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Collana diretta da
Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone
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a cura di Lucia Corrain
MELTEMI
Indice
p. 7 Introduzione
Lucia Corrain
Parte prima
La dimensione plastica
63 Il dubbio di Cézanne
Maurice Merleau-Ponty
75 La sfinge incompresa
Paolo Fabbri
225 La squadratura
Italo Calvino
253 Bibliografia
Introduzione
Lucia Corrain
Sono sicuro che è vero quel che mi dite, che avete colto con mag-
gior piacere il fiore delle belle opere che altre volte non avete vi-
sto che en passant, senza leggerle bene. Le cose in cui si trova una
certa perfezione non si possono vedere di fretta, ma con tempo,
giudizio e intelligenza.
Poussin, Lettera a Chantelou, 20 marzo 1642
Nel saggio sulla Doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia pla-
nare. A proposito di Loth e le figlie, Felix Thürlemann procede a una riformula-
zione del concetto semiotico di “spazializzazione” – strettamente legato, nel
modello del percorso generativo, alla figuratività e alla produzione dell’illusione
referenziale – individuando nella pittura figurativa, accanto allo spazio simulato,
la presenza di un altro tipo di spazialità, indipendente da ogni imperativo o esi-
genza di impressione referenziale, e quindi dalla categoria figurativo vs astratto.
Definita con l’espressione topologia planare, questa seconda dimensione spazia-
le è quella della geometria bidimensionale (del quadro come della fotografia o
qualsiasi altro oggetto planare), spazialità che si manifesta ogni qual volta un te-
sto venga dispiegato su una superficie attraverso una materia sensibile.
INTRODUZIONE 9
sia riconduce all’opposizione tra distici dispari e distici pari, genere femminile e
genere maschile.
Possiamo infine riscontrare una sequenzialità da sinistra a destra che vede
protagonisti dapprima la donna e l’incantatore, poi la luna e i serpenti, in una
disposizione a dittico che ritroviamo espressa, nella poesia, in una corrispon-
dente distribuzione dei soggetti nei distici anteriori e posteriori, ma anche nella
presenza, nella prima quartina, di verbi imperfetti, durativi e articoli per la
maggior parte indeterminativi, che si oppongono ai verbi puntuali e agli articoli
determinativi della seconda.
Concentrandosi nella sua analisi sugli elementi comuni tra la poesia e il di-
pinto, come se fossero l’uno la “traduzione” dell’altro, Jakobson mostra in ma-
niera estremamente efficace le profonde corrispondenze tra le funzioni della
grammatica in poesia e quelle della composizione geometrica nella pittura, cor-
rispondenze dovute in primo luogo alle procedure di spazializzazione sostan-
zialmente analoghe operate dai due linguaggi, e ci fa così “toccare con mano”
quella che a buon diritto potremmo chiamare la geometria della poesia e la
grammatica della pittura.
In Il dubbio di Cézanne, Maurice Merleau-Ponty considera, della pittura del
maestro di Aix, ciò che lo ha sempre prioritariamente interessato, ossia la di-
mensione del corpo proprio e della percezione, intesa come ambito di un acces-
so originario al senso che vanifica e nega le opposizioni tradizionali tra anima e
corpo, soggetto e oggetto, io e mondo, agente e paziente. L’opera di Cézanne,
che “va dritta alle cose” ci rivelerebbe, infatti, secondo Merleau-Ponty, proprio
quel commercio originario che si istituisce tra noi e il mondo, quella “comunio-
ne” fra senziente e sensibile che è “ricreazione e ricostruzione del mondo in o-
gni momento” (Merleau-Ponty 1945, p. 301):
Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e
ordine. Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la lo-
ro labile maniera di apparire, vuole dipingere una materia che si sta dando una forma,
l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. (...) Non introduce una
frattura tra i “sensi” e l’“intelligenza”, ma tra l’ordine spontaneo delle cose percepi-
te e l’ordine umano delle idee e delle scienze [corsivo nostro].
È noto che Cézanne affermava che si doveva dipingere un volto come fosse
un oggetto, cioè nella sua solidità e materialità, in quanto insieme colorato. Ciò
non significa, sottolinea Merleau-Ponty, privarlo del suo “pensiero”. Così come
il pittore non cerca di suggerire con il colore sensazioni tattili, semplicemente
perché nella percezione primordiale tali distinzioni fra tatto e vista ci sono igno-
te, allo stesso modo, “non serve a nulla contrapporre qui le distinzioni fra ani-
ma e corpo, o fra pensiero e visione, poiché Cézanne ritorna appunto all’espe-
rienza primordiale donde tali nozioni sono tratte e ce le presenta inseparabili”.
Se svelare i principi della percezione, analizzare la logica del visibile, è l’impe-
rativo costante di Cézanne, le dense pagine di Merleau-Ponty ci fanno anche
comprendere, peraltro, come questo pensiero pittorico, mai separato dalla visio-
ne, non possa essere la traduzione di un pensiero già chiaro e già dato, che la
“concezione” non può precedere l’“esecuzione”, che non c’è un senso già for-
mulato che preceda l’opera: “Prima dell’espressione, non c’è nient’altro che una
febbre vaga e solo l’opera fatta e compresa proverà che si doveva trovare qualco-
sa piuttosto che niente”. Parole illuminanti non solo per comprendere l’opera di
Cézanne, ma la natura stessa del linguaggio pittorico e la sua autonomia.
L’analisi di Merleau-Ponty, che affronta l’insieme dell’opera del pittore piut-
tosto che un singolo testo, incentrandosi sul significato del “modo di vedere”,
dell’“ottica coerente” di Cézanne, illumina indirettamente una problematica,
che a parte alcuni spunti offerti da Floch (1986, 1995) non è stata ancora suffi-
cientemente esplorata dalla semiotica plastica: quella della dimensione signifi-
cante dello stile.
Nell’opera di Klee, e in particolare nell’acquerello preso in esame nel saggio
La sfinge incompresa di Paolo Fabbri, la dimensione cromatica riveste un ruolo
decisivo sia sul piano del significante sia su quello passionale.
Dal punto di vista dell’organizzazione topologica di Sphinxartig, l’analisi
mette in rilievo un’opposizione tra la parte destra e la parte sinistra, e tra la par-
te inferiore e quella superiore, che disegna un percorso dello sguardo sul piano
orizzontale da destra a sinistra, e quindi sul piano verticale dal basso verso l’al-
to, scandito sia a livello cromatico che eidetico.
Nell’acquerello ritroviamo, infatti, una netta opposizione, a livello dell’arti-
colazione chiaro/scuro, tra il nero della macchia in basso, e il grigio di quella in
alto. Lo sguardo dell’osservatore è dunque orientato in verticale, dal nero in
basso al grigio in alto, agevolato in ciò dalla mediazione delle cuspidi dei trian-
goli e dalla direzione delle linee. La forma a otto, al centro, conduce inoltre a
un percorso direzionato in orizzontale secondo la categoria sinistra vs destra,
dalla macchia chiara (gialla) a sinistra verso quella scura (nera) a destra. Fabbri
mostra come le opposizioni e gli spostamenti tonali possano corrispondere a
determinate categorie e percorsi sul piano cognitivo. Il movimento dallo scuro
al grigio corrisponde sul piano semantico allo spostamento dalla certezza all’in-
certezza. Il percorso va quindi, sul piano orizzontale, da sinistra verso destra,
dalla determinazione all’indeterminazione; su quello verticale dal basso verso
l’alto, dalla sicurezza all’improbabilità. Dal punto di vista eidetico questo movi-
mento è confermato dal ritmo più serrato degli elementi sulla sinistra vs la rare-
fazione di quelli sulla destra, dalla minore ampiezza della parte sinistra della fi-
gura vs la maggiore apertura e spaziosità di quella destra, nonché dalla disposi-
zione plastica prevalentemente orizzontale sulla sinistra e verticale sulla destra e
14 LUCIA CORRAIN
infine dalla collocazione della figura nella parte inferiore dell’acquerello, che la-
scia pressoché vuota la parte superiore.
Analizzando il piano iconico, Fabbri sottolinea la polisemia della figura, che
potrebbe ricordare un violino visto di profilo, o un veicolo sbilenco, un carro con
ruote irregolari: “la lingua non sembra all’altezza della ricchezza dello sguardo”.
Nell’identificazione di questa sagoma un ruolo importante viene offerto per-
ciò inevitabilmente dal titolo, Sphinxartig. È proprio la denominazione, l’“indi-
cazione antropomorfa”, che consente di riconoscere il ritratto di una figura
composita che prende forma dinanzi ai nostri occhi: l’immagine della Sfinge.
La Sfinge è caratterizzata da una precisa posizione: analogamente alla Me-
dusa ci offre la frontalità del suo volto: guarda colui che la guarda, configuran-
dosi come istanza interlocutrice. I suoi occhi catturano il nostro sguardo, ma
non si limitano a questo, “lo conducono verso la ‘macchia’ scura da cui, con un
movimento verticale, dovremmo orientarci verso l’alto, verso la ‘macchia’ grigia
e arrotondata”.
Il titolo induce a riconoscere nella striscia centrale con le due volute una
versione ludica del cappuccio reale della Sfinge egizia, ma ancora non spiega i
due triangoli posti sul capo della sagoma, tra i quali non a caso cade anche il
centro geometrico della composizione. L’autore ipotizza che i tre formanti figu-
rativi – i due triangoli, il “‘ciuffo’ nel mezzo e la “macchia” grigia arrotondata
nella parte alta – possano essere identificati con i seguenti pittogrammi: palma,
piramidi e luna. Essi comporrebbero, insieme alle tonalità calde e dorate dei co-
lori da paesaggio orientale, la cornice verosimile di una sfinge egizia.
Questa interpretazione troverebbe, come mostra Fabbri, un’esatta corri-
spondenza con una fonte letteraria, il Faust di Goethe (in cui si ritrovano tutti
gli elementi: sfinge, piramidi, sfera). Ma non solo: Fabbri riscontra anche una
sorprendente analogia figurativa e semantica tra questi formanti e una poesia
dello stesso Klee analizzata da Jakobson, il cui disegno spaziale è perfettamente
omologo con i due formanti triangolari dell’acquerello.
Si profila così un nuovo livello figurativo coerente: il piano tematico che sot-
tintende la poesia è, infatti, quello della conoscenza (la consapevolezza da parte
dell’uomo della propria inconsapevolezza), che si collega alla Sfinge in due sen-
si: sia alla sfinge egiziana, in quanto figura orientata verso la conoscenza, sia a
quella tebana, cioè a Edipo, figura tragica per antonomasia dell’inconsapevolez-
za della propria consapevolezza.
Ma lo sguardo della Sfinge non è “un’apostrofe minacciosa e paralizzante
come quella della Medusa”: Sphinartig è un invito alla speculazione, ma una
speculazione rischiarata dalla leggerezza e dall’ironia.
La necessità di una lettura plastica è ancora più evidente nel caso di dipinti
dal carattere deliberatamente non-figurativo, nei quali la dimensione significan-
te si situa completamente al di fuori della questione dell’iconicità. È il caso, ad
esempio, di Le rouge et le noir, un acquerello dell’ultimo periodo di Paul Klee,
analizzato da Felix Thürlemann.
Realizzato con una sorprendente economia di mezzi pittorici – un punto
rosso e un punto nero che si stagliano su uno sfondo biancastro, dal cromati-
smo irregolare –, Le rouge et le noir sviluppa in realtà, come ci dimostra l’anali-
si di Thürlemann, un discorso assai articolato che verte su uno dei principali
mezzi espressivi della pittura: il colore.
INTRODUZIONE 15
Kandinsky, nei suoi scritti teorici, ha spesso tentato di descrivere la dimensione si-
gnificante inerente agli elementi primi della pittura. Ma nel suo tentativo di giustifi-
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cazione ricorreva al linguaggio naturale, e non al linguaggio visivo, del quale preten-
deva di dimostrare l’autonomia. Nella sua risposta a Kandinsky, Klee ha scelto un’al-
tra via, la sola veramente adeguata: ha chiesto alla pittura stessa di dimostrare la sua
indipendenza semiotica.
con determina, quindi, grazie alla sua dimensione cromatica, un nuovo rappor-
to con l’osservatore, per cui quest’ultimo viene convocato non solo attraverso
un vedere, ma anche attraverso l’evocazione di un’esperienza tattile: si tratta di
un occhio che procede in modo simile al tatto.
Boris Uspenskij nel saggio “Destra” e “sinistra” nella raffigurazione delle ico-
ne offre un importante contributo alla problematica dei punti di vista. Nel
prendere in esame un tipo particolare di rappresentazione figurativa, l’icona
russa, individua una posizione visuale interna, ossia il punto di vista di un osser-
vatore pensato come interno allo spazio rappresentato – in alcuni casi coinci-
dente con la posizione della figura centrale della rappresentazione –, che si con-
trappone al punto di vista di un osservatore esterno.
Questo punto di vista interno determina un’inversione della categoria destra
vs sinistra, per cui i valori o i soggetti positivi o gerarchicamente superiori si
trovano rappresentati nella parte sinistra del dipinto, e quelli negativi o gerar-
chicamente inferiori a destra. Inversione che comporta un rovesciamento del
mondo rappresentato rispetto a quello prevalente nel mondo occidentale.
La categoria destra vs sinistra, inoltre, in questo particolare micro-universo
culturale, si rivela importante nel veicolare effetti temporali (presente/futuro),
ma anche effetti spaziali (davanti/dietro), in quanto anche l’anteriorità e la po-
steriorità sono in questo caso concepiti in relazione al punto di vista interno.
L’orientamento secondo una posizione visuale interna non è una peculiarità
dell’arte dell’icona russa e bizantina, ma in certo senso di tutta l’arte pre-rina-
scimentale e non solo, come attesta l’interessante studio, sempre di Uspenskij
(2001), dedicato alla pala di Gand di van Eyck, dove l’opposizione tra la posi-
zione visuale interna e la posizione visuale esterna – che rinvia a due differenti
sistemi rappresentativi, quello rinascimentale (fondato sulla finestra aperta) e
quello pre-rinascimentale – serve a veicolare l’opposizione, sul piano del conte-
nuto, tra sfera divina e sfera terrena.
Il mondo oggetto di Roland Barthes, del 1953, è uno scritto dedicato alla pit-
tura olandese del secolo d’oro. Dopo aver passato in rassegna i vari generi ed e-
numerato pressoché tutti gli oggetti che costellano le tele dei grandi maestri o-
landesi – dove l’oggetto sembra presentare allo spettatore “la sua funzione d’u-
so, non la sua forma primaria”, non un suo stato generico, ma solo i suoi “stati
qualificati” – l’attenzione di Barthes si concentra sulla rappresentazione delle fi-
gure umane, in particolare sull’homo patricius. E precisamente sul genere, tanto
in voga tra Cinquecento e Seicento, dei Doelen o Corporazioni, “talmente nu-
merosi da far subodorare il mito”. Ritratti di gruppo (di personaggi apparte-
nenti all’una o all’altra corporazione) con una caratteristica assoluta e sempre u-
guale, che parallelamente costituisce la differenza sostanziale dalla restante ri-
trattistica europea: lo sguardo. Se nel ritratto del Dio, dell’Imperatore o del Re
il numen era costituito dal gesto, che ne manifestava l’imperio sul destino uma-
no, “in questi quadri il numen è proprio lo sguardo, uno sguardo che turba, in-
timidisce e fa dell’uomo il termine ultimo di un problema”. E lo sguardo, ovvia-
mente, rimanda all’enunciazione, ne è anzi uno dei principali indicatori visivi.
Un gruppo di personaggi che comunicano fra loro con gesti e atti, ma guardano
sempre in faccia lo spettatore fa sì infatti che l’osservatore sia quanto mai attua-
lizzato, presentificato, sia la figura con la quale si instaura un dialogo scopico,
una relazione di intersoggettività. Se in un ritratto singolo lo sguardo in macchi-
INTRODUZIONE 19
nalisi del brano tratto da Perec, mettendo a confronto testo letterario e testo
pittorico, mostra come la natura morta letteraria segua anch’essa le dinamiche
proprie della natura morta pittorica.
In Evaporazione e/o centralizzazione. Gli (auto)ritratti di Manet e Degas, Vic-
tor I. Stoichita si propone di interrogare le opere dei due maestri dell’impres-
sionismo per ricostruire, a partire dai loro autoritratti e dai ritratti che recipro-
camente fecero uno dell’altro, le loro concezioni assai distanti, quasi incompati-
bili, dell’arte, e in particolare dell’arte “moderna”. Attraverso una ricognizione
delle tracce dell’enunciazione e delle figure dell’enunciazione enunciata presen-
ti nei testi, l’autore ricostruisce quindi, non a partire dai loro scritti teorici, ma
dalle opere stesse, un metadiscorso che i due artisti svolgono esclusivamente at-
traverso i mezzi specifici della pittura, in cui dipinti e disegni diventano le bat-
tute di un incessante e appassionante dialogo.
I luoghi privilegiati in cui il quadro ci parla della teoria immanente alla pro-
pria rappresentazione, e che Stoichita passa in rassegna studiando la produzio-
ne di Manet e Degas, sono innanzitutto l’autoritratto, oggetto paradossale e me-
tapittorico per eccellenza che mette in scena esplicitamente il tema del fare, e la
firma, ma anche lo “sguardo dal quadro”, che svela la presenza invisibile del
pittore/spettatore, o la scelta del punto di vista, così come le diverse procedure
di incorniciamento e di inquadratura e, più in generale, di trattamento dei bor-
di dell’immagine, che qualificano differentemente la “soglia estetica” e dunque
il rapporto tra spazio del quadro e spazio dell’osservatore.
Vediamo quindi opporsi la centralità dell’istanza-autore “Manet” – che si
proietta, tramite l’autoritratto, come presenza endotopica dentro l’immagine –
alla presenza quasi sempre tematizzata come esotopica – ossia “nascosta” e invi-
sibile, anche se suggerita dal punto di vista e dall’inquadratura – dell’istanza-au-
tore “Degas”. Un’opposizione confermata dalle diverse modalità con cui viene
collocata rispettivamente la firma: perlopiù dentro l’immagine, e non su di essa,
in Manet; sul margine inferiore dell’opera, o su soglie immaginarie o inquadra-
ture di porte che raddoppiano i margini del dipinto, in Degas. E che viene riba-
dita, infine, dal diverso rapporto con la rappresentazione creato dagli sguardi
dei personaggi ritratti: in Manet esiste, infatti, quasi sempre un contatto ottico
tra personaggio e pittore/spettatore, mentre gli sguardi tutti interni all’enuncia-
to dei personaggi di Degas fanno del pittore e dello spettatore un voyeur: qual-
cuno vede senza essere visto, osserva senza essere osservato.
Se Stoichita parla di dialogo, tuttavia, è perché i due artisti non si limitano
a contrapporre, ciascuno rispetto all’altro, la propria antitetica visione. L’au-
tore illustra numerosi casi in cui, attraverso la ripresa di temi, inquadrature,
punti di vista tipici dell’altro pittore, ciascuno dei due reinterpreta, e nello
stesso tempo glossa, le scelte pittoriche dell’altro, come quando, ad esempio,
Manet riprende il tema degasiano delle donne intente a far toeletta, e signifi-
cativamente gira però la testa della modella verso lo spettatore e firma nel
cuore stesso della rappresentazione; o quando Degas riprende il motivo dello
“sguardo in macchina” tipico di Manet, nella serie di ritratti della donna con
binocolo, velando e al contempo esasperando questo sguardo dietro le dimen-
sioni esagerate dello strumento.
Il metadiscorso che i due artisti sviluppano, in questo “botta e risposta” pit-
torico, non ha quindi come oggetto solo la propria ma anche l’altrui concezione
INTRODUZIONE 21
tratta di una serie di riflessioni che hanno per oggetto lo spazio del quadro di
Pollock, declinabile in spazio del riguardante, spazio del quadro, spazio della pittu-
ra, tre spazi che i dipinti di Pollock “interrogano, distruggono e costruiscono”.
Lo spazio del riguardante è uno spazio che sta attorno al quadro, che lo “av-
volge a partire da una posizione, occhi, testa, corpo, a volte immobile, a volte in
movimento, con tutte le variazioni possibili e tutte le stasi successive di un per-
corso determinato, uno spazio che si interrompe sui bordi del quadro, sul muro
su cui il quadro è appeso”. Spazio del riguardante, come “dialettica dinamica o
tra posizione e percorso”: il soggetto osservante “è incapace di trovare un luogo
per il proprio sguardo”. Incapacità, dunque di trovare una posizione di osserva-
zione: “l’unica collocazione possibile è l’essere costantemente fuori luogo”.
Nelle opere di Pollock manca uno spazio strutturato prospetticamente: si assi-
ste infatti alla sostituzione della focalizzazione centrale con una moltiplicazione
dei centri, e al venir meno dell’opposizione profondità/superficie grazie a una
“distribuzione relativamente uniforme degli elementi cromatici sull’intero qua-
dro (all-over)”. Lo sguardo dell’osservatore davanti all’opera si trova così priva-
to di un luogo proprio, “senza che l’evidenza di un motivo o la forza di un ef-
fetto gli impongano una collocazione o una direzione nella quale muoversi”, in
una “posizione u-topica”: in uno stato di non-luogo, senza tuttavia essere real-
mente in movimento.
Si viene a determinare un nuovo rapporto tra il testo visivo e il riguardante,
così come si era determinato un nuovo rapporto tra il testo visivo e il pittore (le
grandi tele sono realizzate da Pollock con colate e sgocciolature, appoggiandole
sul pavimento, con l’enunciatore che si muove intorno a esse); questo nuovo
rapporto non consente allo spettatore di adottare la medesima posizione che il
dispositivo rappresentativo gli aveva sempre assegnato, ossia una precisa distan-
za dal quadro, un punto di vista determinato, e nemmeno la doppia lettura da
vicino e da lontano che gli suggeriva, ad esempio, il quadro impressionista: “lo
spettatore è abbandonato all’utopia di un ritmo tra testura e struttura”.
Lo spazio Pollock può essere inteso anche come spazio del quadro. Il quadro
è innanzitutto una tela (ma potrebbe essere anche carta, compensato, legno) che
presenta forme determinate. Tale tela è “il veicolo di ciò che viene mostrato”.
Questo veicolo-supporto, coincide (una coincidenza che come Marin sottolinea,
non sempre si verifica) con il piano del quadro, in quanto entità geometrica, a-
stratta e immateriale. L’autore fa interessanti e pertinenti riflessioni sui rapporti
tra i bordi – “luoghi ambigui dove lo spazio di creazione (del pittore) e di pre-
sentazione (del riguardante) confina con quello, autonomo, della pittura e si arti-
cola con esso” – e i limiti del quadro, che gli consentono di far emergere la no-
vità strutturale introdotta da Pollock rispetto al quadro classico – nel quale i
quattro bordi del quadro sono eterogenei – con il cosiddetto bord à bord.
Lo spazio Pollock è anche lo spazio della pittura, lo spazio cioè che si trova
nel quadro, che colori e linee grazie alle loro configurazioni e intrecci si incari-
cano di far apparire: è lo spazio “tra piano e tela, tra bordi e limiti”, che si col-
loca tra il supporto materiale e l’entità geometrica astratta del piano.
Nel tradizionale sistema rappresentativo la tela viene celata in profondità
e il piano del quadro assunto come superficie trasparente. Scopo, obiettivo
dell’arte contemporanea è quello di riconquistare sia la tela che il piano e di
dare visibilità al loro gioco, al loro rapporto. E ciò si è rivelato in particolare
INTRODUZIONE 23
l’obiettivo di Pollock: far emergere la tela e rendere visibile quel piano, che
fino ad allora era rimasto perlopiù una “finestra diafana aperta su quel mon-
do di apparenze”.
Egli raggiungerà questo obiettivo con i suoi dripping: i reticoli generati dalle co-
late filiformi del colore e gli arabeschi determinati dalle sgocciolature si situano tra
la tela e il piano, in uno spazio ridotto che Marin definisce “bassofondo”. La linea
si trasforma in traccia: prodotta dal colore versato a filo sulla tela, essa non è più il
bordo di un piano, non serve cioè né a circoscrivere un piano, né a circoscrivere
un volume. Questa linea si espande lateralmente, si allarga in escrescenze, è
Gli intrecci delle linee rinviano a una determinata temporalità: possono es-
sere letti, infatti, come “sovrapposizione aperta di momenti di pittura”. Si può
parlare, dunque, di una “moltiplicazione spaziale e locale degli incroci di trac-
ce” che rinvia a una “demoltiplicazione temporale, una specie di sommatoria
indefinita di istanti co-presenti nello stesso luogo e nello stesso spazio.
Un altro artista intento a esplicitare il funzionamento del visivo, mettendo
allo scoperto gli elementi costitutivi del quadro, è Giulio Paolini, il cui lavoro
viene indagato da Italo Calvino nel saggio La squadratura. È emblematica in
questo senso la stessa definizione che Calvino dà delle opere del pittore: “mo-
menti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell’oggetto ma-
teriale che è il quadro”, nei quali a essere posta in primo piano è la dimensione
enunciativa delle opere stesse. Calvino quindi, oltre a sottolineare il rapporto
tra l’istanza di produzione dell’opera e il soggetto osservante, mette a fuoco la
dimensione materiale del quadro stesso, il suo essere un oggetto che “ostenta”
le materie di cui è composto: tela, telaio, cavalletto, legno, carta, colori.
L’operazione compiuta da Paolini è infatti quella di mettere davanti agli oc-
chi dello spettatore gli elementi che costituiscono il supporto dell’opera, e che
in genere vengono opportunamente occultati, la tela grezza, la tela nuda, il ro-
vescio del quadro, il suo telaio, per renderci edotti “di come siamo irricono-
scenti noi che abbiamo occhi soltanto per ciò che è portato, la pittura, e non
per ciò che ha il compito di portare: la tela, il suo telaio, il muro che li regge, il
suolo su cui poggia il muro”.
Le opere di Paolini conducono lo spettatore a riflettere anche sulla modalità
classica di visione dei quadri, quella per cui il soggetto osservante si colloca in
una posizione frontale, davanti all’opera, che si situa generalmente all’altezza
dei suoi occhi:
non bisogna dimenticare dunque che il vero luogo della pittura è quella fascia oriz-
zontale che delimita il campo visuale d’una persona in piedi: mettere in evidenza
questa fascia potrebbe diventare l’opera pittorica assoluta. Ma quest’uomo in piedi a
ben vedere non è altri che il signore col soprabito addosso che incontriamo nelle
gallerie d’arte, con lo sguardo rivolto alle pareti. Se il fine ultimo dell’arte è questo,
24 LUCIA CORRAIN
tanto vale che l’opera assoluta riproduca quel signore a grandezza naturale ripetuto
tante volte di faccia e di schiena.
visto magari attraverso il telaio, mentre guarda una tela che non c’è. L’autore non co-
me soggetto – attenzione! – ma come elemento dell’opera. Non il pittore che dipin-
ge, o che, peggio ancora, dipinge se stesso, ma fotografato mentre solleva la tela,
prende a carico il suo peso, si fa supporto lui stesso.
Nel gioco di sguardi che si instaura tra pittore, spettatore, opera, modello, è
particolarmente interessante il lavoro di Paolini su una riproduzione fotografica di
un ritratto di Lorenzo Lotto, Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Come indica il ti-
tolo, è il soggetto del quadro, l’attore dell’enunciato, a guardare chi ha fatto il qua-
dro stesso, il suo autore, e di conseguenza a guardare anche l’osservatore che ne as-
sume la medesima posizione. Il quadro si dota di occhi, gli occhi del modello, occhi
che fissano chiunque gli si ponga davanti così come fissavano Lotto. L’immagine ri-
mane essenzialmente la stessa, ma la sua sintassi interna è profondamente cambiata.
L’osservatore della riproduzione fotografica è infatti chiamato ad assumere
la medesima posizione di Lotto, a identificarsi con lui, ma secondo declinazioni
differenti:
con Lotto in contemplazione del proprio quadro finito, poi con Lotto in contempla-
zione d’un fantasma della propria mente che vorrebbe riprodurre in un quadro, poi
con Lotto in contemplazione d’un giovane in carne e ossa
la relazione del pittore con la Storia non è più interpretata in termini di azione e
di collegamento con quel Soggetto collettivo che i lavoratori incarnano, ma in ter-
mini di produzione di senso a partire dal riutilizzo delle figure di una Storia già
costituita in segni.
l’enunciatario può fare solo un’utilizzazione indiretta di quel segno che è il quadro.
All’utilizzazione indiretta dei segni della piazza e della Storia da parte dell’artista-e-
nunciatore corrisponde, in maniera perfettamente simmetrica, l’utilizzazione indiret-
ta delle ‘formule’ dell’artista da parte dell’enunciatario collettivo.
Questa raccolta deve moltissimo a Paolo Fabbri, non solo per il costante in-
coraggiamento che ne ha accompagnato l’elaborazione. Semiotiche della pittura
– che viene data alle stampe dopo il trasferimento di Fabbri all’Università di
Venezia – è, infatti, uno dei risultati della collaborazione che ha caratterizzato il
lungo periodo in cui abbiamo lavorato fianco a fianco al dipartimento delle Ar-
ti Visive dell’Università di Bologna. Una collaborazione così rara in ambito uni-
versitario che, senza retorica, può essere definita eccezionale, e di cui sento for-
temente la mancanza.
Alle mie “storiche” collaboratrici, Elisabetta Gigante e Anita Macauda, il
mio più caloroso ringraziamento per la dedizione e la cura con cui hanno messo
a punto l’apparato iconografico, la revisione dei testi e molto altro ancora...
La doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia planare.
A proposito di Loth e le figlie1
Felix Thürlemann
1. La problematica2
2. “Loth e le figlie”
3 vita morte 1
2 non-morte non-vita 4
A prima vista, niente parrebbe più arbitrario di una simile formula, che è
quella dell’equazione proporzionale in matematica; bisogna infatti far ricorso
alla tavola dei simboli per apprendere il senso dei segni convenzionali utilizzati
(: = “sta a”; :: = “come…”), mentre le lettere rinviano a unità qualsiasi, ma ben
definite. La formula produce senso solo in virtù di definizioni al di fuori di essa
e la sua utilizzazione sembrerebbe soprattutto dettata da ragioni di ordine prag-
matico (univocità, brevità, proprietà formali che facilitano il calcolo).
Tuttavia, esistono formule, fra cui quella presa ad esempio, che possiedono
una qualità supplementare, denominata dai germanofoni con il termine di An-
schaulichkei, quella cioè di rendere immediatamente evidenti i rapporti logici;
da cui un effetto di senso efficacia. Questo effetto deriva dal fatto che la struttu-
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 33
ra logica propria della formula si riflette nella sua forma plastica; la formula è La codificazione
motivata attraverso una codificazione semi-simbolica tra categorie del contenuto semisimbolica
e categorie plastiche 5.
Nel caso della formula di omologazione sono soprattutto le categorie plasti-
che di ordine topologico quelle che entrano in gioco: il simbolo “::” divide la
formula in due parti, /sinistra/ e /destra/ ciascuna delle quali riprende una se-
conda volta la stessa partizione. Così, risultano delle posizioni equivalenti tra i
termini dei due lati (primi vs secondi posti, posizioni esterne vs posizioni interne
in ciascuna delle parti sinistra e destra); queste proprietà plastiche sono utilizza-
te nei manuali scolastici di matematica per formulare le regole di riscrittura.
Si potrebbero fare delle osservazioni dello stesso tipo per il quadrato semioti-
co, che deve essere considerato come una formula particolarmente efficace, per
il fatto che ciascun tipo di relazione logica (contrarietà, contraddizione, impli-
cazione) corrisponde a un tipo di orientamento nello spazio planare (orizzonta-
lità, obliquità, verticalità)6:
Fig. 1. Jan Welles de Cock, Loth e le figlie, 1520 ca., olio su tela, Parigi, Louvre, particolare.
A: albero
B: tronco d’albero fradicio
C: coppia abbracciata (Loth e la figlia maggiore)
D: scheletro animale.
Le figure Fra queste quattro figure, le figure C e D occupano una posizione partico-
topiche e le lare per il fatto che possono essere considerate come delle riprese di attori già
figure correlate
manifestati nella minuscola scena dei fuggitivi. Chiamiamole figure topiche.
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 35
A questo stadio dell’analisi, in cui le quattro figure sono già collegate da una
rete relazionale forte, lo schema topologico romboidale acquista un valore euri-
stico permettendo di interpretare per analogia il rapporto fra le figure C e D,
che, a prima vista, nulla sembrerebbe collegare. In questo caso, la rete topologi-
ca funziona nella stessa maniera di una formula, la cui struttura logica è quella
dell’omologazione:
A : B :: C : D
Il rapporto narrativo tra le figure correlate (A-B) può, grazie agli accop-
piamenti A/C e B/D, essere proiettato sulle figure topiche (C-D); sebbene,
secondo la logica della figuratività verosimile, nulla leghi le figure C e D, la
condizione della “coppia incestuosa” appare ora come uno stato provvisorio,
che sarà necessariamente seguito dalla posizione /morte/, espressa dallo
“scheletro animale”.
Lo schema che abbiamo messo a punto possiede un forte valore interpretati-
vo per la lettura globale del testo pittorico. Articolando il passaggio fra due fi-
gure topiche che appartengono rispettivamente ai livelli sociali e individuali, la
formula di omologazione permette di collegare due campi semantici che a un
primo stadio dell’analisi non erano correlati.
Contrariamente a quello che accade nel testo biblico, nel dipinto la so-
pravvivenza della razza, la cui esistenza è stata minacciata dalla distruzione Il senso
degli abitanti di Sodoma e Gomorra e dall’eliminazione della moglie di “aggiunto”
Loth, non è più il momento finale del racconto. Sebbene l’esistenza della
razza umana non sia più minacciata, la morte sarà il destino ultimo di cia-
scun individuo. Correggendo il senso del racconto biblico, aggiungendovi
l’opposizione individuo/società, il racconto pittorico termina con un atto
disforico.
36 FELIX THÜRLEMANN
3. In forma di conclusione
Postscriptum 2003
Recentemente, dopo più di vent’anni, sono ritornato sul dipinto del Louvre
in uno studio dedicato al diagramma, pubblicato insieme a Steffen Bogen (Bo-
La strategia gen, Thürlemann 2003, pp. 1-12). La strategia pittorica realizzata nel quadro di
del diagramma Loth e le figlie è, infatti, quella del diagramma, cioè di un testo caratterizzato, da
un punto di vista semiotico, da un’omologazione sistematica di tipo semisimbo-
lico tra categorie topologiche elementari realizzate sul piano dell’espressione e
categorie del contenuto.
Il forte carattere diagrammatico del dipinto del Louvre è senza dubbio ecce-
zionale per un’opera pittorica di natura mimetica, ma mi sembra al contempo
rappresentativo della cultura europea nell’epoca e nel luogo della sua produzio-
ne, i Paesi Bassi dell’inizio del XVI secolo. Il quadro di Anversa – è questa la te-
si che vorrei sostenere – deve proprio alle tendenze generali dell’arte del tempo
la sua particolare natura di “diagramma esistenziale dipinto”.
Non è un caso che le categorie del contenuto, messe in gioco dalle figure
rappresentate nel dipinto in questione, appartengano al livello più profondo
Il paesaggio possibile. Due ne sono le ragioni. La strategia pittorica utilizzata in Loth e le
del mondo figlie per simulare lo spazio è tipica della pittura olandese del XVI secolo, e
consiste nel rappresentare il paesaggio come fosse una Weltlandschaft, un
“paesaggio del mondo”. Conformemente alla concezione albertiana della pit-
tura, quest’ultimo corrisponde a una prospettiva particolare sul mondo visibi-
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 37
le, quella di una veduta “attraverso una finestra”, ma nello stesso tempo an-
che a un inventario, un censimento rappresentativo di tutto ciò che costitui-
sce il mondo in senso enciclopedico: distese pianeggianti e montagne roccio-
se, cielo e mare, città abitate e contrade deserte, ecc.9 L’incesto di Loth – e
questa è la seconda ragione – rappresenta un tema che concerne la sopravvi-
venza dell’intera razza umana, minacciata da Dio di totale annientamento. Il
dipinto del Louvre effettua dunque una sintesi tra un modo di rappresenta-
zione totalizzante del mondo e un racconto biblico che ha una portata altret-
tanto globale. Non sorprenderà, allora, che il dipinto di Loth e le figlie, che
rappresenta la sorte dell’uomo nel quadro dello schema pittorico del “paesag-
gio del mondo”, prenda, nelle sue coordinate di base, la forma del quadrato
semiotico esistenziale.
Per ciò che riguarda il fenomeno della “doppia mimesi”, manifestata nella
roccia che indirettamente raffigura anche la testa della moglie di Loth trasfor-
mata in colonna di sale, è stata da me analizzata in maniera più sistematica in
due opere di Albrecht Dürer (Thürlemann 2002-2003).
Un’ultima osservazione sul possibile autore del dipinto conservato al Lou-
vre. Nella sua monumentale opera di catalogazione Altniederländische Malerei,
Max Friedländer (1924, n. 115) lo aveva attribuito al pittore e incisore di An-
versa Luca di Leida. Oggi quest’attribuzione non è più accettata dagli speciali-
sti, e al Museo del Louvre l’opera porta l’etichetta “Anversa, 1520 circa”. A mio Il possibile
avviso, ci sono valide ragioni per attribuire il dipinto a un contemporaneo di autore
Luca di Leida, Jan Wellens de Cock (nato verso il 1490, morto ad Anversa pri-
ma del gennaio 1527). Quest’attribuzione può essere stabilita sulla base del
confronto con un quadro raffigurante san Cristoforo, firmato da “J. Cock” in u-
na riproduzione grafica, e con un’incisione su legno originale della Tentazione
di sant’Antonio che porta la data “1522”10. L’opera del Louvre è stilisticamente
assai vicina anche a un quadro che raffigura i santi eremiti Antonio e Paolo in
un ricco paesaggio, delle collezioni del duca di Liechtenstein a Vaduz, ugual-
mente attribuita a Jan de Cock11.
1 Da Felix Thürlemann, “La doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia planare. A propo-
sito di Loth e le figlie”, in Corrain, Valenti, 1991, pp. 55-64; tit. or. La double spatialité en peinture: espa-
ce simulé et topologie planaire, «Actes Sémiotiques, Bulletin», 20, 1981, pp. 34-46. Traduzione di Mario
Valenti e Elisabetta Gigante.
2 Il presente testo si ispira, nella sua metodologia, segnatamente a due studi semiotici già divenuti
classici: Geninasca 1972, pp. 45-62 (l’autore descrive la “griglia tassonomica” del sonetto come uno spa-
zio articolato che, indipendentemente da qualsiasi investimento linguistico, è dotato di proprietà seman-
tiche); e Petitot 1979, pp. 95-153 (in questo studio, l’organizzazione topologica planare del testo pittori-
co è sistematicamente messa in rapporto con la sua struttura semantica profonda).
3 Parigi, museo del Louvre, n. di inventario: RF. 1185; tavola, 58 x 34 cm. L’opera è stata attribuita
da Friedländer (1924) al giovane Luca di Leida; attribuzione oggi rifiutata dalla maggior parte degli spe-
cialisti. Il catalogo del Louvre (Écoles flamandes et hollandaises, Paris, 1979) indica: “Anversa o Leida,
prima metà del XVI secolo”. In una conferenza del 1931, ripresa in Il teatro e il suo doppio, con il titolo
“La messa in scena e la metafisica”, Artaud (1968) descrive il quadro del Louvre come una prefigurazio-
ne ideale del suo teatro (“questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il teatro, se esso sapesse parlare il lin-
guaggio che gli è proprio”).
4 Sembrerebbe possibile stabilire una tipologia dei modi di narrazione nelle arti plastiche secon-
do le infrazioni alle leggi della verosimiglianza, che le differenti culture ammettono o rifiutano per
rendere conto di un racconto complesso. Questa è implicitamente la pratica di Wickhoff (Romische
38 FELIX THÜRLEMANN
Kunst), che postula l’esistenza di tre possibili modi narrativi: i modi continuo, completivo e distinti-
vo. Loth e le figlie sarebbe un esempio del modo continuo (ripetizione degli stessi attori in uno spa-
zio coerente).
5 Per il concetto di “semiosi semisimbolica”, si veda Greimas, Courtés (1979) alla voce “semiotica
B.5.d.” e Greimas, Courtés (1985) alla voce “semisimbolico”. Osserviamo il fatto curioso che la rappre-
sentazione di un sintagma particolare proprio di un linguaggio formale possiede le caratteristiche delle
semiotiche monoplanari significanti. È in Artaud che abbiamo trovato il termine di “efficacia”; il senso
tecnico che gli diamo qui è evidentemente nostro.
6 Osserviamo che, dopo la nuova presentazione del quadrato nel Dizionario, la codificazione semisim-
bolica risulta indebolita dal fatto che l’asse orizzontale inferiore non riceve più una definizione logica.
7 La limitazione dell’analisi a queste quattro figure ha, va confessato, un carattere arbitrario. Pensia-
mo tuttavia che la riduzione del numero delle figure prese in considerazione non metta in questione la
validità dei risultati. Questi potranno in seguito essere reintegrati in un’analisi più completa e più com-
plessa (così, si dovrebbero considerare le tre fiaschette, nel primo piano, la cui distribuzione spaziale ri-
flette quella degli attori umani).
8 Una forte eco plastica mette in rapporto soprattutto il tronco dell’albero vivente (A) con la gamba
destra di Loth, focalizzata insieme dalla sua posizione e dalla sua tinta rossa. Il suo valore sessuale, in
rapporto all’apertura della prima tenda, è messo in evidenza nel lavoro di Bätschmann (1981).
9 Per il concetto di “paesaggio del mondo” cfr. Zinke 1977, Gibson 1989.
10 Le due opere sono riprodotte in Friedländer 1924, nn. 104 e 104A.
11 Cfr. Friedländer 1924, n. 108, Baumstark 1980, n. 31, p. 77 sgg. (con riproduzioni a colori e bi-
1. Lettura iconografica
Sull’isotopia della figuratività lessicale, quella che rappresenta gli oggetti no-
minabili, il quadro offre l’impressione di essere diviso in tre spazi pressoché auto-
nomi. Innanzitutto, in primo piano, la Ninfa coricata sull’erba, il cui bordo ester-
no in forma di circonferenza fuoriesce ampiamente, a sinistra e a destra, dalla cor-
nice del dipinto per cingere immaginariamente e completamente lo spazio di ver-
zura ai lati e davanti al quadro. Il corpo della donna occupa in lunghezza l’insie-
me del dipinto, e il suo sesso, situato orizzontalmente a un millimetro dalla metà
del dipinto, suddivide l’insieme, tracciando a partire da quel punto una linea ver-
ticale che divide il resto della tela in due superfici di uguali dimensioni.
Quella di sinistra, inglobante la fontana con capitello che si innalza nel mez-
zo e risalta sul fondo di folti cespugli, possiede plasticamente – come rimarca L’articolazione
André Lhote (1958) – una certa autonomia, dal momento che non obbedisce ai topologica
canoni della prospettiva italiana: il capitello, infatti, è visto dal basso verso l’alto
e la fontana dall’alto verso il basso. La parte destra, nello sfondo, rappresenta il
“paesaggio” convenzionale del periodo, ossia, la natura “civilizzata”: una città
con numerosi campanili, una roccaforte, ma anche le rocce, le montagne e so-
prattutto il cielo. Tra questi tre spazi viene pertanto a stabilirsi una rete di corri-
spondenze e di interpretazioni: una dimensione classica fra la Ninfa e la fonta-
40 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE
na, illusione del Mondo Antico di forme compiute e felici; una dimensione ba-
rocca tra il Mondo Nuovo e il suo ideale di bellezza, fantasticheria leggibile ne-
gli occhi semichiusi della Ninfa che pretende addirittura di riposarsi – quiesco
– e impedisce di interrompere il suo sonno – somnus ne rumpe – ma soprattutto
nella “rima plastica” che vede il corpo della ninfa proiettato, come una plaga
comparabile, nel lontano orizzonte, nel cielo appena velato. Due mondi – l’anti-
co e il moderno – lo rinviano così metonimicamente allo splendido corpo della
giovane donna alla ricerca di un incontro idiosincrasico.
