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La mafia est une organisation criminelle avec des racines en Sicile, en Calabre et en
Campanie qui s'est développée aussi dans le nord de l'Italie, en Europe et dans le
monde.
Les mafiosi font aussi des affaires avec des politiciens pour obtenir des faveurs en
échange de votes et de protection.
La mafia peut s'enrichir avec le "pizzo", une sorte de "taxe" que la mafia demande
aux commerçants en échange d'une protection.
Les commerçants qui ne paient (PEIE) pas, peuvent (PEV) subir de graves
dommages à leur entreprise.
En Sicile la mafia s’appelle Cosa Nostra, en Campanie Camorra, dans les Pouilles la
Sacra Corona Unita, et en Calabre 'Ndrangheta.
Figura di Riina
Salvatore Riina nasce a Corleone il 16 Novembre 1930. Chiamato Totò U’Curtu
per la sua altezza di 1.58 m visse una vita normale fino ha i suoi 13 anni
quando nel dicembre 1943 non trovò una bomba americana inesplosa lui il
fratello Gaetano e il fratello più piccolo Francesco e il padre Giovanni la
portarono a casa per estrare da essa la polvere da sparo e guadagnarci
qualcosa se non fosse che la bomba esplose uccidendo il fratello francesco e il
padre giovanni e riducendo in fin di vita Gaetano, totò ne rimasto a guardare il
mulo era rimasto illeso vedendo volare il corpo del fratello dal capannone si
diresse a vedere come fossero ridotti i corpi non cera nulla da fare ciccio e
giovanni erano morti. Disse a i suoi funerali a Binnù: “A mio padre non la
ammazzato la bomba la ammazzato la fame”
Dopo la morte del padre totò prese il suo posto da capo famiglia iniziando a
lavorare li incontro Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella con cui stressa
una solida amicizia, Totò però dopo la morte del padre non era più lo stesso.
Totò si unii insieme a i suoi due amici e altri ragazzi alla schiera del Dottore
Michele Navarra e affidati a Luciano Liggio detto Lucianeddù che li prese sotto
la sua ala mandando a bruciare campi e a far scappare dalle terre del dottore
Navarra i socialisti guidati da Placido Rizzotto che venne poi ucciso da Riina e
Lucianeddu il 18 marzo 1948.
La prima volta che Riina venne arrestato fu il 19 maggio 1949, durante una
partita di bocce, nel corso di una rissa sparò e uccise un suo coetaneo,
Domenico Di Matteo, per poi darsi alla fuga. A limitare i danni ci pensò
Navarra, che gli suggerì di consegnarsi alle forze dell'ordine e di farsi
processare per omicidio aggravato, tentato omicidio e porto abusivo di armi. A
19 anni Riina fu quindi condannato a una pena di 16 anni e 5 mesi. Il 13
settembre 1955, dopo poco più di 6 anni di carcere, gli fu concessa la libertà
vigilata. Una volta tornato a Corleone, Riina tornò subito alle dipendenze di
Liggio, la cui banda nel frattempo era diventata molto forte sul piano militare
e una eccellente fonte di reddito sul piano economico. Per conto di Liggio fece
da ragioniere nell'"azienda" che si occupava della macellazione clandestina di
bestiame, rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di
Scala, che poi veniva consegnato alle macellerie di Palermo, utilizzando
camion anch'essi rubati. Lo scontrò provocò 140 morti e Riina era sospettato
di aver recitato un ruolo di primo piano nella mattanza.
Quando nel 1962 scoppiò la prima guerra di mafia Riina e gli altri Corleonesi si
dileguarono per tutta la Sicilia in seguito alla morte di Calogero Bagarella
morto in uno scontro a fuoco fino alla fine della guerra nel 1963.
