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Contorno e Contrasto

Il contorno ovvero, come già detto, il segno che delimita e delinea una figura, è
uno dei fattori che maggiormente influiscono sulla percezione della forma.
La sua importanza è chiara in quanto ogni volta che ci accingiamo a disegnare una
qualsiasi figura cominciamo proprio a tracciarne il contorno che ne racchiude la
forma mediante delle linee.
L’uso della linea per tracciare il contorno di una figura è antichissimo: gli esempi
delle pitture rupestri ( in particolare quelle della grotta di Lescaux, risalenti a 30.000
anni a.C. e alcune pitture parietali egiziane del II millennio a.C. raffiguranti animali e
uomini tracciati solo con linee più o meno sottili ) ce lo dimostrano.
Queste linee di contorno rappresentano segnali molto efficaci per il cervello.
Nella corteccia visiva primaria dei mammiferi, dove avviene la fase iniziale del
processo visivo, una gran parte dei neuroni risponde preferenzialmente a stimoli
costituiti da linee o bordi di particolare orientamento: alcune cellule rispondono a
linee orizzontali, altre a linee verticali, altre ancora a singoli orientamenti obliqui.
Quindi rispondono ai confini e ai contorni delle immagini, ma sono insensibili alle
regioni povere di caratteristiche all’interno dei confini. Ma perché uno schizzo, una
immagine semplice con un contorno nel nostro cervello è più efficace per la
rappresentazione rispetto all’oggetto raffigurato?
Uno schizzo è più efficace perché nel nostro cervello c’è un “collo di bottiglia
attenzionale”, ovvero una convergenza di attenzione su un solo elemento; infatti noi
possiamo prestare attenzione a un solo aspetto per volta di una immagine o di un
oggetto (attenzione selettiva). Nel cervello umano ci sono 100 miliardi di neuroni di
cui solo una piccola sottoserie è attiva in ogni momento. Nella percezione
un’immagine (un percetto) stabile esclude automaticamente gli altri.
Infatti le reti neurali cerebrali competono continuamente per assicurarsi le risorse
attenzionali che sono limitate.
Se guardiamo una foto a colori, l’attenzione è distratta dai vari colori e particolari
dell’immagine, ma uno schizzo dello stesso oggetto ci permette di destinare tutte le
risorse attenzionali ai contorni. Così se un artista volesse evidenziare l’essenza del
colore o la forma costruita da masse cromatiche, dovrebbe attenuare i contorni
sfumandoli o abolendoli. In questo modo il bisogno di distinguere i contorni non
competerebbe più per ottenere risorse attenzionali e il cervello sarebbe libero di
concentrarsi sullo spazio cromatico. Questo è proprio ciò che fecero gli
impressionisti: essi usarono questo isolamento modulare per privilegiare il colore e la
luce e creare con questi, e non con i contorni, le forme.

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Una prova di tale fenomeno neurologico ci viene dalla patologia neurologica in cui il
cattivo funzionamento di diverse aree cerebrali porta all’isolamento di un singolo
modulo su cui convergono tutte le limitate risorse attenzionali di cui il soggetto è in
possesso. E’ il caso, ad esempio, degli autistici e un esempio eclatante è quello di
Nadia, una bambina autistica di sei anni con grave ritardo mentale, che sapeva
disegnare cavalli quasi come Leonardo Da Vinci.
In questa bambina il ritardo mentale, il deficit di linguaggio e l’immaturità emotiva
erano indici di grave danno a numerose aree, ma probabilmente nel lobo parietale
destro (sede di molte attività spaziali tra cui il senso delle proporzioni ed espressioni
artistiche) si era salvata un’isola di tessuto che monopolizzava tutte le risorse
attenzionali di Nadia.

a) un disegno di Nadia a 6 anni b) un disegno di Leonardo c)disegno di un bambino


di 6 anni.
Quando Nadia fu sottoposta a terapia e migliorò per la sua patologia, perse la capacità
di disegnare forse perché la sua attenzione fu deviata sulle altre aree cerebrali
maturate.
Poiché ci sono altri riscontri su pazienti con demenza fronto-temporale in cui tali
regioni vengono progressivamente danneggiate mentre le risorse attenzionali si
concentrano su isole di corteccia parietale con conseguente sviluppo di straordinarie
capacità artistiche (disegnare e dipingere), ci si è posti la domanda:
se un isolamento modulare (isolamento di una parte del cervello più funzionante)
porta allo sviluppo di doti particolari, in un soggetto sano potrebbero esserci doti
artistiche e matematiche latenti?
Un esperimento di un’equipe australiana ha dato la risposta.
Soggetti volontari sottoposti a stimolazione magnetica in grado di disattivare
temporaneamente e senza danno alcune aree cerebrali hanno improvvisamente
cominciato a disegnare cose bellissime e con facilità.
Ciò conferma l’esistenza di aree specializzate che possono venire privilegiate quando
c’è un danno ad altre aree. Queste ultime, nel soggetto normale, funzionano