Questa convergenza di due immaginari, è riscontrabile anche nelle teorie e-
La Ninfa stetiche del Rinascimento – con Cranach siamo in Franconia, nel cuore del Ri-
e la naturalità nascimento tedesco –, secondo le quali la funzione e la vocazione dell’Arte è
“l’imitazione della Natura”, più precisamente, della Bella Natura, nozione co-
munque che ricopre sia il “naturale” dell’universo visibile sia il modello ideale
ritrovato nell’Antichità; la perfezione del mondo, ma anche la bellezza del cor-
po umano e, prima di tutto, del corpo della donna. Nel nostro quadro, la fun-
zione che compete al corpo della ninfa è quella di incarnare la Natura in tutta la
sua nuda verità, in senso letterale e figurato. Non stupiamoci, dunque, di veder-
la – contrariamente alla Venere di Tiziano, ornata di collana e braccialetto, alla
Susanna di Tintoretto, che si prepara a vestirsi, con i gioielli davanti a sé – inte-
ramente, “naturalmente” nuda, essendo la nudità identificata con la verità che
rivela le forme ideali della bellezza di cui la ninfa è depositaria.
Emblema della natura, la Ninfa simboleggia nello stesso tempo la sua Bellez-
za. Procedendo nella lettura del suo corpo confidiamo di rintracciarvi le mar-
che dei canoni della bellezza che supponiamo esservi iscritte e di riconoscervi
alcune categorie estetiche che Cranach e, attraverso lui l’episteme del suo tem-
po, hanno espresso utilizzando il linguaggio pittorico.
2. Lettura iconologica
Fig. 2. Schema 1.
tuoso, mentre la parte superiore della plaga si sfuma e si perde nell’azzurro del L’effetto
cielo. L’obliquità crescente, già euforica di per se stessa, non solo trasforma la di leggerezza
e apertura
natura acquatica della donna in un ideale aereo, ma le conferisce effetti di senso
di leggerezza e di apertura
Ritornando dal cielo sulla terra, precisamente sul tappeto di verzura, si no-
terà innanzitutto il contorno inferiore del corpo, sottolineato anche dalla dispo-
sizione del drappeggio, il quale forma una sorta di vaso molto aperto facendo
della donna un oggetto concavo.
La cuspide molto aperta verso l’alto non termina a punta, bensì con una
concavità sferica formata dalla natica destra della donna: si tratta, infatti, di
un taglio molto svasato che non include pertanto i piedi, producendo l’im-
pressione di un corpo che non riposa, che non si appoggia a nulla, di un cor-
po che galleggia.
Osserviamo di sfuggita l’importanza che Cranach attribuisce al gluteo, og-
getto contemporaneamente estetico e erotico, e che distingue le sue donne da
quelle della scuola veneziana. Così, ad esempio, anche la sua Venere (Berlino),
sebbene in piedi e in posizione frontale, propone allo sguardo la natica libera
dalla linea verticale del corpo.
Questa impressione di galleggiamento trova una conferma se si pensa alla so-
spensione del corpo, provato dalla pesantezza e che tuttavia è come appeso a
questo filo teso, immaginario, che abbiamo tracciato per rendere conto della
sua postura orizzontale.
La Ninfa così sospesa, senza punto di appoggio al suolo, vive all’interno di L’equilibrio
un equilibrio instabile, che chiede in ogni momento di essere consolidato. instabile
Per mantenere l’equilibrio, per controbilanciare la massa pesante del tronco,
la coscia destra è rappresentata in posizione ascendente e i piedi terminano con
42 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE
Fig. 3. Schema 2.
le dita aperte e tese verso l’alto. Inoltre, le due estremità del corpo – il braccio
che sostiene la testa e le dita dei piedi ascendenti e aperte – sono muscolarmen-
te tese, e questa tensione polarizzata e egualmente distribuita produce un effet-
to di equilibrio dinamico.
È possibile domandarsi se questo bilanciamento equilibrato e neutralizzato
La
non sia il risultato di un fare proprio dell’artista, quello della riequilibratura
riequilibratura processuale, di un’attività di compensazione delle pesantezze e delle tensioni, se
processuale non racconti una piccola storia plastica che permetterebbe di riconoscere una
certa narratività situata nella dimensione estetica dei discorsi.
In ogni modo, si tratti di concetti di sospensione o di equilibrio delle tensio-
ni, il loro esame sembra condurre verso una comprensione più salda della cate-
goria estetica leggerezza.
3. Le due estetiche
Fig. 4. Schema 3.
to dalla natica destra e dall’anca, duplicata dalla linea dell’avambraccio, del lato
sinistro, e recante, come segno distintivo, il triangolo del pube. Queste curve
ondeggianti, che racchiudono e arrotondano tutto il corpo sottolineandone at-
traverso i pizzicamenti la sottigliezza, hanno la funzione – secondo l’osservazio-
ne generale sia di Lhote (1958) sia di Clark (1956) – propria di Cranach, di so-
stituirsi per buona parte alla tecnica del modellato con la finalità di restituire al
corpo il suo volume.
Questo corpo posto “à plat”, mostrato al nostro sguardo dalla fonte lumino-
sa che lo abbaglia, si trova inoltre adornato di rotondità: al viso, interamente ro-
tondo, corrisponde la rotondità del ventre, confermando così la linea verticale
del tronco, allorché due semisfere formanti i seni la incrociano orizzontalmente.
Sfericità e simmetria sono nuovamente installate sulla superficie del corpo, per-
fezionano così la chiusura, intrapresa dalle curve laterali del corpo della donna,
inscritte nel parallelogramma.
A questa costruzione del dorso, che illustra perfettamente i canoni della bel- La donna
lezza classica, non corrisponde l’organizzazione della parte inferiore del corpo, gotica vs
la donna
generata da una concezione diversa. Così, la prima cosa rimarcabile – la lun- mediterranea
ghezza delle gambe che sono da sole la metà del corpo – annuncia già l’appari-
zione di un nuovo tipo ideale di bellezza femminile. Poco conta la spiegazione,
culturale o storica, che di questo fenomeno si può dare: l’immagine della donna
mediterranea “corta di gambe”, che corrisponde alle regole dell’arte classica,
come la si ritrova nei veneziani, è così privilegiata a scapito di una tradizione
più antica, “gotica”, che risale a Memling. Il fatto è facilmente constatabile: as-
sistiamo all’affermazione di un tratto specificatamente barocco, quale l’allunga-
mento generale delle forme plastiche (Wölfflin 1915), dove il cerchio diviene
l’ovale e il quadrato il rettangolo.
44 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE
mente evocate – o forse giustamente a causa di questa fusione del tecnico con
l’estetico – una conferma dello spirito barocco. È sufficiente omologare i con-
cetti oppositivi del classicismo e del barocco, della chiusura e dell’apertura con
le loro espressioni plastiche – le dita chiuse e le dita aperte – per riconoscere la
logica ricercata e perseguita da Cranach.
È qui possibile avvalersi di un’osservazione deviante, un’ipotesi suggerita
dal quadro di Cranach: la svolta costituita dall’erotizzazione delle gambe, la
loro valorizzazione in quanto oggetto erotico, conforme alle tendenze gene-
rali dell’estetica del barocco, che produce il sincretismo dell’allungamento e
la grazia delle forme plastiche, accompagnate da un’apertura sul mondo.
4. Narratività plastica
Fig. 5. Schema 4.
ha fondato su questo la sua critica, vedendovi “la parte tecnica dell’arte”. Non
è forse impossibile seguirlo e riconoscere come spettatore il percorso, sicuro o
esitante, del fare dell’artista.
È possibile immaginare, per esempio, che avendo costruito, secondo il mo-
dello classico, la parte superiore del corpo, il pittore ne valuti la pesantezza e
avverta la necessità, per equilibrarla, di drizzare i piedi verso l’alto e di aprire le
La narrazione
dita. Avendo situato il sesso della donna nel bel mezzo del quadro, lo tratta co-
plastica del fare me il luogo della trasformazione categorica dello stile, ma preoccupato di man-
del pittore tenere le esigenze che gli impone la sua stessa concezione di grazia, ricopre que-
sta trasformazione di uno strato di aspettualità spaziale istituendo, all’altezza
del bacino, una zona bivalente. Si può ugualmente domandarsi se lo slancio del-
la gamba destra non gli sia dettato dal pensiero formale di dare in rima un cor-
rispondente alla linea graziosa della spalla e del braccio sinistro, piuttosto che
produrre una narratività erotica di ordine iconologico.
Queste considerazioni, lontane dal mirare all’esaustività, vogliono solo sug-
gerire la possibilità di un percorso metodologico che, ispirandosi al fare tecnico
dell’artista, cerchi di imitare il suo sguardo e la sua mano, affidandosi allo spet-
tatore di questo transfert di competenza.
delle forme del contenuto. Se le prime rappresentano “gli stati di cose”, le se-
conde costituiscono, al momento del processo di percezione, il contributo del
soggetto e sono, quindi, degli “stati d’animo”, essendo passati attraverso il filtro
dell’assiologia culturale. Tali assiologie, lo si sa, sono state designate da Hjelm-
slev (1943) sotto il nome di connotazioni sociali e si presentano sotto forma di
tassonomie variabili da una cultura all’altra. Esse, certamente, possono essere
deformate o arricchite dalle connotazioni individuali, dovute agli incontri di cer-
ti tipi di formanti con particolari sensibilità. L’insieme tuttavia costituisce la di-
mensione estetica del gusto.
Non si vedono le ragioni che impediscono di estendere la validità di queste
categorie alle altre arti, agli altri oggetti estetici. Ad esempio, Italo Calvino
(1988), nelle lezioni che aveva intenzione di tenere agli studenti americani sul
XXI secolo, considera la leggerezza come una delle cinque o sei categorie fonda-
mentali per l’estetica letteraria dell’avvenire. Abbiamo già notato l’inclinazione
Piccola
“naturale” che ci ha spinto a utilizzare i termini del linguaggio poetico o musi-
estetica della cale per parlare della grazia. Ecco dunque che il vecchio serpente di mare della
vita quotidiana “corrispondenza delle arti” fa la sua riapparizione. È come se questi significati
estetici costituissero una base comune, più profonda, un luogo di meditazione
delle differenti percezioni del mondo.
Un esame più accurato di queste categorie si impone. Siamo stati portati a
rendere conto della leggerezza come liberazione della pesantezza, ma anche co-
me equilibrio risultante dalla dinamica delle forze, in quanto fondata sulle leggi
fisiche dell’universo. Altre categorie, quali la grazia, sembrano dipendere dalla
geometria elementare opponendo le linee dritte alle curve, e integrandole nella
visione molto generale del mondo. Comunque sia, una semiotica estetica che
così si dispiega non dovrebbe riguardare solamente le arti “nobili”, ma anche la
“piccola” estetica della vita quotidiana e potrebbe addirittura aspirare all’uni-
versalità. Fondata sulla percezione delle forme plastiche elementari del mondo,
aiuterebbe a comprendere il sentire fatico situato a livello epistemologico delle
precondizioni del senso, potrebbe rendere conto, nelle diverse tappe del per-
corso, del soggetto in quanto “essere del mondo” e “per il mondo”.
1 Da: Algirdas Julien Greimas, Teresa Keane, “Cranach: la bellezza femminile”, in Corrain 1999, pp.
3-13; tit. or. “Cranach: la beauté de la femme”, Centro de Semiótica y Teoría del espectáculo. Universitat
de València & Asociación Vasca de Semiótica, Valencia, vol. 26, 1993, pp. 1-19. Traduzione di Lucia
Corrain.
2 Le varianti conosciute sono: La ninfa della fonte, 1518, (cm 59 x 92), Leipzig, Museum der bilden-
den Künste; La ninfa della fonte, 1526-30, (cm 77 x 21.5), Lugano-Castagnola, Collezione Thyssen-Bor-
nemiza; La ninfa della fonte, 1534 (cm 50.8 x 76.2), Liverpool, Walker Art Gallery; La ninfa della fonte,
dopo il 1537, (cm 50 x 75), Paris, Collezione privata; La ninfa della fonte, dopo il 1537, (cm 48.5 x 72.9),
Washington, National Gallery of Art; La Ninfa della fonte, dopo il 1537, (cm 48 x 72.5), Svizzera, Colle-
zione privata; La ninfa della fonte, dopo il 1537, (cm 48.5 x 72.9), Washington, National Gallery of Art.
Realismo o artificio? Un’analisi di La fuga in Egitto di Adam Elsheimer
Lucia Corrain1
1. La volta stellata
è parlato di stretti rapporti con le nuove scoperte di Galileo, specie per la rappre-
sentazione delle macchie lunari e della Via Lattea come agglomerato di stelle3.
Una resa
Con queste premesse, l’analisi non può che partire dal cielo, motivo per il
fedele della quale, in un primo tempo, ci è parso necessario ricorrere a competenze di tipo
volta celeste? astronomico, che si sono rivelate di fondamentale importanza per mettere a
punto la lettura del dipinto che di seguito proponiamo.
L’anno di realizzazione del quadro, il 1609 – concordemente accettato dalla cri-
tica – e la posizione della Luna, rappresentata al plenilunio poco dopo il suo sor-
gere, rispetto all’Orsa Maggiore (situata nell’angolo alto destro) e alla Via Lattea –
che taglia diagonalmente la superficie pittorica – hanno costituito gli elementi per
il tentativo che abbiamo voluto intraprendere di ricostruzione della reale configu-
razione della volta celeste4. Una disposizione degli elementi astronomici che – no-
nostante guidata da una certa libertà – sembra suggerire le date del 21 marzo e del
19 aprile del 1609, dal momento che i successivi pleniluni dell’anno in questione
presentano una disposizione assai diversa da quella qui raffigurata. Ma un con-
fronto fra quelle notti del 1609, che grazie al computer è stato possibile “recupera-
re”, e la situazione supposta reale proposta dal quadro, non depone a favore di u-
na copia dal vero e mette in seria discussione che si tratti di una notte precisa.
La volta celeste, infatti, non si offre come una riproduzione realistica, e que-
sto non solo per la deformante trasformazione della semicalotta sferica sulla su-
perficie del dipinto, problema con il quale Elsheimer si è necessariamente do-
vuto scontrare. Il cielo appare come da una visione panoramica a 180 gradi,
centrata verso il nord, in cui l’Orsa Maggiore è l’unica costellazione riprodotta
Le
deformazioni con una certa fedeltà. La stella al di sotto dell’Orsa Maggiore potrebbe essere
degli astri… quella di Arturo, ma l’identificazione si basa solo sul fatto che solitamente la si
individua prolungando il braccio del Grande Carro. Le altre costellazioni, non
correttamente dipinte e quindi sommariamente e dubitativamente identificabili,
potrebbero essere l’Aquila (o il Cigno?) nelle tre stelle allineate e brillanti che
appaiono tra la prima e la seconda massa scura degli alberi partendo da sinistra;
il Delfino nel gruppo di stelle subito sotto la Via Lattea, affiancato da un altro
gruppo di stelle che assomiglia alle Pleiadi; gli altri punti luminosi non sono ri-
produzioni fedeli del vero, sembrano piuttosto rispondere al bisogno di creare
molti punti luminosi sulla superficie pittorica.
Anche la posizione e la proporzione degli astri non sono correttamente ri-
prodotte. Il rapporto fra la Luna e l’Orsa Maggiore rispetto alla realtà non è
corretto, poiché l’Orsa Maggiore dovrebbe essere di circa dieci volte più estesa,
così come il supposto Delfino dovrebbe essere molto più piccolo del Grande
Carro. Inoltre, se si trattasse delle Pleiadi, queste dovrebbero essere posizionate
molto più a sud, quindi non dovrebbero rientrare nel pur ampio settore di cielo
rappresentato, orientato verso nord.
Un’altra distorsione è presente nella Via Lattea, più inclinata (plasticamente
modellata sulla diagonale del formato rettangolare del quadro) rispetto a quan-
to non sia nella realtà.
Il quadro presenta, inoltre, ancora un aspetto che potrebbe essere definito
...della di tipo meteorologico e che mette fortemente in discussione il tanto declamato
metereologia… realismo: quello della presenza delle nuvole intorno alla luna. Una situazione
meteorologica di questo tipo, infatti, renderebbe praticamente invisibili per lar-
ga parte del cielo molte stelle e la stessa Via Lattea.
REALISMO O ARTIFICIO? 51
Figg. 6-7. Adam Elsheimer, La fuga in Egitto, 1609, Monaco, Alte Pinakothek,
particolari.
zione temporale nelle tenebre, piene di insidie e di pericoli, diviene, nel conte-
sto del quadro, un modo per esaltare la valorizzazione della luce.
Il tipo di ambientazione, specie per la vegetazione che va progressivamente
aumentando da destra a sinistra, induce a pensare che i fuggitivi abbiano da po-
co lasciato un luogo abitato (come lascia intuire la presenza di animali da pasco-
lo all’estrema destra) e che si siano quindi addentrati nella folta vegetazione.
La complessiva superficie pittorica si articola longitudinalmente in tre parti.
Il settore a destra, con la luna che si riflette nell’acqua, marcato dall’unico albe-
ro completamente privo di fogliame del quadro. La fascia centrale, di ampiezza
doppia rispetto alle altre due, con il gruppo dei fuggitivi immerso nel luogo in
cui gli alberi rendono le tenebre ancora più impenetrabili. Infine, il settore a si-
nistra con i pastori circondati dalle mucche, dalle pecore e dalle capre, raccolti
intorno a un fuoco, area marcata dalle due mucche rivolte una verso destra e
l’altra verso sinistra.
Nel senso dell’altezza, invece, il dipinto è diviso in due parti dalla linea
che, con andamento curvilineo, delimita la vegetazione. Una “frontiera” che
L’articolazione scandisce lo spazio di competenza del terrestre da quello del celeste. I tre set-
topologica tori terrestri risultano così congiunti fra loro dalla rima della luce, declinata in
tre differenti manifestazioni: la luna nella sua articolazione di astro riflesso, la
torcia, il fuoco. La volta celeste resa in una visione panoramica di circa 180
gradi, si dispiega su tutto il rappresentato terrestre, con la sua progressiva vi-
sibilità: da circa tre quarti della superficie pittorica, nello spazio di destra, a
circa un quarto in quello di sinistra. In un cielo puntinato di stelle si indivi-
duano la Via Lattea e varie costellazioni, oltre alla luna piena, circondata da
nuvole. In aggiunta alla riflessione dell’astro nell’acqua, un’altra rima plastica,
anch’essa di tipo eidetico e cromatico, “collega” il terrestre con il celeste. Le
faville che si librano dal fuoco attizzato dal pastore, secondo una direzionalità
che va dal basso verso l’alto (plasticamente sottolineata dalla capra in secondo
piano)6 e l’agglomerato di stelle della Via Lattea sono, dal punto di vista for-
male e del colore, identiche così come identica è la loro funzione di emettere
luce7. La Via Lattea, disposta secondo la diagonale del formato rettangolare
del quadro, vede il suo inizio nell’angolo superiore sinistro, procede verso
l’angolo inferiore destro e, terminando il suo tragitto esattamente nel centro
della superficie pittorica, funge da vettore indicante il gruppo centrale dei
fuggitivi. L’ideale prolungamento della diagonale, individuata dalla Via Lat-
tea, passa tangente alla luna riflessa nell’acqua.
La
Topologicamente il gruppo dei fuggitivi è posizionato esattamente al centro
congiunzione del dipinto: la linea mediana verticale del formato rettangolare del piccolo rame
fra cielo e terra passa attraverso la testa di Maria e la mano di Giuseppe.
Il gruppo dei viaggiatori, con la sua posizione centrale e avanzata, è presso-
ché tangente al bordo inferiore del quadro. La tripartizione orizzontale, sottoli-
neata anche dalle masse della vegetazione, induce a valutare i rapporti di distan-
za fra le tre parti. L’apparente vicinanza fra l’asino e i bovini a sinistra potrebbe
far pensare a un imminente approdo al bivacco, situazione, però, contraddetta
dalla tranquillità degli animali e degli uomini intenti alle loro occupazioni8. Il
dipinto, quindi, sembra condensare lo spazio e quelle tre marcature preceden-
temente rilevate funzionano così alla stregua di cesure, quasi come se l’immagi-
ne fosse articolata in tre successivi “episodi”.
REALISMO O ARTIFICIO? 53
La parte centrale, inoltre, vive all’interno di una più definita visibilità, dovu-
ta sia alla discretizzazione cromatica sia, per alcune parti, a quella eidetica. In
questo settore, infatti, i colori sono denominabili (il rosso dell’abito di Giusep-
pe e il grigio del manto dell’asino, ecc.), e i contorni definiscono con esattezza i
particolari dei protagonisti (ad esempio, si vede la barba di Giuseppe), mentre
gli altri due settori, pur emergendo dalle tenebre, sono maggiormente impron-
tati dall’uniformità cromatica. L’indefinitezza cromatica blu-verde scuro carat-
terizza la zona occupata dalla luna, nella quale però le forme, proprio per la
particolare luminosità della stessa luna, sono sufficientemente distinguibili, lad-
dove, invece, una tonalità calda giallo-rossastra pervade il settore con i pastori,
rendendo dello stesso tono cromatico uomini, animali e fuoco.
1 Questo articolo riprende in parte la lettura del dipinto pubblicata in Corrain 1996, pp. 64-71.
2 Ottani Cavina 1976, p. 140. Una posizione che nel tempo è stata sempre più avvalorata tanto che
Salerno 1977-1978, pp. 119-120, sostiene che “solo un figlio dello spirito scientifico e romantico della
Germania poteva porre la pittura sulle basi della nuova scienza, ricalcando dall’ottica e dall’astronomia
un senso di poesia così sottile”.
3 Il Sidereus Nuncius, il libro in cui Galileo registra le sue osservazioni astronomiche con il cannoc-
chiale (relative alle macchie lunari e alla Via Lattea) fu pubblicato a Venezia nel 1610 (Galilei 1610). Va
in ogni caso registrata la posizione di Andrews (1977, p. 595), il quale a ridosso della pubblicazione del
saggio di Ottani Cavina espresse un’aperta critica rispetto ai contatti fra Galileo e Elsheimer.
4 La ricostruzione della volta celeste è stata condotta per noi, con l’ausilio del computer, dal profes-
sor Fabrizio Bònoli del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Bologna, che qui ringrazio per la
cortesia, competenza e passione con la quale ha condotto per noi la ricerca. Riguardo al rapporto con
Galileo, il professor Bònoli si esprime in forma critica, sostenendo che i dettagli sulla superficie della lu-
na non rispecchiano assolutamente le osservazioni di Galileo con il cannocchiale, ma piuttosto la volontà
di rendere al meglio le osservazioni a occhio nudo. Così come non è chiaro se il pittore abbia deliberata-
mente riempito di stelle la Via Lattea a significare la sua vera natura – come apparirà nelle osservazioni
telescopiche di Galileo – oppure abbia semplicemente voluto indicare che in quella zona del cielo le stel-
le si addensano.
5 “Ecco che un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: ‘Su, alzati, prendi con te
il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e rimani lì fino al mio nuovo avviso. Erode infatti è in cerca del
bambino per ucciderlo’. Egli si alzò, prese con sé il bambino e sua madre, nella notte, e partì per l’Egit-
to”, Vangelo di Matteo, 2, 13-15.
6 La capra, indipendentemente da ogni sua possibile valenza di contenuto iconologico, per la sua
particolare posizione, con le zampe anteriori poggiate più in alto di quelle posteriori, funziona come un
elemento che sottolinea proprio la direzionalità dal basso verso l’alto.
7 Ancora dal punto di vista plastico, la parte inferiore del fuoco, quando inizia a elevarsi verso l’alto,
avvalorando implicitamente l’effetto di episodi raccordati, precedentemente segnalato (si veda Réau
1960, vol. II, pp. 273-280). Rembrandt in una sua opera che ha alle spalle la conoscenza delle incisioni
tratte dal dipinto di Elsheimer da Hendrick Goudt, rappresenta, infatti, il Riposo nella fuga in Egitto
(1614), riprendendo da quella di Elsheimer il pastore che attizza il fuoco e la luna che si riflette nello
specchio d’acqua (cfr. Brown, Kelch, van Tiel 1991, pp. 239-241).
9 Per la problematica dell’illuminazione notturna cfr. Corrain 1996.
10 E forse un richiamo al futuro sviluppo della vita terrena di Cristo può essere racchiuso in quella
particolare opposizione fra l’ascesa delle faville e il volgersi verso il basso della fronda illuminata alla de-
stra della capra.
11 Con minor intensità questa linea di congiunzione vede nella possibile costellazione delle Pleiadi u-
na analogia formale e cromatica con la Via Lattea, funzionando di conseguenza alla stregua di un altro
raccordo.
12 Si potrebbe aggiungere che, per quanto la maggior lontananza rispetto agli altri alberi ne renda
difficile il suo specchiarsi, è anche l’unico del tutto privo di riflessione. In ogni caso quello che ci interes-
sa, indipendentemente dalla situazione reale, è che questo albero acquista rilievo anche per il fatto che è
privo di riflessione, di raddoppiamento.
13 Si veda Calabrese 1985a, p. 2, che scrive: “La assoluta verità coincide con l’assoluto artificio”.
L’appendice poetica di Henri Rousseau al suo ultimo dipinto1
Roman Jakobson
Poco prima della sua morte (2 settembre 1910), Henri Rousseau espose
un solo dipinto, Il sogno (tav. IV), al Salon des Indépendants (18 marzo – 1
maggio dello stesso anno) e scrisse a Guillaume Apollinaire (11 marzo 1910):
“Ho mandato il mio grande quadro, tutti lo trovano bello, penso che tu mo-
strerai il tuo talento letterario e mi vendicherai di tutti gli insulti e affronti ri- Il quadro
cevuti” (Apollinaire 1913, p. 56). L’articolo commemorativo di Apollinaire, e la poesia
Le douanier, riferisce che Rousseau non aveva mai dimenticato il suo giovani-
le amore polacco, Yadwigha (= Jadwiga), “che gli ispirò Il sogno, il suo capo-
lavoro”, ora in possesso del Museum of Modern Art di New York. Il saggio
di Apollinaire è integrato da alcuni esempi delle attività poetiche del pittore
(“gentils morceaux de poésie”), tra i quali la sua Inscription pour Le Rêve
(1913, pp. II, 65):
Questo ottastico era, a quanto si dice, allegato al quadro esposto. Nel Cata-
logue de la 26e Exposition della Société des artistes indépendants (Paris 1910, p.
294) il riferimento a “4468 Le Rêve” di Henri Rousseau è accompagnato dagli
stessi versi, stampati, però, con grossolani errori e distorsioni, ad esempio Ya-
durgha; la versione di Apollinaire rimane quindi la sola attendibile.
I quattro versi pari, “maschili”, della poesia terminano con una stessa vocale
nasale, mentre i quattro versi dispari, “femminili”, terminano con una sillaba
chiusa che ha per nucleo una varietà lunga o breve di [e]. Tra le rime approssima-
tive contenute in questi due gruppi di versi, quelle che legano insieme i due disti-
ci interni (versi 3-4 con 5-6) e, a loro volta, le rime dei due distici esterni (1-2 con I versi
maschili
7-8) rivelano una somiglianza supplementare tra le parole rimate rispetto alle rime e i versi
che caratterizzano le quartine: nei distici esterni la completa identità delle vocali femminili
sillabiche è rafforzata da una consonante prevocalica d’appoggio (1RÊve – 7oREil-
le; 2douceMENT – 8instruMENT), e nei distici interni una simile identità vocalica vie-
ne secondata dalla consonante postvocalica delle rime femminili (3musETTE – 5re-
flÈTE) o dall’evidente identità grammaticale delle parole con rima maschile (4pen-
sant – 6verdoyants, le due sole forme participiali della poesia).
58 ROMAN JAKOBSON
Come viene sottolineato dalle rime, l’ottastico presenta una netta divisione
tra i distici esterni (I, IV) e interni (II, III). Ciascuna di queste due coppie di di-
stici contiene un numero eguale di nomi, sei, con la stessa biforcazione in quat-
tro maschili e due femminili. Sia il verso iniziale sia quello finale, in ciascuna
I distici
delle due coppie di distici, contengono due nomi: uno femminile e uno maschi-
interni e i le nel verso iniziale (1Yadwigha, rêve; 3sons, musette), due maschili nel verso fi-
distici esterni nale (8airs, instrument; 6fleuves, arbres). La simmetria globale rivelata dai nomi
dei distici esterni e interni non trova alcun supporto nella distribuzione fra di-
stici dispari e pari o anteriori e posteriori, ma i due distici interni contengono lo
stesso numero di nomi, tre, in simmetria speculare (II: 3sons, musette, 4char-
meur; III: 5lune, 6fleuves, arbres), e, di conseguenza, il rapporto fra i nomi dei di-
stici pari e dispari – sette a cinque – è identico al rapporto fra i nomi dei distici
posteriori e anteriori.
Ciascuna delle due quartine comprende una frase con due soggetti e due
predicati finiti. Ogni distico dell’ottastico contiene un soggetto, mentre nella di-
stribuzione dei finiti – tre a uno – il rapporto fra i distici pari e dispari è eguale
al rapporto fra i distici interni ed esterni.
I soggetti dei distici esterni appartengono alle due proposizioni principali del-
la poesia, mentre i due soggetti dei distici interni fanno parte di proposizioni su-
bordinate. I soggetti principali danno inizio al verso (1Yadwigha dans un beau rê-
ve; 7Les fauves serpents) per contrasto con la posizione non iniziale dei soggetti
subordinati (4Dont jouait un charmeur; 5pendant que la lune). I soggetti femmini-
I soggetti li compaiono nei distici dispari dell’ottastico e quelli maschili nei distici pari. In
principali
e i soggetti ciascuna quartina il primo soggetto è quindi femminile e il secondo maschile:
secondari 1Yadwigha – 4charmeur; 5lune – 7serpents. Di conseguenza, i due distici anteriori
(la prima quartina della poesia), con il genere femminile del soggetto principale
Yadwigha e il maschile del soggetto subordinato charmeur, sono diametralmente
opposti ai distici posteriori (seconda quartina), dove il soggetto principale ser-
pents è maschile e il soggetto subordinato lune è femminile. Il genere personale
(umano) distingue i soggetti grammaticali dei distici anteriori (1Yadwigha, 4char-
meur) dai soggetti non personali dei distici posteriori (5lune, 7serpents).
Questi dati si possono riassumere in una tabella, dove le parole in corsivo
indicano la posizione dei quattro soggetti nella composizione dell’ottastico, e le
parole in tondo ne denotano le proprietà grammaticali:
L’APPENDICE POETICA DI HENRI ROUSSEAU AL SUO ULTIMO DIPINTO 59
Le figure pittoriche delle zone in primo piano sono rese nella poesia dalla
posizione dei soggetti principali nei distici esterni, divergenti, mentre le figure
dello sfondo, spostate verso l’alto e scorciate nel dipinto, presentano soggetti
subordinati assegnati ai distici interni, convergenti, dell’ottastico. L’interessante
saggio di Tristan Tzara (1962), pubblicato come introduzione alla mostra dei
dipinti di Henri Rousseau, tenuta alla Sidney Janis Gallery (New York 1951),
tratta “la funzione del tempo e dello spazio nella sua opera” e fa rilevare la per-
tinenza e la particolarità della “prospettiva nella concezione di Rousseau” e,
specialmente, un tratto significativo delle sue grandi composizioni: una serie di
movimenti frazionati “in singoli elementi, vere e proprie sezioni di tempo fra lo-
ro collegate tramite una specie di operazione aritmetica”.
Mentre l’incantatore e la luna piena fronteggiano lo spettatore, le figure di
profilo di Yadwigha e del serpente sono rivolte l’una verso l’altra; la sinuosità La frontalità
del serpente fa riscontro alla curva dell’anca e della gamba della donna, e le fel- e il profilo
ci verdi verticali si protendono sotto queste due curve e puntano verso l’anca di
Yadwigha e verso la curva superiore del rettile. In realtà, questo serpente chiaro
e snello spicca contro un altro serpente, più grosso, nero e appena visibile; que-
st’ultimo rispecchia la pelle dell’incantatore, mentre il primo corrisponde al co-
lore di una striscia della sua cintura variegata. I fiori blu e viola si levano al di
sopra di Yadwigha e dei due serpenti. Nella poesia, due costruzioni parallele
collegano l’eroina ai rettili: 3Entendait les sons d’une musette e 7prêtent l’oreille
8Aux airs gais de l’instrument.
A questo proposito, si pongono alcune questioni stimolanti circa il genere
grammaticale. Ai due soggetti femminili della poesia il dipinto risponde con due
fondamentali tratti caratteristici di Yadwigha e della luna: il loro diverso pallore
in confronto ai colori più intensi dell’ambiente, in particolare dell’incantatore e
dei rettili, e la rotondità simile della luna piena e del petto della donna in con-
fronto al corpo appuntito del serpente chiaro e al flauto dell’incantatore. La Le rime
“sexuisemblance” dei generi femminile e maschile, sentita da ogni membro della plastiche
comunità francofona, è stata analizzata in modo chiaro ed esauriente da Damou-
rette e Pichon nel primo volume della loro fondamentale opera Des mots à la
pensée. Essai de grammaire de la langue française (Paris 1911-1927), cap. IV:
60 ROMAN JAKOBSON
1 Da Roman Jakobson, “L’appendice poetica di Henri Rousseau al suo ultimo dipinto”, in Poetica e
poesia, 1985, Torino, Einaudi, pp. 417-424; tit. or., On the Verbal Art of William Blake and Other Pain-
ters, «Linguistic Inquiry», I, 1970, n. 1, pp. 3-23. Traduzione di Luca Fontana.
2 Yadwigha in un bel sogno / essendosi addormentata dolcemente / sentiva il suono di un flauto /
che suonava un incantatore di buon cuore. / Mentre la lune riflette / sui fiumi gli alberi verdeggianti, / i
selvaggi serpenti prestano orecchio / ai gai motivi dello strumento.
Il dubbio di Cézanne1
Maurice Merleau-Ponty
Gli ci volevano cento sedute di lavoro per una natura morta e centocinquan-
ta sedute di posa per un ritratto. Quella che noi chiamiamo la sua opera, per lui
era soltanto l’esperimento e l’avvio della sua pittura. Scrive nel settembre 1906, a
67 anni, un mese prima di morire: “Mi trovo in un tale stato di disordine cere-
brale, in così grande agitazione, che ho temuto, a un certo momento, che la mia
debole ragione non ce la facesse... Ormai mi sembra di star meglio e di pensar
più giusto nell’orientamento dei miei studi. Arriverò allo scopo tanto cercato e
così a lungo perseguito? Studio sempre dal vero e mi sembra di fare lenti pro-
gressi”. La pittura è stata il suo mondo e la sua maniera di esistere. Lavora solo,
senza allievi, senza ammirazione da parte della sua famiglia, senza incoraggia-
mento di giurie. Dipinge il pomeriggio del giorno della morte di sua madre. Nel
1870, dipinge all’Estaque mentre i gendarmi lo ricercano come renitente. Eppu-
re gli capita di mettere in dubbio tale vocazione. Invecchiando, si chiede se la
novità della sua pittura non derivi da un disordine dei suoi occhi, e se tutta la
sua vita non si sia impostata in base a un difetto del suo corpo. A questo sforzo e
a questo dubbio corrispondono le incertezze o gli sciocchi pregiudizi dei con-
temporanei. Pittura di bottinaio ubriaco” diceva un critico nel 1905. Ancor oggi,
Mauclair trae argomento contro Cézanne dalle sue confessioni d’impotenza. Nel
frattempo, i suoi quadri diventano celebri. Perché mai tanta incertezza, tanta fa-
tica, tanti fallimenti, e all’improvviso il più grande successo?
Zola, che era amico di Cézanne sin dall’infanzia, è stato il primo a trovarlo Cézanne
geniale, e il primo a parlarne come d’un “genio abortito”. Uno spettatore della e i giudizi dei
vita di Cézanne, come Zola, più interessato al suo carattere che non al senso contemporanei
della sua pittura, poteva ben ritenerla una manifestazione morbosa.
Sin dal 1852, ad Aix, al collegio Borbone dove era appena entrato, Cézanne
preoccupava gli amici con le sue collere e le sue depressioni. Sette anni più tardi,
deciso a diventare pittore, dubita del proprio talento e non osa chiedere al padre,
cappellaio e poi banchiere, di mandarlo a Parigi. Le lettere di Zola gli rimprovera-
no l’instabilità, la debolezza e l’indecisione. Viene a Parigi, ma scrive: “Non ho fat-
to che cambiar posto e la noia m’ha seguito”. Non tollera la discussione, perché lo
affatica e perché non sa mai dire le sue ragioni. Il fondo del suo carattere è ansioso.
A quarantadue anni, pensa di morir giovane e fa testamento. A quarantasei anni,
per sei mesi, è pervaso da una passione impetuosa, tormentata, opprimente, di cui
si ignora la conclusione e di cui non parlerà mai. A cinquantun’anni, si ritira ad
Aix, per trovarvi la natura che meglio si conviene al suo genio, ma anche per ripie-
garsi sull’ambiente della sua infanzia, sua madre e sua sorella. Quando sua madre
morirà, egli s’appoggerà sul figlio. “È spaventosa, la vita” diceva spesso. La religio-
64 MAURICE MERLEAU-PONTY
ne, che si mette allora a praticare, comincia per lui con la paura della vita e la pau-
ra della morte. “È la paura” spiega a un amico, “mi sento ancora per quattro gior-
ni sulla terra; e poi? Credo che non sopravviverò e non voglio rischiare di arrostire
in aeternum”. Per quanto si sia più tardi approfondita, il motivo iniziale della sua
religione è stato il bisogno di fissare la sua vita e di dimettersene. Diventa sempre
più timido, diffidente e suscettibile. Viene talvolta a Parigi, ma, quando incontra a-
mici, fa loro segno da lontano di non avvicinarlo. Nel 1903, quando i suoi quadri
cominciano a vendersi a Parigi due volte più cari di quelli di Monet, quando gio-
vani come Joachim Gasquet ed Émile Bernard vengono a trovarlo e a interrogarlo,
si distende un po’. Ma le collere persistono. Un bambino d’Aix l’aveva una volta
colpito passandogli vicino; da allora non poteva più sopportare un contatto. Un
giorno della sua vecchiaia, siccome barcollava, Émile Bernard lo sostenne con la
mano. Cézanne andò in gran collera. Lo si sentiva camminare in su e in giù nel suo
studio gridando che non si sarebbe lasciato mettere “le zampe addosso”. Proprio a
causa delle “zampe” escludeva dal suo studio le donne che avrebbero potuto ser-
virgli da modelle, dalla sua vita i preti che diceva “attaccaticci”, e dal suo spirito le
teorie di Émile Bernard quando si facevano troppo insistenti.
La perdita dei contatti tranquilli con gli uomini, l’impotenza a padroneggia-
re le situazioni nuove, la fuga nelle abitudini, in un ambiente che non ponga
problemi, la rigida opposizione fra teoria e pratica, fra “zampe” e libertà solita-
ria – tutti questi sintomi consentono di parlare di una costituzione morbosa e,
per esempio, come si è fatto per El Greco, di uno schizoide. L’idea di una pittu-
ra “dal vero” verrebbe a Cézanne dalla stessa debolezza. La sua estrema atten-
La devozione
al visibile
zione alla natura, al colore, il carattere disumano della sua pittura (diceva che
come fuga un viso va dipinto come un oggetto), la sua devozione al mondo visibile non sa-
dal mondo? rebbero che una fuga dal mondo umano, l’alienazione della sua umanità.
Tali congetture non danno il senso positivo dell’opera, onde non se ne può
concludere senz’altro che la sua pittura sia un fenomeno di decadenza e, come
afferma Nietzsche, di vita “impoverita”, e nemmeno che essa non abbia niente
da insegnare all’uomo completo. Probabilmente Zola ed Émile Bernard hanno
creduto a uno scacco appunto per aver lasciato troppo posto alla psicologia e
alla loro conoscenza personale di Cézanne. Resta possibile che, in occasione
delle sue debolezze nervose, Cézanne abbia concepito una forma di arte valida
per tutti. Lasciato a se stesso, ha potuto guardare la natura come solo un uomo
sa fare. Il senso della sua opera non può essere determinato dalla sua vita.
Né lo si può conoscere meglio in base alla storia dell’arte, cioè riferendosi al-
le influenze (degli italiani e di Tintoretto, di Delacroix, di Courbet e degli im-
pressionisti), ai procedimenti di Cézanne, o magari alla testimonianza che egli
stesso fornì sulla sua pittura.
I suoi primi quadri, fin verso al 1870, sono sogni dipinti, un Rapimento, un
Assassinio. Nascono dai sentimenti e vogliono in primo luogo provocare senti-
menti. Sono dunque quasi tutti dipinti a grandi linee e offrono la fisionomia mo-
rale dei gesti più che il loro aspetto visibile. Agli impressionisti, in particolare a
Cézanne e Pissarro, Cézanne deve di aver inteso poi la pittura non come l’incarnazione di
l’impressionismo scene immaginate o la proiezione esterna dei sogni, ma come lo studio preciso
delle apparenze, non tanto come un lavoro di studio quanto come un lavoro a-
perto alla natura, e di aver lasciato la fattura barocca, che cerca anzitutto di ren-
dere il movimento, per i piccoli tocchi giustapposti e i tratteggi pazienti.
IL DUBBIO DI CÉZANNE 65
Fig. 8. Paul Cézanne, Ritratto di Gustave Geffroy, 1895-1896, olio su tela, 116 x 89 cm, Parigi, Mu-
sée d’Orsay.
IL DUBBIO DI CÉZANNE 67
In realtà, si può giudicare così la sua pittura solo non tenendo conto della
metà di quel che ha detto e chiudendo gli occhi dinanzi a quel che ha dipinto.
Nei suoi dialoghi con Émile Bernard, è chiaro che Cézanne cerca sempre di
sfuggire alle alternative già bell’e fatte che gli si propongono – fra sensi e intelli-
genza, fra pittore che vede e pittore che pensa, fra natura e composizione, fra
primitivismo e tradizione. “Bisogna farsi un’ottica” dice, ma “per ottica intendo
una visione logica, cioè senza niente d’assurdo”. “Si tratta della nostra natura?”
chiede Bernard. Cézanne risponde: “Si tratta di entrambe. La natura e l’arte
non sono forse differenti? Vorrei unirle. L’arte è un’appercezione personale. Io
pongo tale appercezione nella sensazione e domando all’intelligenza di organiz-
zarla in opera”. Ma anche queste formule si valgono troppo delle nozioni abi-
tuali di “sensibilità” o “sensazione” e di “intelligenza”, ed ecco perché Cézanne
non poteva persuadere e preferiva dipingere. Anziché applicare alla sua opera
dicotomie, che d’altronde appartengono più alle tradizioni di scuola che ai fon-
datori – filosofi o pittori – di tali tradizioni, sarebbe meglio essere docili al sen-
so peculiare della propria pittura, che è di rimetterle in questione. Cézanne non Dipingere la
ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e ordine. materia nel suo
Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro farsi forma
labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si sta dando una for-
ma, l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. Non introduce la
frattura tra “i sensi” e l’“intelligenza”, ma tra l’ordine spontaneo delle cose per-
cepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze. Noi percepiamo le cose, ci in-
tendiamo su di esse, siamo ancorati a esse e solo su queste fondamenta di “na-
tura” costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo pri-
mordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua
origine, mentre le fotografie dei medesimi paesaggi suggeriscono i lavori degli
uomini, le loro comodità e la loro presenza imminente. Cézanne non ha mai vo-
luto “dipingere come un bruto”, ma rimettere l’intelligenza, le idee, le scienze,
la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo naturale che esse sono de-
stinate a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scien-
ze “che ne sono scaturite”.
