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La prima parte di questo scritto copre gli eventi dal 1968 (data
dell'ipotetico primo delitto attribuito al MdF) al 1989, anno in cui si
chiuse l'indagine sui cosiddetti "sardi" e si aprì un nuovo filone
d'inchiesta, quello a carico di un contadino di Mercatale, di nome Pietro
Pacciani.
Questi sono fondamentalmente gli anni del sangue, degli omicidi,
della Beretta Calibro 22, dell'arma bianca e delle orribili escissioni. Gli
anni del terrore e dei sospetti, prima ancora di quelli della vendetta e della
spasmodica ricerca di giustizia.
Castelletti di Signa
Dopo il delitto
Alle 2.00 precise del mattino, squillò il citofono dell'abitazione della
famiglia De Felice, sita a poco più di 2 km dal luogo del delitto, in
Campi Bisenzio, frazione Sant'Angelo a Lecore, via del Vingone
154.
Quando il padrone di casa si affacciò alla finestra per vedere chi
avesse suonato si ritrovò davanti il piccolo Natalino Mele, senza
scarpe, con ai piedi esclusivamente un paio di calzini, che disse
esattamente le seguenti parole: "Aprimi la porta che ho sonno e il babbo
è a letto malato. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mamma e lo zio
che sono morti in macchina."
L'impressione che si ebbe all'epoca e che ancora oggi si potrebbe
avere è di frasi imparate a memoria e ripetute meccanicamente. Il
bambino inoltre raccontò al De Felice di aver fatto tutta la strada da
solo: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo
tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a
cantare "La tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il
babbo è a casa malato."
All'inizio nessuno credette che Natalino potesse aver compiuto il
tragitto dal luogo del delitto fino all'abitazione del De Felice da solo
in piena notte e scalzo, tanto più che il percorso era lungo e
piuttosto accidentato. Vennero allertati i carabinieri e verso le tre
del mattino venne trovata grazie alle indicazioni piuttosto precise
del bambino l'automobile con le due vittime all'interno.
Non essendo intenzione di questi scritti descrivere o analizzare
minuziosamente le dinamiche dei delitti, a meno che non siano
necessarie ai fini della narrazione strettamente mostrologica, non
sarà abitudine di quest'opera dilungarsi troppo su eventuali
traiettorie dei colpi, fori di ingresso/uscita e amenità simili. Ai
nostri fini è sufficiente affermare che la vettura venne ritrovata con
lo sportello posteriore destro socchiuso, il finestrino anteriore
sinistro leggermente abbassato, quello posteriore sinistro abbassato
per metà. Infine aveva l'indicatore di direzione destro acceso.
All'interno la Locci sedeva sul sedile di guida in una posizione
quasi naturale, sicuramente diversa da quella che aveva nel
momento in cui era iniziata l'azione omicidiaria: la donna era infatti
stata attinta alla schiena dai colpi d'arma da fuoco. La catenina che
portava era spezzata, come se le fosse stata strappata con violenza,
il che risultava compatibile con una sottile abrasione sul collo. Lo
schienale del suo sedile era alzato. Barbara sembrava inoltre essere
stata ricomposta nell'abbigliamento, presumibilmente dallo stesso
autore dell'omicidio o da un suo complice; si è scelto di sottolineare
il predicato verbale, perché - sebbene sia accertato che il suo
cadavere fosse stato manipolato dopo l'omicidio - evidenze
documentali sul fatto che fosse stata rivestita o che le fossero state
sollevate le mutandine non sono state riscontrate; la locuzione
infatti che solitamente si riporta è "verosimilmente ricomposta".
Il Lo Bianco era sdraiato sul sedile passeggero, lo schienale
reclinato, con i pantaloni slacciati, le mani giunte in grembo come
nell'atto di ricomporsi e il piede sinistro scalzo. La scarpa dell'uomo
era sul tappetino anteriore, poggiato allo sportello dell'automobile,
tant'è che quando i carabinieri lo aprirono, la calzatura cadde
all'esterno. Fra il sedile e il montante dello sportello lato passeggero
venne rinvenuto un borsello da donna con all'interno circa 25.000
lire; il borsello sembrava essere stato trafugato ma non risultò
mancare nulla. Tra il sedile anteriore e quello posteriore vennero
infine rinvenute le scarpe di Natalino.
Partirono immediatamente le indagini.
Il primo sospettato fu ovviamente il marito della Locci. Quando, fra
le sei e le sette del mattino, i carabinieri giunsero a casa di Stefano
Mele, costui era vestito di tutto punto e aveva le mani sporche di
grasso. Inoltre non parve granché interessato alle sorti della moglie
e del figlio che pure - a suo dire - aveva atteso tutta la notte. Il
brigadiere Gerardo Matassino del Nucleo Investigativo dichiarò
infatti che Stefano Mele si informò di che fine avessero fatto "con
tale fare che lascia chiaramente intendere che ne conosce già la sorte."
Di fronte alle domande delle forze dell'ordine, il Mele dichiarò,
riferendosi al giorno prima: "Ero a letto malato". Curiosamente la
stessa locuzione pronunciata da Natalino. Il primo sospetto dei
carabinieri fu ovviamente che Stefano Mele avesse commesso il
delitto, avesse accompagnato il figlio a casa dei De Felice e durante
il tragitto lo avesse istruito su cosa dire.
Le indagini portarono però a scoprire che la Locci aveva numerosi
amanti e il marito tollerava tranquillamente la situazione. Sembrò
dunque strano che costui avesse commesso un omicidio per gelosia
o vendetta. Inoltre il Mele, personaggio estremamente limitato da
un punto di vista intellettivo, era sprovvisto di patente e di
un'automobile (possedeva esclusivamente una biciletta), quindi
difficilmente (anche se non aprioristicamente impossibile) avrebbe
potuto raggiungere il luogo del delitto da casa sua senza un
adeguato mezzo di locomozione. La distanza fra casa del Mele e il
cinema Giardino Michelacci a Signa è quantificabile in circa due
chilometri e mezzo. Grosso modo simile è la distanza fra il cinema e
il luogo dell'omicidio. In totale fu valutata quindi una distanza di
una decina di chilometri fra andata e ritorno per commettere
l'omicidio.
Dal momento in cui, quella stessa mattina, il Mele venne portato in
caserma e interrogato, diede il via a una lunghissima sequela di
dichiarazioni in cui a turno accusò alcuni amanti della moglie,
cambiando di volta in volta e continuamente versione fino a essere
giudicato completamente inattendibile.
Particolarità a Signa
● I proiettili usati per il delitto furono Winchester a palla ramata.
Sul fondello dei bossoli era impressa quella che diventerà la
famigerata lettera H.
● Nel redigere il rapporto sul delitto, il già citato
brigadiere Gerardo Matassino, pur descrivendo correttamente
bossoli e proiettili, sbagliò clamorosamente la marca, riportando
testualmente che erano "prodotti dalla Ditta Giulio Fiocchi di Lecce".
Questo errore ha fatto nascere col tempo le più disparate teorie
complottistiche, come avremo modo di vedere in seguito. A fare
chiarezza sul punto, ci penserà qualche settimana dopo il
colonnello Innocenzo Zuntini che, nell'omonima e celebre perizia,
parlerà chiaramente di proiettili Winchester.
Nota a margine: Alcuni anni dopo, nel 1974, il brigadiere Matassino
divenne comandante della stazione dei carabinieri di Casal di
Principe (CE), finendo a libro paga di Francesco Schiavone, detto
Sandokan, temuto capo del clan camorristico dei casalesi. Nel 1982,
durante un conflitto a fuoco fra carabinieri e camorristi, perse la vita
Mario Schiavone, giovane nipote del boss Francesco. Lo stesso
Sandokan obbligò Matassino (pare anche schiaffeggiandolo in
pubblica piazza) a rivelargli il nome del carabiniere che aveva
sparato sul nipote. Matassino indicò il ventenne Salvatore
Nuvoletta, il quale qualche giorno dopo venne freddato da un
commando armato. Come verrà accertato in seguito, in realtà
Nuvoletta non solo non aveva sparato al nipote del boss, ma non
aveva neanche partecipato al conflitto a fuoco. Matassino aveva
infidamente fatto il suo nome semplicemente perché credeva che
Nuvoletta nutrisse sospetti nei suoi confronti, avesse cioè inutito
che lui era "stipendiato" dai casalesi.
Per maggiori dettagli su questa triste storia, riportata per puro
dovere cronachistico, si puó fare riferimento al seguente articolo di
"Repubblica".
● Ritornando al duplice omicidio di Signa, la borsa della Locci era
stata presumibilmente manomessa dall'autore del duplice omicidio
e questo particolare rappresenta un'importante analogia con alcuni
dei delitti successivi attribuiti al MdF o comunque connessi dalla
stessa pistola.
● Come emerge dal confronto fra il PM Paolo Canessa e il
colonello Olinto Dell'Amico durante un'udienza del Processo
Pacciani (22 aprile 1994), in questo delitto l'assassino aprì lo
sportello anteriore sinistro dell'automobile prima di esplodere
alcuni colpi. In pratica sparò sulle vittime senza che ci fosse la
barriera dello sportello o del finestrino. È l'unico delitto fra quelli
storicamente attribuiti al MdF in cui si registra una dinamica di
questo tipo. In tutti gli altri il killer non aprirà mai lo sportello della
macchina della coppia prima di aver svuotato l'intero caricatore.
● Come già detto, la sera dell'omicidio, Locci e Lo Bianco erano stati
al cinema. La cassiera del cinema sembrò sostenere che un uomo
seguisse la coppia sia all'ingresso che all'uscita del cinema. Non si
sa bene quanto sia attendibile questa testimonianza, considerando
anche che la certa presenza di Natalino era stata messa in dubbio
dalla cassiera stessa e dal gestore del cinema. A questo proposito
però si deve considerare che il film proiettato quella sera era vietato
ai minori e quindi può esser normale una certa ritrosia da parte di
tali persone a confermare la presenza del bambino.
● Importante Durante il processo al Mele emerse che qualcuno in
motorino nei giorni precedenti all'omicidio avesse seguito la Locci e
avesse provato qualche approccio con lei, fino a diventare molesto.
Pare anche che prima del delitto la Locci avesse detto più volte di
temere di essere sparata. Questo particolare lo riportò in
dibattimento un testimone di nome Giuseppe Barranca, fratello
della moglie di Antonio Lo Bianco. Barranca affermò che nei giorni
precedenti all'omicidio aveva provato a convincere la Locci ad
appartarsi in macchina con lui, ma la donna aveva rifiutato
dicendo: "Potrebbero spararci mentre siamo in macchina". Al che
l'uomo non aveva insistito e aveva riaccompagnato la donna a casa.
Tutto questo, sempre stando alla testimonianza del Barranca,
avveniva mentre la coppia era nei pressi del luogo in cui in seguito
si sarebbe verificato il duplice omicidio.
Anche Francesco Vinci confermò in sede processuale che Barbara
Locci era seguita e minacciata da qualcuno in motorino e riferì
alcuni episodi in cui lui stesso aveva assistito alle molestie da parte
di questo imprecisato personaggio nei confronti di Barbara.
Molti mostrologi, in special modo Sardisti (seguaci della pista
sarda, vedasi l'Universo Mostrologico), ritengono tuttavia che tali
dichiarazioni di Francesco Vinci fossero mendaci e che in realtà
fosse lui a seguire e minacciare la Locci, di cui - a detta di tutti - era
morbosamente geloso. Francesco, dunque, non aveva fatto altro che
cogliere l'occasione offerta dalle dichiarazioni del Barranca per far
ricadere i sospetti su un misterioso e mai identificato molestatore di
Barbara.
