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Cosa é la Mafia

La mafia est une organisation criminelle avec des racines en Sicile, en Calabre et en
Campanie qui s'est développée aussi dans le nord de l'Italie, en Europe et dans le
monde.

La mafia est intéressée à l'argent du trafic d'armes, d'hommes et de drogue.

Les mafiosi font aussi des affaires avec des politiciens pour obtenir des faveurs en
échange de votes et de protection.

La mafia peut s'enrichir avec le "pizzo", une sorte de "taxe" que la mafia demande
aux commerçants en échange d'une protection.

Les commerçants qui ne paient (PEIE) pas, peuvent (PEV) subir de graves
dommages à leur entreprise.

En Sicile la mafia s’appelle Cosa Nostra, en Campanie Camorra, dans les Pouilles la
Sacra Corona Unita, et en Calabre 'Ndrangheta.
Figura di Riina
Salvatore Riina nasce a Corleone il 16 Novembre 1930. Chiamato Totò U’Curtu
per la sua altezza di 1.58 m visse una vita normale fino ha i suoi 13 anni
quando nel dicembre 1943 non trovò una bomba americana inesplosa lui il
fratello Gaetano e il fratello più piccolo Francesco e il padre Giovanni la
portarono a casa per estrare da essa la polvere da sparo e guadagnarci
qualcosa se non fosse che la bomba esplose uccidendo il fratello francesco e il
padre giovanni e riducendo in fin di vita Gaetano, totò ne rimasto a guardare il
mulo era rimasto illeso vedendo volare il corpo del fratello dal capannone si
diresse a vedere come fossero ridotti i corpi non cera nulla da fare ciccio e
giovanni erano morti. Disse a i suoi funerali a Binnù: “A mio padre non la
ammazzato la bomba la ammazzato la fame”

Fu l'unica volta che si vide piangere totò in pubblico.

Dopo la morte del padre totò prese il suo posto da capo famiglia iniziando a
lavorare li incontro Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella con cui stressa
una solida amicizia, Totò però dopo la morte del padre non era più lo stesso.
Totò si unii insieme a i suoi due amici e altri ragazzi alla schiera del Dottore
Michele Navarra e affidati a Luciano Liggio detto Lucianeddù che li prese sotto
la sua ala mandando a bruciare campi e a far scappare dalle terre del dottore
Navarra i socialisti guidati da Placido Rizzotto che venne poi ucciso da Riina e
Lucianeddu il 18 marzo 1948.

La prima volta che Riina venne arrestato fu il 19 maggio 1949, durante una
partita di bocce, nel corso di una rissa sparò e uccise un suo coetaneo,
Domenico Di Matteo, per poi darsi alla fuga. A limitare i danni ci pensò
Navarra, che gli suggerì di consegnarsi alle forze dell'ordine e di farsi
processare per omicidio aggravato, tentato omicidio e porto abusivo di armi. A
19 anni Riina fu quindi condannato a una pena di 16 anni e 5 mesi. Il 13
settembre 1955, dopo poco più di 6 anni di carcere, gli fu concessa la libertà
vigilata. Una volta tornato a Corleone, Riina tornò subito alle dipendenze di
Liggio, la cui banda nel frattempo era diventata molto forte sul piano militare
e una eccellente fonte di reddito sul piano economico. Per conto di Liggio fece
da ragioniere nell'"azienda" che si occupava della macellazione clandestina di
bestiame, rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di
Scala, che poi veniva consegnato alle macellerie di Palermo, utilizzando
camion anch'essi rubati. Lo scontrò provocò 140 morti e Riina era sospettato
di aver recitato un ruolo di primo piano nella mattanza.
Quando nel 1962 scoppiò la prima guerra di mafia Riina e gli altri Corleonesi si
dileguarono per tutta la Sicilia in seguito alla morte di Calogero Bagarella
morto in uno scontro a fuoco fino alla fine della guerra nel 1963.

Riina venne però arrestato il 15 dicembre 1963, a Corleone nella parte alta del
paese, da una pattuglia di agenti di polizia di cui faceva parte anche il
commissario Angelo Mangano il quale, nel 1964, parteciperà, sotto la
direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di
Luciano Liggio. Riina, che aveva una carta d'identità rubata (dalla quale
risultava essere "Giovanni Grande" da Caltanissetta) e una pistola non
regolarmente dichiarata, tentò di scappare, ma venne catturato dalle forze
dell'ordine. Fu riconosciuto dall'agente Biagio Melita.

Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione nel carcere


dell'Ucciardone (dove prese sotto la sua ala Gaspare Mutolo), fu assolto per
insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l'assoluzione,
Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di
Palermo, su proposta del Procuratore capo Pietro Scaglione, emise
un'ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Mentre Liggio si
fece ricoverare in una clinica, Riina tornò da solo a Corleone, dove il 20 giugno
venne arrestato e il 5 luglio gli venne applicata la misura del soggiorno
obbligato per 4 anni nella cittadina di San Giovanni in Persiceto (BO);
scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il
luogo di soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua
latitanza durata quasi 24 anni.
La mattanza di Palermo
Dopo il carcere Riina tornò a palermo dove prese il posto di Liggio subito dopo
averlo venduto il 5 Maggio 1974 in una “commissione” inter provinciali per
mantenere la pace tra le famiglie. I corleonesi vennero tagliati dagli affari di
spaccio di stupefacenti per la loro scarsa esperienza e per la loro scarsità di
contatti al esteroriuscendo a guadagnare solo con lo spaccio di sigarette e i
sequestri di persona. Totò però fino al arresto di Liggio aveva il suo
personalissimo piano che lo avrebbe portato fin alla vetta della cupola che lo
porto ad avere alleati in tutta la Sicilia.

Il pentito Antonino Calderone racconta che l’evento scatenante della Seconda


guerra di mafia fu l’omiccidio di Francesco Madonia capo della cosca di valle
lunga (CA) il 16 marzo 1978. Venne ucciso dagli uomini del boss Gaetano
Badalamenti per sospetto dell’ordine di riina di scannare un uomo d’onore a
lui vicino Peppe Dicristina

Badalamenti era sospettato di uno spaccio di eroina non acconoscenza della


cupola con intermediazione del trafficante Salvatore Greco. Riina uso questa
scusa per far espellere dalla cupola Badalamenti costringendolo a fuggire in
brasile al suo posto entra Michele Greco detto “Il Papa” venendo anche
nominato Rapresentante Della Comissione Provinciale ufficialmente a capo
della cupola ma diffato era solo il burattino dei Corleonesi. Però il vero
conflitto e quello fra Riina e Stefano Bontate, Riina inizio il suo golpe di stato
uccidendo Peppe Dicristina il 30 maggio 1978 e succesivamente a Giuseppe
Calderone 8 Settembre 1978 viccinissimo a Bontate e a Batalamenti. Dicristina
era stato il primo a avertire i Palermitani della pericolosità del duo Riina-
Provenzano disse: “I viddani sono arrivati alla corte di palermo lo volete capire
o no”; ma loro non gli diedero ascolto. Riina e Bontate tramite il Papa fecero
nominare il nuovo capo mandamento cerca di bilancere la geografia mafiosa.
Lavoro di Totò dava già i suoi frutti gli alleati dei Corleonesi erano in
maggioranza in tutta la penisola Siciliana rispetto a i palermitani. Nel 79 i
Corleonesi fecero commetere molti omicidi eccelenti

 15 gennaio 1979 omicidio di Filadelfia Paro

 26 gennaio 1979 il giornalista Mario francese

 9 marzo 1979 Michele Reina

 21 luglio 1979 Boris Giuliano

 15 settembre 1979 Il Giudice Terranova e il maresciallo Lein Mancuso


 6 Gennaio 1980 venne assassinato Piersanti Mattarella il Presidente
della regione e fratello del attuale presidente della reppublica

 4 maggio 1980 Il capitano Emanuele Basile

Intanto iniziò a crescere la disaprovazione da parte della fazione di Bontane


fino a quando Salvatore Inserillo uccise il giudice Gaetano Costa senza
l’approvazione della commissione il 6 agostto 1980. Il 6 settembre 1980 venne
ucciso Fragiacomo Castronomo Fedelissimo di Bontate frate che stava in un
monastero e teneva nel casseto l’8. È nel 1981 che inizia la vera mattanza i
boss Bontate,Inserillo,Spatola,panna e tutta la vecchia guardia mafio si
incontravano ripetutamente per organnizare l’omicidio di Totò Riina ma
commisero un errore rivelarlo a Michele Greco passato dalla parte dei
Corleonesi che si connfido con Riina che fece scomparire fece scomparire il
boss Giuseppe Panna l’11 settembre. Bontate regì facendo ammazzare due
soldati vicini di Totò Angelo Graziano e Stefano Giaconia. La sera del 23 aprile
1981 stefano bontare verso le 23:30 venne assasinato a colpi di lupara il giorno
del suo compleanno da Giuseppe Lucchese insieme a Giuseppe Greco detto
Scappuzedda segiuto da Salvatore Inzerillo 11 maggio 1981.