Le ricerche di Cézanne nella prospettiva scoprono, in virtù della loro fedeltà
ai fenomeni, quanto la psicologia recente doveva formulare. La prospettiva vis-
suta, quella della nostra percezione, non è la prospettiva geometrica o fotografi-
ca: nella percezione, gli oggetti vicini sembrano più piccoli, e gli oggetti lontani
più grandi, di quanto non lo sembrino su una fotografia, come si può osservare
al cinema quando un treno s’avvicina e ingrandisce molto più rapidamente di
un treno reale nelle medesime condizioni. Dire che un cerchio visto obliqua-
mente è visto come un’ellisse, significa sostituire alla percezione effettiva lo Le deformazio-
schema di quel che dovremmo vedere se fossimo macchine fotografiche: in ni prospettiche
realtà vediamo una forma che oscilla intorno all’ellisse senza essere un’ellisse. In
un ritratto della signora Cézanne, il fregio della tappezzeria, ai due lati del cor-
po, non costituisce una linea retta: ma è noto che se una linea passa sotto una
larga striscia di carta, i due tronconi visibili sembrano dislocati. Il tavolo di Gu-
stave Geffroy è disposto nella parte bassa del quadro, ma quando il nostro oc-
chio percorre una larga superficie, le immagini che ottiene volta a volta sono
prese da differenti punti di vista e la superficie totale è incurvata. È vero che, ri-
portando sulla tela queste deformazioni, le fisso e arresto il movimento sponta-
68 MAURICE MERLEAU-PONTY
Fig. 9. Paul Cézanne, Ritratto di Madame Cézanne nella poltrona gialla, 1888-1890, olio su tela,
81 x 65 cm, Chicago, The Art Institute.
neo per cui si ammassano le une sulle altre nella percezione e tendono verso la
prospettiva geometrica. È quanto succede anche a proposito dei colori. Una ro-
sa su un foglio di carta grigio colora di verde lo sfondo. La pittura di scuola di-
pinge lo sfondo di grigio, contando sul fatto che il quadro, come l’oggetto reale,
produrrà l’effetto di contrasto. La pittura impressionista mette del verde sullo
sfondo, per ottenere un contrasto tanto vivo quanto quello degli oggetti all’aria
IL DUBBIO DI CÉZANNE 69
aperta. Non falsa forse, in tal modo, il rapporto fra i toni? Lo falserebbe se si li-
mitasse a questo. Ma è proprio del pittore far sì che tutti gli altri colori del qua-
dro, convenientemente modificati, tolgano al verde posto sullo sfondo il carat-
tere di colore reale. Analogamente, il genio di Cézanne fa sì che le deformazioni
prospettiche, in virtù dell’impianto complessivo del quadro, cessino di essere
visibili per se stesse quando lo si guarda globalmente, e contribuiscano soltanto,
come fanno nella visione naturale, a dare l’impressione di un ordine nascente,
di un oggetto che sta comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi. Al- Il contorno
lo stesso modo il contorno degli oggetti, concepito come una linea che li recin- degli oggetti
ga, non appartiene al mondo visibile ma alla geometria.
Se si segna con una linea il contorno d’una mela, lo si rende una cosa, men-
tre esso è il limite ideale verso cui i lati della mela fuggono in profondità. Non
segnare nessun contorno significherebbe togliere agli oggetti la loro identità.
Segnarne uno solo significherebbe sacrificare la profondità ossia la dimensione
che ci dà la cosa, non come esibita davanti a noi, ma come piena di riserve e co-
me realtà inesauribile. Ecco perché Cézanne seguirà in una modulazione colo-
rata il rigonfiamento dell’oggetto e segnerà a tratti turchini parecchi contorni
(tav. V). Lo sguardo, rinviato dall’uno all’altro, avverte un contorno nascente tra
loro tutti come fa nella percezione. Non c’è niente di meno arbitrario di quelle
celebri deformazioni, che d’altronde Cézanne abbandonerà nel suo ultimo pe-
riodo, a partire dal 1890, quando non riempirà più la tela di colori e abbando-
nerà l’esecuzione serrata delle nature morte.
Il disegno deve dunque risultare dal colore, se si vuole che il mondo sia reso
nella sua densità, poiché esso è una massa senza lacune, un organismo di colori,
attraverso i quali la fuga della prospettiva, i contorni, le rette e le curve si di-
spongono come linee di forza, e la dimensione spaziale si costituisce vibrando.
“Il disegno e il colore non sono più distinti; nella misura in cui si dipinge, si di-
segna; più il colore si armonizza e più il disegno si precisa... Quando il colore
raggiunge la sua ricchezza, la forma è alla sua pienezza”. Cézanne non cerca di
suggerire con il colore le sensazioni tattili che darebbero la forma e la profon-
dità. Nella percezione, primordiale, tali distinzioni fra il tatto e la vista sono i- La percezione
gnote. È la scienza del corpo umano che ci insegna poi a distinguere i nostri come un tutto
sensi. La cosa vissuta non è ritrovata o costruita in base ai dati dei sensi, ma si indivisibile
offre di primo acchito come il centro donde essi si irradiano. Noi vediamo la
profondità, il vellutato, la morbidezza, la durezza degli oggetti – Cézanne dice
perfino: il loro odore. Se il pittore vuole esprimere il mondo, bisogna che la di-
sposizione dei colori rechi in sé questo Tutto indivisibile; altrimenti la sua pittu-
ra sarà un’allusione alle cose e non le offrirà nell’unità imperiosa, nella presenza
e nella pienezza insuperabile che è per noi tutti la definizione del reale. È que-
sto il motivo per cui ogni pennellata deve soddisfare a un’infinità di condizioni,
e per cui Cézanne meditava talvolta per un’ora prima di darla; essa deve, come
dice Bernard, “contenere l’aria, la luce, l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno
e lo stile”. L’espressione di quel che esiste è un compito infinito.
Né si può dire che Cézanne abbia meno curato la fisionomia degli oggetti e
dei volti, che egli voleva solo cogliere quando essa emerge dal colore. Dipinge-
re un volto “come un oggetto” non vuol dire privarlo del suo “pensiero”. “In-
tendo che il pittore lo interpreta” dice Cézanne, “il pittore non è un imbecil-
le”. Ma questa interpretazione non deve essere un pensiero separato dalla vi-
70 MAURICE MERLEAU-PONTY
strati geologici. Poi non si muoveva più e guardava, dilatando gli occhi, diceva
la signora Cézanne. “Germinava” con il paesaggio. Si trattava, dopo aver di-
menticato tutte le scienze, di riafferrare, valendosi di tali scienze, la costituzio-
ne del paesaggio come organismo nascente. Occorreva saldare le une alle altre Il paesaggio
come
le visioni di tutti i punti di vista particolari che lo sguardo assumeva, riunire organismo
quel che viene disperso dalla versatilità degli occhi, “congiungere le mani er- nascente
ranti della natura” dice Gasquet. “C’è un minuto del mondo che passa, biso-
gna dipingerlo nella sua realtà”. La meditazione terminava a un tratto. “Di-
spongo del motivo” diceva Cézanne, e spiegava che il paesaggio deve essere
cinturato né troppo in alto né troppo in basso, o anche ricondotto vivo in una
rete che non lasci passare niente. Allora: aggrediva il quadro da tutti i lati alla
volta, e contornava di macchie colorate le prime linee al carboncino, lo schele-
tro geologico. L’immagine si saturava, si amalgamava, si disegnava, si equilibra-
va e maturava tutta in una volta. “Il paesaggio” diceva “si pensa in me e io ne
sono la coscienza”. Nulla è più lontano dal naturalismo di questa scienza intui-
tiva. L’arte non è né un’imitazione, né peraltro una costruzione che segua i det-
tami dell’istinto o del buon gusto. E un’operazione di espressione. Come la pa-
rola chiama, cioè coglie nella sua natura e al suo posto dinanzi a noi in qualità
di oggetto riconoscibile quel che appariva confusamente, il pittore, dice Ga-
squet, “oggettiva”, “progetta”, “fissa”. Come la parola non assomiglia a quel
che designa, la pittura non è un’illusione; Cézanne, secondo le sue proprie pa-
role, “scrive da pittore quel che non è ancora dipinto e lo rende pittura assolu-
tamente”. Dimentichiamo le apparenze viscose ed equivoche, per andare, tra-
mite loro, dritti alle cose che rappresentano. Il pittore riprende e converte ap-
punto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata
da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose. Per La vibrazione
quel pittore, una sola emozione è possibile, il sentimento di estraneità, e un so- delle apparenze
lo lirismo, quello dell’esistenza sempre ricominciata.
Leonardo da Vinci aveva adottato come divisa il rigore ostinato, e tutte le
Arti poetiche classiche dicono che l’opera è difficile. Le difficoltà di Cézanne –
come quelle di Balzac o di Mallarmé – non sono della stessa natura. Balzac im-
magina, senza dubbio sulla scorta delle indicazioni di Delacroix, un pittore che
vuole esprimere la vita medesima con i soli colori e che tiene nascosto il suo ca-
polavoro. Quando Frenhofer muore, gli amici non trovano che un caos di colo-
ri e di linee inafferrabili, una muraglia di pittura. Cézanne fu commosso fino al-
le lacrime leggendo il Capolavoro sconosciuto e dichiarò di essere lui Frenhofer.
Lo sforzo di Balzac, anche egli ossessionato dalla “realizzazione”, fa capire
quello di Cézanne. Egli parla, in Pelle di Zigrino, di un “pensiero da esprime-
re”, di un “sistema da costruire”, di una “scienza da spiegare”. Fa dire a Louis
Lambert, uno dei geni mancati della Commedia Umana: “Cammino verso certe
scoperte... ma che nome dare al potere che mi lega le mani, mi chiude la bocca
e mi trascina in senso contrario alla mia vocazione?”. Non basta dire che Balzac
si sia proposto di capire la società del suo tempo. Descrivere il tipo del com-
messo viaggiatore, fare una “anatomia dei corpi insegnanti” o magari fondare u-
na sociologia non era un compito sovrumano. Una volta nominate le forze visi-
bili, come il denaro e le passioni, e una volta descritto il funzionamento manife-
sto, Balzac si chiede come mai tutto ciò, quale ne sia la ragion d’essere, che co-
sa voglia dire per esempio quest’Europa “i cui sforzi tendono tutti a non so qua-
72 MAURICE MERLEAU-PONTY
1 Da Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso (1948), Milano, il Saggiatore, 1962, pp. 27-44. Tra-
Una stupefacente unione di radiosa trasparenza e magistrale semplicità con una mul-
tiforme elaborazione permette a Klee, pittore e poeta, (…) un’armoniosa combina-
zione di procedimenti vari e originali.
la dialettica della perspicuità artistica di Klee, il suo acuto senso delle correlazioni di
dinamico e statico, di chiaro e di scuro, di intensivo ed estensivo, di concetti gram-
maticali e geometrici e infine di norma e di superamento della norma (ib.).
riconosce “il flusso sotterraneo” che costituisce “la preistoria del visibile”. L’in-
telligibilità non è data soltanto dagli elementi nominabili e dalla raffinata titola-
zione. Come hanno osservato i semiologi, il linguaggio plastico è già diretta-
mente significante, prima del riconoscimento figurativo e al di là delle parentele
La dimensione
significante “naturali” tra gli oggetti del mondo; il gioco delle componenti formali (topolo-
del linguaggio giche, eidetiche, cromatiche) comporta già una significazione più profonda e
plastico più astratta (Greimas 1984; Fabbri 1998; Corrain, Fabbri 2000). Resta da rac-
cogliere la sfida della descrizione analitica, tanto più ardua che l’istanza di so-
stanza visiva ci è meno agevole di quella linguistica.
Chi conosce l’estro espressivo e l’acribia concettuale con cui Klee ha costrui-
to un proprio linguaggio, non può limitarsi a un’apprensione immediata e corsi-
va, ma è tenuto a una lettura degli elementi e della loro sintassi. Naturalmente è
possibile affidarsi all’immaginario, al dizionario di immagini dello stesso Klee il
quale, a differenza di altri artisti, non è stato avaro di indicazioni4. Resta tutta-
via il problema della sintassi, cioè della messa in correlazione degli elementi al-
l’interno della singola opera o gruppo di opere e della molteplicità dei sensi che
consente e sfrutta la percezione simultanea della superficie planare.
Per questo, le migliori letture sono quelle che hanno esplicitato, per quanto
possibile, la sottigliezza e la grazia dei dispositivi che costituiscono la “maniera”
di Paul Klee. E che hanno potuto reperire non l’unicità ma la molteplicità di
senso, non una generica ambiguità o reversibilità, ma la rigorosa ed esplicita
stratificazione dei significati5.
Penso, ad esempio, all’esegesi di Uguale a infinito (Gleich Unendlich,
1932) con cui Damisch (1984) mostra progressivamente come l’“otto orizzon-
tale” – chiave di violino e segno di infinito – tracciato su di uno sfondo divi-
sionista, raffiguri il progetto, musicale e matematico, di una genesi strutturata
La
della forma. O all’analisi di Lampo fisiognomico (Phisiognomischer Bliz, 1927)
stratificazione che Boulez (1989, p. 134) considera “il simbolo stesso del pensiero e dell’im-
dei significati maginazione di Klee”, e comparabile nelle procedure al Wozzeck di Berg. In
quest’opera il senso è dato dalla rappresentazione di forze in azione e defor-
mazione reciproca. Sono gli incontri, antagonismi e congiunzioni astratte tra
elementi geometrici primi, come le rette e i cerchi; è la linea spezzata che pas-
sa per un circolo e prende, grazie alla denominazione, il valore figurativo di
“lampo che attraversa un viso”.
In direzione esplicitamente semiotica si muove l’analisi di Manacorda (1978,
p. 205) che indaga i “rapporti o equivalenze intersemiotiche tra due sistemi di
segni (…) iconici e verbali”, per dimostrare, in un’ottica jakobsoniana, che in
Klee “i testi verbali non sono strutturalmente diversi dai testi pittorici e grafici”
(p. 208). Data la caratteristica iconizzante del linguaggio poetico, ottenuto con
la negazione della temporalità e della linearità, l’analisi porta non solo sulle pro-
cedure linguistiche ma su quelle proprie al “linguaggio poetico, replicabili nel-
l’ordine del linguaggio pittorico” (p. 222). Un piccolo poema, Motto, presente-
rebbe isomorfismi di codice che permettono al critico di inferire non delle mas-
sime di traduzione intersemiotica verbo-visiva, ma un vero e proprio ipercodi-
ce, “un’identità còdica invariante” (p. 220), responsabile ad esempio dell’effetto
stilistico di “mistero” della pittura di Klee. La stessa morfologia, una scacchiera
o matrice spaziale, sottoposta alle regole di sintassi – spostamento, rotazione e
specularità – sarebbe all’opera nelle immagini e nei poemi di Klee6.
LA SFINGE INCOMPRESA 77
la pittura [di Klee] nello spazio di alcuni decimetri quadri, è in grado di darci l’illu-
sione di un mondo nuovo, dove tutte le contraddizioni appaiono risolte (p. 128)7.
1. Il plastico
1.1. La topologia
Sappiamo che per Klee (1957, p. 264) il “contorno (…) [aveva come funzio-
ne di] imbrigliare e contenere gli sfuggenti impressionismi”. Una forma e una
forza. In tal senso va vista la “nicchia” scura che circonda la configurazione, che
ne viene inquadrata e focalizzata, con un effetto di profondità accentuato dalla
“voluta a chiocciola” sulla destra. Con l’eccezione del segmento a destra in bas-
so che, proprio in opposizione alle delimitazioni opposte e contigue, lascia un
effetto di apertura e di appiattimento.
Il centro geometrico della composizione è collocato sulla base del triango- La cornice
lo di destra, quello il cui lato superiore sinistro prolunga la diagonale che di- e il centro
vide in due lo spazio del dipinto, all’incrocio del lato inferiore e più breve
del rettangolo colorato di verde. Conoscendo il proposito di Klee – il centro
è “la norma di irradiazione” (Klee 1970, p. 106) e “logos” di disseminazione
(p. 29) – ecco il luogo rispetto al quale tutti gli elementi si trovano definiti e
sensibilmente sfalsati.
78 PAOLO FABBRI
destra, al contrario, è marcata dal senso della verticalità, per la linea che collega
uno dei formanti circolari dell’otto con le sfaccettature soprastanti e per le linee
che intersecano la voluta spostata, rispetto all’altra, verso l’alto. L’insieme inten-
de ottenere un’ininterrotta forma mobile.
1.2. Il cromatismo
È la dimensione plastica meno frequentata della semiotica visiva: per contro
essa gioca nella teoria generale di Klee un ruolo molto articolato sul piano del
significante come a livello passionale9. In Sphynxartig il colore è distribuito in
modo complesso e sottile. È steso in maniera uniforme nella campitura o per
pennellate orizzontali nella parte superiore, con un effetto di sfondo; alterna in-
vece continuità e frammentazione nella parte centrale dove si trova più spesso
delimitato dalle linee.
1.2.1. Sappiamo che per Klee, l’articolazione tra chiaro e scuro precede
quella propriamente cromatica, la quale è, goethianamente, effetto di un incro-
cio attivo della luce e dell’ombra, ottenuto attraverso la pigmentazione (“Le to-
nalità! L’anticamera del paradiso dei colori”?). Bianco e nero, reversibili e cor- L’articolazione
relati, occupano dunque la colonna centrale del suo noto modello: il piano cro- chiaroscurale
matico è concepito secondo una dinamica olistica, come un moto rotatorio in
cui si giustappongono i tre colori fondamentali: giallo, rosso e blu. Al centro, la
mescolanza dei colori forma il grigio. Risultano così definiti anche gli sposta-
menti possibili sul “solido” della rappresentazione: alto vs basso; sinistra vs de-
stra; davanti vs dietro.
sizione e orienta lo sguardo in verticale dal nero al grigio, cioè dal basso ver-
so l’alto, attraverso la mediazione geometrica delle cuspidi dei triangoli e l’o-
rientamento delle linee.
Per contro, la forma a otto conduce orizzontalmente dal chiaro a sinistra
verso lo scuro a destra: “tutto ciò appartiene all’ambito ponderale, si tratta
dei movimenti dal chiaro verso lo scuro” (Klee 1970, p. 111). Sappiamo che,
per Klee, il movimento /scuro/ vs /grigio/ corrisponde sul piano semantico a
uno spostamento dalla certezza – lo scuro – all’incertezza – il grigio – (1970,
p. 306). Le opposizioni e gli spostamenti tonali corrispondono quindi a cate-
gorie e a percorsi sul piano cognitivo. In particolare su quello che per i se-
miologi è la modalità epistemica: il certo e l’incerto.
Riassumiamo: sul piano orizzontale il moto da sinistra a destra va dalla de-
terminazione all’indeterminazione, dalla chiusura all’apertura, da “l’unité du
hasard et de la nécessité dans un calcul sans fin”10. Sul piano verticale, orien-
tato dal basso verso l’alto, la tensione va dalla sicurezza all’improbabilità.
2. L’iconico
Colta come figura nominabile del mondo, la sagoma complessiva del no-
stro disegno potrebbe ricordare un violino visto di profilo, con l’impugnatura
a destra, nella parte a voluta detta “a riccio” o “a chiocciola” – importante
motivo del lessico di Klee11 – oppure un veicolo sbilenco, un carro con ruote
irregolari. La lingua non sembra all’altezza della ricchezza dello sguardo.
Ma il titolo, Sphinxartig, ci orienta altrimenti.
Sappiamo che dare un nome non è solo categorizzare; è stabilire relazioni Il titolo
tra oggetti o persone e se stessi. Ed è noto, inoltre, il ruolo speculativo e poe-
tico dei titoli di Klee. Per lui la parola “ha il compito di completare e preci-
sare le impressioni (…) suscitate dai (suoi) quadri”. E si tratta spesso di peri-
frasi allusive che colgono con esattezza il carattere di “prima volta dell’im-
pressione”. Di qui, l’importanza e la difficoltà di tradurli. In questo caso, Co-
me una sfinge è accettabile, ma il significato di artig (conformità, garbo) è
più sottile. Sfinge-conforme o Sfingiforme sarebbe più appropriato e rispette-
rebbe lo “humour malizioso di Klee” (Wind 1963, p. 93), la sua arguzia argo-
mentativa, “prezioso fiore dell’ironia romantica” (ib.).
82 PAOLO FABBRI
Quello che più ci interessa è l’indicazione della Sfinge, figura della do-
manda e della conoscenza. L’introduzione del piano verbale, la denominazio-
ne modalizzata, traspone i sensi astratti veicolati dai tratti plastici sul piano
Il passaggio
figurativo, permette quindi il passaggio dalla dimensione iconica a quella ica-
al piano stica. Siamo condotti a riconoscere il ritratto, accentuato dagli effetti di
figurativo profondità, di una figura composita; prende forma la fiera diversa, la Sfinge.
Vedremo in seguito le ragioni o le passioni di questa denominazione. Ri-
cordiamo intanto che Klee usa spesso indicazioni antropomorfe, reali o fan-
tastiche. Tra queste ultime troviamo, oltre alla nota serie degli angeli, diavoli,
arlecchini, geni, gnomi, sacerdotesse estatiche, diversi tipi di streghe e la se-
rie di Urchs, animale magico-fantastico12. Sono rare le Sfingi, che però ritro-
viamo ad esempio in Katastrophe der Sphinx (1937) accompagnata dalla linea
spezzata che segnala, in Klee, la “grande tensione [che] scandisce il carattere
drammatico” (Klee 1970, p. 391).
Fatto o facezia, la figurazione sfingiforme si lascia dividere in due parti:
quella che ci fa faccia e fronte, imperniata sugli occhi e il complesso coprica-
po13; quest’ultimo è diviso a sua volta in un diadema14 con strane tese, sor-
montato da due calotte triangolari, separate da un pennacchio.
Chiameremo Marionetta la faccia con copricapo, con l’esclusione della
calotta triangolare, la quale merita un esame a parte.
2.1. La Marionetta
2.2. Le Piramidi
3. Digressione poetica
Jakobson ha, da parte sua, colto la struttura ternaria dei significanti e dei si-
gnificati che ritroviamo nella nostra immagine: Montagna, Valle, il “disegno
spaziale puramente metaforico (…) [che] sottende tutta la poesia” (1970, p.
427) e che egli rende graficamente così:
LA SFINGE INCOMPRESA 85
Nella Valle degli Uomini si situa dunque il soggetto che sa di non sapere e
che si confronta con le due Montagne, marcate da una dissimmetria semantica:
la Montagna degli Animali e quella degli Dei21. Una tipica struttura mitica che
mette in gioco sul piano grammaticale, visivo e semantico le opposizioni di con-
trari e di contradditori che sono caratteristiche del linguaggio di Klee. Bisogna:
è la sola sede della insolubile antinomia tra i due contrari, la consapevolezza della
propria inconsapevolezza, che forse allude al suo rovesciamento pure antinomico, la
tragica consapevolezza della propria inconsapevolezza (p. 427).
È evidente l’omologia figurativa con i due formanti triangolari del nostro ac-
querello e la loro dissimmetria spaziale e cromatica, nonché il ruolo del triango-
lo rovesciato aperto, la Valle, con il vertice marcato dalla Palma e dalla (quasi)
centralità spaziale. È inutile sottolineare il “sentore” edipico della proposizione:
la tragica in-consapevolezza della propria consapevolezza.
86 PAOLO FABBRI
4. In forma di quesito
Ritorniamo all’effige della Sfinge (i due termini hanno forse la stessa eti-
mologia).
L’osservatore del quadro, cioè l’essere Sfingiforme, ci fissa a occhi sbarrati,
con disarmante meraviglia (“E io guardo con gli occhi della meraviglia”, Und
ich schaue, zu mit erstaunten Augen, 1903). Sappiamo che la frontalità dell’im-
magine si rivolge allo spettatore a partire dallo spazio rappresentato. È un
modo di interloquire con noi.
Ma questo sguardo sgranato non è un’apostrofe minacciosa e paralizzante
come quella di Medusa. L’effetto di senso è una domanda attonita, un enigma
senza sfida.
È la domanda della Sfinge Tebana, quella che porta sull’animale a quattro,
due e tre zampe22? Se così fosse bisogna dire che Edipo era favorito dal desti-
La Sfinge
Tebana no, in quanto già portava la risposta nel suo nome. Oidi-pous vuol dire “piede
e la Sfinge gonfio” e lui, che era stato un bambino in ceppi, di apparati di locomozione
Egizia se ne intendeva. La Sfinge voleva forse che Edipo vincesse: stanca di ripetere
la stessa domanda, stanca di silenzi e risposte sbagliate.
Non stiamo però sovrainterpretando, come Benjamin, nella sua vertiginosa
lettura dell’Angelus Novus di Klee? Per il filosofo lo sguardo frontale dell’An-
gelo, “attratto da un donatore rimasto a mani vuote”, era un gesto di cattura
che trascinava lo spettatore verso la profondità dell’immagine. Un Angelo e-
braico: le volute intorno al capo luciferino (e baudelairiano) non sarebbero
riccioli ma filatteri23.
Un testo però non è il luogo dove proiettare tutte le ambiguità. Anzi, con
la sua forma seleziona tra le letture possibili. Abbiamo visto che le Piramidi e
la Palma, l’illuminazione orizzontale e l’intertestualità goethiana ci orientano
verso la Sfinge Egizia che ha appassionato Klee ben prima del suo viaggio in
Egitto del 1929. Un disegno del 1923, in cui il nostro acquerello si trova esat-
tamente rovesciato con poche variazioni di tratto (un procedimento familiare
a Klee). Il titolo è indicativo: Impalcatura per la testa di una scultura monu-
mentale (Gerust fur Kopf einer Monumentalplastik).
Questo monumento faraonico ha però un tratto in comune con l’animale
mitologico di Sofocle, di cui Klee era appassionato lettore: la caduta del re-
gno. Citiamo:
Fig. 10. Paul Klee, Gerüst für dem Kopf einer Monumentalplastik (Impalcatura per la testa di una
scultura monumentale), 1923, disegno, 21.8 x 37.4 cm, Italia, collezione privata.
Questa tensione ad una spiritualità autocosciente che non coglie se stessa nella sola
realtà che le è conforme, ma che si intuisce unicamente in ciò che le è affine e viene
a coscienza anche in quel che le è estraneo, è il simbolico in generale (Hegel 1835-
1938).
Forse!
88 PAOLO FABBRI
1 Da Pasquali, M., a cura, 2000, Paul Klee. Figure e metamorfosi, Milano, Mazzotta, pp. 45-53.
2 Per Goodman il disegno di Klee (tratto da Klee 1925), dimostrerebbe a pieno come “l’artista
che intende produrre una rappresentazione spaziale attualmente accettabile come fedele da un occhio
occidentale, deve trasgredire le ‘leggi della geometria’” (1968, p. 20). E compiere il necessario lavoro
di traduzione. Per Gehlen (1965, p. 167), Klee ha “scoperto le leggi particolari, attive intraotticamente,
della percezione visiva”. Leggi che ha inoltre sottoposto “a piccole trasformazioni escogitate fantastica-
mente” (ib.). Infatti per “l’immaginazione psichica” di Klee, si realizzerebbe, con una razionalità otti-
ca e concettuale, il prodigio per cui “le norme del mondo esterno percepito coincidono con quelle
dell’immaginazione” (p. 172).
3 Come sembra credere Varnedoe (1990), che pure ha colto l’omologia tra il procedimento di Klee e
nesse una nuova iconologia fatta di segni a significati emozionali fissi: un “alfabeto dei sentimenti”,
di carattere simbolico (in senso hjelmsleviano). Come abbiamo visto, la sua rappresentazione patemi-
ca è invece semisimbolica, ottenuta per correlazioni categoriali tra il piano dell’espressione e quello
del contenuto. La lettura della “spirale” di Klee è però una fonte inesplorata nell’ispirazione teorica
e figurativa del sommo regista russo.
5 Ecco un esempio piuttosto probante: “In un disegno raffigurante un idillio a Berna dovrebbero es-
sere contenuti: 1. lo ‘Zytgloggeguggel’ che canta: ‘chiami la mia patria’, 2. un quartetto di ubriachi che fa
una serenata a questo uccello, 3. due polipi con scarpe di gomma che si domandano se potranno scon-
figgere quei quattro o finir con il soccombere, 4. i rami frondosi di Berna che si curvano sopra questa
scena./ ‘Un fulmine nella notte, la vivida luce leva un grido nel sonno. Il signor Eckzhan Shneller che in
casa della signora Gfeller è invitato ad un lauto pasto’./ Cose del genere ora posso esprimerle con una
discreta intensità e cioè soltanto con la linea, con la linea come spiritualità assoluta, senza accessori ana-
litici, assolutamente di getto” (Klee 1957, p. 284).
6 Per il confronto tra una pittura di Klee (Scheidung abends) e una poesia di Georg Trakl (Die Stufen
des Wahnsinns un schwarzen Zimmern) cfr. Jürgen Walter, citato in Manacorda 1978, pp. 203-204.
7 Cfr. anche le analisi diversamente orientate di Verdi (1974) e di Bauschatz (1991) che ha esaminato
1984, p. 228).
11 Manca tuttavia un apprezzamento comparativo più esteso dei diversi valori figurativi presi dalla li-
nea a doppia voluta (la chiave di violino) che può fungere a livello figurativo da orecchio (Il vecchio che
conta) o da bocca nella Strega con pettine; da base nell’acconciatura in L’innamorato, o da colletto di La
cantante d’opera; da anse del Vaso di Pandora o da piante e così via. A partire comunque dell’orienta-
mento nello spazio e dell’integrazione a altre figure.
LA SFINGE INCOMPRESA 89
12 Per una lista non esaustiva dei temi di Paul Klee si veda Klee 1971.
13 Frequenti e singolari sono i copricapo dei personaggi antropomorfi in Klee. Si vedano ad esempio
La cantante L. in veste di Fiordiligi, (1923) i cappelli e in generale le acconciature.
14 Per simili soluzioni calligrafiche si vedano Pittura murale (1924), dove il formante può rendere u-
na trama di merletto, o Pagina dal libro delle città (1928), dove si trasforma in notazione musicale.
15 Possiamo quindi escludere che si tratti della Archrontia atropos, una farfalla dai vivacissimi colori
del genere delle Sfingi. Le farfalle non mancano certo al bestiario di Klee.
16 Sospendiamo la lettura delle linee che intersecano la voluta alla nostra destra: si tratta comunque
di tre linee, a conferma del ritmo ternario colto a pieno da Jakobson (1970).
17 Sempre nella stessa occasione Klee nota che, mentre rifletteva sul mistero della musica e della pit-
tura, i commilitoni gli “stanno intorno con occhi incantati, maschere diaboliche guardano dentro attra-
verso la finestra”.
18 Sulla persistenza di questo motivo goethiano in Klee si veda il poema: “Mi rinfresca solamente la
Notte/ di Valpurga, e là volo/ come una lucciola e subito/ so dov’è accesa una piccola lanterna” (Klee
2000, p. 41).
19 “Dinanzi alle Piramidi/ sediamo, Alta Corte dei popoli./ Inondazioni, guerre e paci…/ E i nostri
Dei./ In mezzo c’è la valle/ crepuscolare degli uomini./ Se mai uno guarda in alto/ un desiderio insazia-
bile lo afferra,/ lui che sa di non sapere,/ di chi non sa di non sapere,/ e di chi sa di sapere” (Klee 2000,
pp. 116-117).
21 Sul motivo triangolare della Montagna e della Piramide, insieme a quello dell’Albero e della Luna,
si veda Montagne in inverno, un acquerello del 1925 (Klee 1970, p. 390). Ma si vedano anche il forman-
te “Orecchie del cavallo” in Addomesticamento dello stallone (1926), o i Tetti, in Vista di una piazza
(1912) e così via.
22 “Vi è un essere sopra la terra che ha due e quattro piedi e un’unica voce e ha pure tre piedi; e mu-
ta natura, egli solo tra quante creature si muovono in mare e in cielo”. Scolio alle Fenicie di Euripide
23 Sul carattere più romantico-baudelairiano e meno ebraico dell’Angelus Novus, si vedano le osser-
vazioni di Scholem in Agesilaus Santander. L’angelologia contemporanea ha trovato terreno fertile nell’o-
pera di Klee, ma non sarebbe senza frutto introdurre una rapporto differenziale e una tensione tra l’An-
gelo e la Sfinge.
24 “Io sto all’erta,/ io non sono qui,/ io sono nella profondità…./ sono lontano…/ io sono tanto lon-
tano/… io ardo con i morti” (Klee 2000, pp. 168-169). E così Il libro dei Morti, “[La Sfinge] vede scor-
rere in lontananza i fiumi celesti del Nilo e navigare le barche del Sole”.
25 Gli psicanalisti post-freudiani stanno spostando lo sguardo, da sempre fisso sulle pulsioni di Edi-
po, verso l’interrogazione conoscitiva della Sfinge. Bion, ad esempio ci propone, di considerare proprio
la figura della Sfinge come implicito mito fondatore della psicoanalisi. Per queste e molte altre informa-
zioni sulla Sfinge, sono debitore a Preta (1993).
26 “Pietre sacre ieri,/ oggi senza enigmi, / oggi hanno un senso!” (Klee 2000, pp. 186-187).
27 “Comunque oplà/ il senso eccolo qua / entrò l’apparenza / dentro la verità / e divenne possibi-
Cerchio nero, tuono lontano, un mondo a sé che non pare curarsi di niente, un ri-
tirarsi in sé, una conclusione immobile, un “eccomi” detto lentamente e con un
po’ di freddezza.
Cerchio rosso, tiene fermo, conserva la posizione, approfondito in se stesso. Nel-
lo stesso tempo però esso cammina perché vorrebbe tutti gli altri posti per sé;
perciò irraggia al di sopra di ogni ostacolo fino all’angolo più lontano. Lampo e
tuono al tempo stesso. Un “eccomi” appassionato (p. 192).
La fonte:
L’articolo di Kandinsky (1935b) era stato pubblicato direttamente in fran-
un articolo cese, il che spiega perché Klee abbia preso a prestito il titolo da Stendhal. La
di Kandinsky fonte pare dunque indiscutibile, ma la questione rimane: qual è il valore di
una tale scoperta per l’analisi del quadro? Il contenuto del testo ci informa
sul contenuto del quadro? Non è affatto detto. Le rouge et le noir di Klee
potrebbe benissimo essere un quadro dipinto contro il quadro immaginario
di Kandinsky “Cerchio nero (…) cerchio rosso …”. Abbiamo dunque deciso
di non utilizzare il testo di Kandinsky nell’analisi dell’acquerello di Klee.
Occorrerà innanzitutto analizzare il dipinto e solo in un secondo tempo in-
terrogarsi sulla natura del rapporto tra il progetto di Kandinsky e l’opera di
Klee3.
Il titolo Le rouge et le noir, che in quanto citazione è dotato di un caratte-
re “poetico”, intrattiene con il quadro un semplice rapporto di designazione.
Si limita infatti a denominare le due superfici circolari nella loro rispettiva
qualità cromatica, quella che sembra, a prima vista, opporle. Se accettiamo
che a livello plastico – il solo che qui sia in gioco – ogni testo visivo possa es-
sere analizzato secondo tre dimensioni complementari – cromatica, eidetica e
topologica – il titolo sembrerebbe rinviare unicamente alla dimensione cro-
matica, benché al contrasto cromatico siano legati un certo numero di con-
trasti eidetici e topologici (alto vs basso, sinistra vs destra, ecc.). Si potrebbe
perciò dire che il titolo ha la funzione di sottolineare la dimensione cromati-
ca a scapito delle dimensioni eidetica e topologica; il contrasto cromatico sa-
rebbe “ciò di cui si parla”.
Se la dimensione cromatica può essere considerata come il soggetto del
L’explicans processo da analizzare, le due dimensioni complementari, eidetica e topolo-
e l’explicandum gica, possono essere i predicati di questo soggetto, con la funzione di “com-
mentare” il contrasto cromatico rosso vs nero. Da qui la nostra ipotesi che il
dipinto Le rouge et le noir vada analizzato come un discorso duplice, nel
quale l’eidetico e il topologico giocano il ruolo di explicans, e il cromatico
quello di explicandum. Se quest’ipotesi è corretta, l’eidetico e il topologico
dovrebbero ammettere un’analisi secondo i due piani semiotici (il piano del-
l’espressione e il piano del contenuto) e sarebbero dunque, a un primo livel-
lo di lettura, portatori di senso.
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 93
un’azione specifica quando (…) sia preso nella sua singolarità, mentre, in combina-
zione con altri, si tratta di un’azione in parte armonica, in parte caratteristica, spesso
anche non-armonica, sempre tuttavia decisa e significativa, che si riallaccia diretta-
mente al momento morale (§ 758).
94 FELIX THÜRLEMANN
In altri casi il rapporto tra i due piani, e tra i rispettivi modi di descrizione,
sembra più complesso. Se ciascuna tinta manifestata può essere analizzata a li-
vello categoriale come una figura, costituita da una serie di categorie apparte-
nenti a tipi diversi (radicali, saturazione, valore, materia), la relazione semiotica
potrà stabilirsi tra un’opposizione valutativa semplice e un’opposizione com-
plessa formata da due “pacchetti” di categorie. Così, due tinte, caratterizzate
entrambe dal radicale /rosso/, possono apparire l’una come relativamente “cal-
da” (“rosso brillante che dà sul giallo”), l’altra come relativamente “fredda”
(“rosso cupo tendente al blu”): le categorie del livello valutativo appaiono allo-
ra come effetti di senso, il cui processo di produzione richiederebbe per ciascu-
na figura cromatica manifestata un’analisi supplementare6.
damentale in ogni sistema cromatico. Per fare questo ci riferiremo al noto studio
di Berlin e Kay (1969), e alle stimolanti critiche rivoltegli da Conklin (1973).
Secondo Berlin e Kay, l’insieme dell’area culturale europea, così come quella
semitica, cinese, giapponese e altre, manifestano la settima e ultima tappa di svi-
luppo del lessico cromatico, e dispongono di undici “termini di base” (basic color
terms) per articolare la totalità della sostanza cromatica. Questi termini, denomi-
nati radicali cromatici, sono designati da lessemi italiani: nero, bianco, rosso, ver-
de, giallo, blu, marrone, viola, rosa, arancione, grigio7. Come già constatato, la
categoria di radicali non appartiene allo stesso livello elementare delle categorie
della saturazione e del valore. I differenti radicali definiti da Berlin e Kay non so-
no inoltre tutti della stessa natura, ed esistono relazioni di ordine gerarchico tra i
diversi termini: per esempio, i rapporti tra /rosso/ e /blu/ da un lato e tra /rosso/
e /rosa/ dall’altro non sono evidentemente dello stesso ordine8.
Cercheremo ora di fornire qualche indicazione – a titolo di ipotesi di lavoro
– in vista di una articolazione logica tra i diversi termini. Cominceremo con il La categoria
ricordare che i nostri criteri di articolazione sono di ordine puramente percetti- della
vo (pertinenti dal punto di vista dell’istanza di ricezione) e non si basano su ri- cromaticità
flessioni di ordine fisico, fisiologico o poietico (per esempio, produzione di tin-
te tramite mescolanza di pigmenti). Le nostre proposte si avvalgono soprattutto
delle osservazioni fatte da Heimendahl (1961).
La categoria della cromaticità, che Heimendahl utilizza, permette una prima
articolazione degli undici radicali. Si potranno così raggruppare, in un insieme
a parte, i termini acromatici /bianco/, /grigio/, /nero/. Nell’insieme complemen-
tare costituito dagli altri otto termini, /marrone/ occupa un posto particolare,
intermedio, tra il gruppo cromatico e quello acromatico (1961, p. 67). Lo defini-
remo semi-cromatico, lasciando per il momento in sospeso l’interpretazione lo-
gica che bisognerebbe dare a questo termine in rapporto agli altri due (neutro e
complesso). Ne risulta una prima classificazione:
Possiamo allora constatare che le due zone di passaggio, che legano il focus
/rosso/ al /giallo/ da un lato e al /blu/ dall’altro, possiedono ciascuna un’articola-
zione secondaria attraverso un termine medio complesso, l’/arancione/ e il /viola/.
L’/arancione/ è percepito come apparentato contemporaneamente al /rosso/ e al
/giallo/, il /viola/ come partecipe del /rosso/ e del /blu/. Il /rosso/ possiede dun-
que una posizione privilegiata all’interno del gruppo dei quattro “primari”, poiché
solo i passaggi da questo primario ai due vicini possiedono quest’articolazione:
s e c o n d a r i a .
Dobbiamo ancora assegnare un posto al radicale /rosa/ nel gruppo dei ter-
mini cromatici fondamentali. Ci sembra che esso vada considerato come una
variante desaturata del /rosso/. Se questa interpretazione è corretta, sottolinee-
La posizione rebbe, ancora una volta, la posizione privilegiata di questo termine tra gli undi-
privilegiata ci radicali, poiché soltanto per il /rosso/ la variante desaturata sarebbe lessica-
del rosso lizzata da un termine semplice (“rosa” vs “blu chiaro”, “verde chiaro” ecc.)10.
Torniamo ai quattro “primari” cromatici. Se tutti i “termini di base” hanno
ora il loro posto all’interno del sistema costruito su un numero ridotto di cate-
gorie, questo non avviene per i termini cromatici detti “primari psicologici”. Ci
si può chiedere se questi quattro radicali vadano considerati come equipollenti
o se non sia possibile individuare un’articolazione supplementare. Il fatto che i
quattro termini fondamentali possano essere messi in serie, e che, di conseguen-
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 97
za, ciascuno possegga due termini vicini e uno non vicino, permette di distin-
guere, per ciascuno di essi, un termine antonimo (la definizione è di Conklin
1973, p. 937) con il quale non esiste mediazione possibile tramite una manife-
stazione complessa. Si possono così formare due paia di antonimi tra le sei cop-
pie possibili: /blu/ ↔ /giallo/ e /rosso/ ↔ /verde/.
Per concludere, noteremo che le relazioni logiche tra gli undici termini fonda-
mentali che abbiamo descritto forniscono un sistema allo stato virtuale. Gli undici
termini infatti solo raramente sono manifestati nella loro totalità all’interno di un
processo dato. (Sappiamo che esistono manifestazioni pittoriche che non ne sfrut-
tano alcuno e che mettono in opera i soli registri della saturazione e della mate-
ria)11. È questa una caratteristica che distingue le semiotiche visive dalle lingue na-
turali, giacché, per esempio, il sistema fonologico di qualsiasi lingua è fisso e vinco-
lante per ogni manifestazione e si trova quasi sempre realizzato nella sua totalità.
5. L’ipotesi riformulata
s e c o n d a r i a .
Il rosso, così come ce lo immaginiamo, come colore tipicamente caldo, senza limiti,
agisce interiormente come un colore assai vivace, acceso, inquieto (…). Il rosso cal-
do chiaro (rosso di Saturno) ha una certa somiglianza col giallo medio (contiene an-
che, sotto forma di pigmento, una quantità abbastanza grande di giallo) e suscita u-
na sensazione di forza, energia, tensione, decisione, gioia, trionfo (puro), ecc. In
campo musicale ricorda anche il suono delle fanfare in cui sia presente anche la tu-
ba: tono ostinato, molesto, forte16.
E come un nulla privo di possibilità, come un morto nulla dopo lo spegnersi del so-
le, come un eterno silenzio senza futuro e senza speranza risuona interiormente il
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 101
nero. Esso può essere rappresentato musicalmente come una pausa conclusiva, dopo
la quale un’eventuale prosecuzione si presenta come l’inizio di un nuovo mondo,
poiché ciò che è stato concluso da questa pausa è per sempre finito, compiuto: il
cerchio è chiuso. Il nero è qualche cosa di spento, come un rogo combusto fino in
fondo, qualche cosa di inerte come un cadavere, che è insensibile a tutto ciò che gli
accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso. È come il silenzio del cor-
po dopo la morte, dopo la conclusione della vita. È questo, esteriormente, il colore
meno dotato di suono, sul quale perciò ogni altro colore, anche quello che ha il suo-
no più debole, acquista un suono più forte e preciso (pp. 111-113).