Altre frange mostrologiche vedono invece nelle dichiarazioni del
Barranca (e di conseguenza del Vinci) un capo d'accusa nei
confronti di una qualsiasi altra persona, esterna al clan dei sardi e
forse mai rientrata nelle indagini, ossessionata per un qualunque
motivo dalla Locci; un'ossessione che poteva derivare dal desiderio
verso questa donna così disinibita, ma anche dalla repulsione che
costei gli procurava e dalla voglia dunque di punirla per la sua vita
dissoluta.
Vedremo inoltre come esista un certo numero di mostrologi,
cosiddetti Lottiani (anche qui vedasi l'Universo Mostrologico), che
credono che il futuro reo-confesso Giancarlo Lotti fosse l'unico
autore della catena di omicidi storicamente attribuiti al MdF.
Questa teoria che potremmo chiamare per comodità Teoria
Segnini dal nome del blogger che più degli altri l'ha fatta propria,
vede proprio il Lotti, nel 1968 sprovvisto di patente, girare in
motorino, pedinare e minacciare la Locci.
A sostegno di questa tesi c'è il fatto che la Locci per un certo
periodo aveva abitato alla Romola, frazione di San Casciano, paese
in cui vivevano i futuri compagni di merende. Qui il Lotti potrebbe
averla conosciuta o semplicemente aver sentito parlare di lei,
considerando che a causa della sua frenetica attività sessuale, la
Locci era molto chiacchierata. Invaghitosi di quella donna di facili
costumi, il Lotti avrebbe iniziato a seguirla anche dopo il suo
trasferimento a Lastra a Signa.
Contro questa ipotesi c'è la distanza fra Lastra a Signa e San
Casciano: circa 20 km da percorrere in motorino per seguire una
donna. Una distanza non impossibile ma sicuramente importante,
specie se consumata per diversi giorni di seguito. È anche vero che
in quegli anni, in motorino si percorrevano distanze considerevoli,
essendo molto meno diffuso l'utilizzo dell'automobile.
È opportuno a ogni modo sottolineare che non c'è alcuna prova che
la vicenda dell'uomo che pedinava la Locci in motorino fosse
davvero connessa al suo assassinio. L'unica cosa che si può
affermare è che nei giorni precedenti all'omicidio, Barbara Locci
(curiosamente come altre vittime femminili del futuro mostro di
Firenze) aveva dichiarato di temere o comunque di essere
infastidita da qualcuno.
● Abbiamo già fatto notare come per una curiosa coincidenza (o
forse no!) la Locci avesse abitato anni prima alla Romola, frazione
di San Casciano, dunque vicinissima a due di quelli che in seguito
sarebbero diventati i compagni di merende: Giancarlo
Lotti e Mario Vanni; mentre il futuro indagato Pietro
Pacciani all'epoca abitava ancora nel Mugello.
● A proposito di Pacciani, durante il processo a suo carico è emerso
come nel 1968 la sua ex fidanzata, Miranda Bugli, abitasse proprio
a Lastra a Signa, non troppo lontano dall'abitazione della famiglia
Mele e estremamente vicina a quella del Lo Bianco. Come vedremo
nel capitolo dedicato al Processo, questo ha portato la Procura di
Firenze a ipotizzare che Pacciani, ossessionato dalla sua ex
fidanzata, ne seguisse gli spostamenti, lasciandosi di volta in volta
alle spalle una scia di sangue.
Esiste, a questo proposito, un ristretto gruppo di Mostrologi,
cosiddetti Merendari, che ritengono che i futuri compagni di
merende, Pacciani e Vanni, si conoscessero e frequentassero Lastra
a Signa già nel 1968. Questa idea nasce dalle dichiarazioni rilasciate
dal testimone Lorenzo Nesi, amico di Pacciani e soprattutto del
Vanni. A oggi, tuttavia, non esistono riscontri documentali che
avvallino tali dichiarazioni, al contrario dalle ricerche effettuate non
risulta né una conoscenza fra Pacciani e Vanni all'epoca del delitto
di Signa, né una particolare frequentazione di quei luoghi da parte
del Pacciani.
● C'è un nutrito gruppo di mostrologi che ritiene che la Locci non
fosse una semplice donna di facili costumi che frequentava per
piacere personale svariati uomini, ma fosse una prostituta, seppur
di basso livello, che per necessità frequentava uomini in cambio di
denaro. A confermare questa teoria c'è da un lato l'eccessivo
numero di presunti amanti della Locci, dall'altro c'è un dialogo
avvenuto fra Antonio Lo Bianco e sua moglie Rosalia Barranca il
giorno prima del duplice omicidio e riportato proprio dalla donna
in sede di Processo a Stefano Mele. Secondo le dichiarazioni della
Barranca, suo marito le avrebbe chiesto se non le avesse fatto
piacere cambiare tenore di vita e avere molti più soldi a
disposizione. Al che la donna gli avrebbe risposto contrariata se per
caso si fosse messo in testa di fare il "magnaccia" e dunque di
togliersi dalla mente idee così pericolose. Il colloquio fra i due si era
chiuso con un nulla di fatto e il giorno dopo si era compiuto il
duplice omicidio.
● Una questione estremamente dibattuta riguarda come arrivò
Natalino Mele a casa dei De Felice, se da solo o accompagnato da
qualcuno. La distanza fra la casa e il luogo del delitto è di poco
superiore ai 2 km. In più era notte, il percorso accidentato e il
bambino era scalzo. Per questo gli inquirenti inizialmente non
reputarono possibile che il bambino avesse potuto compiere quel
tragitto da solo.
Sullo stato dei calzini di Natalino c'è stato per lungo tempo molta
incertezza. Da più parte si è sentito dire che i calzini fossero tutto
sommati puliti. Lo dichiarò esplicitamente anche l'avvocato Rosario
Bevacqua durante un'udienza del Processo Pacciani e c'è una
celebre foto a testimoniarlo; una foto che però non è ben chiaro
quando sia stata scattata. Questo ha portato molti mostrologi a
credere che il piccolo Natalino fosse stato portato in braccio da
qualcuno.
D'altro canto, l'avvocato Nino Filastò ha sempre sostenuto,
basandosi sui verbali dell'epoca, che i calzini del bambino fossero
sporchi e strappati e che dunque Natalino arrivò a piedi e da solo a
casa del De Felice. I verbali cui Filastò fa riferimento sono quelli
relativi alle dichiarazioni del carabiniere Mario Giacomini (il primo
tutore dell'ordine ad arrivare a casa dei De Felice) e dei
coniugi Marcello Manetti e Maria Sorrentino che abitavano sopra
la casa dei De Felice. In tali verbali si parla chiaramente di calzini
impolverati e strappati e se da un lato tale documentazione mette la
parola fine a qualsiasi disquisizione sullo stato dei calzini, dall'altro
non implica necessariamente che il piccolo Natale avesse compiuto
quel percorso solo e a piedi. Anche perché risulta con certezza che il
bambino non ebbe alcun bisogno quella sera di cure mediche
specifiche per graffi, tagli o problemi ai piedi.
Al Processo Pacciani di tanti anni dopo (1994) un trentatreenne
Natalino dichiarò di non ricordare assolutamente nulla di quella
fantomatica notte, di essersi svegliato all'ultimo sparo e di non aver
visto nessuno se non la mamma e il Lo Bianco morti. Alla domanda
dell'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti se avesse visto
il padre sul luogo del delitto quella notte, Natalino rispose di no,
ma ci fu un lungo e significativo momento di silenzio prima della
risposta.
In realtà Natalino, così come suo padre, ha cambiato talmente tante
versioni da risultare ancora oggi completamente inattendibile.
● La casa dei De Felice era praticamente confinante a quella di
tale Salvatore Vargiu. Questo particolare ha fatto nascere diverse
ipotesi probabilmente errate in seno ai cosiddetti Sardisti, che
spesso hanno confuso il nome di tale Salvatore Vargiu con quello di
Silvano Vargiu, servo pastore e in seguito si scoprirà amante di
Salvatore Vinci.
Confondendo i due personaggi o confidando in una loro prossima
parentela (che ammesso ci fosse, non era poi così prossima) alcuni
di questi mostrologi hanno a lungo ritenuto che la casa del De
Felice non fosse stata una destinazione casuale dove portare
Natalino ma accuratamente scelta da chi aveva organizzato ed
eseguito il delitto per poi poter controllare da vicino il bambino
(tramite lo stesso Salvatore Vargiu).
A oggi, appurata la mancanza di un legame (più o meno stretto) fra
i due Vargiu, questa ipotesi e vieppiù abbandonata.
● Da notare, come già detto, che Stefano Mele non fu in grado di
portare da solo i carabinieri sul luogo dell'omicidio. Al primo
tentativo sbagliò strada. Al secondo imboccò la strada corretta.
Arrivati in loco, gli fu data in mano una pistola ma stando alle
parole del colonello Dell'Amico: "Lì per lì mi diede l'impressione che
non sapesse neanche da che parte si impugnasse."
Più in generale la ricostruzione del Mele, pistola in pugno, presenta
alcune lacune, ma anche degli aspetti che potrebbero mostrarne
l'autenticità. Vediamo dunque quali sono i particolari che
indicherebbero la presenza del Mele sul luogo del delitto,
considerando però che saranno analizzati maggiormente nel
dettaglio in un successivo capitolo:
▪ il particolare della freccia accesa; il Mele dichiarò di averla
azionata per sbaglio mentre armeggiava con i cadaveri;
▪ il fatto che l'omicida avesse armeggiato coi cadaveri, quantomeno
con quello della Locci a cui potrebbero essere stati rimessi a posto
mutandine e gonna, come a volerne coprire le nudità, cosa che
farebbe pensare appunto al marito;
▪ l'esatto numero dei colpi di pistola esplosi (8) dichiarati
correttamente dal Mele (che in realtà disse semplicemente di aver
svuotato l'intero caricatore) quando invece i giornali parlavano di 6
colpi;
▪ il particolare della scarpa del Lo Bianco, trovata sul tappetino
davanti al sedile di guida, e correttamente riportato dal Mele;
▪ inoltre, da ricordare come il Mele fosse stato trovato dai
carabinieri, poche ore dopo l'omicidio, alle 7 del mattino con le
mani sporche di grasso, pur essendo rimasto il pomeriggio e la
notte precedenti a casa perché malato. Il grasso potrebbe aver avuto
lo scopo di coprire le tracce di polvere da sparo, andando a inficiare
la prova del guanto di paraffina;
▪ sempre in quel momento il Mele - a detta del brigadiere Matassino
- sembrava oltretutto già conoscere le sorti della moglie e del figlio.
Resta inteso che questa è la mera impressione di un carabiniere;
▪ infine, per completare il quadro che potrebbe indurre a pensare
che il Mele fosse stato sulla scena del crimine, è doveroso far notare
come l'aver sbagliato strada nell'arrivare sul luogo del delitto
potrebbe essere frutto del fatto che lui, non essendo automunito, fu
semplicemente portato da qualcuno (dai Vinci oppure dai propri
parenti) e dunque non sapesse bene come raggiungerlo.
● Durante il processo ai danni di Stefano Mele, sia la madre che la
moglie del Lo Bianco, la giovane signora Rosalia Barranca,
affermarono che durante i funerali del loro caro congiunto, la
moglie di Francesco Vinci si era avvicinata a loro chiedendo
perdono a nome del marito (Francesco) e del cognato (Salvatore).
Tale episodio venne però smentito dalla deposizione della stessa
moglie di Francesco Vinci, la signora Vitalia Meslis, la quale anzi
dichiarò che il giorno del funerale del Lo Bianco si era sì avvicinata
alla signora Barranca, ma solo per chiederle i motivi per cui il
proprio marito era stato tratto in arresto.