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monopolizzando l’attenzione, sono cioè un filtro dove uno stimolo come il contorno
ci attrae per primo.
Ma definire un contorno mediante una linea vuol dire anche segnare un contrasto di
luminosità e il motivo per cui tale linea ci attrae è proprio a causa di questa differenza
di luminosità.
Quando un’unità recettrice è eccitata, le unità vicine vengono inibite così, in
prossimità del limite tra i campi luminosi e quelli bui, cioè della linea che traccia il
contorno, alcuni recettori saranno inibiti dai loro vicini (fenomeno chiamato
inibizione laterale). A causa di questi effetti differenziali in prossimità del limite, la
risposta della rete neurale darà un valore massimo e uno minimo molto netto nelle
immediate adiacenze di tale limite e risalterà la linea di contorno. Cioè questa sarà
generata, a livello percettivo, dalla differenza in termini di intensità e qualità, tra due
stimoli di due punti limitrofi del campo percettivo stesso (in prossimità della linea
che traccia il contorno) cui corrisponde una differenza di attività, (in termini di
frequenza e tipo di impulsi) dei neuroni interessati.
In pratica, maggiore sarà la differenza tra i due stimoli, maggiore sarà la differenza di
attività in settori limitrofi del campo percettivo, quindi tanto più netto sarà il
contrasto e di conseguenza il contorno.
I contorni vengono così esaltati mentre le aree uniformi restano zone quasi prive di
interesse.
Quando vi sono zone di penombra, dove non esiste visivamente un limite netto, lo
stesso meccanismo neurale genera un altro fenomeno percettivo di cui parleremo in
seguito: le bande di Mach.
La possibilità di trasmettere l’immagine figurativa con i contorni, ciò che possiamo
chiamare il linguaggio del segno, è stata espressa in modi diversi durante tutta la
storia dell’arte. Vi sona stati periodi in cui i contorni delle figure hanno avuto un
ruolo dominante, altri, invece, in cui sono prevalse rappresentazioni senza una netta
demarcazione tra aree di diverso chiarore o differente colore. In genere i primi si
proponevano soprattutto di esprimere avvenimenti o di evocare un contenuto
spirituale: per es. nei mosaici ravennati del V – VI secolo e nei crocifissi di scuola
toscana del XIII secolo. Nei dipinti di pochi decenni più tardi, invece, ad esempio
nelle immagini sacre di Duccio di Buoninsegna o di Cimabue, e più ancora in quelle
di Giotto, il segno non è più dominante ed è presente soltanto in parti molto limitate
del quadro. Successivamente, nella pittura del Rinascimento i segni di contorno sono
praticamente assenti, mentre la rappresentazione del confine tra aree di luminosità o
di colori diversi diventa più realistica e molto vicina a ciò che viene percepito nella
visione reale. Questo si accentua ancora di più nella pittura impressionista, dove
vengono del tutto a mancare le linee nette di contorno che tornano invece a dominare
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nelle scuole successive di pittura, più intellettualistiche come, per es. l’astrattismo e il
cubismo, le quali si propongono di rappresentare prevalentemente simboli e concetti.
Quindi, pur senza conoscere scientificamente i fenomeni percettivi, durante i secoli si
sono alternati momenti in cui il contorno era privilegiato come linea e momenti in
cui, abolendo i contorni, gli artisti hanno privilegiato l’essenza del colore o della
forma ricavate esclusivamente da effetti cromatici e di luce accostati.

I contorni o margini possono essere: Reali - immaginari – virtuali a cui possiamo


aggiungere un altro tipo particolare di contorni che sono i margini quasi percettivi o
contorni fantasma.
Per margini reali si intendono quei contorni che oggettivamente separano una figura
dallo sfondo e hanno un corrispettivo fisico preciso.

contorno reale
Se ad un rettangolo se ne sovrappone un altro che, però, lo ricopre solo parzialmente,
mentalmente se ne percepiscono i margini coperti, ma ad essi non corrisponde
nessuna stimolazione, si tratterà dunque di contorni immaginari.

Contorno immaginario

Questo particolare fenomeno percettivo viene definito completamento amodale,


detto così perché:
Completamento = due forme che si completano dietro un occludente
Amodale = perché la parte nascosta è presente solo nella nostra esperienza.
Nel costituirsi di questa percezione giocano vari fattori:
L’associazione di una giunzione a T che produce l’effetto del“continuare sotto”.