Possiamo constatare che nella descrizione del ‘nero’ buona parte delle e-
spressioni valutative caratterizzanti il ‘rosso’ riappare nella forma opposta (con-
traria o contraddittoria). Da molti punti di vista, il ‘nero’ può essere considera-
to come un antonimo del ‘rosso’. La lista seguente riassume in modo schemati- La descrizione
co alcune caratteristiche essenziali contenute nelle descrizioni di Kandinsky17. I valutativa
termini che nei due testi si trovano, direttamente o indirettamente, in un rap- di Kandinsky
porto di opposizione sono riportati in corsivo. Si potranno così prevedere, a ti-
tolo ipotetico, i concetti che dovrebbero riapparire, almeno parzialmente, nella
descrizione valutativa dei livelli eidetico e topologico del quadro, se è vero – co-
me supponiamo – che questi due livelli esprimono il contenuto valutativo del
‘rosso’ e del ‘nero’ nel loro contrasto.
ROSSO NERO
Caldo –
vivace, inquieto morto, inerte
forza, energia –
senza limiti chiuso, privo di possibilità
gioia, trionfo –
suono forte, ostinato, molesto silenzio, il colore meno dotato di suono
molti colori vengono sottolineati nel loro valore da talune forme e smorzati da altre.
Colori acuti vengono sempre esaltati, acquistano un suono più acuto, quando sono
associati a una forma acuta, ad esempio il giallo associato al triangolo. I colori che
tendono all’approfondimento vedono questa tendenza accentuata da forme tondeg-
gianti, ad esempio il blu associato al cerchio (p. 99).
contorno
R cerchio leggermente allungato N cerchio leggermente appiattito rispetto
rispetto alla verticale alla verticale (bordo superiore)
posizione
R sinistra N destra
R alto N basso
inserzione
R distanza irregolare rispetto N distanza pressappoco uguale, regolare,
ai bordi (sinistro e superiore) rispetto ai bordi vicini (destro e inferiore)
R posizione a destra della mediana N posizione sulla mediana verticale del
verticale del quadrato sinistro, quadrato destro, non eccentrica
eccentrica
R posizione eccentrica rispetto N posizione non eccentrica rispetto
all’asse mediano orizzontale all’asse mediano orizzontale
Tra le categorie della posizione, una valutazione del contrasto sinistra vs destra
ci sembra impossibile. Questo contrasto sembra essere senza significato al di fuo-
ri di una lettura orientata, cioè temporalizzata. Il caso dell’opposizione della verti-
104 FELIX THÜRLEMANN
Più complicato sembra essere il caso del contrasto dei contorni, allungato (R)
vs appiattito (N), che si trova legato all’orientamento verticale. Abbiamo anche
constatato che lo schiarimento del fondo attorno all’elemento R si presenta nella
forma di una striscia verticale. La somma di questi due tratti concorre a produrre
un effetto di senso “dinamismo orientato”; si potrebbe considerarlo come una
specificazione del valore “dinamico” che sembra caratterizzare il campo R. L’ele-
mento-figura ‘rosso’ appare come un attore dotato della competenza del movi-
Il contenuto
dei contrasti mento. Sembra in grado di spostarsi nella direzione della verticale, più precisa-
eidetici mente dal basso verso l’alto, poiché possiamo considerare la posizione eccentrica
e topologici (verso l’alto) come il risultato di un movimento “ascendente”. A quest’effetto di
senso di dinamismo orientato secondo l’asse verticale, possono aggiungersene al-
tri, meno marcati. Mentre l’elemento ‘nero’ sembra ancorato alla superficie dal
valore relativamente più scuro, il punto ‘rosso’, grazie alla banda più chiara e co-
me “vuota” sulla quale è dipinto, sembra “librarsi nello spazio” e dà l’impressio-
ne di “avvicinarsi allo spettatore”, per riprendere l’espressione di Kandinsky.
Riassumendo, possiamo dire che il campo R, dunque il colore rosso, appare
come “dinamico e leggero”; l’elemento ‘rosso’ sembra “muoversi” (più specifi-
camente verso l’alto). Per la parte N, tutte queste valorizzazioni appaiono come
negate. Questo risultato della lettura dei contrasti eidetici e topologici a livello
valutativo corrisponde nelle sue parti essenziali alle caratterizzazioni dedotte
dalla lettura valutativa dei colori ‘rosso’ e ‘nero’ per Kandinsky (confronta lo
schema contrastivo p. 103). Si trova così confermata la nostra ipotesi di lettura:
il contenuto dei contrasti eidetici e topologici in Le rouge et le noir deve essere
considerato come una determinazione metadiscorsiva del contenuto del contra-
sto cromatico ‘rosso’ vs ‘nero’.
È arrivato il momento di interrogarci sul rapporto tra la descrizione del con-
tenuto quale risulta dall’analisi e il contenuto del testo di Kandinsky che era all’o-
rigine del quadro di Klee. Possiamo constatare che i due contenuti sono essen-
zialmente identici. Nel piccolo testo di Kandinsky il ‘nero’ viene ugualmente ca-
ratterizzato con termini negativi (“lentamente” – “freddezza”), mentre il ‘rosso’ è
definito dall’aggettivo “appassionato”. Quanto alla categoria del movimento (sta-
tico vs dinamico) che è servita a opporre le parti ‘nera’ e ‘rossa’ del quadro, la ri-
troviamo nei due paragrafi del testo “Toile vide etc.”, ma in una forma comples-
Caratterizzazioni sa. Il ‘nero’ è caratterizzato dall’assenza di movimento (“conclusione immobile”)
del ‘rosso’
e del ‘nero’ e dalla virtualità di un movimento concentrico (“ritirarsi in sé”), il ‘rosso’ dall’as-
nel testo senza di movimento (“conserva la posizione”) e dalla virtualità di un movimento
di Kandinsky eccentrico (“vorrebbe tutti gli altri posti per sé … irraggia”). Questa definizione
complessa del testo di Kandinsky attribuisce ai due colori un carattere ambiva-
lente che l’analisi non ha evidenziato, ma che non sembra estranea al quadro di
Klee, dal momento che il dipinto appare come un oggetto statico ma capace di
generare effetti di senso dinamici. Le coincidenze vanno ancora oltre, e non ri-
guardano solo i contenuti rispettivi del testo e del quadro, ma anche le loro for-
me discorsive. Così come i due paragrafi di Kandinsky “Cerchio nero (…). Cer-
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 105
1 Da: Felix Thürlemann, Paul Klee. Analyse sémiotique de trois peintures, Lausanne, L’âge d’homme,
parata a calce. Il quadro ha conservato l’incorniciatura originale, con l’etichetta “le rouge et le noir 1938
T 19” sul verso. Nel catalogo delle opere è menzionato con il numero 319 e classificato tra i mehrfarbige
Werke. Le indicazioni sono le seguenti: “T 19 / le rouge et le noir / Öl- und Acquarellfarben / Jute gi-
psgrundiert”. Le rouge et le noir faceva parte inizialmente della collezione Bürgi, Belp; in seguito è pas-
sato alla collezione del prof. Anselmino a Wuppertal, che l’ha lasciato in eredità, nel 1977, al Museo Von
der Heydt di Wuppertal. Chi avrà la possibilità di confrontare la riproduzione con l’originale rileverà i li-
miti della stessa. Su un supporto di dimensioni ridotte, i due punti appaiono relativamente troppo picco-
li. Sembra che si abbia a che fare con un effetto complesso di illusione ottica: a causa dell’ampio sfondo
“vuoto”, i due punti/figure, che non possono esser messi in rapporto con altri elementi plastici, hanno la
tendenza a essere colti sempre nella loro dimensione assoluta.
3 La decisione di non utilizzare il testo di Kandinsky nel prosieguo dell’argomentazione ci è stata
tanto più facile in quanto è stato consultato solo quando l’analisi era già abbozzata.
4 Riprendiamo qui, in una forma un po’ più sistematica, le riflessioni fatte a proposito di Pflanzen-A-
nalytisches (Thürlemann 1982, pp. 43-75). Ci distanziamo dal modello hjelmsleviano delle “tre sostanze” di-
stinguendo due modi di descrizione, categoriale e valutativo. Il modo valutativo non può essere identificato
col “livello di giudizi collettivi” di Hjelmslev, che concerne unicamente la sostanza. Per noi le categorie valu-
tative costituiscono una prima dimensione del contenuto, prodotta a partire dal piano dell’espressione di un
processo particolare, piano dell’espressione che può essere descritto servendosi del modo categoriale.
5 Siamo consapevoli che nella pratica descrittiva corrente la distinzione tra questi due modi non è
quasi mai mantenuta, e che i termini valutativi adempiono spesso anche a una funzione tassonomica. So-
stituire una designazione valutativa di tinta con una combinazione di termini puramente cromatici ri-
chiede ogni volta un notevole sforzo di analisi. Questa constatazione non intende tuttavia inficiare la
possibilità, anzi la necessità teorica di una tale riscrittura.
6 Utilizziamo qui il concetto di effetto di senso secondo la definizione di Greimas: “intendiamo con
effetto di senso un semantismo confuso, quale è suscettibile di essere colto in maniera sincretica a un li-
vello qualunque del percorso della produzione di senso” (1978, p. 2).
7 In seguito, per ragioni di comodità, utilizzeremo anche il termine generico “colore” per designare i
differenti radicali cromatici. Considerati unicamente in quanto radicali, i termini che designano i colori
saranno riportati tra barre: /rosso/, /blu/, ecc. Lo scopo delle nostre riflessioni non sarà di esaminare i
fondamenti metodologici, spesso messi in dubbio, del lavoro di Berlin e Kay. Riprendiamo come ipotesi
di lavoro, senza metterla in discussione, la lista degli undici termini cromatici di base.
8 Potremmo essere tentati di vedere nell’ordine di apparizione dei differenti radicali, quale viene po-
stulato da Berlin e Kay (1969), un indice del loro valore gerarchico. Tuttavia, il carattere profondamente
ipotetico di questa teoria e anche riflessioni di ordine teorico, ci impediscono di farlo: anche ammetten-
do la validità del ragionamento genetico di Berlin e Kay, la logica sincronica su cui si basa l’ultima tappa
106 FELIX THÜRLEMANN
di sviluppo di un sistema non può essere intesa come la somma delle articolazioni delle diverse tappe che
la precedono.
9 Per una lista dei diversi modelli di rappresentazione, cfr. Heimendahl (1961, pp. 54 sgg.).
10 La posizione inferiore dei termini /viola/, /arancione/ e /rosa/ nella gerarchia dei radicali si tradu-
ce nel fatto che sono i soli ancora linguisticamente motivati dalla referenza possibile a un oggetto del
mondo naturale.
11 Per alcune epoche della produzione pittorica occidentale, sembra possibile individuare delle
“scuole” caratterizzate dall’utilizzo di una particolare “tavolozza” di tinte. Così, una gran parte della ten-
denza costruttivista, che segue in questo il gruppo ‘De Stijl’, si è limitata, per ciò che riguarda le tinte, al-
l’impiego esclusivo dei termini acromatici /nero/ e /bianco/ e dei tre primari cromatici /blu/, /giallo/,
/rosso/ (senza possibilità di mescolanze). I pittori di questa corrente, influenzati dai più noti teorici dei
colori (Goethe, Runge, ecc.), considerano questi colori come i soli “puri”.
12 Il ‘rosso’ viene spesso caratterizzato in questo modo nei trattati dei colori. Cfr. ad esempio Koch
(1931, p. 127): “es ist ‘die’ Farbe, die eigentliche Farbe” e Heimendahl (1961, p. 84): “Rot ist die wirkli-
chste bunte Farbe”. È ugualmente interessante notare che secondo le tesi di Berlin e Kay, il /rosso/ com-
pare come il primo radicale del gruppo dei cromatici all’interno del modello genetico (tappa I: /nero/,
/bianco/; tappa II: /nero/, /bianco/, /rosso/).
13 Il termine “equilibrio” è impiegato dallo stesso Mondrian nei suoi scritti (cfr. Mondrian 1974, p. 12).
14 Non disponendo ancora di strumenti di analisi sufficientemente sviluppati, non approfondiremo
quest’aspetto semiotico dell’opera. A nostro avviso, sulla ricerca dell’effetto di senso “equilibrio” si po-
trebbero fare, per la dimensione eidetica, osservazioni simili (benché i due elementi-figure siano disposti
diversamente all’interno della superficie del quadro, nessuno dei due si trova in una posizione privilegia-
ta rispetto all’altro).
15 Il nostro impiego del concetto di “connotazione” si distingue dalla definizione stretta di Hjelm-
slev (1943, p. 122), per il quale un linguaggio di connotazione si innesta su un sistema semiotico comple-
to (dotato di due piani), che esso assume come piano dell’espressione. Qui proponiamo di ridefinire il
concetto di linguaggio di connotazione in un senso attenuato. Il piano dell’espressione del linguaggio
connotativo non sarebbe necessariamente costituito da un linguaggio, come per Hjelmslev, ma potrebbe
essere fornito da un piano isolato all’interno di un linguaggio. Su questa problematica cfr. Greimas,
Courtés (1979) alla voce “connotazione”.
16 È interessante constatare che il paragone del “rosso scarlatto” con il suono della tromba si trova
anche in Locke (1690, p. 479): “Uno studioso cieco, che si era molto affaticato la mente intorno agli og-
getti visibili, e aveva fatto uso delle spiegazioni date dai suoi libri e dai suoi amici per intendere quei no-
mi della luce e dei colori che aveva così spesso uditi, si vantava un giorno di avere ormai capito che cosa
significasse scarlatto. Al che, avendo chiesto un amico suo che cosa fosse lo scarlatto, il cieco rispose che
era come il suono di una tromba”.
17 Heimendhal (1961, pp. 194 sgg., 209 sgg.) riconduce al termine “Gefühlsbestimmung” un nume-
ro impressionante di letture valutative. Per quel che riguarda il ‘rosso’, le caratterizzazioni dei diversi au-
tori sono molto vicine tra loro, e coincidono in generale con quella di Kandinsky. Sfortunatamente, il
‘nero’ manca il più delle volte dalle liste.
18 “… das wäre in gewissem Sinne eine Uebereinstimmung von Form und Farbe” (Petitpierre 1957,
termini di colore, è correlata una serie di figure geometriche. È sorprendente constatare che alcuni tra i
rapporti forma-colore sono identici o molto simili a quelli di Kandinsky. In Klee: triangolo per ‘giallo’,
quadrato per ‘rosso’, ellisse per ‘blu’ (cfr. il quaderno 9/48, pp. 113-115, conservato dalla Fondazione
Paul Klee del Kunstmuseum di Berna). Le figure geometriche, tuttavia, dovrebbero funzionare come
modelli esplicativi delle sfumature (possibilità di schiarimento o assorbimento delle tinte). La parentela
delle forme proposta dai due pittori non sembra però dovuta al puro caso, poiché Klee stesso constata,
esplicitamente, la somiglianza del suo modello con quello di “Meister Kandinsky”. (Questo passaggio
negli scritti non pubblicati di Klee mi è stato segnalato da Christian Geelhaar, direttore del Kunstmu-
seum di Basilea).
20 Questa valutazione contrastiva potrebbe ugualmente essere espressa da termini a carattere più
nettamente simbolico, quali “vivo” vs “morto”. Aust (1977) ha visto in Le rouge et le noir di Klee una vi-
sualizzazione dell’incompatibilità dei principi contrari della ‘vita’ e della ‘morte’. Una tale lettura simbo-
lica conduce tuttavia necessariamente a una riduzione del processo in questione, poiché non rappresenta
che una delle possibili interpretazioni.
Senza titolo… o senza contenuto?1
Jacques Fontanille
1. Introduzione
Proust spiega la riuscita estetica di Elstir con “lo sforzo (da questi) com-
piuto per spogliarsi, di fronte alla realtà, di tutte le sue nozioni di intelligen-
za” (Proust 1954, p. 443). In questo modo, farsi “ignorante” diventa per il
pittore un gesto di “probità”; più precisamente, si tratta di rinunciare al “no-
me” delle cose, perché “i nomi che designano le cose rispondono sempre a
una nozione dell’intelligenza, estranea alle nostre vere impressioni e che ci
costringe a eliminare da esse tutto quanto non si riferisce a quella nozione”
(p. 438). Benché questo discorso sia fortemente ispirato dall’impressionismo,
nondimeno esprime una sorta di “morale dell’estetica” che, in certo qual
modo, la semiotica odierna ha fatto propria: ancor prima di stabilire le cate-
gorie costitutive del discorso bisognerebbe riconoscerne lo zoccolo sensibile
a partire dal quale le interpretazioni si dispiegano.
In materia di semiotica visiva, questa “morale” della descrizione diventa
pressoché un obbligo, specie quando il quadro sfugge a un riconoscimento
figurativo iconico, poiché è possibile accedere al suo contenuto solo ed e-
sclusivamente attraverso ciò che è dato a vedere. Concretamente, il quadro
di Rothko, Untitled, del 1951 (tav. VIII)2 – che in questa sede sarà l’oggetto
del nostro interesse – potrebbe essere analizzato a partire da ciò che sappia-
mo del pittore, della sua produzione e dei discorsi che l’artista ha fatto su di
essa. Al contrario e in modo provvisorio, davanti a un dipinto che, malgrado
tutto, resta profondamente enigmatico, prenderemo le parti dell’ignoranza.
Sperimentare un metodo significa innanzi tutto interrogarsi su quello che
può rivelare nei confronti di un oggetto di cui non si conosce nulla; e in se-
guito significa mostrare come possa rivelare qualcosa di più che una sempli-
ce lettura intuitiva, “filologica” e “colta”.
Il viaggiatore incolto, nondimeno, non è un viaggiatore privo di bagagli:
deve munirsi di un minimo di ipotesi per tracciare un itinerario. In quest’ot- Le ipotesi
tica, ci accontenteremo di fare tre ipotesi preliminari, imposte dalla rinuncia di lavoro
a qualsiasi informazione circa le “intenzioni” conscie o inconscie del pittore.
L’imperfezione tuale delle categorizzazioni e la faglia di cui si coglie l’emozione estetica per
del sensibile edificare dei mondi passionali significanti.
2. Segmentazione
i. le quattro aree sono di taglia e di colore diversi, e i loro bordi non sono so-
vrapponibili (dentellati in alto, lineari nel mezzo o ondulati in basso), e
ii. una fra esse, quella ocra, è la sola a presentare dei bordi comuni con le al-
tre tre e con la cornice. Pertanto, l’area ocra apparirà come una parte il cui o-
rientamento verticale (il rettangolo allungato del formato quadro) e il suo carat-
tere inglobante, la rendono irriducibile alle altre tre, di forma oblunga orizzon-
tale e inglobate dalla prima.
Ogni area risulta così essere, in qualche modo, “contaminata” dal tono di al-
meno uno dei colori delle altre tre, e, di conseguenza, viene a essere composta
da quattro parti: P (l’area nel suo insieme), Pa (la contaminazione evidente sul
bordo), Pb (la contaminazione fusa sul bordo) e Pc (la contaminazione nella
trama). Se si attribuisce un numero a ciascuna delle quattro aree: 1 a quella o-
cra, 2 a quella bruno nera, 3 a quella beige chiaro e 4 a quella rosso-arancio7, si
ottiene il seguente dispositivo:
• P3: (P3a + P3b), per contaminazione del tono di P2, e (P3c), per con-
taminazione del tono di P1 o di P4;
Schema 1.
In termini mereologici, ogni parte del tutto comprende, oltre al tipo croma-
tico che la definisce in opposizione agli altri, tre sottoparti rassomiglianti a una
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 111
o due parti del tutto. Questa sorta di mise en abîme8 è formalmente paragonabi-
le a quella che, con le dovute proporzioni, tramite la procedura del débrayage,
consiste nell’evocare succintamente, all’interno di un segmento narrativo omo-
geneo, i fatti appartenenti a un altro segmento narrativo relativo a un’altra e-
nunciazione o un altro punto di vista; si parlerebbe allora di “messa in prospet-
tiva” enunciazionale.
Di fatto, la ricorrenza degli stessi toni a livelli di elaborazione mereologica
differenti provoca anche qui una “messa in prospettiva”, dal momento che il
soggetto della percezione si interroga sull’identità di un tono che appare con-
temporaneamente nella dipendenza diretta dal tutto e nella dipendenza da una
delle sue parti. Inoltre, questa ricorrenza fortemente costretta da una sorta di
declinazione (bordura sicura + bordura fusa + trama) suscita un effetto di refe-
renza interna, comparabile a quella di una citazione o di un’anafora, poiché le
sottoparti “contaminate” non sono interpretabili come tali che per la referenza
al tono dell’area principale. Come ogni débrayage, anche questo è “autentifican-
te”, perché la ripresa “a eco” del tono di ogni area nelle altre tre conforta sul
piano cromatico, analogamente all’“agglomerazione” sul piano topologico, il
carattere “necessario” del dispositivo di insieme.
L’assemblaggio della totalità del quadro, di conseguenza, si realizzerà in tre Il sistema
momenti: plastico
i. identificazione delle quattro aree più salienti, grazie alla regolarità della lo-
ro forma e del loro cromatismo;
Altrove abbiamo mostrato che le “speci visibili” derivate a partire dalla luce
sono quattro: gli effetti di luminosità, gli effetti di cromatismo, gli effetti di illu-
minazione, gli effetti di materia (Fontanille 1995). Sembrerebbe che ciascuno di
questi effetti si basi su una struttura attanziale e topologica specifica9 e che l’at-
112 JACQUES FONTANILLE
i. sia per saturazione (indicata con: ■) e sia per desaturazione (indicata con:
) di uno dei suoi componenti, e
ii. sia oscurato (indicato con: ●): la luminosità allora svolge il suo compito a
detrimento dei cromatismi.
P1 = [R > C].
P2 = [C ● > R] ■ ●.
La area bianca, con tracce di rosso, sarebbe ottenuta per desaturazione (in-
dicata con: [ ] ) e illuminazione (indicata con: [ ] ) della dominanza [R >
C], nella quale il rosso sarebbe saturo (indicata con: “R ■”). Ovvero:
P3 = [R ■ > C] .
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 113
L’area rossa risulta solo dalla saturazione del componente [R] nella domi-
nanza [R > C]. Ovvero:
P4 = [R ■ > C].
Un primo esame, sebbene veloce, mostra che i toni sono ottenuti attraverso
trasformazioni a catena, la cui sequenza è dettata dal numero delle operazioni
cumulate. È così che le aree ocra, bianca e rossa possono essere messe in se-
quenza, in base al seguente principio:
Illuminazione o oscuramento.
Schema 2
I percorsi più complessi corrispondono agli effetti di contrasti più forti (per
esempio, il percorso [P1 → P2], o quello [P2 → P3]); inversamente, i percorsi
114 JACQUES FONTANILLE
più corti segnalano i contrasti più deboli (per esempio, il percorso [P1 → P4], o
quello [P4 → P3]).
Va notato che, rispetto alla segmentazione precedente, l’area ocra trova una
conferma del suo ruolo particolare, poiché da area inglobante e legante, diviene
qui il luogo cromatico più neutro, a partire dal quale le due sequenze di opera-
zioni divergono e si ordinano in modo quasi simmetrico.
Inoltre, i due anelli mancanti, dal lato della dominanza [C > R] (dei “bruni”
medi, privi del valore di luminosità)11, permettono di misurare il disequilibrio
della sintassi, in modo tale che il contrasto che ne deriva appare – proprio per-
Le velocità di ché il percorso che porta all’area nera non viene scandito da tappe intermedie –
trasformazione come un “insorgere” (un “sopravvenire”) dell’area che segue a partire da quella
antecedente. La medesima osservazione è valida, sebbene con gradualità mino-
re, anche per l’area bianca. Tali “insorgenze” più o meno marcate, insomma,
potrebbero essere descritte come delle accelerazioni del processo di generazio-
ne di ognuna delle aree cromatiche a partire dalle altre: il passaggio dall’ocra al
rosso risulterebbe rallentato, quello dal bianco al nero brutalmente accelerato.
Nel caso particolare, la “velocità” non viene a identificarsi né con quella di un
occhio che associa i rettangoli fra loro, né con quella di un “organo mentale”
che tenta di ricostruire le transizioni, al contrario si identifica con quella dello
stesso oggetto semiotico, la cui morfologia cromatica accelera o rallenta la tran-
sizione fra le aree.
Dal punto di vista paradigmatico, le diversità fra le aree risultano tanto più
significative quanto maggiore è il numero dei tratti differenziali che le oppon-
gono. Dal punto di vista sintagmatico, i contrasti tra le aree possono essere
formulati come delle velocità di transizione variabili. In definitiva, sarebbe
come dire che le diverse morfologie cromatiche determinano delle differenze
di potenziale tra le aree, e che queste differenze di potenziale aumentano in ra-
gione delle variazioni strutturali che separano queste morfologie. Così, se si
accetta di introdurre il tempo nello spazio pittorico, ne consegue che la velo-
cità di transizione risulta tanto più elevata quanto maggiore è la differenza di
potenziale, e viceversa.
Nel dipinto di Rothko, un altro fenomeno viene a interferire con le diffe-
renze di potenziale che abbiamo introdotto per interpretare i diversi percorsi
che portano da un cromatismo all’altro. Infatti, la maggior parte delle opera-
zioni riguarda i toni: inversioni di dominanza, saturazione o desaturazione;
ma ce n’è una che, qualitativamente, fa cambiare di categoria: con lo schiari-
mento o lo scurimento non vengono più chiamati in causa i valori cromatici,
bensì quelli luminosi.
Ora, a differenza del cromatismo, che situa delle aree all’interno di uno
Saturazione e spazio di distribuzione delle energie, che immobilizza e localizza l’energia lu-
desaturazione minosa in una determinata specie cromatica e all’interno di un luogo delimita-
to, la luminosità ha la vocazione di agire sulla totalità dello spazio. Anche lad-
dove il cromatismo mette in gioco, contemporaneamente, la circolazione della
luce tra una sorgente e un bersaglio e la reazione/assorbimento di un’area
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 115
Marie Floch postula e mette in opera una sorta di “fonologizzazione” del colo-
re, al fine di ridurlo ai suoi tratti costitutivi; successivamente, metterà soprattut-
to l’accento sul ruolo assiologico fondamentale dei tratti cromatici. Fernande
Saint-Martin lo situa alla base stessa della percezione del quadro, dando luogo ...e per
alle prime unità d’analisi (i “coloremi”), a loro volta difficili (o impossibili) da i semiotici
analizzare. I teorici della percezione, basandosi al tempo stesso sulla struttura
della retina e sulle strategie percettive degli esseri animati, collocano il colore a
livello delle “pregnanze” biologiche a partire dalle quali gli uomini costruiscono
il senso del loro ambiente e regolano le loro interazioni con esso.
Indipendentemente dalla qualità e serietà degli argomenti invocati, è co-
me se – per dirla con Paul Ricœur – fosse all’opera una “guida teleologica”;
per il filosofo, in effetti, il quadrato semiotico riceve un’interpretazione sin-
tattica solo perché è già destinato, nel momento stesso in cui organizza una
categoria semantica, a fare da supporto all’assiologia che verrà imposta al
soggetto narrativo; potremmo ugualmente sospettare che qualsiasi proposi-
zione teorica, mirante ad ancorare il colore nelle profondità e negli indefini-
bili, sia “guidata teleologicamente” dalla preoccupazione di assicurarsi un
ruolo fondamentale nell’assiologia. Con il colore, infatti, si porrebbe di nuo-
vo la questione della doppia accezione del “valore” in semiotica: differenza
costitutiva e pertinente da un lato, direzione assiologica dall’altro, doppia ac-
cezione che predispone la semiotica a ricercare l’assiologia dietro la perti-
nenza e la pertinenza dietro l’assiologia, come se queste fossero le due facce
indissociabili degli universi significanti.
In quest’ottica, il dipinto di Rothko potrebbe essere interpretato come una ri-
cerca della pertinenza minimale, più precisamente come un tentativo di isolare u-
na direzione assiologica elementare. Si noterà innanzi tutto che le forme e le pro-
porzioni delle diverse aree riproducono grosso modo quelle della cornice stessa
(cioè l’insieme dello strato ocra P1), ma alla condizione di riunire e sommare l’a-
rea nera con quella bianca, e di considerare la parte centrale dell’area ocra come
uno dei rettangoli, a sua volta dissociato in due parti: da un lato P1’, l’intervallo
tra P2 e P3 e dall’altro P1”, la parte centrale vera e propria. Il rettangolo del qua-
dro (P1) risulta così scomposto orizzontalmente in tre zone che ne ripetono ap-
prossimativamente la forma e le proporzioni: P2 + P3; P1’ + P1’’; P4.
L’installazione di questi elementi dell’enunciato deriva da un débrayage e-
nunciazionale che può essere analizzato nel modo seguente: cominciando dalla
cornice enunciazionale, una triplicazione (una varietà della pluralizzazione, pro-
pria al débrayage in generale) e una rotazione di 90° installano tre zone equiva-
lenti16; una nuova divisione, con traslazione e intercalazione delle sottoparti, in- Débrayage
stalla l’area bianca tra due parti dell’area ocra; la scomposizione dei bordi fra- e embrayage
stagliati e il trattamento dei margini compromette infine qualsiasi tentativo di
réembrayage nella cornice enunciazionale. Questa sequenza intitolata “débraya-
ge” risulta, di fatto, una concatenazione di rotture di isotopie: il plurale a parti-
re dal singolare, l’ineguaglianza e lo squilibrio a partire dall’uguaglianza e dal-
l’equilibrio distribuzionale.
La messa in discorso del quadro a partire dalla cornice enunciazionale,
che installa le differenze significanti (i valori), procede per negazioni succes-
sive, facendo apparire a ogni tappa una nuova direzione assiologica. La tap-
pa più ricca d’insegnamento è a nostro avviso quella in cui l’area nera e quel-
120 JACQUES FONTANILLE
i. I quadri degli anni Quaranta (il periodo “mitico”, per alcuni addirittura La produzione
“surrealista”) propongono dei grafismi biomorfici e dinamici, manifestano delle di Rothko
metamorfosi e dei movimenti continui nel mondo animato (cfr. Ricordo preisto-
rico, 1946 – fig. 11) o nella natura (Lento vortice sul bordo del mare, 1944 – fig.
12). Tuttavia, sono già presenti delle aree quasi rettangolari disposte orizzontal-
mente, in forma di “effetti suolo”, attraverso i quali i grafismi biormorfici si me-
scolano e si metamorfizzano, o in forma di “effetti cielo” per le aree superiori,
verso cui è peraltro orientato il movimento dei grafismi.
ii. Nei primi quadri degli anni Cinquanta, quando le forme rettangolari co-
minciano a imporsi, il rapporto tra aree alte e aree basse si instaura definitiva-
mente, anche se la struttura dei rettangoli non è ancora sistematica. In N° 18
e N° 24 (1949), ad esempio, i rettangoli non occupano l’intera larghezza; mol-
ti di loro sono delle semplici macchie disseminate nella superficie. Possiamo
tuttavia osservare due fatti significativi: da una parte, questi rettangoli disse-
minati hanno ancora qualcosa delle forme biologiche che si stanno metamor-
fizzando: delle protuberanze, delle distorsioni su un lato, mentre quelli che
occupano l’intera larghezza hanno trovato il loro equilibrio geometrico ade-
guandosi alle proporzioni della cornice; dall’altra, questa tappa intermedia
presenta tutte le caratteristiche di un’ascesi pittorica e di una ricerca dei valo-
ri minimali, che sembrano rifugiarsi nei cromatismi placidamente ostentati nei
rettangoli stabili19 (figg. 13, 14).
122 JACQUES FONTANILLE
Tutto concorre a rendere l’area nera se non quella più importante, almeno
il risultato di tutti i processi riconosciuti nel quadro: è il risultato del proces-
so delle transizioni cromatiche, poiché tutte le transizioni che conducono a L’area nera
essa risultano più decise rispetto a ciascuna di quelle tra le altre tre aree; è e i suoi valori
anche il risultato del processo assiologico della messa in discorso, poiché le
operazioni costitutive del débrayage la installano nel posto più alto della su-
perficie e in quello più in basso dei minimi di potenziale, dopo una serie di
negazioni ordinate.
Se si accetta l’ipotesi secondo la quale ogni grande area orizzontale del
quadro deriva da un débrayage della cornice enunciazionale (per divisione e
rotazione), l’area nera apparirà allora come un prodotto assiologico della
prassi enunciazionale, il cui processo di transizione cromatica ne costituireb-
be al tempo stesso l’indice e l’espressione. Un dettaglio andrebbe nello stesso
senso: l’area nera è la sola a rispettare esattamente le proporzioni della corni-
ce20, ciò significa che è la più vicina alla negazione assiologica definitiva, che
corrisponderebbe a un puro rettangolo nero confuso con il rettangolo rita-
gliato dalla cornice.
Abbiamo resistito fino in fondo alla tentazione di polarizzare affettiva-
mente i colori, ossia di definire disforico il nero ed euforici tutti gli altri.
Non siamo sempre in grado di pronunciarci in maniera definitiva (il nero
124 JACQUES FONTANILLE
può essere disforico, ma portare del nero può essere euforico!, a meno che
non sia l’inverso), ma possiamo nondimeno osservare un certo numero di fat-
ti convergenti:
i. il nero deriva in questo caso da una serie di negazioni, mentre gli altri
toni sono il risultato di una serie di modulazioni;
iii. l’area nera è la più difficile da situare sulla terza dimensione (arretra in
profondità, avanza in testura): ciò significa che compromette l’attività di “at-
tribuzione di senso” da parte dell’osservatore. E tuttavia si propone nondi-
meno come una rappresentazione débrayata del piano dell’enunciazione. In-
vece di invocare a priori il carattere “disforico” dell’area nera, in questo caso
bisognerebbe piuttosto invocare il suo carattere profondamente, e contem-
poraneamente sotto ogni aspetto, attrattivo (nel senso di un “attrattore”) e
ingannevole nella sintassi di questo discorso particolare.
La dimensione estetica dei discorsi interesserebbe la valutazione del piano
dell’espressione del discorso assiologico e passionale, mentre la dimensione eti-
ca ne valuterebbe il piano del contenuto. L’estetica di Rothko sembra ammette-
re una tale definizione, poiché il percorso assiologico e passionale soggiacente
La dimensione risulta interamente valutato dal punto di vista del piano dell’espressione, speci-
estetica ficatamente a partire dal processo cromatico. Dalla parte dell’attante dell’enun-
ciazione, l’estetizzazione si fonda sull’ingannevolezza del percorso assiologico;
dalla parte degli attanti posizionali dell’enunciato, l’estetizzazione si fonda sul
margine di incertezza tra le aree, i piani e gli strati, e sulla credenza fallibile che
essa suscita nell’osservatore. Nell’uno e nell’altro caso, lo spettatore viene con-
dotto, se si sforza di uscire dall’incertezza che lo scuote, a ricercare nella nega-
zione del cromatismo e della luminosità il riposo dello sguardo.
1 Titolo originale, Sans titre … ou sans contenu?, «Nouveaux Actes Sémiotiques», nn. 34-36,
espressiva degli esordi, caratterizzata dal ricorso a forme realistiche, lascia gradualmente il campo a
forme sempre più vicine all’astrazione, fino a giungere ai risultati astratti dei grandi campi di colore
geometrizzanti. È considerato il più importante esponente della tendenza astratta contemplativa, rap-
presentata nel dopoguerra dal Color-Field Abstraction, insieme a Reinhardt, Still e Newman. I qua-
dri dell’ultima fase si basano su una ricerca di rapporti cromatici più cupi (rettangoli neri, marroni,
grigi) equilibrati dall’inserimento di una banda bianca di contorno. Il dipinto Untitled è conservato a
Tel Aviv, Museum of Art, è realizzato a olio su tela e misura cm 236.9x120.7 (N.d.T.).
3 Per fare ciò abbiamo selezionato le seguenti tele: Ricordo preistorico (1946), pastello su carta, Co-
penhagen, Collection Steingrim Laurens; N° 18 (1949), olio su tela, Poughkeepsie, New York, Collection
Vassar College Art Gallery; N° 24 (1949), olio su tela, New York, The Museum of Modern Art; Violetto,
nero, arancio, giallo su bianco e rosso (1949), olio su tela, Proprietà Marc Rothko (fig. 70); Nero, rosa e
giallo su arancio (1951-1952) olio su tela, Collection of Normand and Irma Braman (fig. 71); Bruno
(1957), olio su tela, Proprietà Marc Rothko; N° 7 (1960), olio su tela, New York, Gugghenhein Museum.
4 I titoli più consueti di questa serie di “rettangoli cromatici” vanno nello stesso senso, poiché a-
dottano il canovaccio canonico: “Colore 1, Colore 2… colore n su colore C”. Ma, nel nostro caso,
l’assenza di un tale titolo, senza essere significativo, invita tuttavia alla prudenza.
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 125
5 Questo dispositivo è eccezionale nella serie dei “rettangoli cromatici”, nella misura in cui i
“fondi” sono in generale relegati sul bordo della cornice – cfr. Nero, rosa e giallo su arancio (1951-
1952, fig. 71) e N° 7 (1960) – e non possono essere considerati come delle aree allo stesso titolo che i
“rettangoli”. In Violetto, nero, arancio, giallo su bianco (1949, fig. 70) si ha anche qualche difficoltà a
reperire il “fondo” bianco.
6 Questo terzo tipo di contaminazione è generalmente attribuito alla diluizione del colore nel
momento della sua stesura, diluizione e stesura che lasciano intravedere in certe aree la trama stessa
della tela. Più precisamente, se possiamo parlare qui di effetti di materia, non si tratta di materia pit-
torica propriamente detta, bensì di materia solamente visibile e dipendente, di conseguenza, dagli
“stati della luce”.
7 Da ora in poi, per facilitare la lettura, e per convenzione, chiameremo P1: “area ocra” (o ocra
arancio); P2: “area nera” (o bruno-nera); P3: “area bianca” (o beige molto chiaro); e P4: “area rossa”
(o rosso-arancio). Queste denominazioni, per quanto convenzionali, non sono prive di conseguenze:
vi ritorneremo alla fine del nostro percorso.
8 Il “momento di unità” che si delinea qui sarebbe da aggiungere alla lista di quello che ha de-
ga”); due attanti di cui uno respinge e l’altro assorbe un oggetto per ciò che concerne l’“illuminazio-
ne” (catastrofe detta a “farfalla”); tre attanti, di cui uno assorbe l’oggetto circolante tra gli altri due,
attraverso il colore (catastrofe detta “a ombelico parabolico”); quattro attanti, di cui uno entra in
conflitto con quello che circola tra i due ultimi, per gli effetti di materia (catastrofe detta “ombelico
ellittico”). (L’autore si riferisce qui alla teoria delle catastrofi, messa a punto dal matematico Thom
1978. N.d.T.).
10 La serie di “rettangoli cromatici” incoraggia a formulare un’ipotesi come questa, nella misura
in cui, per esempio, N° 7 (1960) declina le varianti di una stessa base composita (rosso, giallo e bru-
no) in quattro toni: bordeaux, arancio, ocra, rosso; e nello stesso modo anche in Nero, rosa, giallo su
arancio (1951-1952, fig. 71), il fondo arancio (rosso e giallo) instaura da un lato il rosa (componente
rossa) e dall’altra il giallo (componente gialla).
11 Un altro quadro della serie intitolato Bruno, del 1957 (fig. 21), sfrutta questi “anelli mancanti”
in una gamma di contrasti decisamente più ristretta rispetto al dipinto qui preso in esame.
12 La parola francese couche d’ora in poi verrà tradotta con strato (in italiano si dice “strato” o
“mano” di pittura); la parola strate con piano. Si è ritenuto corretto ricorrere all’opposizione
piano/strato perché sembra essere quella che meglio evoca due diversi tipi di spazialità, anche sulla
base dell’articolazione spaziale formulata da Calabrese (1987) e pubblicata in Leggere l’opera d’arte,
1991 (N.d.T.).
13 Questo tipo di procedura viene ugualmente applicata, per esempio, quando in un dipinto figu-
rativo due personaggi che si presuppone siano di taglia equivalente appaiono invece come fortemen-
te sproporzionati: lo spettatore risolve l’incompatibilità disponendoli in profondità. È la “velocità di
transizione” lenta, tollerabile in un unico piano, a giustificare le diversità di taglia proprie degli atto-
ri, ed è la “velocità di transizione” rapida, che obbliga a costruire la profondità, a imporre le distor-
sioni della prospettiva.
14 N°7 (1960) fornisce un buon esempio di perfetta collusione fra le velature e gli strati, dal mo-
mento che nel dispositivo degli strati niente sembra contraddire la presenza di almeno due strati: da
un lato quello del fondo bordeaux e dall’altro quello delle figure arancione, rosso, ocra. Niente, o
quasi, dato che la luminosità violenta dell’area bianca obbliga a posizionarla su un terzo strato, nel
quale riceverebbe più luce delle altre, senza che sia possibile stabilire l’effettiva posizione di questo
strato: dietro, in mezzo o davanti.
15 Nero, rosa e giallo su arancio (1951-1952) propone il medesimo dispositivo, dal momento che i
margini bianchi e rossi che bordano l’area rosa potrebbero essere interpretati rispettivamente come
luminosità residue e come ombre riportate colorate e proiettate sullo strato inferiore, che di conse-
guenza invitano a una lettura per “strati”, che va a perturbare il dispositivo degli strati, da cui – co-
me sostengono i critici – deriverebbe l’impressione che i rettangoli “fluttuino”.
16 Se si prende una base di 10, in altezza si ottiene: i. P1”=8; ii. P3 bianco=2; iii. P1’, intervallo
fra P2 e P3, =2; iv. P2 =8 e v. P4 =10. Ovvero: P2 + P3 =10; P1’ + P1” =10; P4 =10.
17 Beninteso, senza tralasciare tutte le contraddizioni generate dagli effetti di velatura.
18 Le definizioni “relegato” e “ostentato” traducono opposizioni di tematizzazione e di enfatizza-
zione per localizzazione sul piano di superficie. Si può effettuare una lettura inversa, ma solo l’orien-
tamento ne risulterà cambiato, poiché la direzione del processo rimane la medesima (la negazione
sempre più in alto, la modulazione verso il basso).
19 In via del tutto eccezionale facciamo ricorso all’autorità degli storici dell’arte. Meyer Schapiro
(1957) – a proposito del periodo dell’“astrazione cromatica” di Rothko – durante una conferenza te-
126 JACQUES FONTANILLE
nutasi a New York, evocava anche una “rinuncia” al self-trascendance. Ma, per relativizzare il propo-
sito, sembrerebbe che la rinuncia in questione fosse per Schapiro una specie di rinuncia alla gestico-
lazione enfatica propria degli altri aderenti all’espressionismo astratto, di cui Pollock è il più cono-
sciuto. L’idea di un “percorso di rinuncia” resta tuttavia allettante.
20 Il rapporto “altezza/larghezza” della cornice è di 1.95; il rapporto “larghezza/altezza” dell’a-
è come un relitto trascinato da un fiume di colore ocra, con gorghi e una scogliera
rossa, il cui doppio effetto spaziale è probabilmente quello di restringere e trattenere
per un istante l’espansione illimitata del colore, in modo tale che questa ne risulti ri-
lanciata e accelerata. Lo spazio dei quadri di Francis Bacon è così attraversato da
larghe colate di colore. Se lo spazio è qui paragonabile a una massa omogenea e flui-
da nella sua monocromia, spezzata però da frangenti, il regime dei segni non può di-
pendere da una rigida geometricità. In questo quadro il regime dei segni dipende in-
vece da una dinamica che fa scivolare lo sguardo dall’ocra chiaro al rosso. Per questa
ragione può esservi inscritta una freccia di direzione (Le Bot 1979).
