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L'AUTORE

Luigi Sorrenti, scrittore noir per professione, mostrologo per


passione.
Pugliese di nascita, toscano per studi, romano di adozione.
Per un puro caso, poco più che bambino ma molto meno che
adolescente, era a San Casciano Val di Pesa il 9 settembre 1985,
giorno in cui vennero rinvenuti i cadaveri delle vittime dell'ultimo
duplice omicidio commesso dal Mostro di Firenze.
Quell'evento che nell'immediato lo impressionò fortemente, fu
presto dimenticato, per poi ritornare a galla molti anni dopo e far
nascere l'esigenza di capirci qualcosa in più.

Queste pagine hanno come fine tentare di fare chiarezza fra le


decine di teorie che affollano e sgomitano nella ormai atavica e
sicuramente ingarbugliata Storia del Mostro di Firenze.
CRONOLOGIA DEI DELITTI

► Agosto 1968 a Signa, via di Castelletti;

► Settembre 1974 a Borgo San Lorenzo, località Rabbatta;

► Giugno 1981 a Mosciano di Scandicci, via dell'Arrigo;

► Ottobre 1981 a Travalle di Calenzano, località Le Bartoline;

► Giugno 1982 a Baccaiano di Montespertoli, lungo via Virginio


Nuova;

► Settembre 1983 in località Galluzzo, via di Giogoli;

► Luglio 1984 a Vicchio del Mugello, località La Boschetta;

► Settembre 1985 a San Casciano Val di Pesa, lungo via degli


Scopeti, nell'omonima piazzola.
UNIVERSO MOSTROLOGICO

Dando per scontato che gli acronimi MdF e CdM stanno


rispettivmente per Mostro di Firenze e Compagni di Merende, e
come tale verranno usati nel corso delle pagine, di seguito
riportiamo, sotto forma grafica e narrativa, quello che a oggi può
essere considerato l'universo mostrologico, utile per la
comprensione del testo.

► SARDISTI: Seguaci della pista sarda. Coloro che ritengono che il


delitto del 1968 abbia matrice sarda, che la pistola sia sempre
rimasta all'interno del cosiddetto clan dei sardi e i delitti successivi
portino sempre firma sarda.
Fra i più importanti sardisti nella storia della Mostrologia
annoveriamo il colonnello Nunziato Torrisi e il giornalista Mario
Spezi.

► PACCIANISTI: Coloro che ritengono Pietro Pacciani serial killer


unico di tutti i delitti attribuiti al MdF o al massimo con l'unica
eccezione del delitto del 1968.
Il primo e più fervente paccianista è stato il capo della Sam,
dottor Ruggero Perugini.

► MERENDARI: Sottoinsieme dei paccianisti. Coloro che reputano


che almeno negli ultimi quattro duplici omicidi attribuiti al MdF,
Pacciani non agì solo, ma fu aiutato da Vanni e Lotti, i cosiddetti
compagni di merende. Ogni merendaro è anche paccianista, non
tutti i paccianisti sono merendari (vedasi per esempio, il dottor
Ruggero Perugini).
Fra i più insigni merendari annoveriamo l'ex Procuratore della
Repubblica di Firenze, Pier Luigi Vigna.

► GIUTTARIANI: Sottoinsieme dei Merendari e seguaci della


teoria del dottor Michele Giuttari. Costoro reputano che i
compagni di merende fossero semplicemente gli esecutori materiali
dei delitti, i quali in realtà erano commissionati da un secondo
livello, i cosiddetti mandanti in guanti bianchi: gente ricca,
facoltosa, piuttosto potente, forse appartenente a una qualche setta
esoterica. Ogni giuttariano è merendaro. Ovviamente il contrario
non è vero (vedasi per esempio, Piero Luigi Vigna).

► NARDUCCIANI: Coloro che credono che il famoso


gastroenterologo di Perugia avesse a che fare coi delitti del MdF.
Solitamente si distinguono due tipi di narducciani: quelli che
sposano la teoria di Giuttari e dunque vedono nel medico di
Perugia uno dei facoltosi mandanti e quelli che invece credono che
il dottore agisse in prima persona.
Convinto narducciano è stato l'indimenticabile De Gothia.

► COMPLOTTISTI: Immancabili, sono coloro che ritengono che il


delitto del 1968 non solo sia completamente scollegato dai restanti,
ma anche la pistola sia diversa e dunque il famigerato faldone
relativo al duplice omicidio comprensivo di bossoli sia stato
manomesso da qualcuno talmente potente da averne la possibilità
(vedasi capitolo La pista sarda). Molti dei complottisti sono anche
Narducciani e/o Giuttariani, tre insiemi interscanti fra loro, ma
assolutamente non coincidenti.
Vediamo dunque le particolarità di queste intersezioni:
● i giuttariani complottisiti credono che qualche setta molto potente
abbia commissionato ai merendari i delitti del MdF e attuato il
grande depistaggio sul delitto del 1968;
● i narducciani complottisti credono che Narducci fosse il MdF e
abbia attuato il grande depistaggio sul delitto del 1968;
● i narducciani giuttariani credono che Narducci fosse uno dei
mandanti della setta che commissionavano i delitti ai CdM;
● i narducciani giuttariani complottisti credono che Narducci fosse
uno dei mandanti della setta che commissionavano i delitti ai CdM
e che fosse responsabile del depistaggio sul 1968.

► LOTTIANI: Coloro che ritengono Giancarlo Lotti serial killer


unico di tutti i delitti a partire dal 1974. I Lottiani rappresentano il
più vasto sottoinsieme di coloro che credono che il MdF avesse
assistito come guardone al delitto del 1968.
Capostipite della frangia dei lottiani è il blogger Antonio Segnini.

► SEGUACI DEL SERIAL KILLER UNICO: Coloro che credono


in un serial killer solitario, probabilmente sconosciuto, mai rientrato
nelle indagini o solo sfiorato dalle stesse, che può aver iniziato la
sua opera delittuosa nel 1968 o nel 1974, a seconda se si creda che il
primo delitto sia stato opera o meno dei sardi.
Fra i seguaci del serial killer mai sfiorato dalle indagini,
distinguiamo, fra le altre, due importanti correnti di pensiero:

● FILASTONIANI: Seguaci della teoria di Nino Filastò. Costoro


credono che il MDF fosse fin dal 1968 un serial killer solitario
appartenente alle forze dell'ordine o a qualche corpo di polizia.

● ROSSANIANI: Seguaci della teoria "Rossano, il mostro del


Mugello". Teoria che, proposta dall'avvocato Bevacqua all'epoca del
Processo Pacciani, è stata ripresa da Paolo Cochi ed è tornata in
voga recentemente, prendendo parecchio piede. Costoro credono
che il MdF fosse fin dal 1968 un serial killer solitario notato da
alcuni testimoni in prossimità dei luoghi di taluni delitti (in special
modo, ma non solo, a Vicchio nel 1984) e descritto come rossiccio di
capelli.

► VIGILANTIANI: Coloro che credono che l'ultimo indagato


Giampiero Vigilanti abbia in una qualche misura a che fare con
questi delitti. Essendo costui un fresco indagato ed essendo emerse
pochissime notizie su indizi o eventuali prove a suo carico al vaglio
di inquirenti e magistratura, i vigilantiani non sono ben
inquadrabili all'interno dell'universo mostrologico. All'interno di
questo non troppo vasto insieme, Vigilanti può essere
indifferentemente ritenuto mero esecutore materiale di tutti i delitti,
serial killer prezzolato nel delitto del 1968, serial killer solitario o in
combutta col Pacciani o addirittura in combutta con Narducci.
Prologo

Fra il 1968 e il 1985 una pistola, probabilmente Beretta Calibro 22


Long Rifle Serie 70, ha ucciso otto giovani coppie appartate
nell'intima oscurità della campagna fiorentina.
Il volto dell'uomo che in almeno sette di questi otto duplici omicidi
ha impugnato tale arma rappresenta ancora oggi uno dei misteri
più fitti della cronaca nera italiana e internazionale.

La giustizia, quella umana e fallace, dopo un lungo e tortuoso


percorso che ha attraversato tre decadi, ha creduto di risolvere
l'inestricabile enigma, ma le sentenze vergate nelle aule dei
tribunali hanno consegnato alla Storia una verità che nella migliore
delle ipotesi è incompleta.
Dei grandi imputati degli anni novanta, Pietro Pacciani è morto in
attesa del secondo grado di giudizio, mentre Mario
Vanni e Giancarlo Lotti, i cosiddetti "Compagni di Merende", sono
stati condannati per quattro dei duplici omicidi storicamente
attribuiti al serial killer delle coppiette toscane.
A oggi ci sono ancora tre episodi delittuosi per cui non esiste un
colpevole. Sei vittime cui non è stata resa giustizia.

La vicenda viene resa ancor più complessa dalla maturata


consapevolezza che la verità giudiziaria non è soltanto parziale, ma
potrebbe confliggere con la verità storica. In tempi recenti, nuovi
studi nel campo della entomologia forense hanno messo in dubbio
la veridicità di alcune dichiarazioni rese dal reo confesso Giancarlo
Lotti, andando ulteriormente a svilire una confessione di per sé
traballante, che pure era risultata decisiva per le sentenze di
condanna.

Ma allora, se non i già citati Compagni di Merende, chi?


Questa è la domanda cui ormai da molti anni cerca di dare una
risposta la mostrologia, quella scienza per nulla esatta che studia le
complesse e intricate vicende che ruotano attorno ai delitti
dell'efferato assassino noto in tutto il mondo come il MOSTRO DI
FIRENZE.

A far della mostrologia una scienza viva, frizzante, in continuo


mutamento, ci pensano i cosiddetti mostrologi, una variopinta
accolita di interessanti personaggi di ogni età, professione e
provenienza, accomunati dal crescente desiderio di dare un volto e
un nome all'inafferrabile pluriomicida.
Non solo dunque inquirenti, avvocati, psichiatri, criminologi,
investigatori, giornalisti e addetti ai lavori, come avveniva negli
anni '80 e '90. A questi oggi si sono aggiunte orde di uomini e
donne che nulla hanno a che fare con la vicenda: investigatori della
domenica che tengono desta l'attenzione sul caso, che studiano atti
e verbali, ascoltano udienze, compiono sopralluoghi, indagano,
intervistano, realizzano video, si dividono in agguerrite fazioni, si
sfidano sul web, postano, twittano, si affrontano, talvolta si
insultano, più raramente si querelano. Perché anche oggi, come in
passato, ognuno ha il proprio personalissimo mostro, che è di gran
lunga più colpevole dei mostri altrui.

Queste pagine si pongono come fine non solo di raccontare le


complesse vicende legate alla storia del Mostro di Firenze, ma
soprattutto di dare una voce alle varie correnti mostrologiche che
nel corso degli anni si sono imposte all'attenzione degli
appassionati del caso. Riportare dunque e - per quanto possibile -
analizzare tutte le teorie più o meno nobili che la mostrologia ha
partorito, persino quelle che non hanno troppa ragione d'essere,
non mancando in questi casi di valutarle per quelle che sono.

Prima di cominciare è doveroso ringraziare quanti sono stati fonte


di documenti, informazione, ispirazione e che di conseguenza
hanno permesso lo sviluppo di questo lavoro. Tutti i mostrologi, i
blog, i libri a cui si è attinto, sono citati nel corso delle pagine e in
parte anche nella sezione Ringraziamenti.
Infine, per qualsiasi correzione e/o precisazione sugli eventi e sulle
teorie esposte, ma anche per attribuirsi una paternità
eventualmente mal riportata, è possibile utilizzare la sezione dei
commenti o contattare direttamente l'autore di questi scritti nel link
apposito in Home Page.
Prima Parte: La vicenda delittuosa

La prima parte di questo scritto copre gli eventi dal 1968 (data
dell'ipotetico primo delitto attribuito al MdF) al 1989, anno in cui si
chiuse l'indagine sui cosiddetti "sardi" e si aprì un nuovo filone
d'inchiesta, quello a carico di un contadino di Mercatale, di nome Pietro
Pacciani.
Questi sono fondamentalmente gli anni del sangue, degli omicidi,
della Beretta Calibro 22, dell'arma bianca e delle orribili escissioni. Gli
anni del terrore e dei sospetti, prima ancora di quelli della vendetta e della
spasmodica ricerca di giustizia.
Castelletti di Signa

Data: La notte fra Mercoledì 21 e Giovedì 22 Agosto 1968;


Orario: Con buona precisione fra la mezzanotte e mezza e l'una del
mattino;
Luogo: Signa, via di Castelletti;
Vittime: Antonio Lo Bianco, 29 anni; Barbara Locci, 31 anni;
Automobile: Alfa Romeo Giulietta targata AR 53442;
Fase Lunare: Tre giorni prima del Novilunio: spicchio di luna
calante.

Prima del delitto


La mattina del 21 Agosto 1968 l'oligofrenico muratore di origini
sarde residente a Lastra a Signa, Stefano Mele, marito della
trentunenne sarda Barbara Locci, accusò un malore mentre stava
lavorando in un cantiere. Venne dunque accompagnato a casa in
via XXIV Maggio.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno passarono a casa del Mele
sia la futura vittima Antonio Lo Bianco, che tale Carmelo Cutrona,
entrambi amanti di Barbara Locci. La Locci, conosciuta in zona
come L'Ape Regina per via della sua movimentata vita sessuale, si
accordò per la serata con il Lo Bianco. Il Cutrona andò via piuttosto
indispettito.
Quella sera i due amanti, Lo Bianco e Locci, andarono al
cinema Giardino Michelacci a Signa per vedere un film: "Helga il
miracolo dell'amore" secondo l'autore Giuseppe Alessandri o più
probabilmente "Nuda per un pugno di eroi" secondo l'avvocato Nino
Filastò.
Con loro c'era il piccolo Natalino Mele, 7 anni non ancora compiuti,
figlio della Locci e di Stefano Mele. Il signor Elio Rugi, direttore del
cinema, avrebbe dichiarato in seguito di non aver notato il bambino
e che in sala, dopo la coppia, era entrata solo un'altra persona.
Il film terminò attorno alle 00:15. Risaliti in macchina, mentre il
bambino dormiva sul sedile posteriore dell'auto, i due amanti -
seduti davanti - si appartarono in via di Castelletti, nei pressi del
cimitero di Signa, lungo l'argine del torrente Vingone. Proprio
mentre cominciavano le loro effusioni amorose, partì l'azione
omicidiaria.
A quel punto era circa mezzanotte e mezza o poco più.

Scena del crimine


Otto colpi di pistola totali attinsero i due amanti. Non ci fu utilizzo
di arma bianca. A sparare era stata con ottima probabilità
una Beretta Calibro 22 LR serie 70, arma che parecchi anni dopo
sarebbe divenuta famosa come la pistola del Mostro.
I proiettili erano Winchester e sul fondello riportavano la lettera H.
Come si appurerà in seguito questi proiettili appartenevano a una
partita prodotta all'incirca nel 1966.
Durante la fase delittuosa (oggetto comunque di numerosi dibattiti)
il killer aprì lo sportello anteriore sinistro della vettura ed esplose
parte dei colpi dall'interno. Gli spari da distanza estremamente
ravvicinata svegliarono il piccolo Natalino Mele.
Quello che avvenne dopo è tuttora completamente incerto, mai si è
fatta chiarezza in merito e ancora oggi costituisce il mistero più fitto
dell'intera vicenda riguardante il Mostro di Firenze.

Dopo il delitto
Alle 2.00 precise del mattino, squillò il citofono dell'abitazione della
famiglia De Felice, sita a poco più di 2 km dal luogo del delitto, in
Campi Bisenzio, frazione Sant'Angelo a Lecore, via del Vingone
154.
Quando il padrone di casa si affacciò alla finestra per vedere chi
avesse suonato si ritrovò davanti il piccolo Natalino Mele, senza
scarpe, con ai piedi esclusivamente un paio di calzini, che disse
esattamente le seguenti parole: "Aprimi la porta che ho sonno e il babbo
è a letto malato. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mamma e lo zio
che sono morti in macchina."
L'impressione che si ebbe all'epoca e che ancora oggi si potrebbe
avere è di frasi imparate a memoria e ripetute meccanicamente. Il
bambino inoltre raccontò al De Felice di aver fatto tutta la strada da
solo: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo
tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a
cantare "La tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il
babbo è a casa malato."
All'inizio nessuno credette che Natalino potesse aver compiuto il
tragitto dal luogo del delitto fino all'abitazione del De Felice da solo
in piena notte e scalzo, tanto più che il percorso era lungo e
piuttosto accidentato. Vennero allertati i carabinieri e verso le tre
del mattino venne trovata grazie alle indicazioni piuttosto precise
del bambino l'automobile con le due vittime all'interno.
Non essendo intenzione di questi scritti descrivere o analizzare
minuziosamente le dinamiche dei delitti, a meno che non siano
necessarie ai fini della narrazione strettamente mostrologica, non
sarà abitudine di quest'opera dilungarsi troppo su eventuali
traiettorie dei colpi, fori di ingresso/uscita e amenità simili. Ai
nostri fini è sufficiente affermare che la vettura venne ritrovata con
lo sportello posteriore destro socchiuso, il finestrino anteriore
sinistro leggermente abbassato, quello posteriore sinistro abbassato
per metà. Infine aveva l'indicatore di direzione destro acceso.
All'interno la Locci sedeva sul sedile di guida in una posizione
quasi naturale, sicuramente diversa da quella che aveva nel
momento in cui era iniziata l'azione omicidiaria: la donna era infatti
stata attinta alla schiena dai colpi d'arma da fuoco. La catenina che
portava era spezzata, come se le fosse stata strappata con violenza,
il che risultava compatibile con una sottile abrasione sul collo. Lo
schienale del suo sedile era alzato. Barbara sembrava inoltre essere
stata ricomposta nell'abbigliamento, presumibilmente dallo stesso
autore dell'omicidio o da un suo complice; si è scelto di sottolineare
il predicato verbale, perché - sebbene sia accertato che il suo
cadavere fosse stato manipolato dopo l'omicidio - evidenze
documentali sul fatto che fosse stata rivestita o che le fossero state
sollevate le mutandine non sono state riscontrate; la locuzione
infatti che solitamente si riporta è "verosimilmente ricomposta".
Il Lo Bianco era sdraiato sul sedile passeggero, lo schienale
reclinato, con i pantaloni slacciati, le mani giunte in grembo come
nell'atto di ricomporsi e il piede sinistro scalzo. La scarpa dell'uomo
era sul tappetino anteriore, poggiato allo sportello dell'automobile,
tant'è che quando i carabinieri lo aprirono, la calzatura cadde
all'esterno. Fra il sedile e il montante dello sportello lato passeggero
venne rinvenuto un borsello da donna con all'interno circa 25.000
lire; il borsello sembrava essere stato trafugato ma non risultò
mancare nulla. Tra il sedile anteriore e quello posteriore vennero
infine rinvenute le scarpe di Natalino.
Partirono immediatamente le indagini.
Il primo sospettato fu ovviamente il marito della Locci. Quando, fra
le sei e le sette del mattino, i carabinieri giunsero a casa di Stefano
Mele, costui era vestito di tutto punto e aveva le mani sporche di
grasso. Inoltre non parve granché interessato alle sorti della moglie
e del figlio che pure - a suo dire - aveva atteso tutta la notte. Il
brigadiere Gerardo Matassino del Nucleo Investigativo dichiarò
infatti che Stefano Mele si informò di che fine avessero fatto "con
tale fare che lascia chiaramente intendere che ne conosce già la sorte."
Di fronte alle domande delle forze dell'ordine, il Mele dichiarò,
riferendosi al giorno prima: "Ero a letto malato". Curiosamente la
stessa locuzione pronunciata da Natalino. Il primo sospetto dei
carabinieri fu ovviamente che Stefano Mele avesse commesso il
delitto, avesse accompagnato il figlio a casa dei De Felice e durante
il tragitto lo avesse istruito su cosa dire.
Le indagini portarono però a scoprire che la Locci aveva numerosi
amanti e il marito tollerava tranquillamente la situazione. Sembrò
dunque strano che costui avesse commesso un omicidio per gelosia
o vendetta. Inoltre il Mele, personaggio estremamente limitato da
un punto di vista intellettivo, era sprovvisto di patente e di
un'automobile (possedeva esclusivamente una biciletta), quindi
difficilmente (anche se non aprioristicamente impossibile) avrebbe
potuto raggiungere il luogo del delitto da casa sua senza un
adeguato mezzo di locomozione. La distanza fra casa del Mele e il
cinema Giardino Michelacci a Signa è quantificabile in circa due
chilometri e mezzo. Grosso modo simile è la distanza fra il cinema e
il luogo dell'omicidio. In totale fu valutata quindi una distanza di
una decina di chilometri fra andata e ritorno per commettere
l'omicidio.
Dal momento in cui, quella stessa mattina, il Mele venne portato in
caserma e interrogato, diede il via a una lunghissima sequela di
dichiarazioni in cui a turno accusò alcuni amanti della moglie,
cambiando di volta in volta e continuamente versione fino a essere
giudicato completamente inattendibile.

Le dichiarazioni del Mele


1. Erano circa le 9.40 di mattina del 22 agosto 1968 quando Stefano
Mele venne interrogato per la prima volta dal maresciallo Filippo
Funari. Si dichiarò subito estraneo al delitto e avanzò sospetti verso
due amanti di sua moglie. Uno era un manovale sardo di
nome Francesco Vinci, l'altro un ventenne di origine siciliane di
nome Carmelo Cutrona. A tal proposito, il Mele
dichiarò: "Francesco Vinci, un amante di mia moglie, a giugno l'ha
minacciata di morte. Carmelo Cutrona è un altro amante di Barbara e
quando ieri pomeriggio è venuto a casa si è molto turbato a veder lì
Enrico" (il Mele chiamava il Lo Bianco con il nome di Enrico, NdA).
Quello stesso pomeriggio vennero convocati in caserma Francesco
Vinci e il Cutrona; qui i tre sospettati furono sottoposti alla prova
del guanto di paraffina (utile per verificare se avessero utilizzato
un'arma da fuoco). La prova risultò negativa per Francesco Vinci,
leggermente positiva per Stefano Mele (che però si era presentato
quella mattina con le mani sporche di grasso) e positiva per il
Cutrona, il quale tuttavia utilizzava nella propria attività prodotti
come nitrati che avrebbero potuto inficiare l'esito della prova.
Al termine, i tre uomini vennero rimandati alle rispettive abitazioni,
il che almeno per quanto riguarda Stefano Mele è piuttosto strano,
considerando che gli venne a questo modo concessa la possibilità di
confrontarsi con il piccolo Natalino.
2. Infatti, il giorno successivo Stefano Mele si presentò in caserma
accompagnato del cognato Pietro Mucciarini, marito di sua sorella
Antonietta, il quale firmò come testimone il verbale delle 11.30.
Durante questo secondo interrogatorio Mele ritirò le accuse contro
Francesco Vinci e cominciò ad accusare il di lui fratello
maggiore, Salvatore Vinci, anch'egli amante di sua moglie Barbara.
A tal proposito il Mele dichiarò: "È lui che la minacciava di morte.
Anzi, un giorno quando gli chiesi di restituirmi un debito di 300.000 lire
mi disse: Ti faccio fuori la moglie e siamo pari con il debito". Si noti che
in questa occasione il Mele capovolge (forse di proposito, forse no) i
termini di un prestito di denaro avvenuto fra lui e Salvatore Vinci.
Era stato infatti Salvatore a prestare alla famiglia Mele una cifra
piuttosto cospiscua quando il Mele era rimasto vittima di un
incidente stradale.
Salvatore Vinci venne rintracciato ma presentò un alibi che sul
momento parve piuttosto solido. Disse che aveva passato la serata a
giocare a biliardo al Circolo dei Preti a Prato in compagnia di due
amici, Silvano Vargiu e Nicola Antenucci. Venne lasciato andare.
Solo molti anni dopo, si scoprirà che tale alibi era probabilmente
falso.
3. Quello stesso pomeriggio il Mele cambiò nuovamente versione e
confessò di essere stato lui stesso l'autore del duplice delitto. Venne
dunque portato sul luogo dell'omicidio ma dimostrò di non sapere
bene come arrivarci. Una volta in loco descrisse le modalità del
delitto e la scena del crimine, fornendo alcuni particolari che si
rivelarono corretti, come la freccia da lui azionata per sbaglio
mentre ricomponeva i vestiti sul cadavere della moglie e trovata
accesa al rinvenimento della vettura. Inoltre il Mele riportò
correttamente il numero di colpi sparati durante l'azione
omicidiaria; per contro, c'è da sottolineare che secondo numerose
dichiarazioni - tra cui quella del colonnello Olinto Dell'Amico -
quando al Mele venne messa in mano una pistola per fare una
simulazione del duplice omicidio, costui diede l'idea di non sapere
neanche come si maneggiasse.
4. Quella stessa sera, nel verbale delle 21.30 (la cui trascrizione a
opera del blogger Omar Quatar è rintracciabile al seguente link), il
Mele integrò la sua confessione, tornando a coinvolgere nel delitto
Salvatore Vinci. Dichiarò infatti che la notte dell'omicidio, attorno
alle 23.30, era andato a fare un giro in piazza IV Novembre e qui
aveva incontrato il Vinci. Parlando, gli aveva riferito che sua moglie
era uscita con il Lo Bianco e a quel punto Salvatore lo aveva spinto
a farla finita una volta per tutte. Secondo il racconto del Mele, la
pistola gliel'aveva fornita proprio Salvatore, il quale l'aveva
accompagnato sul luogo del delitto e l'aveva incitato a sparare.
Dopo aver commesso il duplice omicidio, il Mele aveva buttato via
l'arma ed era fuggito senza neanche curarsi di Natalino che nel
frattempo si era svegliato e l'aveva chiamato a gran voce: "Babbo!"
In questa occasione gli investigatori mostrarono al Mele una pistola
calibro 9 d'ordinanza per avere delucidazione sull'arma usata nel
delitto. Il Mele affermò che la pistola di Salvatore Vinci aveva la
canna molto più lunga, come quella per il tiro a segno. La
descrizione che fa il Mele è senz'altro coerente con il modello
d'arma descritto dal perito, colonnello Innocenzo Zuntini, tuttavia
appare strano il riferimento a un'arma da tiro a segno, considerando
che il Mele aveva già dimostrato di non avere alcuna conoscenza in
fatto di armi. Secondo la mostrologia odierna e passata, la sua
appare pertanto una dichiarazione per nulla genuina.
5. Il mattino successivo (24 agosto), dopo che le ricerche della
pistola avevano dato esito negativo, Stefano Mele cambiò
nuovamente versione e affermò di non averla buttata via, ma di
averla riconsegnata a Salvatore Vinci.
Frattanto anche il piccolo Natalino Mele riferì alle forze dell'ordine
di aver visto subito dopo l'omicidio "Salvatore fra le canne", dove il
riferimento a Salvatore sembrò palesemente proprio quello al Vinci.
Più tardi, messo alle strette, Natalino confessò che a dirgli di
nominare Salvatore era stato lo "zio Piero" (personaggio in seguito
identificato nello zio del bambino, Pietro Mucciarini).
L'accenno allo "zio Piero" appare una delle poche dichiarazioni
spontanee di Natalino, probabilmente l'unica non suggerita o
imposta da qualcuno, dato che né gli inquirenti, né tanto meno la
famiglia Mele avevano alcun interesse che il bambino facesse il
nome del Mucciarini.
A tal proposito, molti anni dopo verrà rinvenuto un biglietto nella
cella di Stefano Mele che testimonierà proprio la preoccupazione
della sua famiglia per il riferimento di Natalino allo zio Piero
(vedasi capitolo Mele e Mucciarini).
Emerge dunque chiaramente che da un lato Stefano Mele accusava
Salvatore Vinci, dall'altro il Mucciarini convinceva Natalino a fare
anch'egli il nome di Salvatore, in modo da far convergere i sospetti
sul manovale sardo, quasi a volerlo definitivamente incastrare.
6. Tuttavia, messo a confronto con Salvatore Vinci, Stefano Mele
scoppiò quasi subito a piangere. Chiese perdono per averlo
ingiustamente accusato e tornò a puntare il dito contro Francesco
Vinci. Sostenne infatti che in realtà la pistola era di Francesco, che
era stato Francesco ad accompagnarlo sul luogo del delitto con la
sua Lambretta e che lo stesso Francesco aveva sparato ai due
amanti e che lui (il Mele) aveva solo assistito al delitto ma non vi
aveva partecipato. Dichiarò infine che la pistola l'aveva tenuta il
Francesco Vinci, posizionandola nel vano porta-oggetti della sua
Lambretta e che era stato lo stesso Francesco ad accompagnare
Natalino a casa dei De Felice.
Quello stesso pomeriggio venne arrestato Francesco Vinci.
7. I Carabinieri condussero Natalino Mele sulla stradina del
Vingone per effettuare la ricostruzione del percorso compiuto dal
bambino. Dopo aver insistito sulla versione iniziale e cioè che aveva
raggiunto da solo la casa dei De Felice, il bambino, minacciato dai
carabinieri di dover rifare quel percorso di notte tutto solo se non
avesse detto la verità, dichiarò di essere stato accompagnato dal
padre fino al ponticello prospiciente la casa dei De Felice.
8. Considerando che la prova del guanto di paraffina su Francesco
Vinci era risultata negativa e che ulteriori indagini accertarono che
in quei giorni la sua Lambretta era ferma dal meccanico, gli indizi a
carico del manovale sardo si basavano esclusivamente sulle accuse
di Stefano Mele. Vi fu un breve confronto fra il Mele e Francesco
Vinci, al termine del quale un sempre più confuso Stefano cambiò
ancora versione e tornò ad accusare Carmelo Cutrona, altro amante
della moglie. Anche il confronto con il Cutrona mise in risalto le
contraddizioni del racconto del Mele, finché questi, pressato dagli
investigatori, sbottò: "Se non è stato l'uno, è stato l'altro!". Una frase
importante perché poteva anche dare l'idea di come il Mele in
definitiva non sapesse assolutamente nulla di quanto affermava.
9. Quando gli venne prospettata la possibilità di un confronto con il
figlio (il quale, come abbiamo visto, dopo diverse incertezze aveva
cominciato a sostenere di essere stato accompagnato dal padre
quella notte), Stefano Mele confermò in lacrime di aver
accompagnato lui stesso Natalino dai De Felice; nel prosieguo degli
interrogatori non seppe spiegare in alcun modo come fosse poi
tornato a casa da via del Vingone, né come in precedenza avesse
raggiunto il luogo dell'omicidio (ricordiamo che il Mele era
sprovvisto di automobile). Si assunse a ogni modo interamente la
responsabilità del delitto e scagionò tutti gli amanti della moglie. In
nottata vennero così scarcerati Francesco Vinci e Carmelo Cutrona.
Stefano Mele venne considerato l'unico autore del duplice omicidio.
10. Vista l'incredibile sequenza di ritrattazioni e accuse che
rivelavano una psicologia quanto meno contorta, il 27 Agosto il
magistrato Antonino Caponnetto richiese un esame psichiatrico
per il Mele.
Tale esame fu effettuato dal professore Franco Barontini e dal
dottor Bernardo Sacchettini, le cui conclusioni certificavano "...uno
stado di infermità mentale tale da scemare grandemente la sua capacità di
intendere e di volere..." e dichiaravano il Mele "affetto da oligofrenia di
medio grado... ma non da considerare come persona socialmente
pericolosa".

Il processo a Stefano Mele


Il 30 settembre 1969 il Sostituto Procuratore Antonio
Spremolla richiese formalmente di rinviare a giudizio il Mele per i
seguenti reati: duplice omicidio commesso da solo o con l'eventuale
complicità di altre persone, triplice calunnia e detenzione e porto
abusivo di arma da fuoco.
Il 9 marzo del 1970 si aprì il Processo presieduto dal dottor Saverio
Coniglio. La Pubblica Accusa era sostenuta dal già citato dottor
Spremolla. La difesa era stata affidata agli avvocati Sergio
Castelfranco e Dante Ricci (quest'ultimo diciannove anni prima
aveva difeso un giovanotto di nome Pietro Pacciani dall'accusa di
omicidio nei confronti di un cenciaiolo mugellano). Il ruolo di Parte
Civile era svolto dagli avvocati Carlo Grassini per la madre del Lo
Bianco e Leonardo Petranelli per la di lui moglie, Rosalia Barranca.
Durante il dibattimento, Mele seguitò a indicare Francesco Vinci
come autore del duplice omicidio, relegando per se stesso il ruolo di
semplice osservatore. A tal proposito dichiarò:
"...Francesco Vinci venne a prendermi a casa con il motorino. Mia moglie
era andata via verso le 21 con Lo Bianco e il bambino, e Vinci arrivò circa
alle 22; mi portò nei pressi del cinema di Signa. Vedemmo uscire mia
moglie e Lo Bianco; misero a dormire il bambino sul sedile posteriore della
Giulietta e si avviarono lentamente in macchina verso quella stradina di
campagna; li seguimmo a distanza. Fermato il motorino e fatta un po' di
strada a piedi, ci avvicinammo alla macchina e lui sparò dal finestrino
dello sportello posteriore abbassato a metà; io rimasi vicino, ma non
intervenni neanche per aggiustare i cadaveri: lo fece il Vinci, il quale se ne
andò con l'arma, mentre io prendevo in collo il bambino, facendo quasi tre
chilometri a piedi, fino alla casa dei De Felice, dove suonai lasciando il
ragazzo".
Quasi a voler confermare le parole del Mele, giunse la
testimonianza di Salvatore Vinci che dichiarò di aver saputo dalla
moglie di suo fratello, la signora Vitalia Melis, che Francesco
possedeva una pistola e che la nascondeva regolarmente nel vano
portaoggetti della propria Lambretta.
La Melis smentì di aver mai dichiarato alcunché di simile al cognato
Salvatore e ribadì gli alibi che aveva fornito in precedenza al marito.
Lo stesso Francesco Vinci rigettò tutte le accuse. Infine il piccolo
Natalino dichiarò che l'unica persona vista al suo risveglio in auto,
la notte dell'omicidio, era stato il padre e che dal padre stesso era
stato accompagnato dai De Felice.
Al termine del dibattimento, il PM Spremolla chiese per il Mele una
condanna a 27 anni di carcere più 3 anni di custodia in casa di cura.
Addusse come movente del delitto la tardiva gelosia del marito nei
confronti della moglie fedifraga.
La difesa del Mele ammise la presenza dell'imputato sul luogo del
delitto, ma solamente come spettatore, spingendo per l'esistenza di
un secondo uomo che aveva eseguito materialmente il delitto.
Il 25 marzo 1970, dopo appena diciassette giorni di dibattimento e
dopo sole tre ore di consiglio, Mele fu condannato a 16 anni e 10
mesi di reclusione per omicidio volontario nei confronti di Antonio
Lo Bianco e Barbara Locci e per le calunnie a danno di Carmelo
Cutrona e dei due Vinci. Non gli venne riconosciuta l'attenuante del
delitto d'onore (in vigore fino al 1981), tuttavia gli vennero
riconosciute l'infermità mentale e le attenuanti generiche, la sua non
disposizione a delinquere accertata da una perizia psichiatrica e
dall’assenza di precedenti penali.
In appello gli anni di carcere furono ridotti a 14. Successivamente la
Cassazione annullò la Sentenza della Corte di Assise di Appello di
Firenze e rinviò il nuovo processo d'appello a Perugia. Il 12 aprile
1973 arrivò la condanna definitiva, che fu stabilita a 13 anni di
reclusione.
Per molto tempo calò dunque il sipario su questa storia, almeno
fino al 1982 quando, in piena psicosi da delitti del Mostro di
Firenze, si venne a scoprire in maniera abbastanza nebulosa che la
pistola con cui il MdF compiva i suoi delitti era la stessa con cui
erano stati uccisi Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Non solo,
anche i proiettili usati dal Mostro appartenevano alla stessa partita
dei proiettili usati in occasione del delitto del 1968.

Particolarità a Signa
● I proiettili usati per il delitto furono Winchester a palla ramata.
Sul fondello dei bossoli era impressa quella che diventerà la
famigerata lettera H.
● Nel redigere il rapporto sul delitto, il già citato
brigadiere Gerardo Matassino, pur descrivendo correttamente
bossoli e proiettili, sbagliò clamorosamente la marca, riportando
testualmente che erano "prodotti dalla Ditta Giulio Fiocchi di Lecce".
Questo errore ha fatto nascere col tempo le più disparate teorie
complottistiche, come avremo modo di vedere in seguito. A fare
chiarezza sul punto, ci penserà qualche settimana dopo il
colonnello Innocenzo Zuntini che, nell'omonima e celebre perizia,
parlerà chiaramente di proiettili Winchester.
Nota a margine: Alcuni anni dopo, nel 1974, il brigadiere Matassino
divenne comandante della stazione dei carabinieri di Casal di
Principe (CE), finendo a libro paga di Francesco Schiavone, detto
Sandokan, temuto capo del clan camorristico dei casalesi. Nel 1982,
durante un conflitto a fuoco fra carabinieri e camorristi, perse la vita
Mario Schiavone, giovane nipote del boss Francesco. Lo stesso
Sandokan obbligò Matassino (pare anche schiaffeggiandolo in
pubblica piazza) a rivelargli il nome del carabiniere che aveva
sparato sul nipote. Matassino indicò il ventenne Salvatore
Nuvoletta, il quale qualche giorno dopo venne freddato da un
commando armato. Come verrà accertato in seguito, in realtà
Nuvoletta non solo non aveva sparato al nipote del boss, ma non
aveva neanche partecipato al conflitto a fuoco. Matassino aveva
infidamente fatto il suo nome semplicemente perché credeva che
Nuvoletta nutrisse sospetti nei suoi confronti, avesse cioè inutito
che lui era "stipendiato" dai casalesi.
Per maggiori dettagli su questa triste storia, riportata per puro
dovere cronachistico, si puó fare riferimento al seguente articolo di
"Repubblica".
● Ritornando al duplice omicidio di Signa, la borsa della Locci era
stata presumibilmente manomessa dall'autore del duplice omicidio
e questo particolare rappresenta un'importante analogia con alcuni
dei delitti successivi attribuiti al MdF o comunque connessi dalla
stessa pistola.
● Come emerge dal confronto fra il PM Paolo Canessa e il
colonello Olinto Dell'Amico durante un'udienza del Processo
Pacciani (22 aprile 1994), in questo delitto l'assassino aprì lo
sportello anteriore sinistro dell'automobile prima di esplodere
alcuni colpi. In pratica sparò sulle vittime senza che ci fosse la
barriera dello sportello o del finestrino. È l'unico delitto fra quelli
storicamente attribuiti al MdF in cui si registra una dinamica di
questo tipo. In tutti gli altri il killer non aprirà mai lo sportello della
macchina della coppia prima di aver svuotato l'intero caricatore.
● Come già detto, la sera dell'omicidio, Locci e Lo Bianco erano stati
al cinema. La cassiera del cinema sembrò sostenere che un uomo
seguisse la coppia sia all'ingresso che all'uscita del cinema. Non si
sa bene quanto sia attendibile questa testimonianza, considerando
anche che la certa presenza di Natalino era stata messa in dubbio
dalla cassiera stessa e dal gestore del cinema. A questo proposito
però si deve considerare che il film proiettato quella sera era vietato
ai minori e quindi può esser normale una certa ritrosia da parte di
tali persone a confermare la presenza del bambino.
● Importante Durante il processo al Mele emerse che qualcuno in
motorino nei giorni precedenti all'omicidio avesse seguito la Locci e
avesse provato qualche approccio con lei, fino a diventare molesto.
Pare anche che prima del delitto la Locci avesse detto più volte di
temere di essere sparata. Questo particolare lo riportò in
dibattimento un testimone di nome Giuseppe Barranca, fratello
della moglie di Antonio Lo Bianco. Barranca affermò che nei giorni
precedenti all'omicidio aveva provato a convincere la Locci ad
appartarsi in macchina con lui, ma la donna aveva rifiutato
dicendo: "Potrebbero spararci mentre siamo in macchina". Al che
l'uomo non aveva insistito e aveva riaccompagnato la donna a casa.
Tutto questo, sempre stando alla testimonianza del Barranca,
avveniva mentre la coppia era nei pressi del luogo in cui in seguito
si sarebbe verificato il duplice omicidio.
Anche Francesco Vinci confermò in sede processuale che Barbara
Locci era seguita e minacciata da qualcuno in motorino e riferì
alcuni episodi in cui lui stesso aveva assistito alle molestie da parte
di questo imprecisato personaggio nei confronti di Barbara.
Molti mostrologi, in special modo Sardisti (seguaci della pista
sarda, vedasi l'Universo Mostrologico), ritengono tuttavia che tali
dichiarazioni di Francesco Vinci fossero mendaci e che in realtà
fosse lui a seguire e minacciare la Locci, di cui - a detta di tutti - era
morbosamente geloso. Francesco, dunque, non aveva fatto altro che
cogliere l'occasione offerta dalle dichiarazioni del Barranca per far
ricadere i sospetti su un misterioso e mai identificato molestatore di
Barbara.
Altre frange mostrologiche vedono invece nelle dichiarazioni del
Barranca (e di conseguenza del Vinci) un capo d'accusa nei
confronti di una qualsiasi altra persona, esterna al clan dei sardi e
forse mai rientrata nelle indagini, ossessionata per un qualunque
motivo dalla Locci; un'ossessione che poteva derivare dal desiderio
verso questa donna così disinibita, ma anche dalla repulsione che
costei gli procurava e dalla voglia dunque di punirla per la sua vita
dissoluta.
Vedremo inoltre come esista un certo numero di mostrologi,
cosiddetti Lottiani (anche qui vedasi l'Universo Mostrologico), che
credono che il futuro reo-confesso Giancarlo Lotti fosse l'unico
autore della catena di omicidi storicamente attribuiti al MdF.
Questa teoria che potremmo chiamare per comodità Teoria
Segnini dal nome del blogger che più degli altri l'ha fatta propria,
vede proprio il Lotti, nel 1968 sprovvisto di patente, girare in
motorino, pedinare e minacciare la Locci.
A sostegno di questa tesi c'è il fatto che la Locci per un certo
periodo aveva abitato alla Romola, frazione di San Casciano, paese
in cui vivevano i futuri compagni di merende. Qui il Lotti potrebbe
averla conosciuta o semplicemente aver sentito parlare di lei,
considerando che a causa della sua frenetica attività sessuale, la
Locci era molto chiacchierata. Invaghitosi di quella donna di facili
costumi, il Lotti avrebbe iniziato a seguirla anche dopo il suo
trasferimento a Lastra a Signa.
Contro questa ipotesi c'è la distanza fra Lastra a Signa e San
Casciano: circa 20 km da percorrere in motorino per seguire una
donna. Una distanza non impossibile ma sicuramente importante,
specie se consumata per diversi giorni di seguito. È anche vero che
in quegli anni, in motorino si percorrevano distanze considerevoli,
essendo molto meno diffuso l'utilizzo dell'automobile.
È opportuno a ogni modo sottolineare che non c'è alcuna prova che
la vicenda dell'uomo che pedinava la Locci in motorino fosse
davvero connessa al suo assassinio. L'unica cosa che si può
affermare è che nei giorni precedenti all'omicidio, Barbara Locci
(curiosamente come altre vittime femminili del futuro mostro di
Firenze) aveva dichiarato di temere o comunque di essere
infastidita da qualcuno.
● Abbiamo già fatto notare come per una curiosa coincidenza (o
forse no!) la Locci avesse abitato anni prima alla Romola, frazione
di San Casciano, dunque vicinissima a due di quelli che in seguito
sarebbero diventati i compagni di merende: Giancarlo
Lotti e Mario Vanni; mentre il futuro indagato Pietro
Pacciani all'epoca abitava ancora nel Mugello.
● A proposito di Pacciani, durante il processo a suo carico è emerso
come nel 1968 la sua ex fidanzata, Miranda Bugli, abitasse proprio
a Lastra a Signa, non troppo lontano dall'abitazione della famiglia
Mele e estremamente vicina a quella del Lo Bianco. Come vedremo
nel capitolo dedicato al Processo, questo ha portato la Procura di
Firenze a ipotizzare che Pacciani, ossessionato dalla sua ex
fidanzata, ne seguisse gli spostamenti, lasciandosi di volta in volta
alle spalle una scia di sangue.
Esiste, a questo proposito, un ristretto gruppo di Mostrologi,
cosiddetti Merendari, che ritengono che i futuri compagni di
merende, Pacciani e Vanni, si conoscessero e frequentassero Lastra
a Signa già nel 1968. Questa idea nasce dalle dichiarazioni rilasciate
dal testimone Lorenzo Nesi, amico di Pacciani e soprattutto del
Vanni. A oggi, tuttavia, non esistono riscontri documentali che
avvallino tali dichiarazioni, al contrario dalle ricerche effettuate non
risulta né una conoscenza fra Pacciani e Vanni all'epoca del delitto
di Signa, né una particolare frequentazione di quei luoghi da parte
del Pacciani.
● C'è un nutrito gruppo di mostrologi che ritiene che la Locci non
fosse una semplice donna di facili costumi che frequentava per
piacere personale svariati uomini, ma fosse una prostituta, seppur
di basso livello, che per necessità frequentava uomini in cambio di
denaro. A confermare questa teoria c'è da un lato l'eccessivo
numero di presunti amanti della Locci, dall'altro c'è un dialogo
avvenuto fra Antonio Lo Bianco e sua moglie Rosalia Barranca il
giorno prima del duplice omicidio e riportato proprio dalla donna
in sede di Processo a Stefano Mele. Secondo le dichiarazioni della
Barranca, suo marito le avrebbe chiesto se non le avesse fatto
piacere cambiare tenore di vita e avere molti più soldi a
disposizione. Al che la donna gli avrebbe risposto contrariata se per
caso si fosse messo in testa di fare il "magnaccia" e dunque di
togliersi dalla mente idee così pericolose. Il colloquio fra i due si era
chiuso con un nulla di fatto e il giorno dopo si era compiuto il
duplice omicidio.
● Una questione estremamente dibattuta riguarda come arrivò
Natalino Mele a casa dei De Felice, se da solo o accompagnato da
qualcuno. La distanza fra la casa e il luogo del delitto è di poco
superiore ai 2 km. In più era notte, il percorso accidentato e il
bambino era scalzo. Per questo gli inquirenti inizialmente non
reputarono possibile che il bambino avesse potuto compiere quel
tragitto da solo.
Sullo stato dei calzini di Natalino c'è stato per lungo tempo molta
incertezza. Da più parte si è sentito dire che i calzini fossero tutto
sommati puliti. Lo dichiarò esplicitamente anche l'avvocato Rosario
Bevacqua durante un'udienza del Processo Pacciani e c'è una
celebre foto a testimoniarlo; una foto che però non è ben chiaro
quando sia stata scattata. Questo ha portato molti mostrologi a
credere che il piccolo Natalino fosse stato portato in braccio da
qualcuno.
D'altro canto, l'avvocato Nino Filastò ha sempre sostenuto,
basandosi sui verbali dell'epoca, che i calzini del bambino fossero
sporchi e strappati e che dunque Natalino arrivò a piedi e da solo a
casa del De Felice. I verbali cui Filastò fa riferimento sono quelli
relativi alle dichiarazioni del carabiniere Mario Giacomini (il primo
tutore dell'ordine ad arrivare a casa dei De Felice) e dei
coniugi Marcello Manetti e Maria Sorrentino che abitavano sopra
la casa dei De Felice. In tali verbali si parla chiaramente di calzini
impolverati e strappati e se da un lato tale documentazione mette la
parola fine a qualsiasi disquisizione sullo stato dei calzini, dall'altro
non implica necessariamente che il piccolo Natale avesse compiuto
quel percorso solo e a piedi. Anche perché risulta con certezza che il
bambino non ebbe alcun bisogno quella sera di cure mediche
specifiche per graffi, tagli o problemi ai piedi.
Al Processo Pacciani di tanti anni dopo (1994) un trentatreenne
Natalino dichiarò di non ricordare assolutamente nulla di quella
fantomatica notte, di essersi svegliato all'ultimo sparo e di non aver
visto nessuno se non la mamma e il Lo Bianco morti. Alla domanda
dell'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti se avesse visto
il padre sul luogo del delitto quella notte, Natalino rispose di no,
ma ci fu un lungo e significativo momento di silenzio prima della
risposta.
In realtà Natalino, così come suo padre, ha cambiato talmente tante
versioni da risultare ancora oggi completamente inattendibile.
● La casa dei De Felice era praticamente confinante a quella di
tale Salvatore Vargiu. Questo particolare ha fatto nascere diverse
ipotesi probabilmente errate in seno ai cosiddetti Sardisti, che
spesso hanno confuso il nome di tale Salvatore Vargiu con quello di
Silvano Vargiu, servo pastore e in seguito si scoprirà amante di
Salvatore Vinci.
Confondendo i due personaggi o confidando in una loro prossima
parentela (che ammesso ci fosse, non era poi così prossima) alcuni
di questi mostrologi hanno a lungo ritenuto che la casa del De
Felice non fosse stata una destinazione casuale dove portare
Natalino ma accuratamente scelta da chi aveva organizzato ed
eseguito il delitto per poi poter controllare da vicino il bambino
(tramite lo stesso Salvatore Vargiu).
A oggi, appurata la mancanza di un legame (più o meno stretto) fra
i due Vargiu, questa ipotesi e vieppiù abbandonata.
● Da notare, come già detto, che Stefano Mele non fu in grado di
portare da solo i carabinieri sul luogo dell'omicidio. Al primo
tentativo sbagliò strada. Al secondo imboccò la strada corretta.
Arrivati in loco, gli fu data in mano una pistola ma stando alle
parole del colonello Dell'Amico: "Lì per lì mi diede l'impressione che
non sapesse neanche da che parte si impugnasse."
Più in generale la ricostruzione del Mele, pistola in pugno, presenta
alcune lacune, ma anche degli aspetti che potrebbero mostrarne
l'autenticità. Vediamo dunque quali sono i particolari che
indicherebbero la presenza del Mele sul luogo del delitto,
considerando però che saranno analizzati maggiormente nel
dettaglio in un successivo capitolo:
▪ il particolare della freccia accesa; il Mele dichiarò di averla
azionata per sbaglio mentre armeggiava con i cadaveri;
▪ il fatto che l'omicida avesse armeggiato coi cadaveri, quantomeno
con quello della Locci a cui potrebbero essere stati rimessi a posto
mutandine e gonna, come a volerne coprire le nudità, cosa che
farebbe pensare appunto al marito;
▪ l'esatto numero dei colpi di pistola esplosi (8) dichiarati
correttamente dal Mele (che in realtà disse semplicemente di aver
svuotato l'intero caricatore) quando invece i giornali parlavano di 6
colpi;
▪ il particolare della scarpa del Lo Bianco, trovata sul tappetino
davanti al sedile di guida, e correttamente riportato dal Mele;
▪ inoltre, da ricordare come il Mele fosse stato trovato dai
carabinieri, poche ore dopo l'omicidio, alle 7 del mattino con le
mani sporche di grasso, pur essendo rimasto il pomeriggio e la
notte precedenti a casa perché malato. Il grasso potrebbe aver avuto
lo scopo di coprire le tracce di polvere da sparo, andando a inficiare
la prova del guanto di paraffina;
▪ sempre in quel momento il Mele - a detta del brigadiere Matassino
- sembrava oltretutto già conoscere le sorti della moglie e del figlio.
Resta inteso che questa è la mera impressione di un carabiniere;
▪ infine, per completare il quadro che potrebbe indurre a pensare
che il Mele fosse stato sulla scena del crimine, è doveroso far notare
come l'aver sbagliato strada nell'arrivare sul luogo del delitto
potrebbe essere frutto del fatto che lui, non essendo automunito, fu
semplicemente portato da qualcuno (dai Vinci oppure dai propri
parenti) e dunque non sapesse bene come raggiungerlo.
● Durante il processo ai danni di Stefano Mele, sia la madre che la
moglie del Lo Bianco, la giovane signora Rosalia Barranca,
affermarono che durante i funerali del loro caro congiunto, la
moglie di Francesco Vinci si era avvicinata a loro chiedendo
perdono a nome del marito (Francesco) e del cognato (Salvatore).
Tale episodio venne però smentito dalla deposizione della stessa
moglie di Francesco Vinci, la signora Vitalia Meslis, la quale anzi
dichiarò che il giorno del funerale del Lo Bianco si era sì avvicinata
alla signora Barranca, ma solo per chiederle i motivi per cui il
proprio marito era stato tratto in arresto.
● Episodio simile avvenne anche al termine del processo e della
condanna di Stefano Mele, quando Giovanni Mele, fratello di
Stefano, si avvicinò alla moglie del Lo Bianco e, quasi scusandosi,
disse la sibillina frase: "Prima o poi a qualcuno che era con lei (la Locci,
NdA) sarebbe dovuto capitare; mi spiace sia successo a suo marito". Una
frase interpretata da alcuni come un'ammissione di colpevolezza da
parte della famiglia Mele, la quale aveva voluto eliminare una
donna che portava discredito sulla famiglia.
● Secondo la testimonianza della signora Rosa Lo Bianco, sorella
della vittima maschile, nei giorni immediatamente precedenti al
delitto, al bar La Posta a Lastra A Signa, Francesco Vinci
(notoriamente geloso della Locci) aveva sfidato Antonio Lo Bianco
a uscire con Barbara. A quanto risulta da tale testimonianza,
riportata agli atti nel 1982, fra i due uomini prese corpo una vera e
propria scommessa.
● Il detective Davide Cannella, a capo dell'agenzia
investigativa Falco, ritiene che alla base del delitto Locci/Lo Bianco
(commesso a suo dire dai fratelli Vinci) ci fossero soprattutto motivi
economici, in quanto la Locci sperperava (o aveva già sperperato)
con i suoi amanti i soldi dell'assicurazione avuti dopo un incidente
stradale che ebbero Stefano Mele e Francesco Vinci.
Mostrologia a Signa
È ovvio come sulla genesi di questo duplice omicidio le teorie siano
le più disparate. Vediamo brevemente quali ipotesi si possono
formulare, indipendentemente - almeno per ora - dalle implicazioni
con i successivi delitti attribuiti al MdF:
► Il delitto del 1968 è opera esclusivamente di Stefano Mele;
► Il delitto del 1968 è opera di Stefano Mele con la complicità di
uno dei fratelli Vinci;
► Il delitto del 1968 è opera di Stefano Mele con la complicità dei
suoi parenti, stanchi di sopportare il comportamento disonorevole
della Locci (cosiddetto delitto di clan);
► Il delitto del 1968 è opera di un sicario assoldato da qualcuno (ad
esempio dalla famiglia Mele o dai Vinci) per uccidere la Locci;
► Il delitto del 1968 è opera di uno spasimante ignoto della Locci
(magari colui che la pedinava e minacciava in motorino);
► Il delitto del 1968 è opera di un ignoto che voleva uccidere il Lo
Bianco e la Locci è rimasta casualmente coinvolta;
► Il delitto del 1968 è opera di uno psicopatico, che ha ucciso una
coppia qualsiasi in auto e che in seguito sarebbe divenuto famoso
come il MdF.
Rabatta

Data: Sabato, 14 Settembre 1974;


Orario: Circa le 23.45, secondo la testimonianza di una coppia che,
transitando su via Ponte d'Annibale, ha udito alcuni colpi di pistola;
Luogo: Borgo San Lorenzo, località Fontanine di Rabatta;
Vittime: Pasquale Gentilcore, 19 anni; Stefania Pettini, 18 anni;
Automobile: Fiat 127 blu targata FI 598299;
Fase Lunare: Due giorni prima del Novilunio: spicchio di luna
calante.

Prima del delitto


La sera del 14 settembre 1974, verso le 21.15, il giovane Pasquale
Gentilcore lasciò sua sorella Maria Cristina davanti all'ingresso
della discoteca Teen Club di Borgo San Lorenzo. Le disse che
sarebbe passato a riprenderla verso mezzanotte. Quindi raggiunse
la fidanzata, Stefania Pettini, presso la di lei abitazione sita in
Pesciola di Vicchio.
Erano all'incirca le 21.30 quando Stefania salì sull'automobile di
Pasquale. I due percorsero un breve tratto di strada per andare ad
appartarsi nei pressi del fiume Sieve in località Rabatta, frazione a
metà strada fra Borgo San Lorenzo e Vicchio.
Durante questo tragitto i ragazzi non furono sicuramente seguiti:
una giovane testimone dichiarò infatti di averli visti attraversare il
passaggio a livello di Pesciola e che questo si era chiuso alle loro
spalle senza che nessun'altra vettura fosse sopraggiunta dopo di
loro.

Scena del crimine


La coppia fu aggredita verosimilmente in maniera proditoria
mentre amoreggiava in macchina. L'assassino esplose
complessivamente otto colpi di pistola sui due giovani, quindi
impugnò il coltello.
Il ragazzo venne raggiunto da 5 colpi di arma da fuoco e da 5 colpi
d'arma bianca inferti post-mortem. Fu ritrovato in auto con solo gli
slip addosso.
La ragazza venne raggiunta da 3 colpi d'arma da fuoco non mortali
che attinsero le gambe e l'addome, venne estratta ancora viva e
presumibilmente cosciente dalla macchina, quindi colpita con 96
coltellate, di cui le prime tre mortali, talmente violente da intaccare
lo sterno; le altre furono abbastanza superficiali, alcune definite
nulla più che semplici punture. La maggior parte di queste
andavano a circoscrivere in maniera leggera la zona pubica e la
zona mammaria. Atto finale dell'omicida fu infilare un tralcio di
vite nella vagina della ragazza; tale tralcio venne semplicemente
appoggiato, senza esercitare pressione o violenza, non avendo
provocato alcuna lesione sulle pareti vaginali di Stefania. La povera
ragazza venne ritrovata completamente nuda, sdraiata per terra,
con la testa all'altezza del tubo di scappamento della macchina, le
braccia e le gambe divaricate, in una posizione quasi sguaiata.
L'automobile venne rinvenuta con la portiera destra aperta; la
portiera sinistra era invece chiusa con il finestrino completamente
infranto.
Dopo il delitto
I cadaveri furono scoperti la mattina dopo, domenica 15 settembre,
da un contadino del luogo, tale Pietro Landi, il quale sconvolto
dallo scempio sul corpo di Stefania, trovò rifugio e assistenza
presso l'abitazione nelle immediate vicinanze di Francesco Fusi,
anch'egli contadino.
Fu immediatamente avvertita la caserma dei carabinieri di Borgo
San Lorenzo, comandata all'epoca dal maresciallo Michele Falcone.
Le prime indagini si concentrarono principalmente su tre
personaggi sospetti della zona.
Nello specifico:

1. Un sedicente mago di nome Bruno Mocali, all'epoca


cinquantatreenne di Scarperia, cui il giorno precedente al delitto (13
settembre) si era rivolto il giovane Gentilcore per problemi di salute
di tipo epatico. Il Mocali, sospetto guardone, subì
nell'immediatezza dei fatti una perquisizione che non diede alcun
esito.

2. Un ventottenne di Borgo San Lorenzo, tale Giuseppe


Francini che, secondo la vulgata mostrologica, si era auto-accusato
del duplice omicidio, salvo poi rivelarsi un mitomane.
Volendo però fare chiarezza su quest'ultimo punto, è bene precisare
che in realtà il suddetto Francini non si era auto-accusato del
delitto, ma il giorno successivo si era presentato dai Carabinieri di
Borgo San Lorenzo per dichiarare che dalla sua automobile FIAT
850 era sparito un cacciavite e temeva che tale improvvisata arma
fosse stata utilizzata per commettere il duplice omicidio
(inizialmente infatti gli inquirenti pensavano che la coppia fosse
stata uccisa a colpi di cacciavite o di punteruolo). Durante la
tribolata deposizione, il Francini rivelò fra le lacrime di avere
sofferto in precedenza di disturbi psichici e di essere perseguitato
da qualcuno, senza però fornire ulteriori dettagli in merito. Il giorno
successivo (16 settembre) la casa del Francini venne perquisita ma
non venne trovato nulla di particolarmente significativo.
In seguito, nel febbraio dell'anno successivo, furono condotte
ulteriori indagini sia sul Francini, sia sulla sua famiglia. Tale
indagini tuttavia non portarono a nulla di particolarmente rilevante
(per maggiore dettagli vedasi il capitolo Mostrologia minore).

3. Infine, sulla base di alcune segnalazioni, venne dapprima


attenzionato, in seguito arrestato un quarantenne calabrese, Guido
Giovannini, personaggio estremamente sospetto per via dei suoi
trascorsi da guardone ed esibizionista nella zona del delitto.
A far convergere i sospetti sul Giovannini furono:
▪ la testimonianza di due sorelle, Marisa e Maria Villani, che
dichiararono ai carabinieri di aver notato in alcune occasioni il
soggetto in questione nella zona del delitto in atteggiamenti osceni;
▪ poco dopo la mezzanotte del 17 settembre arrivò una telefonata
alla questura di Firenze di un uomo che, seppur con estrema
titubanza, si identificò in Gino Clusini di Scandicci. Costui
denunciò gli atteggiamenti estremamente intimidatori e molesti di
un guardone nei confronti delle coppie che si appartavano nelle
campagne attorno a Borgo San Lorenzo. Grazie alle indicazioni
fornite dal Clusini, tale guardone venne appunto identificato nel
Giovannini.
Il Clusini venne poi convocato in questura per chiarire la sua
posizione. Ivi dichiarò di avere una fidanzata mugellana e di essersi
talvolta apparato nelle campagne di Borgo; ribadì le sue accuse,
fornendo i nominativi di altre persone (tali Giampiero Giannini e
Giuseppe Barbugli) che avevano avuto sfortunati incontri con il
Giovannini e dunque avrebbero potuto corroborare la sua
testimonianza. Ascoltati in merito, il Giannini e il Barbugli
confermarono le dichiarazioni del Clusini;
▪ Una lettera anonima, imbucata a Firenze il 16 settembre e arrivata
alla caserma dei carabinieri di Borgo San Lorenzo la mattina del 17,
denunciava infine comportamenti osceni, molesti o addirittura
violenti da parte di guardoni nei confronti di coppie appartate nelle
campagne di Rabatta. In questa missiva, firmata "B.B. Firenze",
veniva segnalata l'automobile del responsabile di questi
atteggiamenti intimidatori, una 127 bianca con targa corrispondente
a quella del Giovannini.
Ce n'era probabilmente abbastanza per far scattare, quello stesso 17
settembre, un'immediata perquisizione a casa del sospettato, il
quale nel frattempo aveva lasciato Borgo San Lorenzo per questione
lavorative. La perquisizione venne effettuata alla presenza di sua
moglie, la signora Anna Bani. Nell'occasione vennero sequestrati
una roncola macchiata presumibilmente di sangue e alcune
carabine non dichiarate. Il giorno successivo, il Giovannini venne
arrestato. In seguito gli esami accertarono che le macchie ematiche
sulla roncola erano di tipo animale, inoltre un paio di testimonianze
scagionarono del tutto il pur molesto guardone, ben presto
giudicato estraneo ai fatti e prosciolto da ogni accusa.
Da segnalare, a questo proposito, che in una recente puntata della
trasmissione La Notte del Mistero dell'emittente Florence
International Radio, la dottoressa Lisa Sequi ha fatto notare come
la lettera firmata "B.B. Firenze" che accusava il Giovannini,
presentava uno stile poliziottesco e un particolare errore di
spaziatura nell'uso delle virgole. Tale errore è presente in maniera
ricorrente anche in due verbali redatti nella caserma dei carabinieri
di Borgo San Lorenzo, uno di questi relativo alla perquisizione del
Giuseppe Francini. Inutile precisare che l'idea sottesa è che a
vergare la lettera anonima e i suddetti verbali fosse stata la stessa
mano.

Particolarità a Rabatta
● Inizialmente gli inquirenti pensarono a un delitto commesso
esclusivamente con arma bianca. Solo in seguito, nei laboratori di
medicina legale, sui cadaveri dei ragazzi furono scoperte le ferite
prodotte dai colpi d'arma da fuoco. Allertati dai medici legali, gli
inquirenti tornarono sul luogo del delitto (dove la macchina era
stata nel frattempo rimossa) alla ricerca dei bossoli, trovandone in
un numero minore rispetto agli otto colpi esplosi.
Risultò che a sparare era stata una Beretta Calibro 22 Long Rifle
(LR) Serie 70. Nessuno all'epoca sapeva ancora che la stessa arma
aveva già sparato sei anni prima a Signa per uccidere un'altra
coppia.
● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a palla
ramata con impresso sul fondello la lettera H, esattamente lo stesso
tipo di proiettili, provenienti dalla stessa partita del duplice
omicidio di sei anni prima.
● La perizia balistica per il delitto del 1974 fu eseguita dal
colonnello Innocenzo Zuntini, lo stesso che aveva eseguito la
perizia balistica per il delitto del 1968. Tuttavia Zuntini non collegò
i due duplici omicidi che pure coinvolgevano entrambi una coppia.
Questo a dimostrazione di come il delitto del 1968 venisse
considerato completamente risolto o comunque sicuramente
maturato in ambito familiare.
● Dato per certo che Stefania e Pasquale si appartarono poco dopo
le 21.30 e che verosimilmente l'attacco del killer con l'arma da fuoco
avvenne fra le 23.30 e mezzanotte, c'è un buco di oltre due ore
durante il quale nessuno ha visto o saputo più nulla dei due
ragazzi. Questo ha portato alcuni mostrologi a ipotizzare che ci
possa essere stata una lunga interazione precedente all'assalto fra
assassino e vittime. Pur essendo questa ipotesi coerente con alcuni
particolari della scena del crimine, la maggior parte della odierna
mostrologia ritiene tuttavia che l'attacco abbia colto le vittime di
sorpresa e che il lungo lasso di tempo precedente all'assalto sia stato
trascorso dalla coppia in completa intimità, forse cercando una
riappacificazione dopo un periodo turbolento che la coppia stessa
aveva vissuto.
● Come accennato nel punto precedente, Stefania e Pasquale
venivano da un periodo piuttosto travagliato da un punto di vista
sentimentale. Circa un anno prima, precisamente nell'ottobre del
1973 quando lavorava come segretaria presso una ditta di
autotrasporti di Barberino del Mugello, Stefania aveva conosciuto
un tale Stefano Galanti, un ventitreenne studente di Barberino. I
due ragazzi avevano avuto un breve flirt, durato circa una ventina
di giorni. In quel lasso di tempo il Galanti aveva sovente
accompagnato Stefania, al termine del proprio turno di lavoro, da
Barberino a Pesciola.
Ascoltato dagli inquirenti dopo il delitto, il Galanti dichiarò di non
aver mai avuto rapporti completi con Stefania che anzi gli aveva
confidato di essere ancora vergine e difatti gli era sembrata "poco
esperta" durante i loro momenti di intimità. Galanti dichiarò anche
di non essere a conoscenza di altre relazioni che Stefania avrebbe
intrattenuto in quel periodo, tranne quella ufficiale con il suo
fidanzato, Pasquale. Inoltre affermò che non ebbe mai la sensazione
di essere seguito quando era con Stefania, né quando si
appartavano aveva mai notato la presenza di guardoni o avvertito
situazioni di pericolo.
Gli inquirenti appurarono che il Galanti per la sera del delitto aveva
un alibi inattaccabile. Inoltre scoprirono anche che altre due
persone accompagnavano talvolta la Pettini da Barberino a Pesciola:
uno di questi era tale Ovidio Cartucci, cinquantenne impiegato in
una ditta di giocattoli, che Stefania aveva presentato al Galanti
stesso come un vecchio amico di famiglia.
Oltre al breve flirt col Galanti, nell'agosto del 1974, vale a dire circa
un mese prima del delitto, la giovane Stefania era stata in vacanza a
Rimini con le sue cugine, Tiziana Bonini e Carla Bartoletti, e qui
aveva conosciuto un tale Andrea di Bergamo, per cui
verosimilmente aveva preso una tipica cotta da diciottenne. Stando
al racconto della cugina Tiziana, in un'occasione, durante un ballo,
Stefania aveva manifestato atteggiamenti che denotavano una certa
intimità con questo ragazzo bergamasco. Ciò aveva causato la
gelosia del Gentilcore che aveva raggiunto Stefania a Rimini e dato
vita a una rumorosa scenata.
È dunque possibile che quando, qualche settimana dopo, la sera di
sabato 14 settembre, i due ragazzi si appartarono in automobile a
Rabatta, avessero parecchio di cui parlare e chiarirsi.
● I vestiti della coppia furono trovati perfettamente piegati
all'esterno della macchina, a circa tre metri dallo sportello destro ai
piedi di una vite. Tra questi vestiti c'era anche un paio di pantaloni
che il Gentilcore aveva ritirato da una lavanderia di Firenze.
Rimane ancora oggi difficile stabilire con certezza come fossero
finiti quei vestiti in quel punto. Possiamo limitarci a fare tre ipotesi:
1. i ragazzi si erano spogliati e avevano poggiato di loro spontanea
volontà con estrema cura i vestiti all'esterno della macchina prima
di concedersi alle loro effusioni amorose. Pur non sapendo bene per
quale fine, questa rimane l'ipotesi più probabile;
2. i ragazzi erano stati colti di sorpresa dall'assalitore ma non uccisi
subito. Erano stati dunque obbligati a spogliarsi e, tenuti sotto tiro,
avevano poggiato i vestiti all'esterno. Questa ipotesi potrebbe
contrastare con la ricostruzione dell'assalto che vuole le due vittime
colte di sorpresa, ma non è affatto improponibile. Il celebre
avvocato Nino Filastò propende, ad esempio, per questa idea;
3. era stato lo stesso assassino, dopo aver compiuto l'eccidio, a
prendere i vestiti dei ragazzi dall'abitacolo della vettura e posarli
con cura all'esterno. Questa ipotesi risulta - a parere di chi scrive -
poco verosimile non tanto perché è improbabile che l'assassino si
preoccupasse di riporre i vestiti dei ragazzi con così tanta
attenzione, quanto perché questi risultavano assolutamente intonsi,
senza la più piccola macchia di sangue.
● Sappiamo con certezza che al termine dell'azione di sparo, la
povera Stefania era ancora viva. Vi sono meno certezze sulle sue
condizioni di salute, tuttavia, i colpi che l'attinsero oltre a non
essere mortali non sembravano tali da produrre ferite di eccezionale
gravità. È molto probabile dunque che la ragazza non solo fosse
ancora cosciente nel momento in cui il killer cessò di sparare, ma
anche in grado in un certo qual modo di difendersi. A questo
proposito, fra le ferite rinvenute sul suo corpo c'era un graffio
all'altezza del mento, appena sotto il labbro inferiore, che è stato
univocamente interpretato come un'unghiata involontaria
dell'assassino nel tentativo di tapparle la bocca. Questa ferita
dimostrerebbe sia che al termine degli spari la Pettini era quanto
meno in grado di urlare, sia che in questa occasione il killer non
indossava guanti.
● Le piante dei piedi di Stefania sembrano, almeno a giudicare dalle
foto, sporche di fango. Questo secondo alcuni mostrologi avvalora
la teoria secondo cui la povera ragazza avrebbe provato persino a
fuggire scalza dal suo assalitore, una volta terminata l'azione di
sparo. Ma di questo particolare non si fece menzione nell'intero
Processo Pacciani, né ha alcuna base di tipo documentale e può
essere tranquillamente considerato alla stregua di mera
suggestione.
● IMPORTANTE: Come vedremo nel paragrafo dedicato
alle "Teorie" e come ampiamente condiviso da buona parte della
mostrologia odierna, in questo omicidio è ipotizzabile una
conoscenza pregressa fra vittima femminile e carnefice, anche solo
unilaterale. Questo potrebbe implicare che il killer avesse puntato e
deciso di uccidere proprio quella coppia.
Dando momentaneamente per buona questa possibilità e dato per
assodato che - come visto - l'automobile del Gentilcore non venne
seguita, è lecito domandarsi come assassino e vittime si fossero
ritrovati sul luogo del delitto. Possiamo valutare tre ipotesi:
1. sapendo dove Pasquale e Stefania erano soliti appartarsi, quel
sabato sera l'assassino si era appostato con un certo anticipo in loco
nella speranza di veder arrivare la giovane coppia;
2. l'assassino arrivò successivamente alla coppia sul luogo del
delitto; forse vide uscire Stefania da casa della zia e - mosso da un
raptus di gelosia - era corso ad armarsi e in seguito era andato a
cercarli nella zona in cui più o meno sapeva si appartavano; o forse
il killer si aspettava di incontrare la giovane coppia al TEEN CLUB,
ma non vedendola arrivare, anche in questo caso andò a cercarla
nella zona in cui sapeva si appartavano;
3. l'assassino si trovò a passare dal luogo dell'omicidio per puro
caso, vide e riconobbe l'automobile del Gentilcore e, mosso da un
impulso di gelosia nei confronti di Stefania, decise di attaccare.
Ognuna di queste ipotesi presenta una discreta varietà di
sfaccettature. Se prendiamo per buona l'ipotesi 1, dobbiamo
pensare che l'assassino rimase almeno un paio di ore a spiare la
coppia prima di passare all'attacco oppure dobbiamo ipotizzare che
si palesò molto prima dell'attacco e, armi in pugno, ebbe una
qualche interazione con la coppia prima di passare all'azione
omicidiaria vera e propria.
Se ipotizziamo invece che l'assassino arrivò alle Fontanine di
Rabatta dopo la coppia, dobbiamo considerare che la
conformazione del luogo rende piuttosto difficile avvicinarsi
all'automobile senza essere visti. Dunque o la coppia era talmente
impegnata nella propria intimità e fra effusioni d'amore e musica
dal mangianastri, non si accorse di nulla fino agli spari o quasi,
oppure si dovrebbe optare per un'ipotesi alla Filastò: un killer in
divisa, dunque un'autorità, che si avvicina all'automobile come per
controllare i documenti e poi improvvisamente fa partire l'azione di
sparo.
A ogni modo, le ipotesi 1 e 2 prevedono che l'assassino arrivò alle
Fontanine di Rabatta con il chiaro intento di uccidere la giovane
coppia. L'ipotesi 3 prevede invece un incontro casuale e in questo
caso nel killer scattò solo in quel momento l'impulso omicida.
Dunque, o dovette andare a recuperare le proprie armi oppure
erano oggetti che portava sempre con sé.
L'ipotesi 3, sempre in un eventuale contesto di conoscenza fra
vittima e carnefice, è quella che ci sentiremmo di appoggiare con
minor probabilità.
● L'abilità come sparatore del killer in questo delitto, almeno
secondo la tesi ufficiale, non risulta così efficace. Ufficialmente si
ritiene infatti che la Pettini sia stata finita a coltellate perché
l'omicida aveva esaurito i proiettili senza essere riuscito ad
ucciderla.
Il celebre criminologo Francesco De Fazio parlò, durante
un'udienza del Processo Pacciani, di un assassino che non aveva
ancora piena consapevolezza del potere d'arresto della propria
pistola; evidenziò inoltre un miglioramento come sparatore negli
omicidi che commise successivamente. Questa affermazione
ovviamente contrasta con l'idea che vuole l'autore dei delitti
appartenente alle forze dell'ordine o un ex componente di un
qualche apparato militare (questa è la cosiddetta Teoria Filastò, dal
nome del celebre avvocato che più di altri l'ha fatta propria).
● In relazione al punto precedente, è corretto riportare la risposta
del generale Ignazio Spampinato, esperto balistico, alla domanda
dell'avvocato di parte civile Aldo Colao durante il Processo
Pacciani sull'abilità dimostrata nei delitti dall'assassino con l'arma
da fuoco. Secondo il militare risultava difficile valutare l'abilità
dello sparatore in quanto i colpi venivano solitamente esplosi da
distanza piuttosto ravvicinata su vittime completamente colte di
sorpresa con una pistola di modesto calibro, facile, maneggevole ed
estremamente efficace da una distanza limitata.
● Ancora oggi, risulta molto dibattuta la dinamica del delitto, in
special modo da quale lato dell'automobile il killer ebbe modo di
sparare i primi colpi. Il colonnello Innocenzo Zuntini, nella sua
perizia, ipotizzò che l'attacco fosse avvenuto dal lato passeggero,
quindi dalla destra dell'autmobile e a favore di questa ipotesi
deporrebbe la frantumazione del finestrino verso l'interno della
macchina. Tuttavia, oggi, nella maggior parte degli ambienti
mostrologici si tende a dar maggior credito a un attacco avvenuto
da sinistra, come testimonierebbero i bossoli critrovati all'altezza
della ruota posteriore del lato conducente dell'automobile.
Giova tuttavia ricordare che quando i bossoli vennero repertati, la
vettura era già stata portata via e che verosimilmente molte persone
avevano calpestato e inquinato la scena del delitto.
● A proposito della dinamica del delitto, il criminologo Enea
Oltremari che recentemente si sta interessando alla vicenda, ha
fatto notare quella che può essere un'importante differenza fra i
primi due omicidi storicamente attribuiti alla cosiddetta serie del
Mostro di Firenze, quello del 1968 a Signa e quello del 1974 a Borgo
San Lorenzo. Nel 1968, contro una coppia matura e decisamente più
scafata (Locci e Lo Bianco erano entrambi sulla trentina ed avevano
frequentazioni con persone che bene o male gravitavano attorno ad
ambienti più o meno delinquenziali), il killer si mostrò freddo e
deciso, arrivando ad aprire lo sportello e a far fuoco contro la
coppia in maniera diretta, senza frapporre fra sé e le vittime nessun
tipo di muro. Nel 1974, invece, contro una coppia giovanissima
(Pettini e Gentilcore erano entrambi poco più che maggiorenni) e
decisamente meno avvezza a frequentare situazioni e personaggi
loschi, il killer si mostrò o si sarebbe mostrato più impacciato: sparò
attraverso il finestrino, frapponendo distanza fra lui e le vittime;
non riuscì ad uccidere la ragazza con l'arma da fuoco e fu dunque
costretto a ricorrere al coltello per uccidere la Pettini (unico caso, a
parte il delitto di Scopeti in cui il mostro uccide una sua vittima col
coltello). Questo, sempre secondo l'idea di Oltremari, porta a
pensare a due assassini diversi, dunque di conseguenza a due
delitti con motivazione diverse (il primo maturato in ambiente
familiare, dal secondo in poi di tipologia maniacale).
● IMPORTANTE: Un punto su cui porre attenzione riguarda il
numero di colpi esplosi dal MdF in questa occasione, che sappiamo
essere otto. Si suole infatti spesso sostenere che il mostro terminò i
colpi senza esser riuscito ad uccidere la Pettini. Il senno di poi,
tuttavia, ci dice che in tre delitti successivi il mostro sparerà nove
colpi di arma da fuoco contro le vittime, dunque è certo che la
pistola del MdF potesse contenere (almeno) nove colpi:
presumibilmente otto nel caricatore e uno in canna.
A questo punto abbiamo tre possibilità da valutare:
1. il MdF, giovane e inesperto, non aveva ancora scoperto la
possibilità di inserire un ulteriore colpo in canna, quindi in questo
delitto la pistola aveva esclusivamente otto proiettili a disposizione,
terminati i quali senza riuscire ad uccidere la Pettini, aveva
effettivamente esaurito i colpi;
2. come sostiene il criminologo Valerio Scrivo, a Rabatta il killer
non aveva finito i colpi, ma volontariamente aveva estratto viva la
Pettini dall'auto per ucciderla con il coltello;
3. pur claudicante e ferita da tre colpi d'arma da fuoco, la Pettini
aveva provato la fuga; il killer aveva reputato una scelta migliore
inseguirla e finirla col coltello, piuttosto che provare a fermarla
sparandole dietro l'ultimo colpo di pistola.
Resta inteso chq queste rimangono pure e semplici supposizioni,
specie se - come parte dell'odierna mostrologia ritiene - è possibile
che il killer portasse con sé durante i suoi assalti alle coppie un altro
cariatore, da utilizzare per ogni evenienza.
● Le sevizie sul corpo di Stefania furono così feroci da provocare lo
svenimento di un carabiniere della scorta mentre venivano
proiettate in aula le foto del cadavere durante la deposizione del
medico legale, il dottor Mauro Maurri, in un'udienza del processo
Pacciani (26 Aprile 1994).
● Come visto, l'assassino infilò un tralcio di vite nella vagina della
povera Stefania senza esercitare alcuna pressione. Molti hanno visto
nell'utilizzo della pianta di vite per seviziare e umiliare la ragazza
un gesto di chiara matrice esoterica. In realtà è possibile che il
feroce omicida si sia servito di un tralcio di vite perché a ridosso
dell'automobile dei ragazzi c'era proprio una vigna e quindi abbia
facilmente attinto all'oggetto a lui più vicino per compiere la
macabra penetrazione.
● IMPORTANTE: La borsa di Stefania venne trafugata e il suo
contenuto sparso per terra. Inoltre, l'assassino andò via portandosi
dietro borsa e reggiseno della ragazza e lasciandoli a circa 250 metri
di distanza dal luogo del delitto e a 50 metri l'uno dall'altra. A
segnalare il luogo dove sarebbe stato possibile ritrovare la borsa fu
una telefonata anonima giunta ai carabinieri di Borgo San Lorenzo
il giorno dopo verso le 18.30. Appallottolato all'interno della borsa
venne rinvenuto il maglione della Pettini. Da notare che sia borsa
che maglione erano puliti, non presentando alcuna macchia di
sangue.
Durante un'udienza del Processo Pacciani, la mamma di Stefania, la
signora Bruna BoniniI, dichiarò che la borsa della figlia le fu
restituita dai carabinieri solo un paio d'anni dopo il delitto ed era
completamente vuota.
● Sono molteplici le teorie riguardo sia le motivazioni che spinsero
l'assassino a portarsi dietro borsa e reggiseno della vittima
femminile per poi lasciarli a circa 250 metri di distanza dal luogo
del delitto, sia le modalità con cui i suddetti oggetti siano stati
abbandonati dall'omicida. Il killer, ad esempio, potrebbe aver avuto
desiderio di portar con sé qualche oggetto della ragazza, salvo poi
ripensarci strada facendo; oppure, secondo altre teorie, avrebbe
agito in tal modo per mettere in atto una specie di depistaggio.
Per quanto riguarda le modalità di abbandono, gli oggetti furono
ritrovati in una scarpata sulla destra (considerando il senso di
marcia di una vettura) oltre il bordo della strada. Sembra difficile
credere che siano stati scagliati da un'automobile in corsa, in quanto
non sarebbe stato agevole per l'assassino lanciarli oltre il finestrino
destro della vettura. Hanno dunque preso piede altre teorie, ad
esempio che l'assassino fosse fuggito a piedi e avesse abbandonato
la borsetta durante il tragitto, oppure che fosse fuggito su un
ciclomotore e da tale mezzo non avesse avuto difficoltà a lanciare in
rapida successione borsa e reggiseno oltre il bordo della strada (e
secondo molti questa tesi ben si adatterebbe alla posizione della
borsa fra i rovi).
Si noti, a questo proposito, come parlando del duplice omicidio di
Signa si era accennato al fatto che la Locci nei giorni precedenti
all'omicidio fosse stata importunata da qualcuno in motorino.
Ricordiamo, infine, che sia Francesco Vinci, sia Giancarlo Lotti,
entrambi futuri indagati per i delitti del MdF e secondo alcune
correnti mostrologiche (quella Sardista e quella Lottiana) i reali
autori di questi delitti, all'epoca si muovevano proprio su un
ciclomotore.
● Secondo quanto riporta il già citato avvocato Nino Filastò, sul
cruscotto dell'automobile della coppia venne ritrovato il libretto di
circolazione della vettura. Questo ha portato molti a ritenere che
l'omicidio di Rabatta ben si adatterebbe alla teoria dell'assassino in
divisa proposta dallo stesso Filastò. Come vedremo, un particolare
analogo verrà riscontrato anche nei due delitti successivi.
È bene tuttavia precisare che agli atti il particolare del libretto non è
riscontrabile; l'unica fonte al momento risulta essere proprio quella
del Filastò.
● Nel mese di giugno del 1974, dunque circa tre mesi prima del
delitto, la Pettini aveva dichiarato alle cugine (le già citate Tiziana
Bonini e Carla Bartoletti) di aver incontrato una persona molto
poco piacevole che l'aveva seguita dalla Stazione Centrale di
Firenze fino a Novoli, dove lei lavorava. Quest'uomo aveva circa 35
anni e un aspetto che le aveva incusso timore. Purtroppo, la
testimonianza fornita dalle due ragazze agli inquirenti non fornì
ulteriori spunti investigativi e non vi furono ulteriori riscontri sul
tema.
Da notare che nel verbale viene espressamente citato il quartiere
Novoli, dove aveva sede la "Magif" presso cui effettivamente aveva
svolto il suo ultimo lavoro Stefania. Dunque questo episodio era
sicuramente avvenuto dopo che la ragazza aveva cambiato lavoro,
passando dalla "New-Flex", quartiere Isolotto, alla "Magif" in via
Stradivari, quartiere Novoli.
● A proposito dei lavori svolti, la Pettini aveva lavorato dal
settembre 1973 al gennaio 1974 a Barberino di Mugello come
segretaria presso l'azienda di autotrasporti "Cammelli", dove - come
visto - aveva conosciuto il Galanti. Dal gennaio 1974 a
giugno/luglio 1974 aveva lavorato presso l'azienda "New-Flex", in
zona Isolotto a Firenze. Il quartiere Isolotto è confinante con il
comune di Scandicci, che curiosamente qualche anno dopo sarebbe
divenuto appunto celebre per i delitti commessi dal Mostro. Infine,
Stefania era stata appunto assunta come fatturista dalla "Magif" in
Via Stradivari a Firenze.
● Come emerge dalla retrospettiva sul delitto di Rabatta, curata dal
ricercatore e studioso Francis Trinipet, il giorno prima del delitto
(13 settembre 1974), la Pettini aveva fatto alcune guide con
l'istruttore Alfredo Lombardi. L'istruttore ebbe modo di dichiarare
che quel pomeriggio aveva avuto la sensazione che la loro vettura
fosse seguita, ma anche qui non ci sono ulteriori riscontri in merito.
● Negli ambienti mostrologici circola la voce che il pomeriggio
stesso del duplice omicidio, la Pettini avesse dichiarato a un'amica
(forse una delle due cugine, forse la Daniela Lisi) di essere stata
sgradevolmente importunata da un uomo. L'arrivo della mamma di
Stefania aveva interrotto il discorso fra le due ragazze. Tuttavia, nei
verbali non vi è traccia di questo particolare e anche nel processo
Pacciani non vi fu alcun riferimento a questo episodio. Può essere -
almeno fino a prova contraria - dunque derubricato a semplice
diceria mostrologica.
● Secondo la testimonianza di tale Walter Calzolai, che si trovava a
transitare in automobile con alcuni amici sulla Sagginalese verso
mezzanotte e mezza del 15 settembre (quindi a delitto appena
commesso), c'era un'automobile ferma, a fari spenti, con la luce
interna accesa e la parte anteriore rivolta verso l'imbocco di una
strada campestre distante circa 50 metri dal tratturo che conduceva
al luogo del delitto. Tale vettura venne identificata come
una Simca, una BMW o una Giulia di colore grigio. Nessuno dei
presenti notò se ci fossero persone all'interno.
Considerando che l'azione omicidiaria era iniziata all'incirca tre
quarti d'ora prima e che sicuramente (causa 96 coltellate inferte alla
Pettini) si era protratta per un discreto lasso di tempo, non è
improbabile pensare che l'assassino fosse non lontano dal luogo del
delitto quando transitò l'automobile del Calzolai e che forse la
vettura color grigio potesse effettivamente avere una relazione con
il delitto.
● Un'altra testimonianza che potrebbe essere interessante è quella
di una coppia di amici, Paolo Darici e Francesco Lippi, che mentre
transitavano sulla Sagginalese la mattina successiva verso le ore
7.15 per andare a funghi, notarono ferme in località Fontanine di
Rabatta dapprima un'automobile scura con una persona a bordo
(verosimilmente l'automobile del Gentilcore) e successivamente
una Giulia color "verdolino", targata Napoli, con tre persone
all'interno e una all'esterno, la quale alla vista del motocarro
(comunemente detto treruote) del Darici, si affrettò a voltare la
testa, come per non essere visto. La persona all'esterno venne
descritta come un giovane dai capelli ricci e biondi. Secondo la
testimonianza del Darici e del Lippi, la distanza fra le due
automobili in linea d'area era di circa 60 metri.
Da notare che all'ora in cui avvenne questo avvistamento, il signor
Landi era già arrivato o forse era in procinto di arrivare sulla scena
del delitto e scoprire i cadaveri.
● Fra le varie testimonianze che arrivarono ci fu quella di una
coppia solita appartarsi in zona Fontaine, che dichiarò di aver avuto
qualche giorno prima del delitto un acceso diverbio con un
guardone che loro definirono sardo (particolare questo ovviamente
molto importante), ma che, sulla base del numero di targa fornito
dalla coppia, altri non era che il già citato Guido Giovannini,
calabrese.
● A proposito di sardi, in giorni molto prossimi al delitto, nel
Mugello si aggirava curiosamente (o forse no) Francesco Vinci, già
indagato per il delitto di Signa e futuro indagato per i delitti del
MdF. È bene subito precisare che, a differenza di quanto si sente
dire in quasi tutti gli ambienti mostrologici, il Vinci non era a Borgo
San Lorenzo in quei giorni, ma a Barberino del Mugello, una
ventina di chilometri a nord-ovest. È invece vero che il Vinci fosse
inferocito con l'amante perché mentre lui era in carcere, questa era
fuggita da casa del Vinci stesso ed era ritornata a Barberino
nell'abitazione della propria mamma. Qui Francesco Vinci era
andato appunto a cercarla e, non trovandola, aveva dato vita e una
clamorosa sfuriata (per maggiori dettagli, vedasi il capitolo
dedicato appunto a Francesco Vinci).
● In quello stesso periodo (Settembre 1974) si trovava a Firenze per
svolgere il servizio militare, un altro futuro sospettato per i delitti
del Mostro, vale a dire il dottor Francesco Narducci (vedasi
capitolo Il medico di Perugia), la cui caserma era dalle parti di via
Stradivari, la via in cui da poco lavorava la Pettini.
Da segnalare che nella stessa zona viveva anche Susanna Cambi,
quasi coetanea della Pettini e vittima del Mostro di Firenze nel 1982
a Calenzano.
Subito dopo il settembre 1974, Narducci si fece riformare e tornò di
fatto nella sua Perugia.
N.B: La Pettini era del 1956, la Cambi del 1957. Le due ragazze
avevano quindi 18 e 17 anni nel 1974. Narducci invece ne aveva 25
(era del 1949).
● La sera del delitto, a casa degli zii di Stefania (i genitori di Carla
Batoletti), casa praticamente confinante con quella della famiglia
Pettini, c'erano alcuni parenti provenienti da Campi Bisenzio. Nello
specifico era presente il signor Gino Chini (nato a Vicchio nel 1926
e residente appunto a Campi Bisenzio) e la moglie.
● Nel maggio del 1951, Vincenzo Gentilcore, padre della vittima
maschile, era stato condannato a otto anni di reclusione per
omicidio preterintenzionale: aveva infatti ucciso con una sassata
una ragazza dopo un litigio scaturito dallo sconfinamento di
animali durante il pascolo. Tale omicidio era avvenuto nel
beneventano, dove la famiglia Gentilcore aveva vissuto prima di
trasferirsi in Mugello. Per qualche tempo venne valutata l'ipotesi di
un collegamento fra i due delitti e dunque di un'eventuale vendetta
trasversale.
● Il primo giugno 1976 comparve sul luogo del delitto una
misteriosa scultura in memoria di Stefania e Pasquale che portò gli
inquirenti a fare le più disparate congetture. Appurato che nessuno
della famiglia Pettini o Gentilcore e nessuno degli amici della
coppia avesse eseguito o fatto eseguire tale installazione, gli
inquirenti ipotizzarono una sorta di rivendicazione del duplice
omicidio da parte dell'autore stesso o di un eventuale mandante,
prendendo dunque in considerazione che il duplice omicidio
potesse essere stato commesso per vendetta.
Alla fine, si scoprì che l'autore della scultura era tale Arduino
Parigi, cinquantacinquenne artista mugellano, il cui fine era solo
quello di ricordare le giovani vittime.
● Si è sparsa la voce che alcuni anni dopo il delitto, mano ignota
avesse manomesso la tomba della Pettini nel cimitero di Borgo San
Lorenzo. In realtà non si hanno riscontri documentali in merito.
Mostrologia a Rabatta
Ci sono due diverse interpretazioni delle 96 coltellate inflitte alla
povera Stefania Pettini:

► 1. Una prima ipotesi, caldeggiata da diversi Mostrologi, ritiene


che almeno in questo delitto il MdF conoscesse la vittima
femminile: le 96 coltellate indicano infatti un accanimento brutale
verso la donna, quasi a denotare odio e rancore maturati nel tempo
o comunque tipici di una conoscenza pregressa.
Come affermava il compianto dottor Stefano Galastri, ben noto
negli ambienti mostrologici come De Gothia, non è detto che la
conoscenza fra l'assassino e la Pettini dovesse essere
obbligatoriamente profonda o addirittura reciproca. Poteva
benissimo trattarsi di conoscenza unilaterale. Per la serie, il MdF si
era invaghito di Stefania e aveva preso a seguirla ovunque senza
che lei neanche sapesse chi fosse.
Decisamente più radicale è la teoria del criminologo Valerio Scrivo,
che ha fatto del delitto di Rabatta il proprio cavallo di battaglia,
ritenendo infatti questo l'omicidio chiave della serie. Secondo lo
Scrivo, il MdF non solo conosceva ma anzi era amico, forse vicino di
casa, sicuramente assiduo frequentatore della famiglia Pettini e
probabilmente segretamente innamorato di Stefania. La uccise
mentre era appartata con il ragazzo, mosso da un impeto di rabbia e
gelosia.
Sempre attendendoci alla "teoria Scrivo", l'autore dell'omicidio
avrebbe evitato di proposito di uccidere la ragazza con la pistola in
modo da poterla finire con l'arma bianca (questo tornerebbe con
l'ipotesi che il MdF avesse ancora un colpo nel caricatore). Al
termine del delitto il killer avrebbe poi effettuato un depistaggio
andando a posizionare borsa e reggiseno lontano dal luogo del
delitto al fine di far credere agli inquirenti di essere fuggito in una
particolare direzione e di essersi disfatto degli oggetti durante la
fuga. In realtà poi il killer sarebbe tornato sui suoi passi per fuggire
dalla parte opposta. In questo modo si spiegherebbe la telefonata
anonima con cui veniva segnalata la borsa, evidentemente
effettuata dall'assassino. Infatti, secondo Scrivo, era importante che
la borsa venisse rinvenuta prima del tramonto e che gli inquirenti
credessero sin da subito che l'autore del duplice omicidio fosse
fuggito nella direzione opposta a quella da lui realmente intrapresa.
La "teoria Scrivo" presenta alcune lacune e presta il fianco a diverse
obiezioni, non ultima il fatto che, come fece notare il maresciallo
Falcone durante il Processo Pacciani, il luogo in cui venne ritrovata
la borsa dava poche indicazioni sulla via di fuga dell'assassino,
perché passando da lì (a piedi o in automobile) si sarebbe potuto
andare ovunque.
Sempre rimanendo alla questione borsa, il fatto che questa fosse
priva di macchie di sangue, ha portato alcuni mostrologi a pensare
che in realtà l'assassino l'avesse portata con sé fin nella propria
abitazione e qui l'avesse pulita da qualsiasi traccia ematica con il
chiaro fine di conservarla a mo' di souvenir. Solo successivamente,
forse temendo per un qualsiasi motivo una perquisizione, avrebbe
deciso di disfarsene in prossimità del luogo del delitto, avvisando
poi successivamente le forze dell'ordine per permetterne il
ritrovamento.

► 2. Una seconda possibile interpretazione delle 96 coltellate è che


queste fossero indipendenti da un'eventuale conoscenza fra vittima
e carnefice, ma siano semplicemente state il preludio alle escissioni
degli anni successivi in un crescendo di follia e di violenza maturate
di delitto in delitto (teoria avvallata dai medici legali De
Fazio e Maurri). In pratica il MdF avrebbe iniziato nel 1974
circoscrivendo tramite punture di coltello alcune parti anatomiche
della donna (dalle foto si evincono cinque coltellate che
circoscrivono il pube di Stefania, altre punture circondano il seno
destro, mentre il seno sinistro è attraversato dai colpi mortali), in
seguito sarebbe passato all'escissione del pube (entrambi i delitti del
1981), infine all'escissione sia del pube che della mammella sinistra
(delitti del 1984 e 1985).
Si noti comunque che anche De Fazio nella sua perizia del 1984
parlerà di possibile conoscenza fra vittima femminile e carnefice in
occasione di questo delitto.

A oggi, la conoscenza reciproca o unilaterale fra il MdF e la Pettini


rimane un'interpretazione non universalmente accettata ma che
sicuramente incontra i favori di buona parte dell'universo
mostrologico.

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6 commenti:

1.
Fabio S.23 luglio 2022 alle ore 17:34

Gentile Sorrenti, innanzitutto complimenti per il suo ottimo


blog.

Vorrei pero' notare che, a mio avvviso, l'ipotesi che i vestiti dei
ragazzi siano stati portati fuori dall' abitacolo e adagiati sul
terreno dall'assassino e' del tutto verosimile. Innanzitutto,
probabilmente questa non fu l'unica volta che il MdF ebbe a
manipolare i vestiti delle sue vittime. A Scopeti, i pantaloni del
ragazzo francese verngono ritrovati puliti vicino al suo
cadavere. Ci sono buone probabilita' che sia stato l'assassino a
spostarli. A Calenzano, il maglione del ragazzo viene ritrovato
pulito, a mo' di cuneo, sotto i suoi glutei, quando invece la
camicia che indossa e' del tutto insanguinata. Quel maglione
fu molto probabilmente spostato dall'assassino.

Inoltre, esistono altri serial killer che hanno manipolato i


vestiti delle loro vittime. Ad esempio, Richard Cottingham
(aka "the torso killer"), in una circostanza uccise una ragazza in
una camera di motel, la smembro', e dopo ripose i sui vestiti
puliti, perfettamente impilati, nella vasca del bagno.

A me sembra evidente che la manipolazione dei vestiti facesse


parte delle fantasie dell'assassino. Quale fosse il significato di
tutto cio' non e' dato saperlo. Il senso comune in questo non ci
aiuta. Ma questo non e' un buon motivo per ritenere l'ipotesi
inverosimile.
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti31 luglio 2022 alle ore 06:13
Ciao, innanzitutto ti ringrazio per il commento e per i
complimenti.
Per rispondere alla tua ottima osservazione, vorrei farti
notare che non ho reputato inverosimile da un punto di
vista concettuale la teoria dell'assassino che sposta i
vestiti, ma semplicemente da un punto di vista pratico, in
quanto quei vestiti erano assolutamente puliti.
Considerando la dinamica dell'attacco, il probabile stretto
contatto fisico con la povera Stefania e la necessità di
finirla con il coltello, è molto probabile che il killer fosse
già vistosamente lordo di sangue ancor prima di
cimentarsi con le 96 coltellate. In questo contesto,
ipotizzare che abbia recuperato quei vestiti dall'angusto
abitacolo della 127 dove era appena avvenuto un
massacro e li abbia delicatamente posati all'esterno senza
che questi presentassero il minimo sbaffo di sangue di
sangue, a me sembra non molto verosimile. Poi, per
carità, tutto può essere.
Ancora una cosa, niente da dire sul maglione del Baldi,
che rappresenta difatti un'anomalia, ma sui pantaloni di
Jean-Michel non vi è molta chiarezza: se ti riferisci a
quelli di taglia 44 su cui è stato isolato del DNA ignoto,
almeno stando agli atti*, sarebbero stati rinvenuti nella
tenda e non accanto al cadavere.
* "Un profilo maschile, battezzato “uomo sconosciuto 1“,
differente da quello della vittima Jean Michel
Kraveichvili è stato isolato su una paio di pantaloni taglia
44 presenti nella tenda».
Rispondi

2.
Fabio S.2 agosto 2022 alle ore 06:52

Ciao Luigi, grazie per il chiarimento e le ulteriori osservazioni.

Sono ovviamente d'accordo con te sul fatto che, essendo stato


presumibilmente insanguinato, e' difficile ipotizzare che
l'assassino abbia toccato i vestiti dei ragazzi, che risultatoro
puliti. Ma a mio avviso, questa e' un'altra delle tante
circostanze che caratterizzano la vicenda del MdF, dove ci si
trova costretti a scegliere quella che sembra essere la piu'
verosimile tra una serie di ipotesi inverosimili, se cosi' mi
posso esprimere.

Ora, sempre che non si creda alla presenza di piu' persone


sulla scena del delitto, l'alternativa all'idea che i vestitit furono
spostati dall'assassino e' quella secondo cui i vestiti vennero
spostati dai ragazzi stessi. Ma davvero vogliamo pensare che i
ragazzi, prima di lasciarsi andare alle loro effusioni amorose,
si fossero preoccupati di prendere buona parte dei loro vestiti
per adagiarli fuori dall'abitacolo? Sarebbe una cosa piu' unica
che rara. Oltretutto, perche' il giubbotto di Pasquale sarebbe
stato trovato anch'esso fuori dall'abitacolo, per terra, ma dal
lato opposto dell'auto? Tutto cio' non ha veramente senso.

A questo punto ha piu' senso immaginare che l'assassino


avesse modo di pulirsi o lavarsi alla fine delle sue orrende
operazioni, per poi manipolare la scena in base a
peculiarissime parafilie che solo lui, forse, potrebbe spiegare. E
del resto, ribadisco, il maglione trovato pulito sotto al corpo
del ragazzo a Calenzano fu molto probabilmente manipolato
dall'assassino, che anche in quell'occasione si era sicuramente
lordato di sangue.

Riguardo ai pantaloni di Scopeti (si, mi riferisco a quelli nella


cui tasca venne identificato del DNA ignoto), e vero che i
verbali li collocano dentro la tenda. Ma una serie di fotografie
della scena del crimine riportate alla luce da Paolo Cochi
dimostrano in modo incontrovertibile che, in realta', i
pantaloni (anch'essi puliti, se ricordo bene) furono ritrovati
vicino al corpo del ragazzo
(https://www.youtube.com/watch?v=fh9fNlc2gDk). A meno
di non credere che il povero Jean-Michel, mentre l'assassino
uccideva la sua compagna, si fosse preoccupato di cercare i
pantaloni, afferrarli, e scappare con questi in mano, la cosa piu'
plausibile e' il loro spostamento dal parte dell'assassino, a
crimine compiuto.
Rispondi

3.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:48
il mostro fruga nelle borse e nelle tasche per un semlicissimo
motivo, vuole sapere chi sono le vittime come si chiamano
dove abitano per assaporare per primo la scena quando
avvertiranno le famiglie.
Rispondi

Risposte

1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:49

lui vuole essere il primo a sapere il nome di chi e' morto


per mano sua.
Rispondi

4.
Anonimo4 gennaio 2023 alle ore 03:56

Luigi buongiorno.
Non mi soffermo sui complimenti per la qualità della tua
iniziativa giacchè la vedo ampiamente (e giustamente)
riconosciuta da tutti. Se mai vorrei sottolineare l'equilibrio e la
moderazione delle tue opinioni, qualità poco frequentate in
rete.
Ti chiedo un sintetico punto di vista sulla circostanza (a mio
avviso non abbastanza dibattuta nella dottrina mostrologica)
dell'intervallo temporale fra questo omicidio e i successivi.
Non avendo competenza specifica nel campo dei serial killer
non posso spingermi a definirla anomala, ma mi ha sempre
colpito il lasso di 7 anni fra questo omicidio e quello di
Mosciano contrapposto all'estrema concentrazione dei
successivi (dall'81 al 85).
Grazie.
Giuseppe
Rispondi
Mosciano di Scandicci

Data: Sabato, 6 Giugno 1981;


Luogo: Mosciano di Scandicci, campagna di Roveta, lungo via
dell'Arrigo in località Villabianca;
Orario: 22.30/23.00, secondo la testimonianza piuttosto incerta di
un contadino che abitava a circa 200 metri in linea d'area dal luogo
del delitto. L'uomo riferì di aver udito l'autoradio dell'automobile
accesa fino alle ore 22.45 circa, poi più nulla;
Vittime: Giovanni Foggi, 30 anni; Carmela De Nuccio, 22 anni;
Automobile: Fiat Ritmo color rame, targata FI 986116;
Fase Lunare: Tre giorni dopo il novilunio: spicchio di luna
crescente.

Prima del delitto


Fidanzati da poco, ma già in odore di matrimonio, la sera del
delitto, il trentenne di Pontassieve Giovanni Foggi e la ventunenne
di origine salentine Carmela De Nuccio, cenarono a casa dei
genitori di lei a Scandicci.
Uscirono verso le ore 22.15 con la scusa di andare a prendere un
gelato e si appartarono sulle colline di Roveta non lontano dalla
discoteca Anastacia, in una zona frequentata abitualmente da
coppie e da guardoni.
Fu verosimilmente poco dopo il loro arrivo che si scatenò l'assalto
da parte del killer.

Scena del crimine


Giovanni Foggi fu raggiunto da 3 colpi mortali d'arma da fuoco,
mentre la De Nuccio venne raggiunta da 5 colpi altrettanto mortali
d'arma da fuoco, quindi venne tirata fuori dalla macchina e portata
a circa 12 metri di distanza su un terrapieno da dove il killer
avrebbe verosimilmente potuto controllare i dintorni.
In quel luogo si verificò la prima escissione pubica nella storia di
colui che a breve sarebbe diventato noto in tutta Italia come
il Mostro di Firenze. Con un'arma bianca molto tagliente,
l'assassino recise di netto i jeans della ragazza all'altezza del cavallo
dei pantaloni, dunque esportò in maniera piuttosto precisa il vello
pubico. Terminata l'operazione il killer tornò dal cadavere del
ragazzo in macchina e lo colpì con alcune coltellate ampiamente
post-mortem.
L'arma bianca, sia per quanto riguarda l'escissione che per quanto
riguarda le coltellate, risulta adoperata da soggetto destrimane.

Dopo il delitto
I cadaveri vennero scoperti la mattina dopo, domenica 7 giugno
verso le ore 9.00, da un poliziotto in borghese di nome Vittorio
Sifone.
Partirono le indagini e il primo a essere interrogato dagli inquirenti
fu tale Antonio Leone, ex fidanzato di Carmela, il quale portato in
caserma assieme al fratello, fu quasi subito giudicato
completamente estraneo al delitto e lasciato andare.
In seguito finì sotto la lente delle forze dell'ordine tale Carlo
Tommasi, guardiacaccia cinquantenne, presunto guardone e
trovato in possesso di una carabina calibro 22. Ben presto anche lui
venne giudicato estraneo ai fatti.
Il 9 giugno, appena tre giorni dopo il delitto, il giornalista Antonio
Villoresi, parlò in un articolo de "La Nazione" delle numerose e
inquietanti analogie fra l'omicidio di Scandicci e quello di Borgo
San Lorenzo di 7 anni prima. Quello stesso giorno, le prime analisi
sui bossoli rinvenuti sulle due scene del crimine confermarono
ufficiosamente che a sparare era stata la stessa pistola, una Beretta
Calibro 22, e probabilmente a impugnarla era stata la stessa mano.
Nonostante a nessuno era ancora venuto in mente di collegare
anche il delitto di Signa del 1968, si iniziò in quel momento a
parlare per la prima volta e molto timidamente di SERIAL
KILLER. Il termine divenne di dominio pubblico dopo il delitto
successivo.
Le indagini continuarono serrate fino all'ingresso in scena del
signor Enzo Spalletti, 36 anni, sposato e padre di tre figli, autista di
ambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino, ma
soprattutto noto guardone che bazzicava la campagna di Roveta,
luogo dell'omicidio, e il poco distante bar-ristorante La Taverna Del
Diavolo, in località Pian De' Cerri, risaputo ritrovo di guardoni.

Il caso Spalletti
A porre Enzo Spalletti al centro delle indagini fu verosimilmente
una telefonata giunta alle 22.30 di giovedì 11 giugno 1981 presso la
questura di Firenze. Tale telefonata fu presa dal brigadiere Pietro
Bittau: in essa un anonimo abitante di Scandicci affermava di aver
visto la notte del delitto un'automobile Ford Taunus rossa, targata
FI 669906, dalle parti della campagna di Roveta in orario
compatibile con quello del delitto stesso.
Sempre lo stesso giorno, un tale di nome Guido M., che la vulgata
mostrologica indica come poliziotto, rilasciava alle forze dell'ordine
una testimonianza secondo cui la sera di sabato 6 giugno, verso le
22.45, a bordo di una Fiat 500, aveva raggiunto il ristorante "La
Cesira", distante pochi minuti di automobile dal luogo del delitto, e
ivi si era intrattenuto per circa 15 minuti.
Verso le 23.00 era ripartito in direzione via dell'Arrigo e, superata la
Taverna del Diavolo, aveva incrociato in via delle Croci
un'automobile Ford Taunus color arancione, marciante in senso
contrario al suo. La strada stretta aveva obbligato il predetto Guido
a fermarsi per permettere il transito dell'altra vettura. Questa era
un'automobile a lui familiare in quanto appartenente a un noto
guardone di zona, dunque Guido era in grado di fornire oltre al
modello e al colore anche i primi numeri di targa.
Tale testimonianza venne confermata dai proprietari del ristorante
"La Cesira", i quali riconobbero Guido come loro cliente abituale. I
successivi riscontri portarono gli inquirenti a stabilire che l'incrocio
fra le due automobili era avvenuto fra le 23.00 e le 23.30 a circa due
chilometri di distanza dal luogo del delitto, verso cui stava
viaggiando la Ford Taunus.
Nella giornata di giovedì 11 giugno, gli inquirenti si trovarono
dunque due segnalazioni convergenti (una tramite telefonata
anonima, l'altra resa de visu alla questura di Firenze) che
indicavano una stessa vettura in prossimità del luogo del delitto in
orario compatibile con lo stesso. Risultó a quel punto facile
appurare che l'automobile segnalata era in entrambi i casi quella di
Enzo Spalletti.
Soffermiamoci un attimo sulla telefonata anonima: come parte della
odierna mostrologia sostiene, è probabile che chi abbia fatto quella
telefonata conoscesse almeno di vista lo Spalletti, perché è difficile
pensare a un perfetto sconosciuto che si fosse trovato a passare da
Roveta e ivi avesse incrociato o visto l'automobile dello Spalletti e,
pur senza sapere nulla di lui e del duplice omicidio, ne avesse
memorizzato la targa per poi - saputo del delitto - riferirla a
distanza di cinque giorni alla questura di Firenze.
Dunque è probabile che la fonte di tale telefonata fosse stata un
altro guardone, una coppia o un abitante di una delle case prossime
al luogo del delitto, se non lo stesso poliziotto Guido, qualcuno
insomma che bazzicasse Roveta e avesse familiarità con
l'automobile dello Spalletti, ne conoscesse la targa o quanto meno
sapesse dove andare a recuperarla.

Il giorno successivo, venerdì 12 giugno, venne interrogata la moglie


dello Spalletti, la signora Carla Agnoletti, la quale - a dispetto della
vulgata mostrologica che spesso ha alterato le parole della donna -
rilasciava le seguenti dichiarazioni:
▪ la sera del delitto il marito era uscito da solo verso le 21.30;
▪ lei era andata a letto verso l'una del mattino, a quell'ora il marito
non era ancora rientrato; non era in grado di dire a che ora fosse
rientrato;
▪ la mattina successiva (domenica) il marito era uscito verso le 11.00
ed era stato al bar "Pinelli" al Turbone; era rientrato verso le 12.30 e
durante il pranzo le aveva parlato per la prima volta del delitto
della sera precedente; le aveva raccontato che era stata uccisa una
coppia dalle parti di Scandicci, che l'uomo era stato ucciso in
macchina a colpi di pistola, mentre la donna era stata uccisa e
portata a qualche metro di distanza dall'automobile; la Agnoletti
non ricordava e dunque non riportava altri particolari del racconto
del marito;
▪ marito e moglie avevano trascorso il pomeriggio della domenica
insieme; il marito era poi uscito la sera, ma era tornato a casa molto
prima del solito e non era stato fuori per più di un'ora;
▪ nei giorni successivi il marito si era mostrato di umore più cupo,
come se il delitto lo avesse turbato; inoltre usciva meno spesso e
dichiarava di voler far luce sul duplice omicidio;
▪ lei era a conoscenza dell'attività di guardone del marito;
▪ lei escludeva di aver appreso del delitto tramite TV, radio o
giornali; ribadiva di averne avuto per la prima volta notizia dal
marito all'ora di pranzo della domenica.
Ulteriori indagini portarono gli inquirenti a scoprire che già al bar,
la domenica mattina fra le undici e mezzogiorno, lo Spalletti aveva
verosimilmente parlato del duplice omicidio con alcuni avventori.
Una certa tradizione mostrologica, supportata da diversi articoli di
giornale dell'epoca, vorrebbe che al bar lo Spalletti avesse riferito
particolari come l'escissione del pube, particolari che solo chi fosse
stato presente sul luogo del delitto, avrebbe potuto sapere. In realtà
non c'è traccia documentale di tali dichiarazioni, tantomeno così
circonstanziate, da parte dello Spalletti al bar. Al contrario, c'è il
verbale dell'interrogatorio della moglie, in cui - come visto - costei
non solo non fa alcun riferimento al pube escisso, ma dichiara che il
marito era uscito da casa verso le 11 e prima di quel momento non
le aveva fatto cenno dell'avvenuto delitto. Può dunque essere
quanto meno presa in considerazione l'ipotesi che nel momento in
cui lo Spalletti era uscito di casa la domenica mattina, ancora non
sapesse nulla dell'omicidio e avesse appreso la notizia solo
successivamente, per strada o al bar stesso. Ricordiamo a questo
proposito che il delitto era stato scoperto un paio di ore prima dal
brigadiere Sifone.
A ogni modo, quello stesso giorno, lo Spalletti venne portato in
Procura e interrogato alla presenza dei due magistrati che si
occupavano del caso, Silvia Della Monica e Adolfo Izzo, del
commissario Sandro Federico e del colonnello Olinto Dell'Amico.
Inizialmente l'uomo si difese affermando di non sapere nulla del
delitto, di non aver visto nulla e di aver riportato esclusivamente
informazioni lette sui giornali, cosa impossibile in quanto tali
dichiarazioni erano state rese quando la notizia del duplice
omicidio non si era ancora diffusa e sicuramente non era stata
riportata da alcun giornale. Nelle lunghe sei ore di interrogatorio
che seguirono, Spalletti affermò dapprima in maniera del tutto
inverosimile di essersi appartato in zona Roveta con una prostituta
napoletana che aveva trovato a Firenze sul Lungarno Vespucci, in
seguito, incalzato dalle domande, ammise di essere passato da
Roveta assieme al suo amico Fosco Fabbri e di essersi con lui
appostato sulle colline in attesa di una coppia da spiare. Aggiunse
però di non aver trovato nulla d'interessante per la sua attività di
guardone ed essere rientrato a casa verso mezzanotte (orario che
non coincideva con quanto dichiarato da sua moglie).
Viste le reticenze e la comprovata menzogna sull'orario di rientro a
casa, quella sera lo Spalletti venne arrestato per falsa testimonianza.
La speranza degli inquirenti era che il carcere potesse convincerlo a
raccontare finalmente ciò che sapeva, come lo avesse saputo ed
eventualmente cosa avesse davvero visto.
Buona parte dell'odierna mostrologia ritiene che l'arresto dello
Spalletti fu un errore, perché da un lato spinse i guardoni ad
assumere un atteggiamento di estrema diffidenza verso le forze
dell'ordine, anziché di collaborazione, dall'altro portò
probabilmente Spalletti a rendersi conto di aver parlato troppo e in
maniera maldestra e di aver così acceso i riflettori di inquirenti e
media sull'oscuro mondo cui lui stesso apparteneva, quello dei
guardoni, in special modo i frequentatori della Roveta. Forse fu
questo il motivo per cui da quel momento in poi l'uomo decise di
trincerarsi dietro un assoluto silenzio.
Incarcerato Spalletti, venne presto interrogato l'amico Fosco Fabbri,
piccolo commerciante di Montelupo, anch'egli guardone. Il Fabbri
confermò che la sera dell'omicidio era stato con lo Spalletti sulle
colline di Roveta in attesa di una coppia e che era rincasato verso
mezzanotte. Dichiarò anche che sul luogo del delitto era tornato la
sera successiva con lo Spalletti per vedere se - sfruttando la loro
esperienza di guardoni - potevano far qualcosa di utile per
l'identificazione dell'assassino.
In quell'occasione Fabbri rivelò un particolare piuttosto interessante
per le indagini, qualcosa che in futuro avrebbe parecchio solleticato
la fantasia di svariati mostrologi. Disse infatti che all'incirca nel
1977, nella stessa zona dell'omicidio, era stato avvicinato da
un "uomo in divisa", alto e robusto, che, puntandogli un'arma da
fuoco, gli aveva fatto una sorta di paternale su quanto fosse
immorale la sua attività di guardone. Il Fabbri era stato poi lasciato
libero dopo circa una mezz'oretta senza che gli fosse stato torto un
capello. Non era stato in grado di chiarire quale tipo di divisa
indossasse il misterioso uomo.
Nel frattempo, la vulgata mostrologica vuole che durante il periodo
di carcerazione dello Spalletti, sua moglie e suo fratello, Dino
Spalletti, vennero fatti oggetto di alcune telefonate anonime in cui
l'interlocutore con fare rassicurante li informava che presto il loro
congiunto sarebbe stato scagionato. L'ignoto si raccomandava
tuttavia di assicurarsi che lo Spalletti non parlasse e in un'occasione,
secondo l'avvocato Filastò, con fare quasi paternalistico avrebbe
affermato: "Cosa gli è venuto in mente a quel bischero di dire che aveva
letto degli omicidi sui giornali? Ben gli sta un po' di carcere!"
Della reale esistenza di queste telefonate non è mai stato fornito
alcun riscontro documentale. Tuttavia, qualche mese dopo, lo
Spalletti venne effettivamente scagionato da un nuovo omicidio del
MdF.
Ammettendo che le suddette telefonate siano realmente avvenute,
ovviamente non è mai stato possibile appurare da chi provenissero.
Molti mostrologi ritengono fossero opera del "Mostro" che, da un
lato voleva assicurarsi il silenzio dello Spalletti con le buone
maniere, dall'altro gli faceva comunque sapere di poter arrivare alla
sua famiglia in qualsiasi momento. Non può, tuttavia, escludersi
che provenissero dal gruppo di guardoni della Roveta, preoccupati
che Spalletti potesse parlare, accendere ancora piú i riflettori sul
loro mondo, messo duramente in subbuglio dalle forze dell'ordine,
e dire qualcosa di compromettente sul loro conto. Non è un mistero,
infatti, che l'ordine circolato fra i voyeur della zona, fosse l'assoluto
silenzio. Lo stesso Dino Spalletti dichiarò di aver ricevuto il 16
giugno una telefonata dal Fabbri, il quale ribadiva quanto fosse
importante che Enzo tacesse.
A tal proposito, un articolo de "La Città" del 29 ottobre 1981
rivelava che, qualche giorno dopo l'arresto dello Spalletti, nella
campagna di Roveta lo stesso Fabbri aveva assistito a una furiosa
lite fra guardoni durante la quale era stato esploso anche un colpo
di pistola. Avvicinatosi per capire cosa stesse succedendo, gli era
stato intimato di farsi gli affari propri, altrimenti avrebbe fatto la
fine dell'amico Spalletti. Non avendo ritrovato il suddetto articolo
di giornale, sulla veridicità di questo episodio per il momento ci
riserviamo di esprimerci.
A scrivere la parola fine sul caso Spalletti fu - come dicevamo - un
nuovo omicidio del MdF il 22 ottobre 1981 a Travalle di Calenzano.
Due giorni dopo, il 24 ottobre, Spalletti venne scarcerato dopo oltre
quattro mesi di detenzione. Fedele alla linea intrapresa, l'uomo
seguitò nel suo mutismo. Sarà definitivamente prosciolto il 13
dicembre 1989 dalla cosiddetta Sentenza Rotella, di cui avremo
ampiamente modo di discutere in seguito.
Da allora, almeno fino a oggi, lo Spalletti non ha mai parlato di ciò
che ha visto la notte dell'omicidio di Mosciano, sempre ammesso
abbia realmente visto qualcosa. Sarebbe interessante capire perché
abbia trascorso quei quattro mesi di carcere (non propriamente
pochini) in assoluto silenzio, senza cercare minimamente di
collaborare con le forze dell'ordine, senza dire assolutamente nulla
sulla vicenda, se non ripetere di essere innocente.
Pare che le sue ultime parole sull'argomento siano state tese a far
ricadere la colpa dei delitti su qualcuno appartenente alle forze
dell'ordine. La fonte di questa notizia è proprio il fautore
dell'ipotesi "Mostro in divisa", l'avvocato Nino Filastò (dunque da
prendersi sempre con il beneficio del dubbio), cui ai tempi del
Processo Pacciani, lo Spalletti avrebbe fatto privatamente
dichiarazioni di questo tipo.
Risulta tuttavia che già all'epoca del delitto, Enzo Spalletti ebbe
modo di dire alla dottoressa Silvia Della Monica: "Voi lo sapete che
io non sono l'assassino ma mi tenete dentro per proteggere qualcun altro".
Alle proteste indignate della magistrata di fronte a queste gravi
insinuazioni, l'uomo avrebbe quindi risposto bonariamente "dicevo
così per dire".
A oggi, primo scorcio del 2020, Enzo Spalletti è vivo; Fosco Fabbri è
morto nel giugno del 1996.

Il dottor B.
Il coinvolgimento dello Spalletti e la sopraggiunta consapevolezza
che la campagna di Roveta fosse il punto di ritrovo di numerosi
guardoni portarono le forze dell'ordine a concentrare le loro
attenzioni sul mondo ambiguo e semisconosciuto dei "voyeur",
sospettando che qui il Mostro potesse trovare se non proprio
complicità o protezione, almeno l'ambiente ideale in cui
mimetizzarsi.
Furono numerosi i cosiddetti "Indiani" (così venivano chiamati i
guardoni per la capacità di avvicinarsi alle automobili delle coppie
strisciando sul terreno senza far rumore) ad essere attenzionati; fra
questi vi erano personaggi insospettabili, come ben noti
professionisti fiorentini e persino qualche giovane donna.
In particolar modo fu un medico residente a Samminiatello,
frazione di Montelupo Fiorentino, a finire sotto la lente
d'ingrandimento delle forze dell'ordine e - suo malgrado - a salire ai
disonori della cronaca. Si trattava di un quarantottenne ginecologo
della Scandicci bene, il cui nome all'epoca non venne divulgato, ma
che diventò noto alle cronache fiorentine come Dottor B. dopo
alcuni articoli, farciti di non troppo velate accuse, che il
giornalista Mario Spezi gli dedicó fra il 1982 e il 1983.
Ancora oggi sul nome del suddetto ginecologo ci sono pareri
discordanti. Stando a una bellissima retrospettiva sul delitto di
Mosciano curata dal ricercatore Francis Trinipet, il medico
risponderebbe al nome di Luciano Bianconi, ma non esistono
riscontri documentali a conferma. Più probabile invece che, come
emerge dalla già citata sentenza Rotella e come evidenziato in un
video su youtube degli amministratori del gruppo Facebook "I
Mostri di Firenze", Dario Quaglia e Alessandro Flamini, il vero
nome del ginecologo fosse un altro. In questa sede preferiamo
ometterlo trattandosi di persona ancora in vita e ci limitiamo a
riportare un suggerimento dato ormai parecchi anni fa dal mai
troppo compianto studioso De Gothia, secondo cui tale medico
avrebbe avuto "lo stesso cognome di un noto allenatore di calcio italiano
degli anni '80, campione d'Italia in provincia, che chiuse la carriera
all'Inter".
Indipendentemente dal nome, a questo punto piuttosto semplice da
individuare, il ginecologo di Montelupo presentava caratteristiche
estremamente interessanti, tanto da rimanere a lungo uno dei
principali indiziati per i delitti del MdF. Si trattava infatti di
persona celibe, che viveva solo con l'anziana madre, che era stato in
cura per disturbi nervosi, detentore di una pistola Beretta calibro 22,
il cui nome era emerso dal giro dei guardoni che gravitavano
attorno a Roveta. Ad colorandum, come si scoprirà dopo il
collegamento con il duplice omicidio di Signa del 1968, era il
medico curante della famiglia di Francesco Vinci.
Tuttavia, sia le prove di sparo sulla Beretta del medico sia la
perquisizione nella sua abitazione diedero esito negativo e i sospetti
vennero momentaneamente accantonati, almeno fino al delitto
successivo, quando, subito dopo il duplice omicidio di Calenzano
nell'ottobre di quello stesso anno, il dottore subì una nuova
perquisizione.
Successivamente, nell'estate del 1982, arrivò il collegamento con il
delitto di Signa e i sardi che avevano gravitato attorno alla Locci si
ritrovarono a essere i principali indiziati per i delitti del Mostro.
Eppure il dottor B. non uscì completamente di scena. Fu anzi in
quel periodo che lo Spezi concentrò i suoi sospetti su di lui,
sostenendo in diversi articoli su "La Nazione" e nel suo libro "Il
Mostro di Firenze" (edito da Sonzogno nel 1983) di aver
individuato in lui l'autore degli omicidi.
Complice la scoperta che il ginecologo abitava nello stesso paese
non solo del guardone Enzo Spalletti, ma anche e soprattutto di
Francesco Vinci e che della famiglia Vinci era il medico curante, lo
Spezi ipotizzò che il dottore potesse essere il mandante dei delitti e
che Francesco Vinci (forse aiutato da qualcun altro) potesse esserne
l'esecutore materiale. Già nel 1983 veniva dunque avanzata l'ipotesi
di un mostro a più teste, quasi un'anteprima di quella che parecchi
anni dopo sarebbe stata la pista dei Compagni di Merende.
Sarà in seguito lo stesso Spezi a lasciar cadere le sue accuse nei
confronti del ginecologo per concentrarsi sulla cosiddetta "Teoria
Carlo", di cui avremo modo di parlare in un successivo capitolo.
Negli anni seguenti e fino al termine della scia delittuosa, il dottor
B. verrà comunque regolarmente sottoposto a controlli e
perquisizioni dopo ogni delitto del Mostro. Anche subito dopo la
scoperta dell'ultimo duplice omicidio, a Scopeti il 9 settembre 1985,
come ci fa sapere l'avvocato Bevacqua durante un'udienza del
Processo Pacciani, una pattuglia si diresse prontamente a casa del
ginecologo a Montelupo per raccogliere informazioni sui suoi
spostamenti.

L'interesse degli inquirenti verso il mondo dei guardoni si sarebbe


peró raffreddato in breve tempo e le forze dell'ordine si sarebbero
presto convinte di dover cercare il Mostro altrove. Come ebbe modo
di spiegare il dirigente della SAM (Squadra Anti Mostro), Sandro
Federico, nella trasmissione Telefono Giallo andata in onda nel
1987, i guardoni non avevano alcun interesse a proteggere il MdF,
anzi avevano tutto l'interesse che questi non colpisse, sia perché il
MdF rappresentava un pericolo anche per loro nel caso
malauguratamente avessero visto qualcosa, sia perché la sua
presenza limitava fortemente il numero delle coppie che si
appartava nelle campagne fiorentine. Addirittura, in quella stessa
trasmissione Federico riferiva che i guardoni si ritenevano le
sentinelle delle coppie, la miglior difesa nei confronti del Mostro.
A dispetto di quanto sostenuto dal dottor Federico, nei vari salotti
mostrologici si è spesso dibattutto se il MdF fosse stato o meno in
precedenza un guardone o se più in generale provenisse da quel
mondo. Sicuramente ci sono delle similitudini fra il comportamento
del Mostro e quello dei guardoni, come ad esempio la condivisione
e profonda conoscenza di determinati luoghi graditi alle coppie o il
sapersi muovere abilmente nel buio della campagna e avvicinarsi
alle macchine scelte senza fare il minimo rumore. Similitudini che
in seguito saranno rese ancora più marcate dalle condanne
dei Compagni di Merende, considerando che almeno Pacciani e
Lotti erano sicuramente due guardoni, il primo chiamato in causa
da diverse testimonianze, il secondo per propria stessa ammissione.
Ci sono però anche profonde differenze che sembrano ostacolare
un'estrazione voyeuristica del mostro: su tutte, il guardone traeva e
trae piacere nell'assistere al compimento del rapporto sessuale della
coppia, il MdF interrompeva o - meglio ancora - impediva tale
rapporto. E questa appare un'insanabile dicotomia fra le due parti.

Particolarità a Mosciano
● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo
nudo con impresso sul fondello la solita lettera H. Da qui in poi il
killer utilizzerà esclusivamente proiettili a piombo nudo (con
l'unica eccezione di un singolo colpo sparato a Giogoli), mentre nei
due delitti precedenti erano stati usati proiettili a palla ramata. In
questa occasione, dunque, il killer attinse per la prima volta a una
seconda scatola di proiettili, anche questa, come la precedente,
prodotta attorno al 1966.
● Le due vittime furono raggiunte da 8 colpi d'arma da fuoco in
totale (3 lui, 5 lei), ma i bossoli trovati sul luogo del delitto furono
soltanto 5. Un particolare quello dei bossoli mancanti che si era già
riscontrato nel 1974 (pur con le scusanti del caso) e che si ripeterà
nel 1983 e nel 1984. La faccenda dei bossoli mancanti rispetto ai
colpi effettivamente esplosi ha fatto nascere la teoria – non
ulteriormente suffragata e dagli esperti giudicata poco attendibile -
secondo cui il o i MdF usassero due pistole, una delle quali
automatica (dunque che non rilasciava bossoli).
● La povera Carmela De Nuccio venne ritrovata con gli occhi
sbarrati e la parte anteriore della collana che portava al collo fra le
labbra. Secondo alcune ricostruzioni, la collana le era scivolata n
bocca nel momento in cui il killer l'aveva presa di peso e portata sul
luogo dove poi aveva effettuato le escissioni (ricostruzione che
sembrerebbe corretta nel caso in cui l'assassino l'avesse sollevata e
caricata di peso su una spalla e dunque la De Nuccio si fosse
ritrovata con la testa penzoloni e la collana le fosse ricaduta verso il
volto).
Tuttavia Ruggero Perugini ha sempre dichiarato (sia al Processo
Pacciani, sia recentemente in uno speciale sul MdF andato in onda
su Canale 9) che a suo parere quella collanina fu infilata
appositamente dall'assassino fra le labbra della ragazza in modo
che l'immagine della vittima richiamasse l'immagine di un
frammento della "Primavera del Botticelli", una cui copia era stata
ritrovata e sequestrata diversi anni dopo a casa di Pietro Pacciani.

● A proposito del Pacciani, secondo le testimonianze raccolte dalla


Procura di Firenze, la sua ex fidanzata, Miranda Bugli, nel giugno
del 1981 lavorava alla Casa del Popolo di Scandicci, distante meno
di 5 km da via dell'Arrigo.
Abbiamo già avuto modo di vedere a proposito del delitto di
Signa che - secondo la Procura - Pacciani colpiva in talune occasioni
in prossimità dei luoghi frequentati dalla Bugli.
Fino a quel momento c'erano stati difatti tre delitti: nel primo le
vittime risiedevano a poca distanza dall'abitazione della Bugli; nel
secondo, il luogo del delitto era vicinissimo alle zone in cui Pacciani
era nato e dove aveva vissuto per quasi cinquant'anni; nel terzo la
Bugli lavorava a poca distanza dal luogo del delitto.
● L'asportazione del vello pubico della povera Carmela comincia –
come da dichiarazioni del dottor Mauro Maurri al Processo
Pacciani – fra le ore 11 e le ore 12 di un ipotetico orologio e termina
nello stesso punto poco più in basso.
● A differenza del delitto di 7 anni prima, questa volta il killer non
aveva sprecato colpi, puntando da subito al bersaglio grosso, e non
aveva avuto bisogno dell'arma bianca per finire le vittime. Si
evidenzia dunque un utilizzo più sicuro dell'arma da fuoco. Come
detto, il criminologo Francesco De Fazio parlò, durante un'udienza
del Processo Pacciani, di un killer migliorato negli anni nell'uso
della pistola, ma non un cosiddetto "tiratore di professione". Questo
contrasta con alcune teorie che vogliono il killer appartenente a un
corpo militare o comunque molto vicino ad ambienti polizieschi. Lo
stesso De Fazio affermò nella stessa occasione che il killer aveva
invece una buona manualità con l'arma bianca, dunque era
senz'altro più avvezzo all'uso del coltello rispetto alla pistola. Il che
più che a un "uomo in divisa" potrebbe far pensare a un macellaio,
un conciatore, un imbalsamatore, un calzolaio, persino un chirurgo.
● Da notare come gli ultimi due delitti (1974 e 1981) avvennero in
un luogo decisamente isolato ma comunque molto prossimo a un
punto di ritrovo per giovani: la discoteca Teen Club per il delitto di
Borgo e la discoteca Anastacia per il delitto di Mosciano.
● Come quella della Pettini, anche la borsa della De Nuccio venne
trafugata e il contenuto sparso per terra vicino alla macchina.
Tuttavia, questa volta la borsa venne lasciata sulla scena del crimine
e degli effetti personali della ragazza non è dato sapere se mancasse
qualcosa o meno. Ciò che non fu mai ritrovato fu un portafoglio di
marca Gucci di Carmela, ma anche in questo caso non è dato sapere
se fu sottratto dal killer.
Va detto però che secondo la deposizione di Vittorio Sifone al
Processo Pacciani (27 aprile 1994), la sensazione che lui ebbe
quando scoprì i cadaveri fu che la ragazza avesse scagliato lei stessa
la borsa contro il killer come in atteggiamento di reazione o di
difesa.
● Sempre durante il Processo Pacciani, lo stesso Sifone affermò di
aver notato erba schiacciata dovuta a tracce di trascinamento dalla
macchina al luogo in cui poi fu trovato il cadavere di Carmela. Al
contrario, il dottor Mauro Maurri dichiarò, avendo analizzato
vestiti e assenza di escoriazioni da trascinamento sul corpo della
ragazza, che verosimilmente il cadavere fu sollevato e portato a
braccio. Identica osservazione la fece il dottor Aurelio Bonelli,
l'unico medico legale a essere intervenuto direttamente sul luogo
del delitto, il quale testimoniò con una certa sicurezza che a suo
parere la ragazza non era stata trascinata ma portata di peso. A
conferma delle considerazioni espresse dai medici legali (ove mai ce
ne fosse bisogno), non risulta siano state rivenute tracce di fango sul
corpo o sui vestiti della ragazza nonostante il giorno precedente a
quello del delitto fosse stato discretamente piovoso.
● Le due vittime maschili dei due delitti, Giovanni Foggi e Pasquale
Gentilcore, erano entrambi di Pontassieve. Si indagò dunque per
prima cosa in questo senso (amicizie comuni, collegamenti con
Pontassieve) senza però arrivare a nulla.
● Mentre Stefania Pettini era completamente nuda, Carmela De
Nuccio era completamente vestita, a parte il taglio dei jeans
eseguito con un colpo netto di coltello che aveva reciso cintura e
tessuto. Questo ha portato molti ad affermare che l'assassino si
fosse rifiutato di toccare con le proprie mani la ragazza come per
una sorta di repulsione nei confronti di essa in quanto donna.
Questa idea però non tiene conto che l'assassino aveva comunque
estratto la ragazza dalla macchina e portata di peso per 12 metri
fino al luogo dell'escissione. Probabilmente il coltello era il modo
più semplice e veloce per scoprirle il pube.
● I 12 metri di distanza fra automobile e luogo di ritrovamento del
cadavere di Carmela rappresentano la distanza maggiore che si sia
mai registrata in un delitto compiuto dal MdF. Mai prima di allora e
mai dopo, il killer avrebbe trasportato o trascinato un cadavere così
lontano. Sicuramente la costituzione molto minuta della De Nuccio
ha agevolato il trasporto, ma in maniera più probabile possiamo
affermare che la conformazione fisica del luogo e il fatto che fosse
molto frequentato da guardoni, avesse obbligato il killer a cercare
una posizione strategica per operare al meglio e
contemporaneamente tenere i dintorni sotto controllo.
● Giovanni Foggi venne ritrovato semivestito. Aveva indosso gli
slip e solo una gamba dei pantaloni infilata. Secondo la tesi ufficiale
si stava svestendo, in linea con la dinamica dell'omicidio in cui i
due giovani sembrano completamente colti di sorpresa. Esiste però
una tesi mostrologica secondo cui il giovane si era accorto della
presenza di un estraneo o comunque di qualcosa che non andava e
si stava velocemente rivestendo. Ancor più radicale l'avvocato Nino
Filastò che, in accordo con la sua visione di "mostro in divisa", nel
suo libro "Storia Delle Merende Infami", spiega come gli spari in
realtà avessero colpito il Foggi mentre si stava infilando i pantaloni.
La gamba destra infatti risultava vestita fino a metà gluteo e questo
in genere accade mentre ci si infila i pantaloni (al contrario,
togliendoseli, si tende a scoprire i glutei contemporaneamente,
tanto più da seduti in un'automobile). Considerando anche che il
rapporto fra i due ragazzi non era stato ancora consumato, Filastò
desume che qualcuno li aveva interrotti e li aveva invitati a
rivestirsi per lasciare il luogo. E questo qualcuno non poteva essere
altri che un uomo in divisa, magari lo stesso che aveva incontrato
tempo prima il Fabbri, un'autorità che si era presentato con il fare
rassicurante di chi fa rispettare la legge per poi colpire quando le
vittime meno se lo aspettavano.
● Strettamente connesso con il punto precedente, sul cruscotto della
macchina venne rinvenuto il portafoglio del Foggi. A parere dei
cosiddetti Filastoniani, una volta di più questo particolare
dimostrerebbe l'evidenza di un "mostro in divisa" che, prima di
colpire, aveva chiesto i documenti ai ragazzi. C'è però da dire che il
Foggi venne identificato immediatamente dai primi due poliziotti
giunti sul posto e questo potrebbe essere il motivo per cui il suo
portafogli sarebbe stato rinvenuto sul cruscotto.
● La giovane coppia Foggi-De Nuccio era solita frequentare la
campagna di Roveta per assaporare i propri momenti di intimità.
Questo sembra essere accertato dalle testimonianze di alcuni
guardoni che anzi consideravano l'automobile del Foggi una di
quelle particolarmente gradite a quel particolare e non richiesto
pubblico. Sempre dalle testimonianze dei guardoni, in special modo
dello Spalletti, pare che il sabato prima del duplice omicidio, e
dunque il 30 maggio, la Fiat Ritmo del Foggi fosse stata vista
abbandonare di gran carriera il luogo in cui si erano appartati, poco
distante da quello dell'omicidio scelto il sabato successivo. Questo
ha portato diversi mostrologi a ipotizzare che la coppia fosse stata
disturbata da qualcuno in quell'occasione, forse dal Mostro stesso.
Sicuramente lo spavento che presero, ammesso che di spavento si
fosse trattato, non deve essere però stato tale da impedir loro di
appartarsi nella stessa zona a una settimana di distanza.
● Abbiamo visto come il guardone Enzo Spalletti abitasse nello
stesso paese di Francesco Vinci; ci troviamo dunque al terzo delitto
su tre che avviene in un luogo nelle cui vicinanze viveva o era di
passaggio il Vinci.
● A proposito di guardoni, il Febbraio 1986 uscì, fra l'indifferenza
generale, nella sale cinematografiche un film dal titolo "L'assassino
è ancora fra noi" per la regia di Camillo Teti, inspirato alle vicende
del Mostro di Firenze. Parte del film tratta con discreto dettaglio il
mondo dei guardoni che ruotava attorno alla campagna di Roveta e
alla Taverna del Diavolo, nonché i misteriosi (e talvolta molto
borghesi) personaggi che frequentavano tale mondo.

Mostrologia a Mosciano
Sono ovviamente nate numerose teorie su cosa abbia realmente
visto Enzo Spalletti la notte del delitto. Di seguito le ipotesi
avanzate:

► Ipotesi N° 1: la più semplice. Spalletti non vide nulla. Non ha


mai parlato e tuttora, a distanza di quasi quarant'anni dall'omicidio,
non parla perché semplicemente non sa nulla. Non vide neanche i
cadaveri quella notte. Apprese del delitto la mattina successiva
mentre si dirigeva al bar oppure nel bar stesso. Tornò a casa e ne
parlò per la prima volta alla moglie.
In alternativa, Spalletti potrebbe essere arrivato sulla scena del
crimine ad omicidio compiuto, dopo essersi separato dall'amico
Fabbri. Nel caso, avrebbe curiosato nella zona, scoperto i cadaveri,
visto le escissioni. Sarebbe tornato a casa molto tardi e il giorno
dopo avrebbe parlato di tutto questo prima al bar e poi alla moglie.
Tale ipotesi è in linea sia con la macchina dello Spalletti vista in
zona, sia con le dichiarazioni del poliziotto Guido che avrebbe visto
l'automobile dello Spalletti dirigersi verso il luogo dell'omicidio in
un orario in cui lo stesso sembrava già essersi compiuto, sia col fatto
che Enzo Spalletti non mostrò di avere paura quando fece i suoi
racconti: il suo non fu infatti l'atteggiamento di una persona
spaventata dagli eventi o minacciata, ma di una persona che si
vantava di sapere. Forse il giorno dopo pensava davvero che la
notizia fosse già di dominio pubblico e probabilmente non pensò di
poter avere problemi esibendosi in quelle vanterie. C'è tuttavia da
chiedersi perché si sia fatto diversi mesi di carcere senza mai dire
questa semplice verità e soprattutto perché abbia fatto oscuri
riferimenti a un membro delle forze dell'ordine, dando quindi
l'impressione di sapere effettivamente qualcosa, andando a
complicare la sua situazione e dando ragione a chi lo accusava di
reticenza.
► Ipotesi N° 2: Lo Spalletti non vide nulla, forse neanche i
cadaveri, ma seppe dell'omicidio da una seconda persona, forse
rimasta anonima, che vi aveva assistito. Perché non rivelarlo allora?
Per non compromettere questa persona? Ed eventualmente chi era?
Anche questa ipotesi collima col fatto che l'atteggiamento dello
Spalletti non era quello di una di persona spaventata da ciò che
aveva visto o dalle possibili conseguenze, ma semplicemente di chi
si vantava di sapere cose che altri non sapevano.
Questa ipotesi tuttavia non spiega pienamente la presenza dell'auto
dell'uomo sul luogo dell'omicidio, a meno che la vettura non fosse
stata vista prima che l'omicidio stesso venisse commesso (questo
però contrasta con la testimonianza del poliziotto Guido) o per una
pura e semplice coincidenza fosse passata dal luogo del delitto
senza minmamente fermarsi. Tale ipotesi non presenta particolari
incongruenze e spiega anche eventuali dichiarazioni ambigue dello
stesso Spalletti (vedasi riferimento alle forze dell'ordine), in quanto
potevano benissimo essere voci che aveva colto da chi gli aveva
passato informazioni sull'avvenuto omicidio (o magari era rimasto
semplicemente colpito dal racconto del suo amico Fosco Fabbri).

► Ipotesi N° 3: Lo Spalletti vide qualcosa da lontano, forse udì gli


spari, notò strani movimenti nel buio, senza riuscire bene a capire
chi fosse in azione, né a identificare qualcuno. Si accorse però che
stava accadendo qualcosa di molto grave e rimase ben nascosto
dove era. Si avvicinò al luogo del delitto solo dopo esser stato ben
certo che l'assassino si fosse allontanato. Non parlò con gli
inquirenti perché, divenuto ormai il suo nome di dominio pubblico
e sbandierato dagli organi di stampa come testimone oculare,
temeva che il killer potesse prendersela con lui o con la sua
famiglia. Preferì quindi trincerarsi nel silenzio più assoluto, facendo
indirettamente capire al killer che non aveva nulla da temere. Tutto
ciò ovviamente nasceva dal fatto che Enzo Spalletti non era
minimamente in grado di fornire indicazioni che potessero portare
all'arresto dell'autore.
C'è da chiedersi, qualora questa ipotesi sia valida, perché invece lo
Spalletti aveva parlato nel bar con tanta faciloneria? Non sarebbe
stato più logico tacere per paura dell'ignoto assassino? E soprattutto
c'è da chiedersi perché a distanza di tanti anni ancora non parla?
Non sarebbe meglio per lui togliersi questo peso dalla coscienza?
Che abbia ancora paura? Dopo quasi quarant'anni e dopo
l'eventuale morte del MdF?

► Ipotesi N° 4: Ipotesi collegata alla precedente con una


importante variazione: lo Spalletti vide il killer, magari sapeva
persino chi fosse o comunque sapeva che si trattava di un
personaggio importante, forse un appartenente alle forze
dell'ordine come sembra si sia lasciato sfuggire, e dunque temeva
pesanti ritorsioni contro di lui e la sua famiglia. Questo fu ciò che lo
spinse a tacere e negare ogni evidenza.
Anche qui dobbiamo però evidenziare gli stessi dubbi del punto
precedente: perché al bar si era vantato di sapere qualcosa? Non
aveva paura (tanto più se aveva visto un "uomo in divisa")
dell'assassino? E se davvero non aveva paura, perché allora non
dichiarò pubblicamente almeno al bar di aver visto un poliziotto o
affine, vanteria che avrebbe fatto sicuramente colpo con gli amici? E
poi perché ancora oggi non parla? Teme forse ritorsioni da parte di
ambienti deviati?

► Ipotesi N° 5: Anche questo punto è legato all'ipotesi numero 3:


Enzo Spalletti vide più persone sulla scena del crimine, forse poteva
contribuire a indentificarne qualcuna ma credeva che la ragnatela
dei killers fosse così fitta e vasta da temere per l'incolumità sua e
della propria famiglia. Per questo decise dunque di tacere e negare
ogni evidenza.
Anche qui ci sono però gli stessi dubbi dei due punti precedenti,
forse ancora più accentuati: non doveva essere molto spaventato da
quanto visto? Oltretutto, sapendo che gli autori coinvolti erano più
di uno, non avrebbe dovuto rimanere in silenzio piuttosto che
parlarne al bar con gli amici?

► Ipotesi N° 6: Enzo Spalletti coprì all'epoca e copre tuttora in


maniera volontaria l'autore dell'omicidio: o perché lo conosceva e
magari era stato proprio lui a dargli la dritta di un posto dove
trovare coppiette appartate oppure perché lo ricattava. L'idea della
conoscenza appare più verosimile del ricatto e in questo senso
potrebbero spiegarsi le telefonate anonime arrivate in famiglia che
avrebbero avuto un tono confidenziale. In questo senso potrebbe
pure spiegarsi perché ancora oggi lo Spalletti non parli. Lui,
direttamente o indirettamente, è complice. Quindi DEVE tacere
assolutamente.

Soffermandoci un attimo sulle sei ipotesi descritte, risulta evidente


da queste brevi considerazioni che le ipotesi 3, 4 e 5 difficilmente
possano essere considerate valide ancora oggi a distanza di tanto
tempo.
Le ipotesi 1 e 2 (Spalletti non vide nulla), molto simili fra loro,
rimangono dunque le più probabili. Per quanto detto sull'orario del
rientro a casa di Enzo, sulla presenza della sua macchina sul luogo
del delitto e sulla base degli orari forniti dal poliziotto Guido,
sembra molto più probabile l'ipotesi 1.
Una certa probabilità ce l'ha anche l'ipotesi 6, che però
comporterebbe uno Spalletti complice di un delitto (e quindi
indirettamente di tutti gli altri delitti) così atroce. Possibile, certo,
ma decisamente più difficile.

Teoria De Gothia sul film MANIAC


Il già citato dottor Stefano Galastri, meglio noto com il nickname De
Gothia, per molti versi padre dell'odierna mostrologia e punto di
riferimento per chiunque si sia cimentato nella comprensione di
questo difficile caso, ha elaborato una sua teoria sulla genesi del
delitto di Mosciano, delitto che poi diede il via alla scia di sangue
degli anni '80.
Tale teoria fu espressa la prima volta nel 1994 in uno scritto dal
titolo "Il sentiero non battuto: Attraverso gli anelli di 12 scuri";
scritto che fu inviato all'avvocato Filastò, al quale piacque
particolarmente tant'è che in occasione del Processo ai CdM chiese
alla corte di produrlo agli atti (la richiesta venne respinta).
In seguito, lo stesso De Gothia rivisitò la sua opera e nel 2004
pubblicò una versione aggiornata dal titolo: "Maniac attraverso gli
anelli di dodici scuri".
In sintesi, De Gothia racconta come nelle settimane precedenti al
duplice omicidio di Mosciano, sulle tv private fiorentine passava
con insistenza il trailer del film "MANIAC", horror-slasher
americano del 1980, il cui protagonista era appunto un maniaco
omicida che era solito fare lo scalpo alle vittime femminili. La scena
principe del trailer era l'assalto del killer a una coppia appartata in
auto. Secondo De Gothia era così fitto il passaggio di questa
anteprima cinematografica a qualsiasi ora del giorno o della notte,
da far persino nascere fra i giovani fiorentini dell'epoca modi di
dire inerenti al trailer. Questa visione può aver fortemente
influenzato la mente di per sé labile di colui che già aveva ucciso
una o forse due coppie in passato (forse nel '68, sicuramente nel
'74), portando l'omicida alla deriva seriale degli anni '80.
Il trailer, stando allo scritto di De Gothia, smise improvvisamente di
essere mandato in onda.
Il film, dal canto suo, fu proiettato a Firenze dal 28 agosto al 2
settembre 1981 presso il Supercinema. Successivamente tornò in
proiezione presso lo stesso cinema dal 15 al 22 ottobre 1981,
curiosamente (o forse no!) negli stessi giorni del secondo delitto del
1981, quello di Calenzano. L'autore lascia intendere che la visione
del film in quei giorni di ottobre potrebbe aver spinto il MdF a
colpire per la seconda volta in quell'anno, ad appena quattro mesi
di distanza dal precedente duplice omicidio.
La cosiddetta teoria "Maniac" è stata a lungo uno dei cavalli di
battaglia dell'avvocato Filastò, tuttora convinto che la visione di
alcuni film usciti nelle sale cinematografiche negli stessi giorni dei
delitti del mostro abbia fortemente influenzato gli omicidi stessi.

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9 commenti:

1.
Unknown17 dicembre 2021 alle ore 08:38

Complimenti per tutto il lavoro. Volevo soltanto sapere una


cosa. Come è possibile che l'uomo che riferì di aver udito
l'autoradio dell'automobile accesa fino alle ore 22.45 circa e poi
più nulla non ha udito i colpi di pistola? Grazie
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti3 gennaio 2022 alle ore 02:54
Ciao, grazie per i complimenti.
La testimonianza dell'uomo che sentì l'autoradio fino alle
22.45 è - come riportato - molto incerta. Una certa vulgata
mostrologica la dà per veritiera, sostenendo persino che
la canzone che girasse prima del silenzio fosse "Imagine",
ma a livello documentale è una testimonianza che non
risulta.
Alla fine l'orario del delitto viene desunto più che altro
dal fatto che i due giovani avrebbero dovuto rincasare
piuttosto presto. Arrivarono alla piazzola attorno alle
22.30 senza dunque potersi trattenere molto. Risulta
molto probabile che l'assalto sia avvenuto entro massimo
una mezz'ora dal loro arrivo. Più realisticamente entro
pochi minuti.
2.
Anonimo18 novembre 2022 alle ore 06:47

Ma, ad ogni modo, nessuno ha udito degli spari?


Rispondi

2.
Anonimo25 dicembre 2021 alle ore 12:17

L'ipotesi di un appartenente alle forze dell'ordine,


specialmente con il delitto di Mosciano e le dichiarazioni dello
Spalletti, appare molto plausibile: il poliziotto Guido che
percorre via degli Arrighi in concomitanza con il delitto, la sua
500 (modello sempre presente anche agli Scopeti e attribuita a
Pacciani), l'incrocio con lo Spalletti che conosceva, la telefonata
anonima alla questura di Firenze...Chi è questo polizziotto
Guido che si premura di rilasciare testimonianza sapendo che
lo Spalletti lo ha visto e parla?
Rispondi
Risposte

1.
Anonimo13 maggio 2022 alle ore 09:07

Riconosco che le osservazioni sono pertinenti. Nel


poliziotto non si vuole individuare con pochi elementi a
tutti i costi il mostro, tuttavia ci sono degli aspetti che
vanno considerati: i conoscenti del poliziotto non
mentono sicuramente, perchè lo avranno incontrato
senz'altro nei quindici minuti trascorsi al ristorante La
Cesira di Pian de'Cerri intorno alle 22,45 (come da
verbale di testimonianza e, solo coincidenza, proprio allo
stesso orario in cui il testimone della casa vicina al luogo
del delitto dichiara di non sentire piu' il suono
dell'autoradio), ma alle 23--23,30 il poliziotto viaggia in
senso contrario a quello dello Spalletti nel percorso di via
dell'Arrigo, quindi proviene lui dalle vicinanze del luogo
del delitto. Il poliziotto e lo Spalletti si conoscono bene.
Lo Spalletti non ha bisogno di memorizzare il numero di
targa, perchè conosce bene chi sta incrociando in quella
strettoia. Il poliziotto capisce quindi di non poter evitare
di dare testimonianza, anche dopo aver magari scelto di
fare la telefonata anonima (quante persone potevano aver
incrociato a quell'ora e su quella maledetta strada lo
Spalletti ?). E lo Spalletti sarà pure un ingenuo guardone,
ma qualche collegamento lo saprà fare e del resto qualche
allusione gli scappa da quello che leggiamo. E poi che
affollamento di rappresentanti di forze dell'ordine in quei
luoghi oltre ai guardoni : mi riferisco al Sifone in
borghese che trova i cadaveri il mattino dopo.
Sicuramente collega del Guido...

2.
Marco25 agosto 2022 alle ore 07:27
Anonimo,interessante considerazione
3.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:39

il mostro secondo me e' uno che ha sofferto moltissimo


per amore .
Rispondi

3.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:40

i compagni di merende ,,,, ridicolo chi li ha indagati .


Rispondi

4.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:43

il vero mostro e' una persona sola e stop! questa la mia teoria
,uno che ha tanto sofferto per amore lasciato dalla fidanzata , il
primo delitto non centra niente con quelli a partire dal 74 ,
questo stronxo ha trovato la pistola durante le ricerche
dell'arma la tenuta nascosta e poi messa in azione anni dopo.
sardi e compagni di merenda non centrano una mazza!
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Le Bartoline

Data: Giovedì, 22 Ottobre 1981;


Luogo: Travalle di Calenzano (PO), località Le Bartoline;
Orario: Di difficile collocazione, probabilmente fra le 23.00 e le 24.00
secondo alcune testimonianze;
Vittime: Stefano Baldi, 26 anni; Susanna Cambi, 24 anni;
Automobile: Volkswagen Golf nera targata FI A21640;
Fase Lunare: Sei giorni prima del Novilunio: metà luna calante.

Prima del delitto


Il nuovo duplice omicidio avvenne di giovedì, dunque questo è
l'unico delitto della serie (a parte quello del '68) che non è stato
commesso durante il week-end. Va però detto che per il giorno
successivo (venerdì 23 ottobre 1981) era previsto uno sciopero
generale dei lavoratori, di quelli degli anni '80 che avevano
larghissima adesione.
Il mese era quello di ottobre, dunque questo è l'unico duplice
delitto che non è stato commesso in periodo estivo o più in generale
con clima estivo.
Stefano Baldi era di Calenzano, abitava a La Querce in via
Mugellese. Rimasto orfano di padre, era stato costretto ad
abbandonare la facoltà di medicina e cercare lavoro presso il
lanificio Stura a Vaiano. Susanna Cambi era di Firenze, era stata
assunta dalla ditta "Eurogiochi" di Padova come telefonista per le
televendite che venivano registrate all'Hotel Palace di Prato e
trasmesse su TV Prato.
I due giovani erano prossimi al matrimonio, le nozze erano previste
per la primavera successiva e per questo stavano già allestendo la
casa in cui andare a vivere dopo il lieto evento, situata nello stesso
stabile dove Sefano viveva con la mamma.
La sera del delitto i due ragazzi cenarono a casa Baldi, quindi fra le
22:00 e le 22:30 uscirono a bordo della Golf del ragazzo. Da quel
momento in poi se ne persero le tracce.
Si è sparsa la voce secondo cui alcuni amici di Stefano riferirono che
inizialmente il giovane doveva trascorrere la serata con loro
guardando una partita di calcio e che solo alla fine cambiò idea
decidendo di vedersi con la Cambi. In realtà, spulciando fra
campionato di serie A, coppa Italia, coppe europee e partite della
nazionale, non è possibile trovare alcuna gara che si sia giocata
quella sera, quindi probabilmente si tratta della classica notizia falsa
– come ce ne son tante in questa storia – che una volta diffusa è
divenuta una verità storica.
Secondo il criminologo Enea Oltremari, il quale ha avuto modo di
parlare con alcuni amici del Baldi, il ragazzo rinunciò invece agli
allenamenti della sua squadra di calcio quella sera per poter passare
un po' di tempo con Susanna.

Scena del crimine


L'automobile della coppia venne ritrovata fra le 10:00 e le 11:00
della mattina successiva (venerdì, 23 ottobre 1981) in una traversa
sterrata di via dei Prati, località Le Bartoline, in una zona
solitamente frequentata di sera da coppie e da giovani in cerca di
un luogo appartato. Il ritrovamento avvenne ad opera di due
contadini, Bruno Corsini e Armando Cavani, che si affrettarono ad
avvertire le forze dell'ordine locali.
Ad arrivare per primi sul luogo del delitto furono dunque i
carabinieri della caserma di Calenzano, con a capo il comandante
della caserma, il maresciallo Dino Salvini. Successivamente sarebbe
arrivato il tenente Vittorio Trapani, comandante del Nucleo
Operativo della Compagnia di Prato.
L'automobile della coppia era posizionata a una cinquantina di
metri da via dei Prati, al centro della stradina sterrata, bloccando di
fatto il transito sulla stessa.
La vettura aveva il finestrino destro infranto, i frammenti di vetro
sparsi sul sedile anteriore destro ed entrambe le portiere chiuse. I
due cadaveri erano all'esterno dell'automobile; stando alla
ricostruzione ufficiale del delitto, si tratterebbe dunque dell'unica
volta in cui il MdF ha estratto anche il cadavere dell'uomo.

Il Baldi era sdraiato su un fianco a circa tre metri a sinistra


dall'automobile in posizione quasi fetale. Non aveva i pantaloni, le
mutande erano infilate solo alla gamba sinistra. Indossava una
camicia, i calzini e uno stivale. L'altro stivale era in macchina, sul
tappetino al posto di guida. Il ragazzo era stato raggiunto da 5 colpi
di arma da fuoco e 4 coltellate post-mortem. Sotto l'unghia di un
dito della sua mano destra furono rinvenuti due capelli di colore
castano chiaro ed alcune tracce di tessuto. Nella perizia medica
stilata dai dottori Mauro Maurri, Giovanni Morello e Maria
Grazia Cucurnia è riportato che "possono essere attribuiti con estrema
verosimiglianza a reperti piliferi appartenuti a Susanna Cambi".
Dal canto suo, la Cambi era stata attinta da 4 colpi di arma da fuoco
e 4 di coltello. Venne ritrovata a circa 5 o 6 metri dall'automobile
sulla destra, seminascosta dalla vegetazione, sul greto di un canale
di scolo delle acque, quasi in posizione seduta. Aveva indosso la
maglietta sollevata fino al collo, così come il reggiseno. Il seno
sinistro presentava ferite d'arma bianca (forse un'anticipazione
delle escissioni del 1984 e 1985). Portava una gonna lunga, tagliata
verticalmente sul davanti da un colpo di arma bianca. Come nel
delitto di pochi mesi prima, le era stato asportato il pube, ma questa
volta in maniera più drastica rispetto a Mosciano. Il taglio era più
vasto e più profondo tanto che nel Processo Pacciani si disse che era
stato asportato anche il tessuto perianale ed erano visibili le anse
intestinali. Nella mano sinistra, Susanna stringeva una ciocca di
capelli. Da esami successivi risultarono appartenere al Baldi.
Non erano visibili segni di trascinamento sul corpo della ragazza
tranne su una gamba dove erano presenti alcune striature che
avrebbero potuto essere ricondotte a un trascinamento. Durante il
Processo Pacciani, la dottoressa Cucurnia parlò di vaghissimi segni
di trascinamento sul terreno che comunque era erboso e non
lasciava evidenti tracce. Sempre la stessa dottoressa parlò di altri
segni che avrebbero potuto far pensare a un trascinamento, in
particolare visibili sull'unico stivale indossato dal ragazzo.
Analogamente, durante il Processo ai CdM, il maresciallo dei
carabinieri di Calenzano, Dino Salvini, riferì di aver ricordo di
segni di trascinamento esclusivamente sull'erba che si trovava dalla
parte sinistra dell'automobile delle vittime, mentre dalla parte
destra vi era un tipo di erba diversa, bassa e tendente a rialzarsi, che
dunque non poteva lasciare vistose tracce.
Dal canto suo, il super-poliziotto Michele Giuttari affermò durante
lo stesso processo ai CdM che non furono affatto rivelate tracce di
trascinamento, ma è bene precisare che Giuttari non era mai stato
sul luogo del delitto e quindi riportava testimonianze raccolte nei
verbali; inoltre il suo potrebbe essere inteso come un modo per
tirare acqua al mulino della Pubblica Accusa, volendo cioè mettere
in evidenza come sul luogo del delitto fossero presenti più esecutori
che avrebbero potuto sollevare i corpi del ragazzo e della ragazza.
Complessivamente non c'è dunque molta chiarezza - come sempre
del resto - sulle testimonianze in merito.
Possiamo tuttavia concludere che, a differenza del delitto di quattro
mesi prima in cui i medici legali esclusero l'ipotesi del
trascinamento, in questo caso tracce in tal senso sembravano essere
state rilevate.
La borsa di Susanna venne trovata sul sedile posteriore della
macchina. Non venne trovato né un portafogli e/o un portamonete,
né alcun documento della ragazza. Nella borsa venne invece
rinvenuto un borsello vuoto chiuso e stranamente il libretto di
circolazione della macchina del fidanzato.
Per concludere, vennero repertati sul luogo del delitto due
particolari che avrebbero solleticato l'interesse di inquirenti e
opinione pubblica:
▪ a circa cinque metri di distanza dalla parte anteriore
dell'automobile, dunque dalla parte opposta di via dei Prati, fu
rinvenuta sul terreno un'impronta piuttosto nitida di uno stivale
numero 44.
▪ a circa tre metri di distanza dalla vettura fu rinvenuta una pietra
tronco-piramidale molto caratteristica, lavorata a mano e verniciata
di rosso, su cui parecchio si elucubrerà.

Dopo il delitto
Un nuovo duplice omicidio, a poco più di quattro mesi dal
precedente, scatenò nell'opinione pubblica la vera e propria psicosi
da serial killer.
Due giorni dopo, il 24 ottobre, venne scarcerato Enzo Spalletti che
ben presto scomparirà definitivamente dalla vicenda. L'uomo si
ritirerà a vita privata e, ancora oggi a distanza di tanti anni, rifiuta
categoricamente di parlare con chicchessia dell'argomento (il che,
per certi versi, può essere anche comprensibile).
Dopo questo duplice omicidio, gli inquirenti entrarono per la prima
volta in possesso di un ipotetico identikit dell'assassino, ma
aspettarono quasi un anno prima di divulgarlo.
Il 4 Novembre 1981, il Giudice Istruttore del Tribunale di Prato,
dottor Salvatore Palazzo, richiese una perizia psichiatrica
sull'autore degli omicidi, nominando come perito il dottor Carlo
Nocentini, all'epoca psicologo e psicoterapeuta presso una struttura
pubblica. Nocentini, che verrà ascoltato al processo contro i
Compagni di Merende, parlerà di un soggetto probabilmente
affetto da sindrome paranoide e porrà l'accento su un evento
traumatico avvenuto in età infantile, forse avente a che fare con la
figura materna, che potrebbe aver scatenato l'odio del cosiddetto
Mostro nei confronti delle donne.

L'identikit:
A questo delitto risalgono le segnalazioni più importanti riguardo
un uomo visto nei pressi della scena del delitto in orario
compatibile con lo stesso. Di conseguenza, a questo delitto risale
l'identikit più celebre, quello che potremmo definire "ufficiale", del
MdF. Riportiamo due segnalazioni, verbalizzate dai carabinieri nei
giorni immediatamente successivi al duplice omicidio, forse
riguardanti la stessa persona:
1. Due fidanzati della zona, Giampaolo Tozzini e Rossella Parisi,
riferirono che fra le 23.40 e la mezzanotte di giovedì 22 ottobre,
sullo stretto "ponte della Marina" incrociarono un'automobile di
colore rosso che proveniva dal luogo del delitto e procedeva a
velocità sostenuta, alla cui guida c'era un uomo di circa 45/55 anni,
dal volto arcigno e sconvolto. Da questa segnalazione venne poi
realizzato il celebre identikit del MdF e dunque possiamo dedurre
che la polizia prese in seria considerazione questa testimonianza.

Per quanto riguarda l'automobile alla cui guida c'era l'ipotetico


MdF, durante il Processo ai CdM, Tozzini dichiarò che
presumibilmente la vettura era una Alfa GT. Presumibilmente
perché – secondo le dichiarazioni dello stesso Tozzini - all'epoca
esisteva anche la Lancia HF (sia Fulvia che Flavia) il cui davanti era
in tutto simile alla GT. Da notare che, come si scoprirà diversi anni
dopo, all'epoca del delitto delle Bartoline, il futuro
indagato Giampiero Vigilanti aveva proprio una Lancia Flavia di
color rosso (vedasi capitolo dedicato al Legionario).
Impressionante comunque la somiglianza dell'identikit realizzato
con la figura di Giovanni Faggi, abitante nella zona del delitto e
futuro imputato al Processo ai CdM. Tuttavia, sempre durante quel
processo, la Parisi non riconobbe nel Faggi l'uomo visto quella
notte, mentre il Tozzini, pur rimanendo piuttosto scettico sulla
possibilità che l'uomo fosse il Faggi, parlò di buona somiglianza.
Va comunque precisato che sebbene le forze dell'ordine tennero in
ottima considerazione questa testimonianza, tanto da far diventare
il suddetto identikit quello ufficiale del "mostro", non esiste alcuna
prova che il personaggio che Tozzini e Parisi incrociarono quella
notte, fosse davvero il MdF. Per quanto se ne sa, avrebbe anche
potuto essere un guardone che aveva assistito casualmente
all'omicidio e ne fuggiva sconvolto.
2. Dal rapporto giudiziario dei carabinieri, emerge che un'altra
coppia di fidanzati, rimasta anonima, quella notte ebbe uno strano
incontro. La coppia, che stazionava all'inizio di via dei Prati, riferì
di avere udito dei rumori all'esterno della propria automobile
attorno alle 22.40 e di aver scorto un uomo che probabilmente
tentava di avvicinarsi alla vettura. Il ragazzo era perciò sceso
dall'automobile, ma l'uomo era fuggito con un'andatura "dapprima
goffa, poi lesta". Dalla descrizione che la coppia rese di quest'uomo,
si trattava di un individuo sui 45/50 anni, con i capelli radi, dritti e
corti. Potrebbe essere lo stesso uomo visto in automobile da Pazzini
e Parisi, ma ovviamente non vi è alcuna certezza in merito.

Su questi due avvistamenti, durante il Processo ai Compagni di


Merende, creò un po' di confusione il maresciallo Dino Salvini, il
quale probabilmente non ricordando esattamente come si fossero
svolti gli eventi, riferì che il celebre identikit del presunto mostro
fosse stato stilato sulla base delle segnalazioni concordanti, seppur
distinte e separate, sia di Pazzini e Torrisi, che della seconda coppia.
Questo ovviamente gettò un po' di scompiglio in aula, sia per la
novità che rappresentava questa dichiarazione, sia soprattutto
perché - qualora fosse stata vera - dava tutt'altro peso
all'avvistamento di Tozzini e Parisi e alla bontà del relativo
identikit.
A riportare le cose al loro posto furono gli interventi in aula nei
giorni successivi del maresciallo Angelo Diotiaiuti, incaricato dal
PM di fare chiarezza sull'argomento, e del graduato della polizia
scientifica, Giovanni Simpatia, autore dell'identikit. Entrambi
dichiararono, senza alcun indugio, che tale identikit era stato fatto
esclusivamente sulla base della segnalazione della coppia Tozzini-
Parisi.

Particolarità alle Bartoline


● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo
nudo, così come a Mosciano, ma diversi da Rabatta e Signa.
Avevano impresso sul fondello la solita lettera H ed erano stati
sparati dalla medesima pistola Beretta calibro 22. Vennero rinvenuti
7 bossoli su 9 colpi sparati.
● Si è già detto della particolarità del giorno (giovedì) e del mese
(ottobre). Questo risulta dunque l'unico duplice omicidio della serie
attribuita al MdF che non avvenne d'estate ed è l'unico (a parte il
1968) che non avvenne di weekend. Inoltre, è l'unico duplice delitto
che avvenne nello stesso anno di un altro (ad appena 4 mesi
dall'omicidio di Mosciano) ed è quello che più di ogni altro fu
eseguito fuori dalla tipica zona-mostro, ove storicamente si intende
per zona-mostro quella di Scandicci (sud-ovest di Firenze) e quella
del Mugello.
● In questo caso l'attacco da parte del MdF è avvenuto da destra,
quindi dal lato passeggero.
Inoltre, per la prima e unica volta nella storia dei delitti commessi
dal MdF, almeno stando alla ricostruzione ufficiale, il corpo della
vittima maschile è stato tirato fuori dall'automobile e portato fra
l'erba a circa tre metri di distanza. Molti studiosi ritengono - a
parere di chi scrive a ragione - che il corpo di Stefano sia stato
estratto per rendere pulita la scena del crimine, non lasciare cioè
alla vista di eventuali passanti tracce dell'efferato crimine mentre il
killer compiva in disparte le escissioni sul corpo di Susanna. Si noti,
a questo proposito, che le Bartoline è probabilmente il luogo più
esposto fra tutti quelli scelti dal MdF per commettere i suoi eccidi.
Vi è però una frangia di mostrologi che ritiene che fu il Baldi a
uscire dalla macchina e a tentare una disperata fuga prima di essere
ucciso. Non esistono prove a sostegno di questa ipotesi, se non del
presunto terriccio ritrovato sul calzino destro del ragazzo e la
consapevolezza, almeno secondo costoro, che non ci fosse alcun
motivo per cui l'assassino avrebbe dovuto portar fuori dalla vettura
anche il cadavere del ragazzo.
● Il cadavere del Baldi venne rinvenuto con una sola gamba dei
pantaloni infilata. Nello stesso modo era stato rinvenuto pochi mesi
prima il cadavere di Giovanni Foggi a Mosciano. Questo ha portato
alcuni mostrologi a ipotizzare che l'agguato dei due differenti
omicidi fosse avvenuto nella stessa identica maniera, con il killer
che aveva appositamente scelto per colpire il momento in cui la
componente maschile della coppia si stava sfilando i pantaloni. In
quel momento, teoricamente, l'uomo sarebbe infatti stato
maggiormente vulnerabile.
● A differenza dei due precedenti delitti (settembre 1974 e giugno
1981) la fase lunare era ancora piuttosto distante dal Novilunio, la
serata tuttavia era piuttosto fredda e nuvolosa. Molto
probabilmente dunque la visibilità era comunque decisamente
scarsa.
● A differenza del precedente delitto di appena quattro mesi prima,
la Cambi fu raggiunta da 4 colpi d'arma bianca inferti post mortem,
uno criminologicamente "interessante" al seno sinistro, forse una
sorta di anticipazione delle escissioni mammarie dei delitti del 1984
e 1985.
● Come detto, l'asportazione del pube in questo delitto, sebbene
simile nelle modalità, fu molto più profonda rispetto al precedente,
tant'è che risultavano visibili le anse intestinali della povera
Susanna. A proposito di questa asportazione si è spesso parlato di
operazione di bassa macelleria. Anche questa, come a Scandicci, è
stata eseguita da soggetto destrimane. Per i medici legali che si sono
occupati del caso si tratta comunque indubbiamente della stessa
mano.
● IMPORTANTE: Come detto, il Baldi venne ritrovato all'esterno
della vettura con addosso un solo stivale, l'altro era rimasto in
macchina, posizionato in maniera forse insolitamente ordinata sul
tappetino del posto di guida. Questa immagine potrebbe richiamare
alla mente un altro delitto della serie, quello del 1968, in cui una
delle calzature del Lo Bianco era sul tappetino della vettura, mentre
l'altra era regolarmente al piede del cadavere. Da notare che
all'epoca del delitto di Travalle non era stato ancora effettuato il
collegamento col delitto di Signa, quindi secondo alcuni mostrologi
sarebbe stato proprio il MdF a comporre appositamente quella
parte di scena del crimine in modo da suggerire agli inquirenti il
collegamento con Signa. In seguito, sempre secondo costoro,
vedendo che la somiglianza non era stata colta, lo stesso MdF
avrebbe provveduto per altre vie a rivendicare il duplice omicidio
del 1968 (si veda capitolo La pista sarda).
● A proposito di calzature, come anticipato, venne ritrovata sulla
scena del crimine un'orma di stivale numero 44. Non si è mai
saputo a chi appartenesse anche se si parla di un incauto membro
delle forze dell'ordine arrivato sulla scena la mattina dopo. Durante
il Processo Pacciani, l'allora comandante della stazione dei
carabinieri di Calenzano, il maresciallo Dino Salvini, accennò alla
possibilità che questa orma fosse antecedente all'omicidio, in
quanto sembrava che altre orme passassero sotto la macchina dei
ragazzi e proseguissero oltre. Tuttavia, sempre durante la stessa
udienza, l'allora ispettore della polizia scientifica, Claudio Valente,
non confermò queste dichiarazioni. Anzi, secondo altre fonti, orme
meno nitide di quella rilevata sembravano costeggiare la macchina,
quindi dovevano essere state lasciate durante o dopo il delitto.
In tempi molto recenti, alcuni studi hanno portato a stabilire che
quell'impronta era stata lasciata da uno scarpone di tipo militare in
vendita in Francia. Questo particolare ha ovviamente richiamato
ulteriormente l'attenzione sull'ultimo indagato per i delitti del MdF,
l'ex legionario Giampiero Vigilanti, la cui posizione è stata fino al
novembre del 2020 al vaglio degli inquirenti. Inoltre gli stessi studi
hanno evidenziato possibili impronte di cani sovrapposte a quella
dello scarpone. Anche in questo caso, da notare che il Vigilanti
soleva uscire nottetempo per lunghe passeggiate con i suoi cani
(vedasi capitolo dedicato al Legionario).
All'epoca del Processo Pacciani venne comunque avanzata l'ipotesi
- non aprioristicamente escludibile - che quell'impronta potesse
essere stata lasciata da cacciatori passati in loco prima del delitto.
● Venne inoltre trovata sul luogo del delitto una piccola pietra
tronco-piramidale dalla superfice estremamente levigata e dipinta
di rosso che diede il via a una serie di illazioni sul carattere
esoterico di questo omicidio. Alcuni mostrologi hanno anche
ipotizzato che tale pietra fu utilizzata dall'assassino per rompere il
finestrino della macchina del Baldi. Va però detto che, sempre
secondo quanto riferì il maresciallo Dino Salvini al Processo
Pacciani, queste pietre in Toscana non hanno alcun particolare
significato ma vengono appositamente levigate e decorate per
essere usate come fermaporte nelle case di campagna. Come e
perché poi una di queste fosse finita sul luogo del duplice omicidio,
non è dato saperlo.
● Un particolare molto inquietante avvenne la mattina dopo
l'omicidio, quando non solo la notizia del delitto non era ancora
stata divulgata, ma probabilmente i cadaveri non erano ancora stati
ufficialmente scoperti. Attorno alle 10.00 del mattino arrivò infatti
una telefonata a casa della zia di Susanna Cambi, la signora Maria
Nencini in Pieraccini. Il chiamante, senza presentarsi, chiese con
insistenza di parlare con la mamma di Susanna. La telefonata si
interruppe bruscamente a causa di un guasto alla linea; lo
sconosciuto interlocutore non ebbe più modo di mettersi in contatto
con casa Pieraccini. L'aspetto più strano della vicenda è dovuto al
fatto che in quei giorni la famiglia di Susanna alloggiava
momentaneamente proprio a casa della zia, ma erano davvero in
pochi a esserne a conoscenza. Chi aveva telefonato, qualunque fosse
stato il motivo, sapeva dunque perfettamente di poter trovare lì la
mamma di Susanna.
Secondo Wikipedia, la voce che effettuò la telefonata era: "chiara,
distinta e priva di inflessioni dialettali". Secondo altre fonti, invece, la
voce, gentile ma insistente, aveva un marcato accento toscano. La
zia di Susanna è sempre stata convinta che quella telefonata fosse
stata fatta dall'assassino.
Parte dell'odierna mostrologia tende invece a dare minor peso a
questo episodio, valutando la possibilità che quella telefonata
potesse avere a che fare con l'abitazione dove la famiglia Cambi
sarebbe dovuta andare a vivere da lì a breve.
● Pare ci fosse stata una telefonata strana anche a casa del Baldi, ma
su questo punto non c'è molta chiarezza: verso le 20.30 del 22
ottobre 1981, dunque circa tre ore prima dell'omicidio, Stefano
ricevette una telefonata da un tal geometra incaricato di una pratica
per la costruzione della casa che Stefano e Susanna stavano facendo
erigere. La telefonata era stata presa dalla mamma di Stefano che in
seguito ne riportò il particolare alle forze dell'ordine. Sembra che
tutti i geometri interpellati abbiano in seguito smentito di aver
effettuato tale telefonata, di conseguenza non è ben chiaro chi abbia
cercato Stefano qualche ora prima del delitto.
● La Cambi aveva frequentato Borgo San Lorenzo da bambina,
luogo dove trascorreva le ferie estive e dove nel 1974 era avvenuto
l'omicidio di Rabatta.
Inoltre, fino a poco tempo prima del delitto, Susanna aveva vissuto
con la mamma e la sorella Cinzia in una casa in via Benedetto
Marcello, nel quartiere San Jacopino a Firenze. Tale abitazione era
di proprietà della signora Ada Pinori, moglie di un noto avvocato
fiorentino, in seguito coinvolto nelle indagini sul Mostro di Firenze
come presunto mandante dei delitti (vedasi capitolo dedicato a Il
secondo livello).
● Anche la povera Susanna (come la Pettini 7 anni prima) nei giorni
precedenti all'omicidio si era lamentata di un tale che la pedinava e
la importunava. In una circostanza, secondo quanto riportato
dall'avvocato Nino Filastò, mentre era alla guida delle sua
automobile la ragazza aveva quasi provocato un incidente stradale
eseguendo una manovra brusca, spiegando poi alla madre, al suo
fianco, che la manovra era dovuta a "un tale, il solito" che la seguiva
e che lei non voleva incontrare.
Interrogata in merito, la già citata Cinzia Cambi, sorella della
vittima, aveva fatto nomi di alcune persone sgradevoli che nel corso
del tempo potevano aver importunato Susanna e fra questi figurava
quello di tale Gianni Frezzolini, cancelliere del tribunale di Firenze,
che a dire di Cinzia: "...ci ha sempre promesso aiuti per favorire la
stipula del concordato (riferendosi ad attività lavorative della famiglia
Cambi, NdA) ma non ha fatto mai nulla."
Un paio di anni dopo, precisamente nel novembre del 1983, il
Frezzolini sarebbe stato arrestato insieme ad altre dodici persone, in
quanto complice di una banda di rapinatori specializzata in colpi in
ville nella zona di Firenze. Frezzolini venne condannato per aver
fornito alla suddetta banda i duplicati delle chiavi dell'ufficio Corpi
di Reato sia della Pretura di Lucca che del tribunale di Firenze,
presso cui aveva lavorato. In tal maniera i componenti della banda
potevano attingere al materiale (anche armi e munizioni)
conservato nei suddetti uffici. Inutile sottolineare che
verosimilmente nell'ufficio "Corpi di Reato" del tribunale di Firenze
erano conservati anche i bossoli rivenuti sulle scene dei delitti del
Mostro.
● Sempre a proposito dell'appena citato avvocato Filastò, si è visto
come nel delitto del 1974, il libretto di circolazione dell'automobile
del Gentilcore fosse stato trovato sul pianale dell'auto, mentre nel
giugno del 1981 il portafogli del Foggi fosse stato rinvenuto sul
cruscotto della vettura. In questo delitto il libretto della Golf del
Baldi venne ritrovato nella borsa della Cambi. Questo particolare
ovviamente può essere suscettibile di diverse interpretazioni che
riportiamo brevemente:
▪ normalmente o anche solo quella sera, la Cambi portava nella
propria borsa il libretto di circolazione dell'automobile del
fidanzato perché questi non voleva lasciarlo nel cassetto
portaoggetti e/o non aveva una borsa dove infilarlo;
▪ anche in questa occasione, il killer, come già nei tre precedenti
delitti (Signa, Rabatta, Mosciano) aveva frugato nella borsa della
donna, magari ne aveva svuotato il contenuto su un sedile, per poi -
dopo avervi dato un'occhiata - riporlo nuovamente dentro la borsa,
non accorgendosi di averci infilato anche il libretto dell'automobile.
Questa interpretazione presupporrebbe che il libretto era già sul
sedile mentre il mostro compiva queste operazioni;
▪ il libretto era sul sedile o comunque non più all'interno del vano
portaoggetti, perché il mostro era un "uomo in divisa" e - come già
avvenuto a Rabatta e a Mosciano - si era presentato ai due giovani
chiedendo i documenti e colpendo nel momento di maggior
sorpresa; in seguito, come nell'ipotesi precedente, il mostro stesso
avrebbe riposto il libretto nella borsa di Susanna;
● A proposito del contenuto della borsa della Cambi, risulta strana
la mancanza di un portafogli e/o portamonete e dei documenti
della ragazza, tant'è che qualcuno ha ipotizzato potessero essere
stati portati via dall'assassino. In realtà se nulla possiamo dire circa
il portafogli, risulta certo che quella sera Susanna non avesse con sé
i propri documenti, in quanto qualche giorno dopo il delitto la sua
carta d'identità e la sua patente furono consegnati dalla
sorella Cinzia ai carabinieri di Calenzano.

● Dopo questo delitto salì ai disonori della cronaca il nome del


dottor Garimeta Gentile, ginecologo e direttore della struttura
sanitaria Villa Le Rose. Si dice che fu una voce popolare, secondo
cui la moglie del dottore aveva trovato i resti delle vittime
femminili nel frigorifero di casa, a dare il via alle illazioni sul
medico fiorentino. Alcuni cittadini inferociti si radunarono persino
presso la residenza del primario che fu salvato dal linciaggio solo
dall'intervento delle forze di polizia, costrette in seguito a presidiare
a lungo la sua abitazione. Successivamente la Procura della
Repubblica di Firenze diffuse un comunicato in cui ribadì
fermamente la falsità di certe voci. Lo stesso medico si vide
costretto a minacciare di querela tramite il proprio legale sulle
pagine de "La Nazione" chiunque avesse continuato ad alimentare
le voci di un suo coinvolgimento nei delitti del MdF.