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L’allineamento delle due sezioni rafforza la possibilità di vederle come parte della
stessa figura (secondo il principio della continuità).
Il fenomeno del completamento amodale ovviamente può verificarsi anche con figure
più complesse. Kanizsa sostiene che tale fenomeno possa essere spiegato sia con
schemi gestaltici che costruttivisti, rappresentando quindi l’esempio di come due
teorie possano essere valide per spiegare uno stesso problema.
Ci sono casi in cui il completamento delle figure sembra avvenire soprattutto in base
alla nostra conoscenza precedente, quindi seguendo un modello cognitivistico per le
relazioni tra visione e pensiero; mentre in altri casi il completamento sembra avvenire
piuttosto secondo schemi gestaltici, talvolta creando quasi un paradosso rispetto alle
nostre conoscenze e anche se la figura non ci è familiare.
Un esempio del primo caso è il quadro del Canaletto dove appare solo il pettine della
gondola o il quadro di Mantegna, “Giuditta e Oloferne” dove appare solo il piede
nudo del generale assassinato che sporge dalla tenda. Un esempio del secondo caso è
il cavallo paradossalmente allungato.

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La spiegazione di questi fenomeni dal punto di vista neurale si rifà a quanto già detto
per le leggi della vicinanza e della somiglianza, applicabile anche alla continuità di
direzione. Infatti abbiamo qui lo stesso percorso neurale del raggruppamento
percettivo e anche qui ricostruiamo l’oggetto ricavandone la stessa risposta neurale di
soddisfazione.
Se si disegna una sequenza di punti o di linee che seguono una certa direzione, li
vedremo come unità collegate, ma in realtà la linea continua che idealmente li unisce
non corrisponde ad alcuno stimolo obiettivo; questa linea rappresenta un contorno
virtuale. In questo caso l’organizzazione della figura segue anche le leggi della
somiglianza, della vicinanza e della continuità.

Contorno virtuale

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Infine vi sono margini che presentano un’evidenza fenomenica ancora maggiore; si
tratta dei margini quasi percettivi o contorni fantasma.
Un esempio di tale fenomeno è rappresentato dal triangolo di Kanizsa: In questa
immagine si percepisce un triangolo col vertice verso l’alto, nettamente più chiaro del
resto della figura a cui sembra sovrapposto. In realtà tale triangolo non esiste come
non esistono i contorni che noi percepiamo e che rappresentano anche un fattore di
contrasto in quanto il triangolo stesso viene percepito di una tonalità più chiara
rispetto allo sfondo.
Questo ci porta anche alla legge della pregnanza o buona forma dei gestaltici perché
il cervello deve trovare una logica, una forma semplice e comprensibile “buona”
altrimenti ne rimane spiazzato.
Secondo Kanizsa va considerata anche la legge della chiusura perché il fenomeno si
verifichi infatti i cerchi neri ed il triangolo con il vertice in basso tendono ad essere
completati, e la figura più “buona” è costituita dalla presenza di un triangolo che li
ricopre parzialmente.

l conto inoltre non è da considerarsi solo una delimitazione della figura ma


costituisce una componente importante nella percezione spaziale.
Già per il semplice fatto che il contorno definisce la figura viene automaticamente a
condizionare la posizione nello spazio: il figurale appare sempre più vicino allo
spettatore rispetto allo sfondo; definire un contorno vuol dire quindi venire anche a
determinare una situazione spaziale. Se infatti il contorno manca non siamo spesso
capaci di localizzare spazialmente l’oggetto.
Nell’esempio sotto riportato i contorni del rettangolo e della cornice:
A – vengono lasciati incompleti: la figura appare piatta.
B – C – D – E vengono tracciati per intero o in parte: si verrà a determinare in tutte
le figure una situazione spaziale differente.
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Talvolta, però, in alcuni tipi di rappresentazioni grafiche, la mancanza del contorno
induce una mancanza di percezione della figura (Kanizsa); per esempio, nel quadro
“Donna con l’ombrello”,la mancanza del contorno non ci consente di capire se
l’ombrello passa davanti o dietro la testa della signora.
Lo stesso fenomeno si verifica nella vignetta di Cheval. (vedi figure)