Dopo l’omicidio di Inzerillo Girolamo Teresi, tre dei suoi uomini e la famiglia
di Bontate vennero attirati in una imboscata e strangolati e fatti sparire. Nello
stesso periodo Salvatore Contorno ex uomo di Bontate sopravvisse a un
attentato a colpi di mitra nella strada di Brancaccio tesoli da un comando di
killer guidati da Giuseppe greco detto Scappuzedda.

Rosario Riccobono un tempo alleato di Bontate passò dalla parte dei


Corleonesi e per loro conto porto Emanuele Dagostino alleato di Bontate in
una imboscata nella quale venne ucciso e fatto sparire nel nulla. Giuseppe
Inserillo Figlio di Salvatore Inserillo che aveva promesso di vendicare il padre
dicendo che avrebbe ucciso Riina con le sue mani venne rapito secondo
Tommaso Buscetta da Scappuzedda che prima gli taglio il braccio destro a
colpi d’acceta e poi gli urlo: “ORA COME SCANNERAI RIINA”; per poi
ucciderlo con un colpo alla nuca. Pochi giorni dopo venne attirato il fratello
Santo Inzerillo subì un attentato da parte dei Corleonesi insieme a suo zio
Calogero Dimaggio i due vennero strangolati e i loro corpi fatti sparire.
Inseguito a questi omicidi Paul Castellano capo della famiglia di Broculin
mando Jonny Gambino a palermo per fermare la guerra.
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L’Arrivo di Jonny Gambino a Palermo

The Gambino family starts from Carlo Gambino, born on August THE 24TH,
19-02 in Palermo. When he was 18 years old, he joined the Passo Di Rigano
mafia family. When he was 19 years, he escaped to America.

In America, he worked in the American Cosa Nostra, dealing with the sale of
cigarettes and alcohol and the tradeof money. In 19-57 he assassinated the
Boss Albert Anestasi and took his place.

The Gambino family became one of the most powerful in America; in 1962
Jonny Gambino, the nephew of Carlo Gambino, went to America. Carlo
Gambino died in 1976, and his cousin Paul Castellano took his place, and
Jonny Gambino became capodecina (it’s the head of the soldiers in the family
mafia).

In Sicily, Riina ordered to eliminate the Inzerillo family, so the Inzerillos


decided to escape to America. Totò Riina chased them to America, then Paul
Castellano decided to send Jonny Gambino to Sicily.

Jonny Gambino came to Sicily together with Rosario Naimo, who was an
important man of honour. He was an intermediary between the American and
Sicilian mafias. The Inzerillos were saved, but Pietro and Antonino Inzerillo,
the uncle and brother of Salvatore Inzerillo, were eliminated, so Totò Riina
became the Capo dei Capi.

Carlo Alberto dalla Chiesa


A causa della Seconda Guerra di Mafia, nel 1982 l'emergenza criminale a
Palermo era tale che a marzo il Ministro Rognoni comunicò a Dalla Chiesa
carabbiniere che aveva combatuto la malavita al nord la sua intenzione di
nominarlo Prefetto della città. Il Generale accettò l'incarico, anche per via
della promessa di poteri eccezionali nel contrasto alla mafia. All'inizio del
mese di aprile il generale scrisse al presidente del Consiglio Spadolini che la
corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti era la "famiglia
politica" più inquinata da contaminazioni mafiose.

Negli stessi giorni, il 6 aprile, il Generale scrisse nel suo diario personale:

Dunque nella giornata di venerdì e fino ad ora tarda si sono succedute le


telefonate di rallegramenti e di auguri: dal Ministro Rognoni al Presidente del
Consiglio Spadolini, dal Prefetto di Roma a quello di Milano, di Torino, di
Firenze, dal Capo di Gabinetto di M.I. Al Capo di S.M.D. e E., insomma
tantissimi. Poi ieri anche l'On. Andreotti mi ha chiesto di andare e
naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via
indiretta interessato al problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato però la
certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato alla quale
attingono i suoi grandi elettori. Sono convinto che la mancata conoscenza del
fenomeno, anche se mi ha voluto ricordare il suo lontano intervento per
chiarire la posizione di Messeri a Partinico, lo ha condotto e lo conduce ad
errori di valutazione di uomini e circostanze. Il solo fatto di raccontarmi che
intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo, morto in America, è giunto in Italia
in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca depone nel senso. Prevale
ancora il folclore e non se ne comprendono i "messaggi"!

Il 30 aprile Cosa Nostra uccise Pio La Torre, segretario regionale e deputato


del PCI, e Rosario Di Salvo, suo compagno di partito. Il Governo chiese a Dalla
Chiesa di andare immediatamente in Sicilia. Sull'aereo il Generale scrisse una
lettera ai figli, in cui li avverte che «le circostanze hanno condotto il Governo
nazionale a far sì che io uscissi dalle file attive dell’Arma e della sua massima
carica, prima ancora che i tempi previsti giungessero alla loro scadenza. Se da
un lato sono onorato di tanta fiducia – che in qualche modo tocca anche la
“nostra” famiglia –, dall'altro avverto, nel trauma spirituale del delicato
momento, una somma di sentimenti che, nel loro intimo tumultuare, non
fanno che ripropormi, prepotente e cara, l’immagine stupenda di mamma! . Vi
scrivo da 7-8.000 metri d’altezza, in cielo, mentre l’aereo mi portava veloce
verso Palermo; dietro mi lasciavo, con gli alamari, la giornata di Pastrengo »

L’arrivo a Palermo di dalla Chiesa avvenne in un momento complicato:


l’omicidio La Torre appena avvenuto e la città travolta da una nuova guerra di
mafia, i poteri promessi dal ministro furono nulli, così come i mezzi e gli
uomini. Nonostante ciò il Prefetto riuscì a farsi accettare dalla popolazione e
ne cercò la collaborazione: parlò con gli studenti, incontrò gli operai del porto
e dei cantieri, si fece vedere a sorpresa tra la gente. Nel frattempo continuò a
chiedere i mezzi e i poteri necessari per combattere la mafia. Nonostante la
mancanza di questi riuscì comunque a ottenere delle conquiste sul piano
investigativo: con due blitz a Villagrazia e in via Messina Marine interruppe un
summit dei Corleonesi e scoprì una raffineria di eroina.

Nel giugno 1982 venne pubblicato il “rapporto dei 162”: una nuova mappa del
potere mafioso a Palermo, che diede origine a 87 mandati di cattura e 18
arresti, evidenziando anche le commistioni tra mafia e politica.

Intorno alle 21.10 del 3 settembre 1982 l'Alfetta di Domenico Russo che stava
riportando il Generale e sua moglie a casa venne affiancata da una
motocicletta su cui viaggiavano un killer e il mafioso Pino Greco, il quale aprì il
fuoco con un Kalashnikov AK-47 sull'agente di scorta, che nonostante i colpi
uscì dall'auto per tentare, invano, di difendere il Generale e la consorte. Nello
stesso momento Antonino Madonia e Calogero Ganci, guidando una BMW
518, raggiunsero l'auto su cui viaggiava il Generale dalla Chiesa uccidendo la
coppia con 30 colpi di AK-47. L'auto su cui viaggiavano andò a sbattere contro
una Fiat parcheggiata. Il sicario scese dall'auto e sparò l'ultimo colpo, quello
definitivo, al volto del Generale. Oltre agli esecutori materiali, il commando di
fuoco poté contare su altri sicari che seguirono l'azione, pronti ad intervenire
nel caso che Russo o dalla Chiesa avessero reagito contro i killer, ma non
ebbero il tempo per poterlo fare.

La sera dell'assassinio di Dalla Chiesa, due uomini, tra cui l'economo della
prefettura allontanato mesi prima dal Generale, andarono a casa del prefetto
per cercare dei lenzuoli con cui coprire i cadaveri. In seguito a questo episodio
la chiave della cassaforte scomparve, per ricomparire diversi giorni più tardi.
All'apertura della cassaforte da parte dei figli questa fu ritrovata svuotata.
Qualcuno quindi rubò il suo contenuto, parecchi documenti sensibili, tra cui
anche un dossier sul caso Moro.

Maxiprocesso
L'intuizione per far fronte a questa tragica sequenza di morti venne da Rocco
Chinnici, allora a capo dell'ufficio istruzione di Palermo. Chinnici decise di
affidare le indagini sulla mafia ad un gruppo specializzato di magistrati,
favorendo la circolazione e la condivisione delle informazioni. In tal modo si
riuscì a mettere a fuoco in maniera complessiva la mafia, non più analizzando
soltanto ristrette porzioni del fenomeno, ma esaminandolo con uno sguardo
d'insieme. Il Pool e il capo della Squadra Mobile, il vicequestore Ninni
Cassarà, avviarono un'azione di contrasto a Cosa Nostra come mai prima di
allora. In particolare quest'ultimo stilò di persona il c.d. "Rapporto dei 162",
considerato l'embrione dell'ipotesi investigativa alla base del Maxiprocesso.

La risposta della mafia non si fece attendere e arrivò con l'omicidio di Rocco
Chinnici, il 23 luglio 1983. A sostituirlo fu chiamato Antonino Caponnetto, che
portò ad un livello di efficienza ancora maggiore il funzionamento del Pool,
ora composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e
Giuseppe Di Lello. Fu data particolare importanza al metodo investigativo
inaugurato da Giovanni Falcone e basato sull'analisi dei movimenti bancari
per comprendere collegamenti che altrimenti non sarebbero mai emersi.