● Episodio simile avvenne anche al termine del processo e della
condanna di Stefano Mele, quando Giovanni Mele, fratello di
Stefano, si avvicinò alla moglie del Lo Bianco e, quasi scusandosi,
disse la sibillina frase: "Prima o poi a qualcuno che era con lei (la Locci,
NdA) sarebbe dovuto capitare; mi spiace sia successo a suo marito". Una
frase interpretata da alcuni come un'ammissione di colpevolezza da
parte della famiglia Mele, la quale aveva voluto eliminare una
donna che portava discredito sulla famiglia.
● Secondo la testimonianza della signora Rosa Lo Bianco, sorella
della vittima maschile, nei giorni immediatamente precedenti al
delitto, al bar La Posta a Lastra A Signa, Francesco Vinci
(notoriamente geloso della Locci) aveva sfidato Antonio Lo Bianco
a uscire con Barbara. A quanto risulta da tale testimonianza,
riportata agli atti nel 1982, fra i due uomini prese corpo una vera e
propria scommessa.
● Il detective Davide Cannella, a capo dell'agenzia
investigativa Falco, ritiene che alla base del delitto Locci/Lo Bianco
(commesso a suo dire dai fratelli Vinci) ci fossero soprattutto motivi
economici, in quanto la Locci sperperava (o aveva già sperperato)
con i suoi amanti i soldi dell'assicurazione avuti dopo un incidente
stradale che ebbero Stefano Mele e Francesco Vinci.
Mostrologia a Signa
È ovvio come sulla genesi di questo duplice omicidio le teorie siano
le più disparate. Vediamo brevemente quali ipotesi si possono
formulare, indipendentemente - almeno per ora - dalle implicazioni
con i successivi delitti attribuiti al MdF:
► Il delitto del 1968 è opera esclusivamente di Stefano Mele;
► Il delitto del 1968 è opera di Stefano Mele con la complicità di
uno dei fratelli Vinci;
► Il delitto del 1968 è opera di Stefano Mele con la complicità dei
suoi parenti, stanchi di sopportare il comportamento disonorevole
della Locci (cosiddetto delitto di clan);
► Il delitto del 1968 è opera di un sicario assoldato da qualcuno (ad
esempio dalla famiglia Mele o dai Vinci) per uccidere la Locci;
► Il delitto del 1968 è opera di uno spasimante ignoto della Locci
(magari colui che la pedinava e minacciava in motorino);
► Il delitto del 1968 è opera di un ignoto che voleva uccidere il Lo
Bianco e la Locci è rimasta casualmente coinvolta;
► Il delitto del 1968 è opera di uno psicopatico, che ha ucciso una
coppia qualsiasi in auto e che in seguito sarebbe divenuto famoso
come il MdF.
Rabatta
Particolarità a Rabatta
● Inizialmente gli inquirenti pensarono a un delitto commesso
esclusivamente con arma bianca. Solo in seguito, nei laboratori di
medicina legale, sui cadaveri dei ragazzi furono scoperte le ferite
prodotte dai colpi d'arma da fuoco. Allertati dai medici legali, gli
inquirenti tornarono sul luogo del delitto (dove la macchina era
stata nel frattempo rimossa) alla ricerca dei bossoli, trovandone in
un numero minore rispetto agli otto colpi esplosi.
Risultò che a sparare era stata una Beretta Calibro 22 Long Rifle
(LR) Serie 70. Nessuno all'epoca sapeva ancora che la stessa arma
aveva già sparato sei anni prima a Signa per uccidere un'altra
coppia.
● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a palla
ramata con impresso sul fondello la lettera H, esattamente lo stesso
tipo di proiettili, provenienti dalla stessa partita del duplice
omicidio di sei anni prima.
● La perizia balistica per il delitto del 1974 fu eseguita dal
colonnello Innocenzo Zuntini, lo stesso che aveva eseguito la
perizia balistica per il delitto del 1968. Tuttavia Zuntini non collegò
i due duplici omicidi che pure coinvolgevano entrambi una coppia.
Questo a dimostrazione di come il delitto del 1968 venisse
considerato completamente risolto o comunque sicuramente
maturato in ambito familiare.
● Dato per certo che Stefania e Pasquale si appartarono poco dopo
le 21.30 e che verosimilmente l'attacco del killer con l'arma da fuoco
avvenne fra le 23.30 e mezzanotte, c'è un buco di oltre due ore
durante il quale nessuno ha visto o saputo più nulla dei due
ragazzi. Questo ha portato alcuni mostrologi a ipotizzare che ci
possa essere stata una lunga interazione precedente all'assalto fra
assassino e vittime. Pur essendo questa ipotesi coerente con alcuni
particolari della scena del crimine, la maggior parte della odierna
mostrologia ritiene tuttavia che l'attacco abbia colto le vittime di
sorpresa e che il lungo lasso di tempo precedente all'assalto sia stato
trascorso dalla coppia in completa intimità, forse cercando una
riappacificazione dopo un periodo turbolento che la coppia stessa
aveva vissuto.
● Come accennato nel punto precedente, Stefania e Pasquale
venivano da un periodo piuttosto travagliato da un punto di vista
sentimentale. Circa un anno prima, precisamente nell'ottobre del
1973 quando lavorava come segretaria presso una ditta di
autotrasporti di Barberino del Mugello, Stefania aveva conosciuto
un tale Stefano Galanti, un ventitreenne studente di Barberino. I
due ragazzi avevano avuto un breve flirt, durato circa una ventina
di giorni. In quel lasso di tempo il Galanti aveva sovente
accompagnato Stefania, al termine del proprio turno di lavoro, da
Barberino a Pesciola.
Ascoltato dagli inquirenti dopo il delitto, il Galanti dichiarò di non
aver mai avuto rapporti completi con Stefania che anzi gli aveva
confidato di essere ancora vergine e difatti gli era sembrata "poco
esperta" durante i loro momenti di intimità. Galanti dichiarò anche
di non essere a conoscenza di altre relazioni che Stefania avrebbe
intrattenuto in quel periodo, tranne quella ufficiale con il suo
fidanzato, Pasquale. Inoltre affermò che non ebbe mai la sensazione
di essere seguito quando era con Stefania, né quando si
appartavano aveva mai notato la presenza di guardoni o avvertito
situazioni di pericolo.
Gli inquirenti appurarono che il Galanti per la sera del delitto aveva
un alibi inattaccabile. Inoltre scoprirono anche che altre due
persone accompagnavano talvolta la Pettini da Barberino a Pesciola:
uno di questi era tale Ovidio Cartucci, cinquantenne impiegato in
una ditta di giocattoli, che Stefania aveva presentato al Galanti
stesso come un vecchio amico di famiglia.
Oltre al breve flirt col Galanti, nell'agosto del 1974, vale a dire circa
un mese prima del delitto, la giovane Stefania era stata in vacanza a
Rimini con le sue cugine, Tiziana Bonini e Carla Bartoletti, e qui
aveva conosciuto un tale Andrea di Bergamo, per cui
verosimilmente aveva preso una tipica cotta da diciottenne. Stando
al racconto della cugina Tiziana, in un'occasione, durante un ballo,
Stefania aveva manifestato atteggiamenti che denotavano una certa
intimità con questo ragazzo bergamasco. Ciò aveva causato la
gelosia del Gentilcore che aveva raggiunto Stefania a Rimini e dato
vita a una rumorosa scenata.
È dunque possibile che quando, qualche settimana dopo, la sera di
sabato 14 settembre, i due ragazzi si appartarono in automobile a
Rabatta, avessero parecchio di cui parlare e chiarirsi.
● I vestiti della coppia furono trovati perfettamente piegati
all'esterno della macchina, a circa tre metri dallo sportello destro ai
piedi di una vite. Tra questi vestiti c'era anche un paio di pantaloni
che il Gentilcore aveva ritirato da una lavanderia di Firenze.
Rimane ancora oggi difficile stabilire con certezza come fossero
finiti quei vestiti in quel punto. Possiamo limitarci a fare tre ipotesi:
1. i ragazzi si erano spogliati e avevano poggiato di loro spontanea
volontà con estrema cura i vestiti all'esterno della macchina prima
di concedersi alle loro effusioni amorose. Pur non sapendo bene per
quale fine, questa rimane l'ipotesi più probabile;
2. i ragazzi erano stati colti di sorpresa dall'assalitore ma non uccisi
subito. Erano stati dunque obbligati a spogliarsi e, tenuti sotto tiro,
avevano poggiato i vestiti all'esterno. Questa ipotesi potrebbe
contrastare con la ricostruzione dell'assalto che vuole le due vittime
colte di sorpresa, ma non è affatto improponibile. Il celebre
avvocato Nino Filastò propende, ad esempio, per questa idea;
3. era stato lo stesso assassino, dopo aver compiuto l'eccidio, a
prendere i vestiti dei ragazzi dall'abitacolo della vettura e posarli
con cura all'esterno. Questa ipotesi risulta - a parere di chi scrive -
poco verosimile non tanto perché è improbabile che l'assassino si
preoccupasse di riporre i vestiti dei ragazzi con così tanta
attenzione, quanto perché questi risultavano assolutamente intonsi,
senza la più piccola macchia di sangue.
● Sappiamo con certezza che al termine dell'azione di sparo, la
povera Stefania era ancora viva. Vi sono meno certezze sulle sue
condizioni di salute, tuttavia, i colpi che l'attinsero oltre a non
essere mortali non sembravano tali da produrre ferite di eccezionale
gravità. È molto probabile dunque che la ragazza non solo fosse
ancora cosciente nel momento in cui il killer cessò di sparare, ma
anche in grado in un certo qual modo di difendersi. A questo
proposito, fra le ferite rinvenute sul suo corpo c'era un graffio
all'altezza del mento, appena sotto il labbro inferiore, che è stato
univocamente interpretato come un'unghiata involontaria
dell'assassino nel tentativo di tapparle la bocca. Questa ferita
dimostrerebbe sia che al termine degli spari la Pettini era quanto
meno in grado di urlare, sia che in questa occasione il killer non
indossava guanti.
● Le piante dei piedi di Stefania sembrano, almeno a giudicare dalle
foto, sporche di fango. Questo secondo alcuni mostrologi avvalora
la teoria secondo cui la povera ragazza avrebbe provato persino a
fuggire scalza dal suo assalitore, una volta terminata l'azione di
sparo. Ma di questo particolare non si fece menzione nell'intero
Processo Pacciani, né ha alcuna base di tipo documentale e può
essere tranquillamente considerato alla stregua di mera
suggestione.
● IMPORTANTE: Come vedremo nel paragrafo dedicato
alle "Teorie" e come ampiamente condiviso da buona parte della
mostrologia odierna, in questo omicidio è ipotizzabile una
conoscenza pregressa fra vittima femminile e carnefice, anche solo
unilaterale. Questo potrebbe implicare che il killer avesse puntato e
deciso di uccidere proprio quella coppia.
Dando momentaneamente per buona questa possibilità e dato per
assodato che - come visto - l'automobile del Gentilcore non venne
seguita, è lecito domandarsi come assassino e vittime si fossero
ritrovati sul luogo del delitto. Possiamo valutare tre ipotesi:
1. sapendo dove Pasquale e Stefania erano soliti appartarsi, quel
sabato sera l'assassino si era appostato con un certo anticipo in loco
nella speranza di veder arrivare la giovane coppia;
2. l'assassino arrivò successivamente alla coppia sul luogo del
delitto; forse vide uscire Stefania da casa della zia e - mosso da un
raptus di gelosia - era corso ad armarsi e in seguito era andato a
cercarli nella zona in cui più o meno sapeva si appartavano; o forse
il killer si aspettava di incontrare la giovane coppia al TEEN CLUB,
ma non vedendola arrivare, anche in questo caso andò a cercarla
nella zona in cui sapeva si appartavano;
3. l'assassino si trovò a passare dal luogo dell'omicidio per puro
caso, vide e riconobbe l'automobile del Gentilcore e, mosso da un
impulso di gelosia nei confronti di Stefania, decise di attaccare.
