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Segnature

Collana diretta da
Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone

29
Copyright © 2004 Meltemi editore, Roma

Prima ristampa: febbraio 2005

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a cura di Lucia Corrain

Semiotiche della pittura


I classici. Le ricerche
Introduzione e cura
di Laura Faranda

MELTEMI
Indice

p. 7 Introduzione
Lucia Corrain

Parte prima
La dimensione plastica

29 La doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia planare.


A proposito di Loth e le figlie
Felix Thürlemann

39 Cranach: la bellezza femminile


Algirdas Julien Greimas, Teresa M. Keane

49 Realismo o artificio? Un’analisi di La fuga in Egitto di Adam Elsheimer


Lucia Corrain

57 L’appendice poetica di Henri Rousseau al suo ultimo dipinto


Roman Jakobson

63 Il dubbio di Cézanne
Maurice Merleau-Ponty

75 La sfinge incompresa
Paolo Fabbri

91 Le rouge et le noir di Paul Klee


Felix Thürlemann

107 Senza titolo… o senza contenuto?


Jacques Fontanille

127 Nota sul colore in Francis Bacon


Gilles Deleuze
Parte seconda
L’enunciazione

137 “Destra” e “sinistra” nella raffigurazione delle icone


Boris A. Uspenskij

145 Il mondo oggetto


Roland Barthes

153 “La vita profonda delle nature morte”


Lucia Corrain, Paolo Fabbri

169 Evaporazione e/o centralizzazione. Gli (auto)ritratti di Manet e di Degas


Victor I. Stoichita

193 L’oggetto personale come soggetto di natura morta.


A proposito delle osservazioni di Heidegger su van Gogh
Meyer Schapiro

207 Lo spazio Pollock


Louis Marin

225 La squadratura
Italo Calvino

237 Qual è lo statuto dell’enunciazione nella creazione artistica?


La risposta mitologica di Jörg Immendorff
Jean-Marie Floch

253 Bibliografia
Introduzione
Lucia Corrain

Sono sicuro che è vero quel che mi dite, che avete colto con mag-
gior piacere il fiore delle belle opere che altre volte non avete vi-
sto che en passant, senza leggerle bene. Le cose in cui si trova una
certa perfezione non si possono vedere di fretta, ma con tempo,
giudizio e intelligenza.
Poussin, Lettera a Chantelou, 20 marzo 1642

La costruzione di un’antologia comporta delle scelte e un criterio guida. Il


tentativo di spiegare la strutturazione di questa raccolta di saggi può partire
dalla preliminare considerazione del titolo: Semiotiche della pittura. Il ricorso
alla forma plurale, infatti, denuncia esso stesso la molteplicità degli approcci e
delle prospettive con cui i diversi autori qui riuniti hanno guardato alle opere
pittoriche da loro analizzate. Non si tratta esclusivamente di semiologi, ma an-
che di filosofi come Gilles Deleuze e Maurice Merleau-Ponty, di storici dell’ar-
te come Meyer Schapiro e Victor I. Stoichita, di uno scrittore come Italo Calvi-
no e di un linguista come Roman Jakobson, che per il particolare tipo di sguar-
do con il quale hanno osservato gli oggetti artistici offrono contributi impor-
tanti alla semiotica del visivo.
Cosa caratterizza questo tipo di sguardo? Da un lato, l’attenzione primaria
alla dimensione significante del piano propriamente plastico dell’immagine,
ossia all’organizzazione di forme, linee, colori che determinano la composizio-
ne dell’opera; dall’altro, un’attenta considerazione delle operazioni di “messa
in discorso” attraverso le quali vengono iscritti nel testo tanto l’attività enun-
ciativa quanto i simulacri di interazione con lo spettatore.
L’articolazione della raccolta (incentrata sulla dimensione plastica della pit-
tura nella prima parte e sulla dimensione enunciazionale nella seconda) cerca
di rendere conto del rilievo di queste due componenti nell’analisi semiotica del
dipinto, fornendo al contempo delle linee di lettura privilegiate dei singoli
contributi. I due aspetti sono tuttavia sempre copresenti nei diversi saggi, co-
struendo una rete interna di rimandi che travalica la bipartizione generale che
struttura la raccolta e della quale tenteremo di rendere conto passando in ras-
segna i vari contributi.
Ricordiamo brevemente che la semiotica plastica, sviluppatasi a partire dal
saggio fondativo di Greimas (1984), parte dal presupposto che sia possibile
considerare il piano plastico dell’immagine come un linguaggio già significante
indipendentemente dall’eventuale riconoscimento delle figure del mondo, por-
tatore di per sé di una propria significazione che si situa a un livello più profon-
do e più astratto, i cui risultati potranno essere eventualmente affiancati a quel-
li derivanti da una lettura figurativa.
L’analisi del piano dell’espressione di un’immagine implica la sua prelimina-
re segmentazione in insiemi discreti, una segmentazione resa possibile dall’orga-
nizzazione contrastiva dell’immagine stessa. Le categorie costitutive del sistema
che la fonda sono infatti presenti, con i loro termini opposti, nella superficie
planare, sotto forma di contrasti di colori, di forme, di direzioni topologiche. U-
8 LUCIA CORRAIN

na volta identificate le categorie plastiche (topologiche, cromatiche, eidetiche),


si passerà alla ricerca delle categorie di contenuto che si suppongono loro cor-
relate per la produzione dell’effetto di senso.
Nell’analisi dei testi, delle tre dimensioni del plastico quella forse meno stu-
diata è stata quella del colore. Una sottosezione della prima parte dell’antologia
ha inteso perciò raccogliere alcuni dei contributi più significativi in questo am-
bito (Fabbri, Thürlemann, Fontanille, Deleuze). Alcuni di questi, oltre ad ana-
lizzare in modo più approfondito le singole figure cromatiche manifestate, met-
tendone così in luce il ruolo fondamentale nell’articolazione del significato, of-
frono un inventario di base delle categorie cromatiche e un abbozzo della loro
articolazione logica.
Il secondo ambito di indagine che la raccolta privilegia è quello dell’e-
nunciazione, giustamente sempre più frequentato dagli studi sul visivo negli
ultimi decenni, anche al di fuori dell’ambito strettamente semiotico. Compo-
nente essenziale di ogni comunicazione o azione significante – accanto all’or-
ganizzazione di valori, e alla messa in scena di tempi, luoghi, azioni – è infat-
ti la creazione di una determinata relazione con il fruitore, ossia di una deter-
minata strategia enunciativa.
Prodotto, come ogni discorso, di un atto di enunciazione, anche il dipinto
può variamente manifestare marche o tracce di un fare enunciativo e il simula-
cro di un soggetto dell’enunciazione; o viceversa cercare di occultare ogni riferi-
mento alla situazione e all’istanza di enunciazione.
Le principali procedure attraverso cui si manifesta nel visivo qualcosa di
equivalente ai pronomi e ai deittici della lingua sono, ad esempio, i gesti, gli
sguardi e le posture attraverso cui i personaggi si rapportano allo spettatore;
la struttura prospettica, che implica un punto di vista soggettivo; il lavoro
sulla materia pittorica, che esprime una gestualità e la presenza di un sup-
porto e di una geometria di superficie. Nell’arte astratta è quasi esclusiva-
mente attraverso quest’ultima modalità che possono manifestarsi il soggetto
dell’enunciazione e il suo fare.
Il rinvio del dipinto al soggetto enunciatore e alla sua attività enunciativa o
al dispositivo di enunciazione può avvenire attraverso vere e proprie costruzio-
ni metadiscorsive, nelle quali l’immagine fa ritorno su se stessa, tematizzando
quale oggetto del discorso l’atto stesso della sua produzione e ricezione. A que-
sti temi è dedicato in questa seconda parte un sottosettore specifico (Fabbri e
Corrain, Calvino, Floch).

Nel saggio sulla Doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia pla-
nare. A proposito di Loth e le figlie, Felix Thürlemann procede a una riformula-
zione del concetto semiotico di “spazializzazione” – strettamente legato, nel
modello del percorso generativo, alla figuratività e alla produzione dell’illusione
referenziale – individuando nella pittura figurativa, accanto allo spazio simulato,
la presenza di un altro tipo di spazialità, indipendente da ogni imperativo o esi-
genza di impressione referenziale, e quindi dalla categoria figurativo vs astratto.
Definita con l’espressione topologia planare, questa seconda dimensione spazia-
le è quella della geometria bidimensionale (del quadro come della fotografia o
qualsiasi altro oggetto planare), spazialità che si manifesta ogni qual volta un te-
sto venga dispiegato su una superficie attraverso una materia sensibile.
INTRODUZIONE 9

La distinzione tra spazio simulato e topologia planare è essenziale nell’ana-


lisi di opere figurative. Ogni figura dipinta occupa infatti sempre, contempo-
raneamente, due posizioni spaziali: una all’interno dello spazio di profondità,
una all’interno dello spazio di superficie. E questa doppia lettura spaziale può
risultare spesso pertinente, anzi determinante, ai fini della costituzione della
significazione, come l’opera presa in considerazione da Thürlemann illustra e-
semplarmente.
Nell’analisi di Loth e le figlie l’autore, infatti, effettua innanzitutto una seg-
mentazione della superficie pittorica secondo le categorie plastiche destra vs
sinistra e basso vs alto (una partizione resa possibile dall’individuazione di
due assi, quello verticale e quello orizzontale, marcati da indici figurativi co-
me l’albero, la linea d’orizzonte e il tetto della prima tenda), e sfrutta quindi
le categorie topologiche, eidetiche e cromatiche per individuare rapporti, op-
posizioni o iterazioni delle figure del quadro a livello semantico. Ciò gli con-
sentirà di mostrare l’esistenza di una rete relazionale di ordine tematico, sog-
giacente alla rappresentazione, portatrice di un altro livello di significazione
rispetto a quello che può ricostruire una lettura effettuata secondo le leggi
della figuratività illusiva, e che indica inoltre un’interpretazione essenzialmen-
te diversa del testo biblico da parte di quello pittorico. Il dipinto, infatti, at-
traverso la strutturazione della superficie in quattro settori rinvianti a quattro
distinti concetti tematici – distruzione (della città), conservazione (della for-
ma dell’essere umano), generazione (della razza) e decomposizione (dei corpi)
– e l’articolazione del campo sociale e individuale tramite l’omologazione tra
“albero vivo/albero morto” e “coppia incestuosa/scheletro animale”, addita
nell’ineluttabile destino di morte dell’individuo, e non più nella sopravviven-
za della razza, il momento finale del racconto pittorico, che si conclude così, a
differenza di quello biblico, con un atto disforico.
Il quadro appartiene allora, suggerisce Thürlemann, a un tipo di pittura che
può essere definita poetica, dal momento che la sua struttura semiotica è perfet-
tamente comparabile a quella della poesia. Così come nei testi poetici l’articola-
zione metrica sovradetermina l’articolazione frastica per la “messa in forma
supplementare del piano del significato”, allo stesso modo nei testi pittorici le
figure – simulacri di oggetti del mondo naturale – sono riarticolate grazie a una
codificazione semisimbolica che mette in relazione categorie plastiche e categorie
semantiche più profonde. In questo modo il quadro, pur continuando a legger-
si come rappresentazione verosimile di una scena narrativa, rivela nello stesso
tempo “le strutture astratte, l’architettura logica sulla quale si articola il raccon-
to raffigurato”.
Il saggio di Algirdas J. Greimas e Teresa M. Keane Cranach: la bellezza fem-
minile analizza una delle varianti realizzate da Cranach sul motivo iconografico
della ninfa. Concentrandosi principalmente sull’analisi del corpo della ninfa, gli
autori si propongono di render conto della logica interna, della coerenza del di-
scorso che esso ci rivolge, ma contemporaneamente arrivano anche a svelare il
racconto plastico del fare dell’artista.
La Ninfa viene considerata non come pura mimesi, ma analizzata dal pun-
to di vista della sua costruzione plastica; la marcata orizzontalità, le direttrici
oblique e la rima plastica che mette in relazione il contorno inferiore del cor-
po della ninfa con quello che delimita gli elementi naturali nella parte supe-
10 LUCIA CORRAIN

riore destra del quadro partecipano alla produzione di un effetto di senso di


leggerezza del corpo stesso. La disposizione, la postura del corpo della Ninfa,
che si presenta sì appoggiato al suolo, ma è come se levitasse, determina, inol-
tre, una sorta di equilibrio dinamico, dove il bilanciamento dalle due estre-
mità tese genera una tensione polarizzata.
Gli autori si domandano se il bilanciamento non possa essere interpretato
anche come il racconto plastico del fare dell’artista, che nello svolgimento
del suo lavoro incontra degli ostacoli, nella fattispecie la pesantezza del bu-
sto, che supera integrando componenti di leggerezza, ad esempio nel rendere
protese verso l’alto le dita dei piedi, operando quindi una riequilibratura
processuale. È possibile, dunque, cogliere all’interno dei testi una narratività
“enunciazionale”, un racconto plastico dell’enunciazione, il cui percorso vie-
ne seguito dallo spettatore.
La costruzione del corpo della ninfa rivela una differenziazione plastica
fra le due parti della figura, che rinvia a due differenti estetiche: appare in-
fatti, complessivamente, come un assemblaggio di tratti classici (il busto mas-
siccio) e barocchi (allungamento e intreccio delle gambe, apertura delle di-
ta), in una sintesi coerente che si sviluppa e poggia sulla categoria plastico-e-
stetica della grazia.
L’analisi del corpo femminile della ninfa, al fine di rintracciare le marche dei
canoni della bellezza in esso iscritte, consente così di mettere in luce, al tempo
stesso, alcune delle categorie estetiche dell’episteme del periodo – la leggerezza
e la grazia – l’insieme delle quali costituisce l’universo del gusto estetico.
Realismo o artificio? Un’analisi di La fuga in Egitto di Adam Elsheimer af-
fronta, attraverso l’analisi di un paesaggio notturno dei primi del Seicento, la
questione del realismo, mostrando come l’effetto di reale generato dal dipinto
sia anch’esso il prodotto di una configurazione plastica e enunciativa specifica.
Il piccolo rame occupa un posto particolare nella storia del paesaggio so-
prattutto in virtù della grande volta stellata che esso raffigura, considerata una
fedele (e eccezionale) trascrizione topografica di un preciso settore di cielo. La
ricostruzione della volta celeste quale poteva configurarsi all’epoca di realizza-
zione del dipinto e l’attenta disamina dei rapporti fra le diverse costellazioni, la
via lattea e la luna, dimostrano tuttavia come, in realtà, il pittore abbia effettua-
to una serie di costanti e rilevanti “correzioni” a quella che sarebbe una fedele
registrazione dei dati percettivi e ottici, in funzione di una precisa articolazione
plastica e narrativa della rappresentazione pittorica dell’episodio biblico.
L’inclinazione accentuata della Via Lattea, lo sfasamento rispetto all’asse di
riflessione dell’immagine della luna nello specchio d’acqua, la convivenza di lu-
ce lunare e nuvole con una perfetta visibilità degli astri, contribuiscono, infatti,
a delineare, da un lato (paradigmaticamente) la struttura topologico-semantica
del dipinto, articolata verticalmente in uno spazio terrestre e uno spazio celeste
e orizzontalmente in tre differenti settori spazio-temporali, caratterizzati da tre
differenti tipi di illuminazione; dall’altro, disegnano (sintagmaticamente) un
percorso che è insieme dell’occhio e della narrazione, che dal terrestre (la torcia
dei viandanti, poi le faville del fuoco, quindi la diagonale della via lattea e infine
la luna, riflessa e “reale”) condurrà al celeste, prefigurando non solo il felice esi-
to del programma narrativo “fuga”, ma la conclusione del viaggio di Cristo sul-
la terra, che lo condurrà infine alla morte e alla Resurrezione.
INTRODUZIONE 11

L’analisi, infine, mette in luce la funzione strategica dell’ambientazione “a


lume di notte”, non solo sul piano dell’enunciato, dove essa crea gerarchie e
vettori strutturando la narrazione e la lettura del dipinto, ma anche sul piano
dell’enunciazione: l’illuminazione notturna, infatti, negando l’effetto di visio-
ne all’infinito del paesaggio a profitto di una prossimità con i protagonisti
della storia, prefigura una posizione di enunciazione “ravvicinata” che iscrive
lo spettatore nel percorso narrativo dell’enunciato, coinvolgendolo in partico-
lare sul piano timico.
Il confronto tra testo visivo e testo letterario, che si rapporta alla problema-
tica della traduzione intersemiotica o trasduzione, viene affrontato nel lavoro di
Roman Jakobson. L’appendice poetica di Henri Rousseau al suo ultimo dipinto,
in cui l’autore intraprende un’analisi parallela del quadro di Rousseau Il Sogno
e della poesia Inscription pour le Rêve, un ottastico, che lo accompagnava nel
catalogo del Salons des Indépendants, ed era probabilmente anche esposta in-
sieme al quadro.
Analizzandola a diversi livelli, ma in particolare dal punto di vista della di-
stribuzione dei soggetti grammaticali, Jakobson ricostruisce la struttura geome-
trica, ossia topologico-spaziale della poesia, che, al di là della semplice alternan-
za tra versi dispari e versi pari delle due quartine, vede opporre distici dispari
(soggetti femminili)/distici pari (soggetti maschili), distici esterni (in cui com-
paiono i soggetti delle proposizioni principali)/distici interni (in cui troviamo i
soggetti delle proposizioni secondarie), distici anteriori (genere personale, sog-
getto della proposizione principale femminile e soggetto della proposizione se-
condaria maschile)/distici posteriori (genere non personale, soggetto della prin-
cipale maschile e soggetto della secondaria femminile).
Questa distribuzione dei quattro soggetti grammaticali si rivela perfettamen-
te corrispondente alla disposizione relativa dei loro referenti pittorici nella tela
di Rousseau, dove i soggetti principali della poesia si trovano in primo piano e
in basso, e i soggetti secondari sullo sfondo e in alto, e dove, inoltre, alla fronta-
lità offerta allo spettatore dall’incantatore e dalla luna, soggetti dei distici inter-
ni, si oppone il profilo speculare della donna e del doppio serpente nero e aran-
cione, soggetti dei due distici che aprono e chiudono la poesia.
Altre affinità legano questi due ultimi oggetti figurativi, dati dalla poesia co-
me i due soggetti principali: tra la postura della donna e quella dei due serpenti
accostati si viene infatti a creare un gioco di rime plastiche e di corrispondenze:
se in prossimità di entrambi si ritrovano dei fiori blu-viola, che insieme alle aga-
vi li incorniciano, le felci sottostanti con la loro verticalità veicolano lo sguardo
dell’osservatore e lo orientano su entrambe le curve, quella dell’anca della don-
na e quella del corpo sinuoso del serpente, affinità plastiche che la poesia rende
con due costruzioni parallele (la donna “sentiva il suono di un flauto”, i serpen-
ti “prestano orecchio ai gai motivi dello strumento”).
Possiamo riscontrare, a partire da questa coppia donna-serpente, un sistema
di analogie e opposizioni tra i quattro soggetti della tela, espresso da rime e
contrasti di forme e colori: rime cromatiche tra l’arancione e il nero dei due ser-
penti accostati e il corpo e il gonnellino dell’incantatore, che si oppongono al
pallore della donna e al chiarore della luna; rime eidetiche tra le rotondità del
corpo della donna (in particolare il cerchio del seno) e della luna, contrapposte
al corpo appuntito dei serpenti e al flauto dell’incantatore, contrasti che la poe-
12 LUCIA CORRAIN

sia riconduce all’opposizione tra distici dispari e distici pari, genere femminile e
genere maschile.
Possiamo infine riscontrare una sequenzialità da sinistra a destra che vede
protagonisti dapprima la donna e l’incantatore, poi la luna e i serpenti, in una
disposizione a dittico che ritroviamo espressa, nella poesia, in una corrispon-
dente distribuzione dei soggetti nei distici anteriori e posteriori, ma anche nella
presenza, nella prima quartina, di verbi imperfetti, durativi e articoli per la
maggior parte indeterminativi, che si oppongono ai verbi puntuali e agli articoli
determinativi della seconda.
Concentrandosi nella sua analisi sugli elementi comuni tra la poesia e il di-
pinto, come se fossero l’uno la “traduzione” dell’altro, Jakobson mostra in ma-
niera estremamente efficace le profonde corrispondenze tra le funzioni della
grammatica in poesia e quelle della composizione geometrica nella pittura, cor-
rispondenze dovute in primo luogo alle procedure di spazializzazione sostan-
zialmente analoghe operate dai due linguaggi, e ci fa così “toccare con mano”
quella che a buon diritto potremmo chiamare la geometria della poesia e la
grammatica della pittura.
In Il dubbio di Cézanne, Maurice Merleau-Ponty considera, della pittura del
maestro di Aix, ciò che lo ha sempre prioritariamente interessato, ossia la di-
mensione del corpo proprio e della percezione, intesa come ambito di un acces-
so originario al senso che vanifica e nega le opposizioni tradizionali tra anima e
corpo, soggetto e oggetto, io e mondo, agente e paziente. L’opera di Cézanne,
che “va dritta alle cose” ci rivelerebbe, infatti, secondo Merleau-Ponty, proprio
quel commercio originario che si istituisce tra noi e il mondo, quella “comunio-
ne” fra senziente e sensibile che è “ricreazione e ricostruzione del mondo in o-
gni momento” (Merleau-Ponty 1945, p. 301):

Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e
ordine. Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la lo-
ro labile maniera di apparire, vuole dipingere una materia che si sta dando una forma,
l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. (...) Non introduce una
frattura tra i “sensi” e l’“intelligenza”, ma tra l’ordine spontaneo delle cose percepi-
te e l’ordine umano delle idee e delle scienze [corsivo nostro].

Merleau-Ponty sottolinea come Cézanne, con le sue ricerche sulla rappresen-


tazione dello spazio che demoliscono i criteri “moderni” di riproduzione dello
spazio tridimensionale, renda visibile la prospettiva vissuta, quella della nostra
percezione, ben diversa da quella geometrica e fotografica. Le sottili e costanti
deformazioni prospettiche restituiscono, infatti, l’impressione di un oggetto na-
scente, che sta formandosi sotto i nostri occhi, come avviene nella visione natura-
le quando lo sguardo, percorrendo uno spazio, ottiene immagini prese da diffe-
renti punti di vista. Allo stesso modo, il fatto di segnare, ad esempio, parecchi
contorni (e non uno o nessuno) nel disegno di un oggetto consente all’occhio del-
lo spettatore, oscillante dall’uno all’altro, di avvertire in essi un contorno in farsi,
come accade, ancora una volta, nella percezione naturale. Stesso discorso, ancora,
nella costruzione del paesaggio, in cui “occorreva saldare le une alle altre le visio-
ni di tutti i punti di vista particolari che lo sguardo assumeva, riunire quel che vie-
ne disperso nella versatilità degli occhi”, o nella resa della fisionomia dei volti.
INTRODUZIONE 13

È noto che Cézanne affermava che si doveva dipingere un volto come fosse
un oggetto, cioè nella sua solidità e materialità, in quanto insieme colorato. Ciò
non significa, sottolinea Merleau-Ponty, privarlo del suo “pensiero”. Così come
il pittore non cerca di suggerire con il colore sensazioni tattili, semplicemente
perché nella percezione primordiale tali distinzioni fra tatto e vista ci sono igno-
te, allo stesso modo, “non serve a nulla contrapporre qui le distinzioni fra ani-
ma e corpo, o fra pensiero e visione, poiché Cézanne ritorna appunto all’espe-
rienza primordiale donde tali nozioni sono tratte e ce le presenta inseparabili”.
Se svelare i principi della percezione, analizzare la logica del visibile, è l’impe-
rativo costante di Cézanne, le dense pagine di Merleau-Ponty ci fanno anche
comprendere, peraltro, come questo pensiero pittorico, mai separato dalla visio-
ne, non possa essere la traduzione di un pensiero già chiaro e già dato, che la
“concezione” non può precedere l’“esecuzione”, che non c’è un senso già for-
mulato che preceda l’opera: “Prima dell’espressione, non c’è nient’altro che una
febbre vaga e solo l’opera fatta e compresa proverà che si doveva trovare qualco-
sa piuttosto che niente”. Parole illuminanti non solo per comprendere l’opera di
Cézanne, ma la natura stessa del linguaggio pittorico e la sua autonomia.
L’analisi di Merleau-Ponty, che affronta l’insieme dell’opera del pittore piut-
tosto che un singolo testo, incentrandosi sul significato del “modo di vedere”,
dell’“ottica coerente” di Cézanne, illumina indirettamente una problematica,
che a parte alcuni spunti offerti da Floch (1986, 1995) non è stata ancora suffi-
cientemente esplorata dalla semiotica plastica: quella della dimensione signifi-
cante dello stile.
Nell’opera di Klee, e in particolare nell’acquerello preso in esame nel saggio
La sfinge incompresa di Paolo Fabbri, la dimensione cromatica riveste un ruolo
decisivo sia sul piano del significante sia su quello passionale.
Dal punto di vista dell’organizzazione topologica di Sphinxartig, l’analisi
mette in rilievo un’opposizione tra la parte destra e la parte sinistra, e tra la par-
te inferiore e quella superiore, che disegna un percorso dello sguardo sul piano
orizzontale da destra a sinistra, e quindi sul piano verticale dal basso verso l’al-
to, scandito sia a livello cromatico che eidetico.
Nell’acquerello ritroviamo, infatti, una netta opposizione, a livello dell’arti-
colazione chiaro/scuro, tra il nero della macchia in basso, e il grigio di quella in
alto. Lo sguardo dell’osservatore è dunque orientato in verticale, dal nero in
basso al grigio in alto, agevolato in ciò dalla mediazione delle cuspidi dei trian-
goli e dalla direzione delle linee. La forma a otto, al centro, conduce inoltre a
un percorso direzionato in orizzontale secondo la categoria sinistra vs destra,
dalla macchia chiara (gialla) a sinistra verso quella scura (nera) a destra. Fabbri
mostra come le opposizioni e gli spostamenti tonali possano corrispondere a
determinate categorie e percorsi sul piano cognitivo. Il movimento dallo scuro
al grigio corrisponde sul piano semantico allo spostamento dalla certezza all’in-
certezza. Il percorso va quindi, sul piano orizzontale, da sinistra verso destra,
dalla determinazione all’indeterminazione; su quello verticale dal basso verso
l’alto, dalla sicurezza all’improbabilità. Dal punto di vista eidetico questo movi-
mento è confermato dal ritmo più serrato degli elementi sulla sinistra vs la rare-
fazione di quelli sulla destra, dalla minore ampiezza della parte sinistra della fi-
gura vs la maggiore apertura e spaziosità di quella destra, nonché dalla disposi-
zione plastica prevalentemente orizzontale sulla sinistra e verticale sulla destra e
14 LUCIA CORRAIN

infine dalla collocazione della figura nella parte inferiore dell’acquerello, che la-
scia pressoché vuota la parte superiore.
Analizzando il piano iconico, Fabbri sottolinea la polisemia della figura, che
potrebbe ricordare un violino visto di profilo, o un veicolo sbilenco, un carro con
ruote irregolari: “la lingua non sembra all’altezza della ricchezza dello sguardo”.
Nell’identificazione di questa sagoma un ruolo importante viene offerto per-
ciò inevitabilmente dal titolo, Sphinxartig. È proprio la denominazione, l’“indi-
cazione antropomorfa”, che consente di riconoscere il ritratto di una figura
composita che prende forma dinanzi ai nostri occhi: l’immagine della Sfinge.
La Sfinge è caratterizzata da una precisa posizione: analogamente alla Me-
dusa ci offre la frontalità del suo volto: guarda colui che la guarda, configuran-
dosi come istanza interlocutrice. I suoi occhi catturano il nostro sguardo, ma
non si limitano a questo, “lo conducono verso la ‘macchia’ scura da cui, con un
movimento verticale, dovremmo orientarci verso l’alto, verso la ‘macchia’ grigia
e arrotondata”.
Il titolo induce a riconoscere nella striscia centrale con le due volute una
versione ludica del cappuccio reale della Sfinge egizia, ma ancora non spiega i
due triangoli posti sul capo della sagoma, tra i quali non a caso cade anche il
centro geometrico della composizione. L’autore ipotizza che i tre formanti figu-
rativi – i due triangoli, il “‘ciuffo’ nel mezzo e la “macchia” grigia arrotondata
nella parte alta – possano essere identificati con i seguenti pittogrammi: palma,
piramidi e luna. Essi comporrebbero, insieme alle tonalità calde e dorate dei co-
lori da paesaggio orientale, la cornice verosimile di una sfinge egizia.
Questa interpretazione troverebbe, come mostra Fabbri, un’esatta corri-
spondenza con una fonte letteraria, il Faust di Goethe (in cui si ritrovano tutti
gli elementi: sfinge, piramidi, sfera). Ma non solo: Fabbri riscontra anche una
sorprendente analogia figurativa e semantica tra questi formanti e una poesia
dello stesso Klee analizzata da Jakobson, il cui disegno spaziale è perfettamente
omologo con i due formanti triangolari dell’acquerello.
Si profila così un nuovo livello figurativo coerente: il piano tematico che sot-
tintende la poesia è, infatti, quello della conoscenza (la consapevolezza da parte
dell’uomo della propria inconsapevolezza), che si collega alla Sfinge in due sen-
si: sia alla sfinge egiziana, in quanto figura orientata verso la conoscenza, sia a
quella tebana, cioè a Edipo, figura tragica per antonomasia dell’inconsapevolez-
za della propria consapevolezza.
Ma lo sguardo della Sfinge non è “un’apostrofe minacciosa e paralizzante
come quella della Medusa”: Sphinartig è un invito alla speculazione, ma una
speculazione rischiarata dalla leggerezza e dall’ironia.
La necessità di una lettura plastica è ancora più evidente nel caso di dipinti
dal carattere deliberatamente non-figurativo, nei quali la dimensione significan-
te si situa completamente al di fuori della questione dell’iconicità. È il caso, ad
esempio, di Le rouge et le noir, un acquerello dell’ultimo periodo di Paul Klee,
analizzato da Felix Thürlemann.
Realizzato con una sorprendente economia di mezzi pittorici – un punto
rosso e un punto nero che si stagliano su uno sfondo biancastro, dal cromati-
smo irregolare –, Le rouge et le noir sviluppa in realtà, come ci dimostra l’anali-
si di Thürlemann, un discorso assai articolato che verte su uno dei principali
mezzi espressivi della pittura: il colore.
INTRODUZIONE 15

Come il titolo sottolinea, l’oggetto esplicito del dipinto è il contrasto croma-


tico rosso vs nero. Poiché, come abbiamo visto, ogni testo visivo può essere ana-
lizzato secondo tre dimensioni complementari (cromatica, eidetica e topologi-
ca), Thürlemann formula l’ipotesi che nel discorso – o, più precisamente, nel
metadiscorso – svolto da Le rouge et le noir, la dimensione cromatica costituisca
l’explicandum e le dimensioni eidetica e topologica fungano da explicans; detto
altrimenti, il contrasto cromatico costituirebbe il soggetto dell’enunciato pitto-
rico, “ciò di cui si parla”; le dimensioni eidetica e topologica, nella loro funzio-
ne di “commento”, ne sarebbero invece i predicati.
Di fondamentale importanza è la distinzione introdotta da Thürlemann tra
due modi essenzialmente diversi di descrizione del colore: quello categoriale,
che analizza la tinta secondo un certo numero di categorie dalla funzione pura-
mente tassonomica – i radicali cromatici (blu vs rosso vs verde ecc.), la saturazio-
ne (saturo vs desaturato), il valore (chiaro vs scuro) e le diverse categorie di ma-
teria o di grana (per esempio brillante vs opaco) – e quello valutativo, che de-
scrive il “contenuto affettivo” della tinta, tramite attributi spesso di ordine sine-
stesico, per esempio “caldo”, “ardente”, “freddo”. Due modi distinti di descri-
zione che rinviano rispettivamente ai due piani del linguaggio, quello dell’e-
spressione e quello del contenuto. Questa distinzione permette all’autore di
chiarire i rapporti semiotici tra la dimensione cromatica e la dimensione eideti-
ca/topologica: chiamate a svolgere ciascuna una funzione discorsiva indipen-
dente, esse sono provviste entrambe di un piano dell’espressione (livello catego-
riale) e un piano del contenuto (livello valutativo): l’explicandum del metadi-
scorso pittorico di Le rouge et le noir sarebbe allora il contenuto della dimensio-
ne cromatica, ossia il contrasto cromatico letto al livello valutativo.
Per rendere conto della natura del contrasto cromatico “rosso” vs “nero” e
dei molteplici mezzi di espressione eidetica e topologica attraverso i quali il dipin-
to esprime il contenuto di questo contrasto, Thürlemann procede, inizialmente, a
una descrizione dell’articolazione cromatica di Le rouge et le noir basata sulle ca-
tegorie dei radicali, della saturazione, del valore e della materia, e a una riflessione
sulle relazioni logiche che esistono tra gli undici radicali cromatici, a partire dalla
quale egli mostra come l’opposizione tra il “rosso” e il “nero” si qualifichi qui in
definitiva come opposizione tra cromatico e acromatico, tra colore e non-colore.
In secondo luogo, l’autore stila un inventario completo dei contrasti eidetici
e topologici legati ai due elementi “rosso” e “nero” (a partire da diverse catego-
rie: il contorno, la posizione e l’inserzione nello schema assiale del formato dei
due elementi, il cromatismo dello sfondo su cui si stagliano). Ciò gli permetterà
di individuare il contenuto valutativo dei contrasti eidetici e topologici (irrego-
lare, eccentrico, modulato vs regolare, non eccentrico, omogeneo), sintetizzabi-
le in un’opposizione più generale tra dinamicità del “rosso”, leggero e dotato di
movimento, e staticità del “nero”, in cui tutte queste valorizzazioni risultano ne-
gate. Questa lettura risulta essere molto vicina alla descrizione valutativa dei co-
lori “rosso” e “nero” fatta da Kandinsky (1912) – nero: “morto”, “inerte”,
“chiuso”; rosso: “vivace”, “inquieto”, “senza limiti”. Con una differenza fonda-
mentale, tuttavia, che Thürlemann sottolinea in chiusura del suo saggio:

Kandinsky, nei suoi scritti teorici, ha spesso tentato di descrivere la dimensione si-
gnificante inerente agli elementi primi della pittura. Ma nel suo tentativo di giustifi-
16 LUCIA CORRAIN

cazione ricorreva al linguaggio naturale, e non al linguaggio visivo, del quale preten-
deva di dimostrare l’autonomia. Nella sua risposta a Kandinsky, Klee ha scelto un’al-
tra via, la sola veramente adeguata: ha chiesto alla pittura stessa di dimostrare la sua
indipendenza semiotica.

La dimensione del colore assolve un ruolo determinante anche nell’opera di


Rothko. Jacques Fontanille in Senza titolo… o senza contenuto?, indaga come la
costruzione cromatica agisca passionalmente sull’osservatore, in una serrata a-
nalisi di un dipinto del 1951.
Fontanille procede attraverso la segmentazione della superficie pittorica in
quattro aree, che pur essendo di taglia diversa si caratterizzano per una certa re-
golarità della forma (rettangoli orientati orizzontalmente) e del cromatismo.
L’unità dell’insieme, sotto forma di agglomerazione, è garantita dall’area ocra
che ingloba e unisce le altre tre aree, e viene attestata anche sul piano cromati-
co, grazie a quella che Fontanille definisce una contaminazione ciclica. Ogni a-
rea comprende zone colorate con il tono di un’altra area: ogni area risulta cioè
contaminata dal tono di un’altra area. Questa ricorrenza dei toni, declinata in
vario modo (contaminazione netta o fusa sul bordo, contaminazione della tra-
ma), produce inoltre un effetto di referenza interna, comparabile a quella della
citazione o dell’anafora; le sottoparti contaminate non sono interpretabili come
tali, ma soltanto per la referenza al tono dell’area centrale (referenzializzazione).
Tutti i colori inoltre sembrano derivare dalla stessa base cromatica (mesco-
lanza del colore e del suo complementare), la quale può essere modificata tra-
mite saturazione o desaturazione di uno dei suoi componenti o dell’insieme; il
risultato, poi, può essere illuminato o oscurato, dove la luminosità svolge un’a-
zione a detrimento dei cromatismi.
I contrasti tra le differenti aree possono essere formulati come delle “velo-
cità di transizione” variabili. Il passaggio da un’area all’altra può risultare, infat-
ti, accelerato o rallentato, e ciò è da mettere in relazione alle loro differenti
morfologie cromatiche, che determinano differenze di potenziale tra le aree
stesse. La velocità di transizione sarà tanto più elevata, quanto maggiore è la
differenza di potenziale. Con l’espressione velocità di transizione Fontanille ha,
quindi, introdotto il tempo nello spazio pittorico, a indicare, in questo modo, i
percorsi che portano da un cromatismo all’altro.
Davanti a questo quadro l’osservatore è alla ricerca del senso, ricerca da in-
tendersi come “strategia di messa in coerenza”. Una coerenza che non trova re-
stando su un unico piano, da cui il suo ricorrere alla stratificazione del quadro.
Occorre qui distinguere tra strati e piani, i primi da collocare sulla planarità (te-
stura), i secondi sulla terza dimensione (profondità), una differenziazione resa
possibile dalle differenti configurazioni della luce. L’osservatore si trova di fron-
te a una collusione tra piani e strati. Il sistema degli strati non impone allo spa-
zio alcuna omogeneità, anzi destabilizza in alcuni casi la costruzione dei piani.
Nel processo di costruzione del senso, l’osservatore-enunciatario si trova di
fronte a zone di congruenza e a zone di incongruenza, che lo portano a instau-
rare un rapporto “conflittuale” con il dipinto. Si può parlare di una “imperfe-
zione irriducibile” dell’oggetto estetico, per cui l’emozione estetica non può es-
sere ridotta a una semplice percezione o gioco di inferenze. In questa insoddi-
sfazione l’osservatore è condotto a riconoscere l’intenzionalità del visibile: l’ef-
INTRODUZIONE 17

fetto estetico e passionale nascerebbe cioè da questo intervallo di incertezza, da


questa credenza fallibile dello spettatore che ne farebbe un soggetto appassiona-
to, inquieto ed esitante.
Il dipinto costruisce un soggetto di cui viene mostrato nell’analisi il divenire
passionale, il passaggio cioè da uno stato di inquietudine a una stabilizzazione
forica, a una sorta di distensione, garantita dall’area nera, l’area cromatica con
potenziale dinamico più debole.
Nell’opera di Bacon l’organizzazione plastica si può dire prevalga su quella
figurativa, in quanto partecipa sempre attivamente alla significazione, in parti-
colare il colore. Il saggio di Gilles Deleuze Nota sul colore in Francis Bacon, che
non a caso concludeva, in Logica della sensazione, il suo percorso di analisi del-
la produzione del pittore inglese, ne illustra tutta la centralità.
Nei quadri di Bacon è sempre presente l’opposizione tra due differenti mo-
dalità di stesura del colore: toni puri (campiture à plat) e toni spezzati (testura e-
vidente), i quali veicolano distinti effetti temporali.
I tre elementi costitutivi della pittura di Bacon, l’armatura o struttura, la Fi-
gura e il contorno, convergono tutti e tre verso il colore. In Figure standing at
washbasin, ad esempio, possiamo distinguere i toni spezzati delle Figure (una
colata di toni ocra, rossi e blu), i toni puri dell’armatura (la grande plaga ocra
del fondo) e il bianco, il porpora, il nero dei contorni.
La campitura raggiunge la sua massima purezza cromatica quando non è
sezionata, interrotta, né limitata; in queste condizioni il quadro diventa aereo
e raggiunge il massimo di luce “come all’eternità di un tempo monocromo,
‘Cromocronia’”. La carne delle Figure, invece, è formata da toni che si oppon-
gono in tre diversi modi alle plaghe dello sfondo: in quanto spezzato, il tono
si oppone al tono uguale, puro e intero; in quanto impastato, il tono si oppo-
ne alla stesura uniforme; in quanto policromo si oppone alla monocromia del-
la campitura. Questa colata di toni spezzati modella il corpo delle Figure, ac-
cedendo “a un regime differente da quello precedente”. Essa traccia, come
dice Deleuze, le “variazioni millimetriche del corpo”, che rinviano a un conte-
nuto del tempo; le plaghe monocrome raggiungono invece a una sorta di eter-
nità che rinvia alla forma del tempo.
Se nella plaga monocroma si poteva parlare di un colore-struttura, per le Fi-
gure occorre parlare di un colore-forza: ogni dominante, ogni tono spezzato
rinvia infatti all’esercizio di una forza sulle zone corrispondenti del corpo o del-
la testa. Il tono spezzato contribuisce, dunque, a rendere visibile una forza.
Il contorno presenta il potere di moltiplicarsi: un contorno grande circonda
un contorno medio, che a sua volta può circondarne uno piccolo. Il colore, nel
caso del contorno, sembra essere subordinato alla linea chiusa, ma in realtà,
non è sottomesso a essa o lo è solo in apparenza. È la linea a derivare dal colo-
re; è il colore a fungere contemporaneamente da linea e contorno: “si direbbe
un regime decorativo del colore”.
Quando si parla di colorismo si intenderà, quindi, per Deleuze, non solo la
modulazione dei rapporti caldo/freddo, espansione/concentrazione, ma anche
la modulazione tra questi differenti regimi di colori, gli accordi fra toni spezzati
e toni puri. Tali regimi di colore e i loro rapporti costituiscono quella che De-
leuze chiama visione aptica, ovvero una funzione tattile-ottica del colore, o me-
glio di un tatto propriamente visivo, un senso aptico della vista. L’opera di Ba-
18 LUCIA CORRAIN

con determina, quindi, grazie alla sua dimensione cromatica, un nuovo rappor-
to con l’osservatore, per cui quest’ultimo viene convocato non solo attraverso
un vedere, ma anche attraverso l’evocazione di un’esperienza tattile: si tratta di
un occhio che procede in modo simile al tatto.
Boris Uspenskij nel saggio “Destra” e “sinistra” nella raffigurazione delle ico-
ne offre un importante contributo alla problematica dei punti di vista. Nel
prendere in esame un tipo particolare di rappresentazione figurativa, l’icona
russa, individua una posizione visuale interna, ossia il punto di vista di un osser-
vatore pensato come interno allo spazio rappresentato – in alcuni casi coinci-
dente con la posizione della figura centrale della rappresentazione –, che si con-
trappone al punto di vista di un osservatore esterno.
Questo punto di vista interno determina un’inversione della categoria destra
vs sinistra, per cui i valori o i soggetti positivi o gerarchicamente superiori si
trovano rappresentati nella parte sinistra del dipinto, e quelli negativi o gerar-
chicamente inferiori a destra. Inversione che comporta un rovesciamento del
mondo rappresentato rispetto a quello prevalente nel mondo occidentale.
La categoria destra vs sinistra, inoltre, in questo particolare micro-universo
culturale, si rivela importante nel veicolare effetti temporali (presente/futuro),
ma anche effetti spaziali (davanti/dietro), in quanto anche l’anteriorità e la po-
steriorità sono in questo caso concepiti in relazione al punto di vista interno.
L’orientamento secondo una posizione visuale interna non è una peculiarità
dell’arte dell’icona russa e bizantina, ma in certo senso di tutta l’arte pre-rina-
scimentale e non solo, come attesta l’interessante studio, sempre di Uspenskij
(2001), dedicato alla pala di Gand di van Eyck, dove l’opposizione tra la posi-
zione visuale interna e la posizione visuale esterna – che rinvia a due differenti
sistemi rappresentativi, quello rinascimentale (fondato sulla finestra aperta) e
quello pre-rinascimentale – serve a veicolare l’opposizione, sul piano del conte-
nuto, tra sfera divina e sfera terrena.
Il mondo oggetto di Roland Barthes, del 1953, è uno scritto dedicato alla pit-
tura olandese del secolo d’oro. Dopo aver passato in rassegna i vari generi ed e-
numerato pressoché tutti gli oggetti che costellano le tele dei grandi maestri o-
landesi – dove l’oggetto sembra presentare allo spettatore “la sua funzione d’u-
so, non la sua forma primaria”, non un suo stato generico, ma solo i suoi “stati
qualificati” – l’attenzione di Barthes si concentra sulla rappresentazione delle fi-
gure umane, in particolare sull’homo patricius. E precisamente sul genere, tanto
in voga tra Cinquecento e Seicento, dei Doelen o Corporazioni, “talmente nu-
merosi da far subodorare il mito”. Ritratti di gruppo (di personaggi apparte-
nenti all’una o all’altra corporazione) con una caratteristica assoluta e sempre u-
guale, che parallelamente costituisce la differenza sostanziale dalla restante ri-
trattistica europea: lo sguardo. Se nel ritratto del Dio, dell’Imperatore o del Re
il numen era costituito dal gesto, che ne manifestava l’imperio sul destino uma-
no, “in questi quadri il numen è proprio lo sguardo, uno sguardo che turba, in-
timidisce e fa dell’uomo il termine ultimo di un problema”. E lo sguardo, ovvia-
mente, rimanda all’enunciazione, ne è anzi uno dei principali indicatori visivi.
Un gruppo di personaggi che comunicano fra loro con gesti e atti, ma guardano
sempre in faccia lo spettatore fa sì infatti che l’osservatore sia quanto mai attua-
lizzato, presentificato, sia la figura con la quale si instaura un dialogo scopico,
una relazione di intersoggettività. Se in un ritratto singolo lo sguardo in macchi-
INTRODUZIONE 19

na costituisce una rottura che segnala l’intrusione dell’enunciazione nell’enun-


ciato, ancor più forte e marcata sarà questa condizione nella totale quantità di
sguardi del quadro verso l’osservatore.
Altro genere pittorico che articola il suo senso principalmente intorno al-
la dimensione enunciativa è quello per eccellenza non narrativo della natura
morta, indagato nel saggio “La vita profonda delle nature morte”. Nella messa
in scena dell’enunciazione svolge in questo caso un ruolo fondamentale la
spazialità, poiché contribuisce a determinare un tipo particolare di coinvolgi-
mento ricettivo. Nella natura morta l’osservatore viene infatti chiamato dal-
l’opera stessa ad assumere una specifica posizione topologica, una posizione
virtualmente “ravvicinata”.
Lo spazio della natura morta nega la profondità in nome di un aggetto, ov-
vero di una proiezione in avanti degli oggetti che compongono la mise en scène,
oggetti che trovano posto su una diversità di piani di appoggio: mensole, suolo,
pavimento, balaustra, scaffali di mobili o che si trovano sospesi a un muro o a
un soffitto con ganci e fili. Si ha cioè una rappresentazione dell’al di qua della
superficie pittorica che mette l’osservatore in una condizione di “presenza”. Gli
oggetti sembrano oltrepassare la frontiera estetica dell’opera, creando un senso
di invasione, di penetrazione nello spazio intimo dello spettatore.
La nicchia, che costituisce un elemento fondativo della natura morta, contri-
buisce ad autonomizzarla, ma favorisce, con il suo spazio “corto”, anche l’effet-
to di aggetto, e quindi questa forma di intrusione degli oggetti nello spazio del-
l’osservatore, esterno al quadro.
Tra i modi di inclusione dell’osservatore all’interno del genere natura morta
ritroviamo anche quelli che sfruttano una veduta zenitale, ovvero una rappre-
sentazione degli oggetti visti dall’alto. Anche questa strategia è in grado di ge-
nerare nell’osservatore un effetto di presenza, di una sua possibile iscrizione
nella rappresentazione. Ma il culmine della componente enunciativa nell’ambi-
to della natura morta è rappresentato dal trompe-l’œil, nel quale l’effetto di pre-
senza da parte del soggetto osservante è reso possibile dal rapporto di completa
omologia che si viene a determinare tra spazio dell’enunciato e spazio dell’e-
nunciazione, tra lo spazio interno dell’opera e lo spazio esterno.
La natura morta si caratterizza, inoltre, per un certo inquadramento e isola-
mento topologico dei suoi componenti, in modo da metterne in evidenza il rela-
tivo significante plastico, ovvero le loro qualità cromatiche e eidetiche: “La pa-
radigmatica degli oggetti libera le qualità di forme e di tinte che si dispongono
poeticamente e comunicano così un senso altro, enigmatico ma propriamente
visivo, rispetto all’evidenza linguisticamente riconoscibile”. La retorica testuale
delle nature morte va infatti ben oltre la figura dell’ipotiposi, la rappresentazio-
ne vivida nel trattamento degli oggetti. Il senso della natura morta non si riduce
a un vocabolario di motivi (i frutti, i fiori, i cibi, i libri, il teschio, la clessidra…),
ma risiede nei rapporti sottili che si tessono nello spazio della rappresentazione
attraverso una combinatoria, apparentemente limitata e ricorsiva, di motivi e di
relazioni.
Nel corso della sua storia, la natura morta ha instaurato talvolta interazioni
con l’altro da sé, ad esempio con il paesaggio, anche se i due generi si struttura-
no su due figure metapittoriche diametralmente opposte: la nicchia e la finestra.
Ma ha anche travalicato l’ambito specifico del linguaggio pittorico: la breve a-
20 LUCIA CORRAIN

nalisi del brano tratto da Perec, mettendo a confronto testo letterario e testo
pittorico, mostra come la natura morta letteraria segua anch’essa le dinamiche
proprie della natura morta pittorica.
In Evaporazione e/o centralizzazione. Gli (auto)ritratti di Manet e Degas, Vic-
tor I. Stoichita si propone di interrogare le opere dei due maestri dell’impres-
sionismo per ricostruire, a partire dai loro autoritratti e dai ritratti che recipro-
camente fecero uno dell’altro, le loro concezioni assai distanti, quasi incompati-
bili, dell’arte, e in particolare dell’arte “moderna”. Attraverso una ricognizione
delle tracce dell’enunciazione e delle figure dell’enunciazione enunciata presen-
ti nei testi, l’autore ricostruisce quindi, non a partire dai loro scritti teorici, ma
dalle opere stesse, un metadiscorso che i due artisti svolgono esclusivamente at-
traverso i mezzi specifici della pittura, in cui dipinti e disegni diventano le bat-
tute di un incessante e appassionante dialogo.
I luoghi privilegiati in cui il quadro ci parla della teoria immanente alla pro-
pria rappresentazione, e che Stoichita passa in rassegna studiando la produzio-
ne di Manet e Degas, sono innanzitutto l’autoritratto, oggetto paradossale e me-
tapittorico per eccellenza che mette in scena esplicitamente il tema del fare, e la
firma, ma anche lo “sguardo dal quadro”, che svela la presenza invisibile del
pittore/spettatore, o la scelta del punto di vista, così come le diverse procedure
di incorniciamento e di inquadratura e, più in generale, di trattamento dei bor-
di dell’immagine, che qualificano differentemente la “soglia estetica” e dunque
il rapporto tra spazio del quadro e spazio dell’osservatore.
Vediamo quindi opporsi la centralità dell’istanza-autore “Manet” – che si
proietta, tramite l’autoritratto, come presenza endotopica dentro l’immagine –
alla presenza quasi sempre tematizzata come esotopica – ossia “nascosta” e invi-
sibile, anche se suggerita dal punto di vista e dall’inquadratura – dell’istanza-au-
tore “Degas”. Un’opposizione confermata dalle diverse modalità con cui viene
collocata rispettivamente la firma: perlopiù dentro l’immagine, e non su di essa,
in Manet; sul margine inferiore dell’opera, o su soglie immaginarie o inquadra-
ture di porte che raddoppiano i margini del dipinto, in Degas. E che viene riba-
dita, infine, dal diverso rapporto con la rappresentazione creato dagli sguardi
dei personaggi ritratti: in Manet esiste, infatti, quasi sempre un contatto ottico
tra personaggio e pittore/spettatore, mentre gli sguardi tutti interni all’enuncia-
to dei personaggi di Degas fanno del pittore e dello spettatore un voyeur: qual-
cuno vede senza essere visto, osserva senza essere osservato.
Se Stoichita parla di dialogo, tuttavia, è perché i due artisti non si limitano
a contrapporre, ciascuno rispetto all’altro, la propria antitetica visione. L’au-
tore illustra numerosi casi in cui, attraverso la ripresa di temi, inquadrature,
punti di vista tipici dell’altro pittore, ciascuno dei due reinterpreta, e nello
stesso tempo glossa, le scelte pittoriche dell’altro, come quando, ad esempio,
Manet riprende il tema degasiano delle donne intente a far toeletta, e signifi-
cativamente gira però la testa della modella verso lo spettatore e firma nel
cuore stesso della rappresentazione; o quando Degas riprende il motivo dello
“sguardo in macchina” tipico di Manet, nella serie di ritratti della donna con
binocolo, velando e al contempo esasperando questo sguardo dietro le dimen-
sioni esagerate dello strumento.
Il metadiscorso che i due artisti sviluppano, in questo “botta e risposta” pit-
torico, non ha quindi come oggetto solo la propria ma anche l’altrui concezione
INTRODUZIONE 21

artistica: l’“evaporizzazione” in Degas, la “centralizzazione” dell’io in Manet,


del “pittore della vita moderna”.
Come si è visto, la frontalità del personaggio dipinto, che interpella diretta-
mente l’osservatore, costituisce uno dei mezzi più efficaci della pittura per iscri-
vere nel testo l’intersoggettività. L’opposizione frontalità/profilo si configura in
effetti come il più immediato equivalente visivo del sistema pronominale della
lingua, il cui dispositivo enunciativo si fonda sull’opposizione tra la relazione
personale “io-tu” e la non-persona, “egli”. Il lavoro di Meyer Schapiro L’oggetto
personale come soggetto di natura morta. A proposito delle osservazioni di Hei-
degger su van Gogh, in cui l’autore riprende e ricusa le impressioni personali di
Heidegger relativamente all’essenza di un paio di scarpe dipinte da van Gogh,
ci consente di ritrovare e riutilizzare quest’opposizione profilo/frontalità non
più solo nell’ambito della rappresentazione figurativa antropomorfa, ma anche
in quello della raffigurazione degli oggetti.
Come fa notare Schapiro, le scarpe di van Gogh con la loro frontalità chia-
mano in causa direttamente l’osservatore, stabilendo con lui un rapporto io-
tu, specie se confrontate alle scarpe di profilo di Millet. Queste scarpe sono
quindi dotate di una “faccia”, guardano l’osservatore, consentendo di recupe-
rare la dimensione dell’io-enunciatore. Il motivo delle scarpe vecchie di van
Gogh assume così la qualità di un autoritratto, diventa una sorta di apostrofe
intersoggettiva.
Heidegger definiva queste scarpe dipinte come le scarpe di una contadina e
le metteva in relazione con il mondo del lavoro: una sorta di evocazione del
mondo vissuto dal contadino. Schapiro, a partire dalla loro configurazione spe-
cifica, le considera nella relazione che esse instaurano con il pittore: van Gogh
ha dipinto le proprie scarpe. Heidegger avrebbe in definitiva trascurato la pre-
senza dell’artista nell’opera, così come ha trascurato “l’accordo intimo delle to-
nalità, delle forme, della resa della pennellata nell’opera d’arte stessa”.
Risulta alquanto evidente, a conferma di quest’ipotesi interpretativa, la diffe-
renza tra gli zoccoli da contadino dipinti da van Gogh, rappresentati con la le-
vigatezza e la nitidezza degli altri oggetti poggiati sul tavolo, e le scarpe vecchie
dell’opera presa in esame: scarpe isolate, poggiate al suolo, che ci guardano. Es-
se appaiono consunte, logore, presentano l’aspetto di quelle scarpe che hanno
subito l’usura del tempo.
Quando Hamsun in un brano tratto dal suo romanzo Fame, descrive l’aspet-
to di un paio di scarpe, scopre la loro espressione, la loro fisionomia: “Un po’
della mia natura si era comunicata a quelle scarpe: esse mi impressionavano co-
me fossero state un’ombra del mio io, una parte viva di me stesso”; scarpe “e-
sperite o patite da chi le porta o le contempla”. Analogamente le scarpe di van
Gogh mostrano “la tensione del movimento, le tracce della fatica, della fretta e
della pesantezza: il peso dell’intero corpo che tocca il suolo con la sua base
d’appoggio”.
Con questo dipinto van Gogh mette in scena un oggetto personale, vissuto
dall’artista stesso, una parte di se stesso. Scarpe che grazie alla loro “faccia” in-
terpellano l’osservatore, così come, prima ancora, hanno interpellato l’autore
stesso, che in esse si è potuto osservare come in uno specchio.
Anche il saggio di Louis Marin, Lo spazio Pollock, si interroga intorno al ruo-
lo, alla posizione dell’osservatore di fronte al quadro, in questo caso astratto. Si
22 LUCIA CORRAIN

tratta di una serie di riflessioni che hanno per oggetto lo spazio del quadro di
Pollock, declinabile in spazio del riguardante, spazio del quadro, spazio della pittu-
ra, tre spazi che i dipinti di Pollock “interrogano, distruggono e costruiscono”.
Lo spazio del riguardante è uno spazio che sta attorno al quadro, che lo “av-
volge a partire da una posizione, occhi, testa, corpo, a volte immobile, a volte in
movimento, con tutte le variazioni possibili e tutte le stasi successive di un per-
corso determinato, uno spazio che si interrompe sui bordi del quadro, sul muro
su cui il quadro è appeso”. Spazio del riguardante, come “dialettica dinamica o
tra posizione e percorso”: il soggetto osservante “è incapace di trovare un luogo
per il proprio sguardo”. Incapacità, dunque di trovare una posizione di osserva-
zione: “l’unica collocazione possibile è l’essere costantemente fuori luogo”.
Nelle opere di Pollock manca uno spazio strutturato prospetticamente: si assi-
ste infatti alla sostituzione della focalizzazione centrale con una moltiplicazione
dei centri, e al venir meno dell’opposizione profondità/superficie grazie a una
“distribuzione relativamente uniforme degli elementi cromatici sull’intero qua-
dro (all-over)”. Lo sguardo dell’osservatore davanti all’opera si trova così priva-
to di un luogo proprio, “senza che l’evidenza di un motivo o la forza di un ef-
fetto gli impongano una collocazione o una direzione nella quale muoversi”, in
una “posizione u-topica”: in uno stato di non-luogo, senza tuttavia essere real-
mente in movimento.
Si viene a determinare un nuovo rapporto tra il testo visivo e il riguardante,
così come si era determinato un nuovo rapporto tra il testo visivo e il pittore (le
grandi tele sono realizzate da Pollock con colate e sgocciolature, appoggiandole
sul pavimento, con l’enunciatore che si muove intorno a esse); questo nuovo
rapporto non consente allo spettatore di adottare la medesima posizione che il
dispositivo rappresentativo gli aveva sempre assegnato, ossia una precisa distan-
za dal quadro, un punto di vista determinato, e nemmeno la doppia lettura da
vicino e da lontano che gli suggeriva, ad esempio, il quadro impressionista: “lo
spettatore è abbandonato all’utopia di un ritmo tra testura e struttura”.
Lo spazio Pollock può essere inteso anche come spazio del quadro. Il quadro
è innanzitutto una tela (ma potrebbe essere anche carta, compensato, legno) che
presenta forme determinate. Tale tela è “il veicolo di ciò che viene mostrato”.
Questo veicolo-supporto, coincide (una coincidenza che come Marin sottolinea,
non sempre si verifica) con il piano del quadro, in quanto entità geometrica, a-
stratta e immateriale. L’autore fa interessanti e pertinenti riflessioni sui rapporti
tra i bordi – “luoghi ambigui dove lo spazio di creazione (del pittore) e di pre-
sentazione (del riguardante) confina con quello, autonomo, della pittura e si arti-
cola con esso” – e i limiti del quadro, che gli consentono di far emergere la no-
vità strutturale introdotta da Pollock rispetto al quadro classico – nel quale i
quattro bordi del quadro sono eterogenei – con il cosiddetto bord à bord.
Lo spazio Pollock è anche lo spazio della pittura, lo spazio cioè che si trova
nel quadro, che colori e linee grazie alle loro configurazioni e intrecci si incari-
cano di far apparire: è lo spazio “tra piano e tela, tra bordi e limiti”, che si col-
loca tra il supporto materiale e l’entità geometrica astratta del piano.
Nel tradizionale sistema rappresentativo la tela viene celata in profondità
e il piano del quadro assunto come superficie trasparente. Scopo, obiettivo
dell’arte contemporanea è quello di riconquistare sia la tela che il piano e di
dare visibilità al loro gioco, al loro rapporto. E ciò si è rivelato in particolare
INTRODUZIONE 23

l’obiettivo di Pollock: far emergere la tela e rendere visibile quel piano, che
fino ad allora era rimasto perlopiù una “finestra diafana aperta su quel mon-
do di apparenze”.
Egli raggiungerà questo obiettivo con i suoi dripping: i reticoli generati dalle co-
late filiformi del colore e gli arabeschi determinati dalle sgocciolature si situano tra
la tela e il piano, in uno spazio ridotto che Marin definisce “bassofondo”. La linea
si trasforma in traccia: prodotta dal colore versato a filo sulla tela, essa non è più il
bordo di un piano, non serve cioè né a circoscrivere un piano, né a circoscrivere
un volume. Questa linea si espande lateralmente, si allarga in escrescenze, è

un’impronta lasciata da un passaggio sulla tela (…) un’impronta paradossale, poiché


ciò che è accaduto e che ha lasciato traccia del suo passaggio non ha mai toccato la
tela, né direttamente né indirettamente per il tramite di uno strumento, pennellessa,
pennello, spatola o coltello. Solo il liquido che cola, o cade goccia a goccia, tocca la
tela; di fatto non la tocca, vi si espande e vi si deposita come indice di ciò che è pas-
sato, di ciò che è accaduto. La linea di Pollock è la traccia di un evento.

Gli intrecci delle linee rinviano a una determinata temporalità: possono es-
sere letti, infatti, come “sovrapposizione aperta di momenti di pittura”. Si può
parlare, dunque, di una “moltiplicazione spaziale e locale degli incroci di trac-
ce” che rinvia a una “demoltiplicazione temporale, una specie di sommatoria
indefinita di istanti co-presenti nello stesso luogo e nello stesso spazio.
Un altro artista intento a esplicitare il funzionamento del visivo, mettendo
allo scoperto gli elementi costitutivi del quadro, è Giulio Paolini, il cui lavoro
viene indagato da Italo Calvino nel saggio La squadratura. È emblematica in
questo senso la stessa definizione che Calvino dà delle opere del pittore: “mo-
menti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell’oggetto ma-
teriale che è il quadro”, nei quali a essere posta in primo piano è la dimensione
enunciativa delle opere stesse. Calvino quindi, oltre a sottolineare il rapporto
tra l’istanza di produzione dell’opera e il soggetto osservante, mette a fuoco la
dimensione materiale del quadro stesso, il suo essere un oggetto che “ostenta”
le materie di cui è composto: tela, telaio, cavalletto, legno, carta, colori.
L’operazione compiuta da Paolini è infatti quella di mettere davanti agli oc-
chi dello spettatore gli elementi che costituiscono il supporto dell’opera, e che
in genere vengono opportunamente occultati, la tela grezza, la tela nuda, il ro-
vescio del quadro, il suo telaio, per renderci edotti “di come siamo irricono-
scenti noi che abbiamo occhi soltanto per ciò che è portato, la pittura, e non
per ciò che ha il compito di portare: la tela, il suo telaio, il muro che li regge, il
suolo su cui poggia il muro”.
Le opere di Paolini conducono lo spettatore a riflettere anche sulla modalità
classica di visione dei quadri, quella per cui il soggetto osservante si colloca in
una posizione frontale, davanti all’opera, che si situa generalmente all’altezza
dei suoi occhi:

non bisogna dimenticare dunque che il vero luogo della pittura è quella fascia oriz-
zontale che delimita il campo visuale d’una persona in piedi: mettere in evidenza
questa fascia potrebbe diventare l’opera pittorica assoluta. Ma quest’uomo in piedi a
ben vedere non è altri che il signore col soprabito addosso che incontriamo nelle
gallerie d’arte, con lo sguardo rivolto alle pareti. Se il fine ultimo dell’arte è questo,
24 LUCIA CORRAIN

tanto vale che l’opera assoluta riproduca quel signore a grandezza naturale ripetuto
tante volte di faccia e di schiena.

Oltre a indagare il rapporto che si viene a costituire tra quadro e sguardo


dell’osservatore, Paolini si concentra con uguale intensità sul rapporto tra qua-
dro e sguardo dell’autore del quadro stesso:

visto magari attraverso il telaio, mentre guarda una tela che non c’è. L’autore non co-
me soggetto – attenzione! – ma come elemento dell’opera. Non il pittore che dipin-
ge, o che, peggio ancora, dipinge se stesso, ma fotografato mentre solleva la tela,
prende a carico il suo peso, si fa supporto lui stesso.

Nel gioco di sguardi che si instaura tra pittore, spettatore, opera, modello, è
particolarmente interessante il lavoro di Paolini su una riproduzione fotografica di
un ritratto di Lorenzo Lotto, Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Come indica il ti-
tolo, è il soggetto del quadro, l’attore dell’enunciato, a guardare chi ha fatto il qua-
dro stesso, il suo autore, e di conseguenza a guardare anche l’osservatore che ne as-
sume la medesima posizione. Il quadro si dota di occhi, gli occhi del modello, occhi
che fissano chiunque gli si ponga davanti così come fissavano Lotto. L’immagine ri-
mane essenzialmente la stessa, ma la sua sintassi interna è profondamente cambiata.
L’osservatore della riproduzione fotografica è infatti chiamato ad assumere
la medesima posizione di Lotto, a identificarsi con lui, ma secondo declinazioni
differenti:

con Lotto in contemplazione del proprio quadro finito, poi con Lotto in contempla-
zione d’un fantasma della propria mente che vorrebbe riprodurre in un quadro, poi
con Lotto in contemplazione d’un giovane in carne e ossa

ma in quanto il giovane sembra fotografato mentre guarda l’obiettivo, l’os-


servatore attuale tende a identificarsi innanzitutto con l’obiettivo fotografico.
“E tutti questi osservatori, tutti questi Lotti, tutti questi autori si sentono fissati
dalle pupille della fotografia, del quadro, del fantasma, del giovane”, senza pe-
raltro poter mai arrivare a vedere ciò che, si suppone, Lorenzo Lotto vedeva.
L’obiettivo di Floch nel saggio Qual è lo statuto dell’enunciazione nella crea-
zione artistica? La risposta mitologica di Jörg Immendorff, è quello di analizzare,
attraverso un esame comparativo delle opere di Immendorff fondato su un’at-
tenta considerazione delle strutture plastiche o figurative di ognuna di esse, una
trasformazione della concezione e della rappresentazione della creazione artisti-
ca del pittore avvenuta nei primi anni Settanta e protrattasi fino agli anni No-
vanta del Novecento. Una trasformazione che si accompagna a un’evoluzione
dell’organizzazione stessa dello spazio rappresentato nelle sue tele e delle figure
spaziali che vi compaiono.
Le riflessioni di Immendorff sul valore e sul senso della creazione artistica si
sono tradotte in numerose raffigurazioni del pittore intento a dipingere. Il con-
fronto tra due autoritratti del 1973 e 1974 espliciterà i tratti fondamentali di
questo mutamento.
Dall’autoritratto del 1973 a quello del 1974 si assiste a un cambiamento del-
la resa spaziale: da uno spazio senza profondità e aperto sulla strada, a uno spa-
INTRODUZIONE 25

zio in profondità, chiuso, senza aperture verso l’esterno; a un mutamento della


luce: da una luce diffusa, uniforme, che garantiva la leggibilità delle forme, a un
effetto di forte contrasto tra ciò che è illuminato e ciò che sparisce nella penom-
bra. Nel 1973 all’interno dello studio del pittore si ha una irruzione di un mani-
festante; nel 1974 si ha l’immagine di un gruppo di manifestanti appeso al mu-
ro: “il pittore non lavora dunque più a partire dalla ‘realtà’ storica e sociale, ma
a partire da un segno”. Viene abbandonata l’idea di un rapporto diretto, di una
connessione tra creazione artistica e Storia:

la relazione del pittore con la Storia non è più interpretata in termini di azione e
di collegamento con quel Soggetto collettivo che i lavoratori incarnano, ma in ter-
mini di produzione di senso a partire dal riutilizzo delle figure di una Storia già
costituita in segni.

Si tratta quindi di un lavoro di selezione e riorganizzazione di materiali se-


miotici, che consiste nel produrre una significazione nuova riutilizzando una
materia prima già significante.
Questo tipo di produzione di senso corrisponde a quel tipo particolare di e-
nunciazione che è il bricolage mitico. L’enunciazione mitica è una maniera brico-
leuse di produrre significazione, di dare senso al senso. Partendo quindi da se-
gni esistenti, il pittore giunge a una struttura al tempo stesso figurativa e plasti-
ca. L’enunciatore presupposto dal discorso pittorico di Immendorff è quindi
proprio un bricoleur: riprende un inventario già più volte fatto e rifatto con-
frontandosi con le possibilità plastiche e semantiche dei vari elementi.
L’articolazione e la messa in relazione degli oggetti (patate, candele, bici-
clette senza ruote,…) e dei personaggi (Brecht, Beuys, Duchamp,…) che co-
stituiscono i materiali eterocliti dell’opera di Immendorff, è garantita dalla
presenza di differenti figure spaziali. Questi spazi contribuiscono a struttura-
re i materiali figurativi eterocliti assemblati dal “bricolage” del pittore, tratti
dalla Storia culturale e politica europea. D’altra parte, la selezione e l’impie-
go di figure della Storia veicolano un discorso più profondo di quello politi-
co-culturale immediatamente leggibile: un discorso sul fondamento assiologi-
co della creazione artistica, sulle forze antagoniste della vita e della morte
dello spirito che essa mette in gioco.
Il rapporto tra la creazione e l’autore della creazione si riflette anche sul
rapporto tra la creazione e il destinatario della creazione. Per Immendorff,
anche

l’enunciatario può fare solo un’utilizzazione indiretta di quel segno che è il quadro.
All’utilizzazione indiretta dei segni della piazza e della Storia da parte dell’artista-e-
nunciatore corrisponde, in maniera perfettamente simmetrica, l’utilizzazione indiret-
ta delle ‘formule’ dell’artista da parte dell’enunciatario collettivo.

La nuova concezione artistica di Immendorff implica anche un rapporto di-


verso tra lo spettatore e la scena rappresentata. Come detto in precedenza, a
partire dal 1974 lo spazio si chiude, diventa più profondo e una forte luce fa e-
mergere dall’oscurità uno o più luoghi della creazione. Una luce responsabile
oltretutto dell’apparizione e scomparsa delle figure:
26 LUCIA CORRAIN

Prospettive fortemente accentuate, contrasti cromatici, la prossimità immediata dei


punti di vista, la dimensione stessa delle opere, tutto è fatto per impedire che si crei
fra il quadro e l’enunciatario una distanza che possa concedere a quest’ultimo una
certa sicurezza e tranquillità. Chi guarda un’opera di Immendorff viene risucchiato
dall’opera stessa e proiettato nel suo universo.

Questa raccolta deve moltissimo a Paolo Fabbri, non solo per il costante in-
coraggiamento che ne ha accompagnato l’elaborazione. Semiotiche della pittura
– che viene data alle stampe dopo il trasferimento di Fabbri all’Università di
Venezia – è, infatti, uno dei risultati della collaborazione che ha caratterizzato il
lungo periodo in cui abbiamo lavorato fianco a fianco al dipartimento delle Ar-
ti Visive dell’Università di Bologna. Una collaborazione così rara in ambito uni-
versitario che, senza retorica, può essere definita eccezionale, e di cui sento for-
temente la mancanza.
Alle mie “storiche” collaboratrici, Elisabetta Gigante e Anita Macauda, il
mio più caloroso ringraziamento per la dedizione e la cura con cui hanno messo
a punto l’apparato iconografico, la revisione dei testi e molto altro ancora...
La doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia planare.
A proposito di Loth e le figlie1
Felix Thürlemann

1. La problematica2

Lo scopo di questo studio è quello di fornire alcune precisazioni sul concet-


to di spazialità e sul ruolo che esso assume nel modello generativo greimasiano,
simulacro del processo di produzione della significazione.
All’interno del percorso generativo il concetto di spazializzazione costituisce,
con la temporalizzazione e l’attorializzazione, una delle tre componenti della di- Il concetto di
scorsivizzazione. Secondo il Dizionario di Greimas e Courtés (1979, p. 342), “la spazializzazione
spazializzazione (...) in primo luogo, comporta delle procedure di localizzazione
spaziale” che servono ad “applicare sul discorso-enunciato una organizzazione spa-
ziale più o meno autonoma che serve da cornice per l’iscrizione dei programmi nar-
rativi e delle loro concatenazioni”. Inoltre, nel Dizionario la “figurativizzazione”
viene definita come l’introduzione di antroponimi, di toponimi e di crononimi,
“capace di conferire al testo il grado desiderato di riproduzione del reale” (p. 143).
Secondo queste definizioni, nel discorso, il successivo investimento delle
strutture di spazializzazione (parallelamente a quelle di attorializzazione e di
temporalizzazione) contribuisce a conferirgli un carattere sempre più figurativo
per arrivare finalmente a produrre l’illusione referenziale. Nel modello greima-
siano, dunque, il concetto di spazializzazione sembra legato ai problemi di si-
mulazione del mondo naturale da parte del testo; problemi che nel campo della
semiotica planare sono comunemente trattati sotto il termine di prospettiva.
Il lavoro concreto sui testi plastici ci ha portato a riflettere su un altro modo
di manifestazione della spazialità, non compreso nel concetto di “spazializzazio-
ne” messo a punto dalla teoria greimasiana, in quanto indipendente dalla cate-
goria figurativo/astratto. Designeremo, precisandolo meglio in seguito, quest’al-
tro tipo di spazialità con il termine di topologia planare.
Utilizzando il concetto di topologia, facciamo riferimento a quei fenomeni di
spazializzazione che si incontrano ogni volta che un testo (in senso lato) viene
manifestato nello spazio attraverso una materia sensibile (ci limiteremo in que- La topologia
sto caso per ragioni di semplicità alle sole materie percepite con il senso della planare
vista). Una delle tesi fondamentali della teoria greimasiana consiste nell’affer-
mare che il percorso generativo può essere interrotto in qualsiasi momento del
processo di produzione; così, possono essere manifestati sia testi astratti sia fi-
gurativi. Se si accetta questa tesi, si è costretti a concepire dei fenomeni di spa-
zializzazione che si situano al di fuori dell’opposizione astratto/figurativo, poi-
ché nello spazio planare si possono manifestare, indifferentemente, tanto la for-
mula matematica astratta quanto il paesaggio dipinto che simula uno spazio che
30 FELIX THÜRLEMANN

si perde all’infinito. Questi fenomeni di spazializzazione, estranei al problema


della figuratività, saranno indicati con il termine di “topologia planare”.
Si comprende l’utilità di una distinzione fra le due concezioni della spazialità:
spazio simulato e topologia planare, quando ci si occupa di opere dette “figurati-
ve”. Queste possono sempre essere sottoposte a una doppia lettura spaziale: o-
Lo spazio
simulato
gni figura dipinta occupa due “posizioni”: una nello spazio simulato, l’altra al-
e la topologia l’interno della superficie piana del quadro. Spesso, questa doppia articolazione
planare spaziale delle figure è pertinente per la costituzione della significazione, come ad
esempio nel caso dell’opera che abbiamo scelto come oggetto di analisi.
L’opera, un quadro anonimo della scuola di Anversa dell’inizio del XVI seco-
lo, che illustra la storia di Loth e le figlie, è stato studiato da Bätschmann (1981)
in un importante saggio di ispirazione ermeneutica, nel quale veniva già eviden-
ziata la possibilità di questa doppia lettura spaziale: aspetto che qui sviluppere-
mo nella prospettiva della teoria generativa del discorso.

2. “Loth e le figlie”

2.1. Lettura figurativa del testo pittorico: lo spazio simulato


Il dipinto del Louvre, Loth e le figlie3 (tav. I) simula uno spazio coerente cor-
rispondente a una veduta su una parte di mondo naturale. Nello spazio in pri-
mo piano si trovano le figure di Loth e delle figlie; mentre Loth abbraccia una
delle figlie (la maggiore?), l’altra (la minore?) è impegnata a versare del vino in
una brocca: una scena che mostra i preparativi dell’incesto. Nello sfondo, sulla
destra, una città (Sodoma) distrutta dal fuoco che cade dal cielo.
Esaminato da vicino, il quadro, sebbene caratterizzato da un denso investimen-
La spazialità,
la temporalità to figurativo, evidenzia parallelamente alcune trasgressioni alle leggi della verosimi-
e gli attori glianza. Per rendere conto del racconto biblico in tutta la sua complessità (Genesi
13, 10), soltanto la componente della spazialità mantiene una certa coerenza. A li-
vello della temporalità, due momenti successivi del racconto, distruzione della città
con fuga della famiglia di Loth e incesto, sono presenti simultaneamente. Per quel-
lo che concerne il livello attoriale, il quadro, combinando i due schemi iconografi-
ci tradizionali, la fuga e l’incesto, mostra quelli che saranno gli attori dell’incesto
(Loth e le due figlie) una prima volta, minuscoli, in testa al corteo dei fuggitivi, se-
guiti da un asino e – più arretrata – la moglie di Loth che si è voltata verso la città,
nel preciso momento in cui viene trasformata in una statua di sale4.

2.2. Articolazione topologica globale del testo pittorico


Ipotesi euristica: se i primi tre attori del corteo dei fuggitivi sono ripresi, in-
granditi, all’interno della stessa superficie pittorica, ci si può domandare se non
possa esistere anche un’iterazione delle figure dell’asino e della moglie di Loth.
Non si riconosce nella configurazione della roccia situata al di sopra del tun-
nel che attraversa la montagna, una testa vista di profilo con cappuccio? La per-
tinenza del rapporto di questa configurazione antropomorfa con il personaggio
sullo sfondo è assicurata dal fatto che la testa rocciosa è orientata nella direzio-
ne della città in distruzione. Quanto all’asino, questo è ripreso nello scheletro a-
nimale in prossimità del bordo inferiore della tela: riconducibile allo scheletro
di un animale appartenente alla famiglia degli equini.
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 31

Queste messe in rapporto istituiscono una rete relazionale al di fuori di o-


gni verosimile coerenza figurativa e logica narrativa (così, lo “stesso” asino
difficilmente può essere presente nella medesima scena sia vivente sia in for-
ma di carcassa).
È allora interessante constatare che le figure che riprendono gli attori e il
gruppo di attori della fuga sono distribuite regolarmente sulla superficie pittori-
ca secondo la doppia categoria tassonomica della verticalità/orizzontalità: “testa
di donna” – alto/sinistra, “Loth e le figlie” – basso/sinistra, “scheletro animale” La distribuzione
– basso/destra. Se si aggiunge la rappresentazione della “città distrutta” degli attori
sulla superficie
(alto/destra), si ottiene una rete regolare di quattro zone, ciascuna delle quali è pittorica
doppiamente definita: tanto per la sua posizione all’interno della superficie pla-
nare quanto per una certa coerenza figurativa. A una prima lettura, secondo le
leggi di una figuratività illusiva (più o meno coerente), se ne sovrappone un’al-
tra, del tutto nuova, che risulta dalla comprensione planare dello spazio.
D’altra parte, degli indici figurativi sottolineano questa partizione: un albero
divide la superficie in due parti, sinistra e destra, mentre l’asse orizzontale è
marcato dalla linea dell’orizzonte e dal tetto della prima tenda. Ma a questa
partizione secondo le categorie dell’orizzontalità e della verticalità se ne aggiun-
ge un’altra: una diagonale, orientata nella direzione alto/sinistra – basso/destra,
divide obliquamente la superficie. Questa nuova partizione, tuttavia, non con-
traddice la prima. Proiettata sulla prima, essa istituisce un doppio accoppia-
mento fra le quattro zone della superficie che supera le categorie dell’orizzonta-
lità e della verticalità: in quanto asse di supporto, la diagonale mette in rappor-
to le zone alto/sinistra e basso/destra; in quanto asse di simmetria, stabilisce u-
na correlazione fra le zone basso/sinistra e alto/destra.
Le figure e le azioni manifestate in ciascuna delle quattro zone tassonomiche
possono essere indicate provvisoriamente, grazie alla loro coerenza semantica
interna, attraverso un semplice concetto di ordine tematico:
32 FELIX THÜRLEMANN

Verrebbe spontaneo organizzare i quattro concetti in questione secondo lo


schema logico del quadrato semiotico investito della categoria esistenziale:

3 vita morte 1

2 non-morte non-vita 4

Ma una tale interpretazione sarebbe, a nostro avviso, riduttiva dal momento


che almeno due categorie fondamentali sembrano essere necessarie per rendere
conto della rappresentazione tematica del racconto appena descritto. In questo
modo si giunge a costituire due coppie di zone, ciascuna delle quali manifesta
un forte rapporto di opposizione logica: 1. distruzione vs 3. generazione; 2.
conservazione vs 4. decomposizione. Ma le due coppie non rivelano una sola
categoria elementare; le zone 1. e 3. riguardano l’esistenza a livello sociale (di-
struzione della razza a causa della sodomia vs mantenimento della razza attra-
verso l’incesto), mentre le zone 2. e 4. riguardano l’esistenza a livello individua-
le (conservazione vs decomposizione del corpo).
Le relazioni fra L’opposizione fra le due zone 1. (distruzione) e 3. (generazione) deve essere
le quattro zone considerata come opposizione di base. Numerosi tratti figurativi e plastici lo se-
gnalano: ciascuna delle due zone 1. e 3., possiede la propria fonte di luce: la zo-
na 1 è rischiarata principalmente dalla discesa di un fuoco (distruttore), la zona
3. da un fuoco (contenuto) che sale; le quali, a loro volta, sono dominate da un
forte contrasto cromatico: giallo/rosso nella 1., rosso/blu nella 3. (notiamo che
la zona 2. manifesta una cromaticità attenuata, il contrasto rosso/blu spento e la
zona 4. la non-cromaticità, il contrasto chiaro/scuro). Vorremmo, a questo pun-
to, sospendere l’analisi e aprire una parentesi che dovrebbe permetterci di pre-
cisare il concetto di topologia planare e di formulare alcune ipotesi sul ruolo se-
miotico della messa in forma topologica di testi a manifestazione plastica.

2.3. Parentesi. Dell’efficacia di certe formule


Prendiamo, come esempio di una formula logico-matematica, la formula di
omologazione, così come è frequentemente impiegata da Lévi-Strauss:
La formula di a : b :: x : y
omologazione

A prima vista, niente parrebbe più arbitrario di una simile formula, che è
quella dell’equazione proporzionale in matematica; bisogna infatti far ricorso
alla tavola dei simboli per apprendere il senso dei segni convenzionali utilizzati
(: = “sta a”; :: = “come…”), mentre le lettere rinviano a unità qualsiasi, ma ben
definite. La formula produce senso solo in virtù di definizioni al di fuori di essa
e la sua utilizzazione sembrerebbe soprattutto dettata da ragioni di ordine prag-
matico (univocità, brevità, proprietà formali che facilitano il calcolo).
Tuttavia, esistono formule, fra cui quella presa ad esempio, che possiedono
una qualità supplementare, denominata dai germanofoni con il termine di An-
schaulichkei, quella cioè di rendere immediatamente evidenti i rapporti logici;
da cui un effetto di senso efficacia. Questo effetto deriva dal fatto che la struttu-
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 33

ra logica propria della formula si riflette nella sua forma plastica; la formula è La codificazione
motivata attraverso una codificazione semi-simbolica tra categorie del contenuto semisimbolica
e categorie plastiche 5.
Nel caso della formula di omologazione sono soprattutto le categorie plasti-
che di ordine topologico quelle che entrano in gioco: il simbolo “::” divide la
formula in due parti, /sinistra/ e /destra/ ciascuna delle quali riprende una se-
conda volta la stessa partizione. Così, risultano delle posizioni equivalenti tra i
termini dei due lati (primi vs secondi posti, posizioni esterne vs posizioni interne
in ciascuna delle parti sinistra e destra); queste proprietà plastiche sono utilizza-
te nei manuali scolastici di matematica per formulare le regole di riscrittura.
Si potrebbero fare delle osservazioni dello stesso tipo per il quadrato semioti-
co, che deve essere considerato come una formula particolarmente efficace, per
il fatto che ciascun tipo di relazione logica (contrarietà, contraddizione, impli-
cazione) corrisponde a un tipo di orientamento nello spazio planare (orizzonta-
lità, obliquità, verticalità)6:

Queste considerazioni sull’efficacia della formula sono destinate a rende-


re espliciti i meccanismi di impiego delle proprietà tassonomiche dello spa-
zio planare, allo scopo di esemplificare quelle operanti in un certo tipo di
pittura “figurativa”. Grazie alla codificazione semisimbolica, questa può a-
vere le stesse caratteristiche della formula “efficace”, con la sola differenza
che la pittura non fa appello a termini univoci, ma a figure; delle quali il let-
tore dovrà costruire una rappresentazione semantica compatibile con tutte
quelle che, attraverso l’organizzazione plastica, sono indicate come apparte-
nenti a una rete semantica coerente (si veda l’esempio delle quattro zone in
Loth e le figlie).
Ritorniamo ora al testo pittorico per analizzare come questo stesso lavoro se-
miotico si manifesti in un dettaglio della superficie pittorica.