Il principio della centralizzazione delle indagini ebbe come ovvia conseguenza


la necessità di riunificare tutte le istruttorie in un unico processo.
Aggiungendo altri filoni investigativi al nucleo di indagine originario, prese
forma quella che poi sarebbe divenuta l'istruttoria del Maxiprocesso.

Una svolta fondamentale fu l'irrompere sulla scena di Tommaso Buscetta nel


1984, che con le sue dichiarazioni permise uno sguardo inedito dentro a Cosa
Nostra. Il 29 settembre 1984, grazie alle dichiarazioni del "Boss dei due
mondi", scattò il blitz di San Michele durante il quale vennero eseguiti 366
mandati di cattura nei confronti di presunti mafiosi.

l ruolo dei pentiti fu fondamentale per l'avvio delle indagini e per lo svolgersi
del processo. Le loro dichiarazioni permisero una lettura innovativa
dell'organizzazione Cosa nostra.

I pentiti furono 21, tra gli altri: Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno,
Vincenzo Sinagra, Stefano Calzetta, Sebastiano Dattilo, Gennaro Totta, Koh
Bak Kin, Rodolfo Azzoli, Salvatore Di Marco.

Tommaso Buscetta disegnò la struttura e il funzionamento di Cosa Nostra


mostrando il fenomeno mafioso sotto una nuova luce. Il contributo più
importante di Buscetta infatti "è consistito nell'aver offerto una chiave di
lettura dei fatti di mafia, nell'aver consentito di guardare dall'interno le
vicende dell'organizzazione"
Le dichiarazioni principali di Buscetta possono essere sintetizzate come segue:

1. Cosa nostra: I mafiosi riferendosi all'organizzazione non parlano di


mafia ma di Cosa nostra. La vita dell'organizzazione è disciplinata da un
rigido regolamento di natura orale e non scritta. Queste norme regolano
anche l'ingresso di uomini nella struttura mafiosa. Cosa nostra è ormai
strutturata in ogni provincia siciliana, ma il centro del potere
dell'organizzazione è Palermo.

2. Suddivisione territoriale: La città di Palermo è organizzata in


mandamenti: le famiglie prendono il nome dal mandamento a cui
appartengono. Per quanto riguarda la provincia di Palermo, le famiglie
prendono il nome del paese in cui operano. Tre famiglie territorialmente
limitrofe costituiscono un mandamento ed eleggono un solo
rappresentante. I capi dei mandamenti palermitani e i rappresentanti
dei mandamenti provinciali compongono la Commissione.

Dopo l'ascesa dei Corleonesi è nata la cosidetta Interprovinciale, che ha il


compito di coordinare gli interessi di più province.

3. Commissione: La Commissione sovrintende, controlla e dispone il


governo di Cosa Nostra. L'organismo ha il compito di assicurare il
rispetto delle regole di Cosa Nostra e risolvere le eventuali frizioni tra
famiglie. Ad esempio, per ordinare un omicidio, il rappresentante di una
famiglia deve rivolgersi al capo mandamento, il quale tratterà la
questione in Commissione. Nel caso dell'omicidio di un capofamiglia,
l'assassinio deve avvenire con il consenso della famiglia (oltre che della
Commissione). In caso contrario sono quasi inevitabili gravi
conseguenze per chi trasgredisce.

Mentre in origine la figura che controllava la Commissione era quella del


Commissario, successivamente fu chiamato Capo

4. Famiglia: Ogni famiglia è una struttura a base territoriale con una


costituzione gerarchica. Gli uomini d'onore o soldati sono organizzati in
gruppi da dieci, le decine, ciascuna delle quali è coordinata da un
capodecina. La famiglia è governata da un rappresentante con nomina
elettiva. Il rappresentante è poi assistito da un vicecapo e da uno o più
consiglieri.

Buscetta illustrò inoltre le dinamiche che hanno portato allo scatenarsi della
Seconda Guerra di Mafia, con il prevalere dello schieramento corleonese
sull'ala moderata di Cosa Nostra, ovvero quella rappresentata da Stefano
Bontade e Salvatore Inzerillo, che avevano comandato su Palermo fino a quegli
anni.

Le dichiarazioni di Tommaso Buscetta furono confermate dai riscontri, anche


se la descrizione che diede il pentito di alcuni avvenimenti fu accettata con
qualche riserva. La visione dell'ascesa dei Corleonesi si basava infatti su uno
spinto dualismo che mostra il punto di vista unilaterale del pentito. La
contrapposizione tra buoni (i membri della mafia perdente) e cattivi (i
Corleonesi) è chiaramente dettata dall'appartenenza di Buscetta al primo
schieramento. Nonostante i tentativi di Buscetta di ridimensionare la ferocia
dei membri della fazione perdente spacciandola per "ala moderata", i boss
sconfitti erano feroci assassini dall'alto spessore criminale.

Il processo prese le mosse con molte difficoltà. Gli avvocati degli imputati
speravano di riuscire a farlo trasferire altrove, in modo che i giudici fossero
meno esperti in fatto di mafia. Inoltre, temendo ritorsioni, inizialmente
soltanto 4 giudici popolari accettarono l'incarico. Alla fine ne furono scelti 16:
più del neccessario per paura di rinunce o attentati. Per quanto riguarda il
presidente fu scelto Alfonso Giordano che proveniva dalla magistratura civile e
non penale.

Parte dei media si rivelò ostile al processo, sostenendo che fosse impossibile
processare un'intera organizzazione e che ciò comportasse un enorme spreco
di denaro e risorse, oltre ad essere dannoso per l'immagine della città. Per gli
stessi motivi, la cittadinanza si trovò spaccata tra i sostenitori e i critici del
processo.

Il comune di Palermo, per volere del sindaco Leoluca Orlando, si costituì parte
civile.

L'istruttoria e l'ordinanza di rinvio a giudizio

Dopo gli omicidi in rapida successione del commissario Beppe Montana, il 28


luglio 1985, e del vicequestore Ninni Cassarà, il 6 agosto 1985, i giudici del
Pool antimafia si trovarono in una condizione di reale e grave pericolo.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero trasferiti d'urgenza con le loro
famiglie al carcere dell'Asinara per completare l'istruttoria del processo. Una
volta concluso il lavoro, venne addirittura chiesto ai due giudici di pagare le
spese per il vitto e l'alloggio della loro permanenza sull'isola.

L'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 venne depositata l'8


novembre 1985.

L'aula bunker fu costruita in Via Enrico Albanese, all'interno del complesso del
carcere Ucciardone, per permettere uno spostamento agevole dei detenuti.
L'aula fu provvista di sofisticati sistemi di sicurezza, porte blindate e vetri
antiproiettile per evitare il rischio di attentati e fughe, mentre il soffitto fu
costruito in modo che potesse resistere ad attacchi aerei.

Il processo si aprì in una situazione di enorme tensione e di grande attenzione


mediatica. Cosa Nostra impose il silenzio militare fino alla sentenza, e il
numero di omicidi si ridusse in modo considerevole.

Con un apposito decreto del 6 febbraio 1986, furono nominati:

1. due pubblici ministeri: Giuseppe Ayala e Domenico Signorino

2. due presidenti: Alfonso Giordano e il supplente Antonio Prestipino

3. due giudici a latere: Pietro Grasso e il supplente Claudio Dell'Acqua

Il 10 febbraio 1986, tre mesi dopo l'ordinanza di rinvio a giudizio, il processo


cominciò ufficialmente.

Il 10 febbraio, dopo aver esperito le modalità per la formazione del collegio


giudicante e svolto l'appello delle parti presenti e gli accertamenti relativi alla
costituzione degli imputati citati, la Corte procedette, tramite ordinanza, a
risolvere alcune questioni incidentali sollevate dagli avvocati difensori.

Fu così che a 14 ore dall'inizio del dibattimento il numero di imputati si


ridusse da 475 a 468: veniva infatti disposta la separazione del giudizio nei
confronti di Ugo Martello (che non era stato tradotto per mancata concessione
del relativo nulla osta da parte del Tribunale di Milano) e nei confronti del
boss Gaetano Badalamenti, di Giuseppe Baldinucci, Vincenzo Randazzo,
Fioravante Palestrini, Stravos Papastavru e Micail Karakonstantis per
legittimo impedimento a comparire a causa della detenzione all'estero, alcuni
negli USA altri in Egitto.

Alle 23:00 l'udienza venne sospesa e rinviata alle 9:30 del giorno successivo
per procedere alla costituzione delle parti civili, conclusasi il 12 febbraio.
Il 14 febbraio il Presidente, dopo aver dato lettura dei capi di imputazione e
concluso le formalità di apertura dell'udienza, dichiarò aperto il dibattimento.

Nella fase dibattimentale, furono numerosi gli episodi di tensione. Gli imputati
nelle celle mostrarono spesso segni di nervosismo. Addirittura l'imputato
Alfredo Bono partecipò alle udienze su una lettiga, a causa della malattia.