Ognuna di queste ipotesi presenta una discreta varietà di
sfaccettature. Se prendiamo per buona l'ipotesi 1, dobbiamo
pensare che l'assassino rimase almeno un paio di ore a spiare la
coppia prima di passare all'attacco oppure dobbiamo ipotizzare che
si palesò molto prima dell'attacco e, armi in pugno, ebbe una
qualche interazione con la coppia prima di passare all'azione
omicidiaria vera e propria.
Se ipotizziamo invece che l'assassino arrivò alle Fontanine di
Rabatta dopo la coppia, dobbiamo considerare che la
conformazione del luogo rende piuttosto difficile avvicinarsi
all'automobile senza essere visti. Dunque o la coppia era talmente
impegnata nella propria intimità e fra effusioni d'amore e musica
dal mangianastri, non si accorse di nulla fino agli spari o quasi,
oppure si dovrebbe optare per un'ipotesi alla Filastò: un killer in
divisa, dunque un'autorità, che si avvicina all'automobile come per
controllare i documenti e poi improvvisamente fa partire l'azione di
sparo.
A ogni modo, le ipotesi 1 e 2 prevedono che l'assassino arrivò alle
Fontanine di Rabatta con il chiaro intento di uccidere la giovane
coppia. L'ipotesi 3 prevede invece un incontro casuale e in questo
caso nel killer scattò solo in quel momento l'impulso omicida.
Dunque, o dovette andare a recuperare le proprie armi oppure
erano oggetti che portava sempre con sé.
L'ipotesi 3, sempre in un eventuale contesto di conoscenza fra
vittima e carnefice, è quella che ci sentiremmo di appoggiare con
minor probabilità.
● L'abilità come sparatore del killer in questo delitto, almeno
secondo la tesi ufficiale, non risulta così efficace. Ufficialmente si
ritiene infatti che la Pettini sia stata finita a coltellate perché
l'omicida aveva esaurito i proiettili senza essere riuscito ad
ucciderla.
Il celebre criminologo Francesco De Fazio parlò, durante
un'udienza del Processo Pacciani, di un assassino che non aveva
ancora piena consapevolezza del potere d'arresto della propria
pistola; evidenziò inoltre un miglioramento come sparatore negli
omicidi che commise successivamente. Questa affermazione
ovviamente contrasta con l'idea che vuole l'autore dei delitti
appartenente alle forze dell'ordine o un ex componente di un
qualche apparato militare (questa è la cosiddetta Teoria Filastò, dal
nome del celebre avvocato che più di altri l'ha fatta propria).
● In relazione al punto precedente, è corretto riportare la risposta
del generale Ignazio Spampinato, esperto balistico, alla domanda
dell'avvocato di parte civile Aldo Colao durante il Processo
Pacciani sull'abilità dimostrata nei delitti dall'assassino con l'arma
da fuoco. Secondo il militare risultava difficile valutare l'abilità
dello sparatore in quanto i colpi venivano solitamente esplosi da
distanza piuttosto ravvicinata su vittime completamente colte di
sorpresa con una pistola di modesto calibro, facile, maneggevole ed
estremamente efficace da una distanza limitata.
● Ancora oggi, risulta molto dibattuta la dinamica del delitto, in
special modo da quale lato dell'automobile il killer ebbe modo di
sparare i primi colpi. Il colonnello Innocenzo Zuntini, nella sua
perizia, ipotizzò che l'attacco fosse avvenuto dal lato passeggero,
quindi dalla destra dell'autmobile e a favore di questa ipotesi
deporrebbe la frantumazione del finestrino verso l'interno della
macchina. Tuttavia, oggi, nella maggior parte degli ambienti
mostrologici si tende a dar maggior credito a un attacco avvenuto
da sinistra, come testimonierebbero i bossoli critrovati all'altezza
della ruota posteriore del lato conducente dell'automobile.
Giova tuttavia ricordare che quando i bossoli vennero repertati, la
vettura era già stata portata via e che verosimilmente molte persone
avevano calpestato e inquinato la scena del delitto.
● A proposito della dinamica del delitto, il criminologo Enea
Oltremari che recentemente si sta interessando alla vicenda, ha
fatto notare quella che può essere un'importante differenza fra i
primi due omicidi storicamente attribuiti alla cosiddetta serie del
Mostro di Firenze, quello del 1968 a Signa e quello del 1974 a Borgo
San Lorenzo. Nel 1968, contro una coppia matura e decisamente più
scafata (Locci e Lo Bianco erano entrambi sulla trentina ed avevano
frequentazioni con persone che bene o male gravitavano attorno ad
ambienti più o meno delinquenziali), il killer si mostrò freddo e
deciso, arrivando ad aprire lo sportello e a far fuoco contro la
coppia in maniera diretta, senza frapporre fra sé e le vittime nessun
tipo di muro. Nel 1974, invece, contro una coppia giovanissima
(Pettini e Gentilcore erano entrambi poco più che maggiorenni) e
decisamente meno avvezza a frequentare situazioni e personaggi
loschi, il killer si mostrò o si sarebbe mostrato più impacciato: sparò
attraverso il finestrino, frapponendo distanza fra lui e le vittime;
non riuscì ad uccidere la ragazza con l'arma da fuoco e fu dunque
costretto a ricorrere al coltello per uccidere la Pettini (unico caso, a
parte il delitto di Scopeti in cui il mostro uccide una sua vittima col
coltello). Questo, sempre secondo l'idea di Oltremari, porta a
pensare a due assassini diversi, dunque di conseguenza a due
delitti con motivazione diverse (il primo maturato in ambiente
familiare, dal secondo in poi di tipologia maniacale).
● IMPORTANTE: Un punto su cui porre attenzione riguarda il
numero di colpi esplosi dal MdF in questa occasione, che sappiamo
essere otto. Si suole infatti spesso sostenere che il mostro terminò i
colpi senza esser riuscito ad uccidere la Pettini. Il senno di poi,
tuttavia, ci dice che in tre delitti successivi il mostro sparerà nove
colpi di arma da fuoco contro le vittime, dunque è certo che la
pistola del MdF potesse contenere (almeno) nove colpi:
presumibilmente otto nel caricatore e uno in canna.
A questo punto abbiamo tre possibilità da valutare:
1. il MdF, giovane e inesperto, non aveva ancora scoperto la
possibilità di inserire un ulteriore colpo in canna, quindi in questo
delitto la pistola aveva esclusivamente otto proiettili a disposizione,
terminati i quali senza riuscire ad uccidere la Pettini, aveva
effettivamente esaurito i colpi;
2. come sostiene il criminologo Valerio Scrivo, a Rabatta il killer
non aveva finito i colpi, ma volontariamente aveva estratto viva la
Pettini dall'auto per ucciderla con il coltello;
3. pur claudicante e ferita da tre colpi d'arma da fuoco, la Pettini
aveva provato la fuga; il killer aveva reputato una scelta migliore
inseguirla e finirla col coltello, piuttosto che provare a fermarla
sparandole dietro l'ultimo colpo di pistola.
Resta inteso chq queste rimangono pure e semplici supposizioni,
specie se - come parte dell'odierna mostrologia ritiene - è possibile
che il killer portasse con sé durante i suoi assalti alle coppie un altro
cariatore, da utilizzare per ogni evenienza.
● Le sevizie sul corpo di Stefania furono così feroci da provocare lo
svenimento di un carabiniere della scorta mentre venivano
proiettate in aula le foto del cadavere durante la deposizione del
medico legale, il dottor Mauro Maurri, in un'udienza del processo
Pacciani (26 Aprile 1994).
● Come visto, l'assassino infilò un tralcio di vite nella vagina della
povera Stefania senza esercitare alcuna pressione. Molti hanno visto
nell'utilizzo della pianta di vite per seviziare e umiliare la ragazza
un gesto di chiara matrice esoterica. In realtà è possibile che il
feroce omicida si sia servito di un tralcio di vite perché a ridosso
dell'automobile dei ragazzi c'era proprio una vigna e quindi abbia
facilmente attinto all'oggetto a lui più vicino per compiere la
macabra penetrazione.
● IMPORTANTE: La borsa di Stefania venne trafugata e il suo
contenuto sparso per terra. Inoltre, l'assassino andò via portandosi
dietro borsa e reggiseno della ragazza e lasciandoli a circa 250 metri
di distanza dal luogo del delitto e a 50 metri l'uno dall'altra. A
segnalare il luogo dove sarebbe stato possibile ritrovare la borsa fu
una telefonata anonima giunta ai carabinieri di Borgo San Lorenzo
il giorno dopo verso le 18.30. Appallottolato all'interno della borsa
venne rinvenuto il maglione della Pettini. Da notare che sia borsa
che maglione erano puliti, non presentando alcuna macchia di
sangue.
Durante un'udienza del Processo Pacciani, la mamma di Stefania, la
signora Bruna BoniniI, dichiarò che la borsa della figlia le fu
restituita dai carabinieri solo un paio d'anni dopo il delitto ed era
completamente vuota.
● Sono molteplici le teorie riguardo sia le motivazioni che spinsero
l'assassino a portarsi dietro borsa e reggiseno della vittima
femminile per poi lasciarli a circa 250 metri di distanza dal luogo
del delitto, sia le modalità con cui i suddetti oggetti siano stati
abbandonati dall'omicida. Il killer, ad esempio, potrebbe aver avuto
desiderio di portar con sé qualche oggetto della ragazza, salvo poi
ripensarci strada facendo; oppure, secondo altre teorie, avrebbe
agito in tal modo per mettere in atto una specie di depistaggio.
Per quanto riguarda le modalità di abbandono, gli oggetti furono
ritrovati in una scarpata sulla destra (considerando il senso di
marcia di una vettura) oltre il bordo della strada. Sembra difficile
credere che siano stati scagliati da un'automobile in corsa, in quanto
non sarebbe stato agevole per l'assassino lanciarli oltre il finestrino
destro della vettura. Hanno dunque preso piede altre teorie, ad
esempio che l'assassino fosse fuggito a piedi e avesse abbandonato
la borsetta durante il tragitto, oppure che fosse fuggito su un
ciclomotore e da tale mezzo non avesse avuto difficoltà a lanciare in
rapida successione borsa e reggiseno oltre il bordo della strada (e
secondo molti questa tesi ben si adatterebbe alla posizione della
borsa fra i rovi).
Si noti, a questo proposito, come parlando del duplice omicidio di
Signa si era accennato al fatto che la Locci nei giorni precedenti
all'omicidio fosse stata importunata da qualcuno in motorino.
Ricordiamo, infine, che sia Francesco Vinci, sia Giancarlo Lotti,
entrambi futuri indagati per i delitti del MdF e secondo alcune
correnti mostrologiche (quella Sardista e quella Lottiana) i reali
autori di questi delitti, all'epoca si muovevano proprio su un
ciclomotore.
● Secondo quanto riporta il già citato avvocato Nino Filastò, sul
cruscotto dell'automobile della coppia venne ritrovato il libretto di
circolazione della vettura. Questo ha portato molti a ritenere che
l'omicidio di Rabatta ben si adatterebbe alla teoria dell'assassino in
divisa proposta dallo stesso Filastò. Come vedremo, un particolare
analogo verrà riscontrato anche nei due delitti successivi.
È bene tuttavia precisare che agli atti il particolare del libretto non è
riscontrabile; l'unica fonte al momento risulta essere proprio quella
del Filastò.