2.4. L’articolazione del campo sociale e individuale


Abbiamo visto che era impossibile formulare una sola categoria (vita vs mor-
te) per rendere conto, in un solo schema coerente, dei quattro concetti tematici Individuale vs
raffigurati nelle quattro zone della superficie pittorica. Siamo così costretti a in- collettivo
trodurre una categoria supplementare, individuale vs collettivo, che oppone le
zone 1 e 3 alle zone 2 e 4.
Vorremmo ora studiare più attentamente le relazioni semantiche fra quattro
figure che appartengono alle zone 3 e 4 (fig. 1). Le quattro figure in questione
34 FELIX THÜRLEMANN

Fig. 1. Jan Welles de Cock, Loth e le figlie, 1520 ca., olio su tela, Parigi, Louvre, particolare.

sono distribuite in contiguità e secondo uno schema topologico di forma rom-


boidale7. Il lavoro di articolazione plastica e semantica tra queste quattro figu-
re sembrerebbe avere proprio la precisa funzione di mettere in rapporto i due
ambiti di esistenza, sociale e individuale, manifestati separatamente nelle zone
3 e 4.
Indichiamo ciascuna delle quattro figure (la coppia abbracciata, “Loth e la
figlia”, viene considerata in questo caso come un’unità semplice) con una lette-
ra e denominiamole, provvisoriamente, tramite un sintagma elementare (sostan-
tivo [+ aggettivo]):

A: albero
B: tronco d’albero fradicio
C: coppia abbracciata (Loth e la figlia maggiore)
D: scheletro animale.

Le figure Fra queste quattro figure, le figure C e D occupano una posizione partico-
topiche e le lare per il fatto che possono essere considerate come delle riprese di attori già
figure correlate
manifestati nella minuscola scena dei fuggitivi. Chiamiamole figure topiche.
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 35

Le figure A e B (“albero” e “tronco d’albero fradicio”) denominiamole figure


correlate. In effetti, le due figure A e B sono collegate ciascuna a una delle fi-
gure topiche da un rapporto di similitudine in senso lato: B è, come D, un og-
getto naturale in via di decomposizione, mentre le figure A e C sono collegate
secondo il modo della metafora: nell’iconografia tradizionale, l’albero è spes-
so utilizzato come metafora per designare il concetto di generazione, già ma-
nifestato – l’abbiamo visto – dalla coppia che si prepara all’incesto (cfr. l’albe-
ro di Jesse, gli alberi genealogici)8.
La relazione che più facilmente si instaura è tuttavia quella che unisce le
figure A e B (“albero” e “tronco d’albero fradicio”); un’eco plastica, la linea
serpentina, sottolinea la pertinenza di questo accoppiamento: le due figure
possono essere lette come manifestazioni di due stati di esistenza successivi
dello stesso oggetto (l’“albero”). Siamo così indotti a concepire fra A e B un
rapporto sintagmatico di consecutività e a interpretarlo secondo la categoria
esistenziale:

A. “albero vivente” → B. “tronco d’albero fradicio


stato prima stato dopo
/vita/ /morte/

A questo stadio dell’analisi, in cui le quattro figure sono già collegate da una
rete relazionale forte, lo schema topologico romboidale acquista un valore euri-
stico permettendo di interpretare per analogia il rapporto fra le figure C e D,
che, a prima vista, nulla sembrerebbe collegare. In questo caso, la rete topologi-
ca funziona nella stessa maniera di una formula, la cui struttura logica è quella
dell’omologazione:

A : B :: C : D

Il rapporto narrativo tra le figure correlate (A-B) può, grazie agli accop-
piamenti A/C e B/D, essere proiettato sulle figure topiche (C-D); sebbene,
secondo la logica della figuratività verosimile, nulla leghi le figure C e D, la
condizione della “coppia incestuosa” appare ora come uno stato provvisorio,
che sarà necessariamente seguito dalla posizione /morte/, espressa dallo
“scheletro animale”.
Lo schema che abbiamo messo a punto possiede un forte valore interpretati-
vo per la lettura globale del testo pittorico. Articolando il passaggio fra due fi-
gure topiche che appartengono rispettivamente ai livelli sociali e individuali, la
formula di omologazione permette di collegare due campi semantici che a un
primo stadio dell’analisi non erano correlati.
Contrariamente a quello che accade nel testo biblico, nel dipinto la so-
pravvivenza della razza, la cui esistenza è stata minacciata dalla distruzione Il senso
degli abitanti di Sodoma e Gomorra e dall’eliminazione della moglie di “aggiunto”
Loth, non è più il momento finale del racconto. Sebbene l’esistenza della
razza umana non sia più minacciata, la morte sarà il destino ultimo di cia-
scun individuo. Correggendo il senso del racconto biblico, aggiungendovi
l’opposizione individuo/società, il racconto pittorico termina con un atto
disforico.
36 FELIX THÜRLEMANN

3. In forma di conclusione

Il concetto di spazialità così come impiegato nel modello generativo greima-


siano sembrerebbe rinviare esclusivamente allo spazio simulato. Lo studio del
ruolo delle categorie topologiche ha permesso di precisare un secondo concetto
di spazialità che abbiamo designato con il termine di topologia planare.
Inoltre, abbiamo visto che la struttura tassonomica di certe formule riflette,
grazie all’omologazione semisimbolica, la forma logica che queste sono tenute a
esprimere, conferendole un carattere di “efficacia”. Un identico lavoro semioti-
co può ugualmente manifestarsi in un certo tipo di pittura figurativa, come evi-
La dimensione denzia l’esempio qui analizzato. Il quadro appena analizzato appartiene a un ti-
poetica po di pittura che qualificheremo come poetica. Vi si scopre in effetti una strut-
del visivo
tura semiotica del tutto comparabile a quella che si manifesta nei testi poetici,
dove un’articolazione metrica sovradetermina l’articolazione frastica al servizio
di una messa in forma supplementare del piano del significato.
Ugualmente, nella pittura “poetica”, le figure – simulacri di oggetti del mon-
do naturale, che rivelano inizialmente una coerenza figurativa verosimile – si
trovano riarticolate grazie a una codificazione semisimbolica, che consiste nel
mettere in relazione categorie semantiche e categorie plastiche (topologiche, ei-
detiche e cromatiche). Per questa codificazione semisimbolica, il processo del
percorso generativo, in qualche modo, si trova corto circuitato: il quadro conti-
nua a potersi leggere come la rappresentazione verosimile di una scena narrati-
va, ma rende evidenti, allo stesso tempo, le strutture astratte, l’armatura logica
sulla quale si articola il racconto raffigurato.

Postscriptum 2003

Recentemente, dopo più di vent’anni, sono ritornato sul dipinto del Louvre
in uno studio dedicato al diagramma, pubblicato insieme a Steffen Bogen (Bo-
La strategia gen, Thürlemann 2003, pp. 1-12). La strategia pittorica realizzata nel quadro di
del diagramma Loth e le figlie è, infatti, quella del diagramma, cioè di un testo caratterizzato, da
un punto di vista semiotico, da un’omologazione sistematica di tipo semisimbo-
lico tra categorie topologiche elementari realizzate sul piano dell’espressione e
categorie del contenuto.
Il forte carattere diagrammatico del dipinto del Louvre è senza dubbio ecce-
zionale per un’opera pittorica di natura mimetica, ma mi sembra al contempo
rappresentativo della cultura europea nell’epoca e nel luogo della sua produzio-
ne, i Paesi Bassi dell’inizio del XVI secolo. Il quadro di Anversa – è questa la te-
si che vorrei sostenere – deve proprio alle tendenze generali dell’arte del tempo
la sua particolare natura di “diagramma esistenziale dipinto”.
Non è un caso che le categorie del contenuto, messe in gioco dalle figure
rappresentate nel dipinto in questione, appartengano al livello più profondo
Il paesaggio possibile. Due ne sono le ragioni. La strategia pittorica utilizzata in Loth e le
del mondo figlie per simulare lo spazio è tipica della pittura olandese del XVI secolo, e
consiste nel rappresentare il paesaggio come fosse una Weltlandschaft, un
“paesaggio del mondo”. Conformemente alla concezione albertiana della pit-
tura, quest’ultimo corrisponde a una prospettiva particolare sul mondo visibi-
LA DOPPIA SPAZIALITÀ IN PITTURA 37

le, quella di una veduta “attraverso una finestra”, ma nello stesso tempo an-
che a un inventario, un censimento rappresentativo di tutto ciò che costitui-
sce il mondo in senso enciclopedico: distese pianeggianti e montagne roccio-
se, cielo e mare, città abitate e contrade deserte, ecc.9 L’incesto di Loth – e
questa è la seconda ragione – rappresenta un tema che concerne la sopravvi-
venza dell’intera razza umana, minacciata da Dio di totale annientamento. Il
dipinto del Louvre effettua dunque una sintesi tra un modo di rappresenta-
zione totalizzante del mondo e un racconto biblico che ha una portata altret-
tanto globale. Non sorprenderà, allora, che il dipinto di Loth e le figlie, che
rappresenta la sorte dell’uomo nel quadro dello schema pittorico del “paesag-
gio del mondo”, prenda, nelle sue coordinate di base, la forma del quadrato
semiotico esistenziale.
Per ciò che riguarda il fenomeno della “doppia mimesi”, manifestata nella
roccia che indirettamente raffigura anche la testa della moglie di Loth trasfor-
mata in colonna di sale, è stata da me analizzata in maniera più sistematica in
due opere di Albrecht Dürer (Thürlemann 2002-2003).
Un’ultima osservazione sul possibile autore del dipinto conservato al Lou-
vre. Nella sua monumentale opera di catalogazione Altniederländische Malerei,
Max Friedländer (1924, n. 115) lo aveva attribuito al pittore e incisore di An-
versa Luca di Leida. Oggi quest’attribuzione non è più accettata dagli speciali-
sti, e al Museo del Louvre l’opera porta l’etichetta “Anversa, 1520 circa”. A mio Il possibile
avviso, ci sono valide ragioni per attribuire il dipinto a un contemporaneo di autore
Luca di Leida, Jan Wellens de Cock (nato verso il 1490, morto ad Anversa pri-
ma del gennaio 1527). Quest’attribuzione può essere stabilita sulla base del
confronto con un quadro raffigurante san Cristoforo, firmato da “J. Cock” in u-
na riproduzione grafica, e con un’incisione su legno originale della Tentazione
di sant’Antonio che porta la data “1522”10. L’opera del Louvre è stilisticamente
assai vicina anche a un quadro che raffigura i santi eremiti Antonio e Paolo in
un ricco paesaggio, delle collezioni del duca di Liechtenstein a Vaduz, ugual-
mente attribuita a Jan de Cock11.

1 Da Felix Thürlemann, “La doppia spazialità in pittura: spazio simulato e topologia planare. A propo-

sito di Loth e le figlie”, in Corrain, Valenti, 1991, pp. 55-64; tit. or. La double spatialité en peinture: espa-
ce simulé et topologie planaire, «Actes Sémiotiques, Bulletin», 20, 1981, pp. 34-46. Traduzione di Mario
Valenti e Elisabetta Gigante.
2 Il presente testo si ispira, nella sua metodologia, segnatamente a due studi semiotici già divenuti

classici: Geninasca 1972, pp. 45-62 (l’autore descrive la “griglia tassonomica” del sonetto come uno spa-
zio articolato che, indipendentemente da qualsiasi investimento linguistico, è dotato di proprietà seman-
tiche); e Petitot 1979, pp. 95-153 (in questo studio, l’organizzazione topologica planare del testo pittori-
co è sistematicamente messa in rapporto con la sua struttura semantica profonda).
3 Parigi, museo del Louvre, n. di inventario: RF. 1185; tavola, 58 x 34 cm. L’opera è stata attribuita

da Friedländer (1924) al giovane Luca di Leida; attribuzione oggi rifiutata dalla maggior parte degli spe-
cialisti. Il catalogo del Louvre (Écoles flamandes et hollandaises, Paris, 1979) indica: “Anversa o Leida,
prima metà del XVI secolo”. In una conferenza del 1931, ripresa in Il teatro e il suo doppio, con il titolo
“La messa in scena e la metafisica”, Artaud (1968) descrive il quadro del Louvre come una prefigurazio-
ne ideale del suo teatro (“questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il teatro, se esso sapesse parlare il lin-
guaggio che gli è proprio”).
4 Sembrerebbe possibile stabilire una tipologia dei modi di narrazione nelle arti plastiche secon-

do le infrazioni alle leggi della verosimiglianza, che le differenti culture ammettono o rifiutano per
rendere conto di un racconto complesso. Questa è implicitamente la pratica di Wickhoff (Romische
38 FELIX THÜRLEMANN

Kunst), che postula l’esistenza di tre possibili modi narrativi: i modi continuo, completivo e distinti-
vo. Loth e le figlie sarebbe un esempio del modo continuo (ripetizione degli stessi attori in uno spa-
zio coerente).
5 Per il concetto di “semiosi semisimbolica”, si veda Greimas, Courtés (1979) alla voce “semiotica

B.5.d.” e Greimas, Courtés (1985) alla voce “semisimbolico”. Osserviamo il fatto curioso che la rappre-
sentazione di un sintagma particolare proprio di un linguaggio formale possiede le caratteristiche delle
semiotiche monoplanari significanti. È in Artaud che abbiamo trovato il termine di “efficacia”; il senso
tecnico che gli diamo qui è evidentemente nostro.
6 Osserviamo che, dopo la nuova presentazione del quadrato nel Dizionario, la codificazione semisim-

bolica risulta indebolita dal fatto che l’asse orizzontale inferiore non riceve più una definizione logica.
7 La limitazione dell’analisi a queste quattro figure ha, va confessato, un carattere arbitrario. Pensia-

mo tuttavia che la riduzione del numero delle figure prese in considerazione non metta in questione la
validità dei risultati. Questi potranno in seguito essere reintegrati in un’analisi più completa e più com-
plessa (così, si dovrebbero considerare le tre fiaschette, nel primo piano, la cui distribuzione spaziale ri-
flette quella degli attori umani).
8 Una forte eco plastica mette in rapporto soprattutto il tronco dell’albero vivente (A) con la gamba

destra di Loth, focalizzata insieme dalla sua posizione e dalla sua tinta rossa. Il suo valore sessuale, in
rapporto all’apertura della prima tenda, è messo in evidenza nel lavoro di Bätschmann (1981).
9 Per il concetto di “paesaggio del mondo” cfr. Zinke 1977, Gibson 1989.
10 Le due opere sono riprodotte in Friedländer 1924, nn. 104 e 104A.
11 Cfr. Friedländer 1924, n. 108, Baumstark 1980, n. 31, p. 77 sgg. (con riproduzioni a colori e bi-

bliografia su Jan de Cock).


Cranach: la bellezza femminile1
Algirdas Julien Greimas, Teresa M. Keane

La Ninfa, come Cranach l’ha rappresentata, è una divinità di rango inferiore


che vive vicino alle fonti, abita le foreste e le montagne. In questo senso, si ritie-
ne simboleggi la natura fuori dalla città, la “natura naturale”. Nell’insieme delle
varianti realizzate da Cranach – ne conosciamo sette2 – la Ninfa, secondo una
costante dell’immaginario del pittore tedesco, è sempre rappresentata coricata
vicino a una fonte o a una fontana costruita. In sei di queste varianti, però, la La divinità
Ninfa è dotata di altri attributi convenzionali che ne simboleggiano le sue fun- acquatica
zioni: da un lato, le frecce con la faretra e l’arco, appeso a un albero situato vi-
cino alla sua testa; dall’altro, un paio di pernici, poste nelle vicinanze dei piedi.
La variante che qui analizzeremo (tav. II) – conservata a Leipzig, e realizzata nel
1518 – è priva degli attributi di divinità cacciatrice, che la renderebbero più vi-
cina a Diana o a Atalanta. Così disambiguata appare come una divinità acquati-
ca, essendo l’acqua la fonte vitale dell’intera natura, come conferma l’iscrizione
che si trova sul bordo della fontana: Fontis nimpha sacri…, “io sono la Ninfa
della fonte sacra”.

1. Lettura iconografica

Sull’isotopia della figuratività lessicale, quella che rappresenta gli oggetti no-
minabili, il quadro offre l’impressione di essere diviso in tre spazi pressoché auto-
nomi. Innanzitutto, in primo piano, la Ninfa coricata sull’erba, il cui bordo ester-
no in forma di circonferenza fuoriesce ampiamente, a sinistra e a destra, dalla cor-
nice del dipinto per cingere immaginariamente e completamente lo spazio di ver-
zura ai lati e davanti al quadro. Il corpo della donna occupa in lunghezza l’insie-
me del dipinto, e il suo sesso, situato orizzontalmente a un millimetro dalla metà
del dipinto, suddivide l’insieme, tracciando a partire da quel punto una linea ver-
ticale che divide il resto della tela in due superfici di uguali dimensioni.
Quella di sinistra, inglobante la fontana con capitello che si innalza nel mez-
zo e risalta sul fondo di folti cespugli, possiede plasticamente – come rimarca L’articolazione
André Lhote (1958) – una certa autonomia, dal momento che non obbedisce ai topologica
canoni della prospettiva italiana: il capitello, infatti, è visto dal basso verso l’alto
e la fontana dall’alto verso il basso. La parte destra, nello sfondo, rappresenta il
“paesaggio” convenzionale del periodo, ossia, la natura “civilizzata”: una città
con numerosi campanili, una roccaforte, ma anche le rocce, le montagne e so-
prattutto il cielo. Tra questi tre spazi viene pertanto a stabilirsi una rete di corri-
spondenze e di interpretazioni: una dimensione classica fra la Ninfa e la fonta-
40 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE

na, illusione del Mondo Antico di forme compiute e felici; una dimensione ba-
rocca tra il Mondo Nuovo e il suo ideale di bellezza, fantasticheria leggibile ne-
gli occhi semichiusi della Ninfa che pretende addirittura di riposarsi – quiesco
– e impedisce di interrompere il suo sonno – somnus ne rumpe – ma soprattutto
nella “rima plastica” che vede il corpo della ninfa proiettato, come una plaga
comparabile, nel lontano orizzonte, nel cielo appena velato. Due mondi – l’anti-
co e il moderno – lo rinviano così metonimicamente allo splendido corpo della
giovane donna alla ricerca di un incontro idiosincrasico.
Questa convergenza di due immaginari, è riscontrabile anche nelle teorie e-
La Ninfa stetiche del Rinascimento – con Cranach siamo in Franconia, nel cuore del Ri-
e la naturalità nascimento tedesco –, secondo le quali la funzione e la vocazione dell’Arte è
“l’imitazione della Natura”, più precisamente, della Bella Natura, nozione co-
munque che ricopre sia il “naturale” dell’universo visibile sia il modello ideale
ritrovato nell’Antichità; la perfezione del mondo, ma anche la bellezza del cor-
po umano e, prima di tutto, del corpo della donna. Nel nostro quadro, la fun-
zione che compete al corpo della ninfa è quella di incarnare la Natura in tutta la
sua nuda verità, in senso letterale e figurato. Non stupiamoci, dunque, di veder-
la – contrariamente alla Venere di Tiziano, ornata di collana e braccialetto, alla
Susanna di Tintoretto, che si prepara a vestirsi, con i gioielli davanti a sé – inte-
ramente, “naturalmente” nuda, essendo la nudità identificata con la verità che
rivela le forme ideali della bellezza di cui la ninfa è depositaria.
Emblema della natura, la Ninfa simboleggia nello stesso tempo la sua Bellez-
za. Procedendo nella lettura del suo corpo confidiamo di rintracciarvi le mar-
che dei canoni della bellezza che supponiamo esservi iscritte e di riconoscervi
alcune categorie estetiche che Cranach e, attraverso lui l’episteme del suo tem-
po, hanno espresso utilizzando il linguaggio pittorico.

2. Lettura iconologica

In quest’ottica, sarà la comprensione del corpo della donna il nostro princi-


pale obiettivo.
In primo luogo, una constatazione topologica: benché a prima vista la Ninfa
appaia coricata leggermente in sbieco, specie in relazione alle orizzontali che
costituiscono i bordi della fontana, il suo corpo è al contrario disposto secondo
un’immaginaria linea orizzontale che parte dal braccio destro (dal gomito alle a-
Il corpo scelle), attraversa il triangolo del pube e passa per il ginocchio della gamba de-
della donna stra fino al polpaccio. Il capitello della fontana, il cespuglio che sale come una
freccia dalla metà del quadro e soprattutto il tronco slanciato del cipresso insi-
stono, con la loro verticalità, sull’orizzontalità, connotata dalla calma e dal ripo-
so della figura femminile.
Nonostante ciò, costretta tra queste coordinate, una linea obliqua si sprigio-
na: attraversando i seni della Ninfa, segue i bordi del parallelogramma fino al
punto di fuga dell’orizzonte. Essa indica così la direzione nella quale può di-
spiegarsi come rispondenza alla superficie luminosa del corpo della donna sotto
forma di “rima plastica”, una plaga comparabile di chiarezza celeste: è in effetti
significativo che siano gli ondeggiamenti del drappeggio sul quale riposa la
Ninfa, a essere ripresi tali e quali nello sfondo della linea dell’orizzonte mon-
CRANACH: LA BELLEZZA FEMMINILE 41

Fig. 2. Schema 1.

tuoso, mentre la parte superiore della plaga si sfuma e si perde nell’azzurro del L’effetto
cielo. L’obliquità crescente, già euforica di per se stessa, non solo trasforma la di leggerezza
e apertura
natura acquatica della donna in un ideale aereo, ma le conferisce effetti di senso
di leggerezza e di apertura
Ritornando dal cielo sulla terra, precisamente sul tappeto di verzura, si no-
terà innanzitutto il contorno inferiore del corpo, sottolineato anche dalla dispo-
sizione del drappeggio, il quale forma una sorta di vaso molto aperto facendo
della donna un oggetto concavo.
La cuspide molto aperta verso l’alto non termina a punta, bensì con una
concavità sferica formata dalla natica destra della donna: si tratta, infatti, di
un taglio molto svasato che non include pertanto i piedi, producendo l’im-
pressione di un corpo che non riposa, che non si appoggia a nulla, di un cor-
po che galleggia.
Osserviamo di sfuggita l’importanza che Cranach attribuisce al gluteo, og-
getto contemporaneamente estetico e erotico, e che distingue le sue donne da
quelle della scuola veneziana. Così, ad esempio, anche la sua Venere (Berlino),
sebbene in piedi e in posizione frontale, propone allo sguardo la natica libera
dalla linea verticale del corpo.
Questa impressione di galleggiamento trova una conferma se si pensa alla so-
spensione del corpo, provato dalla pesantezza e che tuttavia è come appeso a
questo filo teso, immaginario, che abbiamo tracciato per rendere conto della
sua postura orizzontale.
La Ninfa così sospesa, senza punto di appoggio al suolo, vive all’interno di L’equilibrio
un equilibrio instabile, che chiede in ogni momento di essere consolidato. instabile
Per mantenere l’equilibrio, per controbilanciare la massa pesante del tronco,
la coscia destra è rappresentata in posizione ascendente e i piedi terminano con
42 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE

Fig. 3. Schema 2.

le dita aperte e tese verso l’alto. Inoltre, le due estremità del corpo – il braccio
che sostiene la testa e le dita dei piedi ascendenti e aperte – sono muscolarmen-
te tese, e questa tensione polarizzata e egualmente distribuita produce un effet-
to di equilibrio dinamico.
È possibile domandarsi se questo bilanciamento equilibrato e neutralizzato
La
non sia il risultato di un fare proprio dell’artista, quello della riequilibratura
riequilibratura processuale, di un’attività di compensazione delle pesantezze e delle tensioni, se
processuale non racconti una piccola storia plastica che permetterebbe di riconoscere una
certa narratività situata nella dimensione estetica dei discorsi.
In ogni modo, si tratti di concetti di sospensione o di equilibrio delle tensio-
ni, il loro esame sembra condurre verso una comprensione più salda della cate-
goria estetica leggerezza.

3. Le due estetiche

Rimane ancora da esaminare il corpo nelle sue componenti. Lhote (1958), e


Floch (1986) dopo di lui, hanno notato che la parte superiore di questo corpo
si iscrive in un parallelogramma sbiecato in confronto a quello della fontana.
Ne abbiamo individuato la ragione nel principio di equilibrio dell’intero
corpo, secondo il quale il torso massiccio della donna doveva essere situato più
in alto al fine di compensare l’attrazione di pesantezza che la attirava verso il
basso. Il parallelogramma, tuttavia, vede la sua manifestazione figurativa sotto
forma di una successione di tre paia di curve concave che lo rinserrano, pizzi-
candolo ogni volta. Il primo di questi volumi incastona l’inglobante del petto; il
secondo costituisce il ventre con l’ombelico nel centro; il terzo, infine, è forma-
CRANACH: LA BELLEZZA FEMMINILE 43

Fig. 4. Schema 3.

to dalla natica destra e dall’anca, duplicata dalla linea dell’avambraccio, del lato
sinistro, e recante, come segno distintivo, il triangolo del pube. Queste curve
ondeggianti, che racchiudono e arrotondano tutto il corpo sottolineandone at-
traverso i pizzicamenti la sottigliezza, hanno la funzione – secondo l’osservazio-
ne generale sia di Lhote (1958) sia di Clark (1956) – propria di Cranach, di so-
stituirsi per buona parte alla tecnica del modellato con la finalità di restituire al
corpo il suo volume.
Questo corpo posto “à plat”, mostrato al nostro sguardo dalla fonte lumino-
sa che lo abbaglia, si trova inoltre adornato di rotondità: al viso, interamente ro-
tondo, corrisponde la rotondità del ventre, confermando così la linea verticale
del tronco, allorché due semisfere formanti i seni la incrociano orizzontalmente.
Sfericità e simmetria sono nuovamente installate sulla superficie del corpo, per-
fezionano così la chiusura, intrapresa dalle curve laterali del corpo della donna,
inscritte nel parallelogramma.
A questa costruzione del dorso, che illustra perfettamente i canoni della bel- La donna
lezza classica, non corrisponde l’organizzazione della parte inferiore del corpo, gotica vs
la donna
generata da una concezione diversa. Così, la prima cosa rimarcabile – la lun- mediterranea
ghezza delle gambe che sono da sole la metà del corpo – annuncia già l’appari-
zione di un nuovo tipo ideale di bellezza femminile. Poco conta la spiegazione,
culturale o storica, che di questo fenomeno si può dare: l’immagine della donna
mediterranea “corta di gambe”, che corrisponde alle regole dell’arte classica,
come la si ritrova nei veneziani, è così privilegiata a scapito di una tradizione
più antica, “gotica”, che risale a Memling. Il fatto è facilmente constatabile: as-
sistiamo all’affermazione di un tratto specificatamente barocco, quale l’allunga-
mento generale delle forme plastiche (Wölfflin 1915), dove il cerchio diviene
l’ovale e il quadrato il rettangolo.
44 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE

La valorizzazione delle gambe apre allora a nuove possibilità di giochi plasti-


ci e più precisamente di loro incroci e di loro intrecci. Le variazioni simboliche
si aggiungono: tra lo scarto delle gambe, che offre allo sguardo l’intimità della
donna, e il loro modesto incrociarsi all’altezza delle caviglie, alla maniera della
regina d’Inghilterra, ci sono diverse scelte possibili e le esitazioni di Cranach,
come appaiono nelle varianti, rivelano le sue preoccupazioni a volte plastiche a
volte semantiche. Così, lasciando le gambe leggermente divaricate, Cranach
preserva l’eleganza della gamba sinistra e quella della mano che si adagia su di
essa, permettendo alla Ninfa, indifferente o impudica, di mostrare il suo trian-
golo pubico e l’interno allungato delle cosce.
Un’altra variante, assai simile, la mostra restringere le sue cosce, ma pro-
ducendo, nello stesso tempo, un nuovo triangolo più allargato, come se Cra-
nach, creando così una zona erogena secondaria, le sacrificasse le possibilità
di espressione di altri valori e in particolare della grazia.
La variante che qui prendiamo in considerazione si distingue dalle preceden-
ti per la scelta della gamba che il pittore decide di piegare: la gamba destra, al
posto di essere interamente distesa o leggermente allargata alla maniera di Gior-
gione – il maestro che ha instaurato il modello di rappresentazione delle dee co-
ricate –, ricopre la gamba sinistra e invece di incrociarla la intreccia graziosa-
mente. Attraverso questo cambiamento apparentemente insignificante, l’econo-
mia della parte inferiore del corpo viene ristrutturata, l’insieme delle linee curve
I movimenti
graziosi compongono una figura in forma di otto coricato “∞”, chiamato intreccio o nodo
della donna d’amore. Si osservi come il corpo della donna visto dapprima alla stregua di un
parallelogramma riempito di volumi sferici pieni, si prolunghi ora attraverso de-
gli intrecci tesi, che si è invitati a leggere come virtuali movimenti graziosi, e che
la bellezza classica annunciata si trasmuti pressoché impercettibilmente in grazia
barocca. La valorizzazione della gamba destra, destinata di primo acchito a pro-
teggere l’intimità della donna, non trascura di intrigarci. Si tratta veramente di
un’attitudine pudica, della protezione di un segreto intimo? O piuttosto questa
chiusura non sarebbe che provvisoria, non sarebbe che un invito sotteso all’aper-
tura, che un segno del manierismo seduttore, che consacra Cranach pittore eroti-
co, addirittura lascivo. Altre tele di Cranach, autorizzano a pensarlo. Comunque
sia, e senza nulla togliere al suo valore intrinseco, il lato seduttore di Cranach ha
costruito la sua reputazione – durata fino al XVIII secolo – di pittore alla moda.
La funzione di camuffamento suggestivo che attribuiamo allo slancio della
gamba destra, introduce una certa narratività in questa messa in scena destinata
a rappresentare non tanto il fare, quanto l’essere della donna, che altro non è che
“calma e bellezza”. Compete allo spettatore “aprirla”, ma per un istante e in un
L’estetica momento di sospensione, è capace di assaporare l’attesa, vivere, per anticipazio-
classica
e l’estetica ne, “il gesto tenero”, proprio di Valéry, dell’apertura. È qui, nella sospensione di
barocca questo movimento, che l’erotico raggiunge l’estetico, l’estetica della grazia.
Tuttavia, il concetto di apertura, che è uno degli elementi caratterizzanti l’e-
stetica del barocco, e si oppone, lo si è visto, alla chiusura, alla pienezza del clas-
sicismo, non si è ancora esaurito. La nostra attenzione è stata attirata dalla posi-
zione dei piedi, rispetto ai quali si è riconosciuta la tensione equilibrante che li
spinge verso l’alto. Ma c’è di più: senza entrare nelle considerazioni psicanaliti-
che del feticismo dei piedi, il distacco delle dita, delle multiple aperture che es-
si comportano, costituisce già, senza parlare delle ragioni tecniche precedente-
CRANACH: LA BELLEZZA FEMMINILE 45

mente evocate – o forse giustamente a causa di questa fusione del tecnico con
l’estetico – una conferma dello spirito barocco. È sufficiente omologare i con-
cetti oppositivi del classicismo e del barocco, della chiusura e dell’apertura con
le loro espressioni plastiche – le dita chiuse e le dita aperte – per riconoscere la
logica ricercata e perseguita da Cranach.
È qui possibile avvalersi di un’osservazione deviante, un’ipotesi suggerita
dal quadro di Cranach: la svolta costituita dall’erotizzazione delle gambe, la
loro valorizzazione in quanto oggetto erotico, conforme alle tendenze gene-
rali dell’estetica del barocco, che produce il sincretismo dell’allungamento e
la grazia delle forme plastiche, accompagnate da un’apertura sul mondo.

4. Narratività plastica

L’analisi di questo corpo femminile – l’unica preoccupazione che ci ha gui-


dato – ha permesso di disimplicare un certo numero di forme plastiche – di
formanti con l’aiuto dei quali il corpo è messo in rappresentazione per signifi-
care – ai quali abbiamo attribuito dei significati estetici. Questi significati sono
in effetti dei risultati della lettura del quadro e come l’esame attento che eser-
cita la donna incantata davanti a una vetrina, quando si tratta di identificare le
configurazioni di un vestito o di un paio di scarpe secondo le esigenze del suo
gusto, poggiano su una griglia di lettura preliminare, di matrice tassonomica
che gli è imposta dall’ambiente culturale. Di fronte all’oggetto estetico costi-
tuito dal corpo della donna, si impone un’operazione di selezione e di sistema-
zione di queste categorie estetiche: si tratta, infatti, di “rendere ragione della
ragione d’essere” di questa donna o almeno del discorso che lei ci rivolge, di
rendere conto della logica interna, della coerenza che la sostiene. L’equilibrio
L’analisi, per quanto non esaustiva, ha messo in luce che ci troviamo in dinamico
presenza di due estetiche, quella classica e quella barocca, distinte: conviene
dunque mostrare come l’artista le ha conciliate per produrre l’effetto di un
tutto coerente. Si noterà dapprima che l’assemblaggio delle due parti del
corpo si fa naturalmente, impercettibilmente, attraverso la procedura cono-
sciuta con il nome di overlapping: il terzo volume che serra e rinchiude il tor-
so all’altezza del bacino partecipa ugualmente, in quanto espansione delle
anche, alla struttura delle gambe. L’equilibrio dinamico, tensivo, che vincola
e stabilizza il corpo, mette in gioco l’insieme della figura facendone una cop-
pa ondeggiante. Il “ritmo musicale” fatto di due fraseggi di modulazione e
che riprende, in rima ricca, l’ondeggiare del drappeggio, porta a compimen-
to l’unità graziosa di questo corpo.
È infine l’intero corpo che, dapprima fluttuando, si alza e si riproduce in
eco nell’aria.
Tuttavia, seguendo il cammino ingenuo di Wittgenstein, il quale confessa la
sua ignoranza in fatto d’estetica, conviene tener conto, quando si giudica l’ar-
te, non solamente della griglia culturale di lettura, ma anche del fare dell’arti-
sta, della sua competenza pittorica come si manifesta nel maneggiare il pennel-
lo – il pittore realizza un programma, e nel farlo incontra degli ostacoli e dei
problemi, li circoscrive e li corregge, effettuando così una narrazione plastica.
Come si sa, Diderot, dopo un’assidua frequentazione degli ateliers dei pittori
46 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE

Fig. 5. Schema 4.

ha fondato su questo la sua critica, vedendovi “la parte tecnica dell’arte”. Non
è forse impossibile seguirlo e riconoscere come spettatore il percorso, sicuro o
esitante, del fare dell’artista.
È possibile immaginare, per esempio, che avendo costruito, secondo il mo-
dello classico, la parte superiore del corpo, il pittore ne valuti la pesantezza e
avverta la necessità, per equilibrarla, di drizzare i piedi verso l’alto e di aprire le
La narrazione
dita. Avendo situato il sesso della donna nel bel mezzo del quadro, lo tratta co-
plastica del fare me il luogo della trasformazione categorica dello stile, ma preoccupato di man-
del pittore tenere le esigenze che gli impone la sua stessa concezione di grazia, ricopre que-
sta trasformazione di uno strato di aspettualità spaziale istituendo, all’altezza
del bacino, una zona bivalente. Si può ugualmente domandarsi se lo slancio del-
la gamba destra non gli sia dettato dal pensiero formale di dare in rima un cor-
rispondente alla linea graziosa della spalla e del braccio sinistro, piuttosto che
produrre una narratività erotica di ordine iconologico.
Queste considerazioni, lontane dal mirare all’esaustività, vogliono solo sug-
gerire la possibilità di un percorso metodologico che, ispirandosi al fare tecnico
dell’artista, cerchi di imitare il suo sguardo e la sua mano, affidandosi allo spet-
tatore di questo transfert di competenza.

5. La natura delle categorie plastiche

Rimane da dare una scorsa alle principali categorie plastico-estetiche, ricono-


sciute e utilizzate durante questa analisi. L’espressione “principali” non è forse
la più conveniente al nostro proposito, non foss’altro perché trattiamo il corpo
della Ninfa come discorso, ossia come oggetto alla cui costruzione concorrono
solo un certo numero di categorie, mentre l’insieme delle stesse costituisce l’u-
CRANACH: LA BELLEZZA FEMMINILE 47

niverso del gusto estetico. All’interno di questo oggetto-discorso, infatti, abbia-


mo disimplicato un ridotto numero di categorie che regolano l’organizzazione
dell’insieme, mentre altre appaiono iponimiche, subordinate.
Tale è, ad esempio, la categoria della leggerezza, responsabile di definire in
larga misura la bellezza della donna di Cranach. Essa ci è parsa di primo acchi-
to debitrice dell’imponderabilità, che sarebbe la posizione zero tra i due termini
polarizzati di vertigine e di estasi (nel senso medievale di levitazione, riservato ai
santi). L’imponderabilità è tuttavia ottenuta grazie all’equilibrio e, quel che più
conta, all’equilibrio delle tensioni che introducono nella teoria della dinamica
delle forze e avvicinano al concetto di sospensione, che sembra non essere suffi-
cientemente esplorato in semiotica generale.
Ma la leggerezza deriva dall’obliquità inquieta, la quale, benché euforica, si si-
tua a metà percorso tra la calma orizzontale e l’elevazione verticale. Un’euforia in-
quieta, ma promettente, che apre la strada alle virtualità e più precisamente, al so-
gno aereo. Inoltre, la leggerezza costituisce anche l’apertura o almeno una delle Le rime
possibili interpretazioni di quest’ultima. Opponendosi alla chiusura, pensata in e i ritmi plastici
quanto perfezione e pienezza nell’ottica dell’estetica classica, l’apertura è l’incom-
pleto, il non ancora compiuto, reso possibile dal libero esercizio dell’immaginario.
Le forme plastiche, sovente provenienti da fonti diverse, si ordinano insieme
per produrre un effetto di senso globale di leggerezza.
Un’altra categoria di comparabile importanza (alla quale si oppongono di-
verse antinomie, quali il grottesco, ma di cui la posizione non si chiarisce che a
titolo illustrativo con il non grazioso o lo scandaloso moderni) è quella della gra-
zia. Essa, in rapporto alla geometria classica delle linee dritte, propone un’este-
tica delle curve e dei contorni armoniosi dei bordi. Il suo insieme è, come si è vi-
sto, il nodo d’amore. Il suo prolungamento naturale è l’ondulazione che, in op-
posizione alla linea dritta, è la rappresentazione statica del movimento, l’invito
fatto all’occhio dello spettatore a proseguire rapidamente tutti i percorsi sinuo-
si. Disciplinati e organizzati in rime e ritmi plastici, gli ondeggiamenti graziosi
producono l’effetto di senso armonia dell’insieme. Non casualmente e non im-
punemente, per parlare della grazia si è invitati a utilizzare il vocabolario della
poesia e della musica: nel nostro campo ristretto la grazia appare come la più
direttamente estetica delle categorie plastiche. Partendo dalla perfezione classi-
ca, l’arte di Cranach si sviluppa e poggia sulle categorie della leggerezza e della
grazia. La loro simbiosi produce il corpo sognante della Ninfa.

6. Nella quiete dell’universo

Un’ultima questione, un po’ ingenua, – ma le questioni ingenue non sono le


più nocive – si pone alla fine di questo percorso: in che cosa le categorie, di cui
abbiamo poco a poco costituito la lista, sono estetiche? Sono proprie alla sola
semiotica visiva o possono essere estese a altri domini?
La prima risposta, attribuibile a La Palice, sfiora l’evidenza: sono estetiche
perché le abbiamo trovate nel dipinto di un maestro che ha voluto dipingere la
bellezza femminile. Ma si può andare oltre: ogni linea, ogni figura, ogni confi-
gurazione che abbiamo riconosciuto, è un formante, ovvero, una forma dell’e-
spressione visiva, alla quale sono stati attribuiti dei significati, detto altrimenti,
48 ALGIRDAS JULIEN GREIMAS, TERESA M. KEANE

delle forme del contenuto. Se le prime rappresentano “gli stati di cose”, le se-
conde costituiscono, al momento del processo di percezione, il contributo del
soggetto e sono, quindi, degli “stati d’animo”, essendo passati attraverso il filtro
dell’assiologia culturale. Tali assiologie, lo si sa, sono state designate da Hjelm-
slev (1943) sotto il nome di connotazioni sociali e si presentano sotto forma di
tassonomie variabili da una cultura all’altra. Esse, certamente, possono essere
deformate o arricchite dalle connotazioni individuali, dovute agli incontri di cer-
ti tipi di formanti con particolari sensibilità. L’insieme tuttavia costituisce la di-
mensione estetica del gusto.
Non si vedono le ragioni che impediscono di estendere la validità di queste
categorie alle altre arti, agli altri oggetti estetici. Ad esempio, Italo Calvino
(1988), nelle lezioni che aveva intenzione di tenere agli studenti americani sul
XXI secolo, considera la leggerezza come una delle cinque o sei categorie fonda-
mentali per l’estetica letteraria dell’avvenire. Abbiamo già notato l’inclinazione
Piccola
“naturale” che ci ha spinto a utilizzare i termini del linguaggio poetico o musi-
estetica della cale per parlare della grazia. Ecco dunque che il vecchio serpente di mare della
vita quotidiana “corrispondenza delle arti” fa la sua riapparizione. È come se questi significati
estetici costituissero una base comune, più profonda, un luogo di meditazione
delle differenti percezioni del mondo.
Un esame più accurato di queste categorie si impone. Siamo stati portati a
rendere conto della leggerezza come liberazione della pesantezza, ma anche co-
me equilibrio risultante dalla dinamica delle forze, in quanto fondata sulle leggi
fisiche dell’universo. Altre categorie, quali la grazia, sembrano dipendere dalla
geometria elementare opponendo le linee dritte alle curve, e integrandole nella
visione molto generale del mondo. Comunque sia, una semiotica estetica che
così si dispiega non dovrebbe riguardare solamente le arti “nobili”, ma anche la
“piccola” estetica della vita quotidiana e potrebbe addirittura aspirare all’uni-
versalità. Fondata sulla percezione delle forme plastiche elementari del mondo,
aiuterebbe a comprendere il sentire fatico situato a livello epistemologico delle
precondizioni del senso, potrebbe rendere conto, nelle diverse tappe del per-
corso, del soggetto in quanto “essere del mondo” e “per il mondo”.

1 Da: Algirdas Julien Greimas, Teresa Keane, “Cranach: la bellezza femminile”, in Corrain 1999, pp.

3-13; tit. or. “Cranach: la beauté de la femme”, Centro de Semiótica y Teoría del espectáculo. Universitat
de València & Asociación Vasca de Semiótica, Valencia, vol. 26, 1993, pp. 1-19. Traduzione di Lucia
Corrain.
2 Le varianti conosciute sono: La ninfa della fonte, 1518, (cm 59 x 92), Leipzig, Museum der bilden-

den Künste; La ninfa della fonte, 1526-30, (cm 77 x 21.5), Lugano-Castagnola, Collezione Thyssen-Bor-
nemiza; La ninfa della fonte, 1534 (cm 50.8 x 76.2), Liverpool, Walker Art Gallery; La ninfa della fonte,
dopo il 1537, (cm 50 x 75), Paris, Collezione privata; La ninfa della fonte, dopo il 1537, (cm 48.5 x 72.9),
Washington, National Gallery of Art; La Ninfa della fonte, dopo il 1537, (cm 48 x 72.5), Svizzera, Colle-
zione privata; La ninfa della fonte, dopo il 1537, (cm 48.5 x 72.9), Washington, National Gallery of Art.
Realismo o artificio? Un’analisi di La fuga in Egitto di Adam Elsheimer
Lucia Corrain1

In ambito semiotico, il realismo concerne il problema dell’iconizzazione, la


quale, facendosi carico delle figure già costituite nella fase della figurazione, “le
dota di investimenti particolarizzanti, in grado di produrre l’illusione referenziale”
(Greimas, Courtés 1979, p. 168). Ma “l’iconicità, inoltre, si fonda su un contratto
enunciativo di un genere particolare e deve essere considerato, di conseguenza a
partire da un duplice punto di vista” (Greimas, Courtés 1986, p. 109): quello se-
mantico, ossia da una surdeterminazione dei tratti figurativi che tendono via via ad
L’iconicità
arricchire la rappresentazione fino a farla sembrare “reale”, e quello delle caratteri- e l’illusione
stiche del “contratto fiduciario” che si viene a stabilire tra gli enunciatori. referenziale
All’interno di quest’ottica, intendiamo qui analizzare un dipinto di Adam El-
sheimer, considerato estremamente realistico, quasi un unicum nella storia della
pittura, per tentare di riportare in superficie sia l’articolazione del racconto sia il
rapporto che esso costruisce con il suo osservatore, mettendo parallelamente in e-
videnza come la più alta espressione di realismo altro non sia che il risultato di una
particolare configurazione plastica ed enunciativa perfettamente organizzata.

1. La volta stellata

La fuga in Egitto di Adam Elsheimer (tav. III) è un paesaggio notturno, rea-


lizzato nel primo decennio del XVII secolo, esattamente il 1609, a Roma, città
nella quale – come precisa la storia dell’arte – si sviluppa quel particolare tipo
di paesaggio che viene definito realistico. Dove per realismo, riguardo al conte-
nuto, si intende:

ritrarre il paesaggio quale è, ossia nella realtà sensibile e nell’esperienza quotidiana;


quanto alla forma, significa dedurre dalla percezione sensibile dal vero gli elementi Il paesaggio
visivi traducibili in pittura in modo illusionistico, capace di suggestionare altri sensi “realista”
oltre la vista – far sentire ad esempio, l’umidità dell’aria e della rugiada, il tepore del
sole, il moto del vento (Salerno, 1977-1978, p. XV).

E realismo che per il piccolo rame di Elsheimer si concretizza soprattutto nella


volta stellata, indicata come uno tra i primi esempi di veduta realistica, “in altre pa-
role, una veduta topografica di cielo, in una certa notte e non assolutamente un
cielo generico, che intende porsi come rappresentazione di luoghi reali e determi-
nati”, e nella quale la “ricognizione della superficie celeste è condotta esclusiva-
mente dall’occhio (o addirittura dal cannocchiale) che non seleziona alcun elemen-
to, ma registra attentamente i fenomeni”2. Ancora, una volta celeste per la quale si
50 LUCIA CORRAIN

è parlato di stretti rapporti con le nuove scoperte di Galileo, specie per la rappre-
sentazione delle macchie lunari e della Via Lattea come agglomerato di stelle3.
Una resa
Con queste premesse, l’analisi non può che partire dal cielo, motivo per il
fedele della quale, in un primo tempo, ci è parso necessario ricorrere a competenze di tipo
volta celeste? astronomico, che si sono rivelate di fondamentale importanza per mettere a
punto la lettura del dipinto che di seguito proponiamo.
L’anno di realizzazione del quadro, il 1609 – concordemente accettato dalla cri-
tica – e la posizione della Luna, rappresentata al plenilunio poco dopo il suo sor-
gere, rispetto all’Orsa Maggiore (situata nell’angolo alto destro) e alla Via Lattea –
che taglia diagonalmente la superficie pittorica – hanno costituito gli elementi per
il tentativo che abbiamo voluto intraprendere di ricostruzione della reale configu-
razione della volta celeste4. Una disposizione degli elementi astronomici che – no-
nostante guidata da una certa libertà – sembra suggerire le date del 21 marzo e del
19 aprile del 1609, dal momento che i successivi pleniluni dell’anno in questione
presentano una disposizione assai diversa da quella qui raffigurata. Ma un con-
fronto fra quelle notti del 1609, che grazie al computer è stato possibile “recupera-
re”, e la situazione supposta reale proposta dal quadro, non depone a favore di u-
na copia dal vero e mette in seria discussione che si tratti di una notte precisa.
La volta celeste, infatti, non si offre come una riproduzione realistica, e que-
sto non solo per la deformante trasformazione della semicalotta sferica sulla su-
perficie del dipinto, problema con il quale Elsheimer si è necessariamente do-
vuto scontrare. Il cielo appare come da una visione panoramica a 180 gradi,
centrata verso il nord, in cui l’Orsa Maggiore è l’unica costellazione riprodotta
Le
deformazioni con una certa fedeltà. La stella al di sotto dell’Orsa Maggiore potrebbe essere
degli astri… quella di Arturo, ma l’identificazione si basa solo sul fatto che solitamente la si
individua prolungando il braccio del Grande Carro. Le altre costellazioni, non
correttamente dipinte e quindi sommariamente e dubitativamente identificabili,
potrebbero essere l’Aquila (o il Cigno?) nelle tre stelle allineate e brillanti che
appaiono tra la prima e la seconda massa scura degli alberi partendo da sinistra;
il Delfino nel gruppo di stelle subito sotto la Via Lattea, affiancato da un altro
gruppo di stelle che assomiglia alle Pleiadi; gli altri punti luminosi non sono ri-
produzioni fedeli del vero, sembrano piuttosto rispondere al bisogno di creare
molti punti luminosi sulla superficie pittorica.
Anche la posizione e la proporzione degli astri non sono correttamente ri-
prodotte. Il rapporto fra la Luna e l’Orsa Maggiore rispetto alla realtà non è
corretto, poiché l’Orsa Maggiore dovrebbe essere di circa dieci volte più estesa,
così come il supposto Delfino dovrebbe essere molto più piccolo del Grande
Carro. Inoltre, se si trattasse delle Pleiadi, queste dovrebbero essere posizionate
molto più a sud, quindi non dovrebbero rientrare nel pur ampio settore di cielo
rappresentato, orientato verso nord.
Un’altra distorsione è presente nella Via Lattea, più inclinata (plasticamente
modellata sulla diagonale del formato rettangolare del quadro) rispetto a quan-
to non sia nella realtà.
Il quadro presenta, inoltre, ancora un aspetto che potrebbe essere definito
...della di tipo meteorologico e che mette fortemente in discussione il tanto declamato
metereologia… realismo: quello della presenza delle nuvole intorno alla luna. Una situazione
meteorologica di questo tipo, infatti, renderebbe praticamente invisibili per lar-
ga parte del cielo molte stelle e la stessa Via Lattea.
REALISMO O ARTIFICIO? 51

Figg. 6-7. Adam Elsheimer, La fuga in Egitto, 1609, Monaco, Alte Pinakothek,
particolari.

Il cielo, di conseguenza, pur riproducendo alcuni elementi riconoscibili, non


mantiene la coerenza dal punto di vista della loro collocazione, e addirittura è
integrato – sempre che nel gruppetto di stelle sotto il possibile Delfino ci siano ...e della
le Pleiadi – con costellazioni esterne al già ampio settore di cielo rappresentato. riflessione
Va notato, inoltre, come a questa serie di “correzioni” a una resa fedele del da-
to percettivo si aggiunga il fatto che la luna, con le sue macchie, nel suo specchiar-
si nell’acqua trasgredisce una delle caratteristiche della riflessione (fig. 7), che con-
siste nel rispettare l’allineamento, lungo un asse, dell’oggetto con il suo riflesso.

2. La dimensione plastica: la “congiunzione” fra il terrestre e il celeste

Il quadro rappresenta l’episodio della fuga in Egitto, narrato dal Vangelo di


Matteo5. Nel pieno rispetto del testo scritto l’episodio si compie nella notte. Un La sinergia
angelo, apparso in sogno a Giuseppe, aveva invitato la Sacra famiglia a scappa- tra la notte
re da Betlemme per salvare Gesù dalla strage degli innocenti, voluta da re Ero- e la fuga
de. Il ricorso al notturno, quindi, sul piano narrativo, rimarca il tratto dello
scappare furtivamente, del fuggire senza essere visti. Al tempo stesso, la colloca-
52 LUCIA CORRAIN

zione temporale nelle tenebre, piene di insidie e di pericoli, diviene, nel conte-
sto del quadro, un modo per esaltare la valorizzazione della luce.
Il tipo di ambientazione, specie per la vegetazione che va progressivamente
aumentando da destra a sinistra, induce a pensare che i fuggitivi abbiano da po-
co lasciato un luogo abitato (come lascia intuire la presenza di animali da pasco-
lo all’estrema destra) e che si siano quindi addentrati nella folta vegetazione.
La complessiva superficie pittorica si articola longitudinalmente in tre parti.
Il settore a destra, con la luna che si riflette nell’acqua, marcato dall’unico albe-
ro completamente privo di fogliame del quadro. La fascia centrale, di ampiezza
doppia rispetto alle altre due, con il gruppo dei fuggitivi immerso nel luogo in
cui gli alberi rendono le tenebre ancora più impenetrabili. Infine, il settore a si-
nistra con i pastori circondati dalle mucche, dalle pecore e dalle capre, raccolti
intorno a un fuoco, area marcata dalle due mucche rivolte una verso destra e
l’altra verso sinistra.
Nel senso dell’altezza, invece, il dipinto è diviso in due parti dalla linea
che, con andamento curvilineo, delimita la vegetazione. Una “frontiera” che
L’articolazione scandisce lo spazio di competenza del terrestre da quello del celeste. I tre set-
topologica tori terrestri risultano così congiunti fra loro dalla rima della luce, declinata in
tre differenti manifestazioni: la luna nella sua articolazione di astro riflesso, la
torcia, il fuoco. La volta celeste resa in una visione panoramica di circa 180
gradi, si dispiega su tutto il rappresentato terrestre, con la sua progressiva vi-
sibilità: da circa tre quarti della superficie pittorica, nello spazio di destra, a
circa un quarto in quello di sinistra. In un cielo puntinato di stelle si indivi-
duano la Via Lattea e varie costellazioni, oltre alla luna piena, circondata da
nuvole. In aggiunta alla riflessione dell’astro nell’acqua, un’altra rima plastica,
anch’essa di tipo eidetico e cromatico, “collega” il terrestre con il celeste. Le
faville che si librano dal fuoco attizzato dal pastore, secondo una direzionalità
che va dal basso verso l’alto (plasticamente sottolineata dalla capra in secondo
piano)6 e l’agglomerato di stelle della Via Lattea sono, dal punto di vista for-
male e del colore, identiche così come identica è la loro funzione di emettere
luce7. La Via Lattea, disposta secondo la diagonale del formato rettangolare
del quadro, vede il suo inizio nell’angolo superiore sinistro, procede verso
l’angolo inferiore destro e, terminando il suo tragitto esattamente nel centro
della superficie pittorica, funge da vettore indicante il gruppo centrale dei
fuggitivi. L’ideale prolungamento della diagonale, individuata dalla Via Lat-
tea, passa tangente alla luna riflessa nell’acqua.
La
Topologicamente il gruppo dei fuggitivi è posizionato esattamente al centro
congiunzione del dipinto: la linea mediana verticale del formato rettangolare del piccolo rame
fra cielo e terra passa attraverso la testa di Maria e la mano di Giuseppe.
Il gruppo dei viaggiatori, con la sua posizione centrale e avanzata, è presso-
ché tangente al bordo inferiore del quadro. La tripartizione orizzontale, sottoli-
neata anche dalle masse della vegetazione, induce a valutare i rapporti di distan-
za fra le tre parti. L’apparente vicinanza fra l’asino e i bovini a sinistra potrebbe
far pensare a un imminente approdo al bivacco, situazione, però, contraddetta
dalla tranquillità degli animali e degli uomini intenti alle loro occupazioni8. Il
dipinto, quindi, sembra condensare lo spazio e quelle tre marcature preceden-
temente rilevate funzionano così alla stregua di cesure, quasi come se l’immagi-
ne fosse articolata in tre successivi “episodi”.
REALISMO O ARTIFICIO? 53

La parte centrale, inoltre, vive all’interno di una più definita visibilità, dovu-
ta sia alla discretizzazione cromatica sia, per alcune parti, a quella eidetica. In
questo settore, infatti, i colori sono denominabili (il rosso dell’abito di Giusep-
pe e il grigio del manto dell’asino, ecc.), e i contorni definiscono con esattezza i
particolari dei protagonisti (ad esempio, si vede la barba di Giuseppe), mentre
gli altri due settori, pur emergendo dalle tenebre, sono maggiormente impron-
tati dall’uniformità cromatica. L’indefinitezza cromatica blu-verde scuro carat-
terizza la zona occupata dalla luna, nella quale però le forme, proprio per la
particolare luminosità della stessa luna, sono sufficientemente distinguibili, lad-
dove, invece, una tonalità calda giallo-rossastra pervade il settore con i pastori,
rendendo dello stesso tono cromatico uomini, animali e fuoco.

3. Il viaggio: nel celeste il “percorso” da seguire

Se da un lato il gruppo dei fuggitivi emerge dalla scena presentata, parallela-


mente si trova a percorrere il tratto più difficile, più oscuro: ha già lasciato la zona
rischiarata dalla luna e non ha ancora raggiunto il tranquillo bivacco dei pastori.
I fuggitivi hanno a disposizione una torcia, la cui ampiezza di diffusione non
può che essere limitata e che, come lascia supporre la sua posizione ribassata, il-
lumina solo un piccolo settore all’interno di uno spazio esteso che le tenebre
annullano. La Sacra famiglia, allora, procede per successive percezioni locali, in
cui l’esplorazione dello spazio avviene per piccole estensioni, mancando una
competenza-visibilità della direzione sull’asse orizzontale9. Un’impresa quanto
mai ardua che può essere portata a termine solo recuperando l’asse verticale,
l’asse privilegiato per un sapere altro, come ben evidenziano quelle corrispon-
denze, descritte più sopra, fra faville e stelle.
Al di sopra del gruppo dei fuggitivi, infatti, si dispiega una volta celeste den-
samente costellata di astri, che si mostra anche dove la vegetazione è alquanto La luce
fitta, come sembra attestare la poco realistica stella posizionata fra i rami degli come guida
alberi quasi sopra la testa di Giuseppe. Una volta stellata che funge da guida e
fornisce una direzione che la torcia da sola non sarebbe in grado di dare: da est
verso ovest (essendo il nord posizionato all’incirca sopra la testa dei viaggiato-
ri), da Betlemme, ossia il pericolo, verso l’Egitto, ossia la salvezza. Ma si tratta
anche di un cielo che sembra andare addirittura contro le leggi meteorologiche
per favorire la fuga, in quanto – come si è già rilevato – la presenza delle nuvole
non potrebbe permettere una tale visibilità (e una conseguente luminosità).
Sembra che le nubi, in quanto vero e proprio elemento di instabilità, per un
frangente si siano squarciate allo scopo di agevolare il viaggio dei protagonisti
del racconto, ma che possano improvvisamente occultare la luna, rendere più o-
scura la notte, celando buona parte degli altri astri, e di conseguenza creare dif-
ficoltà a eventuali inseguimenti. Va anche detto che, oltre alle nubi, almeno un
altro tratto di instabilità “plastica” è presente nel dipinto: il fuoco, cui forse si
può associare anche la diagonalità della Via Lattea. Sembra, cioè, che la struttu-
ra plastica riesca a coniugarsi in modo efficace con il contenuto “fuga”.
La fuga in Egitto significa nascondere Cristo, portarlo in uno spazio altro, per
sottrarlo al volere di Erode. Ma per raggiungere questo spazio altro, un’altra parte
del mondo, le difficoltà da affrontare sono numerose. Il paesaggio, quindi, in que-
54 LUCIA CORRAIN

sto contesto, compare in qualità di “personaggio” dalla doppia valenza: da un lato


illustra i disagi e i pericoli della lunga via che conduce i fuggitivi alla salvezza, dal-
l’altro si tratta di una natura che si piega alla volontà soprannaturale.
I pastori che stanno attizzando il fuoco divengono l’approdo in cui Giusep-
pe, la Madonna e il Bambino potranno trovare ristoro. Il bivacco dei pastori rap-
presenta così il momento terminativo del programma narrativo parziale dei fug-
gitivi, preludio al lieto fine del viaggio. Il viaggio, infatti, troverà il suo compi-
mento nello spazio oltre quello rappresentato, come la posizione, rivolta verso si-
nistra, di alcuni uomini e animali sembra suggerire10. Anche se in questo settore
del dipinto la direzione predominante è quella della verticalità, in quanto le favil-
le creano, alla fine del percorso da destra a sinistra, un movimento verso l’alto.
La fuga in Egitto è, infatti, una delle condizioni necessarie affinché si possa rea-
lizzare la missione terrena di Cristo, che, alla fine di un lungo itinerario, troverà u-
La fuga gualmente la morte ma come tappa obbligata per la resurrezione.
come percorso Un percorso che nello spazio compositivo del quadro è integralmente rap-
parziale della
vita terrena presentato e che inizialmente segue, con i fuggitivi, una direzionalità da destra
di Cristo verso sinistra.
Da destra a sinistra, sull’asse orizzontale, si realizzano, infatti, dei cambia-
menti. Progressivo aumento delle zone d’ombra con le masse della vegetazione
che da dimensioni ridotte e rade si fanno più estese e fitte, trasformazione della
luce da naturale e diffusiva ad artificiale e locale. Il fuoco, meta del percorso,
con la sua intensità e attraverso le faville e il fumo, sale fino a congiungersi con
l’illuminazione celeste, la Via Lattea, superando le tenebre inglobanti e la rigo-
rosa separazione tra terrestre e celeste11.
Il punto cui giunge questa scia luminosa verticale è l’angolo sinistro del dipinto
da cui parte la linea diagonale discendente che, tramite una traslazione tangente al
bordo destro della massa centrale della vegetazione, termina nell’unico albero rin-
secchito dell’intero quadro: chiara ed evidente immagine di morte12. Albero che
ben risalta in controluce proprio per le favorevoli condizioni meteorologiche.
Ed è proprio questa immagine di morte che segna sia la conclusione terrena
del viaggio, del percorso di Cristo, sia il luogo d’accesso a un mondo di luce
non più solo riflessa (la luna nell’acqua) come era in partenza, ma alla luna vera,
reale, esplicito riferimento a una vita altra.
La luna lucente, infatti, che mostra l’albero rinsecchito in controluce, appar-
tiene allo spazio al di là dell’ombra, al di là delle nubi e non all’al di qua, dove
viene rappresentato il viaggio. L’astro celeste che appunto è posizionato nello
spazio dell’al di là e la cui luce non dipende dalla volontà umana, rimarca all’in-
terno del dipinto una parziale autonomia, come sembra confermare il suo ri-
specchiarsi non perfettamente in asse rispetto al riflesso. Autonomia che sottoli-
nea le implicazioni soprannaturali.
Questo percorso di lettura del dipinto mette seriamente in discussione il
Lo spazio realismo e, semmai, dichiara – ancora una volta – come l’effetto realismo scatu-
dell’al di là risca piuttosto da un elaborato gioco di artifici13.
Più che alla semplice, naturalistica descrizione di un paesaggio, siamo qui di
fronte, infatti, come si è visto, a un paesaggio che racconta una storia, in cui o-
gni elemento ha un suo ruolo (individuato da una posizione contrastiva rispetto
ad altri elementi, o ancora da uno scarto rispetto a una norma percettiva) all’in-
terno di una struttura narrativa.
REALISMO O ARTIFICIO? 55

4. Il paesaggio a lume di notte e l’osservatore

A questo punto dell’analisi è necessario procedere ritornando al paesaggio, più


precisamente guardare il paesaggio nella sua specifica valenza di notturno.
Una delle caratteristiche intrinseche della rappresentazione visiva di un paesag-
gio è la percezione/visione a distanza. Nella maggior parte dei casi, la prospettiva
aerea, l’illuminazione solare, e spesso una visione a “volo d’uccello”, consentono
allo spettatore di un paesaggio di percorrere interamente con lo sguardo uno spa-
zio aperto, esteso fino all’infinito, e distante – non a caso è la finestra l’elemento
metapittorico che ha concorso alla definizione del genere nel XVII secolo: la fine-
stra segnala la distanza dell’oggetto dal luogo di osservazione, marca la saparazione
del “qui” dell’osservatore dall’“altrove” osservato (Stoichita 1993, pp. 45-54).
Nel paesaggio di Elsheimer, la rappresentazione di questa ampia porzione di
mondo, di questo vasto arco di volta stellare, implica evidentemente anch’essa
un punto di vista sufficientemente distante.
Ma osservando attentamente il quadro, noteremo come la visione all’infinito
Il paesaggio
venga in realtà negata, e come quell’effetto di distanza tipico di ogni paesaggio notturno e la
sembri messo in discussione da una singolare percezione di vicinanza. A cosa è prossimità
dovuto tutto ciò?
Abbiamo già accennato alla prossimità del gruppo con Giuseppe, Maria e il
Bambino alla “soglia estetica”. Ma va anche notato che il gruppo dei viandanti si
staglia su un fondo uniforme estremamente scuro al centro della tela. Proprio
laddove l’occhio, in un paesaggio “diurno”, si proietterebbe nel punto di fuga di
un orizzonte infinito, lo sguardo incontra qui un “muro” nero dal quale i prota-
gonisti del viaggio sono ancora più fortemente proiettati verso l’osservatore.
Se consideriamo la disposizione delle fonti luminose sulla superficie pittori-
ca, noteremo inoltre che la luna – quella in cielo e quella riflessa –, il fuoco dei
pastori, e le aree da loro illuminate sono collocati tutti più in profondità rispet-
to alla torcia dei viandanti e alla zona da essa rischiarata.
Attraverso questa regia luministica, rinforzata dal maggiore contrasto luce-
ombra della parte centrale e la maggiore prossimità del gruppo dei fuggitivi allo
spettatore, il quadro nel suo insieme sembra costruire uno spazio “curvo”, o
meglio sembra creare un effetto di convessità, in cui la parte più sporgente è
quella in cui si trovano i viandanti, protagonisti principali del racconto.
In tal modo, il dipinto costruisce una strategia enunciativa capace di posizio-
nare l’osservatore, esattamente come i viandanti, sotto la volta celeste.
Ma con una differenza abbastanza significativa. Se i viandanti sono come
l’osservatore sotto la volta celeste, a loro, però, non è concesso vedere contem-
poraneamente gli altri segmenti narrativi del racconto, cioè quello alle loro spal-
le, attraverso cui hanno già transitato, e quello dove approderanno, mentre lo L’osservatore
spettatore proprio per le ridotte dimensioni del quadro (cm 31x41) e sebbene come astante
strategicamente equiparato ai fuggitivi, può vedere l’insieme generale del qua- partecipante
dro, conoscere la storia nella sua completezza.
L’illuminazione notturna, che sul piano dell’enunciato, selezionando il visibile,
rendendo “eterogeneo” lo spazio del quadro, creava gerarchie e percorsi struttu-
rando la narrazione e la lettura del dipinto, sul piano dell’enunciazione prefigura
e iscrive, per l’enunciatario una “posizione di enunciazione”, o, più precisamente
una sua iscrizione nel percorso narrativo dell’enunciato. Ciò, però, non significa
56 LUCIA CORRAIN

che, sebbene tematizzato, l’osservatore sia un ipotetico o reale fuggiasco: esso è


piuttosto coinvolto sul piano timico, nel senso che per la vicinanza vive in diretta
lo stato passionale dei protagonisti, ma al tempo stesso conosce anche l’evolversi
del racconto e addirittura quanto accadrà nel futuro della vita di Cristo.

1 Questo articolo riprende in parte la lettura del dipinto pubblicata in Corrain 1996, pp. 64-71.
2 Ottani Cavina 1976, p. 140. Una posizione che nel tempo è stata sempre più avvalorata tanto che
Salerno 1977-1978, pp. 119-120, sostiene che “solo un figlio dello spirito scientifico e romantico della
Germania poteva porre la pittura sulle basi della nuova scienza, ricalcando dall’ottica e dall’astronomia
un senso di poesia così sottile”.
3 Il Sidereus Nuncius, il libro in cui Galileo registra le sue osservazioni astronomiche con il cannoc-

chiale (relative alle macchie lunari e alla Via Lattea) fu pubblicato a Venezia nel 1610 (Galilei 1610). Va
in ogni caso registrata la posizione di Andrews (1977, p. 595), il quale a ridosso della pubblicazione del
saggio di Ottani Cavina espresse un’aperta critica rispetto ai contatti fra Galileo e Elsheimer.
4 La ricostruzione della volta celeste è stata condotta per noi, con l’ausilio del computer, dal profes-

sor Fabrizio Bònoli del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Bologna, che qui ringrazio per la
cortesia, competenza e passione con la quale ha condotto per noi la ricerca. Riguardo al rapporto con
Galileo, il professor Bònoli si esprime in forma critica, sostenendo che i dettagli sulla superficie della lu-
na non rispecchiano assolutamente le osservazioni di Galileo con il cannocchiale, ma piuttosto la volontà
di rendere al meglio le osservazioni a occhio nudo. Così come non è chiaro se il pittore abbia deliberata-
mente riempito di stelle la Via Lattea a significare la sua vera natura – come apparirà nelle osservazioni
telescopiche di Galileo – oppure abbia semplicemente voluto indicare che in quella zona del cielo le stel-
le si addensano.
5 “Ecco che un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: ‘Su, alzati, prendi con te

il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e rimani lì fino al mio nuovo avviso. Erode infatti è in cerca del
bambino per ucciderlo’. Egli si alzò, prese con sé il bambino e sua madre, nella notte, e partì per l’Egit-
to”, Vangelo di Matteo, 2, 13-15.
6 La capra, indipendentemente da ogni sua possibile valenza di contenuto iconologico, per la sua

particolare posizione, con le zampe anteriori poggiate più in alto di quelle posteriori, funziona come un
elemento che sottolinea proprio la direzionalità dal basso verso l’alto.
7 Ancora dal punto di vista plastico, la parte inferiore del fuoco, quando inizia a elevarsi verso l’alto,

ha un andamento pressoché parallelo a quello della Via Lattea.


8 Il bivacco può assurgere a vero e proprio motivo autonomo, quello del riposo nella fuga in Egitto,

avvalorando implicitamente l’effetto di episodi raccordati, precedentemente segnalato (si veda Réau
1960, vol. II, pp. 273-280). Rembrandt in una sua opera che ha alle spalle la conoscenza delle incisioni
tratte dal dipinto di Elsheimer da Hendrick Goudt, rappresenta, infatti, il Riposo nella fuga in Egitto
(1614), riprendendo da quella di Elsheimer il pastore che attizza il fuoco e la luna che si riflette nello
specchio d’acqua (cfr. Brown, Kelch, van Tiel 1991, pp. 239-241).
9 Per la problematica dell’illuminazione notturna cfr. Corrain 1996.
10 E forse un richiamo al futuro sviluppo della vita terrena di Cristo può essere racchiuso in quella

particolare opposizione fra l’ascesa delle faville e il volgersi verso il basso della fronda illuminata alla de-
stra della capra.
11 Con minor intensità questa linea di congiunzione vede nella possibile costellazione delle Pleiadi u-

na analogia formale e cromatica con la Via Lattea, funzionando di conseguenza alla stregua di un altro
raccordo.
12 Si potrebbe aggiungere che, per quanto la maggior lontananza rispetto agli altri alberi ne renda

difficile il suo specchiarsi, è anche l’unico del tutto privo di riflessione. In ogni caso quello che ci interes-
sa, indipendentemente dalla situazione reale, è che questo albero acquista rilievo anche per il fatto che è
privo di riflessione, di raddoppiamento.
13 Si veda Calabrese 1985a, p. 2, che scrive: “La assoluta verità coincide con l’assoluto artificio”.
L’appendice poetica di Henri Rousseau al suo ultimo dipinto1
Roman Jakobson

Ho conservato la mia ingenuità... Non potrò ora cambiare il mio


stile, che ho acquisito con un lavoro indefesso.
Henri Rousseau ad André Dupont, 1 aprile 1910

Poco prima della sua morte (2 settembre 1910), Henri Rousseau espose
un solo dipinto, Il sogno (tav. IV), al Salon des Indépendants (18 marzo – 1
maggio dello stesso anno) e scrisse a Guillaume Apollinaire (11 marzo 1910):
“Ho mandato il mio grande quadro, tutti lo trovano bello, penso che tu mo-
strerai il tuo talento letterario e mi vendicherai di tutti gli insulti e affronti ri- Il quadro
cevuti” (Apollinaire 1913, p. 56). L’articolo commemorativo di Apollinaire, e la poesia
Le douanier, riferisce che Rousseau non aveva mai dimenticato il suo giovani-
le amore polacco, Yadwigha (= Jadwiga), “che gli ispirò Il sogno, il suo capo-
lavoro”, ora in possesso del Museum of Modern Art di New York. Il saggio
di Apollinaire è integrato da alcuni esempi delle attività poetiche del pittore
(“gentils morceaux de poésie”), tra i quali la sua Inscription pour Le Rêve
(1913, pp. II, 65):

1 Yadwigha dans un beau rêve


2 S’étant endormie doucement
3 Entendait les sons d’une musette
4 Dont jouait un charmeur bien pensant.
5 Pendant que la lune reflète
6 Sur les fleuves, les arbres verdoyants,
7 Les fauves serpents prêtent l’oreille
2
8 Aux airs gais de l’instrument .

Questo ottastico era, a quanto si dice, allegato al quadro esposto. Nel Cata-
logue de la 26e Exposition della Société des artistes indépendants (Paris 1910, p.
294) il riferimento a “4468 Le Rêve” di Henri Rousseau è accompagnato dagli
stessi versi, stampati, però, con grossolani errori e distorsioni, ad esempio Ya-
durgha; la versione di Apollinaire rimane quindi la sola attendibile.
I quattro versi pari, “maschili”, della poesia terminano con una stessa vocale
nasale, mentre i quattro versi dispari, “femminili”, terminano con una sillaba
chiusa che ha per nucleo una varietà lunga o breve di [e]. Tra le rime approssima-
tive contenute in questi due gruppi di versi, quelle che legano insieme i due disti-
ci interni (versi 3-4 con 5-6) e, a loro volta, le rime dei due distici esterni (1-2 con I versi
maschili
7-8) rivelano una somiglianza supplementare tra le parole rimate rispetto alle rime e i versi
che caratterizzano le quartine: nei distici esterni la completa identità delle vocali femminili
sillabiche è rafforzata da una consonante prevocalica d’appoggio (1RÊve – 7oREil-
le; 2douceMENT – 8instruMENT), e nei distici interni una simile identità vocalica vie-
ne secondata dalla consonante postvocalica delle rime femminili (3musETTE – 5re-
flÈTE) o dall’evidente identità grammaticale delle parole con rima maschile (4pen-
sant – 6verdoyants, le due sole forme participiali della poesia).
58 ROMAN JAKOBSON

Come viene sottolineato dalle rime, l’ottastico presenta una netta divisione
tra i distici esterni (I, IV) e interni (II, III). Ciascuna di queste due coppie di di-
stici contiene un numero eguale di nomi, sei, con la stessa biforcazione in quat-
tro maschili e due femminili. Sia il verso iniziale sia quello finale, in ciascuna
I distici
delle due coppie di distici, contengono due nomi: uno femminile e uno maschi-
interni e i le nel verso iniziale (1Yadwigha, rêve; 3sons, musette), due maschili nel verso fi-
distici esterni nale (8airs, instrument; 6fleuves, arbres). La simmetria globale rivelata dai nomi
dei distici esterni e interni non trova alcun supporto nella distribuzione fra di-
stici dispari e pari o anteriori e posteriori, ma i due distici interni contengono lo
stesso numero di nomi, tre, in simmetria speculare (II: 3sons, musette, 4char-
meur; III: 5lune, 6fleuves, arbres), e, di conseguenza, il rapporto fra i nomi dei di-
stici pari e dispari – sette a cinque – è identico al rapporto fra i nomi dei distici
posteriori e anteriori.
Ciascuna delle due quartine comprende una frase con due soggetti e due
predicati finiti. Ogni distico dell’ottastico contiene un soggetto, mentre nella di-
stribuzione dei finiti – tre a uno – il rapporto fra i distici pari e dispari è eguale
al rapporto fra i distici interni ed esterni.
I soggetti dei distici esterni appartengono alle due proposizioni principali del-
la poesia, mentre i due soggetti dei distici interni fanno parte di proposizioni su-
bordinate. I soggetti principali danno inizio al verso (1Yadwigha dans un beau rê-
ve; 7Les fauves serpents) per contrasto con la posizione non iniziale dei soggetti
subordinati (4Dont jouait un charmeur; 5pendant que la lune). I soggetti femmini-
I soggetti li compaiono nei distici dispari dell’ottastico e quelli maschili nei distici pari. In
principali
e i soggetti ciascuna quartina il primo soggetto è quindi femminile e il secondo maschile:
secondari 1Yadwigha – 4charmeur; 5lune – 7serpents. Di conseguenza, i due distici anteriori
(la prima quartina della poesia), con il genere femminile del soggetto principale
Yadwigha e il maschile del soggetto subordinato charmeur, sono diametralmente
opposti ai distici posteriori (seconda quartina), dove il soggetto principale ser-
pents è maschile e il soggetto subordinato lune è femminile. Il genere personale
(umano) distingue i soggetti grammaticali dei distici anteriori (1Yadwigha, 4char-
meur) dai soggetti non personali dei distici posteriori (5lune, 7serpents).
Questi dati si possono riassumere in una tabella, dove le parole in corsivo
indicano la posizione dei quattro soggetti nella composizione dell’ottastico, e le
parole in tondo ne denotano le proprietà grammaticali:
L’APPENDICE POETICA DI HENRI ROUSSEAU AL SUO ULTIMO DIPINTO 59

Questa distribuzione dei quattro soggetti grammaticali si rivela corrispon-


dente alla disposizione relativa dei loro referenti pittorici sulla tela di Rousseau:

Le figure pittoriche delle zone in primo piano sono rese nella poesia dalla
posizione dei soggetti principali nei distici esterni, divergenti, mentre le figure
dello sfondo, spostate verso l’alto e scorciate nel dipinto, presentano soggetti
subordinati assegnati ai distici interni, convergenti, dell’ottastico. L’interessante
saggio di Tristan Tzara (1962), pubblicato come introduzione alla mostra dei
dipinti di Henri Rousseau, tenuta alla Sidney Janis Gallery (New York 1951),
tratta “la funzione del tempo e dello spazio nella sua opera” e fa rilevare la per-
tinenza e la particolarità della “prospettiva nella concezione di Rousseau” e,
specialmente, un tratto significativo delle sue grandi composizioni: una serie di
movimenti frazionati “in singoli elementi, vere e proprie sezioni di tempo fra lo-
ro collegate tramite una specie di operazione aritmetica”.
Mentre l’incantatore e la luna piena fronteggiano lo spettatore, le figure di
profilo di Yadwigha e del serpente sono rivolte l’una verso l’altra; la sinuosità La frontalità
del serpente fa riscontro alla curva dell’anca e della gamba della donna, e le fel- e il profilo
ci verdi verticali si protendono sotto queste due curve e puntano verso l’anca di
Yadwigha e verso la curva superiore del rettile. In realtà, questo serpente chiaro
e snello spicca contro un altro serpente, più grosso, nero e appena visibile; que-
st’ultimo rispecchia la pelle dell’incantatore, mentre il primo corrisponde al co-
lore di una striscia della sua cintura variegata. I fiori blu e viola si levano al di
sopra di Yadwigha e dei due serpenti. Nella poesia, due costruzioni parallele
collegano l’eroina ai rettili: 3Entendait les sons d’une musette e 7prêtent l’oreille
8Aux airs gais de l’instrument.
A questo proposito, si pongono alcune questioni stimolanti circa il genere
grammaticale. Ai due soggetti femminili della poesia il dipinto risponde con due
fondamentali tratti caratteristici di Yadwigha e della luna: il loro diverso pallore
in confronto ai colori più intensi dell’ambiente, in particolare dell’incantatore e
dei rettili, e la rotondità simile della luna piena e del petto della donna in con-
fronto al corpo appuntito del serpente chiaro e al flauto dell’incantatore. La Le rime
“sexuisemblance” dei generi femminile e maschile, sentita da ogni membro della plastiche
comunità francofona, è stata analizzata in modo chiaro ed esauriente da Damou-
rette e Pichon nel primo volume della loro fondamentale opera Des mots à la
pensée. Essai de grammaire de la langue française (Paris 1911-1927), cap. IV:
60 ROMAN JAKOBSON

Tutti i sostantivi nominali francesi sono maschili o femminili: è un fatto incontestabi-


le e incontestato. L’immaginazione nazionale è arrivata a non concepire più sostanze
nominali se non contenenti in se stesse un’analogia con uno dei due sessi di modo
che il riferimento sessuale finisce con l’essere un tipo di classificazione generale di
queste sostanze (§ 302) (...) Esso ha nel linguaggio, e dunque nel pensiero, di ogni
francese un ruolo costante (§ 306) (...) Questa ripartizione non ha evidentemente un
carattere puramente intellettuale. Ha qualcosa di affettivo (...). Il riferimento sessua-
le è tanto nettamente un confronto col sesso che i vocaboli francesi femminili al fi-
gurato non possono essere confrontati che con donne (§ 307) (...) Il criterio del rife-
rimento sessuale è il modo di espressione della personificazione delle cose (§ 309).

È importante notare che i quattro femminili della poesia di Rousseau sono


contenuti nei quattro versi dispari. Essi iniziano il verso quando fungono da
soggetti grammaticali nei distici dispari e lo terminano quando hanno funzione
di complemento nei distici pari.
La stretta associazione del genere femminile con i versi dispari, ossia “fem-
minili”, richiede un’interpretazione. La tendenza a differenziare le forme fem-
I generi minili e maschili tramite la terminazione chiusa o aperta della parola (Damou-
grammaticali rette, Pichon 1911-1927, § 272) produce un’associazione tra la sillaba finale del
verso, chiusa o aperta, e il genere, femminile o maschile. Anche il termine “rime
femminili”, di uso comune persino nei manuali elementari francesi, può aver fa-
vorito la distribuzione dei nomi femminili in questi versi.
Nei versi di Rousseau la distribuzione dei generi è soggetta a un principio
dissimilativo. L’oggetto più prossimo al verbo appartiene al genere opposto a
quello del soggetto della proposizione, e se vi è un altro modificatore subordi-
nato, sia adverbale o adnominale, esso mantiene il genere del soggetto; in tal
modo il ruolo dei generi nella poesia assume un particolare risalto: 1Yadwigha
(f.)... 3Entendait les sons (m.) d’une musette (f.); 4Dont [che si riferisce a musette
(f.)] jouait un charmeur (m.); 51a lune (f.) reflète 6… les arbres (m.); 7Les fauves
serpents (m.) prêtent l’oreille (f.) 8Aux airs gais (m.).
Il primo piano del dipinto e della poesia di Rousseau appartiene a Yadwigha
e ai serpenti; ritorna alla mente Eva, il suo quadro di poco precedente, con lo
stupendo duetto dei due profili, la donna nuda e il serpente (cfr. Vallier 1970,
tav. xxv). Questa gerarchia delle dramatis personae è stata però trascurata dai
critici. Così nel suo panegirico del 18 marzo 1910 (1960, p. 76): De ce tableau se
dégage de la beauté, Apollinaire vedeva la donna nuda su un sofà, la vegetazione
Il primo piano tropicale attorno a lei, con scimmie e uccelli del paradiso, un leone, una leones-
e lo sfondo sa e un negro che suonava il flauto – “personaggio misterioso”. Ma dei serpenti
e della luna non faceva menzione. Anche Bouret (1961, p. 50) limitava la sua a-
nalisi dell’ordine compositivo ne Il Sogno al suonatore di flauto, alla tigre (?),
all’uccello e alla donna sdraiata. Questi osservatori si fermano alla sezione sini-
stra, più estesa del dipinto, senza passare alla parte minore, sulla destra, argo-
mento della seconda quartina. La fase iniziale di lettura del dipinto è, natural-
mente, la parte sinistra: “questa donna addormentata sul canapè”, che sogna di
essere stata trasportata “in questa foresta, e sente il suono dello strumento del-
l’incantatore”, secondo la spiegazione che il pittore ha dato del suo quadro (A-
pollinaire 1913, p. 57). Da Yadwigha e dal misterioso incantatore, l’attenzione
si sposta alla seconda anta del dittico, separata dalla prima tramite un fiore blu
su un lungo stelo, che corrisponde a una pianta simile sulla sinistra dell’eroina.
L’APPENDICE POETICA DI HENRI ROUSSEAU AL SUO ULTIMO DIPINTO 61

L’ordine narrativo e la successiva appercezione e sintesi della tela Il Sogno (cfr.