Fig. 15. Francis Bacon, Three studies for figures at the base of a crucifixion, 1944, olio e pastello su
tela, ciascun pannello, 94 x 74 cm, Londra, Tate Gallery.
interamente attraversata, come sulle tre facce del bellissimo trittico rosa del
1970; è anche il caso, in parte, dell’uomo al lavabo, la cui campitura ocra è at-
traversata da una barra bianca come appendice del contorno. Accade, infine,
che la campitura porti una banda o un nastro di un altro colore: è il caso del
pannello destro del 1962 che presenta un nastro verticale verde, ma è anche il
caso della prima corrida, dove la campitura arancio è sottolineata da un nastro
viola (sostituito dalla barra bianca nella seconda corrida), e dei due pannelli e-
sterni di un trittico del 1974, dove un nastro blu attraversa orizzontalmente la
campitura verde.
Probabilmente, la maggiore purezza pittorica si ha quando la campitura non
è né sezionata, né limitata, né tanto meno interrotta, ma ricopre l’insieme del
quadro, sia che rinchiuda un contorno medio (per esempio il letto verde rin-
chiuso dalla campitura arancio negli Studies from the human body del 1970), sia,
inoltre, che circondi da tutti i lati un contorno più piccolo (come al centro del
trittico del 1970): è infatti a queste condizioni che il quadro diviene veramente
aereo, e raggiunge un massimo di luce come all’eternità di un tempo monocro-
mo, “Cromocronia”. Ma il caso del nastro che attraversa la campitura non è
meno interessante e importante, poiché manifesta direttamente il modo in cui
un campo colorato omogeneo possa presentare sottili variazioni interne in fun-
zione di una vicinanza (la stessa struttura campo banda si ritrova in certi espres-
sionisti astratti, come Newman); ne deriva per la campitura stessa una specie di
percezione temporale o successiva. E diventa regola generale anche per gli altri
casi, quando la vicinanza è assicurata dalla linea di un grande, di un medio o
piccolo contorno: il trittico sarà tanto più aereo quanto più piccolo o localizza-
La campitura
to sarà il contorno, come nell’opera del 1970 dove il tondo blu e gli attrezzi o- come forma
cra sembrano sospesi in cielo; tuttavia, persino allora, la campitura è l’oggetto dell’eternità
di una percezione temporale che raggiunge l’eternità di una forma del tempo. del tempo
Ecco dunque in che senso la campitura uniforme, cioè il colore, funge da strut-
tura o da armatura: essa comporta intrinsecamente una o più zone di vicinanza,
che permettono che una specie di contorno (il più grande), o un aspetto del
contorno, le appartenga. L’armatura può allora consistere nella connessione
della campitura con il piano orizzontale definito da un grande contorno, cosa
che implica una presenza attiva della profondità magra. Ma essa consiste anche
in un sistema di attrezzi lineari che tengono sospesa la Figura nella campitura,
negando ogni profondità (1970). O infine, essa può essere il risultato dell’azio-
ne di una sezione molto particolare della campitura che non abbiamo ancora
considerato: capita infatti che la campitura comporti una sezione nera, ora ben
localizzata (Pope n. 2, 1960; Three studies for a crucifixion, 1962; Portrait of
George Dyer staring into a mirror, 1967; Triptych, 1972 (fig. 18); Portrait of man
walking down steps, 1972), ora anche debordante (Triptych, 1973), ora totale o
costitutiva dell’intera campitura (Three studies from the human body, 1967). E
la sezione nera non agisce come le altre eventuali sezioni: essa assume il ruolo
che nel periodo malerisch era attribuito alla tenda o alla dissolvenza, fa sì che la
campitura si proietti in avanti, non afferma più né nega la profondità magra, la
riempie adeguatamente. Ciò è particolarmente evidente nel ritratto di George
Dyer (fig. 16). Solo in un caso, Crucifixion, del 1965, la sezione nera è, al con-
trario, arretrata rispetto alla campitura, il che mostra che Bacon non è pervenu-
to tutto d’un colpo a questa formula nuova del nero.
130 GILLES DELEUZE
Fig. 16. Francis Bacon, Portrait of George Dyer staring into a mirror, 1967, olio su tela, 198 x 147.5
cm, Caracas, collezione privata.
Fig. 17. Francis Bacon, Triptych-Three studies for portrait of Lucien Freud, 1966, olio su tela, cia-
scun pannello 198 x 147.5 cm, New York, collezione privata.
132 GILLES DELEUZE
Fig. 18. Francis Bacon, Triptych, 1972, olio su tela, ciascun pannello 198 x 147.5 cm, Londra, Tate
Gallery.
una sorta di “buon gusto” superiore può essere formulato, come fa Fried
(1965a) a proposito di alcuni coloristi, nel seguente modo: può il gusto essere
una forza creatrice potenziale e non un semplice arbitro della moda? Deve for-
se Bacon questo gusto al suo passato di decoratore? Sembrerebbe che il buon
gusto di Bacon si esprima egregiamente nell’armatura e nel regime delle cam-
piture. Ma come le Figure, talora, hanno forme e colori da cui ricavano la par-
venza di mostri, così i contorni stessi talora appaiono di “cattivo gusto”, quasi
che l’ironia di Bacon si eserciti di preferenza contro la decorazione. Specie
quando il grande contorno è presentato come un tappeto, si può sempre ve-
dervi un campione particolarmente brutto. A proposito del Man and child, I regimi
del colore
Russell (1979, p. 121) arriva a dire: “il tappeto in sé è orrendo; avendo scorto e il senso
due o tre volte Bacon camminare solo in una via come Tottenham Court Road, aptico
so con che sguardo fisso e rassegnato esamini questo genere di vetrine (nel suo della vista
appartamento non vi sono tappeti)”. Tuttavia, l’apparenza stessa non rimanda
che alla figurazione. Le Figure non sembrano già più dei mostri, se non dal
punto di vista di una figurazione sussistente, ma cessano di esserlo non appena
le si consideri “figuralmente”, poiché allora rivelano la posizione più naturale,
in funzione dei compito quotidiano che esplicano e delle forze momentanee
che affrontano. Così, anche il tappeto più orrendo cessa di essere tale non ap-
pena lo si percepisca “figuralmente”, cioè nella funzione che esercita in rap-
porto al colore: infatti, con le sue venature rosse e le sue zone blu, quello del
Man and child scompone orizzontalmente la campitura viola verticale, facen-
doci passare dal tono puro di questa ai toni spezzati della Figura. È un colore-
contorno, più vicino alle Ninfee che a un brutto tappeto. C’è davvero un gusto
creatore nel colore, nei differenti regimi di colore che costituiscono un tatto
propriamente visivo o un senso aptico della vista.
1 Da: Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, Paris, La Différence, 1981; trad. it.
Francis Bacon. La logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 1995, pp. 213-226. Traduzione di Stefano
Verdicchio.
2 Paris (1965, pp. 69 sgg.) conduce un’interessante analisi delle aureole dal punto di vista dello spa-
zio, della luce e del colore. Studia anche le frecce in quanto vettori spaziali, nel caso di san Sebastiano,
sant’Orsola, ecc. Possiamo osservare che in Bacon le frecce puramente indicatrici sono l’ultimo residuo di
quelle sante frecce, un po’ come per le Figure accoppiate i circoli in rotazione sono residui di aureole.
“Destra” e “sinistra” nella raffigurazione delle icone1
Boris A. Uspenskij
Dunque la destra (di Cristo) si connette con la fede e la sinistra con la man-
canza di fede. Allo stesso tempo la destra si associa con l’alto e la sinistra con il
basso6. Sul parallelismo tra le opposizioni “destra-sinistra” e “alto-basso” torne-
remo in seguito.
Un esempio molto convincente dell’analogia fra il nesso “destra-sinistra” e
rapporti spaziali (e temporali) diversi è stato scoperto da Saltykov. Egli cita una
Il significato
teologico raffigurazione di carattere didattico del Seicento-primo Settecento presente nel-
di destra la galleria Tret’jakov che reca una didascalia esplicativa del suo contenuto:
e di sinstra “Mortale: temi ciò che sta sopra di te. Non sperare in ciò che ti sta davanti.
Non sfuggirai a ciò che ti sta alle spalle. Non eviterai ciò che sta sotto di te”. In
un certo senso questa didascalia contiene la chiave per l’analisi dell’organizza-
zione spaziale della rappresentazione. Al centro si vede una figura umana, il
“mortale”, rivolta verso chi guarda.
Ciò che gli sta davanti secondo la didascalia è il quadro dei beni terreni, che è collo-
cato nella parte sinistra (per chi guarda). Dal lato opposto, a destra, l’autore ha raffi-
gurato la morte con la falce, che sta alle spalle dell’uomo. Tutte e tre le figure sono
collocate in primo piano (…). Per noi è interessante il fatto che la figura umana rap-
presenta una sorta di asse attorno al quale ruotano lo spazio e il tempo; la parte an-
teriore è spostata a sinistra e, rispettivamente, quella posteriore a destra (Saltykov, in
corso di stampa).
Vediamo che il lato destro del quadro (dal punto di vista dell’orientamento
interno, cioè quello sinistro per noi) si associa con il piano anteriore, e quello si-
Destra vs
sinistra e
nistro con il piano posteriore. Allo stesso tempo il piano anteriore – e dunque la
orientamento destra – si connette con il presente, mentre il piano posteriore – e dunque la si-
spazio-temporale nistra – con il futuro. In generale nell’arte medievale è comune la rappresenta-
zione del futuro nella parte posteriore, mentre quella anteriore si connette, na-
turalmente, con la raffigurazione del presente (Poljakova 1970, p. 56)7. Ciò può
spiegare, fra l’altro, il fatto che nell’arte cristiana l’orientamento del tempo è in-
“DESTRA” E “SINISTRA” NELLA RAFFIGURAZIONE DELLE ICONE 139
dicato da sinistra a destra per chi guarda il quadro (cfr. Uspenskij 1970b, p.
123)8, e quindi da destra a sinistra per l’osservatore interno, pensato all’interno
del quadro; in altre parole si procede dal suo presente al suo futuro (o dal pas-
sato al presente, se ha luogo la corrispondente rotazione sull’asse temporale).
Echi della tradizione iconica che definisce la destra e la sinistra di una rap-
presentazione da un punto di vista interno al mondo raffigurato si sono conser- L’osservatore
vati fino a tempi relativamente recenti. Una raffigurazione simbolica con la rela- interno
tiva spiegazione, che consente di interpretarla con grande precisione, viene al quadro
pubblicata nello studio di Uvarov (1896). Il quadro è diviso in due parti, la cui
contrapposizione corrisponde all’opposizione tra Vecchio e Nuovo Testamento.
Naturalmente i simboli che si riferiscono al Nuovo Testamento sono dati a de-
140 BORIS A. USPENSKIJ
stra (secondo l’orientamento interno, quindi per noi a sinistra), mentre gli attri-
buti del Vecchio Testamento, a sinistra (dal nostro punto di vista, a destra). E
proprio in tal modo descrive la figura Uvarov, ignorando completamente il pun-
to di vista di chi la guarda, ma conformandosi pienamente alla tradizione: “Dal
lato destro, o buono, si trova il ‘monte Sinai’, dal lato sinistro, o cattivo, il ‘mon-
Fig. 20. Icona, Giudizio Universale, Russia centrale fine del XIX secolo, tempera su tavola, 107 x 85
cm, Vicenza, Gallerie di Palazzo Leoni Montanari.
“DESTRA” E “SINISTRA” NELLA RAFFIGURAZIONE DELLE ICONE 141
te Libano’. È curioso notare, inoltre, che dal lato destro, o buono, i nomi sono
per lo più scritti in oro, mentre quelli a sinistra sono scritti in nero”, ecc. Anche
qui è del tutto evidente l’orientamento su una posizione visuale interna.
Nell’immagine di cui abbiamo trattato ora vi è un’altra particolarità interessan-
te. Se nella parte alta del lato “destro” (per noi sinistro) del quadro è raffigurato il
“Roveto ardente”9, come simbolo della Madre di Dio, nella parte alta di quello “si-
nistro” (per noi destro), è rappresentata la Chiesa, circondata da mura, in mezzo
alle quali è assiso il Cristo. È vero che le mura sono assediate dal diavolo, ma que-
sto fatto giustifica solo in parte la collocazione di tale figura dal lato “sinistro”. Bi- “Destra-sinistra”
sogna supporre che in questo caso specifico più rilevante dell’opposizione tra la come sinonimo
parte destra e quella sinistra risulti la contrapposizione tra la parte superiore e di “alto-basso”
quella inferiore del quadro. In tal modo constatiamo che nella parte alta viene neu-
tralizzata la contrapposizione tra destra e sinistra come mezzi di rappresentazione
simbolica. In altre parole si può dire che le opposizioni “destra-sinistra” e “alto-
basso” nella raffigurazione iconica si comportano come sinonimi e in un modo o
in un altro vengono equiparati nella gerarchia generale dei valori simbolici10.
Alla luce di quanto detto, un particolare interesse è rivestito dalla narrazione
del Battesimo della Rus’ presente nelle Cronache. Secondo il cronista un filo-
sofo greco mostrò al principe Vladimir un arazzo con la rappresentazione del
Giudizio Universale e gli indicò a destra i giusti e a sinistra i dannati (si veda nel
Racconto degli anni passati, anno 6494: “Gli mostrò un arazzo sul quale era raf-
figurato il giudizio del Signore; e gli indicò a destra i giusti, che con gioia passa-
vano in Paradiso, e a sinistra i peccatori, che andavano tra i tormenti. E Volodi-
mer sospirando disse: ‘Gioiscono quelli che stanno a destra, si affliggono quelli
che stanno a sinistra’. E l’altro gli disse ‘Se vuoi stare alla destra con i giusti fat-
ti battezzare’”). Tutte le nostre conoscenze sull’iconografia del Giudizio Univer-
sale ci inducono a pensare che, nell’immagine di cui si parla, per chi guardava
(cioè per il principe Vladimir) i giusti fossero raffigurati a sinistra, mentre i pec-
catori a destra; di conseguenza, se dobbiamo credere alle cronache, nel valutare
la rappresentazione il sovrano adottò il sistema di orientamento pertinente.
Resta da aggiungere soltanto che i fatti esposti più sopra non sono da consi-
derarsi in alcun modo una peculiarità esclusiva dell’arte bizantina e russa anti-
ca. In particolare un fenomeno analogo, cioè l’orientamento su una posizione
visuale interna al momento di determinare la destra e la sinistra, si riscontra nel-
le rappresentazioni occidentali del Giudizio universale (cfr. Wallis 1964, p. 429)
e anche nelle coppie di figure della scultura romanica, nelle tombe gotiche (cfr.
Aleškovskij 1972, p. 106, n. 15), ecc.
Si può dunque azzardare l’ipotesi che tale fenomeno sia comune in generale
a tutta l’arte prerinascimentale – certamente a quella medievale, ma in notevole
misura anche a quella precedente. È stato osservato, per esempio, che nei ritrat-
ti del Fayyūm la luce ha la stessa direzione che nelle icone, provenendo da sini-
stra per noi (cfr. Rogov 1972, p. 320), e cioè da destra per l’osservatore interno
(a questo proposito va ricordato che nella raffigurazione iconica il sole sta sem-
pre a sinistra e la luna a destra – se partiamo dal punto di vista di chi guarda)11.
Non si può escludere che tale fenomeno sia riscontrabile anche in forme di
rappresentazione più arcaiche. Ricordiamo le immagini rovesciate nei disegni
cartografici primitivi (nei quali l’oggetto viene rappresentato “non come lo vede
l’occhio, ma come apparirebbe sulla superficie di uno specchio”, Adler 1907,
142 BORIS A. USPENSKIJ
col. 47). Potrebbe essere forse questa la spiegazione (per lo meno in certi casi)
del prevalere delle impronte della mano sinistra nelle pitture rupestri (Ivanov
1972). In effetti, se impronte di questo tipo vengono considerate non come una
firma ma appunto come raffigurazione (p. 111), si può pensare che l’immagine
della mano sinistra dell’autore corrisponda a quella della mano destra del sog-
getto rappresentato. Tale spiegazione potrebbe essere accettata per lo meno nei
casi in cui l’immagine di una mano (la sinistra) può essere considerata una va-
riante ridotta della rappresentazione più completa delle due mani (e due piedi),
simboleggianti il personaggio raffigurato (pp. 120-121, 123, figg. 1-3). Una spie-
gazione di questo tipo non esclude affatto l’ipotesi della valenza simbolica di u-
na siffatta rappresentazione, che con tutta probabilità veniva impiegata per allu-
dere a un personaggio appartenente al mondo dell’aldilà, come una figura mito-
logica o un trapassato. E proprio il rapporto con l’“al di là” (nel senso letterale
del termine), della figura rappresentata poteva determinare l’inversione di de-
stra e sinistra nel sistema delle immagini.
1 Da Boris Uspenskij, Linguistica, semiotica, storia della cultura, Bologna, il Mulino 1996, pp. 63-69.
capitolo settimo). Prescindiamo per il momento dal fatto che nell’arte medievale nelle parti periferiche
della rappresentazione (cioè nello sfondo, nelle cornici e nel primo piano, contrapposto a quello anterio-
re, che è il principale), possa essere utilizzato il punto di vista esterno.
3 Molto produttiva per noi è stata la discussione di questo tema con Saltykov, il quale cortesemente
ha messo a nostra disposizione il suo saggio ancora inedito sui rapporti spazio-temporali nell’iconografia
bizantina e russa antica (cfr. Saltykov, in corso di stampa).
4 I modelli delle icone potevano consistere di descrizioni dell’immagine oppure di figure bucherella-
te da ricalcare (N.d.T).
5 Cfr. una variante leggermente diversa dello stesso passo (dal repertorio di modelli Stroganov) cita-
ta da Buslaev nell’articolo Per una storia della pittura russa nel XVI secolo (1910, pp. 294-295).
6 È curioso che nel noto libro di Ioannikij Galjatovskij Mesia pravdivyj (Il vero Messia), pubblicato
nel 1669 presso il Monastero delle grotte di Kiev, sul retro del frontespizio si trovi un’immagine specula-
re (rispetto a quella tradizionale che viene descritta) della croce ortodossa:
Questo fatto va probabilmente spiegato con l’influenza della tradizione occidentale (rinascimentale),
molto viva in tutta la Rus’ sud-occidentale. In tale contesto poteva essere imitata non la figura in sé (co-
me si sa la croce a tre bracci è estranea alla tradizione iconografica dell’Europa occidentale), ma specifi-
camente il sistema di orientamento (rispetto a una posizione visuale esterna, e non interna alla rappre-
sentazione), da cui veniva determinata la definizione di destra e sinistra, sebbene immutato restasse il si-
gnificato simbolico della loro opposizione.
7 La studiosa connette una simile distribuzione degli episodi della vicenda, dove “il futuro non
precede il presente ma viene dopo di esso” con “la concezione arcaica del tempo materiale, e quindi
spaziale, che gira come una ruota. In seguito a tale rivoluzione i suoi settori prendono uno il posto
dell’altro, sì che diventa possibile una posizione nella quale il presente ‘precede’ il futuro”. In gene-
rale sull’identificazione dei rapporti spaziali e temporali nella mentalità medievale si veda Gurevič
(1972, pp. 44 sgg.).
8 A parte stanno le composizioni organizzate simmetricamente, nelle quali al moto del tempo corri-
sponde la direttrice che va dalla periferia al centro (Uspenskij 1970b, p. 123). Con riferimento alla suc-
cessiva arte occidentale, di tale regola ha scritto Wölfflin, che ha studiato l’influenza di tale fattore sulla
psicologia della percezione visiva. Si vedano in particolare i saggi Über das Rechts und Links im Bilde e
Das Problem der Umkehrung in Rafaels Teppichkartone (Wölfflin 1947, pp. 82-96).
“DESTRA” E “SINISTRA” NELLA RAFFIGURAZIONE DELLE ICONE 143
9 Specifica rappresentazione della Madonna che in questa veste si festeggia il 4 settembre (N.d.T).
10 Cfr. l’esempio citato sopra, del parallelismo delle opposizioni “destra-sinistra” e “alto-basso”. Cfr.
anche i dati etnografici su tale parallelismo in Ivanov, Toporov 1965 (p. 209).
11 Opposta è, tuttavia, la disposizione degli astri in un disegno dell’universo della Tolkovaya Paleya
(Paleia interpretativa, raccolta di narrazioni bibliche) del XVI secolo (Redin 1901, p. 6, fig. 1), un caso
che può essere definito unico e che ha una spiegazione particolare. Così descrive la figura Redin: “Il
mondo è rappresentato come un quadrato, intorno al quale scorre l’oceano; nella parte inferiore del qua-
drato si trova la terraferma, mentre in quella superiore, in forma di rotolo di pergamena, c’è il cielo az-
zurro, sul quale si notano a sinistra un cerchio azzurro, cioè la luna, e a destra uno rosso, cioè il sole. Al
di fuori del quadrato, circondato da un’aureola di sfere è il Cristo, che regge il rotolo e benedice”. Ag-
giungiamo che il Cristo è rappresentato nell’angolo a destra, in alto, della pagina, al di sopra della figura
del mondo (l’angolo a sinistra, in alto, della pagina ospita il testo). Considerando la composizione com-
plessiva di tutto il disegno abbiamo ragione di pensare che il mondo sia pensato come rivolto verso il
Cristo, e sia cioè rappresentato dal suo punto di vista, che in questo caso specifico risulta non interno,
ma esterno rispetto alla raffigurazione. Di qui deriva logicamente il fatto che il sole sia collocato a destra
e la luna a sinistra.
Il mondo oggetto1
Roland Barthes
(…) Osservate la natura morta olandese: l’oggetto non è mai solo, mai privile-
giato: sta lì e basta, in mezzo a tanti altri, colto giusto nell’intervallo fra il momento
in cui è stato usato e quello in cui lo sarà nuovamente, fa parte integrante di un di-
sordine provocato dai movimenti di qualcuno, che prima l’ha preso e poi l’ha po-
sato, in una parola: l’ha utilizzato. Ci sono oggetti su ogni superficie, sui tavoli, alle Gli oggetti
pareti, per terra: vasi, boccali rovesciati, canestri in disordine, ortaggi, cacciagione, della natura
scodelle, gusci di ostriche, bicchieri, culle. Questo è lo spazio dell’uomo, che vi si morta olandese
misura e determina la propria umanità a partire dal ricordo dei gesti compiuti; il
tempo è scandito dall’uso delle cose, l’unica autorità della vita è quella che l’uomo
imprime a ciò che è inerte, modellandolo e manipolandolo.
Questo universo della fabbricazione esclude evidentemente ogni terrore e o-
gni stile. Lo scopo dei pittori olandesi non è quello di liberare l’oggetto dalle
sue qualità, per metterne a nudo l’essenza; si tratta, al contrario, di accumulare
le vibrazioni secondarie dell’apparenza, dato che occorre incorporare allo spa-
zio umano le atmosfere, le superfici, non forme o idee. Il solo esito logico di
questa pittura consiste nel rivestire la materia con una specie di glassa, sulla
quale l’uomo possa muoversi senza intaccare il valore di uso dell’oggetto. Pitto-
ri di nature morte come van de Velde o Heda hanno continuamente cercato di
avvicinarsi alla qualità più superficiale della materia: la lucentezza. Ostriche, li-
moni tagliati, bicchieri di vetro spesso pieni di vino scuro, lunghe pipe di maio-
lica, lucide castagne, ceramiche, coppe di metallo brunito, tre chicchi d’uva:
quale può essere la giustificazione di una tale accozzaglia se non quella di lubri-
ficare lo sguardo dell’uomo al centro del suo dominio, di far scivolare la corsa
quotidiana su oggetti il cui enigma è dissolto, essendo solo superfici facili?
L’uso di un oggetto aiuta a offuscare la sua forma primaria, mettendo invece
in evidenza i suoi attributi. Altre arti, altre epoche hanno perseguito, in nome
dello stile, la magrezza essenziale delle cose; qui, nulla di tutto questo: ogni og-
getto è accompagnato dai suoi aggettivi, la sostanza è sepolta sotto una miriade
di qualità, l’uomo non affronta mai l’oggetto, che gli rimane prudentemente
sottomesso proprio per i servigi che fornisce. A che mi serve la forma primaria L’oggetto come
del limone? Ciò che occorre alla mia umanità empirica è un limone pronto per espressione
l’uso, già un po’ sbucciato e un po’ tagliato, metà limone e metà freschezza, col- di valori d’uso
to nel momento prezioso in cui scambia lo scandalo della sua ellissi perfetta e i-
nutile con la sua principale qualità economica: l’essere astringente. L’oggetto è
sempre aperto, esibito, accompagnato, sino a quando non viene annullato come
sostanza in sé e monetizzato in tutti quei valori d’uso che l’uomo sa ricavare
dalla materia cocciuta. Nelle “cucine” olandesi (di Buelckelaer, per esempio)
non vedo tanto il compiacimento di un popolo nei confronti del mangiar bene
(il che sarebbe più belga che olandese: patrizi come Ruyter e Tromp mangiava-
146 ROLAND BARTHES
no carne una volta a settimana); vedo semmai una serie di spiegazioni sull’utiliz-
zabilità degli alimenti: le unità del cibo sono sempre distrutte come nature mor-
te, e restituite come momenti di un tempo domestico; qui è il verde stridente
dei cetrioli, là il bianco del pollame piumato, ovunque l’oggetto presenta all’uo-
mo la sua funzione d’uso, non la sua forma primaria. In altri termini, non c’è
mai uno stato generico dell’oggetto, ma solo i suoi stati qualificati.
(…) In questi quadri ogni oggetto è pronto per la manipolazione, possiede
la nitidezza e la densità dei formaggi olandesi: rotondi, prendibili, lustri.
(…) Le scene olandesi esigono una lettura progressiva e completa; bisogna
cominciare da un’estremità e finire all’altra, darsi il compito di percorrere il
quadro, non dimenticare neanche quell’angolo, quel margine, quello sfondo in
cui è raffigurato un ennesimo oggetto, ben rifinito, che s’aggiunge a questo pa-
ziente censimento della proprietà o delle merci.
Applicato ai gruppi sociali più bassi (agli occhi dell’epoca), questo potere e-
numerativo trasforma certi uomini in oggetti. I contadini di van Ostade o i pat-
Il potere tinatori di Avercamp hanno diritto solo a un’esistenza da numero, e le scene che
enumerativo li radunano non devono essere lette come un repertorio di gesti pienamente u-
della pittura mani, ma come il catalogo aneddotico che divide e allinea, variandoli, gli ele-
menti di una pre-umanità; occorre decifrarlo come un rebus. Il fatto è che nella
pittura olandese esistono nettamente due antropologie, ben distinte quanto le
classi zoologiche di Linneo. Non a caso il termine “classe” viene utilizzato per
due diverse nozioni: c’è la classe patrizia (homo patricius) e la classe contadina
(homo paganicus), e ognuna di queste classi riunisce gli esseri umani, non solo
in quanto appartengono alla stessa condizione sociale, ma anche perché possie-
dono la stessa morfologia.
I contadini di van Ostade hanno facce abortite, semi-create, informi; si direb-
bero creature incompiute, abbozzi di uomini, bloccati a uno stadio anteriore del-
la genetica umana. Gli stessi bambini non hanno età né sesso, li individuiamo sol-
Le due
antropologie
tanto per la statura. Come la scimmia è separata dall’uomo, così il contadino è
della pittura o- lontano dal borghese, nella misura in cui è sprovvisto dei caratteri propri dell’u-
landese manità, quelli della persona. Tale sottoclasse di uomini non è mai ritratta frontal-
mente, cosa che la doterebbe quanto meno di uno sguardo; questo privilegio è ri-
servato invece al patrizio o al bovide, animale totem e fonte di nutrimento per la
nazione olandese. I contadini di van Ostade hanno nella parte superiore del cor-
po solo un tentativo di viso, una faccia appena formata; la parte inferiore, a sua
volta, è sempre divorata da una specie di ripresa dall’alto o, al contrario, di spo-
stamento. È una pre-umanità indecisa che va oltre lo spazio, come un oggetto do-
tato del potere supplementare di provocare ebbrezza e ilarità.
Osservate adesso il giovane patrizio (in particolare nei quadri di Ver-
spronck), colto mentre si propone come un dio inattivo. È un’ultra-persona,
provvista dei segni estremi dell’umanità. Così come il viso contadino è lasciato
al di qua della creazione, quello patrizio è portato sino all’ultimo grado dell’i-
dentità. La classe zoologica dei grandi borghesi olandesi possiede una comples-
sione caratteristica: capelli castani, occhi scuri (quasi prugna), carnagione sal-
monata, naso molto pronunciato, labbra rosee e molli, una leggera ombra late-
rale sulle parti sporgenti del viso. Quasi nessun ritratto di donna, salvo che non
si tratti di reggenti di ospizi, amministratrici di denaro e non di piaceri. La don-
na è vista solo nel suo ruolo strumentale, come funzionaria della carità o guar-
IL MONDO OGGETTO 147
Fig. 21. Frans Hals, Reggenti dell’ospizio dei Vecchi, 1664, olio su tela, 172.5 x 256 cm, Haarlem,
Frans Halsmuseum.
Fig. 22. Frans Hals, Banchetto degli Ufficiali della Guardia Civica di San Giorgio, 1616, olio su tela,
175 x 324 cm, Haarlem, Frans Halsmuseum.
148 ROLAND BARTHES
Fig. 23. Harmenszoon van Rijn Rembrandt, Saul e David, 1658 ca., olio su tela, 130.5 x 164 cm,
L’Aja, Mauritshuis.
Che cosa distingue dunque questi uomini al vertice del loro imperio? È il
numen. Sappiamo che il numen antico era quel semplice gesto con il quale la di-
vinità manifestava le proprie decisioni, disponendo del destino umano attraver-
so una sorta di infra-linguaggio fatto di pura dimostrazione. L’onnipotenza non
parla (forse perché non pensa), si contenta di un gesto, o anche di un mezzo ge-
sto, dell’intenzione di un gesto, subito assorbito nella pigra serenità del dio. Il
prototipo del numen moderno potrebbe essere quella tensione trattenuta, mi-
scuglio di stanchezza e di fiducia, con cui il Dio di Michelangelo si separa da A-
damo dopo averlo creato e con un gesto sospeso gli assegna la sua futura uma-
nità. Ogni volta che viene rappresentata, la classe dei “divini” deve necessaria- Il numen
mente esporre il proprio numen, in mancanza del quale la pittura non sarebbe
intelligibile. Pensate all’agiografia imperiale: Napoleone è un personaggio pura-
mente numinoso, irreale per la convenzione stessa del suo gesto. Il gesto esiste
sempre: l’Imperatore non è mai ritratto a vuoto: o mostra, o significa, o agisce.
Ma questo gesto non ha nulla di umano; non è quello dell’operaio, quello del-
l’homo faber, il cui movimento assolutamente comune va fino in fondo alla ri-
cerca del proprio effetto. È invece un gesto immobilizzato nel momento meno
stabile del suo farsi: viene così resa immortale l’idea della potenza, non il suo e-
sito. La mano che si solleva un po’, o si appoggia mollemente, la sospensione
150 ROLAND BARTHES
non vede, voltando le spalle al modello (nudo) che lo guarda dipingere. Come
dire che il pittore si pone in uno spazio prudentemente svuotato da ogni sguar-
do che non sia il proprio. Qualsiasi arte con due sole dimensioni – quella del-
l’opera e quella dello spettatore – crea soltanto una piattezza: coglie uno spet-
tacolo-vetrina attraverso un pittore-osservatore. La profondità nasce nel mo-
mento in cui lo spettacolo stesso gira lentamente la sua ombra verso l’uomo e
comincia a guardarlo.
1 Da: Roland Barthes, Saggi critici, nuova edizione a cura di G. Marrone, 2002, Torino, Einaudi, pp.
ti di gruppo, sul modello di quelli che raffiguravano i fondatori delle corporazioni, caratterizzati dal fat-
to che i personaggi erano disposti in modo da risultare tutti in primo piano. Successivamente la compo-
sizione si fece più movimentata, come nel Banchetto degli ufficiali della guardia civica di san Giorgio e nel-
le Reggenti dell’ospizio dei Vecchi (Haarlem, Frans Halsmuseum) di Frans Hals o nella Ronda di notte
(Amsterdam, Rijksmuseum) di Rembrandt (N.d.T.).
“La vita profonda delle nature morte”1
Lucia Corrain e Paolo Fabbri
1. La natura morta
È cosa risaputa che fino a circa la metà del XVII secolo, si parlava e si scri-
veva della natura morta come di pittura di fiori, di frutta, di animali, di og-
getti, non essendo stata ancora coniata una precisa denominazione. Soltanto
dopo la metà del Seicento, in seguito alla sua avvenuta autonomizzazione, il La
gergo delle botteghe olandesi forgerà il termine Still-leven (natura in posa), denominazione
che costituirà l’origine per le altre lingue germaniche (Vorenkamp 1933), del genere
mentre l’espressione nature morte andrà attestandosi in ambito francese solo
a partire dal 1750 (dunque, all’incirca un secolo dopo quella olandese), pre-
valendo sulla variante vie coye (vita quieta) e sarà prontamente adottata dalle
altre lingue neolatine2.
Questo genere trae forza e flessibilità dal suo appartenere alle arti di rappre-
sentazione delle cose. È collegato allo status ontologico degli oggetti nei diversi
154 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI
tempi della cultura e nella temperie degli stili; all’intreccio variabile tra sensi e
cognizione; alla relazione tra i linguaggi e il mondo naturale.
Se l’esatta bellezza degli oggetti è pensata, ad esempio, come Vanitas è per-
ché, in una certa cultura religiosa, le cose del creato mancano di una realtà che
risiede nelle entità immateriali di un mondo trascendente. In questo “cogito
della vanitas” (Marin 1990, p. 28) la rappresentazione più naturalista spetta alle
cose dotate di un senso minore di realtà. Ma quando questa antifrasi viene me-
no, lo splendore delle apparenze si convertirà in elogio dell’esatta bellezza del
mondo reale. I sensi, prima operatori di illusione, si convertono in un dispositi-
vo sincretico e fedele di verità concreta.
Tra natura e cultura la mediazione semiotica è il luogo della costruzione di
senso. Per il semiologo, quindi, la natura morta non rappresenta la cosa in sé,
ma nella sua opposizione al segno. La raffigurazione icastica degli oggetti li pre-
Gli oggetti
come “segni
senta, infatti, come “segni della mancanza di segno” (Lotman 1986, p. 53). Si a-
della mancanza pre così il gioco sottile delle parole che si danno come cose (fanno parte delle
di segno” nature morte i numerosi testi: lettere, fogli, libri) e delle cose che si danno come
parole (emblemi, geroglifici, allegorie). Con tutte le possibili combinazioni tra
gli estremi: dalle nature morte di soli libri ai collages: accumulazioni di oggetti
“reali” sul quadro, che si presenta esso stesso come un oggetto.
In questa prospettiva – una semiotica dell’illusione di naturalità – non è ov-
vio tracciare una storia a senso unico: dalle Vanità moralizzate, dense di simbo-
lismo, al puro pretesto per gli esercizi formali, passando per la precisione mon-
dana (o scientifica) della rappresentazione. La genealogia di questo genere mi-
nore è tutta rotture e inflessioni, discontinuità e modulazioni di senso. Dei suoi
codici figurativi si è fatto e si continua a fare un uso maggiore per le desimbo-
lizzazioni e le risemantizzazioni collettive e individuali.
È un lavoro sul senso che si serve di una combinatoria limitata e ricorsiva di
motivi e di relazioni. Non ci sono cose nelle nature morte, ma oggetti (che il retori-
co Fontanier – 1830 – chiamava merismi), cioè artefatti ed elementi naturali, cultu-
ralizzati dalla loro introduzione nello spazio del quadro. La loro ricorrenza li pro-
muove a invarianti, cioè a motivi che prendono valori diversi nei testi di cultura.
Anche all’epoca dei codici emblematici, è arduo decidere se, ad esempio, la
lingua dei fiori avesse un semplice valore descrittivo o una valenza mistica (Se-
gal 1990). Con l’eccezione di pochi casi di simbolismo codificato: spiga e grap-
polo = Eucarestia; agnello = Cristo; giglio = purezza; passiflora = passione, è ar-
La
dua l’attribuzione di senso anche ai motivi più frequenti. Nonostante l’erudizio-
combinatoria ne enciclopedica, persino quel “ritratto in negativo” (soggetto e oggetto insie-
interoggettuale me) che è il teschio prende senso solo se opposto al viso e alla maschera, se as-
sociato allo specchio, alla fiamma o all’alloro. Il senso della natura morta non si
riduce in un vocabolario di motivi, ma risiede nei rapporti sottili che si tessono
nello spazio della rappresentazione. C’è una interoggettività per cui una mosca
sul teschio è corruzione e morte, ma su un tendaggio o copricapo è un dettaglio
circostanziale; lo stesso insetto può servire anche come indicazione metapittori-
ca del valore emblematico della composizione.
Esiste, dunque, una retorica testuale delle nature morte che va oltre la figura
dell’ipotiposi, la rappresentazione vivida nel trattamento degli oggetti, che la
opponeva ai blasoni – diagrammi di nomi propri – e alle grottesche che, come
diceva Ulisse Aldrovandi, sono “cose mentali”. Non è una retorica sintagmati-
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 155
Nella genealogia del genere still life persiste una fedeltà ai motivi, intesi co-
me entrate testuali invarianti con valore tematico, stilistico e filosofico. Si veda-
no, in primo luogo, le rappresentazioni delle Vanitas, dove le modalità del sape-
re, del potere e del desiderio si sono ironicamente invertite da negative a positi-
ve. L’allegoria è diventata letterale e l’antifrasi si è invertita. Anche i motivi del-
la fugacità del tempo – dai fiori al fumo, alle bolle di sapone – si sono tramutati
nei trionfi della piena presenza e della vita sensibile. Le passioni della vanità e
della malinconia si sono trasformate in lusso e lussuria, trofei e trionfi.
Se ci avviciniamo al nostro tempo, si può fare riferimento, sul piano stilisti-
co, al caso di Picasso, che considerava Rousseau il doganiere un precursore del
cubismo per l’uso del caratteristico motivo del mandolino4! Schapiro (1968a) Le
sostiene, invece, argomentandolo, il valore passionale delle mele di Cézanne. metamorfosi
Mentre van Gogh assegnava ai motivi delle nature morte un valore propedeuti- dei motivi
co a più profondi impegni artistici, nella carriera del grande “naturamortista”
francese, il reiterato motivo delle mele è passato da una giovanile valenza eroti-
ca alla contemplazione e meditazione, cioè alle condizioni della creazione arti-
stica. La mela diventa il simbolo e l’emblema di un modo di vita.
156 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI
Sunt modi in rebus. Leopardi aveva osservato che c’è una duplicità delle cose;
per l’uomo sensibile, dietro a ogni oggetto se ne trova un altro più ricco di senso
e di valore. Così, per de Chirico, ogni opera d’arte conterrebbe due solitudini:
quella metafisica che è “solitudine dei segni” e quella “plastica, che è la beatitudi-
ne contemplativa che ci dà la geniale costruzione e combinazione delle forme –
materie o elementi morti-vivi o vivi-morti: la seconda vita delle nature mor-
te…”(1985, p. 86)5. Alla condizione di un certo inquadramento e isolamento to-
pologico, la paradigmatica degli oggetti libera le qualità di forme e di tinte che si
dispongono poeticamente e comunicano così un senso altro, enigmatico ma pro-
priamente visivo, rispetto all’evidenza linguisticamente riconoscibile. Una intensi-
ficazione immobile e uno sdoppiarsi della rappresentazione che Braque chiamava
la “poésie de la peinture”. In questo senso Chastel (1990, p. 14) vede giusto:
quando Braque e Picasso si interessano alla “nature morte con teschio”, “il fasci-
no del senso sopravvive all’indifferenza per il simbolo”. Si potrebbe dire lo stesso
di una composizione di Steinbach, Untitled 1989 (daybad, coffin), dove un letto
da design è messo in parallelo con una ironica bara in verticale; mostrando, senza
nostalgia, e dimostrando, con esattezza poetica ed emblematica, come il mondo
della produzione di massa sia quello dell’incessante sparizione delle cose.
Nature
Da questo punto di vista, e senza nulla togliere al valore significante dei mo-
morte come tivi, si comprende bene come l’amico di Cézanne, Émile Zola, considerasse le
pretesti formali nature morte puri pretesti di forma, modi per ottenere “belle macchie e opposi-
zione tra masse vivaci”. Come scrive in Il ventre di Parigi:
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 157
Era solito aggirarsi tutta la notte in quegli spazi, fantasticando nature morte gigante-
sche, quadri mai veduti. Anzi, ne aveva persino cominciato uno; aveva fatto posare
l’amico Marjolin e quella sguaiatella della Cadine; ma ci voleva altro! Era troppa la
bellezza di quegli accidenti di ortaggi! E la frutta! E i pesci, e la carne! (…) era chia-
ro che a Claude, in quel momento, non passava nemmeno per il capo che tutte quel-
le bellezze fossero da mangiare. Lui non ne amava che il colore (Zola 1873, p. 25).
Per far parlare questo linguaggio, il pittore di vite silenti deve quindi ri-colloca-
re i motivi secondo nuove disposizioni: “Si può paragonare la natura morta di Cé-
zanne – scrive Schapiro (1968a) – a un gioco di scacchi solitario in cui l’artista cer- La
ca sempre la miglior posizione per le sue pedine”. O a una battaglia immaginaria commutabilità
con soldatini di piombo, in cui i tratti plastici permettono di formulare una comu- dei motivi
nicazione altra. A questo livello più profondo, crani, mele e autoritratti di Cézanne
divengono commutabili. Come dice Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore:
Da quando ne avevo veduti negli acquarelli di Elstir, cercavo di ritrovare nella realtà,
amavo come qualcosa di poetico, il gesto interrotto dei coltelli ancora di traverso; la
gonfia rotondità di un tovagliolo disfatto in cui il sole intercala un pezzo di velluto
giallo; il bicchiere mezzo vuoto che rivela meglio così le sue nobili forme svasate e, in
fondo al suo vetro translucido e simile a una condensazione della luce, un resto di vino
scuro, ma scintillante di riflessi; lo spostamento dei volumi, il trasmutarsi dei liquidi
per effetto dell’illuminazione; l’alterazione delle prugne che passano dal verde all’az-
zurro e dall’azzurro all’oro nella fruttiera già mezzo spoglia; la passeggiata delle sedie
vecchiotte, che due volte il giorno vanno a ordinarsi intorno alla tovaglia stesa sulla ta-
vola come su di un altare su cui si celebrino i festini della ghiottoneria e sulla quale, in
fondo alle ostriche, resta qualche goccia d’acqua lustrale come in piccole acquasantie-
re di pietra; cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse,
nelle cose più usuali, nella vita profonda delle “nature morte” (1954, pp. 473-474).
La natura morta, dopo una discreta fortuna nel mondo greco e romano, ha
vissuto una fase di marginalità per poi fare la sua ricomparsa come parergon e,
finalmente come genere autonomo, solo nella grande stagione dei generi mo-
derni: il Seicento. Se già Plinio (23-79 d. C.) ne evidenziava alcuni caratteri (la
presentazione illusionistica, l’idea di vanità delle cose, il carattere metapittori-
co della rappresentazione)6, i tratti salienti andranno maggiormente a deli-
158 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI
En la saison des fruits vous remplirez des plats de faïence et mettrez sous les fruits
des feuilles de vigne si vous le trouvez bon (…). Vous placerez les plats plains de
fruits de la hauteur se votre œil environ un pied plus bas, et alors vous portrairez les
fruits le plus prés du naturel7.