● Nel mese di giugno del 1974, dunque circa tre mesi prima del
delitto, la Pettini aveva dichiarato alle cugine (le già citate Tiziana
Bonini e Carla Bartoletti) di aver incontrato una persona molto
poco piacevole che l'aveva seguita dalla Stazione Centrale di
Firenze fino a Novoli, dove lei lavorava. Quest'uomo aveva circa 35
anni e un aspetto che le aveva incusso timore. Purtroppo, la
testimonianza fornita dalle due ragazze agli inquirenti non fornì
ulteriori spunti investigativi e non vi furono ulteriori riscontri sul
tema.
Da notare che nel verbale viene espressamente citato il quartiere
Novoli, dove aveva sede la "Magif" presso cui effettivamente aveva
svolto il suo ultimo lavoro Stefania. Dunque questo episodio era
sicuramente avvenuto dopo che la ragazza aveva cambiato lavoro,
passando dalla "New-Flex", quartiere Isolotto, alla "Magif" in via
Stradivari, quartiere Novoli.
● A proposito dei lavori svolti, la Pettini aveva lavorato dal
settembre 1973 al gennaio 1974 a Barberino di Mugello come
segretaria presso l'azienda di autotrasporti "Cammelli", dove - come
visto - aveva conosciuto il Galanti. Dal gennaio 1974 a
giugno/luglio 1974 aveva lavorato presso l'azienda "New-Flex", in
zona Isolotto a Firenze. Il quartiere Isolotto è confinante con il
comune di Scandicci, che curiosamente qualche anno dopo sarebbe
divenuto appunto celebre per i delitti commessi dal Mostro. Infine,
Stefania era stata appunto assunta come fatturista dalla "Magif" in
Via Stradivari a Firenze.
● Come emerge dalla retrospettiva sul delitto di Rabatta, curata dal
ricercatore e studioso Francis Trinipet, il giorno prima del delitto
(13 settembre 1974), la Pettini aveva fatto alcune guide con
l'istruttore Alfredo Lombardi. L'istruttore ebbe modo di dichiarare
che quel pomeriggio aveva avuto la sensazione che la loro vettura
fosse seguita, ma anche qui non ci sono ulteriori riscontri in merito.
● Negli ambienti mostrologici circola la voce che il pomeriggio
stesso del duplice omicidio, la Pettini avesse dichiarato a un'amica
(forse una delle due cugine, forse la Daniela Lisi) di essere stata
sgradevolmente importunata da un uomo. L'arrivo della mamma di
Stefania aveva interrotto il discorso fra le due ragazze. Tuttavia, nei
verbali non vi è traccia di questo particolare e anche nel processo
Pacciani non vi fu alcun riferimento a questo episodio. Può essere -
almeno fino a prova contraria - dunque derubricato a semplice
diceria mostrologica.
● Secondo la testimonianza di tale Walter Calzolai, che si trovava a
transitare in automobile con alcuni amici sulla Sagginalese verso
mezzanotte e mezza del 15 settembre (quindi a delitto appena
commesso), c'era un'automobile ferma, a fari spenti, con la luce
interna accesa e la parte anteriore rivolta verso l'imbocco di una
strada campestre distante circa 50 metri dal tratturo che conduceva
al luogo del delitto. Tale vettura venne identificata come
una Simca, una BMW o una Giulia di colore grigio. Nessuno dei
presenti notò se ci fossero persone all'interno.
Considerando che l'azione omicidiaria era iniziata all'incirca tre
quarti d'ora prima e che sicuramente (causa 96 coltellate inferte alla
Pettini) si era protratta per un discreto lasso di tempo, non è
improbabile pensare che l'assassino fosse non lontano dal luogo del
delitto quando transitò l'automobile del Calzolai e che forse la
vettura color grigio potesse effettivamente avere una relazione con
il delitto.
● Un'altra testimonianza che potrebbe essere interessante è quella
di una coppia di amici, Paolo Darici e Francesco Lippi, che mentre
transitavano sulla Sagginalese la mattina successiva verso le ore
7.15 per andare a funghi, notarono ferme in località Fontanine di
Rabatta dapprima un'automobile scura con una persona a bordo
(verosimilmente l'automobile del Gentilcore) e successivamente
una Giulia color "verdolino", targata Napoli, con tre persone
all'interno e una all'esterno, la quale alla vista del motocarro
(comunemente detto treruote) del Darici, si affrettò a voltare la
testa, come per non essere visto. La persona all'esterno venne
descritta come un giovane dai capelli ricci e biondi. Secondo la
testimonianza del Darici e del Lippi, la distanza fra le due
automobili in linea d'area era di circa 60 metri.
Da notare che all'ora in cui avvenne questo avvistamento, il signor
Landi era già arrivato o forse era in procinto di arrivare sulla scena
del delitto e scoprire i cadaveri.
● Fra le varie testimonianze che arrivarono ci fu quella di una
coppia solita appartarsi in zona Fontaine, che dichiarò di aver avuto
qualche giorno prima del delitto un acceso diverbio con un
guardone che loro definirono sardo (particolare questo ovviamente
molto importante), ma che, sulla base del numero di targa fornito
dalla coppia, altri non era che il già citato Guido Giovannini,
calabrese.
● A proposito di sardi, in giorni molto prossimi al delitto, nel
Mugello si aggirava curiosamente (o forse no) Francesco Vinci, già
indagato per il delitto di Signa e futuro indagato per i delitti del
MdF. È bene subito precisare che, a differenza di quanto si sente
dire in quasi tutti gli ambienti mostrologici, il Vinci non era a Borgo
San Lorenzo in quei giorni, ma a Barberino del Mugello, una
ventina di chilometri a nord-ovest. È invece vero che il Vinci fosse
inferocito con l'amante perché mentre lui era in carcere, questa era
fuggita da casa del Vinci stesso ed era ritornata a Barberino
nell'abitazione della propria mamma. Qui Francesco Vinci era
andato appunto a cercarla e, non trovandola, aveva dato vita e una
clamorosa sfuriata (per maggiori dettagli, vedasi il capitolo
dedicato appunto a Francesco Vinci).
● In quello stesso periodo (Settembre 1974) si trovava a Firenze per
svolgere il servizio militare, un altro futuro sospettato per i delitti
del Mostro, vale a dire il dottor Francesco Narducci (vedasi
capitolo Il medico di Perugia), la cui caserma era dalle parti di via
Stradivari, la via in cui da poco lavorava la Pettini.
Da segnalare che nella stessa zona viveva anche Susanna Cambi,
quasi coetanea della Pettini e vittima del Mostro di Firenze nel 1982
a Calenzano.
Subito dopo il settembre 1974, Narducci si fece riformare e tornò di
fatto nella sua Perugia.
N.B: La Pettini era del 1956, la Cambi del 1957. Le due ragazze
avevano quindi 18 e 17 anni nel 1974. Narducci invece ne aveva 25
(era del 1949).
● La sera del delitto, a casa degli zii di Stefania (i genitori di Carla
Batoletti), casa praticamente confinante con quella della famiglia
Pettini, c'erano alcuni parenti provenienti da Campi Bisenzio. Nello
specifico era presente il signor Gino Chini (nato a Vicchio nel 1926
e residente appunto a Campi Bisenzio) e la moglie.
● Nel maggio del 1951, Vincenzo Gentilcore, padre della vittima
maschile, era stato condannato a otto anni di reclusione per
omicidio preterintenzionale: aveva infatti ucciso con una sassata
una ragazza dopo un litigio scaturito dallo sconfinamento di
animali durante il pascolo. Tale omicidio era avvenuto nel
beneventano, dove la famiglia Gentilcore aveva vissuto prima di
trasferirsi in Mugello. Per qualche tempo venne valutata l'ipotesi di
un collegamento fra i due delitti e dunque di un'eventuale vendetta
trasversale.
● Il primo giugno 1976 comparve sul luogo del delitto una
misteriosa scultura in memoria di Stefania e Pasquale che portò gli
inquirenti a fare le più disparate congetture. Appurato che nessuno
della famiglia Pettini o Gentilcore e nessuno degli amici della
coppia avesse eseguito o fatto eseguire tale installazione, gli
inquirenti ipotizzarono una sorta di rivendicazione del duplice
omicidio da parte dell'autore stesso o di un eventuale mandante,
prendendo dunque in considerazione che il duplice omicidio
potesse essere stato commesso per vendetta.
Alla fine, si scoprì che l'autore della scultura era tale Arduino
Parigi, cinquantacinquenne artista mugellano, il cui fine era solo
quello di ricordare le giovani vittime.
● Si è sparsa la voce che alcuni anni dopo il delitto, mano ignota
avesse manomesso la tomba della Pettini nel cimitero di Borgo San
Lorenzo. In realtà non si hanno riscontri documentali in merito.
Mostrologia a Rabatta
Ci sono due diverse interpretazioni delle 96 coltellate inflitte alla
povera Stefania Pettini:
1.
Fabio S.23 luglio 2022 alle ore 17:34
Vorrei pero' notare che, a mio avvviso, l'ipotesi che i vestiti dei
ragazzi siano stati portati fuori dall' abitacolo e adagiati sul
terreno dall'assassino e' del tutto verosimile. Innanzitutto,
probabilmente questa non fu l'unica volta che il MdF ebbe a
manipolare i vestiti delle sue vittime. A Scopeti, i pantaloni del
ragazzo francese verngono ritrovati puliti vicino al suo
cadavere. Ci sono buone probabilita' che sia stato l'assassino a
spostarli. A Calenzano, il maglione del ragazzo viene ritrovato
pulito, a mo' di cuneo, sotto i suoi glutei, quando invece la
camicia che indossa e' del tutto insanguinata. Quel maglione
fu molto probabilmente spostato dall'assassino.
Risposte
1.
Luigi Sorrenti31 luglio 2022 alle ore 06:13
Ciao, innanzitutto ti ringrazio per il commento e per i
complimenti.
Per rispondere alla tua ottima osservazione, vorrei farti
notare che non ho reputato inverosimile da un punto di
vista concettuale la teoria dell'assassino che sposta i
vestiti, ma semplicemente da un punto di vista pratico, in
quanto quei vestiti erano assolutamente puliti.
Considerando la dinamica dell'attacco, il probabile stretto
contatto fisico con la povera Stefania e la necessità di
finirla con il coltello, è molto probabile che il killer fosse
già vistosamente lordo di sangue ancor prima di
cimentarsi con le 96 coltellate. In questo contesto,
ipotizzare che abbia recuperato quei vestiti dall'angusto
abitacolo della 127 dove era appena avvenuto un
massacro e li abbia delicatamente posati all'esterno senza
che questi presentassero il minimo sbaffo di sangue di
sangue, a me sembra non molto verosimile. Poi, per
carità, tutto può essere.
Ancora una cosa, niente da dire sul maglione del Baldi,
che rappresenta difatti un'anomalia, ma sui pantaloni di
Jean-Michel non vi è molta chiarezza: se ti riferisci a
quelli di taglia 44 su cui è stato isolato del DNA ignoto,
almeno stando agli atti*, sarebbero stati rinvenuti nella
tenda e non accanto al cadavere.
* "Un profilo maschile, battezzato “uomo sconosciuto 1“,
differente da quello della vittima Jean Michel
Kraveichvili è stato isolato su una paio di pantaloni taglia
44 presenti nella tenda».
Rispondi
2.
Fabio S.2 agosto 2022 alle ore 06:52
3.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:48
il mostro fruga nelle borse e nelle tasche per un semlicissimo
motivo, vuole sapere chi sono le vittime come si chiamano
dove abitano per assaporare per primo la scena quando
avvertiranno le famiglie.