● Attorno alla zona di Calenzano ruotavano diversi personaggi


connessi in un modo o nell'altro con la storia del Mostro di Firenze.
A parte le due giovani vittime, possiamo annoverare:
▪ Salvatore Vinci che dal 1963 risiedeva alla Briglia, nel Comune di
Vaiano, a pochi chilometri da Travalle.
▪ Il futuro indagato Rolf Reinecke (vedasi capitolo Il secondo
livello), conosciuto a Prato per essere stato socio di uno
stabilimento tessile alla Briglia tra la fine degli anni '70 e gli inizi
degli anni '80 e per aver sposato la signora Silvia Bartolini,
appartenente ad una delle più note famiglie di industriali di Prato.
▪ L'ultimo indagato per i delitti del Mostro, l'ex
legionario Giampiero Vigilanti, originario di Vicchio (come
Pacciani) ma residente da anni a Prato, nella zona del Cantiere.
● Pur se non in maniera diretta, avrebbe avuto dei contatti con
Calenzano anche il futuro imputato Pietro Pacciani. Un contatto era
sicuramente dato dal già citato Giovanni Faggi, commerciante
calenzanese, il quale aveva conosciuto Pacciani nel 1977 e con cui
era rimasto presumibilmente amico, nonostante durante i Processi il
Faggi avesse ovviamente fatto di tutto per sminuire tale
conoscenza. Per maggiori dettagli, si rimanda al relativo capitolo.
Un secondo punto di contatto era dato da uno dei datori di lavoro
di Pacciani, l'imprenditore Afro Gazziero (alcune fonti, anche
prestigiose, riportano il nome con una sola "zeta", ma la versione
corretta è quella con due "zeta"). Ricco industriale di origine
bolognese, all'epoca dei fatti il Gazziero aveva dei terreni agricoli a
San Casciano, presso cui per un certo periodo aveva lavorato
Pacciani, e un'azienda a Calenzano. Stando a quanto riportato nel
Processo Pacciani, tra l'ottobre e il novembre del 1982 tale azienda
venne colpita da un incendio di vaste proporzioni, al termine del
quale il Pacciani ricevette il compito di dare una mano a ripulire i
locali devastati dal fuoco e dal fumo. In questa occasione il Pacciani
si appropriò - come probabilmente suo costume - di diversi oggetti
rinvenuti nei locali. Stando ai suoi memoriali, fra questi oggetti vi
era anche il famigerato disegno "Sogno di Fatascienza", che tanta
parte avrebbe avuto nel processo a suo carico (vedasi il relativo
capitolo).
Secondo alcune fonti mostrologiche, l'azienda era prospiciente al
luogo del delitto, in realtà come si apprende nell'udienza del 1
giugno 1994 del Processo Pacciani, era sita in via Garibaldi 70, in
linea d'area molto vicina, ma non prospiciente. C'è da sottolineare
anche come l'incendio e il successivo impiego del Pacciani in loco
fosse avvenuto circa un anno dopo il delitto delle Bartoline. Più in
generale, secondo le fonti ufficiali, il rapporto lavorativo fra
Pacciani e Gazziero aveva avuto inizio proprio nel 1982, quindi
anche in questo caso successivamente al delitto. Ovviamente ciò
non impedisce che Pacciani potesse aver lavorato in nero per il
Gazziero e dunque frequentato Calenzano anche precedentemente,
ma nulla attesta una simile eventualità.
● Durante la deposizione al Processo Pacciani del maresciallo dei
carabinieri Antonio Amore del Nucleo Investigativo di Prato,
emerse un particolare piuttosto interessante, specie se collegato ad
eventi successivi risalenti al duplice delitto di Vicchio del 1984 e a
quello di Scopeti del 1985.
Su domanda dell'avvocato Bevacqua, Amore dichiarò infatti che in
una tarda serata del luglio del 1981 (quindi pochi mesi prima del
delitto Baldi/Cambi) in un bar di Calenzano in zona Nome di Gesù,
a pochissima distanza dalle Bartoline, una guardia giurata di
nome Nicola Esposito era stata avvicinata da un uomo che aveva
dimostrato un certo interesse verso la divisa e l'arma che l'Esposito
portava in dotazione. Quest'uomo, dopo aver mostrato all'Esposito
tre proiettili, vecchi e ossidati, calibro 22 Long Rifle con la lettera H
sul fondello, decise di regalarglieli, sostenendo di averne altri 500 o
600 in casa. Tale uomo venne descritto dall'Esposito alto circa 1.80,
di corporatura robusta, spalle larghe, stempiato, con i capelli color
biondo-rossiccio. La descrizione è simile a quella che altri testimoni
hanno fornito di un possibile sospetto in occasione del delitto di tre
anni dopo a Vicchio e di quello del 1985 a Scopeti (vedasi il
paragrafo dedicato al "Rosso del Mugello" nel capitolo de La
Boschetta).
Tale testimonianza era stata portata dallo stesso Esposito al Nucleo
Investigativo di Prato l'11 settembre del 1985, due giorni dopo la
scoperta del delitto alla piazzola degli Scopeti.
● Questo viene solitamente considerato il delitto che scagiona il
dottor Francesco Narducci, in quanto in quei giorni il celebre
gastroenterologo era a Philadelphia negli USA per un convegno
medico, particolare questo confermato anche dal
magistrato Giuliano Mignini, uno dei grandi accusatori del
Narducci. Secondo le fonti ufficiali, infatti, il Narducci partì per gli
Stati Uniti il 16 settembre 1981 e rientrò in Italia il 13 dicembre 1981.
A detta dello stesso Mignini, i timbri sul passaporto non sembrano
lasciare spazio a dubbi.
Tuttavia, alcuni mostrologi convinti della colpevolezza del
Narducci non esitano a sostenere che il medico possa aver fatto in
tempo a rientrare in Italia in occasione del delitto a dispetto degli
scioperi nazionali che in quei giorni affliggevano il paese.
● Una settimana dopo il duplice omicidio, precisamente il 29
ottobre 1981, il quotidiano "La Nazione" riportò un inquietante
episodio accaduto presso la Galleria degli Uffizi a Firenze, che la
voce popolare collegò subito alle vicende del Mostro di Firenze.
Mano ignota aveva infatti sfregiato alcuni dipinti rtraenti nudi
femminili. Tre di questi sfregi riguardavano la zona pubica delle
figure femminili, completamente asportata con un intarsio
triangolare. Secondo la voce del popolo a realizzare quegli sfregi
era stato proprio il Mostro di Firenze in visita agli Uffizi. Si scoprirà
successivamente che l'articolo faceva riferimento, però, a un
episodio accaduto nel lontano 1965, ben sedici anni prima gli eventi
di Calenzano e tre anni prima il duplice omicidio di Castelletti.
● Dopo questo delitto, il 15 Novembre 1981, non sapendo
minimamente dove andare a cercare l'assassino, il Giudice
Istruttore di Prato, Salvatore Palazzo, si recò da una celebre
sensitiva di Scandicci, la signora Teresa Stoppioni, nella speranza
di ricavare qualche informazione sul mostro. La sensitiva diede una
marea di informazioni sull'assassino, sui luoghi che frequentava, le
sue abitudini, i suoi interessi, le sue conoscenze, persino le parole
che usava. Ai fini pratici, però, tutte queste informazioni si
rivelarono (ovviamente) inutili. Uno sconsolato dottor Palazzo
commentò a questo modo la visita: "Parlò molto, ma le tante cose che
disse non risultarono poi utili. La verità è che le provammo tutte, anche
quella di ascoltare cosa aveva da dirci una veggente."

Mostrologia alle Bartoline


La domanda più ricorrente riguardo questo duplice omicidio è
"perché un delitto fuori stagione", "fuori zona" e a così breve
distanza dal precedente?
Vediamo le ipotesi che si possono fare:

► IPOTESI N° 1: Gli impulsi del MdF erano diventati


incontrollabili, di qui l'esigenza di colpire alla prima occasione utile,
indipendentemente dall'intervallo di tempo, dalla zona e dalla
stagione.

► IPOTESI N° 2: Unico scopo di questo delitto era far scarcerare


Enzo Spalletti, quindi doveva essere eseguito alla prima occasione
utile, indipendentemente dall'intervallo di tempo, dalla zona e dalla
stagione.

► IPOTESI N° 3: Il MdF aveva puntato proprio quella coppia, ma


non poteva attendere l'estate successiva per colpire in quanto a
breve i giovani si sarebbero sposati e sarebbero andati a vivere
insieme, non avendo così più necessità di appartarsi in macchina.

► IPOTESI N° 4: In accordo con la teoria espressa nel precedente


capitolo da De Gothia, il MdF colpisce subito dopo la visione del
film Maniac, in proiezione dal 15 al 22 ottobre 1981 in un cinema di
Firenze. Dunque, prima il trailer martellante che aveva stuzzicato la
psiche labile del mostro in occasione del delitto di giugno, poi la
visione vera e propria del film, la cui ultima giornata di proiezione
era la stessa del duplice delitto di Ottobre, spinsero il MdF a colpire.

► IPOTESI N° 5: La meno gettonata e forse per questo meno


probabile ma comunque degna di essere citata; un'ipotesi che vede
in stretta relazione i due delitti del 1981. Il primo, quello di
Scandicci (6 giugno), è stato il delitto più precoce considerando
l'anno solare fra quelli del MdF. Forse è stato precoce proprio
perché il killer aveva già deciso di colpire due volte quell'anno,
tentando di distanziare gli episodi temporalmente più possibile
senza però allontanarsi troppo dalla stagione estiva.

L'ipotesi 1 è poco credibile, considerando che dall'anno successivo i


delitti tornarono a cadenzarsi annualmente, anzi addirittura sia nel
1982 che nel 1983 il MdF pur non riuscendo a effettuare le escissioni
non tornò a colpire una seconda volta nello stesso anno.
L'ipotesi 2 è più sensata, ma c'è da chiedersi se davvero al MdF
interessasse il destino di una persona come Spalletti. Forse il mostro
temeva che Spalletti a lungo andare potesse davvero dire qualcosa;
o forse non voleva che qualcuno fosse accusato dei delitti al suo
posto; o ancora magari c'era stata davvero una sorta di complicità
fra MdF e Spalletti.
L'ipotesi 3 è credibile, sia se consideriamo che la Cambi prima del
delitto parlò di qualcuno che la importunava, sia se pensiamo alla
misteriosa telefonata a casa della zia. Entrambe le situazioni fanno
pensare a una ragazza effettivamente controllata. Poi che a
importunarla e a fare quella telefonata fosse stato veramente il
MdF, ovviamente non possiamo saperlo. Così come, ammesso fosse
stato lui, non possiamo sapere se il delitto di Calenzano sia stato
commesso proprio in accordo con l'ipotesi 3.
Poco possiamo dire sull'ipotesi 4, sicuramente suggestiva, ma priva
di fatti concreti su cui poterla realmente basare. Tuttavia, ha una
certa coerenza pensare nel complesso all'ipotesi "Maniac" riferita ai
due delitti del 1981.
L'ipotesi 5, infine, non offre alcun appiglio di riflessione, va presa
per quella che è, mera speculazione senza alcuna possibilità di
riscontro o approfondimento.

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2 commenti:

1.
Alessiozazzimostrodifirenze31 marzo 2022 alle ore 08:49

Il sanpietrino che forse era usato come fermaporta mi è molto


familiare quando lo vede o ne sento parlare,io ho portato solo
indizi che secondo molti sono solo suggestioni,ma nessuno mi
ha provato che mio padre non aveva la htjunior rossa,quindi
insieme all identikit ritengo di poter avere i miei dubbi e
sospetti,poi il sanpietrino lo deve aver lanciato dietro la
macchina per sorprendere la coppia,inoltre mio padre aveva
un volpino e ho letto che insieme all impronta c'era anche una
di un cane non da caccia !
Rispondi

2.
Anonimo17 dicembre 2022 alle ore 12:18

e come no'''''h ah aha lo mostro di firenze che va ad


ammazzare con un auto rossa ha ah ah ah ah
Rispondi
Baccaiano

Data: Sabato, 19 Giugno 1982;


Orario: Con ottima precisione immediatamente dopo le 23.40;
Luogo: Baccaiano di Montespertoli, lungo via Virginio Nuova;
Vittime: Paolo Mainardi, 22 anni; Antonella Migliorini, 19 anni;
Automobile: Fiat 147 celeste targata F1 A90112;
Fase Lunare: Tre giorni prima del Novilunio, spicchio di luna
calante.

Prima del delitto


Siamo nel giugno del 1982, nel pieno dei vittoriosi mondiali di
Spagna. Erano in corso i gironi eliminatori. Le partite previste per le
21.00 di quella sera non erano di prima fascia.
Paolo Mainardi, di professione meccanico, e Antonella Migliorini,
cucitrice presso una ditta di confezioni di abiti, cenarono a casa
della mamma di Paolo. Al termine raggiunsero alcuni amici presso
la piazza del Popolo, a Montespertoli. Verso le ore 22.30 si
allontanarono a bordo della Fiat 147 celestina (e non bianca come
sembrerebbe dalle foto) di Paolo in cerca di un po' d'intimità. Si
fermarono in una piazzola lungo via Virginio Nuova, una strada a
modesto transito che collega i paesi di Baccaiano e Fornacette.
La piazzola, che altri non era che un piccolo slargo al fianco della
strada, era coperta su tre lati da vegetazione; l'automobile era
posizionata perpendicolarmente rispetto all'asse stradale, con il
muso rivolto verso i campi. A circa un chilometro di distanza dalla
piazzola, verso nord, c'è Baccaiano; a circa 500 metri, verso sud, c'è
il bivio per Poppiano. Questi riferimenti sono importanti per
determinare una corretta dinamica dell'evento omicidiario, come
vedremo sia in questo che nel prossimo capitolo.
Attorno alle ore 23.40, l'automobile di Paolo venne vista nella
piazzola dagli occupanti di una vettura che procedeva da Baccaiano
verso Fornacette. All'interno di questa vettura c'era un amico dello
stesso Mainardi, tale Francesco Carletti, che stava facendo scuola
guida a due ragazze. Il Carletti riferì che l'automobile del Mainardi,
posizionata sulla destra rispetto al suo senso di marcia, aveva la
luce interna accesa e i finestrini appannati. L'idea più diffusa,
nonché la versione ufficiale dell'omicidio, ritiene che in quel
momento la giovane coppia avesse terminato il rapporto sessuale e
mentre la ragazza sul sedile posteriore si stava rivestendo, il
ragazzo era al posto di guida, pronto a partire.
L'automobile con a bordo il Carletti proseguì dritto e un centinaio
di metri dopo il bivio per Poppiano (dunque complessivamente 600
metri dopo la piazzola) incrociò un'automobile con a bordo due
amici, Adriano Poggiarelli e Stefano Calamandrei, che
transitavano lungo la via Virginio Nuova in direzione opposta,
quindi verso Baccaiano.
Un minuto, un minuto e mezzo dopo (il tempo di percorrere ad
andatura ridotta quei 600 metri), l'automobile del Poggiarelli e del
Calamandrei passò davanti alla piazzola dove due o tre minuti
prima l'auto del Mainardi era stata vista dal Carletti. Ma questa
volta la scena era radicalmente cambiata. L'automobile del
Mainardi era sull'altro lato della strada, precisamente sulla destra
per chi procedeva verso Baccaiano, a fari spenti, con le ruote
posteriori infossate in una cunetta e quelle anteriori sulla banchina,
in posizione quasi obliqua. Ai due ignari ragazzi sembrò un
normale incidente stradale, in realtà il duplice omicidio era appena
avvenuto (o secondo alcune teorie era addirittura ancora in corso).

Poggiarelli e Calamandrei tirarono dritto fino a Baccaiano, distante


- come detto - all'incirca un chilometro dalla piazzola. Trovarono il
bar verso cui erano diretti, ormai chiuso. Senza neanche fermarsi,
come mossi da uno scrupolo, decisero quindi di tornare indietro a
controllare la macchina presumibilmente incidentata. Facendo un
semplice calcolo e considerando ancora una volta una velocità
moderata, trascorsero cinque minuti o poco più fra il primo
passaggio del Calamandrei e del Poggiarelli dinanzi alla vettura di
Paolo e il loro ritorno sul luogo del delitto. Quasi
contemporaneamente, si fermò anche un'altra automobile, una
Autobianchi A112 con a bordo una coppia di fidanzati, Concetta
Bartalesi e Graziano Marini, i quali riferirono di aver udito dei
colpi (forse di pistola) pochi minuti prima, mentre erano fermi in
una piazzola poco distante.

Scena del crimine


All'interno della macchina "incidentata" c'erano i corpi dei due
giovani. La Migliorini era seduta dietro ed era già morta. Il
Mainardi invece respirava ancora, ma qui sorge il primo grosso
problema della vicenda perché non si sa bene dove fosse seduto, se
avanti o dietro.
Ci sono infatti testimonianze discordanti in merito: i quattro
giovani, giunti per primi sul luogo del delitto, riferirono che il
ragazzo era seduto davanti e su questo sembra non esserci alcun
dubbio, sia perché furono tutti concordi nell'affermarlo, sia perché
furono loro a notare che Paolo respirava ancora e risulta difficile
credere che avessero scorto il respiro (più o meno flebile) del
Mainardi, ma non si fossero resi conto di dove fosse seduto.
Poi arriveranno i soccorritori che invece dichiareranno che Paolo
era sul sedile posteriore. E anche di queste testimonianze
difficilmente si può dubitare, considerando che furono coloro che
armeggiarono a lungo con il corpo di Paolo e lo estrassero ancora
vivo dall'automobile; insomma, anche in questo caso risulta
davvero difficile credere che non si resero conto di dove fosse
seduto.
Si badi bene che questa delle differenti dichiarazioni risulta una
diatriba dapprima giudiziaria, in seguito mostrologica, piuttosto
importante per comprendere la dinamica del delitto e per capire chi
spostò l'automobile del Mainardi da un lato all'altro della strada.
Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, esistono infatti due
correnti mostrologiche distinte e in contrapposizione fra loro:
coloro che pensano che fu il Mainardi, nel tentativo di sfuggire
all'assalto del killer, a finire nella cunetta con l'automobile e coloro
che invece ritengono che fu il Mostro stesso a mettersi alla guida
dell'auto e, per qualche motivo, a finire con le ruote posteriori nel
fosso.
Tralasciamo comunque in questo capitolo l'atavica diatriba e
torniamo alle due coppie di giovani giunte per prime sulla scena
del crimine, le quali si separarono lasciando incustodita la scena del
crimine. Una andò a chiamare i carabinieri, l'altra i soccorsi. La
coppia formata dalla Bartalesi e dal Marini fu la prima a tornare sul
luogo del delitto in compagnia di tale Mario Di Lorenzo, gestore
del ristorante presso cui i due ragazzi si erano fermati a effettuare le
telefonate. Sono proprio le parole di questo Di Lorenzo a fornire
forse una prima possibile soluzione al mistero della posizione di
Paolo. Durante il Processo ai CdM, Di Lorenzo infatti dichiarò che
la ragazza era sul sedile posteriore destro, mentre il ragazzo si
lamentava appena ed era seduto "dietro fra i seggiolini". Gli venne
contestato il verbale delle dichiarazioni rilasciate la notte del delitto,
nel quale l'uomo aveva dichiarato che "il ragazzo si trovava disteso
con le gambe sul sedile anteriore e il corpo a bocconi nell'intercapedine fra
i due sedili con la testa adagiata sul sedile posteriore nella parte centrale".

Volendo ritenere tutti i testimoni in perfetta buona fede, la verità


sulla posizione del Mainardi potrebbe risiedere dunque in questa
dichiarazione: seduto davanti ma col corpo nell'intercapedine fra i
due sedili, il busto completamente reclinato all'indietro e la testa sul
sedile posteriore. Vedremo però nel prossimo capitolo che non tutti
i mostrologi sono concordi con questa idea.
Frattanto giunse sul luogo del delitto anche l'ambulanza. A
guidarla era tale Lorenzo Allegranti, il quale durante il Processo ai
CdM asserì categoricamente che il Mainardi era seduto dietro, ma
nello stesso processo si apprese che Allegranti non sarebbe mai
entrato nella macchina "incidentata", essendo rimasto nei pressi
dell'ambulanza per preparare la barella. A entrare nella macchina
erano stati invece i barellieri, all'epoca tutti minorenni e alla prima
esperienza assoluta in un'operazione di soccorso. I loro nomi
erano: Silvano Gargalini, Marco Martini e Paolo Ciampi. Anche i
barellieri riferirono durante il Processo ai CdM che il Mainardi era
seduto dietro, ma il Pubblico Ministero Paolo Canessa fece notare
come invece in sede di verbale, la notte stessa dell'omicidio, le loro
dichiarazioni fossero state differenti (cioè avevano riferito che il
Mainardi era seduto davanti).
Anche su questo punto non c'è omogeneità di vedute fra i
mostrologi: c'è chi ritiene che i barellieri in sede processuale
avessero voluto allinearsi alle dichiarazioni rese dall'Allegranti (ma
sinceramente non se ne capisce il motivo), c'è invece chi ritiene che
la notte del duplice omicidio sui giovanissimi barellieri fossero state
esercitate pressioni dalle forze dell'ordine affinché non dessero
versioni contrastanti e di conseguenza problematiche rispetto ai
ragazzi che per primi erano intervenuti sulla scena del crimine e
avevano visto il Mainardi seduto davanti. È lo stesso barelliere
Martini a indurre a pensare che questa seconda possibilità sia più
corretta, quando sempre al Processo ai CdM, per spiegare la
discrepanza di versioni, dichiarò: "...dopo circa tre ore, tre ore e mezzo
di interrogatorio, alla fine, a Montespertoli, dissi: fatemi firmare... scrivete
quello che vi pare e fatemi firmare quello che vi pare..."
Mettendo per il momento da parte le divergenze nelle varie
dichiarazioni e le eventuali pressioni esercitate sui testimoni la
notte dell'omicidio, soffermiamoci sui dati oggettivi che sono stati
rilevati sulla scena del crimine, importanti al fine di valutare nel
prossimo capitolo le teorie sulla dinamica del delitto.
Paolo Mainardi era stato attinto da quattro colpi di arma da fuoco,
mentre Antonella Migliorini da tre colpi d'arma da fuoco. Non era
stata adoperata arma bianca, dunque l'assassino non aveva né
infierito sui cadaveri, né praticato le orribili escissioni. In totale
vennero repertati sulla scena del crimine 9 bossoli, tutti quelli che
erano stati sparati dall'assassino. Era la prima volta che venivano
recuperati tutti i bossoli esplosi; succederà in seguito soltanto a
Scopeti. Quattro di questi bossoli furono rinvenuti nella piazzola
dove la vettura sostava originariamente, dunque dove l'agguato
aveva con ogni probabilità avuto inizio. Altri quattro bossoli erano
disseminati sul manto stradale, uno quasi al centro della
carreggiata, tre verso la cunetta dove si era infossata la vettura del
Mainardi. Un ultimo bossolo, come vedremo, fu rinvenuto
all'interno dell'automobile. Al centro della carreggiata pare fosse
presente sull'asfalto anche una macchia di sangue. Usiamo il verbo
dubitativo perché di questa macchia non vi è traccia nei rapporti
ufficiali ma venne documentata fotograficamente da alcuni
giornalisti giunti sulla piazzola del delitto. Torneremo su questo
punto nel prossimo capitolo.
L'automobile "incidentata" aveva le gemme dei fari anteriori rotti
da due colpi di pistola, il finestrino sinistro completamente infranto,
la portiera sinistra bloccata, mentre la portiera destra aveva la
chiusura inserita dall'interno.
Sul sedile posteriore venne rinvenuto l'orologio di Antonella con il
cinturino privo di una delle due maglie di giunzione. La maglia
mancante venne trovata dai medici in ospedale tra i capelli di Paolo
ed era - stando alle parole del dottor De Fazio - "arcuata e
deformata".
Inoltre, particolari molto importanti per chiarire la dinamica degli
eventi sono il freno a mano parzialmente tirato, la retromarcia
inserita, il sedile del posto di guida copiosamente imbrattato di
sangue. Infine, come detto, un bossolo venne rinvenuto sul
tappetino posteriore destro della vettura e le chiavi dell'automobile
non erano nel quadro, bensì furono ritrovate nell'erba oltre la
cunetta, un po' distanti dalla macchina.
Da questi ultimi due particolari emerge chiaramente come il MdF
avesse avuto accesso all'interno dell'automobile, magari anche solo
con un braccio attraverso il finestrino sinistro infranto. E nelle
ricostruzioni non si può prescindere da questo dato.
Dopo il delitto
Il Mainardi fu estratto ancora vivo dalla macchina e portato
d'urgenza all'ospedale di Empoli. Basandosi su questo, il Sostituto
Procuratore, dottoressa Silvia Della Monica, decise di tendere una
trappola al MdF. Chiese ai giornalisti di pubblicare una notizia
falsa, secondo cui la vittima maschile avrebbe rivelato dettagli
importanti per l'identificazione del killer. Nonostante il Mainardi
morì la mattina seguente senza aver mai ripreso conoscenza, i
giornali scrissero infatti che il ragazzo aveva parlato prima di
spirare. Quella stessa mattina arrivò una telefonata al Pronto
Soccorso di Empoli in cui un anonimo interlocutore chiese notizie
delle condizioni del Mainardi. Ovviamente non è dato sapere chi fu
l'autore di questa telefonata, se un giornalista in cerca di
informazioni, un semplice curioso oppure l'autore del delitto stesso,
preoccupato dalla piega degli eventi.
Sempre in tema di telefonate, alle 20.00 di martedì 23 giugno, 4
giorni dopo il delitto, l'autista di ambulanze Lorenzo
Allegranti ricevette la prima di una lunga serie di telefonate (a
volte gentili, a volte astiose, tutte della stessa persona), nella quale
venne invitato dal suo interlocutore, identificatosi come un
magistrato, a riferire ciò che aveva dichiarato il Mainardi. L'autista
si rifiutò di rilasciare dichiarazioni telefoniche, così nelle telefonate
successive i toni cambiarono. In una di queste, l'interlocutore
disse: "Allegranti, se lei parla è un uomo morto. Farò una strage. Si
ricordi, il mostro colpirà ancora".
Queste telefonate durarono a lungo, l'ultima arrivò addirittura nel
1984 (in prossimità del delitto Stefanacci-Rontini) quando
Allegranti era in vacanza a Rimini. L'Allegranti non ebbe mai il
telefono sotto controllo e l'autore non fu mai rintracciato.
Su queste telefonate (un po' come per tutte le cose che riguardano il
MdF) ci sono pareri contrastanti: Nino Filastò ritiene siano opera
del Mostro; la Procura di Firenze (come emerse per bocca di Paolo
Canessa durante il Processo ai CdM) le ritiene frutto di uno scherzo
ai danni del povero autista.
Effettivamente sembra strano che il MdF abbia potuto perseguitare
così a lungo l'Allegranti, anche quando era ormai evidente che il
Mainardi non avesse parlato. Così come sembra strano che il MdF
conoscesse così bene gli spostamenti dell'Allegranti, tanto da
contattarlo nella pensione di Rimini dove alloggiava nell'estate del
1984. Oltretutto se qualcuno doveva essere contattato per avere
notizie sulle rivelazioni di Mainardi, questi dovevano essere i
giovani barellieri dell'ambulanza e non l'autista che sedeva davanti
al posto di guida e lontano dalla vittima. Tali barellieri erano per
giunta giovanissimi e decisamente più impressionabili e
suggestionabili di un uomo maturo, quindi più propensi
eventualmente a parlare. Insomma, almeno su questo punto, la tesi
della Procura sembra tuttora la più probabile.

Particolarità a Baccaiano
● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo
nudo così come a Mosciano e Calenzano, ma diversi da Rabatta e
da Signa, con impresso sul fondello la lettera H. Provenivano dagli
stessi lotti prodotti attorno al 1966. La pistola che sparò era
ovviamente sempre la stessa.
● Dalle testimonianze raccolte fra parenti e amici della coppia,
risulta che Paolo e Antonella fossero estremamente legati,
innamoratissimi e quasi inseparabili, tanto da venir
chiamati Vinavil. Dalle stesse testimonianze emerse che Antonella
era rimasta fortemente impressionata dagli omicidi commessi dal
MdF; per questo i due giovani evitavano per quanto possibile di
appartarsi in automobile oppure sceglievano posti non
eccessivamente isolati, poco adatti a un assalto del killer, come
appunto la piazzola sul bordo di via Virginio Nuova.
● Secondo la testimonianza al Processo Pacciani di tale Pancrazio
Matteuzzi, amico ed ex collega del Mainardi, alcuni mesi prima del
delitto la coppia era stata molestata da un guardone che aveva
come particolare connotazione fisica l'essere claudicante.
Stando a quanto dichiarò sempre al Processo Pacciani l'ispettore di
polizia e dirigente della SAM, Riccardo Lamperi, era stata svolta
un'indagine su tale guardone, il quale era stato successivamente
identificato ma poi giudicato estraneo ai fatti.
● Il giorno del delitto, in una paese vicino, Cerbaia, ricorreva la
festa patronale. Questo particolare rese la via Virginio Nuova,
teatro dell'omicidio, abbastanza trafficata nelle ore serali.
● La scelta di un luogo piuttosto esposto per commettere l'omicidio
può indicare 4 cose:
1. estrema sicurezza nei propri mezzi da parte del MdF;
2. difficoltà a trovare coppie appartate in quel periodo;
3. volontà di uccidere proprio quella coppia e quindi approfittare
dell'unico momento disponibile per compiere il duplice delitto;
4. errata valutazione delle difficoltà da parte del MdF, che avrebbe
dovuto necessariamente poi spostare il corpo di Antonella in un
posto più appartato per procedere con l'escissione: quanto meno
oltre la vegetazione che su tre lati circondava l'automobile.
Qualunque sia la risposta, la scelta del luogo è stata estremamente
audace.
● Come detto, la coppia aveva verosimilmente già consumato il
rapporto sessuale quando ebbe inizio l'azione omicidiaria. Questa è
indubbiamente un'anomalia nel modus operandi del MdF e
potrebbe far pensare a un impulso improvviso e non programmato
dell'assassino. Che il rapporto fosse stato già consumato è stato
desunto da un preservativo usato e annodato che venne rinvenuto
sul tappetino posteriore della macchina. Va tuttavia precisato che
quel preservativo non venne mai analizzato, dunque non fu
possibile stabilire con certezza a quando risaliva. Risulta tuttavia
difficile credere che due ragazzi lasciassero un preservativo usato
per più giorni all'interno della vettura che regolarmente usavano.
Oltretutto Paolo era meccanico e quindi si suppone molto attento
alla cura e alla pulizia della propria automobile.
● Come abbiamo visto, durante l'azione delittuosa furono sparati
nove colpi d'arma da fuoco: sette attinsero la giovane coppia, due
andarono a colpire i fari dell'automobile. Per la prima volta furono
recuperati tutti i bossoli.
Questo è il numero di colpi più alto sparato dal MdF durante uno
dei suoi delitti. Considerando che anche a Scopeti furono sparati
nove colpi e considerando le dinamiche particolari di questi due
delitti, la maggior parte dei mostrologi ritiene che la pistola del
MdF contenesse appunto al massimo nove colpi, otto nel caricatore
e uno in canna.
● Si è sparsa la voce in svariati ambienti mostrologici che
esisterebbero altri due testimoni del delitto. Questi sarebbero due
ragazzi che attraversavano via Virginio Nuova su un ciclomotore e
che passarono davanti all'automobile incidentata del Mainardi
qualche secondo dopo l'assalto del killer. I ragazzi notarono al
posto di guida un uomo che tentava di nascondere il proprio volto
poggiandolo sul volante, come fosse gravemente ferito. Risulta
facile intuire che tale persona sarebbe stata il killer, il quale stava
cercando di spostare l'automobile incidentata dal fosso.
In realtà, non esiste alcun verbale che attesti la presenza di questi
due testimoni. Chi sostiene la loro esistenza, giustifica la mancanza
di un verbale con il fatto che i due ragazzi fossero minorenni,
dunque avrebbero testimoniato oralmente e sarebbero stati lasciati
andare; altri - più saggiamente - sostengono che i giovani non si
presentarono mai a testimoniare ma parlarono semplicemente in
paese di ciò che avevano visto, lasciando così che si spargesse la
voce.
Risulta quanto meno ostico farsi andare bene queste spiegazioni, in
ogni caso non essendoci prova documentale che attesti la reale
esistenza dei giovani testimoni, al momento tale episodio in questi
scritti viene derubricato a una delle tante leggende metropolitane
che si sono sedimentate nel corso degli anni e che purtroppo ancora
oggi alimentano la vasta storia del MdF.
● Il giorno dopo il duplice omicidio, verso le 11 del mattino, venne
ritrovata sul luogo del delitto una bustina di un farmaco,
il Norzetam, usato contro il deterioramento cognitivo di grado lieve
nelle persone anziane. Si dice (non si sa bene quali siano le fonti
comunque) che Francesco Vinci facesse uso di questo medicinale.
Tuttavia i tempi e i modi con cui questo farmaco venne rinvenuto,
non escludono affatto che possa essere stato lasciato da qualsiasi
altra persona capitata successivamente sul luogo del delitto.
● Secondo una relazione di servizio del brigadiere Salvatore
Oggianu del comando di Montespertoli che raccolse le
dichiarazioni di Vitalia Melis, moglie di Francesco Vinci, esisteva
una discreta probabilità che la vittima femminile del duplice delitto
di Baccaiano, Alessandra Migliorini, conoscesse lo stesso Francesco
Vinci. Nel periodo del delitto, infatti, il Vinci lavorava a
Montespertoli, effettuando riparazioni nella casa del genero, il
quale a sua volta risultava imparentato appunto con la Migliorini.
Si noti che Francesco Vinci si trovava a bazzicare per un motivo o
per l'altro i dintorni dei luoghi di tre dei quattro duplici omicidi
commessi fino a quel momento dal MdF.
● Sempre a proposito di sardi, dal rapporto del
colonnello Nunziato Torrisi, di cui si parlerà abbondantemente in
seguito e che rappresenta ancora oggi il più grande testo d'accusa
nei confronti di Salvatore Vinci, risulta che il 6 gennaio 1983 due
testimoni, Bruno Manetti e Carlo Alberto Falteri, riferirono agli
inquirenti di aver incrociato la sera dell'omicidio di Baccaiano un
uomo sospetto avente una statura di 165/170 centimetri circa, dai
capelli scuri, con pantaloni chiari e con maglietta fino al petto chiara
e nella parte superiore a strisce scure.
Più precisamente è riportato quanto segue: "...nel percorrere a bordo
di una motovespa la strada provinciale, proveniente da Montespertoli in
direzione di Baccaiano, all'uscita di una curva ad ampio raggio, a circa un
centinaio di metri dal posto del delitto, si sono trovati improvvisamente
davanti ad un uomo sulla strada, sopra descritto, il quale, al suono del
clacson della vespa, nello spostarsi per paura, ad un tratto è scivolato nella
cunetta laterale della strada. Anche qui, può sembrare una semplice
coincidenza, se fosse la sola, che la persona indicata ha le medesime
caratteristiche fisiche del VINCI Salvatore, il quale, all'epoca, secondo la
descrizione della PIERINI Ada dovrebbe essere in possesso di una
maglietta a fondo rosso mattone scuro, con delle strisce chiare sul davanti
di color beige-nocciola."
(La suddetta Pierini Ada era la compagna dell'epoca di Salvatore
Vinci, NdA).
● Dopo questo delitto prese sempre più corpo la voce secondo cui il
killer fosse un chirurgo che usava il bisturi per asportare il pube
delle donne. Si cominciò a parlare fra la stampa e la popolazione del
cosiddetto Chirurgo della Morte, probabilmente un ginecologo. Su
qualcuno di questi si concentrava anche qualche flebile sospetto
degli inquirenti.
La notte stessa del delitto, infatti, le forze dell'ordine si recarono a
casa di un dottore da tempo sotto osservazione per controllarne
l'alibi. Il dottore non aprì la porta anche se poi in un lungo
interrogatorio successivo, sostenne di essere sempre stato in casa
quella notte e di non aver sentito il campanello a causa dei sonniferi
che regolarmente prendeva per dormire.
Sebbene non vi siano certezze in merito, è probabile si trattasse del
ginecologo di cui sospettava pubblicamente il giornalista Mario
Spezi e di cui abbiamo già parlato ai tempi del primo duplice
omicidio del 1981 a Scandicci: il famoso Dottor B., che viveva solo
con l'anziana mamma.
Meno probabile che l'abitazione ispezionata fosse quella sita in
Mercatale Val di Pesa di un altro noto ginecologo, sicuramente
attenzionato dalle forze dell'ordine e identificato nella vulgata
popolare come implicato nei delitti del mostro. Tale ginecologo, di
cui avremo ampiamente modo di parlare in seguito, tuttavia per
quel che ci risulta, all'epoca del delitto di Baccaiano non era ancora
entrato nel mirino degli inquirenti.
● Il 30 giugno 1982 venne divulgato l'identikit del MdF realizzato in
occasione del duplice omicidio di Calenzano, facendo scattare una
vera e propria psicosi fra la popolazione. Arrivarono centinaia di
segnalazioni per lo più anonime alle forze dell'ordine. Il gestore del
bar "Il Cavallino Rosso" di Valenzatico (Pistoia), tale Giuseppe
Filippi, arrivò a togliersi la vita perché oggetto di curiosità e
persino insulti in quanto estremamente somigliante all'identikit.
● Altra ipotesi avanzata nuovamente dopo il delitto di Baccaiano fu
la cosiddetta "ipotesi Filastò", secondo cui il MdF era un uomo in
divisa. A questo delitto risalgono infatti le dichiarazioni di Luciano
Calonaci, rese in un'udienza del Processo ai CdM, che tenderebbero
a puntare il dito verso un misterioso poliziotto. Portato da Filastò
come teste, Calonaci affermò che il giorno dell'omicidio di
Baccaiano attorno alle 21.30 aveva visto davanti casa sua, a Cerbaia,
una macchina della polizia procedere molto lentamente come in
ispezione. Dentro la macchina c'era un uomo solo che si guardava
attorno. La descrizione di questo "poliziotto" è simile alla
descrizione fatta da altri testimoni del MdF (capelli biondi, corti,
tagliati a spazzola). Secondo Calonaci, quando questa persona si
accorse di essere ben illuminata dalle luci della festa e osservata,
cercò di nascondersi o quanto meno di pararsi il volto.
In realtà durante il controinterrogatorio del PM Paolo
Canessa emersero alcune contraddizioni in questa testimonianza:
▪ quando Calonaci, il 10 Settembre 1985 (3 anni dopo l'omicidio di
Baccaiano), andò a denunciare questo fatto, dichiarò di aver visto la
macchina e il poliziotto il giorno prima dell'omicidio e non lo stesso
giorno;
▪ la distanza fra luogo di questa individuazione e luogo del delitto
era di circa 7 km, non proprio vicinissimi;
▪ Calonaci non era neanche certissimo che quella da lui vista fosse
una macchina della polizia.
Tutto sommato quindi, questa potrebbe essere una testimonianza
che lascia il tempo che trova.
● Si dice che la sera dell'omicidio, un noto magistrato era
impegnato in una partita a carte (alcuni dicono a cena) a casa di
amici, proprio nei pressi di Baccaiano e dunque molto vicino al
luogo dell'omicidio. Tale magistrato con ogni probabilità è stato
identificato in Pier Luigi Vigna, colui che potremmo definire il più
grande nemico del MdF. Per molti mostrologi, questa fu la prima
vera sfida che il killer lanciò alle forze dell'ordine.
● Si dice inoltre che poco dopo l'omicidio, la linea telefonica della
zona di Baccaiano ebbe un improvviso guasto, interrompendo
qualsiasi possibile comunicazione. Su questo punto però non vi è
un particolare riscontro documentale in merito.
● A proposito di linee telefoniche, poco dopo la mezzanotte del 1
luglio 1982 (esattamente dodici giorni dopo il duplice omicidio),
arrivò una telefonata a casa di Paolo Mainardi. Tale telefonata fu
presa da Tullio Mainardi, lo zio di Paolo; in essa una voce anonima
dichiarò semplicemente "il mostro ha colpito ancora". Stando al
verbale reso il 9 luglio 1982 dallo stesso Tullio ai carabinieri di
Montespertoli: "la voce udita al telefono era fioca, parlava con calma,
senza apparenti infrazioni dialettali e direi che presumibilmente si trattava
di una voce maschile.".
L'uomo inoltre affermò che né prima né dopo erano giunte altre
telefonate del tipo di quella testé detta.
● Durante il Processo ai CdM, il futuro reo-confesso Giancarlo
Lotti che, a suo dire aveva partecipato con il ruolo di palo al
duplice omicidio, dichiarò che lui, Pacciani e Vanni arrivarono sul
luogo del delitto a bordo di due automobili, le parcheggiarono sul
ciglio della strada, scesero dalle vetture e dopo un breve
conciliabolo diedero il via all'azione omicidiaria, ma la pronta
reazione del Mainardi li costrinse a una rapida fuga senza poter
praticare le escissioni.
È stato più volte dimostrato da diversi mostrologi come questa
ricostruzione della dinamica sia inconciliabile con il transito della
automobili registrato quella sera su via Virgilio Nuova in
prossimità del luogo del delitto. In particolar modo, nel libro "Al di
là di ogni ragionevole dubbio", scritto da Paolo Cochi, Michele
Bruno e Francesco Cappelletti viene evidenziato come con ogni
probabilità il delitto si sia consumato fra il passaggio dell'auto del
Carletti e quello dell'auto in direzione opposta di Poggiarelli e
Calamandrei. Considerando che le due vetture si sono incrociate un
centinaio di metri dopo il bivio per Poppiano e quindi a una
distanza complessiva di circa 600 metri dalla piazzola del delitto,
pur ammettendo che procedessero entrambe molto lentamente, fra
il transito davanti alla piazzola della prima automobile e quello
della seconda non potevano essere passati più di due, massimo tre
minuti (vedasi il calcolo dei tempi nel prossimo capitolo), un lasso
di tempo che si riduce ulteriormente se consideriamo il fascio di
luce con cui le automobili illuminavano con un certo anticipo la
scena del delitto. In questo lasso di tempo non è chiaro che fine
avessero fatto le automobili su cui erano arrivati il Pacciani, il Vanni
e il Lotti, considerando che non erano state viste né ferme sul ciglio,
né avviarsi frettolosamente dal luogo del delitto, né tantomeno
sfrecciare lungo la strada, che pure in quel punto piuttosto rettilineo
offriva una buona visibilità da ambo i lati.
● Le vittime femminili dei primi tre delitti che fino a quel momento
si sapeva fossero stati commessi dal MdF (la Pettini, la De Nuccio e
la Cambi) avevano una superficiale somiglianza fisica fra loro: tutte
molto minute, con i capelli scuri e la carnagione chiara. Questo
aveva portato a credere non solo che ci fosse un'ideale vittima del
mostro, ma anche che le coppie fossero scelte con largo anticipo,
controllate e seguite. Del resto, le dichiarazioni sui presunti
pedinamenti delle vittime femminili avevano forgiato e avvallato
questa idea. Dal delitto di Baccaiano in poi, questa teoria cominciò a
vacillare, sia per la tipologia di vittima femminile (la Migliorini era
fisicamente del tutto diversa), sia per l'idea di delitto improvvisato
e dettato dall'impulso che si ebbe nell'occasione. Col delitto
successivo, a Giogoli, tale teoria fu definitivamente accantonata per
poi tornare in auge con il delitto del 1984 a Vicchio.
● Dopo questo delitto, gli inquirenti trovarono interessante la
particolarità che la Pettini, la Cambi e la Migliorini (vittime del
mostro rispettivamente nel 74, nell'ottobre 81 e nell'82) lavorassero
o avessero lavorato tutte e tre nel campo tessile; la De Nuccio
(vittima del mostro nel giugno 81) lavorava nel campo della
pelletteria, affine al precedente. In un documento ufficiale
dell'epoca, si evidenziava l'opportunità di indagare in tal senso,
anche se c'è da dire che il campo tessile era l'attività predominante
nelle zone dove colpiva il MdF, soprattutto nel pratese.
● Una delle idee che - non si sa come - prese piede dopo Baccaiano
è che il killer seguisse un itinerario a forma di "M" nello scegliere i
luoghi dei suoi delitti. Venne infatti ipotizzato che il delitto
successivo sarebbe stato commesso a Pontassieve. Il 9 luglio del
1982, il "Corriere della Sera" scriveva a tal proposito: "Nella zona di
Pontassieve, ritenuta prossimo obiettivo del maniaco, i luoghi isolati per
gli innamorati sono deserti".
Per la cronaca, il delitto successivo, il MdF l'avrebbe commesso da
tutt'altra parte, a Giogoli.
● IMPORTANTE: Dopo il delitto di Baccaiano le indagini presero
presto un'inaspettata direzione.
Il 3 luglio 1982, infatti, il Procuratore aggiunto Pier Luigi Vigna e il
Sostituto Procuratore Silvia Della Monica, a capo delle indagini sui
delitti del MdF, diedero ufficialmente mandato alle forze
dell'ordine di verificare l'esistenza di eventuali altri delitti
commessi nei dintorni di Firenze a partire dal 1970 con una Beretta
calibro 22, che ricalcassero le modalità degli omicidi commessi dal
mostro. Queste indagini condotte dai carabinieri, forse con qualche
aiuto esterno presumibilmente anonimo, portarono gli inquirenti
sulle tracce del delitto commesso a Signa nel 1968 e
successivamente verso la cosiddetta Pista sarda.
● Come già accennato nel precedente punto, circa un mese dopo
questo omicidio, gli inquirenti scoprirono che la pistola del Mostro
aveva già ucciso a Signa nel 1968, dunque le indagini presero una
direzione del tutto nuova. Cominciarono infatti ad indagare sul clan
dei sardi che ruotava attorno a Barbara Locci, la vittima femminile
di quel delitto.
Alcuni mostrologi ritengono che il collegamento con Signa non solo
sia stato indotto dal Mostro, ma fosse del tutto inesistente. Secondo
costoro, che genericamente e senza il minimo intento offensivo,
chiameremo Complottisti, Baccaiano rappresentò un punto di
svolta nella tragica epopea del MdF. Dopo il delitto, infatti, il killer
avrebbe sentito sul collo il fiato degli inquirenti, rischiando
seriamente di essere scoperto e per tale motivo avrebbe avuto la
necessità di sviare le indagini e allontanarle da sé.
Questa ipotesi prevede, dunque, che fu il Mostro stesso a lanciare
gli inquirenti verso la Pista Sarda che, a questo punto, altro non
sarebbe che un clamoroso depistaggio.
Il noto youtuber fiorentino fiorentino Etrusco Viola è uno dei
fautori della teoria del depistaggio. In precedenza anche il più volte
citato De Gothia aveva abbracciato questa idea (per maggiori
dettagli si rimanda al capitolo dedicato alla Pista Sarda).
Nell'ipotesi che questa teoria possa aver un qualche fondamento,
vediamo dunque quali furono i passi compiuti dagli inquirenti nei
giorni immediatamente successivi a Baccaiano che potrebbero aver
fatto sentire il MdF in serio pericolo:
1. Il bluff della dottoressa Della Monica: per quanto strano possa
sembrare, il killer potrebbe essersi sentito minacciato dalla
possibilità che il Mainardi fosse riuscito a dire qualcosa prima di
morire. Qualcosa magari non di determinante (e del resto come
avrebbe potuto essere diversamente?), ma che potrebbe aver dato
agli inquirenti una pista più o meno concreta da seguire.
2. La divulgazione dell'identikit di Calenzano: come abbiamo visto,
tale identikit fu reso pubblico in data 30 giugno 1982; dunque,
qualora avesse rappresentato davvero e in maniera somigliante il
killer, tale pubblicazione potrebbe aver fatto nascere nel MdF la
necessità di allontanare le indagini da sé.
3. La volontà della Procura di indagare su eventuali altri omicidi
commessi nella provincia di Firenze a danni di coppie: ovviamente
in questo caso parliamo di omicidi diversi da quello di Signa,
realmente commessi dal MdF, che - qualora individuati - avrebbero
potuto essere pericolosi per il killer.
4. Le indagini intraprese proprio nei giorni successivi a Baccaiano
su una Beretta calibro 22 scomparsa da un'armeria di Borgo San
Lorenzo.
Su questo apsetto ci soffermeremo maggiormente nel dettaglio nel
capitolo dedicato a La pistola del Mostro, adesso ci limitiamo a una
breve sintesi.
Attorno alla metà di luglio del 1982 la Procura di Firenze aveva
scoperto che una pistola compatibile con quella usata dal Mostro,
costruita nel 1967 ma messa in commercio a partire dal febbraio del
1969, era scomparsa da un'armeria del comune mugellese. Pare
che Pier Luigi Vigna in persona si fosse mosso per recarsi a Borgo
(il luogo in cui era nato, ad colorandum) e svolgere indagini in tal
senso.
Il primo a raccontare di questo nuovo filone d'inchiesta era
stato Mario Spezi che il 14 e 15 luglio 1982 titolava su "La
Nazione" rispettivamente: "Carabinieri e magistrati si sono recati a
Borgo San Lorenzo. Frenetica attività degli inquirenti" e "Frenetico lavoro
svolto martedì sera a Borgo San Lorenzo dal giudice Pier Luigi Vigna e da
alcuni ufficiali dei carabinieri".
Ecco che, qualora le indagini su tale arma avessero rappresentato
un serio pericolo per il killer, diventava per lui di vitale importanza
tentare di sviare le indagini.
Infatti, risulta facile intuire che, quando pochissimi giorni dopo
arrivò il collegamento con il delitto di Signa, la pista della Beretta
calibro 22 di Borgo fu abbandonata, poiché tale delitto era avvenuto
precedentemente alla messa in commercio dell'arma oggetto di
indagini.

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5 commenti:
1.
Anonimo23 agosto 2022 alle ore 12:43

Se le testimonianze dei ragazzi che, transitarono sul luogo del


delitto appena prima e appena dopo l’omicidio, sono
attendibili e non ci sono ragioni perché non lo siano, l’azione
del mostro non pare pianificata ma d’impulso. Il finestrino
appannato notato dal testimone indica un tempo abbastanza
lungo di sosta delle vittime, se il mostro fosse stato appostato
non avrebbe atteso l’appannamento del vetro per agire, col
rischio di non vedere i bersagli dall’esterno e di trovarli
eventualmente vigili, o addirittura farseli sfuggire.
Probabilmente, trovandosi a transitare da quelle parti e
avendo notato l’auto delle vittime in una posizione da lui
ritenuta idonea, ha dovuto cercare un luogo ove parcheggiare
il suo mezzo, non troppo distante per poter arrivare a piedi
non visto alla piazzola luogo del delitto. Se l’auto del mostro
fosse stata parcheggiata sulla strada percorsa in senso opposto
dalle due auto dei testimoni sarebbe certamente stata notata,
l’auto del mostro poteva essere quindi parcheggiata solo nell
via per Poppiano, se le forze dell’ordine avessero controllato le
possibile aree di sosta non un raggio di un km. dal luogo del
delitto avrebbero potuto rilevare i calchi dei pneumatici
dell’auto del mostro, che a quel tempo sarebbe stato un buon
progresso investigativo.
Rispondi

Risposte

1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:43

il mostro il piu' delle volte non usa l'auto! impossibile che


raggiunga i posti degli omicidi con una macchina ,o usa
un motorino oppure a piedi per la campagna.
Immaginate che fortuna dovrebbe aver avuto ,uno
commette un omicidio a tarda notte e viene fermato dai
carabinieri proprio a quell'ora piu' o meno in quella zona
del delitto.possibile tutta questa fortuna??? qualche cosa
non quadra. Ma dai hanno fatto le indagini anche le
capre, ma vi pare un assassino cosi' che va a commettere
omicidi con un auto rossa?? ah ah ahhahaah io ci rido per
non piangere
Rispondi

2.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:26

Da questo duplice omicidio si capisce chiaramente che il


mostro tranne forse qualche caso non sceglie le sue vittime
,gira scruta controlla il territorio e quando la smania di
uccidere si presenta colpisce , e' un attimo ,assassino e'
solamente una persona solo triste e anonimo nella societa'.
Rispondi

3.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:28

Complimenti per il sito veramente notevole! Bravissimo!


Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti15 febbraio 2023 alle ore 02:54
Grazie, gentilissimo!
Mostrologia a Baccaiano

Di seguito sono esposte alcune fra le teorie più significative che i


vari mostrologi hanno partorito nel corso degli anni sulle due
principali questioni, strettamente connesse fra loro e tuttora
irrisolte, che ruotano attorno al delitto di Baccaiano.

1. Chi spostò la macchina del Mainardi da un lato all'altro della


strada fino a farla finire nella cunetta?
2. Dove era seduto il Mainardi quando arrivarono le prime persone
sul luogo del duplice delitto e in seguito quando arrivarono i
soccorritori con l'ambulanza?

Precisiamo subito che - come si è già avuto modo di vedere - la


dinamica del duplice omicidio di Baccaiano è probabilmente
(assieme a quella del delitto di Scopeti nel 1985) la meno chiara, la
più complessa e di conseguenza la più dibattuta fra i mostrologi. È
opportuno sottolineare che non esiste una verità assoluta su come si
siano realmente svolti i fatti, semplicemente perché alcune
informazioni documentali che sono pervenute fino a noi sono fra
loro contrastanti e apparentemente inconciliabili. Dunque anche in
questo caso va fatto un ragionamento di tipo probabilistico
assolutamente non oggettivo.
Risulta doveroso altresì precisare che arrivare a un'esatta
definizione della dinamica di Baccaiano, allo stato attuale, non
cambierebbe nulla nell'economia della tragica storia del Mostro, né
permetterebbe nessun progresso nell'individuazione dell'autore dei
delitti. Si dirà che potrebbe servire a dimostrare una volta per tutte
la mendacità del Lotti, ma ci sia consentito affermare che non serve
arrivare a risolvere questo inestricabile enigma, per dare tale
mendacità - qualunque sia la corrente mostrologica cui si
appartiene - per assodata.

Fatte le doverose premesse, per prima cosa ricostruiamo


brevemente e in maniera rigorosamente cronologica i fatti che
conosciamo:

► TEMPO T0: Stabiliamo come punto iniziale della nostra


ricostruzione (tempo T0) il momento in cui l'automobile del signor
Carletti passa davanti alla piazzola in cui è ferma la vettura di
Paolo. Assumiamo con buona precisione che sono le 23.40. In quel
momento Paolo dovrebbe essere al posto di guida, Antonella dietro
e il delitto non dovrebbe essersi ancora consumato. Vedremo in
seguito come alcuni studiosi (Filastò, De Gothia, Segnini) non
concordano su questo.

► TEMPO T1: L'auto con il Carletti prosegue verso sud. Passa il


bivio per Poppiano e subito dopo incrocia l'automobile con a bordo
i signori Calamandrei e Poggiarelli che procede in direzione nord.
Le due vetture si incrociano a una distanza di 600 metri dalla
piazzola. Quindi orientativamente è trascorso un minuto, al
massimo un minuto e mezzo dal tempo T0.

► TEMPO T2: L'auto con il Calamandrei e il Poggiarelli percorre a


sua volta 600 metri e arriva alla piazzola, dove però la situazione è
drammaticamente cambiata. L'auto del Mainardi è sul lato opposto
della strada, con i fari spenti, semi-infossata in una cunetta. Sono
trascorsi due, massimo tre minuti dal tempo T0. In questi due o tre
minuti (probabilmente meno considerando che la strada in quel
punto è rettilinea e i due ragazzi non hanno notato nulla) si è
consumato il delitto. Congeliamo questo momento al tempo che
chiamiamo T2.
T2 è importante perché il delitto è sicuramente stato commesso ma
non è detto che si sia esaurito. Forse è ancora in corso.

► TEMPO T3: Calamandrei e Poggiarelli proseguono dritto.


Arrivano a Baccaiano, distante un chilometro; senza fermarsi,
tornano indietro fino nuovamente alla piazzola. Complessivamente
l'automobile ha percorso due chilometri dal tempo T2, dunque è
trascorso un lasso di tempo di circa cinque minuti o poco superiore
a seconda dell'andatura. In questi cinque minuti l'automobile del
Mainardi è rimasta ovviamente immobile sul luogo del delitto, ma
soprattutto sola e incustodita. In questi cinque minuti può essersi
conclusa l'azione omicidiaria del MdF, ove ovviamente non si fosse
conclusa in precedenza. Congeliamo il momento in cui il
Calamandrei e il Poggiarelli si fermano sul luogo del delitto
(assieme a loro giungerà anche la vettura del Marini e della
Bartalesi) al tempo T3, che potremmo orientativamente individuare
attorno alle 23.50.

► TEMPO T4: Non è dato sapere quanto tempo abbiano trascorso


sul luogo del delitto i quattro ragazzi prima di precipitarsi a
chiamare i soccorsi. Si presume molto poco, vista la concitazione del
momento e immaginiamo anche una buona dose di paura. Alcuni
mostrologi ritengono che in quei frangenti il killer fosse ancora in
agguato protetto dal buio della campagna, oltre il ciglio della
strada. Ovviamente non abbiamo alcun elemento per valutare
questa ipotesi, tutto ciò che possiamo affermare è che sono trascorsi
circa 10 minuti dal presunto inizio dell'azione omicidiaria e in quei
dieci minuti il killer ha probabilmente già visto sfumare il proprio
attacco. Possiamo inoltre ritenere verosimile che pochi istanti dopo
essersi fermate, le due coppie si siano nuovamente allontanate dal
luogo del delitto e per circa altri dieci minuti o più (fino al ritorno
della coppia Marini-Bartalesi con il Di Lorenzo, che precede di
pochissimo l'arrivo dell'ambulanza) la zona del delitto sia rimasta
nuovamente e completamente incustodita. In questi ulteriori dieci
minuti abbondanti può non esser successo nulla o esser avvenuto
qualcosa di importante.

Soffermiamoci ora sulle dichiarazioni che precedono e seguono


questi dieci minuti. I quattro ragazzi che si fermano per primi sul
luogo del delitto dichiarano che Paolo Mainardi in quel momento è
vivo e seduto al posto di guida. Come visto nel precedente capitolo,
risulta difficile dubitare di tali affermazioni considerando che i
ragazzi sono tutti concordi nell'affermarlo, ma soprattutto è arduo
credere che abbiano scorto il respiro o i movimenti del Mainardi,
senza però rendersi conto da dove provenissero.
D'altro canto, dieci minuti dopo, i soccorritori trovano - a loro dire -
Paolo vivo e seduto sul sedile posteriore. Anche qui è improbabile
pensare a un errore se consideriamo che sono costoro - per quanto
giovani e inesperti - a compiere una serie di operazioni non proprio
semplici per estrarlo dall'automobile.
Le possibilità che si presentano sono a questo punto le seguenti:
1. i quattro ragazzi giunti per primi hanno valutato male la
posizione di Paolo che in realtà è sempre stato dietro;
2. i soccorritori, giovani, inesperti e presi dal panico, hanno distorto
col tempo i ricordi sulla posizione di Paolo che in realtà è sempre
stato davanti;
3. ha ragione il testimone Mario Di Lorenzo nell'affermare che
Paolo aveva le gambe sul sedile anteriore e il busto completamente
riverso su quello posteriore, con la testa poggiata sulla spalliera del
sedile posteriore; questa posizione - diciamo a metà - può aver
ingannato un po' tutti;
4. dopo che i quattro ragazzi sono andati a chiamare i soccorsi, in
quei dieci, quindici minuti in cui la scena del crimine è rimasta
incustodita, Paolo è passato (volontariamente o meno) dal sedile
anteriore a quello posteriore; in altre parole può essere stato sposato
dal MdF o può essersi spostato da solo.

Riportiamo ora i dati oggettivi che sono stati riscontrati sul luogo
del delitto e già descritti nel precedente capitolo:
● il sedile del posto di guida copiosamente imbrattato di sangue;
● il freno a mano dell'automobile parzialmente tirato;
● la retromarcia inserita;
● il finestrino sinistro infranto;
● il bossolo rinvenuto sul tappetino posteriore destro della vettura;
● l'orologio di Antonella con il cinturino privo di una delle due
maglie di giunzione rinvenuto sul sedile posteriore;
● la maglia mancante del cinturino rinvenuta in ospedale fra i
capelli di Paolo;
● le chiavi dell'automobile rinvenute sull'erba a una certa distanza
dalla vettura.
● Ci sarebbe inoltre da segnalare una presunta macchia di sangue
sull'asfalto, più o meno al centro della carreggiata. Presunta perché
- come detto - non vi è traccia di questo particolare nei rapporti
ufficiali, ma esiste una documentazione fotografica a opera dai
giornalisti accorsi in loco. Dunque tale macchia potrebbe essere
sfuggita all'occhio degli inquirenti, ma potrebbe anche essere
successiva all'assalto del killer, ad esempio nel caso in cui si fosse
formata mentre il Mainardi veniva caricato in barella e portato
verso l'ambulanza.
● Infine riportiamo la dichiarazione durante il Processo ai CdM del
signor Giuliano Ulivelli, marito della sorella di Paolo Mainardi.
Presentato come testimone dall'avvocato di Parte Civile, Aldo
Colao, Ulivelli dichiarò di aver visionato l'automobile di Paolo
diverso tempo dopo il delitto e questa presentava vistose colature
di sangue nel pannello dello sportello anteriore sinistro (quello del
conducente), lì dove scorre il finestrino. Riportiamo le parole esatte
del testimone perché sono importanti: "Sicché, nel canale dove scorre il
vetro, c'era tanto sangue, con una bella macchia abbastanza larga, gl'era
colato fino in fondo e gl'era andato giù fino... All'intercapedine fra il pa...
Siccome il pannello l'era stato levato, l'era lì appoggiato alla portiera, però
l'era stato levato. Noi s'è visto bene che l'era dietro, però... perché e un
c'era pannello. E allora questo sangue gl'era colato, questa striscia, fino in
fondo, fino alla moquette, insomma, al pavimento della macchina. L'aveva
fatto il bordino dove chiude lo sportello, era risceso fino un pochino in terra
lì della... E tutta questa macchia di sangue c'ha dato molto da pensare. Noi
s'è fatto delle considerazioni, non so se qui le posso dire."
Da questa testimonianza sembra dunque accertato che una vistosa
quantità di sangue fosse colata dalle ferite di Paolo attraverso
l'intercapedine del finestrino anteriore sinistro, scendendo fino al
pavimento dell'automobile.

A questo punto possiamo utilizzare la sequenza cronologica, le


divergenze nelle dichiarazioni dei testimoni, i dati riscontrati sulla
scena del crimine e la dichiarazione dell'Ulivelli per valutare
opportunamente le varie teorie mostrologiche che di seguito
riportiamo.
Vogliano perdonarmi gli autori citati per l'inevitabile sintesi con cui
tali teorie sono esposte; è stata comunque mia premura citare le
fonti per chiunque voglia approfondirle adeguatamente: si tratta in
tutti i casi di letture decisamente meritevoli.

1. Ipotesi della Procura


Questa è la versione ufficiale fornita da medici legali e inquirenti
subito dopo l'omicidio e portata avanti dalla Procura di Firenze
durante i processi a Pacciani e ai CdM.
In sintesi: fermi alla piazzola, Paolo e Antonella si stavano
ricomponendo all'interno dell'auto (lui seduto davanti, lei dietro,
per questioni di spazio) quando notarono qualcosa di strano
all'esterno (forse videro proprio il MdF che si avvicinava) e
tentarono la fuga. Mainardi mise in moto l'auto e innestò la
retromarcia partendo a gran velocità proprio mentre il killer
cominciava a fare fuoco. La velocità dell'azione, gli spari del
mostro, le ferite riportate, il sedile ancora reclinato, il freno a mano
tirato, furono tutte cause che portarono il Mainardi a perdere il
controllo della vettura, cosicché la stessa finì con le ruote posteriori
nella cunetta. A quel punto il killer completò l'opera sparando i
colpi di grazia ai due poveri giovani, spegnendo i fari
dell'automobile a colpi di pistola, infilando una mano nell'abitacolo
attraverso il finestrino infranto, esplodendo un ultimo colpo verso
la Migliorini ed estraendo la chiave dal cruscotto per spegnere
definitivamente tutte le luci della vettura. Infine lanciò le chiavi
lontano in un gesto di stizza per il colpo parzialmente fallito:
l'automobile così esposta e il passaggio di altre vetture gli
proibivano infatti di compiere le escissioni.
Quando l'auto con il Poggiarelli e Calamandrei passò per la prima
volta, l'azione omicidiaria era già completamente conclusa.
Quando, pochi minuti dopo, i due ragazzi si fermarono per primi
sul luogo del delitto, il MdF era verosimilmente già in fuga,
consapevole che questa volta la caccia all'uomo sarebbe partita
molto presto.
Questa ipotesi (come tutte quelle che prevedono il Mainardi alla
guida) spiegherebbe la retromarcia inserita, il freno a mano tirato, il
sedile del posto di guida imbrattato di sangue, il sangue colato in
grandi quantità nell'intercapedine del finestrino anteriore sinistro,
infine il rinvenimento dell'orologio. Il professor Francesco De
Fazio scriveva a tal proposito: "...l'orologio della Miglìorini è stato
trovato sul sedile posteriore dell'auto, col cinturino libero ad una
estremità, in quanto mancante della barretta che la tiene fissa al corpo
dell'orologio; tale barretta è stata rinvenuta, arcuata e deformata, tra i
capelli del Mainardi, da uno dei medici dell'ospedale in cui fu ricoverato.
Appare quindi verosimile che il polso sinistro della Migliorini si trovasse,
nel momento in cui fu infranto il vetro dello sportello sinistro a contatto
con i capelli del Mainardi, e come appoggiato sul suo capo, in modo da
essere investito da parte delle schegge di vetro, una delle quali
verosimilmente ha deformato e liberato la barretta che poi è stata trovata
tra i capelli dell'uomo. Tale circostanza diviene possibile ove si ipotizzi
non già la vicinanza della coppia per effusioni (non si capisce infatti in
quale posizione reciproca potessero trovarsi le due vittime secondo tale
ipotesi), ma una situazione diversa, forse di all'erta, in cui l'uomo si
trovava seduto al posto di guida e la donna, forse per l'istintiva ricerca di
un contatto rassicurante, si protendeva dal sedile posteriore cingendo con
la mano sinistra il capo del compagno.".
Per contro, questa ipotesi non spiega perché i primi ragazzi giunti
sul luogo del delitto videro il Mainardi seduto avanti, mentre i
soccorritori sostennero fosse seduto dietro. Dobbiamo dunque
propendere, prendendo per buona questa prima ipotesi, in un
errore di valutazione, in cui tutti furono ingannati dal fatto che il
Mainardi, accasciatosi dopo gli spari sul sedile reclinato, avesse
bacino e gambe sul sedile anteriore, mentre il corpo e la testa riversi
sul sedile posteriore.

2. Ipotesi Filastò
Contraria alla versione ufficiale c'è l'ipotesi portata avanti
dall'avvocato Filastò durante il Processo ai CdM e descritta
dettagliatamente nel suo celebre libro "Storia delle merende
infami".
Filastò ritiene che Paolo e Antonella avessero appena terminato il
rapporto sessuale, consumatosi sul sedile posteriore
dell'automobile, quando improvvisa e ferale era cominciata l'azione
d'assalto del MdF. Tutto si era svolto in pochissimi secondi nella
piazzola. Eliminati i due giovani fidanzati, il killer aveva aperto lo
sportello della vettura per mettersi alla guida e portare la coppia in
un posto più nascosto al fine di commettere l'escissione. Durante la
retromarcia per uscire dalla piazzola, un movimento alle sue spalle
della moribonda Migliorini lo aveva però fatto sobbalzare e il MdF
era stato costretto a rimettere mano alla pistola e sparare un ultimo
colpo verso la ragazza (il bossolo trovato sul tappetino posteriore).
Era stata la concitazione del momento a fargli perdere il controllo
della vettura che era finita rovinosamente nella cunetta. Non
riuscendo più ad uscirne, l'assassino era sceso rapidamente
dall'automobile portandosi dietro le chiavi, aveva sparato ai fari per
spegnere le luci, aveva lanciato le chiavi lontano in un gesto di
rabbia ed era fuggito via.

3. Ipotesi De Gothia
Un'ipotesi simile a quella di Filastò la fornì De Gothia in un celebre
scritto denominato "La Notte Dei Salami".
Secondo il rinomato e compianto autore del saggio, il Mainardi non
avrebbe avuto il tempo materiale di mettere in moto l'automobile e
partire nel momento in cui aveva visto l'assassino spuntare
improvvisamente dalla vegetazione che circondava l'automobile.
Dunque, avendo il killer avuto tutto il tempo di fare fuoco verso la
coppia, l'azione delittuosa era iniziata e terminata nella piazzola
iniziale. A supporto di questa ipotesi De Gothia portò delle copiose
ed evidenti colature di sangue sul longherone sinistro della vettura
che – a suo dire – potevano essere fuoriuscite solo a sportello aperto
(quelle che passeranno alla storia mostrologica come
appunto "colature De Gothia"). Poiché queste macchie erano
perfettamente verticali, dovevano obbligatoriamente essere colate
quando la macchina era in piano nella piazzola iniziale e non
quando era già nella cunetta con il muso rivolto verso l'alto e in
posizione obliqua. Questo signifca che, dopo aver ucciso
immediatamente la giovane coppia, il MdF aveva aperto lo
sportello anteriore sinistro per mettersi alla guida quando
l'automobile sostava ancora nella piazzola. Anche secondo questa
ipotesi era stato ovviamente lo stesso assassimo a finire con
l'automobile nel fossato dall'altro lato della strada.
Sia la teoria di Filastò che quella di De Gothia presuppongono
dunque che al passaggio dell'automobile del Carletti (Tempo T0), il
delitto si fosse già consumato.
Successivamente, al primo passaggio dell'auto di Poggiarelli e
Calamandrei, la macchina con il MdF alla guida era appena finita
nella cunetta, tant'è vero che si presuppone che il mostro, seduto al
volante, dovette nascondersi per non essere scorto. Quando, cinque
minuti dopo, i due ragazzi si fermarono sul luogo del delitto, il
killer era invece già fuggito lontano.
Entrambe le teorie, pur apprezzabili, presentano diverse lacune che
vedremo in seguito, in special modo non spiegano il sedile di guida
copiosamente imbrattato di sangue, le dichiarazioni dell'Ulivelli o i
fari dell'automobile già spenti al primo passaggio di Poggiarelli e
Calamandrei. Inoltre, come l'ipotesi ufficiale, non spiegano perché i
primi ragazzi videro il Mainardi seduto avanti, mentre i soccorritori
sostennero che fosse seduto dietro. Anche in questo caso dunque
bisogna ipotizzare un errore di prospettiva.

4. Ipotesi Spezi
Fra l'ipotesi ufficiale e quella di Filastò, ce n'è una intermedia che
descrisse il giornalista Mario Spezi nel suo libro "Dolci colline di
sangue".
La teoria di Spezi è inizialmente simile a quella ufficiale, con il
Mainardi che tenta la fuga ma finisce nella cunetta. A quel punto
però il killer, dopo aver centrato i fanali con due precisi colpi di
pistola, sarebbe entrato nella vettura spostando il corpo del
Mainardi (forse facendolo scivolare nell'intercapedine fra i due
sedili, non viene specificato nulla a riguardo) e si sarebbe seduto al
posto di guida per portare la coppia in un posto isolato ed
effettuare le escissioni. Non riuscendo però a togliere l'automobile
dalla cunetta, il MdF avrebbe lasciato di corsa la vettura portandosi
dietro le chiavi che in seguito avrebbe lanciato lontano.
La dinamica descritta da Spezi, inserita in una narrazione
romanzata come "Dolci colline di sangue", non è troppo dettagliata.
Spezi non colloca temporalmente l'ingresso del mostro
nell'automobile del Mainardi rispetto al passaggio delle vetture
sulla strada, né si pone il problema delle differenti dichiarazioni dei
testimoni.
5. Ipotesi Segnini
Degna di nota è l'ipotesi formulata da Antonio Segnini, ottimo
autore del blog "Quattro cose sul mostro".
Secondo Segnini, l'agguato ebbe inizio nella piazzola, mentre la
Migliorini si rivestiva sul sedile posteriore e il Mainardi era al posto
di guida. I colpi di pistola sparati dal MdF uccisero la Migliorini e
misero temporaneamente fuori combattimento il Mainardi, che
perse o finse di perdere conoscenza. Il mostro fu poi costretto a
nascondersi fra la vegetazione a causa del passaggio
dell'automobile del Carletti; una manciata di secondi che permise al
Mainardi di riprendere conoscenza, mettere in moto l'automobile e
provare a uscire dalla piazzola. A quel punto il MdF ritornò senza
remore all'attacco aprendo il fuoco verso il ragazzo alla guida.
L'automobile finì nella cunetta, il killer sparò ai fari, poi fu costretto
nuovamente a nascondersi a causa del passaggio di Poggiarelli e
Calamandrei. Scomparsa l'automobile dei due giovani, il MdF
estrasse le chiavi dal quadro per aprire il bagagliaio da cui,
arrivandole alle spalle, avrebbe potuto compiere l'escissione del
seno sul corpo di Antonella. Cosa che ovviamente non riuscí a fare
a causa del passaggio di automobili, pur rimanendo a ciondolare
attorno alla vettura incidentata per cinque, sei minuti,
nascondendosi al passaggio delle macchine e sbucando fuori
quando la strada era libera, fino all'arrivo dei primi quattro giovani
che si fermarono.
Sempre secondo la ricostruzione di Segnini, il mostro avrebbe
ascoltato le parole concitate dei ragazzi attorno all'automobile e
avrebbe così appreso che Mainardi era ancora vivo. Attese dunque
che questi si allontanassero, quindi uscì nuovamente allo scoperto e
diede il colpo di grazia al Mainardi, che nel frattempo, pur fra mille
difficoltà, si era trascinato sul sedile posteriore per stare vicino alla
povera e amata Antonella (bossolo trovato sul tappetino posteriore
all'interno della macchina).
Questa ipotesi spiega pienamente l'atavico dilemma delle differenti
dichiarazioni fornite sulla posizione del Mainardi, ma presuppone
che il ragazzo fosse in grado di compiere gesti volontari al termine
dell'azione omicidiaria, particolare che - come vedremo - non è
affatto certo. Inoltre, l'ipotesi Segnini prevede che il MdF fosse
ancora sul luogo del delitto ben oltre dieci minuti dopo l'inizio della
sparatoria. Il che grossolanamente significa che dieci minuti dopo
aver attaccato la coppia, il MdF non era ancora riuscito a uccidere
un ragazzo bloccato in un'auto ferma in una cunetta, pur
ciondolando nei pressi dell'automobile e soprattutto pur
consapevole che il delitto sarebbe stato scoperto da un momento
all'altro.

6. Ipotesi Accent
Secondo il forumista denominato Accent, che ha realizzato una
ricostruzione del delitto accattivante e decisamente alternativa
rintracciabile sul web col nome "Il mostro e la legge di Murphy", le
cose andarono in maniera completamente diversa.
Come Filastò, anche Accent parte dal presupposto che i due ragazzi
erano entrambi sul sedile posteriore ad amoreggiare quando
cominciò l'azione delittuosa del MdF. Mainardi fu il primo a essere
colpito, così a spostare l'auto in retromarcia sarebbe stato il
motorino di avviamento azionato da Antonella in uno slancio dal
sedile posteriore verso il volante. Il killer avrebbe dunque inseguito
l'auto che singhiozzava a marcia indietro fino a fermarsi al centro
della carreggiata. Qui avrebbe aperto la portiera e ingaggiato una
vera e propria colluttazione con Antonella. In questo momento si
sarebbero formate le "colature De Gothia" sul longherone
dell'automobile e la macchia di sangue sull'asfalto. Vinta la
resistenza di Antonella, il killer sarebbe entrato nell'abitacolo e
avrebbe finito la povera ragazza con un proiettile, quindi si sarebbe
messo alla guida dell'automobile. Tuttavia, l'eccitazione per il
duplice omicidio, la concitazione del momento, la poca conoscenza
della macchina, avrebbero fatto finire la vettura nella cunetta.

7. Ipotesi Valerio Scrivo


L'ultima possibile ricostruzione del delitto che vediamo è quella del
criminologo Valerio Scrivo riportata nel suo libro "Il mostro di
Firenze esiste ancora". Ancora una volta in estrema sintesi, lo
Scrivo presuppone che a guidare la macchina e a finire nella cunetta
fosse stato il Mainardi. In seguito il MdF sarebbe rimasto sulla
scena del crimine per diversi minuti fino all'arrivo dei primi quattro
ragazzi che si fermarono. Solo dopo che questi si furono allontanati,
l'assassino uscì dal suo riparo e, pistola in pugno, ordinò al
Mainardi, ancora in buona salute, di spostarsi sul sedile posteriore,
salvo poi freddarlo con tre colpi di pistola proprio mentre il ragazzo
compiva questa azione. Il mostro si mise quindi al volante per
portare l'automobile in una posizione meno visibile, ma non
riuscendo a spostarla, abbandonò velocemente la vettura
portandosi dietro le chiavi che lasciò cadere durante la fuga.

Inutile dire che qualsiasi ipotesi si voglia prediligere, questa


presenta immancabilmente una qualche lacuna o controindicazione.
Non esiste una dinamica scevra da complicazioni per il delitto di
Baccaiano.
Tuttavia, complessivamente ci sentiremmo di attribuire una
maggiore valenza probabilistica all'ipotesi della Procura o al più
alla cosiddetta ipotesi Segnini, pur con tutti i limiti già esposti. Ne
elenchiamo brevemente i motivi:
► La posizione dei bossoli sull'asfalto dà l'idea di una dinamica "a
inseguire", cioè la coppia nella vettura prova la fuga e il MdF la
insegue. Questa osservazione premia tutte le ipotesi che prevedono
il Mainardi alla guida. Oltretutto la quantità copiosa di sangue sul
sedile di guida e le dichiarazioni dell'Ulivelli sembrano non lasciare
spazio a dubbi da questo punto di vista. E francamente non sembra
verosimile la spiegazione data dall'avvocato Filastò: il sangue era
stato sparso sul sedile dai soccorritori durante l'estrazione del corpo
di Paolo dall'automobile. E quand'anche si volesse prendere per
buona questa soluzione, comunque non spiegherebbe il sangue
colato nell'intercapedine del finestrino anteriore sinistro come da
testimonianza dell'Ulivelli.

► Nello spazio antistante il punto dove inizialmente era


parcheggiata l'automobile della coppia, appena al di là della strada,
c'era un esteso campo di erba medica, protetto dalla vegetazione.
Questo campo poteva discretamente prestarsi a una operazione di
escissione, dunque il MdF non aveva la necessità di mettersi al
volante e portare la coppia lontano, ove il suo agguato fosse riuscito
sin da subito (in quel momento, ricordiamo che l'automobile del
Mainardi era ferma nella piazzola e non avrebbe avuto motivo di
destare la curiosità o l'interesse dei passanti). Ancora una volta
questa osservazione induce a pensare che le ipotesi Filastò e De
Gothia sembrerebbero da scartare.
Né d'altra parte, il fatto che quella sera la via Virginio Nuova fosse
più trafficata del solito e quindi compiere le escissioni appena al di
là della strada potesse essere un'idea troppo audace, sembra una
rimostranza sensata, in quanto tutto l'agguato, per come era stato
concepito, mostra un'audacia e una spregiudicatezza fuori dal
comune.
► L'automobile del Mainardi fu ritrovata con il freno a mano tirato
e la retromarcia innescata. Difficilmente se a finire nella cunetta
fosse stato il mostro (ipotesi Filastò, DeGothia, Accent), non
avrebbe provato in tutti i modi a uscirne prima di lasciare la vettura
così esposta e fuggire.
Analogamente se il mostro si fosse messo al volante dopo che il
Mainardi era finito nella cunetta, per provare a portare l'automobile
e i due cadaveri in un posto appartato (ipotesi Spezi, Scrivo), non
avremmo probabilmente trovato né il freno a mano tirato, né la
retromarcia innescata. Queste osservazioni quindi ci indirizzano
appunto verso l'ipotesi della Procura o quella denominata Segnini.

► La posizione del Mainardi che sembra emergere dalla


testimonianza del signor Di Lorenzo, cioè con le gambe sul sedile
anteriore, il corpo nell'intercapedine fra i due sedili e la testa
adagiata sul sedile posteriore, dà l'idea che il ragazzo potesse essere
seduto inizialmente al posto di guida e in seguito fosse stato fatto
rotolare verso destra da qualcuno (il MdF) che aveva aperto la
portiera di sinistra (volendo trascurare il fatto che questa fu trovata
bloccata) per mettersi al posto di guida. Solo che in questo caso le
gambe del Mainardi sarebbero rimaste sul sedile anteriore. Ci si
potrebbe dunque chiedere come avrebbe fatto il MdF a guidare la
macchina avendo ancora la parte inferiore del corpo del Mainardi
sul sedile di guida e le gambe verosimilmente protese verso i
pedali.

Possiamo desumere da questa breve analisi che due sono le ipotesi


mostrologiche che ci sentiremmo di appoggiare: entrambe ci
portano a ipotizzare che alla guida dell'automobile finita nella
cunetta ci fosse il Mainardi e che il MdF nell'auto non vi sia mai
entrato, se non con il braccio attraverso il finestrino sinistro infranto
per sparare un colpo di pistola ed estrarre le chiavi.
In una delle due ipotesi (quella ufficiale) si prende tacitamente per
buona la testimonianza del signor Di Lorenzo: il Mainardi era
seduto davanti, ma il sedile aveva la spalliera reclinata e dunque la
parte superiore del corpo e la testa del ragazzo si erano adagiati
completamente sul sedile posteriore, in una posizione per così dire
ambigua.
Nell'altra ipotesi (quella Segnini) viene risolto l'annoso problema
delle diverse testimonianze sulla posizione del Mainardi, ma ne
vengono introdotti altri due. Viene infatti presupposto che
l'assassino si sia aggirato inutilmente attorno alla vettura
incidentata per diversi minuti, senza oltretutto accorgersi che il
Mainardi era ancora vivo. Ma soprattutto viene presupposto che il
Mainardi fosse ancora in grado di compiere movimenti coscienti
dopo l'assalto del MdF. Questo contrasta in parte con le perizie
mediche e le deposizioni dei medici legali rese a processo, ma anche
con le dichiarazioni dei ragazzi che per primi giunsero sul luogo, i
quali parlarono di un Mainardi ancora vivo, ma che respirava
flebilmente in stato di incoscienza.
Per tutta questa serie di considerazioni, per quanto anch'essa non
priva di qualche lacuna, l'ipotesi ufficiale
sembra probabilisticamente quella più veritiera.

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2 commenti:
1.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:32
Il mostro non scende da nessuna auto per andare ad uccidere
,mio modesto parere fugge il piu' delle volte a piedi per la
campagna e di certo se va in macchina non lascera' mai la sua
auto a poche decine di metri dai luoghi degli omicidi .
Rispondi

2.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:35

per quale motivo vinci avrebbe dovuto mentire nel 68


riguardo a dove getto' la pistola???? l 'assassino e' tra coloro
che cercarono l'arma .Ma il duplice omicidio del sessantotto
non c'entra assolutamente nulla coi successivi delitti a partire
dal 74 ,il mostro ha solo usato l'arma trovata nel canale .
Rispondi
La pista sarda

Come abbiamo già accennato, subito dopo il delitto di Baccaiano


avvenne il collegamento della serie delittuosa attribuita al Mostro
con il delitto del 1968 in cui avevano perso la vita Antonio Lo
Bianco e Barbara Locci. La procura di Firenze cominciò così a
indagare sul duplice omicidio di Signa di 14 anni prima.
Gli inquirenti inizialmente dichiararono che queste nuove indagini
furono dovute alla solerzia del maresciallo Francesco Fiori, il quale
mostrò ai suoi superiori la pagina di un vecchio giornale che
parlava del delitto Locci/Lo Bianco, convincendoli ad andare a
fondo sul caso perché potevano esserci collegamenti con la serie
omicidiaria attribuita al Mostro di Firenze.
Molti dubbi tuttavia permangono su questa versione.
Come riporta il blogger Omar Quatar, già il 7 Novembre 1982 il
giornalista Giorgio Sgherri ventilò la possibilità che la segnalazione
ai carabinieri di indagare sul delitto del 1968 fosse invero arrivata
da una lettera anonima, mai ritrovata. Lo Sgherri scrisse infatti su
L'Unità:
"L'inchiesta su questo duplice omicidio è stata riaperta sulla base di alcune
lettere anonime giunte agli inquirenti, le stesse lettere anonime, a quanto
pare, facevano riferimento a 5 e non a 4 duplici omicidi. È così che i
magistrati sono andati a rispolverare il fascicolo sulla tragica fine di
Barbara Locci e Antonio Lo Bianco".

Il cittadino amico
L'ipotesi dell'aiuto anonimo giunto dall'esterno venne in parte
supportata anche dalle indagini condotte dal solito De Gothia, il
quale nel suo pregevole scritto "Notte Del Cittadino
Amico" riportò un trafiletto de "La Nazione" del 20 luglio 1982 (un
mese dopo Baccaiano dunque) in cui i carabinieri della caserma di
Borgo Ognissanti chiedevano a un anonimo "cittadino amico" di
mettersi in contatto con loro.

Nel trafiletto era specificato che questo cittadino amico aveva già
dato tre volte un aiuto alle indagini e adesso c'era nuovamente
bisogno di un suo supporto. Poiché la data in cui venne pubblicato
questo trafiletto è successiva di tre giorni a quella in cui il Giudice
Istruttore Vincenzo Tricomi iniziò a interessarsi ufficialmente della
Pista Sarda, secondo De Gothia è legittimo supporre che in una
delle tre lettere precedenti (probabilmente l'ultima) potesse essere
stato proprio il "cittadino amico" a indirizzare i carabinieri verso il
delitto del 1968.
Di diversa opinione era il giornalista Mario Spezi che tanto ha
scritto sul tema dei sardi: a suo dire, l'input alla Pista Sarda arrivò
da un anonimo che aveva inviato ai carabinieri dei ritagli di
giornale sul delitto di Signa e che nulla aveva a che vedere con il
"cittadino amico".
Spezi sosteneva di aver ricevuto queste informazioni dal Giudice
Istruttore del Tribunale di Firenze, dottor Vincenzo Tricomi in
persona, colui che per primo aveva cominciato a cercare il MdF fra i
sardi implicati nel delitto del 1968.
Sempre secondo Spezi, con cui il sottoscritto ha avuto modo di
confrontarsi in occasione delle indagini sull'omicidio "Kercher", il
"cittadino amico" aveva invece inviato tre lettere di tutt'altro genere
ai carabinieri di Borgo Ognissanti, in cui affermava di conoscere
bene la psicologia del MdF. Le prime due lettere erano state prese
seriamente, la terza invece venne considerata la missiva di un
mitomane e andò a inficiare le due precedenti: in essa infatti il
"cittadino amico" affermava che il MdF sceglieva il luogo dei delitti
in modo da comporre con l'iniziale della località la parola "BABBO"
(Borgo San Lorenzo, Arrigo, Bartoline). Una teoria che giustamente
venne ritenuta assurda, tuttavia dopo che il quarto duplice
omicidio venne commesso a Baccaiano, gli inquirenti decisero di
andare più a fondo e provarono a ricontattare il "cittadino amico"
con il trafiletto riportato in foto, quasi scusandosi di non avergli
dato troppo credito.
Il tutto si risolse con un nulla di fatto, anche perché il delitto
successivo avvenne a via di Giogoli (Galluzzo).

Teorie a confronto
In definitiva abbiamo tre versioni su come gli inquirenti possano
essere giunti al delitto del 1968 e dunque su come possa aver preso
piede la Pista Sarda:

1.Intuizione degli inquirenti: la versione ufficiale. Come da


direttive ricevute, i carabinieri stavano indagando su eventuali
delitti simili avvenuti a Firenze e dintorni prima del 1974 e
arrivarono così, grazie anche alla memoria del maresciallo Fiori, al
delitto del 1968.
2. Lettera anonima: Arrivò ai carabinieri una lettera anonima
(successivamente smarrita) contenente un ritaglio di giornale
relativo al delitto del 1968. Ipotesi caldeggiata, seppur con fini
diversi, da Mario Spezi e da Nino Filastò. Per entrambi a spedire
quella lettera fu il MdF; in realtà - per quanto ne sappiamo -
potrebbe essere stato chiunque a conoscenza di quanto era
avvenuto a Signa 14 anni prima.
Vedremo a breve come questa appaia l'ipotesi piú probabile.

3. Lettera anonima del "cittadino amico": ipotesi di De Gothia. La


lettera anonima con l'imbeccata di Signa arrivò da parte del
"cittadino amico", che già in passato aveva scritto ai carabinieri di
Borgo Ognisanti e che i carabinieri stessi tentarono di ricontattare
tramite un annuncio su "La Nazione" per avere ulteriori
informazioni.

Al fine di poter liberamente e consapevolmente prediligere una


delle tre ipotesi, è bene sottolineare alcuni aspetti della vicenda.
● Per prima cosa, il maresciallo Fiori è realmente esistito e aveva
realmente prestato servizio a Signa nel 1968, quindi è possibile che
possa essersi ricordato del duplice delitto Locci/Lo Bianco in un
momento in cui gli inquirenti indagavano a tutto tondo e cercavano
delitti simili a quelli del MdF. A onor del vero c'è peró da dire,
secondo quanto scrive l'avvocato Nino Filastò in "Storia Delle
Merende Infami", che Fiori non avrebbe mai partecipato alle
indagini relative al delitto del 1968, non essendo citato né nel
rapporto conclusivo dei carabinieri, né nei verbali degli
interrogatori a Stefano Mele, né tra i testimoni sentiti durante il
processo del 1970.
E in effetti, nel novembre del 1986, il maresciallo Fiori sottoscrisse
una relazione di servizio alla presenza del Giudice Istruttore Mario
Rotella, del Procuratore aggiunto Pier Luigi Vigna e del Sostituto
Procuratore Paolo Canessa in cui ribadì di essere stato lui a
ricordarsi nel luglio 1982 del duplice delitto di Signa, ma altresì
specificò di non aver a suo tempo partecipato alle indagini, perché
in quei giorni era in vacanza.
● L'ipotesi ufficiale è stata avvalorata in diverse interviste dalla
dottoressa Silvia Della Monica (alcune anche piuttosto recenti) e in
maniera definitiva dal Giudice Istruttore Mario Rotella il quale nel
dicembre del 1989 assolse ufficialmente tutti i sardi coinvolti nella
vicenda e nella sentenza di assoluzione specificò esplicitamente che
la lettera anonima era solo una suggestione giornalistica.
Per contro, è altrettanto doveroso sottolineare i punti che
privilegerebbero l'ipotesi della lettera anonima.
● Come pura curiosità che non ha alcun valore storico, attorno al
2015 sul forum ormai estinto "Il Mostro Di Firenze" ci fu
l'intervento di un utente dal nickname Ricci che, spacciandosi per
carabiniere di stanza nell'estate del 1982 alla caserma di Borgo
Ognissanti, avvallava l'ipotesi della lettera anonima.
● Ma se le dichiarazioni di un "nickname" su un forum valgono
davvero poco, tutt'altra portata hanno le dichiarazioni dell'avvocato
di parte civile Vieri Adriani che nel settembre del 2017 in un
convegno a Pistoia avrebbe riferito dell'esistenza di un documento
risalente al 20 Agosto 1982 (dunque cinque giorni dopo la
carcerazione di Francesco Vinci e circa un mese dopo l'apertura
della pista sarda) con cui la dottoressa Silvia Della Monica,
rivolgendosi al Nucleo Operativo dei Carabinieri di Firenze,
attestava in maniera ufficiale l'esistenza della lettera anonima.
Sempre attingendo all'importantissimo blog di Omar Quatar, in
questo documento è scritto - testuali parole:
"Il G.I. del Tribunale di Firenze dottor Vincenzo Tricomi segnalava a
questo Ufficio l'importanza di una lettera anonima. Questa lettera
indirizzata alla scrivente (Procura della Repubblica) e trasmessa per
indagini a codesto reparto, la quale evidenziava come i duplici omicidi
commessi dal Mostro fossero cinque, non quattro, richiamando
l'attenzione su un episodio analogo avvenuto in passato in altra località
della provincia. Questo Ufficio ritiene indispensabile al fine delle ulteriori
indagini concernenti l'identificazione dell'autore dell'anonimo rientrare in
possesso dello scritto potendosi ritenere plausibile che esso sia attribuibile a
persone a conoscenza dell'identità del vero assassino. Facendo seguito
pertanto a passate sollecitazioni verbali, si prega di voler procedere a
pronta trasmissione."
Sulla base di questo documento, possiamo desumere che:
1. l'ipotesi dell'aiuto esterno risulta a questo punto certo;
2. la lettera anonima era stata indirizzata alla Della Monica in
persona presso la Procura della Repubblica di Firenze. Particolare
molto suggestivo quest'ultimo, se consideriamo che alla stessa
persona e allo stesso indirizzo tre anni dopo verrà inviata una
lettera - questa volta sicuramente dal "Mostro" - contenente un
lembo di seno della vittima francese dell'efferato omicidio del 1985.
Inoltre, questo particolare ci permette di convenire con Spezi e con
buona probabilità escludere il "cittadino amico" come autore di tale
missiva anonima. Costui era infatti in contatto epistolare con la
caserma di Borgo Ognissanti e non con la Procura di Firenze.
3. la lettera anonima era stata consegnata dalla Procura agli uffici
del Giudice Istruttore Tricomi, il quale aveva dato il via alle
indagini sui sardi, e circa un mese dopo la Procura ne chiedeva la
restituzione per svolgere indagini sul mittente.
Si scoprirà in seguito che tale missiva era nel frattempo andata
smarrita.
4. come aveva riportato il giornalista Sgherri, la lettera parlava di
cinque e non quattro delitti del Mostro, ma non viene specificato se
facesse esplicito riferimento a Signa oppure si fosse limitata a
fornire l'input del delitto in piú. In tal caso sarebbe lecito supporre
che l'idea del collegamento con Signa l'avesse davvero avuta il
maresciallo Fiori. Questa ipotesi sta ultimamente riscontrando i
favori di diversi mostrologi.
Abbiamo, tuttavia, già accennato come, secondo il ben informato
Spezi che a suo dire aveva avuto informazioni di prima mano da
Tricomi, la missiva non lasciasse spazio a libere interpretazioni
degli inquirenti, in quanto conteneva un articolo di giornale relativo
proprio al delitto di Signa.
5. la dottoressa Della Monica riteneva estremamente probabile che
chiunque avesse spedito la lettera, fosse a conoscenza dell'identità
del Mostro.

Accertato, dunque, che l'input per il collegamento con il duplice


omicidio di Signa fosse giunto in forma anonima, questo deve
essere arrivato appena prima del 17 luglio 1982, perché in quella
data il Giudice Istruttore Vincenzo Tricomi fece richiesta alla Corte
di Assise di Appello di Perugia (dove si era celebrato il processo
d'appello a Stefano Mele) del fascicolo processuale relativo al
delitto di Signa del 1968.
Da Perugia venne risposto che tale fascicolo era stato consegnato in
tempi non sospetti (precisamente nell'aprile del 1974) al tribunale di
Firenze.
La richiesta fu dunque inoltrata alla Cancelleria del tribunale di
Firenze e il giorno 22 luglio 1982, data riportata dallo studioso Gian
Paolo Zanetti in una trasmissione dedicata al "cittadino amico"
dell'emittente radiofonica Florence International Radio, il giudice
Tricomi ricevette finalmente l'intero incartamento.
Con una certa sorpresa, furono rinvenuti spillati al fascicolo i
bossoli presumibilmente usati nel delitto di Signa. Fu dunque
ordinata una perizia balistica al maresciallo Antonio Arcese e al
dottor Giovanni Iadevito, e fu così possibile appurare che la pistola
che aveva ucciso la coppia nel 1968 era la stessa con cui erano stati
commessi i delitti del Mostro di Firenze dal 1974 al 1982. Inoltre -
come più volte ripetuto - si appurò anche che i proiettili utilizzati
nel 1968 provenivano dalla medesima partita dei proiettili utilizzati
dal Mdf a partire dal 1974.

Nota Bene 1: Molti ritengono che i bossoli rinvenuti nel fascicolo


del delitto di Signa andassero distrutti in quanto c'era stato un
colpevole condannato dopo 3 gradi di giudizio e dunque quel
rinvenimento era stato solo un "fortunoso" caso; altri invece
ritengono che, non essendo mai stata ritrovata la pistola del delitto
di Signa, fosse giusto custodire eventuali reperti nel fascicolo. È
questo un dilemma, fondamentalmente procedurale, su cui ancora
non si è venuti a capo.

Nota Bene 2: Talvolta viene affermato (Mario Spezi è stato uno dei
precursori di questa affermazione, ma al giorno d'oggi anche
l'investigatore privato Davide Cannella se l'è lasciato sfuggire) che
i proiettili usati nei delitti del MdF provenissero dalle stesse scatole
dei proiettili usati dal MdF nel 1968. In realtà questo è un falso
storico!
Come dichiarato nel 1984 dalla casa produttrice Winchester e come
esplicitato più che bene nel blog dell'esperto balistico Enrico
Manieri, meglio noto in mostrologia come Henry62, l'unica cosa che
si può affermare con certezza è che le cartucce usate negli otto
duplici omicidi del Mostro sono tutte di produzione risalente
all'incirca al 1966 e corrispondenti a uno stesso lotto. Questa
conclusione è dovuta al fatto che la H stampigliata sul fondello
presentava la stessa imperfezione per tutti i bossoli (sia quelli del
1968, sia quelli dei delitti successivi) e quindi si poteva e si può
affermare con ragionevole certezza che questi proiettili erano stati
fabbricati tutti nello stesso periodo, nella stessa fabbrica e la lettera
H era stata impressa dallo stesso punzone. Non si può
ragionevolmente affermare nulla più di questo, anche perché prima
che il punzone difettoso fosse cambiato, questi avrebbe potuto
stampigliare le H su diverse migliaia di proiettili e di conseguenza
su diverse decine di scatole.
È doveroso fare questa precisazione nell'eventualità - come
vedremo - di un passaggio di mano della pistola fra il 1968 e il 1974.
Affermare che i proiettili provenivano tutti dalle stesse due scatole,
implica infatti un passaggio di mano anche delle scatole. Mentre,
affermare che i proiettili provenivano tutti dalla stessa partita (e a
queste partita possono essere fatte risalire decine di scatole) non
implica necessariamente anche il passaggio delle scatole.
Risulta facilmente comprensibile come questa distinzione sia
tuttavia puramente filologica, perché sarebbe davvero un caso
fortunoso (anche se non aprioristicamente impossibile) che la
pistola passasse in qualche modo di mano dall'autore del delitto del
1968 all'autore dei delitti successivi e quest'ultimo venisse in
possesso di proiettili appartenenti alle stesse partite di quelli
posseduti dal suo predecessore.

Mettendo comunque momentaneamente da parte l'annosa


questione su un eventuale passaggio di mano della pistola, abbiamo
ora da vagliare quattro importanti possibilità riguardanti la genesi
della "Pista Sarda" che, comunque la si pensi, coprono tutto lo
scibile mostrologico sulla questione:

1. L'aiuto:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da Fiori o molto più
probabilmente da una segnalazione anonima prodotta da qualcuno
che voleva realmente aiutare le forze dell'ordine. I bossoli allegati al
fascicolo erano un caso e i delitti erano davvero collegati dalla
stessa pistola (forse anche dalla stessa mano, ma non è detto).

2. La rivendicazione:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da una segnalazione
anonima prodotta dal MdF, il quale in pieno delirio di onnipotenza
voleva che si sapesse che lui era stato autore anche di altri crimini ai
danni di coppie. In pratica con quella segnalazione il MdF
rivendicava il delitto di Signa. I bossoli allegati al fascicolo erano un
caso e i delitti erano davvero collegati dalla stessa pistola e dalla
stessa mano.

3. Il piccolo depistaggio:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da una segnalazione
anonima prodotta da qualcuno che NON voleva aiutare le forze
dell'ordine; un anonimo "nemico" (il MdF o un suo sodale, ad
esempio, ma anche una qualsiasi persona ostile ai sardi e/o agli
inquirenti) che voleva cioè depistare le indagini. L'anonimo infatti
sapeva che la pistola era la stessa per tutti i delitti ma
contemporaneamente sapeva che l'autore dei delitti non era lo
stesso, quindi indirizzando gli inquirenti sul caso del 1968, li
indirizzava verso la cosiddetta Pista Sarda, allontanandoli dalla
verità.
È questa banalmente l'ipotesi molto in voga nella prima metà degli
anni '80 del cosiddetto "guardone" che aveva assistito al delitto del
1968, aveva visto dove gli autori di quell'omicidio (eventualmente il
Mele, i Vinci o chi per loro) avevano nascosto (o forse gettato) la
pistola, se n'era impossessato e molti anni dopo era diventato
l'MdF. Per poi infine inviare una segnalazione agli inquirenti e
indirizzarli verso i sardi, dunque lontano da se stesso.

4. Il grande depistaggio:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da una segnalazione
anonima prodotta da qualcuno che NON voleva aiutare le forze
dell'ordine; un anonimo "nemico" (il MdF o un suo sodale, ad
esempio) che voleva completamente depistare gli inquirenti. A
differenza dell'ipotesi numero 3, in questo caso colui che ha inviato
la lettera anonima sapeva che la pistola usata dal MdF NON era la
stessa del delitto del 1968, però aveva accesso a "luoghi importanti"
e dunque aveva la possibilità di manomettere il faldone del delitto
di Signa, allegando dei bossoli "falsi". In pratica il MdF (o chi per
lui) aveva inventato un collegamento inesistente fra il delitto del
1968 e i seguenti per depistare completamente le indagini e
indirizzarle verso quel gran calderone che è stata la Pista Sarda.
Quest'ultima ipotesi è molto seguita da chi vede nel
dottor Francesco Narducci il MdF e da chi crede che il MdF sia o sia
stato personaggio potente, magari inserito nei palazzi di giustizia.
Al clamoroso depistaggio sembra credere ad esempio un
importante magistrato di Perugia che a lungo ha indagato sul
Narducci. A questa ipotesi hanno creduto e credono due insigni
esponenti della mostrologia, il già citato Etrusco Viola e il mai
troppo compianto De Gothia, il quale addirittura dichiarò di aver
avuto qualche problema a causa delle sue indagini (estranei
entrarono in casa sua e misero a soqquadro la sua roba alla ricerca
di qualcosa).

L'ipotesi del grande depistaggio è comunque quella che si presta


anche a un maggior numero di contro.
Per prima cosa, se c'è stata manomissione del fascicolo, questa deve
essere avvenuta a Firenze e non a Perugia, visto che dall'aprile del
1974 (prima ancora di Rabatta) l'intero faldone era stato inviato nel
capoluogo toscano. Dunque vedere un collegamento fra
"manomissione" e Perugia (e di conseguenza fra "manomissione" e
Narducci), non è propriamente corretto, anche se poi ovviamente
nulla impediva al medico umbro di avere contatti con importanti
personaggi fiorentini, come verrà ipotizzato in seguito quando si
parlerà degli ipotetici mandanti.
In secondo luogo bisogna mettere in conto la fortuna del MdF non
solo per essere a conoscenza di un delitto simile ai suoi (coppietta
appartata in auto e uccisa a colpi di pistola), ma anche per aver
conservato un ritaglio di giornale su questo delitto.
Poi ci si potrebbe chiedere come faceva il MdF a sapere che
spedendo quel ritaglio e quella segnalazione, le indagini sarebbero
entrate in quel ginepraio che è stata la Pista Sarda? Come faceva a
prevedere che Stefano Mele avrebbe continuato a cambiare versione
ogni volta in cui veniva interrogato, che Natalino Mele avrebbe
cominciato a negare di ricordare alcunché e avrebbe cominciato a
sostenere di aver fatto quel famoso tragitto da solo (cosa a questo
punto improbabile se il delitto era stato commesso dai sardi)?
Insomma, se depistaggio è stato, è stato ben fortunato il MdF a
trovare quell'humus nel clan dei sardi, un misto fra cialtroneria,
falsità cronica e oligofrenia, che favorisse così tanto l'impossibilità
di giungere a una verità.
Infine, a quanto ci risulta, oltre che manomettere il fascicolo del
delitto del 1968 per allegare i bossoli, il depistatore avrebbe dovuto
manomettere anche la perizia Zuntini allegata al fascicolo. Cosa non
impossibile a priori, ma decisamente più improbabile.

Espressi i motivi per cui statisticamente all'autore di queste pagine


risulta poco plausibile l'ipotesi del grande depistaggio, facciamo un
veloce excursus sulle altre tre possibilità riportate (aiuto,
rivendicazione e piccolo depistaggio).
● Se a spedire la lettera anonima era stato qualcuno che aveva
voluto aiutare gli inquirenti, probabilmente costui era vicino al clan
dei sardi; sapeva che costoro avevano commesso (o commissionato)
il delitto del 1968 e sapeva anche che i sardi erano a conoscenza di
parecchie cose sui delitti successivi, commessi con la stessa pistola.
Tuttavia, l'idea che a condurre gli inquirenti verso il delitto del 1968
possa essere stato qualcuno che voleva realmente aiutare le forze
dell'ordine, anche se non è aprioristicamente da escludere, col
senno di oggi risulta difficilmente credibile, visto il vicolo cieco in
cui le indagini si sono successivamente indirizzate. Se poi questo
qualcuno avesse voluto davvero aiutare gli inquirenti, avrebbe
potuto fare qualche tentativo in più, anche negli anni successivi al
1982, per portare le indagini sulla retta via.
Resta dunque probabilisticamente più attendibile l'idea di una
lettera anonima giunta da qualcuno che non voleva realmente
aiutare gli inquirenti. Rimangono dunque le possibilità della
rivendicazione e del piccolo depistaggio.
● Con l'idea della rivendicazione, ammettiamo implicitamente che
la lettera anonima sia stata inviata dal MdF in persona e che
sicuramente questi non apparteneva o non poteva essere collegato
in alcun modo al clan dei sardi (altrimenti avrebbe attirato le
attenzioni degli inquirenti anche su se stesso). In questo caso
potremmo parlare di un unico serial killer che ha colpito dal 1968 al
1985, esterno ai sardi e soprattutto sicuro che Natalino Mele
(testimone oculare del primo delitto) non avrebbe potuto
rappresentare un pericolo per lui.
● Con l'idea del piccolo depistaggio, contempliamo due possibilità.
La prima prevede che a spedire la lettera possa essere stato il MdF
(o un suo sodale), il quale dopo Baccaiano voleva per qualche
motivo (forse sentiva il fiato sul collo degli inquirenti) allontanare le
indagini da sé; anche in questo caso risulta difficile credere che il
MdF fosse stato uno dei sardi o potesse essere ricondotto a loro.
La seconda possibilità prevede che a spedire la lettera anonima
possa essere stato qualsiasi persona non implicata nei delitti del
MdF, ma che per un qualsiasi motivo (vendetta, rancori personali,
mitomania, anche semplicemente ostilità verso le forze dell'ordine)
voleva o che i sardi fossero indagati o prendersi semplicemente
gioco degli inquirenti. Costui doveva comunque essere a
conoscenza dei dettagli del delitto di Signa, del fatto che la pistola
del 1968 fosse la stessa dei delitti successivi, ma era altresì
consapevole che la mano fosse diversa.

Come è possibile vedere dai punti sopra riportati, l'invio di una


missiva anonima che collega Signa ai successivi delitti del MdF
rende statisticamente più probabile un'estraneità dei sardi ai delitti
del MdF che non il contrario. Infatti in caso di rivendicazione,
piccolo depistaggio e grande depistaggio, i sardi sono con più
probabilità estranei ai delitti del MdF. Solo in caso di tentativo di
reale aiuto alle forze dell'ordine, i sardi sarebbero coinvolti negli
omicidi.
Ed in effetti l'invio della missiva anonima è sempre stato uno
scoglio con cui anche i più accaniti Sardisti hanno sempre dovuto
confrontarsi.

Mettendo comunque da parte le varie ipotesi, torniamo ai fatti


storici.
A partire dal 22 luglio del 1982, gli inquirenti cominciarono a
studiare il delitto di Signa. Partendo dai seguenti due assiomi:
a) il duplice omicidio era maturato nell'ambiente sardo, perché
sicuramente Stefano Mele era stato sul luogo del delitto;
b) la pistola usata per un duplice omicidio non viene ceduta né
persa;
arrivarono alla facile conclusione che Stefano Mele aveva avuto un
complice, il quale rimasto libero, era diventato il Mostro di Firenze.

Le prime domande che ovviamente le forze dell'ordine si posero,


furono: che fine ha fatto la pistola? Ma soprattutto chi c'era quella
notte con Stefano Mele?
Il 27 luglio 1982, gli inquirenti tornarono dunque ad interrogare il
Mele che, nel frattempo aveva scontato la pena e risiedeva in un
istituto per ex carcerati a Ronco dell'Adige, in provincia di Verona.
L'ormai sessantatreenne muratore sardo tornò ad accusare del
duplice omicidio del 1968 Francesco Vinci, affermando che sia lui
che suo figlio Natalino erano stati all'epoca minacciati di morte dal
Vinci nel caso avessero parlato.
Dunque è proprio da Francesco Vinci che le indagini ripartirono. Le
forze dell'ordine appurarono che l'uomo non era in quel momento
rintracciabile, che subito dopo il delitto di Baccaiano, aveva fatto
nascondere dal nipote Antonio, la sua Renault 4 in una zona
boschiva vicino Grosseto nei pressi di Civitella Marittima, e che in
seguito si era dato alla macchia. Scoprirono inoltre che lo stesso
Vinci faceva uso di Norzetam e nel settembre del 1974, nei giorni
del delitto Gentilcore/Pettini, aveva bazzicato la zona del Mugello.
Ce n'era abbastanza (forse) per credere di aver trovato il MdF.
Il 6 Agosto venne spiccato un mandato di arresto nei confronti di
Francesco Vinci, ufficialmente per maltrattamenti in famiglia.
La sera del 15 Agosto 1982, Francesco Vinci venne arrestato mentre
era in procinto di fuggire in Francia e si nascondeva in casa di un
amico che gli stava procurando un passaporto falso. Tale amico
era Giovanni Calamosca, pastore imolese che era stato legato agli
ambienti della Anonima Sequestri sarda e che in seguito verrà
indagato proprio per i delitti del Mostro e ancor dopo ascoltato
durante il Processo ai CdM come testimone.

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7 commenti:

1.
Phoenix10 luglio 2021 alle ore 13:56

Ciao. Ho da poco scoperto questo blog interessante. In merito


all'apertura della Pista Sarda: siete sicuri sicuri che la lettera
anonima che riferiva di 'cinque e non quattro delitti del
mostro' sia da considerare come direttamente puntante al
delitto di Signa? Perche' ne la Della Monica nella sua richiesta
del 20-8-82 ne il Tricomi nella sua rogatoria a Chinnici del 29-
10-82 lo specificano. Parlano di un anonimo che riferiva,
appunto di 'Quinto duplice omicidio' e non 'Locci - Lo Bianco
come omicidio della serie'. Di conseguenza, stando anche alle
parole di Tricomi, che nella sua rogatoria afferma che da quel
biglietto si 'risali' a Locci Lo Bianco, se ne deve dedurre che
tale lettera, forse, ispiro' le indagini volte alla ricerca di
Precedenti e non alla diretta scoperta di Signa, che, a questo
punto, rimane ancora, saldamente, ancorabile al ricordo di
Fiori e, percio' alla versione ufficiale. A conferma di cio'
ricordo che nella sua richiesta la SDM, preciso' che la lettera,
una volta ricevuta in procura, fu inviata ai CC per 'atti di
indagine'. Che senso ha inviarla ai CC, se gia' tale lettera aveva
indicazioni precise su Signa? Non bastava gia' richiedere il
fascicolo a Perugia?
Tengo a ricordare, tra l'altro, che il Giudice Mario Rotella, nella
sua sentenza ordinanza, cito' un anonimo che riferiva di
PRECEDENTE ( che quindi collegava i delitti del mdf ad un
caso analogo avvenuto prima) ma che riguardava un 'reato a
sfondo sessuale sul quale la magistratura fiorentina aveva gia'
indagato e con successo'.
Per completezza: nrl convegno di Vieri Adriani (citato in
questo articolo), l'avvocato stesso, affermo':"In realtà
passeranno diversi mesi a quanto ho potuto verificare io,
prima che questo pezzo di carta rientri nella disponibilità della
Procura della Repubblica e per esso del G.I.”(cit.) Quindi
l'anonimo non si e' affatto perduto, ma e' tornato in
disponibilita' della Procura. Dove l'avranno messo? Magari...
nel fascicolo degli a.g. del pm relativo al delitto di
Montespertoli (4316/82)? [vedi Rotella, pag. 61]
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti22 luglio 2021 alle ore 11:29
Ciao. Non esiste certezza che la lettera anonima facesse
esplicito riferimento a Castelletti di Signa piuttosto che a
un generico delitto a sfondo sessuale brillantemente
risolto dalla magistratura. Oltretutto, per quello che può
valere, la prima volta che si parla di lettera anonima
(nell'articolo di Sgherri), Signa non è citata. Il problema è
che quei pochi che hanno visto la lettera, o sono morti o
negano di averla ricevuta.

Tuttavia, il primo a fare della lettera anonima una propria


battaglia, è stato lo Spezi, il quale millantava
informazioni di prima mano ricevute da Tricomi. E
secondo queste informazioni la lettera parlava
esplicitamente di Signa, c'era un articolo di giornale
allegato, addirittura si faceva riferimento al processo di
Perugia. Lo stesso Spezi si era fatto firmare un
documento dal Tricomi che attestava la veridicità di
quanto sosteneva.
Potrebbe aver mentito il Tricomi allo Spezi? Risulta molto
difficile da credere in questo contesto. Potrebbe aver
mentito lo Spezi sull'argomento e il documento essere
persino falso? Tutto è possibile, ma diventa piuttosto
complicato credere nella sua completa malafede.
Oltretutto all'epoca lo Spezi seguiva e credeva
fermamente nella pista del ginecologo, quindi non aveva
neanche alcun interesse di parte a sostenere l'ipotesi
"Signa segnalata da un anonimo".
Rispondi

2.
Phoenix25 luglio 2021 alle ore 11:20

Ciao. Grazie per la risposta. E anche per la tua cordiale presa


d'atto. Volevo fare delle precisazioni utili per chi legge.
Di per se una persona (nella fattispecie lo Spezi) non e'
credibile o incredibile a prescindere: lo e' semplicememte fino
a prova contraria. In questo caso la prova contraria e' proprio
quel Tricomi che lo Spezi vanta come fonte dello 'scoop'
sull'anonimo. Ne nelle interviste (in cui afferma 'non mi pare
che la notizia [di Signa] venisse dall'esterno), ne nella sua
autobiografia e nemmeno nella sua dichiarazione firmata al
giornalista, ebbe a parlare di anonimo, ma semplicemente di
ritaglio di giornale del quale 'ignorava di come Fiori ne fosse
venuto in possesso'. Il fatto che non si sappia da dove Fiori
abbia reperito quel foglio di giornale non ci autorizza ad
ulteriori illazioni o speculazioni. E se questo ritaglio fosse
veramente venuto dall'esterno e fosse veramente la causa della
'reminiscenza' del Fiori, non avrebbe avuto senso una querelle
col Piattelli circa l'anno del duplice omicidio (Fiori sosteneva
1964, Piattelli 1968) , a meno che il Piattelli non fosse un
'complice' del Fiori. Tra l'altro in questa dichiarazione, il
Tricomi dimostra di avere scarsa memoria (vedi quando fa
risalire il collegamento nell'inverno del 1982) dopo aver
giustamente premesso il notevole 'lasso di tempo' e 'sbiadito
ogni ricordo'. Afferma di un ritaglio che 'riferiva' (sofisma)
della avvenuta condanna di Mele a Perugia, benche' nella sua
autobiografia parli di un articolo relativo alla sua
scarcerazione (Aprile 1981). Nulla osta pensare che l'avvenuta
condanna a Perugia fosse il contenuto dell'articolo relativo alla
scarcerazione del Mele piuttosto che qualcosa scritto in
stampatello. E ricordiamoci che il Tricomi, nella sua richiesta
alla Corte d'Appello di Perugia del 17-7-82, sapeva benissimo
quando la Cassazione aveva respinto l'appello del Mele (prima
decade del febbraio 1972) ma non quella precisa dell'Appello a
Perugia. E' ben difficile che un ritaglio di giornale, spedito
dall'esterno, relativo alla scarcerazione del Mele riferisca
dell'avvenuta condanna in Appello del Mele a Perugia senza
sapere di preciso la data, pur specificando quella precedente
della Cassazione. E' piu' verosimile (IMHO) che queste info e il
'ritaglio' siano stati ottenuti dopo 'aver fatto opportuni
riscontri in cui si accertava che...'(cit. Rotella, pag.60) a seguito
dell'affioramento del ricordo di Fiori.
Per quanto concerne lo Spezi, non sono in grado di formulare
ipotesi circa la sua, chiamiamola 'scarsa cautela' nel riferire le
notizie: potrei ipotizzare che la sua passione per il caso e
quella per la sua professione gli abbiano giocato un brutto
scherzo (in buona fede, si capisce) ma rimane solo una mia
illazione. In linea di principio puo' anche starci che il Tricomi
gli abbia riferito qualcosa a voce che lo stesso Giudice non si e'
mai sentito di confermare (nemmeno, ripeto, nella sua
dichiarazione firmata del 2002). Ma... scripta manen e tutto cio'
che dice lo Spezi non trova conferma in nessuna delle sue
dichiarazioni.
In tutto questo non trova spazio la lettera anonima del 'quinto
duplice omicidio' (che non ha a che vedere ne col.ricordo di
Fiori, ne col foglio di giornale): sono contento che finalmente
qualcuno ha capito che quella lettera era antecedente e non
concomitante alla scoperta di Signa e che su Signa non faceva
alcun esplicito riferimento ( per quanto, giustamente, in quel
momento dell'indagine, ne era necessario il recupero per
appurare se fosse afferente al delitto Locci-Lo Bianco).
Complimenti ancora per il blog, serio e pieno di spunti
interessanti. Lo sto leggendo avidamente.

P.S. chiedo venia per la mia logorroicita' ma mi sento molto


molto solo (in tema di anonimi, si capisce)
Rispondi

Risposte

1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:36

Questo tuo carattere doveva essere tipico del mostro di


firenze, ho sempre pensato di una sola persona triste e
sofferente, anonima, senza un lavoro gratificante e brutto
di sicuro.
Rispondi

3.
Phoenix25 luglio 2021 alle ore 11:31

Aggiungo: E' anche ben difficile che il Tricomi allerti la Silvia


Della Monica di una lettera anonima che riferiva di un 'Quinto
duplice omicidio commesso dal mostro in altra localita della
provincia' (cit.) e non anche di 'un foglio di giornale con su
scritto a stampatello 'Andate a rivedere ecc.. ec..'.
Rispondi

4.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:32
I sardi mangiano u porceddu e u casumarcizu non vanno ad
ammazzare coppiette .. a hh aha h a quanti completi deficenti
hanno scritto e indagato su questo caso solo per fare soldi.
Rispondi

5.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:34

Il vero assassino non e' mai nemmeno lontanamente stato


sfiorato dalle indagini e credo che si sia fatto un sacco di risate
alla faccia di tutti questi grandi investigatori.
Rispondi
Francesco Vinci

Originario di Villacidro (Cagliari), Francesco Vinci era il terzo dei


quattro fratelli Vinci (Giovanni, Salvatore, Francesco e Lucia). Nei
primi anni '50 con la moglie Vitalia Melis, arrivò in Toscana, a
Montelupo, in provincia di Firenze.
Nel 1966, grazie al fratello Salvatore, conobbe Barbara Locci, di cui
divenne amante. Sul finire dell'estate del 1967 investì con la sua
lambretta Stefano Mele che si fratturò una gamba e venne
ricoverato in ospedale per alcune settimane. Non disponendo di
una polizza assicurativa, l'incidente fu imputato al fratello Salvatore
la cui assicurazione emise un indennizzo a Stefano Mele di 480.000
lire.
Durante la permanenza in ospedale di Stefano Mele, Francesco
Vinci andò a vivere con Barbara Locci, finché la moglie Vitalia non
lo denunciò per concubinaggio, maltrattamenti e mancanza di
assistenza alla famiglia. Successivamente Vitalia ritirò la denuncia e
i due coniugi tornarono a vivere insieme.
Dopo l'omicidio Locci/Lo Bianco (vedasi capitolo Castelletti di
Signa), il Vinci fu accusato da Stefano Mele di aver commesso
l'omicidio per motivi di gelosia. Venne arrestato, ma non risultò
nulla di concreto contro di lui e fu dunque rilasciato per poi venire
completamente scagionato.
Durante il processo al Mele emerse chiaramente da varie
testimonianze come il Vinci fosse morbosamente geloso della Locci
e mal sopportava i suoi numerosi amanti. Anche suo fratello
Salvatore testimoniò contro di lui, non mancando di far notare che
Francesco fosse possessore di una pistola.
A proposito di Salvatore, da uomo libero, a fine processo Francesco
dichiarò: "Lui può dire quello che vuole; fra l'altro non corrono buoni
rapporti fra noi per motivi di famiglia. Io comunque non ero ad
ammazzarli e non ho mai visto pistole."
Pur essendo stato assolto da ogni accusa, Francesco Vinci è stato
ritenuto per anni il vero colpevole del duplice omicidio almeno dal
ristretto nucleo familiare che ruotava attorno alla vicenda "Locci/Lo
Bianco". In particolar modo, la madre del Lo Bianco lo accusò
pubblicamente durante il processo di aver ucciso il proprio figlio; i
fratelli Giovanni e Salvatore cercarono, seppur in maniera diversa,
di imputargli la responsabilità del delitto e il possesso dell'arma; il
padre di Stefano Mele, Palmerio, lo accuserà anche nel 1982 di
essere stato l'autore del duplice omicidio; persino un suo
amico, Giovanni Calamosca, si dirà convinto della colpevolezza del
Vinci. Tutte accuse, comunque, mai basate su alcuna prova
concreta. Al contrario, appare certo che:
▪ Francesco venne sottoposto alla prova del guanto di paraffina, che
– come visto - risultò negativa;
▪ la moglie Vitalia testimoniò a suo favore confermando che la sera
dell'omicidio di Signa era con lei;
▪ la pistola non venne mai rinvenuta fra i suoi effetti personali;
▪ la moto in suo possesso era in quei giorni in riparazione.

Le frequentazioni mugellane
Uscito indenne dal processo, il Vinci continuò la sua vita fatta di
piccoli reati e violenze domestiche.
Nel 1972 fu condannato per furto e detenuto fino al marzo del 1973,
quando gli fu concessa la libertà provvisoria con l'obbligo di
residenza. Uscito dal carcere, si trasferì con la famiglia sulle rive
dell'Arno, in via Gramsci, sempre a Montelupo Fiorentino.
Nei primi mesi del 1974 conobbe e divenne l'amante
di Alessandrina Rescinito una donna originaria di Barberino del
Mugello, in quel momento senza fissa dimora. Il Vinci obbligò la
sua famiglia ad accogliere in casa la nuova fiamma, ma ben presto
contravvenne all'obbligo di residenza e fu incarcerato dal 12 aprile
al 9 settembre del 1974 (cinque giorni prima del duplice omicidio di
Rabatta). Uscito dal carcere, Francesco non trovò la Rescinito in casa
propria, andò dunque a cercarla in casa della di lei madre a
Barberino (e non a Borgo San Lorenzo come viene riportato
erroneamente in quasi tutti i trattati mostrologici). Non la trovò
neanche lì e si rese protagonista di una scenata furiosa nei confronti
della madre, minacciandola di farle passare "guai grossi". Un paio di
giorni dopo, nella campagna di Borgo San Lorenzo, ci fu l'omicidio
Gentilcore/Pettini, il primo convenzionalmente attribuito al MdF.
Dopo il 1974 Francesco Vinci entrò e uscì dal carcere diverse volte
per reati vari. Fu condannato dal tribunale di Lucca per furto e per
porto e detenzione di arma, una rivoltella a tamburo calibro 22.
Contravvenne nuovamente all'obbligo di residenza e tornò in
carcere dal 10 al 27 marzo 1975.
Successivamente fu coinvolto in un altro caso di omicidio. Il 2
Febbraio 1976 un pastore sardo affiliato all'Anonima Sequestri di
nome Natalino Sechi e sua figlia Lorella, residenti in un casolare
nei pressi di Castel San Pietro, vicino Bologna, furono uccisi a colpi
di fucile davanti all'uscio di casa. Il Vinci e il suo amico Giovanni
Calamosca furono accusati dell'omicidio e reclusi dal dicembre del
1976 al marzo del 1977, per poi essere rilasciati in quanto ritenuti
estranei alla vicenda.
Da notare che il Calamosca, proprietario terriero ed allevatore di
bestiame imolese, era in stretti rapporti di affari e amicizia con
alcuni noti esponenti dell'Anonima Sequestri sarda, quali Mario
Sale e Giovanni Farina.

Le eventuali frequentazioni sancascianesi


I rapporti fra Vinci e Calamosca rimasero sempre piuttosto intensi,
almeno fino all'agosto del 1982.
Stando a quanto avrebbe raccontato nel marzo del 1997 lo stesso
Calamosca agli inquirenti, durante la loro lunga frequentazione il
Vinci gli aveva fatto una serie di confidenze sul delitto del 1968: gli
aveva rivelato di essere stato lui l'autore di quell'omicidio e il
possessore della pistola che in seguito era stata ceduta a colui che
sarebbe diventato il Mostro di Firenze.
Calamosca riferì agli inquirenti che nei primi anni '80 Francesco
Vinci conobbe e divenne l'amante di una giovanissima prostituta di
San Casciano Val di Pesa, di nome Milva Malatesta. Questa Milva
era la figlia di Renato Malatesta e Maria Antonietta Sperduto. La
Sperduto - come avremo modo di vedere - era l'amante di un
contadino di nome Pietro Pacciani.
Le dichiarazioni del Calamosca avrebbero potuto finalmente
spiegare come la pistola che aveva ucciso nel 1968 fosse finita nelle
mani di Pietro Pacciani che, almeno secondo le sentenze, sarebbe
divenuto il Mostro di Firenze. Tuttavia, come vedremo, tali
dichiarazioni non sono mai state tenute in debita considerazione, né
all'epoca dagli inquirenti né attualmente dalla maggioranza dei
mostrologi, a causa della presunta inattendibilità dello stesso
Calamosca.
L'arresto
Tornando ai primi anni '80, il 14 novembre 1981 Francesco Vinci fu
arrestato per furto e recluso presso il carcere delle Murate a Firenze.
Nello stesso periodo, in quello stesso carcere, era detenuto
anche Salvatore Indovino, futuro mago di San Casciano e
personaggio che assumerà notevole interesse nella vicenda del
Mostro a partire dalla metà degli anni '90. Indovino sarebbe stato
scarcerato il 4 dicembre del 1981, dunque condivise il carcere con
Francesco Vinci per circa tre settimane. Poco dopo, precisamente il
21 dicembre, venne scarcerato anche il Vinci.
Francesco rimase però a piede libero per pochi mesi, perché dopo il
duplice delitto di Baccaiano e il collegamento con il delitto di Signa,
fu il primo dei sardi a finire sotto il mirino degli inquirenti. E
questo sia perché, nonostante la condanna definitiva del Mele,
Francesco era stato a lungo il maggiore indiziato come autore del
duplice omicidio Locci/Lo Bianco, sia per via di una serie di indizi
che emersero a suo carico e che saranno elencati meglio nel seguito.
Sapendo di essere braccato e stavolta per motivi veramente seri, il
Vinci contattò l'amico Calamosca per avere un passaporto falso e
fuggire all'estero, forse in Francia o addirittura in Australia,
confidanfogli che "doveva fuggire all'estero perché non voleva mettere
una famiglia nella merda", qualsiasi cosa volesse intendere. Non fece
in tempo perché la sera del 15 agosto del 1982 fu arrestato proprio a
casa del Calamosca, in una zona impervia dell'Appennino Tosco-
Romagnolo nei pressi di Fiorenzuola. In quel momento i rapporti
fra i due si incrinarono perché il Vinci sospettò che il Calamosca
avesse fatto la spia e causato il suo arresto.
Ufficialmente Francesco Vinci veniva arrestato per maltrattamenti
in famiglia, tuttavia - sempre secondo il Calamosca - il manovale
sardo sapeva benissimo di essere sotto indagine per i delitti del
MdF. Chiedersi come faceva a saperlo, sarebbe un'ottima domanda.
Tradotto in carcere, il 17 agosto il Vinci fu sottoposto a un lungo
interrogatorio. Gli venne contestato il ritrovamento, subito dopo il
delitto di Baccaiano, della sua automobile Renault 4 di colore rosso,
nascosta nella campagna attorno a Civitella Marittima in provincia
di Grosseto. Il Vinci spiegò che era andato da quelle parti per
trovare un posto dove trascorrere le vacanze con la famiglia; qui gli
si era rotta l'automobile e l'aveva occultata per paura che qualcuno
potesse rubarla.
Sul perché si fosse dato alla macchia un mese dopo il duplice delitto
di Baccaiano, spiegò che una volta appreso che le forze dell'ordine
lo stavano cercando, pur non avendo nulla da nascondere, visti i
suoi trascorsi aveva deciso di rendersi irreperibile.
Sottoposto nel corso dei mesi e degli anni a svariati interrogatori,
nonostante le terribili accuse che pendevano sul suo capo, il Vinci
mostrò sempre di possedere eccezionale sangue freddo e ottime
capacità intellettive, tanto da mettere lui stesso spesso in difficoltà i
magistrati che lo interrogavano.
Stando alle parole del suo avvocato Alessandro Traversi, Francesco
Vinci, che non aveva conseguito neanche la licenza elementare, era
una delle persone più intelligenti che avesse mai conosciuto. Storico
l'aneddoto raccontato dallo stesso avvocato secondo cui al cospetto
di un uomo dall'eccezionale durezza come Pier Luigi Vigna che gli
rinfacciava tutti gli indizi a suo carico, il Vinci prese un pacchetto di
sigarette, lo accortocciò fra le mani e disse a Vigna che tali indizi
erano come quel pacchetto, un momento prima c'erano e un
momento dopo non valevano più nulla.
Durante la detenzione, Francesco Vinci ebbe comunque
atteggiamenti strani e contraddittori. I giorni 1 e 2 ottobre 1982
venne ricoverato presso il Centro Clinico della Casa Circondariale
di Firenze per uno sciopero della fame che in poche settimane gli
aveva fatto perdere una ventina di chili. Tornò in clinica dal 6 al 10
ottobre per una presunta frattura a una mano. Nel novembre del
1982 gli venne ufficialmente notificato che era indagato per tutti i
delitti del Mostro (1974, 1981, 1981, 1982).
In quel periodo il Vinci fu sottoposto a diverse perizie psichiatriche.
Durante uno di questi colloqui si dice che confidò al
professor Pierluigi Cabras, stimato psicologo fiorentino, di
conoscere l'identità del mostro di Firenze.
Il Vinci si rifiutò peraltro d'essere sottoposto ad
elettroencefalogramma, dichiarando: "Io sono disposto a farmi
esaminare dal di fuori, ma non voglio essere frugato dentro!"
Secondo il cappellano del carcere di Sollicciano, don Danilo
Cubattoli, chiamato a testimoniare durante il Processo ai CdM, il
Vinci si disperava fortemente per le accuse che pendevano sul suo
capo, professando con forza la sua innocenza, talvolta anche con
atteggiamenti autolesionistici.
Secondo le dubbie dichiarazioni dell'ergastolano Giuseppe
Sgangarella, anch'egli ascoltato durante il Processo ai CdM, il Vinci
temeva per la propria vita, convinto di poter essere fatto fuori dalle
persone implicate nella vicenda del Mostro, cui lui stesso aveva in
precedenza ceduto la pistola. Vedremo in un paragrafo
successivo la scarsa attendibilità di queste ultime dichiarazioni.
Nel frattempo, mentre Francesco Vinci era in carcere si verificarono
altri due duplici omicidi del cosiddetto MdF, il primo a Giogoli nel
settembre del 1983, un omicidio particolare in cui non ci furono
escissioni e portò qualcuno a pensare che potesse essere stato
commesso ad arte per discolparlo; il secondo a Vicchio nel luglio
del 1984, quest'ultimo delitto inequivocabilmente opera del MdF.

La scarcerazione, la fuga e la morte


Il 26 ottobre 1984 Francesco Vinci fu definitivamente scarcerato; tale
data emerge in dibattimento al processo contro i Compagni di
Merende allorché si discusse se gli eredi del Vinci potessero
costituirsi parte civile: udienza dell'11 novembre 1997, minuti 24 e
25 della registrazione di Radio Radicale. In definitiva, Francesco
Vinci rimase in carcere dal 15/8/1982 al 25/10/1984.
Subito dopo la scarcerazione, il Vinci incontrò a cena il
giornalista Mario Spezi cui, stando a quanto riporta lo stesso Spezi,
confidò in tono quasi affettuoso: "Il mostro è uno che si sa muovere di
notte, in campagna, e che ha sofferto tanto da bambino". Fu proprio
questa confidenza a far maturare col tempo nello Spezi (che fino a
quel momento aveva seguito la pista del ginecologo) la
cosiddetta "Teoria Carlo", un'ipotesi mostrologica che avremo
modo di valutare più avanti.
Tornato libero, Francesco Vinci decise di lasciare l'Italia e fuggire in
Francia dove visse per diversi anni.
Nel marzo del 1985, sempre all'interno della cosiddetta Pista Sarda,
venne arrestato Giovanni Calamosca per presunta detenzione
abusiva di una pistola calibro 22, che gli inquirenti sospettavano
potesse essere quella del Mostro. Tale arma, che evidentemente il
Calamosca avrebbe custodito o perché era lui il Mostro o per fare
un favore al Mostro, non venne mai trovata e il Calamosca fu
rilasciato dopo due mesi di reclusione.
Il 13 dicembre 1989 il giudice istruttore Mario Rotella chiuse
l'indagine relativa alla cosiddetta Pista Sarda con una sentenza-
ordinanza di 162 pagine in cui dichiarava di non doversi procedere
"per non aver commesso il fatto" nei confronti di tutti i sardi che nel
corso degli anni erano stati indagati, tra cui anche appunto
Francesco Vinci.
Due giorni prima di Pasqua del 1990, il Vinci tornó a trovare
Calamosca per proporgli alcuni affari; in quell'occasione il
Calamosca notó che l'amico appariva provato, depresso, dedito
all'alcool. Ad angustiarlo, sempre secondo il pastore imolese, era
ancora la faccenda della pistola del Mostro, un segreto troppo
ingombrante e pericoloso da portarsi dentro.
Il 7 agosto 1993, il Vinci fu torturato, mutilato, ucciso e quindi
bruciato insieme all'amico Angelo Vargiu. I loro corpi carbonizzati
furono trovati nella frazione Garetto di Chianni vicino a Pontedera
nel bagagliaio di una Volvo 240 di proprietà di Francesco Vinci. Il
sostituto procuratore incaricato delle indagini, dottor Angelo
Perrone, dichiarò in merito: "Stiamo lavorando sul contesto umano di
questa gente, un intreccio molto complicato dove convivono furti di
bestiame, sequestri di persona, ultimamente anche droga. Molti segreti.
Seguiamo ogni pista.
I funerali si svolsero il 2 maggio 1994, quando fu data per certa
l'identità dei due corpi. Per il delitto fu accusato Giampaolo Pisu,
un pastore di Orciatico, che fu poi prosciolto.

Particolarità su Francesco Vinci


● Ad inizio anni '90, la signora Vitalia Melis fu ospite della
trasmissione di Rai2 condotta da Giancarlo Magalli, I fatti vostri, in
cui (accompagnata dall'investigatore privato Davide Cannella)
dichiarò di essere alla ricerca della figlia che anni prima aveva
abbandonato la famiglia e pare non avesse la minima intenzione di
tornare sui propri passi. In quell'occasione la donna confermò che il
marito era rimasto in carcere 2 anni e 2 mesi con l'infamante accusa
di essere il MdF.
● Considerando che in occasione dei delitti del 1983 e del 1984
Francesco Vinci era in carcere e che in occasione del duplice
omicidio del 1985 era in Francia, risulta impossibile pensare a lui
come al Mostro di Firenze. Eppure subito dopo il delitto di
Baccaiano (giugno 1982), una serie di (presunte) coincidenze
sembravano non lasciare dubbi circa il suo coinvolgimento nei
delitti. Nello specifico:
1. era nel Mugello nel settembre 1974, qualche giorno prima del
delitto di Rabatta, ove si era recato alla ricerca della sua amante;
non trovandola aveva discusso animatamente con la di lei madre e
aveva minacciato di far loro passare grossi guai;
2. lavorava a Montespertoli nel giugno del 1982, ove stava
effettuando riparazioni nella casa del genero, il quale a sua volta
risultava imparentato con Antonella Migliorini, uccisa dal mostro
proprio in quei giorni;
3. sempre nel giugno del 1982, subito dopo il delitto di Baccaiano,
Francesco si era dato alla latitanza e la sua automobile (Renault 4
rossa) era stata nascosta dal nipote Antonio Vinci (figlio del fratello
Salvatore) a Civitella Marittima, nella campagna grossetana;
4. aveva una buona conoscenza dei luoghi degli altri due delitti fino
ad allora commessi dal mostro; per quanto riguarda il delitto di
Mosciano, lui viveva infatti nella vicinissima Montelupo Fiorentino
(al Turbone); per quanto riguarda Travalle, aveva in passato
frequentato spesso la zona di Prato e il bar dei sardi in piazza
Mercatale;
5. sempre a proposito di abitazioni, Vinci viveva nel medesimo
paese di Enzo Spalletti, il guardone possibile spettatore del delitto
di Scandicci, e del famigerato dottor B., il ginecolo attenzionato
dagli inquirenti. Di entrambi abbiamo avuto modo di parlare a
proposito del delitto di Mosciano. Interrogato su un'eventuale
conoscenza del Vinci, il dottor B. confermò di essere stato medico
della famiglia.
6. nonostante i numerosi arresti e i vari lassi di tempo trascorsi in
galera fra il 1968 e il 1982, Francesco era sempre stato libero in
occasione dei delitti commessi dal MdF.
7. infine, c'è una recente intervista rilasciata al blogger Francesco
Cappelletti dall'ex luogotenente dei carabinieri Luciano Fattorini,
che nel 1982 era di stanza alla stazione di Montespertoli; in tale
intervista l'ex carabiniere dichiara che subito dopo l'arresto del
Vinci, un suo vicino di casa ai tempi in cui Francesco aveva abitato
a Lastra a Signa, si era presentato presso la caserma di
Montespertoli per dichiarare di aver visto all'epoca (circa il 1968) il
Vinci stesso allenarsi a sparare con un pistola in un campo vicino
Signa. I carabinieri si recarono nella zona indicata non trovando
però né bossoli, né segni di tali esercitazioni, avvenute invero (ove
fossero mai realmente accadute) circa quindici anni prima.

Francesco Vinci in Mostrologia


Molto si è elucubrato sull'eventuale frequentazione che Francesco
Vinci ebbe con Milva Malatesta, la prostituta sancascianese, figlia
dell'amante dei futuri Compagni di Merende, Pietro Pacciani e
Mario Vanni.
Su questo rapporto in seguito puntò la Procura di Firenze durante il
Processo ai CdM per spiegare il passaggio di mano della pistola dai
sardi (autori del delitto del 1968) al Pacciani (autore di tutti gli altri
delitti). Dando infatti per buono il legame Vinci-Malatesta e
considerando che Pacciani era l'amante della mamma di Milva,
sarebbe a quel punto dovuto risultare evidente come Vinci e
Pacciani avessero frequentato la stessa casa, quella dei Malatesta in
via Faltignano e probabilmente anche quella confinante
di Salvatore Indovino, personaggio misterioso di cui avremo modo
di parlare e su cui in seguito si riverseranno le attenzioni della
Procura di Firenze.
A sostenere la tesi del legame fra Francesco e la Milva fu – come
detto – Giovanni Calamosca, amico del Vinci, che al Processo ai
CdM ribadì questa relazione. Durante la sua deposizione
Calamosca affermò che:
1. Francesco Vinci gli aveva confessato di essere stato l'autore del
delitto del 1968 insieme a Stefano Mele;
2. il Vinci era il proprietario della famosa Beretta del "Mostro". La
pistola era stata in seguito ceduta dal Vinci a colui/coloro che a
partire dal 1974 compì/compirono i delitti del cosiddetto Mostro;
3. proprio questo causò nel 1993 la tragica morte del Vinci, il quale
forse ricattava il MdF o forse era divenuto un testimone scomodo
che, ormai dedito all'alcool, avrebbe potuto parlare.

A parte la parola dello stesso Calamosca, non esistono tuttavia


ulteriori testimonianze, né tantomeno prove, a sostegno della
relazione fra il Vinci e la Malatesta.
L'unico fattore che potrebbe far sorgere qualche sospetto a favore di
una possibile frequentazione Vinci-Malatesta (e di conseguenza
Vinci-Pacciani) è una strana e tragica coincidenza: sia Francesco che
Milva furono uccisi nello stesso periodo (Agosto 1993, a una
settimana di distanza l'uno dall'altra) e nello stesso brutale modo
(bruciati vivi dentro un'automobile).
A tal proposito, sempre secondo le parole del Calamosca, Francesco
era "un ladro di polli" e non c'era alcuna ragione per cui dovesse
essere ammazzato in maniera così violenta, a meno che non ci
fossero motivazioni veramente serie (e dunque eventualmente
motivazioni che avessero a che fare con la vicenda del MdF).
A maggior ragione, a meno di non considerare anche la Malatesta a
conoscenza di inconfessabili segreti sulla vicenda del Mostro,
risulta difficile comprendere per quali ragioni avrebbe dovuto
essere ammazzata in maniera così violenta: stiamo infatti parlando
di una prostituta di basso livello, uccisa oltretutto in compagnia di
suo figlio Mirko di appena tre anni, perito anch'egli nel tragico
rogo.
Come si vedrà, per questo delitto verrà indagato il marito della
Malatesta, Francesco Rubino, poi giudicato estraneo ai fatti (vedasi
capitolo dedicato alle Morti Collaterali).
Almeno aprioristicamente, dunque, non si può scartare l'ipotesi che
queste due morti così vicine e così tragiche possano essere collegate
fra loro e questo indurrebbe a pensare che effettivamente ci potesse
essere una connessione fra le due vittime.

A supporto delle dichiarazioni del Calamosca, arrivarono poi quelle


di Giuseppe Sgangarella, anche lui ascoltato in udienza durante il
Processo ai CdM. Sgangarella però risultò indubbiamente ancora
meno attendibile del Calamosca.
Salernitano di nascita, condannato all'ergastolo per lo stupro e
l'omicidio di una bambina, lo Sgangarella venne arrestato nel 1979 e
recluso nel carcere di Porto Azzurro (isola d'Elba). Il 17 maggio
1984 venne trasferito nel muovo carcere di Sollicciano a Firenze.
Stando alla sua deposizione, durante la detenzione era entrato in
buoni rapporti dapprima con Francesco Vinci e qualche anno dopo
col Pacciani, arrestato a sua volta nel 1987 per la violenza sulle
figlie.
Forte di questa duplice amicizia, lo Sgangarella dichiarò agli
inquirenti di essere venuto a conoscenza di informazioni che
avrebbero aiutato la Procura nelle indagini sul Mostro, ma che
avrebbe parlato solo in cambio di benefici.
Era questa un'usanza piuttosto consolidata fra i detenuti di lungo
corso: sfruttare le informazioni raccolte in carcere per aiutare la
magistratura in indagini particolarmente difficili in cambio di sconti
di pena o permessi premio; ma era abitudine anche fingere di avere
tali informazioni nel tentativo di rimediare qualche beneficio.
Di ciò che lo Sangarella ebbe a dire sulla sua documentata
conoscenza col Pacciani, avremo modo di parlare in seguito. In
questo capitolo ci limitiamo alle dichiarazioni sulla sua per nulla
certa conoscenza col Vinci.
L'ergastolano dichiarò di aver avuto modo di conoscere Francesco
Vinci quando questi era detenuto per i delitti del Mostro fra il 1982
e il 1984 e di aver ricevuto da lui confidenze sia sull'omicidio del
1968, sia sui delitti del Mostro di Firenze: il primo sarebbe stato
commesso dal Vinci stesso, i successivi da un gruppo di persone
con base a San Casciano, comprendente fra gli altri, Pacciani, un
tale postino (Vanni, NdA) e un tale mago (Salvatore Indovino, NdA).
Già in dibattimento, tuttavia, lo Sgangarella risultò davvero poco
credibile. Pressato dalle domande del PM Canessa e dell'avvocato
Filastò, venne appurato infatti che Vinci e Sgangarella non si erano
mai incontrati in carcere, ma avevano condiviso solo qualche giorno
nel centro clinico di Sollicciano. Un lasso di tempo molto ridotto per
far maturare quell'amicizia di cui parlava lo Sgangarella e che
sarebbe stata alla base delle rivelazioni che il Vinci gli avrebbe fatto.
Allo stesso PM apparve molto strano che un tipo cauto come il
Vinci potesse fare simili confidenze a un perfetto sconosciuto,
arrivando a confessare un omicidio, a dirgli di temere per la propria
vita e di poter essere ucciso dal Pacciani. Nome oltretutto, questo
del Pacciani, che allo Sgangarella all'epoca sarebbe dovuto risultare
quello di un perfetto sconosciuto. Pietro sarebbe infatti stato
arrestato solo nel 1987 (dunque almeno tre anni dopo queste
confidenze) e sarebbe salito agli onori della cronaca per i delitti del
Mostro solo agli inizi degli anni '90. Sembra dunque decisamente
improbabile che lo Sgangarella potesse aver memorizzato il nome
di quello che all'epoca era un perfetto sconosciuto e, a oltre dieci
anni di distanza, riferirlo alla magistratura. Insomma, quelle dello
Sgangarella sembravano a tutti gli effetti dichiarazioni studiate a
tavolino, prendendo spunto dai vari giornali dell'epoca, per
ingraziarsi la magistratura fiorentina e ottenere i relativi benefici.
Ma il colpo di grazia alle dichiarazione dello Sgangarella, lo diede
l'ispettore di polizia Massimo Fanni durante la sua deposizione al
Processo contro i CdM dell'11 novembre 1997. Documenti alla
mano, il Fanni dichiarò che lo Sgangarella era stato detenuto fino al
maggio 1984 a Porto Azzurro e dal maggio del 1984 in poi nel
centro clinico di Sollicciano. Francesco Vinci era stato invece
scarcerato a fine ottobre del 1984. Durante quei sei mesi di
codetenzione nello stesso istituto, c'era stato un solo giorno in cui il
Vinci era stato portato al centro clinico (per una presunta frattura
alla mano) e in cui potrebbe avere avuto rapporti con lo
Sgangarella, vale a dire il 4 luglio 1984. Un unico giorno quindi, che
contraddiceva definitivamente l'amicizia cui aveva fatto riferimento
lo Sgangarella.

Non è un caso, infatti, se la stessa Procura di Firenze si è sempre


dimostrata estremamente scettica sulle dichiarazioni di Calamosca e
dello Sgangarella, andando perció a cercare altrove il punto di
contatto fra Vinci e Pacciani per spiegare il passaggio della pistola
dall'autore del delitto di Signa all'autore dei delitti successivi.
Tale contatto sembrò essere stato trovato in tale Giuseppe Barrui,
pastore sardo, amico di Francesco Vinci, arrestato per rapina e
condannato per una serie di reati fra cui tentata violenza carnale,
spaccio di banconote false, detenzione di armi, sequestro di
persona. Secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia
fatte a Vigna, il Barrui avrebbe ceduto a Pacciani la pistola con cui il
Vinci aveva commesso il delitto del 1968 e in seguito lui stesso
avrebbe nascosto un proiettile calibro 22 nell'orto di casa Pacciani
per sviare le indagini (vedasi capitolo Il Processo Pacciani).
Anche questa pista tuttavia non sembrò portare a nulla. In
un'intervista, lo stesso Procuratore Pier Luigi Vigna, affermò infatti
esplicitamente che la Procura aveva cercato a lungo una
connessione fra i sardi e Pacciani senza mai riuscire a trovarla e a
dimostrarla. Secondo Vigna, la cosa più probabile è che, essendo sia
Vinci che Pacciani frequentatori di boschi, i due si fossero
conosciuti proprio in una di quelle occasioni. Vigna appunto
dimostrò con quelle parole di non credere per nulla né a Calamosca
né allo Sgangarella.
Anche il giudice del Processo d'Appello a Pietro Pacciani, colui che
assolse in secondo grado il contadino di Mercatale, il
dottor Francesco Ferri, escluse categoricamente una conoscenza fra
Pacciani e i sardi. Nel suo libro "Il Caso Pacciani", il dottor Ferri
dichiarava infatti: "...che il Mele conoscesse il Pacciani nessuno lo
afferma ed il Mele stesso, quando gliene fu domandato dopo che Pacciani
era comparso nel processo, ha sempre negato ogni conoscenza, benché
semmai avesse tutto l'interesse a dir cose che potessero portare alla
condanna del Pacciani..."
Ora è vero che Ferri parla semplicemente di una inesistente
conoscenza fra Pacciani e Mele e questo non toglie che Pacciani
avesse potuto conoscere il Francesco Vinci, ma quello che riporta
Ferri è altamente indicativo perché ci fa sapere come la stessa
Procura fosse alla spasmodica ricerca di un punto di contatto fra il
Pacciani e i sardi, tanto da chiedere conto a Mele di un'eventuale
conoscenza. E questo dimostra una volta di più come le
dichiarazioni di Sgangarella e Calamosca fossero ritenute dalla
Procura del tutto e completamente inattendibili.

Ricapitolando la gran mole di informazioni riversate in queste


poche righe, a favore di un Vinci coinvolto nella vicenda MdF
abbiamo:
▪ due personaggi di molto dubbia moralità che sostengono una
conoscenza fra Francesco Vinci e Pacciani che potrebbe spiegare il
famoso passaggio di mano della pistola (ove ovviamente si
reputasse che il primo delitto sia stato opera dei sardi e i successivi
del Pacciani o dei CdM);
▪ le tragiche morti, molto simili e molto vicine nel tempo, del Vinci e
della Malatesta, che farebbero appunto pensare a uno stretta
connessione fra questi due eventi; il Calamosca dichiara a questo
proposito che il Vinci (divenuto testimone scomodo) sarebbe stato
ucciso proprio poco prima che cominciasse il Processo Pacciani per
scongiurare la possibilità che potesse parlare; eventualmente la
Malatesta sarebbe stata uccisa anch'ella per lo stesso motivo;
▪ a questi due punti si aggiungerebbero (per quello che possono
valere) le dichiarazioni rilasciate dal futuro reo-confesso Giancarlo
Lotti durante il Processo ai CdM, secondo cui il duplice omicidio
del 1983 di Giocoli era stato commesso dai Compagni di Merende
appunto per far scarcerare Francesco Vinci, detenuto perché
fortemente sospettato di essere il MdF;

Per contro, abbiamo:


▪ la certezza che almeno Sgangarella sicuramente menta: le sue
spiegazioni sulla conoscenza e sulle rivelazioni del Vinci sono state
smentite già in sede processuale da prove documentali;
▪ la consapevolezza che, a parte Calamosca, nessuno nel giro di via
Faltignano (la via dove abitavano in due case confinanti sia Milva
con la mamma, che il mago Indovino) conferma la relazione fra
Vinci e la Malatesta;
▪ la morte del Vinci, almeno a sentire molti degli inquirenti che
hanno indagato in merito, potrebbe essere completamente
indipendente dalla vicenda del MdF; anche il già citato
luogotenente dei carabinieri, Luciano Fattorini, nella già citata
intervista a Francesco Cappelletti, dichiara di non ritenere tale
morte collegata con i fatti del Mostro; da notare che tali
dichiarazioni arrivano da qualcuno che, al contrario, avrebbe
interesse a individuare un collegamento fra la morte di Francesco e
la vicenda del MdF, dato che - come ben sappiamo - i carabinieri
hanno sempre creduto e verosimilmente tuttora credono in un MdF
da ricercare nell'ambiente sardo;
▪ la morte del piccolo Mirko, in compagnia della mamma, farebbe
pensare più a un delitto maturato in ambito familiare che non
connesso alle vicende MdF; a meno di non pensare che anche un
bimbo di tre anni potesse essere venuto in possesso di inconfessabili
segreti;
▪ gli indizi a carico del marito della Malatesta per la morte di Milva,
erano piuttosto pesanti; l'uomo era stato poi assolto, ma i dubbi
sulla sua colpevolezza rimangono. Questo implicherebbe che
l'omicidio di Milva sarebbe maturato per questioni familiari e nulla
avesse a che fare col Vinci e con le questione del Mostro;
▪ il delitto del 1974 rimarrebbe tagliato fuori; infatti, ammettendo
che Calamosca abbia detto il vero, se Vinci e Malatesta hanno
cominciato a frequentarsi nei primissimi anni '80 e dunque Vinci ha
conosciuto Pacciani a quell'epoca e a quell'epoca risale il passaggio
di mano della pistola, Pacciani non potrebbe aver commesso il
delitto del 1974; di qui la necessità di ricorrere ad altri punti di
contatto, come il già citato pastore sardo, Giuseppe Barrui;
▪ le dichiarazioni di Vigna che – nonostante gli facesse molto
comodo il collegamento fra Vinci e Pacciani - con grande onestà
intellettuale fa capire di non credere affatto a quanto affermato da
Calamosca e Sgangarella;
▪ le dichiarazioni del giudice Ferri che indicano come la Procura
avesse cercato in svariate direzioni il punto di contatto fra sardi e
Pacciani, senza comunque trovarlo;
▪ per quello che può valere, infine, nel marzo 2001, la
signora Vitalia Melis, moglie di Francesco Vinci, fu ascoltata dal
Pubblico Ministero Paolo Canessa. In quell'occasione la donna si
disse certa dell'innocenza di Francesco nei delitti del MdF, inoltre
affermò che le sue frequentazioni "sancascianesi" fossero assolute
falsità. La donna dichiarò dunque che Francesco Vinci non
frequentava Milva Malatesta e non conosceva Pietro Pacciani.
Giogoli

Data: Venerdì, 9 Settembre 1983;


Orario: Fra le 21.00 e le 24.00 secondo i referti medici;
Luogo: Località Galluzzo, via di Giogoli;
Vittime: Horst Meyer, 24 anni; Uwe Rüsch (spesso italianizzato in
Rush), 24 anni;
Automobile: Furgone Volkswagen T1, targato DH-EK 42;
Fase Lunare: Due giorni dopo il Novilunio: spicchio di luna
crescente.

Prima del Delitto


A bordo di un furgone Volkswagen Transporter, attrezzato a
camper, due ragazzi tedeschi, Horst Meyer e Uwe Rüsch, partirono
nel settembre del 1983 per una vacanza in Italia. La mattina di
mercoledì 7 lasciarono la città di Münster, nel nord-ovest della
Germania. Come riporta una nota della SAM per la Procura di
Firenze, quella sera il Rüsch telefonò ai suoi familiari dalla città di
Spessart. Premesso che non esiste una città di nome Spessart, è
molto probabile che la nota si riferisse alla zona di Spessart, circa
350 km a sud di Münster. Questo è l'ultimo contatto certo che
abbiamo. Di qui in avanti bisogna procedere facendo qualche
(lecita) supposizione e prendendo in considerazione alcune
testimonianze.
Verosimilmente i due giovani ripartirono la mattina successiva,
giovedì 8 settembre. La distanza fra Spessart e Firenze è di circa 950
km, percorsi a bordo di una vettura che certamente non permetteva
alte velocità. È lecito supporre che i due ragazzi arrivarono in
Toscana non prima della tarda sera di giovedì e questo sarebbe in
linea con la testimonianza di un metronotte che quella sera li vide
nei pressi della piazzola degli Scopeti a San Casciano Val di Pesa
(vedasi il paragrafo dedicato alle Particolarità).
Non è tuttavia possibile escludere a priori che nel lungo tratto fra
Spessart e Firenze, i giovani tedeschi avessero deciso di fare una
tappa intermedia e dunque giunsero nel capoluogo toscano proprio
nella giornata di venerdì 9, purtroppo appena in tempo per
rimanere vittime del MdF. In tal caso, però, ci sarebbe da chiedersi
chi vide il metronotte a Scopeti la sera precedente; la risposta
potrebbe essere un'altra coppia di stranieri a bordo di un furgone
Volkswagen, il che sarebbe una coincidenza ben strana, che dunque
difficilmente potremmo prendere in considerazione.
Risulta comunque certo che nel pomeriggio di venerdì, fra le 16.25 e
le 18.25, i due giovani lasciarono il camper in un parcheggio dalle
parti di Santa Maria Novella a Firenze (venne rinvenuto il
tagliandino della sosta all'interno del furgone) e successivamente
quella sera si allontanarono dal centro della città e parcheggiarono
in un prato adiacente a via di Giogoli, zona Galluzzo, per
trascorrervi la notte.
Stando al referto medico stilato dal dottor Mauro Maurri, il duplice
omicidio ebbe luogo fra le 21 e mezzanotte di quel tragico 9
settembre, un orario dunque coerente con i delitti fino a quel
momento commessi dal Mostro.

Scena del Crimine


I ragazzi vennero raggiunti dai colpi sparati con una certa perizia
dalla solita Beretta calibro 22 attraverso la carrozzeria e i vetri del
furgone. Nel dettaglio, furono sparati tre colpi dalla fiancata
sinistra, rispettivamente attraverso il penultimo finestrino, l'ultimo
finestrino e la lamiera del montante posteriore. Entrambi i finestrini
del lato sinistro rimasero integri, nonostante i fori di proiettile. Altri
due colpi furono sparati dalla fiancata destra, attraverso l'ultimo
finestrino (rimasto integro) e il penultimo finestrino (su cui invece
si venne a formare una fitta ragnatela di crepe).
I fori dei proiettili sui vetri del furgone vennero calcolati dal
dottor Francesco De Fazio a una distanza da terra compresa fra i
137 e i 140 centimetri. Questa misurazione permise all'equipe di
Modena di stabilire un'altezza dell'assassino superiore ai 180
centimetri. Vedremo in seguito come questa è una ipotesi non
condivisa da tutti (specialmente per ovvietà di cose dai Sardisti)
perché inizialmente i calcoli furono fatti non tenendo conto
dell'altezza da terra cui giacevano i giovani tedeschi al momento
dell'attacco.
Ai cinque colpi sparati dall'esterno del furgone, son da aggiungere
altri due colpi sparati all'interno e conteggiati grazie al
rinvenimento di due bossoli. Il killer esplose dunque in totale -
almeno stando alla dinamica ufficiale quasi unanimamente
condivisa dalla mostrologia moderna - sette colpi d'arma da fuoco.
Vennero tuttavia recuperati solo quattro bossoli.
Per amor di cronaca, recentemente un ingegnere e ricercatore di
Prato molto noto negli ambienti mostrologici, Luca Scuffio, ha
proposto una dinamica alternativa del delitto (reperibile facilmente
su youtube) secondo cui il killer avrebbe esploso 9 e non 7 colpi
d'arma da fuoco.
Rimanendo comunque fedeli alla dinamica ufficiale, l'assassino (o
eventualmente gli assassini, se vogliamo attenerci alle sentenze)
sparò dall'esterno attraverso entrambe le fiancate verso le vittime,
uccidendo quasi subito il Meyer, quindi entrò nel furgone, finì il
Rüsch con altri due colpi, si rese conto che si trattava di due uomini
e decise di non infierire sui cadaveri con l'arma bianca, né di
effettuare alcun tipo di escissione.
Le macchine fotografiche e il denaro dei due giovani tedeschi non
vennero toccati, né sembrarono mancare oggetti di valore.
L'autoradio del furgone rimase accesa fino alla scoperta dei
cadaveri, la sera successiva.

Dopo il Delitto
Il duplice omicidio venne scoperto quasi ventiquattro ore dopo;
precisamente sabato 10 dicembre alle 19.30 da Rolf Reinecke,
imprenditore tedesco che viveva in un appartamento di villa La
Sfacciata, costruzione vicinissima al luogo del delitto e che domina
tutta via di Giogoli. Il Reinecke, avendo già visto il furgone con
targa tedesca fermo nello spiazzo nella stessa posizione quella
mattina, ma a suo dire impossibilitato a fermarsi per via del traffico
su via di Giogoli, in serata si avvicinò al mezzo per scambiare due
chiacchiere con i connazionali. Fatta la macabra scoperta, l'uomo
avvertì immediatamente le forze dell'ordine.
Lo stesso Reinecke si ritrovò in seguito coinvolto nelle indagini: una
prima volta subito dopo l'omicidio quando a seguito di una
perquisizione le forze dell'ordine scoprirono che era possessore di
alcune armi da fuoco non dichiarate; una seconda volta molti anni
dopo quando gli inquirenti cominciarono a indagare sui presunti
festini esoterici a villa La Sfacciata e sul cosiddetto secondo livello,
vale a dire i presunti mandanti degli omicidi (vedasi a tal proposito
il capitolo Il secondo livello).
Tornando alla scoperta dei cadaveri, il fatto che le vittime fossero
due uomini ha dato adito sul momento a due possibili ipotesi: un
errore del mostro che aveva scambiato il Rüsch per una donna
oppure un tentativo di scagionare Francesco Vinci da parte di un
complice, il quale aveva inteso colpire una coppia qualsiasi con la
pistola del MdF, ma senza essere costretto a effettuare le escissioni.
Col tempo sono nate altre ipotesi, come la scelta volontaria del MdF
di colpire una coppia di uomini oppure la necessità di agire in tal
modo data dalla mancanza di coppie appartate in auto.
Il giorno successivo alla scoperta del delitto, nelle vicinanze del
camper (10/15 metri secondo il maresciallo Storchi; 30 metri
secondo l'ispettore Autorino) furono ritrovate fra la vegetazione, in
condizioni tutto sommato buone, alcune pagine di una rivista
pornografica italiana, denominata Golden Gay. Si trattava di una
rivista di pubblicazione mensile il cui primo numero era uscito
nell'aprile del 1981 e che aveva riscontrato scarsissimo successo fra
il pubblico. Stando a quanto riporta l'Avvocato Santoni
Franchetti al Processo Pacciani, a dispetto del nome, tale rivista era
di tipologia eterosessuale e le pagine trovate a poca distanza dal
camper, disposte a formare una specie di altarino, appartenevano al
quinto numero, uscito nell'agosto del 1981.

Poiché quei fogli con buona probabilità erano lì da pochissimo


tempo in quanto non particolarmente usurati dagli agenti
atmosferici e poiché alcuni risultavano tagliati da una lama
affilatissima, è idea abbastanza diffusa fra i mostrologi (anche se
non unanimamente condivisa) che fossero stati lasciati dallo stesso
MdF in occasione del delitto, con lo scopo evidentemente di inviare
un ben preciso messaggio agli inquirenti. Una sorta di primordiale
comunicazione che avrebbe anticipato di un paio di anni la
famigerata lettera inviata alla dottoressa Silvia Della Monica.
Ovviamente, anche ammettendo che l'ipotesi dell'altarino creato dal
killer sia corretta, questo non ci dà modo di capire se l'assalto al
camper dei tedeschi fosse stato o meno un errore. Certo, se
sapessimo con certezza che il killer aveva appositamente portato
con sé quei fogli, non avremmo dubbi sulla sua volontà di colpire
una coppia di uomini. Tuttavia, non può essere esclusa la
possibilità che il MdF avesse trovato la rivista fra gli effetti
personali delle vittime e avesse in quel momento deciso
(indipendentemente dall'errore o meno) di lasciare una sorta di
messaggio.
Potrebbe venire naturale chiedersi perché due ragazzi tedeschi
avrebbero dovuto possedere una rivista pornografica italiana di
scarsissima distribuzione, pubblicata addirittura un paio d'anni
prima. Tuttavia, come ci fa sapere sempre l'ottimo
avvocato Santoni Franchetti durante il Processo Pacciani, dalla
copertina di quella rivista era stato spuntato l'angolo in alto a
sinistra. Il taglio dell'angolo indicava che la rivista era stata allegata
a un'altra pubblicazione. Questa era una pratica molto in voga negli
anni '80 e '90, quando riviste o fumetti a lungo invenduti,
soprattutto nel periodo estivo, venivano incellofanati fra loro ed
esposti al pubblico per pochi spiccioli oppure allegati a una nuova
uscita per incentivarne l'acquisto. È dunque possibile che quel
numero di Golden Gay fosse capitato fra le mani dei ragazzi
tedeschi in seguito all'acquisto di un'altra rivista in una qualsiasi
edicola italiana: a tal proposito, proprio all'interno e nei pressi della
stazione Santa Maria Novella, c'erano un paio di ben noti carretti
ambulanti colmi di fumetti o riviste, molte delle quali a carattere
pornografico.
D'altro canto, l'ispettore di polizia Giovanni Autorino riferì
nell'udienza del Processo ai CdM del 28 ottobre 1997 che nel prato
antistante la piazzola del delitto di Giogoli vi fosse una quantità tale
di riviste pornografiche da necessitare di un camion per poterle
repertare tutte. A parte l'iperbole usata dall'ispettore, risulta
un'affermazione importante perché non esclude l'ipotesi che la
rivista, abbandonata comunque da poco, potesse essere stata
recuperata (dal MdF o da chiunque altro) esternamente al furgone.
Rimangono ovviamente queste, mere speculazioni che tengono
aperto tutto il novero di possibilità contemplate dalla mostrologia
passata e presente.

Particolarità a Giogoli
● In questo duplice delitto, il MdF tornò a usare una cartuccia
a palla ramata insieme a quelle a piombo nudo. Il motivo secondo
alcuni è dato dal fatto che il proiettile a palla ramata si sarebbe
prestato meglio a forare la carrozzeria del furgone, idea smentita
comunque da diversi esperti balistici.
È opportuno ricordare che le cartucce a palla ramata erano state
usate nel 1968 e 1974. Quelle a piombo nudo nei due delitti del 1981
e in quello del 1982. Ricordiamo inoltre che i proiettili venivano
comunque tutti dalla stessa partita (avendo lo stesso difetto sulla
lettera H) e che sono indubbiamente sparati dalla stessa pistola.
● Il singolo proiettile a palla ramata in questo delitto ha comunque
una discreta importanza perché ci mostra come l'autore della serie
omicidiaria a cadenza annuale degli anni '80 avesse conservato
almeno un proiettile della scatola di proiettili usati nel 1968 e nel
1974. Dunque questo singolo proiettile lega una volta di più la serie
omicidiaria degli anni '80 al delitto del 1968. Può sembrare un dato
scontato, ma considerati i 7 anni trascorsi fra il 1974 e il 1981 e gli
addirittura 13 trascorsi fra il 1968 e il 1981, avrebbe anche potuto
non essere così ovvio.
● Come detto, dai fori dei proiettili sul vetro del furgone fu
possibile stabilire da parte dell'equipe di Modena, guidata del
celebre e più volte citato criminologo Francesco De Fazio, che il
killer dovesse essere alto almeno 180 centimetri. Questo calcolo fu
poi contestato dal PM Canessa durante il Processo Pacciani; in
quell'occasione gli stessi criminologi dichiararono di aver creduto
erroneamente che il corpo del Meyer si trovasse sul pianale anziché
su una piattaforma rialzata e dunque l'altezza dello sparatore
doveva essere abbassata di una quindicina di centimetri. Con tale
affermazione si arrivava più o meno proprio all'altezza
dell'imputato Pacciani, compresa fra i 165 e i 170 centimetri.
Questo ovviamente ha fatto nascere diversi dibattiti in seno alle
varie correnti mostrologiche. Per i Paccianisti, i Merendari e
ovviamente anche per i Sardisti (Salvatore Vinci, ad esempio, non
era particolarmente alto), la presunta "ritrattazione" dell'equipe di
Modena sull'altezza del killer era acqua a favore del proprio
mulino. Per i fautori del serial killer unico mai rientrato nelle
indagini o per i Lottiani, invece, è stato solo un tentativo dei periti
di andare incontro alle tacite richieste della Pubblica Accusa. Ipotesi
che - a parere di chi scrive - contrasterebbe nella maniera più
assoluta con la professionalità al di sopra di ogni sospetto da
sempre mostrata dai criminologi modenesi.
● Come già riportato, da accertamenti testimoniali risultò che i due
ragazzi tedeschi erano partiti dalla città universitaria di Münster il 7
settembre. Avevano lasciato la zona di Spessart la mattina
successiva per arrivare a Firenze verso la tarda serata di giovedì 8
settembre, dunque ventiquattro ore prima del delitto.
Tuttavia questo contrasta con la testimonianza della signora Teresa
Buzzichini che nell'udienza del giorno 8 luglio 1997 del Processo ai
CdM dichiarò: "...vedevamo questi ragazzi già da una settimana, che
avevano questo pulmino. Non un camper, un pulmino qualsiasi insomma.
La mattina, si vedeva la radio... si sentiva perlomeno la radio, presto..."
Dunque da un lato abbiamo accertamenti testimoniali che indicano
che i ragazzi la sera del 7 settembre erano ancora in Germania,
dall'altro abbiamo una rispettabile, anziana e simpatica signora che
testimonia in maniera particolareggiata che il camper dei tedeschi
stazionava dalle parti della piazzola di Giogoli già da una settimana
e veniva visto tutti i giorni da lei e dal marito, nel frattempo
deceduto.
È ovvio come la dichiarazione della Buzzichini, sebbene
probabilmente in buona fede, non può considerarsi attendibile. Non
venne tenuta in considerazione neanche nella sentenza del Processo
ai CdM perché non coerente con le testimonianze che provenivano
dalla Germania.
Ne abbiamo accennato sia perché è ottimo esempio di come la
memoria possa riservare brutti scherzi a tanti anni di distanza, sia
perché decisamente più interessante fu la testimonianza resa in
occasione del delitto, del marito della suddetta signora, Giovanni
Nenci.
In data 13 settembre 1983, il Nenci dichiarò ai carabinieri del
Galluzzo che la sera di giovedì 8 settembre attorno alle 20.30 aveva
notato nello spiazzo dove il giorno successivo sarebbe avvenuto
l'omicidio, il camper dei tedeschi regolarmente parcheggiato, al cui
fianco vi era un'automobile Fiat 128 color rosso targata Firenze.
La testimonianza del Nenci potrebbe essere importante perché:
▪ come visto, è molto probabile che la sera dell'otto settembre i due
tedeschi fossero già in zona ed è anche possibile che sostarono nella
stessa piazzola dove il giorno dopo sarebbero stati uccisi;
▪ a possedere una FIAT 128 coupé color rosso in quel periodo era il
futuro compagno di merende, Giancarlo Lotti, il quale proprio nel
febbraio del 1983 aveva acquistato tale vettura;
▪ al momento dell'acquisto la vettura del Lotti era targata Gorizia,
ma è lecito supporre che a sei mesi di distanza, il Lotti avesse già
provveduto al cambio di targa (all'epoca obbligatorio);
▪ d'altro canto, il Nenci parla genericamente di una 128 rossa,
quindi potrebbe essere altrettanto lecito supporre che si riferisse
alla "berlina" della 128, perché se avesse visto una ben più rara e
particolare coupé, avrebbe sentito il bisogno di specificarlo.
Risulta comunque una coincidenza piuttosto curiosa (o forse non è
una coincidenza!) la testimonianza di un uomo che riferisce di aver
visto un modello di macchina simile a quello posseduto da uno dei
compagni di merende parcheggiato a fianco del furgone di due
vittime del Mostro, a circa 24 ore dall'omicidio.
● A proposito di automobile viste nei pressi del camper dei
tedeschi, una guardia giurata di nome Giancarlo
Menichetti dichiarò che passando da via Giogoli la mattina di
sabato 10 settembre (dunque a omicidio già avvenuto ma non
ancora scoperto), notò una FIAT 126 bianca parcheggiata accanto al
furgone, col motore spento e senza nessuno all'interno.
Successivamente gli inquirenti credettero di individuare nel
signor Mario Robert Parker, all'epoca abitante a villa La Sfacciata, il
proprietario della 126. Finito nel mirino delle indagini, Parker
dimostrò di aver ricevuto la 126 bianca, di proprietà della madre,
solo nell'ottobre del 1983 e dunque di non poter essere lui il
proprietario della vettura vista dal Menichetti.
Come il Reinecke, il Parker tornò al centro delle indagini quasi una
ventina d'anni dopo quando le attenzioni della Procura si
spostarono sul cosiddetto secondo livello e anche lui fu accusato di
far parte dei misteriosi mandanti (vedasi capitolo Il secondo
livello).
Piccola postilla: il Menichetti morì nell'ottobre del 1998, colpito a
morte da una fucilata sparata da un ex collega, Lorenzo Boretti, che
affetto da turbe psichiche, si era convinto che il Menichetti fosse il
Mostro di Firenze.
● Un'altra testimonianza emersa nei giorni successivi al delitto è
quella del signor Attilio Pratesi, giardiniere e tuttofare di Villa La
Sfacciata, il quale dichiarò che la mattina del venerdì 9 settembre
verso le 11.30 aveva notato nello spazio dove poi quella stessa sera
sarebbe avvenuto il delitto, un ciclomotore di tipo BETA col
serbatoio a goccia, di colore scuro, appoggiato a un muretto. Notò
anche, a una distanza di cinque o sei metri dal ciclomotore, un
individuo seminascosto dai cespugli sui 45/50 anni, alto circa
165/170 centimetri, di corporatura robusta, con maglietta a maniche
corte a strisce blu e bianche, dai capelli radi, lisci e curati. Costui,
che gli dava le spalle, guardava attentamente verso il campo, con la
schiena rivolta appunto verso la strada.
Qualche anno dopo, quando la Procura di Firenze individuò in
Pacciani l'autore di questi delitti, tornò a interrogare il Pratesi,
mostrandogli le foto di un motorino del Pacciani. Il Pratesi
confermò che presumibilmente si trattava dello stesso ciclomotore,
tanto più che dalle foto si intravedeva sotto la seconda mano di
vernice un colore rossastro molto simile a quello del ciclomotore
che aveva visto a Giogoli la mattina del delitto.
● Come detto, fino al delitto di Travalle, gli inquirenti erano stati
convinti che il MdF scegliesse con notevole anticipo le proprie
vittime femminili, probabilmente sulla base di alcuni canoni fisici,
quindi le pedinasse, ne studiasse le abitudini e i luoghi in cui
solevano appartarsi con i rispettivi compagni. Se però il delitto di
Baccaiano aveva fatto nascere qualche dubbio in merito, quello di
Giogoli effettivamente stroncò questa teoria. Infatti se il delitto era
stato un errore del MdF che aveva confuso il Rüsch per una donna,
sicuramente i due ragazzi tedeschi non erano stati adeguatamente
controllati. Ma anche ammettendo che il mostro li avesse comunque
pedinati e avesse voluto uccidere proprio loro, considerando che i
due tedeschi la sera del 7 settembre erano ancora a Spessart e che
verosimilmente erano partiti per Firenze la mattina dell'8 settembre,
nella migliore delle ipotesi non potevano essere giunti in zona da
più di 24 ore, un lasso di tempo minimo per essere individuati,
pedinati e studiati.
● Questo risulta il secondo omicidio consecutivo in cui il killer – per
un motivo o per un altro – non solo non ha compiuto escissioni, ma
non ha neanche infierito sui cadaveri con l'arma bianca. Risulta a
questo punto inevitabile pensare come nei primi tre delitti (1974 e i
due del 1981) il killer non avesse almeno apparentemente
riscontrato problemi di sorta, cosa che non può certamente dirsi per
gli ultimi due (1982, 1983).
● A proposito della tipologia di vittime scelte dal MdF e del suo
modus operandi, questo risulta un delitto anomalo non solo perché
furono uccisi due uomini, ma anche perché i due tedeschi
verosimilmente non erano impegnati in un rapporto sessuale né in
effusioni amorose.
Scrive a tal proposito il Giudice Istruttore, dottor Mario
Rotella: "Gli uccisi sono due uomini e, pur sussistendo un sospetto di
relazione omosessuale tra loro (poi avallata da riscontri della polizia
tedesca), non risulta minimamente che fossero in atteggiamento intimo al
momento del fatto."
Dunque, indipendentemente dall'orientamento sessuale dei due
giovani tedeschi (la polizia italiana ebbe riscontri sulla loro
omosessualità dai colleghi tedeschi), ciò che veramente ci preme
sottolineare in questa sede è la certezza - come scrive Rotella - che i
ragazzi non erano nel momento dell'assalto impegnati in effusioni
amorose. Ciò significa che l'assassino non era intervenuto per
impedire un rapporto sessuale o prima dello stesso, come era
sempre accaduto nei delitti precedenti.
Sembra dunque cadere, almeno in questa occasione, il movente
sessuale legato a una qualche parafilia dell'assassino. È un omicidio
che, anche se frutto di un errore, risulta apparentemente slegato
dalla serie poiché riguarda una coppia (di fidanzati, di amici, etero,
omo, non è importante), accampata in uno spiazzo, apparentemente
senza legami sentimentali, in cui i due componenti erano ognuno
per fatti propri.
Questo ovviamente acuì nelle forze dell'ordine l'idea che tale
omicidio fosse stato commesso per scagionare Francesco Vinci.
● A tal proposito, il delitto di Giogoli avvenne oltre un anno dopo
quello di Baccaiano e il successivo arresto di Francesco Vinci. Se il
fine del delitto era scarcerare il Vinci, ci si potrebbe chiedere come
mai il MdF o chi per lui avesse aspettato così tanto prima di
intervenire, quando in occasione dell'arresto di Spalletti aveva
atteso circa quattro mesi. Potremmo avere diverse risposte a questa
domanda:
▪ l'omicidio di Giogoli non è stato eseguito per scarcerare il Vinci;
▪ il Vinci era meno importante di Spalletti; o meglio, per una serie di
motivi che non conosciamo, c'era più urgenza di scarcerare lo
Spalletti che non il Vinci;
▪ questa duplice omicidio ha richiesto una preparazione più
accurata che ha portato via molto più tempo;
▪ l'omicidio delle Bartoline non era stato eseguito per scarcerare lo
Spalletti e dunque il fatto che fosse avvenuto a soli quattro mesi di
distanza dal precedente era solo un caso.
● Da un articolo del giornalista Mario Spezi su La Nazione, emerge
che uno o due giorni prima di accamparsi nello spiazzo di via di
Giogoli, i tedeschi provarono a fermarsi con il loro furgoncino nei
pressi della piazzola degli Scopeti (precisamente su via degli
Scopeti davanti al cancello di una villa non lontana delle cantine
Serristori), ma da lì furono allontanati da un metronotte di
nome Gian Pietro Salvadori.
Tale episodio venne confermato durante il Processo ai CdM dal
maresciallo Giuseppe Storchi che nell'udienza del 28 ottobre 1997
riportò questo particolare. Lo stesso Canessa dichiarò che questo
episodio era confermato dagli atti. Stando a quanto detto prima, se i
ragazzi sul furgoncino allontanati dal metronotte erano gli stessi
che vennero uccisi a Giogoli (ed è probabile anche se non abbiamo
la certezza), questo episodio deve essere necessariamente avvenuto
la sera precedente al delitto (giovedì, 8 settembre 1983), cioè non
appena i due giovani tedeschi erano giunti in zona.
Inutile dire che la piazzola degli Scopeti sarà il luogo dell'ultimo
duplice omicidio del MdF.
Nota a margine: Salvadori dichiarò di aver scambiato la coppia
all'interno di un furgone per un uomo e una donna a causa dei
capelli lunghi di uno dei due.
● Questo delitto è passato alla storia come quello che attesta
maggiormente l'inefficienza della polizia, dei rilevamenti balistici e
di conseguenza delle indagini dell'epoca di fronte ai delitti del MdF.
Storica a questo proposito la testimonianza del maresciallo dei
carabinieri Giovanni Leonardi, durante il Processo ai CdM.
Emergono infatti la superficialità con cui furono fatti i rilievi
(misurazioni prese ad occhio a detta dello stesso maresciallo) e la
totale mancanza di un cordone di sicurezza che tenesse lontano i
curiosi. A questa testimonianza risale la famosa frase del presidente
Ognibene: "Maresciallo, mancavano i brigidini e poi era la fiera
all'Impruneta".
● Un altro particolare che sollevò l'indignazione della Corte
durante il Processo Pacciani, fu il trasporto del furgone dei tedeschi
dal luogo del delitto alla caserma dei carabinieri di Ognissanti la
sera stessa del duplice omicidio. Durante questo trasporto, si ruppe
il vetro del furgone, rendendo di fatto impossibile ripetere le
misurazioni sull'altezza dei fori del proiettile rispetto al terreno.
Tuttavia, come ebbe modo di chiarire nell'udienza del 28 ottobre
1997 del Processo ai CdM sempre il maresciallo Giuseppe Storchi,
tale decisione era stata presa dal magistrato (presumibilmente la
dottoressa Della Monica) perché sembrava potesse piovere da un
momento all'altro e dunque per evitare che la pioggia pulisse il
furgone da eventuali impronte digitali.
● Parecchi anni dopo (metà anni '90), il reo-confesso Giancarlo
Lotti dichiarerà esplicitamente che questo delitto era stato
commesso dai Compagni di Merende per scagionare appunto il
Vinci. Vedremo come anche questa parte di deposizione presterà il
fianco a un serrato contraddittorio e lascerà molti dubbi sulla
veridicità complessiva delle sue dichiarazioni.
● Questo risulta l'omicidio che ha fornito alla Procura di Firenze un
paio degli indizi su cui poi si è basato l'intero processo a Pietro
Pacciani. Il blocchetto Skizzen Brunnen e il portasapone di
marca Deis, secondo la Pubblica Accusa, provenivano infatti
proprio dal camper dei tedeschi. Ma di questo si avrà modo di
parlare adeguatamente nei capitoli dedicati alla vicenda giudiziaria
che ha visto Pietro Pacciani protagonista.
● Una testimone di nome Laura Simoncini riferì di aver percorso in
automobile, verso le 21:15 del 9 settembre 1983, ora in cui si può far
risalire l'omicidio dei due tedeschi, via del Vingone, parallela e
sottostante a via di Giogoli. In quell'occasione la donna illuminò
con i fari un uomo proveniente verosimilmente dalla zona del
delitto, dall'età di 40-45 anni, di circa 170 centimetri di altezza, con
indosso una maglietta celeste con strisce rosso orizzontali, pantaloni
scuri, capelli folti, lisci e tirati indietro.
Tale testimonianza verrà riportata testualmente nel celebre
rapporto del colonnello Nunziato Torrisi, il quale ipotizzerà che
l'uomo visto dalla Simoncini fosse Salvatore Vinci.
Scrive a tal proposito, il colonnello: "...Il VINCI Salvatore, che secondo
il nostro parere potrebbe corrispondere alla descrizione della donna,
avrebbe avuto una maglietta a fondo bleu (celeste) con delle righe
orizzontali."
A parlare della maglietta del Salvatore Vinci, sarebbe stata la sua
compagna dell'epoca Ada Pierini
● A proposito di sardi, la convinzione maturata in seno agli
inquirenti che si trattasse di un delitto nato con motivazioni diverse
dagli altri, portò nei giorni immediatamente successivi ad alcune
perquisizioni nei confronti dei personaggi che erano stati coinvolti
nel delitto del 1968. Abbiamo nell'ordine:
1. All'alba dell'11 settembre (dunque poche ore dopo la scoperta dei
cadaveri), venne eseguita una perquisizione a casa del
ventiquattrenne Antonio Vinci, figlio di Salvatore, nipote e amico
di Francesco. La perquisizione nacque in seguito a una segnalazione
anonima che denunciava la presenza di armi a casa di Antonio. La
perquisizione non diede alcun esito. L'alibi del ragazzo per la sera
del 9 settembre venne confermato dalla moglie e da alcuni amici.
2. Quello stesso giorno venne effettuata una perquisizione a casa
di Salvatore Vinci. Anche questa perquisizione non diede esiti. Per
il giorno del delitto, Salvatore dichiarò di essere stato sempre in
casa, tranne per un intervento di lavoro eseguito verso le 16:00 a
Firenze (a casa presumibilmente di una prostituta di nome Luisa
Meoni) e per un breve lasso di tempo fra le 20 e le 21 quando aveva
accompagnato la signora delle pulizie nella sua abitazione a Prato
(per il dettaglio degli alibi di Salvatore Vinci in occasione dei delitti
si veda il paragrafo dedicato al rapporto Torrisi nel capitolo a lui
dedicato).
3. Sempre in data 11 settembre, fu eseguita una terza perquisizione
a casa del maggiore dei fratelli Vinci, Giovanni. Anche questa
diede esito negativo.
4. Fu poi la volta della perquisizione a casa di Carmelo Cutrona, già
sospettato e incarcerato per il delitto di Signa del 1968, prima di
venire completamente assolto. Inutile dire che non venne rilevato
nulla di significativo per le indagini.
5. Il 14 settembre i difensori di Francesco Vinci chiesero al giudice
istruttore Rotella la scarcerazione del proprio assistito. Richiesta che
venne respinta.
6. Due giorni dopo, il 16 settembre, Antonio Vinci venne scoperto
in un cascinale ad Artimino (vicino Prato) mentre trafficava con dei
fucili da caccia detenuti illegalmente. Fu arrestato e processato,
infine assolto con formula piena.
Le indagini sui sardi continueranno ancora a lungo e sfoceranno di
lì a qualche mese con l'arresto di Giovanni Mele e Piero
Mucciarini, rispettivamente fratello e cognato di Stefano Mele.
Entrambi, nel gennaio del 1984, saranno accusati di aver commesso
tutti i delitti attribuiti al Mostro.
● IMPORTANTE: La piazzola del delitto di Giogoli dista
pochissimi chilometri dalla piazzola degli Scopeti, luogo in cui,
esattamente due anni dopo, il Mostro di Firenze avrebbe colpito per
l'ultima volta e anche in questo caso avrebbe ucciso una coppia di
stranieri. La distanza fra Giogoli e Scopeti è quantificabile in poco
meno di 8 km, percorrendo la via più breve (via Torricella, via
Volterrana, per poi imboccare la stessa via di Giogoli), ma in linea
d'area si tratta di una distanza decisamente inferiore. La vicinanza
fra questi due luoghi e il particolare che in entrambi i casi siano
state uccise coppie straniere (dunque parliamo di due delitti in cui
sicuramente le vittime non erano state attenzionate da troppo
tempo), potrebbe portare a pensare a delitti "improvvisati", in cui il
killer avrebbe individuato le vittime in maniera casuale,
incrociandole o incontrandole quindi per un puro caso. Questo
porterebbe a pensare che la zona fra Giogoli e Scopeti fosse
solitamente frequentata dall'assassino, vuoi perché abitava in zona,
vuoi perché la percorreva abitualmente per questioni
private/lavorative, vuoi perché la bazzicava proprio alla ricerca di
possibili vittime, vuoi per un insieme di questi fattori.
● Qualche mese dopo l'omicidio di Giogoli, agli inizi del 1984, la
dottoressa Silvia Della Monica abbandonò le indagini; ne prese il
posto il Sostituto Procuratore Paolo Canessa. A capo delle
operazioni di indagine sarebbe comunque rimasto Pier Luigi
Vigna, Procuratore aggiunto della Repubblica di Firenze, coinvolto
in prima persona a partire dal 1982.

