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Giovanni Falcone

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(disambigua).

Giovanni Salvatore Augusto Falcone[1] (Palermo, 18


maggio 1939[2] – Palermo, 23 maggio 1992[3]) è stato un
magistrato italiano.

Assieme ai colleghi ed amici Rocco Chinnici, Antonino


Caponnetto e Paolo Borsellino, Falcone è stato una delle
personalità più importanti e prestigiose nella lotta alla mafia in
Italia e a livello internazionale. Fu ucciso da Cosa nostra
insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della
propria scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito
Schifani. La salma del magistrato italiano venne tumulata in
una tomba monumentale nel cimitero di Sant'Orsola a
Palermo, ma nel giugno del 2015 venne poi traslata nella
Chiesa di San Domenico, situata nel capoluogo siciliano.[4]

Indice
Biografia Giovanni Falcone
Origini e formazione
L'ingresso in magistratura
I processi Spatola e Mafara e il "metodo Falcone"
L'esperienza del pool antimafia e le dichiarazioni di
Buscetta
Il periodo all'Asinara e il maxiprocesso di Palermo
L'elezione di Meli e la fine del pool
Il fallito attentato dell'Addaura e la vicenda del "corvo"
Le critiche e la stagione dei veleni
Le dichiarazioni e l'ostilità dei politici
La strage di Capaci e la morte
Le reazioni alla strage
Riconoscimenti e influenza
La normativa
Monumenti
Opere
Nella cultura di massa
Cinema e televisione
Letteratura e musica
Onorificenze
Note
Bibliografia
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni

Biografia

Origini e formazione

Nacque in una famiglia benestante: il padre, Arturo Falcone


(1904-1976)[6], era il direttore del laboratorio chimico di igiene
e profilassi del comune di Palermo, e la madre, Luisa
Bentivegna (1907-1982)[6], era figlia di un noto ginecologo
della stessa città. Terzo figlio, aveva due sorelle maggiori:
Anna (1934)[6] e Maria (1936)[6]. Nacque il 18 maggio 1939 a
Palermo in via Castrofilippo, nel quartiere della Kalsa, lo
stesso di Paolo Borsellino e di molti futuri mafiosi, come
Tommaso Spadaro.

Il secondo nome di Giovanni, Salvatore, gli fu dato in memoria


dello zio materno Salvatore Bentivegna, tenente dei Bersaglieri
morto sul Carso colpito da una granata durante la prima
guerra mondiale. Il terzo nome, Augusto, fu dovuto alla
passione del padre per la storia romana. Il fratello del padre,
Lapide nel luogo in cui nacque
Giuseppe Falcone, si arruolò anch'egli durante la seconda
Giovanni Falcone; l'abitazione non
guerra mondiale come capitano nell'Aviazione e morì all'età di
esiste più perché venne demolita
24 anni abbattuto con il suo aereo. Anche il padre di Giovanni
nel 1959[5]. Piazza Magione,
partecipò alla guerra: colpito alla testa, si riprese dopo un
Palermo.
intero anno passato tra la vita e la morte. In seguito si laureò e
sposò Luisa. Il fratello della nonna paterna, Pietro Bonanno, fu
assessore ai Lavori Pubblici e poi sindaco di Palermo tra il
1904 e il 1905.

I Falcone dovettero abbandonare la Kalsa nel 1940 a causa dei bombardamenti della seconda
guerra mondiale e sfollarono a Sferracavallo, una borgata marinara di Palermo. Dopo il 9 maggio
1943 (bombardamento della passeggiata e dei palazzi del porto) si trasferirono dai parenti della
madre a Corleone. A seguito dell'armistizio di Cassibile, tornarono alla Kalsa dove, a causa dei
danneggiamenti riportati dal loro appartamento, vennero ospitati dalle zie Stefania e Carmela,
sorelle del padre. La prima era una musicista e si era formata al Conservatorio di Palermo mentre
la seconda era una pittrice sullo stile di Francesco Lojacono.

Giovanni frequentò le scuole elementari al Convitto Nazionale di Palermo, le medie alla scuola
"Giovanni Verga" e le superiori al liceo classico "Umberto I". Frequentava l'Azione Cattolica[7][8] e
trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi in parrocchia facendo la spola tra quella di Santa Teresa
alla Kalsa e quella di San Francesco. Nella prima conobbe padre Giacinto che diventò il suo
cicerone e gli fece visitare il Trentino e Roma. All'età di tredici anni cominciò a giocare a calcio
all'Oratorio dove, durante una delle tante partite, conobbe Paolo Borsellino, con cui si sarebbe
ritrovato prima sui banchi dell'università e poi nella magistratura.[9]
In parrocchia si appassionò anche al ping-pong e in una partita
si trovò a giocare con un suo coetaneo, Tommaso Spadaro, che
sarebbe diventato personaggio di spicco della mafia locale
implicato nel contrabbando di sigarette e nel traffico di
stupefacenti[10]. Al liceo trovò il professore Franco Salvo,
insegnante di storia e filosofia seguace dell'Illuminismo che
con i suoi insegnamenti risultò fondamentale per la
formazione del ragazzo. Terminò il liceo all'età di 18 anni, nel
1957, diplomandosi con il massimo dei voti.

Nel settembre 1957 si trasferì a Livorno per frequentare


l'Accademia navale, con l'intenzione di laurearsi in ingegneria,
ma anziché essere assegnato ai corpi tecnici fu assegnato allo
Stato Maggiore. Dopo quattro mesi, nel gennaio 1958,
abbandonò l'Accademia e tornò nella città natia iscrivendosi,
al pari della sorella Maria, alla Facoltà di Giurisprudenza Allievo 1ª Classe Stato
dell'Università degli Studi di Palermo. In quegli anni ebbe Maggiore Giovanni Falcone,
modo di praticare diverse attività sportive con molta costanza, gennaio 1958.
sebbene avesse dovuto precedentemente abbandonare il livello
agonistico nel 1956 a causa di un infortunio. Si era così
dedicato al canottaggio, frequentando la Canottieri Palermo durante tutti gli anni dell'università.
Nel 1959 la famiglia Falcone fu costretta a trasferirsi in Via Notarbartolo per via degli avvenimenti
legati al sacco di Palermo, che portarono alla demolizione della loro abitazione per lasciare spazio
alla costruzione di una strada più ampia, che poi non ebbe più luogo[5]. Nel corso della sua vita
Giovanni avrebbe poi cambiato tre case in quella stessa strada: una da ragazzo, una con la prima
moglie Rita e poi un'altra ancora con Francesca, la seconda moglie. Si laureò poi con 110 e lode nel
1961, con una tesi sull'Istruzione probatoria in diritto amministrativo, discussa con il professore
Pietro Virga.[1]

L'ingresso in magistratura

Falcone vinse il concorso ed entrò nella magistratura italiana


nel 1964 e in quello stesso anno nella Basilica della Santissima
Trinità del Cancelliere sposò Rita Bonnici, maestra
elementare. Nel 1965, a soli 26 anni, divenne pretore a Lentini:
uno dei suoi primi casi fu quello di una persona morta per un
incidente sul lavoro. A partire dal 1966, e per i successivi
dodici anni, fu al tribunale di Trapani, nei primi anni come
sostituto procuratore e giudice istruttore. A poco a poco,
Giovanni Falcone insieme alla
nacque in lui la passione per il diritto penale.[11] Nel 1967 istruì
il primo processo importante, quello alla banda mafiosa del moglie e collega Francesca
boss di Marsala, Mariano Licari. Nell'aprile 1969 la malattia Morvillo, entrambi in toga.
del padre, un tumore all'intestino che lo avrebbe poi portato
alla morte nel 1976, lo toccò profondamente. In quegli anni
stava mutando radicalmente, a cambiarlo non fu solo la mancanza del riferimento paterno ma
intervennero anche fattori esterni.