Rispondi
Risposte
1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:49
4.
Anonimo4 gennaio 2023 alle ore 03:56
Luigi buongiorno.
Non mi soffermo sui complimenti per la qualità della tua
iniziativa giacchè la vedo ampiamente (e giustamente)
riconosciuta da tutti. Se mai vorrei sottolineare l'equilibrio e la
moderazione delle tue opinioni, qualità poco frequentate in
rete.
Ti chiedo un sintetico punto di vista sulla circostanza (a mio
avviso non abbastanza dibattuta nella dottrina mostrologica)
dell'intervallo temporale fra questo omicidio e i successivi.
Non avendo competenza specifica nel campo dei serial killer
non posso spingermi a definirla anomala, ma mi ha sempre
colpito il lasso di 7 anni fra questo omicidio e quello di
Mosciano contrapposto all'estrema concentrazione dei
successivi (dall'81 al 85).
Grazie.
Giuseppe
Rispondi
Mosciano di Scandicci
Dopo il delitto
I cadaveri vennero scoperti la mattina dopo, domenica 7 giugno
verso le ore 9.00, da un poliziotto in borghese di nome Vittorio
Sifone.
Partirono le indagini e il primo a essere interrogato dagli inquirenti
fu tale Antonio Leone, ex fidanzato di Carmela, il quale portato in
caserma assieme al fratello, fu quasi subito giudicato
completamente estraneo al delitto e lasciato andare.
In seguito finì sotto la lente delle forze dell'ordine tale Carlo
Tommasi, guardiacaccia cinquantenne, presunto guardone e
trovato in possesso di una carabina calibro 22. Ben presto anche lui
venne giudicato estraneo ai fatti.
Il 9 giugno, appena tre giorni dopo il delitto, il giornalista Antonio
Villoresi, parlò in un articolo de "La Nazione" delle numerose e
inquietanti analogie fra l'omicidio di Scandicci e quello di Borgo
San Lorenzo di 7 anni prima. Quello stesso giorno, le prime analisi
sui bossoli rinvenuti sulle due scene del crimine confermarono
ufficiosamente che a sparare era stata la stessa pistola, una Beretta
Calibro 22, e probabilmente a impugnarla era stata la stessa mano.
Nonostante a nessuno era ancora venuto in mente di collegare
anche il delitto di Signa del 1968, si iniziò in quel momento a
parlare per la prima volta e molto timidamente di SERIAL
KILLER. Il termine divenne di dominio pubblico dopo il delitto
successivo.
Le indagini continuarono serrate fino all'ingresso in scena del
signor Enzo Spalletti, 36 anni, sposato e padre di tre figli, autista di
ambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino, ma
soprattutto noto guardone che bazzicava la campagna di Roveta,
luogo dell'omicidio, e il poco distante bar-ristorante La Taverna Del
Diavolo, in località Pian De' Cerri, risaputo ritrovo di guardoni.
Il caso Spalletti
A porre Enzo Spalletti al centro delle indagini fu verosimilmente
una telefonata giunta alle 22.30 di giovedì 11 giugno 1981 presso la
questura di Firenze. Tale telefonata fu presa dal brigadiere Pietro
Bittau: in essa un anonimo abitante di Scandicci affermava di aver
visto la notte del delitto un'automobile Ford Taunus rossa, targata
FI 669906, dalle parti della campagna di Roveta in orario
compatibile con quello del delitto stesso.
Sempre lo stesso giorno, un tale di nome Guido M., che la vulgata
mostrologica indica come poliziotto, rilasciava alle forze dell'ordine
una testimonianza secondo cui la sera di sabato 6 giugno, verso le
22.45, a bordo di una Fiat 500, aveva raggiunto il ristorante "La
Cesira", distante pochi minuti di automobile dal luogo del delitto, e
ivi si era intrattenuto per circa 15 minuti.
Verso le 23.00 era ripartito in direzione via dell'Arrigo e, superata la
Taverna del Diavolo, aveva incrociato in via delle Croci
un'automobile Ford Taunus color arancione, marciante in senso
contrario al suo. La strada stretta aveva obbligato il predetto Guido
a fermarsi per permettere il transito dell'altra vettura. Questa era
un'automobile a lui familiare in quanto appartenente a un noto
guardone di zona, dunque Guido era in grado di fornire oltre al
modello e al colore anche i primi numeri di targa.
Tale testimonianza venne confermata dai proprietari del ristorante
"La Cesira", i quali riconobbero Guido come loro cliente abituale. I
successivi riscontri portarono gli inquirenti a stabilire che l'incrocio
fra le due automobili era avvenuto fra le 23.00 e le 23.30 a circa due
chilometri di distanza dal luogo del delitto, verso cui stava
viaggiando la Ford Taunus.
Nella giornata di giovedì 11 giugno, gli inquirenti si trovarono
dunque due segnalazioni convergenti (una tramite telefonata
anonima, l'altra resa de visu alla questura di Firenze) che
indicavano una stessa vettura in prossimità del luogo del delitto in
orario compatibile con lo stesso. Risultó a quel punto facile
appurare che l'automobile segnalata era in entrambi i casi quella di
Enzo Spalletti.
Soffermiamoci un attimo sulla telefonata anonima: come parte della
odierna mostrologia sostiene, è probabile che chi abbia fatto quella
telefonata conoscesse almeno di vista lo Spalletti, perché è difficile
pensare a un perfetto sconosciuto che si fosse trovato a passare da
Roveta e ivi avesse incrociato o visto l'automobile dello Spalletti e,
pur senza sapere nulla di lui e del duplice omicidio, ne avesse
memorizzato la targa per poi - saputo del delitto - riferirla a
distanza di cinque giorni alla questura di Firenze.
Dunque è probabile che la fonte di tale telefonata fosse stata un
altro guardone, una coppia o un abitante di una delle case prossime
al luogo del delitto, se non lo stesso poliziotto Guido, qualcuno
insomma che bazzicasse Roveta e avesse familiarità con
l'automobile dello Spalletti, ne conoscesse la targa o quanto meno
sapesse dove andare a recuperarla.
Il dottor B.
Il coinvolgimento dello Spalletti e la sopraggiunta consapevolezza
che la campagna di Roveta fosse il punto di ritrovo di numerosi
guardoni portarono le forze dell'ordine a concentrare le loro
attenzioni sul mondo ambiguo e semisconosciuto dei "voyeur",
sospettando che qui il Mostro potesse trovare se non proprio
complicità o protezione, almeno l'ambiente ideale in cui
mimetizzarsi.
Furono numerosi i cosiddetti "Indiani" (così venivano chiamati i
guardoni per la capacità di avvicinarsi alle automobili delle coppie
strisciando sul terreno senza far rumore) ad essere attenzionati; fra
questi vi erano personaggi insospettabili, come ben noti
professionisti fiorentini e persino qualche giovane donna.
In particolar modo fu un medico residente a Samminiatello,
frazione di Montelupo Fiorentino, a finire sotto la lente
d'ingrandimento delle forze dell'ordine e - suo malgrado - a salire ai
disonori della cronaca. Si trattava di un quarantottenne ginecologo
della Scandicci bene, il cui nome all'epoca non venne divulgato, ma
che diventò noto alle cronache fiorentine come Dottor B. dopo
alcuni articoli, farciti di non troppo velate accuse, che il
giornalista Mario Spezi gli dedicó fra il 1982 e il 1983.
Ancora oggi sul nome del suddetto ginecologo ci sono pareri
discordanti. Stando a una bellissima retrospettiva sul delitto di
Mosciano curata dal ricercatore Francis Trinipet, il medico
risponderebbe al nome di Luciano Bianconi, ma non esistono
riscontri documentali a conferma. Più probabile invece che, come
emerge dalla già citata sentenza Rotella e come evidenziato in un
video su youtube degli amministratori del gruppo Facebook "I
Mostri di Firenze", Dario Quaglia e Alessandro Flamini, il vero
nome del ginecologo fosse un altro. In questa sede preferiamo
ometterlo trattandosi di persona ancora in vita e ci limitiamo a
riportare un suggerimento dato ormai parecchi anni fa dal mai
troppo compianto studioso De Gothia, secondo cui tale medico
avrebbe avuto "lo stesso cognome di un noto allenatore di calcio italiano
degli anni '80, campione d'Italia in provincia, che chiuse la carriera
all'Inter".
Indipendentemente dal nome, a questo punto piuttosto semplice da
individuare, il ginecologo di Montelupo presentava caratteristiche
estremamente interessanti, tanto da rimanere a lungo uno dei
principali indiziati per i delitti del MdF. Si trattava infatti di
persona celibe, che viveva solo con l'anziana madre, che era stato in
cura per disturbi nervosi, detentore di una pistola Beretta calibro 22,
il cui nome era emerso dal giro dei guardoni che gravitavano
attorno a Roveta. Ad colorandum, come si scoprirà dopo il
collegamento con il duplice omicidio di Signa del 1968, era il
medico curante della famiglia di Francesco Vinci.
Tuttavia, sia le prove di sparo sulla Beretta del medico sia la
perquisizione nella sua abitazione diedero esito negativo e i sospetti
vennero momentaneamente accantonati, almeno fino al delitto
successivo, quando, subito dopo il duplice omicidio di Calenzano
nell'ottobre di quello stesso anno, il dottore subì una nuova
perquisizione.
Successivamente, nell'estate del 1982, arrivò il collegamento con il
delitto di Signa e i sardi che avevano gravitato attorno alla Locci si
ritrovarono a essere i principali indiziati per i delitti del Mostro.
Eppure il dottor B. non uscì completamente di scena. Fu anzi in
quel periodo che lo Spezi concentrò i suoi sospetti su di lui,
sostenendo in diversi articoli su "La Nazione" e nel suo libro "Il
Mostro di Firenze" (edito da Sonzogno nel 1983) di aver
individuato in lui l'autore degli omicidi.
Complice la scoperta che il ginecologo abitava nello stesso paese
non solo del guardone Enzo Spalletti, ma anche e soprattutto di
Francesco Vinci e che della famiglia Vinci era il medico curante, lo
Spezi ipotizzò che il dottore potesse essere il mandante dei delitti e
che Francesco Vinci (forse aiutato da qualcun altro) potesse esserne
l'esecutore materiale. Già nel 1983 veniva dunque avanzata l'ipotesi
di un mostro a più teste, quasi un'anteprima di quella che parecchi
anni dopo sarebbe stata la pista dei Compagni di Merende.
Sarà in seguito lo stesso Spezi a lasciar cadere le sue accuse nei
confronti del ginecologo per concentrarsi sulla cosiddetta "Teoria
Carlo", di cui avremo modo di parlare in un successivo capitolo.
Negli anni seguenti e fino al termine della scia delittuosa, il dottor
B. verrà comunque regolarmente sottoposto a controlli e
perquisizioni dopo ogni delitto del Mostro. Anche subito dopo la
scoperta dell'ultimo duplice omicidio, a Scopeti il 9 settembre 1985,
come ci fa sapere l'avvocato Bevacqua durante un'udienza del
Processo Pacciani, una pattuglia si diresse prontamente a casa del
ginecologo a Montelupo per raccogliere informazioni sui suoi
spostamenti.
Particolarità a Mosciano
● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo
nudo con impresso sul fondello la solita lettera H. Da qui in poi il
killer utilizzerà esclusivamente proiettili a piombo nudo (con
l'unica eccezione di un singolo colpo sparato a Giogoli), mentre nei
due delitti precedenti erano stati usati proiettili a palla ramata. In
questa occasione, dunque, il killer attinse per la prima volta a una
seconda scatola di proiettili, anche questa, come la precedente,
prodotta attorno al 1966.