(…) la cosa in un quadro a soggetto si comporta come la cosa a teatro, la cosa nella
natura morta come la cosa nel cinema. Nel primo caso recitano con lei, nel secondo è
lei che recita. Nel primo caso non ha un significato indipendente, bensì lo riceve dal
significato dell’azione scenica: è un pronome. Nel secondo caso essa è un nome pro-
prio, è munita di un significato proprio ed è come se venisse inclusa nel mondo inti-
mo dello spettatore (corsivo nostro).
Fig. 24. Pieter Claesz (1597-1661), Natura morta con calice e vassoio d’argento, olio su tavola, 42 x 59
cm, Berlino, Staatliche Museen.
Fig. 25. Kuz’ma Petrov-Vodkin, Natura morta mattutina, 1918, olio su tela, 66 x 88 cm, San Pietrobur-
go, Museo Statale Russo.
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 161
Fig. 26. Giovanni Battista Crescenzi, Natura morta di fiori, frutti e ortaggi, 1610 ca., olio su tela, 104.8
x 139.7 cm, Raleigh, North Carolina Museum of Art.
162 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI
Fig. 27. Nicolas de Staël, L’étagère 1955, olio su tela, 88.5 x 116 cm, Colonia, Museum Ludwig.
Vous petites femmes qui devenez grosses, ne regardez pas le fruit peint qui paraît
ressembler à la vie. Afin que votre œil insensé ne tourmente pas votre cœur, et que
ne naisse de cela une idée pour le fœtus. Parce que la vision de cet art doit rapide-
ment toucher le désir de l’âme16.
Quando la natura morta non si era ancora affermata come genere, quando e-
ra in statu nascendi, essa conviveva con altri contesti narrativi, come quello sto-
rico-religioso. Inoltre, nelle nature morte sono rappresentate talvolta opere di
arti applicate, di vetro artistico, di scultura, di mosaici, di ceramiche, di pitture:
esempi di arte nell’arte. In qualche modo, quindi, questo genere pittorico co-
struisce da sempre delle interazioni con l’altro da sé.
Si è detto in precedenza che la nascita dei generi, così come viene fissandosi
dall’inizio del XVII secolo, segue precise dinamiche metapittoriche. Oltre alla
nicchia per la natura morta, vanno ricordate la finestra per il paesaggio e la por-
ta per la veduta di interni.
Soffermandosi sulle più canoniche nature morte del passato, è facile con-
statare che la maggior parte di esse si presenta come rispettosa delle regole del
proprio genere. Tra le numerose opere esposte in questa mostra, al contrario,
si può osservare la presenza di un vero e proprio gioco tra i generi. In partico-
La lare, in misura più consistente si propone il gioco fra due generi che si struttu-
natura morta rano su figure metapittoriche diametralmente opposte: la natura morta e il
e il suo
dialogo
paesaggio. Infatti, se la nicchia è il tratto maggiormente responsabile dell’ag-
con altri generi getto e dell’autonomizzazione del genere natura morta, la finestra lo è per il
pittorici paesaggio, dove assolve alla funzione di creazione di profondità. E dunque
paesaggio e natura morta, quando compresenti su un’unica superficie coniuga-
no insieme gli opposti creando soluzioni certamente originali (fig. 30). Filippo
de Pisis ambienta la sua natura morta (1929) addirittura in un paesaggio mari-
no. Mentre Giorgio de Chirico, in Frutta con sfondo di paese (1955-56, fig. 31),
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 165
Fig. 30. Giovanni (?) Stanchi, Angurie, pere e un’alzatina con frutta, paesaggio d’alberi e montagne, 1650-
1660 ca., olio su tela, 133.5 x 98 cm, Principato di Monaco, collezione privata.
Fig. 31. Giorgio de Chirico, Frutta con sfondo di paese, 1955-1956, olio su tela, 70 x 90 cm, Bologna,
Galleria Marescalchi.
166 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI
colloca sul davanzale di una finestra frutti di vario tipo (grappoli d’uva, limoni,
mele, cocomero), sparsi e all’interno di un canestro, senza soluzione di conti-
nuità, e assecondando un gioco di rime sia plastiche sia cromatiche, essi si
“trasformano”, quasi come in un processo di metamorfosi, dapprima nelle col-
line della fascia intermedia, successivamente nelle morbide nuvole dello sfon-
do. Unico elemento di separazione/congiunzione fra la natura morta e il pae-
saggio, è una tenda17: nella parte destra trattenuta a formare un rigonfiamento
verso il basso, esattamente sopra il canestro; a sinistra, invece, compare solo
per un minuscolo lembo. La tenda diventa così il “simulacro” della finestra.
In Renato Guttuso, Donna alla finestra (1942), il primo piano è occupato
da un tavolo in scorcio con tappeto rosso che fuoriesce dai bordi del quadro
entrando nello spazio dell’osservatore; in questo spazio sono collocati i cano-
La
nici oggetti della natura morta (bottiglie, libri, fogli e un bucranio di profi-
natura morta lo), mentre sullo sfondo una figura femminile di spalle si affaccia alla fine-
e il paesaggio stra, aperta su un paesaggio urbano, fatto esclusivamente di edifici. La rima
di colore rosso che si instaura fra il panno sul tavolo e la maglia della donna,
è responsabile dell’effettiva iscrizione dello spettatore, allertato sia dalla con-
tiguità spaziale sia dalla figura femminile: vero e proprio delegato dell’osser-
vatore nel testo.
Jannis Kounellis, in Senza titolo (1993), propone, invece, una finestra con
inferriata e telaio aldilà della quale si vede un giardino con vegetazione in-
vernale. Sul davanzale della finestra, si dispone uno stipetto su cui sono ap-
poggiati cinque bicchieri di cristallo colorato. Oltre la finestra si vede la luce
diurna; al di qua della finestra, nello spazio dell’osservatore, è l’ombra che lo
avvolge.
In Louis Marcoussis, Les poissons bleus (1928), il primo piano è occupato
da un tavolo tondo in visione rialzata, mentre una finestra sullo sfondo per-
mette la veduta di uno spaccato paesaggistico marino.
In André Masson, Chateau de cartes (1924), il gioco è ancora più sottile: il
bicchiere e il castello di carte sono “incorniciati” dallo stipite della finestra o
sono entro una nicchia? Sul possibile davanzale (o piano della nicchia), in-
quadrato come superficie, stanno un bicchiere in visione zenitale a destra, e
la firma del pittore a sinistra: rima di superficie, la scrittura, su superficie,
quella del quadro.
In Still-life di Alice Neel (1945), una forma morbida e scura fa da cornice
nella cornice alla scena rappresentata, simulando una finestra da cui si vede
un tramonto sul mare, mentre in piano ci sono alcuni oggetti, con evidenti
ombre per nulla coerenti con la fonte di luce dello sfondo18.
Paul Gauguin, in Tournesols sur un fauteil (1901), nel settore destro del
quadro raffigura una superficie incorniciata con una scena di mare, lasciando
il campo all’ambiguità: finestra o quadro?
La Sempre nell’ottica di dialogo con altri generi, due sono gli esempi che
natura morta e propongono la combinazione fra natura morta e ritratto o autoritratto: Salvo,
l’autoritratto Autoritratto con natura morta, dal ritratto del dr. Gachet di van Gogh (1973) e
Natalja Gonciarova, Natura morta con ritratto e lenzuolo bianco (1908-1909).
La natura morta, insomma, nel suo dialogo intertestuale con altri generi
viene a profilarsi come una scommessa sulla pittura a venire, ma anche sulle
altre arti possibili.
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 167
6. Altri generi?
All’estrema destra del tavolo si trovano due portaoggetti rettangolari, di vetro spes-
so, disposti uno accanto all’altro. Il primo contiene una gomma biancastra (…), un
tagliaunghie d’acciaio lucido, una bustina di fiammiferi che presenta un disegno alla
Vasarely su fondo giallo (…), un pesce d’ottone dagli occhi di vetro, (…) tre meda-
glie poste di faccia (…), una pinzetta per depilazioni, una gomma biancastra, un pic-
colo apribottiglie d’acciaio con manico in madreperla (…) (p. 68, corsivo nostro).
In primo piano, spiccando nettamente sul panno nero del tavolo, si trova un foglio
di carta a quadretti, di formato 21x29.7, quasi interamente coperto da una scrittura
esageratamente fitta, sul quale si può leggere: la scrivania su cui scrivo è un vecchio
tavolo da gioielliere in legno massiccio, munita di quattro grandi cassetti, e il cui pia-
no di lavoro, leggermente abbassato rispetto ai bordi, forse per impedire che le per-
le un tempo dispostevi rischiassero di cadere per terra, è ricoperto da un telo nero di
tessitura estremamente fitta (pp. 71-72).
1 L’articolo è stato pensato dai due autori: Paolo Fabbri ha scritto i paragrafi 1. 2. 3. E Lucia Corrain
i paragrafi 4 e 5. Originariamente pubblicato in Weiermair, P., a cura, 2001, La natura della natura mor-
ta. Da Manet ai nostri giorni, catalogo della mostra di Bologna, Milano, Electa, pp. 220-228.
2 La presenza di questa espressione compare per la prima nel 1750, nella Lettre sur la peinture à un
te (…). Ponete il piatto pieno di frutta all’altezza di circa un piede più basso del vostro occhio, così ri-
trarrete la frutta il più simile al naturale ” (cit. in Heck 1998, p. 61).
8 I Coretti nella parete dell’arco di trionfo della cappella degli Scrovegni, che Giotto affrescò nel
1302 e la Nicchia con patena, pisside e ampolle con una mensola intermedia del 1337-38.
9 Esempi per eccellenza della nicchia sono i bodegones, dei primi anni del Seicento, di Sánchez
Cotán, nei quali qualche frutto o qualche verdura o della cacciagione viene sistemata nel vano di una nic-
chia rettangolare, cfr. Stoichita 1993, pp. 41 sgg.
10 Jan Brueghel, in una lettera del 16 aprile 1606 – inviata al cardinal Borromeo, nella quale racconta di
una natura morta di fiori, precisamente il Bouquet di fiori (1606), oggi conservato alla Pinacoteca Ambro-
siana di Milano –, scrive che i fiori devono essere “grandi come nella natura”, cit. in Heck 1998, p. 61.
11 Si vedano, fra gli altri, Pieter Claesz, Natura morta con violino, teschio e globo, Norimberga, Na-
tional Museum e Bartolomeo Bettera (attr.), Natura morta con strumenti musicali, collezione privata.
12 E forse quel cane sullo sfondo che guarda fisso sul tavolo è lì a segnalare che la riflessione varia al
variare del punto di vista e che dunque quella che lui vede non è uguale a quella dello spettatore.
13 Effetti di riflessione, ma meno definita, sono proposti anche da Filippo de Pisis, Natura morta in
Profano Gregoriano.
15 È la fine della contenuta profondità della nicchia, in nome di un punto di fuga che è nell’occhio
dello spettatore.
16 “Voi donne in cinta, non guardate la frutta dipinta che assomiglia alla vita. Al fine che il vostro oc-
chio insensato non tormenti il vostro cuore, e che non nasca da ciò una “voglia” al feto. Perché la visio-
ne di quest’arte deve rapidamente toccare il desiderio dell’anima” (Cornelis de Bie, Het Gulden Cabinet,
Anversa 1662, cit. in Heck 1998, p. 60).
17 Anche la tenda è una figura metapittorica, perché quando rappresentata nel quadro e in una qual-
che relazione con la cornice, funziona alla stregua di un avvertimento rivolto all’osservatore, il quale non
si trova davanti a un quadro, ma “davanti alla rappresentazione di un quadro” (Stoichita 1993, p. 70).
18 Altri esempi possibili esempi: Chaim Soutine, Bouquet de fleurs dans un vase sur un balcon (1916):
natura morta esposta su un balcone e oltre la ringhiera si vede un frammento di giardino; Henri Matisse,
Anémones dans un vase de terre (1924): lascia presupporre un paesaggio, in quanto sulla sinistra, in scor-
cio, si vede una finestra; Adolf Dietrich, Vase mit blauen Enzianem (1948): la dimensione paesaggio vie-
ne relegata nel cielo.
Evaporazione e/o centralizzazione.
Gli (auto)ritratti di Manet e di Degas1
Victor I. Stoichita
I biografi fanno risalire il primo incontro tra Manet e Degas al 1862 (Tarba-
rant 1947, p. 37). Scena dell’incontro, il Louvre, dove Manet avrebbe visto il
giovane Degas intento a eseguire direttamente su rame una copia dell’Infanta
Margherita di Velázquez (Moreau-Nélanton 1926, p. 36). Un evento che – come
è stato già detto (Loyrette, Roquebert 1988-1989, p. 140) – sa di leggenda, ri-
proponendo il tema quasi mitico dell’incontro tra due grandi artisti: Giotto/Ci-
mabue, Perugino/Raffaello... A differenza di questi ultimi, però, il rapporto tra
Manet (nato nel 1832) e Degas (nato nel 1834) non ripercorre gli stereotipi del Due visioni
rapporto maestro/allievo, ma si trasforma rapidamente in un dialogo comples- inconciliabili
so, per non dire tortuoso, di cui non è facile parlare in modo preciso, fatto dell’arte
com’è di reciproca ammirazione, di rivalità, di incompatibilità di carattere. Al
di là di tutto questo ci sono soprattutto due modi tra loro inconciliabili di con-
siderare l’arte in generale e l’arte “moderna” in particolare. Al riguardo le fonti
scritte sono avare di particolari e così dovremo tentare di interrogare le opere di
questi due grandi maestri per indagare le cause di questa loro incompatibilità.
Le pagine che seguono si pongono questo obiettivo partendo dall’analisi dei lo-
ro autoritratti e dei rari ritratti che l’uno fece dell’altro.
Esiste un solo autoritratto che mostra Manet intento al proprio lavoro
(1879, fig. 32). Come ogni autoritratto, anche questo è un oggetto paradossale.
Sono presenti diverse componenti di una certa retorica della rappresentazione:
la prima riguarda il rapporto tra questo dipinto e il resto della sua opera. Manet
L’autoritratto
ha realizzato molti quadri, ma un solo autoritratto propriamente detto che lo ri- di Manet:
trae “all’opera”, in cui mette peraltro in scena una situazione inedita. Che Ma- l’immagine
net si sia effigiato non così “com’è”, bensì “come appare” è cosa svelata dalla di un’immagine
stessa rappresentazione. Tavolozza nella mano destra, pennello nella sinistra,
quel che vediamo non è Manet, bensì la sua immagine rovesciata.
Nessuna fonte ci dice che egli fosse mancino, cosa peraltro poco probabile
in considerazione dell’educazione cui i pittori venivano sottoposti nell’Ottocen-
to. Quindi l’inversione tra destra e sinistra presente nell’Autoritratto deve essere
considerata un fatto importante. Fried (1996, pp. 365-398) ha recentemente di-
mostrato che anche altri artisti contemporanei di Manet erano usi ricorrere a
questo espediente2, e le sue conclusioni offrono un eccellente punto di partenza
alle considerazioni che seguono.
Ogni autoritratto, si sa, è reso possibile grazie a uno specchio, ed è proprio
grazie allo specchio che ogni autoritratto mira a riprodurre l’immagine del pit-
tore. L’inversione tra destra e sinistra dice chiaramente che ciò che vediamo è
l’immagine di un’immagine, è il pittore “in persona”.
170 VICTOR I. STOICHITA
Fig. 32. Edouard Manet, Autoritratto, 1879 ca., olio su tela, 83 x 67 cm, New York, collezione privata.
Abiti da città e cappello in testa, il Manet che vediamo è “il pittore della vita
moderna” per eccellenza3, ma allo stesso tempo, riprende, modificandola, una
certa maniera della pittura classica, di cui Las Meniñas (1656) di Velázquez –
“quadro straordinario” per sua stessa ammissione (cfr. Kesser 1994, pp. 91-106)
– rappresentava la vetta.
A differenza di Velázquez, tuttavia, Manet esclude dalla propria rappre-
sentazione i modelli e lo spazio dell’atelier, e si focalizza esclusivamente sulla
sua persona. Tavolozza, pennello e sguardo sono le componenti attraverso le
quali la pittura si origina. Lo scenario di produzione che in Las Meniñas era
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 171
A Manet piaceva essere osservato chino sul cavalletto, la testa dapprima inclinata in
direzione del modello, quindi verso l’immagine rovesciata nello specchio che teneva
in mano (Blanche 1924).
L’uso costante da parte di Manet dello specchio fa pensare, anche perché al-
tre fonti ne parlano. Si tratta di un procedimento senz’altro antico, e se c’è
L’uso dello qualche cosa di veramente significativo nel brano appena citato, è proprio l’an-
specchio dirivieni del pittore all’interno dei tre poli cavalletto/modello/specchio e il fatto
che durante tale andirivieni a Manet “piacesse farsi osservare”.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 173
Fig. 36. Edouard Manet, La Pesca, 1861-1863 ca., olio su tela, 76.8 x 123.2 cm, New York, Metropoli-
tan Museum.
Fig. 37. Edouard Manet, Musica alle Tuileries, 1862, Londra, National Gallery, particolare.
Con il numero “uno” era contrassegnato il Déjeuner sur l’herbe, del 1863,
mentre con il “cinquanta” (l’ultimo del catalogo) il dipinto di cui ho appena par-
lato, allora intitolato Paysage. In questo modo Manet sottolineava il valore inau-
gurale del Déjeuner e assegnava a La Pesca il posto e la funzione significante di
quadro da leggersi come “firma” apposta all’intera esposizione, che aveva, in ef-
fetti, come oggetto gli ultimi sette anni (1860-67) della sua produzione pittorica,
quelli che segnano il suo passaggio agli artisti in cerca della modernità.
Al centro dell’esposizione, il numero ventiquattro del catalogo, si trovava
un altro quadro-manifesto su cui vorrei ora soffermarmi: La Musica alle Tuile-
ries (1862, tav. XIII)6.
176 VICTOR I. STOICHITA
Fig. 38. Edouard Manet, Musica alle Tuileries, 1862, Londra, National Gallery, particolare.
È il grande ritratto di gruppo della società elegante del Secondo Impero. In-
vece della presenza dissimulata del Manet di La Pesca, La Musica alle Tuileries
presenta l’artista “quale egli è”. Accanto a Baudelaire, a Fantin-Latour, a
La figura Champfleury o a Jacques Offenbach, Manet è uno dei rappresentanti dell’intel-
e il nome ligencija parigina del Secondo Impero. Due elementi indicano che l’autoproie-
zione fu concepita da Manet come un’aporia. Il primo è dato dalla sua posizio-
ne marginale, apparendo nella tela in basso a sinistra (cioè laddove l’ordine di
lettura codificato da secoli pone l’“inizio” della rappresentazione), benché ta-
gliato a metà dalla cornice (fig. 37).
Nello stesso tempo, egli si trova in seno all’opera e al di fuori di essa. Potrebbe
essere assente, è invece presente. Alla sua persona inserita nell’immagine fa pen-
dant, dall’altra parte del quadro, la sua firma (fig. 38). L’intera rappresentazione si
svolge tra questi “due Manet”, tra la “figura” e il “nome” dell’artista-autore.
Se si considera ancora una volta questo quadro come uno dei pezzi in mostra
al Pont de l’Alma, si potrà notare che la marginalità dell’autore e della sua firma
(nel quadro) si trasforma in centralità dell’istanza-autore “MANET” al centro del-
l’esposizione e del catalogo.
Bisogna, però, ricordare la genesi del quadro per rendersi conto che sia l’auto-
ritratto sia la firma sono da considerarsi elementi, per così dire, “paratestuali”7.
Tra i diversi studi preparatori di La Musica alle Tuileries, quello più comple-
L’autoritratto to è un disegno in collezione privata (fig. 39), dove si possono riconoscere alcu-
e la firma
come elementi
ni personaggi che ritroviamo al centro della composizione finale. E dove si può
paratestuali anche notare che era già presente la famosa idea del tronco d’albero, e che le
due donne in primo piano a sinistra non hanno ancora preso posto sulle sedie
da giardino.
La cosa che in questo disegno a me sembra essere della massima importanza
è che, pur essendo pressoché completo, rappresenta solo la parte centrale del
futuro quadro. Ciò che ancora manca sono, per l’appunto, le due estremità del
quadro che Manet deve ancora dipingere, gli spazi dove la silhouette dell’artista
(a sinistra) e la sua firma (a destra) troveranno collocazione. Non possiamo non
domandarci perché Manet, che – come ben si sa – solitamente operava per tagli
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 177
Fig. 39. Edouard Manet, Studio per Musica alle Tuileries, 1862, disegno, 18.5 x 22.2 cm, collezio-
ne privata.
una volta ultimati i dipinti, abbia invece qui preferito procedere per aggiunte.
Credo che la risposta vada trovata nel carattere paratestuale dell’inserimento
dell’autore, sia sotto forma di autoritratto che di firma. Se si esamina con atten-
zione quest’ultima (fig. 38), si potrà constatare che l’idea dell’inserimento è pa-
lesata in maniera particolarmente evidente: il nome tracciato con un colore bru-
no è letteralmente dentro l’immagine e non su di essa. L’apporto innovativo di
Manet è evidente.
La firma è un segno che l’autore appone facoltativamente all’opera dopo
averla ultimata. Teoricamente, non è parte integrante del quadro: la sua pre-
senza, o la sua assenza, può riflettersi sul valore commerciale, non certo sul La messinscena
valore intrinseco. La messinscena della firma equivale a mettere simbolica- dell’atto di
mente in scena l’atto della produzione in seno a quanto prodotto (cfr. Stoichi- produzione
ta 1992). “Cos’è l’arte pura nel pensiero moderno?”, si chiedeva Baudelaire
nelle Curiosités esthétiques. E così rispondeva: “È creare una magia suggestiva
contenente allo stesso tempo l’oggetto e il soggetto, il mondo esterno all’arti-
sta e l’artista medesimo”8.
L’atto di integrare il nome del pittore all’interno dello spazio dell’opera non
è che un aspetto marginale di questa magia, ma si può considerare il modo in
cui Manet affronta il problema dell’inserimento del nome dell’autore come ca-
ratteristico del suo essere “pittore della vita moderna”.
178 VICTOR I. STOICHITA
Fig. 40. Franz von Lenbach, La Famiglia Lenbach, 1903, fotografia, Monaco di Baviera, Lenbachhaus.
Fig. 41. Franz von Lenbach, La Famiglia Lenbach, 1903, olio su cartone, 96.5 x 122 cm, Monaco di Bavie-
ra, Lenbachhaus.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 179
Tutti i fenomeni artistici denotano nell’essere umano l’esistenza di una dualità per-
manente, la potenza di essere allo stesso tempo se stesso e un altro (...) L’artista non
è tale, se non a condizione di essere doppio e di non ignorare alcun fenomeno della
propria natura (1845-1866, p. 119).
180 VICTOR I. STOICHITA
Penso che ora, alla luce di quanto afferma il suo amico Baudelaire, si possa
meglio comprendere Manet. Si capisce cioè il motivo che spinse Manet – pittore
della vita moderna – a dare tanta importanza a uno spazio delicato come quello
che sta al bordo dell’immagine. E proprio qui che si genera la schize e che l’artista
si scinde in presenza endotopica e in istanza produttiva esotopica. Mi limiterò a
un solo esempio. La Maîtresse di Baudelaire, quadro dipinto nel 1862, è concepito
nello stesso spirito del poeta: vi compare Jeanne Duval nelle fattezze di “vecchia
bambina”, o – potremmo dire – di “vecchia Meniña” (cfr. Cachin, Moffet, Melot
1983, pp. 96-98). Il ricordo del quadro di Velázquez, sebbene molto filtrato, è
tuttavia evidentissimo: nell’estremità sinistra del dipinto si scorgono il telaio e i
bordi della tela davanti alla quale bisogna immaginare Manet intento all’opera. È
La presenza
senza dubbio significativo che l’ispirazione velazqueziana non emerga negli studi
endotopica e
preliminari, infatti, nell’acquerello della Kunsthalle di Brema manca proprio que- l'istanza
sto riferimento diretto (Rouart, Wildenstein 1975, n. 368). La rappresentazione produttrice
dei bordi intesa come segno dell’autore nel ritratto fu verosimilmente un’idea esotopica
successiva di Manet. Viene tuttavia ad aggiungersi a un elemento di linguaggio fi-
gurativo che occupava da tempo il suo pensiero. Dal punto di vista del pittore, la
definizione del luogo da cui parte la formazione dell’immagine, è una costante
della Nouvelle peinture di cui Manet fu il caposcuola10. Il saggio cui Duranty dava
proprio questo titolo (1876), faceva il punto in materia. Non posso, in questa se-
de, ripetere o riassumere quel testo fondamentale, la cui idea centrale è questa: ri-
spetto all’oggettività, all’onniscienza e all’“onniveggenza” della pittura classica, la
Nouvelle peinture si realizza partendo da un punto di vista personale e occasiona-
le, se non addirittura incidentale (Duranty 1876).
Il più delle volte, Manet effettua le sue “riprese di immagine” ancora in maniera
apparentemente tradizionale. Questo tradizionalismo (ingannatore) si manifesta so-
prattutto nel centralismo cui egli sottopone i suoi primi lavori. Solo i Café-Concerts
degli anni 1878-1879 (figg. 42, 43) sono costruiti partendo da un punto di vista
molto ravvicinato, come se si trattasse di un ingrandimento, tanto che il loro carat-
tere “frammentario” finisce per originare una sorta di “perdita del centro”. Se a
proposito della “ripresa di immagine” si può parlare di una peculiarità che può de-
finirsi una costante dell’opera di questo artista, detta peculiarità si colloca su un li-
vello diverso, che potremmo definire “meta-rappresentativo”: nella maggior parte
dei quadri di Manet sono contenuti dei segnali che integrano l’immagine all’interno "Lo sguardo
di un flusso di comunicazione. Il più importante è lo sguardo che dallo spazio del dal quadro"
quadro si dirige verso lo spazio che sta al di qua della superficie dell’immagine. In
tutte le sue maggiori opere, dal Déjeuner sur l’herbe e dall’Olympia fino a Nana e al
Bar aux Folies-Bergère, il Blick aus dem Bilde, lo sguardo dal quadro, per dirla con
Alfred Neumayer (1964), è percettibile. Ma qual è il significato?
Un primo significato è proprio quello cui ho appena accennato, e cioè che
l’opera è considerata un oggetto facente parte di un flusso di comunicazione.
Davanti a un quadro di Manet, lo spettatore contempla anche se stesso: non c’è
soltanto lui intento a guardare il quadro, ma anche il quadro guarda chi sta
guardando. Questa situazione di ricezione dell’opera non è, tuttavia, che un ri-
flesso di quella della produzione. La posizione dello spettatore davanti all’opera
finita altro non è che la ripetizione della posizione del pittore davanti all’opera
in fieri. E mentre egli opera un inserimento dello spettatore nello spazio del di-
pinto, il Blick aus dem Bilde svela la presenza invisibile dell’istanza creatrice.
182 VICTOR I. STOICHITA
Fig. 44. Edgar Degas, Donna nuda che si asciuga il piede, 1885-1886 ca., pastello su cartone, 54.3 x 52.4
cm, Parigi, Musée d’Orsay.
In questo senso le opere di Manet non sono mai “finite”, giacché il loro com-
pletamento si manifesta solo nell’atto della ricezione, reiterante quello della crea-
zione. L’invocazione di Baudelaire (1857): “Lettore ipocrita, mio simile, mio fratel-
lo” avrebbe potuto benissimo essere stata pronunciata dallo stesso Manet.
È questo il punto in cui le differenze strutturali tra Manet e Degas si evidenzia-
no più nettamente. Se in Manet esiste quasi sempre un contatto ottico tra uno dei
Degas: l'autore
come presenza
personaggi raffigurati nel quadro e lo spettatore (cioè l’autore), in Degas l’istanza
invisibile dell’autore (e anche quella dello spettatore) è quasi sempre tematizzata come eso-
topica. Sarò più chiaro: l’impaginazione, il punto di vista estremamente personale
e i dispositivi ottici dell’immagine fanno in modo che l’istanza dell’autore resti
sempre “nascosta”, anche se la sua presenza invisibile al di qua dei margini del-
l’immagine (fig. 44) è comunque suggerita. Come molte volte è stato detto, la posi-
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 183
Fig. 45. Edouard Manet, Giovane donna in una tinozza, 1878-1879, pastello su cartone, 54 x 45 cm, Pari-
gi, Louvre, Cabinets des Dessins.
zione di Degas è quella del voyeur. Vede senza essere visto, osserva senza essere os-
servato, dipinge o disegna senza per ciò coinvolgersi nello spazio delle proprie im- I luoghi della
magini11. In questo contesto non c’è nulla di più denso di significato del punto do- firma
ve viene apposta la firma: Degas firma sui margini inferiori delle sue opere, su so-
glie immaginarie, oppure sotto inquadrature di porte che raddoppiano i margini
dell’immagine. Si ferma sempre sul limitare, “sulla soglia”, senza mai compiere il
decisivo passo dell’integrazione, come invece avviene in Manet. Quando quest’ul-
184 VICTOR I. STOICHITA
timo, ispirato dallo stesso Degas, riprende il tema delle donne intente a far toletta
(fig. 45), vi apporta varianti minime, ma dense di significato: gira la testa della mo-
della verso colui che sta osservando (una cosa che Degas non avrebbe mai fatto) e
appone la sua firma nel cuore stesso della rappresentazione.
La scelta di Degas di restare principalmente una presenza esotopica spiega,
a mio parere, la totale assenza nella sua opera di autoritratti incorporati, per i
quali, al contrario, Manet aveva una vera e propria predilezione. Conosciamo
un numero piuttosto elevato di autoritratti di Degas, soprattutto disegni o foto-
grafie; ma cosa assai strana, tutti risalgano alle stagioni estreme della sua vita,
cioè alla giovinezza o alla vecchiaia (figg. 46, 47). Rapportati al corpus artistico
di Degas, questi autoritratti possono essere considerati “esotopici”. Per dirla
con una metafora, fanno da “cornice” all’opera di Degas, mentre l’insieme cen-
trale della sua opera rifiuta la rappresentazione diretta dell’istanza dell’autore
(cfr. Armstrong 1991, pp. 211-243; Baumann 1994-1995, pp. 158-173).
Le considerazioni appena abbozzate trovano una conferma in un gruppo di
opere in cui Manet e Degas dialogano direttamente l’uno con l’altro. I due arti-
sti si sono accusati infinite volte di essersi reciprocamente “rubati” il soggetto
delle corse dei cavalli (figg. 48, 49). Ma non è necessario fare un grande sforzo Un unico tema
e due opposte
per rendersi conto che, a dispetto della rassomiglianza del tema, i due l’hanno soluzioni
reso in maniera diametralmente opposta, specie relativamente al punto di vista.
Se Manet ha posizionato la sua macchina da presa al centro della pista per im-
postare l’immagine (in una maniera che sfiora davvero l’inverosimile) in modo
da includere anche se stesso (fig. 48); Degas preferisce mantenersi nascosto, o i-
nosservato, dietro i fantini in riposo (cfr. Lipton 1986, pp. 17-71), talvolta addi-
rittura delegando a un personaggio vestito a festa sul prato del campo dove si
stanno svolgendo le gare, il ruolo di osservatore incorporato, senza mai raffigu-
rarsi in tale posizione.
Manet capì molto bene il significato di un tale approccio. Secondo Moreau-
Nélanton (1926, p. 139), nella Corsa al Bois de Boulogne del 1872, (fig. 50) Ma-
net dà testimonianza del proprio debito nei confronti di Degas raffigurandolo
nel quadro, in basso a destra, in compagnia di Mary Cassat.
Fig. 48. Edouard Manet, Corsa di cavalli a Longchamp, 1867 (?), olio su tela, 43.9 x 84.5 cm, Chicago, The
Art Institute.
186 VICTOR I. STOICHITA
strano ritratto (fig. 51)12. È uno dei rari casi in cui raffigura una figura femminile
intenta a guardare dall’immagine direttamente verso lo spazio dello spettatore, ed è
uno sguardo che per giunta esaspera, nascondendo con un binocolo di dimensioni
esagerate una buona parte del viso. A mio modo di vedere, credo che quest’opera
voglia tematizzare, in maniera forse un po’ ironica, il tipico sguardo alla Manet.
Questa ipotesi potrebbe sembrare gratuita, ma di certo non lo è. Un dise-
gno, ora al Metropolitan Museum di New York, svela l’idea originaria di Degas La
(fig. 52). Si tratta, senza alcun dubbio, di un disegno preparatorio per una rap- tematizzazione
dello sguardo
presentazione composita sul tema delle corse. Vi ritroviamo il personaggio della
donna con il binocolo, ma qui la si vede appena in fondo alla composizione,
mentre in primo piano domina Manet colto in una posa disinvolta. La giovane
donna intenta a osservare le corse è ella stessa l’oggetto su cui posa il proprio
sguardo Manet. In un secondo tempo Degas eliminò il ritratto di Manet per
concentrarsi sulla donna, la quale grazie alla messinscena dello sguardo diretto
si rivela essere l’“acronimo”, la sigla della visione alla Manet13.
Alcuni elementi del dialogo assai problematico tra questi due artisti sono ri-
scontrabili in un altro ritratto che Degas fece a Manet. La storia di quest’opera
(figg. 53, 54) è nota, ma ancora una volta resta suscettibile di interpretazioni più
particolareggiate rispetto a quelle finora avanzate. Si sa che Degas fece dono all’a-
188 VICTOR I. STOICHITA
mico del ritratto dello stesso Manet e della consorte. Manet insoddisfatto del mo-
do in cui fu raffigurata la moglie, senza il benché minimo scrupolo, ne ritagliò via
l’immagine. Furibondo, Degas si riprese la tela (cfr. Vollard 1938, p. 125; Mo-
reau-Nélanton 1926, p. 36). In una fotografia, risalente a quegli anni, si può vede-
Il ritratto della
re Degas in compagnia di Bartholomé con il ritratto della coppia nello stato in cui
moglie di
Manet la recuperò da Manet (fig. 55), quando il quadro non era stato ancora dotato del
brandello di tela che lo stesso (che aveva probabilmente l’intenzione di “ristabili-
re” la signora Manet alla propria maniera) vi avrebbe fatto aggiungere qualche
tempo dopo. Quanto a Manet, l’artista cercò di rimediare alla propria evidente
brutalità (l’aver fatto fuori sua moglie dal quadro di Degas) con un quadro in cui
la ritrae da sola (fig. 54).
Se mettiamo le due tele a confronto (figg. 53, 54), noteremo che, a differenza
delle diversità stilistiche proprie dell’uno e dell’altro artista, il quadro di Manet fu
eseguito all’interno dello stesso ambiente: uguali sono le poltrone ricoperte di fode-
re bianche, medesima è la posizione del pianoforte addossato alla parete, identica è
la sedia su cui è seduta la signora Manet, così come le righe dorate della boiserie.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 189
Fig. 55. Degas e Bartholomée, 1895-1900 ca., fotografia, Parigi, Bibliothèque Nationale.
vero scandalo per il troppo evidente erotismo. Va anche notato che nel qua-
dro di Degas (fig. 53), Manet, ricorrendo a un procedimento che faceva or-
mai parte del suo repertorio stilistico, ritaglia parzialmente la donna osserva-
ta, mentre in Nana lascerà chi osserva parzialmente fuori dalla cornice.
Nel quadro da lui stesso dipinto qualche tempo dopo, dove figura la si-
gnora Manet al pianoforte (fig. 54), eliminerà ogni traccia di contemplazione
endotopica, e metterà a fuoco il proprio modello partendo da un punto di vi-
sta esterno.
Il passo successivo di Degas (il tentativo di ricomporre la tela mutilata) ri-
Il ruolo di
mase a mezza strada. Aggiunse la porzione di tela mancante (fig. 53), ma non
trasformazione completò mai il dipinto. E qui, tuttavia, si fa strada un dettaglio che non è
della firma stato tenuto in dovuto conto, ma che meriterebbe uno sforzo interpretativo.
Il brandello di tela in basso a destra reca, infatti, la sua firma. Si sa che un’o-
pera d’arte viene firmata, generalmente, quando l’artista la considera ultima-
ta. Quale significato dare, allora, a questa firma apposta su un pezzetto di te-
la, aggiunta ma non dipinta? Sono convinto che inserendovi la propria firma
Degas abbia voluto attribuire a questo pezzo di tela la funzione di elemento
che ritaglia accidentalmente l’immagine. In altre parole, servendosi dell’ag-
giunta e della firma egli riconferisce all’intervento di Manet un che di “dega-
siano”. Con ciò sottolineando ancora una volta il suo essere autore esotopi-
co, il suo mantenersi sul bordo senza mai collocarsi all’interno di un’immagi-
ne rappresentata.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 191
Sono a conoscenza di un solo caso in cui Degas gioca con l’idea dell’autore
endotopico. Si tratta della famosa fotografia in cui Mallarmé e Renoir sono ri-
presi in casa di Berthe Morisot (1895 ca., fig. 56), descritta per la prima volta
dalla penna di Paul Valéry, suo primo proprietario:
La fotografia mi era stata donata da Degas, di cui si scorgono nello specchio la mac-
china fotografica e lo spettro. Mallarmé sta in piedi accanto a Renoir, che è seduto
sul divano. Degas impose loro quindici minuti di posa alla luce di nove lampade a
petrolio. (...) Nello specchio si possono riconoscere le ombre della signora Mallarmé
e di sua figlia (1934, pp. 49-50).
fetto: è la luce che emanano che, da una parte fa emergere i modelli in primo
piano, mentre, dall’altra, riduce colui che “sta effettuando la ripresa” (della sce-
na) a “fantasma”.
La distanza che separa la maniera di autorappresentarsi di Degas da quella
di Manet non potrebbe essere più grande. Per Manet lo specchio è il luogo del-
la presentazione. Per Degas, invece, è lo spazio della scomparsa. E tutti e due
non fanno che fornire una conferma – direi – al dire premonitore del profeta
della modernità Baudelaire (1951, t. II, p. 147): “... l’evaporazione e la centraliz-
zazione dell’Io. Sta tutto lì”.
1 Da: Victor I. Stoichita, Gli (auto)ritratti di Manet e Degas. Evaporazione e/o centralizzazione, Qua-
derni della scuola di specializzazione in storia dell’arte dell’Università di Bologna, 2, Editrice Composi-
tori, Bologna 2002. Traduzione di Benedetta Sforza.
2 L’interessante articolo di Galligan (1998) è apparso dopo la stesura di questo testo e dunque non
ho potuto tenerne conto in maniera particolare. Riprendo qui le analisi già proposte in altro contesto nel
mio articolo (1991). Sull’inversione speculare, cfr. ora Thévoz 1996, pp. 19-54.
3 Per Manet “peintre de la vie moderne”, cfr. Clark 1984; Körner 1996.
4 Per più particolari cfr. Stoichita 1993, pp. 187-265.
5 Per un buon riassunto cfr. Moffett 1983, pp. 70-75.
6 Per più particolari, cfr. Sandblad 1954, pp. 17-68.
7 Per la nozione di “paratesto” cfr. Genette 1987.
8 Baudelaire 1951, p. 118. Cfr. a questo proposito, ancora e sempre: Benjamin 1955, pp. 60 sgg.
9 Il fatto che qualche volta Manet utilizzasse fotografie per comporre i suoi quadri è certo. Il caso
più celebre è quello di Chemin de fer (1874). Nella collezione Durand-Ruel di Parigi si conserva ancora
la fotografia originaria, ritoccata ad acquerello (cfr. Rouart, Wildenstein 1975, n. 322).
10 Cfr. il nostro articolo già citato alla nota 4 e Stoichita 1991; Bacherich 1990.
11 Si ricorda qui la celebre confessione di Degas “C’est comme si vous regardiez à travers un trou de
serrure” (Moore 1891, p. 232). Cfr. a questo proposito Armstrong 1985, pp. 223-242; Lipton 1986, pp.
151-187.
12 Per le differenti versioni cfr.: Wells 1972, pp. 129-134; Kendall 1988, pp. 180-197; Lipton 1986,
pp. 66-72.
13 Nel quadro del 1868, conservato in una collezione privata di Londra (Wells 1972, figg. 1, 2; Lip-
ton 1986, fig. 38), l’operazione di ripulitura, realizzata presso la National Gallery di Londra nel 1960, ha
fatto riemergere la figura femminile con binocolo accompagnata da Manet, prima cancellata, con tutta
probabilità, dallo stesso Degas.
L’oggetto personale come soggetto di natura morta.
A proposito delle osservazioni di Heidegger su van Gogh1
Meyer Schapiro
Il professor Heidegger non ignora che van Gogh dipinse a più riprese scarpe di
questo tipo, ma non precisa il quadro cui si riferisce, come se le diverse versioni
fossero interscambiabili e tutte presentassero una identica verità. Un lettore che
volesse confrontare questa descrizione con un originale o una riproduzione foto-
grafica, sarebbe imbarazzato nella scelta della versione. Tra i quadri esposti all’epo-
ca in cui Heidegger scriveva il suo saggio, il catalogo di La Faille (1939) ha inven-
194 MEYER SCHAPIRO
tariato otto dipinti di van Gogh che rappresentano delle scarpe (nn. 54, 63, 255,
331, 332, 333, 461, 607, figg. 63, 64, tav. XIV, figg. 57, 58, 59). Solo in tre di questi
possiamo osservare “l’orificio oscuro dall’interno logoro” che sollecita così profon-
damente il pensiero evocatore del filosofo (nn. 255, 332, 333, tav. XIV, figg. 58, 59).
Ora, è chiaro che l’artista in questo caso ha dipinto non tanto delle generiche scar-
pe da contadino, bensì le proprie, forse quelle che usava abitualmente in Olanda.
Ma i quadri sono stati dipinti durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1886 e 1887:
uno è datato “-87” (n. 333, fig. 59) ed è firmato “Vincent-87”. Al periodo antece-
dente il 1886, nel quale van Gogh dipinse alcuni contadini olandesi, appartengono
anche due quadri che rappresentano scarpe, un paio di zoccoli di legno perfetta-
menti puliti appoggiati su un tavolo in mezzo ad altri oggetti (nn. 54, 63, figg. 63,
64). Più tardi, a Arles – come scrive a suo fratello in una lettera dell’agosto 1888 –
van Gogh dipinse “un paio di vecchie scarpe” che erano sicuramente le sue4 (n.
461, fig. 61). L’artista menziona una seconda “natura morta di vecchie scarpe da
contadino” in una lettera del settembre 1888 indirizzata al pittore Émile Bernard,
ma qui non si scorgono né “la fatica del cammino percorso lavorando”, né “l’orifi-
cio oscuro” evocato dalla descrizione di Heidegger5 (n. 607, fig. 65).
L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. Sarebbe un er-
rore esiziale quello di credere che sia stata la nostra descrizione, con procedimento
soggettivo, che abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Se qui
c’è qualcosa di discutibile è solo la nostra scarsa capacità di esperire l’opera d’arte e
di esprimere l’esperito. Ma prima di tutto bisogna rendersi conto che, contro ogni
apparenza iniziale, l’opera non ci è semplicemente servita a una migliore compren-
sione di ciò che il mezzo è. Al contrario, è solo nell’opera e attraverso di essa che
viene alla luce l’esser-mezzo del mezzo.
Che significa ciò? Che cos’è in opera nell’opera? Il quadro di van Gogh è l’aprimen-
to di ciò che il mezzo, il paio di scarpe contadine, è in verità (p. 21).