Luria 1962) trovano una precisa corrispondenza nella transizione dalla prima
quartina, con i suoi due imperfetti paralleli – o preteriti presenti, secondo la ter-
minologia di Tesnière – (3entendAIT – 4jouAIT), ai due presenti rimati della se-
conda quartina (5reflÈTE – 7prÊTEnt) e nella sostituzione di soli articoli definiti
(5la lune, 6les fleuves, les arbres, 7les serpents, l’oreille, 8aux airs, l’instrument) a-
gli articoli indefiniti che, con l’unica eccezione di 3les sons, dominano la prece-
dente quartina (1un reve, 3une musette, 4un charmeur).
Sia nella composizione poetica sia in quella pittorica di Rousseau, l’azione
drammatica è retta dai quattro soggetti della poesia e dai loro referenti visivi
sulla tela. Come si è rilevato sopra, tutti sono fra loro collegati secondo tre con-
trasti binari, espressi con grande evidenza dal poeta-pittore, che trasformano
questo insolito quartetto in sei coppie di opposti, le quali determinano e diver- L’articolazione
dei soggetti
sificano la trama verbale e grafica. Nell’Inscription ciascuno dei quattro soggetti dell’azione
è provvisto di un ulteriore tratto categoriale, che lo contrappone agli altri tre drammatica
corrispondenti: Yadwigha è il solo nome proprio della poesia, un charmeur, il
solo appellativo personale; les serpents, il solo plurale animato; la lune il solo i-
nanimato tra i quattro soggetti. Questa diversità è accompagnata da una diffe-
renza degli articoli: l’articolo zero che segnala il nome proprio, l’indefinito un,
seguito dal plurale les e dal femminile la dell’articolo definito.
Una molteplice interazione di somiglianze e divergenze concomitanti sot-
tende e vivifica Il Sogno scritto e quello dipinto in tutte le sue sfaccettature: il
silenzio della notte, illuminata dalla luna, interrotto dalle melodie di un incan-
tatore di pelle scura; la malia del chiaro di luna e gli incanti musicali; il sogno
lunare della donna; due ascoltatori delle melodie magiche, la donna e il ser-
pente, che sono estranei e al tempo stesso si attraggono; il serpente come leg-
gendario tentatore della donna e tradizionale bersaglio dell’incantatore di ser-
penti e, d’altra parte, il massimo contrasto e la misteriosa affinità tra la pallida
Yadwigha sul suo sofà vecchiotto e il ben intenzionato flautista tropicale nella Somiglianze
e divergenze
sua foresta vergine; e, in fondo, agli occhi dell’inquilino del 2 bis, rue Perrel, tra il quadro
l’attraente tocco di esotismo che accomuna il mago africano e l’incantatrice e la poesia
polacca dal nome complicato.
Quanto al leone scortato da una leonessa, che nella poesia è omesso, nel
quadro esso appartiene al triangolo del flautista e, come ha osservato Bouret
(1961), ne costituisce il “vertice” rivolto verso il basso. Questo muso che si pre-
senta di fronte sembra essere un doppio dell’incantatore posto al di sopra e, al-
lo stesso modo, l’uccello chiaro posto di profilo sopra Yadwigha appare come
un suo doppio. Ma nella comparazione iconografica della tela e della poesia di
Rousseau la nostra attenzione si è concentrata sul loro denominatore comune,
facilmente estraibile malgrado i diversi elementi scenici, ad esempio i fiumi che
riflettono gli alberi nella poesia o l’abbondanza zoologica nel dipinto.
Come l’Infant Sorrow di Blake, l’ottastico di Rousseau, per garantire la coe-
sione tra i distici, chiaramente differenziati, li collega per mezzo di forti legami
fonologici tra i versi pari e i successivi dispari: /2setã tãdormi dusmãt 3ãtãde/;
/4pãsã 5pãdã/. Inoltre, gli ultimi due distici sono uniti da una tessitura fonica
che ha grande risalto: 6les FLeuVes – 7Les FauVes (con due vocali arrotondate
corrispondenti); 6SuR... leS aRBRes – 7SeRPents PRêtent (dove il fonema /R/ si al-
terna a consonanti continue sibilanti e a occlusive labiali).
62 ROMAN JAKOBSON

Nella mia naturale conclusione seguo Vratislav Effenberger (1963), quan-


do questo esperto ceco dell’opera di Henri Rousseau la definisce come “un
segno di crescente simbiosi tra pittura e poesia” […].

1 Da Roman Jakobson, “L’appendice poetica di Henri Rousseau al suo ultimo dipinto”, in Poetica e

poesia, 1985, Torino, Einaudi, pp. 417-424; tit. or., On the Verbal Art of William Blake and Other Pain-
ters, «Linguistic Inquiry», I, 1970, n. 1, pp. 3-23. Traduzione di Luca Fontana.
2 Yadwigha in un bel sogno / essendosi addormentata dolcemente / sentiva il suono di un flauto /

che suonava un incantatore di buon cuore. / Mentre la lune riflette / sui fiumi gli alberi verdeggianti, / i
selvaggi serpenti prestano orecchio / ai gai motivi dello strumento.
Il dubbio di Cézanne1
Maurice Merleau-Ponty

Gli ci volevano cento sedute di lavoro per una natura morta e centocinquan-
ta sedute di posa per un ritratto. Quella che noi chiamiamo la sua opera, per lui
era soltanto l’esperimento e l’avvio della sua pittura. Scrive nel settembre 1906, a
67 anni, un mese prima di morire: “Mi trovo in un tale stato di disordine cere-
brale, in così grande agitazione, che ho temuto, a un certo momento, che la mia
debole ragione non ce la facesse... Ormai mi sembra di star meglio e di pensar
più giusto nell’orientamento dei miei studi. Arriverò allo scopo tanto cercato e
così a lungo perseguito? Studio sempre dal vero e mi sembra di fare lenti pro-
gressi”. La pittura è stata il suo mondo e la sua maniera di esistere. Lavora solo,
senza allievi, senza ammirazione da parte della sua famiglia, senza incoraggia-
mento di giurie. Dipinge il pomeriggio del giorno della morte di sua madre. Nel
1870, dipinge all’Estaque mentre i gendarmi lo ricercano come renitente. Eppu-
re gli capita di mettere in dubbio tale vocazione. Invecchiando, si chiede se la
novità della sua pittura non derivi da un disordine dei suoi occhi, e se tutta la
sua vita non si sia impostata in base a un difetto del suo corpo. A questo sforzo e
a questo dubbio corrispondono le incertezze o gli sciocchi pregiudizi dei con-
temporanei. Pittura di bottinaio ubriaco” diceva un critico nel 1905. Ancor oggi,
Mauclair trae argomento contro Cézanne dalle sue confessioni d’impotenza. Nel
frattempo, i suoi quadri diventano celebri. Perché mai tanta incertezza, tanta fa-
tica, tanti fallimenti, e all’improvviso il più grande successo?
Zola, che era amico di Cézanne sin dall’infanzia, è stato il primo a trovarlo Cézanne
geniale, e il primo a parlarne come d’un “genio abortito”. Uno spettatore della e i giudizi dei
vita di Cézanne, come Zola, più interessato al suo carattere che non al senso contemporanei
della sua pittura, poteva ben ritenerla una manifestazione morbosa.
Sin dal 1852, ad Aix, al collegio Borbone dove era appena entrato, Cézanne
preoccupava gli amici con le sue collere e le sue depressioni. Sette anni più tardi,
deciso a diventare pittore, dubita del proprio talento e non osa chiedere al padre,
cappellaio e poi banchiere, di mandarlo a Parigi. Le lettere di Zola gli rimprovera-
no l’instabilità, la debolezza e l’indecisione. Viene a Parigi, ma scrive: “Non ho fat-
to che cambiar posto e la noia m’ha seguito”. Non tollera la discussione, perché lo
affatica e perché non sa mai dire le sue ragioni. Il fondo del suo carattere è ansioso.
A quarantadue anni, pensa di morir giovane e fa testamento. A quarantasei anni,
per sei mesi, è pervaso da una passione impetuosa, tormentata, opprimente, di cui
si ignora la conclusione e di cui non parlerà mai. A cinquantun’anni, si ritira ad
Aix, per trovarvi la natura che meglio si conviene al suo genio, ma anche per ripie-
garsi sull’ambiente della sua infanzia, sua madre e sua sorella. Quando sua madre
morirà, egli s’appoggerà sul figlio. “È spaventosa, la vita” diceva spesso. La religio-
64 MAURICE MERLEAU-PONTY

ne, che si mette allora a praticare, comincia per lui con la paura della vita e la pau-
ra della morte. “È la paura” spiega a un amico, “mi sento ancora per quattro gior-
ni sulla terra; e poi? Credo che non sopravviverò e non voglio rischiare di arrostire
in aeternum”. Per quanto si sia più tardi approfondita, il motivo iniziale della sua
religione è stato il bisogno di fissare la sua vita e di dimettersene. Diventa sempre
più timido, diffidente e suscettibile. Viene talvolta a Parigi, ma, quando incontra a-
mici, fa loro segno da lontano di non avvicinarlo. Nel 1903, quando i suoi quadri
cominciano a vendersi a Parigi due volte più cari di quelli di Monet, quando gio-
vani come Joachim Gasquet ed Émile Bernard vengono a trovarlo e a interrogarlo,
si distende un po’. Ma le collere persistono. Un bambino d’Aix l’aveva una volta
colpito passandogli vicino; da allora non poteva più sopportare un contatto. Un
giorno della sua vecchiaia, siccome barcollava, Émile Bernard lo sostenne con la
mano. Cézanne andò in gran collera. Lo si sentiva camminare in su e in giù nel suo
studio gridando che non si sarebbe lasciato mettere “le zampe addosso”. Proprio a
causa delle “zampe” escludeva dal suo studio le donne che avrebbero potuto ser-
virgli da modelle, dalla sua vita i preti che diceva “attaccaticci”, e dal suo spirito le
teorie di Émile Bernard quando si facevano troppo insistenti.
La perdita dei contatti tranquilli con gli uomini, l’impotenza a padroneggia-
re le situazioni nuove, la fuga nelle abitudini, in un ambiente che non ponga
problemi, la rigida opposizione fra teoria e pratica, fra “zampe” e libertà solita-
ria – tutti questi sintomi consentono di parlare di una costituzione morbosa e,
per esempio, come si è fatto per El Greco, di uno schizoide. L’idea di una pittu-
ra “dal vero” verrebbe a Cézanne dalla stessa debolezza. La sua estrema atten-
La devozione
al visibile
zione alla natura, al colore, il carattere disumano della sua pittura (diceva che
come fuga un viso va dipinto come un oggetto), la sua devozione al mondo visibile non sa-
dal mondo? rebbero che una fuga dal mondo umano, l’alienazione della sua umanità.
Tali congetture non danno il senso positivo dell’opera, onde non se ne può
concludere senz’altro che la sua pittura sia un fenomeno di decadenza e, come
afferma Nietzsche, di vita “impoverita”, e nemmeno che essa non abbia niente
da insegnare all’uomo completo. Probabilmente Zola ed Émile Bernard hanno
creduto a uno scacco appunto per aver lasciato troppo posto alla psicologia e
alla loro conoscenza personale di Cézanne. Resta possibile che, in occasione
delle sue debolezze nervose, Cézanne abbia concepito una forma di arte valida
per tutti. Lasciato a se stesso, ha potuto guardare la natura come solo un uomo
sa fare. Il senso della sua opera non può essere determinato dalla sua vita.
Né lo si può conoscere meglio in base alla storia dell’arte, cioè riferendosi al-
le influenze (degli italiani e di Tintoretto, di Delacroix, di Courbet e degli im-
pressionisti), ai procedimenti di Cézanne, o magari alla testimonianza che egli
stesso fornì sulla sua pittura.
I suoi primi quadri, fin verso al 1870, sono sogni dipinti, un Rapimento, un
Assassinio. Nascono dai sentimenti e vogliono in primo luogo provocare senti-
menti. Sono dunque quasi tutti dipinti a grandi linee e offrono la fisionomia mo-
rale dei gesti più che il loro aspetto visibile. Agli impressionisti, in particolare a
Cézanne e Pissarro, Cézanne deve di aver inteso poi la pittura non come l’incarnazione di
l’impressionismo scene immaginate o la proiezione esterna dei sogni, ma come lo studio preciso
delle apparenze, non tanto come un lavoro di studio quanto come un lavoro a-
perto alla natura, e di aver lasciato la fattura barocca, che cerca anzitutto di ren-
dere il movimento, per i piccoli tocchi giustapposti e i tratteggi pazienti.
IL DUBBIO DI CÉZANNE 65

Ma s’è presto separato dagli impressionisti. L’impressionismo voleva rendere


nella pittura la maniera medesima in cui gli oggetti ci colpiscono la vista e ag-
grediscono i nostri sensi. Li rappresentava nell’atmosfera in cui li dà la perce-
zione istantanea, senza contorni assoluti, collegati tra loro dalla luce e dall’aria.
Per rendere questo involucro luminoso, bisognava escludere i terra, gli ocra e i
neri, e utilizzare soltanto i sette colori del prisma. Per rappresentare il colore
degli oggetti, non bastava riportarne sulla tela la tonalità locale, ossia il colore
che assumono quando li si isola da quanto li circonda, bisognava tener conto
dei fenomeni di contrasto che nella natura modificano i colori locali. Per di più,
ogni colore che vediamo in natura provoca, per una specie di contraccolpo, la
visione del colore completamentare, e tali complentari si esaltano. Per ottenere
sul quadro, che sarà visto nella debole luce degli appartamenti, lo stesso aspetto
dei colori sotto il sole, bisogna dunque farvi figurare non solo il verde, se si trat-
ta d’erba, ma anche il rosso complementare che lo farà vibrare. Infine, anche la
tonalità locale viene decomposta negli impressionisti. Si può in generale ottene-
re ogni colore giustapponendo, anziché mescolarli, i colori componenti, per
renderli più vibranti. Risultava da questi procedimenti che la tela non era più
paragonabile alla natura punto per punto, ma restituiva, grazie all’azione reci- La
composizione
proca delle parti fra loro, una verità generale dell’impressione. Ma la pittura della tavolozza
dell’atmosfera e la divisione dei toni annegavano in pari tempo l’oggetto e ne di Cézanne
dissolvevano la pesantezza sua propria. La composizione della tavolozza di Cé-
zanne fa presumere che egli si dia un altro scopo: ci sono non i sette colori del
prisma, ma diciotto colori, sei rossi, cinque gialli, tre blu, tre verdi, un nero.
L’uso dei colori caldi e del nero mostra che Cézanne vuole rappresentare l’og-
getto, ritrovarlo dietro l’atmosfera. Così pure egli rinuncia alla divisione del to-
no e la sostituisce con mescolanze graduate, con un succedersi di sfumature
cromatiche sull’oggetto, con una modulazione colorata che segue la forma e la
luce ricevuta. La soppressione dei contorni precisi in taluni casi e la priorità del
colore sul disegno non avranno evidentemente lo stesso senso in Cézanne e nel-
l’impressionismo. L’oggetto non è più coperto di riflessi né perduto nei suoi
rapporti con l’aria e con gli altri oggetti, ma è come illuminato sordamente dal-
La luce
l’interno, la luce emana da lui, onde ne risulta un’impressione di solidità e di come proprietà
materialità. Cézanne non rinuncia d’altronde a far vibrare i colori caldi e ottiene dell’oggetto
questa sensazione colorante con l’impiego del turchino.
Bisognerebbe quindi dire che egli ha voluto ritornare all’oggetto senza ab-
bandonare l’estetica impressionista, che prende modello dalla natura. Émile
Bernard gli ricordava che un quadro, per i classici, esige circoscrizioni mediante
i contorni, composizione e distribuzione delle luci. Cézanne risponde: “Loro fa-
cevano il quadro e noi tentiamo un pezzo di natura”. Egli ha detto dei maestri
che essi “sostituiscono la realtà con l’immaginazione e con l’astrazione che li ac-
compagna”, e della natura che “bisogna sottomettersi a quest’opera perfetta.
Tutto ci proviene da essa, per essa noi esistiamo; dimentichiamo tutto il resto”.
Dichiara di aver voluto rendere l’impressionismo “qualcosa di solido come l’ar-
te dei musei”. La sua pittura sarebbe un paradosso: ricerca della realtà senza
abbandono della sensazione, senza altra guida che la natura nell’impressione
immediata, senza precisare i contorni, senza circoscrivere il colore nel disegno,
senza comporre la prospettiva né il quadro. Ecco appunto quel che Bernard
chiama il suicidio di Cézanne: egli ha di mira la realtà e si vieta gli strumenti per
66 MAURICE MERLEAU-PONTY

raggiungerla. In ciò consisterebbe la ragione delle sue difficoltà e anche delle


deformazioni riscontrabili in lui soprattutto tra il 1870 e il 1890. I piatti o le taz-
ze collocati di profilo su un tavolo dovrebbero essere ellissi, ma i due vertici
dell’ellisse sono ingrossati e dilatati. Il tavolo di lavoro, nel ritratto di Gustave
Geffroy, è disposto nella parte bassa del quadro, contro le leggi della prospetti-
va. Lasciando il disegno, Cézanne si sarebbe abbandonato al caos delle sensa-
zioni. Orbene, le sensazioni farebbero vacillare gli oggetti e suggerirebbero co-
stantemente delle illusioni, come fanno talvolta – per esempio l’illusione di un
movimento degli oggetti quando muoviamo la testa –, se il giudizio non correg-
gesse di continuo le apparenze. Cézanne avrebbe, dice Bernard, sprofondato
“la pittura nell’ignoranza e il suo spirito nelle tenebre”.

Fig. 8. Paul Cézanne, Ritratto di Gustave Geffroy, 1895-1896, olio su tela, 116 x 89 cm, Parigi, Mu-
sée d’Orsay.
IL DUBBIO DI CÉZANNE 67

In realtà, si può giudicare così la sua pittura solo non tenendo conto della
metà di quel che ha detto e chiudendo gli occhi dinanzi a quel che ha dipinto.
Nei suoi dialoghi con Émile Bernard, è chiaro che Cézanne cerca sempre di
sfuggire alle alternative già bell’e fatte che gli si propongono – fra sensi e intelli-
genza, fra pittore che vede e pittore che pensa, fra natura e composizione, fra
primitivismo e tradizione. “Bisogna farsi un’ottica” dice, ma “per ottica intendo
una visione logica, cioè senza niente d’assurdo”. “Si tratta della nostra natura?”
chiede Bernard. Cézanne risponde: “Si tratta di entrambe. La natura e l’arte
non sono forse differenti? Vorrei unirle. L’arte è un’appercezione personale. Io
pongo tale appercezione nella sensazione e domando all’intelligenza di organiz-
zarla in opera”. Ma anche queste formule si valgono troppo delle nozioni abi-
tuali di “sensibilità” o “sensazione” e di “intelligenza”, ed ecco perché Cézanne
non poteva persuadere e preferiva dipingere. Anziché applicare alla sua opera
dicotomie, che d’altronde appartengono più alle tradizioni di scuola che ai fon-
datori – filosofi o pittori – di tali tradizioni, sarebbe meglio essere docili al sen-
so peculiare della propria pittura, che è di rimetterle in questione. Cézanne non Dipingere la
ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e ordine. materia nel suo
Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro farsi forma
labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si sta dando una for-
ma, l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. Non introduce la
frattura tra “i sensi” e l’“intelligenza”, ma tra l’ordine spontaneo delle cose per-
cepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze. Noi percepiamo le cose, ci in-
tendiamo su di esse, siamo ancorati a esse e solo su queste fondamenta di “na-
tura” costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo pri-
mordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua
origine, mentre le fotografie dei medesimi paesaggi suggeriscono i lavori degli
uomini, le loro comodità e la loro presenza imminente. Cézanne non ha mai vo-
luto “dipingere come un bruto”, ma rimettere l’intelligenza, le idee, le scienze,
la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo naturale che esse sono de-
stinate a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scien-
ze “che ne sono scaturite”.
Le ricerche di Cézanne nella prospettiva scoprono, in virtù della loro fedeltà
ai fenomeni, quanto la psicologia recente doveva formulare. La prospettiva vis-
suta, quella della nostra percezione, non è la prospettiva geometrica o fotografi-
ca: nella percezione, gli oggetti vicini sembrano più piccoli, e gli oggetti lontani
più grandi, di quanto non lo sembrino su una fotografia, come si può osservare
al cinema quando un treno s’avvicina e ingrandisce molto più rapidamente di
un treno reale nelle medesime condizioni. Dire che un cerchio visto obliqua-
mente è visto come un’ellisse, significa sostituire alla percezione effettiva lo Le deformazio-
schema di quel che dovremmo vedere se fossimo macchine fotografiche: in ni prospettiche
realtà vediamo una forma che oscilla intorno all’ellisse senza essere un’ellisse. In
un ritratto della signora Cézanne, il fregio della tappezzeria, ai due lati del cor-
po, non costituisce una linea retta: ma è noto che se una linea passa sotto una
larga striscia di carta, i due tronconi visibili sembrano dislocati. Il tavolo di Gu-
stave Geffroy è disposto nella parte bassa del quadro, ma quando il nostro oc-
chio percorre una larga superficie, le immagini che ottiene volta a volta sono
prese da differenti punti di vista e la superficie totale è incurvata. È vero che, ri-
portando sulla tela queste deformazioni, le fisso e arresto il movimento sponta-
68 MAURICE MERLEAU-PONTY

Fig. 9. Paul Cézanne, Ritratto di Madame Cézanne nella poltrona gialla, 1888-1890, olio su tela,
81 x 65 cm, Chicago, The Art Institute.

neo per cui si ammassano le une sulle altre nella percezione e tendono verso la
prospettiva geometrica. È quanto succede anche a proposito dei colori. Una ro-
sa su un foglio di carta grigio colora di verde lo sfondo. La pittura di scuola di-
pinge lo sfondo di grigio, contando sul fatto che il quadro, come l’oggetto reale,
produrrà l’effetto di contrasto. La pittura impressionista mette del verde sullo
sfondo, per ottenere un contrasto tanto vivo quanto quello degli oggetti all’aria
IL DUBBIO DI CÉZANNE 69

aperta. Non falsa forse, in tal modo, il rapporto fra i toni? Lo falserebbe se si li-
mitasse a questo. Ma è proprio del pittore far sì che tutti gli altri colori del qua-
dro, convenientemente modificati, tolgano al verde posto sullo sfondo il carat-
tere di colore reale. Analogamente, il genio di Cézanne fa sì che le deformazioni
prospettiche, in virtù dell’impianto complessivo del quadro, cessino di essere
visibili per se stesse quando lo si guarda globalmente, e contribuiscano soltanto,
come fanno nella visione naturale, a dare l’impressione di un ordine nascente,
di un oggetto che sta comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi. Al- Il contorno
lo stesso modo il contorno degli oggetti, concepito come una linea che li recin- degli oggetti
ga, non appartiene al mondo visibile ma alla geometria.
Se si segna con una linea il contorno d’una mela, lo si rende una cosa, men-
tre esso è il limite ideale verso cui i lati della mela fuggono in profondità. Non
segnare nessun contorno significherebbe togliere agli oggetti la loro identità.
Segnarne uno solo significherebbe sacrificare la profondità ossia la dimensione
che ci dà la cosa, non come esibita davanti a noi, ma come piena di riserve e co-
me realtà inesauribile. Ecco perché Cézanne seguirà in una modulazione colo-
rata il rigonfiamento dell’oggetto e segnerà a tratti turchini parecchi contorni
(tav. V). Lo sguardo, rinviato dall’uno all’altro, avverte un contorno nascente tra
loro tutti come fa nella percezione. Non c’è niente di meno arbitrario di quelle
celebri deformazioni, che d’altronde Cézanne abbandonerà nel suo ultimo pe-
riodo, a partire dal 1890, quando non riempirà più la tela di colori e abbando-
nerà l’esecuzione serrata delle nature morte.
Il disegno deve dunque risultare dal colore, se si vuole che il mondo sia reso
nella sua densità, poiché esso è una massa senza lacune, un organismo di colori,
attraverso i quali la fuga della prospettiva, i contorni, le rette e le curve si di-
spongono come linee di forza, e la dimensione spaziale si costituisce vibrando.
“Il disegno e il colore non sono più distinti; nella misura in cui si dipinge, si di-
segna; più il colore si armonizza e più il disegno si precisa... Quando il colore
raggiunge la sua ricchezza, la forma è alla sua pienezza”. Cézanne non cerca di
suggerire con il colore le sensazioni tattili che darebbero la forma e la profon-
dità. Nella percezione, primordiale, tali distinzioni fra il tatto e la vista sono i- La percezione
gnote. È la scienza del corpo umano che ci insegna poi a distinguere i nostri come un tutto
sensi. La cosa vissuta non è ritrovata o costruita in base ai dati dei sensi, ma si indivisibile
offre di primo acchito come il centro donde essi si irradiano. Noi vediamo la
profondità, il vellutato, la morbidezza, la durezza degli oggetti – Cézanne dice
perfino: il loro odore. Se il pittore vuole esprimere il mondo, bisogna che la di-
sposizione dei colori rechi in sé questo Tutto indivisibile; altrimenti la sua pittu-
ra sarà un’allusione alle cose e non le offrirà nell’unità imperiosa, nella presenza
e nella pienezza insuperabile che è per noi tutti la definizione del reale. È que-
sto il motivo per cui ogni pennellata deve soddisfare a un’infinità di condizioni,
e per cui Cézanne meditava talvolta per un’ora prima di darla; essa deve, come
dice Bernard, “contenere l’aria, la luce, l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno
e lo stile”. L’espressione di quel che esiste è un compito infinito.
Né si può dire che Cézanne abbia meno curato la fisionomia degli oggetti e
dei volti, che egli voleva solo cogliere quando essa emerge dal colore. Dipinge-
re un volto “come un oggetto” non vuol dire privarlo del suo “pensiero”. “In-
tendo che il pittore lo interpreta” dice Cézanne, “il pittore non è un imbecil-
le”. Ma questa interpretazione non deve essere un pensiero separato dalla vi-
70 MAURICE MERLEAU-PONTY

sione. “Se dipingo tutte le sfumature di azzurro e di marrone che ci vogliono,


lo faccio guardare come guarda... Certo loro non sospettano come, sposando
un verde sfumato a un rosso, si rattristi una bocca o si faccia sorridere una
guancia.” Lo spirito si vede e si legge negli sguardi, che sono peraltro soltanto
insieme colorati. Gli altri spiriti ci si offrono solo incarnati e aderenti a un vol-
to e a gesti. Non serve a nulla contrapporre qui le distinzioni fra anima e cor-
po, o fra pensiero e visione, poiché Cézanne ritorna appunto all’esperienza pri-
mordiale donde tali nozioni sono tratte e che ce le presenta inseparabili. Il pit-
L’inseparabilità
tore che pensa e che cerca in primo luogo l’espressione, si lascia sfuggire il mi-
tra pensiero stero, rinnovato ogni volta che guardiamo qualcuno, della sua comparsa nella
e visione natura. Balzac descrive nella Pelle di Zigrino una “tovaglia bianca come uno
strato di neve caduta di fresco e sulla quale si elevavano simmetricamente le
posate coronate di panini biondi”. “Per tutta la mia giovinezza” diceva Cézan-
ne, “ho voluto dipingere questo, quella tovaglia di neve fresca... Ormai so che
bisogna limitarsi a voler dipingere il ‘s’elevavano simmetricamente le posate’, e
il ‘di panini biondi’. Se dipingo ‘coronate’, sono fregato, capite? E se davvero
equilibro e sfumo le posate e i panini come dal vero, siate sicuri che ci saranno
le corone, la neve e un sacco di altre cose”.
Viviamo in un ambiente di oggetti costruiti dagli uomini, tra utensili, in case,
strade, città, e il più delle volte non li vediamo se non attraverso le azioni uma-
ne di cui possono essere i punti di applicazione. Ci abituiamo a pensare che tut-
to ciò esiste necessariamente ed è incrollabile. La pittura di Cézanne mette in
sospeso queste abitudini e rivela la base di natura disumana su cui l’uomo si
colloca. Ecco perché i suoi personaggi sono strani e come visti da un essere di
un’altra specie. Anche la natura è spogliata degli attributi che la preparano per
comunioni animiste: il paesaggio è senza vento, l’acqua del lago di Annercy sen-
za movimento, gli oggetti gelati esitanti come all’origine della terra. È un mon-
do senza familiarità, in cui non ci si trova bene, che vieta ogni effusione umana.
Se si vanno a vedere altri pittori lasciando i quadri di Cézanne, si prova disten-
sione, come dopo un corteo funebre il riprendere delle conversazioni maschera
quella novità assoluta e restituisce ai viventi la loro solidità. Ma solo un uomo,
per l’appunto, è capace di questa visione che va sino alle radici, al di qua dell’u-
manità costituita. Tutto fa credere che gli animali non siano capaci di guardare,
di immergersi nelle cose senza altro motivo che di coglierne la verità. Dicendo
che il pittore della realtà è una scimmia, Émile Bernard dice quindi esattamente
il contrario di quel che è vero, e si capisce come Cézanne potesse riprendere la
definizione classica dell’arte: l’uomo aggiunto alla natura.
La sua pittura non nega né la scienza né la tradizione. A Parigi, Cézanne si
recava ogni giorno al Louvre. Pensava che a dipingere si impara, e che lo stu-
dio geometrico dei piani e delle forme sia necessario. Si informava sulla strut-
tura geologica dei paesaggi. Tali relazioni astratte dovevano operare nell’atto
Il motivo del del pittore, ma regolate sul mondo visibile. L’anatomia e il disegno sono pre-
paesaggio senti, quando dà una pennellata, come le regole del gioco in una partita di ten-
nis. Non può mai essere la prospettiva da sola o la geometria, né le leggi della
decomposizione dei colori né qualunque altra cognizione a motivare i gesti del
pittore. Per tutti i gesti che pian piano danno luogo a un quadro, non c’è che
un solo motivo, il paesaggio nella sua totalità e nella sua pienezza assoluta, che
per l’appunto Cézanne chiamava “motivo”. Cominciava con lo scoprire gli
IL DUBBIO DI CÉZANNE 71

strati geologici. Poi non si muoveva più e guardava, dilatando gli occhi, diceva
la signora Cézanne. “Germinava” con il paesaggio. Si trattava, dopo aver di-
menticato tutte le scienze, di riafferrare, valendosi di tali scienze, la costituzio-
ne del paesaggio come organismo nascente. Occorreva saldare le une alle altre Il paesaggio
come
le visioni di tutti i punti di vista particolari che lo sguardo assumeva, riunire organismo
quel che viene disperso dalla versatilità degli occhi, “congiungere le mani er- nascente
ranti della natura” dice Gasquet. “C’è un minuto del mondo che passa, biso-
gna dipingerlo nella sua realtà”. La meditazione terminava a un tratto. “Di-
spongo del motivo” diceva Cézanne, e spiegava che il paesaggio deve essere
cinturato né troppo in alto né troppo in basso, o anche ricondotto vivo in una
rete che non lasci passare niente. Allora: aggrediva il quadro da tutti i lati alla
volta, e contornava di macchie colorate le prime linee al carboncino, lo schele-
tro geologico. L’immagine si saturava, si amalgamava, si disegnava, si equilibra-
va e maturava tutta in una volta. “Il paesaggio” diceva “si pensa in me e io ne
sono la coscienza”. Nulla è più lontano dal naturalismo di questa scienza intui-
tiva. L’arte non è né un’imitazione, né peraltro una costruzione che segua i det-
tami dell’istinto o del buon gusto. E un’operazione di espressione. Come la pa-
rola chiama, cioè coglie nella sua natura e al suo posto dinanzi a noi in qualità
di oggetto riconoscibile quel che appariva confusamente, il pittore, dice Ga-
squet, “oggettiva”, “progetta”, “fissa”. Come la parola non assomiglia a quel
che designa, la pittura non è un’illusione; Cézanne, secondo le sue proprie pa-
role, “scrive da pittore quel che non è ancora dipinto e lo rende pittura assolu-
tamente”. Dimentichiamo le apparenze viscose ed equivoche, per andare, tra-
mite loro, dritti alle cose che rappresentano. Il pittore riprende e converte ap-
punto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata
da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose. Per La vibrazione
quel pittore, una sola emozione è possibile, il sentimento di estraneità, e un so- delle apparenze
lo lirismo, quello dell’esistenza sempre ricominciata.
Leonardo da Vinci aveva adottato come divisa il rigore ostinato, e tutte le
Arti poetiche classiche dicono che l’opera è difficile. Le difficoltà di Cézanne –
come quelle di Balzac o di Mallarmé – non sono della stessa natura. Balzac im-
magina, senza dubbio sulla scorta delle indicazioni di Delacroix, un pittore che
vuole esprimere la vita medesima con i soli colori e che tiene nascosto il suo ca-
polavoro. Quando Frenhofer muore, gli amici non trovano che un caos di colo-
ri e di linee inafferrabili, una muraglia di pittura. Cézanne fu commosso fino al-
le lacrime leggendo il Capolavoro sconosciuto e dichiarò di essere lui Frenhofer.
Lo sforzo di Balzac, anche egli ossessionato dalla “realizzazione”, fa capire
quello di Cézanne. Egli parla, in Pelle di Zigrino, di un “pensiero da esprime-
re”, di un “sistema da costruire”, di una “scienza da spiegare”. Fa dire a Louis
Lambert, uno dei geni mancati della Commedia Umana: “Cammino verso certe
scoperte... ma che nome dare al potere che mi lega le mani, mi chiude la bocca
e mi trascina in senso contrario alla mia vocazione?”. Non basta dire che Balzac
si sia proposto di capire la società del suo tempo. Descrivere il tipo del com-
messo viaggiatore, fare una “anatomia dei corpi insegnanti” o magari fondare u-
na sociologia non era un compito sovrumano. Una volta nominate le forze visi-
bili, come il denaro e le passioni, e una volta descritto il funzionamento manife-
sto, Balzac si chiede come mai tutto ciò, quale ne sia la ragion d’essere, che co-
sa voglia dire per esempio quest’Europa “i cui sforzi tendono tutti a non so qua-
72 MAURICE MERLEAU-PONTY

le mistero di civiltà”, il che regge dall’interno il mondo, e fa pullulare le forme


visibili. Per Frenhofer, il senso della pittura è il medesimo: “Una mano non è
solo attaccata al corpo, ma esprime e continua un pensiero che va colto e re-
so… La vera lotta è questa! Molti pittori trionfano istintivamente ignorando
questo tema dell’arte. Voi disegnate una donna, ma non la vedete”. L’artista è
colui che fissa e che rende accessibile ai più “umani” fra gli uomini lo spettaco-
lo di cui fanno parte senza vederlo.
Non esiste dunque arte dilettevole. Si possono fabbricare oggetti che pro-
ducono piacere collegando altrimenti idee già pronte e presentando forme
già viste. Questa pittura o questa parola seconda è quanto si intende di solito
per cultura. L’artista secondo Balzac o secondo Cézanne non si contenta
d’essere un animale colto, ma assume la cultura dal suo principio e la fonda
di nuovo, parla come il primo uomo ha parlato e dipinge come se non si fos-
se mai dipinto. L’espressione non può essere allora la traduzione di un pen-
siero già chiaro, perché i pensieri chiari sono quelli che sono già stati detti in
noi stessi o da altri. La “concezione” non può precedere l’“esecuzione”. Pri-
La
costruzione ma dell’espressione, non c’è nient’altro che una febbre vaga e solo l’opera
del senso fatta e compresa proverà che vi si doveva trovare qualcosa piuttosto che nien-
te. Poiché è ritornato, per prenderne coscienza, al fondamento di esperienza
muta e solitaria sul quale sono edificate la cultura e lo scambio delle idee,
l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza
sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flus-
so di vita individuale in cui nasce e presentare, sia a questa medesima vita nel
suo avvenire, sia alle monadi che coesistono con essa, sia alla comunità aper-
ta delle monadi future, l’esistenza indipendente di un senso identificabile. Il
senso di quanto l’artista sta per dire non c’è in nessun luogo, né nelle cose,
che non sono ancora senso, né in lui stesso, nella sua vita informulata. Esso
chiama dalla ragione già costituita, e in cui si rinchiudono gli “uomini colti”,
a una ragione che abbraccerebbe le proprie origini. Volendo Bernard ricon-
durlo all’intelligenza umana, Cézanne risponde: “io mi volgo verso l’intelli-
genza del Pater Omnipotens”. Egli si volge in ogni caso verso l’idea o il pro-
getto di un Logos infinito. L’incertezza e la solitudine di Cézanne non si
spiegano, per l’essenziale, con la sua costituzione nervosa, ma con l’intenzio-
ne della sua opera. L’eredità aveva potuto dargli sensazioni ricche, emozioni
sorprendenti, un vago sentimento d’angoscia o di mistero che disorganizza-
vano la sua vita volontaria escludendolo dagli uomini; ma queste qualità fan-
no un’opera solo grazie all’atto di espressione e non costituiscono affatto le
difficoltà né le virtù di questo atto. Le difficoltà di Cézanne sono quelle del-
la prima parola. Egli s’è creduto impotente perché non era onnipotente, per-
Verso “la pri- ché non essendo Dio voleva tuttavia dipingere il mondo, convertirlo tutto in-
ma parola” tero in spettacolo e farlo vedere come esso ci concerne. Una teoria fisica nuo-
va può provare se stessa perché l’idea o il senso sono in essa legati al calcolo
e alle misure che appartengono a un dominio già comune a tutti gli uomini.
Un pittore come Cézanne, un artista o un filosofo, devono non solo creare ed
esprimere un’idea, ma anche ridestare le esperienze che la radicheranno nel-
le altre coscienze. Se l’opera è riuscita, ha lo strano potere di insegnarsi da
sé. Seguendo le indicazioni del quadro o del libro, stabilendo confronti, ur-
tando da un lato e dall’altro, guidati dalla chiarezza confusa di uno stile, il
IL DUBBIO DI CÉZANNE 73

lettore o lo spettatore finiscono per ritrovare quel che si è voluto comunicare


loro. Il pittore ha potuto solo costruire un’immagine. Bisogna attendere che
quest’immagine si animi per gli altri. Allora l’opera d’arte avrà unito le vie
separate, e non esisterà più semplicemente in una di loro come un sogno te-
nace o un delirio persistente, o nello spazio come una tela colorata, ma abi-
terà indivisa in parecchi spiriti, presuntivamente in ogni spirito possibile, co-
me un’acquisizione per sempre.

1 Da Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso (1948), Milano, il Saggiatore, 1962, pp. 27-44. Tra-

duzione di Paolo Caruso.


La sfinge incompresa1
Paolo Fabbri

Je trône dans l’azur comme un sphinx incompris.


(Baudelaire 1857, pp. 38-39)

Una stupefacente unione di radiosa trasparenza e magistrale semplicità con una mul-
tiforme elaborazione permette a Klee, pittore e poeta, (…) un’armoniosa combina-
zione di procedimenti vari e originali.

È il giudizio di Jakobson (1970, p. 430) a conclusione dell’analisi di una


poesia, inclusa nei Diari, di Paul Klee (1957), un ottastico del 1903. Il metodo
semiotico marca in Klee:

la dialettica della perspicuità artistica di Klee, il suo acuto senso delle correlazioni di
dinamico e statico, di chiaro e di scuro, di intensivo ed estensivo, di concetti gram-
maticali e geometrici e infine di norma e di superamento della norma (ib.).

È l’analisi semantica e grammaticale, applicata all’arte verbale di altri poeti-


pittori come Blake e Rousseau il doganiere, a rivelare la “profondità e monu-
mentalità della miniatura verbale” (ib.) del poema di Klee.
Pittura e poesia non sono i soli linguaggi in cui si è espresso Klee, che fu an-
che musicista, naturalista e filosofo. Queste ultime qualità hanno destato mino-
re attenzione. Con qualche eccezione – come Benjamin e Goodman (1968) per
cui un’immagine di Klee era la migliore dimostrazione dei problemi teorici del-
la prospettiva, o come Gehlen (1965) per il quale Klee realizza e culmina, a suo
modo, le tendenze fenomenologiche della Gestatlpsychologie2 – i filosofi non ri-
conoscono alla pittura la possibilità di esprimere proposizioni speculative.
Quanto alla scienza essa rispetta fin troppo l’arte. Wind, che rimpiangeva l’in-
tangibile isolamento in cui sono lasciati gli artisti – “non bisogna turbare né di-
strarre il loro genio e così sono costretti a imparare tutto da soli” (1963, p. 92) –
notava come gli scienziati che mostravano a Klee sezioni di vegetali e tessuti vi-
vi e morti, non sfruttassero la curiosità che lo spingeva verso i pozzi misteriosi
dei microscopi e le tavole delle collezioni di fossili. La mano sensibile di Klee a-
vrebbe potuto esercitarsi a vantaggio delle discipline scientifiche anziché lasciar
tracce del suo gusto scientifico nei soli disegni fantastici!
Ma la vocazione fondamentale di Klee era la costruzione mitica, esposta nel- La costruzione
la diversità dei linguaggi espressivi. Non per “trastullarsi con quelle immagini mitica
nel solo campo della fantasia” (Wind 1963, p. 93) come crede l’iconologo e
neppure per un razionalismo primitivista3, ma per costruire, con i mezzi della
lingua e del mondo naturale, un universo semantico e concettuale coerente.
Spazi, forme e colori, scritture verbali o musicali costituiscono, con i loro ri-
chiami e contrasti, il piano espressivo di un senso profondo e complesso. Qui si
apprende – dice Klee – a “organizzare il movimento in relazioni logiche”, qui si
76 PAOLO FABBRI

riconosce “il flusso sotterraneo” che costituisce “la preistoria del visibile”. L’in-
telligibilità non è data soltanto dagli elementi nominabili e dalla raffinata titola-
zione. Come hanno osservato i semiologi, il linguaggio plastico è già diretta-
mente significante, prima del riconoscimento figurativo e al di là delle parentele
La dimensione
significante “naturali” tra gli oggetti del mondo; il gioco delle componenti formali (topolo-
del linguaggio giche, eidetiche, cromatiche) comporta già una significazione più profonda e
plastico più astratta (Greimas 1984; Fabbri 1998; Corrain, Fabbri 2000). Resta da rac-
cogliere la sfida della descrizione analitica, tanto più ardua che l’istanza di so-
stanza visiva ci è meno agevole di quella linguistica.
Chi conosce l’estro espressivo e l’acribia concettuale con cui Klee ha costrui-
to un proprio linguaggio, non può limitarsi a un’apprensione immediata e corsi-
va, ma è tenuto a una lettura degli elementi e della loro sintassi. Naturalmente è
possibile affidarsi all’immaginario, al dizionario di immagini dello stesso Klee il
quale, a differenza di altri artisti, non è stato avaro di indicazioni4. Resta tutta-
via il problema della sintassi, cioè della messa in correlazione degli elementi al-
l’interno della singola opera o gruppo di opere e della molteplicità dei sensi che
consente e sfrutta la percezione simultanea della superficie planare.
Per questo, le migliori letture sono quelle che hanno esplicitato, per quanto
possibile, la sottigliezza e la grazia dei dispositivi che costituiscono la “maniera”
di Paul Klee. E che hanno potuto reperire non l’unicità ma la molteplicità di
senso, non una generica ambiguità o reversibilità, ma la rigorosa ed esplicita
stratificazione dei significati5.
Penso, ad esempio, all’esegesi di Uguale a infinito (Gleich Unendlich,
1932) con cui Damisch (1984) mostra progressivamente come l’“otto orizzon-
tale” – chiave di violino e segno di infinito – tracciato su di uno sfondo divi-
sionista, raffiguri il progetto, musicale e matematico, di una genesi strutturata
La
della forma. O all’analisi di Lampo fisiognomico (Phisiognomischer Bliz, 1927)
stratificazione che Boulez (1989, p. 134) considera “il simbolo stesso del pensiero e dell’im-
dei significati maginazione di Klee”, e comparabile nelle procedure al Wozzeck di Berg. In
quest’opera il senso è dato dalla rappresentazione di forze in azione e defor-
mazione reciproca. Sono gli incontri, antagonismi e congiunzioni astratte tra
elementi geometrici primi, come le rette e i cerchi; è la linea spezzata che pas-
sa per un circolo e prende, grazie alla denominazione, il valore figurativo di
“lampo che attraversa un viso”.
In direzione esplicitamente semiotica si muove l’analisi di Manacorda (1978,
p. 205) che indaga i “rapporti o equivalenze intersemiotiche tra due sistemi di
segni (…) iconici e verbali”, per dimostrare, in un’ottica jakobsoniana, che in
Klee “i testi verbali non sono strutturalmente diversi dai testi pittorici e grafici”
(p. 208). Data la caratteristica iconizzante del linguaggio poetico, ottenuto con
la negazione della temporalità e della linearità, l’analisi porta non solo sulle pro-
cedure linguistiche ma su quelle proprie al “linguaggio poetico, replicabili nel-
l’ordine del linguaggio pittorico” (p. 222). Un piccolo poema, Motto, presente-
rebbe isomorfismi di codice che permettono al critico di inferire non delle mas-
sime di traduzione intersemiotica verbo-visiva, ma un vero e proprio ipercodi-
ce, “un’identità còdica invariante” (p. 220), responsabile ad esempio dell’effetto
stilistico di “mistero” della pittura di Klee. La stessa morfologia, una scacchiera
o matrice spaziale, sottoposta alle regole di sintassi – spostamento, rotazione e
specularità – sarebbe all’opera nelle immagini e nei poemi di Klee6.
LA SFINGE INCOMPRESA 77

Ma la lettura semiotica esemplare è, per noi, quella di Thürlemann


(1982), Mito del fiore (Blumen-Mythos, 1918), dove gli aspetti mito-poetici
dell’attività di Klee sono esattamente rilevati e svolti. Redatto l’inventario de-
gli elementi di superficie sulla base di categorie formali (curvo vs diritto; spi-
goloso vs arrotondato, ecc.), il semiologo li ha poi correlati a categorie astrat-
te di significato (animato vs inanimato; celeste vs terrestre, ecc.). E scopre u-
na struttura mitico-simbolica in cui la congiunzione sessuata e quella delle
forze naturali stanno in parallelo, “rimano” in modo simile alla poesia. Se il La struttura
mito è, come vedremo, un modo immaginario di risolvere contraddizioni rea- mitico-simbolica
li, allora per Thürlemann:

la pittura [di Klee] nello spazio di alcuni decimetri quadri, è in grado di darci l’illu-
sione di un mondo nuovo, dove tutte le contraddizioni appaiono risolte (p. 128)7.

Ci proponiamo, proseguendo questo gesto, la lettura di Sphinxartig (Co-


me una Sfinge, 1919, (tav. VI))8. Una lettura semiotica, lenta e meditata, su
due piani: i. quello plastico, delle forme, dei colori e delle forze; ii. e quello i-
conico delle denominazioni e delle figurazioni. Terremo conto delle categorie
teoriche elaborate da Klee, del suo lessico iconologico e del dispositivo te-
stuale specifico di quest’opera.
Insisteremo sulla differenza tra morfologia e sintassi. Per Klee “la forma
[statica] (…) è un maligno, pericoloso fantasma” (1970, p. 269). Ogni buona
forma rappresenta per lui delle forze in formazione, genesi e divenire: “La
struttura (…) è un ritmo di particelle” (p. 69). Il sistema dei colori, ad esempio,
era per il Bauhaus una composizione di energie che attraversava l’universo e
l’uomo; il quadro ne era il diagramma di cattura e di iscrizione. Quanto ai qua-
dri di Klee, sono essi stessi processi vitali scanditi da ritmi intensivi. Nessuno
meglio di lui merita il nome che Platone dava a coloro che con il disegno e con
il colore creavano la vita: zoographos.

1. Il plastico

1.1. La topologia
Sappiamo che per Klee (1957, p. 264) il “contorno (…) [aveva come funzio-
ne di] imbrigliare e contenere gli sfuggenti impressionismi”. Una forma e una
forza. In tal senso va vista la “nicchia” scura che circonda la configurazione, che
ne viene inquadrata e focalizzata, con un effetto di profondità accentuato dalla
“voluta a chiocciola” sulla destra. Con l’eccezione del segmento a destra in bas-
so che, proprio in opposizione alle delimitazioni opposte e contigue, lascia un
effetto di apertura e di appiattimento.
Il centro geometrico della composizione è collocato sulla base del triango- La cornice
lo di destra, quello il cui lato superiore sinistro prolunga la diagonale che di- e il centro
vide in due lo spazio del dipinto, all’incrocio del lato inferiore e più breve
del rettangolo colorato di verde. Conoscendo il proposito di Klee – il centro
è “la norma di irradiazione” (Klee 1970, p. 106) e “logos” di disseminazione
(p. 29) – ecco il luogo rispetto al quale tutti gli elementi si trovano definiti e
sensibilmente sfalsati.
78 PAOLO FABBRI

Per comodità espositiva divideremo poi il dipinto in verticale e in orizzontale.


In verticale, notiamo tre fasce parallele: i. composte di due triangoli simme-
trici; ii. un rettangolo con configurazioni geometriche, ai cui lati troviamo due
volute di eguale cromatismo; iii. una fascia con due elementi arrotondati e a
contatto (a “otto”), ciascuno con un punto centrale e segmenti raggiati. La par-
te alta del dipinto possiede un vasto effetto di apertura.
In orizzontale, l’acquerello si lascia dividere in due parti quasi simmetriche
la cui linea di divisione attraversa il centro del formante a “otto”. Ciascuna del-
le parti è caratterizzata da tratti spaziali, eidetici e cromatici che introducono u-
Le simmetrie na dissimmetria a favore della parte destra, la quale risulta più aperta e spazio-
e le opposizioni sa, perché ampliata nei volumi, per lo spostamento verso l’alto della voluta e la
mancanza del bordo di delimitazione.
Va osservato che, sempre sulla dimensione orizzontale, le opposizioni pren-
dono un valore dinamico, da sinistra a destra, nel senso abituale della lettura ti-
pografica.
In questo senso ci portano i due doppi triangoli, topologicamente prossimi
al centro della composizione per la maggior taglia o l’orientamento appuntito
del triangolo di destra.
Lo stesso può dirsi per la configurazione rettangolare sottostante, suddivisa
in due bande e che presenta un’articolazione spezzettata. Per Klee, queste for-
mazioni strutturali alternate non rappresentavano solo interferenze statiche
(“membri intermedi ottenuti mediante sovrapposizioni o compenetrazioni
strutturali”), ma veri e propri ritmi, cioè processi cadenzati (pp. 195 sgg.).
Greenberg (1950) ha visto esattamente che il disegno in Klee è temporale e che
va descritto da verbi e più precisamente, diremmo noi, dall’aspetto dei verbi. In
ogni caso, il carattere più fitto delle divisioni a sinistra scandisce la lettura verso
la maggiore rarefazione della destra. Anche le volute, marcate dal parallelismo
cromatico, ci conducono fino al bordo scuro contro cui la “chiocciola” si ripie-
ga, interrompendolo e introducendo un effetto di profondità del dipinto. Sap-
piamo che una leggera asimmetria, – che predomina anche nel mondo organico
– era la tattica “plastica” di Klee per infondere vita alle immagini.
Più sotto, troviamo il dispositivo “a otto”. Nei termini di Klee (1970, p. 107)
“un cerchio duplice, ovvero un cerchio incrociato e bipartito”, il cui centro mo-
torio “domina i due cicli contrapposti”. È un formante figurativo che ha valori
semantici diversi nelle sue opere: ricciolo, chiocciola di violino o la sua impu-
Il formante gnatura, orecchio, bocca, colletto, ansa di vasi, pianta, pesce, serpente e così
dinamico via. Come ha visto Damisch (1984), è il segno matematico dell’infinito. Ma a li-
“a otto” vello plastico, è un ciclo a valore tensivo perché “consiste in un’alternanza di
condensazione e rilassamento, dilatazione e concentrazione” (p. 111). Può
quindi rinviare a valori semantici quali degenerazione, rigenerazione, degenera-
zione e così via. Il formante “a otto” si trova sulla stessa linea dell’intersezione
dei triangoli sovrastanti. All’interno dei “cicli”, due punti centrati e allineati da
una stessa retta sono intersecati da tre linee che modulano l’effetto circolatorio:
rotazione e movimento. Quel che Klee chiama il “decorso continuo”.
Suddividendo poi la composizione in parti, la sinistra manifesta una disposi-
zione plastica a orientamento prevalentemente orizzontale, per la direzione del-
le pennellate sullo sfondo e per i contorni neri della voluta di sinistra, così come
per la linea che prolunga il bordo inferiore dell’occhio fino al margine. La parte
LA SFINGE INCOMPRESA 79

destra, al contrario, è marcata dal senso della verticalità, per la linea che collega
uno dei formanti circolari dell’otto con le sfaccettature soprastanti e per le linee
che intersecano la voluta spostata, rispetto all’altra, verso l’alto. L’insieme inten-
de ottenere un’ininterrotta forma mobile.

1.2. Il cromatismo
È la dimensione plastica meno frequentata della semiotica visiva: per contro
essa gioca nella teoria generale di Klee un ruolo molto articolato sul piano del
significante come a livello passionale9. In Sphynxartig il colore è distribuito in
modo complesso e sottile. È steso in maniera uniforme nella campitura o per
pennellate orizzontali nella parte superiore, con un effetto di sfondo; alterna in-
vece continuità e frammentazione nella parte centrale dove si trova più spesso
delimitato dalle linee.

1.2.1. Sappiamo che per Klee, l’articolazione tra chiaro e scuro precede
quella propriamente cromatica, la quale è, goethianamente, effetto di un incro-
cio attivo della luce e dell’ombra, ottenuto attraverso la pigmentazione (“Le to-
nalità! L’anticamera del paradiso dei colori”?). Bianco e nero, reversibili e cor- L’articolazione
relati, occupano dunque la colonna centrale del suo noto modello: il piano cro- chiaroscurale
matico è concepito secondo una dinamica olistica, come un moto rotatorio in
cui si giustappongono i tre colori fondamentali: giallo, rosso e blu. Al centro, la
mescolanza dei colori forma il grigio. Risultano così definiti anche gli sposta-
menti possibili sul “solido” della rappresentazione: alto vs basso; sinistra vs de-
stra; davanti vs dietro.

Di particolare interesse, per l’esplicita scelta di Klee, è l’opposizione tra il


nero della “macchia” in basso, a destra, e il grigio di quella centrata in alto.
Sappiamo che il disegnatore teorico dovrebbe “rendere la luce con movi-
mento di colori (…) quale espressione d’energia” (Klee 1957, p. 259). Qui la
“progressione dei valori chiaroscurali” (Klee 1970, p. 339) dinamizza l’oppo-
80 PAOLO FABBRI

sizione e orienta lo sguardo in verticale dal nero al grigio, cioè dal basso ver-
so l’alto, attraverso la mediazione geometrica delle cuspidi dei triangoli e l’o-
rientamento delle linee.
Per contro, la forma a otto conduce orizzontalmente dal chiaro a sinistra
verso lo scuro a destra: “tutto ciò appartiene all’ambito ponderale, si tratta
dei movimenti dal chiaro verso lo scuro” (Klee 1970, p. 111). Sappiamo che,
per Klee, il movimento /scuro/ vs /grigio/ corrisponde sul piano semantico a
uno spostamento dalla certezza – lo scuro – all’incertezza – il grigio – (1970,
p. 306). Le opposizioni e gli spostamenti tonali corrispondono quindi a cate-
gorie e a percorsi sul piano cognitivo. In particolare su quello che per i se-
miologi è la modalità epistemica: il certo e l’incerto.
Riassumiamo: sul piano orizzontale il moto da sinistra a destra va dalla de-
terminazione all’indeterminazione, dalla chiusura all’apertura, da “l’unité du
hasard et de la nécessité dans un calcul sans fin”10. Sul piano verticale, orien-
tato dal basso verso l’alto, la tensione va dalla sicurezza all’improbabilità.

1.2.2. Per quanto riguarda la tavolozza cromatica di Sphinxartig, i quattro co-


lori fondamentali presenti sono articolati in tonalità cromatiche, da “leggere” co-
me spostamenti verso gli altri colori e verso il chiaro (bianco) e lo scuro (nero).
Il rosso mattone è tonalità di rosso spostata verso il giallo e oscurata; il
verde è spostato verso il giallo e oscurato. L’azzurro, nella sfumatura color
glicine, è ottenuto con lo spostamento del blu verso il rosso, poi verso il
L’articolazione bianco. Il giallo, la tonalità più differenziata, corrisponde al giallo fondamen-
cromatica tale, talora oscurata (zona ocra) o schiarita, come nella fascia di sfondo. L’ef-
fetto generale d’illuminazione – con rosso e verde spostati verso il giallo e lo
scuro e l’azzurro verso il rosso e il chiaro – produce l’effetto di senso dorato
e caldo di un paesaggio “orientale”, effetto su cui torneremo in seguito.
Sul piano topologico, dunque, la distribuzione delle estensioni cromati-
che offre una dissimmetria (quindi un vettore) tra parte destra e sinistra che
è ridondante rispetto al dispositivo eidetico. Per quanto concerne l’opposi-
zione figura/sfondo: i. a sinistra abbiamo una maggior articolazione cromati-
ca dello sfondo, mentre a destra le fasce di colore si fondono in una tonalità
neutra omogenea; ii. nella figura l’effetto di maggiore uniformità si trova a si-
nistra – il primo ovale dell’otto è dipinto nella stessa tonalità e il primo trian-
golo è in tre colori – mentre a destra i settori dell’altra figura ovale sono di
colore diverso e il secondo triangolo è dipinto in quattro colori.
Un ruolo particolare è affidato alle “macchie”, nera, grigia e gialla, non
delimitate da bordi e i cui formati, a eccezione – come vedremo poi – della
macchia grigia, non sono facili da semantizzare. Sebbene difficili da definire
rispetto all’opposizione forma/sfondo, sul piano cromatico è possibile corre-
lare la macchia nera a destra con quella gialla a sinistra, in quanto categorial-
mente opposte sul piano della luminosità. Nella concezione di Klee, infatti, il
giallo è il colore più luminoso dopo il bianco, mentre l’azzurro-viola è il me-
no luminoso dopo il nero. Si può ipotizzare che la “zona” gialla – a sinistra
della macchia nera – e di tonalità omologa alla macchia sinistra, produca un
effetto di “rima”, cioè un collegamento tensivo tra gli spazi di sinistra e di
destra, secondo il nostro abituale orientamento di lettura. Facendo perno poi
sul nero siamo orientati – come abbiamo visto – verso l’alto, attraverso la
LA SFINGE INCOMPRESA 81

mediazione delle linee verticali e delle cuspidi dei triangoli. In orizzontale


dunque l’orientamento dinamico è suggerito da macchie, cioè da “colori sen-
za contorno”, in verticale da linee, definibili come “contorni senza colore”.
Sappiamo che Klee non ha mai abbandonato la struttura topologica per il
colore “libero”, com’è poi accaduto in molta arte astratta. Il movimento e-
nunciativo sembra comunque suggerito da tratti aperti, rarefatti, veri e pro-
pri elementi deittici con cui l’informatore iscritto nel testo conduce lo sguar-
do osservatore. Tra questi è importante sottolineare, oltre al ruolo oppositivo
Il ruolo
e categoriale delle tinte, quello graduale e tensivo con il movimento correlati- graduale
vo di intensificazione e di evanescenza. Si pensi, ad esempio, al passaggio dal e tensivo
nero al grigio che è, per esplicito intento del pittore, il punto intermedio tra delle tinte
l’apparire e il dissolversi. Tanto più significativo, per quanto diremo in segui-
to, è che Klee abbia sempre perseguito l’idea di una correlazione dei movi-
menti plastici con i moti timici e patemici, con una caratterizzazione che
chiameremmo “semi-simbolica”. Per quanto obiettivate e “dividuali”, le e-
mozioni in Klee restano sempre “dualistiche e tese antiteticamente”, come
osserva Gehlen (1965, p. 175). Come il “decorso spezzato” verso il basso è
correlato a un senso di oppressione e impotenza, il dirigersi verso l’alto del
punto di vista (dal nero al grigio appunto) è correlato all’agio di un “accre-
sciuto benessere”. Ma il sentimento di una ascesa conduce l’osservatore ver-
so un punto di indecidibilità cromatica, l’isolata macchia grigia e l’ampliarsi
dello sguardo si mescola al pathos di un fading dell’intensità.
“È una traiettoria – direbbe Klee – che si può definire un ‘Erlebnis’” (K-
lee 1970, p. 308).

2. L’iconico

Le Sfingi: “Noi esaliamo i nostri suoni arcani cui date


voi subito corpo”.
(Goethe 1808-1832, p. 637)

Colta come figura nominabile del mondo, la sagoma complessiva del no-
stro disegno potrebbe ricordare un violino visto di profilo, con l’impugnatura
a destra, nella parte a voluta detta “a riccio” o “a chiocciola” – importante
motivo del lessico di Klee11 – oppure un veicolo sbilenco, un carro con ruote
irregolari. La lingua non sembra all’altezza della ricchezza dello sguardo.
Ma il titolo, Sphinxartig, ci orienta altrimenti.
Sappiamo che dare un nome non è solo categorizzare; è stabilire relazioni Il titolo
tra oggetti o persone e se stessi. Ed è noto, inoltre, il ruolo speculativo e poe-
tico dei titoli di Klee. Per lui la parola “ha il compito di completare e preci-
sare le impressioni (…) suscitate dai (suoi) quadri”. E si tratta spesso di peri-
frasi allusive che colgono con esattezza il carattere di “prima volta dell’im-
pressione”. Di qui, l’importanza e la difficoltà di tradurli. In questo caso, Co-
me una sfinge è accettabile, ma il significato di artig (conformità, garbo) è
più sottile. Sfinge-conforme o Sfingiforme sarebbe più appropriato e rispette-
rebbe lo “humour malizioso di Klee” (Wind 1963, p. 93), la sua arguzia argo-
mentativa, “prezioso fiore dell’ironia romantica” (ib.).
82 PAOLO FABBRI

Quello che più ci interessa è l’indicazione della Sfinge, figura della do-
manda e della conoscenza. L’introduzione del piano verbale, la denominazio-
ne modalizzata, traspone i sensi astratti veicolati dai tratti plastici sul piano
Il passaggio
figurativo, permette quindi il passaggio dalla dimensione iconica a quella ica-
al piano stica. Siamo condotti a riconoscere il ritratto, accentuato dagli effetti di
figurativo profondità, di una figura composita; prende forma la fiera diversa, la Sfinge.
Vedremo in seguito le ragioni o le passioni di questa denominazione. Ri-
cordiamo intanto che Klee usa spesso indicazioni antropomorfe, reali o fan-
tastiche. Tra queste ultime troviamo, oltre alla nota serie degli angeli, diavoli,
arlecchini, geni, gnomi, sacerdotesse estatiche, diversi tipi di streghe e la se-
rie di Urchs, animale magico-fantastico12. Sono rare le Sfingi, che però ritro-
viamo ad esempio in Katastrophe der Sphinx (1937) accompagnata dalla linea
spezzata che segnala, in Klee, la “grande tensione [che] scandisce il carattere
drammatico” (Klee 1970, p. 391).
Fatto o facezia, la figurazione sfingiforme si lascia dividere in due parti:
quella che ci fa faccia e fronte, imperniata sugli occhi e il complesso coprica-
po13; quest’ultimo è diviso a sua volta in un diadema14 con strane tese, sor-
montato da due calotte triangolari, separate da un pennacchio.
Chiameremo Marionetta la faccia con copricapo, con l’esclusione della
calotta triangolare, la quale merita un esame a parte.

2.1. La Marionetta

…i quadri figurativi ci considerano.


Paul Klee

Di primo acchito, l’indicazione antropomorfa sottolinea il punto di vista:


la frontalità. Rivolti verso lo spettatore, gli occhi permettono di riconoscere
una testa “sfingiforme” che ci osserva15. Per le caratteristiche plastiche che
abbiamo accennato, questi occhi spalancati irradiano dal loro centro, contra-
stano la circolazione reversibile “ad otto” della linea e accennano sul piano
orizzontale una rotazione orientata da sinistra a destra. Chiedono il nostro
sguardo e lo conducono verso la “macchia” scura da cui, con un movimento
verticale, dovremmo orientarci verso l’alto, verso la “macchia” grigia e arro-
tondata. “L’occhio segue i tracciati che gli sono stati approntati dall’opera”,
diceva Klee (1924) nel suo rinomato discorso di Jena.
Ma perché la Sfinge? E perché il mostro favoloso ha un aspetto ludico e infan-
tile? È una sfinge artig, garbata? Bisogna fare i conti con la modulazione satirica
Una sfinge di Klee che rende reversibile il più profondo dei propositi. “Sono tutto satira. Mi
“garbata” ci dissolverò totalmente? Provvisoriamente forma il mio solo articolo di fede” (K-
lee 1957, p. 71). La sua Sfinge avanza mascherata dall’antifrasi ironica, ma “i qua-
dri di Klee contengono sempre un indizio, un accenno alla vita umana o al desti-
no” (Grohmann 1954). E hanno un modo molto preciso di sembrar vaghi.
Sembra quindi una Marionetta, una di quelle che Klee amava fabbricare
per costruirci storie fantastiche. Il severo copricapo reale della Sfinge egizia
– un cappuccio con due appendici che scendono fino al petto e un diadema,
l’ureo, sulla fronte – diventa una buffa acconciatura da burattino. O un cap-
pello da fool, il buffone che sta accanto al potere per far ridere la verità.
LA SFINGE INCOMPRESA 83

Inoltre, il rettangolo compreso tra le due volute – e a esse opposto for-


malmente – è identico per forma e rapporto fisiognomico al diadema di cui è
insignito ad esempio Il principe nero, un noto acquerello del 1927.
Sappiamo inoltre che è frequente in Klee la collocazione di formanti figu-
rativi all’altezza del capo, i quali, per sovrapposizione o inclusione, rappre-
sentano un pensiero, un sogno, una fantasia (l’Innamorato, 1923 o Un ramo
di pazzia, 1921). Ora, sul capo della nostra immagine troviamo un doppio
triangolo, un motivo ricorrente in Klee (Monsieur Perlen-Schwein, 1925; Ri-
tratto di un erudito, 1930). Che senso attribuire a quei due triangoli tra cui
cade il centro geometrico della composizione? Troveremo qui il segreto della
denominazione: la Sfinge?

2.2. Le Piramidi

Le Sfingi: “Definisci te stesso. È già un enigma”.


(Goethe 1808-1832, p. 639)

Ci soccorrono tre formanti figurativi: il “ciuffo” verticale tra i due trian-


goli; le sei linee, tre per ogni triangolo, che puntano verso l’alto e la “mac-
chia” grigia arrotondata che risulta inclusa nell’ideale prolungamento delle
linee interne, le più lunghe tra quelle che partono dai vertici di ciascun
triangolo16.
Ipotizziamo che si tratti di formanti plastici che possono valere per i se-
guenti pittogrammi: Piramidi, Palma e Luna. Un paesaggio d’Oriente ram-
menta l’esperienza del viaggio nordafricano di Klee nel 1914, ma soprattutto
l’isotopia, direbbero i semiologi, cioè una lettura coerente al titolo: la Sfinge.
Per i significanti è facile una commutazione con i paesaggi o i giardini lu-
nari di Klee e la Composizione cosmica dello stesso anno (1919); per quel che
riguarda il significato il percorso è assai più complesso.
Sappiamo dai Diari che l’anno prima della catastrofica fine della guerra il
pittore si trovava nei pressi di Monaco, sotto le armi dell’aeronautica tede- La rete
sca. Per quanto il servizio militare gli sembrasse un “mite inferno” e la guer- intertestuale
ra un “astratto con ricordi”, fu molto turbato dalla tragica fine del conflitto e
dalla morte degli amici August Macke, con cui aveva viaggiato in Tunisia e
Franz Marc, carattere faustiano che “l’evoluzione del nostro tempo opprime-
va”; “sempre dubbioso, si domanda è vero? Vede dovunque l’errore. Non ha
la calma fiducia della fede” (Klee 1962).
Nel frammento 1121, il 28 maggio 1918, Klee scrive, “La sera ero sdraia-
to sul campo di aviazione con Goethe”. Un indizio prezioso17. Nella parte
seconda, atto secondo del Faust incontriamo le Sfingi. Nella Notte classica di
Valpurga, attirate dal sangue versato, esse convergono con altri personaggi
della saga ellenica, sul campo della battaglia di Farsaglia, là dove “chi vinse
già il mondo lo sa” (Goethe 1808-1832, p. 629)18. Al lume di una luna “non
piena invero (…) ma limpida [che] s’alza, [e] per ogni dove mite lume
diffonde” (p. 631), scende dall’alto una sfera che contiene un Aeronauta,
l’Homunculus. Allora giungono le Sfingi, regolatrici millenarie dei giorni lu-
nari e solari. Ecco il loro canto:
84 PAOLO FABBRI

Sitzen vor den Pyramiden


Zu der Volker Hochgericht
Überschwemmung, Krieg und Frieden
Und verziehen kein Gesicht19.

Se accettiamo la fonte goethiana, con la sua esatta corrispondenza – la guer-


ra, l’Aeronauta, la Sfinge e le Piramidi, – ecco un senso conforme (artig?) al
paesaggio che occupa la metà superiore del quadro: Piramide, Palma e Luna. Il
viso immoto della Sfinge davanti alle Piramidi: un mitema dell’iconologia fanta-
stica che si è costruito Klee. Un pensiero figurativo, una grottesca nel suo gran-
de affresco mentale.
Ma i formanti triangolari possono valere anche per altri sensi, e così le rette
che ne prolungano le linee di intersezione e il “ciuffo” centrale che abbiamo
Il moto
ascendente
interpretato come Palma. Dato che per Klee gli elementi hanno funzione dina-
e il moto mica e le forme valgono come forze, secondo alcune proposizioni della Teoria
discendente della forma e della figurazione (Klee 1970, pp. 52-68) le rette qualificherebbero
un moto ascendente e il ciuffo un orientamento discendente. Per contro i lati
esterni dei triangoli convergono verso un punto “vuoto” compreso tra le due
rette interne, cielo vuoto che accentua l’altezza della Luna. Come abbiamo vi-
sto è un moto che si correla a un tratto timico di /benessere/, opposto all’/op-
pressione/ dell’orientamento contrario, ma insieme, al pathos di una indecidi-
bile evanescenza.

3. Digressione poetica

Risulta allora sorprendente l’omologia figurativa e semantica con l’ottastico


di Klee analizzato da Jakobson, con cui abbiamo aperto questo scritto:

Zwei Berge gibt es,


auf denen es hell ist und klar,

den Berg der Tiere und


den Berg der Götter.

Dazwischen aber liegt das


dämmerige Tal der Menschen.

Wenn einer einmal nach oben sieht,


erfaßt ihn ahnend
eine unstillbare Sehnsucht,
ihn, der weiß, daß er nicht weiß,
nach ihnen, die nicht wissen, daß sie nicht wissen,
und nach ihnen, die wissen, daß sie wissen20.

Jakobson ha, da parte sua, colto la struttura ternaria dei significanti e dei si-
gnificati che ritroviamo nella nostra immagine: Montagna, Valle, il “disegno
spaziale puramente metaforico (…) [che] sottende tutta la poesia” (1970, p.
427) e che egli rende graficamente così:
LA SFINGE INCOMPRESA 85

Nella Valle degli Uomini si situa dunque il soggetto che sa di non sapere e
che si confronta con le due Montagne, marcate da una dissimmetria semantica:
la Montagna degli Animali e quella degli Dei21. Una tipica struttura mitica che
mette in gioco sul piano grammaticale, visivo e semantico le opposizioni di con-
trari e di contradditori che sono caratteristiche del linguaggio di Klee. Bisogna:

unire in composizione opposti di piccola entità, ma anche opposti rilevanti, per e-


sempio contrapporre l’ordine e il caos in modo che ambedue i gruppi tra sé collega-
ti, uno accanto o sopra l’altro, entrino in reciproca relazione; nella relazione tra con-
trari, attraverso la quale, d’ambo le parti, i caratteri acquistano rilievo (Klee 1957, p.
284).

Opposizioni paradigmatiche che possono in seguito risolversi per neutraliz-


zazione o per composizione, sul piano espressivo e tematico. Segue il levarsi
dello sguardo, poi il percorso cognitivo dallo scuro al chiaro e la trasformazione
patemica.
Jakobson osserva come nel piccolo poema il “lettore sia invitato a procedere L’isotopia
da visioni spaziali [significanti] a severe astrazioni spirituali [significati]” (1970, della
p. 429). Si disegna allora un nuovo piano figurativo coerente: quello della cono- conoscenza
scenza. Per riprendere e sviluppare i termini jakobsoniani, la Valle, luogo cen-
trale del poema-quadro,

è la sola sede della insolubile antinomia tra i due contrari, la consapevolezza della
propria inconsapevolezza, che forse allude al suo rovesciamento pure antinomico, la
tragica consapevolezza della propria inconsapevolezza (p. 427).

È evidente l’omologia figurativa con i due formanti triangolari del nostro ac-
querello e la loro dissimmetria spaziale e cromatica, nonché il ruolo del triango-
lo rovesciato aperto, la Valle, con il vertice marcato dalla Palma e dalla (quasi)
centralità spaziale. È inutile sottolineare il “sentore” edipico della proposizione:
la tragica in-consapevolezza della propria consapevolezza.
86 PAOLO FABBRI

Mancava a Jakobson, oltre all’Uomo, unità complementare dei contrari, un


altro termine complesso tra l’Animale e il Dio: la Sfinge, appunto, nel suo faccia
a faccia con l’Uomo.

4. In forma di quesito

Proteo: “Sempre ne sai, di astute arti, di frodi”.


Talete: “Sempre tu così godi a trasformarti”.
(Goethe 1808-1832, p. 729)

Ritorniamo all’effige della Sfinge (i due termini hanno forse la stessa eti-
mologia).
L’osservatore del quadro, cioè l’essere Sfingiforme, ci fissa a occhi sbarrati,
con disarmante meraviglia (“E io guardo con gli occhi della meraviglia”, Und
ich schaue, zu mit erstaunten Augen, 1903). Sappiamo che la frontalità dell’im-
magine si rivolge allo spettatore a partire dallo spazio rappresentato. È un
modo di interloquire con noi.
Ma questo sguardo sgranato non è un’apostrofe minacciosa e paralizzante
come quella di Medusa. L’effetto di senso è una domanda attonita, un enigma
senza sfida.
È la domanda della Sfinge Tebana, quella che porta sull’animale a quattro,
due e tre zampe22? Se così fosse bisogna dire che Edipo era favorito dal desti-
La Sfinge
Tebana no, in quanto già portava la risposta nel suo nome. Oidi-pous vuol dire “piede
e la Sfinge gonfio” e lui, che era stato un bambino in ceppi, di apparati di locomozione
Egizia se ne intendeva. La Sfinge voleva forse che Edipo vincesse: stanca di ripetere
la stessa domanda, stanca di silenzi e risposte sbagliate.
Non stiamo però sovrainterpretando, come Benjamin, nella sua vertiginosa
lettura dell’Angelus Novus di Klee? Per il filosofo lo sguardo frontale dell’An-
gelo, “attratto da un donatore rimasto a mani vuote”, era un gesto di cattura
che trascinava lo spettatore verso la profondità dell’immagine. Un Angelo e-
braico: le volute intorno al capo luciferino (e baudelairiano) non sarebbero
riccioli ma filatteri23.
Un testo però non è il luogo dove proiettare tutte le ambiguità. Anzi, con
la sua forma seleziona tra le letture possibili. Abbiamo visto che le Piramidi e
la Palma, l’illuminazione orizzontale e l’intertestualità goethiana ci orientano
verso la Sfinge Egizia che ha appassionato Klee ben prima del suo viaggio in
Egitto del 1929. Un disegno del 1923, in cui il nostro acquerello si trova esat-
tamente rovesciato con poche variazioni di tratto (un procedimento familiare
a Klee). Il titolo è indicativo: Impalcatura per la testa di una scultura monu-
mentale (Gerust fur Kopf einer Monumentalplastik).
Questo monumento faraonico ha però un tratto in comune con l’animale
mitologico di Sofocle, di cui Klee era appassionato lettore: la caduta del re-
gno. Citiamo:

Edipo: “Quale sciagura poté esservi di ostacolo al punto da impedirvi di conosce-


re la verità, dopo che un regno era caduto in tal modo?”.
Creonte: “La Sfinge dal canto ingannatore ci costringeva a guardare il presente e a
tralasciare l’incerto avvenire”.
LA SFINGE INCOMPRESA 87

Fig. 10. Paul Klee, Gerüst für dem Kopf einer Monumentalplastik (Impalcatura per la testa di una
scultura monumentale), 1923, disegno, 21.8 x 37.4 cm, Italia, collezione privata.

Se il mito è, come abbiamo detto, soluzione immaginaria a contraddizioni


reali, la Sfinge meditabonda di Klee è una risposta, mantica e mitica, alla neces-
sità di vivere l’inaccettabile presente: morte degli amici, sconfitta militare e crisi
dinastica della Germania. “Inondazioni, guerre e paci…/ E i nostri volti non
mutano”, come dice Goethe (1808-1832, p. 649). Ma Sphinxartig non è del tut-
to immobile; la sua è una contemplazione attiva, libera dai ceppi del presente,
che si interroga, con noi, sull’avvenire. Non con il canto paralizzante, ma con il
roteare degli occhi che sono anche segno di infinito. A differenza dall’Angelo di Una figura
Benjamin, che retrocede verso il futuro, la Sfinge Egiziana (shespankh, “statua dell’interrogazione
vivente”) – veglia al limite dell’eternità, su tutto ciò che è stato e che sarà24. E a
differenza della Sfinge Greca, il cui quesito pulsionale mette in gioco la vita e la
morte, quella Egiziana è sempre orientata verso la conoscenza25. Conoscenza
della non conoscenza: il futuro non è conoscibile attraverso il presente e l’acca-
dere non è dato, ma senza fine trasformato. È persino possibile che si conosca-
no le risposte, ma che non sappiamo come porre le domande…
In questa Sfinge di Klee c’è un “decorso continuo” fatto di un movimento
(orizzontale) di apertura e una tensione (verticale) di incertezza. Sono gli stessi
moti che Hegel, nell’Estetica, attribuiva alla Sfinge, facendone il simbolo stesso
del simbolismo:

Questa tensione ad una spiritualità autocosciente che non coglie se stessa nella sola
realtà che le è conforme, ma che si intuisce unicamente in ciò che le è affine e viene
a coscienza anche in quel che le è estraneo, è il simbolico in generale (Hegel 1835-
1938).

Forse!
88 PAOLO FABBRI

Sphinxartig: titolo e fattura del piccolo dipinto consentono il senso “pro-


prio”. Che alluda alla Sfinge la strofa di Klee: “Heilige Steine gestern,/ heute rät-
sellos,/ heute Sinn!”26? Sarebbe fare i conti senza l’arguzia dell’artig. Ma arguzia
e facezia hanno una radice comune: una forza brillante e lucente. Invitano al
gioco speculativo e lo illuminano con l’ironia e il sortilegio. Un senso è allora
possibile? Il pictor doctus sembra crederlo: “von immer zu hin / gewann es Sinn
/ Bis ging ein Schein / In wahrlich ein”27.

1 Da Pasquali, M., a cura, 2000, Paul Klee. Figure e metamorfosi, Milano, Mazzotta, pp. 45-53.
2 Per Goodman il disegno di Klee (tratto da Klee 1925), dimostrerebbe a pieno come “l’artista
che intende produrre una rappresentazione spaziale attualmente accettabile come fedele da un occhio
occidentale, deve trasgredire le ‘leggi della geometria’” (1968, p. 20). E compiere il necessario lavoro
di traduzione. Per Gehlen (1965, p. 167), Klee ha “scoperto le leggi particolari, attive intraotticamente,
della percezione visiva”. Leggi che ha inoltre sottoposto “a piccole trasformazioni escogitate fantastica-
mente” (ib.). Infatti per “l’immaginazione psichica” di Klee, si realizzerebbe, con una razionalità otti-
ca e concettuale, il prodigio per cui “le norme del mondo esterno percepito coincidono con quelle
dell’immaginazione” (p. 172).
3 Come sembra credere Varnedoe (1990), che pure ha colto l’omologia tra il procedimento di Klee e

il metodo strutturale di Lévi-Strauss, volto a ricostruire una logica del sensibile.


4 È un errore comune, che ha coinvolto anche Ejsenstejn (1963-1970), ritenere che Klee propo-

nesse una nuova iconologia fatta di segni a significati emozionali fissi: un “alfabeto dei sentimenti”,
di carattere simbolico (in senso hjelmsleviano). Come abbiamo visto, la sua rappresentazione patemi-
ca è invece semisimbolica, ottenuta per correlazioni categoriali tra il piano dell’espressione e quello
del contenuto. La lettura della “spirale” di Klee è però una fonte inesplorata nell’ispirazione teorica
e figurativa del sommo regista russo.
5 Ecco un esempio piuttosto probante: “In un disegno raffigurante un idillio a Berna dovrebbero es-

sere contenuti: 1. lo ‘Zytgloggeguggel’ che canta: ‘chiami la mia patria’, 2. un quartetto di ubriachi che fa
una serenata a questo uccello, 3. due polipi con scarpe di gomma che si domandano se potranno scon-
figgere quei quattro o finir con il soccombere, 4. i rami frondosi di Berna che si curvano sopra questa
scena./ ‘Un fulmine nella notte, la vivida luce leva un grido nel sonno. Il signor Eckzhan Shneller che in
casa della signora Gfeller è invitato ad un lauto pasto’./ Cose del genere ora posso esprimerle con una
discreta intensità e cioè soltanto con la linea, con la linea come spiritualità assoluta, senza accessori ana-
litici, assolutamente di getto” (Klee 1957, p. 284).
6 Per il confronto tra una pittura di Klee (Scheidung abends) e una poesia di Georg Trakl (Die Stufen

des Wahnsinns un schwarzen Zimmern) cfr. Jürgen Walter, citato in Manacorda 1978, pp. 203-204.
7 Cfr. anche le analisi diversamente orientate di Verdi (1974) e di Bauschatz (1991) che ha esaminato

in una prospettiva semiotica e strutturale le componenti linguistiche, numeriche e tipografiche di quattro


composizioni di Klee. Sul carattere geroglifico dei segni tipografici di Klee, sulle figure di cornice e sul-
l’importante effetto plastico del sostrato cfr. i contributi di Marin 1972. Sull’uso delle sostanze e i loro
effetti particolari e complessi cfr. anche le dense osservazioni di Gehlen (1965) sui collages traslucidi e le
risultanze di “polifonia trasparente” (p. 179). In particolare la descrizione della composizione Via princi-
pale e via secondaria (Haupt und Nebenwege, 1929). Per quanto riguarda il formato condividiamo la sua
indicazione che l’ingegnosità ironica del proposito si adatta particolarmente al piccolo formato. Nel
grande, per contro, l’ironia trapassa facilmente in farsa.
8 Acquerello su garza e carta, cm 20x19,5, conservato ad Ascona, Fondazione Seewald.
9 Sull’uso comparativo del colore nella sua poesia eminentemente acromatica e nella pittura si veda-

no le osservazioni di Manacorda (1978). In particolare la correlazione introdotta da Jakobson tra il cro-


matismo vocalico e quello visivo che meriterebbe di venir ripresa e semioticamente sviluppata (Jakob-
son, Waught 1979).
10 “L’unità del caso e della necessità a un calcolo senza fine” (Derrida 1968, p. 45, citato in Damisch

1984, p. 228).
11 Manca tuttavia un apprezzamento comparativo più esteso dei diversi valori figurativi presi dalla li-

nea a doppia voluta (la chiave di violino) che può fungere a livello figurativo da orecchio (Il vecchio che
conta) o da bocca nella Strega con pettine; da base nell’acconciatura in L’innamorato, o da colletto di La
cantante d’opera; da anse del Vaso di Pandora o da piante e così via. A partire comunque dell’orienta-
mento nello spazio e dell’integrazione a altre figure.
LA SFINGE INCOMPRESA 89

12 Per una lista non esaustiva dei temi di Paul Klee si veda Klee 1971.
13 Frequenti e singolari sono i copricapo dei personaggi antropomorfi in Klee. Si vedano ad esempio
La cantante L. in veste di Fiordiligi, (1923) i cappelli e in generale le acconciature.
14 Per simili soluzioni calligrafiche si vedano Pittura murale (1924), dove il formante può rendere u-

na trama di merletto, o Pagina dal libro delle città (1928), dove si trasforma in notazione musicale.
15 Possiamo quindi escludere che si tratti della Archrontia atropos, una farfalla dai vivacissimi colori

del genere delle Sfingi. Le farfalle non mancano certo al bestiario di Klee.
16 Sospendiamo la lettura delle linee che intersecano la voluta alla nostra destra: si tratta comunque

di tre linee, a conferma del ritmo ternario colto a pieno da Jakobson (1970).
17 Sempre nella stessa occasione Klee nota che, mentre rifletteva sul mistero della musica e della pit-

tura, i commilitoni gli “stanno intorno con occhi incantati, maschere diaboliche guardano dentro attra-
verso la finestra”.
18 Sulla persistenza di questo motivo goethiano in Klee si veda il poema: “Mi rinfresca solamente la

Notte/ di Valpurga, e là volo/ come una lucciola e subito/ so dov’è accesa una piccola lanterna” (Klee
2000, p. 41).
19 “Dinanzi alle Piramidi/ sediamo, Alta Corte dei popoli./ Inondazioni, guerre e paci…/ E i nostri

volti non mutano” (Goethe 1808-1832, pp. 648-649).