● Le due vittime furono raggiunte da 8 colpi d'arma da fuoco in
totale (3 lui, 5 lei), ma i bossoli trovati sul luogo del delitto furono
soltanto 5. Un particolare quello dei bossoli mancanti che si era già
riscontrato nel 1974 (pur con le scusanti del caso) e che si ripeterà
nel 1983 e nel 1984. La faccenda dei bossoli mancanti rispetto ai
colpi effettivamente esplosi ha fatto nascere la teoria – non
ulteriormente suffragata e dagli esperti giudicata poco attendibile -
secondo cui il o i MdF usassero due pistole, una delle quali
automatica (dunque che non rilasciava bossoli).
● La povera Carmela De Nuccio venne ritrovata con gli occhi
sbarrati e la parte anteriore della collana che portava al collo fra le
labbra. Secondo alcune ricostruzioni, la collana le era scivolata n
bocca nel momento in cui il killer l'aveva presa di peso e portata sul
luogo dove poi aveva effettuato le escissioni (ricostruzione che
sembrerebbe corretta nel caso in cui l'assassino l'avesse sollevata e
caricata di peso su una spalla e dunque la De Nuccio si fosse
ritrovata con la testa penzoloni e la collana le fosse ricaduta verso il
volto).
Tuttavia Ruggero Perugini ha sempre dichiarato (sia al Processo
Pacciani, sia recentemente in uno speciale sul MdF andato in onda
su Canale 9) che a suo parere quella collanina fu infilata
appositamente dall'assassino fra le labbra della ragazza in modo
che l'immagine della vittima richiamasse l'immagine di un
frammento della "Primavera del Botticelli", una cui copia era stata
ritrovata e sequestrata diversi anni dopo a casa di Pietro Pacciani.
Mostrologia a Mosciano
Sono ovviamente nate numerose teorie su cosa abbia realmente
visto Enzo Spalletti la notte del delitto. Di seguito le ipotesi
avanzate:
1.
Unknown17 dicembre 2021 alle ore 08:38
Risposte
1.
Luigi Sorrenti3 gennaio 2022 alle ore 02:54
Ciao, grazie per i complimenti.
La testimonianza dell'uomo che sentì l'autoradio fino alle
22.45 è - come riportato - molto incerta. Una certa vulgata
mostrologica la dà per veritiera, sostenendo persino che
la canzone che girasse prima del silenzio fosse "Imagine",
ma a livello documentale è una testimonianza che non
risulta.
Alla fine l'orario del delitto viene desunto più che altro
dal fatto che i due giovani avrebbero dovuto rincasare
piuttosto presto. Arrivarono alla piazzola attorno alle
22.30 senza dunque potersi trattenere molto. Risulta
molto probabile che l'assalto sia avvenuto entro massimo
una mezz'ora dal loro arrivo. Più realisticamente entro
pochi minuti.
2.
Anonimo18 novembre 2022 alle ore 06:47
2.
Anonimo25 dicembre 2021 alle ore 12:17
1.
Anonimo13 maggio 2022 alle ore 09:07
2.
Marco25 agosto 2022 alle ore 07:27
Anonimo,interessante considerazione
3.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:39
3.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:40
4.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:43
il vero mostro e' una persona sola e stop! questa la mia teoria
,uno che ha tanto sofferto per amore lasciato dalla fidanzata , il
primo delitto non centra niente con quelli a partire dal 74 ,
questo stronxo ha trovato la pistola durante le ricerche
dell'arma la tenuta nascosta e poi messa in azione anni dopo.
sardi e compagni di merenda non centrano una mazza!
Rispondi
Le Bartoline
Dopo il delitto
Un nuovo duplice omicidio, a poco più di quattro mesi dal
precedente, scatenò nell'opinione pubblica la vera e propria psicosi
da serial killer.
Due giorni dopo, il 24 ottobre, venne scarcerato Enzo Spalletti che
ben presto scomparirà definitivamente dalla vicenda. L'uomo si
ritirerà a vita privata e, ancora oggi a distanza di tanti anni, rifiuta
categoricamente di parlare con chicchessia dell'argomento (il che,
per certi versi, può essere anche comprensibile).
Dopo questo duplice omicidio, gli inquirenti entrarono per la prima
volta in possesso di un ipotetico identikit dell'assassino, ma
aspettarono quasi un anno prima di divulgarlo.
Il 4 Novembre 1981, il Giudice Istruttore del Tribunale di Prato,
dottor Salvatore Palazzo, richiese una perizia psichiatrica
sull'autore degli omicidi, nominando come perito il dottor Carlo
Nocentini, all'epoca psicologo e psicoterapeuta presso una struttura
pubblica. Nocentini, che verrà ascoltato al processo contro i
Compagni di Merende, parlerà di un soggetto probabilmente
affetto da sindrome paranoide e porrà l'accento su un evento
traumatico avvenuto in età infantile, forse avente a che fare con la
figura materna, che potrebbe aver scatenato l'odio del cosiddetto
Mostro nei confronti delle donne.
L'identikit:
A questo delitto risalgono le segnalazioni più importanti riguardo
un uomo visto nei pressi della scena del delitto in orario
compatibile con lo stesso. Di conseguenza, a questo delitto risale
l'identikit più celebre, quello che potremmo definire "ufficiale", del
MdF. Riportiamo due segnalazioni, verbalizzate dai carabinieri nei
giorni immediatamente successivi al duplice omicidio, forse
riguardanti la stessa persona:
1. Due fidanzati della zona, Giampaolo Tozzini e Rossella Parisi,
riferirono che fra le 23.40 e la mezzanotte di giovedì 22 ottobre,
sullo stretto "ponte della Marina" incrociarono un'automobile di
colore rosso che proveniva dal luogo del delitto e procedeva a
velocità sostenuta, alla cui guida c'era un uomo di circa 45/55 anni,
dal volto arcigno e sconvolto. Da questa segnalazione venne poi
realizzato il celebre identikit del MdF e dunque possiamo dedurre
che la polizia prese in seria considerazione questa testimonianza.
1.
Alessiozazzimostrodifirenze31 marzo 2022 alle ore 08:49
2.
Anonimo17 dicembre 2022 alle ore 12:18
Particolarità a Baccaiano
● I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo
nudo così come a Mosciano e Calenzano, ma diversi da Rabatta e
da Signa, con impresso sul fondello la lettera H. Provenivano dagli
stessi lotti prodotti attorno al 1966. La pistola che sparò era
ovviamente sempre la stessa.
● Dalle testimonianze raccolte fra parenti e amici della coppia,
risulta che Paolo e Antonella fossero estremamente legati,
innamoratissimi e quasi inseparabili, tanto da venir
chiamati Vinavil. Dalle stesse testimonianze emerse che Antonella
era rimasta fortemente impressionata dagli omicidi commessi dal
MdF; per questo i due giovani evitavano per quanto possibile di
appartarsi in automobile oppure sceglievano posti non
eccessivamente isolati, poco adatti a un assalto del killer, come
appunto la piazzola sul bordo di via Virginio Nuova.
● Secondo la testimonianza al Processo Pacciani di tale Pancrazio
Matteuzzi, amico ed ex collega del Mainardi, alcuni mesi prima del
delitto la coppia era stata molestata da un guardone che aveva
come particolare connotazione fisica l'essere claudicante.
Stando a quanto dichiarò sempre al Processo Pacciani l'ispettore di
polizia e dirigente della SAM, Riccardo Lamperi, era stata svolta
un'indagine su tale guardone, il quale era stato successivamente
identificato ma poi giudicato estraneo ai fatti.
● Il giorno del delitto, in una paese vicino, Cerbaia, ricorreva la
festa patronale. Questo particolare rese la via Virginio Nuova,
teatro dell'omicidio, abbastanza trafficata nelle ore serali.
● La scelta di un luogo piuttosto esposto per commettere l'omicidio
può indicare 4 cose:
1. estrema sicurezza nei propri mezzi da parte del MdF;
2. difficoltà a trovare coppie appartate in quel periodo;
3. volontà di uccidere proprio quella coppia e quindi approfittare
dell'unico momento disponibile per compiere il duplice delitto;
4. errata valutazione delle difficoltà da parte del MdF, che avrebbe
dovuto necessariamente poi spostare il corpo di Antonella in un
posto più appartato per procedere con l'escissione: quanto meno
oltre la vegetazione che su tre lati circondava l'automobile.
Qualunque sia la risposta, la scelta del luogo è stata estremamente
audace.
● Come detto, la coppia aveva verosimilmente già consumato il
rapporto sessuale quando ebbe inizio l'azione omicidiaria. Questa è
indubbiamente un'anomalia nel modus operandi del MdF e
potrebbe far pensare a un impulso improvviso e non programmato
dell'assassino. Che il rapporto fosse stato già consumato è stato
desunto da un preservativo usato e annodato che venne rinvenuto
sul tappetino posteriore della macchina. Va tuttavia precisato che
quel preservativo non venne mai analizzato, dunque non fu
possibile stabilire con certezza a quando risaliva. Risulta tuttavia
difficile credere che due ragazzi lasciassero un preservativo usato
per più giorni all'interno della vettura che regolarmente usavano.
Oltretutto Paolo era meccanico e quindi si suppone molto attento
alla cura e alla pulizia della propria automobile.
● Come abbiamo visto, durante l'azione delittuosa furono sparati
nove colpi d'arma da fuoco: sette attinsero la giovane coppia, due
andarono a colpire i fari dell'automobile. Per la prima volta furono
recuperati tutti i bossoli.
Questo è il numero di colpi più alto sparato dal MdF durante uno
dei suoi delitti. Considerando che anche a Scopeti furono sparati
nove colpi e considerando le dinamiche particolari di questi due
delitti, la maggior parte dei mostrologi ritiene che la pistola del
MdF contenesse appunto al massimo nove colpi, otto nel caricatore
e uno in canna.
● Si è sparsa la voce in svariati ambienti mostrologici che
esisterebbero altri due testimoni del delitto. Questi sarebbero due
ragazzi che attraversavano via Virginio Nuova su un ciclomotore e
che passarono davanti all'automobile incidentata del Mainardi
qualche secondo dopo l'assalto del killer. I ragazzi notarono al
posto di guida un uomo che tentava di nascondere il proprio volto
poggiandolo sul volante, come fosse gravemente ferito. Risulta
facile intuire che tale persona sarebbe stata il killer, il quale stava
cercando di spostare l'automobile incidentata dal fosso.
In realtà, non esiste alcun verbale che attesti la presenza di questi
due testimoni. Chi sostiene la loro esistenza, giustifica la mancanza
di un verbale con il fatto che i due ragazzi fossero minorenni,
dunque avrebbero testimoniato oralmente e sarebbero stati lasciati
andare; altri - più saggiamente - sostengono che i giovani non si
presentarono mai a testimoniare ma parlarono semplicemente in
paese di ciò che avevano visto, lasciando così che si spargesse la
voce.
Risulta quanto meno ostico farsi andare bene queste spiegazioni, in
ogni caso non essendoci prova documentale che attesti la reale
esistenza dei giovani testimoni, al momento tale episodio in questi
scritti viene derubricato a una delle tante leggende metropolitane
che si sono sedimentate nel corso degli anni e che purtroppo ancora
oggi alimentano la vasta storia del MdF.
● Il giorno dopo il duplice omicidio, verso le 11 del mattino, venne
ritrovata sul luogo del delitto una bustina di un farmaco,
il Norzetam, usato contro il deterioramento cognitivo di grado lieve
nelle persone anziane. Si dice (non si sa bene quali siano le fonti
comunque) che Francesco Vinci facesse uso di questo medicinale.
Tuttavia i tempi e i modi con cui questo farmaco venne rinvenuto,
non escludono affatto che possa essere stato lasciato da qualsiasi
altra persona capitata successivamente sul luogo del delitto.