Cominciò ad abbracciare i principi del comunismo sociale di Enrico Berlinguer in occasione delle
elezioni politiche del 1976, sebbene la sua famiglia avesse da sempre votato Democrazia Cristiana
anche in quanto cattolici praticanti. Scontratosi per questo motivo con la sorella Maria, motivò la
sua scelta dicendo che, da profondo amante della giustizia qual era[12], si poneva il problema di
combattere le disparità sociali e nel comunismo intravedeva quindi la possibilità di appianare le
sperequazioni. Rispose quasi volendola rassicurare che il comunismo italiano sarebbe stato
differente da quello russo, aggiungendo sarcasticamente che, nell'ipotetica eventualità di una crisi
di libertà nella loro democrazia, sarebbe ritornato sulle montagne come i vecchi partigiani.[13] Nel
suo lavoro però non si lasciò mai influenzare dalle idee politiche.[14] Successivamente, si
allontanerà dalle idee comuniste, avvicinandosi al pensiero della tradizione socialista, in
particolare all'elaborazione del "nuovo corso" rappresentato da Bettino Craxi e da Claudio
Martelli.[15]

Nel 1973 si trasferì alla sezione civile del tribunale di Trapani. Nel luglio 1978 però ritornò a
Palermo. In quell'anno la Bonnici lasciò Falcone per restare a Trapani, dove si era innamorata del
presidente del tribunale della città Cristoforo Genna[16]. Nel tribunale palermitano cominciò a
lavorare nella sezione fallimentare, occupandosi di diritto civile ed emettendo alcune sentenze di
grande importanza. L'anno successivo conobbe la collega Francesca Morvillo, con la quale iniziò
una relazione sentimentale che sfociò nel matrimonio nel 1986.

Dopo l'omicidio del giudice Cesare Terranova, nel settembre 1979, nonostante le preoccupazioni
familiari, accettò l'offerta che da tanto tempo Rocco Chinnici gli proponeva e passò così all'Ufficio
istruzione della sezione penale, che sotto, appunto, la guida di Chinnici divenne un esempio
innovativo di organizzazione giudiziaria.[1] Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino,
che divenne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro arretrato di oltre 500 processi.[17]

I processi Spatola e Mafara e il "metodo Falcone"


Lo stesso argomento in dettaglio: Pizza connection e Rosario Spatola (1940).

Nel maggio 1980 il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa


firmò personalmente 56 mandati di cattura contro Rosario
Spatola, un costruttore edile palermitano, incensurato e molto
rispettato perché la sua impresa aveva dato lavoro a centinaia
di operai, e diversi esponenti dei clan italo-americani, guidati
da Salvatore Inzerillo e John Gambino, accusati di gestire il
traffico di stupefacenti con gli Stati Uniti; Chinnici decise
quindi di affidare l'inchiesta su Spatola e i suoi associati al
giudice Falcone[18][19][20].

Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare
con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi
anche su indagini patrimoniali e bancarie, ricostruire il
percorso del denaro che accompagnava i traffici e avere un
quadro complessivo del fenomeno. Notò che gli stupefacenti
venivano venduti negli Stati Uniti così chiese a tutti i direttori
L'"Albero di Falcone" posto delle banche di Palermo e provincia di mandargli le distinte di
davanti all'ingresso della sua cambio valuta estera dal 1975 in poi. Alcuni telefonarono
abitazione in via Notarbartolo n. personalmente a Falcone per capire che intenzione avesse e lui
23. A fianco, è visibile la guardiola rimase fermo sulle sue richieste.[21] Così, anche attraverso le
blindata costruita per assicurare verifiche bancarie effettuate dagli uomini della Guardia di
maggiore protezione al giudice. Finanza guidati dal colonnello Elio Pizzuti e dal maresciallo
Angelo Crispino[5][22] e alle indagini serrate e perquisizioni
compiute dagli agenti del dirigente Guglielmo Incalza della
Squadra mobile[23], riuscì a cominciare a vedere il quadro di una gigantesca organizzazione
criminale: i confini di Cosa nostra. Risalì così al rapporto fra gli amici di Spatola e la famiglia
Gambino del New Jersey, rivelando i collegamenti fra mafia americana e siciliana. Il 6 agosto dello
stesso anno fu ucciso il procuratore Costa, che aveva firmato i mandati di cattura nei confronti del
clan Spatola-Inzerillo-Gambino, e subito dopo assegnarono la scorta a Falcone[5][20].
Grazie a un assegno bancario dell'importo di centomila dollari cambiato presso la Cassa di
Risparmio di piazza Borsa di Palermo, Falcone trovò la prova che il potente banchiere Michele
Sindona aveva trovato ospitalità in Sicilia nell'estate precedente presso gli alberghi del noto
imprenditore catanese Gaetano Graci, smascherando quindi il finto sequestro di persona
organizzato a suo favore dal clan Spatola-Inzerillo-Gambino alla vigilia del suo giudizio e
instaurando così un proficuo rapporto di collaborazione con i colleghi milanesi Gherardo Colombo
e Giuliano Turone, che si occupavano dell'inchiesta sul finto sequestro.[5][21][24][25] Secondo i "diari"
di Chinnici, Falcone sarebbe stato sollecitato dall’allora Procuratore generale Giovanni Pizzillo ad
"insabbiare" il ruolo dell'imprenditore Graci nella vicenda[5][26].

Contemporaneamente all'inchiesta Spatola, Falcone sviluppò un filone d'indagine parallelo


riguardante sempre il traffico di droga, scaturito dall'arresto nel marzo 1980 all'aeroporto di
Fiumicino di tre corrieri stranieri (Albert Gillet, Edgard Barbè ed Eric Chartier) che trasportavano
8 kg di eroina[19][24]: i tre iniziarono subito a collaborare con il magistrato ed ammisero di lavorare
per conto di un'organizzazione siculo-americana che aveva come capofila un certo Francesco
Mafara, costruttore edile legato al boss Stefano Bontate, e come destinatari finali della droga
sempre esponenti della famiglia Gambino; nel 1983, a conclusione dell'indagine, Falcone rinviò a
giudizio 22 persone, in quello che giornalisticamente venne chiamato "processo Mafara"[27][28].

Falcone avvertiva, quindi, l’esigenza di una collaborazione internazionale nelle indagini contro il
fenomeno mafioso, attraverso mirate rogatorie all'estero che furono occasione per allacciare una
rete personale di contatti con alcuni dei più validi inquirenti di quei Paesi: nei primi giorni del
mese di dicembre 1980 si recò per la prima volta a New York per discutere di mafia e stringere una
collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est.[29] Entrando negli uffici del
Procuratore Rudolph Giuliani rimase stupito dall'efficienza e dai loro strumenti, fra i quali c'era
per esempio il computer. Falcone seppe instaurare subito un rapporto di fiducia con Giuliani e con
i suoi collaboratori Louis J. Freeh e Richard Martin, oltre che con gli agenti della Dea e dell'Fbi.
Grazie a questa collaborazione riuscirono a sgominare il traffico di eroina gestito dalla famiglia
Gambino utilizzando come copertura la gestione di bar, ristoranti e pizzerie nel New Jersey (che
sarebbe sfociata nella famosa inchiesta c.d. "Pizza connection" condotta dall'Fbi). Anche la stampa
americana seguiva con attenzione questa sinergia e presentava la figura di Falcone con stima e
grandissimo favore. Nonostante la buona collaborazione con l'allora U.S. Attorney (Procuratore
Federale) per il distretto sud di New York Rudy Giuliani, Falcone non nascose perplessità nei suoi
confronti circa la sua integrità.[30]

Nei suoi diari, Chinnici scrisse di aver ricevuto nel maggio 1982 la visita del Procuratore generale
Pizzillo, che lo esortò "in malo modo" a caricare Falcone soltanto di processi di poco conto perché,
con i suoi accertamenti presso le banche, stava "rovinando l'economia palermitana"[31].

Il 25 gennaio 1982, Falcone chiuse l'inchiesta Spatola, rinviando a giudizio 120 indagati[19][23][32]. Il
6 giugno 1983, al termine del processo, Rosario Spatola fu infine condannato, insieme con altri 75
esponenti della cosca Spatola-Gambino-Inzerillo, a dieci anni di reclusione ma sarebbe stato
arrestato a New York dall'FBI, in collaborazione con la polizia italiana, solo nel 1999[33]. In
precedenza per indagare su Spatola avevano già perso la vita il capo della Mobile Boris Giuliano e
il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. I processi Spatola e Mafara furono quindi molto
delicati, ma rappresentarono anche un grande successo per Falcone perché venne così
universalmente riconosciuto il "metodo Falcone":[1][5]

«[...] il vero "tallone d'Achille" delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che
lasciano dietro di sè i grandi movimenti di denaro connessi alle attività illecite più lucrose.
Lo sviluppo di queste tracce, attraverso un'indagine patrimoniale che segua il flusso di
denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l'aspetto decisamente da
privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente
consente agli inquirenti di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche,
insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall'attività
probatoria di tipo tradizionale diretta all'immediato accertamento della consumazione di
delitti.»