20 “Ci sono due monti/ su cui tutto è limpido e sereno,/ il monte degli animali/ e il monte degli

Dei./ In mezzo c’è la valle/ crepuscolare degli uomini./ Se mai uno guarda in alto/ un desiderio insazia-
bile lo afferra,/ lui che sa di non sapere,/ di chi non sa di non sapere,/ e di chi sa di sapere” (Klee 2000,
pp. 116-117).
21 Sul motivo triangolare della Montagna e della Piramide, insieme a quello dell’Albero e della Luna,

si veda Montagne in inverno, un acquerello del 1925 (Klee 1970, p. 390). Ma si vedano anche il forman-
te “Orecchie del cavallo” in Addomesticamento dello stallone (1926), o i Tetti, in Vista di una piazza
(1912) e così via.
22 “Vi è un essere sopra la terra che ha due e quattro piedi e un’unica voce e ha pure tre piedi; e mu-

ta natura, egli solo tra quante creature si muovono in mare e in cielo”. Scolio alle Fenicie di Euripide
23 Sul carattere più romantico-baudelairiano e meno ebraico dell’Angelus Novus, si vedano le osser-

vazioni di Scholem in Agesilaus Santander. L’angelologia contemporanea ha trovato terreno fertile nell’o-
pera di Klee, ma non sarebbe senza frutto introdurre una rapporto differenziale e una tensione tra l’An-
gelo e la Sfinge.
24 “Io sto all’erta,/ io non sono qui,/ io sono nella profondità…./ sono lontano…/ io sono tanto lon-

tano/… io ardo con i morti” (Klee 2000, pp. 168-169). E così Il libro dei Morti, “[La Sfinge] vede scor-
rere in lontananza i fiumi celesti del Nilo e navigare le barche del Sole”.
25 Gli psicanalisti post-freudiani stanno spostando lo sguardo, da sempre fisso sulle pulsioni di Edi-

po, verso l’interrogazione conoscitiva della Sfinge. Bion, ad esempio ci propone, di considerare proprio
la figura della Sfinge come implicito mito fondatore della psicoanalisi. Per queste e molte altre informa-
zioni sulla Sfinge, sono debitore a Preta (1993).
26 “Pietre sacre ieri,/ oggi senza enigmi, / oggi hanno un senso!” (Klee 2000, pp. 186-187).
27 “Comunque oplà/ il senso eccolo qua / entrò l’apparenza / dentro la verità / e divenne possibi-

lità” (Klee 2000, pp. 18-19).


Le rouge et le noir di Paul Klee1
Felix Thürlemann

I colori sono quanto di più irrazionale vi sia nella pittura.


Paul Klee

Questo studio è dedicato a un solo oggetto di analisi e si incentra su un’unica


problematica: quella del colore. Le rouge et le noir, un acquerello dell’ultimo pe-
riodo di Paul Klee (tav. VII), è basato su un solo contrasto cromatico. È un’opera
dal carattere deliberatamente non-figurativo, la cui dimensione significante si situa
quindi assolutamente al di fuori dell’iconicità. Come un’opera non figurativa pro-
duce significato? È la domanda che si pone inevitabilmente lo studioso, ma anche
un problema tematizzato, in qualche misura, dall’oggetto pittorico stesso. Le rouge
et le noir si configura in effetti come una riflessione sulla possibilità di esistenza di
una significazione pittorica che non faccia ricorso alle figure del mondo.
Le proprietà dell’oggetto di analisi ci condurranno ad approfondire il con-
cetto di “sostanza semiotica immediata” abbozzato da Hjelmslev (1943), rivela-
tosi già utile per comprendere l’aspetto creatore della figurazione pittorica in
un’altra opera di Klee, Pflanzen-Analitisches (Thürlemann 1982, pp. 43-75). Ri-
Le rouge
spetto a Pflanzen-Analitisches e a Blumen-Mythos (pp. 107-131), che si caratte- et le noir:
rizzavano da un punto di vista semiotico per la loro natura poetica, ossia per lo la significazione
sforzo di superare il rapporto arbitrario tra i due piani del linguaggio (il piano del colore
dell’espressione e il piano del contenuto, corrispondenti nel caso specifico ai li-
velli plastico e figurativo), Le rouge et le noir manifesta un’analoga preoccupa-
zione di omologazione, riguardante in questo caso il rapporto tra le dimensioni
costitutive del livello plastico: il “colore” e la “forma”.

1. Le rouge et le noir: un discorso sul colore

Paul Klee riprende da Stendhal il titolo, Le rouge et le noir, per denomi-


nare un’opera che si distingue nettamente anche all’interno di una produzio-
ne generalmente nota per la sua varietà. A una sorprendente economia nel-
l’impiego dei mezzi pittorici – un punto rosso e un punto nero che si staglia-
no su uno sfondo dal cromatismo irregolare – si oppone la dimensione relati-
vamente grande del formato: cm 32.5x632. Le rouge et le noir è classificato
da Klee tra i Tafelbilder (quadri), la categoria delle opere destinate a essere Il titolo:
appese al muro (cfr. Glaesemer 1976, p. 8). La classificazione, così come la una citazione
dimensione eccezionale dell’opera, vanno considerati indizi dell’importanza da Stendhal
che il pittore ha attribuito all’opera in questione.
Abbiamo avuto la fortuna di scoprire un testo che, a nostro avviso, è all’ori-
gine del quadro di Klee: un articolo di Kandinsky (1935b), Toile vide, nel quale
viene dapprima descritto il “cerchio nero”, poi il “cerchio rosso”:
92 FELIX THÜRLEMANN

Cerchio nero, tuono lontano, un mondo a sé che non pare curarsi di niente, un ri-
tirarsi in sé, una conclusione immobile, un “eccomi” detto lentamente e con un
po’ di freddezza.
Cerchio rosso, tiene fermo, conserva la posizione, approfondito in se stesso. Nel-
lo stesso tempo però esso cammina perché vorrebbe tutti gli altri posti per sé;
perciò irraggia al di sopra di ogni ostacolo fino all’angolo più lontano. Lampo e
tuono al tempo stesso. Un “eccomi” appassionato (p. 192).

Il brano citato sembra essere un’applicazione della tesi proposta dallo


stesso Kandinsky (1935a, p. 187) nella sua risposta a un’inchiesta di Chri-
stian Zervos, pubblicata nel numero precedente dei «Cahiers d’Art»:

Il momento dinamico comincia con la giustapposizione di almeno due emozioni:


elementi, colori, linee, suoni, movimenti ecc. (il “contrasto”!). “Due suoni inte-
riori”. Qui è da ricercarsi la radice più profonda della composizione.

La fonte:
L’articolo di Kandinsky (1935b) era stato pubblicato direttamente in fran-
un articolo cese, il che spiega perché Klee abbia preso a prestito il titolo da Stendhal. La
di Kandinsky fonte pare dunque indiscutibile, ma la questione rimane: qual è il valore di
una tale scoperta per l’analisi del quadro? Il contenuto del testo ci informa
sul contenuto del quadro? Non è affatto detto. Le rouge et le noir di Klee
potrebbe benissimo essere un quadro dipinto contro il quadro immaginario
di Kandinsky “Cerchio nero (…) cerchio rosso …”. Abbiamo dunque deciso
di non utilizzare il testo di Kandinsky nell’analisi dell’acquerello di Klee.
Occorrerà innanzitutto analizzare il dipinto e solo in un secondo tempo in-
terrogarsi sulla natura del rapporto tra il progetto di Kandinsky e l’opera di
Klee3.
Il titolo Le rouge et le noir, che in quanto citazione è dotato di un caratte-
re “poetico”, intrattiene con il quadro un semplice rapporto di designazione.
Si limita infatti a denominare le due superfici circolari nella loro rispettiva
qualità cromatica, quella che sembra, a prima vista, opporle. Se accettiamo
che a livello plastico – il solo che qui sia in gioco – ogni testo visivo possa es-
sere analizzato secondo tre dimensioni complementari – cromatica, eidetica e
topologica – il titolo sembrerebbe rinviare unicamente alla dimensione cro-
matica, benché al contrasto cromatico siano legati un certo numero di con-
trasti eidetici e topologici (alto vs basso, sinistra vs destra, ecc.). Si potrebbe
perciò dire che il titolo ha la funzione di sottolineare la dimensione cromati-
ca a scapito delle dimensioni eidetica e topologica; il contrasto cromatico sa-
rebbe “ciò di cui si parla”.
Se la dimensione cromatica può essere considerata come il soggetto del
L’explicans processo da analizzare, le due dimensioni complementari, eidetica e topolo-
e l’explicandum gica, possono essere i predicati di questo soggetto, con la funzione di “com-
mentare” il contrasto cromatico rosso vs nero. Da qui la nostra ipotesi che il
dipinto Le rouge et le noir vada analizzato come un discorso duplice, nel
quale l’eidetico e il topologico giocano il ruolo di explicans, e il cromatico
quello di explicandum. Se quest’ipotesi è corretta, l’eidetico e il topologico
dovrebbero ammettere un’analisi secondo i due piani semiotici (il piano del-
l’espressione e il piano del contenuto) e sarebbero dunque, a un primo livel-
lo di lettura, portatori di senso.
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 93

2. Due modi di descrizione del colore

Formulata questa prima ipotesi concernente la struttura semiotica di Le


rouge et le noir, riteniamo utile, prima di affrontare l’analisi, riflettere sulle
possibilità di descrivere il colore, dal momento che un contrasto cromatico
(rosso vs nero) sembra costituire il soggetto del processo in questione. Limite-
remo le nostre riflessioni sulla descrizione del colore all’istanza di apprensio-
ne ricezione (cfr. Greimas, Courtés 1979, voce “istanza”), la sola pertinente
per la nostra analisi.
Se esaminiamo le descrizioni correntemente utilizzate per definire una tin-
ta – ossia un’unità cromatica manifestata –, possiamo constatare che esse ri-
corrono regolarmente ad attributi di due ordini differenti: alcuni hanno infat-
ti una funzione puramente tassonomica, altri possiedono invece un accentua-
Il modo
to carattere valutativo. Vediamo un esempio preso a caso da Fromentin (1876, categoriale
p. 36): “Le teste, sanguigne o d’un ardente rosso mattone, contrastano con i e il modo
visi bluastri di una freddezza veramente inattesa”. Se escludiamo i termini rin- valutativo
vianti a un oggetto (sanguigne, rosso mattone), che costituiscono un caso par-
ticolare complesso, troviamo i due tipi di attributi menzionati: i termini rosso
e bluastri appartengono al gruppo degli attributi “neutri”, i termini ardente e
freddezza sono di ordine valutativo. Sembra dunque possibile postulare per
l’istanza di ricezione due modi di descrizione essenzialmente diversi: i. il mo-
do categoriale e ii. il modo valutativo4:
i. con modo di descrizione categoriale intendiamo un tipo di descrizione
che analizza la tinta secondo un certo numero di categorie dalla funzione pu-
ramente tassonomica. La totalità della sostanza cromatica sembra articolarsi
in un numero di tinte quasi illimitato; il compito dell’analisi semiotica, e la
condizione della sua realizzazione, sarà di costruire queste tinte come figure, Le categorie
nel senso di Greimas, cioè come insieme di tratti cromatici distintivi e perti- cromatiche
nenti. È evidentemente impossibile stilare un inventario completo di queste
figure. Solo l’analisi di un processo concreto permetterà di isolare i tratti per-
tinenti, cioè quelli che, all’interno del processo, contribuiscono attraverso il
loro gioco differenziale alla creazione del senso. È certo però che questi tratti
sono sempre riconducibili a un numero piuttosto ridotto di categorie cromati-
che: i radicali cromatici (blu vs rosso vs verde ecc.), la saturazione (saturo vs
desaturato), il valore (chiaro vs scuro) e le diverse categorie di materia o di
grana (per esempio brillante vs opaco). Si tratta di un inventario ancora prov-
visorio: il numero delle categorie e le loro denominazioni potrebbero richie-
dere qualche rettifica;
ii. il modo valutativo possiede una natura semiotica nettamente differente,
benché, nei discorsi descrittivi, spesso non venga distinto dal primo. Goethe
sembra esser stato il primo, nella sua Farbenlehre (1810), ad averlo considerato
come un modo di descrizione particolare. Nel capitolo Azione sensibile e mora-
le del colore nota che quest’ultimo esercita:

un’azione specifica quando (…) sia preso nella sua singolarità, mentre, in combina-
zione con altri, si tratta di un’azione in parte armonica, in parte caratteristica, spesso
anche non-armonica, sempre tuttavia decisa e significativa, che si riallaccia diretta-
mente al momento morale (§ 758).
94 FELIX THÜRLEMANN

Secondo Goethe, il giallo “possiede una qualità, dolcemente stimolante, di


serenità e di gaiezza” (§ 766), e “camere che siano tappezzate con un azzurro
puro appaiono in certo modo ampie, ma per verità vuote e fredde (§ 783)”.
Gli attributi valutativi impiegati da Goethe sono per la maggior parte di ordi-
ne sinestesico, come nell’esempio tratto da Fromentin (“ardente”, “freddez-
za”), e questa sembrerebbe una caratteristica fondamentale del discorso de-
scrittivo valutativo.
Sappiamo che termini sinestesici di ordine termico (caldo vs freddo) sono
frequentemente impiegati dai pittori a scopo tassonomico, parallelamente alle
categorie propriamente cromatiche. Ma questi stessi termini, all’interno di una
descrizione valutativa, possono assolvere una funzione diversa: servono allora a
Il contenuto descrivere il contenuto “affettivo” di un’opera pittorica, così come viene colto a
“affettivo” una prima lettura. I due modi di descrizione dei colori, categoriale e valutativo,
rinviano allora ai due piani del linguaggio. La descrizione categoriale contribui-
sce a cogliere il piano dell’espressione del processo, mentre quella valutativa co-
stituisce una prima dimensione del contenuto, prodotta a partire dal piano del-
l’espressione. Il contenuto “affettivo” dei colori si rivela spesso pertinente per
la lettura di un’opera5.
Bisogna allora domandarsi quale tipo di semiosi colleghi le unità dell’espres-
sione, colte dalla descrizione categoriale, e le unità del contenuto, oggetto della
descrizione valutativa. A prima vista, questa relazione sembra essere di natura
semisimbolica: a opposizioni di unità di ordine categoriale sono correlate oppo-
sizioni di unità di ordine valutativo. Troviamo così correntemente, alla base dei
processi visivi, omologazioni quali:

chiaro : scuro : : “allegro” : “triste”

In altri casi il rapporto tra i due piani, e tra i rispettivi modi di descrizione,
sembra più complesso. Se ciascuna tinta manifestata può essere analizzata a li-
vello categoriale come una figura, costituita da una serie di categorie apparte-
nenti a tipi diversi (radicali, saturazione, valore, materia), la relazione semiotica
potrà stabilirsi tra un’opposizione valutativa semplice e un’opposizione com-
plessa formata da due “pacchetti” di categorie. Così, due tinte, caratterizzate
entrambe dal radicale /rosso/, possono apparire l’una come relativamente “cal-
da” (“rosso brillante che dà sul giallo”), l’altra come relativamente “fredda”
(“rosso cupo tendente al blu”): le categorie del livello valutativo appaiono allo-
ra come effetti di senso, il cui processo di produzione richiederebbe per ciascu-
na figura cromatica manifestata un’analisi supplementare6.

3. Le relazioni logiche tra radicali cromatici

Nel paragrafo precedente abbiamo provvisoriamente stabilito che l’analisi se-


condo il modo categoriale dovrà basarsi sulle categorie dei radicali, della satura-
zione, del valore e sulle differenti categorie della materia (ad esempio la brillan-
tezza). Prima di considerare il gioco concorrenziale di questi quattro registri cro-
matici nel nostro oggetto di analisi, vorremmo fare qualche riflessione sull’artico-
lazione logica della categoria dei radicali, che sembra possedere un carattere fon-
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 95

damentale in ogni sistema cromatico. Per fare questo ci riferiremo al noto studio
di Berlin e Kay (1969), e alle stimolanti critiche rivoltegli da Conklin (1973).
Secondo Berlin e Kay, l’insieme dell’area culturale europea, così come quella
semitica, cinese, giapponese e altre, manifestano la settima e ultima tappa di svi-
luppo del lessico cromatico, e dispongono di undici “termini di base” (basic color
terms) per articolare la totalità della sostanza cromatica. Questi termini, denomi-
nati radicali cromatici, sono designati da lessemi italiani: nero, bianco, rosso, ver-
de, giallo, blu, marrone, viola, rosa, arancione, grigio7. Come già constatato, la
categoria di radicali non appartiene allo stesso livello elementare delle categorie
della saturazione e del valore. I differenti radicali definiti da Berlin e Kay non so-
no inoltre tutti della stessa natura, ed esistono relazioni di ordine gerarchico tra i
diversi termini: per esempio, i rapporti tra /rosso/ e /blu/ da un lato e tra /rosso/
e /rosa/ dall’altro non sono evidentemente dello stesso ordine8.
Cercheremo ora di fornire qualche indicazione – a titolo di ipotesi di lavoro
– in vista di una articolazione logica tra i diversi termini. Cominceremo con il La categoria
ricordare che i nostri criteri di articolazione sono di ordine puramente percetti- della
vo (pertinenti dal punto di vista dell’istanza di ricezione) e non si basano su ri- cromaticità
flessioni di ordine fisico, fisiologico o poietico (per esempio, produzione di tin-
te tramite mescolanza di pigmenti). Le nostre proposte si avvalgono soprattutto
delle osservazioni fatte da Heimendahl (1961).
La categoria della cromaticità, che Heimendahl utilizza, permette una prima
articolazione degli undici radicali. Si potranno così raggruppare, in un insieme
a parte, i termini acromatici /bianco/, /grigio/, /nero/. Nell’insieme complemen-
tare costituito dagli altri otto termini, /marrone/ occupa un posto particolare,
intermedio, tra il gruppo cromatico e quello acromatico (1961, p. 67). Lo defini-
remo semi-cromatico, lasciando per il momento in sospeso l’interpretazione lo-
gica che bisognerebbe dare a questo termine in rapporto agli altri due (neutro e
complesso). Ne risulta una prima classificazione:

termini acromatici: /bianco/ /grigio/ /nero/


termini semi-cromatici: /marrone/
termini cromatici: /rosso/ /verde/ /giallo/ /blu/ /viola/ /arancione/
/rosa/

I termini acromatici possono essere articolati secondo una sola categoria, la


luminosità, con il /grigio/ in posizione mediana. Questa categoria funziona an-
che come arcicategoria, allo stesso livello dei radicali, quando si applica all’in-
sieme delle tinte manifestate (ed è allora normalmente chiamata valore). All’in-
terno del gruppo dei termini cromatici, proponiamo di classificare a parte i
quattro “primari psicologici” /rosso/, /verde/, /giallo/, /blu/ (cfr. Conklin
1973, p. 937).
Il posto del /verde/ nei colori primari è stato contestato. Ciò si spiega con il
fatto che la maggior parte delle teorie fanno indistintamente intervenire, accan- La categoria
to a quelli percettivi, criteri di ordine poietico (il pittore può ottenere il verde a della
partire da una mescolanza – il che non accade per gli altri primari). Hering luminosità
(1874, p. 170) fu uno dei primi a segnalare che, a livello percettivo, il /verde/
deve essere considerato come un colore semplice allo stesso titolo del /rosso/,
del /giallo/ e del /blu/ (cfr. Wittgenstein 1950-51, p. 4). Hering ha ugualmente
96 FELIX THÜRLEMANN

dimostrato che i “primari psicologici” cromatici possono essere messi in serie se


a ogni termine si attribuiscono due termini vicini; la sua proposta parte dall’os-
servazione che il /verde/, per esempio, può tendere al /blu/ o al /giallo/, ma
non a entrambi contemporaneamente. Si ottiene così la serie seguente: /blu/ —
/rosso/ — /giallo/ — /verde/ — /blu/ — /rosso/… Questa serie, come si vede,
è di natura circolare. È proprio sulla possibilità di “chiudere” la serie dei termi-
I quattro ni cromatici primari (corrispondente nella sua forma graduata più o meno allo
primari spettro solare) che si fondano tutte le rappresentazioni schematiche in cerchio,
cromatici triangolo, coni ecc. delle teorie del colore dell’epoca moderna9.
Se si rappresenta il cerchio cromatico secondo il modo graduato, appariran-
no quattro punti forti o foci, corrispondenti ai “primari” puri. Come ha già no-
tato Hering (1874, p. 169), il passaggio da un colore primario all’altro è di natu-
ra logica complessa e graduale. Tra due foci, c’è presenza concorrenziale, a gradi
diversi, dei due colori “primari” vicini, conforme allo schema:

Possiamo allora constatare che le due zone di passaggio, che legano il focus
/rosso/ al /giallo/ da un lato e al /blu/ dall’altro, possiedono ciascuna un’articola-
zione secondaria attraverso un termine medio complesso, l’/arancione/ e il /viola/.
L’/arancione/ è percepito come apparentato contemporaneamente al /rosso/ e al
/giallo/, il /viola/ come partecipe del /rosso/ e del /blu/. Il /rosso/ possiede dun-
que una posizione privilegiata all’interno del gruppo dei quattro “primari”, poiché
solo i passaggi da questo primario ai due vicini possiedono quest’articolazione:

s e c o n d a r i a .

Dobbiamo ancora assegnare un posto al radicale /rosa/ nel gruppo dei ter-
mini cromatici fondamentali. Ci sembra che esso vada considerato come una
variante desaturata del /rosso/. Se questa interpretazione è corretta, sottolinee-
La posizione rebbe, ancora una volta, la posizione privilegiata di questo termine tra gli undi-
privilegiata ci radicali, poiché soltanto per il /rosso/ la variante desaturata sarebbe lessica-
del rosso lizzata da un termine semplice (“rosa” vs “blu chiaro”, “verde chiaro” ecc.)10.
Torniamo ai quattro “primari” cromatici. Se tutti i “termini di base” hanno
ora il loro posto all’interno del sistema costruito su un numero ridotto di cate-
gorie, questo non avviene per i termini cromatici detti “primari psicologici”. Ci
si può chiedere se questi quattro radicali vadano considerati come equipollenti
o se non sia possibile individuare un’articolazione supplementare. Il fatto che i
quattro termini fondamentali possano essere messi in serie, e che, di conseguen-
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 97

za, ciascuno possegga due termini vicini e uno non vicino, permette di distin-
guere, per ciascuno di essi, un termine antonimo (la definizione è di Conklin
1973, p. 937) con il quale non esiste mediazione possibile tramite una manife-
stazione complessa. Si possono così formare due paia di antonimi tra le sei cop-
pie possibili: /blu/ ↔ /giallo/ e /rosso/ ↔ /verde/.
Per concludere, noteremo che le relazioni logiche tra gli undici termini fonda-
mentali che abbiamo descritto forniscono un sistema allo stato virtuale. Gli undici
termini infatti solo raramente sono manifestati nella loro totalità all’interno di un
processo dato. (Sappiamo che esistono manifestazioni pittoriche che non ne sfrut-
tano alcuno e che mettono in opera i soli registri della saturazione e della mate-
ria)11. È questa una caratteristica che distingue le semiotiche visive dalle lingue na-
turali, giacché, per esempio, il sistema fonologico di qualsiasi lingua è fisso e vinco-
lante per ogni manifestazione e si trova quasi sempre realizzato nella sua totalità.

4. Tinta delle figure - tinta dello sfondo

In una prima approssimazione, abbiamo descritto il nostro oggetto di analisi


come composto di due superfici circolari – una rossa, una nera – che si staglia-
no su uno sfondo dal cromatismo irregolare. La lettura poggia dunque sulla di-
stinzione tra figura e sfondo, alla quale corrisponde un contrasto accentuato tra
due modi di espressione cromatica. Se le figure manifestano due tinte focali pu-
re, lo sfondo mostra una tinta impura che non può essere descritta con un solo
lessema, ma richiede una perifrasi quale: “bianco contaminato da toni seconda-
ri – rosso, marrone e nero –, che si manifestano con una densità irregolare, ben-
ché continua”. Queste variazioni, sebbene producano effetti di spazializzazione,
non instaurano una nuova articolazione secondo l’opposizione figura-sfondo.
(Questi effetti di senso spaziali appartengono alla dimensione topologica e sa-
ranno descritti in seguito).
Cerchiamo ora di vedere quali sono le funzioni della tinta complessa dello
sfondo in rapporto alle tinte delle figure, il cui contrasto, stando al titolo, sem-
brerebbe costituire il “soggetto” del dipinto. A prima vista, la nostra ipotesi di
partenza, secondo la quale ciascuna tinta deve essere considerata come la mani-
festazione di una figura cromatica analizzabile secondo un certo numero di cate-
gorie primarie, sembra essere in contraddizione con il titolo Le rouge et le noir.
Quest’ultimo, infatti, rinvia esclusivamente all’arcicategoria dei radicali, la sola Le funzioni
pertinente per la lettura dei due elementi-figure nel loro contrasto. In effetti, la della tinta
tinta ‘rosso’ e la tinta ‘nero’ presentano lo stesso grado di saturazione e una stes- dello sfondo
sa materia. Tuttavia, esiste una differenza di valore tra le due tinte, essendo il ros-
so un colore più chiaro del nero. Troviamo qui una prima ragione delle “irrego-
larità” nel trattamento cromatico dello sfondo. Attorno al punto rosso, lo sfondo
è più chiaro, cosicché i contrasti di valore tra ciascuno dei due punti e la parte di
sfondo sulla quale si stagliano sono sensibilmente gli stessi. Guardare le tinte so-
lo secondo la categoria dei radicali è un’astrazione, ed è precisamente a quest’a-
strazione che il dipinto – e non solo il suo titolo – invita.
Nel paragrafo precedente abbiamo cercato di descrivere le relazioni logiche
che esistono tra gli undici radicali cromatici. Rispetto alle categorie cui abbiamo
fatto riferimento, il /rosso/ appartiene al gruppo dei termini cromatici, il /nero/
98 FELIX THÜRLEMANN

al gruppo dei termini acromatici. È dunque la categoria della cromaticità (cro-


matico vs acromatico) a essere realizzata dal processo in questione. Abbiamo
anche visto che il /rosso/ occupa una posizione particolare all’interno dei termi-
ni cromatici. È il solo radicale la cui variante desaturata venga lessicalizzata da
un termine semplice (il radicale /rosa/) e le cui manifestazioni complesse con i
due termini vicini, all’interno della serie dei quattro primari, vengano indivi-
duate come radicali (/viola/, /arancione/). Altrettanti indici, questi, del fatto
che il /rosso/ costituisca il termine cromatico marcato rispetto a tutti gli altri: “il
colore” per eccellenza12.
Il nero Il /nero/ non sembra occupare una posizione analoga all’interno del gruppo
come termine
marcato dei radicali acromatici /bianco/, /grigio/, /nero/. Ma alcuni tratti, a un altro li-
della serie a- vello, indicano che il /nero/ va considerato come il termine marcato della serie.
cromatica Nella produzione artistica occidentale, infatti, il ‘nero’ appare quasi sempre le-
gato alla presenza materiale, mentre il bianco è legato all’assenza (il foglio bian-
co “vuoto”). È sotto questo aspetto che il ‘nero’ viene percepito all’interno del
nostro processo, e si potrebbe dunque dire che attraverso il ‘rosso’ e il ‘nero’ si
oppongono, per delega, il colore e il non-colore.
Il radicale principale della tinta dello sfondo è il /bianco/, che secondo la ca-
tegoria della luminosità o valore si trova al polo opposto del /nero/. Si capisce
ora perché lo sfondo non possa manifestare il solo radicale /bianco/. Sotto que-
sta forma, intratterrebbe, a spese del punto rosso, una relazione privilegiata con
il radicale della figura ‘nera’, poiché entrambi appartengono al gruppo dei ter-
mini acromatici.
Riassumiamo le nostre osservazioni sulle funzioni del cromatismo complesso
dello sfondo in rapporto alle tinte semplici delle figure:
i. la tinta dello sfondo ha lo scopo di incentrare la comparazione tra le tinte
dei due elementi-figure sulla sola categoria dei radicali;
ii. il cromatismo dello sfondo è stato scelto in modo da non stabilire alcun
rapporto privilegiato con nessuna delle due figure.
Nella sua forma cromatica specifica, lo sfondo appare dunque come un di-
spositivo complesso di equilibratura. Il rapporto di equilibrio tra i due elementi-
figure rappresenta innanzitutto una condizione della loro comparabilità, ma, su
un piano più generale, può costituire un aspetto del significato del quadro. Una
Lo sfondo
come
parte importante della produzione non figurativa contemporanea è caratterizza-
dispositivo ta dalla ricerca di rapporti di equilibrio. Nelle ultime opere di Mondrian, per e-
di equilibratura sempio, il senso sembra innanzitutto il prodotto di un effetto globale di equili-
brio a partire da elementi che manifestano contrasti eidetici e cromatici netti13.
In una prospettiva semiotica generale, questa ricerca di un equilibrio a partire
da elementi contrastivi può essere considerata, ci sembra, come una nuova mo-
dalità di manifestazione del pensiero mitico così come lo definisce Lévi-Strauss
(1958). Il pensiero mitico non avrebbe dunque necessariamente bisogno, per
manifestarsi, di ricorrere alle figure del mondo14.

5. L’ipotesi riformulata

L’analisi del titolo ci ha portato a ipotizzare che Le rouge et le noir costitui-


sca un discorso sul colore, nel quale le dimensioni eidetica e topologica funge-
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 99

rebbero da explicans, e la dimensione cromatica da explicandum. Prima di conti-


nuare l’analisi del processo, ci sembra utile precisare, per quanto è possibile, i
rapporti semiotici tra la dimensione cromatica e la doppia dimensione eideti-
ca/topologica, chiamati a svolgere ciascuna una funzione discorsiva indipen-
dente. Se la dimensione eidetica/topologica costituisce l’explicans, ne consegue
che questo livello deve poter funzionare come un linguaggio in sé, con i suoi
Un discorso
due piani dell’espressione e del contenuto. Questo modo di funzionamento sarà su due livelli:
possibile, a nostro avviso, solo se la “sostanza semiotica immediata”, il livello valutativo
valutativo della dimensione eidetica/topologica, verrà considerata come piano e categoriale
di contenuto, e il livello categoriale come piano dell’espressione. L’explicandum
sarebbe la dimensione cromatica, più precisamente il suo contenuto, cioè il
contrasto cromatico letto a livello valutativo. Siamo così portati a considerare il
processo in questione come un discorso che si sviluppa su due livelli, ciascuno
costituito da un piano dell’espressione e da un piano del contenuto, secondo lo
schema seguente:

s e c o n d a r i a .

Ipotizziamo, inoltre, che i contenuti valutativi delle due dimensioni di di-


scorso siano identici: il primo (quello della doppia dimensione eidetica/topolo-
gica) leggibile, il secondo (quello della dimensione cromatica) sconosciuto.
Ci si può chiedere se il discorso visivo, attraverso questo sdoppiamento, non
assolva quella funzione metadiscorsiva che, secondo Benveniste (1969, p. 10),
sarebbe appannaggio del solo discorso verbale. La risposta a questa domanda
La funzione
sarà affermativa se si intende la funzione metadiscorsiva nel senso ampio di de- metadiscorsiva
finizione per perifrasi. Non c’è infatti differenza formale tra la struttura semioti- del discorso
ca che abbiamo postulato per Le rouge et le noir e quella che permette di defi- visivo
nire un’unità di espressione dal significato sconosciuto tramite il ricorso a un’u-
nità linguistica il cui significato sia conosciuto. Il parallelo con la perifrasi è
confermato, lo vedremo, dal fatto che l’explicans possiede una forma analitica
(molteplicità di contrasti eidetici e topologici), l’explicandum una forma sinteti-
ca (contrasto tinta ‘rossa’ vs tinta ‘nera’). La risposta sarà invece negativa se la
funzione metadiscorsiva viene intesa nel senso stretto di Hjelmslev (1943, p.
122), che definisce la metasemiotica come una semiotica “il cui piano del conte-
nuto è una semiotica” (costituita dunque da due piani), poiché il discorso eide-
tico non potrà parlare che del contenuto del discorso cromatico. Tuttavia, se si
ammette la nostra ipotesi sulla struttura semiotica di Le rouge et le noir, si rico-
noscerà qui un procedimento di apprensione della significazione attraverso
un’operazione di transcodifica, che secondo Greimas (1970, pp. 13, 43) va con-
siderata come il solo mezzo per far apparire il senso. Ciò significa che, almeno
per una volta, sarà stato possibile parlare della significazione del dipinto senza
chiamare in causa il linguaggio verbale.
100 FELIX THÜRLEMANN

6. “Rosso” e “nero” valutati

Secondo il modello che abbiamo abbozzato, Le rouge et le noir costituirebbe


dunque un metadiscorso sul contrasto cromatico ‘rosso’ vs ‘nero’ che si serve di
molteplici mezzi di espressione eidetica e topologica, i quali, letti a livello valu-
tativo, esprimerebbero il contenuto di questo contrasto, vero soggetto del qua-
dro. Prima di passare all’analisi della doppia dimensione eidetica/topologica,
Un
metadiscorso sarà utile riportare alcuni brani di Kandinsky che danno una descrizione valuta-
sul contrasto tiva dei due colori, e possono perciò essere considerati come un’ipotesi sul con-
cromatico tenuto dell’oggetto di analisi. Se il nostro modello della struttura semiotica del
quadro è valido, la lettura valutativa dei contrasti eidetici e topologici che intra-
prenderemo nell’ultimo paragrafo dovrebbe corrispondere alla lettura valutati-
va dei colori “rosso” e “nero” fornita dal testo di Kandinsky.
Converrà porre attenzione a un fatto che a prima vista sembra un’anomalia
semiotica. Come ha dimostrato Greimas (1966, pp. 18 sgg.) nel suo modello
della struttura elementare della significazione, il senso può nascere solo a parti-
re da una differenza, colta al momento del confronto tra due elementi la cui
comparabilità è assicurata dalla ricorrenza di qualità comuni. Nel caso della
percezione dei colori a livello valutativo, questa regola fondamentale pare esse-
re infranta. Ogni colore sembra poter significare in sé e al di fuori di qualsiasi
contesto. Così Kandinsky (1912, pp. 107 sgg.) può, per esempio, definire il
‘giallo’ come un colore “caldo”, che “eccita” e che “si avvicina all’osservatore”.
Ci si accorge tuttavia facilmente che, se si può teoricamente applicare a unità di
espressione isolate, la lettura valutativa utilizza un sistema di valutazione in ab-
sentia, composto di aggettivi e perifrasi, che possiede esso stesso un carattere
differenziale: a “caldo” si oppone “freddo”, a “eccitare” “tranquillizzare”, e ad
“avvicinarsi” “allontanarsi”. Questa particolarità, che si osserva nella modalità
di significazione dei colori a livello valutativo, è a nostro avviso caratteristica di
La lettura
valutativa e il tutti i linguaggi di connotazione. Non presupponiamo, facendo questo accosta-
concetto di mento tra lettura valutativa e concetto di connotazione, che esso possa avere u-
connotazione na qualche funzione esplicativa. In effetti, le nostre conoscenze attuali sul modo
di funzionamento dei linguaggi connotativi sono ancora scarse. Speriamo, al
contrario, che l’analisi dei colori a livello valutativo potrà arricchire e precisare
le nostre conoscenze sulla connotazione15.
Le descrizioni dei colori di Kandinsky (1912) sono tra quelle che meglio trat-
tano il livello valutativo. Citeremo alcuni stralci riguardanti il ‘rosso’ e il ‘nero’:

Il rosso, così come ce lo immaginiamo, come colore tipicamente caldo, senza limiti,
agisce interiormente come un colore assai vivace, acceso, inquieto (…). Il rosso cal-
do chiaro (rosso di Saturno) ha una certa somiglianza col giallo medio (contiene an-
che, sotto forma di pigmento, una quantità abbastanza grande di giallo) e suscita u-
na sensazione di forza, energia, tensione, decisione, gioia, trionfo (puro), ecc. In
campo musicale ricorda anche il suono delle fanfare in cui sia presente anche la tu-
ba: tono ostinato, molesto, forte16.

A proposito del nero:

E come un nulla privo di possibilità, come un morto nulla dopo lo spegnersi del so-
le, come un eterno silenzio senza futuro e senza speranza risuona interiormente il
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 101

nero. Esso può essere rappresentato musicalmente come una pausa conclusiva, dopo
la quale un’eventuale prosecuzione si presenta come l’inizio di un nuovo mondo,
poiché ciò che è stato concluso da questa pausa è per sempre finito, compiuto: il
cerchio è chiuso. Il nero è qualche cosa di spento, come un rogo combusto fino in
fondo, qualche cosa di inerte come un cadavere, che è insensibile a tutto ciò che gli
accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso. È come il silenzio del cor-
po dopo la morte, dopo la conclusione della vita. È questo, esteriormente, il colore
meno dotato di suono, sul quale perciò ogni altro colore, anche quello che ha il suo-
no più debole, acquista un suono più forte e preciso (pp. 111-113).

Possiamo constatare che nella descrizione del ‘nero’ buona parte delle e-
spressioni valutative caratterizzanti il ‘rosso’ riappare nella forma opposta (con-
traria o contraddittoria). Da molti punti di vista, il ‘nero’ può essere considera-
to come un antonimo del ‘rosso’. La lista seguente riassume in modo schemati- La descrizione
co alcune caratteristiche essenziali contenute nelle descrizioni di Kandinsky17. I valutativa
termini che nei due testi si trovano, direttamente o indirettamente, in un rap- di Kandinsky
porto di opposizione sono riportati in corsivo. Si potranno così prevedere, a ti-
tolo ipotetico, i concetti che dovrebbero riapparire, almeno parzialmente, nella
descrizione valutativa dei livelli eidetico e topologico del quadro, se è vero – co-
me supponiamo – che questi due livelli esprimono il contenuto valutativo del
‘rosso’ e del ‘nero’ nel loro contrasto.

ROSSO NERO
Caldo –
vivace, inquieto morto, inerte
forza, energia –
senza limiti chiuso, privo di possibilità
gioia, trionfo –
suono forte, ostinato, molesto silenzio, il colore meno dotato di suono

7. L’omologazione forma-colore in Kandinsky e Klee

La nostra ipotesi sull’organizzazione semiotica del dipinto Le rouge et le noir


si fonda sulla possibilità di una lettura indipendente delle dimensioni della “for-
ma” (eidetica/topologica) e del “colore” (cromatica) e sul postulato che, in una
seconda tappa, le categorie eidetiche e topologiche siano omologabili, attraver-
Le
so una lettura valutativa, alle categorie cromatiche. Quest’idea di un rapporto corrispondenze
di omologazione tra le dimensioni costitutive di ogni processo visivo viene spes- tra forma
so sviluppata negli scritti teorici di Kandinsky, ma appare solo fugacemente ne- e colore
gli scritti di Klee. Nei testi di Klee pubblicati finora, egli ne accenna solo in una
frase, nel resoconto di una lezione all’Accademia di Düsseldorf (dove Klee inse-
gnò dal 1931 al 1933) fatto da Petra Petitpierre. Alla fine della critica di un la-
voro di un studente, Klee riassume: “sarebbe dunque in un certo senso una cor-
rispondenza tra la forma e il colore”18.
Prima di proseguire l’analisi, ci sembra utile riportare alcuni brani di Kan-
dinsky, in cui il pittore tratta delle corrispondenze tra forma e colore. Già nel
1912, Kandinsky constatava che
102 FELIX THÜRLEMANN

molti colori vengono sottolineati nel loro valore da talune forme e smorzati da altre.
Colori acuti vengono sempre esaltati, acquistano un suono più acuto, quando sono
associati a una forma acuta, ad esempio il giallo associato al triangolo. I colori che
tendono all’approfondimento vedono questa tendenza accentuata da forme tondeg-
gianti, ad esempio il blu associato al cerchio (p. 99).

Questa osservazione verrà sistematizzata in un lungo brano del trattato Pun-


to e linea nel piano (1926, pp. 42-49), in cui l’artista attribuisce a ogni “angolo
L’omologazione tipico” un colore particolare (acuto = giallo, retto = rosso, ottuso = blu) e in cui
tra forme stabilisce, sulla stessa base, un’omologazione tra forme primarie e colori primari
e colori primari (triangolo: giallo, quadrato: rosso, cerchio: blu)19.
Il pittore russo stabilisce questi accostamenti sulla base di “risonanze” co-
muni (noi diremmo valutazioni comuni) a certe forme e a certi colori. Nel passo
del 1912, Kandinsky parla già di “colori acuti [che] vengono sempre esaltati,
acquistano un suono più acuto, quando sono associati a una forma acuta”. Gli
appunti per la lezione del 24 novembre 1925 si concludono con uno schema in
cui nozioni d’ordine tematico funzionano come relé tra categorie eidetiche e
cromatiche (Kandinsky 1970, p. 269):

Parentela tra forme e colori.


Acuto = caldo = giallo.
Ottuso = freddo = blu.
In mezzo = angolo retto = caldo-freddo = rosso

Kandinsky, in questi scritti, stabilisce unicamente comparazioni tra certi ter-


mini cromatici focali e alcune particolari categorie eidetiche (angolo acuto, ret-
to, ottuso e figure geometriche semplici, caratterizzate da certi tipi di angoli),
insomma categorie che corrispondono alla nozione ingenua di “forma”, ma non
cerca mai di mettere sistematicamente in rapporto la sfera cromatica e quella ei-
detica e topologica.

8. Inventario dei contrasti eidetici e topologici

Cercheremo ora di stilare un inventario completo dei contrasti eidetici e to-


pologici degli elementi ‘rosso’ e ‘nero’, prima di passare all’individuazione del
contenuto valutativo dei contrasti che, secondo la nostra ipotesi, potrà essere
considerato come il significato del contrasto cromatico ‘rosso’ vs ‘nero’, messo
in luce dall’operazione di transcodifica. Le rouge et le noir ricorre a un gran nu-
mero di categorie eidetiche e topologiche: il contorno, la posizione e l’inserzione
nello schema assiale del formato. A queste categorie eidetiche e topologiche ag-
giungeremo una categoria complessa d’ordine cromatico, il cromatismo dello
sfondo, che produce, come vedremo, effetti di senso spaziali, e verrà dunque
trattata con le categorie topologiche.
Le particolarità Il formato di Le rouge et le noir è un rettangolo allungato nel senso della lar-
del formato ghezza. Il rapporto tra lati orizzontali e lati verticali è quasi di 2 a 1. Questa par-
ticolarità fa sì che la superficie pittorica si presti a essere suddivisa in due qua-
drati giustapposti. Si potrà così distinguere una parte sinistra della superficie
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 103

che include l’elemento rosso (entrambi – lo sfondo e il suo elemento – verranno


designati d’ora in avanti con la lettera R) e una parte destra con l’elemento nero,
designati con la lettera N. Segnaliamo che la nostra lettura si situa a livello sin-
tagmatico in senso stretto: registra i contrasti manifestati dalla “parte R” e dalla
“parte N” unicamente in sincronia. Non passeremo a una lettura temporalizza-
ta. Il processo in questione non comporta indici che richiedano una lettura a
questo livello più superficiale.

contorno
R cerchio leggermente allungato N cerchio leggermente appiattito rispetto
rispetto alla verticale alla verticale (bordo superiore)

posizione
R sinistra N destra
R alto N basso

inserzione
R distanza irregolare rispetto N distanza pressappoco uguale, regolare,
ai bordi (sinistro e superiore) rispetto ai bordi vicini (destro e inferiore)
R posizione a destra della mediana N posizione sulla mediana verticale del
verticale del quadrato sinistro, quadrato destro, non eccentrica
eccentrica
R posizione eccentrica rispetto N posizione non eccentrica rispetto
all’asse mediano orizzontale all’asse mediano orizzontale

cromatismo del fondo


R sfondo a valore modulato, chiaro N sfondo dal valore omogeneo
attorno all’elemento; striscia
verticale

9. I contrasti eidetici e topologici valutati: il significato

I contrasti eidetici e topologici classificati nelle categorie inserzione e cromati-


smo dello sfondo presentano caratterizzazioni quasi identiche. Possiamo global-
mente ricondurle all’opposizione “vario” (irregolare, eccentrico, modulato), pro-
prio della parte R, vs “uniforme” (regolare, non eccentrico, omogeneo), proprio
della parte N. Questa coppia di aggettivi antonimi comporta già in qualche modo
un carattere valutativo, che potremmo esprimere in maniera più diretta con l’op-
posizione “dinamico” vs “statico”. Arriviamo così all’omologazione seguente20:

Tra le categorie della posizione, una valutazione del contrasto sinistra vs destra
ci sembra impossibile. Questo contrasto sembra essere senza significato al di fuo-
ri di una lettura orientata, cioè temporalizzata. Il caso dell’opposizione della verti-
104 FELIX THÜRLEMANN

calità è differente. Il contrasto alto vs basso è nettamente valorizzato nelle nostre


abitudini di lettura. Noi proponiamo di riprendere l’omologazione corrente:

R : N : : alto : basso : : “leggero” : “pesante”

Più complicato sembra essere il caso del contrasto dei contorni, allungato (R)
vs appiattito (N), che si trova legato all’orientamento verticale. Abbiamo anche
constatato che lo schiarimento del fondo attorno all’elemento R si presenta nella
forma di una striscia verticale. La somma di questi due tratti concorre a produrre
un effetto di senso “dinamismo orientato”; si potrebbe considerarlo come una
specificazione del valore “dinamico” che sembra caratterizzare il campo R. L’ele-
mento-figura ‘rosso’ appare come un attore dotato della competenza del movi-
Il contenuto
dei contrasti mento. Sembra in grado di spostarsi nella direzione della verticale, più precisa-
eidetici mente dal basso verso l’alto, poiché possiamo considerare la posizione eccentrica
e topologici (verso l’alto) come il risultato di un movimento “ascendente”. A quest’effetto di
senso di dinamismo orientato secondo l’asse verticale, possono aggiungersene al-
tri, meno marcati. Mentre l’elemento ‘nero’ sembra ancorato alla superficie dal
valore relativamente più scuro, il punto ‘rosso’, grazie alla banda più chiara e co-
me “vuota” sulla quale è dipinto, sembra “librarsi nello spazio” e dà l’impressio-
ne di “avvicinarsi allo spettatore”, per riprendere l’espressione di Kandinsky.
Riassumendo, possiamo dire che il campo R, dunque il colore rosso, appare
come “dinamico e leggero”; l’elemento ‘rosso’ sembra “muoversi” (più specifi-
camente verso l’alto). Per la parte N, tutte queste valorizzazioni appaiono come
negate. Questo risultato della lettura dei contrasti eidetici e topologici a livello
valutativo corrisponde nelle sue parti essenziali alle caratterizzazioni dedotte
dalla lettura valutativa dei colori ‘rosso’ e ‘nero’ per Kandinsky (confronta lo
schema contrastivo p. 103). Si trova così confermata la nostra ipotesi di lettura:
il contenuto dei contrasti eidetici e topologici in Le rouge et le noir deve essere
considerato come una determinazione metadiscorsiva del contenuto del contra-
sto cromatico ‘rosso’ vs ‘nero’.
È arrivato il momento di interrogarci sul rapporto tra la descrizione del con-
tenuto quale risulta dall’analisi e il contenuto del testo di Kandinsky che era all’o-
rigine del quadro di Klee. Possiamo constatare che i due contenuti sono essen-
zialmente identici. Nel piccolo testo di Kandinsky il ‘nero’ viene ugualmente ca-
ratterizzato con termini negativi (“lentamente” – “freddezza”), mentre il ‘rosso’ è
definito dall’aggettivo “appassionato”. Quanto alla categoria del movimento (sta-
tico vs dinamico) che è servita a opporre le parti ‘nera’ e ‘rossa’ del quadro, la ri-
troviamo nei due paragrafi del testo “Toile vide etc.”, ma in una forma comples-
Caratterizzazioni sa. Il ‘nero’ è caratterizzato dall’assenza di movimento (“conclusione immobile”)
del ‘rosso’
e del ‘nero’ e dalla virtualità di un movimento concentrico (“ritirarsi in sé”), il ‘rosso’ dall’as-
nel testo senza di movimento (“conserva la posizione”) e dalla virtualità di un movimento
di Kandinsky eccentrico (“vorrebbe tutti gli altri posti per sé … irraggia”). Questa definizione
complessa del testo di Kandinsky attribuisce ai due colori un carattere ambiva-
lente che l’analisi non ha evidenziato, ma che non sembra estranea al quadro di
Klee, dal momento che il dipinto appare come un oggetto statico ma capace di
generare effetti di senso dinamici. Le coincidenze vanno ancora oltre, e non ri-
guardano solo i contenuti rispettivi del testo e del quadro, ma anche le loro for-
me discorsive. Così come i due paragrafi di Kandinsky “Cerchio nero (…). Cer-
LE ROUGE ET LE NOIR DI PAUL KLEE 105

chio rosso …” appartengono al metalinguaggio sul colore, il quadro dalla forma


bipartita di Klee presenta una struttura metadiscorsiva.
Le rouge et le noir di Paul Klee è un’opera che si dà come oggetto lo studio
di uno dei propri mezzi espressivi. Alla domanda “qual è il senso di questi colo-
ri?” il quadro chiede a tutto ciò che non è colore di dare una risposta. Possiamo
così considerare Le rouge et le noir come un doppio interrogativo sulla pittura
non figurativa: come essa produce senso, e qual è la natura di questo senso?
Questo tipo di espressione pittorica, in tutte le sue variazioni, si fonda sul po- La pittura
stulato dell’esistenza di una significazione che non è legata all’evocazione delle parla
figure del mondo. Kandinsky, nei suoi scritti teorici, ha spesso tentato di descri- di se stessa
vere la dimensione significante inerente agli elementi primari della pittura. Ma
nel suo tentativo di giustificazione ricorreva al linguaggio naturale, e non al lin-
guaggio visivo, del quale pretendeva di dimostrare l’autonomia. Nella sua rispo-
sta a Kandinsky, Klee ha scelto un’altra via, la sola veramente adeguata: ha chie-
sto alla pittura stessa di dimostrare la sua indipendenza semiotica.

1 Da: Felix Thürlemann, Paul Klee. Analyse sémiotique de trois peintures, Lausanne, L’âge d’homme,

1982, pp. 79-96. Traduzione di Elisabetta Gigante.


2 Le rouge et le noir di Paul Klee è dipinto con colori a olio e ad acquerello su un pezzo di juta pre-

parata a calce. Il quadro ha conservato l’incorniciatura originale, con l’etichetta “le rouge et le noir 1938
T 19” sul verso. Nel catalogo delle opere è menzionato con il numero 319 e classificato tra i mehrfarbige
Werke. Le indicazioni sono le seguenti: “T 19 / le rouge et le noir / Öl- und Acquarellfarben / Jute gi-
psgrundiert”. Le rouge et le noir faceva parte inizialmente della collezione Bürgi, Belp; in seguito è pas-
sato alla collezione del prof. Anselmino a Wuppertal, che l’ha lasciato in eredità, nel 1977, al Museo Von
der Heydt di Wuppertal. Chi avrà la possibilità di confrontare la riproduzione con l’originale rileverà i li-
miti della stessa. Su un supporto di dimensioni ridotte, i due punti appaiono relativamente troppo picco-
li. Sembra che si abbia a che fare con un effetto complesso di illusione ottica: a causa dell’ampio sfondo
“vuoto”, i due punti/figure, che non possono esser messi in rapporto con altri elementi plastici, hanno la
tendenza a essere colti sempre nella loro dimensione assoluta.
3 La decisione di non utilizzare il testo di Kandinsky nel prosieguo dell’argomentazione ci è stata

tanto più facile in quanto è stato consultato solo quando l’analisi era già abbozzata.
4 Riprendiamo qui, in una forma un po’ più sistematica, le riflessioni fatte a proposito di Pflanzen-A-

nalytisches (Thürlemann 1982, pp. 43-75). Ci distanziamo dal modello hjelmsleviano delle “tre sostanze” di-
stinguendo due modi di descrizione, categoriale e valutativo. Il modo valutativo non può essere identificato
col “livello di giudizi collettivi” di Hjelmslev, che concerne unicamente la sostanza. Per noi le categorie valu-
tative costituiscono una prima dimensione del contenuto, prodotta a partire dal piano dell’espressione di un
processo particolare, piano dell’espressione che può essere descritto servendosi del modo categoriale.
5 Siamo consapevoli che nella pratica descrittiva corrente la distinzione tra questi due modi non è

quasi mai mantenuta, e che i termini valutativi adempiono spesso anche a una funzione tassonomica. So-
stituire una designazione valutativa di tinta con una combinazione di termini puramente cromatici ri-
chiede ogni volta un notevole sforzo di analisi. Questa constatazione non intende tuttavia inficiare la
possibilità, anzi la necessità teorica di una tale riscrittura.
6 Utilizziamo qui il concetto di effetto di senso secondo la definizione di Greimas: “intendiamo con

effetto di senso un semantismo confuso, quale è suscettibile di essere colto in maniera sincretica a un li-
vello qualunque del percorso della produzione di senso” (1978, p. 2).
7 In seguito, per ragioni di comodità, utilizzeremo anche il termine generico “colore” per designare i

differenti radicali cromatici. Considerati unicamente in quanto radicali, i termini che designano i colori
saranno riportati tra barre: /rosso/, /blu/, ecc. Lo scopo delle nostre riflessioni non sarà di esaminare i
fondamenti metodologici, spesso messi in dubbio, del lavoro di Berlin e Kay. Riprendiamo come ipotesi
di lavoro, senza metterla in discussione, la lista degli undici termini cromatici di base.
8 Potremmo essere tentati di vedere nell’ordine di apparizione dei differenti radicali, quale viene po-

stulato da Berlin e Kay (1969), un indice del loro valore gerarchico. Tuttavia, il carattere profondamente
ipotetico di questa teoria e anche riflessioni di ordine teorico, ci impediscono di farlo: anche ammetten-
do la validità del ragionamento genetico di Berlin e Kay, la logica sincronica su cui si basa l’ultima tappa
106 FELIX THÜRLEMANN

di sviluppo di un sistema non può essere intesa come la somma delle articolazioni delle diverse tappe che
la precedono.
9 Per una lista dei diversi modelli di rappresentazione, cfr. Heimendahl (1961, pp. 54 sgg.).
10 La posizione inferiore dei termini /viola/, /arancione/ e /rosa/ nella gerarchia dei radicali si tradu-

ce nel fatto che sono i soli ancora linguisticamente motivati dalla referenza possibile a un oggetto del
mondo naturale.
11 Per alcune epoche della produzione pittorica occidentale, sembra possibile individuare delle

“scuole” caratterizzate dall’utilizzo di una particolare “tavolozza” di tinte. Così, una gran parte della ten-
denza costruttivista, che segue in questo il gruppo ‘De Stijl’, si è limitata, per ciò che riguarda le tinte, al-
l’impiego esclusivo dei termini acromatici /nero/ e /bianco/ e dei tre primari cromatici /blu/, /giallo/,
/rosso/ (senza possibilità di mescolanze). I pittori di questa corrente, influenzati dai più noti teorici dei
colori (Goethe, Runge, ecc.), considerano questi colori come i soli “puri”.
12 Il ‘rosso’ viene spesso caratterizzato in questo modo nei trattati dei colori. Cfr. ad esempio Koch

(1931, p. 127): “es ist ‘die’ Farbe, die eigentliche Farbe” e Heimendahl (1961, p. 84): “Rot ist die wirkli-
chste bunte Farbe”. È ugualmente interessante notare che secondo le tesi di Berlin e Kay, il /rosso/ com-
pare come il primo radicale del gruppo dei cromatici all’interno del modello genetico (tappa I: /nero/,
/bianco/; tappa II: /nero/, /bianco/, /rosso/).
13 Il termine “equilibrio” è impiegato dallo stesso Mondrian nei suoi scritti (cfr. Mondrian 1974, p. 12).
14 Non disponendo ancora di strumenti di analisi sufficientemente sviluppati, non approfondiremo

quest’aspetto semiotico dell’opera. A nostro avviso, sulla ricerca dell’effetto di senso “equilibrio” si po-
trebbero fare, per la dimensione eidetica, osservazioni simili (benché i due elementi-figure siano disposti
diversamente all’interno della superficie del quadro, nessuno dei due si trova in una posizione privilegia-
ta rispetto all’altro).
15 Il nostro impiego del concetto di “connotazione” si distingue dalla definizione stretta di Hjelm-

slev (1943, p. 122), per il quale un linguaggio di connotazione si innesta su un sistema semiotico comple-
to (dotato di due piani), che esso assume come piano dell’espressione. Qui proponiamo di ridefinire il
concetto di linguaggio di connotazione in un senso attenuato. Il piano dell’espressione del linguaggio
connotativo non sarebbe necessariamente costituito da un linguaggio, come per Hjelmslev, ma potrebbe
essere fornito da un piano isolato all’interno di un linguaggio. Su questa problematica cfr. Greimas,
Courtés (1979) alla voce “connotazione”.
16 È interessante constatare che il paragone del “rosso scarlatto” con il suono della tromba si trova

anche in Locke (1690, p. 479): “Uno studioso cieco, che si era molto affaticato la mente intorno agli og-
getti visibili, e aveva fatto uso delle spiegazioni date dai suoi libri e dai suoi amici per intendere quei no-
mi della luce e dei colori che aveva così spesso uditi, si vantava un giorno di avere ormai capito che cosa
significasse scarlatto. Al che, avendo chiesto un amico suo che cosa fosse lo scarlatto, il cieco rispose che
era come il suono di una tromba”.
17 Heimendhal (1961, pp. 194 sgg., 209 sgg.) riconduce al termine “Gefühlsbestimmung” un nume-

ro impressionante di letture valutative. Per quel che riguarda il ‘rosso’, le caratterizzazioni dei diversi au-
tori sono molto vicine tra loro, e coincidono in generale con quella di Kandinsky. Sfortunatamente, il
‘nero’ manca il più delle volte dalle liste.
18 “… das wäre in gewissem Sinne eine Uebereinstimmung von Form und Farbe” (Petitpierre 1957,

p. 41). Per un altro testo, vedi la nota seguente.


19 C’è un passaggio, nella parte non pubblicata degli scritti pedagogici di Klee, in cui, a una serie di

termini di colore, è correlata una serie di figure geometriche. È sorprendente constatare che alcuni tra i
rapporti forma-colore sono identici o molto simili a quelli di Kandinsky. In Klee: triangolo per ‘giallo’,
quadrato per ‘rosso’, ellisse per ‘blu’ (cfr. il quaderno 9/48, pp. 113-115, conservato dalla Fondazione
Paul Klee del Kunstmuseum di Berna). Le figure geometriche, tuttavia, dovrebbero funzionare come
modelli esplicativi delle sfumature (possibilità di schiarimento o assorbimento delle tinte). La parentela
delle forme proposta dai due pittori non sembra però dovuta al puro caso, poiché Klee stesso constata,
esplicitamente, la somiglianza del suo modello con quello di “Meister Kandinsky”. (Questo passaggio
negli scritti non pubblicati di Klee mi è stato segnalato da Christian Geelhaar, direttore del Kunstmu-
seum di Basilea).
20 Questa valutazione contrastiva potrebbe ugualmente essere espressa da termini a carattere più

nettamente simbolico, quali “vivo” vs “morto”. Aust (1977) ha visto in Le rouge et le noir di Klee una vi-
sualizzazione dell’incompatibilità dei principi contrari della ‘vita’ e della ‘morte’. Una tale lettura simbo-
lica conduce tuttavia necessariamente a una riduzione del processo in questione, poiché non rappresenta
che una delle possibili interpretazioni.
Senza titolo… o senza contenuto?1
Jacques Fontanille

1. Introduzione

Proust spiega la riuscita estetica di Elstir con “lo sforzo (da questi) com-
piuto per spogliarsi, di fronte alla realtà, di tutte le sue nozioni di intelligen-
za” (Proust 1954, p. 443). In questo modo, farsi “ignorante” diventa per il
pittore un gesto di “probità”; più precisamente, si tratta di rinunciare al “no-
me” delle cose, perché “i nomi che designano le cose rispondono sempre a
una nozione dell’intelligenza, estranea alle nostre vere impressioni e che ci
costringe a eliminare da esse tutto quanto non si riferisce a quella nozione”
(p. 438). Benché questo discorso sia fortemente ispirato dall’impressionismo,
nondimeno esprime una sorta di “morale dell’estetica” che, in certo qual
modo, la semiotica odierna ha fatto propria: ancor prima di stabilire le cate-
gorie costitutive del discorso bisognerebbe riconoscerne lo zoccolo sensibile
a partire dal quale le interpretazioni si dispiegano.
In materia di semiotica visiva, questa “morale” della descrizione diventa
pressoché un obbligo, specie quando il quadro sfugge a un riconoscimento
figurativo iconico, poiché è possibile accedere al suo contenuto solo ed e-
sclusivamente attraverso ciò che è dato a vedere. Concretamente, il quadro
di Rothko, Untitled, del 1951 (tav. VIII)2 – che in questa sede sarà l’oggetto
del nostro interesse – potrebbe essere analizzato a partire da ciò che sappia-
mo del pittore, della sua produzione e dei discorsi che l’artista ha fatto su di
essa. Al contrario e in modo provvisorio, davanti a un dipinto che, malgrado
tutto, resta profondamente enigmatico, prenderemo le parti dell’ignoranza.
Sperimentare un metodo significa innanzi tutto interrogarsi su quello che
può rivelare nei confronti di un oggetto di cui non si conosce nulla; e in se-
guito significa mostrare come possa rivelare qualcosa di più che una sempli-
ce lettura intuitiva, “filologica” e “colta”.
Il viaggiatore incolto, nondimeno, non è un viaggiatore privo di bagagli:
deve munirsi di un minimo di ipotesi per tracciare un itinerario. In quest’ot- Le ipotesi
tica, ci accontenteremo di fare tre ipotesi preliminari, imposte dalla rinuncia di lavoro
a qualsiasi informazione circa le “intenzioni” conscie o inconscie del pittore.

i. La prima concerne l’intenzionalità del sensibile in generale: risiederà


nell’imperfezione della presa, nell’incompletezza, nell’errore, nell’insoddisfa-
zione o nell’inquietudine che suscita l’esame del quadro nell’insieme o nei
dettagli. Come ben si sa l’imperfezione sensibile è contemporaneamente l’ali-
mento di cui si nutre la dinamica cognitiva dell’esplorazione, la fonte even-
108 JACQUES FONTANILLE

L’imperfezione tuale delle categorizzazioni e la faglia di cui si coglie l’emozione estetica per
del sensibile edificare dei mondi passionali significanti.

ii. La seconda concerne l’intenzionalità categoriale (o “figurale”): al mo-


mento della descrizione sono messe in gioco delle categorie per tentare di
stabilizzare o di desensibilizzare gli effetti dell’inquietudine, dell’incomple-
tezza e dell’imperfezione. Il rischio sarà allora quello di trasformare il discor-
so (pittorico, nel nostro caso) in una combinatoria insignificante: così come
il racconto folklorico non è un’agglutinazione di motivi improntati alla tradi-
zione, anche il quadro non è una giustapposizione o una sovrapposizione di
motivi formali stabiliti dalle categorizzazioni. Il discorso diventerà significan-
te solo al momento delle trasformazioni che vi disegnano un “orientamento”.
La concezione di un senso percepibile solo nelle sue trasformazioni ritrova,
in qualche modo, a livello categoriale, il principio dell’imperfezione, molla
della dinamica sensibile. Il quadro allora si organizza attorno a differenze di
La svolta potenziali, definendo gli “attanti posizionali” della sintassi figurale, tra i qua-
modale li si delineano dei percorsi.
A questo riguardo, e per evidenti ragioni, si potrebbe osservare che la se-
miotica pittorica si è fermata allo scarto della “svolta modale” degli anni Ot-
tanta: è particolarmente difficile, in special modo per la pittura astratta, i-
dentificare dei contenuti modali. Ora, la generalizzazione dell’analisi modale
ha permesso un’estensione dell’analisi dinamica e trasformazionale, alla qua-
le la pittura astratta si è da lungo tempo sottratta. Sembrerebbe che le “diffe-
renze di potenziale”, in particolare cromatiche, possano giocare riguardo alla
semiotica pittorica lo stesso ruolo che la modalizzazione gioca riguardo agli
altri tipi di discorso e contribuire a ridefinirne l’intenzionalità.

iii. La terza ipotesi interessa il contenuto di ciò che chiameremo “semioti-


ca del visibile”: lungi dall’esaurire la semiotica visiva in quanto tale, la semio-
tica del visibile si fonda, come dice lo stesso nome, sulla modalizzazione del
soggetto della percezione e dello spazio che questi deitizza; si dispiega, come
al contrario non dice lo stesso nome, sotto forma di configurazione della luce,
La semiotica comprendendo luminosità, cromatismi, materie e illuminazioni. Solitamente
del visibile ci si interroga sul modo in cui lo spazio (a due o a tre dimensioni) viene riem-
pito e strutturato dal piano dell’espressione del quadro; come se questo spa-
zio esistesse anteriormente alle operazioni che lo costituiscono e indipenden-
temente da esse. In questa sede, al contrario, ci si domanderà piuttosto: come
lo spazio è reso visibile? In che cosa le proprietà della luce vi partecipano?

A queste tre ipotesi di lavoro aggiungiamo un principio di metodo propo-


sto da Jean-Marie Floch (1985) nel suo studio su Composizione IV di Kandin-
sky: un quadro appartiene a una serie, e ben inteso all’insieme delle opere di
un pittore, opere che possono essere trattate alla stessa maniera di una serie
di miti, ossia come un gruppo di trasformazioni. Anche in questo caso, si
tratta di sostituire le “intenzioni” dell’autore con l’“intenzionalità” che è al
lavoro nella serie di quadri3. Si tratta, di fatto, di un’altra maniera di ritrova-
re nella pittura il principio delle trasformazioni intenzionali, ma, questa vol-
ta, sul piano dell’intera opera.
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 109

2. Segmentazione

La segmentazione è, secondo la tradizione, la prima operazione cui dovreb-


be essere sottoposto un oggetto semiotico, con la speranza di scoprire in tale
occasione le opposizioni pertinenti e con la preoccupazione di fondare la suc-
cessiva analisi su criteri formali oggettivi. Ma così concepita la segmentazione
occulta il primo problema da risolvere: la conversione di un fenomeno in ogget-
to di conoscenza. L’instaurazione dell’oggetto inizia effettivamente con la tota-
lizzazione delle parti che le prime impressioni sensibili vi reperiscono: dunque,
ancor prima di segmentare, è necessario assemblare il tutto!
A una prima osservazione, il dipinto di Rothko presenta quattro aree colora-
te orizzontali: dall’alto verso il basso, un’area bruno-nera, una beige chiaro, una
ocra aranciato, e una rosso-arancio. La “pressione gestaltica”, come direbbe
Fernande Saint-Martin (1987a; 1987b; 1990), invita a distinguere figure e fon- L’articolazione
do4: così facendo l’area centrale ocra apparirebbe allora come il fondo, indivi- mereologica
duabile sui bordi continui della cornice e al centro, sulla quale si stagliano le al-
tre tre aree. Ma questa ipotetica distribuzione – alla quale per il momento ci at-
terremo – si basa sul fatto che l’area ocra non solo occupa la parte centrale, ma
separa contemporaneamente anche ciascuna delle altre aree dalle altre due e
della cornice: separa, e di conseguenza, unisce.
Il processo mereologico si fonda dunque su due “imperfezioni” immediata-
mente percepibili:

i. le quattro aree sono di taglia e di colore diversi, e i loro bordi non sono so-
vrapponibili (dentellati in alto, lineari nel mezzo o ondulati in basso), e

ii. una fra esse, quella ocra, è la sola a presentare dei bordi comuni con le al-
tre tre e con la cornice. Pertanto, l’area ocra apparirà come una parte il cui o-
rientamento verticale (il rettangolo allungato del formato quadro) e il suo carat-
tere inglobante, la rendono irriducibile alle altre tre, di forma oblunga orizzon-
tale e inglobate dalla prima.

In un primo tempo, la totalità del quadro sarà definita come un “agglomera-


to”: infatti, una parte di un genere topologico diverso da quello delle altre tre
assicura l’unità dell’insieme5.
È solo in questo momento che una terza imperfezione appare: ognuna delle
quattro aree comprende zone colorate con il tono di un’altra area: quella bruna
presenta, sul bordo sinistro e su quello inferiore, due bande più chiare, tenden- Le
ti all’ocra; quella beige è anch’essa bordata, in alto e a sinistra, di bruno; il bor- contaminazioni
do superiore dell’area rosso-arancio presenta una sottolineatura beige chiaro in cromatiche
due punti; infine, due strisce rosse verticali inquadrano la parte centrale dell’a-
rea ocra. Si noterà immediatamente come ogni area “tipo” sia contaminata due
volte sui bordi, una volta in modo netto e un’altra in modo attenuato, dal mo-
mento che, nel luogo in cui compare, il tono contaminante può essere più o me-
no fuso con il tono dominante.
Infine, una quarta imperfezione viene a perturbare il dispositivo: delle tracce
rosse o ocra (?) compaiono nella trama del bruno, delle tracce rosse o ocra (?)
nella trama del beige, e delle tracce beige nella trama del rosso6.
110 JACQUES FONTANILLE

Ogni area risulta così essere, in qualche modo, “contaminata” dal tono di al-
meno uno dei colori delle altre tre, e, di conseguenza, viene a essere composta
da quattro parti: P (l’area nel suo insieme), Pa (la contaminazione evidente sul
bordo), Pb (la contaminazione fusa sul bordo) e Pc (la contaminazione nella
trama). Se si attribuisce un numero a ciascuna delle quattro aree: 1 a quella o-
cra, 2 a quella bruno nera, 3 a quella beige chiaro e 4 a quella rosso-arancio7, si
ottiene il seguente dispositivo:

• P1: (P1a + P1b), per contaminazione del tono di P4;

• P2: (P2a + P2b + P2c) per contaminazione del tono di P1 e di P4;

• P3: (P3a + P3b), per contaminazione del tono di P2, e (P3c), per con-
taminazione del tono di P1 o di P4;

• P4: (P4a + P4b + P4c), per contaminazione del tono di P3.

La contaminazione è ciclica: P1 contamina P2, che contamina P3, che con-


tamina P4, che contamina P1… (schema 1).

Schema 1.

In termini mereologici, ogni parte del tutto comprende, oltre al tipo croma-
tico che la definisce in opposizione agli altri, tre sottoparti rassomiglianti a una
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 111

o due parti del tutto. Questa sorta di mise en abîme8 è formalmente paragonabi-
le a quella che, con le dovute proporzioni, tramite la procedura del débrayage,
consiste nell’evocare succintamente, all’interno di un segmento narrativo omo-
geneo, i fatti appartenenti a un altro segmento narrativo relativo a un’altra e-
nunciazione o un altro punto di vista; si parlerebbe allora di “messa in prospet-
tiva” enunciazionale.
Di fatto, la ricorrenza degli stessi toni a livelli di elaborazione mereologica
differenti provoca anche qui una “messa in prospettiva”, dal momento che il
soggetto della percezione si interroga sull’identità di un tono che appare con-
temporaneamente nella dipendenza diretta dal tutto e nella dipendenza da una
delle sue parti. Inoltre, questa ricorrenza fortemente costretta da una sorta di
declinazione (bordura sicura + bordura fusa + trama) suscita un effetto di refe-
renza interna, comparabile a quella di una citazione o di un’anafora, poiché le
sottoparti “contaminate” non sono interpretabili come tali che per la referenza
al tono dell’area principale. Come ogni débrayage, anche questo è “autentifican-
te”, perché la ripresa “a eco” del tono di ogni area nelle altre tre conforta sul
piano cromatico, analogamente all’“agglomerazione” sul piano topologico, il
carattere “necessario” del dispositivo di insieme.
L’assemblaggio della totalità del quadro, di conseguenza, si realizzerà in tre Il sistema
momenti: plastico

i. identificazione delle quattro aree più salienti, grazie alla regolarità della lo-
ro forma e del loro cromatismo;

ii. unificazione del dispositivo sotto forma di un’“agglomerazione”, grazie


all’area ocra, che ingloba e che unisce le altre tre;

iii. referenzializzazione del dispositivo attraverso una disseminazione del to-


no di ciascuna area principale all’interno di almeno una delle altre tre.

Di conseguenza, la segmentazione propriamente detta si fonderà sulla distri-


buzione delle opposizioni cromatiche, sull’orientamento verticale e orizzontale
delle aree e sulla presenza o l’assenza di bordi comuni. È necessario notare a Il rilevamento
questo riguardo l’ambivalenza dell’area ocra trattata nello stesso tempo come a- delle
rea verticale e inglobante dal punto di vista dell’“agglomerazione”, e come area opposizioni
orizzontale dotata di due bordi laterali rossastri, dal punto di vista della “refe-
renzializzazione”. In relazione alla segmentazione, ci sarebbero qui due unità
distinte: una P1, di rango superiore alle altre aree in quanto parte responsabile
dell’“agglomerazione”, e l’altra P1’, l’area ocra di rango uguale alle altre, in
virtù della messa in prospettiva.

3. La sintassi del visibile

Altrove abbiamo mostrato che le “speci visibili” derivate a partire dalla luce
sono quattro: gli effetti di luminosità, gli effetti di cromatismo, gli effetti di illu-
minazione, gli effetti di materia (Fontanille 1995). Sembrerebbe che ciascuno di
questi effetti si basi su una struttura attanziale e topologica specifica9 e che l’at-
112 JACQUES FONTANILLE

tualizzazione di ognuno di loro si realizzi in parte a detrimento di quella degli


altri, particolarmente quella della luminosità e dell’illuminazione, a spese del
colore e della materia e viceversa. Dal punto di vista del metodo, si tratta sem-
pre di sapere “da dove iniziare”, poiché la decisione inaugurale condiziona il
dispiegarsi dell’analisi. La procedura di segmentazione ha messo in evidenza la
preminenza del colore nell’organizzazione mereologica del quadro; si può ten-
tare, a titolo di ipotesi, di esplorare questa strada: il colore conserva questa po-
sizione dominante nella sintassi del visibile?
A prima vista, tutti i toni di questo quadro sembrano derivare da una stessa
La coerenza
base cromatica. Almeno questa sarà la nostra ipotesi, con la preoccupazione di
interna ritrovare un’eventuale strategia di coerenza, che poggerebbe allora su una tasso-
al quadro nomia cromatica ragionata, e che permetterebbe di concepire l’insieme come
un gruppo di trasformazioni in seno alla configurazione della luce10.
La base cromatica potrebbe essere caratterizzata come /bruno/, a titolo
virtuale e non rappresentata nel quadro; potrebbe essere definita come me-
scolanza del rosso e del suo complementare (R + C). Si tratterebbe dunque
di un termine complesso, dal momento che può essere articolato secondo
due dominanze: [R > C] e [C > R]. Inoltre, ognuna delle dominanti potreb-
be essere modificata:

i. sia per saturazione (indicata con: ■) e sia per desaturazione (indicata con:
) di uno dei suoi componenti, e

ii. sia per saturazione o desaturazione dell’insieme.

Infine, il risultato di queste operazioni può essere:

i. sia illuminato (indicato con: ),

ii. sia oscurato (indicato con: ●): la luminosità allora svolge il suo compito a
detrimento dei cromatismi.

L’area ocra corrisponderebbe, in questa prospettiva, alla forma neutra della


dominanza [R > C]. Ovvero:

P1 = [R > C].

L’area nera corrisponderebbe all’altra dominanza [C > R], di cui la compo-


nente [C] sarebbe saturata (indicata con: “C ■”) e il cui insieme sarebbe a sua
volta saturato (indicato con: [ ] ■), poi oscurato (indicato con: [ ] ■). Ovvero:

P2 = [C ● > R] ■ ●.

La area bianca, con tracce di rosso, sarebbe ottenuta per desaturazione (in-
dicata con: [ ] ) e illuminazione (indicata con: [ ] ) della dominanza [R >
C], nella quale il rosso sarebbe saturo (indicata con: “R ■”). Ovvero:

P3 = [R ■ > C] .
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 113

L’area rossa risulta solo dalla saturazione del componente [R] nella domi-
nanza [R > C]. Ovvero:

P4 = [R ■ > C].

Un primo esame, sebbene veloce, mostra che i toni sono ottenuti attraverso
trasformazioni a catena, la cui sequenza è dettata dal numero delle operazioni
cumulate. È così che le aree ocra, bianca e rossa possono essere messe in se-
quenza, in base al seguente principio:

[R > C] → [R■ > C] → [R■ > C] → [R■ > C]


P1 P4 Ø P3

In compenso, per giungere all’area nera, un’altra sequenza è necessaria:

[R>C] → [C>R] → [C■ >R] → [C■ >R]● → [C■ > R]■●


P1 Ø Ø Ø P2

La catena delle operazioni può essere così stabilita:

Sistemazione o inversione di dominanza

Saturazione o desaturazione di un componente

Saturazione o desaturazione dell’insieme

Illuminazione o oscuramento.

Il gruppo di trasformazioni dell’insieme dei cromatismi del quadro può allo-


ra prendere la forma del diagramma dello schema 2.

Schema 2

I percorsi più complessi corrispondono agli effetti di contrasti più forti (per
esempio, il percorso [P1 → P2], o quello [P2 → P3]); inversamente, i percorsi
114 JACQUES FONTANILLE

più corti segnalano i contrasti più deboli (per esempio, il percorso [P1 → P4], o
quello [P4 → P3]).
Va notato che, rispetto alla segmentazione precedente, l’area ocra trova una
conferma del suo ruolo particolare, poiché da area inglobante e legante, diviene
qui il luogo cromatico più neutro, a partire dal quale le due sequenze di opera-
zioni divergono e si ordinano in modo quasi simmetrico.
Inoltre, i due anelli mancanti, dal lato della dominanza [C > R] (dei “bruni”
medi, privi del valore di luminosità)11, permettono di misurare il disequilibrio
della sintassi, in modo tale che il contrasto che ne deriva appare – proprio per-
Le velocità di ché il percorso che porta all’area nera non viene scandito da tappe intermedie –
trasformazione come un “insorgere” (un “sopravvenire”) dell’area che segue a partire da quella
antecedente. La medesima osservazione è valida, sebbene con gradualità mino-
re, anche per l’area bianca. Tali “insorgenze” più o meno marcate, insomma,
potrebbero essere descritte come delle accelerazioni del processo di generazio-
ne di ognuna delle aree cromatiche a partire dalle altre: il passaggio dall’ocra al
rosso risulterebbe rallentato, quello dal bianco al nero brutalmente accelerato.
Nel caso particolare, la “velocità” non viene a identificarsi né con quella di un
occhio che associa i rettangoli fra loro, né con quella di un “organo mentale”
che tenta di ricostruire le transizioni, al contrario si identifica con quella dello
stesso oggetto semiotico, la cui morfologia cromatica accelera o rallenta la tran-
sizione fra le aree.