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Il contorno, oltre che un gradiente di stimolazione e una componente importante nella
percezione spaziale, è anche fondamentale come fattore tonale
(ovvero è determinante per il contrasto tra le superfici che delimita e che separa).
Il contrasto è un cambiamento relativamente improvviso nella luminosità, nel colore
o in qualche altra proprietà tra due regioni omogenee spazialmente contigue.
Più grande è la differenza tra le due regioni, maggiore risulta il contrasto.
In un certo senso il contrasto è indispensabile nell’arte: crea contorni e confini, così
come figura contro sfondo. Se non c’è contrasto non vediamo nulla (la figura non si
distacca perché non c’è), se è scarso il disegno è insipido, se è eccessivo confonde.
Alcuni contrasti sono più piacevoli per gli occhi rispetto ad altri: ad esempio i colori
fortemente contrastanti come blu e giallo attirano di più l’attenzione di quelli meno
contrastati come giallo su arancione.
Il motivo per cui un forte contrasto cromatico attira di più l’attenzione risale alle
nostre origini di primati: diversi frutti sono rossi sul verde delle foglie, per cui si
stagliano bene; le piante mature sono vistose perché mammiferi e uccelli le
individuino da lontano, se ne cibino e, con le feci, disperdano i semi.
La legge del contrasto, che consiste nell’avvicinamento di colori e/o luminosità
differenti, sembrerebbe contraddire la legge del raggruppamento percettivo, che
consiste nel collegare colori o forme simili o identici.
In realtà le due leggi non si escludono, ma tutte e due aiutano le specie a sopravvivere
in quanto la funzione evolutiva di entrambi i principi è la stessa: delineare i confini
tra gli oggetti e concentrare l’attenzione su di essi.
La principale differenza sta nell’area in cui avviene il confronto e l’integrazione dei
colori. Per il contrasto, il confronto avviene fra regioni cromatiche contigue nello

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spazio visivo; ciò è logico dal punto di vista evolutivo perché di solito i confini tra
oggetti coincidono con luminosità e colori contrastanti.
Il raggruppamento percettivo, invece, effettua confronti su distanze più grandi perché
ha come obiettivo l’individuazione di un oggetto parzialmente nascosto; così si
incollano tra loro le differenti porzioni e viene fuori l’oggetto (macchie gialle tra le
foglie?= un leone nascosto).
Ovviamente in epoca moderna contrasto e raggruppamento si usano in situazioni
diverse non connesse con la sopravvivenza ma, ad esempio nella moda o nell’arte per
creare effetti percettivamente gradevoli o, soprattutto nel caso del contrasto, per
spiazzare il fruitore con effetti inattesi.
Gli effetti percettivi di contrasto dipendono da quanto è netto il contorno tra un’ area
chiara e un’ area scura.
Contorni fortemente sfumati, come le penombre, possono rendere meno vistoso il
contrasto, ma quanto chiaro e quanto scuro vediamo in una regione del campo visivo
non dipende solo dall’intensità dello stimolo fisico, ma anche dal contesto, ossia dalla
presenza nelle aree vicine di zone di maggiore o minore intensità fisica dello stimolo.
Ad esempio, due aree fisicamente uguali possono apparire una più chiara e l’altra più
scura se circondate rispettivamente da uno sfondo più scuro o più chiaro.

Tali fenomeni di contrasto, tanto importanti per la visione, sembrano riflettere le


proprietà basilari del campo visivo.
Nei processi di codificazione dell’immagine retinica in impulsi nervosi vengono
privilegiate ed esaltate le informazioni relative alle differenze tra chiaro e scuro
piuttosto che il valore assoluto dello stimolo.
Ciascuna cellula gangliare codifica in impulsi nervosi solo stimoli che cadono in
un’area chiamata “campo recettivo” (una porzione di superficie retinica). Tale campo
recettivo non è uniforme ma è organizzato funzionalmente in modo che il neurone
risponda in misura ottimale a stimoli luminosi limitati alla porzione più centrale del
campo stesso e circondati da uno sfondo più scuro e viceversa. In questo modo alcune
cellule rispondono preferenzialmente a uno stimolo chiaro su fondo scuro, altre
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invece a uno stimolo scuro su fondo chiaro. Cellule con queste proprietà si trovano
anche in successive stazioni del sistema visivo.
Così stimoli che illuminano uniformemente il campo recettivo risultano meno efficaci
Quasi a compensare la mancanza di nettezza di un contrasto sfumato il nostro occhio
crea un fenomeno soggettivo: le bande o righe di Mach.
Questo è un curioso fenomeno individuato dal fisico e filosofo Ernst Mach
nell’ottocento. Egli notò che dove si verificava la mancanza di nettezza in un
contorno sfumato da una penombra, apparivano delle bande chiare o scure. Queste
non hanno un loro corrispettivo fisico ma sono fenomeni determinati da inibizione
laterale di tipo antagonista tra gli elementi nervosi della retina, ovvero la capacità di
un neurone eccitato di ridurre l’attività dei suoi vicini il che determina una maggiore
percezione sensoriale di detto neurone (il fenomeno è chiamato anche antagonismo
laterale). L’occhio, in assenza di una uniforme distribuzione della luce (penombra)
percepisce una sottile banda luminosa in corrispondenza del margine illuminato e una
sottile banda oscura in corrispondenza del margine buio.
E’ lo stesso meccanismo che abbiamo visto (ma in piena illuminazione) per il
contorno dove, a causa di questi effetti differenziali in prossimità del limite, la
risposta neurale dà un valore massimo e un valore minimo molto netti nelle
immediate adiacenze di questo.
Queste righe chiare o scure che si percepiscono lungo i bordi di una penombra
rendono più evidente la separazione tra regione chiara e scura, creando un contorno la
dove fisicamente il contorno non esiste. Ciò è accompagnato da una esaltazione delle
differenze di luminanza tra le zone vicine.
Si può addirittura creare una differenza illusoria di luminosità tra due aree
fisicamente uguali introducendo a separarle un sottile contorno il cui profilo simuli
quello delle righe di Mach.
Pittori di diverse epoche hanno simulato il fenomeno di Mach creando profili tra
ombra e luce. Esempi sono: la stella cometa nell’adorazione dei magi di Mantegna, i
profili ne “ Un dimanche après midi a l’ile de Grand-Jatte” di Signac o “ Le noeud
noir “ di Seurat.
Questi ultimi due autori, della scuola del tardo ottocento e della corrente
neoimpressionista, furono definiti, insieme ad altri della stessa scuola e corrente,
impressionisti scientifici, in quanto le loro produzione venivano realizzate applicando
le teorie scientifiche allora divulgate e sostenute.

