che la cittadina,
insieme con Capua, fu alleata di Annibale, questa non è supportata dalla cronologia
delle strutture in opera a telaio, che sono comprese, invece, nel corso del IV sec. a.C.
Pertanto, rivedendo la proposta, dobbiamo immaginare che, all’arrivo dei
Cartaginesi, Calatia avesse già accolto e impiegato tale procedimento costruttivo,
confermando contemporaneamente quanto supposto sopra circa la recezione di que-
sto apparecchio murario in Campania per il tramite etrusco.
Per le intrinseche qualità e caratteristiche tecniche dell’opera a telaio93, che
sostanzialmente restano uguali ovunque l’opera muraria venga applicata, e questo a
dispetto della funzione degli edifici e dei materiali usati, viene spontaneo aspettar-
si una sua persistenza, seppur riveduta e corretta alla luce di eventuali innovazioni
tecnologiche. Viceversa, tra gli studiosi si è fatta strada l’idea, in riferimento soprat-
tutto a Pompei, che l’opera a telaio termini con l’avvento del cementizio, forse la più
rivoluzionaria tra le novità dell’architettura d’Occidente. Ciò nondimeno, proprio le
evidenze pompeiane, ad un’attenta analisi, forniscono una valida documentazione,
che ci offre un quadro assolutamente differente circa la sorte di questo apparecchio
murario. Infatti, fin dall’inizio della sua introduzione nell’edilizia cittadina, cioè alla
fine del III sec. a.C., l’opus caementicium si mostra naturalmente associata alle nerva-
ture litiche proprie dell’opera a telaio, una situazione per niente casuale: l’opera
cementizia, infatti, permetteva di riempire velocemente e con un netto risparmio
economico gli spazi tra le nervature dell’opera a telaio, mentre gli ortostati litici
continuavano ad assicurare un grosso margine di sicurezza statica alle strutture.
Dunque, nel centro campano viene operato un connubio assai funzionale tra espe-
rienza passata della tradizione locale e soluzioni architettoniche più all’avanguardia,
o solo più pratiche, confermando pienamente quanto detto a proposito dell’evolu-
zione dell’opera a telaio. Sebbene Pompei al momento risulti essere l’unico sito anti-
co a fornirci queste indicazioni, può comunque essere considerata senza perplessità
come la misura delle trasformazioni che l’opera a telaio subisce nel corso del tempo.
Piuttosto, resta sospesa la questione circa la data della fine dell’utilizzo dell’ope-
ra a telaio in Campania, dove la scarsità dei dati non consente di giungere a risul-
tati definitivi. In questo discorso, però, sono di grande utilità due circostanze par-
ticolari: 1) la mancanza a Pompei di esempi in opera a telaio e cementizio posteriori
agli inizi del II sec. a.C.; 2) la massiccia diffusione in Campania dell’opus caementi-
cium con paramento (prima in incerto e poi in reticolato) e ammorsature in laterizi
o tufelli dal II sec. a.C. Questi dati, quantunque parziali, poiché relativi solo a
Pompei e a pochissimi altri siti campani, come Ercolano94, potrebbero far colloca-
re la fine dell’utilizzo dell’opera a telaio entro e non oltre la metà del II sec. a.C.,
allorquando si sarebbe verificata una sostituzione della tecnica edilizia tradizionale
a favore dell’opera cementizia, che risultava essere non solo più nuova, ma anche, e
soprattutto, più valida e funzionale da un punto di vista sia tecnico che economico.
Proprio la novità costruttiva consentiva di realizzare strutture resistenti, impiegan-

92 GOVONI-CUSTODI-SCIORTINO 2002.
93 BINNEBEKE-DE KIND 1996.
94 A questo proposito, non è inutile ricordare che, dove tali condizioni non si sono verificate, l’uso
dell’opera a telaio riesce a resistere e a protrarsi fino all’età medievale, come in gran parte
dell’Africa Mediterranea ed in Sardegna.