4. Potenziali, velocità e profondità

Dal punto di vista paradigmatico, le diversità fra le aree risultano tanto più
significative quanto maggiore è il numero dei tratti differenziali che le oppon-
gono. Dal punto di vista sintagmatico, i contrasti tra le aree possono essere
formulati come delle velocità di transizione variabili. In definitiva, sarebbe
come dire che le diverse morfologie cromatiche determinano delle differenze
di potenziale tra le aree, e che queste differenze di potenziale aumentano in ra-
gione delle variazioni strutturali che separano queste morfologie. Così, se si
accetta di introdurre il tempo nello spazio pittorico, ne consegue che la velo-
cità di transizione risulta tanto più elevata quanto maggiore è la differenza di
potenziale, e viceversa.
Nel dipinto di Rothko, un altro fenomeno viene a interferire con le diffe-
renze di potenziale che abbiamo introdotto per interpretare i diversi percorsi
che portano da un cromatismo all’altro. Infatti, la maggior parte delle opera-
zioni riguarda i toni: inversioni di dominanza, saturazione o desaturazione;
ma ce n’è una che, qualitativamente, fa cambiare di categoria: con lo schiari-
mento o lo scurimento non vengono più chiamati in causa i valori cromatici,
bensì quelli luminosi.
Ora, a differenza del cromatismo, che situa delle aree all’interno di uno
Saturazione e spazio di distribuzione delle energie, che immobilizza e localizza l’energia lu-
desaturazione minosa in una determinata specie cromatica e all’interno di un luogo delimita-
to, la luminosità ha la vocazione di agire sulla totalità dello spazio. Anche lad-
dove il cromatismo mette in gioco, contemporaneamente, la circolazione della
luce tra una sorgente e un bersaglio e la reazione/assorbimento di un’area
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 115

bersaglio, la luminosità non mette in gioco altro che l’apparizione e la spari-


zione di un attante (che si traduce nella catastrofe cosiddetta a “piega”); que-
sta apparizione certo può essere più o meno intensa, ma le variazioni di inten-
sità non hanno altra prospettiva (altro “divenire”) se non quella di un’appari-
zione o di una sparizione.
Ciò significa che nei cromatismi di P2 e P3, caratterizzati rispettivamente da
un massimo di scurimento e di schiarimento, alla differenza di potenziale cro-
matico si aggiunge un cambiamento qualitativo che sovradetermina il contrasto
con le altre aree; con la luminosità, compare una nuova fonte di potenziale, in
cui i valori cromatici risultano in parte neutralizzati.
Ora, che cosa succede per quanto riguarda l’osservatore? Egli è alla ricerca
del senso, dell’effetto di senso del dipinto. La maniera più generale di caratte-
rizzare questa ricerca è di intenderla come una strategia di messa in coerenza,
basata sul postulato minimale secondo il quale, laddove vi è discorso, laddove Il ruolo
vi è senso, “tutto è strettamente collegato”. Le differenze di potenziale, le acce- dell’osservatore
lerazioni e le rotture qualitative perturbano questa ricerca della coerenza, e i
tentativi di “assemblaggio” mereologico sulla superficie del quadro – come si
diceva più sopra – conducono inevitabilmente a un’impasse: man mano che la
costruzione si precisa, la coerenza si disfa da ogni parte.
È per questo che la terza dimensione diventa necessaria all’osservatore per
ritrovare un minimo di coerenza. La maggior parte delle ricerche di Rothko sui
rettangoli giustapposti/sovrapposti sollecitano questa “pressione della coeren-
za”: non potendo trovarla in un unico piano, l’osservatore prova a stratificare il
quadro. In un determinato dipinto, quindi, le velocità di transizione più signifi-
cative (o i “percorsi” più lunghi relativi alle operazioni cromatiche) verranno
interpretate come cambiamenti di strato, e di conseguenza le differenze di spes-
sore tra gli strati si fonderanno su differenze di potenziale maggiori. Si potreb-
be nuovamente invocare a questo punto la “pressione gestaltica”, che incita a
disporre delle figure su un fondo. Ma questo significherebbe confondere la do-
manda con la risposta. La domanda è: “In che modo l’osservatore è indotto a
costruire delle figure e un fondo?”, e una delle risposte potrebbe essere: “A
partire dalle diverse velocità di transizione tra le aree”. La posta in gioco non è
trascurabile, poiché si tratta finalmente di tentare di articolare le strutture pla-
stiche con i primi abbozzi di un’“attribuzione di senso”.
È necessario precisare, poiché la confusione al riguardo è frequente, che i
“piani” non corrispondono agli “strati”12: un “piano” rappresenta un piano di
profondità costruito dall’osservatore per disporre sulla terza dimensione ele-
menti che appaiono incompatibili in uno spazio a due dimensioni13, uno “stra- La costruzione
to” è una superficie di colore che corrisponde a un momento della realizzazione figura/sfondo
del quadro e che il pittore può rendere visibile grazie al trattamento delle tra-
sparenze e dei margini. Così, ad esempio, l’area nera si rivela essere uno strato
sovrapposto all’area ocra, dato che l’attrito del pennello lascia intuire, dietro la
trama del bruno nero, all’interno dell’area (in basso a sinistra) e sul margine (in
alto e a destra), il tono più caldo e più chiaro dell’area ocra.
Nella prospettiva dell’enunciatario, i piani interessano la profondità sugge-
rita all’osservatore, il quale tenta di integrare lo spazio del quadro con quello
del proprio campo di presenza. Gli strati, invece, nella prospettiva dell’enun-
ciante, appartengono alla testura, iscrivendo nella materia pittorica le tracce
116 JACQUES FONTANILLE

dell’attività di produzione. Di fatto, i giochi di strati attualizzano discreta-


mente – nel momento in cui l’osservatore tenta di interpretarli appunto come
strati – un terzo “stato” della luce: quello degli effetti di materia. Dal momen-
L’opposizione to che la “testura” materiale in questione non coincide con quella della mate-
strati/piani ria pittorica, bensì con quella prodotta attraverso una relativa permeabilità vi-
siva dei piani fra loro, all’interno e sul margine, questa viene a essere reinter-
pretata nel sistema dei “piani”, questa volta, però, come la traccia materiale di
un ostacolo parzialmente superabile che sarebbe contrapposto alla luce colo-
rata emanata dal piano soggiacente.
Questi due modi di sovrapposizione delle aree nella terza dimensione, i
“piani” e gli “strati”, si distinguono nel contempo per il loro modo di costruzio-
ne (spazio fenomenologico vs tempo della produzione), per l’istanza che li assume
(enunciatario vs enunciante) e per lo statuto semantico della terza dimensione
(profondità vs testura); e per questo i due tipi di sovrapposizione delle aree pos-
sono anche conciliarsi, contraddirsi o costringersi reciprocamente all’interno
del medesimo quadro.
Prendiamo in esame, ad esempio, la relazione tra l’area ocra e quella rossa:
la relazione di inclusione si accontenterebbe di una interpretazione all’interno
di un unico piano, dovuta alla possibilità di considerare l’area rossa come
contornata da quella ocra. Ma il margine superiore beige chiaro (la cui transi-
zione in termini di cromatismo e di luminosità equivale a quella osservata tra
P4 e P3) costringe ad annullare il dispositivo, e quindi a supporre che l’area
rossa si trovi su un piano sovrapposto a quello dell’area ocra: di fatto, la tran-
sizione lenta tra l’ocra e il rosso (come nel caso dei bordi inferiore, destro e si-
nistro) viene qui sostituita da una duplice transizione rapida, nello specifico
dal contrasto di luminosità.
Ma, d’altro canto, tutto concorre a farne anche degli “strati”; la linea incerta
del margine, la presenza, rada ma indiscutibile, del fondo ocra (due macchie a
sinistra, qualche linea sfumata a destra) suggeriscono che l’area rossa è stata di-
La collusione pinta sopra l’area ocra. Inoltre, nella misura in cui il margine chiaro si diffonde
strati/piani leggermente (come uno strato molto localizzato) sull’area ocra, quest’ultima
non può che rappresentare lo strato inferiore, sul quale compare localmente il
margine beige chiaro, al di sopra del quale si situa l’area rossa. La collusione tra
strati e piani qui non lascia dubbi14.
Allo stesso modo, la pressione che induce a disporre l’area nera e quella
ocra su due piani differenti può essere concepita come risultante della neces-
sità di dissociare in due piani due zone tra le quali la velocità di transizione è
massima: un lungo percorso di trasformazioni cromatiche, così come un’ope-
razione concernente la luminosità, le separano irriducibilmente. Anche in
questo caso – come abbiamo già osservato – il fondo ocra appare da dietro,
portando a riconoscervi due strati. Tuttavia, il contrasto di colore e di lumi-
nosità inviterebbe a immaginare l’area nera su un piano dello sfondo, appa-
rendo come in una “finestra” oscura dell’area ocra: questa ipotesi viene im-
mediatamente invalidata dalla disposizione a strati, poiché l’area nera sembra
ricoprire quella ocra (in modo imperfetto, ma è proprio l’imperfezione che
rende sensibile questa sovrapposizione).
La posizione dell’area bianca è più delicata da determinare: infatti, tenuto
conto della “velocità di transizione” cromatica, questa sembrerebbe appartene-
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 117

re a un piano differente rispetto a quelli precedenti, ed equivalente a quello del


margine chiaro situato tra l’area rossa e quella ocra, dunque essa si situerebbe
su un piano sovrapposto a quello dell’area ocra.
Ma le cose sono ancor più complicate: tra queste due compare, infatti, un
margine bruno-nero dello stesso tono dell’area superiore, introducendo così del-
le transizioni cromatiche estremamente rapide; questo effetto, paragonabile a
quello della luminosità inserito tra il rosso e l’ocra, ne inverte tuttavia i dati:
quando il piano ocra si trova dietro un piano rosso, la luminosità segnala la loro
disgiunzione; quando lo stesso piano ocra si trova dietro un piano beige chiaro,
lo stesso ruolo viene giocato da un margine scuro. Tra l’ocra e il rosso ci sarebbe La transizione
della luce, tra l’ocra e il beige ci sarebbe dell’oscurità. Ancor più delicata, la si- di luce e ombra
stemazione degli strati viene nuovamente a perturbare il dispositivo, poiché
quello che si vede nella testura del beige sarebbe piuttosto il tono dell’area rossa
che quello dell’area ocra; l’area beige risulterebbe dunque essere un piano in
rapporto all’area ocra, e un (improbabile) strato in rapporto all’area rossa15.
Complessivamente, la questione si presenta nel modo seguente: i contrasti cro-
matici, la costruzione della profondità, il trattamento dei margini e delle testure,
sono tutti aspetti che concorrono alla differenziazione di una terza dimensione in
piani sovrapposti, sotto due specie: gli “strati” e le “velature”. Ma la coabitazione
tra questi due ordini, per diverse ragioni, non è priva di dissonanza.
Innanzitutto, taluni piani, in particolare i margini che inseriscono degli stra-
ti intermedi, non sono propriamente dei piani, ma appaiono solo come delle
marche di luminosità, anzi come la traccia di un’illuminazione di cui non si è in
grado di posizionare la sorgente. Inoltre, la forma dei bordi, irregolare e appa-
rentemente aleatoria, frastagliata o ondulante, proprio per la sua instabilità, fa-
vorisce l’interpretazione in termini di strati di materia, rendendo più difficile
l’interpretazione in termini di piani. Dato che il piano presenta uno spessore, si
presume che debba esaurirsi in un bordo o in un rilievo che segnali la rottura di
livello; all’inverso, lo strato muore in corrispondenza dei suoi margini in una
sorta di modulazione decrescente del ricoprimento.
Infine, soprattutto il sistema degli strati non impone allo spazio alcuna omo-
geneità, semmai destabilizza la costruzione dei piani di profondità. Per esem-
pio, dal punto di vista dell’omogeneità, certi effetti di strato, tra le aree total-
mente disgiunte nella superficie del quadro, sarebbero, di fatto, impossibili da
ammettere se non si supponesse che ogni strato occupa virtualmente la totalità
della superficie. Si spiegherebbe così, ad esempio, come mai il rosso, rappresen-
tato in modo massiccio in basso, al disopra dell’ocra, ricompaia dietro l’area
beige, a sua volta sovrapposta all’ocra. Ma, se lo strato rosso è continuo, come
ammettere che questo non mascheri l’ocra nella parte centrale?
Questi ragionamenti, sebbene possano apparire noiosi per la loro minuzio-
sità, dimostrano che in molti casi l’osservatore è portato a costruire lo spazio
del senso negoziandolo palmo a palmo con, o in opposizione a, quello della
produzione, almeno così come si dà a vedere; le zone di congruenza gli facili- La
tano il compito, le altre lo invitano a considerare autonome la testura e la negoziazione
profondità. Tutto ciò significa che, nel processo di costruzione del senso, l’os- del senso
servatore enunciatario si trova di fronte a un’identificazione discordante, se
non conflittuale, con l’enunciante. Non è esattamente questa discordanza a
rappresentare qui la molla della ricerca del senso, l’imperfezione irriducibile
118 JACQUES FONTANILLE

che impedisce di ridurre l’emozione estetica a una semplice percezione o a un


gioco di inferenze cognitive?
L’osservatore è in qualche maniera condotto a riconoscere nell’insoddisfa-
zione un’“intenzionalità del visibile”, che però non si sovrappone all’“intenzio-
ne pittorica” ascrivibile al produttore: l’effetto estetico e passionale nascerebbe
così da questo intervallo di incertezza e da questa credenza fallibile dello spetta-
tore, che ne farebbero un soggetto inquieto, esitante, teso verso soluzioni che,
una dopo l’altra, svaniscono pressoché tutte.
Lo stato teso e inquieto dello spettatore corrisponde esattamente a quello
che, in diverse occasioni (cfr. Greimas, Fontanille 1991, cap. III), abbiamo ri-
conosciuto come caratteristica della costituzione del soggetto appassionato:
non sappiamo ancora di quale passione sia suscettibile, poiché tutto dipende
dalla sua competenza modale, dalla sua disposizione, ma sappiamo almeno
Il soggetto che viene “messo in moto”, o, più tecnicamente, réembrayé sulla tensività; e-
appassionato gli incontrerà una configurazione passionale, qualunque essa sia, non foss’al-
tro che per stabilizzare l’inquietudine che lo agita. In Rothko, la stabilizza-
zione “forica” gli sarà assicurata dall’area cromatica dotata del potenziale di-
namico più debole, quello che, in quanto attrattore dell’insieme della sintassi
cromatica, gli permetterà di arrestare l’oscillazione della inquietudine e di
accedere alla distensione. Tale sembra essere il divenire passionale del nostro
spettatore, guidato a investire la sua tensione verso il valore (verso il senso)
nel cromatismo dominante.

5. I rischi del valore

Pur senza rinunciare al principio dell’“ignoranza metodologica”, possiamo


tuttavia ricordare che negli anni Cinquanta e Sessanta Rothko dipingeva prati-
camente solo rettangoli, peraltro sempre più scuri e neri. Questa osservazione
conferma se non un orientamento almeno una direzione che si è progressiva-
mente delineata nel corso dell’analisi di Untitled del 1951-56. I percorsi e le
transizioni cromatiche, i piani bene o male costruiti dall’osservatore, infatti, ri-
sultano ordinati, suscitando l’ipotesi dell’esistenza di un sistema di valori basato
sui cromatismi, la luminosità, la materia visibile e probabilmente anche l’illumi-
nazione, disegnando in questo modo l’abbozzo di un percorso assiologico.
È un dato di fatto che il colore ponga alla filosofia, così come alla semiotica,
una vera e propria difficoltà epistemologica e metodologica, che molto spesso si
è ridotti a trattare in termini esclusivamente speculativi o assiomatici. Per
Il colore Goethe (1810) e la corrente detta della “filosofia della natura”, il colore è un ef-
per i filosofi… fetto dovuto alla “torbidezza” dello spazio illuminato; capovolgendo allo stesso
tempo la posizione di Newton, con il quale polemizza, e per il quale, grosso
modo, la luce è eterogenea e il colore omogeneo, Goethe proclama l’omoge-
neità della luce e l’eterogeneità del colore. Schelling (1806) darà poi a questa e-
terogeneità un contenuto assiologico e dinamico, invocando il perpetuo conflit-
to delle forze coesive della materia e delle forze dispersive della luce, di cui i co-
lori manifestano nell’ordine sensibile i diversi rapporti di forza.
Sul versante dei semiotici, si è soprattutto sensibili, in un modo o nell’altro,
all’“in sé” del colore, alla sua resistenza. Negli anni Settanta e Ottanta, Jean-
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 119

Marie Floch postula e mette in opera una sorta di “fonologizzazione” del colo-
re, al fine di ridurlo ai suoi tratti costitutivi; successivamente, metterà soprattut-
to l’accento sul ruolo assiologico fondamentale dei tratti cromatici. Fernande
Saint-Martin lo situa alla base stessa della percezione del quadro, dando luogo ...e per
alle prime unità d’analisi (i “coloremi”), a loro volta difficili (o impossibili) da i semiotici
analizzare. I teorici della percezione, basandosi al tempo stesso sulla struttura
della retina e sulle strategie percettive degli esseri animati, collocano il colore a
livello delle “pregnanze” biologiche a partire dalle quali gli uomini costruiscono
il senso del loro ambiente e regolano le loro interazioni con esso.
Indipendentemente dalla qualità e serietà degli argomenti invocati, è co-
me se – per dirla con Paul Ricœur – fosse all’opera una “guida teleologica”;
per il filosofo, in effetti, il quadrato semiotico riceve un’interpretazione sin-
tattica solo perché è già destinato, nel momento stesso in cui organizza una
categoria semantica, a fare da supporto all’assiologia che verrà imposta al
soggetto narrativo; potremmo ugualmente sospettare che qualsiasi proposi-
zione teorica, mirante ad ancorare il colore nelle profondità e negli indefini-
bili, sia “guidata teleologicamente” dalla preoccupazione di assicurarsi un
ruolo fondamentale nell’assiologia. Con il colore, infatti, si porrebbe di nuo-
vo la questione della doppia accezione del “valore” in semiotica: differenza
costitutiva e pertinente da un lato, direzione assiologica dall’altro, doppia ac-
cezione che predispone la semiotica a ricercare l’assiologia dietro la perti-
nenza e la pertinenza dietro l’assiologia, come se queste fossero le due facce
indissociabili degli universi significanti.
In quest’ottica, il dipinto di Rothko potrebbe essere interpretato come una ri-
cerca della pertinenza minimale, più precisamente come un tentativo di isolare u-
na direzione assiologica elementare. Si noterà innanzi tutto che le forme e le pro-
porzioni delle diverse aree riproducono grosso modo quelle della cornice stessa
(cioè l’insieme dello strato ocra P1), ma alla condizione di riunire e sommare l’a-
rea nera con quella bianca, e di considerare la parte centrale dell’area ocra come
uno dei rettangoli, a sua volta dissociato in due parti: da un lato P1’, l’intervallo
tra P2 e P3 e dall’altro P1”, la parte centrale vera e propria. Il rettangolo del qua-
dro (P1) risulta così scomposto orizzontalmente in tre zone che ne ripetono ap-
prossimativamente la forma e le proporzioni: P2 + P3; P1’ + P1’’; P4.
L’installazione di questi elementi dell’enunciato deriva da un débrayage e-
nunciazionale che può essere analizzato nel modo seguente: cominciando dalla
cornice enunciazionale, una triplicazione (una varietà della pluralizzazione, pro-
pria al débrayage in generale) e una rotazione di 90° installano tre zone equiva-
lenti16; una nuova divisione, con traslazione e intercalazione delle sottoparti, in- Débrayage
stalla l’area bianca tra due parti dell’area ocra; la scomposizione dei bordi fra- e embrayage
stagliati e il trattamento dei margini compromette infine qualsiasi tentativo di
réembrayage nella cornice enunciazionale. Questa sequenza intitolata “débraya-
ge” risulta, di fatto, una concatenazione di rotture di isotopie: il plurale a parti-
re dal singolare, l’ineguaglianza e lo squilibrio a partire dall’uguaglianza e dal-
l’equilibrio distribuzionale.
La messa in discorso del quadro a partire dalla cornice enunciazionale,
che installa le differenze significanti (i valori), procede per negazioni succes-
sive, facendo apparire a ogni tappa una nuova direzione assiologica. La tap-
pa più ricca d’insegnamento è a nostro avviso quella in cui l’area nera e quel-
120 JACQUES FONTANILLE

la bianca, riunite in uno stesso terzo dell’altezza, si separano per rompere


(senza tuttavia farlo dimenticare) l’equilibrio generale. Se il nero e il bianco
risultano così chiaramente associati in una tappa intermedia della messa in
discorso, ciò è dovuto probabilmente al fatto che corrispondono a una me-
desima direzione assiologica: la negazione del colore (vs la modulazione tra
P1 e P4), e l’affermazione della luminosità. Questa negazione genera a sua
volta delle aree incompatibili, che si dissociano nella superficie per diversità
di posizione e taglia, ma anche su strati differenti: messe a confronto fra di
loro, ed entrambe con l’area ocra, il nero arretra sullo sfondo, e il bianco a-
vanza in spessore17.

Fig. 11. Marc Rothko,


Ricordo preistorico,
1946, olio su tela,
70.5 x 99.7 cm, colle-
zione di Kate Rothko
Prizel.

Fig. 12. Marc Rothko,


Lento vortice sul bordo
del mare, 1944, olio
su tela, 191.1 x 215.9
cm, New York, Mu-
seum of Modern Art.
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 121

Insomma, è un dipinto che mette in scena il lavoro della negazione assio-


logica a partire da uno strato ocra arancio, occupante l’intero piano dell’e-
nunciazione: di fronte alla prima modulazione (ocra/rosso) si impone una
prima negazione (ocra/non ocra); poi, di fronte a una nuova modulazione (o-
cra/bianco luminoso) interviene una seconda negazione (colore/non colore
scuro). A ogni tappa viene superata un’alternativa modulazione/negazione; il
prodotto della modulazione (rosso, poi bianco) viene relegato in basso e
quello della negazione, ostentato in alto18. Infine, l’area nera domina non
tanto perché si trova a strapiombo sulle altre, ma perché è il risultato di que-
sto percorso di scelta assiologica, alla fine del quale trionfa la luminosità (nella
sua versione scura, dalla parte della “sparizione”), e la materia, grazie all’ef-
fetto di trama nel bruno-nero.
Le negazioni successive della messa in discorso installano differenze di po-
tenziale e sotto questo aspetto, così come sotto quello del processo cromatico,
l’area nera appare come il minimo dei minimi di potenziale: quello che stabiliz-
za in modo definitivo il percorso assiologico.
Uno sguardo, anche rapido, alla serie completa dei dipinti “a rettangoli” e a
quelli del periodo precedente, dimostra che il processo assiologico qui descritto
partecipa di una serie di trasformazioni che potremmo descrivere sommaria-
mente come segue:

i. I quadri degli anni Quaranta (il periodo “mitico”, per alcuni addirittura La produzione
“surrealista”) propongono dei grafismi biomorfici e dinamici, manifestano delle di Rothko
metamorfosi e dei movimenti continui nel mondo animato (cfr. Ricordo preisto-
rico, 1946 – fig. 11) o nella natura (Lento vortice sul bordo del mare, 1944 – fig.
12). Tuttavia, sono già presenti delle aree quasi rettangolari disposte orizzontal-
mente, in forma di “effetti suolo”, attraverso i quali i grafismi biormorfici si me-
scolano e si metamorfizzano, o in forma di “effetti cielo” per le aree superiori,
verso cui è peraltro orientato il movimento dei grafismi.

In questa sua ricerca di simboli mitici universali, traducendo in qualche mo-


do pittoricamente il dinamismo delle forme naturali, Rothko installa già un di-
spositivo (alto/basso) che associa aree allungate in senso orizzontale e che in
quel momento fa da supporto al vettore assiologico e intenzionale minimale.

ii. Nei primi quadri degli anni Cinquanta, quando le forme rettangolari co-
minciano a imporsi, il rapporto tra aree alte e aree basse si instaura definitiva-
mente, anche se la struttura dei rettangoli non è ancora sistematica. In N° 18
e N° 24 (1949), ad esempio, i rettangoli non occupano l’intera larghezza; mol-
ti di loro sono delle semplici macchie disseminate nella superficie. Possiamo
tuttavia osservare due fatti significativi: da una parte, questi rettangoli disse-
minati hanno ancora qualcosa delle forme biologiche che si stanno metamor-
fizzando: delle protuberanze, delle distorsioni su un lato, mentre quelli che
occupano l’intera larghezza hanno trovato il loro equilibrio geometrico ade-
guandosi alle proporzioni della cornice; dall’altra, questa tappa intermedia
presenta tutte le caratteristiche di un’ascesi pittorica e di una ricerca dei valo-
ri minimali, che sembrano rifugiarsi nei cromatismi placidamente ostentati nei
rettangoli stabili19 (figg. 13, 14).
122 JACQUES FONTANILLE

Fig. 13. Marc Rothko, Untitled


(Violetto, nero, arancio, giallo
su bianco e rosso), 1949, olio su
tela, 207 x 167.6 cm, New
York, Guggenheim Museum.

Fig. 14. Marc Rothko, Untitled


(Nero, rosa e giallo su arancio),
1951-1952, olio su tela, 294.6 x
235 cm, collezione di Nor-
mand e Irma Braman.
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 123

iii. Successivamente, i valori si sono interamente rifugiati nei rettangoli


cromatici, e del dispositivo iniziale non resta altro che il rapporto tra le aree
alte e quelle basse.
Ciò significa che, in quel momento, la distribuzione dei rettangoli oriz-
zontali tra l’alto e il basso è l’unico residuo di un processo assiologico fonda-
mentale, spogliato di qualsiasi ridondanza grafica, e ridotto alle sole differen-
ze di potenziale delle transizioni di cromatismi, di luminosità e di materia.

In questo vasto percorso di trasformazione, Untitled del 1951-1956 non


rappresenta altro che una tappa: il posto lasciato all’area del fondo e la sua
ambivalenza (figura/fondo) ne sono un indice; la forma increspata e legger-
mente protuberante dell’area inferiore, che non ha ancora raggiunto la sua
forma rettangolare definitiva, ne costituirebbe un altro.
Tuttavia, è solo in questo percorso che la tripartizione verticale (area ne-
ra/area bianca/area rossa) può assumere una significazione mitica: a più ri-
prese nella sua opera, Rothko sembra aver tentato di conferire un senso co- Gli effetti
smico a questa tripartizione della verticalità, opponendo due grandi regioni, plastici
una alta e l’altra bassa, attorno a un asse di simmetria (la regione ristretta del
centro), generalmente occupato da una fascia luminosa se non abbagliante,
che altro non sarebbe che il residuo strutturale di un “effetto suolo”.
Sarebbe un vero e proprio programma di ricerca domandarsi come si or-
ganizzano le varianti di questo dispositivo, in particolare quelle in cui l’area
centrale rappresenta, contrastivamente al nostro caso, una grande regione
priva di luminosità.

6. Nel nero, per finire

Tutto concorre a rendere l’area nera se non quella più importante, almeno
il risultato di tutti i processi riconosciuti nel quadro: è il risultato del proces-
so delle transizioni cromatiche, poiché tutte le transizioni che conducono a L’area nera
essa risultano più decise rispetto a ciascuna di quelle tra le altre tre aree; è e i suoi valori
anche il risultato del processo assiologico della messa in discorso, poiché le
operazioni costitutive del débrayage la installano nel posto più alto della su-
perficie e in quello più in basso dei minimi di potenziale, dopo una serie di
negazioni ordinate.
Se si accetta l’ipotesi secondo la quale ogni grande area orizzontale del
quadro deriva da un débrayage della cornice enunciazionale (per divisione e
rotazione), l’area nera apparirà allora come un prodotto assiologico della
prassi enunciazionale, il cui processo di transizione cromatica ne costituireb-
be al tempo stesso l’indice e l’espressione. Un dettaglio andrebbe nello stesso
senso: l’area nera è la sola a rispettare esattamente le proporzioni della corni-
ce20, ciò significa che è la più vicina alla negazione assiologica definitiva, che
corrisponderebbe a un puro rettangolo nero confuso con il rettangolo rita-
gliato dalla cornice.
Abbiamo resistito fino in fondo alla tentazione di polarizzare affettiva-
mente i colori, ossia di definire disforico il nero ed euforici tutti gli altri.
Non siamo sempre in grado di pronunciarci in maniera definitiva (il nero
124 JACQUES FONTANILLE

può essere disforico, ma portare del nero può essere euforico!, a meno che
non sia l’inverso), ma possiamo nondimeno osservare un certo numero di fat-
ti convergenti:

i. il nero deriva in questo caso da una serie di negazioni, mentre gli altri
toni sono il risultato di una serie di modulazioni;

ii. il nero rallenta, anzi sospende l’attività differenziatrice dell’osservatore,


mentre il rosso e poi il bianco la accelerano;

iii. l’area nera è la più difficile da situare sulla terza dimensione (arretra in
profondità, avanza in testura): ciò significa che compromette l’attività di “at-
tribuzione di senso” da parte dell’osservatore. E tuttavia si propone nondi-
meno come una rappresentazione débrayata del piano dell’enunciazione. In-
vece di invocare a priori il carattere “disforico” dell’area nera, in questo caso
bisognerebbe piuttosto invocare il suo carattere profondamente, e contem-
poraneamente sotto ogni aspetto, attrattivo (nel senso di un “attrattore”) e
ingannevole nella sintassi di questo discorso particolare.
La dimensione estetica dei discorsi interesserebbe la valutazione del piano
dell’espressione del discorso assiologico e passionale, mentre la dimensione eti-
ca ne valuterebbe il piano del contenuto. L’estetica di Rothko sembra ammette-
re una tale definizione, poiché il percorso assiologico e passionale soggiacente
La dimensione risulta interamente valutato dal punto di vista del piano dell’espressione, speci-
estetica ficatamente a partire dal processo cromatico. Dalla parte dell’attante dell’enun-
ciazione, l’estetizzazione si fonda sull’ingannevolezza del percorso assiologico;
dalla parte degli attanti posizionali dell’enunciato, l’estetizzazione si fonda sul
margine di incertezza tra le aree, i piani e gli strati, e sulla credenza fallibile che
essa suscita nell’osservatore. Nell’uno e nell’altro caso, lo spettatore viene con-
dotto, se si sforza di uscire dall’incertezza che lo scuote, a ricercare nella nega-
zione del cromatismo e della luminosità il riposo dello sguardo.

1 Titolo originale, Sans titre … ou sans contenu?, «Nouveaux Actes Sémiotiques», nn. 34-36,

1995, pp. 77-99. Traduzione di Lucia Corrain.


2 Marc Rothko è nato a Dvinsk (Russia) nel 1903 ed è morto a New York nel 1970. La modalità

espressiva degli esordi, caratterizzata dal ricorso a forme realistiche, lascia gradualmente il campo a
forme sempre più vicine all’astrazione, fino a giungere ai risultati astratti dei grandi campi di colore
geometrizzanti. È considerato il più importante esponente della tendenza astratta contemplativa, rap-
presentata nel dopoguerra dal Color-Field Abstraction, insieme a Reinhardt, Still e Newman. I qua-
dri dell’ultima fase si basano su una ricerca di rapporti cromatici più cupi (rettangoli neri, marroni,
grigi) equilibrati dall’inserimento di una banda bianca di contorno. Il dipinto Untitled è conservato a
Tel Aviv, Museum of Art, è realizzato a olio su tela e misura cm 236.9x120.7 (N.d.T.).
3 Per fare ciò abbiamo selezionato le seguenti tele: Ricordo preistorico (1946), pastello su carta, Co-

penhagen, Collection Steingrim Laurens; N° 18 (1949), olio su tela, Poughkeepsie, New York, Collection
Vassar College Art Gallery; N° 24 (1949), olio su tela, New York, The Museum of Modern Art; Violetto,
nero, arancio, giallo su bianco e rosso (1949), olio su tela, Proprietà Marc Rothko (fig. 70); Nero, rosa e
giallo su arancio (1951-1952) olio su tela, Collection of Normand and Irma Braman (fig. 71); Bruno
(1957), olio su tela, Proprietà Marc Rothko; N° 7 (1960), olio su tela, New York, Gugghenhein Museum.
4 I titoli più consueti di questa serie di “rettangoli cromatici” vanno nello stesso senso, poiché a-

dottano il canovaccio canonico: “Colore 1, Colore 2… colore n su colore C”. Ma, nel nostro caso,
l’assenza di un tale titolo, senza essere significativo, invita tuttavia alla prudenza.
SENZA TITOLO… O SENZA CONTENUTO? 125

5 Questo dispositivo è eccezionale nella serie dei “rettangoli cromatici”, nella misura in cui i

“fondi” sono in generale relegati sul bordo della cornice – cfr. Nero, rosa e giallo su arancio (1951-
1952, fig. 71) e N° 7 (1960) – e non possono essere considerati come delle aree allo stesso titolo che i
“rettangoli”. In Violetto, nero, arancio, giallo su bianco (1949, fig. 70) si ha anche qualche difficoltà a
reperire il “fondo” bianco.
6 Questo terzo tipo di contaminazione è generalmente attribuito alla diluizione del colore nel

momento della sua stesura, diluizione e stesura che lasciano intravedere in certe aree la trama stessa
della tela. Più precisamente, se possiamo parlare qui di effetti di materia, non si tratta di materia pit-
torica propriamente detta, bensì di materia solamente visibile e dipendente, di conseguenza, dagli
“stati della luce”.
7 Da ora in poi, per facilitare la lettura, e per convenzione, chiameremo P1: “area ocra” (o ocra

arancio); P2: “area nera” (o bruno-nera); P3: “area bianca” (o beige molto chiaro); e P4: “area rossa”
(o rosso-arancio). Queste denominazioni, per quanto convenzionali, non sono prive di conseguenze:
vi ritorneremo alla fine del nostro percorso.
8 Il “momento di unità” che si delinea qui sarebbe da aggiungere alla lista di quello che ha de-

scritto e delineato Bordron (1991).


9 Come promemoria: un attante che appare e scompare per “luminosità” (catastrofe detta a “pie-

ga”); due attanti di cui uno respinge e l’altro assorbe un oggetto per ciò che concerne l’“illuminazio-
ne” (catastrofe detta a “farfalla”); tre attanti, di cui uno assorbe l’oggetto circolante tra gli altri due,
attraverso il colore (catastrofe detta “a ombelico parabolico”); quattro attanti, di cui uno entra in
conflitto con quello che circola tra i due ultimi, per gli effetti di materia (catastrofe detta “ombelico
ellittico”). (L’autore si riferisce qui alla teoria delle catastrofi, messa a punto dal matematico Thom
1978. N.d.T.).
10 La serie di “rettangoli cromatici” incoraggia a formulare un’ipotesi come questa, nella misura

in cui, per esempio, N° 7 (1960) declina le varianti di una stessa base composita (rosso, giallo e bru-
no) in quattro toni: bordeaux, arancio, ocra, rosso; e nello stesso modo anche in Nero, rosa, giallo su
arancio (1951-1952, fig. 71), il fondo arancio (rosso e giallo) instaura da un lato il rosa (componente
rossa) e dall’altra il giallo (componente gialla).
11 Un altro quadro della serie intitolato Bruno, del 1957 (fig. 21), sfrutta questi “anelli mancanti”

in una gamma di contrasti decisamente più ristretta rispetto al dipinto qui preso in esame.
12 La parola francese couche d’ora in poi verrà tradotta con strato (in italiano si dice “strato” o

“mano” di pittura); la parola strate con piano. Si è ritenuto corretto ricorrere all’opposizione
piano/strato perché sembra essere quella che meglio evoca due diversi tipi di spazialità, anche sulla
base dell’articolazione spaziale formulata da Calabrese (1987) e pubblicata in Leggere l’opera d’arte,
1991 (N.d.T.).
13 Questo tipo di procedura viene ugualmente applicata, per esempio, quando in un dipinto figu-

rativo due personaggi che si presuppone siano di taglia equivalente appaiono invece come fortemen-
te sproporzionati: lo spettatore risolve l’incompatibilità disponendoli in profondità. È la “velocità di
transizione” lenta, tollerabile in un unico piano, a giustificare le diversità di taglia proprie degli atto-
ri, ed è la “velocità di transizione” rapida, che obbliga a costruire la profondità, a imporre le distor-
sioni della prospettiva.
14 N°7 (1960) fornisce un buon esempio di perfetta collusione fra le velature e gli strati, dal mo-

mento che nel dispositivo degli strati niente sembra contraddire la presenza di almeno due strati: da
un lato quello del fondo bordeaux e dall’altro quello delle figure arancione, rosso, ocra. Niente, o
quasi, dato che la luminosità violenta dell’area bianca obbliga a posizionarla su un terzo strato, nel
quale riceverebbe più luce delle altre, senza che sia possibile stabilire l’effettiva posizione di questo
strato: dietro, in mezzo o davanti.
15 Nero, rosa e giallo su arancio (1951-1952) propone il medesimo dispositivo, dal momento che i

margini bianchi e rossi che bordano l’area rosa potrebbero essere interpretati rispettivamente come
luminosità residue e come ombre riportate colorate e proiettate sullo strato inferiore, che di conse-
guenza invitano a una lettura per “strati”, che va a perturbare il dispositivo degli strati, da cui – co-
me sostengono i critici – deriverebbe l’impressione che i rettangoli “fluttuino”.
16 Se si prende una base di 10, in altezza si ottiene: i. P1”=8; ii. P3 bianco=2; iii. P1’, intervallo

fra P2 e P3, =2; iv. P2 =8 e v. P4 =10. Ovvero: P2 + P3 =10; P1’ + P1” =10; P4 =10.
17 Beninteso, senza tralasciare tutte le contraddizioni generate dagli effetti di velatura.
18 Le definizioni “relegato” e “ostentato” traducono opposizioni di tematizzazione e di enfatizza-

zione per localizzazione sul piano di superficie. Si può effettuare una lettura inversa, ma solo l’orien-
tamento ne risulterà cambiato, poiché la direzione del processo rimane la medesima (la negazione
sempre più in alto, la modulazione verso il basso).
19 In via del tutto eccezionale facciamo ricorso all’autorità degli storici dell’arte. Meyer Schapiro

(1957) – a proposito del periodo dell’“astrazione cromatica” di Rothko – durante una conferenza te-
126 JACQUES FONTANILLE

nutasi a New York, evocava anche una “rinuncia” al self-trascendance. Ma, per relativizzare il propo-
sito, sembrerebbe che la rinuncia in questione fosse per Schapiro una specie di rinuncia alla gestico-
lazione enfatica propria degli altri aderenti all’espressionismo astratto, di cui Pollock è il più cono-
sciuto. L’idea di un “percorso di rinuncia” resta tuttavia allettante.
20 Il rapporto “altezza/larghezza” della cornice è di 1.95; il rapporto “larghezza/altezza” dell’a-

rea nera è di 1.9; per le altre aree, è di 7, 1.6 o 1.5.


Nota sul colore in Francis Bacon1
Gilles Deleuze

I tre elementi fondamentali della pittura di Bacon sono l’armatura o struttu-


ra, la Figura, il contorno. E probabilmente, dei tratti, retti o curvi, delineano già
un contorno proprio sia dell’armatura che della Figura, e sembrano reintrodur-
re una sorta di stampo tattile (lo si rimproverava già a Gauguin e a van Gogh).
Ma se da una parte queste linee non fanno che confermare modalità differenti
del colore, d’altra parte, vi è un terzo contorno, che non è più quello dell’arma-
tura, né quello della Figura, ma che si eleva allo stato di elemento autonomo, sia Gli elementi
superficie, volume che linea: è il tondo, la pista, la pozzanghera o lo zoccolo, il della pittura
letto, il materasso, la poltrona, evidenziando, questa volta, il limite comune alla di Bacon
Figura e all’armatura su un piano ravvicinato che si suppone lo stesso o quasi.
Si tratta pertanto davvero di tre elementi distinti. Vedremo però che tutti e tre
convergono verso il colore, nel colore. Ed è proprio la modulazione, cioè i rap-
porti del colore, a spiegare al contempo l’unità dell’insieme, la ripartizione di
ciascun elemento e il modo in cui ognuno agisce tra gli altri.
Ecco un esempio analizzato da Marc Le Bot: la Figure standing at a washba-
sin, del 1976 (tav. IX),

è come un relitto trascinato da un fiume di colore ocra, con gorghi e una scogliera
rossa, il cui doppio effetto spaziale è probabilmente quello di restringere e trattenere
per un istante l’espansione illimitata del colore, in modo tale che questa ne risulti ri-
lanciata e accelerata. Lo spazio dei quadri di Francis Bacon è così attraversato da
larghe colate di colore. Se lo spazio è qui paragonabile a una massa omogenea e flui-
da nella sua monocromia, spezzata però da frangenti, il regime dei segni non può di-
pendere da una rigida geometricità. In questo quadro il regime dei segni dipende in-
vece da una dinamica che fa scivolare lo sguardo dall’ocra chiaro al rosso. Per questa
ragione può esservi inscritta una freccia di direzione (Le Bot 1979).

È quindi evidente la ripartizione: c’è la grande plaga ocra monocromo come


fondo, che dà l’armatura. C’è il contorno come potenza autonoma (lo scoglio)
del sommier, o cuscino, sul quale la Figura sta in piedi, porpora accostato al ne-
ro del circolo e contrastato con il bianco del giornale stropicciato. Vi è infine la
I colori
Figura come una colata di toni spezzati, ocra, rossi e blu. Ma vi sono inoltre altri dell’armatura,
elementi: anzitutto la persiana nera, che sembra tagliare la campitura ocra; poi il della figura
lavandino, anch’esso di un tono spezzato di azzurro; e il lungo tubo curvo, bian- e del contorno
co, segnato da macchie manuali ocra, che circonda il sommier, la Figura e il la-
vandino, e che ritaglia anche la campitura. Vediamo la funzione di tali elementi
secondari, eppure indispensabili. Il lavandino è come un secondo contorno au-
tonomo, che sta alla testa della Figura esattamente come il primo stava al piede.
128 GILLES DELEUZE

Fig. 15. Francis Bacon, Three studies for figures at the base of a crucifixion, 1944, olio e pastello su
tela, ciascun pannello, 94 x 74 cm, Londra, Tate Gallery.

E anche il tubo, il cui braccio superiore divide in due la campitura, è un contor-


no autonomo, il terzo. Quanto alla persiana, il suo ruolo è tanto più importante
in quanto, secondo il procedimento caro a Bacon, cade fra la campitura e la Fi-
gura, così da colmare la profondità scarna che le separava, e riportare l’insieme
su un solo e unico piano. È una comunicazione di colori particolarmente ricca: i
toni spezzati della Figura riprendono il tono puro della campitura, come pure il
tono puro del cuscino rosso, e vi aggiungono dei toni di azzurro che risuonano
con quello del lavandino, blu spezzato che contrasta col rosso puro.
Di qui una prima domanda: qual è il modo della plaga o della campitura,
qual è la modalità del colore nella campitura, e come può la campitura fare da
armatura o da struttura? Se prendiamo l’esempio particolarmente significativo
dei trittici, vediamo estendersi grandi campiture monocrome e di colori vividi,
arancio, rosso, ocra, giallo oro, verde, viola, rosa. E se all’inizio la modulazione
poteva ancora essere ottenuta mediante differenze di valore (come nei Three
studies for figures at the base of a crucifixion, del 1944), si vede subito che essa
La campitura deve consistere soltanto di variazioni interne di intensità o di saturazione, e che
tali variazioni mutano esse stesse in base ai rapporti di vicinanza a questa o
quella zona della campitura. Questi rapporti di vicinanza sono determinati in
più modi: a volte la stessa campitura presenta zone franche di un’altra intensità
o addirittura di un altro colore. È vero che questo procedimento appare rara-
mente nei trittici, tuttavia è presente spesso nei quadri singoli, come in Painting
del 1946, o in Pope n. 2 del 1960 (sezioni viola per una campitura verde). Altre
volte, in seguito a un procedimento frequente nei trittici, la campitura si trova
limitata e quasi contenuta, ricondotta a sé da un grande contorno curvo che oc-
cupa almeno la metà inferiore del quadro, e che, costituendo un piano orizzon-
tale, opera la congiunzione con la campitura verticale nella profondità scarna; e
questo grande contorno, appunto perché, di per sé, non è che il limite esterno
di altri contorni più stretti, appartiene in un certo modo ancora alla campitura.
Così in Three studies for a crucifixion del 1962 (fig. 15), vediamo il grande con-
torno arancio tenere a bada la campitura rossa; in Two figures lying on a bed
with attendants, la campitura viola è contenuta dal grande contorno rosso. Altre
volte, poi, la campitura è appena interrotta da una sottile barra bianca da cui è
NOTA SUL COLORE IN FRANCIS BACON 129

interamente attraversata, come sulle tre facce del bellissimo trittico rosa del
1970; è anche il caso, in parte, dell’uomo al lavabo, la cui campitura ocra è at-
traversata da una barra bianca come appendice del contorno. Accade, infine,
che la campitura porti una banda o un nastro di un altro colore: è il caso del
pannello destro del 1962 che presenta un nastro verticale verde, ma è anche il
caso della prima corrida, dove la campitura arancio è sottolineata da un nastro
viola (sostituito dalla barra bianca nella seconda corrida), e dei due pannelli e-
sterni di un trittico del 1974, dove un nastro blu attraversa orizzontalmente la
campitura verde.
Probabilmente, la maggiore purezza pittorica si ha quando la campitura non
è né sezionata, né limitata, né tanto meno interrotta, ma ricopre l’insieme del
quadro, sia che rinchiuda un contorno medio (per esempio il letto verde rin-
chiuso dalla campitura arancio negli Studies from the human body del 1970), sia,
inoltre, che circondi da tutti i lati un contorno più piccolo (come al centro del
trittico del 1970): è infatti a queste condizioni che il quadro diviene veramente
aereo, e raggiunge un massimo di luce come all’eternità di un tempo monocro-
mo, “Cromocronia”. Ma il caso del nastro che attraversa la campitura non è
meno interessante e importante, poiché manifesta direttamente il modo in cui
un campo colorato omogeneo possa presentare sottili variazioni interne in fun-
zione di una vicinanza (la stessa struttura campo banda si ritrova in certi espres-
sionisti astratti, come Newman); ne deriva per la campitura stessa una specie di
percezione temporale o successiva. E diventa regola generale anche per gli altri
casi, quando la vicinanza è assicurata dalla linea di un grande, di un medio o
piccolo contorno: il trittico sarà tanto più aereo quanto più piccolo o localizza-
La campitura
to sarà il contorno, come nell’opera del 1970 dove il tondo blu e gli attrezzi o- come forma
cra sembrano sospesi in cielo; tuttavia, persino allora, la campitura è l’oggetto dell’eternità
di una percezione temporale che raggiunge l’eternità di una forma del tempo. del tempo
Ecco dunque in che senso la campitura uniforme, cioè il colore, funge da strut-
tura o da armatura: essa comporta intrinsecamente una o più zone di vicinanza,
che permettono che una specie di contorno (il più grande), o un aspetto del
contorno, le appartenga. L’armatura può allora consistere nella connessione
della campitura con il piano orizzontale definito da un grande contorno, cosa
che implica una presenza attiva della profondità magra. Ma essa consiste anche
in un sistema di attrezzi lineari che tengono sospesa la Figura nella campitura,
negando ogni profondità (1970). O infine, essa può essere il risultato dell’azio-
ne di una sezione molto particolare della campitura che non abbiamo ancora
considerato: capita infatti che la campitura comporti una sezione nera, ora ben
localizzata (Pope n. 2, 1960; Three studies for a crucifixion, 1962; Portrait of
George Dyer staring into a mirror, 1967; Triptych, 1972 (fig. 18); Portrait of man
walking down steps, 1972), ora anche debordante (Triptych, 1973), ora totale o
costitutiva dell’intera campitura (Three studies from the human body, 1967). E
la sezione nera non agisce come le altre eventuali sezioni: essa assume il ruolo
che nel periodo malerisch era attribuito alla tenda o alla dissolvenza, fa sì che la
campitura si proietti in avanti, non afferma più né nega la profondità magra, la
riempie adeguatamente. Ciò è particolarmente evidente nel ritratto di George
Dyer (fig. 16). Solo in un caso, Crucifixion, del 1965, la sezione nera è, al con-
trario, arretrata rispetto alla campitura, il che mostra che Bacon non è pervenu-
to tutto d’un colpo a questa formula nuova del nero.
130 GILLES DELEUZE

Fig. 16. Francis Bacon, Portrait of George Dyer staring into a mirror, 1967, olio su tela, 198 x 147.5
cm, Caracas, collezione privata.

Se passiamo all’altro termine, la Figura, ci troviamo ora davanti le colate di co-


Le colate lore sotto forma di toni spezzati. O meglio, i toni spezzati costituiscono la carne
e i toni spezzati della Figura. Sotto questo profilo essi si oppongono in tre modi alle plaghe mo-
nocrome: in quanto il tono è spezzato, si oppone al tono eventualmente uguale,
NOTA SUL COLORE IN FRANCIS BACON 131

ma vivo, puro o intero; in quanto è impastato, si oppone alla campitura; infine vi


si oppone in quanto è policromo (tranne nel caso non trascurabile di un trittico
del 1974, in cui la carne è trattata con un solo tono spezzato verde che fa risonan-
za col verde puro di un nastro). Quando la colata di colori è policroma, vediamo
che il blu e il rosso, appunto i toni dominanti della carne macellata, spesso preval-
gono. Tuttavia ciò non avviene soltanto nella carne macellata, ma in misura anco-
ra maggiore nei corpi e nelle teste dei ritratti: così il grande dorso di uomo del
1970, o il ritratto di Miss Belcher, 1959, con il rosso e l’azzurro su una campitura
verde. Ma è soprattutto nei ritratti di teste che la colata perde l’aspetto troppo fa-
cilmente tragico e figurativo, che ancora aveva nella carne macellata delle Croci-
fissioni, per assumere una serie di valori dinamici figurali. Così, in molti ritratti di
teste, alla dominante blu-rosso se ne aggiungono altre, soprattutto ocra. In ogni
caso, è l’affinità del corpo o della carne con la carne macellata a spiegare il tratta-
mento della Figura con toni spezzati. Gli altri elementi della Figura, abiti e om-
bre, ricevono infatti un trattamento differente: il vestito stropicciato può conser-
vare dei valori di chiaro e di scuro, di ombra e di luce; ma l’ombra della Figura, in
compenso, sarà trattata con un tono puro e vivo (così la bella ombra del Triptych,
1970). Quindi, per quanto la ricca colata di toni spezzati modelli il corpo della Fi-
gura, come si vede, il colore accede a un regime completamente diverso da quello
precedente. In primo luogo la colata traccia le variazioni millimetriche del corpo Il
come contenuto del tempo, invece le plaghe, o campiture monocrome, raggiun- colore-struttura
gevano una sorta di eternità come forma del tempo. In secondo luogo, ed è la co- e il colore-forza
sa più importante, il colore-struttura fa posto al colore-forza: perché ogni dominan-
te, ogni tono spezzato indica l’esercizio immediato di una forza sulla zona corri-
spondente del corpo o della testa, rende immediatamente visibile una forza. Infi-
ne, la variazione interna alla campitura si definiva in funzione di una zona di vici-
nanza, ottenuta, l’abbiamo visto, in diversi modi (per esempio vicinanza di un na-
stro). Ma è con il diagramma, come punto di applicazione o luogo di agitazione di
tutte le forze, che la colata di colore si pone in rapporto di vicinanza. E tale vici-
nanza può certo essere spaziale, come nei casi in cui il diagramma ha luogo nel
corpo o nella testa, ma può anche essere topologica e prodursi a distanza, come
nei casi in cui il diagramma è situato o è migrato altrove (così per il Portrait of Isa-
bel Rawstorne standing in a street in Soho, 1967).

Fig. 17. Francis Bacon, Triptych-Three studies for portrait of Lucien Freud, 1966, olio su tela, cia-
scun pannello 198 x 147.5 cm, New York, collezione privata.
132 GILLES DELEUZE

Fig. 18. Francis Bacon, Triptych, 1972, olio su tela, ciascun pannello 198 x 147.5 cm, Londra, Tate
Gallery.

Resta il contorno. Ci è noto il suo potere di moltiplicarsi, dal momento che


si può avere un grande contorno (per esempio un tappeto) che circonda un
contorno medio (una sedia), che, a sua volta, circonda un contorno più picco-
lo (un tondo). Oppure i tre contorni del Man at a washbasin. Parrebbe che, in
tutti questi casi, il colore ritrovi la sua antica funzione tattile-ottica e si sotto-
metta alla linea chiusa. Specie i grandi contorni presentano una linea curva o
Il contorno fatta ad angolo, con il compito di sottolineare il modo in cui un piano orizzon-
tale si evidenzia rispetto al piano verticale nel minimo di profondità. Tuttavia il
colore è solo in apparenza subordinato alla linea. Appunto perché qui il con-
torno non è quello della Figura, ma trova effettuazione in un elemento autono-
mo del quadro, tale elemento si trova determinato dal colore, in modo che sia
la linea a derivarne, e non l’inverso. È dunque ancora il colore a fare da linea e
da contorno; così, per esempio, molti grandi contorni saranno trattati come
tappeti (Man and child, 1963; Three studies for portrait of Lucian Freud, 1966;
Portrait of George Dyer staring into a mirror, 1968, ecc. fig. 16). Si direbbe un
regime decorativo del colore. Questo terzo regime è ancora più visibile nel pic-
colo contorno, dove si eleva la Figura, e può dispiegare colori affascinanti: nel
Triptych del 1972, per esempio, il perfetto ovale malva del pannello centrale,
che fa posto a destra e a sinistra a una pozzanghera rosa incerto; oppure in
Painting del 1978, l’ovale arancio oro che si proietta sulla porta. In simili con-
torni si ritrova una funzione che nella pittura antica era attribuita alle aureole.
Pur essendo ora posta intorno ai piedi della Figura, in un uso profano, nondi-
meno l’aureola mantiene la sua funzione di riflettore concentrato sulla Figura,
di pressione colorata che assicura l’equilibrio della Figura, e che permette il
passaggio da un regime di colore a un altro2.
Il colorismo (modulazione) non consiste solo nei rapporti di caldo e di
freddo, di espansione e di contrazione che variano in base ai colori considerati;
La
esso consiste anche nei regimi di colori, nei rapporti fra i regimi stessi, negli
modulazione accordi fra toni puri e toni spezzati. Ciò che chiamiamo visione aptica è ap-
cromatica punto questo senso dei colori. Questo senso, o questa visione, concerne tanto
più la totalità in quanto i tre elementi della pittura (armatura, Figura e contor-
no) comunicano e convergono nel colore. Il problema di sapere se ciò implichi
NOTA SUL COLORE IN FRANCIS BACON 133

una sorta di “buon gusto” superiore può essere formulato, come fa Fried
(1965a) a proposito di alcuni coloristi, nel seguente modo: può il gusto essere
una forza creatrice potenziale e non un semplice arbitro della moda? Deve for-
se Bacon questo gusto al suo passato di decoratore? Sembrerebbe che il buon
gusto di Bacon si esprima egregiamente nell’armatura e nel regime delle cam-
piture. Ma come le Figure, talora, hanno forme e colori da cui ricavano la par-
venza di mostri, così i contorni stessi talora appaiono di “cattivo gusto”, quasi
che l’ironia di Bacon si eserciti di preferenza contro la decorazione. Specie
quando il grande contorno è presentato come un tappeto, si può sempre ve-
dervi un campione particolarmente brutto. A proposito del Man and child, I regimi
del colore
Russell (1979, p. 121) arriva a dire: “il tappeto in sé è orrendo; avendo scorto e il senso
due o tre volte Bacon camminare solo in una via come Tottenham Court Road, aptico
so con che sguardo fisso e rassegnato esamini questo genere di vetrine (nel suo della vista
appartamento non vi sono tappeti)”. Tuttavia, l’apparenza stessa non rimanda
che alla figurazione. Le Figure non sembrano già più dei mostri, se non dal
punto di vista di una figurazione sussistente, ma cessano di esserlo non appena
le si consideri “figuralmente”, poiché allora rivelano la posizione più naturale,
in funzione dei compito quotidiano che esplicano e delle forze momentanee
che affrontano. Così, anche il tappeto più orrendo cessa di essere tale non ap-
pena lo si percepisca “figuralmente”, cioè nella funzione che esercita in rap-
porto al colore: infatti, con le sue venature rosse e le sue zone blu, quello del
Man and child scompone orizzontalmente la campitura viola verticale, facen-
doci passare dal tono puro di questa ai toni spezzati della Figura. È un colore-
contorno, più vicino alle Ninfee che a un brutto tappeto. C’è davvero un gusto
creatore nel colore, nei differenti regimi di colore che costituiscono un tatto
propriamente visivo o un senso aptico della vista.

1 Da: Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, Paris, La Différence, 1981; trad. it.

Francis Bacon. La logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 1995, pp. 213-226. Traduzione di Stefano
Verdicchio.
2 Paris (1965, pp. 69 sgg.) conduce un’interessante analisi delle aureole dal punto di vista dello spa-

zio, della luce e del colore. Studia anche le frecce in quanto vettori spaziali, nel caso di san Sebastiano,
sant’Orsola, ecc. Possiamo osservare che in Bacon le frecce puramente indicatrici sono l’ultimo residuo di
quelle sante frecce, un po’ come per le Figure accoppiate i circoli in rotazione sono residui di aureole.
“Destra” e “sinistra” nella raffigurazione delle icone1
Boris A. Uspenskij

Le osservazioni che seguono vogliono confortare la tesi che nel Medioevo la


rappresentazione figurativa, e in particolare quella delle icone, si orientava pre-
valentemente su una posizione visuale interna cioè sul punto di vista di un os-
servatore pensato come all’interno della realtà rappresentata e che si trovi di
fronte a chi osserva il quadro. La pittura rinascimentale, al contrario, è intesa
come “finestra sul mondo” e di conseguenza si orienta su una posizione visuale
esterna, cioè sul punto di vista di un osservatore che per principio non fa parte
di tale mondo2. In questo caso verrà trattato in particolare il problema della
contrapposizione tra “destra” e “sinistra” nelle icone3. L’analisi della rappresen-
tazione nelle icone è significativa al fine di comprendere il linguaggio dei mezzi
figurativi, non solo a causa del carattere normativo dell’icona e del particolare
“carico semiotico” della sua struttura compositiva, ma anche alla luce del fatto Le icone
che esistono delle descrizioni verbali della composizione (costruzione) raffigu- e il punto
rata, che rappresentano vere e proprie testimonianze documentarie. Descrizioni di vista interno
di questo tipo si possono trovare, per esempio, nei repertori di modelli “descrit-
tivi”, cioè nelle tradizionali guide per i pittori di icone. Presi insieme, i modelli
“descrittivi” e quelli “figurati” (ossia i “traforati”)4, possono essere considerati
una sorta di testo bilingue che consente di decifrare il linguaggio dell’icona.
La lettura dei repertori di modelli iconici permette di stabilire che nella ter-
minologia di quest’arte la parte destra della figura era considerata “sinistra” e,
viceversa, la parte sinistra come “destra”. In altre parole, si parte non dal punto
di vista di chi osserva il quadro, ma dal punto di vista di chi gli stia di fronte, un
osservatore interno che si immagina dentro il mondo raffigurato. Talvolta per la
sua posizione quest’osservatore interno coincide con la figura centrale della raf-
figurazione (per esempio il Cristo nella Deesis), e in tal caso si può dire che la
parte “destra” del quadro si trova alla destra di questa figura e la “sinistra” alla
sua sinistra. Tuttavia esattamente la stessa terminologia può essere applicata an-
che qualora manchi questo personaggio centrale di riferimento.
Così, a proposito della raffigurazione della Pentecoste (tav. X), nei modelli i-
conici si afferma che l’apostolo Pietro si trova a destra, mentre per chi guardi
l’icona egli si trova a sinistra (Bol’šakov 1903, p. 15).
Analogamente, delle “porte reali” si dice che l’evangelista Giovanni viene
rappresentato “dalla parte destra” (p. 16); in realtà si tratta del battente sinistro,
per chi guarda verso l’altare, ma è chiaro che chi scrive ha in mente la posizione
di chi guarda dall’altare.
Allo stesso modo, parlando della croce russa a tre bracci, il cui braccio infe-
riore (poggiapiedi) viene rappresentato come inclinato da sinistra a destra:
138 BORIS A. USPENSKIJ

il repertorio afferma che il poggiapiedi della croce va rappresentato “con la


parte destra sollevata verso l’alto e la mancina volta in basso”. Di nuovo, è del
tutto evidente che la definizione di destra e sinistra viene effettuata non dal no-
stro punto di vista, ma da quello del Cristo crocifisso, con una interpretazione
simbolica dei due lati (fig. 19):

Il Cristo, stando in croce, ha il piede destro poggiato lievemente e sollevato verso


l’alto perché siano rimessi i peccati a coloro che credono nel Suo nome e nel giorno
del Giudizio siano assunti per incontrarLo in Cielo, mentre ha il piede sinistro pog-
giato con forza e volto verso il basso per indicare che i popoli che non credono in
Lui sono gravati dall’ignoranza e, perdendosi a causa del loro intelletto, maledetti,
scenderanno all’Inferno (Bol’šakov 1903, p. 12)5.

Dunque la destra (di Cristo) si connette con la fede e la sinistra con la man-
canza di fede. Allo stesso tempo la destra si associa con l’alto e la sinistra con il
basso6. Sul parallelismo tra le opposizioni “destra-sinistra” e “alto-basso” torne-
remo in seguito.
Un esempio molto convincente dell’analogia fra il nesso “destra-sinistra” e
rapporti spaziali (e temporali) diversi è stato scoperto da Saltykov. Egli cita una
Il significato
teologico raffigurazione di carattere didattico del Seicento-primo Settecento presente nel-
di destra la galleria Tret’jakov che reca una didascalia esplicativa del suo contenuto:
e di sinstra “Mortale: temi ciò che sta sopra di te. Non sperare in ciò che ti sta davanti.
Non sfuggirai a ciò che ti sta alle spalle. Non eviterai ciò che sta sotto di te”. In
un certo senso questa didascalia contiene la chiave per l’analisi dell’organizza-
zione spaziale della rappresentazione. Al centro si vede una figura umana, il
“mortale”, rivolta verso chi guarda.

Ciò che gli sta davanti secondo la didascalia è il quadro dei beni terreni, che è collo-
cato nella parte sinistra (per chi guarda). Dal lato opposto, a destra, l’autore ha raffi-
gurato la morte con la falce, che sta alle spalle dell’uomo. Tutte e tre le figure sono
collocate in primo piano (…). Per noi è interessante il fatto che la figura umana rap-
presenta una sorta di asse attorno al quale ruotano lo spazio e il tempo; la parte an-
teriore è spostata a sinistra e, rispettivamente, quella posteriore a destra (Saltykov, in
corso di stampa).

Vediamo che il lato destro del quadro (dal punto di vista dell’orientamento
interno, cioè quello sinistro per noi) si associa con il piano anteriore, e quello si-
Destra vs
sinistra e
nistro con il piano posteriore. Allo stesso tempo il piano anteriore – e dunque la
orientamento destra – si connette con il presente, mentre il piano posteriore – e dunque la si-
spazio-temporale nistra – con il futuro. In generale nell’arte medievale è comune la rappresenta-
zione del futuro nella parte posteriore, mentre quella anteriore si connette, na-
turalmente, con la raffigurazione del presente (Poljakova 1970, p. 56)7. Ciò può
spiegare, fra l’altro, il fatto che nell’arte cristiana l’orientamento del tempo è in-
“DESTRA” E “SINISTRA” NELLA RAFFIGURAZIONE DELLE ICONE 139

Fig. 19. Icona Jaroslavl’, Gol-


gota, verso di Sette santi, inizio
del XVIII secolo, tempera su ta-
vola, 103.3 x 57.7 cm, Vicen-
za, Gallerie di Palazzo Leoni
Montanari.

dicato da sinistra a destra per chi guarda il quadro (cfr. Uspenskij 1970b, p.
123)8, e quindi da destra a sinistra per l’osservatore interno, pensato all’interno
del quadro; in altre parole si procede dal suo presente al suo futuro (o dal pas-
sato al presente, se ha luogo la corrispondente rotazione sull’asse temporale).
Echi della tradizione iconica che definisce la destra e la sinistra di una rap-
presentazione da un punto di vista interno al mondo raffigurato si sono conser- L’osservatore
vati fino a tempi relativamente recenti. Una raffigurazione simbolica con la rela- interno
tiva spiegazione, che consente di interpretarla con grande precisione, viene al quadro
pubblicata nello studio di Uvarov (1896). Il quadro è diviso in due parti, la cui
contrapposizione corrisponde all’opposizione tra Vecchio e Nuovo Testamento.
Naturalmente i simboli che si riferiscono al Nuovo Testamento sono dati a de-
140 BORIS A. USPENSKIJ

stra (secondo l’orientamento interno, quindi per noi a sinistra), mentre gli attri-
buti del Vecchio Testamento, a sinistra (dal nostro punto di vista, a destra). E
proprio in tal modo descrive la figura Uvarov, ignorando completamente il pun-
to di vista di chi la guarda, ma conformandosi pienamente alla tradizione: “Dal
lato destro, o buono, si trova il ‘monte Sinai’, dal lato sinistro, o cattivo, il ‘mon-

Fig. 20. Icona, Giudizio Universale, Russia centrale fine del XIX secolo, tempera su tavola, 107 x 85
cm, Vicenza, Gallerie di Palazzo Leoni Montanari.
“DESTRA” E “SINISTRA” NELLA RAFFIGURAZIONE DELLE ICONE 141

te Libano’. È curioso notare, inoltre, che dal lato destro, o buono, i nomi sono
per lo più scritti in oro, mentre quelli a sinistra sono scritti in nero”, ecc. Anche
qui è del tutto evidente l’orientamento su una posizione visuale interna.
Nell’immagine di cui abbiamo trattato ora vi è un’altra particolarità interessan-
te. Se nella parte alta del lato “destro” (per noi sinistro) del quadro è raffigurato il
“Roveto ardente”9, come simbolo della Madre di Dio, nella parte alta di quello “si-
nistro” (per noi destro), è rappresentata la Chiesa, circondata da mura, in mezzo
alle quali è assiso il Cristo. È vero che le mura sono assediate dal diavolo, ma que-
sto fatto giustifica solo in parte la collocazione di tale figura dal lato “sinistro”. Bi- “Destra-sinistra”
sogna supporre che in questo caso specifico più rilevante dell’opposizione tra la come sinonimo
parte destra e quella sinistra risulti la contrapposizione tra la parte superiore e di “alto-basso”
quella inferiore del quadro. In tal modo constatiamo che nella parte alta viene neu-
tralizzata la contrapposizione tra destra e sinistra come mezzi di rappresentazione
simbolica. In altre parole si può dire che le opposizioni “destra-sinistra” e “alto-
basso” nella raffigurazione iconica si comportano come sinonimi e in un modo o
in un altro vengono equiparati nella gerarchia generale dei valori simbolici10.
Alla luce di quanto detto, un particolare interesse è rivestito dalla narrazione
del Battesimo della Rus’ presente nelle Cronache. Secondo il cronista un filo-
sofo greco mostrò al principe Vladimir un arazzo con la rappresentazione del
Giudizio Universale e gli indicò a destra i giusti e a sinistra i dannati (si veda nel
Racconto degli anni passati, anno 6494: “Gli mostrò un arazzo sul quale era raf-
figurato il giudizio del Signore; e gli indicò a destra i giusti, che con gioia passa-
vano in Paradiso, e a sinistra i peccatori, che andavano tra i tormenti. E Volodi-
mer sospirando disse: ‘Gioiscono quelli che stanno a destra, si affliggono quelli
che stanno a sinistra’. E l’altro gli disse ‘Se vuoi stare alla destra con i giusti fat-
ti battezzare’”). Tutte le nostre conoscenze sull’iconografia del Giudizio Univer-
sale ci inducono a pensare che, nell’immagine di cui si parla, per chi guardava
(cioè per il principe Vladimir) i giusti fossero raffigurati a sinistra, mentre i pec-
catori a destra; di conseguenza, se dobbiamo credere alle cronache, nel valutare
la rappresentazione il sovrano adottò il sistema di orientamento pertinente.
Resta da aggiungere soltanto che i fatti esposti più sopra non sono da consi-
derarsi in alcun modo una peculiarità esclusiva dell’arte bizantina e russa anti-
ca. In particolare un fenomeno analogo, cioè l’orientamento su una posizione
visuale interna al momento di determinare la destra e la sinistra, si riscontra nel-
le rappresentazioni occidentali del Giudizio universale (cfr. Wallis 1964, p. 429)
e anche nelle coppie di figure della scultura romanica, nelle tombe gotiche (cfr.
Aleškovskij 1972, p. 106, n. 15), ecc.
Si può dunque azzardare l’ipotesi che tale fenomeno sia comune in generale
a tutta l’arte prerinascimentale – certamente a quella medievale, ma in notevole
misura anche a quella precedente. È stato osservato, per esempio, che nei ritrat-
ti del Fayyūm la luce ha la stessa direzione che nelle icone, provenendo da sini-
stra per noi (cfr. Rogov 1972, p. 320), e cioè da destra per l’osservatore interno
(a questo proposito va ricordato che nella raffigurazione iconica il sole sta sem-
pre a sinistra e la luna a destra – se partiamo dal punto di vista di chi guarda)11.
Non si può escludere che tale fenomeno sia riscontrabile anche in forme di
rappresentazione più arcaiche. Ricordiamo le immagini rovesciate nei disegni
cartografici primitivi (nei quali l’oggetto viene rappresentato “non come lo vede
l’occhio, ma come apparirebbe sulla superficie di uno specchio”, Adler 1907,
142 BORIS A. USPENSKIJ

col. 47). Potrebbe essere forse questa la spiegazione (per lo meno in certi casi)
del prevalere delle impronte della mano sinistra nelle pitture rupestri (Ivanov
1972). In effetti, se impronte di questo tipo vengono considerate non come una
firma ma appunto come raffigurazione (p. 111), si può pensare che l’immagine
della mano sinistra dell’autore corrisponda a quella della mano destra del sog-
getto rappresentato. Tale spiegazione potrebbe essere accettata per lo meno nei
casi in cui l’immagine di una mano (la sinistra) può essere considerata una va-
riante ridotta della rappresentazione più completa delle due mani (e due piedi),
simboleggianti il personaggio raffigurato (pp. 120-121, 123, figg. 1-3). Una spie-
gazione di questo tipo non esclude affatto l’ipotesi della valenza simbolica di u-
na siffatta rappresentazione, che con tutta probabilità veniva impiegata per allu-
dere a un personaggio appartenente al mondo dell’aldilà, come una figura mito-
logica o un trapassato. E proprio il rapporto con l’“al di là” (nel senso letterale
del termine), della figura rappresentata poteva determinare l’inversione di de-
stra e sinistra nel sistema delle immagini.

1 Da Boris Uspenskij, Linguistica, semiotica, storia della cultura, Bologna, il Mulino 1996, pp. 63-69.

Traduzione di Maria Di Salvo.


2 Questo tema è trattato nel dettaglio nei nostri saggi (Uspenskij 1971, pp. 196 sgg., 1970a, 1970c,

capitolo settimo). Prescindiamo per il momento dal fatto che nell’arte medievale nelle parti periferiche
della rappresentazione (cioè nello sfondo, nelle cornici e nel primo piano, contrapposto a quello anterio-
re, che è il principale), possa essere utilizzato il punto di vista esterno.
3 Molto produttiva per noi è stata la discussione di questo tema con Saltykov, il quale cortesemente

ha messo a nostra disposizione il suo saggio ancora inedito sui rapporti spazio-temporali nell’iconografia
bizantina e russa antica (cfr. Saltykov, in corso di stampa).
4 I modelli delle icone potevano consistere di descrizioni dell’immagine oppure di figure bucherella-

te da ricalcare (N.d.T).
5 Cfr. una variante leggermente diversa dello stesso passo (dal repertorio di modelli Stroganov) cita-

ta da Buslaev nell’articolo Per una storia della pittura russa nel XVI secolo (1910, pp. 294-295).
6 È curioso che nel noto libro di Ioannikij Galjatovskij Mesia pravdivyj (Il vero Messia), pubblicato

nel 1669 presso il Monastero delle grotte di Kiev, sul retro del frontespizio si trovi un’immagine specula-
re (rispetto a quella tradizionale che viene descritta) della croce ortodossa:

Questo fatto va probabilmente spiegato con l’influenza della tradizione occidentale (rinascimentale),
molto viva in tutta la Rus’ sud-occidentale. In tale contesto poteva essere imitata non la figura in sé (co-
me si sa la croce a tre bracci è estranea alla tradizione iconografica dell’Europa occidentale), ma specifi-
camente il sistema di orientamento (rispetto a una posizione visuale esterna, e non interna alla rappre-
sentazione), da cui veniva determinata la definizione di destra e sinistra, sebbene immutato restasse il si-
gnificato simbolico della loro opposizione.
7 La studiosa connette una simile distribuzione degli episodi della vicenda, dove “il futuro non

precede il presente ma viene dopo di esso” con “la concezione arcaica del tempo materiale, e quindi
spaziale, che gira come una ruota. In seguito a tale rivoluzione i suoi settori prendono uno il posto
dell’altro, sì che diventa possibile una posizione nella quale il presente ‘precede’ il futuro”. In gene-
rale sull’identificazione dei rapporti spaziali e temporali nella mentalità medievale si veda Gurevič
(1972, pp. 44 sgg.).
8 A parte stanno le composizioni organizzate simmetricamente, nelle quali al moto del tempo corri-

sponde la direttrice che va dalla periferia al centro (Uspenskij 1970b, p. 123). Con riferimento alla suc-
cessiva arte occidentale, di tale regola ha scritto Wölfflin, che ha studiato l’influenza di tale fattore sulla
psicologia della percezione visiva. Si vedano in particolare i saggi Über das Rechts und Links im Bilde e
Das Problem der Umkehrung in Rafaels Teppichkartone (Wölfflin 1947, pp. 82-96).
“DESTRA” E “SINISTRA” NELLA RAFFIGURAZIONE DELLE ICONE 143

9 Specifica rappresentazione della Madonna che in questa veste si festeggia il 4 settembre (N.d.T).
10 Cfr. l’esempio citato sopra, del parallelismo delle opposizioni “destra-sinistra” e “alto-basso”. Cfr.
anche i dati etnografici su tale parallelismo in Ivanov, Toporov 1965 (p. 209).
11 Opposta è, tuttavia, la disposizione degli astri in un disegno dell’universo della Tolkovaya Paleya

(Paleia interpretativa, raccolta di narrazioni bibliche) del XVI secolo (Redin 1901, p. 6, fig. 1), un caso
che può essere definito unico e che ha una spiegazione particolare. Così descrive la figura Redin: “Il
mondo è rappresentato come un quadrato, intorno al quale scorre l’oceano; nella parte inferiore del qua-
drato si trova la terraferma, mentre in quella superiore, in forma di rotolo di pergamena, c’è il cielo az-
zurro, sul quale si notano a sinistra un cerchio azzurro, cioè la luna, e a destra uno rosso, cioè il sole. Al
di fuori del quadrato, circondato da un’aureola di sfere è il Cristo, che regge il rotolo e benedice”. Ag-
giungiamo che il Cristo è rappresentato nell’angolo a destra, in alto, della pagina, al di sopra della figura
del mondo (l’angolo a sinistra, in alto, della pagina ospita il testo). Considerando la composizione com-
plessiva di tutto il disegno abbiamo ragione di pensare che il mondo sia pensato come rivolto verso il
Cristo, e sia cioè rappresentato dal suo punto di vista, che in questo caso specifico risulta non interno,
ma esterno rispetto alla raffigurazione. Di qui deriva logicamente il fatto che il sole sia collocato a destra
e la luna a sinistra.
Il mondo oggetto1
Roland Barthes

(…) Osservate la natura morta olandese: l’oggetto non è mai solo, mai privile-
giato: sta lì e basta, in mezzo a tanti altri, colto giusto nell’intervallo fra il momento
in cui è stato usato e quello in cui lo sarà nuovamente, fa parte integrante di un di-
sordine provocato dai movimenti di qualcuno, che prima l’ha preso e poi l’ha po-
sato, in una parola: l’ha utilizzato. Ci sono oggetti su ogni superficie, sui tavoli, alle Gli oggetti
pareti, per terra: vasi, boccali rovesciati, canestri in disordine, ortaggi, cacciagione, della natura
scodelle, gusci di ostriche, bicchieri, culle. Questo è lo spazio dell’uomo, che vi si morta olandese
misura e determina la propria umanità a partire dal ricordo dei gesti compiuti; il
tempo è scandito dall’uso delle cose, l’unica autorità della vita è quella che l’uomo
imprime a ciò che è inerte, modellandolo e manipolandolo.
Questo universo della fabbricazione esclude evidentemente ogni terrore e o-
gni stile. Lo scopo dei pittori olandesi non è quello di liberare l’oggetto dalle
sue qualità, per metterne a nudo l’essenza; si tratta, al contrario, di accumulare
le vibrazioni secondarie dell’apparenza, dato che occorre incorporare allo spa-
zio umano le atmosfere, le superfici, non forme o idee. Il solo esito logico di
questa pittura consiste nel rivestire la materia con una specie di glassa, sulla
quale l’uomo possa muoversi senza intaccare il valore di uso dell’oggetto. Pitto-
ri di nature morte come van de Velde o Heda hanno continuamente cercato di
avvicinarsi alla qualità più superficiale della materia: la lucentezza. Ostriche, li-
moni tagliati, bicchieri di vetro spesso pieni di vino scuro, lunghe pipe di maio-
lica, lucide castagne, ceramiche, coppe di metallo brunito, tre chicchi d’uva:
quale può essere la giustificazione di una tale accozzaglia se non quella di lubri-
ficare lo sguardo dell’uomo al centro del suo dominio, di far scivolare la corsa
quotidiana su oggetti il cui enigma è dissolto, essendo solo superfici facili?
L’uso di un oggetto aiuta a offuscare la sua forma primaria, mettendo invece
in evidenza i suoi attributi. Altre arti, altre epoche hanno perseguito, in nome
dello stile, la magrezza essenziale delle cose; qui, nulla di tutto questo: ogni og-
getto è accompagnato dai suoi aggettivi, la sostanza è sepolta sotto una miriade
di qualità, l’uomo non affronta mai l’oggetto, che gli rimane prudentemente
sottomesso proprio per i servigi che fornisce. A che mi serve la forma primaria L’oggetto come
del limone? Ciò che occorre alla mia umanità empirica è un limone pronto per espressione
l’uso, già un po’ sbucciato e un po’ tagliato, metà limone e metà freschezza, col- di valori d’uso
to nel momento prezioso in cui scambia lo scandalo della sua ellissi perfetta e i-
nutile con la sua principale qualità economica: l’essere astringente. L’oggetto è
sempre aperto, esibito, accompagnato, sino a quando non viene annullato come
sostanza in sé e monetizzato in tutti quei valori d’uso che l’uomo sa ricavare
dalla materia cocciuta. Nelle “cucine” olandesi (di Buelckelaer, per esempio)
non vedo tanto il compiacimento di un popolo nei confronti del mangiar bene
(il che sarebbe più belga che olandese: patrizi come Ruyter e Tromp mangiava-
146 ROLAND BARTHES

no carne una volta a settimana); vedo semmai una serie di spiegazioni sull’utiliz-
zabilità degli alimenti: le unità del cibo sono sempre distrutte come nature mor-
te, e restituite come momenti di un tempo domestico; qui è il verde stridente
dei cetrioli, là il bianco del pollame piumato, ovunque l’oggetto presenta all’uo-
mo la sua funzione d’uso, non la sua forma primaria. In altri termini, non c’è
mai uno stato generico dell’oggetto, ma solo i suoi stati qualificati.
(…) In questi quadri ogni oggetto è pronto per la manipolazione, possiede
la nitidezza e la densità dei formaggi olandesi: rotondi, prendibili, lustri.
(…) Le scene olandesi esigono una lettura progressiva e completa; bisogna
cominciare da un’estremità e finire all’altra, darsi il compito di percorrere il
quadro, non dimenticare neanche quell’angolo, quel margine, quello sfondo in
cui è raffigurato un ennesimo oggetto, ben rifinito, che s’aggiunge a questo pa-
ziente censimento della proprietà o delle merci.
Applicato ai gruppi sociali più bassi (agli occhi dell’epoca), questo potere e-
numerativo trasforma certi uomini in oggetti. I contadini di van Ostade o i pat-
Il potere tinatori di Avercamp hanno diritto solo a un’esistenza da numero, e le scene che
enumerativo li radunano non devono essere lette come un repertorio di gesti pienamente u-
della pittura mani, ma come il catalogo aneddotico che divide e allinea, variandoli, gli ele-
menti di una pre-umanità; occorre decifrarlo come un rebus. Il fatto è che nella
pittura olandese esistono nettamente due antropologie, ben distinte quanto le
classi zoologiche di Linneo. Non a caso il termine “classe” viene utilizzato per
due diverse nozioni: c’è la classe patrizia (homo patricius) e la classe contadina
(homo paganicus), e ognuna di queste classi riunisce gli esseri umani, non solo
in quanto appartengono alla stessa condizione sociale, ma anche perché possie-
dono la stessa morfologia.
I contadini di van Ostade hanno facce abortite, semi-create, informi; si direb-
bero creature incompiute, abbozzi di uomini, bloccati a uno stadio anteriore del-
la genetica umana. Gli stessi bambini non hanno età né sesso, li individuiamo sol-
Le due
antropologie
tanto per la statura. Come la scimmia è separata dall’uomo, così il contadino è
della pittura o- lontano dal borghese, nella misura in cui è sprovvisto dei caratteri propri dell’u-
landese manità, quelli della persona. Tale sottoclasse di uomini non è mai ritratta frontal-
mente, cosa che la doterebbe quanto meno di uno sguardo; questo privilegio è ri-
servato invece al patrizio o al bovide, animale totem e fonte di nutrimento per la
nazione olandese. I contadini di van Ostade hanno nella parte superiore del cor-
po solo un tentativo di viso, una faccia appena formata; la parte inferiore, a sua
volta, è sempre divorata da una specie di ripresa dall’alto o, al contrario, di spo-
stamento. È una pre-umanità indecisa che va oltre lo spazio, come un oggetto do-
tato del potere supplementare di provocare ebbrezza e ilarità.
Osservate adesso il giovane patrizio (in particolare nei quadri di Ver-
spronck), colto mentre si propone come un dio inattivo. È un’ultra-persona,
provvista dei segni estremi dell’umanità. Così come il viso contadino è lasciato
al di qua della creazione, quello patrizio è portato sino all’ultimo grado dell’i-
dentità. La classe zoologica dei grandi borghesi olandesi possiede una comples-
sione caratteristica: capelli castani, occhi scuri (quasi prugna), carnagione sal-
monata, naso molto pronunciato, labbra rosee e molli, una leggera ombra late-
rale sulle parti sporgenti del viso. Quasi nessun ritratto di donna, salvo che non
si tratti di reggenti di ospizi, amministratrici di denaro e non di piaceri. La don-
na è vista solo nel suo ruolo strumentale, come funzionaria della carità o guar-
IL MONDO OGGETTO 147

diana dell’economia domestica. Soltanto l’uomo è umano. Così, in tutta la pit-


tura olandese, le nature morte, le marine, le scene contadine, le reggenti di ospi-
zi sono permeate di un’iconografia puramente maschile, la cui espressione os-
sessiva è nei quadri delle corporazioni.

Fig. 21. Frans Hals, Reggenti dell’ospizio dei Vecchi, 1664, olio su tela, 172.5 x 256 cm, Haarlem,
Frans Halsmuseum.

Fig. 22. Frans Hals, Banchetto degli Ufficiali della Guardia Civica di San Giorgio, 1616, olio su tela,
175 x 324 cm, Haarlem, Frans Halsmuseum.
148 ROLAND BARTHES

I “Doelen”2 (le “Corporazioni”) sono talmente numerosi da far subodorare


il mito (figg. 21, 22). Sono un po’ come le Vergini italiane, gli efebi greci, i fa-
raoni egiziani o le fughe tedesche, un tema classico che indica all’artista i limiti
della natura. E così come tutte le Vergini, tutti gli efebi, tutti i faraoni e tutte le
fughe si somigliano un po’, tutti i visi dei Doelen sono isomorfi. Ecco una prova
I quadri delle ulteriore del fatto che il viso è un segno sociale, che è possibile ricostruire una
corporazioni storia del viso e che il prodotto più diretto della natura è anch’esso sottomesso
al divenire e alla significazione, proprio come le istituzioni più socializzate.
C’è una cosa che colpisce nei quadri delle corporazioni: la grossezza delle te-
ste, l’illuminazione, la verità eccessiva delle facce. Il viso diventa una specie di fio-
re ipernutrito, portato a perfezione da un forcing sapiente. Tutti questi volti sono
trattati come unità di una stessa specie vegetale, combinando la somiglianza gene-
rica con l’identità dell’individuo. Sono grossi fiori carnosi (in Hals) e belve oscure
(in Rembrandt), ma questa universalità non ha niente a che vedere con la glabra
neutralità dei visi primitivi, interamente disponibili, pronti a ricevere non i segni
della persona ma quelli dell’anima: dolore, gioia, devozione e pietà, tutta un’ico-
nografia disincarnata delle passioni. La somiglianza delle teste medievali era di or-
dine ontologico, quella delle facce dei Doelen è di ordine genetico. Una classe so-
ciale, definita senza ambiguità attraverso la sua economia – infatti è proprio l’u-
nità della funzione commerciale a giustificare i quadri delle corporazioni –, viene
presentata sotto l’aspetto antropologico, e quest’aspetto non dipende dai caratteri
secondari della fisionomia: diversamente dai ritratti del realismo socialista, che u-
nificano la rappresentazione degli operai sotto il segno della virilità e della tensio-
La matrice ne (procedimento caratteristico di un’arte primitiva), queste teste non si somiglia-
biologica no per la loro serietà o per un qualche carattere positivo. La matrice del volto u-
dei volti mano non è di ordine etico, è di ordine carnale, non deriva da una comunanza
d’intenti, ma da un’identità di sangue e di alimenti, è il risultato di una lunga sedi-
mentazione che ha accumulato all’interno di una classe tutti i caratteri della parti-
colarità sociale. L’età, la corporatura, la morfologia, le rughe, le venuzze sono
sempre identiche: è la biologia stessa a tener fuori la casta patrizia dalla materia
comune (cose, contadini, paesaggi), confermandone tutta l’autorità.
Interamente identificati dalla loro eredità sociale, questi visi olandesi non sono
coinvolti in nessuna di quelle avventure viscerali che devastano i volti ed espongo-
no il corpo nella sua miseria del momento. Che se ne fanno del tempo delle pas-
sioni? Hanno quello della biologia; la loro carne, per esistere, non ha bisogno di
attendere o di subire gli eventi; a farla esistere, a imporla, è il sangue; la passione
sarebbe inutile, non aggiungerebbe nulla all’esistenza. Ma ecco l’eccezione: il Da-
vid di Rembrandt (fig. 23) non piange, si copre metà del viso con una tenda; chiu-
dere gli occhi è chiudere il mondo, e non c’è in tutta la pittura olandese una scena
più aberrante. L’uomo in questo caso è provvisto di una qualità aggettivale, passa
dall’essere all’avere, raggiunge un’umanità in preda ad altro. Se, per così dire, to-
gliamo il quadro dalla cornice – se, cioè, osserviamo la pittura al di là delle sue re-
gole tecniche ed estetiche – non c’è nessuna differenza fra una Pietà lacrimosa del
XV secolo e un qualsiasi Lenin combattivo dell’iconografia sovietica; in entrambi i
casi viene rivelato un attributo, non un’identità. È esattamente il contrario del pic-
colo cosmo olandese, in cui gli oggetti esistono solo per le loro qualità, mentre
l’uomo, e solo l’uomo, possiede la nuda esistenza. Mondo sostantivo dell’uomo,
mondo aggettivo delle cose: ecco l’ordine di una creazione votata alla felicità.
IL MONDO OGGETTO 149

Fig. 23. Harmenszoon van Rijn Rembrandt, Saul e David, 1658 ca., olio su tela, 130.5 x 164 cm,
L’Aja, Mauritshuis.