Riina venne però arrestato il 15 dicembre 1963, a Corleone nella parte alta del
paese, da una pattuglia di agenti di polizia di cui faceva parte anche il
commissario Angelo Mangano il quale, nel 1964, parteciperà, sotto la
direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di
Luciano Liggio. Riina, che aveva una carta d'identità rubata (dalla quale
risultava essere "Giovanni Grande" da Caltanissetta) e una pistola non
regolarmente dichiarata, tentò di scappare, ma venne catturato dalle forze
dell'ordine. Fu riconosciuto dall'agente Biagio Melita.
Dopo l’omicidio di Inzerillo Girolamo Teresi, tre dei suoi uomini e la famiglia
di Bontate vennero attirati in una imboscata e strangolati e fatti sparire. Nello
stesso periodo Salvatore Contorno ex uomo di Bontate sopravvisse a un
attentato a colpi di mitra nella strada di Brancaccio tesoli da un comando di
killer guidati da Giuseppe greco detto Scappuzedda.
The Gambino family starts from Carlo Gambino, born on August THE 24TH,
19-02 in Palermo. When he was 18 years old, he joined the Passo Di Rigano
mafia family. When he was 19 years, he escaped to America.
In America, he worked in the American Cosa Nostra, dealing with the sale of
cigarettes and alcohol and the tradeof money. In 19-57 he assassinated the
Boss Albert Anestasi and took his place.
The Gambino family became one of the most powerful in America; in 1962
Jonny Gambino, the nephew of Carlo Gambino, went to America. Carlo
Gambino died in 1976, and his cousin Paul Castellano took his place, and
Jonny Gambino became capodecina (it’s the head of the soldiers in the family
mafia).
Jonny Gambino came to Sicily together with Rosario Naimo, who was an
important man of honour. He was an intermediary between the American and
Sicilian mafias. The Inzerillos were saved, but Pietro and Antonino Inzerillo,
the uncle and brother of Salvatore Inzerillo, were eliminated, so Totò Riina
became the Capo dei Capi.
Negli stessi giorni, il 6 aprile, il Generale scrisse nel suo diario personale:
Nel giugno 1982 venne pubblicato il “rapporto dei 162”: una nuova mappa del
potere mafioso a Palermo, che diede origine a 87 mandati di cattura e 18
arresti, evidenziando anche le commistioni tra mafia e politica.
Intorno alle 21.10 del 3 settembre 1982 l'Alfetta di Domenico Russo che stava
riportando il Generale e sua moglie a casa venne affiancata da una
motocicletta su cui viaggiavano un killer e il mafioso Pino Greco, il quale aprì il
fuoco con un Kalashnikov AK-47 sull'agente di scorta, che nonostante i colpi
uscì dall'auto per tentare, invano, di difendere il Generale e la consorte. Nello
stesso momento Antonino Madonia e Calogero Ganci, guidando una BMW
518, raggiunsero l'auto su cui viaggiava il Generale dalla Chiesa uccidendo la
coppia con 30 colpi di AK-47. L'auto su cui viaggiavano andò a sbattere contro
una Fiat parcheggiata. Il sicario scese dall'auto e sparò l'ultimo colpo, quello
definitivo, al volto del Generale. Oltre agli esecutori materiali, il commando di
fuoco poté contare su altri sicari che seguirono l'azione, pronti ad intervenire
nel caso che Russo o dalla Chiesa avessero reagito contro i killer, ma non
ebbero il tempo per poterlo fare.
La sera dell'assassinio di Dalla Chiesa, due uomini, tra cui l'economo della
prefettura allontanato mesi prima dal Generale, andarono a casa del prefetto
per cercare dei lenzuoli con cui coprire i cadaveri. In seguito a questo episodio
la chiave della cassaforte scomparve, per ricomparire diversi giorni più tardi.
All'apertura della cassaforte da parte dei figli questa fu ritrovata svuotata.
Qualcuno quindi rubò il suo contenuto, parecchi documenti sensibili, tra cui
anche un dossier sul caso Moro.