(Giovanni Falcone e Giuliano Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, 1982, pag. 10)

L'esperienza del pool antimafia e le dichiarazioni di Buscetta


Lo stesso argomento in dettaglio: Pool antimafia, Tommaso Buscetta, Seconda guerra
di mafia e Maxiprocesso di Palermo § La nascita del pool antimafia.

Il progetto del cosiddetto pool antimafia nacque dall'idea di


Rocco Chinnici, ma successivamente sarebbe stato sviluppato
da Antonino Caponnetto (subentrato a Chinnici, assassinato in
un tragico attentato il 29 luglio 1983) che, nel novembre
1983[34], costituì una squadra composta da quattro magistrati
istruttori (oltre a Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello
e Leonardo Guarnotta)[35]: il pool nacque con lo specifico
compito di coordinare tutte le indagini su reati di mafia, Falcone insieme a Paolo
esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la Borsellino (al centro) ed Antonino
condivisione delle informazioni tra tutti i componenti e Caponnetto (a destra) nel 1986.
minimizzare così i rischi personali, sia per garantire in ogni
momento una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte
le componenti del fenomeno mafioso, sfruttando in particolar modo l'esperienza maturata da
Falcone durante le inchieste Spatola e Mafara (soprattutto nell'ambito delle indagini bancarie e
patrimoniali)[20]. La squadra concentrò l'attenzione sull'inchiesta contro i 162 mafiosi iniziata da
Chinnici[35], dividendo il carico di lavoro in maniera efficace: Falcone e Guarnotta indagavano sui
movimenti di denaro provento del traffico di droga, Di Lello sugli omicidi e altri reati minori
commessi dagli imputati mafiosi e invece Borsellino seguiva l'indagine connessa sui c.d. "delitti
eccellenti" (cioè quelli contro personalità dello Stato consumati in quegli anni) e sugli omicidi
compiuti dalla spietata cosca di Corso dei Mille[5]; erano inoltre coadiuvati da cinque colleghi della
Procura (Giuseppe Ayala, Domenico Signorino, Vincenzo Geraci, Alberto Di Pisa e Giusto
Sciacchitano), il cui compito era quello di portare a processo come pubblici ministeri i risultati
delle indagini del pool e ottenere le condanne[20][35]. La validità del nuovo sistema investigativo si
dimostrò subito indiscutibile, e sarà fondamentale per ogni successiva indagine, negli anni a
venire[1].

Una vera e propria svolta epocale alle indagini sarebbe stata impressa con l'arresto di Tommaso
Buscetta[36], il quale diventò uno dei primi mafiosi a decidere di collaborare con la giustizia
italiana: infatti i Corleonesi, capeggiati da Salvatore Riina, avevano deciso di eliminare Buscetta
perché legato allo schieramento avversario guidato da Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e
Gaetano Badalamenti, uccidendogli per vendetta due figli, un fratello, un genero, un cognato e
quattro nipoti.[37]. Nel giugno 1984, in compagnia del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di
Gianni De Gennaro del nucleo operativo della Criminalpol, Falcone si recò in Brasile per
interrogare Buscetta e lì ebbe l'impressione che potesse essere disposto a collaborare[35]. Lo Stato
italiano ne chiese allora l'estradizione alle autorità brasiliane. Quando questa venne concessa,[38]
Buscetta, per evitarla, tentò il suicidio ingerendo della stricnina ma venne salvato.[39] Il 15 luglio
dello stesso anno arrivò in Italia accompagnato dagli uomini di De Gennaro[40] e decise
definitivamente di collaborare[41]. Prima di procedere al primo interrogatorio, Buscetta avvertì
Falcone delle portata dirompente delle dichiarazioni che stava per rendere: «L'avverto, signor
giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata.
Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con
Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?» Falcone però gli
comunicò che poteva continuare a parlare ed infatti iniziò l'interrogatorio, il primo di una lunga
serie[5][10]. Nei mesi successivi, il giudice riempì circa quattrocento
pagine di verbali scritte a mano, nelle quali Buscetta rivelava per
la prima volta la struttura di Cosa Nostra ("famiglia",
"mandamento", "Commissione") e i nomi degli affiliati alle varie
"famiglie", nonché circa trent'anni di delitti, traffici illeciti e
misfatti avvenuti nel palermitano[11][20]; di portata rivoluzionaria
si rivelò anche la sua rivelazione circa l'esistenza di un organo
direttivo dell'intera organizzazione, la cosiddetta "Commissione"
o "Cupola", e che tutti gli omicidi di un certo rilievo erano
imputabili ad essa e ai suoi componenti (si parlò in questo caso di
"teorema Buscetta"[42][43]). Talmente importante fu perciò la
testimonianza di Buscetta, che Falcone ebbe a dire, anni dopo:
«Prima di lui, non avevo - non avevamo - che un'idea
superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato
a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla
struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa
Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a
Tommaso Buscetta arriva
largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura
all'aeroporto Fiumicino di
essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un
Roma il 15 luglio 1984.
professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza
parlare coi gesti.»[10] Tuttavia Buscetta rifiutò di parlare dei
legami politici di Cosa Nostra perché, a suo parere, lo Stato non
era pronto per dichiarazioni di quella portata, e si dimostrò abbastanza generico su
quell'argomento, nonostante le insistenze e le contestazioni di Falcone[44], limitandosi soltanto ad
accusare l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino e i potenti esattori Nino e Ignazio Salvo, che
verranno colpiti da mandati di cattura firmati dal pool nel novembre successivo[45][46].

In ottobre, l'esempio di Buscetta venne seguito da un altro "uomo d'onore" palermitano, Salvatore
Contorno (detto Totuccio), che tre anni prima era miracolosamente sopravvissuto ad un agguato
tesogli dai Corleonesi (i quali, per vendetta, gli avevano ucciso diversi parenti ed amici) ed aveva
deciso anche lui di rendere dichiarazioni a Falcone, costituituendo un'ulteriore conferma a quelle
di Buscetta: il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura (c.d.
blitz di San Michele) mentre il 25 ottobre successivo quelle di Contorno altri 127 mandati di
cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna[5][47].

Il periodo all'Asinara e il maxiprocesso di Palermo


Lo stesso argomento in dettaglio: Maxiprocesso di Palermo.

Nell'agosto 1985, dopo gli omicidi del


commissario Giuseppe Montana e del
vicequestore Ninni Cassarà (stretti collaboratori
di Falcone e Borsellino), si cominciò a temere per
l'incolumità anche dei due magistrati, che furono
perciò trasferiti per motivi di sicurezza con le
rispettive famiglie presso la foresteria del carcere
dell'Asinara, dove poterono terminare la scrittura
delle oltre 8.000 pagine della colossale
ordinanza-sentenza che rinviava a giudizio 475
indagati a seguito delle indagini del pool, che
finirono per abbracciare i più disparati settori di
Un'udienza del Maxiprocesso di Palermo,
attività illecita di Cosa Nostra, dagli omicidi (ad
scaturito dal monumentale lavoro di Falcone e
esempio i c.d. "delitti eccellenti" Giuliano, Basile,
degli altri magistrati del pool.
dalla Chiesa, Zucchetto e Giaccone) alle
estorsioni, al traffico di droga, agli intrecci politico-affaristici e così via[5]. Per tale periodo il
Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese
e un indennizzo per il soggiorno trascorso.[48] L'ordinanza-sentenza portò così a costituire il primo
grande processo contro l'organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra, passato alla storia come
il maxiprocesso di Palermo, che iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986 presso un'aula bunker
appositamente costruita nel giro di pochi mesi a ridosso del carcere dell'Ucciardone per contenere
476 imputati e centinaia di avvocati[5]. Il dibattimento terminò infine il 16 dicembre 1987. La
sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di
lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool
antimafia.[49] Tuttavia la partita non era chiusa poiché il processo doveva affrontare altri due gradi
di giudizio ed appunto Falcone, durante un'intervista, frenò gli entusiasmi: «Non bisogna cullarsi
nel trionfalismo. Guai a credere che processare quasi 500 persone rappresenti un colpo
definitivo alla mafia».[50]

Nel dicembre 1986, Borsellino venne nominato Procuratore


della Repubblica di Marsala e lasciò il pool. Come ricorderà
Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell'istruttoria
includevano ormai quasi un milione di fogli processuali, che
portarono all'apertura di altri tre nuovi maxi-processi,
rendendo così necessaria l'integrazione di nuovi elementi
all'interno della squadra per seguire l'accresciuta mole di
lavoro[5][51]; entrarono perciò a far parte del pool altri tre
giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e
Giacomo Conte[52]. Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino fotografati insieme.