Che cosa distingue dunque questi uomini al vertice del loro imperio? È il
numen. Sappiamo che il numen antico era quel semplice gesto con il quale la di-
vinità manifestava le proprie decisioni, disponendo del destino umano attraver-
so una sorta di infra-linguaggio fatto di pura dimostrazione. L’onnipotenza non
parla (forse perché non pensa), si contenta di un gesto, o anche di un mezzo ge-
sto, dell’intenzione di un gesto, subito assorbito nella pigra serenità del dio. Il
prototipo del numen moderno potrebbe essere quella tensione trattenuta, mi-
scuglio di stanchezza e di fiducia, con cui il Dio di Michelangelo si separa da A-
damo dopo averlo creato e con un gesto sospeso gli assegna la sua futura uma-
nità. Ogni volta che viene rappresentata, la classe dei “divini” deve necessaria- Il numen
mente esporre il proprio numen, in mancanza del quale la pittura non sarebbe
intelligibile. Pensate all’agiografia imperiale: Napoleone è un personaggio pura-
mente numinoso, irreale per la convenzione stessa del suo gesto. Il gesto esiste
sempre: l’Imperatore non è mai ritratto a vuoto: o mostra, o significa, o agisce.
Ma questo gesto non ha nulla di umano; non è quello dell’operaio, quello del-
l’homo faber, il cui movimento assolutamente comune va fino in fondo alla ri-
cerca del proprio effetto. È invece un gesto immobilizzato nel momento meno
stabile del suo farsi: viene così resa immortale l’idea della potenza, non il suo e-
sito. La mano che si solleva un po’, o si appoggia mollemente, la sospensione
150 ROLAND BARTHES

stessa del movimento, producono la fantasmagoria di un potere estraneo all’uo-


mo. Il gesto crea, non compie, e di conseguenza è più importante l’innesco che
il percorso. Guardate la Battaglia di Eylau (quadro che bisognerebbe togliere
dalla cornice, se fosse possibile): c’è un’enorme differenza di densità fra i gesti
eccessivi degli uomini semplici – che qui urlano, più in là abbracciano con forza
un ferito, più in là ancora barcollano enfaticamente – e la cerea pesantezza del-
l’Imperatore-Dio, circondato da un’aria immobile, mentre solleva la mano gra-
vida di ogni sorta di significati, una mano che designa tutto e nulla, che crea
con terribile mollezza un avvenire pregno di azioni sconosciute. Possiamo vede-
re in questo quadro esemplare la costituzione stessa del numen: è un gesto che
significa il movimento infinito e al tempo stesso non lo realizza, rendendo così
immortale soltanto l’idea del potere, non il potere in sé. È un gesto cristallizza-
to, un gesto colto nel suo momento più fragile, mentre impone all’uomo che lo
contempla, e lo subisce, la pienezza di una potenza intelligibile.
Lo sguardo
Naturalmente, questi mercanti, questi borghesi olandesi, riuniti in banchetti
in macchina o seduti intorno a un tavolo per far conti, questa classe – al contempo zoologica
collettivo e sociale – non ha il numen guerriero. Come fa allora a imporre la propria ir-
realtà? Con lo sguardo. Sì, in questi quadri il numen è proprio lo sguardo, uno
sguardo che turba, intimidisce e fa dell’uomo il termine ultimo di un problema.
Avete mai pensato a che succede quando un ritratto vi guarda negli occhi? Pro-
babilmente non si tratta di una particolarità olandese. Ma la differenza sta nel
fatto che qui lo sguardo è collettivo: questi uomini, queste reggenti, rese virili
dall’età e dal ruolo, tutti questi patrizi appoggiano completamente il loro volto
liscio e nudo su di voi. Non sono riuniti per contare i denari – che del resto non
contano affatto, malgrado il tavolo, il registro e i mucchietti di monete d’oro – o
per mangiare le vettovaglie, malgrado l’abbondanza. Sono lì, invece, per guar-
darvi, per significarvi con ciò un’esistenza e un’autorità oltre le quali non è pos-
sibile andare. Il loro sguardo è la prova della loro esistenza, ma anche della vo-
stra. Guardate i mercanti di stoffe dipinti da Rembrandt: uno di essi si alza per
squadrarvi meglio. Passate così allo stato di rapporto, siete determinati come e-
lementi di un’umanità votata a partecipare a un numen finalmente generato dal-
l’uomo e non da un dio. Questo sguardo senza tristezza e senza crudeltà, questo
sguardo senza aggettivi, uno sguardo e basta, non vi giudica né vi interpella; vi
colloca, vi implica, vi fa esistere. Ma questo gesto creatore è senza fine; nascete
all’infinito, siete sostenuti, condotti al culmine di un movimento, che è solo ini-
ziato e appare in un eterno stato di sospensione. Dio e l’Imperatore avevano il
potere della mano, l’uomo ha lo sguardo. Uno sguardo che dura: è l’intera storia
elevata alla grandezza dei suoi misteri.
Se la pittura olandese non si esaurisce qui, se il suo carattere di classe viene
coronato comunque da qualcosa che appartiene anche agli altri uomini, è perché
lo sguardo dei Doelen crea un’ulteriore suspense della storia, presente all’apice
del benessere sociale. Che cosa succede quando gli uomini sono felice da soli?
Che ne resta allora dell’uomo? I Doelen rispondono: rimane uno sguardo. In
questo mondo patrizio perfettamente felice, padrone assoluto della materia e vi-
sibilmente disinteressato a Dio, lo sguardo fa sorgere un interrogativo propria-
mente umano e offre una riserva infinita della storia. I Doelen olandesi sono l’e-
satto contrario di un’arte realista. Guardate con attenzione l’Atelier di Courbet;
è tutto un’allegoria: chiuso in una stanza, il pittore dipinge un paesaggio che
IL MONDO OGGETTO 151

non vede, voltando le spalle al modello (nudo) che lo guarda dipingere. Come
dire che il pittore si pone in uno spazio prudentemente svuotato da ogni sguar-
do che non sia il proprio. Qualsiasi arte con due sole dimensioni – quella del-
l’opera e quella dello spettatore – crea soltanto una piattezza: coglie uno spet-
tacolo-vetrina attraverso un pittore-osservatore. La profondità nasce nel mo-
mento in cui lo spettacolo stesso gira lentamente la sua ombra verso l’uomo e
comincia a guardarlo.

1 Da: Roland Barthes, Saggi critici, nuova edizione a cura di G. Marrone, 2002, Torino, Einaudi, pp.

3-13. Traduzione di Marina Di Leo.


2 Genere pittorico affermatosi nei Paesi Bassi durante il Cinquecento e il Seicento. Si tratta di ritrat-

ti di gruppo, sul modello di quelli che raffiguravano i fondatori delle corporazioni, caratterizzati dal fat-
to che i personaggi erano disposti in modo da risultare tutti in primo piano. Successivamente la compo-
sizione si fece più movimentata, come nel Banchetto degli ufficiali della guardia civica di san Giorgio e nel-
le Reggenti dell’ospizio dei Vecchi (Haarlem, Frans Halsmuseum) di Frans Hals o nella Ronda di notte
(Amsterdam, Rijksmuseum) di Rembrandt (N.d.T.).
“La vita profonda delle nature morte”1
Lucia Corrain e Paolo Fabbri

Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per


la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto
gli originali.
Pascal, Pensieri

1. La natura morta

Le riflessioni che seguono si propongono fondamentalmente due obiettivi di


indagine. Il primo, riguardante gli oggetti delle nature morte; il secondo, relati-
vo alla costruzione e funzione della spazialità in questo genere pittorico. Ogget-
ti che, pur nelle trasformazioni cui sono sottoposti dai diversi movimenti pitto- Gli oggetti
rici, conservano pressoché sempre nella lunghissima tradizione della natura e la spazialità
morta un grado di iconicità, di denominabilità e riconoscibilità. Spazialità che,
al contrario, negando la profondità, in nome di un universo che si proietta sem-
pre più in avanti, e generando un eccesso delle apparenze del reale, mette l’os-
servatore in condizioni di “presenza”. Più precisamente, la natura morta si
muove nella geografia del mondo contornando oggetti che, pur essendo sotto
gli occhi di tutti, sarebbero consegnati al silenzio e che, invece, l’irruzione della
finzione spaziale pone sotto l’occhio dello spettatore.
E poiché – come sostiene con molta efficacia Gombrich (1961, p. 152) –
“l’opera comunica un significato soltanto dentro una tradizione articolata”, a-
vrà dunque una certa rilevanza euristica portare avanti il lavoro nell’ottica del-
l’intertestualità, nel tentativo di far interagire le nature morte del passato con
quelle più vicine a noi, con la finalità di individuare le persistenze, le eventuali
trasformazioni e le possibili aperture di un genere pittorico che, con maggiore o
minore intensità, attraversa tutto l’arco della storia dell’arte.

2. L’interoggettività: motivi e rebus

È cosa risaputa che fino a circa la metà del XVII secolo, si parlava e si scri-
veva della natura morta come di pittura di fiori, di frutta, di animali, di og-
getti, non essendo stata ancora coniata una precisa denominazione. Soltanto
dopo la metà del Seicento, in seguito alla sua avvenuta autonomizzazione, il La
gergo delle botteghe olandesi forgerà il termine Still-leven (natura in posa), denominazione
che costituirà l’origine per le altre lingue germaniche (Vorenkamp 1933), del genere
mentre l’espressione nature morte andrà attestandosi in ambito francese solo
a partire dal 1750 (dunque, all’incirca un secolo dopo quella olandese), pre-
valendo sulla variante vie coye (vita quieta) e sarà prontamente adottata dalle
altre lingue neolatine2.
Questo genere trae forza e flessibilità dal suo appartenere alle arti di rappre-
sentazione delle cose. È collegato allo status ontologico degli oggetti nei diversi
154 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

tempi della cultura e nella temperie degli stili; all’intreccio variabile tra sensi e
cognizione; alla relazione tra i linguaggi e il mondo naturale.
Se l’esatta bellezza degli oggetti è pensata, ad esempio, come Vanitas è per-
ché, in una certa cultura religiosa, le cose del creato mancano di una realtà che
risiede nelle entità immateriali di un mondo trascendente. In questo “cogito
della vanitas” (Marin 1990, p. 28) la rappresentazione più naturalista spetta alle
cose dotate di un senso minore di realtà. Ma quando questa antifrasi viene me-
no, lo splendore delle apparenze si convertirà in elogio dell’esatta bellezza del
mondo reale. I sensi, prima operatori di illusione, si convertono in un dispositi-
vo sincretico e fedele di verità concreta.
Tra natura e cultura la mediazione semiotica è il luogo della costruzione di
senso. Per il semiologo, quindi, la natura morta non rappresenta la cosa in sé,
ma nella sua opposizione al segno. La raffigurazione icastica degli oggetti li pre-
Gli oggetti
come “segni
senta, infatti, come “segni della mancanza di segno” (Lotman 1986, p. 53). Si a-
della mancanza pre così il gioco sottile delle parole che si danno come cose (fanno parte delle
di segno” nature morte i numerosi testi: lettere, fogli, libri) e delle cose che si danno come
parole (emblemi, geroglifici, allegorie). Con tutte le possibili combinazioni tra
gli estremi: dalle nature morte di soli libri ai collages: accumulazioni di oggetti
“reali” sul quadro, che si presenta esso stesso come un oggetto.
In questa prospettiva – una semiotica dell’illusione di naturalità – non è ov-
vio tracciare una storia a senso unico: dalle Vanità moralizzate, dense di simbo-
lismo, al puro pretesto per gli esercizi formali, passando per la precisione mon-
dana (o scientifica) della rappresentazione. La genealogia di questo genere mi-
nore è tutta rotture e inflessioni, discontinuità e modulazioni di senso. Dei suoi
codici figurativi si è fatto e si continua a fare un uso maggiore per le desimbo-
lizzazioni e le risemantizzazioni collettive e individuali.
È un lavoro sul senso che si serve di una combinatoria limitata e ricorsiva di
motivi e di relazioni. Non ci sono cose nelle nature morte, ma oggetti (che il retori-
co Fontanier – 1830 – chiamava merismi), cioè artefatti ed elementi naturali, cultu-
ralizzati dalla loro introduzione nello spazio del quadro. La loro ricorrenza li pro-
muove a invarianti, cioè a motivi che prendono valori diversi nei testi di cultura.
Anche all’epoca dei codici emblematici, è arduo decidere se, ad esempio, la
lingua dei fiori avesse un semplice valore descrittivo o una valenza mistica (Se-
gal 1990). Con l’eccezione di pochi casi di simbolismo codificato: spiga e grap-
polo = Eucarestia; agnello = Cristo; giglio = purezza; passiflora = passione, è ar-
La
dua l’attribuzione di senso anche ai motivi più frequenti. Nonostante l’erudizio-
combinatoria ne enciclopedica, persino quel “ritratto in negativo” (soggetto e oggetto insie-
interoggettuale me) che è il teschio prende senso solo se opposto al viso e alla maschera, se as-
sociato allo specchio, alla fiamma o all’alloro. Il senso della natura morta non si
riduce in un vocabolario di motivi, ma risiede nei rapporti sottili che si tessono
nello spazio della rappresentazione. C’è una interoggettività per cui una mosca
sul teschio è corruzione e morte, ma su un tendaggio o copricapo è un dettaglio
circostanziale; lo stesso insetto può servire anche come indicazione metapittori-
ca del valore emblematico della composizione.
Esiste, dunque, una retorica testuale delle nature morte che va oltre la figura
dell’ipotiposi, la rappresentazione vivida nel trattamento degli oggetti, che la
opponeva ai blasoni – diagrammi di nomi propri – e alle grottesche che, come
diceva Ulisse Aldrovandi, sono “cose mentali”. Non è una retorica sintagmati-
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 155

ca, narrativa o argomentativa: la percezione di questi dipinti è più impressiva


che inferenziale. È un’arte del paradigma, come direbbe Jakobson, che si serve
delle figure (nel doppio senso di immagini e di tropi) dell’enumerazione e del-
l’accumulazione, della congerie e dell’inventario. Lo spazio della rappresenta-
zione può traboccare nel disordine interoggettivo degli elementi ammassati (per
Spitzer uno stile “epitetico”), o disporre una sequenza graduata (nelle forme,
nelle sostanze, nei colori, ecc.); offrire un solo elemento esemplare o una coppia
di estremi di una serie. Va dalla sinonimia al barocchismo, servendosi di una di-
versità di supporti spaziali (piani d’appoggio – come suolo, pavimento, balau-
stre, ripiani, scaffali di mobili) – ma anche punti di sospensioni – con muri e
soffitti, con ganci o fili.
Il senso deriva, appunto, dai vari principi di composizione che possono an-
che coesistere nello stesso quadro. Ad esempio, Pozzi riconosce in una Natura
morta con gigli e rose (Ignoto, Bergamo, proprietà privata) la proporzione – la
rosa sta a Cristo come il giglio sta alla Vergine – i cui membri sono legati da
rapporti di opposizione e di inclusione e che assumerebbero la figura di un’an- I principi
tifona3. Mentre una Natura morta con uccelli (attribuita al giovane Caravaggio, di composizione
Galleria Borghese), oppone una serie tassonomica di uccelli sospesi alla loro so-
vrapposizione confusa nella parte inferiore del quadro. Si tratta, insomma, di fi-
gure paratattiche che producono significazioni co-testuali irriducibili alle defi-
nizioni codificate dei dizionari iconologici, inaffidabili perché composti di arbi-
trari prelievi testuali. Così la ripetizione della formula non decade a entropia di
senso. I testi delle nature morte, nella loro evidenza oggettuale, sembrano allu-
dere a un senso meno afferrabile e delegano alla modernità artistica un sapere e
un sapore di rebus.

2.1. Dai motivi ai segni

Le choix des sujets c’est l’homme?


Baudelaire

Nella genealogia del genere still life persiste una fedeltà ai motivi, intesi co-
me entrate testuali invarianti con valore tematico, stilistico e filosofico. Si veda-
no, in primo luogo, le rappresentazioni delle Vanitas, dove le modalità del sape-
re, del potere e del desiderio si sono ironicamente invertite da negative a positi-
ve. L’allegoria è diventata letterale e l’antifrasi si è invertita. Anche i motivi del-
la fugacità del tempo – dai fiori al fumo, alle bolle di sapone – si sono tramutati
nei trionfi della piena presenza e della vita sensibile. Le passioni della vanità e
della malinconia si sono trasformate in lusso e lussuria, trofei e trionfi.
Se ci avviciniamo al nostro tempo, si può fare riferimento, sul piano stilisti-
co, al caso di Picasso, che considerava Rousseau il doganiere un precursore del
cubismo per l’uso del caratteristico motivo del mandolino4! Schapiro (1968a) Le
sostiene, invece, argomentandolo, il valore passionale delle mele di Cézanne. metamorfosi
Mentre van Gogh assegnava ai motivi delle nature morte un valore propedeuti- dei motivi
co a più profondi impegni artistici, nella carriera del grande “naturamortista”
francese, il reiterato motivo delle mele è passato da una giovanile valenza eroti-
ca alla contemplazione e meditazione, cioè alle condizioni della creazione arti-
stica. La mela diventa il simbolo e l’emblema di un modo di vita.
156 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

Per il semiologo dell’arte, il motivo più “oggettivo”, come un paio di vecchie


scarpe di van Gogh, può assumere qualità d’autoritratto (Schapiro 1968b). Se
Heidegger (1936) riconosce nella “nature coye” le scarpe come “cosa stessa”,
ontologicamente definita, Schapiro ne segnala invece l’errore filosofico come
effetto del mancato riconoscimento della forma “natura morta”. E nonostante
le reiterate argomentazioni di Derrida (1978) sulla “verità in pittura”, la fronta-
lità della rappresentazione del motivo “scarpe” – lo stesso motivo è rappresen-
tato di profilo, ad esempio, da Millet – conferma il carattere di apostrofe inter-
soggettiva che è, come vedremo, una cifra di genere.
Nella modernità, nei cubisti in particolare, i motivi della natura morta sono
ricondotti in quel luogo di sperimentazione pittorica che è lo studio del pittore
e qui acquisiscono, fuori da ogni referenza, il valore di segni. De Chirico (1986)
ha parlato, più propriamente di ogni altro, di questo “linguaggio delle cose”,
I segni
passionali
capace di suscitare sorpresa e turbamento, malinconia e meditazione. Per il pit-
di un “alfabeto tore e filosofo, i motivi delle nature morte sono i “segni passionali di un alfabe-
metafisico” to metafisico”. “Segni (…) di un codice morale ed estetico delle rappresentazio-
ni (…) con cui costruiamo in pittura una nuova psicologia metafisica delle co-
se” (p. 88). Nel caso di Morandi troveremo un esempio della “metafisica degli
oggetti più comuni” nel loro “aspetto eterno”. Nella nature morte, a cui de Chi-
rico preferiva il termine di “vita silente”, si deve “ascoltare, intendere, imparare
a esprimere la voce remota delle cose”, che ci fanno “segno dietro il paravento
inesorabile della materia”.

3. La vita silente degli oggetti

Sunt modi in rebus. Leopardi aveva osservato che c’è una duplicità delle cose;
per l’uomo sensibile, dietro a ogni oggetto se ne trova un altro più ricco di senso
e di valore. Così, per de Chirico, ogni opera d’arte conterrebbe due solitudini:
quella metafisica che è “solitudine dei segni” e quella “plastica, che è la beatitudi-
ne contemplativa che ci dà la geniale costruzione e combinazione delle forme –
materie o elementi morti-vivi o vivi-morti: la seconda vita delle nature mor-
te…”(1985, p. 86)5. Alla condizione di un certo inquadramento e isolamento to-
pologico, la paradigmatica degli oggetti libera le qualità di forme e di tinte che si
dispongono poeticamente e comunicano così un senso altro, enigmatico ma pro-
priamente visivo, rispetto all’evidenza linguisticamente riconoscibile. Una intensi-
ficazione immobile e uno sdoppiarsi della rappresentazione che Braque chiamava
la “poésie de la peinture”. In questo senso Chastel (1990, p. 14) vede giusto:
quando Braque e Picasso si interessano alla “nature morte con teschio”, “il fasci-
no del senso sopravvive all’indifferenza per il simbolo”. Si potrebbe dire lo stesso
di una composizione di Steinbach, Untitled 1989 (daybad, coffin), dove un letto
da design è messo in parallelo con una ironica bara in verticale; mostrando, senza
nostalgia, e dimostrando, con esattezza poetica ed emblematica, come il mondo
della produzione di massa sia quello dell’incessante sparizione delle cose.
Nature
Da questo punto di vista, e senza nulla togliere al valore significante dei mo-
morte come tivi, si comprende bene come l’amico di Cézanne, Émile Zola, considerasse le
pretesti formali nature morte puri pretesti di forma, modi per ottenere “belle macchie e opposi-
zione tra masse vivaci”. Come scrive in Il ventre di Parigi:
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 157

Era solito aggirarsi tutta la notte in quegli spazi, fantasticando nature morte gigante-
sche, quadri mai veduti. Anzi, ne aveva persino cominciato uno; aveva fatto posare
l’amico Marjolin e quella sguaiatella della Cadine; ma ci voleva altro! Era troppa la
bellezza di quegli accidenti di ortaggi! E la frutta! E i pesci, e la carne! (…) era chia-
ro che a Claude, in quel momento, non passava nemmeno per il capo che tutte quel-
le bellezze fossero da mangiare. Lui non ne amava che il colore (Zola 1873, p. 25).

Per far parlare questo linguaggio, il pittore di vite silenti deve quindi ri-colloca-
re i motivi secondo nuove disposizioni: “Si può paragonare la natura morta di Cé-
zanne – scrive Schapiro (1968a) – a un gioco di scacchi solitario in cui l’artista cer- La
ca sempre la miglior posizione per le sue pedine”. O a una battaglia immaginaria commutabilità
con soldatini di piombo, in cui i tratti plastici permettono di formulare una comu- dei motivi
nicazione altra. A questo livello più profondo, crani, mele e autoritratti di Cézanne
divengono commutabili. Come dice Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore:

Da quando ne avevo veduti negli acquarelli di Elstir, cercavo di ritrovare nella realtà,
amavo come qualcosa di poetico, il gesto interrotto dei coltelli ancora di traverso; la
gonfia rotondità di un tovagliolo disfatto in cui il sole intercala un pezzo di velluto
giallo; il bicchiere mezzo vuoto che rivela meglio così le sue nobili forme svasate e, in
fondo al suo vetro translucido e simile a una condensazione della luce, un resto di vino
scuro, ma scintillante di riflessi; lo spostamento dei volumi, il trasmutarsi dei liquidi
per effetto dell’illuminazione; l’alterazione delle prugne che passano dal verde all’az-
zurro e dall’azzurro all’oro nella fruttiera già mezzo spoglia; la passeggiata delle sedie
vecchiotte, che due volte il giorno vanno a ordinarsi intorno alla tovaglia stesa sulla ta-
vola come su di un altare su cui si celebrino i festini della ghiottoneria e sulla quale, in
fondo alle ostriche, resta qualche goccia d’acqua lustrale come in piccole acquasantie-
re di pietra; cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse,
nelle cose più usuali, nella vita profonda delle “nature morte” (1954, pp. 473-474).

Ma questa proprietà è comune a ogni linguaggio plastico. È la stessa che ca-


ratterizza anche gli objets trouvés, che formano il corpus delle nature morte del La
XX secolo, a seguito del gesto mutante di Marcel Duchamp. Come ha osservato decontestualiz-
Goodman (1968) l’oggetto qualunque, tolto dal frame quotidiano e ricontestua- zazione
dell’oggetto
lizzato in spazi inediti di osservazione, ci informa di proprietà inavvertite del e l’enfasi sulle
suo significante plastico (spazialità, forma, colore) e diventa disponibile per sue proprietà
nuove correlazione semiotiche. Natura in statu nascendi, per significare e comu- plastiche
nicare altrimenti.
È la condizione sufficiente della natura morta come di ogni altro linguaggio
plastico, ma è anche necessaria?

4. L’aggetto o la natura enunciante

La natura morta, dopo una discreta fortuna nel mondo greco e romano, ha
vissuto una fase di marginalità per poi fare la sua ricomparsa come parergon e,
finalmente come genere autonomo, solo nella grande stagione dei generi mo-
derni: il Seicento. Se già Plinio (23-79 d. C.) ne evidenziava alcuni caratteri (la
presentazione illusionistica, l’idea di vanità delle cose, il carattere metapittori-
co della rappresentazione)6, i tratti salienti andranno maggiormente a deli-
158 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

nearsi quando la natura morta si autonomizzerà, divenendo a tutti gli effetti


un vero e proprio genere, quando, cioè, diventerà ergon, affrancandosi da un
più vasto contesto figurativo e facendone venir meno quel ruolo di completa-
mento cui era stata relegata.
Pochissimo si conosce sulle regole pratico-teoriche che guidavano la realiz-
zazione pittorica di una natura morta; e questo perché nella pittura del passato
L’autonomizzazione la dimensione pratica è predominante su quella teorizzante. Scorrendo trattati e
del genere
e le sue descrizioni sulla natura morta dal XVII secolo in avanti è possibile, però, rintrac-
“regole” ciare qualche regola che, se opportunamente interpretata, permette di ricostrui-
costruttive re il sistema fondante la natura morta; ovvero quell’apparato di norme che con-
tribuisce a far prevalere la costruzione illusionistica sull’assoluta importanza
dell’oggetto rappresentato.
In un testo anonimo del primo quarto del XVII secolo, un pittore di storia a-
bituato a esercitarsi anche nella pittura di “piccole cose” dà il seguente consi-
glio sul modo di comporre una natura morta:

En la saison des fruits vous remplirez des plats de faïence et mettrez sous les fruits
des feuilles de vigne si vous le trouvez bon (…). Vous placerez les plats plains de
fruits de la hauteur se votre œil environ un pied plus bas, et alors vous portrairez les
fruits le plus prés du naturel7.

Si viene così a costruire un rapporto particolare tra l’oggetto e lo spazio nel


quale esso è rappresentato, accentuando il carattere di “monumentalità” del-
l’oggetto stesso, specie se relazionato al formato sempre di contenute dimensio-
ni. E anche Vincenzo Giustiniani (1620, p. 21), annoverando la natura morta
come undicesimo modo di dipingere, avverte che degli oggetti “non basta farne
il semplice ritratto”, ma è necessario da parte del pittore mettere in atto tutta la
sua consumata perizia.
Ma l’oggetto (la cosa) protagonista – come dice molto bene Lotman (1986,
p. 59) – assolve ad altri e ben più articolati compiti:

(…) la cosa in un quadro a soggetto si comporta come la cosa a teatro, la cosa nella
natura morta come la cosa nel cinema. Nel primo caso recitano con lei, nel secondo è
lei che recita. Nel primo caso non ha un significato indipendente, bensì lo riceve dal
significato dell’azione scenica: è un pronome. Nel secondo caso essa è un nome pro-
prio, è munita di un significato proprio ed è come se venisse inclusa nel mondo inti-
mo dello spettatore (corsivo nostro).

Ma secondo quali modalità l’immagine di natura morta viene inclusa nello


spazio intimo dello spettatore? Moltissimi quadri sono pieni di oggetti inanima-
ti, che tuttavia non sono nature morte. Per diventarlo devono essere costruiti
secondo precise regole illusionistico-spaziali. Giotto nella cappella degli Scrove-
La nicchia: gni a Padova e Taddeo Gaddi nella chiesa di Santa Croce a Firenze8, additati
componente come esempi di incipit, inseriscono alcuni oggetti all’interno di una nicchia. E
metapittorica la nicchia sarà proprio l’elemento fondativo della natura morta. La nicchia, in-
fatti, conferisce agli oggetti un ruolo singolare, essendo l’unico spazio tridimen-
sionale limitato “dove si possono collocare gli oggetti rapportandoli sempre alla
superficie di rappresentazione” (Stoichita 1993, p. 31; Blanchard 1981). La nic-
chia, inoltre, è l’unico spazio di contenuta profondità che, qualora vi si inseri-
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 159

scano oggetti, esercita un’azione esattamente opposta: quella di suggerire l’ag-


getto; diventa, cioè, un incavo nel muro che concorre a sollecitare una forma di
“intrusione” degli oggetti nello spazio esterno al quadro, quello dell’osservato-
re9. Il perdurare del motivo della nicchia è dimostrato, per esempio, dall’opera
scultorea di Luca Patella, Et jam humida nox declinat (1990-96), dove nell’inca-
vo di un “tabernacolo” è collocata una rosea e profana conchiglia (tavv. XI, XII).
Oltre al suggerimento dell’aggetto si aggiunge il fatto che, molto spesso, gli
oggetti attraversano illusionisticamente la superficie del quadro per addentrarsi L’interezza
nell’area di competenza dello spettatore; fuoriescono, cioè, dalla frontiera este- dell’oggetto
tica. Ma l’oggetto che aggetta e che valica la soglia estetica deve essere reso ne- in scala reale
cessariamente nella sua interezza e completezza e, soprattutto, in scala presso-
ché simile al vero, come raccomanda Jan Brueghel, uno dei maggiori protagoni-
sti della natura morta di fiori10.
Insomma, a ben guardare si tratta di una situazione spaziale che presenta
molte analogie con quella propria della rappresentazione di uno specchio. Uno
specchio, o più in generale una superficie riflettente, se da un lato amplia la vi-
sione di ciò che il punto di vista scelto non permetterebbe (ad esempio ciò che
è situato alle spalle del soggetto enunciatore), contemporaneamente “blocca”
l’effetto di profondità, iscrivendo entro lo spazio in cui si trova un effetto circo-
scritto di aggetto, o quantomeno di negazione della profondità.
Questa omologia di effetto spaziale troverà una forma di concreto incon-
tro/scontro proprio nella natura morta seicentesca. In molti dipinti, infatti,
accanto ai più diversi oggetti (libri, teschi, vasi, fiori, ecc.), possono trovarsi
sfere di cristallo, bolle di sapone, specchi, vetri riflettenti, che, oltre a creare La
un ulteriore aggetto dovuto alla salienza luministica, riflettono e raddoppia- natura morta
no sia la stessa natura morta che l’osservatore vede, sia il pittore al cavalletto e lo specchio
mentre sta dipingendo esattamente quella natura morta, ma di cui si vede il
retro della tela11. Un esempio estremo di “contestualizzazione dell’autore”,
dell’atto di enunciazione, capace di accrescere l’effetto di contiguità con lo
spazio esterno attraverso la sua iscrizione all’interno della spazialità della fin-
zione pittorica.
Una figura, quella della specularità, che la natura morta non ha mai trascurato
(fig. 24). Sono testimonianza, fra molti altri, l’opera di Kusma Petrov-Vodkin,
Still-life (1918, fig. 25), dove, in una veduta leggermente rialzata su un tavolo di
legno che si completa nello spazio dello spettatore, la brillantissima teiera riflette
una delle due uova, situate sullo stesso tavolo e, nella parte superiore, una porzio-
ne del luogo dell’enunciazione, di cui il rappresentato, invece, non dà traccia12. E
quella di Natan Altman, Still-life (1918), con due bottiglie di forme diverse che si
duplicano in uno specchio inclinato che riflette anche parte della finestra che non
si vede, ma che dà luce allo studio in cui è posta la natura morta13.
La cornice della nicchia, nel corso del tempo e con l’affermarsi del formato
rettangolare del quadro, verrà a coincidere con la cornice del supporto pittori-
co, senza tuttavia annullare l’effetto di incavo e di aggetto. Aprendo, parallela-
mente, il campo alla presenza di una “variante”, quale quella di presentare gli
oggetti su una mensola: vera e propria costruzione di uno spazio “a portata di
mano”, con effetti prensili, di richiamo all’agire, fig. 26. Come confermano due
esempi recenti: Nicolas de Staël, L’Étagère (1955, fig. 27) e Haim Steinbach,
Senza titolo. Cappelli marocchini, forme di teste (1990).
160 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

Fig. 24. Pieter Claesz (1597-1661), Natura morta con calice e vassoio d’argento, olio su tavola, 42 x 59
cm, Berlino, Staatliche Museen.

Fig. 25. Kuz’ma Petrov-Vodkin, Natura morta mattutina, 1918, olio su tela, 66 x 88 cm, San Pietrobur-
go, Museo Statale Russo.
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 161

Nell’esigenza di generare un’effettiva contiguità spaziale, anche l’illumina-


zione viene impiegata nella creazione di un ruolo sinergetico. La luce, non è
quasi mai naturale, ma costruita; nel trompe-l’œil, addirittura, o annulla total-
mente le ombre reali per meglio ingannare l’occhio, o ne genera di non rispon- Il trompe-l’œil
denti a una sorgente luminosa reale: “come la desuetudine degli oggetti, esse
sono il segno d’una leggera vertigine, quella legata a una vita precedente, un’ap-
parenza che precede la realtà” (Baudrillard 1979, p. 88).
I modi di inclusione dell’osservatore all’interno del genere natura morta,
però, non si limitano allo sfruttamento delle potenzialità aggettanti sull’asse del-
la frontalità. Fin dalle origini, infatti, la visione dall’alto, zenitale, fa la sua com-
parsa nella costruzione dell’inganno dell’occhio dello spettatore: l’esempio più La visione
famoso è il mosaico di Sosos di Pergamo, la stanza non spazzata14, che riprodu- zenitale
ceva in trompe-l’œil gli avanzi di un pranzo come se questi fossero effettivamen-
te stati abbandonati dai convitati. E qui il trompe-l’œil si manifesta in una visio-
ne degli oggetti dall’alto con la rappresentazione delle ombre portate. Chi vi en-
trava, con il suo punto di vista sempre rialzato, ma oscillante fra la visione zeni-
tale e quella a volo d’uccello, aveva, almeno per un attimo, l’impressione che gli
avanzi fossero veri.
E la regola dell’anonimo del Seicento, che indicava un punto di osservazio-
ne della frutta rialzato, si iscrive in questa tradizione che parte o arriva alla to-
tale visione dall’alto e che Daniel Spoerri, con il suo Tableau astro-gastronomi-
que (1975, figg. 28, 29), rappresenta nella maniera più eclatante, nonostante ve
ne siano anche altri meno zenitali.

Fig. 26. Giovanni Battista Crescenzi, Natura morta di fiori, frutti e ortaggi, 1610 ca., olio su tela, 104.8
x 139.7 cm, Raleigh, North Carolina Museum of Art.
162 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

Fig. 27. Nicolas de Staël, L’étagère 1955, olio su tela, 88.5 x 116 cm, Colonia, Museum Ludwig.

A un primo, sommario raffronto, l’aggetto e la visione dall’alto sembrereb-


bero non presentare alcuna affinità. In realtà, la strategia della veduta zenitale
coinvolge lo spettatore molto più di quanto superficialmente appaia. Si confi-
gura, in effetti, come una “mappa”, la quale, se da un lato sembra privilegiare
la dimensione descrittiva, dall’altro, è contemporaneamente una narrazione, la
reificazione del racconto, la somma di tutti gli “itinerari” del “viaggiatore/os-
servatore”, che viene così ad avere un effetto di presenza, di iscrizione nella
rappresentazione.
Analogo è il modo in cui lo spettatore è coinvolto nelle nature morte cubiste
(Georges Braque, Guéridon. La table de musicien, 1913; Verre et assiette de
pommes, 1925; Natura morta con bicchiere e grappolo d’uva, 1930; Pablo Picas-
so, Guitare, 1912, per ricordare solo due i principali esponenti del movimento
d’avanguardia), le quali rendono compresenti più punti di osservazione che lo
spettatore deve necessariamente assemblare attraverso un’operazione di chia-
mata in causa di tipo cooperativo.
In questo percorso di ricostruzione delle strategie messe in azione dalla resa
illusorio-spaziale rispetto all’osservatore, la natura morta si configura come un
Il predominio
della
genere che attribuisce il massimo valore alla componente enunciativa, facendola
componente e- divenire la vera e propria salienza del genere, il tratto maggiormente caratteriz-
nunciazionale zante, talvolta a scapito della rappresentazione. E, a sua volta, il culmine della
componente enunciativa si incarna proprio nel trompe-l’œil, che non è imitazio-
ne o riflesso del reale, ma rinvio a se stesso, alla propria “ipersimulazione speri-
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 163

Fig. 28. Heraklitos, da un originale ellenistico


di Sòsos di Pergamo, Pavimento non spazzato,
II secolo d.C. mosaico, Roma, Musei Vaticani.

Fig. 29. Daniel Spoerri, Tableau astro-gastro-


nomique, 1975, oggetti vari incollati su tavo-
la, 200 x 100 cm, Milano, Milano Fondazio-
ne Mudima.
164 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

mentale”, che intrappola l’occhio in un’apparenza generatrice di stupore, nel-


l’apparizione di un doppio che seduce, nella “vertigine tattile che ripropone il
voto folle del soggetto di abbracciare la propria immagine e per ciò stesso sva-
nire” (Baudrillard 1979, p. 90). Il trompe-l’œil è il dispiegarsi di un effetto di
presenza della sfera delle apparenze, dove non c’è niente da vedere perché “so-
no le cose che vedono voi, non fuggono dinanzi a voi, ma vi si portano davanti”
(p. 91)15. Un sovrappiù di reale che si risolve in una mancanza di realtà, ossia
nel trionfo barocco dell’illusione.
La natura morta nel suo complesso, dunque, agisce nella direzione di un’e-
spropriazione del reale attraverso le sue apparenze. Il genere natura morta, allo-
La
natura morta
ra, è una sorta di esortazione da leggere più che da vedere, “è crittografia per i-
e gli effetti niziati espressa in una lingua convenzionale esoterica” (Lotman 1986, p. 56).
passionali Non solo, è anche un genere fortemente efficace sul piano passionale, in grado
di toccare il corpo dello spettatore, tanto è vero che per una donna gravida il
guardare, ad esempio, la frutta dipinta in trompe-l’œil può provocare delle “vo-
glie” nel nascituro:

Vous petites femmes qui devenez grosses, ne regardez pas le fruit peint qui paraît
ressembler à la vie. Afin que votre œil insensé ne tourmente pas votre cœur, et que
ne naisse de cela une idée pour le fœtus. Parce que la vision de cet art doit rapide-
ment toucher le désir de l’âme16.

5. Il gioco dei generi

Quando la natura morta non si era ancora affermata come genere, quando e-
ra in statu nascendi, essa conviveva con altri contesti narrativi, come quello sto-
rico-religioso. Inoltre, nelle nature morte sono rappresentate talvolta opere di
arti applicate, di vetro artistico, di scultura, di mosaici, di ceramiche, di pitture:
esempi di arte nell’arte. In qualche modo, quindi, questo genere pittorico co-
struisce da sempre delle interazioni con l’altro da sé.
Si è detto in precedenza che la nascita dei generi, così come viene fissandosi
dall’inizio del XVII secolo, segue precise dinamiche metapittoriche. Oltre alla
nicchia per la natura morta, vanno ricordate la finestra per il paesaggio e la por-
ta per la veduta di interni.
Soffermandosi sulle più canoniche nature morte del passato, è facile con-
statare che la maggior parte di esse si presenta come rispettosa delle regole del
proprio genere. Tra le numerose opere esposte in questa mostra, al contrario,
si può osservare la presenza di un vero e proprio gioco tra i generi. In partico-
La lare, in misura più consistente si propone il gioco fra due generi che si struttu-
natura morta rano su figure metapittoriche diametralmente opposte: la natura morta e il
e il suo
dialogo
paesaggio. Infatti, se la nicchia è il tratto maggiormente responsabile dell’ag-
con altri generi getto e dell’autonomizzazione del genere natura morta, la finestra lo è per il
pittorici paesaggio, dove assolve alla funzione di creazione di profondità. E dunque
paesaggio e natura morta, quando compresenti su un’unica superficie coniuga-
no insieme gli opposti creando soluzioni certamente originali (fig. 30). Filippo
de Pisis ambienta la sua natura morta (1929) addirittura in un paesaggio mari-
no. Mentre Giorgio de Chirico, in Frutta con sfondo di paese (1955-56, fig. 31),
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 165

Fig. 30. Giovanni (?) Stanchi, Angurie, pere e un’alzatina con frutta, paesaggio d’alberi e montagne, 1650-
1660 ca., olio su tela, 133.5 x 98 cm, Principato di Monaco, collezione privata.

Fig. 31. Giorgio de Chirico, Frutta con sfondo di paese, 1955-1956, olio su tela, 70 x 90 cm, Bologna,
Galleria Marescalchi.
166 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

colloca sul davanzale di una finestra frutti di vario tipo (grappoli d’uva, limoni,
mele, cocomero), sparsi e all’interno di un canestro, senza soluzione di conti-
nuità, e assecondando un gioco di rime sia plastiche sia cromatiche, essi si
“trasformano”, quasi come in un processo di metamorfosi, dapprima nelle col-
line della fascia intermedia, successivamente nelle morbide nuvole dello sfon-
do. Unico elemento di separazione/congiunzione fra la natura morta e il pae-
saggio, è una tenda17: nella parte destra trattenuta a formare un rigonfiamento
verso il basso, esattamente sopra il canestro; a sinistra, invece, compare solo
per un minuscolo lembo. La tenda diventa così il “simulacro” della finestra.
In Renato Guttuso, Donna alla finestra (1942), il primo piano è occupato
da un tavolo in scorcio con tappeto rosso che fuoriesce dai bordi del quadro
entrando nello spazio dell’osservatore; in questo spazio sono collocati i cano-
La
nici oggetti della natura morta (bottiglie, libri, fogli e un bucranio di profi-
natura morta lo), mentre sullo sfondo una figura femminile di spalle si affaccia alla fine-
e il paesaggio stra, aperta su un paesaggio urbano, fatto esclusivamente di edifici. La rima
di colore rosso che si instaura fra il panno sul tavolo e la maglia della donna,
è responsabile dell’effettiva iscrizione dello spettatore, allertato sia dalla con-
tiguità spaziale sia dalla figura femminile: vero e proprio delegato dell’osser-
vatore nel testo.
Jannis Kounellis, in Senza titolo (1993), propone, invece, una finestra con
inferriata e telaio aldilà della quale si vede un giardino con vegetazione in-
vernale. Sul davanzale della finestra, si dispone uno stipetto su cui sono ap-
poggiati cinque bicchieri di cristallo colorato. Oltre la finestra si vede la luce
diurna; al di qua della finestra, nello spazio dell’osservatore, è l’ombra che lo
avvolge.
In Louis Marcoussis, Les poissons bleus (1928), il primo piano è occupato
da un tavolo tondo in visione rialzata, mentre una finestra sullo sfondo per-
mette la veduta di uno spaccato paesaggistico marino.
In André Masson, Chateau de cartes (1924), il gioco è ancora più sottile: il
bicchiere e il castello di carte sono “incorniciati” dallo stipite della finestra o
sono entro una nicchia? Sul possibile davanzale (o piano della nicchia), in-
quadrato come superficie, stanno un bicchiere in visione zenitale a destra, e
la firma del pittore a sinistra: rima di superficie, la scrittura, su superficie,
quella del quadro.
In Still-life di Alice Neel (1945), una forma morbida e scura fa da cornice
nella cornice alla scena rappresentata, simulando una finestra da cui si vede
un tramonto sul mare, mentre in piano ci sono alcuni oggetti, con evidenti
ombre per nulla coerenti con la fonte di luce dello sfondo18.
Paul Gauguin, in Tournesols sur un fauteil (1901), nel settore destro del
quadro raffigura una superficie incorniciata con una scena di mare, lasciando
il campo all’ambiguità: finestra o quadro?
La Sempre nell’ottica di dialogo con altri generi, due sono gli esempi che
natura morta e propongono la combinazione fra natura morta e ritratto o autoritratto: Salvo,
l’autoritratto Autoritratto con natura morta, dal ritratto del dr. Gachet di van Gogh (1973) e
Natalja Gonciarova, Natura morta con ritratto e lenzuolo bianco (1908-1909).
La natura morta, insomma, nel suo dialogo intertestuale con altri generi
viene a profilarsi come una scommessa sulla pittura a venire, ma anche sulle
altre arti possibili.
“LA VITA PROFONDA DELLE NATURE MORTE” 167

6. Altri generi?

Allargando il campo ad altre forme espressive, in particolare alla letteratura, La descrizione


si può citare almeno un caso specifico, come quello del Nouveau roman di Pe- letteraria della
rec, dove la natura morta letteraria si articola seguendo dinamiche pressoché si- natura morta
mili a quelle proprie della pittura. In primis, gli oggetti nella loro “nicchia”; e
poi la fonte di luce, artificiale e proveniente da sinistra:

La scrivania su cui scrivo è un vecchio tavolo da gioielliere in legno massiccio, muni-


ta di quattro grandi cassetti, e il cui piano di lavoro, leggermente abbassato rispetto
ai bordi, forse per impedire che le perle un tempo dispostevi rischiassero di cadere
per terra, è ricoperto da un telo nero di tessitura estremamente fitta. È illuminato da
una lampada snodata di metallo blu, con l’abat-jour conico, fissato con una specie di
morsetto a uno degli scaffali sistemati nello spessore del muro, a sinistra e un po’ più
in là del tavolo (1982, p. 66).

Segue una dettagliatissima descrizione di oggetti che “aggettano” dal “telo


nero” in quanto di colore chiaro, o di materiale “luminoso”, o riflettenti, ogget-
ti, insomma, che grazie alle loro particolarità luministiche e chiare “aggettano”
dallo sfondo nero:

All’estrema destra del tavolo si trovano due portaoggetti rettangolari, di vetro spes-
so, disposti uno accanto all’altro. Il primo contiene una gomma biancastra (…), un
tagliaunghie d’acciaio lucido, una bustina di fiammiferi che presenta un disegno alla
Vasarely su fondo giallo (…), un pesce d’ottone dagli occhi di vetro, (…) tre meda-
glie poste di faccia (…), una pinzetta per depilazioni, una gomma biancastra, un pic-
colo apribottiglie d’acciaio con manico in madreperla (…) (p. 68, corsivo nostro).

Per poi proseguire con un vero e proprio effetto di “riflessione speculare”,


però, con codici letterari:

In primo piano, spiccando nettamente sul panno nero del tavolo, si trova un foglio
di carta a quadretti, di formato 21x29.7, quasi interamente coperto da una scrittura
esageratamente fitta, sul quale si può leggere: la scrivania su cui scrivo è un vecchio
tavolo da gioielliere in legno massiccio, munita di quattro grandi cassetti, e il cui pia-
no di lavoro, leggermente abbassato rispetto ai bordi, forse per impedire che le per-
le un tempo dispostevi rischiassero di cadere per terra, è ricoperto da un telo nero di
tessitura estremamente fitta (pp. 71-72).

Come si vede, siamo di fronte all’equivalente di quelle superfici riflettenti pro-


prie delle nature morte seicentesche, che favorivano l’iscrizione “dell’autore testua-
lizzato”, o più precisamente della riflessione di ciò che l’osservatore vede sulla tela La migrazione
con l’aggiunta dell’artista intento al cavalletto a dipingere quella scena di oggetti che dei motivi
si vede già dipinta, ma non mentre il pittore la sta dipingendo. Solo che in Perec lo
specchio è la carta che “riflette” ciò che sta descrivendo, nella forma letteraria della
descrizione, che per essere tale, deve annullare qualunque forma di soggettività.
La natura morta, insomma, nel suo dialogo intertestuale con altri generi si
profila come una scommessa, non solo sulla pittura a venire, ma anche sulle al-
tre arti possibili.
168 LUCIA CORRAIN, PAOLO FABBRI

1 L’articolo è stato pensato dai due autori: Paolo Fabbri ha scritto i paragrafi 1. 2. 3. E Lucia Corrain

i paragrafi 4 e 5. Originariamente pubblicato in Weiermair, P., a cura, 2001, La natura della natura mor-
ta. Da Manet ai nostri giorni, catalogo della mostra di Bologna, Milano, Electa, pp. 220-228.
2 La presenza di questa espressione compare per la prima nel 1750, nella Lettre sur la peinture à un

amateur di Baillet de Saint Julien (Faré 1975, p. 268).


3 Per un’articolazione più completa di questo argomento si rimanda a Pozzi 1993.
4 Citato in Schapiro 1968a, p. 29.
5 Per la dimensione plastica dei testi visivi si veda Greimas 1984.
6 Nota esplicativa.
7 “Durante la stagione della frutta, riempite dei piatti di maiolica, mettendovi sotto delle foglie di vi-

te (…). Ponete il piatto pieno di frutta all’altezza di circa un piede più basso del vostro occhio, così ri-
trarrete la frutta il più simile al naturale ” (cit. in Heck 1998, p. 61).
8 I Coretti nella parete dell’arco di trionfo della cappella degli Scrovegni, che Giotto affrescò nel

1302 e la Nicchia con patena, pisside e ampolle con una mensola intermedia del 1337-38.
9 Esempi per eccellenza della nicchia sono i bodegones, dei primi anni del Seicento, di Sánchez

Cotán, nei quali qualche frutto o qualche verdura o della cacciagione viene sistemata nel vano di una nic-
chia rettangolare, cfr. Stoichita 1993, pp. 41 sgg.
10 Jan Brueghel, in una lettera del 16 aprile 1606 – inviata al cardinal Borromeo, nella quale racconta di

una natura morta di fiori, precisamente il Bouquet di fiori (1606), oggi conservato alla Pinacoteca Ambro-
siana di Milano –, scrive che i fiori devono essere “grandi come nella natura”, cit. in Heck 1998, p. 61.
11 Si vedano, fra gli altri, Pieter Claesz, Natura morta con violino, teschio e globo, Norimberga, Na-

tional Museum e Bartolomeo Bettera (attr.), Natura morta con strumenti musicali, collezione privata.
12 E forse quel cane sullo sfondo che guarda fisso sul tavolo è lì a segnalare che la riflessione varia al

variare del punto di vista e che dunque quella che lui vede non è uguale a quella dello spettatore.
13 Effetti di riflessione, ma meno definita, sono proposti anche da Filippo de Pisis, Natura morta in

grigio con caffettiera (1929).


14 Del II secolo d.C. è conosciuto grazie a una copia romana, conservata a Roma, Vaticano, Museo

Profano Gregoriano.
15 È la fine della contenuta profondità della nicchia, in nome di un punto di fuga che è nell’occhio

dello spettatore.
16 “Voi donne in cinta, non guardate la frutta dipinta che assomiglia alla vita. Al fine che il vostro oc-

chio insensato non tormenti il vostro cuore, e che non nasca da ciò una “voglia” al feto. Perché la visio-
ne di quest’arte deve rapidamente toccare il desiderio dell’anima” (Cornelis de Bie, Het Gulden Cabinet,
Anversa 1662, cit. in Heck 1998, p. 60).
17 Anche la tenda è una figura metapittorica, perché quando rappresentata nel quadro e in una qual-

che relazione con la cornice, funziona alla stregua di un avvertimento rivolto all’osservatore, il quale non
si trova davanti a un quadro, ma “davanti alla rappresentazione di un quadro” (Stoichita 1993, p. 70).
18 Altri esempi possibili esempi: Chaim Soutine, Bouquet de fleurs dans un vase sur un balcon (1916):

natura morta esposta su un balcone e oltre la ringhiera si vede un frammento di giardino; Henri Matisse,
Anémones dans un vase de terre (1924): lascia presupporre un paesaggio, in quanto sulla sinistra, in scor-
cio, si vede una finestra; Adolf Dietrich, Vase mit blauen Enzianem (1948): la dimensione paesaggio vie-
ne relegata nel cielo.
Evaporazione e/o centralizzazione.
Gli (auto)ritratti di Manet e di Degas1
Victor I. Stoichita

I biografi fanno risalire il primo incontro tra Manet e Degas al 1862 (Tarba-
rant 1947, p. 37). Scena dell’incontro, il Louvre, dove Manet avrebbe visto il
giovane Degas intento a eseguire direttamente su rame una copia dell’Infanta
Margherita di Velázquez (Moreau-Nélanton 1926, p. 36). Un evento che – come
è stato già detto (Loyrette, Roquebert 1988-1989, p. 140) – sa di leggenda, ri-
proponendo il tema quasi mitico dell’incontro tra due grandi artisti: Giotto/Ci-
mabue, Perugino/Raffaello... A differenza di questi ultimi, però, il rapporto tra
Manet (nato nel 1832) e Degas (nato nel 1834) non ripercorre gli stereotipi del Due visioni
rapporto maestro/allievo, ma si trasforma rapidamente in un dialogo comples- inconciliabili
so, per non dire tortuoso, di cui non è facile parlare in modo preciso, fatto dell’arte
com’è di reciproca ammirazione, di rivalità, di incompatibilità di carattere. Al
di là di tutto questo ci sono soprattutto due modi tra loro inconciliabili di con-
siderare l’arte in generale e l’arte “moderna” in particolare. Al riguardo le fonti
scritte sono avare di particolari e così dovremo tentare di interrogare le opere di
questi due grandi maestri per indagare le cause di questa loro incompatibilità.
Le pagine che seguono si pongono questo obiettivo partendo dall’analisi dei lo-
ro autoritratti e dei rari ritratti che l’uno fece dell’altro.
Esiste un solo autoritratto che mostra Manet intento al proprio lavoro
(1879, fig. 32). Come ogni autoritratto, anche questo è un oggetto paradossale.
Sono presenti diverse componenti di una certa retorica della rappresentazione:
la prima riguarda il rapporto tra questo dipinto e il resto della sua opera. Manet
L’autoritratto
ha realizzato molti quadri, ma un solo autoritratto propriamente detto che lo ri- di Manet:
trae “all’opera”, in cui mette peraltro in scena una situazione inedita. Che Ma- l’immagine
net si sia effigiato non così “com’è”, bensì “come appare” è cosa svelata dalla di un’immagine
stessa rappresentazione. Tavolozza nella mano destra, pennello nella sinistra,
quel che vediamo non è Manet, bensì la sua immagine rovesciata.
Nessuna fonte ci dice che egli fosse mancino, cosa peraltro poco probabile
in considerazione dell’educazione cui i pittori venivano sottoposti nell’Ottocen-
to. Quindi l’inversione tra destra e sinistra presente nell’Autoritratto deve essere
considerata un fatto importante. Fried (1996, pp. 365-398) ha recentemente di-
mostrato che anche altri artisti contemporanei di Manet erano usi ricorrere a
questo espediente2, e le sue conclusioni offrono un eccellente punto di partenza
alle considerazioni che seguono.
Ogni autoritratto, si sa, è reso possibile grazie a uno specchio, ed è proprio
grazie allo specchio che ogni autoritratto mira a riprodurre l’immagine del pit-
tore. L’inversione tra destra e sinistra dice chiaramente che ciò che vediamo è
l’immagine di un’immagine, è il pittore “in persona”.
170 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 32. Edouard Manet, Autoritratto, 1879 ca., olio su tela, 83 x 67 cm, New York, collezione privata.

Abiti da città e cappello in testa, il Manet che vediamo è “il pittore della vita
moderna” per eccellenza3, ma allo stesso tempo, riprende, modificandola, una
certa maniera della pittura classica, di cui Las Meniñas (1656) di Velázquez –
“quadro straordinario” per sua stessa ammissione (cfr. Kesser 1994, pp. 91-106)
– rappresentava la vetta.
A differenza di Velázquez, tuttavia, Manet esclude dalla propria rappre-
sentazione i modelli e lo spazio dell’atelier, e si focalizza esclusivamente sulla
sua persona. Tavolozza, pennello e sguardo sono le componenti attraverso le
quali la pittura si origina. Lo scenario di produzione che in Las Meniñas era
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 171

complesso e composto di incastri4, in Manet si fa eclettico e per così dire “de-


costruito”. Allo spettatore resta il compito di completarlo, con l’aggiunta di
uno sforzo di integrazione: laddove sguardo, pennello e tavolozza convergono
è l’“al di qua”, la realtà intesa come quadro in via di realizzazione.
Un ultimo particolare si aggiunge alla retorica di questo autoritratto, e ri-
guarda il suo carattere di opera incompleta, o meglio “non finita”. Si potrebbe La mano
vedervi un mero frutto del caso, ma dubito fortemente che si tratti di questo. “non finita”
La sola porzione non finita dell’immagine, infatti, è la mano che regge il pennel-
lo, rappresentata come un caos di materia pittorica. È come se il pittore, arri-
vando all’estremità della propria mano intenta all’opera, si fosse arreso di fron-
te al compito di autorappresentarsi.

Fig. 33. Edouard


Manet, Autoritratto,
1878-1879 ca., olio su
tela, 94 x 64 cm,
Tokyo, Bridgestne
Museum of Art.
172 VICTOR I. STOICHITA

Un secondo autoritratto di Manet, risalente alla stessa epoca (fig. 33) si


trova attualmente in una galleria privata di Tokyo e viene generalmente consi-
derato un’opera incompiuta. Nella monografia su Manet, Darragon (1991, p.
300) afferma che “l’artista è rappresentato in piedi mentre indietreggia per e-
saminare il proprio operato”. Negli unici due autoritratti di Manet che si co-
Il dialogo noscano, i due tempi del mestiere di pittore (il fare e il retrocedere critico)
con Velázquez verrebbero così a essere rappresentati. Se la considerazione di Darragon è
fondata, ciò significherebbe che i due autoritratti potrebbero essere conside-
rati il risultato cui la rappresentazione fondante di Velázquez sarebbe stata
sottoposta.
In Las Meniñas il pittore si rappresentava in un momento plurivalente ri-
spetto al proprio significato, essendo ugualmente presenti sia l’atto di indietreg-
giare che l’interruzione temporanea dell’atto del dipingere. In Manet abbiamo a
che fare con due ipostasi del pittore diversamente focalizzate: da un lato, l’auto-
ritratto a mezzo busto in cui il tema dello sguardo e il tema del fare si interseca-
no; dall’altro, quello in piedi, direi meno felice (e personalmente credo non fini-
to), il cui vero tema avrebbe dovuto essere la distanza.
Come spesso accade con Manet, una possibile chiave di lettura viene fornita
dalle testimonianze dell’epoca riguardanti il modo di esporre le proprie opere.
Sappiamo che aveva appeso i due autoritratti nel suo atelier ai lati di Jean-Bapti-
ste di Faure come Amleto (1877, fig. 34; Bazire 1884, pp. 132-133). Che io sap-
pia, non si è mai tentato di approfondire quali ragioni avrebbero indotto Manet
a predisporre una tale sequenza.
Prima di tutto mi sembra un fatto importante che le tre opere siano rimaste
tanto a lungo in possesso dell’autore. E che Manet le conservasse nel proprio
studio lascia supporre il carattere fortemente privato e auto-referenziale dell’in-
tera serie.
Il ritratto di Faure rivela facilmente i suoi antecedenti spagnoli (fig. 35). Si
tratta, infatti, di un genere di ritratto d’attore che Manet avrebbe potuto benis-
simo osservare in occasione del viaggio in Spagna del 1865. Non penso di sba-
gliarmi leggendo un doppio messaggio nell’atto compiuto dallo stesso Manet di
dare origine a una sequenza di tre opere, dove due autoritratti incorniciano un
quadro spagnoleggiante con attore: il primo messaggio, dichiarare l’ispirazione
spagnoleggiante dell’intera serie; il secondo, sottolineare che gli stessi autori-
tratti non sono altro che la rappresentazione di una rappresentazione. Più chia-
ramente, rappresentano Manet nel ruolo di se stesso.
Uno dei primi biografi di Manet ha lasciato una testimonianza eloquente a
proposito del suo modo di lavorare:

A Manet piaceva essere osservato chino sul cavalletto, la testa dapprima inclinata in
direzione del modello, quindi verso l’immagine rovesciata nello specchio che teneva
in mano (Blanche 1924).

L’uso costante da parte di Manet dello specchio fa pensare, anche perché al-
tre fonti ne parlano. Si tratta di un procedimento senz’altro antico, e se c’è
L’uso dello qualche cosa di veramente significativo nel brano appena citato, è proprio l’an-
specchio dirivieni del pittore all’interno dei tre poli cavalletto/modello/specchio e il fatto
che durante tale andirivieni a Manet “piacesse farsi osservare”.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 173

Fig. 34. Edouard Manet, Jean-Baptiste Faure


come Amleto, 1877, olio su tela, 196 x 130
cm, Essen, Folkwang Museum.

Fig. 35. Diego da Silva y Velázquez, Pablo de


Valladolid, olio su tela, 209 x 123 cm, Ma-
drid, Prado.
174 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 36. Edouard Manet, La Pesca, 1861-1863 ca., olio su tela, 76.8 x 123.2 cm, New York, Metropoli-
tan Museum.

Siamo in presenza di una situazione di produzione che si fa spettacolo e che


mette in scena le proprie dinamiche: reale/quadro/rovesciamento/operatore.
Comunque sia, il più antico autoritratto di Manet di cui siamo a conoscenza
non è un autoritratto che lo ritrae all’interno del suo atelier, bensì è parte inte-
grante di un quadro allegorico dal significato ancora oscuro. Si tratta del dipin-
to oggi conosciuto come La pesca (1861-1863 ca., fig. 36).
Non intendo proporre qui una lettura esaustiva di questo dipinto5. Mi ac-
contento di ricordare che l’artista sceglie per raffigurarsi i tratti di Rubens,
dando a Suzanne Leenhof quelli di Hélène Fourment. La composizione pren-
de ispirazione dal maestro fiammingo; se il suo senso allegorico resta oscuro,
il significato generale del dipinto è chiarissimo: Manet si rappresenta come il
Rubens dei “tempi moderni”. Non è privo di significato che questa prima
“autoproiezione endotopica” di Manet equivalga a un’autoproiezione nella
storia dell’arte. Qui Manet è un “personaggio”, ma questo personaggio è un
(altro) pittore.
Per il suo carattere privato, questo dipinto non lasciò mai la casa dell’artista,
se non in un’unica occasione: quando Manet organizzò nel 1867 la sua persona-
le al Pont de l’Alma, un’esposizione importante perché concepita, al pari di
La mostra
quella di Courbet, come un’alternativa polemica nei confronti dell’Esposizione
dell’Alma Universale che si stava svolgendo in contemporanea a Parigi. Gli studiosi di sto-
come antologia ria dell’arte hanno finora attribuito scarsa importanza al modo in cui la perso-
nale di Manet fu organizzata. Grazie al catalogo pervenutoci (1867), credo si
possa avanzare l’ipotesi che la mostra dell’Alma volesse avere il valore di un’an-
tologia – in cui la cronologia non aveva alcun ruolo, strutturata com’era su altri
criteri – dal contenuto estremamente preciso.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 175

Fig. 37. Edouard Manet, Musica alle Tuileries, 1862, Londra, National Gallery, particolare.

Con il numero “uno” era contrassegnato il Déjeuner sur l’herbe, del 1863,
mentre con il “cinquanta” (l’ultimo del catalogo) il dipinto di cui ho appena par-
lato, allora intitolato Paysage. In questo modo Manet sottolineava il valore inau-
gurale del Déjeuner e assegnava a La Pesca il posto e la funzione significante di
quadro da leggersi come “firma” apposta all’intera esposizione, che aveva, in ef-
fetti, come oggetto gli ultimi sette anni (1860-67) della sua produzione pittorica,
quelli che segnano il suo passaggio agli artisti in cerca della modernità.
Al centro dell’esposizione, il numero ventiquattro del catalogo, si trovava
un altro quadro-manifesto su cui vorrei ora soffermarmi: La Musica alle Tuile-
ries (1862, tav. XIII)6.
176 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 38. Edouard Manet, Musica alle Tuileries, 1862, Londra, National Gallery, particolare.

È il grande ritratto di gruppo della società elegante del Secondo Impero. In-
vece della presenza dissimulata del Manet di La Pesca, La Musica alle Tuileries
presenta l’artista “quale egli è”. Accanto a Baudelaire, a Fantin-Latour, a
La figura Champfleury o a Jacques Offenbach, Manet è uno dei rappresentanti dell’intel-
e il nome ligencija parigina del Secondo Impero. Due elementi indicano che l’autoproie-
zione fu concepita da Manet come un’aporia. Il primo è dato dalla sua posizio-
ne marginale, apparendo nella tela in basso a sinistra (cioè laddove l’ordine di
lettura codificato da secoli pone l’“inizio” della rappresentazione), benché ta-
gliato a metà dalla cornice (fig. 37).
Nello stesso tempo, egli si trova in seno all’opera e al di fuori di essa. Potrebbe
essere assente, è invece presente. Alla sua persona inserita nell’immagine fa pen-
dant, dall’altra parte del quadro, la sua firma (fig. 38). L’intera rappresentazione si
svolge tra questi “due Manet”, tra la “figura” e il “nome” dell’artista-autore.
Se si considera ancora una volta questo quadro come uno dei pezzi in mostra
al Pont de l’Alma, si potrà notare che la marginalità dell’autore e della sua firma
(nel quadro) si trasforma in centralità dell’istanza-autore “MANET” al centro del-
l’esposizione e del catalogo.
Bisogna, però, ricordare la genesi del quadro per rendersi conto che sia l’auto-
ritratto sia la firma sono da considerarsi elementi, per così dire, “paratestuali”7.
Tra i diversi studi preparatori di La Musica alle Tuileries, quello più comple-
L’autoritratto to è un disegno in collezione privata (fig. 39), dove si possono riconoscere alcu-
e la firma
come elementi
ni personaggi che ritroviamo al centro della composizione finale. E dove si può
paratestuali anche notare che era già presente la famosa idea del tronco d’albero, e che le
due donne in primo piano a sinistra non hanno ancora preso posto sulle sedie
da giardino.
La cosa che in questo disegno a me sembra essere della massima importanza
è che, pur essendo pressoché completo, rappresenta solo la parte centrale del
futuro quadro. Ciò che ancora manca sono, per l’appunto, le due estremità del
quadro che Manet deve ancora dipingere, gli spazi dove la silhouette dell’artista
(a sinistra) e la sua firma (a destra) troveranno collocazione. Non possiamo non
domandarci perché Manet, che – come ben si sa – solitamente operava per tagli
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 177

Fig. 39. Edouard Manet, Studio per Musica alle Tuileries, 1862, disegno, 18.5 x 22.2 cm, collezio-
ne privata.

una volta ultimati i dipinti, abbia invece qui preferito procedere per aggiunte.
Credo che la risposta vada trovata nel carattere paratestuale dell’inserimento
dell’autore, sia sotto forma di autoritratto che di firma. Se si esamina con atten-
zione quest’ultima (fig. 38), si potrà constatare che l’idea dell’inserimento è pa-
lesata in maniera particolarmente evidente: il nome tracciato con un colore bru-
no è letteralmente dentro l’immagine e non su di essa. L’apporto innovativo di
Manet è evidente.
La firma è un segno che l’autore appone facoltativamente all’opera dopo
averla ultimata. Teoricamente, non è parte integrante del quadro: la sua pre-
senza, o la sua assenza, può riflettersi sul valore commerciale, non certo sul La messinscena
valore intrinseco. La messinscena della firma equivale a mettere simbolica- dell’atto di
mente in scena l’atto della produzione in seno a quanto prodotto (cfr. Stoichi- produzione
ta 1992). “Cos’è l’arte pura nel pensiero moderno?”, si chiedeva Baudelaire
nelle Curiosités esthétiques. E così rispondeva: “È creare una magia suggestiva
contenente allo stesso tempo l’oggetto e il soggetto, il mondo esterno all’arti-
sta e l’artista medesimo”8.
L’atto di integrare il nome del pittore all’interno dello spazio dell’opera non
è che un aspetto marginale di questa magia, ma si può considerare il modo in
cui Manet affronta il problema dell’inserimento del nome dell’autore come ca-
ratteristico del suo essere “pittore della vita moderna”.
178 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 40. Franz von Lenbach, La Famiglia Lenbach, 1903, fotografia, Monaco di Baviera, Lenbachhaus.

Fig. 41. Franz von Lenbach, La Famiglia Lenbach, 1903, olio su cartone, 96.5 x 122 cm, Monaco di Bavie-
ra, Lenbachhaus.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 179

Passiamo ora a esaminare come Manet presenta il proprio autoritratto (fig.


37). La messinscena dell’intrusione dell’autore risponde a un disegno preciso.
La posizione, in cui la figura del pittore si trova, è talmente marginale che spes-
so le riproduzioni fotografiche di La Musica alle Tuileries la escludono dall’in-
quadratura. Osservando attentamente, ci si accorge che la presenza del pittore La messinscena
nel quadro sembrerebbe addirittura fortuita: si trova, infatti, sul margine che dell’atto
delimita il mondo dell’immagine e lo spazio esterno a essa. È una marginalità di produzione
programmatica, ed è giustificata dalla doppia natura del pittore: cioè dalla schi-
ze. Bisogna, quindi, immaginare una prima volta Manet davanti al suo quadro
intento a dipingere, e una seconda dentro l’immagine, paradossale oggetto del
proprio fare.
Il procedimento è emblematicamente moderno e può essere chiarito indiret-
tamente grazie a un esempio. Franz Lenbach scattò nel 1903 una fotografia del-
la sua famiglia (fig. 40), nella quale si può ricostruire facilmente il suo modo di
procedere riguardo alla tecnica di rappresentazione: dapprima egli calcolò l’im-
paginazione, le distanze e la messa a fuoco, quindi, dopo aver premuto il pul-
sante dello scatto, passò rapidamente dall’altra parte della macchina fotografica
per raggiungere la moglie e le figlie. Successivamente ne ricavò un quadro (fig.
41) da cui difficilmente si potrebbe risalire alle modalità di realizzazione se non
esistesse ancora, per puro caso, la fotografia che ne svela il segreto (cfr. Mehl
1980, p. 176). Non è assolutamente mia intenzione avanzare l’ipotesi che Manet
abbia fatto, in questo specifico caso, uso della macchina fotografica9. Mi sem-
bra, al contrario, che il suo modo di inserirsi senza far ricorso al procedimento
fotografico, in margine al proprio dipinto come un’“aggiunta”, o addirittura co-
me un “incidente”, sia essenzialmente e programmaticamente moderno. Il pas-
saggio, da parte dell’artista, dall’al di qua della tela al suo interno, in Manet av-
viene in modo ben più ingegnoso, più elegante e – aggiungerei – anche più poe-
tico di quanto non accada nell’opera di un pittore-fotografo come Lenbach.
È qui che interviene il secondo elemento aporetico di questo dipinto. A dif-
ferenza di La Pesca, un’opera, come abbiamo già detto, ancora “classica”, La
Musica alle Tuileries (tav. XIII) è un’immagine che si “apre” verso l’istanza ope-
rante e/o contemplante: sono, infatti, diversi i personaggi che guardano verso
l’al di qua del quadro. Un “Manet esotopico”, istanza produttrice della rappre- La presenza
sentazione di cui fa parte, è, quindi, presupposto dalla rappresentazione stessa. esotopica
A questo punto sarebbe opportuno chiedersi se il titolo di quest’opera – La del pittore
Musica alle Tuileries – non celi in sé una contraddizione densa di significato, dal
momento che quanto annunciato dal titolo (il concerto, lo spettacolo) non è vi-
sibile. È il pubblico, in realtà, l’oggetto della rappresentazione pittorica, mentre
la “scena” è concepita come lo spazio della produzione di detta rappresentazio-
ne. Preso in questo gioco di spazi, l’artista è una presenza oscillante.
Bisogna, credo, andare a rileggere Baudelaire, anch’egli tra i personaggi ani-
manti questo quadro-manifesto, per rendersi conto della valenza “dichiarativa”
di questo quadro:

Tutti i fenomeni artistici denotano nell’essere umano l’esistenza di una dualità per-
manente, la potenza di essere allo stesso tempo se stesso e un altro (...) L’artista non
è tale, se non a condizione di essere doppio e di non ignorare alcun fenomeno della
propria natura (1845-1866, p. 119).
180 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 42. Edouard Manet,


Cameriera con boccali,
1879, olio su tela, 77.5 x
65 cm, Parigi, Musée
d’Orsay.

Fig. 43. Edgar Degas, Al


Caffè-Concerto, 1885, pa-
stello su incisione ad ac-
quaforte, 26.5 x 29.5 cm,
Parigi, Musée d’Orsay.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 181

Penso che ora, alla luce di quanto afferma il suo amico Baudelaire, si possa
meglio comprendere Manet. Si capisce cioè il motivo che spinse Manet – pittore
della vita moderna – a dare tanta importanza a uno spazio delicato come quello
che sta al bordo dell’immagine. E proprio qui che si genera la schize e che l’artista
si scinde in presenza endotopica e in istanza produttiva esotopica. Mi limiterò a
un solo esempio. La Maîtresse di Baudelaire, quadro dipinto nel 1862, è concepito
nello stesso spirito del poeta: vi compare Jeanne Duval nelle fattezze di “vecchia
bambina”, o – potremmo dire – di “vecchia Meniña” (cfr. Cachin, Moffet, Melot
1983, pp. 96-98). Il ricordo del quadro di Velázquez, sebbene molto filtrato, è
tuttavia evidentissimo: nell’estremità sinistra del dipinto si scorgono il telaio e i
bordi della tela davanti alla quale bisogna immaginare Manet intento all’opera. È
La presenza
senza dubbio significativo che l’ispirazione velazqueziana non emerga negli studi
endotopica e
preliminari, infatti, nell’acquerello della Kunsthalle di Brema manca proprio que- l'istanza
sto riferimento diretto (Rouart, Wildenstein 1975, n. 368). La rappresentazione produttrice
dei bordi intesa come segno dell’autore nel ritratto fu verosimilmente un’idea esotopica
successiva di Manet. Viene tuttavia ad aggiungersi a un elemento di linguaggio fi-
gurativo che occupava da tempo il suo pensiero. Dal punto di vista del pittore, la
definizione del luogo da cui parte la formazione dell’immagine, è una costante
della Nouvelle peinture di cui Manet fu il caposcuola10. Il saggio cui Duranty dava
proprio questo titolo (1876), faceva il punto in materia. Non posso, in questa se-
de, ripetere o riassumere quel testo fondamentale, la cui idea centrale è questa: ri-
spetto all’oggettività, all’onniscienza e all’“onniveggenza” della pittura classica, la
Nouvelle peinture si realizza partendo da un punto di vista personale e occasiona-
le, se non addirittura incidentale (Duranty 1876).
Il più delle volte, Manet effettua le sue “riprese di immagine” ancora in maniera
apparentemente tradizionale. Questo tradizionalismo (ingannatore) si manifesta so-
prattutto nel centralismo cui egli sottopone i suoi primi lavori. Solo i Café-Concerts
degli anni 1878-1879 (figg. 42, 43) sono costruiti partendo da un punto di vista
molto ravvicinato, come se si trattasse di un ingrandimento, tanto che il loro carat-
tere “frammentario” finisce per originare una sorta di “perdita del centro”. Se a
proposito della “ripresa di immagine” si può parlare di una peculiarità che può de-
finirsi una costante dell’opera di questo artista, detta peculiarità si colloca su un li-
vello diverso, che potremmo definire “meta-rappresentativo”: nella maggior parte
dei quadri di Manet sono contenuti dei segnali che integrano l’immagine all’interno "Lo sguardo
di un flusso di comunicazione. Il più importante è lo sguardo che dallo spazio del dal quadro"
quadro si dirige verso lo spazio che sta al di qua della superficie dell’immagine. In
tutte le sue maggiori opere, dal Déjeuner sur l’herbe e dall’Olympia fino a Nana e al
Bar aux Folies-Bergère, il Blick aus dem Bilde, lo sguardo dal quadro, per dirla con
Alfred Neumayer (1964), è percettibile. Ma qual è il significato?
Un primo significato è proprio quello cui ho appena accennato, e cioè che
l’opera è considerata un oggetto facente parte di un flusso di comunicazione.
Davanti a un quadro di Manet, lo spettatore contempla anche se stesso: non c’è
soltanto lui intento a guardare il quadro, ma anche il quadro guarda chi sta
guardando. Questa situazione di ricezione dell’opera non è, tuttavia, che un ri-
flesso di quella della produzione. La posizione dello spettatore davanti all’opera
finita altro non è che la ripetizione della posizione del pittore davanti all’opera
in fieri. E mentre egli opera un inserimento dello spettatore nello spazio del di-
pinto, il Blick aus dem Bilde svela la presenza invisibile dell’istanza creatrice.
182 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 44. Edgar Degas, Donna nuda che si asciuga il piede, 1885-1886 ca., pastello su cartone, 54.3 x 52.4
cm, Parigi, Musée d’Orsay.

In questo senso le opere di Manet non sono mai “finite”, giacché il loro com-
pletamento si manifesta solo nell’atto della ricezione, reiterante quello della crea-
zione. L’invocazione di Baudelaire (1857): “Lettore ipocrita, mio simile, mio fratel-
lo” avrebbe potuto benissimo essere stata pronunciata dallo stesso Manet.
È questo il punto in cui le differenze strutturali tra Manet e Degas si evidenzia-
no più nettamente. Se in Manet esiste quasi sempre un contatto ottico tra uno dei
Degas: l'autore
come presenza
personaggi raffigurati nel quadro e lo spettatore (cioè l’autore), in Degas l’istanza
invisibile dell’autore (e anche quella dello spettatore) è quasi sempre tematizzata come eso-
topica. Sarò più chiaro: l’impaginazione, il punto di vista estremamente personale
e i dispositivi ottici dell’immagine fanno in modo che l’istanza dell’autore resti
sempre “nascosta”, anche se la sua presenza invisibile al di qua dei margini del-
l’immagine (fig. 44) è comunque suggerita. Come molte volte è stato detto, la posi-
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 183

Fig. 45. Edouard Manet, Giovane donna in una tinozza, 1878-1879, pastello su cartone, 54 x 45 cm, Pari-
gi, Louvre, Cabinets des Dessins.

zione di Degas è quella del voyeur. Vede senza essere visto, osserva senza essere os-
servato, dipinge o disegna senza per ciò coinvolgersi nello spazio delle proprie im- I luoghi della
magini11. In questo contesto non c’è nulla di più denso di significato del punto do- firma
ve viene apposta la firma: Degas firma sui margini inferiori delle sue opere, su so-
glie immaginarie, oppure sotto inquadrature di porte che raddoppiano i margini
dell’immagine. Si ferma sempre sul limitare, “sulla soglia”, senza mai compiere il
decisivo passo dell’integrazione, come invece avviene in Manet. Quando quest’ul-
184 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 46. Edgar Degas, Autoritratto,


1854-1856, sanguigna su carta, 26 x
20.5 cm, collezione privata.

Fig. 47. Edgar Degas, Autoritratto,


1890-1900 ca., fotografia, Parigi, Bi-
bliothèque Nationale.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 185

timo, ispirato dallo stesso Degas, riprende il tema delle donne intente a far toletta
(fig. 45), vi apporta varianti minime, ma dense di significato: gira la testa della mo-
della verso colui che sta osservando (una cosa che Degas non avrebbe mai fatto) e
appone la sua firma nel cuore stesso della rappresentazione.
La scelta di Degas di restare principalmente una presenza esotopica spiega,
a mio parere, la totale assenza nella sua opera di autoritratti incorporati, per i
quali, al contrario, Manet aveva una vera e propria predilezione. Conosciamo
un numero piuttosto elevato di autoritratti di Degas, soprattutto disegni o foto-
grafie; ma cosa assai strana, tutti risalgano alle stagioni estreme della sua vita,
cioè alla giovinezza o alla vecchiaia (figg. 46, 47). Rapportati al corpus artistico
di Degas, questi autoritratti possono essere considerati “esotopici”. Per dirla
con una metafora, fanno da “cornice” all’opera di Degas, mentre l’insieme cen-
trale della sua opera rifiuta la rappresentazione diretta dell’istanza dell’autore
(cfr. Armstrong 1991, pp. 211-243; Baumann 1994-1995, pp. 158-173).
Le considerazioni appena abbozzate trovano una conferma in un gruppo di
opere in cui Manet e Degas dialogano direttamente l’uno con l’altro. I due arti-
sti si sono accusati infinite volte di essersi reciprocamente “rubati” il soggetto
delle corse dei cavalli (figg. 48, 49). Ma non è necessario fare un grande sforzo Un unico tema
e due opposte
per rendersi conto che, a dispetto della rassomiglianza del tema, i due l’hanno soluzioni
reso in maniera diametralmente opposta, specie relativamente al punto di vista.
Se Manet ha posizionato la sua macchina da presa al centro della pista per im-
postare l’immagine (in una maniera che sfiora davvero l’inverosimile) in modo
da includere anche se stesso (fig. 48); Degas preferisce mantenersi nascosto, o i-
nosservato, dietro i fantini in riposo (cfr. Lipton 1986, pp. 17-71), talvolta addi-
rittura delegando a un personaggio vestito a festa sul prato del campo dove si
stanno svolgendo le gare, il ruolo di osservatore incorporato, senza mai raffigu-
rarsi in tale posizione.
Manet capì molto bene il significato di un tale approccio. Secondo Moreau-
Nélanton (1926, p. 139), nella Corsa al Bois de Boulogne del 1872, (fig. 50) Ma-
net dà testimonianza del proprio debito nei confronti di Degas raffigurandolo
nel quadro, in basso a destra, in compagnia di Mary Cassat.

Fig. 48. Edouard Manet, Corsa di cavalli a Longchamp, 1867 (?), olio su tela, 43.9 x 84.5 cm, Chicago, The
Art Institute.
186 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 49. Edgar Degas, Fan-


tini alle corse, 1886-1887,
olio su tela, 66 x 81 cm,
Parigi, Musée d’Orsay.

Fig. 50. Edouard Manet,


Corse al Bois de Boulogne,
1872, olio su tela, 73 x 92
cm, Stati Uniti, collezione
Mrs. John Hay Whitney.

Più che di riconoscimento di un debito, a me sembra si tratti di un’opera dal


contenuto ironico: Manet dipinge “una corsa alla maniera di Degas”, cioè una
corsa osservata lateralmente e da una certa distanza. E varca la soglia che Degas
non aveva ancora varcato: quella di proiettarlo dentro l’immagine, assegnando-
gli la posizione di figura-filtro (cfr. Kemp 1983), in quanto osservatore dall’in-
terno. Tagliato in due dalla cornice (caratteristica di Manet), Degas ha senz’al-
tro varcato la soglia dell’immagine, benché oscilli tra una posizione endotopica
e un atteggiamento esotopico.
Credo che, da parte sua, Degas abbia perfettamente compreso la glossa ludica
elaborata da Manet a proposito dei problemi concernenti la visione e il rapporto
con l’immagine dipinta, giacché in quegli stessi anni produce più versioni di uno
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 187

Fig. 51. Edgar Degas,


Donna con binocolo, 1866
ca., pittura su carta rosa,
28 x 22.7 cm, Londra,
British Museum.

strano ritratto (fig. 51)12. È uno dei rari casi in cui raffigura una figura femminile
intenta a guardare dall’immagine direttamente verso lo spazio dello spettatore, ed è
uno sguardo che per giunta esaspera, nascondendo con un binocolo di dimensioni
esagerate una buona parte del viso. A mio modo di vedere, credo che quest’opera
voglia tematizzare, in maniera forse un po’ ironica, il tipico sguardo alla Manet.
Questa ipotesi potrebbe sembrare gratuita, ma di certo non lo è. Un dise-
gno, ora al Metropolitan Museum di New York, svela l’idea originaria di Degas La
(fig. 52). Si tratta, senza alcun dubbio, di un disegno preparatorio per una rap- tematizzazione
dello sguardo
presentazione composita sul tema delle corse. Vi ritroviamo il personaggio della
donna con il binocolo, ma qui la si vede appena in fondo alla composizione,
mentre in primo piano domina Manet colto in una posa disinvolta. La giovane
donna intenta a osservare le corse è ella stessa l’oggetto su cui posa il proprio
sguardo Manet. In un secondo tempo Degas eliminò il ritratto di Manet per
concentrarsi sulla donna, la quale grazie alla messinscena dello sguardo diretto
si rivela essere l’“acronimo”, la sigla della visione alla Manet13.
Alcuni elementi del dialogo assai problematico tra questi due artisti sono ri-
scontrabili in un altro ritratto che Degas fece a Manet. La storia di quest’opera
(figg. 53, 54) è nota, ma ancora una volta resta suscettibile di interpretazioni più
particolareggiate rispetto a quelle finora avanzate. Si sa che Degas fece dono all’a-
188 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 52. Edgar Degas,


Manet alle corse e donna
con binocolo, 1865 ca.,
matita su carta, 38 x
24.4 cm, New York,
Metropolitan Museum
of Art, Rogers Found.

mico del ritratto dello stesso Manet e della consorte. Manet insoddisfatto del mo-
do in cui fu raffigurata la moglie, senza il benché minimo scrupolo, ne ritagliò via
l’immagine. Furibondo, Degas si riprese la tela (cfr. Vollard 1938, p. 125; Mo-
reau-Nélanton 1926, p. 36). In una fotografia, risalente a quegli anni, si può vede-
Il ritratto della
re Degas in compagnia di Bartholomé con il ritratto della coppia nello stato in cui
moglie di
Manet la recuperò da Manet (fig. 55), quando il quadro non era stato ancora dotato del
brandello di tela che lo stesso (che aveva probabilmente l’intenzione di “ristabili-
re” la signora Manet alla propria maniera) vi avrebbe fatto aggiungere qualche
tempo dopo. Quanto a Manet, l’artista cercò di rimediare alla propria evidente
brutalità (l’aver fatto fuori sua moglie dal quadro di Degas) con un quadro in cui
la ritrae da sola (fig. 54).
Se mettiamo le due tele a confronto (figg. 53, 54), noteremo che, a differenza
delle diversità stilistiche proprie dell’uno e dell’altro artista, il quadro di Manet fu
eseguito all’interno dello stesso ambiente: uguali sono le poltrone ricoperte di fode-
re bianche, medesima è la posizione del pianoforte addossato alla parete, identica è
la sedia su cui è seduta la signora Manet, così come le righe dorate della boiserie.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 189

Fig. 53. Edgar Degas,


Edouard Manet e la
moglie, 1865 ca., olio
su tela, 65 x 71 cm,
Kitakyushu, Municipal
Museum of Art.