Maxiprocesso
L'intuizione per far fronte a questa tragica sequenza di morti venne da Rocco
Chinnici, allora a capo dell'ufficio istruzione di Palermo. Chinnici decise di
affidare le indagini sulla mafia ad un gruppo specializzato di magistrati,
favorendo la circolazione e la condivisione delle informazioni. In tal modo si
riuscì a mettere a fuoco in maniera complessiva la mafia, non più analizzando
soltanto ristrette porzioni del fenomeno, ma esaminandolo con uno sguardo
d'insieme. Il Pool e il capo della Squadra Mobile, il vicequestore Ninni
Cassarà, avviarono un'azione di contrasto a Cosa Nostra come mai prima di
allora. In particolare quest'ultimo stilò di persona il c.d. "Rapporto dei 162",
considerato l'embrione dell'ipotesi investigativa alla base del Maxiprocesso.
La risposta della mafia non si fece attendere e arrivò con l'omicidio di Rocco
Chinnici, il 23 luglio 1983. A sostituirlo fu chiamato Antonino Caponnetto, che
portò ad un livello di efficienza ancora maggiore il funzionamento del Pool,
ora composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e
Giuseppe Di Lello. Fu data particolare importanza al metodo investigativo
inaugurato da Giovanni Falcone e basato sull'analisi dei movimenti bancari
per comprendere collegamenti che altrimenti non sarebbero mai emersi.
l ruolo dei pentiti fu fondamentale per l'avvio delle indagini e per lo svolgersi
del processo. Le loro dichiarazioni permisero una lettura innovativa
dell'organizzazione Cosa nostra.
I pentiti furono 21, tra gli altri: Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno,
Vincenzo Sinagra, Stefano Calzetta, Sebastiano Dattilo, Gennaro Totta, Koh
Bak Kin, Rodolfo Azzoli, Salvatore Di Marco.
Buscetta illustrò inoltre le dinamiche che hanno portato allo scatenarsi della
Seconda Guerra di Mafia, con il prevalere dello schieramento corleonese
sull'ala moderata di Cosa Nostra, ovvero quella rappresentata da Stefano
Bontade e Salvatore Inzerillo, che avevano comandato su Palermo fino a quegli
anni.
Il processo prese le mosse con molte difficoltà. Gli avvocati degli imputati
speravano di riuscire a farlo trasferire altrove, in modo che i giudici fossero
meno esperti in fatto di mafia. Inoltre, temendo ritorsioni, inizialmente
soltanto 4 giudici popolari accettarono l'incarico. Alla fine ne furono scelti 16:
più del neccessario per paura di rinunce o attentati. Per quanto riguarda il
presidente fu scelto Alfonso Giordano che proveniva dalla magistratura civile e
non penale.
Parte dei media si rivelò ostile al processo, sostenendo che fosse impossibile
processare un'intera organizzazione e che ciò comportasse un enorme spreco
di denaro e risorse, oltre ad essere dannoso per l'immagine della città. Per gli
stessi motivi, la cittadinanza si trovò spaccata tra i sostenitori e i critici del
processo.
Il comune di Palermo, per volere del sindaco Leoluca Orlando, si costituì parte
civile.
L'aula bunker fu costruita in Via Enrico Albanese, all'interno del complesso del
carcere Ucciardone, per permettere uno spostamento agevole dei detenuti.
L'aula fu provvista di sofisticati sistemi di sicurezza, porte blindate e vetri
antiproiettile per evitare il rischio di attentati e fughe, mentre il soffitto fu
costruito in modo che potesse resistere ad attacchi aerei.
Alle 23:00 l'udienza venne sospesa e rinviata alle 9:30 del giorno successivo
per procedere alla costituzione delle parti civili, conclusasi il 12 febbraio.
Il 14 febbraio il Presidente, dopo aver dato lettura dei capi di imputazione e
concluso le formalità di apertura dell'udienza, dichiarò aperto il dibattimento.
Nella fase dibattimentale, furono numerosi gli episodi di tensione. Gli imputati
nelle celle mostrarono spesso segni di nervosismo. Addirittura l'imputato
Alfredo Bono partecipò alle udienze su una lettiga, a causa della malattia.