Quasi non avessi mai visto le mie scarpe mi accinsi a studiarne l’aspetto, la mimica al
movimento del piede, la forma, la tomaia lacera, e feci la scoperta che le loro pieghe
e le cuciture bianche avevano un’espressione, una fisionomia. Un po’ della mia natu-
ra si era comunicata a quelle scarpe: esse mi impressionavano come fossero state
un’ombra del mio io, una parte viva di me stesso (...)
invece, considera le scarpe concrete nel loro essere esperite o patite, più o
meno coscientemente, da chi le porta o da chi le contempla, nello specifico lo
stesso scrittore. Il personaggio di Hamsun – un vagabondo che si osserva e
che riflette sulla propria condizione – è più vicino alla situazione di van Gogh
di quanto non lo sia quella del contadino evocato da Heidegger. Per di più,
van Gogh è, in un certo senso, vicino alla condizione contadina: si accanisce
ostinatamente, nella sua arte, nella ricerca di un obiettivo al quale è votato, e
che rappresenta tutta la sua vita. Certamente van Gogh, come del resto Ham-
sun, possiede il dono eccezionale di riuscire a rappresentare attraverso l’im-
magine: sa trasporre sulla tela, con una forza singolare, le forme e le qualità Le scarpe come
dell’essere delle cose; e certe cose lo toccano profondamente, come, in questo parte di se
caso, le scarpe che fanno corpo con lui, e sono proprio loro che fanno affiora- stessi
re la coscienza della sua condizione. Van Gogh le ha caricate dei suoi senti-
menti e delle sue fantasticherie personali, ma non per questo le scarpe sono
rese in modo meno oggettivo. Isolando le sue vecchie e usurate scarpe all’in-
terno del quadro, le rivolge verso lo spettatore, e le rende parte di un autori-
tratto; quelle stesse scarpe con cui calpestiamo la terra, e nelle quali ritrovia-
mo la tensione del movimento, le tracce della fatica, della pressione e della
pesantezza, il peso dell’intero corpo nel suo contatto con il suolo. Le scarpe
portano la marca ineluttabile della nostra posizione sulla terra. “Mettersi nel-
le scarpe di qualcun altro”8 significa condividere, nella vita, la difficile situa-
zione di un altro. E quando un pittore sceglie come soggetto di un quadro il
proprio paio di scarpe usurate, intende così esprimere la sua preoccupazione
di fronte alla fatale sorte che subisce nella società. Sebbene il paesaggista che
cammina fra i campi condivida in parte la vita all’aria aperta del contadino, le
scarpe non rappresentano ai suoi occhi uno strumento d’uso, ma – secondo i
termini di Hamsun – “una parte di me stesso”. È questo il senso che rivela il
soggetto del quadro di van Gogh.
Gauguin, che nel 1888 abitava ad Arles con van Gogh, aveva ben compreso
che un quadro dell’amico, raffigurante un paio di scarpe, era in stretto rapporto I ricordi di
Gauguin
con un episodio della sua vita personale. Tra i ricordi di questo periodo di con-
vivenza con van Gogh figura un aneddoto particolarmente toccante, non privo
di rapporto con le scarpe del pittore:
Nello studio c’era un paio di grosse scarpe chiodate, tutte usurate e sporche di fan-
go; van Gogh ne fece una straordinaria natura morta. Non so spiegarmi il perché,
ma percepii che esisteva una storia dietro a questa vecchia reliquia e un giorno osai
chiedergli se ci fosse una qualche ragione che lo portava a conservare qualcosa che
solitamente si butta nella cesta dello straccivendolo. “Mio padre” disse “era un pa-
store protestante che mi spinse verso gli studi di teologia pensando alla mia futura
vocazione. Da giovane pastore, un mattino presto partii per il Belgio, senza dirlo alla
mia famiglia, per predicare il Vangelo nelle fabbriche, non come mi era stato inse-
gnato, ma come io sentivo giusto fare. Queste scarpe, come vedi, hanno ben soppor-
tato la fatica del viaggio”.
Mentre predicava nelle miniere nel Borinage, Vincent iniziò a prendersi cura della
vittima di un incendio in miniera. L’uomo era così gravemente ustionato e mutilato
che il dottore non aveva nessuna speranza di poterlo guarire. Pensava che solo un
miracolo avrebbe potuto salvarlo. Van Gogh lo assistette così amorevolmente per
quaranta giorni che riuscì a salvare la vita del minatore. “Prima di lasciare il Belgio,
200 MEYER SCHAPIRO
alla presenza di quest’uomo che portava una serie di cicatrici sulla fronte, quasi una
corona di spine, ebbi la visione del Cristo risorto”.
Gauguin prosegue così: “Vincent prese di nuovo la sua tavolozza e in silenzio si
mise al lavoro. Vicino a lui, una tela bianca. Iniziai a fare il suo ritratto. Anch’io
ebbi la visione di un Gesù che predicava bontà e umiltà” (Rotonchamp 19252, p.
33)9.
Il quadro che Gauguin aveva visto ad Arles, dove era dipinto un unico
paio di scarpe, non è mai stato chiaramente identificato. Gauguin afferma che
il soggetto era dipinto in una tonalità violetta, che contrastava con i muri gial-
li dell’atelier, ma questo importa poco. Benché il suo racconto sia stato scritto
qualche anno dopo, e non sia privo di ricercatezza letteraria, conferma il fat-
to, essenziale per noi, che le scarpe rappresentavano per van Gogh un pezzo
della sua esistenza, una reliquia.
Postscriptum, 1981
Da una nota della riedizione recente del saggio di Heidegger nelle opere
complete, risulta che il filosofo ha proseguito la sua riflessione sul proprieta-
rio delle scarpe dipinte da van Gogh (Heidegger 1977, p. 18). A fronte della
constatazione che “nel quadro di van Gogh, non potremmo mai stabilire do-
ve si trovino” (p. 37), Heidegger ha scritto nel suo esemplare personale (edi-
zione tascabile Reclam, 1960): “né a chi appartengano”. Secondo l’editore, le
annotazioni in margine di questo esemplare sono state scritte in un momento
Ulteriori indeterminato tra il 1960 e il 1976. Pubblicandone una selezione in Gesam-
riflessioni di tausgabe, l’editore, seguendo le istruzioni dell’autore, ha scelto quelle che pa-
Heidegger
revano indispensabili per far luce sul testo, per formulare un’autocritica, o
per attirare l’attenzione sull’evoluzione del pensiero di Heidegger (pp. 377-
390). Dato che l’argomentazione di Heidegger si riferisce alle scarpe di una
classe di persone e non a quelle di un individuo in particolare, e dato che af-
ferma più di una volta che quelle sono le scarpe di un contadino, non si rie-
sce bene a capire come quella notazione possa risultare indispensabile per
far luce sul testo. Il filosofo ha voluto forse riaffermare che, nonostante alcu-
ni dubbi, l’interpretazione era valida anche nel caso in cui le scarpe fossero
appartenute a van Gogh? (…)
Nel mio articolo del 1968, l’interpretazione del dipinto di van Gogh è sup-
portata non solo dai testi e dall’opera di altri artisti e scrittori, ma anche dalle
parole dello stesso van Gogh sull’importanza delle scarpe nella sua vita.
Gauguin – che nell’autunno del 1888 passò alcuni mesi a Arles ospite di
van Gogh – registra, in due differenti articoli, una conversazione sulle scarpe
di van Gogh. Il primo è già stato qui riportato. Un’altra versione è in un arti-
colo successivo, pubblicato con il titolo Natures mortes nella rivista «Essais
d’Art Libre» dopo la morte di van Gogh:
Quando eravamo ad Arles, eravamo entrambi folli, sempre in lotta alla ricerca di ma-
gnifici colori. Io adoravo il rosso; dove si poteva mai scovare un vermiglio perfetto? Lui,
con le pennellate giallastre, tracciava sul muro, improvvisamente viola, queste parole:
Sono sano di Spirito,
sono il Santo Spirito.
Nella mia stanza gialla una piccola natura morta: violetta, questa. Due enormi
scarponi, usati, sformati. Erano le scarpe di Vincent. Quelle che egli prese, allora
nuove, una mattina presto per incominciare il suo viaggio a piedi dall’Olanda al
Belgio. Il giovane predicatore aveva appena finito i suoi studi teologici per diven-
tare un pastore come suo padre. Si rivolse ai minatori, che chiamava suoi fratelli,
e che, come aveva letto nella Bibbia, erano semplici lavoratori oppressi dalla bra-
ma di ricchezza dei potenti.
A differenza di quel che gli avevano insegnato i suoi saggi professori olandesi,
Vincent credeva in un Gesù che amava i poveri; e la sua anima, profondamente
pervasa di carità, cercava parole di sacrificio e consolazione per i deboli, e per
combattere i ricchi. Sicuramente Vincent era già pazzo.
Il suo insegnamento della Bibbia nelle miniere, pensavo, serviva ai minatori sotto-
terra ma non era gradito alle alte autorità sopra, sulla terra. Fu ben presto richia-
mato e congedato, e il concilio di familia, avendo deciso che egli era pazzo, chie-
se il suo ricovero. Alla fine non fu rinchiuso grazie al fratello Theo.
Un giorno nell’oscura e nera miniera, il giallo cromo inondò, con un terribile ba-
gliore infuocato di grisù, la dinamite dei ricchi. Alcuni che stavano risalendo in
quel momento dibattendosi nel lurido carbone, quel giorno dissero addio alla vi-
ta, addio agli uomini senza bestemmiare.
Uno di loro, orribilmente mutilato e con il viso bruciato, fu raccolto da Vincent.
Il dottore disse: “Quest’uomo è spacciato, ci vorrebbe un miracolo, o delle amo-
rose cure materne. È una follia occuparsi di lui”.
Vincent credeva nei miracoli e nelle cure materne. Il pazzo (perché sicuramente
era pazzo) vegliò al capezzale del moribondo per quaranta giorni. Tenacemente
impedì all’aria di entrare nelle sue ferite e pagò i farmaci necessari. Sembrava un
prete che conforta e tranquillizza (sicuramente, era pazzo). Il malato parlò. Lo
sforzo del folle riportò alla vita un cristiano morto.
Quando l’uomo, ferito ma definitivamente salvo, ridiscese nella miniera per ri-
prendere il suo lavoro, Vincent disse: “Avreste potuto vedere nelle cicatrici rosse
della fronte pallida del minatore la testa di Gesù martire, con i segni della corona
di spine sulla fronte”.
E io, Vincent, lo dipinsi (…). Sicuramente quell’uomo era pazzo (Gauguin 1894,
pp. 273-275).
Al mercato delle pulci, aveva comprato un paio di vecchie scarpe pesanti, massic-
ce, da carrettiere, ma pulite e tirate a lucido. Erano dei grossi scarponi che man-
cavano di fantasia. Li indossò un pomeriggio che pioveva e partì per una passeg-
giata lungo i bastioni. Sporche di fango, le scarpe divennero interessanti (...). Vin-
cent copiò fedelmente il suo paio di scarpe.
Forse che la sola vista di un vecchio paio di stivali non ha qualcosa di profonda-
mente triste e amaramente malinconico? Quando si pensa a tutti i passi che si so-
no fatti lì dentro per andare non si sa più dove, a tutte le erbe che ha calpestato, a
tutti i fanghi che ha raccolto... la pelle spaccata che sbadiglia ha l’aria di dirvi:
“…e dopo, imbecille, comprane degli altri, verniciati, lucenti, scricchiolanti, di-
venteranno come me, come te un giorno, quando avrai sporcato molti gambali e
sudato in molte tomaie”.
Fig. 67. Vincent van Gogh, Natura morta con Bibbia, 1885, olio su tela, 65.7 x 78.5 cm, Amsterdam,
Van Gogh Museum.
1 Da: Meyer Schapiro, “The Still Life as a Personal Object. A Note on Heidegger and van Gogh”, in
The Reach of Mind: Essays in Memory of Kurt Goldstein, a cura di M. L. Simmel, New York, Springer
Publishing Company, 1968; rist. in Theory and philosophy of Art: Style, Artist, and Society, New York,
George Braziller, 1994, pp. 135-151. Traduzione di Maria Giulia Dondero.
2 Heidegger 1936. Sono riconoscente a Kurt Goldstein per aver attirato la mia attenzione su questo
saggio, che fu presentato in origine sotto forma di conferenza durante il corso del 1935-1936.
3 Heidegger ha fatto un’altra allusione al quadro di van Gogh in una conferenza del 1935, poi ri-
vista, tradotta e ristampata in Heidegger 1966, p. 46. A proposito del Dasein (l’“esser-ci o l’essente”),
il filosofo attirava l’attenzione su un dipinto di van Gogh: “Nient’altro che un paio di grossi scarponi
da contadino. L’immagine non rappresenta propriamente niente. Eppure vi è qui qualcosa in cui ci
vien fatto subito, spontaneamente, di ritrovarci, proprio come se noi stessi in una tarda sera d’autun-
no, quando si consumano gli ultimi fuochi destinati ad arrostire le patate sotto le braci, tornassimo a
casa stanchi, con la zappa sulle spalle. Cosa c’è qui di essente? La tela? Le pennellate? Le macchie di
colore?”.
4 Van Gogh 1952-64, edizione tedesca, vol. III, lettera n. 529, p. 291; edizione francese, vol. III, lette-
ra n. 529, p. 182.
5 Van Gogh 1952- 64, edizione tedesca, vol. IV, p. 227; edizione francese, vol. III, lettera n. B 18 F, p. 225.
6 Comunicazione personale, lettera del 6 maggio 1965.
7 “Nel quadro di van Gogh si storicizza la verità. Ciò non significa che qualcosa di semplicemente
presente venga esattamente riprodotto, ma che nel palesarsi dell’esser-mezzo delle scarpe pervengono al
non-esser-nascosto l’ente nel suo insieme, il Mondo e la Terra nel loro gioco reciproco. (…) Quanto più
semplicemente ed essenzialmente proprio solo le scarpe (...) emergono nella loro essenza, e tanto più im-
mediatamente e profondamente ogni ente diviene, assieme a esse, più essente” (1966, pp. 40-41).
8 L’espressione inglese To be in someone’s shoes non ha un equivalente letterale in italiano: la stessa idea
può essere espressa da locuzioni quali “mettersi nei panni dell’altro”, “mettersi al posto di un altro”.
9 Esiste anche una versione più antica di questa vicenda in Gauguin 1894, pp. 273-275. Questi due
10 Voglio qui manifestare la mia gratitudine alla rivista francese Macula e al suo editore Yve-Alain
zioni che accompagnano la dedizione alla carriera musicale di un giovane, ecc. Judy Sund scrive che ro-
manzi di questo genere hanno rappresentato per lungo tempo un motivo di discordia tra van Gogh e suo
padre.
Lo spazio Pollock
Louis Marin1
Fig. 68. Jackson Pollock, Stenographic Figure, 1942 ca., olio su tela, 101.6 x 142.2 cm, New York,
Museum of Modern Art.
Entriamo così – anzi, ci siamo già entrati – nello spazio Pollock, attraverso
Lo spazio del questi spazi complessi della visione-lettura, gerarchizzati, legati ma oscillanti,
riguardante… sovrapposti ma disgiunti, combinazioni che a loro volta producono nuovi effet-
ti spaziali. Non stupisce che lo spazio Pollock si sottragga sottraendo la propria
unità, ai percorsi dello sguardo. Perché quello spazio, inteso in senso stretto, è
innanzi tutto lo spazio nel quale si trova il quadro di Pollock, spazio del “ri-
guardante” che avvolge il quadro a partire da una posizione, occhi, testa, corpo,
a volte immobile, a volte in movimento, con tutte le variazioni possibili e tutte
le stasi successive di un percorso determinato, uno spazio che s’interrompe sui
bordi del quadro, sul muro cui il quadro è appeso. Lo spazio Pollock, a partire
da un certo momento, interroga le certezze di questa prima descrizione: altro
modo di porre la domanda iniziale, dell’evento creato dalla presenza di alcune
opere nella sala o nella galleria in cui sono esposte.
Lo spazio Pollock è anche lo spazio del quadro (che egli firma con il suo no-
me). Ma che significa spazio del quadro? Perché, in effetti, il quadro è innanzi
...lo spazio del
tutto quella tela (carta, compensato, legno), di forme determinate, che è il vei-
quadro… colo di ciò che viene mostrato. Questa tela veicolo-supporto coincide (ma si
tratta di una pura coincidenza, che non si verifica del resto nemmeno sempre, e
forse mai), con ciò che chiameremo il piano del quadro, entità geometrica, a-
stratta, immateriale. Una grande partita si gioca da tempo in pittura tra la tela e
il piano. Nel quadro “classico” rappresentativo, ad esempio, la tela non si vede
mai, occultata dallo sfondo, l’ultimo piano dello spazio profondo illusorio, a
LO SPAZIO POLLOCK 211
vantaggio del piano del quadro, che il dispositivo della rappresentazione con-
ferma nella sua immaterialità come la parete trasparente del cubo scenografico
o la finestra aperta. In questa partita, Pollock farà una mossa secondo regole
nuove, in questo primo intervallo del gioco tra la tela e il piano.
Ma c’è un secondo intervallo, che ha visto dispiegare nel corso della storia
strategie complesse, dalle implicazioni estetiche, ideologiche e teoriche decisive:
l’intervallo del bordo. Un bordo, infatti, non è mai semplice: ha un intorno, il
bordo del muro, e un contorno. Bordo, intorno e contorno definiscono uno
spazio, quello della cornice del quadro. Ci si può chiedere se non ci sia tra la
cornice (bordo, intorno, contorno) e il limite del quadro come entità astratta e
ideale, lo stesso rapporto di intervallo notato poco fa tra la tela e il piano. An-
che qui si assisterà a una mossa decisiva dell’opera di Pollock: l’all over, tradot-
to a volte con bord à bord, “da bordo a bordo”. Nel quadro “classico”, infatti, i
quattro bordi del quadro sono eterogenei, come alto e basso (soffitto, pavimen-
to; cielo, terra), destra e sinistra (navate laterali, quinte, cortile e giardino).
Esiste infine un terzo spazio: quello che si trova nel quadro, quello spazio che
linee e colori, qualunque siano le loro configurazioni e le loro posizioni, fanno
apparire nel quadro, cioè su quella superficie, entro quei limiti, tra il piano e la ...e lo spazio
tela. È lo spazio configurato dai piani di colore, tessuto dall’intreccio delle linee, della pittura
i cui bordi coincidono soltanto (e non sempre), con i bordi della tela, con i limi-
ti del piano del quadro. È lo spazio che il dispositivo della rappresentazione sca-
va nella superficie del quadro come spazio illusoriamente profondo, tramite la
struttura prospettica, per costituire quella scena che la disposizione delle figure
in luoghi gerarchicamente coordinati si incaricherà in seguito di organizzare. È
quello spazio tra piano e tela, tra bordi e limiti, che costituirà, dopo gli impres-
sionisti e Cézanne, dopo i cubisti e Picasso, dopo Ernst, Miró e Masson, la posta
in gioco decisiva del break-through di Pollock tra il 1947 e il 1951.
Sono dunque questi tre spazi che i dipinti di Pollock interrogano, distruggo-
no e costruiscono (direttamente ma soprattutto attraverso le loro interazioni re-
ciproche): lo spazio del riguardante, tramite la dialettica dinamica di posizione e
percorso, lo spazio del quadro, tramite la dialettica spaziale di tela e piano, bor-
di e limiti, e lo spazio della pittura attraverso la dialettica materiale di profon-
dità e superficie.
Lo spazio del riguardante: in che cosa la dialettica tra posizione e percorso
trova in Pollock una sua modalità specifica? A partire da un certo periodo nella
creazione dell’artista, e forse più ancora a partire da alcune opere, per esempio
Overall Composition e Panel with four designs del 1934-38, oppure Composition
with pouring II del 1943, Mural e Gothic dello stesso anno, There were seven in
Eight del 1945, ma soprattutto Shimmering Substance (fig. 69), Free Form del Alla ricerca di
un luogo per lo
1946, Sea Change (fig. 70) del 1947, fino ad arrivare alle grandi opere del 1950-
sguardo
1951, non si può determinare nello spazio del riguardante, per essere esatti, una
posizione da dove guardare il quadro; colui che guarda è incapace di trovare un
luogo per il proprio sguardo e appropriarsene. E se anche lo facesse, non po-
trebbe veramente avvalersi di questa posizione. Non si sentirebbe al suo posto.
Paradossalmente, quindi, la possibilità, la capacità e la libertà di posizionarsi, di
appropriarsi di un luogo dello sguardo in questo spazio di libertà, è quella di
mettersi “fuori posto”. L’unica collocazione possibile, lecita, è essere costante-
mente fuori luogo. Ma significa per questo essere in movimento?
212 LOUIS MARIN
Una città, una campagna, da lontano [alla giusta distanza] sono una città o una cam-
pagna; ma, quanto più ci avviciniamo, son case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche,
zampe di formiche, all’infinito. Tutto questo vien compreso sotto il nome di ‘campa-
gna’ (Pascal 1660, p. 24).
profondità dipinta del mondo reale sulla tela significava, viceversa, fare della tela
un mondo reale di pittura – una rivoluzione che portava a compimento in modo
clamoroso, per la pittura, quella che il Rinascimento aveva vinto per il pittore:
non solo l’autonomia di uno status e di una posizione in ambito sociale e ideolo-
gico, ma anche l’autonomia e la legittimità delle pratiche finzionali in campo e-
stetico, di una pratica reale del possibile, voglio dire di una presentazione delle
condizioni di possibilità dell’arte nel campo della teoria e della filosofia. Questo
Autonomia del
ampio dibattito si riduce in pratica a questo: come realizzare un artefatto di aree pittore e
e piani che non sia un’arte delle piattezze e delle superfici? Come fare emergere autonomia
la tela e far vedere il piano? Come attribuire al senso, al sensibile, lo scarto e la della pittura
differenza tra la tela rivelata e il piano reso visibile? Come produrre senso, sensi-
bilmente, con questo spazio di bassofondo tra tela e piano? Come fare sentire u-
no spazio senza profondità, ma non piatto, tra due superfici?
Lavender Mist: n° 1 (tav. XV), Autumn Rhythm: n° 30, One: n° 31 danno, cia-
scuno a suo modo, una delle risposte possibili, con i reticoli delle loro colate fi-
liformi, gli arabeschi delle loro sgocciolature, le forme esplose dei loro schizzi.
Sia nello sguardo che sul/nel quadro, i reticoli, i tralicci, gli arabeschi, i grovigli,
bianchi e neri o colorati, stanno tra la tela e il piano; aprono lo scarto di una dif-
ferenza inassegnabile (tranne in quell’“arte di vanità” che è la pittura illusioni-
sta), tra la tela e il piano, senza conservare alcuna traccia di un modellato alla Cé-
zanne. È qui che il quadro di Pollock mette alla prova il linguaggio che cerca di
descriverlo, obbligandoci in qualche modo a inventare nuove categorie di descri-
zione dello spazio tramite l’associazione di termini in parte contrari. Sarebbe for-
se opportuno, ad esempio, per parlare di quello spazio molto ridotto che ho
chiamato, con un termine marittimo, “bassofondo”, introdurre la nozione di
spessore traslucido – dove “spessore” rinvierebbe alla crosta di pittura autonoma
e omogenea di cui parla Meyer Schapiro per definire il “fare” impressionista, ov-
vero alla materialità dei pigmenti di colore sulla superficie e alla “realtà concre-
ta” degli strati dipinti sovrapposti, per quanto sottili; e dove, d’altra parte, “tra-
slucido” cercherebbe di esprimere l’effetto ottico di questo spessore tra tela ma- I dripping come
teriale e piano astratto che conserva qualcosa dell’opacità della prima e un po’ disegno di
della trasparenza del secondo e dove la materialità dei pigmenti sulla superficie pittura
si dissolve per l’occhio in una specie di vibrazione scintillante, diffusa, regolar-
mente disseminata o scandita da accenti secondo i casi, che si riassume, alla fine
del percorso dello sguardo, in uno stretto spazio di scarto e differenza tra mate-
ria e luce. Come creare degli artefatti di superfici, ci chiedevamo, che non siano
ne superficiali né piatti? Cosa significa rispondere a questa domanda con la tec-
nica del dripping? Discutere di precedenze nella “scoperta”, come se si trattasse
di una scoperta, è sintomo di vanità dell’artista o di ingenuità del cronista. An-
diamo all’essenziale. Pouring e dripping (e si potrebbe proseguire con spraying,
splashing, spouting…) sono fondamentalmente un disegno di pittura di cui biso-
gna valutare le conseguenze e gli effetti sulla linea stessa di questo disegno. La li-
nea prodotta dal colore versato a filo sulla tela (drip) non è più il bordo di un
piano; espandendosi lateralmente, sviluppando escrescenze di ogni genere, goc-
ce, macchie, matasse e chiome, assume un nuovo profilo molto singolare. Si e-
spande, si estende, ma inoltre, spesso, attacca, “morde” (“it bites” come diceva
Fried) la tela stessa, in modo irregolare su ogni suo bordo. È ormai chiaro che la
linea non circoscrive più un piano o un volume. Ma non diventa nemmeno un
216 LOUIS MARIN
guenza, l’occhio non può seguire il filo di Arianna di una linea, ovunque esso
possa portarlo. Perché il filo di Arianna si trova sempre e per sempre tagliato da
un altro filo di un’altra Arianna; o forse è la stessa? Forse è lo stesso filo? Segui-
re la traccia in One: n° 31 o in Lavender Mist: n° 1 (tav. XV) significa, se non
ballare senza spostarsi, per lo meno interrompersi di continuo, fermarsi sempre
per seguire un’altra pista. Ci sono solo frammenti di tracce, segmenti di fili, cia-
scun segmento modifica e viene modificato, diventa all’istante uno spandersi di
macchie, una nuvola di gocce, schizzi di pozze, incroci con varie uscite. Ma la
mia descrizione lascia pensare che lo sguardo si esaurisca in ciò. Non è così:
perché nello stesso punto, su quel segmento di traccia, quella pozza o quella
macchia, troverà sempre una sovrapposizione aperta di momenti di pittura. Co-
sì, questa moltiplicazione spaziale e locale degli incroci di tracce costituisce u-
gualmente una demoltiplicazione temporale, una specie di sommatoria indefini-
ta di istanti co-presenti nello stesso luogo e nello stesso spazio. E l’effetto ottico
di questa moltiplicazione demoltiplicata dello spazio e del tempo che mi fa ve-
dere diversi presenti nello stesso luogo, vari luoghi nello stesso presente, l’effet-
to ottico degli incroci di spazio e di tempo, è la testura scintillante, come vapo-
rizzata, di Lavender Mist: n°1 (tav. XV), il polverio in via di atomizzazione di O-
ne: n° 31, la scansione esplosa di Autumn Rhythm: n° 30.
Il secondo tratto caratteristico dell’incrociarsi delle tracce, oltre alla trasfor-
mazione della linea in trame co-presenti, è che il fondo della tela è sempre visto La tela nella
attraverso gli intrecci, e che questi ultimi non lo celano né lo velano mai, e nep- sua materialità
di supporto
pure – per la loro natura stessa di intrecci – lo lasciano leggere come un piano
circoscritto e chiuso da linee. Di che natura è dunque visivamente, per il “sen-
so”, questo spazio di fondo che gli incroci percorrono e articolano? Molto sem-
plicemente è la tela del quadro. Non – come vorrebbero alcuni, troppo metafi-
sici – l’infinità di un abisso8, perché con esso farebbe ritorno l’illusionismo di u-
na profondità diventata priva di fondo. Soltanto la tela nella sua materialità di
supporto, ma una tela divenuta campo dei percorsi del flusso delle sensazioni in
reticoli prodotti dall’incrociarsi delle tracce diversamente colorate. Per affinare
la nostra nozione di spessore traslucido, diremo che la differenza tra tela e pia-
no, scarto tramato dalle tracce sovrapposte in cui il presente si demoltiplica gra-
zie alla moltiplicazione dei luoghi, rinvia a una visione che, più che vedere, in-
travede, e a uno spazio che è interstizio. Il quadro non è più la finestra traspa-
rente aperta sullo spazio illusorio delle apparenze dipinte. Ma non è nemmeno
un muro di pittura – non tanto il mural, quanto la muraglia di pittura evocata
da Balzac nel Capolavoro sconosciuto, in cui lo sguardo s’imbatte, pur lasciando
sospettare che “là sotto” si nasconda una donna. Il quadro è lo spessore traslu-
cido di uno spazio interstiziale nel quale lo sguardo “intravede”; è un mondo di
Lo spazio
intervalli di tempo-spazio, l’inesauribile diversità di un formicolio di differenze. interstiziale
La tela cessa di essere sostanza, sostegno e supporto dell’opera, per accedere,
attraverso l’interstizio, a una materialità scintillante, vibrante, scandita: la mate-
rialità immateriale delle tracce incrociate.
Tuttavia l’“augenblick” interstiziale nello spessore traslucido non implica una
dissoluzione della struttura nella testura pigmentaria di superficie. L’intrecciarsi
delle tracce produce, se così si può dire, una doppia articolazione del quadro. A
parte i dipinti – relativamente rari nel periodo 1946-51 – con aree colorate di-
stinte, quali Tondo 48 o Small Composition del 1950, le tracce colorate si orga-
218 LOUIS MARIN
sta di pigmenti, dissolve i grovigli di colori in una tonalità globale che può fun-
gere da sfondo (il bruno di Arabesque: n° 13 A del 1948), o da etere colorato
prevalente (così il verde di Full Fathom Five del 1947; oppure il rosa grigio di
Lavender Mist: n° 1 del 1950, tav. XV). Rossi, blu, gialli, i colori vivaci e saturi
non minacciano mai la tonalità dominante. Il contro esempio è fornito da Con- Il dispositivo
vergence del 1952, in cui per l’appunto la convergenza non si realizza, e in cui cromatico
rossi e gialli tendono, otticamente, a tenersi al di qua del piano invece di metter-
lo in risalto nella sua differenza con la tela. Una prima articolazione si effettua,
quindi, attraverso il dispositivo cromatico, chiaroscurale o tonale, in modo che
l’unità del quadro si giochi sul piano ottico.
La seconda articolazione struttura il quadro non nella traslucidità della mate-
ria sensibile, ma nella sua architettura tra tela e piano: un’architettura che tutta-
via non è quella di forme modellate a tuttotondo nelle tre dimensioni, né quella
di una “composizione” tramite il découpage della “superficie”, né quella di una
disposizione figurativa di particolari, che si tratti di storia, di paesaggio o di og-
getti, e nemmeno – come è stato proposto – quella di una combinazione senza
composizione (cfr. Payant 1979a, 1979b) di elementi simili (che ricondurrebbe il
quadro di Pollock a un registro puramente ornamentale o decorativo, senza vo-
ler dare un senso esteticamente peggiorativo a questa osservazione). Architettura
monumentale, comunque, che ha colpito complessivamente la critica d’arte du-
rante le mostre da Betty Parsons dal 1948 al 1951; che è stata ripresa, in seguito,
dalla storia dell’arte in ciò che viene chiamato il “periodo classico” di Pollock.
Ma architettura di che cosa? Proporrò qui come categoria del discorso descritti-
vo il termine ritmo: architettura di un ritmo, e più esattamente di un ritmo figu-
rale. È quindi come se l’intero quadro, nel suo spessore traslucido di trame e di
reticoli di tracce, avesse come finalità di “mettere in ritmo” la prima traccia,
quella “traccia di origine” che viene tracciata sulla tela senza toccarla, la grande L’architettura
figura che ne attraversa la distesa materiale, di farne nascere un ritmo seguendo del ritmo
il suo ritmo, assecondandola, riprendendola, interrompendola, sincopandola. Le
tracce successive ripetono la traccia iniziale e, in questa ripetizione stessa, la ne-
gano. Ripetere è negare, molto semplicemente perché, se questa grande traccia
figurale deve essere ripetuta – ripresa, ricominciata –, ciò è dovuto al fatto che
non ha ancora avuto inizio o che ciò che ha iniziato non è stato raggiunto: eppu-
re è proprio perché c’è stata una prima traccia, una traccia di origine, che posso-
no esserci tutte le altre. Architettura di ritmo figurale: cioè architettura che arti-
cola il monumento del quadro solo ripetendo – ossia negando, in questa ripeti-
zione – la differenza iniziale, quella della traccia di origine, sino a riempire con le
sue piste imbrogliate tutto lo scarto della differenza inassegnabile tra la tela e il
piano, tra la tela indicata dalla prima traccia e il piano reso visibile da tutte le tra-
me di tracce che la ripetono. Number 32 del 1950 ce lo mostra patemicamente:
non ci mostra certo la traccia di origine, quella che fa della tela la tela del qua-
dro, ma le tracce che sempre già la ripetono e la negano, tracce nere sulla traccia
nera. Nella sua nudità, Number 32 ci consente di visualizzare, nello spazio inter-
stiziale, la negazione ripetitiva dell’origine, la seconda articolazione architettoni-
ca monumentale: quella del ritmo della figura nei quadri di Pollock tra il 1947 e
il 1951. Naturalmente, tutto questo ha senso solo se si intende per “figura” non
la forma esterna di un corpo o la sua rappresentazione, o addirittura quella di un
volume delimitato da linee, bensì il cammino descritto dal ballerino sul pavimen-
220 LOUIS MARIN
to, e con “ritmo” ciò che intendevano gli atomisti greci, lo stato singolare e mo-
mentaneo di un flusso di atomi, l’architettura improvvisata e dinamica di un
“fluire” colto in un istante (cfr. Benveniste 1966).
Un’ultima tappa da percorrere: lasciare lo spazio nel quadro per raggiungere
lo spazio del quadro. In verità, parlando dell’uno abbiamo già parlato dell’altro,
il che significa che con Pollock, in particolare tra il 1947 e il 1951 (ma anche
con Monet e Renoir, il cubismo analitico, Mondrian, Masson o Miró) la distin-
zione tra l’uno e l’altro cessa progressivamente di essere pertinente. Si tratta
dunque, per proseguire nella nostra descrizione, di raggiungere lo spazio
Lo spazio del nel/del quadro ai suoi bordi, in questi luoghi ambigui dove lo spazio di creazio-
bordo
ne (del pittore) e di presentazione (del riguardante) confina con quello, autono-
mo, della pittura e si articola con esso. Occorre reintegrare, con Pollock, bordo
e limite, cornice e incorniciatura del dipinto tra dentro e fuori, né l’uno né l’al-
tro, ma l’uno e l’altro contemporaneamente.
Aldous Huxley, in una tavola rotonda, nel 1948, commentando Cathedral
del 1947 (fig. 72) (un quadro che si potrebbe avvicinare, per esempio, a En-
chanted Forest del 1947) dichiarava:
Il problema che si pone è quello di sapere perché tutto ciò si ferma, quando accade
che si fermi. L’artista potrebbe andare avanti all’infinito (risate). Mi fa l’effetto di u-
na carta da parati che si ripete senza fine sul muro.
Un’osservazione che Pollock riprende nel 1951 sul «New Yorker»: “Un cri-
tico ha detto che i miei dipinti non avevano né inizio né fine. Non lo ha scritto
come un complimento, ma lo era” (Greenberg 1977). Si noti lo spostamento.
Huxley si interroga non sull’inizio o sulla fine, ma sul fermarsi arbitrario di una
ripetizione dello stesso motivo: la carta da parati, la decorazione, l’ornamento si
contrappongono, in quanto ripetitività e monotonia, alla singolarità, all’unicità,
alla necessarietà del quadro autentico. Pollock dal canto suo, pone il proprio
quadro – ma come una specie di ideale: è qui l’aspetto lusinghiero del compli-
mento – come un infinito circolare di pittura, inizio e fine, nascita e morte nello
stesso luogo, desiderio e compimento nello stesso momento; un quadro che,
poiché il suo processo di produzione spazio-temporale s’identifica con il suo
stato compiuto di opera, rappresenterebbe da solo il quadro assoluto, il quadro
folle (e si ritroverebbe qui il Capolavoro sconosciuto di Balzac). Carta da parati
di Huxley o quadro assoluto di Pollock?
Abbiamo cominciato a dare una risposta con la nozione di dialettica della te-
la e del piano e con quella di doppia articolazione dell’intreccio e della figura,
per riprendere il titolo del bel saggio di Damisch del 1959; l’intreccio risponde,
a modo suo, all’ornamento e alla decorazione, essendo la ragione dell’effetto di
unità tonale del quadro, e la figura risponde, a modo suo, al fermarsi contingen-
te del dipingere, lasciandosi intravedere come la traccia di origine, originale, i-
La concezione niziale, fondatrice, perché ripetuta e negata dalle tracce che vi si sovrappongo-
“classica” della
cornice
no. Nessun inizio, nessuna fine dell’intreccio delle tracce, né nella dominante
cromatica o tonale che struttura otticamente il quadro, né nell’architettura rit-
mica dei flussi che vi sono tracciati.
Una seconda risposta nasce dalla considerazione dei “bordi”, e da lì si può
riprendere la questione dell’all-over – il “da bordo a bordo” – nella sua relazio-
LO SPAZIO POLLOCK 221
ne con il dripping che caratterizza il periodo dal 1947 al 19519. Si noterà – è suf-
ficiente guardare i quadri – che i reticoli del colore versato, a differenza di un
continuum materiale arbitrariamente tagliato (come la carta da parati), si ferma-
no sui bordi della tela: la traccia, infatti, ritorna il più delle volte su se stessa de-
scrivendo degli anelli aperti come un animale che confonde le piste. Per prose-
guire con l’esempio di Enchanted Forest del 1947, si vedrà non solo che le trac-
ce arretrano e evitano i bordi della tela, ma anche come in questa opera, dall’o-
rientamento verticale (219x113), un reticolo di orizzontali o di quasi orizzontali
definisca la base, e una doppia sequenza di riccioli aggrovigliati, combinati con
linee verticali, corra lungo i bordi laterali della tela, mentre le tracce si fanno
macchie o strisce spesse negli angoli superiori destro e sinistro. Si potrebbe rifa-
re la medesima descrizione con Number 26 A: black and white o Number 5 (fig.
222 LOUIS MARIN
71) del 1948, anche se le modalità di sottolineatura dei bordi sono ogni volta di-
verse. I reticoli e le trame di tracce di Pollock intrattengono con la cornice una
“relazione classica” per riprendere l’osservazione di Rubin. Si potrebbero evo-
care gli archi rampanti laterali delle Grandi bagnanti di Cézanne oppure i di-
spositivi sui bordi ai lati dei paesaggi di Poussin, che lasciano in entrambi i casi
un intervallo, una cancellazione, tra il “motivo” e il bordo, che ripete nello spa-
zio interno al quadro lo scarto tra il limite del piano e il bordo della tela.
Questa cancellazione in prossimità del bordo caratterizza le tele cubiste anali-
tiche di Picasso e di Braque e il Mondrian degli anni 1911-12. Ma è effettiva so-
lo sui lati e a volte sul bordo superiore. E lì che la forma si contrae, e la figura si
La perdita smaterializza nell’astrazione pittorica. Il bordo inferiore continua a tagliare il
della gravità
motivo oppure il motivo continua ad appoggiarvisi con il peso dei suoi piani
sfaccettati. L’insieme assume così una gravità monumentale rispetto al suolo su
cui è appoggiato. Pollock, invece, effettuando questa cancellazione sui quattro
lati della tela, poiché essa viene stesa orizzontalmente sul pavimento nel processo
del dipingere, anche quando dà una densità maggiore alle colate della parte infe-
riore, come in Autumn Rhythm: n° 30 o One n° 31, dissolve la griglia cubista an-
cora articolata rispetto alla gravità delle cose e della posizione eretta, per dare vi-
ta a una struttura sempre monumentale ma aerea, una architettura di reti di trac-
ce che fluttuano tra i bordi, tra tela e piano10. La sensazione di una interruzione
contingente del quadro sui bordi, si potrebbe avere, a rigore, solo con le tele o le
carte incollate su pannello dello stesso periodo, come Silver over black white yel-
low and red del 1948, dove i bordi tagliano di netto i grovigli marroni grigi e ne-
ri e le zone bianco panna dello sfondo. Ma la vivacità degli accenti ad angolo ret-
to dei reticoli di linee, la grandezza delle pozze nere o marroni, la sottigliezza de-
gli schizzi arancioni, e soprattutto la loro disposizione, organizzano il quadro
con flessibilità, coinvolgendo lo sguardo in un percorso con centri diversi e con
incroci molteplici. In Number 10, dove le falde di alluminio sembrano sorgere
dai limiti per invadere la tela, sono i grandi vortici patemici del nero, sopra e sot-
to l’alluminio, e il reticolo leggero delle tracce verdi, ad animare il fregio con una
narratività astratta tramite il movimento delle sue differenze11.
Da bordo a bordo spennellati, da bordo a bordo sgocciolati, i quadri di Pol-
lock possono quindi intrattenere con la cornice una relazione classica ed essere
contemporaneamente senza inizio e senza fine; obbedire lungo i bordi a una
imperiosa necessità, ignorare la contingenza del taglio, la casualità dell’interru-
zione e essere al tempo stesso ripetitivi, senza origine né termine, non perché si
dissolvano nel cattivo infinito dell’illimitato, ma perché ripetendo la differenza
e negandola, essi articolano con rigore, nello stesso luogo e nello stesso momen-
to, l’inizio e la fine.
La questione della contingenza o dell’aleatorietà del bordo e del limite mi por-
ta a concludere con un’altra nozione a essa connessa nel discorso su/della pittura
di Pollock: quella dell’accidente o del caso che sarebbe in qualche modo consustan-
ziale al dripping pollockiano. Perché fermarsi qui piuttosto che lì? Fermarsi allora
L’accidente in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento. Come diceva Huxley, non c’è ragione che
e il caso ciò finisca: prima questione. Seconda questione: c’è nelle colate e nelle sgocciolatu-
re una tale quantità di accidenti imprevedibili che la tecnica è, per principio, ab-
bandonata all’aleatorio – è l’opinione di Arnheim, il quale aggiunge che il numero
degli accidenti è tale che essi si annullano gli uni con gli altri, per lasciare apparire
LO SPAZIO POLLOCK 223
solo le loro proprietà comuni che costituiscono la testura del quadro (Rubin 1967).
Ciò che succederebbe sui bordi del quadro per Huxley non fa che svelare ciò che
succede all’interno del quadro per Arnheim, ma in maniera apparentemente inver-
tita. Ciò che rende aleatoria l’interruzione del bordo è il carattere automatico del
processo del dipingere: ripetizione dell’identico. Ciò che rende contingente il pro-
cesso stesso del dipingere sino ai bordi (mediante i dripping), è il suo carattere ac-
cidentale, senza regole né leggi: differenze senza ripetizione; in sintesi, monotonia
o caos. Di fatto, la critica implicita contenuta nei due giudizi è la stessa: “Automa- Una casualità
ton” non è forse il nome che Aristotele dà al caso, ciò che si muove da sé come se calcolata
una finalità intelligente dirigesse il mobile verso il suo scopo? E l’imprevedibilità
dei dripping nel loro percorso, non si confonde forse con un’automaticità in qual-
che modo interna alla colata di pittura, al suo spruzzo, ai suoi schizzi? Colate, stil-
lazioni, che traccerebbero il proprio solco come se una finalità risoluta abitasse il
liquido nel suo sgocciolamento stesso12.
Se si ha l’impressione che la colata tracci essa stessa il proprio disegno obbe-
dendo a un certo disegno, ciò dipende molto semplicemente dal fatto che esiste un
“disegno” che determina le tracce e i loro reticoli. È sufficiente vedere a questo
proposito il film su Pollock all’opera. Che la tecnica del dripping comporti in sé
nella sua esecuzione un margine notevole di accidenti, gocce, schizzi, ma forse non
così considerevole quanto si crede, è sicuro. Tuttavia, credo che bisogna guardarsi
dal concepire l’accidente come una specie di residuo o di sbavatura di un processo
fuori controllo. L’accidente va qui pensato come la circostanza di un processo pit-
torico, un processo che non si realizza, in verità, se non tracciando e tessendo cir-
costanze, se non dissolvendo le sostanze nascoste, nelle circostanze che le materie
pittoriche diventano tra tela e piano: capelli, gocce, schegge, pozze, colate. Un pro-
cesso pittorico che sarebbe l’accumulazione degli accidenti o delle circostanze che
lo costituiscono e che esso produce. Ora, l’accidente come processo circostanziale
è tutt’altra cosa rispetto a un residuo o a un escremento: è l’accadimento di una
possibilità obiettiva, possibilità che è qui sulla tela, come per esempio questa sfilza
di gocce, ma solo come una parte possibile dello spessore di pittura tra tela e pia-
no; un’opportunità da cogliere o da lasciar andare13.