Fig. 54. Edouard Ma-


net, Madame Manet al
pianoforte, 1867-1868,
olio su tela, 38 x 46 cm,
Parigi, Musée d’Orsay.

Qual è il senso di questa storia? Risponderò assumendomi i rischi di una let-


tura di secondo livello.
Il quadro di Degas è una messinscena molto personale del rapporto uo-
mo/donna. Facendogli osservare la moglie là dove si trova, Degas assegna a
Manet la caratteristica posizione alla Degas di “osservatore non osservato”.
Manet non dovette apprezzare affatto questa messinscena, anche se se ne
sarebbe ricordato anni dopo, in un’opera giustamente famosa: Nana, in cui
riprende il procedimento appreso da Degas dipingendo un quadro che fu un
190 VICTOR I. STOICHITA

Fig. 55. Degas e Bartholomée, 1895-1900 ca., fotografia, Parigi, Bibliothèque Nationale.

vero scandalo per il troppo evidente erotismo. Va anche notato che nel qua-
dro di Degas (fig. 53), Manet, ricorrendo a un procedimento che faceva or-
mai parte del suo repertorio stilistico, ritaglia parzialmente la donna osserva-
ta, mentre in Nana lascerà chi osserva parzialmente fuori dalla cornice.
Nel quadro da lui stesso dipinto qualche tempo dopo, dove figura la si-
gnora Manet al pianoforte (fig. 54), eliminerà ogni traccia di contemplazione
endotopica, e metterà a fuoco il proprio modello partendo da un punto di vi-
sta esterno.
Il passo successivo di Degas (il tentativo di ricomporre la tela mutilata) ri-
Il ruolo di
mase a mezza strada. Aggiunse la porzione di tela mancante (fig. 53), ma non
trasformazione completò mai il dipinto. E qui, tuttavia, si fa strada un dettaglio che non è
della firma stato tenuto in dovuto conto, ma che meriterebbe uno sforzo interpretativo.
Il brandello di tela in basso a destra reca, infatti, la sua firma. Si sa che un’o-
pera d’arte viene firmata, generalmente, quando l’artista la considera ultima-
ta. Quale significato dare, allora, a questa firma apposta su un pezzetto di te-
la, aggiunta ma non dipinta? Sono convinto che inserendovi la propria firma
Degas abbia voluto attribuire a questo pezzo di tela la funzione di elemento
che ritaglia accidentalmente l’immagine. In altre parole, servendosi dell’ag-
giunta e della firma egli riconferisce all’intervento di Manet un che di “dega-
siano”. Con ciò sottolineando ancora una volta il suo essere autore esotopi-
co, il suo mantenersi sul bordo senza mai collocarsi all’interno di un’immagi-
ne rappresentata.
EVAPORAZIONE E/O CENTRALIZZAZIONE 191

Fig. 56. Edgar Degas,


Renoir e Mallarmé,
1895, fotografia, 17.8 x
12.7 cm, Parigi, Bi-
bliothèque Doucet.

Sono a conoscenza di un solo caso in cui Degas gioca con l’idea dell’autore
endotopico. Si tratta della famosa fotografia in cui Mallarmé e Renoir sono ri-
presi in casa di Berthe Morisot (1895 ca., fig. 56), descritta per la prima volta
dalla penna di Paul Valéry, suo primo proprietario:

La fotografia mi era stata donata da Degas, di cui si scorgono nello specchio la mac-
china fotografica e lo spettro. Mallarmé sta in piedi accanto a Renoir, che è seduto
sul divano. Degas impose loro quindici minuti di posa alla luce di nove lampade a
petrolio. (...) Nello specchio si possono riconoscere le ombre della signora Mallarmé
e di sua figlia (1934, pp. 49-50).

Questa fotografia è stata più volte commentata, alcune in maniera mirabile


(Roosa 1982; Armstrong 1988). Non sono il solo a vedere qui una specie di ma-
nifesto di Degas concernente la sua caratteristica intrusione/esclusione
nell’/dall’immagine, di cui è il creatore. Nello specchio si vede, in effetti, l’oc-
chio nero della macchina fotografica che nasconde il viso di colui che se ne sta
servendo. Le nove lampade a petrolio, di cui parla Valéry, hanno un doppio ef-
192 VICTOR I. STOICHITA

fetto: è la luce che emanano che, da una parte fa emergere i modelli in primo
piano, mentre, dall’altra, riduce colui che “sta effettuando la ripresa” (della sce-
na) a “fantasma”.
La distanza che separa la maniera di autorappresentarsi di Degas da quella
di Manet non potrebbe essere più grande. Per Manet lo specchio è il luogo del-
la presentazione. Per Degas, invece, è lo spazio della scomparsa. E tutti e due
non fanno che fornire una conferma – direi – al dire premonitore del profeta
della modernità Baudelaire (1951, t. II, p. 147): “... l’evaporazione e la centraliz-
zazione dell’Io. Sta tutto lì”.

1 Da: Victor I. Stoichita, Gli (auto)ritratti di Manet e Degas. Evaporazione e/o centralizzazione, Qua-

derni della scuola di specializzazione in storia dell’arte dell’Università di Bologna, 2, Editrice Composi-
tori, Bologna 2002. Traduzione di Benedetta Sforza.
2 L’interessante articolo di Galligan (1998) è apparso dopo la stesura di questo testo e dunque non

ho potuto tenerne conto in maniera particolare. Riprendo qui le analisi già proposte in altro contesto nel
mio articolo (1991). Sull’inversione speculare, cfr. ora Thévoz 1996, pp. 19-54.
3 Per Manet “peintre de la vie moderne”, cfr. Clark 1984; Körner 1996.
4 Per più particolari cfr. Stoichita 1993, pp. 187-265.
5 Per un buon riassunto cfr. Moffett 1983, pp. 70-75.
6 Per più particolari, cfr. Sandblad 1954, pp. 17-68.
7 Per la nozione di “paratesto” cfr. Genette 1987.
8 Baudelaire 1951, p. 118. Cfr. a questo proposito, ancora e sempre: Benjamin 1955, pp. 60 sgg.
9 Il fatto che qualche volta Manet utilizzasse fotografie per comporre i suoi quadri è certo. Il caso

più celebre è quello di Chemin de fer (1874). Nella collezione Durand-Ruel di Parigi si conserva ancora
la fotografia originaria, ritoccata ad acquerello (cfr. Rouart, Wildenstein 1975, n. 322).
10 Cfr. il nostro articolo già citato alla nota 4 e Stoichita 1991; Bacherich 1990.
11 Si ricorda qui la celebre confessione di Degas “C’est comme si vous regardiez à travers un trou de

serrure” (Moore 1891, p. 232). Cfr. a questo proposito Armstrong 1985, pp. 223-242; Lipton 1986, pp.
151-187.
12 Per le differenti versioni cfr.: Wells 1972, pp. 129-134; Kendall 1988, pp. 180-197; Lipton 1986,

pp. 66-72.
13 Nel quadro del 1868, conservato in una collezione privata di Londra (Wells 1972, figg. 1, 2; Lip-

ton 1986, fig. 38), l’operazione di ripulitura, realizzata presso la National Gallery di Londra nel 1960, ha
fatto riemergere la figura femminile con binocolo accompagnata da Manet, prima cancellata, con tutta
probabilità, dallo stesso Degas.
L’oggetto personale come soggetto di natura morta.
A proposito delle osservazioni di Heidegger su van Gogh1
Meyer Schapiro

Per illustrare una caratteristica intrinseca dell’opera d’arte – il di-svelarsi


della verità – Heidegger, nel suo saggio, L’origine dell’opera d’arte, si è avalso
dell’interpretazione di un quadro di van Gogh2.
Il filosofo giunge al dipinto dopo aver formulato la distinzione fra tre modi
di esistenza degli oggetti: il manufatto (il mezzo), la cosa e l’opera d’arte. In pri-
mo luogo, Heidegger si propone di descrivere, “senza teorie filosofiche”, un
“paio di scarpe da contadino”; e per facilitarne la “visione sensibile” sceglie
“un quadro di van Gogh, che ha ripetutamente dipinto questo mezzo” (tav. La lettura di
XIV). Ma al fine di cogliere “l’essere mezzo del mezzo” dobbiamo considerare Heidegger
“come le scarpe servono realmente”. La contadina indossa le scarpe senza pre-
stare loro alcuna attenzione, addirittura senza concedere loro uno sguardo;
camminando o indossando le scarpe, apprezza l’utilità dell’“esser-mezzo del
mezzo, la fidatezza” (Heidegger 1936, pp. 18-19). Quanto a noi:

Fin che noi ci limitiamo a rappresentarci un paio di scarpe in generale o osserviamo


in un quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro non-impiego, non saremo mai
in grado di cogliere ciò che, in verità, è l’esser-mezzo del mezzo. Nel quadro di van
Gogh, non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio
di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero fare parte, c’è solo uno spa-
zio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccati, de-
nunciandone almeno l’impiego. Un paio di scarpe da contadino e null’altro. Ma tut-
tavia… Nell’orificio oscuro dall’interno logoro si palesa la fatica del cammino per-
corso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza
del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento o-
stile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole tra-
scorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il
silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro ri-
fiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la si-
curezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’an-
nuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartie-
ne alla terra, e il mondo della contadina lo custudisce. Da questo appartenere custo-
dito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso (p. 19)3.

Il professor Heidegger non ignora che van Gogh dipinse a più riprese scarpe di
questo tipo, ma non precisa il quadro cui si riferisce, come se le diverse versioni
fossero interscambiabili e tutte presentassero una identica verità. Un lettore che
volesse confrontare questa descrizione con un originale o una riproduzione foto-
grafica, sarebbe imbarazzato nella scelta della versione. Tra i quadri esposti all’epo-
ca in cui Heidegger scriveva il suo saggio, il catalogo di La Faille (1939) ha inven-
194 MEYER SCHAPIRO

Fig. 57. Vincent van Gogh, Natu-


ra morta con un paio di scarpe,
1886, olio su carta incollato su
cartone, 33 x 41 cm, Amsterdam,
Van Gogh Museum.

Fig. 58. Vincent van Gogh, Natu-


ra morta con un paio di scarpe,
1887, olio su tela, 37.5 x 45.5 cm,
collezione privata.

Fig. 59. Vincent van Gogh, Natu-


ra morta con un paio di scarpe,
1887, olio su tela, 34 x 41.5 cm,
Baltimora, Museum of Art, Cone
Collection.
L’OGGETTO PERSONALE COME SOGGETTO DI NATURA MORTA 195

tariato otto dipinti di van Gogh che rappresentano delle scarpe (nn. 54, 63, 255,
331, 332, 333, 461, 607, figg. 63, 64, tav. XIV, figg. 57, 58, 59). Solo in tre di questi
possiamo osservare “l’orificio oscuro dall’interno logoro” che sollecita così profon-
damente il pensiero evocatore del filosofo (nn. 255, 332, 333, tav. XIV, figg. 58, 59).
Ora, è chiaro che l’artista in questo caso ha dipinto non tanto delle generiche scar-
pe da contadino, bensì le proprie, forse quelle che usava abitualmente in Olanda.
Ma i quadri sono stati dipinti durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1886 e 1887:
uno è datato “-87” (n. 333, fig. 59) ed è firmato “Vincent-87”. Al periodo antece-
dente il 1886, nel quale van Gogh dipinse alcuni contadini olandesi, appartengono
anche due quadri che rappresentano scarpe, un paio di zoccoli di legno perfetta-
menti puliti appoggiati su un tavolo in mezzo ad altri oggetti (nn. 54, 63, figg. 63,
64). Più tardi, a Arles – come scrive a suo fratello in una lettera dell’agosto 1888 –
van Gogh dipinse “un paio di vecchie scarpe” che erano sicuramente le sue4 (n.
461, fig. 61). L’artista menziona una seconda “natura morta di vecchie scarpe da
contadino” in una lettera del settembre 1888 indirizzata al pittore Émile Bernard,
ma qui non si scorgono né “la fatica del cammino percorso lavorando”, né “l’orifi-
cio oscuro” evocato dalla descrizione di Heidegger5 (n. 607, fig. 65).

Fig. 60. Vincent van Gogh, Tre


paia di scarpe, 1886, olio su tela,
49 x 72 cm, Cambridge, Mass.,
Fogg Art Museum.

Fig. 61. Vincent van Gogh, Natu-


ra morta con un paio di scarpe,
1888, olio su tela, 44 x 53 cm,
New York, Metropolitan Mu-
seum of Art.
196 MEYER SCHAPIRO

Il professor Heidegger, in risposta alla mia domanda, ha gentilmente preci-


sato che il dipinto al quale si riferiva era uno di quelli che aveva potuto ammi-
rare ad Amsterdam all’esposizione del marzo 19306. Sembrava chiaro che si
trattasse del dipinto n. 255 (tav. XIV) del catalogo citato; alla stessa mostra era
esposto un quadro che rappresentava tre paia di scarpe (n. 332, fig. 58); e pare
che proprio la vista di una suola in bella mostra, abbia ispirato la riflessione
del filosofo al riguardo. Tuttavia, né l’aspetto di questi due dipinti, né quello di
qualsiasi altro dei sei quadri menzionati sopra, consente di affermare che esista
una tela di van Gogh, raffigurante delle scarpe, in grado di esprimere l’essere o
l’essenza delle calzature da contadina, o il loro rapporto con la natura e il lavo-
ro. Si tratta piuttosto di scarpe dell’artista, tipiche di un uomo che in quel pe-
riodo viveva in città, di un cittadino.
Heidegger scrive:

L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. Sarebbe un er-
rore esiziale quello di credere che sia stata la nostra descrizione, con procedimento
soggettivo, che abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Se qui
c’è qualcosa di discutibile è solo la nostra scarsa capacità di esperire l’opera d’arte e
di esprimere l’esperito. Ma prima di tutto bisogna rendersi conto che, contro ogni
apparenza iniziale, l’opera non ci è semplicemente servita a una migliore compren-
sione di ciò che il mezzo è. Al contrario, è solo nell’opera e attraverso di essa che
viene alla luce l’esser-mezzo del mezzo.
Che significa ciò? Che cos’è in opera nell’opera? Il quadro di van Gogh è l’aprimen-
to di ciò che il mezzo, il paio di scarpe contadine, è in verità (p. 21).

Sfortunatamente il filosofo ha ingannato se stesso. Dal suo incontro con il


quadro di van Gogh ha tratto una toccante serie di immagini, associando il con-
tadino alla terra; tuttavia, è evidente che queste immagini non esprimono asso-
lutamente il sentimento intrinseco del quadro, ma provengono piuttosto dalla
sua visione della società, che rivela una sensibilità per ciò che è primordiale e
terreno. In realtà, è dunque il filosofo che ha “immaginato tutto ciò, attribuen-
dolo poi a un oggetto”. Quello che ha esperito dal dipinto è nel contempo trop-
po e insufficiente.
Il malinteso non deriva solo dalla proiezione dell’iconografia personale, che si
sostituisce all’osservazione attenta dell’opera d’arte. Anche supponendo che
Heidegger abbia visto, come ha precisato, una tela rappresentante realmente
delle scarpe da contadino, saremmo in errore se pensassimo che l’aspetto di ve-
L’errore
rità che egli scopre nel quadro – l’essere della scarpa – sia qualcosa che si espri-
del filosofo me una volta per tutte, qualcosa che la sola vista del quadro permette di percepi-
re. Nella descrizione immaginativa delle scarpe di van Gogh fatta da Heidegger
non scorgo niente di diverso da ciò che avrebbe potuto suggerirgli l’osservazione
di un reale paio di scarpe da contadino. Benché il filosofo attribuisca all’arte il
potere di rappresentare, in un paio di scarpe, l’aspetto suggestivo del loro essere
che si svela – “l’essenza universale delle cose”, “il Mondo e la Terra nel loro gio-
co reciproco” (1936, pp. 40-41)7 – questa nozione di un potere metafisico del-
l’arte resta puramente teorica. L’esempio che Heidegger convoca e interpreta
con tanto vigore e convinzione non può essere solidamente sostenuto.
L’errore di Heidegger potrebbe provenire semplicemente dalla scelta sba-
gliata dell’esempio? Supponiamo che il dipinto di van Gogh rappresenti vera-
L’OGGETTO PERSONALE COME SOGGETTO DI NATURA MORTA 197

Fig. 62. Vincent van Gogh,


Natura morta con cavolo e
zoccoli, 1881, olio su carta
incollato su tavola, 34 x 55
cm, Amsterdam, Van Go-
gh Museum.

Fig. 63. Vincent van Gogh,


Natura morta con bottiglie,
vasi e zoccoli, 1884, olio su
tela incollato su tavola, 42
x 54 cm, Utrecht, Museum
van Baaren Foundation.

Fig. 64. Vincent van Gogh,


Natura morta con terracot-
ta, bottiglia e zoccoli, 1885,
olio su tela incollato su ta-
vola, 39 x 41.5 cm, Otter-
lo, Kröller-Müller Mu-
seum.
198 MEYER SCHAPIRO

mente delle scarpe da contadino. Heidegger non avrebbe semplicemente messo


in evidenza l’espressione di questa qualità, di questa sfera dell’essere che ha de-
scritto con tanto pathos?
Anche se così fosse, avrebbe comunque dimenticato di tenere in debito con-
to un importante aspetto del quadro: la presenza dell’artista nell’opera. La sua
evocativa descrizione del soggetto ignora tutto quello che c’è di tipicamente
personale e fisiognomico in quelle scarpe, così care all’occhio dell’artista – così
come ignora l’accordo intimo delle tonalità, delle forme e della resa della pen-
nellata nella stessa opera d’arte. Quando van Gogh dipinge gli zoccoli di legno
La presenza di un contadino, li presenta come nuovi e li rende con la stessa levigatezza e ni-
dell’artista tidezza degli altri oggetti poggiati sul tavolo, ossia li tratta alla stregua di una
nell’opera “natura morta”, come fa con la scodella, le bottiglie, il cavolo (figg. 62, 63, 64).
Quando van Gogh dipinge in un altro quadro ancora, le scarpe di cuoio di un
contadino, le presenta viste da dietro (n. 607, fig. 65). All’opposto le sue scarpe,
ce le mostra isolate, posate al suolo, che ci guardano, e talmente personalizzate,
deformate dall’uso da potervi scorgere la veritiera immagine di calzature usura-
te fino all’ultimo stadio.
In questo senso mi sembra che ci avviciniamo di più al sentimento provato
da van Gogh di fronte a questo paio di scarpe se consideriamo la descrizione
che fa Knut Hamsun (1888, pp. 27-28) nel romanzo Fame:

Quasi non avessi mai visto le mie scarpe mi accinsi a studiarne l’aspetto, la mimica al
movimento del piede, la forma, la tomaia lacera, e feci la scoperta che le loro pieghe
e le cuciture bianche avevano un’espressione, una fisionomia. Un po’ della mia natu-
ra si era comunicata a quelle scarpe: esse mi impressionavano come fossero state
un’ombra del mio io, una parte viva di me stesso (...)

Se compariamo la pittura di van Gogh al testo di Hamsun, giungiamo a


un’interpretazione assai diversa da quella data da Heidegger. Il filosofo vede,
nella rappresentazione di un paio di scarpe, un’evocazione veridica del mon-
do vissuto dal contadino al di fuori di ogni sua percezione interiore. Hamsun,

Fig. 65. Vincent van Gogh,


Natura morta con un paio
di zoccoli, 1888, olio su te-
la, 32.5 x 40.5 cm, Amster-
dam, Van Gogh Museum.
L’OGGETTO PERSONALE COME SOGGETTO DI NATURA MORTA 199

invece, considera le scarpe concrete nel loro essere esperite o patite, più o
meno coscientemente, da chi le porta o da chi le contempla, nello specifico lo
stesso scrittore. Il personaggio di Hamsun – un vagabondo che si osserva e
che riflette sulla propria condizione – è più vicino alla situazione di van Gogh
di quanto non lo sia quella del contadino evocato da Heidegger. Per di più,
van Gogh è, in un certo senso, vicino alla condizione contadina: si accanisce
ostinatamente, nella sua arte, nella ricerca di un obiettivo al quale è votato, e
che rappresenta tutta la sua vita. Certamente van Gogh, come del resto Ham-
sun, possiede il dono eccezionale di riuscire a rappresentare attraverso l’im-
magine: sa trasporre sulla tela, con una forza singolare, le forme e le qualità Le scarpe come
dell’essere delle cose; e certe cose lo toccano profondamente, come, in questo parte di se
caso, le scarpe che fanno corpo con lui, e sono proprio loro che fanno affiora- stessi
re la coscienza della sua condizione. Van Gogh le ha caricate dei suoi senti-
menti e delle sue fantasticherie personali, ma non per questo le scarpe sono
rese in modo meno oggettivo. Isolando le sue vecchie e usurate scarpe all’in-
terno del quadro, le rivolge verso lo spettatore, e le rende parte di un autori-
tratto; quelle stesse scarpe con cui calpestiamo la terra, e nelle quali ritrovia-
mo la tensione del movimento, le tracce della fatica, della pressione e della
pesantezza, il peso dell’intero corpo nel suo contatto con il suolo. Le scarpe
portano la marca ineluttabile della nostra posizione sulla terra. “Mettersi nel-
le scarpe di qualcun altro”8 significa condividere, nella vita, la difficile situa-
zione di un altro. E quando un pittore sceglie come soggetto di un quadro il
proprio paio di scarpe usurate, intende così esprimere la sua preoccupazione
di fronte alla fatale sorte che subisce nella società. Sebbene il paesaggista che
cammina fra i campi condivida in parte la vita all’aria aperta del contadino, le
scarpe non rappresentano ai suoi occhi uno strumento d’uso, ma – secondo i
termini di Hamsun – “una parte di me stesso”. È questo il senso che rivela il
soggetto del quadro di van Gogh.
Gauguin, che nel 1888 abitava ad Arles con van Gogh, aveva ben compreso
che un quadro dell’amico, raffigurante un paio di scarpe, era in stretto rapporto I ricordi di
Gauguin
con un episodio della sua vita personale. Tra i ricordi di questo periodo di con-
vivenza con van Gogh figura un aneddoto particolarmente toccante, non privo
di rapporto con le scarpe del pittore:

Nello studio c’era un paio di grosse scarpe chiodate, tutte usurate e sporche di fan-
go; van Gogh ne fece una straordinaria natura morta. Non so spiegarmi il perché,
ma percepii che esisteva una storia dietro a questa vecchia reliquia e un giorno osai
chiedergli se ci fosse una qualche ragione che lo portava a conservare qualcosa che
solitamente si butta nella cesta dello straccivendolo. “Mio padre” disse “era un pa-
store protestante che mi spinse verso gli studi di teologia pensando alla mia futura
vocazione. Da giovane pastore, un mattino presto partii per il Belgio, senza dirlo alla
mia famiglia, per predicare il Vangelo nelle fabbriche, non come mi era stato inse-
gnato, ma come io sentivo giusto fare. Queste scarpe, come vedi, hanno ben soppor-
tato la fatica del viaggio”.
Mentre predicava nelle miniere nel Borinage, Vincent iniziò a prendersi cura della
vittima di un incendio in miniera. L’uomo era così gravemente ustionato e mutilato
che il dottore non aveva nessuna speranza di poterlo guarire. Pensava che solo un
miracolo avrebbe potuto salvarlo. Van Gogh lo assistette così amorevolmente per
quaranta giorni che riuscì a salvare la vita del minatore. “Prima di lasciare il Belgio,
200 MEYER SCHAPIRO

alla presenza di quest’uomo che portava una serie di cicatrici sulla fronte, quasi una
corona di spine, ebbi la visione del Cristo risorto”.
Gauguin prosegue così: “Vincent prese di nuovo la sua tavolozza e in silenzio si
mise al lavoro. Vicino a lui, una tela bianca. Iniziai a fare il suo ritratto. Anch’io
ebbi la visione di un Gesù che predicava bontà e umiltà” (Rotonchamp 19252, p.
33)9.

Il quadro che Gauguin aveva visto ad Arles, dove era dipinto un unico
paio di scarpe, non è mai stato chiaramente identificato. Gauguin afferma che
il soggetto era dipinto in una tonalità violetta, che contrastava con i muri gial-
li dell’atelier, ma questo importa poco. Benché il suo racconto sia stato scritto
qualche anno dopo, e non sia privo di ricercatezza letteraria, conferma il fat-
to, essenziale per noi, che le scarpe rappresentavano per van Gogh un pezzo
della sua esistenza, una reliquia.

Postscriptum, 1981
Da una nota della riedizione recente del saggio di Heidegger nelle opere
complete, risulta che il filosofo ha proseguito la sua riflessione sul proprieta-
rio delle scarpe dipinte da van Gogh (Heidegger 1977, p. 18). A fronte della
constatazione che “nel quadro di van Gogh, non potremmo mai stabilire do-
ve si trovino” (p. 37), Heidegger ha scritto nel suo esemplare personale (edi-
zione tascabile Reclam, 1960): “né a chi appartengano”. Secondo l’editore, le
annotazioni in margine di questo esemplare sono state scritte in un momento
Ulteriori indeterminato tra il 1960 e il 1976. Pubblicandone una selezione in Gesam-
riflessioni di tausgabe, l’editore, seguendo le istruzioni dell’autore, ha scelto quelle che pa-
Heidegger
revano indispensabili per far luce sul testo, per formulare un’autocritica, o
per attirare l’attenzione sull’evoluzione del pensiero di Heidegger (pp. 377-
390). Dato che l’argomentazione di Heidegger si riferisce alle scarpe di una
classe di persone e non a quelle di un individuo in particolare, e dato che af-
ferma più di una volta che quelle sono le scarpe di un contadino, non si rie-
sce bene a capire come quella notazione possa risultare indispensabile per
far luce sul testo. Il filosofo ha voluto forse riaffermare che, nonostante alcu-
ni dubbi, l’interpretazione era valida anche nel caso in cui le scarpe fossero
appartenute a van Gogh? (…)

Ulteriori annotazioni su Heidegger e van Gogh, 1994

Dopo l’articolo del 1968, ho continuato a studiare l’arte, le lettere, la vita,


le idee di van Gogh, e ringrazio i colleghi per le preziose indicazioni e altri in-
dizi utili all’interpretazione dell’arte e del pensiero del pittore. Ho integrato i
suggerimenti ricevuti e le mie conseguenti riflessioni agli articoli su van Gogh
del 1940 e del 196810.
Ho preso in considerazione l’articolo del professor Gadamer, allievo di
Heidegger, sull’evoluzione intellettuale del filosofo durante gli ultimi anni del-
la sua vita e due correzioni che Gadamer scrisse a margine di una copia perso-
nale di uno dei libri di Heidegger pubblicati postumi e rilevati dall’editore del-
l’opera omnia dopo la morte.
L’OGGETTO PERSONALE COME SOGGETTO DI NATURA MORTA 201

Nel mio articolo del 1968, l’interpretazione del dipinto di van Gogh è sup-
portata non solo dai testi e dall’opera di altri artisti e scrittori, ma anche dalle
parole dello stesso van Gogh sull’importanza delle scarpe nella sua vita.
Gauguin – che nell’autunno del 1888 passò alcuni mesi a Arles ospite di
van Gogh – registra, in due differenti articoli, una conversazione sulle scarpe
di van Gogh. Il primo è già stato qui riportato. Un’altra versione è in un arti-
colo successivo, pubblicato con il titolo Natures mortes nella rivista «Essais
d’Art Libre» dopo la morte di van Gogh:

Quando eravamo ad Arles, eravamo entrambi folli, sempre in lotta alla ricerca di ma-
gnifici colori. Io adoravo il rosso; dove si poteva mai scovare un vermiglio perfetto? Lui,
con le pennellate giallastre, tracciava sul muro, improvvisamente viola, queste parole:
Sono sano di Spirito,
sono il Santo Spirito.
Nella mia stanza gialla una piccola natura morta: violetta, questa. Due enormi
scarponi, usati, sformati. Erano le scarpe di Vincent. Quelle che egli prese, allora
nuove, una mattina presto per incominciare il suo viaggio a piedi dall’Olanda al
Belgio. Il giovane predicatore aveva appena finito i suoi studi teologici per diven-
tare un pastore come suo padre. Si rivolse ai minatori, che chiamava suoi fratelli,
e che, come aveva letto nella Bibbia, erano semplici lavoratori oppressi dalla bra-
ma di ricchezza dei potenti.
A differenza di quel che gli avevano insegnato i suoi saggi professori olandesi,
Vincent credeva in un Gesù che amava i poveri; e la sua anima, profondamente
pervasa di carità, cercava parole di sacrificio e consolazione per i deboli, e per
combattere i ricchi. Sicuramente Vincent era già pazzo.
Il suo insegnamento della Bibbia nelle miniere, pensavo, serviva ai minatori sotto-
terra ma non era gradito alle alte autorità sopra, sulla terra. Fu ben presto richia-
mato e congedato, e il concilio di familia, avendo deciso che egli era pazzo, chie-
se il suo ricovero. Alla fine non fu rinchiuso grazie al fratello Theo.
Un giorno nell’oscura e nera miniera, il giallo cromo inondò, con un terribile ba-
gliore infuocato di grisù, la dinamite dei ricchi. Alcuni che stavano risalendo in
quel momento dibattendosi nel lurido carbone, quel giorno dissero addio alla vi-
ta, addio agli uomini senza bestemmiare.
Uno di loro, orribilmente mutilato e con il viso bruciato, fu raccolto da Vincent.
Il dottore disse: “Quest’uomo è spacciato, ci vorrebbe un miracolo, o delle amo-
rose cure materne. È una follia occuparsi di lui”.
Vincent credeva nei miracoli e nelle cure materne. Il pazzo (perché sicuramente
era pazzo) vegliò al capezzale del moribondo per quaranta giorni. Tenacemente
impedì all’aria di entrare nelle sue ferite e pagò i farmaci necessari. Sembrava un
prete che conforta e tranquillizza (sicuramente, era pazzo). Il malato parlò. Lo
sforzo del folle riportò alla vita un cristiano morto.
Quando l’uomo, ferito ma definitivamente salvo, ridiscese nella miniera per ri-
prendere il suo lavoro, Vincent disse: “Avreste potuto vedere nelle cicatrici rosse
della fronte pallida del minatore la testa di Gesù martire, con i segni della corona
di spine sulla fronte”.
E io, Vincent, lo dipinsi (…). Sicuramente quell’uomo era pazzo (Gauguin 1894,
pp. 273-275).

François Gauzi (1954, p. 31), condiscepolo di van Gogh nell’atelier Cor-


mon nel 1886-1887, ha scritto che van Gogh gli mostrò, nel suo atelier di Pa-
rigi, un quadro che stava terminando: un paio di scarpe.
202 MEYER SCHAPIRO

Al mercato delle pulci, aveva comprato un paio di vecchie scarpe pesanti, massic-
ce, da carrettiere, ma pulite e tirate a lucido. Erano dei grossi scarponi che man-
cavano di fantasia. Li indossò un pomeriggio che pioveva e partì per una passeg-
giata lungo i bastioni. Sporche di fango, le scarpe divennero interessanti (...). Vin-
cent copiò fedelmente il suo paio di scarpe.

Il collega Joseph Masheck ha attirato la mia attenzione su una lettera a


Louise Colet dove, nel riflettere sull’inevitabile decadenza del corpo, Flau-
bert (1887-1893, p. 150) parla delle sue scarpe come di un oggetto personale
e della loro affinità con la condizione umana:

Forse che la sola vista di un vecchio paio di stivali non ha qualcosa di profonda-
mente triste e amaramente malinconico? Quando si pensa a tutti i passi che si so-
no fatti lì dentro per andare non si sa più dove, a tutte le erbe che ha calpestato, a
tutti i fanghi che ha raccolto... la pelle spaccata che sbadiglia ha l’aria di dirvi:
“…e dopo, imbecille, comprane degli altri, verniciati, lucenti, scricchiolanti, di-
venteranno come me, come te un giorno, quando avrai sporcato molti gambali e
sudato in molte tomaie”.

Questa lettera, datata 13 dicembre 1846 e pubblicata nel 1887, potrebbe


essere stata letta da quel grande ammiratore di Flaubert che era van Gogh.
L’idea di dipingere le sue scarpe probabilmente fu suggerita da un dipin-
to riprodotto nel libro di Sensier (1881) su Millet (fig. 66). Van Gogh fu mol-
Le scarpe di to impressionato da questo libro e ne parlò spesso nelle sue lettere11: il nome
van Gogh e gli del contadino-pittore Millet ricorre più di duecento volte. Il confronto tra il
zoccoli di disegno di Millet, che raffigura i suoi zoccoli di legno, e il dipinto di van Go-
Millet
gh conferma ciò che ho detto sulla relazione intima che van Gogh aveva con
le proprie scarpe. Gli zoccoli di Millet sono presentati di profilo, posati al
suolo con tracce di erba e di paglia. Millet era solito offrire agli amici e agli
ammiratori un disegno di un paio di zoccoli di profilo come segno della sua
lunga dedizione alla vita contadina (ib.).
Ritroviamo questa visione delle scarpe dell’artista come oggetto intimo e
privato, in una litografia di Daumier che rappresenta un pittore triste e infe-
lice davanti all’ingresso del Salon annuale, nell’atto di mostrare ai passanti un

Fig. 66. Jean-François Millet, Zoccoli, da A. Sensier.


L’OGGETTO PERSONALE COME SOGGETTO DI NATURA MORTA 203

dipinto raffigurante un paio di scarpe, evidentemente le sue. L’etichetta di


protesta dice: “Lo hanno rifiutato, quegli stupidi!”. Il disegno è riprodotto
in un numero della rivista umoristica «Le Charivari», e successivamente nel
volume di litografie di Daumier dedicate a figure, scene ed episodi di vita
contemporanea. L’opera risale all’epoca in cui gli artisti esclusi dalla giuria
degli accademici ottennero, dopo numerose battaglie, di poter inaugurare un
nuovo Salon che non avrebbe fatto capo alla giuria ufficiale, imposta dall’im-
peratore Napoleone III.
Si può vedere nel dipinto delle scarpe di van Gogh la rappresentazione di
un oggetto vissuto dall’artista come una parte importante di se stesso, un og-
getto nel quale il pittore si osserva come in uno specchio, – una parte che sele-
Le scarpe come
zionata, isolata e accuratamente messa in scena, lo interpella. Non c’è forse, in
autoritratto
questa concezione artistica, qualcosa di personale e intimo, un soliloquio, l’e-
spressione di una condizione esistenziale problematica nel disegno di un corpo
vestito ordinariamente pulito, e ben attillato, sicuro di sé, protetto? La densità
e la pesantezza della sostanza del colore, l’emergere dall’ombra delle scarpe
scure, le linee irregolari e angolose e i lacci sorprendentemente allentati che si
espandono oltre le silhouettes delle scarpe, non sono tutte caratteristiche di u-
na sua originale concezione delle stesse?
Queste particolarità non sono riscontrabili, o almeno non nella stessa mi-
sura, nelle sue innumerevoli altre rappresentazioni di scarpe da contadino. Il
suo stile varia a seconda dell’occasione e dello stato d’animo del momento e
dei diversi soggetti. Non è mia intenzione qui considerare il cambiamento di
stile in relazione agli spostamente dall’Olanda a Parigi, così come a quelli da
Arles al ricovero di St. Remy. Ma, a scanso di equivoci, devo far presente che,
nel realizzare quell’immagine di scarpe logore, il comportamento isterico del-
l’artista, che aveva guidato i dipinti di diverso soggetto dell’ultimo periodo –
come gli autoritratti, fra cui quello con la testa bendata (per una ferita autoin-
flittasi all’orecchio sinistro), oggetti personali che permettevano al pittore di
esprimere i suoi stati d’animo e i suoi ricordi – probabilmente stimolò la fran-
ca confessione di un aspetto patologico del sé dell’artista. C’è dunque nell’o-
pera un’espressione del sé che porta alla luce un sentimento unico, in quanto
legato al soggetto deviante e deformato messo in evidenza da quel metaforico Le scarpe come
paio di scarpe. L’abitudine di van Gogh di dipingere scarpe isolate dal corpo simbolo del
cammino
e dal vestiario, e quindi di rappresentarle come una totalità, può essere ricon- dell’individuo
dotta all’importanza che, stando alle conversazioni, Vincent dava all’idea del-
la scarpa come simbolo del cammino dell’individuo e alla concezione della vi-
ta come pellegrinaggio, come perenne esperienza di trasformazione.
Se confrontiamo van Gogh con altri artisti, constateremo che davvero po-
chi altri avrebbero potuto dedicare un’intera tela solo alle proprie calzature,
per quanto rivolte a un osservatore colto. Difficilmente lo avrebbero fatto
Manet, Cézanne, Renoir, e anche il suo modello, più volte citato: Millet. Fra
questi pochi, a giudicare dagli esempi, nessuno avrebbe inoltre presentato le
scarpe come van Gogh: per terra a guardare l’osservatore, con le parti allen-
tate e curvate, i lacci, le sgradevoli differenze tra parte destra e sinistra, con
quell’aspetto malconcio e consunto.
Nel tentativo di definire cosa fosse “l’esser mezzo del mezzo, in verità”,
Heidegger dimentica di chiedersi cosa queste scarpe potessero significare per
204 MEYER SCHAPIRO

Fig. 67. Vincent van Gogh, Natura morta con Bibbia, 1885, olio su tela, 65.7 x 78.5 cm, Amsterdam,
Van Gogh Museum.

il pittore. Il filosofo rintraccia in questa rappresentazione di scarpe: “la tacita


gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita,
l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il
mondo della contadina lo custudisce. Da questo appartenere custodito, il mez-
La “faccia” zo si immedesima nel suo riposare in se stesso” (1936, pp. 20), come se queste
delle scarpe scarpe fossero quelle usate dall’ipotetica contadina al lavoro nei campi. Hei-
degger addirittura, ipotizza che il suo lettore possa immaginare se stesso che
cammina verso casa stanco, calzando queste vecchie scarpe di cuoio “una tar-
da sera d’autunno, quando si consumano gli ultimi fuochi destinati ad arrosti-
re le patate sotto le braci” (1966, p. 46). Così la verità su queste scarpe non era
solo quella della povera contadina che vive “il tremore dell’annuncio della na-
scita, l’angoscia della prossimità della morte” (1936, p. 20): doveva ben esiste-
re il punto di vista dell’artista in quel mettere in scena le scarpe isolate davanti
a sé, slacciate e rivolte allo spettatore, e il disordine delle stringhe, senza ritrar-
re il contesto del campo di patate.
Heidegger è inoltre convinto che questa verità, profetizzata “senza teorie fi-
losofiche”, non sarebbe rivelata da alcun “reale” paio di scarpe da contadino i-
solate, come quelle dipinte nel quadro.
L’OGGETTO PERSONALE COME SOGGETTO DI NATURA MORTA 205

Il filosofo si dimentica così di considerare il “rifiuto” dei genitori e dei mae-


stri, che van Gogh subisce quando questi mettono in dubbio la sua attitudine a
essere un buon predicatore cristiano e un missionario. Queste lacerazioni sono
invece familiari al lettore delle biografie e delle lettere dell’artista.
Se si mette a confronto il nostro dipinto con un quadro precedente, che rap-
presenta la Bibbia aperta del padre, la sua importanza si chiarisce meglio. In
questo grande dipinto (fig. 67), che mostra la presenza marginale di un piccolo
volume di Zola, La Joie de vivre (discreto suggerimento di un’alternativa alla
grande Bibbia aperta e ai passi lì esposti), il pittore esprime il suo rispetto per il Nelle scarpe la
traccia della
padre defunto, che era pastore, e allude al suo passato cristiano, ma afferma an- biografia
che la sua devozione alle lezioni profane dello stimato autore contemporaneo.
In contrasto con il titolo perfettamente leggibile del libro di Zola, il contenuto
religioso dell’imponente libro aperto è a malapena suggerito da minuscoli nu-
meri romani (LIII) tracciati nello stretto margine superiore della pagina destra,
dai pochi segni in latino della stessa pagina, dal numero del capitolo e dal no-
me, a stento visibile, dell’antico autore (ISAI…). Ma le parole del grande profeta
sono nascoste all’osservatore dal denso e spesso strato di pennellate opache sul-
l’imponente libro e dall’ironico occultamento del testo, che tratta le sofferenze
e i sacrifici del profeta Isaia.
Il senso di queste opposizioni potrà essere decifrato da un lettore erudito
della Bibbia, ma rimarrà sempre un mistero per un osservatore comune, libero
dall’autorità dei suoi devoti genitori e della chiesa, che può prontamente affer-
rare il senso del piccolo volume dal titolo familiare sulla copertina luminosa: La
Joie de Vivre12.

1 Da: Meyer Schapiro, “The Still Life as a Personal Object. A Note on Heidegger and van Gogh”, in

The Reach of Mind: Essays in Memory of Kurt Goldstein, a cura di M. L. Simmel, New York, Springer
Publishing Company, 1968; rist. in Theory and philosophy of Art: Style, Artist, and Society, New York,
George Braziller, 1994, pp. 135-151. Traduzione di Maria Giulia Dondero.
2 Heidegger 1936. Sono riconoscente a Kurt Goldstein per aver attirato la mia attenzione su questo

saggio, che fu presentato in origine sotto forma di conferenza durante il corso del 1935-1936.
3 Heidegger ha fatto un’altra allusione al quadro di van Gogh in una conferenza del 1935, poi ri-

vista, tradotta e ristampata in Heidegger 1966, p. 46. A proposito del Dasein (l’“esser-ci o l’essente”),
il filosofo attirava l’attenzione su un dipinto di van Gogh: “Nient’altro che un paio di grossi scarponi
da contadino. L’immagine non rappresenta propriamente niente. Eppure vi è qui qualcosa in cui ci
vien fatto subito, spontaneamente, di ritrovarci, proprio come se noi stessi in una tarda sera d’autun-
no, quando si consumano gli ultimi fuochi destinati ad arrostire le patate sotto le braci, tornassimo a
casa stanchi, con la zappa sulle spalle. Cosa c’è qui di essente? La tela? Le pennellate? Le macchie di
colore?”.
4 Van Gogh 1952-64, edizione tedesca, vol. III, lettera n. 529, p. 291; edizione francese, vol. III, lette-

ra n. 529, p. 182.
5 Van Gogh 1952- 64, edizione tedesca, vol. IV, p. 227; edizione francese, vol. III, lettera n. B 18 F, p. 225.
6 Comunicazione personale, lettera del 6 maggio 1965.
7 “Nel quadro di van Gogh si storicizza la verità. Ciò non significa che qualcosa di semplicemente

presente venga esattamente riprodotto, ma che nel palesarsi dell’esser-mezzo delle scarpe pervengono al
non-esser-nascosto l’ente nel suo insieme, il Mondo e la Terra nel loro gioco reciproco. (…) Quanto più
semplicemente ed essenzialmente proprio solo le scarpe (...) emergono nella loro essenza, e tanto più im-
mediatamente e profondamente ogni ente diviene, assieme a esse, più essente” (1966, pp. 40-41).
8 L’espressione inglese To be in someone’s shoes non ha un equivalente letterale in italiano: la stessa idea

può essere espressa da locuzioni quali “mettersi nei panni dell’altro”, “mettersi al posto di un altro”.
9 Esiste anche una versione più antica di questa vicenda in Gauguin 1894, pp. 273-275. Questi due

testi mi sono stati indicati dal professore Mark Roskill.


206 MEYER SCHAPIRO

10 Voglio qui manifestare la mia gratitudine alla rivista francese Macula e al suo editore Yve-Alain

Bois, ora alla Harvard University.


11 Van Gogh 1952-64, I, pp. 322-323; II, p. 404; III, pp. 14, 45, 85, 151, 328; IV, pp. 32, 12.
12 Titolo ironico, dato che la storia narrata non tratta delle gioie della vita familiare, ma delle costri-

zioni che accompagnano la dedizione alla carriera musicale di un giovane, ecc. Judy Sund scrive che ro-
manzi di questo genere hanno rappresentato per lungo tempo un motivo di discordia tra van Gogh e suo
padre.
Lo spazio Pollock
Louis Marin1

Lo storico dell’arte contemporanea, lo studioso di estetica, il teorico come il


critico d’arte, potrebbero o avrebbero potuto cogliere l’occasione della mostra
di Parigi su Jackson Pollock per riprendere in esame la letteratura critica (inter-
viste, articoli, recensioni, libri) che gli è stata dedicata: gli uni e gli altri, benché a
livelli diversi e per differenti ragioni, potrebbero o avrebbero potuto trovarvi
molti spunti per riflettere sulle discipline cui appartengono e sui loro stessi di-
scorsi, sull’influenza che vi esercitano il tempo e lo spazio, il luogo e il momento,
così come sulla logica e l’enigma delle rotture artistiche, la validità effimera di ta-
le giudizio, la strana perspicacia di quell’altro, il valore sintomatico delle antici-
pazioni, o quello, diagnostico, delle illusioni retrospettive. Molte cose, ottime e
pessime, sono state dette e scritte su Jackson Pollock, mentre egli ancora dipin-
geva e dopo che la morte ne interruppe il percorso. Oggi, con questa mostra pa-
rigina, tutte, a modo loro, contribuiscono a riservare un posto a Pollock nella
Il ruolo di
storia e nella teoria dell’arte moderna, nella storia dei contatti e degli scambi tra Pollock nella
l’Europa, la Francia, l’“École de Paris”, e l’America, gli Stati Uniti, New York. storia e nella
Uno spazio Pollock specifico, che pare presentare questa caratteristica duplice e teoria dell’arte
contraddittoria di essere il luogo di un inizio e lo spazio di uno sviluppo nella contemporanea
tradizione della pittura e nella nostra modernità – ma è senza dubbio questo a
distinguere i “grandi pittori”, intendo dire quelli che, sperimentando le regole
dell’arte nell’ambito della quale operano, ne stabiliscono appunto altre: le regole
di ciò che sarà stato fatto nelle loro opere2. Greenberg (1977), Fried (1964,
1965a, 1965b), Rubin (1967), Carmean (1978), Damisch (1959), e altri ancora,
hanno detto molto bene ciò che vi era da dire, durante e dopo l’attività di Pol-
lock, su questa rottura e questa tradizione. Non è perciò questo lo spazio Pol-
lock che vorrei percorrere, quello di una storia progressivamente immobilizzata
nel museo ideale, da qualche parte tra Cézanne, Monet e Renoir, Picasso e Bra-
que, Mondrian, Ernst e Miró, Masson e Matta, Klee e Kandinsky. Mi interessa
piuttosto la seguente questione: cosa succede, quale evento si produce in un mu-
seo reale (ma un museo è mai davvero reale?), nel suo spazio, quando vi sono e-
sposte opere di Pollock? Quali metamorfosi di spazio, cioè di atmosfera, di luce,
di luogo, producono queste opere, questo spazio Pollock che non è lo spazio
Monet delle Ninfee né quello di Picasso di Guernica?
Ma come parlare dello “spazio Pollock”, dal momento che questo stesso
spazio sembra rendere impossibile qualsiasi discorso? Parlare della pittura, sul-
la pittura, e perfino parlare la pittura, presuppone infatti sempre, in qualche
modo, che questa pittura dica qualcosa, o anche, al limite, che parli per non di-
re nulla. Ma, a dire il vero, parla la pittura? Sì, certo, poiché come si dice spes-
so, viene “letta”. “Lettura del quadro” non è forse un’espressione ancora fre-
208 LOUIS MARIN

quente in alcuni discorsi contemporanei? Che cos’è, dunque, questo sguardo


lettore? “Leggete la storia e il quadro”, diceva Poussin a Chantelou inviandogli
La Manna. Ci si doveva forse interrogare sul senso di questo “e”? Spazio del
quadro e spazio della storia, sono due spazi in uno? Percorrere il primo, e le
sue figure di attori appassionati, può dare la sensazione di leggere il secondo,
La lettura del
quadro
cioè di raccontarlo: nello spazio Pollock il discorso, che racconta la storia e il
quadro, impazzisce perché non trova nulla da dire, anche andando a cercare,
come è stato fatto – per Pollock, peraltro, o Lee Krasner – le grandi pianure
dell’Ovest, l’oceano Atlantico, il cielo stellato, il paesaggio di Long Island, op-
pure, secondo un altro orientamento della critica, gli archetipi inconsapevoli e
la figura della madre divorante, nascosta non nel quadro come il nibbio di Leo-
nardo, ma sotto il quadro (come in Gothic, 1944), ed è lì tutta la differenza tra
Vienna e Zurigo, Freud e Jung3.
Nello spazio Pollock non c’è nulla da raccontare perché il quadro non
parla, non significa. Esso mostra, presenta. Che cosa? Pittura. È la compli-
cità tra un certo sguardo e un certo discorso che il quadro di Pollock, nel suo
spazio, dissolve. Converrà perciò, in questa occasione, abbandonare la prete-
sa di inventare un nuovo linguaggio, e proporre semmai con cautela alcune
categorie critiche e teoriche di una descrizione che dovrebbe mirare innanzi-
La tutto a valutare gli spostamenti, se non i rovesciamenti, delle nozioni che go-
“rivoluzione” vernavano un discorso che la pittura di Pollock, al momento della sua massi-
dello spazio
Pollock
ma intensità – insieme ad altri, probabilmente –, impedisce di fare. Bisogna
inoltre ammettere che se lo spazio Pollock scompagina un discorso sulla pit-
tura, è anche perché scompagina la pittura, la fa uscire dalla sua compagine,
dal suo ambito tradizionale.
Vorrei soffermarmi ancora un attimo su questa lettura del quadro, cioè su
un certo comportamento dello sguardo spettatore legato da tempo a questo di-
scorso sulla/della pittura come la condizione stessa della sua verità. In effetti, si
è sufficientemente interrogato – senza per questo essere degli psicologi – la di-
versità delle operazioni e la complessità dei processi di costituzione di questo
sguardo?4 Leggere è innanzi tutto vedere, ma secondo una modalità specifica,
quella del discernere, del dividere, del distinguere elementi in un campo; è in-
trodurre delle discontinuità nelle aree della visione; è articolare un continuum
con percorsi, estrapolazioni e interpolazioni, slittamenti, attenuazioni, cancella-
zioni o rotture. Strano spazio quello della lettura, che altro non è, in fondo, che
lo spazio delle metamorfosi del discreto.
Leggere significa allora riconoscere, in questa testura, in questi agglomerati
di trasformazioni brusche o graduali, delle forme, delle figure, dei segni, senza
necessariamente sapere di chi o di che cosa essi siano le forme, le figure, i segni.
Perché queste forme dovrebbero essere immediatamente quelle delle cose, e
queste figure, figure di personaggi? O questi segni, già delle parole, e queste
strutture significanti già una lingua? Riconoscere oscilla tra i due significati del
termine: conoscere di nuovo ciò che era già conosciuto, mettere una seconda
volta un segno su ciò che aveva già il suo segno, oppure impegnarsi in uno spa-
zio sconosciuto al di là dei confini del noto, come l’esploratore o l’avanguardia5:
valore anticipatore del prefisso ri-, riconoscere questo spazio significa, di retro-
spezione in anticipazione, riassumere il passato in schemi di aspettativa e profi-
lare il futuro in progetti, e anche in una prospettiva congetturale.
LO SPAZIO POLLOCK 209

Leggere significa infine cogliere, di tutto questo, a partire da tutto questo,


un senso, identificare unità discrete in numero finito che facciano sistema: se-
condo la definizione del dizionario, leggere è prendere conoscenza del contenu-
to di un testo. Ma, sorpresa, a quel punto lo spazio – quello del continuum arti-
colato, quello del riconoscimento e della ripetizione – sparisce. Sotto lo sguardo
I tre spazi di
attento che percorre lettere, parole, frasi senza vederle, il senso incorporeo, fan- Pollock
tomatico, fluttua sui significanti improvvisamente trasparenti che lo veicolano.
La pittura di Pollock giocherà su questi tre spazi di lettura, dal primo all’ul-
timo quadro; ma va anche detto che la sua forza moderna, all’apice della poten-
za, consisterà nel proporre allo sguardo lo spazio costitutivo originario.
È come se, dall’inverno 1946-47 al 1950-51, in quattro anni e mezzo, Pol-
lock rovesciasse, “catastrofasse”, quell’architettura di spazi cui ho accennato, ne
mettesse i principi allo scoperto, dando da leggere a uno sguardo addestrato a
cercare il significato e a riconoscere forme e figure, lo spazio primitivo, meta-
morfico, delle articolazioni del continuum come spazio ultimo del quadro, dan-
doglielo a vedere come se si trattasse di leggerlo. Ciò che lo sguardo scoprirà al-
lora, in questo simulacro di lettura, sarà la propria intimità, a lungo dimentica-
ta, con il visibile. Gli occhi si riconoscono nel proprio sguardo come la piega
del quadro che vedono.
Dal segno leggibile il cui supporto spaziale viene neutralizzato dalla ricerca
del senso, alla linea che circoscrivendo una figura consente di riconoscerla e di
nominarla nel suo luogo scenico; dal marchio che, come un sigillo, affida all’in-
terpretazione simbolica la forma, alla traccia che è impronta di un passaggio, e
in cui l’occhio ritrova, ripetendola, le sue più primitive condizioni di esercizio,
ciascuno di essi, segno, marca, traccia, produce uno spazio specifico; e quando,
come spesso avviene, essi si combinano nello spazio del quadro, lo sguardo, sci-
volando da un livello di visione e di lettura all’altro, cambiando di regime e di
modalità da un’area all’altra, si scoprirà consegnato, nel libero gioco dei suoi Segni, marche
movimenti, ai vari effetti spaziali. Questi portano le sue capacità alla loro massi- e tracce
ma potenza, perturbando allo stesso tempo gli schemi spaziali in cui questi ef-
fetti hanno luogo, mostrando le loro condizioni di possibilità.
Tre esempi. Il primo è offerto dalla lettura dell’iscrizione posta nella parte si-
nistra di un dipinto di Champaigne6. Non essendo né sullo sfondo della scena
né fuori dalla cornice, essa mostra il piano del quadro che il dispositivo rappre-
sentativo abitualmente neutralizza, facendone un piano trasparente, per co-
struirsi come scena: potenza dello sguardo, che vede l’invisibile in un effetto di
superficie.
Un secondo esempio è dato da un dipinto di Klee: la decifrazione delle lette-
re, ai margini del quadro e lungo la sponda del pozzo nelle cui acque si spec-
chia un sole rosso, richiede allo spettatore di girare attorno alla tela poggiata a
terra: girotondo del corpo che guarda attorno al suo occhio-sole in un effetto di
bordo e di margine7.
Si vedano, infine, in Pollock, quei segni leggibili illeggibili, simboli e pitto-
grammi, linee di contorno e tracce di movimento, che sebbene scritti, iscritti e
tracciati su zone di colore divenute mani, occhio o tavolo, circolano come effi-
meri incorporei in superficie: allegra esuberanza dell’occhio che interpreta pia-
ni. È Stenografic Figure, (fig. 68) al quale attribuisco, come sottotitolo a uso per-
sonale, la dattilografa impazzita.
210 LOUIS MARIN

Fig. 68. Jackson Pollock, Stenographic Figure, 1942 ca., olio su tela, 101.6 x 142.2 cm, New York,
Museum of Modern Art.

Entriamo così – anzi, ci siamo già entrati – nello spazio Pollock, attraverso
Lo spazio del questi spazi complessi della visione-lettura, gerarchizzati, legati ma oscillanti,
riguardante… sovrapposti ma disgiunti, combinazioni che a loro volta producono nuovi effet-
ti spaziali. Non stupisce che lo spazio Pollock si sottragga sottraendo la propria
unità, ai percorsi dello sguardo. Perché quello spazio, inteso in senso stretto, è
innanzi tutto lo spazio nel quale si trova il quadro di Pollock, spazio del “ri-
guardante” che avvolge il quadro a partire da una posizione, occhi, testa, corpo,
a volte immobile, a volte in movimento, con tutte le variazioni possibili e tutte
le stasi successive di un percorso determinato, uno spazio che s’interrompe sui
bordi del quadro, sul muro cui il quadro è appeso. Lo spazio Pollock, a partire
da un certo momento, interroga le certezze di questa prima descrizione: altro
modo di porre la domanda iniziale, dell’evento creato dalla presenza di alcune
opere nella sala o nella galleria in cui sono esposte.
Lo spazio Pollock è anche lo spazio del quadro (che egli firma con il suo no-
me). Ma che significa spazio del quadro? Perché, in effetti, il quadro è innanzi
...lo spazio del
tutto quella tela (carta, compensato, legno), di forme determinate, che è il vei-
quadro… colo di ciò che viene mostrato. Questa tela veicolo-supporto coincide (ma si
tratta di una pura coincidenza, che non si verifica del resto nemmeno sempre, e
forse mai), con ciò che chiameremo il piano del quadro, entità geometrica, a-
stratta, immateriale. Una grande partita si gioca da tempo in pittura tra la tela e
il piano. Nel quadro “classico” rappresentativo, ad esempio, la tela non si vede
mai, occultata dallo sfondo, l’ultimo piano dello spazio profondo illusorio, a
LO SPAZIO POLLOCK 211

vantaggio del piano del quadro, che il dispositivo della rappresentazione con-
ferma nella sua immaterialità come la parete trasparente del cubo scenografico
o la finestra aperta. In questa partita, Pollock farà una mossa secondo regole
nuove, in questo primo intervallo del gioco tra la tela e il piano.
Ma c’è un secondo intervallo, che ha visto dispiegare nel corso della storia
strategie complesse, dalle implicazioni estetiche, ideologiche e teoriche decisive:
l’intervallo del bordo. Un bordo, infatti, non è mai semplice: ha un intorno, il
bordo del muro, e un contorno. Bordo, intorno e contorno definiscono uno
spazio, quello della cornice del quadro. Ci si può chiedere se non ci sia tra la
cornice (bordo, intorno, contorno) e il limite del quadro come entità astratta e
ideale, lo stesso rapporto di intervallo notato poco fa tra la tela e il piano. An-
che qui si assisterà a una mossa decisiva dell’opera di Pollock: l’all over, tradot-
to a volte con bord à bord, “da bordo a bordo”. Nel quadro “classico”, infatti, i
quattro bordi del quadro sono eterogenei, come alto e basso (soffitto, pavimen-
to; cielo, terra), destra e sinistra (navate laterali, quinte, cortile e giardino).
Esiste infine un terzo spazio: quello che si trova nel quadro, quello spazio che
linee e colori, qualunque siano le loro configurazioni e le loro posizioni, fanno
apparire nel quadro, cioè su quella superficie, entro quei limiti, tra il piano e la ...e lo spazio
tela. È lo spazio configurato dai piani di colore, tessuto dall’intreccio delle linee, della pittura
i cui bordi coincidono soltanto (e non sempre), con i bordi della tela, con i limi-
ti del piano del quadro. È lo spazio che il dispositivo della rappresentazione sca-
va nella superficie del quadro come spazio illusoriamente profondo, tramite la
struttura prospettica, per costituire quella scena che la disposizione delle figure
in luoghi gerarchicamente coordinati si incaricherà in seguito di organizzare. È
quello spazio tra piano e tela, tra bordi e limiti, che costituirà, dopo gli impres-
sionisti e Cézanne, dopo i cubisti e Picasso, dopo Ernst, Miró e Masson, la posta
in gioco decisiva del break-through di Pollock tra il 1947 e il 1951.
Sono dunque questi tre spazi che i dipinti di Pollock interrogano, distruggo-
no e costruiscono (direttamente ma soprattutto attraverso le loro interazioni re-
ciproche): lo spazio del riguardante, tramite la dialettica dinamica di posizione e
percorso, lo spazio del quadro, tramite la dialettica spaziale di tela e piano, bor-
di e limiti, e lo spazio della pittura attraverso la dialettica materiale di profon-
dità e superficie.
Lo spazio del riguardante: in che cosa la dialettica tra posizione e percorso
trova in Pollock una sua modalità specifica? A partire da un certo periodo nella
creazione dell’artista, e forse più ancora a partire da alcune opere, per esempio
Overall Composition e Panel with four designs del 1934-38, oppure Composition
with pouring II del 1943, Mural e Gothic dello stesso anno, There were seven in
Eight del 1945, ma soprattutto Shimmering Substance (fig. 69), Free Form del Alla ricerca di
un luogo per lo
1946, Sea Change (fig. 70) del 1947, fino ad arrivare alle grandi opere del 1950-
sguardo
1951, non si può determinare nello spazio del riguardante, per essere esatti, una
posizione da dove guardare il quadro; colui che guarda è incapace di trovare un
luogo per il proprio sguardo e appropriarsene. E se anche lo facesse, non po-
trebbe veramente avvalersi di questa posizione. Non si sentirebbe al suo posto.
Paradossalmente, quindi, la possibilità, la capacità e la libertà di posizionarsi, di
appropriarsi di un luogo dello sguardo in questo spazio di libertà, è quella di
mettersi “fuori posto”. L’unica collocazione possibile, lecita, è essere costante-
mente fuori luogo. Ma significa per questo essere in movimento?
212 LOUIS MARIN

Fig. 69. Jackson Pollock, Shimme-


ring Substance, 1946, olio su tela,
76.3 x 61.6 cm, New York, Museum
of Modern Art.

Fig. 70. Jackson Pollock, Sea


Change, 1947, olio e sassolini su tela,
141.9 x 112.1 cm, Seattle,
Art Museum.
LO SPAZIO POLLOCK 213

A domanda difficile, risposte molteplici. La prima, che è stata data spesso a


proposito di Pollock (probabilmente a torto, ma è significativa l’illusione che
sta all’origine dell’errore) è la risposta che fa appello al formato, alle dimensioni
della tela. È questa una delle direzioni aperte dalle critiche di Greenberg (1977)
su «The Nation», a partire dal 1946-47, poi ribadite nel 1948, sull’opposizione
tra il quadro da cavalletto e la pittura murale (the wall painting, o mural): “Pol-
lock mostra una nuova strada al di là del cavalletto, al di là del quadro incorni-
ciato e trasportabile, una strada che forse porta alla pittura murale”, egli scrive
di fronte a Shimmering Substance (fig. 69), Eyes in the Heat e Mural. Comun-
que, la risposta non è nuova. Di fronte alle Nozze di Cana di Veronese, per via
delle sue dimensioni, lo spettatore si sposterà lateralmente rispetto al quadro. Il movimento
Ma, come è noto, a questo spostamento indotto dalle dimensioni della tela ri- indotto nello
spettatore
sponde una particolare strutturazione dello spazio profondo dell’opera, dalla
prospettiva disgiunta e con il punto di fuga sostituito da due zone di fuga – due
spazi di diversi metri quadrati, uno in basso e l’altro in alto, nella parte centrale
del quadro. Lo spostamento dello spettatore è quindi strutturato come un mo-
vimento laterale (non c’è un punto ma una zona di fuga) e all’indietro (ci sono
due zone di fuga). Il pittore scongiura così il possibile sfondamento prospettico
della parete attraverso una scansione laterale della superficie (cfr. Bouleau 1963,
pp. 26-27). Doppio gioco, quindi, della profondità e della superficie, in cui l’ef-
fetto ottico (la stabilizzazione della percezione entro limiti accettabili) si prolun-
ga nell’effetto dinamico dello spostamento dello spettatore.
Ma se ogni focalizzazione centrale si trova dissolta dalla moltiplicazione dei
centri, come in There were seven in Eight, e/o dalla neutralizzazione dell’oppo-
sizione profondità/superficie dovuta alla distribuzione relativamente uniforme
degli elementi cromatici sull’intero quadro (all-over), come in Sea Change (fig.
70), allora, stranamente, lo sguardo si trova anch’esso senza un luogo proprio,
come neutralizzato, senza che l’evidenza di un motivo o la forza di un effetto gli
impongano una collocazione o una direzione nella quale muoversi. Ci accorgia-
mo qui che il formato non serve più. Lo spettatore è in posizione u-topica: in u-
no stato di non-luogo, senza tuttavia essere in movimento.
Ma c’è anche un’altra specie di oscillazione o di flusso dello sguardo – come
in Full Fathom Five, del 1947 –, che non è né spostamento laterale per obbedire
alle ingiunzioni della superficie di fuga, né progressione frontale per leggere me-
glio, riconoscere e discernere, né indietreggiamento per integrare meglio la tota-
lità nel senso. Si tratta piuttosto di una scompaginazione della struttura nella te-
stura. L’opera complessiva si atomizza nella pittura del quadro e la autonomizza:
grande fonte di piacere, perché lo sguardo non vi si perde affatto. Ma, viceversa,
si tratta anche di un movimento di scansione della pittura nei reticoli che la tra-
mano: grande fonte di diletto, perché non dominiamo mai la diversità di quel- La posizione
l’articolazione. Lo spettatore, quindi, non può né deve cercare la giusta distanza u-topica
dalla quale, in un punto di vista determinato, potrebbe comprendere l’opera co-
me un sistema simbolico chiuso sulla propria complessa totalità. È dunque il
rapporto stesso del riguardante con l’opera pittorica a trovarsi rivoluzionato, co-
sì come lo è quello del pittore rispetto al quadro, in particolare nel caso delle
grandi tele che Pollock dipinge con colate e sgocciolature, appoggiandole sul pa-
vimento e spostandosi intorno a esse. La sostituzione (peraltro più teorica e per-
sino ideologica, che reale) dello spettatore con il pittore, non può più realizzarsi
214 LOUIS MARIN

secondo le regole del dispositivo rappresentativo. Questo rapporto dello spetta-


tore con l’opera si era già trasformato con Monet o Renoir. Come ha dimostrato
Meyer Schapiro per l’impressionismo, l’illusione di uno spazio profondo dipen-
de strettamente dalla collocazione dello spettatore alla giusta distanza (cfr. Rubin
1967, II, p. 3). E lì che ogni tocco discreto si fonde con gli altri per produrre
quelle luci e quelle ombre colorate in cui si formano le immagini tridimensionali.
Ma se lo spettatore si avvicina, “come il quadro impressionista ci invita a fare”,
allora l’immagine si dissolve, il modellato si atomizza e il tessuto pittorico si au-
tonomizza nel macchiettare infinito del pennello. La luce-ombra immateriale è
diventata una testura concreta di paste colorate. La finestra aperta nel muro è di-
venuta “una piccola ala di muro gialla”, una parete di pittura.
Con Pollock, non è ormai più possibile per lo spettatore far giocare l’illusio-
Visione da ne referenziale contro l’astrazione pittorica, la lettura che mira a riconoscere le
vicino e visione forme contro quella che coglie le metamorfosi degli elementi discreti. Non si
da lontano può giocare su entrambi i registri, quello figurativo, illusorio, alla giusta distan-
za, e quello pittorico, materico, nell’infinita prossimità. Lo spettatore è abban-
donato all’utopia di un ritmo tra testura e struttura. Pollock sembra illustrare
un pensiero di Pascal che mi ha sempre affascinato per la sua modernità:

Una città, una campagna, da lontano [alla giusta distanza] sono una città o una cam-
pagna; ma, quanto più ci avviciniamo, son case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche,
zampe di formiche, all’infinito. Tutto questo vien compreso sotto il nome di ‘campa-
gna’ (Pascal 1660, p. 24).

Quest’utopia del sito di visione fa entrare il riguardante nell’infinità del sensi-


bile pittorico, in cui ogni possibile sintesi ricognitiva dell’oggetto nel “nome” sva-
nisce. “Formiche, zampe di formiche”, è il formicolio delle piccole percezioni in-
consce, come diceva Leibniz, delle piccole sensazioni colorate di Cézanne. Ma
perché avvicinarsi? E perché no? Non ho nulla da perdere, ma nemmeno da gua-
dagnare, se non una variazione nel regime della visione che si chiama piacere del-
l’occhio – ben diverso, in questo, dallo spettatore dell’ultimo Tiziano, che, secon-
do il Bellori (1672), si allontana dal caos dei tocchi di colore quando è troppo vi-
cino al quadro per recuperare le belle immagini auree di Diana e di Atteone.
Ma eccoci già dentro lo spazio nel quadro. Che ne è dello spazio Pollock nella
dialettica tra profondità e superficie che si gioca fra la tela e il piano, tra il sup-
La riconquista porto materiale e l’entità geometrica astratta? Nel sistema della rappresentazione,
della tela e del la tela è occultata in profondità e il piano viene assunto come superficie traspa-
piano rente, fondale di una scena con piani scaglionati nello spazio illusorio e finestra
diafana aperta su quel mondo di apparenze dipinte. L’intera impresa della pittura
contemporanea potrebbe essere riassunta nella doppia riconquista della tela e del
piano, nel loro gioco reso visibile, di cui il lavoro di Pollock, con i dripping realiz-
zati dal 1947 al 1951, rappresenta una delle più grandiose realizzazioni.
È sufficiente osservare attentamente Lavender Mist: n° 1, (tav. XV) uno dei
quattro grandi drip del 1950 presentati alla mostra parigina del 1982, per consta-
tare che il quadro non è una distesa piana bidimensionale, come ad esempio nel-
l’ultimo Matisse o, in maniera più ottica, in Barnett Newman. Offre allo sguardo
uno spazio. Possiamo definirlo spazio profondo? Mi sembra difficile. Pollock ha
inteso la grande lezione modernista secondo la quale rifiutare l’illusionismo della
LO SPAZIO POLLOCK 215

profondità dipinta del mondo reale sulla tela significava, viceversa, fare della tela
un mondo reale di pittura – una rivoluzione che portava a compimento in modo
clamoroso, per la pittura, quella che il Rinascimento aveva vinto per il pittore:
non solo l’autonomia di uno status e di una posizione in ambito sociale e ideolo-
gico, ma anche l’autonomia e la legittimità delle pratiche finzionali in campo e-
stetico, di una pratica reale del possibile, voglio dire di una presentazione delle
condizioni di possibilità dell’arte nel campo della teoria e della filosofia. Questo
Autonomia del
ampio dibattito si riduce in pratica a questo: come realizzare un artefatto di aree pittore e
e piani che non sia un’arte delle piattezze e delle superfici? Come fare emergere autonomia
la tela e far vedere il piano? Come attribuire al senso, al sensibile, lo scarto e la della pittura
differenza tra la tela rivelata e il piano reso visibile? Come produrre senso, sensi-
bilmente, con questo spazio di bassofondo tra tela e piano? Come fare sentire u-
no spazio senza profondità, ma non piatto, tra due superfici?
Lavender Mist: n° 1 (tav. XV), Autumn Rhythm: n° 30, One: n° 31 danno, cia-
scuno a suo modo, una delle risposte possibili, con i reticoli delle loro colate fi-
liformi, gli arabeschi delle loro sgocciolature, le forme esplose dei loro schizzi.
Sia nello sguardo che sul/nel quadro, i reticoli, i tralicci, gli arabeschi, i grovigli,
bianchi e neri o colorati, stanno tra la tela e il piano; aprono lo scarto di una dif-
ferenza inassegnabile (tranne in quell’“arte di vanità” che è la pittura illusioni-
sta), tra la tela e il piano, senza conservare alcuna traccia di un modellato alla Cé-
zanne. È qui che il quadro di Pollock mette alla prova il linguaggio che cerca di
descriverlo, obbligandoci in qualche modo a inventare nuove categorie di descri-
zione dello spazio tramite l’associazione di termini in parte contrari. Sarebbe for-
se opportuno, ad esempio, per parlare di quello spazio molto ridotto che ho
chiamato, con un termine marittimo, “bassofondo”, introdurre la nozione di
spessore traslucido – dove “spessore” rinvierebbe alla crosta di pittura autonoma
e omogenea di cui parla Meyer Schapiro per definire il “fare” impressionista, ov-
vero alla materialità dei pigmenti di colore sulla superficie e alla “realtà concre-
ta” degli strati dipinti sovrapposti, per quanto sottili; e dove, d’altra parte, “tra-
slucido” cercherebbe di esprimere l’effetto ottico di questo spessore tra tela ma- I dripping come
teriale e piano astratto che conserva qualcosa dell’opacità della prima e un po’ disegno di
della trasparenza del secondo e dove la materialità dei pigmenti sulla superficie pittura
si dissolve per l’occhio in una specie di vibrazione scintillante, diffusa, regolar-
mente disseminata o scandita da accenti secondo i casi, che si riassume, alla fine
del percorso dello sguardo, in uno stretto spazio di scarto e differenza tra mate-
ria e luce. Come creare degli artefatti di superfici, ci chiedevamo, che non siano
ne superficiali né piatti? Cosa significa rispondere a questa domanda con la tec-
nica del dripping? Discutere di precedenze nella “scoperta”, come se si trattasse
di una scoperta, è sintomo di vanità dell’artista o di ingenuità del cronista. An-
diamo all’essenziale. Pouring e dripping (e si potrebbe proseguire con spraying,
splashing, spouting…) sono fondamentalmente un disegno di pittura di cui biso-
gna valutare le conseguenze e gli effetti sulla linea stessa di questo disegno. La li-
nea prodotta dal colore versato a filo sulla tela (drip) non è più il bordo di un
piano; espandendosi lateralmente, sviluppando escrescenze di ogni genere, goc-
ce, macchie, matasse e chiome, assume un nuovo profilo molto singolare. Si e-
spande, si estende, ma inoltre, spesso, attacca, “morde” (“it bites” come diceva
Fried) la tela stessa, in modo irregolare su ogni suo bordo. È ormai chiaro che la
linea non circoscrive più un piano o un volume. Ma non diventa nemmeno un
216 LOUIS MARIN

piano; e neanche un punto; né, tantomeno, un punto in movimento, come per


Kandinsky; né il piano il prodotto dello spostamento di una linea, come per K-
lee. Si può ancora chiamarla linea? Altra occasione per mettere in discussione il
discorso sulla/della pittura. La linea è un tratto reale o immaginario che, ridotto
praticamente alla dimensione della lunghezza, separa due cose, all’intersezione
di due piani: è un contorno. Ora, la linea dal nuovo profilo del dripping di Pol-
lock non è né un contorno né il bordo di una superficie: diventa piatta, estesa,
senza essere un piano, una sfilza di gocce senza essere una sequenza di punti, il
groviglio di una chioma senza essere un fascio di rette. La linea del dripping è il
mutante della linea del disegno, così come il disegno del dripping è il mutante
del disegno dei volumi nello spazio, fosse pure un disegno fatto di pittura. In
La linea come Autumn Rhythm: n° 30 del 1950, la linea di Pollock è una traccia, cioè l’impron-
traccia ta lasciata da un passaggio sulla tela, impronta e sequenza di impronte, indicazio-
ne e serie di indici. Però un’impronta paradossale, poiché ciò che è accaduto e
che ha lasciato traccia del suo passaggio non ha mai toccato la tela, né diretta-
mente né indirettamente per il tramite di uno strumento, pennellessa, pennello,
spatola o coltello. Solo il liquido che cola, o cade goccia a goccia, tocca la tela; di
fatto non la tocca, vi si espande e vi si deposita come indice di ciò che è passato,
di ciò che è accaduto. La linea di Pollock è la traccia di un evento. Questa trac-
cia, qualunque sia la densità del suo deposito, la sua espansione laterale, la sua
risoluzione in gocce, “lascia trasparire sia lo spazio illusionista che essa abita sen-
za strutturarlo, sia gli impulsi di un’energia senza corpo che sembra muoversi
senza incontrare resistenza attraverso il quadro” (Fried 1965a). Le trame delle
tracce lasciano trasparire la tela su cui sono tracciate, non la celano; la indicano
come il luogo della loro iscrizione, lasciando trasparire anche quello che abbia-
mo chiamato il piano, superficie “immateriale” dell’evento che è passato lascian-
do la propria traccia. La differenza tra la tela e il piano, lo spessore traslucido in
cui il quadro produce il suo spazio, è quindi l’insieme delle tracce lasciate dall’e-
vento incorporeo, la somma delle impronte di questa distanza dinamica senza
tocco tra il pigmento liquido che cade in colate, schizzi, sgocciolature, e il luogo
in cui si tracciano le loro impronte. Si trovano in tal modo singolarmente supera-
ti (come per Cézanne, Monet o Mondrian, ma ogni volta in modo diverso) anche
i vecchi dibattiti sul disegno e sul colore.
Il carattere non pertinente dell’opposizione linea/colore in Pollock deriva
non solo dall’apparizione di questa nuova entità nell’arte del dipingere, ossia la
L’intreccio traccia prodotta dal colore versato sulla tela, ma anche dall’intreccio delle tracce
delle tracce
in trame successive, senza mai chiudersi in un sistema di cui si potrebbero defi-
nire, come per l’ornamento decorativo, le unità discrete in numero finito e le lo-
ro regole di disposizione: intreccio che opera dunque, anche qui, tra la succes-
sione temporale dell’evento e la simultaneità acronica del sistema.
Prendiamo, ad esempio, One: n° 31 del 1950. Osservando una porzione
qualunque dell’opera, si scoprono due caratteristiche essenziali. La prima è, in-
nanzitutto, che l’intreccio delle tracce contribuisce al mutamento della linea e
del disegno. In effetti, nei molteplici momenti di incrocio, la colata di pittura si
trova istantaneamente modificata, nel suo svilupparsi ed estendersi, dalla colata
attraversata, modificando essa stessa, a sua volta, quella che la incrocia. Per ri-
correre a un’immagine cinegenetica della traccia, sembra che qui si confondano
le tracce di una stessa pista, si sovrappongano molte piste diverse. Di conse-
LO SPAZIO POLLOCK 217

guenza, l’occhio non può seguire il filo di Arianna di una linea, ovunque esso
possa portarlo. Perché il filo di Arianna si trova sempre e per sempre tagliato da
un altro filo di un’altra Arianna; o forse è la stessa? Forse è lo stesso filo? Segui-
re la traccia in One: n° 31 o in Lavender Mist: n° 1 (tav. XV) significa, se non
ballare senza spostarsi, per lo meno interrompersi di continuo, fermarsi sempre
per seguire un’altra pista. Ci sono solo frammenti di tracce, segmenti di fili, cia-
scun segmento modifica e viene modificato, diventa all’istante uno spandersi di
macchie, una nuvola di gocce, schizzi di pozze, incroci con varie uscite. Ma la
mia descrizione lascia pensare che lo sguardo si esaurisca in ciò. Non è così:
perché nello stesso punto, su quel segmento di traccia, quella pozza o quella
macchia, troverà sempre una sovrapposizione aperta di momenti di pittura. Co-
sì, questa moltiplicazione spaziale e locale degli incroci di tracce costituisce u-
gualmente una demoltiplicazione temporale, una specie di sommatoria indefini-
ta di istanti co-presenti nello stesso luogo e nello stesso spazio. E l’effetto ottico
di questa moltiplicazione demoltiplicata dello spazio e del tempo che mi fa ve-
dere diversi presenti nello stesso luogo, vari luoghi nello stesso presente, l’effet-
to ottico degli incroci di spazio e di tempo, è la testura scintillante, come vapo-
rizzata, di Lavender Mist: n°1 (tav. XV), il polverio in via di atomizzazione di O-
ne: n° 31, la scansione esplosa di Autumn Rhythm: n° 30.
Il secondo tratto caratteristico dell’incrociarsi delle tracce, oltre alla trasfor-
mazione della linea in trame co-presenti, è che il fondo della tela è sempre visto La tela nella
attraverso gli intrecci, e che questi ultimi non lo celano né lo velano mai, e nep- sua materialità
di supporto
pure – per la loro natura stessa di intrecci – lo lasciano leggere come un piano
circoscritto e chiuso da linee. Di che natura è dunque visivamente, per il “sen-
so”, questo spazio di fondo che gli incroci percorrono e articolano? Molto sem-
plicemente è la tela del quadro. Non – come vorrebbero alcuni, troppo metafi-
sici – l’infinità di un abisso8, perché con esso farebbe ritorno l’illusionismo di u-
na profondità diventata priva di fondo. Soltanto la tela nella sua materialità di
supporto, ma una tela divenuta campo dei percorsi del flusso delle sensazioni in
reticoli prodotti dall’incrociarsi delle tracce diversamente colorate. Per affinare
la nostra nozione di spessore traslucido, diremo che la differenza tra tela e pia-
no, scarto tramato dalle tracce sovrapposte in cui il presente si demoltiplica gra-
zie alla moltiplicazione dei luoghi, rinvia a una visione che, più che vedere, in-
travede, e a uno spazio che è interstizio. Il quadro non è più la finestra traspa-
rente aperta sullo spazio illusorio delle apparenze dipinte. Ma non è nemmeno
un muro di pittura – non tanto il mural, quanto la muraglia di pittura evocata
da Balzac nel Capolavoro sconosciuto, in cui lo sguardo s’imbatte, pur lasciando
sospettare che “là sotto” si nasconda una donna. Il quadro è lo spessore traslu-
cido di uno spazio interstiziale nel quale lo sguardo “intravede”; è un mondo di
Lo spazio
intervalli di tempo-spazio, l’inesauribile diversità di un formicolio di differenze. interstiziale
La tela cessa di essere sostanza, sostegno e supporto dell’opera, per accedere,
attraverso l’interstizio, a una materialità scintillante, vibrante, scandita: la mate-
rialità immateriale delle tracce incrociate.
Tuttavia l’“augenblick” interstiziale nello spessore traslucido non implica una
dissoluzione della struttura nella testura pigmentaria di superficie. L’intrecciarsi
delle tracce produce, se così si può dire, una doppia articolazione del quadro. A
parte i dipinti – relativamente rari nel periodo 1946-51 – con aree colorate di-
stinte, quali Tondo 48 o Small Composition del 1950, le tracce colorate si orga-
218 LOUIS MARIN

Fig. 71. Jackson Pollock, Number 5,


1948, olio, smalto e alluminio su carto-
ne, 243.8 x 121.9 cm, Los Angeles, col-
lezione David Geffen.

nizzano di fatto in una struttura fondamentale chiaro/scuro; attraverso i valori


del chiaro e dello scuro una tonalità generale domina il quadro: il che implica
che i colori siano distribuiti secondo una certa regolarità sulla tela (una delle ca-
ratteristiche dell’“all-over”) e anche e soprattutto che siano inseriti nel gioco dei
non-colori, nero, bianco, per non parlare dell’alluminio, la cui funzione è spesso
essenziale dal 1947 al 1951 per strutturare lo spazio nel quadro, da Sea Change
(fig. 70) del 1947 a Lavender Mist: n° 1 (tav. XV) del 1950. L’alluminio, in effetti,
versato a falde in Number 10 del 1949, a schizzi in Number 8 o 13, in grovigli in
Number 5 del 1948 (fig. 71) e quasi a formare uno strato intermedio in Sea Chan-
ge (fig. 70), contribuisce con la sua evidente materialità ad addensare lo spessore
traslucido del quadro e a far tendere al piano le tracce colorate con le quali viene
in contatto. Avendo inoltre, come gli altri smalti liquidi, la capacità di riflettere
diversamente la luce ambiente, la sua luminosità instabile, che emana dalla cro-
LO SPAZIO POLLOCK 219

sta di pigmenti, dissolve i grovigli di colori in una tonalità globale che può fun-
gere da sfondo (il bruno di Arabesque: n° 13 A del 1948), o da etere colorato
prevalente (così il verde di Full Fathom Five del 1947; oppure il rosa grigio di
Lavender Mist: n° 1 del 1950, tav. XV). Rossi, blu, gialli, i colori vivaci e saturi
non minacciano mai la tonalità dominante. Il contro esempio è fornito da Con- Il dispositivo
vergence del 1952, in cui per l’appunto la convergenza non si realizza, e in cui cromatico
rossi e gialli tendono, otticamente, a tenersi al di qua del piano invece di metter-
lo in risalto nella sua differenza con la tela. Una prima articolazione si effettua,
quindi, attraverso il dispositivo cromatico, chiaroscurale o tonale, in modo che
l’unità del quadro si giochi sul piano ottico.
La seconda articolazione struttura il quadro non nella traslucidità della mate-
ria sensibile, ma nella sua architettura tra tela e piano: un’architettura che tutta-
via non è quella di forme modellate a tuttotondo nelle tre dimensioni, né quella
di una “composizione” tramite il découpage della “superficie”, né quella di una
disposizione figurativa di particolari, che si tratti di storia, di paesaggio o di og-
getti, e nemmeno – come è stato proposto – quella di una combinazione senza
composizione (cfr. Payant 1979a, 1979b) di elementi simili (che ricondurrebbe il
quadro di Pollock a un registro puramente ornamentale o decorativo, senza vo-
ler dare un senso esteticamente peggiorativo a questa osservazione). Architettura
monumentale, comunque, che ha colpito complessivamente la critica d’arte du-
rante le mostre da Betty Parsons dal 1948 al 1951; che è stata ripresa, in seguito,
dalla storia dell’arte in ciò che viene chiamato il “periodo classico” di Pollock.
Ma architettura di che cosa? Proporrò qui come categoria del discorso descritti-
vo il termine ritmo: architettura di un ritmo, e più esattamente di un ritmo figu-
rale. È quindi come se l’intero quadro, nel suo spessore traslucido di trame e di
reticoli di tracce, avesse come finalità di “mettere in ritmo” la prima traccia,
quella “traccia di origine” che viene tracciata sulla tela senza toccarla, la grande L’architettura
figura che ne attraversa la distesa materiale, di farne nascere un ritmo seguendo del ritmo
il suo ritmo, assecondandola, riprendendola, interrompendola, sincopandola. Le
tracce successive ripetono la traccia iniziale e, in questa ripetizione stessa, la ne-
gano. Ripetere è negare, molto semplicemente perché, se questa grande traccia
figurale deve essere ripetuta – ripresa, ricominciata –, ciò è dovuto al fatto che
non ha ancora avuto inizio o che ciò che ha iniziato non è stato raggiunto: eppu-
re è proprio perché c’è stata una prima traccia, una traccia di origine, che posso-
no esserci tutte le altre. Architettura di ritmo figurale: cioè architettura che arti-
cola il monumento del quadro solo ripetendo – ossia negando, in questa ripeti-
zione – la differenza iniziale, quella della traccia di origine, sino a riempire con le
sue piste imbrogliate tutto lo scarto della differenza inassegnabile tra la tela e il
piano, tra la tela indicata dalla prima traccia e il piano reso visibile da tutte le tra-
me di tracce che la ripetono. Number 32 del 1950 ce lo mostra patemicamente:
non ci mostra certo la traccia di origine, quella che fa della tela la tela del qua-
dro, ma le tracce che sempre già la ripetono e la negano, tracce nere sulla traccia
nera. Nella sua nudità, Number 32 ci consente di visualizzare, nello spazio inter-
stiziale, la negazione ripetitiva dell’origine, la seconda articolazione architettoni-
ca monumentale: quella del ritmo della figura nei quadri di Pollock tra il 1947 e
il 1951. Naturalmente, tutto questo ha senso solo se si intende per “figura” non
la forma esterna di un corpo o la sua rappresentazione, o addirittura quella di un
volume delimitato da linee, bensì il cammino descritto dal ballerino sul pavimen-
220 LOUIS MARIN

to, e con “ritmo” ciò che intendevano gli atomisti greci, lo stato singolare e mo-
mentaneo di un flusso di atomi, l’architettura improvvisata e dinamica di un
“fluire” colto in un istante (cfr. Benveniste 1966).
Un’ultima tappa da percorrere: lasciare lo spazio nel quadro per raggiungere
lo spazio del quadro. In verità, parlando dell’uno abbiamo già parlato dell’altro,
il che significa che con Pollock, in particolare tra il 1947 e il 1951 (ma anche
con Monet e Renoir, il cubismo analitico, Mondrian, Masson o Miró) la distin-
zione tra l’uno e l’altro cessa progressivamente di essere pertinente. Si tratta
dunque, per proseguire nella nostra descrizione, di raggiungere lo spazio
Lo spazio del nel/del quadro ai suoi bordi, in questi luoghi ambigui dove lo spazio di creazio-
bordo
ne (del pittore) e di presentazione (del riguardante) confina con quello, autono-
mo, della pittura e si articola con esso. Occorre reintegrare, con Pollock, bordo
e limite, cornice e incorniciatura del dipinto tra dentro e fuori, né l’uno né l’al-
tro, ma l’uno e l’altro contemporaneamente.
Aldous Huxley, in una tavola rotonda, nel 1948, commentando Cathedral
del 1947 (fig. 72) (un quadro che si potrebbe avvicinare, per esempio, a En-
chanted Forest del 1947) dichiarava:

Il problema che si pone è quello di sapere perché tutto ciò si ferma, quando accade
che si fermi. L’artista potrebbe andare avanti all’infinito (risate). Mi fa l’effetto di u-
na carta da parati che si ripete senza fine sul muro.