Affermò: "Ero entrato e rimango con lo spirito di quando io ero entrato. Cosa
Nostra, ha sovvertito l'ideale con delle violenze che non appartenevano più a
quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui io appartenevo.
Quindi non sono un pentito." Buscetta scaricò così la responsabilità del suo
pentimento sullo schieramento corleonese, colpevole di aver snaturato
l'organizzazione.
L'unico confronto fu quello tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò. Calò era il
capofamiglia di Porta Nuova, la famiglia a cui era appartenuto Buscetta, e i
due erano stati grandi amici. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra di mafia
però, Calò passò allo schieramento corleonese. Durante il confronto, che
sarebbe dovuto servire per dimostrare la falsità delle accuse, le cose andarono
in maniera del tutto diversa. Alla fine infatti il vincitore si rivelò Buscetta
stesso, mentre Calò non riuscì a replicare alle dure accuse del collaboratore di
giustizia.
Alla fine gli avvocati degli imputati che avevano chiesto a loro volta il
confronto, ritirarono la loro richiesta, comprendendo che sarebbe stato
controproducente. Tra gli altri, avevano chiesto il confronto Luciano Leggio il
9 aprile 1986, Giuseppe Bona e Tommaso Spadaro che avevano dichiarato di
essere in possesso di documenti che potevano provare la falsità delle accuse
rivolte. Anche queste richieste di confronto furono ritirate.
La Corte, al solo fine di allegare agli atti una versione degli interrogatori di
Contorno in lingua italiana (e quindi di più facile lettura rispetto alle
trascrizioni originali) nominò il 19 giugno come interprete il professor Santi
Correnti, il quale depositò la trascrizione durante l'udienza del 4 settembre
dello stesso anno.
Il 20 giugno 1986 fu convocato Ignazio Salvo, che giunse con una valigetta
contenente documenti che sarebbero dovuti servire per dimostrare la sua
estraneità ai fatti contestati. La sua presenza rappresentava la volontà dello
Stato di non colpire soltanto l'ala militare di Cosa nostra, ma anche i
rappresentanti delle ramificazioni della mafia che andavano a toccare il potere
politico. Ignazio Salvo era accusato di essere uomo d'onore della famiglia di
Salemi, come suo cugino Nino Salvo.
L'unico omicidio che ruppe il silenzio delle armi imposto da Cosa nostra fu, il 7
ottobre 1986, fu quello del piccolo Claudio Domino. Le reali motivazioni non
sono mai state scoperte, anche se i sospetti ricaddero subito sulla mafia per via
del fatto che la madre del bambino lavorava all'Aula bunker. Per questo alcuni
imputati si dissociarono pubblicamente dall'azione, come fece Giovanni
Bontate. Il fratello di Stefano Bontate, passato allo schieramento corleonese,
lesse un comunicato che diceva così: "Noi siamo rammaricati e addolorati
quanto l'intera cittadinanza per l'eccidio dell'innocente Claudio Domino".
Questa dichiarazione non fu condivisa da molti mafiosi, poichè parlando alla
prima persona plurale di fatto ammetteva l'esistenza di Cosa Nostra.
Giuseppe Ayala aggiunse: "Io spero che noi accusando abbiamo in fondo
difeso, da magistrati palermitani, in un processo che si celebra a Palermo,
davanti alla Corte d'Assise di Palermo, i valori più autentici della nostra terra
nei quali tutti noi dobbiamo continuare a credere e a riconoscerci [...] E vi
devo infine dire con grande sincerità, che il collega Signorino ed io siamo non
certi, siamo certissimi che la vostra sentenza, signori giudici, sarà un'autentica
affermazione di giustizia. Così solo, senza lotte, il diritto vince sul delitto, la
democrazia e la civiltà sulla barbarie. Grazie"
Il 30 marzo 1987 iniziarono le 32 arringhe della parte civile, 635 dei legali
degli imputati. La difesa si articolò principalmente sulla tesi che i pentiti
mentissero per vendicarsi, o comunque sull'inattendibilità delle loro
dichiarazioni.