L'elezione di Meli e la fine del pool

Caponnetto si apprestava a lasciare l'incarico per ragioni di salute e raggiunti limiti di età. Alla sua
sostituzione vennero candidati Falcone e Antonino Meli. Il 19 gennaio 1988, dopo una discussa
votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. Dalla parte di Meli si schierò
inaspettatamente Vincenzo Geraci (che aveva partecipato alle indagini del pool antimafia ed era
diventato membro togato del Csm per la corrente Magistratura indipendente), mentre, a favore di
Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in
dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva[53][54].

La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla
maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne
interpretata come una possibile rottura dell'azione investigativa, inoltre rese Falcone un bersaglio
molto più facile per la mafia, perché la sua sconfitta aveva dimostrato che effettivamente non era
stimato come si credeva; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l'allarme a mezzo stampa,
rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto[5].

Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso,
riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un
numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. Cosa nostra intanto assassinò l'ex sindaco di
Palermo Giuseppe Insalaco (che abitava nello stesso stabile del giudice in via Notarbartolo[55]), il
quale tre anni prima aveva denunciato alla Commissione Antimafia e a Falcone stesso[56][57] le
pressioni subite da parte di Vito Ciancimino e del conte Arturo Cassina durante il suo mandato[58],
e la delicata indagine su questo ennesimo "delitto politico" venne condotta dai sostituti procuratori
Ayala e Di Pisa e poi passò direttamente a Falcone[59][60]. Tempo dopo, i due membri del pool Di
Lello e Conte si dimisero in polemica con Meli[51]. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò
l'unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone, dando ragione a Meli in ben due
occasioni: la prima, nel caso del cosiddetto "blitz delle Madonie", un'inchiesta che aveva portato
all'arresto di numerosi mafiosi e amministratori corrotti nella zona tra Termini Imerese e San
Mauro Castelverde, che i giudici del pool avevano avocato a sé in base al principio dell'unicità di
Cosa Nostra (c.d. teorema Buscetta) mentre Meli reputava che l'inchiesta dovesse essere affidata
ai magistrati di Termini Imerese, competenti per territorio[61]; la seconda, nel caso dell'indagine
nata dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, la quale coinvolgeva
numerosi indagati di diverse province siciliane, che Meli riteneva dovesse essere divisa in tante
inchieste da affidare alle Procure competenti per territorio[62].

Il 30 luglio, a seguito delle polemiche innescate dalla famosa intervista in cui Borsellino
denunciava lo smantellamento del pool[63], Falcone richiese addirittura di essere destinato a un
altro ufficio ma infine ritirò questa richiesta[64][65]. Un mese dopo, ebbe l'ulteriore amarezza di
vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell'Alto Commissariato per la lotta alla Mafia[66]. Le
ostilità ripresero nel novembre successivo, quando Meli, davanti ad una delegazione della
Commissione Parlamentare Antimafia giunta a Palermo, denunciò un presunto abbassamento
della guardia proprio da parte del pool antimafia (in particolare nei confronti di Falcone) che non
aveva emesso un mandato di cattura nei confronti del potente imprenditore catanese Carmelo
Costanzo, accusato da Calderone di collusione con la mafia[67]; Falcone spiegò in seguito che tale
misura non venne presa perché stava convincendo Costanzo a collaborare con lui ma il suo arresto,
disposto da Meli scavalcando il pool, bloccò ogni dialogo[68]. Meli, ormai in aperto contrasto con
Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool poiché ormai buona parte dei
suoi componenti aveva preferito dimettersi e dedicarsi ad altri incarichi.[69][70] Inoltre la figura del
giudice istruttore stava per essere soppressa dalla riforma del codice di procedura penale voluta
dall'allora Ministro della Giustizia Giuliano Vassalli[5]. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia,
Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando l'importante operazione
antidroga "Iron Tower" in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di
New York, che colpì nuovamente le famiglie Gambino e Inzerillo coinvolte nel traffico di eroina[71].

Il fallito attentato dell'Addaura e la vicenda del "corvo"


Lo stesso argomento in dettaglio: Attentato dell'Addaura.

Il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato


presso la villa al mare affittata per le vacanze, comunemente
detto attentato dell'Addaura: alcuni mafiosi piazzarono un
borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli
Il Palazzo di Giustizia di scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice, che stava
Palermo, ribattezzato "Palazzo dei per ospitare i colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio
veleni" a causa del clima di ostilità Lehmann. Il piano era probabilmente quello di assassinare il
nei confronti di Falcone e del pool giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il
antimafia. bagno, ma l'attentato fallì. Inizialmente venne ritenuto che i
killer non fossero riusciti a far esplodere l'ordigno a causa di
un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e
abbandonando il borsone[72].

Falcone, in occasione di una famosa intervista resa al giornalista Saverio Lodato, dichiarò al
riguardo che a volere la sua morte era probabilmente qualcuno che intendeva bloccarne l'inchiesta
sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di "menti raffinatissime", e teorizzando la collusione tra
soggetti occulti e criminalità organizzata: espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati[73].
Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del SISDE che
aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e
condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa,
sentenza poi confermata in Cassazione.[74]
Ma, nello stesso periodo, al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota
vicenda del "corvo": una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta
intestata della Criminalpol[75]), che diffamarono il giudice e i colleghi Giuseppe Ayala, Pietro
Giammanco, Giuseppe Prinzivalli ed altri, come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, e
importanti investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva
calunniato soprattutto con l'accusa di avere "pilotato" il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno,
al fine di sterminare i Corleonesi, storici nemici della sua famiglia[76].

I fatti descritti venivano presentati da più parti come movente della morte di Falcone per opera dei
Corleonesi, i quali avrebbero organizzato il poi fallito attentato come vendetta per il rientro di
Contorno[77]. I contenuti, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno e
gli accadimenti all'interno del tribunale, furono alimentati ad arte sino a destare notevole
inquietudine negli ambienti giudiziari, tanto che nello stesso ambiente degli informatori di polizia
queste missive vennero attribuite a un "corvo", ossia un magistrato[75]. Sebbene sul momento la
stampa non lo spiegasse apertamente al grande pubblico, infatti, tra gli esperti di "cose di cosa
nostra" (come Falcone) era risaputo che, nel linguaggio mafioso, tale appellativo designasse
proprio i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza)[32]; le missive avrebbero così inteso
insinuare la certezza che in realtà il pool operasse al di fuori dalle regole, immerso tra invidie,
concorrenze e gelosie professionali[78].

Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili portarono alla condanna in primo grado
per diffamazione del giudice Alberto Di Pisa, identificato grazie a dei rilievi dattiloscopici. Le
impronte digitali raccolte con un artificio dall'Alto commissario Domenico Sica furono però
dichiarate processualmente inutilizzabili, oltre a lasciare dubbi sulla loro validità probatoria (sia il
bicchiere di carta su cui erano state prelevate le impronte, sia l'anonimo con cui furono
confrontate, erano alquanto deteriorati)[76]. Sica affermò che il nome di Di Pisa come possibile
autore delle lettere anonime gli fu fatto per la prima volta dallo stesso Falcone, circostanza subito
smentita dal magistrato[79]. Una settimana dopo il fallito attentato, il Csm decise la nomina di
Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo[61]. Di Pisa, che tre
mesi dopo davanti al Csm avrebbe mosso gravi rilievi sull'operato dello stesso Falcone e sulla
gestione dei pentiti Buscetta e Contorno[80][81][82], verrà poi assolto in Appello per non aver
commesso il fatto.[75][83]

Le critiche e la stagione dei veleni

Nell'agosto 1989 cominciò a collaborare coi magistrati anche il


mafioso catanese Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose
informazioni sull'omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e
rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere
venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti
inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di
Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito
Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi
di indagini, lo incriminò insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei
loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi Primo piano di Giovanni
annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in Falcone.
carcere). Pellegriti, dopo l'incriminazione, ritrattò, attribuendo
a Izzo di essere l'ispiratore delle accuse[84][85].

Lima e la corrente di Giulio Andreotti erano disprezzati dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e
da tutto il movimento antimafia, per cui l'incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta
di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure
critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera
minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale, come ricordato anche da
Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia dal 1988 al 1992, il
quale scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all'Addaura contro Falcone: «I seguaci di
Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità e per
rafforzare la sua candidatura a procuratore aggiunto a Palermo[86][87]».