Mostrologia a Giogoli
Ovviamente le teorie per questo duplice omicidio riguardano la
volontarietà o meno del MdF di uccidere proprio due ragazzi.
Vediamo le ipotesi in oggetto:

► Errore Del Mdf: Il Rüsch era di costituzione esile, biondino, da


dietro poteva essere scambiato per una ragazza. Per onor di
cronaca, lo stesso maresciallo Giuseppe Storchi, durante la
deposizione del 28 ottobre 1997 al Processo contro i CdM, ebbe
modo di dichiarare che appena entrato nel furgone, di primo
impatto anche lui ebbe l'impressione che il Rüsch fosse una donna.
Anche il metronotte Gian Pietro Salvadori che allontanò
presumibilmente la coppia tedesca dagli Scopeti dichiarò di aver
scambiato uno dei due per una donna.
Dunque, dato per assodato che era possibile sbagliarsi, anche il
mostro venne tratto in inganno dall'aspetto del ragazzo e commise
l'errore di attaccare una coppia di uomini; quando entrò nel
furgone, si accorse del tragico equivoco, dunque andò via senza
commettere escissioni.

► Omicidio Volontario Del Mdf: Il mostro sapeva che i due


occupanti del camper erano uomini. Commise l'omicidio perché
evidentemente voleva uccidere proprio due uomini, magari per
sfregio nei confronti di una coppia che lui riteneva omosessuale.
Motivi omofobi a parte, perché il MdF avrebbe dovuto voler
uccidere due uomini, andando contro quelli che erano gli schemi
adottati fino a quel momento? Ovviamente non c'è una risposta
certa a questa domanda. Alcuni ritengono che dopo Baccaiano il
MdF fosse braccato dalle forze dell'ordine, quindi soggetto a
immediata perquisizione in caso di nuovo delitto. Di qui la scelta di
colpire due stranieri qualsiasi (persino di sesso maschile), senza
parenti prossimi, senza che nessuno denunciasse prematuramente
la scomparsa degli stessi, dando immediato allarme, con il rischio
dunque di subire un'immediata perquisizione nella propria
abitazione.

► Omicidio Volontario Di Un Complice Del Mdf: Il MdF era


impossibilitato a commettere l'annuale duplice omicidio. Era
tuttavia necessario che quest'omicidio venisse commesso con la
Beretta calibro 22 del mostro, al fine di non far nascere ulteriori
sospetti o addirittura delle certezze in seno agli investigatori.
Dunque, l'MdF incaricò dell'azione delittuosa un suo
complice/parente, il quale per non essere costretto a compiere le
escissioni scelse di attaccare proprio una coppia di uomini. Questa
ipotesi venne all'epoca presa in seria considerazione dagli
inquirenti; covarono infatti il sospetto che questo duplice delitto
fosse stato commesso da qualcuno che non fosse il MdF solo e
soltanto per scagionare il vero Mostro, cioè il detenuto Francesco
Vinci. Questo è il motivo per cui il Vinci rimase in carcere ben oltre
il delitto di Giogoli e fu definitivamente scarcerato solo dopo il
delitto di Vicchio, quest'ultimo sicuramente commesso dal Mostro.
Mele e Mucciarini

Come visto, dopo il duplice omicidio di Giogoli, gli inquirenti


pensarono che l'azione delittuosa fosse stata portata a termine da
un complice di Francesco Vinci per dimostrarne l'innocenza.
Il Vinci rimase quindi in carcere mentre le indagini continuarono a
rimestare nell'ambiente dei sardi, convinti che ivi fosse la soluzione
del caso.
È probabilmente a questo periodo che risale la prima rottura fra gli
organi inquirenti, quella che presto sarebbe divenuta un'insanabile
voragine e che tanto avrebbe condizionato le successive indagini sul
serial killer delle coppiette.
Da un lato il giudice istruttore Mario Rotella, che era subentrato
a Vincenzo Tricomi, cercava il killer all'interno della
cosiddetta Pista Sarda; dall'altro la Procura di Firenze iniziò a
ipotizzare un mostro estraneo all'ambiente sardo, qualcuno che
avesse ucciso i tedeschi (errore o meno che fosse) non per
scagionare Francesco Vinci.
Perseguendo la pista sarda, negli uffici del Giudice Istruttore agli
inizi del 1984 prese corpo l'idea di un coinvolgimento della famiglia
Mele sia nel delitto del 1968, sia nei successivi del Mostro.
Tutto probabilmente nacque il 16 (secondo Mario Spezi) o il 17
(secondo Giuseppe Alessandri) gennaio 1984, durante l'ennesimo e
inutile interrogatorio nei confronti di Stefano Mele, ancora
residente in una struttura a Ronco dell'Adige.
In quell'occasione il Mele scagionò improvvisamente tutte le
persone da lui in precedenza accusate, compreso Francesco Vinci,
dichiarando di non avere memoria di chi fosse con lui a compiere
l'omicidio del 1968, forse qualcuno esterno alla sua cerchia. Per la
precisione il Mele usò le seguenti parole: "In ogni caso non si tratta di
persona a me cara".
Al termine dell'interrogatorio venne trovato nel suo portafoglio un
bigliettino tutto stropicciato, dove era scritto testualmente:
"RIFERIMENTO DI NATALE riguaRDOLO ZIO PIETO. Che avesti
FATO il nome doppo SCONTATA LA PENA. COME RisulTA DA
ESAME Ballistico dei colpi sparati.".
Si trattava con ogni evidenza di un suggerimento fatto pervenire al
Mele su come comportarsi e cosa dichiarare in occasione di un non
meglio precisato interrogatorio. Da notare come il "riferimento di
Natale riguardo lo zio Pieto" richiamava molto probabilmente la
dichiarazione, apparsa ai più genuina, che nel 1968 si era lasciata
sfuggire il piccolo Natalino sul fatto che fosse stato lo zio Pietro
Mucciarini a suggerirgli di dire ai carabinieri di aver visto la notte
dell'omicidio "Salvatore fra le canne".
L'essere chiamato in causa come qualcuno che cercava di far
ricadere la responsabilità dell'omicidio su Salvatore Vinci aveva
evidentemente preoccupato il Mucciarini, tanto che quattordici anni
dopo, nel momento in cui Stefano Mele tornava al centro delle
indagini, gli veniva fatto recapitare un biglietto in cui gli si davano
non meglio precisate istruzioni su cosa dichiarare.
A complicare la situazione della famiglia Mele, nei giorni seguenti,
il 21 o il 22 gennaio (le fonti sono incerte), si presentò presso la
caserma dei carabinieri di Scandicci, la signora Iolanda Libbra, ex
amante di Giovanni Mele, fratello minore di Stefano.
La Libbra dichiarò che era spaventata sia dai comportamenti del
suo ex amante, sia dagli oggetti che aveva visto in suo possesso.
Raccontò che l'uomo prediligeva avere rapporti in automobile, che
in un'occasione l'aveva portata nella campagna di Roveta dove era
avvenuto l'omicidio del giugno del 1981 e in altre occasioni nei
pressi di un vecchio cimitero a San Casciano. Disse che Giovanni
conservava nel bagagliaio della propria auto riviste pornografiche,
corde e coltelli di grosse dimensioni e che a tal proposito le aveva
illustrato a parole la tecnica dell'incaprettamento. Raccontò inoltre
che negli ultimi tempi, l'uomo viveva con il cognato Piero
Mucciarini, marito della sorella Antonietta, defunta da poco, con il
quale litigava spesso per questione di soldi. Espose infine il dubbio
che Giovanni Mele potesse essere proprio il Mostro di Firenze.
Di fronte a tali gravi e più o meno circostanziate accuse, gli
inquirenti cominciarono a rivolgere le proprie attenzioni sui
componenti maschili della famiglia Mele e in special modo sui due
cognati che, dopo la morte di Antonietta Mele, adesso
condividevano la medesima abitazione. Non sfuggì loro
probabilmente neanche il fatto che Giovanni Mele viveva e lavorava
nel varesotto e tornava nella provincia fiorentina tutti i fine
settimana. Guarda caso, fino a quel momento, i delitti ai danni delle
coppiette, a parte quello del 1968, erano stati tutti commessi
durante i weekend, ma mai di domenica, giorno in cui
verosimilmente il Mele sarebbe dovuto rientrare presso la propria
sede lavorativa (per una curiosa coincidenza, il primo delitto del
Mostro commesso di domenica sarebbe stato quello successivo,
quando il Mele era in carcere).
Forti di questi nuovi sospetti, il 24 gennaio gli inquirenti tornarono
a interrogare Stefano Mele e stavolta chiesero conto anche del
biglietto trovato nel suo portafoglio.
Coincidenza, il Mele cambiò ancora una volta versione e prese a
sostenere che ad averlo accompagnato ed essere stati suoi complici
nell'omicidio del 1968 furono proprio suo fratello minore Giovanni
Mele e suo cognato Piero Mucciarini. Dichiarò inoltre che la pistola
verosimilmente era rimasta nelle loro mani. A proposito del
biglietto disse che era stato proprio Giovanni a darglielo in
occasione di un incontro avvenuto l'anno precedente (probabilmente
il 25 agosto 1982, dunque subito dopo l'arresto di Francesco Vinci, NdA).
A questo punto, non possiamo fare a meno di formulare un paio di
ipotesi, di cui solo una può essere ritenuta corretta:
► o il Mele aveva l'acclarata capacità di capire verso chi si
indirizzassero i maggiori sospetti degli inquirenti e puntualmente -
forse per compiacerli - avvallava questi sospetti, cambiando
repentinamente versione e cominciando o tornando ad accusare il
maggiore sospettato di turno;
► oppure il Mele si limitava a ripetere senza alcun tipo di sagacia
ciò che gli organi inquirenti gli imponevano o gli suggerivano di
dire, magari tramite domande suggestive; e dunque ciò che, a
distanza di anni, i mostrologi hanno letto e continuano a leggere sui
verbali di interrogatorio non possono essere propriamente definite
dichiarazioni genuine del Mele, ma per lo più indotte da chi lo
interrogava.
Questa seconda possibilità sta tornando prepotentemente a galla
dopo le ultime interviste rilasciate da un ormai adulto Natalino
Mele al documentarista Paolo Cochi. In una di queste, Natale
afferma che ai tempi degli interrogatori veniva minacciato dagli
inquirenti (addirittura parla di minacce con un accendino) affinché
rilasciasse dichiarazioni in linea con quanto loro si aspettavano.
Tali dichiarazioni - che chi scrive non sa se corrispodano a verità -
hanno indotto molti mostrologi a ritenere che anche nei confronti di
suo padre potessero essere state applicate tecniche di interrogatorio
simili e dunque non era Stefano Mele a cambiare repentinamente
idea accusando ora uno ora l'altro, ma erano gli inquirenti a indurlo
ad accusare ora uno ora l'altro a seconda della direzione dei loro
sospetti. A parziale e certo non definitiva conferma, poco prima di
morire nel 1995, lo stesso Stefano Mele ebbe modo di dire di aver
ricevuto tante botte durante gli interrogatori cui era sottoposto.

In ogni caso, ovunque sia la verità, il 25 gennaio 1984 venne


effettuata una perquisizione nelle abitazioni dei due nuovi
sospettati.
In casa del Mucciarini non venne rinvenuto nulla di significativo.
L'uomo, sessantenne, fornaio ed ex alcolista che a causa della sua
dipendenza era stato disoccupato per diversi anni, rigettò ogni
accusa e obiettò che né lui, né Giovanni possedevano un'automobile
nel 1968 e dunque non avrebbero mai potuto accompagnare Stefano
Mele a compiere l'omicidio. Il Mucciarini fece intendere a tal
proposito che Stefano Mele potesse aver fatto confusione fra i
cognati. Disse infatti che all'epoca l'unico a possedere
un'automobile era Marcello Chiaramonti, marito di Teresa Mele,
altra sorella di Stefano e Giovanni.
Decisamente più interessanti furono le perqusizioni a casa e
nell'automobile del sessantunenne muratore, Giovanni Mele.
Nell'occasione furono rinvenute svariate riviste pornografiche,
alcuni coltelli, la lama di un bisturi, cartine delle colline fiorentine,
un flacone di solvente, appunti del tipo "1 dicembre, luna piena,
giorno favorevole" e un pelo pubico nel portafogli. Tutto materiale in
linea con le dichiarazioni rese dalla Iolanda Libbra.
Per gli inquirenti ce n'era (ancora una volta) abbastanza per poter
trasformare i sospetti in certezza. Su richiesta del Giudice Istruttore
Rotella, il 26 gennaio 1984, i carabinieri procedettero all’arresto di
Giovanni Mele e di Pietro Mucciarini. Stavolta c'era la piena
convinzione di aver interrotto la scia di sangue.
I toni della stampa furono per lo più trionfalistici e da più parti –
purtroppo anche fra l'opinione pubblica - si ritenne che il pericolo
fosse passato. Tutto ciò non fece altro che favorire il vero MdF,
pronto a colpire nuovamente e nella maniera più atroce.
A tal proposito, il 29 gennaio, dalle pagine del Corriere della Sera, il
Procuratore Capo della Repubblica, Enzo Fileno Carabba, lanciava
l'allarme: "Ogni respiro di sollievo è preoccupante; c'è un ventaglio
enorme di ipotesi possibili".
Qualche giorno dopo l'arresto, la dottoressa Silvia Della
Monica lasciò le indagini che aveva condotto fin dal giugno del
1981 per conto della Procura di Firenze. Sul motivo del suo
abbandono ci sono diverse versioni, alcune piuttosto inverosimili.
C'è chi sostiene che avesse paura del MdF; altri che avesse
identificato il MdF in un uomo talmente potente da reputare
opportuno abbandonare il caso; oppure (e questa possibilità sembra
un po' più verosimile) che fosse attesa a incarichi diversi, magari di
maggior prestigio; infine c'è la versione della stessa Della Monica, la
quale ebbe modo di dichiarare in un documentario di History
Channel dedicato al Mostro, che il suo abbandono fu dovuto a un
disaccordo di vedute con gli Uffici del Giudice Istruttore e cioè
all'insistenza da parte di quest'ultimo nel voler perseguire la pista
sarda.
Difatti, come dicevamo a inizio di questo capitolo, si consumò in
quei giorni la definitiva e clamorosa rottura fra gli inquirenti:
● da una parte la Procura di Firenze e la Polizia, convinti che si
dovesse cercare un serial killer estraneo ai sardi e probabilmente
ancora sconosciuto;
● dall'altro lato gli uffici del Giudice Istruttore Rotella, che si
avvalsero prevalentemente dei servigi dell'Arma dei Carabinieri,
convinti di dover continuare a indagare nell'ambiente sardo.
Col tempo questa spaccatura divenne talmente profonda che,
quando nel 1989, il giudice Mario Rotella archiviò per sempre la
Pista Sarda e assolse per insufficienza di prove tutti gli indagati,
l'Arma dei Carabinieri decise di non occuparsi più del caso.

Frattanto con 3 uomini in carcere (Francesco Vinci, Giovanni Mele e


Pietro Mucciarini), nel luglio del 1984 il MdF commise a Vicchio,
nel Mugello, un duplice omicidio che portava in maniera
inequivocabile la sua firma.
Dopo il terribile delitto di Vicchio, Giovanni Mele e Pietro
Mucciarini uscirono dal carcere il 2 ottobre 1984 senza neanche
troppe scuse da parte degli inquirenti.
Francesco Vinci invece venne scarcerato il 26 ottobre 1984, fuggì in
Francia, tornò in seguito a Firenze dove – come detto – nel 1993
trovò una tragica e ancora adesso inspiegata morte.
La Boschetta

Data: Domenica, 29 Luglio 1984;


Luogo: Vicchio, località La Boschetta;
Orario: Fra le 21.40 e le 21.45, almeno secondo due testimonianze
giudicate piuttosto attendibili;
Vittime: Claudio Stefanacci, 19 anni; Pia Rontini, 18 anni;
Automobile: Fiat Panda 30 color celestino, targata FI D35067;
Fase Lunare: Giorno successivo al Novilunio: spicchio di luna
crescente.

Prima del Delitto


Pia Rontini lavorava nel bar "La nuova spiaggia" nei pressi della
stazione di Vicchio. La sera del delitto staccò alle 20:00 e tornò a
casa. Era stanca, ma la mamma Winnie Kristensen la convinse a
uscire e svagarsi un po'.
Poco dopo le 21:00, Pia raggiunse la casa del fidanzato Claudio
Stefanacci. Anche sulla base del fatto che Pia aveva detto alla
mamma che sarebbe rientrata a casa per le 22:00, si può
ragionevolmente ipotizzare che la coppia si diresse subito verso il
luogo dove solitamente si appartava, denominato La Boschetta e
distante circa 4.5 chilometri da casa Stefanacci. Calcolando dunque
una partenza dalla casa di Claudio attorno alle 21:15/21:20 i due
giovani dovettero giungere in loco attorno alle 21:30.
Dopo aver imboccato dalla Sagginalese la strada sterrata che dava
alla Boschetta, la Panda 30 di Caludio fece manovra nello spazio
antistante e percorse una trentina di metri a retromarcia, sino a
fermarsi a ridosso della vegetazione, dove la stradina terminava e
tuttora termina. A quell'ora, nonostante il mese di luglio, la zona
era immersa nell'oscurità più totale. L'auto risultava dunque
completamente invisibile sia a chi proveniva da Dicomano, sia a chi
giungeva da Vicchio.
I due ragazzi si sistemarono sul sedile posteriore della Panda, in
breve tempo trasformato, grazie alle opportunità che offriva quella
vettura, in una specie di comodo divanetto. Fu verosimilmente
mentre cominciavano a spogliarsi, una decina di minuti scarsi dopo
il loro arrivo, che cominciò l'azione omicidiaria.
Difatti, fra le 21:40 e le 21:45 un paio di testimoni in zona udirono
cinque colpi di arma da fuoco. La prima testimonianza è quella che
risulta nel rapporto dei Carabinieri di Vicchio e di cui parla il
maresciallo Polito nell'udienza del 28 ottobre 1997 al Processo
contro i CdM, secondo cui tale Piero Cantini, trovandosi dalle parti
del quagliodromo di Ampinana sopra la piazzola del delitto, udì tre
colpi d'arma da fuoco in rapida successione, seguiti a breve
distanza da altri due colpi. Questa testimonianza fu avvalorata da
tale Alberto Canovelli che percorreva in auto la Sagginalese e udì
cinque colpi di arma da fuoco, riconoscendoli come tali in quanto
cacciatore. Secondo il blog "Insufficienza Di Prove", anche un
contadino che stava lavorando su un trattore sul lato opposto del
fiume Sieve confermò di aver udito gli spari approssimativamente
alla stessa ora.
Quello fra le 21:30 e le 21:45 è orientativamente l'orario cui, anche
secondo le perizie mediche, si fa ufficialmente risalire il delitto.

Scena del Crimine


Verso mezzanotte, partirono le ricerche dei due giovani; ricerche
che coinvolsero quasi l'intera comunità di Vicchio. Verso le 3:00 del
mattino, tale Lorenzo Becherini, amico di Claudio, trovò
l'automobile dei due giovani immersa nell'oscurità della Boschetta.
Come dichiarò lo stesso Becherini al Processo ai CdM, rinvenuta la
macchina, il giovane non ebbe il coraggio di avvicinarsi, ma provò a
chiamare i ragazzi da una certa distanza. Non ottenendo risposta,
preferì andare ad avvertire le forze dell'ordine del ritrovamento
avvenuto. Attorno alle 4:00 del mattino giunsero sul luogo del
delitto i carabinieri della caserma di Vicchio, comandata dal
maresciallo Michele Polito. Una ventina di minuti dopo arrivò il
Comandante della Compagnia di Pontassieve, colonnello Emanuele
Sticchi. Infine il Magistrato Paolo Canessa arrivò verso le 5:00,
ordinando subito di delimitare la zona del delitto.
Lo Stefanacci era dentro l'automobile sul sedile posteriore, lato
destro. Indossava una maglietta intrisa di sangue, slip e scarpe da
tennis. Era stato raggiunto da tre colpi di arma da fuoco e ben dieci
coltellate, tutte inflitte post-mortem, alcune molto profonde e
quattro di queste nella zona pubica.
La Rontini era all'esterno dell'automobile, in posizione supina a
circa sette metri dalla macchina in un campo di erba medica. Era
completamente nuda, esattamente come la Pettini 10 anni prima.
Attorcigliati attorno alla mano destra della ragazza c'erano
reggiseno e maglietta intrisa di sangue. Era stata raggiunta da due
colpi di arma da fuoco, era stata estratta viva ma verosimilmente
agonizzante dalla macchina, quindi le erano stati inferti 9 colpi di
arma da taglio, di cui due molto profondi in limine vitae e 7
piuttosto superficiali. Infine, le erano stati asportati il pube e per la
prima volta nella tragica epopea del MdF anche la mammella
sinistra. Il suo cadavere era stato (per questo delitto sembra certo)
trascinato per le caviglie dalla macchina fino al luogo
dell'escissione. Le mutilazioni, come in tutti gli altri casi, erano state
inflitte post-mortem.

Dopo il Delitto
Il giorno dopo l'omicidio fu eseguita una perquisizione a casa
di Salvatore Vinci, l'ultimo del clan dei sardi rimasto a piede libero.
In un armadio della camera da letto fu trovata una borsa di paglia
al cui interno erano conservati tre stracci di cotone ben ripiegati,
uno dei quali macchiato di sangue e recante tre strisce grigiastre,
dovute a polvere da sparo. Le analisi su questi stracci non
portarono mai a nulla di certo (vedasi capitolo successivo), ma da
questo momento in poi e fino al 1989, Salvatore Vinci divenne
l'indiziato numero uno per gli omicidi attribuiti al MdF.
L'efferatezza del delitto di Vicchio e la tragica eco che questo ha
avuto sull'opinione pubblica portarono a due effetti immediati: da
un lato una certa perdita di credibilità da parte del Giudice
Istruttore Mario Rotella e di quanti stavano seguendo la Pista
Sarda; dall'altro la nascita il 4 Agosto 1984 per ordine delle Procura
di Firenze della SAM, la celebre Squadra Anti Mostro, con a capo il
poliziotto della Mobile Sandro Federico, il quale seguiva le indagini
sul Mostro sin dal delitto di Mosciano nel giugno del 1981.
In seguito, il 3 settembre e il 13 ottobre 1984, la Procura della
Repubblica di Firenze, nei magistrati Pier Luigi Vigna, Francesco
Fleury e il neo-entrato Paolo Canessa, chiese al dottor Francesco
De Fazio, direttore dell'Istituto di medicina legale e della scuola di
specializzazione in criminologia clinica di Modena, una "Indagine
peritale criminalistica e criminologica in tema di ricostruzione
della dinamica materiale e psicologica di delitti ad opera di ignoti
verificatisi in Firenze nel periodo dal 21 agosto 1968 al 29 luglio
1984".
Il professore De Fazio, a capo di una equipe di tecnici composta dai
professori Salvatore Luberto e Ivan Galliani, cui si aggiunsero
successivamente i professori Giovanni Pierini e Giovanni
Beduschi, esaminò tutti i delitti per poi erigere e consegnare una
prima perizia alla fine del 1984. Nel maggio del 1986, dopo il
duplice delitto successivo compiuto dal MdF, l'equipe
criminologica dell'Università di Modena presentò una nuova
relazione aggiornata (per maggiori dettagli, vedasi
capitolo Accadimenti finali).
Sempre nel 1984, anche se non è nota la data precisa, l'allora capo
del SISDE, Vincenzo Parisi, commissionò al professor Francesco
Bruno una relazione sul profilo psicologico del cosiddetto Mostro.
Tale relazione che non è mai stata resa pubblica (almeno non nella
versione del 1984) aveva come titolo "Profilo comportamentale e
psicologico del Mostro di Firenze" ed evidenziava come l'autore
dei delitti fosse un perfetto conoscitore dei luoghi e probabilmente
svolgesse una professione che lo aiutasse nella sua attività
criminale.
Dieci anni dopo, nel 1994, lo stesso professor Bruno si occupò di
riprendere e ampliare la sua relazione, nonché di renderla pubblica.
Il 15 luglio 1994, il professor Bruno fu testimone della difesa
(avvocati Bevacqua e Fioravanti) nel Processo Pacciani. Il 12
gennaio 1998 fu testimone della difesa (avvocato Filastò) nel
Processo ai Compagni di Merende.

Tornando agli accadimenti immediatamente successivi all'eccidio di


Vicchio, nell'ottobre del 1984 – come riportato in precedenza –
vennero infine scarcerati dapprima Giovanni Mele e Pietro
Mucciarini, in seguito Francesco Vinci.

L'assassino del bisturi


Alle 4.28 del mattino del 31 luglio 1984, dunque circa sette ore dopo
il duplice omicidio e circa un'ora dopo la scoperta dei cadaveri,
giunse una telefonata alla stazione dei carabinieri di Borgo San
Lorenzo per denunciare un incidente stradale avvenuto in frazione
Sagginale, località prossima a quella del delitto, che vedeva
coinvolto un furgone e un autotreno. La telefonata fu presa
dall'agente Francesco Messina. Fu inviata sul luogo una pattuglia
con a bordo i carabinieri Pietro Mageri e Giovanni Ricci, i quali
accertarono che nessun incidente aveva avuto luogo quella notte
nella zona.
L'autore della telefonata, che secondo il verbale dei carabinieri
aveva uno spiccato accento toscano e una voce non più giovane, si
era qualificato come il signor Farini, titolare del panificio Sagginale.
Successivi accertamenti appurarono che non esisteva alcun fornaio
di nome Farini in tutto il Mugello. In compenso in quel momento
era in carcere con l'accusa di essere uno degli autori dei delitti
attribuiti al Mostro, Piero Mucciarini che di professione faceva
proprio il fornaio.
Inoltre, nel gennaio 1982, all'interno della collana a fumetti porno-
erotica "Attualità Gialla", pubblicata dalla Edifumetto, era uscito un
episodio dal titolo "L'assassino del bisturi", la cui trama era
chiaramente ispirata alle vicende del MdF.
In tale episodio, il protagonista era un certo signor Farini, il quale
mentre svolgeva la propria attività di guardone, aveva avuto la
sfortuna di assistere involontariamente a uno dei delitti del serial
killer e per tale motivo era stato attenzionato dalle forze dell'ordine
(un po' quello che era successo allo Spalletti in occasione del delitto
di Mosciano).
Esiste dunque la non troppo remota possibilità che l'anonimo
interlocutore telefonico si fosse effettivamente ispirato al
protagonista del fumetto nel fornire le proprie generalità ai
carabinieri. Per tale motivo, buona parte della mostrologia passata e
presente ritiene che la suddetta telefonata – nel caso sicuramente
beffarda – possa essere stata fatta proprio dal MdF, probabilmente
per deridere, sfidare o più in generale avere una qualsiasi
interazione con le forze dell'ordine.
Potrebbe dunque essersi verificato un crescendo comunicativo da
parte del killer: l'anno precedente a Giogoli potrebbe aver posto la
rivista Golden Gay vicino al furgone dei ragazzi tedeschi; nel 1984
potrebbe aver avuto un contatto telefonico con i carabinieri di
Borgo San Lorenzo; l'anno successivo avrebbe abbandonato ogni
remora e inviato la lettera alla dottoressa Della Monica, contenente
un lembo di seno della vittima francese.
Non mancano ipotesi alternative sulle motivazioni della suddetta
telefonata. Le vedremo nel paragrafo dedicato alla mostrologia di
questo delitto.
Nota a margine puramente cronachistica: rimasti per molto tempo
ignoti, grazie al sapiente lavoro condotto in tempi recenti dal noto
fumettista Giuseppe Di Bernardo, è stato possibile risalire agli
autori del fumetto "L'assassino del bisturi", identificati in Luciano
Bernasconi per i disegni e Paolo Ghelardini per il soggetto e la
sceneggiatura.

Come ultimo aspetto da valutare sulla telefonata anonima, nel


Mugello esiste l'Antico Mulino Faini, acquistato nel 1780 appunto
dalla famiglia Faini, che tuttora ne è proprietaria e ne gestisce il
museo. È stata talvolta avanzata l'ipotesi che la suddetta telefonata
fosse stata fatta dal "fornaio Faini" e si fosse verificato un semplice
errore di trascrizione da parte del ricevente. Si tratta tuttavia di
un'ipotesi decisamente remota per i seguenti motivi:
▪ il chiamante si era qualificato come fornaio, titolare di un
panificio. È molto poco probabile che il signor Faini, proprietario
del celebre mulino omonimo, potesse qualificarsi in questo modo;
▪ il mulino Faini si trova in località Luco di Mugello, frazione di
Borgo San Lorenzo, piuttosto lontano dalla Boschetta e dal luogo
segnalato dell'incidente;
▪ non si era comunque verificato alcun incidente, quindi anche
ammesso non si fosse trattato di un macabro scherzo, si trattava
comunque di una falsa informazione;
▪ è molto probabile che all'epoca dei fatti furono svolte tutte le
indagini in merito e sia stata vagliata anche questa eventualità;
▪ qualora il fine della telefonata non fosse stato un pessimo scherzo
e il nome riportato fosse stato un semplice errore di trascrizione,
l'autore stesso (il Faini o chi per lui) avrebbe sentito il bisogno -
anche a distanza di tempo - di chiarire l'equivoco che stava
nascendo e le relative congetture. Cosa ovviamente mai avvenuta.

Particolarità alla Boschetta


● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo
nudo così come Mosciano, Calenzano, Baccaiano e in parte Giogoli,
ma diversi da Lastra a Signa, Rabatta e in parte Giogoli. Anche
questi proiettili avevano la lettera H impressa sul fondello del
bossolo ed erano indubbiamente sparati dalla pistola del MdF.
● Come ben sappiamo, nel momento in cui venne commesso questo
omicidio, Giovanni Mele, Pietro Mucciarini e Francesco Vinci erano
in carcere; Stefano Mele era invece in una struttura riabilitativa
vicino Verona. Nessuno di loro può quindi essere ritenuto
colpevole.
● A circa 200 metri in linea d'aria dal luogo del delitto, senza
ostacoli visivi, è presente un'abitazione nella quale, al momento del
duplice omicidio, viveva un'anziana signora che era andata a letto
verso le 21:00 e che dichiarò di non aver udito nulla.
La vulgata mostrologica vuole che la suddetta signora fosse la
mamma del dottor Francesco Caccamo, il medico che molti anni
dopo sarebbe stato indagato per i delitti del Mostro assieme al
legionario Giampiero Vigilanti (la posizione di entrambi sarebbe
stata archiviata nel novembre del 2020).
Risulta doveroso a questo punto precisare che per il dottor
Caccamo non esiste alcun documento (almeno noto al grande
pubblico) che possa in qualche modo collegarlo alla vicenda del
Mostro, se non le dichiarazioni del Vigilanti stesso. Anche il fatto
che sua madre vivesse nella casa più vicina alla piazzola della
Boschetta e fosse quasi prospiciente alla stessa, è una informazione
che è stata riferita dallo stesso Vigilanti. Non dubitiamo sia stata
debitamente verificata dagli inquirenti e dunque possa essere vera,
tuttavia che la signora agli atti che dichiara di essere andata a letto
presto e non aver sentito nulla fosse proprio la madre del Caccamo,
sembra essere un sillogismo di estrazione prettamente
mostrologica.
● Per la prima volta venne escisso il seno sinistro alla vittima oltre
che il pube, quasi in un crescendo di delirio assassino (teoria De
Fazio e Maurri).
● La mutilazione pubica risultò essere molto più vicina a quella di
Calenzano che non a quella di Scandicci, almeno stando alle fonti
processuali.
● Questo omicidio viene storicamente ricordato per l'efferatezza
dell'assassino, sia ai danni del ragazzo ma anche e soprattutto ai
danni della povera e giovanissima Pia (la vittima più giovane fra
quelle del MdF). Risulta inoltre un delitto quasi "perfetto", specie se
paragonato ai fallimenti o presunti tali rimediati dal MdF nelle
ultime due occasioni (Baccaiano e Giogoli).
● Lo Stefanacci venne ritrovato – come detto - senza pantaloni.
Tuttavia è possibile (ribadiamo possibile ma non affatto certo) che
al momento dell'aggressione il ragazzo li indossasse in quanto fu
rinvenuto un foro di proiettile nel suo portafogli compatibile con
una ferita sul gluteo. Quindi l'ipotesi avanzata, ad esempio
dall'avvocato Filastó, è che al momento dell'attacco il ragazzo
indossasse i pantaloni e il portafogli fosse nella tasca posteriore
degli stessi. In seguito sarebbe stato dunque il MdF a sfilarglieli.
Dando per buona questa possibilità, resterebbe da chiedersi perché
il MdF avrebbe dovuto perdere tempo a togliere i pantaloni a
Claudio, in un'azione che non aveva mai eseguito prima. Ancora
una volta si procede per ipotesi: forse per infierire sulla zona pubica
scoperta del ragazzo con il coltello.
Difatti, appare certo che lo Stefanacci sia stato la vittima maschile su
cui il MdF ha infierito con più ferocia nelle pugnalate post-mortem.
Appare altrettanto certo che il suo cadavere sia stato manipolato o
comunque spostato dall'assassino. Di qui un'eventuale conferma ad
alcune teorie che vedono un MdF mugellano, probabilmente di
Vicchio, che dunque conosceva bene le vittime mugellane e verso
cui per un motivo o per un altro poteva nutrire qualche rancore,
tanto da arrivare a infierire maggiormente sui loro cadaveri (vedasi
ad esempio le 96 coltellate alla Pettini).
● Sull'automobile dello Stefanacci vennero rilevate alcune impronte
che potrebbero essere ricondotte all'autore del duplice omicidio.
Nello specifico, la fascia paracolpi impolverata dello sportello
destro mostrava due aloni semicircolari, riconosciuti
verosimilmente come impronte di ginocchia, alte da terra 60
centimetri. Sulla cornice dello sportello destro vennero inoltre
evidenziate due impronte digitali parziali. Molto si è elucubrato
soprattutto sulle impronte di ginocchia che permisero di stabilire
un'altezza di almeno 180 centimetri di colui che le aveva lasciate. Si
noti a questo proposito che l'anno prima a Giogoli, l'equipe De
Fazio (forse sbagliando i calcoli, forse no) aveva calcolato sulla base
delle misurazioni eseguite sul camper dei ragazzi tedeschi che il
MdF doveva essere alto almeno 180 centimetri. Anche a Calenzano,
tre anni prima, era stata rilevata un'impronta sul terreno di uno
stivale numero 44. Tre casi, forse indipendenti l'uno dall'altro, che
comunque proponevano un assassino di altezza considerevole.
Tuttavia, anche per il duplice omicidio di Vicchio non è stato
possibile appurare con certezza se i segni sull'automobile di
Claudio fossero già presenti in precedenza o fossero stati lasciati
proprio dal MdF durante l'azione omicidiaria.
● Secondo una non meglio comprovata tesi, con il delitto di Vicchio
il MdF avrebbe voluto quasi "celebrare" il decennale del delitto di
Rabatta, di settembre 1974. Stessa zona, stessa età delle ragazze,
quasi stessa posizione del cadavere della vittima femminile.
Tuttavia, null'altro comprova tale idea.
● Questo delitto non deve essere stato premeditato, almeno non
quella sera. Questo perché la povera Pia lasciò il lavoro prima del
previsto per via di un cambio turno concordato verosimilmente la
sera precedente con la collega Emanuela Bazzi (anche se non è
emerso chiaramente neanche in dibattimento chi avrebbe chiesto il
cambio a chi).
Pia tornò a casa e dichiarò esplicitamente di non avere intenzione di
uscire in quanto troppo stanca. Fu la povera madre, Winnie, a
convincerla a fare una passeggiata. Dunque, quella sera Pia e
Claudio si trovarono quasi per caso alla Boschetta. Anche questo
aspetto verrà analizzato meglio nel paragrafo dedicato alle Teorie.
● D'altro canto, pare che la povera Pia avesse riferito a un'amica
danese nei giorni precedenti all'omicidio di aver ricevuto
apprezzamenti poco simpatici da parte di non meglio specificati
avventori del bar in cui lavorava. Tale amica, la signora Ingrid Von
Pflugk Harttung, riferì questo particolare durante la sua
deposizione al Processo ai CdM (18 Luglio 1997). Dichiarò che la
Pia all'epoca le era apparsa molto spaventata e che aveva fatto
vaghi riferimenti a persone non più giovani che frequentavano il
bar e che la stavano - testuali parole - "perseguitando".
In realtà nell'ascoltare tale deposizione sorge qualche dubbio sulla
sua genuinità, considerando che la Ingrid all'epoca non ritenne
opportuno informare nessuno di quanto aveva appreso, neanche
dopo l'omicidio. Sembra molto strano che una donna riceva tali
confidenze da una ragazza di 18 anni, la quale pochi giorni dopo
viene barbaramente trucidata, e non si senta in dovere di farle
presenti neanche ai genitori di Pia.
In dibattimento Ingrid si giustificò dicendo che sul momento non
diede particolare peso alle rivelazioni di Pia (pur avendo dichiarato
in quella stessa sede che la ragazza le era apparsa molto
spaventata). Solo a distanza di molti anni, quando la Procura aveva
cominciato a indagare sui compagni di merende e sulla loro
eventuale presenza a Vicchio nei giorni precedenti al delitto, Ingrid
riferì ai genitori di Pia quanto aveva appreso pochi giorni prima
dell'omicidio. Una tempistica che lascia un pochino perplessi.
Dando comunque per buona la genuinità di tali dichiarazioni, la
giovane Rontini divenne la terza vittima del MdF (quarta se
consideriamo anche la Locci), di cui si abbia certezza, a essersi
lamentata nei giorni immediatamente antecedenti al delitto di
essere stata importunata da qualcuno.
Sempre durante il Processo ai CdM vi fu la testimonianza di Mauro
Poggiali, amico di Pia, che una sera accompagnò a casa la ragazza
dopo il turno di lavoro al bar. Nel tragitto il Poggiali notò di essere
seguito da un'automobile di media cilindrata di colore amaranto o
rosso sbiadito. Alla visione al processo della macchina di Giancarlo
Lotti, il Poggiali non si disse sicurissimo fosse proprio quella, ma
riferì che le due vetture potevano avere qualcosa in comune.
● Il giorno successivo al delitto, mentre lavava la propria
automobile, un tale di nome Pietro Pasquini notò presunte macchie
ematiche su alcune pietre prossime al greto del fiume Sieve, non
lontano dal luogo del duplice omicidio. Prestando maggiormente
attenzione ai dintorni, l'uomo vide le stesse macchie disegnare una
specie di percorso lungo lo stradello che dal fiume risaliva sino alla
piazzola del delitto. Decise dunque di informare della scoperta un
intimo amico dei genitori di Pia, tale Luciano Bartolini. Stando a
quanto lo stesso Bartolini riferirà diversi anni dopo al capo delle
Squadra Mobile di Firenze Michele Giuttari, egli si trovava proprio
a casa dei coniugi Rontini nel momento in cui Pasquini lo informò
della sua scoperta. Il Bartolini decise pertanto di avvertire le forze
dell'ordine, le quali si recarono immediatamente sul posto per
scoprire che erano già presenti alcuni esperti della scientifica intenti
a studiare le stesse macchie. Successivamente il professor Giovanni
Pierini eseguì una perizia ematologica su alcune pietre
rotondeggianti che recavano tali tracce per scoprire che non erano
di tipo ematico. Durante il dibattimento processuale non è emerso
tuttavia in maniera chiara se le pietre analizzate fossero le stesse che
erano state segnalate dal Pasquini.
● In località Badia a Bovino, a circa 3 Km di distanza dal luogo del
delitto, dove negli anni '70 Pietro Pacciani aveva in affitto una casa
colonica, fu rinvenuto nel 1997 dal signor Flavio Graziano un
tubicino di metallo che conteneva un foglietto con la scritta "Coppia
Vic. FI D35067" (NdA: FI D35067 è la targa della Panda di Claudio). La
calligrafia con cui erano state vergate quelle parole risultava simile
a quella di Pietro Pacciani. La circostanza di tale rinvenimento è
tuttavia avvolta da un alone di incertezza e scetticismo. Non per
nulla, nel 2003 lo stesso PM Paolo Canessa (il grande accusatore di
Pacciani) chiese il rinvio a giudizio per frode processuale e
favoreggiamento per Giovanni Spinoso, giornalista RAI e cognato
di Pia Rontini (marito della sorellastra Marzia) e dello stesso Flavio
Graziano. Il processo si concluse con l'assoluzione di entrambi, ma i
dubbi che quel foglietto non fosse originale ma scritto
successivamente per incastrare Pacciani rimangono piuttosto netti.
● Potrebbe laciare il tempo che trova, ma giusto per la cronaca
riportiamo un'intervista rilasciata al giornalista Francesco
Pini dell'emittente radiofonica "Lady Radio" nel febbraio del 2015.
Un tale, di cui non sono stati resi noti gli estremi anagrafici e con
voce contraffatta, ha raccontato di aver visto, viaggiando in auto
con sua moglie, verso le ore 21:20 della sera dell'omicidio di Pia e
Claudio, una vettura Renault 4 rossa ferma in uno spiazzio nei
pressi dell'incrocio fra la statale denominata "Traversa del Mugello"
e il bivio Riconi, un luogo distante in linea d'aria poche decine di
metri dalla piazzola del delitto. La vettura aveva il cofano aperto,
come se l'auto fosse stata in panne, e davanti vi era un uomo che
guardava in direzione della Boschetta. Secondo il racconto
dell'intervistato, quest'uomo, di corporatura molto robusta, avrebbe
nascosto il viso nel momento in cui si sarebbe sentito osservato.
Il giorno successivo, appreso dell'omicidio, l'intervistato avrebbe
raccontato ad alcuni amici quello strano avvistamento; tale notizia
doveva successivamente essere arrivata in qualche modo alla
Procura di Firenze, poiché lo stesso Pier Luigi Vigna in persona lo
avrebbe contattato telefonicamente per avere maggiori dettagli. La
faccenda si sarebbe conclusa in tal modo, senza che gli venisse
richiesto di andare in Procura a firmare un verbale e senza che
nessun altro fra le Forze dell'Ordine lo cercasse mai più per ulteriori
ragguagli.
Non volendo dubitare della genuinità di tale strana testimonianza
(nei modi e nei termini), dobbiamo far notare alcune aspetti
peculiari:
1. L'orario del presunto avvistamento (21:20) è estramamente
compatibile con l'omicidio di Pia e Claudio, che ricordiamo essere
avvenuto fra le 21:30 e le 21:40. Tuttavia, è bene precisare che dal
luogo segnalato, seppur vicinissimo alla Boschetta, non è possibile
vedere né la piazzola, né se un'automobile che sta percorrendo la
Sagginalese vi si rechi.
2. Francesco Vinci possedeva una Renault 4 rossa, la stessa
automobile che era stata nascosta dal nipote Antonio nella
campagna grossetana nei pressi di Civitella Marittima nell'estate
del 1982. Tuttavia in occasione del delitto di Vicchio, Francesco
Vinci era in carcere, inoltre l'inervistato parla di un'automobile
nuova, color rosso vivo, mentre quella del Vinci dubitiamo potesse
essere considerata tale.
3. L'anno successivo, in occasione del delitto degli Scopeti, vedremo
che altri due testimoni segnaleranno la presenza nei dintorni della
piazzola dell'omicidio di una Renault 4, questa volta però di colore
biege/nocciola, che nulla dovrebbe avere a che fare con quella rossa
testé citata.
● Durante il Processo ai CdM, il reo-confesso Giancarlo Lotti che, a
suo dire, aveva assistito al duplice omicidio, disse esplicitamente
che mentre Pia veniva tirata fuori dalla macchina dal Vanni,
strillava. Secondo la difesa che si avvalse delle perizie medico-
legali, era pressoché impossibile che la povera ragazza potesse
emettere strilli, visto che al termine dell'azione di sparo, era già in
uno stato profondo di coma. La Pubblica Accusa puntò sul fatto che
Lotti avesse usato un termine improprio e lo stesso
dottor Maurri dichiarò nell'occasione che effettivamente la vittima
avrebbe potuto emettere dei suoni involontari mentre veniva
estratta dall'automobile e trascinata sul terreno. Questa versione fu
presa per buona dalla corte che nella sentenza scrisse: "tale verbo
(strillare, NdA) è stato chiaramente usato in modo improprio dal Lotti,
trattandosi di un soggetto che è senza cultura minima, che si esprime quasi
totalmente in dialetto toscano e che, quindi, non ha avvertito né poteva
avvertire l'esatto significato del verbo usato".
Indipendentemente da accusa, difesa e parere della corte, era
consumata abitudine del Lotti durante tutto il processo ai CdM, fare
dichiarazioni, spesso improbabili, che poi correggeva strada
facendo, nascondendosi spesso dietro il suo non sapersi esprimere
correttamente. Oggi, quasi tutti i mostrologi, di qualsiasi corrente
(merendari compresi), ritengono che almeno una parte delle
dichiarazioni del Lotti fosse mendace.
● Un'altra testimonianza molto importante riguardo il duplice
omicidio di Vicchio è quella di Bardo Bardazzi, proprietario di un
bar a Borgo San Lorenzo, chiamato La Torre. Il Bardazzi riferì che il
giorno dell'omicidio, attorno alle 16:45, due ragazzi che lui
successivamente riconobbe come Pia e Claudio, erano stati nel suo
locale a mangiare qualcosa. Subito dopo il loro ingresso, nel locale
era entrato anche un uomo distinto, elegante, leggermente
stempiato e con capelli sul rossiccio, di età sui 50 anni, alto almeno
175 cm, che sembrava mostrare un certo livore verso la giovane
coppia.
Secondo la testimonianza del Bardazzi, quest'uomo aveva infatti
ordinato una birra e si era seduto sui tavolini all'esterno del locale;
da lì pareva guardare i due ragazzi in modo torvo e cattivo, inoltre
cercava di nascondere con una mano la propria bocca per non farsi
scorgere mentre mormorava frasi (presumibilmente offensive) nei
confronti della coppia. Quando i due giovani, terminata la
consumazione, lasciarono il locale, quest'uomo si affrettò a scolare
in un unico sorso metà della birra rimasta nel suo bicchiere e a
seguirli.
Il giorno successivo, Bardazzi vide le foto delle vittime sui giornali
e riconobbe la coppia uccisa come quella che era stata al suo locale.
Si presentò quindi ai carabinieri per la sua testimonianza.
Inizialmente la sua deposizione fu presa piuttosto seriamente dagli
inquirenti, tanto che fu tracciato un identikit del misterioso
personaggio entrato nel suo locale; inoltre Bardazzi fu invitato a
seguire dall'alto il funerale dei ragazzi e segnalare l'eventuale
presenza dell'uomo.
Col tempo, complice anche la strada intrapresa dalla Procura di
Firenze, si è data sempre meno importanza a questa segnalazione.
Durante il Processo ai CdM, il PM Paolo Canessa tentò di smontare
la testimonianza del Bardazzi, provando a dimostrare che la coppia
vista non poteva essere quella uccisa alla Boschetta. Il PM mise
infatti in risalto alcune presunte contraddizioni nella testimonianza
del Bardazzi. Pare infatti che l'uomo nel verbale redatto subito dopo
il delitto dai carabinieri, avesse fornito come orario in cui vide la
coppia nel proprio locale le 16:45 circa. In dibattimento il Bardazzi
sostenne invece che l'orario era attorno alle 15:30. Secondo l'accusa
questo cambio di versione era dovuto al fatto che alle ore 16:45, Pia
era molto probabilmente già al lavoro o in procinto di arrivarci,
come da testimonianza dei suoi genitori e della sua collega Marisa
Franconi. Messo di fronte alla contraddizione, Bardazzi affermò che
probabilmente l'orario corretto era quello fornito nell'immediatezza
dell'omicidio e non quello reso in aula, in quanto all'epoca il ricordo
era decisamente più fresco.
L'avvocato Nino Filastò ribatté che gli orari forniti dai genitori di
Pia non fossero inconciliabili con quelli forniti dal Bardazzi,
potendoci essere benissimo una discrepanza di un quarto d'ora in
una o nell'altra dichiarazione.
È opportuno precisare che secondo la testimonianza di Renzo
Rontini e di sua moglie Winnie, quel pomeriggio Pia rientrò a casa
verso le 16:50, comprò una birra al padre al bar Stellini, quindi
subito dopo uscì nuovamente da casa in quanto alle 17:00 doveva
attaccare al bar per il suo turno di lavoro. Il che appunto
renderebbe impossibile la presenza di Pia e Claudio alle 16:45 al bar
di Borgo San Lorenzo. Tuttavia, la distanza fra il bar del Bardazzi e
casa di Pia è quantificabile in 10/15 minuti di automobile, quindi se
i due giovanni fossero usciti dalla tavolta calda attorno alle
16:35/16:40 potevano in linea teorica essere in casa Rontini alle
16:50.
C'è anche da dire che durante la sua testimonianza Renzo
Rontini dimostrò di non ricordare bene gli eventi di quel
pomeriggio o di confonderli, in quanto dichiarò che stava
guardando il Gran Premio di Formula 1 in TV, ma quel pomeriggio
non era prevista alcuna gara di Formula 1.
L'avvocato Nino Filastò, d'altro canto, ha sempre creduto nella
testimonianza del Bardazzi e più volte ha affermato che costui è
stato uno dei pochi a vedere in faccia il MdF.
Recentemente anche il documentarista Paolo Cochi ha svolto
indagini in tal senso, esprimendo l'idea che l'uomo visto da
Bardazzi fosse proprio il MdF, in quanto molto somigliante ad altre
segnalazioni fornite in quel di Vicchio nei giorni immediatamente
precedenti e immediatamente successivi all'omicidio (vedasi
paragrafo dedicato al "Rosso del Mugello").
● Qualche giorno prima dell'inizio del Processo a Pietro Pacciani,
mano ignota ruppe la croce dedicata a Pia Rontini, posta dal padre
Renzo nel luogo in cui la povera ragazza era stata uccisa. La croce
dedicata allo Stefanacci fu invece lasciata intatta. Secondo molti, a
compiere tale profanazione era stato proprio il MdF che rivendicava
la sua esistenza in un momento storico particolare e soprattutto una
volta di più rimarcava il suo odio per le vittime femminili. Da
notare come questo evento sia in accordo con la teoria che vuole un
serial killer tornare anche a distanza di anni sul luogo dei delitti o
sulle tombe delle proprie vittime, ma anche con la teoria (da sempre
piuttosto diffusa) che vede il serial killer originario e/o residente
proprio nel Mugello.
● A proposito di Renzo Rontini, padre di Pia, è doveroso dire che è
stato per anni un simbolo per quanti non si sono mai rassegnati
all'idea che l'autore di questi barbari massacri potesse restare
impunito. Renzo ha lottato con le unghie e con i denti per ottenere
giustizia per la povera Pia, ha lottato contro qualcosa che
probabilmente era più grande di lui.
Subito dopo il delitto lasciò il suo remunerativo lavoro per seguire
da vicino le indagini. Il suo desiderio di giustizia lo rese vittima di
lestofanti di ogni specie (investigatori improvvisati, medium,
finanche avvocati), che non esitarono a dilapidare il suo cospicuo
patrimonio promettendogli in cambio giustizia. Renzo finì per
impoverirsi, ma non smise mai di seguire le indagini, di essere una
presenza costante e affettuosa negli uffici della SAM, di presenziare
negli anni '90 a tutte le udienze del Processo Pacciani e ai Compagni
di Merende, nel momento in cui finalmente credeva di aver trovato
risposte alle sue inespresse domande.
È doverosa a questo punto una menzione d'onore per i poliziotti
della SAM che - nel momento di maggiore difficoltà economica del
signor Rontini - decisero di autotassarsi per fornirgli ogni mese un
aiuto economico.
Renzo Rontini morì d'infarto alle 12.15 del 9 Dicembre 1998 in via
San Gallo, proprio nei pressi degli uffici della Questura di Firenze.

Mostrologia alla Boschetta


Sono tre i punti cruciali di questo delitto su cui sono state elaborate
svariate ipotesi e teorie:
1. La misteriosa telefonata del tale fornaio Farini;
2. L'avvistamento del presunto mostro da parte di Bardazzi e altri
avvistamenti di quella che potrebbe essere la stessa persona in
giorni prossimi al delitto: la teoria del cosiddetto "Rosso del
Mugello";
3. L'eventuale premeditazione del delitto.

1. La telefonata del fornaio Farini:


Come visto, attorno alle 4:20 del mattino, oltre un'ora dopo il
rinvenimento dei cadaveri, arrivò una telefonata alla stazione dei
carabinieri di Borgo San Lorenzo per denunciare un incidente (mai
avvenuto) in località Sagginale. Il telefonante, con chiaro accento
toscano e voce non più giovanile, si spacciò per un tale Farini, di
professione fornaio. Nome e professione erano possibili riferimenti
a situazioni legate alla vicenda del MdF. Questo ha portato molti
mostrologi a ipotizzare che dietro quella telefonata ci fosse proprio
il Mostro. Il fine, però, non appare così chiaro.
Una possibile spiegazione è data dal criminologo Valerio Scrivo.
Come visto in occasione del delitto Gentilcore-Pettini, secondo
Scrivo, il MdF era della zona di Vicchio. Per distogliere ogni
sospetto dagli abitanti della zona, questi aveva bisogno di far
credere alle forze dell'ordine di provenire da fuori. Dunque, il MdF
avrebbe aspettato che fossero ritrovati i cadaveri (probabilmente,
sempre secondo Scrivo, partecipando lui stesso alle ricerche),
quindi ormai sicuro che tutti in paese avessero saputo del
rinvenimento, avrebbe effettuato la telefonata, facendo in modo che
si capisse bene che era il mostro a parlare. Da quella telefonata, le
forze dell'ordine, o chi per loro, avrebbero dovuto concludere che il
MdF voleva che i cadaveri venissero scoperti, ma non essendo della
zona, non poteva ovviamente sapere del già avvenuto
ritrovamento.
Insomma, un po' cervellotica come spiegazione, come del resto era
cervellotica anche la spiegazione del furto e del successivo
abbandono della borsetta della Pettini nel delitto del 1974, ma
soprattutto in questo caso non scevra da alcune pecche logiche: ad
esempio, perché il mostro che nell'ottica delle forze dell'ordine
stava chiamando da un paese più o meno distante, avrebbe dovuto
avere per quel delitto improvvisamente l'esigenza che i cadaveri
fossero scoperti quella notte tanto da dover fare una telefonata? E
perché se per i suoi fini era necessario far capire ai carabinieri di
essere proprio il MdF e di non sapere che i cadaveri fossero stati già
scoperti, non ha detto chiaramente chi fosse e dove potessero essere
rinvenute le vittime, ma ha sentito l'esigenza di spacciarsi per un
tale Farini (andando a prendere il nome da un fumetto quasi
sconosciuto e correndo il rischio che nessuno si accorgesse del gioco
di nomi) e oltretutto andando a parlare di un incidente?
A ben vedere è una teoria che ha un certo fascino ma presta il fianco
a più di un'osservazione.
Tuttavia, se si esclude l'ipotesi di Scrivo e ammettendo che quella
telefonata l'abbia fatta proprio il MdF, la stessa non ha granché
senso, a meno che non nasca dalla voglia del killer di farsi beffe
delle forze dell'ordine, dunque sia figlia della voglia di comunicare,
di lanciare una sfida, di sbeffeggiare gli inquirenti in una specie di
preludio alla lettera dell'anno successivo inviata alla
dottoressa Silvia Della Monica, di cui avremo modo di parlare.

In definitiva ci troviamo complessivamente davanti a quattro


possibilità:

► La telefonata l'ha fatta un qualsiasi personaggio


(presumibilmente di Vicchio, in quanto sapeva che i cadaveri erano
a la Boschetta) che voleva macabramente divertirsi, segnalando un
incidente proprio nei pressi del luogo dove era stato compiuto
l'omicidio.

► La telefonata l'ha fatta il MdF per puro divertimento, dunque


senza un secondo fine specifico. Indipendentemente dal fatto che
lui fosse stato di Vicchio o meno, indipendentemente dal fatto che
sapesse che i cadaveri erano stati ritrovati o meno, quella telefonata
aveva come unico scopo prendere in giro e/o sfidare le forze
dell'ordine.

► La telefonata l'ha fatta il MdF con il fine un po' contorto descritto


da Valerio Scrivo. Un modo per depistare le indagini e portare gli
inquirenti a credere che il killer fosse venuto da lontano e lontano
fosse tornato subito dopo il delitto.

► La telefonata l'ha fatta il MdF con qualsiasi altro fine, che al


momento non è dato conoscere. Ad esempio, come a volte è stato
detto in alcuni ambienti mostrologici, liberare una strada
eventualmente occupata da un posto di blocco.

2. Il cosiddetto "Rosso del Mugello":


La segnalazione di Baldo Bardazzi, unita ad atre segnalazioni che si
sono avute a Vicchio in giorni prossimi al delitto e verosimilmente
tutte indicanti una stessa persona (uomo distinto, elegante,
leggermente stempiato, viso rotondo e roseo, capelli fra il biondo e
il rossiccio, ben piazzato, alto circa 175/180 cm, fra i 45 e i 50 anni)
ha fatto nascere in alcuni mostrologi la convinzione di avere
individuato il MdF proprio in tale soggetto, denominato da
alcuni Rossano, da altri il Rosso del Mugello o l'uomo di Vicchio.
Di seguito sono esposte nel dettaglio tali segnalazioni, che si badi
bene sono state tutte rilasciate nei giorni immediatamente
successivi al delitto e non a distanza di anni, dunque da ritenersi
senza dubbio alcuno genuine:

► Secondo una testimonianza resa ai carabinieri di Vicchio da una


ragazza di nome Tiziana il 5 Agosto 1984, un uomo corrispondente
alla descrizione di cui sopra venne notato sabato 14 luglio 1984
intento a spiare alcune ragazze che prendevano il sole sulle rive del
fiume Sieve, in un punto non lontano dal luogo del delitto;
► Secondo la testimonianza resa ai carabinieri di Vicchio il 2
Agosto 1984 dalla collega di Pia, Manuela Bazzi, un personaggio
molto simile a quello già descritto si presentò verso le 18 di sabato
21 luglio 1984 al bar "La Spiaggia" dove lavorava Pia. Importunò
una ragazza chiedendole se era ancora accampata in tenda e alla
risposta affermativa di questa, le disse che sarebbe andato a
trovarla. Tale ragazza lasciò il bar piuttosto intimidita
dall'atteggiamento dell'uomo.
► Secondo la testimonianza resa ai carabinieri sempre il 2 Agosto
1984 da un'altra collega di Pia, Luciana Limmi, lo stesso
personaggio si presentò nuovamente al bar il giorno successivo,
domenica 22 luglio, chiedendo alla Limmi quante ragazze
lavorassero in quel bar.
► Una settimana dopo, dunque sabato 28 luglio 1984 verso le 18.30,
lo stesso personaggio tornò al bar e incontrò nuovamente la Bazzi.
La chiamò per nome (nonostante la donna affermi che non si erano
mai rivolti la parola prima) e le chiese se la sera andasse a ballare.
In quell'occasione la Bazzi rimase così turbata che chiese ad altri
avventori se conoscessero questa persona. Le fu risposto che
probabilmente era di Scarperia.
Sebbene non esistano dubbi sulla genuinità di tali dichiarazioni,
rilasciate nell'immediatezza del delitto, è onesto, oltre che doveroso,
chiedersi tuttavia perché la Bazzi non fece menzione di questi
episodi durante il Processo ai CdM. Quando infatti in aula fu
interrogata dal PM (udienza dell'8 luglio 1997) e le fu chiesto
esplicitamente se la Rontini fosse stata mai importunata da
qualcuno o se nel bar si fossero verificate situazioni spiacevoli, la
Bazzi dichiarò di non avere ricordi del genere e sminuì fortemente
eventuali episodi, classificandoli come normali e innocui rapporti
fra clienti e bariste. Salvo poi in tempi molto recenti ribadire in
alcune interviste la presenza inquietante e disturbante di questo
misterioso individuo.
► Il pomeriggio successivo, domenica 29 luglio 1984, come già
visto, ci fu l'avvistamento di quest'uomo nel bar del Bardazzi
mentre seguiva una coppia che lo stesso Bardazzi riconobbe come le
future vittime.
► Secondo la testimonianza resa da tale Franco L. ai carabinieri di
Vicchio, la sera del 29 luglio, attorno alle ore 20:00, quindi circa
un'ora e mezza prima che si consumasse il delitto, tale personaggio
venne visto sempre al bar "La Spiaggia".
► Martedì 1 Agosto 1984, tre giorni dopo il delitto, venne infine
visto per l'ultima volta nei dintorni di Vicchio, ancora una volta al
bar dove lavorava Pia. In questa occasione si limitò a prendere un
caffè senza scambiare parola con nessuno. A servirlo fu Luciana
Limmi.

Il primo a interessarsi alla pista cosiddetta mugellana fu l'avvocato


difensore di Pietro Pacciani, Rosario Bevacqua, il quale, pur senza
calcare troppo la mano durante il Processo di primo grado nei
confronti del contadino di Mercatale, fece notare alla Corte la
sinistra coincidenza di queste segnalazioni che convergevano verso
un unico sospettato dalle chiare connotazioni fisiche.
Come vedremo, la pista sembrò morire con la condanna in primo
grado di Pacciani e la successiva condanna dopo tre gradi di
giudizio dei Compagni di Merende.
In tempi piuttosto recenti, tuttavia, il documentarista Paolo
Cochi ha ridestato l'interesse dell'opinione pubblica sul cosiddetto
"Rosso del Mugello".
Nel documentario "La Zona Oscura", Cochi ha intervistato
Bardazzi e le due colleghe di Pia che avevano reso testimonianza ai
carabinieri: le parole dei tre intervistati sono state piuttosto
concordi nell'indicare lo stesso uomo, rossiccio di capelli e dal
modo di fare sospetto.
Secondo Cochi, quest'uomo potrebbe essere il vero MdF, tanto più
che esistono altre segnalazioni simili, come quella della guardia
giurata riportata nel capitolo dedicato al delitto di Calenzano o
quella che vedremo nel capitolo dedicato al delitto degli Scopeti.
Valutando nel complesso tutte le segnalazioni e tralasciando la
dibattuta questione sull'orario in cui la presunta coppia
Stefanacci/Rontini venne vista alla tavola calda del Bardazzi, sorge
indubbiamente spontaneo chiedersi chi fosse quest'uomo che con
così tanta costanza ha frequentato nei giorni immediatamente
precedenti al delitto il bar dove lavorava Pia e le sponde del fiume
Sieve nei pressi della piazzola del delitto. Sorge spontaneo chiedersi
anche perché subito dopo questi eventi, quest'uomo non si fosse
fatto più vedere nei pressi del bar di Vicchio, né in quello del
Bardazzi. Trattasi indubbiamente di circostanze fortemente
sospette.
D'altro canto, risulta comunque un po' complesso pensare a un
MdF che non solo ha seguito la coppia Stefanacci-Rontini in pieno
giorno fin dentro il bar di Bardazzi, osservandola con astio sotto gli
occhi di tutti, ma si è fatto persino vedere nel bar dove lavorava Pia
e senza alcuna remora si è messo a importunare un paio di ragazze.
Nello stesso bar vi sarebbe finanche tornato per un'ultima volta a
delitto compiuto. Insomma, tutto ciò va un po' contro l'idea di
personaggio estremamente cauto e calcolatore che il MdF ha dato
durante tutti gli anni della sua tragica attività delittuosa.
Inoltre, ci si potrebbe chiedere perché lo stesso personaggio in
un'occasione avrebbe assunto un atteggiamento assolutamente
ostile e quasi da psicopatico nei confronti della coppia, tanto da
doversi coprire la bocca con la mano per non far trapelare le parole
che mormorava fra sé, mentre in altre occasioni si sarebbe
comportato quasi normalmente, non importunando mai la Rontini,
ma rivolgendo le sue forse spregiudicate attenzioni verso altre
ragazze, senza tuttavia trascendere nell'ostilità né tanto meno in
atteggiamenti malsani.
Infine, ribadiamo, sarebbe interessante sapere perché in sede di
Processo, la Bazzi non abbia fatto alcun riferimento a quest'uomo,
nonostante fosse stata esplicitamente sollecitata a raccontare episodi
sospetti avvenuti nel bar da parte di avventori.
Per ulteriori dettagli sulla teoria che porterebbe a individuare il
MdF nel cosiddetto "Uomo del Mugello", si rimanda al capitolo La
pistola del Mostro.

3. La premeditazione del delitto:


Un'altra questione estremamente dibattuta riguarda la
premeditazione di questo delitto. Non è un aspetto secondario per
via di alcuni particolari di seguito elencati e che potrebbero aiutare
a inquadrare la situazione:

► La Rontini aveva accennato di non sentirsi sicura nei giorni


immediatamente precedenti al delitto. C'è la testimonianza della
succitata amica Ingrid in merito che, sebbene per quanto detto in
precedenza faccia un po' storcere il naso, non può essere
considerata completamente priva di fondamento.
Inoltre, anche l'amico Poggiali ha affermato di avere avuto
l'impressione, in un paio di occasioni, che la sua macchina con a
bordo la povera Pia fosse stata seguita da qualcuno.
Le colleghe di Pia hanno parlato di un individuo sospetto che nei
giorni precedenti all'omicidio frequentava il bar.
Non è dato sapere se queste tre testimonianze siano realmente
connesse all'omicidio oppure riguardino tutt'altre situazioni, fatto
sta che Pia, come in precedenza altre vittime del serial killer (Locci,
Pettini, Cambi) sembrava essere infastidita da qualcuno.
Ammettendo e non concedendo che questo qualcuno fosse il MdF,
si potrebbe pensare a un delitto premeditato; cioè il MdF aveva
puntato quella coppia e attendeva il momento adatto per ucciderla.
► Pia e Claudio erano soliti frequentare la Boschetta come luogo in
cui appartarsi. Lo dimostrano alcune testimonianze fra cui quella
del Becherini, colui che aveva trovato la Panda durante le
spasmodiche ricerche la notte del delitto.
Tuttavia bisogna sottolineare come non fosse (ovviamente) l'unica
coppia che frequentasse quel luogo. Abbiamo, a questo proposito,
la testimonianza del signor Dario Pampaloni, di professione
pastore, che portava a pascolare il proprio gregge alla Boschetta e
che nell'udienza dell'8 Luglio 1997 del Processo ai CdM dichiarò di
aver avuto modo di notare svariate coppie appartarsi nella
piazzola.
► La Rontini era solita lavorare fino a tardi al bar. Per uno scambio
turno quella sera aveva lasciato il lavoro relativamente presto. Era
tornata a casa, non voleva uscire. La mamma l'aveva convinta a
svagarsi un po'. Quella sera la povera Pia uscì con lo Stefanacci per
un puro caso.
► Pia uscì da casa attorno alle 21.10, dirigendosi verso l'abitazione
della Stefanacci, distante circa cinque minuti a piedi. Durante il
tragitto incontrò il fratello dello Stefanacci, Sauro (probabilmente
l'ultima persona a vederla viva, a parte il fidanzato e il mostro).
Raggiunta la casa di Claudio, i due ragazzi salirono in macchina e si
diressero verso La Boschetta, distante circa 10 minuti. Si può
ipotizzare che arrivarono lì attorno alle 21.30 o poco dopo. Gli spari
furono uditi fra le 21.40 e le 21.45, circa dieci minuti dopo l'arrivo
dell'automobile. Appare più che lecito chiedersi se il MdF fosse già
appostato alla Boschetta aspettando una (o la) coppia o avesse
seguito la panda di Claudio e Pia.

Le ipotesi che a questo punto possono essere avanzate sono le


seguenti:
1. Il MdF era già appostato alla Boschetta attendendo una qualsiasi
coppia per compiere il suo mortale assalto (aveva dunque scelto il
luogo ma non la coppia).
2. Il MdF era già appostato alla Boschetta attendendo proprio quella
coppia, nella speranza che arrivasse. Ovviamente sapeva che Pia e
Claudio frequentavano quel luogo, non poteva sapere se quella sera
si sarebbero appartati, ma nel dubbio si era messo in attesa. Magari
erano diversi giorni che si nascondeva fra le fronde e i cespugli
della Boschetta attendendo la Panda celestina di Claudio.
3. Il MdF era in giro in perlustrazione lungo la Sagginalese e i
numerosi anfratti che essa offre. Aveva intercettato la (forse nota)
Panda di Claudio, l'aveva seguita o ne aveva intuito le intenzioni
sapendo dove i ragazzi si appartavano di solito. Aveva deciso in
quel momento di colpire proprio loro. Dopo aver nascosto
rapidamente la propria automobile, si era diretto alla Boschetta
quasi a colpo sicuro.
4. Il MdF aveva da tempo deciso di colpire proprio quella coppia.
Teneva dunque sotto stretto controllo la Rontini (più probabile lei
che non lo Stefanacci), magari la pedinava con una certa regolarità
nei dintorni di casa o molto più probabilmente al bar, fino alla sera
del delitto quando i due ragazzi si erano diretti verso la Boschetta.
A quel punto il MdF non aveva dovuto fare altro che seguirli senza
farsi vedere.

Non è semplice capire quale sia l'ipotesi corretta. La sensazione che


il MdF avesse scelto di colpire quella specifica coppia esiste, quindi
tendenzialmente l'ipotesi 1 potrebbe essere scartata.
L'ipotesi 2 non è di semplice attuazione: il MdF che si nascondeva
per diversi giorni sempre nello stesso posto, aspettando che
finalmente arrivasse la coppia scelta, è un'eventualità poco
plausibile, specie se si considera che il killer colpiva
prevalentemente di weekend. Quindi c'era una discreta possibilità
che gli appostamenti si fossero protratti per parecchio tempo prima
di trovare il momento favorevole.
L'ipotesi 3 ha un suo perché, è ad esempio caldeggiata da diversi
mostrologi: un MdF che per caso intercetta la coppia probabilmente
conosciuta perché in precedenza pedinata, ne intuisce le intenzioni,
conosce il luogo dove si apparta e decide di seguirla e colpire. Da
notare che il MdF potrebbe anche averli casualmente intercettati
proprio mentre Pia e Claudio svoltavano verso la strada sterrata che
porta allo spiazzo del duplice omicidio.
L'ipotesi numero 4 ha una certa possibilità, ma anche per quanto
detto prima a proposito della vicenda Bardazzi, risulta difficile
credere in un paesino piccolo come Vicchio, a un MdF che il giorno
dell'omicidio segue passo dopo passo la Rontini: la segue quando
lavora al bar, la pedina fino a casa, la segue quando Pia va da
Claudio, infine segue l'automobile dei due ragazzi. Al più si
potrebbe ipotizzare un MdF che staziona nei dintorni del bar della
stazione, aspetta che Pia stacchi poi discretamente si apposta verso
la piazza centrale del paese vicino casa di Claudio attendendo un
eventuale sviluppo della serata. Quando vede arrivare Pia, intuisce
(o spera) che i ragazzi possano uscire e corre verso la Boschetta,
anticipandoli.

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5 commenti:

1.
Carmen17 dicembre 2021 alle ore 07:44

Ci si aspetterebbe di leggere qualcosa su circostanze dirimenti.


Winnie ci dice che la figlia era stata in Danimarca per quasi
tutti i primi cinque mesi del 1984; torna per giugno, ma quasi
subito inizia a lavorare in turno serale: o chi avrebbe avuto
tanta pazienza da attenderne il ritorno a Vichio e tallonarla
pure quando veniva riaccompagnata, ovvero sempre, a quanto
di raccontano? Doveva trattarsi di un temerario assoluto, con
una fortuna degna di Gastone. Quella sera, sempre in base ai
resoconti mai messi in dubbio, ben poche persone sapevano
che Pia era uscita
Rispondi

2.
Luigi Sorrenti21 dicembre 2021 alle ore 00:10
Salve, concordo con quanto lei sta sottintendendo. Come avrà
visto il fine di questo blog è però presentare tutte le ipotesi
possibili e poi ragionare su base probabilistica.
Rispondi

3.
Anonimo28 aprile 2022 alle ore 08:43

A mio modesto parere, questo delitto è oggettivamente


premeditato : l'accanimento (anche post mortem) dell
assassino sui due poveri ragazzi, oltretutto sulle parti genitali,
fa supporre una regressa forma d'odio nei loro confronti,
evidentemente li aveva già precedentemente pedinati e aveva
covato un forte odio per il loro rapporto così puro e pieno di
amore.
In passato lessi, senza però avere ovviamente nessun riscontro,
un ipotesi che il mostro conoscesse in qualche modo lo
Stefanacci, e sapesse quali fossero le sue abitudini e i suoi
spostamenti
Rispondi

Risposte

1.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:36
il mostro sicuramente e' uno che ha sofferto moltissimo
per amore.
2.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 09:05

Puo' essere in pochissimi casi che il mostro conoscesse le


vittime ,ma il piu' delle volte ha trovato coppette per caso
girando e conoscendo sicuramente i luoghi piu'
frequentati dalle coppiette ,per esempio l'omicidio di
mainardi avvenuto sulla strada a meno che non li abbia
seguiti li ha trovati per puro caso.
Salvatore Vinci

Il delitto di Vicchio fu un duro colpo per il teorema


cosiddetto Tricomi-Rotella e per quanti inseguivano il mostro fra i
componenti del clan dei sardi. Eppure la certezza che il delitto del
1968 fosse maturato all'interno del clan e le difficoltà a pensare a un
passaggio di mano della pistola, portarono il Giudice Istruttore a
inseguire comunque il MdF sempre nello stesso ambiente.
Scarcerati Giovanni Mele, Pietro Mucciarini e Francesco Vinci, il
maggior indiziato divenne a quel punto Salvatore Vinci, fratello
maggiore di Francesco, ex amante della Locci (secondo alcuni il
vero padre di Natalino) e personaggio dalle indubbie stranezze.
Nato il 1 Dicembre 1935 a Villacidro, in provincia di Cagliari,
Salvatore era il secondo dei fratelli Vinci. Nel 1958 sposò Barbarina
Steri e nel febbraio 1959 nacque il suo primo figlio, Antonio Vinci.
Nel 1960 la Steri morì in circostanze misteriose. La successiva
inchiesta stabilì che la donna si era suicidata con il gas, in realtà è
opinione abbastanza diffusa che sia stata uccisa dal marito, il quale
aveva scoperto una relazione extraconiugale della moglie con il
vecchio fidanzato, di nome Antonio. Una coincidenza che
i Sardisti non mancano di far notare è che i due amanti si
chiamavano come le vittime del delitto di Signa del 1968, appunto
Barbara e Antonio.
Non è fine di questi scritti soffermarsi sulla morte della povera
Barbara Steri, ma è bene precisare che oggi all'ipotesi del suicidio
non crede paraticamente più nessuno e per almeno tre buoni
motivi: il primo è che Barbarina era in procinto di lasciare il marito,
cambiare vita e sembrava lontanissima da propositi suicidi; il
secondo è che da quanto è stato accertato sulla base della
testimonianza di un vicino, quella sera la bombola del gas in casa
Vinci era esaurita; infine, l'alibi di Salvatore col tempo ha
cominciato pesantemente a scricchiolare.
All'epoca l'inchiesta venne però rapidamente archiviata e, scampato
il pericolo, Salvatore si affrettò a cambiare aria e trasferirsi in
Toscana, dove raggiunse suo fratello maggiore Giovanni Vinci a
Castellina in Chianti. Qui conobbe Barbara Locci e ne divenne
l'amante, subentrando a suo fratello Giovanni.
Nel 1961 la Locci rimase incinta e i due amanti si allontanarono. Al
processo Pacciani, la seconda moglie del Vinci, Rosina Massa,
all'epoca fidanzata di Salvatore, disse che anche lei aveva avuto il
sospetto che Natalino potesse essere figlio di Salvatore, ma a suo
dire, lo stesso Vinci aveva tacciato questa ipotesi come un
vaneggiamento.
L'anno dopo, nell'aprile del 1962, Salvatore sposò l'appena citata
Rosina Massa; i due si trasferirono dapprima a Calenzano, poi a La
Briglia, frazione del comune di Vaiano. Dal matrimonio nacquero 3
figli maschi, inoltre giunse dalla Sardegna per unirsi al padre anche
Antonio Vinci, figlio della prima moglie Barbarina. Nel contempo
Salvatore riprese a frequentare la Locci, almeno fino all'ingresso in
questo ménage di Francesco Vinci, fratello minore di Salvatore ed
estremamente geloso e possessivo nei confronti della disinibita
Barbara.
Salvatore, al contrario, aveva un rapporto piuttosto aperto sia con la
Locci che con le altre donne che frequentava: amava infatti farle
accoppiare con altri uomini – solitamente sconosciuti - alle Cascine
o nelle piazzole dell'autostrada, mentre lui guardava; egli stesso
amava accoppiarsi con uomini e donne, maturando negli anni
numerosissimi amanti di ambo i sessi. Non per nulla, il rapporto fra
Salvatore Vinci e Barbara Locci includeva anche Stefano Mele che,
in questo caso, non si limitava a portare il caffè a letto ai due
amanti, ma partecipava ai rapporti, instaurando un profondo
feeling sessuale con Salvatore.
Dopo l'omicidio Locci/Lo Bianco, Salvatore Vinci fu il primo a
essere accusato del duplice omicidio da Stefano Mele. Il Mele poi
ritrattò quando si era ritrovato davanti lo stesso Vinci, dimostrando
uno stato di completa soggezione psicologica nei confronti
dell'uomo.
Uscito completamente indenne dalla vicenda delittuosa e dal
relativo processo, nel 1970 Salvatore lasciò assieme alla propria
famiglia il comune di Vaiano per trasferirsi a Firenze, in via Cironi.
Il suo nome tornò agli onori della cronaca tre anni dopo, quando
nel 1973, suo figlio, Antonio, nato dalla prima moglie e con cui i
rapporti erano pessimi, scappò di casa. A quell'epoca Antonio
aveva appena 14 anni.
Nella tarda primavera del 1974, la seconda moglie di Salvatore, la
signora Rosina Massa, abbandonò il marito e tornò in Sardegna dai
suoi genitori, stanca di subire le percosse, le sevizie e le perversioni
del coniuge. Pochi mesi dopo, i gentiori obbligarono la povera
Rosina a tornare dal marito in Toscana.
Nel giugno del 1974, Salvatore Vinci sporse denuncia contro ignoti
per violazione di domicilio. A lungo si è dibattutto, a livello
mostrologico, sull'effettiva esistenza di tale denuncia, che
comunque - è bene precisare - risulta debitamente agli atti e in
tempi recenti è stata divulgata da diversi blog.
Come vedremo, il giornalista Mario Spezi ha sempre dichiarato che
il furto, in realtà, fu commesso dal figlio Antonio che, in quella
occasione, rubò al padre la Beretta Calibro 22 con cui erano stati
uccisi Locci e Lo Bianco e che in seguito sarebbe divenuta l'arma del
mostro. Resta questa, ovviamente, una mera ipotesi dello Spezi, non
doumentata in alcun modo.
Nel settembre di quello stesso anno ci fu il delitto di Rabatta.
All'incirca nello stesso periodo il giovane Antonio tornò (alcuni
dicono fuggì) in Sardegna, ma non è dato sapere con certezza se il
ritorno nella terra natia sia avvenuto prima o dopo il duplice
omicidio.
Trascorsero sei anni di anonimato per giungere al 1980. In
quell'anno, ma non si sa precisamente quando, il ventunenne
Antonio lasciò Como, città in cui aveva trovato lavoro, per far
ritorno a Firenze a casa del padre. Ma nuovamente la convivenza
fra i due durò ben poco: a quanto si sa, infatti, il ragazzo venne
infatti cacciato dal padre perché quest'ultimo lo aveva trovato ad
amoreggiare con la domestica. Fu in questo periodo che Antoniò
andò a vivere per un breve periodo a casa dello zio Francesco,
prima di sposarsi nel 1982 con una ragazza folignate di nome
Lorella Bertolucci.
Fra il 29 aprile e il 17 maggio 1980, Salvatore Vinci si fece
spontaneamente ricoverare nel reparto psichiatrico
dell'ospedale Santa Maria Nuova a causa - si dice - della sua
smodata dipendenza dal sesso.
Il 6 giugno (esattamente un anno prima del delitto di Mosciano)
morì il padre Antonio, mentre il 7 luglio 1980 Salvatore venne
definitivamente lasciato dalla moglie Rosina, stanca di subire le
percosse e le perversioni del marito. La donna si trasferì a Trieste
con un nuovo compagno, di nome Sergio.
Nota Bene: La fuga di Rosina Massa non avvenne, come riportano
alcuni siti nel 1970, ma come dichiara la stessa Rosina al processo
Pacciani nell'udienza del 14 Luglio 1994, appunto nel luglio del
1980.
Per tutta risposta, Salvatore denunciò la moglie per abbandono del
tetto coniugale, ma nel marzo del 1981 la donna fu assolta dalle
accuse, in quanto veniva accertato che il marito l'aveva
ripetutamente spinta verso "condotte deplorevoli".
Tre mesi dopo, il 6 giugno del 1981, a Mosciano di Scandicci ci fu il
primo delitto, fra quelli a cadenza annuale, del Mostro di Firenze.
Poco dopo, Salvatore cominciò a frequentare una donna di
nome Ada Pierini, ma anche costei venne coinvolta nelle sfrenate
fantasie sessuali del compagno e finì per lasciarlo nel giro di un
paio di anni.
Nel 1982, subito dopo il collegamento con l'episodio delittuoso del
1968, le attenzioni degli inquirenti si indirizzarono verso altri
soggetti del clan dei sardi, più affini al profilo violento e pericoloso
del MdF. Venne arrestato Francesco Vinci e fu tenuto sotto stretto
controllo il nipote Antonio, con cui Francesco aveva un profondo
legame. Venne fuori che era stato proprio Antonio a nascondere
l'automobile di Francesco a Civitella Marittima, nella campagna
grossetana subito dopo il duplice omicidio di Baccaiano.
Interrogato in merito, il ragazzo (all'epoca ventitreenne) si giustificò
motivando l'episodio con storie di amanti e di corna in cui lo zio era
rimasto coinvolto.

La borsa di paglia
Quando nel 1984, dopo gli inutili arresti di Francesco Vinci, di
Giovanni Mele e del Mucciarini, le forze dell'ordine tornarono a
interessarsi di Salvatore, emersero ai loro occhi tutte le verità sulla
vita che costui conduceva. Scoprirono che nonostante l'aspetto mite
e quasi da intellettuale, Salvatore era in realtà anch'egli un uomo
violento, aduso a picchiare le proprie compagne quando queste non
accondiscendevano ai suoi disinibiti desideri sessuali. Scoprirono
che non solo era uomo dalle spiccate perversioni (andava
indifferentemente con uomini e donne, prediligeva le orge e i
rapporti promiscui) ma anche un guardone estremamente abile e
attrezzato, provvisto ad esempio di lunghi chiodi per arrampicarsi
sugli alberi e spiare le coppie ignare.
Il giorno dopo l'omicidio di Vicchio, il 30 luglio 1984, Salvatore
Vinci subì una perquisizione in casa. Qui vennero rinvenuti,
all'interno di una borsa di paglia nascosta in un armadio della sua
camera da letto, tre stracci di cotone. Uno di questi aveva 38
macchie rosso scuro e - stando a quanto riporta il rapporto Torrisi -
"un segno lungo, grigio, lasciato dalla canna, c'erano poi simmetrici altri
segni. Era indubbio che lo straccio fosse stato usato per pulire un'arma".
Il reperto fu analizzato dalla scientifica, i risultati giunsero nella
primavera del 1985. Le macchie rosse risultarono tracce di sangue
umano dei gruppi B e 0. Le macchie grigie erano state prodotte
dalla combustione di polvere da sparo.
Salvatore Vinci dichiarò che la borsa non era sua e che
probabilmente apparteneva a una delle donne che aveva vissuto
con lui.
La compagna del momento, Antonietta D'Onofrio, negò di aver
mai visto prima quella borsa. L'ex moglie e la ex convivente, Ada
Pierini, negarono d'averla mai posseduta. La donna delle pulizie
disse d'averla notata tra l'inverno del 1983 e la primavera del 1984.
Tuttavia, una volta repertate le tracce, "non fu possibile il paragone
con reperti delle vittime dei duplici omicidi, perché non conservati dopo le
autopsie", stando alle parole di Rotella.
Nel 1987 fu fatto un ultimo tentativo. Lo straccio venne inviato in
Gran Bretagna per comparare le tracce di DNA sul tessuto con il
DNA di Salvatore Vinci ma i periti inglesi lo rispedirono indietro in
quanto era trascorso troppo tempo e i campioni erano inutilizzabili.
I magistrati in mancanza dei risultati delle perizie furono costretti
ad alzare bandiera bianca.
In tempi più recenti, con le nuove opportunità offerte dalla
tecnologia, è stato possibile tuttavia eseguire analisi più
approfondite su quei pezzi di stoffa. Nel 1998 fu infatti stabilito che
i campioni di sangue rinvenuti sullo straccio erano compatibili con
quelli delle vittime dei delitti del 1983 (uno dei due tedeschi aveva
gruppo sanguigno B) e del 1984 (Stefanacci era del comunissimo
gruppo 0), tuttavia i segni di polvere da sparo riportavano tracce di
BARIO, ANTIMONIO e PIOMBO, mentre i proiettili della
Winchester usati dal mostro non contenevano antimonio. Dunque,
lo straccio era stato sì usato per avvolgere o pulire una pistola, ma
certamente non la pistola del mostro. Questo – ad oggi - porta a
stabilire che Salvatore Vinci probabilmente mentiva quando diceva
di non aver mai posseduto una pistola, ma nulla più di questo.
Inoltre, a fine 2019, il perito Ugo Ricci è riuscito a isolare sullo
straccio tracce epiteliali (della pelle, NdA) che combaciavano con il
DNA di Salvatore Vinci.
Anche in questo caso, non sembra una grande scoperta l'aver
trovato tracce di DNA del Vinci su uno straccio contenuto in una
borsetta rinvenuta a casa sua, tuttavia questo ci dimostra quanto
meno che il Vinci mentiva quando affermava di non aver mai
saputo nulla di quella borsetta. Cosa comunque che era facilmente
intuibile a priori.

Esaurita la parentesi legata alla borsa di paglia che non consente


grossi passi sul fronte "indagini relative al MdF", torniamo al post-
Vicchio e più precisamente al giugno del 1985, quando Stefano
Mele riprese ad accusare Salvatore Vinci del delitto del 1968 che - a
suo dire - avrebbe commesso con la complicità di Piero Mucciarini,
Giovanni Mele e della new entry Marcello Chiaramonti, marito di
sua sorella Teresa.
Ancora una volta dunque il Mele cominciava (o riprendeva in
questo caso) a indicare come autore dell'omicidio del 1968 colui che
era al centro dei sospetti degli inquirenti. È ovvio che il dubbio che
fossero gli stessi inquirenti a stimolare (se non proprio imporre)
queste accuse, sussiste.
Salvatore Vinci divenne dunque fortemente sospettato di essere il
Mostro di Firenze. Furono analizzati con più cura tutti gli alibi che
aveva fornito in occasione dei delitti del MdF, a partire da quello
del 1968 e molti di questi furono giudicati estremamente labili.
Venne messo sotto rigido controllo dalle forze dell'ordine, pedinato
e intercettato telefonicamente.
Quando il MdF colpì per l'ultima volta nel settembre del 1985,
Salvatore era ancora sotto stretta osservazione. Subito dopo il
delitto fu sottoposto alla prova del guanto di paraffina che diede
risultati leggermente positivi sulla mano sinistra. A questo
proposito, la sua ex compagna Ada Pierini aveva dichiarato che il
Vinci era ambidestro, ma scriveva e mangiava con la mano sinistra.
Pur tuttavia, la prova non fu considerata granché attendibile,
considerando il lavoro che Salvatore svolgeva e che lo portava a
contatto con materiali che avrebbero potuto inficiare il test.
Alla fine del 1985, Il Vinci ricevette comunque un avviso di
garanzia per i delitti del Mostro.

Il rapporto TORRISI
Il 22 aprile del 1986 venne completato dal colonnello Nunziato
Torrisi dell'arma dei carabinieri il già più volte citato rapporto di
180 pagine su Salvatore Vinci. Questo documento, passato alla
storia appunto come Rapporto Torrisi, è considerato uno dei
capisaldi della vicenda del MdF, nonché uno dei maggiori capi
d'accusa nei confronti di un indagato per i delitti del Mostro, e
riassume anni di serrate indagini dal punto di vista di chi – l'intera
arma dei carabinieri - credeva fermamente nella colpevolezza di
Salvatore Vinci.
Comunque la si pensi, pur risultando doveroso ribadire che non
esiste alcuna prova sul fatto che Salvatore Vinci fosse davvero
implicato negli omicidi del MDF, nel rapporto emergono
avvistamenti, particolarità e coincidenze sinistre, oltre ad alcuni
dubbi che tuttora permangono sugli alibi forniti dall'indagato in
occasione di tre delitti attribuiti al MdF.
In estrema sintesi:
● per quanto riguarda gli avvistamenti del Vinci in prossimità dei
luoghi degli omicidi in orari compatibili con gli stessi, in occasione
di due delitti (1982 e 1983) era stata segnalata da due differenti
testimoni la presenza di un uomo che - almeno a parere del Torrisi -
aveva fattezze e verosimilmente abbigliamento simili a quelli di
Salvatore Vinci;
● per quanto riguarda le coincidenze, alcune dei momenti più
significativi della vita di Salvatore Vinci coincisero, sempre a parere
del Torrisi, con alcune date significative nell'epopea del MdF.
Ad esempio, nella primavera del 1974 fu abbandonato dalla moglie
Rosina Massa e nel settembre di quello stesso anno, il MdF
commise il suo primo omicidio. Successivamente, nel 1980,
Salvatore venne dapprima ricoverato in una clinica psichiatrica, in
seguito lasciato nuovamente e definitivamente dalla moglie che era
fuggita a Trieste con un altro uomo; a partire dal 1981 cominciò la
catena di omicidi a cadenza annuale del MdF.
● per quanto riguarda gli alibi, abbiamo tre situazioni da valutare:
1. Castelletti di Signa: Per il delitto del '68, l'alibi del Vinci si rivelò
forse falso, sicuramente non verificabile. All'epoca il verbale con le
dichiarazioni del Vinci riportava: "...uscito di casa, sita in località "La
Briglia " di Vaiano, verso le ore 20.30, si è intrattenuto presso il locale bar
Sport, sino alle ore 22.15, in compagnia di Vargiu Silvano e di un certo
Nicola Antenucci, suo dipendente, di essersi recati successivamente con i
due amici a Prato, presso il Circolo dei Preti, ove sarebbero rimasti a
giocare fino alle ore 24, facendo rientro a casa. Egli conclude affermando di
aver saputo dell'omicidio il mattino del giorno successivo, perché un suo
operaio aveva il giornale e lo stava leggendo..."
In realtà, come si scoprirà in seguito, il "Circolo dei Preti" osservava
il giorno di chiusura proprio il mercoledì e dunque probabilmente
la sera del delitto di Signa era chiuso; è doveroso precisare che non
se ne ha tuttavia la certezza. Interrogato in merito nel 1986 (a
distanza di 18 anni), il Vargiu dichiarerà di ricordare di essere stato
a giocare a biliardo con il Vinci e l'Antenucci, ma (ovviamente, NdA)
di non essere assolutamente in grado di precisare il giorno.

2. Giogoli: Per il delitto del 1983, Salvatore aveva dichiarato di


essersi recato per lavoro verso le 16.00 del giorno dell'omicidio
presso un'abitazione in via della Chiesa 42; al termine
dell'intervento era tornato a casa e ivi era rimasto, eccezion fatta e
per un breve lasso di tempo fra le 20 e le 21 quando aveva
accompagnato la propria signora delle pulizie nella sua abitazione a
Prato.
Dunque nell'orario interessato al delitto (fra le 21 e la mezzanotte di
quel 9 settembre 1983), Salvatore aveva potuto fornire un alibi di
tipo familiare.
D'altro canto, particolare di interesse mostrologico riveste
l'intervento lavorativo eseguito quel pomeriggio in via della Chiesa:
sul momento, essendo stato eseguito in un orario non compatibile
con l'orario del delitto, non venne tenuto in considerazione dagli
inquirenti. In seguito, dopo che a quell'indirizzo nell'ottobre del
1984 si era verificato l'omicidio della prostituta Luisa
Meoni (vedasi capitolo Le morti collaterali), le forze dell'ordine
svolsero indagini più accurate.
Emerse che nessuno degli abitanti in via della Chiesa 42 aveva
chiesto l'intervento della PIC (Pronto Intervento Casa, la società di
Salvatore Vinci), dunque per esclusione gli inquirenti ipotizzarono
che l'intervento fosse stato fatto proprio a casa della ormai defunta
Meoni. Questa ipotesi fu resa pressoché certa dal ritrovamento in
casa della signora uccisa di una ricevuta emessa dalla PIC, risalente
al 1982. Tale ricevuta evidenziava quanto meno un rapporto
lavorativo fra la defunta e la società di Salvatore Vinci; inoltre, sul
pianerottolo dell'abitazione della Meoni, venne trovato un adesivo
pubblicitario della ditta.
Da questi dati non si può ovviamente dedurre nulla di certo, ma si
possono fare alcune logiche considerazioni:
▪ la Meoni era stata cliente della società del Vinci, non si sa se
abituale, ma sicuramente almeno una volta (nel 1982) si era avvalsa
dei servizi della PIC;
▪ non si può stabilire con certezza se Salvatore fosse andato
veramente dalla Meoni il pomeriggio dell'omicidio di Giogoli;
tuttavia non sembra improbabile considerando l'accertato rapporto
lavorativo fra le due parti;
▪ la probabile visita del Vinci alla Meoni avvenne in orario non
sospetto, attorno alle 16:00; l'omicidio dei tedeschi sarebbe
avvenuto almeno cinque ore dopo. Quindi il Vinci non si servì della
Meoni per procurarsi un alibi (come spesso si sente dire in giro); al
contrario l'alibi del Vinci per l'orario del delitto era di tipo
esclusivamente familiare;
▪ di conseguenza quando si sente dire che la Meoni era stata uccisa
dal Vinci nell'ottobre del 1984 (quando cioè il Vinci era al centro
delle indagini) perché non smentisse il suo alibi, bisogna tenere in
considerazione che non c'era alcun alibi che la Meoni poteva
smentire o avvalorare;
▪ esiste la ragionevole possibilità che se la Meoni non fosse morta,
sarebbe stata interrogata dalle forze dell'ordine per appurare se
realmente fra le 16 e le 17 del 9 settembre 1983 il Vinci fosse andato
da lei per fare un intervento; la Meoni avrebbe potuto confermare o
meno questo intervento, in entrambi i casi non sarebbe cambiato
nulla per l'alibi di Salvatore nell'orario dell'omicidio. Risulta
dunque difficile comprendere perché il Vinci - nell'ipotesi fosse
stato il MdF - avrebbe dovuto uccidere la Meoni. Possiamo fare
esclusivamente due ipotesi, forse a questo punto non troppo
realistiche: o il Vinci si era confidato con la Meoni, rivelandole
qualcosa di compromettente circa gli omicidi da lui commessi;
oppure il Vinci era uno psicopatico che uccideva per il piacere di
farlo e questo omicidio era avvenuto per motivi indipendenti dalla
vicenda del MdF.

3. Vicchio: Infine, per il delitto del 1984, il Vinci dichiarò che il


giorno del duplice omicidio verso le ore 17.00 aveva compiuto un
intervento di lavoro in via Nigra a Firenze; poi aveva cenato con la
compagna Antonietta D'Onofrio, con suo figlio Roberto e con la di
lei figlia, Michela. Dopo cena era stato a prendere un gelato con la
compagna e la piccola Michela, era rientrato a casa verso le 22.00 e
ivi vi era rimasto fino alle 3 del mattino quando era uscito per una
mezz'oretta di corsa con il proprio cane.
La D'Onofrio dapprima confermò questa versione, poi messa alle
strette confessò di non avere memoria di quella notte e di aver solo
dichiarato quello che Salvatore le aveva chiesto di dire.
L'arresto e l'accusa di uxoricidio
Anche sulla base del rapporto Torrisi, ormai certi che Salvatore
Vinci fosse il MdF e dopo averlo ufficialmente indagato per gli 8
duplici omicidi, l'11 giugno del 1986 l'uomo venne arrestato per
l'omicidio volontario premeditato nei confronti della sua prima
moglie, Barbarina Steri, nel 1960. Da sottolineare come l'arresto
avvenne proprio in prossimità dell'estate, la stagione di caccia del
mostro, in una Firenze terrorizzata dai possibili eventi.
Quell'anno – così come i successivi – il MdF non avrebbe colpito.
Mentre Salvatore e i suoi avvocati dovevano difendersi
dall'infamante accusa che era stata mossa, gli uffici del Giudice
Istruttore, Mario Rotella, lavoravano furiosamente per trovare le
prove della sua partecipazione ai delitti delle coppiette e dunque
confezionare sulle spalle del Vinci un'accusa ben più grave, quella
di essere il Mostro di Firenze.
Dal carcere, secondo fonti non meglio verificate, Salvatore, pur
dichiarandosi comunque innocente, era solito ripetere: "Il mostro è
grande, non lo prenderanno mai."
Il 12 aprile del 1988, dopo due anni di carcere, cominciò il processo
a carico di Salvatore Vinci per uxoricidio. In quell'occasione, il suo
avvocato Aldo Marongiu dichiarò: "Se vogliono processarlo per i
delitti del Mostro, devono farlo direttamente, non prendendo questo
episodio come scusa."
Durante il dibattimento ebbe modo di testimoniare il figlio Antonio,
all'epoca anch'egli detenuto per tutt'altri reati. In quell'occasione
Salvatore affermò pubblicamente che Antonio era suo figlio e non
figlio dell'amante di Barbarina Stresi come da alcune parti si
vociferava.
Contrariamente alle attese, il 19 aprile 1988 Salvatore Vinci fu
assolto per non aver commesso il fatto. Era di fatto una sconfitta
anche per il Giudice Istruttore Rotella, nei cui uffici si stavano
ancora cercando le prove per accusare formalmente Salvatore per i
delitti del Mostro.
A proposito del processo e della inaspettata assoluzione, in tempi
recenti è stata intervistata l'avvocata Rita Dedola, all'epoca
giovanissima praticante nello studio dell'avvocato Aldo Marongiu,
difensore di Salvatore Vinci. La dottoressa Dedola ha dichiarato che
il Vinci era un uomo che metteva inquietudine, dallo sguardo
profondo, magnetico e indagatore. Un uomo intelligente, che si era
fatto una buona cultura leggendo molto, attento a misurare le
parole, molto guardingo. Un uomo infine, secondo il suo parere,
che sicuramente era a conoscenza di qualcosa d'importante sugli
omicidi del Mostro di Firenze.
A conferma, nella stessa intervista, l'avvocato Renato Figari,
all'epoca praticante nello studio legale del padre, avvocato Vittorio
Figari, difensore della famiglia Steri, si è detto convinto che
Salvatore Vinci non solo avesse ucciso la prima moglie, Barbarina
Steri, ma fosse anche responsabile degli omicidi attribuiti al Mostro
di Firenze.

La presunta fuga
Il giornalista Alessandro Cecioni, da sempre convinto che
Salvatore Vinci fosse il MdF, andò a cercarlo fin in Sardegna subito
dopo l'assoluzione. Lo trovò a un matrimonio. Il Vinci all'inizio si
mostrò cordiale e disponibile (del resto Cecioni già lo aveva
intervistato in passato), poi quando le domande si fecero via via più
inquisitorie, cambiò atteggiamento; finché alla domanda "quando
confesserai di essere il mostro?", ebbe una vera e propria esplosione di
rabbia. Cecioni tuttora afferma che se fossero stati soli, lui
difficilmente avrebbe lasciato vivo quel matrimonio. Quella fu
l'ultima volta che Salvatore Vinci fu visto in pubblico e intervistato
sull'argomento. Dal novembre del 1988, almeno a livello mediatico,
se ne persero le tracce.
Un anno dopo, il 13 dicembre 1989, il giudice istruttore Mario
Rotella chiuse definitivamente l'indagine sul Mostro di Firenze
relativa alla cosiddetta Pista Sarda con una sentenza di 162 pagine
nella quale assolse rispettivamente Francesco Vinci, Giovanni
Mele, Pietro Mucciarini, Marcello Chiaramonti, Salvatore Vinci e
anche l'ex indagato e guardone Vincenzo Spalletti. Tale sentenza
indispettì i vertici dell'Arma dei Carabinieri da sempre legatissimi
alla pista investigativa sarda (e in particolar modo a quella che
conduceva a Salvatore Vinci). Fu da quel momento che i carabinieri
smisero di occuparsi del caso del Mostro di Firenze.
A onor del vero va detto che Rotella, pur essendo convinto della
colpevolezza del Vinci, intese agire in tal maniera perché, non
avendo trovato alcuna prova a carico di Salvatore, sarebbe stato
controproducente portarlo a Processo e vederlo assolto. In tal caso,
infatti, il Vinci non sarebbe stato più imputabile per i delitti del
Mostro, neanche se in futuro fossero emerse nuove prove.
Un proscioglimento in fase di istruttoria, invece, avrebbe permesso
una riapertura delle indagini e una nuova imputazione a carico di
Salvatore Vinci, in caso di eventuali sviluppi futuri di carattere
probante. Prove che, ovviamente, non sono mai emerse. Anzi, a
dirla tutta, di Salvatore Vinci non si è mai saputo più nulla. Anche i
suoi figli hanno più volte dichiarato di non sapere che fine possa
avere fatto.
Alcuni anni dopo, nella trasmissione Chi l'ha visto, il detective
privato Davide Cannella dichiarò che Salvatore Vinci era ancora
vivo, si era trasferito in Spagna e telefonava regolarmente ai suoi
parenti in Sardegna.
Nel 2017 anche il documentarista Paolo Cochi ha espresso in
un'intervista su youtube la certezza che Salvatore fosse ancora vivo,
non specificando tuttavia la fonte di questa informazione. Nel
maggio del 2020, un interlocutore telefonico della trasmissione "La
notte del Mistero" dell'emittente radiofonica "Florence
International Radio" ha dichiarato di aver incontrato Salvatore
Vinci nel settembre 2020 e che lo stesso tuttora è ancora vivo. Per
maggiori dettagli, vedasi la sezione dedicata agli Aggiornamenti.
Oggi (primo scorcio 2022) comunque avrebbe circa 86 anni anni.

Particolarità su Salvatore Vinci


● Durante il processo ai CdM, venne chiamata a testimoniare la
signora Rosina Massa, moglie di Salvatore Vinci. La Massa escluse
categoricamente che suo marito potesse aver conosciuto Pietro
Pacciani. Inoltre affermò che sia lei che Salvatore ritenevano molto
probabile che Natalino fosse stato accompagnato dal luogo del
delitto del 1968 fino alla casa dei De Felice. Sempre a sentire la
signora Massa, Salvatore sosteneva che anche Stefano Mele era stato
sicuramente accompagnato da qualcuno sul luogo del delitto, anche
perché da solo e senza altri mezzi che una bicicletta, non sarebbe
stato in grado di raggiungerlo.
Da notare che in teoria Salvatore avrebbe avuto interesse a
sostenere il contrario per allontanare i sospetti dal giro dei sardi.

La teoria "Carlo"
Il giornalista Mario Spezi, fervente sostenitore della pista sarda,
elaborò un'ipotesi diversa che non vedeva in Salvatore Vinci il MdF.
A far nascere questa ipotesi era stata una conversazione avuta con
Francesco Vinci durante una cena. Complice forse qualche bicchiere
di troppo, pare che il Vinci gli avesse infatti confidato: "Il mostro è
uno che si sa muovere di notte, in campagna, e che ha sofferto tanto da
bambino". A sentire lo Spezi, il tono con cui Francesco disse queste
parole era estremamente affettuoso.
Tempo dopo lo Spezi riuscì a identificare il soggetto descritto da
Francesco Vinci nel cosiddetto "Carlo".
Carlo (lo pseudonimo si era reso necessario per questione legali) è
in realtà Antonio Vinci, figlio di Salvatore e della prima moglie
Barbarina, molto legato proprio allo zio Francesco.
Nato nel 1959, attualmente ancora vivo e di professione camionista,
stando a quanto sosteneva Spezi, nel 1974 avrebbe rubato la Beretta
calibro 22 dalla casa del padre e commesso il suo primo duplice
omicidio a Rabatta. A muovere la terribile furia omicida del
ragazzo, all'epoca appena quindicenne, era il dolore per la morte
della mamma nel 1960 e l'odio inestinguibile per il padre che
l'aveva uccisa.
Ma di "Carlo" e della varie ipotesti sardiste si parlerà meglio nel
capitolo successivo.

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6 commenti:

1.
gionni15 dicembre 2021 alle ore 13:59

Complimenti, ho scoperto il suo blog solo di recente, trovo i


suoi post delle ottime sintesi. Lei meriterebbe molta più
visibilità!
Rispondi
Risposte

1.
Luigi Sorrenti21 dicembre 2021 alle ore 00:04
Ciao, grazie, in realtà sono io a non cercare visibilità. Non
mi è mai capitato di pubblicizzare il mio blog o di
segnalarlo a qualcuno. Vorrei rimanere fuori dal
bailamme mostrologico odierno ed essere letto solo da chi
sa cercare.
Rispondi

2.
Phoenix8 febbraio 2022 alle ore 10:14

Ad integrazione.

*****1974******
"...Infatti, la propria moglie M. R., nella tarda primavera del
1974, stanca delle
continue sevizie a cui viene sottoposta, lo abbandona,
recandosi in Sardegna presso i suoi vecchi genitori i quali,
invece, la rimandano dal marito alla fine dello stesso anno".
[Rapporto Torrisi]

*****1981*******

Il Pretore di Firenze diede ragione a R. M., nonostante la


denuncia di SV per abbandono del tetto coniugale.

"Va rimarcato che costei, denunciata dal marito, nel 1981, per
abbandono del
tetto coniugale, è stata assolta, pur essendo pacifico il fatto —
era scappata con un giovane a Trieste —, per aver dimostrato
che egli la determinava, tra l'altro, a condotte riprovevoli."
[Sentenza Rotella]

La sentenza di assoluzione per la R.M. fu emessa il 2 Marzo


1981 [Fonte: "Al di la di ogni ragionevole dubbio", prima
ediz.], circa tre mesi prima del duplice delitto di Scandicci, il
primo della serie degli anni 80, dopo un periodo di cooling off
del mdf di 7 anni.

A correzione.

Non e' vero che fu SV a ricoverarsi volontariamente. Fu la


R.M. a convincerlo:
"... Lui e' malato di sesso. Io ho tentato di farlo curare
facendolo ricoverare per una quindicina di giorni a Careggi
nella clinica Psichiatrica o di quelle che si occupavano di
disturbi mentali. Mi sono spaventata io perche' manifestava
delle crisi di pianto poi non mangiava adeguatamente e
continuava lo stesso il ritmo solito delle prestazioni sessuali..."
[R.M., moglie di SV, verbale del 16-4-85, fonte: al di la ecc...].
Rispondi

3.
Luigi Sorrenti8 febbraio 2022 alle ore 21:49
Ciao, ti ringrazio molto per le integrazioni, le avevo omesse
per non appesantire ulteriormente il pezzo, ma posso sempre
aggiungerle.
Per quanto riguarda la correzione, invece, nelle strutture in
special modo psichiatriche, abbiamo i ricoveri volontari e
quelli senza consenso del paziente (Tso).
Nel caso specifico, anche se è stata Rosina (ma potrebbe essere
stato chiunque) a convincere il Vinci a ricoverarsi, si tratta
sempre di ricovero volontario.
Rispondi
4.
Phoenix9 febbraio 2022 alle ore 04:05

Hai ragione, ritiro la correzione. Grazie per le specifiche.


Rispondi

5.
alessio zazzi 20 aprile 2022 alle ore 09:14

ma salvatore vinci aveva dichiarato che il mostro secondo lui


era uno che aveva subito una grande delusione dalla vita,e che
nel 1968 ci fù un toscano che ruppe gli equilibri,nel film sul
mdf del 1986,si vede una persona che segue con una lambretta
la coppia locci lo bianco,prima parla con la locci e la esorta a
smettere con quella vita,ma lei lo tratta in malo modo,e il mdf
con la lambretta li segue e li uccide,in famiglia mia si parlava
di una lambretta appartenuta alla famiglia di mio padre,che
lui in quegli anni prese a sansepolcro dove la tenevano, e la
porto a prato poi siccome i parenti dicevano che non era sua e
gli dicevano di riportarla a sansepolcro,lui la riportò là anche
per non farsi più vedere in giro con quella lambretta che
qualcuno aveva notato,ma il casini fatto dalle testimonianze
false fatte da stefano mele contribuirono ad allontanare
eventuali indagini su mio padre o altri sospettati,poi il tempo
ha fatto il resto confondendo tutta la storia,tanto mio padre era
insospettabile ed io non ho che prove indiziarie deboli,ma
come figlio vi posso assicurare che lui era il mdf.
Rispondi
Ipotesti Sardiste

In questo capitolo sono esposte le principali teorie di quanti fra le


varie correnti mostrologiche vedono nella pista sarda l'unica
soluzione al grande enigma del Mostro di Firenze.
Prima, tuttavia, è opportuno fare una breve e schematica sintesi
dell'argomento.

● Dal 1974 al 1982 si consumano quattro duplici omicidi ai danni di


coppie appartate in automobile nella campagna fiorentina. Comune
denominatore degli omicidi, oltre la tipologia delle vittime e
l'ambientazione geografica, sono l'arma del delitto (una probabile
Beretta calibro 22 LR serie 70) e il munizionamento usato. Il
misterioso autore degli omicidi viene soprannominato da stampa e
opinione pubblica Mostro di Firenze.
● Circa un mese dopo il quarto delitto, gli inquirenti scoprono che
nel 1968 c'era stato un duplice omicidio molto simile, sempre a
danno di una coppia appartata in auto nella campagna fiorentina,
commesso dalla stessa pistola e con lo stesso munizionamento. Per
quel delitto era stato condannato in via definitiva il manovale sardo
Stefano Mele, marito della vittima femminile.
● Un semplice sillogismo porta le forze dell'ordine a buttarsi sulla
cosiddetta Pista Sarda: il delitto del 1968 è sicuramente maturato
nell'ambiente dei sardi; l'arma del delitto non può aver cambiato
mano per elementari regole di malavita; il MdF è sardo.
● Gli inquirenti cominciano dunque a cercare il MdF fra i sardi
coinvolti nel duplice omicidio di Signa. Nel 1982 arrestano
Francesco Vinci, ma un anno dopo il MdF colpisce a Giogoli.
Tengono in carcere il Vinci e arrestano Piero Mucciarini e Giovanni
Mele, ma nel 1984 il MdF colpisce a Vicchio. Scarcerano i tre di
sopra e si concentrano sull'ultimo rimasto, Salvatore Vinci; lo
mettono sotto stretta osservazione, lo pedinano, lo intercettano. Ma
nel 1985 il MdF colpisce a Scopeti. Nell'estate 1986 arrestano
Salvatore Vinci. Da quel momento il MdF non colpirà più, almeno
ufficialmente.
● Sembra tutto facile, tutto risolto, il MdF è sicuramente Salvatore
Vinci. E invece, no. Dopo anni di indagini, nel dicembre del 1989, il
Giudice Istruttore Mario Rotella assolve tutti i sardi coinvolti
nell'indagine del Mostro. La Procura di Firenze frattanto aveva già
da tempo intrapreso altre strade alla ricerca del famoso serial killer.

Sebbene la giustizia abbia dunque seguito piste diverse arrivando a


una propria verità, l'amletico e tuttora irrisolto dubbio che
attanaglia da sempre i mostrologi è capire se il delitto del 1968 porti
o meno la firma dei sardi e in caso affermativo, capire se la pistola
sia poi rimasta in quello stesso ambiente o abbia in un qualche
modo cambiato mano.
Soffermiamoci dunque un attimo sulle probabilità che il delitto del
1968 sia stato realmente commesso dai sardi.

Il delitto del 1968 è stato commesso dai sardi perché:


▪ ha tutti gli elementi di un delitto maturato in un ambito familiare:
la donna fedifraga, il marito tradito, l'amante geloso, i soldi
scomparsi;
▪ la Locci sembra essere stata ricomposta nell'abbigliamento dopo
l'omicidio, come a volerne coprire le nudità, il che farebbe pensare
appunto al marito come autore di questo gesto pudico;
▪ appare probabile che Stefano Mele sia stato sul luogo del delitto
perché riporta particolari che possono essere conosciuti solo da
qualcuno che aveva assistito all'omicidio o era arrivato subito dopo.
E se Stefano Mele è stato sul luogo del delitto è più probabile che il
delitto sia stato compiuto dai sardi che non il contrario;
▪ per quel poco che possono valere, le varie confessioni di Stefano
Mele sono un elemento che possono indurre a pensare che
difficilmente si possa uscire dal clan dei sardi per scoprire l'autore
del duplice delitto;

D'alro canto, il delitto del 1968 NON è stato commesso dai sardi
perché:
▪ Stefano Mele non è mai stato sul luogo del delitto: nessuno l'ha
visto uscire da casa, andare in piazza, incontrare i suoi complici,
aspettare la Locci e il Lo Bianco all'esterno del cinema Michelacci,
cose che lui invece dichiara di aver fatto; inoltre le sue confessioni
sono inattendibili, dimostra di non conoscere luoghi e dinamica;
▪ i sardi non avrebbero sicuramente scelto di uccidere la Locci e il
Lo Bianco proprio la sera in cui i due amanti si portarono dietro
Natalino con il rischio di complicare terribilmente il delitto;
▪ i delitti avvenuti successivamente con la stessa arma, la stessa
metodologia e presumibilmente la stessa mano, le cui motivazioni
appaiono di tipo maniacale e sicuramente non di tipo familiare,
dimostrano chiaramente che col primo delitto i sardi non vi
avevano a che fare.

Anche da questa breve schematizzazione, si può vedere come il


punto centrale per capire se i sardi fossero coinvolti o meno nel
delitto del 1968 non può prescindere dalla figura di Stefano Mele.
Bisogna cioè capire quante probabilità ci sono che l'uomo fosse sul
luogo del delitto del 1968.
Se riteniamo che le probabilità fossero alte, di conseguenza sono
alte le probabilità che il delitto Locci/Lo Bianco porti la firma di
qualcuno del clan dei sardi: di conseguenza o dobbiamo spiegare
un passaggio di mano di pistola e munizioni o dobbiamo
ammettere che il MdF fosse uno dei sardi.

La probabilità che Stefano Mele fosse sul luogo del delitto sembra
mediamente alta, assolutamente non certa, ma alcuni particolari
farebbero propendere per questa ipotesi. Del resto, come disse il
colonello Olinto Dell'Amico al processo Pacciani: "...la sensazione
che avemmo all'epoca è che lui sul luogo del delitto ci fosse stato."
Non è un caso se durante il Processo di primo grado a Pietro
Pacciani, la Procura di Firenze per bocca del PM Paolo Canessa,
prese a sostenere che il delitto del 1968 fosse sì stato commesso dal
contadino di Mercatale, ma Stefano Mele era arrivato
successivamente sul luogo del delitto. Ipotesi questa, poi
"sbeffeggiata" dal giudice del Processo d'Appello, Francesco Ferri, il
quale da sardista convinto, nel suo libro "Il Caso Pacciani",
riportava testualmente: "...sostiene l'Accusa che il Mele... sarebbe
arrivato a cose fatte ed in realtà l'omicidio sarebbe stato commesso
immediatamente prima dal Pacciani. È questa l'unica maniera che si è
riusciti a escogitare per superare lo scoglio rappresentato dalla matrice
sarda del primo delitto."
Dunque, secondo il giudice Ferri, era così evidente la presenza del
Mele sul luogo del delitto che la Procura era stata costretta a
ricorrere a un ragionamento del tutto improbabile per dimostrare
come quel delitto fosse stato compiuto dal Pacciani.
Schematizzando, di seguito riportiamo nel dettaglio i fattori che
potrebbero indicare la presenza di Stefano Mele sul luogo del
delitto (per approfondimenti si può fare riferimento al capitolo
dedicato al delitto di Signa):
1. il particolare della freccia direzionale lasciata accesa
sull'automobile del Lo Bianco, correttamente riportato dal Mele;
2. il particolare della scarpa del Lo Bianco poggiata allo sportello
anteriore sinistro, correttamente riportato dal Mele;
3. il particolare del numero di colpi sparati durante l'azione
delittuosa, correttamente riportato dal Mele;
4. è difficile che Natalino sia arrivato a casa del De Felice da solo; e
se è stato accompagnato è più probabile sia stato il padre o
qualcuno dei sardi ad accompagnarlo. Collegato a questo punto, c'è
la profonda esitazione che un ormai adulto Natalino ebbe durante
la sua testimonianza al processo Pacciani, prima di
rispondere "NO" alla domanda dell'avvocato Santoni-
Franchetti: "Lei vide suo padre quella notte?". A sentirlo sembra
davvero un momento di grande indecisione del teste su quale
risposta dare;
5. la sensazione che il Natalino adulto menta. È impensabile che –
come sostiene lui – non abbia sentito gli spari che sono detonati a
pochi centimetri dalle sue orecchie in un ambiente chiuso come
l'automobile dentro la quale dormiva, nel silenzio della campagna
toscana, in piena notte. È improbabile si sia svegliato solo all'ultimo
sparo e non abbia visto nulla se non madre e amante della madre
morti;
6. la prova del guanto di paraffina leggermente positiva su Stefano
Mele, pur con tutti i dubbi del caso;
7. la frase detta dal Natalino al De Felice ("mio padre è a letto
malato"), che fa pensare che il bambino fosse stato appunto
indottrinato su quanto doveva dire; le stesse identiche parole
pronunciate anche da Stefano Mele ("ero a letto malato") fanno
pensare a un accordo fra i due;
8. il fatto che Mele alle sette della mattina successiva al delitto fosse
già vestito di tutto punto come in attesa di qualcosa e con le mani
sporche di grasso;
9. la sensazione riportata dal brigadiere Matassino che in
quell'occasione Stefano Mele sapesse già della sorte toccata a moglie
e figlio;

Certo, nessuno di questi punti è particolarmente decisivo per


propendere univocamente verso la presenza di Stefano Mele sul
luogo del delitto e quindi verso un delitto compiuto sicuramente
dal clan dei sardi.
I punti 1, 2 e 3, Stefano Mele potrebbe averli appresi dal figlio o
dagli inquirenti stessi durante gli interrogatori e averli ripetuti
meccanicamente.
In particolare, soffermiamoci sul punto 1, quello della freccia
drezionale accesa. Come ci ha fatto notare salacemente
l'avvocato Nino Filastò, quella notte Stefano Mele può essersi
accorto di avere azionato involontariamente la freccia
dell'automobile mentre sistemava il corpo della moglie, oppure può
non essersene accorto; qualora se ne fosse accorto, dovremmo
chiederci perché non l'abbia spenta, considerando che
rappresentava una luce intermittente nella notte e quindi un
richiamo per curiosi in un momento in cui invece aveva assoluto
bisogno che nessuno accorresse sul luogo del delitto; se invece non
si era accorto di aver azionato per sbaglio la freccia, come faceva poi
a ricordarsene e a parlarne in sede di interrogatorio? Ecco che,
secondo l'arguto avvocato, il particolare della freccia riportato dal
Mele diventa per nulla genuino.
Per quanto, invece, riguarda il punto 3, pare che Stefano Mele non
abbia detto il numero preciso dei colpi sparati, ma abbia dichiarato
di aver vuotato l'intero caricatore. Il caricatore è composto da 8
proiettili e tanti sono stati i colpi esplosi.
Il punto 4 è stato a lungo dibattuto, così come a lungo si è disquisito
sulla condizione dei calzini di Natalino. L'avvocato Bevacqua e il
colonnello Dell'Amico affermarono al Processo Pacciani che tutto
sommato erano puliti, anche se poi sono stati smentiti dai verbali
dell'epoca che parlavano di calzini sporchi, laceri, strappati.
Eppure, a dispetto dei calzini documentatamente sporchi e sdruciti,
le condizioni dei piedi di Natalino erano buone o comunque il
bimbo non ebbe bisogno di cure. Particolare, questo, in contrasto
col fatto che avrebbe percorso oltre due km di strada estremamente
accidentata al buio, a piedi e scalzo.
C'è da sottolineare, inoltre, che la signora Rosina Massa dichiarò al
processo Pacciani che secondo suo marito, Salvatore Vinci, il
bambino era stato accompagnato, anche se sicuramente lo stesso
Salvatore aveva tutto l'interesse a sostenere il contrario per
allontanare i sospetti dal gruppo dei sardi.
Infine, anche la conformazione dei luoghi, la distanza, l'oscurità,
molte cose lasciano pensare che il bimbo possa essere stato
accompagnato. Rimane tuttavia qualcosa di probabile, ma
assolutamente non certo.
Il punto 5 sembra un dato di fatto: Natalino mente su molte cose,
probabilmente mente anche quando tuttora dice di non ricordare
nulla, tuttavia il fatto che menta non ci dà ulteriori indizi su dove
andare a parare. Certo si potrebbe ipotizzare che menta per
proteggere il padre, comunque morto da tantissimi anni, di più
però non possiamo affermare.
I punti 6, 7, 8 e 9 potrebbero essere mere coincidenze, così come il
silenzio di Natalino quando è stato interrogato al Processo Pacciani.
Quest'ultimo punto rientra più nel campo delle sensazioni personali
che lasciano il tempo che trovano. Anche quella di Matassino è la
semplice sensazione di un inquirente.
Ricapitolando, anche da questi punti non emerge una certezza
univoca. Potremmo però dire che appare un po' più probabile che
Stefano Mele sia stato sul luogo del delitto del 1968 e se c'è stato è
parecchio probabile (non sicuro, volendo dare un minimo di credito
all'arzigogolata ipotesi della Procura di Firenze durante il Processo
Pacciani) che fosse coinvolto nel delitto. Di
conseguenza appare leggermente più probabile che il delitto del
1968 porti la firma sarda.

Ora, partendo in questo capitolo dal presupposto (forse fallace,


forse no) che il 1968 abbia effettivamente avuto matrice sarda (cosa
ovviamente non universalmente contemplata in mostrologia), lo
step successivo è chiedersi se la mano nei delitti successivi è la
stessa oppure no, il che equivale a chiedersi che fine abbia fatto la
pistola, se è rimasta nelle mani dei sardi oppure ha cambiato
proprietario.

Per rispondere a questa domanda cominciamo col chiederci quali


sono gli aspetti che questo delitto ha in comune con i successivi del
MdF:
▪ stessa tipologia di vittime, una coppia appartata in auto;
▪ stessa ambientazione geografica, la campagna fiorentina e come in
altre occasioni un fiume nella vicinanze;
▪ stessa arma del delitto, una Beretta calibro 22;
▪ stesso munizionamento proveniente dalla stessa partita, risalente
all'incirca al 1966;
▪ stessa tipologia di agguato, il killer comincia a sparare, cogliendo
di sorpresa la coppia mentre amoreggia;
▪ manomissione dei cadaveri: il cadavere della Locci è stato
sicuramente spostato dal killer, così come avverrà nei delitti
successivi;
▪ manomissione della borsa della vittima femminile: il killer fruga
fra gli effetti personali della Locci, così come avverrà in altri delitti
commessi dal MdF;
▪ come in altre tre occasioni, la vittima femminile aveva dichiarato
di essere stata importunata da qualcuno nei giorni precedenti
all'omicidio;

Vediamo ora quali sono gli aspetti che questo delitto NON ha in
comune con i successivi del MdF:
▪ il delitto non avviene nel weekend (l'unico a parte quello di
ottobre 1981);
▪ c'è una forte discrepanza temporale: 6 anni dal delitto successivo,
ben 13 dall'inizio degli omicidi a cadenza annuale (più o meno
lunghi periodi cosiddetti di cooling off possono però non essere
un'anomalia nella letteratura degli omicidi seriali);
▪ non c'è utilizzo di arma bianca (la presenza di Natalino però
potrebbe aver impedito l'overkilling);
▪ mentre negli altri delitti, il MdF non ha alcun riguardo verso la
vittima femminile, anzi spesso tende a lasciare il suo corpo ben
visibile a occhi esterni, se non addirittura in posizione sguaiata, nel
delitto del 1968 il killer copre le nudità della Locci, forse alzandole
le mutandine. Questa oltre ad essere un'importante differenza, fa
inevitabilmente pensare al marito o una persona a lei vicina;
▪ le vittime non sono una coppia di fidanzati, ma di amanti; almeno
inizialmente appare un delitto maturato in ambito familiare, per
vendetta, onore o gelosia e in questo senso si orientano anche le
indagini;
▪ c'è un colpevole: Stefano Mele, marito della vittima, che dopo aver
accusato diversi amanti della moglie, confessa l'omicidio e viene
condannato a 13 anni di carcere;
▪ il legame fra questo delitto e quelli attribuiti al mostro non è
avvenuto in maniera genuina per logica deduzione degli inquirenti,
ma è stato indotto nel 1982 da mano esterna. Come abbiamo visto
nel capitolo dedicato alla pista sarda, la lettera anonima che
informava gli inquirenti del collegamento difficilmente aveva il fine
di aiutare realmente le indagini; questo porterebbe a pensare che,
anche se i sardi sono stati gli autori del delitto del 1968, potrebbero
non avere nulla a che fare con i successivi.

Si lascia libera scelta al lettore su quali siano i fattori giudicati


preponderanti nella suddetta breve lista.
A questo punto, sempre nell'ipotesi che il delitto del 1968 porti
firma sarda, le possibilità che si possono avanzare circa il destino
dell'arma sono:

► 1. Dopo il delitto di Signa, la pistola è rimasta all'interno del clan.


Uno o più persone del clan, 6 anni dopo, ha/hanno cominciato a
commettere i delitti attribuiti al MdF. Prendendo per buona questa
ipotesi, Stefano Mele è stato sicuramente presente al delitto e
Natalino è stato accompagnato a casa del De Felice. Inoltre, Stefano
Mele, Giovanni Mele, Pietro Mucciarini e Francesco Vinci, almeno
individualmente, non possono essere il MdF. Rimangono come
soluzioni:
1a. delitti di clan;
2a. Salvatore Vinci;
3a. qualcuno dei sardi mai rientrato nelle indagini o solo sfiorato
dalle stesse.

► 2. Dopo il delitto di Signa, la pistola non è rimasta all'interno del


clan, ma è finita nelle mani di colui che 6 anni dopo sarebbe
diventato il MdF, dunque la pistola può essere stata:
2a. donata al MdF;
2b. rubata dal MdF;
2c. recuperata dal MdF che ha assistito al delitto e aveva visto in
quale luogo i sardi se ne erano disfatti;
L'ipotesi 2c, molto in voga all'inizio degli anni '80, risulta valida se
si pensa sia al Pacciani che da guardone potrebbe aver assistito al
delitto, sia al Lotti che anch'egli da guardone e pedinando la Locci
può aver assistito al delitto.
Da notare che, come vedremo meglio nel capitolo Il farmacista, la
signora Mariella Ciulli, moglie del dottor Francesco Calamandrei,
futuro imputato (poi assolto) come mandante dei delitti del mostro,
ha dichiarato verso la fine degli anni '80 che lei e il marito, tornando
da una festa nell'agosto del 1968, capitarono casualmente sul luogo
del delitto; il marito si fermò a curiosare e frugare tutt'attorno,
portando via qualcosa dall'automobile. Ipotesi suggestiva che
spiegherebbe in un modo un po' bislacco il famoso passaggio di
pistola. Si sa però per certo che tale ricostruzione era assolutamente
fantasiosa e che la moglie del Calamandrei, ossessionata dai delitti
del MdF, soffriva di disturbi psichici e tempo dopo venne internata
per i suoi gravi problemi di salute.

► 3. Il delitto del 1968 porta firma sarda, ma è stato commesso da


un sicario su commissione. Tale sicario, proprietario della pistola,
sei anni dopo è diventato il MdF. Questa ipotesi potrebbe spiegare
alcune allusioni fatte dagli stessi sardi che hanno sempre fatto
pensare a una loro conoscenza del MdF. Un esempio è la frase detta
da Salvatore Vinci quando era in carcere: "Il mostro è grande, non lo
prenderanno mai!"

► 4. La pistola con cui è stato commesso il delitto del 1968 dai sardi
non è la stessa con cui sono stati commessi i delitti del MdF. Questa
è ovviamente la teoria già vista nel capitolo dedicato alla pista
sarda del cosiddetto grande depistaggio.

Ora, come già più volte ribadito, tutti coloro che fra i mostrologi
credono più o meno fermamente nella Ipotesi 1 e su questa basano
le loro certezze e le loro elucubrazioni, sono i cosiddetti Sardisti.
Di seguito riportiamo tutte le teorie di estrazione sardista.

Ipotesi Salvatore Vinci


Si tratta in assoluto dell'ipotesi più gettonata. Ad oggi le teorie che
trovano maggior credito fra gli addetti ai lavori sono infatti quella
di Salvatore Vinci e quella del serial killer unico di tipologia "lust
murder" mai rientrato nelle indagini o forse solo sfiorato.

A sostegno dell'ipotesi Salvatore Vinci c'è l'intero rapporto Torrisi


e nello specifico:
▪ non c'è alcun bisogno di spiegare il passaggio di mano della
pistola dai sardi al MdF, in quanto il MdF è proprio uno del clan dei
sardi;
▪ la forte componente di perversione nella psicologia di Salvatore, il
fatto che fosse sessualmente iperattivo, perverso e violento;
▪ era un guardone e da guardone sapeva muoversi molto bene di
notte nelle campagne, sapeva come muoversi senza far rumore,
sapeva avvicinarsi alle macchine senza essere visto;
▪ è stato sempre libero durante tutti gli omicidi del MdF;
▪ in occasione dei delitti del 1982 e 1983, due testimoni distinti
riportano la presenza di un uomo (per i carabinieri somigliante
nell'aspetto e nell'abbigliamento a Salvatore Vinci) in prossimità dei
luoghi dei delitti in orari compatibili con gli stessi;
▪ subito dopo il suo arresto non si sono verificati più omicidi;
▪ ha fornito alibi piuttosto labili per le notti di tre omicidi;
▪ alcuni omicidi del MdF sono coincisi con date significative della
sua vita;
▪ alcune cosiddette morti collaterali potrebbero portare proprio a
Salvatore Vinci (si veda relativo capitolo, in particolare l'omicidio
della Meoni).

Contro l'ipotesi Salvatore Vinci ci sono alcuni dettagli e nello


specifico:
▪ durante l'ultimo omicidio del MdF (Scopeti, 1985), Salvatore era
rigidamente attenzionato dalle forze dell'ordine e nonostante ciò
avrebbe colpito egualmente;
▪ pur a lungo indagato, controllato, seguito, non è mai emersa
alcuna prova contro di lui;
▪ pur a lungo intercettato non si è mai tradito neanche
telefonicamente;
▪ a volte la mostrologia sardista ha calcato la mano su alcuni indizi
che non erano tali, tipo quello riguardante la Meoni, visto nel
capitolo precedente;
▪ erano talmente labili le prove a suo carico che dopo anni di
indagini il Giudice Istruttore Mario Rotella (fervente sardista) non
ha richiesto il rinvio a giudizio dell'indagato, ma ha prosciolto tutti
i sardi coinvolti nell'indagine in una celebre sentenza-ordinanza;
▪ se la sua perversione sessuale da un lato può essere un indizio a
carico, dall'altro la sua iperattività sessuale può essere vista come
un fattore discolpante, in quanto in quasi tutti i profili psicologici
redatti sul MdF (compreso quello De Fazio, vedasi
capitolo Accadimenti finali) si parla di soggetto "iposessuato",
probabilmente fortemente menomato nel rapporto con l'altro sesso.
Se infatti esiste personaggio più lontano dal profilo psicologico di
De Fazio, questi è proprio il Vinci Salvatore;
▪ ci si potrebbe chiedere perché, ammettendo che Salvatore Vinci sia
stato l'autore o fra gli autori del delitto del 1968, sei anni dopo
avrebbe dovuto commettere un delitto simile al precedente
utilizzando la stessa pistola e gli stessi proiettili. Ammettendo che
avesse avuto questo irrefrenabile impulso di iniziare una carriera
da assassino seriale, sarebbe stato logico utilizzare una diversa
arma, allontanando da sé qualsiasi connessione con il delitto
precedente. Infatti, se nel 1974 a qualcuno fra gli inquirenti fosse
venuto in mente sin da subito di fare una comparazione fra i due
delitti, i sardi sarebbero finiti immediatamente sul banco deli
imputati. Cosa, tra l'altro, avvenuta nel 1982, quando però forse era
ormai troppo tardi per tentare di fare chiarezza.
▪ infine, ritenere che Salvatore Vinci sia il MdF implica accettare che
la stessa persona abbia commesso un primo omicidio nel 1968
mosso da una motivazione maturata in un contesto familiare, di
tipo passionale e/o economico, mentre in seguito abbia commesso i
successivi omicidi mosso da una motivazione di tipo maniacale;
risulta statisticamente un po' improbabile pensare che la persona
che ha commesso il delitto del 1968 per vendetta, soldi o amore, sei
anni dopo si trasformi in un feroce serial killer, evidentemente
affetto da qualche grave patologia psichica che lo spinge però a
colpire la stessa tipologia di vittime, nello stesso identico contesto,
con quasi la stessa identica metodologia del primo delitto.

Sostenitori dell'ipotesi Salvatore Vinci sono:


▪ il giudice Francesco Ferri;
▪ buona parte dell'arma dei carabinieri che si è interessata al caso;
▪ il giornalista Alessandro Cecioni;
▪ una buona fetta di mostrologia passata e presente.
Ipotesi "Carlo"
Si tratta del cavallo di battaglia di Mario Spezi.
Secondo questa teoria, nel giugno del 1974 un personaggio
soprannominato "Carlo", al secolo Antonio Vinci, figlio di Salvatore,
avrebbe rubato dalla casa del padre la pistola con cui fu commesso
il delitto del 1968.
Spezi sosteneva (tra l'altro correttamente) che esiste una denuncia
di effrazione contro ignoti, firmata da Salvatore Vinci nella
primavera del 1974, in seguito a un furto subito in casa.
Secondo l'ipotesi "Carlo", una volta venuto in possesso della pistola
del padre, Antonio Vinci avrebbe cominciato la serie dei delitti nel
settembre del 1974 quando aveva 15 anni e mezzo, uccidendo i poco
più che maggiorenni Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, per poi
fuggire subito dopo in Sardegna, tornare in Toscana all'inizio degli
anni '80 e proseguire nel suo tragico percorso di sangue fino al 1985.

A sostegno dell'ipotesi "Carlo" c'è:


▪ la piena spiegazione dell'insolubile passaggio di mano della
pistola e dei proiettili dai sardi al MdF;
▪ la piena spiegazione della diversa motivazione dei delitti: quello
del '68 di natura passionale/economica commesso da Salvatore
Vinci e da Stefano Mele; i successivi di natura maniacale, commessi
da un ragazzo/uomo malato psichicamente, cresciuto in un
ambiente perverso, che aveva avuto un padre violento e una madre
morta quando lui aveva appena un anno, uccisa (almeno secondo
questa teoria) proprio da quello stesso padre che lui odiava
visceralmente. A questo proposito troverebbe pieno riscontro la
frase di Francesco Vinci, secondo cui: "...il MdF è sicuramente una
persona che da bambino ha sofferto molto".
Spezi inoltre faceva notare come il MdF separasse in ogni singolo
duplice omicidio l'uomo dalla donna, quasi a voler rompere quel
legame che univa le vittime; ricordava quindi come ad Antonio
fosse stata strappata con violenza la donna più cara, la mamma,
quando lui aveva solo un anno;
▪ nel 1974 dopo la denuncia da parte del padre, Antonio Vinci lasciò
la Toscana e trascorse diversi anni in Sardegna. Non è dato sapere
la data precisa del suo trasferimento, ma se fosse andato via
(fuggito?) dopo il 14 settembre la cosa potrebbe risultare sospetta.
Ritornò inoltre in Toscana proprio nei primissimi anni '80, in tempo
per la ripresa degli omicidi;
▪ l'età di Antonio, quindici anni, in occasione del primo omicidio:
molti criminologi ritengono infatti che i serial killer comincino a
manifestare la propria violenza o addirittura a uccidere proprio
durante l'adolescenza; inoltre questo spiegherebbe l'imperizia e
l'impaccio con le armi da fuoco dimostrata dal MdF in occasione del
delitto del 1974;
▪ sempre a proposito della giovane età di Antonio Vinci nel 1974,
troverebbe conferma l'ipotesi avanzata dal criminologo Enea
Oltremari, secondo cui l'autore del duplice omicidio del 1968 era
una persona esperta che si mosse con perizia e decisione, mentre
l'autore del duplice omicidio del 1974 era un killer alle prime armi,
oltretutto piuttosto impacciato nell'uso della pistola.
A questo proposito si noti che anche De Fazio parlò a proposito del
1974 di un assassino che non aveva piena consapevolezza del
potere d'arresto della propria arma;
▪ infine il particolare della borsetta della Pettini (Rabatta 1974), forse
scagliata da un mezzo in movimento verso destra oltre il ciglio della
strada: tale operazione si prestava male a essere eseguita da una
macchina in movimento (il finestrino destro è quello opposto al lato
di guida), ma tornerebbe comoda se a scagliare la borsa fosse stato
un uomo in fuga su un ciclomotore. Avendo 15 anni nel 1974,
Antonio Vinci aveva l'età per guidare un motorino, ma non
un'automobile.

Contro l'ipotesi "Carlo" c'è:


▪ l'età di Antonio Vinci in occasione del delitto del 1974; forse un po'
troppo giovane, nonostante quanto detto prima, per affrontare un
ipotetico corpo a corpo contro due ragazzi di 18 anni; inoltre
l'utilizzo piuttosto esperto dell'arma bianca potrebbe far
propendere per un assassino più adulto in occasione del primo
duplice omicidio;
▪ il fatto che nel 1985 abbia improvvisamente smesso di uccidere,
seppur ancora molto giovane, è un importante fattore contrario.
All'epoca Antonio aveva infatti 26 anni, un'età in cui i serial killer
solitamente sono ben lontani dallo smettere di uccidere. Forse ha
smesso di uccidere perché, come ritengono alcuni mostrologi, aveva
finito i proiettili? Ma nel caso parliamo allora di un assassino
perfettamente in grado di controllare i suoi istinti e le sue parafilie,
dunque in contrasto con quanto detto finora sulle motivazioni e le
pulsioni che, traendo spunto da un tragico passato, avevano spinto
Antonio Vinci a commettere quegli atroci delitti.

Sostenitori della pista "Carlo" sono:


▪ Mario Spezi;
▪ lo scrittore James Douglas PrestoN;
▪ In parte il detective privato Davide Cannella.

Ipotesi Davide Cannella


Secondo una vecchia teoria dell'investigatore privato Cannella che
ha conosciuto a fondo l'intera famiglia Vinci, il delitto del 1968 e i
successivi sono stati opera dei 3 Vinci (Salvatore, Francesco e il
giovane Antonio) che di volta in volta si sono passati di mano la
pistola, uccidendo e assolvendosi a vicenda.
Secondo tale teoria (che lo stesso Cannella ha messo da parte per
abbracciare quella di un duo formato da Francesco Vinci e Antonio
Vinci), il proprietario della pistola era Francesco che nel 1968
convinse il Mele a uccidere la Locci e il Lo Bianco (ricordiamo che
su Francesco Vinci la prova del guanto di paraffina aveva dato esito
negativo).
Dal 1974 in poi fu la coppia formata da Francesco e Salvatore a
colpire. Nel 1982 Antonio Vinci avrebbe provveduto a nascondere
l'automobile di Francesco nella campagna grossetana. Nel 1983 e
nel 1984 avrebbe colpito lo stesso Antonio Vinci per far uscire di
galera Francesco Vinci. Nel 1985 Francesco era in Francia, Salvatore
era tenuto sotto controllo dai carabinieri, quindi probabilmente
avrebbe ancora una volta colpito Antonio Vinci (anche se lo stesso
Cannella aveva dichiarato più volte di star cercando le prove per
dimostrare che Francesco proprio in occasione del delitto degli
Scopeti era tornato a Firenze).
Recentemente, nel suo libro "Winchester calibro 22, serie H", lo
stesso Cannella ha modificato in parte la sua teoria, escludendo
Salvatore Vinci dal lotto degli assassini. Il suo elaborato prevede ora
una complicità fra zio e nipote, Francesco e Antonio, con il primo
che ha colpito dal 1968 al 1982, il secondo ha colpito nel 1983 e nel
1984, infine in coppia (con Francesco rientrato in fretta e furia dalla
Francia) avrebbero ucciso i francesi nel 1985.
Non ci sono specifici "pro" su cui discutere per quanto riguarda
questa ipotesi, se non che sembra un'idea nata e sviluppata
appositamente ad arte per far quadrare tutto. Oltretutto la prima
ipotesi di Cannella, quella che vedeva un sodalizio omicida fra
Salvatore e Francesco, era obbiettivamente difficilmente digeribile,
considerando il ben noto astio fra i due fratelli Vinci.
Appunto per questo, per quanto riguarda i "contro", c'è da dire che i
rapporti che intercorrevano fra i 3 elementi della famiglia Vinci non
erano affatto buoni. Antonio odiava il padre Salvatore, mentre
aveva ottimi rapporti con Francesco. Analogamente pessimi erano i
rapporti fra Francesco e Salvatore. Immaginarli coalizzati a
compiere i delitti del MdF risulta quanto meno difficile.

Non ci sono altre teorie all'interno della Pista Sarda, considerando


che l'ipotesi più gettonata ad inizio anni '80, cioè quella che voleva
Francesco Vinci serial killer solitario, è da escludere per ovvi
motivi.
Dunque, se si pensa che il MdF sia uno di sardi non si fugge da una
di queste tre ipotesi:
▪ Salvatore VincI
▪ Antonio Vinci
▪ Salvatore e/o Antonio e/o Francesco in combutta, alternadosi
sulla scena del crimine.

Come elucubrazioni finali, sempre volendo rimanere fedeli a un


ipotetico delitto del 1968 commesso dai sardi, c'è da ribadire che
questo non implica necessariamente che il MdF fosse uno dei sardi.
In tal caso però va previsto e spiegato il passaggio di mano della
pistola.

Facendo uno schema finale, abbiamo questa situazione:

► Se 1968 = Sardi e 1974-1985 = Sardi → l'autore di tutti questi


delitti è necessariamente Salvatore Vinci o Antonio Vinci o una
banda che comprende due o tre fra Salvatore, Antonio e Francesco.

► Se 1968 = Sardi e 1974-1985 = "Altro Autore" → va spiegato il


passaggio di mano della pistola.
► Se 1968 = "Altro Autore" e 1974-1985 = "Altro Autore" → i sardi
non c'entrano nulla col 1968. Trattasi in questo caso di serial killer
unico dal 1968 al 1985 per tutti gli 8 duplici omicidi. Dunque
Stefano Mele non è mai stato sul luogo del delitto, Natalino è
presumibilmente andato solo e a piedi a casa dei De Felice, a meno
di non considerare che sia stato proprio il MdF ad accompagnarlo
(cosa abbastanza improbabile) oppure che il Mele sia capitato sul
luogo del delitto successivamente, pur senza c'entrare con
l'omicidio.

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12 commenti:
1.
Anonimo27 agosto 2021 alle ore 16:36

Complimenti davvero: non ho mai finora letto sull' argomento


nessun articolo o blog al contempo piu' chiaro, sintetico,
lucido, essenziale e completo. In qualità di neofita vorrei
proporre all'attenzione di chi interessato una ipotesi: uno dei
personaggi "istituzionali" che per primi si sono recati sulla
scena del crimine del 1968 raccoglie la pistola diventando in
futuro il MdF. Questa ipotesi spiegherebbe meglio molti
elementi critici e scarsamente probabili con cui devono fare i
conti le altre teorie. Quindi non un "mostro in divisa qualsiasi
ma un mostro in divisa all'interno di una cerchia molto
ristretta di personaggi. Qualcuno sa se é stata fatta qualche
indagine in questa direzione (valutazione per ogni
personaggio della possibilità o impossibilità assoluta
dell'ipotesi e partendo da qui raccogliere elementi "suggestivi"
relativi al comportamento o alla storia del personaggio per poi
eventualmente procedere alla ricerca di prove specifiche).
Capisco le difficoltà oggettive e la delicatezza di una ricerca di
questo tipo. Qualcuno e' a conoscenza se é stata fatta
un'indagine giudiziaria o anche una ricerca storica in questo
ambito molto preciso di personaggi non ipotetici ma reali ed
identificabili in modo certo? Ringrazio per l'attenzione e mi
scuso se per la conoscenza limitata dell' argomento ho scritto
qualche sciocchezza.
Alan Shekkaldor

Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti8 settembre 2021 alle ore 04:54
Ti ringrazio davvero per i complimenti. Il mio fine è solo
quello di far maggiore chiarezza possibile nel mare
magno della Mostrologia. La maggior parte del merito va
però ai veri studiosi del caso, ai vari Flanz Vinci, Omar
Quatar, Segnini e compagnia bella.
Rispondi

2.
Anonimo18 aprile 2022 alle ore 12:08

Trovo che il dubbio qui sopra riportato da Anonimo (il 27


agosto 2021 16:36) è esattamente un'idea che avevo avuto
anche io per trovare il bandolo di questa intricatissima
matassa dopo avere letto di tutto e di più sull'argomento (sia
in rete che sui libri e, quindi, dopo avere sentito tutte le
campane). Vi segnalo che su You Tube ci sono quattro parti
chiamate Mostro di Firenze - Cambio di Prospettiva che
sposano proprio questa tesi (del MdF "istituzionale") e, a parer
mio, devo ammettere che può andata essere esattamente cosi.
Andate a vedere e, magari, ditemi cosa ne pensate. Ecco uno
dei quattro (il terzo) link
https://www.youtube.com/watch?v=d42v0isVaEg e
soprattutto il quarto qui:
https://www.youtube.com/watch?v=AHO-jeRn1Vs
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti20 aprile 2022 alle ore 04:04
Ciao, ben noti a chi scrive queste pagine le interviste di
"Giovanni" sul canale di Flanz. Lo stesso "Giovanni" ebbe
poi modo di intervenire in una puntata de "Le notti del
mistero" su "Florence International Radio" in cui si
parlava di Salvatore Vinci.
Rispondi

3.
Anonimo21 aprile 2022 alle ore 13:49

In effetti, quanto affermato da "Giovanni" circa uno dei


personaggi "istituzionali" che per primi si sono recati sulla
scena del crimine del 1968 raccoglie la pistola diventando in
futuro il MdF è sicuramente un'ipotesi suggestiva e per certi
versi anche azzardata (figlia, però, anche del fatto che in tutti
questi anni ogni strada alternativa percorsa si è rivelata poi
essere un vicolo cieco), ma, andando quindi per esclusione,
paradossalmente questa ipotesi si incastonerebbe
perfettamente con tutto. Secondo me c'è da pensarci forte che
sia andata effettivamente come afferma "Giovanni".
Rispondi

4.
Anonimo8 maggio 2022 alle ore 03:33

in questo video, qui il link


https://www.youtube.com/watch?v=Ql_yJM0_AOQ
al primo commento di tale Sally LittleWilloW scrive:
"Complimenti, un compendio e un'analisi chiari, precisi, puliti,
inappuntabili. Sono assolutamente d'accordo, anch'io ho
sempre pensato che i delitti del '68 non fossero compiuti dal
mostro e che la lettera in cui provvidamente veniva richiamato
quel caso, fosse un depistaggio ad opera del mostro stesso.
Proprio in virtù di quella "vicinanza" di costui agli ambienti
giudiziari, con cui dimostra di avere familiarità (tanto che
indirizza gli inquirenti a Perugia) mi sono anche sempre
chiesta se i bossoli così opportunamente "ritrovati" all'interno
del fascicolo fossero veramente quelli originali (e che
avrebbero dovuto andare distrutti a sentenza passata in
giudicato, per la loro natura probatoria) o se fossero stati
opportunamente sostituiti per creare un collegamento tra il
duplice delitto del '68 e quelli successivi, del "vero" mostro.
Comunque, di nuovo complimenti, un video lungo, ma
talmente ben narrato da ascoltare in un soffio."
Mi domando, avete mai pensato che fosse stato un arguto
depistaggio ad opera del vero MdF in modo che, da allora, si
battè la cosiddetta pista sarda, distogliendo quindi forze ed
attenzioni, senza arrivare ad una soluzione e, soprattutto,
lasciando cosi al vero MdF campo libero di agire, cosa poi, ai
fatti, avvenuta?
Rispondi

Risposte
1.
Luigi Sorrenti6 giugno 2022 alle ore 06:38
Ciao, se leggi il capitolo "La Pista Sarda", fra le avrie
possibilità è contemplata anche quella che stai
sostenendo. ;-)
Rispondi

5.
Anonimo6 giugno 2022 alle ore 07:28

La pista sarda fu arata in lungo e in largg


Rispondi

6.
Anonimo6 giugno 2022 alle ore 07:35

Forse chi "avvisò" gli inquirenti che anche il delitto '68 era
opera della stessa arma era il mostro stesso e voleva solo
appropriarsi di un delitto che era stato erroneamente attribuito
ad altri (Stefano mele). Unica arma, unico serial killer per tutti
gli 8 duplici omicidi. Questa per me è lo scenario più realistico
perché è anche il più semplice. Trovo il passaggio di mano
della pistola una forzatura enorme che non sta in piedi mai. E
diffidare dai testimoni che ricordano a decenni di distanza.
Rispondi

7.
Anonimo13 luglio 2022 alle ore 23:30

"Giovanni" non è chi lascia intendere di essere, non fatevi


ingannare dalle vostre stesse impressioni.
Rispondi

8.
Anonimo9 agosto 2022 alle ore 00:05

Chi è Giovanni dunque?


Rispondi

9.
Anonimo16 gennaio 2023 alle ore 15:19

Ciao Luigi, rinnovo come già fatto da altri i complimenti per il


lavoro fatto in questo blog. E' veramente eccezionale.

Devo ancora finire di leggere il resto del materiale, ma


analizzando tutti i dati e i riscontri che riporti finora, mi
verrebbe da dire che il delitto del '68 ha con buona probabilità
matrice sarda, con anche una certa probabilità di presenza di
Stefano Mele sulla scena del crimine.

La sua non conoscenza dei luoghi, il fatto che non possedesse


un'auto e la sua incompetenza sull'uso della pistola fa pensare
che lui abbia solo accompagnato qualcun altro, che ha poi
sparato e commesso l'omicidio. A questo punto, lo stesso
avrebbe poi accompagnato Stefano Mele verso casa e Natalino
dal de Felice.

Non è però necessario ipotizzare che questo


accompagnatore/killer facesse parte direttamente del clan dei
sardi; potrebbe essere una persona terza, conosciuta dai
Mele/dai Vinci ma non strettamente imparentata con loro.
Come dici tu stesso nell'ipotesi 3, potrebbe benissimo essere
un sicario assoldato.

Ai miei occhi questa è l'ipotesi che richiede meno


complicazioni, spiega bene il delitto del '68 (che pare di
mandanti sardi), e spiega anche i successivi omicidi senza
richiedere un passaggio di pistola e munizioni (perché già in
mano al sicario, che poi diventerebbe il mostro).

Le teorie che riguardano la pistola trovata sul posto del primo


omicidio del '68 da qualcuno di "istituzionale" che poi è
diventato il mostro non spiegano come siano passati anche i
proiettili, che ricordiamo sono tutti della stessa partita. A me
pare inverosimile che siano stati lasciati sul posto sia pistola
che scatola di munizioni.

Che ne pensi?

Francesco S.

Rispondi
Scopeti

Data: Mostrologicamente incerta, oscillante fra la sera di Venerdì 6


settembre e la sera di Domenica 8 settembre 1985;
Luogo: Piazzola degli Scopeti, via degli Scopeti, San Casciano Val
di Pesa;
Vittime: Jean-Michel Kraveichvili, 24 anni; Nadine Mauriot, 36
anni;
Automobile: Volkswagen Golf bianca, targata 9952 SE 25; la coppia
fu uccisa in una tenda posizionata di fronte alla vettura;
Fase Lunare: La luna nuova era prevista per il 15 settembre, quindi
indipendentemente da quando sia stato commesso il duplice
delitto, siamo abbastanza distanti dal buio totale offerto dal
novilunio; parliamo dunque all'incirca di una mezza luna calante.

Prima del delitto


Come nel 1983, le vittime sono una coppia di stranieri in vacanza in
Toscana, probabilmente completamente ignare del pericolo che
correvano campeggiando nelle campagne attorno a Firenze. Si tratta
di due giovani francesci, fidanzati da meno di un anno. Lui, Jean-
Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne; lei, Nadine
Mauriot, trentaseienne, commerciante di scarpe, separata e con due
figlie piccole rimaste in Francia.
Non si conoscono bene i movimenti della coppia immediatamente
prima del delitto, non si sa neanche da quanto tempo stazionasse
nella piazzola degli Scopeti prima di essere uccisa. Anzi, questo è
proprio uno dei punti più dibattuti e incerti di tutta la storia.
La domanda chiave, a cui da anni l'intera mostrologia tenta di dare
una risposta, infatti è: "Quando è stato commesso il duplice
omicidio degli Scopeti?"
Una domanda fondamentale perché dalla risposta si potrebbe ad
esempio capire quanto c'è di vero nelle dichiarazioni del reo-
confesso Giancarlo Lotti.
Dagli scontrini rinvenuti fra gli effetti personali della coppia di
francesi e dalle ricostruzioni fatte da Salvatore Maugeri (psicologo
e amico d'infanzia del Kraveichvili) e dall'avvocato Vieri Adriani si
è dedotto che:
► Mercoledì 4 settembre, Jean-Michel e Nadine entrarono in Italia;
prima tappa Binasco dove sostarono a un bar.
► Giovedì 5 settembre, erano a Forte dei Marmi, infatti vennero
recuperati fra gli effetti personali della coppia 7 scontrini fiscali
della zona.
► Venerdì 6 settembre, passarono da Tirrenia e Pisa; la mattina
sostarono al bar "La Terrazza" di Tirrenia; a pranzo (fra le 12.00 e le
15.00) in una pizzeria di Pisa.
► Da questo punto in poi subentrano le prime incertezze, anche
perché da questo momento in poi non si trovano più scontrini fra
gli effetti personali della coppia; a ogni modo, venerdì sera o al
massimo sabato mattina i francesi arrivarono a San Casciano.
Ci sono alcuni testimoni che riferiscono di aver visto i francesi a San
Casciano la sera di venerdì 6 settembre. Seppur non certissime, le
testimonianze sono:
1. Passando da via degli Scopeti, il dottor Antonio Berti, giornalista
piuttosto noto, vide due ragazzi montare la tenda nella piazzola la
sera del venerdì;
2. Angelo Cantini vide i due francesi e la loro automobile alla festa
dell'unità di Cerbaia la sera del venerdì: la distanza tra Cerbaia e la
piazzola degli Scopeti è di circa 12 chilometri. Il predetto Cantini
era volontario alla festa e addetto alla preparazione della carne alla
brace.
Nel verbale, redatto dai carabinieri di San Casciano il 17/9 e
discusso durante il Processo ai CdM, emerge che i due ragazzi visti
dal Cantini erano sicuramente francesi, ma il testimone dichiara di
non poter essere del tutto sicuro che si trattasse degli stessi giovani
uccisi dal MdF. In realtà, ciò che rende non del tutto sicuro il
Cantini, paradossalmente avvalora la sua testimonianza. Infatti
l'uomo dichiarò che la ragazza vista alla festa aveva i capelli più
lunghi di quella vista in fotografia dopo l'omicidio. Vedremo come
effettivamente la Mauriot nel settembre del 1985 portava i capelli
più lunghi rispetto alla fototessera diffusa dai giornali.
Ciò che invece rende un po' più incerta questa testimonianza è il
fatto che nel verbale la data dell'incontro alla festa dell'Unità risulta
essere "venerdì 7 settembre 1985", quando invece venerdì era il 6
settembre. Si tratta certamente di un refuso del Cantini stesso o di
chi ha stilato il verbale, e da un punto di vista mnemonico è
statisticamente più attendibile il riferimento al "venerdì" che non al
"7 settembre". L'esperienza quotidiana ci dice infatti che potrebbe
essere più corretto il riferimento al giorno della settimana che non
al numero del mese. Non avendo tuttavia alcuna certezza i merito,
risulta doveroso menzionare questa incrongruenza.
► Indipendentemente se le testimonianze di cui sopra siano
attendibili o meno, il sabato mattina, i due francesi erano
sicuramente accampati nella piazzola degli Scopeti. Abbiamo infatti
due testimonianze significative, piuttosto circonstanziate,
indipendenti fra loro ma come vedremo dopo anche convergenti:
3. Edoardo Iacovacci, agente della DIGOS, ascoltato il 6 giugno del
1994 durante il Processo Pacciani, dichiara che la mattina di sabato
7 settembre alle 10.30 si fermò alla piazzola degli Scopeti per un
bisogno fisiologico e notò sia la Golf bianca che la tenda dei
francesi. Fece inversione di marcia con la sua vettura nei pressi
della tenda, quindi si sistemò all'imbocco della piazzola a leggere il
giornale;
4. Giuliano Pucci, noto guardone di zona, soprannominato "seghe
seghe", sostiene anche lui che la mattina del sabato 7 settembre la
tenda era già a Scopeti.
Ora, se la tenda il sabato mattina alle 10.30 risulta già montata,
possiamo ritenere possibile fosse lì già dalla sera prima e quindi che
le due testimonianze di Antonio Berti e Angelo Cantini siano
attendibili, oltre che molto plausibili.
In ogni caso per tutta la giornata di sabato non esiste alcun
testimone che riferisce di aver visto fisicamente i francesi.
► Domenica 8 settembre, tenda e macchina furono visti nella
radura degli Scopeti da numerosi "passanti". Vi sono però solo tre
testimoni che affermano di aver visto personalmente i ragazzi
francesi. Si tratta di:
5. Igino Borsi, genero del proprietario della pensione "Ponte Agli
Scopeti", che affermò di aver servito alla Mauriot un'acqua brillante
la domenica mattina (8/9/1985);
6. Paolo Bonciani, proprietario della pensione "Ponte Agli
Scopeti", che confermò il racconto del suocero, aggiungendo di
aver visto la Mauriot salire su una macchina con targa francese.
Bisogna tuttavia sottolineare come queste due testimonianze si
basino sulla somiglianza della presunta Nadine con la fototessera
diffusa da giornali e televisioni dopo l'omicidio, foto in cui la
ragazza aveva i capelli molto corti. Nel settembre 1985, Nadine
portava i capelli lunghi ed era piuttosto diversa dalla ragazza
ritratta nella fototessera e su cui poi sono avvenuti i riconoscimenti.
Come detto, questo particolare avvalora invece la testimonianza del
Cantini, secondo cui i francesi già il venerdì sera erano in zona San
Casciano.
È comunque sicuramente da notare la curiosa coincidenza di una
ragazza straniera che assomiglia alla foto pubblicata dai giornali
della Mauriot che per giunta sale su una macchina con targa
francese, addirittura una Golf secondo la testimonianza offerta da
Bonciani il 12 settembre 1985, anche se poi in sede processuale
(06/12/1994) l'uomo avrebbe parlato di una Renault 4.
7. La terza testimonianza è quella di Marcello Fantoni, anche lui
volontario alla festa dell'Unità di Cerbaia nel settembre del 1985 e
ascoltato per la prima volta al Processo contro i CdM in data 19
Dicembre 1997. Il Fantoni affermó di aver servito personalmente da
mangiare alla coppia francese la domenica sera. Alla domanda
dell'avvocato Filastò su quale giorno fosse, rispose infatti: "Mi
sembra la domenica. Però... dovessi insistere e appropriare su una data
come su altre... su un orario, come si fa? Mi sembra la domenica però..."
Per poi dichiarare: "...Li riconosco il giorno dopo sul giornale, sì,
appunto. Cioè, mi venne spontaneo di dire: 'porca miseria, questi l'ho
serviti ieri sera a tavola io!"
Questa testimonianza presenta un unico problema: i cadaveri
furono scoperti il lunedí, mentre i primi giornali che riportavano la
notizia uscirono il martedí.
Quindi sicuramente il Fantoni non aveva servito Nadine e Jean-
Michel il giorno prima di aver visto le loro foto sui giornali.
Possiamo dedurre dunque che quel "ieri sera" detto dal Fantoni,
fosse generico. Poteva riferirsi a due, tre o anche più giorni prima.

Ricapitolando, abbiamo questa situazione:


1. I ragazzi francesi arrivarono a Scopeti il venerdì sera (6/9) o il
sabato mattina (7/9). Abbiamo due testimoni che affermano di aver
visto la coppia proprio la sera del 6/9 (in un caso montavano la
tenda, nell'altro erano alla festa dell'Unità a Cerbaia).
2. Il sabato mattina (7/9) alle ore 10.30 la tenda e l'automobile Golf
erano sicuramente già alla piazzola; questo ci lascia propendere per
un arrivo la sera precedente, in accordo ma anche
indipendentemente dalle due testimonianze precedenti. L'intero
sabato però nessuno vide i francesi. Vennero visti solo tenda e
automobile.
3. La domenica mattina (8/9) i due ragazzi francesi forse vennero
visti far colazione in una pensione vicino alla piazzola dai due
gestori. Testimonianza questa che presenta alcune lacune ma anche
una curiosa coincidenza.
4. La domenica sera i due ragazzi francesi potrebbero aver cenato
alla festa dell'Unità di Cerbaia, come da testimonianza di Marcello
Fantoni. Anche questa testimonianza però potrebbe non essere
troppo attendibile.
5. La domenica sera, stando al rapporto Maurri e alla versione
ufficiale della Procura di Firenze, i due giovani francesi vennero
uccisi. Probabilmente prima di mezzanotte, ma non si sa bene
quando; secondo la testimonianza del reo-confesso Giancarlo
Lotti verso le 23.00.

In realtà attualmente ci sono forti dubbi su questa datazione


dell'omicidio. Studi neanche troppo recenti sulle larve deposte sul
cadavere di Nadine dalla mosca "carnaria" porterebbero infatti,
secondo buona parte della odierna mostrologia, ad anticipare la
data dell'omicidio alla notte fra sabato e domenica, se non
addirittura a quella fra venerdì e sabato.
Lasciando però un attimo da parte gli interessanti quanto dibattuti
studi fatti a posteriori da celebri entomologici sui cadaveri delle due
vittime francesi, quello che a spanne (e cioè al momento non
basandoci su alcun referto medico-legale) verrebbe da ipotizzare è:
▪ dando per buono che i francesi arrivarono alla piazzola il venerdì
sera...
▪ assodato che il sabato mattina la loro tenda era sicuramente agli
Scopeti ma nessuno vide i due ragazzi per l'intera giornata (dove
erano finiti? Impossibile fossero stati un intero giorno in tenda dove
oltretutto la temperatura era piuttosto elevata)...
▪ ipotizzando un possibile scambio di persona nel riconoscimento di
Nadine da parte dei gestori della pensione la domenica mattina e
dunque ipotizzando che anche la domenica nessuno vide la coppia
francese...
▪ considerando che la piazzola era tutto sommato un luogo poco
ospitale e non troppo adatto per il campeggio, circondata com'era
da rifiuti e utilizzata persino come discarica...
▪ appare piuttosto plausibile, almeno a livello intuitivo (dunque non
basandoci ancora su alcun dato oggettivo), che effettivamente il
duplice delitto possa essere avvenuto proprio il venerdì notte, cioè
dopo che la coppia fosse eventualmente rientrata dalla festa
dell'Unità.

Nota Bene: Come dicevamo, oggigiorno la maggior parte de


mostrologi (pur con qualche buona eccezione) son concordi nel
retrodatare la data del delitto degli Scopeti; quasi tutti danno per
certo che quantomeno la domenica mattina i francesi fossero già
morti e dunque che il reo-confesso Giancarlo Lotti abbia mentito
almeno sulla data del duplice omicidio. Questo punto sarà
affrontato nel dettaglio nel prossimo capitolo, Mostrologia a
Scopeti.

Scena del crimine


Indipendentemente dal giorno del duplice omicidio, la coppia era
nella tenda nel momento in cui venne sorpresa dai colpi sparati dal
MdF.
La ricostruzione ufficiale (che ovviamente non trova tutti d'accordo)
ipotizza l'arrivo di soppiatto del mostro nella piazzola; questi
squarciò con un coltello il primo telo della parte posteriore della
tenda con un taglio di circa 40 centimetri, effettuato dall'alto verso il
basso. Per un qualche motivo il Mostro non aprì il secondo telo che
venne ritrovato intatto. Si portò quindi verso la parte anteriore della
tenda e cominciò a sparare. Nadine morì quasi subito, Jean-Michel
rimase ferito agli arti superiori ma riuscì comunque a uscire dalla
tenda, verosimilmente sbilanciando il MdF che ne ostruiva
l'ingresso. Completamente nudo e scalzo (anche se alcuni
mostrologi ritengono potesse indossare un paio di pantaloni,
vedremo dopo perché), il ragazzo provò a fuggire. Nella sua fuga
compì un percorso non lineare, un po' come se qualcuno gli avesse
ostruito la strada e dunque nel caso gli autori dell'omicidio
sarebbero stati più di uno. Il killer, rimasto nei pressi della tenda,
fece ripetutamente fuoco verso di lui, lo mancò, finì i colpi, quindi
lo inseguì o più probabilmente gli tagliò la strada raggiungendolo
in una zona boscosa della piazzola. Qui lo finì con l'arma bianca. Il
MdF spinse il cadavere di Jean-Michel verso un anfratto e lo
nascose sotto alcuni coperchi di bidoni di vernice, quindi si diresse
verso la tenda dove esportò pube e seno sinistro dal cadavere di
Nadine. L'escissione dovrebbe essere avvenuta all'esterno della
tenda, a circa un metro di distanza, dove venne trovata una vasta
gora di sangue. A supporto di questa ipotesi vi sono tracce di
terriccio, fili d'erba e aghi di pino fra i capelli e sul cadavere della
povera Nadine. Il dottor Francesco De Fazio, intervenuto per la
prima volta direttamente sulla scena del crimine, ritenne invece che
l'escissione fosse avvenuta dentro la tenda e quella gora potesse
essere stata il luogo dove il killer aveva poggiato per qualche tempo
i feticci escissi e grondanti di sangue. Comunque sia andata,
premura del MdF fu poi chiudere la donna dentro la tenda.
La mano delle escissioni sembra la stessa di Vicchio.
Dopo il delitto
I cadaveri vennero scoperti lunedì 9 settembre verso le ore 15:30 da
un cercatore di funghi di nome Luca Santucci. I corpi erano in
medio stato di decomposizione. Sul cadavere della Mauriot furono
rinvenute larve di mosca "carnaria"; secondo gli entomologi queste
si manifestano a un primo stadio dopo 18 ore dalla morte e non
vengono deposte di notte.
Il dottor Maurri, tuttavia, reputò che la formazione di larve fosse
stata accelerata dalle particolari condizioni ambientali in cui si
trovava il cadavere della Mauriot e cioè all'interno di una tenda
chiusa. Maurri reputò di far risalire la morte alla notte fra domenica
e lunedì, prima della mezzanotte, quindi in un lasso di tempo che
andava dalle 15 alle 18 ore precedenti alla scoperta dei cadaveri.
Non c'era tuttavia uniformità di giudizio all'interno del team dei
medici. Come emerse durante il Processo ai CdM, alla fine prevalse
la teoria Maurri, in quanto più anziano ed esperto del team.
I periti di Modena (l'equipe De Fazio), intervenuti rapidamente
sulla scena del crimine secondo un piano d'azione predisposto già
da tempo dalla Procura di Firenze, propesero invece sin da subito
per una morte avvenuta più probabilmente la notte fra il sabato e la
domenica, quindi circa 40 ore prima della scoperta dei corpi.
Sappiamo già che alcuni studi entomologici oggigiorno tendono a
dare ragione alla datazione proposta da De Fazio. Ma non mancano
accese discussioni sull'argomento.
Una domanda che spesso infatti i mostrologi si pongono è com'è
possibile che un medico legale esperto come Maurri possa essersi
sbagliato così grossolanamente?
Durante il Processo ai CdM, Maurri ribadì la sua datazione e
sostenne la teoria secondo cui l'effetto serra nella tenda chiusa
avesse anticipato i processi putrefattivi sul cadavere della donna e
dunque la povera Nadine sembrava morta da più tempo di quanto
in realtà fosse. Inoltre Maurri portò a sostegno della propria ipotesi
sia la non completa risoluzione del rigor mortis sul corpo di Jean-
Michel in data mercoledì 11 settembre, sia la completa assenza di
morsi significativi da parte di fauna locale (insetti, topi, scoiattoli)
sul cadavere del ragazzo francese, ritenendo dunque improbabile
che tale corpo fosse rimasto più di una notte all'aperto.
È anche ipotizzabile che nel dubbio sulla data da attribuire al
duplice omicidio, Maurri si fosse fatto condizionare dalle
testimonianze di chi sosteneva di aver visto la Mauriot viva la
domenica mattina (testimonianze rese proprio il 12 settembre, negli
stessi giorni in cui si completava l'autopsia sui cadaveri). Forse, ma
non vi è certezza in merito, senza quelle testimonianze Maurri si
sarebbe orientato anche lui verso una retrodatazione del delitto.
Torneremo più dettagliatamente in seguito su questo punto.
Frattanto, subito dopo la scoperta dei cadaveri, furono controllati i
movimenti di tutte le persone che nel corso degli anni erano
rientrate nelle indagini, a partire da Salvatore Vinci (il maggior
indiziato in quel momento), passando per il figlio Antonio, il Mele
Giovanni, il Mucciarini, il Calamosca, lo Spalletti, il Fabbri, il dottor
B. Tutti fornirono alibi, più o meno verificabili, di tipo familiare.
Non emerse comunque nulla di paticolare da segnalare su alcuno di
questi personaggi.

La lettera a Silvia Della Monica:


Il giorno successivo alla scoperta dei cadaveri, martedì 10
settembre, arrivò presso gli uffici della Procura di Firenze una busta
sigillata destinata al Sostituto Procuratore Silvia Della Monica, il
magistrato che si era occupato dei delitti dal giugno del 1981 alla
fine del 1983 e che aveva lasciato il caso agli inizi del 1984.
La busta era stata chiusa con una colla di tipologia e marca UHU.
L'indirizzo era composto da lettere ritagliate da settimanali
popolari, attaccate con una colla diversa, a base di destrina. La
stessa colla era stata usata per l'affrancatura della busta. Non erano
state rinvenute tracce biologiche dell'autore della misiva, né
impronte digitali.
L'indirizzo conteneva un errore nella parola "Repubblica", scritta
con una sola B.
All'interno del plico c'era un lembo di seno che le analisi hanno
accertato essere con altissima proabilità quello di Nadine Mauriot.
Il lembo era avvolto in un fazzoletto di carta e inserito in una
bustina di cellophane. Il plico era stato imbucato in una cassetta
postale di San Piero a Sieve dopo la raccolta del sabato mattina a
mezzogiorno e prima della raccolta di mezzogiorno del lunedì 9
settembre, dunque quando ancora i cadaveri non erano stati
scoperti.
L'invio di questa missiva rappresenta tuttora l'unico contatto certo
mai avvenuto fra Mostro di Firenze e inquirenti che si occupavano
del caso.
Una domanda che ci si potrebbe porre è perché proprio una cassetta
postale a San Piero a Sieve, distante una cinquantina di chilometri
dalla piazzola degli Scopeti, dove era stato commesso il delitto?
Perché correre il rischio di fare tutta quella strada in macchina con
quel reperto compromettente? Le risposte potrebbero essere due:
1. Il MdF era della zona del Mugello (come del resto ipotizzato da
molti) e quel plico l'aveva imbucato rientrando a casa la notte stessa
dell'omicidio (indipendentemente da quando questo fosse stato
commesso; comunque, la prima raccolta sarebbe avvenuta lunedì a
mezzogiorno). Un legame piuttosto forte fra il Mostro e il Mugello
sembra comunque assodato, considerando oltre alla questione
lettera, anche due omicidi (fra cui il primo di tipo maniacale)
avvenuti in zona.
2. Risposta decisamente più inquietante: come dichiarato dalla
stessa Della Monica, lei all'epoca aveva una casa estiva nel Mugello.
Quindi potrebbe essere stato un gesto di sfida da parte del mostro
all'unica donna che si era occupata del caso. Per la serie, "occhio, so
dove abiti".
C'è tuttavia da sottolineare che tale abitazione era a Scarperia (una
decina di km più a nord) e non a San Piero a Sieve, come talvolta si
sente dire in giro.
A questo proposito, ci si potrebbe appunto chiedere perché l'invio
della missiva proprio alla Della Monica? Le risposte in questo caso
potrebbero essere cinque:
▪ il MdF non sapeva che non si occupava più delle indagini e quindi
aveva inteso sfidare colei che pensava fosse ancora a capo dei cani
che gli davano la caccia;
▪ la Della Monica era l'unica donna fra gli inquirenti che si erano
mai occupati del caso e il MdF voleva interagire con una donna;
▪ la Della Monica aveva teso un agguato al MdF in occasione del
delitto di Baccaiano, facendo dichiarare alla stampa che il Mainardi
aveva parlato prima di morire; la lettera poteva dunque essere una
vendetta del killer;
▪ un insieme di qualcuno o di tutti i 3 punti di cui sopra;
▪ nessuno dei punti di cui sopra.
Analizzando il plico, si possono riscontrare le seguenti particolarità
che potrebbero indicare un livello socioculturale mediamente basso
dell'autore della missiva:
1. È scritto "DOTT." anziché "DOTT.SSA".
2. È scritto il cognome del destinatario prima del nome.
3. Come dicevamo è scritto "REPUBBLICA" con una B.
4. La parola "REPUBBLICA" inoltre non è contenuta in un'unica
riga, così l'autore utilizza il trattino per andare a capo. Si ha
insomma l'idea di poca dimestichezza con le parole.
Inoltre è possibile notare come:
5. L'indirizzo sulla busta sembra essere stato scritto in due momenti
diversi; la prima parte infatti è piuttosto lineare e ordinata, la
seconda (quella con il nome della città e il CAP) segue un
andamento decisamente più irregolare.
6. Il numero 1 del CAP di Firenze (50100) è realizzato con la lettera
"I" e non appunto con la cifra "1".
7. secondo i periti che hanno studiato la busta, le lettere che
compongono l'indirizzo sono state ritagliate da riviste di largo
consumo e scarso valore economico. Alcuni mostrologi avevano
suggerito in passato che potessero essere state ritagliate da giornali
pornografici (lo stesso avvocato Bevacqua ne aveva fatto cenno in
un'udienza del Processo Pacciani), ma non è mai esistito alcun
riscontro in merito e probabilmente tale diceria è nata da
un'accattivante suggestione. Da più parti si è vociferato che la
rivista in questione fosse invece "Cronaca Vera", molto in voga
negli anni '80, oppure la popolarissima "Gente".
In tempi molto recenti (aprile 2020), Paolo Cochi ha dichiarato di
essere riuscito a risalire, dopo minuziose ricerche e un lavoro
durato un paio di anni, alla rivista in questione. Dai suoi studi e da
quelli condotti in particolar modo dalla dottoressa Valeria
Vecchione, le lettere dovrebbero essere state ritagliate dal numero
51 della rivista "Gente", in edicola fra il 14 e il 20 Dicembre 1984. La
copertina di quel numero era dedicata alla neomamma Gloria
Guida.
La principale artefice della scoperta, Valeria Vecchione, ha
dichiarato in un recente video su youtube che la scoperta è stata
possibile grazie alla presenza di un blocco unico di lettere (dunque
non ritagliate singolarmente) nella parola "DELLA" del cognome
della magistrata. Il blocco unico ha permesso di avere un retro delle
lettere ritagliate più corposo e ben leggibile, che ha rappresentato
un buon punto di partenza nello studio delle riviste.
In tale video, la suddetta Vecchione si è soffermata sulle due già
citate particolarità: l'indirizzo verosimilmente scritto in due
momenti diversi e la cifra 1 del CAP sostituita dalla lettera "I".
Per quanto riguarda l'indirizzo scritto in due tempi diversi, secondo
l'opinione della Vecchione, forse l'autore della missiva aveva
originariamente intenzione di recapitare a mano la lettera in
Procura e solo successivamente potrebbe aver cambiato idea
decidendo di imbucare la missiva e quindi avrebbe deciso di
aggiungere in tutta fretta CAP e città di destinazione. Non stupisca
l'idea di consegnare la lettera in Procura a mano perché è quanto il
MdF potrebbe aver fatto meno di un mese dopo con due lettere
anonime inviate ai magistrati che si occupavano dell'inchiesta
(vedasi capitolo denominato Accadimenti finali).
Questa teoria andrebbe a supporto di quanti fra i mostrologi
ritengono che l'invio della busta non sarebbe stata un'idea
estemporanea del killer, ma già programmata in precedenza; in
altre parole, il MdF avrebbe preparato accuratamente la busta con i
ritagli di giornale con un certo anticipo rispetto all'omicidio (forse
senza neanche sapere chi sarebbero state le vittime successive), in
seguito per un qualsiasi motivo avrebbe cambiato idea decidendo
di avvalersi dei servizi postali, quindi in un periodo temporale
molto prossimo all'omicidio (subito prima o subito dopo) avrebbe
terminato di preparare la busta, aggiungendo le informazioni
mancanti: due momenti ma anche due fasi e due stati emotivi
completamente diversi.
Per quanto riguarda la lettera I al posto della cifra 1 (cifra che pure
era presente ripetute volte all'interno della rivista) - a quanto
suggerisce la Vecchione - potrebbe trattarsi di un retaggio culturale
che l'autore si sarebbe portato dietro; infatti in passato le macchine
da scrivere non avevano il tasto "1" che veniva comunemente
sostituito dall'utente con la "I" maiuscola. Una persona abituata per
lavoro, per formazione o per qualsiasi altro motivo a usare molto
spesso la macchina da scrivere, potrebbe essere stata condizionata
in un momento di particolare concitazione anche nella scelta dei
ritagli di giornale.
Successivamente, la stessa ricercatrice, avvicinatasi alla cosiddetta
teoria Zodiac, avrebbe cambiato idea, attribuendo l'utilizzo della
lettera I al posto del numero 1 a un retaggio culturale di tipo
anglosassone.