Il Presidente Alfonso Giordano affermò: "Io non posso, dopo un anno e otto
mesi gomito a gomito con tutti costoro, togati e non, licenziarmi da loro senza
avere espresso nei loro confronti il più profondo, sentito e affettuoso
ringraziamento"
L'11 novembre 1987 alle 11.15 la Corte entrò in camera di consiglio dopo 349
udienze e 21 mesi dall'inizio del processo.
"In nome del popolo italiano, la Corte d'Assise prima di Palermo, visti gli
articoli di legge, dichiara:"
Tra le condanne, possono essere ricordati gli ergastoli a Michele Greco, Pippo
Calò, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, l'assoluzione a Luciano Leggio, 7
anni a Ignazio Salvo, 3 anni e 6 mesi a Tommaso Buscetta, 6 anni a Salvatore
Contorno.
Con il processo, finì anche la tregua militare della mafia. La sera stessa venne
ucciso Antonino Ciulla mentre stava rincasando con un vassoio di cannoli per
festeggiare l'assoluzione.
La Strage di Capaci
Già nel 1983, all'indomani dell'attentato di via Pipitone Federico (in cui
persero la vita il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta), era in
programma anche l'omicidio del giudice Giovanni Falcone: su incarico del
boss Salvatore Riina, Giovanni Brusca (suo uomo di fiducia e "uomo d'onore"
della Famiglia di San Giuseppe Jato) si attivò personalmente per pedinare il
magistrato e studiare le sue abitudini e i suoi orari pensando di far esplodere
una Vespa imbottita di tritolo. Studiò anche la possibilità di far esplodere un
furgoncino davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo o di utilizzare dei
bazooka, tutti progetti poi abbandonati per le notevoli misure di sicurezza
intorno al giudice.
«Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro
che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga
fatta giustizia, adesso.
Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma
certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono:
io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di
cambiare...
Ma loro non cambiano...loro non vogliono cambiare...
Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue,
troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e
l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...».
Il 19 luglio 1992, alle ore 16:58, la Fiat 126 rubata contenente circa 90
chilogrammi di Semtex-H telecomandati a distanza (probabilmente da dietro
un muretto in fondo alla strada o da un condominio in costruzione nelle
vicinanze), venne fatta esplodere in via Mariano D'Amelio al civico 21 a
Palermo, sotto il palazzo dove all'epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita
Borsellino (rispettivamente madre e sorella del magistrato), presso le quali il
giudice quella domenica si era recato in visita; l'agente sopravvissuto Antonino
Vullo descrisse così l'esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi
dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo
parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun
rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato
l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata.
L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla
macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto».
Lo scenario descritto dal personale della locale Squadra Mobile giunto sul
posto parlò di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a
bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla
chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati». L'esplosione
causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi
commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti. Sul luogo della
strage, pochi minuti dopo il fatto, giunse immediatamente il deputato ed ex-
giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.
Gli agenti di scorta ebbero a dichiarare che la via D'Amelio era considerata una
strada pericolosa in quanto molto stretta, tanto che, come rivelato in una
intervista rilasciata alla Rai da Antonino Caponnetto, era stato chiesto alla
Questura di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa,
richiesta rimasta però senza seguito. Rimase inoltre tristemente celebre
l'amareggiato commento di Caponnetto alle telecamere poco dopo aver visto la
salma di Borsellino, in cui disse disperato «È finito tutto!», stringendo le mani
del giornalista che poneva la domanda.
Padre Pino Puglisi nasce il 15 settembre del 1937, a Palermo, da una famiglia
modesta.La sua vita spirituale ha inizio quando aveva 16 anni, dove entra nel
seminario palermitano, da cui uscirà prete nel 1960.Nel 1970 viene nominato
parroco a Godrano, un paesino della provincia palermitana che in quegli anni
è coinvolto in una lotta tra 2 famiglie mafiose. Grazie all'opera di
evangelizzazione Padre Puglisi riesce a far ritornare la pace nelle 2 famiglie.