Ai primi di dicembre del 1989, le dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Francesco
Marino Mannoia (ex mafioso palermitano, braccio destro del boss Stefano Bontate ed esperto nella
raffinazione di eroina) raccolte da Falcone produssero un blitz con quattordici mandati di cattura e
cinquanta avvisi di garanzia eseguiti tra Palermo, Roma e Napoli[88][89]. Nel gennaio 1990, Falcone
coordinò un'altra importante inchiesta insieme all'FBI, che portò all'arresto di trafficanti di droga
colombiani e siciliani legati alle potenti famiglie Madonia e Galatolo di Resuttana[90]. Ma a maggio
riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima
trasmissione televisiva di Rai 3 Samarcanda, dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore,
scagliandosi contro Falcone che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" della Procura una
serie di documenti riguardanti i cosiddetti "delitti politici" siciliani (gli omicidi di Michele Reina, di
Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo).[91] Le accuse erano
indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco,
ritenuto vicino ad Andreotti. Si asserirono responsabilità politiche che trascendevano le decisioni
della "Cupola" mafiosa (il cosiddetto "terzo livello") ma Falcone dissentì sostanzialmente da queste
conclusioni sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni
come "cinismo politico". Rivolto direttamente a Orlando, nel corso di un'intervista al quotidiano
La Repubblica, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi
rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le
responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli
interessati"[92].[93] La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte di Falcone; in
particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico
Mixer ha accusato Orlando di aver infangato suo fratello: «hai infangato il nome, la dignità e
l'onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore
dello Stato contro la mafia [...] lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti
giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario».[94] In
un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle
accuse che rivolse a Falcone[95].

Sempre nel maggio 1990, Falcone collaborò con il sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini
nell'indagine denominata Duomo Connection che aveva come oggetto l'infiltrazione mafiosa in
Lombardia[96][97].

Nello stesso periodo, condusse anche, insieme al capitano dell'Arma dei Carabinieri Angelo
Jannone (allora in servizio a Corleone), delle indagini finalizzate alla ricerca del latitante Totò
Riina, autorizzando la collocazione di microspie presso le abitazioni di alcuni familiari e presso lo
studio del commercialista Giuseppe Mandalari a Palermo. Soprattutto le intercettazioni presso lo
studio di Mandalari metteranno in luce una serie di collusioni massoniche e politiche che furono
ritenute particolarmente importanti e delicate dal magistrato, che avvertì il capitano Jannone: "chi
tocca questi fili muore".[98]

Nonostante il clima di sospetti determinatosi in questo periodo, Falcone spendeva ogni sua energia
nel lavoro investigativo sui "delitti eccellenti" di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La
Torre, sottoscrivendo infine la requisitoria[99] con cui, il 9 marzo 1991, la Procura di Palermo
chiedeva per quei delitti il rinvio a giudizio dei vertici di Cosa Nostra insieme a quello di esponenti
dell'estrema destra quali Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, questi ultimi indicati
quali esecutori materiali dell'omicidio Mattarella (vennero poi assolti nel processo svoltosi, nella
parte che li riguardava, dopo l'uccisione di Falcone): il giudice la sottoscrisse nonostante non fosse
totalmente convinto poiché, a suo parere, l'inchiesta non aveva scavato in profondità le reali
motivazioni di quei delitti ed infatti, come scrisse nei suoi diari pubblicati dopo la morte, avrebbe
voluto indagare sul presunto coinvolgimento di Gladio (organizzazione paramilitare stay-behind
con funzioni anti-comuniste scoperta proprio in quegli anni) ma ciò gli venne impedito dal
procuratore Giammanco, il quale gli frappose infiniti ostacoli procedurali[100].

Le polemiche sancirono la rottura del fronte antimafia e Cosa nostra sembrò trarre vantaggio della
tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone,
isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del
1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88",
ma non fu eletto. Nel febbraio 1991, fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco,
Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio del
Governo Andreotti VI e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali
del ministero[100][101].

Nel frattempo, Falcone insistette con forza affinché un dossier di 900 pagine stilato dal ROS
dell'Arma dei Carabinieri venisse depositato presso la Procura di Palermo ma il nuovo incarico al
Ministero non gli permise di ottemperare a ulteriori approfondimenti su di esso: infatti il rapporto
(che venne denominato appunto "Mafia e Appalti") analizzava il neo-equilibrio tra mafia, politica
e imprenditoria e svelava l'esistenza di un comitato d'affari mirato all'accaparramento degli appalti
pubblici[102][103][104]. Prima di lasciare definitivamente il suo ufficio, in un'intervista rilasciata al
giornalista Attilio Bolzoni, il giudice affermò: «Mi sento come uno che si sta tuffando in un mare
in tempesta.»[105]

Le dichiarazioni e l'ostilità dei politici

La vicinanza di Falcone al socialista Claudio Martelli costò al


magistrato siciliano violenti attacchi da diversi esponenti
politici. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare
sospetti da parte del Partito Comunista Italiano e di altri
settori del mondo politico (Leoluca Orlando in primis, oltre a
qualche altro esponente della sinistra DC e diversi giudici
aderenti a Magistratura Democratica) che fino ad allora
avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone.[106]
Il 10 agosto 1991, ai funerali in Calabria di Antonino Scopelliti,
Falcone sentì di essere in pericolo e confida al fratello del Claudio Martelli, Marida
collega: «Se hanno deciso così non si fermeranno più [...] ora Lombardo Pijola, Giovanni
il prossimo sarò io».[107] Falcone e Salvo Andò a
Racalmuto nel 1991 durante un
Il 26 settembre 1991 Falcone fu uno degli ospiti della celebre
incontro in memoria di Leonardo
puntata della trasmissione di Canale 5 Maurizio Costanzo
Sciascia.
Show, condotta da Maurizio Costanzo a reti unificate con
Samarcanda (condotta da Michele Santoro su Rai 3) e
dedicata alla memoria di Libero Grassi (che raccolse quella
sera quasi dieci milioni di telespettatori)[108][109]; l'ormai ex magistrato venne duramente attaccato
da un altro ospite in studio, l'avvocato Alfredo Galasso, esponente de La Rete:

GALASSO: «Giovanni Falcone secondo me farebbe bene ad andarsene al più


presto possibile dal posto al ministero, perché l’aria non gli fa bene, non gli fa
proprio bene [...] ».

FALCONE: «È un’opinione soggettiva, e questo significa mancanza di senso dello


Stato» (...)

GALASSO: «Giovanni, non mi piace che stai dentro il palazzo di governo!»[110]


Tra il pubblico di Samarcanda al Teatro Biondo di Palermo c’era un giovanissimo Salvatore
Cuffaro, all'epoca deputato regionale della Democrazia Cristiana e anni dopo condannato per
mafia, il quale prese la parola e si scagliò con veemenza contro la trasmissione, sostenendo come le
iniziative portate avanti da un certo tipo di "giornalismo mafioso" fossero degne dell'attività
mafiosa vera e propria, tanto criticata e comunque lesive della dignità della Sicilia. Cuffaro parlò di
certa magistratura "che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana", con chiaro
riferimento a Calogero Mannino, in quel momento uno dei politici più influenti della DC sotto
inchiesta per presunti rapporti con la mafia a seguito delle accuse del discusso collaboratore di
giustizia Rosario Spatola (solo omonimo del costruttore inquisito anni prima da Falcone).[111][112]
Con sentenza numero 1742 del 2013 il Tribunale civile di Palermo ha disposto un risarcimento in
favore di Cuffaro da parte di Antonio Di Pietro, che aveva linkato sul proprio sito Internet il video
dell'intervento di Cuffaro a Samarcanda con il titolo "Costanzo Show: Totò Cuffaro aggredisce
Giovanni Falcone". Nella sentenza il Tribunale ha accertato che "non si evince un attacco diretto
di Cuffaro nei confronti del giudice Falcone" e che lo stesso, semmai, si era scagliato contro
un'inchiesta, peraltro archiviata pochi giorni dopo la trasmissione, e contro il Magistrato che la
conduceva (il giudice Francesco Taurisano), persona diversa da Giovanni Falcone.[113][114]

Il 15 ottobre 1991, Falcone venne convocato davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il
mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso, in cui si
accusava l'ex giudice di aver "insabbiato" le indagini riguardo al coinvolgimento di mandanti
politici (in particolare dell'onorevole Salvo Lima) nei "delitti eccellenti" Mattarella, Reina e La
Torre: in particolare, Falcone era accusato di non aver approfondito le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia in cui parlava dei legami di Lima con la mafia
e, anzi, di avere occultato quei passaggi con l'apposizione di numerosi "omissis"[115][116]. L'esposto
contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato
palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di
far politica attraverso il sistema giudiziario», affermando anche che i verbali di Marino Mannoia
coperti da omissis vennero trasmessi ad altri giudici e alla Commissione Antimafia e quindi non
erano stati tenuti nascosti[116]. Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto
creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La
cultura del sospetto non è l'anticamera della verità, è l'anticamera del khomeinismo»[117].