Particolarità a Scopeti
● I proiettili usati per questo delitto sono Winchester a piombo
nudo così come Mosciano, Calenzano, Baccaiano, Vicchio e in parte
Giogoli, ma diversi da Lastra a Signa, Rabatta e in parte Giogoli.
Anche questi proiettili hanno la lettera H impressa sul fondello del
bossolo e sono indubbiamente sparati dalla pistola del MdF.
● Per la prima volta nella storia dei delitti commessi dal MdF,
venne trovata sui bossoli una patina di una sostanza che all'analisi
risultò essere un misto fra gesso, silicone e ossido di zinco. Questo
ha portato molti mostrologi sia a ritenere che fra il delitto di Vicchio
dell'anno prima e quello degli Scopeti, il killer avesse cambiato
luogo dove custodiva i proiettili, sia a ipotizzare che l'autore di
questi omicidi (o eventualmente il custode dei proiettili) avesse a
che fare con ambulatori o ospedali ortopedici, in quanto gesso e
ossido di zinco - come è noto - servono proprio per la realizzazione
di gessi ortopedici.
In tempi recenti, il blogger ed esperto balistico Henry62 ha
ipotizzato invece che la suddetta patina potesse essere stata causata
da una contaminazione operata proprio dagli agenti della polizia
scientifica, i quali per poter eseguire le fotografie sui bossoli si
erano serviti di alcune piastrelle trovate in loco (è noto che la
piazzola degli Scopeti era utilizzata dagli abitanti della zona come
discarica), la cui colla avrebbe appunto contaminato i bossoli.
● Venne rinvenuta sul luogo del delitto un'impronta di scarpa
numero 44 che richiamava alla mente quella rinvenuta a Travalle di
Calenzano nell'ottobre del 1981. Solo in seguito si scoprì che
quell'orma apparteneva a un incauto membro delle forze
dell'ordine.
● Nell'edizione pomeridiana/serale del TGR Toscana del 9
settembre 1985, andata in onda poco dopo la scoperta dei cadaveri,
venne detto esplicitamente che il duplice omicidio risaliva a un paio
di giorni prima. Questo dimostra come la prima impressione che si
ebbe al ritrovamento dei cadaveri fu che i due ragazzi fossero morti
da parecchio.
● Per la prima volta il MdF non colpì una coppia in automobile, ma
una coppia in tenda. Inoltre, la Mauriot aveva 36 anni quando
venne uccisa, piuttosto distante dall'età media delle vittime
femminili del mostro. Infine, per la seconda volta, il MdF attaccò
una coppia di stranieri.
Bisogna anche considerare che nell'estate del 1985, dopo il terribile
delitto di Vicchio, la tensione e la preoccupazione per un nuovo
omicidio del mostro, erano alle stelle. La soglia di allerta era molto
elevata, almeno fra gli abitanti della zona di Firenze, soprattutto nei
weekend e soprattutto quel settembre. È dunque molto probabile
che le coppie appartate in automobile in orari notturni
scarseggiassero. Da qui potrebbe essere scaturita la necessità o la
scelta di colpire una coppia straniera, presumibilmente ignara del
pericolo e soprattutto che non era attesa per il rientro a casa;
dunque nessuno avrebbe potuto dare l'allarme prematuramente.
● Per la prima volta il MdF si preoccupò di nascondere i colpi delle
vittime (quello dell'uomo in un anfratto celato da coperchi di
vernice, quello della donna nella tenda). Tre potrebbero essere le
motivazioni di questo gesto:
1. Un atroce scherzo a danno degli inquirenti; un'ipotesi questa,
proposta più volte dal giornalista Mario Spezi, secondo cui il MdF
voleva inviare la sua particolare "missiva" e farla arrivare a
destinazione prima della scoperta dei cadaveri in modo da far
intendere che c'era stato un nuovo delitto e innescare una specie di
terribile caccia alle vittime anziché al Mostro.
Questa ipotesi, tuttavia, perde un po' di credibilità in caso di
duplice omicidio avvenuto non la domenica sera, ma il sabato o
addirittura il venerdì. Sappiamo infatti che la raccolta della posta
non sarebbe avvenuta prima del lunedì mattina e più si tende a
retrodatare il delitto, più le probabilità che i cadaveri venissero
scoperti prima dell'arrivo a destinazione della lettera sarebbero
aumentate. Un assassino che voleva farsi beffe delle forze
dell'ordine come proposto da Spezi, teoricamente avrebbe dovuto
commettere il duplice omicidio quanto più a ridosso della raccolta
della posta e dunque proprio la domenica sera.
2. Il MdF temeva di essere tenuto sotto controllo, voleva quindi che
i cadaveri venissero ritrovati più tardi possibile, per avere il tempo
di rientrare, sistemare tutte le sue faccende, crearsi eventualmente
un alibi. Da questo punto di vista, bisogna anche considerare che
Scopeti era un luogo molto più battuto (da coppie, guardoni,
cercatori di funghi, personaggi vari) rispetto ad esempio alla
Boschetta di Vicchio. Due cadaveri lasciati sul luogo del delitto,
senza nessun riparo, come era accaduto nei delitti precedenti,
sarebbero con ottime probabilità stati scoperti nel giro di poco
tempo.
Da notare che i personaggi tenuti sotto controllo in quel periodo
erano parecchi. Alcuni tuttavia (come il dottor B.) erano
attenzionati da tempo ed erano abituati a ricevere perquisizioni
subito dopo ogni delitto del MdF, dunque la loro eventuale
colpevolezza non spiegherebbe perché proprio a Scopeti avrebbero
dovuto tenere un comportamento diverso rispetto ai precedenti
duplici omicidi, quando erano comunque a conoscenza di essere nel
mirino degli inquirenti.
Altri personaggi invece erano stati attenzionati dopo il delitto
dell'anno prima a Vicchio e in questo caso avrebbe avuto più senso
assumere un comportamento differente rispetto agli omicidi
precedenti: si pensi, ad esempio, a Salvatore Vinci, il quale era
soggetto a pedinamenti e intercettazioni telefoniche, o - come
vedremo nel capitolo denominato La pistola del Mostro - al
personaggio attenzionato dal maggiore Sebastiano Anzà proprio
nel giugno del 1985, perquisito nella sua abitazione fiorentina e
dunque in quel periodo entrato per la prima volta nelle indagini.
Da notare, infine, che né Pacciani, né alcuno dei Compagni di
Merende erano all'epoca del delitto degli Scopeti ancora finiti nel
mirino degli inquirenti.
3. Pur non essendo il killer tenuto sotto controllo, gli eventi accaduti
nella piazzola avrebbero potuto richiamare altre persone, semplici
curiosi se non addirittura le forze dell'ordine. Di qui l'esigenza di
nascondere i cadaveri. Bisogna considerare, infatti, l'eventualità che
il giovane Jean-Michel abbia urlato nel tentativo di sfuggire al suo
aggressore.
Nel silenzio della campagna, esisteva una pur minima possibilità
che qualcuno potesse aver udito quelle grida e allertato le forze
dell'ordine. In piena epoca "Mostro" è probabile che queste si
sarebbero subito precipitate sul luogo del delitto. Il killer potrebbe
aver contemplato tale possibilità e dunque aver predisposto le cose
affinché i cadaveri non fossero immediatamente visibili per aver il
tempo comunque di allontanarsi dalla zona.
● Connesso al punto precedente, il suddetto Salvatore Vinci fu
sottoposto alla prova del guanto di paraffina dopo l'omicidio di
Scopeti. Prova che risultò leggermente positiva alla mano sinistra.
Ancora una volta, però, come già visto nei casi di Stefano Mele e
Carmelo Cutrona, per una persona che svolgeva lavori manuali
come il muratore, la prova non aveva un alto grado di attendibilità.
● In diversi ambienti mostrologici è piuttosto diffusa la voce
secondo cui nel pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 allo
stadio di Firenze (dove era in corso la partita Fiorentina-Sampdoria,
valida per la prima giornata del campionato di calcio di Serie A
1985-86) si era sparsa la notizia di un nuovo delitto commesso dal
Mostro. Addirittura c'è chi sostiene che tale notizia arrivò in tribuna
stampa e venne divulgata da un emittente radiofonica privata. Da
notare che il pomeriggio di domenica 8 settembre, non solo i
cadaveri non erano ancora stati scoperti (lo sarebbero stati il
pomeriggio del giorno successivo), ma addirittura secondo la
versione ufficiale il delitto non era ancora stato commesso (lo
sarebbe stato quella sera verso le ore 23.00).
È doveroso sottolineare che non esiste alcuna prova documentale
che tale notizia si fosse sparsa realmente fra le gradinate dello
stadio, né tantomeno che venne diffusa da una radio privata.
Tuttavia, vista l'insistenza con cui anche a distanza di molti anni,
questa voce persiste e spesso ricorre in molti dibattiti mostrologici,
è lecito contemplare l'evenienza che possa avere un fondo di
attendibilità. Un'ipotesi più volte avanzata (anche
indipendentemente da questo episodio) è che in realtà i cadaveri
delle due vittime francesi fossero stati scoperti prima del
rinvenimento ufficiale, forse da un guardone, forse da una coppia
non regolare o più in generale da qualcuno che non voleva essere
coinvolto nella vicenda e quindi si era ben guardato dal dare
l'allarme, ma che potrebbe non aver mantenuto lo stesso riserbo con
amici, parenti o compagni di voyeurismo, dando di fatto il via a un
sotterraneo propagarsi di voci e illazioni.
● Connesso al punto precedente, risulta un verbale di "sommarie
informazioni testimoniali" reso alle ore 20.00 del 14 settembre 1985
da un operaio (iniziali B.D.) presentatosi spontaneamente alla
caserma dei carabinieri di San Casciano. In tale verbale l'uomo
dichiarava di aver accompagnato sua madre all'ufficio postale di
Castel Fiorentino verso le 7.45 del mattino del 9 settembre 1985
(dunque il lunedì mattina, quando i cadaveri non erano ancora stati
scoperti, NdA) e lì di aver udito una donna di circa 60/65 anni,
anch'ella in attesa che aprisse l'ufficio postale, affermare - testuali
parole - "la mia nipote ascoltando la radio questa mattina ha sentito dire
che il mostro ha ammazzato un'altra coppia". L'uomo non sapeva
precisare il luogo dell'eventuale delitto, dichiarava di non conoscere
la donna che aveva fatto tali affermazioni e di non saper dare
riferimenti su come rintracciarla; ne forniva una sommaria
descrizione, infine asseriva che c'erano state altre persone che
avevano udito tale dichiarazione. L'uomo sosteneva infine che
quando quella stessa sera aveva appreso in TV del delitto appena
scoperto dal MdF, si era chiesto come la donna potesse esserne stata
a conoscenza sin dalla mattina.
A seguito di questo verbale, la stazione dei carabinieri di San
Casciano nella persona del maresciallo Lodato inviò un
fonogramma alla corrispettiva stazione di Castel Fiorentino,
chiedendo urgenti accertamenti sull'episodio riportato dal predetto
B.D.
Non esistono riscontri sugli sviluppi di tali accertamenti.
● Fra gli effetti personali dei francesi, all'interno della tenda, non
venne rinvenuta alcuna fonte luminosa, una torcia o altro oggetto
adatto allo scopo. Il che risulta piuttosto strano considerando che
erano due campeggiatori in viaggio dalla Francia e che, soprattutto
a Scopeti, sostavano in una zona estremamente buia e priva di fonti
luminose esterne. Tanto più che una torcia venne rinvenuta in una
borsa chiusa all'interno dell'automobile della coppia, dunque se
Nadine e Jean-Michel avessero avuto bisogno di una luce avrebbero
potuto attingere a quella. Se non l'hanno fatto è ragionevole
supporre che avessero già a disposizione nella tenda una fonte di
luce e che questa possa essere stata sottratta proprio dall'autore del
duplice omicidio o in misura minore da eventuali curiosi capitati in
zona successivamente al delitto (cosiddetti sciacalli).
● Sempre a proposito di effetti personali dei francesi, sul sedile
posteriore della Golf era posizionato un seggiolino per bambini
appartenente a uno dei due figli della Mauriot, rimasto in Francia.
Quando nel pomeriggio del 9 settembre arrivarono gli inquirenti
sul luogo del delitto, la prima cosa che fecero fu delimitare la
piazzola e - tramite l'utilizzo di unità cinofile - battere la zona alla
ricerca di un ulteriore cadavere, verosimilmente quello
dell'eventuale bambino. Inutile dire che alla mente degli inquirenti
balzò la similitudine con il primo delitto della serie, quello
a Signa in cui nell'automobile assieme alla Locci e al Lo Bianco,
c'era anche il piccolo Natalino Mele.
● Abbiamo accennato al fatto che, secondo alcuni mostrologi, per
esempio secondo il noto blogger Antonio Segnini, Jean-Michel
potrebbe non essere stato nudo durante la sua fuga dalla tenda, ma
potrebbe aver indossato un paio di pantaloni. Questo perchè, da
alcune foto divulgate dal ricercatore Paolo Cochi, tale indumento
venne rinvenuto nei pressi del corpo senza vita del giovane
francese.
I pantaloni erano di taglia 44 (compatibile con il fisico longilineo di
Jean-Michel), di velutto a coste sottili (meno compatibile con il
clima estivo, in ogni caso dalle foto non sembrano pantaloni
eccessivamente pesanti) e marca "Maman" (mamma in francese,
dunque pienamente compatibile con la provenienza del ragazzo). È
piú che ragionevole supporre che tale indumento appartenesse
proprio a Jean-Michel e non fosse finito sul luogo del delitto (che
ricordiamo era cosparso di spazzatura di vario genere) per altre vie.
Dunque, piuttosto che ipotizzare che fosse stato lo stesso assassino,
a omicidio concluso, a recuperare i pantaloni dalla tenda e a portarli
vicino al cadavere di Jean-Michel, secondo Segnini è banalmente
più logico che il ragazzo li avesse con sé durante la fuga, forse in
mano o più probabilmente indossati. Se li avesse avuti in mano,
bisogna pensare a un Jean-Michel completamente nudo nella tenda,
che si sveglia di soprassalto all'assalto del killer, viene ferito, afferra
per normale istinto i vicini pantaloni e - ovviamente senza infilarli -
si precpita all'esterno. Se invece li avesse avuti addosso, bisogna
pensare a un Jean-Michel che nella tenda indossava i pantaloni ma
non le mutande, dato che queste non sono state rinvenute nei pressi
del suo cadavere. Ancora, se li avesse avuti in mano è normale
averli trovati sul luogo dove poi il ragazzo francese sarebbe stato
ucciso. Se invece li avesse normalmente calzati, secondo Segnini
bisogna supporre che sia stato il killer a sfilarglieli, probabilmente
in maniera involontaria mentre lo afferrava per le estremità inferiori
per gettarlo nell'anfratto fra i rovi dove poi il cadavere sarebbe stato
rinvenuto.
Al solito, peró, la situazione è un po' piú complessa di come la
stiamo raccontando. Questo perché, dalla relazione del genetista
forense Ugo Ricci, incaricato dalla Procura di Firenze di analizzare
l’indumento, non risulta alcuna traccia biologica sui pantaloni,
escludendo la presenza di tracce epiteliali sulla tasca del pantalone
stesso.
Premesso che della traccia epiteliale parleremo dopo, l'assenza di
macchie biologiche indurrebbe a pensare che i pantaloni non
avessero alcuna macchia di sangue, cosa difficilmente credibile. È
davvero arduo immaginare che durante gli spari nella tenda e ancor
di più durante il massacro che il MdF ha compiuto con il coltello sul
corpo del povero Jean-Michel, questi pantaloni (in mano o
regolarmente indossati che fossero) non si siano minimamente
sporcati del sangue del ragazzo.
L’assenza di macchie biologiche può avere due spiegazioni:
▪ O, come sostiene Segnini, era così normale che i pantaloni fossero
impregnati del sangue e più in generale del DNA di Jean-Michel
che quando il genetista ha parlato nella propria relazione di assenza
di macchie biologiche, faceva riferimento a tracce che non fossero
appartenute a Jean-Michel e dunque tracce di soggetti diversi
rispetto al proprietario.
▪ Oppure - contrariamente a quanto ci dicono le foto - i pantaloni
non sono stati rinvenuti vicino al corpo del giovane francese, ma
normalmente nella tenda. E solo in un secondo momento - per non
si sa quale motivo - sono stati portati vicini al cadavere e
fotografati. Nel caso, il povero Jean-Michel sarebbe uscito dalla
tenda completamente nudo, come del resto si è sempre ipotizzato.
Negli atti della Procura, viene avvalorata proprio questa versione,
in quanto si può leggere: "Un profilo maschile, battezzato "Uomo
Sconosciuto 1", differente da quello della vittima Jean Michel Kraveichvili,
è stato isolato su una paio di pantaloni taglia 44 presenti nella tenda".
Mettiamo ora da parte il luogo del rinvenimento dei pantaloni e
soffermiamoci brevemente sul profilo maschile cui si fa riferimento
nel suddetto atto. Com'è facile intuire, si tratta proprio delle tracce
epiteliali sulla tasca cui accennavamo in precedenza.
A chi appartenga il profilo di "Uomo Sconosciuto 1" non è
ovviamente cosa nota. Quel che appare certo è che non si tratta di
profilo compatibile con i principali sospettati della vicenda,
eccezion fatta per i due compagni di merende, Vanni e Lotti, di cui -
a quanto si dice e stranamente - non si possiede un profilo genetico.
● Stando a quanto dice l'avvocato difensore Rosario Bevacqua al
Processo Pacciani durante la testimonianza del maresciallo Lodato,
subito dopo la scoperta dei cadaveri agli Scopeti, fu inviata una
pattuglia di carabinieri a casa di un medico di Montelupo
Fiorentino. Probabile, per non dire certo visto il riferimento a
Montelupo Fiorentino, che si tratti del famoso e misterioso dottor
B., rientrato nelle indagini dopo il delitto di Scandicci del giugno
del 1981 e dunque evidentemente ancora attenzionato nel 1985.
● Più volte è stato sostenuto che durante il delitto degli Scopeti, il
celebre gastroenterologo perugino Francesco Narducci si trovava
negli Stati Uniti. Questo particolare è stato smentito sia dal
magistrato Giuliano Mignini che ha dichiarato di aver controllato
personalmente il passaporto del medico, sia dalla stessa moglie del
Narducci. Sembra infatti essere certo che il dottore partì per
Rochester, negli USA, verso la fine del mese di settembre.
Sempre a proposito del Narducci, c'è anche da riportare la voce
secondo cui la targa della sua Citroen Pallas fosse stata registrata a
un casello autostradale nei pressi di Firenze la presunta notte
dell'omicidio dei francesi. Non vi sono fonti ufficiali su questo
episodio che viene spesso riportato senza però - ribadiamo - che
almeno apparentemente esista alcun documento che ne attesti la
veridicità. Per maggiori dettagli, si veda il capitolo dedicato al
gastroenterologo perugino.
● A proposito di personaggi indagati per i crimini del Mostro, c'è
da sottolineare come il delitto degli Scopeti rappresenti quello in cui
si sono verificate il maggior numero di segnalazioni che collocano i
futuri Compagni di Merende sulla scena del crimine. Probabilmente
a determinare questo fattore hanno influito la maggior prossimità
temporale di questo omicidio rispetto agli altri, ma soprattutto
l'estrema vicinanza con il luogo del delitto delle abitazioni o più in
generale dei luoghi frequentati dai Compagni di Merende.
Vedremo nei capitoli dedicati ai Processi come non sempre queste
segnalazioni si siano dimostrate attendibili.
Un esempio ci viene dato dalla già citata testimonianza dell'agente
della DIGOS, Edoardo Iacovacci, il quale - come abbiamo visto -
aveva dichiarato nell'udienza del 6 giugno 1994 del Processo
Pacciani di aver notato la mattina del sabato 7 settembre la tenda
dei ragazzi francesi già montata nella piazzola degli Scopeti. In tale
udienza lo Iacovacci aveva anche affermato di aver visto giungere
nella piazzola un uomo su un motorino di tipo Beta e che costui,
che aveva tutta l'aria di essere un guardone, aveva preso ad
aggirarsi nelle prossimità della tenda. Parecchi anni dopo, lo
Iacovacci riconobbe in una fotografia del Pacciani, l'uomo visto
quella mattina nella piazzola.
Sembra tuttavia molto probabile, confrontando i vari verbali resi
alla caserma dei carabinieri di San Casciano, che il personaggio
visto dallo Iacovacci non fosse il Pacciani, ma un tale Giuliano
Pucci, noto guardone di San Casciano, il cui profilo aveva una certa
somiglianza con quello del Pacciani.
Infatti nei giorni immediatamente successivi al delitto, il Pucci era
stato interrogato dai carabinieri di San Casciano e aveva lui stesso
dichiarato di essere giunto a bordo del suo ciclomotore Vespa agli
Scopeti la mattina del 7 settembre e ivi di aver notato la tenda, una
golf bianca (quella dei francesi) e una 126 bianca (l'automobile dello
Iacovacci) con dentro un uomo. La testimonianza del Pucci è
indipendente ma al contempo coincidente con quella dello
Iacovacci, dunque è estremamente probabile (per non dire certo)
che i due si fossero incontrati quella mattina nella piazzola e che, a
distanza di anni, lo Iacovacci avesse scambiato il Pucci per il
Pacciani, anche probabilmente suggestionato dalle indagini che
stavano conducendo i suoi colleghi sul contadino di Mercatale.
Resta la discrepanza sul tipo di ciclomotore su cui sarebbe arrivato
il guardone nella piazzola, ma anche qui è possibile che la
suggestione abbia giocato un certo ruolo nel confondere il ricordo
dello Iacovacci.
● A proposito del Pacciani, un aspetto forse sottovalutato, anche se
puramente suggestivo, riguarda la contemporanea presenza della
coppia francese e di Pietro Pacciani alla festa dell'Unità di Cerbaia a
non molte ore di distanza dall'omicidio stesso.
Sappiamo infatti che con buona proabilità i ragazzi francesi
cenarono in una o più sere della loro permanenza a San Casciano
alla festa dell'Unità di Cerbaia. Abbiamo un paio di testimonianze
(quella del Fantoni e quella del Cantini) che sembrano non lasciare
spazio a dubbi. Entrambe le testimonianze non ci danno certezze
sul giorno (Cantini dice il venerdì, Fantoni dice la domenica, ma
abbiamo visto come entrambe presentino alcune lacune), tuttavia
difficilmente si può mettere in dubbio che almeno uno di questi
giorni Nadine e Jean-Michel cenarono davvero a Cerbaia.
Sappiamo altresì con certezza che anche Pacciani trascorse almeno
una di quelle sere alla stessa festa dell'Unità. È lui stesso ad
affermarlo, parlando degli ottimi "polletti fritti" che ivi cucinavano e
fornendo questa sua partecipazione come alibi per la domenica
sera, giorno in cui ufficialmente venne commesso il duplice omcidio
degli Scopeti (vedasi capitolo Il contadino di Mercatale).
A scanso di equivoci, è bene ribadire come questo punto, pur
essendo piuttosto inquietante, sia puramente suggestivo, perché
non vi sono prove per affermare che i due francesi e Pacciani
cenarono la stessa sera alla festa di Cerbaia, né tantomeno che si
incrociarono realmente. A dirla tutta non si sa nemmeno con
certezza se i due giovani furono realmente uccisi dopo aver cenato
a Cerbaia, anche se i resti di cibo rinvenuti nel loro apparato
gastrico rendono - come vedremo - plausibile questa possibilità.
● Fra i numerosi avvistamenti nella piazzola degli Scopeti di
domenica 8 settembre 1985, ce n'è uno particolarmente inquietante:
venne infatti notato il motorino di Andrea Rea, colui che
esattamente quattro anni dopo diverrà noto come il Mostro di
Posillipo.
Rea, napoletano, classe 1956, aveva ucciso una donna già nel 1983 a
Ischia, senza però venire minimamente sfiorato dalle successive
indagini. Sempre nel 1983 aveva stuprato una turista finalndese e
dato i primi segnali di profonda instabilità mentale. Era stato
ricoverato forzatamente in una casa di cura dalla propria famiglia.
Proprio nel 1985 era stato ospite della comunità per giovani
bisognosi d'aiuto Emmaus a Firenze, trovandosi spesso a girare per
la campagna fiorentina e probabilmente finendo dalle parti di
Scopeti proprio il giorno precedente alla scoperta dei cadaveri dei
due francesi.
Rintrato nella sua città natale, nel 1987 era stato protagonista di un
altro stupro, infine nel 1989 aveva commesso il suo delitto più
atroce, uccidendo la trentottenne Silvana Antinozzi a morsi e
coltellate e provando a occultarne il cadavere in una valigia da
disperdere nel golfo di Napoli. Il suo piano era fallito miseramente
e Rea era stato definitivamente condannato.
Quando il Mostro di Posillipo salì agli onori della cronaca italiana,
venne ripescato dagli inquirenti fiorentini quello strano
avvistamento nei pressi degli Scopeti lo stesso giorno in cui secondo
la versione ufficiale erano stati uccisi i ragazzi francesi. Furono
dunque controllati tutti gli alibi di Rea sia in occasione di ogni
singolo delitto del MdF, sia in occasione dei famosi omicidi delle
prostitute fiorentine avvenuti fra il 1982 e il 1984 (vedasi capitolo Le
morti collaterali).
Le successive indagini non diedero comunque alcun esito. Per tutti i
delitti presi in considerazione, Rea aveva alibi di ferro, trovandosi
oltretutto piuttosto lontano dalle campagne fiorentine.
● A proposito di segnalazioni, piuttosto interessante risulta quella
rilasciata dal signor Giovanni U. al Reparto operativo dei
carabinieri di Firenze, il quale dichiarò di aver visto un uomo di 40-
45 anni, alto circa 180 cm, robusto, dai capelli castano rossicci
aggirarsi nei pressi della piazzola degli Scopeti poco dopo le 18 di
venerdi 6 settembre 1985.
Sulla base di questa testimonianza i carabinieri realizzarono
un photo-fit dell'individuo indicato.
Da notare come le caratteristiche fisiche del soggetto indicato
potrebbero essere simili a quelle descritte da diversi testimoni in
occasione del delitto di Vicchio (vedasi relativo capitolo) e che
potrebbero condurre al cosiddetto Rosso del Mugello, ultimamente
teorizzato da parecchi studiosi come autore dei duplici delitti.
● Sempre in tema di segnalazioni, interessanti risultano anche
quelle convergenti di due testimoni, che resero spontanea
testimonianza ai carabinieri di San Casciano e indicarono una stessa
automobile nei dintorni della piazzola degli Scopeti il presunto
giorno del delitto.
Nello specifico, il signor Salvatore Suppa dichiarò che domenica 8
settembre 1985 verso le ore 22:00, mentre percorreva via degli
Scopeti da San Casciano verso la Cassia, aveva notato
un'automobile Renault 4, colore beige, parcheggiata con i fari spenti
sul bordo della strada, un centinaio di metri dopo la piazzola del
delitto. All'interno c'era un uomo di circa 40 anni, con i capelli scuri
e folti, di corporatura normale. Sulla base dell'accurata descrizione
fornita dal testimone, venne realizzato anche in questo caso
un photo-fit. Il risultato fu un individuo con i baffi, i cui lineamenti
richiamavano vagamente una versione più magra del Lotti. È bene
precisare che Lotti non è mai stato possessore di una Renault 4
beige.
Ci sarebbe poi la testimonianza del signor Paolo Pecci, il quale
dichiarò che la mattina di domenica 8 settembre 1985, mentre
percorreva via degli Scopeti da San Casciano verso Tavernuzze,
aveva notato una Renault 4, colore beige chiaro, parcheggiata sul
bordo strada a circa 300/400 metri dalla piazzola del delitto. In
questo caso, però, non vi era nessuno all'interno dell'automobile. Al
rientro del Pecci da Tavernuzze, verso le ore 11:10, transitando
dallo stesso punto, l'automobile non c'era più.
Dando per scontato che le due segnalazioni indicavano con ottime
probabilità la stessa vettura, possiamo desumere che l'auto in
oggetto era parcheggiata nei dintorni della piazzola sia la mattina
della domenica, per un tempo piuttosto limitato, sia a sera inoltrata
verso le 22:00, stavolta con un uomo all'interno. Giova ricordare che
secondo la ricostruzione ufficiale (quella fornita dal reo-confesso
Giancarlo Lotti) il delitto sarebbe avvenuto da lì a circa un'ora.
● Abbiamo già visto a proposito del delitto di Giogoli come la
distanza fra la piazzola degli Scopeti e quella dell'omicidio del 1983
fosse estremamente ridotta, quantificabile in pochissimi chilometri
in linea d'area. La vicinanza fra questi due luoghi e il particolare
che in entrambi i casi siano state uccise due coppie straniere,
dunque coppie che non potevano essere state scelte con cura da
troppo tempo, porterebbe a pensare, almeno in questi due casi, a
delitti in cui il killer avrebbe incontrato casualmente le proprie
vittime e nel giro di pochissimo tempo avrebbe deciso di ucciderle.
La zona fra Giogoli e Scopeti, per un motivo o per un altro,
potrebbe dunque essere stata frequentata con una certa assiduità
dall'assassino.
● Alcune settimane dopo il delitto, un ragazzo di Prato, identificato
come W.D.B., si recò in visita presso la piazzola del delitto assieme
al suo cane di razza cocker. Il cane, sfuggito per alcuni secondi al
controllo del proprietario, ritrovò in un cespuglio non distante dal
punto in cui era stato rinvenuto il cadavere di Jean-Michel
Kraveichvili, un paio di guanti da chirurgo e un fazzolettino intriso
di sangue, contenente un frammento di capello castano.
I reperti vennero consegnati alla vicina caserma dei carabinieri, di
qui il 5 ottobre 1985 giunsero all'istituto di Medicina Legale di
Firenze. Il 7 novembre 1985 il dottor Riccardo Cagliesi
Cingolani stilò in merito una relazione di tredici pagine. In essa era
scritto che il materiale ematico era sangue umano di gruppo B,
mentre il frammento pilifero, lungo circa due centimetri, di colore
castano, liscio, provvisto di cuticola a scaglie sottili, era un capello
umano. Veniva comunque escluso potesse trattarsi di sangue delle
vittime in quanto Nadine era di gruppo A e Jean-Michel di gruppo
0.
In seguito, i reperti sono stati nuovamente analizzati a distanza di
moltissimi anni (luglio 2017), pervenendo grazie alle nuove
possibilità offerte dalla tecnologia, a un risultato diverso. Non c'è
molta chiarezza in merito e non vi sono documenti ufficiali a
riguardo, se non qualche articolo di giornale rintracciabile sul web,
comunque pare che il sangue rinvenuto nel fazzoletto possa
appartenere a entrambe le vittime e parte di esso sia riconducibile a
un uomo di origine est-europea. Da notare che il Kraveichvili aveva
origini georgiane.
● Il delitto degli Scopeti scatenò attorno al caso del MdF un
interesse mediatico senza precedenti. Oltre a quello che presto
sarebbe stato definito "turismo dell'orrore" e che vide, nei giorni e
nelle settimane successive al delitto, un'enorme quantità di gente
andare in visita sul luogo dell'eccidio, a livello di indagini venne
messa per la prima volta in Italia una taglia di 500 milioni di lire
sulla testa dell'assassino, da consegnare a chiunque avesse dato una
mano per la sua identificazione. A novembre la taglia venne ritirata
senza che nessuno fosse riuscito a intascarla.
● Questo è stato l'ultimo delitto (almeno di cui si abbia notizia)
commesso dal Mostro Di Firenze.

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2 commenti:
1.
Anonimo17 febbraio 2022 alle ore 00:03

Come mai non citare nemmeno la testimonianza di Joe


Bevilacqua resa al processo Pacciani?
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti17 febbraio 2022 alle ore 09:03
Ciao, di Joe Bevilacqua trovi scritto sia nel capitolo
dedicato al processo Pacciani, sia nel capitolo dedicato
alla Mostrologia minore, anche se forse è un po' riduttivo
confinare la pista "Zodiac" in tale contesto.
Non si è parlato in questo capitolo della sua deposizione,
in quanto non aggiungeva nulla alla storia degli Scopeti,
se non informazioni contraddittorie e in alcun casi errate.
Mostrologia a Scopeti

Dell'annosa quanto tragica vicenda del Mostro di Firenze parecchie


sono le domande rimaste insolute. Alcune di queste riguardano il
delitto degli Scopeti, forse quelle attorno a cui si sono accesi i più
feroci dibattiti e su cui la mostrologia moderna ha versato (spesso
sprecato) i maggiori fiumi d'inchiostro.
Le suddette domande sono:

1. In quanti erano a commettere il duplice omicidio degli Scopeti?


2. Quando è avvenuto realmente il duplice omicidio?
3. Perché Scopeti è stato l'ultimo delitto?

Premettiamo subito che dare una risposta certa a queste domande


non solo è pressoché impossibile, ma bisognerebbe diffidare di chi
propugna sull'argomento verità incontrovertibili.
Al solito e come già fatto per Baccaiano, procederemo illustrando le
varie teorie mostrologiche che nel corso degli anni sono state
proposte, proveremo ad analizzarle e di conseguenza a fare una
valutazione per lo più probabilistica, consapevoli comunque che in
questo caso, soprattutto per la seconda domanda, subentrano
deduzioni e conoscenze estremamente specifiche, che solo chi ha
condotto determinati e approfonditi studi può affrontare con un
certo grado di serenità e consapevolezza. Gli altri dovranno
forzatamente rimettersi a quanto esplicitato dai suddetti esperti
della materia.
1. Quanti erano a commettere il duplice omicidio
Per quanto riguarda la prima domanda, la questione è dibattuta da
tempo. Secondo molti mostrologi, quello degli Scopeti è il delitto
(forse l'unico delitto) in cui sembra possibile se non maggiormente
probabile la presenza di più autori.
Nel libro "Delitto degli Scopeti. Giustizia mancata" di Adriani,
Cappelletti e Maugeri, si fa ad esempio esplicitamente riferimento
alla partecipazione di più autori in questa azione omicidiaria.
Persino il criminologo Francesco Bruno, da sempre fautore della
teoria del serial killer solitario, nell'udienza del Processo ai CdM del
12 gennaio 1998 ebbe modo di dichiarare: "Se noi analizziamo, da un
punto di vista criminologico, gli omicidi, non abbiamo alcun motivo - dico:
alcuno - se non qualche considerazione che possiamo fare nell'ultimo
omicidio, per poter pensare a un gruppo di omicidi, o a una coppia
omicida...".
Analogamente, in una trasmissione televisiva del 16 settembre 1985
(una settimana dopo il ritrovamento dei cadaveri dei due francesi),
chiamata "Identikit di un Assassino", la celebre professoressa Ida
Magli, antropologa ospite in studio, credendo di non essere
ascoltata pronunciò fuori onda le seguenti frasi: "...la setta religiosa
non toglie il pube ai cadaveri... allora sarebbero due o tre, ma non una setta
nel senso... due o tre maniaci..."
Quest'ultima dichiarazione a microfono erroneamente aperto lascia
ben intendere come nell'immediatezza del duplice omicidio di
Scopeti, con i Compagni di Merende ancora lontanissimi da venire,
la possibilità che sul luogo del delitto fossero stati presenti più
esecutori, era ampiamente contemplata.
Anche la versione ufficiale del delitto, quella della Procura di
Firenze, poi ratificata dalle condanne definitive di Vanni e Lotti,
prevede la presenza di più autori a Scopeti.
Ad alimentare questa ipotesi, a parte ovviamente le dichiarazioni
che vedremo successivamente del Lotti, c'erano e ci sono alcuni
fattori marginali come il taglio rinvenuto sul retro della tenda, ma
anche considerazioni di maggiore spessore dettate ad esempio dalla
strana fuga di Jean-Michel.
Il taglio sul retro della tenda potrebbe rappresentare un gesto
piuttosto scriteriato per un killer solitario, il quale, invece di
cominciare subito a sparare, si avvicina di soppiatto e lacera il
tessuto con il coltello mettendo di fatto in allarme gli occupanti,
tant'è vero che il giovane Jean-Michel ebbe appunto modo e tempo
di fuggire. Risulta ovvio ipotizzare che se gli aggressori fossero stati
più di uno, l'ipotetica fuga degli occupanti, messi in allarme dal
rumore del taglio, sarebbe stata più gestibile e avrebbe
rappresentato un minor pericolo.
Sempre a proposito del taglio, ci si potrebbe anche chiedere perché
il killer (o i killers) avrebbe sentito la necessità di esordire in quel
modo. Nei suoi precedenti agguati era sempre stato abituato
(almeno secondo le dinamiche ufficiali che in generale appaiono
piuttosto verosimili) a palesarsi esplodendo subito i colpi di pistola
in direzione delle vittime, in particolar modo della vittima maschile.
Mai il MdF prima di allora aveva iniziato l'agguato tentando ad
esempio di aprire lo sportello dell'automobile delle coppie (con
l'unica eccezion di Signa e forse di Rabatta). Dunque perché a
Scopeti invece di comportarsi in maniera simile, prova ad aprire un
varco nella tenda? Avrebbe forse voluto entrare e ritrovarsi faccia a
faccia con le vittime, col rischio magari di ingaggiare un corpo a
corpo? Oppure in questo caso era sicuro che i due ragazzi stessero
dormendo, dunque avrebbe potuto tentare di intrufolarsi con
minori rischi? Sono ipotesi che da qualsiasi lato le si guardi, non
convincono appieno, specie alla luce del comportamento del Mostro
nei delitti precedenti.
Una spiegazione alternativa e legittima potrebbe essere quella
secondo cui il taglio alla tenda sarebbe preesistente all'attacco e
dunque non prodotto dal MdF. In antitesi a questa, come vedremo,
altrettanto legittima è l'ipotesi che il taglio possa essere stato
prodotto dal killer successivamente all'attacco. Sono tuttavia ipotesi
su cui non vi è alcuna certezza, né in un senso né nell'altro.
Tornando alla questione "uno o più assalitori", più che il taglio alla
tenda è stata soprattutto la fuga di Jean-Michel a destare i dubbi
maggiori. Il ragazzo infatti ha compiuto un percorso non lineare che
sul momento è apparso a chi si è interessato della dinamica quasi
obbligato dalla presenza di altre persone (eventuali complici del
MdF) che lo hanno costretto a cambiare direzione (lasciando
un'impronta insanguinata sulla parte anteriore sinistra della Golf) e
cercare rifugio, anziché verso la salvifica strada, in un anfratto che
poi si è rilevato una trappola per lui.
È vero però che Jean-Michel era nudo, scalzo, ferito, terrorizzato e
soprattutto non vedeva a un palmo dal proprio naso (il luogo era ed
è tuttora estremamente buio). Cercare coerenza nel suo percorso
potrebbe essere un esercizio mentale inutile.
C'è da dire che è possibile che durante la sua fuga il giovane Jean-
Michel abbia urlato disperatamente, urla di terrore, ma anche
invocazioni d'aiuto. Siccome la fuga del ragazzo è verosimilmente
durata diversi secondi, l'autore o gli autori del delitto non possono
non aver contemplato l'ipotesi che qualcuno potesse aver
effettivamente udito le grida e magari aver avvisato le forze
dell'ordine. Nonostante l'eventualità di potersi ritrovare intrusi fra i
piedi in breve tempo, il killer è rimasto nella piazzola ancora per
diversi minuti, il tempo di uccidere Jean-Michel, nasconderlo,
tornare alla tenda e praticare le escissioni. Questo comporterebbe
oltre a un notevole sangue freddo, anche una maggior probabilità
di almeno due autori sulla scena del crimine: uno che controllava la
strada, pronto ad avvisare di eventuali avvistamenti sospetti, l'altro
dedito alle sue feroci pratiche, comunque sicuro di aver un minimo
le spalle coperte.

D'altro canto, anche la teoria del "serial killer unico a Scopeti" ha i


suoi ottimi sostenitori. Per chi fosse interessato, segnaliamo il
forumista noto come Vigneron che ha redatto un ottimo
documento di 32 pagine, in cui spiega dettagliatamente la dinamica
della fuga di Jean-Michel in presenza di un solo autore del delitto.
Anche il piú volte citato blogger Antonio Segnini riporta delle
spiegazioni che appaiono plausibili pur alla presenza di un unico
assassino.
Infine, segnaliamo l'esperto balistico e blogger Enrico Manieri, che
ha recentemente realizzato diversi video in cui ha ricostruito la
"sua" dinamica del delitto degli Scopeti, a opera sempre di un unico
assassino. Nelle ricostruzioni del Manieri trova anche spiegazione il
taglio sul telo posteriore della tenda: il killer lo avrebbe praticato
successivamente al delitto al fine di poter "tirare" il cadavere della
povera Nadine all'interno della tenda; secondo il Manieri, infatti per
effettuare l'escissione il killer aveva precedentemente estratto la
donna dalla tenda. D'accordo con la teoria del Manieri si è detto il
professore Francesco Introna, medico legale ed entomologo forense
di chiara fama internazionale.
Per quanto riguarda le urla di Jean-Michel che avrebbero potuto
attirare curiosi, innanzitutto queste non sono affatto scontate. Non è
da scartare la possibilità che il povero ragazzo francese abbia
pensato solo a salvarsi, risparmiando il fiato (un po' come chi
annega) e correndo senza emettere alcun suono o al più grida
flebili, strozzate dalla paura. Inoltre, ben difficilmente tali urla
sarebbero potute arrivare fino al ristorante "La Baracchina", il luogo
"popolato" più vicino alla piazzola. Al massimo sarebbero potute
essere udite dalla strada sottostante (via degli Scopeti), dove
comunque soprattutto in orari notturni nessuno si muove a piedi.
Evetuali automobili o motorini avrebbero finito per coprire o
rendere difficilmente distinguibili tali grida.
Dunque, anche a Scopeti un eventuale serial killer unico avrebbe
potuto concludere le sue macabre operazioni con relativa
tranquillità o comunque non in condizioni di maggior pericolo
rispetto ad altri delitti da lui precedentemente commessi.
Sempre in linea con la teoria del serial killer unico, la dinamica
ufficiale prevede che il killer (probabilmente sbilanciato dal
Kraveichvili sbucato dalla tenda) sparò da fermo alcuni colpi di
pistola verso il ragazzo in fuga, prima di esaurire il caricatore e
partire alla rincorsa del fuggitivo. I mostrologi che sostengono la
teoria dell'unico autore, affermano che se ci fossero state più
persone sulla scena del crimine, molto probabilmente il killer non
avrebbe svuotato il caricatore verso il Kraveichvili col rischio di
colpire un complice, ma soprattutto non avrebbe avuto la necessità
di rincorrere, coltello alla mano, in prima persona il povero ragazzo
francese.
Inoltre, se ci fossero state due o più persone sulla scena del crimine,
molto probabilmente i killers avrebbero preso di peso il corpo del
povero Jean-Michel per nasconderlo anch'esso all'interno della
tenda e renderne molto più complicato il ritrovamento, anziché
lasciarlo all'aperto, sebbene seminascosto dai rovi e da coperchi di
latte di vernice.

2. Quando è avvenuto il duplice omicidio?


Per quanto riguarda la data in cui è stato commesso il delitto,
rivediamo tutte le informazioni che abbiamo, tentando di seguire
una pur difficile sequenza cronologica:
► Pomeriggio del 6/9 (venerdì): l'ultimo avvistamento certo dei
due francesi risale a venerdì 6 settembre all'ora di pranzo in una
pizzeria di Pisa.
► Pomeriggio del 6/9 (venerdì): come già visto, durante il viaggio
la coppia raccoglieva gli scontrini, probabilmente per scaricarli.
L'ultimo rivenuto fra i loro effetti personali è quello che risale
proprio al pranzo di venerdì.
► Sera del 6/9: venerdì sera i due ragazzi francesi potrebbero già
essere a San Casciano, aver montato la tenda agli Scopeti (ci sono
un paio di testimonianze che lo attesterebbero) e aver cenato alla
festa dell'Unità a Cerbaia. Si badi bene: "potrebbero".
► Mattina del 7/9 (sabato): sabato mattina i due ragazzi erano
sicuramente agli Scopeti. La tenda venne vista verso le 10.30 da due
testimoni. Ma tutto il giorno di sabato nessuno vide i francesi, non
esiste alcuna testimonianza in merito. Di qui l'idea in alcuni
mostrologi che la coppia potrebbe aver trovato la morte già la notte
fra venerdì e sabato.
► Giornata del 7/9 (sabato): durante quel viaggio in Italia la coppia
sarebbe dovuta passare da una fiera calzaturiera a Bologna per
questioni lavorative della Mauriot. L'ipotesi che è stata avanzata da
alcuni mostrologi è che i due giovani si fossero recati alla fiera
proprio quel sabato e questo spiegherebbe perché nessuno li avesse
visti a Scopeti e dintorni, sebbene ci fossero la tenda e forse anche
l'automobile.
Ad avallare questa ipotesi ci sono alcuni biglietti da visita, rinvenuti
fra gli effetti personali della Mauriot, del calzaturificio "2001" di
Pistoia, di proprietà del signor Raffaele Biancalani, presente con
due stands alla Fiera di Bologna dal 6 al 9 settembre 1985.
Interrogato in merito in data 11 settembre, il Biancalani tuttavia
dichiarò di aver ricevuto la visita in fiera di una coppia francese, ma
di essere certo che non si trattava della coppia uccisa a Scopeti, sia
per una netta divergenza fisica di entrambi, sia perché la coppia da
lui vista aveva eseguito un ordine e gli estremi anagrafici non
corrispondevano con quelli della Mauriot e del Kraveichvili.
Riguardo i biglietti da visita rinvenuti fra gli effetti personali di
Nadine, il Biancalani li riconobbe come propri e confermò che
potevano essere effettivamente stati presi in fiera, ma ribadì di non
aver alcun ricordo della suddetta coppia.
Dichiarazioni del Biancalani a parte, al momento non esistono
prove di un'eventuale visita dei due ragazzi francesi alla Fiera di
Bologna: sia durante il tragitto, sia fra gli stands, nessuno avrebbe
visto Nadine e Jean-Michel; fra gli effetti personali della coppia non
venne rinvenuto il tagliando di ingresso alla Fiera, né alcuna altra
ricevuta che potesse attestare tale spostamento. Il loro molto
eventuale viaggio dagli Scopeti a Bologna e ritorno non
spiegherebbe infine l'assenza completa di scontrini per i giorni 7/9
e 8/9.
► Sera del 7/9 (sabato): C'è una testimonianza mai emersa durante
le indagini e i processi e dunque non si sa quanto veritiera e
attendibile, secondo cui il giornalista d'inchiesta Roberto
Fiasconaro avrebbe intervistato due persone, l'allora
diciassettenne Adriano Bertinelli e l'operatore televisivo Paolo
Bernini, i quali la sera di sabato 7 settembre 1985 erano a cena al
ristorante "La Baracchina", poco distante dalla piazzola del delitto.
Attorno alle 22:30, i due amici udirono degli spari. Anche un
rappresentante di prodotti farmaceutici, proprietario di una Lancia
Delta targata Verona, che in quel momento era all'esterno del
ristorante udì gli spari e rientrò esclamando: "Zitti! Non avete sentito
degli spari? Ma da queste parti vanno a caccia anche di notte?".
I clienti uscirono dal locale ma nel buio assoluto non videro nulla.
Pensarono così a dei petardi o fuochi d'artificio provenienti dalla
festa dell'Unità che si stava tenendo nella poco distante Cerbaia.
È doveroso sottolineare nuovamente come questa testimonianza
non sia mai emersa né in sede d'indagine, né in sede di processi a
Pacciani e successivamente ai CdM. Viene riportata esclusivamente
in un vecchio e neanche troppo curato blog tenuto dal suddetto
Adriano Bertinelli, il quale nel profilo personale si definisce
investigatore privato. È nuovamente doveroso sottolineare come di
questo Bertarelli investigatore privato, non risulta traccia sul web.
Tale testimonianza viene dunque riportata esclusivamente per
dovere di cronaca, ma - fino a prova contraria - considerata poco
attendibile. Si attendono eventualmente conferme sulla sua
autenticità.
► Mattina del 8/9 (domenica): La domenica mattina, come detto,
Nadine venne vista fare colazione alla pensione "Ponte agli
Scopeti" dal gestore della pensione e suo suocero. Abbiamo già
parlato di una possibile fallacità di questa testimonianza.
► Pomeriggio del 8/9 (domenica): La domenica pomeriggio
abbiamo diverse testimonianze sugli strani movimenti attorno alla
piazzola degli Scopeti e attorno alla tenda dei francesi,
testimonianze emerse durante il Processo ai CdM. Eppure, nessuno
vide personalmente i francesi. Ricordiamo fra le altre
testimonianze:
▪ le dichiarazioni dei coniugi Vittorio Chiarappa e Marcella De
Faveri, ospiti di Gianfranco Rufo nella villa proprio di fronte alla
piazzola degli Scopeti. I coniugi Chiarappa-De Faveri parlarono di
una macchina rossa parcheggiata tutto il pomeriggio all'imbocco
della piazzola tanto da rendere poco agevole il loro ingresso nella
villa.
▪ la testimonianza di Sabrina Carmignani, la quale affermò sia in
una dichiarazione ai carabinieri di San Casciano, sia diversi anni
dopo durante il Processo ai CdM, di essere arrivata nella piazzola la
domenica pomeriggio verso le 17.30 assieme al suo ragazzo per
festeggiare il proprio compleanno, ma di essere stata costretta ad
andare via quasi subito a causa del cattivo odore che c'era, dello
sporco attorno alla tenda dei francesi e delle mosche che ronzavano.
La Carmignani riferì, inoltre, che mentre abbandonavano la
piazzola pochi minuti dopo essere arrivati, sopraggiungeva nella
radura un'automobile tipo Fiat Regata.
N.B. L'avvocato Filastò, durante il processo, fece in modo di
dimostrare che non furono rinvenute carcasse di animali nella zona
subito dopo la scoperta dei cadaveri. Quindi il fetore che la
Carmignani aveva denunciato non era sicuramente dovuto a
carogne di animali morti.
► Sera del 8/9 (domenica): Secondo la testimonianza di Marcello
Fantoni, i due ragazzi francesi potrebbero aver cenato alla festa
dell'Unità di Cerbaia, testimonianza che abbiamo già visto
presentare qualche lacuna.
A seguire, secondo la testimonianza del reo-confesso Giancarlo
Lotti, sarebbe avvenuto il delitto, all'incirca fra le ore 23:00 e le ore
23:30.
Da notare, a questo proposito, che risultano due testimonianze
"discordanti" in merito. Le riportiamo per amor di precisione:
1. la signora Petra Weber aveva dichiarato spontaneamente ai
carabinieri di San Casciano che la sera di domenica 8 settembre,
verso mezzanotte, mentre giocava a carte nel giardino antistante
l'abitazione del suo fidanzato, sita in via Faltignano 18, aveva udito
un rumore simile allo stapparsi di una bottiglia, proveniente dalla
direzione in cui si trovava la piazzola. Tale rumore era stato sentito
anche dai familiari che erano con lei, in particolar modo dalla
madre, la quale si era detta convinta potesse essere il rumore di uno
sparo, tanto da non voler più sostare all'esterno della casa.
L'abitazione sita in via Faltignano 18 dista poche centinaia di metri,
in linea d'area, dal luogo del delitto.
2. la signora Anna Garducci, abitante in una casa nei pressi della
piazzola, aveva invece dichiarato che la sera di domenica 8
settembre non aveva udito alcun rumore proveniente dal luogo del
delitto, né aveva notato un andirivieni di automobili sospette.
► Pomeriggio del 9/9 (lunedì): I cadaveri vennero trovati lunedì
pomeriggio alle ore 15:30. Come visto, sin da subito si ebbe
l'impressione che i cadaveri non fossero propriamente recenti, tant'è
vero che – come già scritto – quando la notizia venne data per la
prima volta al Telegiornale Regionale, la giornalista in studio parlò
di omicidio risalente a un paio di giorni prima.
A dimostrazione di ciò, parecchi anni dopo, il dottor Sandro
Federico, poliziotto della SAM, dirà che la prima impressione, una
volta arrivati sul luogo del delitto, fu che i cadaveri non fossero
affatto freschi e che dunque risalissero a un po' di tempo prima.
► Mattina del 11/9 (mercoledì): Pur tuttavia, secondo i referti
medici, la mattina di mercoledì 11 settembre, il rigor mortis sul
corpo deposto sul tavolo autoptico di Jean Michel Kraveishvili non
era ancora completamente risolto. Come abbiamo imparato ad
apprendere nel corso di questi anni, per risolversi completamente,
la rigidità cadaverica richiede dalle 72 alle 96 ore dal momento del
decesso: ovviamente in caso di corpo esposto ad alte temperature i
tempi tendono a ridursi, avvicinandosi più alle 72 ore che alle 96 di
cui sopra. Facendo dunque dei rapidi calcoli, abbiamo questa
situazione:
▪ se i francesi fossero morti la domenica sera, al mercoledì mattina
sarebbero trascorse una sessantina di ore dal decesso, in linea con
un rigor mortis non ancora completamente risolto, anche se
sottoposto a temperature piuttosto alte.
▪ se i francesi fossero morti il sabato sera, al mercoledì mattina
sarebbero trascorse fra le ottanta e le novanta ore dal decesso, in
linea con un rigor mortis non ancora completamente risolto, un po'
meno con le temperature elevate cui era stato sottoposto soprattutto
il cadavere della Mauriot.
▪ se i francesi fossero morti il venerdì sera, al mercoledì mattina
sarebbero trascorse più di cento ore dal decesso, fuori tempo
massimo per la mancata completa risoluzione del rigor mortis.
Questi calcoli porterebbero dunque a escludere il venerdì sera come
data dell'omicidio, ma non escluderebbero aprioristicamente il
sabato sera, anche se i tempi sembrerebbero comunque piuttosto
stretti.
C'è però da dire a tal proposito che, sempre come abbiamo
imparato ad apprendere nel corso di questi anni, ci possono essere
delle eccezioni. Ad esempio, un corpo in cui il processo del rigor
mortis viene interrotto fisicamente (da una manipolazione del
cadavere) prima dello sviluppo completo del fenomeno di rigidità,
potrà essere soggetto, al termine delle manipolazioni che hanno
causato la rottura della rigidità in determinati punti, a una ripresa
del processo che continuerà fino al proprio completamento, con una
rigidezza parziale nella zona in cui è avvenuta la rottura stessa.
In altre parole, se c'è stata una manipolazione dei due corpi e una
rottura della rigidità cadaverica prima che il fenomeno di rigidità
fosse giunto al suo completamento (ad esempio per prenderli dal
luogo dell'omicidio e portarli all'istituto di medicina legale), tale
fenomeno avrebbe potuto riprendere il suo corso al termine della
manipolazione, ritardando difatti i tempi di completamento e di
conseguenza di risoluzione del rigor mortis stesso.
Questo, almeno secondo gli esperti di medicina legale, non
consentirebbe comunque di far rientrare in un range temporale
coerente con la mancata risoluzione del rigor mortis al mercoledì
mattina, un omicidio commesso il venerdì sera, ma consentirebbe di
far rientrare comodamente l'eventualità che l'omicidio fosse stato
commesso il sabato sera.
► Mattina del 11/9 (mercoledì): Dalle analisi condotte sui cadaveri
delle due giovani vittime e in particolar modo sull'apparato
digerente, secondo Maurri e dunque secondo la versione ufficiale, il
delitto sarebbe avvenuto circa 3 ore dopo l'ultimo pasto della
coppia. Seguendo questa linea, è probabile dunque che fosse
avvenuto di sera/notte, in linea oltretutto con i precedenti assalti
dell'assassino (ma anche su questo vedremo che c'è chi non
concorda).
Per quanto riguarda i resti di cibo si parla di pappardelle al ragù di
cinghiale o di lepre e questo avvalorerebbe la tesi del delitto
avvenuto successivamente a una cena alla festa dell'Unità (in cui
venivano servite appunto pappardelle al ragù). Dunque, il delitto
potrebbe essere avvenuto la sera del venerdì, come da
testimonianza del Cantini, ma non si potrebbe tuttavia escludere
che la coppia si fosse recata alla festa anche nei giorni successivi (il
sabato sera o la domenica sera).

Ora, dopo aver tracciato quelli che sono i riscontri scientifici e


documentali della vicenda su cui ognuno può forgiare le proprie
idee, trasferiamoci sul piano pratico e facciamo un discorso
prettamente nasometrico: risulta piuttosto improbabile pensare che
la coppia francese sia rimasta per due giorni interi accampata nella
piazzola degli Scopeti, un luogo piuttosto sporco, bazzicato da
guardoni, usato da molti come discarica.
Inoltre, bisogna tenere conto sia dell'assenza di scontrini a partire
dal venerdì sera, sia della testimonianza della Carmignani, secondo
cui la domenica pomeriggio l'automobile dei francesi era nella
piazzola, ma dei francesi non vi era traccia. Siccome allontanarsi da
Scopeti a piedi è cosa piuttosto improbabile, se ne deduce che i
francesi avrebbero dovuto essere nella tenda. Ma risulta ancora più
improbabile pensare a una coppia chiusa in una tenda il
pomeriggio di un giorno d'estate con le temperature che si possono
raggiungere in determinate condizioni.
Vien da sé pensare - se non altro a livello puramente intuitivo - che
in quel momento i francesi fossero già morti. Ipotesi ancor più
credibile se pensiamo alle altre dichiarazioni della Carmignani, che
riferisce di un cattivo odore e di un'insistente presenza di mosche
sulla piazzola.

Il primo a parlare di una possibile retrodatazione del delitto degli


Scopeti fu il giornalista Mario Spezi, il quale addirittura nel
gennaio del 1996 (qualche giorno prima dell'inizio del Processo
d'Appello a Pacciani) scrisse una serie di articoli su "La Nazione" in
cui parlava in maniera comprensibilmente non troppo dettagliata
della possibilità che lo studio delle mosche sul cadavere della
Mauriot potesse anticipare il giorno dell'omicidio.
In seguito si interessò della questione l'avvocato Nino Filastò, il
quale avanzò l'ipotesi della retrodatazione durante il Processo ai
CdM, ma senza calcare eccessivamente la mano (qualche anno dopo
Filastò ne avrebbe parlato esplicitamente nel suo libro "Storia Delle
Merende Infami"). Sucessivamente, nel 2002, affrontò il problema
con una certa convinzione il giornalista RAI, Pino Rinaldi, il quale
aveva avuto modo di confrontarsi privatamente con la Carmignani
e di convincersi che la domenica pomeriggio i francesi fossero già
morti. Rinaldi inviò le foto del cadavere della Mauriot al
professor Francesco Introna, entomologo e professore ordinario di
Medicina Legale all'università di Bari, probabilmente uno dei
massimi esperti di entomologia forense in Italia. Studiando le foto
delle larve presenti sul cadavere della Mauriot, il dottor Introna
arrivò alla conclusione che il delitto non poteva esser fatto risalire
alla domenica sera, ma andava anticipato di almeno 24 ore. Questo
uno stralcio della sua relazione: "Per schiudersi le uova dei calliphoridi
impiegano tra le 18 e le 24 ore, a una temperatura attorno ai 27 gradi, i
dati entomologici indicano un'epoca di morte minima di circa 36 ore dal
rilievo fotografico, come minimo il giorno 8 o la notte tra il 7 e l'8".
Questi nuovi studi non portarono, tuttavia, a nessuna novità
processuale in quanto, secondo i giudici, il cadavere della donna
chiuso nella tenda era stato oggetto di fenomeni putrefattivi
oltremodo accelerati.
In tempi piuttosto recenti, il documentarista Paolo Cochi ha
recuperato le foto dei cadaveri di entrambi i ragazzi francesi
mostrandole a diversi entomologi che hanno confermato che anche
sul corpo del ragazzo (non soggetto alle alte temperature raggiunte
all'interno della tenda e non studiato in precedenza) erano presenti
larve di mosca carnaria e dunque hanno confermato di dover
verosimilmente retrodatare la morte dei giovani francesi alla notte
fra sabato e domenica se non addirittura a quella fra venerdì e
sabato.

Nota Bene: Tale retrodatazione - è doveroso precisarlo a dispetto di


quanto si sente raccontare in alcuni ambienti mostrologici
evidentemente non molto attendibili - non scagiona
aprioristicamente né Pacciani, né i Compagni di Merende, per la
semplice ragione che non conoscendo l'orario in cui è avvenuto il
duplice omicidio non ci sono alibi di sorta per nessuno dei
personaggi coinvolti. E ove anche si desse per scontato che
l'omicidio fosse avvenuto in un orario coerente con gli altri delitti
del MdF (fra le 21 e le 24) nessuno dei personaggi coinvolti ha alibi
che coprono l'intero lasso di tempo né per il venerdì, né per il
sabato.
Tuttavia l'eventuale retrodatazione porta ovviamente a minare la
confessione del Lotti e la sua già scarsa credibilità, nonché
ovviamente le dichiarazioni del futuro testimone oculare del
delitto, Fernando Pucci.

Teoria di Henry62
Il blogger Henry62, al secolo Enrico Manieri, esperto balistico e
Consulente Tecnico di Parte per la difesa nel processo d'Appello
contro Pietro Pacciani, ha elaborato una teoria differente sulla
dinamica del duplice omicidio degli Scopeti e in special modo
sull'orario e sul giorno in cui questi avrebbe avuto luogo.
Secondo il noto studioso del caso, il delitto sarebbe sì avvenuto
precedentemente rispetto a quanto dichiarato da Lotti, ma
sicuramente non andrebbe retrodatato di uno o due giorni come la
mostrologia odierna sostiene, andandosi dunque a collocare alle
prime luci dell'alba di domenica 8 settembre. A sostegno della
propria tesi, Manieri porta diversi fattori, ma in special modo
cinque sono le evidenze che ci preme sottolineare in queste pagine:
1. Il percorso seguito da Jean Michel durante la sua fuga è il
percorso compiuto da una persona che ha una discreta visibilità dei
dintorni, che quantomeno vede dove mette i piedi. Cosa
improbabile se il delitto fosse avvenuto in orario serale/notturno,
considerando la situazione di particolare oscurità in cui è immersa
la piazzola. All'alba o poco prima, si ha sicuramente una visibilità
migliore e ciò avrebbe permesso al ragazzo francese di poter
muoversi nella piazzola e tentare una fuga.
2. Gli studi entomologici sono stati eseguiti sulle foto non originali
dei cadaveri dei giovani francesi, il che non può non essere tenuto
in considerazione quando si parla del grado di attendibilità e
accuratezza dei suddetti studi.
3. Il rigor mortis non ancora completamente risolto sul cadavere di
Jean Michel Kraveishvili alla mattina di mercoledì 11 settembre
1985 porterebbe a escludere come data dell'omicidio il venerdì sera,
rendendo i tempi piuttosto stretti anche per un omicidio avvenuto il
sabato sera.
4. L'assenza di morsi significativi da parte di fauna locale di piccola
e media taglia sul cadavere di Jean Michel risulterebbe un po'
strano per un cadavere rimasto due o addirittura tre notti all'aperto.
Collocando, invece, il delitto all'alba della domenica mattina, i
cadaveri avrebbero invece trascorso una sola notte all'aperto.
5. I resti di cibo rinvenuti nell'apparato gastrico della coppia,
considerando l'orario serale/notturno, il fatto che i due ragazzi
fossero sdraiati e il fatto che verosimilmente avessero consumato un
pasto estremamente pesante a base di lepre o cinghiale, sarebbe più
compatibile con una cena avvenuta diverse ore prima del decesso e
non con le tre ore dichiarate ufficialmente dai medici legali.

Il primo punto (assenza o presenza di luce) è una valutazione che


ha molto senso, ma presuppone che in caso di attacco notturno,
assalitore e vittime non fossero in possesso di una qualunque fonte
di luce che illuminasse anche solo in parte i dintorni della tenda.
Che le vittime, al momento dell'attacco, fossero completamente al
buio è possibile, specie se in quel momento stavano dormendo. Che
l'assalitore (o gli assalitori) si presentasse alla piazzola per sferrare
l'attacco senza una torcia o una qualsiasi fonte luminosa, risulta già
un po' difficile da credersi.
Il secondo punto (lo studio dei cadaveri attraverso le foto) è un dato
di fatto cui difficilmente si può opporre alcuna considerazione. È
ovvio che studi condotti sulle foto hanno un valore diverso rispetto
a quelli condotti in prima persona sui cadaveri, tanto più da un
luminare come Maurri. È anche vero tuttavia che il grado di
conoscenze entomologiche del Maurri erano per forza di cose
limitate dal momento storico in cui i suoi esami sono stati effettuati.
Inoltre, ci sono medici legali che hanno studiato direttamente i
cadaveri (vedasi il dottor Giovanni Marello del team di Maurri o il
dottor De Fazio) che hanno sempre propeso per un delitto avvenuto
precedentemente alla domenica. Quindi, in questo caso, l'obiezione
sollevata dal Manieri non sembra calzante.
I successivi due punti sono significativi e oltretutto in linea con
quanto già dichiarato dal dottor Maurri in sede processuale.
Certamente, l'evoluzione del rigor mortis (per quanto dettagliato
sopra) e l'assenza di morsi da fauna cadaverica non sono punti
risolutivi né in un senso né in un altro, tuttavia potrebbero
rappresentare un freno alla ormai acclarata tendenza all'eccessiva
retrodatazione del duplice omicidio.
Il quinto punto (svuotamento gastrico) invece appare (o appariva),
a parere di chi scrive, non del tutto convincente. È vero infatti che,
stando alla teoria di Henry62, la coppia il sabato sera potrebbe non
aver cenato troppo presto, tanto più se - come sembra - ha
consumato il proprio pasto alla festa dell'Unità di Cerbaia.
Ammettiamo dunque, come caso limite, una cena avvenuta attorno
alle 22 o alle 23: questo comporterebbe nella teoria di Henry62 che il
delitto sarebbe avvenuto fra le sei e le otto ore dopo l'ultimo pasto.
Ora va bene l'orario notturno, va bene la posizione supina che non
aiuta la digestione e va bene anche il pasto pesante, magari condito
da vino rosso, ma pensare a due giovani, apparentemente in buona
salute (di cui uno ventenne e quindi nel pieno delle proprie
possibilità fisiche), che dopo sei o sette ore non hanno ancora
(entrambi) completato la fase digestiva, appare - almeno a parere di
chi scrive - più una forzatura che una possibilità oggettiva.

Nota Bene: Per onor di cronaca, il sottoscritto è stato contattato


recentemente (gennaio 2021) da Enrico Manieri che, in una
lunghissima telefonata, ha inteso dettagliare meglio il discorso dello
svuotamento gastrico, fornendo anche una serie di studi medici che
accerterebbero un tempo di emi-svuotamento gastrico in orario
notturno e in occasione di pasti particolarmente pesanti superiore
ad oltre il doppio del tempo considerato standard (vale a dire le tre
ore ipotizzare da Maurri), compatibile dunque con le sette/otto ore
di cui sopra.

3. Perché Scopeti è stato l'ultimo duplice omicidio


Passiamo all'altrettanto annosa questione del perché Scopeti sia
stato l'ultimo delitto compiuto dal Mostro.
In maniera schematica abbiamo due possibilità da valutare:

Ipotesi 1: Il MdF sapeva già a priori che quello del 1985 sarebbe
stato l'ultimo delitto. Aveva dunque concepito il duplice omicidio e
il successivo invio della missiva alla Della Monica come una sorta
di commiato dal suo pubblico, rappresentato nell'occasione da
inquirenti, organi di informazione, opinione pubblica.
Hanno sposato questa teoria, per un motivo o per un altro, diversi
insigni studiosi del caso, come Antonio Segnini (secondo cui il
Lotti aveva deciso di smettere perché aveva terminato i proiettili) o
lo stesso Enrico Manieri (secondo cui il killer aveva capito che se
avesse continuato anche solo con un altro delitto sarebbe stato
inevitabilmente preso).
Ipotesi 2: Il MdF non aveva deciso a priori di smettere, ma dopo
Scopeti si era trovato semplicemente impossibilitato, per un
qualsiasi motivo, a commettere un nuovo delitto.
Secondo questa ipotesi, fra il settembre del 1985 e l'estate del 1986
era accaduto qualcosa nella vita del Mostro che gli aveva impedito
di commettere ulteriori delitti. Forse era stato arrestato per altri
reati, forse era morto, forse era emigrato o aveva avuto un incidente
che lo aveva reso menomato o forse, più semplicemente, era stato
attenzionato dagli inquirenti.
Questa è un'ipotesi contemplata per ovvie ragioni
da Paccianisti, Merendari, Sardisti, Narducciani, probabilmente
anche Vigilantiani.
Questa è l'ipotesi che - come vedremo - è stata seguita anche dalla
SAM e che avrebbe contribuito all'individuazione di Pacciani.
Subito dopo Scopeti, infatti, Pacciani avrebbe subìto dapprima una
perquisizione, in seguito, nel maggio del 1987, sarebbe stato
arrestato per la violenza sulle figlie.
Oltre al Pacciani, vi sono altri personaggi di indubbio interesse che,
nel lasso di tempo fra il delitto degli Scopeti e l'estate successiva, si
sarebbero ritrovati più o meno impossibilitati a commettere
ulteriori delitti: questi sono il Vigilanti (nel settembre del 1985
venne per la prima volta perquisito), il dottor Narducci (morto
nell'ottobre del 1985), Salvatore Vinci (arrestato nell'aprile del 1986).
Subito dopo l'arresto del Vinci, quella del 1986 sarebbe risultata la
prima estate dopo cinque lunghissimi anni senza delitti.

Una cosa che ci sentiremmo di dire sull'argomento, senza per


questo parteggiare necessariamente per l'una o per l'altra ipotesi, è
che - almeno a parere di chi scrive - il MdF (chiunque fosse)
prestava molta attenzione a ciò che gli organi di informazione
dicevano di lui. È lecito supporre che provasse una sorta di
gratificazione nel leggere le sue gesta sui giornali o nel sentire
parlare di lui in TV.
Non vi è dunque ombra di dubbio che il Mostro abbia provato il
massimo compiacimento dopo il delitto degli Scopeti, quando non
solo la psicosi collettiva raggiunse il suo culmine, ma anche il
terrore e per certi versi il fascino malato che questa figura iniziò ad
esercitare sull'opinione pubblica raggiunse il suo acme.
Subito dopo il delitto degli Scopeti, la già citata trasmissione
televisiva "Identikit Di Un Assassino", andata in onda in seconda
serata sulla RAI, raggiunse uno share altissimo. Da più parti si
favoleggiava macabramente di questo "essere" inafferrabile, forte
fisicamente, di intelligenza sopraffina, infallibile con la pistola,
esperto col coltello, che teneva in scacco una delle più valide
Procure italiane.
Di fronte a cotanta gratificazione, è possibile che nell'autore di
questi omicidi fosse scattata una sorta di ansia da prestazione tale
da bloccarlo? O meglio, le difficoltà che sicuramente avrebbe
incontrato in misura esponenziamente maggiore in eventuali azioni
future e dunque la paura di non essere all'altezza o addirittura di
essere catturato, avrebbero potuto essere superiori al suo bisogno di
colpire e forse anche al suo narcisismo patologico?
Una parziale risposta ce l'aveva data il dottor Carlo Nocentini, il
quale nella perizia stilata nel 1981 dopo il delitto delle Bartoline
(dunque ben prima del sanguinoso epilogo), aveva specificato che
un soggetto affetto da sindrome paranoide (come lui vedeva il
MdF) è comunque dotato di una lucidità tale da riuscire a
comprendere quando il protrarsi delle proprie azione criminali
diviene troppo pericoloso per la sua stessa incolumità e quindi è in
grado di valutare il momento migliore in cui fermarsi.
D'altra parte, quello che in questa sede ci sentiremmo di affermare è
che, pianificata o meno che fosse la fine dei delitti e qualunque
motivazione ci potesse essere alla base, deve essere stata ben seria
quella che avrebbe indotto il Mostro a interrompere la scia di
sangue proprio in quel particolare momento di "onnipotenza"
mediatica e criminale.
Accadimenti finali

Dopo il duplice omicidio degli Scopeti, avvenne una serie di eventi


che condussero magistratura e forze dell'ordine a cercare tracce
dell'inafferrabile serial killer in luoghi non strettamente connessi a
quelli degli omicidi.
Tuttora non è dato sapere se questi eventi abbiano avuto come
artefice il MdF o semplici mitomani o in taluni casi siano state
curiose coincidenze.

La lettera alla Della Monica


Il giorno dopo il rinvenimento dei cadaveri agli Scopeti, dunque il
10 settembre 1985, venne recapitata una busta contenente un lembo
di pelle del seno di Nadine Mauriot al Sostituto Procuratore Silvia
Della Monica che in passato si era occupata in prima persona delle
indagini sul MdF. È questo l'unico contatto certo che il serial killer
ha cercato e avuto con le forze dell'ordine. Non compaiono né sulla
busta, né al proprio interno, tracce biologiche o impronte idonee
all'identificazione dell'assassino.
La notizia della lettera venne tenuta sotto stretto riserbo dalle forze
dell'ordine e resa pubblica solo il 27 settembre 1985, particolare
questo di una certa importanza, come si avrà modo di vedere in
seguito.

La cartuccia a Ponte a Niccheri


Alle sette del mattino del 10 settembre 1985, venne rinvenuta una
cartuccia calibro 22 con la lettera H impressa sul fondello,
apparentemente identica a quelle utilizzate nei delitti del MdF,
sotto le rampe del parcheggio dell'ospedale Santa Maria
Annunziata di Ponte a Niccheri. Il proiettile fu trovato da un
dipendente dell'ospedale che staccava dal turno notturno; a suo
dire la sera prima nello stesso punto non vi era nulla; sempre a
parere del dipendente, tale proiettile sembrava essere stato lasciato
in bella posta quasi a voler inviare un messaggio.
Tuttavia, l'uomo consegnò il reperto alle autorità competenti solo
quattro giorno dopo il rinvenimento, precisamente in data 14
settembre, perché in un primo momento aveva preferito non essere
coinvolto nella vicenda.
Non c'era e non c'è tuttora alcuna evidenza che tale proiettile fosse
stato lasciato (in maniera volontaria o meno) dal MdF, tuttavia le
perizie effettuate indicarono non solo una piena compatibilità con i
proiettili usati nei delitti delle coppie ma persino che il lotto di
riferimento fosse lo stesso.
Dopo alcuni giorni di appostamenti e indagini sottotraccia, il 26
settembre 1985, vennero perquisiti i sei piani dell'ospedale. In un
armadietto di uso comune venne ritrovata una lista - fino a quel
momento tenuta segreta dagli inquirenti - di medici e professionisti
sospettati di essere il MdF. Questo ovviamente ha portato gli
inquirenti di allora e i mostrologi di oggi a pensare che ci fosse un
collegamento fra il proiettile rinvenuto e la lista nascosta. Va
precisato che ciò non implica necessariamente che ci fosse la mano
del mostro dietro i due ritrovamenti. Un'ipotesi avanzata è che un
medico o paramedico, venuto in qualche modo in possesso della
lista e risentitosi per la sua presenza nella stessa, avesse voluto farsi
beffe delle forze dell'ordine prima facendo rinvenire il proiettile e
poi la lista stessa. Ci sarebbe tuttavia da chiedersi come qualcuno
che non c'entrasse nulla con i delitti potesse essere venuto in
possesso di un proiettile appartenente allo stesso lotto di quelli
usati dal Mostro.
Per anni, invero, non c'è stata molta chiarezza sull'effettivo valore di
questo rinvenimento. A sminuirne la portata ci pensò anche un
collega del dipendente che aveva trovato il proiettile, il quale si
presentò alla caserma dei Carabinieri di Borgo Ognissanti per
dichiarare che non vi era molto di vero in quel rinvenimento, in
quanto già da tre mesi prima delle presunta scoperta, il collega
portava con sé quel proiettile. I due uomini vennero messi a
confronto, ognuno rimase ancorato sulle proprie posizione e la
vicenda si concluse con un nulla di fatto.
Parecchi anni dopo questi eventi, il Procuratore capo di Firenze,
dottor Pier Luigi Vigna, in una delle ultime interviste concesse
sull'argomento, ebbe modo di affermare - probabilmente
ricordando male - che non vi era grande compatibilità fra le
cartucce del MdF e quella rinvenuta a Ponte a Niccheri. In realtà, le
perizie condotte sul proiettile non sembrano lasciare spazio a dubbi.
Dando quindi per assodato che il proiettile rinvenuto fosse uno di
quelli utilizzati dal MdF, reputando (pur non avendo certezze in
merito) in buona fede l'autore del rinvenimento e considerando le
difficoltà oggettive nel pensare a qualcuno estraneo ai delitti in
possesso di tale oggetto, è maggiormente ipotizzabile che il
proiettile fosse stato lasciato o smarrito dal killer fra la sera del 9
settembre 1985 e la mattina del 10. Questa semplice constatazione
apre ovviamente un novero di possibilità piuttosto ampio, che qui
schematizziamo molto sommariamente:
1. il mostro era un medico, un paramedico o un inserviente,
qualcuno insomma che per lavoro si recava in ospedale e
inavvertitamente aveva smarrito un proiettile;
2. il mostro si era recato in ospedale per esigenze personali (un suo
problema di salute o una visita a un parente) e inavvertitamente
aveva smarrito un proiettile;
3. indipendentemente dai motivi che lo avevano condotto
all'ospedale, il mostro aveva deciso per un qualsiasi motivo di
lasciare di proposito il proiettile nel parcheggio.
Le ipotesi 1 e 2 presupporrebbero però che il mostro non solo
portasse con sé un oggetto così compromettente a distanza
di almeno 24 ore dall'ultimo duplice omicidio, ma addirittura fosse
così sprovveduto da smarrirlo accidentalmente, il che contrasta un
po' con l'idea di killer estramemente organizzato e cauto. Il punto 3
sembra dunque quello più probabile, anche se rimangono
imperscrutabili i motivi di tale gesto.

La segnalazione su Pacciani
L'11 settembre 1985, dunque esattamente due giorni dopo il
ritrovamento dei cadaveri dei francesi a Scopeti, venne spedita ai
carabinieri di San Casciano una segnalazione anonima che invitava
gli inquirenti a indagare su tale Pietro Pacciani, contadino di
Mercatale. La segnalazione (contenente un palese errore perché
Pacciani non aveva ucciso la fidanzata, ma il di lei amante) arrivò a
destinazione il 16 settembre 1985 e riportava testualmente:
"Vogliate al più presto interrogare il nostro concittadino Pacciani Pietro
nato a Vicchio e residente nel nostro paese in Piazza del Popolo a
Mercatale V.P. Questo individuo a detta di molta gente è stato in carcere
per 15 anni per avere ammazzato la propria fidanzata; conosce 1000
mestieri, un uomo scaltro, furbo, «un contadino con le scarpe grosse e il
cervello fine». Tiene sotto sequestro tutta la famiglia, la moglie grulla, le
figliole non le fa mai uscire di casa, non hanno amicizie. Vogliate
intervenire ed interrogare l'individuo e le figlie. È un tiratore scelto."
Era la prima volta che il nome di Pietro Pacciani veniva accostato
alla vicenda del mostro. Tale segnalazione portò nel giro di qualche
giorno a indagini a casa del contadino di Mercatale che
nell'immediato si conclusero con un nulla di fatto.

La guardia giurata
Come già riportato nel paragrafo dedicato al delitto delle
Bartoline, sempre l'11 settembre 1985, una guardia giurata di
nome Nicola Esposito si presentò presso gli uffici del Nucleo
Investigativo di Prato, allora comandato dal giovane
tenente Giovanni Fichera.
L'Esposito, alla presenza dello stesso Fichera e del
maresciallo Antonio Amore, dichiarò che nel luglio del 1981 era
stato avvicinato in un bar di Calenzano da un uomo che si era
mostrato piuttosto interessato sia alla divisa che all'arma che
l'Esposito stesso portava in dotazione. Quest'uomo gli aveva
regalato tre proiettili, vecchi e ossidati, calibro 22 Long Rifle con la
lettera H sul fondello, sostenendo di averne altri 500 o 600 in casa.
L'uomo venne descritto alto circa 1.80, di corporatura robusta,
spalle larghe, stempiato, con i capelli color biondo-rossiccio. Come
visto, la descrizione che fa l'Esposito è simile a quella che altri
testimoni hanno fornito di un possibile sospetto in occasione del
delitto del 1984 di Vicchio.

La perquisizione dal Vigilanti


Dopo il delitto degli Scopeti, sempre il maresciallo Antonio
Amore decise di svolgere accurate indagini su un abitante di Prato,
residente nella zona "Il Cantiere", di nome Giampiero Vigilanti. A
muovere i sospetti di Amore furono alcuni comportamenti
piuttosto anomali del Vigilanti, come il fatto che fosse solito girare
da solo di notte con i suoi cani per le campagne attorno a Prato o
che avesse un carattere piuttosto ombroso e per certi versi
inquietante. Indagando più a fondo, Amore scoprì che il Vigilanti
aveva fatto parte della Legione Straniera, che aveva combattuto in
Indocina, che era amante delle armi e aveva un passato costellato
da piccoli reati, alcuni contro la morale, da problemi psicologici e
da un tentativo di suicidio. Ma soprattutto Amore scoprì che
Vigilanti possedeva una Lancia Flavia rossa, un tipo di automobile
molto simile per modello e colore a quello visto dai fidanzati
Tozzini e Parisi in occasione del delitto di Calenzano (vedasi
paragafo l'identikit relativo all'omicidio delle Bartoline).
Fu così che alle 7.30 del mattino del 16 settembre 1985 il maresciallo
Amore eseguì una perquisizione nell'abitazione del Vigilanti. Dopo
un paio d'ore di ricerche vennero rinvenuti una pistola
modello High Standard Calibro 22 e alcuni ritagli di giornale, uno
in particolare relativo all'arresto del Mele e del Mucciarini nel
gennaio del 1984. A questa perquisizione ne seguì un'altra, stavolta
a casa della mamma del Vigilanti; qui vennero trovati altri ritagli di
giornale, alcuni piuttosto interessanti, come quelli relativi ai delitti
commessi dal MdF nel 1974 a Rabatta e nel 1984 a Vicchio, e un
altro paio relativi agli omicidi di due prostitute di Firenze, la Bassi e
la Cuscito (vedasi capitolo Le morti collaterali).
Amore stilò una nota informativa per i magistrati che si occupavano
dei delitti del MdF, ma le sue indagini non diedero ulteriori frutti,
almeno fino al 2017, trentadue anni dopo la prima perquisizione,
quando Vigilanti finì nel registro degli indagati per i delitti del
Mostro di Firenze.
Per maggiori dettagli sugli eventi che riguardano la vita del
legionario e le indagini su di lui condotte, vedasi il
relativo capitolo.

In me la notte non finisce mai


Il 20 settembre 1985, alla redazione del quotidiano fiorentino "La
Nazione" giunse una lettera anonima con scritto:
"Sono molto vicino a voi. Non mi prenderete se io non vorrò
Il numero finale è ancora lontano. Sedici sono pochi.
Non odio nessuno, ma ho bisogno di farlo se voglio vivere.
Sangue e lacrime scorreranno fra poco.
Non si può andare avanti così.
Avete sbagliato tutto.
Peggio per voi.
Non commetterò più errori, la polizia si.
In me la notte non finisce mai.
Ho pianto per loro.
Vi aspetto."
Nulla è dato sapere sull'autenticità di questa missiva. L'unica cosa
che possiamo dire è che l'avvocato Nino Filastò riteneva fosse stata
scritta e spedita dal MdF stesso. Ad oggi, la maggior parte dei
mostrologi tende a non credere alla sua autenticità.
Ultimamente (luglio 2020) questa lettera è tornata agli onori della
cronaca quando il blogger Francesco Cappelletti, alias Flanz Vinci,
autore di "Insufficienza Di Prove", il più importante sito dedicato
al MdF, ha chiesto una consulenza calligrafica alla grafologa
forense Sara Codella. In questa consulenza la dottoressa Codella ha
comparato la suddetta presunta missiva del MdF con una fattura
del 1983 della società P.I.C. (Pronto Intervento Casa, di proprietà di
Salvatore Vinci), presumibilmente scritta da Salvatore Vinci,
rinvenuta in casa della signora Luisa Meoni, una prostituta uccisa
nel 1984 (vedasi capitolo Le morti collaterali).
Dalla comparazione è emersa una rilevante somiglianza fra le due
calligrafie, tale da poter presumere che debbano essere
verosimilmente attribuite - sempre secondo la grafologa Codella -
alla stessa persona.
Complici alcune informazioni errate riportate dalla stampa che ha
addirittura grossolanamente parlato di "perizia depositata in
Procura", tale consulenza ha ovviamente smosso gli animi
dell'attuale universo mostrologico, infervorando i Sardisti e
provocando una serie di smentite delle controparti.
Il già più volte citato Paolo Cochi è stato uno dei primi a minare
fortemente la credibilità di questa consulenza, sostenendo che la
fattura analizzata non fosse stata scritta da Salvatore Vinci e
portando a riprova la busta di una lettera scritta dal Vinci e
destinata al colonnello Torrisi, recante una calligrafia
completamente diversa.
A ogni modo e indipendentemente dalle dispute fra mostrologi, è
opportuno sottolineare che:
▪ non c'è alcuna prova che la lettera "in me la notte non finisce
mai" fosse stata effettivamente scritta dal Mdf, anzi almeno fino alla
consulenza richiesta dal Cappelletti, la maggior parte dei
mostrologi escludeva questa possibilità;
▪ non c'è alcune prova che la fattura ritrovata a casa della Meoni
fosse stata scritta da Salvatore Vinci e non da un suo collaboratore;
▪ quandanche la lettera fosse stata scritta effettivamente dal MdF e
la fattura dal Vinci, non vi è alcuna prova che le due calligrafie
siano coincidenti, sebbene - stando a quanto riporta la Codella -
esiste una buona compatibilità, comunque rilevabile pure a occhio
nudo da parte di un profano. La consulenza della Codella, è bene
ribadirlo, non ha al momento alcun valore probatorio;
▪ ciò che alcuni mostrologi hanno supposto è che la lettera "in me la
notte non finisce mai" possa essere stata realmente scritta da
Salvatore Vinci, non perché fosse il MdF, ma anzi per burla o
ripicca nei confronti delle forze dell'ordine che proprio in quei
giorni lo tenevano sotto stretto controllo.

La telefonata alla Della Monica


Il 23 settembre 1985, un tale identificatosi come Gianfranco
Taddei effettuò una telefonata all'abitazione privata della
dottoressa Silvia Della Monica, la cui utenza telefonica era
intestata al marito. In questa telefonata l'interlocutore credeva (o
voleva far credere) di stare cercando un luogo dove "andare a fare
l'amore".
Fermo restando che potrebbe anche essersi trattato di un errore e
che questo tale Taddei avesse realmente sbagliato numero nel
tentativo di contattare una prostituta (ipotesi ad essere onesti poco
probabile), non è comunque scontato che l'episodio potesse avere a
che fare con la vicenda del Mostro. Da quasi due anni la Della
Monica si stava infatti occupando di casi altrettanto importanti,
stringendo una solida collaborazione con il poool antimafia di
Palermo e col giudice Giovanni Falcone, immaginiamo creandosi
nuovi e ancor più acerrimi nemici.
Resta curioso il particolare di questa telefonata a una decina di
giorni di distanza dall'invio del lembo di seno della Mauriot
proprio alla Della Monica. A oggi infatti sono molti i mostrologi che
paventano un collegamento fra questi due eventi.
Piccola parentesi: nell'ambito della mostrologia Merendara è sorta
in seguito la voce che in realtà l'anonimo si fosse presentato non
come Gianfranco ma come Giancarlo Taddei. E che alla domanda
realmente posta dalla DELLA MONICA: "Scusi, chi gliel'ha dato
questo numero?", costui avesse fatto il nome di un amico, tale Mario.
Sembra ovvio il riferimento ai compagni di merende, Lotti e Vanni.
Risulta tuttavia doveroso sottolineare che non esiste alcun riscontro
documentale su questa narrazione alternativa della vicenda.

L'autostoppista mugellana
Alle due del pomeriggio del 26 settembre 1985, un'ora e mezza
prima che la notizia della lettera spedita dal Mostro alla Della
Monica venisse resa pubblica da un'agenzia dell'ANSA, una
autostoppista mugellana di sedici anni, dal nome fittizio Anna,
accettò un passaggio da uno sconosciuto che viaggiava a bordo di
una Talbot chiara. L'uomo, di circa 45-50 anni, piuttosto robusto e
vestito elegantemente, accompagnò la studentessa da Firenze fino a
San Piero a Sieve e durante il viaggio le parlò della lettera di cui,
fino a quel momento, solo in pochi fra le forze dell'ordine erano a
conoscenza.
Resasi conto di aver ricevuto informazioni che non dovevano essere
pubbliche, il 19 ottobre 1985, la ragazza rese testimonianza
dell'episodio ai carabinieri di Borgo San Lorenzo. Una
testimonianza cui gli inquirenti - almeno apparentemente - non
attribuirono grande importanza. Il Sostituto Procuratore Francesco
Fleury dichiarò in merito: "La notizia della lettera spedita dal maniaco
ormai circolava da qualche giorno, inoltre la ragazza potrebbe anche
sbagliare di un giorno. Per noi comunque non cambia nulla". Il 21
ottobre 1985 si presentò ai carabinieri di Borgo Ognisanti,
accompagnato dall'avvocato Giuseppe Taddeucci Sassolini,
l'uomo che aveva dato il passaggio ad Anna per chiarire la sua
posizione. Costui confermò il racconto della ragazza, ma non il
particolare della lettera, su cui affermò di non sapere nulla.
In tempi molto recenti (luglio 2019), nell'ottica di un mostro da
ricercare nel Mugello e considerando che la descrizione dell'uomo
al volante della Talbot poteva risultare simile alle varie descrizioni
fatte a Vicchio del misterioso "Rossano", il documentarista Paolo
Cochi si è reso promotore di un appello rivolto all'ormai
cinquantenne "Anna" dalle pagine del giornale online "Ok
Mugello", chiedendole di palesarsi e di fornire maggiori
informazioni su quello strano incontro. La signora ha risposto
positivamente all'appello rilasciando una breve intervista al
documentarista.
In seguito, nel marzo del 2020, questa tale Anna è intervenuta in
una diretta Facebook dello stesso Paolo Cochi e ha risposto
pubblicamente alle domande a lei poste.
Tale vicenda ha successivamente avuto uno strascico polemico
quando, nel luglio 2020, in una trasmissione telefonica
dell'emittente "Florence International Radio", uno degli invitati, il
dottor Emanuele Santandrea, ha dichiarato di avere lui stesso
intervistato la suddetta "Anna" un mese prima di Cochi e che a lui
erano state rilasciate dichiarazioni differenti. Nella stessa occasione
il Santandrea ha aggiunto che di questa vicenda dovrebbe occuparsi
la Procura di Firenze perché sarebbe - a suo dire - un caso di
"depistaggio" o comunque un voler confondere le acque, fornendo
al pubblico false informazioni.
La signora "Anna" ha replicato dichiarando in una nuova intervista
rilasciata a Paolo Cochi di non aver mai parlato e di non aver mai
sentito nominare il suddetto Santandrea.
Indipendentemente dalla querelle venutasi a creare, a parere
prettamente personale di chi scrive, forse è stata data eccessiva
importanza a un episodio che potrebbe non averne. Ragionando in
maniera puramente intuitiva che - beninteso - non ha alcuna pretesa
di verità, se la notizia della lettera alla Della Monica era stata
battuta dall'Ansa alle 15.30 del 26 settembre 1985, è molto probabile
che la notizia circolasse negli ambienti giornalistici e affini già da
qualche ora. È dunque possibile che alle 14 la notizia fosse in
qualche modo trapelata o comunque non fosse di stretta pertinenza
degli inquirenti. Come dichiarò la stessa Procura per bocca del
dottor Fleury, a cui in questa occasione ci sentiremmo di dar
ragione, è anzi possibile che la notizia circolasse, sia pur in maniera
ufficiosa, già da qualche giorno.

Le cartucce a Poggio a Caiano


Il 27 settembre 1985, dunque il giorno successivo alla divulgazione
tramite mezzo stampa della lettera inviata alla dottoressa Della
Monica, ma anche il giorno successivo alla perquisizione
dell'ospedale di Ponte a Niccheri, vennero rinvenute 32 cartucce
inesplose calibro 22, marca Winchester, con la lettera H impressa
sul fondello, in una strada di campagna a Poggio a Caiano.
Sicuramente, considerando il numero elevato, in questo caso non si
può parlare di smarrimento casuale, ma di atto intenzionale
commesso da qualcuno.
Tuttavia, gli studi condotti su tali cartucce portarono gli inquirenti a
escludere potessero appartenere allo stesso lotto delle cartucce
usate dal Mostro di Firenze nei suoi delitti.

Le lettere alla Procura


Il primo ottobre 1985 vennero recapitate ai magistrati che si
occupavano delle indagini, Procuratore Aggiunto Francesco
Fleury e Sostituto Procuratore Paolo Canessa, due missive
anonime.
Entrambe le buste contenevano una fotocopia di un articolo de "La
Nazione" del 29 settembre 1985 riportante il titolo "Altro Errore Del
Mostro" e un foglio bianco ripiegato, cui era stato fissato con una
cucitrice il dito di un guanto di gomma da chirurgo giallo,
contenente una cartuccia Winchester calibro 22 con la lettera H sul
fondello. A lato dell'articolo era scritto a macchina "Uno a testa vi
basta?"
Le due buste erano senza affrancatura ma presentavano regolare
timbro postale, dunque - per quanto larga parte della odierna
mostrologia sostenga che fossero state consegnate a mano in
Procura - erano in realtà state entrambe imbucate e spedite,
seguendo cioé il normale iter postale.

Quattro giorno dopo, il 5 ottobre 1985, una terza missiva anonima


venne recapitata al Procuratore della Repubblica, Pier Luigi Vigna,
dal contenuto pressoché identico alle due precedenti. Anche la
busta destinata a Vigna presentava il timbro postale, dunque era
stata regolarmente imbucata e spedita, ma era anche questa priva di
affrancatura.
Su tali missive molti mostrologi, anche fra i piú autorevoli e
celebrati, hanno speso fiumi di parole e spesso fantasticato nel
tentativo di fornire una spiegazione a quella che in realtà è una
delle tante bufale mostrologiche, vale a dire che l'anonimo mittente
avesse consegnato a mano in Procura le prime due lettere e spedito
la terza.
Le tre buste con i loro rispettivi contenuti vennero analizzate. Per
quanto riguarda i proiettili, al momento non vi è alcuna evidenza
che provenissero effettivamente da una delle famose tre scatole del
MdF; sappiamo tuttavia che la stampigliatura sul fondello dei
bossoli mostrava caratteristiche di buona compatibilità con quella
dei bossoli ritrovati sui luoghi del delitto. Considerando le difficoltà
naturali che si hanno nel comparare bossoli esplosi (dunque
soggetti all'azione del percussione e del calore con relativa
deformazione) con bossoli non esplosi, risultó impossibile trarre
conclusioni più stringenti.
Le buste vennero giudicate simili ma non di identica origine
merceologica rispetto a quella inviata alla dottoressa Della Monica.
Si appurò che erano state tutte e tre chiuse con saliva appartenente
a un individuo con gruppo sanguigno di tipo A, RH postivo. Tale
gruppo sanguigno non è risultato compatibile con alcuno degli
indiziati e/o indagati per i delitti del Mostro, eccezion fatta per il
dottor Francesco Narducci. Risulta questa tuttavia una conclusione
che non permette grosse deduzioni, essendo il gruppo A
largamente diffuso in Italia (circa il 35% della popolazione).
Sebbene non vi siano certezze sul mittente di queste missive, a
buona parte della odierna mostrologia è sempre parso abbastanza
evidente che la Procura di Firenze avesse dato una certa importanza
a queste tre lettere.
Parecchi anni dopo, lo stesso Pier Luigi Vigna dichiarò in
un'intervista al documentarista Paolo Cochi che, a differenza dei
proiettili rivenuti all'ospedale di Ponte a Niccheri, questi
mostravano un'ottima compatibilità con quelli usati dal Mostro e
dunque erano stati tenuti in debita considerazione dalla Procura.
Abbiamo però già visto nel relativo paragrafo come Vigna in
occasione di tale intervista non avesse propriamente ricordi nitidi
sul rinvenimento a Ponte a Niccheri.
In ogni caso, a dimostrazione dell'interesse degli inquirenti verso
queste lettere, nel febbraio del 2003, durante le indagini sui
mandanti, i magistrati Paolo Canessa della Procura di Firenze
e Giuliano Mignini della Procura di Perugia inviarono le buste al
professor Carlo Previderé dell'università di Pavia per estrarre il
DNA dai campioni di saliva. Per cause ancora ignote le relative
analisi non furono mai eseguite; un articolo di "La Repubblica" del
novembre 2007, a firma della giornalista Franca Selvatici, riportava
semplicemente che il professor Previderé non era riuscito a estrarre
il DNA dai campioni di saliva.
Nel 2007 il dottor Mignini chiese di far esaminare le buste al
colonnello Luciano Garofano, comandante del RIS. Le tre buste
risultarono però al momento irreperibili e con esse anche la
relazione del professor Previderé.
In tempi più recenti, sfruttando le nuove tecnologie, è stato
possibile estrarre dai campioni un DNA parziale con 10 alleli,
sufficienti per eventuali comparazioni con possibili sospettati.
Comparazioni che a quanto ci risulta non sono mai state eseguite.
A oggi (ultimo scorcio del 2021) sembrano non essere stati fatti
ulteriori passi avanti. In realtà, non è stato neanche possibile
appurare se le buste in oggetto avessero realmente a che fare con la
vicenda o fossero state il frutto dell'azione di un mitomane o di un
becero scherzo giocato a danno dei magistrati che si occupavano del
caso. Eventuali comparazioni potrebbero quindi non portare a nulla
o persino a riscontri errati.
È opportuno, infatti, tener conto che nell'unica lettera certa inviata
dal MdF, costui si era premunito di non lasciare alcuna traccia
biologica, provvedendo a chiudere la busta con della colla. Inoltre,
tale missiva era stata regolarmente affrancata (utilizzando sempre
della colla) prima di essere spedita tramite posta ordinaria. Appare
dunque anomalo che nel caso delle lettere ai magistrati, il Mostro
avesse utilizzato la propria saliva, lasciando alle sue spalle una
importante traccia biologica.
Si attendono, in ogni caso, eventuali sviluppi sulla vicenda.
Cartucce nel Mugello
Il giorno 5 ottobre 1985 venne rinveuta in una cassetta della posta di
San Piero a Sieve (per amor di precisione, non quella dove era stata
imbucata la lettera alla dottoressa Della Monica) una cartuccia
inesplosa calibro 22 marca Fiocchi, dunque differente da quelle
Winchester utlizzate nei delitti del Mostro di Firenze.
La mattina del giorno seguente, 6 ottobre 1985, venne rinvenuta in
via Dante Alighieri numero 3 a Scarperia (nord del Mugello) una
cartuccia inesplosa Winchester calibro 22 con la lettera H impressa
sul fondello, questa sì della stessa marca e tipologia di quelle
utilizzate nei delitti. La cartuccia venne rinvenuta al centro della
carreggiata da una signora che stava andando in chiesa per la
funzione domenicale. La signora notò l'ormai celebre lettera H e
decise di consegnarla subito alla vicina caserma dei carabinieri.
Questa cartuccia destò un certo allarme negli ambienti investigativi
perché era stata rinvenuta in località estremamente vicina alla
residenza estiva della dottoressa Silvia della Monica, la quale, meno
di un mese prima, aveva ricevuto la lettera con il lembo di seno
della Mauriot.
Per quanto ci è dato sapere, successive indagini non portarono
ovviamente a nulla di nuovo.

La morte nel Trasimeno


Il giorno 8 ottobre 1985 scomparve a Perugia il dottor Francesco
Narducci, a lungo sospettato di essere il MdF. Il suo cadavere
venne ripescato il 13 ottobre, dunque cinque giorni dopo la
scomparsa, nelle acque del lago Trasimeno, tra l'isola Polvese e il
paese di Sant'Arcangelo. Molti dubbi e molte incertezze circolano
tuttavia ancora oggi sia sul ritrovamento, sia sulla misteriosa morte
del dottore (vedasi a questo proposito i capitoli Il medico di
Perugia e Una morte misteriosa).

L'identikit agli Scopeti


Nel novembre del 1985, giunsero presso le redazioni dei quotidiani
"La Nazione", "La Città" e "Il Paese Sera", tre lettere anonime in cui
il mittente dichiarava di aver incontrato nella piazzola degli Scopeti
il pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 (giorno in cui all'epoca
si credeva fosse stato commesso l'omicidio) un tipo sospetto che
guardava con insistenza verso la tenda dei francesi. L'anonimo
mittente, chhe si definiva disegnatore esperto e ritrattista, accludeva
nella lettera un preciso identikit del soggetto.

Il quotidiano "La Nazione" pubblicò l'identikit, asserendo che anche


le forze dell'ordine ne erano venuti in possesso, lo avevano
distribuito presso tutte le caserme dei carabinieri e divulgato fra le
macchine di pattuglia, a dimostrazione dell'importanza che vi
davano.
La Procura di Firenze si affrettò però a smentire tali affermazioni. Il
Procuratore Raffaello Cantagalli dichiarò che la fonte di tale
missiva anonima era priva di qualsiasi fondamento, probabilmente
opera di un mitomane.
Data l'estrema somiglianza dell'identikit con un guardone di San
Casciano noto col soprannome di "Seghe Seghe" (in questa sede se
ne omette volontariamente il nome), solito frequentatore della
piazzola degli Scopeti, i carabinieri di San Casciano provvidero
comunque a rintracciarlo e interrogarlo. Il guardone confermò la
sua presenza nella piazzola il sabato mattina precedente
all'omicidio, ma non la domenica pomeriggio.
Parecchi anni dopo, tale guardone avrebbe testimoniato al Processo
Pacciani sulla sua conoscenza con l'imputato e per una mera
casualità sarebbe stato intervistato in un bar di Mercatale da una
troupe televisiva della RAI giunta in zona per realizzare un servizio
sul Pacciani.

Il profilo dei periti di Modena


Come visto nel capitolo dedicato al delitto di Vicchio, nel
settembre e nell'ottobre 1984 la Procura di Firenze aveva chiesto al
professor De Fazio dell'università di Modena di redigere un profilo
approfondito (fisico e psicologico) dell'autore dei duplici delitti
attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze. L'equipe del professore
presentò una prima perizia alla fine del 1984; successivamente,
dopo il delitto degli Scopeti, e precisamente nel Maggio del 1986, la
stessa equipe presentò una seconda perizia aggiornata.
Il profilo che emerge dagli studi condotti dagli esperti di Modena è
quello di un "Lust Murder" (letteralmente assassino per lussuria),
che dunque agisce "sotto la spinta di un impulso sessuale abnorme" e
inappagato. Un assassino solitario, di sesso maschile, molto
probabilmente destrimane, estremamente abile nell'uso delle armi
da taglio ma anche con "una conoscenza quantomeno dilettantistica
nell'uso di arma da fuoco".
Si tratterebbe di soggetto metodico, sistematico, cauto, astuto e
sufficientemente organizzato da non lasciare evidenti tracce alle sue
spalle, "probabilmente capace di buona integrazione nel contesto
ambientale dì appartenenza".
L'assassino agirebbe scegliendo i luoghi e le situazioni ma non le
vittime, che in genere sono sconosciute, con l'unica possibile
eccezione del delitto di Rabatta, in cui - secondo il rapporto De
Fazio - almeno la vittima femminile gli doveva essere ben nota.
Infine si tratterebbe di soggetto probabilmente, ma non
necessariamente scapolo, in ogni caso "non perfettamente integrato sul
piano affettivo ed emotivo con una figura femminile".
Un uomo "con sicure connotazioni psicopatologiche della
personalità" ma non necessariamente affetto da "una forma di
patologia mentale grave già diagnosticata", le cui modalità
d'azione "depongono comunque più per una ipo-sessualità che non per
una ipersessualità, se non addirittura per una tipologia d'autore che
raramente è in grado di avere normali rapporti sessuali".
Inutile dire che parte del profilo tracciato dalla perizia De Fazio
sembrerà in contrasto con la figura di Pietro Pacciani e ancor di più
con quella dei Compagni Di Merende. Diverrà dunque questo un
tema largamente dibattuto all'interno di entrambi i processi.

Occhio Ragazzi
Nella primavera del 1986, quando la psicosi del Mostro aveva
probabilmente raggiunto il proprio acme, venne realizzata una fitta
campagna d'informazione su tutto il territorio fiorentino per
prevenire nuovi agguati. Furono stampati manifesti e volantini con
la famosa scritta "Occhio Ragazzi", che vennero diffusi nei circoli
universitari, nelle scuole, nei bar, nelle discoteche e in qualsiasi
punto di aggregazione giovanile.
Tali volantini vennero anche affissi ai caselli autostradali, alle
fermate degli autobus, sugli alberi, sui muri delle case di campagna,
distribuiti presso gli ostelli e i centri del turismo e riportavano in
cinque lingue l'avvertimento: "Pericolo di aggressioni. È consigliato di
non appartarsi e non sostare in luoghi isolati durante la notte fuori dai
centri urbani". Inoltre, stradine, sentieri, piazzole di campagna
vennero tappezzati di cartelli che per motivi di sicurezza vietavano
alle auto, alle roulotte e alle tende la sosta dalle 19 alle 7.
Nel maggio dell'anno dopo, in seguito a nuovi eventi che verranno
analizzati nel prossimo punto, al fitto volantinaggio si aggiungerà
una campagna pubblicitaria che verrà trasmessa sulle televisioni
nazionali, divulgata dalle radio e riprodotta nelle discoteche: sulle
note della celebre canzone di Renzo Arbore del 1985, "Ma la notte
no", verrà infatti diffuso un video che, con maggior incisività,
inviterà i giovani a non appartarsi nelle campagne fiorentine in
orari notturni. A questo videoclip ne verrà affiancato un altro,
decisamente più inquietante, in cui al posto del refrain di Arbore, a
far da colonna sonora sarà un battito cardiaco.
Nel maggio del 1988, per il terzo anno consecutivo, il Comune di
Firenze lancerà per l'ultima volta la campagna "Anti-Mostro",
divulgando circa 175 mila volantini per la città e le campagne
circostanti il capoluogo toscano.

La videocassetta alla Procura


Il giorno 20 marzo 1987 arrivò una telefonata anonima a casa
Rontini cui rispose la mamma di Pia, la signora Winnie Kristensen.
L'interlocutore anonimo con voce priva di particolari inflessioni
dialettali riferì che fra il 22 e il 25 marzo sarebbe successo qualcosa
di nuovo sul fronte delle indagini al MdF. Winnie informò subito la
Procura.
Alcuni giorno dopo (probabilmente il 7 aprile, a quanto
riporta Mario Spezi) arrivò in Procura una busta indirizzata alla
dottoressa Silvia Della Monica, al cui interno c'era una
videocassetta e una lettera scritta a macchina. La videocassetta
conteneva spezzoni di trasmissioni e servizi televisivi dedicati al
Mostro di Firenze con sottofondo la canzone di Lucio Battisti,
intitolata "Anna". Sul foglio erano state battute a macchina una
trentina di righe tuttora coperte da segreto istruttorio.
I giornali dell'epoca scrissero che l'autore della missiva anonima
aveva riportato su quel foglio tutti gli errori e le insattezze
contenuti negli spezzoni della videocassetta. A quanto pare, sempre
sulla base di fonti giornalistiche, una correzione ai suddetti errori,
riguardante il duplice omicidio di Scopeti, allarmò fortemente gli
inquirenti, perché evidentemente si trattava di un particolare che
solo il Mostro e pochi fidati uomini di Vigna potevano conoscere.
Nonostante lo stesso Vigna sminuì pubblicamente la
preoccupazione per la vicenda, dichiarando "Ma cosa vuole che ci sia
scritto, è una cosa farneticante, è opera di uno dei soliti mitomani...", nel
giro di qualche giorno venne riattivata la SAM, venne riattivata la
suddetta campagna pubblicitaria "Occhio ragazzi", venne prodotto
il succitato spot televisivo di sensibilizzazione per i giovani,
vennero chiamati a raccolta tutti i sindaci della provincia per
affrontare la nuova emergenza, infine venne spedita la
videocassetta alla scientifica di Roma per le analisi (a quanto si sa
infruttuose) del caso.
Un articolo de "La Repubblica" datato 22 aprile 1987 riporta
infatti: "...Contemporaneamente sarà ripresa l'operazione Occhio ragazzi.
Probabilmente modificheremo leggermente l'occhio che dà l'input alla
campagna... quello dello scorso anno era un invito. Ora per i ragazzi
invece è obbligatorio stare attenti. Saranno di nuovo attaccate locandine e
manifesti... Sì, il pericolo non è passato, il maniaco è in libertà. Lo ha
ripetuto ieri mattina anche il prefetto di Firenze Giovanni Mannoni che al
termine di una riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la
sicurezza ha lanciato un appello ai giovani: durante la notte non sostate in
località isolate. L'incubo del mostro è tornato prepotentemente ad
affacciarsi su Firenze perché tre settimane fa il sostituto procuratore Silvia
Della Monica ha ricevuto un minaccioso avvertimento: una lettera ed una
videocassetta contenente brani di trasmissioni televisive dedicate alle
sanguinarie imprese del maniaco. La Procura giura che è opera di un
mitomane qualunque ma il magistrato è lo stesso che all'indomani
dell'ultimo duplice omicidio aveva ricevuto una parte del seno che il folle
assassino aveva asportato alla turista francese Nadine Mauriot. I timori e
le paure sono evidenti..."
Un aspetto è opportuno sottolineare di questa vicenda: lettera e
videocassetta sono sempre stati sottoposti a estremo riserbo da
parte della Procura di Firenze, anche a distanza di anni. A
differenza di quanto talvolta si sente dire in giro, nessuno fra
mostrologi e/o organi d'informazione ha avuto modo di visionarla.
Nessuno sa dunque quale particolare sarebbe stato corretto
dall'anonimo mittente. Ovviamente nel corso degli anni sono state
avanzate diverse ipotesi. Ne riportiamo un paio, degne di nota:
▪ Il blogger Martin Rush suggerisce testualmente nei suoi scritti: "A
voler essere maliziosi verrebbe da pensare a una parola che inizia per S e
finisce per copeti". Per facilitare la comprensione, probabilmente il
predetto Rush sta suggerendo che l'anonimo mittente potrebbe aver
corretto la reale data in cui fu commesso il duplice omicidio degli
Scopeti, fornendo una retrodatazione che nel 1987 non era stata
ancora presa ufficialmente in considerazione, ma che gli inquirenti -
considerando lo stato in cui vennero rinvenuti i cadaveri - non
poterono non aver almeno valutato.
▪ Una seconda ipotesi è stata molto recentemente formulata dal già
citato esperto balistico Enrico Manieri, meglio noto in mostrologia
come Henry62.
In un video del 13/02/2021 sul suo canale youtube, Henry fa
riferimento all'analisi investigativa criminale redatta nel giugno del
1989 dalla FBI su richiesta della Procura di Firenze. In un passaggio
di tale documento, a proposito della lettera inviata dal killer alla
Della Monica, è scritto che conteneva "genitali" della vittima
femminile. Come già ampiamente visto, in realtà tale lettera - per
quanto ci è dato sapere - conteneva invece un lembo di seno della
povera Nadine Mauriot.
Dato per scontato che la Procura di Firenze che ha inviato tutte le
informazioni ai loro colleghi d'oltreoceano per redarre questa
analisi, difficilmente potrebbe essersi sbagliata su un punto così
importante, le ipotesi che restano da valutare per spiegare questa
discrepanza sono essenzialmente due: un refuso da parte degli
esperti FBI oppure un'informazione avuta correttamente dalla
Procura, riportata correttamente nel suddetto documento, ma
diversa da quella che per quasi trent'anni è stata fornita all'opinione
pubblica italiana.
Dunque secondo l'ipotesi di Henry62, la lettera inviata alla Della
Monica nel settembre del 1985 poteva realmente contenere oltre al
lembo di seno anche parte del pube escisso alla Mauriot, ma questa
informazione sarebbe rimasta per anni di esclusiva conoscenza
della Procura di Firenze e di un piccolo gruppo di esperti
criminologi con cui è stata condivisa.
Il noto studioso ipotizza quindi che nella videocassetta del 1987 il
serial killer possa aver corretto proprio questo particolare
comunemente riportato dagli organi di informazione, scatenando
ovviamente il panico in Procura.
È questa un'ipotesi altamente suggestiva, che implicherebbe però
una sorta di patto fra gli inquirenti su un particolare non di
secondaria importanza. Un patto che sarebbe durato per decenni,
resistendo non solo alle numerose interviste rilasciate nel corso
degli anni dagli stessi inquirenti (si pensi ad esempio all'intervista
di Paolo Cochi alla dottoressa Della Monica, in cui viene appunto
affrontato il tema della lettera), ma soprattutto resistendo a due
Processi per un totale di sei gradi di giudizio, in cui svariati
testimoni sono stati chiamati sotto giuramento a deporre riguardo
le perizie svolte sulla lettera e sul suo contenuto.
Insomma abbracciare la pur suggestiva teoria di Henry62,
implicherebbe che nel corso dei Processi un buon numero di
persone (compresi magistrati, molti dei quali persino in conflitto fra
loro) abbia mantenuto il segreto, dichiarando pubblicamente il falso
sull'argomento o quanto meno omettendo particolari importanti
della vicenda.

Telefono giallo
In data 6 Ottobre 1987 andò in onda su Rai3 la seconda puntata
della fortunata trasmissione televisiva "Telefono Giallo", condotta
dai giornalisti Corrado Augias e, limitatamente a quella prima
stagione, Donatella Raffai. La puntata fu interamente dedicata al
caso del Mostro di Firenze.
Risultano interessanti i temi trattati a distanza di due anni
dall'ultimo duplice omicidio noto; furono molte le telefonate giunte
in trasmissione e molti i protagonisti della vicenda invitati in
studio, da Pier Luigi Vigna a Sandro Federico, da Nino Filastò a
Mario Spezi.
Ferma era la convinzione di tutti i presenti che il Mostro fosse
davanti alla TV a seguire il dibattito.
Da sottolineare in questa sede lo sbrigativo riferimento alla
videocassetta spedita alla Procura pochi mesi prima, cui Vigna dà
l'idea di non prestare troppa attenzione e non attribure eccessiva
credibilità.
Interessanti anche gli interventi del professore Giorgio Abraham,
psichiatra e sessuologo di chiara fama internazionale, che ha
tratteggiato un ipotetco profilo del killer e ne ha più volte tentato di
stuzzicare la vanità, affinché si palesasse e rendesse il mondo
finalmente consapevole della sua identità e delle sue gesta.
Inutile dire che il tentativo si rivelerà vano.

Il profilo redatto dall'FBI


Nel 1989 la Procura di Firenze inviò l'intero incartamento dedicato
alla vicenda del Mostro di Firenze negli Stati Uniti affinché venisse
redatto dagli esperti dell'FBI un profilo criminologico dell'efferato
autore dei delitti che aveva insanguinato la campagna fiorentina dal
1968 al 1985.
Il 30 giugno 1989, il Forensic Behavioral Science Investigative
Support Unit fornì la perizia richiesta. Il profilo che emerse non si
discostava troppo dalle conclusioni cui erano giunti i periti
dell'università di Modena.
La perizia completa (tradotta in italiano) è rintracciabile presso vari
siti che si occupano della vicenda del MdF, ad esempio presso il
blog Insufficienza di Prove.

Con la perizia redatta dall'FBI calò definitivamente il sipario sulle


azioni più o meno strettamente connesse alle vicende del MOSTRO
DI FIRENZE e di lì avrebbe avuto inizio una lunghissima e
tribolata vicenda giudiziaria che a distanza di 33 anni non si è
ancora conclusa.
La firma del Mostro

Dopo aver esaminato nel dettaglio i duplici omicidi storicamente


attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze, proviamo in questo
capitolo a mettere in evidenza gli aspetti in comune fra gli otto
episodi, cercando di individuare - ove fosse possibile - tratti di
ritualità e di maniacalità nei delitti, compresa la
cosiddetta firma dell'assassino, stando bene attenti a non
confonderla con il modus operandi dello stesso.
Va subito precisato che, a differenza di quanto si creda, la firma
dell'assassino è un elemento non sempre presente o individuabile in
un omicidio seriale. Molto ricorrente nei romanzi e nei film gialli in
quanto di sicuro effetto scenico, è difficilmente riscontrabile nella
realtà. I serial killer che nella storia hanno lasciato quella che può
univocamente essere interpretata come la propria firma sono
piuttosto rari.
Anche sulle scene dei crimini commessi dal Mostro di Firenze, pur
essendo riscontrabili palesi tratti di manicalità e una certa ritualità
fortemente connessa con il modus operandi, non vi è univoca
certezza della presenza di una firma dell'autore dei delitti.
Per fare chiarezza e in estrema sintesi, la firma è un'azione rituale
che l'assassino compie per raggiungere il proprio
completo "appagamento". Si tratta di azioni o comportamenti che
non sono prettamente necessari per l'attuazione del crimine, ma
servono a soddisfare un bisogno psicologico del killer. Ne consegue
che la firma è costante in ogni delitto perpetrato dallo stesso
assassino e non varia negli anni. Secondo i più recenti studi, la
firma è strettamente legata al movente più "profondo" del soggetto
che commette gli omicidi.
Il modus operandi rappresenta, invece, quell'insieme di azioni e
comportamenti che servono al killer per commettere il delitto.
Dunque si potrebbe dire che il modus operandi coincide con
il "come" un crimine è stato commesso, mentre la firma con
il "perché".
Risulta facilmente intuibile da quanto detto che nel momento in cui
parliamo di maniacalità e di "firma dell'assassino" per la vicenda
del MdF, contempliamo con estrema probabilità l'ipotesi di un
unico autore per tutti gli episodi delittuosi (forse con l'eccezione del
1968), presumibilmente solitario e affetto da qualche patologia
psichiatrica (che lo spingerebbe a commettere e firmare i propri
delitti), non necessariamente evidente all'esterno.
Pur tuttavia, anche in caso si contemplasse la possibilità di più
autori sulla scena del crimine (ipotesi merendara) e finanche di
delitti su commissione (ipotesi mandanti), non è possibile
aprioristicamente escludere l'eventualità di rinvenire sulle varie
scene del crimine manifestazioni maniacali reiterate nel tempo. A
patto che fra gli esecutori materiali ci sia un leader (quello che i
merendari vedono nel Pacciani) che prenda univocamente qualsiasi
decisione, che abbia completo controllo dei suoi complici (Vanni e
Lotti) e che dunque agisca come fosse un killer solitario, salvo avere
aiuto esclusivamente di tipo pratico dai gregari.
Ci sentiremmo invece di escludere categoricamente la possibilità di
rinvenire medesime manifestazioni maniacali sulle varie scene del
crimine nel caso di autori diversi per ogni delitto, i quali di volta in
volta si sarebbero passati pistola e munizionamento
(ipotesi Cannella).
Risulterebbe estremamente complesso, se non impossibile, spiegare
in tal caso non solo una ritualità che si ripete nel tempo, ma anche
tratti di maniacalità comune fra i vari delitti e soprattutto un'unica
psicopatia che accomunerebbe diversi soggetti e che si
manifesterebbe in episodi delittuosi diversi nello stesso identico
modo.
Fatte queste doverose premesse, elenchiamo e commentiamo gli
aspetti in comune fra i delitti:

1. Otto duplici omicidi, di cui almeno sette commessi sicuramente


dalla stessa pistola e verosimilmente dalla stessa mano. Il primo
delitto appare a tutti gli effetti maturato in ambito familiare, per
vendetta, onore o gelosia e in questo senso si sono orientate le
indagini. Gli altri sette appaiono evidentemente di natura
maniacale.
2. La pistola usata in tutti gli episodi delittuosi - come vedremo
nel prossimo capitolo - è verosimilmente una Beretta Calibro 22
Long Rifle prodotta all'incirca nel 1964.
3. Il munizionamento usato proviene in tutti i casi dallo stesso lotto,
prodotto all'incirca nel 1966.
4. Nei primi due delitti il killer ha usato proiettili a palla ramata,
negli ultimi sei a piombo nudo, con l'eccezione di un unico priettile
a palla ramata utilizzato a Giogoli nel delitto del 1983.
5. In sei casi su otto sono stati rinvenuti sulla scena del delitto una
quantità di bossoli inferiore rispetto ai colpi sparati. Per la
precisione:
▪ a Signa nel 1968 sono stati repertati 6 bossoli su 8 colpi sparati.
▪ a Rabatta nel 1974 e a Scandicci nel 1981 sono stati repertati 5
bossoli su 8 colpi sparati;
▪ a Travalle nel 1981 sono stati repertati 7 bossoli su 9;
▪ a Baccaiano nel 1982 sono stati repertati 9 bossoli su 9;
▪ a Giogoli nel 1983 sono stati repertati 4 bossoli su 7;
▪ a Vicchio nel 1984 sono stati repertati 5 bossoli su 7;
▪ a Scopeti nel 1985 sono stati repertati 9 bossoli su 9.
Il massimo numero di colpi esplosi è stato 9 in tre occassioni:
Calenzano, Baccaiano e Scopeti.

Da questi primi cinque punti si può ragionevolmente desumere che


per il killer l'arma da fuoco e il relativo munizionamento potessero
avere un significato simbolico.
A tal proposito più volte è stato fatto notare dagli esperti del settore
come la pistola usata dal Mostro non fosse la più idonea per
compiere tali azioni criminali (trattasi infatti di arma adatta per il
tiro a segno, non certo per commettere efferati omicidi), tanto più se
consideriamo che durante la fase cruciale e più densa dei delitti,
fosse già discretamente vecchia.
Eppure, questa era l'arma cui il killer ricorreva ogni qual volta
doveva portare a compimento le sue azioni omicidiarie. Il
criminologo De Fazio attribuì a tale arma un significato feticistico. E
del resto, pistola e bossoli erano gli oggetti distintivi, immediati e
maggiormente d'impatto, con cui veniva univocamente
riconosciuto un nuovo delitto commesso dal MdF.
Lo studioso ed esperto balistico Enrico Manieri ritiene a tal
proposito che i bossoli con la lettera H siano l'unica vera firma del
Mostro di Firenze, riservando in questo caso al concetto di "firma"
un significato diverso, per così dire più popolare, rispetto a quello
accademico attribuito dalla scienza psichiatrica. A tal proposito, il
Manieri ritiene che in occasione del delitto degli Scopeti, il killer
avesse volontariamente posto in bella mostra un bossolo sul telo
bianco all'ingresso della tenda della coppia francese come segno di
riconoscimento, quasi a voler consegnare alla storia quello che già
sapeva sarebbe stato il suo ultimo duplice omicidio.
Alcuni mostrologi ritengono addirittura che i delitti possano esser
cessati perché il killer aveva esaurito i proiettili e mai avrebbe
potuto commetterne altri con un munizionamento diverso da quello
che aveva sempre utilizzato.

6. Sei delitti sono avvenuti a danno di coppie appartate in auto nella


campagna fiorentina, uno a danno di una coppia di uomini
accampata per la notte in un furgone adibito a camper, l'ultimo a
danno di una coppia in tenda. Gli unici due delitti che non
riguardano coppie in auto, sono avvenuti a danno di coppie
straniere.
7. Sei delitti sono avvenuti d'estate, uno a inizi giugno con clima
comunque estivo, uno a ottobre.
8. Sei delitti sono avvenuti di weekend (intendendo per weekend
un lasso di tempo che va dal venerdì sera alla domenica sera). In
particolare tre sono avvenuti di sabato, uno di domenica, uno di
venerdì, uno (l'ultimo) in una data non certa ma sicuramente
ascrivibile a un periodo che va dal venerdì sera alla domenica.
Per quanto riguarda i due tagliati fuori dal fine settimana, uno è
avvenuto di giovedì (ma il giorno dopo era sciopero generale) e uno
(il primo) di mercoledì.
9. Cinque delitti sono avvenuti dopo le 22.30, di questi quattro
attorno o dopo le 23.30. Uno (Vicchio, 1984) alle 21:40 circa. Due
delitti (quelli ai danni delle coppie straniere) non hanno un orario
definito. A Giogoli il delitto è stato commesso fra le 21:00 e le 24:00.
Su Scopeti c'è incertezza assoluta, ma qualunque sia stato il giorno è
probabile sia avvenuto in orario serale/notturno.
10. Tutti i delitti sono avvenuti in regime di assoluta oscurità: sei in
prossimità della luna nuova, due con una mezza luna calante, che
in un caso (ottobre 1981) era comunque coperta dalle nubi.
11. Tutti i luoghi dove si sono verificati gli omicidi distavano pochi
minuti di automobile dalle abitazioni delle rispettive vittime,
escludendo ovviamente i due delitti delle coppie straniere.
12. Nelle immediate vicinanze dei luoghi in cui si sono verificati sei
delitti, scorreva un fiume o un corso d'acqua: il Vingone nel 1968, la
Sieve nel 1974, il torrente Marina nell'Ottobre 1981, il torrente
Virginio nel 1982, ancora il Vingone nel 1983 (in questo caso
leggermente più distante), ancora la Sieve nel 1984.
Rimangono tagliati fuori dalla presenza di corsi d'acqua Mosciano
di Scandicci e Scopeti.

Possiamo dedurre dai succitati punti che la tipologia di mezzo


utilizzato dalle vittime per appartarsi nella campagna fiorentina, la
stagione, la fase lunare, i giorni della settimana e l'orario in cui si
sono verificati i delitti, sono sicuramente peculiarità proprie degli
omicidi del Mostro di Firenze, ma non sono delle condizioni
indispensabili.
Ove ne ha avuto l'opportunità il killer ha colpito coppie in camper
(1983) o in tenda (1985), in stagione non estiva (entrambi i delitti del
1981), in giorni non del fine settimana (1968, ottobre 1981), in orari
diversi da quelli abituali (1984) e durante fasi lunari piuttosto
lontane dal novilunio (ottobre 1981 e 1985).
Sarebbe lecito supporre dunque che il ripetersi di determinate
situazioni siano state più dettate da ragioni di opportunità logistica
che non da un vero e proprio rituale. Per esempio è fin troppo
banale arrivare alla conclusione che d'estate (o comunque con clima
estivo) e nei weekend (o comunque in giorni precedenti a quelli
festivi) era più facile trovare coppie appartate in automobile fino a
tardi. Ed è anche banale pensare che un'ora tarda avrebbe portato
verosimilmente ad avere meno gente in giro durante la fase
delittuosa. Inoltre una situazione di novilunio o più in generale di
assoluta oscurità avrebbe facilitato notevolmente l'opera delittuosa
dell'assassino.
Per quanto riguarda i corsi d'acqua, anche questa non è una
costante per tutti i delitti. Non si può escludere che la presenza di
fiumi, torrenti o anche abbevaratoi (come nel caso di Scopeti) nei
dintorni del luogo dell'omicidio potesse agevolare l'assassino in
sommarie operazioni di pulizia dopo le escissioni. Tuttavia non si
trattava sicuramente di una condizione necessaria per la
realizzazione dell'assalto.

13. In cinque delitti il killer ha adoperato l'arma bianca per infierire


sui cadaveri. In quattro casi ha eseguito un'escissione pubica sulla
vittima femminile, negli ultimi due oltre all'escissione pubica ha
eseguito un'escissione del seno sinistro.
L'utilizzo di arma bianca manca nel primo delitto (Signa, 1968), nel
quinto (Baccaiano, 1982) e nel sesto (Giogoli, 1983). In tutti e tre i
casi ci sarebbero motivazioni più che valide per il mancato utilizzo:
nel primo caso la presenza del bambino, nel secondo la fuga del
Mainardi, nel terzo l'assenza della vittima femminile.
14. Di delitto in delitto c'è stata una sorta di escalation di violenza
da parte del killer.
▪ nel primo adopera solo la pistola.
▪ nel secondo adopera la pistola; infierisce con poche coltellate
sull'uomo; infierisce con molte coltellate sulla donna, cui infila un
tralcio di vite nella vagina.
▪ nel terzo delitto c'è arma da fuoco; coltellate a danno dell'uomo;
escissione pubica a danno della vittima femminile.
▪ nel quarto c'è arma da fuoco; coltellate a danno dell'uomo;
coltellate ed escissione pubica a danno della donna.
▪ nel quinto delitto c'è arma da fuoco, ma le condizioni hanno
probabilmente impedito l'utilizzo dell'arma bianca.
▪ nel sesto c'è arma da fuoco, ma le condizioni hanno probabilmente
impedito l'utilizzo dell'arma bianca.
▪ nel settimo c'è arma da fuoco; molte coltellate a danno dell'uomo;
coltellate, escissione pubica ed escissione mammaria a danno della
donna.
▪ nell'ottavo delitto c'è arma da fuoco; molte coltellate a danno
dell'uomo; escissione pubica ed escissione mammaria a danno della
donna.

L'escalation di violenza come conseguenza dell'evoluzione della


patologia dell'assassino è stata teorizzata sia dal dottor De Fazio che
dal dottor Maurri e quasi universalmente accettata dalla odierna
mostrologia.
Risulta piuttosto diffusa in ogni caso l'idea che l'escissione in sé pur
presentandosi come una fortissima manifestazione di tipo
patologica-maniacale, non può essere considerata la firma
dell'assassino, in quanto in almeno un'occasione non è stata
perpretata pur avendone l'assassino la possibilità (1974). Ne
consegue che l'escissione non è il fine ultimo dell'assalto, ma è
un'azione subentrata successivamente, forse per un bisogno
feticistico o per una sorta di macabra spettacolarizzazione delle
proprie gesta.
Essendo, tuttavia, il tema fortmente dibattuto e di non univoca
interpretazione, non mancano opinioni diverse in merito.

15. Quattro delle sei vittime femminili avevano dichiarato nei giorni
immediatamente precedenti al delitto di essere state importunate
da qualcuno. Uniche eccezioni, la De Nuccio e ovviamente la
Mauriot.
16. Pur collocandosi i delitti in un'epoca in cui il periodo di ferma
militare era obbligatorio, nessuna delle vittime maschili aveva
espletato il servizio militare.
17. Tre delle prime cinque vittime femminili lavoravano nel campo
tessile, una lavorava nel campo della pelletteria, affine al
precedente. Solo la Locci esulava da attività lavorative di questa
tipologia. Per quanto riguarda gli ultimi tre delitti, la Rontini
lavorava in un bar, la Mauriot nel commercio delle scarpe.
Come già detto, il campo tessile era comunque fra le attività
lavorative più diffuse nella Toscana degli anni 70/80.
18. Tre delle prime cinque vittime femminili avevano una
superficiale somiglianza fra loro: magre, capelli neri, carnagione
lattea. In seguito la Migliorini e la Rontini sarebbero state piuttosto
diverse fisicamente, mentre la Mauriot, anche per questioni
angrafiche, esulava abbastanza dalla tipologia di vittima del serial
killer.
19. Nei primi quattro delitti c'è stata manomissione dei cadaveri da
parte del killer; manomissione che manca nel quinto (Baccaiano,
1982) e nel sesto (Giogoli, 1983) perché le condizioni potrebbero
averlo impedito. Ampia manomissione su entrambi i cadaveri nel
settimo e per ovvie ragioni nell'ottavo delitto.
20. Nei primi tre delitti, l'autore ha frugato nelle borse delle vittime
femminili. Nel quarto (Travalle) ci sono discrete probabilità che
l'abbia fatto. Nel quinto e nel sesto le condizioni potrebbero averlo
impedito. Nel settimo e nell'ottavo non ci sono indizi rilevanti in
merito.

Sebbene si sia indagato a fondo, è risultato pressoché impossibile


trovare tratti univocamente comuni fra le vittime del Mostro, sia fra
quelle femminili che fra quelle maschili. È possibile affermare che si
trattava in generale di coppie abbastanza rodate e particolarmente
unite (con la ovvia eccezione del 1968), di estrazione proletaria o
piccolo borghese.
L'azione di frugare fra le borse delle vittime femminili sembra
essersi smarrita col tempo nelle azioni del Mostro, forse perché da
un certo punto in poi è stata vista come un'inutile perdita di tempo,
specialmente quando le operazioni di escissione sono aumentate e
hanno iniziato a richiedere più tempo.

21. In sette delitti su otto, c'è stata una qualche interazione (spesso
telefonica) da parte di un anonimo nei confronti delle forze
dell'ordine o di qualche parente delle vittime o di qualcuno che più
o meno volontariamente si fosse trovato implicato nell'omicidio.
Un'interazione che aveva in ogni caso a che fare con il delitto:
▪ nel 1974, la telefonata anonima ai carabinieri di Borgo San Lorenzo
per segnalare il luogo dove sarebbe stato possibile ritrovare la borsa
della Pettini;
▪ nel giugno del 1981, le telefonate anonime a casa della moglie e
del fratello di Enzo Spalletti, arrestato dopo il delitto;
▪ nell'ottobre 1981, la telefonata a casa della zia di Susanna Cambi
da parte di uno sconosciuto che evidentemente sapeva che Susanna
alloggiava temporaneamente lì; forse anche quella del misterioso
geometra a casa Baldi;
▪ nel 1982, la telefonata al Pronto Soccorso di Empoli per sapere
delle condizioni di salute del Mainardi; inoltre la telefonata ricevuta
dallo zio di Paolo e infine le telefonate all'autista di ambulanze,
Lorenzo Allegranti;
▪ nel 1983, la specie di altarino costruito con le riviste porno a poca
distanza dal furgone dei ragazzi tedeschi;
▪ nel 1984, la telefonata anonima che segnalava un incidente in
località Sagginale non distante dal luogo del delitto;
▪ nel 1985, anche se interazione di tipo diversa, l'invio della lettera
anonima alla dottoressa Silvia Della Monica.
Rimane escluso da qualsiasi forma di interazione unicamente il
delitto di Signa (1968).
Poiché, a parte il caso del 1985, non vi è certezza che tali episodi
siano addebitali all'autore degli omicidi, molto spesso si sostiene
che il Mostro di Firenze non sia stato un serial killer comunicatore
(alla Zodiac o alla BTK). Tuttavia, nel caso in cui alcune delle
interazioni di cui sopra (o di quelle successive al settembre del
1985) portino la sua firma, il MdF diventerebbe quanto meno un
discreto comunicatore, certamente atipico, ma sicuramente non
scevro da impulsi comunicativi.

E veniamo all'ultimo punto, quello che in alcuni ambienti


mostrologici è stato visto come la vera firma dell'assassino:
22. In cinque delitti su otto, il killer ha eseguito una netta
separazione dell'uomo dalla donna. Ogni qual volta ne ha avuto la
possibilità, ha infatti sempre portato il cadavere della donna
lontano da quello dell'uomo.
La separazione non si è verificata nel 1968, quando entrambi i
cadaveri sono rimasti in automobile, ma questo delitto potrebbe
non avere matrice maniacale. Non si è verificata inoltre nel 1982 e
nel 1983, quando però le condizioni al contorno potrebbero averla
impedita.
Negli altri cinque casi, la sperazione è stata invece piuttosto netta.
Tranne in due occasioni (secondo delitto 1981 e 1985) il cadavere
dell'uomo è sempre stato lasciato nell'automobile, mentre il
cadavere della donna è sempre stato portato piuttosto distante
dall'auto.
Nell'ottobre del 1981 (Calenzano) la netta separazione è avvenuta
ugualmente, nonostante i due cadaveri fossero entrambi stati
estratti dalla vettura. Nel 1985 (Scopeti), il ragazzo ha tentato la
fuga ed il suo cadavere è stato ritrovato piuttosto lontano dal
cadavere femminile, rimasto chiuso in tenda.
La separazione dei cadaveri è stata interpretata dal
giornalista Mario Spezi come la vera firma dell'assassino, nonché il
movente più recondito degli omicidi stessi (vedasi a tal proposito il
capitolo Ipotesi Sardiste).

Tuttavia, è doveroso precisare che la separazione dei cadaveri può


essere vista non come "un azione o un comportamento non prettamente
necessario per l'attuazione del crimine" e dunque come una firma, ma
anzi come un atto assolutamente indispensabile per permettere al
killer di conquistare una posizione idonea alle escissioni, rispetto al
poco spazio e alla scarsa visibilità che poteva offrire l'interno di
un'automobile.
Nel caso di Mosciano, per esempio, il luogo scelto per le escissioni
permetteva di controllare non visto i dintorni, solitamente bazzicati
da guardoni. Nel caso di Calenzano o della Boschetta permetteva di
sottrarsi alla vista di eventuali inaspettati visitatori giunti per caso
sul luogo del delitto. Nel caso degli Scopeti, la separazione dei
cadaveri era stata offerta spontaneamente dalla fuga di Jean-Michel;
non era stato necessario spostare la donna, perché la tenda offriva
oltre che ampio spazio anche larga protezione da parte di sguardi
indiscreti.
La separazione, quindi, non sarebbe piú vista come una firma, ma
come un atto reiterato nel tempo, dettato da mere esigenze di
convenienza.

A parere di chi scrive, oltre a una certa ritualità nel modus operandi
e nelle scelte dei luoghi e dei tempi dei delitti, che individuano
indubitabilmente la stessa mano in almeno sette degli otto episodi
delittuosi, gli unici aspetti che realmente accomunano tutti i delitti
sono l'arma da fuoco e relativo munizionamento, l'ambientazione
geografica (la campagna della provincia fiorentina) e la tipologie di
vittime (tutte coppie o presunte tali appartate in solitudine per
scambiarsi effusioni amorose).
Quest'ultimo aspetto non è affatto da sottovalutare quando si parla
di manifestazioni maniacali o di firma dell'assassino. All'autore dei
delitti, infatti, non interessava la donna in quanto tale. Non assaliva
facili prede come prostitute isolate da caricare sulla propria
automobile, cui praticare escissioni.
Al Mostro di Firenze interessavano donne all'interno di un contesto
di coppia, e non un contento qualsiasi, ma uno particolarmente
intimo. Il Mostro interveniva per interrompere un rapporto
sessuale, molto spesso per impedirlo sul nascere.
Non si può non tenere conto di questo aspetto, quando ad esempio
si parla di mandanti, di omicidi su commissione, di soldi in cambio
di feticci, quasi a voler far rientrare questi omicidi nel gran
calderone di quelli commessi a scopo di lucro o con finalità diverse
da quelle dettate da una profonda instabilità psichica dell'autore dei
delitti.
Se il fine era, infatti, ricavare denaro dai cosiddetti "feticci escissi", ci
si potrebbe chiedere perché il killer prezzolato non colpisse donne
sole in contesti isolati (come quasi nello stesso periodo stavano
facendo sia il mostro di Udine che quello di Modena), senza dover
correre il rischio di un agguato a danno di una coppia, in luoghi
aperti e frequentati da guardoni?
Certo, è onesto quanto doveroso ammettere l'anomalia in questo
quadro del delitto di Giogoli, come ben evidenziato dalla sentenza
Rotella. Senza tuttavia scomodare le motivazioni (sarde) sottese da
Rotella per spiegare questo duplice omicidio, nulla esclude che a
distanza di quindici mesi dall'ultimo episodio delittuoso e con
l'estate ormai prossima al termine, abbia in questo caso prevalso più
l'istinto omicida che non la "corretta situazione" su cui placare il
proprio bisogno di sangue.

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4 commenti:
1.
Anonimo18 aprile 2022 alle ore 12:34

Trovo molto interessante l'analisi del Prof. Saladini,


intervistato da Paolo Cochi, sul killer "missionario" (che
riprende e approfondisce quella del Prof. Bruno) che si può
vedere su You Tube qui:
https://www.youtube.com/watch?v=rg1bJGV0MSo
Rispondi

2.
Anonimo18 aprile 2022 alle ore 12:41

E qui, invece, l'interessante analisi, molto dettagliata, sulla


figura psicologica del MdF da parte del Prof. Bruno:
https://www.youtube.com/watch?v=2OKPFFw0GFU
e qui, altra interessante versione, sempre del Prof. Bruno
intervistato dall'avv. Filastò :
https://www.youtube.com/watch?v=Ym7WXFIvzn0
Rispondi

3.
Grantottero9 ottobre 2022 alle ore 01:27

Innanzitutto i miei grossi complimenti per il veramente ottimo


blog.
Ciò, tuttavia (e ovviamente) non può significare che qua e là
(su qualche particolare o su qualche singolo argomento) non si
trovi qualcosa su cui eccepire o su cui esternare qualche
dubbio.

Qui, per esempio, non mi quadra la frase "quattro delle sei


vittime femminili... molestie...". Perché SEI vittime femminili?
Mi risultano essere state, in realtà (includendo anche il 1968)
SETTE.
E quali sarebbero state le quattro che nei giorni precedenti
avrebbero riferito di molestie subite? Ok per Stefania Pettini,
Susanna Cambi (nel suo caso, in verità, solo un esile accenno a
un'auto che seguiva la sua commentato con un "Oh, no,
riescono, quello!", che non necessariamente deve connotare
vere e proprie molestie, ma prendiamolo pure per buono...) e
Pia Rontini. Ma la quarta?

Inoltre, perché tre delle prime cinque vittime avrebbero


lavorato nel settore del tessile (a cui aggiungere la De Nuccio
nella pelletteria)? Vabbene per la Pettini (anche se negli uffici a
fare le fatture) e per Antonella Migliorini (come pure per
l'aggiunta della De Nuccio nella pelletteria), ma la terza?
Considerando che la Locci non lavorava, rimane solo la
Cambi, ma lei lavorava come segretaria in una televisione
privata, e prima aveva tentato con la madre di mandare avanti
un negozio d'abbigliamento. Sarebbe mica questo il
(tenuissimo) legame col tessile? Inoltre (come del resto
correttamente fatto notare nel blog), al tempo ancor più che
oggi, nella provincia fiorentina (della quale ancora faceva
parte pure Prato, non ancora scorporato a costituire provincia
a sé, l'attività tessile e/o di pelletteria era così tanto diffusa da
risultare statisticamente sin troppo facile "pescare", in un
ristretto campione di popolazione, qualcuno che ci avesse a
che fare: un po' come sin troppo facile trovare nell'area
torinese degli anni '60, '70 e '80 diverse persone che lavorasse
nell'industria automobilistica o nell'indotto della stessa...

Inoltre, perché quattro delle prime cinque vittime femminili


brune, esili e dall'incarnato latteo? Passi per Carmela De
Nuccio o Susanna Cambi (e l'ovvia esclusione della
diversissima Antonella Migliorini), ma Barbara Locci
corrispondeva a questo tipo fisico? Non sembra.. Stefania
Pettini era certamente esile, ma era bruna? Dalle foto non
sembrerebbe...
Rispondi

4.
Grantottero9 ottobre 2022 alle ore 01:30

Dove appare scritto "riescono, quello" è stato solo un dispetto


del correttore automatico dello smartphone: io intendevo
scrivere / avevo scritto "RIECCOLO...."
Rispondi
La pistola del Mostro

Il primo a parlare inconsapevolmente dell'arma che sarebbe


diventata celebre come quella del Mostro di Firenze fu il
colonnello Innocenzo Zunzinti.
Nel 1968, all'indomani del duplice omicidio di Signa, Zuntini
redasse infatti una perizia in cui descriveva il tipo d'arma da fuoco
con cui erano stati uccisi la Locci e il Lo Bianco.

Va detto che oggi, a oltre cinquant'anni di distanza, non viene


ritenuta granché affidabile la perizia Zuntini, anche perché il
colonnello già all'epoca parlava di una Beretta Calibro 22 molto
vecchia, usurata e mal tenuta. Era stato un rigonfiamento presente
su tutti i cinque bossoli repertati sulla scena del delitto a indurre
Zuntini a ritenere tale arma piuttosto consumata.
In tempi più recenti numerosi esperti balistici hanno fornito
motivazioni alternative all'usura e all'età della pistola per spiegare
il rigonfiamento dei bossoli.
Successive analisi condotte sui luoghi dei vari delitti hanno
permesso agli esperti una precisione maggiore nella individuazione
dell'arma, fino ad arrivare a poterne conoscere in maniera
probabilistica serie, modello e con buona approssimazione persino
anno di fabbricazione.
Nell'udienza del 27 Aprile 1994 del Processo Pacciani, il
generale Ignazio Spampinato dichiarò a tal proposito: "Questa
pistola non c'è dubbio che sia una pistola Beretta Calibro 22 Long Rifle
Modello 70, non so a canna lunga o a canna corta."
Visto che nel corso degli anni era stata infatti più volte avanzata
l'ipotesi di una pistola che non fosse la stessa per tutti i delitti o
addirittura di più armi da fuoco presenti sulle scene del crimine (di
cui una automatica che non lasciava bossoli), nella sua deposizione
il generale si affrettò di fatto sin da subito a sgomberare qualsiasi
dubbio o illazione sull'argomento.
Precisiamo subito - a onor del vero - che il generale Spampinato si
espresse in termini di assoluta sicurezza, mentre dalla lettura dei
referti emerge che, non essendo mai stata ritrovata l'arma dei delitti,
sarebbe più corretto esprimersi in termini di alta (o meglio ancora
altissima) probabilità. A volere essere rigorosi, dunque, oggi
possiamo affermare con (ovvia) certezza che la pistola del Mostro
fosse una calibro 22 Long Rifle e con ottima probabilità che fosse
una Beretta.
Anche sulla lunghezza della canna non c'è uniformità di vedute
negli ambienti mostrologici. Il generale Spampinato afferma - senza
tema di smentita - che si tratterebbe di una questione irrisivolbile
sulla base dei dati da lui analizzati, tuttavia secondo l'esperto
balistico e blogger Enrico Manieri, dalla lettura dei referti
emergerebbe in maniera piuttosto chiara l'assenza sui bossoli
rinvenuti sulle scene del crimine della tipica affumicatura lasciata
da una pistola a canna lunga. Dunque, a suo dire, si potrebbe
ragionevolmente ipotizzare che la pistola del MdF fosse a canna
corta; da notare che l'assenza della suddetta affumicatura
escluderebbe anche la presenza di un silenziatore applicato alla
canna, anche se non si potrebbe aprioristicamente escludere
l'utilizzo di un soppressore di rumore per così dire artigianale,
come un panno o altro mezzo atto a evitare la propagazione delle
onde sonore.
Precisiamo, infine, che il generale parlò di Beretta Calibro 22 Long
Rifle Modello 70, mentre noi per evitare confusione parleremo di
Beretta Calibro 22 Long Rifle Serie 70. Questo perchè - come ci ha
spiegato lo stesso generale - all'interno della cosiddetta serie
70 troviamo sette modelli distinti, denominati con i numeri
compresi fra 71 e 76, con l'aggiunta della 70S.
Possiamo subito escludere fra le possibili pistole del MdF - come
affermò il PM Paolo Canessa nella stessa udienza - il modello 76 in
quanto prodotto dal Dicembre 1968 e quindi successivamente
(seppur di pochi mesi) al delitto di Signa.
Per quanto riguarda gli altri modelli, dovendo effettuare una scelta
probabilistica, ci atteniamo alle parole del dottor Giovanni
Iadevito, perito della polizia scientifica, che dopo aver esaminato
circa 450 pistole Beretta calibro 22 LR, scrisse nel suo
referto: "...eseguite le prove di sparo e tutti i necessari raffronti, le
caratteristiche di percussione dell'arma omicida erano tali da poter
escludere che essa fosse stata fabbricata oltre il 1964 e comunque non oltre
il 1966: però le caratteristiche di percussione di una delle Beretta
campione, modello 71 immatricolata nel settembre 1964, erano quelle che
più di tutte assomigliavano alle pari carateristiche presenti nei reperti".
Dunque, sulla base di tali dichiarazioni, l'arma del
mostro potrebbe essere una Beretta Calibro 22 Long Rifle Serie 70
Modello 71 a canna corta, prodotta attorno al 1964 e comunque non
più tardi del 1966. Una pistola quindi che in occasione del primo
delitto non aveva più di quattro anni e che nel 1985, data
dell'ultimo duplice omicidio, aveva circa vent'anni.
Dalle scene del crimine, possiamo anche desumere un altro
particolare riguardo quest'arma. Sappiamo infatti che il massimo
numero di colpi sparati dal MdF durante i suoi assalti omicidi è
stato nove e ciò è avvenuto in tre occasioni: a Calenzano, a
Baccaiano e a Scopeti. Sappiamo anche con ragionevole certezza che
almeno a Scopeti il MdF aveva esaurito i colpi. Sulla base di questi
dati è possibile affermare (pur lasciandoci un ovvio beneficio del
dubbio) che la pistola del MdF contenesse al massimo nove colpi,
otto nel caricatore e uno in canna.

A proposito di munzionamento, abbiamo già visto come le analisi


condotte dagli stessi Iadevito e Spampinato hanno portato a
stabilire sulla base di un difetto della lettera H stampigliata sul
fondello dei bossoli rinvenuti su tutte le scende del crimine che si
tratta "con un ottimo margine di veridicità" di proiettili appartenenti a
un unico lotto fabbricato all'incirca nel 1966 e contraddistinto dal
codice VK51.
Tali proiettili provengono da almeno due scatole differenti, una a
palla ramata (utilizzata per i delitti del 1968 e del 1974), l'altra
cosiddetta a piombo nudo (utilizzata per i delitti dal 1981 al 1985,
con l'eccezione di un unico proiettile a palla ramata sparato a
Giogoli nel 1983).
Abbiamo visto nel capitolo dedicato alla Pista Sarda che le scatole
da cui sono stati attinti i proiettili utilizzati dal MdF, in linea teorica
potrebbero essere anche più di due. Non vi è univoca certezza in
merito, in quanto il punzone che ha stampigliato la lettera H
"difettosa" potrebbe essere stato utilizzato su diverse migliaia di
proiettili e dunque su diverse decine di scatole, prima di venir
sostituito. Non si potrebbe dunque aprioristicamente escludere che
il MdF fosse in possesso di più scatole, tutte comprate presso la
stessa armeria e tutte contenenti proiettili dello stesso lotto.

Stabilito questo, la domanda successiva da porci è: da dove viene la


pistola utilizzata dal Mostro? Al momento le possibilità che
possiamo vagliare sono tre, ma ciò non esclude che siano sbagliate e
l'origine dell'arma sia tutt'altra:

► Possibilità 1 - Pistola dalla Sardegna: Nel 1982, quando prese


corpo la Pista Sarda, le forze dell'ordine cercarono una qualche
connessione fra i sardi e una Beretta calibro 22, scoprendo che di
tale arma (molto usata in Sardegna) erano stati
venduti undici esemplari compatibili con quella del MdF a
Villacidro, paese di origine dei fratelli Vinci. Di queste undici
pistole, una risultava scomparsa. Tale pistola era stata acquistata
dal signor Franco Aresti, il quale succssivamente era emigrato in
Olanda nel 1960 e ivi era morto tre anni dopo a causa di un
incidente sul lavoro. La sua pistola non venne mai ritrovata,
risultando né denunciata, né venduta, né ereditata da qualcuno.
Inoltre la polizia olandese notificò nel gennaio 1986 agli inquirenti
italiani di non aver trovato tracce negli atti d'ufficio dell'esistenza di
una pistola tra gli oggetti e gli effetti personali dell'Aresti, in seguito
restituiti ai suoi familiari in Sardegna.
Per le forze dell'ordine italiane, che all'epoca erano concentrate
su Salvatore Vinci, la pistola dell'Aresti non era dunque mai giunta
in Olanda, ma con ottime probabilità era stata portata da Villacidro
in Toscana da uno dei fratelli Vinci per poi diventare la pistola del
Mostro.
C'è un particolare che però non quadra con questa ricostruzione. Se
la pistola del MdF fosse veramente questa, sarebbe stata prodotta
molto prima del 1964, mentre oggi sappiamo che lo Iadevito parla
di una pistola fabbricata non oltre il 1964 e sicuramente non oltre il
1966.

► Possibilità 2 - Prima pistola dal Mugello: Abbiamo visto nel


capitolo dedicato al duplice omicidio di Baccaiano che nei giorni
successivi a tale delitto, il procuratore Pier Luigi Vigna in persona
aveva cominciato a indagare sulla scomparsa di un'arma a Borgo
San Lorenzo, sospettandola legata ai delitti del Mostro. La pista era
stata però abbandonata con la scoperta del collegamento con il
delitto di Signa, perché tale pistola risultava essere stata messa in
commercio nel 1969, dunque dopo che il delitto stesso avesse avuto
luogo.
Entriamo maggiormente nel dettaglio: le indagini compiute con
estremo riserbo a Borgo San Lorenzo dal dottor Vigna nei giorni 14
e 15 luglio del 1982 avevano portato a scoprire che una Beretta
calibro 22 Long Rifle modello 71 matricola 18288, prodotta nel 1967,
era stata venduta all'armeria Raspanti di Borgo San Lorenzo nel
febbraio del 1969. Dopo accurati controlli compiuti presso la sede
centrale della Beretta in provincia di Brescia, presso la sede del
distributore di zona (Benvenuti Franco Srl) e presso la suddetta
armeria, era emerso che di tale pistola si erano perse le tracce,
risultando appunto venduta all'armeria e verosimilmente
debitamente pagata, ma non risultando riportata nei registri del
negozio stesso.
Interrogato in merito, il titolare dell'armeria, signor Ferrari
R. affermava di non avere alcuna notizia sulla suddetta arma e
pertanto escludeva di averla mai acquistata. Poiché gli accertamenti
sembravano invece indicare il contrario, il Ferrari veniva invitato
dagli inquirenti a fornire maggiori indicazioni ed essere più preciso
sull'argomento. È ovvio che il forte sospetto era che tale arma fosse
giunta "clandestinamente" nelle mani di un ignoto soggetto e che
dunque la stessa - non essendo mai stata registrata - fosse sfuggita
ai vari controlli che le forze dell'ordine stavano eseguendo.
A quanto è dato sapere, tuttavia, tale indagini non diedero mai
alcun esito, in quanto nei giorni immediatamente successivi venne
scoperto il collegamento con il delitto di Signa. Tale delitto risaliva
all'agosto del 1968 e dunque qualche mese prima della messa in
commercio dell'arma oggetto di indagini. Risultava quindi evidente
che la suddetta non poteva essere la pistola che aveva sparato a
Signa e di conseguenza non poteva essere la pistola del Mostro.
Ad oggi, nondimeno, nell'ottica di un depistaggio, cioè nell'ottica di
un delitto di Signa completamente scollegato dai successivi
commessi dal Mostro, anche la pista di quest'arma scomparsa dal
Mugello è tornata ad avere un certo credito fra i mostrologi.
Oltretutto il modello di tale Beretta (71) è proprio quello proprosto
da Iadevito come più probabile fra i vari modelli da lui analizzati.
Non tornerebbe l'anno di produzione perché Iadevito parla di
un'arma prodotta fra il 1964 e il 1966, mentre questa è stata prodotta
nel 1967, ma la differenza potrebbe non essere eccessivamente
significativa.

► Possibilità 3 - Seconda pistola dal Mugello: L'ipotesi di uan


seconda pistola scomparsa dal comune mugelesse collegata con i
delitti del Mostro, ovviamente diversa da quella appena citata,
prese piede nell'ottobre del 1984, qualche mese dopo il duplice
delitto di Vicchio.
Stando a quanto riporta l'autore Paolo Cochi nella versione
riveduta nel 2020 del suo libro "Al di là di ogni ragionevole
dubbio", fu il maggiore Sebastiano Anzà della compagnia dei
Carabinieri di Borgo San Lorenzo a condurre tali indagini. Anzà
appurò infatti che nel 1965 erano state rubate quattro armi da fuoco
da una ferrammenta/armeria di proprietà della famiglia Guidotti a
Borgo San Lorenzo. Tre delle pistole sottratte erano state recuperate
dalle forze dell'ordine in un'operazione di polizia fra Firenze e
Brescia; l'unica a non essere mai stata rinvenuta e a risultare allora
come oggi dispersa fu una Beretta Calibro 22 Long Rifle Serie 70
Modello 75.
Il maggiore Anzà sospettò dunque che tale arma potesse essere
messa in relazione con i delitti del MdF, indicando come possibile
possessore un uomo di origine mugellana, tale Stefano P., che
all'epoca aveva 46 anni (dunque nato all'incirca nel 1938). Costui
negli anni '60 si era trasferito dal Mugello alla zona ovest di Firenze,
nel 1966 aveva subito una perquisizione per il furto della Beretta
dall'armeria e - cosa piuttosto suggestiva - era stato denunciato
per reati contro la libertà sessuale.
Le indagini che seguirono al rapporto del maggiore Anzà portarono
nel giugno del 1985 a una perquisizione nell'abitazione del soggetto
indicato, che però non diede alcun frutto. Quando poi, nel
settembre dello stesso anno, venne commesso il delitto degli
Scopeti, costui - a quanto si dice - risultò essere in vacanza a Forte
dei Marmi. Sul momento, dunque, tale pista venne abbandonata e il
personaggio attenzionato non rientrò neanche nella famosa lista
della SAM che includeva tutti i possibili sospettati.
Recentemente, tuttavia, il già citato Paolo Cochi ha concentrato le
sue ricerche su tale individuo, dicendosi persuaso che lì potrebbe
risiedere la soluzione del caso. Secondo quanto emerso, tale
soggetto avrebbe lavorato in ambienti vicini alla Procura di Firenze
e potrebbe essere identificato nel cosiddetto "Rosso del Mugello", il
sospettato di cui si è già ampiamente parlato nel capitolo dedicato
all'omicidio della Boschetta.
È ovvio come questa terza possibilità sull'origine della pistola abbia
spunti interessanti e riccamente suggestivi (su tutti i reati contro la
libertà sessuale commessi dall'ipotetico possessore della Beretta
rubata), tuttavia anche in questo caso ci sono alcuni particolari che
non quadrano:
▪ il modello della pistola: 75 quella rubata, 71 quella identificata
dallo Iadevito come la pistola del MdF; certo non è un punto
dirimente, perché nulla toglie che lo Iadevito si sia sbagliato
nell'individuare il modello preciso, ma a questo punto se si è
sbagliato nell'individuare il modello, potrebbe essersi sbagliato
anche nell'individuare l'anno e quindi potrebbe tornare buona
anche l'ipotesi dell'arma proveniente da Villacidro;
▪ il fatto che il sospettato sarebbe stato (il condizionale è d'obbligo) a
Forte dei Marmi nei giorni in cui veniva commesso il duplice
omicidio degli Scopeti;
▪ infine, volendo trascurare il punto precedente, il MdF avrebbe
commesso l'ultimo terribile duplice omicidio meno di due mesi
dopo essere stato per la prima volta attenzionato, perquisito e
interrogato dalle forze dell'ordine sulla vicenda del mostro. Anche
questo non è ovviamente un punto dirimente, ma è indubbio
fornisca qualche spunto di riflessione: ci si aspetterebbe infatti
maggiore prudenza da un soggetto consapevole di essere
improvvisamente finito nel mirino degli inquirenti.
Si ricordi, tuttavia, il particolare dei cadaveri nascosti a Scopeti al
fine di ritardarne la scoperta, forse appunto perché l'autore
dell'eccidio, consapevole di essere attenzionato, aveva bisogno di
tempo per rientrare e crearsi un alibi. Questo collimerebbe con un
soggetto da poco entrato nel mirino delle forze dell'ordine.
Nel complesso, al momento, quella del "Rosso del Mugello" resta
una pista di sicuro interesse, ma ancora piuttosto nebulosa.

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11 commenti:

1.
il cagamobile2 gennaio 2022 alle ore 03:29
Mi complimento per il blog e per la scrupolosità. Potrei
suggerire di completare l'articolo con le suggestioni derivanti
dai ritrovamenti, nel corso degli anni, di pistole compatibili
sulle quali rimane ancora il dubbio possano effettivamente
essere quella incriminata?

PS: mi scuso per il mio nome utente 😂. Sto utilizzando un


vecchio nickname che utilizzavo su Blogspot da ragazzo
negl'anni della mia goliardia 😅.
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti3 gennaio 2022 alle ore 01:49
Grazie per i complimenti e per il suggerimento. Appena
avrò tempo, non mancherò di completare l'articolo con
qualche riga sulle "pistole ritrovate".
L.
Rispondi

2.
Alessiozazzimostrodifirenze3 aprile 2022 alle ore 13:29

Ma i proiettili calibro 22 funzionano solo con la beretta 22 o si


possono sparare anche da altri modelli di pistola calibro 22 ?
Perché questa sicurezza che sia una beretta 22 ?
Rispondi

3.
Devilock5 aprile 2022 alle ore 06:59

I proiettili calibro 22 funzionano con le pistole calibro 22.


Semplificando, l'identificazione del modello dell'arma può
avvenire confrontando i rilevamenti fatti sul proiettile (come
viene fatta la percussione, il tipo di estrazione, l'espulsione del
bossolo etc.) e le specifiche delle varie armi riportate nei
database dei produttori.
Rispondi

4.
Unknown12 aprile 2022 alle ore 00:10

L articolo è ben fatto complimenti


L unica cosa che stona è l inadeguatezza dei periti balistici che
da quello che scrivono si capisce che non capiscono nulla o
quasi di armi
La storia delle affumicature sul bossolo nelle canne lunghe
sono baggianate ad esempio e il caricatore della beretta 70 in
22lr contiene 10 colpi, la definizione 8 colpi nel caricatore e
uno in canna è tipica delle forze dell' ordine ma in pratica non
è mai fatta perché è assurda
Io credo che uno dei motivi per il quale il mostro non sia mai
stato preso in quegli anni è anche dovuto a un inadeguatezza
dei periti
Rispondi

Risposte

1.
Anonimo27 giugno 2022 alle ore 05:54

L'affumicatura presente sui bossoli esplosi da pistole


Beretta a canna lunga è chiaramente riportata anche in un
articolo dell'epoca pubblicato da "La Nazione",
quotidiano di Firenze, dove furono intervistati i tecnici
collaudatori della Beretta stessa ed è una questione
tecnica ben nota a chi utilizza queste armi anche solo per
divertimento al TSN.
Rispondi

5.
Anonimo5 novembre 2022 alle ore 08:05

Sono in possesso di un audio video recente dove una anziana


signora rimembra fatti accaduti del mdf dove vi abitava. La
nota che stona e che la stessa più altre 120 persone circa
coinvolte, alludono al volermi bruciare come tale, ho
perlomeno far passare a miglior vita in modo piuttosto
brutale. Devo preoccuparmi.
Rispondi

6.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:33

prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
rrrrrrrr
Rispondi

7.
Anonimo18 dicembre 2022 alle ore 14:15

Esterefatte le magistrature nel sentire le video registrazioni


odierne, riprendono le indagini, la pista di una organizzazione
ancora in piedi e molto più estesa nella Firenze borghese e
provincie.
Rispondi

8.
Anonimo11 gennaio 2023 alle ore 09:09

si cerca la pistola, ma non e' detto che il mostro usi una pistola
trovata per caso ,puo benissimo usare solo canna e percussore
del mostro e montarle su di una pistola cal 22 beretta
regolarmente detenuta quando deve commettere gli omicidi.e'
secondo me dal 68 che bisogna indagare dove e' finita quella
pistola ,quel primo duplice omicidio non centra niente col
mostro di firenze . chi ha ritrovato quella pistola??????? dove
disse di aver gettato l'arma il mele????
Rispondi

9.
Anonimo11 gennaio 2023 alle ore 09:11

poi tutto puo' essere , anche qualcuno che aveva accesso ai


corpi di reato ha sostituito i bossoli a suo piacimento
Rispondi
Presunti agguati falliti

Di seguito una lista di agguati o presunti tali avvenuti nella


campagna fiorentina ai danni di coppie appartate in automobile nel
periodo che va dal 1968 al 1985, lo stesso in cui agiva il MdF.
Si badi bene che in nessuno di questi agguati si hanno evidenze che
c'entri veramente il MdF.

1. Arcetri (Novembre/Dicembre 1968)


Testimonianza arrivata durante la trasmissione televisiva "Telefono
Giallo", datata 6 Ottobre 1987. Uno spettatore telefonò in
trasmissione e riferì che nel novembre/dicembre 1968 mentre era
appartato in auto con una ragazza, scoprì un guardone che li
osservava. Lui scese dalla macchina ed ebbe una colluttazione con il
guardone, il quale impugnò un coltello a serramanico per
difendersi. La coppia riuscì a fuggire. Secondo il telespettatore i
lineamenti di quest'uomo erano simili a quelli dell'identikit del
MdF.

2. Vicchio, lago di Montelleri (Settembre 1978)


All'udienza del Processo Pacciani in data 26/04/1994, l'avvocato di
parte civile Aldo Colao fece richiesta di ammettere come teste un
uomo che sosteneva di essere stato aggredito dall'imputato Pietro
Pacciani nel settembre del '78 in una casa isolata nei pressi di
Vicchio mentre era in intimità con una donna. La richiesta di
accogliere questo testimone, tale Antonio Maria Saponaro, fu
respinta dalla Corte.
Durante la stessa udienza, il PM Paolo Canessa dichiarò che il
signore in oggetto era stato sentito dalla SAM ma non era stato
presentato come testimone dalla Pubblica Accusa, il che dovrebbe
far riflettere sull'attendibilità di questo signore.

3. Molin Di Bucchio (Agosto 1981)


Sempre dalle parti di Vicchio, un testimone durante il Processo
Pacciani riferì di due o forse tre persone che si erano avvicinate di
soppiatto alla sua tenda con fare misterioso mentre lui era
accampato dalle parti di Molin di Bucchio. Parlò di una figura
imponente, alta con spalle larghe e braccia lunghe, descrizione che
ricorda un po' il Lotti, ma è così vaga che potrebbe ricordare molte
altre persone.

4. Monte Morello (1981-82)


Una coppia appartata in auto venne avvicinata da una seconda auto
da cui scesero due persone che si avvicinarono di corsa. L'uomo
della coppia aveva una pistola e sparò un colpo in aria. Gli uomini
fuggirono. Non ci sono altre indicazioni su questo presunto
agguato fallito. Anche le fonti risultano incerte.

5. Cascine Del Riccio (20 Luglio 1982)


Esattamente un mese dopo il duplice delitto di Baccaiano, un uomo
venne sorpreso a spiare una coppia appartata in auto e si diede
prontamente alla fuga. Probabilmente era un semplice guardone ma
alla coppia in auto quel volto ricordava quello dell'identikit del
MdF. La coppia allertò immediatamente le forze dell'ordine e partì
un'intensa caccia all'uomo. Il guardone, braccato a lungo quella
notte, non venne mai preso.

6. Tavernelle Val Di Pesa (30 Giugno 1984)


Esattamente un mese prima dell'omicidio di Vicchio, una coppia
clandestina appartata in auto sentì un tonfo contro il finestrino. I
due andarono via di corsa e solo dopo – a distanza di sicurezza - si
accorsero di una crepa sul vetro provocata - a loro dire - da un
proiettile. Il vetro e la macchina erano blindati. Tuttavia, secondo
alcuni articoli di giornale quel colpo fu solo una sassata, magari
scagliata da un guardone per un qualsiasi motivo.

7. San Casciano Val Di Pesa (1984-85)


Durante il Processo Pacciani, tale Luca Iandelli affermò che tra il
1984 e il 1985, in piena psicosi mostro, era appartato in auto con la
sua ragazza nei pressi del cimitero di San Casciano. All'improvviso
la coppia si accorse di un uomo all'esterno dell'auto praticamente
incollato al finestrino della macchina. Secondo la loro
testimonianza, quest'uomo impugnava una pistola. Lo Iandelli
riuscì a mettere in moto e fuggire, ferendo la mano del guardone
che rimase impigliata allo specchietto dell'automobile. Pare
riconobbe nel guardone il Pacciani che, oltretutto, il giorno dopo
girava per San Casciano con un braccio fasciato.
Lo Iandelli però durante la sua testimonianza cadde più volte in
contraddizione e tentò di negare (forse per paura, forse per altro) di
aver riconosciuto il Pacciani.
8. San Miniato, Piazzale Michelangelo (1985)
Testimonianza arrivata durante la trasmissione televisiva "Telefono
Giallo", datata sempre 6 Ottobre 1987. Uno spettatore telefonò in
trasmissione riferendo che nel 1985 mentre era appartato in
automobile con una ragazza dalle parti di San Miniato al Monte, nei
pressi di piazzale Michelangelo, sentì dei rumori all'esterno.
L'uomo scese dalla macchina e vide un tizio che si allontanava
correndo verso il piazzale; questa persona si trovava in quel
momento illuminata da un lampione e lo spettatore vide
chiaramente che aveva una pistola in mano. Sempre secondo lo
spettatore, l'identikit che fornì dell'uomo era simile al 90% a quello
storico del MdF.
Le morti collaterali

A Firenze fra il 1982 e il 1984, in piena epoca Mostro, furono uccise


da mani ignote quattro prostitute senza apparente motivo (la
Monciatti, la Cuscito, la Bassi e la Meoni), con modalità piuttosto
simili fra loro, tanto da spingere qualcuno a ipotizzare la presenza
di un secondo serial killer, dalla diversa tipologia di vittime, nel
capoluogo toscano.
La scarsa probabilità di questa evenienza e il fatto che due di queste
donne avevano avuto un qualche tipo di rapporto con personaggi
finiti nell'inchiesta del MdF (la Cuscito con il futuro compagno di
merende Mario Vanni, la Meoni con Salvatore Vinci), ha portato
alcuni mostrologi a ritenere le suddette donne in realtà vittime del
mostro stesso.
Alle quattro prostitute vanno aggiunte altre morti collaterali che
direttamente o indirettamente potrebbero avere a che fare con la
vicenda del MdF.
Si parte da Miriam Ana Escobar, uccisa nel 1972, per arrivare alle
morti estremamente sospette di Milva Malatesta (forse amante di
Francesco Vinci) e della Mattei (convivente della compagna del
figlio di Francesco Vinci stesso) rispettivamente negli anni 1993 e
1994. Chiude la serie delle morti sospette quella di Fabio Vinci,
figlio di Francesco, nel 2002.
Vediamo dunque le cosiddette morti collaterali seguendo un ordine
cronologico.

1. Miriam Ana Escobar (Marzo 1972)


Il 22 marzo del 1972, in Via Bolognese a Firenze, venne rinvenuto il
cadavere della salvadoregna Miriam Ana Escobar, ragazza
diciannovenne, residente nel quartiere di San Jacopino, lo stesso
della povera Susanna Cambi, vittima del Mostro nell'ottobre 1981, e
- come vedremo - dell'altrettanto sventurata Elisabetta Ciabani.
Miriam, trovata priva di scarpe e della borsa, era stata strangolata
con un foulard. Non vi erano tracce di violenza sessuale. Gli
inquirenti esclusero quasi subito il movente della rapina.
Questo sarebbe rimasto un omicidio come tanti ad opera di ignoti,
se non fosse che nel 1988, al giornalista Paolo Vagheggi venne
recapitata una lettera anonima sulla cui busta l'indirizzo era stato
scritto utilizzando ritagli di giornale, esattamente come aveva fatto
il MdF appena tre anni prima nella missiva alla Della Monica.
La lettera conteneva una tabella in cui erano elencati date e simboli
zodiacali come in una carta astrale. Le date erano quelle dei delitti
del MdF, con in aggiunta un'ulteriore riga riportante testualmente i
seguenti caratteri: "ME 72 may". Sebbene nessuno sappia con
certezza il significato di questa missiva, il motivo per cui sia stata
inviata e soprattutto da chi, alcuni mostrologi hanno visto in quei
caratteri un riferimento al delitto di Miriam Ana Escobar, dove 1972
è l'anno del delitto, may il mese (maggio) e la sigla "ME" starebbe a
indicare le iniziali della ragazza oppure un "IO" inglese, come se il
mostro avesse voluto attribuirsi quel delitto.
A minare la credibilità di questa teoria c'è il particolare che il delitto
della Escobar sia stato commesso in marzo e non in maggio,
dunque o la parola "may" ha tutt'altro significato oppure chi ha
spedito la lettera non sapeva o non ricordava il mese esatto.
A distanza di 48 anni dall'omicidio e di 32 anni dall'invio di quella
strana missiva, nessun ulteriore passo avanti è stato fatto nelle
indagini.
Tuttavia, recentemente, la già citata ricercatrice Valeria Vecchione,
colei che, all'interno del team di Paolo Cochi, è stata l'artefice della
scoperta della rivista da cui erano state ritagliate le lettere per
comporre l'indirizzo sulla busta inviata dal MdF alla dottoressa
Della Monica (si veda relativo capitolo), ha dichiarato in un recente
video di voler svolgere indagini sulla lettera inviata al Vagheggi. A
suo pare, infatti, potrebbero esistere alcune similitudini con la
missiva inviata alla Della Monica, a cominciare dalla rivista
utilizzata per il ritaglio delle lettere, che anche in questo caso
sembrerebbe essere il settimanale "Gente".

2. Renato Malatesta (Dicembre 1980)


Marito di Maria Antonietta Sperduto, colei che fra la fine degli
anni '70 e gli inizi degli anni '80 era stata l'amante dei futuri
Compagni di Merende, Pacciani e Vanni.
Il Malatesta fu trovato impiccato il 24 dicembre 1980 nella stalla
della sua abitazione. Era stato in precedenza l'amante di una
prostituta di nome Gabriella Ghiribelli, futura testimone al
Processo ai CdM, che di lui disse: "sembrava un uomo disperato ed era
sempre pieno di lividi e botte".
Pur prendendo le dichiarazioni della Ghiribelli - per questioni che
saranno chiare nei prossimi capitoli - con il beneficio del dubbio, è
indubbio che la morte del Malatesta sia stata archiviata forse troppo
frettolosamente come suicidio.
La figlia Laura raccontò, infatti, ai carabinieri di San Casciano
d'aver visto più volte Pietro Pacciani picchiare suo padre
minacciandolo: "t'impiccherò, t'ammazzo, ti ritroverò da solo". La
moglie e l'altro figlio, Luciano, confermarono di esser stati anche
loro testimoni di violenze e minacce.
Inoltre, in occasione del processo ai Compagni di Merende, il
testimone Lorenzo Nesi riportò alcune dichiarazioni dell'epoca di
Vanni secondo cui il Malatesta dormiva con una falce sotto il
cuscino per difendersi dalle continue angherie e percosse che
subiva dal Pacciani.
Per contro, il figlio Luciano dichiaró durante lo stesso processo che
più volte in precedenza suo padre aveva tentato il suicidio e in una
occasione era stato proprio lui, all'epoca poco più che bambino, a
impedirlo.
I dubbi sulla morte di Renato Malatesta rimasero comunque sempre
molto forti, tant'è che il 19 luglio 2007 fu disposta dalla Procura
della Repubblica, nelle persone dei magistrati Paolo Canessa e
Alessandro Crini, la riesumazione del cadavere per ulteriori esami.
Risultò che l'osso ioide, che dovrebbe rompersi durante
un'impiccagione, risultò integro, mentre fu evidenziata una frattura
al naso. Per la sua morte fu indagato l'ex appuntato dei carabinieri
di San Casciano, Filippo Neri Toscano (vedasi capitolo Via
Faltignano), amico dello stesso Pacciani e che la Maria Antonietta
Sperduto aveva descritto in sede processuale come autore di
continue angherie nei confronti suoi e del marito. L'indagine si
chiuse comunque con un nulla di fatto.

3. Gina Manfredi (Agosto 1981)


Prostituta fiorentina che storicamente non viene fatta rientrare fra le
morti collaterali che potrebbero essere legate alla vicenda del
Mostro di Firenze, in quanto perse la vita con modalità diverse
rispetto a quelle delle canoniche quattro prostitute su cui la
mostrologia è solita soffermarsi. Tuttavia la Manfredi venne citata
dal testimone Lorenzo Nesi durante un'udienza del Processo ai
Compagni di Merende come una "prostituta molto signora"
frequentata sia da lui che dal futuro imputato per i delitti del
Mostro, Mario Vanni.
In occasione della sua deposizione il Nesi, fra le altre cose,
dichiarò: "...lasciai Vanni dalla Gina e andai a sbrigare delle pratiche.
Tornai a prenderlo dopo una mezz'oretta e non lo trovai in strada. Salii
allora a casa della donna, non trovai nessuno in sala d'aspetto e, convinto
che Vanni fosse ancora nella camera da letto con Gina, aprii la porta. Vidi
che c'era una persona con un mantello nero, di quelli che indossano i
magistrati, e vidi pure che c'era una lampada di forma rotondeggiante che
emanava una fievole luce rossa. Questa persona mi sembrò un mago. Era
solo e alla mia vista ebbe un gesto di stizza. Chiusi subito la porta e andai
via. In strada adesso accanto al furgone c'era Vanni che mi stava
aspettando. Gli raccontai l'accaduto dicendogli che non sarei più tornato
da Gina!"
L'uomo con il mantello nero venne riconosciuto dal Nesi nel
cosiddetto mago di San Casciano, Salvatore Indovino, in seguito
coinvolto nelle indagini sul MdF (vedasi capitolo Via Faltignano).
La Manfredi morì il 4 agosto 1981 cadendo dalle scale del palazzo in
cui viveva.
Come vedremo meglio in seguito, a quella data il suddetto
Salvatore Indovino non aveva ancora scoperto le sue "capacità
medianiche" e dunque non aveva ancora intrapreso l'attività di
mago. È probabile, quindi, che, almeno in questo caso, le
dichiarazioni del Nesi fossero fallaci.

4. Giuliana Monciatti (Febbraio 1982)


La prima delle quattro prostitute misteriosamente uccise. Il
cadavere della Monciatti venne trovato nel suo appartamento la
mattina dell'11 febbraio 1982 da un'amica con cui condivideva
l'abitazione. La donna era stata colpita da 17 coltellate al seno, al
collo e all'inguine. Era distesa sul pavimento della sua camera da
letto: indossava un maglione e un paio di pantaloni abbassati e
lacerati sul davanti, lasciando scoperte la regione pubica, quella
ipogastrica e la radice delle cosce.
Le numerose coltellate e la disposizione del cadavere rendono
questo delitto il più simile - fra quelli delle prostitute - agli omicidi
commessi dal Mostro di Firenze.
Il dottor Maurri che eseguì le analisi sul cadavere, escluse tuttavia
collegamenti con la vicenda del MdF.

5. Elisabetta Ciabani (Agosto 1982)


Nata nel gennaio del 1961, ex studentessa di architettura, Elisabetta
risiedeva nel già citato quartiere di San Jacopino a Firenze ed era
vicina di casa di Susanna Cambi, vittima del Mostro nell'ottobre del
1981. Aveva poco più di 21 anni quando, verso le nove del mattino
del 22 agosto 1982 (dieci mesi dopo, dunque, l'omicidio di
Susanna), venne trovata morta nella lavanderia del residence Baia
Saracena, a Sampieri di Scicli in provincia di Ragusa, dove la
ragazza stava trascorrendo le vacanze estive con la famiglia.
Il rinvenimento del cadavere avvenne ad opera della
signora Giuseppina Corleone, la quale si era recata nel locale
lavanderia per svolgere le proprie mansioni di pulizia del bucato.
L'ultima persona ad aver visto viva la Ciabani era stata, invece, la
portiera dello stabile, Elena Cottone, la quale aveva notato la
povera ragazza dirigersi verso l'ultimo piano del residence, dove
appunto era sito il locale adibito a lavanderia.
Il corpo di Elisabetta, completamente nudo, venne rinvenuto con un
coltello conficcato nella regione mammellare sinistra, la cui lama
aveva perforato polmone e cuore. Il cadavere presentava altre ferite
poco profonde intorno all'ombelico e un taglio lungo 12 centimetri
sulla parete addominale, eseguito dall'alto verso il basso, che
giungeva fino al pube. Non furono trovate tracce di violenza o di
colluttazione, se non una ferita superficiale da taglio al braccio
sinistro e una lieve contusione all'altezza del pube.
Di particolare interesse mostrologico, per motivi che saranno più
chiari in seguito, è il rinvenimento nel tardo pomeriggio del giorno
successivo al delitto da parte del giornalista siciliano Giuseppe
Calabrese di un foglietto appallottolato, come buttato via con
noncuranza. Tale foglietto, rinvenuto davanti all'ingresso del locale
lavanderia, era in realtà la pagina strappata di un'agenda, su cui
erano riportati alcuni nomi collegati fra loro da frecce direzionali. I
nomi appartenevano a persone congiunte con un ufficiale dei
carabinieri, che in quei giorni erano in vacanza nel residence. Le
indagini condotte su tale rinvenimento portarono gli inquirenti a
scartare l'ipotesi che il biglietto potesse avere un minimo valor
probatorio, ma fosse stato messo lì da un personaggio
(perfettamente individuato, ma su cui mancavano prove), che per
motivi personali aveva interesse a indirizzare le indagini verso i
parenti del suddetto ufficiale.
D'altro canto, le indagini sulla misteriosa morte della Ciabani non
portarono agli esiti sperati e il caso fu archiviato (forse troppo
frettolosamente) come suicidio dalla procura siciliana. Un suicidio
che non ha mai convinto nessuno, tant'è che qualche anno dopo, la
stessa Procura di Firenze si interessò al caso, incaricando il
professor Maurri di studiare carte e referti ed esprimere un proprio
parere. Maurri concluse anch'egli che verosimilmente si trattava di
suicidio, non mancando però di sottolineare alcune stranezze come
la completa assenza di impronte digitali sul manico del coltello con
cui la giovane Ciabani si sarebbe uccisa. Assenza che - a parere di
chi scrive - già di per sé avrebbe dovuto escludere qualsiasi ipotesi
di suicidio.
È stata comunque smentita dalla famiglia della stessa Elisabetta
l'amicizia con la Cambi, di cui già all'epoca del delitto la stampa
aveva iniziato a parlare per fornire un possibile movente
all'omicidio della ragazza: venne ipotizzato, infatti, che la Cambi,
prima di morire, potesse aver fatto qualche confidenza alla Ciabani
su eventuali personaggi che l'avevano molestata. Nonostante la
teoria del collegamento fra i due delitti è stata più volta riproposta
negli anni, a oggi sembrerebbe esclusa una relazione fra questo
omicidio e quelli del MdF, o comunque non esiste alcuna prova
fattuale che attesterebbe tale collegamento. Alla fine, l'ipotesi più
probabile sembrerebbe quella di un omicidio maturato in seguito al
raptus di natura sessuale di uno squilibrato.
In tempi recenti due ricercatori, Dario Quaglia e Alessandro
Flamini, del gruppo Facebook "I Mostri di Firenze", hanno
realizzato su YouTube alcuni video interamente dedicati al caso
Ciabani, riportandolo agli onori della cronaca mostrologica.
A seguito di questi video, la studiosa Valeria Vecchione ha fatto
eseguire una perizia grafologica sul biglietto rinvenuto dal
giornalista Calabrese, giungendo alla sorprendente conclusione che
la grafia sarebbe quella dell'ispettore di polizia Luigi
Napoleoni della squadra mobile di Perugia, colui che a lungo
avrebbe indagato a metà degli anni '80 sul dottor Francesco
Narducci e di cui avremo modo di parlare dettagliatamente nel
capitolo dedicato appunto al medico di Perugia.
Ove fosse vera, sarebbe questa una scoperta di interessante portata,
in quanto seguendo una serie di deduzioni logiche, ancora tutte e
completamente da verificare e dunque decisamente aleatorie,
si potrebbe giungere ad affermare che:
1. già nell'agosto del 1982 Napoleoni stava indagando sul Narducci;
2. già il giorno successivo al delitto si sospettava un collegamento
fra omicidio Ciabani e delitti del MdF;
3. già il giorno successivo al delitto, l'ispettore Napoleoni era in
Sicilia per indagare personalmente sul caso.