Gli avvocati difensori proposero numerosissime questioni preliminari


concernenti la costituzione di alcuni parti civili, la nullità degli atti istruttori,
dell'ordinanza di rinvio a giudizio, del decreto di citazione a giudizio, oltre alla
competenza per territorio. La Corte risolse tutte le questioni due ordinanze,
una del 24 e l'altra del 28 febbraio, che sbloccarono la situazione.

Il 1° marzo successivo, il Presidente diede inizio alla fase degli interrogatori


degli imputati, i quali in massima parte si attenevano alle dichiarazioni rese in
istruttoria, ribadendo la propria estraneità ai fatti contestati.

Nel mentre, il 20 febbraio 1986 fu arrestato a Ciaculli, in un casolare con un


mulo, Michele Greco detto "il Papa", capo della Cupola di Cosa nostra, dopo
due anni di latitanza.

Il 3 aprile 1986 l'avvocato di Tommaso Buscetta dichiarò: "L'imputato


Tommaso Buscetta, che aveva rinunziato a comparire, è a disposizione della
Corte". Scortato dai carabinieri e dal vicequestore Antonio Manganelli,
Buscetta fece il suo ingresso in aula nell'assoluto silenzio, a riprova del ruolo
apicale che aveva svolto all'interno di Cosa nostra. Il processo entrò nel vivo
quando Buscetta iniziò a parlare.

Affermò: "Ero entrato e rimango con lo spirito di quando io ero entrato. Cosa
Nostra, ha sovvertito l'ideale con delle violenze che non appartenevano più a
quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui io appartenevo.
Quindi non sono un pentito." Buscetta scaricò così la responsabilità del suo
pentimento sullo schieramento corleonese, colpevole di aver snaturato
l'organizzazione.

L'unico confronto fu quello tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò. Calò era il
capofamiglia di Porta Nuova, la famiglia a cui era appartenuto Buscetta, e i
due erano stati grandi amici. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra di mafia
però, Calò passò allo schieramento corleonese. Durante il confronto, che
sarebbe dovuto servire per dimostrare la falsità delle accuse, le cose andarono
in maniera del tutto diversa. Alla fine infatti il vincitore si rivelò Buscetta
stesso, mentre Calò non riuscì a replicare alle dure accuse del collaboratore di
giustizia.
Alla fine gli avvocati degli imputati che avevano chiesto a loro volta il
confronto, ritirarono la loro richiesta, comprendendo che sarebbe stato
controproducente. Tra gli altri, avevano chiesto il confronto Luciano Leggio il
9 aprile 1986, Giuseppe Bona e Tommaso Spadaro che avevano dichiarato di
essere in possesso di documenti che potevano provare la falsità delle accuse
rivolte. Anche queste richieste di confronto furono ritirate.

Dopo Buscetta fu il turno del collaboratore Salvatore Contorno, l'11 aprile


1986. Il suo ingresso in aula fu accolto in maniera diversa rispetto a Buscetta:
dalle gabbie si levarono grida e insulti. Anche questo fu una prova della
differenza di spessore criminale che separava i due collaboratori di giustizia.
Inoltre fu origine di grandi problemi il fatto che Contorno utilizzasse per
parlare uno stretto dialetto palermitano. In questo modo, era sicuro di farsi
capire dagli imputati, ma la comprensione risultava difficile per chi non fosse
avvezzo all'uso del dialetto.

Durante la deposizione, il presidente Giordano rivolse una domanda a


Contorno in maniera errata, poiché sembrava che il presidente stesse aiutando
il collaboratore a ricordare le dichiarazioni fatte in istruttoria. Nell'aula si
levarono le grida di protesta dei detenuti, e gli avvocati chiesero la ricusazione
nei confronti di Alfonso Giordano. La seduta fu sospesa e la richiesta di
ricusazione respinta dalla Corte d'Appello il giorno seguente.

La Corte, al solo fine di allegare agli atti una versione degli interrogatori di
Contorno in lingua italiana (e quindi di più facile lettura rispetto alle
trascrizioni originali) nominò il 19 giugno come interprete il professor Santi
Correnti, il quale depositò la trascrizione durante l'udienza del 4 settembre
dello stesso anno.

Il collaboratore Vincenzo Sinagra, killer della famiglia di Corso dei Mille,


riportò nei minimi dettagli durante il suo interrogatorio dell'11 giugno decine
di omicidi a cui aveva preso parte o di cui era a conoscenza. Sinagra non
confermò solamente le dichiarazioni rese in istruttoria, ma confermò anche,
nel corso dei confronti con Salvatore Rotolo e Paolo Alfano (richiesti dalla
difesa e ammessi dalla Corte all'udienza del 17 giugno) le accuse a loro rivolte.
Inoltre ebbe numerose crisi nervose che portarono all'intervento delle forze
dell'ordine. Il 23 maggio fu la volta dell'interrogatorio di Luciano Leggio, che
parlò invece del Golpe Borghese. Affermò che Buscetta nel 1970 era stato
contattato da Junio Valerio Borghese, a capo della Decima Mas, per ottenere
l'appoggio di Cosa nostra al golpe militare. Egli si sarebbe invece opposto
all'appoggio della mafia, impedendo di fatto il colpo di stato. Leggio sperava
riferire un fatto di cui Buscetta non aveva parlato, per poterlo così
delegittimare. In realtà Buscetta aveva parlato approfonditamente in
istruttoria della vicenda. La pubblica accusa avrebbe chiesto poi l'assoluzione
per Luciano Leggio, affermando che di fatto egli non avesse più alcun potere
dentro a Cosa nostra.

Di particolare interesse l'interrogatorio di Michele Greco, il capo della Cupola


di Cosa nostra, avvenuto l'11 giugno. Buscetta aveva affermato che Greco di
fatto fosse soltanto una marionetta nelle mani dei corleonesi, e che il suo ruolo
di vertice nella Commissione non rispecchiasse il suo vero potere, di fatto
inferiore a molti altri boss. Durante l'interrogatorio Michele Greco cercò di
apparire come un semplice latifondista senza alcun legame con Cosa nostra,
sostenendo che la sua famiglia di appartenenza non erano i Greco di Ciaculli,
bensì i Greco di Croceverde-Giardini. Durante l'interrogatorio furono continui
i riferimenti alla morale e alla religione, a supporto della figura di contadino
estraneo alla mafia.

Il 20 giugno 1986 fu convocato Ignazio Salvo, che giunse con una valigetta
contenente documenti che sarebbero dovuti servire per dimostrare la sua
estraneità ai fatti contestati. La sua presenza rappresentava la volontà dello
Stato di non colpire soltanto l'ala militare di Cosa nostra, ma anche i
rappresentanti delle ramificazioni della mafia che andavano a toccare il potere
politico. Ignazio Salvo era accusato di essere uomo d'onore della famiglia di
Salemi, come suo cugino Nino Salvo.

L'unico omicidio che ruppe il silenzio delle armi imposto da Cosa nostra fu, il 7
ottobre 1986, fu quello del piccolo Claudio Domino. Le reali motivazioni non
sono mai state scoperte, anche se i sospetti ricaddero subito sulla mafia per via
del fatto che la madre del bambino lavorava all'Aula bunker. Per questo alcuni
imputati si dissociarono pubblicamente dall'azione, come fece Giovanni
Bontate. Il fratello di Stefano Bontate, passato allo schieramento corleonese,
lesse un comunicato che diceva così: "Noi siamo rammaricati e addolorati
quanto l'intera cittadinanza per l'eccidio dell'innocente Claudio Domino".
Questa dichiarazione non fu condivisa da molti mafiosi, poichè parlando alla
prima persona plurale di fatto ammetteva l'esistenza di Cosa Nostra.

Il processo rischiò di bloccarsi a causa di una norma del codice di procedura


penale. Questa norma prevedeva che, dopo l'istruttoria dibattimentale e prima
della discussione finale, fosse necessario leggere gli atti del processo.
Solitamente, per evitare un'inutile perdita di tempo, il presidente pronunciava
la frase "Sull'accordo delle parti, si danno per letti gli atti", proseguendo nel
dibattimento. Gli avvocati degli imputati si opposero all'utilizzo di questa
formula, costringendo la lettura integrale degli atti. Dato che ciò avrebbe
comportato un tempo eccessivo, e avrebbe avuto gravi conseguenze per quanto
riguardava le scadenze dei termini di custodia cautelare, fu approvato
d'urgenza il decreto Violante-Mancino, che permise di omettere la lettura delle
carte permettendo così la prosecuzione del processo.

La requisitoria fu tenuta il 22 aprile 1987 dai Pubblici Ministeri Giuseppe


Ayala e Domenico Signorino. Dopo 12 giorni, l'accusa chiese 28 ergastoli
(compresi tutti i membri della cupola), quasi 5000 anni di carcere
(esattamente 46 secoli, 75 anni e 11 mesi), quasi 24 miliardi di lire di multa
(esattamente 23 miliardi 734 milioni 700 mila lire), 45 assoluzioni.