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Osservando questi fenomeni si vide un’altra cosa: in un campo omogeneo, un piccolo
bordo scuro fa apparire una forma più chiara sullo sfondo uguale. Questo espediente
è stato usato nel dipinto giapponese “Luna d’autunno” di Keinen: un piccolissimo
contorno scuro fa si che la luna appaia appena un po’ più luminosa del cielo.
Coprendo tale contorno l’effetto di luminosità scompare e la luna sembra uguale al
cielo.

“Luna d’autunno” di Keine


Nella figura di destra i due quadrati hanno lo stesso grado di luminosità, ma quello a
sinistra appare più chiaro dell’altro sempre per la presenza di un bordo che influenza
l’intera figura.
Questo fenomeno appena descritto è l’llusione di Cornswet o effetto di Craik – O’
Brien, simile alle bande di Mach ma in questo non esiste differenza di luminosità fra
due aree adiacenti, solo un’area centrale più scura e molto piccola che le separa
creando un notevole effetto di diversità.

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La differenza tra i due fenomeni, bande di Mach e illusione di Cornswet, è che nel
primo l’effetto si vede nelle aree vicine al gradiente di intensità ( zona di passaggio
tra il chiaro e lo scuro o viceversa ) , nel secondo un’area molto piccola ( bordo
centrale ) influisce sulla percezione di intere aree di grandi dimensioni, parte delle
quali sono lontane dal bordo.
Per il sistema percettivo un’informazione non risiede negli elementi di una scena, ma
nelle relazioni che si istituiscono tra gli elementi stessi e le loro caratteristiche.
Il rendimento percettivo è il frutto dell’elaborazione delle informazioni raccolte. Esso
costituisce il mondo reale in cui si svolge la nostra vita (Masin 1989).
Non vi è corrispondenza tra mondo percettivo e mondo fisico, ma non si può avere il
primo senza il secondo.
Questa non completa corrispondenza è dimostrata da alcune particolari situazioni:
1) Assenza fenomenica in presenza di oggetti fisici
Può essere presente a livello fisico uno stimolo che non compare a livello percettivo
come succede nelle figure nascoste o mascherate. Perché ci sia mascheramento
alcune caratteristiche salienti della figura devono entrare a far parte di un’altra figura
diversamente organizzata (alcune figure ambigue, Gala che guarda il mar
mediterraneo).
2) Presenza fenomenica in assenza di oggetti fisici
Percepiamo stimoli che non esistono nella realtà fisica, come nel caso di figure
anomale (triangolo di Kanizsa in cui il triangolo che percepiamo non ha un
corrispondente stimolo fisico), contorni immaginari e fenomeni di completamento.
3) Discrepanza tra oggetti fenomenici e oggetti fisici
Situazioni in cui si crea una discrepanza tra la configurazione reale degli stimoli e la
loro percezione come nelle illusioni geometriche.
Vi è un altro fenomeno che si verifica quando figure molto complesse, che risultano
misteriose all’osservatore, possono diventare evidenti se guidate o dal nome
dell’oggetto in esse contenuto o dalla visione di un’immagine che fa da guida. Si
tratta comunque di una forma di mascheramento, ma nelle due immagini che seguono
si chiarisce questo concetto.