Risulta doveroso ribadire che si tratta di sillogismi e conclusioni al


momento completamente campati in aria, in quanto si basano su
fatti mai realmente appurati. Difatti, è opportuno sottolineare che:
▪ non si sa con certezza se nel 1982 Napoleoni indagasse già sul
Narducci (a dirla tutta, come vedremo, non si sa bene neanche se
Napoleoni abbia mai indagato sul Narducci, tanto più in relazione
ai delitti del Mostro);
▪ l'eventuale collegamento Ciabani/Cambi risulta improbabile fosse
avvenuto già il giorno successivo al delitto;
▪ Napoleoni avrebbe potuto trovarsi in Sicilia per motivi personali o
lavorativi che nulla avevano a che vedere con altre indagini da lui
condotte;
▪ per finire, non abbiamo assolutamente la certezza che la grafia sul
biglietto rivenuto fosse davvero dell'ispettore Napoleoni: è
un'ipotesi dovuta a un'effettiva similitudine fra le due scritture, ma
che potrebbe essere frutto di una mera coincidenza. La perizia fatta
eseguire dalla Vecchioni non ha ovviamente alcun valore
probatorio né legale.
A tal proposito, intervistati in merito dai già
citati Quaglia e Flamini, i figli del Napoleoni (entrambi in polizia)
avrebbero totalmente escluso che la suddetta grafia fosse del padre
e con buona probabilità che il loro genitore fosse in Sicilia nell'estate
del 1982.
Soffermandoci ancora un attimo sulla vicenda Narducci,
ultimamente, in tempi di complottismo mostrologico e di continui
richiami a sette massoniche ed esoteriche, è emersa la voce secondo
cui la giovane Elisabetta avrebbe lavorato, un mese prima di
morire, al Castello dell'Oscano, hotel e ristorante di notevole
pregio, sito in località Cenerente, in provincia di Perugia. Luogo
abituale di ritrovo, a quanto si dice, della massoneria perugina.
Tale voce - su cui è bene precisare manca qualsivoglia tipo di
certezza o prova documentale e dunque andrebbe derubricata a
semplice diceria mostrologica - ha scatenato le fervide menti di
quanti vogliono far rientrare in una qualche maniera il medico
perugino nella vicenda Ciabani (dando arbitrariamente per scontato
che questa sia strettamente connessa alla vicenda del Mostro) e
ritengono che all'Oscano Elisabetta potesse aver incontrato il dottor
Narducci (dando anche qui arbitrariamente per scontato che
Narducci frequentasse il luogo) ed esser venuta involontariamente
a conoscenza di segreti inenarrabili.
Si lascia al lettore qualsiasi considerazione e l'eventuale voglia di
approfondire, ove mai fosse possibile, questo aspetto della vicenda.

6. Clelia Cuscito (Dicembre 1983)


La seconda prostituta uccisa da mano ignota. La Cuscito fu trovata
morta nella sua abitazione il 14 dicembre del 1983 dal fratello
Bruno. Era stata torturata con un coltello e strozzata con il filo del
telefono. Nella sua mano fu trovata una ciocca di capelli color
castano chiaro, secondo il parere medico strappato con forza dal
cuoio capelluto e dunque presumibilmente dell'assassino. La ciocca
apparteneva a un uomo di gruppo sanguigno B. Vennero inoltre
rinvenute l'orma di una scarpa insanguinata sul pavimento del
bagno e l'impronta di una mano su mobile della camera da letto. La
casa della donna era stata messa a soqquadro, ma non era stato
rubato denaro, né sembrarono mancare altri oggetti di valore.
Parecchi anni dopo, indagando sui Compagni di Merende, la
Procura di Firenze scoprì, grazie alle dichiarazioni del
testimone Lorenzo Nesi (rese anche al Processo contro i CdM), che
il futuro indagato Mario Vanni aveva frequentato la Cuscito.
Secondo il dottor Maurri che aveva svolto le analisi medico-legali
sul corpo della donna uccisa, la mano che aveva ucciso la povera
Clelia era compatibile con quella del MdF.

7. Paolo Riggio e Graziella Benedetti (Gennaio 1984)


Questa giovane coppia venne uccisa il 21 gennaio 1984 a
Sant'Alassio, a circa 2 km da Lucca, mentre erano appartati con la
propria auto. La pistola che freddò i due amanti fu una Beretta
calibro 22. La scena del crimine era identica a quella dei delitti del
MdF, c'era anche un fiume nei pressi, ma non ci fu violenza sui
cadaveri, né utilizzo dell'arma bianca, né escissioni. I bossoli
rinvenuti erano diversi da quelli del MdF, si trattava infatti di
costosi bossoli Lapua e non Winchester. Per gli inquirenti si
trattava di un assassino diverso; ci fu anche chi parlò di possibile
emulo del mostro.
L'avvocato Filastò ritiene invece che questo delitto sia opera del
MdF che aveva voluto sfidare inquirenti e magistratura proprio nei
giorni in cui stavano per formalizzare l'arresto di Giovanni Mele e
di Piero Mucciarini. Anche il dottor Maurri, medico legale che ha
condotto le analisi su tutte le vittime del mostro, si disse possibilista
sul fatto che la mano del delitto di Lucca potesse essere la stessa dei
delitti del MdF.
In ogni caso parliamo di una zona geografica diversa, una stagione
diversa (era pieno inverno e oltretutto quella del 21 gennaio era una
nottata fredda e piovosa); inoltre il portafogli del ragazzo venne
trovato vuoto poco più in là, vicino l'argine del fiume. Alla fine
l'ipotesi ufficiale rimase quella di una rapina finita nel sangue.

8. Gabriella Caltabellotta (Febbraio 1984)


A 12 anni di distanza dal delitto di Miriam Ana Escobar, un
omicidio identico fu commesso il 29 febbraio del 1984. La vittima
era Gabriella Caltabellotta, diciotto anni, una vita normalissima,
lontana da giri strani e conoscenze potenzialmente pericolose.
La ragazza venne ritrovata il primo marzo del 1984 in via della
Concezione, una traversa di via Bolognese (stessa zona in cui venne
ritrovato il cadavere della Escobar). Sul suo corpo vennero
riscontrati segni di strangolamento e di cinque coltellate, quattro
molto profonde e una più superficiale fra le scapole. Come per la
Escobar, la ricostruzione portò e ritenere che la povera Gabriella
fosse stata uccisa altrove e poi portata in macchina sul luogo del
ritrovamento. Serrate indagini e un processo a danno di un giovane
spacciatore calabrese, Elio Campanaro, su cui gravavano diversi
indizi, si son conclusi con un nulla di fatto e anche in questo caso
non hanno mai portato a trovare un colpevole.
Recentemente è stato intervistato dal blog "Insufficienza di
Prove" il magistrato che all'epoca si occupò del delitto, Pietro
Dubolino. Emerge chiaramente in questa intervista la convinzione
da parte del PM della colpevolezza dell'allora imputato, ma altresì
la correttezza dell'assoluzione per la mancanza di prove
schiaccianti.
D'altro canto, come vedremo più dettagliatamente nel capitolo
dedicato al medico di Perugia, esiste una denuncia, presentata
nell'autunno del 1985 da una ragazza ventenne di Prato di
nome Cristina P., la quale ebbe modo di dichiarare che nel giugno
del 1984 aveva subito violenza sessuale e minacce di morte da un
tale Paolo Poli, quarantaseienne anch'egli pratese. Nell'occasione, il
predetto Poli, probabilmente per rendere più credibili le minacce, si
era vantato di aver ucciso una studentessa, rinvenuta poi in un
campo alla periferia di Firenze, vicino a una pianta di ulivo. In
questa vanteria, più o meno fondata, sembrerebbe esserci proprio
un riferimento all'omicidio Caltabellotta.
Tuttavia, la stessa Cristina P., alcuni anni dopo, avrebbe corretto la
data dello stupro e delle minacce, facendoli risalire non più al
giugno ma al gennaio del 1984. In tal caso, risulta ovvio che il
riferimento fatto dal Poli non può essere quello all'omicidio della
Caltabellotta che sarebbe avvenuto solo un mese dopo.

9. Giuseppina Bassi (Luglio 1984)


Terza prostituta uccisa. Avvenente cinquantacinquenne, ex
indossatrice che per esigenze economiche aveva iniziato ad
accogliere clienti in casa. La Bassi venne trovata morta nella sua
abitazione il 27 luglio 1984, un paio di giorni prima del delitto di
Vicchio, sdraiata per terra, completamente nuda, con svariate
ecchimosi sul collo. Era stata strangolata da un uomo
verosimilmente di forte costituzione. Non furono trovati segni di
colluttazione.
Per il delitto furono attenzionati tale Salvatore F., ex protettore della
Bassi, e Umberto Cirri, amico e proprietario dell'abitazione in cui la
donna viveva, colui che aveva scoperto il cadavere.
Secondo la Procura fiorentina e una certa vulgata mostrologica,
questo delitto non ha apparentemente alcun punto in comune con
quelli delle altre prostitute fiorentine uccise negli anni '80.

10. Luisa Meoni (Ottobre 1984)


Quarta e ultima prostituta uccisa nel giro di poco più di due anni.
La Meoni fu trovata morta nel suo appartamento la mattina del 13
ottobre 1984 con le braccia legate al corpo mediante una giacca di
lana. Era stata soffocata con batuffoli di cotone spinti nella bocca e
nel naso. Non furono rinvenute tracce di violenza sessuale, né fu
evidenziato un tentativo di furto.
Il delitto venne fatto risalire alla mezzanotte della notte precedente.
La vicina di casa dichiarò di aver udito un tonfo attorno alle 00.30,
come di un corpo caduto dal letto. In cucina furono trovati i resti di
un pasto consumato da tre persone, per questo talvolta si è
ipotizzato che il delitto fosse stato compiuto da più persone.
Tra i vari oggetti rinvenuti sul luogo del delitto ci fu una fattura
emessa due anni prima da una ditta idraulica che faceva capo
a Salvatore Vinci. Ovviamente il Vinci finì sospettato dell'omicidio,
ma anche questo delitto rientrò ben presto nella categoria degli
irrisolti.
La fattura di cui sopra - come abbiamo visto nel
capitolo Accadimenti finali - è balzata nel luglio del 2020 agli onori
della cronaca per eventuali similitudini di calligrafia con una lettera
anonima spedita al quotidiano "La Nazione" e attribuibile al Mostro
di Firenze.
11. Bruno Borselli (Ottobre 1984)
Pensionato sessantanovenne che aveva l'hobby del voyeurismo, fu
ucciso nell'ottobre '84 alle Cave di Maiano, in un posto
abitualmente frequentato da coppie e da guardoni, con sedici
coltellate. Secondo alcuni mostrologi fu ucciso dal mostro stesso,
infastidito dalla sua presenza. Ovviamente non c'è alcuna prova o
indizio in merito.

12. Milva Malatesta (Agosto 1993)


Classe 1962, figlia del su citato Renato Malatesta e di Maria
Antonietta Sperduto, Milva era una giovane prostituta che
bazzicava la medesima zona a Firenze di Gabriella Ghiribelli.
Per un breve excursus della sua vita, si veda anche per lei il
capitolo Via Faltignano.
Nella vicenda giudiziaria dedicata al Mostro di Firenze, la figura di
Milva Malatesta è particolarmente importante, perché è stata vista
per anni dagli inquirenti (e da una fetta di odierna mostrologia)
come il punto di incontro fra i sardi (eventuali autori del delitto del
1968) e i cosiddetti merendari (secondo le sentenze, gli autori dei
delitti dal 1982 al 1985) e dunque colei che ha permesso il famoso
passaggio della pistola.
Il primo a parlarne era stato l'ex amico di Francesco Vinci,
l'imolese Giovanni Calamosca. Come abbiamo visto, costuì riferì
agli investigatori che fra la fine degli anni '70 e gli inizi '80,
Francesco Vinci si era innamorato perdutamente di una prostituta
di San Casciano. Riconobbe la prostituta in Milva Malatesta. Ripeté
queste considerazioni anche al Processo ai CdM.
Anche l'ergastolano Giuseppe Sgangarella riferì sia al capo della
squadra mobile, Michele Giuttari, sia successivamente in sede
processuale, che Francesco Vinci aveva stretto rapporti di amicizia
con Pietro Pacciani e Mario Vanni, con cui era solito riunirsi presso
una casa colonica per sedute spiritiche a cui partecipava la stessa
Milva.
Abbiamo già visto nel capitolo dedicato a Francesco Vinci, come
tali dichiarazioni non possano essere considerate granché
attendibili, in special modo quelle dello Sgangarella.
Pur tuttavia, nella notte tra il 19 ed il 20 agosto 1993, pochi mesi
prima che prendesse il via il Processo Pacciani, la Malatesta fu
uccisa con il figlio Mirko di 3 anni. I loro corpi vennero trovati
carbonizzati, all'interno della Fiat Panda di Milva, targata FI F08335,
in una scarpata a Poneta di Barberino Val D'Elsa. Nei pressi
dell'auto fu trovata una tanica di plastica sporca di sangue, sul cui
manico, furono rilevate delle impronte digitali. Le indagini si
orientarono sul marito, Francesco Rubino, che venne arrestato,
processato e - nonostante indizi abbastanza pesanti - assolto nel
1995, per non aver commesso il fatto.
Una morte così violenta, meno di due settimane dopo quella in
simili circostanze di Francesco Vinci, è stata ed è tuttora la miglior
freccia nell'arco di quanti ritengono la giovane Malatesta custode di
segreti inenarrabili sulla vicenda del Mostro.

13. Anna Milvia Mattei (Maggio 1994)


Vedova, prostituta e invalida civile, con un passato segnato da
miseria e disperazione. La Mattei viveva in un appartamento a San
Mauro di Signa, alla porte di Firenze; era coinquilina di Marinella
Tduori, anch'ella prostituta e compagna di Fabio Vinci, figlio di
Francesco.
L'allora quarantaseienne Milvia Mattei fu trovata morta il 29
maggio 1994, in pieno processo Pacciani, nella sua camera da letto,
stesa su un materasso ormai carbonizzato a cui qualcuno aveva
dato fuoco qualche ora prima. Le gambe presentavano tracce di
ustioni. La donna era quasi nuda e aveva stretto intorno al collo un
foulard (in alcuni articoli di giornale è riportato cappio), sotto al
quale vi erano videnti segni di strangolamento. Ai piedi del letto
giaceva un gatto morto.
Il cadavere fu scoperto dalla coinquilina, Marinella Tudori. Sia lei
che il compagno Fabio dichiararono agli inquirenti di aver trascorso
l'intero giorno fuori casa.
Dell'omicidio fu accusato Giuseppe Shangarella, l'ergastolano
compagno di cella dapprima di Francesco Vinci e in seguito di
Pietro Pacciani, in quei giorni in permesso premio. Sgangarella
verrà assolto dalle accuse.

14. Fabio Vinci (Maggio 1994)


Classe 1969, figlio di Francesco Vinci e di Vitalia Melis. Un passato
costellato di piccoli reati e consumo di sostanze stupefacenti. Il suo
cadavere venne rinvenuto dai carabinieri nella tarda serata del 7
dicembre 2002 all'interno di una Fiat 500 parcheggiata su una strada
sterrata della campagna attorno a Montaione, località al confine fra
la provincia di Firenze e quella di Pisa.
L'automobile Fiat 500 risultò rubata, mentre il decesso del Vinci fu
attribuito - con un certo margine di dubbio - a uno sfortunato
incidente. Nel rapporto redatto dal medico legale è possibile
leggere quanto segue:
...appare verosimile ritenere che il Vinci, tossicodipendente senza dimora,
si sia appartato in auto nelle ore antimeridiane del 7.12 (o forse anche
qualche ora prima) per riposarsi e, in considerazione del freddo clima
atmosferico proprio del periodo invernale, abbia tenuto il motore acceso
della sua vecchia auto per tenere in funzione il riscaldamento
dell'abitacolo. Trattandosi di un vecchio modello d'auto, è possibile che i
fumi dei gas di scarico dell'auto non siano stati tutti convogliati
all'esterno ma che siano stati parzialmente anche filtrati nell'abitacolo, per
crepe strutturali da ruggine, portando l'uomo (forse già assopito) a morte
per avvelenamento acuto da CO. Che possa essersi trattato di un evento
accidentale e non volontario (in senso autosoppressivo) è dato dal fatto che
non vi erano tubi che convogliassero dall'esterno i gas di scarico
fuoriusciti dal tubo di scappamento all'interno dell'abitacolo (finestrini
regolarmente chiusi). Si ribadisce comunque trattasi solo di verosimile
ipotesi che non esclude "a priori" altre possibili ricostruzioni
dell'episodio".
Non mancano ovviamente spiegazioni alternative a tale morte,
secondo alcuni attribuibile al fatto che Fabio Vinci stesse svolgendo
indagini al fine di individuare gli assassini del padre Francesco e
per questo motivo fosse stato ucciso.

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5 commenti:
1.
Anonimo20 settembre 2021 alle ore 15:04

Emanuele Petri, 2003


Rispondi

2.
Luigi Sorrenti7 ottobre 2021 alle ore 02:25
Petri è stato ucciso in uno scontro a fuoco con esponenti delle
NBR sul treno regionale Roma-Firenze. Una morte tragica, ma
chiarita in ogni suo aspetto, che nulla ha a che vedere con le
vicende di cui si parla in questi scritti.
Rispondi

3.
Pio29 dicembre 2021 alle ore 11:57

In Toscana o gli inquirenti sono tutti imbecilli oppure gli


assassini tutti professionisti....ne avessero beccato uno.
Rispondi

4.
Il Custode dei mondi25 ottobre 2022 alle ore 06:18

Oppure ci sono nomi che non vanno fatti e persone che non
vanno trovate ...
Rispondi

5.
Boris Mol1 dicembre 2022 alle ore 15:32

Esatto! Sono d'accordo con Il Custode dei Mondi, vedere il


film su Netflix in cui si dice Pierluigi Vigna, il magistrato che
doveva indagare fosse coinvolto nelle messe nere...
Rispondi
Cronologia degli eventi

Di seguito un breve excursus cronologico dell'intera vicenda


analizzata finora:

► 1968, AGO 22 - Delitto di Signa.

► 1968, AGO 23 - Arresto di Stefano Mele.

► 1970, MAR 09 - Inizio del Processo a Stefano Mele.

► 1970, MAR 25 - Sentenza di primo grado di condanna per


Stefano Mele.

► 1972, MAR 22 - Omicidio di Miriam Ana Escoar.

► 1973, APR 12 - La Corte d'Assise d'appello di Perugia condanna


Stefano Mele a 13 anni di reclusione. La sentenza passa in giudicato.

► 1974, SET 14 - Delitto di Rabatta.

► 1976, FEB 03 - Duplice omicidio di Natalino e Lorella Sechi nei


pressi di Castel San Pietro, vicino Bologna.

► 1980, APR 29 - Salvatore Vinci viene ricoverato in una clinica


psichiatrica.

► 1980, MAG 17 - Salvatore Vinci viene dimesso.

► 1980, GIU 06 - Muore Antonio Vinci, padre dei tre fratelli,


Giovanni, Salvatore e Francesco.
► 1980, OTT 07 - Rosina Massa, moglie di Salvatore Vinci, stanca
degli abusi subiti dal marito, abbandona il tetto coniugale e fugge
con i suoi tre figli e un nuovo compagno a Trieste.

► 1980, DIC 24 - Morte di Renato Malatesta.

► 1981, APR ** - Viene scarcerato Stefano Mele.

► 1981, GIU 06 - Delitto di Mosciano di Scandicci.

► 1981, GIU 12 - Arresto di Enzo Spalletti.

► 1981, GIU 20 - Il celebre gastroenterologo Francesco Narducci


convola a nozze con l'ereditiera Francesca Spagnoli.

► 1981, LUG 26 - Viene arrestato Salvatore Indovino e tradotto nel


carcere delle Murate a Firenze.

► 1981, AGO 04 - Muore la prostituta Gina Manfredi cadendo dalle


scale della sua abitazione.

► 1981, SET 16 - Francesco Narducci parte per Philadelphia.

► 1981, OTT 22 - Delitto di Calenzano.

► 1981, OTT 24 - Viene scarcerato Enzo Spalletti.

► 1981, NOV 14 - Viene arrestato per furto Francesco Vinci e anche


lui tradotto nel carcere delle Murate a Firenze.
► 1981, DIC 04 - Viene scarcerato Salvatore Indovino.

► 1981, DIC 12 - Francesco Narducci rientra ufficialmente in Italia


dal suo viaggio di lavoro negli Stati Uniti.

► 1981, DIC 21 - Viene scarcerato Francesco Vinci.

► 1982, FEB 11 - Omicidio di Giuliana Monciatti, prima prostituta


uccisa.

► 1982, GIU 19 - Delitto di Baccaiano.

► 1982, GIU 30 - Viene pubblicato l'identikit del MdF.

► 1982, LUG 03 - Viene dato mandato ai carabinieri di indagare su


precedenti delitti ai danni di coppie.

► 1982, LUG 17 - Il Giudice Istruttore Vincenzo Tricomi richiede


alla Corte di Assise di Appello di Perugia il fascicolo processuale
relativo al delitto di Signa del 1968.

► 1982, LUG 20 - Viene pubblicato su "La Nazione" l'appello dei


carabinieri al Cittadino Amico.

► 1982, LUG 22 - Vengono consegnati al Giudice Istruttore


Vincenzo Tricomi tutti gli incartamenti costituenti il faldone dei
processi a Stefano Mele. Nasce ufficialmente la Pista Sarda.

► 1982, AGO 15 - Viene arrestato Francesco Vinci.

► 1982, AGO 22 - Omicidio di Elisabetta Ciabani.


► 1982, NOV 06 - Francesco Vinci viene formalmente indagato per
i delitti del MdF.

► 1983, SET 09 - Delitto di Giogoli.

► 1983, DIC 14 - Omicidio di Clelia Cuscito, seconda prostituta


uccisa.

► 1984, GEN 21 - Delitto di Lucca.

► 1984, GEN 26 - Arresto di Piero Mucciarini e Giovanni Mele.

► 1984, LUG 27 - Omicidio di Giuseppina Bassi, terza prostituta


uccisa.

► 1984, LUG 29 - Delitto di Vicchio.

► 1984, LUG 30 - Viene perquisita l'abitazione di Salvatore Vinci


con conseguente sequestro di borsa e straccio.

► 1984, AGO 04 - Viene fondata la SAM, la Squadra Anti Mostro,


con a capo il dottor Sandro Federico.

► 1984, SET 03 - Viene richiesta al professor De Fazio di Modena


una perizia sul serial killer delle coppiette.

► 1984, OTT 02 - Vengono scarcerati Piero Mucciarini e Giovanni


Mele.

► 1984, OTT 13 - Omicidio di Luisa Meoni, quarta prostituta


uccisa.

► 1984, OTT 26 - Viene scarcerato Francesco Vinci.

► 1985, SET 09 - Vengono ritrovati i corpi senza vita dei due


ragazzi francesi uccisi dal MdF a Scopeti.

► 1985, SET 10 - Viene recapitata alla dottoressa Della Monica,


presso la Procura della Repubblica di Firenze, la lettera anonima
contenente un lembo di seno di Nadine Mauriot.

► 1985, SET 10 - Viene rinvenuta una cartuccia Winchester calibro


22, con la lettera H sul fondello, sotto le rampe davanti ai garage
dell'ospedale Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri.

► 1985, SET 11 - Viene spedita ai carabinieri di San Casciano una


lettera anonima in cui per la prima volta compare il nome di Pietro
Pacciani come possibile MdF. La lettera arriverà a destinazione il 16
settembre.

► 1985, SET 19 - Viene perquisita la casa di Pacciani. Tale


perquisizione non darà alcun riscontro.

► 1985, SET 26 - Vengono perquisiti i sei piani dell'ospedale Santa


Maria Annunziata di Ponte a Niccheri e ritrovata in un armadietto
di uso comune una lista di medici e professionisti sospettati di
essere il MdF.

► 1985, OTT 01 - Vengono recapitate ai sostituti procuratori


Canessa e Fluery due lettere anonime, ciascuna contenente la
fotocopia di un articolo de "La Nazione", un foglio bianco e il dito
di un guanto di gomma giallo contenente una cartuccia Winchester
calibro 22 con la lettera H sul fondello. A lato dell'articolo era scritto
a macchina "uno a testa vi basta".

► 1985, OTT 05 - Una terza lettera viene recapitata al Procuratore


aggiunto della Repubblica, Pier Luigi Vigna, contenente un dito
proveniente da un guanto di gomma giallo, un proiettile e due
guanti interi di gomma.

► 1985, OTT 08 - Scompare da Perugia il celebre gastroenterologo


Francesco Narducci.

► 1985, OTT 13 - Viene recuperato dalle acque del lago Trasimeno


il cadavere (o presunto cadavere) del dottor Narducci.

► 1986, MAG XX - Parte la campagna cosiddetta "Occhio Ragazzi":


la città di Firenze e i dintorni vengono tappezzati di manifesti e
volantini che invitano i giovani a non appartarsi in luoghi isolati
nelle ore notturne.

► 1986, GIU 11 - Viene arrestato Salvatore Vinci.

► 1987, APR 07 - Viene inviata una busta anonima alla dottoressa


Silvia Della Monica presso la Procura della Repubblica di Firenze,
contenente una videocassetta su cui erano registrati spezzoni di
servizi televisivi sul MdF e un foglio su cui erano annotati gli errori
giornalistici dei servizi stessi. Tale missiva allarma oltremodo le
forze dell'ordine.

► 1987, MAG XX - Viene mandato in onda uno spot televisivo e


radiofonico che sulle notte di una canzone di Renzo Arbore o di un
battito cardiaco, invita i giovani a non appartarsi di notte in luoghi
isolati.

► 1988, APR 19 - Salvatore Vinci viene assolto dall'accusa di


uxoricidio.

► 1989, DIC 13 - Il Giudice Istruttore Mario Rotella emette una


sentenza-ordinanza di 162 pagine in cui proscioglie "per non aver
commesso il fatto" Francesco Vinci, Giovanni Mele, Piero
Mucciarini, Marcello Chiaramonti, Salvatore Vinci, Stefano Mele.

► 1990, GIU 06 - Viene notificata a un contadino di Mercatale,


detenuto in carcere, la prima informazione di garanzia per le ipotesi
di reato di detenzione e porto illegali di armi comuni da sparo.
Inizia quel giorno la grande vicenda giudiziaria che vede Pietro
Pacciani nei panni del Mostro di Firenze.

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1 commento:
1.
Anonimo20 giugno 2022 alle ore 07:43

dopo essermi letto tutto l'accurato lavoro realizzato, delitto


dopo delitto e loro modalità ha iniziato a sorgere una
domanda:
perchè un uso così esagerato di colpi, 65 su 16 vittime se
includiamo Signa ed il ricorso ad ulteriore arma bianca
5 volte su 8 con "esagerato" abuso a Vicchio nonostante i già 7
colpi sparati. Un overkilling psicologico, scarsa dimestichezza
con la pistola, necessità temporali di terminare l'azione
omicidiaria?
Rispondi
Seconda Parte: La vicenda giudiziaria

Il 13 dicembre 1989 si chiusero dopo 7 lunghi anni, 4 arresti e infinite


perquisizioni, le indagini sui sardi con una sentenza-ordinanza di
assoluzione.
Da quel momento a condurre le indagini sul MdF fu esclusivamente la
Procura di Firenze nelle persone di Pier Luigi Vigna, Paolo
Canessa, Francesco Fleury. Il braccio armato della Procura era
rappresentato dalla SAM, la Squadra Anti Mostro, fondata pochi giorni
dopo il delitto di Vicchio (1984).
Dal 1986 a capo della SAM era arrivato in sostituzione del dottor Sandro
Federico, Ruggero Perugini, poliziotto dal notevole curriculum,
specializzatosi a Modena in criminologia clinica e perfezionatosi
all'Accademia di Quantico in Virginia.
Ruggero Perugini si convinse dopo anni di ricerche e minuziose indagini
di esser riuscito a dare un nome e un volto all'inafferrabile serial killer
delle coppiette toscane. Un unico assassino che aveva colpito dal 1968 al
1985 e che rispondeva al nome e alla fisionomia di Pietro Pacciani.
Fu proprio Perugini il più grande accusatore di Pacciani, colui che ancora
oggi, almeno nella vulgata popolare, viene considerato il Mostro di
Firenze.
Il contadino di Mercatale

Pietro Pacciani nacque ad Ampinana, frazione di Vicchio, il 7


gennaio 1925, da una povera famiglia di contadini.
Perse un fratello in tenera età e visse la sua infanzia con il padre
Antonio, la madra Rosa e la sorella Rina.
Durante la guerra il giovanissimo Pacciani aderì al movimento
Partigiano e pare si distinse per aver eroicamente salvato la vita a
un suo compagno d'armi, tale Dante Ricci, colui che qualche anno
dopo sarebbe divenuto uno dei più rinomati penalisti fiorentini.
Al termine del conflitto, nel 1947, con già sul groppone una
denuncia per violenza domestica nei confronti del padre, il
ventiduenne Pietro svolse il servizio militare dapprima al Centro
Addestramento Reclute di Avellino, quindi come fuciliere a Cesano,
alle porte di Roma.
Una sua dettagliata biografia è presente nel libro pubblicato nel
1995 dal giornalista e scrittore Giuseppe Alessandri, intitolato "La
Leggenda del Vampa".
Il Vampa era appunto il soprannome con cui da adulto sarebbe
stato conosciuto Pacciani, dovuto sia al suo carattere focoso che
"avvampava" facilmente, sia perché si narra che una sera, durante
una festa paesana, il nostro si sarebbe cimentato nella difficile arte
del "mangiafuoco" finendo per ustionarsi il viso con una vampata.

Aprile 1951, La Tassinaia


Il giorno 11 aprile 1951, quando aveva 26 anni, Pacciani scoprì la
sua ragazza, Miranda Bugli, all'epoca appena sedicenne, appartata
nelle campagne di Tassinaia nel Mugello con tale Severino Bonini,
venditore ambulante di 42 anni. Pacciani rimase a spiare la coppia
in atteggiamenti intimi, poi quando il Bonini scoprì il seno sinistro
di Miranda, saltò fuori dal suo nascondiglio per aggredire
fisicamente l'uomo. Pacciani inferse al Bonini 19 coltellate, quindi
infierì sul suo cadavere colpendolo ripetutamente al capo con il
tacco del suo stivale o - secondo quando è riportato agli atti - con un
grosso sasso, un bastone o un randello, fino a provocare "la
lacerazione delle meningi, lo spappolamento della sostanza nervosa, lo
scollamento parziale del bulbo oculare sinistro" e dunque la fuoriuscita
di materia cerebrale. Obbligò quindi la fidanzata ad avere un
rapporto sessuale con lui accanto al cadavere e le fece promettere di
convolare al più presto a nozze.
Pacciani, con la più o meno consenziente collaborazione della Bugli,
nascose sommariamente il cadavere derubandolo oltretutto del
portafoglio, ma quella stessa notte tornò sul luogo del delitto per
celare definitivamente il corpo del Bonini e renderlo introvabile. Il
suo intento fallì a causa delle difficoltà che riscontrò nel trasportare
il pesante fardello al buio su un terreno accidentato e con una torcia
in bocca. Si dovette accontentare di nasconderlo nuovamente
meglio che poteva.
Il giorno dopo però Miranda, pressata dai carabinieri che
indagavano sulla scomparsa del Bonini, confessò il delitto (secondo
altre fonti era stato lo stesso Pacciani, ubriacatosi, a parlare
dell'omicidio) e i due fidanzati furono immediatamente arrestati.
Sul tragico episodio un cantastorie mugellano di nome Aldo Fezzi,
detto Il Giubba, scrisse e musicò una ballata che dal maggio del
1951 portò per i borghi e le piazze del Mugello, rendendo famoso
sia il nome del Pacciani che l'episodio stesso.
Quella che passò alla storia come La Ballata del Giubba venne poi
per un assurdo scherzo del destino ripresa e pubblicata da "La
Nazione" nel 1981, subito dopo il delitto di Travalle di Calenzano,
commesso dal Mostro. Il giornale infatti stava ripercorrendo i
crimini più efferati che erano avvenuti nella campagna fiorentina
dal dopoguerra. A nessuno tuttavia, almeno all'epoca, venne in
mente di associare il delitto della Tassinaia con quelli del Mostro di
Firenze.
Tornando al 1951, il Pacciani e la Bugli finirono a processo per
l'omicidio del Bonini. Fu avanzata dall'Accusa l'ipotesi che il delitto
fosse stato commesso dalla coppia per rapina (ipotesi che invero
sostengono tuttora sia il fratello del Bonini, sia una fetta di odierna
mostrologia), ma alla fine a prevalere fu l'ipotesi del delitto
passionale. La Bugli venne giudicata complice del Pacciani e
condannata a 4 anni di carcere. Pietro, che per l'occasione era difeso
proprio dall'avvocato Dante Ricci, cui si dice avesse salvato la vita
durante la guerra, viste le attenuanti del caso, ricevette una
condanna a 13 anni di reclusione.
Nota Bene: Ultimamente, una certa deriva innocentista tende a
catalogare l'omicidio del Bonini quasi come un incidente o - come
sosteneva il Pacciani stesso - un delitto compiuto per eccesso di
difesa. Questa versione è palesemente in contrasto con i verbali dei
carabinieri, gli atti processuali e le perizie medico-legali sul corpo
del Bonini in cui si fa palese riferimento alla violenza e
all'accanimento con cui il giovane Pacciani avrebbe infierito sul
cadavere.
Scontata la propria pena, Miranda uscì dal carcere nel 1955, poco
dopo si sposò con un altro uomo. Dalla sua cella Pacciani apprese
dell'imminente matrimonio. Era probabilmente ancora ossessionato
da quella donna. Le scrisse ripetutamente ora minacciandola, ora
pregandola di non sposarsi; giunse anche a scrivere al futuro sposo
di lei per avvertirlo del pericolo che correva accogliendo in casa una
simile persona. Fu tutto inutile. Miranda si sposò e Pietro rimase
dentro a scontare i suoi lunghi 13 anni di pena.
Uscì dal carcere il 4 luglio 1964. Aveva 39 anni. Tornò nel Mugello,
nel comune di Vicchio. Nel giugno del 1965 si sposò con Angiolina
Manni, donna dalle ridotte capacità mentali ma si dice di gradevole
aspetto, da cui ebbe due figlie, Rossana nel 1966 e Graziella nel
1967.
Nel 1970 l'intera famiglia emigrò nel comune de La Rufina, sempre
in Mugello.

Dal Mugello a San Casciano


Nell'aprile del 1973, in cerca di lavoro, la famiglia Pacciani si trasferì
a San Casciano Val di Pesa, presso i poderi del marchese Pier
Francesco Rosselli Del Turco. Nuovo paese, nuovo lavoro, nuova
vita. A San Casciano, Pacciani conobbe il postino Mario Vanni,
colui che diverrà uno dei suoi pochissimi amici, compagno di
bagordi, di smodate bevute, talvolta di risse e di frequentazioni con
prostitute varie, in special modo la Maria Antonietta Sperduto,
abitante a Sambuca Val di Pesa (frazione di Tavernelle) e amante di
entrambi.
Altro amico del Pacciani fu il maresciallo Francesco Simonetti,
conosciuto a Mercatale nel 1975 e morto, già anziano, nel 1986. Del
maresciallo Simonetti si hanno poche notizie, per lo più ne parlano
la moglie e la figlia quando furono sentite dalla SAM; ne parla lo
stesso Pacciani in alcuni dei suoi memoriali. Si sa che la famiglia
Simonetti si trasferì da Firenze a Mercatale nel 1975. Negli anni '80
il maresciallo era in pensione e spesso accompagnava il Pacciani
nelle sue gite fuori porta, a Firenze o nel Mugello. Si occupava
inoltre di espletare pratiche giudiziarie e burocratiche dell'amico
Pietro, come ad esempio la richiesta di perdono avanzata ai
familiari del Bonini. La figlia raccontò anche che il padre era
succube del Pacciani, probabilmente anch'egli vittima della
personalità violenta del contadino. Infine, alcune fonti, che però
non trovano conferme documentali, riportano che Simonetti era
presente nell'ottobre del 1977 in una trattoria di Scarperia, dopo una
mattinata di pesca, il giorno in cui Pacciani conobbe Giovanni
Faggi, futuro indagato nel Processo ai Compagni di Merende
(vedasi il capitolo Gli imputati Faggi e Corsi).

Nel 1978, all'età di 53 anni, Pietro venne colto da infarto. L'anno


successivo si licenziò dal lavoro nel podere del marchese e con la
liquidazione comprò casa a piazza del Popolo a Mercatale, la più
grande e popolosa frazione di San Casciano.
Nel dicembre del 1980 il marito della sua amante Maria Antonietta
Sperduto, il manovale Renato Malatesta, fu trovato impiccato. Il
caso fu archiviato frettolosamente come suicidio. In molti tuttora
pensano che Pacciani (e forse anche Vanni) abbia avuto a che fare
con quella strana morte (vedasi capitolo Le Morti Collaterali).
Già da qualche settimana prima della morte del marito, la Sperduto
si era trasferita in via Faltignano a San Casciano, accanto alla casa
di Salvatore Indovino, colui che in seguito sarebbe divenuto
celebre come il mago di San Casciano. Pacciani e Vanni
continuarono a frequentare la Sperduto anche nella nuova casa.
Volenti o nolenti è probabile dunque che conobbero i di lei vicini: il
mago Indovino e la compagna Filippa Nicoletti, la quale nella
tarda estate del 1981 sarebbe divenuta amante del futuro reo-
confesso Giancarlo Lotti.
In quello stesso periodo, pochi mesi dopo la morte del Malatesta,
ebbe inizio la tragica epopea del MdF con i sei delitti in rapida
successione dal 1981 al 1985.

La prima segnalazione
Pacciani entrò nelle indagini subito dopo l'ultimo duplice omicidio
commesso dal MdF agli Scopeti, presumibilmente a causa di una
lettera anonima scritta l'11 settembre 1985 e giunta alla caserma dei
carabinieri di San Casciano il 16 settembre. La missiva invitava le
forze dell'ordine a indagare sul contadino di Mercatale, in quanto
personaggio pericoloso ed estremamente losco (vedasi
capitolo Accadimenti finali).
Piccola parentesi: undici anni dopo, nel 1996, il capo della squadra
mobile, Michele Giuttari scoprirà, grazie a una perizia calligrafica,
che tale lettera era stata inviata dal signor Floriano Delli, di
professione impiegato di banca. Il Delli, infatti, era stato chiamato a
rendere testimonianza presso gli uffici della Procura perché agli
inizi degli anni '80 aveva preso in locazione insieme ad alcuni amici,
una parte di una colonica ubicata di fronte all'abitazione del
Pacciani. Il Delli testimoniò nell'occasione che un giorno del 1981,
con la moglie ed alcuni amici, aveva notato nel giardino di casa
Pacciani, accanto alla fontana, "delle cose schifose", come dei
brandelli di pelle stesi ad essiccare.
Sempre stando alla testimonianza del Delli, inoltre, nello stesso
periodo aveva affidato al Pacciani un cane trovatello di nome Pluto
da custodire e del cibo con cui sfamare l'animale. Pietro, stando a
quanto raccontato dalle figlie, aveva invece utilizzato quel cibo per
sfamare i propri familiari e aveva preso a bastonare
quotidianamente il cane fino a provocarne il decesso. Delli aveva
dunque sicuramente motivi di astio nei confronti del Pacciani.
Come dicevamo, comunque, è proprio la sua lettera anonima nel
settembre del 1985 a portare inizialmente Pacciani nel mirino degli
inquirenti. Il 16 settembre la missiva giunse alla caserma dei
carabinieri di San Casciano e il 19 settembre 1985, forse per una
sorta di scrupolo professionale, il maresciallo Vincenzo
Lodato assieme al maresciallo D'Aidone e all'appuntato Antonio
Scanu si recarono presso l'abitazione di Pietro Pacciani in Piazza
del Popolo a Mercatale. Eseguirono una sommaria perquisizione,
pur sprovvisti di mandato, da cui non risultò alcunché, e chiesero al
padrone di casa di render conto su cosa avesse fatto la sera
dell'omicidio.
Come emerse al processo Pacciani, nell'udienza del 3 Maggio 1994,
Pietro sosterrà che la prima perquisizione a suo carico fosse invece
avvenuta il 9 settembre attorno alle 15.30, il giorno stesso del
ritrovamento dei cadaveri dei due francesi, e non il 19, dando di
fatto il via a un serrato confronto. In sintesi, lo scambio dialettico fra
le varie parti del processo fu il seguente:
● Pacciani dichiarò che il 9 settembre verso le 15:30 era arrivato il
maresciallo Lodato a perquisire la sua abitazione; il maresciallo gli
aveva chiesto cosa avesse fatto il giorno prima da dopo pranzo fino
a sera. Domanda cui Pacciani aveva risposto che era stato alla Festa
dell'Unità di Cerbaia, ma non per il partito, quanto per gli
ottimi "polletti fritti" che cucinavano.
● Il giudice Ognibene intervenne affermando che probabilmente la
perquisizione non era avvenuta quel giorno (9 settembre) ma il 19
settembre, perché c'era un verbale dei carabinieri che riportava
l'evento e che appunto risaliva al 19.
● Pacciani ribadì che la prima perquisizione era avvenuta proprio il
9 e che il 19 era avvenuta un'altra perquisizione in seguito a una
lettera anonima giunta alla caserma dei carabinieri di San Casciano.
● Intervenne Canessa che chiese dunque al maresciallo Lodato dove
fosse stato il 9 settembre alle ore 14:00, al fine di dimostrare che non
poteva essere andato a casa del Pacciani.
● Pacciani a quel punto si arrabbiò: "...ma chi lo ha detto alle 14?... non
andiamo a cercare le frottole... che si cerca di imbrogliare le acque qui?... lo
cerco pure io chi ha fatto del male...!"
Ribadì quindi che la perquisizione era avvenuta alle 15:30.
● Il maresciallo Lodato affermò che dopo la scoperta dei cadaveri,
lui non si era mai mosso dagli Scopeti fino a tarda sera, quindi
ritenne impossibile che fosse andato a perquisire Pacciani il
pomeriggio del 9 settembre.
● Intervenne l'avvocato Bevacqua che parlò di alcune perquisizioni
condotte proprio il 9 settembre alle 17:30 su alcune persone
sospettate (tra cui il famoso ginecologo di Montelupo Fiorentino,
meglio conosciuto come dottor B.). Il fine di Bevacqua era appunto
dimostrare che le perquisizioni erano partite proprio dal
pomeriggio del 9.
● Canessa ribatté che di quelle perquisizioni non si era occupato il
maresciallo Lodato, ribadendo che il carabiniere quel pomeriggio
era rimasto dalle parti di Scopeti fino a sera.

Sebbene per una volta le rimostranze di Pacciani fossero sembrate


genuine, risulta difficile credere a una perquisizione fatta alle 15.30
del 9 immediatamente dopo la scoperta dei corpi delle vittime e con
la segnalazione anonima ancora lontana dall'essere scritta. Sembra
questa una questione di secondaria importanza, ma è dirimente per
capire come il futuro imputato fosse rientrato nelle indagini. Infatti,
nel caso in cui Pacciani fosse per una volta stato sincero e la
perquisizione fosse realmente avvenuta il 9, ciò comporterebbe che
il contadino di Mercatale era rientrato nelle indagini sul Mostro non
in seguito alla lettera anonima, ma per un altro motivo mai
approfondito, che risulta tuttora sconosciuto. Esistono, infatti,
alcune teorie mostrologiche secondo le quali Pacciani sarebbe finito
nel mirino degli inquirenti già prima del delitto degli Scopeti e
dunque sarebbe stato il primo o fra i primi ad essere perquisito
subito dopo la scoperta del delitto stesso.
La perquisizione – qualunque sia stato il giorno (9 o 19) - si chiuse
comunque con un nulla di fatto e Pacciani sembrò sparire per un
paio d'anni dai radar delle forze dell'ordine.

La violenza sulle figlie


Il 30 maggio del 1987, Pacciani finì in carcere per aver
ripetutamente abusato delle proprie figlie. Erano state proprio le
due ragazze a sporgere denuncia nei confronti del padre.
Il successivo processo parve scoperchiare un vaso di Pandora di
inaudite proporzioni su ciò che avveniva fra le mura domestiche di
casa Pacciani: reiterate violenze carnali, botte, maltrattamenti e
vessazioni di ogni tipo, con moglie e figlie ridotte in uno stato di
profonda prostrazione psicologica nei confronti di quel padre
padrone, dissoluto e brutale.
Il 12 febbraio 1988 arrivò per Pietro la condanna in primo grado a 8
anni di reclusione. Condanma che verrà confermata in appello e in
cassazione.
A titolo puramente cronachistico, gli estensori della sentenza di
primo grado furono il presidente del processo, dottor Antonio
Parigini, e i due giudici togati, dottori Enrico Ognibene e Federico
Lombardi. Per una curiosa coincidenza, diversi anni dopo, sia
Ognibene che Lombardi presiederanno i processi di primo grado
rispettivamente contro Pacciani (imputato per i 16 omicidi del
Mostro) e contro i Compagni di Merende (accusati di complicità col
Pacciani negli ultimi cinque delitti).

Tornando alla condanna, anche su tale sentenza non vi è uniformità


di vedute. Nel variegato universo mostrologico c'è, infatti, chi
ritiene Pacciani innocente anche per gli abusi sulle figlie. Il noto
psichiatra forense Francesco Bruno, ad esempio, si è detto più volte
convinto che tale accusa fosse stata costruita a tavolino; altresì il
celebre avvocato Nino Marazzita, all'epoca in cui era difensore di
Pacciani durante il Processo di Appello per i delitti del Mostro,
espresse più volte la volontà di voler andare maggiormente a fondo
sulla questione degli abusi.
Ammettendo, dunque, ma non concedendo, l'innocenza di Pacciani
per tale reato, le domande da porsi sarebbero due: perché qualcuno
avrebbe dovuto incastrare Pacciani, quando ancora era un perfetto
sconosciuto e le indagini sul Mostro erano di là da venire? E
soprattutto chi era questo qualcuno?
La mostrologia innocentista fornisce due possibili risposte:
▪ la prima, per così dire più ortodossa, ipotizza che le figlie, stanche
di subire le angherie e le percosse di un padre comunque geloso,
violento, feroce, prepotente e prevaricatore, avessero inventato la
storia degli abusi per allontarnalo da loro e guadagnare così una
sorta di libertà;
▪ la seconda, di stampo decisamente più complottistico, vede una
macchinazione ordita dalla Procura fiorentina per incastrare, senza
possibilità di scampo, Pacciani come Mostro di Firenze. Secondo
tale teoria, Pacciani sarebbe finito nel mirino degli inquirenti per i
delitti del Mostro prima di quanto la cronaca giudiziaria riporti; e
dopo la perquisizione infruttuosa del 19 (o a questo punto anche
del 9) settembre, la Procura avrebbe continuato a lavorare su di lui
sotto traccia per trovare le prove per incastrarlo. In questa ottica,
condannarlo per il reato di violenza sulle figlie e quindi dipingerlo
davanti all'opinione pubblica come un mostro sarebbe stato un
importante punto a favore dell'Accusa in vista di un futuro
Processo, mediaticamente e penalmente molto più importamente
quale quello per i delitti delle coppiette.

Inutile dire che la prima risposta, per quanto molto poco piacevole
da valutare, appare quantomeno possibile.
La seconda presupporrebbe, invece, un piano ordito con diversi
anni di anticipo ai danni del Pacciani. In altre parole ci sarebbe stata
una vera e propria cospirazione secondo cui la condanna per gli
abusi alle figlie avrebbe dovuto condizionare l'opinione pubblica
allorché, quasi cinque anni dopo, la tempesta mediatica si sarebbe
abbattuta sul contadino di Mercatale; e ancor di più avrebbe dovuto
condizionare l'esito di un eventuale Processo sui delitti del Mostro,
un processo che si sarebbe svolto oltre sette anni dopo quella
condanna. E tutto questo con il fine di provare a portare in
tribunale le figlie per farle dire che sì, il padre le aveva violentate.
Opinione di chi scrive è che se è vero che ogni teoria ha più o meno
una propria dignità e ragione d'essere, questa francamente desta
qualche perplessità.

A ogni modo, tornando alla condanna del Pacciani, fu durante la


detenzione nel carcere di Sollicciano che lo stesso ebbe modo di
conoscere Suor Elisabetta, nata Anna Maria Mazzari, suora di
origini piacentine, dell'ordine delle Figlie della Carità, divenuta col
tempo amica, confidente spirituale e in seguito custode del
patrimonio del Pacciani. Proprio a causa della custodia di codesti
beni, nel luglio del 1996, la religiosa subirà tredici ore di
interrogatorio presso la questura di Firenze da parte di Giuttari in
persona e una lunga perquisizione in cui verranno sequestrati oltre
150 milioni di vecchie lire in buoni postali fruttiferi e libretti di
risparmio affidatile da Pacciani (si veda a tal proposito il capitolo I
soldi del Pacciani).
Spogliatasi dell'abito ecclesiastico nel 2004, la donna continuerà a
professarsi negli anni fervente innocentista. Recentemente il suo
nome è tornato agli onori delle cronache mostrologiche a seguito di
un'intervista rilasciata al quotidiano "La Nazione", in cui ha
ribadito la propria ferma convinzione sull'innocenza di Pacciani sia
per i reati contro le figlie, sia per i delitti del Mostro.

Come Pacciani entrò nelle indagini


La versione ufficiale ci dice che con l'arrivo del dottor Ruggero
Perugini a capo delle indagini, fu per la prima volta introdotto
l'utilizzo del computer a supporto della ricerca dell'assassino.
Si tratta del famoso terminale citato dallo stesso Perugini al
Processo Pacciani, su cui gli inquirenti avevano riversato
informazioni e dati sui delitti del MdF e che aveva restituito una
lista di 82 persone che, nel corso degli anni, erano state perquisite o
fermate durante le indagini sui delitti del Mostro. Fra queste
ottantadue persone c'era anche Pacciani.
Erano gli anni in cui sotto la lente degli inquirenti per i delitti del
MdF era finito Salvatore Vinci, ma soprattutto erano anni di
completo silenzio da parte del MdF. Dopo l'escalation fra il 1981 e il
1985, le estati del 1986 e del 1987 erano passate senza delitti. Gli
inquirenti formularono dunque quattro ipotesi a tal proposito:
● il MdF era morto o gravemente malato;
● il MdF si era trasferito per scelta propria o per costrizione;
● il MdF aveva deciso di porre fine o sospendere la sua attività
delittuosa perché consapevole di essere finito nel mirino degli
inquirenti;
● il MdF era finito in carcere per altri reati o in manicomio.
A questo punto la Procura di Firenze commissionò al Ministero di
Grazia e Giustizia una ricerca sui detenuti residenti in Toscana, di
età compresa fra i 30 e i 60 anni, imprigionati subito dopo il delitto
degli Scopeti. Il computer del Ministero restituì 60 nominativi. La
richiesta della Procura fu meglio puntualizzata: fra questi 60
nominativi quali erano quelli nella materiale possibilità di
commettere tutti i duplici omicidi del MdF, prendendo come punto
di riferimento una settimana prima e una settimana dopo ogni
duplice omicidio.
Di quei 60 nominativi, ne rimasero 28, di cui un mutilato e una
donna, quindi 26 effettivi. Fra questi 26 figurava ancora il nome di
Pacciani, che anzi era l'unico a rientrare sia in questa lista che nella
precedente già elaborata dalla SAM.
Inizialmente, però, alcuni fattori come l'età, il fatto che fosse sposato
con figli e soprattutto le condizioni di salute del sospettato (infarto
nel 1978 più una lunga serie di ricoveri per malanni vari) portarono
a escluderlo come possibile MdF. Da non sottovalutare anche che la
figura del Pacciani (sia da un punto di vista fisico che psicologico)
stridesse abbastanza con il profilo del mostro redatto dalla perizia
De Fazio.
Le indagini continuarono fitte e nel 1989 un'ulteriore meticolosa
selezione operata dal computer portò a una ridottissima lista di 6
possibili nomi cui imputare i delitti commessi dal MdF. La Procura
era convinta che fra questi 6 nomi ci fosse quello del Mostro.
Neanche a dirlo, fra questi 6 nomi c'era ancora una volta quello di
Pietro Pacciani.
Fu proprio nel 1989 che cominciarono segretamente da parte della
SAM e della procura di Firenze le indagini a tappeto sul contadino
di Mercatale. Indagini capillari che porteranno Ruggero Perugini il
9 luglio 1991 a consegnare alla Procura di Firenze un rapporto
completo su ciò che era emerso.
Il 24 ottobre 1991, il Procuratore della Repubblica Pier Luigi
Vigna emise nei confronti di Pacciani un'informazione di garanzia
per gli otto duplici omicidi del Mostro di Firenze. Una settimana
più tardi il nome di Pacciani divenne di dominio pubblico.
Il 6 dicembre del 1991, causa condono e buona condotta, Pietro uscì
dal carcere dopo 4 anni e mezzo di detenzione e fece ritorno nella
sua casa di San Casciano disseminata di cimici e microspie.
Il 25 dicembre 1991, il cappellano del carcere di Sollicciano,
don Danilo Cubattoli, accompagnato da due detenuti, si recò a casa
Pacciani per porgere a Pietro gli auguri di Natale.
Fu lo stesso Pacciani a raccontare, in maniera sospettosa, questa
visita al Perugini: "Per Natale è venuto a farmi gli auguri don Cuba con
due detenuti: ce n'era uno che doveva fare un monte d'anni e che aveva
detto di sapere un sacco di cose sul mostro; poi è venuto fuori che non
aveva niente da dire. Non vorrei che m'avessero messo qualche gingillo
nell'orto...".
Il detenuto di cui Pacciani parla è il già citato ergastolano Giuseppe
Sgangarella (vedasi capitolo dedicato a Francesco Vinci),
compagno di carcere del Pacciani, che aveva promesso scottanti
rivelazioni sulla vicenda del Mostro in cambio di benefeci, salvo poi
scoprire che si trattava verosimilmente di un bluff.
La visita suonò strana a Pacciani, ma ancor di più suonò strano a
Perugini il riferimento dell'indagato a un "gingillo nell'orto", come
se Pacciani avesse voluto mettere le mani avanti su eventuali
ritrovamenti durante una delle numerose perquisizioni che stava
subendo.
Il 4 febbraio 1992, nella trasmissione di Rai 2, "Detto tra noi",
interamente dedicata al MdF e in diretta da Vicchio, ci fu il
celeberrimo appello (quello ben noto fra i mostrologi del web
come "E allora ascolta"), in cui Ruggero Perugini invitò il MdF a
costituirsi per cercare aiuto proprio negli inquirenti. Perugini
sapeva che Pacciani era davanti alla TV e si aspettava qualche
reazione da parte dell'indagato che le microspie avrebbero colto. In
realtà non arrivò nessuna reazione se non la dichiarazione della
moglie Angiolina allo stesso Perugini sul fatto che la trasmissione
fosse garbata parecchio al marito.

La maxi perquisizione
Un paio di mesi dopo l'appello di Perugini, stando alle
dichiarazioni degli stessi inquirenti, Pacciani venne visto per diversi
giorni consecutivi frugare nel proprio orto, come alla ricerca di
qualcosa. In precedenza c'erano state le dichiarazioni dello stesso
indagato su un eventuale "gingillo" che qualcuno avrebbe potuto
mettere nell'orto per incastrarlo e questo insospettì fortemente i
poliziotti della SAM. Verso la fine dell'aprile del 1992 le
perlustrazioni del contadino si erano fatte talmente intense e
prolungate da spingere Vigna a ordinare una profondissima
perquisizione in casa Pacciani.
La mattina del 27 aprile 1992 ebbe così inizio la più accurata e
spettacolare perquisizione nella storia giudiziaria italiana. Al terzo
di dodici giorni di perquisizione, il 29 aprile, venne ritrovata la
cosiddetta "prova regina".
Erano le 17.45 quando lo stesso Perugini estrasse dal terreno
fangoso dell'orto di casa Pacciani una cartuccia inesplosa della
Winchester, calibro 22, a piombo nudo con la lettera H sul bossolo,
lo stesso tipo di proiettili utilizzati dal MdF. Sarà questo proiettile il
più grande indizio a carico del Pacciani, ma anche uno dei punti più
controversi dell'intera indagine (vedasi a tal proposito il capitolo
dedicato al Processo).
L'asta guidamolla
Meno di un mese dopo, il 25 maggio 1992, giunse alla stazione dei
carabinieri di San Casciano, nella persona del maresciallo Arturo
Minoliti, una busta bianca al cui interno, avvolta in due pezzi di
stoffa, c'era l'asta guida-molla di una pistola beretta calibro 22 serie
70 (il modello d'arma del mostro). Ad accompagnare il reperto c'era
uno biglietto anonimo piuttosto sgrammaticato in cui era scritto che
si trattava di un pezzo della pistola del mostro, ritrovata in un
punto della campagna attorno a San Casciano che Pacciani di solito
frequentava; il misterioso mittente accludeva anche uno schizzo del
luogo.
Più precisamente il biglietto riportava testualmente:
"Questo è un pezzo della pistola del Mostro di Firenze e sta' sulla
Nazione: c'era la fotografia. Stava in un barattolo di vetro stiantato
(qualcuno lo à trovato prima di me) sotto un albero a Crespello-Luiano – e’
si vede il tabbenacolo della vergine. Il Pacciani andava lì e lavorava alla
fattoria. Anche la moglie e la figlia grande passeggiavan lì e’ sono grulle e’
fanno tutto quello e’ lui gli comanda se no ne toccano. Il Pacciani è un
diavolo e incanta i bischeri alla t.v. Ma noi lo si conosce bene e lo avete
conosciuto anche voi. Punitelo e Dio vi benedirà perché un è un omo è una
berva. Grazie.
Il riferimento al quotidiano "La Nazione" è dovuto a un articolo
uscito pochi giorni prima, il 5 maggio, nel quale venivano illustrati
tramite un accurato disegno tutti i componenti smontati di una
Beretta calibro 22 serie 70.
Le indagini appurarono che i pezzi di stoffa in cui era stata avvolta
l'asta provenivano da casa Pacciani: infatti il 31 maggio, quasi
casualmente a detta degli stessi inquirenti, durante una
perquisizione a casa dell'indagato, l'ispettore Riccardo
Lamperi notò uno straccio appeso a una parete con la stessa
fantasia della stoffa in questione. Il 2 giugno, in seguito a una nuova
perquisizione, fu rinvenuto proprio lo straccio combaciante nelle
sfilacciature con quello che aveva avvolto l'asta.
Il dubbio che quella lettera l'avesse potuta inviare proprio
l'indagato stesso per confondere le acque e dimostrare di essere
vittima di persecuzione da parte di anonimi segnalatori, fu forte tra
gli inquirenti. Le cose che insospettirono furono:
● Pacciani scriveva S. Casciano anziché San Casciano, esattamente
come era riportato sulla busta arrivata;
● La lettera conteneva errori grammaticali che Pacciani era solito
fare nei suoi memoriali, ad esempio l'accento sull'ausiliare "avere"
anziché l'utilizzo dell'acca o i classici errori di doppia;
● L'indubbia bravura del Pacciani nel disegnare, soprattutto le
mappe; e la bravura evidenziata dal mittente anonimo nel
realizzare la mappa del luogo dove aveva recuperato l'asta guida-
molla;
● L'utilizzo dello stampatello maiuscolo, carattere che Pacciani
usava sempre nei suoi memoriali.
Sfugge tuttavia la motivazione per cui Pacciani, qualora fosse stato
il MdF, avrebbe dovuto inviare un pezzo dell'arma con cui eseguiva
i delitti alle forze dell'ordine, considerando che se c'era una cosa su
cui poteva farsi forza era appunto che l'arma non fosse mai stata
trovata.
Un'ipotesi ventilata dalla difesa dell'imputato (nello specifico
dall'avvocato Bevacqua) era invece che quella lettera anonima fosse
stata inviata dalle figlie del Pacciani, ormai in guerra aperta con il
padre, per incastrarlo definitivamente e farlo tornare in galera.
Durante lo stesso Processo, emerse anche la possibilità, espressa
dall'avvocato Luca Santoni Franchetti, che il biglietto fosse stato in
realtà scritto in maniera volutamente rozza e sgrammaticata, in
modo da far credere che l'autore fosse proprio Pacciani.
Qualche anno dopo il processo di primo grado, precisamente nel
1998, il comandante della stazione dei carabinieri di San Casciano,
maresciallo Arturo Minoliti, si lasciò andare ad alcune
"imprudenti" dichiarazioni con il giornalista Mario Spezi,
sostenendo che a suo parere straccio e asta guidamolla erano stati
elementi appositamente costruiti dagli inquirenti per incastrare
Pacciani (per maggiori dettagli, vedasi il capitolo dedicato
al Processo Pacciani).
A rendere tanto per cambiare ancor piú complicata la situazione,
qualche anno dopo, verrà accusato di aver inviato la missiva
anonima contenente straccio e asta, il già citato giornalista della
RAI, Giovanni Spinoso, paccianista convinto, marito di Marzia
Rontini (la sorellastra di Pia), e finito più volte nel mirino della
Procura forse per le sue inchieste giornalistiche, forse per le sue
ingerenze nelle indagini. Il giornalista verrà assolto nel febbraio
2006 per non aver commesso il fatto.
Oggi parecchi mostrologi pensano (ovviamente senza alcuna base
documentale) che a prelevare subdolamente i pezzi di stoffa da casa
Pacciani, avvolgervi all'interno l'asta guidamolla e inviare il tutto
alla caserma dei carabinieri di San Casciano, fosse stato un non
meglio identificato tutore dell'ordine il cui fine era appunto
incastrare Pacciani.

Le indagini frattanto proseguivano serrate fra viaggi in Germania


alla ricerca di prove presso le famiglie dei due ragazzi tedeschi
uccisi a Giogoli e svariate perquisizioni, finché il 17 gennaio 1993 il
contadino di Mercatale venne arrestato con l'accusa di essere il
Mostro di Firenze. Gli vennero addebitati tutti gli otto duplici
omicidi dal 1968 al 1985.
Ben presto avrebbe avuto inizio il grande processo a suo carico.
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5 commenti:
1.
Anonimo1 luglio 2022 alle ore 03:48

Ma il padre si chiamava Pio o Antonio?


Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti3 luglio 2022 alle ore 09:53
Antonio Pacciani era il padre, Rosa Bambi la madre.
Pio era il padre di Angiolina.
2.
Anonimo17 agosto 2022 alle ore 04:06

Sul sito di Flanz, insufficienza di prove, dai memoriali


scritti da Pacciani, sembrerebbe il padre si chiamasse Pio
Rispondi

2.
Anonimo17 agosto 2022 alle ore 04:07

https://youtu.be/qa4F-0_uh08
Rispondi

3.
Luigi Sorrenti24 agosto 2022 alle ore 03:29
Lo so, sono viedo che conosco discretamente. Ma da rapporto
della questura di Firenze sulla situazione finanziaria del
Pacciani, redatto il 9 gennaio 1997, i nomi dei genitori di
Pacciani sono quelli che ti ho scritto nel precedente commento.
Antonio Pacciani e Rosa Bambi per Pietro.
Pio Manni e Giulia Gaudenzi per Angiolina.
Rispondi
L'anonimo fiorentino

Agli inizi di Novembre del 1991, nel pieno delle indagini che la
SAM e la Procura di Firenze stavano conducendo sul contadino di
Mercatale Pietro Pacciani, giunse al Procuratore della Repubblica di
Firenze, Piero Luigi Vigna, una lettera scritta interamente a
macchina, di un soggetto anonimo che dichiarava di conoscere
parecchie cose sul Mostro di Firenze. Costui si diceva certo
dell'innocenza dell'indagato Pacciani e invitava Vigna a dargli
ascolto in quanto si definiva "un pensatore dotato di una certa
intuizione, in svariate situazioni dimostrata".
Questa sarebbe stata una lettera anonima come migliaia di altre
giunte in Procura sul caso del Mostro, se non fosse che una decina
di giorni dopo l'anonimo si sarebbe rifatto vivo, questa volta con
una missiva indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia, al Vice
Presidente del CSM e al Procuratore Generale della Corte di
Appello di Firenze. In questa nuova lettera, scritta sempre a
macchina e dal contenuto delirante, l'anonimo accusava
apertamente il magistrato mugellano di cui sopra, Pier Luigi Vigna,
di essere il Mostro di Firenze. Ma il particolare più importante,
forse, è che scrisse la parola "dubbio" con una sola "B", esattamente
come aveva fatto il Mostro in occasione della missiva inviata alla
Della Monica nella parola "Repubblica".
La terza lettera firmata da colui che ormai stava diventando noto
come l'Anonimo Fiorentino è datata 18 Novembre 1991 e venne
inviata in duplice copia al direttore del quotidiano "La Nazione" e
all'avvocato di Pacciani, Pietro Fioravanti.
In questo scritto, quasi profetico, l'anonimo avvertiva che
"qualcuno" avrebbe potuto sotterrare nell'orto di Pacciani la pistola
del MdF, dopo averla trattata opportunamente con acido muriatico
per invecchiarla e farla apparire usurata, con lo scopo di incastrare
definitivamente il contadino di Mercatale.
Ricordiamo che la maxi-perquisizione a casa del Pacciani in cui
venne rinvenuta la cartuccia, sarebbe stata eseguita alla fine di
aprile del 1992 e dunque oltre cinque mesi dopo l'invio di tale
missiva.
A queste tre lettere ne seguiranno numerose altre, tutte dallo stesso
mittente, tutte con unico scopo: proclamare l'innocenza di Pacciani
e sfidare e insolentire la Procura di Firenze. In totale le lettere
saranno poco meno di trenta e i destinatari molteplici.
Le maggior parte arriveranno in Procura e in quelle occasioni
saranno infamanti, calunniose, intimidatorie.
L'anonimo fiorentino odiava visceralmente Vigna nei cui confronti
sembrava avere un "conto aperto", ma non risparmiava neanche il
suo secondo, quel Paolo Canessa che presto diverrà il celebre
Pubblico Ministero nel Processo contro Pietro Pacciani. E fu proprio
nei giorni e nei mesi del Processo che l'attività dell'anonimo
divenne quasi frenetica.
"Vigna e Canessa vi avevo già avvisati, fatevi aumentare la scorta perché
sarà una carneficina" scriveva l'anonimo in pieno delirio. Ma
anche: "Per me uccidervi e facilissimo" oppure "Vigna libera Pacciani.
Lo sai che è innocente! Esci allo scoperto e confessa. Non fare il
vigliacco!" o ancora "Se Pacciani sarà condannato potete già prepararvi
la fossa" per finire con "Io vivo al vostro fianco... sono armato
regolarmente dallo Stato. Per questo in procura vi ho sempre tra i piedi".
La magistratura indagò a lungo senza successo, ma l'anonimo
fiorentino non sembrava avere intenzione di fermarsi. Al contrario
continuava imperterrito con le sue accuse, gli insulti, le sfide, ma
anche congetture, ipotesi, teorie e messaggi in codice. Scrisse al
Ministro di Grazia e Giustizia Martelli, al capo della polizia Parisi,
a Perugini, ai dirigenti della SAM, ai giornali, al Presidente della
Corte d'Assise Ognibene, ai difensori del Pacciani,
al Pacciani stesso. In talune missive lasciava intendere di essere un
poliziotto di stanza in Mugello, in altre di conoscere particolari sui
delitti che solo chi era presente potrebbe sapere. In un'occasione
affermò infatti: "il mostro ormai non ucciderà più. La lezione l'ha avuta
dal giovane francese agli Scopeti che con la sua reazione non gli permetterà
più di nuocere", sostenendo che sotto le unghie di Jean-Michel erano
rimasti brandelli di pelle del Mostro (in realtà, l'autopsia al ragazzo
francese non aveva rilevato alcun frammento di pelle sotto le sue unghie,
NdA).
Nell'ottobre del 1994, pochi giorni prima della sentenza Pacciani,
venne ritrovata una raccolta di lettere dell'anonimo fiorentino in
una cabina telefonica di San Piero a Sieve, nel Mugello, non lontano
da dove il MdF aveva imbucato la lettera per la Della Monica nel
settembre di nove anni prima. Si pensò che fosse stato lo stesso
anonimo a lasciarle con il fine di renderle pubbliche. Si trattava
delle lettere inviate alla Procura nel 1991 e il 1992. Alcune erano
state copiate con una macchina da scrivere diversa da quella usata
nella versione originale.
Il 2 Novembre 1994, il giorno successivo alla sentenza che condannò
Pacciani, l'anonimo fiorentino scrisse le ultime due lettere
sicuramente addebitabili a lui di cui si abbia notizia. Erano
riconoscibili dallo stile e dalla firma. Una la scrisse a Renzo Rontini,
il padre della povera Pia, insultandolo: "Volevi giustizia e l'hai
ottenuta, ma hai mandato all'ergastolo un innocente", l'altra a Vigna, al
solito oltraggiosa. Entrambe queste lettere erano state imbucate a
Borgo San Lorenzo, nel Mugello.
Tuttora l'identità dell'anonimo fiorentino è ignota nonostante siano
state fatte diverse congetture e si sia tenuto anche un processo poi
conclusosi con l'assoluzione del maggior sospettato, il criminologo
e investigatore Carmelo Lavorino, direttore della
rivista "Detective&Crime", nonché consulente della Difesa nel
Processo d'Appello a Pietro Pacciani, a lungo ritenuto dalla SAM, e
in special modo dall'ispettore Riccardo Lamperi, l'autore delle
missive.
A indirizzare i sospetti sul Lavorino erano stati alcuni esposti che il
suddetto criminologo aveva inviato alla Procura di Firenze nel 1993
e che, nello stile e nell'utilizzo di alcuni termini e modi di dire (per
esempio l'utilizzo reiterato della locuzione "il gran burattinaio"),
ricordavano le missive dell'anonimo.
Fra gli addetti ai lavori, c'è chi ha letto nelle frasi battute a macchina
dall'anonimo, la tecnica tipica usata dai servizi deviati.
Durante gli anni dei Processi, era opinione comune che le missive si
inserissero in un contesto di denigrazione della magistratura
fiorentina piuttosto in voga in quel periodo.
C'è tuttavia una buona fetta di moderna mostrologia che ritiene che
dietro l'anonimo fiorentino si nascondesse il Mostro in prima
persona o qualcuno a lui molto vicino.
La missiva che profetizzava un importante rinvenimento nel
giardino del Pacciani, del resto, potrebbe essere buon indizio.
Il Processo Pacciani

Il 19 aprile 1994 ebbe inizio, con gran clamore mediatico, il processo


di primo grado nei confronti di Pietro Pacciani, ritenuto unico
autore dei delitti storicamente attribuiti al Mostro di Firenze.
Il processo era presieduto dal dottor Enrico Ognibene, all'epoca
cinquantatreenne, di origini spezzine, laureatosi a Firenze, figlio di
un ex Procuratore Generale, amante della caccia e della pesca.
Giudice a latere, cui spettava il compito di stendere la motivazione
della sentenza, era il dottor Michele Polvani, 46 anni, fiorentino, ex
sostituto procuratore.
La Pubblica Accusa era rappresentata dal dottor Paolo Canessa,
anch'egli di 46 anni, Sostituto Procuratore a Firenze dal 1983 e
titolare dell'inchiesta sul Mostro dal 1984. Nonostante la giovane
età, Canessa si era già distinto come uno dei più brillanti e valenti
magistrati della Procura fiorentina.
Il collegio difensivo era composto dagli avvocati Pietro
Fioravanti e Rosario Bevacqua.
Fioravanti, cinquantenne marchigiano, ex professore di filosofia in
un liceo classico, aveva completato gli studi di giurisprudenza in
tarda età, conseguendo una seconda laurea a 42 anni. Era stato
difensore di Pacciani già all'epoca del processo per i reati commessi
sulle figlie, divenendo in seguito amico e confidente della famiglia.
Bevacqua, sessantunenne di origini siciliane, ex tenente dei
carabinieri nei sommozzatori a Firenze, penalista di fama sin dal
1962, era stato allievo del celebre Dante Ricci, l'avvocato che nel
1951 aveva difeso Pacciani per il delitto della Tassinaia e che nel
1970 aveva difeso Stefano Mele per l'omicidio Locci-Lo Bianco.
Dei giudici popolari ordinari, tre erano insegnanti, tre erano
impiegati. Tutti, eccetto uno, sposati con figli.
Il fascicolo del dibattimento contava 30.000 fogli. I soli verbali di
udienza erano composti da 7.200 pagine.
Il Processo si presentava, sin dalle sue prime battute, come
puramente indiziario. Prove concrete a carico di Pietro Pacciani non
c'erano. L'arma dei delitti non era mai stata trovata, nonostante
infinite perquisizioni; un testimone oculare non era mai stato
trovato, nonostante le numerosissime segnalazioni e gli ancor più
numerosi interrogatori.

Gli indizi raccolti dalla SAM su cui si basava l'impianto accusatorio


erano:
● Il delitto del 1951 in cui Pacciani aveva ucciso il Bonini con una
doppia arma (coltello e scarpa/sasso/bastone) e poi aveva
obbligato la fidanzata a un rapporto sessuale accanto al cadavere.
Come Pacciani nel 1951, anche il MdF uccideva le sue vittime con
una doppia arma (pistola e coltello). Inoltre, il delitto del 1951, a
detta dell'accusa, era l'unico altro delitto commesso nella provincia
di Firenze a danno di coppie appartate, prima di quelli del MdF.
Infine Pacciani prima di commettere l'omicidio del 1951 era rimasto
a spiare la coppia in intimità, cosa che - secondo l'Accusa -
probabilmente faceva anche il mostro.
● L'estrazione geografica del Pacciani. Il contadino conosceva
benissimo i luoghi in cui era solito colpire il MdF. Due duplici
delitti (1974 e 1984) su otto erano stati commessi nel Mugello dove
Pacciani era nato, cresciuto e aveva lavorato; quattro invece erano
stati commessi nella zona sud-ovest di Firenze, attorno a Scandicci e
alla Val di Pesa, dove Pacciani si era trasferito nel 1973. Da notare
che il luogo dei due delitti del Mugello era prossimo alla campagna
della Tassinaia dove Pacciani aveva ucciso il Bonini (in un raggio di
2 km in linea d'area).
Rimanevano fuori da queste due zone geografiche i delitti di Signa
e Calenzano. Ma la Procura aveva scoperto che nel 1968 a Signa,
vicinissimo a dove abitava il Lo Bianco, si era trasferita Miranda
Bugli, ex fidanzata e correa del Pacciani ai tempi del delitto della
Tassinaia. Mentre a Calenzano abitava quello che la Procura
definiva un intimo amico del Pacciani e che sospettava gli avesse
fornito appoggio logistico per commettere il delitto delle Bartoline
(trattasi di Giovanni Faggi, successivamente imputato e assolto
durante il processo ai CdM).
● Basandosi sulla scoperta che Miranda Bugli abitava a Lastra a
Signa nel 1968, la Procura aveva cominciato a seguire gli
spostamenti della donna nel corso degli anni per arrivare alla
conclusione che spesso lei aveva vissuto in zone dove il MdF aveva
colpito. La Procura formulò dunque l'ipotesi che Pacciani era
ossessionato da questa donna, la seguiva negli spostamenti e
uccideva in zone limitrofe a dove lei abitava per rivivere quello che
era stato il tragico delitto di Tassinaia, evento che aveva segnato
profondamente la sua vita, cagione probabilmente della sua
infelicità e della sua rovina: gli anni trascorsi in carcere, lei che
aveva contravvenuto alla promessa fatta davanti al cadavere del
Bonini e si era sposata con un altro uomo, lui che era uscito dalla
prigione moli anni dopo ed era stato costretto a prendere in moglie
una donna psichicamente labile come la Angiolina.
A questo proposito, bisogna però notare che:
1. le scene del crimine direttamente connesse alla Bugli sono
esclusivamente due: appunto a Signa nel 1968 e a Mosciano nel
giugno del 1981, periodo in cui la donna lavorava alla Casa del
Popolo di Scandicci, distante meno di 5 km da via dell'Arrigo dove
avevano trovato la morte il Foggi e la De Nuccio.
2. le indagini condotte dalla SAM per appurare la presenza di
Pacciani a Lastra a Signa nel 1968 erano state infruttuose.
Nell'udienza del 14 luglio 1994 del Processo Pacciani, infatti,
l'avvocato difensore Rosario Bevacqua chiese esplicitamente
all'ispettore di polizia Riccardo Lamperi, vice di Perugini nella
SAM, se fossero stati fatti accertamenti sul passaggio del Pacciani a
Lastra a Signa ed eventualmente se ivi qualcuno avesse mai visto il
Pacciani. Lamperi rispose che ovviamente gli accertamenti erano
stati fatti ma non risultava alcun avvistamento dell'imputato.
Questa è una precisazione doverosa perché ultimamente si sente
dire in alcuni ambienti mostrologici di estrazione merendara che,
sulla base di alcune dichiarazioni del testimone Lorenzo Nesi, nel
1968 Pacciani e Vanni frequentavano un bar di Lasta a Signa. Fino a
prova contraria, tuttavia, possiamo affermare che non solo non
esistono tracce di Pacciani a Lastra a Signa nel 1968, ma all'epoca
Pacciani e Vanni neanche si conoscevano.
● Andando comunque avanti con gli inizi a suo carico, come era
emerso dai verbali del 1951, in occasione dell'omicidio della
Tassinaia, l'ira del Pacciani era esplosa quando aveva visto il Bonini
denudare il seno sinistro della Bugli. Il MdF nel 1984 e nel 1985
aveva escisso proprio il seno sinistro dai cadaveri delle vittime
femminili; nell'ottobre del 1981 lo aveva ferito con una coltellata.
Inoltre, la sua amante, la Maria Antonietta Sperduto, aveva
dichiarato che Pacciani era solito esercitare una certa violenza nei
confronti soprattutto del suo seno sinistro.
● Pacciani aveva precedenti per abusi sessuali nei confronti delle
figlie, ripetutamente violentate sin da quando queste erano poco
più che bambine, a indicare una spiccata depravazione sessuale.
● Pur avedo trascorso diversi anni in carcere, Pacciani era stato
sempre libero durante gli omicidi del MdF.
● Pacciani aveva buona dimestichezza con le armi da fuoco, cosa
che invece l'imputato ha sempre negato con forza. La Procura aveva
raccolto diverse testimonianze a riguardo: c'era chi asseriva (il
signor Bruni) che fosse stato addirittura possessore di una Beretta
Calibro 22 mai denunziata; chi sosteneva che fosse un abile
cacciatore e addirittura sparasse ai fagiani con una pistola (il Nesi) e
chi infine una pistola di proprietà del Pacciani l'aveva proprio vista.
Fra questi, il Vanni aveva riferito ad alcuni conoscenti (ad esempio i
coniugi Ricci e Mazzei) di aver visto una pistola nel vano porta-
oggetti dell'automobile del Pacciani.
In uno dei suoi memoriali, Pacciani aveva giustificato tale pistola
sostenendo che fosse stata una semplice scacciacani e l'avesse
sequestrata ai figli di Afro Gazziero, l'imprenditore presso cui
aveva lavorato dal 1982 al 1984, i quali avevano l'abitudine di
giocare nei pressi della sua automobile.
● Pacciani era solito scrivere la parola "Repubblica" con una sola B.
Giova ricordare a tal proposito come sulla busta della lettera
contenente un lembo del seno di Nadine Mauriot spedita alla Della
Monica, la parola "Repubblica" era appunto stata scritta con una B.
● Durante le varie perquisizioni nelle sue due case, si era scoperto
che il Pacciani, oltre a fare grande uso di riviste pornografiche,
possedeva diversi articoli di giornale che parlavano del MdF e foto
di donne con pubi disegnati da lui stesso a matita.
● Sempre durante una delle perquisizioni era stato ritrovato un
appunto del Pacciani in cui era segnato il numero di targa di una
automobile con accanto scritto "coppia". Si appurerà in seguito che
quella targa apparteneva effettivamente a una coppia che era solita
appartarsi fra Mercatale e San Casciano.
Venne inoltre ritrovato un altro appunto in cui Pacciani riportava la
distanza in chilometri fra Mercatale e Vicchio.
Al processo, l'imputato si giustificherà affermando nel primo caso
che si era appuntato la targa di una coppia, perché voleva avvisarla
del pericolo che correva ad appartarsi in automobile; nel secondo
che aveva segnato la distanza fra Mercatale e Vicchio su richiesta
dell'amico Simonetti, che doveva compiere commissioni in
Mugello, per calcolare quanta benzina sarebbe occorsa.
● Infine, nel corso del Processo, diversi cittadini giunsero a rendere
testimonianza, alcuni sull'attività di guardone di Pacciani, altri
riportarono di aver visto un personaggio con le fattezze simili alle
sue aggirarsi in prossimità della piazzola degli Scopeti nei giorni
precedenti all'omicidio.
A questo proposito, secondo il giornalista Amadore Agostini,
ascoltato dal sottoscritto nel maggio 2019 e originario proprio di
Mercatale, era risaputo in paese che Pacciani fosse solito svolgere
l'attività di guardone per i boschi e le campagne attorno a San
Casciano. Lo stesso Agostini mi ha rivelato di avere esperienze
dirette e personali riguardanti l'attività di guardone del Pacciani.
Accanto a questi indizi che è evidente avessero una valenza per lo
più suggestiva ce n'erano però tre che avevano una valenza
probatoria ed erano precisamente:

1. Il blocco Skizzen Brunnen


Venne trovato in casa del Pacciani un blocco da disegno di
marca Skizzen Brunnen, prodotto e venduto in Germania, che
dalle indagini si poté appurare essere stato venduto nella cartoleria
"Prelle Shop" della città di Osnabruck da dove provenivano i
ragazzi tedeschi uccisi a Giogoli nel 1983.
Che il blocco fosse appartenuto davvero a una delle vittime di
Giogoli (precisamente al Meyer) non è mai stato appurato con
certezza, anche perché il prezzo riportato in marchi sul retro del
blocco sembrava indicare che lo stesso fosse stato venduto attorno
al 1980/81 e cioè due/tre anni prima del viaggio dei ragazzi
tedeschi in Italia. In realtà, anche ammettendo che effettivamente il
blocco fosse appartenuto alle due vittime, potrebbe risultare
difficile credere (anche se aprioristicamente non impossibile) che
Pacciani dopo aver commesso l'omicidio non avesse portato via
cose di valore come soldi o macchine fotografiche e si fosse
appropriato di un blocco da disegno.
La Difesa ha sempre sostenuto a tal proposito che l'imputato fosse
un accanito frequentatore di discariche e solito rovistare fra le
immondizie alla ricerca di oggetti da portare a casa, dunque la
possibilità che si fosse impadronito del blocco in una di queste
occasioni era alta. A conferma di ciò la zona su cui sorgeva San
Casciano, così come il vicinissimo Chianti, era meta ambita da parte
dei turisti tedeschi. Rush e Meyer non erano stati certo gli unici a
venire in vacanza in Italia e portarsi dietro oggetti di marca tedesca
e reperibili solo in Germania.
Pur tuttavia, il blocco Skizzen Brunnen rimane ancora oggi - a
parere di chi scrive - l'indizio forse più pesante a carico di Pacciani.

2. Il portasapone Deis
Venne trovato in casa del Pacciani un portasapone di marca
tedesca Deis che fu riconosciuto dai parenti del Meyer come
appartenente al congiunto ucciso.
Anche in questo caso valgono tutte le considerazioni espresse
sopra. Oltretutto il riconoscimento da parte dei parenti del Meyer
non fu di quelli che possono definirsi sicuri. La matematica certezza
che quel portasapone fosse appartenuto al Meyer non c'era mai
stata e anche se così fosse stato, mancava la certezza che il Pacciani
se ne fosse impadronito dopo aver commesso il delitto e non
qualche tempo dopo, magari rovistando in una discarica dalle parti
di Giogoli.

3. La cartuccia nell'orto
L'indizio principale era dato dalla famosa cartuccia trovata dal capo
della SAM in persona, Ruggero Perugini, nell'orto del Pacciani in
occasione della maxi-perquisizione fra l'aprile e il maggio del 1992
(vedasi capitolo Il contadino di Mercatale).
La cartuccia Winchester calibro 22 LR a piombo nudo, inesplosa,
scarrellata e deformata, aveva la lettera H sul fondello che
presentava buone analogie con quella incisa sui bossoli lasciati sulla
scena del crimine del MdF. La cartuccia fu sottoposta a numerose
analisi il cui fine era accertare se la pistola che l'avesse contenuta
fosse stata quella del Mostro.
Ovviamente non si poté arrivare a una prova certa: durante il
Processo i periti della Procura (Spampinato e Benedetti) non furono
in grado di dimostrarlo al di là di ogni ragionevole dubbio. C'erano
similitudini, ma non sufficienti a dare certezze. Inoltre l'esperto
perito della difesa (Marco Morin, personaggio dal passato discusso
e nebuloso; degna di nota la caustica battuta di Canessa "noi la
conosciamo di fama") mise in risalto una contraddizione nella perizia
Spampinato-Benedetti. Secondo Morin, infatti, i due periti nella loro
relazione avevano affermato che l'impronta sul bossolo che
apparentemente poteva sembrare dovuta all'estrazione, non
essendo compatibile con quella lasciata dalla pistola del mostro,
non era dunque una reale impronta d'estrazione. I periti avevano di
fatto capovolto l'onere della prova, utilizzando la tesi da dimostrare
a mo' di ipotesi: anziché, cioè, dire che le striature verosimilmente
dovute ad estrazione rilevate sulla "cartuccia Pacciani" differivano
da quelle lasciate dalla pistola del MdF e dunque l'arma che aveva
contenuto la cartuccia in esame non era quella del mostro,
affermavano che questa differenza provava che le striature sulla
"cartuccia Pacciani" non erano dovute ad estrazione.
Anche le analisi condotte sulla lettera H non diedero certezze;
venne definita simile e compatibile ma non identica a quelle
rivenute sulle scene del crimine.
Infine non fu neanche possibile accertare quando la cartuccia
sarebbe finita nell'orto del Pacciani: si parlò di un tempo massimo
di cinque anni, quando cioè l'imputato era ancora in prigione, ma
risultò un dato troppo aleatorio per costituire elemento su cui
dibattere in sede processuale.
Dal canto suo, Pacciani portò a propria difesa la lettera scritta
dall'Anonimo Fiorentino che era stata inviata al quotidiano "La
Nazione" e al suo avvocato Pietro Fioravanti cinque mesi prima
della perquisizione. Come visto nel precedente capitolo, in questa
lettera l'ignoto autore avvisava i destinatari che avrebbero cercato
di incastrare Pacciani facendo ritrovare nel suo orto qualcosa di
compromettente, come poteva essere ad esempio la pistola del
MdF, debitamente invecchiata tramite acido muriatico per simulare
un interramento di lungo termine.
Pacciani parlò della lettera in occasione della sua deposizione
spontanea; ne fecero brevemente cenno anche gli avvocati Bevacqua
e Fioravanti, pur nei limiti consentiti dalla legge, visto che si
trattava di una segnalazione anonima, tanto più dell'anonimo
fiorentino che stava tempestando non solo la Procura ma tutte le
parti del Processo di missive decisamente sgradevoli e oltraggiose.
Forse questo fu il motivo per cui non venne dato particolare
clamore mediatico alla lettera (il quotidiano "La Nazione", ad
esempio, non ne aveva fatto cenno, né aveva mai pubblicato il
contenuto), che pure aveva una sua rilevanza storica e giudiziaria.
Sembrava infatti indicare che qualcuno sapesse chiaramente e con
largo anticipo che ci sarebbe stata una perquisizione a casa Pacciani
e che sarebbe stato trovato qualcosa di importante nel suo orto.
Tale lettera, dimenticata per anni fra gli archivi processuali, è
tornata agli onori della cronaca nell'estate del 2018, ritrovata dal
documentarista Paolo Cochi fra le carte dell'avvocato Bevacqua.
Ovviamente il ritrovamento ha fatto riemergere fra i Mostrologi
l'antico e mai sopito dubbio di una contraffazione del proiettile
appositamente messa in atto per incastrare l'imputato.

Contraffazione che, invero, era stata già denunciata molti anni


prima dal giornalista Mario Spezi nel suo libro "Toscana Nera",
datato aprile 1998. In un passaggio del libro, lo Spezi riportava un
colloquio da lui avuto con il maresciallo dei carabinieri Arturo
Minoliti, comandante della stazione dei carabinieri di San Casciano
e presente al momento del ritrovamento della cartuccia nell'orto del
Pacciani.

Durante il colloquio, non sapendo di essere registrato, il Minoliti si


era lasciato andare ad alcune confidenze. Sostenne fra le altre cose,
infatti, che a suo parere alcune prove utilizzate contro Pacciani
erano state in qualche modo "costruite" dagli investigatori,
riferendosi all'asta guidamolla, allo straccio che l'avvolgeva e in
special modo alla cartuccia.
Quando lo Spezi rese pubbliche queste confidenze, il Minoliti si
affrettò a smentire di averle mai fatte, salvo poi essere a sua volta
sconfessato dalla videocassetta "fraudolentemente" registrata dal
giornalista.
Tale videocassetta venne sequestrata nel giugno del 1998 dalla
Procura di Firenze, nella persona del Procuratore
aggiunto Francesco Fleury, che voleva far chiarezza sulla portata di
queste inconsapevoli rivelazioni. La vicenda si concluse senza alcun
tipo di ripercussione giudiziara, anche se il Minoliti subì un
infausto trasferimento per le sue incaute dichiarazioni.
Alla querelle Spezi-Minoliti accennò l'avvocato Filastò nell'udienza
del 18 maggio 1999 del processo d'Appello ai CdM per motivi che
vedremo meglio nel capitolo dedicato a Mario Vanni.
In tempi recenti, a gettare ulteriore benzina sul fuoco delle
polemiche, è stata la perizia sul proiettile richiesta nel luglio 2019
dal nuovo PM che si sta occupando della vicenda, il dottor Luca
Turco. Il perito incaricato delle analisi, Paride Minervini, si è detto
certo di una contraffazione o per meglio dire manipolazione delle
striature presenti. Se la manipolazione sia stata consapevole o frutto
di semplice, sebbene grave, imperizia sarà oggetto di accertamento
"separato" da parte del PM. Tanto è bastato tuttavia per alimentare
la convinzione fra buona parte della odierna mostrologia che
l'indizio principale su cui si è basato l'intero impianto accusatorio,
fosse stato creato ad arte da qualcuno che aveva interesse alla
condanna del Pacciani.
Nota a margine: Mi sembra doveroso segnalare che, quando il 18
maggio del 2019, al sottoscritto è capitato di discutere
personalmente dell'argomento con l'avvocato Fioravanti, l'ormai
anziano legale ha dato chiaramente l'impressione di:
1. essere convinto già a priori (prima della nuova perizia) che il
proiettile fosse stato contraffatto da qualche personaggio poco
raccomandabile;
2. ricordare solo vagamente il particolare della missiva anonima che
anticipava la scoperta, per giunta sminuendola ad aspetto di
scarsissima importanza nell'economia processuale e della storia.
Questo ha portato il sottoscritto a ritenere (mera opinione
personale) che davvero gli avvocati difensori non avessero all'epoca
dato alcun peso a tale scritto, avendolo valutato come la lettera di
un mitomane o persino non autentico.

Sogno di Fatascienza
Accanto agli indizi di cui abbiamo parlato finora, ce ne fu un altro
che si trasformò in un vero e proprio boomerang per la Pubblica
Accusa e fu il famoso quadro sequestrato a casa Pacciani, intitolato
dall'imputato "Sogno di Fatascienza".
Per Perugini e la Procura di Firenze, il quadro (che in realtà poi era
un disegno) era senza dubbio opera di Pacciani; rappresentava una
figura orrenda, vestita da militare che brandiva una sciabola, con
zampe d'asino ed enormi scarpe da tennis ai piedi. A completare il
disegno c'erano un toro, una mummia, una chiave di violino, delle
stelle, delle croci, numerose figure astratte, ognuna con un simbolo
particolare.

Secondo l'Accusa dal quadro emergeva una carica di ferocia e


perversione inaudite. Il dipinto venne sottoposto all'attenzione di
diversi psichiatri, alcuni anche di notevole fama: venne fuori un
profilo agghiacciante della personalità dell'autore, descritto come
persona estremamente violenta, afflitta da profonde turbe di tipo
sessuale.
Sul quadro c'era una data, quella del 10 aprile 1985 che, secondo
l'Accusa, aveva un importante significato: era la vigilia del
trentaquattresimo anniversario del giorno in cui Pietro Pacciani
uccise Severino Bonini, il giorno in cui perse per sempre Miranda
Bugli, che stravolse la sua vita e che fu causa dei successivi delitti.
C'erano inoltre sei croci che, sempre per l'Accusa, rappresentavano
le sei vittime femminili uccise dal Mostro fino a quel momento.
Quello che poteva essere un importante indizio contro Pacciani, si
trasformò tuttavia ben presto nell'unico vero fallimento della
Pubblica Accusa durante l'intero processo. La foto del quadro
venne infatti pubblicata da diversi giornali e nel giro di pochi giorni
si scoprì che l'autore non era Pacciani, ma un pittore
cileno, Christian Olivares, che aveva trovato rifugio in Italia dopo
esser fuggito dal suo paese in seguito al golpe di Pinochet.
L'Olivares aveva realizzato il quadro a Bologna e l'aveva
chiamato "Generale morte". Il suo intento era rappresentare le
atrocità, l'orrore e la violenza della dittatura in Cile.
Venuto in possesso di una copia neanche troppo fedele del disegno,
Pacciani si era limitato a colorarlo e a firmarlo, aggiungendovi solo
particolari di scarsa importanza per l'Accusa.
Su come l'imputato fosse venuto in possesso del disegno, sono state
avanzate diverse ipotesi. Il Pacciani stesso aveva scritto in uno dei
suoi memoriali di averlo recuperato nei locali andati a fuoco della
fabbrica di Afro Gazziero a Calenzano, dopo che era stato inviato
dallo stesso Gazziero (suo datore di lavoro a San Casciano) ad
effettuare operazioni di pulizia. Tuttavia, nell'udienza del 1 Giugno
1994 del Processo Pacciani, interrogato in merito dal Pubblico
Ministero Canessa, Gazziero smentì di essere mai stato in possesso
del quadro o di averlo mai visto prima.
L'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti ipotizzò, durante
la sua requisitoria finale, che Pacciani l'avesse potuto rubare dal
camper dei ragazzi tedeschi dopo il delitto di Giogoli del 1983.
Questa ipotesi, che comunque non ha alcun fondamento indiziario
né tanto meno probatorio, nacque dal fatto che Pacciani non aveva
saputo dare alcuna spiegazione convincente su come si fosse
ritrovato il quadro in casa e che la sorella del Meyer aveva
dichiarato a Processo che i due ragazzi fossero politicamente di
sinistra, pacifisti e ambientalisti. Secondo l'avvocato, tali ideologie
erano in linea con il possesso di un disegno politicamente schierato
contro le grandi dittature del Sud America. Un'ipotesi accattivante
ma - come già detto - basata davvero sul nulla.

Profili a confronto
Oltre al passo falso rappresentato dal quadro, ciò su cui puntò
parecchio la Difesa dell'imputato fu l'evidente divergenza fra il
Pacciani e il profilo del serial killer proposto dal team di
criminologi di Modena, presieduto da un luminare nel campo, il
professor Francesco De Fazio.
Età e condizioni di salute a parte, ciò che più strideva nel confronto
era che De Fazio aveva parlato di individuo probabilmente, ma non
necessariamente, scapolo, con buona presunzione affetto da
iposessualità, se non addirittura incapace di avere rapporti sessuali
normali con l'altro sesso. Pacciani al contrario, oltre che sposato con
prole (ma questo lasciava un po' il tempo che trovava, considerando
la sua situazione familiare) era sicuramente soggetto sessualmente
iperattivo, uno che oltre alla moglie soleva frequentare e violentare
prostitute, che era solito importunare le donne altrui, addirittura
che stuprava le figlie.
Inoltre in molti, all'epoca ma anche oggi, facevano e fanno fatica a
vedere in lui quel serial killer metodico, sistematico, cauto, astuto,
sufficientemente organizzato da non lasciare evidenti tracce, di cui
parlava De Fazio. Non che Pacciani fosse stupido, anzi, sicuramente
era dotato di una buona dose di astuzia e d'istinto felino per la
sopravvivenza, ma rimaneva difficilmente classificabile come
metodico, organizzato, soprattutto cauto. Non per nulla era il
Vampa, uno che andava in collera facilmente, a stento contenibile,
violento e brutale nelle sue esplosioni d'ira.
Nonostante in sede processuale, contrariamente a quanto si
aspettavano gli innocentisti, la deposizione del team De Fazio non
fu in antitesi con le tesi della Pubblica Accusa, ma anzi risultò
piuttosto accomodante verso l'individuazione del Pacciani, ancora
oggi la divergenza di profili viene vista da buona parte della
mostrologia Non Paccianista, Non Merendara, Non
Giuttariana come uno dei punti fermi da cui partire per
l'elaborazione di teorie alternative a quella ufficiale.

La condanna
Sulla base dei succitati indizi e delle succitate deposizioni, ma anche
sulla base di nuove testimonianze da parte di chi - a distanza di
anni - ricordava di aver visto Pacciani nei pressi dei luoghi di alcuni
delitti, si sviluppò l'intero dibattimento, giostrato con indubbia
valenza dal PM Canessa. Si alternarono scene ad altissima intensità
emotiva (si pensi alla deposizione della signora Bruna Bonini,
mamma di Stefania Pettini, o di Renzo Rontini, padre della povera
Pia, o le deposizioni delle due figlie di Pacciani) con scene
involontariamente comiche che col tempo sarebbero diventate veri
e propri cult nel mondo del web (si pensi al battibecco fra
l'imputato e la sua amante, la signora Maria Antonietta Sperduto).
Due furono comunque le deposizioni di particolare interesse per gli
sviluppi processuali futuri: una fu la testimonianza dell'amico del
Pacciani, il postino Mario vanni, l'altra quella di un conoscente del
Pacciani, tale Lorenzo Nesi.
Il Vanni rese una testimonianza talmente reticente, non solo da
provocare l'ira del presidente Ognibene, ma anche da far
convergere su di lui l'interesse della Procura di Firenze.
Dal canto suo, il Nesi dichiarò di aver visto il Pacciani in compagnia
di un'altra persona non identificata la sera in cui verosimilmente era
avvenuto il delitto degli Scopeti, in un luogo non lontano dalla
piazzola stessa. Entrambe le testimonianze porteranno col tempo la
Procura ad abbandonare la pista del serial killer solitario e cercare
eventuali complici del Pacciani.

Nota Bene: A proposito di deposizioni, è opportuno far notare


come nessuna delle testimonianze portate a Processo che
individuavano Pacciani nelle vicinanze dei luoghi dei delitti in
giorni compatibili con gli stessi, in special modo nei pressi della
piazzola degli Scopeti nel settembre 1985, risalisse all'epoca dei fatti
o fosse di poco successiva. Erano, invece, tutte testimonianze fornite
agli inquirenti a partire dagli anni '90 (quando il nome e il volto del
Pacciani era finito su tutti i giornali e tutte le televisioni), alcune
anche a ridosso del Processo, altre addirittura a Processo in corso (si
pensi ad esempio alla testimonianza dell'ottico Ivo Longo o a quelle dei
coniugi Cairoli e Consigli, NdA).
Tutto ciò portò a un'esasperazione dialettica dello scontro fra
Accusa e Difesa e a un'autentica spaccatura nell'opinione pubblica,
irrimediabilmente divisa fra Innocentisti e Colpevolisti.

Nel mese di ottobre il Processo si avviò comunque verso un incerto


epilogo. Il 19 Ottobre, il PM Paolo Canessa nella requisitoria finale
dichiarò esplicitamente:
"Si tenga presente, oltre all'oggettivo elemento della condizione dei luoghi
di tutti gli otto delitti, anche la duplicità dello strumento lesivo: arma da
fuoco e arma bianca, escluso il 1968 perché c'era il bambino, il 1982 perché
la macchina si è infossata, ed il 1983 perché erano due uomini. È un
elemento su cui chiedo la massima attenzione. Tenetelo presente! Stessa
pistola e probabilmente stesso coltello. L'autore non puó che essere unico
per tutti i delitti. O tutti o nessuno!"
Il giorno 1 Novembre 1994 arrivò la famosa Sentenza
Ognibene che condannava all'ergastolo l'imputato con l'accusa di
essere il responsabile di 14 dei 16 omicidi storicamente attribuiti al
MdF. Pacciani venne infatti ritenuto non colpevole per il duplice
omicidio del 1968, commesso evidentemente da Stefano Mele
(condannato peraltro in via definitiva) con l'eventuale complicità di
qualcuno del clan dei sardi. Tuttavia, considerando che il delitto di
Signa era stato commesso come la stessa arma dei successivi, la
Sentenza aveva il limite di non spiegare come fosse avvenuto il
passaggio di pistola dalle mani dei sardi a quelle di Pacciani.
Per contro, a dispetto della tesi della Pubblica Accusa e della
cosiddetta Teoria Perugini che vedeva Pacciani serial killer unico
dal 1968 al 1985, la sentenza invitava la Procura a continuare le
indagini perché riteneva altamente probabile che, in alcuni delitti,
l'imputato potesse non aver agito da solo.
Furono ovviamente immediate, disparate e talvolta sguaiate le
reazioni alla sentenza Ognibene. Fra l'esultanza dei colpevolisti e le
lacrime degli innocentisti, in questa sede preferiamo riportare le
parole di due giornalisti che potremmo definire obbiettivi, in
quanto non direttamente coinvolti nella vicenda, e sicuramente di
alto lignaggio: Corrado Augias e il fiorentino Indro Montanelli.

"Sono rimasto sorpreso, la mia idea è che dentro il processo, cioè dentro le
prove e le testimonianze raccolte, la condanna non c'era. Evidentemente i
giudici hanno agito in base a due ordini di motivo: o hanno dato molto peso
ai precedenti, al temperamento di quest'uomo che è un uomo odioso, già
riconosciuto colpevole di delitti gravi e infamanti, oppure siccome si tratta
di un processo indiziario e gli indizi per costituire prova devono essere
gravi e concordanti, sono riusciti a stabilire la congruità e la concordanza
di indizi che a noi cronisti era per la verità sfuggita. Se ci fosse stata
ancora la vecchia assoluzione per insufficienza di prove, era quello il caso
in cui doveva rientrare Pacciani", le parole di Augias.

"Io credo che a questa sentenza abbia contribuito Pacciani, un uomo che
non inspira nemmeno alcuna pietà... quindi può anche darsi che questa
sentenza sia rispettosa di una giustizia in senso astratto, si manda
all'ergastolo un uomo che merita di starci; che sia rispettosa della legge, ho
qualche dubbio, perché la legge esige delle prove e mi pare che qui di indizi
ce ne fossero molti, ma nessuno di questi potesse essere considerato una
prova. Questa sentenza mi soddisfa solo a metà...", le parole a caldo di
Montanelli.

Il Processo d'appello e la Cassazione


Con il fine di continuare a indagare su eventuali complici del
Pacciani, in accordo con la Sentenza Ognibene, ma anche con
l'obbiettivo di blindare la condanna al contadino in vista del
Processo d'Appello, il Procuratore della Repubblica Pier Luigi
Vigna chiamò nell'ottobre del 1995 a capo della Squadra Mobile di
Firenze il "superpoliziotto" Michele Giuttari, che aveva prestato
servizio nella DIA (Direzione Investigativa Antimafia) a Napoli e a
Firenze.
Giuttari sostituiva nei compiti più che nel ruolo Ruggero Perugini,
ormai da tempo rientrato negli Stati Uniti, dove aveva ripreso a
esercitare la sua professione. Il lavoro di Giuttari, dapprima come
capo della Squadra Mobile e dal 2003 come capo
del GIDES (Gruppo Investigativo Delitti Seriali), sarà orientato
principalmente a fare piena luce sul gruppo di persone che aveva
commesso assieme al Pacciani i delitti storicamente attribuiti al
Mostro di Firenze.
In seguito, il poliziotto si convincerà dell'esistenza di un secondo
livello e concentrerà i suoi sforzi nell'individuare i cosiddetti
mandanti dei delitti, i famosi notabili in guanti bianchi appartenenti
a una qualche setta esoterica. Un netto distacco, dunque, dal suo
predecessore Perugini, tuttora fermamente ancorato all'ipotesi di
Pietro Pacciani serial killer solitario.
Frattanto, per il processo d'appello, al collegio difensivo di Pacciani
si era aggiunto, non senza numerose polemiche, anche il famoso
avvocato Nino Marazzita.
Il 29 gennaio 1996 cominciò il processo d'appello in un clima che
sembrò da subito ben diverso, decisamente più favorevole
all'imputato. Persino lo stesso Pubblico Ministero, il
magistrato Piero Tony, che rappresentava la Pubblica Accusa, era
andato contro i dettami della Procura chiedendo l'assoluzione per
Pacciani e pronunciando la storica frase "mezzo indizio più mezzo
indizio fanno zero indizi".
Per ammissione dello stesso Tony, dopo che era stato incaricato di
svolgere il ruolo di Pubblico Ministero al Processo d'Appello, aveva
passato un anno e mezzo a studiare le carte, maturando dentro di sé
l'opinione che da un punto di vista giuridico non c'era alcun motivo
per cui potesse essere confermata la condanna per il Pacciani.
Tuttavia, mentre sullo sfondo si andava delineando l'ipotesi
assolutoria per l'imputato, la procura di Firenze, nelle persone di
Vigna e Canessa, lavorava alacremente per fornire nuove prove che
incastrassero definitivamente Pacciani. Trovarono un presunto
testimone, Giancarlo Lotti, che dopo molte reticenze accusò
Pacciani, Vanni e se stesso di essere gli autori degli ultimi quattro
duplici delitti attribuiti al MdF. Come vedremo nel dettaglio nei
prossimi capitoli, altri tre testimoni fornirono – secondo la Procura -
dichiarazioni congruenti con la colpevolezza di coloro che presto
sarebbe divenuti famosi come i "Compagni Di Merende". Oltre al
Lotti, gli altri testimoni erano: l'oligofrenico Fernando Pucci, la
prostituta Gabriella Ghiribelli e il di lei protettore Norberto Galli.
Il 13 febbraio 1996, la Procura fece dunque richiesta, tramite un
imbarazzatissimo Piero Tony di poter portare a processo i quattro
nuovi testimoni che per ragioni di sicurezza erano stati nominati
con le lettere greche alfa, beta, gamma e delta.
Il presidente della corte d'assise d'appello, Francesco Ferri, rifiutò
però sdegnato l'introduzione dei nuovi testimoni, sia perché ritenne
sospetta la tempestività dell'azione, sia perché erano stati condotti
in forma anonima, dichiarando con malcelato sarcasmo: "Non siamo
a una lezione di algebra".
Quello stesso 13 febbraio arrivò dunque l'ormai scontato verdetto di
assoluzione per Pacciani per non aver commesso il fatto. Il
contadino di Mercatale venne scarcerato dopo 1.100 giorni di
detenzione e nell'immediatezza venne ospitato presso la casa di
accoglienza "Il Samaritano" a Firenze, grazie all'intercessione
di Suor Elisabetta, amica e confidente spirituale del Pacciani dai
tempi della sua detenzione a Sollicciano per la violenza sulle figlie.
Nella sentenza di assoluzione il giudice Ferri, sardista di vecchia
data, criticò aspramente l'intero impianto accusatorio.
Una vittoria di Pirro, però, per gli innocentisti, perché qualche mese
dopo, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annullò la sentenza di
assoluzione per questioni di forma e dispose un nuovo processo
d'appello.
Ritornava dunque valida la sentenza di primo grado che vedeva
Pacciani colpevole di sette degli otto duplici omicidi attribuiti al
Mostro di Firenze, pur tuttavia il contadino non tornò in carcere,
rimanendo di fatto libero in attesa di un nuovo giudizio, seppur
confinato in casa.

La morte di Pacciani
Il nuovo processo d'appello non ebbe, tuttavia, mai luogo a causa
dell'improvvisa morte dell'imputato. Infatti, il pomeriggio del 22
febbraio 1998, mentre era in pieno svolgimento il Processo ai suoi
eventuali complici, Pacciani venne ritrovato morto nella sua
abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato
in alto fino al collo.
La relazione del medico legale stilata dal professore Giovanni
Marello su incarico del Sostituto Procuratore Paolo Canessa,
riportava che il decesso era avvenuto verso le 22.30 del giorno
prima (21 febbraio) e che era dovuto a "insufficienza cardiaca con
edema polmonare in recente infarto del miocardio".
L'esame tossicologico rivelò nel suo stomaco tracce di un farmaco
anti-asmatico, l'Eolus, fortemente controindicato per un
cardiopatico infartuato come lui.
La morte di Pacciani gettò nuove ombre sull'intera vicenda e strane
voci presero a circolare - spesso incontrollate - su quel misterioso e
decisamente intempestivo decesso. La stampa contribuì ad
alimentare le voci che volevano Pacciani ucciso da ignoti, rendendo
difficile in quel tourbillon di chiacchiere distinguere la verità dalle
fandonie.
Si venne a sapere, ad esempio, che Pacciani, tornato a vivere a
Mercatale dopo l'assoluzione in appello e abbandonato anche dalla
moglie, viveva barricato in casa come se avesse paura di qualcosa o
qualcuno. La sera della sua morte invece aveva ricevuto la visita di
un misterioso erborista e porte e finestre della casa erano state
rinvenute spalancate. Si venne a sapere che c'era un forte odore di
ammoniaca per casa e che il suo cadavere era rivestito da una specie
di grembiule; tale grembiule sarebbe stato in realtà un indumento
rituale massonico utilizzato nelle cerimonie come simbolo di
declassamento punitivo di chi lo indossava.
Nonostante il correre incontrollato di queste voci, come vedremo,
non è mai stato trovato alcun riscontro documentale che
supportasse la teoria dell'omicidio, né tantomeno l'intervento della
massoneria o addirittura dei servizi deviati. Al contrario, a dispetto
di quanti ancora oggi - anche fra addetti ai lavori - considerando la
morte del Pacciani causata da non meglio precisati poteri forti, le
carte sembrerebbero far propendere per una morte naturale.
In realtà, a parlare della visita dell'erborista era stato un pittore
bolognese, tale Celso Barbari che, appassionatosi alle vicende
giudiziarie del contadino di Mercatale, ne era divenuto amico. Fu lo
stesso pittore a riferire per la prima volta nell'aprile del 2001 le
seguenti parole: "Sentii Pietro proprio il giorno prima del rinvenimento
del suo cadavere. Lo sentii per telefono la sera e lui fu molto frettoloso nel
liquidarmi dicendomi che da lui c'era un erborista. Tant'è che ebbi modo di
udire Pietro che rivolgendosi a questa persona gli diceva «è quel grullo del
pittore», chiudendo la comunicazione. Il giorno dopo in paese ebbi la
notizia della sua morte."
Tuttavia dalle intercettazioni telefoniche (il telefono del Pacciani era
tenuto sotto rigido controllo) tale telefonata non è mai emersa;
questa mancanza ha ovviamente fatto sorgere qualche dubbio sulla
veridicità dell'episodio, rendendo il contesto in cui era maturata la
morte del Pacciani ancor più incerto e nebuloso.
Fra le poche cose certe, sappiamo che in quei giorni si stava
svolgendo il processo di primo grado ai cosiddetti Compagni di
Merende e in aula stavano emergendo alcune rivelazioni da parte
del pentito reo-confesso, Giancarlo Lotti, circa un non meglio
precisato dottore che pagava il Pacciani affinché commettesse gli
omicidi con il fine di procurarsi i cosiddetti feticci, ove per feticci
erano intesi i lembi della vagina e del seno escissi alle ragazze
uccise.
Indipendentemente dalla scarsissima attendibilità del Lotti (che
vedremo meglio in seguito), la possibilità dell'esistenza di
fantomatici committenti degli omicidi hanno condotto numerosi
mostrologi (in special modo fra Giuttariani e Complottisti) a
ritenere non solo molto sospetta la morte del Pacciani, ma
addirittura procurata presumibilmente dai cosiddetti mandanti in
guanti bianchi. Un omicidio dunque reso necessario dal fatto che
Pacciani era divenuto nel frattempo possibile scomodo testimone in
vista del nuovo Processo d'appello che lo attendeva, processo in cui
- ormai spacciato dopo le confessioni del Lotti - sarebbe stato
finalmente pronto a raccontare le sue verità.

Risulta doveroso comunque ribadire che a livello storico e


giudiziario queste rimangono illazioni senza fondamento, non
essendo mai stata provata la reale esistenza di un secondo livello,
né tantomeno che la morte del Pacciani sia stata in realtà un
omicidio.
Al contrario, il dottor Marello ha avuto modo di parlare in una
recente intervista di una morte perfettamente compatibile con lo
stato clinico del deceduto.
I compagni di merende

Come accennato nel capitolo precedente, durante il processo di


secondo grado a Pietro Pacciani, nel momento in cui si profilava
all'orizzonte una clamorosa assoluzione, la Procura di Firenze
chiese l'ammissione di quattro super testimoni presentati con gli
identificativi di alfa, beta, gamma e delta, che inchiodavano
irrimediabilmente Pacciani alle sue responsabilità. Il giudice Ferri
respinse sdegnato questa richiesta perché evidentemente aveva
trovato estremamente sospetta la tempistica e Pacciani venne
assolto (assoluzione poi annullata dalla Cassazione).
Per ironia della sorte, proprio mentre il contadino di Mercatale
veniva assolto, sulla base delle dichiarazioni dei suddetti testimoni,
la Procura di Firenze procedeva all'arresto di Mario Vanni, metteva
sotto protezione il reo-confesso Giancarlo Lotti e avanzava la
richiesta di un Processo nei confronti dei cosiddetti Compagni di
Merende, nome con cui era ormai conosciuta quella sghemba
accolita di miseri personaggi che ruotavano a San Casciano attorno
alla figura di Pietro Pacciani.
"Una tempistica illuminante" avrà modo di definirla ironicamente
l'avvocato Nino Filastò, futuro difensore proprio del Vanni.
L'intero Processo ai CdM si basò in pratica sulle testimonianze -
secondo la Procura concordanti - dei quattro super
testimoni: Fernando Pucci (teste alfa), Giancarlo
Lotti (beta), Gabriella Ghiribelli (gamma) e Norberto Galli (delta).
Di seguito è esposta in breve (molto in breve) l'evoluzione delle
dichiarazioni dei suddetti teste e di conseguenza l'evoluzione delle
indagini.

1. Il 15 dicembre 1995, Giancarlo Lotti fu il primo del gruppo a


essere sentito presso la Questura di Firenze, in quanto amico
piuttosto stretto del Vanni, a sua volta finito nel mirino degli
inquirenti, in quanto amico intimo del Pacciani. Ricordiamo che la
Sentenza Ognibene aveva invitato la Procura a proseguire le
indagini per accertare la presenza di eventuali complici del
Pacciani.
Davanti all'allora capo della squadra mobile, Michele Giuttari, Lotti
fece i nomi di diversi conoscenti che, come lui, avevano frequentato
negli anni '80 la casa di un sedicente mago di nome Salvatore
Indovino, sita in via Faltignano, un'abitazione su cui si stavano
concentrando gli interessi della Procura, in quanto sembrava vi
ruotassero attorno personaggi molto interessanti per l'inchiesta sul
Mostro. Fra i nomi che il Lotti fece ci furono quelli di Filippa
Nicoletti, compagna di Salvatore Indovino e amante del Lotti
stesso, e Gabriella Ghribelli, prostituta e amica dell'Indovino.

2. Furono dunque messe sotto sorveglianza le utenze della Nicoletti


e della Ghiribelli e vennero intercettate diverse telefonate fra le due,
nessuna dirimente in un senso o nell'altro, ma da cui si evinceva che
entrambe temevano di essere coinvolte nell'inchiesta. Inoltre,
durante una di queste telefonate, emerse il nome di un certo
Fernando (che in seguito si scoprirà essere l'intimo amico del Lotti,
Fernando Pucci), su cui gli inquirenti cominciarono a indagare.

3. La prima grande rivelazione arrivò nella testimonianza resa in


Procura da Gabriella Ghiribelli, il 27 Dicembre 1995. La donna dopo
aver parlato della sua conoscenza con il grande sospettato Mario
Vanni e della sua amicizia con due personaggi piuttosto
interessanti, entrambi guardoni e frequentatori di prostitute, quali
Giancarlo Lotti e Fernando Pucci, ebbe modo di dichiarare:
"Ritornando da Firenze, la sera prima del giorno in cui fu diffusa la
notizia del duplice omicidio degli Scopeti intorno alle 23.30, insieme al mio
protettore dell'epoca, Norberto Galli, proprio in corrispondenza della tenda
- da me notata anche nei giorni precedenti - ebbi modo di constatare la
presenza di un'auto in sosta di colore rosso o arancione con la portiera,
lato guida, di altro colore sempre sul rossiccio, ma più chiaro dell'intero
colore del mezzo. Devo precisare che il colore dell'auto mi sembrò un po'
alterato in quanto su di essa si rifletteva la luce dei fari dell'auto su cui
stavo viaggiando. Quando seppi la notizia in San Casciano del duplice
omicidio, Norberto mi disse di tacere per non trovarci entrambi nei guai e
fu per questo che non dissi nulla, anche perché ero terrorizzata e nessuno
mi aveva fatto domande".
Secondo la vulgata mostrologica più comune, la macchina che la
Ghiribelli riconobbe come quella vista a Scopeti la presunta sera del
delitto era la Fiat Coupé 128 rosso sbiadita che Giancarlo Lotti
aveva posseduto proprio in quella lontana estate del 1985.
A parte che, come vedremo, non è detto che nel settembre 1985 il
Lotti possedesse davvero quell'automobile, in realtà la Ghiribelli
non associò l'automobile vista a Scopeti con quella che il Lotti
possedeva all'epoca del delitto, ma associò l'automobile vista a
Scopeti con quella che il Lotti possedeva nel momento in cui lei
rendeva quelle dichiarazioni (appunto, nel dicembre 1995).
Questa, infatti, la testomonianza in merito della donna: "Circa tre
mesi fa ho avuto modo di notare la macchina del Lotti e vedendo che essa
aveva la portiera di colore rosa, mi venne spontaneo dirgli in tono
scherzoso: vuoi vedere che sei tu il mostro? Alla domanda del Lotti del
perché, risposi che la notte del delitto degli Scopeti avevo visto una
macchina del medesimo colore della sua con la portiera sbiadita di altro
colore, per l'appunto come quella sua. Il Lotti rimase male per questa mia
affermazione e mi disse: cosa c'entra la mia macchina con quella che hai
visto te?".
Ora, tre mesi prima delle suddette dichiarazioni, Lotti disponeva di
una Fiat 131 di color rosso, con portiera bianca (colori coerenti con
quanto sostenuto dalla Ghiribelli). Tuttavia, tale vettura era stata di
proprietà del Lotti dal 23 novembre 1988 al 18 luglio 1995, pertanto
sicuramente non era l'automobile vista a Scopeti nel settembre 1985.
Come poi la donna sia arrivata a identificare l'automobile vista a
Scopeti nel settembre del 1985 con quella che, presuntivamente, il
Lotti possedeva all'epoca, non è propriamente chiaro. Fatto sta che
da quel momento l'automobile vista la sera del delitto a Scopeti,
divenne la Fiat 128 rossa del Lotti.

4. Il protettore, Norberto Galli, fu convocato in Procura quella


stesso giorno senza che avesse avuto il tempo di comunicare in
alcun modo con la Ghiribelli. Galli confermò di essere passato in
auto da Scopeti in compagnia della Ghiribelli la presunta sera del
delitto, di aver notato una vettura parcheggiata all'ingresso della
piazzola ma di non essere in grado di dire che automobile fosse o se
ci fossero degli occupanti all'interno.

5. Le intercettazioni telefoniche fra Ghiribelli e Nicoletti


confermarono che un'automobile era stata effettivamente vista la
sera della domenica 8 settembre 1985 dalla Ghiribelli stessa.

6. Esattamente cinque giorni dopo le prime rivelazioni,


precisamente il 2 gennaio 1996, gli inquirenti convocarono per la
prima volta in Procura Fernando Pucci, il quale confermò di
conoscere bene il Lotti con cui era stato solito frequentate prostitute
e cinema a luci rosse, e di essere stato con lui alla piazzola degli
Scopeti la presunta sera del delitto, ove si erano fermati per un
bisogno fisiologico. Disse altresì di non saper nulla dell'omicidio
perché entrambi erano stati cacciati via da due personaggi vestiti
rozzamente e che con forte accento toscano avevano minacciato di
ucciderli.
7. Il 23 gennaio 1996 Pucci venne riascoltato e ampliò le sue accuse,
parlando per la prima volta di una pistola nella mano di uno dei
due uomini che li avevano cacciati dalla piazzola e di un coltello
nella mano dell'altro. Affermò che il giorno successivo lui e il Lotti
avevano appreso del duplice omicidio e avevano capito che quegli
uomini erano coinvolti, ma avevano deciso di non parlare con
nessuno per paura delle conseguenze. Il Pucci iniziò in
quell'occasione a fare anche i primi nomi: Mario Vanni era l'uomo
con il coltello, mentre quello con la pistola non l'aveva riconosciuto
ma il Lotti gli aveva detto che si sarebbe trattato di Pietro Pacciani.
Parlando, il Pucci allargò sempre più il ventaglio delle sue
rivelazioni: dichiarò di essere andato spesso nei boschi con Lotti a
spiare le coppiette e anche che Lotti andava spesso in giro con
Pacciani e Vanni.
Quella stessa sera, in maniera decisamente tempestiva, Mario Vanni
ricevette un avviso di garanzia.

8. Sei giorni dopo, il 29 gennaio 1996 ebbe inizio il processo


d'appello a Pietro Pacciani.

9. Durante l'udienza del 6 febbraio, il procuratore Tony chiese


l'assoluzione di Pietro Pacciani, innescando una polemica a
distanza con Vigna, alimentata dalla stampa.

10. Il 9 febbraio 1996 ci fu un nuovo interrogatorio in Procura, cui


seguirono nuove rivelazioni. Pucci dichiarò che quando furono
minacciati da Pacciani e Vanni la notte dell'omicidio agli Scopeti, lui
voleva andar via, ma Lotti lo convinse a spiare di nascosto cosa
stesse succedendo. Finsero, dunque, semplicemente di allontanarsi,
ma tornarono silenziosamente indietro e assistettero al duplice
omicidio, con Pacciani che sparava e inseguiva la vittima maschile e
il Vanni che si introduceva nella tenda per fare scempio del corpo
della vittima femminile.
Durante questo interrogatorio fiume, il Pucci dichiarò di essere
stato anche a Vicchio, nel luogo dell'omicidio del 1984, qualche
giorno prima che il delitto venisse commesso. Aggiunse che era
sempre il Lotti a scegliere i posti dove andavano a esercitare la loro
attività di guardoni e che il Lotti stesso qualche volta era andato alla
piazzola di Vicchio per appartarsi con Filippa Nicoletti. Pucci riferì
inoltre sia che la coppia di Vicchio era stata uccisa perché la povera
Pia Rontini aveva rifiutato le avance sessuali del Vanni, sia che a
quanto appreso dal Lotti, sin dal duplice omicidio di Calenzano
(ottobre 1981) la responsabilità degli omicidi ricadeva sulla coppia
Pacciani-Vanni.

11. Due giorni dopo queste dichiarazioni, l'11 febbraio 1996,


Giancarlo Lotti fu ascoltato nuovamente in Procura, ma stavolta
sotto una nuova veste, non più quella di semplice testimone. Messo
a conoscenza delle testimonianze raccolte nei giorni precedenti,
Lotti confermò quanto dichiarato dal Pucci ma non volle fare i nomi
dei due uomini presenti a Scopeti. Per quel pomeriggio fu
organizzato un confronto fra Pucci e Lotti e dal confronto vennero
nuovamente fuori i nomi di Pacciani e Vanni: in maniera concorde
venivano indicati come coloro che impugnavano le armi la notte
dell'omicidio a Scopeti.
Secondo quanto riporta Michele Giuttari nel suo libro "Compagni
Di Sangue", quella dell'11 febbraio 1996 fu una data storica per le
indagini, perché per la prima volta si ebbero due testimoni oculari
dell'ultimo duplice omicidio attribuito al MdF, concordanti
sull'identità degli assassini. Sempre secondo Giuttari, in virtù di
quella testimonianza, il Lotti "diventava formalmente collaboratore di
giustizia, gestito dall'apposito Servizio Centrale di Protezione, istituito
presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale."

12. Il giorno successivo, 12 febbraio 1996, Mario Vanni venne


arrestato. In quel momento Pucci divenne il testimone alfa e Lotti il
testimone beta. La Ghiribelli che aveva dato il via a tutto divenne il
testimone gamma. Il suo protettore, Norberto Galli, divenne il
testimone delta.

13. Meno di ventiquattr'ore dopo, il 13 febbraio 1996, ultimo giorno


di udienza, il Procuratore Piero Tony chiese l'ammissione in aula
dove si stavva svolgendo il processo d'appello nei confronti di
Pacciani dei quattro nuovi testimoni, denominati alfa, beta, gamma
e delta.
La richiesta venne respinta dal giudice Ferri e, quello stesso giorno,
Pacciani venne assolto in secondo grado di giudizio e scarcerato.

Nei numerosi interrogatori che seguirono, Lotti cominciò a fare le


prime graduali ammissioni di colpevolezza. Non solo un semplice
spettatore dunque, ma parte attiva nei delitti di Baccaiano (1982),
Giogoli (1983, dove era stato colui che per primo aveva sparato ai
ragazzi tedeschi), Vicchio (1984), Scopeti (1985).
Ci furono numerosi sopralluoghi sulle scene del crimine, alcuni
debitamente registrati e visionati anche in sede processuale. Inoltre,
Lotti cominciò a coinvolgere anche altri personaggi: su tutti un tale
di Calenzano amico del Pacciani, di nome Giovanni Faggi, già
ascoltato al processo contro Pacciani in veste di conoscente
dell'imputato, oltretutto abitante a poche centinaia di metri dalle
Bartoline. Secondo il Lotti, il Faggi aveva dato supporto logistico a
Pacciani e Vanni durante l'omicidio di Travalle dell'ottobre 1981.
Lotti coinvolse anche un noto avvocato di San Casciano di
nome Alberto Corsi, colpevole - secondo la Procura - di aver
accolto alcune "confessioni" del Vanni e di averlo invitato a tacere
per non avere problemi.

La lettera del Lotti


Successivamente, il 7 novembre 1996, Lotti consegnò al dottor
Vinci, funzionario della Questura di Firenze, una lettera a suo dire
spontanea, da lui scritta a mano. Tale lettera fu consegnata dalla
questura alla Procura di Firenze nella persona del dottor Paolo
Canessa, titolare delle indagini, in data 15 novembre 1996. In essa il
Lotti aveva scritto, testuali parole:
"Sono venuti a casa via Lucciano, ano pichito a la porta. Chi e. Siamo noi.
Chi. Mario. Pietro Pacciani. Che volete da me. Devi venire con noi. Perché
devo venire. Se no si parla. Che vacevi in quella piazzetta che la strada.
verso il bardella. Ti inculavi Fabrizio. Sono andato con loro. La strada che
va a Giogoli. Siamo arivati vicino ale piazetta dove avenuto omicidio. Io
sono ceso da la machina. Mario e Pacciani erano gia cesi e andavano il
fulgone. Poi mi a chiamato. Vieni qui. Perche. Viene devi sparare tu. Io.
Allora mi a dato la pistola in mano. Spara e o sparato diverse colpi. Se lio
presi bene. Poi mia presa la pistola di mano. Andate verso la parte sinistra.
Altri spari. Poi aperto lo sportelo. A visto che erano due omini. Allora sie
incazzato come una bestia. Allora io mi sono alotanato verso la machina.
Pietro mi a detto va via. Si vado via. Perche vai via. Poi sono salito in
machina. Sono andato a casa. Andato a letto. Ma no mi riuciva dormire.
Dove li date queste cose della donna. Il seno vagina o fica Mario volio
sapere chi le date dottore che si serviva Pietro Pacciani. Vi pagava
in soldi. Ma quello no mi voleva dire per che ne faceva di vagina e se
pérche fate cose mostrose. Ma io no. Le altri fatte. Non avete rimorsi. A me
mi fato schifo e co bestie come voi Mario e Pacciani per me vi farrei sparire
per sempre dalla circlazino."
Emerge in questa lettera per la prima volta la figura di un "dottore"
che pagava il Pacciani in cambio dei feticci. L'idea dei delitti su
commissione cominciò dunque a farsi strada fra gli organi
inquirenti. Non fu possibile però andare più a fondo perché il Lotti
dichiarò subito di non sapere nulla di tal fantomatico dottore e che
solo una volta gli era capitato di vederlo, nella piazza di San
Casciano. A dire del Lotti, una sera si era fermata una vettura il cui
autista aveva fatto un cenno con la mano al Vanni di avvicinarsi.
Prontamente il postino aveva raggiunto l'automobile, mentre il
Lotti era rimasto distante a osservare. Dopo qualche minuto, il
Vanni era tornato indietro e gli aveva spiegato che si trattava del
dottore a cui Pietro consegnava i feticci, non volendo però
aggiungere più nulla sull'argomento.
Per la Procura ce n'era comunque abbastanza per trascinare sul
banco degli imputati, il Vanni, lo stesso Lotti e le due figure minori
(Faggi e Corsi) per quella che iniziava a prendere forma e contorni
di una vera e propria associazione a delinquere con finalità
delittuose.

Il mostro o i mostri di Firenze


Ancora oggi, da più parti, si sente spesso dire che la teoria degli
assassini multipli (per ovvietà di cose molto caldeggiata
mostrologicamente da Merendari e Giuttariani, ma talvolta non
disdegnata anche da taluni Sardisti) ha preso corpo solo dopo la
sentenza Ognibene, le testimonianze del Nesi e quelle dei famosi
super testimoni alfa, beta, gamma e delta. È doveroso sottolineare
come in realtà questo sia un falso storico!
Come visto nel capitolo dedicato al dottor B., nel pieno della fase
delittuosa nella prima metà degli anni '80 era stata, infatti, già
ventilata la possibilità di più autori o comunque di più persone
presenti sui luoghi dei delitti. L'eccidio dei francesi nella piazzola
degli Scopeti, in particolar modo, ha portato già all'epoca stessa del
delitto esperti e inquirenti a chiedersi se si potesse ancora parlare di
un unico autore o di più autori, a valutare persino - sebbene non
dandole troppo peso - la teoria della setta esoterica. Anche l'ipotesi
dei mandanti non è maturata solo negli anni '90 in seguito alle
rivelazioni del Lotti, ma era già stata presa in considerazione negli
anni '80, addirittura quando si dava ancora la caccia ai sardi.
Di seguito è riportato un articolo risalente al marzo del 1983
di Mario Spezi in cui nel titolo si fa palese riferimento a un
eventuale mandante, appunto il dottor B., e nel corpo dell'articolo si
fa esplicito riferimento alla possibilità di più autori sui luoghi dei
delitti. L'articolo si colloca temporalmente fra il delitto di Baccaiano
e quello di Giogoli, in un momento storico in cui era stato fatto da
poco il collegamento con il delitto del 1968 e Francesco Vinci era in
carcere perché sospettato di essere l'autore dei delitti. Nello
specifico è scritto:
"Sembra quindi riprendere vita la teoria secondo la quale il mostro,
indipendentemente dalle responsabilità di Francesco Vinci, possa essere
non una sola persona. Si ricorda che nel novembre dell'anno passato,
quando fu resa pubblica la notizia dell'arresto di Vinci, il giudice
istruttore Vincenzo Tricomi dichiarò, tra l'altro, di non poter escludere che
al momento in cui i delitti furono commessi, erano presenti più persone. La
teoria sarebbe confortata inoltre dalle perizie svolte da alcuni esperti di
anatomia patologica che hanno sostenuto l'impossibilità di una sola
persona di compiere, nelle modalità in cui si svolsero, alcuni di quegli
omicidi."
Indipendentemente dalla correttezza di certe valutazioni, che siano
addebitabili ai medici, al giudice istruttore o al giornalista, quello
che risultava doveroso sottolineare è l'errata interpretazione storica
degli eventi da parte di chi afferma che prima della sentenza
Ognibene non si era mai parlato di più autori dei delitti e prima di
Lotti non si era mai parlato di mandanti.

A questo proposito, in realtà, si potrebbe andare ancora più indietro


nel tempo e trovare nel 1974 articoli di giornale relativi al delitto
Gentilcore-Pettini in cui veniva avanzata l'ipotesi di una setta,
dunque più persone sul luogo dell'omicidio, e un fine esoterico-
religioso per spiegare il terribile eccidio di Rabatta.
Resta inteso, come già ampiamente visto nei capitoli dedicati alla
vicenda delittuosa, che non c'è alcuna evidenza scientifica che possa
far pensare a più persone sui luoghi degli otto delitti attribuibili al
Mostro di Firenze. Come ripetuto più volte dai vari medici legali
che si sono occupati dei rilevamenti (De Fazio in primis) sono tutti
delitti che una singola persona avrebbe fisicamente potuto
commettere, compreso Scopeti; anzi quella dell'autore unico è
statisticamente l'ipotesi più realistica, considerando:
1. la difficoltà di un gruppo di condividere una medesima
psicopatia;
2. l'improbabilità di mantenere un segreto così a lungo (17 anni dal
primo all'ultimo delitto) da parte di più persone;

Questo non toglie che l'eventualità di più autori, così come quella
dei mandanti e, in misura minore, quella di una setta, sebbene
meno proabile, non può essere aprioristicamente esclusa (non ci
sono altresì palesi evidenze scientifiche che escludano la presenza
di più autori sui luoghi dei delitti) ed è stata talvolta avanzata nel
corso degli anni, indipendentemente dai Compagni di Merende.
Il Processo ai CdM

Il 20 Maggio 1997 ebbe inizio il processo di primo grado, presieduto


dal dottor Federico Lombardi, ai cosiddetti Compagni di Merende.
Imputati a vario titolo erano:
▪ Mario Vanni, accuato dal Lotti di essere stato complice del
Pacciani negli ultimi cinque duplici omicidi attribuiti al Mostro di
Firenze;
▪ lo stesso Giancarlo Lotti, autoaccusatosi di aver partecipato agli
ultimi quattro duplici omicidi commessi dal Mostro;
▪ Giovanni Faggi accusato sempre dal Lotti di essere stato basista
nel delitto delle Bartoline (ottobre 1981) e guardone nel delitto degli
Scopeti (1985);
▪ infine l'avvocato sancascinaese Alberto Corsi per il reato minore
di favoreggiamento.

Il colleggio difensivo era costiuito rispettivamente:


▪ dagli avvocati Giangualberto Pepi e Nino Filastò per Mario
Vanni (a processo in corso subentrò l'avvocato Antonio Mazzeo al
posto dell'avvocato Pepi, in palese conflitto con Filastò);
▪ dall'avvocato Stefano Bertini per Giancarlo Lotti;
▪ dagli avvocati Sigfrido Feynes e Federico Bagattini per Giovanni
Faggi;
▪ infine dall'avvocato Gabriele Zanobini per Alberto Corsi.

La Pubblica Accusa era anche in questo caso rappresentata dal


Sostituto Procuratore Paolo Canessa, che si era districato
ottimamente in occasione del Processo Pacciani.
A tal proposito, giova ricordare che le indagini che avevano portato
al nuovo Processo erano nate proprio da una costola del Processo
Pacciani. La Sentenza Ognibene aveva, infatti, condannato il
contadino di Mercatale all'ergastolo per 7 degli 8 duplici omicidi
attribuiti al Mostro, con esclusione di quello del 1968, ma nel
contempo aveva invitato gli inquirenti a continuare le indagini
perché giudicava poco probabile che l'imputato avesse commesso
tutti i delitti da solo e in special modo il delitto del 1985 la cui
dinamica poteva far supporre il coinvolgimento di più persone.
Come già visto nel capitolo dedicato al Processo Pacciani, c'erano
infatti state alcune testimonianze (su tutte quella di Lorenzo Nesi)
che spingevano verso la tesi di più persone presenti agli Scopeti la
sera del duplice omicidio. Nesi affermava infatti di aver visto il
Pacciani in automobile in compagnia di un'altra persona non
identificata la sera in cui verosimilmente era avvenuto il delitto e in
un luogo non lontano dalla piazzola degli Scopeti.
Inoltre, la testimonianza resa a processo dal miglior amico di
Pacciani, Mario Vanni, era stata così reticente da indispettire il
presidente Ognibene e la Corte, ma anche da far convergere su di
lui l'interesse della Procura di Firenze.
Succedeva così che mentre Pacciani veniva assolto in secondo
grado, la Procura indagava serratamente sui suoi complici fino a
giungere all'arresto e all'istituzione di un nuovo e ben più
complesso processo. Un processo che stavolta aveva due testimoni
oculari, di cui uno reo confesso per gli ultimi quattro duplici
omicidi attribuiti al Mostro di Firenze.
Anche questo dibattimento vide l'alternarsi di momenti ad altissima
tensione emotiva con altri involontariamente comici che col tempo
sarebbero finiti per diventare veri e propri tormentoni del web. Fra
i momenti più toccanti annoveriamo sicuramente la deposizione
resa dal sempre presente Renzo Rontini o l'ira di quest'ultimo verso
l'avvocato Filastò che legittimamente tentava di difendere dalle
infamanti accuse il suo assistito, quel Vanni che Rontini riteneva
senza dubbio alcuno essere stato il feroce torturatore della propria
adorata figlia.
Fra i momenti di involontaria comicità, impossibile non citare la
deposizione del Nesi e i suoi aneddoti coloriti ("la Manfredi, la
prostituta molto signora") o la celebre invettiva del Vanni contro
Canessa ("il malaccio inguaribile") e l'altrettanto famosa risposta del
PM ("le minacce a me sono acqua 'alda").
Ma il momento forse più importante (almeno col senno del poi)
dell'intero dibattimento si ebbe verso la fine del processo, in data 16
marzo 1998 (vedasi relativa appendice), quando il difensore di
Mario Vanni, l'avvocato Nino Filastò, interruppe la requisitoria
finale degli avvocati di Parte Civile per chiedere la riapertura
dell'istruttoria sulla base di nuovi documenti di cui la Difesa del
Vanni era venuta in possesso.
Si trattava del documento che attestava l'acquisto da parte del Lotti
nel luglio del 1985 di un'automobile Fiat 124 celeste che in teoria
andava a sostituire la Fiat 128 rossa, l'automobile che secondo gli
inquirenti la Ghiribelli vide nella piazzola degli Scopeti la presunta
sera del duplice omicidio. Dunque, secondo la Difesa del Vanni, se
Lotti aveva acquistato una 124 celeste nel luglio del 1985, in
settembre non possedeva più la 128 rossa. Di conseguenza,
l'automobile vista agli Scopeti non era quella di Giancarlo Lotti.
La Corte approvò la riapertura dell'istruttoria.
La difesa del Lotti, nella persona dell'avvocato Stefano Bertini,
presentò tuttavia un documento secondo cui la Fiat 128 rossa era
stata assicurata dal Lotti fino al 20 settembre 1985 e dunque,
indipendentemente dall'acquisto di una nuova vettura, fino a quella
data il Lotti aveva sicuramente guidato la 128 rossa. Di
conseguenza, l'automobile vista agli Scopeti era certamente la sua.
Da notare la perversa ironia del gioco delle parti processuali che si
era venuta a creare: la difesa del Vanni forniva documenti che
scagionavano il Lotti, la difesa del Lotti forniva documenti che
invece lo collocavano sulla scena del crimine, di fatto accusandolo
di complicità con il Pacciani e il Vanni stesso.
In questa fase processuale, comunque, i difensori del Vanni non
avevano ancora i documenti relativi all'assicurazione della nuova
automobile, né tantomeno erano a conoscenza dei due incidenti che
il Lotti aveva avuto con questa nell'estate del 1985. Per tale motivo
non risultò subito chiaro quale delle due vetture fosse assicurata e
quale delle due il Lotti guidasse in quel settembre 1985. Né d'altra
parte, i diversi testimoni convocati a deporre sul tema furono in
grado di chiarire questo aspetto.
Chiamato nuovamente a rispondere alle domande delle Parti per
far chiarezza sul punto, Lotti dichiarò confusamente di aver guidato
fino al 20 settembre 1985 esclusivamente la 128 rossa, in quanto fino
a quella data non aveva ancora eseguito la voltura
dell'assicurazione sulla nuova automobile. Nell'occasione il Lotti
apparve, oltre che poco chiaro nelle spiegazioni, anche piuttosto
infastidito di dover rispondere nuovamente alle domande in aula.
Fu a questo punto che, per la prima volta, subì una dura
reprimenda da parte del presidente Federico Lombardi a causa del
suo atteggiamento ambiguo e a tratti arrogante.

Alla fine, almeno in questa fase processuale, sembrò se non proprio


plausibile, almeno possibile, che il Lotti avesse sì acquistato la 124
celeste in luglio (si scoprirà in seguito che in realtà l'acquisto era
avvenuto in maggio), ma avesse cominciato a circolare con la nuova
automobile dopo il 20 settembre 1985 (ben dopo dunque il duplice
delitto degli Scopeti). L'episodio dell'acquisto della "nuova" vettura
non venne dunque tenuto in debita considerazione.
Il dibattimento riprese regolarmente il proprio corso e, meno di una
settimana dopo, il 24 marzo 1998, arrivò la sentenza di condanna
all'ergastolo per Mario Vanni, giudicato complice del Pacciani negli
ultimi cinque duplici omicidi commessi dal Mostro (Calenzano,
Baccaiano, Giogoli, Vicchio e Scopeti) e a trent'anni per Giancarlo
Lotti, giudicato complice di Pacciani e di Vanni negli
ultimi quattro duplici omicidi del Mostro (da Baccaiano a Scopeti).
Vennero invece assolti il Faggi e il Corsi.
La sentenza di primo grado anche in questo caso invitava gli organi
inquirenti a proseguire le indagini e a fare luce sul famigerato
dottore che aveva commissionato gli omicidi e pagato i feticci al
Pacciani, vicenda cui aveva accennato Lotti sia nella
famosa lettera alla questura di Firenze, sia vagamente in sede
processuale.

Il Processo d'Appello ai CdM


Ovviamente gli avvocati difensori del Vanni presentarono ricorso
nei confronti della sentenza di primo grado. Anche la Pubblica
Accusa presentò un suo ricorso, in questo caso per l'assoluzione del
Faggi. Non intese, invece, far ricorso per l'assoluzione dell'avvocato
Corsi, che dunque - fortuna sua - uscì definitivamente di scena
dopo il processo di primo grado.
In data 17 maggio 1999 ebbe inizio il Processo d'Appello contro i
CdM. A presiedere le udienze in qualità di giudice era il
dottor Arturo Cindolo; consigliere relatore era il dottor Bruno
Loche.
Nel frattempo la Difesa del Vanni era riuscita a entrare in possesso
delle carte che permettevano di chiarire la questione relativa
all'assicurazione delle due automobili del Lotti. In udienza, gli
avvocati Filastò e Mazzeo riuscirono a dimostrare senza tema di
smentita che ben prima del delitto degli Scopeti il Lotti guidava già
la nuova automobile, sbugiardando clamorosamente le
dichiarazioni dello stesso Lotti rilasciate in primo grado.
Colpo di scena, di fronte alle nuove carte, anche la Pubblica Accusa,
rappresentata nell'occasione dal Procuratore Generare,
dottor Daniele Propato, chiese inaspettatamente l'assoluzione del
Vanni e la condanna a 18 anni di carcere per calunnia nei confronti
di Giancarlo Lotti.
Un incubo per la Procura di Firenze, che sembrava rivivere le stesse
tribolate vicissitudini del processo Pacciani: condanna in primo
grado, assoluzione in secondo.
Pur tuttavia, il pur valido lavoro della difesa di Mario Vanni non
riuscì - almeno a parere dei giudici di secondo grado - a fornire la
prova decisiva per l'assoluzione del Vanni.
Il 31 maggio 1999 fu infatti confermata la condanna all'ergastolo per
Mario Vanni per gli ultimi quattro duplici omicidi commessi dal
Mostro (gli venne espunta la colpevolezza per l'omicidio di
Calenzano) e fu ridotta a 26 anni di reclusione la condanna di
Giancarlo Lotti.
La sentenza di secondo grado, a differenza della precedente ad
opera del giudice Lombardi, definiva però inconsistenti le
dichiarazioni del Lotti su un presunto dottore che commissionava i
delitti e pagava i feticci, tacciandole come semplici illazioni.
Il 26 settembre del 2000 la Cassazione confermò in maniera
definitiva le condanne.
Nei successivi capitoli, studieremo nel dettaglio sia gli imputati
coinvolti nel processo ai CdM, sia i cosiddetti testimoni algebrici.
E della questione dell'assicurazione torneremo a parlare in maniera
più esaustiva nel capitolo dedicato a Giancarlo Lotti.
Mario Vanni

Vanni nacque a San Casciano il 23 dicembre del 1927.


Soprannominato "Torsolo" per via del fisico esile e della limitata
intelligenza, privo di ogni forma di cultura, sprovvisto di una
propria automobile e di patente, era un emarginato sociale, dedito
all'alcool e alla frequentazione di prostitute.
Nel gennaio del 1963, all'età di trentacinque anni, sposò Luisa
Landozzi, donna che soffriva di crisi epilettiche e che - secondo
l'avvocato Filastò - per questo motivo non era solita concedersi al
proprio marito.
L'inadempimento dei doveri coniugali fu sin da subito causa di
profonde liti fra i novelli sposi; liti che degenerarono il 9 settembre
1963 quando - stando alla versione ufficiale - Vanni inseguì la
moglie minacciandola e facendola ruzzolare per le scale di casa. La
donna, in quel momento incinta, denunciò il marito per
maltrattamenti.
Una versione differente del controverso episodio della caduta è
riportato nel libro "Storia Delle Merende Infami" di Nino Filastò.
Secondo il celebre avvocato non fu la moglie a denunciare il Vanni,
ma furono i vicini che, allertati dalle frequenti liti, si sentirono in
diritto di avvisare i carabinieri e sporgere denuncia. Interrogato in
merito, Vanni ammise che talvolta aveva schiaffeggiato la moglie,
ma dichiarò che mai si sarebbe sognato di scaraventarla per le scale.
Comunque sia andata realmente, nel marzo del 1964 il tribunale di
Firenze assolse Mario Vanni dalle accuse. Poco dopo nacque
Annunziata, unica figlia della coppia. Affetta da una grave malattia,
la bambina morì il 5 gennaio 1970.
Cattolico praticante e convinto fascista, nel 1966 Vanni intraprese la
professione di postino, che svolgerà per 22 anni fino al 31 maggio
1987.
Nel 1973 conobbe Pietro Pacciani, appena trasferitosi dal Mugello a
San Casciano Val di Pesa, divenendone il più fidato amico.
Fu il Vanni, che già aveva intrapreso una specie di relazione
con Maria Antonietta Sperduto, a portare per la prima volta il
Pacciani in casa della Sperduto, pentendosene poi subito a causa del
comportamento violento di Pietro nei confronti sia della donna, sia
soprattutto del marito di questa (il già citato Renato Malatesta).
A quando invece risalga l'amicizia con Lotti non è dato saperlo con
certezza; è noto tuttavia che negli anni settanta e ottanta i due
ebbero una frequentazione piuttosto intensa. Anche nella prima
metà degli anni novanta, con Pacciani già al centro delle indagini
sul Mostro e Vanni che in quel periodo manifestava un'insolita
disponibilità economica, continuò la frequentazione con il Lotti,
tant'è che quest'ultimo nell'estate del 1995 ebbe una breve relazione
estiva con la giovane nipote di Mario, Alessandra Bartalesi.
Il 26 maggio 1994 - proprio in virtù dell'amicizia con Pietro - Vanni
fu ascoltato come testimone durante il processo Pacciani. In
quell'occasione le sue parole in aula suscitarono l'ilarità generale
allorché alla prima domanda del PM Canessa: "Signor Vanni che
lavoro fa lei?", rispose: "Io sono stato a fa' delle merende co' i' Pacciani,
no?"
Nacque in quel preciso momento la locuzione "Compagni Di
Merende".
Il 12 febbraio 1996 Vanni fu arrestato per concorso in omicidio e
vilipendio di cadavere in concomitanza con l'assoluzione del
Pacciani. Le accuse contro di lui vertevano tutte sulle testimonianze
del reo confesso Giancarlo Lotti e del suo amico Fernando Pucci,
che individuarono nel postino il complice armato di coltello del
Pacciani, in pratica colui che effettuava le escissioni sulle vittime
femminili. A parte le suddette dichiarazioni, ulteriori prove o
eventualmente indizi sulla sua partecipazione ai delitti non furono
però mai trovate.
Durante il processo ai CdM emerse la testimonianza di Renzo
Rontini, il quale si disse più che certo di aver incontrato il Vanni
nei pressi del bar di Vicchio dove lavorava sua figlia Pia nei giorni
precedenti all'omicidio. Una testimonianza importante, ma che la
difesa di Mario Vanni nelle persone dell'avvocato Pepi prima e
degli avvocati Filastò e Mazzeo in seguito, ha sempre giudicato
non attendibile.

Sulla base delle dichiarazioni di Lotti e Pucci, dopo dieci lunghi


mesi di dibattimento, il 24 marzo 1998 Vanni venne condannato in
primo grado all'ergastolo per cinque degli otto duplici omicidi del
"Mostro" (omicidi dell'ottobre 1981, del 1982, 1983, 1984, 1985).
Nonostante gli ottimi risultati conseguiti dalle indagini difensive in
vista del secondo grado di giudizio e nonostante in Appello la
stessa Pubbica Accusa ne avesse chiesto l'assoluzione, il 31 maggio
1999 la prima sessione della Corte di Assise di Appello di Firenze,
presieduta dal dottor Arturo Cindolo e dal consigliere
relatore Bruno Loche, confermò la condanna all'ergastolo per Mario
Vanni per gli ultimi quattro duplici omicidi del Mostro (1982, 1983,
1984, 1985), assolvendolo di fatto dall'omicidio di Travalle
dell'ottobre 1981.
Tale condanna vene resa definitiva il 26 settembre 2000 dalla
sentenza dalla Corte di Cassazione.
Ad oggi Vanni e Lotti risultano gli unici due condannati in via
definitiva, e dunque dopo tre gradi di giudizio, per i delitti
attribuiti al Mostro di Firenze.
A differenza di Lotti, Vanni ha sempre negato qualsiasi addebito,
rigettando fortemente tutte le accuse.

La registrazione in carcere
Tre anni dopo la sentenza definitiva, il 30 giugno 2003, il
testimone Lorenzo Nesi, in accordo con la Procura di Firenze che
stava indagando sul cosiddetto secondo livello, si recò presso il
carcere Don Bosco di Pisa dove era recluso il Vanni per aver un
colloquio chiarificatore. Il Nesi si disse certo, in virtù della fraterna
amicizia che li legava, di poter convincere il Vanni a dire finalmente
la verità sull'intera vicenda del Mostro. Il colloquio tra i due venne
registrato dalla Polizia Giudiziaria: ebbe inizio alle 19.21 e si
concluse alle 20.50.
Emersero chiaramente durante il colloquio le precarie condizioni
psichiche in cui versava il Vanni e le sue difficoltà cognitive.
L'intero dialogo, a un attento ascolto, ha infatti ben poco senso. Ma
ciò che è da sottolineare è il seguente botta e risposta:

MV: È stato Ulisse che ha ammazzato tutte questa gente, nero.


LN: Chi gl'è il nero?
MV: È un americano.
LN: Un americano? E chi ammazzava?
MV: Ulisse. Ulisse si chiama.
LN: Un l'ha ammazzati il Pacciani? O 'un l'ha ammazzati il Pacciani?
MV: No.
LN: E indo gli era quest'americano?
MV: E indo gli era? Nel bosco lo trovi. Lo trovò nel bosco. Ogni cosa
gl'aveva. Che l'era stato lui a fa' questi delitti.
LN: Ma chi l'ha detto questo?
MV: Eh...
LN: Perché ora, fino a ora tu m'ha detto che questi omicidi l'ha fatti il
Pacciani. E questo Ulisse, e questo nero chi gl'è?
MV: Ulisse si chiamava.
LN: Ma 'ndo gli stava?
MV: Eh, in America.
LN: In...
MV: In America...
LN: E veniva a fa' gli omicidi qui?
MV: Davvero.
LN: Mh. Icché tu mi dici, Mario? Ma vien via! Ma te lo conoscevi questo
nero?
MV: No. Io non lo conoscevo. Ho saputo la storia dopo, che gli era stato lui
a ammazza' tutte e sedici le persone.
LN: I te tu m'hai detto che gli omicidi l'aveva fatti il Pacciani.
MV: Sì. O 'un te l'ho detto? Gl'è stato questo nero a ammazzà tutta
questa gente, questo Ulisse americano. Gli ha lasciato una lettera, s'è
ammazzato, hai capito? E ha preso il procuratore ogni cosa.
LN: Ma chi te l'ha detto?
MV: Alla televisione s'è sentito per Dio!

Inizialmente la Procura reputò tali dichiarazioni alla stregua di


vaneggiamenti, anche perché inserite in un contesto per lo più
farneticante da parte del Vanni. In seguito la stessa Procura scoprì
che nel gruppo di notabili su cui stava svolgendo indagini
nell'eventualità di delitti su commissione, come Lotti aveva
vagamente accennato nella sua lettera, c'era un americano
soprannominato appunto "Ulisse", al secolo Mario Robert Parker.
Le vaneggianti dichiarazioni del Vanni assunsero così di colpo
tutt'altro valore (vedasi capitolo Il secondo livello) e la Procura si
convinse di stare indagando nella giusta direzione.
Già l'anno dopo, nel 2004, la pena dell'ex postino venne sospesa per
motivi di salute e il Vanni fu trasferito in una casa di riposo a
Pelago in provincia di Firenze. Ricoverato il 12 aprile 2009
nell'ospedale di Ponte a Niccheri morì il giorno dopo, all'età di 81
anni, affetto ormai da anni da profonda demenza senile.
Le esequie si tennero il 15 aprile nel cimitero di San Casciano in Val
di Pesa dove fu sepolto, alla presenza della sorella, dei nipoti e di
pochi sparuti amici.

Le prove contro Vanni


A distanza di molti anni dalle vicende giudiziarie che lo hanno
visto coinvolto, si può affermare con certezza che la condanna dopo
tre gradi di giudizio del Vanni si è basata fondamentalmente sui
seguenti punti:
● Testimonianza di Giancarlo Lotti che si è autoaccusato degli
ultimi 4 duplici delitti del Mostro, commessi assieme a Pacciani e
Vanni.
● Testimonianza di Fernando Pucci, testimone oculare dell'ultimo
omicidio del Mostro a Scopeti. Secondo Pucci a portarlo sul luogo
del delitto la sera stessa del delitto fu Giancarlo Lotti che aveva
ricevuto da Pacciani e Vanni il compito di fare da palo durante
l'azione omicidiaria.
● Testimonianza di Renzo Rontini, il quale - come visto - dichiarò
con certezza di aver visto Vanni aggirarsi dalle parti del bar di
Vicchio dove lavorava Pia nei giorni precedenti all'omicidio. Anche
la mamma di Pia dichiarò nella stessa udienza del Processo ai CdM
di aver visto più di una volta Vanni a Vicchio, senza però saper
identificare con precisione in quali occasioni, limitandosi a dire che
tali incontri avvennero sicuramente quando Pia era ancora viva. I
genitori di Pia dichiararono che si resero conto di aver già visto il
Vanni quando questi apparve per la prima volta in pubblico, in
occasione della testimonianza durante il Processo Pacciani.
● Somme di denaro rivenute nei conti di Mario Vanni, a dire
dell'accusa troppo elevate per un uomo che aveva svolto la
professione di postino e che lasciavano intendere la possibilità di
delitti su commissione.
● Un arresto rimediato diversi anni prima per percosse nei
confronti della moglie, all'epoca incinta di una figlia, in seguito nata
disabile e morta prematuramente.
● Testimonianza di Maria Antonietta Sperduto, secondo cui
Pacciani e Vanni più volte avevano abusato di lei e in un'occasione
l'avevano portata nella piazzola di Scopeti (luogo dell'ultimo
delitto) per violentarla all'interno della Fiat 500 del Pacciani.
● Testimonianze del Nesi, amico intimo del Vanni, che dipinse un
quadro dell'imputato come di una persona che abitualmente
frequentava prostitute, dedita a diverse perversioni sessuali, aduso
all'utilizzo di materiale pornografico e di vibratori. A questo
proposito, risulta storico l'aneddoto, raccontato da diversi
testimoni, secondo cui un giorno sul pullman della SITA che
portava da San Casciano a Firenze, al Vanni cadde un vibratore
dalla tasca, azionandosi e cominciando a muoversi lungo il
corridoio del mezzo fra le risate degli astanti.
● Sempre il Nesi parlò del Vanni come di un uomo completamente
privo di empatia nei confronti delle vittime del mostro e dei loro
familiari.
● Infine ci fu una lettera che il Pacciani certamente inviò dal carcere
a Mario Vanni quando stava scontando la pena per i reati di
violenza alle proprie figlie. Di questa lettera non si è mai saputo
granché con certezza. Non si sa bene il periodo in cui fu inviata dal
Pacciani (sicuramente inizi anni '90, quando cioè la Procura già
indagava su di lui per i delitti del MdF), né se ne conosce
assolutamente il contenuto. Gli unici che potevano rivelarlo erano
Pacciani (il mittente), Vanni (il destinatario) e Angiolina Manni
(moglie del Pacciani da cui lo stesso Vanni si precipitò per farla
leggere). Inutile dire che i tre attori della vicenda non hanno saputo
o voluto dire alcunché sul contenuto di quella lettera.
Mario Vanni si è limitato grottescamente a dire che nella missiva
Pacciani gli rimembrava le merende che avevano fatto assieme. Sul
perché l'avesse portata all'Angiolina, non è mai stato in grado di
fornire motivazioni convincenti.
In realtà appare certo che questa lettera avesse altri contenuti, in
quanto svariati testimoni (Nesi su tutti, ma anche l'avvocato Corsi e
diversi sancascianesi del giro di piazza dell'Orologio) ne avevano
sentito parlare dallo stesso Vanni che appariva fortemente
spaventato da quanto vi era scritto.
Lorenzo Nesi che accompagnò Vanni dall'Angiolina affinché il
postino le mostrasse la lettera, dichiarò di non conoscerne il
contenuto e all'epoca – ancora ignaro del possibile coinvolgimento
del Vanni nei delitto del MdF - di non aver tenuto in gran conto la
vicenda.
L'avvocato Corsi fu colui cui il Vanni si rivolse dopo aver ricevuto
la "preoccupante" corrispondenza. Fu proprio per via di questa
missiva che il Corsi si ritrovò coinvolto nella vicenda come
imputato. Secondo l'accusa, infatti, il Corsi lesse la lettera e
consigliò a Vanni di farla sparire perché molto compromettente.
Inutile dire che l'avvocato Corsi ha sempre respinto queste accuse,
affermando di non aver mai avuto modo di leggere la lettera, ma di
aver semplicemente consigliato al Vanni di rivolgersi alle forze
dell'ordine.

La lettera è stata a lungo un punto cruciale durante il Processo ai


CdM. È certo che sia esistita (ne parlano diversi testimoni), è certo
che Vanni ne rimase molto spaventato, tuttavia non si sa bene da
cosa.
Anche se l'Accusa non formulò mai apertamente alcuna ipotesi, ciò
che evidentemente paventava era che la lettera contenesse una o
più delle seguenti possibilità:
▪ riferimenti agli omicidi commessi da Pacciani e Vanni (dunque la
prova scritta della colpevolezza dei due);
▪ indicazioni su come e dove far sparire alcune prove (per esempio
la pistola) e di qui l'esigenza del Vanni di recarsi in fretta e furia
dall'Angiolina a casa del Pacciani;
▪ un invito del Pacciani al Vanni di uccidere una qualsiasi coppia in
modo che lui sarebbe stato scagionato.

Ovviamente per coloro che credono nell'innocenza del Pacciani, la


lettera non poteva contenere nessuno dei suddetti punti, perché era
da considerarsi impossibile che Pacciani si fosse azzardato a
scrivere qualcosa di così compromettente su una corrispondenza
spedita dal carcere nel momento in cui era indagato per i delitti del
mostro, con la possibilità che venisse controllata o letta da qualche
agente.
È vero che la lettera potrebbe anche aver abbandonato il carcere per
via non ufficiali, magari consegnata "brevi manu" a un prete o a un
inserviente, quindi con minori o nulle possibilità che venisse letta
dalle forze dell'ordine; ma questo ovviamente non scongiurava
l'ipotesi che venisse letta da un intermediario troppo curioso,
esponendo comunque il Pacciani a un forte rischio.
Da più parti, soprattutto fra gli innocentisti, è stata ventilata la
possibilità che la lettera contenesse semplicemente minacce dello
stesso Pacciani al Vanni dovute al fatto che il Postino avesse parlato
troppo con gli inquirenti o non avesse fatto nulla per aiutarlo; e
questo sarebbe congruente con lo stato di agitazione e di paura
dimostrate dal Vanni. Ci sarebbe però da chiedersi - ove fosse vera
questa ipotesi - perché Vanni aveva sentito l'esigenza di correre
dall'Angiolina per mostrarle la famigerata lettera.

Ricapitolando, risulta a ogni modo evidente come gli unici punti


decisivi per la condanna del Vanni siano stati la confessione del
Lotti e la testimonianza del Pucci, le quali come vedremo nei
prossimi capitoli non erano scevre da errori, omissioni,
contraddizioni, inverosimiglianze. Gli altri punti non hanno il
minimo valore probatorio, anche se alcuni di essi possono risultare
interessanti o vagamente suggestivi.
La testimonianza della mamma di Pia, sebbene senza dubbio
genuina, non è sicuramente dirimente. Anche quella di Renzo
Rontini può essere figlia di suggestioni o di auto-convincimento. Di
certo entrambe le testimonianze, sebbene il papà di Pia si mostri
sicurissimo, non costituiscono una prova.
Men che meno son dirimenti le somme di denaro attribuite al
Vanni, decisamente dibattute; l'arresto per percosse nei confronti
della moglie di per sé non ha alcun valore probatorio, se non di tipo
suggestivo; idem la violenza nei confronti della Sperduto o
l'eventuale frequentazione della piazzola degli Scopeti. Anche dalle
corpose dichiarazioni del Nesi non è possibile ricavare alcun reale
indizio riguardo la colpevolezza dell'imputato Vanni. La lettera fa
nascere qualche sincero dubbio, ma non essendo mai stata trovata,
non può essere ritenuta una prova o un indizio importante.

Per contro, a favore del Vanni sorsero numerose testimonianze di


persone (fra familiari, amici e semplici conoscenti sancascianesi) che
lo ritenevano totalmente incapace, sia per carattere che per limitate
facoltà mentali, di compiere o partecipare a quei delitti.
Per quanto riguarda il delitto di Vicchio, ad esempio, come
vedremo in un capitolo successivo, il Lotti aveva dichiarato che la
causa scatenante era stato il rifiuto della giovane Rontini ad
accogliere le "proposte sessuali" che aveva avanzato nei suoi
confronti il Vanni. Il Lotti collocava queste "avances" nel maggio del
1984 al bar in cui lavorava Pia. Tralasciando il fatto che Pia aveva
vissuto in Danimarca dai primi di gennaio fino al 18 maggio 1984 e
che aveva iniziato a lavorare al bar "La Nuova Spiaggia" solo dal 1
luglio dello stesso anno (rendendo quindi fallaci le dichiarazioni del
Lotti), durante il Processo ai CdM vari testimoni chiamati dalla
difesa dichiararono che mai il Vanni era stato solito importunare
ragazze o donne.
Inoltre la sua tendenza a esagerare con l'alcol, a parere degli
avvocati e dei più intimi conoscenti, escludeva qualsiasi
coinvolgimento dell'imputato nei delitti, anche e forse soprattutto
come esecutore materiale.
D'altra parte, come sostengono e fanno
notare merendari e giuttariani, molto spesso si tende a pensare al
Vanni come al vecchietto curvo e arteriosclerotico che a fine anni '90
presenziava alle udienze processuali, mentre fra la metà degli anni
'70 e gli inizi degli anni '80 si sarebbe trattato di un uomo con
quindici o venti anni in meno, fisicamente ancora prestante, in
condizioni psichiche sicuramente migliori. Anche l'abuso di alcol,
emerso come un vero e proprio problema per il Vanni negli anni '90
(ne parlano in special modo il Nesi e la Bartalesi, secondo cui il
postino avrebbe attraversato un periodo di cupa depressione), negli
anni '80 avrebbe potuto non essere un problema, non perché il
Vanni non bevesse anche smodatamente, ma perché sicuramente il
suo fisico era in grado di reggere meglio la quantità di vino che
ingurgitava. Secondo la Procura, infatti, i veri problemi di alcolismo
nel Vanni sarebbero subentrati proprio negli anni '90, quando il
terribile ricordo delle sue gesta delittuose lo avrebbe condotto verso
la depressione e un conseguente irrefrenabile bisogno di affogare
tutto nell'alcol.

La videocassetta dello Spezi


Un punto decisamente a favore del Vanni verrebbe dalla famosa
videocassetta proditoriamente registrata dal giornalista Mario Spezi
durente un colloquio privato con il maresciallo Arturo Minoliti.
Abbiamo già avuto modo di parlare di tale spinosa questione
(vedasi paragrafo dedicato alla cartuccia nell'orto del Pacciani),
nata da una sorta di trappola che il giornalista aveva teso al
sottoufficiale. Brevemente, non sapendo di essere videoregistrato e
forse credendo di stare parlando con un amico più che con un
giornalista d'assalto, il graduato dell'Arma aveva fatto incaute
dichiarazioni allo Spezi, sostenendo che - secondo lui - alcune prove
a carico del Pacciani erano state "costruite" ad arte per incastrarlo.
Nell'udienza del 18 maggio 1999 del processo d'Appello contro i
Compagni di Merende, il difensore Mario Vanni, avvocato Nino
Filastò, parlò del contenuto della videocassetta dello Spezi e
dichiarò quanto segue:
"Nel corso di questa cassetta, che dura circa 60 minuti... a un certo punto
il maresciallo Minoliti che allora era comandante della stazione dei
carabinieri di San Casciano viene intervistato da Mario Spezi nel suo
ufficio e... al minuto 44.12 fa alcune considerazioni circa le indagini fino a
quel momento svolte, affermando che lo straccio è inquinato e lo straccio è
quello che avvolgeva l'asta guidamolla rappresentante un elemento
indiziario a carico di Pacciani; l'asta guidamolla è inquinata e che il
proiettile nell'orto di Pacciani, il Minoliti, nega che sia stato reperito,
trovato nelle circostanze raccontate dal dottor Perugini e dice che, essendo
lui presente, questo proiettile venne trovato in circostanze diverse e dice
quali erano e non dal dottor Perugini ma addirittura da un'altra persona
che si chiamava Schicchi. Ma quello che rileva di più ai fini di questo
processo e della posizione di Mario Vanni è quello che dice proprio alla fine
il maresciallo Minoliti, il quale è stato trasferito di recente, se non sbaglio,
a Carrara. Leggo la frase testuale: «quando cominciò l'indagine su
Pacciani un magistrato – io dico un magistrato, ma lui dice anche
il nome del magistrato – mi delegò per offrire a Vanni la famosa
taglia di 400.000.000... mi sono incontrato diverse volte, Vanni mi
rispose, "dei soldi non me ne importa un ca..."» e questa è la
parolaccia che mi evito di dire. È un documento che a me sembra
interessante da diversi punti di vista perché indica e fa toccare con mano
quella che altrove abbiamo definito "frenesia indagatoria" da un certo
momento in poi su Pacciani; come se si fosse alla ricerca spasmodica di
prove che riguardavano Pacciani, come fosse entrato Mario Vanni dentro a
questa ricerca e come lui si fosse rifiutato da quell'onesto uomo che è, e
come quindi quello che poi la difesa o chiunque altro potrà dire, in punto di
intervento, di Lotti che in questo processo, nel modo che sappiamo, senza
fare un giorno di carcere, protetto, stipendiato e con casa, bhe, direi che
questo documento, da questo punto di vista, offre un precedente
attendibile".
Riassumendo, nella famosa e inconsapevole intervista rilasciata dal
Minoliti allo Spezi, il graduato dell'Arma rivelava che un
magistrato (di cui Filastò omette il nome, ma che è facilmente
intuibile) aveva contattato lo stesso Minoliti per offrire 400 milioni
di lire al Vanni affinché fornisse dichiarazioni che incastrassero
Pacciani. Come si legge, il Vanni si era rifiutato; successivamente -
secondo il filo logico seguito dal Filastò, che invero non sembra
troppo distante dalla realtà - la Procura aveva egualmente trovato
nel Lotti qualcuno che comunque incastrasse Pacciani,
risparmiando i soldi della taglia e coinvolgendo nell'inchiesta anche
il Vanni.

La testimonianza della Carmignani


Concludiamo questa lunga disamina sui punti che
testimonierebbero un'eventuale innocenza o colpevolezza del Vanni
con un interessante articolo del blog "Quattro Cose Sul
Mostro" di Antonio Segnini, ove viene riportato uno stralcio della
testimonianza resa a processo da Sabrina Carmignani. Tale
deposizione non solo lascia piuttosto perplessi, ma fa sorgere
qualche sincero dubbio sulla genuinità delle indagini condotte dalla
SAM e mostra per la prima volta il Publico Ministero Canessa
piuttosto in imbarazzo.
Per un maggiore approfondimento dell'episodio, si rimanda al
succitato articolo del blog di Segnini. Qui verranno esposti i fatti
molto in breve.
Come visto nel capitolo dedicato all'omicidio di Scopeti, la
Carmignani era la ragazza che arrivò nella piazzola degli Scopeti la
domenica dell'8 settembre 1985 e andò via a causa della mosche e
del cattivo odore. Dopo la scoperta del duplice omicidio, la ragazza
si presentò alla caserma dei carabinieri di San Casciano per rendere
la propria testimonianza, che ovviamente sul momento non diede
alcun esito per le indagini.
Tuttavia, una decina di anni dopo e dunque nel periodo in cui la
Procura indagava sui Compagni di Merende, la Carmignani fu
ricontattata dalla SAM per essere nuovamente interrogata alla luce
delle nuove evidenze indagatorie. Pare che in quell'occasione le
vennero fatte diverse e poco tollerabili pressioni perché dichiarasse
che quella domenica nella piazzola avesse visto il Vanni. A queste
richieste la Carmignani oppose un netto rifiuto. Dopo diverse ore,
esausta, firmò frettolosamente un lungo verbale e venne lasciata
andare, salvo poi apprendere dai giornali che una super-testimone
(nella quale ovviamente si riconobbe) aveva fatto il nome di Vanni.
Indispettita, si ripresentò in Questura per chiedere spiegazioni,
ricevendo rassicurazioni in merito e firmando un nuovo striminzito
verbale nel quale il nome di Vanni non compariva e un ulteriore
foglio nel quale si impegnava a non parlare della vicenda con la
stampa.
Ora probabilmente la vicenda sarebbe finita qui se non fosse che
quando la Carmignani rese deposizione al Processo ai CdM,
l'avvocato di parte civile Aldo Colao, il quale evidentemente aveva
contezza solo del primo verbale e non conosceva gli sviluppi della
vicenda, chiese conto alla Carmignani dell'incontro con Vanni nella
piazzola degli Scopeti, ricevendo in risposta un netto diniego.
Stupito, Colao chiese spiegazioni al PM Canessa il quale,
visibilmente imbarazzato, tagliò corto dando piena ragione alla
Carmignani e ribadendo che questo incontro non c'era mai stato.
Di seguito il breve stralcio preso dal Processo:
Avv. Colao: Signorina scusi, lei ha visto anche altre persone, fisicamente,
che giravano nei paraggi quand'era sul posto?
Carmignani: No.
Avv. Colao: E, un certo... una persona che aveva un nome curioso in
paese. Un nome strano. L'ha visto? Che è qui presente in aula?
Carmignani: No, non mi ricordo.
Avv. Colao: Ma, è contestabile perché nel verbale che la signorina rese,
parla d'aver visto un certo "Torsolo".
Carmignani: No. Io non ho mai detto di avere visto "Torsolo" il giorno...
Io... Il signor Vanni è di San Casciano, l'ho visto più volte in paese, ma io
quel giorno non l'ho mai visto.
Avv. Colao: In quel posto lì, nella piazzola... in fondo alla piazzola.
Carmignani: No.
Avv. Colao: Ma, il PM dovrebbe contestarlo questo, perché nel verbale
che lei rese...
Carmignani: Ma, quale verbale?
Avv. Colao: Nel verbale che rese, diciamo, alla Polizia Giudiziaria.
PM: Volevo sollecitare, invece di fare contestazioni, eventuali ricordi suoi
di aver visto persone, fra le quali Vanni, in zona, in epoche precedenti.
Carmignani: Sì, ho visto persone, ma non potrei dire che ho visto Mario
Vanni.
PM: Benissimo.
Carmignani: Poteva essere chiunque, anche lei.
PM: Benissimo. Perfetto. Era questo che volevo sapere. Io la ringrazio.
Presidente: Avvocato Colao può continuare, grazie.
Avv. Colao: Ho finito, se il PM non contesta quanto già a verbale, io non
ho il verbale.
Presidente: Io non lo so, io non ho il verbale.
Avv. Colao: Ma me ne ricordo bene dell'interrogatorio.
Carmignani: Scusate, quale verbale dice che io ho visto Mario Vanni sul
luogo del delitto?
PM: No, no, non è...
Carmignani: Io non lo conosco, non so quale verbale sia.
PM: Siamo pienamente d'accordo, signora.

Alla luce di quanto appena esposto, risulta evidente come gli organi
inquirenti, probabilmente profondamente convinti della
colpevolezza del Vanni, cercassero un modo (anche non ortodosso)
per incastrarlo in maniera definitiva con una testimonianza oculare
che esulasse da quelle di Lotti e Pucci, evidentemente giudicate
persino da loro estremamente dubbie o comunque non sufficienti
per una condanna.
Ci provarono (in maniera finanche sgradevole, almeno a leggere
taluni resoconti) con la Carmignani, ma andò male a causa della
meritevole fermezza della ragazza.
Alla fine una testimonianza di questo tipo venne a mancare, ma la
sentenza di condanna nei confronti del Vanni arrivò ugualmente,
basandosi esclusivamente sulle parole di Lotti e Pucci, che più di un
sincero dubbio lo destano.

Nota a margine: L'episodio in cui restò involontariamente coinvolta


la Carmignani emerse perché la ragazza ne aveva parlato in via
confidenziale con un celebre giornalista RAI, il quale ne parlò
sempre in via confidenziale col giornalista Mario Spezi, il quale a
sua volta - a torto o a ragione, non è nostro fine sindacarne l'operato
- non si fece scrupolo di renderlo pubblico.
Giancarlo Lotti

Ed eccoci arrivati a Giancarlo Lotti, personaggio centrale di tutta la


vicenda del MdF a partire dal 1995, testimone chiave, reo-confesso,
pentito, collaboratore di giustizia, figura cardine nel Processo ai
CdM e principale artefice della condanna di Mario Vanni.
Nato nella piccola frazione de La Fornace a San Casciano il 16
settembre del 1940, quasi completamente analfabeta, emarginato
socialmente, Lotti era un alcolista con problemi intellettivi. Di umile
e sfortunata famiglia, lasciò la scuola all'età di 14 anni, senza aver
conseguito la licenza elementare. Avvezzo all'abuso di alcool sin
dalla giovane età (così come il padre Primo che era morto nel 1966),
nel 1971 Giancarlo si trasferì con la mamma in Borgo Sarchiani,
25 a San Casciano. Nel 1975 la mamma, da tempo sofferente di
gravi disturbi psichici, morì. In seguito, Giancarlo ruppe i rapporti
con l'unica sorella, rimanendo di fatto solo. Nel 1978, conseguì la
patente di guida, all'età di 38 anni. Particolare questo di non
secondaria importanza nell'analisi del personaggio e dei suoi
eventuali spostamenti per la provincia di Firenze.
Soprannominato in vari modi e ovviamente non tutti lusinghieri dai
suoi concittadini ("Katanga", "Zampino" e "Garibaldi" i più
famosi), a San Casciano il Lotti frequentava la Cantinetta con gli
amici Pucci e Vanni e in misura minore con il Pacciani. Nella
primavera del 1981 cominciò a lavorare presso la cava di sabbia dei
signori Scherma al Ponte Rotto, mantenendo questo lavoro fino alla
metà degli anni novanta. Con il nuovo lavoto arrivò il trasferimento
in un'abitazione messa a disposizione dagli stessi Scherma, in
via Lucciano, 41.
Nell'agosto del 1981 conobbe nel "piazzone" di San Casciano (la
piazza del mercato, NdA) l'allora ventinovenne Filippa Nicoletti. Fu
un amico comune, tale Giovanni Vermigli, detto Alberobello, a
favorire la conoscenza chiedendo al Lotti di accompagnare la
Filippa a casa in via Faltignano. Approfittando del fatto che in quel
periodo Salvatore Indovino, compagno della Nicoletti, era in
carcere, il Lotti intraprese una relazione con la donna che si sarebbe
protratta per alcuni anni. Prese anch'egli in questo modo a
frequentare la casa dell'Indovino in via Faltignano. Qui - secondo
alcune fonti - conobbe e divenne amico di Gabriella Ghiribelli, che
tanta parte avrà nelle vicende processuali dei compagni di merende
e non solo.
Fra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, per un motivo o per un
altro, lavoro e amicizie sfumarono.
Nel 1989 fu costretto a lasciare la casa in via Lucciano e, non avendo
altre possibilità, andò a vivere con estremo disappunto presso la
comunità di don Fabrizio Poli, in via Faltignano, 27.
In quanto conoscente del Pacciani, Lotti fu ascoltato dagli inquirenti
durante le indagini sul contadino di Mercatale il 19 luglio 1990. In
quell'occasione, confermò la sua saltuaria frequentazione col
Pacciani senza fornire ulteriori spunti di indagine e non venne
neanche inserito fra i testimoni da ascoltare al dibattimento.
Venne nuovamente ascoltato dalla SAM il 21 luglio 1994 mentre era
in pieno svolgimento il processo Pacciani, ma anche in questo caso
ne uscì in maniera pulita.
Esattamente un anno dopo, nel luglio del 1995, Giancarlo conobbe
la giovane nipote di Mario Vanni, Alessandra Bartalesi, una
ragazza che dieci anni prima era stata colpita da aneurisma
cerebrale, rimanendo svariati giorni in coma e uscendone
profondamente provata nel fisico.
La frequentazione fra Lotti e la Bartalesi durò quasi l'intera estate.
In agosto, i due pranzarono insieme in un ristorante in località
Scopeti e nel primo pomeriggio si appartarono nella piazzola dove
dieci anni prima era avvenuto l'ultimo duplice omicidio del Mostro
di Firenze. In quell'occasione Alessandra si accorse che il Lotti
aveva problemi di erezione. A detta della stessa ragazza, Giancarlo
addusse come giustificazione il cibo appena consumato e il vino
bevuto.
In seguito il Lotti propose alla Bartalesi di fidanzarsi, ma lei rifiutò
sia perché in realtà aveva già una relazione con un ragazzo che in
quel periodo era a Potenza, sia perché la sua famiglia non gradiva
che frequentasse gente tanto più grande come suo zio Mario o come
il Lotti stesso, sia forse anche per via dell'impotenza del Lotti. La
relazione, o pseudo tale, fra i due terminò con la fine dell'estate e il
ritorno a San Casciano del ragazzo di Alessandra.
Da sottolineare come elemento altamente suggestivo in questa
vicenda ciò che Alessandra dichiarò al Pubblico Ministero, Paolo
Canessa, durante un interrogatorio, e che successivamente ribadì
nella sua deposizione al Processo ai CdM: "Un giorno passammo da
Baccaiano, dove era stata uccisa la coppia, e io ricordando quell'episodio
dissi a Giancarlo di passare velocemente senza fermarsi. Giancarlo mi
rispose: Non aver paura, quando sei con me, il mostro non c'è!"
Molto si è discusso in ambito mostrologico sull'importanza di
questa frase, da alcuni interpretata come la vanteria di uno
spaccone che voleva far colpo sulla ragazza di turno, da altri
ovviamente come un chiaro riferimento al fatto che lui stesso fosse
stato il mostro o uno dei mostri.
Indipendentemente da come la si pensi, è bene precisare che questa
frase non fu pronunciata di notte in un isolato spiazzo della
campagna fiorentina nel pieno dell'epopea delittuosa del MdF, ma
su un'automobile che correva lungo una strada a scorrimento
veloce esattamente dieci anni dopo l'ultimo delitto, quando ormai
nessuno pensava più che il serial killer potesse tornare a colpire.
Anche il meno coraggioso degli uomini sarebbe stato capace di
mostrarsi spavaldo in una situazione del genere.
Un altro particolare interessante che emerse durante la deposizione
della Bartalesi fu che nell'agosto del 1995 il Lotti, ritrovatosi
improvvisamente in ristrettezze economiche causa perdita del
lavoro, aveva chiesto un prestito all'amico Vanni. Sempre stando al
racconto della ragazza, il Vanni non aveva voluto o potuto
concedergli il prestito e il Lotti non aveva preso affatto bene il
rifiuto, sostenendo che avrebbe ben saputo come fargliela pagare.
Sempre secondo la testimonianza della ragazza, quella era stata
l'ultima volta in cui aveva visto il Lotti.
A parere della difesa del Vanni (all'epoca ancora in mano
all'avvocato Pepi), il rifiuto del postino di concedere un prestito
all'amico, era stata la molla che aveva fatto scattare nel Lotti la
volontà di inguaiare il Vanni, coinvolgendolo immotivatamente
nell'inchiesta sui delitti del Mostro.

Pochi mesi dopo quegli eventi la situazione giudiziaria del Lotti


cominciò decisamente a complicarsi. Come da indicazioni della
sentenza Ognibene, alla ricerca di eventuali complici del Pacciani, il
15 dicembre 1995 Lotti fu convocato presso la Questura di Firenze e
interrogato dall'allora capo della Squadra Mobile, dottor Michele
Giuttari. Dapprima fu ascoltato di nuovo come semplice testimone,
in seguito - come abbiamo visto nel capitolo I compagni di
Merende - venne pesantemente coinvolto nell'inchiesta dalle
dichiarazioni di Gabriella Ghiribelli e soprattutto dell'ex amico
Fernando Pucci.
La Ghiribelli dichiarò di aver visto un'automobile simile a quella
del Lotti la sera dell'8 settembre 1985, presunta data dell'omicidio
dei francesi, nella piazzola degli Scopeti. Pucci affermò di essere
stato condotto dal Lotti nella piazzola e ivi di avere assistito al
duplice omicidio dei ragazzi francesi.
Di fronte a queste dichiarazioni, il Lotti inizialmente ammise di
essere stato semplice spettatore del duplice omicidio, sostenendo
che lui e Pucci si erano fermati alla piazzola per un bisogno
fisiologico ("per fare un po' d'acqua"). In seguito, dopo che era
emerso che aveva frequentato anche la piazzola di Vicchio dove era
avvenuto l'omicidio del 1984, cominciò a fare le prime ammissioni
sul suo coinvolgimento nei delitti.
Dichiarò infine di essere stato presente:
▪ a Baccaiano in occasione del delitto del 1982, dove avrebbe dovuto
svolgere il ruolo di palo;
▪ a Giogoli nel delitto del 1983, dove addirittura confessò di essere
stato il primo a fare fuoco contro la coppia di tedeschi su volontà di
Pacciani;
▪ appunto a Vicchio nel delitto del 1984, dove con la sua vettura
aveva seguito quella del Pacciani (punto questo poco chiaro che
verrà descritto meglio in seguito);
▪ e infine agli Scopeti in occasione del delitto del 1985, dove arrivò
alla piazzola insieme all'amico Pucci verso le 11 della sera, come da
accordi intercorsi in precedenza (ma non si sa bene quanto) con
Pacciani.