471
dHer

do, contrariamente a prima, un tempo minore, maestranze non più altamente spe-
cializzate e, da ultimi, ma non meno importanti, materiali più facili da trasportare
e da mettere in opera: è solo per tali vantaggi oggettivi che si abbandona un siste-
ma costruttivo così tradizionale e tanto valido come l’opera a telaio, seppur associa-
to all’opera cementizia95.
Un discorso a parte merita, invece, l’associazione di pilastri di blocchi con pareti
in reticolato oppure in opera incerta. Numerosi documenti sono offerti ancora una
volta da Pompei, relativi ai movimenti tellurici post 62 d.C.96. Molti edifici, infatti,
presentano in facciata grandi pilastri di blocchi, che costituiscono le testate di muri
realizzati, invece, in opera cementizia con scapoli di materiale vario, che vanno dal
tufo alla lava, ai mattoni rotti. Tali ortostati, che recano evidenti segni di rilavora-
zione, devono aver fatto parte in principio di una facciata completamente in opera
quadrata, crollata o danneggiata a seguito dei frequenti terremoti precedenti l’eru-
zione vesuviana. Effettivamente, recenti saggi sotto uno di questi pilastri presso la
Casa dei Postumii (VIII 4, 49), il cui impianto veniva comunemente datato ad età
ellenistica, hanno dimostrato, al contrario, che la facciata va attribuita ad un succes-
sivo intervento di età imperiale97. Lungi dall’essere una ripresa sic et simpliciter del-
l’opera a telaio, con la quale non ha alcun legame, né tecnico né pratico, la struttura
consta unicamente di un alzato in reticolato, a cui vengono giustapposti blocchi di
tufo in corrispondenza delle testate delle porte. Un altro caso simile, sebbene crono-
logicamente anteriore a quello pompeiano, è quello dell’“Aula Sillana” a Cuma, il cui
impianto originario risale alla seconda metà del I sec. a.C.-inizi I sec. d.C.98, con le
pareti perimetrali in reticolato scandite da pilastri di blocchi di trachite sovrapposti,
distanti 2 m ca. l’uno dall’altro, che fungono allo stesso tempo anche da testate dei
muri e da montanti delle porte di accesso. Considerando l’ampiezza dell’edificio (25
x 14 m), costituito da uno spazio centrale abbastanza capiente provvisto di una
copertura di tegole e coppi (ricostruibile dalla gran quantità di frammenti rinvenu-
ti), è possibile congetturare che i pilastri litici fossero collocati in corrispondenza dei
punti di appoggio delle travature lignee del tetto, che così andavano a scaricare il
peso solo nei punti maggiormente rinforzati99, ottenendo un’elevata resistenza senza
dar vita ad una struttura interamente massiccia: il peso dell’edificio risultava allo
stesso modo ben ripartito ed il risparmio di tempo e materia prima diventava note-
vole. La struttura cumana, in realtà, sorge direttamente su una precedente costruzio-
ne in opera quadrata (IV-III sec. a.C.), di cui è verosimile che sia stata riutilizzata
gran parte dei blocchi. Diversamente da quanto osservato a Pompei, a Cuma si può
parlare di un tentativo di riproporre, per l’appunto, il principio dell’opera a telaio
sfruttando ciò che è al momento a disposizione come materiali e conoscenze tecni-
che, così come accade per le strutture di età imperiale di Bulla Regia (l’espressione
più evoluta dell’opera a telaio), questo espediente di associare pilastri di blocchi a
pareti in cementizio (con paramento in reticolato o in incertum) potrebbe essere con-
siderato, alla fine, come una sorta di tecnica ibrida che riunisce la già consolidata
opera a telaio con quella più moderna del cementizio100.

95 Per esempio, DE SIMONE 1995; LA GRECA 2007, pp. 6-10.


96 DICKMANN-PIRSON 2005 (con bibliografia).
97 Tale tecnica, che probabilmente è quella descritta da Vitruvio (II 8), si ritrova anche ad Ostia nei
“Magazzini repubblicani” (terzo quarto del I sec. a.C.), con pilae lapideae sia alle testate che nel
corpo dei muri in reticolato, e in strutture della Regio III. DELAINE 2001, pp. 91-92.
98 Non è un caso che gli angoli sud-ovest e sud-est dell’edificio siano costituiti da un doppio pilastro.
99 ADAM 1988, p. 132; MEDRI 2001, p. 32.
100 GOVONI-CUSTODI-SCIORTINO 2002.