Domenico Signorino affermò: "Ciò che vi chiedo in sostanza non è la condanna


della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la
condanna dei mafiosi che sono raggiunti da certi elementi di responsabilità"

Giuseppe Ayala aggiunse: "Io spero che noi accusando abbiamo in fondo
difeso, da magistrati palermitani, in un processo che si celebra a Palermo,
davanti alla Corte d'Assise di Palermo, i valori più autentici della nostra terra
nei quali tutti noi dobbiamo continuare a credere e a riconoscerci [...] E vi
devo infine dire con grande sincerità, che il collega Signorino ed io siamo non
certi, siamo certissimi che la vostra sentenza, signori giudici, sarà un'autentica
affermazione di giustizia. Così solo, senza lotte, il diritto vince sul delitto, la
democrazia e la civiltà sulla barbarie. Grazie"

Il 30 marzo 1987 iniziarono le 32 arringhe della parte civile, 635 dei legali
degli imputati. La difesa si articolò principalmente sulla tesi che i pentiti
mentissero per vendicarsi, o comunque sull'inattendibilità delle loro
dichiarazioni.

Il "Papa", capo della Commissione provinciale di Cosa Nostra, Michele Greco


dichiarò: "Io desidero fare un augurio: io vi auguro la pace, signor presidente.
A tutti voi io auguro la pace. Perchè la pace è la tranquillità e la serenità dello
spirito e della coscienza. Per il compito che vi aspetta la serenità è la base
fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di nostro
Signore che lo raccomandò a Mosè: Quando deve giudicare, che ci sia la
massima serenità, che è la base fondamentale. E vi auguro ancora, signor
presidente, che questa pace vi accompagnerà nel resto della vostra vita, oltre a
questa occasione"

Il Presidente Alfonso Giordano affermò: "Io non posso, dopo un anno e otto
mesi gomito a gomito con tutti costoro, togati e non, licenziarmi da loro senza
avere espresso nei loro confronti il più profondo, sentito e affettuoso
ringraziamento"
L'11 novembre 1987 alle 11.15 la Corte entrò in camera di consiglio dopo 349
udienze e 21 mesi dall'inizio del processo.

Il 16 dicembre 1987 alle 18.07, conclusasi la camera di consiglio, il Presidente


Alfonso Giordano iniziò la lettura delle 54 pagine della sentenza terminando
alle ore 19,35. La lettura del dispositivo fu effettuata per capi d'imputazione.

"In nome del popolo italiano, la Corte d'Assise prima di Palermo, visti gli
articoli di legge, dichiara:"

In totale furono comminate: 346 condanne (74 in contumacia), tra cui 19


ergastoli, per un totale di 2665 anni di carcere e 11,5 miliardi di lire di multe.
Le assoluzioni furono 114.

Tra le condanne, possono essere ricordati gli ergastoli a Michele Greco, Pippo
Calò, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, l'assoluzione a Luciano Leggio, 7
anni a Ignazio Salvo, 3 anni e 6 mesi a Tommaso Buscetta, 6 anni a Salvatore
Contorno.

Con il processo, finì anche la tregua militare della mafia. La sera stessa venne
ucciso Antonino Ciulla mentre stava rincasando con un vassoio di cannoli per
festeggiare l'assoluzione.
La Strage di Capaci

Già nel 1983, all'indomani dell'attentato di via Pipitone Federico (in cui
persero la vita il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta), era in
programma anche l'omicidio del giudice Giovanni Falcone: su incarico del
boss Salvatore Riina, Giovanni Brusca (suo uomo di fiducia e "uomo d'onore"
della Famiglia di San Giuseppe Jato) si attivò personalmente per pedinare il
magistrato e studiare le sue abitudini e i suoi orari pensando di far esplodere
una Vespa imbottita di tritolo. Studiò anche la possibilità di far esplodere un
furgoncino davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo o di utilizzare dei
bazooka, tutti progetti poi abbandonati per le notevoli misure di sicurezza
intorno al giudice.

Nel 1987 Brusca pianificò l'omicidio da consumare con armi da fuoco


all’interno della piscina comunale di via Belgio, a Palermo, dove Falcone
andava abitualmente a nuotare ma l’operazione venne sospesa.

Nel 1989 si registrò l'unico tentativo concreto di uccidere Falcone: fu ritrovato


casualmente un borsone contenente 58 candelotti di esplosivo tra gli scogli
immediatamente adiacenti la villa sulla costa palermitana dell'Addaura
affittata da Falcone per l'estate. Nonostante le condanne del boss Antonino
Madonia e di altri mafiosi per quest'attentato, esso presenta numerose zone
d'ombra mai chiarite.

L'uccisione di Falcone venne decisa nel corso di alcune riunioni della


"Commissione interprovinciale" di Cosa Nostra, avvenute nei pressi di Enna
tra il settembre e il dicembre 1991, e presiedute dal boss Salvatore Riina, nelle
quali vennero individuati anche altri obiettivi da colpire. Sempre a dicembre,
durante una riunione della "commissione provinciale" svoltasi nella casa di
Girolamo Guddo (mafioso di Altarello di Baida e cugino del boss Salvatore
Cancemi), cui parteciparono Salvatore Riina, Matteo Motisi, Giuseppe
Farinella, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Michelangelo La
Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Nino Giuffrè,
Giuseppe Montalto e Salvatore Madonia, venne deciso ed elaborato un piano
stragista "ristretto", che prevedeva l'assassinio di Falcone e Borsellino, nonché
di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l'onorevole Salvo Lima ed
altri uomini politici democristiani. Sempre nello stesso periodo, avvenne
anche un'altra riunione nei pressi di Castelvetrano (a cui parteciparono
Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Mariano Agate,
Salvatore Biondino e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano), in cui vennero
organizzati gli attentati contro il giudice Falcone, l’allora ministro Claudio
Martelli e il presentatore televisivo Maurizio Costanzo.
In seguito alla sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del
Maxiprocesso di Palermo (30 gennaio 1992), si tennero una serie di riunioni
convocate da Riina: una della "Commissione interprovinciale" ancora nei
dintorni di Enna ed alcune della "Commissione provinciale" sempre a casa di
Guddo (a cui parteciparono, oltre Riina, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci,
Giovanni Brusca, Michelangelo La Barbera, Matteo Messina Denaro, Salvatore
Cancemi), in cui si decise di dare inizio agli attentati: per queste ragioni, nel
febbraio 1992 venne inviato a Roma un gruppo di fuoco, composto da mafiosi
di Brancaccio e della provincia di Trapani (Giuseppe Graviano, Matteo
Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella,
Francesco Geraci), che avrebbe dovuto uccidere Falcone, Martelli o in
alternativa Costanzo, facendo uso di armi da fuoco. Qualche tempo dopo però
Riina li richiamò in Sicilia perché voleva che l'attentato a Falcone fosse
eseguito sull'isola adoperando l'esplosivo. Nel corso delle riunioni della
"Commissione provinciale", fu scelto Giovanni Brusca come coordinatore dei
dettagli delle operazioni. Una volta stabilito di utilizzare dell'esplosivo, a
Brusca vennero suggerite due opzioni: inserire dell'esplosivo in alcuni
cassonetti della spazzatura posti vicino all'abitazione di Falcone o in un
sottopassaggio pedonale che attraversava l'autostrada A29. Entrambe le
proposte furono scartate, in quanto per la prima si rischiava di avere troppe
vittime "innocenti", mentre per la seconda Pietro Rampulla, esperto in
esplosivi, suggerì di trovare un luogo stretto dove posizionare le cariche, in
modo da ottenere una maggiore deflagrazione. Dopo alcune ricerche, venne
trovato un cunicolo di scolo dell'acqua piovana, che attraversava l'autostrada
da un lato all'altro.

Nell'aprile del '92 Brusca effettuò una prova dell'esplosivo in Contrada


Rebuttone, nei pressi di Altofonte: dopo aver scavato nel terreno, collocò un
cunicolo delle stesse dimensioni di quello presente sotto l'autostrada e riempì
la buca con del cemento; all'interno del cunicolo inserì dell'esplosivo, e poi vi
collocò un detonatore elettrico. Vennero utilizzate la stessa trasmittente e la
stessa ricevente che furono poi impiegate nell'attentato a Capaci, procurate da
Pietro Rampulla: si trattava di un radiocomando per aeromodellismo.
L'esplosione che venne generata, nonostante la carica fosse in quantità di gran
lunga inferiore a quella utilizzata nell'attentato, fu abbastanza potente

Tra aprile e maggio, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi


(rispettivamente capi dei "mandamenti" di San Lorenzo, della Noce e di Porta
Nuova) compirono alcuni sopralluoghi presso l'autostrada A29, nella zona di
Capaci, per individuare un luogo adatto per la realizzazione dell'attentato e per
gli appostamenti. Nello stesso periodo avvennero riunioni organizzative nei
pressi di Altofonte (a cui parteciparono Giovanni Brusca, Antonino Gioè,
Gioacchino La Barbera, Pietro Rampulla, Santino Di Matteo, Leoluca
Bagarella), in cui avvenne il travaso in 13 bidoncini di 200 kg di esplosivo da
cava procurati da Giuseppe Agrigento (mafioso di San Cipirello). I bidoncini
vennero poi portati nella villetta di Antonino Troìa (sottocapo della Famiglia
di Capaci), dove avvenne un'altra riunione (a cui parteciparono anche Raffaele
Ganci, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Battaglia,
Salvatore Biondino e Salvatore Biondo), nel corso della quale avvenne il
travaso dell'altra parte di esplosivo (tritolo e T4) procurata da Biondino e da
Giuseppe Graviano (capo della Famiglia di Brancaccio).