È bene comunque precisare subito che le ammissioni e le


confessioni del Lotti (o pseudo tali), sia in fase di indagini che
processuale, non sono mai state veramente chiare. Innanzitutto, non
coinvolgevano solo se stesso, il Pacciani e il Vanni, ma avevano
trascinato nella gogna mediatica e processuale anche il
calenzanese Giovanni Faggi, l'avvocato Alberto Corsi e
un misterioso dottore che - a suo dire - pagava i cosiddetti "feticci"
al Pacciani. Inoltre le sue sono state dichiarazioni, soprattutto nelle
udienze processuali, farcite di "non ricordo", di omissioni, di errori
e successive correzioni (secondo alcuni miratamente imbeccate),
tanto da spingere larga parte dell'odierna mostrologia a ritenerle in
realtà in parte o completamente fasulle.
Il lavoro degli avvocati difensori del Vanni, avvocato Nino Filastò e
avvocato Antonio Mazzeo, misero in evidenza già dal processo di
primo grado ai CdM, le numerose incongruenze delle sue
dichiarazioni.
Pur tuttavia, nei tre gradi di giudizio alla fine ha sempre prevalso la
tesi accusatoria e Lotti è sempre stato considerato in buona parte
credibile.
Ancora oggi, coloro che credono alla sua attendibilità, dunque alla
colpevolezza dei CdM, sostengono che il Lotti abbia sempre
cercato, nelle sue dichiarazioni dapprima come testimone in seguito
come imputato, di sminuire il suo ruolo negli omicidi. Di
conseguenza le omissioni o gli errori eran frutto di un tentativo
maldestro di scaricare tutta la colpa su Pacciani e Vanni e far
figurare se stesso come semplice palo o aiutante.
Nella sentenza di primo grado che condannava Vanni e Lotti
rispettivamente all'ergastolo e a 30 anni di reclusione, il giudice
Lombardi scriveva infatti: "...lo stesso Lotti, di fronte a certi risultati
delle indagini che lo inchiodavano alle sue responsabilità, ha cercato
soltanto di uscirne col minor danno possibile, ammettendo i fatti e dando
indubbiamente un contributo in ordine alla condotta dei suoi complici,
però soltanto nell'ambito del chiarimento dei singoli episodi di duplice
omicidio, per i quali è stato raggiunto da elementi probatori. Inoltre, si è
ben guardato dal fare i nomi di altri personaggi, che pur esistono nella
presente vicenda..."
Da notare che nella suddetta sentenza di primo grado, il Lotti non
fu ritenuto credibile sia nelle accuse al Corsi e al Faggi (entrambi
furono assolti, il primo perché il fatto non sussiste, il secondo per
non aver commesso il fatto), sia nella descrizione della dinamica del
delitto di Giogoli: infatti la Corte non ritenne possibile che fosse
stato lui a sparare i primi colpi durante l'assalto al furgone dei
giovani tedeschi.
Fu invece ritenuto credibile sulla possibile esistenza di un dottore
che aveva commissionato i delitti e pagato i feticci al Pacciani.
Infatti, così come la sentenza di primo grado del Processo Pacciani
aveva invitato gli organi inquirenti a proseguire le indagini per
appurare l'esistenza di eventuali complici del Pacciani, la sentenza
di primo grado del Processo ai CdM invitava gli inquirenti a cercare
eventuali mandanti dei delitti.

Tuttavia, le cose sembrarono poter cambiare in vista del Processo


d'Appello. Il lavoro della Difesa del Vanni fu encomiabile nel
cercare e trovare i documenti relativi alle automobili possedute dal
Lotti nell'estate del 1985, che smentivano quanto sostenuto dallo
stesso imputato durante il processo di primo grado.
Di fronte alle nuove carte, persino la Pubblica Accusa,
rappresentata nell'occasione dal Procuratore Generale Daniele
Propato, chiese l'assoluzione del Vanni e la condanna per calunnia
del Lotti, mandando nel panico la Procura di Firenze e le Parti
Civili. Sembrava un déjà vu di quanto accaduto in occasione del
processo d'appello a Pietro Pacciani.
Eppure, come abbiamo già avuto modo di vedere, stavolta le cose
andarono diversamente. Il 31 maggio 1999, infatti, la sentenza di
secondo grado, estesa dal giudice Arturo Cindolo e dal consigliere
relatore Bruno Loche, ribadì le condanne (ergastolo al Vanni e
riduzione della pena a 26 anni per il Lotti) e precisò nelle
motivazioni:
"...vale la pena allora subito ricordare che il detto individuo (il Lotti
Giancarlo appunto) sottoposto a perizia da consulenti del Pubblico
Ministero... è stato dichiarato soggetto lucido, vigile cosciente,
perfettamente orientato nel tempo, nello spazio, nei confronti della propria
persona e della situazione in esame. Si legge nel medesimo elaborato che il
patrimonio intellettivo non appare certo brillante, specie a livello di
intelligenza teorico-astratta, ma è caratterizzato da buona abilità di
comprensione e di gestione dei problemi pratici e concreti... non si rilevano
segni di deterioramento mentale, come, attestato dalla vivacità e non
esauribilità della attenzione, dalla modulazione dei pensiero, dalla
prontezza e pertinenza delle risposte, dalla capacità di analisi e di critica e
dalla stessa reticenze opposta a taluni argomenti..."
Oltre ad assolvere Vanni per il delitto di Calenzano e a ridurre la
pena per il Lotti, la sentenza d'Appello smentiva quella di primo
grado sulla ricerca di eventuali mandanti dei delitti: definiva,
infatti, illazioni senza fondamento le dichiarazioni del Lotti su un
dottore che pagava i feticci. Di questa parte di sentenza, tuttavia, la
Procura di Firenze non avrebbe tenuto minimamente conto,
continuando le proprie indagini su eventuali mandanti e ponendo
di fatto le basi per quello che una decina di anni dopo sarà il terzo
grande processo sulla vicenda del Mostro.
Il 26 settembre 2000 arrivò il sigillo della Cassazione. La condanna
definitiva per il Lotti fu dunque di 26 anni.
Venne, però, scarcerato il 15 marzo 2002 per gravi motivi di salute e
il 30 marzo successivo, all'ospedale San Paolo di Milano, morì a 62
anni per via di un tumore al fegato, da cui era afflitto da molto
tempo, a causa del suo alcolismo decennale.
Fu sepolto in completa solitudine nel cimitero di San Casciano in
Val di Pesa.

Le automobili del Lotti


Se in un certo senso la condanna in primo grado del Vanni e del
Lotti poteva essere messa in conto, la conferma delle condanne in
appello fu decisamente meno prevedibile, sia perché persino la
Pubblica Accusa, nella persona del Procuratore Generale Daniele
Propato si schierò apertamente per l'inattendibilità del Lotti,
chiedendone la condanna per calunnia, sia perchè in secondo grado
di giudizio, gli avvocati difensori del Vanni erano stati in grado di
fornire alla Corte tutti gli incartamenti riguardanti la delicata
questione delle automobili del Lotti, cui abbiamo già fatto
brevemente cenno nel capitolo Il Processo ai CdM.
Sappiamo che la Ghiribelli affermò di aver visto all'imbocco della
piazzola degli Scopeti, la presunta sera del duplice omicidio,
un'automobile rossa con la portiera di colore più chiaro. Sappiamo
che la Ghiribelli associò questa vettura a quella posseduta dal Lotti
circa 10 anni dopo il delitto. Sappiamo che alla fine gli inquirenti
ritennero che l'automobile vista dalla Ghiribelli fosse invece quella
che il Lotti possedeva proprio nel periodo in cui si consumò il
delitto, vale a dire un 128 rossa.
Sappiamo infine che lo stesso Lotti, messo alla strette, prese a
sostenere di essere andato agli Scopeti la sera dell'8 settembre 1985
con la sua Fiat 128 rossa, avvallando così definitivamente le parole
della Ghiribelli e le intuizioni degli inquirenti.
Tuttavia, gli avvocati del Vanni, Filastò e Mazzeo, cercarono di
dimostrare in sede processuale (sia in primo grado ma soprattutto
in appello) che all'epoca il Lotti non guidava più la 128 rossa, ma
una Fiat 124 celeste comprata da poco, tant'è vero che aveva
trasferito l'assicurazione dall'una all'altra automobile e con la 124
aveva avuto già due incidenti. Non solo, i due avvocati tentarono
anche di dimostrare che la 128 rossa, all'epoca dell'omicidio di
Scopeti, sostava senza gomme presso la cava di sabbia di Luigi e
Roberto Scherma, dove il Lotti lavorava. Tuttavia quest'ultimo
tentativo non andò in porto a causa di mancanza di testimonianze
attendibili e tuttora dà adito a diverse controversie sul tema.
Soffermiamoci un attimo sul discorso delle automobili e
relative assicurazioni, provando a fare chiarezza, perché è
importante e non è così immediato come appare:
► Come si appurerà nel Processo d'Appello ai Compagni di
Merende, nel maggio 1985 Lotti aveva fatto la voltura della sua
assicurazione (che scadeva il 20 settembre 1985) passandola dalla
Fiat 128 rossa alla Fiat 124 celeste, automobile che evidentemente
aveva già acquistato;
► Il contrassegno dell'assicurazione sulla 128 rossa non venne però
mai consegnato all'agenzia assicurativa e venne lasciato sul
parabrezza della 128 rossa;
► È ovvio che il contrassegno sulla 128 rossa non avesse alcun
valore legale, però a un controllo poco attento in un qualche posto
di blocco, Lotti avrebbe potuto tranquillamente sperare di farla
franca;
► Il 3 luglio 1985, tramite scrittura privata, Lotti ufficializzò il
passaggio di proprietà della 124 celeste, acquistata dal signor Karl
Schwarzenberg, intestandola a suo nome. Si noti che la legge
consentiva di fare quest'atto entro due mesi dall'acquisto, quindi
quella del 3 luglio è una data pienamente compatibile con un
acquisto effettuato a maggio (quando aveva effettuato la voltura
dell'assicurazione);
► Possiamo dunque convenire che a partire dal maggio del 1985, il
Lotti possedeva due auto, entrambe sul parabrezza avevano un
tagliando che riportava una copertura assicurativa fino al 20
settembre. L'unica assicurazione valida apparteneva però alla 124
celeste;
► Non è dato sapere se nell'estate del 1985 il Lotti continuasse a
guidare ancora la 128 rossa non assicurata, è certo però che
guidasse la 124 celeste in quanto con quell'automobile in quel
periodo ebbe due indicenti di poco conto (uno in giugno, uno il 31
luglio);
► Il weekend del delitto degli Scopeti, Lotti possedeva ancora due
automobili, una assicurata, l'altra no. Le testimonianze indicavano
sul luogo del delitto un'automobile simile a quella non assicurata.

Ora, per i difensori del Vanni era una cosa altamente improbabile
che il Lotti potesse permettersi economicamente di possedere due
automobili funzionanti. Secondo la loro tesi, se una persona dalla
scarsissima disponibilità economica aveva acquistato una "nuova"
vettura, significava necessariamente che l'altra non funzionava più.
Di conseguenza, l'automobile rossa vista a Scopeti non poteva
essere la 128 del Lotti. Del resto, fu lo stesso imputato a dichiarare a
dibattimento che la vecchia 128 "non andava più tanto bene".
La Difesa tentò a questo punto di dimostrare, tramite
testimonianze, la completa inagibilità nell'estate del 1985 della 128
rossa, sostenendo fosse stata parcheggiata in prossimità della cava
dei signori Scherma, lì dove Lotti abitava e lavorava, e che fosse
completamente inutilizzabile, addirittura senza ruote.
A differenza di quanto si sente oggi dire in taluni ambienti
mostrologici, tale tentativo però fallì. Nessuno dei testimoni, né in
primo grado né in Appello, a distanza di quasi 15 anni dagli eventi,
fu in grado di dire precisamente quando Lotti avesse cessato di
usare la 128 rossa e da quale momento questa fosse rimasta ferma e
inagibile davanti casa degli Scherma. Tutto ciò che si poté appurare
con certezza è che tale vettura era stata demolita nell'aprile del 1986
e che negli ultimi mesi era stata effettivamente ferma e
inutilizzabile. Ma quanto valessero numericamente questi "ultimi
mesi" nessuno era stato in grado di dirlo né in primo, né in secondo
grado.
Anche se tale incertezza lascia tuttora il dilemma delle automobili
senza soluzione e consente virtualmente di collocare effettivamente
la 128 rossa a Scopeti la sera dell'omicidio, è comunque possibile
fare un paio di considerazioni in merito.
▪ La prima è che durante il processo di primo grado Lotti mentì in
piena consapevolezza. Affermò infatti che fino al 20 settembre 1985
non aveva mai guidato la 124 celeste perché non era assicurata.
Si ricordi che, all'epoca, gli avvocati difensori del Vanni - come
detto - non erano ancora entrati in possesso dei documenti che
attestavano sia la voltura dell'assicurazione dall'automobile vecchia
a quella nuova, sia gli incidenti che Lotti aveva avuto con
l'automobile nuova. Durante il Processo d'Appello, dopo che i
suddetti avvocati avevano recuperato la documentazione in
oggetto, il Lotti cambiò versione, dichiarando che per un certo
periodo aveva guidato entrambe le automobili, la 124 assicurata e la
128 non assicurata, smentendo quanto lui stesso aveva dichiarato
nel precedente dibattimento. Posto di fronte all'evidente
contraddizione, il Lotti sostenne in maniera decisamente
improbabile (almeno stando all'ascolto delle registrazioni delle
udienze) di essere stato mal interpretato durante la testimonianza
in primo grado o più probabilmente di non essersi saputo
esprimere correttamente.
▪ La seconda considerazione da fare è che se il Lotti nel settembre
del 1985 guidava davvero entrambe le automobili, risulta piuttosto
improbabile che il presunto giorno dell'omicidio degli
Scopeti avesse adoperato una automobile vecchia, che funzionava
male e soprattutto non assicurata per andare a Firenze dalla
Ghiribelli, ritornare a San Casciano a tarda sera e fermarsi agli
Scopeti per adempiere all'appuntamento con il Pacciani, quando
contemporaneamente aveva un'automobile comprata da poco,
funzionante, assicurata e che soprattutto usava regolarmente.
Si lascia al lettore qualsiasi altra conclusione sull'argomento.

Lotti collaboratore di giustizia


Oltre la questione dell'automobile, un altro aspetto estremamente
dibattuto e altrettanto controverso della vicenda giudiziaria del
Lotti riguarda il suo status di collaboratore di giustizia.
Innanzitutto precisiamo che un saggio approfondito sull'argomento
è stato trattato dal ricercatore Omar Quatar nel suo blog Storia del
Mostro di Firenze. Chiunque fosse interessato ad avere chiarimenti
anche legislativi sulla questione può fare riferimento a questa fonte.
Entrando nel merito, abbiamo visto che - stando a quanto scritto da
Giuttari - lo stesso giorno delle prime ammissioni del Lotti (11
Febbraio 1996), il procuratore Pier Luigi Vigna richiese al Ministero
dell'Interno l'adozione di misure di protezione urgenti per il suo
testimone.
Successivamente (il 12 marzo 1996, dopo un sopralluogo a Vicchio),
Vigna richiese l'ammissione del Lotti allo speciale programma di
protezione testimoni. Come ci fa notare lo stesso Omar Quatar, ciò
è confermato non solo dagli scritti di Giuttari, ma anche da alcuni
verbali di interrogatorio nei quali, a partire dal mese di aprile 1996,
il domicilio di Lotti riporta la dicitura "attualmente abitante in
luogo noto al Servizio Centrale di Protezione".
Anche se non è dato saperlo con certezza, voci riportano che
dall'inizio della sua collaborazione con la Procura fino alla sentenza
di condanna, il Lotti alloggiasse in locali a disposizione della
Questura di Arezzo, ove poteva godere di alcuni benefici (vitto,
alloggio, cure mediche, un piccolo stipendio) che rappresentavano
un notevole salto di qualità rispetto allo stato di abbandono in cui
aveva vissuto in precedenza.
Durante il Processo ai CdM, più volte gli avvocati del Vanni, in
special modo Filastò, avanzarono l'ipotesi che Lotti avesse potuto
auto-accusarsi dei delitti sia per ottenere i suddetti benefici da parte
dello stato, sia per sentirsi probabilmente per la prima volta nella
vita "importante" o "determinante" in qualcosa, al centro
dell'attenzione generale, ricercato dagli organi di informazione,
coccolato dalla Procura, ma anche temuto da coloro che accusava: le
sue dichiarazioni dunque dovevano essere intese come momento di
riscatto sociale.
In risposta a queste rimostranze, in un emblematico punto delle
motivazioni alla sentenza di secondo grado è riportato il seguente
passaggio: "...il sospetto che questi abbia pensato di risolvere i problemi
della sua vita scontando 30 anni di reclusione ma contento di ciò per i
vantaggi che la legge riserva ai collaboratori di giustizia, ebbene tale cosa
appare a questo giudice priva di senso perché del tutto indimostrata
innanzitutto e contraria al buon senso comune in secondo luogo..."

A dispetto di ciò che è stato scritto nella sentenza, buona parte


della mostrologia odierna crede fermamente nella possibilità che il
programma di protezione testimoni e i relativi benefici avessero
fortemente allettato il Lotti, il quale dalla metà degli anni '90 si era
ritrovato in serie difficoltà economiche.
Dopo il periodo d'oro degli anni '80 in cui aveva avuto lavoro,
macchine, amici, in cui aveva frequentato ristoranti, cinema porno,
prostitute, donne con cui aveva instaurato relazioni più o meno
stabili, Lotti si era ritrovato a metà anni '90 quasi completamente
solo, senza lavoro, senza soldi, senza casa, in precarie condizioni di
salute a causa di anni di alcolismo, costretto a condividere un posto
letto in una comunità religiosa, circondato da extracomunitari con
cui non riusciva neanche a comunicare e della cui presenza era stato
solito lamentarsi anche in sede processuale. In questo contesto,
confessare delitti mai commessi, trascinando con sé coloro che
erano già nell'occhio del ciclone (Pacciani e Vanni), compiacendo la
Procura, ricavandone i relativi benefici, un posto tutto suo dove
dormire, pasti caldi regolari, scegliendo persino qualche buon
ristorante durante le trasferte per i sopraluoghi, magari anche nella
speranza di non finire in prigione o di avere un forte sconto di
pena, poteva essere l'unico modo per fuggire a una realtà ormai per
lui disastrosa.
Torneremo nel prossimo capitolo su questo argomento, quando
parleremo del perché Lotti dovrebbe o non dovrebbe essere
considerato credibile.
Per adesso ci limitiamo riportare un "fuorionda" colto dalle
registrazioni, al termine dell'udienza del 18 Luglio 1997 del
Processo ai CdM. Nell'occasione venne distintamente ripreso un
colloquio più o meno privato fra il PM Canessa e l'avvocato Pepi,
difensore del Vanni, in cui il secondo rinfacciava (bonariamente) al
primo che il Lotti era tranquillamente libero e protetto dallo Stato,
mentre il Vanni era in carcere. Di seguito il breve dialogo:

Avv. Pepi: E il confesso sta sotto la protezione dello stato.


PM Canessa: Il confesso spero...
Avv. Pepi: Il confesso dovrebbe stare in galera secondo me.
PM Canessa: Spero che andrà in galera il prima possibile.
Avv. Pepi: Ma lo potevi già mettere a questo punto, poteva esserci di già.
PM Canessa: Ci saranno dei motivi che tu non sai.
Avv. Pepi: Ah certo.
PM Canessa: No no, stai tranquillo che al signor Lotti un ergastolino non
glielo leva nessuno.
La credibilità del Lotti

Inevitabilmente, siam giunti al punto cruciale della vicenda Lotti,


ciò di cui ancora oggi si dibatte in ogni salotto mostrologico che si
rispetti, senza che se ne possa venire a capo: la veridicità e
l'attendibilità delle sue dichiarazioni.
A distanza di vent'anni dalla sua morte e ancor di più dai processi
che lo hanno visto protagonista assoluto, vediamo se è possibile
analizzare nel dettaglio i punti salienti che portano le fazioni
mostrologiche contrapposte a ritenere Giancarlo Lotti un teste/reo-
confesso credibile o meno.

Giancarlo Lotti è credibile perché:


1. Nonostante gli errori e le contraddizioni in cui cade durante la
testimonianza, dà l'impressione di essere comunque sempre
presente, di non rifiutare lo scontro dialettico e pur nei limiti di un
bassissimo livello culturale, di possedere una buona dose furbizia.
2. Gli errori e le contraddizioni di cui sopra possono essere visti
come un modo usato dal Lotti per sminuire le sue colpe. I "non
ricordo" e le incertezze sono dettate da una capacità logico-
deduttiva e dialettica in certi contesti per nulla spiccate e sono da
considerarsi l'unico baluardo che lui ha apposto fra sé e le sue
responsabilità. In compenso, il Lotti fornisce indicazioni di chi
potrebbe essere stato presente agli omicidi. Le dinamiche da lui
descritte, pur con i limiti di una dialettica estremamente povera e
pur non risultando troppo congruenti, hanno talvolta una loro
efficacia, ma soprattutto è altamente improbabile che il Lotti possa
aver avuto la fantasia di inventarle di sana pianta o la memoria per
ricordarle, nel caso fosse stato sapientemente imbeccato.
3. Le testimonianze del Pucci e della Ghiribelli tagliano qualsiasi
testa al toro. Il primo indica il Lotti presente sul luogo del delitto
nel momento in cui i francesi venivano uccisi; la Ghiribelli indica la
vettura del Lotti presente a Scopeti la sera del duplice omicidio.
Arduo reputare sia una semplice coincidenza, così come pensare
che sia tutto un complotto per far incolpare i CdM.
4. Nell'intercettazione telefonica fra Ghiribelli e Nicoletti emerge
chiaramente che Lotti aveva frequentato anche la piazzola di
Vicchio, luogo dell'omicidio dell'anno prima, parecchio distante da
San Casciano.
Se infatti le dichiarazioni del Pucci sul fatto che lui e Lotti avessero
frequentato la Boschetta per spiare la Panda dello Stefanacci
potrebbero anche essere ritenute poco credibili vista l'inattendibilità
del soggetto, altro valore hanno le dichiarazioni della Nicoletti, la
quale confermó che lei e Lotti si erano appartati alla Boschetta per
consumare un rapporto sessuale nell'estate del 1984. La presenza
del Lotti a Vicchio dovrebbe far riflettere su come costui avesse
bazzicato in tempi piuttosto sospetti almeno due dei luoghi in cui il
Mostro commise i propri delitti, distanti oltretutto fra loro una
cinquantina di chilometri. Una coincidenza che appare
obiettivamente quantomeno sinistra.
5. Nell'intercettazione telefonica fra il Lotti stesso e la Nicoletti, la
Filippa chiede più volte a Giancarlo se veramente fosse stato a
Scopeti la sera del delitto e Lotti risponde e ribadisce più
volte: "Ormai l'ho detto!". Questa intercettazione può avere una
duplice chiave di lettura. Ancora una volta innocentisti e
colpevolisti si dividono. Secondo i primi Lotti intendeva "Ormai ho
detto così agli inquirenti e non posso più cambiare versione".
Secondo i colpevolisti, Lotti intendeva rispondere "Ormai l'ho detto
perché appunto è vero".
C'è da dire che dall'intercettazione non emergono indizi che fanno
propendere verso l'una o l'altra versione, risultando entrambe
possibili.
6. Le dichiarazioni fornite da alcuni testimoni esterni alla cerchia
dei Compagni di Merende, e dunque al di sopra di ogni sospetto,
sembrano posizionare un'automobile molto simile a quella del Lotti
in prossimità di due differenti luoghi degli omicidi e in tempi
coerenti con gli stessi. Nello specifico abbiamo:
▪ la testimonianza Chiarappa-De Faveri: i coniugi Vittorio
Chiarappa e Marcella De Faveri, ospiti di Gianfranco Rufo nella
villa posta proprio di fronte alla piazzola degli Scopeti,
dichiararono che il pomeriggio di domenica 8 settembre 1985
(giorno in cui si pensava potesse essere stato commesso il duplice
omicidio) un'automobile di colore rosso sbiadito, di forma
squadrata, con il retro tronco, era parcheggiata all'imbocco della
piazzola tanto da rendere poco agevole il loro ingresso nella villa.
Secondo il Chiarappa, appoggiato alla vettura c'era un uomo di
mezza età e grossa corporatura che guardava insistentemente in
direzione del viottolo che conduceva al luogo del delitto.
Più precisa era stata la moglie che aveva parlato di due uomini nei
pressi della vettura. La De Faveri afferma testualmente: "uno era un
uomo di mezza età, di corporatura tipo squadrata, di media altezza, senza
collo, con testa dal taglio rettangolare, che mi dava l'apparenza di essere
un contadino. Costui stava appoggiato al cofano motore della macchina
(cioè alla parte anteriore indirizzata verso San Casciano) guardando in
avanti, lungo la strada. Mi dava l'impressione d'avere i capelli tagliati
corti. Il secondo personaggio era appoggiato sul lato destro dell'auto e
guardava il bosco. Questi dava l'impressione di essere un po' più alto del
precedente e come figura sembrava meno grezzo dell'altro."
Inutile dire che la descrizione dell'auto ricorda la 128 rossa del
Lotti, mentre la descrizione dei due uomini ricorda le figure del
Lotti e del Pucci.
▪ la testimonianza Caini-Martelli: i coniugi Andrea Caini e Tiziana
Martelli dichiararono che verso la mezzanotte di domenica 29
luglio 1984 (dunque un paio di ore dopo l'omicidio di Vicchio),
mentre erano fermi con la loro automobile nei pressi di una fonte
lungo la strada sterrata che dalla provinciale Sagginalese conduce a
San Martino a Scopeto, dunque in un punto non distante dal luogo
dell'omicidio, videro sopraggiungere a grande velocità due
automobili praticamente incollate l'una all'altra che sollevavano un
gran polverone.
Il giorno successivo, appreso del delitto, i due coniugi si erano
recati alla Polizia ma le loro dichiarazioni non erano state
verbalizzate. Dieci anni dopo, il 21 luglio 1994, in pieno Processo
Pacciani, il Caini ritenne opportuno recarsi nuovamente in questura
ove rilasciò le seguenti dichiarazioni: "Le due auto che marciavano a
una velocità approssimativa di 60 km l'ora dimostravano due cose: la
prima, che non doveva trattarsi di persone residenti in quei posti perché
una macchina levava un polverone rispetto a quella seguente e, la seconda,
che in ogni caso davano l'impressione di essere insieme e di conoscere bene
la strada. La prima auto aveva i fari anteriori rettangolari, poteva essere
una due volumi, oppure anche una tre volumi, comunque con il cofano
della bauliera corto. La seconda auto poteva essere rossa, era attaccata alla
prima e procedeva con le sole luci di posizione accese. Entrambe erano
vetture di media cilindrata. Ambedue i conducenti avevano una sagoma
robusta e non erano giovani... Costoro andavano in direzione opposta alla
nostra; quindi da San Martino a Scopeto verso Dicomano."
Le dichiarazioni del Caini furono confermate da sua moglie Tiziana
Martelli e dai genitori di lui, anche loro presenti all'avvistamento.
Inutile dire che ancora una volta il modello di automobili descritte e
le età degli occupanti delle stesse richiamavano alla memoria
vetture e fisionomie del Pacciani e del Lotti. Inoltre il passaggio
presso la fonte lungo la strada sterrata che dalla provinciale
Sagginalese conduce a San Martino a Scopeto potrebbe in teoria
essere coerente con la via di fuga descritta dal Lotti dal luogo del
duplice omicidio Rontini-Stefanacci.
7. Il profilo psicologico redatto dai dottori Ugo Fornari, medico
specialista in psichiatria e Professore Ordinario di Psicopatologia
Forense presso l'Università di Torino, e Marco Lagazzi, medico
specialista in psicologia e Professore di Psicologia Giudiziaria
presso l'Università di Genova, non era affatto incompatibile con il
ruolo cui stava assurgendo il Lotti con le sue dichiarazioni.
Emergeva infatti il profilo di una persona lucida, vigile, cosciente,
perfettamente orientata nel tempo e nello spazio, opportunista, per
nulla empatica, basicamente scaltra, estremamente efficiente
nell'utilizzo della sua pur limitata intelligenza. Il profilo dunque di
una persona in linea teorica non in contrasto con quello di complice
o addirittura di autore di tali efferati delitti.
8. La testimonianza della signora Leda Fantappié, moglie di Silvano
Matteuzzi, titolare della trattoria "Al Ponte Rotto", presso cui il
Lotti spesso si recava, è indicativa di come quest'ultimo sapesse
qualcosa sui delitti del Mostro.
Riporta la suddetta signora: "Devo anche dire che vi è stato un altro
episodio che mi è parso strano e mi aveva lasciata perplessa, tuttavia in
seguito non ci avevo pensato proprio perché Giancarlo mi sembrava
veramente un giovanotto modesto e inoffensivo. L'episodio accadde nel
nostro locale, se mal non ricordo, il lunedì successivo al duplice omicidio di
Baccaiano e quindi, se non sbaglio, siamo nel 1982. Io ero al banco e vi
erano quattro o cinque avventori che adesso non posso ricordare, intenti a
parlare del delitto che era un po' l'argomento del giorno. Ricordo che uno
di loro chiese al Lotti che era lì presente che cosa ne pensasse. Il Lotti si
discostò, non volendo partecipare alla discussione e disse distintamente che
non sapeva nulla, che lo lasciassero stare, se no chiacchierava troppo, lo
disse più volte e in modo da far pensare che sapesse qualcosa, tant'è che mi
arrabbiai, alzai la voce e gli dissi che se aveva delle cose che andasse dai
Carabinieri però Lotti fece la spesa e se ne andò. Mi fece tanto arrabbiare,
per un momento pensai io di andare dai Carabinieri."

D'altro canto, Giancarlo Lotti NON è credibile perché:


1. L'entomologia forense sembra smentire le sue dichiarazioni.
L'attendibilità del Lotti viene, dunque, sempre più spesso messa in
discussione non solo dagli addetti ai lavori, ma anche dalla scienza.
La data in cui venne commesso il duplice omicidio degli Scopeti
rappresenta infatti un duro colpo alla sua credibilità. Come detto,
Lotti (e ovviamente anche il Pucci) ha sempre sostenuto che
l'omicidio fosse stato commesso l'8 settembre 1985. Secondo la sua
ricostruzione, aveva ricevuto l'incarico da Pacciani di farsi trovare
alla piazzola attorno alle 23.00 per fare da palo nel momento in cui
lo stesso Pacciani e Vanni avessero commesso l'omicidio. Lotti si
presentò portandosi dietro l'amico Pucci. Dapprima Pacciani si
arrabbiò per l'inaspettata presenza, infine decise comunque di
procedere con il delitto.
Come più volte detto, sembra essere scientificamente più probabile,
sulla base degli studi condotti sulla mosca carnaria, che la data
dell'omicidio sia da retrodatare di almeno un giorno, forse due,
andando dunque a inficiare pesantemente le dichiarazioni del Lotti.
2. Come visto nel precedente capitolo, l'automobile guidata dal
Lotti nel settembre del 1985 potrebbe non essere quella vista dalla
Ghiribelli, oltretutto in una data che - per quanto detto nel punto
precedente - non è quella dell'omicidio
La questione dell'automobile, assieme a quella della retrodatazione
del delitto degli Scopeti, è uno dei maggiori ostacoli alla credibilità
del Lotti.
3. Lotti commise numerosi errori durante le sue dichiarazioni al
processo. In particolare sbagliò:
▪ la dinamica dell'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili agli Scopeti,
in quanto dichiarò che il ragazzo francese era stato preso alle spalle
dal Pacciani mentre fuggiva e accoltellato con la mano sinistra (il
ragazzo in realtà fu accoltellato con la destra);
▪ sempre a proposito del duplice delitto degli Scopeti, il Lotti,
incalzato dalle domande dell'avvocato Filastò, dichiarò di non
ricordare come fosse vestito il ragazzo francese quando fuggì dalla
tenda; un'amnesia giudicata strana in quanto il ragazzo era
completamente nudo e il Lotti se ne sarebbe dovuto
ragionevolmente ricordare;
▪ la dinamica del delitto di Baccaiano, in quanto - come già
analizzato nel relativo capitolo - così come era stata descritta da
Lotti risultava completamente non conciliabile con le tempistiche
dichiarate dai testimoni e dai primi soccorritori;
▪ la dinamica iniziale del delitto di Giogoli, in quanto Lotti sbagliò il
lato da cui erano stati sparati i primi colpi di pistola, sostenendo
ripetutamente oltretutto che i giovani tedeschi fossero seduti
davanti;
▪ le dichiarazioni sulle urla emesse da Pia Rontini mentre veniva
tirata fuori dalla macchina e trascinata fino al luogo dell'escissione.
Secondo il parere dei medici legali, la Rontini non era nelle
condizioni di urlare, ma al massimo di emettere gemiti o flebili
lamenti;
▪ la stessa dinamica del delitto di Vicchio, per come è stata narrata
dal Lotti, risulta altamente improbabile: la sua automobile e quella
del Pacciani che arrivano fin dentro la piazzola, bloccando di fatto
la fuga della coppia, il Pacciani che scende dalla sua auto, si
avvicina a quella dello Stefanacci, controlla che sia proprio la
coppia giusta, quindi torna indietro, recupera la pistola, ritorna
verso la Panda e comincia a far fuoco. In tutto ciò, la coppia era
rimasta immobile al suo posto e Vanni aveva cominciato a infilare
lo spolverino;
▪ la stessa faccenda degli spolverini, che il Vanni avrebbe indossato
durante gli omicidi, è un punto su cui il Lotti cade più volte in
contraddizione durante i suoi interrogatori a processo.
4. Lotti diede spiegazioni decisamente forzate e poco credibili sul
perché fosse stato coinvolto negli omicidi. Motivò infatti il suo
coinvolgimento affermando:
▪ di essere stato coinvolto nel delitto di Vicchio perché lui conosceva
la piazzola e la strada per arrivarci (essendoci già stato in
precedenza sia con la Nicoletti, sia con il Pucci). Ora tralasciando il
fatto che Vicchio non era - a suo dire - il primo delitto cui
partecipava, quindi non era sicuramente questo il motivo per cui
inizialmente era stato coinvolto nei delitti, dalle dichiarazioni dello
stesso Lotti risulta che fu lui a seguire con la sua automobile quella
del Paccini, durante tutto il tragitto per andare da San Casciano alla
Boschetta. E anche al ritorno, fu il Pacciani a fare strada, in quanto
conosceva i posti e Lotti si limitò a stargli dietro.
Per quanto riguarda il coinvolgimento nei delitti precedenti,
dichiarò:
▪ di essere stato visto da Pacciani in automobile mentre era
appartato con tale Fabrizio Butini. Come scrive nella stessa lettera
di confessione, Pacciani lo avrebbe infatti minacciato di rivelare a
tutti la sua omosessualità se non lo avesse seguito nell'omicidio di
Giogoli. Il Butini, ascoltato come testimone al Processo, non solo ha
negato di essersi mai intrattenuto in atteggiamenti intimi col Lotti,
ma addirittura ha affermato di aver conosciuto il Lotti nel 1990, ben
sette anni dopo il duplice omicidio di Giogoli. A sostegno, Butini
afferma che nel periodo in cui si frequentavano Lotti aveva una 131
rossa. Lotti acquistò tale automobile nel 1988;
▪ di aver ricevuto avances di tipo sessuale dallo stesso Pacciani che
aveva provato a sbottonargli i pantaloni; intimorito, il Lotti avrebbe
lasciato fare. Dunque Pacciani stesso avrebbe nuovamente
minacciato Lotti di rendere pubblico il fatto che si fosse lasciato
palpeggiare da lui se non lo avesse aiutato negli omicidi come palo.
Sinceramente quest'ultima motivazione esula da qualsiasi
ragionamento logico.
5. Lotti cadde in palese contraddizione quando parlò dell'utilizzo
dei cosiddetti feticci.
Nell'interrogatorio dell'11 marzo 1996 aveva dichiarato
testualmente: "Mario mi disse che le parti della donna che lui aveva
asportato li aveva portati a casa Pietro per nasconderli nel garage
mettendoli in un involto. Mario mi disse che Pacciani voleva farli
mangiare alle figliole ma non so se effettivamente lo abbia fatto".
Nella lettera di confessione che scrisse nel novembre 1996
introdusse invece il discorso del dottore che riceveva i feticci in
cambio di denaro e nell'interrogatorio successivo citò l'episodio in
cui tale dottore, senza scendere dalla propria automobile, ebbe un
breve colloquio col Vanni nella piazza di San Casciano. È un po'
difficile pensare che sei mesi prima, a marzo, Lotti non ricordasse
dell'esistenza di tale medico. D'altra parte le motivazioni della
Procura riguardo le informazioni date poco alla volta dal Lotti per
compromettersi il meno possibile in questo caso non reggono,
perché che i feticci fossero finiti nelle mani di un medico o nella
cucina del Pacciani, per la posizione del Lotti non avrebbe fatto
alcuna differenza.
Anche durante il Processo ai CdM, il Lotti diede la sensazione di
non sapere bene cosa dire sul misterioso medico che aveva tirato in
ballo, trincerandosi dietro numerosi "non ricordo" o rispondendo
un po' a caso alle domande delle varie parti, tanto da irritare lo
stesso Canessa quando gli fu chiesto di descrivere l'automobile con
cui tale medico era arrivato in piazza a San Casciano.
6. Lotti cambiò in totale tre avvocati durante la vicenda giudiziaria
che lo vide coinvolto. Inizialmente era stato difeso dall'avvocato
d'ufficio Neri Pinucci, in seguito dall'avvocato Alessandro Falciani.
Entrambi rimisero il mandato in profondo contrasto con l'operato
della Procura nei confronti del loro assistito, denunciando le
modalità di interrogatorio cui lo stesso era sottoposto e
probabilmente increduli di fronte al fatto che dovevano accettarne
supinamente la confessione, anche quando questa sembrava
stridere con la realtà dei fatti. A tal proposito, in tempi recenti,
l'accovato Neri Pinucci ha rilasciato alcune dichiarazioni sulla
vicenda, sostenendo che il suo rapporto con Lotti era stato
praticamente inesistente e che questi "sostanzialmente aveva un
rapporto fiduciario molto più con le persone che gli stavano intorno, come
operatori di giustizia, come polizia giudiziara, come personale della
questura, che non con il suo difensore."
A difendere il Lotti arrivò infine il giovane avvocato Stefano
Bertini, il quale accettò lo strano e ambiguo compito di difendere
un imputato, sostenendo a spada tratta la sua partecipazione agli
omicidi del MdF, anche quando questa - in taluni passaggi
processuali - appariva del tutto improbabile.
7. Lo stato di profonda miseria in cui viveva Lotti a metà anni '90,
come detto, potrebbe essere stato un motivo che lo avrebbe spinto
alla menzogna. Secondo la difesa, confessando dei delitti mai
commessi, il Lotti aveva trovato una specie di riscatto sociale: si
sentiva per la prima volta non solo un personaggio importante e al
centro dell'attenzione, ma anche servito e riverito. Aveva un
alloggio tutto per lui, pranzi e cene gratis, era accompagnato in
macchina alle udienze, protetto e coccolato. Inoltre, sempre secondo
gli innocentisti, a Lotti potrebbe essere stato promesso di avere
degli sconti di pena nel caso avesse contribuito a incastrare Pacciani
e Vanni.
8. Le testimonianze fornite dai coniugi Chiarappa-De Faveri e
Caini-Martelli non costituiscono nella maniera più assoluta una
prova, in quanto non è possibile identificare univocamente la figura
e l'automobile di Giancarlo Lotti con le fisionomie e le vetture
descritte dalle due coppie.
Inoltre l'orario in cui sarebbe avvenuto l'avvistamento delle
presunte automobili del Lotti e del Pacciani da parte dei coniugni
Caini e Martelli sembrerebbe piuttosto incompatibile con quello del
duplice omicidio di Vicchio: il delitto sarebbe infatti avvenuto
attorno alle 21.40, l'avvistamento sarebbe avvenuto a pochi
chilometri di distanza attorno a mezzanotte. Cosa dunque
avrebbero fatto in un lasso di tempo di oltre due ore gli assassini
prima di abbandonare la piazzola del delitto? Perché avrebbero
dovuto trattenersi così a lungo in zona, anziché rientrare
rapidamente a Sann Casciano?
Inoltre, giova ricordare a questo proposito che esiste un'altra
testimonianza, quella della signora Maria Grazia Frigo, che non
venne ritenuta attendibile neanche dalla Corte che condannò Lotti e
Vanni nella sentenza di primo grado. Vedasi a tal proposito
l'Appendice B, dedicata al Processo di primo grado ai CdM.
La Frigo sosteneva che la sera dell'omicidio di Vicchio, attorno alla
mezzanotte, scendendo in compagnia del marito e della figlia lungo
una strada sterrata che dalla fattoria "La Rena" confluiva sulla
Sagginalese vicinissima al luogo del delitto, circa un chilometro
prima dell'incrocio la loro vettura rischiò di entrare in collisione con
un'automobile bianca che saliva a folle velocità dalla Sagginalese.
L'impatto fu evitato per un soffio e circa 200 o 300 metri dopo,
incrociarono un'altra automobile, coloro rosso sbiadito, che saliva
lungo la strada sterrata; quest'ultima procedeva però a un'andatura
ridotta. Molti anni dopo la Frigo avrebbe riconosciuto nel Pacciani e
nel Lotti i guidatori delle due automobili.
Tale testimonianza fu giudicata inattendibile perché nel corso degli
anni la Frigo avrebbe cambiato più volte versione sul colore delle
automobili incrociate, sostenendo che durante la prima
testimonianza, resa telefonicamente, aveva commesso lei stessa un
refuso, in seguito erano state le pressioni degli agenti che la
interrogavano a indurla a dichiarare un colore diverso da quello che
lei effettivamente ricordava. Inoltre, tale testimonianza diede l'idea,
durante la deposizione a Processo, di essere eccessivamente
artificiosa, probabilmente rielaborata molte volte nella propria
mente, ricca d'enfasi e di teatralità, talvolta anche stucchevole.
Insomma, non sembrava, almeno di primo acchito e senza nulla
togliere alla buona fede della testimone, una deposizione che si
potrebbe definire genuina.
9. Come vedremo nel capitolo Alfa, gamma e delta, le dichiarazioni
di Fernando Pucci, amico del Lotti e anche lui testimone oculare del
duplice delitto degli Scopeti, appaiono nel complesso ancora meno
credibili rispetto a quelle del Lotti. La testimonianza resa dal Pucci
in sede processuale è tremendamente confusa e definita da molti
"innocentisti" un insulto all'intelligenza delle persone. Come fece
notare l'avvocato Mazzeo in fase di requisitoria al Processo di
primo grado contro i CdM, durante la sua deposizione il Pucci
pronunciò oltre 130 volte la locuzione "non ricordo".
10. A proposito dell'inverosimiglianza delle dichiarazioni del Pucci,
sembra molto probabile che Lotti e Pucci ebbero modo di
confrontarsi privatamente prima di essere interrogati in Procura,
perché all'inizio entrambi dichiararono separatamente che la
presunta sera dell'omicidio degli Scopeti si erano fermati nella
piazzola per un bisogno fisologico. Ora questa affermazione
sarebbe credibile se fosse vera, ma sappiamo che in realtà i due in
seguito avrebbero smentito questa versione per fornire quella -
secondo loro - reale: si erano fermati per assistere all'omicidio, come
da accordi pregressi fra Lotti e Pacciani. Dunque il fatto che
entrambi avessero fornito inizialmente la stessa falsa dichiarazione,
indica con ottima probabilità un precedente accordo. Questo
minerebbe fortemente la sbandierata genuinità delle dichiarazioni
di entrambi.
11. Appaiono decisamente poco credibili:
▪ l'appuntamento che Pacciani e Vanni avrebbero dato al Lotti in
occasione del delitto degli Scopeti, vale a dire attorno alle 23 della
domenica sera direttamente in loco. Come se la sera prima quando
verosimilmente tale appuntamento venne preso, i tre uomini
fossero stati certi di trovare a distanza di un giorno, in un'ora non
particolarmente tarda, tanto più d'estate e con i due francesi in
vacanza, non solo ancora la tenda, ma la coppia all'interno della
stessa.
▪ il fatto che i due complici avessero già cominciato l'assalto alla
tenda quando ancora il Lotti non era arrivato nella piazzola; come
se il suo ruolo di palo non fosse affatto importante.
12. Piuttosto improbabile appare la scelta del Lotti di portarsi dietro
il Pucci, scomodo testimone di un terribile duplice omicidio e
dunque per estensione delle gesta del Mostro di Firenze. E ancora
più improbabile appare la reazione che avrebbe avuto il Pacciani, il
quale - secondo il Lotti - si sarebbe un po' arrabbiato per poi
comunque riprendere l'assalto omicida.
13. Altrettanto improbabile appare anche la motivazione fornita dal
Lotti per il delitto di Vicchio.

Lotti aveva, infatti, dichiarato che una sera di maggio attorno alle 21
aveva spiato con il Vanni la coppia Stefanacci-Rontini alla
Boschetta. Quindi, i due compagni di merende avevano seguito
l'automobile della coppia fino al bar "La Nuova Spiaggia" di
Vicchio, dove la ragazza era scesa, verosimilmente per recarsi al
lavoro. Il Vanni si era affrettato a seguire Pia all'interno del bar e ne
era uscito molto contrariato dopo una decina di minuti. Durante il
viaggio di ritorno a San Casciano, il Vanni, ancora piuttosto
arrabbiato, aveva riferito al Lotti che la ragazza aveva rifiutato le
sue "avances" e che per questo motivo sarebbe stata uccisa.
Ora, tralsciando il fatto che sembra piuttosto improbabile che
l'allora quasi sessantenne Vanni ci provasse con una ragazza
appena diciottenne quale la Rontini e che si risentisse a tal punto
per il rifiuto da decidere di farne la successiva vittima del Mostro,
in ogni caso è documentato che Pia aveva vissuto in Danimarca dai
primi di gennaio fino al 18 maggio 1984 e che aveva iniziato a
lavorare al bar "La Nuova Spiaggia" solo dal 1 luglio dello stesso
anno. Per buona parte di maggio, dunque, la Rontini non era in
Italia e per l'altra parte non lavorava al bar "La Nuva Spiaggia".

Complessivamente, bisogna dire che le motivazioni a favore della


non credibilità del Lotti superano per quantità ma soprattutto per
qualità quelle a favore della sua credibilità. Del resto, il fatto che
Lotti abbia mentito su molte delle dichiarazioni rese in fase di
indagini e di Processo, oggi non è in discussione fra la stragrande
maggioranza dei Mostrologi. In special modo il problema
rappresentato dalla datazione del delitto degli Scopeti (e in misura
minore quello sulle dinamiche da lui descritte nei delitti di
Baccaiano e Giogoli) è difficilmente superabile, anche dal più
convinto Merendaro.
Quello che oggi infatti alimenta le discussioni fra Merendari e resto
del mondo, non è più tanto valutare se il Lotti abbia mentito o
meno, ma capire fin dove la mendacità del Lotti si sia spinta: se
abbia riguardato solo alcuni aspetti della vicenda oppure sia stata
decisamente più radicata, fino ad arrivare alla completa e totale
invenzione delle dinamiche da lui descritte e del coinvolgimento
nei delitti non solo suo, ma anche di Pacciani e soprattutto del
Vanni.

Nota Bene: È doveroso quanto ovvio a questo proposito precisare


che, anche sposando pienamente la teoria della completa
inattendibilità del Pucci e del Lotti, tale inattendibilità assolverebbe
di fatto il Vanni (su cui - come abbiamo visto - la condanna è dipesa
unicamente da tali dichiarazioni), ma non proverebbe
automaticamente l'estraneità di Pietro Pacciani alle vicende, la cui
condanna in primo grado esulava completamente dalle figure di
Lotti, Pucci e affini.
Ricordiamo infine, per onestà intellettuale, che Pietro Pacciani è
morto da uomo libero e non colpevole, in attesa del secondo grado
di giudizio dopo che la Cassazione aveva annullato l'assoluzione
decisa dalla sentenza del dottor Ferri.

Teoria Segnini, Lotti serial killer unico


Come già anticipato nel capitolo Castelletti di Signa, esiste una
neanche troppo esigua frangia di Mostrologi facente capo al
blogger Antonio Segnini, che vede in Giancarlo Lotti il serial killer
unico delle coppiette.
Secondo costoro, che nell'universo mostrologico abbiamo
definito Lottiani, Giancarlo Lotti sarebbe il Mostro di Firenze e
avrebbe agito in solitaria a partire dal delitto del 1974.
Questa teoria poggia le sue basi sia sull'arringa del Procuratore
Generale Daniele Propato al processo d'appello ai CdM, durante la
quale il magistrato chiese l'assoluzione del Vanni e la condanna del
Lotti per calunnia, sia dal profilo psicologico che i già citati Lagazzi
e Fornari fecero del Lotti in occasione del processo ai CdM. Un
profilo che ben si adattava a un ipotetico serial killer solitario.
Secondo tale teoria, Lotti conosceva Barbara Locci, vittima
femminile del delitto del 1968, in quanto quest'ultima in precedenza
aveva abitato a La Romola, frazione di San Casciano, piuttosto
vicina all'abitazione del Lotti stesso (al Bargino).
Nei giorni precedenti al duplice omicidio di Signa, Lotti era colui
che in motorino aveva seguito e molestato la Locci. Proprio durante
uno di questi pedinamenti aveva assistito all'omicidio operato dal
clan dei sardi, si era dunque impossessato della pistola buttata via
dal Mele o da qualcun altro dei sardi, quindi a distanza di sei anni
era diventato il serial killer delle coppiette.
Ci sono da sottolineare due aspetti riguardo questa teoria: il primo
è che l'idea del guardone che assiste al delitto e poi si impossessa
della pistola era molto gettonata negli anni '80 e spiegava il famoso
passaggio della pistola, tant'è che il più celebre film realizzato sul
caso, "Il mostro di Firenze" di Cesare Ferrario, partiva proprio da
questa idea.
Il secondo punto da sottolineare è che questa teoria spiega come sia
avvenuto il passaggio della pistola, ma non quello dei proiettili.
Abbiamo già visto che è un falso storico affermare che i proiettili
del delitto del 1968 provenissero dalle stesse scatole dei proiettili
utilizzati nei delitti successivi, tuttavia è indubbio che tutti questi
proiettili appartenessero alla stessa partita risalente all'incirca al
1966. Diventa difficile così spiegare come il guardone che assiste
all'omicidio Locci/Lo Bianco si impossessi della pistola buttata dai
sardi e sei anni dopo commetta omicidi simili usando proiettili che
provengono dallo stesso lotto di quelli usati nel primo delitto.
A onor del vero, va detto che Segnini spiega tale incongruenza in
un modo forse un po' forzato e statisticamente non molto probabile,
ma logico. Secondo la sua teoria, quando i sardi (chiunque essi
fossero) decisero di uccidere la Locci, acquistarono una scatola di
proiettili ramati la mattina del delitto. Commisero il duplice
omicidio, buttarono via la pistola e fuggirono. Il guardone di turno
(Lotti o chi per lui) si impossessò della pistola e il giorno successivo
andò nella stessa armeria a comprare due scatole di proiettili (una
ramata, l'altra a piombo nudo) di cui lui era completamente
sprovvisto. In questo modo, è altamente probabile che le tre scatole
(quella acquistata il giorno prima e le due acquistate il giorno
successivo) provenissero tutte dalla stessa partita.
È ovvio come questa spiegazione preveda che si incastrino una serie
di eventi che messi tutti insieme rendono il quadro non molto
probabile o comunque decisamente meno probabile di altre teorie
(ad esempio quella del serial killer unico – interno o esterno ai sardi
- per tutti i delitti). Ci sarebbe inoltre da chiedersi perché il Lotti che
era partito in motorino da San Casciano per andare a Signa la sera
del delitto, il giorno dopo sarebbe dovuto tornare a Signa per
comprare i proiettili, quando avrebbe potuto benissimo comprarli a
San Casciano.

Lasciando comunque da parte la questione proiettili, la teoria che


vuole Lotti serial killer unico, prevede l'evolversi dei delitti e
dell'instabilità psichica dell'assassino con il trascorrere degli anni.
La serie si sarebbe interrotta nel 1985 con l'esaurirsi dei proiettili
acquistati nel 1968.
Una volta vuotate le due scatole e impossibilitato a comprarne altre,
il Lotti avrebbe smesso di uccidere e ovviamente avrebbe taciuto a
lungo le sue responsabilità. Almeno finché, a metà anni '90, venne
incastrato dalle dichiarazioni prima del Pucci e in seguito della
Ghiribelli e della Nicoletti. A quel punto, non potendo più uscirne
pulito, Lotti ritenne opportuno fare qualche ammissione e incolpare
coloro che erano già indagati, vale a dire Pacciani e Vanni, in modo
da ridurre al minimo le proprie responsabilità, limitandole al ruolo
di palo o di complice minore.
È innegabile come la teoria Segnini (a differenze di chi crede nella
completa mendacità del Lotti) risolva il problema di alcune
testimonianze, non solo ad esempio quelle della Ghiribelli o della
Nicoletti, ma anche dei coniugi Chiarappa-De Faveri. Tuttavia è
doveroso dire che tale teoria ne solleva altri. Troverebbero cioè
parziale spiegazione le dichiarazioni riguardo alla effettivamente
sospetta presenza del Lotti alla Boschetta o a Scopeti, ma per contro
risultano decisamente inconciliabili i seguenti punti:

1. Il Pucci dichiara di aver assistito al duplice omicidio la domenica


sera. È palese che anche per i Lottiani il Pucci menta
spudoratamente su ciò che ha visto (e non dovrebbe aver visto
nulla, perché quando lui fu portato da Lotti nella piazzola il delitto
era già avvenuto almeno il giorno prima). Per i Lottiani, l'unica
spiegazione alle menzogne del Pucci è che questi si fosse messo
segretamente in accordo con il Lotti su cosa dire prima di essere
convocato in Procura. Dando per buono che il Lotti avesse deciso di
far ricadere la colpa su Pacciani e Vanni e avesse istruito l'amico in
merito e dando anche per scontato che il Pucci non avesse capito le
finalità di queste menzogne (non avesse cioè minimamente capito
che Lotti era il MdF), ci si dovrebbe chiedere perché il Pucci
avrebbe dovuto comunque decidere di accettare di mentire così
spudoratamente su un argomento talmente importante, correndo il
rischio di mettersi in seri guai con la Procura (finire in galera o
peggio perdere la pensione di invadilità), per andare incontro alle
richieste di un ex amico che non frequentava più da molti anni e
verso cui aveva maturato pure un certo astio.

2. Sappiamo che Lotti aveva già a disposizione la 124 celeste nel


settembre del 1985. Chiarappa-De Faveri e la Ghiribelli invece
dichiarano di aver visto rispettivamente il pomeriggio e la sera di
domenica 8 settembre un'automobile ferma agli Scopeti affine alla
Fiat 128 rossa del Lotti. Dunque, perché il Lotti, serial killer unico,
estremamente scaltro e spietato, non ha smontato tali
testimonianze, affermando che lui non guidava più la 128 all'epoca?
Il Lotti non solo non smentisce tali testimonianze, ma anzi omette di
parlare della nuova automobile che avrebbe potuto essere
un'àncora di salvezza per lui.
In altre parole, anche se il Lotti fosse stato ancora in possesso
dell'automobile precedente e avesse deciso di usarla sia per
commettere l'omicidio sia per tornare nei giorni successivi a
curiosare nella piazzola degli Scopeti, avrebbe comunque avuto
gioco facile nello smentire a dieci anni di distanza le testimonianze
di chi aveva visto la 128 rossa, documentando (come in seguito
avrebbero fatto gli avvocati del Vanni) l'avvenuto passaggio
dell'assicurazione e dichiarando semplicemente che lui la 128 rossa
all'epoca del delitto non la usava più. Invece Lotti tace sulla nuova
vettura, accetta supinamente che la sua (ex) automobile fosse stata
vista a Scopeti e sembra che il suo unico fine sia limitare i danni.

3. Tralasciando la questione automobile, se Giancarlo Lotti è il serial


killer unico, accorto, calcolatore, scaltro e spietato, come si colloca la
presenza sua e del Pucci la domenica sulla scena del delitto? Perché
un serial killer talmente furbo da prendere in giro gli inquirenti per
anni, avrebbe dovuto sostare in compagnia del Pucci (come da
testimonianza Chiarappa-DeFaveri) il pomeriggio della domenica 8
settembre, alla luce del sole e con il classico via vai del fine
settimana, davanti alla piazzola degli Scopeti dove lui il giorno
prima o due giorni prima aveva appena ucciso una coppia? Perché
non contento, sarebbe dovuto ritornare sul luogo del delitto anche
la domenica sera, evidentemente ancora una volta a controllare i
cadaveri da lui uccisi in precedenza, portandosi dietro l'amico?
Sembra quasi che un serial killer per anni inafferrabile si fosse
trasformato nell'ultimo omicidio in un minus habens.

4. Infine, sarebbe opportuno chiedersi cosa ci facesse il Lotti a


Rabatta, a 50/60 km da casa, nel settembre del 1974. All'epoca era
sprovvisto non solo di automobile, ma anche di patente, dunque
non sappiamo come avrebbe potuto raggiungere il luogo del
delitto. Forse su un ciclomotore o persino in corriera? E una volta
giunto in loco e commesso l'omicidio, come sarebbe tornato a San
Casciano in piena notte, probabilmente sporco di sangue?
Sicuramente non con qualche mezzo pubblico, ma in quelle
condizioni anche fermarsi a fare il pieno di benzina (dove poi,
dubitiamo che negli anni '70 esistessero i distributori automatici),
sarebbe stato decisamente problematico.
Certo, nulla toglie - come ipotizza il Segnini - che a quell'epoca il
Lotti (sulla cui vita fino alla metà degli anni '70 si sa ben poco)
avesse potuto lavorare e vivere proprio nel Mugello, ma è
un'ipotesi che al momento non ha alcuna base documentale. Anzi,
per quanto ci è dato sapere sulla base delle testimonianze che sono
state raccolte, a parte brevi spostamenti come i viaggi in Germania
dall'amico Heinz, Lotti non si sarebbe mai spostato da San
Casciano.
Ora, i suddetti quattro punti non vogliono svilire aprioristicamente
la tesi del Lotti serial killer unico, ma vogliono semplicemente
mettere in evidenza come tale tesi presenti problematiche finanche
maggiori rispetto alle idee esposte sia dai Merendari, sia dalla
rispettiva controparte.
Facendo comunque un sunto, abbiamo una situazione di questo
tipo:

1. Cosa pensano i Merendari


Non vi è uniformità di vedute all'interno di questo vasto gruppo
mostrologico.
Orientativamente i merendari ritengono che le testimonianze di
Lotti, Pucci e Ghiribelli sono, pur con tutti i limiti dei relativi
personaggi, attendibili. Per quanto riguarda la questione relativa
alla data dell'omicidio di Scopeti, spesso si limitano ad affermare
che non è influente nell'economia della vicenda, che basterebbe
traslare di 24 ore le dichiarazioni rese da tutti i testimoni per
risultare comunque pienamente credibili.
Hanno gioco più facile sulla questione automobile, in quanto
ritengono che il Lotti nel settembre del 1985 avesse la disponibilità
di entrambe le vetture e che ovviamente quella vista a Scopeti fosse
proprio la 128 rossa di sua proprietà. Non fosse così, non avrebbe
avuto senso per il Lotti conservare il tagliandino sul parabrezza
della 128 rossa.
Infine, in antitesi ai Lottiani, ritengono che il Lotti fosse
fondamentalmente un sempliciotto, una persona per nulla scaltra,
in evidente difficoltà quando doveva cimentarsi in attività
dialettiche o di ragionamento, in definitiva un mero esecutore di
ordini e dunque una pedina nella perverse mani del Pacciani. Non
era quindi intellettivamente in grado di ribattere alle veritiere
testimonianze che provenivano da più parti e lo inchiodavano alle
proprie responsabilità. Vistosi perso, a quel punto si sarebbe
limitato a contenere i danni, confermando tutto e cercando di
addebitarsi un ruolo defilato nei delitti.

2. Cosa pensano i Non-Merendari


Per contro, chi invece non crede alla veridicità delle testimonianze
di Pucci, Lotti e Ghiribelli, ha gioco più facile su tutta la linea.
Secondo costoro, l'automobile vista dalla Ghiribelli la domenica
sera, ammesso fosse mai esistita, non era del Lotti. Oltretutto, la
completa inattendibilità della Ghiribelli - sempre secondo i non-
merendari - sarebbe ampiamente provata dalle dichiarazioni
successive della donna, divenute col tempo nulla meno che
farneticanti (vedasi capitolo Alfa, Gamma e Delta).
Ma quandanche l'automobile vista a Scopeti fosse stata del Lotti, il
delitto era già stato consumato almeno 24 ore prima. Dunque il
Lotti e il Pucci, da guardoni quali erano, erano lì semplicemente per
spiare cosa stesse avvenendo o cosa fosse successo nella tenda.
Per quanto riguarda il Pucci, l'uomo ha mentito per una qualsiasi
ragione, forse per convenienza, forse perché imbeccato, forse perché
non sapeva minimamente quello che diceva, forse perché gli era
stato promesso qualcosa da qualcuno se avesse contribuito a
incastrare Pacciani e Vanni.
Il Lotti invece può aver mentito per svariati motivi, perché era un
mitomane, per folle ripicca, per mera convenienza, perché pensava
di avere in cambio dei privilegi, perché credeva che da
collaboratore di giustizia non sarebbe finito neanche in carcere,
perché finalmente poteva dare un senso (anche economico) alla
propria esistenza. Dunque non aveva alcun interesse a smentire le
dichiarazioni del Pucci e della Ghiribelli, ma anzi aveva deciso di
ergersi a protagonista e avvallarle.
Oltretutto, di mitomani che - per un motivo o per l'altro - si
autoaccusano di delitti mai commessi, da Spilotros in poi, è piena la
letteratura criminale.

3. Cosa pensano i Lottiani


L'astuto serial killer solitario, Giancarlo Lotti, aveva ucciso i francesi
il venerdì 6 o il sabato 7 settembre. All'epoca possedeva entrambe le
automobili (aveva conservato il vecchio tagliandino proprio per
questo scopo) e usava indifferentemente l'una o l'altra vettura.
La domenica 8 era tornato sul luogo del delitto con la 128 rossa per
controllare che tutto fosse ancora al proprio posto. Si era portato
dietro il Pucci per un qualche incomprensibile motivo. I coniugi
Chiarappa-De Faveri e la Ghiribelli avevano effettivamente visto
l'automobile del Lotti rispettivamente quel pomeriggio e quella
sera.
Dieci anni dopo, resosi conto che gli inquirenti stavano lentamente
risalendo alla verità, Lotti avrebbe contattato l'ex amico Pucci per
istruirlo su cosa dire nei successivi interrogatori e riversare dunque
tutta la colpa sul già indagato Pacciani e sul maggiore attenzionato,
Vanni.

Risulta semplice verificare come a oggi i Non Merendari siano


quantitativamente il gruppo più numeroso, oltre ad avere un
maggior numero di frecce al proprio arco.

Giancarlo Lotti in Mostrologia


Comunque la si pensi e a qualsiasi corrente mostrologica si faccia
riferimento, bisogna comunque fare i conti con gli avvistamenti
della presunta automobile del Lotti sia nei pressi della Boschetta,
anche se in orario non troppo compatibile con quello del delitto, sia
agli Scopeti il pomeriggio e la sera di domenica 8 settembre 1985.
Le relative testimonianze non sono sicuramente dirimenti (a
Vicchio per la questione orario, a Scopeti per la questione giorno e
automobile), ma vanno comunque contemplate perché analizzate
complessivamente potrebbero risultare piuttosto sospette.
Proviamo dunque a formulare alcune ipotesi, valutandole sempre
su base probabilistica:

Ipotesi Numero 1: L'automobile vista a Vicchio nel 1984 e a Scopeti


nel 1985 non era quella del Lotti. Questa ipotesi potrebbe portarci a
pensare sia che l'automobile fosse la stessa in entrambi gli
avvistamenti e dunque il proprietario avesse con discreta
probabilità a che fare con i delitti, sia che le due automobili fossero
simili ma distinte e dunque in tal caso i due avvistamenti sarebbero
frutto di una pura e semplice coincidenza.
Su questa prima ipotesi, risulta inutile soffermarci ulteriormente.

Ipotesi Numero 2: L'automobile vista a Vicchio nel 1984 e a Scopeti


in due occasioni nel 1985 era quella del Lotti. Questa ipotesi ci porta
sicuramente ad affermare che nel settembre 1985 Lotti guidava
ancora la 128 rossa. Inoltre, l'aver visto in due delitti differenti la
sua vettura nei pressi delle due scene del crimine (oltretutto
piuttosto distanti fra loro), ci indurrebbe a pensare che
effettivamente Lotti potesse aver avuto a che fare con i delitti, o
come complice del Pacciani e del Vanni (ipotesi merendara), o come
serial killer solitario (ipotesi lottiana). Difficilmente, da un punto di
vista probabilistico, se davvero le vetture viste a Vicchio e Scopeti
fossero state del Lotti, potremmo pensare a una pura e semplice
coincidenza.
Prendendo per valida questa ipotesi, è molto probabile che la
pista merendara possa essere quella corretta. Questo perché la
testimonianza Caini-Martelli parla di una coppia di automobili che
procedevano praticamente incollate l'una all'altra. Se una delle due
automobili era del Lotti, il quale fuggiva dal luogo del delitto,
molto probabilmente anche l'altra era coinvolta nell'eccidio e
dunque risulta molto probabile fosse l'automobile del Pacciani.
Per quanto riguarda l'anno successivo a Scopeti, volendo essere
coerenti con i recenti studi entomologici che danno con estrema
probabilità la retrodatazione del duplice omicidio, gli avvistamenti
dell'auto del Lotti la domenica pomeriggio da parte dei coniugi
Chiarappa-De Faveri e la domenica sera da parte della Ghiribelli ci
indurrebbero a pensare che Lotti (autore o co-autore del delitto)
fosse andato lì per controllare la situazione nella piazzola e
un'eventuale prematura scoperta dei cadaveri. Anche in questo
caso, prediligeremmo la pista "merendara", perché tale
comportamento (tanto più se pensiamo che si era portato dietro il
Pucci) sembra più quello di uno sprovveduto che di un serial killer
feroce e astuto, quale quello dipinto dalla corrente "lottiana".

Ipotesi numero 3: L'automobile vista a Vicchio dai coniugi Caini e


Martelli era quella del Lotti. L'automobile vista a Scopeti dai
coniugi Chiarappa-De Faveri e dalla Ghiribelli non era quella del
Lotti. Prendendo per buona questa ipotesi, se su Scopeti nulla
possiamo dire, trovare il Lotti nei pressi della Boschetta proprio il
giorno del duplice omicidio Rontini-Stefanacci, oltretutto in
compagnia di un'altra automobile il cui proprietario poteva essere
ricondotto al Pacciani, indurrebbe a pensare che
l'ipotesi "merendara" possa essere quella corretta.

Ipotesi numero 4: Al contrario della precedente, l'automobile vista


a Vicchio dai coniugi Caini e Martelli non era quella del Lotti.
L'automobile vista a Scopeti dai coniugi Chiarappa-De Faveri e
dalla Ghiribelli era invece quella del Lotti. Per quanto riguarda
Vicchio, questa ipotesi non ci permette alcun passo in avanti: la
coppia di automobili segnalata poteva o non poteva avere a che fare
con l'omicidio in egual misura. Considerando l'orario
dell'avvistamento, circa due ore dopo il delitto, più probabilmente
non aveva a che fare con il delitto.
Al contrario per quanto riguarda Scopeti, questa ipotesi ci porta
innanzitutto ad affermare che nel settembre 1985 Lotti guidava
ancora la 128 rossa. In secondo luogo che aveva un qualche motivo
per essere attratto dalla tenda dei francesi; un motivo che poteva
essere:
▪ il semplice voyeurismo verso una coppia in tenda in un luogo
frequentato da amanti in cerca di intimità e da guardoni;
ricordiamo infatti che il Lotti (per ammissione sua e del Pucci) era
un guardone; ricordiamo inoltre che frequentava la piazzola degli
Scopeti. Quindi potrebbe essere possibile che assieme all'amico
Pucci fosse attratto da quella coppia in tenda, nella speranza di
poter assistere a qualche effusione amorosa, tanto da tornare a
spiarli a più riprese;
▪ la consapevolezza che lì dentro c'erano due cadaveri e quindi la
morbosa curiosità di sapere come sarebbe evoluta la situazione.
Tale consapevolezza poteva essere maturata sia perché Lotti era
stato l'artefice o uno degli artefici del delitto, sia perché potrebbe
aver casualmente scoperto in precedenza i cadaveri (o averne
sentito parlare) ed essere tornato a più riprese per mostrarli al
Pucci.

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3 commenti:
1.
Anonimo18 aprile 2022 alle ore 12:47

A proposito di Giancarlo Lotti.....ecco, appunto, qui tutto ultra


chiarissimo:
https://www.youtube.com/watch?v=xlMaY-GRwg4
Rispondi

2.
Anonimo16 novembre 2022 alle ore 20:12

Oltre alle motivazioni del Lotti per mentire qui proposte,


quella che mi ero data era che lui stesso ritenesse che Pacciani
fosse il mostro e volesse aiutare a incastrarlo, non perché
Pacciani fosse realmente il mostro, ma perché Lotti poteva
essersi lasciato condizionare dal processo contro di lui. Penso
al particolare dei feticci che Lotti pensava avesse dato da
mangiare alle figlie.
Quanto a essere stato convinto da altri a testimoniare per
incastrarlo, oltre agli inquirenti, potrebbero, in via del tutto
ipotetica, averlo fatto le figlie del Pacciani, desiderose di farlo
rimettere in prigione. Cosa con cui avrei concordato, essendo
per me lo stupro delle figlie degno dell'ergastolo.
Rispondi

3.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 22:46

Allucinante solo pensarlo! pensare che uno come lotti vanni e


pacciani possano aver compiuto simili omicidi , ma per caritaì'!
le risate che si sara' fatto il vero omicida.
Rispondi
Faggi e Corsi

Oltre a Vanni e Lotti furono imputati nel processo ai CdM anche il


calenzanese Giovanni Faggi e il noto avvocato di San Casciano Val
di Pesa, Alberto Corsi. Entrambi verranno assolti in primo grado,
addirittura per il Faggi sarà la stessa Accusa a chiederne
l'assoluzione.

Giovanni Faggi
Nato a Calenzano il 17 agosto 1920, negli anni '50 fu assessore per il
Partito Comunista della sua città; in seguito divenne rappresentante
di ceramiche e piastrelle, lavoro che svolse fino alla pensione.
Quando nel 1996 si ritrovò imputato nel Processo ai CdM aveva già
76 anni. A inizio anni '90 era stato sfiorato dalle indagini, allorché
gli inquirenti scoprirono la sua amicizia col Pacciani. Durante una
perquisizione nella casa di Mercatale di Pacciani, vennero infatti
rinvenute due cartoline dello stesso Faggi indirizzate all'amico
Pietro. La prima aveva timbro postale 19/03/1979 e recava
scritto: "Caro Pietro sono stato fuori da Toscana a lavorare. Ti ricordo
sempre con tanto affetto. Fammi sapere se posso venire a trovarti per quel
tuo amico che aveva bisogno di (pavimenti e rivestimenti). Sentimi, dimmi
quando devo venire, il giorno e l’ora pressappoco e dove. Nuovamente ti
saluto tanto dal tuo amico Faggi Giovanni".
La seconda cartolina con timbro postale 16/03/1979 in cui si
leggeva: "Dimmi se ti è andata bene la tuta che ti portai. Ti saluto tanto,
Faggi Giovanni".
Dato che il teorema dell'Accusa prevedeva che Pacciani avesse
colpito in posti dove o nelle vicinanze viveva Miranda Bugli o il
Pacciani stesso aveva degli appoggi e dato che proprio a poche
centinaia di metri dall'abitazione del Faggi, era stato commesso il
duplice delitto dell'ottobre del 1981, gli inquirenti concentrarono le
loro attenzioni sull'ormai anziano rappresentante. Venne perquisita
la sua casa e vennero trovati falli di gomma o in legno, oltre a
diverse riviste pornografiche che il Faggi stesso spontaneamente
aveva inteso consegnare alle autorità competenti. Durante la
perquisizione, su un vecchio calendario del 1977 relativo al giorno 3
ottobre, venne trovato scritto e sottolineato il nome di Pietro
Pacciani.
Faggi fu invitato a testimoniare proprio durante il Processo
Pacciani. Interrogato da Canessa, respinse qualsiasi insinuazione
sull'amicizia con l'imputato, sminuendola fortemente. Dichiarò che
aveva conosciuto Pietro casualmente durante un pranzo a Scarperia
dopo una giornata di pesca, probabilmente proprio il giorno 3
ottobre 1977 segnato sul calendario (alcune fonti riportano che in
quell'occasione Pacciani era accompagnato da Francesco Simonetti,
maresciallo dei carabinieri in pensione e buon amico del Pacciani
stesso). Durante il pranzo, Faggi aveva saputo che un amico del
Pacciani doveva rifare il pavimento di casa e data la sua professione
di rappresentante, aveva fiutato l'opportunità di un piccolo affare.
Era dunque andato a trovare Pacciani per cercare di concretizzare la
vendita, ma in quell'occasione aveva notato lo stato di profondo
disagio in cui viveva il contadino di Mercatale, decidendo così di
regalargli una tuta di rappresentanza, andare via e interrompere
qualsiasi rapporto.
Durante quella testimonianza emersero alcune contraddizioni nelle
dichiarazioni del Faggi, dovute probabilmente a un comprensibile
tentativo di sminuire il suo rapporto con l'imputato Pacciani. In
ogni caso, la figura del Faggi rimase in secondo piano finché Lotti e
Pucci non lo accusarono di aver assistito agli omicidi che avvennero
a Calenzano (ottobre 1981) e a Scopeti (settembre 1985). Non solo, il
Faggi fu accusato dal Lotti di aver dato aiuto logistico a Pacciani in
occasione del delitto delle Bartoline.
Il 15 maggio 1996 fu emesso un avviso di garanzia nei confronti del
Faggi per vilipendio di cadavere, porto illegale di arma e concorso
in omicidio per i delitti del Mostro di Firenze. In occasione di una
nuova perquisizione alla sua abitazione vennero sequestrati soldi,
libretti bancari ed agende telefoniche. Su un'agenda risalente al
1981, al giorno 20 aprile, venne trovata la scritta "bella gita a
Travalle" (Travalle di Calenzano era appunto il luogo del delitto del 1981,
NdA).
Il primo luglio 1996 il Faggi venne arrestato e condotto nel carcere
di Firenze. L'imputato decise di non presenziare ad alcuna udienza
del Processo. Tramite i suoi avvocati, si difese sostenendo di non
sapere nulla delle accuse di Lotti e Pucci, di non aver mai fatto
merende a San Casciano e di non essere una persona che faceva
nella maniera più assoluta vita notturna. La tesi difensiva sostenne
anche che in prossimità della data del delitto di Calenzano, il Faggi
avesse compiuto una gita a Celano in Abruzzo in compagnia di un
tale Antonio Felli, intervenuto come testimone della Difesa a
processo.
In aula furono inoltre chiamati a deporre diversi abitanti di
Calenzano che testimoniarono a favore dell'imputato e fornirono il
ritratto di una persona molto riservata, piuttosto metodica, non
dedita a particolare vita sociale, non bevitore, lontana da giri
particolari. Emersero anche altri particolari su cui calcò la mano la
Pubblica Accusa, ad esempio il fatto che il Faggi fosse chiacchierato
in paese come omosessuale e che soleva frequentare forse troppo
affettuosamente uomini e giovani ragazzi di cui appuntava
impressioni e commenti sulle sue numerose agendine.
Tralasciando però l'eventuale omosessualità dell'imputato, a parte
le dichiarazioni spesso contradditorie del Lotti e del Pucci, durante
l'intero dibattimento non emerse alcuna prova del suo
coinvolgimento ai delitti, neanche come spettatore.
Al contrario, lo stesso Pucci effettuò dichiarazioni non vere che
portarono acqua al mulino della Difesa. Pucci affermò infatti che
conosceva di vista il Faggi in quanto gli era stato indicato una sera a
San Casciano dal Lotti. Lotti aveva invece dichiarato più volte di
non aver mai visto o incontrato il Faggi, ma di averlo soltanto
sentito nominare dal Pacciani e dal Vanni.
Il colpo di grazia al teorema dell'Accusa venne dato dall'avvocato
difensore del Faggi, Bagattini, che rivelò come la nota "bella gita a
Travalle" trovata sull'agenda dell'imputato che tanta suggestione
aveva procurato, era riferita alla giornata di Pasquetta di quell'anno
(appunto il 20 aprile), solitamente dedita alle gite fuori porta.
A fine processo, la stessa Accusa chiese con molta onestà il
proscioglimento dell'imputato, per poi cambiare idea nei giorni
successivi (sulla base del ritrovamento di nuove agende) e
chiederne la condanna a 21 anni di reclusione.
Il 24 Marzo 1998, tuttavia, la Corte d'Assise assolse Giovanni Faggi
per non aver commesso il fatto. La Procura fece ricorso in Appello
(sostenendo che se Lotti era credibile quando accusava Vanni,
doveva essere credibile anche quando accusava il Faggi), ma
l'assoluzione venne ulteriormente confermata dai giudici del
Processo di secondo grado.
Alberto Corsi
Avvocato di San Casciano, come già detto, Alberto Corsi fu
accusato di favoreggiamento per aver taciuto una lettera dal
contenuto ignoto ma probabilmente minaccioso che Mario Vanni
ricevette da Pacciani quando questi era detenuto per la violenza
sulle figlie e indagato per i delitti del Mostro di Firenze. Secondo
l'Accusa quella lettera poteva rappresentare la prova mancante del
coinvolgimento di Pacciani e Vanni nei delitti e per questo motivo il
Corsi aveva suggerito al Vanni di farla sparire.
Il Corsi non negò mai che Vanni era andato da lui per chiedere
consiglio su cosa fare della lettera (del resto in merito c'erano
diverse testimonianze, fra cui quella del Nesi e del Lotti), ma negò
decisamente di conoscerne il contenuto. Durante un'udienza del
Processo ai CdM in cui Corsi decise di rispondere personalmente
alle domande delle varie parti, dichiarò fra le altre cose di aver
semplicemente consigliato al Vanni di stare tranquillo e rivolgersi ai
carabinieri.
Inoltre, diversi sancascianesi testimoniarono a favore del Corsi
durante il Processo, smentendo la tesi dell'Accusa secondo cui fra
l'avvocato Corsi e il Vanni ci fosse un buon rapporto d'amicizia,
probabilmente causa del favoreggiamento dell'avvocato nei
confronti dell'imputato. Da quanto emerse in varie udienze, i due
avevano un normale rapporto di conoscenza come concittadini,
rapporto che il Corsi coltivava con molte persone della comunità
per via del suo lavoro.
Il 24 marzo 1998, Alberto Corsi fu dunque assolto per non aver
commesso il fatto. La Pubblica Accusa intese non fare ricorso in
Appello per tale assoluzione.
Alfa, gamma e delta

Come abbiamo visto, oltre a Giancarlo Lotti, un ruolo fondamentale


durante le indagini preliminari e il processo, nonché ai fini della
condanna degli imputati, lo ebbero altri tre testimoni, anch'essi
presentati inizialmente in forma anonima durante il processo
d'Appello a Pietro Pacciani.
Vediamoli nel dettaglio.

Il Testimone Alfa, Fernando Pucci:


Nato a Montefiridolfi l'8 novembre del 1932, Fernando Pucci aveva
un'invalidità civile riconosciuta nel 1983 per oligofrenia. Amico di
vecchia data del Lotti con cui era solito frequentare prostitute e
cinema porno a Firenze, fu colui che per primo ammise di essere
stato presente al delitto degli Scopeti nel 1985 assieme al Lotti,
dunque fu colui che trascinò pienamente Lotti stesso nella vicenda.
A differenza di Lotti, però, il Pucci non risultò mai indagato per i
delitti del Mostro. Il suo ruolo fu semplicemente quello di teste
chiave nel processo a carico dei Compagni di Merende. In virtù del
suo ruolo di testimone fu periziato dai consulenti Marco
Lagazzi e Ugo Fornari cui venne affidato il compito di redarne un
profilo psicologico e accertare in quale grado fosse affetto da
oligofrenia e dunque se fosse idoneo a rendere testimonianza.
Il responso fu che, sebbene dotato di bassissimo livello culturale, di
povertà di linguaggio e di pensiero, non c'era motivo – almeno a
livello psicoattitudinale - per cui il Pucci non dovesse essere
considerato in grado di rendere testimonianza.
La sua testimonianza durante il Processo ai Compagni di Merende,
a ogni modo, è quella che più presta il fianco agli attacchi degli
innocentisti. Il Pucci si celò dietro una sequela interminabile di "non
ricordo" e di lunghi silenzi, inoltre incalzato dalla difesa cadde più
volte in contraddizione se non proprio in errore. In special modo:
▪ si contraddisse più volte sulla presenza sua e di Lotti alla piazzola
de La Boschetta di Vicchio (delitto 1984), dicendo nel giro di pochi
minuti tutto e il contrario di tutto: avevano spiato la coppia uccisa
nella piazzola prima del delitto; non erano mai stati nella piazzola
prima del delitto; erano stati alla piazzola prima del delitto ma non
avevano spiato la coppia;
▪ confuse più volte cosa avevano fatto lui e Lotti il giorno del delitto
degli Scopeti, dichiarando prima che quel pomeriggio erano stati
dalla Gabriella Ghiribelli, poi che erano stati al cinema, infine
tornando a dire che sì, erano andati dalla Ghiribelli;
▪ dichiarò che entrambe le vittime francesi erano state uccise nella
tenda, quando invece il ragazzo era stato ucciso all'esterno;
▪ dichiarò che la sera del delitto degli Scopeti la piazzola era
illuminata dalla luna, "quella buona per i funghi". Risulta certo che la
notte in cui Lotti e Pucci fanno risalire il delitto (8 settembre 1985) la
luna sorse dopo mezzanotte; secondo le loro dichiarazioni il delitto
sarebbe invece avvenuto fra le 23 e le 23:30;
▪ dichiarò che il Vanni era entrato nella tenda dal retro (lì dove
venne trovato lo squarcio presumibilmente prodotto dal coltello
dell'omicida), quando in realtà l'accesso dal retro era impossibile
poiché il taglio era lungo circa 40 centimetri. Questo fu un punto
molto dibattuto e che quasi creò scalpore al processo perché alla
difesa parve che l'intervento del giudice Lombardi che prese la
parola durante "l'interrogatorio" servì a riportare il Pucci verso la
"retta via" ed evitare dunque potesse fornire dichiarazioni
completamente errate rispetto alla reale dinamica degli eventi.
▪ dichiarò di non conoscere il Faggi personalmente, ma che lo stesso
gli era stato indicato dal Lotti una sera a San Casciano. Il Lotti
aveva invece dichiarato più volte di non aver mai visto o incontrato
il Faggi, ma di averlo soltanto sentito nominare dal Pacciani e dal
Vanni. Questa, in special modo, appare non una contraddizione o
un cattivo ricordo, ma una vera menzogna di cui però non si
capisce il fine, forse compiacere la Pubblica Accusa e permettere la
condanna di un altro imputato. Ció dovrebbe far ben riflettere sia
sulla coscenza civica dell'individuo, sia piú in generale sul valore
delle sue accuse.

Durante il Processo emerse che subito dopo il delitto degli Scopeti,


l'amicizia fra Pucci e Lotti si era incrinata fortemente, tanto che i
due avevano persino smesso di frequentarsi. Secondo l'Accusa,
causa di questa rottura era stato appunto lo shock del Pucci
nell'assistere al duplice omicidio e nello scoprire che il suo amico
Lotti fosse invischiato nei delitti.
In realtà, da un'attenta analisi delle dichiarazioni di Valdemaro
Pucci, fratello di Fernando, emerge che la rottura fra i due avvenne
diversi anni dopo, probabilmente nel 1990 o 1991, e che ad averla
provocata furono altri fattori, molto più banali: forse una questione
di soldi (un prestito di pochi spiccioli non restituito) o un mancato
appuntamento per cui il Pucci si offese con l'amico fino a smettere
di frequentarlo. Se si vuole approfondire l'argomento sulla rottura
fra Lotti e Pucci, si può fare riferimento a questo interessante
articolo, Il teste alfa (4), del blogger e ricercatore Omar Quatar.
Dopo il Processo che – come visto – si concluse con la condanna di
Vanni e Lotti e in cui dunque fu determinante la sua testimonianza,
il Pucci si ritirò a vita privata nella sua San Casciano.
È stato l'ultimo dei compagni di merende a morire, il 25 febbraio
2017, all'età di 85 anni.

La Testimone Gamma, Gabriella Ghiribelli:


Della vita della testimone gamma, al secolo Gabriella Ghiribelli,
prima del 1977 si sa ben poco. Nacque a Firenze nel giugno del
1951, si diplomò in ragioneria e si sposò piuttosto giovane.
All'età di 26 anni, nel 1977, divorziò dal marito e si trasferì a Prato.
Al bar Rolando di piazza Duomo (meglio noto come il bar dei sardi)
conobbe tale Sebastiano Indovino che divenne per un breve
periodo suo compagno. Sebastiano le presentò il fratello, il ben più
noto Salvatore Indovino, con cui la Ghiribelli iniziò un lungo
rapporto d'amicizia che durò praticamente fino alla morte di
quest'ultimo nell'estate del 1986.
Secondo altre fonti, invece, la Ghiribelli e Salvatore Indovino si
sarebbero conosciuti tempo dopo, precisamente nel dicembre del
1981 quando la donna venne ricoverata presso l'ospedale di Prato
per abuso di alcool e l'uomo, da poco uscito di galera, fu ricoverato
presso lo stesso nosocomio per una frattura al braccio.
Comunque sia andata, nel 1978 Gabriella si trasferì a Firenze e
conobbe Norberto Galli, colui che la portò (o la riportò) sulla
strada, inducendola a praticare la prostituzione. Abbiamo intesto
dire "la riportò" perché da alcuni verbali di polizia è risultato che la
donna si prostituisse saltuariamente già dagli inizi degli anni '70.
Il Galli divenne compagno e protettore della Ghiribelli; la donna
continuò comunque ad intrattenere rapporti con i fratelli Indovino,
soprattutto con Salvatore.
Nella prima metà degli anni '80 la Ghiribelli si trasferì a San
Casciano, in via Borgo Sarchiani 80; qui conobbe il Vanni, suo
vicino di casa. Secondo le testimonianze rese, il Vanni le chiese più
volte prestazioni particolari ma lei, infastidita dalla sua volgarità,
non acconsentì mai ad averlo come cliente.
L'anno preciso del trasferimento della Ghiribelli a San Casciano è
fortemente dibattuto. In un verbale, la donna dichiarò che era
avvenuto nel 1982, in un altro nella seconda metà 1984. Secondo il
Galli, tale trasferimento risaliva invece all'inizio del 1985.
L'avvocato Gabriele Zanobini, durante il Processo Calamandrei,
affermò ripetutamente che tale trasferimento era avvenuto, carte
alla mano, nell'estate del 1984.
A ogni modo, indipendentemente da quando fosse avvenuto il
trasferimento a Borgo Sarchiani, è ipotizzabile che la Ghiribelli
avesse frequentato la casa di Salvatore Indovino già in precedenza,
sicuramente da prima del marzo 1984, data in cui la convivente di
Salvatore, Filippa Nicoletti si era trasferita ad Arezzo.
A volte si sente dire in giro che a casa dell'Indovino la Ghiribelli
conobbe il Lotti (amico e amante della Filippa) e il Pucci, a sua volta
amico del Lotti. Tuttavia, questa appare un'inesattezza perché da
quanto dichiarato dagli stessi protagonisti, era stato il Pucci a
conoscere per primo la Ghiribelli frequentandola come prostituta a
Firenze e poi a coinvolgere nell'amicizia anche il Lotti.
Nel 1983 Ghiribelli e Galli furono denunciati per ricettazione,
contraffazione e alterazioni di titoli di credito.
La sera di domenica 8 settembre 1985, ipotetica data del delitto
degli Scopeti, tornando da Firenze verso San Casciano, in
compagnia del Galli e forse dell'Indovino, la Ghiribelli scorse sia la
tenda dei francesi nella piazzola, sia un'automobile rossa ferma
all'imbocco della piazzola stessa. Dieci anni dopo riconoscerà
quell'automobile come quella del Lotti.
Di quella che fu la vita della Ghiribelli dalla metà degli anni '80 fino
alla metà degli anni '90, sabbiamo ben poco, se non che nel 1988,
dopo che si interruppe la relazione con il Galli, la donna denunciò il
suo ex compagno per sfruttamento della prostituzione.
Come visto nel capitolo denominato I Compagni di Merende, con
le sue dichiarazioni del 27 Dicembre 1995 relative all'automobile
rossa con portiera più chiara vista a Scopeti, la Ghiribelli diede il via
a quello che poi diventerà il Processo ai Compagni di Merende.
Abbiamo anche visto come queste dichiarazioni fossero
probabilmente fallaci fin dall'inizio in quanto la Ghiribelli accostò la
vettura vista a Scopeti nel settembre 1985 non con quella che il Lotti
possedeva all'epoca del delitto, ma con quella che il Lotti possedeva
all'epoca di tali dichiarazioni, circa dieci anni dopo il delitto (vale a
dire, una 131 rossa). Eppure da tali dichiarazioni fallaci, gli
inquirenti arrivano a ritenere che l'automobile vista a Scopeti la
presunta sera del delitto fosse comunque del Lotti, ovviamente non
la 131 rossa (che sarebbe stata acquistata dal Lotti solo nel
novembre 1988), ma la più credibile 128 rossa (posseduta dal Lotti
all'incirca nell'estate del 1985 e su cui ancora non pendevano tutti i
problemi relativi all'assicurazione visti nei capitoli precedenti).
Nel mese di febbraio del 1996, la Ghiribelli venne riascoltata e oltre
a confermare quanto detto nell'interrogatorio precedente, cominciò
ad allargare il ventaglio delle sue accuse, parlando delle strane
pratiche che avvenivano a casa di Salvatore Indovino e creando di
fatto l'humus perché la Procura di Firenze iniziasse a vedere dietro i
delitti del Mostro un variegato gruppo di personaggi dediti a messe
nere e riti esoterici e facenti riferimento alla casa del mago Indovino
e della sua compagna, Filippa Nicoletti.
In pratica furono le dichiarazioni soprattutto della Ghiribelli, ancor
prima di quelle del Lotti, a dare il via alle indagini sulla cosiddetta
pista esoterica e sul cosiddetto secondo livello.
Di seguito le testuali dichiarazioni della Ghiribelli in
proposito: "Ogni domenica mattina, nell'appartamento dei due c'erano i
resti di messe nere, vedevo cose strane, c'erano inequivocabili tracce di
cosa era successo il sabato sera e la notte. Nella stanza appena si entrava,
c'erano ceri spenti, una stella a cinque punte disegnata in terra con il
carbone, una indicibile sporcizia e confusione dappertutto, preservativi,
bottiglie di liquori vari vuote, nonché un cartellone appoggiato sul tavolo
contenente tutte le lettere dell'alfabeto e numeri con all'estremità di questo
cartellone, che era di forma ovale, due cerchi con scritte in uno "SI" e
nell'altro "NO". Nel mezzo di questo cartellone c'era un piattino da caffè
sporco di nero. Sulle lenzuola del letto grande c'erano tracce di sangue.
Erano macchie larghe quanto un foglio di carta da lettera".
Ascoltata al Processo contro i CdM, la donna confermò tutto quanto
dichiarato negli interrogatori precedenti ma, incalzata dalla difesa,
ammise di aver fatto in passato ampio uso di alcool per superare la
vergogna che provava nell'esercitare il mestiere della prostituzione,
tanto da essere stata ricoverata più volte per disintossicarsi dalla
sua dipendenza. Lo stesso Norberto Galli durante il processo diede
una testimonianza tesa a sminuire i ricordi della Ghiribelli,
tacciandola come un'alcolista largamente inattendibile, nonché
avida lettrice di romanzetti d'appendice che andavano ad
alimentare la sua fervida fantasia.
A questo proposito, oggi buona parte della mostrologia,
sicuramente non giuttariana e non merendara, tende a non dare
granché credito alle dichiarazioni della Ghiribelli o almeno a una
parte di tali dichiarazioni, sia perché talvolta risultavano piuttosto
improbabili, sia perché altre volte apparivano a dir poco
farneticanti (vedasi ad esempio nel capitolo Il secondo livello i suoi
riferimenti agli esperimenti di mummificazione condotti da un tale
medico svizzero).
Per contro, la Ghiribelli continuò a essere ascoltata a intervalli
regolari dalla Procura, ormai decisa a continuare le indagini per
arrivare ai presunti mandanti dei delitti attribuiti al Mostro. La
donna stava infatti progressivamente coinvolgendo nel caso oltre
agli abituali frequentatori di via Faltignano (gente dalla bassissima
estrazione sociale), anche i cosiddetti notabili, medici (il medico
svizzero, il medico di Perugia, il medico delle malattie tropicali), il
famacista di San Casciano, avvocati e professionisti vari. A cavallo
del nuovo millennio, divenne così la testimone principale
dell'Accusa per quello che pareva destinato a diventare il grande
Processo contro il secondo livello.
A tal propsoito, in un'intervista del 2001, rilasciata alla conduttrice
della trasmissione televisiva "Un giorno in pretura", la
dottoressa Roberta Petrelluzzi, dichiarò: "...a San Casciano, del
gruppo di merende lo sapevano e lo sa anche qualche altro... anche in
farmacia dovresti andare, però li devi prendere di brutto, cattiva devi
andare eh!..."
Nel 2003 coinvolse nelle indagini uno stilista italoamericano che
aveva vissuto per un breve periodo a villa La Sfacciata, dichiarando
agli inquirenti: "Ho visto questo individuo (Mario Robert Parker, NdA)
dare soldi al Lotti. Queste somme erano costituite da svariate banconote da
cento, credo che fossero qualche milione; credo che usava questi soldi per
portare la nipote del Vanni al mare, o per andare con la Nicoletti Filippa a
mangiare e a farci l'amore..."
Sull'oggettiva attendibilità di tali dichiarazioni, avremo modo di
soffermarci nel capitolo Il secondo livello. Per ora ci limitiamo a far
notare che il Parker - come avremo modo di vedere - aveva
abbandonato villa La Sfacciata agli inizi del 1984, lasciando ben
presto la zona; mentre il Lotti aveva frequentato la nipote del Vanni
oltre dieci anni dopo, nell'estate del 1995.
La Ghiribelli morì l'anno seguente, il 5 dicembre del 2004, all'età di
53 anni a causa di una cirrosi epatica, privando la Procura che si
apprestava a celebrare il processo sul cosiddetto secondo livello del
testimone più importante.

Il Testimone Delta, Norberto Galli:


Del testimone delta, Norberto Galli, si sa che negli anni '80 lavorava
come cameriere e lavapiatti ai ristoranti di Firenze "Mamma Gina" e
"Donnini". La data in cui conobbe la Ghiribelli è piuttosto incerta
(nel '78 secondo Gabriella, nell'82 secondo lui) e ne divenne
compagno e protettore dopo che la indusse a prostituirsi. Frequentò
per un breve periodo la casa di Salvatore Indovino: nel 1985 era
solito accompagnare la Ghiribelli a San Casciano dopo che la stessa
aveva terminato il suo lavoro a Firenze. Durante uno di questi
viaggi, la sera dell'8 settembre 1985, avvistarono una macchina di
media cilindrata ferma all'imbocco della piazzola di Scopeti.
Il Galli non è mai stato in grado di affermare con certezza di che
tipo di macchina si trattasse e durante il Processo ai CdM la sua
testimonianza fu tesa a sminuire le dichiarazioni della Ghiribelli che
a suo dire aveva trascorso la maggior parte di quegli anni
annebbiata dall'uso eccessivo di alcool. Le dichiarazioni del Galli
hanno comunque contribuito a tracciare un quadro più o meno
attendibile dei personaggi che bazzicavano la casa di Salvatore
Indovino in via Faltignano, casa che nell'idea che stava maturando
in seno alla Procura, costituiva il centro nevralgico dei delitti del
Mostro di Firenze.
Via Faltignano

Dalle testimonianze raccolte dalla Procura di Firenze, in buona


parte addebitabili a Gabriella Ghiribelli, il punto di incontro fra i
personaggi coinvolti nella vicenda del Mostro di Firenze sembrava
essere la casa del mago Salvatore Indovino, sita in via Faltignano
5A, a circa due chilometri di distanza dalla piazzola degli Scopeti,
luogo dell'ultimo delitto del Mostro.
Lo stesso Indovino diveniva figura centrale delle indagini e -
secondo la Procura fiorentina - personaggio chiave nei delitti del
Mostro.
Prestando infatti fede alle dichiarazioni della Ghiribelli, emergeva
che nella abitazione del sedicente mago si svolgevano, in special
modo nel fine settimana, riti orgiastici dal forte sapore esoterico.
Ma non solo, la Procura era risalita ad altre testimonianze
estremamente suggestive, come quella riportata da Michele
Giuttari relativa a una tale signora Silvia Del Secco, pittrice
fiorentina che nella prima metà degli anni '80 stava cercando casa
dalle parti di San Casciano.
All'epoca la donna si era fermata davanti a un'abitazione in via
Faltignano con la scritta "Vendesi" e si era messa a conversare con
due uomini che sostavano all'ingresso della casa. Aveva appreso
che uno dei suoi interlocutori era Salvatore Indovino, mago di San
Casciano, particolarmente "celebre" per la preparazione di filtri
d'amore. Fu lo stesso mago a raccontarle durante quel breve
colloquio che per unire una coppia in eterno era necessario disporre
di un pezzo di vestito dell'uomo, di una sua foto, di secrezioni
vaginali e di peli pubici della donna. L'uomo e la donna avrebbero
inoltre dovuto accoppiarsi in un luogo aperto, in automobile,
comunicando al mago il giorno, il luogo e il tipo di vettura usata.
Sul momento la giovane pittrice era andata via piuttosto perplessa.
In seguito, durante il Processo Pacciani, precisamente il 9 luglio
1994 (dunque all'incirca una decina d'anni dopo quell'incontro)
aveva ritenuto opportuno recarsi in questura e riferire quella strana
conversazione. Inizialmente, la Procura non diede troppo peso a
quelle dichiarazioni, anche perché all'epoca Pacciani veniva
considerato il serial killer solitario delle coppiette. In seguito, con
l'entrata in scena del Lotti e della Ghiribelli, con la nascita della
teoria dei complici, degli eventuali mandanti e della setta esoterica
su cui premeva fortemente Giuttari, la casa di via Faltignano, i suoi
frequentatori e in special modo la misteriosa figura di Salvatore
Indovino assunsero tutt'altra connotazione e in questo senso anche
le dichiarazioni della su citata Silvia furono viste sotto una nuova
luce.
Comunque la si pensi in merito, risulta a questo punto essenziale
elencare i frequentatori abituali della casa di via Faltignano.

Il mago Salvatore Indovino:

Manovale di origini catanesi, classe 1922. Dopo aver scontato 19


anni di carcere per omicidio, negli anni '70 Salvatore Indovino si
trasferì ad Alessandria dove, lavorando per un'azienda che si
occupava di produzione e distribuzione di bevande, conobbe la sua
futura compagna Filippa Nicoletti, di trent'anni più giovane e
prossima a separarsi dal marito. Nel 1977 i due si trasferirono in
Sicilia. L'anno successivo si spostarono prima a Prato (dove,
secondo alcune narrazioni, conobbero Gabriella Ghiribelli), poi a
San Casciano Val di Pesa, al civico 5A di via Faltignano.
Salvatore spinse la Nicoletti a prostituirsi nei dintorni di Santa
Maria Novella a Firenze e per questo venne arrestato e rimase in
carcere alle Murate di Firenze dal 26 luglio al 4 dicembre del 1981.
Come già visto nel relativo capitolo, condivise per circa tre
settimane la detenzione con Francesco Vinci, all'epoca non ancora
accusato di essere il Mostro di Firenze, ma già ovviamente
coinvolto nelle indagini sul delitto del 1968.
Ció che comunque ci preme maggiormente sottolineare di questa
detenzione, è che Indovino era in carcere in occasione del delitto
delle Bartoline.
Durante la sua reclusione, probabilmente nel tentativo di escogitare
un modo per fare qualche soldo, Indovino si convinse di possedere
doti profetiche e, uscito dal carcere, cominciò a esercitare la
professione di mago, dedito in special modo alla preparazione di
filtri d'amore. Divenne ben presto noto nell'ambiente come il Mago
di San Casciano.
Secondo una certa vulgata mostrologica, subito dopo la
scarcerazione, conobbe la Ghiribelli, in quanto entrambi si
ritrovarono ricoverati contemporaneamente presso l'ospedale di
Prato: lui per una frattura al braccio, lei per abuso di alcool.
A questo punto è opportuno ricordare che nel 1968 l'Indovino
viveva ancora in Sicilia; nel 1974 era ad Alessandria; nel giugno
1981 era a San Casciano, ma ancora non aveva "scoperto" le sue doti
medianiche e non esercitava la professione di mago; nell'ottobre del
1981 era in carcere. Dunque almeno per i primi quattro delitti
storicamente attribuiti al MdF un coinvolgimento dell'Indovino
sembrerebbe escluso. Solo a partire dal delitto del 1982, la casa di
Indovino sarebbe potuta diventare il centro nevralgico dei delitti (a
matrice fortemente esoterica) del Mostro di Firenze, come sosteneva
la Procura. Per quanto riguarda gli omicidi precedenti, ammesso ci
fosse stata una motivazione esoterica e ci fossero stati dei mandanti
e degli esecutori materiali, questi dovevano con ragionevole
certezza esulare dalla figura di Indovino e dalla di lui dimora.
Secondo le dichiarazioni della Ghiribelli, infatti, fu fra il 1984 e il
1985 che l'abitazione di via Faltignano divenne teatro di sedute
spiritiche e messe nere in cui scorrevano fiumi di alcool, solite poi
trasformarsi in orge fra i partecipanti, comprendenti anche ragazze
minorenni. A partecipare a tali festini erano, oltre ai nomi che
vedremo nel prosieguo di questo capitolo, anche Pacciani, Vanni e
alcuni fra i cosiddetti notabili, cioè importanti professionisti, medici
o avvocati, appartenenti al cosiddetto secondo livello.
Vedremo meglio in seguito l'attendibilità di tali dichiarazioni.
Nell'estate del 1985, qualche giorno prima del delitto degli Scopeti,
Salvatore Indovino, già malato terminale di cancro, denunciò il
furto con effrazione presso la sua abitazione di un coltello da cucina
e una lente d'ingrandimento.
Secondo alcune dichiarazioni della Ghiribelli e del Galli, l'Indovino
sarebbe stato in automobile con loro la sera di domenica 8
settembre 1985 quando, tornando da Firenze e diretti a San
Casciano, passarono per via degli Scopeti e all'imbocco della
piazzola notarono una vettura rossa, identificata dieci anni dopo
dalla Ghiribelli come quella del Lotti. Tuttavia, la presenza
dell'Indovino non è certa, poiché su questo punto le dichiarazioni
dei teste appaiono confuse e persino contraddittorie.
Il sedicente mago morì meno di un anno dopo, il 15 agosto 1986,
profondamente provato dalla malattia. Di lui esiste un unico
reperto fotografico.
Circa un decennio dopo, nell'ormai maturata convinzione del suo
pieno coinvolgimento nei delitti del Mostro, la Procura di Firenze
chiese l'apertura della sua bara in terra siciliana, nella speranza di
trovarvi la famosa Beretta calibro 22. Inutile dire che tali speranze
verranno disattese.

Filippa Nicoletti:
Anche lei di origine siciliane, la Nicoletti nacque in provincia di
Caltanissetta il 2 luglio 1952. Anche lei si trasferì ad Alessandria
negli anni '70. Qui conobbe Salvatore Indovino, di trent'anni più
anziano. Sposata con figli, la vita coniugale della Nicoletti era
funestata da continui e violenti litigi. Nel 1977 la donna dapprima
tentò il suicido, quindi decise di separarsi dal marito per fuggire
con Salvatore. La coppia inizialmente andò a vivere in Sicilia, nel
paese natale di lui, poi nel 1978 si trasferì a Prato, dove viveva il
fratello di Salvatore, infine nello stesso anno, prese in affitto la casa
in via Faltignano, a San Casciano.
Spinta dal proprio compagno, la Nicoletti iniziò in quel periodo
l'attività di prostituta a Firenze. Nell'agosto del 1981, mentre
Indovino era in carcere, conobbe in piazza a San Casciano Giancarlo
Lotti e ne divenne amica e amante. Con l'Indovino le cose non
sempre andavano bene e durante qualcuna delle numerose liti, la
Nicoletti aveva tentato di trasferirsi presso l'abitazione del Lotti al
Ponte Rotto, non trovando però disponibilità ad accoglierla da parte
del suo "amante", che da un lato temeva la reazione dell'Indovino,
dall'altro non voleva rinunciare alla propria indipendenza. I
rapporti fra Nicoletti e Lotti rimasero comunque sempre piuttosto
cordiali. Per stessa ammissione della donna, con il Lotti
condivideva la dipendenza dall'alcool, dichiarando in una famosa
udienza del Processo ai CdM: "fra me e il Lotti c'era il bottiglione
di mezzo".
Nel marzo del 1984, a causa di un violento litigio dovuto a una
relazione che aveva intrapreso con un suo giovane cliente, la
Nicoletti lasciò l'ormai sessantaduenne e già malato Salvatore
Indovino, per trasferirsi ad Arezzo, a casa del suo nuovo
compagno. Tornò saltuariamente in via Faltignano nei due anni
successivi per fare visita all'ormai malato terminale Salvatore.
Nonostante un nuovo compagno e il trasferimento in una città
distante un'ottantina di chilometri da San Casciano, evidentemente
la Nicoletti continuò a frequentare anche il Lotti, se è vero che
nell'estate del 1984 i due si appartarono alla Boschetta di Vicchio, la
piazzola teatro poco tempo dopo del tragico delitto in cui persero la
vita lo Stefanacci e la Rontini, distante a sua volta circa una
sessantina di chilometri da San Casciano.
Anche della Nicoletti sappiamo molto poco sulla vita che condusse
dalla metà degli anni '80 fino alla metà dei '90, quando anche lei
tornò al centro delle indagini in seguito alle dichiarazioni del Lotti e
della Ghiribelli.
Ripetutamente intercettata e interrogata, la donna ha sempre
smentito di aver mai conosciuto Pacciani e Vanni. Negò inoltre che
la dimora del suo convivente fosse mai stata teatro di sedute
spiritiche e orge, smentendo di fatto le dichiarazioni
della Ghiribelli.
Al momento risulta una dei pochi protagonisti della vicenda ancora
in vita.

Sebastiano Indovino:
Fratello di Salvatore, verso la fine degli anni '70, Sebastiano
frequentava il famoso "bar dei sardi" a Prato. Fu lui, secondo alcune
narrazioni, a conoscere per primo la Ghiribelli e a presentarla a
Salvatore. Da notare che quello stesso bar di Prato era il punto di
ritrovo anche del clan dei sardi presumibilmente coinvolto nel
delitto del 1968.
Interrogato anch'egli a metà anni '90, dichiarò di aver frequentato
suo fratello soprattutto durante gli ultimi anni di vita, quando con
tutta la famiglia andava a trovarlo nei fine settimana nella sua
abitazione a San Casciano Val di Pesa. Nessun riferimento da parte
di Sebastiano alle presunte orge che in quello stesso periodo
proprio nei fine settimana sarebbero avvenute nella casa di via
Faltignano. Anche da lui, dunque, una secca smentita alle
dichiarazioni della Ghiribelli.

Domenico Agnello:
Classe 1954, di origini catanesi come l'Indovino, residente a Prato,
pluripregiudicato, venditore ambulante di frutta e verdura in quel
di Mercatale, l'Agnello aveva frequentato sia il cosiddetto bar dei
sardi a Prato (ufficialmente il bar Rolando, sito in piazza Duomo
41), sia negli anni '80 la casa di Salvatore Indovino, di cui era amico.
Secondo la teste Gabriella Ghiribelli, Agnello era stato amico anche
di un sardo di cognome Sanna e di un tale, il cui soprannome
era Draculino. Inoltre, sempre stando alle dichiarazioni della
Ghiribelli, aveva frequentato lo stesso Francesco Vinci.
Quest'ultimo particolare viene riportato anche dal superpoliziotto e
scrittore, Michele Giuttari nel suo libro "Compagni di sangue".
Tuttavia, pur non volendo dubitare delle parole della Ghiribelli e
degli scritti di Giuttari, dell'amicizia fra Agnello e Vinci non c'è
alcun riscontro nelle carte e - a dirla tutta - si tratta di un dato che
non è mai stato tenuto in considerazione da nessuno degli
inquirenti che si era ritrovato a indagare su un ipotetico passaggio
di pistola dal clan dei sardi alla congrega di via Faltignano.
L'Agnello rimane comunque un personaggio misterioso, di cui si sa
molto poco. Il 4 agosto del 1994 (in pieno processo Pacciani) uscì da
casa sua a Prato dichiarando alla moglie che si sarebbe recato al bar,
ma non fece più ritorno. La sua Alfa 164 fu ritrovata bruciata un
paio di giorni dopo in un bosco del Mugello. Di lui si è persa
qualsiasi traccia.

Mago Manuelito:
Anch'egli di origine siciliane, nativo di Nissoria in provincia di
Enna, il suo vero nome era Francesco Verdino, ma era più
conosciuto come Mago Manuelito o Mago del Messico, in quanto
aveva trascorso diversi anni a Guadalajara, nella parte occidentale
dello stato nordamericano.
Amico di Salvatore Indovino, Manuelito lavorava come mago a
Sesto Fiorentino e possedeva un grande camper con cui era solito
recarsi a casa dell'Indovino, in via Faltignano a San Casciano.
Proprio qui, nei primi anni '80 sembra che instaurò una relazione
con Milva Malatesta, la giovane donna di cui abbiamo già parlato
svariate volte nel corso di queste pagine e sulla quale a breve ci
soffermeremo nuovamente.

Nota ad colorandum, su youtube è rintracciabile una


partecipazione del Mago Manuelito, datata 25 dicembre 1978,
all'allora noto programma televisivo "Acquario", condotto da
Maurizio Costanzo, in onda su RAI 1 in seconda serata.
Presentato come celebre mago operante a Firenze, durante la sua
breve comparsata in studio, Manuelito si distinse per un tentativo
"divinatorio" nei confronti di un camerman, per essere stato oggetto
dell'ironia neanche troppo velata del conduttore Costanzo e per una
scarsissima conoscenza dell'italiano, dando la piena sensazione di
un personaggio appena un battito di cigna sopra l'analfabetismo.

Milva Malatesta:
Figlia di Renato Malatesta, l'uomo trovato impiccato nel Dicembre
del 1980 (vedasi capitolo dedicato alle Morti Collaterali) e di Maria
Antonietta Sperduto, l'amante del Pacciani e del Vanni.
Prostituta fin dalla più giovane età, nel 1979, all'età di 17 anni,
conobbe Vincenzo Limongi con cui ebbe un figlio che venne dato in
affidamento ai genitori di lui. Fra la fine degli anni '70 e l'inizio
degli anni '80, secondo il già citato Giovanni Calamosca, divenne
l'amante di Francesco Vinci. Da notare che all'epoca Milva aveva
meno di vent'anni, mentre Francesco ne aveva all'incirca 45.
Poco prima della morte del padre, nel dicembre 1980, si trasferì con
la mamma e i due fratelli in via Faltignano nella casa confinante a
quella di Salvatore Indovino. Milva conobbe Salvatore, all'epoca
quasi settantenne, e secondo la Ghiribelli ne divenne amante,
nonostante la differenza d'età. Fu probabilmente anche amante del
su citato mago Manuelito.
Come già ampiamente dibattuto, Milva potrebbe rappresentare il
punto di contatto fra i sardi e la congrega di casa Indovino, dunque
fra i sardi e Pacciani (spiegando così il famoso passaggio di pistola).
Ribadiamo tuttavia che non esiste alcuna prova concreta (a parte le
dichiarazioni non verificabili di Calamosca) che Milva sia stata
realmente l'amante del Vinci.
Nel 1988, la donna si trasferì nella piccola frazione di Pino, nel
comune di Certaldo e si sposò con un muratore palermitano,
Francesco Rubino. Il 30 agosto 1990 nacque Mirko, figlio suo e del
Rubino. In seguito Milva sporse una serie di denunce contro il
marito per maltrattamenti e percosse, che condussero a una
separazione nel luglio del 1993. Circa un mese dopo, fra il 19 ed il
20 agosto 1993, Milva Malatesta morì in circostanze tragiche e
fortemente sospette (anche perché a distanza di una settimana
dall'analogo assassinio di Francesco Vinci), uccisa e bruciata
all'interno della sua vettura assieme al figlio Mirko. C'erano molti
indizi a carico del suo ex marito, Francesco Rubino, il quale però nel
1995 fu assolto per non aver commesso il fatto.

Vincenzo Limongi:
Soprannominato Kociss per il suo essere "selvaggio", Limongi era
stato il primo convivente di Milva Malatesta dalla quale aveva
avuto un figlio che venne cresciuto dai genitori di lui. La vita del
Limongi trascorse fra furti, rapine e spaccio di droga. Finì in carcere
a Sollicciano nello stesso periodo in cui Pacciani era detenuto per la
violenza sulle figlie. Il 19 maggio 1991, pochi giorni prima che
scadesse il suo periodo di detenzione, a 37 anni, si impiccò nella sua
cella. Senza ombra di dubbio un suicidio, ma davvero difficile da
spiegare.

Maria Antonietta Sperduto:


Moglie di Renato Malatesta e madre di Milva, la Sperduto aveva
origini lucane. Negli anni '70 visse con la famiglia dalle parti della
Sambuca, a Tavernelle Val di Pesa; qui conobbe il postino Mario
Vanni con cui ebbe rapporti sessuali, forse a pagamento, forse no.
Nella seconda metà degli anni '70 conobbe anche Pacciani e ne
divenne l'amante.
Nel novembre del 1980, poco prima della morte del marito, la
Sperduto si trasferì con i figli in via Faltignano. Continuò le sue
frequentazioni sia con il Pacciani che col Vanni, i quali – a suo dire –
abusarono più volte di lei; in un'occasione l'abuso avvenne nella
piazzola degli Scopeti all'interno dell'automobile Fiat 500 del
Pacciani.
Nell'aprile del 1983 la Sperduto abbandonò la casa di via Faltignano
per trasferirsi a Poggibonsi con un nuovo compagno.
La donna ha sempre dichiarato di non aver mai conosciuto
personalmente Gabriella Ghiribelli, smentendo anch'ella le
dichiarazioni della suddetta teste.

Filippo Neri Toscano:


Amico di Pacciani, anzi uno dei pochi amici del contadino di
Mercatale. Negli anni '80 il Toscano era stato appuntato dei
carabinieri della caserma di Mercatale. Stando alle dichiarazioni del
Lotti, risultò essere il fornitore delle cartucce calibro 22 per i delitti
del Mostro. Secondo il Lotti, il carabiniere le passava al Vanni che
poi le consegnava al Pacciani.
Del Toscano abbiamo sentito parlare in occasione del Processo ai
Compagni di Merende. A tirarlo in ballo, oltre a Lotti, è stata la
signora Maria Antonietta Sperduto, che era solito chiamarlo "palle
d'oro" o "mangia orecchie", in quando secondo la testimone il
suddetto carabiniere avrebbe avuto atteggiamenti intimidatori e
quasi persecutori nei confronti di suo marito, Renato.
Come apprendiamo nell'udienza del 27 gennaio 1998 per bocca del
poliziotto Michele Giuttari in veste di testimone al processo contro
i CdM, il Toscano aveva sempre posseduto pistole calibro 22,
regolarmente denunciate. Tra queste un revolver e due Beretta,
l'ultima delle quali era stata aquistata nel 1985 da un carabiniere in
pensione, tale Lorenzo Mocarelli.
Nel marzo del 1996 durante una perquisizione nell'abitazione del
Toscano furono trovate oltre 200 cartucce Winchester calibro 22 con
la lettera W impressa sul fondello (quelle del MdF avevano la
lettera H). Toscano dichiarò che tali cartucce gli erano state date
proprio dal Mocarelli in occasione dell'acquisto della Beretta.
Tuttavia, secondo la Pubblica Accusa, Mocarelli aveva cessato di
frequentare il Poligono alle Cascine, dove era solito acquistare le
scatole di munizioni, nel 1978 quando ancora erano in commercio le
cartucce con la lettera H sul fondello. Quelle con la lettera W
sarebbero entrate in produzione fra il 1980 e il 1981. Dunque,
sempre secondo l'Accusa, il Mocarelli non avrebbe potuto regalare
al Toscano quelle duecento cartucce, in quanto lui stesso non
poteva possederle.
Interrogato in merito al Processo contro i CdM, il Mocarelli (ormai
ottantenne e con gravi problemi d'udito) non fu in grado di chiarire
la questione, non ricordando quante pallottole aveva ceduto al
Toscano e soprattutto in quale periodo lui a sua volta le avesse
aquistate. L'uomo dichiarò comunque di aver sempre nutrito una
certa stima nei confronti del carabiniere Toscano; inoltre dalle sue
parole non fu possibile escludere che avesse potuto acquistare
scatole di munizioni anche dopo il 1980/1981.
A ogni modo, è doveroso sottolineare che qualunque potesse essere
stata l'origine di quelle cartucce calibro 22, queste non erano
sicuramente correlabili alla vicenda del Mostro. A tal proposito,
Toscano ebbe modo di dichiarare di non essersi mai interessato al
caso del "Mostro", il che suona strano perché la caserma di San
Casciano, in occasione del delitto degli Scopeti, si interessò alla
persona di Pietro Pacciani. È anche vero che il Toscano sembra aver
prestato servizio esclusivamente presso la caserma di Mercatale.
Dopo le dichiarazioni del Lotti, il Toscano fu indagato per alcuni
degli omicidi del MdF e per la strana morte di Renato Malatesta del
dicembre del 1980 che lui frettolosamente aveva archiviato come
suicidio.
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1 commento:
1.
Anonimo11 dicembre 2022 alle ore 11:09

In questa vicenda non c'è nulla di semplice. Continue piste e


smentite. Ho visto il video di "Manuelito". Pare conosca meglio
lo spagnolo rispetta alla lingua natia. Era quasi sicuramente in
ciarlatano. Infatti le uniche cose che dice, circa la cavia che si
era prestata ad essere oggetto del consulto di Manuelito, sono
state che aveva sofferto molto e che adesso era felice (molto) a
livello sentimentale.
Credo che Indovino non fosse meglio. Di certo il Vinci non era
un personaggio secondario (nel '68 è chiaro che non era il
mostro ad aver agito. Le possobilità plausibili erano uno dei
fratelli Vinci). Il modo in cui muoiono F. Vinci, la Malatesta fa
pensare che firono fortemente volute ma potrebbero
riguardare anche altre faccende.
Questo caso non sarà mai risolto, troppo articolato e
complesso per ridurlo al Pacciani, Vanni e Lotti.
Rispondi
Il disegno della Procura

Vediamo di riassumere la grande mole di informazioni che


abbiamo ricavato in questi ultimi capitoli e che hanno portato la
Procura della Repubblica di Firenze, sulla base delle testimonianze
raccolte in particolar modo della Ghiribelli, a tratteggiare un
complesso disegno su ciò che potrebbe essere avvenuto nella prima
metà degli anni '80 a San Casciano Val di Pesa, nei pressi della casa
del mago Indovino.
Un disegno cui – è bene sottolinearlo – oggigiorno sempre meno
persone son disposte a credere, indipendentemente dalla
colpevolezza o meno del Pacciani, del Vanni oppure del Lotti.

Tutto dovrebbe aver avuto inizio nel 1978, quando cioè il Mostro o
almeno la sua pistola aveva già colpito nel 1968 e nel 1974, con il
trasferimento di Salvatore Indovino e di Filippa Nicoletti in quel
di via Faltignano.
Tra la fine del novembre e gli inizi di dicembre del 1980, circa sei
mesi prima dell’inizio dei delitti a cadenza annuale, si trasferirono
nella casa accanto a quella del non ancora mago, Maria Antonietta
Sperduto con i tre figli, fra cui Milva Malatesta. In teoria la
Sperduto potrebbe essere stata colei che condusse in via Faltignano
il Pacciani e il Vanni, suoi amanti, divenendo di fatto il trait d'union
fra i due merendari e Salvatore Indovino.
Sempre in teoria, ma su questo non ci sono decisamente prove,
Milva potrebbe aver condotto in via Faltignano il suo presunto
amante, Francesco Vinci, divenendo a sua volta il trait d'union fra
Indovino, Pacciani e appunto il Vinci. Da notare però che Salvatore
Indovino aveva vissuto per qualche tempo a Prato e aveva
frequentato insieme alla Nicoletti e a suo fratello Sebastiano il bar
dei sardi a Prato, quindi la conoscenza con Francesco Vinci
potrebbe essere stata pregressa e indipendente dalla figura di Milva
Malatesta. Da notare anche che per un brevissimo periodo (tre
settimane circa) Indovino e Vinci erano stati entrambi detenuti nel
carcere delle Murate a Firenze.
Abbiamo comunque una situazione in cui dagli inizi del 1981 la
casa di Indovino potrebbe essere divenuta la meta di Pacciani,
Vanni, la Malatesta e lo stuolo di persone che ruotavano attorno a
questi. Pochi mesi dopo, nel giugno 1981, a Mosciano di Scandicci, a
11 km esatti da via Faltignano, venne commesso il primo duplice
delitto del mostro fra quelli a cadenza annuale.

Un mese e mezzo dopo, a fine luglio del 1981, Indovino finì in


carcere per induzione alla prostituzione e la Nicoletti conobbe il
Lotti (già amico del Vanni e del Pacciani), portandoselo a casa.
Questo potrebbe essere stato il momento in cui il Lotti entrò in
contatto con il mondo che girava attorno alla casa di Indovino.
Mentre quest'ultimo era in carcere (uscì nel dicembre del 1981) fu
commesso il duplice delitto di Calenzano.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, a quest'epoca
Indovino non esercitava ancora la professione di mago, in quanto
proprio nel periodo di carcerazione ebbe modo di scoprire (o più
probabilmente di inventarsi) le sue capacità divinatorie. Dunque,
per quanto la sua casa - secondo la Procura - potesse essere
diventata dal 1981 il punto d'incontro fra alcuni personaggi
coinvolti nei delitti, sicuramente almeno fino al duplice omicidio di
giugno 1982, difficilmente poteva essere il luogo in cui prendeva
forma la matrice esoterica dei delitti commessi dal Mostro di
Firenze.

Nel 1982 successero diversi eventi: in giugno fu commesso il


duplice delitto di Baccaiano, privo di escissioni; subito dopo ci fu il
collegamento con il delitto del 1968, probabilmente dovuto a una
segnalazione anonima; in agosto fu arrestato Francesco Vinci che
rimase in carcere fino alla fine del 1984; infine sempre nel 1982, ma
non è dato sapere precisamente quando, potrebbero aver iniziato a
frequentare la casa di via Faltignano Gabriella Ghiribelli (già
amica di Salvatore Indovino) e Norberto Galli. Su questo punto,
come abbiamo visto, non vi è tuttavia particolare certezza, né
uniformità di date. Il Galli, per esempio, ha sempre dichiarato di
aver frequentato l'Indovino solo negli ultimi tempi, cioè dal 1984
fino alla sua morte. Lo stesso avvocato Zanobini, in occasione del
Processo Calamandrei, dichiarò che il trasferimento della coppia a
San Casciano avvenne nell'estate del 1984.
Non è neanche dato sapere quando eventualmente cominciarono le
sedute spiritiche denunciate dalla Ghiribelli e che non hanno
trovato riscontro in nessun altro testimone. La Ghiribelli parla di
un'intensa attività soprattutto nei fine settimana del 1984 e del 1985,
dunque esclusivamente per gli ultimi due delitti del Mostro.

Frattanto, nel 1983, ci fu il duplice delitto di Giogoli, quello in cui


persero la vita i due ragazzi tedeschi; delitto che a dire del Lotti fu
eseguito per scagionare Francesco Vinci.
Infine, nel 1984 e nel 1985 ci furono i due duplici omicidi più
sanguinosi, quello di Vicchio e quello degli Scopeti, quest'ultimo a
qualche centinaio di metri dalla casa del mago. Entrambi i luoghi di
questi omicidi, piuttosto distanti fra loro, erano stati frequentati da
alcuni personaggi del giro di via Faltignano.
Nello specifico, alla Boschetta di Vicchio si erano appartati il Lotti e
la Nicoletti, mentre Scopeti era stato teatro di incontri fra Pacciani,
Vanni e la Sperduto, inoltre era meta del voyeurismo di diversi
componenti del gruppo. Ora se per Scopeti è abbastanza normale
una frequentazione del luogo da parte dei suddetti soggetti, la loro
presenza a Vicchio solleva qualche sincero dubbio vista la distanza
quantificabile in una sessantina scarsa di chilometri dalle loro
abitazioni.

In questo quadro tratteggiato dalla Procura di Firenze, ci sono


tuttavia alcune zone d'ombra che riguardano sia il delitto del 1974,
sia la matrice esoterica dei delitti e le relative incerte e talvolta
contraddittorie testimonianze.
Emerge infatti chiaramente come l'orientamento della Procura – in
linea con la sentenza del Processo Pacciani – fosse a questo punto di
addebitare il delitto del 1968 ai sardi, altrimenti non vi sarebbe stata
la necessità di inserire nel contesto di via Faltignano (o comunque
dei delitti) la figura di Francesco Vinci, né avrebbero avuto senso le
dichiarazioni del Lotti secondo cui obiettivo del duplice omicidio di
Giogoli era scarcerare il Vinci.
Ma se, secondo questo nuovo disegno, il delitto del 1968 era opera
dei sardi, quello del 1974 a Rabatta rimaneva completamente
scoperto, non trovando una propria soluzione.
Provando a dare delle spiegazioni, il delitto di Borgo poteva essere
stato commesso dal Vinci stesso, ancora detentore della pistola,
oppure dal Pacciani che aveva conosciuto il Vinci precedentemente,
magari nei boschi come pare suggerire Vigna, ed era venuto in
possesso della pistola. Ma sono congetture che non vengono
spiegate ufficialmente da nessun organo.
Il delitto di giugno del 1981, invece, dovrebbe essere sicuramente il
primo della "congrega" che si era da poco riunita, quello da cui
avrebbe preso piede l'escalation di violenza che sarebbe culminata a
Scopeti.
Il Lotti dichiara di non sapere nulla di tale duplice omicidio, ma
secondo la Procura è ipotizzabile addebitarlo materialmente al duo
Pacciani-Vanni, a questo punto venuti sicuramente in possesso
della pistola del Vinci. Tuttavia, sebbene fosse possibile che
all'epoca del delitto di Mosciano, Pacciani e Vanni frequentassero
già la casa dell'Indovino, abbiamo visto come quest'ultimo era
ancora lontano dal divenire "il mago di San Casciano" e la sua
dimora probabilmente lontana dal divenire quella meta
imprescindibile per chiunque avesse voglia di esoterismo, di sedute
spiritiche, di sacrifici animali, di orge con prostitute compiacenti e
minorenni plagiate. Difficlmente dunque, la casa di via Faltignano
era in quel momento il luogo d'incontro fra i notabili fiorentini di
cui parla la Ghiribelli e la manovalanza spicciola dedita all'uso della
violenza.
Sarebbe lecito ipotizzare, secondo il disegno della Procura, che la
dimora del mago Indovino potesse essere divenuta il crocevia dei
delitti del Mostro a partire da Baccaiano nel giugno del 1982.
Sarebbe però altrettanto lecito chiedersi eventualmente quale
sarebbe stata la matrice dei delitti precedenti, perché tralasciando il
1968 e il 1974 che rimangono completamente fuori dal quadro, i due
del 1981 trovano comunque una difficile collocazione nel contesto
appena descritto.
A tutto ciò vanno poi aggiunte - come vedremo meglio nei prossimi
capitoli - le contraddizioni, in alcuni casi le falsità, in altri le
dichiarazioni farneticanti, rese da taluni testimoni.
Ciò tuttavia non impedì agli inquirenti, in special modo al
dottor Michele Giuttari, dapprima a capo della Squadra Mobile di
Firenze, in seguito a capo del neonato GIDES (Gruppo Investigativo
Delitti Seriali) a focalizzarsi sempre più sul movente esoterico dei
delitti del Mostro e sul famigerato secondo livello, i cosiddetti
ricchi, i notabili che commissionavano i delitti e – sempre secondo
la Procura – erano dediti a orge e a riti esoterici in importanti ville
come "La Sfacciata" a Giogoli.
Il collante fra la manovalanza spicciola (Pacciani, Vanni, Lotti) e i
notabili, venne individuato dalla Procura nel dottor Francesco
Calamandrei, farmacista di San Casciano, l'ultimo in ordine
cronologico a subire un processo come imputato nei delitti del
Mostro di Firenze.
I soldi del Pacciani

Del patrimonio di Pacciani aveva già iniziato ad occuparsi l'allora


capo della SAM, Ruggero Perugini, nelle indagini condotte a inizio
anni '90, allorché durante le varie perquisizioni erano stati ritrovati
buoni e libretti postali per un totale di circa 120 milioni di lire.
All'epoca non venne sequestrato nulla perché Pacciani veniva visto
come il serial killer unico delle coppiette e l'ipotesi dei mandanti era
ancora lontana da venire.
Da maggio del 1996, il super-poliziotto Michele Giuttari ricominciò
a interessarsi al patrimonio di Pacciani. Come visto nel capitolo Il
contadino di Mercatale, a luglio fu perquisito il centro di
accoglienza "Il Samaritano", dove Pacciani era stato ospite per un
breve periodo dopo l'assoluzione in secondo grado, mentre la sua
confidente spirituale, nonché custode del suo patrimonio, Suor
Elisabetta, venne interrogata in questura per ben 13 ore.
A novembre dello stesso anno, dopo che il Lotti aveva cominciato a
parlare esplicitamente del "dottore che pagava i feticci", le indagini si
fecero capillari, ottenendo dei risultati che ancora oggi sono oggetto
di contesa fra innocentisti e colpevolisti.
Che Pacciani, a metà anni '90, possedesse infatti un patrimonio
piuttosto elevato per quello che era il suo stile di vita e quelle che
erano state le sue mansioni, è indubbio. Che tale patrimonio fosse
stato frutto della vendita dei cosiddetti "feticci" ai mandanti dei
delitti del MdF è tuttavia argomento decisamente dibattuto e spesso
fortemente messo in dubbio.

Entrando nel dettaglio, a pagina 240 del suo libro "Il mostro.
Anatomia di un'indagine", Giuttari stima il patrimonio di Pacciani
come di seguito indicato:
● Buoni Postali Fruttiferi, sia ordinari che vincolati, alcuni intestati
a lui, altri a lui e alle figlie, emessi dagli Uffici postali di
Montefiridolfi, di San Casciano, di Cerbaia e Mercatale. Il primo
venne acquistato il 18 giugno 1981, dodici giorni dopo il primo
degli omicidi del MdF a cadenza annuale; l'ultimo il 26 maggio
1987. Tra le due date, gli acquisti erano avvenuti ogni anno;
● Libretti di risparmio presso gli Uffici Postali di Mercatale e
Scandicci.
Il totale fra i Buoni Postali Fruttiferi e i libretti di risparmio
ammontava a circa 158 milioni di vecchie lire.
Sempre dal resoconto letterario di Giuttari, a ciò andava aggiunto:
● Una casa acquistata in data 30 settembre 1979 (pagata 26 milioni),
un'altra il 30 giugno 1984 (pagata 35 milioni);
● Un'automobile Ford Fiesta acquistata nuova nel dicembre 1982 e
pagata in contanti 6 milioni di lire.
Facendo le debite somme, dal 1979 al 1987 gli
investimenti/risparmi di Pacciani, ammontavano a circa 225
milioni di lire.
Sempre secondo Giuttari, a fronte di questo piccolo patrimonio,
c'erano state le seguenti entrate:
● Proventi del lavoro in carcere dal 1951 al 1964, equivalenti 350.000
lire;
● Pensioni sociali dei suoceri finché questi furono in vita;
● Attività di mezzadro agricolo, equivalenti a poche migliaia di lire
al giorno negli anni '60 e '70.

È ovvio come i numeri che ci fornisce Giuttari inducano l'idea di


qualcosa che non torna: entrate esigue a dispetto di un patrimonio
relativamente alto. Viene naturale chiedersi come Pacciani fosse
riuscito a mettere da parte quei famosi 157 milioni (225 compreso
case e automobili). Va bene la famigerata avarizia del contadino, va
bene che - come ci ricorda Vigna - non era sicuramente la persona
che nel weekend andava a fare la spesa per la famiglia; va bene che
razziava tutte le discariche della zona per procurarsi vestiti, mobili,
sanitari e oggettistica varia; va bene che per quanto riguarda il cibo
provvedeva personalmente tramite caccia, agricoltura e ricorrendo
finanche alle scatolette per cani; però la differenza fra entrate e
investimenti era troppo netta per poterla giustificare semplicemente
con l'avarizia o con altre attività di basso conto come la caccia di
frodo, che quasi sicuramente svolgeva.
Tali numeri risultano ancora più spropositati se facciamo
riferimento ai calcoli eseguiti dall'avvocato Patrizio Pellegrini,
difensore di Parte Civile per la famiglia Rontini, il quale
nell'udienza del 24 febbraio 1998 del Processo ai CdM stimò un
potere d'acquisto di quel patrimonio, maturato per lo più fra il 1979
e il 1987, di circa 900 milioni di lire nel 1998.
A scanso di equivoci, è necessario subito precisare che i calcoli
dell'avvocato Pellegrini sono risultati sbagliati.
La mostrologia moderna, anche grazie agli strumenti di calcolo e di
rivalutazione monetaria offerti dal web, ha infatti più che
dimezzato la stima prodotta in sede processuale.
Inoltre, i numeri forniti alla voce entrate da Giuttari nel suo libro
(riportati ovviamente senza alcun crisma di ufficialità) non possono
essere ritenuti corretti se paragonati, ad esempio, a quelli forniti
dalla Squadra Mobile di Firenze in un documento ufficiale stilato il
9 gennaio 1997, in cui veniva ricostruito l'andamento delle finanze
del Pacciani a partire dal 1951, anno del delitto della Tassinaia.
Proprio partendo da tale documento è possibile avere un quadro
completo che non è certo risolutivo nello stabilire se il patrimonio di
Pacciani fosse o meno congruo, ma almeno fornisce tutti i dati per
permettere a ciascuno di farsi la propria legittima opinione.
Da tale documento si accerta che:
● Dall'aprile 1951 al luglio 1964, Pacciani era stato recluso per il
delitto di Severino Bonini. Nel novembre 1963 un certificato del
Comune di Vicchio, a firma del Sindaco, attestava il suo stato
di "nullatenenza e povertà".
Al momento della scarcerazione (4 Luglio 1964), Pacciani disponeva
di 350.000 lire, come riportava un estratto della pratica
di "liberazione di Pacciani Pietro", redatta dalla Casa Circondariale di
Padova.
Da questo primo punto possiamo dedurre che Pacciani entrato in
carcere da nullatenente, ne era uscito con una somma piuttosto
cospicua che equivaleva circa a quattro mesi di stipendio di un
operaio.
● Dal 1965 al 1968, Pacciani aveva lavorato, in qualità di mezzadro,
presso il podere "Casino Particchi", sito in località Badia a Bovino.
Durante tale periodo, non aveva percepito alcuno stipendio, ma
aveva diviso il raccolto e l'eventuale vendita di bestiame con il
proprietario del fondo. A sentire la moglie del proprietario era a
stento quanto bastava per sfamare una famiglia.
● Successivamente, aveva lavorato per tre anni in qualità di
mezzadro, senza quindi ricevere una retribuzione in denaro, presso
un podere in località Casini di Rufina.
● Tuttavia dall'aprile 1972 al febbraio 1973 Pacciani aveva
acquistato 15 buoni fruttiferi presso l'ufficio postale di Contea,
frazione di Rufina, per un importo complessivo di 5.100.000 lire.
Non è dato sapere la provenienza dei soldi che avevano permesso
l'acquisto di tali buoni. Possiamo però dire con certezza che:
▪ l'importo era per i tempi piuttosto consistente, considerando che
aveva un potere di acquisto paragonabile ai 40.000 euro del 2020;
▪ all'epoca c'era stato un solo delitto commesso dal MdF (1968) e
non erano stati procurati feticci da vendere a eventuali mandanti.
Inoltre quel delitto - secondo la sentenza del 1994 su cui si basava il
lavoro di quella stessa Procura che indagava sul suo patrimonio -
non era stato neanche commesso da Pacciani;
▪ Pacciani era stato evidentemente in grado, tramite attività lecite o
meno, di procurarsi una sostanziosa somma di denaro che poi
prontamente aveva investito, a dispetto di lavori "ufficiali" per nulla
remunerativi;
▪ siccome nel 1971 era morta la mamma di Pacciani (la quale
percepiva una pensione di 5000 lire mensili) e siccome risulta che la
facoltà a riscuotere questi buoni era anche della sorella Rina, si
potrebbe legittimamente ipotizzare che almeno parte di quei soldi
fossero un lascito in contanti della madre, mai registrato
ufficialmente.
● Nel gennaio 1973, la Angiolina Manni, moglie del Pacciani, aveva
cominciato a beneficiare della pensione erogata dall'INPS per un
importo che all'epoca era di 122.000 lire mensili (erano previste
tredici mensilità) e che sarebbe stata rivalutata ogni anno fino ad
arrivare all'importo di 659.000 lire nel 1997. Dello stesso trattamento
pensionistico avrebbe usufruito anche Pacciani a partire dal
febbraio del 1979. Per inciso, a metà anni '90 i coniugi intascavano
circa 15/16 milioni annui di pensione, a fronte di spese davvero
modeste.
A questo proposito, è doveroso evidenziare che anche il padre della
Angiolina, il signor Pio Manni, dal novembre 1959 percepiva una
pensione di categoria che si protrasse fino alla sua morte nel
febbraio del 1978. Non risultano ufficialmente eredità lasciate da
quest'ultimo ai coniugi Pacciani, ma non può essere escluso che un
lascito non documentato sia effettivamente avvenuto.
● Ad aprile 1973 c'era stato il trasferimento a San Casciano. Qui, dal
15 Aprile 1973 al 31 Dicembre 1981 (dunque per quasi 9 anni),
Pacciani aveva lavorato nell'importante azienda agricola di
Giampaolo Rosselli del Turco, con le mansioni di operaio agricolo
specializzato, percependo il pagamento di 40 ore settimanali e
l'alloggio gratuito per la famiglia. La documentazione non riporta,
in quanto probabilmente smarriti, i pagamenti ricevuti dal Pacciani
fino al 1976, ma dal 1977 al 1981 si evincono introiti equivalenti a:
▪ 5.913.270 lire nel 1978 (relativi all'anno 1977);
▪ 4.293.383 lire nel 1979 (relativi all'anno 1978);
▪ 5.583.115 lire nel 1980 (relativi all'anno 1979);
▪ 5.007.741 lire nel 1981 (relativi all'anno 1980);
▪ 5.420.403 lire nel 1982 (relativi all'anno 1981).
Per un totale di 26.217.912 lire in cinque anni.
In realtà dovremmo anche considerare gli introiti dei precedenti
quattro anni che ufficialmente non figurano da nessuna parte, ma è
normale supporre ci siano stati. A questi vanno aggiunti i soldi
della liquidazione che Pacciani aveva percepito il 31 dicembre 1981
nel momento in cui aveva interrotto il rapporto lavorativo con
l'azienda, equivalenti a 9.465.000 lire.
Siamo dunque arrivati a valutare a fine 1981 entrate per almeno 35
milioni di lire, escludendo i quattro anni che non figurano,
escludendo le pensioni, escludendo gli altissimi tassi di rendimento
che all'epoca i buoni fruttiferi (tanto più se vincolati) generavano,
escludendo un eventuale lascito del padre di Angiolina ed
escludendo attività e traffici collaterali che sicuramente un
personaggio come Pacciani aveva svolto. Sono ovviamente cifre ben
diverse delle entrate nulle di cui parlava Giuttari.
● Tuttavia, sempre dal documento redatto dalla questura, risulta
che in data 30 settembre 1979, Pacciani aveva acquistato la casa di
Piazza del Popolo 7 per la somma di 26 milioni di lire (8 milioni
tramite assegno e 18 milioni in contanti). Tale abitazione era stata
intestata alle figlie.
Dai numeri forniti, risulta evidente che a quella data Pacciani
ufficialmente non poteva essere in possesso di tale disponibilità
economica. Stando agli introiti percepiti dal lavoro presso i Rosselli
Del Turco, Pacciani aveva guadagnato fino a quel momento circa 10
milioni di lire. Dunque gli altri 16 milioni sono da ricercare
probabilmente nel lavoro svolto nei quattro anni precedenti e di cui
non vi è documentazione (una media di 4 milioni all'anno è in linea
con gli introiti successivi) o nel riscatto di buoni acquistati in
precedenza di cui non vi è traccia o in altre attività nascoste che
Pacciani aveva svolto. Quello che appare certo è che non possono
essere ricercati nella cosiddetta vendita dei feticci ai mandanti
gaudenti, in quanto nel 1979 i delitti commessi dalla pistola del
Mostro erano stati due, entrambi privi di escissioni, uno dei quali
neanche commesso dal Pacciani secondo la sentenza Ognibene.
Possiamo comunque concludere che già nel 1979 Pacciani aveva
investito/speso più di quanto ci è dato sapere fosse in suo possesso,
dunque sicuramente già allora poteva attingere a fondi non
documentati (leciti o meno) che sicuramente non avevano a che fare
con le escissioni perpetrate dal MdF.

Si arriva dunque ad analizzare il periodo storico che maggiormente


ci interessa e su cui si incentra tutto il lavoro condotto dal dottor
Giuttari, braccio armato della Procura di Firenze.
● Il 6 giugno 1981 ebbe luogo il duplice omicidio in via dell'Arrigo,
il primo in cui venne escisso il pube alla povera Carmela de Nuccio.
Dieci giorni dopo, esattamente fra il 16 e il 18 giugno 1981, Pacciani
acquistò 7 buoni fruttiferi presso l'ufficio postale di Montefiridolfi
per un importo di 2.300.000 lire.
Questo potrebbe indubbiamente essere considerato un movimento
sospetto. Ma è altresì vero che in quel momento Pacciani
presumibilmente era in grado di effettuare l'acquisto anche senza
considerare l'eventuale vendita di un feticcio. Anche se ipotizziamo
infatti che nel settembre 1979 Pacciani avesse dato fondo a tutti i
suoi risparmi per l'acquisto della casa, dal 1 ottobre 1979 al 31
maggio 1981 aveva comunque avuto introiti per circa 8 milioni di
lire, come risulta dal prospetto della questura.
● Nell'ottobre 1981 si verificò il duplice omicidio delle Bartoline in
cui fu escisso il pube alla povera Susanna Cambi, ma a cui non
seguirono (almeno nell'immediato) movimenti finanziari sospetti
del Pacciani. Si è dovuto attendere cinque mesi, esattamente dal 12
marzo al 26 aprile 1982, perché Pacciani acquistasse 11 buoni
fruttiferi presso l'ufficio postale di Mercatale per un importo
complessivo di 4.650.000 lire.
Anche in questo caso vale lo stesso discorso di cui sopra. Potrebbe
essere considerato un movimento sospetto (anche se a distanza di
cinque/sei mesi dal duplice omicidio), ma stando ai numeri, in quel
momento Pacciani aveva comunque la disponibilità economica per
effettuare l'acquisto, indipendentemente dagli omicidi.
● Fra la fine del 1981 e gli inizi del 1982 Pacciani ebbe i 9 milioni e
mezzo di liquidazione di cui sopra. Nel giugno 1982 si verificò il
duplice omicidio di Baccaiano, in cui non vi furono escissioni. Un
delitto per cui Pacciani non avrebbe potuto avere alcun genere di
ricavo, eppure da luglio 1982 a novembre 1982 acquistò 16 buoni
fruttiferi per un importo complessivo di 5.400.000 lire.
● Nel dicembre del 1982, Pacciani acquistò alla cifra di 6 milioni in
contanti più la permuta della propria Fiat 600, una Ford Fiesta
nuova.
Facendo due calcoli, siamo sempre nell'ambito di soldi
ufficialmente in suo possesso. Abbiamo supposto infatti che con
l'acquisto della casa, al 30 settembre 1979, Pacciani avesse dato
fondo al suo patrimonio. Dal 1 ottobre 1979 al dicembre 1982 aveva
avuto introiti ufficiali per circa 25 milioni di lire (senza considerare
le pensioni) e uscite/investimenti per circa 18 milioni.
● Sempre nel dicembre 1982 Pacciani cominciò a lavorare presso la
famiglia Gazziero in qualità di operaio agricolo avanzato per una
retribuzione di 5000/6000 lire l'ora fino a metà del 1984.
Secondo i Gazziero, la collaborazione del Pacciani fu saltuaria. In
uno dei suoi memoriali, il Pacciani invece scriveva: "Arrivavo lì alle
7 di ogni mattina e tornavo a casa alle 6 di sera. Ero l’unico operaio,
lavoravo 10 ore al giorno con lo straordinario, gli lavoravo la vigna, gli
facevo il vino, l’olio, l’orto, il giardino, tenendogli l’azienda in perfetto
ordine. Mi volevano bene e mi facevano pure dei regali oltre la paga".
Dove risieda la verità, non è dato saperlo. Pacciani era certamente
un bugiardo cronico, ma che i Gazziero avessero interesse a
sminuire più possibile il rapporto di lavoro con colui che all'epoca
delle indagini veniva definito il Mostro di Firenze, sembra
abbastanza naturale.
● L'acquisto di buoni fruttiferi riprese nel marzo del 1983 e
continuò fino al luglio dello stesso anno sempre presso l'ufficio
postale di Mercatale per un importo complessivo di 5.000.000 di
lire.
● Il 9 settembre 1983 furono uccisi i due ragazzi tedeschi a Giogoli e
anche in questo caso non vi furono escissioni. Il giorno successivo
(10 settembre) tuttavia Pacciani acquistò 4 buoni fruttiferi presso
l'ufficio postale di Mercatale per un importo complessivo
di 1.200.000 lire.
Il sospetto che gli investimenti in buoni fruttiferi non fossero
collegati alle escissioni compiute del MdF, potrebbe a questo punto
essere legittimo. Ciò ovviamente non esclude che un compenso
minimo poteva essere corrisposto al Pacciani solo per gli omicidi,
anche se poi sarebbe lecito chiedersi perché i mandanti avrebbero
dovuto pagare per dei delitti che non prevedevano parti di pube o
di seno delle vittime femminili se, come ci è stato raccontato dalla
Ghiribelli, erano il motivo per cui gli stessi omicidi venivano
commessi, risultando necessari per i loro riti esoterici.

A partire dal 1984 la situazione però si complica ulteriormente.


Nonostante fossero passati due anni e mezzo dall'ultima escissione
del MdF, Pacciani cominciò a effettuare investimenti più
importanti, da questo punto in poi superiori alle sue disponibilità
finanziarie ufficiali, che comunque - è bene ribadire - non erano così
irrisorie come Giuttari ha inteso sostenere nei suoi scritti.
Appurato che non sembra esserci una diretta connessione fra
escissione e investimento, possiamo ipotizzare che Pacciani avesse
altre fonti di guadagno, probabilmente non lecite, che potrebbero
abbracciare un amplissimo spettro di possibilità: da quelle più
banali come la caccia di frodo, il furto o la ricettazione, fino ad
arrivare a quelle penalmente più rilevanti e connesse con la vicenda
del MdF, come l'eventuale ricatto verso i veri autori degli omicidi o
gli omicidi stessi da lui commessi e ricompensati
indipendentemente dalle escissioni. In quest'ultimo caso - come
dicevamo - risulta difficile pensare a dei mandanti in cerca delle
parti femminili per i loro riti esoterici (cadrebbe dunque l'ipotesi
lottiana del dottore che pagava i feticci) e si dovrebbe pensare a
omicidi commissionati per altre oscure motivazioni. Ma qui si entra
davvero nel campo di speculazioni puramente ipotetiche che non
hanno alcuna base documentale.
Limitandoci a ciò che realmente è deducibile dai documenti e
riassumendo ciò che abbiamo ricavato finora, possiamo affermare
che:
1. Nel 1972 Pacciani dimostra di possedere soldi non ufficialmente
documentati che investe in buoni fruttiferi, già molto prima che
iniziasse la catena omicidiaria a lui addebitabile;
2. Nel 1979 Pacciani dimostra di possedere soldi non ufficialmente
documentati che utilizza per comprare una casa, quando ancora
non era stata eseguita alcuna escissione nei delitti addebitabili al
MdF;
3. Presupponendo spese familiari minime (il che è coerente con il
personaggio), dal 1979 al 1983 gli investimenti del Pacciani sono
bene o male in linea con le sue entrate;
4. Non sembra esserci una diretta connessione fra investimenti ed
escissioni;
5. A partire dal 1984 gli investimenti del Pacciani, fra immobili e
buoni fruttiferi, superano le sue entrate, toccando un picco nel
biennio 1986/1987, indice sicuramente di altre attività remunerative
(associate a un'avarizia patologica) che il Pacciani conduceva e su
cui ci si può limitare a fare solo vaghe ipotesi non supportate dai
fatti.

Riprendendo comunque il documento redatto dalla questura,


abbiamo che:
● Il 30 giugno 1984 (un mese prima del duplice delitto di Vicchio e
dopo quasi tre anni che non si verificavano escissioni) Pacciani
acquistò una casa in pessimo stato in via Sonnino 32 a Mercatale per
la cifra di 35.000.000 di lire, su cui successivamente eseguì in prima
persona con l'aiuto di un amico muratore (Giuliano Pucci, NdA)
importanti lavori di ristrutturazione.
Al termine dei lavori, la casa fu divisa in due appartamenti, uno dei
quali fu venduto il primo marzo 1986 per un importo sconosciuto.
L'altro fu dato in affitto nel 1985 e 1986 alla signora Elena Betti per
un canone mensile di 300.000 lire; da novembre 1986 a dicembre
1987 fu affittato a un gruppo di ragazzi che lo usarono come sala
prove per un importo complessivo di 2.400.000 lire.
● A dispetto della ingente spesa sostenuta, sempre nel 1984 Pacciani
continuò con l'aquisto di ulteriori buoni postali per un importo
complessivo di 5.000.000 di lire. Nel mezzo (29 luglio 1984) c'era
stato il terribile duplice omicidio di Vicchio con doppia escissione.
● Nel 1985 Pacciani acquistò buoni postali per 8.800.000 lire. A
settembre ci fu il duplice omicidio degli Scopeti, anche questo con
doppia escissione.
● Dal 24 ottobre 1985 al 6 aprile 1987 Pacciani lavorò in tre periodi
diversi come bracciante agricolo avventizio presso la Fattoria di
Luiano, a Mercatale Val di Pesa. Percepì una retribuzione
complessiva 1.600.000 lire.
Contemporaneamente lavorò saltuariamente presso le tenute di
Francesco Forlano a Mercatale e di Dante Mocarelli a Villa Verde a
San Casciano (da quest'ultima occupazione pare fu mandato via
dopo un giorno di lavoro per avere avuto un atteggiamento
indisponente nei confronti della moglie del proprietario).
● Nel 1986 Pacciani acquistò buoni per lire 24.000.000 di lire e nel
1987 per ben 27.050.000 lire.

Facendo qualche rapido calcolo, possiamo dire che nei quattro anni
fra il 1984 e il 1987, Pacciani ebbe spese/investimenti pari
a 99.850.000 lire, senza considerare le spese della ristrutturazione
della casa che, seppur minime, non possono non esserci state.
Nello stesso periodo è difficile quantificare le entrate ufficiali di
casa Pacciani: sicuramente c'erano le due pensioni (sua e della
Angiolina), che all'epoca potremmo quantificare complessivamente
in una decina scarsa di milioni all'anno, quindi 40 milioni totali.
C'erano i soldi dell'affitto della Betti, che potremmo quantificare in
circa 7.000.000 di lire, i soldi dell'affitto dei musicisti (2.400.000) e lo
stipendio percepito per il lavoro alla fattoria di Luiano (1.600.000);
per un totale di 52 milioni di lire.
A questa cifra andrebbero aggiunti i sei mesi di lavoro dai Gazziero
che non sono documentati e una molto eventuale liquidazione (non
parliamo sicuramente di cifre elevate), i due lavori saltuari a
Mercatale e a Villa Verde (parliamo molto probabilmente di
spiccioli) e la vendita della porzione di casa in via Sonnino.
Quest'ultimo è un dato che sicuramente sarebbe stato interessante
avere, ma che non risulta da nessun documento ufficiale e in ogni
caso non potrebbe compensare il profondo gap di quasi 50 milioni
fra entrate e uscite del suddetto quadriennio.
È corretto tuttavia dire che alle finanze di casa Pacciani potrebbero
aver contribuito le entrate delle due figlie di Pietro. Infatti risulta
che:
● Dall'ottobre 1985 al marzo 1991, Rosanna Pacciani lavorò come
domestica percependo una retribuzione mensile compresa fra le
500.000 e le 750.000 lire mensili, vitto e alloggio compresi. Quindi
fino al 1987 la Rosanna potrebbe aver portato a casa una dozzina di
milioni, verosimilmente finiti fra le grinfie paterne.
● Nel 1987 e nel 1988, Graziella Pacciani lavorò come domestica per
800.000 lire mensili, vitto e alloggio compresi. Quindi fino al 1987 la
Graziella potrebbe aver portato a casa circa 9 milioni.
Se consideriamo dunque questa ventina di milioni e l'ipotetico
prezzo della vendita di porzione di casa in via Sonnino, il gap
potrebbe ridursi notevolmente. A colmarlo definitivamente
potrebbero averci pensato i traffici e le attività collaterali del
Pacciani o i già citati notevoli tassi di rendimento che all'epoca
avevano i buoni fruttiferi postali e che sicuramente in buona parte
hanno contribuito a far lievitare il patrimonio del Pacciani.

Resta inteso che si tratta di deduzioni che non risolvono certamente


l'atavico conflitto fra colpevolisti e innocentisti.
La sensazione, tuttavia, è che da parte di alcuni organi inquirenti e
soprattutto della stampa si sia favoleggiato tanto su questo
patrimonio, mentre numeri alla mano c'è un evidente divario fra
entrate e uscite, ma non così esagerato da non potersi
aprioristicamente spiegare. È ovvio che tale divario, inserito in un
contesto quale quello dei delitti del Mostro, tanto più formatosi
negli anni dei delitti, abbia comunque innescato una serie di
legittimi dubbi (non ancora fugati per alcune correnti
mostrologiche) e di successive indagini.

Con il 1987 finisce il periodo che maggiormente ha interessato le


indagini della Procura di Firenze. Per quanto riguarda gli anni
successivi, abbiamo:
● Dal luglio 1987 al dicembre 1991, Pacciani finì in carcere per le
violenze alla moglie e alle figlie. Durante la detenzione percepì
(oltre alla pensione) 593.000 lire nel 1988 e 386.000 lire nel 1989. Non
si hanno notizie ufficiali sugli anni 1990 e 1991.
● Durante il periodo di detenzione a Sollicciano aprì un libretto di
risparmio presso un ufficio postale di Scandicci, cui dal febbraio
1989 al dicembre 1991 versò 18.465.000 lire che successivamente
spostò in larga parte su un altro libretto aperto a Mercatale.

A questo proposito, c'è un ultimo punto su cui rivolgiamo la nostra


attenzione e riguarda gli uffici postali presso cui Pacciani avrebbe
fatto le proprie operazioni.
La sentenza di condanna in primo grado del Processo ai CdM
asserisce che Pacciani avrebbe disseminato i suoi buoni postali e i
suoi libretti di risparmio: "tra i vari uffici del circondario (Mercatale,
Montefiridolfi, San Casciano, Cerbaia e Scandicci), chiaramente per tener
nascosta tanta provenienza di denaro, non sicuramente di fonte lecita".
Ora, che Pacciani avesse una fonte di denaro non di fonte lecita,
possiamo ritenerlo estremamente probabile. Che la fonte illecita
fosse connessa ai delitti del MdF è una deduzione possibile ma che
non è mai stata provata. Che avesse disseminato i buoni fra i vari
uffici postali del circondario per nascondere il denaro, risulta però
non troppo credibile (o almeno che li volesse nascondere agli occhi
di eventuali inquirenti) per due motivi:
► Gli uffici postali in cu Pacciani ha acquistato i buoni fruttiferi
seguono in maniera tutto sommato precisa l'andamento dei suoi
domicili: ha infatti comprato buoni all'ufficio postale di Contea
quando lavorava alla Rufina; è passato all'ufficio di Montefiridolfi
quando viveva a Sant'Anna; si è rivolto all'ufficio postale di
Mercatale dopo il trasferimento nella relativa frazione; quando è
stato detenuto a Sollicciano ha effettuato le proprie operazioni
all'ufficio postale di Scandicci. Unica eccezione le operazioni
compiute nell'ottobre 1985 e nel novembre 1986 a Montefiridolfi e
nel maggio del 1987 a Cerbaia: operazioni che potrebbero destare
qualche dubbio, in luoghi comunque non eccessivamente lontani
dalla sua residenza a Mercatale.
► Se davvero Pacciani avesse voluto nascondere le sue
numerosissime operazioni in Posta, avrebbe probabilmente evitato
nell'ottobre del 1987, durante la sua detenzione, di comunicare in
maniera ufficiale all'amministrazione postale e a tutti gli uffici con
cui aveva avuto rapporti la sua ferma volontà di impedire alle figlie
qualsiasi prelevamento senza la sua autorizzazione formale.
Risulterebbe un controsenso celare i suoi illeciti proventi
disseminandoli per vari uffici postali per poi renderli pubblici in
una lettera ufficiale, tanto più se consideriamo che in quel momento
storico Pacciani aveva gli occhi della magistratura addosso, dopo il
Processo e la condanna per la violenza sulle figlie.

I soldi del Vanni e del Lotti:


Poco possiamo dire della situazione finanziaria di Mario Vanni,
mai appurata dettagliatamente dalla Squadra Mobile di Firenze,
forse perché non interessante quanto quella del Pacciani.
Un quadro sommario delle sue finanze ci viene fornito dal
dottor Fausto Vinci nell'udienza del 30 settembre 1997 durante il
Processo ai CdM. In essa emerge il ritratto di una famiglia che alla
data degli accertamenti (fine 1996) aveva messo da parte buone
quantità di denaro, verosimilmente frutto dello stipendio da
postino dell'imputato, delle due pensioni (quella di Mario e quella
di sua moglie Luisa Landozzi), della liquidazione dello stesso Vanni
e di un tenore di vita estremamente parsimonioso, non
patologicamente rilevante come quello del Pacciani, ma
sicuramente estremamente dedito al risparmio.
Per quanto è dato sapere, non è stato possibile appurare entrate
sospette nel patrimonio del Vanni.
A metà anni '90 venne attestato da diverse fonti che l'ex postino
poteva disporre di notevoli quantità di denaro in contanti. A
rendere tali testimonianze furono diverse persone di San Casciano a
lui vicine, in special modo sua nipote Alessandra Bartalesi, che
frequentandolo con costanza nell'estate del 1995, ebbe modo di
dichiarare: "Ho capito che sia mio zio che Giancarlo (Lotti, NdA) avevano
disponibilità di molto denaro. Era come se per loro il denaro non finisse
mai. Anche i miei familiari non capivano come mai i due avessero tanti
soldi da poter spendere tutte le sere."
In quel periodo il Vanni arrivò a prestare 5 milioni di lire alla nipote
Alessandra affinché potesse comprarsi un'automobile.
Anche altri parenti del Vanni, come Walter Ricci e Laura Mazzei,
dichiararono che c'era stato un periodo negli anni '90 in cui l'ex
postino aveva sbandierato pubblicamente una vasta disponibilità
economica.
Tale disponibilità è risultata comunque coerente con i prelevamenti
effettuati dal Vanni presso il suo conto e resi pubblici dalla
testimonianza del dottor Vinci nell'udienza di cui sopra. Era
dunque una notevole quantità di soldi che non aveva origine
ignota, ma correttamente prelevata dai suoi risparmi.
Col portafogli ben imbottito (si parla di diversi milioni portati in
giro), il Vanni offriva cene e bevute ogni sera, quasi volesse godersi
gli ultimi inconsapevoli momenti di libertà. Nel febbraio del 1996 il
Vanni sarebbe stato infatti arrestato per non tornare mai più libero,
se non negli ultimi mesi di vita.

Per contro Giancarlo Lotti non ha mai dato l'idea di avere grosse
disponibilità economiche. Per quanto è dato saperne, ha sempre
vissuto in condizioni di estrema ristrettezza, concedendosi pochi
svaghi, il cibo, il vino, le prostitute, la benzina per le sue vecchie
automobili con cui poteva andare in giro.
Dalle testimonianze raccolte, solo due persone hanno parlato di una
possibile (e forse sporadica) agiatezza economica del Lotti; queste
sono la Ghiribelli che dichiarò di aver visto un tale di nome Parker
dare molti soldi al Lotti (vedasi capitolo Il secondo livello) e la
stessa Bartalesi che, facendo riferimento sempre alla famosa estate
del 1995, dichiarò: "Anche Lotti mi chiedevo come faceva ad avere tutti
quei soldi, ma non gli chiesi niente perché ero solo un'amica. Ho visto più
volte che nel portafoglio aveva solo pezzi da cento e cinquantamila lire e
una volta mi disse: Fa pari col tuo che è vuoto!".
Tuttavia, tale dichiarazione contrasta con altre affermazioni della
stessa Bartalesi, secondo la quale alla fine di quella stessa estate il
Lotti aveva urgentemente bisogno di un prestito, in quanto aveva
perso il lavoro.
Non è da escludere che anche il Lotti, in quell'ultima e
inconsapevole estate da uomo libero, avesse deciso di spassarsela
dando fondo a tutti i suoi risparmi e rimanendo ben presto senza
più alcuna disponibilità economica.
Il secondo livello

L'indagine sul secondo livello prese dunque corpo sulla base delle
dichiarazioni di Gabriella Ghiribelli e di Giancarlo Lotti.
Quest'ultimo aveva fatto a più riprese vaghi riferimenti a un non
meglio identificato dottore che pagava i feticci al Pacciani e al
Vanni, senza però fornire maggiori dettagli in merito.
A differenza del Lotti, la Ghiribelli aveva fornito resoconti (veri o
falsi che fossero) decisamente più approfonditi, almeno
inizialmente tesi a inquadrare la vicenda in un'ottica esoterica che
privilegiava la pista di molteplici mandanti gaudenti.
Fra le numerose dichiarazioni, la Ghiribelli parlò di un medico
svizzero che faceva strani esperimenti in una villa dalle parti di via
Faltignano, dei famigerati festini cui partecipavano oltre a
numerose ragazze di giovanissima età, un orafo, un medico di
malattie tropicali, un carabiniere di San Casciano e numerosi altri
personaggi di elevato livello sociale.
A un certo punto, anche le dichiarazioni della Ghiribeli
cominciarono comunque a diventare poco credibili persino agli
occhi dei più fervidi sostenitori della pista esoterica. A tal
proposito, il 28 febbraio 2003, presso gli uffici della Squadra mobile
di Firenze fece verbalizzare quanto segue:
"Nel 1981 vi era un medico che cercava di fare esperimenti di
mummificazione in una villa vicino a Faltignano. Questa villa so trovarsi
nei pressi del luogo dove furono uccisi nel 1983 i due ragazzi tedeschi... di
questo posto mi parlò anche Giancarlo Lotti in più occasioni e sempre negli
anni '80 quando ci frequentavamo. Sempre il Lotti mi raccontò che questa
villa aveva un laboratorio posto nel sottosuolo, dove il medico svizzero
faceva gli esperimenti di mummificazione. Questo medico svizzero, a
seguito di un viaggio in Egitto, era entrato in possesso di un vecchio
papiro dove erano spiegati i procedimenti per la mummificazione dei corpi.
Detto papiro mancava però di una parte che era quella relativa alla
mummificazione delle parti molli e cioè tra le altre il pube ed il seno. Mi
disse che era per quello che venivano mutilate le ragazze nei delitti del
Mostro di Firenze. Mi spiegò anche che la figlia di questo medico nel 1981
era stata uccisa e la morte non era stata denunciata. Il procedimento di
mummificazione gli necessitava proprio per mummificare il cadavere della
figlia che custodiva nei sotterranei..."
Durante il processo al dottor Calamandrei del 2008, il Pubblico
Ministero Alessandro Crini giustificherà tali farneticanti
dichiarazioni come il frutto di quanto gli stessi mandanti avevano
lasciato intendere a gente dal bassissimo livello culturale come
Lotti, forse per prenderli in giro o forse per fornir loro una
motivazione "plausibile" ai delitti e alle escissioni.
Qualunque sia il giudizio sulle dichiarazioni di simil fatta della
Ghiribelli, durante le varie testimonianze, la donna riconobbe in
una foto il medico svizzero, identificato dagli inquirenti nel Rolf
Reinecke, l'imprenditore tedesco che abitava a La Sfacciata e che
aveva scoperto i cadaveri delle due vittime tedesche nel 1983. Da
segnalare che al Reinecke non risultava morta alcuna figlia. L'uomo,
a dire della Ghiribelli, si accompagnava spesso con l'orafo di cui
sopra, con un medico di Perugia (il dottor Francesco Narducci) e
con un medico di malattie tropicali (identificato con il
dottor Achille Sertoli).
In seguito, la donna riferì di aver visto un abitante di villa La
Sfacciata di nome Mario Robert Parker, soprannominato "Ulisse",
dare molti soldi al Lotti.
Anche il testimone Ferdinando Pucci parlò di questi strani
personaggi. Sottoposto a un riconoscimento fotografico, Pucci
riconobbe il dottor Narducci (che definì finocchio), il Reinecke e il
farmacista di San Casciano, dottor Francesco Calamandrei.
Molti di questi notabili furono riconosciuti fotograficamente anche
da una prostituta che per un certo periodo aveva frequentato San
Casciano, di nome Marzia Pellecchia.
Sull'attendibilità di tali riconoscimenti avremo modo di parlare
dettagliatamente nel capitolo "Il Medico di Perugia"; qui è
interessante far notare come la Pellecchia fu sentita per la prima
volta nel febbraio del 2003 e in quell'occasione dichiarò di aver
partecipato all'incirca nel 1982 (dunque ventun'anni prima del
riconoscimento) a festini a base di sesso in una casa malmessa nelle
campagne di San Casciano. Erano presenti oltre ai vari Vanni,
Pacciani e Lotti, anche personaggi ben più importanti come un noto
ortopedico fiorentino di nome Jacchia, il farmacista Calamandrei e
il dottor Narducci, tutti riconosciuti tra le foto di un album che gli
inquirenti le avevano mostrato. A introdurre la Pellecchia a questi
festini sarebbe stata la prostituta Angiolina Giovagnoli, detta Lina,
frequentata assiduamente dal Calamandrei.
Le dichiarazioni della Pellecchia furono smentite a stretto giro dalla
stessa Giovagnoli, che non negò mai il suo intimo rapporto col
Calamandrei ma negò di aver partecipato a tali festini a San
Casciano. Messe a confronto fra loro dagli inquirenti, ognuna delle
due prostitute rimase ferma sulle proprie posizioni. Secondo
quanto emerge dai verbali, alla fine la Giovagnoli dichiarò di
consideare la Pellecchia una persona attendibile, ma di non aver
ricordi di tali episodi, dunque forse di averli rimossi.

Di seguito sono elencati tutti i "notabili" che sono entrati


nell'inchiesta sui mandanti dei delitti del Mostro di Firenze. Si
precisa che tali personaggi sono stati tutti assolti da qualsiasi
accusa.

Mario Robert Parker


Nato nel New Jersey nel 1954 da un militare americano di colore (il
caporale John Parker) e madre italiana (la livornese Nara
Beltramini), il Parker passò la sua infanzia fra Stati Uniti, Germania
e infine Italia, allorché il padre fu trasferito a Camp Darby, la base
militare americana sita fra Pisa e Livorno.
All'età di quindici andò a vivere in una dependance della villa di
proprietà della signora Elisabetta Beveridge al numero 6 di via
Fortini a Firenze, divenendo uno di famiglia e venendo considerato
dalla stessa signora alla stregua di un figlio adottivo.
Cominciò a lavorare come disegnatore presso una ditta di
Tavarnelle che produceva abbigliamento. In seguito, divenne
stilista per importanti aziende quali Prada e Gucci, a Milano e a
Firenze.
Di lui, la figlia della signora Beveridge, Violante Pieri, dirà che era
uomo di bellissimo aspetto, alto circa 190 centimetri, con una
corporatura adeguata, che non passava certo inosservata.

Attorno al 1982 andò ad abitare a La Sfacciata, la villa in via di


Giogoli prospiciente il luogo del duplice omicidio perpetrato dal
Mostro nel 1983. All'epoca dei delitti seriali aveva fra i 25 e i 30
anni.
A dire della Ghiribelli, il suo soprannome era Ulisse, anche se la
madre di Robert avrebbe in seguito smentito questo particolare.
Il Parker fu interrogato in occasione dell'omicidio dei tedeschi nel
1983, perché una 126 bianca come la sua era stata vista parcheggiata
a fianco al furgone dei due giovani assassinati. Uscì quasi subito
dalle indagini in quanto lo stesso Parker dimostrò di essere venuto
in possesso di quell'automobile solamente nell'ottobre del 1983 e
quindi successivamente al delitto.
Nel gennaio del 1984, secondo le informazioni riportate
dall'avvocato Gabriele Zanobini al Processo contro i presunti
mandanti, lasciò villa "La Sfacciata" per trasferirsi altrove.
Si spostò a Milano per questioni lavorative e ivi visse fino al 1994,
dove continuò ad occuparsi di moda per grandi aziende. Ritornò a
vivere a Firenze quello stesso anno, a dire della signora Beveridge
in un appartamento in via dei Serragli. Questo particolare ha
suscitato l'interesse di parte della mostrologia narducciana, dato
che in via dei Serragli si narra potesse esservi un appartamento del
Narducci in cui venivano custoditi i feticci. Appartamento, invero,
come vedremo mai trovato.
A tal proposito, ci sia consentito sottolineare che il tasferimento del
Parker in via dei Serragli avvenne a circa dieci anni di distanza dai
delitti del Mostro, dalle vicende de La Sfacciata e dalla morte del
Narducci. E, a dirla tutta, sarebbe ben strano che uno dei presunti
mandanti fosse tornato a vivere a Firenze, per giunta nella stessa
via in cui erano custoditi i feticci, proprio nel momento in cui il
principale esecutore materiale di quei delitti si trovava alla sbarra; il
momento in cui, per la prima volta, qualcuno del gruppo si trovava
non solo al centro delle indagini ma anche in procinto di essere
condannato.
Tornando alla vita del Parker, costui, probabilmente omosessuale
(anche se mai dichiaratosi apertamente), morì di Aids all'ospedale
Santa Chiara di Pisa l'11 agosto del 1996, all'età di 42 anni.
Tornò al centro delle indagini nel 2003 dopo il colloquio privato in
carcere fra Vanni e Nesi, registrato dalla Polizia Giudiziaria. In
questo colloquio, come visto, Vanni fra un vaneggiamento e l'altro
identificava l'autore dei duplici delitti in un "nero americano di
nome Ulisse".
Successivamente, il 10 Luglio del 2003, fu sentita dalla Procura la
solita Ghiribelli e alla domanda se Giancarlo Lotti avesse mai
frequentato un uomo di colore americano, costei lasciò di stucco
tutti, identificando tale uomo appunto nel Parker e
rispondendo: "Certo, era Ulisse. Giancarlo lo chiamava Uli, non era di
colore ma aveva un orecchino al lobo sinistro ed era considerato un po'
strano."
Sebbene da queste parole emergesse che Mario Robert Parker non
fosse nero, quando invece almeno mulatto lo era sicuramente, la
coincidenza di un personaggio di nome Ulisse che per di più
conosceva il Lotti, rafforzò nella Procura la convinzione di stare
percorrendo la pista giusta nelle indagini sui cosiddetti notabili.
In realtà che il Parker fosse soprannominato Ulisse è una
circostanza che dichiara esclusivamente la Ghiribelli. Già smentita
dalla di lui madre, non si ebbe conferma di tale soprannome
neanche dalla signora Beveridge e da sua figlia Violante, che pure
conoscevano bene il Parker e lo avevano frequentato sino alla sua
morte, essendo andate spesso a trovarlo anche dopo il trasferimento
a Milano.
Inoltre, abbiamo già fatto notare nel capitolo Alfa, Gamma e
Delta la contraddizione nelle parole della Ghiribelli, la quale aveva
dichiarato di aver visto il Parker dare molti soldi al Lotti e che
questi soldi venivano usati per portare la nipote del Vanni al mare o
per uscire con la Nicoletti. Sappiamo infatti che Lotti avrebbe
conosciuto la Bartalesi oltre 10 anni dopo l'addio del Parker dalla
zona di San Casciano.
Rolf Reinecke
Imprenditore tedesco nato nel 1937, visse a Vaiano (Prato), dove nel
1958 fondò un'azienda tessile. Dopo essersi separato dalla moglie
pratese Silvia Bartolini, si trasferì assieme alla nuova compagna (la
signora svizzera Francoise Walther) in un appartamento di villa La
Sfacciata, a Giogoli. L'inizio del suo contratto di affitto è datato 15
marzo 1978, dunque ben prima dell'inizio della serie annuale dei
delitti del MdF.
Fu proprio il Reinecke a trovare i corpi dei due giovani ragazzi
tedeschi uccisi nel duplice omicidio del 1983, avvenuto proprio a
pochi metri di distanza dalla villa. Anche lui, così come il Parker,
rimase invischiato nelle indagini immediatamente dopo delitto a
causa di alcune armi trovate in casa sua e non dichiarate. Dai
documenti agli atti si evince che il Reinecke venne infatti processato
e condannato il 28 giugno 1985 per omessa denuncia di un fucile e
perché non in possesso di licenza per la collezione di armi.
Secondo quanto dichiarato dall'avvocato Gabriele Zanobini al
Processo contro i presunti mandanti, Reinecke lasciò villa "La
Sfacciata" agli inizi del 1984, il che risulta coerente con la citazione
in giudizio che il 7 marzo 1984 ebbe dal proprietario de La Sfacciata,
il signor Martino Martelli, per il mancato pagamento dei canoni di
locazione arretrati. Nel ricorso per sequestro conservativo,
depositato dal Martelli il 5 dicembre 1984 si legge: "...il ricorrente è
venuto a sapere che il Reinecke è proprietario solo di un'autovettura,
intende entro pochi giorni lasciare l'Italia, sottraendosi così all'eventuale
soccombenza della causa."
Il 19 ottobre 1987, il tribunale civile di Firenze condannò in
contumacia il Reinecke al pagamento della somma di lire 40.000.000
più accessori.
Lasciata l'Italia, il Reinecke morì in Germania nel 1996 a causa di un
ictus.
Il Reinecke viene identificato con il medico svizzero di cui parla la
Ghiribelli, colui che faceva strani esperimenti sui cadaveri
servendosi dei feticci strappati alle vittime durante i delitti del
Mostro.
Secondo suo figlio Marco, la nuova compagna del padre (la
suddetta Francoise Walther, con cui era andato ad abitare alla
Sfacciata) si interessava molto a pratiche di magia e si autodefiniva
una sensitiva.

Di Rolf Reinecke si dice (è necessario tener conto della locuzione "si


dice" perché non ci sono riscontri certi in merito) che fosse molto
alto (probabilmente superiore al 1.95), che avesse un carattere molto
strano, che incutesse quasi timore nelle persone, che fosse nemico
delle diversità (questo ce lo dice il dottor Crini durante il Processo
Calamandrei) e soprattutto che somigliasse molto al primo identikit
del MdF, quello eseguito subito dopo il duplice delitto di
Calenzano, nell'ottobre del 1981.

Gian Eugenio Jacchia


Primario di ortopedia e professore universitario a Firenze. Nel 1997
venne arrestato con l'accusa di aver molestato alcune studentesse.
Patteggiò una pena di due anni.
Nel 2002, mentre la Procura indagava sul secondo livello, Giuttari
fece perquisire le sue numerose abitazioni (a Firenze, a Fiesole,
sull'Argentario e a Cortina) e fece sequestrare alcuni documenti. Il
dottore risultava indagato per favoreggiamento nei confronti dei
mandanti dei delitti del Mostro. Jacchia ha sempre negato qualsiasi
addebito, arrivando a definire l'indagine una buffonata. Ha negato
anche di aver mai conosciuto Narducci, nonostante diverse foto lo
ritraessero in compagnia della madre del famoso gastroenterologo.
Si dice (ma non esistono prove in merito) che con la famiglia
Narducci, il professore era solito fare le vacanze estive.
Gian Eugenio Jacchia morì nel novembre del 2008.

Giuseppe Jommi
Avvocato di origine marchigiana, nato nel 1932, residente a Bagno a
Ripoli. Amico di infanzia del dottor Pier Luigi Vigna, con cui aveva
condiviso studi e qualche incarico lavorativo.
Nel 2003 fu convocato dagli inquirenti in quanto sospettato di
essere amico di Francesco Narducci e di far parte della setta di
ricchi che commissionava gli omicidi attribuiti al mostro, almeno
quelli a cadenza annuale degli anni '80. L'avvocato smentì tutto, ivi
compresa la sua conoscenza col Narducci.
Sono da sottolineare due peculiarità riguardanti la moglie e
l'amante dell'avvocato.
1. La moglie era proprietaria dell'appartamento a Firenze dove
aveva alloggiato la famiglia di Susanna Cambi, vittima del MdF
nell'ottobre del 1981. Una coincidenza che tanto ha fatto discutere
fra i mostrologi, in special modo quelli di estrazione giuttariana,
narducciana e/o complottista.
2. L'amante di lunghissima data dell'avvocato, la signora Alves
Jorge Emilia Maria, fu invece colei che portò la Procura ad
indagare sull'avvocato stesso, in quanto la donna riferì agli
inquirenti che la sera dell'8 settembre 1985 (all'epoca si ipotizzava
fosse quella la data del duplice omicidio di Scopeti), Jommi le disse
testualmente: "Sono un mostro". In seguito tramite un'agenzia
investigativa la donna aveva scoperto che l'avvocato frequentava
dalle parti di San Casciano un tale medico di Foligno, estremamente
benestante. Questo medico (evidentemente il Narducci) era
proprietario di una Citroen Pallas color verde che ogni tanto
prestava all'avvocato.

Achille Sertoli
Il Sertoli è il famoso dottore delle malattie tropicali di cui parla la
Ghiribelli. In realtà è un dermatologo ed ex professore associato del
dipartimento di dermatologia all'università di Firenze.
Nel giugno del 2003 finì nel registro degli indagati per i fatti
inerenti alle vicende del Mostro di Firenze. Amico per sua stessa
ammissione di Francesco Calamandrei, presso la cui farmacia
(inizialmente gestita dal padre di Francesco) prestava servizio
ambulatoriale.
Interrogato ripetutamente nel 2003 da Giuttari, Sertoli dichiarò di
essere specializzato in dermatologia e allergologia, ma di non aver
mai trattato malattie tropicali e di non aver mai frequentato
prostitute, tanto più in compagnia del Calamandrei. Affermò di
conoscere Calamandrei fin dai tempi universitari allorché avevano
diviso la stessa abitazione a Firenze. A quei tempi, lui veniva da
famiglia poco agiata e faceva vita piuttosto ritirata, mentre il
Calamandrei che veniva da una famiglia benestante (il padre era
stato a sua volta farmacista), faceva molta vita notturna e sin da
allora frequentava molte donne. In seguito, i due amici avevano
talvolta fatto dei viaggi in compagnia di ragazze, uno a Venezia,
l'altro sul Trasimeno.
Sempre secondo le dichiarazioni del Sertoli, una sera di fine anni
'60, in quel di San Casciano, il Calamandrei convinse lui e altri
medici della zona di fare una visita a scopo canzonatorio a un
sedicente mago di nome Indovino. Arrivati all'abitazione del mago,
costui invitò tutti a entrare in casa e – sempre secondo il Sertoli –
era evidente che fra Indovino e Calamandrei ci fosse una certa
confidenza.
Ora in queste dichiarazioni c'è un evidente problema: Indovino
andò ad abitare a San Casciano alla fine degli anni '70, quindi o il
Sertoli mentì spudoratamente o confuse le date di un buon
decennio (del resto queste dichiarazioni erano arrivate a distanza di
moltissimi anni dagli eventuali fatti).
Intercettato in quello stesso periodo dalla Procura, in una telefonata
privata a suo cugino, Sertoli confidò: "Calamandrei potrebbe anche
essere un mandante; la mano sul fuoco al contrario non la metterei!"
Risentito dalla Procura in merito a queste confidenze, il Sertoli
ovviamente precisò che erano sue mere supposizioni senza alcuna
base di verità e alcun riscontro concreto.

Gaetano Zucconi
Fratello del ben più (mostrologicamente) interessante Giulio,
Gaetano fu diplomatico e ambasciatore proveniente da ricca e
potente famiglia. Fu sospettato di avere protetto, grazie alle sue
conoscenze, nel corso degli anni suo fratello dalle indagini sul
Mostro di Firenze. Nel 2002 rilasciò una lunga intervista a
Repubblica per difendersi dalle infamanti accuse mai provate e per
recriminare su quanto la gogna mediatica sia stata un male talvolta
peggiore della galera per lui e soprattutto per il compianto fratello.
Nei giorni successivi all'intervista, la Procura di Firenze si premunì
di far sapere che Gaetano Zucconi non era mai stato iscritto nel
registro degli indagati.