472
origine ed evoluzione dell’opera a telaio

Dunque, è necessario riaffermare che sotto il nome di opera a telaio rientra una
varietà di soluzioni tecniche di grande efficacia, tutte tese ad assicurare una realiz-
zazione veloce ed economica dell’elevato, con le medesime garanzie di resistenza e
durata degli apparecchi murari101: e, in definitiva, la prolungata sopravvivenza di
questa tecnica fino a tempi relativamente recenti (come testimoniano le città afri-
cane di epoca bizantina o, ancora meglio, la Sardegna di età medioevale) è la prova
più valida delle qualità, non solo tecniche, di questo tipo di muratura.
Se, come accennato sopra, all’origine dell’opera a telaio vanno collocate le strut-
ture fenicie a pilastri di conci, è altrettanto vero che le sue traduzioni successive
sfruttano principalmente le risorse naturali delle diverse regioni e si adattano alle
necessità socio-economiche dei diversi periodi, come, per esempio, la rapida urba-
nizzazione di Pompei dopo l’occupazione sannitica, che, sebbene sia indice di un
momento di grande benessere economico, viene comunque attuata quasi completa-
mente in opera a telaio e con il reimpiego di materiali provenienti dallo smantella-
mento di strutture di età precedente, sfuggendo ad una precisa classificazione.
Eppure, l’estrema duttilità di questa tecnica muraria è all’origine della sua grande
diffusione e della curiosa varietà di soluzioni per essa adottate, che vanno dal taglio
preciso e regolare dei conci (come nel Capitolium di Dougga), al riutilizzo di colon-
ne e blocchi monolitici, alle zeppe di pietrame misto e materiali di risulta, alle spec-
chiature di reticolato. Pure i tipi litici impiegati sono vari, dal gesso africano ai
diversi calcari in Sardegna, dall’arenaria in Sicilia al calcare e al tufo in Campania.
Senza, pertanto, cercare di creare un’inutile tipologia di questa tecnica muraria,
e in considerazione del fatto che mai nessuno studioso lo ha mai fatto, sottolinean-
do più volte la molteplicità di realizzazione rintracciabile in essa, ci si può solo limi-
tare di volta in volta a descrivere i singoli apparecchi, valutando le caratteristiche e
la qualità del prodotto: di queste strutture, infatti, si può annotare la maggiore o
minore distanza degli intervalli tra gli elementi portanti e la loro disposizione ver-
ticale e/o orizzontale, registrare un eventuale legame tra questi ultimi ed il loro
riempimento, oppure notare come lo stesso riempimento è stato realizzato (se, cioè,
è costituito da materiale omogeneo e regolarmente tagliato, se è materiale di risul-
ta, cementizio, ecc.), o, infine, stabilire la quantità e le proprietà del legante.
In quest’ottica, gli esempi campani ci offrono un quadro vario, che, se da un lato
ci permette di accostare tra loro gli esempi di Capua e Calatia e quelli di Sorrento,
Gragnano e Pompei, non ci consente, dall’altro, di portare a termine un discorso che
miri a fornire indicazioni precise sull’esecuzione e sulla composizione dell’opera a
telaio nella regione. Ci si deve, pertanto, accontentare di rilevare che in un deter-
minato periodo, compreso tra la metà del IV e la fine del III sec. a.C., in Campania
si è diffusa (quanto non è dato sapere per la scarsità di esempi noti) l’opera a telaio,
soprattutto in zone con un grado di concentrazione demografica e sviluppo econo-
mico e commerciale abbastanza elevato, e pensare che la nuova tecnologia sia arri-
vata attraverso i contatti con le popolazioni etrusche.

G.D.L.

101 Ibid.

473
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