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La figura A sembra solo una distribuzione irregolare di zone bianche e nere, ma se si
guarda la figura B che contiene anche dei grigi sfumati, si riconosce la foto di un
animale. Riguardando la figura A ora sarà possibile riconoscerne il soggetto.
La fotografia dell’animale è stata trasformata in una immagine di solo due toni: è
stata, cioè, binarizzata e chi la guarda non vi scorge né un animale né un oggetto.
Dopo aver visto la foto originale, riguardando quella binarizzata è possibile scorgere
il soggetto. (può essere fatto con animali, volti, oggetti ecc.).
Nel primo esempio (foto A e B) abbiamo avuto la guida di una foto, ma
nell’immagine C, anch’essa binarizzata, non abbiamo un’altra foto guida, ma basta
dire il nome dell’animale “mascherato” (cane dalmata) che lo si riesce a individuare.
Si tratta di un esempio di apprendimento visivo; è il fenomeno chiamato EUREKA,
che significa “ho trovato”.
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Di questo fenomeno di rapido apprendimento percettivo noi non conosciamo
dettagliatamente i meccanismi; sappiamo, però, che esso implica l’attività di aree
della corteccia cerebrale che sono coinvolte nella visione e nel riconoscimento degli
oggetti o in quello dei volti e che l’attività di queste aree specializzate interagisce con
quella di altre aree corticali che si ritiene abbiano un ruolo nel guidare
l’interpretazione dell’immagine visiva.
Precisamente sappiamo che nei primati superiori, compreso l’uomo, esistono almeno
trenta aree visive distinte, specializzate in aspetti diversi della visione come la visione
cromatica, la visione del movimento, la visione delle forme, il riconoscimento dei
volti e così via. Tutte queste aree sono interconnesse e, a loro volta, connesse con
altre aree superiori. Ne deriva un sistema molto complesso di cui ancora non si
conosce tutto. In ogni caso sappiamo, però, che sotto l’incredibile complessità
anatomica esiste uno schema organizzativo semplice: la divisione del flusso delle
informazioni visive lungo vie parallele semi separate.
Le informazioni visive entrano nella corteccia attraverso due vie: la “via arcaica” che,
dopo aver attraversato una serie di strutture arriva ai lobi parietali. Questa via è
preposta agli aspetti spaziali della visione (dov’è un oggetto ma non che cos’è), ci
consente di orientarci verso gli oggetti e di seguirli con gli occhi e la testa.
La “via recente”, particolarmente sviluppata nell’uomo, permette di analizzare e
riconoscere in maniera sofisticata scene e oggetti visivi complessi: tale via proietta
dalla retina a V1, la prima e la più grande mappa visiva corticale; da lì si divide in
due sottovie: la via 1 o flusso del “come” e la via 2 o flusso del “cosa”.
La via del “come”,che in certa misura si sovrappone alla via arcaica, presiede alla
percezione del rapporto tra oggetti nello spazio, cioè alla percezione della struttura
spaziale complessiva della scena visiva e ha connessioni col sistema motorio (ad
esempio per evitare di urtare gli oggetti camminando).
La via del “cosa”con le sue successive connessioni fino ai lobi temporali, presiede,
invece, al riconoscimento degli oggetti (anche dei volti)e al loro significato per noi,
cioè una loro precisa classificazione (cane, gatto, sedia, Maria) e anche un’
associazione con i ricordi che ne danno un quadro più completo. La sua connessione
con l’amigdala evoca sentimenti ed emozioni in merito a ciò che (o a chi ) vediamo.
Da qui il fenomeno dell’EUREKA che ci porta alla individuazione di un oggetto
ambiguo, nascosto, mascherato (anche binarizzato) e alla conseguente reazione
emozionale di soddisfazione.
In termini più semplici per natura noi amiamo risolvere enigmi e la percezione spesso
somiglia più di quanto si pensi a soluzioni di enigmi (cane dalmata, pappagallo:
soluzione = soddisfazione).