Come direttore degli Affari penali al Ministero della Giustizia, Falcone si fece promotore
dell'istituzione della Procura Nazionale Antimafia (la cosiddetta "Superprocura"), che avrebbe
consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile.
Sostenuto da Martelli, rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni,
intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale
avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato[118]. Tale progetto però riaprì
le ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura e una
subordinazione della stessa al potere politico[119]. Inoltre, alcuni magistrati, tra i quali lo stesso
Paolo Borsellino, criticarono poi il progetto della Superprocura, denunciando il rischio che essa
costituisse paradossalmente un elemento strategico nell'allontanamento di Falcone dal territorio
siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini.[120] Le critiche al progetto sfociarono per
giunta in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati[121] ma, nonostante ciò, il 16
novembre 1991 il Parlamento approvò il decreto-legge che istituiva la Direzione Nazionale
Antimafia (DNA), un organismo inquirente coordinato da un procuratore nominato dal Csm, e la
Direzione Investigativa Antimafia (DIA)[122].

Sempre nella veste di direttore degli Affari penali, si interessò all'estradizione per motivi umanitari
dell'attivista Silvia Baraldini, condannata a 43 anni di carcere negli Stati Uniti ma la trattativa con
il governo americano sfumò[123].
Il 12 gennaio 1992, in una trasmissione televisiva su RaiTre, a seguito di una domanda posta da
una persona del pubblico, Falcone affermò, in riferimento all'attentato dell'Addaura che subì tre
anni prima:

«Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per
fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l'hai fatta esplodere.»[124][125]

Grazie ad un suggerimento di Falcone, Martelli avviò il monitoraggio delle sentenze pronunciate


dalla Prima sezione della Cassazione presieduta dal giudice Corrado Carnevale (soprannominato
«ammazzasentenze» perché aveva annullato numerose condanne nei confronti di mafiosi), tanto
da indurre il Presidente della Cassazione Antonio Brancaccio a introdurre il criterio della rotazione
nell'assegnazione dei processi di mafia[126]: fu così che il maxiprocesso fu assegnato non a
Carnevale ma alla Sesta sezione della Corte, presieduta dal giudice Arnaldo Valente, che il 30
gennaio 1992 confermò le condanne all'ergastolo ed annullò le assoluzioni in appello, affermando
in maniera definitiva che Cosa Nostra era una struttura unitaria a direzione rigidamente
verticistica (c.d. "teorema Buscetta"), come scoperto, a suo tempo, dalle indagini di Falcone e del
pool antimafia[127][128].

Il 24 febbraio 1992 il Csm votò per eleggere il Procuratore nazionale antimafia ma, nonostante
l'appoggio (dichiarato) del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga[129], la maggioranza
preferì il magistrato Agostino Cordova a Falcone[130][131]. Martelli si oppose subito a questa
decisione e rifiutò infatti di dare il suo concerto, bloccando di fatto la nomina di Cordova e
precludendo al plenum del Csm di pronunciarsi al riguardo[132][133]. In un articolo apparso su
L'Unità in quel periodo e firmato dal giurista Alessandro Pizzorusso con il titolo «Falcone
superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché» si affermava: "Fra i magistrati è diffusa
l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta
indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia. (...) tale opinione
sarebbe accentuata, e quasi verificata, se, in sede di concerto, il ministro si pronunciasse a favore
di Falcone e contro tutti gli altri[134]". In questo contesto fortemente negativo, nel marzo dello
stesso anno viene assassinato il parlamentare siciliano della DC Salvo Lima, omicidio che
rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa, la quale rompe così
gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni[135].

Undici giorni prima dell'attentato a Capaci, in un convegno organizzato dall'AdnKronos a Roma


giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva"[104]. Nonostante la
sua determinazione, infatti, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa
che prefigurerà tristemente la sua fine: nell'intervista concessa l'anno precedente a Marcelle
Padovani per il libro Cose di Cosa Nostra, Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore
generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso
perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia
colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere"[10]. In effetti, alcuni giorni
prima dell'attentato, Falcone disse ad alcuni amici: "Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi
ammazzano"[136].

La strage di Capaci e la morte


Lo stesso argomento in dettaglio: Strage di Capaci.

Falcone venne assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992,
cinque giorni dopo il suo cinquantatreesimo compleanno.[137] Il giudice, come era solito fare nei
fine settimana, stava tornando in Sicilia da Roma. Il jet di servizio partito dall'aeroporto di
Ciampino arrivò intorno alle 16:45 all'aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Il
boss Raffaele Ganci seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di
Falcone, che guidò il corteo delle tre Fiat Croma blindate dalla caserma "Lungaro" fino a Punta
Raisi, dove dovevano prelevare Falcone; Ganci telefonò a
Giovan Battista Ferrante (mafioso di San Lorenzo, che era
appostato all'aeroporto) per segnalare l'uscita dalla caserma di
Montinaro e degli altri agenti di scorta.[138][139]

Sceso dall'aereo, Falcone si sistemò alla guida della Fiat Croma


bianca con accanto la moglie Francesca Morvillo, mentre
l'autista giudiziario Giuseppe Costanza andò a occupare il
sedile posteriore. Nella Croma marrone si era posto alla guida
Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e
Il luogo dove è stato attivato il
sul retro Rocco Dicillo, mentre nella Croma azzurra c'erano
Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Le tre auto si detonatore dell'ordigno usato per
misero in fila, con in testa la Croma marrone, poi la Croma la strage di Capaci, sul quale è
bianca guidata da Falcone e in coda la Croma azzurra, che stata successivamente dipinta la
imboccarono l'autostrada A29 in direzione Palermo. In quei frase "no mafia".
momenti, Gioacchino La Barbera (mafioso di Altofonte) seguì
con la sua auto il corteo blindato dall'aeroporto di
Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci,
mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni
Brusca e Antonino Gioè (capo della Famiglia di
Altofonte), che si trovavano in osservazione sulle
colline sopra Capaci.

Alle ore 17:58, 3-4 secondi dopo aver chiuso la


telefonata con La Barbera e Gioè, Brusca azionò il
telecomando che provocò l'esplosione di 1 000 kg
di tritolo sistemati all'interno di fustini in un
cunicolo di drenaggio sotto l'autostrada:[138][140] la
prima auto, la Croma marrone, venne investita in
pieno dall'esplosione e sbalzata dal manto L'autostrada e le automobili sventrate in
stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri seguito all'esplosione alla strage di Capaci (23
di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti maggio 1992). L'auto di Falcone è la Fiat Croma
Montinaro, Schifani e Dicillo; la seconda auto, la bianca sulla sinistra.
Croma bianca guidata dal giudice, avendo
rallentato, si schianta invece contro il muro di
cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente
Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza; rimangono
feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente
anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovano a transitare con le
proprie autovetture sul luogo dell'eccidio. La detonazione provoca un'esplosione immane e una
voragine enorme sulla strada.[141] In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri
automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l'allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi
tra la strada sventrata e una coltre di polvere.

Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone venne trasportato sotto stretta scorta di un corteo di
vetture e di un elicottero dell'Arma dei Carabinieri presso l'ospedale civico di Palermo. Gli altri
agenti e i civili coinvolti vennero anch'essi trasportati in ospedale mentre la polizia scientifica
eseguì i primi rilievi e il corpo nazionale dei Vigili del Fuoco provvide a estrarre dalle lamiere i
cadaveri, resi irriconoscibili, degli agenti della Polizia di Stato Schifani, Montinaro e Dicillo.
Intanto la stampa e la televisione iniziarono a diffondere la notizia di un attentato a Palermo e il
nome del giudice Falcone trovò via via conferma. L'Italia intera, sgomenta, trattenne il fiato per la
sorte delle vittime, con tensione sempre più viva, fino al decesso di Falcone, che si ebbe alle 19:05,
dopo un'ora e sette minuti dall'attentato e alcuni tentativi di
rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle
lesioni interne. Senza riprendere più conoscenza, morì poi fra
le braccia di Borsellino.[13] Francesca Morvillo morirà invece
sotto i ferri intorno alle 22:00.