Negli stessi giorni Brusca, La Barbera, Di Matteo, Ferrante, Troìa, Biondino e


Rampulla provarono varie volte il funzionamento dei congegni elettrici che
erano stati procurati da Rampulla stesso e dovevano servire per l'esplosione.
Effettuarono varie prove di velocità, e collocarono sul tratto autostradale
antecedente il punto dell'esplosione un frigorifero e dei segni di vernice rossa,
che al passaggio del corteo servivano a segnalare il momento in cui azionare il
radiocomando, per compensare il ritardo di millisecondi che l'impulso avrebbe
impiegato per attivare il detonatore. Tagliarono inoltre i rami degli alberi che
impedivano la visuale dell'autostrada. La sera dell'8 maggio Brusca, La
Barbera, Gioè, Troia e Rampulla provvidero a sistemare con uno skateboard i
tredici bidoncini (caricati in tutto con circa 400 kg di miscela esplosiva) nel
cunicolo di drenaggio sotto l'autostrada, nel tratto dello svincolo di Capaci,
mentre nelle vicinanze Bagarella, Biondo, Biondino e Battaglia svolgevano le
funzioni di sentinelle.

Nella metà di maggio, Raffaele Ganci, i figli Domenico e Calogero e il nipote


Antonino Galliano si occuparono di controllare i movimenti delle tre Fiat
Croma blindate che sostavano sotto casa di Falcone a Palermo per capire
quando il giudice sarebbe tornato da Roma. Nessuna verità definitiva fu invece
acquisita "in sede processuale sull'identità della fonte che aveva comunicato
alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l'arrivo a Palermo per l'ora
stabilita". Il 23 maggio Domenico Ganci avvertì telefonicamente prima
Ferrante e poi La Barbera che le Fiat Croma erano partite ed avevano
imboccato l'autostrada in direzione dell'aeroporto di Punta Raisi per andare a
prendere Falcone. Ferrante e Biondo (che erano appostati in auto nei pressi
dell'aeroporto) videro uscire il corteo delle blindate dall'aeroporto e
avvertirono a loro volta La Barbera che il giudice Falcone era effettivamente
arrivato. La Barbera allora si spostò con la sua auto in una strada parallela alla
corsia dell'autostrada A29 e seguì il corteo blindato, restando in contatto
telefonico per 3-4 minuti con Gioè, che era appostato con Brusca su una
collinetta sopra Capaci, dalla quale si vedeva bene il tratto autostradale
interessato. Alla vista del corteo delle blindate, Gioè diede l'ok a Brusca, che
però ebbe un attimo di esitazione, avendo notato le auto di scorta rallentare a
vista d'occhio: Giuseppe Costanza, autista giudiziario che era nella vettura con
Falcone e la moglie, gli stava ricordando che avrebbe dovuto restituirgli le
chiavi dell'auto, allora Falcone le rimosse e cercò di dargliele, ma l'autista gli
chiese di reinserirle per evitare il rischio di incidente. Dopo questo
rallentamento, Brusca attivò il radiocomando che causò l'esplosione. La prima
blindata del corteo, la Croma marrone, venne investita in pieno dall'esplosione
e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi ad alcune decine di metri
di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e
Rocco Dicillo. La seconda auto, la Croma bianca guidata da Falcone, si
schiantò contro il muro di asfalto e detriti improvvisamente innalzatisi per via
dello scoppio, proiettando violentemente il giudice e la moglie, che non
indossavano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza. Gli agenti Paolo
Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che viaggiavano nella terza auto (la
Croma azzurra) erano feriti ma vivi: dopo qualche momento di shock,
riuscirono ad aprire le portiere dell'auto ed una volta usciti si schierarono a
protezione della Croma bianca, temendo che i sicari sarebbero giunti sul posto
per dare il "colpo di grazia". A giungere sul luogo furono invece vari abitanti
delle zone limitrofe, intenzionati a prestare i primi soccorsi; tra questi vi fu
anche il fotografo Antonio Vassallo, che però abbandonò il luogo dopo che
l'agente Corbo lo scambiò erroneamente per uno dei sicari. Venne subito
estratto dall'auto Costanza, che si trovava sul sedile posteriore vivo in stato di
incoscienza; anche il giudice Falcone e Francesca Morvillo erano ancora vivi e
coscienti, ma versavano in gravi condizioni: grazie all'aiuto degli abitanti, si
riuscì a tirare fuori la moglie del giudice dal finestrino. Per liberare Falcone
dalle lamiere accartocciate fu invece necessario attendere l'arrivo dei Vigili del
Fuoco. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo morirono in ospedale nella
serata dello stesso giorno per le gravi emorragie interne riportate, il primo alle
19.05 tra le braccia di Paolo Borsellino, la seconda poco dopo le 22 durante
un'operazione chirurgica.

La strage di Capaci, festeggiata dai mafiosi nel carcere dell'Ucciardone,


provocò una reazione di sdegno nell'opinione pubblica. Secondo le
testimonianze dei collaboratori di giustizia, l'attentato di Capaci fu eseguito
per danneggiare il senatore Giulio Andreotti: infatti la strage avvenne nei
giorni in cui il Parlamento era riunito in seduta comune per l'elezione del
presidente della Repubblica e Andreotti era considerato uno dei candidati più
accreditati per la carica, ma l'attentato orientò la scelta dei parlamentari verso
Oscar Luigi Scalfaro, che venne eletto il 25 maggio, ovvero due giorni dopo la
strage.
Proprio il 25 maggio, mentre a Roma veniva eletto presidente Scalfaro, a
Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolsero i funerali delle vittime ai
quali partecipò l'intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come
Paolo Borsellino, Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del
mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti e
Giovanni Galloni, vennero duramente contestati dalla cittadinanza tra urla,
insulti e lanci di monetine. Le immagini televisive del discorso pronunciato
durante i funerali dalla giovanissima Rosaria Costa, vedova dell'agente
Schifani, accompagnato da un pianto straziante, susciteranno particolare
emozione nell'opinione pubblica:

«Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro
che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga
fatta giustizia, adesso.
Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma
certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono:
io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di
cambiare...
Ma loro non cambiano...loro non vogliono cambiare...
Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue,
troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e
l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...».

Strage Via D'Amelio


La volontà di Cosa Nostra di uccidere Paolo Borsellino risalirebbe addirittura
ai primi anni '80, quando il magistrato seguiva le indagini sugli assassini del
capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Però i primi tentativi concreti
vennero messi in atto a partire dal 1987, quando Borsellino era procuratore
capo a Marsala: infatti Totò Riina incaricò Baldassare Di Maggio (reggente del
mandamento di San Giuseppe Jato in assenza di Bernardo Brusca) di spiare le
mosse del magistrato quando trascorreva le vacanze estive nella sua villa al
mare a Villagrazia di Carini. Sempre con l'avallo di Riina, il piano ebbe un
ulteriore sviluppo nel 1991: Francesco Messina (detto Mastru Ciccio, reggente
del mandamento di Mazara del Vallo, in cui ricadeva il territorio di Marsala)
assegnò il compito di eseguire l'attentato a Vito Mazzara (capo della Famiglia
di Valderice), utilizzando un fucile di precisione o un'autobomba durante il
tragitto che il giudice compiva da casa al lavoro. Tuttavia il progetto incontrò
l'opposizione di Vincenzo D'Amico e Francesco Craparotta (rispettivamente
capo e vice-capo della Famiglia di Marsala), i quali fecero trapelare la notizia
all'esterno, facendo così aumentare le misure di sicurezza intorno al
magistrato e bloccando di fatto ogni tentativo di attentato (per questo motivo,
D'Amico e Craparotta verranno uccisi su ordine di Riina nel 1992).

Un altro tentativo stava trovando concreta attuazione nel 1988, quando


Borsellino lasciava Marsala per trascorrere la domenica con i familiari nella
sua abitazione di via Cilea a Palermo: un gruppo di fuoco composto da mafiosi
della Noce e di Porta Nuova (Francesco Paolo Anzelmo, Raffaele e Domenico
Ganci, Antonino Galliano, Salvatore Cancemi e Francesco La Marca) doveva
colpirlo con armi da fuoco mentre usciva da casa per andare a comprare il
giornale in edicola ma all'ultimo momento venne tutto sospeso perché, dopo
un paio di appostamenti intorno all'abitazione, fu accertato che

Durante la prima settimana di luglio, Giuseppe Graviano (capo della Famiglia


di Brancaccio) compì un primo sopralluogo in via Mariano D'Amelio insieme
al suo "autista" Fabio Tranchina, chiedendogli di procurare un appartamento
nelle vicinanze. La notte dell'8 luglio, Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino
(mafiosi di Brancaccio) rubarono in via Bartolomeo Sirillo una Fiat 126 color
amaranto, su incarico di Cristofaro Cannella (braccio destro di Graviano).
L'auto appena rubata venne portata in un magazzino a Brancaccio, dove
Spatuzza custodiva anche alcuni fusti di metallo contenenti esplosivo militare
del tipo Semtex-H (miscela di PETN, tritolo e T4) ricavato da residuati bellici
ripescati in mare. L'11 luglio, l'auto venne spostata in un garage a Corso dei
Mille, dove un meccanico di sua fiducia riparò i freni e la frizione danneggiati.