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Trovare una soluzione è un piacere intellettuale o visivo.
I centri visivi cerebrali sono connessi con meccanismi di ricompensa limbici
(emozionali), altrimenti rinunceremmo facilmente.
Quindi questo meccanismo visivo funziona così: di fronte anche a una semplice scena
il cervello risolve continuamente ambiguità, verifica ipotesi, completa le informazioni
attuali con i ricordi e le aspettative. Tutto ciò non a stadi successivi che procedono in
un solo ordine ma con molte proiezioni di feedback che ogni area superiore rinvia a
quelle inferiori. In ciascuno stadio dell’elaborazione si genera una congettura (più
probabile) sui dati in arrivo, questa viene poi rinviata alle aree inferiori per creare una
tendenza all’elaborazione successiva. Anche se molte congetture competono per il
predominio, alla fina attraverso questa analisi successiva emerge la soluzione
percettiva finale.
Ogni volta che nel nostro cervello si genera una soluzione visiva parziale, si genera
un piccolo “Eureka”. Questo segnale è inviato a strutture limbiche di gratificazione
che a loro volta avviano la ricerca di ulteriori più grandi “Eureka” finchè l’oggetto o
la scena finale non si evidenzieranno.
Il meccanismo finale che genera questo “Eureka” è lo stesso del raggruppamento
percettivo: cioè gli impulsi derivanti dalle soluzioni dei piccoli enigmi parziali sono
come gli impulsi dei singoli frammenti di un oggetto, per cui una sincronizzazione di
impulsi nervosi provenienti da neuroni molto distanti tra loro che segnalano le
caratteristiche raggruppate, attiva successivamente i neuroni limbici.
L’accostare zone chiare e zone scure per far risaltare le figure dallo sfondo mediante
un effetto di contrasto è un espediente usato praticamente da tutti i pittori.
Anche Leonardo, nel suo Trattato della pittura,scrive di come si possano sfruttare gli
effetti di contrasto accostando nel quadro zone chiare e zone scure: “Ora attendi, che
se tu vuoi fare un’eccellente oscurità, dàlle per paragone un’eccellente bianchezza, e
così l’eccellente bianchezza farai con la massima oscurità”.In questo modo si
possono esaltare alcune parti del quadro rispetto ad altre, creando zone di luminosità
illusoria, come se una sorgente di luce ( il sole, una lampada, una finestra ecc. )
illuminasse, quindi facesse risaltare un personaggio o alcune parti del corpo di questo
rispetto al resto del quadro.
Mentre l’accostamento di aree chiare e scure serve soprattutto ad esaltare le
differenze di luminosità, le ombreggiature, con il passaggio sfumato di luminosità,
possono creare il miracolo di far nascere una forma solida.
Anche questo trucco di creare le forme con le ombre è ben noto al pittore. Ad
esempio, un disco con una variazione graduale di luminosità dall’alto verso il basso
ci appare come una semisfera convessa se la parte più alta è quella più luminosa; se
viceversa la parte più luminosa è in basso, ci appare come una semisfera concava.
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Questa illusione è molto stabile, mentre quella generata da ombreggiature che variano
da destra a sinistra o viceversa, anziché dall’alto al basso, lo è assai meno.
Infatti, nella terza figura le sfere sono sfumate in verticale il che crea ambiguità, per
questo motivo possono essere viste ora concave ora convesse sia quelle con la luce da
destra che da sinistra forse perché siamo abituati all’unica sorgente di luce: il sole
che viene dall’alto.
Ogni cerchio contiene un gradiente di colore che va dal bianco a una estremità, al
nero all’estremità opposta e lo sfondo è l’esatto grigio medio tra bianco e nero.
Stabilito che siamo abituati a un’unica sorgente di luce, il sole, se capovolgiamo
l’immagine (a) vediamo che tutte le palle e le cavità si scambiano di posto; ma se le
ruotiamo di soli 90° vediamo che i cerchi ombreggiati divengono ambigui come in
(b) dove la luce può venire da destra o da sinistra.
Se fissando la figura (b), invece di ruotare la pagina incliniamo il capo e il corpo
verso destra in modo che la testa sia parallela al pavimento (orecchio sulla spalla),
l’ambiguità scompare: la fila sopra sarà sempre convessa e quella sotto sempre
concava perché la luce viene dall’alto rispetto alla testa e alla retina, come se il
cervello assumesse che il sole è incollato alla nostra testa e vi rimane incollato anche
quando la ruotiamo di 90°. Ciò perché statisticamente la nostra testa è eretta per la
maggior parte del tempo e il nostro apparato visivo prende la scorciatoia
semplificando che il sole è incollato alla nostra testa.
Lo scopo della visione non è quello di percepire le cose in maniera perfetta sempre,
ma almeno abbastanza spesso e bene e in fretta per sopravvivere e riprodurci.
Ciò è in accordo sempre con l’evoluzione.
Tale scorciatoia, a volte, ci fa dare giudizi sbagliati come quello che diamo quando
incliniamo la testa a 90°, ma poiché ciò è raro nella vita reale, il cervello può
cavarsela con la sua semplificazione.