Le reazioni alla strage


Due giorni dopo, il 25
La tomba di Falcone nella maggio, mentre a Roma
chiesa di San Domenico a viene eletto presidente
Palermo. della Repubblica Oscar
Luigi Scalfaro, a Palermo,
nella Chiesa di San
Domenico, si svolgono i funerali delle vittime ai quali partecipa
l'intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come
Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del
mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Volantini recanti una citazione
Vincenzo Scotti e Giovanni Galloni, vengono duramente del giudice Falcone: "Gli uomini
contestati dalla cittadinanza. Le immagini televisive delle passano, le idee restano. Restano
parole e del pianto straziante della giovanissima Rosaria, le loro tensioni morali e
vedova dell'agente Schifani, "io vi perdono, ma voi vi dovete continueranno a camminare sulle
mettere in ginocchio", susciteranno particolare emozione gambe di altri uomini".
nell'opinione pubblica.

Nel giugno 1992, ad appena un mese dalla strage, il quotidiano


Il Sole 24 Ore realizzò uno scoop, pubblicando alcuni appunti personali che erano stati consegnati
da Falcone nel 1991 alla giornalista Liliana Milella e che vennero soprannominati
giornalisticamente i "diari di Falcone": in essi, il magistrato esprimeva il suo disappunto nei
confronti del procuratore capo Pietro Giammanco e l'amarezza per il clima di isolamento in cui si
trovava all'interno della Procura di Palermo prima di accettare l'incarico ministeriale[100]. Gli
appunti vennero riconosciuti come autentici da molti colleghi del giudice, come Paolo
Borsellino[142].

La magistrata Ilda Boccassini dichiarò rivolgendosi ai colleghi nell'aula magna del tribunale di
Milano: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi
diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Nel suo sfogo la
magistrata, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricordò anche il
linciaggio subito dall'amico Falcone da parte dei suoi colleghi magistrati, anche facenti capo alla
stessa corrente cui Falcone aderiva:

«Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell'ANM. Non potrò mai dimenticare quel
giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone
si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io
dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un'altra, come hanno fatto il Consiglio
superiore della magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che
Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua
città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l'unica strada possibile, il ministero
della giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria
contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione.»

Boccassini criticherà anche l'atteggiamento dei magistrati milanesi impegnati in Mani pulite:
«Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale?
Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un
traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno
mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi
ha detto: "Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali"»

Ilda Boccassini confermerà le critiche in un'intervista a La Repubblica del maggio 2002,[143] in


occasione dell'affissione di targa in memoria di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. La
magistrata criticherà gli onori postumi offerti a Falcone, sostenendo che

«Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo
accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano
a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. [...] Non c'è stato
uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure
le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari,
con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di
calunnie e insinuazioni che lo ha colpito»

Nell'intervista ricordò anche come diversi magistrati e politici,


sia vicini a partiti della sinistra sia della destra, avessero in
passato criticato fortemente Falcone. In particolare,
l'opposizione a Falcone dei magistrati vicini al PDS era stata
forte: al CSM, per diverse volte il magistrato palermitano
aveva subito dei veti. Ad esempio, quando aveva concorso al
posto di super-procuratore antimafia, gli era stato preferito
Agostino Cordova, all'epoca procuratore capo di Palmi.
Nell'occasione, Alessandro Pizzorusso, componente laico del
CSM designato dal Partito Comunista, aveva firmato un
articolo sull'Unità sostenendo che Falcone non sarebbe stato
"affidabile" e che, essendo "governativo", avrebbe perso le sue
caratteristiche di indipendenza[134].

Già in precedenza, quando - a seguito del collocamento a


riposo di Caponnetto - al Consiglio superiore della
magistratura si era dovuto decidere se Falcone dovesse essere Maria Falcone, sorella di
posto o meno a capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, gli era Giovanni, presidente della
stato preferito Antonino Meli; avevano votato per Fondazione Falcone.
quest'ultimo, e quindi contro Falcone, anche gli esponenti di
Magistratura democratica, vicini al PDS, Giuseppe Borré ed
Elena Paciotti, quest'ultima poi eletta europarlamentare dei Democratici di Sinistra. Dopo la sua
morte, Leoluca Orlando, commentando l'ostracismo che Falcone aveva subito da parte di alcuni
colleghi negli ultimi mesi di vita, disse: «L'isolamento era quello che Giovanni si era scelto
entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale».

All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unisce anche il Senato degli Stati Uniti, con una
risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui
Falcone era componente.[141] La Corte Suprema degli Stati Uniti, massimo organo giurisdizionale
USA, ricorda il 29 ottobre 2009 Giovanni Falcone in una seduta solenne quale "martire della causa
della giustizia".[144] In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera l'ex Presidente della
Repubblica Italiana Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla
morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato: "i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?]
Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DIA e prima
sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva
andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia".

Riconoscimenti e influenza

«La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio
e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente
serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma
impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.»

(Giovanni Falcone, Rai 3, 30 agosto 1991[145])

La normativa
Lo stesso argomento in dettaglio: Direzione investigativa antimafia e Direzione
nazionale antimafia.

Una delle più importanti eredità dell'operato di Falcone è stata


l'emanazione di alcuni provvedimenti normativi atti ad agevolare il
contrasto e la repressione del fenomeno della mafia in Italia; tra le
più importanti si ricordano:[146]

decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con


modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82 - una delle
prime norme. che disciplinó il fenomeno dei "collaboratori di
giustizia". Francobollo
decreto legge 29 ottobre 1991 n. 345 - convertito in legge 30 commemorativo
dicembre 1991 n. 410 - che istituì della direzione investigativa
antimafia;
decreto legge 20 novembre 1991, n. 367 - convertito in legge 20 gennaio 1992, n. 8 - che
modificava il codice di procedura penale italiano;
decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 - convertito in legge n. 7 agosto 1992 n. 356 - norma che
contempla diverse misure in tema di procedimento penale, contrasto al crimine mafioso,
riciclaggio di denaro, giustizia minorile e alcune disposizioni circa la tutela dei collaboratori di
giustizia.

Monumenti
Lo stesso argomento in dettaglio: Teca Falcone.

Al magistrato, in Sicilia e nel resto d'Italia, dopo la scomparsa, sono state dedicate molte scuole e
strade, nonché una piazza nel centro di Palermo (nel giugno del 2008). La prima scuola
dedicatagli è il liceo linguistico di Bergamo, il cui nome dedicato al magistrato è stato approvato
nel 1993 e ufficializzato con una cerimonia il 27 novembre dello stesso anno, alla quale ha
partecipato anche il magistrato Armando Spataro, collaboratore di Falcone a Palermo. Nel 1999 gli
è stato intitolato il convitto nazionale di Palermo.