Sempre l'11 luglio, Salvatore Biondino, insieme ai due cugini omonimi


Salvatore Biondo (detti "il corto" e "il lungo") e a Giovan Battista Ferrante
(mafiosi di San Lorenzo), procedettero alla prova del telecomando e delle
trasmittenti che dovevano essere utilizzate nell'attentato (procurate da un
commerciante incensurato) presso Villa Ferreri, una residenza abbandonata
del '700 nei pressi del quartiere Tommaso Natale che veniva usata come
deposito di armi della "famiglia".

Tra il 13 e il 14 luglio, Raffaele Ganci e il figlio Domenico andarono a trovare il


nipote Antonino Galliano, impiegato come guardia giurata presso una filiale
della Sicilcassa e "uomo d'onore" della Famiglia della Noce, per incaricarlo di
effettuare, la domenica successiva, il pedinamento di Borsellino, come già
aveva fatto con Falcone durante la strage di Capaci. In quegli stessi giorni,
Spatuzza venne convocato da Giuseppe Graviano, che gli diede indicazioni per
rubare le targhe da apporre sulla Fiat 126. Inoltre, sempre durante quei giorni,
Graviano compì un secondo sopralluogo in via D'Amelio, sempre insieme a
Tranchina, chiedendogli se avesse trovato l'appartamento che gli aveva chiesto
in precedenza: alla sua risposta negativa, Graviano ebbe a dire che "allora si
sarebbe messo comodo nel giardino".

Il 16 luglio, Giovanni Brusca si mise a disposizione di Biondino per l'attentato


ma lui gli disse di essere già "sotto lavoro" e di non avere bisogno del suo
aiuto. Lo stesso giorno, Biondino intimò a Ferrante di non allontanarsi da
Palermo la domenica successiva per andare al mare poiché ci sarebbe stato
"del da fare". Due giorni dopo anche Ganci informò Cancemi che l'attentato
sarebbe avvenuto domenica durante una visita del magistrato alla madre e che
Biondino aveva già messo a punto ogni dettaglio per l’esecuzione.

La mattina del 18 luglio, Spatuzza e Tutino andarono a comprare da un


elettrauto a Corso dei Mille due batterie per auto e un'antennina da collocare
sull'autobomba; poi, nel primo pomeriggio, andarono a lasciare la Fiat 126 e
l'attrezzatura acquistata in un garage di via Villasevaglios, dove notarono la
presenza di Francesco Tagliavia, Lorenzo Tinnirello (entrambi mafiosi di
Corso dei Mille) e di una terza persona rimasta sconosciuta, ma andarono via
subito dopo la consegna. Nello stesso pomeriggio, Spatuzza e Tutino rubarono
anche le targhe da un'altra Fiat 126 nella carrozzeria di Giuseppe Orofino a
Corso dei Mille e, successivamente, Spatuzza consegnò le targhe a Graviano
presso il maneggio dei fratelli Salvatore e Nicola Vitale (mafiosi di Roccella;
Salvatore Vitale abitava in via D'Amelio e quindi spiava i movimenti di
Borsellino). Sempre nella giornata del 18 luglio, Biondino diede a Ferrante un
bigliettino su cui era annotato un numero di cellulare (che risultò essere
utilizzato da Cristofaro Cannella) al quale comunicare gli spostamenti di
Borsellino e gli diede appuntamento per la mattina successiva.
Alle prime ore del mattino del 19 luglio, Tranchina accompagnò Graviano (che
aveva pernottato a casa sua) ad un appuntamento che aveva con Cristofaro
Cannella e poi andò al mare con i suoi familiari, lasciandoli insieme per tutta
la giornata. Alle ore 07:00 del mattino, i mafiosi delle Famiglie della Noce,
Porta Nuova e San Lorenzo iniziarono il "pattugliamento" intorno a via Cilea
(dove abitava Borsellino) e a via D'Amelio: una prima autovettura con a bordo
Biondino e Biondo "il lungo", una seconda con Cancemi e Raffaele Ganci
mentre Galliano, Ferrante e i fratelli Domenico e Stefano Ganci si muovevano
singolarmente, a volte anche a piedi.

Siccome il magistrato non si recò dalla madre in mattinata ma andò con la


famiglia nella villa al mare a Villagrazia di Carini, il pedinamento venne
sospeso e riprese nel primo pomeriggio, senza la presenza di Galliano, che
andò al lavoro, mentre Ganci e Cancemi si recarono ad attendere l'esito
dell'attentato a casa di un loro fiancheggiatore. Alle ore 16:52 Ferrante, che si
trovava in una traversa di Viale della Regione Siciliana, chiamò da una cabina
telefonica il numero annotato sul bigliettino, segnalando il passaggio delle tre
auto blindate di scorta che stavano portando Borsellino in via D'Amelio.

Il 19 luglio 1992, alle ore 16:58, la Fiat 126 rubata contenente circa 90
chilogrammi di Semtex-H telecomandati a distanza (probabilmente da dietro
un muretto in fondo alla strada o da un condominio in costruzione nelle
vicinanze), venne fatta esplodere in via Mariano D'Amelio al civico 21 a
Palermo, sotto il palazzo dove all'epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita
Borsellino (rispettivamente madre e sorella del magistrato), presso le quali il
giudice quella domenica si era recato in visita; l'agente sopravvissuto Antonino
Vullo descrisse così l'esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi
dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo
parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun
rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato
l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata.
L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla
macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto».

Lo scenario descritto dal personale della locale Squadra Mobile giunto sul
posto parlò di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a
bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla
chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati». L'esplosione
causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi
commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti. Sul luogo della
strage, pochi minuti dopo il fatto, giunse immediatamente il deputato ed ex-
giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.
Gli agenti di scorta ebbero a dichiarare che la via D'Amelio era considerata una
strada pericolosa in quanto molto stretta, tanto che, come rivelato in una
intervista rilasciata alla Rai da Antonino Caponnetto, era stato chiesto alla
Questura di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa,
richiesta rimasta però senza seguito. Rimase inoltre tristemente celebre
l'amareggiato commento di Caponnetto alle telecamere poco dopo aver visto la
salma di Borsellino, in cui disse disperato «È finito tutto!», stringendo le mani
del giornalista che poneva la domanda.

In risposta alla strage, che avvenne a soli 57 giorni di distanza da quella di


Capaci, la notte del 19 luglio l'allora Ministro della giustizia Claudio Martelli
firmò d'urgenza l'applicazione del regime di carcere duro (art. 41 bis
dell'Ordinamento penitenziario) nei confronti di circa trecento detenuti per
reati di mafia, 'ndrangheta e camorra, di cui dispose anche il trasferimento in
blocco nei penitenziari dell'Asinara e di Pianosa per limitarne al minimo i
contatti con l'esterno.

Il 21 luglio, nella Cattedrale di Palermo, si svolsero i funerali dei cinque agenti


di scorta uccisi, ai quali partecipò l'intera popolazione cittadina e furono
caratterizzati da feroci proteste: 4000 agenti vennero chiamati per mantenere
l'ordine e furono contestati dalla folla poiché impedirono l'accesso alla
Cattedrale e, al grido "Fuori la mafia dallo Stato", non furono risparmiati
nemmeno i rappresentanti dello Stato presenti, compreso il neopresidente
della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro, che fu costretto a uscire da una
porta secondaria al termine della messa tra spintoni, calci e pugni, mentre il
Capo della polizia Vincenzo Parisi venne addirittura colpito da uno schiaffo
nella calca.

Pochi giorni dopo, il 24 luglio, circa 10.000 persone parteciparono ai funerali


privati di Borsellino, celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac,
disadorna e periferica, dove il giudice era solito sentir messa, quando poteva,
nelle domeniche di festa. I familiari del giudice rifiutarono il rito di Stato: la
moglie Agnese, infatti, accusava il governo di non aver saputo proteggere il
marito, e volle una cerimonia privata senza la presenza dei politici. L'orazione
funebre fu pronunciata da Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che aveva
diretto l'ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto
dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi».

In quegli stessi giorni, otto sostituti procuratori della Procura di Palermo ed ex


colleghi del magistrato ucciso (Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Alfredo
Morvillo, Teresa Principato, Ignazio De Francisci, Vittorio Teresi, Giovanni
Ilarda e Nino Napoli) minacciarono le dimissioni di massa in segno di protesta
contro il procuratore capo Pietro Giammanco, al quale veniva addebitata la
responsabilità di avere progressivamente isolato Falcone e Borsellino. Quella
clamorosa presa di posizione innescò un conflitto interno alla Procura che
costrinse il Consiglio superiore della magistratura a intervenire e indusse il
procuratore Giammanco a chiedere il trasferimento (verrà sostituito qualche
mese dopo da Gian Carlo Caselli).