Il Ginecologo Giulio Cesare Zucconi


Nato nel febbraio del 1933, primario e stimato professore di
ginecologia presso la clinica universitaria di Careggi, il
dottor Giulio Cesare Zucconi svolgeva anche attività privata
presso un ambulatorio di Impruneta e - si dice - un paio di volte al
mese presso un locale messo a disposizione dalla farmacia
Calamandrei a San Casciano.
I genitori di Giulio avevano vissuto a Mercatale, in via Sonnino
56/58, in un'abitazione che era confinante con il giardino della casa
che parecchi anni dopo acquisterà Pietro Pacciani.
Lo stesso Giulio aveva vissuto in via Sonnino fino al dicembre del
1958 quando, ormai venticinquenne, si trasferì in una villa alle
porte di Impruneta. Nel giugno del 1964 si sposò con la collega,
dottoressa Ines Maria Pietrasanta.
Descritto fisicamente come molto alto, robusto, di stazza a tratti
imponente, negli anni dei delitti Zucconi era stato oggetto di
numerose chiacchiere malevoli che lo vedevano coinvolto negli
omicidi del "Mostro". In generale ha incarnato più di chiunque altro
nell'immaginario collettivo dapprima le sembianze del ginecologo
maniaco, afflitto da gravi turbe sessuali, autore o co-autore dei
delitti, in seguito quelle del maniaco per interposta persona, colui
che commissionava gli omicidi e solo saltuariamente vi partecipava.
Poteva inoltre godere, secondo la vulgata popolare, dell'appoggio e
della protezione della propria potente e ricca famiglia.
Forse in seguito alle voci, forse indipendentemente da queste,
subito dopo il duplice omicidio dei francesi l'abitazione dello
Zucconi presso Mercatale fu soggetta ad alcuni controlli da parte
delle forze dell'ordine.
Giulio Zucconi morì nel dicembre 1989, all'età di 52 anni, per
insufficienza cardio-circolatoria, un infarto - a parere dei familiari -
provocato dalle infamanti e mai documentate accuse di cui sopra,
dalle voci del popolo che lo vedevano fortemente coinvolto nei
delitti e che non si sono affatto spente con la sua morte.
Anche successivamente, infatti, a causa delle indagini di un
investigatore privato francese e del dossier di Francesco Bruno, fu
prima sospettato di essere il mandante dei delitti del mostro, poi di
far parte della cosiddetta setta che pagava gli omicidi.
Nel libro di Giuseppe Alessandri, "La Leggenda Del Vampa",
viene ad esempio indirettamente indicato più volte come il medico
che commissionava gli omicidi al Pacciani.
Durante il Processo ai CdM, viene più volte chiamato in causa, in
special modo dall'avvocato Aldo Colao, che lo identificava nel
dottore amico del Pacciani che pagava i feticci, a cui aveva fatto
riferimento il reo-confesso Giancarlo Lotti.
Inoltre, nel libro scritto a quattro mani dal super-poliziotto Michele
Giuttari e dal giallista Carlo Lucarelli, "Compagni Di
Sangue" (dicembre 1998), viene seguita la pista del mandante colto,
ricco e potente che assolda Pacciani per commettere i delitti. Anche
in questo caso non viene fatto alcun nome esplicito, ma risulta
chiaro che secondo gli autori tutto ebbe inizio dall'incontro fra il
ginecologo che aveva preso in cura la moglie del
Pacciani, Angiolina Manni, e il Pacciani stesso, dando vita a un
terribile mostro a due teste.
Da uno stralcio del suddetto libro si può leggere: "...condividevano
gli stessi interessi sessuali, le stesse perversioni, lo stesso sadismo e la
stessa attrazione per il sangue e per la morte. Due lupi che si incontrano. Il
dottor Jekyll che incontra il suo mister Hyde. Mister Hyde subisce il
fascino dell'uomo colto e raffinato, il dottor Jekyll quello dell'essere
primordiale che vorrebbe diventare. Hyde, avido e avaro, legatissimo ai
soldi, vede nel dottore l'uomo che può soddisfare i suoi bisogni materiali.
Jekyll, debole e distante, vede in lui la stessa cosa. Soddisfare il bisogno di
una brutalità che esca allo scoperto proprio nel momento in cui sta per
avere origine la vita. Colpire e straziare le coppie nel momento dell'amore,
mutilare la donna proprio in quei simboli di vita, di felicità e di piacere che
a lui, al dottor Jekyll, sono negati."
Piaceri negati perché, come risulta fra gli atti della Squadra Mobile
di Firenze, Giulio Zucconi era stato esonerato dal servizio di leva a
causa di imperfezioni o infermità che erano causa di non idoneità al
servizio militare, nel caso specifico per gravi malformazioni al pene
e/o perdita totale o parziale dello stesso.
Certo, suscita effetto scoprire che colui che negli anni dei delitti era
indicato - per non si sa quale motivo - dalle voci del popolo come
possibile MdF, era in realtà affetto da una seria menomazione fisica
all'apparato genitale.
A ogni modo, quando la Procura di Firenze cominciò a indagare su
un ipotetico secondo livello, diversi testimoni, sentiti fra la fine del
1997 e gli inizi del 1998 da Giuttari, ebbero modo di confermare le
voci che circolavano e di dichiarare che in occasione del delitto
degli Scopeti, l'abitazione dello Zucconi era stata perquisita dai
carabinieri, mentre qualche tempo dopo era stata addirittura
piantonata per circa otto, dieci giorni.
Tale Simone Guidotti dichiarò a Giuttari:
"Preliminarmente voglio farvi presente che da tanti anni mi reco a
Mercatale, paese d'origine di mio padre, e nelle varie occasioni ho raccolto
da più parti discorsi che facevano riferimento esplicitamente al dottor
Zucconi. Voglio altresì far presente che i discorsi sullo Zucconi di cui
adesso vi parlerò circolavano per tutta la gente del paese sin dagli inizi
degli anni '80 e, dopo il delitto dei due francesi, i discorsi da un piano di
semplice sospetto passarono a qualcosa di più grave e circostanziato. Mi
spiego adesso meglio. La gente del paese nel commentare gli omicidi che
venivano attribuiti al Mostro di Firenze, in un primo tempo indicava lo
Zucconi quale persona sospettabile che potesse avere a che fare con quegli
omicidi. Dopo il delitto del 1985, ossia quello ai danni dei due francesi, lo
Zucconi venne notato in paese con una grossa ecchimosi in volto, da lui
giustificata come una caduta da cavallo del quale sport era appassionato. Il
fatto che il francese ucciso fosse stato cintura nera di arti marziali fece
immediatamente collegare una colluttazione tra i "mostri" di cui
probabilmente lo Zucconi avrebbe fatto il capo banda e l'ecchimosi
presentata dallo Zucconi nei giorni immediatamente successivi al duplice
delitto. Il particolare fu da tutti interpretato come la prova regina del
definitivo ed integrale coinvolgimento dello Zucconi nella vicenda del
Mostro di Firenze".
Premesso che non risulta da nessuna parte che il povero Jean-
Michel Kraveichvili fosse cintura nera di alcuna arte marziale, vi
sono altre testimonianze, sempre risalenti allo stesso periodo e rese
a Giuttari, che indicavano un rapporto almeno di conoscenza fra lo
Zucconi e Pacciani. Tale conoscenza di per sé non è affatto un
indizio, ma suscita anche in questo caso un certo effetto appurare
che colui che negli anni dei delitti era non solo indicato dalle voci
del popolo come possibile MdF, ma anche attenzionato dalle forze
dell'ordine, conoscesse colui che tempo dopo e da tutt'altri canali
entrerà come protagonista principale nella saga del Mostro di
Firenze.

La misteriosa donna a casa Pacciani: Ad alimentare ulteriormente


quelle che, comunque ai fini pratici, sono rimaste semplicemente
delle voci, nel 1998 la già citata dottoressa Maria Ines Pietrasanta,
moglie dello Zucconi e ormai vedova da tempo, fu indagata per
rapina, furto e sequestro di persona.
Venne infatti accusata di essere colei che due anni prima, nel
gennaio del 1996, agghindata con una probabile parrucca e una
pelliccia di visone, aveva avvicinato Angiolina Manni, moglie del
Pacciani, fingendosi un'amica della figlia Rossana, l'aveva condotta
a fare compere, quindi l'aveva riaccompagnata a casa. Qui la donna
aveva narcotizzato la povera Angiolina e frugato per tutta casa alla
ricerca di non meglio precisati documenti compromettenti per suo
marito.
Soffermiamoci su questo controverso episodio. Risulta
effettivamente agli atti che la mattina del 22 gennaio 1996 una
misteriosa donna dall'apparente età di 70 anni venne vista a
Mercatale da diversi tesimoni chiedere informazioni per arrivare a
casa del Pacciani in via Sonnino, lì dove abitava, sola, Angiolina
Manni, moglie di Pietro.
La misteriosa donna, che sempre secondo i testimoni aveva vistosi
capelli biondi ossigenati (secondo alcuni in realtà indossava una
parrucca), una lunga pelliccia e un accento veneto/lombardo, si
fermò ad acquistare alcuni generi alimentari prima di fermarsi a
casa Pacciani. Fu rivista per Mercatale in compagnia di Angiolina
nel tardo pomeriggio. Testimonianze riportano che, munita di
regolare ricetta acquisita appositamente presso un ambulatorio
medico nelle vicinanze, acquistò in farmacia una confezione di
Tavor. Verosimilmente trascorse la notte in casa con la Angiolina.
Infine fu notata la mattina successiva mentre lasciava Mercatale su
un autobus di linea.
Più tardi, Angiolina venne vista aggirarsi per il paese in stato
confusionale. La povera donna, barcollante, cadde e sbatté la testa.
Ricoverata in ospedale, le venne diagnosticato un leggero stato
confusionale e un trauma da caduta che richiese dieci giorni di
prognosi. Dalle analisi le venne riscontrata la presenza di Tavor nel
sangue in una concentrazione decisamente superiore alla dose
terapeutica. In quell'occasione la Manni riferì anche di essere stata
derubata di duecentomila lire dalla donna che quella notte aveva
ospitato.
Anche in virtù dell'importanza del nome coinvolto, della vicenda si
interessarono i carabinieri di Mercatale, i quali trovarono
effettivamente tracce della presenza della misteriosa signora in casa
Pacciani. Non bisognava certo avere un fiuto da esperti
investigatori per arrivare alla conclusione che la donna, dopo essere
entrata nelle grazie della Angiolina, l'avesse narcotizzata per poter
frugare comodamente in casa, evidentemente alla ricerca di
qualcosa.
Gli accertamenti successivi portarono a scoprire che tale enigmatica
signora era probabilmente arrivata a Firenze con un treno
proveniente da Venezia, il che era compatibile con l'accento
veneto/lombardo, ma nulla di più fu possibile appurare in merito.
A dispetto delle scarsissime informazioni recuperate, tuttavia, sulla
base di alcune intercettazioni telefoniche, due anni dopo la moglie
del defunto dottor Zucconi si ritrovò coinvolta nella vicenda.
Banale a dirsi, per gli inquirenti (e ancora oggi per un nutrito
gruppo di mostrologi Giuttariani e/o Complottisti), il fine della
donna era eliminare eventuali prove che potessero ancora
nascondersi in casa del Pacciani e che coinvolgessero il marito
defunto.
Le intercettazioni da cui partì l'indagine sulla Pietrasanta si
rivelarono però prive di qualsiasi consistenza: si trattava, infatti, di
mere ipotesi in cui si erano lanciate le due interlocutrici al telefono,
non credendo certamente di essere intercettate. Erano quelli i giorni
successivi alle prime dichiarazioni del Lotti su un presunto medico
che pagava il Pacciani per commettere i delitti e le due donne al
telefono, anche loro a conoscenza delle voci di paese sul dottor
Zucconi, si erano lasciate andare a pure speculazioni, senza alcuna
base probatoria, né indiziaria; un semplice "pour parler" fra amiche.
Per amor di cronaca, le autrici di tale telefonata erano le sorelle di
due vittime del Mostro, che evidentemente accomunate dalla stessa
sfortunata sorte, avevano stretto amicizia fra loro e commentavano
telefonicamente le notizie che la stampa pubblicava sulla vicenda.
Emersero, tuttavia, altri particolari che potevano portare al
coinvolgimento della Pietrasanta:
▪ in primis, l'accento che alcuni testimoni definirono
veneto/lombardo, visto che la moglie del defunto professor
Zucconi era milanese e a Milano aveva vissuto fino al suo
matrimonio nel 1963;
▪ il riconoscimento fotografico della Pietrasanta da parte della
farmacista di Mercatale presso cui la misteriosa donna aveva
acquistato il Tavor; la farmacista trovò una certa somiglianza,
soprattutto nello sguardo, fra le due figure femminili; tuttavia, dai
verbali di riconoscimento emerge una buona dose di incertezza in
tale riconoscimento;
▪ alcuni oggetti trovati presso l'abitazione della Pietrasanta in
seguito a una perquisizione delle forze dell'ordine, fra cui una
confezione di Tavor parzialmente usata, una parrucca rossa, una
pelliccia di visone. Oggetti che, ovviamente, di per sé non
costituivano alcuna prova, tanto più che la misteriosa donna vista a
Mercatale aveva una vistosa capigliatura bionda.
▪ infine, il riconoscimento fotografico da parte della Manni del
dottor Zucconi come il ginecologo che molti anni prima le aveva
praticato un aborto; un riconoscimento non certissimo, in quanto la
Manni dichiarò dapprima che l'intervento era avvenuto all'ospedale
Careggi di Firenze (dove effettivamente lavorava lo Zucconi), in
seguito che invece era avvenuto all'ospedale Ponte a Niccheri, dove
però lo Zucconi non aveva mai lavorato.
Per contro, vi erano alcuni di particolari che sembravano escludere
il coinvolgimento della Pietrasanta:
▪ il fatto che la donna avesse chiesto in giro dove fosse l'abitazione
del Pacciani in via Sonnino, quando avrebbe dovuto tentare di
passare più inosservata possibile per Mercatale e soprattutto
avrebbe dovuto sapere dove fosse via Sonnino, visto che per molti
anni in quella via aveva abitato la famiglia di suo marito;
▪ la necessità di andare in uno studio medico per farsi prescrivere il
Tavor quando la Pietrasanta era a sua volta un medico che si
sarebbe potuta prescrivere da sé tale farmaco, evitando oltretutto di
farsi vedere ulteriormente in giro, in un paese dove comunque il
suo volto poteva anche essere noto;
▪ il fatto che la Pietrasanta non fu riconosciuta da nessuno: ella
infatti abitava da oltre trent'anni nella vicinissima Impruneta e
saltuariamente capitava a Mercatale, paese dove a lungo aveva
vissuto suo marito;
▪ infine, la mancanza di un movente da parte della Pietrasanta,
considerando che entrambe le case di Pacciani (quella in piazza del
Popolo e quella in via Sonnino) erano state per anni perquisite in
ogni angolo dalle forze dell'ordine; ammesso ne avesse avuto la
necessità, che speranze aveva di trovare ancora qualcosa, la moglie
del professor Zucconi?
Stante questa stiuazione, il 4 luglio del 2006, la dottoressa Maria
Ines Pietrasanta fu prosciolta da ogni accusa per non aver
commesso il fatto, chiudendo di fatto il lungo capitolo relativo alla
famiglia Zucconi.
E, suggestioni a parte, a oggi quelle sul ginecologo di Impruneta
rimangono semplicemente dicerie di paese, senza alcun riscontro
probatorio.
Il farmacista

Il dottor Francesco Calamandrei è stato l'unico imputato al


Processo contro i presunti mandanti dei delitti del Mostro di
Firenze.
Nato il 27 Agosto 1941, proveniente da ottima e benestante
famiglia, fu amico di infanzia di Giulio Zucconi, il ginecologo che
negli anni dei delitti era sospettato di essere il MdF. All'università
conobbe il Sertoli, un altro poi rientrato nel giro dei sospettati.
Ereditò la farmacia nel cuore di San Casciano che era stata del
padre e del nonno. Nel 1969 si sposò con la signora Mariella Ciulli,
la coppia ebbe due figli, Francesca e Marco. Non fu probabilmente
un matrimonio felice: lui era affetto da sindrome di disturbo
bipolare, lei aveva sofferto sin dalla più tenera età di vari disturbi
psicologici. Si separarono nel 1985. Il divorzio acuì probabilmente
l'instabilità mentale della signora Ciulli.
Rancorosa nei confronti del marito e ossessionata dalla vicenda del
Mostro di Firenze, la donna lentamente cominciò a sovrapporre le
due figure nella sua mente, intraprendendo un percorso
irreversibile di allontanamento dalla realtà. Fra gli appunti della
dottoressa che l'aveva in cura, Adima Ringressi, è possibile leggere
l'evoluzione della malattia della povera Mariella Ciulli.
Tre anni dopo la separazione, nel 1988, l'ex signora Calamandrei si
recò presso la stazione dei carabinieri di San Casciano dove riferì di
aver visto anni prima il marito con una pistola beretta e di aver
trovato in un frigorifero di casa i feticci strappati alle vittime del
mostro di Firenze. Furono immediatamente effettuati controlli e
perquisizioni in casa Calamandrei, ma non fu rinvenuto nulla di
particolarmente indicativo per le indagini. Sul momento la faccenda
sembrò finire lì.
La donna però non si rassegnò. Nonostante le fosse stata
diagnosticata una psicosi schizoaffettiva di tipo depressivo,
continuò la sua battaglia per consegnare alla giustizia il suo ex
marito mostro. Contattò più volte Renzo Rontini, il padre della
povera Pia uccisa a Vicchio nel 1984, raccontandogli con precisione
e dovizia di particolari le sue convinzioni e le prove che aveva
raccolto. A quanto riferisce nell'udienza del 5 febbraio 2008 del
Processo Calamandrei l'avvocato Patrizio Pellegrini, parte civile
per i coniugi Rontini, lo stesso Renzo non ritenne attendibili le
accuse della Ciulli, pregandola di rivolgersi al dottor Ruggero
Perugini, all'epoca a capo della SAM (Squadra Anti Mostro).
Perugini, a sua volta, non credette a una singola parola di quanto
sosteneva la donna.
La Ciulli non si perse d'animo e divenne presenza fissa nei locali
della SAM, ove soleva ripetere con pazienza le solite accuse.
Il 21 Marzo 1991, si presentò alla questura di Firenze dove rese
alcune dichiarazioni inerenti al delitto del 1968 a Signa in cui furono
uccisi la Locci e il Lo Bianco.
La donna dichiarò che la notte del duplice omicidio, lei e l'allora
suo fidanzato Francesco Calamandrei, rientrando da una cena,
passarono proprio dal luogo del delitto udendo gli spari. Terminata
l'azione omicidiaria, si fermarono a curiosare e notarono un
bambino (ovviamente Natalino Mele, NdA) che il marito accompagnò
a casa del De Felice. Il giorno dopo lei e il Calamandrei tornarono
sul luogo del delitto, il farmacista curiosò attorno alla macchina e
raccolse qualcosa da terra che subito nascose. La donna aggiunse
che Francesco Calamandrei era possessore di una pistola ereditata
dal padre di cui si disfece il giorno dopo il delitto degli Scopeti
buttandola a mare da Punta Ala.
Nell'aprile del 1991, la Ciulli ribadiva queste accuse negli uffici
della SAM. Come si appura dal blog "Quattro Cose Sul Mostro", fu
inviato un rapporto dalla SAM stessa al Procuratore Pier Luigi
Vigna in cui era riportato:
"In data 11.04.1991 la Ciulli si ripresentava alla SAM per integrare le sue
precedenti dichiarazioni ed esternava rammarico per quella che
considerava inerzia da parte della P.G. e della A.G. in ordine alle accuse da
lei mosse nei confronti del marito. Pertanto la Ciulli veniva sentita a
verbale dalla S.V. il 16 aprile 1991 alle ore 16.45. Emergeva con tutta
evidenza la inattendibilità della teste, nonché la incrollabile volontà di
nuocere al Calamandrei in quanto la stessa sosteneva di essersi
nuovamente recata con lui sul luogo del delitto il pomeriggio seguente
all'omicidio del 1968 e di aver preso una coperta da dentro l'auto degli
uccisi mentre il Calamandrei aveva preso un beauty-case. La S.V.
contestava alla Ciulli che ciò non poteva essere vero perché dagli atti
processuali risultava che l’auto era stata rimossa e posta sotto sequestro
presso la Compagnia di Signa alle ore 9.30 del giorno 22.8.1968, poche ore
dopo il delitto, avvenuto nella notte precedente. Dal momento in cui
furono rinvenuti i cadaveri del Lo Bianco e della Locci l'auto fu piantonata
dai CC fino alla rimozione. La Ciulli prese atto della contestazione, si
dichiarò sollevata nella coscienza e disse che l'auto da lei vista quel
pomeriggio era sicuramente un'altra vettura".

Eppure dopo breve tempo, la donna ritornò alla carica con le accuse
al marito. Chiunque abbia raccolto le testimonianze della Ciulli
sostiene che a sentirla parlare non si sarebbe mai detto che fosse
affetta da un qualche disturbo psichiatrico. Era estremamente
coerente, lucida e precisa nei suoi particolareggiati racconti, tanto
da instillare inevitabilmente il dubbio nei suoi interlocutori che
quelle accuse avessero un certo fondamento. Lo stesso Rontini, pur
profondamente scettico ma nel contempo strenuamente impegnato
nella spasmodica ricerca degli assassini di sua figlia, nella
primavera del 1992 decise di contattare telefonicamente il
Calamandrei nella sua farmacia a San Casciano per invitarlo a un
colloquio privato e cercare di capire cosa ci fosse di vero nelle
dichiarazioni della moglie. Il colloquio fra i due si tenne a Vicchio
nella casa di Renzo Rontini e dovette concludersi positivamente,
perché al termine dello stesso il Calamandrei, a detta della sua
compagna, apparve visibilmente sollevato.

La Ciulli frattanto continuava imperterrita con le accuse nei


confronti dell'ex marito, coinvolgendo altri ben noti personaggi,
come Vigna e il giornalista Mario Spezi. Nel dicembre del 1991,
confidò infatti a un sacerdote che un gruppo di persone molto
altolocate, fra cui suo marito, suo figlio e il Procuratore Vigna, stava
progettando l'ennesimo duplice omicidio del "Mostro", da
compiersi alla Madonna del Sasso a Pontassieve.

Con l'arrivo di Giuttari e con il conseguente inizio delle indagini sui


mandanti e sulla pista esoterica, nel luglio del 1998 il Calamandrei
subì una lunga perquisizione, al termine della quale venne
sequestrato vario materiale per lo più suggestivo: quadri, libri di
magia, appunti dello stesso farmacista che erano probabilmente
stati scritti nei periodi di più acuta depressione dovuta alla sua
malattia e in cui aveva riversato i malesseri e i fallimenti di una vita.
A dispetto delle esternazioni della Ciulli che erano ormai divenute
sempre più deliranti, è doveroso elencare alcuni aspetti della
vicenda e della vita del Calamandrei che risultano suggestivi e che -
partendo proprio dalle accuse della moglie - hanno potuto far
nascere qualche sospetto in seno agli inquirenti:
● la conoscenza fra Calamandrei e il dottor Giulio Zucconi, a lungo
sospettato da voci di popolo di avere a che fare con i delitti del
Mostro;
● la conoscenza fra Calamandrei e il dottor Francesco Narducci,
anche lui sospettato di aver avuto a che fare con i delitti: una
conoscenza che il farmacista ha sempre negato, ma che viene
attestata da diverse testimonianze (vedremo nel prossimo capitolo
quanto attendibili);
● le dichiarazioni del Pacciani all'avvocato Fioravanti, secondo cui
il farmacista Calamandrei era uomo fortemente interessato a
pratiche di magia. Il che di per sé non è reato, ma rappresenta
sicuramente un indizio suggestivo agli occhi di chi cerca mandanti
dediti a pratiche di magia e riti esoterici;
● una lettera scritta dal Vanni, mentre era in carcere, indirizzata
proprio al farmacista. Una lettera che sembra innocua, come tante
che scrisse Vanni nel periodo di detenzione, cercando aiuto presso
diversi conoscenti e notabili di San Casciano, ma che per l'Accusa
indicava una conoscenza pregressa fra le parti. La lettera recitava
testualmente:
"Carissimo Farmacia Calandrei gli scrivo questa lettera per farli sapere che
stò male in 9 mesi non mi è riuscito di telefonare alla moglie Luisa che
schifo cari farmacisti che vergogna è questa non ne posso più di stare in
galera non ho fatto nulla è una vergogna questa e chiedo la Nazione e non
la portano da 10 giorni che sistema è questo… Mi ha detto il mio avvocato
di Firenze che fino al processo non mi mandano a casa il signor giudice
Vigna e Canessa insomma siamo a un bel punto ha detto l'avvocato Pepi
Gianpiero che stia tranquillo e beato ci vuole pazienza insomma. Quando
tornerò a casa faremo un bel carteggio se lo permette il Maresciallo perché
io sono innocente non ho fatto nulla di male e vi faccio tanti saluti a
Francesca e signorina farmacista. Arrivederci a presto tanti saluti Vanni
Mario".
● infine ci sarebbero le dichiarazioni della signora Mascia Rossana,
donna di origini campane, compagna del Calamandrei nei primi
anni '90. La Rossana ebbe modo di dipingere agli inquirenti il
farmacista come una specie di strozzino, dedito all'alcool, alla
cocaina, agli psicofarmaci, in preda a turbe psichiche e
profondamente attratto dalla magia.
Inoltre, la donna stessa confermò paradossalmente la faccenda già
raccontata dalla Ciulli riguardo la pistola buttata in mare da Punta
Ala. A suo dire infatti fu lo stesso Calamandrei a raccontarle questo
particolare e le riferì di essersi disfatto di quella pistola per evitare
noie burocratiche.
Infine, sempre la Rossana riferì del colloquio fra Rontini e
Calamandrei avvenuto nella primavera del 1992. Dalle sue
dichiarazioni emerge che il farmacista appariva molto turbato
all'idea di incontrare il padre di una delle vittime del mostro e
chiese alla donna di accompagnarlo, in modo da dare l'impressione
al Rontini di avere una vita normale, una compagna, degli affetti.
Stando sempre alle dichiarazioni della signora Rossana, dopo
l'incontro (cui lei comunque non aveva assistito) il Calamandrei
apparve estremamente sollevato, come se avesse "scansato un
pericolo".

Nessuno dei punti sopra elencati aveva e ha tuttora il benché


minimo valore probatorio, anzi alcuni appaiono decisamente
pretestuosi come la lettera del Vanni, tuttavia inseriti in un contesto
di testimonianze, alcune delle quali concordanti, che individuavano
in Calamandrei il punto di contatto fra i mandanti dei delitti e i
sicari prezzolati, potevano avvallare un quadro indiziario su cui le
Procure di Firenze e Perugia stavano concentrando i propri sforzi.
Frattanto, nel 1999 Calamandrei vendette la farmacia. Nel 2000, la
Ciulli, in seguito a perizia psichiatrica, fu interdetta. Le indagini
proseguirono e la pista relativa a un secondo livello dedito a riti
esoterici prese sempre più corpo. Nel 2004 fu disposta una nuova
imponente perquisizione a casa del farmacista, durante la quale fu
sequestrato diverso materiale definito "utile per le indagini".
Contemporaneamente gli fu notificato un avviso di garanzia, in
quanto ritenuto uno dei mandanti degli ultimi cinque duplici
omicidi attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze (da ottobre 1981 a
Calenzano a settembre 1985 a Scopeti). Successivamente nella
richiesta di rinvio a giudizio del 4 dicembre 2006 l'imputazione per
il duplice delitto di Calenzano venne meno, probabilmente perché
per quel delitto non esisteva per la Giustizia un esecutore materiale
e dunque non potevano esistere i mandanti.
Nel 2005 il Calamandrei ricevette un nuovo avviso di garanzia da
parte della Procura di Perugia per concorso nell'omicidio del
dottor Francesco Narducci. Secondo la Procura perugina, Narducci,
che faceva parte del gruppo di notabili che commissionavano i
delitti del Mostro, avrebbe avuto un ripensamento dopo il duplice
delitto del 1985; probabilmente avrebbe voluto lasciare il gruppo o
peggio ancora parlare, in ogni caso rappresentava una minaccia per
i suoi facoltosi complici. Il Calamandrei avrebbe perciò ordinato il
suo omicidio per assicurare a se stesso e agli altri l'impunità dai
delitti del mostro.
Nel 2008, il farmacista fu prosciolto da quest'ultima accusa perché
non erano emerse prove durante le indagini preliminari.
Aveva frattanto però preso il via il processo fiorentino ai presunti
mandanti.
Il Processo
A Firenze, il 27 Novembre 2007 ci fu la prima udienza del Processo
con rito abbreviato, presieduto dal GUP, dottor Silvio De Luca, che
vedeva imputato il dottor Francesco Calamandrei come mandante
dei delitti del Mostro Firenze.
L'accusa era sostenuta dai PM Paolo Canessa e Alessandro Crini;
la difesa era a carico dell'ottimo avvocato Gabriele Zanobini, lo
stesso che aveva difeso Alberto Corsi durante il processo ai CdM. Si
trattava anche in questo caso di un processo puramente indiziario.
La principale testimone dell'Accusa, Gabriella Ghiribelli, era
venuta a mancare meno di tre anni prima, privando di fatto la
Procura della propria arma migliore.
Il 6 Maggio 2008, la Pubblica Accusa chiese l'ergastolo (da ridursi a
30 anni, considerando il rito abbreviato) nei confronti dell'imputato
per associazione a delinquere finalizzata all'omicidio e al concorso
degli ultimi quattro delitti attribuiti al Mostro di Firenze. La
Procura identificò nel Calamandrei l'intermediario fra i compagni
di merende (Pacciani, Vanni, Lotti) e i notabili che usavano i feticci
in riti satanici e orgiastici all'interno di villa "La Sfacciata" in via di
Giogoli.
Ciò che però sembrava non tornare nel teorema della Pubblica
Accusa e che l'avvocato Zanobini non mancò di sottolineare più
volte durante la sua mirabile arringa difensiva, era che nei delitti
del 1982 (Baccaiano) e del 1983 (Giogoli) non erano stati asportati
feticci dalle vittime femminili. Dunque, nei primi due omicidi per
cui il Calamandrei era imputato, era venuto a mancare il motivo
principale per cui quegli stessi delitti erano stati commissionati;
mentre nei successivi due delitti (Vicchio e Scopeti), gli unici due
fra i cosiddetti mandanti gaudenti che vivevano a villa "La
Sfacciata" e che dunque organizzavano i riti esoterici e orgiastici
all'interno della villa stessa (il Reinecke e il Parker), avevano già da
qualche mese abbandonato la villa e la zona (vedasi capitolo Il
secondo livello).
Il Calamandrei si sarebbe quindi ritrovato a fare da intermediario
fra i notabili e i killer prezzolati in quattro omicidi il cui fine era
quello di portare all'interno di Villa "La Sfacciata" i feticci da usare
in festini a luci rosse dal sapore esoterico. In due di questi quattro
omicidi però non c'erano feticci, negli altri due non era più
disponibile la villa in quanto lasciata dai due mandanti che la
abitavano. Veniva dunque a cadere il movente o meglio il
collegamento omicidi-feticci-riti, su cui basava le proprie
fondamenta il teorema dell'Accusa.

Il 21 Maggio 2008, il giudice De Luca assolse l'imputato da ogni


accusa perché il fatto non sussisteva. La sentenza affermava
testualmente:
"I sillogismi dell'Accusa non si sono tradotti in indizi gravi, precisi e
concordanti, ma sono risultati solo ipotesi, inizialmente anche plausibili,
ma non collegate da riscontri oggettivi".
La Pubblica Accusa non intese fare ricorso contro la sentenza.
Francesco Calamandrei morì il primo maggio 2012, provato nel
fisico e nello spirito dalle infamanti accuse. Morì - è opportuno
ribadirlo - da persona innocente.

Col senno di poi, come visto, è plausibile sostenere che la prima e


principale accusatrice del farmacista fu innanzitutto la sua ex
moglie. I resoconti che la Ciulli aveva fatto in varie occasioni agli
inquirenti e ai suoi occasionali interlocutori (da Renzo Rontini in
giù), sebbene in apparenza lucidi e precisi, a un occhio più attento
sembrano davvero il confuso disegno di una persona che,
morbosamente ossessionata dalla vicenda e rancorosa verso il
marito, cercava anche piuttosto ingenuamente e sicuramente in
maniera farneticante di far quadrare tutti i punti oscuri della
vicenda, attingendo a piene mani da fatti ed eventi reali del tutto
indipendenti l'uno dall'altro, collegandoli fra loro, confondendoli
nella propria mente e adattandoli al meglio alla figura del proprio
marito.
Quando la Ciulli riferisce di aver trovato i feticci custoditi dal
marito in un frigorifero appare per esempio un chiaro riferimento
alla incresciosa vicenda del già citato dottor Garimeta
Gentile (vedasi capitolo dedicato all'omicidio delle Bartoline),
allorché dopo il delitto delle Bartoline si era sparsa la diceria
popolare che la moglie del ginecologo avesse fatto l'insana scoperta
dei feticci in un frigorifero.
Il racconto dell'episodio avvenuto in occasione del delitto del 1968,
improponibile per chi conosce l'evoluzione dei fatti a Signa, ne è un
altro lampante esempio: il Calamandrei e la Ciulli che passarono
dal luogo del delitto del 1968, il marito che accompagnò il piccolo
Natalino Mele (dando finalmente spiegazione a come questi fosse
riuscito ad arrivare a casa dei De Felice), sempre loro due che
tornarono sul luogo del delitto il giorno successivo, il marito che
frugò all'interno dell'automobile (da notare che nella realtà la stessa
era stata già rimossa dalle forze dell'ordine) e trovò la pistola
(dando finalmente spiegazione al famoso passaggio dell'arma dai
sardi al mostro). Infine, il marito che si disfece di un'altra pistola,
avuta in eredità dal padre, subito dopo il delitto degli Scopeti
(dando eventuale spiegazione a una possibile doppia arma usata in
quel delitto).
Il medico di Perugia

Uno dei nomi maggiormente ricorrenti in mostrologia quale


possibile autore dei duplici delitti storicamente attribuiti al Mostro
di Firenze è quello del dottor Francesco Narducci, giovane e
stimato gastroenterologo appartenente a una delle famiglie più
facoltose e importanti di Perugia.
Vicenda piuttosto complessa quella del Narducci, ricca di voci,
infarcita di misteri; cercheremo di raccontarla al meglio in questo e
nel prossimo capitolo, comunque consapevoli che non sarà impresa
semplice.
Nato il 4 ottobre 1949, dopo la laurea in medicina, nel 1974
Narducci svolse il servizio militare a Firenze. Al termine, gli
almanacchi accademici ci dicono che divenne il più giovane
professore associato d'Italia.
Nel 1977 conobbe a una festa Francesca Spagnoli, di dodici anni
più giovane, nipote di Luisa Spagnoli, imprenditrice nota
soprattutto per la creazione dei "Baci Perugina" e della linea di
abbigliamento che ancora oggi porta il suo nome.
La coppia si unì in matrimonio il 20 giugno del 1981, esattamente
due settimane dopo il duplice delitto di Mosciano di Scandicci, il
primo fra quelli a cadenza annuale commessi dal MdF.
Tre mesi dopo, il 16 settembre, il dottore partì per Philadelphia,
Stati Uniti, per un convegno medico che si sarebbe protratto fino
alla fine dell'anno. Narducci rientrò ufficialmente in Italia il 12
dicembre del 1981. In quel lasso di tempo si era compiuto il delitto
di Calenzano che di fatto assolverebbe il medico dall'essere il serial
killer delle coppiette.
Molti sono stati i sospetti avanzati nel corso degli anni circa la reale
presenza del Narducci negli Stati Uniti nei giorni in cui il Mostro
colpiva a Calenzano, tuttavia dalle indagini effettuate, di cui si
occupò in prima persona anche l'Interpol, non sembra possibile che
il dottore potesse essere (più o meno furtivamente) rientrato in
Italia in quel periodo e poi altrettanto furtivamente ritornato a
Philadelphia. In merito si è espresso (anche in tempi
recenti) Giuliano Mignini, il magistrato di Perugia che nei primi
anni del nuovo millennio ha riaperto le indagini sulla sospetta
morte del medico perugino e sull'eventuale collegamento con i
delitti del Mostro. Il dottor Mignini, uno dei più grandi accusatori
del Narducci, ha avuto modo di confermare come dal controllo dei
passaporti non sembrerebbe possibile che il famoso
gastroenterelogo potesse essere stato in Italia in occasione del
duplice delitto delle Bartoline. Tuttavia, questo particolare non
taglierebbe la testa al toro, specie nell'ottica di omicidi su
commissione ed eventualmente perpetrati da più persone.
Il coinvolgimento di Narducci nei delitti del mostro è difatti da
sempre dibattuto e la sua strana morte, un mese dopo il duplice
omicidio degli Scopeti, ha amplificato i sospetti.
Sembra certo che già nel 1986 il nome del giovane rampollo
perugino figurasse alla riga 181 della famosa lista della SAM
(Squadra Anti-Mostro), la lista che raccoglieva i nomi di tutti coloro
che per un motivo o per un altro erano sospettati di essere i
possibili autori degli omicidi. Come tale nome fosse rientrato nella
lista, al momento non è dato sapersi: ci sono alcune ipotesi che non
mancheremo di valutare.
Quel che tuttavia oggi possiamo dire - quasi senza timore di
smentita - è che sopratutto dopo la riapertura dell'inchiesta agli
inizi del nuovo millennio da parte della Procura di Perugia, si sono
sedimentate nella vulgata mostrologica una serie di misteri, false
informazioni, talvolta veri e propri equivoci, che hanno accostato la
figura del medico perugino a quella del Mostro di Firenze molto
più di quanto la realtà dei fatti - almeno quella a noi nota - avrebbe
dovuto fare intendere.

Equivoci Mostrologici
Almeno due sono gli episodi relativi alla figura di Francesco
Narducci che fino a poco tempo fa venivano dati per certi e che
invece recentemente si è scoperto essere se non proprio bufale,
sicuramente grotteschi equivoci:

1. Il primo episodio riguarda il presunto avvistamento


dell'automobile del medico perugino nei pressi di un casello
autostradale di Firenze la sera dell'8 settembre 1985, data in cui
ufficialmente si fa risalire il duplice omicidio degli Scopeti.
Abbiamo infatti visto che è sempre stata piuttosto ricorrente la voce
secondo cui la targa della Citroen Pallas del Narducci fosse stata
registrata a un casello autostradale fiorentino la presunta notte
dell'omicidio dei francesi. Abbiamo anche ribadito che non esistono
al momento riscontri ufficiali che accertino questo episodio.
Ultimamente, tuttavia, aveva iniziato a girare per il web un
documento datato 4 aprile 1986 che aveva illuso i mostrologi, in
particolar modo quelli di fede narducciana. In tale documento,
inviato dalla questura di Firenze a quella di Perugia e avente per
oggetto il "Duplice omicidio Mauriot-Kraveichvili", venivano
richiesti accertamenti su un individuo la cui automobile era stata
appunto segnalata al casello di Firenze Nord alle 22.05 della
presunta notte dell'omicidio (8/9/1985). Tale documento era stato
sbianchettato a dovere da mano ignota per non mostrare i dati
sensibili del soggetto su cui si chiedevano indagini, lasciando però
maliziosamente visibili le parole "automobile", "medico" e
"Perugia".
Banale a dirsi, chiunque l'avesse visto avrebbe sicuramente
collegato in perfetta buona fede il soggetto in questione con il
Narducci, trovando così finalmente conferma ufficiale alle voci che
per anni si erano rincorse.
È emerso però che il documento privo di cancellazioni fa
riferimento a un medico nato a Palmi (Reggio Calabria) e residente
a Perugia, avente iniziali C.Z., possessore di una FIAT PANDA ed
effettivamente passato dal casello di Firenze Nord alle 22.05 del
giorno 8 settembre 1985. Inutile sottolineare che tale individuo è in
seguito risultato completamente estraneo alla vicenda del Mostro di
Firenze.
Rimane dunque al momento ancora non documentata l'eventuale
segnalazione dell'automobile del Narducci.

2. Più degno di approfondimento risulta essere il secondo episodio:


per molti anni si è infatti creduto che un ispettore di polizia a capo
della Squadra Mobile di Perugia, il dottor Luigi Napoleoni, avesse
condotto fra il settembre e l'ottobre del 1985 una serie di serrate
indagini su Francesco Narducci, sospettandolo di essere il Mostro
di Firenze.
In seguito alla nuova inchiesta aperta dalla Procura di Perugia nel
2001, sono infatti emersi fra i vari fascicoli e registri della questura
perugina alcuni documenti che hanno effettivamente portato a
ritenere che il predetto ispettore Napoleoni stesse indagando sul
celebre gastroenterologo come possibile autore o co-autore dei
delitti attribuiti al Mostro.
Esplicativi in tal proposito, ad esempio, i seguenti due documenti
rinvenuti nella sede della questura perugina:
● il primo è un foglio datato 30 settembre 1985 su cui l'ispettore
Napoleoni aveva annotato testualmente:
"mostro di Firenze — ufficio postale — bar Jolly — via stretta — città —
seduto fuori — colore di capelli castani — occhi — occhiali scuri — vestito
maglietta bianca, blu jeans — un po' di barba — niente orologi —
bracciale".
Sull'altro lato del foglio era scritto: "Timberland — solo al bar — soldi
dove sono — in tasca della maglietta".
Di traverso era riportato "Jach'ò (discoteca "Jackie'O"? n.d.r.) — no
macchina—sembra che... lettere sigillate pubblico presente —
raccomandata — occhiali nel cassetto dell'ufficio pistola — soldi in barca...
ore 14... finire il suo lavoro... 21.00 oggi pizzeria in taxi (Fi)... telo
marrone mancante in una casa disabitata lontana dall'... taxi colore
azzurro".
Questi appunti piuttosto criptici sono stati per anni oggetto delle
più svariate interpretazioni da parte dei mostrologi, ma nessuno ha
mai dubitato che facessero riferimento alle indagini che il
Napoleoni stava conducendo sul Narducci.
● il secondo documento rinvenuto è una nota sul registro degli
straordinari della questura di Perugia che riportava
testualmente "08 ottobre 1985 Indagini di PG in Foligno per duplice
omicidio Firenze".
Anche in questo caso, in tutti gli ambienti mostrologici (a onor del
vero, senza distinzione alcuna) si è sempre dato per scontato che
l'ispettore Napoleoni si fosse recato a Foligno per svolgere
accertamenti presso lo studio del padre di Francesco, lo stimato
ginecologo Ugo Narducci, che ivi esercitava parte della sua attività
professionale. Anzi, uno dei temi più dibattuti riguardava proprio
la datazione di tali accertamenti folignati, in quanto proprio in quei
giorni si compiva il destino del giovane medico perugino.

Vedremo come sia per le indagini svolte a Firenze, sia per quelle
svolte a Foligno, la realtà sembra essere piuttosto distante da tali
interpretazioni.
È onesto comunque affermare che i suddetti equivoci sono
probabilmente nati proprio a seguito delle dichiarazioni dello stesso
Napoleoni che, interrogato il 25 gennaio del 2002, alla presenza del
magistrato Giuliano Mignini, dichiarò:
"Ricordo anche che, dopo il ritrovamento del cadavere (del Narducci
stesso), non ricordo con precisione quando, andai a Firenze nell'abitazione
che poteva essere stata utilizzata dal dr. Francesco Narducci per ricercare
parti di corpo femminili sotto alcool e sotto formalina; non ricordo
l'ubicazione dell'appartamento, ricordo solo che si trattava di una
costruzione non recente a più piani, non ricordo se relativa ad un
condominio. Non ricordo neppure la zona dove si trovava l'abitazione; a
me sembra, ma non ne sono sicuro, che siamo entrati dentro Firenze. Di
quella casa ho un solo ricordo, di un corridoio, ma non ricordo chi mi ci
mandò né con chi fossi, probabilmente con un collaboratore della squadra
mobile. Le ricerche diedero esito negativo".
Come si evince, a distanza di 17 anni dai fatti, Napoleoni dimostrò
di non ricordare quasi nulla della pur importante perquisizione che
aveva condotto alla ricerca dei feticci del Mostro. Tuttavia, sebbene
piuttosto confuse e farcite di "non ricordo", tali dichiarazioni non
sembravano lasciare spazio a dubbi sul fatto che l'ispettore avesse a
lungo cercato a Firenze e dintorni i feticci nascosti dal Narducci e
dunque lo avesse inequivocabilmente associato ai delitti del Mostro.
Solo recentemente la verità, o parte di essa, è venuta a galla grazie
alle ricerche di alcuni studiosi, in particolar modo del più volte
citato blogger Francesco Cappelletti.
Studiando carte e verbali venuti ultimamente alla luce, è stato
possibile ricostruire le indagini condotte dal Napoleoni sia a
Firenze che a Foligno, arrivando alla sorprendente conclusione che
le stesse non fossero indirizzate verso il Narducci.
Per fare charezza partiamo dal rinvenimento di un rapporto, datato
30 settembre 1985, in cui Napoleoni informava il proprio diretto
superiore, dottor Alberto Speroni, delle proprie attività
investigative.
Tali attività possono essere riassunte come segue: quattro giorni
prima, per la precisione il 26 settembre, un amico di Perugia,
tale Franco Picchi, aveva presentato al Napoleoni una ragazza
ventenne di Prato, di nome Cristina P., affinché la stessa potesse
esporgli confidenzialmente quanto le era capitato. La suddetta
Cristina rivelò che nel gennaio o nel giugno del 1984 (la ragazza sarà
piuttosto titubante sul mese esatto, NdA) aveva conosciuto nella
discoteca Jackie O' di Firenze il signor Paolo Poli, pratese anch'egli,
di altezza superiore ai 185 centimetri, corporatura robusta, di 40
anni circa, dai capelli brizzolati tirati indietro e il naso lungo e
dritto. In seguito questo Paolo l'aveva convinta a seguirlo all'interno
di un appartamento sito in Firenze e qui l'aveva minacciata di
morte e violentata. In tale circostanza il Poli, forse per rendere più
credibili le proprie minacce, le aveva rivelato di essere il Mostro di
Firenze e di aver già ucciso in passato una studentessa, il cui
cadavere era stato rinvenuto in un campo alla periferia del
capoluogo toscano, vicino ad una pianta di ulivo. Piccola parentesi:
se l'incontro fosse avvenuto in giugno, l'omicidio cui fa riferimento
il Poli potrebbe essere quello di Gabriella Caltabellotta del febbraio
1984. Ça va sans dire, nel caso l'incontro fosse avvenuto in gennaio,
il riferimento del Poli andrebbe cercato in un altro non meglio
identificato omicidio.
A ogni modo, le successive indagini del Napoleoni portarono a
rintracciare l'uomo, residente a Prato, e a riscontrare che questi,
oltre a somigliare fisicamente alla descrizione fatta dalla ragazza,
aveva alcuni precedenti penali, molti dei quali a sfondo sessuale.
Da un secondo rapporto, datato 8 ottobre 1985, risulta che il
Napoleoni si era recato personalmente a Firenze e, con l'aiuto della
ragazza, era riuscito a localizzare l'appartamento dove era avvenuto
lo stupro, sito in via dei Serragli, 6.
In seguito a tali nuovi sviluppi, verrà richiesto alla Cristina P. di
rendere una testimonianza ufficiale relativa alla violenza subita dal
Poli. Tale testimonianza sarà rilascata in data 28 novembre 1985.
Quanto riportato spiegherebbe, dunque, la presenza del Napoleoni
nel capoluogo toscano fra fine settembre e inizi ottobre del 1985,
presenza che nulla aveva a che vedere con la figura del dottor
Narducci.
A ulteriore conferma, presso la questura di Perugia, nel fascicolo
dedicato al Poli, son stati rinvenuti alcuni appunti dello stesso
Napoleoni che ribadivano quanto da lui già verbalizzato nel
rapporto del 30 settembre 1985.
Da segnalare, infine, che da successive indagini, svolte a Firenze e a
Perugia, non risulta siano mai emersi collegamenti di alcun tipo fra
il Paolo Poli e Francesco Narducci.
È tuttavia doveroso riportare che, in un recente incontro pubblico,
tenutosi a Perugia il 30 settembre 2022 e intitolato "Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto", il dottor Mignini ha
affermato che invece risulterebbero provati i collegamenti fra il Poli
e il Narducci, senza però approfondire meglio questo aspetto.
Chi vi scrive, ovviamente, al momento non è in grado di dire su
quali basi Mignini sostenga questo collegamento e dove
eventualmente risieda la verità.

Tornando all'autunno del 1985, ci furono ulteriori visite del


Napoleoni nel capoluogo toscano, sempre per indagini legate alla
vicenda del Mostro, in cui ancora una volta il Narducci sembra non
rientrare.
In data 26 giugno 2002, lo stesso ispettore dichiarò, infatti, alla
Procura di Perugia che nel settembre del 1985 c'era stato un
sensitivo perugino che in una specie di trance notturna aveva avuto
una premonizione sul delitto degli Scopeti ed era in grado di
identificare il Mostro (a suo dire un prete o un religioso, magro,
alto, di circa 45 anni, di nome Mario, sempre vestito di nero) e il
luogo (probabilmente una chiesa o un luogo sacro sito in Firenze),
dove nascondeva le parti di pube escisse alla vittime.
Sulla base di queste strambe dichiarazioni, la Squadra Mobile di
Perugia, nella persona dello stesso Napoleoni, si era mossa in
direzione Firenze nel tentativo di individuare tale luogo. Inutile
dire che queste indagini non portarono (ovviamente) a nulla.

Per quanto riguarda, invece, la presenza del Napoleoni a Foligno in


data 8 settembre 1985, anche in questo caso sembrerebbe escluso
qualsiasi riferimento al Narducci o al di lui padre.
Difatti, esiste un verbale secondo cui il Napoleoni riferiva alla
Procura che si trattava di accertamenti svolti su disposizione
dell'allora dirigente dell'ufficio, il dottor Speroni, presso una
sensitiva folignate che, testuali parole: "...poteva essere in grado di
fornire elementi utili alle indagini. A quanto ricordo le visite presso la
suddetta sensitiva furono 3 o 4..."
Come dicevamo, dunque, anche in questo caso niente a che vedere
con Narducci e famiglia.
Ci si potrebbe a questo punto interrogare sull'origine di tali
grossolani equivoci che negli anni si sono imposti nella vulgata
mostrologica. Abbiamo visto come probabilmente fu lo stesso
ispettore, quando venne ascoltato per la prima volta nel gennaio del
2002 (all'epoca era già più che settantenne ed erano passati 17 anni
dai fatti narrati) a fare confusione fra i vari eventi e dare origine agli
errori.
Nelle dichiarazioni sopra riportate, effettivamente Napoleoni pare
confondere i tre diversi filoni di indagine che all'epoca stava
seguendo parallelamente, sovrapponendo l'inchiesta sul suddetto
stupratore Paolo con quella relativa alla ricerca dei feticci a seguito
dalle dichiarazioni del sensitivo e infine con le indagini condotte
successivamente alla morte del Narducci, avvenuta più o meno
contemporaneamente.
Sarà comunque lo stesso Napoleoni a riconoscere gli errori di
memoria e porre la parola fine sull'argomento, dichiarando circa sei
mesi dopo, nel giugno del 2002, a Mignini: "È possibile, dato gli anni
trascorsi, che ho fatto confusione nella connessione tra la morte del medico
e le trasferte a Firenze per altri tipi di indagine."
Non che questa dichiarazione sia stata sufficiente a troncare le
spelucazioni di svariati mostrologi che faticano dopo tanti anni a
contemplare un'estraneità del Narducci con le indagini condotte
dalla questura perugina. È stata infatti avanzata l'ipotesi che nel
giugno del 2002 Napoleoni fosse stato spinto (dal potente entourage
che ruotava e ruota attorno alla famiglia Narducci) a negare le sue
indagini sul medico; una possibilità che, sebbene aprioristicamente
non escludibile, sinceramente appare molto poco credibile e che
non rende giustizia alla memoria di un valente ispettore di polizia.
Rimangono ancora talune incertezze sulla questione, che si spera
possano essere dissipate col tempo. Rimane, ad esempio, da
chiedersi perché il magistrato Mignini, certamente a conoscenza
della verità, non abbia mai inteso far chiarezza su questo punto,
nonostante abbia partecipato nel tempo con apprezzabile verve a
diversi dibattiti di natura mostrologica. E soprattutto rimane da
chiarire - come vedremo nel prossimo paragrafo - il mistero
dell'automobile del Narducci segnalata a un casello autostradale nei
pressi di Firenze la presunta notte del duplice omicidio agli Scopeti.

Il Narducci a Firenze
Dando comunque per scontato che il chiacchierato medico perugino
potesse non c'entrare nulla con le indagini del Napoleoni, vediamo
a questo punto come e perché possa essere rientrato nella vicenda
del Mostro e soprattutto nella lista della SAM, tant'è che nel 1987 lo
stesso Procuratore capo Pier Luigi Vigna decise di interessarsi alla
figura del medico perugino.
Come dicevamo, ancora oggi non vi sono certezze in merito,
possiamo dunque limitarci a fare tre ipotesi:

1. Segnalazione dopo il delitto degli Scopeti:


Abbiamo più volte parlato della voce secondo cui la targa della sua
Citroen Pallas fosse stata registrata a un casello autostradale nei
pressi di Firenze la presunta notte dell'omicidio dei francesi.
Qualora questo episodio fosse vero potrebbe spiegare l'ingresso del
dottor Narducci nella famigerata lista SAM e nelle indagini sul
MdF.
Soffermiamoci un attimo su questo fantomatico avvistamento.
Ciò che sappiamo con certezza, l'unica cosa che sappiamo, è
l'esistenza di un faldone negli archivi della SAM a Firenze, su cui
era riportata la dicitura: Carteggio vario - Anno 1985 - 85090809 PSB -
Auto transitate gg 8-9/9785 provincia di Firenze". In testa al faldone
c'era un foglio sul cui retro era stato scritto a mano: dr. NARDUCCI
FRANCESCO - medico - Perugia via Savonarola 31 - ed era proprietario
di un appartamento a Firenze ove avrebbero trovato dei bisturi e feticci - si
sarebbe suicidato buttandosi nel Trasimeno".
All'interno del faldone va segnalata la presenza di diversi fascicoli
contenenti informazioni varie sui duplici omicidi, ma nulla
riguardante il medico perugino.
Premesso che risulta tuttora ignota la sigla PSB posta sul faldone
(c'è chi sostiene stia per "Punto Stazione Barberino" o addirittura
"Pubblica Sicurezza Barberino", intendendo per Barberino il noto
svincolo autostradale a nord di Firenze), le informazioni che si
possono ricavare da questo faldone non sono molte, ma qualcosa
possiamo desumerla:
1a. sicuramente ricaviamo che era stato predisposto effettivamente
un controllo ai caselli autostradali di Firenze sulle automobili nei
giorni corrispondenti all'incirca al delitto degli Scopeti;
1b. che chiunque avesse aggiunto quel foglio in testa al faldone
vergato a mano, non era ben informato sui fatti, perché era
erroneamente convinto del ritrovamento di bisturi e feticci in un
appartamento del Narducci;
1c. che quel foglio era stato aggiunto dopo la morte del Narducci
(ottobre 1985), ma probabilmente prima del marzo 1987 quando
negli uffici della SAM fu aperto - come vedremo - un vero e proprio
fascicolo sul Narducci (come ci suggerisce il giudice Micheli, è
probabile infatti che se questo foglio fosse stato vergato dopo il
marzo 1987 sarebbe stato aggiunto al fascicolo sul Narducci e non al
faldone denominato "carteggio vario");
1d. che, a parte il suddetto foglio aggiunto a posteriori, all'interno
del faldone non è stata rinvenuta una riga che parli del Narducci,
né tantomeno che attesti il suo passaggio dal casello autostradale di
Firenze nei giorni del settembre 1985 prossimi al duplice omicidio
degli Scopeti.

Di più, al momento, non è possibile desumere. È possibile, tuttavia,


porci qualche domanda.
Perché il nome del Narducci figura su un foglio posto in cima al
faldone?
È possibile che - come sostiene nella sua sentenza il giudice Micheli
- effettivamente l'automobile del Narducci fosse transitata da un
casello autostradale di Firenze in concomitanza col l'ultime duplice
omicidio del Mostro?
Ed eventualmente, se ciò fosse vero, perché né all'interno del
faldone, né altrove, risulta un documento che attesti tale
avvistamento?
Infine le due domande più importanti: un documento che attestasse
tale avvistamento, potrebbe essere fatto sparire? O al contrario,
potrebbe il foglio (che oltretutto contiene informazioni non vere)
essere stato inserito maliziosamente nel faldone da qualcuno,
magari realmente convinto della colpevolezza del Narducci?

2. Segnalazione dopo il delitto di Vicchio:


Un'ipotesi alternativa, ma che ha comunque qualche riscontro,
esulerebbe dal duplice omicidio degli Scopeti, ma vorrebbe che
fosse stata una segnalazione riguardante il dottore o la sua
automobile subito dopo il duplice omicidio di Vicchio a sancire il
suo coinvolgimento nelle indagini, retrodatando dunque di almeno
un anno il suo ingresso nel novero dei possibili sospettati.
Questa ipotesi è corroborata dal fatto che il nome del Narducci
compariva alla riga 181 di una lista di 254 persone segnalate dopo
l'omicidio Stefanacci-Rontini. A tal proposito lo stesso Mignini
scriveva fra i suoi appunti: "sembrerebbe pertanto che il Narducci fosse
segnalato, come persona sospetta, sin dal delitto di Vicchio".
3. Altro tipo di segnalazione:
Potrebbe altresì essere stata una qualsiasi segnalazione in un'altra
delle notti degli omicidi o anche indipendente dagli omicidi e
rimasta ignota a decretare il coinvolgimento di Narducci nelle
indagini. Si dice ad esempio (ma si badi bene è solo una voce) che a
Perugia negli anni del Mostro (pare a partire dal 1981), in molti
sostenessero che Narducci avesse a che fare con gli omicidi. Un po'
quello che succedeva a San Casciano con il dottor Zucconi. Qualora
queste voci fossero esistite realmente e fossero state oltremodo
insistenti, potrebbero essere giunte a Firenze e aver spinto la SAM a
indagare più a fondo sul medico. Specie se, come vedremo nel
prossimo paragrafo, esiste la possibilità che negli anni dei delitti il
Narducci frequentasse con una certa costanza Firenze e in special
modo la Val di Pesa, centro nevralgico dei delitti del Mostro, stando
alla realtà giudiziaria.

I riconoscimenti fotografici
Indipendentemente da come tutto abbia avuto inizio e dall'effettivo
legame fra il Narducci e le vicende del Mostro, sembra infatti che
nella prima metà degli anni '80 il medico perugino frequentasse la
zona di San Casciano.
Esistono diverse testimonianze, rese a posteriori, che non solo
collocano Narducci in Val di Pesa, ma lo rendono amico piuttosto
intimo del farmacista di San Casciano, il dottor Francesco
Calamandrei, e di altri notabili della zona. Alcune dichiarazioni
(sempre rese a posteriori) raccontano anzi di un Narducci che -
come il Sertoli e lo Zucconi - utilizzava alcune stanze messe a
disposizione della farmacia Calamandrei come ambulatorio privato.
Si tratta in realtà di testimonianze sulla cui effettiva attendibilità è
lecito nutrire qualche dubbio, ma che non possono non essere
tenute in debita considerazione.
Assume una certa rilevanza in questo contesto il famoso album
della Procura di Firenze, riportante le fotografie di tutti i principali
personaggi coinvolti nella vicenda del Mostro e con cui tutti i
testimoni hanno dovuto confrontarsi.
Si è già accennato nei capitoli precedenti, come alcuni frequentatori
di via Faltignano abbiano coinvolto nelle indagini della Procura
diversi notabili, sostenendo di averli visti a San Casciano nella
cosiddetta "epoca Mostro" intrattenersi con i vari Pacciani, Vanni,
Lotti e prostitute della zona.
Queste testimonianze hanno creato un effetto domino di non
marginale importanza. Difatti, nel momento in cui la Procura ha
identificato nel dottor Calamandrei il collante fra manovalanza e
secondo livello, tutti coloro che negli anni '80 avevano avuto
contatti con il suddetto e che, a distanza di vent'anni, venivano
riconosciuti dai vari testimoni nel famoso album fotografico della
Procura, si ritrovavano oggetto di indagine. Tra questi, quasi
inevitabilmente, è finito lo stesso dottor Narducci.
In ordine di importanza e non mancando di valutare pregi e difetti
di ciascuna dichiarazione, a riconoscerlo sono stati i seguenti
testimoni:

1. L'onnipresente Gabriella Ghiribelli, divenuta testimone chiave


della Pubblica Accusa a cavallo fra il vecchio e il nuovo millennio,
non ebbe indugi a riconoscere il Narducci in alcune foto e dichiarò
di averlo visto a San Casciano frequentare gli stessi ambienti dove –
a suo dire – si svolgevano festini a base di sesso, droga, riti magici
ed esperimenti di mummificazione (vedasi capitolo Il secondo
livello).
La Ghiribelli è piuttosto precisa nell'individuare il Narducci
nell'album fotografico della Procura, pur a distanza di circa
vent'anni dagli eventi, definendolo - si badi bene - il medico di
Perugia che scomparve nel lago. Tale definizione implica che la
Ghiribelli aveva seguito, probabilmente sui giornali, l'evoluzione
della vicenda Narducci successivamente al periodo in cui il medico
aveva frequentato San Casciano, tanto da essere a conoscenza della
sua morte. C'è infatti da sottolineare come soprattutto in quel
periodo, a causa del nuovo filone d'inchiesta che stava prendendo
piede, sui vari rotocalchi di largo consumo (ma anche su quotidiani
più autorevoli) erano state pubblicate le foto del medico perugino.
Viene dunque necessariamente meno la genuinità del
riconoscimento.
È lo stesso giudice Paolo Micheli, estensore della sentenza del 20
aprile 2004, a far notare come: "A parte ogni rilievo sulla
verosimiglianza dei vari elementi di fatto rappresentati dalla donna, in
primis la presunta riconducibilità dei duplici delitti a esperimenti di
mummificazione, con tanto di cadavere di una ragazza conservato in attesa
di ridarle vita, sulla genuinità della ricognizione fotografica del Narducci è
lecito nutrire parecchie riserve. Nel corpo del verbale, infatti, la Ghiribelli
non parla genericamente di un medico umbro, ma esordisce subito con
l’indicazione che si tratta del medico scomparso nel lago: ergo, vera o meno
che fosse la circostanza di averlo veduto in passato, ella già ne aveva
associato l'immagine a quella di un soggetto di cui le cronache avevano
parlato."

2. Il giovane Luciano Malatesta, figlio dei più volte citati Renato


Malatesta e Maria Antonietta Sperduto, per quanto risultino
profondamente inattendibili le sue attuali dichiarazioni (vedasi la
pagina dedicata agli Aggiornamenti), dichiarò all'epoca delle
indagini sul secondo livello di aver visto il Narducci a San Casciano
attorno al 1980 e sembrò riconoscerlo nelle foto mostrate dagli
inquirenti.
Non è dato sapere quali fossero le convizioni e le condizioni del
Malatesta all'epoca del riconoscimento, quel che possiamo dire
senza tema di smentita è che oggi le sue dichiarazioni risultano
completamente prive di ogni valore.

3. Il 3 giugno del 2002, il testimone alfa Fernando Pucci dichiarò


all'ispettore Castelli e al dottor Giuttari di conoscere l'uomo ritratto
nella foto che gli veniva mostrata (appunto il Narducci). Affermò
nell'occasione: "La persona della foto numero 1 l'ho vista al bar. Era
magro, era un tipo finocchino. L'ho visto che chiacchierava con Giancarlo
ma Giancarlo non mi ha mai spiegato nulla. La persona della foto 3 è la
stessa della precedente ma io ho un ricordo più preciso di quella guardando
la numero 1."
Da segnalare che nello stesso album il Pucci non riconobbe le foto di
Lotti (di cui era amico intimo), Vanni, Pacciani e Faggi. Le sue
dichiarazioni inoltre non hanno mai trovato riscontro in quelle del
Lotti che, sebbene abbia detto tante cose e coinvolto tante persone,
mai ha accennato al dottor Francesco Narducci (con il quale,
secondo il Pucci, si sarebbe invece fermato a parlare al bar). Infine, i
titolari dei due principali bar di San Casciano, i signori Luciano
Ulivelli (titolare del bar Centrale) e Mario Marchi (titolare del bar
Sport), hanno entrambi dichiarato di non ricordare il Pucci come
uno dei loro clienti.

4. Anche il testimone Lorenzo Nesi riconobbe il Narducci in alcune


foto: "La persona raffigurata nella foto 2 l'ho vista sicuramente a San
Casciano. Ne sono proprio certo e credo che abitasse in una villa o
comunque una casa colonica grossa, che si trovava sulla strada che da San
Casciano va verso Cerbaia, e precisamente vicino alla chiesa di San
Martino. Non era sicuramente una persona del posto e mi sembra di
ricordare di averla vista insieme al farmacista di San Casciano, Francesco
Calamandrei. Su quest'ultimo punto non sono proprio certo, ma ribadisco
con la massima certezza che questa persona raffigurata nella foto 2 l'ho
vista a San Casciano. Questo è proprio fuori discussione e non per un
giorno, ma l'ho visto più volte."
Alla domanda degli inquirenti sull'epoca cui risalivano questi
avvistamenti, il Nesi rispose: "Ad occhio e croce si tratta di anni
ricompresi in un arco di tempo che va dal 1975 al 1982. Voglio comunque
precisare che si tratta di persone che si facevano vedere di tanto in tanto a
San Casciano, nel senso che non erano persone fisse, ma che sparivano
anche per dieci quindici giorni o forse anche di più. Era un giro altolocato,
capisce dottore? A volte erano in compagnia di qualche donna, ma non del
posto e anche queste si presentavano piuttosto eccentriche."
Nesi, va detto, riconobbe Narducci in tre foto su quattro ma non
riconobbe Francesco Calamandrei in due foto, per quanto ne
parlasse come di persona nota, a dimostrazione dell'aleatorietà di
un certo tipo di riconoscimenti, tanto più a distanza di così tanti
anni.

Accanto a queste quattro testimonianze di personaggi ben noti e


tenuti in debita considerazione dalla Procura di Firenze, possiamo
aggiungere numerose altre dichiarazioni, cosiddette minori, che
elenchiamo velocemente:

5. Il signor Pietro Ciulli, ex cognato del dottor Calamandrei,


vedendo la fotografia del Narducci, dichiarò che era persona nota,
che l'aveva vista insieme al Calamandrei, ma non sapeva dire in
quale occasione, forse al matrimonio della sorella Mariella con il
farmacista.
Da notare che il matrimonio fra Francesco Calamandrei e Mariella
Ciulli si era celebrato nel 1969 (oltre trent'anni prima del
riconoscimento), quando Narducci era uno studente universitario
di vent'anni.

6. La signora Tamara Martellini, ex moglie di Giovanni Ceccatelli,


vecchio amico del farmacista Calamandrei, dichiarò di aver visto il
Narducci fra il 1979 e il 1980 (dunque oltre vent'anni prima il
riconoscimento), vestito in maglietta Lacoste e con stivali da
cavallerizzo, una volta nella farmacia del Calamandrei, un'altra
volta in piazza a San Casciano.
La signora Martellini riconobbe il Narducci in due foto e mancó di
riconoscerlo in altre due. Mancó anche di riconoscere in due foto il
dottor Calamandrei, il che appare strano considerando l'amicizia di
lunga data con il farmacista. Anche questo particolare ci indica
come i riconoscimenti fotografici vadano valutati con estrema
circospezione.

7. Sulla stessa lunghezza d'onde sono le dichiarazioni


dell'architetto Giovanni Ceccatelli, ex marito della signora Tamara
e amico del Calamandrei.
Riconobbe il Narducci in una foto, dichiarando di averne un vago
ricordo, forse di averlo visto una ventina di anni prima a Viareggio
assieme al Calamandrei stesso. Non riconobbe il Narducci in altre
tre foto.

8. La signora Elisabetta Marinacci riferì in una lunghissima


testimonianza dell'aprile del 2005 di aver conosciuto il dottor
Narducci nei primi mesi del 1981 presso la farmacia Calamandrei di
San Casciano, ove il medico svolgeva servizio ambulatoriale. Ivi il
dottore perugino si sarebbe offerto di curare il di lei padre, che
soffriva di disturbi all'apparato gastrico. Cosa che in seguito
avrebbe realmente fatto con successo.
Ora, fosse terminata qui la testimonianza della Marinacci sarebbe
probabilmente apparsa credibile oltre che di una certa rilevanza
probatoria. Il problema è che la donna andò piuttosto oltre,
rilasciando dichiarazioni che il giudice Silvio De Luca, estensore
della sentenza di assoluzione nei confronti del farmacista
Calamandrei, non esisterà a definire farneticanti.
La Marinacci infatti parló ai magistrati della sua conoscenza con la
controversa Gabriella Pasquali Carlizzi (conoscenza che già di per
sé non è sinonimo di alta affidabilità) e sembró rielaborare nei suoi
racconti parte delle torie della stessa Carlizzi (vedasi il
capitolo Mostrologia Minore). Infiló pertanto nella storia il
giornalista Mario Spezi, da sempre pallino della Carlizzi, e il
musicista Franco Ferrara, secondo la Carlizzi il vero padre dello
Spezi; raccontó di segnali massonici intercorsi fra suo padre, lo
Spezi e il Narducci, come se già si conoscessero e facessero parte di
una stessa setta; parló di ex Presidenti della Repubblica, Saragat e
Gronchi, quali grandi amici di suo padre, il quale godeva anche di
altre amicizie importanti nel mondo dello spettacolo, come quelle
del noto compositore Gianni Ferrio e della cantante Mina.
A tal proposito, il Giudice per le Udienze Preliminari, dottor Paolo
Micheli affermerà nella sua dentenza del 20 aprile 2010: "...nel caso
si fosse reso necessario l'esame della teste in un eventuale giudizio sarebbe
stato indispensabile verificare l'idoneità della Elisabetta Marinacci ad
offrire una narrazione scevra da possibili contaminazioni di fantasia."

9. Per quanto riguarda la possibilità che il Narducci avesse prestato


servizio ambulatoriale presso i locali della farmacia del
Calamandrei, furono ovviamente ascoltati dagli inquirenti anche
coloro che avevano lavorato presso la farmacia e che, ove la
collaborazione lavorativa fra i due dottori fosse stata vera, non
potevano non aver conosciuto il Narducci.
A tal proposito, il signor Francesco Giuntini, impiegato presso la
farmacia Calamandrei dal 1978 al 1983, proprio il periodo più
interessante per i nostri fini, fu ascoltato nell'ottobre del 2003 negli
uffici del GIDES. Posto davanti al celebre album fotografico della
Procura, dichiarò:
"La persona raffigurata nella foto numero 1 mi ricorda qualcuno, forse un
medico che ho visto in farmacia, la faccia mi dice qualcosa ma non saprei
essere più preciso. La persona raffigurata nella foto numero 5 è una faccia
che io ho conosciuto, potrebbe essere di una persona di San Casciano che ho
visto all'interno della Farmacia ma non riesco a ricordare bene in che
contesto. Tutte le altre foto appartengono a persone che io non ho mai
visto."
La foto numero 1 ritraeva il Narducci, la foto numero 5 ritraeva
l'ortopedico Jacchia. Si tratta dunque di un riconoscimento
estremamente vago ed è quanto meno strano che una persona che
ha lavorato per cinque anni presso la farmacia Calamandrei non sia
stato in grado di riconoscere con discreta sicurezza il Narducci, se è
vero che costui frequentasse con assiduità la farmacia o addirittura
vi lavorasse salturiamente. Sembrerebbe più probabile che la
familiarità che Giuntini dichiara di provare guardando la foto possa
essere dovuta non a una conoscenza diretta ma al fatto che in quel
periodo il volto del Narducci era - come detto - apparso più volte su
vari giornali, riviste e televisioni.

10. A conferma, la signora Paola Bagni, commessa presso la


farmacia dal 1972 al 1990, dichiarò di non aver mai sentito
nominare questo tal Narducci, né fu in grado di riconoscerlo in foto.
Queste ultime due testimonianze potrebbero essere dirimenti in un
senso, tuttavia ce ne sono altre da valutare.

11. La signora Marzia Pellecchia (cui abbiamo già accennato nel


capitolo Il secondo livello) riconobbe Francesco Narducci in due
foto, affermando "...potrebbe essere quello lì che ho visto a San Casciano,
potrebbe, però non ne sono sicura!"
Ricordiamo che le dichiarazioni della Pellecchia non trovarono
riscontro in quelle di altre donne che lei stessa aveva nominato
come facenti parte del giro di prostituzione in una villa vicino San
Casciano.

12. La signora Jacqueline Malvetu rilasciò fra l'aprile 2004 e il


luglio del 2005 una serie di dichiarazioni che come definirà il
giudice Silvio De Luca, estensore della sentenza di assoluzione nei
confronti del farmacista Calamandrei, risultano essere "...farneticanti
e fantasiose, (come) spesso presenti nell'ambito del presente procedimento
penale".
La Malvetu dichiarò infatti di essersi accampata con la propria
tenda nei pressi dell'abbazia di San Miniato verso la fine di agosto
del 1985 e di aver ricevuto nottetempo la visita di non meglio
precisati individui con cattive intenzioni; di essere dunque fuggita e
di essere stata soccorsa da un'automobile in transito sulla strada con
due uomini a bordo. Per farla breve questi due uomini (riconosciuti
in seguito come il Calamandrei e il Narducci) l'avevano ospitata per
la notte in una casa di campagna e il mattino successivo l'avevano
riaccompagata a Firenze.
A queste seguiranno altre dichiarazioni sempre più inverosimili.
Riportiamo alcuni stralci perché sarebbe lungo e noioso trascriverle
per intero: "Scusatemi di non aver capito che quello che mi avete detto era
per proteggermi per via delle intercettazioni telefoniche di qualche
criminale che possa ascoltare il mio telefono. Io so che mi avete controllata
a 360° e questo mi sta bene ma non ho fatto il calcolo che altre orecchie
malvagie potessero spiarmi. Di nuovo chiedo scusa... Sono convinta al
100% di essere stata manipolata dai mostri di Firenze senza saperlo... So
di non essere affatto matta ma sicura di avere detto la verità.".
Ancora: "Mi presento spontaneamente perché mi sono ricordata. Nel mese
di giugno ho cercato la casa. Sono andata a Firenze, Perugia, Assisi e
Pistoia. Ho paura e non dormo. Voglio contribuire ad aiutare l’indagine.
Satanismo e nazismo. Conflitto tra ebrei e francescani. Rete gigantesca.
Pucci e il nome dell'agenda... Ho provato a chiamare la Polizia a Firenze,
ma nessuno ha risposto. Al n. 74 di Via Roma ho capito che c'erano altri
Narducci. Ero impressionata. Ho riconosciuto anche l'ex Carcere. Sono
passata in Procura ma era chiusa. Mi sono fatta vedere dalle telecamere
della Procura... Ho riconosciuto anche altri posti a Pistoia, ma ora sono
stanca e preferirei parlarne un'altra volta."

13. Chiudiamo questa lunga carrellata di testimonianze con quella


dell'ex carabiniere Roberto Giovannoni, il quale si presentò
spontaneamente nell'ottobre del 2005 alla Procura di Perugia per
raccontare del suo incontro con Narducci, avvenuto - a suo dire -
nell'agosto del 1977 a San Casciano. Il racconto del Giovannoni,
estremamente ricco di particolari, colpì il magistrato Giuliano
Mignini, che ne trasmise il verbale ai colleghi della Procura di
Firenze, Canessa e Crimi. I magistrati fiorentini però non dovettero
dare grande rilevanza a tale testimonianza, dato che non ne tennero
conto.
In estrema sintesi, l'ex carabiniere narrò di aver visto una mattina di
fine agosto del 1977 una splendida Alfa Romeo bianca, nuova
fiammante, nella piazza centrale di San Casciano davanti alla
farmacia del Calamandrei. Accanto alla vettura c'era Mario Vanni in
tenuta da postino, che aveva appena consegnato la posta a una
donna, e a cui evidentemente era stato dato l'ordine di fare la
guardia all'automobile. Quella scena aveva solleticato l'istinto da
segugio del carabiniere che si era insospettito ed era entrato in
farmacia chiedendo di chi fosse l'Alfa. Aveva così scoperto che era
del Narducci, il quale, dopo un momento di palese tensione, si era
presentato, risultando molto amichevole e cordiale.
Durante la dua deposizione in Procura, Giovannoni riconobbe in
fotografia i vari Narducci, Vanni, Pacciani, Calamandrei, e persino
la Ghiribelli. Tutti comunque erano più volte apparsi in TV o su
varie riviste ad ampia tiratura.
Fra le incongruenze del racconto del Giovannoni, riportiamo:
▪ Narducci non ha mai posseduto una Alfa Romeo; fra la fine degli
anni '70 e gli inizi degli anni '80 possedeva una BMW;
▪ l'area di competenza del Vanni per la consegna della posta era
quella dipendente dall'ufficio di Montefiridolfi; il centro di San
Casciano non rientrava in tale giurisdizione;
▪ sono segnalate diverse altre discrepanze, come ad esempio il
comportamento gioviale e ciarliero del Narducci, decisamente in
contrasto con il carattere che tutti i suoi conoscenti gli attribuivano.

Il Narducci e il Mostro
A parte le suddette dichiarazioni di persone distinte fra loro che,
per quanto inattendibili, affermano di aver visto il Narducci a San
Casciano, ci sono altri particolari che avvicinano il medico perugino
alla complessa vicenda del Mostro di Firenze. In alcuni casi si tratta
sicuramente anche qui di suggestioni maturate nel corso del tempo,
in altri è inevitabile soffermarsi a riflettere su un eventuale rapporto
del giovane gastroenterologo con la vicenda.
Vediamoli nello specifico, tentando di seguire un pur difficile
ordine cronologico:
● Nel 1974, Narducci prestava servizio militare presso la Scuola
Sanitaria Interforze di Firenze. Pasquale Gentilcore (vittima del
delitto di Rabatta, settembre 1974) lavorava nella stessa zona.
Anche la sua fidanzata, Stefania Pettini, lavorava nella medesima
zona (via San Gallo). Qualche giorno dopo l'omicidio di Borgo San
Lorenzo, il Narducci si fece riformare e rientrò a Perugia.
● La famiglia di Susanna Cambi (vittima del delitto delle Bartoline,
ottobre 1981) viveva in una casa di proprietà della moglie
dell'avvocato Jommi. Costui, come già visto, era probabilmente
amico del Narducci e spesso ne condivideva l'automobile
(una Citroen Pallas color verde), almeno stando alle dichiarazioni
dell'amante di Jommi stesso.
● Abbiamo già avuto modo di accennare alle voci secondo cui a
Perugia negli anni dei delitti seriali, in molti sospettassero che
Narducci avesse a che fare con gli omicidi. Abbiamo già anche visto
che già dal biennio 1985/1986 il suo nome figurava in una lista di
sospettati della SAM.
● Nell'ottobre del 1985, un mese dopo il duplice omicidio degli
Scopeti, il dottor Narducci trovò una misteriosa morte nelle acque
del lago Trasimeno, che tanto avrebbe contribuito in futuro ad
alimentare le voci di un suo coinvolgimento nei delitti del Mostro.
● Due anni dopo, nel 1987, alcuni agenti della SAM si recarono sia a
Sant'Angelo sul Trasimeno (dove era stato rinvenuto il cadavere del
medico), sia a Perugia, per svolgere indagini sulla figura del
Narducci e sulla sua misteriosa morte. I giornali parlarono
logicamente di un ipotetico collegamento fra tale morte e i delitti
del MdF. Fu in questa occasione che negli uffici della SAM venne
aperto il fascicolo - cui facevamo riferimento prima - a nome del
Narducci, datato 21 marzo 1987. Sul cartellino di tale fascicolo era
scritto, stando a quanto riporta il giudice Micheli: "Deceduto
misteriosamente presso il Lago Trasimeno - accertamenti svolti dai CC di
Firenze perché sospettato quale Mostro - il decesso risale all'ottobre
1985?".
Le indagini non ebbero tuttavia alcun seguito e il
colonnello Vittorio Rotellini riferì in un rapporto scritto a Pier
Luigi Vigna che la morte del Narducci era dovuta probabilmente a
suicidio. In seguito la famiglia del Narducci fece pubblicare un
breve trafiletto sui giornali in cui diffidava chiunque dal fare
ulteriori illazioni sulla vicenda.
Cadde quindi una coltre di silenzio sul nome del Narducci, almeno
fino al 2001 quando il famoso gastroenterologo ritornò per quello
che si può definire un puro caso (vedasi in proposito il prossimo
capitolo) al centro delle indagini sul MdF e il magistrato
perugino Mignini cominciò a indagare sulla sua morte.
● Un pescatore umbro, tale Enzo Ticchioni, riferì in Procura, dopo
la riapertura del caso, di alcune confidenze che gli erano state fatte
da un sovrintendente di polizia durante le ricerche del corpo di
Francesco Narducci nel lago Trasimeno. Tale sovrintendente, di
nome Emanuele Petri, in seguito ucciso nel marzo 2003 sul treno
Roma-Firenze dalle Brigate Rosse, gli aveva parlato di un
inseguimento infruttuoso fatto al dottor Narducci sul raccordo
autostradale Bettolle-Perugia, qualche giorno prima della sua
scomparsa; l'inseguimento si era rivelato infruttuoso perché il
medico era stato perso di vista dalla pattuglia all'altezza di
Terontola, poco prima che arrivasse a un posto di blocco. Non è
chiaro in realtà quando fosse avvenuto questo episodio raccontato
dal Petri al Ticchioni, se la notte del duplice omicidio dei francesi,
come riportano alcune fonti, o successivamente. Anche questa
testimonianza è avvolta da un velo di mistero che ne rende i
contorni sfumati e incerti. In merito non c'è nulla di ufficiale, se non
una serie di voci che sul più bello vengono puntualmente smentite.
In seguito, infatti, durante il processo di Perugia, in fase di
incidente probatorio, Ticchioni, già malato gravemente di tumore,
riferì di non ricordare nulla di quelle dichiarazioni.
● Il suocero del Narducci, Gianni Spagnoli (che aveva un'impresa
dolciaria a Sambuca Val di Pesa, dunque alle porte di San Casciano)
in un'intercettazione telefonica con sua figlia Luisa, risalente al 23
gennaio 2004, parlò di una casa colonica a San Pancrazio, di
proprietà proprio del Narducci (per inciso, il Mainardi, vittima del
delitto di Baccaiano, era di San Pancrazio). Nel prosieguo della
telefonata lo Spagnoli riferì alla figlia della notizia data dal
quotidiano "Il Corriere della Sera" circa il rinvenimento di feticci in
un'abitazione in uso al Narducci nei pressi di Firenze, precisamente
una "vecchia casa colonica in località San Pancrazio". Sempre secondo
quanto lo Spagnoli riferì di aver letto, la proprietaria della casa, non
avendo più ricevuto il canone di locazione da Francesco, aveva
chiamato suo padre, l'altrettanto famoso professor Ugo Narducci, il
quale vi si era precipitato con alcuni agenti di Polizia, trovando in
un frigorifero le parti asportate alle vittime.
Banale a dirsi, non vi è traccia di alcuna casa colonica di proprietà
del Narducci a San Pancrazio, tanto meno vi è traccia di feticci
conservati nella stessa. Qualunque articolo avesse letto lo Spagnoli,
riportava sicuramente notizie non vere.
Lo stesso super-poliziotto e capo del Gides, Michele Giuttari,
anche lui fermamente convinto del coinvolgimento del Narducci
come mandante nei delitti del Mostro, affermerà infatti: "L'esistenza
di questo appartamento in uso a Narducci e della presenza al suo interno
di resti umani appartenenti alle vittime del Mostro era frutto di voci.
L'appartamento non fu mai individuato. Lo stesso ispettore Napoleoni, che
ora è morto, ci riferì a riguardo notizie confuse".
In realtà, come visto, per sua stessa ammissione, inizialmente
Napoleoni sovrappose nei suoi ricordi filoni d'inchiesta diversi.
Risulta a questo punto doveroso precisare che gli articoli che si
possono trovare ancora oggi in giro per il web in cui si racconta di
una fantomatica casa colonica in locazione al Narducci contenente i
feticci, sono da considerarsi assolutamente non veritieri.
● A dispetto di ciò, il 22 gennaio 2004, Napoleoni fu intercettato
telefonicamente mentre parlava con sua figlia Monica (anche lei nel
corpo di polizia) e, relativamente al farmacista di San
Casciano, Francesco Calamandrei, affermò: "Fa parte di una setta
esoterica, lui è uno di quelli che mandava... E poi sembra che 'sto Narducci
fosse colui il quale, questo lo dico io, teneva i macabri resti delle donne
uccise eccetera... Poi a un certo momento sicuramente questo forse voleva
uscire dal giro e l'hanno amma... insomma, il mandante anche
dell'omicidio di Narducci... quando esce fuori Trio..."
Si badi bene che queste sono semplici congetture personali del
Napoleoni, non frutto di indagini ma di opinioni maturate a quasi
vent'anni dai fatti, dopo la riapertura delle indagini da parte del
dottor Mignini.
● Esiste una intercettazione telefonica risalente al 1 Marzo 2006
fra Francesca e Marco Calamandrei, i due figli del farmacista di San
Casciano, nella quale Marco afferma: "Loro vogliono sapere... da come
capii io... non me lo ricordo chi... che praticamente devono sapere cioè che
vogliono trovare l'appiglio da Perugia a Firenze e se qualcuno confermasse
che il babbo conosceva... questo Narducci... questo coso... il babbo è
fregato!"
Francesca risponde: "...questo era a san Casciano fino all'85... quanti
anni avevi te nell'85?... ce ne avevi 11, 13... quindi o sei un mentecatto o
non ti ricordi... capito?... o io e te siamo dei mentecatti capito?"
Da tale intercettazione si può ricavare che Marco sembra non avere
familiarità con il Narducci, ne parla infatti come di una persona che
non conosce bene o che non conosce affatto. Afferma però di aver
sentito, non ricorda da chi, che se gli inquirenti avessero trovato
qualcuno in grado di testimoniare la conoscenza fra Narducci e suo
padre, quest'ultimo sarebbe stato fregato. Si badi bene, Marco non
dichiara che il padre ha conosciuto il dottor Narducci, ma che una
testimonianza in tal senso potrebbe essere pericolosa.
Nella risposta, Francesca dimostra anche lei di avere molto poca
familiarità col Narducci (lo chiama "questo"), quindi sembra
sostenere che siccome il medico perugino ha frequentato San
Casciano fino al 1985 (non si capisce però se ciò è quello che ritiene
lei o è quello che ritengono gli inquirenti), e siccome loro - pur
all'epoca essendo abbastanza grandi - non l'hanno mai visto, questo
implicherebbe che o non ricordano o sono dei mentecatti.
● Durante il Processo Calamandrei (2008) emerse per bocca del
Pubblico Ministero Alessandro Crini che subito dopo la morte del
Narducci, i suoi familiari, e in particolar modo la sorella, avevano
organizzato alcune sedute spiritiche, presediute da medium di loro
fiducia, con il fine di affrancare l'anima del loro congiunto dalle
vicende del Mostro.
Trattasi ovviamente di narrazione che non ha alcuna base
probatoria, ma indicativa di come, a un certo punto, forse la stessa
famiglia del medico covasse qualche un sospetto sui rapporti che
legavano Francesco a Firenze.
● Punto puramente suggestivo: tutte le persone di Firenze e San
Casciano con cui Narducci si presume fosse entrato in contatto
negli anni '80, si sono affrettate a negare di averlo conosciuto. Ha
negato l'avvocato Jommi, ha negato il dottor Jacchia, ha negato
soprattutto il farmacista Calamandrei. Questo porta inevitabilmente
a chiedersi perché negare con veemenza quella che almeno in alcuni
casi sembrava una verità acquisita. Ancora una volta possiamo
limitarci a fare solo delle ipotesti:
▪ forse perché questi personaggi realmente non si conoscevano e i
riconoscimenti e le testimonianze sono state frutto del caso, di
cattivi ricordi o peggio di un disegno;
▪ forse c'era stata fra taluni di questi personaggi una conoscenza con
il Narducci; questa veniva aprioristicamente negata per la semplice
paura di essere coinvolti in qualcosa di scabroso, soprattutto dopo
che era emersa la misteriosa e controversa vicenda del doppio
cadavere (anche qui vedasi il prossimo capitolo);
▪ forse Narducci aveva davvero qualcosa da nascondere e quindi
bisognava mantenere assolutamente le distanze dalla sua figura;
▪ forse alcuni o molti di questi personaggi avevano qualcosa da
nascondere e dovevano assolutamente mantenere le distanze l'un
dall'altro.
● Infine, larga parte avrebbe avuto nell'avvicinare
nell'immagginario collettivo la figura del Narducci a qualcosa di
estremamente grave come la vicenda del Mostro di Firenza, la già
citata, misteriosa e controversa questione del cosiddetto doppio
cadavere.
Soleva dire a tal proposito il noto e mai troppo compianto De
Gothia, narducciano convinto, che il doppio cadavere era come "un
elefante" posto davanti agli occhi di chi era alla ricerca della verità:
qualcosa di così grande che non si poteva fingere di non vedere e da
cui non si poteva prescindere.

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8 commenti:
1.
I MOSTRI DI FIRENZE14 settembre 2021 alle ore 18:34

Per quanto riguarda Calenzano.E' scritto che le lezioni a


Philadelphia escluderebbero Narducci ipoteticamente dal
delitto di Calenzano.Alcune precisazioni accademiche,Ann
Ouyang unica testimone,nel 1988 dopo 7 anni dalle
lezioni,ricorda di aver visto Narducci a tutte le lezioni e quindi
tutti i lunedi e i mercoledi.Ann era una amica del Narducci fu
anche ospitata nel 1983 a Perugia nella casa del dottore.Le
lezioni non avevano registro presenze,inoltre appare almeno
strano ricordare dopo 7 anni tutte le lezioni in quei mesi di fine
1981.Per quanto riguarda la logistica sempre ipoteticamente
anche questo non sarebbe bastato come alibi sicuro al
dottore.Il delitto avvenne il 22 ottobre 1981 alle ore 24 circa,di
giovedi.Volendo e sempre ipoteticamente il dottore poteva
dopo la lezione di mercoledi 21 prendere un volo il
pomeriggio da Philadelphia verso Roma o Milano per
rientrare in Italia,all'epoca la tratta era di 10 o 12 ore,in teoria
aveva altre 17 ore disponibili per altri spostamenti o per
riposo.Quindi gli investigatori dell'epoca,nel 1988,non sono
stati molto professionali,a dir poco approssimativi,comunque
un errore grossolano per escludere qualcuno dalle indagini.
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti15 settembre 2021 alle ore 22:16
Ciao e grazie per il commento, che mi dà una piacevole
sensazione di déjà vu. Una medesima discussione la ebbi,
molti anni or sono, con De Gothia. Anche lui sosteneva
che le tempistiche per un A/R dagli Stati Uniti ci
potevano essere, pur dovendo ammettere che in quella
seconda metà di ottobre 1981, l'Italia era dilaniata da
numerosi scioperi, anche e soprattutto nel settore
trasporti. Scioperi che, all'epoca, facevano ben pochi
prigionieri, spesso non garantendo alcun tipo di servizio
basilare.
A ogni modo, io ho semplicemente riportato le parole di
Mignini in una recentissima intervista web, in cui
affermava (quasi con una punta di rammarico, ma in
maniera piuttosto tranciante) che dai controlli effettuati
(comprensi quelli sui passaporti) non sembrano esserci
molti margini perché Narducci potesse essere in Italia il
22 ottobre 1981.
Grazie ancora e complimenti per il vostro lavoro.
Lu.
Rispondi

2.
bonik22 gennaio 2022 alle ore 16:57

In via serragli comunque risultava abitare anche robert parker,


Ulisse quello della villa la sfacciata a giogoli.
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti23 gennaio 2022 alle ore 00:35
Ciao, grazie per il commento.
Come riportato nel paragrafo dedicato al Parker, costui
abitò in via dei Serragli fra il 1994 e il 1996, a oltre dieci
anni di distanza dai delitti del mostro, dalle vicende de
La Sfacciata e dalla morte del Narducci.
Rispondi

3.
Anonimo3 luglio 2022 alle ore 01:31

Salve e grazie del contributo. Perché Perugia avrebbe mai


dovuto indagare su Paolo P. di Firenze?
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti31 luglio 2022 alle ore 06:25
Salve e grazie a te. La tua domanda se ne porta dietro
altre, che difficilmente potrebbero avere risposta in
questa sede.
La versione ufficiale è che la ragazza oggetto di violenza
da parte del Poli (Cristina P.) ne avrebbe parlato con suo
compagno dell'epoca (Franco P.), il quale era amico del
Napoleoni e dunque avrebbe denunziato la vicenda a lui.
Poi, perché l'ispettore perugino avesse cominciato a
indagare personalmente invece che trasmettere gli attimi
a Firenze, non è dato sapersi.
Rispondi

4.
Anonimo30 luglio 2022 alle ore 06:40

E' singolare come ancora ci sia un impegno così grande a


depistare sulla vicenda Narducci. Ovviamente se ci si avvale
del "mirabile" lavoro del blogger...grazie al c.
Rispondi

Risposte

1.
Luigi Sorrenti31 luglio 2022 alle ore 06:30
Ciao Anonimo, a parte l'utilizzo del termine
"depistaggio" che nel contesto di queste pagine fa
sorridere, comunque probabilmente hai sbagliato blog,
dato che in questa sede non si propende né per una tesi,
né per l'altra, ma si riportano fatti, studi e ricerche che
vengono condotti sull'argomento, dando spazio un po' a
tutte le teorie, anche a quelle più improbabili.
Una morte misteriosa

Il giorno 8 ottobre 1985, l'allora trentaseienne dottor Francesco


Narducci era impegnato in una sessione di esami presso la facoltà
di medicina dell'università di Perugia. Per questo aveva dichiarato
alla moglie che non sarebbe rientrato a casa per pranzo.
Durante la sessione ricevette però una telefonata che gli fece
cambiare i piani. Alcuni testimoni riferirono che dopo la telefonata
il dottore apparve pallido e sudato, ma non sappiamo quanto
questa sia stata una suggestione dovuta a ciò che avvenne in
seguito.
Subito dopo, il dottor Narducci lasciò frettolosamente la facoltà e
rientrò a casa. Qui mangiò qualcosa, salutò la moglie con un bacio
(cosa che a detta della stessa signora Spagnoli era piuttosto
inusuale) e, a bordo della sua motocicletta, si diresse dapprima
verso la villa dei Narducci sulle sponde del lago Trasimeno, indi
verso la vicina darsena di San Feliciano. Prese il suo motoscafo, il
cui serbatoio era pieno solo a metà, e si avventurò verso l'isola
Polvese, al centro del lago.
Nessuno lo rivide più vivo.
Negli ultimi giorni, pare che Narducci fosse stato preoccupato,
nervoso, addirittura spaventato; ma forse anche queste sono
suggestioni o voci che non si sa bene quanto fondo di verità
possano avere. Così come non si sa bene se è vero che la famiglia
Narducci, poche ore dopo quella che poteva ancora apparire come
una semplice scomparsa, aveva già dato per morto il congiunto. Lo
scrittore e giornalista Giuseppe Alessandri riporta infatti nel suo
libro "La Leggenda Del Vampa" la caustica risposta del fratello del
dottor Narducci alla signora Spagnoli, preoccupata per una
possibile fuga romatica del marito: "Adesso non cominciate a infangare
la memoria di Francesco".
Frattanto, messi in moto i soccorsi, venne rinvenuta l'imbarcazione
del dottore in un canneto dell'isola Polvese, con le chiavi inserite e il
cambio in folle. A bordo c'erano il giubbotto, gli occhiali e le
sigarette del dottore, ma di lui nessuna traccia.
Ci vollero quasi cinque giorni per ritrovarne ufficialmente il
cadavere. Erano le 7.20 del mattino del 13 ottobre 1985 quando due
pescatori di Sant'Arcangelo videro un corpo grosso e gonfio
galleggiare sulle acque del lago. A recuperare il corpo giunsero il
motoscafo dei carabinieri locali e quello delle guardie lacustri. Il
cadavere fu deposto sul molo di Sant'Arcangelo. Di qui in avanti la
faccenda si complica a dismisura.
Sul molo si precipitarono diverse autorità, compreso il questore di
Perugia Framcesco Trio, amico della famiglia Narducci, che a ben
vedere non aveva alcun motivo per essere lì in quel momento. Fu
chiamata a certificare il decesso la dottoressa Daniela
Seppoloni dell'ospedale di Castiglione del Lago. Secondo le
dichiarazioni della dottoressa, il molo strabordava di gente quando
lei arrivò.
Il cadavere era gonfio e di colore violaceo. Da parte di un'autorità in
divisa le fu chiesto un'ispezione cadaverica che lei non aveva ruolo
e competenze per svolgere. La richiesta divenne quasi
un'imposizione, così la dottoressa la eseguì in maniera sommaria,
direttamente sul molo, sollecitata dalla pressione dei presenti.
Da notare che la Seppoloni era stata chiamata solo per accertare la
morte del corpo ripescato, mentre in loco le venne imposto di
stabilire la causa di tale decesso. Confusa e intimidita per sua stessa
ammissione, la dottoressa refertò un "probabile annegamento".
Forte del referto medico, la famiglia Narducci fece sapere che il caro
congiunto era morto in seguito a una disgrazia, una caduta
accidentale dalla barca che ne aveva procurato il decesso. Non
venne eseguita alcuna autopsia, né esami più approfonditi sul
cadavere. Il caso venne velocemente archiviato anche dalle autorità
competenti.
Il nome del dottor Narducci continuò talvolta a essere associato al
caso del Mostro di Firenze, più dalle voci di popolo comunque che
da fatti concreti; nel 1987 ci fu - come visto nel capitolo precedente -
l'ultima indagine in tal senso, condotta dagli uomini della SAM
giunti per l'occasione a Perugia. Anche questa indagine si chiuse
con un nulla di fatto.

La riapertura dell'inchiesta
Per quattordici anni non si parlò più del possibile legame di
Francesco Narducci con i fatti del Mostro, almeno fino al 2001,
quando un'estetista di Foligno, di nome Dora, ricevette nell'arco di
svariati mesi numerose telefonate intimidatorie da parte di ignoti.
In queste telefonate gli anonimi interlocutori minacciarono, fra
insulti vari, di uccidere la donna e suo figlio durante non meglio
identificati riti satanici e in un alcune occasioni uno di questi
pronunciò la neanche troppo sibillina frase: "Ti faremo fare la stessa
fine di Pacciani e del dottor Narducci annegato nel Trasimeno".
L'estetista, che aveva preso l'abitudine di registrare le telefonate,
decise di rivolgersi alla polizia, cui consegnò i nastri. Fu indagando
su queste strane minacce che in seguito la Procura di Perugia, nella
persona del magistrato Giuliano Mignini, riaprì il fascicolo
riguardante la morte del Narducci col fine di fare chiarezza su
eventuali legami fra la sua morte e quella del Pacciani.

Piccola ma importante parentesi: Il più volte citato studioso e


blogger Antonio Segnini, che ha potuto attingere al vasto archivio
di Francesca Calamandrei, figlia del farmacista imputato nel
processo sui presunti mandanti dei delitti del Mostro, sostiene -
carte alla mano - che in realtà l'inchiesta sul Narducci sarebbe
partita circa 6 mesi prima rispetto a quando in una delle telefonate
anonime all'estetista venisse fatto per la prima volta il nome del
Narducci. In pratica, l'inchiesta fu avviata nel novembre del 2001,
mentre la prima telefonata che faceva riferimento al Narducci
risaliva al 18 maggio 2002. Dunque, secondo Segnini, l'inchiesta sul
Narducci non avrebbe preso il via per colpa o per merito di quelle
telefonate, come in realtà si è sempre pensato, ma
indipendentemente dalle stesse per un motivo a noi ignoto o anche
per semplice legittima volontà del magistrato inquirente. In raltà
Segnini va molto oltre con i suoi discorsi, ipotizzando uno scenario
ben più complesso in cui da un certo punto in poi nelle telefonate
all'estetista avrebbero avuto un ruolo da protagonista alcuni
poliziotti con il fine proprio di "giustificare" l'inchiesta già avviata
sul medico perugino.
A queste tesi, ha risposto lo stesso magistrato Giuliano
Mignini dalle pagine dell'interessante blog Mostro di Firenze,
ribattendo punto per punto alle tesi sostenute da Segnini. Fra i due
attori della contesa è nato nel febbraio 2021 un serrato botta e
risposta, al termine del quale ognuno sembra essere rimasto delle
proprie idee: da un lato il blogger che, sulla base dei documenti in
suo possesso, scinde l'inchiesta sul Narducci dalle telefonate
all'estetista, dall'altro il magistrato, secondo cui la visione del
Segnini sarebbe parziale e influenzata da una non perfetta
conoscenza giuridica.

Indipendentemente dalla disputa, è bene precisare che le telefonate


anonime a danno dell'estetista - come verrà scoperto in seguito -
erano state fatte da svariate cabine pubbliche della provincia
perugina da persone (poi rintracciate e processate) che nulla
avevano a che fare con la morte del Narducci, con quella del
Pacciani e tanto meno con la vicenda del MdF. E nulla avevano
anche a che fare con questioni di usura, com'era invece stato
ventilato all'inizio. Erano probabilmente telefonate ad opera di
sbandati che avevano come non troppo chiaro fine quello di
intimidire una persona, di cui uno degli autori si era probabilmente
invaghito.
Insomma, a far riparire uno dei casi più contorti della cronaca nera
italiana era stato (almeno secondo la versione ufficiale che per il
momento non tiene conto delle ricerche del Segnini) uno stalker che
aveva letto qualcosa sui giornali a proposito di Narducci e del
Mostro di Firenze e aveva deciso di spaventare la sua preda con
misteriosi riferimenti al satanismo e a tale vicenda.
Vediamo ora velocemente (ma non troppo) i passi che a questo
punto percorse la Procura di Perugia:

► Per prima cosa Mignini, studiando le vecchie carte, fu


insospettito dalla ferma volontà della famglia Narducci nel 1985 di
non andare a fondo nelle indagini sulla morte di Francesco ma di
volerle chiudere nel più breve tempo possibile, arrivando - a suo
dire - a fare pressioni sulle autorità competenti affinché non ci
fossero ulteriori sviluppi.

► In secondo luogo, nel cimitero di Perugia, nella cappella di


famiglia, sulla tomba di Francesco era riportata come data della
morte il 9 ottobre 1985, quando in quella data il dottore non era né
vivo, né morto, ma semplicemente scomparso.

► Studiando le vecchie fotografie scattate sul molo di


San'Arcangelo la mattina del 13 ottobre, Mignini ipotizzò che il
cadavere ripescato dal Trasimeno non fosse quello di Francesco
Narducci. Questo perché dalle foto tale cadavere risultava
chiaramente più basso e più grosso rispetto a quello del Narducci.
Come riporta il giornalista Alvaro Fiorucci nel suo libro "48 small.
Il dottore di Perugia e il mostro di Firenze" (a parere di chi scrive,
il miglior resoconto sugli intrecci fra il medico perugino e la
vicenda fiorentina) il corpo sul molo era una probabile taglia 60 a
dispetto di una 48 Small che indossava il Narducci.
► Sulla base delle ipotesi maturate dallo studio delle fotografie, la
Procura ordinò la riesumazione del cadavere del dottor Narducci.
Una delle idee che aveva preso piede era che la bara potesse essere
vuota o contenere un cadavere che non fosse quello del Narducci,
mentre il famoso medico era all'estero, vivo, con un'altra identità e
un'altra vita, lontano da Perugia e soprattutto da Firenze.
Invece la bara risultò piena e dalle analisi condotte dalla
professoressa Gabriella Carlesi dell'università di Pavia e
successivamente confermate dai RIS di Parma, all'epoca ancora
sotto la guida del generale Luciano Garofano, emerse che il
cadavere sepolto era senza ombra di dubbio quello del Narducci e
che questo si presentava in ottimo stato di conservazione.
Il corpo, inoltre, indossava abiti di una taglia che era proprio quella
del Narducci (la famosa 48 small) e dunque - sempre secondo
l'ipotesi della Procura - era altamente improbabile si trattasse dello
stesso cadavere, largo e gonfio, ripescato il 13 Ottobre del 1985.
Infine l'esame autoptico stabilì che il corpo presentava la frattura
del corno tiroideo superiore sinistro, un osso che si rompe
tipicamente in caso di strangolamento.
Il referto riportava in merito: "...riteniamo quanto meno probabile che la
morte di Francesco Narudcci risieda in un'asfissia meccanica violenta
prodotta mediante costrizione del collo, o di tipo manuale (strozzamento) o
mediante laccio (strangolamento)."
Dunque, nella mente di Mignini stavano maturando un paio di idee
che sicuramente avrebbero fatto molto rumore nell'ambiente
perugino: da un lato un cadavere ripescato dal lago il 13 ottobre che
non era quello del Narducci; dall'altro la morte del medico,
avvenuta verosimilmente il 9 ottobre, non più addebitale a
incidente o a suicidio, ma a omicidio.

► A conferma delle ipotesi avanzate dalla Procura, gli esami


antopometrici rilevarono che il cadavere riesumato (dunque quello
del Narducci) aveva un'altezza di 180 centimetri e una larghezza in
vita di 72/75 centimetri; mentre, i rilevamenti eseguiti (ovviamente
sulla base delle fotografie) sul cadavere ripescato nel lontano 13
ottobre 1985 dal Trasimeno riportavano un'altezza di 173 centimetri
e una larghezza in vita di 110 centimetri; dati questi ultimi che poi
vennero corretti nel 2007 dagli esami condotti dal generale
GAROFANO dei RIS, il quale fornì come misure un'altezza di 160.5
centimetri (più o meno sei millimetri) e una circonferenza di 99
centimetri. Ovviamente la successiva correzione da parte del RIS
(ben 13 centimetri in meno per l'altezza e 11 in meno per la
circonferenza) era dimostrazione per la difesa di come tali calcoli
basati su fotografie fossero assolutamente aleatori e soggetti a
evidenti errori.
Infine, dall'analisi dei capelli del cadavere del Narducci venne
rilevata la presenza di petidina, un oppiaceo usato anche in ambito
medico per alzare la soglia del dolore nei pazienti che ad esempio
venivano sottoposti a gastroscopia o altri esami invasivi. Tale
sostanza era presente in quantità tale da poter ragionevolmente
supporre un costante uso da parte del medico negli ultimi mesi di
vita e dunque una leggera dipendenza.

► A completare il quadro dei sospetti che nella mente di Mignini si


stavano tramutando in certezze, un tale Francesco Fagioli riferì al
magistrato un particolare visto quel lontano 9 ottobre 1985 da
un'altura di Monte Buono mentre era a caccia e che per gli
inquirenti potrebbe essere stato un pezzo di scena del crimine. Il
Fagioli dichiarò infatti di aver visto, osservando verso il lago, una
barca lanciata a folle velocità verso l'isola Polvese compatibile con
quella posseduta dal Narducci. La barca si era fermata a ovest
dell'isola e dopo una decina di minuti era stata affiancata (a una
distanza che l'uomo non poté valutare correttamente e indicò fra i
20 e i 200 metri) da una seconda imbarcazione. Null'altro da
aggiungere da parte del testimone, dunque niente più che
un'informazione di nessun valore ma che poteva rappresentare un
tassello del puzzle, l'istantanea di un omicidio in procinto di
compiersi.

► Infine, per la Procura di Perugia ci sarebbe stata (il condizionale


è d'obbligo) una lettera scritta dal Narducci nella villa di famiglia
sulle sponde del lago prima di salire sull'imbarcazione dove poi
avrebbe trovato la morte. Di questa fantomatica lettera parlò per la
prima volta la domestica della villa, la signora Emma Magara,
moglie del giardiniere, Luigi Stefanelli.
Stando alle dichiarazioni della donna, lei stessa trovò il foglio di
carta scritto a penna sul davanzale della finestra del salone il giorno
della scomparsa del Narducci, dunque l'8 ottobre 1985. Mostrò il
foglio al marito, ma entrambi non furono in grado di decifrare la
fitta scrittura del medico. Lasciarono quel documento sul
davanzale; quando ritornarono nella villa quella stessa sera, il foglio
era scomparso.
Di questa famosa lettera parlarono agli inquirenti anche i figli e
alcuni amici della coppia, tutti concordi nell'affermare che, stando
al racconto dei due coniugi, la grafia con cui erano state vergate
fittamente le due facciate del foglio era quasi illegibile.
Agli occhi della Procura una lettera scritta dal Narducci poco prima
di scomparire per sempre e fatta sparire presumibilmente dai suoi
familiari, poteva essere il tassello mancante per ricostruire l'intera
ingarbugliata vicenda. Ma negli interrogatori successivi, questa
volta davanti al giudice e con il contraddittorio delle parti, i
testimoni cambiarono versione e il foglio divenne un biglietto di
piccole dimensioni su cui erano scarabocchiate alcune parole. E la
lettera d'addio, quella in cui, secondo alcune voci, il Narducci
avrebbe finalmente rivelato le sue verità prima di affrontare il
proprio destino, divenne uno dei tanti biglietti d'auguri consegnati
al dottore il 4 ottobre, in occasione del suo compleanno e
onomastico.
Insomma quella lettera, ammesso fosse mai esistita, divenne ben
presto non solo una pista che non avrebbe condotto a nulla, ma
anche uno smacco per la Procura.

Il doppio cadavere
A dispetto delle presunte ritrattazioni dei vari testimoni, la Procura
di Perugia era ormai certa delle conclusioni audaci, ma in linea con i
riscontri ottenuti fino a quel momento, cui era giunta.
Di seguito esponiamo tali conclusioni, non mancando però di
rilevare eventuali incongruenze o aspetti poco chiari:
1. Il Narducci era stato ucciso per strozzamento o strangolamento
da ignoti e non era caduto accidentalmente in acqua, né si era
suicidato come a volte era stato ventilato. L'omicidio doveva essere
avvenuto il giorno 9 ottobre 1985, data riportata sulla lapide del
medico, dunque il giorno successivo alla scomparsa. Dove il
Narducci avesse passato la notte fra il giorno 8 e il giorno 9, non è
dato sapersi. A ogni modo, ad ampia riprova dell'omicidio c'era la
rottura del corno tiroideo.
Da notare che gli avvocati difensori della famiglia Narducci
sostenevano invece che il corno tiroideo era stato rotto quando il
dottore era già cadavere, nel frettoloso tentativo di spogliarne il
corpo gonfio sul molo, in particolar modo nel tentativo di slacciare
la cravatta e allentare il primo bottone della camicia.
2. Il cadavere del dottore era stato molto probabilmente recuperato
dai familiari (o da persone a loro vicine) e nascosto da qualche
parte. Considerando che le ricerche da parte delle forze dell'ordine
erano partite il giorno prima (8 ottobre), è probabile che per un
certo lasso di tempo si fossero sovrapposte le ricerche ufficiali con
quelle - chiamiamole ufficiose - dei familiari. Non è dato sapere se
la famiglia Narducci avesse avuto semplicemente più fortuna o
fosse andata a colpo scuro, sapendo dove cercare.
3. In seguito era stato buttato nel lago il cadavere di una seconda
persona, molto probabilmente un barbone o un extracomunitario
prelevato dall'obitorio, se non addirittura ucciso per l'occasione
(ipotesi quest'ultima mai formulata apertamente, invero). Tale
cadavere era stato fatto rinvenire il 13 ottobre, dando il via a quella
che - sempre secondo la Procura perugina - era stata una vera e
propria messinscena.
4. Con l'aiuto di autorità compiacenti e complici, era stato fatto
identificare il cadavere per quello di Francesco Narducci ed erano
state fatte pressioni su una dottoressa inesperta perché certificasse
che la morte era dovuta ad annegamento. In seguito erano state
opportunamente evitate ulteriori indagini sul corpo.
5. Infine, prima della sepoltura, era stato effettuato lo scambio dei
cadaveri in modo da seppellire il vero corpo del dottor Narducci,
fino a quel momento opportunamente nascosto dalla famiglia del
medico.

Dando momentaneamente per buono il complesso quadro


investigativo realizzato dalla Procura perugina, la domanda da
porsi è perché era stato messo in atto da persone rispettabili e
altolocate un piano così cervellotico e pericoloso? È indubbio che le
motivazioni dovevano essere ben importanti.
Secondo l'ipotesi del dottor Mignini, il fine della famiglia Narducci
era non far emergere una scomoda verità sul decesso del proprio
congiunto: non far sapere, cioè, che il giovane medico era stato
ucciso e dunque evitare un'indagine per omicidio, che avrebbe
potuto scoperchiare inquietanti e terribili segreti. E quali segreti
avrebbero potuto essere più terribili di quelli relativi all'uccisione di
otto coppiette appartate nella campagna fiorentina?
Sempre secondo il disegno della Procura di Perugia, Francesco
Narducci era stato infatti uno dei mandanti dei delitti del Mostro di
Firenze. Intenzionato a uscire dal giro o addirittura a fare scomode
rivelazioni, dopo il delitto di Scopeti, era stato ucciso proprio dai
suoi complici. In particolare il mandante dell'omicidio sarebbe stato
identificato - come visto nel capitolo Il farmacista - nel dottor
Francesco Calamandrei di San Casciano, il tramite fra il cosiddetto
secondo livello e la manovalanaza spicciola formata dai Compagni
di Merende.

La doppia inchiesta
L'inchiesta sulla strana morte del dottor Narducci a questo punto si
sdoppiò:
● da un lato in collaborazione con la Procura di Firenze si indagava
sulle connessioni con la vicenda del Mostro e sull'omicidio del
Narducci da parte dei suoi presunti complici;
● dall'altro sul presunto scambio di cadavere e i relativi depistaggi
realizzati da personaggi insospettabili appartenenti alla Perugia
bene.

Il filone perugino: Per questo filone, Mignini chiese la misura


cautelare degli arresti domiciliari per l'ex questore di
Perugia Francesco Trio, per l'ex comandante provinciale dei
carabinieri Francesco Di Carlo e per l'amico di infanzia del
Narducci, Alfredo Brizioli.
Nel Novembre del 2004, il giudice per le indagini preliminari,
dottoressa Marina De Robertis, respinse la richiesta. La Procura
fece ricorso al Tribunale del Riesame che reputò verosimile il
teorema dell'Accusa ma ribadì che non c'era necessità di
provvedimenti cautelari.
Dal proprio canto, la difesa della famiglia Narducci si avvalse dei
servigi di due eminenze nel campo della medicina legale, il
professor Carlo Torre e il professor Nello Balassino, i quali
contestarono a tutto tondo le conclusioni cui erano giunti i
professori di Pavia, i RIS di Parma e di conseguenza la Pubblica
Accusa sostenuta dal magistrato Mignini. Per i periti della difesa il
doppio cadavere non era mai esistito, non c'era stata alcuna
ingerenza nelle indagini da parte della famiglia Narducci e
soprattutto le misure del cadavere sul molo ricavate da semplici
fotografie erano completamente sbagliate (basti pensare alla
discrepanza fra le misure calcolate dall'università di Pavia e quelle
calcolate dai RIS di Parma).

Il filone fiorentino: Frattanto, sul fronte dell'inchieta fiorentina, le


cose non andavano affatto bene per la Procura.
Nel marzo del 2008, lo stesso Mignini chiese l'archiviazione e il
proscioglimento con formula dubitativa di tutti gli indagati
(presunti mandanti, presunti esecutori e presunti finacheggiatori)
per l'omicidio (anche questo presunto) di Francesco Narducci. Alla
fine il PM perugino era stato costretto ad alzare bandiera bianca,
non avendo trovato le prove contro il farmacista di San Casciano e i
notabili che lui reputava appartenenti al cosiddetto secondo livello,
coloro che - coinvolti nei delitti del Mostro di Frenze - avevano
commissionato l'omicidio del medico perugino, intenzionato a
uscire dal giro.
Come già visto nel relativo capitolo, due mesi dopo, il 21 maggio
2008, da Firenze giunse l'assoluzione del farmacista Calamandrei al
Processo contro i mandanti per i delitti commessi dal Mostro di
Firenze. In altre parole non solo Narducci non era stato ucciso su
ordine del Calamandrei, ma il Calamandrei non era neanche uno
dei mandanti degli omicidi del Mostro.
Nella sentenza di assoluzione, il giudice De Luca si occupava anche
della vicenda Narducci, scrivendo a tal proposito:
"...D'altra parte sul medico di Perugia, che pur risulta investigato in tutti
i modi e in due diverse indagini poi riunite, non è emerso, almeno allo
stato, un suo coinvolgimento con i fatti per cui è causa, al più risultando
coinvolto in qualche rapporto sessuale con prostitute della zona di San
Casciano e Firenze ed essendo stato avvistato (sia pur con non pochi dubbi
e non da tutte le persone sentite nella lunga indagine) nella zona...
...Tuttavia non essendo emerso alcun serio riscontro che leghi il Narducci
al gruppo degli "intellettuali", anche tale ipotesi appare quale sospetto o
indizio ma non si spinge oltre detta soglia e non può di certo costituire
quindi conferma dell'assunto accusatorio."
Il 5 giugno 2009, il giudice per le indagini preliminari, sempre la
dottoressa Marina De Robertis, accolse la richiesta forumulata
l'anno prima da Mignini e archiviò l'inchiesta della Procura
sull'omicidio del Narducci e prosciolse tutti gli indagati. Nella sua
sentenza il giudice non mancò di sottolineare che Narducci era stato
sì ucciso (sconfessando dunque sia l'ipotesi sostenuta dalla famiglia
dell'incidente, sia quella del suicidio), ma non erano stato trovate
prove a carico degli indagati e lì dove erano state trovate,
riguardavano reati minori già caduti in prescrizione.
La dottoressa De Robertis non mancò anche di elencare i numerosi
indizi (tutti ripercorsi nel precedente capitolo) che collegavano
Narducci alla vicenda del Mostro, anche in questo caso ritenendoli
però non univoci e decisivi per una sentenza di condanna.

Di nuovo il filone perugino: Rimase a questo punto aperta


esclusivamente l'inchiesta che coinvolgeva la famiglia del Narducci
(padre e fratello), gli amici (come il Brizioli) e quanti avevano dato
loro copertura per la sostituzione del cadavere (come l'ex questore
Trio). Erano numerosi i reati a loro imputati: andavano dall'abuso
di potere alla falsità ideologica; dalla calunnia alla violazione dei
doveri inerenti alla pubblica funzione rivestita; dall'occultamento di
cadavere, all'uso illegittimo, vilipendio, distruzione, soppressione o
sottrazione di cadavere; dal rifiuto di atti d'ufficio alla violenza e
minaccia contro pubblico ufficiale all'interruzione di pubblico
servizio.
Dopo un paio di anni di serrate indagini, si risolse pure questa
inchiesta, ancora una volta in maniera per nulla positiva per la
Procura perugina.
La sera del 20 Aprile 2010 il giudice per l'udienza preliminare,
dottor Paolo Micheli, stabilì infatti il non luogo a procedere per i
41 indagati dal Pubblico Ministero Mignini, alcuni perché i fatti non
sussistevano, altri perché i fatti non costituivano reato. Venne
decretato il non luogo a procedere anche per la domestica di casa
Narducci, la già citata signora Emma Magara, chiamata in giudizio
per falsa testimonianza per la faccenda della lettera d'addio del
Narducci.
Tutti assolti dunque, senza distinzione alcuna.
Due anni dopo, il 20 febbraio 2012, il giudice Paolo Micheli ebbe
modo di spiegare: "Sono state condotte indagini perché era doveroso
farle. Non vi sarebbe stato motivo di compierle se venticinque anni fa le
cose fossero andate diversamete."
Per Micheli, tuttavia, Narducci si era suicidato per un qualsiasi
motivo che poteva andare dalla scoperta di una malattia al suo reale
coinvolgimento nei delitti del Mostro. A ogni modo, a suo
insindacabile parere, Narducci non era stata ucciso, né tanto meno
era morto per cause accidentali. Mancando l'omicidio, perdevano di
senso le accuse di sostituzione del cadavere e dunque di
associazione a delinquere fra tutti coloro che avevano partecipato al
diabolico, quanto cervellotico piano. Piano, a proposito del quale il
dottor Micheli fu piuttosto tranciante: "Siamo nel campo
dell'inverosimiglianza."
Con tale sentenza si chiuse ufficialmente la complessa vicenda
giudiziaria sulla misteriosa morte del dottor Francesco Narducci.

Francesco Narducci in Mostrologia


Ora, mettendo un momento da parte gli esiti processuali, cerchiamo
di fare chiarezza su alcuni punti chiave della vicenda e di valutare
le varie ipotesi sulla morte del dottor Narducci, indipendentemente
dal famigerato scambio del cadavere. Scambio su cui al momento
non siamo in grado di dire con certezza (come probabilmente non
lo è nessuno) se sia effettivamente avvenuto o meno, anche se
l'esposizione dei fatti ci dovrebbe quantomeno portare a prendere
in considerazione l'eventualità.

Ipotesi N. 1: Il dottor Francesco Narducci è morto per una


disgrazia. Probabilmente è caduto dalla barca, ha perso i sensi e
secondo il referto stilato dalla dottoressa Seppoloni, è morto per
annegamento. In questo caso, il cadavere sul molo era ovviamente il
suo, non c'era alcun motivo per cui potesse essere stato ordito
alcuno scambio. La frattura al corno tiroideo è stata procurata
durante la frettolosa opera di svestizione. Il corpo, inizialmente
molto gonfio per via dell'acqua ingurgitata, ha perso col tempo i
liquidi ritornando alle dimensioni normali.
Ora risulta evidente come l'ipotesi della disgrazia sembri essere
probabilisticamente la meno quotata sotto diversi punti di vista,
non ultimo le dichiarazioni di alcuni dei presenti sul molo (fra cui la
stessa dottoressa Seppoloni) sulle pressioni esercitate dalla famiglia
Narducci al momento del rinvenimento del cadavere. Pressioni che
non avrebbero avuto ragion d'essere in caso di morte accidentale.
Escludendo quindi tale ipotesi, rimangono due possibili alternative:
il suicidio e l'omicidio.

Ipotesi N. 2: Il dottor Francesco Narducci ha scelto di suicidarsi per


motivi personali che non conosciamo e che possiamo solo
sommariamente e maldestramente ipotizzare. In linea con questo
punto vi potrebbe essere l'utilizzo di Petidina e la conseguente
leggera dipendenza che il medico aveva maturato negli ultimi mesi
di vita.
2a: Il dottore si è suicidato per cause che possono essere
completamente indipendenti dalla faccenda del Mostro di Firenze,
come ad esempio un profondo stato depressivo o l'esser venuto a
conoscenza di essere afflitto da una grave malattia (per esempio
l'Aids, all'epoca dei fatti considerato ancora qualcosa di cui
verognarsi, tanto piú per uno della posizione sociale del Narducci).
2b: Il dottore si è suicidato a causa di un suo reale coinvolgimento
nella faccenda del MdF che può aver generato dei profondi sensi di
colpa o il terrore di essere scoperto o comunque anche in questo
caso un forte stato depressivo.
2c: Il suicidio potrebbe essere stato istigato da qualcuno (ad
esempio un familiare) che, resosi conto del coinvolgimento di
Francesco con i delitti del Mostro, ha preferito indurlo a togliersi la
vita piuttosto che fargli affrontare lo scandalo che sarebbe
conseguito alla scoperta della verità.

Nell'ipotesi del suicidio, qualunque sia stata la causa scatenante, lo


scambio di cadavere può essere o meno avvenuto, non risultando in
pratica fattore dirimente.
Potrebbe infatti non essere stato effettuato qualora il Narducci fosse
effettivamente caduto in acqua e fosse stato realmente ritrovato
cinque giorni dopo; in questo caso tutti i discorsi sulle diverse
fisicità dei cadaveri sono frutto della fantasia della Procura, di
errate percezioni fotografiche e dunque di errate misurazioni.
Il comportamento e le pressioni esercitate da alcuni individui sodali
alla famiglia Narducci sul molo al momento del rinvenimento del
cadavere possono essere spiegati semplicemente con la volontà di
chiudere in fretta il caso senza dover attendere un'autopsia. Un
banale incidente nautico sarebbe infatti risultato molto meno
compromettente e avrebbe suscitato molte meno domande rispetto
a un suicidio che, in maniera inquietante, avrebbe ulteriormente
alimentato le voci sul conto di Francesco.
Lo scambio del cadavere potrebbe altresì aver avuto luogo ove il
Narducci non fosse caduto in acqua e fosse stato ritrovato dai
familiari prima del 13 ottobre; in tal caso nascondere un suicidio
sarebbe stato molto più difficile. Né a quel punto, buttare il corpo di
un proprio caro nel lago per simulare un incidente, oltretutto con la
possibilità che venisse ritrovato dopo pochissimo tempo dai
ricercatori, deve essere sembrata un'ipotesi plausibile a coloro che
avevano interesse a nascondere la verità. Di qui potrebbe essere
sorta l'idea di nasconderne il corpo e farne rinvenire un altro dopo
diversi giorni, in modo da rendere meno probabile un
riconoscimento.
È abbastanza intuitivo, tuttavia, che un suicidio - per quanto
scomodo e qualunque fossero state le motivazioni - come ci dice lo
stesso giudice Micheli, non potrebbe giustificare un piano così
rischioso e cervellotico, che oltretutto andava a coinvolgere un
numero rilevante di persone, per lo più appartenenti alla Perugia
bene.
Dunque, se si predilige la teoria del suicidio è ipotizzabile che non
si sia verificato alcuno scambio di cadavere. Il che equivale a dire
che se ipotizziamo lo scambio del cadavere, dobbiamo anche
ipotizzare che il dottor Narducci è stato con ogni probabilità ucciso.
E qui veniamo alla terza ipotesi.

Ipotesi N. 3: Il dottor Francesco Narducci è stato ucciso da mano


ignota per motivi che non conosciamo e che anche in questo caso
possiamo solo marginalmente ipotizzare.
3a: Il dottore è stato ucciso per una qualsiasi motivazione a noi
ignota e su cui non vogliamo minimamente indugiare che però
nulla ha a che fare col caso del MdF.
3b: Il dottore è stato ucciso dai propri complici, coinvolti con lui nei
delitti del MdF, i quali si erano resi conto che Narducci stava
diventando l'anello debole della catena perché mentalmente non
reggeva più la pressione della vicenda o perché aveva deciso di
tirarsi fuori o perché aveva lasciato dietro di sé tracce troppo
compromettenti.
3c: Il dottore è stato ucciso da qualcuno che, venuto a conoscenza
del suo coinvolgimento nei delitti del MdF, ha inteso intervenire
personalmente al fine di evitare uno scandalo che avrebbe coinvolto
la sua importante famiglia.

Anche in caso di omicidio, qualunque sia stata la causa, lo scambio


di cadavere può essere o meno avvenuto, non risultando fattore
dirimente.
È ovvio, tuttavia, che un caso di omicidio desti non solo più
scandalo, ma anche molte più indagini da parte degli inquirenti per
risalire agli esecutori del delitto (con tutto ció che ne potrebbe
conseguire) rispetto a un caso di suicidio. Di conseguenza se
contempliamo l'ipotesi omicidio esiste una probabilità più alta che
si sia verificato lo scambio di cadavere. Ovviamente questo non
implica sia avvenuto con certezza, semplicemente in questa terza
ipotesi, a differenza delle due precedenti, risulta difficile capire
quale alternativa (scambio o meno) abbia maggior probabilità.

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3 commenti:
1.
Mostrologo labronico21 settembre 2021 alle ore 19:29

Da semi-profano ma fortemente appassionato dell'intera


vicenda, mi chiedevo quale spiegazione si possa dare -
ammesso che Narducci fosse il MdF - al delitto di Signa del '68.
L'eventuale depistaggio del Narducci per attirare l'attenzione
sull'omicidio Locci-Lo Bianco avrebbe certamente ragione
d'esistere, ma la pistola che sparò fu la stessa e questo pare
fortemente documentato.
Può voler quindi dire che Narducci entrò in possesso della
pistola sarda (se sì, come?) e sapendo ciò che aveva contributo
a compiere, ne approfittò?
Per quanto i serial killer inizino a uccidere anche molto presto,
l'assassinio del 1968 sembra fin troppo pulito e organizzato per
un ragazzo di 19 anni al probabile 'debutto' omicidiario.

Per quanto la tesi di Narducci sia suggestiva e mi affascini,


non riesco proprio a inserirla nel quadro generale con Signa
'68.
Rispondi

Risposte
1.
Luigi Sorrenti22 settembre 2021 alle ore 05:19
Ciao, collegare Narducci al 1968 non è difficile solo per te,
ma per chiunque. Non è un caso se la corrente
mostrologica "narducciana" esclude che il medico possa
essere stato coinvolto nel delitto del 1968, propendendo
per un depistaggio oppure per un passaggio della pistola,
che può asusmere qualsiasi sfaccettatura, a seconda del
proprio "credo".
Rispondi

2.
labirinth6@gmail.com26 gennaio 2022 alle ore 14:14

L'arma ha girato
Il legionario

In ordine cronologico, l'ultimo indagato per gli omicidi del Mostro


di Firenze è stato l'ormai famoso Giampiero Vigilanti, personaggio
salito agli onori (o ai disonori) della cronaca in tempi piuttosto
recenti.
Si tratta di uomo dalla vita avventurosa e parzialmente avvolta nel
mistero, i cui contorni sfumati sono stati delineati da lui stesso nelle
numerose interviste rilasciate a TV e giornali.
Proviamo in questa sede a fare un po' di chiarezza sul passato del
cosiddetto "legionario", spulciando fra le varie dichiarazioni,
talvolta sicuramente mendaci, altre volte stupefacenti, in generale
piuttosto ambigue e di non immediata interpretazione, da lui
rilasciate nel corso degli anni.

Vigilanti nacque nel Mugello, a Vicchio, il 22 novembre 1930. All'età


di 16 anni, nel 1946, tentò di varcare il confine e andare a lavorare in
Francia, ma venne rimpatriato alla frontiera di Ventimiglia in
quanto minorenne e rispedito a casa.
Due anni dopo, nel 1948, ebbe un violento alterco con Pietro
Pacciani, anch'egli di Vicchio e di cinque anni più anziano. Fu lo
stesso Vigilanti a raccontare il 30 luglio 2017 al "Gazzettino del
Chianti" il motivo del litigio:
"Era di Vicchio come me, ebbi una discussione con lui perché aveva preso
il lavoro al mio babbo. All'epoca il Comune faceva fare dei lavori ai
residenti per guadagnare qualcosa, rimettevano le strade, spaccavano le
pietre. Pacciani dopo aver fatto il suo turno, volle fare anche quello che
spettava al mio babbo mandandolo via, tanto che il babbo si arrabbiò molto.
Io gli dissi lascia stare, ci penso io. Andai da Pacciani e gli tirai una
bastonata in testa. Lui non mi denunciò".
Resta inteso che di questo scontro abbiamo solo la testimonianza
del Vigilanti. Risulta difficile credere a una completa mancanza di
reazione di un tipo prepotente e collerico come il Pacciani a una
bastonata sul capo.
Le vite dei due contendenti presero comunque presto strade
diverse. Nel 1951 Pacciani finì in carcere per l'omicidio della
Tassinaia, mentre il Vigilanti ebbe guai con la giustizia decisamente
più lievi.
Nel 1950 venne fermato dalla polizia di Firenze perché accusato di
spiare alcuni uomini nei bagni pubblici alla Fortezza del Basso.
Portato in caserma, Vigilanti ammise sia di aver compiuto quegli
atti a scopo di libidine, sia le proprie tendenze omosessuali. Giova
purtroppo ricordare che, sebbene in Italia l'omosessualità non
costituisse più reato dal 1890, per decenni ha continuato a non
essere vista di buon occhio dalle autorità, soggetta dunque alla
cosiddetta "tolleranza repressiva".
Altri piccoli reati furono contestati al giovane Vigilanti in quel
periodo, come la sottrazione di denaro alla famiglia e il
maltrattamento dei genitori; più in generale era considerato dalle
forze dell'ordine locali come soggetto da attenzionare, sia per il
comportamento antisociale, sia per un'eventuale instabilità psichica.
Tre anni dopo, nel 1953, il Vigilanti riuscì finalmente a varcare il
confine. Arrivò in Francia dove si arruolò nella Legione Straniera.
Combatté in Indocina e in Africa nella guerra franco-algerina. Delle
terribili esperienze vissute in guerra, Vigilanti parlerà diverse volte,
talvolta anche contraddicendosi.
In un'intervista a "La Nazione" del 27 luglio 2017 dirà di avere
ucciso fra le 300 e le 500 persone. Nella trasmissione "Il bivio",
condotta da Enrico Ruggeri su Italia 1 nel 2007, racconterà di essere
stato catturato nel 1954 ad Hai Phong, in Vietnam, di essere stato
sepolto vivo e liberato dopo 5 terribili giorni dai compagni d'armi.
In un'intervista al "Gazzettino del Chianti" i giorni di sepoltura
prima della sospirata liberazione sarebbero diventati venti.

Nel 1957 Vigilanti si congedò dalla Legione Straniera e si stabilì per


un anno a Marsiglia, ma evidentemente i guai non erano finiti. Aprì
un night club, ebbe contrasti con malavitosi arabi che lo ricattavano
e, stando a quanto affermerà lui stesso, dovette risolvere la
questione in maniera spiccia. Dirà infatti a tal proposito sempre a
"La Nazione": "fummo costretti a farli fuori". Banale a dirsi, non
risultano riscontri sulla veridicità di tale affermazione. Potrebbe
sembrare inutile cercare riscontri perché nessuno si
autoaccuserebbe di un omicidio, anche se commesso quasi
settant'anni prima a danno di malavitosi, se non fosse vero. Eppure
avremo modo di vedere come Vigilanti sembrerà aver l'abitudine di
colorire alcune sue esperienze passate, tendendo a collocare la sua
persona in luoghi (come quelli degli omicidi del MdF) dove non gli
converrebbe troppo collocarsi oppure sbandierare conoscenze che
forse avrebbe più convenienza a tacere.

A ogni modo, nel 1958 l'ormai ex legionario rientrò in Italia, dove


ebbe alcuni problemi psichici, probabilmente a causa degli eventi
traumatici vissuti in guerra. Il 30 gennaio 1961 tentò il suicidio, nel
1963 venne ricoverato e curato per una forte crisi depressiva.
Sposatosi con la moglie Elena il 21 gennaio 1962, nel 1963 la coppia
si trasferì nel comune Vaiano, alle porte di Prato. Vi abitò fino al 30
giugno del 1966. Non è particolare di secondaria importanza,
questo, perché il piccolo comune di Vaiano fu residenza di altri due
personaggi coinvolti nelle vicende del Mostro di Firenze, il
sardo Salvatore Vinci e l'imprenditore tedesco Rolf
Reinecke (vedasi capitolo Il secondo livello).
Per quanto riguarda Salvatore Vinci, ufficialmente il manovale
sardo prese residenza a Vaiano il 28 luglio 1966, dunque un mese
dopo che Vigilanti era andato via, ma non si può escludere che vi
abitasse già da prima. A togliere il legittimo dubbio sarà ancora una
volta l'ex legionario che dichiarerà a "La Nazione": "...eravamo vicini
di casa a Vaiano, ma non ci parlavo. Lo conoscevo di vista. Mi sembrava
violento".
Ora, che un tipo come Vigilanti ritenesse violento il Salvatore Vinci
potrebbe da un lato far riflettere, dall'altro far sorridere. Ancora una
volta, tuttavia, come per Pacciani, nessuno potrà mai smentire
questa sua presunta conoscenza.
Per quanto riguarda il Reinecke, nell'aprile del 1964, il Vigilanti
venne assunto come operaio tessile presso una delle numerose
aziende filaturiere della zona di Vaiano. A tal proposito, il 12
giugno 2014 dichiarerà in un verbale di essere stato dipendente
proprio dell'azienda del Reinecke. Saranno gli stessi inquirenti a
fare indagini in merito e a verificare la non veridicità di tale
dichiarazione, avendo l'ex legionario lavorato presso un'azienda
tessile che non aveva alcun contatto con l'imprenditore tedesco.
Il Reinecke diventa dunque il terzo personaggio, coinvolto nelle
indagini del MdF, che il Vigilanti afferma di propria spontanea
volontà (e stavolta documentatamente a sproposito) di aver
conosciuto e con cui avrebbe avuto un qualche tipo di rapporto.
Non sarà certamente l'ultimo.
Risulta, dunque, già da queste prime battute quanto meno curioso il
fatto che il suddetto avesse la tendenza a rendere pubbliche le
proprie conoscenze con personaggi coinvolti nella vicenda del
Mostro, anche quando queste conoscenze in realtà non vi erano
state, quasi volesse concentrare su di sé attenzioni di inquirenti e
organi di informazione.

Tornando all'excursus storico della sua vita, il 30 giugno 1966


Vigilanti e la moglie lasciarono Vaiano e si trasferirono a Prato, in
zona denominata "Il Cantiere", dove avrebbero vissuto fino al 2019.
Nel 1971 l'ex legionario acquistò una Lancia Flavia color rosso, dal
cofano e dal bagagliaio verniciati di nero. Manterrà tale vettura per
15 anni, fino al 1986.

Sarà questa - come vedremo - l'automobile che rivestirà una


particolare importanza nelle indagini e richiamerà su di lui le
attenzioni dei carabinieri di Prato.
Dal 1972 al 1979 lavorò per l'OFISA, un'agenzia di onoranze funebri
toscana.
Nell'ottobre del 1981 venne commesso il duplice delitto di
Calenzano nella vicina Travalle, a meno di 10 km dall'abitazione del
Vigilanti.
Fu in questa occasione che i testimoni Tozzini e Parisi (vedasi
capitolo Le Bartoline) riferirono che fra le 23.40 e la mezzanotte
della sera dell'omicidio, avevano incrociato sullo stretto "ponte
della Marina" un'automobile di colore rosso che proveniva dal
luogo del delitto e procedeva a velocità sostenuta. Nell'occasione, il
Tozzini aveva dichiarato che probabilmente tale automobile era
una Alfa GT, ma avrebbe potuto essere anche una Lancia HF (sia
Fulvia che Flavia), la cui parte anteriore era molto simile alla GT.
Nota bene: oltre al particolare dell'automobile rossa, è opportuno
ricordare che una recente perizia sull'impronta di stivale numero 44
rinvenuta sulla scena del delitto delle Bartoline ha stabilito che tale
orma era stata lasciata da uno scarpone di tipo militare in vendita in
Francia.
Questo particolare ha ovviamente ancor più puntato i riflettori della
moderna mostrologia sull'ex legionario, facendo sì che la frangia
mostrologica cosiddetta vigilantiana abbia trovato sempre più
numerosi adepti.

Un paio d'anni dopo il delitto a Travalle, nel novembre del 1983, al


Vigilanti venne rilasciata una licenza per porto d'armi.
Furono proprio la sua passione per le armi, il passato da legionario,
i trascorsi in clinica per disturbi psichici, i piccoli reati contro la
morale di cui si era macchiato in gioventù, l'automobile simile a
quella vista a Travalle e alcune strane abitudini come girare con i
suoi cani per le campagne attorno a Prato in orario notturno, a far
convergere - in piena epoca mostro - l'interesse dei carabinieri di
Prato verso il Vigilanti.
Come visto nel capitolo Accadimenti Finali, il 16 settembre 1985
(dunque cinque giorni dopo il delitto degli Scopeti) il maresciallo
dei carabinieri di Prato Antonio Amore eseguì una perquisizione a
casa del Vigilanti.
Di interessante per le indagini vennero rinvenuti una pistola
modello High Standard calibro 22 (non quella del Mostro che
verosimilmente era una Beretta) e alcuni ritagli di giornale, uno in
particolare relativo all'arresto del Mele e del Mucciarini nel gennaio
del 1984.
A questa prima perquisizione ne seguì una seconda a casa della
mamma del Vigilanti. Qui vennero trovati diversi altri ritagli di
giornale, in particolar modo due relativi ai delitti commessi dal
MdF nel 1974 a Rabatta e nel 1984 a Vicchio, e due relativi agli
omicidi di due prostitute fiorentine, la Bassi e la Cuscito (vedasi
capitolo Le morti collaterali).
Terminate le sue indagini, il 18 novembre 1985 il maresciallo Amore
stilò una nota informativa per i magistrati che si occupavano dei
delitti del MdF, in cui intese sottolineare i seguenti punti:
1. Vigilanti era alto circa 190 centimetri ed era di robusta
costituzione, così come si ipotizzava potesse essere il killer del
coppiette;
2. aveva estrema familiarità con armi ed era iscritto presso la
sezione di tiro a segno nazionale di Prato;
3. era conosciuto presso gli organi di polizia locale per oltraggio a
pubblico ufficiale, furto, tentata estorsione, violazioni varie;
4. aveva fatto parte della legione straniera dal 1953 al 1957 e aveva
partecipato ad azioni di guerra;
5. aveva tentato il suicidio nel 1961 ed era stato curato per crisi
depressiva nel 1963.
Inoltre nella nota veniva fatto riferimento ad altri episodi della vita
del Vigilanti e ai sospetti che gravavano sulla sua persona. In
particolar modo:
6. avrebbe obbligato la moglie a prostituirsi;
7. era sicuramente in possesso di altre armi mai denunciate;
8. era solito di sera allontanarsi da casa e rientrare a notte fonda;
9. era sua abitudine spostarsi in auto per la provincia, portando con
sé due cani.
Tuttavia, quella era l'epoca in cui le indagini si stavano
concentrando in maniera quasi univoca su Salvatore Vinci,
fortemente sospettato di essere il Mostro. Le segnalazioni sul
Vigilanti non portarono dunque nell'immediato ad alcun
provvedimento, ma il suo nome non venne mai completamente
messo da parte, se è vero che circa nove anni dopo, precisamente il
22 novembre 1994, l'ex legionario subì una nuova perquisizione.
Erano trascorse tre settimane dalla sentenza Ognibene che
condannava in primo grado Pietro Pacciani all'ergastolo per essere
stato l'autore di 7 degli 8 duplici omicidi storicamente attribuiti al
MdF, quando il nucleo investigativo di Prato tornò a bussare alla
porta dell'ex legionario.
In questa seconda perquisizione vennero rinvenute e sequestrate
176 cartucce Winchester Calibro 22 con la lettera H stampigliata sul
fondello. Cartucce che per tipologia e marca risultavano del tutto
simili a quelle utilizzate nei delitti del MdF; ma è bene precisare che
non risultano essere state eseguite analisi più approfondite per
accertare l'effettiva compatibilità fra le cartucce sequestrate e quelle
effettivamente utilizzate nei delitti.
Il Vigilanti si difese sostenendo di averle acquistate al poligono
presso cui si esercitava. Tuttavia, tali cartucce, che non erano state
rinvenute nella perquisizione del 1985, erano fuori produzione dal
1981. Si può dunque ragionevolmente pensare che nella precedente
occasione erano state debitamente occultate.
Nonostante i dubbi che le perquisizioni non solo non riuscirono a
dissolvere ma anzi accentuarono, nessun atto concreto fu più
eseguito dagli inquirenti nei confronti dell'ex legionario. La Procura
di Firenze prese la strada dei Compagni di Merende e il nome di
Gampiero Vigilanti cadde per diverso tempo nel dimenticatoio
mostrologico.
Ovviamente, ci pensò lo stesso ex legionario a riportare gli organi
d'informazione sulle sue tracce. Ormai quasi settantenne, nel
settembre del 1998, sostenne di aver ricevuto un'eredità milionaria
da un parente emigrato in America.
Il 9 maggio del 2007, come accennato in precedenza, partecipò alla
trasmissione condotta da Enrico Ruggeri su Italia 1, "Il bivio", in
cui raccontò le sue esperienze in guerra, il coinvolgimento nella
vicenda del Mostro di Firenze e infine parlò del lascito di 18 milioni
di dollari ricevuto in eredità dal suddetto parente emigrato negli
Stati Uniti.
È bene precisare che di questa presunta eredità milionaria a oggi
non si sa più nulla. Vigilanti da allora non ha minimamente
cambiato il suo stile di vita, non risultano soldi pervenuti su alcuno
dei suoi conti noti, né l'avvocato cui aveva dichiarato di aver dato
mandato per gestire l'eredità, tale Antonio Caputolo, risulta
esistente. Inoltre, leggendo le varie interviste rilasciate nel corso
degli anni dal Vigilanti emergono diverse contraddizioni: il parente
risulta essere di volta in volta un cugino, uno zio o un figlio del
fratello del nonno, residente ora nel New Jersey ora nel
Connecticut, proprietario ora di una catena di fast food, ora di
un'azienda che si occupa di forniture militari.
Si lascia al legittimo giudizio del lettore, l'attendibilità dunque di
tali affermazioni.

Trascorsero altri sei anni e il 28 novembre 2013 Vigilanti denunciò


due furti presso la sua abitazione. Nella denuncia dichiarava che gli
erano stati trafugati la pistola High Standard calibro 22 (quella
individuata durante la perquisizione del settembre 1985), una
pistola turca calibro 7.65 e una rivoltella Smith & Wesson calibro
357 magnum, che aveva acquistato in un'armeria di Prato pochi
giorni prima del furto.
Ancora quattro anni di parziale anonimato e poi nell'estate del 2017
arrivò la svolta.
Il 26 Luglio l'Ansa lanciò la seguente agenzia: "Il pm che ha sempre
indagato sui delitti del mostro, Paolo Canessa, ora procuratore capo a
Pistoia, avrebbe indagato un ex legionario, Giampiero Vigilanti, 86 anni,
residente a Prato. L'inchiesta sarebbe condotta in collaborazione con il
procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco".
Due giorni dopo, il 28 luglio "La Nazione" pubblicò un articolo in
cui veniva riferito che nel registro degli indagati era stato scritto
anche il nome del dottor Francesco Caccamo, 87 anni, medico
curante del Vigilanti.
A tirare in ballo il dottor Caccamo, residente a Dicomano, in
Mugello, ma che in passato aveva lavorato in ambulatorio a Prato,
era stato lo stesso Vigilanti in uno dei numerosi interrogatori che
aveva sostenuto in Procura prima del lancio dell'Ansa e della sua
iscrizione nel registro degli indagati.
A parte le suddette dichiarazioni del Vigilanti, sul dottor Caccamo,
al momento non è dato sapere nulla circa le sue implicazioni nelle
vicende del Mostro di Firenze.

Catapultato nuovamente a pieno titolo al centro delle indagini, da


questo punto in poi il Vigilanti cominciò a rilasciare una serie di
interviste e dichiarazioni, quasi godendo della recuperata celebrità
e in un certo qual modo divertendosi - almeno a parere di chi scrive
- a spargere tracce o indizi di ogni tipo, incurante della loro
veridicità.
Emblematico, da questo punto di vista, l'episodio di Vicchio: è
risaputo che nei giorni immediatamente precedenti al delitto fu
avvistata una Alfa Romeo rossa dalle parti della Boschetta.
Un'automobile che - come sarebbe emerso dalle indagini -
apparteneva a un pescatore del tutto estraneo al delitto. Eppure, il
Vigilanti non esitò ad attribuirsi anche la paternità di tale vettura,
dichiarando al "Gazzettino del Chianti", ancora una volta in
maniera del tutto gratuita: "Ho posseduto una Lancia Flavia rossa. Se fa
riferimento alla macchina rossa vista a Vicchio prima del delitto di Pia
Rontini e Claudio Stefanacci può essere anche la mia: lì a pochi passi dalla
piazzola abitava mia madre e a trovarla ci andavo in macchina".
Sempre a questo proposito, in un'intervista del 28 aprile 2018 al
giornalista Stefano Brogioni, per la prima volta affermò di aver
posseduto una Beretta calibro 22, la pistola storicamente attribuita
ai delitti del Mostro di Firenze. Da notare che tale pistola non era
mai emersa né nelle precedenti dichiarazioni del Vigilanti, né nelle
precedenti perquisizioni.
Ma ancor più emblematica risulta essere durante la stessa intervista
la dichiarazione secondo cui avrebbe conosciuto persino il dottor
Narducci, il gastroenterologo perugino di cui abbiamo avuto modo
di parlare nel capitolo Il medico di Perugia.
Inoltre, come riportato dal ricercatore Emanuele Santandrea in una
trasmissione sull'emittente radiofonica Florence International
Radio dedicata proprio all'ex legionario, su youtube girava persino
un'intervista (quasi subito rimossa) in cui il Vigilanti,
tranquillamente seduto davanti a un bar e sorseggiando un
bicchiere di spuma, dichiarava a un incognito intervistatore di
essere stato in automobile con il Narducci dalle parti di Travalle
proprio la notte dell'omicidio. Giova ricordare - ove ce ne fosse
bisogno - che in occasione dell'omicidio delle Bartoline il Narducci
era verosimilmente negli Stati Uniti.
Infine, per non farsi mancare nulla, in precedenza, nel verbale del
30 giugno 2015, Vigilanti si era premunito di far sapere agli
inquirenti di aver conosciuto sia Salvatore che Francesco Vinci,
dichiarando che entrambi erano stati clienti del dottor Caccamo e di
averli visti più volte nell'ambulatorio pratese del medico.
Il resto della vicenda appartiene ai giorni nostri. Nel gennaio 2019 il
GIP dispone il divieto per il Vigilanti di avvicinarsi alla moglie,
causa continui e reiterati maltrattamenti che la donna avrebbe
subito.
Il 3 luglio 2019 il PM Luca Turco chiede l'archiviazione per le
posizione di Vigilanti e Caccamo.
In settembre, l'avvocato dei parenti delle vittime francesi, Vieri
Adriani, deposita un'opposizione all'archiviazione, ma il 9
novembre 2020 il giudice Anna Fantechi archivia definitivamente le
posizioni dei due indagati.
A oggi, primo scorcio del 2021, non risultano ulteriori indagati
sull'annosa e drammatica vicenda del Mostro di Firenze.

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1 commento:
1.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 23:32

Interessante il punto di vista dell'Autore, molto ben ricostruita


la vicenda dal punto di vista temporale, ottimo lo stile,
sebbene qualche data sia errata e non si parli di particolari
importanti, per i quali vedi
https://www.avvocatoadriani.it/wp/wp-
content/uploads/2021/12/storia.pdf
Mostrologia minore

Nel presente capitolo verranno riportate e per quanto possibile


descritte le teorie mostrologiche alternative a quelle cosiddette
ufficiali. La maggior parte di queste hanno un numero di sostenitori
piuttosto esiguo, alcune appaiano bislacche e poco credibili, ma
comunque meritevoli di essere citate, altre sono del tutto
inverosimili e vengono riportate esclusivamente per scrupolo
professionale.

La Pista Francini

Trattasi di una pista decisamente minore, ma comunque da


segnalare.
Di Giuseppe Francini abbiamo parlato a proposito del delitto
di Rabatta. Il Francini fu colui che il giorno successivo al delitto si
era presentato ai carabinieri di Borgo San Lorenzo per dichiarare
che dalla sua automobile FIAT 850 era sparito un cacciavite e che
tale improvvisata arma poteva essere stata utilizzata per
commettere il duplice omicidio. Durante la deposizione, il Francini
rivelò fra le lacrime di avere sofferto in precedenza di disturbi
psichici e di essere perseguitato da qualcuno, senza però fornire
ulteriori dettagli in merito. Il giorno successivo (16 settembre) la
casa del Francini venne perquisita ma non venne trovato nulla di
particolarmente significativo. Eppure questa pista non fu subito
abbandonata.
Qualche mese dopo, infatti, nel febbraio del 1975, su indicazioni del
giudice Santilli furono predisposte indagini sul fratello maggiore
del Francini, residente a Scarperia nel Mugello, ma emigrato in
Svizzera, a Basilea, per questioni di lavoro. Tali indagini erano tese
ad appurare se quest'uomo fosse possessore di una Beretta calibro
22 e se nel settembre del 1974 avesse frequentato il fratello a Borgo
San Lorenzo. Non è dato sapere quale piega presero queste
indagini, immaginiamo però che diedero esito negativo perché di
Francini e del misterioso fratello non s'è più parlato.
Per quanto può valere, c'è tuttavia da segnalare, secondo i
mostrologi che hanno seguito questa vicenda, che dopo il 1985
(dunque al termine degli omicidi commessi dal MdF) il fratello
maggiore del Francini, attualmente deceduto, sposò una ragazza
olandese molto più giovane di lui; ben presto la lasciò per sposarsi
con la di lei madre. Inoltre, nel 2016 è stata rinvenuta una pistola
calibro 22 in località Madonna dei Tre Fiumi, molto prossima alla
zona di residenza dei Francini. Tale pistola aveva il percussore
abraso e dunque era inutilizzabile al fine di eventuali comparazioni
con l'arma del Mostro.

Teoria De Biasi
Claudio De Biasi, detenuto per aver sparato nel 1973 a una coppia
appartata in macchina in un campo alle porte di Firenze, entrò per
la prima volta nella vicenda del Mostro nel dicembre del 1982
quando fu ascoltato dai carabinieri della Legione Operativa di
Firenze e nell'occasione dichiarò di conoscere l'identità dell'autore
dei duplici omicidi a danno delle coppiette, identificandolo in
tale "Carlo" di Prato.
L'interrogatorio era nato in seguito a una lettera che il De Biasi,
all'epoca detenuto alle Murate, aveva scritto alla mamma di
Susanna Cambi, la ragazza uccisa dal mostro
alle Bartoline nell'ottobre del 1981.
In questa lettera il De Biasi raccontava infatti: "Io conosco il mostro e
mi sento un po' colpevole di questi assurdi omicidi perché io sparai a una
coppietta e sembra che il mio gesto abbia dato vita a questi omicidi".
Nella lettera De Biasi ammetteva inoltre di essere stato un
guardone, di avere bazzicato a lungo e nottetempo le campagne
attorno a Firenze, di avere visto in faccia il mostro e addirittura di
essere stato in precedenza il possessore della calibro 22 con cui
venivano commessi gli omicidi; pistola che lo stesso MdF gli
avrebbe rubato nel 1968. Scriveva a tal proposito il De Biasi: "Lui
praticava spesso il campo delle Bartoline, poi l'ho visto dopo a Le Croci di
Calenzano. Lo rividi dalle parti di Scarperia e una volta nei pressi del
paese La Lisca per andare a Montelupo e l'ultima volta che lo vidi fu nel
1976 tramite una licenza che mi diede il carcere di Firenze".
Successive indagini non portarono a nulla, ma parecchi anni dopo il
nome del De Biasi venne ripescato dall'ex confidente spirituale del
Pacciani, la signora Anna Maria Mazzari, conosciuta all'epoca come
suor Elisabetta.
In alcune interviste rilasciate nel settembre del 2018, l'ex suora ha
dichiarato di avere avuto anch'ella confidenze dal De Biasi, il quale
ha continuato a sostenere di conoscere l'identità del Mostro. Stando
alle dichiarazioni che il De Biasi avrebbe fatto alla Mazzari, il
presunto Mostro frequentava un bar in piazza Mercatale a Prato,
possedeva numerosi proiettili calibro 22 e partecipava a
esercitazioni di tipo militare nelle zone più impervie della Calvana
(catena montuosa sopra Prato) "sotto la guida di quel signore della
legione straniera che ultimamente è stato indagato e che istruiva questi
ragazzi" (il Vigilanti, NdA). Durante queste esercitazioni, i
partecipanti indossavano divise fasciste e sparavano con pistole
Beretta calibro 22.
La stessa Mazzari si è detta tuttavia dubbiosa sulla veridicità di
queste dichiarazioni. Oltretutto il De Biasi non è mai sembrato
persona di assoluta attendibilità. Il suo curriculum criminale parla
da solo: squilibrato di estrazione fascista e fanatico di armi, nel 1973
fu protagonista del già citato assalto a una coppia in automobile
(l'uomo si giustificò dicendo di aver creduto che in quella vettura ci
fosse la moglie fredifraga con l'amante); venne condannato a otto
anni di reclusione; durante un permesso, nel 1978 si diede alla
latitanza; nel gennaio 1979 uccise un anziano durante una rapina,
venne nuovamente arrestato e condannato ad altri vent'anni. Evaso
dal carcere, si rifugiò sulla Calvana, dove venne catturato il 21
novembre 2002. Ha continuato a far parlare di sé nel corso degli
anni risultando uomo violento e pericoloso, fino a quando in tempi
recenti il tribunale di Prato ha chiesto una perizia psichiatrica per
valutarne le capacità cognitive.

Natalino Mele Serial Killer


Fra le teorie più assurde emerse nel mare magno della mostrologia
minore c'è quella ciclica secondo cui il serial killer delle coppiette
sarebbe stato Natalino Mele, rimasto traumatizzato dal delitto del
1968 in cui furono uccisi sua madre Barbara Locci e l'amante
Antonio Lo Bianco. In quell'occasione il piccolo Natalino, sei anni
d'età, avrebbe recuperato e nascosto la pistola abbandonata dal
killer, per poi utilizzarla in seguito sulle stesse tipologie di vittime
del primo omicidio.
Il primo delitto commesso da Natalino sarebbe stato quello del
settembre del 1974, quando all'età di dodici anni e mezzo, Natalino
sarebbe in qualche modo arrivato in Mugello (forse in compagnia di
Francesco Vinci), avrebbe sempre in qualche modo raggiunto la
località Rabatta a tarda sera, avrebbe sparato su una giovane coppia
in automobile, avuto un corpo a corpo con Stefania Pettini,
l'avrebbe colpita con tre coltellate così violente da intaccarle lo
sterno, infine l'avrebbe ulteriormente sfregiata con una novantina di
leggeri colpi di arma bianca. In seguito il bambino, divenuto nel
frattempo ragazzo e quindi uomo, avrebbe ripreso a colpire con
continuità a partire dal 1981.
Il personaggio forse maggiormente degno di nota ad aver proposto
questa teoria fu nell'aprile del 1992 il criminologo e investigatore
privato Carmelo Lavorino, il quale in pompa magna convocò una
conferenza stampa per dare in pasto all'opinione pubblica quella
che lui considerava la "teoria finale" sul caso. La maggior parte dei
giornalisti intervenuti ad ascoltarlo reagì con un moto di ilarità e
neanche prese in considerazione l'ipotesi.

La Strana Idea Del Professor Bruno


Chiunque si sia mai interessato di casi di cronaca nera in Italia, è
finito inevitabilmente per imbattersi nel nome del professor
Francesco Bruno, celebre psichiatra e crimonologo calabrese,
professore di Psicopatologia Forense alla Sapienza di Roma, nonché
collaboratore presso la Presidenza del Congiglio dei Ministri e
consulente del SISDE. Nel 1984, proprio dal Sisde, al cui vertice vi
era Vincenzo Parisi, Bruno ricevette l'incarico di condurre uno
studio sulla vicenda del Mostro di Firenze.
Come apprendiamo nell'udienza del 15 luglio 1994 del Processo
Pacciani (vedasi relativa appendice), Bruno redasse tre dossier sul
caso, uno nel 1984, uno nel biennio 1985-1986 e uno nel 1994,
quest'ultimo reso pubblico e rintracciabile tranquillamente sul web.
In tali dossier il celebre crimonologo esplicitò la sua teoria sul caso,
ribadendola nel tempo più volte in diverse interviste, molte delle
quali rintracciabili su youtube.
Volendo fare una necessaria sintesi del suo pensiero, Bruno ritiene
il Mostro di Firenze un serial killer solitario, estremamente
organizzato e dall'elevato livello intelletivo, capace cioè di
prevedere e pianificare perfettamente la sua azione criminale.
Ipotizza per lui un'infanzia resa difficile da una grave malattia della
mamma verso cui nutriva un profondo e morboso legame. Alla
mamma, malata di cancro, sarebbero stati eportati chirurgicamente
seno e ovaie, e la sua morte avrebbe causato indicibili sofferenze nel
futuro serial killer.
Se tutto questo può essere in linea con l'idea, più o meno
cinematografica ma comunque sensata, di assassino seriale che
ciascuno di noi ha, il professor Bruno va decisamente oltre,
spiazzando il lettore con alcune teorie decisamente originali.
Nel primo dossier (1984) parla esplicitamente di "delitti rituali
compiuti in omaggio a un qualche rito satanico di cui l'assassino è un
seguace o a qualche pratica di stregoneria o magia nera". Il professore
sembra dunque sposare la strada dei cosiddetti delitti satanici.
Ipotizza inoltre che l'assassino avesse come propria base una
clinica, una casa di cura e di riposo per anziani non autosufficienti,
con tutta probabilità nella zona sud di Firenze.
Tuttavia, nel secondo dossier (1985/1986), pur mantenendo l'idea
della clinica come base del Mostro, Bruno sembra virare verso
delitti di tipo religioso; vede dunque nell'assassino un fanatico
religioso che uccide le coppie per punire la donna, da lui
identificata come "sorgente di peccato" e "ricettacolo del demonio".
Da qui, con tutto il rispetto per gli studi condotti dall'esimio
professore, si comincia a entrare decisamente nel mondo del
fantastico. Secondo la teoria Bruno, dopo il delitto degli Scopeti il
Mostro avrebbe deciso di farsi catturare e dunque avrebbe
cominciato a inviare indizi ai vari magistrati che si erano occupati o
si occupavano ancora del caso: la lettera alla Della Monica, le
missive a Vigna, Fleury e Canessa, la cartuccia rinvenuta
all'ospedale di Ponte a Niccheri (vedasi capitolo Accadimenti
Finali) erano dunque tutti indizi disseminati dal Mostro per
permettere la propria individuazione. Per esempio, l'ospedale
avrebbe dovuto indirizzare gli inquirenti verso una clinica; il
cognome della dottoressa Della Monica avrebbe dovuto far
intendere agli inquirenti che tale clinica era intitolata a una monaca;
il fatto che nell'indirizzo della lettera inviata alla stessa Della
Monica mancasse una "B" avrebbe dovuto condurre gli inquirenti
verso un paese il cui nome iniziasse appunto con la lettera "B" e
dunque - secondo Bruno - verso Bagno a Ripoli. Comparivano
inoltre ulteriori riflessioni e deduzioni persino più cervellotiche,
riguardanti statue simili in paesi diversi, la cui individuazione
avrebbe dovuto inevitabilmente portare gli inquirenti sulle tracce
del Mostro.
In definitiva, la teoria di Bruno prevede un serial killer organizzato,
di elevato livello sociale e culturale, estremamente capace e
intelligente, dall'infanzia difficile in cui aveva perso in tenera età la
mamma malata di cancro, cui erano stati esportati chirurgicamente
seno e ovaie; tale serial killer aveva la propria base in una casa di
cura di Bagno a Ripoli dal nome dedicato a una monaca; costui
colpiva per via del trauma subito durante l'infanzia a causa della
malattia, delle operazioni e della morte della mamma; ma colpiva
anche perché dedito al satanismo e a riti esoterici (primo dossier) o
più probabilmente perché fanatico religioso, ben deciso a punire le
coppie che commettevano peccato e in special modo le donne, che
di tal peccato erano la causa. Infine tale assassino, desideroso di
farsi catturare, piuttosto che consegnarsi alle forze dell'ordine,
avrebbe deciso di inviare una serie di cervellotici indizi agli
inquirenti. Ovviamente senza successo, non essendo mai stato
preso.

Il Mostro Di Modena
Fra l'agosto del 1985 e il gennaio del 1995, otto giovani donne
furono uccise a Modena e nei dintorni del capoluogo emiliano da
mano ignota. Delle otto vittime, sette utilizzavano la prostituzione
come mezzo per procurarsi i soldi necessari per acquistare droga.
Secondo alcuni studiosi la scia di sangue perpetrata da colui che è
passato alla storia come il Mostro di Modena potrebbe essere
ancora più lunga e comprendere almeno altre due vittime.
Non è fine di questi scritti entrare nelle misteriose e complesse
vicende di tale brutale serial killer. Abbiamo accennato brevemente
a questa vicenda, perché secondo un noto ricercatore più volte
citato in questi scritti, Enrico Manieri, potrebbe esserci una sorta di
collegamento fra Mostro di Firenze e Mostro di Modena. Più volte,
in diverse interviste reperibili su youtube e anche privatamente al
sottoscritto, il Manieri ha ventilato la possibilità che dopo aver
deciso di metter la parola fine ai delitti delle coppiette nella
provincia di Firenze, il Mostro possa aver cambiato raggio d'azione
ed essersi spostato nel capoluogo emiliano, modificando oltretutto
anche la tipologia delle vittime e puntando le prostitute di zona.
Sempre secondo il Manieri, la scelta sarebbe caduta su Modena in
quanto questa era la città del criminologo Francesco De Fazio,
l'uomo incaricato dalla Procura di redigere un profilo psciologico
del Mostro e indicato dalla stampa dell'epoca come colui che ne
avrebbe consentito la cattura. Dunque il MdF potrebbe avere visto
nel De Fazio il suo nemico numero uno e aver deciso di spostare il
suo raggio d'azione proprio nella città del criminologo.
Risulta questa un'idea decisamente affascinante che però - per
stessa ammissione del Manieri - non ha nessun tipo di indizio a
sostegno e va presa esclusivamente come mera congettura.
Il sottoscritto ha comunque inteso dedicare qualche giorno di studio
alla vicenda del Mostro di Modena e rivolgere una serie di
domande ad alcuni esperti della materia. Sono emersi diversi
particolari che - ove mai ce ne fosse bisogno - decisamente
contrasterebbero la teoria dello stesso serial killer a Firenze e
Modena.
Innanzitutto, ipotizzare che i due serial killer fossero la stessa
persona, presupporrebbe che l'assassino avesse deciso di colpire a
Modena quando ancora non era terminata la sua scia di sangue a
Firenze. Il primo omicidio del Mostro di Modena (21 agosto 1985)
avvenne infatti un paio di settimane prima dell'ultimo omicidio del
Mostro di Firenze. Questo oltre a comportare che nell'arco di un
paio di settimane l'assassino avesse colpito due volte in due città
distanti fra loro quasi 150 chilometri, implicherebbe almeno per il
primo delitto non un trasferimento del serial killer da Firenze a
Modena, ma più che altro uno spostamento temporaneo
dell'omicida, il quale sarebbe partito da Firenze, arrivato a Modena,
ucciso e poi verosimilmente rientrato a Firenze dove viveva.
Inoltre, è parere abbastanza diffuso fra gli studiosi del caso del
Mostro di Modena, per non dire certezza acquisita, che chiunque
fosse l'utore degli omicidi di Modena, era persona che conosceva
benissimo la città e i suoi dintorni, i luoghi frequentati dalle
prostitute, gli anfratti più remoti della provincia e fra questi si
sapesse muovere con estrema capacità. Questo è un po' anche
quello che si diceva del Mostro di Firenze, un soggetto che
conosceva benissimo i luoghi in cui colpiva. Risulta dunque
piuttosto complicato pensare a un unico serial killer che conoscesse
profondamente la geografia e la toponomastica di entrambe le città
e delle loro rispettive province. Senza considerare che entrambe le
tipologie di delitto presupponevano un'adeguata preparazione e
ricognizione dei luoghi, dunque un assassino che almeno
limitatamente al periodo precedente all'omicidio fosse stanziale.
Possiamo dunque affermare quasi senza timore di smentita che
l'idea di un unico assassino prima a Firenze e poi a Modena, per
quanto affascinante, appare decisamente poco credibile.
Il Forteto
Il Forteto è una cooperativa agricola attiva nel comune di Vicchio,
fondata nel 1977 da Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi, con
l'obiettivo di creare una comunità produttiva e alternativa alla
famiglia tradizionale ispirata agli insegnamenti di don Milani.
Rodolfo Fiesoli, detto il Profeta, era a capo della struttura, mentre
Luigi Goffredi era il cosiddetto ideologo del progetto; entrambi
millantavano una laurea in psicologia che in realtà non avevano.
Già nel 1978 i fondatori vennero indagati per atti di libidine e
maltrattamenti nei confronti degli adolescenti disabili che il
tribunale dei minori aveva inviato presso la comunità; i due
vennero condannati nel 1985. Tuttavia il tribunale dei minori
continuò ad affidare alla comunità bambini disabili o con
problematiche sociali e familiari. La comunità riuscì a crearsi col
tempo un'immagine di centro di eccellenza educativa ottenendo
importanti finanziamenti pubblici e riuscendo a divenire una
rilevante realtà economica e produttiva nel campo agricolo, grazie
soprattutto al lavoro degli ospiti della comunità stessa.
A lungo, nonostante le condanne, il Tribunale dei minori e la
politica locale riposero la propria fiducia in Fiesoli e nel suo operato
tanto che, quando nel 2011 i due capi della comunità vennero
nuovamente accusati di maltrattamenti verso i minori e lo scandalo
che seguì portò alla richiesta dell'istituzione di una commissione
d'inchiesta parlamentare, questa trovò la strenue opposizione del
PD con il quale Fiesoli aveva instaurato una fitta rete di scambi e
relazioni.
Le accuse tuttavia erano troppo gravi per poter essere taciute. Nel
2011 Fiesoli venne nuovamente arrestato per violenza sessuale su
minori e maltrattamenti. Venne definitivamente condannato nel
2017 a oltre 15 anni di carcere. Nelle sentenze si parla
di "un'esperienza drammatica, per molti aspetti criminale", "un
martellante e sistematico lavaggio del cervello". Sempre secondo la
sentenza, la comunità era divenuta "territorio di caccia di Rodolfo
Fiesoli", il quale ebbe rapporti sessuali con quasi tutti gli uomini
della comunità e con molti adolescenti. Inoltre i bambini accolti
venivano sottoposti a lavaggio del cervello al fine di creare falsi
ricordi di abusi nelle famiglia per spingerli ad accusare i genitori
naturali. Nel 2018 la copperativa venne commissariata e tuttora
versa in stato di commissariamento. Ad oggi Rodolfo Fiesoli è in
carcere e non sono previsti sconti di pena nonostante le numerose
richieste.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere cosa c'entra tutto ciò con la
storia del Mostro di Firenze. In realtà le connessioni sviluppatesi
negli anni fra le due vicende sono molteplici e talvolta (non sempre)
significative.
Innanzitutto il Forteto è estremamente vicino alla Boschetta di
Vicchio, dove nel 1984 trovarono tragica morte Claudio Stefanacci e
Pia Rontini. In linea d'aria parliamo di pochissime centinaia di
metri.
In secondo luogo, esiste una testimonianza secondo cui Rodolfo
Fiesoli sarebbe stato visto nella piazzola degli Scopeti il venerdì
precedente all'omicidio dei due giovani francesi (dunque il 6
settembre 1985). La testimonianza è di tale Giovanni Biscotti,
conoscente dello stesso Fiesoli, che riferì agli inquirenti di essersi
trovato a passare da via degli Scopeti e di aver visto il Fiesoli fermo
all'ingresso della piazzola, intento a urinare.
Tale testimonianza, unita probabilmente ai precedenti per reati
sessuali, portarono a una perquisizione in casa del Fiesoli e
all'inserimento del suo nome nella famosa lista della SAM di cui si è
parlato a proposito delle indagini su Pacciani. Per la precisione il
nome di Fiesoli figurava alla posizione numero 3 della lista.
Altri piccoli e suggestivi riscontri sono seguiti nel corso degli anni.
L'ultimo indagato, il dotto Francesco Caccamo, di cui si è parlato
nel capitolo dedicato al legionario, ad esempio viveva in una casa
che confinava con la proprietà del Forteto.
I carabinieri hanno ascoltato diverse persone che negli anni degli
omicidi avevano vissuto o frequentato la comunità per cercare
informazioni su Caccamo, cogliendo l'indiscrezione che ai bambini
del Forteto veniva proibito di andare a giocare vicino alla casa del
medico.
Ci sono testimonianze che sconfinano un po' nella leggenda e che
parlano di un bossolo come quelli usati dal MdF conservato per
anni in un barattolo nel negozio della comunità.
Infine ci sarebbe la scheda telefonica utilizzata per effettuare alcune
telefonate anonime all'estetista Dora di Foligno (quelle che avevano
portato a riaprire il caso Narducci, vedasi capitolo Una morte
misteriosa), da cui sarebbero partite anche alcune telefonate dirette
proprio al Forteto.

Il Cardiologo Fiorentino
Nell'agosto del 2002 entrò nelle indagini sui delitti del Mostro un
noto cardiologo fiorentino, 67 anni, di nome Paolo Perez. Il dottore
venne arrestato nella sua villa di Fiesole per aver violentato una
giovane tossicodipendente in coma e per aver documentato
fotograficamente la violenza in maniera dettagliata.
Nella perquisizione della sua villa vennero rivenuti, oltre a
parecchio materiale pornografico, anche una pistola Beretta calibro
22 Long Rifle e molti proiettili, marca Winchester, con impresso sul
fondello il simbolo H. Pistola e proiettili, dunque, dello stesso tipo
di quelli usati dal Mostro di Firenze per commettere i suoi 16
omicidi. Di qui il forse inevitabile coinvolgimento del cardiologo
nell'annosa vicenda criminale.
Ad alimentare i sospetti furono non solo i precedenti penali del
medico, tutti a sfondo sessuale, ma anche il suo passato tragico (suo
nonno, suo padre e il suo unico figlio maschio si erano suicidati) e
la depressione di cui egli stesso soffriva e che alternava a fasi
maniacali di euforia, durante le quali era iperattivo e aveva un
irrefrenabile appetito sessuale.
Di particolare interesse, per quanto terribile, il suicidio del figlio del
dottor Perez, avvenuto in data 17 maggio 1981, dunque una ventina
di giorni prima del duplice delitto di Mosciano, il primo fra quelli a
cadenza annuale commessi dal MdF. Sarà però proprio questo
tragico evento a scagionare il Perez. Emerse infatti che in occasione
del delitto, la Beretta del medico era sotto sequestro, custodita
nell'ufficio corpi di reato del tribunale, in quanto utilizzata proprio
dal figlio per togliersi la vita. Tale pistola era stata restituita al
dottore in data 17 agosto 1981.
Emerse altresì, particolare inquietante, che ai tempi dei delitti del
Mostro, gli inquirenti avevano identificato tutti i possessori di
Beretta calibro 22 residenti in Toscana e le rispettive armi erano
state tutte periziate. Tuttavia quella del dottor Perez,
inspiegabilmente, non risultava essere mai stata controllata. Risulta
spontaneo a questo punto chiedersi quante altre Beretta calibro 22
possono essere sfuggite ai serrati e rigidi controlli portati avanti
negli anni '80.
La pistola del Perez venne in seguito periziata e risultò estranea ai
delitti del MdF. A proposito dello stupro, il dottore venne assolto
nel gennaio 2004, perché ritenuto completamente incapace di
intendere e di volere e non più pericoloso (pare che fisicamente,
psicologicamente e moralmente riversasse in uno stato di assoluta
prostrazione). Per mera curiosità, a processo il medico giustificò la
violenza asserendo di averla compiuta per fini teraupetici, per
svegliare cioè dal coma la giovane donna ospite nella sua villa.

Carlizzi & Friends


Abbiamo già avuto modo di parlare della dottoressa Gabriella
Pasquali Carlizzi nel capitolo Esoterismo e dintorni e di come
questa fosse entrata di propria iniziativa nei casi di cronaca più
importanti d'Italia, dicendosi depositaria di improbabili quanto
controverse verità. Probabilmente non c'è stato caso in Italia dalla
fine degli anni '70 in poi in cui la Carlizzi non si sia detta coinvolta
o non si sia ritrovata per un qualsiasi motivo a possedere
informazioni fondamentali e dirimenti per le indagini. Ricordiamo i
casi più celebri come il sequestro di Aldo Moro, la scomparsa di
Emanuela Orlandi, il delitto di via Poma, il delitto dell'Olgiata, le
stragi di mafia e ovviamente la vicenda del Mostro di Firenze.
Proprio sulla vicenda del Mostro, la Carlizzi ha tirato fuori il meglio
di sé con alcune bizzarre teorie, di cui ovviamente non ha mai
fornito prove e che, tra le altre cose, le son costate sia querele che
condanne. Riportiamo brevemente le più clamorose:

1. Lo scrittore Alberto Bevilacqua Mostro di Firenze:


Tutto ebbe inizio nel febbraio del 1995 quando la Carlizzi presentò
una denuncia in cui dichiarava di aver appreso da una ragazza di
nome Anna Maria Ragni che l'autore dei delitti attribuiti al Mostro
di Firenze fosse il celebre scrittore Alberto Bevilacqua.
Secondo quanto riportato dalla Carlizzi nella denuncia, la Ragni era
stata per un brevissimo periodo l'amante del Bevilacqua ed era
dunque venuta a conoscenza della personalità "mostruosa" dello
scrittore e delle terribili gesta da lui compiute. La Carlizzi stessa
aveva condotto una serie di indagini, giungendo alla conclusione
che le accuse della Ragni fossero certamente fondate. Aveva
dunque fornito nella sua denuncia una serie di "prove" che
attestavano la colpevolezza del Bevilacqua.
Non solo, la Carlizzi aveva cominciato una campagna diffamatoria
nei confronti dello scrittore dalle pagine del giornale di cui lei stessa
era direttrice, "L'altra Repubblica".
Il 2 marzo 1995, sia la Carlizzi che la Ragni vennero ascoltate dal
Pubblico Ministero che si occupava delle indagini sul Mostro, il
magistrato Paolo Canessa. La SAM, su ordine della Procura,
condusse alcune indagini per scoprire che quanto dichiarato dalla
Ragni e dalla Carlizzi non aveva alcun fondamento di verità. Per
fare un esempio, fra le prove a carico del Bevilacqua citate dalla
Carlizzi c'era il reiterato ricovero del Bevilacqua in un ospedale
psichiatrico di Colorno in provincia di Parma, cosa che poi risultò
assolutamente non vera.
Finì con la Carlizzi e la Ragni iscritte nel registro degli indagati per
calunnia. La Carlizzi reagì ai suoi guai giudiziari scrivendo un libro
intitolato "Lettera ad Alberto Bevilacqua sul Mostro di Firenze" in
cui ribadiva le sue accuse. Venne condannata per calunnia dal
Tribunale di Roma a una pena di due anni di reclusione. La Ragni
patteggiò la pena a 16 mesi di reclusione. In precedenza la Carlizzi
era stata già condannata dal Tribunale civile di Roma a risarcire il
Bevilacqua della somma di 500 milioni di lire per i danni arrecati
alla sua immagine.
Nel febbraio del 1996, il Bevilacqua rilasciò una lunga intervista su
"Repubblica" in cui esordiva tristemente con: "Guardi che è
allucinante svegliarsi una mattina e trovarsi addosso un'accusa pazzesca
come quella".

2. Il musicista Ferrara padre di Mario Spezi:


Franco Ferrara è stato un celebre direttore d'orchestra e
compositore, morto a Firenze il 7 settembre 1985, lo stesso weekend
in cui si era verificato il duplice delitto degli Scopeti.
Mario Spezi non ha bisogno di presentazioni: è il giornalista che più
di ogni altro si è interessato al caso del Mostro di Firenze sin dal
lontano 1974.
Anche su queste due figure, la Carlizzi ha avuto modo di tessere le
sue contorte trame.
Tutto ebbe inizio alla fine di aprile del 2007 quando una agente di
commercio di Capoterra (provincia di Cagliari), tale Simonetta
Faraci, amica della Carlizzi e da costei spinta a fornire la sua
testimonianza, si presentò alla Procura di Perugia e rilasciò al PM
Mignini alcune sconcertanti dichiarazioni. La Faraci disse di essere
la nipote di tale Maria Porcu, ex amante di Francesco e di Salvatore
Vinci, e di avere appreso dalla zia alcune notizie sui delitti del
Mostro. In particolare, a compiere il primo duplice omicidio nel
1968 a Signa sarebbe stato un guardone di nome Franco Ferrara,
detto l'artista. Costui era cliente di Barbara Locci e il vero padre del
giornalista Mario Spezi. Stando alle parole della Faraci, il Ferrara
era "un pervertito e comunque alterato mentalmente. Mia zia diceva che
avesse delle brutte abitudini e aveva commesso delitti su prostitute. È
morto alcuni anni fa e da allora non si sono più verificati i delitti".
Ma c'è di più, infatti secondo il racconto della Faraci, lo Spezi
avrebbe ereditato la pistola dal padre e proseguito gli omicidi del
Mostro, godendo della protezione dell'allora questore sardo
Gianfranco Corrias e dell'allora capo della polizia Antonio
Manganelli.
Inoltre, sempre stando al racconto della Faraci: "Pacciani, Vanni e
Lotti erano guardoni che sapevano di questi delitti... si trattava di un
gruppo composto da guardoni, persone legate all'esoterismo, feticisti...
ognuno copriva l'altro e tutti sapevano chi fosse il vero mostro".
Stralci di queste dichiarazioni furono lette dall'avvocato Gabriele
Zanobini, difensore dell'imputato durante il processo contro il
dottor Francesco Calamandrei (si veda il capitolo Il farmacista),
suscitando lo sconcerto generale e in parte l'imbarazzo della
Pubblica Accusa.
Inutile sottolinearlo, lo Spezi incaricò l'avvocato Alessandro
Traversi di querelare la Faraci per calunnia.

3. Pier Luigi Vigna Mostro di Firenze:


Fra i deliri della Carlizzi in merito alla vicenda del Mostro non
poteva ovviamente non finire il Procuratore della Repubblica di
Firenze, dottor Pier Luigi Vigna, l'uomo che per anni ha
combattuto in prima persona il Mostro di Firenze, colui che era
stato incaricato dallo Stato di porre la parola fine ai delitti, senza
per altro riuscirci.
Non spenderemo troppe parole su questa tesi ripresa e cavalcata
abbondantemente anche in tempi recenti dall'erede naturale della
Carlizzi, l'avvocato e blogger Paolo Franceschetti.
In estrema sintesi, abbiamo già visto come nel 1991 la
signora Mariella Ciulli, ex moglie di Francesco Calamandrei e
affetta da psicosi schizoaffettiva di tipo depressivo, aveva accusato
il suo ex marito e il dottor Vigna di essere i mostri di Firenze.
Accuse che si rivelarono ovviamente prive di fondamento, ma che
solleticarono la fantasia della Carlizzi, la quale maturò l'idea che
Vigna fosse uno dei mandanti degli omicidi attribuiti al Mostro di
Firenze. Ma la fervida immaginazione della Carlizzi non si fermò
certamente qui, perché col tempo risucì a mettere in piedi quella
che potremmo definire la teoria definitiva, la madre di tutti i
complottismi, che riuniva dentro di sé tutte le ipotesi avanzate da
lei stessa negli anni.

4. La teoria definitiva:
Il Mostro di Firenze altri non era che un gruppo di persone,
appartenenti a una setta esoterica, ciascuno con il proprio ruolo e i
propri compiti. Di questo gruppo facevano parte sia eminenti
personalità come il Sostituto Procuratore Pier Luigi Vigna, il
giornalista Mario Spezi, il compositore Franco Ferrara (padre dello
Spezi), il dottor Francesco Calamandrei, lo scrittore Alberto
Bevilacqua, ovviamente il dottor Francesco Narducci, sia
personaggi squallidi che costituivano la manovalanza spicciola,
coloro che si sporcavano le mani, come i Comapgni di Merende, il
mago Indovino, buona parte dei frequentatori di via Faltignano, il
sardo Francesco Vinci.
Questa teoria viene tuttora portata avanti dal già citato Paolo
Franceschetti, seguace delle idee della Carlizzi. Inoltre, come
accennato nella sezione degli Aggiornamenti, buona parte di
questa teoria è stata esposta in tempi recenti da Luciano
Malatesta (il figlio secondogenito di Renato Malatesta e di Maria
Antonietta Sperduto) in una delirante intervista andata in onda sul
canale youtube "Le Notti Del Mostro". Tra le altre cose, in tale
intervista, il Malatesta ha dichiarato apertamente che suo padre
Renato gli aveva confidato "vogliono uccidermi" poco prima di
morire nel dicembre del 1980 (vedasi capitolo Le morti collaterali).
Ci sarebbe però da chiedersi perché nei due processi in cui è stato
testimone (quello contro Pacciani e quello contro i Compagni di
Merende) l'allora giovane Luciano non aveva mai fatto rivelazioni
del genere, al contrario aveva dichiarato che in più di un'occasione
aveva distolto il padre da intenti suicidi.
Nell'intervista, il Malatesta ha rivelato anche che sua sorella Milva
gli aveva fatto nomi e cognomi di tutti i personaggi coinvolti nella
vicenda; nomi che evidentemente lui ha taciuto per trent'anni; li ha
taciuti sia dopo la terribile morte di Milva, sia nei due Processi in
cui è stato testimone, salvo poi ricordarsene improvvisamente con
anni e anni di ritardo durante un'intervista sul web.
Ma le dichiarazioni del Malatesta non si sono limitate a questo: in
un crescendo emotivo di rara intensità ha parlato di cancro indotto
da medici compiacenti ad alcuni testimoni per evitare che
parlassero, di giro di pedofilia internazionale, di servizi segreti
deviati, di un secondo e di un terzo livello, di massoneria, di Rosa
Rossa e di tutti i più disparati complottismi di cui si può trovare
traccia sul web, tutto in quel grande calderone che è stata la tragica
epopea del Mostro di Firenze.
Si lascia al lettore ogni possibile valutazione.