Nella sede dell'FBI di Quantico negli Stati Uniti, è presente una statua di Giovanni Falcone,
voluta dal direttore Louis Freech.
A Falcone e al suo collega Borsellino il comune di Castellammare di Stabia ha dedicato l'aula
del consiglio comunale intitolandola a loro nome; nel comune di Scafati è dedicata loro una
piazza proprio di fronte alla scuola elementare "Ferdinando
II di Borbone"; anche nel comune di Casaluce in provincia
di Caserta, è stata dedicata a Falcone una piazza su un
bene confiscato alla camorra; a Casalnuovo di Napoli gli è
dedicata una via, mentre ai due colleghi magistrati è stato
dedicato anche l'Aeroporto di Palermo-Punta Raisi.
Nel 2002 il comune di Savignano sul Panaro ha dedicato a
Falcone realizzata dallo scultore Antonio Sgroi. L'opera
presenta un labirinto dal quale fuoriesce una donna che
porta fra le mani una melagrana. Attraverso una fenditura
nel frutto si intravede la forma della Venere preistorica di Resti dell'automobile della
[147]
Savignano, come omaggio alla terra locale. scorta di Giovanni Falcone.
Un albero situato di fronte all'ingresso del suo
appartamento, nella centralissima via Emanuele
Notarbartolo a Palermo, raccoglie messaggi, regali e fiori
dedicati al giudice: è "l'albero Falcone".[148]
Luoghi pubblici intitolati a Falcone, al collega Borsellino o
ad entrambi i giudici sono presenti in moltissimi comuni
italiani.
Il 23 gennaio 2008, su proposta del sindaco Walter
Veltroni, con una risoluzione approvata all'unanimità dal
Consiglio dell'VIII Municipio di Roma, la località Ponte di
Nona è stata rinominata Villaggio Falcone in suo onore.[149]
Dal maggio 2011, l'aula delle udienze della Corte d'Appello
di Trento è dedicata a Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.[150][151]
All'uscita di Capaci dell'autostrada A29, in prossimità del
luogo dell'attentato, è stata eretta una colonna che espone
i nomi delle vittime di quel 23 maggio 1992. Qui il giudice,
sua moglie e la scorta vengono commemorati ogni anno il
giorno dell'anniversario della strage, con la chiusura del L'albero Falcone a Palermo, in
tratto al traffico.[152] via Emanuele Notarbartolo n. 23.
Il 18 maggio 2012, a Roma, nella piazza d'armi della
Scuola agenti del Corpo di polizia penitenziaria, intitolata al
magistrato, il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano ha inaugurato un manufatto in acciaio e
cristallo, denominato teca Falcone, in cui sono conservati i
resti della Fiat Croma bianca su cui viaggiava il magistrato
al momento di essere vittima dell'attentato.[153]
Il 3 giugno 2015 le sue spoglie sono state traslate dal
cimitero di Sant'Orsola di Palermo nella chiesa di San
Domenico della stessa città, Pantheon degli uomini illustri
di Sicilia, all'interno di un semplice sepolcro di fronte al
monumento funebre di Emerico Amari.
Il 10 luglio 2017, a pochi giorni dal 25º anniversario della
strage di via D'Amelio, è stato decapitato il busto del
giudice Falcone, donato dall'Istituto Superiore per la difesa
delle tradizioni, davanti all'Istituto Comprensivo che porta
lo stesso nome del magistrato, situato nel quartiere
palermitano dello Zen.[154] La statua, a cui è stata staccata Monumento commemorativo a
la testa e un pezzo del busto, è stata poi usata come ariete Falcone nel punto esatto dove
contro il muro dell'istituto scolastico[155]. "Oltraggiare la avvenne la strage a Capaci.
memoria di #Falcone è una misera esibizione di
vigliaccheria" è il messaggio su Twitter[156] che il primo
ministro Paolo Gentiloni ha pubblicato subito dopo aver preso coscienza dell'accaduto.
Una delle due sale consiliari (quella situata nel quartiere Arenella) della V Municipalità di
Napoli è intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il 14 novembre 2017, la rappresentanza italiana presso l'Agenzia europea per il contrasto al
crimine organizzato (Eurojust) con sede a L'Aja è stata intitolata alla memoria dei giudici
Falcone e Borsellino.

Opere
Tecniche di indagine in materia di mafia, con Giuliano Turone, in Cassazione Penale, 1983.
Rapporto sulla mafia degli anni '80. Gli atti dell'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo.
Giovanni Falcone: intervista-racconto, a cura di Lucio Galluzzo, Francesco La Licata, Saverio
Lodato, Palermo, S. F. Flaccovio, 1986.[157]
Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani, Milano, Rizzoli, 1991.
Io accuso. Cosa nostra, politica e affari nella requisitoria del maxiprocesso, Roma, Libera
informazione, 1995.[157]
La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia, Milano, BUR Rizzoli, 2010, ISBN
978-88-17-04391-5.

Nella cultura di massa

Cinema e televisione

Nelle opere di finzione narrativa, ossia nei film e nelle fiction televisive, è stato più volte mostrato
Giovanni Falcone, o con immagini di repertorio (ad esempio nel documentario In un altro paese),
oppure come personaggio interpretato da attori (sia in pellicole interamente incentrate sulla vita e
la morte di Falcone, sia in pellicole in cui Falcone è solamente citato oppure appare come
comparsa).

Giovanni Falcone (1993), con protagonista Michele Placido nel ruolo di Falcone.
I giudici - Excellent Cadavers (1999), con Chazz Palminteri nel ruolo di Falcone.
Paolo Borsellino (2004), con Ennio Fantastichini nel ruolo di Falcone.
In un altro paese (2005), un documentario di Marco Turco[158] in cui ci sono immagini di
repertorio su Falcone.
Giovanni Falcone - L'uomo che sfidò Cosa Nostra (2006), con protagonista Massimo Dapporto
nel ruolo di Falcone.
Il capo dei capi (2007), con Andrea Tidona nel ruolo di Falcone.
Vi perdono ma inginocchiatevi, un TV movie del 2012 che racconta le vicende degli uomini
della scorta di Giovanni Falcone.
Convitto Falcone (2012), cortometraggio di Pasquale Scimeca.
1992, un telefilm del 2015 in cui c'è una brevissima partecipazione di Claudio Spadaro nel
ruolo di Falcone, adeguatamente camuffato per assomigliare al magistrato palermitano.
Era d'estate (2015) con protagonista Massimo Popolizio nel ruolo di Falcone.
Il traditore (2019) con Fausto Russo Alesi nel ruolo di Falcone.

Letteratura e musica
Per questo mi chiamo Giovanni, scritto da Luigi Garlando (2012).
Marco Ongaro ha dedicato al giudice Falcone la canzone La scorta, presente nell'album del
2010 Canzoni per adulti.
Stefano Fonzi (musiche), Giommaria Monti (testi). Il coraggio della solitudine. Edizioni Musicali
Rai Trade, 2007.[159]
I Savatage, gruppo heavy metal statunitense, hanno dedicato al giudice Falcone la canzone
"Castles Burning", presente nell'album del 1994 Handful of Rain.
Signor tenente, canzone scritta da Giorgio Faletti nel 1994 e presentata al Festival di Sanremo
dello stesso anno, fa allusione alla strage di Capaci e a quella di Via D'Amelio.
Giacomo Bendotti (testo e disegni), autore romano, ha realizzato una graphic novel dedicata a
Giovanni Falcone.

Onorificenze
Medaglia d'oro al valor civile
«Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata,
consapevole dei rischi cui andava incontro quale componente del 'pool antimafia',
dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più
minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Proseguiva poi
tale opera lucida, attenta e decisa come Direttore degli Affari Penali del Ministero di
Grazia e Giustizia ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con
efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio delle Istituzioni.[160]»
— Palermo, 5 agosto 1992

Il 13 novembre 2006 è stato nominato tra gli eroi degli ultimi 60 anni dal Time magazine.[161]
Inoltre, è stato nominato in suo onore l'asteroide 60183 Falcone.[162][163]

L'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato ha annunziato l'emissione nel 2022 di una moneta
commemorativa da 2 euro, destinata alla circolazione, in occasione del 30°esimo anniversario
dell'assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Nel 2022 la Fondazione Italia USA gli ha attribuito alla Camera dei Deputati il Premio America
alla memoria, che è stato ritirato da Pietro Grasso.[164]

Note
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presente. I tuoi sogni, il nostro futuro, Milano, Rizzoli, 2012, ISBN 978-8817056175.
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1995, ISBN 88-04-38802-1.
6. Lucio Galluzzo, Saverio Lodato e Francesco La Licata, Falcone vive, Palermo, Flaccovio,
1992, ISBN 88-7804-078-9.
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9. ^ Claudio Leone, Giovanni Falcone, il capitano di tutti noi, in Football Pills, 29 gennaio 2018
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10. Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, 1991, ISBN 88-17-
00233-X.
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72. ^ DOVEVA MORIRE ALLE 8 SULLA SCOGLIERA - la Repubblica.it, su Archivio - la
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73. ^ Saverio Lodato, Nella villa sul mare di Falcone: «Stesso copione, sono solo come Dalla
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Voci correlate
Antonino Caponnetto
Attentato dell'Addaura
Collaboratore di giustizia (Italia)
Cosa nostra
Cosa nostra statunitense
Direzione Investigativa Antimafia
Direzione Nazionale Antimafia
Emanuele Piazza
Francesca Morvillo
Mafia in Italia
Magistratura italiana
Maxiprocesso di Palermo
Paolo Borsellino
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Rocco Chinnici
Pizza connection
Strage di via d'Amelio
Strage di Capaci
Teca Falcone
Vittime di cosa nostra
Vittime del dovere

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Collegamenti esterni

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Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - Il ricordo di Gesualdo Bufalino.
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