Di qui la mia conclusione, che lo spazio Pollock nel/del quadro, nel gioco delle I due presenti
circostanze del processo pittorico, delle sue trame di tracce tra tela e piano, bordo dell’opera
e limite, lo spazio Pollock animato – “un quadro vive della propria vita”, diceva
l’artista – vibrante, ritmato, è, se vogliamo, un automaton, una macchina, ma una
macchina “fabbrica occasioni”, una macchina che produce – nel crepitio incessan-
te del suo presente – accidenti subito trasformati dal “disegno” del dipingere in
possibili obiettivi, in occasioni di realtà – la realtà di pittura – a colpi di decisioni
meditate a lungo, prese all’istante. Lo spazio Pollock tra tela e piano, bordo e limi-
te, mette in gioco due presenti, il presente del tempo dell’opera, che avvolge il suo
passato e il suo futuro in una struttura effervescente, e il presente dell’istante, che
percorre il quadro in tutti i sensi e divide incessantemente il suo passato e il suo fu-
turo nel formicolio della sua testura (Deleuze 1969, pp. 133-150).
1 Da: Louis Marin, L’espace Pollock, «Cahiers du Musée National d’Art Moderne», n. 10, 1980, pp.
2 Sul moderno e sul postmoderno nell’arte si leggano le osservazioni polemiche di Lyotard (1982) e
in particolare la seguente riflessione, che vale anche per il “modernismo” di Jackson Pollock: “Postmo-
derno andrebbe inteso secondo il paradosso del futuro (post) anteriore (modo)”.
3 Si veda Robertson 1960; e soprattutto il catalogo della mostra curato da Wysuph (1970), con testi
di Judith Wolfe, David Freke, Elizabeth Langborne e Jonathan Welch. Cfr. anche Rubin 1979; e ancora,
nel catalogo della mostra di Parigi su Jackson Pollock (Abadie, Soulling 1982) l’articolo di Carmean Jr.,
nonché l’intervista di Stoullig.
4 Si veda al riguardo, il penetrante articolo di Michaud 1982.
5 Il verbo francese reconnaître ha sia il senso dell’italiano “riconoscere”, sia quello di “esplorare, ef-
d’Art Moderne.
9 È il problema affrontato da Fried, quando descrive i grandi drip classici di Pollock, e da Rubin,
quando parla della straordinaria intuizione di Greenberg, cioè che il cubismo analitico persisterebbe in
Pollock, però a un livello infrastrutturale dell’opera.
10 Number 13 è da questo punto di vista un esempio molto interessante. Qui la costruzione cubista
non solo va in frantumi, e in questa stessa frantumazione evita ogni ricaduta per forza di gravità verso il
bordo inferiore del quadro così come ogni idea di sostegno su questo bordo, ma si depone inoltre come
farebbero dei fuscelli di legno in una acqua calma. Non nel fondo però, come fecero spesso i cubisti, in-
debolendo così la lezione di Cézanne di forme in bassorilievo a partire dalla tela (cfr. Rubin 1967; 1979),
bensì tra due acque, nello spazio intermedio di bassofondo, reso ancor più sottile dagli schizzi di allumi-
nio distribuiti tra un fondo di tela beige gialla, ravvivato da strisce gialle arancio e da macchie rosse e
blu, e un intrico di tracce bianco panna o beige che intessono il piano con i loro grovigli. L’impalcatura
così smembrata, che fluttua orizzontalmente tra tela e piano e tra i quattro bordi, costruisce tuttavia, con
le sue sbarre nere, una specie di rettangolo aperto, rotto, ritmato, inscritto nel rettangolo della tela, ai
vertici del quale altre sbarre nere lo stipano senza rigidità, due rettangoli dove si distingue un lontano e-
co di Mondrian.
11 Ciò che si riscontra sui bordi dei quadri considerati è la ripetizione di un limite, la reiterazione
della differenza tra tela e piano in quella tra bordo e limite del piano, che altro non è che la reiterazione
della differenza tra il mondo reale e il mondo fittizio della pittura. Ma poiché la ripetizione nega la diffe-
renza, garantisce al mondo della pittura la sua autonomia e la sua realtà.
12 Aristotele, Fisica, II, 195b30 – 198a13. Cfr. il riferimento di Lacan 1973, pp. 43-68. “Automaton
(…) è la rete dei significanti (…) tyche per noi è l’incontro con il reale”.
13 Sulla teoria dell’evento, dell’occasione e della circostanza, si veda Lyotard, Thébaud 1979; Marin
1973.
La squadratura1
Italo Calvino
Tutte le volte che incontra un suo amico pittore, lo scrittore rincasa rimugi-
nando tra sé. Le opere che espone il pittore non sono dei veri e propri quadri:
sono momenti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell’og-
getto materiale che è il quadro. Lo spazio che occupano queste opere è soprat-
tutto uno spazio mentale, eppure esse ostentano le materie prime di cui sono
composte, tela, legno, carta, colori di produzione industriale, articoli che si
comprano nei negozi di forniture per pittori; prendono posto nello spazio visi- Le materie
prime del
bile, occupano lo spazio che altrimenti sarebbe occupato da un quadro, e non quadro
vogliono far pensare ad altra cosa che ai quadri. Non è il rapporto dell’io col
mondo che queste opere cercano di fissare: è un rapporto che si stabilisce indi-
pendentemente dall’io e indipendentemente dal mondo. Anche allo scrittore
piacerebbe fare delle opere così: perché all’io non ci crede o se ci crede non gli
piace; e perché il mondo non gli piace o se gli piace non ci crede. Però non rie-
sce a trovare la strada.
Da un’opera all’altra il pittore continua un unico discorso, non comunicati-
vo né espressivo, perché non pretende di comunicare qualcosa che è fuori né di
esprimere qualcosa che ha dentro, ma comunque un discorso coerente e in con-
tinuo svolgimento. Lo scrittore guarda il mondo del pittore, spoglio e senza
ombre, fatto solo di enunciati affermativi, e si domanda come potrà mai rag-
giungere tanta calma interiore.
Certo, per arrivare a quel punto molto è stato escluso, ma è il solo modo per
tenersi alle cose di cui si può essere sicuri, che sono pochissime, e per poterle
guardare con fiducia e simpatia, almeno per un momento. Senza fermarsi a con-
templarle, però: l’occhio del pittore è sempre ironico e interrogativo, e le sue
tranquille affermazioni non sono altro che domande formulate con discrezione,
dopo le quali non resta che aspettare risposte che forse non verranno e nuove
domande che verranno certamente. Il pittore e lo
Questo è l’atteggiamento che pure lo scrittore vorrebbe avere ogni volta che si scrittore
siede alla scrivania, ma appena comincia a scrivere si trova con tanti peluzzi sulla
punta del pennino, o col nastro della macchina per scrivere tutto sfilacciato: pe-
luzzi e sfilacciature che vorrebbero corrispondere al modo particolare in cui il
mondo si va sfilacciando e speluzzando, o in cui l’esperienza interiore si sfrangia e
spelacchia, mentre di fatto sulla carta quello che resta – se scrive a penna – sono
baffi d’inchiostro, macchioline, a e o con gli occhielli intasati, o – se scrive a mac-
china – parole male inchiostrate, effe e elle che sfumano nell’ineffabile.
Per queste vie insidiose la comunicazione e l’espressione continuano ad affio-
rare attraverso le parole. Allo scrittore, quella che dà più fastidio è l’espressione:
226 ITALO CALVINO
Fig. 73. Giulio Paolini, Disegno geometrico, 1960, tempera e inchiostro su tela, 40 x 60 cm, Torino,
collezione Anna Paolini Piva.
è uomo di carattere riservato, ed esprimere qualcosa di se stesso non gli pare una
bella cosa da fare, soprattutto in pubblico. Lo stesso verbo “esprimere” ricorda
sgradevolmente la secrezione, o, nel migliore dei casi, l’atto di spremere un limo-
ne. Se lo scrittore dovesse identificarsi con un frutto preferirebbe una specie non
spremibile, una noce, una mandorla, o magari – nei suoi momenti più generosi –
un fico secco. Per quel che riguarda la comunicazione, invece le allergie dello
scrittore sono meno categoriche. In fondo comunicare non è che gli dispiaccia,
tutto sta a intendersi sul che cosa e sul come. Anche il pittore, a ben vedere, co-
munica: tanto è vero che lo scrittore guarda le opere del pittore cercando di tra-
durre ciò che esse gli comunicano in qualcosa che vorrebbe comunicare lui.
Il pittore ha cominciato il suo discorso quindici anni fa con una tela grezza
La griglia in cui sono tracciate due linee perpendicolari e due diagonali: la squadratura
topologica geometrica del foglio, “il disegno preliminare di qualsiasi disegno”: ma siccome
gli sembrava che quelle linee occupassero il quadro con troppa presunzione,
quasi credendosi più importanti della tela su cui erano tracciate, le ha messe tra
parentesi: parentesi appena accennate, perché non si credano d’essere chissà
cosa neppure loro (fig. 73).
Un anno dopo, ha cercato di mettere tra parentesi la tela, appendendola in
mezzo a un telaio più grande in modo che restasse uno spazio vuoto tutt’intorno.
Voleva risultasse chiaro che la tela fa parte del quadro ma non è il quadro.
Poi si è proposto di fissare il momento in cui il colore entra a far parte del
quadro, il momento del colore prima del colore: quando è ancora nel barattolo,
dunque. E ha provato a posare un barattolo su un telaio vuoto, involgendo tutto
col cellophane. Ma certo era una mossa rischiosa, che portava dritto al simboli-
smo, cioè quel determinato colore, anzi quel determinato barattolo, sarebbe stato
LA SQUADRATURA 227
Fig. 74. Giulio Paolini, Senza titolo, 1962, tre tele preparate montate al verso una dentro l’altra, 50 x
60 cm, Parigi, collezione Anne e Wolfgang Titze.
228 ITALO CALVINO
sionismo.
Annullare l’io individuale per identificarsi con l’io della pittura d’ogni tempo,
l’io collettivo dei grandi pittori del passato, la potenzialità stessa della pittura:
questa è la grande modestia e la grande ambizione del pittore. Una volta ha e-
sposto la riproduzione fotografica d’un ritratto di Lorenzo Lotto, intitolandola La variazione
Giovane che guarda Lorenzo Lotto (fig. 80). L’immagine è la stessa ma la sintassi della sintassi
interna cambia. È il soggetto del quadro che guarda Lotto: cioè l’osservatore at- interna
tuale del quadro vede quel che vedeva Lotto, no: si sente guardato dagli stessi
occhi che fissavano Lotto. Gli occhi del quadro o gli occhi del modello? Il titolo
avverte che nel punto in cui oggi si trova chi guarda il quadro, si trovava Loren-
zo Lotto di fronte a quel giovane. Lo scrittore a questo punto crede d’aver sco-
perto una contraddizione nel procedimento mentale del pittore: quel titolo im-
plicherebbe che Lotto dipingendo stesse davvero guardando un giovane con la
scriminatura tra i capelli, gli occhi dalla tonda pupilla, il collo a tronco di colon-
na? Ma come possiamo sapere se questo giovane esisteva veramente fuori dal
quadro, e somigliava davvero all’immagine del quadro? In base a quale vieta teo-
ria della mimesi artistica possiamo garantire che l’armoniosa compostezza del ri-
tratto di Lotto corrisponda a un’esperienza del mondo esterno? Magari Lotto a-
232 ITALO CALVINO
veva davanti a sé un giovane spettinato, strabico, col collo torto, e per controbi-
Lo sguardo
lanciare la sgradevolezza di quell’immagine era spinto a comporne un’altra anti-
in macchina tetica. O non aveva davanti nessun giovane, né simile né dissimile, poco conta la
presenza o assenza d’un modello; quello che conta è l’immagine mentale alla
quale – e solo a quella – il quadro di Lotto era tenuto a corrispondere. O forse
anche questo è troppo dire: in che misura il quadro rappresenti, anzi “fotografi”
l’immagine mentale preesistente, il “fantasma”, non potrà mai essere definito: il
quadro nasce sulla tela, pennellata per pennellata, e il fantasma mentale da cui
l’autore era partito è presto soverchiato, cancellato, dalla necessità che porta le
forme a organizzarsi nei loro rapporti, nel farsi dell’opera.
Dopo un momento di soddisfazione per aver trovato un punto debole
nella corazza del pittore, lo scrittore comincia ad avvertire qualcosa di trop-
po facile nel suo ragionamento, a non essere sicuro d’aver colpito il segno.
L’operazione del pittore è basata sulla riproduzione fotografica, ha al centro
l’obiettivo della macchina, e il quadro di Lotto si presta più di qualsiasi altro
perché il giovane pare fotografato guardando l’obiettivo, cosicché l’osserva-
tore della riproduzione s’identifica prima con l’obiettivo fotografico, poi con
l’osservatore del quadro al museo, poi con Lotto in contemplazione del pro-
prio quadro finito, poi con Lotto in contemplazione d’un fantasma della pro-
pria mente che vorrebbe riprodurre in un quadro, poi con Lotto in contem-
plazione d’un giovane in carne e ossa, poi col nostro pittore di oggi che stu-
LA SQUADRATURA 233
dia come fare a trasformare in un’opera sua un quadro di Lotto senza ag-
giungergli e senza togliergli niente, eccetera. E tutti questi osservatori, tutti
questi Lotto, tutti questi autori si sentono fissati dalle pupille della fotogra-
fia, del quadro, del fantasma, del giovane.
La fotografia si è interposta tra la pittura e noi, e condiziona il nostro rap- Fotografie
porto. Ecco che il pittore, un anno dopo, prende un altro quadro tra i suoi della pittura
prediletti e ne riproduce un particolare raddoppiato, di modo che una Flora
danzante (di Poussin) porga il quadro di se stessa (fig. 81). (Accanto, un
Narciso che si specchia conferma il motivo della doppia immagine). Flora
non fa certo parte del mondo empirico allo stesso modo in cui poteva farne
parte il presunto giovane che posava per Lotto; è un altro mondo, il mondo
della pittura, che abitano tanto il giovane quanto Flora; è da quell’al di là che
rispondono i loro sguardi ai nostri sguardi.
Ingres ha fatto una copia dell’autoritratto di Raffaello. A sovrapporre le
fotografie dell’originale e della copia risulta una leggera sfasatura dei contor-
ni, un tremolio dell’immagine. L’estrema invenzione è il sovrapporsi, il rico-
noscersi nel gesto della pittura che è uno e non può che ripetersi?
Tutto il lavoro del nostro pittore parte dal presupposto che la pittura sia
un tutto compiuto e definitivo, un edificio a cui egli non pretende d’aggiun-
gere nulla. In un’epoca in cui è facile fare gli iconoclasti, egli si contraddi-
stingue per il rispetto che porta alla pittura, per la fedeltà al mestiere di pit-
234 ITALO CALVINO
tore nei suoi più umili elementi, per la modestia e insieme per la sicurezza
con cui allinea nuove opere nel margine strettissimo che resta a un’attività
creativa ridotta all’analisi di se stessa.
La pittura La pittura per lui equivale alla storia della pittura, e in questa storia egli pri-
come storia vilegia alcuni momenti in cui la trasparenza dello sguardo si direbbe nasca dalla
trasparenza della mente: Vermeer, Poussin (fig. 82), Lotto, David, citati in una
sua dichiarazione esplicita, e il ventaglio si può allargare ancora, desumendo i
nomi dai destinatari dei suoi omaggi: Angelico, Raffaello (fig. 83), Bronzino,
Velázquez, Watteau, fino a Cézanne e a Rousseau, fino a Picabia e Duchamp.
Una volta egli ha esposto, ingrandita su un pannello, la pagina 174 d’un
manuale d’arte moderna, con la successione cronologica delle varie scuole.
L’evocazione del manuale espande su tutta l’opera del pittore una candida
luce pedagogica. Riproduzioni di classici, particolari di quadri illustri, mate-
riali e strumenti e luoghi del mestiere, schemi e diagrammi, non potrebbero
essere tante illustrazioni d’un manuale d’avviamento alla pittura? Ma lo spa-
zio in cui ogni oggetto è isolato promuove questo “materiale didattico” a
principio e fine dell’operare artistico. La “metafisica” del pittore e il suo
“cosismo” coincidono: gli oggetti, gli strumenti del mestiere, gli atti del di-
pingere (a cominciare dal vedere) sono per lui gli unici assoluti. In un’epoca
in cui l’arte è continuamente tentata d’implicare qualcos’altro oppure il tut-
to, a lui un quadro fa venire in mente solo la tela, il telaio, il cavalletto, ecce-
tera; e viceversa.
Riflettendo alle produzioni del pittore, lo scrittore le vede ruotare mosse
L’incanto della
tautologia da quell’armonioso meccanismo del pensiero che è la tautologia. La tautolo-
gia può essere intesa come un gioco di specchi o come la manifestazione più
incontrovertibile della verità: nell’un caso e nell’altro ha il potere d’incanta-
re; basta entrarci e non si vuole più uscirne. (O per meglio dire, le forme d’i-
nesauribile raggiungimento della verità sono due: la tautologia e l’anfibolo-
gia: così pensa lo scrittore, che propende per la seconda).
Il pittore tende a ricondurre il molteplice all’uno, (lo scrittore, forse, il con-
trario). Uno degli emblemi che il pittore si è dato (ci sono momenti in cui si la-
scia visitare dal demone del simbolico) consiste in molti drappi di bandiere di-
sparate, appesi a un’unica asta. L’ha intitolato col nome del filosofo che sosten-
ne l’unicità dell’intelletto: Averroè. La mente del pittore si muove leggera nella
nuda astrazione, ma se si dirige sulla pluralità delle cose corpose viene presa
dalla vertigine della polverizzazione e dello sparpagliamento. In un libro stam-
pato in 50 esemplari ha trascritto, spaziate sul bianco della pagina, tutte le let-
tere dei nomi contenuti nel suo taccuino; è la sua immagine dell’infinito. Apo-
teosi d’Omero è il titolo d’un quadro di Ingres dove i personaggi famosi sono
raccolti attorno al poeta in una classica gerarchia; lo stesso titolo lui ha dato a
un’azione scenica in cui ha disposto tanti leggii con fotografie d’attori che in-
terpretano personaggi famosi, tutti sullo stesso piano.
Anche il fatto che la propria opera non sia una ma molteplice preoccupa
il pittore, lo obbliga a fare nuove opere che contengano le precedenti, le uni-
Le opere come fichino e insieme le confermino come distinte. Attraverso l’intervallo tra
racconto e
autobiografia
un’opera e l’altra il tempo entra nell’opera del pittore, il tempo a cui è diffi-
cile dare una forma che non sia quella d’un’autobiografia. Allora le date indi-
cano una direzione e un rapporto di conseguenza, e anche un distacco pau-
LA SQUADRATURA 235
Fig. 83. Giulio Paolini, L’invenzione di Ingres, 1968, fotografia su tela emulsionata, 42 x 32 cm, Torino,
collezione Christian Stein.
sato nei moti della mente. Le sue opere diventano racconto, messe una dopo
l’altra, raccontano la storia di lui che pensa e realizza quest’opera dopo quel-
l’altra e prima d’un’altra ancora; una storia che un critico ha seguito fase per
fase fino a tre anni fa in un libro che costituisce un elemento complementare
236 ITALO CALVINO
alla serie delle opere, quasi il loro tessuto connettivo continuo. Del resto
questo tessuto si basa soprattutto sulle dichiaraizioni del pittore, sul discorso
continuo con cui egli colma la discontinuità tra un’opera e l’altra.
Dopo un lungo giro il pittore torna alla tela da cui era partito, la squadra-
tura geometrica messa tra parentesi, il quadro che contiene tutti i quadri. La
pittura è totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che im-
plica tutto il dipingibile. Le fotografie di questa tela squadrata potranno
riempire il catalogo d’una pinacoteca immaginaria, ripetute identiche ogni
volta col nome d’un pittore inventato, con titoli di quadri possibili o impos-
sibili che basta aguzzare lo sguardo per vedere.
Lo scrittore guardandole già riesce a leggere gli incipit d’innumerevoli vo-
lumi, la biblioteca d’apocrifi che vorrebbe scrivere.
1 Da: Italo Calvino, “La squadratura”, in Giulio Paolini, Idem, Torino, Einaudi, 1975, pp. VII-XV.
Qual è lo statuto dell’enunciazione nella creazione artistica?
La risposta mitologica di Jörg Immendorff1
Jean-Marie Floch
Fig. 84. Jörg Immendorff, Café de Flore, 1990, olio su tela, 200 x 270 cm, Colonia, collezione Eberhard
Garnatz.
dro (che non farebbe che sostituire un testo al quadro), bensì il prodotto di
un’analisi comparativa delle opere e, preliminarmente, di un’attenzione alle
strutture plastiche o figurative di ognuna di esse.
L’approccio semiotico all’opera di Immendorff che vorremmo qui illustrare
si basa su questi presupposti metodologici. È un approccio che, a livello teori-
co, si fonda sulla cosiddetta semiotica strutturale. Voglio ricordare che la semio-
tica strutturale mira a riconoscere le condizioni di produzione del senso così co-
me vengono definite dalle semiotiche-oggetto. Va inoltre precisato che questo
paradigma semiotico concepisce le semiotiche-oggetto – i “linguaggi” – come
sistemi di relazioni che possono essere esplorati solo attraverso l’analisi di pro-
cessi, nel caso specifico l’analisi di opere dipinte di cui si è preliminarmente ri-
La semiotica: conosciuta l’economia generale, sia sensibile che intellegibile.
una scienza Questo significa che una semiotica visiva elaborata nell’ambito di tale teoria
empirica
e tale pratica ambisce a essere una scienza empirica, allo stesso titolo e nella
stessa misura in cui può esserlo l’antropologia per Claude Lévi-Strauss. Pur ri-
ferendosi da parte sua alle forme, ai colori e ai ritmi, questa semiotica visiva po-
trebbe far proprie queste righe tratte da Lo sguardo da lontano:
Ecco la prima ragione, per tutti coloro che hanno sviluppato una semiotica
visiva strutturale, di scegliere e mantenere un approccio empirico. Per costoro,
solo questo approccio risponde a un effettivo percorso scientifico, ipotetico-de-
Un percorso
duttivo, preoccupato di mettere alla prova i suoi modelli prima di generalizzar- ipotetico-
li. Ed è quindi solo per ignoranza che si può credere, o far credere, che un per- deduttivo
corso di questo tipo elabori dei concetti ad hoc. In un percorso ipotetico-dedut-
tivo, infatti, il proposito di rendere conto di un enunciato esclude l’idea stessa
di concetti elaborati ad hoc2. La seconda ragione della scelta di un tale approc-
cio empirico, è la necessità di rendere conto della diversità dei “linguaggi visivi”
e del fatto che essi corrispondano, in ultima analisi, a selezioni e a gerarchizza-
zioni di un numero finito di qualità visive fra le tante che il visibile offre all’uo-
mo. La semiotica visiva strutturale non è, quindi, una semiotica del linguaggio
visivo – essa non postula l’esistenza di un linguaggio visivo che si distinguereb-
be a priori, e in modo radicale, dal “linguaggio verbale”3. E nemmeno una se-
miotica del visibile, cioè un approccio alla materia o alla sostanza percettiva –
nel senso hjelmsleviano dei termini. La semiotica visiva strutturale vuole essere
una “disciplina della forma”, per riprendere un’espressione di Algirdas-Julien
La semiotica
Greimas, che mira, ancora una volta, a riconoscere i sistemi di relazioni sensibi- visiva come
li e intellegibili – cioè di espressione e di contenuto – che costituiscono le se- “disciplina
miotiche figurative o plastiche così come esse vengono manifestate e presuppo- della forma”
ste da quei segni che sono le opere individuali o collettive.
Nelle pagine che seguono proverò ad analizzare la trasformazione che è avve-
nuta nella concezione e nella rappresentazione della creazione artistica di Immen-
dorff fra gli anni Settanta e i primi anni Novanta. Perché interessarsi a questa tra-
sformazione, per molti aspetti piuttosto cospicua? Da un lato, perché la semiotica
visiva strutturale, volendo contribuire all’elaborazione di una teoria generale del
significato e delle pratiche significanti, si è sempre preoccupata di definire l’istan-
za enunciativa implicita degli enunciati che di volta in volta prendeva in esame,
interessandosi molto presto alle forme enunciate di tale enunciazione4. Dall’altro,
perché la questione della creazione artistica e del suo rapporto con il senso è al
centro dell’opera di Immendorff, almeno negli anni Settanta-Ottanta, al punto
che l’organizzazione stessa dello spazio rappresentato nelle sue tele, così come le
numerose figure spaziali che vi compaiono, dipendono proprio dal modo in cui
questa questione è stata posta e dalla risposta che le è stata data.
Dall’inizio degli anni Settanta, la riflessione critica di Immendorff sul senso
e sul valore della creazione artistica si è tradotta in numerose rappresentazioni
del pittore intento a dipingere. Ammettendo che la creazione pittorica possa es- Senso e valore
sere considerata come una forma di produzione di senso, e quindi come un’e- della creazione
nunciazione, ci troviamo di fronte a enunciazioni enunciate dove, ancora una artistica
volta, la rappresentazione della creazione artistica e l’organizzazione dello spa-
zio sono intimamente legate. È quel che accade, per esempio, in Ich Wollte
Künstler Werden (1972, fig. 85), ma soprattutto in Wo stehst Du mit deiner Kun-
st, Kollege? (1973, tav. XVIII). Quest’ultimo quadro è tanto più interessante in
240 JEAN-MARIE FLOCH
Fig. 85. Jörg Immendorff, Ich Wollte Künstler Werden:…, 1971, acrilico su tela, 90 x 80 cm, collezione
privata.
muro dello studio: vi si può leggere “Pop Art, Nuovo realismo, Arte concettua-
le, Land Art, Op Art...”.
Le figure spaziali sono particolarmente ricorrenti nei quadri di Immendorff:
vi si trovano dei caffè e degli atelier, ma anche strade, palcoscenici teatrali o, an-
cora, foreste di alberi morti. Questi spazi sono inoltre essi stessi costituiti da al-
Le figure
tri spazi di minor grandezza, quali logge, platee, poltrone, sgabelli o fasci di lu- spaziali
ce molto circoscritti. E ovviamente vi sono anche quegli spazi molto particolari
rappresentati dai quadri presenti nell’atelier – siano essi già dipinti o tele anco-
ra vuote. Spazi diversi, che garantiscono l’articolazione e la concatenazione de-
gli oggetti e dei personaggi che costituiscono i materiali eterocliti dell’opera di
Immendorff. Più che essere occupati dai personaggi e dagli oggetti, gli spazi li
configurano: li mettono in relazione e conferiscono loro senso e valore nel par-
ticolare enunciato di questo o quel quadro, o nel discorso generale dell’opera
del pittore. In tal modo, qualunque sia la “figura del mondo” che di volta in
volta lo spazio rappresentato viene ad assumere (una strada, un teatro, una fo-
resta…), esso diventa il principio di strutturazione dei diversi materiali figurati-
vi assemblati dal “bricolage” del pittore. Facciamo infatti riferimento al concet- L’assemblaggio
to di bricolage formulato da Claude Lévi-Strauss. Vedremo tra poco come tale del bricoleur
concetto possa aiutare a comprendere meglio il modo in cui, all’inizio degli an-
ni Settanta, Immendorff ha risposto alla questione dello statuto e della legitti-
mità della creazione artistica.
Dal momento che consideriamo i quadri di Immendorff come degli enuncia-
ti pittorici realizzati con materiali figurativi eterocliti forniti dalla Storia cultura-
le e politica europea, possiamo concepire l’enunciazione creativa che essi logi-
camente implicano come un atto di strutturazione di cui vanno definiti i princi-
pi di organizzazione e il tipo di competenza indotta. Come si crea, fra i diversi
elementi figurativi selezionati dal pittore, una rete di relazioni semantiche in
grado di manifestare un senso? E a quale “pensiero” corrisponderà una perfor-
mance enunciativa di questo tipo? Solo un lavoro di analisi concreta potrà ap-
prodare al riconoscimento di questa rete di relazioni. Il semiologo non può qui
accontentarsi di teorizzare sull’immagine in generale o sul segno visivo; dovrà
pazientemente e sistematicamente individuare le ricorrenze delle diverse figure
che appaiono nei quadri di quel determinato periodo, di cui ipotizza una certa
unità semiotica (al contempo sensibile e intellegibile). E dovrà in seguito intra-
prendere un’analisi di queste figure che faccia emergere le unità di senso inva-
rianti di cui queste figure rappresentano solo le concretizzazioni variabili. Una
volta fatte queste analisi, rimarrà soprattutto da costruire il gioco di relazioni
che spieghi le loro sostituzioni, associazioni, o esclusioni reciproche.
Studiando l’opera pittorica di Immendorff (fra il 1970 e il 1990, come abbia-
mo detto), possiamo per esempio identificare il motivo ricorrente della candela
accesa. In numerosi quadri e disegni la fiamma appare come un bene prezioso:
viene protetta quando si attraversano le foreste di alberi morti (Wartebiene I e II,
1991/92, fig. 86), permette di penetrare nei luoghi oscuri dell’anima (In allen
Kammem meiner Seele, 1989) e rischiara i tavoli e gli atelier degli artisti (Treffen
zu Eher des dogmatischen Bildes, 1989; Ich Wollte Künstler Werden, 1971, fig. 85).
Di fatto, questi atelier vengono spesso rappresentati sotto forma di piccole scato-
le illuminate dall’interno da quella stessa luce rosseggiante che caratterizza le can-
dele dipinte da Immendorff (Kleine Reise, 1990 o Fruits and Politics, 1991, fig.
242 JEAN-MARIE FLOCH
89). Lo studio dell’opera del pittore ci porta inoltre a constatare che il motivo del-
la candela accesa è associato alla figura di Brecht (Café Deutschland I, 1978). Que-
Il motivo della st’ultimo viene ad esempio rappresentato in Geburtstag B. Brecht (1978) mentre
candela getta le candele del suo compleanno sul tappeto, bruciando così le aquile morte
che vi sono disegnate. È ogni volta la stessa luce rosseggiante che disegna gli spa-
zi, sempre molto circoscritti, una luce che si ritrova anche nel motivo della forgia
(Lehmbrucksaga, 1987 o Kleine Reise, 1990). Sono tutti materiali-segni che rap-
presentano, nella pittura di Immendorff, il fuoco e la luce strappata alle tenebre,
associati al tema di un pensiero liberatore al contempo fragile e potente.
Nel corso di questa fase di identificazione e di analisi delle ricorrenze figura-
tive troveremo, parallelamente, anche oggetti o luoghi raffiguranti la pesantezza
del pensiero, l’oppressione, la sterilità o la morte. Sono i panieri o i vassoi di pa-
tate (Mahlzeit, 1978 o Alles was Du von mir bekommst, 1990), ma anche le fore-
ste di alberi morti o le gogne che serrano il collo degli artisti (Pfahl, 1980). O,
ancora, i pesanti soffitti di legno, pieni di reti e di filo spinato, che incombono
sulle sale in cui essi si riuniscono (Café Deutschland IV, 1978 e Kalt mut, 1982).
Massicce figure, scure e marroni, o talvolta verdastre, che sono trattate, per lo
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 243
più, con testure legnose. Altre figure – tra cui quella di Beuys vestito con un
mantello stellato – sono invece legate all’aria, al cielo, al movimento, alla ferti-
lità e alla vita (Fruchtmann, 1965 e Nachtmantel, 1987), oppure, al contrario, al-
l’acqua gelata, alle masse bluastre che si tenta di attraversare o di perforare (Un-
ser Weg ist richtig, 1980 o Zeig was Du hast, 1983). La stella staliniana fa parte
di queste ultime figure (Naht, 1981 o Nachtwache, 1982). Si noterà che queste
masse vischiose o in procinto di fondersi, sono spesso combinate con quelle
delle pesanti travature o con quelle delle patate (Mahlzeit - Das Bild muss die
Funktion der Kartoffel übernehmen, 1978, oppure Ich denke auch an Metall).
Come sarà ormai chiaro, l’analisi della dimensione figurativa delle opere di
Immendorff fa apparire una vera e propria organizzazione dei diversi motivi ri-
correnti. Questa organizzazione si basa su una correlazione fra i quattro ele-
menti naturali – il fuoco, la terra, l’aria, l’acqua – e l’opposizione vita e morte
(precisiamo che non si tratta di vita e di morte fisiche, ma di vita e di morte del-
lo spirito). Le figure e i motivi identificabili nei quadri di Immendorff prendo-
no così senso e valore a partire da un’assiologia figurativa il cui principio e il cui
contenuto dipendono, in ultima analisi, dall’istanza enunciativa5. “Sotto” la
straordinaria abbondanza, o “al di là” del potente e violento groviglio di figure
più o meno riconoscibili e interpretabili, si instaura e si organizza un discorso
sulla vita e la morte, che correla l’aria alla vita, la terra alla morte, e l’acqua e il Le strutture
fuoco alle loro rispettive negazioni. profonde
È interessante constatare che nell’universo di Immendorff l’acqua, sporca e ge-
lata, è un elemento naturale associato alla pesantezza e alla staticità, e che non rin-
via affatto a una qualche “rêverie” del movimento – mi riferisco qui alle ricerche
dell’epistemologo francese Bachelard (1938; 1942; 1943; 1948a; 1948b) sulla poeti-
ca degli elementi naturali. Quanto al fuoco, di cui ho analizzato le principali figure,
è correlato alla negazione della morte dello spirito, alla rivolta dei creatori e degli
artisti – in primo luogo, come abbiamo visto, a quella di Brecht.
Possiamo rappresentare l’organizzazione logico-semantica dell’assiologia figu-
rativa che struttura l’universo di Immendorff con il seguente quadrato semiotico:
La selezione e l’utilizzo delle figure della Storia, dagli anni Settanta agli anni
Novanta, veicolano quindi un discorso più “profondo”, se così si può dire, di una
semplice testimonianza sulla situazione politica e culturale degli artisti nel corso di
quegli anni. Il realismo, o il neorealismo, dell’opera – termini che sono stati usati
dalla critica d’arte – serve in realtà a sviluppare una riflessione sulle forze antagoni-
ste della vita e della morte dello spirito che vengono messe in gioco dalla creazione
artistica. Questo realismo appare allora come il rivestimento figurativo di un di-
244 JEAN-MARIE FLOCH
***
ii. In secondo luogo, egli non è più distratto da un’irruzione; lo si vede partico-
larmente concentrato sul suo lavoro.
iii. Lo spazio dell’autoritratto del 1974 è uno spazio in profondità, chiuso, sen-
za aperture verso l’esterno; lo spazio dell’atelier del 1973 è senza profondità e a-
perto sulla strada.
iv. La luce non è la stessa: nel dipinto del 1973 era diffusa, uniforme, garantiva
la piena manifestazione e leggibilità delle forme; nell’autoritratto del 1974, la sua
potenza provoca un forte contrasto tra ciò che è illuminato e ciò che sparisce nella
penombra.
v. Certo, lo spazio dell’atelier del 1973 comunicava con quello della strada, ma,
paradossalmente, solo grazie all’irruzione di quello stesso personaggio che metteva
Il rapporto tra
in questione la “posizione” del pittore: questa posizione del pittore in rapporto al- la creazione
la società non corrispondeva a una sua scelta. artistica e la
vi. Infine, come si è visto, c’è una grande differenza tra i due quadri, che tocca Storia
la problematica stessa della creazione artistica: il pittore del 1974 ha appeso al mu-
ro l’immagine di un gruppo di manifestanti. Il pittore non lavora dunque più a
partire dalla “realtà” storica e sociale, ma a partire da un segno.
L’idea che possa esserci un rapporto diretto tra la creazione artistica e la storia
viene così abbandonata. La relazione del pittore con la storia non è più interpreta-
ta in termini di azione e di collegamento con quel soggetto collettivo che i lavora-
tori incarnano, ma in termini di produzione di senso a partire dal riutilizzo delle fi-
gure di una storia già costituita in segni. Una connessione tra l’arte e la storia è or-
mai possibile, ma può essere solo indiretta. E va concepita come il frutto di un la-
voro di selezione e di riorganizzazione di materiali semiotici che porta alla produ-
zione di un’opera intesa come un tutto significante e come una struttura contem-
poraneamente sensibile e intelligibile. Questo lavoro non consiste nel ricostruire
un senso preesistente, ma nel produrre una significazione nuova riutilizzando una
materia prima significante.
Se insisto tanto su questa concezione dell’enunciazione veicolata dall’opera di
Immendorff a partire dal 1974, è perché si può ritrovarla nei discorsi dello stesso
Immendorff, quando parla del rapporto fra la creazione e l’enunciatario7. Per Im-
mendorff, anche l’enunciatario può fare solo un’utilizzazione indiretta di quel se-
gno che è il quadro. Parlando proprio di Selbstbildnis im Atelier (tav. XIX), Immen-
dorff diceva a Catherine Millet che questo dipinto significava “da una parte, il
pubblico addio dell’artista ai suoi obblighi sociali, dall’altra, il tentativo di definire
l’esistenza dell’artista come quella di uno scienziato pazzo, le cui formule non pos-
sono essere direttamente utilizzate dalla società”8. All’utilizzazione indiretta dei se-
gni della piazza e della storia da parte dell’artista-enunciatore corrisponde, in ma-
niera perfettamente simmetrica, l’utilizzazione indiretta delle “formule” dell’artista
da parte dell’enunciatario collettivo, la società.
A che tipo di produzione di senso corrisponde dunque una siffatta concezione
della creazione artistica? A quella forma particolare di enunciazione che è il brico-
lage mitico. Il fatto che il pittore sfrutti un segno esistente e che parta da questo se- La creazione
gno per giungere a una struttura al tempo stesso plastica e figurativa, assimila in- artistica come
fatti questa concezione della creazione artistica all’enunciazione mitica, nell’acce- bricolage mitico
zione di Claude Lévi-Strauss nelle prime pagine del Pensiero selvaggio9. Per l’an-
tropologo, il bricoleur è quel produttore di senso che colleziona un certo numero
di “blocchi previncolati” di significazione, cioè di segni, per realizzare a partire da
246 JEAN-MARIE FLOCH
questi una struttura significante. Così facendo, il bricoleur agisce in modo opposto
a quello dell’ingegnere che, invece, parte da un insieme strutturato, e subordina
l’esecuzione del suo compito “al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e
procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto”. L’ingegnere proce-
de a un’apertura dell’insieme con il quale lavora, mira al di là, mentre il bricoleur
procede, all’opposto, alla riorganizzazione del proprio insieme. Il bricoleur utilizza
“quel che c’è” e rimane al di qua. Si accontenta, per così dire, delle figure e dei
motivi che ha trovato nella sua storia personale, e che ha conservato nell’idea che
“possono sempre servire”.
Infine, prendendo come materiale un insieme di segni esistenti, il bricoleur non
cerca di estendere questo insieme né di rinnovarlo. Ciò che lo interessa è riprende-
re continuamente questi elementi in numero finito, di scomporli e ricomporli con-
frontandoli gli uni con gli altri, per ottenere il sistema delle loro trasformazioni
Il riutilizzo dei possibili. Ecco dunque ciò che è l’enunciazione mitica: una maniera bricoleuse di
materiali
“previncolati”
produrre significazione, di dare senso al senso.
della Storia L’enunciatore presupposto dal discorso pittorico di Immendorff a partire da
Selbstbildnis im Atelier (tav. XIX) è proprio un bricoleur. Come il bricoleur di
Lévi-Strauss, non cessa infatti di interrogare i simboli, le figure e i motivi etero-
cliti che costituiscono il suo stock di segni, per comprendere in cosa ciascuno di
essi possa contribuire alla produzione di questa o quella struttura (cioè di que-
sta o quell’opera), struttura che non si differenzierà, in fondo, dall’insieme degli
strumenti se non per la disposizione interna delle sue parti. Ogni opera ripren-
de un inventario già più volte fatto e rifatto e si confronta con le possibilità pla-
stiche e semantiche dei vari elementi, possibilità che restano sempre limitate
dalla storia personale e dal significato primo di questi stessi elementi. Di fatto,
le possibilità offerte a Immendorff dalle grandi figure artistiche che convoca
nella sua pittura (Duchamp, Beuys, Brecht, Penck) o dai simboli che usa (la
croce uncinata, la stella sovietica o la bicicletta senza ruota), sono possibilità
sempre limitate dalle loro rispettive storie, dai loro contenuti originari, dai valo-
ri e dalle connotazioni di cui essi sono portatori. Come ogni bricolage, l’enun-
ciazione sottesa dall’opera di Immendorff deve essere perciò interpretata come
una dialettica fra la libertà di scelta e di decisione destinata a rilanciare la signi-
ficazione, e una limitazione delle combinazioni possibili dovuta al carattere
“previncolato” dei materiali della storia.
***
Fig. 87. Jörg Immendorff, Painter as canvas, 1991, olio su tela, 300 x 400 cm, collezione privata.
***
Fig. 88. Jörg Immendorff, Versuchung des heiligen Antonius, 1985, olio su tela, 285 x 330 cm, collezio-
ne privata.
Fig. 89. Jörg Immendorff, Fruits and Politics, 1991, olio su tela, 300 x 400 cm, collezione privata.
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 251
***
1 Da: Jean-Marie Floch, Quel est le statut énonciatif de la création artistique? La réponse mythologi-
vere.
4 Ricordo che la semiotica strutturale concepisce l’enunciazione come l’istanza di mediazione che as-
sicura la messa in enunciato e in discorso delle virtualità di un sistema semiotico. Questa istanza è logi-
camente presupposta dall’enunciato. È dunque anch’essa un’istanza semiotica – che non può venir con-
fusa con le nozioni di contesto comunicazionale o di contesto psicosociologico – e rimane perciò un og-
getto di analisi legittimo per il semiologo. Aggiungerò che secondo questo approccio all’enunciazione –
nato dai lavori di Saussure, di Benveniste e di Greimas, per non citare che alcuni nomi – il concetto di
“enunciazione enunciata” designa il simulacro che imita, all’interno del discorso, il fare enunciazionale,
mentre il concetto di Enunciatore non designa un soggetto ontologico bensì, ancora una volta, il Sogget-
to produttore del discorso e della semiosi, logicamente presupposto dall’enunciato. Per quanto riguarda
252 JEAN-MARIE FLOCH
i lavori di semiotica visiva sull’enunciazione e l’enunciazione enunciata, citerò Floch 1985, pp. 133-160;
1986; Fontanille 1989; Schulz 1995; Thürlemann 1980, pp. 109- 124.
5 Si intende per assiologia il modo d’esistenza paradigmatico dei valori, come, per esempio, vita vs
morte o natura vs cultura; l’“assiologia” si distingue in ciò dall’“ideologia”, che ne costituisce il modo di
esistenza sintagmatico. Col termine assiologia figurativa si designa invece la correlazione di un tale mi-
crosistema di valori con gli elementi naturali: l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria – una correlazione che or-
ganizza la strutturazione della figuratività di universi semantici collettivi o individuali. Cfr. l’analisi di
Greimas (1976) dell’assiologia figurativa della novella di Maupassant Les deux amis.
6 Floch 1979; Bertrand 1985.
7 Ricordo che l’enunciatario è, come l’enunciatore, un soggetto implicito; è il destinatario implicito
dell’enunciazione.
8 Immendorf, Millet 1993; corsivo nostro.
9 Lévi-Strauss 1962a, pp. 28-35. Sulla fecondità del concetto lévi-straussiano di “bricolage” nelle ri-
cerche sulle prassi enunciative in semiotica visiva, mi permetto di rinviare a Floch 1995.