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Anche il passaggio netto da zone chiare a zone scure in una stessa figura può creare
l’apparenza di una forma solida se le zone scure vengono interpretate come ombre.
Infatti nelle fotografie e nei disegni può esservi ambiguità nell’interpretazione di zone
scure: può trattarsi di ombre o di parti realmente scure degli oggetti rappresentati ed è
il sistema visivo a dover fare una scelta in base alla sua esperienza. Vedi le figure
dove più facilmente le aree nere vengono viste come ombre.

A proposito degli effetti di contrasto, abbiamo parlato precedentemente delle unità


neurali e dei loro campi che già a livello della retina analizzano l’immagine come se
fosse divisa in tante tessere di mosaico.
Va precisato che in ogni zona della retina sono sovrapposti campi recettivi che hanno
dimensioni diverse: i campi recettivi più piccoli sono deputati a “vedere” oggetti più
piccoli; i campi recettivi più grandi, oggetti più grandi.

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Nel caso generale di una immagine qualunque si può pensare che vengano attivate
contemporaneamente classi di campi recettivi più grandi e classi più fini, responsabili
di analizzare contemporaneamente le componenti della figura di grana più grossa e
più fine.
Questo processo può essere simulato filtrando artificialmente un’immagine, così da
isolare le varie componenti di grana grossa e via via più fine. Es. la foto dei due attori
Hunphrey Bogart e Laureen Bacall.
La foto a è l’originale, nella b sono visibili solo le grandi zone di luce e di ombra, in
c queste si perdono, ma affiorano le aree chiare e scure di grandezza intermedia
corrispondenti ai principali lineamenti dei due visi; infine in d vengono isolati i
contorni delle figure.

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Ma in alcuni casi l’opera d’arte può essere molto vicina al risultato dell’operazione di
filtraggio, come ad esempio la rappresentazione di Monet della cattedrale di Ruen.
Nell’esempio a è la foto originale della cattedrale; b la stessa foto sottoposta a
filtraggio che elimina le componenti di grana fine; c la cattedrale dipinta da Monet.

La fantasia di un artista può inventare giochi mettendo in atto processi cerebrali di


filtraggio più complessi, come quelli che mascherano con una struttura a blocchi una
immagine fotografica. Un esempio del tutto singolare è quello ideato da Salvador
Dalì: “Gala che guarda il Mar Mediterraneo”.

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Al primo sguardo appare la figura di una giovane donna alla finestra, se però ci si
allontana abbastanza per filtrare i dettagli più fini, l’immagine si trasforma nel ritratto
di Abramo Lincoln.
Questa figura è stata costruita dal pittore veicolando informazioni del tutto diverse
nella gamma dei dettagli fini ( giovane donna ) e in quella della grana più grossa
(Lincoln), cosicchè, quando sono presenti contemporaneamente, le prime
impediscono di vedere le seconde. Si pensa che questo sia dovuto a un processo
nervoso di “Mascheramento”.
E’ questo un fenomeno che si verifica quando uno stimolo è presente a livello fisico
ma non compare a livello percettivo.
Perché ci sia mascheramento alcune caratteristiche salienti della figura devono
entrare a far parte di un’altra figura diversamente organizzata: Gala o Lincoln?
A proposito di distanza di osservazione di un quadro, ogni dipinto è stato creato per
una distanza ottimale di osservazione che è suggerita sia dalla grandezza del quadro
sia dalla grana pittorica.
Nel mosaico la grana è impostata dalla dimensione delle tessere che, di norma,
vengono adeguate alla presunta distanza di osservazione, in modo che da questa
distanza i limiti tra le tessere risultano pressoché impercettibili.
In molti quadri la grana è così fine che non costituisce un elemento di disturbo e una
visione ravvicinata può essere vantaggiosa per cogliere importanti particolari.
Se questo è vero per la maggioranza dei dipinti, in alcuni casi una variazione della
distanza di osservazione crea fenomeni inaspettati, forse nemmeno previsti
dall’artista.
Questo è un caso frequente nella pittura impressionista dove gli effetti ricercati dal
pittore si attenuano a distanze relativamente grandi di osservazione, suscitando
nell’osservatore l’impressione di un’immagine sempre più realistica.
Ad esempio Monet “le signore tra i fiori” o “ gli edifici londinesi”e “le cattedrali di
Ruen”che, visti da una decina di metri, perdono lo sfarfallio di luce, ombre e colori
tipico dell’impressionismo, per stagliarsi più solidi e compatti sullo sfondo del
quadro.
Questo fenomeno percettivo è probabilmente dovuto a un processo di compensazione
nell’elaborazione cerebrale dell’immagine visiva, mediante il quale i contorni, che al
crescere della distanza di osservazione tenderebbero a diventare più sfumati e meno
precisi, vengono modificati così da continuare ad apparire netti e contrastati.

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