Quello stesso 24 luglio, mentre a Palermo si svolgevano i funerali di


Borsellino, il Consiglio dei ministri presieduto da Giuliano Amato, con il
decreto-legge n. 349 del 25 luglio 1992, dava il via alla cosiddetta "Operazione
Vespri siciliani", che autorizzava l'invio di circa 7000 militari in Sicilia per
operazioni di sicurezza e controllo del territorio e di prevenzione di delitti di
criminalità organizzata, e conferiva al personale militare alcune funzioni
proprie della qualifica di ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. Il 7 agosto
successivo, il Parlamento convertì in legge, senza modifiche, il decreto-legge 8
giugno 1992, n. 306 detto "Scotti-Martelli" che inaspriva le prescrizioni
dell'articolo 41 bis in tema di "carcere duro" riservato ai detenuti per reati di
mafia.

Don Pino Puglisi

Padre Pino Puglisi nasce il 15 settembre del 1937, a Palermo, da una famiglia
modesta.La sua vita spirituale ha inizio quando aveva 16 anni, dove entra nel
seminario palermitano, da cui uscirà prete nel 1960.Nel 1970 viene nominato
parroco a Godrano, un paesino della provincia palermitana che in quegli anni
è coinvolto in una lotta tra 2 famiglie mafiose. Grazie all'opera di
evangelizzazione Padre Puglisi riesce a far ritornare la pace nelle 2 famiglie.

Nel 1990 invece viene nominato parroco a S.Gaetano,ma è controllatto dalla


criminalità organizzata attraverso i fratelli Gaviano, cioè i capi-mafia legati
alla famiglia del boss Leoluca Bagarella.Da questo momento inizia la lotta
antimafia di Pino Puglisi. Il suo obbiettivo però, non è quello di portare sulla
strada del bene i mafiosi, ma quello di evitare che la percorrano i bambini che
vivono per strada e considerano questi soggetti come degli idoli. Grazie a
metodi non violenti e attraverso giochi e attività, fa capire ai ragazzi, molti dei
quali ha salvato dalla criminalità, che il rispetto e la fiducia degli altri si
possono ottenere anche senza essere dei delinquenti, utilizzando solo i propri
valori e le proprie idee. Il fatto che lui togliesse dal vortice della criminalità i
giovani non andava giù ai boss, che lo consideravano come un ostacolo. Così
decisero di ucciderlo, perchè gli stava solo d'intralcio, e lo preavvisarono con
delle minacce di morte, anche se Don Pino non ne parlò mai con nessuno.Il 15
settembre del 1993, proprio il giorno del suo 56° compleanno, viene ucciso
dalla mafia, davanti al portone di casa sua. Don Pino Puglisi era a bordo della
sua FiatUno e una volta sceso qualcuno lo chiamò, e mentre si voltò, qualcun
altro lo colpì con uno o più colpi alla nuca. Anche lui come molti altri fece
tantissimo bene, ma i suoi nemici lo hanno ucciso.Padre Pino Puglisi è
ricordato tutti gli anni il 21 marzo per la giornata della Memoria e
dell'Impegno di Liberia, una rete di associazioni contro le mafie.

L’arresto di Totò Riina


Tra il luglio e il settembre del 1992, all'indomani delle stragi di Capaci e via
d'Amelio effettuate da Cosa nostra che avevano messo in difficoltà lo Stato
italiano, avvennero due riunioni presso la stazione dei Carabinieri di Terrasini,
cui partecipano ufficiali sia dell'Arma territoriale che del Raggruppamento
Operativo Speciale (ROS), alle dirette dipendenze del col. Mario Mori, tra cui il
magg. Mauro Obinu e i capitani Sergio De Caprio (detto Ultimo) e Giovanni
Adinolfi: lo scopo degli incontri era definire una strategia d'azione destinata
alla cattura di Totò Riina, considerato il capo assoluto e più potente
dell'organizzazione mafiosa, con lo scopo di mettere a fattor comune le
informazioni disponibili. I primi raffronti, in particolare attraverso i dati
conoscitivi in possesso del maresciallo Antonino Lombardo (provenienti da
fonti confidenziali), portano ad identificare una pista comune, quella che si
snoda attorno al nome di Raffaele Ganci, capo della "famiglia" mafiosa del
quartiere "Noce" di Palermo, ritenuto il tramite sicuro per arrivare al Riina.

A giugno, il Gruppo 2 del Nucleo Operativo Carabinieri di Palermo,


comandato dal maggiore Domenico Balsamo, in base di fonti confidenziali,
avviò indagini su Baldassare Di Maggio, al tempo incensurato ma ritenuto ex
uomo di fiducia di Riina che si era dovuto allontanare dalla Sicilia temendo
per la sua stessa vita poiché soppiantato da Giovanni Brusca nel comando del
mandamento di San Giuseppe Iato e da Angelo Siino nella gestione degli affari
economici. Tale aspetto, dal punto di vista investigativo, lasciava sperare che
un suo eventuale arresto potesse sfociare in una probabile collaborazione con
le Forze dell'Ordine.

Ad agosto, il col. Mori, con la meditazione del cap. Giuseppe De Donno,


incontrò l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (già condannato per il reato
di associazione mafiosa), il quale si disse pronto a cercare un contatto con
Cosa nostra per avviare un dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi e il
suo "contatto" si rivelò essere il dottor Antonino Cinà, medico di fiducia di
Riina. Nello stesso mese, il generale dei Carabinieri Francesco Delfino informò
l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli che entro Natale si sarebbe
arrivati alla cattura di Riina.

Il 6 settembre, il generale Delfino si insediò come comandante della Legione


Piemonte e Valle d'Aosta ed apprese che Di Maggio era stato localizzato
proprio in Piemonte dal Nucleo Operativo Carabinieri di Palermo. Decise
allora di attivare, in segretezza, un gruppo di investigatori con il compito di
ricercare eventuali tracce sul territorio della presenza di Riina connessa a
quella di Di Maggio.
A fine settembre, la sezione Crimor del ROS comandata dal Capitano Ultimo,
fu distaccata da Milano, dove era impegnata in altre indagini, ed avviò un
servizio di osservazione con riprese video e servizi di pedinamento sui
componenti della famiglia Ganci. Nei primi giorni di ottobre, Domenico Ganci,
figlio di Raffaele, viene seguito per le vie del quartiere Uditore, dove riesce a
far perdere le sue tracce lungo la via Bernini.

Sempre a settembre, Ciancimino incontrò nuovamente il cap. De Donno e il


col. Mori, i quali gli dissero di riferire al suo "contatto" che l'unica proposta
accettabile fosse la consegna di Riina ai Carabinieri, accolta male dal
Ciancimino, che rifiutò di trasmetterla al suo interlocutore perché rischiava di
essere ucciso e propose allora di agire in veste di "infiltrato" per il ROS in
cambio della revisione del suo processo e del rilascio del passaporto. A
dicembre, Ciancimino chiese ai due ufficiali di visionare alcune mappe della
città di Palermo in quanto, essendo a suo dire a conoscenza di alcuni lavori che
erano stati eseguiti anni addietro da persone vicine al Riina, avrebbe potuto
fornire qualche elemento utile alla sua localizzazione. Tuttavia, il 19 dicembre
Ciancimino fu nuovamente arrestato per scontare un residuo di pena e il piano
sfumò.

L'8 gennaio 1993, i Carabinieri di Novara individuarono Di Maggio a


Borgomanero, in provincia di Novara, dove si trovava ospite di un suo
compaesano e conoscente, Natale Mangano, che era titolare di un’officina
meccanica. Di Maggio fu arrestato perché trovato in possesso di una pistola e
chiese subito di parlare con il generale Delfino, a cui iniziò a riferire alcune
notizie in suo possesso su Riina. Ne fu informato subito il maggiore Balsamo,
che si precipitò in Piemonte per interrogare Di Maggio, il quale indicò alcune
zone di Palermo nelle quali aveva incontrato in passato Riina e dove, a suo
parere, poteva trovarsi l'abitazione del capo-mafia. Indicò anche alcuni
accompagnatori di Riina durante i suoi spostamenti, ossia Raffaele Ganci,
Pino Sansone e un certo Salvatore Biondolillo, mentre tale Vincenzo Di Marco
da San Giuseppe Jato accompagnava i figli di Riina a scuola.

Il giorno seguente, il generale Delfino informò dell'accaduto il magistrato Gian


Carlo Caselli (il quale a giorni si insedierà come nuovo Procuratore capo a
Palermo), che decise di coinvolgere anche il col. Mori, vice-comandante del
ROS, già suo collaboratore ai tempi della lotta al terrorismo. Mori chiese ed
ottenne dal dott. Caselli di fare alcuni riscontri sulle dichiarazioni di Di
Maggio attraverso il suo gruppo operativo, la sezione Crimor del ROS, che già
operava giù in Sicilia nelle osservazioni dei movimenti della famiglia Ganci.
Come seconda cosa, il dott. Caselli informò telefonicamente il Procuratore
Aggiunto di Palermo, dott. Vittorio Aliquò, al quale spettava sino al suo
insediamento la responsabilità nella direzione e nel coordinamento delle
indagini antimafia. Il dott. Aliquò dispose l’invio di alcuni magistrati a Novara
per prendere contatto con Di Maggio e riportarlo a Palermo.

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