La Pista Eversiva
Prendendo spunto da quanto dichiarato nel paragrafo dedicato al
De Biasi a proposito delle milizie irregolari di estrazione fascista
che si esercitavano sui monti della Calvana, e strettamente connessa
alla teoria secondo cui il MdF sarebbe stato il legionario Giampiero
Vigilanti, nell'estate del 2017 nacque la cosiddetta pista
dell'eversione nera. Una teoria riportata da diversi giornali, fra cui
anche La Nazione, nata dalla convinzione che i magistrati che
stavano indagando sul Vigilanti avessero in realtà esteso le loro
indagini ad ambienti di estrema destra legati ai servizi segreti.
Secondo tale teoria, i delitti storicamente attribui al Mostro di
Firenze sarebbero stati infatti programmati ed eseguiti in ambienti
eversivi di impostazione fascista per distrarre inquirenti e opinione
pubblica dalle vicende italiane di quegli anni.
I sostenitori di tale teoria si erano pertanto affrettati a trovare dei
collegamenti temporali fra i delitti del MdF e alcune di queste
vicende. Ne accenniamo brevemente:
▪ nell'agosto del 1974 era esplosa la bomba sull'Italicus e un mese
dopo era avvenuto il delitto di Rabbata;
▪ nell'agosto del 1980 c'era stata la strage di Bologna, nel maggio del
1981 c'era stato l'attentato al Papa e in giugno c'era stato il delitto di
Mosciano;
▪ il giorno dopo il delitto di Calenzano era previsto uno sciopero
generale di vastissima adesione;
▪ il giorno successivo al delitto di Baccaiano era stato trovato
impiccato a Londra il banchiere Roberto Calvi;
▪ nell'agosto del 1983 era evaso da un carcere svizzero Licio Gelli e
nel settembre dello stesso anno era avvenuto il delitto di Giogoli.
Da questo brevissimo elenco, è immediato intuire come in un
decennio così ricco di avvenimenti sociali, politici e criminali quale
quello italiano a cavallo fra gli anni '70 e gli anni '80, un qualunque
collegamento con i delitti del MdF sarebbe stato estremamente
facile da trovare.
A ogni modo, furono gli stessi magistrati a smentire le indagini
sulla cosiddetta pista eversiva, troncando sul nascere un filone
mostrologico che avrebbe sicuramente alimentato le varie teorie
complottistiche di ogni tipo.

Le Rivelazioni Di Angelo Izzo


In tema di rivelazioni improbabili, riportiamo le dichiarazioni di
uno degli esecutori del cosiddetto massacro del Circeo, lo
psicopatico Angelo Izzo, il quale in tempi piuttosto recenti (estate
2018) ha lasciato intendere di aver conosciuto in gioventù il
dottor Francesco Narducci e di avere scottanti rivelazioni sulla sua
partecipazione ai delitti del Mostro di Firenze.
Non solo, Izzo ha rivelato dettagli riguardanti la scomparsa della
giovane Rossella Corazzin, la ragazza diciasettenne di cui si perse
ogni traccia nell'agosto del 1975 a Tai di Cadore nel bellunese.
Secondo Izzo, la giovane sarebbe stata rapita, condotta all'interno di
una villa di proprietà di Francesco Narducci sulle sponde del
Trasimeno, utilizzata come vittima in un rito satanico cui avrebbero
partecipato una dozzina di persone, e infine uccisa lo stesso giorno
del rapimento.
Inizialmente le doverose indagini condotte a seguito di tali
rivelazioni non portarono a nulla: il predetto Izzo venne ritenuto
del tutto inattendibile e le sue dichiarazioni giudicate alla stregua di
vaneggiamenti. Non parve difatti emergere alcuna conoscenza fra
Izzo e Narducci, tanto meno un coinvolgimento non solo del
Narducci ma anche dello stesso Izzo alla misteriosa e ancora
insoluta scomparsa della Corazzin.
Nondimeno, da consulenti della Commissione Parlamentare
Antimafia, i magistrati Guido Salvini e Giuliano Mignini hanno
inteso approfondire le tematiche esposte da Izzo.
Proprio partendo dagli studi dei due magistrati e sulla base della
rivelazioni di Izzo, la nona sezione della Commissione
Parlamentare Antimafia, presieduta dalla onorevole Stefania
Ascari, si è interessata fortemente alla vicenda del Mostro di
Firenze e di conseguenza alla figura del dottor Francesco Narducci
e agli eventuali collegamenti con la destra eversiva di cui Izzo è
stato esponente.
Come visto nel capitolo dedicato agli "Aggiornamenti", il 4
novembre 2022, la Commissione ha pubblicato la propria relazione
sul caso, approvata all'unanimità.

Zodiac
Terminiamo questa breve carrellata di teorie alternative con quella
che è forse la più importante fra le tante della cosiddetta
Mostrologia minore.
Una pista che probabilmente avrebbe meritato un capitolo a parte,
ma per la pochezza di informazioni che abbiamo e anche per una
certa ambiguità dell'argomento, non può che rientrare fra le teorie
che abbiamo evidenziato come minori. Almeno per il momento.
Cominciamo con il chiarire chi è Zodiac.
Zodiac, anche noto come Zodiac Killer o killer dello Zodiaco, è stato
un assassino seriale che ha agito nella California settentrionale tra il
dicembre 1968 e l'ottobre 1969. L'appellativo venne coniato dallo
stesso autore dei delitti in una serie di lettere inviate alla stampa
dall'agosto 1969 fino al luglio del 1974, dunque ben oltre l'ultimo
delitto ufficialmente da lui commesso. Tali lettere contenevano fra
l'altro anche quattro crittogrammi (messaggi cifrati), uno dei quali
rimane ancora oggi senza soluzione, mentre un altro è stato
decriptato solo pochi mesi fa.
Zodiac uccise cinque persone in quattro agguati che videro
complessivamente coinvolte sette persone, quattro uomini e tre
donne; due di loro sopravvissero alle aggressioni. In verità al killer
dello Zodiaco sono state attribuite numerose altre vittime, senza
tuttavia che vi fossero prove sufficienti per confermarle.
Al di là del numero piuttosto esiguo di vittime e del tempo limitato
in cui ha colpito, Zodiac è stato uno dei serial killer più conosciuti e
temuti del ventesimo secolo. A far di lui quasi una tragica icona
popolare sono state soprattutto le numerose lettere inviate a
importanti giornali locali in cui sfidava, minacciava, derideva e
quasi giocava con gli inquirenti.
Nonostante le serrate indagini e i numerosi sospetti, ad oggi
l'identità dell'assassino rimane ancora sconosciuta. Forse questo è il
motivo per cui il nome di Zodiac è stato recentemente accostato a
quello del Mostro di Firenze.
Ma proviamo ad andare con ordine.
Il 6 giugno 1994 si presentò a deporre al Processo Pacciani l'ex
soldato americano Giuseppe Bevilacqua, detto Joe. Dopo aver
lasciato l'esercito, dal 1974 al tardo 1988 il Bevilacqua fu direttore
del cimitero militare statunitense dei Falciani, a San Casciano in Val
di Pesa. Il cimitero era estremamente vicino alla piazzola degli
Scopeti. Lo stesso Bevilacqua abitava in prossimità del cimitero,
dunque a una distanza di circa trecento metri in linea d'aria dalla
suddetta piazzola.
Durante la sua testimonianza a processo (vedasi la relativa
appendice), il Bevilacqua dichiarò fra le altre cose di aver visto
Pacciani, vestito da guardiacaccia o con abbigliamento simile,
aggirarsi sul luogo del delitto nei giorni in cui lo stesso ebbe luogo.
Fu obbiettivamente una strana deposizione quella del Bevilacqua,
abbastanza ricca di contraddizioni e incongruenze, in cui l'avvocato
difensore del Pacciani, Rosario Bevacqua, sembrò quasi accusare il
teste di poter avere a che fare con gli omicidi. Gli chiese infatti se
nel 1968 fosse stato in Italia, se avesse posseduto o possedesse armi,
fece notare alla corte l'estrema somiglianza con il Pacciani e in un
fuori onda si lasciò andare a un commento scherzoso "può essere lui
il mostro".
La testimonianza del Bevilacqua non fu comunque particolarmente
determinante per la condanna dell'imputato e la questione sembrò
terminare lì.
Tuttavia, circa ventiquattro anni dopo, precisamente nel maggio del
2018, il nome di Joe Bevilacqua tornò prepotentemente agli onori
della cronaca mostrologica quando un giovane
giornalista, Francesco Amicone, dichiarò in un lungo articolo su "Il
Giornale" di aver raccolto le confidenze dell'ex soldato
italoamericano, il quale gli avrebbe rivelato di essere stato sia
l'autore degli omicidi in California attribuiti a Zodiac sia di quelli in
Toscana attribuiti al Mostro di Firenze a partire da Rabatta nel 1974.
Le prime ammissioni sarebbero avvenute, stando a quanto
dichiarato dallo stesso Amicone, nel corso di una lunga telefonata
sopraggiunta al culmine di una serie di colloqui a casa dello stesso
Bevilacqua, in un paese della provincia fiorentina. A tale telefonata
sarebbe seguita la confessione vera e propria, durante la quale
Bevilacqua avrebbe sostenuto che, dopo tanti anni, gli inquirenti
americani non avrebbero potuto dimostrare chi fosse l'autore degli
omicidi commessi da Zodiac.
Sempre stando alle dichiarazioni di Amicone, lui avrebbe
consigliato al Bevilacqua di costituirsi ai carabinieri e di portare con
sé la pistola con cui avrebbe commesso i delitti attribuiti al Mostro
di Firenze.
Risulta facile capire come questa incredibile rivelazione, caduta
come un fulmine a ciel sereno, risolvesse due annosi e inestricabili
enigmi criminologici, l'identità di Zodiac e quella del MdF. Accolta
con un certo scetticismo da gran parte della comunità mostrologica,
a lungo sono state attese le prove promesse dall'Amicone che
attestassero senza ombra di dubbio le rivelazioni del Bevilacqua.
Prove (ovviamente) mai arrivate.
Inutile dire che non solo il Bevilacqua non si è mai costituito e non
ha mai portato agli inquirenti la famosa pistola del Mostro, ma
dopo l'esplosione medatica del caso (anche la trasmissione "Chi
L'ha Visto" su RaiTre se n'è occupata) minacciò di querela il
giovane Amicone. Non solo, pare che anche il difensore delle
vittime francesi, l'avvocato Vieri Adriani, avrebbe presentato un
esposto contro il giornalista per depistaggio delle indagini.
Negli ultimi tempi, infatti, le indagini in Procura si sarebbero
orientate in modo da far chiarezza su alcuni punti della vicenda.
Fonti giornalistiche (che, beninteso, potrebbero indubbiamente
lasciare il tempo che trovano) rivelano che la Procura di Firenze
avrebbe recentemente acquisito il DNA di Bevilacqua. L'ex direttore
del cimitero americano sarebbe inoltre già stato sottoposto a un test
su richiesta della Procura della Repubblica di Siena, nell' ambito
delle indagini sull'omicidio della tassista Alessandra Vanni, uccisa
nel 1997 a Castellina in Chianti. L'esito del test sarebbe stato
negativo.
Negli ambienti mostrologici la teoria Zodiac, accolta inizialmente
come la classica bufala estiva, ha catturato l'attenzione di qualche
studioso come Valeria Vecchione, la principale artefice delle
indagini condotte sulla busta inviata dal MdF alla dottoressa Della
Monica (vedasi il relativo capitolo), ma in generale è sempre stata
accolta con estremo scetticismo.
Gli indizi che hanno portato una sparuta parte dell'odierna
mostrologia a interessarsi alla pista Zodiac, a onor del vero al
momento ancora labili e aleatori, sarebbero:
▪ i messaggi cifrati inviati da Zodiac contenevano spesso
riferimento alla parola "acqua";
▪ l'articolo di giornale da cui erano state ritagliate la maggior parte
delle lettere utilizzate per comporre l'indirizzo sulla busta inviata
alla Della Monica, era intitolato "Cari dolce acque";
▪ abbiamo visto che la rivista da cui furono ritagliate le suddette
lettere era la numero 51 di "Gente", in edicola fra il 14 e il 20
Dicembre 1984; è risaputo che la data del 20 dicembre era una data
molto cara a Zodiac: il 20 dicembre del 1968 Zodiac commise il suo
primo omicidio; il 20 dicembre 1969 Zodiac spedì una lettera
all'avvocato Belli, in cui chiedeva aiuto e allegava un pezzo della
camicia di una sua vittima; pare che lo stesso Zodiac fosse nato il 20
dicembre;
▪ l'ultima comunicazione ufficiale inviata da Zodiac risaliva al luglio
del 1974; da quel momento in poi, dopo cinque lunghi anni di
intensa corrispondenza, di Zodiac si sarebbero perse tutte le tracce.
Due mesi dopo, il 14 Settembre 1974, prendeva vita la tragica
epopea del Mostro di Firenze con il delitto di Rabatta;
▪ le metodologie di attacco e le firme lasciate sui luoghi del delitto
da Zodiac e dal Mostro sembrano (a parere di chi segue questa
pista) piuttosto simili.
A onor del vero c'è da dire che questa è un indizio talmente labile
che non può neanche definirsi tale. Innanzitutto va precisato che
Zodiac non attaccava solo coppie appartate in auto, ma in
un'occasione uccise un tassista nella sua automobile. Inoltre in due
occasioni Zodiac non riuscì a concludere mortalmente il proprio
assalto, mancando di uccidere due delle vittime prescelte. Il Mostro
di Firenze ha sempre attaccato coppie appartate in auto o in tenda e
non ha mai lasciato in vita alcuna vittima, né alcuno scomodo
testimone. Il Mostro aveva una vera e propria firma, forse anche più
di una: sicuramente l'arma da fuoco, sempre la stessa dal 1968 al
1985; un'altra possibile firma (anzi secondo lo Spezi, la vera firma
del killer) è stata l'allontamento del cadavere dell'uomo da quello
della donna. Non risulta che gli omicidi di Zodiac siano stati
contraddisti da una metodologia e un'eventuale firma
inequivocabilmente riconducibile a lui;
▪ la registrazione del colloquio nel carcere di Pisa fra Mario Vanni e
Lorenzo Nesi (vedasi il relativo capitolo); in quell'occasione Vanni
rivelò al Nesi che l'autore dei delitti fosse un tale Ulisse,
l'americano. La Procura credette di individuare tale Ulisse nello
stilista americano Mario Robert Parker (vedasi capitolo Il secondo
livello), ma abbiamo già avuto modo di vedere come questa strada
difficilmente possa essere considerata quella giusta. I seguaci della
teoria Zodiac ritengono appunto che l'americano Ulisse fosse
proprio il Bevilacqua;
▪ infine, quando l'ex soldato si presentò a deporre al processo
Pacciani si era ben guardato dal dichiarare di essere stato un ex
sergente dell'esercito degli Stati Uniti con 20 anni di carriera alle
spalle e un turno di servizio in Vietnam. Al contrario si era
presentato semplicemente come ex direttore del cimitero dei
Falciani e, pressato dalle domande dell'avvocato Bevacqua, come ex
"poliziotto criminale". Questa omissione sul suo passato sembra
destare qualche dubbio all'interno della comunità mostrologica che
crede nella teoria Zodiac. Come se omettere di esser stato un reduce
del Vietnam potesse allontanare sospetti di qualsiasi tipo.

In tempi molto recenti (febbraio 2022), la vicenda sta avendo un suo


(scontato) epilogo. A seguito della querela per diffamazione
presentata da Joe Bevilacqua nei confronti di Francesco Amicone, la
Procura di Firenze, nella persona del dottor Luca Turco, ha chiuso
le indagini, rinviando a giudizio il giornalista. Nel fascicolo che
archivia la pratica sul Bevilacqua, è possibile leggere che l'inchiesta
giornalistica dell'Amicone "è caratterizzata da suggestioni,
supposizioni, asserite intuizioni e non contiene alcun elemento fattuale
suscettibile ad assurgere a dignità di indizio.".
Per maggiori dettagli, vedasi la pagina dedicata
agli aggiornamenti.
Si attendono, al solito, sviluppi sul caso.

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3 commenti:
1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:26

Purtroppo sono tutte inutili fantasiose teorie e invenzioni di


esaltati, mio modesto parere il cosiddetto mostro di firenze e'
stata una sola persona arrabbiato contro il mondo intero che
ha sofferto anche per amore .Oggi sicuramente morto
deceduto
Rispondi

2.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:27

Poi ci ha mangiato sopra mezzo mondo con stupidi e inutili


libri su libri pubblicati
Rispondi

3.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:29

per esempio la teoria dei mandanti... ma dico io si puo' credere


a una simile stronzata?? un imprendibile serial killerr che
manda in missione gente come vanni pacciani e quell'altro
povero handicappato del katanga????
Rispondi
Appendice A - Il Processo Pacciani

Di seguito il dettaglio delle udienze del Processo Pacciani.

19 Aprile 1994:
Giornata di apertura del dibattimento. I giudici popolari prestano
giuramento.
Vengono presentate le istanze di Parte Civile e, su opposizione del
collegio difensivo di Pietro Pacciani, vengono respinte le richieste di
parte civile degli eredi di Francesco Vinci.

21 Aprile 1994:
Relazione introduttiva del Pubblico Ministero Paolo Canessa. Il PM
dichiara che i referti parlano chiaramente di un unico serial killer
che ha effettuato tutti gli omicidi e tutte le escissioni. Descrive in
maniera sommaria gli indizi che gravano sulla testa del Pacciani,
soffermandosi anche sul quadro "Sogno di Fatascienza". Entra
infine nel dettaglio del delitto del 1968, sul perché - a parere
dell'Accusa - Stefano Mele ha mentito e non è colpevole di quel
delitto.
Svolgono le loro relazioni e presentano le loro richieste anche le
Parti Civili, nell'ordine: avvocato Santoni Franchetti; avvocato
Colao; avvocato Pellegrini; Avvocato Saldarelli; Avvocato Capanni.
Infine, la parola passa alla difesa per la relazione introduttiva e le
richieste di ammissione di prove e testimoni: parla prima
l'avvocato Pietro Fioravanti, quindi l'avvocato Rosario Bevacqua.

22 Aprile 1994:
Risposta della Corte per bocca del giudice Enrico Ognibene alle
richieste e alle istanze presentate da Pubblica Accusa, Parti Civile e
Difesa.
Nel pomeriggio si entra nel vivo del processo, partendo dal delitto
del 1968 con la testimonianza del colonello Olinto Dell'Amico,
chiamato a deporre sulle indagini condotte all'epoca dai carabinieri.
È durante questa testimonianza che l'avvocato Bevacqua fa
riferimento ai calzini a suo dire puliti del piccolo Natalino Mele.
Segue la deposizione del professor Biagio Montalto che si è
occupato delle analisi sul cadavere di Barbara Locci.

26 Aprile 1994:
L'udienza si apre con la richiesta dall'avvocato Aldo Colao di
ammettere a processo un teste che sosteneva di essere stato
aggredito da Pacciani nel 1978 dalle parti di Vicchio mentre era
appartato in automobile con la propria compagna. La richiesta non
viene accolta dalla corte.
Il PM Paolo Canessa continua con l'evoluzione cronologica dei
delitti. Il primo testimone a essere ascoltato è il dottor Massimo
Grazioso che si è occupato delle analisi sul cadavere di Antonio Lo
Bianco.
Al termine di questa deposizione, il PM comunica la sua decisione
di rinviare a data da destinarsi la testimonianza del generale
Matassino, in quanto la Parte Civile rappresentata dall'avvocato
Luca Santoni Franchetti ha chiesto che vengano chiamati a
deporre Stefano e Natalino Mele.
Il PM passa dunque al delitto del 1974 con la testimonianza
di Michele Falcone, all'epoca comandante della caserma di Borgo
San Lorenzo.
Segue la deposizione dell'ex maresciallo dei carabinieri Domenico
Trigliozzi, all'epoca di stanza a Borgo San Lorenzo. Da queste
ultime due deposizioni emerge poca chiarezza e ricordi piuttosto
confusi sul ritrovamento della borsa di Stefania. Secondo entrambi,
ad esempio, quando fu consegnata la borsa alla famiglia, non
mancava nulla fra gli effetti personali della ragazza. Cosa che poi si
appurerà non vera.
Segue infine la deposizione del medico legale, dottor Mauro
Maurri, che ha esaminato i cadaveri di entrambe le vittime.

27 Aprile 1994:
Viste le incertezze emerse il giorno precedente riguardo il
ritrovamento della borsa, vengono ascoltati in aula l'ex
brigadiere Mario Sciarra e la signora Bruna Bonini, mamma di
Stefania Pettini.
Emerge dalla testimonianza della Bonini che la borsa di Stefania era
stata restituita alla famiglia molto tempo dopo il duplice omicidio
(la donna parla di anni), mentre non furono mai restituiti i gioielli
(braccialetti, catenina d'argento, portafogli e orologio). Vestiti e
documenti erano invece stati regolarmente restituiti.
Viene successivamente ascoltato nuovamente l'ex comandante della
caserma di Borgo, Michele Falcone, il quale relaziona sulla sua
conoscenza con l'imputato Pietro Pacciani e sulla vicinanza fra il
luogo dove aveva vissuto Pacciani (podere del signor Cesari a Badia
a Bovino, frazione di Vicchio) e i luoghi dei delitti del 1974 e del
1984.
Al termine, viene chiamato a deporre l'ex maresciallo dei
carabinieri, Pietro Frillici, che rende dettagliata testimonianza sulle
residenze di Pietro Pacciani nel corso degli anni: Pacciani vive dalle
parti di Ampinana dalla nascita fino al 1951, anno dell'omicidio
Bonini; dal 1951 al 1964 è in carcere; dal 1964 al 1970 vive a Vicchio;
dal 1970 al 1973 vive alla Rufina; nel 1973 emigra a San Casciano.
Si passa al duplice omicidio di giugno del 1981. Il primo testimone
a deporre è l'ex brigadiere della Pubblica Sicurezza, Vittorio
Sifone, colui che ha trovato i corpi dei ragazzi uccisi a Mosciano di
Sacndicci.
Si succedono dunque sul banco dei testimoni: l'ispettore di
polizia Giovanni Autorino, che eseguì i rilievi tecnici dell'omicidio;
il sovrintendente di polizia Giovanni Libertino, che intervenne sul
posto per eseguire le foto; l'ex funzionario di polizia Nunzio
Castiglione; i medici legali, dottor Mauro Maurri e dottor Aurelio
Bonelli (colui che intervenne direttamente sul luogo del delitto);
infine il generale Ignazio Spampinato, esperto balistico che eseguì
le analisi sui bossoli rinvenuti sul luogo e sulle similitudini con i
bossoli repertati nel 1974.

28 Aprile 1994:
L'udienza si apre con l'analisi del duplice omicidio di Calenzano
(Ottobre 1981). Il primo testimone chiamato a deporre è Dino
Salvini, maresciallo dei carabinieri e comandante della caserma di
Calenzano.
Seguono le testimonianze di Vittorio Trapani, comandante del
nucleo operativo della compagnia di Prato, e quelle di Mario
Balanzano e Claudio Valente, della polizia scientifica.
Tocca dunque al medico legale che eseguì i rilievi sui cadaveri,
dottoressa Maria Grazia Cucurnia, quindi nuovamente al
generale Ignazio Spampinato, il quale disserta egregiamente sulla
tipologia di pistola con cui il MdF ha effettuato le sue azioni
delittuose. Il generale precisa che esistono alcuni modelli di Beretta
Calibro 22 Long Rigle Serie 70 che possono contenere nel proprio
caricatore 10 proiettili più uno eventualmente in canna, per un
totale di 11 proiettili. Segue la testimonianza del funzionario di
polizia Nunzio Castiglione che completa la dissertazione sull'arma
del generale Spampinato.
Al termine di questa deposizione, l'avvocato Rosario
Bevacqua chiede alla corte che vengano ammessi a deporre Enzo
Spalletti, la moglie e suo fratello Dino. Le parti civili si dicono
remissive, la Pubblica Accusa si dichiara anch'essa remissiva ma
esprime profondo scetticismo sull'utilità di queste testimonianze.
La Corte respinge la richiesta della Difesa.
Il PM passa quindi a trattare il duplice delitto di Baccaiano di
Montespertoli (Giugno 1982). Il primo testimone a deporre sul
nuovo fatto di sangue è il tenente colonnello dei carabinieri Silvio
Ghiselli, all'epoca dei fatti comandante della compagnia di Signa,
sotto la cui giurisdizione ricadeva il luogo del delitto.
Segue la deposizione del dottor Giuseppe Grassi, all'epoca dei fatti
dirigente della Squadra Mobile di Firenze. Il Grassi afferma che sin
dal 1981 era stata costituita una squadra diretta dal dottor Sandro
Federico che si interessava prevalentemente di questo tipo di delitti.
Ultimo testimone della giornata è il già ascoltato colonnello Olinto
Dell'Amico, intervenuto sul luogo del delitto di Baccaiano dopo la
mezzanotte. Al colonnello Dell'Amico l'avvocato Bevacqua chiede
se ricorda se subito dopo l'omicidio furono perquisiti due noti
medici, a suo dire uno della zona di Empoli, l'altro della zona di
Firenze. Il colonnello risponde che lui ricorda della perquisizione a
un solo medico.

29 Aprile 1994:
Continuano le deposizioni inerenti al duplice omicidio di Baccaiano
(giugno 1982). Intervengono nell'ordine: Sergio Spinelli, cine-foto-
segnalatore addetto ai sopralluoghi, il dottor Riccardo Cagliesi
Cingolani e la dottoressa Laura Parrini, entrambi medici legali che
hanno eseguito le analisi sui cadaveri.
Successivamente il PM passa ad analizzare il delitto di Giogoli,
chiamando nell'ordine l'ispettore di polizia Giovanni Autorino, che
aveva eseguito i rilievi sul luogo del delitto, il perito della polizia
scientifica Giovanni Iadevito, che si era occupato della perizia
balistica comparativa sui bossoli del delitto di Giogoli, l'allora
maresciallo dei Carabinieri, Giuseppe Storchi, fra i primi ad
arrivare sul luogo del delitto, infine l'allora maresciallo dei
carabinieri Giovanni Leonardi, sottoufficiale addetto al Nucleo
Operativo del gruppo Carabinieri di Firenze. Quest'ultima
testimonianza è passata a suo modo alla storia come chiara
dimostrazione dell'inefficienza delle forze dell'ordine di fronte ai
delitti del MdF. Emergono infatti pienamente la superficialità con
cui furono fatti i rilievi a seguito di questo omicidio (misurazioni
prese ad occhio a detta dello stesso maresciallo), la totale mancanza
di un cordone di sicurezza che tenesse lontano i curiosi (famosa la
battuta del presidente Ognibene: "Maresciallo, mancavano i brigidini e
poi era la fiera all'Impruneta"), infine forse per la prima volta risulta
evidente il nervosismo del PM Canessa che, di fronte alla quasi
totale mancanza di ricordi del testimone il quale però sembrava
ricordare benissimo che dalla radio del furgone dei tedeschi usciva
una canzone di Sting, tanto da ripeterlo più volte, sbotta: "Sì.
Capisce che in questo momento, maresciallo, è l'ultima cosa che a noi
interessa del suo ricordo, lo capisce anche lei?"
L'ultima testimonianza della giornata è quella del medico legale,
dottor Mauro Maurri, sempre inerente al delitto di Giogoli.

2 Maggio 1994:
Il PM passa ad analizzare il delitto del 1984 alla Boschetta di
Vicchio. Forniscono testimonianza nell'ordine:
il maresciallo Michele Polito, che all'epoca comandava la stazione
dei carabinieri di Vicchio ed era stato il primo fra le forze
dell'ordine ad arrivare sul luogo del delitto; il colonnello Emanuele
Sticchi dell'arma dei carabinieri, primo ufficiale a intervenire sul
luogo del delitto. Questa testimonianza è particolarmente
significativa perché l'avvocato Bevacqua introduce per la prima
volta la vicenda Bardazzi, parlando del misterioso individuo visto
al bar e che - secondo le parole del Bevacqua - sembrava essere stato
visto anche qualche tempo prima proprio nel bar dove lavorava Pia
Rontini.
Seguono le deposizioni dell'ormai ricorrente ispettore di
polizia Giovanni Autorino, dell'allora sovrintendente di
polizia Giovanni Libertino, entrambi intervenuti a fare rilievi sul
luogo del delitto, infine del medico legale, dottor Franco Marini.

3 Maggio 1994:
Udienza che si apre con l'intervento del dottor Mauro Maurri,
medico legale, sempre per il delitto di Vicchio.
Si passa successivamente al delitto nella piazzola degli Scopeti
(Settembre 1985). Depone per primo il maresciallo Vincenzo
Lodato, ex comandante della caserma dei carabinieri di San
Casciano. Lodato fu anche colui che ricevette la lettera anonima che
segnalava alle autorità per la prima volta il nome di Pacciani e che
si incaricò di effettuare la perquisizione a casa del contadino in data
19 settembre. Questa è la famosa udienza in cui c'è il diverbio fra
Pacciani e Canessa sulla data di tale perquisizione.
Seguono le deposizioni del solito ispettore Giovanni Autorino e
nuovamente del dottor Mauro Maurri, a lungo interrogato da
Bevacqua sulla complicata dinamica del delitto degli Scopeti e sulla
eventuale data della morte dei due francesi. In questo momento
ancora nessuno sembra mettere in dubbio che l'8 settembre sia la
data più probabile della morte, come dichiarato da Maurri.
Finisce con questa udienza l'excursus storico degli 8 duplici omicidi
commessi dal MdF.

23 Maggio 1994:
Giornata importante per il processo.
L'udienza si apre con l'autorizzazione alla perizia da parte del
giudice Ognibene per valutare l'altezza del Pacciani e l'ipotetica
altezza che l'imputato aveva 11 anni prima, vale a dire nel 1983, in
occasione del delitto di Giogoli. Il PM Canessa depone agli atti un
documento del carcere Don Bosco di Pisa dove era detenuto
Pacciani per la violenza alle figlie, in cui si attesta che nel 1987
l'imputato era alto 169 centimetri.
Successivamente c'è la richiesta del PM Canessa di consegnare alla
corte il fascicolo del delitto del 1951 commesso da Pacciani ai danni
di Severino Bonini e di proiettare in aula le foto della vittima e del
luogo del delitto. Richiesta che viene respinta dalla corte; la
sentenza di quel delitto risulta comunque depositata agli atti.
A seguire l'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti chiede
che venga analizzata la rivista pornografica trovata nei pressi del
furgoncino dei tedeschi in occasione del delitto del 1983, giudicata
importante ai fini del processo.
Si passa poi con i testimoni della Pubblica Accusa. Il primo a sedersi
sul banco è Ruggero Perugini, ex capo della SAM e più grande
accusatore di Pietro Pacciani. Durante la sua lunghissima
deposizione, Perugini illustra come e perché la SAM sia arrivata a
indagare su Pietro Pacciani. Non parla ancora degli indizi che
hanno portato al Processo, ma semplicemente dell'excursus storico
seguito dalle indagini per arrivare a puntare i riflettori sull'attuale
imputato.
A quella di Perugini, segue un'altra storica testimonianza: arriva
infatti per la prima volta a deporre Lorenzo Nesi, ex amico del
Pacciani, che interloquisce sulla sua conoscenza con l'imputato e
dichiara che questi andava regolarmente a caccia e si vantava di
sparare ai fagiani. Durante questa testimonianza vien fuori per la
prima volta il nome di Mario Vanni, definito semplicemente un
amico intimo del Pacciani; inoltre viene citata per la prima volta la
famosa lettera che dal carcere Pacciani scrisse al Vanni.

24 Maggio 1994:
Comincia la sfilza di testimonianze degli abitanti di San Casciano. Il
primo a testimoniare è Emilio Calosi, conoscente e collega di
Pacciani presso la tenuta Rosselli Del Turco. Seguono le
testimonianze di Walter Ricci e di sua moglie Laura Mazzei,
quest'ultima cugina di Mario Vanni. Queste tre testimonianze sono
tese a dipingere su Pacciani il quadro di un uomo violento, avvezzo
all'uso di armi, che teneva in soggezione l'intera sua famiglia.
È il turno quindi dei tre periti designati dal giudice Ognibene per il
calcolo dell'altezza del Pacciani, Carlo Fazzari, Bruno
Chiarelli, Mario Cianciulli. Questi accettano l'incarico prendendosi
due settimane di tempo prima di depositare la perizia.
Segue la drammatica, ma nel contempo grottesca e a tratti persino
ridicola, testimonianza della signora Maria Antonietta Sperduto,
moglie di Renato Malatesta e amante del Pacciani. È durante questa
testimonianza che il Pacciani prorompe nelle ormai storiche
dichiarazioni divenute tormentoni del web: "...puzzava di volpe come
una bubola..."; "...poi siccome ballavano un tango lei ballava il salto di
capretto...".
Seguono infine le testimonianze dei due figli della Sperduto ancora
vivi, Laura Malatesta e Luciano Malatesta (Milva Malatesta era
stata assassinata nell'agosto dell'anno prima).

25 Maggio 1994:
È la giornata delle drammatiche deposizioni delle due figlie del
Pacciani, prima Graziella, poi Rosanna. Estremamente difficili e a
tratti toccanti le suddette testimonianze. Tocca poi alla moglie
dell'imputato, Angiolina Manni, la quale però rifiuta di fornire
dichiarazioni e viene subito accompagnata fuori.
È il turno quindi di Romano Pierini, abitante di San Casciano, il
quale rende testimonianza riguardo un'esperienza vissuta sul finire
degli anni '70 (il teste parla di 1978 o 1979) mentre era in macchina
appartato con la propria compagna di allora nella piazzola degli
Scopeti: la coppia fu vittima delle attenzioni di un guardone
appiccicato al vetro della macchina, che il Pierini stesso riconobbe
in Pietro Pacciani.
Dopo la testimonianza del Pierini, tocca alla sua compagna
dell'epoca, nonché attuale moglie, la signora Daniela Bandinelli,
rendere testimonianza e confermare grosso modo le dichiarazioni
del marito. Da notare che la moglie non riconobbe nel guardone
l'imputato Pacciani.

26 Maggio 1994:
Continuano le testimonianze degli abitanti di San Casciano.
Nell'ordine si siedono a deporre:
Gina Cengin, vicina di casa di Renato Malatesta e della Sperduto,
che conferma le soventi visite del Pacciani e del Vanni nella casa
della signora Maria Antonietta.
Rolando Castrucci, titolare di un'impresa di costruzioni che aveva
fatto dei lavori a casa di Pacciani per ordine del marchese Rosselli.
Il Castrucci sostiene che in quell'occasione il Pacciani gli mostrò una
pistola.
Mario Lasagni, vicino di casa del Pacciani, la cui testimonianza
conferma lo stato di profonda soggezione in cui vivevano moglie e
figlie del Pacciani.
Tocca quindi a Mario Vanni, il grande amico di Pietro Pacciani.
Una testimonianza cardine questa, perché il Vanni si mostra
chiaramente reticente, facendo convergere i sospetti degli inquirenti
su di lui. Storici, oltre che l'esordio del Vanni (da cui nacque la
famosa locuzione "I compagni di merende"), anche altri passaggi
chiave della deposizione, come l'ira del presidente Ognibene a
proposito delle omissioni del Vanni sulla lettera che Pacciani gli
aveva spedito dal carcere.
Infine è la volta di Giovanni Faggi, amico del Pacciani, residente a
Calenzano. Il Faggi nega una profonda conoscenza col Pacciani,
dichiarando di averlo visto esclusivamente due volte, la prima in
un ristorante di Scarperia dove si conobbero, la seconda quando
andò a casa del Pacciani e gli regalò una tuta. Il Faggi nega
categoricamente anche di aver mai frequentato casa della Sperduto
o la Cantinetta a San Casciano.

30 Maggio 1994:
Continuano anche in questa giornata le testimonianze degli abitanti
di San Casciano. Nell'ordine si siedono a deporre:
Paola Lapini, anche lei vittima delle attenzioni di un guardone
attorno al maggio del 1981, mentre era appartata in automobile con
un uomo in una piazzola poco distante da quella dove sarebbe
avvenuto il duplice omicidio degli Scopeti. La donna sostiene che il
guardone fosse proprio Pietro Pacciani.
Benito Acomanni, che dichiara di aver scorto nell'inverno a cavallo
fra il 1980 e il 1981 il Pacciani intento nella sua attività di guardone
mentre lui era appartato sul suo furgone con una signorina dalle
parte di Crespello, in via di Luiano. Acomanni si mostra dotato di
una memoria prodigiosa (dichiarando di essere
soprannominato Pico della Mirandola), nonché - a suo dire –
esperto in topografia, tanto da fornire dati e coordinate decisamente
esagerate considerato il contesto e suscitando finanche l'ilarità dei
presenti all'udienza. Fra le altre cose che il colorito personaggio
sostiene, è quella di essere il miglior venditore di auto della
provincia di Firenze, dicendosi pronto a sostenere qualsiasi
confronto in merito.
Claudio Pitocchi, proprietario di una FIAT 131, targata FI F773759.
Tale numero di targa era stato trovato su un foglietto fra gli appunti
del Pacciani, sotto la dicitura "COPPIA". Indagando, gli inquirenti
avevano scoperto che l'automobile apparteneva proprio al Pitocchi,
il quale attorno al 1987 era solito appartarsi in auto con varie
ragazze dalle parti di Mercatale, non distante dall'abitazione del
Pacciani. Il Pacciani si era giustificato sostenendo di aver notato più
volte quella macchina appartata e di essersi segnato la targa per
avvisare la coppia di stare attenti perché quella era zona
frequentata dal cosiddetto mostro. Durante la sua deposizione, il
Pitocchi conferma quanto rinvenuto dagli inquirenti, dichiarando
appunto di aver avuto quell'automobile negli anni '80 e di essersi
appartato diverse volte in zona Mercatale.
Scilla Lapini, compagna del Pitocchi, conferma grosso modo le
dichiarazioni del precedente testimone dichiarando di essere stata
la sua ragazza nel 1987 e di essersi appartata alcune volte con la 131
dalle parti di Mercatale, non lontano da casa del Pacciani, zona in
cui ella stessa abitava.
Marcello Fantoni, meccanico di San Casciano e residente a
Mercatale di fronte casa del Pacciani. La testimonianza del Fantoni
nasce dal fatto che Pacciani aveva sostenuto di essere stato alla festa
dell'Unità a Cerbaia la sera dell'8 settembre 1985 (considerata
all'epoca la data del duplice omicidio dei francesi a Scopeti) e
attorno alle 21.30 di essere rimasto in panne con la macchina (la
Ford Fiesta), tanto da aver avuto bisogno dell'intervento del Fantoni
che stava mangiando a un tavolo vicino.
Durante la sua deposizione il Fantoni dichiara però di non essere
mai andato alla festa dell'Unità di Cerbaia, inoltre di aver riparato
solo una volta una macchina al Pacciani, per la precisione la 500,
che aveva i fili dell'accensione invertiti.
Ultima deposizione della giornata è quella di Floriano DellI, ex
impiegato di banca, che aveva affittato assieme ad alcuni amici una
parte di casa colonica a Mercatale, accanto a casa del Pacciani, dove
andava a trascorrere i weekend estivi con la famiglia. Durante la
sua deposizione il Delli racconta del cane affidato al Pacciani e
lasciato morire di percosse, inoltre parla dello stato di soggezione in
cui vivevano moglie e figli.
Nota Bene: In quel momento ancora nessuno sa che era stato
proprio il Delli nel 1985 a inviare la lettera anonima che aveva
portato Pacciani sotto la lente degli inquirenti.

31 Maggio 1994:
Continuano le deposizioni dei conoscenti del Pacciani. Nell'ordine
rendono testimonianza:
Luigi Caioli, il quale riferisce di conoscere un certo Luca Iandelli
che, appartato in auto con una donna presso il cimitero di San
Casciano attorno al 1986, era stato oggetto di attenzioni da parte di
un guardone che aveva un braccio fasciato e una pistola nell'altra
mano. Lo Iandelli, spaventato, era fuggito, per poi notare il giorno
dopo il Pacciani con un braccio fasciato. A quel punto, l'uomo lo
aveva spontaneamente collegato al guardone della sera prima. Lo
Iandelli aveva poi raccontato questo episodio al Caioli, il quale di
fronte alla reticenza dello Iandelli stesso di parlarne con gli
inquirenti, aveva deciso di presentarsi spontaneamente in Procura
per raccontare l'episodio.
Franco Lotti, medico curante del Pacciani, chiamato a testimoniare
sullo stato di salute dell'imputato.
Francesco Lotti, marito di Antonella Salvadori, la donna che da
giovane era stata in macchina con Luca Iandelli ed entrambi erano
stati spaventati da un guardone con un braccio fasciato e una
presunta pistola nella mano.
Antonella Salvadori, la quale conferma grosso modo quanto
riportato sia dal Luigi Caioli, sia dal marito Francesco Lotti, circa la
sua disavventura con il guardone dal braccio fasciato. La Salvadori
precisa che lo Iandelli aveva riconosciuto nel guardone il Pacciani.
Luca Iandelli, finalmente interrogato, smentisce clamorosamente
tutti, confermando sì l'episodio col guardone del 1986, ma
dichiarando di non aver mai riconosciuto in costui il Pacciani, né
quella sera, né tantomeno il giorno successivo.
A quel punto, il PM chiede un confronto pubblico fra il Caioli, la
Salvadori e lo Iandelli in data da destinarsi.
Angelica Scardigli, la quale nel 1986 assieme a un gruppo di amici
aveva preso in affitto la casa del Pacciani in via Sonnino per
utilizzarla come sala prove del suo gruppo musicale. La Scardigli
parla del quadro "Sogno di Fatascienza" e di altri quadri trovati in
casa del Pacciani.
Vengono dunque chiamati a testimoniare Tiziano
Pieraccini e Marco Paolini, altri due ragazzi del gruppo che aveva
preso in affitto la casa.
Giunge quindi il turno di Lucia Mecacci, la quale abitava in piazza
del Popolo 5 a Mercatale, esattamente sopra il Pacciani. La Mecacci
racconta di aver visto all'alba di un giorno di dicembre del 1991 il
Pacciani e l'Angiolina uscire di casa con uno strano fagotto sulle
spalle, quindi dirigersi silenziosamente verso i cassonetti per
andare a buttarlo. La donna poi passò dal cassonetto e tastò il
fagotto senza riuscire a capire cosa contenesse.
Santina Lalletti, mamma della Mecacci, conferma sostanzialmente
il racconto della figlia.
Alessandro Gazziero, figlio di Afro Gazziero, presso cui il Pacciani
aveva lavorato sia a Mercatale sia dalle parti di Calenzano. Il
ragazzo smentisce di essere mai stato possessore della pistola di
tipo scacciacani rinvenuta dal Vanni nell'automobile del Pacciani.
Elena Betti, fisioterapista che ha abitato in affitto nella casa del
Pacciani in via Sonnino. La donna riferisce sia del quadro "Sogno di
Fatascienza", sia delle sere in cui il Pacciani, ubriaco, tentava di
importunarla. La sensazione, tuttavia, è che la donna avesse vissuto
quei momenti senza troppa apprensione, ma quasi con un misto fra
ilarità e compassione.

1 Giugno 1994:
L'udienza si apre con l'intervento del PM Canessa che riporta
alcune novità recentemente apprese e così riassumibili: una coppia
(Giampaolo Cairoli e Emanuela Consigli) si era presentata in
Procura dichiarando di conoscere un guardacaccia di Vicchio di
nome Gino Bruni, il quale durante un colloquio privato avrebbe
loro dichiarato che Pacciani possedeva con certezza una Beretta
Calibro 22. Il PM invita, dunque, la corte ad ammettere i nuovi
importanti testimoni. La corte acconsente e vengono dunque subito
ascoltati la signora Emanuela Consigli e suo marito Giampaolo
Cairoli. Entrambi confermano per filo e per segno quando riportato
da Canessa. Si stabilisce dunque di convocare il guardacaccia Bruni
per ascoltarlo personalmente come teste.
A queste due testimonianze segue quella contradditoria
di Vincenzo Trancucci, spazzino di San Casciano, e compagno per
un breve periodo della Maria Antonietta Sperduto. Trancucci
accusa Pacciani di essere un noto guardone, tuttavia la sua
testimonianza si rivela profondamente inattendibile. L'avvocato
Bevacqua fa anzi notare la grave contraddizione fra il verbale stilato
dalla polizia e firmato dal Trancucci (il quale comunque non sapeva
né leggere né scrivere), in cui il teste dichiarava di conoscere
personalmente il Pacciani e quanto invece dichiara in udienza e cioè
di non conoscere il Pacciani, addirittura di non averlo mai visto in
vita sua.
Segue la deposizione di Orlando Celli, abitante in via di Giogoli,
vicino al luogo dell'omicidio del 1983, che il sabato mattina 10
settembre (l'omicidio era avvenuto il venerdì sera) aveva notato un
uomo e un ciclomotore vicino al furgone.
Seguono una serie di brevi testimonianze relative alla visita
della "Vicchio Folk Band" (di cui faceva parte anche Pia Rontini) a
Mercatale nel settembre del 1983.
Le testimonianze di Liliana Benvenuti, Marzia Sottili, Monica
Giovanetti, Renato Giovanetti, Laura Materassi, Enzo Materassi,
indicano univocamente che Pia quel giorno era a Mercatale con la
banda e ad assistere all'esibizione c'era pure Pacciani che offrì del
vino ai musicanti.
Segue la breve deposizione di Rosa Fontani, che nel 1951 aveva un
trattoria a Vicchio e parla sommariamente di Pacciani ai tempi di
quel delitto della Tassinaia.
Tocca quindi ad Amelia De Giorgio, abitante a Giogoli nel 1983,
che parla del ciclomotore lasciato all'interno del cortile della villa La
Sfacciata nei giorni precedenti all'omicidio.
Seguono le deposizioni di Tiziana Battoli e Nicoletta Fantappiè,
due ragazze che un giorno di aprile del 1992 (quattro, cinque giorni
prima della grande perquisizione), mentre facevao footing avevano
incontrato Pacciani seduto sul ciglio della strada dalle parti di
Crespello, che armeggiava con le mani su qualcosa di non
identificato. Il luogo era pressocché quello in cui sarebbe stata
ritrovata la famosa asta guida-molla, poi fatta pervenire in forma
anonima alla caserma dei carabinieri di San Casciano.
Tocca dunque a Vito Gusmano, compagno di cella di Pacciani a
Solliciano che parla dei disegni dell'imputato.
Infine è il turno di Afro Gazziero, datore di lavoro di Pacciani a
partire dal 1982. L'imprenditore parla degli impegni lavorativi
dell'imputato, dell'incendio alla sua azienda sita in Calenzano, del
quadro "Sogno Di Fatascenza" e infine della famosa scacciacani che
Pacciani avrebbe eventualmente sottratto ai figli del Gazziero stesso
e che Vanni avrebbe successivamente notato nel cassetto porta-
oggetti dell'automobile del Pacciani.

6 Giugno 1994:
Si presentano a rendere testimonianza nell'ordine: Luigi
Ciani e Gherardo Gherardi, entrambi ottici di San Casciano,
chiamati a testimoniare sulla nota scritta dal Pacciani sul taccuino
Skizzen Brunnen, relativa a una visita agli occhi e all'acquisto di un
paio di lenti. Entrambi negano che Pacciani fosse mai stato loro
cliente.
Nilo Donati, istruttore di scuola guida di San Casciano, anche lui
chiamato a testimoniare circa le visite sostenute dal Pacciani.
Palmerio Metaponti, originario di Vicchio e dunque conoscente di
Pacciani, marito di Iris Martelli la cui sorella aveva sposato il
fratello di Miranda Bugli. In udienza dichiara che intorno a marzo
del 1986 il Pacciani si era presentato inaspettatamente a casa sua,
per chiedere a lui e alla moglie dove abitasse ora la Bugli. Secondo
il Metaponti, sua moglie rispose di non saperlo precisamente ma
che la Bugli abitava circa dalle parti di Montelupo Fiorentino.
Iris Martelli, moglie del Metaponti e parente acquisita della Bugli,
la quale smentisce il marito e dichiara di non aver mai sentito dal
Pacciani, durante la famosa visita del marzo 1986, domande circa
l'abitazione della Bugli. I due test, marito e moglie, si contraddicono
reciprocamente nel giro di pochi minuti.
Franco Lotti, medico curante del Pacciani, già ascoltato in
precedenza. Anch'egli depone in merito ad eventuali visite
oculistiche sostenute dal Pacciani per il rinnovo della patente.
Seguno alcune testimonianze di notevole importanza.
La prima è quella di Giuseppe Bevilacqua, detto Joe, custode del
cimitero dei Falciani, a poche centinaia di metri in linea d'area dalla
piazzola degli Scopeti. In una controversa e storica deposizione
(vedasi capitolo Mostrologia minore) il Bevilacqua dichiara di aver
visto Pacciani, vestito da guardiacaccia o con un abbigliamento
simile, aggirarsi sul luogo del delitto nei giorni in cui lo stesso ebbe
luogo.
Edoardo Iacovacci, agente della Digos, dichiara che la mattina di
sabato 7 settembre 1985 si fermò con la propria automobile alla
piazzola degli Scopeti, vide la tenda dei francesi e poco dopo un
uomo giunto in loco su un motorino che si muoveva fra le frasche
con modo di fare da guardone. In tale guardone riconobbe le
fattezze di Pietro Pacciani.
Bruna Vieri, conoscente della figlia Graziella di Pietro Pacciani, cui
aveva regalato il lenzuolo su cui in seguito era stata avvolta l'asta
guida-molla.
Igino Borsi e Paolo Bonciani, che nel 1985 gestivano il bar
"Pensione agli Scopeti" e confermano quanto dichiarato all'epoca
del delitto. Entrambi sostengono aver servito la mattina di
domenica 8 settembre 1985 una ragazza francese simile alla foto che
era stata loro mostrata di Nadine Mauriot; la ragazza era poi salita
su un'automobile con targa francese. Da notare che durante la
deposizione il Bonciani parla di una automobile Renault 4 e il PM
Canessa fa subito notare che nella deposizione di dieci anni prima
aveva invece parlato di una Volkswagen Golf.

7 Giugno 1994:
Vengono ascoltati in udienza nell'ordine:
Antonello Frongia, agente di polizia che aveva eseguito i rilievi
planimetrici di Villa La Sfacciata e dei relativi cancelli d'ingresso.
Adriana Sbraci, ex moglie di Franco Martelli, proprietario di Villa
La Sfacciata. Nel 1983 la signora viveva proprio a La Sfacciata e
testimonia a proposito di un motorino notato nei giorni
immediatamente precedenti all'omicidio all'interno dei cancelli
della villa; motorino che l'Accusa ritiene di proprietà del Pacciani.
Miranda Bugli, ex fidanzata del Pacciani e sua correa nel 1951
nell'omicidio del Bonini. Dichiara di aver visto Pacciani dai tempi
del delitto della Tassinaia una sola volta nel 1969: se lo ritrovò
davanti alla porta di casa, scambiarono due chiacchiere veloci e non
lo rivide mai più. Dichiara anche di essere solo molto
superficalmente informata dell'omicidio del 1968 a Signa, sebbene
vivesse a poca distanza dall'abitazione del Lo Bianco, perhcé in quei
giorni era in vacanza al mare.
Giuseppe Di Bella, brigadiere dei carabinieri di stanza a San
Casciano dal 1958 al 1989, depone a proposito della richiesta
inoltrata da Pacciani per la licenza di caccia. Interrogato
dall'avvocato Bevacqua, confermerà di non avere notizie che
Pacciani girasse di notte e svolgesse attività di guardone.
Gianfranco Bruci, idraulico di San Casciano, depone circa
l'eventuale acquisto di Pacciani di uno sportello del gas, come
riportato dall'imputato negli appunti ritrovati sull'album da
disegno Skizzen Brunen.
Chiudono la giornata di udienza i periti chiamati dalla Corte a
relazionare sull'altezza del Pacciani e sull'ipotetica altezza che
questi aveva nel 1983, in occasione del delitto di Giogoli.
Depongono in merito i dottori Carlo Fazzari, Brunetto
Chiarelli e Mario Cianciulli.

8 Giugno 1994:
Giornata importante per le sorti del Processo. Depongono
nell'ordine:
Gino Bruni, l'anziano guardiacaccia che, secondo la testimonianza
dei coiniugi Cairoli e Consigli del 1 giugno, aveva dichiarato che
Pacciani possedeva una Beretta Calibro 22. Il Bruni nega
decisamente di aver mai proferito tale affermazione, anzi sostiene
di non essere a conoscenza di una pistola posseduta dall'imputato.
Si scopre durante qesta deposizione che tra la fine degli anni '60 e
l'inizio degli anni '70 il Bruni era stato violentemente picchiato dal
Pacciani, tanto da riportare lesioni che l'avevano obbligato a un
lungo ricovero in ospedale. Secondo il Bruni, l'aggressione da parte
del Pacciani era avvenuta perché lo aveva scoperto a cacciare di
frodo; secondo il Pacciani l'aggressione era avvenuta perché il Bruni
aveva insidiato sua moglie, Angiolina. Il Bruni non aveva mai fatto
menzione di tale aggressione e anche in ospedale aveva dichiarato
di essere caduto da un albero, per paura del Pacciani.
Segue un serrato confronto fra il Bruni e Giampaolo Cairoli, in cui
ognuno rimane delle proprie posizioni. Il Cairoli sostiene di aver
udito dal Bruni l'affermazione circa la pistola del Pacciani. Il Bruni
ribadisce la sua estraneità a tali discorsi. Interviene il giudice
Ognibene durante questo confronto che, piuttosto infervorato,
accusa il Bruni di mentire e lo invita a dire la verità.
Ovviamente le parti si dividono: Canessa ritiene che Bruni menta
perché è ancora terrorizzato dal Pacciani; Bevacqua sostiene che
Bruni, ultra-ottantenne e malato terminale per un tumore alla
prostrata, avrebbe finalmente l'occasione per vendicarsi del
Pacciani senza poter temere nessun tipo di ritorsione, dichiarando
che l'imputato possedeva effettivamente la Beretta Calibro 22.
Dunque, secondo Bevacqua, se Bruni non effettua questa
dichiarazione è perché non vuole dire il falso in punto di morte.
Al termine di questo serrato confronto, è la volta di un'altra storica
deposizione, quella di Lorenzo Nesi che, per la seconda volta, si
siede sul banco dei testimoni. Il Nesi è tornato per dire che la sera di
domenica 8 settembre 1985 verso le ore 23:00 su via degli Scopeti
aveva incrociato l'automobile del Pacciani, al cui interno vi era il
Pacciani stesso e un altro uomo che non era riuscito a identificare. Il
Nesi sostiene di non aver fatto mai menzione in precedenza di
questo incontro perché non aveva mai dato particolare peso
all'episodio; ma dopo che Pacciani aveva finto di non conoscerlo in
occasione della sua precedente testimonianza in aula, aveva
pensato che l'atteggiamento del Pacciani fosse stato proprio dettato
da quell'incontro che evidentemente l'imputato giudicava
estremamente compromettente. Sulla base di questo ragionamento
un po' contorto e di un discorso probabilistico poco comprensibile
in cui il Nesi si avventura, aveva dunque deciso di riferire in
udienza di questo incontro.
Risulta questa una delle deposizioni più controverse dell'intero
dibattimento, densa di momenti emotivamente carichi di tensione,
ma anche piuttosto ridicoli, soprattutto nei serrati battibecchi fra il
Nesi stesso e l'avvocato Bevacqua. Al termine di questa
deposizione, il Nesi querelerà l'avvocato.
Chiude la giornata dibattimentale la signora Bruna Arcusi, abitante
di Vicchio, che depone sulla visita della banda di Vicchio a
Mercatale.

13 Giugno 1994:
Udienza che si apre con la richiesta dell'avvocato Bevacqua di
reperire i tabulati ANAS relativi alla chiusura della superstrada
Firenze-Siena la sera del delitto agli Scopeti, come precedentemente
dichiarato da Lorenzo Nesi. Richiesta che viene accolta dalla corte.
Successivamente prestano testimonianza:
Antonio Andriaccio, cognato di Maria Antonietta Sperduta (marito
della sorella), il quale nega categoricamente di aver mai conosciuto
Pacciani.
Maria Mugnaini, cognata di Maria Antonietta Sperduta (moglie del
fratello di Renato Malatesta), la quale nega di avere mai conosciuto
Pacciani e presenta fortissimo astio nei confronti della cognata.
Torna quindi a sedersi sul banco dei testimoni Ruggero
Perugini che in una nuova lunghissima deposizione parla delle
perquisizioni compiute e degli oggetti sequestrati in casa Pacciani.

15 Giugno 1994:
Rendono testimonianza nell'ordine:
Rolando Nesi, chiamato a testimoniare in quanto era nella stessa
automobile di Lorenzo Nesi (non vi è grado di parentela fra i due)
la sera dell'8 settembre 1985 in cui il Lorenzo dichiara di aver
incrociato l'automobile di Pacciani in via degli Scopeti.
Carla Marretti, moglie di Rolando Nesi, anch'ella nella stessa
vettura la sera dell'8 settembre 1985.
Pasquale Massoli, amico di Ronaldo e Lorenzo, nonché il
proprietario della casa in cui avevano passato la serata i due Nesi
prima di rientrare verso Firenze e San Casciano.
Carla Rossi, moglie di Pasquale Massoli.
Giuseppe Daidone, maresciallo dei carabinieri, chiamato a
testimoniare sulla perquisizione della cella di Pacciani, prima che
questi venisse scarcerato.
Giuseppe Pizzo, assistente della Polizia di Stato, uno degli
incaricati delle intercettazioni ambientali, riprese video e
documentazione fotografica in casa del Pacciani fra dicembre 1991 e
maggio 1992. Dichiara a Processo che da tale attività indagativa
risultò evidente che Paccani perlustrasse insistentemente una parte
del suo orto come alla ricerca di qualcosa. Fu in seguito a questa
segnalazione che prese il via la maxi perquisizione dell'aprile 1992.
Enrico Colagiacomo, assistente della Polizia di Stato, svolse fra il
1991 e il 1992 la stessa attività dell'appena citato Pizzo.
A seguito delle deposizioni di Pizzo e Colagiacomo, prende la
parola l'imputato Pietro Pacciani che parla della potatura di
un'acacia nel punto in cui venne visto trafficare nel suo orto.
Infine tocca nuovamente a Ruggero Perugini che stavolta tratta il
delicato tema del ritrovamento della cartuccia nell'orto del Pacciani
duranre la maxi-perquisizione.

22 Giugno 1994:
Apre la giornata di udienza il giudice Enrico Ognibene in merito
all'eventuale chiusura della superstrada Siena-Firenze la sera dell'8
settembre 1985, così come aveva sostenuto il Nesi. Non è risultato
possibile effettuare tale accertamento, mancando documentazione
scritta.
Segue una richiesta del Pubblico Ministero Paolo Canessa di
eseguire con la Corte un sopralluogo in via degli Scopeti per
studiare i luoghi dove il Nesi afferma di aver incrociato la vettura
del Pacciani e dove il Bevilacqua afferma di aver incontrato il
Pacciani in divisa da guardiacaccia. La Corte accoglie l'istanza del
PM.
Seguono le deposizioni di:
Paolo Scriccia, capitano dei carabinieri, che nell'aprile del 1992
aveva partecipato alla maxi-perquisizione nell'orto di casa Pacciani.
Pietro Frillici, maresciallo dei carabinieri, anch'egli nell'aprile del
1992 aveva partecipato alla maxi-perquisizione nell'orto di casa
Pacciani.
Ruggero Perugini, che rende testimonianza sulle intercettazioni
ambientali in casa Pacciani. Vengono ascoltate alcune
intercettazioni giudicate significative.
Giulia Matteucci, cui viene affidato l'incarico di provvedere alla
trascrizione integrale della bobina numero 59B relativa ad
intercettazioni ambientali a casa del Pacciani.

29 Giugno 1994:
Rendono testimonianza rispettivamente:
Mauro Buonaguidi, motociclista di Scandicci, il quale dichiara che
domenica 8 settembre 1985 verso le ore 15:00 aveva notato durante
un giro in moto un'automobile Golf con targa francese parcheggiata
in una strada non lontana dalla piazzola degli Scopeti. Secondo il
testimone, l'automobile sarebbe la stessa della coppia francese
uccisa dal MdF. Fosse vera, questa testimonianza sarebbe
importante perché indicherebbe che la domenica pomeriggio
l'automobile della coppia era stata spostata e dunque
presumibilmente la coppia era ancora viva.
Italo Buiani, abitante di San Casciano, che dichiara di aver
incrociato l'automobile del Pacciani in una stradina di campagna
dalle parti di via degli Scopeti la sera di venerdì 6 settembre 1985,
orientativamente verso le 21.
Successivamente vengono ascoltati i professori Salvatore De
Marco, Franco Lotti e Susanna Contessini, incaricati di esaminare
le scritte eseguite dal Pacciani sul blocco Skizzen Brunnen.
Infine è la volta di Mario Spina, agente scelto della Polizia di Stato,
addetto alle intercettazioni teleofniche in casa Pacciani. Durante la
sua deposizione vengono ascoltate due registrazioni importanti
effettuate in casa dell'imputato: la prima è quella in cui Pacciani
agggredisce verbalmente e fisicamente la moglie appena rientrata
da un colloquio con il Pubblico Ministero, rea di aver accennato a
un fucile posseduto dal marito; la seconda è quella in cui si sente un
affannatissimo Pacciani spostare mobili per casa (forse il frigorifero)
e poi nel frastuono mormorare un'unica frase: "in do' la metto
ora?". Per la Pubblica Accusa, Pacciani si riferisce alla pistola usata
per i delitti. Per la difesa la frase corretta è invece "in do' lo metto
ora?", parlando dunque di qualcos'altro.

4 Luglio 1994:
I professori Franco Marini, Riccardo Cagliesi
Cingolani e Francesco Saint Omer Bartoloni depongono a
proposito della lettera inviata dal MdF alla dottoressa Della Monica
contenente il lembo di seno della Mauriot.
Il maresciallo dei carabinieri Pietro Frillici parla delle indagini
svolte sulla busta imbucata in una cassetta di San Piero a Sieve.
Il professor Pietro Benedetti e il generale Ignazio
Spampinato rendono testimonianza sulla pistola e sui proiettili
usati dal MdF durante i delitti.
5 Luglio 1994:
L'avvocato Luca Santoni Franchetti apre la giornata dibattimentale
parlando del possibile coinvolgimento dei sardi nelle vicende del
MdF e delle difficoltà riscontrate nel portare in aula molti dei
personaggi coinvolti, in special modo Salvatore Vinci, risultante
disperso.
Seguono le deposizioni di:
Vinicio Caselli, dottore di San Casciano, parla dello stato di salute
di Pacciani.
Giuliano Pucci, noto guardone di San Casciano, parla del suo
rapporto di presunta amicizia con il Pacciani.
Heidemarie Meyer, sorella di Horst Meyer, uno dei due ragazzi
uccisi a Giogoli. La ragazza parla del blocco Skizzen Brunnen e del
portasapone Deis.
Il dottor Francesco Donato, consulente tecnico del PM, chiamato a
relazionare sulla pistola e i proiettili del MdF e sul proiettile trovato
nell'orto di casa Pacciani.
Il dottor Claudio Proietti, direttore della Divisione Identità della
Polizia Scientifica, disserta sugli appunti scritti dal Pacciani sul
blocco Skizzen Brunnen.

8 Luglio 1994:
Rendono testimonianza rispettivamente:
Giorgio Trinca, tecnico della Polizia Scientifica, che ha svolto
accertamenti chimico-merceologici sulla busta inviata alla
dottoressa Silvia Della Monica contenente il lembo di seno della
Mauriot.
Dottor Giancarlo Mei, incaricato di fare esami chimici sulla
cartuccia trovata nell'orto del Pacciani per determinare
orientativamente i tempi di interramento.
Pietro Frillici, maresciallo dei carabinieri che stavolta disserta sulle
indagini condotte in Germania sul blocco Skizzen Brunnen.
Paolo De Simone, agente di Polizia Giudiziaria, chiamato a
testimoniare a proposito delle indagini condotte sul portasapone
Deis.
Callisto Di Genova, agente di Polizia Giudiziaria, che testimonia a
proposito delle indagini condotte sui rapporti fra Pacciani e la
Sperduto e fra Pacciani e la Bugli.
Paola Baghino, agente della Polizia di Stato, incaricata dei
pedinamenti nei confronti dell'imputato Pacciani dopo che questi
era uscito dal carcere dove era stato recluso per la violenza sulle
figlie.
Tocca quindi sedersi sul banco dei testimoni a Natale Mele, figlio di
Stefano Mele e Barbara Locci. Natalino dichiara in questa occasione
di non ricordare nulla a proposito della notte in cui fu uccia sua
mamma.
Chiude la giornata d'udienza Pietro Locci, fratello di Barbara.

12 Luglio 1994:
Rendono testimonianza rispettivamente:
Antonio Amore, maresciallo dei carabinieri di Prato, indotto dalla
difesa del Pacciani, che nel 1985 aveva indagato su Giampiero
Vigilanti. Durante la deposizione, sollecitato dalle domande
dell'avvocato Bevacqua, il teste parla anche dell'episodio della
guardia giurata che a Calenzano incontrò un personaggio piuttosto
sospetto, possessore di diverse cartucce calibro 22, serie H.
Angiolina Manni, moglie del Pacciani, che fra mille difficoltà e
piuttosto confusamente parla dei rapporti con il marito.
Roberto Pabi, segretario della commissione esami per il rilascio di
certificati, chiamato a testimoniare sulla domanda presentata
dall'imputato per il porto di un fucile.

13 Luglio 1994:
Giornata dibattimentale che si apre con la deposizione di Giulia
Matteucci precedentemente incaricata dalla Corte della trscrizione
di una bobina relativa ad alcune intercettazioni telefoniche in casa
Pacciani.
Seguono nell'ordine le seguenti deposizioni: il maresciallo dei
carabinieri Pietro Frillici che testimonia sulla rogatoria in Germania
relativa al taccuino e al portasapone.
Guido Iandelli, zio di Luca Iandelli, chiamato dalla Difesa del
Pacciani a testimoniare sulla vicenda che ha visto coinvolto il
nipote.
Ivo Longo, di professione ottico, che dichiara di aver visto la
presunta notte dell'omicidio della coppia francese, il Pacciani a
bordo di un'automobile di grossa cilindrata in uno stato di
completa trance che procedeva a forte velocità sulla superstrada
Firenze-Siena. In questa deposizione il Longo fa riferimento al
sudore che colava dal volto del Pacciani e ai peli delle sue braccia,
suscitando fra le altre cose la pungente ironia dell'avvocato
Bevacqua.
Baldo Bardazzi, testimone introdotto dalla Difesa, proprietario del
bar presso cui si erano presuntamente diretti la Rontini e lo
Stefanacci il pomeriggio del 29 luglio e ivi incontrarono un signore
che mostrava un forte risentimento nei loro confronti. Vedasi a tal
proposito il relativo capitolo.
Pancrazio Matteuzzi, ex collega e amico di Paolo Mainardi, la
vittima maschile dell'omicidio di Baccaiano. Matteuzzi diichiara che
Mainardi e Migliorini erano soliti appartarsi in auto nella piazzola
dove si verificò l'omicidio e che tempo prima erano stati disturbati
da un guardone claudicante.
Attilio Pratesi che nel 1983 lavorava come giardiniere a Villa La
Sfacciata, viene chiamato a rendere testimonianza sul motorino
fermo oltre il cancello della villa nei giorni dell'omicidio di Giogoli.
Franco Corti, convocato dalla Difesa dell'imputato perché avrebbe
visto un signore molto distinto accampato con una piccola tenda in
una stradina sterrata e in disuso parallela a via degli Scopeti. Il teste
dichiara di aver fatto questo incontro la domenica precedente a
quella dell'omicidio. Il PM contesta che dal verbale dei carabinieri
reso il 15 settembre 1985, tale incontro sarebbe invece avvenuto
l'ultima domenica di luglio del 1985, quindi temporalmente
piuttosto distante dal giorno del delitto.
Al termine della deposizione di Franco Corti, l'avvocato Bevacqua
chiede di introdurre a Processo una lettera anonima giunta al
giornalista del quotidiano "La Repubblica" Paolo Vagheggi di cui
abbiamo già parlato a proposito dell'omicidio di Miriam Ana
Escobar (vedasi capitolo Le morti collaterali). Richietsa ovviamente
respinta.
In ultimo depone Giovanni Attianese, agente di polizia, che si
presenta in veste di operatore di un video realizzato nell'orto del
Pacciani durante la maxi-perquisizione al fine di individuare la
presenza dell'acacia di cui parlava Pacciani.

14 Luglio 1994:
Giornata processualmente molto importante. Rendono
testimonianza nell'ordine:
L'avvocato Giuseppe Zanetti, ciclista amatoriale, il quale dichiara
di aver incontrato durante i suoi allenamenti per alcuni giorni
consecutivi e immediatamente precedenti al giorno del delitto degli
Scopeti un'atomobile Ford Fiesta parcheggiata nei pressi della
piazzola. L'ultimo giorno, vicino a questa vettura, c'era un uomo
piuttosto distinto che guardava in direzione della piazzola e che
indubbiamente non era il Pacciani.
Pietro Mucciarini, chiamato a testimoniare dall'avvocato di Parte
Civile Luca Santoni Franchetti, il quale da ex indagato, si rifiuta -
come suo diritto - di rendere testimonianza.
Rosina Massa, ex moglie di Salvatore Vinci; deposizione che è
manna per tutti i sardisti.
L'ispettore di polizia Riccardo Lamperi, secondo di Perugini da un
punto di vista gerarchico nella SAM. Deposizione chiara ed
estremamente interessante la sua.
Infine è il turno di Marco Morin, esperto di balistica giudiziaria,
consulente della difesa per quanto riguarda le analisi effettuate sul
proiettile rinvenuto nell'orto di Pacciani.

15 Luglio 1994:
Ultimo giorno di udienza prima della lunga pausa estiva. Sono
chiamati a deporre nell'ordine:
Arturo Minoliti, maresciallo dei carabinieri e comandante della
Stazione di San Casciano, il quale disserta di Pacciani, della
Sperduto, delle perquisizioni in casa dell'imputato.
Segue l'interessantissima deposizione dei criminilogi del pool di
Modena, i professori Francesco De Fazio, Giovanni
Beduschi, Salvatore Luberto, Ivan Galliani e Giovanni Pierini. I
professori spiegano la relazione che, su richiesta della Procura di
Firenze, avevano presentato nel Maggio 1986 sul tipo di autore
degli omicidi.
A questi fa da contraltare la deposizione del criminologo Francesco
Bruno, chiamato dalla Difesa, che si schiera nettamente a favore di
un serial killer completamente diverso sia da un punto di vista
fisico e che psicologico da Pacciani.
Per ultimo si siede sul banco dei testimoni nuovamente
l'ispettore Riccardo Lamperi, chiamato brevemente a deporre su un
particolare emerso nella mattinata riguardo un'utenza telefonica del
Pacciani.

18 Ottobre 1994:
L'udienza riprende dopo la lunghissima interruzione estiva.
L'imputato Pietro Pacciani rende dichiarazioni spontanee alla
Corte. È questo il celebre monologo in cui il contadino di Mercatale
racconta la sua vita, parla dell'omicidio del 1951, tenta di
discolparsi dalle accuse, fa riferimenti religiosi, recita poesie ("Se ni'
mondo esistesse un po' di bene e ognun si considerasse suo fratello, ci
sarebbe meno pensieri e meno pene e il mondo ne sarebbe assai più bello").
Al termine, il Pubblico Ministero Paolo Canessa comincia la sua
requisitoria finale.

19 Ottobre 1994:
Giornata interamente dedicata all'ottima e mirata requisitoria del
Pubblico Ministero Paolo Canessa.

20 Ottobre 1994:
Giornata dedicata alle arringhe degli avvocati di Parte Civile.
Parla per primo l'avvocato Luca Santoni Franchetti. Curiosa la sua
posizione in quanto sostiene la colpevolezza di altri imputati,
probabilmente più di uno e probabilmente appartenenti alla Pista
Sarda, ma nel contempo chiede la condanna per Pacciani, perché
mentitore indefesso e seriale e dunque sicuramente implicato in
qualche modo nella vicenda. Una posizione che non mancherà di
sollevare qualche polemica sia fra gli altri avvocati di Parte Civile,
sia soprattutto fra i difensori del Pacciani.
A seguire, nell'ordine, parlano gli avvocati Luca
Saldarelli, Manuele Ciappi, Capanni, Eriberto Rosso, Patrizio
Pellegrini, Aldo Colao.

24 Ottobre 1994:
In questo gironata di udienza la parola va al primo dei difensori di
Pietro Pacciani, l'avvocato Pietro Fioravanti.

25 Ottobre 1994:
Termina la sua disamina difensiva l'avvocato Pietro Fioravanti e
comincia la sua lunga arringa difensiva l'avvocato Rosario
Bevacqua.

26 Ottobre 1994:
Giornata interamente occupata dall'arringa difensiva
dell'avvocato Rosario Bevacqua.

27 Ottobre 1994:
Ultimo giorno di arringa difensiva dell'avvocato Rosario Bevacqua.

28 Ottobre 1994:
Giornata di repliche per il Pubblico Ministero Paolo Canessa e per
le parti civili Luca Santoni Franchetti, Luca Saldarelli, Aldo
Colao e Patrizio Pellegrini.

29 Ottobre 1994:
Giornata conclusiva del dibatitmento processuale.
La parola agli avvocati Pietro Fioravanti prima e Rosario
Bevacqua per la loro ultima replica.
Infine, come previsto dalla legge, l'ultima parola spetta all'imputato
per una dichiarazione spontanea. Pietro Pacciani non manca di
sollevare polemiche quando fra le lacrime dichiara "Gesù è mio
fratello" e "Sono innocente come Cristo sulla croce".
Si chiude con queste frasi il Processo Pacciani.

1 Novembre 1994:
Il giudice Enrico Ognibene legge la sentenza di condanna nei
confronti dell'imputato. Giudicato colpevole di sette degli otto
duplici omicidi storicamente attribuiti al Mostro di Firenze (escluso
quello del 1968), Pietro Pacciani viene condannato all'ergastolo.
Appendice B - Il Processo ai CdM

Di seguito il dettaglio delle udienze del Processo ai Compagni di


Merende.

20 Maggio 1997:
Introduzione da parte del giudice Federico Lombardi.
Richiesta immediata dell'avvocato difensore di Mario Vanni, Nino
Filastò, che venga dichiarato nullo l'incidente probatorio del 10
febbraio 1996 per - a suo dire - palesi violazioni da parte del GIP
delle norme di Procedura Penale.
Immediata risposta del Pubblico Ministero Paolo
Canessa all'eccezione presentata da Filastò. Gli avvocati di Parte
Civile si allineano con quanto dichiarato dal Pubblico Ministero.
L'avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi, si associa al PM.
L'avvocato Federico Bagattini, difensore del Faggi, si dice
remissivo.
L'eccezione dell'avvocato Filastò viene giudicata infondata dalla
Corte.

21 Maggio 1997:
Eccezione sollevata dall'avvocato Gabriele Zanobini che chiede il
proscioglimento immediato del suo assistito, avvocato Corsi.
Replica del PM e contro-replica di Zanobini. La Corte rigetta la
richiesta dell'avvocato Zanobini.
Richiesta da parte del secondo avvocato difensore del
Vanni, Giangualberto Pepi di scarcerazione del suo assistito.
Replica del PM.
23 Maggio 1997:
L'udienza si apre con il ricordo di Giovanni Falcone, nel quinto
anniversario della sua morte.
Prende la parola il Pubblico Mnistero Paolo Canessa per la propria
relazione introduttiva al Processo. In essa il PM illustra
sinteticamente l'excursus che ha portato alla confessione del Lotti e
alla successiva imputazione del Vanni, del Faggi e del Corsi.
La Corte rigetta la richiesta dell'avvocato Pepi di scarcerazione per
Mario Vanni.

3 Giugno 1997:
Apre la giornata d'udienza l'avvocato Rodolfo Lena in sostituzione
dell'avvocato Bagattini per la difesa di Giovanni Faggi.
Segue una lunga replica dell'avvocato Nino Filastò alla relazione
introduttiva del giorno precedente del Pubblico Ministero. È
durante questa replica che Filastò nomina il dottor Stefano Galastri,
meglio noto in Mostrologia come De Gothia, autore dello studio su
Maniac.
A seguire, prendono la parola prima le Parti Civili, poi
l'avvocato Stefano Bertini, giovane difensore del Lotti, quindi
l'avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi. Chiude
l'udienza l'avvocato Giangualberto Pepi, secondo difensore del
Vanni, il quale fra le altre cose polemizza con il collega Filastò che
aveva denunciato la mancata richiesta di perizia psichiatrica del
Vanni. Emerge per la prima volta una sorta di conflitto fra i due
difensori dell'imputato.

4 Giugno 1997:
Apre l'udienza il lungo intervento dell'avvocato di Parte
Civile, Luca Santoni Franchetti, il quale coerentemente con quanto
portato avanti anche in occasione del Processo Pacciani, batte la
pista degli autori multipli, dei sardi coinvolti in alcuni omicidi, di
un'eventuale complicità fra sardi e sancascianesi.
Segue la replica del PM Canessa agli interventi del giorno
precedente e della giornata odierna.

6 Giugno 1997:
L'udienza si apre con la notizia comunicata dal presidente Federico
Lombardi della rinuncia dell'avvocato Filastò alla difesa del Vanni.
A seguire il giudice annuncia che nella giorata odierna non si terrà
udienza per problemi logistici dovuti ad altri processi in corso e dà
appuntamento al 23 giugno.

23 Giugno 1997:
Si entra nel vivo del processo con il primo teste. Tocca al super-
poliziotto Michele Giuttari sedere per primo sul banco dei
testimoni con una deposizione lunghissima in cui spiegherà il
percorso investigativo compiuto dalla Procura di Firenze per
arrivare alla confessione di Giancarlo Lotti.
Da notare che da questa udienza la difesa di Mario Vanni spetta al
solo avvocato Giangualberto Pepi.

25 Giugno 1997:
Continua la lunga deposizione del dottor Michele Giuttari.
26 Giugno 1997:
Ultima giornata dedicata alla deposizione del dottor Michele
Giuttari.

27 Giugno 1997:
Controesame per il dottor Michele Giuttari: prima
l'avvocato Federico Bagattini, difensore del Faggi, poi
l'avvocato Giangualberto Pepi, difensore di Vanni, interrogano il
super-poliziotto.
A seguire rendono testiminanza Winnie Kristensen e Renzo
Rontni, genitori di Pia. Winnie dichiara di avere la certezza di aver
visto più di una volta il Vanni a Vicchio, pur non riuscendo a
ricordare dove precisamente. Si dice sicura che tali incontri siano
avvenuti prima della morte di Pia.
Renzo Rontini si dice sicuro di aver visto due o tre volte il Vanni
aggirarsi all'esterno del bar dove lavorava Pia nei giorni precedenti
all'omicidio.

30 Giugno 1997:
Il primo a rendere testimonianza in questa giornata d'udienza è
l'ultrasettantenne, analfabeta, Ennio De Pace, il quale in una
grottesca deposizione in cui parla confusamente di essere stato
pedinato e di aver visto cose indicibili, dichiara di aver incontrato il
Pacciani nella piazzola degli Scopeti all'alba di lunedì 9 settembre
1985 (giorno in cui alle 15 verranno scoperti i casaveri dei francesi).
In quell'occasione il De Pace avrebbe apostrofato il Pacciani
con: "Ciuccio, bestia, saluta!"). Nel prosieguo della deposizione, il
teste dichiara confusamente di aver visto agli Scopeti anche il Lotti,
il quale tentava di coprirsi con un giornale, ma non si capisce in
quale occasione sia avvenuto questo avvistamento; questa parte di
testimonianza richiama alla mente quella del giorno prima del
Rontini a proposito del Vanni. La sensazione è che De Pace spari a
caso, prendendo spunto da altri dichiarazioni ascoltate in
precedenza. Lo stesso Canessa giudica inattendibile il De Pace,
chiedendo venga valutato il suo stato di salute dopo alcune malattie
che l'hanno colpito recentemente. Il contro-interrogatorio
dell'avvocato Pepi mette ancor più in evidenza le contraddizioni del
De Pace.
Seguono le deposizioni dei coniugi Marcella De Faveri e Vittorio
Chiarappa, i quali il pomeriggio della domenica 8 settembre 1985
erano stati ospiti nella villa dei Rufo, di fronte alla piazzola degli
Scopeti, e dichiarano che dalle tre del pomeriggio alle otto di sera
all'ingresso della piazzola era parcheggiata un'automobile color
rosso sbiadito con il retro tronco (descrizione che ricorda la
macchina del Lotti). Accanto alla vettura vi sarebbero stati due
uomini che guardavano verso la piazzola.
Segue la deposizione di Valeriano Raspolini, il quale riferisce de
relato l'episodio capitato alla sua amica Sharon Stepman (per
maggiori dettagli vedasi udienza del 7 luglio 1997).
Infine è la volta dell'interessante deposizione di Sabrina
Carmignani, la quale - come già visto - era stata nella piazzola degli
Scopeti il pomeriggio di domenica 8 settembre 1985. La Carmignani
parla di una tenda malandata, delle presenza di mosche nella
piazzola e di un cattivo odore nei dintorni, come di putrefazione. È
durante questa testimonianza che l'avvocato Colao fa
involontariamente intendere che la Carmignani potrebbe essere
stata in precedenza spinta a rilasciare dichiarazioni non veritiere su
un eventuale incontro col Vanni nella piazzola (vedasi capitolo
dedicato a Mario Vanni).
1 Luglio 1997:
Rendono testimonianza nell'ordine:
James Taylor e Luisa Gracili, i quali nel 1985 erano fidanzati. I due
dicharano che la notte fra domenica 8 settembre e lunedì 9
settembre fra le 00:15 e le 00:45 transitavano su via degli Scopeti,
notando un assembramento di persone nella piazzola e
un'automobile FIAT 131 parcheggiata all'imbocco della stessa.
Secondo il Taylor la vettura era di colore argento, secondo la Gracili
di colore bianco. Risulta semplice pensare che, secondo l'Accusa,
tale automobile sarebbe appartenuta al Faggi.
Giovanni Battista Zanieri, orefice di San Casciano, il quale dichiara
che nei giorni successivi all'omicidio nel bar in piazza dell'Orologio
si vociferava che Giancarlo Lotti fosse passato dalla piazzola degli
Scopeti la sera dell'omicidio. Lo Zanieri non ricorda chi avesse
messo in giro questa voci e parla genericamente di dicerie di paese.
Aldo Nesi, proprietario di un'armeria a San Casciano, dichiara che
agli inizi degli anni '90 (periodo dunque orientativamente
coicindente con la presunta lettera scritta dal carcere da Pacciani al
Vanni), il Vanni stesso più volte aveva provato (senza successo) ad
acquistare una pistola nel suo negozio.

3 Luglio 1997:
Deposizioni di grande importanza in questa giornata d'udienza.
Nell'ordine abbiamo:
Gabriella Ghiribelli, ex testimone gamma al processo d'appello
contro Pacciani. La sua lunga deposizione è tesa oltre a dare un
quadro generale dei personaggi che frequentavano casa di
Salvatore Indovino in via di Faltignano, anche a collocare Giancarlo
Lotti nella piazzola degli Scopeti la sera di domenica 8 settembre
1985, all'epoca ritenuta la data dell'omicidio. La Ghiribelli dichiara
che quella sera era passata in automobile da via degli Scopeti con il
Galli e aveva notato l'automobile Fiat 128 rossa del Lotti.
Norberto Galli, ex testimone delta al processo d'appello contro
Pacciani. Conferma che la sera di domenica 8 settembre 1985 passò
con la Ghiribelli da via degli Scopeti, ma non è in grado di
confermare la presenza della tenda dei francesci, né tanto meno la
presenza della macchina del Lotti all'imbocco della piazzola. Galli
precisa che la Ghiribelli è un'alcolista di lungo corso, secondo lui
non eccessivamente attendibile.
Il dottor Fausto Vinci, responsabile della Sezione Omicidi della
squadra Mobile di Firenze, il quale rende testimonianza a proposito
dell'automobile FIAT 128 di Giancarlo Lotti. Il Vinci dichiara che
tale vettura (immatricolata per la prima volta nel 1972) era stata di
proprietà del Lotti dal 16 febbraio 1983 fino al 19 marzo 1986. Si
vedrà poi che la data del 19 marzo 1986 era quella in cui
l'automobile era stata rottamata, ma già da qualche mese non
circolava più.
Filippa Nicoletti, prostituta, compagna e convivente di Salvatore
Indovino nonché amante del Lotti. La donna rende testimonianza a
proposito dei frequentatori di via Faltignano e dei suoi rapporti con
lo stesso Lotti: a questo proposito la Nicoletti parla anche della loro
visita alla Boschetta, la piazzola di Vicchio dove erano stati uccisi
Sefanacci e Rontini. Secondo la Nicoletti a quei tempi sia lei che
Lotti erano spesso ubriachi, dunque si mettevano in macchina e si
spostavano senza meta per la provincia fiorentina.

4 Luglio 1997:
Parte col botto questa giornata d'udienza. Il primo a rendere
testimonianza è Lorenzo Nesi, che parla dei suoi rapporti di intima
amicizia con Mario Vanni, della frequentazioni da parte di entrambi
di prostitute fiorentina (compresa la Gina Manfredi), della lettera
che Pacciani avrebbe scritto a Vanni dal carcere.
Seguono le testimonianze di Andrea Caini e Tiziana Martelli, i
quali poco prima di mezzanotte di domenica 29 luglio 1984 si
fermarono a una fonte a fare rifornimeto d'acqua, non lontana dalla
piazzola in cui poco prima era stata uccisa la coppia Stefanacci-
Rontini. Mentre erano fermi presso la fonte videro passare due
automobili ad alta velocità, praticamente attaccate l'una all'altra, la
seconda delle quali viaggiava con le sole luci di posizioni accese. Le
automobili, guidate non da ragazzi ma da persone di una certa età,
sollevavano un gran polverone sulla strada non asfaltata.
Seguono nell'ordine le deposizioni di: Pietro Pasquini, che il giorno
dopo il duplice omicidio del 1984, aveva trovato tracce
presumibilmente di sangue sul greto del fiume Sieve. Le tracce
sembravano provenire dal luogo del delitto.
Luciano Bartolini, che aveva accompagnato il Pasquini a fare la
denuncia dai carabinieri dopo il rinvenimento dele tracce ematiche.
Renzo Rontini, padre di Pia, che conferma i racconti del Pasquini e
del Bartolini.

7 Luglio 1997:
Sono chiamati a rendere testimonianza:
Sharon Stepman, che la sera dell'8 settembre 1985 aveva percorso
via degli Scopeti e aveva notato un'automobile proveniente da uno
spiazzo o da una stradina laterale immettersi sulla via principale.
Alla vista della vettura della Stepman che sopraggiungeva, tale
automobile aveva spento le luci e fatto retromarcia per non essere
vista.
Maria Grazia Frigo, che in una lunghissima deposizione dichiara
nell'ordine:
di essere stata ospite, la sera dell'omicidio Stefanacci-Rontini, in una
casa molto vicina al luogo dell'omicidio;
di aver sentito dei rumori che in seguito avrebbe ricollegato a colpi
d'arma da fuoco verso le dieci e trenta della sera;
di aver incrociato in prossimità del luogo del delitto, al rientro
verso la sua abitazione attorno a mezzanotte, un'automobile bianca
che procedeva a forte velocità e che solo all'ultimo istante tale
vettura ha evitato l'impatto con la loro automobile;
di aver incrociato un 200 o 300 metri dopo un'automobile di color
rosso sbiadito che procedeva tranquillamente e che si dirigeva
verso l'abitazione di un contadino della zona;
di aver riconosciuto molti anni dopo nell'uomo che guidava
l'automobile bianca il volto di Pietro Pacciani;
di aver riconosciuto molti anni dopo nell'uomo che guidava
l'automobile rossa il volto di Giancarlo Lotti; si noti bene che la
Frigo non vide chi guidava l'automobile rossa la sera dell'omicidio,
ma a distanza di una settimana dall'avvistamento vide alla guida
della stessa automobile un uomo che poi anni dopo avrebbe
riconosciuto come il Lotti.
La deposizione della Frigo ha sin da subito presentato molti
problemi di attendibilità. Durante le sue segnalazioni telefoniche e
dal vivo in Procura, avvenute nel corso degli anni, la Frigo si ad
esempio è più volta contraddetta sui colori delle vetture che aveva
incrociato; lo stesso riconoscimento del Lotti presenta più di un
dubbio. La Frigo non verrà giudicata attendibile durante la stesura
della sentenza.
Giampaolo Bertaccini, marito di Maria Grazia Frigo. L'uomo
conferma il racconto della moglie, ammettendo però di non aver
mai visto in viso colui che guidava l'automobile bianca perché
impegnato a manovrare la leva per azionare le sospensioni della
sua Citroen.
Mauro Poggiali, abitante di Vicchio e frequentatore del bar La
Nuova Spiaggia, dove lavorara Pia Rontini. Costui aveva talvolta
accompagnato a casa la Rontini quando staccava la sera tardi dal
proprio turno di lavoro. In un paio di queste occasioni il Poggiali
rivela di aver avuto l'impressione di essere stato seguito da
un'automobile. Alla visione delle fotografie della 128 rossa del Lotti,
il Poggiali dichiara che avrebbe pouto essere la stessa automobile.
Fabio Badii, amico del Poggiali, il quale somamriamente conferma
di aver sentito dire da Mauro che la sua automobile era stata
seguita da qualcuno quando aveva accompagnato la Rontini a casa,
ma di non aver mai dato peso a questo particolare.

8 Luglio 1997:
Sono chiamati a rendere testimonianza, nell'ordine:
Paolo Santoni, detenuto per spaccio di droga, dichiara di aver visto
ai tempi dell'omicidio del 1984 il Vanni a Vicchio dalle parti del bar
"La Nuova Spiaggia" e nella piazza del paese. Trattasi di una
deposizione che comunque lascia più di un dubbio fra le parti
processuali, dando l'impressione che il test faccia tali dichiarazioni
esclusivamente per ottenere dei benefici in carcere. Non verrà
infatti tenuta in considerazione.
Walter Ricci, impiegato di banca sancascianese, testimonia a
proposito della sua conoscenza col Vanni, delle frequentazioni di
quest'ultimo con le prostitute fiorentine, della conoscenza con
l'avvocato Corsi e con tutti gli avventori del bar nella piazza
principale del paese. Parla anche della conoscenza del Vanni col
Pacciani e di come il postino avesse più volte riferito che Pacciani
possedeva un cosiddetto "pistolone". Infine parla della famosa
lettera che il Vanni avrebbe ricevuto dal Pacciani.
Laura Mazzei, moglie del Ricci e parente del Vanni, le sue
dichiarazioni sono grosso modo in linea con quelle del marito.
Teresa Nenci Buzzichini, residente della parti di via di Giogoli,
non lontana dal luogo dell'omicidio del 1983, dichiara che il camper
dei tedeschi alloggiava sulla piazzola dell'omicidio già da parecchi
giorni prima dell'omicidio. Come visto nel relativo capitolo, questa
testimonianza contrasta però con gli accertamenti condotti sugli
spostamenti dei due ragazzi tedeschi, partiti da Monaco il 7
settembre 1983.
Edmondo Bianchi, proprietaro della casa in cui avevano passato la
serata del 29 luglio 1984 i coniugi Bertaccini e Frigo. Pur non
avendo ricordi precisi, l'uomo sembra confermare grosso modo il
racconto della Frigo.
Roberto Bini, proprietario del bar "La Nuova Spiaggia" presso cui
aveva lavorato Pia Rontini nel mese di luglio del 1984. L'uomo
dichiara che Pia era solita fare l'ultimo turno al bar e che quando
staccava, se non era accompagnata dal padre o non aveva il proprio
motorino, lui si adoperava affinché qualcuno la accompagnasse a
casa.
Bini inoltre dichiara che la sera dell'omicidio la Rontini aveva
scambiato il proprio turno con la collega Manuela Bazzi, anche se
su questo punto non c'è molta chiarezza fra le varie testimonianze
rese durante gli interrogatori e quelle rese in sede dibattimentale.
Manuela Bazzi, collega di Pia presso il bar "La Nuova Spiaggia". La
donna dichiara che la sera dell'omicidio aveva scambiato il turno
con Pia su richiesta della stessa. A suo dire, infatti, Pia quella sera
doveva andare a cena fuori con il proprio ragazzo. Questa
testimonianza stride fortemente con quanto dichiarato dalla
mamma di Pia circa la poca voglia che aveva la ragazza di uscire
dopo il proprio turno di lavoro.
La Bazzi inoltre dichiara di non essere a conoscenza del fatto che
Pia fosse stata importunata da qualcuno all'interno del bar, né ha
ricordi di situazioni particolari verificatesi nel bar con qualcuno
degli avventori. Parla sommariamente di solite situazioni che si
creano fra clienti e bariste. Anche questa testimonianza stride con
quanto dichiarerà la Bazzi anni dopo circa il cosiddetto "Uomo del
Mugello".
Infine la Bazzi dichiara su domanda del PM di non aver ricordi di
aver mai visto Vanni a Vicchio nei giorni precedenti all'omicidio.
Dario Pampaloni, di professione pastore, portava a pascolare il
proprio gregge alla Boschetta. Dichiara che in quel luogo erano
diverse le coppie che erano solite appartarsi.

10 Luglio 1997:
Sono chiamati a rendere testimonianza, nell'ordine:
Rossella Parisi e Giampaolo Tozzini, la coppia di Calenzano che la
sera del 22 ottobre 1981 aveva incrociato sul ponte sul fiume della
Marina un'automobile che proveniva verosimilmente dalla zona del
delitto a forte velocità. Per evitare l'impatto con tale vettura, il
Tozzini era stato costretto a salire con la sua automobile sul
marciapiede. In seguito a questo incontro, fu realizzato il celebre
identikit ritraente l'ipotetico Mostro di Firenze. Viene accertato in
dibattimento che l'uomo alla guida dell'automobile appariva
sconvolto, che poteva provenire (ma non necessariamente) dalla
zona del delitto distante poche centinaia di metri e che poteva
essere anche un guardone sconvolto dall'aver assistito all'omicidio.
Di fronte alle domande del PM, i due coniugi non riconoscono nel
Giovanni Faggi l'uomo alla guida dell'automobile, pur rimarcando
una buona somiglianza.
Tiziano Giugni e Stefano Giugni, figli di un amico del Faggi,
chiamati a testimoniare sui rapporti che intercorrevano fra il
proprio padre e l'imputato. Entrambi smentiscono di esser stati
presenti al primo incontro fra il Faggi e Pacciani in un ristorante di
Scarperia dopo una mattinata di pesca.
La signora Maria Grazia Patierno, che ha frequentato
saltuariamente con il suo compagno dell'epoca Luciano Paradiso la
casa di Salvatore Indovino fra il 1984 e il 1985. Chiamata a
testimoniare perché quando fu ascoltata dalla polizia aveva
dichiarato di aver visto nell'alimentari del signor Ezio Pestelli in
via Scopeti 36/38 (dalle parti di via Faltignano) il Faggi. In sede
processuale il suo riconoscimento non sembra tuttavia affato certo.
Luciano Malatesta, figlio di Renato Malatesta e Maria Antonietta
Sperduto, il quale conferma quanto già dichiarato in sede di
Processo a Pietro Pacciani: parla della relazione fra sua mamma e il
Vanni, del fatto che il padre venisse spesso picchiato da Pacciani e
avesse più volte tentato il suicidio. Per quanto riguarda le nuove
dichiarazioni, parla di un'automobile targata Gorizia spesso
parcheggiata davanti casa degli Indovino (la 128 del Lotti era
inizialmente targata Gorizia) e di un uomo elegante su
un'automibile berlina che nei primissimi anni '80 passava spesso
davanti casa loro con l'intento di curiosare se non proprio spiare
cosa avvenisse all'interno. Riconosce in quest'uomo l'imputato
Giovanni Faggi.
Gina Cencin, vicina di casa dei Malatesta prima che questi si
trasferissero in via Faltignano. Anche lei conferma quanto già
dichiarato in sede di Processo a Pietro Pacciani. Anche lei afferma
di aver visto l'imputato Faggi aggirarsi con Pacciani e Vanni dalle
parti di San Casciano.

14 Luglio 1997:
Anche questa è una giornata dibattimentale dalle importanti
deposizioni. Rendono testimonianza:
Paolo Vanni, nipote di Mario Vanni, chiamato a testimoniare sui
suoi rapporti con lo zio e sull'eventuale frequentazione di Mario
con l'avvocato Corsi.
La signora Francesca Bartalesi, nipote di Mario Vanni, chiamata
anch'ella a testimoniare sui suoi rapporti con lo zio e sulle
frequentazione che sua sorella Alessandra aveva col Vanni e col
Lotti.
La signora Alessandra Bartalesi, sorella maggiore di Francesca, che
aveva intrattenuto un forte rapporto di amiciza con il Vanni e con il
Lotti nell'estate del 1995. Tale testimonianza è particolarmente
importante ai fini processuali e della narrazione mostrologica degli
eventi. Fra le altre cose la Bartalesi riferisce della forte disponibilità
economica del Vanni in quel periodo, dell'impotenza del Lotti, del
mancato prestito del Vanni al Lotti mal digerito da quest'ultimo.
Infine riferisce la famosa frase del Lotti: "Quando sei con me il
mostro non c'è".
Giovanni Bonechi, ex muratore che aveva conosciuto il Lotti fin da
bambino, chiamato a testimoniare sull'eventuale omosessualità del
Lotti. Il Bonechi in udienza dichiara di non sapere nulla
dell'argomento, ma gli viene subito contestato dal PM che negli
interrogatori precedenti aveva riferito che sin dagli anni '80 a San
Casciano si diceva che Lotti fosse omosessuale di tipo passivo
(ovviamente i termini usati dal Bonechi furono ben altri, NdA).
Fabrizio Butini, l'uomo che - stando alla confessione del Lotti - si
sarebbe intrattenuto in atteggiamenti intimi con lui in automobile.
Pacciani li avrebbe scoperti e avrebbe minacciato il Lotti di
divulgare a tutti la sua omosessualità se non avesse accettato di
partecipare al duplice omicidio di Giogoli (1983). Interrogato il
merito, Butini smentisce tutti dichiarando non solo di non essersi
mai intrattenuto in rapporti intimi con Lotti, ma di aver conosciuto
e frequentato il Lotti addirittura negli anni '90, molti anni dopo il
duplice omicidio di Giogoli.
Vincenzo Siracusa, carabiniere che nel 1984 era di stanza a Borgo
San Lorenzo, chiamato a testimoniare relativamente alle indagini
condotte sulle pietre rivenute sulle sponde del fiume Sieve che
presentavano macchie di tipo ematico. Il teste dichiara di non avere
ricordanze in merito e di non aver partecipato a tali sopralluoghi.

18 Luglio 1997:
Ultima giornata d'udienza prima della lunga pausa estiva. Si
presentano a deporre sul banco dei testimoni rispettivamente:
Ingrid Von Pflugk Harttung, amica danese di Pia Rontini, che
riferisce delle preoccupazioni che la Pia le aveva esternato
telefonicamente nei giorni immediatamente precedenti all'omicidio.
Stando al racconto della Ingrid, la giovane Rontini era impaurita da
alcuni frequentatori anziani del bar in cui lavorava. Da segnalare
che la Ingrid ha raccontato per la prima volta questi particolari
esclusivamente dopo le indagini sui Compagni di Merende. Invitata
dagli avvocati difensore a fornirne motivazione, la donna risponde
che in precedenza non riteneva fossero importanti. Abbiamo già
espresso nel capitolo dedicato a La Boschetta le perplessità su tale
testimonianza.
Heinz Diether Von Pflugk Harttung marito della Ingrid, chiamato
a confermare la deposizione di sua moglie.
Salvatore Risi, carabiniere che nel 1984 era di stanza a Borgo San
Lorenzo, chiamato a testimoniare relativamente alle indagini
condotte sulle pietre rivenute sulle sponde del fiume Sieve che
presentavano macchie di tipo ematico. Il teste dichiara che all'epoca
svolgeva la funzione di semplice autista e dunque di aver soltanto
accompagnato il maresciallo Lamuratta in loco a svolgere indagini.
Non ha contezza dell'esito delle stesse.
Successivamente prende la parola l'avvocato Giangualberto Pepi,
difensore del Vanni, per chiedere ancora una volta la scarcerazione
del suo assistito e la concessione degli arresti domiciliari come
nuova misura cautelare.
Pronta replica del Pubblico Ministero Paolo Canessa, secondo cui
non ci sono le condizioni per dare al Vanni gli arresti domiciliari.
Il giudice si riserva di prendere una decisione e augura a tutti
buone vacanze. Al termine, la registrazione non viene spenta e
viene colto il breve dialogo fra Canessa e Pepi, riportato in
precedenza, sulla misure cautelari adottate nei confronti del Lotti.

30 Settembre 1997:
Al ritorno dalla lunga pausa estiva si apprende sia che al Vanni
sono stati negati gli arresti domiciliari come era stato richiesto dalla
difesa in data 18 luglio, sia che l'avvocato Nino Filastò ha ripreso il
ruolo di difensore del Vanni, al fianco dell'avvocato Pepi. Da questa
data in poi, Filastò prenderà in mano le redini difensive del postino
di Montefiridolfi, dettando la strategia e conducendo in prima
persona gli interrogatori.
Seguono le testimonianze del dottor Fausto Vinci, dirigente della
Squadra Mobile di Firenze, incaricato di svolgere accertamenti
patrimoniali su Mario Vanni, e dell'ispettore di polizia Ugo Nativi,
incaricato dal dottor Vinci di svolgere accertamenti patrimoniali su
Pietro Pacciani.
È il turno poi dei professori Ugo Fornari (psichiatra e professore di
psichiatria forense all'università di Torino) e Marco
Lagazzi (medico specialista in psicologia e professore all'università
di Genova), consulenti tecnici del PM, chiamati a esporre le proprie
relazioni, una relativa al profilo psicologico ed eventuali malattie
del Lotti, l'altra relativa alle capacità di rendere testimonianza del
Pucci.

4 Ottobre 1997:
Il giudice Federico Lombardi comunica in apertura d'udienza che
l'avvocato Giangualberto Pepi ha fatto pervenire un'istanza di
rinuncia all'incarico di difensore del Vanni, lasciando di fatto tutto
nelle mani dell'avvocato Filastò.
Successivamente siedono sul banco dei testimoni:
Paola Fanfani, cognata di Fernando Pucci, moglie del
fratello Valdemaro, chiamata a testimoniare sui rapporti fra
Fernando e Giancarlo Lotti. In questa occasione la signora Fanfani
rivela che il 13 febbraio 1996, dopo essere stato ascoltato dalla
polizia, il Pucci rivelò pure a lei e a suo marito di aver assistito al
delitto degli Scopeti e fece i nomi di Pacciani e Vanni come autori
del duplice omicidio.
Marisa Pucci, sorella di Fernando, chiamata a raccontare alla Corte
dell'infanzia di Fernando, della morte dei suoi genitori, dei suoi
problemi di salute e dei rapporti con Lotti.
Arturo Minoliti, maresciallo dei carabinieri e comandante della
Stazione di San Casciano Val di Pesa, chiamato a testimoniare sulle
informazioni raccolte circa un'eventuale omosessualità del Lotti. Il
maresciallo dichiara di non aver raccolto informazioni chiare e
attendibili in un senso o nell'altro. Riguardo il Butini dichiara che
l'uomo era fatto spesso oggetto di scherno da parte di alcuni
concitaddini per una presunta omosessualità, ma di non essere in
grado di affermare cosa ci fosse di vero dietro questi "atteggiamenti
scherzosi".
Paolo Faggioli, cittadino di San Casciano e conoscente del Butini,
uno di quelli che era solito schernire il Butini chiamandolo
"finocchio". Il Faggioli dichiara di non aver mai ritenuto il Butini
omosessuale e che gli appellativi a lui rivolti erano frutto solo di
uno scherzo.
Mario Marchi, proprietario del bar Sport a San Casciano,
frequentato assiduamente dal Vanni, dal Lotti, dal Butini. Come il
Faggioli, anche il Marchi dichiara di non ritenere il Butini
omosessuale e di ritenere gli epiteti a lui rivolti semplici sfottò di
paese.
Simone Bandinelli, barista del bar Sport, si allinea alle
dichiarazioni precedenti sia sul Lotti che sul Butini.
Gherardo Gherardi, proprietario di un negozio di ottica a San
Casciano e avventore abituale del bar Sport, anche lui conferma le
precedenti deposizioni.

6 Ottobre 1997:
È il giorno della lunghissima, estenuante ed estremamente
controversa deposizione di Fernando Pucci. Numerosi gli scontri in
aula, in special modo fra Filastò e Canessa e fra Filastò e il giudice
Lombardi. L'avvocato di Vanni lamenta esplicitamente il modo - a
suo dire - poco ortodosso con cui viene condotto l'interrogario.
Segue la deposizione del fratello di Fernando, Valdemaro Pucci,
chiamato soprattutto a parlare dei rapporti fra Pucci e Lotti.

8 Ottobre 1997:
Giornata dedicata alla difesa del Faggi che produce in aula i
seguenti testimoni:
Stefania Faggi, figlia di Giovanni;
Stefano Fiorucci, gommista di Calenzano;
Alessandro Azzini, genero e proprietario di un'officina meccanica
presso cui si rivolgeva il Faggi;
Rosetta Faggi, altra figlia del Faggi.
Tutte le testimonianze concordano sullo stile di vita morigerato e
assolutamente lontano da qualsiasi sospetto condotto dall'imputato.
Inoltre tutti i teste riferiscono delle automobile possedute nel corso
degli anni dal faggi.

10 Ottobre 1997:
È la giornata della deposizione di Giovanni Calamosca, il quale
parla della sua conoscenza con Francesco Vinci e delle dichiarazioni
che lo stesso gli fece a proposito del delitto del 1968 (omicidio
commesso da lui e dal Mele). Riferisce inoltre del rapporto fra Vinci
e Milva Malatesta, figlia dell'amante del Pacciani (per maggiori
dettagli vedasi il capitolo dedicato a Francesco Vinci).
Le dichiarazioni di Calamosca non risultano a priori incoerenti o
poco credibili, come lo sono invece quelle dello Sgangarella, ma non
risultano supportate da prove e sembrano più figlie di congetture e
collegamenti del Calamosca stesso che non di vere e proprie
rivelazioni. C'è da dire che dalla deposizione emerge che il
Calamosca riconosce in foto la Malatesta come amante del Vinci,
cosa che potrebbe far propendere per una certa attendibilità del
Calamosca.
Nota Bene: Il Calamosca parla anche di una breve e superficiale
conoscenza con il Pacciani in carcere a Sollicciano (quando questi fu
arrestato nel 1987 per la violenza sulle figlie) e del Pacciani parla
come di una delle persone più avare che avesse mai conosciuto.
Parla inoltre di una altrettanto superficiale conoscenza con
l'ergastolano Sgangarella sempre in carcere e di lui parla come una
delle persone più odiose e repellenti che avesse mai conosciuto.
A questa segue la deposizione di Mario Betti che assunse per un
breve periodo il Lotti nella sua ditta di costruzioni, dietro
suggerimento di Valdemaro Pucci, il quale si era prodigato per
aiutare l'amico del fratello Fernando.

20 Ottobre 1997:
Rendono testimonianza in questa giornata d'udienza don Danilo
Cubattoli e Giuseppe Sgangarella.
Il famoso don Cuba è il cappellano del carcere prima delle Murate e
poi di Sollicciano. Ha conosciuto Francesco Vinci durante il suo
arresto fra il 1982 e il 1984 e di lui parla come di un duro che però si
disperava perché era accusato di delitti che non aveva mai
commesso. Dom Cuba conosciuto anche Pacciani dopo l'arresto per
la violenza alla figlie nel 1987 e di lui parla come di una persona che
si professava innocente ma che - a personalissimo parere del prete -
poteva effettivamente sapere qualcosa sulla vicenda del Mostro. Ha
conosciuto anche lo Sgangarella e di lui parla come di un povero
ragazzo che aveva fatto del male e che - lascia intendere il prete -
cercava in qualche modo di trarre benefici dall'aver conosciuto due
dei personaggi principali coinvolti nella vicenda del Mostro.
Sensazione confermata durante la deposione dello stesso
Sgangarella, il quale dà chiaramente l'idea di esser lì solo per trarre
qualche vantaggio dalla situazione (vedasi il capitolo
dedicato Francesco Vinci).
Sgangarella racconta cose cui si fa fatica a credere, ad esempio che
Francesco Vinci gli avrebbe raccontato tutta la verità sulla vicenda
del MdF in un unico giorno trascorso con lui al centro clinico
penitenziario (i due non si erano mai visti prima e non si sarebbero
mai visti dopo) oppure che in carcere Pacciani desse in
escandescenza ogni volta che qualcuno gli parlava di Dio,
dimostrandosi per questo un satanista convinto. Lo Sgangarella
parla anche di una casa che Pacciani gli avrebbe promesso, ma
anche su questo punto risulta poco credibile e soprattutto poco
chiaro durante la deposizione.

24 Ottobre 1997:
Si siedono sul banco dei testimoni rispettivamente:
Angelo Randellini, ingegnere per le Ferrovie dello Stato, chiamato
dall'avvocato Luca Santoni Franchetti a testimoniare sugli orari
delle chiusure dei passaggi a livello siti in prossimità di Vicchio nel
luglio del 1984.
Dino Salvini, all'epoca del delitto dell'ottobre 1981 comandante
della stazione dei carabinieri di Calenzano, già ascoltato durante il
Processo Pacciani e chiamato a confermare quanto dichiarato nel
precedente dibattimento. Salvini stupisce le parti processuali
fornendo un'inedita versione relativa all'identikit del presunto killer
eseguito dopo il duplice omicidio di Travalle. Rivela infatti per la
prima volta che, a sua memoria, tale identikit non fu ricavato solo
dalla testimonianza dei signori Tozzini e Parisi, ma anche sulla base
della testimonianza di un'altra coppia che, appartata in automobile
in un luogo non lontano da quello del delitto, aveva visto
presumibilmente la stessa persona icrociata da Tozzini e Parisi, che
si muoveva tra i campi a piedi.
Ovviamente le parti processuali si dicono d'accordo nell'indagare
più a fondo su queste inedite rivelazioni.
Francesco Messina, agente dei carabinieri di Borgo San Lorenzo, in
servizio notturno dalle 20.00 alle 08.00 presso la propria caserma la
notte del duplice omicidio di Vicchio. Fu colui che ricevette la
telefonata dell'anonimo "fornaio Farini" che segnalava un incidente
stradale sulla Sagginalese.
Baldo Bardazzi, proprietario del bar "La Torre" a Borgo San
Lorenzo, già ascoltato in occasione del Processo Pacciani. Bardazzi
conferma quanto già dichiarato in precedenza riguardo a un uomo
che sembrava seguire e nutrire astio verso una coppia che lui
avrebbe successivamente identificato come le vittime dell'omicidio
del 1984.

28 Ottobre 1997:
Giornata interamente dedicata alle forze dell'ordine che hanno
effettuato sopralluoghi negli omicidi di Calenzano, Baccaiano,
Giogoli, Vicchio e Scopeti. Tutti già ascoltati in occasione del
Processo Pacciani. Giungono in aula a rendere testimonianza
nell'ordine:
Claudio Valente, nel 1981 agente della polizia scientifica, chiamato
a testimoniare in merito ai rilevamente da lui effettuati sulla scena
del crimine commesso alle Bartoline. Dichiara di non sapere nulla
delle dichiarazione del maresciallo Salvini relative all'identikit del
presunto MdF.
Silvio Ghiselli, nel 1982 capitano dei carabinieri e comandante
della stazione di Signa, uno dei primi ad arrivare sul luogo del
duplice delitto di Baccaiano.
Giuseppe Storchi, maresciallo dei carabinieri, nel 1983 comandante
della Stazione di Firenze Galluzzo, chiamato a descrivere la scena
del crimine del delitto di Giogoli.
Michele Polito, maresciallo dei carabinieri, nel 1984 comandante
della stazione dei carabinieri di Vicchio, chiamato a testimoniare
sulla scena del crimine di Vicchio.
Emanuele Sticchi, all'epoca comandante della stazione dei
carabinieri di Pontassieve, chiamato a testimoniare sempre sul
duplice omicidio di Vicchio.
Giovanni Autorino, ispettore della Polizia Scientifica, rilascia con la
consueta precisione e puntualità una lunga deposizione sui rilievi
effettuati sulle scene del crimine di Giogoli, Vicchio e Scopeti.

30 Ottobre 1997:
Udienza in cui viene ascoltato un unico testimone, il
maresciallo Angelo Diotiaiuti del nucleo operativo di Firenze,
incaricato dal PM Canessa di svolgere indagini per chiarire i dubbi
aperti dalla testimonianza in data 24 ottobre del maresciallo Dino
Salvini sul famoso identikit di Calenzano. Il maresciallo Diotiaiuti
conferma che agli atti risulta che l'identikit di Calenzano è stato
tracciato sulla base della testimonianza di un'unica coppia (Parisi e
Tozzini) e dunque che il ricordo del Salvini è fallace.

31 Ottobre 1997:
Giornata d'udienza in cui siedono sul banco dei testimoni
rispettivamente:
Piero Becherini, amico di Claudio Stefanacci, il primo ad arrivare
sul luogo del delitto alla Boschetta, dopo che lo stesso era stato
commesso. Becherini dichiara di avere visto talvolta la Panda
celestina di Claudio bazzicare la piazzola della Boschetta, dunque
aveva inteso, durante le ricerche della coppia, controllare quel
luogo. Becherini vi giunse a tarda notte, notò la Panda da cui non
proveniva alcun segno di vita, provò a chiamare ad alta voce la
coppia, ma il luogo era estremamente buio e non ebbe il coraggio di
avvicinarsi, limitandosi dunque ad andare a chiamare i soccorsi.
Giovanni Carminati, nipote di Pietro Pacciani, che lavorò presso il
bar "La Nuova Spiaggia" poco dopo la morte di Pia Rontini.
6 Novembre 1997:
Interessante giornata, interamente dedicata alla deposizione dei
medici legali che hanno eseguito i rilievi sui cadaveri delle vittime
del MdF per il delitti di Calenzano, Giogoli, Baccaiano, Vicchio e
Scopeti.
I dottori chiamati a deporre sono: Mauro Maurri, Giovanni
Marello, Riccardo Cagliesi Cingolani, Maria Grazia
Cucurnia e Antonio Cafaro.
Durante queste deposizioni si parla fra le altre cose della possibilità
che la Rontini possa aver gridato mentre veniva trascinata dal
Pacciani verso il campo di erba medica dove poi venne mutilata
(così come aveva dichiarato il Lotti) e sull'eventuale data del delitto
degli Scopeti.

11 Novembre 1997:
Giornata d'udienza in cui siedono sul banco dei testimoni
rispettivamente:
Giuseppe Fazzina, detenuto e vicino di cella del Pacciani, che in
precedenza aveva dichiarato di aver ricevuto l'incarico dallo stesso
Pacciani di ammazzare e mutilare una coppia con una Beretta
calibro 22 che gli avrebbe fornito lui, al fine di scagionarlo dalle
accuse di essere il MdF. Durante la sua deposizione il Fazzina
ritratta le precedenti dichiarazioni, parvendo seriamente
indispettito dal fatto che i benefici che aveva richiesto in cambio
delle sue rivelazioni non gli erano stati concessi. Anche in questo
caso appare da dibattimento un chiaro esempio di carcerato che
aveva tentato di avere dei vantaggi millantando improbabili
rivelazioni.
Massimo Fanni, ispettore della Squadra Mobile di Firenze,
incaricato dalla Procura di condurre indagini sulla situazione
patrimoniale di Mario Vanni.
Infine, don Fabrizio Poli, parroco presso la chiesa di San Donato a
Chiesanuova, nella cui comunità ospitò Giancarlo Lotti fino ai primi
di febbraio del 1996, quando poi il Lotti divenne un "pentito" e fu
trasferito dalla Procura in località segreta.

13 Novembre 1997:
In questa giornata siedono sul banco dei testimoni:
Il dottor Mauro Maurri, convocato per effettuare una valutazione
di compatibilità su alcuni coltelli che vengono presentati in aula, tra
cui è presente quello sequestrato nella cucina del Vanni.
Giovanni Simpatia, graduato della polizia scientifica, autore
materiale del famoso identikit realizzato dopo il delitto di
Calenzano. Il Simpatia dichiara senza tema di smentita che tale
identikit era stato eseguito esclusivamente sulla base delle
deposizioni della coppia Tozzini e Parisi, mettendo di fatto la
parola fine a qualsiasi speculazione sull'argomento.

27 Novembre 1997:
Udienza che si apre con la richiesta dell'avvocato Filastò di
scarcerazione del Vanni. Segue la prima parte della lunghissima
testimonianza dell'imputato reo confesso Giancarlo Lotti.

28 Novembre 1997:
Seconda giornata di udienza dedicata alla testimonianza
di Giancarlo Lotti.
3 Dicembre 1997:
Terza giornata di udienza dedicata alla testimonianza di Giancarlo
Lotti. Comincia il controesame dell'avvocato Filastò.

5 Dicembre 1997:
Quarta estenuante giornata di udienza dedicata alla testimonianza
di Giancarlo Lotti.

9 Dicembre 1997:
Quinta giornata di udienza dedicata alla testimonianza
di Giancarlo Lotti.

11 Dicembre 1997:
Sesta e ultima giornata dedicata alla deposizione del reo-
confesso Giancarlo Lotti.
Segue quindi deposizione dell'imputato Alberto Corsi, il quale
accetta di rispondere alle domande del PM, delle Parti e del proprio
avvocato difensore.
Infine è la volta del dottor Carlo Nocentini, psicologo e
psicoteraupeta che nel novembre del 1981 era stato incaricato dal
Giudice Istruttore del Tribunale di Prato, dottor Palazzo, di
redigere una perizia psichiatrica sull'autore degli omicidi.
Nocentini commenta la sua perizia, parlando di un soggetto
probabilmente affetto da sindrome paranoide e ponendo l'accento
su un eventuale episodio traumatico avvenuto in età infantile, forse
avente a che fare con la figura materna, che potrebbe aver scatenato
l'odio del cosiddetto Mostro nei confronti delle donne.
12 Dicembre 1997:
Giornata dedicata ai testimoni dell'avvocato Filastò, difensore del
Vanni. Vengono chiamati a deporre:
Luciano Calonaci, abitante di Cerbaia. L'uomo sostiene di aver
visto la sera dell'omicidio di Bacciano, attono alle 21.30,
un'automobile della polizia percorrere molto lentamente la strada
davanti casa sua. Alla guida c'era un individuo sospetto che si
guardava attorno come in cerca di qualcosa. Secondo Calonaci,
quando l'uomo si accorse di essere ben illuminato dalle luci della
festa di paese, cercò di nascondersi o quanto meno di pararsi il
volto.
Come visto in occasione del capitolo dedicato a Baccaiano, in realtà
il controinterrogatorio del PM Paolo Canessa mette in evidenza le
contaddizioni della testimonianza del Calonaic. In special modo,
quando Calonaci, il 10 Settembre 1985 (3 anni dopo l'omicidio di
Baccaiano), andò a denunciare questo fatto, dichiarò di aver visto la
macchina e il poliziotto il giorno prima dell'omicidio e non lo stesso
giorno; la distanza fra casa del Calonaci e luogo del delitto era di
circa 7 km, dunque non proprio vicinissimi; infine Calonaci non era
neanche certissimo che quella da lui vista fosse una macchina della
polizia.
Maria Grazia Vanni, sorella dell'imputato Mario Vanni e mamma
di Alessandra Bartalesi. Una deposizione interessante questa
perché fornisce uno spaccato di vita del Vanni e dell'Alessandra,
pur senza ovviamente essere dirimente in un senso o nell'altro.

16 Dicembre 1997:
Giornata nuovamente dedicata ai testimoni dell'avvocato Filastò,
difensore del Vanni. Vengono chiamati a deporre nell'ordine:
Lorenzo Allegranti, autista dell'ambulanza della Croce Verde che
era intervenuta per soccorrere il Mainardi e la Migliorini, vittime
del MdF a Baccaiano nel 1982. Allegranti parla dell'intervento
effettuato la notte dell'omicidio (sostiene di aver estratto lui il
Mainardi dalla vettura) e delle telefonate anonime ricevute dal
presunto mostro nei giorni, nei mesi e addirittura negli anni
successivi all'omicidio (vedasi capitolo dedicato al delitto
di Baccaiano). La testimonianza dell'Allegranti verrà in parte
smentita dai barellieri della sua ambulanza (i quali affermeranno
che l'Allegranti non aveva avuto accesso all'interno dell'automobile
del Mainardi). Anche per quanto riguarda le telefonate anonime,
son sempre apparse più convincenti le rimostranze della Pubblica
Accusa, piuttosto che le convinzioni dell'Allegranti (e del Filastò).
Carlo Nocentini, psicologo e psicoteraupeta, chiamato a completare
la testimonianza dell'11 dicembre quando per esigenze di tempo era
stato costretto a interromperla.
Giuseppe Zanetti, avvocato già ascoltato in occasione del Processo
Pacciani. Ripete bene o male la stessa deposizione fornita in
occasione del precedente processo: dichiara di aver incontrato
durante i suoi allenamenti in biciletta per alcuni giorni consecutivi e
immediatamente precedenti al delitto degli Scopeti un'atomobile
Ford Fiesta parcheggiata nei pressi della piazzola. L'ultimo giorno,
vicino a questa vettura, c'era un uomo piuttosto distinto che
guardava in direzione della piazzola e che sicuramente non era il
Pacciani.

17 Dicembre 1997:
Giornata quasi interamente dedicata ai testimoni dell'avvocato
Zanobini, dinfensore del Corsi. Vengono chiamati a deporre
nell'ordine:
Dante Fusi, chiamato a testimoniare sul grado di conoscenza fra
Corsi e Vanni e sulle cene estive tenute a San Casciano cui
partecipava parte degli abitanti.
Gino Cirri, amico di famiglia dell'avvocato Corsi e saltuariamente
aiutante nel suo studio. Anche lui chiamato a deporre sul grado di
conoscenza fra l'avvocato Corsi e il Vanni.
Giovacchino Leoncini, amico dell'avvocato Corsi, anche lui
chiamato a deporre sulla conoscenza fra Vanni e Corsi e sulle cene
estive sancascianesi.
Giuseppe Zanetti, chiamato nuovamente a deporre, questa volta
dal PM Canessa che vuole contestargli alcune incongruenze fornite
nella sua testimonianza del giorno prima.

19 Dicembre 1997:
Giornata densa di testimoni. Nell'ordine si presentano a deporre:
Concetta Bartalesi e Graziano Marini, una delle due coppie che per
prima si era fermata a verificare cosa fosse successo all'automobile
del Mainardi in occasione dell'omicidio di Bacciano.
Adriano Poggiarelli e Stefano Calamandrei, l'altra coppia (questa
volta di amici) giunta per prima nella piazzola nel delitto.
Mario Di Lorenzo, proprietario del ristorante presso cui si erano
fermati la Bartalesi e il Marini per chiamare i soccorsi. Al termine
della telefonata il Di Lorenzo si era precipitato lui stesso sul luogo
del delitto.
Silvano Gargalini, Marco Martini e Paolo Ciampi, i ragazzi,
all'epoca minorenni, che prestavano servizio presso la Croce Verde
di Monterspertoli e giunsero sul luogo del delitto a bordo
dell'ambulanza guidata dall'Allegranti.
Tutte queste deposizioni non chiariscono definitivamente la
posizione del corpo del Mainardi. Come ampiamente visto nei
capitoli dedicati al duplice omicidio di Baccaiano, per le due coppie
giunte per prime sul luogo, il Mainardi era davanti. Per i
soccorritori era dietro. Per il Di Lorenzo era nell'incavo fra i due
sedili anteriori con il busto completamente reclinato sul sedile
posteriore.
Giuliano Ulivelli, marito della sorella del Mainardi, portato a
testimoniare dall'avvocato di Parte Civile, Aldo Colao. L'Ulivelli
racconta le vicende concitate vissute la notte del duplice omicidio.
Inoltre parla delle condizione dell'automobile di Paolo, da lui vista
diverso tempo dopo il delitto che presentava vistose colature di
sangue nel pannello dello sportello anteriore sinistro (quello del
conducente), lì dove scorre il finestrino. La testimonianza di Ulivelli
porta indubbiamente ad ipotizzare che Paolo fosse seduto sul sedile
anteriore. Per maggiori dettagli, si veda il capitolo Mostrologia a
Baccaiano.
Don Renzo Polidori, parroco di San casciano, testimone della
difesa. Il prete parla della sua conoscenza del Vanni, da lui definito
persona piuttosto credente ed ottimo cittadno.
Piero Ciappi, medico di famiglia del Vanni, testimone della difesa.
Riferisce sommariamente delle condizioni di salute della moglie del
Vanni.
Francesca Bartalesi, nipote di Mario Vanni e sorella minore
dell'Alessandra, viene ascoltata nuovamente come testimone della
difesa.
Alessandra Bartalesi, nipote di Mario Vanni, anche lei viene
ascoltata nuovamente come testimone della difesa. Sia lei che la
sorella non aggiungono nulla di nuovo al quadro rispetto a quanto
già detto nelle deposizioni del 14 luglio. Tuttavia queste due nuovi
deposizioni si sono rese necessarie per permettere all'avvocato
Filastò (all'epoca dimessosi dal ruolo di difensore del Vanni) di
poterle ascoltare e interrogare.
Anna Bandinelli, cuoca alla festa dell'Unità a Cerbaia nel settembre
del 1985. Viene portata a deporre dall'avvocato Filastò
sull'eventuale avvistamento della coppia francese alla suddetta
festa. In realtà la signora dichiara di non sapere nulla a riguardo,
poiché dalla cucina non era possibile vedere gli avventori.
Marcello Fantoni, omonimo del Fantoni meccanico che aveva
testimoniato al Proceso Pacciani. Costui era stato volontario alla
festa dell'Unità di Cerbaia, addetto a servire ai tavoli. Dichiara di
aver servito la coppia francese uccisa agli Scopeti e di averli
riconosciuti dopo l'omicidio, avendo visto la loro foto sui giornali.
Abbiamo già parlato nel capitolo dedicato agli Scopeti di una
possibile fallacità di questa testimonianza.
Massimiliano Malanchi, volontario alla festa dell'Unictà di
Cerbaia, era l'addetto al bar. Non ha visto i francesi alla festa, non è
in grado di avvalorare o meno la deposizione precedente del
Fantoni.
Angelo Cantini, volontario alla festa dell'Unictà di Cerbaia, addetto
alla cottura della carne alla brace. Afferma di avere pochi ricordi di
quanto avvenuto oltre dieci anni prima, così durante la sua
deposizione viene letto il verbale d'interrogatorio risalente al
settembre 1985. In tale verbale il Cantini affermava di aver visto i
due ragazzi francesi alla festa dell'Unità la sera del venerdì, di
averli riconosciuti dalle foto pubblicate sui giornali dopo il duplice
omicidio e di aver notato che la ragazza delle foto aveva i capelli
più corti rispetto a quella che aveva incontrato, particolare questo
coerente con l'effettivo taglio di capelli che la Mauriot portava in
quel settembre del 1985. Da notare però che in tale verbale è scritto
che l'incontro era avvenuto venerdì 7 settembre, quando invece
venerdì era il 6 settembre. Resta dunque il dubbio se i francesi
fossero stati visti dal Cantini venerdì 6 o sabato 7. Da un punto di
vista puramente nasometrico, come già accennato nel capitolo
dedicato agli Scopeti, per esperienza quotidiana è probabile che sia
più corretto il riferimento al giorno della settimana che non al
numero del mese. Ma di questo ovviamente non v'è certezza.
Giuliano Del Mastio, amico di vecchia data del Vanni, ascoltato
dall'avvocato Filastò, parla sommariamente e brevemente della
figura di Mario Vanni.

22 Dicembre 1997:
L'udienza si apre con la lettura da parte del presidente Federico
Lombardi di una lettera scritta da un detenuto di nome Massimo
Ricci e pervenuta alla Corte di Assise di Firenze. Tale Ricci,
detenuto nello stesso carcere del Vanni, afferma di essere a
conoscenza di "varie cose riguardanti i delititti delle coppiette",
rivelategli proprio dallo stesso Vanni. Il Vanni tuttavia nega di aver
mai conosciuto questo tale Ricci; inoltre emerge chiaramente che il
postino di San Casciano ha pochissimi contatti con gli altri detenuti.
Di seguito le testuali parole del Vanni: "Senta, io sono amico solamente
di Arvaro, di quello che sono in cella, e basta; e qualche volta vo a pigliare
il mangiare, quando un c'è: 'buongiorno' o 'buonasera', secondo... Se gli è
mezzogiorno, buongiorno; se gli è di sera, gli è di sera. Poi un conosco più
nessuno..."
A tutti gli effetti appare la classica lettera di qualcuno che millanata
informazioni in cambio di possibili benefici. Sebbene tutti appaiono
(giustamente) piuttosto scettici sull'attendibilità di questa lettera, il
PM chiede di poter ascoltare tale Ricci. L'avvocato Filastò si
oppone. La Corte respinge la richiesta del PM.

23 Dicembre 1997:
Ultima giornata di udienza prima della pausa natalizia dedicata alle
deposizioni di:
Michele Giuttari, chiamato nuovamente in udienza dall'avvocato
Filastò per rispondere a domande sull'attendibilità del Lotti.
Pietro Frillici, maresciallo dei carabinieri, convocato a deporre
dall'avvocato Filastò sulle indagini condotte sulla lettera spedita
alla dottoressa Della Monica nel settembre del 1985.
Giorgio Torricelli, e Umberto Marini, amici di infanzia del Vanni,
anche loro chiamati a deporre su richiesta dell'avvocato Filastò circa
la loro amicizia con l'imputato.

07 Gennaio 1998:
Al ritorno dalla pausa natalizia, erano attesi a deporre per la Difesa
del Vanni i periti di Modena, ma per disguidi vari costoro non si
sono presentati in aula. L'udienza viene così rimandata al 12
gennaio per mancanza di testimoni.

12 Gennaio 1998:
Giornata dedicata alle deposizione dei Periti di Modena, i
professori Francesco De Fazio, Salvatore Luberto, Giovanni
Beduschi, Ivan Galliani e Giovanni Pierini. L'equipe di Modena
era stata chiamata a testimoniare dalll'avvocato Filastò, difensore
del Vanni. Probabilmente l'idea del Filastò era che tale equipe
avesse difeso il proprio lavoro svolto fra il 1984 e il 1985, nel quale
parlava di un serial killer unico, mosso da evidenti parafilie di tipo
sessuale. In realtà, come nel precedente Processo qiando l'imputato
era Pacciani, anche stavolta l'equipe De Fazio tenta di barcamenarsi
fra le teorie della Pubblica Accusa e il profilo emerso dal proprio
lavoro. In definitiva, non sembra porre un veto assoluto a ciò che
sostiene l'Accusa, pur lasciando intendere comunque di preferire la
pista del serial killer unico.
Completa la giornata di udienza l'interessante deposizione del
professor Francesco Bruno, in questo caso convinto assertore della
teoria del serial killer unico.

13 Gennaio 1998:
Giornata dedicata ai testimoni chiamati dalla difesa del Faggi.
Il primo testimone è Antonio Felli, il quale parla di una gita che
aveva compiuto a Celano in Abruzzo con il Faggi tra la fine di
ottobre e l'inizio di novembre dell'anno 1980 o 1981 e che potrebbe
costituire un alibi per l'imputato. La difesa tende, infatti, a collocare
questo viaggio proprio in prossimità della data del delitto di
Calenzano.
Segue la testimonianza di Ennio Pisi, vicino di casa del Faggi.
L'uomo parla dello stile di vita estremamente abitudinario e
morigerato dell'imputato. Viene descritta difatti una persona
metodica, tranquilla, lontana da ogni eccesso.

16 Gennaio 1998:
L'udienza si apre con le dichiarazioni dell'avvocato Filastò che
informa la corte dello stato di salute notevolmente peggiorato del
Vanni, ricoverato il giorno prima in ospedale per accertamenti.
Viene disposta una perizia su tale stato di salute da parte della
Corte.
Rendono a seguire testimonianza rispettivamente:
Il signor Giuseppe Paride Rizzi, testimone della difesa del Faggi,
colui che aveva venduto all'imputato una Fiat Argento grigio
metalizzata. Secondo il Rizzi, tale automobile era stata acquistata
dal Faggi nel febbraio/marzo 1987, dunque oltre cinque anni dopo
il delitto di Calenzano e quasi due anni dopo il delitto degli Scopeti.
Si ricordi che secondo il Lotti, il Faggi aveva assistito al delitto degli
Scopeti a distanza di sciurezza, a bordo della sua auto, che
verosimilmente era appunto una Fiat Argenta grigio metalizzata.
Il dottor Ruggero Perugini, chiamato a rendere testimonianza dalla
difesa del Vanni. Il Perugini descrive brevemente il percorso che ha
portato all'imputazione del Pacciani, dichiara che le indagini a suo
tempo svolte sugli amici del Pacciani (Vanni, Lotti, Faggi,
Simonetti, Toscano) non avevano portato a nulla. Fra le righe
Perugini ribadisce la sua convinzione di Pacciani serial killer unico.
Infine tocca al dottor Giuseppe Forti, chiamato a presentare un
elaborato sulla situazione lunare in occasione di tutti gli omicidi
commessi dal MdF.

23 Gennaio 1998:
Breve udienza dedicata all'accertamento dello stato di salute di
Mario Vanni. Si profila un serrato dibattito fra i medici e i periti di
parte per verificare lo stato cognitivo dell'imputato. Depongono i
dottori Franco Barontini e Mauro Maurri per l'Accusa e i
dottori Carla Niccheri e Massimo Sottini per la Difesa.
I primi sostengono che il decadimento mentale del Vanni sia di
lieve grado e comunque in linea con una persona della sua eta,
diabetica e vittima di TIA (attacchi ischemici transitori). I periti di
parte sostengono che il decadimento mentale del Vanni sia
accentuato e non gli permetta di essere orientato nel tempo e nello
spazio.

27 Gennaio 1998:
Giornata di udienza molto interessante. Rendono tesimonianza
nell'ordine:
la signora Maria Antonietta Sperduto, che fra le lacrime depone
sulle violenze da lei subite da parte di Pacciani e Vanni, una di
queste a suo dire avvenuta nei pressi della piazzola degli Scopeti
nell'automobile 500 del Pacciani. La Sperduto ricorda durante
questa testimonianza anche le violenze subite da suo marito ad
opera del Pacciani, del carabiniere Filippo Neri Toscano, di sua
cognata Maria Mugnaini (moglie di Bruno Malatesta, fratello di
Renato) e di suo cognato Antonio Andriaccio (marito della sorella
della stessa Sperudto).
Segue la deposizione del nipote del Vanni, il signor Paolo Vanni,
chiamato nuovamente a rispondere ad altre domande sui suoi
colloqui con l'avvocato Corsi e sulla famosa lettera inviata dal
Pacciani al Vanni, quando Pietro era in carcere.
Il signor Renzo Rontini, chiamato nuovamente a deporre sugli
spostamenti di Pia il giorno dell'omicidio, sulle sue abitudini e gli
orari lavorativi e infine sulla eventuale buca ritrovata alla Boschetta,
cui aveva fatto cenno il Lotti: secondo il Rontini tale buca era
coperta da un sasso e conteneva al suo interno paglia e terriccio.
Pare che la prima persona a parlare dell'esistenza di questa buca
fosse stata una medium.
I signori Igino Borsi e Paolo Bonciani, rispettivamente genero del
proprietario e proprietario della pensione Ponte Agli Scopeti, i
quali affermano che la domenica mattina 8 settembre 1985 videro
Nadine Mauriot fare colazione presso il loro bar e dunque attestano
che la domenica mattina la coppia fosse ancora viva (abbiamo già
parlato di tale tesitmonianza in occasione del capitolo dedicato
agli Scopeti).
Infine, il dottor Michele Giuttari, chiamato nuovamente a
rispondere a qualche domanda sia sulla buca cui aveva fatto
precedentemente riferimento il Rontini, sia sulle indaigni condotte
sul carabiniere Filippo Neri Toscano.

28 Gennaio 1998:
Giornata dedicata alle ultime richieste delle parti. Parlano il
PM Paolo Canessa, l'avvocato Gabriele Zanobini e l'avvocato Nino
Filastò. Quest'ultimo sembra intenzionato a voler prendere tempo,
facendo richieste (per esempio una perizia psichiatrica sul Vanni)
che inevitabilmente la Corte sarà portata a respingere. Si può
presupporre che questa strategia avesse come fine permettere alla
Difesa di concludere alcune indagini parallele (come quella
sull'automobile del Lotti) che stava conducendo.

31 Gennaio 1998:
In questa giornata la Corte, per voce del Presidente Federico
Lombardi, risponde alle richieste presentate in data 28 gennaio
dalle parti processuali. Viene inoltre stabilito - su richiesta del PM
senza alcuna opposizione delle Parti - che venga chiamato a
testimoniare il signor Lorenzo Mocarelli per deporre sulla
questione cartucce Winchester trovate in possesso del carabiniere
amico del Pacciani, Filippo Neri Toscano (vedasi capitolo dedicato
a via Faltignano.
Il Processo viene aggiornato alla data del 16 Febbraio 1998 per
permettere alle Parti di preparare le loro rquisitorie finali.

16 Febbraio 1998:
Riprende l'udienza con gli interventi del Presidente Federico
Lombardi, del PM Paolo Canessa e dell'avvocato difensore Nino
Filastò. Continua ad apparire chiaro il tentativo di Filastò di
allungare i tempi del Processo.

17 Febbraio 1998:
Giornata dedicata unicamente alla deposizione del signor Lorenzo
Mocarelli, chiamato a testimoniare sul passaggio di cartucce
Winchester dalle sue mani a quelle del carabiniere Filippo Neri
Toscano.
Il Mocarelli è un ex carabiniere ottantenne con problemi d'udito.
Dichiara di avere grande stima del Toscano e di avergli venduto nel
1985 una Beretta Calibro 22, regolarmente denunciata. Insieme alla
Beretta dichiara di avergli regalato alcune cartucce, non sapendone
però quantificare il numero. Il Mocarelli non ha ricordi precisi sul
lasso di tempo in cui ha frequentato il poligono delle Cascine. Alla
fine la sua testimonianza non risulta di grande utilità.

19 Febbraio 1998:
Comincia in questa data la requisitoria finale del Pubblico
Ministero, Paolo Canessa.

20 Febbraio 1998:
Giornata interamente dedicata alla requisitoria del sempre ottimo
oratore Pubblico Ministero, Paolo Canessa.

23 Febbraio 1998:
Il Pubblico Ministero, Paolo Canessa, termina la sua requisitoria
con le seguenti richieste: ergastolo per Mario Vanni, 21 anni
per Giancarlo Lotti, 1 anno e 6 mesi per Alberto Corsi. Assoluzione
invece per Giovanni Faggi, in quanto secondo la Pubblica Accusa
non sono state trovate prove sufficienti alla condanna.
Al termine l'avvocato Francesco Paolo Guidotti, in sostituzione
dell'avvocato Luca Santoni Franchetti, gravemente malato (morirà
il 24 gennaio 1999), legge le richieste della suddetta parte civile,
riassumibile nella condanna degli imputati secondo le pena previste
dal Codice.

24 Febbraio 1998:
Cominciano le dichiarazioni finali delle Parti Civili. Parlano
nell'ordine l'avvocato Andrea Capanni per Marzia Rontini, sorella
di Pia; l'avvocato Aldo Colao per la mamma di Paolo Mainardi,
l'avvocato Patrizio Pellegrini per i genitori di Pia Rontini, infine
l'avvocato Rossi per Cinzia Cambi, sorella di Susanna.
Le parti civili, nessuna esclusa, chiederanno la condanna di tutti gli
imputati, compreso il Faggi, non allineandosi almeno in questo alla
richiesta del PM.

25 Febbraio 1998:
Giornata ancora interamente dedicata alle Parti Civili. Parlano
nell'ordine, l'avvocato Gian Paolo Curandai per la sorella di Renzo
Rontini, l'avvocato professor Giovanni Paolo Voena per la mamma
del Baldi e l'avvocato Luca Saldarelli per la signora Nencini,
mamma di Susanna Cambi.

26 Febbraio 1998:
Giornata dedicata alla prima arringa difensiva. Il solito impeccabile
avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi, replica alle
richieste del PM.

27 Febbraio 1998:
Tocca all'avvocato Stefano Bertini, difensore del Lotti, tenere la sua
arringa difensiva.

2 Marzo 1998:
Giornata dedicata alle arringhe difensive degli avvocati Sigfrido
Fenyes e Federico Bagattini, a difesa dell'imputato Giovanni Faggi.

3 Marzo 1998:
Comincia la lunga arringa dei difensori di Mario Vanni. Prende la
parola per primo l'avvocato Antonio Mazzeo, il cui fine è mettere
in evidenza tutte le bugie dichiarate dal Lotti e dal Pucci durante le
loro confessioni e testimonianze.

4 Marzo 1998:
Nella giornata odierna, continua l'arringa dell'avvocato Antonio
Mazzeo.

5 Marzo 1998:
L'udienza comincia con una breve dichiarazione del PM Paolo
Canessa, il quale rivela che dopo un'attenta analisi di quanto
sequestrato al Faggi, è stata rivenuta una seconda agenda da cui
emergerebbe che la gita a Celano in Abruzzo con il Felli non
sarebbe avvenuta nel weekend più prossimo alla data dell'omicidio
di Calenzano ma il primo weekend di novembre, smontando così in
parte - a suo dire - l'alibi del Faggi. Il PM lascia intendere di voler
cambiare in fase di replica la propria richiesta di assoluzione per
l'imputato.
Prende la parola l'avvocato Nino Filastò, che in questa prima
giornata di arringa si limita a tracciare un profilo psicologico del
Vanni e a narrarne la difficile vita, soffermandosi in particolar
modo sui rapporti con la moglie e sull'episodio della presunta
caduta dalle scale della stessa.

6 Marzo 1998:
Continua la lunga arringa difensiva dell'avvocato Nino Filastò.

9 Marzo 1998:
Terza giornata d'udienza interamente dedicata all'arringa difensiva
dell'avvocato Nino Filastò.

10 Marzo 1998:
Quarta giornata d'udienza interamente dedicata all'arringa
difensiva dell'avvocato Nino Filastò.

11 Marzo 1998:
Ancora una giornata d'udienza interamente dedicata all'arringa
difensiva dell'avvocato Nino Filastò. In questa occasione l'avvocato
accenna per la prima volta in maniera che passa quasi
completamente inosservata al fatto che Lotti potesse non essere
possessore della 128 rossa nel settembre del 1985.
12 Marzo 1998:
Termina l'arringa definitiva dell'avvocato Nino Filastò.
Successivamente prende la parola il PM Paolo Canessa che replica
alle arringhe dell'avvocato Zanobini (in difesa di Corsi) e
dell'avvocato Bagattini (in difesa di Faggi). In questa occasione il
dottor Canessa modifica ufficialmente le richieste iniziali
per Giovanni Faggi, chiedendo anche per lui la condanna a 21 anni
di carcere.

13 Marzo 1998:
Giornata interamente dedicata alla replica del PM Paolo
Canessa nei confronti dei difensori del Vanni, avvocati Mazzeo e
Filastò.

16 Marzo 1998:
Giornata importante questa a livello processuale. Apre l'udienza la
replica dell'avvocato di Parte Civile, Aldo Colao.
Al termine, prende la parola l'avvocato Nino Filastò, il quale
consegna i documenti relativi all'acquisto di una nuova automobile
del Lotti (la FIAT 124 celeste) nel luglio 1985. Filastò ancora non
parla di voltura dell'assicurazione in questo contesto, ma si limita a
considerare che nel settembre 1985 il Lotti fosse possessore di due
automobili, una che probabilmente non circolava più (la 128 rossa,
poi demolità nell'aprile 1986) e una che aveva appena acquistato.
Chiede dunque l'acquisizione dei nuovi documenti, la riapertura
dell'istruttoria ed eventualmente che vengano ammessi come
testimoni i signori Scherma, datori di lavoro del Lotti nel settembre
1985.
Il PM Paolo Canessa si dice remissivo all'acquisizione dei nuovi
documenti ma altresì convinto che son documenti che non provano
granché. Le Parti Civili (nelle persone degli avvocati Gian Paolo
Curandai e Aldo Colao) invece si oppongono alla riapertura
dell'istruttoria. L'avvocato difensore del Faggi, Federico Bagattini,
è d'accordo con Filastò.
La Corte accoglie la riapertura dell'istruttoria, l'acquisizione dei
documenti e la deposizione di ulteriori testimoni. Vengono dunque
interrotte requisitorie e repliche.

17 Marzo 1998:
L'istruttoria è riaperta. Viene interrogato nuovamente Giancarlo
Lotti, il quale dichiara che per un certo periodo era stato in possesso
di entrambe le macchine, di essere comunque stato a Scopeti la sera
del delitto con la 128 rossa e di avere assicurato la nuova vettura a
partire dal 20 settembre 1985, data in cui scadeva l'assicurazione
alle vecchia automobile. Lotti è in questa occasione particolarmente
reticente, non capisce le domande, dà risposte vaghe e polemiche,
non chiarisce alcun dubbio, tanto che persino il
presidente Lombardi perde la pazienza, accusandolo di mentire.
Effettivamente, si scoprirà in appello, che in questa occasione il
Lotti stava mentendo.
In seguito vengono chiamati a deporre: Franco Bellini, proprietario
dell'officina meccanica presso cui Lotti aveva acquistato la 124
celeste.
Karl Schwarzenberg, vecchio proprietario della 124 celeste.
Gino Coli, collaboratore del Bellini, colui che materialmente si è
occupato della vendita della 124 celeste al Lotti.
Roberto Scherma, datore di lavoro di Giancarlo Lotti alla draga,
colui che gli ha anticipato i soldi per l'acquisto della 124 celeste.
Luigi Scherma, figlio di Roberto.
Nessuno di queste testimonianze è dirimente in un senso o
nell'altra. Nessuno ricorda con precisione la data in cui Lotti è
entrato in possesso della 124 celeste, né precisamente la data in cui
Lotti ha smesso di utilizzare la 128 rossa. Le uniche informazioni
certe in questo momento del dibattimento sono: il documento che
attesta l'acquisto da parte del Lotti della 124 celeste in data 3 luglio
1985; i documenti che attestano che l'assicurazione della 128 rossa
scadeva in data 20 settembre 1985 e che da quel giorno veniva
assicurata la 124 celeste. Nessuno in quel momento parla ancora di
voltura dell'assicurazione da un'automobile all'altra al momento
dell'acquisto da parte del Lotti della nuova automobile. Tanto meno
nessuno in quel momento sa ancora che prima del settembre 1985 il
Lotti aveva già avuto due incidenti con la 124 celeste. Tali
acquisizione verranno fatte solo in seguito e presentate al Processo
d'Appello.

18 Marzo 1998:
Il dibattimento riprende il proprio naturale corso con le repliche
delle Parti Civile, in particolare gli avvocati Giovanni Paolo
Voena e Gian Paolo Curandai.
E poi il turno degli avvocati difensori; parlano nell'ordine,
l'avvocato Federico Bagattini, difensore del Faggi, e
l'avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi.
In serata comincia la sua replica il secondo difensore del Vanni,
l'avvocato Antonio Mazzeo.

19 Marzo 1998:
Termina la sua replica l'avvocato Antonio Mazzeo. A seguire
prende la parola il primo difensore del Vanni, l'avvocato Nino
Filastò, con la cui arringa si chiude definitivamente il Processo di
primo grado ai Compagni di merende.

24 Marzo 1998:
Il giudice Federico Lombardi legge la sentenza che stabilisce
quanto segue:
condanna per Mario Vanni alla pena dell'ergastolo per aver
commesso i cinque ultimi duplici omicidi attribuiti al Mostro di
Firenze (dal secondo 81 in poi);
condanna per Giancarlo Lotti a trent'anni di reclusione per essere
stato complice negli ultimi quattro duplici omicidi attribuiti al
Mostro di Firenze (dal 1982 in poi);
assoluzione per Alberto Corsi perché il fatto non sussiste.
assoluzione per Giovanni Faggi per non aver commesso il fatto.
Appendice D - Il Processo Calamandrei

Di seguito il dettaglio delle udienze del Processo Calamandrei,


svoltosi con rito abbreviato.

27 Novembre 2007:
Introduzione da parte del giudice Silvio De Luca.
Breve intervento dell'avvocato difensore dell'imputato Gabriele
Zanobini, cui segue la relazione introduttiva al Processo del
Pubblico Ministero Paolo Canessa, il quale illustra il percorso che
ha seguito la Procura di Firenze per arrivare all'individuazione
nell'imputato Francesco Calamandrei del mandante dei delitti del
Mostro di Firenze.

28 Novembre 2007:
Giornata interamente dedicata alla conclusione della relazione del
PM Paolo Canessa.

29 Novembre 2007:
Prende la parola l'altro Pubblico Ministero del processo, il
dottor Alessandro Crini, il quale nella sua lunga relazione pone
l'accento sull'attendibilità dei testimoni che hanno portato
all'individuzione del Calamandrei.

21 Gennaio 2008:
Dopo una lunga pausa, prosegue la relazione del dottor Alessandro
Crini. Numerosi i riferimenti da lui fatti alla persona di Francesco
Narducci, considerato dalla Pubblica Accusa uno dei mandanti dei
delitti, nonché a sua volta vittima dei propri complici.

22 Gennaio 2008:
Ultima giornata di udienza dedicata alla relazione del
dottor Alessandro Crini: vengono illustrate e spiegate le accuse
rivolte al marito della signora Mariella Ciulli, moglie
dell'imputato. Secondo il PM, le prime accuse della Ciulli, risalenti
al 1988, avevano una solida base di verità. In seguito la donna
avrebbe visto scemare profondamente la propria capacità di
intendere e di volere, proprio a causa di ciò che aveva scoperto sul
conto del marito.
Al termine, prende la parola il dottor Paolo Canessa per chiedere al
giudice di ammettere nel fascicolo del processo la testimonianza del
dottor Achille Sertoli, dermatologo e amico del Clamandrei, il
quale durante un interrogatorio aveva dichiarato che l'amicizia fra
l'imputato e il mago Indovino risaliva all'incirca alla fine degli
sessanta.
L'avvocato difensore dell'imputato, Gabriele Zanobini, si dice
contrario all'ammissione per questioni di procedura penale e non
manca di far notare come alla fine degli anni '60, il mago Indovino
neanche vivesse in Toscana.
Il giudice De Luca accoglie la richiesta del PM e scioglie la seduta.

5 Febbraio 2008:
Giornata dedicata agli avvocati di parte civile. Apre l'udienza
l'avvocato Vieri Adriani, parte civile per la famiglia Kraveichvili, il
quale si limita a leggere le conclusioni, allineandosi alle richieste di
colpevolezza e di pena formulate dalla Pubblica Accusa. Segue,
sempre per la famiglia Kraveichvili, l'avvocato Fabrizio Corbi, il
cui intervento è lungo e dettagliato e le cui conclusioni sono
chiaramente in lingua a quelle della Pubblica Accusa.
Infine, è la volta dell'avvocato Patrizio Pellegrini, parte civile per la
signora Winnie Kristensen, madre di Pia Rontini. Dopo lunga
disamina degli eventi, l'avvocato chiede la condanna dell'imputato
e il risarcimento danni.

6 Febbraio 2008:
L'unico intervento dell'udienza odierna è quello dell'avvocato Luca
Saldarelli, parte civile per la famiglia Cambi.

4 Marzo 2008:
In questa giornata d'udienza comincia l'arringa difensiva
dell'avvocato Gabriele Zanobini, primo difensore dell'imputato.
Nel corso della mattina l'avvocato pone l'accento su quella che - a
suo parere - è un'intrinseca contradditorietà nel teorema della
Pubblica Accusa. Il suo ragionamento è semplice: l'imputato
Calamandrei è accusato di aver fatto da intermediario fra i
mandanti gaudenti e gli assassini per i delitti che vanno dal 1982 al
1985; il fine dei delitti era procurare i feticci da portare a villa La
Sfacciata per dar vita ad orge e riti esoterici; il punto di riferimento
a villa La Sfacciata erano il Parker e il Reinecke che ivi abitavano nel
1982 e nel 1983; nel 1982 e nel 1983 però non erano stati procurati i
feticci; nel 1984 e nel 1985, né il Reinecke, né il Parker abiatavano
più alla Sfacciata; a cosa dunque avrebbe fatto da intermediario il
Calamandrei?
Durante la sospensione per il pranzo, arriva la ferale notizia che è
stato ritrovato sulle mura medicee di Grosseto il cadavere di un
ragazzo che si sospetta essere il figlio del dottor Calamandrei. La
seduta viene sospesa e rinviata in data 7 marzo 2008.
Si appurerà in seguito che il ragazzo morto è proprio il figlio
minore del dottor Calamandrei, da tempo tossicodipendente. Una
overdose ha messo tragicamente fine alla sua troppo breve e
travagliata esistenza.

7 Marzo 2008:
Riprende il processo dopo la pausa per i funerali del povero Marco,
figlio del dottor Calamandrei.
Riprende la sua arringa difensiva l'avvocato Gabriele Zanobini,
che in questa udienza pone l'attenzione sulla profonda
inattendibilità della signora Mariella Culli, ex moglie e prima
accusatrice dell'imputato. Secondo la Difesa, la Ciulli, cui era stata
diagnosticata una psicosi schizoaffettiva di tipo depressivo, già dai
tempi delle prime accuse al marito (1988) dimostrava i sintomi della
grave malattia.

25 Marzo 2008:
Dopo un paio di settimane di pausa, riprende il processo e riprende
la parola l'avvocato Gabriele Zanobini, difensore dell'imputato, il
quale dedica larga parte dell'udienza all'analisi delle dichiarazioni
della Ghiribelli e delle prostitute che avrebbero accusato il
Calamendrei di aver partecipato ai famosi festini a villa La
Sfacciata, a casa dell'Indovino e in una terza e non meglio
identificata dimora.
Segue un breve intervento del secondo avvocato difensore, Nicola
Zanobini, il quale si sofferma sulla lettera e successive
dichiarazioni del Lotti che chiamavano in causa un non meglio
specificato dottore che pagava i feticci. Appare evidente - secondo
la Difesa - che tali confuse dichiarazioni, ammesso avessero un
fondo di verità, erano riferite non a un dottore generico
(intendendo un qualsiasi laureato), ma a un medico vero e proprio.

26 Marzo 2008:
Continua l'arringa difensiva dell'avvocato Gabriele Zanobini. Il
difensore dedica l'intera giornata a esaminare la dichiarazioni del
Vanni, che - secondo la Procura - chiamerebbero in causa il
Calamandrei come mandante degli omicidi. A parere della Difesa,
invece, emerge chiaramente dalla lettura dei verbali
d'interrogatorio, una situazione cognitiva del Vanni decisamente
compromessa.

28 Marzo 2008:
Ultimo giorno di requisitoria dell'avvocato difensore, Gabriele
Zanobini, interamente dedicata alla figura del dottor Francesco
Narducci, agli eventuali rapporti fra il Narducci e il Calamandrei e
ai riconoscimenti fotografici - parere della Difesa decisamente
dubbi - che avrebbero visto protagonista il ben noto
gastroenterologo perugino. Per il dettaglio di tali riconoscimenti si
rimanda al capitolo Il medico di Perugia.

6 Maggio 2008:
Replica da parte della Pubblica Accusa alla requisitoria difensiva.
Prende la parola per primo il dottor Paolo Canessa, il quale si
sofferma sulle dichiarazioni del Vanni e della Ghiribelli e su come -
a parere dei PM - possano essere considerati pienamente attendibili.
A tal proposito viene visionato in aula il filmato dell'intervista della
Ghiribelli alla dottoressa Roberta Petrelluzzi, conduttrice della
trasmissione "Un giorno in Pretura". Vengono inoltre visionate
alcune riprese, realizzate da operatori di polizia, relative alla villa
"La Sfacciata", alla chiesa sconsacrata ad essa annessa e
all'abitazione del Reinecke.
Segue una più lunga replica da parte del dottor Alessandro Crini, il
quale si sofferma sulla salute mentale della signora Ciulli all'epoca
delle prime accuse al marito (a parere della Pubblica Accusa, i
problemi psichici della donna sarebbero giunti solo
successivamente) e sulla figura del Narducci (i cui riconoscimenti -
sempre a parere dell'Accusa - sarebbero attendibilissimi). Tocca
quindi replicare alle Parti Civili. Prende la parola per primo
l'avvocato Aldo Colao per la famiglia del Mainardi, il quale non
aveva parlato in precedenza per problemi di salute.
Segue infine la replica dell'avvocato Luca Saldarelli.

7 Maggio 2008:
Ultimo giorno di dibattimento.

21 Maggio 2008:
Il giudice Silvio De Luca legge la sentenza di assoluzione nei
confronti dell'imputato Francesco Calamandrei perché il fatto non
sussiste.
A tale sentenza la Pubblica Accusa non intenderà fare ricorso.
AGGIORNAMENTI

► 4 Novembre 2022

Viene pubblicata la relazione finale della Commissione


Parlamentare Antimafia avente titolo:
"La scomparsa e morte presunta di Rossella Corazzin, i fatti accaduti sul
lago Trasimeno nell'ottobre del 1985 e i delitti delle coppie nella provincia
fiorentina tra il 1974 e il 1985".
Tale relazione, approvata all'unanimità nelle sedute del 7 e del 13
settembre 2022 e firmata dall'onorevole Stefania Ascari, sintetizza
in 120 pagine il lavoro svolto dalla nona sezione della Commissione
Parlamentare Antimafia a seguito delle dichiarazioni del
pluriomicida Angelo Izzo, uno degli autori del cosiddetto Massacro
del Circeo. La Commissione si è avvalsa della consulenza dei
magistrati Guido Salvini e Giuliano Mignini (vedasi a tal
proposito il capitolo "Mostrologia minore").
In estrema sintesi, la relazione - comodamente reperibile sul web -
formula alcune ipotesi che, per ovvietà di cose, risultano essere
estremamente affini a quelle precedentemente esposte in più
occasioni dal dottor Mignini. A tal proposito, è bene sottolineare
che di mere ipotesi si tratta, in quanto il predetto lavoro si limita a
fornire spunti di riflessione su argomenti per la maggior parte già
noti agli addetti ai lavori. Di seguito sono elencati i punti salienti:
▪ il delitto di Signa potrebbe essere scollegato da quelli del Mostro e
dunque la Pista Sarda essere stata un clamoroso depistaggio per
portar gli inquirenti lontani dalla verità;
▪ i delitti del Mostro potrebbero avere dunque avuto inizio nel 1974
con un'arma che nulla aveva a che vedere con quella del 1968;
▪ fra i mandanti dei delitti potrebbe esserci stato il dottor Francesco
Narducci insieme ad altri noti esponenti dell'alta borghesia
fiorentina;
▪ potrebbero esserci collegamenti fra Narducci e frange deviate
della Massoneria, fra Narducci e la destra eversiva in Italia e
dunque fra Narducci e Angelo Izzo;
▪ sebbene Izzo sia un personaggio estremamente poco attendibile, le
sue dichiarazioni relative al rapimento e all'omicidio di Rossella
Corazzin, presenterebbero elementi meritevoli di attenzione;
▪ infine la relazione evidenzia la necessità di proseguire nelle
indagini per fare maggiori chiarezza su molti punti ancora ritenuti
oscuri.

► 18 Marzo 2022
Dopo il dottor Perugini e l'avvocato Filastò, un altro pezzo di storia
legata alla vicenda del Mostro di Firenze ci ha lasciati. Nella
giornata odierna è infatti venuto a mancare l'avvocato Pietro
Fioravanti, classe 1935, storico difensore di Pietro Pacciani.
Chi vi scrive ha passato un piovoso pomeriggio di maggio nella
casa dell'avvocato a Firenze, in compagnia sua e del figlio Alessio, a
discutere non tanto delle vicende del Mostro, quanto della vita e
delle vicissitudini del Pacciani. Resta nel sottoscritto il ricordo di
una persona, sebbene in là con gli anni e provata nel fisico,
estremamente lucida, determinata nelle sue convizioni, combattiva
come ai tempi dei processi, ma nel contempo piacevole e dalla
grande cultura.
A quell'incontro sono seguite diverse, piacevoli telefonate, in alcune
delle quali mi ero ripromesso di tornarlo a trovare. Purtroppo il
destino ha deciso diversamente. Alla famiglia vanno le mie più
sentite condoglianze.
► 23 Febbraio 2022
Stando a un articolo del quotidiano "La Nazione" firmato
da Stefano Borgioni, il PM titolare dell'inchiesta sul Mostro di
Firenze, dottor Luca Turco, lo stesso che in tempi recenti ha svolto
indagini su Vigilanti e Caccamo, avrebbe archiviato la posizione
di Joe Bevilacqua, accusato di essere il Mostro di Firenze.
Fra il maggio del 2018 e il maggio del 2021, il giornalista
freelance Francesco Amicone aveva infatti pubblicato una trentina
di articoli in cui accusava il suddetto Bevilacqua di essere
contemporaneamente il serial killer statunitense
denominato "Zodiac" e l'autore dei duplici omicidi attribuiti al MdF
(per maggiori dettagli, vedasi il capitolo Mostrologia Minore).
Le indagini svolte dalla Procura sulla base dell'esposto presentato
dall'Amicone e sulla querela per diffamazione presentata nei
confronti dello stesso Amicone da Joe Bevilacqua, nell'occasione
assistito dall'avvocata Elena Benucci, hanno portato da un lato
all'archiviazione della posizione del Bevilacqua, dall'altro a una
netta stroncatura dell'inchiesta giornalistica condotta dall'Amicone,
che la Procura ha giudicato: "caratterizzata da suggestioni,
supposizioni, asserite intuizioni e non contiene alcun elemento fattuale
suscettibile ad assurgere a dignità di indizio".
Il giornalista adesso rischia di finire a processo con l'accusa di
diffamazione.
Si attendono, ovviamente, ulteriori sviluppi sulla vicenda.

► 29 Dicembre 2021
Dopo una lunga malattia si è spento l'avvocato Nino Filastò,
difensore di Mario Vanni al Processo contro i Compagni di
Merende e, più in generale, studioso sin dai primi anni '80 della
complessa vicenda del Mostro.
Autore di dieci romanzi (di genere giallo) e di due saggi, uno dei
quali è il celebre "Storia delle Merende Infami", pubblicato nel
2005 al termine dei Processi contro i CdM e vera pietra miliare nella
sterminata bibliografia sul Mostro di Firenze.
Con l'avvocato Nino Filastò se ne va oltre che un grande penalista,
anche un uomo colto, ecclettico, piacevole, di rara intelligenza,
nonché uno dei massimi studiosi della vicenda.

►9 Dicembre 2021
È andato in onda in prima serata su Rai2 un documentario dal
titolo "Il Mostro di Firenze - Quel silenzio che non tace: bugie e
verità", realizzato dal giornalista e studioso del caso, Pino Rinaldi.
Hanno partecipato alla realizzazione diverse figure di spicco della
odierna Mostrologia, come i più volte citati Francesco
Cappelletti ed Enrico Manieri.
Da segnalare che si tratta probabilmente del primo documentario
andato in onda su una TV pubblica a mettere pesantemente in
discussione le confessioni del Lotti e del Pucci e di conseguenza le
sentenze che hanno condannato i Compagni di Merende come
coautori di quattro degli otto duplici omicidi storicamente attribuiti
al Mostro.
Sono interevnuti nel corso dello speciale, diverse personalità che
hanno seguito in prima persona il caso, come il magistrato Adolfo
Izzo, il colonnello Nunziato Torrisi, l'avvocato Nino Marazzita.
Particolarmente pesanti nei confronti della Procura di Firenze le
dichiarazioni rese dall'ex Procuratore Piero Tony, esponente
dell'Accusa nel Processo d'Appello a Piero Pacciani.
Alto il gradimento, per una volta, del mondo del web e della
Mostrologia.
► 16 Novembre 2021
Dopo lunga malattia è venuto a mancare il dottor Ruggero
Perugini, il poliziotto che dal 1986 è stato a capo della SAM e che
ha creduto di individuare il Mostro di Firenze nella persona di
Pietro Pacciani.
Perugini, da sempre fedele alla sua teoria di serial killer unico,
identificato appunto nel contadino da Mercatale, viene descritto da
chiunque l'abbia conosciuto (colleghi e avversari) come una persona
per bene, un poliziotto competente e dalla specchiata moralità.
Per quello che può valere, chi vi scrive ha ricavato dall'unico
incontro che ha avuto con il dottor Perugini, esattamente questa
impressione.
Si porgono sentite condoglianze alla famiglia.

► 14 Settembre 2021
Si è creato un certo scompiglio nei vari ambienti mostrologici nel
corso della mattinata di martedì 14 settembre, quando la polizia
scientifica si è recata nella piazzola degli Scopeti, luogo dell'ultimo
duplice omicidio del Mostro di Firenze, per compiere un'accurata
perlustrazione dei luoghi. Pare che le operazioni siano state svolte
con strumenti tecnologici di ultima generazione: un drone ha
sorvolato la piazzola e il bosco circostante, inoltre sono stati studiati
la strada prospiciente, il muro di villa Rufo e le file di cipressi
circostanti. Il fine del sopralluogo pare essere ricostruire, attraverso
il teatro virtuale, la scena del crimine in 3D.
Le ipotesi si sono rincorse per tutta la mattinata e per i giorni
successivi, non pervenendo comunque a una verità univoca: si è
parlato di nuove indagini disposte dalla Procura di Firenze, la quale
tuttavia si è affrettata a smentire di averle richieste; si è sparsa la
voce una ricostruzione di tipo cinematografico per una docu-fiction
della Rai, ma anche questa notizia è apparsa infondata.
Restiamo in attesa di nuovi sviluppi.

► 6 Maggio 2021
Durante una puntata della trasmissione "La Notte del
Mistero" dell'emittente radiofonica "Florence International Radio",
interamente dedicata alla figura di Salvatore Vinci, è arrivata la
telefonata di uno spettatore, qualificatosi come Giovanni. Costui ha
dichiarato con estrema sicumera che nel settembre del 2020
Salvatore era ancora vivo e abitava in una frazione a nord di
Saragozza, in Spagna. Tal Giovanni, che in realtà chiunque abbia
familiarità con la comunità mostrologica non può non aver
riconosciuto per via di alcuni interviste rilasciate sul canale
youtube Insufficienza di Prove, ha dichiarato anche che Salvatore
non si nasconde, che percepisce ancora una regolare pensione
dall'INPS e dunque è facilmente rintracciabile da chiunque, che è
ancora in buona salute e infine che lui stesso ha avuto modo di
parlarci all'incirca tre anni fa.
Sebbene da tale telefonata non sia arrivata alcuna rivelazione
clamorosa (se non la personale convinzione di Giovanni che
Salvatore sia estraneo ai delitti del MdF), la certezza che Salvatore
Vinci fosse ancora vivo appena sei mesi fa, ha smosso comunque la
comunità mostrologica.

► 19 Aprile 2021
Sul canale youtube "Le notti del Mostro", un canale che fra le varie
comunità mostrologiche non riscuote di grandissima fama, è stato
intervistato Luciano Malatesta, figlio di Renato Malatesta e Maria
Antonietta Sperduto. In questa intervista, il Malatesta ha ribadito
quelle che sono le sue convinzioni sulla vicenda del MdF,
chiaramente ispirate alle teorie della controversa signora Carlizzi.
Trattasi fondamentalmente di un confuso miscuglio di idee in cui
trovano posto lo scrittore, il giornalista, il farmacista, il medico, il
magistrato, persino zodiac, tutti coinvolti negli omicidi. In aggiunta,
il Malatesta parla di cancro indotto da medici implicati nel caso ad
alcuni testimoni per evitare che parlassero, di giro di pedofilia
internazionale, di servizi segreti deviati, di un secondo e di un terzo
livello, di massoneria, della rosa rossa e di tutti i più disparati
complottismi di cui si può trovare traccia sul web.
Per maggiori approfondimenti sulle teorie del Malatesta vedasi il
capitolo Mostrologia Minore.

► 31 Marzo 2021
La sera di mercoledì 31 marzo è andata in onda su LA7 una puntata
del progamma Atlantide, condotto da Andrea Purgatori,
completamente dedicata alla vicenda Mostro di Firenze. In studio,
oltre al conduttore, anche l'avvocata e criminologa Chiara Penna e
il celebre scrittore e presentatore Carlo Lucarelli.
La Penna proponeva la tesi del serial killer solitario, in accordo con
i profili redatti dall'equipe De Fazio nel 1985 e dall'FBI nel 1989.
Lucarelli da sempre è fautore invece della pista merendara, ove i
compagni di merende sono intesi come manovali di un secondo
livello, i cosiddetti mandanti in guanti bianchi, forse protetti
addirittura da un terzo livello, posto ancora più in alto.
Fra gli altri interventi, da sottolineare quelli del blogger e
mostrologo Francesco Cappelletti, autore del più importante sito
web dedicato alla vicenda del Mostro di Firenze.
Le reazioni alla puntata da parte della comunità mostrologica sono
state per lo più negative. Questi gli aspetti che hanno suscitato il
maggior malcontento:
▪ sono stati commesse varie imprecisioni nella ricostruzione dei
fatti;
▪ è stato dato un taglio alla trasmissione in cui veniva chiaramente
privilegiata la pista esoterica e/o massonica, il collegamento col
Narducci e con un secondo (o addirittura terzo) livello che
commissionava i delitti ai compagni di merende e copriva le loro
efferate gesta;
▪ non sono state per nulla evidenziate le contraddizioni in seno a
questa pista e soprattutto le contraddizioni nelle confessioni del
Lotti e nella testimonianza del Pucci;
▪ non è stato dato per nulla spazio alla Pista Sarda;
▪ non è stato dato spazio a ipotesi alternative, se non per i brevi
interventi concessi all'avvocata Penna.
Risulta comunque ovvio che, essendo una tramissione in prima
serata su una TV nazionale, dunque dedicata a un pubblico
generalista e poco informato su una vicenda di così vaste
dimensioni, era inevitabile si creasse un diffuso malcontento in una
comunità - quella mostrologica - così informata, attenta e
soprattutto frastagliata.

►1 Marzo 2021
L'avvocato Antonio Mazzeo, legale della sorella di Carmela De
Nuccio, vittima del Mostro nel delitto del giugno 1981, dopo un
primo assenso alla disamina degli atti da parte del Presidente della
Corte d'Assise di Firenze e dopo un'ulteriore e più circostanziata
richiesta di disamina, si è visto revocare l'accesso agli atti da parte
del Sostituto Procuratore Luca Turco.
La motivazione addotta per tale diniego è stata fondamentalmente
che gli atti richiesti "non riguardano il reato in esame, bensì altri fatti di
reato". In altre parole, stando a quanto riporta l'entourage
dell'avvocato Mazzei, la Procura di Firenze pretenderebbe che il
pool difensivo consultasse solo gli atti relativi al duplice omicidio
Foggi-De Nuccio e non tutti quelli connessi alla vicenda del Mostro
di Firenze.
Tale decisione non è impugnabile dal legale.
Da parte degli interessati c'è stato un tentativo di dare un certo
risalto mediatico alla vicenda, intervenendo sia su Radio Radicale
che su Cusano Italia TV, e promuovendo inoltre diverse dirette su
YouTube per informare il pubblico di quella, che per usare le
testuali parole dell'avvocato Mazzei, è una "decisione abnorme".
Tuttavia, al momento, non sembra che l'ambiente mostorlogico sia
particolarmente scosso dalla notizia.

► Febbraio 2021
Come riportato dallo stesso autore nelle opportune sedi, il libro "Al
di là di ogni ragionevole dubbio" (2020) di Paolo Cochi è tornato a
essere disponibile nelle librerie e nelle piattaforme on line.
La querelle giudiziaria fra la Casa Editrice e soggetti terzi, che
avevano portato all'inibizione della vendita, è evidentemente stata
risolta con esito positivo.

► 12 Dicembre 2020
Il libro "Al di là di ogni ragionevole dubbio" (2020) del più volte
citato Paolo Cochi è stato inibito da un giudice con procedimento
cautelare (ex art.700) a seguito della richiesta di una terza parte, le
cui motivazioni non riguardano l'autore, ma problematiche legali
tra casa editrice e i suddetti soggetti terzi. Il libro dunque non
risulta più disponibile nelle librerie, negli store digitali e in nessun
altro canale di distribuzione, non essendo più consentita la sua
distribuzione.
La casa editrice, pur conformandosi a quanto momentaneamente
disposto dal giudice, ha impugnato il provvedimento.
Si attendono eventuali nuovi sviluppi.

► 10 Novembre 2020
Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di
Firenze, Angela Fantechi, ha archiviato l'ultima inchiesta sul
Mostro che vedeva indagati l'ex legionario pratese, Giampiero
Vigilanti (89 anni), e il medico mugellano Francesco Caccamo (88
anni).
Il giudice ha quindi rigettato l'istanza di opposizione
all'archiviazione presentata dall'avvocato Vieri Adriani, legale dei
familiari delle vittime francesi dell'ultimo duplice omicidio
attribuito al Mostro.

► 20 Ottobre 2020
È stata trovata divelta e danneggiata la lapide collocata nella
piazzola degli Scopeti il 4 settembre 2020 in memoria delle ultime
due vittime del Mostro di Firenze. I carabinieri del nucleo operativo
e radiomobile e della stazione di San Casciano in Val di Pesa hanno
eseguito i rilievi tecnici e fatto partire le relative indagini.
Si attendono (molto) eventuali sviluppi.

►8 Ottobre 2020
In una diretta su YouTube, ospite della trasmissione di Angelo
Marotta, il mostrologo Luca Scuffio ha presentato una versione
alternativa alla dinamica del duplice delitto di Giogoli, molto
apprezzata dagli utenti della rete. In questa nuova ricostruzione i
colpi sparati a Giogoli diventano 9 e non più i 7 riportati dalla
Mostrologia ufficiale.

►1 Ottobre 2020
Il giudice per le indagini preliminari Angela Fantechi si è riservato
qualche giorno di tempo prima di decidere sulla richiesta di
archiviazione avanzata dal procuratore aggiunto Luca
Turco riguardo la posizione dell'indagato Giampiero Vigilanti. Il
giudice ha davanti a sé tre possibilità:
1. accogliere la richieste di archiviazione della Procura;
2. disporre gli ulteriori accertamenti richiesti dal legale delle vittime
uccise a Scopeti, l'avvocato Vieri Adriani;
3. ipotesi piuttosto remota, istituire un processo.

► 19 Settembre 2020
Per la prima volta nella storia processuale legata ai delitti del MdF,
la famiglia di Carmela De Nuccio, vittima femminile del duplice
delitto del 6 giugno 1981 a Mosciano di Scandicci, si è costituita
parte offesa. La sorella di Carmela, Rosanna De Nuccio ha infatti
dato mandato all'avvocato Antonio Mazzeo, già avvocato
dell'imputato Mario Vanni al processo ai CdM, di essere
rappresentata legalmente nei procedimenti sul Mostro. Pare che
l'avvocato Mazzei si avvarrà della consulenza di Paolo Cochi.
Chiara a questo punto la presa di posizione della famiglia De
Nuccio, che dimostra con questa scelta di parte, di non credere alle
sentenze emerse dai processi contro Pietro Pacciani e contro i
Compagni di Merende.
►4 Settembre 2020
Nella piazzola degli Scopeti è stata collocata una lapide
commemorativa in onore delle due vittime francesi, Nadine
Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili. La raccolta fondi per
l'installazione della lapide, recante l'iscrizione "A Nadine et Jean
Micxhel qui n'existent plus a la justice qui n'a jamais ete rendue", è stata
promossa dall'amministratore del gruppo Facebook "Il Mostro di
Firenze", Francesco Cappelletti, meglio conosciuto sul web
come Flanz Vinci.
La cifra richiesta era stata raggiunta nel giro di pochissimi giorni.

►5 Luglio 2020
Sono emerse novità a seguito della consulenza grafologica richiesta
dal mostrologo Francesco Cappelletti sulla comparazione fra una
ricevuta fiscale veromisilmente scritta da Salvatore Vinci e la
lettera "In me la notte non finisce mai", scritta da un anonimo nel
settembre 1985 e inviata al quotidiano fiorentino "La Nazione"
(vedasi capitoli Accadimenti finali e Le morti collaterali).
La consulenza fornita dalla grafologa Sara Codella, secondo cui le
due grafie possono essere verosimilmente ricondotte a una stessa
persona, ha riacceso speranze e polemiche all'interno dell'universo
mostrologico. Non sembra comunque che possa portare almeno
nell'immediato a clamorose novità e ognuno rimane fermamente
arroccato sulle proprie posizioni.

► 19 Giugno 2020
L'ultima intervista rilasciata da Natalino Mele al
documentarista Paolo Cochi nel giugno del 2020 ha riacceso il
dibattito sulle metodologie di interrogatorio usate dagli inquirenti
nei confronti dei due Mele (padre e figlio), andando ulteriormente a
minare la già di per sé scarsa attendibilità delle dichiarazioni dei
suddetti.
Un'antica domanda che da sempre affligge la Mostrologia è tornata
a galla: le loro erano le confuse e spontanee dichiarazioni di menti
semplici o erano imposte (estorte?) durante gli interrogatori dagli
stessi inquirenti?

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3 commenti:
1.
Anonimo8 agosto 2022 alle ore 02:59

Bisognerebbe aggiungere che poco fa, la GI Romeo, nonostante


il parere contrario del PM Turco, ha pemersso accesso alle
carte delle indagini agli avvocati di alcuni famigliari di alcune
vittime, tra cui l'Avv. Mazzeo. Credo che Cochi ne abbia
parlato in varie trasmisssioni e dirette youtube.
Rispondi
RINGRAZIAMENTI

Sono doverosi, oltre che sinceri, i ringraziamenti a quanti hanno


contribuito alla realizzazione di questo scritto. In primis l'autore
dell'immagine di copertina, Luca Paletta.
Dopo di che è doveroso ringraziare i seguenti blog:

► Insufficienza di Prove, di Flanz Vinci, meta imprescindibile per


chiunque voglia avvicinarsi alle annose vicende relative al Mostro
di Firenze;

► Calibro 22, di Master, anche questo, luogo di non secondaria


importanza per approfondire la storia del serial killer delle
coppiette toscane;

► Storia del Mostro Di Firenze, di Omar Quatar, eccellente fonte


di documentazione soprattutto per quanto riguarda il delitto del
1968 e le vicende giudiziare del Lotti;

► Quattro Cose sul Mostro Di Firenze, di Antonio Segnini,


sicuramente da leggere per le eccellenti ricostruzioni delle
dinamiche dei delitti, per l'accuratezza nella ricerca delle fonti e
della documentazione;

► Appunti sul Mostro, di Martin Rush, un approfondimento


necessario e un punto di vista diverso sulle vicende in questione;
più che buona inoltre la penna del blogger;

► Il Mostro Di Firenze, di Henry62, esperto balistico e consulente


tecnico di parte per la difesa nel processo d'Appello contro Pietro
Pacciani.
Si ringraziano inoltre:

► Il vecchio e ormai defunto "FORUM DI ALE", con un


ringraziamento particolare ad Ale stesso, che mi ha consentito nel
corso degli anni, nonostante fossi un puro "lurker", l'accesso anche
alla parte privata del forum;

► Il forum dedicato ai Mostri Di Firenze, anche questo frequentato


da puro "lurker".

A seguire i dovuti ringraziamenti ai gruppi Facebook:

► Il Salto del Capretto, di Paolo Cochi e Martin Rush;

► Il Mostro di Firenze, di Flanz Vinci.

Infine, si ringraziano:

► il canale youtube mostrodifirenze;

► il canale youtube Insufficienza di prove;

► le trasmissioni radiofoniche di Florence International Radio e


tutti i mostrologi che di puntata in puntata vi partecipano;

► soprattutto quella che è la fonte primaria e più importante fra


tutte: Radio Radicale, magnifico e indispensabile archivio per
seguire le udienze.
BIBLIOGRAFIA

Di seguito viene riportato in rigoroso ordine cronologico un breve


elenco dei principali libri che si occupano della complessa vicenda
del Mostro di Firenze.
Considerando che in materia sono stati vergati e molto spesso
sprecati fiumi d'inchiostro, vengono riportati solo i libri letti dal
sottoscritto e che, a giudizio personale, sono meritevoli di essere
citati.
Al di là dell'estrema poca originalità dei titoli e di una prosa in
taluni casi incerta (doverose eccezioni lo Spezi e il Filastò,
soprattutto quest'ultimo dotato di una penna degnissima), molte di
queste opere meritano un'attenta lettura da parte di chi fosse
interessato ad approfondire il caso.

Chiunque ritenga opportuno segnalare qualche (deplorevole)


mancanza può effettuare una segnalazione utilzzando la sezione
dei commenti o contattando direttamente l'autore di questi scritti
nel link apposito in Home Page.

► Il Mostro di Firenze - 1983 - Mario Spezi;

► Coniglio il martedì - 1993 - Aurelio Mattei;

► Un uomo abbastanza normale - 1994 - Ruggero Perugini;

► La leggenda del Vampa - 1995 - Giuseppe Alessandri;

► Il caso Pacciani: storia di una colonna infame? - 1996 -


Francesco Ferri;
► Compagni di sangue - 1999 - Carlo Lucarelli, Michele Giuttari;

► Dolci colline di sangue - 2006 - Mario Spezi, Douglas Preston;

► Il Mostro. Anatomia di un'indagine - 2007 - Michele Giuttari;

► Storia delle merende infami - 2012 - Nino Filastò;

► Delitto degli Scopeti. Giustizia mancata - 2012 - Vieri Adriani,


Francesco Cappelletti, Salvatore Maugeri;

► 48 small. Il dottore di Perugia e il Mostro di Firenze - 2012 -


Alvaro Fiorucci;

► Storia del Mostro di Firenze - Vol. 1 L'esordio - 2013 - Frank


Powerful;

► Il Mostro di Firenze esiste ancora - 2016 - Valerio Scrivo;

► La leggenda del Vampa - Edizione rivista del 2016 - Giuseppe


Alessandri;

► Al di là di ogni ragionevole dubbio - 2016 - Paolo Cochi,


Francesco Cappelletti, Michele Bruno;

► Il Mostro di Firenze. Ultimo atto - 2018 - Alessandro Cecioni,


Gianluca Monastra;

► Winchester calibro 22 serie H - 2019 - Davide Cannella;


► Il Mostro di Firenze. Enigma senza fine - 2020 - Giuseppe Di
Bernardo, Vittorio Santi;

► Al di là di ogni ragionevole dubbio - Edizione rivista del 2020 -


Paolo Cochi.

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