Un’osservazione che Pollock riprende nel 1951 sul «New Yorker»: “Un cri-
tico ha detto che i miei dipinti non avevano né inizio né fine. Non lo ha scritto
come un complimento, ma lo era” (Greenberg 1977). Si noti lo spostamento.
Huxley si interroga non sull’inizio o sulla fine, ma sul fermarsi arbitrario di una
ripetizione dello stesso motivo: la carta da parati, la decorazione, l’ornamento si
contrappongono, in quanto ripetitività e monotonia, alla singolarità, all’unicità,
alla necessarietà del quadro autentico. Pollock dal canto suo, pone il proprio
quadro – ma come una specie di ideale: è qui l’aspetto lusinghiero del compli-
mento – come un infinito circolare di pittura, inizio e fine, nascita e morte nello
stesso luogo, desiderio e compimento nello stesso momento; un quadro che,
poiché il suo processo di produzione spazio-temporale s’identifica con il suo
stato compiuto di opera, rappresenterebbe da solo il quadro assoluto, il quadro
folle (e si ritroverebbe qui il Capolavoro sconosciuto di Balzac). Carta da parati
di Huxley o quadro assoluto di Pollock?
Abbiamo cominciato a dare una risposta con la nozione di dialettica della te-
la e del piano e con quella di doppia articolazione dell’intreccio e della figura,
per riprendere il titolo del bel saggio di Damisch del 1959; l’intreccio risponde,
a modo suo, all’ornamento e alla decorazione, essendo la ragione dell’effetto di
unità tonale del quadro, e la figura risponde, a modo suo, al fermarsi contingen-
te del dipingere, lasciandosi intravedere come la traccia di origine, originale, i-
La concezione niziale, fondatrice, perché ripetuta e negata dalle tracce che vi si sovrappongo-
“classica” della
cornice
no. Nessun inizio, nessuna fine dell’intreccio delle tracce, né nella dominante
cromatica o tonale che struttura otticamente il quadro, né nell’architettura rit-
mica dei flussi che vi sono tracciati.
Una seconda risposta nasce dalla considerazione dei “bordi”, e da lì si può
riprendere la questione dell’all-over – il “da bordo a bordo” – nella sua relazio-
LO SPAZIO POLLOCK 221

Fig. 72. Jackson Pollock, Cathedral,


1947, smalto e alluminio su tela, 181.6 x
89 cm, Dallas, Museum of Art.

ne con il dripping che caratterizza il periodo dal 1947 al 19519. Si noterà – è suf-
ficiente guardare i quadri – che i reticoli del colore versato, a differenza di un
continuum materiale arbitrariamente tagliato (come la carta da parati), si ferma-
no sui bordi della tela: la traccia, infatti, ritorna il più delle volte su se stessa de-
scrivendo degli anelli aperti come un animale che confonde le piste. Per prose-
guire con l’esempio di Enchanted Forest del 1947, si vedrà non solo che le trac-
ce arretrano e evitano i bordi della tela, ma anche come in questa opera, dall’o-
rientamento verticale (219x113), un reticolo di orizzontali o di quasi orizzontali
definisca la base, e una doppia sequenza di riccioli aggrovigliati, combinati con
linee verticali, corra lungo i bordi laterali della tela, mentre le tracce si fanno
macchie o strisce spesse negli angoli superiori destro e sinistro. Si potrebbe rifa-
re la medesima descrizione con Number 26 A: black and white o Number 5 (fig.
222 LOUIS MARIN

71) del 1948, anche se le modalità di sottolineatura dei bordi sono ogni volta di-
verse. I reticoli e le trame di tracce di Pollock intrattengono con la cornice una
“relazione classica” per riprendere l’osservazione di Rubin. Si potrebbero evo-
care gli archi rampanti laterali delle Grandi bagnanti di Cézanne oppure i di-
spositivi sui bordi ai lati dei paesaggi di Poussin, che lasciano in entrambi i casi
un intervallo, una cancellazione, tra il “motivo” e il bordo, che ripete nello spa-
zio interno al quadro lo scarto tra il limite del piano e il bordo della tela.
Questa cancellazione in prossimità del bordo caratterizza le tele cubiste anali-
tiche di Picasso e di Braque e il Mondrian degli anni 1911-12. Ma è effettiva so-
lo sui lati e a volte sul bordo superiore. E lì che la forma si contrae, e la figura si
La perdita smaterializza nell’astrazione pittorica. Il bordo inferiore continua a tagliare il
della gravità
motivo oppure il motivo continua ad appoggiarvisi con il peso dei suoi piani
sfaccettati. L’insieme assume così una gravità monumentale rispetto al suolo su
cui è appoggiato. Pollock, invece, effettuando questa cancellazione sui quattro
lati della tela, poiché essa viene stesa orizzontalmente sul pavimento nel processo
del dipingere, anche quando dà una densità maggiore alle colate della parte infe-
riore, come in Autumn Rhythm: n° 30 o One n° 31, dissolve la griglia cubista an-
cora articolata rispetto alla gravità delle cose e della posizione eretta, per dare vi-
ta a una struttura sempre monumentale ma aerea, una architettura di reti di trac-
ce che fluttuano tra i bordi, tra tela e piano10. La sensazione di una interruzione
contingente del quadro sui bordi, si potrebbe avere, a rigore, solo con le tele o le
carte incollate su pannello dello stesso periodo, come Silver over black white yel-
low and red del 1948, dove i bordi tagliano di netto i grovigli marroni grigi e ne-
ri e le zone bianco panna dello sfondo. Ma la vivacità degli accenti ad angolo ret-
to dei reticoli di linee, la grandezza delle pozze nere o marroni, la sottigliezza de-
gli schizzi arancioni, e soprattutto la loro disposizione, organizzano il quadro
con flessibilità, coinvolgendo lo sguardo in un percorso con centri diversi e con
incroci molteplici. In Number 10, dove le falde di alluminio sembrano sorgere
dai limiti per invadere la tela, sono i grandi vortici patemici del nero, sopra e sot-
to l’alluminio, e il reticolo leggero delle tracce verdi, ad animare il fregio con una
narratività astratta tramite il movimento delle sue differenze11.
Da bordo a bordo spennellati, da bordo a bordo sgocciolati, i quadri di Pol-
lock possono quindi intrattenere con la cornice una relazione classica ed essere
contemporaneamente senza inizio e senza fine; obbedire lungo i bordi a una
imperiosa necessità, ignorare la contingenza del taglio, la casualità dell’interru-
zione e essere al tempo stesso ripetitivi, senza origine né termine, non perché si
dissolvano nel cattivo infinito dell’illimitato, ma perché ripetendo la differenza
e negandola, essi articolano con rigore, nello stesso luogo e nello stesso momen-
to, l’inizio e la fine.
La questione della contingenza o dell’aleatorietà del bordo e del limite mi por-
ta a concludere con un’altra nozione a essa connessa nel discorso su/della pittura
di Pollock: quella dell’accidente o del caso che sarebbe in qualche modo consustan-
ziale al dripping pollockiano. Perché fermarsi qui piuttosto che lì? Fermarsi allora
L’accidente in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento. Come diceva Huxley, non c’è ragione che
e il caso ciò finisca: prima questione. Seconda questione: c’è nelle colate e nelle sgocciolatu-
re una tale quantità di accidenti imprevedibili che la tecnica è, per principio, ab-
bandonata all’aleatorio – è l’opinione di Arnheim, il quale aggiunge che il numero
degli accidenti è tale che essi si annullano gli uni con gli altri, per lasciare apparire
LO SPAZIO POLLOCK 223

solo le loro proprietà comuni che costituiscono la testura del quadro (Rubin 1967).
Ciò che succederebbe sui bordi del quadro per Huxley non fa che svelare ciò che
succede all’interno del quadro per Arnheim, ma in maniera apparentemente inver-
tita. Ciò che rende aleatoria l’interruzione del bordo è il carattere automatico del
processo del dipingere: ripetizione dell’identico. Ciò che rende contingente il pro-
cesso stesso del dipingere sino ai bordi (mediante i dripping), è il suo carattere ac-
cidentale, senza regole né leggi: differenze senza ripetizione; in sintesi, monotonia
o caos. Di fatto, la critica implicita contenuta nei due giudizi è la stessa: “Automa- Una casualità
ton” non è forse il nome che Aristotele dà al caso, ciò che si muove da sé come se calcolata
una finalità intelligente dirigesse il mobile verso il suo scopo? E l’imprevedibilità
dei dripping nel loro percorso, non si confonde forse con un’automaticità in qual-
che modo interna alla colata di pittura, al suo spruzzo, ai suoi schizzi? Colate, stil-
lazioni, che traccerebbero il proprio solco come se una finalità risoluta abitasse il
liquido nel suo sgocciolamento stesso12.
Se si ha l’impressione che la colata tracci essa stessa il proprio disegno obbe-
dendo a un certo disegno, ciò dipende molto semplicemente dal fatto che esiste un
“disegno” che determina le tracce e i loro reticoli. È sufficiente vedere a questo
proposito il film su Pollock all’opera. Che la tecnica del dripping comporti in sé
nella sua esecuzione un margine notevole di accidenti, gocce, schizzi, ma forse non
così considerevole quanto si crede, è sicuro. Tuttavia, credo che bisogna guardarsi
dal concepire l’accidente come una specie di residuo o di sbavatura di un processo
fuori controllo. L’accidente va qui pensato come la circostanza di un processo pit-
torico, un processo che non si realizza, in verità, se non tracciando e tessendo cir-
costanze, se non dissolvendo le sostanze nascoste, nelle circostanze che le materie
pittoriche diventano tra tela e piano: capelli, gocce, schegge, pozze, colate. Un pro-
cesso pittorico che sarebbe l’accumulazione degli accidenti o delle circostanze che
lo costituiscono e che esso produce. Ora, l’accidente come processo circostanziale
è tutt’altra cosa rispetto a un residuo o a un escremento: è l’accadimento di una
possibilità obiettiva, possibilità che è qui sulla tela, come per esempio questa sfilza
di gocce, ma solo come una parte possibile dello spessore di pittura tra tela e pia-
no; un’opportunità da cogliere o da lasciar andare13.
Di qui la mia conclusione, che lo spazio Pollock nel/del quadro, nel gioco delle I due presenti
circostanze del processo pittorico, delle sue trame di tracce tra tela e piano, bordo dell’opera
e limite, lo spazio Pollock animato – “un quadro vive della propria vita”, diceva
l’artista – vibrante, ritmato, è, se vogliamo, un automaton, una macchina, ma una
macchina “fabbrica occasioni”, una macchina che produce – nel crepitio incessan-
te del suo presente – accidenti subito trasformati dal “disegno” del dipingere in
possibili obiettivi, in occasioni di realtà – la realtà di pittura – a colpi di decisioni
meditate a lungo, prese all’istante. Lo spazio Pollock tra tela e piano, bordo e limi-
te, mette in gioco due presenti, il presente del tempo dell’opera, che avvolge il suo
passato e il suo futuro in una struttura effervescente, e il presente dell’istante, che
percorre il quadro in tutti i sensi e divide incessantemente il suo passato e il suo fu-
turo nel formicolio della sua testura (Deleuze 1969, pp. 133-150).

1 Da: Louis Marin, L’espace Pollock, «Cahiers du Musée National d’Art Moderne», n. 10, 1980, pp.

316-327. Traduzione di Elisabetta Gigante.


224 LOUIS MARIN

2 Sul moderno e sul postmoderno nell’arte si leggano le osservazioni polemiche di Lyotard (1982) e

in particolare la seguente riflessione, che vale anche per il “modernismo” di Jackson Pollock: “Postmo-
derno andrebbe inteso secondo il paradosso del futuro (post) anteriore (modo)”.
3 Si veda Robertson 1960; e soprattutto il catalogo della mostra curato da Wysuph (1970), con testi

di Judith Wolfe, David Freke, Elizabeth Langborne e Jonathan Welch. Cfr. anche Rubin 1979; e ancora,
nel catalogo della mostra di Parigi su Jackson Pollock (Abadie, Soulling 1982) l’articolo di Carmean Jr.,
nonché l’intervista di Stoullig.
4 Si veda al riguardo, il penetrante articolo di Michaud 1982.
5 Il verbo francese reconnaître ha sia il senso dell’italiano “riconoscere”, sia quello di “esplorare, ef-

fettuare una ricognizione” (N.d.T.).


6 Philippe de Champaigne, Ex-voto 1662. Si veda a questo proposito Marin 1975a.
7 Paul Klee, Ad Marginem, 1930, Basilea, Doetsch-Bensiger.
8 Sarebbe interessante considerare in questa prospettiva The Deep, 1953, Paris, Musée National

d’Art Moderne.
9 È il problema affrontato da Fried, quando descrive i grandi drip classici di Pollock, e da Rubin,

quando parla della straordinaria intuizione di Greenberg, cioè che il cubismo analitico persisterebbe in
Pollock, però a un livello infrastrutturale dell’opera.
10 Number 13 è da questo punto di vista un esempio molto interessante. Qui la costruzione cubista

non solo va in frantumi, e in questa stessa frantumazione evita ogni ricaduta per forza di gravità verso il
bordo inferiore del quadro così come ogni idea di sostegno su questo bordo, ma si depone inoltre come
farebbero dei fuscelli di legno in una acqua calma. Non nel fondo però, come fecero spesso i cubisti, in-
debolendo così la lezione di Cézanne di forme in bassorilievo a partire dalla tela (cfr. Rubin 1967; 1979),
bensì tra due acque, nello spazio intermedio di bassofondo, reso ancor più sottile dagli schizzi di allumi-
nio distribuiti tra un fondo di tela beige gialla, ravvivato da strisce gialle arancio e da macchie rosse e
blu, e un intrico di tracce bianco panna o beige che intessono il piano con i loro grovigli. L’impalcatura
così smembrata, che fluttua orizzontalmente tra tela e piano e tra i quattro bordi, costruisce tuttavia, con
le sue sbarre nere, una specie di rettangolo aperto, rotto, ritmato, inscritto nel rettangolo della tela, ai
vertici del quale altre sbarre nere lo stipano senza rigidità, due rettangoli dove si distingue un lontano e-
co di Mondrian.
11 Ciò che si riscontra sui bordi dei quadri considerati è la ripetizione di un limite, la reiterazione

della differenza tra tela e piano in quella tra bordo e limite del piano, che altro non è che la reiterazione
della differenza tra il mondo reale e il mondo fittizio della pittura. Ma poiché la ripetizione nega la diffe-
renza, garantisce al mondo della pittura la sua autonomia e la sua realtà.
12 Aristotele, Fisica, II, 195b30 – 198a13. Cfr. il riferimento di Lacan 1973, pp. 43-68. “Automaton

(…) è la rete dei significanti (…) tyche per noi è l’incontro con il reale”.
13 Sulla teoria dell’evento, dell’occasione e della circostanza, si veda Lyotard, Thébaud 1979; Marin

1973.
La squadratura1
Italo Calvino

Tutte le volte che incontra un suo amico pittore, lo scrittore rincasa rimugi-
nando tra sé. Le opere che espone il pittore non sono dei veri e propri quadri:
sono momenti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell’og-
getto materiale che è il quadro. Lo spazio che occupano queste opere è soprat-
tutto uno spazio mentale, eppure esse ostentano le materie prime di cui sono
composte, tela, legno, carta, colori di produzione industriale, articoli che si
comprano nei negozi di forniture per pittori; prendono posto nello spazio visi- Le materie
prime del
bile, occupano lo spazio che altrimenti sarebbe occupato da un quadro, e non quadro
vogliono far pensare ad altra cosa che ai quadri. Non è il rapporto dell’io col
mondo che queste opere cercano di fissare: è un rapporto che si stabilisce indi-
pendentemente dall’io e indipendentemente dal mondo. Anche allo scrittore
piacerebbe fare delle opere così: perché all’io non ci crede o se ci crede non gli
piace; e perché il mondo non gli piace o se gli piace non ci crede. Però non rie-
sce a trovare la strada.
Da un’opera all’altra il pittore continua un unico discorso, non comunicati-
vo né espressivo, perché non pretende di comunicare qualcosa che è fuori né di
esprimere qualcosa che ha dentro, ma comunque un discorso coerente e in con-
tinuo svolgimento. Lo scrittore guarda il mondo del pittore, spoglio e senza
ombre, fatto solo di enunciati affermativi, e si domanda come potrà mai rag-
giungere tanta calma interiore.
Certo, per arrivare a quel punto molto è stato escluso, ma è il solo modo per
tenersi alle cose di cui si può essere sicuri, che sono pochissime, e per poterle
guardare con fiducia e simpatia, almeno per un momento. Senza fermarsi a con-
templarle, però: l’occhio del pittore è sempre ironico e interrogativo, e le sue
tranquille affermazioni non sono altro che domande formulate con discrezione,
dopo le quali non resta che aspettare risposte che forse non verranno e nuove
domande che verranno certamente. Il pittore e lo
Questo è l’atteggiamento che pure lo scrittore vorrebbe avere ogni volta che si scrittore
siede alla scrivania, ma appena comincia a scrivere si trova con tanti peluzzi sulla
punta del pennino, o col nastro della macchina per scrivere tutto sfilacciato: pe-
luzzi e sfilacciature che vorrebbero corrispondere al modo particolare in cui il
mondo si va sfilacciando e speluzzando, o in cui l’esperienza interiore si sfrangia e
spelacchia, mentre di fatto sulla carta quello che resta – se scrive a penna – sono
baffi d’inchiostro, macchioline, a e o con gli occhielli intasati, o – se scrive a mac-
china – parole male inchiostrate, effe e elle che sfumano nell’ineffabile.
Per queste vie insidiose la comunicazione e l’espressione continuano ad affio-
rare attraverso le parole. Allo scrittore, quella che dà più fastidio è l’espressione:
226 ITALO CALVINO

Fig. 73. Giulio Paolini, Disegno geometrico, 1960, tempera e inchiostro su tela, 40 x 60 cm, Torino,
collezione Anna Paolini Piva.

è uomo di carattere riservato, ed esprimere qualcosa di se stesso non gli pare una
bella cosa da fare, soprattutto in pubblico. Lo stesso verbo “esprimere” ricorda
sgradevolmente la secrezione, o, nel migliore dei casi, l’atto di spremere un limo-
ne. Se lo scrittore dovesse identificarsi con un frutto preferirebbe una specie non
spremibile, una noce, una mandorla, o magari – nei suoi momenti più generosi –
un fico secco. Per quel che riguarda la comunicazione, invece le allergie dello
scrittore sono meno categoriche. In fondo comunicare non è che gli dispiaccia,
tutto sta a intendersi sul che cosa e sul come. Anche il pittore, a ben vedere, co-
munica: tanto è vero che lo scrittore guarda le opere del pittore cercando di tra-
durre ciò che esse gli comunicano in qualcosa che vorrebbe comunicare lui.
Il pittore ha cominciato il suo discorso quindici anni fa con una tela grezza
La griglia in cui sono tracciate due linee perpendicolari e due diagonali: la squadratura
topologica geometrica del foglio, “il disegno preliminare di qualsiasi disegno”: ma siccome
gli sembrava che quelle linee occupassero il quadro con troppa presunzione,
quasi credendosi più importanti della tela su cui erano tracciate, le ha messe tra
parentesi: parentesi appena accennate, perché non si credano d’essere chissà
cosa neppure loro (fig. 73).
Un anno dopo, ha cercato di mettere tra parentesi la tela, appendendola in
mezzo a un telaio più grande in modo che restasse uno spazio vuoto tutt’intorno.
Voleva risultasse chiaro che la tela fa parte del quadro ma non è il quadro.
Poi si è proposto di fissare il momento in cui il colore entra a far parte del
quadro, il momento del colore prima del colore: quando è ancora nel barattolo,
dunque. E ha provato a posare un barattolo su un telaio vuoto, involgendo tutto
col cellophane. Ma certo era una mossa rischiosa, che portava dritto al simboli-
smo, cioè quel determinato colore, anzi quel determinato barattolo, sarebbe stato
LA SQUADRATURA 227

tentato di credersi il colore. Una soluzione equanime e armoniosa fu trovata dopo


un anno: presentare un campionario di cartoni colorati (tav. XVI, XVII).
Silenziosi suggerimenti raggiungevano intanto l’occhio del pittore: la carta qua-
drettata per esempio invita a tracciare altre quadrettature o linee rette a matita o a
inchiostro di china, che s’alternino o si sovrappongano a quelle stampate, o tagli
che rivelino quello che c’è sotto, per esempio una superficie di masonite. Il rove-
scio del quadro invece suggerisce quel che c’è dietro al retro, per esempio il muro
(fig. 74). Basta appoggiare una tela nuda a piè di un muro, un po’ inclinata, e fer-
marsi a guardarla, per renderci conto di come siamo irriconoscenti noi che abbia- Il rovescio del
mo occhi soltanto per ciò che è portato, la pittura, e non per ciò che ha il compito quadro
di portare: la tela, il suo telaio, il muro che li regge, il suolo su cui poggia il muro.
I quadri di solito s’appendono all’altezza degli occhi di chi li deve guardare.
Non bisogna dimenticare dunque che il vero luogo della pittura è quella fascia
orizzontale che delimita il campo visuale d’una persona in piedi: mettere in evi-
denza questa fascia potrebbe diventare l’opera pittorica assoluta (figg. 75, 76).
Ma quest’uomo in piedi a ben vedere non è altri che il signore col soprabito in-
dosso che incontriamo nelle gallerie d’arte, con lo sguardo rivolto alle pareti. Se
il fine ultimo dell’arte è questo, tanto vale che l’opera assoluta riproduca quel
signore a grandezza naturale ripetuto tante volte di faccia e di schiena.

Fig. 74. Giulio Paolini, Senza titolo, 1962, tre tele preparate montate al verso una dentro l’altra, 50 x
60 cm, Parigi, collezione Anne e Wolfgang Titze.
228 ITALO CALVINO

Fig. 75. Giulio


Paolini, Orizzontale
(prospetto), 1963,
inchiostro e collage
su carta, prospetto,
50 x 70 cm, courte-
sy Archivio Giulio
Paolini.

Fig. 76. Giulio


Paolini, Ipotesi per
una mostra, 1963,
progetto, courtesy
Archivio Giulio
Paolini.

Orizzonte un po’ limitato, a cui il pittore è riuscito a sottrarsi concentran-


dosi sul rapporto del quadro con uno sguardo particolare, quello di chi ha
fatto il quadro, l’autore, cioè se stesso, visto magari attraverso il telaio, mentre
guarda una tela che non c’è (fig. 77). L’autore non come soggetto – attenzio-
ne! – ma come elemento dell’opera. Non il pittore che dipinge, o che, peggio
ancora, dipinge se stesso, ma fotografato mentre solleva la tela, prende a pro-
prio carico il suo peso, si fa supporto lui stesso. Fotografato: e perché non ci
siano dubbi che la fotografia è solo strumento, si fotograferà anche il foto-
LA SQUADRATURA 229

Fig. 77. Giulio Paolini, Delfo, 1965, fo-


tografia su tela emulsionata, 180 x 95
cm, Minneapolis, Collezione Walker Art
Center.

Fig. 78. Giulio Paolini, D867, 1967, fo-


tografia su tela emulsionata, 80 x 90 cm,
Londra, Collezione Alex Sainsbury.
230 ITALO CALVINO

Fig. 79. Giulio Paolini, Io


(frammento di una lettera),
1969, frammento dattilo-
scritto applicato su suppor-
to adesivo di gomma, cm
1.5 ø, Casale Monferrato,
collezione Gino Viliani.

grafo. Oppure si fotograferà il pittore mentre trasporta la tela su cui è foto-


Il quadro e lo grafato il pittore che trasporta la tela (fig. 78).
sguardo
Molte opere del pittore sono fatte di citazioni di sue opere anteriori. Si può
dell’osservatore
parlare della propria storia senza compiacersene, senza intenerirsi? Lo scrittore
ha dei pessimi rapporti con la propria storia e non vorrebbe mai voltarsi indietro
a contemplarla. Del pittore apprezza soprattutto la riservatezza. Non c’è nulla di
più intimo della propria firma. Si vede chiaramente che al pittore esporre un’ope-
ra con la propria firma provoca un certo disagio. Come liberarsene? Cancellando
la firma? No, per colmo di pudore, cancella l’opera ed espone solo la firma.
Lo scrittore ammira molto gli sforzi del pittore per arrivare a un’impersona-
lità assoluta, per sfuggire all’aborrita psicologia, ma comincia a innervosirsi
quando vede che la via verso l’impersonalità riporta il pittore a tirare in ballo
l’io, sia pure un io cartesiano, categorico, grammaticale, anonimo (fig. 79). E se
proprio questa fosse la via per liberare l’io dalla corpulenta pesantezza dell’auto-
biografia individuale? (Si fa per dire: tanto il pittore quanto lo scrittore sono ma-
grissimi). Ma come si può scorporarlo, l’io, se lo si fotografa? Eppure è così, for-
se solo un pittore fotografato può considerarsi un pittore impersonale, presente
solo nell’oggettività del suo esser pittore, privato di qualsiasi lirismo ed espres-
LA SQUADRATURA 231

Fig. 80. Giulio Paolini,


Giovane che guarda Lo-
renzo Lotto, 1967, foto-
grafia su tela emulsiona-
ta, 30 x 24 cm,
Laupheim, collezione
FER.

sionismo.
Annullare l’io individuale per identificarsi con l’io della pittura d’ogni tempo,
l’io collettivo dei grandi pittori del passato, la potenzialità stessa della pittura:
questa è la grande modestia e la grande ambizione del pittore. Una volta ha e-
sposto la riproduzione fotografica d’un ritratto di Lorenzo Lotto, intitolandola La variazione
Giovane che guarda Lorenzo Lotto (fig. 80). L’immagine è la stessa ma la sintassi della sintassi
interna cambia. È il soggetto del quadro che guarda Lotto: cioè l’osservatore at- interna
tuale del quadro vede quel che vedeva Lotto, no: si sente guardato dagli stessi
occhi che fissavano Lotto. Gli occhi del quadro o gli occhi del modello? Il titolo
avverte che nel punto in cui oggi si trova chi guarda il quadro, si trovava Loren-
zo Lotto di fronte a quel giovane. Lo scrittore a questo punto crede d’aver sco-
perto una contraddizione nel procedimento mentale del pittore: quel titolo im-
plicherebbe che Lotto dipingendo stesse davvero guardando un giovane con la
scriminatura tra i capelli, gli occhi dalla tonda pupilla, il collo a tronco di colon-
na? Ma come possiamo sapere se questo giovane esisteva veramente fuori dal
quadro, e somigliava davvero all’immagine del quadro? In base a quale vieta teo-
ria della mimesi artistica possiamo garantire che l’armoniosa compostezza del ri-
tratto di Lotto corrisponda a un’esperienza del mondo esterno? Magari Lotto a-
232 ITALO CALVINO

Fig. 81. Giulio Paolini,


Nel mezzo del dipinto
Flora sparge i fiori, men-
tre Narciso si specchia in
un’anfora d’acqua tenu-
ta dalla ninfa Eco, 1968,
fotografia su tela emul-
sionata, filo di nylon,
150 x 128 cm, courtesy
Archivio Giulio Paolini.

veva davanti a sé un giovane spettinato, strabico, col collo torto, e per controbi-
Lo sguardo
lanciare la sgradevolezza di quell’immagine era spinto a comporne un’altra anti-
in macchina tetica. O non aveva davanti nessun giovane, né simile né dissimile, poco conta la
presenza o assenza d’un modello; quello che conta è l’immagine mentale alla
quale – e solo a quella – il quadro di Lotto era tenuto a corrispondere. O forse
anche questo è troppo dire: in che misura il quadro rappresenti, anzi “fotografi”
l’immagine mentale preesistente, il “fantasma”, non potrà mai essere definito: il
quadro nasce sulla tela, pennellata per pennellata, e il fantasma mentale da cui
l’autore era partito è presto soverchiato, cancellato, dalla necessità che porta le
forme a organizzarsi nei loro rapporti, nel farsi dell’opera.
Dopo un momento di soddisfazione per aver trovato un punto debole
nella corazza del pittore, lo scrittore comincia ad avvertire qualcosa di trop-
po facile nel suo ragionamento, a non essere sicuro d’aver colpito il segno.
L’operazione del pittore è basata sulla riproduzione fotografica, ha al centro
l’obiettivo della macchina, e il quadro di Lotto si presta più di qualsiasi altro
perché il giovane pare fotografato guardando l’obiettivo, cosicché l’osserva-
tore della riproduzione s’identifica prima con l’obiettivo fotografico, poi con
l’osservatore del quadro al museo, poi con Lotto in contemplazione del pro-
prio quadro finito, poi con Lotto in contemplazione d’un fantasma della pro-
pria mente che vorrebbe riprodurre in un quadro, poi con Lotto in contem-
plazione d’un giovane in carne e ossa, poi col nostro pittore di oggi che stu-
LA SQUADRATURA 233

Fig. 82. Giulio Paolini,


Autoritratto, 1968, foto-
grafia su tela emulsio-
nata, filo di nylon, 98 x
74 cm, Bari, Collezione
Angelo Baldassarre.

dia come fare a trasformare in un’opera sua un quadro di Lotto senza ag-
giungergli e senza togliergli niente, eccetera. E tutti questi osservatori, tutti
questi Lotto, tutti questi autori si sentono fissati dalle pupille della fotogra-
fia, del quadro, del fantasma, del giovane.
La fotografia si è interposta tra la pittura e noi, e condiziona il nostro rap- Fotografie
porto. Ecco che il pittore, un anno dopo, prende un altro quadro tra i suoi della pittura
prediletti e ne riproduce un particolare raddoppiato, di modo che una Flora
danzante (di Poussin) porga il quadro di se stessa (fig. 81). (Accanto, un
Narciso che si specchia conferma il motivo della doppia immagine). Flora
non fa certo parte del mondo empirico allo stesso modo in cui poteva farne
parte il presunto giovane che posava per Lotto; è un altro mondo, il mondo
della pittura, che abitano tanto il giovane quanto Flora; è da quell’al di là che
rispondono i loro sguardi ai nostri sguardi.
Ingres ha fatto una copia dell’autoritratto di Raffaello. A sovrapporre le
fotografie dell’originale e della copia risulta una leggera sfasatura dei contor-
ni, un tremolio dell’immagine. L’estrema invenzione è il sovrapporsi, il rico-
noscersi nel gesto della pittura che è uno e non può che ripetersi?
Tutto il lavoro del nostro pittore parte dal presupposto che la pittura sia
un tutto compiuto e definitivo, un edificio a cui egli non pretende d’aggiun-
gere nulla. In un’epoca in cui è facile fare gli iconoclasti, egli si contraddi-
stingue per il rispetto che porta alla pittura, per la fedeltà al mestiere di pit-
234 ITALO CALVINO

tore nei suoi più umili elementi, per la modestia e insieme per la sicurezza
con cui allinea nuove opere nel margine strettissimo che resta a un’attività
creativa ridotta all’analisi di se stessa.
La pittura La pittura per lui equivale alla storia della pittura, e in questa storia egli pri-
come storia vilegia alcuni momenti in cui la trasparenza dello sguardo si direbbe nasca dalla
trasparenza della mente: Vermeer, Poussin (fig. 82), Lotto, David, citati in una
sua dichiarazione esplicita, e il ventaglio si può allargare ancora, desumendo i
nomi dai destinatari dei suoi omaggi: Angelico, Raffaello (fig. 83), Bronzino,
Velázquez, Watteau, fino a Cézanne e a Rousseau, fino a Picabia e Duchamp.
Una volta egli ha esposto, ingrandita su un pannello, la pagina 174 d’un
manuale d’arte moderna, con la successione cronologica delle varie scuole.
L’evocazione del manuale espande su tutta l’opera del pittore una candida
luce pedagogica. Riproduzioni di classici, particolari di quadri illustri, mate-
riali e strumenti e luoghi del mestiere, schemi e diagrammi, non potrebbero
essere tante illustrazioni d’un manuale d’avviamento alla pittura? Ma lo spa-
zio in cui ogni oggetto è isolato promuove questo “materiale didattico” a
principio e fine dell’operare artistico. La “metafisica” del pittore e il suo
“cosismo” coincidono: gli oggetti, gli strumenti del mestiere, gli atti del di-
pingere (a cominciare dal vedere) sono per lui gli unici assoluti. In un’epoca
in cui l’arte è continuamente tentata d’implicare qualcos’altro oppure il tut-
to, a lui un quadro fa venire in mente solo la tela, il telaio, il cavalletto, ecce-
tera; e viceversa.
Riflettendo alle produzioni del pittore, lo scrittore le vede ruotare mosse
L’incanto della
tautologia da quell’armonioso meccanismo del pensiero che è la tautologia. La tautolo-
gia può essere intesa come un gioco di specchi o come la manifestazione più
incontrovertibile della verità: nell’un caso e nell’altro ha il potere d’incanta-
re; basta entrarci e non si vuole più uscirne. (O per meglio dire, le forme d’i-
nesauribile raggiungimento della verità sono due: la tautologia e l’anfibolo-
gia: così pensa lo scrittore, che propende per la seconda).
Il pittore tende a ricondurre il molteplice all’uno, (lo scrittore, forse, il con-
trario). Uno degli emblemi che il pittore si è dato (ci sono momenti in cui si la-
scia visitare dal demone del simbolico) consiste in molti drappi di bandiere di-
sparate, appesi a un’unica asta. L’ha intitolato col nome del filosofo che sosten-
ne l’unicità dell’intelletto: Averroè. La mente del pittore si muove leggera nella
nuda astrazione, ma se si dirige sulla pluralità delle cose corpose viene presa
dalla vertigine della polverizzazione e dello sparpagliamento. In un libro stam-
pato in 50 esemplari ha trascritto, spaziate sul bianco della pagina, tutte le let-
tere dei nomi contenuti nel suo taccuino; è la sua immagine dell’infinito. Apo-
teosi d’Omero è il titolo d’un quadro di Ingres dove i personaggi famosi sono
raccolti attorno al poeta in una classica gerarchia; lo stesso titolo lui ha dato a
un’azione scenica in cui ha disposto tanti leggii con fotografie d’attori che in-
terpretano personaggi famosi, tutti sullo stesso piano.
Anche il fatto che la propria opera non sia una ma molteplice preoccupa
il pittore, lo obbliga a fare nuove opere che contengano le precedenti, le uni-
Le opere come fichino e insieme le confermino come distinte. Attraverso l’intervallo tra
racconto e
autobiografia
un’opera e l’altra il tempo entra nell’opera del pittore, il tempo a cui è diffi-
cile dare una forma che non sia quella d’un’autobiografia. Allora le date indi-
cano una direzione e un rapporto di conseguenza, e anche un distacco pau-
LA SQUADRATURA 235

Fig. 83. Giulio Paolini, L’invenzione di Ingres, 1968, fotografia su tela emulsionata, 42 x 32 cm, Torino,
collezione Christian Stein.

sato nei moti della mente. Le sue opere diventano racconto, messe una dopo
l’altra, raccontano la storia di lui che pensa e realizza quest’opera dopo quel-
l’altra e prima d’un’altra ancora; una storia che un critico ha seguito fase per
fase fino a tre anni fa in un libro che costituisce un elemento complementare
236 ITALO CALVINO

alla serie delle opere, quasi il loro tessuto connettivo continuo. Del resto
questo tessuto si basa soprattutto sulle dichiaraizioni del pittore, sul discorso
continuo con cui egli colma la discontinuità tra un’opera e l’altra.
Dopo un lungo giro il pittore torna alla tela da cui era partito, la squadra-
tura geometrica messa tra parentesi, il quadro che contiene tutti i quadri. La
pittura è totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che im-
plica tutto il dipingibile. Le fotografie di questa tela squadrata potranno
riempire il catalogo d’una pinacoteca immaginaria, ripetute identiche ogni
volta col nome d’un pittore inventato, con titoli di quadri possibili o impos-
sibili che basta aguzzare lo sguardo per vedere.
Lo scrittore guardandole già riesce a leggere gli incipit d’innumerevoli vo-
lumi, la biblioteca d’apocrifi che vorrebbe scrivere.

1 Da: Italo Calvino, “La squadratura”, in Giulio Paolini, Idem, Torino, Einaudi, 1975, pp. VII-XV.
Qual è lo statuto dell’enunciazione nella creazione artistica?
La risposta mitologica di Jörg Immendorff1
Jean-Marie Floch

Biciclette senza ruote, una statua di Lehmbruck, patate, cavalli e scimmie,


piccoli atelier d’artista illuminati, sigarette accese e fiammiferi spenti. Beuys con
un mantello stellato, stelle bluastre segnate da profonde cicatrici, fucine, lotte
operaie, decine di artisti radunati in un museo o in un caffè, sgabelli a forma di L’universo
gogna, camion che scaricano una massa informe di scene storiche o allegoriche. pittorico di
Lo spazio vi risucchia e vi proietta fin nelle sue profondità. È difficile mantene- Immendorff
re una certa distanza di fronte a opere così…
Ecco l’universo di Immendorff o, almeno, quello che immediatamente per-
cepiamo. Un universo sovrappopolato, incandescente, in cui figure e forme si
assemblano e si lacerano, si sovrappongono o si compenetrano. Vi troverete
croci uncinate, aquile germaniche, stelle sovietiche. Ma, soprattutto, i volti della
maggior parte dei personaggi che popolano i quadri di Immendorff sono così
nettamente differenziati, i loro tratti così precisi, da offrirsi come veri ritratti.
Gli appassionati di arte contemporanea potranno facilmente riconoscervi alcuni
dei grandi attori della storia culturale dell’Europa e della Germania moderna:
Duchamp, Brecht, Beuys, Penck… (fig. 84).
È grande quindi la tentazione di analizzare i quadri di Immendorff come se
fossero rebus, sottoponendoli a un’analisi iconografica che identifichi sistemati-
camente i personaggi rappresentati e faccia corrispondere un contenuto filoso-
fico, politico o culturale a ognuno dei motivi e delle allegorie che si ritiene di
poter isolare sulla tela. Ed è ciò che gli esegeti dell’opera di Immendorff hanno L’approccio i-
conologico
fatto: è stato detto che la scimmia, spesso presente nelle sue tele, rappresenta
l’allegoria del pittore e del suo atteggiamento autoironico, che la bicicletta sen-
za ruote è la democrazia impossibile, e che la candela, la cui fiamma va protetta,
simbolizza l’Aufklärung, lo Spirito dell’Illuminismo...
Ma i materiali che costituiscono un’opera non sono l’opera. Un’opera, come
qualsiasi discorso – questa è perlomeno l’ipotesi di un approccio strutturale –
possiede un’economia generale, sia sensibile che intellegibile, che dà senso e va-
lore alle diverse unità che ne costituiscono la dimensione figurativa. E se il con-
testo storico e culturale può far luce su un’opera, bisognerà, prima o poi, avere
un’idea di ciò che è stato in tal modo “illuminato”... Bisogna ammettere che il
Le figure
primo contesto di una figura o di un motivo è il quadro, e se si riterrà necessa-
ricorrenti
rio iscrivere il quadro stesso in un contesto, questo contesto dovrà essere innan-
zi tutto quello dell’insieme dei quadri realizzati dall’artista nello stesso periodo
o quello, ancora più vasto, dell’intera opera del pittore. A quel punto il ricono-
scimento delle figure ricorrenti diventerà legittimo, in quanto non sarà più il
prodotto di una semplice lessicalizzazione della dimensione figurativa del qua-
238 JEAN-MARIE FLOCH

Fig. 84. Jörg Immendorff, Café de Flore, 1990, olio su tela, 200 x 270 cm, Colonia, collezione Eberhard
Garnatz.

dro (che non farebbe che sostituire un testo al quadro), bensì il prodotto di
un’analisi comparativa delle opere e, preliminarmente, di un’attenzione alle
strutture plastiche o figurative di ognuna di esse.
L’approccio semiotico all’opera di Immendorff che vorremmo qui illustrare
si basa su questi presupposti metodologici. È un approccio che, a livello teori-
co, si fonda sulla cosiddetta semiotica strutturale. Voglio ricordare che la semio-
tica strutturale mira a riconoscere le condizioni di produzione del senso così co-
me vengono definite dalle semiotiche-oggetto. Va inoltre precisato che questo
paradigma semiotico concepisce le semiotiche-oggetto – i “linguaggi” – come
sistemi di relazioni che possono essere esplorati solo attraverso l’analisi di pro-
cessi, nel caso specifico l’analisi di opere dipinte di cui si è preliminarmente ri-
La semiotica: conosciuta l’economia generale, sia sensibile che intellegibile.
una scienza Questo significa che una semiotica visiva elaborata nell’ambito di tale teoria
empirica
e tale pratica ambisce a essere una scienza empirica, allo stesso titolo e nella
stessa misura in cui può esserlo l’antropologia per Claude Lévi-Strauss. Pur ri-
ferendosi da parte sua alle forme, ai colori e ai ritmi, questa semiotica visiva po-
trebbe far proprie queste righe tratte da Lo sguardo da lontano:

L’antropologia è in primo luogo una scienza empirica. Ogni cultura rappresenta un


unicum a cui va consacrata la più minuta attenzione per poterla descrivere innanzi-
tutto, e cercare di capirla poi. Solo questo esame può rivelare quali sono i fatti, e i
criteri (variabili dall’una all’altra cultura) in base ai quali ognuna sceglie certe specie
animali o vegetali, certe sostanze minerali, certi astri o altri fenomeni naturali, per at-
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 239

tribuire loro un significato e disporre in forma logica un insieme finito di elementi.


Lo studio empirico condiziona l’accesso alla struttura (…). Ogni cultura elegge a tratti
distintivi soltanto alcuni tra gli aspetti del suo ambiente naturale, ma nessuno può
predire quali o a quale fine (1983, p. 125).

Ecco la prima ragione, per tutti coloro che hanno sviluppato una semiotica
visiva strutturale, di scegliere e mantenere un approccio empirico. Per costoro,
solo questo approccio risponde a un effettivo percorso scientifico, ipotetico-de-
Un percorso
duttivo, preoccupato di mettere alla prova i suoi modelli prima di generalizzar- ipotetico-
li. Ed è quindi solo per ignoranza che si può credere, o far credere, che un per- deduttivo
corso di questo tipo elabori dei concetti ad hoc. In un percorso ipotetico-dedut-
tivo, infatti, il proposito di rendere conto di un enunciato esclude l’idea stessa
di concetti elaborati ad hoc2. La seconda ragione della scelta di un tale approc-
cio empirico, è la necessità di rendere conto della diversità dei “linguaggi visivi”
e del fatto che essi corrispondano, in ultima analisi, a selezioni e a gerarchizza-
zioni di un numero finito di qualità visive fra le tante che il visibile offre all’uo-
mo. La semiotica visiva strutturale non è, quindi, una semiotica del linguaggio
visivo – essa non postula l’esistenza di un linguaggio visivo che si distinguereb-
be a priori, e in modo radicale, dal “linguaggio verbale”3. E nemmeno una se-
miotica del visibile, cioè un approccio alla materia o alla sostanza percettiva –
nel senso hjelmsleviano dei termini. La semiotica visiva strutturale vuole essere
una “disciplina della forma”, per riprendere un’espressione di Algirdas-Julien
La semiotica
Greimas, che mira, ancora una volta, a riconoscere i sistemi di relazioni sensibi- visiva come
li e intellegibili – cioè di espressione e di contenuto – che costituiscono le se- “disciplina
miotiche figurative o plastiche così come esse vengono manifestate e presuppo- della forma”
ste da quei segni che sono le opere individuali o collettive.
Nelle pagine che seguono proverò ad analizzare la trasformazione che è avve-
nuta nella concezione e nella rappresentazione della creazione artistica di Immen-
dorff fra gli anni Settanta e i primi anni Novanta. Perché interessarsi a questa tra-
sformazione, per molti aspetti piuttosto cospicua? Da un lato, perché la semiotica
visiva strutturale, volendo contribuire all’elaborazione di una teoria generale del
significato e delle pratiche significanti, si è sempre preoccupata di definire l’istan-
za enunciativa implicita degli enunciati che di volta in volta prendeva in esame,
interessandosi molto presto alle forme enunciate di tale enunciazione4. Dall’altro,
perché la questione della creazione artistica e del suo rapporto con il senso è al
centro dell’opera di Immendorff, almeno negli anni Settanta-Ottanta, al punto
che l’organizzazione stessa dello spazio rappresentato nelle sue tele, così come le
numerose figure spaziali che vi compaiono, dipendono proprio dal modo in cui
questa questione è stata posta e dalla risposta che le è stata data.
Dall’inizio degli anni Settanta, la riflessione critica di Immendorff sul senso
e sul valore della creazione artistica si è tradotta in numerose rappresentazioni
del pittore intento a dipingere. Ammettendo che la creazione pittorica possa es- Senso e valore
sere considerata come una forma di produzione di senso, e quindi come un’e- della creazione
nunciazione, ci troviamo di fronte a enunciazioni enunciate dove, ancora una artistica
volta, la rappresentazione della creazione artistica e l’organizzazione dello spa-
zio sono intimamente legate. È quel che accade, per esempio, in Ich Wollte
Künstler Werden (1972, fig. 85), ma soprattutto in Wo stehst Du mit deiner Kun-
st, Kollege? (1973, tav. XVIII). Quest’ultimo quadro è tanto più interessante in
240 JEAN-MARIE FLOCH

Fig. 85. Jörg Immendorff, Ich Wollte Künstler Werden:…, 1971, acrilico su tela, 90 x 80 cm, collezione
privata.

quanto sia il titolo che la scena rappresentata pongono esplicitamente la que-


stione della produzione artistica in termini di collocazione e di spazialità. Si no-
terà, ma vi ritorneremo più diffusamente, che è l’irruzione di un manifestante
nello studio del pittore a creare un’articolazione fra lo spazio della creazione ar-
tistica (lo studio del pittore) e lo spazio della lotta politica (la strada e la città).
In effetti, allorché stendeva la prima pennellata su una tela vergine, il pittore
rappresentato nel quadro cercava da parte sua solo di collocarsi in rapporto al-
la storia dell’arte. Una lista di movimenti artistici è scritta su un foglio appeso al
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 241

muro dello studio: vi si può leggere “Pop Art, Nuovo realismo, Arte concettua-
le, Land Art, Op Art...”.
Le figure spaziali sono particolarmente ricorrenti nei quadri di Immendorff:
vi si trovano dei caffè e degli atelier, ma anche strade, palcoscenici teatrali o, an-
cora, foreste di alberi morti. Questi spazi sono inoltre essi stessi costituiti da al-
Le figure
tri spazi di minor grandezza, quali logge, platee, poltrone, sgabelli o fasci di lu- spaziali
ce molto circoscritti. E ovviamente vi sono anche quegli spazi molto particolari
rappresentati dai quadri presenti nell’atelier – siano essi già dipinti o tele anco-
ra vuote. Spazi diversi, che garantiscono l’articolazione e la concatenazione de-
gli oggetti e dei personaggi che costituiscono i materiali eterocliti dell’opera di
Immendorff. Più che essere occupati dai personaggi e dagli oggetti, gli spazi li
configurano: li mettono in relazione e conferiscono loro senso e valore nel par-
ticolare enunciato di questo o quel quadro, o nel discorso generale dell’opera
del pittore. In tal modo, qualunque sia la “figura del mondo” che di volta in
volta lo spazio rappresentato viene ad assumere (una strada, un teatro, una fo-
resta…), esso diventa il principio di strutturazione dei diversi materiali figurati-
vi assemblati dal “bricolage” del pittore. Facciamo infatti riferimento al concet- L’assemblaggio
to di bricolage formulato da Claude Lévi-Strauss. Vedremo tra poco come tale del bricoleur
concetto possa aiutare a comprendere meglio il modo in cui, all’inizio degli an-
ni Settanta, Immendorff ha risposto alla questione dello statuto e della legitti-
mità della creazione artistica.
Dal momento che consideriamo i quadri di Immendorff come degli enuncia-
ti pittorici realizzati con materiali figurativi eterocliti forniti dalla Storia cultura-
le e politica europea, possiamo concepire l’enunciazione creativa che essi logi-
camente implicano come un atto di strutturazione di cui vanno definiti i princi-
pi di organizzazione e il tipo di competenza indotta. Come si crea, fra i diversi
elementi figurativi selezionati dal pittore, una rete di relazioni semantiche in
grado di manifestare un senso? E a quale “pensiero” corrisponderà una perfor-
mance enunciativa di questo tipo? Solo un lavoro di analisi concreta potrà ap-
prodare al riconoscimento di questa rete di relazioni. Il semiologo non può qui
accontentarsi di teorizzare sull’immagine in generale o sul segno visivo; dovrà
pazientemente e sistematicamente individuare le ricorrenze delle diverse figure
che appaiono nei quadri di quel determinato periodo, di cui ipotizza una certa
unità semiotica (al contempo sensibile e intellegibile). E dovrà in seguito intra-
prendere un’analisi di queste figure che faccia emergere le unità di senso inva-
rianti di cui queste figure rappresentano solo le concretizzazioni variabili. Una
volta fatte queste analisi, rimarrà soprattutto da costruire il gioco di relazioni
che spieghi le loro sostituzioni, associazioni, o esclusioni reciproche.
Studiando l’opera pittorica di Immendorff (fra il 1970 e il 1990, come abbia-
mo detto), possiamo per esempio identificare il motivo ricorrente della candela
accesa. In numerosi quadri e disegni la fiamma appare come un bene prezioso:
viene protetta quando si attraversano le foreste di alberi morti (Wartebiene I e II,
1991/92, fig. 86), permette di penetrare nei luoghi oscuri dell’anima (In allen
Kammem meiner Seele, 1989) e rischiara i tavoli e gli atelier degli artisti (Treffen
zu Eher des dogmatischen Bildes, 1989; Ich Wollte Künstler Werden, 1971, fig. 85).
Di fatto, questi atelier vengono spesso rappresentati sotto forma di piccole scato-
le illuminate dall’interno da quella stessa luce rosseggiante che caratterizza le can-
dele dipinte da Immendorff (Kleine Reise, 1990 o Fruits and Politics, 1991, fig.
242 JEAN-MARIE FLOCH

Fig. 86. Jörg Immen-


dorff, Wartebiene II,
1992, olio su tela, 230
x 170 cm, collezione
privata.

89). Lo studio dell’opera del pittore ci porta inoltre a constatare che il motivo del-
la candela accesa è associato alla figura di Brecht (Café Deutschland I, 1978). Que-
Il motivo della st’ultimo viene ad esempio rappresentato in Geburtstag B. Brecht (1978) mentre
candela getta le candele del suo compleanno sul tappeto, bruciando così le aquile morte
che vi sono disegnate. È ogni volta la stessa luce rosseggiante che disegna gli spa-
zi, sempre molto circoscritti, una luce che si ritrova anche nel motivo della forgia
(Lehmbrucksaga, 1987 o Kleine Reise, 1990). Sono tutti materiali-segni che rap-
presentano, nella pittura di Immendorff, il fuoco e la luce strappata alle tenebre,
associati al tema di un pensiero liberatore al contempo fragile e potente.
Nel corso di questa fase di identificazione e di analisi delle ricorrenze figura-
tive troveremo, parallelamente, anche oggetti o luoghi raffiguranti la pesantezza
del pensiero, l’oppressione, la sterilità o la morte. Sono i panieri o i vassoi di pa-
tate (Mahlzeit, 1978 o Alles was Du von mir bekommst, 1990), ma anche le fore-
ste di alberi morti o le gogne che serrano il collo degli artisti (Pfahl, 1980). O,
ancora, i pesanti soffitti di legno, pieni di reti e di filo spinato, che incombono
sulle sale in cui essi si riuniscono (Café Deutschland IV, 1978 e Kalt mut, 1982).
Massicce figure, scure e marroni, o talvolta verdastre, che sono trattate, per lo
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 243

più, con testure legnose. Altre figure – tra cui quella di Beuys vestito con un
mantello stellato – sono invece legate all’aria, al cielo, al movimento, alla ferti-
lità e alla vita (Fruchtmann, 1965 e Nachtmantel, 1987), oppure, al contrario, al-
l’acqua gelata, alle masse bluastre che si tenta di attraversare o di perforare (Un-
ser Weg ist richtig, 1980 o Zeig was Du hast, 1983). La stella staliniana fa parte
di queste ultime figure (Naht, 1981 o Nachtwache, 1982). Si noterà che queste
masse vischiose o in procinto di fondersi, sono spesso combinate con quelle
delle pesanti travature o con quelle delle patate (Mahlzeit - Das Bild muss die
Funktion der Kartoffel übernehmen, 1978, oppure Ich denke auch an Metall).
Come sarà ormai chiaro, l’analisi della dimensione figurativa delle opere di
Immendorff fa apparire una vera e propria organizzazione dei diversi motivi ri-
correnti. Questa organizzazione si basa su una correlazione fra i quattro ele-
menti naturali – il fuoco, la terra, l’aria, l’acqua – e l’opposizione vita e morte
(precisiamo che non si tratta di vita e di morte fisiche, ma di vita e di morte del-
lo spirito). Le figure e i motivi identificabili nei quadri di Immendorff prendo-
no così senso e valore a partire da un’assiologia figurativa il cui principio e il cui
contenuto dipendono, in ultima analisi, dall’istanza enunciativa5. “Sotto” la
straordinaria abbondanza, o “al di là” del potente e violento groviglio di figure
più o meno riconoscibili e interpretabili, si instaura e si organizza un discorso
sulla vita e la morte, che correla l’aria alla vita, la terra alla morte, e l’acqua e il Le strutture
fuoco alle loro rispettive negazioni. profonde
È interessante constatare che nell’universo di Immendorff l’acqua, sporca e ge-
lata, è un elemento naturale associato alla pesantezza e alla staticità, e che non rin-
via affatto a una qualche “rêverie” del movimento – mi riferisco qui alle ricerche
dell’epistemologo francese Bachelard (1938; 1942; 1943; 1948a; 1948b) sulla poeti-
ca degli elementi naturali. Quanto al fuoco, di cui ho analizzato le principali figure,
è correlato alla negazione della morte dello spirito, alla rivolta dei creatori e degli
artisti – in primo luogo, come abbiamo visto, a quella di Brecht.
Possiamo rappresentare l’organizzazione logico-semantica dell’assiologia figu-
rativa che struttura l’universo di Immendorff con il seguente quadrato semiotico:

La selezione e l’utilizzo delle figure della Storia, dagli anni Settanta agli anni
Novanta, veicolano quindi un discorso più “profondo”, se così si può dire, di una
semplice testimonianza sulla situazione politica e culturale degli artisti nel corso di
quegli anni. Il realismo, o il neorealismo, dell’opera – termini che sono stati usati
dalla critica d’arte – serve in realtà a sviluppare una riflessione sulle forze antagoni-
ste della vita e della morte dello spirito che vengono messe in gioco dalla creazione
artistica. Questo realismo appare allora come il rivestimento figurativo di un di-
244 JEAN-MARIE FLOCH

scorso secondo, diverso dal discorso politico immediatamente leggibile: un discor-


so sul fondamento assiologico della creazione artistica. L’elaborazione e lo svilup-
po di questo discorso secondo non devono sorprendere. Si tratta infatti di un fe-
nomeno semiotico che è stato ritrovato, per esempio, in numerose opere letterarie
tradizionalmente catalogate come “realiste” dalla critica. Greimas (1976) ha a suo
tempo dimostrato come una simbologia, nella fattispecie cristiana, fosse sottesa a
una novella di Maupassant dedicata all’assedio di Parigi del 1870, e come si possa
leggere quest’opera come una nuova parabola. Ma il medesimo fenomeno semioti-
L’elaborazione co è stato riconosciuto e analizzato anche in opere letterarie tra loro molto diverse,
di un discorso come quelle, ad esempio, di Junger o di Zola6. Insisterò sul fatto, non trascurabile
secondo da un punto di vista teorico, che un’analisi di enunciati visivi – quella dei dipinti di
Immendorff – può portare a riconoscere un fenomeno semiotico già riconosciuto e
analizzato da un’altra semiotica, quella letteraria. Questo riconoscimento testimo-
nia dell’assenza di a priori di una semiotica visiva strutturale. E, di fatto, riconosce-
re l’esistenza nei “linguaggi visivi” di fenomeni semiotici generali è una delle voca-
zioni di tale semiotica. Aggiungerò, infine, che questa vocazione, coerente con il
proposito della semiotica visiva strutturale di contribuire all’elaborazione di una
semiotica generale, non ha niente a che vedere con un colpevole “approccio verba-
le” ai linguaggi visivi o con qualsivoglia “imperialismo linguistico”…

***

Interessiamoci ora all’istanza di produzione di questo discorso secondo che si


sviluppa “sotto” le figure e i motivi e nello stesso tempo “grazie” a essi. Che tipo di
enunciazione sottintende un tale discorso? Innanzitutto, direi che questa enuncia-
zione deve essere concepita come una risposta, più volte riformulata, alla domanda
posta dal manifestante di Wo stehst Du mit deiner Kunst, Kollege? (1973) (tav. X-
VIII), che irrompe nell’atelier dell’artista e chiede al “collega” che posizione inten-
desse prendere in rapporto alla Storia politica e sociale.
In effetti, è come se Selbstbildnis im Atelier, 1974 (tav. XIX), rappresentasse la
prima formulazione di una risposta alla questione sollevata nel quadro del 1973.
Che cosa vediamo nel dipinto del 1973? Un uomo che irrompe nell’atelier
Il pittore e gli del pittore e gli ordina di “prendere posizione come artista”. Attraverso la porta
scenari di aperta, si vede un corteo di manifestanti che avanza a ranghi serrati dietro uno
produzione striscione contro il carovita e la repressione… Il pittore è rappresentato di spalle,
solo, mentre sta stendendo un tocco di colore su una tela vergine. Nella penom-
bra, lo ricordiamo, una lista di movimenti artistici è stilata su un foglio appeso al
muro dell’atelier: possiamo leggervi “Pop Art, Neorealismo, Arte concettuale,
Land Art, Op art, …”.
Cosa vediamo nell’autoritratto del 1974? Vediamo un pittore che il titolo del
quadro identifica come un soggetto delegato dell’enunciatore, installato nell’enun-
ciato costituito dal quadro. Il pittore sta finendo di dipingere un gruppo di mani-
festanti, ma non guardandoli sfilare in strada da una porta aperta, o da una fine-
stra, bensì ispirandosi all’immagine di una manifestazione. L’esame di questa scena
dimostra che essa costituisce l’inversione di quella del quadro del 1973.
i. Innanzitutto, il pittore dell’autoritratto del 1974 non è più davanti a una tela
vergine: sta terminando il suo quadro, mentre il pittore del dipinto del 1973 lo a-
veva appena incominciato.
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 245

ii. In secondo luogo, egli non è più distratto da un’irruzione; lo si vede partico-
larmente concentrato sul suo lavoro.
iii. Lo spazio dell’autoritratto del 1974 è uno spazio in profondità, chiuso, sen-
za aperture verso l’esterno; lo spazio dell’atelier del 1973 è senza profondità e a-
perto sulla strada.
iv. La luce non è la stessa: nel dipinto del 1973 era diffusa, uniforme, garantiva
la piena manifestazione e leggibilità delle forme; nell’autoritratto del 1974, la sua
potenza provoca un forte contrasto tra ciò che è illuminato e ciò che sparisce nella
penombra.
v. Certo, lo spazio dell’atelier del 1973 comunicava con quello della strada, ma,
paradossalmente, solo grazie all’irruzione di quello stesso personaggio che metteva
Il rapporto tra
in questione la “posizione” del pittore: questa posizione del pittore in rapporto al- la creazione
la società non corrispondeva a una sua scelta. artistica e la
vi. Infine, come si è visto, c’è una grande differenza tra i due quadri, che tocca Storia
la problematica stessa della creazione artistica: il pittore del 1974 ha appeso al mu-
ro l’immagine di un gruppo di manifestanti. Il pittore non lavora dunque più a
partire dalla “realtà” storica e sociale, ma a partire da un segno.
L’idea che possa esserci un rapporto diretto tra la creazione artistica e la storia
viene così abbandonata. La relazione del pittore con la storia non è più interpreta-
ta in termini di azione e di collegamento con quel soggetto collettivo che i lavora-
tori incarnano, ma in termini di produzione di senso a partire dal riutilizzo delle fi-
gure di una storia già costituita in segni. Una connessione tra l’arte e la storia è or-
mai possibile, ma può essere solo indiretta. E va concepita come il frutto di un la-
voro di selezione e di riorganizzazione di materiali semiotici che porta alla produ-
zione di un’opera intesa come un tutto significante e come una struttura contem-
poraneamente sensibile e intelligibile. Questo lavoro non consiste nel ricostruire
un senso preesistente, ma nel produrre una significazione nuova riutilizzando una
materia prima significante.
Se insisto tanto su questa concezione dell’enunciazione veicolata dall’opera di
Immendorff a partire dal 1974, è perché si può ritrovarla nei discorsi dello stesso
Immendorff, quando parla del rapporto fra la creazione e l’enunciatario7. Per Im-
mendorff, anche l’enunciatario può fare solo un’utilizzazione indiretta di quel se-
gno che è il quadro. Parlando proprio di Selbstbildnis im Atelier (tav. XIX), Immen-
dorff diceva a Catherine Millet che questo dipinto significava “da una parte, il
pubblico addio dell’artista ai suoi obblighi sociali, dall’altra, il tentativo di definire
l’esistenza dell’artista come quella di uno scienziato pazzo, le cui formule non pos-
sono essere direttamente utilizzate dalla società”8. All’utilizzazione indiretta dei se-
gni della piazza e della storia da parte dell’artista-enunciatore corrisponde, in ma-
niera perfettamente simmetrica, l’utilizzazione indiretta delle “formule” dell’artista
da parte dell’enunciatario collettivo, la società.
A che tipo di produzione di senso corrisponde dunque una siffatta concezione
della creazione artistica? A quella forma particolare di enunciazione che è il brico-
lage mitico. Il fatto che il pittore sfrutti un segno esistente e che parta da questo se- La creazione
gno per giungere a una struttura al tempo stesso plastica e figurativa, assimila in- artistica come
fatti questa concezione della creazione artistica all’enunciazione mitica, nell’acce- bricolage mitico
zione di Claude Lévi-Strauss nelle prime pagine del Pensiero selvaggio9. Per l’an-
tropologo, il bricoleur è quel produttore di senso che colleziona un certo numero
di “blocchi previncolati” di significazione, cioè di segni, per realizzare a partire da
246 JEAN-MARIE FLOCH

questi una struttura significante. Così facendo, il bricoleur agisce in modo opposto
a quello dell’ingegnere che, invece, parte da un insieme strutturato, e subordina
l’esecuzione del suo compito “al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e
procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto”. L’ingegnere proce-
de a un’apertura dell’insieme con il quale lavora, mira al di là, mentre il bricoleur
procede, all’opposto, alla riorganizzazione del proprio insieme. Il bricoleur utilizza
“quel che c’è” e rimane al di qua. Si accontenta, per così dire, delle figure e dei
motivi che ha trovato nella sua storia personale, e che ha conservato nell’idea che
“possono sempre servire”.
Infine, prendendo come materiale un insieme di segni esistenti, il bricoleur non
cerca di estendere questo insieme né di rinnovarlo. Ciò che lo interessa è riprende-
re continuamente questi elementi in numero finito, di scomporli e ricomporli con-
frontandoli gli uni con gli altri, per ottenere il sistema delle loro trasformazioni
Il riutilizzo dei possibili. Ecco dunque ciò che è l’enunciazione mitica: una maniera bricoleuse di
materiali
“previncolati”
produrre significazione, di dare senso al senso.
della Storia L’enunciatore presupposto dal discorso pittorico di Immendorff a partire da
Selbstbildnis im Atelier (tav. XIX) è proprio un bricoleur. Come il bricoleur di
Lévi-Strauss, non cessa infatti di interrogare i simboli, le figure e i motivi etero-
cliti che costituiscono il suo stock di segni, per comprendere in cosa ciascuno di
essi possa contribuire alla produzione di questa o quella struttura (cioè di que-
sta o quell’opera), struttura che non si differenzierà, in fondo, dall’insieme degli
strumenti se non per la disposizione interna delle sue parti. Ogni opera ripren-
de un inventario già più volte fatto e rifatto e si confronta con le possibilità pla-
stiche e semantiche dei vari elementi, possibilità che restano sempre limitate
dalla storia personale e dal significato primo di questi stessi elementi. Di fatto,
le possibilità offerte a Immendorff dalle grandi figure artistiche che convoca
nella sua pittura (Duchamp, Beuys, Brecht, Penck) o dai simboli che usa (la
croce uncinata, la stella sovietica o la bicicletta senza ruota), sono possibilità
sempre limitate dalle loro rispettive storie, dai loro contenuti originari, dai valo-
ri e dalle connotazioni di cui essi sono portatori. Come ogni bricolage, l’enun-
ciazione sottesa dall’opera di Immendorff deve essere perciò interpretata come
una dialettica fra la libertà di scelta e di decisione destinata a rilanciare la signi-
ficazione, e una limitazione delle combinazioni possibili dovuta al carattere
“previncolato” dei materiali della storia.

***

Se si ammette che i quadri di Immendorff a partire dal 1974 costituiscano


altrettanti enunciati pittorici prodotti da un’enunciazione bricoleuse, possiamo
allora considerarli come le figure rovesciate di quelle masse informi scaricate
I materiali- dai tanti camion che si incontrano nei suoi quadri – penso qui a Lehmbrucksaga
segni II, 1988 o anche a Painter as canvas, 1991 (fig. 87). In questi quadri, la creazio-
ne artistica è rappresentata come una difficile impresa di estrazione di alcuni
dei materiali-segni che costituiscono la Storia: Lehmbrucksaga II (1988) rappre-
senta, sul palcoscenico di un teatro in cui sono riuniti artisti e critici, Beuys e lo
stesso Immendorff nell’atto di estrarre da una massa scura e informe, uno, la
statua di Lehmbruck, e l’altro, il corpo di un artista già presente nel primo
Lehmbrucksaga (1987).
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 247

Fig. 87. Jörg Immendorff, Painter as canvas, 1991, olio su tela, 300 x 400 cm, collezione privata.

Così, sorprendentemente, la risposta alla problematica della creazione arti-


stica, posta quindici anni prima in termini ideologici, viene alla fine formulata
in termini mitologici. I Lehmbrucksagas sono, a mio avviso, l’illustrazione se-
manticamente più completa della risposta mitologica di Immendorff all’interro-
gativo posto dal e nel quadro del 1973 “Wo stehst du mit deiner Kunst, Kolle- I momenti neri
ge?” (tav. XVIII), perché i due quadri riprendono e sviluppano in modo coerente e i grandi
la prima risposta data da Selbstbildnis im Atelier nel 1974 (tav. XIX). La creazio- protagonisti
ne è sempre concepita come un lavoro sui materiali della storia... anche se, nel- della Storia
le due opere del 1987 e 1988, il lavoro si rivela molto più difficile! Non si tratta
più, infatti, di completare un quadro a partire da un’immagine, ma di riuscire a
estrarre dai momenti neri della storia alcune opere o alcuni grandi protagonisti
della stessa. Gli spettatori-artisti assistono così all’estrazione di alcuni “blocchi
previncolati” di significato, operazione che costituisce la prima fase di questo
complesso processo di bricolage che è la creazione artistica.
Ma soprattutto, i Lehmbrucksagas completano l’inversione sistematica dei ter-
mini che caratterizzavano la situazione di Wo stehst Du mit deiner Kunst, Kollege?
(tav. XVIII). E non solo ritornando sulla stessa problematica del quadro del 1973 –
l’articolazione di due spazi: quello della creazione e quello politico –, ma ripren-
dendone anche la tematica: far vedere la storia. Nel quadro del 1973 il manife-
stante collega i due spazi mostrando il corteo nella strada, e la storia che si stava
svolgendo diventava così lo spettacolo di cui l’artista era lo spettatore. Le due Sa-
gas del 1987 e del 1988 rovesceranno i termini nei quali veniva posta la questione.
248 JEAN-MARIE FLOCH

i. L’artista rappresentato nel quadro non è più:


a) un soggetto individuale,
b) anonimo,
c) rappresentato di spalle
d) e in primo piano;
adesso è:
a) un soggetto collettivo,
b) identificabile,
c) rappresentato frontalmente
d) e in secondo piano.
ii. È un soggetto che non è più obbligato a tener conto della storia, ma che si
sforza, da sé, di utilizzarla come materiale.
iii. L’ingresso nell’atelier del 1973 era un’irruzione; nel teatro dei Sagas l’in-
gresso è libero.
iv. Infine, Wo stehst Du mit deiner Kunst, Kollege? (tav. XVIII) mostrava una te-
la vuota a partire dalla quale un pittore solitario voleva fare un quadro; i Lehm-
brucksagas sono invece dei quadri pieni, il dispositivo scenografico dei quali fa sì
che soggetti individuali costituiscano insieme un solo e medesimo pubblico.

***

Concluderò questa analisi semiotica dell’opera di Immendorff con due os-


servazioni. La prima riguarda altri elementi che confermano la dimensione mi-
tologica della sua concezione della creazione artistica; la seconda concerne la
trasformazione della forma plastica semiotica correlata a questa risposta mitolo-
gica – una risposta mitologica data, paradossalmente, a una domanda che era,
tutto sommato, assai ideologica.
i. Altri due elementi rafforzano l’idea che la pittura di Immendorff, a partire
dal 1974, possa essere considerata come un mito della creazione artistica. In-
nanzitutto, si può riconoscere l’esistenza di un vero e proprio sistema di trasfor-
Una risposta mazioni che fa sì che nell’arco di una quindicina di anni le opere si rispondano
mitologica a u- l’un l’altra, riprendendo, in una forma ogni volta diversa, questa stessa proble-
na domanda i- matica della creazione artistica, in quanto istanza di produzione di senso. Cia-
deologica
scuna di queste opere riorganizza, disponendoli simmetricamente o invertendo-
li, il numero piuttosto circoscritto dei termini coinvolti nella problematica.
Vi è d’altra parte il fatto che nel corso di questi anni la creazione è concepi-
ta da Immendorff come un’istanza di conciliazione fra l’arte e la storia, o, per u-
tilizzare dei termini più vicini a quelli del pittore, come una risoluzione dialetti-
ca fra due modi di produzione di senso: l’arte – produzione di un soggetto indi-
viduale – e la storia – produzione di un soggetto collettivo. Se l’evoluzione del-
l’opera di Immendorff dagli anni Settanta agli anni Novanta sembra corrispon-
dere all’elaborazione di un mito della creazione artistica, è anche perché il mito
stesso si distingue per questa ricerca di connessione fra realtà date in partenza
come contraddittorie. Durante una discussione con il filosofo Michel Serres,
Lévi-Strauss (1977) ricordava che le sue ricerche su miti provenienti da società
molto diverse e molto lontane nel tempo lo avevano convinto che “ciascun mito
cerca di risolvere un problema di comunicazione (…) e consiste nell’innestare e
disinnestare dei relé”. Per Immendorff, ugualmente, non si trattava tanto di
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 249

Fig. 88. Jörg Immendorff, Versuchung des heiligen Antonius, 1985, olio su tela, 285 x 330 cm, collezio-
ne privata.

rappresentare la realtà tedesca contemporanea, quanto di trovare un modus vi-


vendi fra arte e storia o meglio, un modus significandi.
ii. Come abbiamo visto, è significativo che la formulazione in termini mito-
logici di una risposta alla questione posta nel 1973 da Wo stehst Du mit deiner
Kunst, Kollege? (tav. XVIII) corrisponda all’apparizione, sin dall’autoritratto del
1974, di un nuovo trattamento dello spazio. A partire dal 1974 lo spazio si
chiude, diventa più profondo, e si organizza secondo una prospettiva netta- La nuova
mente accentuata; mentre una forte luce fa emergere dall’oscurità uno o più concezione
luoghi di creazione sempre molto circoscritti. Nei caffè e nei teatri dipinti nel dello spazio
corso degli anni Ottanta, non verrà più data alcuna prevalenza ai piani netta-
mente dissociati e paralleli formati dalle file di poltrone. Il Café Deutschland,
Parlament II (1981), per esempio, dispone le poltrone secondo linee sfuggenti e
non in rapporto al palco posto sullo sfondo. Altro esempio: la sala di Versu-
chung des heilingen Antonius (1985) (fig. 88) è presentata secondo una pro-
spettiva obliqua. E quando le poltrone formano ugualmente dei piani paralleli
e frontali, la prossimità immediata dei punti di vista associa immediatamente,
attraverso la scala o il colore, il vicino e il lontano: l’occhio non può non met-
ter subito in relazione il primissimo piano e lo sfondo. Lo spazio del Café
250 JEAN-MARIE FLOCH

Deutschland, Parlament I (1981) con la sua pesante travatura a ferro di cavallo


è, da questo punto di vista, molto caratteristico. Come pure quello di Fruits
and Politics (fig. 89). In quest’ultimo la tensione fra il primo piano e lo sfondo
è creata questa volta dal gioco di rinvii fra le macchie giallo-rosse che costella-
no i sipari del palco del primo piano e i quadrati giallo-rossi, della stessa inten-
sità, che disegnano i lontani ingressi del teatro; lo sguardo deve sorvolare, per
così dire, le file in ombra delle poltrone dove sono seduti gli spettatori. Altra
Il ruolo cosa: nei quadri di Immendorff l’apparizione o la scomparsa delle figure sem-
della luce bra dipendere unicamente dalla luce, che strappa all’oscurità le forme e i volu-
mi che con le loro contrazioni ed espansioni ritmeranno lo spazio rappresenta-
to – si veda, per esempio, Brecht Serie – Fragen eines lesenden Arbeiters (1976)
o ancora Nachtwache (1982). Infine, le forme proliferano, provocando quell’ef-
fetto di abbondanza di cui parlavamo all’inizio. Si concatenano e si compene-
trano a tal punto che ogni parte, ogni unità, che avrebbe potuto essere isolata,
di fatto, perde il suo diritto a una esistenza relativamente autonoma per fon-
dersi in un’unica e medesima massa dinamica. Quest’effetto è particolarmente
forte in Auf zum 38, Parteitag (1983) o in Café de Flore (1990) (fig. 84). Ma
non sono solo le discontinuità dei luoghi o degli oggetti che questa forma pit-
torica cerca di negare; è anche lo spazio fra la scena rappresentata e l’enuncia-
tario. Prospettive fortemente accentuate, contrasti cromatici, la prossimità im-
mediata dei punti di vista, la dimensione stessa delle opere, tutto è fatto per
impedire che si crei fra il quadro e l’enunciatario una distanza che possa con-

Fig. 89. Jörg Immendorff, Fruits and Politics, 1991, olio su tela, 300 x 400 cm, collezione privata.
QUAL È LO STATUTO DELL’ENUNCIAZIONE NELLA CREAZIONE ARTISTICA? 251

cedere a quest’ultimo una certa sicurezza e tranquillità. Chi guarda un’opera di


Immendorff viene risucchiato, come dicevamo all’inizio, dall’opera stessa e
proiettato nel suo universo.
Ho fatto precedentemente notare, quale notevole corrispondenza vi fosse
fra la prima formulazione mitologica della risposta al quadro del 1973 e l’appa-
rizione di una nuova forma spaziale. Avrei dovuto dire, per essere più chiaro,
che essa suggerisce in modo particolarmente efficace la natura semiotica di que- Concezioni
sta “evoluzione” nell’opera di Immendorff. In effetti, abbiamo qui l’esemplifi- artistiche e
forme plastiche
cazione della solidarietà esistente fra una forma discorsiva (l’elaborazione e lo
sviluppo di una concezione mitologica della creazione artistica) e una forma
plastica e topologica. In altri termini, esiste una presupposizione reciproca fra
le due diverse concezioni della creazione artistica e i due diversi trattamenti del-
la luce, dei colori e dello spazio, che caratterizzano rispettivamente i “periodi”
di Immendorff prima e dopo il 1974.

***

L’analisi della componente figurativa dei quadri dipinti da Immendorff fra


gli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta ci porta a riconoscere, al di là del-
la loro iconografia sociopolitica, l’esistenza nell’opera di questo pittore, almeno
dopo il 1974, di un discorso di natura mitologica. A partire da questa data, in-
fatti, la creazione artistica viene concepita da Immendorff come un’enunciazio-
ne assimilabile al bricolage che, secondo Lévi-Strauss, definisce la produzione
dei discorsi mitici. Si è visto d’altra parte che quest’enunciazione aveva come o-
biettivo una conciliazione finalmente possibile fra la pittura, da una parte, e la
storia, dall’altra, esse stesse concepite come produzioni di senso.
Avrò saputo convincere il lettore che l’analisi concreta di quegli enunciati vi-
sivi che sono le opere di un pittore può presentare un certo interesse per coloro
che vogliono render conto dei “linguaggi visivi”? Lo spero. Così come spero di
avere suggerito, parallelamente, l’interesse che gli storici e i teorici dell’arte po-
trebbero trovare nel lavorare con una semiotica che si è sempre considerata una
disciplina al servizio delle diverse scienze umane e sociali e, più in generale, di
tutti coloro che contribuiscono all’elaborazione e allo sviluppo di un’antropolo-
gia culturale.

1 Da: Jean-Marie Floch, Quel est le statut énonciatif de la création artistique? La réponse mythologi-

que de Jörge Immendorf, «Protée», automne, 1996, pp. 7-17.


2 Cfr. GROUPE µ 1992, p. 47.
3 Faccio qui allusione alla semiologia del linguaggio visivo che Saint-Martin (1987) cerca di promuo-

vere.
4 Ricordo che la semiotica strutturale concepisce l’enunciazione come l’istanza di mediazione che as-

sicura la messa in enunciato e in discorso delle virtualità di un sistema semiotico. Questa istanza è logi-
camente presupposta dall’enunciato. È dunque anch’essa un’istanza semiotica – che non può venir con-
fusa con le nozioni di contesto comunicazionale o di contesto psicosociologico – e rimane perciò un og-
getto di analisi legittimo per il semiologo. Aggiungerò che secondo questo approccio all’enunciazione –
nato dai lavori di Saussure, di Benveniste e di Greimas, per non citare che alcuni nomi – il concetto di
“enunciazione enunciata” designa il simulacro che imita, all’interno del discorso, il fare enunciazionale,
mentre il concetto di Enunciatore non designa un soggetto ontologico bensì, ancora una volta, il Sogget-
to produttore del discorso e della semiosi, logicamente presupposto dall’enunciato. Per quanto riguarda
252 JEAN-MARIE FLOCH

i lavori di semiotica visiva sull’enunciazione e l’enunciazione enunciata, citerò Floch 1985, pp. 133-160;
1986; Fontanille 1989; Schulz 1995; Thürlemann 1980, pp. 109- 124.
5 Si intende per assiologia il modo d’esistenza paradigmatico dei valori, come, per esempio, vita vs

morte o natura vs cultura; l’“assiologia” si distingue in ciò dall’“ideologia”, che ne costituisce il modo di
esistenza sintagmatico. Col termine assiologia figurativa si designa invece la correlazione di un tale mi-
crosistema di valori con gli elementi naturali: l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria – una correlazione che or-
ganizza la strutturazione della figuratività di universi semantici collettivi o individuali. Cfr. l’analisi di
Greimas (1976) dell’assiologia figurativa della novella di Maupassant Les deux amis.
6 Floch 1979; Bertrand 1985.
7 Ricordo che l’enunciatario è, come l’enunciatore, un soggetto implicito; è il destinatario implicito

dell’enunciazione.
8 Immendorf, Millet 1993; corsivo nostro.
9 Lévi-Strauss 1962a, pp. 28-35. Sulla fecondità del concetto lévi-straussiano di “bricolage” nelle ri-

cerche sulle prassi enunciative in semiotica visiva, mi permetto di rinviare a Floch 1995.

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