● Secondo una relazione di servizio del brigadiere Salvatore
Oggianu del comando di Montespertoli che raccolse le
dichiarazioni di Vitalia Melis, moglie di Francesco Vinci, esisteva
una discreta probabilità che la vittima femminile del duplice delitto
di Baccaiano, Alessandra Migliorini, conoscesse lo stesso Francesco
Vinci. Nel periodo del delitto, infatti, il Vinci lavorava a
Montespertoli, effettuando riparazioni nella casa del genero, il
quale a sua volta risultava imparentato appunto con la Migliorini.
Si noti che Francesco Vinci si trovava a bazzicare per un motivo o
per l'altro i dintorni dei luoghi di tre dei quattro duplici omicidi
commessi fino a quel momento dal MdF.
● Sempre a proposito di sardi, dal rapporto del
colonnello Nunziato Torrisi, di cui si parlerà abbondantemente in
seguito e che rappresenta ancora oggi il più grande testo d'accusa
nei confronti di Salvatore Vinci, risulta che il 6 gennaio 1983 due
testimoni, Bruno Manetti e Carlo Alberto Falteri, riferirono agli
inquirenti di aver incrociato la sera dell'omicidio di Baccaiano un
uomo sospetto avente una statura di 165/170 centimetri circa, dai
capelli scuri, con pantaloni chiari e con maglietta fino al petto chiara
e nella parte superiore a strisce scure.
Più precisamente è riportato quanto segue: "...nel percorrere a bordo
di una motovespa la strada provinciale, proveniente da Montespertoli in
direzione di Baccaiano, all'uscita di una curva ad ampio raggio, a circa un
centinaio di metri dal posto del delitto, si sono trovati improvvisamente
davanti ad un uomo sulla strada, sopra descritto, il quale, al suono del
clacson della vespa, nello spostarsi per paura, ad un tratto è scivolato nella
cunetta laterale della strada. Anche qui, può sembrare una semplice
coincidenza, se fosse la sola, che la persona indicata ha le medesime
caratteristiche fisiche del VINCI Salvatore, il quale, all'epoca, secondo la
descrizione della PIERINI Ada dovrebbe essere in possesso di una
maglietta a fondo rosso mattone scuro, con delle strisce chiare sul davanti
di color beige-nocciola."
(La suddetta Pierini Ada era la compagna dell'epoca di Salvatore
Vinci, NdA).
● Dopo questo delitto prese sempre più corpo la voce secondo cui il
killer fosse un chirurgo che usava il bisturi per asportare il pube
delle donne. Si cominciò a parlare fra la stampa e la popolazione del
cosiddetto Chirurgo della Morte, probabilmente un ginecologo. Su
qualcuno di questi si concentrava anche qualche flebile sospetto
degli inquirenti.
La notte stessa del delitto, infatti, le forze dell'ordine si recarono a
casa di un dottore da tempo sotto osservazione per controllarne
l'alibi. Il dottore non aprì la porta anche se poi in un lungo
interrogatorio successivo, sostenne di essere sempre stato in casa
quella notte e di non aver sentito il campanello a causa dei sonniferi
che regolarmente prendeva per dormire.
Sebbene non vi siano certezze in merito, è probabile si trattasse del
ginecologo di cui sospettava pubblicamente il giornalista Mario
Spezi e di cui abbiamo già parlato ai tempi del primo duplice
omicidio del 1981 a Scandicci: il famoso Dottor B., che viveva solo
con l'anziana mamma.
Meno probabile che l'abitazione ispezionata fosse quella sita in
Mercatale Val di Pesa di un altro noto ginecologo, sicuramente
attenzionato dalle forze dell'ordine e identificato nella vulgata
popolare come implicato nei delitti del mostro. Tale ginecologo, di
cui avremo ampiamente modo di parlare in seguito, tuttavia per
quel che ci risulta, all'epoca del delitto di Baccaiano non era ancora
entrato nel mirino degli inquirenti.
● Il 30 giugno 1982 venne divulgato l'identikit del MdF realizzato in
occasione del duplice omicidio di Calenzano, facendo scattare una
vera e propria psicosi fra la popolazione. Arrivarono centinaia di
segnalazioni per lo più anonime alle forze dell'ordine. Il gestore del
bar "Il Cavallino Rosso" di Valenzatico (Pistoia), tale Giuseppe
Filippi, arrivò a togliersi la vita perché oggetto di curiosità e
persino insulti in quanto estremamente somigliante all'identikit.
● Altra ipotesi avanzata nuovamente dopo il delitto di Baccaiano fu
la cosiddetta "ipotesi Filastò", secondo cui il MdF era un uomo in
divisa. A questo delitto risalgono infatti le dichiarazioni di Luciano
Calonaci, rese in un'udienza del Processo ai CdM, che tenderebbero
a puntare il dito verso un misterioso poliziotto. Portato da Filastò
come teste, Calonaci affermò che il giorno dell'omicidio di
Baccaiano attorno alle 21.30 aveva visto davanti casa sua, a Cerbaia,
una macchina della polizia procedere molto lentamente come in
ispezione. Dentro la macchina c'era un uomo solo che si guardava
attorno. La descrizione di questo "poliziotto" è simile alla
descrizione fatta da altri testimoni del MdF (capelli biondi, corti,
tagliati a spazzola). Secondo Calonaci, quando questa persona si
accorse di essere ben illuminata dalle luci della festa e osservata,
cercò di nascondersi o quanto meno di pararsi il volto.
In realtà durante il controinterrogatorio del PM Paolo
Canessa emersero alcune contraddizioni in questa testimonianza:
▪ quando Calonaci, il 10 Settembre 1985 (3 anni dopo l'omicidio di
Baccaiano), andò a denunciare questo fatto, dichiarò di aver visto la
macchina e il poliziotto il giorno prima dell'omicidio e non lo stesso
giorno;
▪ la distanza fra luogo di questa individuazione e luogo del delitto
era di circa 7 km, non proprio vicinissimi;
▪ Calonaci non era neanche certissimo che quella da lui vista fosse
una macchina della polizia.
Tutto sommato quindi, questa potrebbe essere una testimonianza
che lascia il tempo che trova.
● Si dice che la sera dell'omicidio, un noto magistrato era
impegnato in una partita a carte (alcuni dicono a cena) a casa di
amici, proprio nei pressi di Baccaiano e dunque molto vicino al
luogo dell'omicidio. Tale magistrato con ogni probabilità è stato
identificato in Pier Luigi Vigna, colui che potremmo definire il più
grande nemico del MdF. Per molti mostrologi, questa fu la prima
vera sfida che il killer lanciò alle forze dell'ordine.
● Si dice inoltre che poco dopo l'omicidio, la linea telefonica della
zona di Baccaiano ebbe un improvviso guasto, interrompendo
qualsiasi possibile comunicazione. Su questo punto però non vi è
un particolare riscontro documentale in merito.
● A proposito di linee telefoniche, poco dopo la mezzanotte del 1
luglio 1982 (esattamente dodici giorni dopo il duplice omicidio),
arrivò una telefonata a casa di Paolo Mainardi. Tale telefonata fu
presa da Tullio Mainardi, lo zio di Paolo; in essa una voce anonima
dichiarò semplicemente "il mostro ha colpito ancora". Stando al
verbale reso il 9 luglio 1982 dallo stesso Tullio ai carabinieri di
Montespertoli: "la voce udita al telefono era fioca, parlava con calma,
senza apparenti infrazioni dialettali e direi che presumibilmente si trattava
di una voce maschile.".
L'uomo inoltre affermò che né prima né dopo erano giunte altre
telefonate del tipo di quella testé detta.
● Durante il Processo ai CdM, il futuro reo-confesso Giancarlo
Lotti che, a suo dire aveva partecipato con il ruolo di palo al
duplice omicidio, dichiarò che lui, Pacciani e Vanni arrivarono sul
luogo del delitto a bordo di due automobili, le parcheggiarono sul
ciglio della strada, scesero dalle vetture e dopo un breve
conciliabolo diedero il via all'azione omicidiaria, ma la pronta
reazione del Mainardi li costrinse a una rapida fuga senza poter
praticare le escissioni.
È stato più volte dimostrato da diversi mostrologi come questa
ricostruzione della dinamica sia inconciliabile con il transito della
automobili registrato quella sera su via Virgilio Nuova in
prossimità del luogo del delitto. In particolar modo, nel libro "Al di
là di ogni ragionevole dubbio", scritto da Paolo Cochi, Michele
Bruno e Francesco Cappelletti viene evidenziato come con ogni
probabilità il delitto si sia consumato fra il passaggio dell'auto del
Carletti e quello dell'auto in direzione opposta di Poggiarelli e
Calamandrei. Considerando che le due vetture si sono incrociate un
centinaio di metri dopo il bivio per Poppiano e quindi a una
distanza complessiva di circa 600 metri dalla piazzola del delitto,
pur ammettendo che procedessero entrambe molto lentamente, fra
il transito davanti alla piazzola della prima automobile e quello
della seconda non potevano essere passati più di due, massimo tre
minuti (vedasi il calcolo dei tempi nel prossimo capitolo), un lasso
di tempo che si riduce ulteriormente se consideriamo il fascio di
luce con cui le automobili illuminavano con un certo anticipo la
scena del delitto. In questo lasso di tempo non è chiaro che fine
avessero fatto le automobili su cui erano arrivati il Pacciani, il Vanni
e il Lotti, considerando che non erano state viste né ferme sul ciglio,
né avviarsi frettolosamente dal luogo del delitto, né tantomeno
sfrecciare lungo la strada, che pure in quel punto piuttosto rettilineo
offriva una buona visibilità da ambo i lati.
● Le vittime femminili dei primi tre delitti che fino a quel momento
si sapeva fossero stati commessi dal MdF (la Pettini, la De Nuccio e
la Cambi) avevano una superficiale somiglianza fisica fra loro: tutte
molto minute, con i capelli scuri e la carnagione chiara. Questo
aveva portato a credere non solo che ci fosse un'ideale vittima del
mostro, ma anche che le coppie fossero scelte con largo anticipo,
controllate e seguite. Del resto, le dichiarazioni sui presunti
pedinamenti delle vittime femminili avevano forgiato e avvallato
questa idea. Dal delitto di Baccaiano in poi, questa teoria cominciò a
vacillare, sia per la tipologia di vittima femminile (la Migliorini era
fisicamente del tutto diversa), sia per l'idea di delitto improvvisato
e dettato dall'impulso che si ebbe nell'occasione. Col delitto
successivo, a Giogoli, tale teoria fu definitivamente accantonata per
poi tornare in auge con il delitto del 1984 a Vicchio.
● Dopo questo delitto, gli inquirenti trovarono interessante la
particolarità che la Pettini, la Cambi e la Migliorini (vittime del
mostro rispettivamente nel 74, nell'ottobre 81 e nell'82) lavorassero
o avessero lavorato tutte e tre nel campo tessile; la De Nuccio
(vittima del mostro nel giugno 81) lavorava nel campo della
pelletteria, affine al precedente. In un documento ufficiale
dell'epoca, si evidenziava l'opportunità di indagare in tal senso,
anche se c'è da dire che il campo tessile era l'attività predominante
nelle zone dove colpiva il MdF, soprattutto nel pratese.
● Una delle idee che - non si sa come - prese piede dopo Baccaiano
è che il killer seguisse un itinerario a forma di "M" nello scegliere i
luoghi dei suoi delitti. Venne infatti ipotizzato che il delitto
successivo sarebbe stato commesso a Pontassieve. Il 9 luglio del
1982, il "Corriere della Sera" scriveva a tal proposito: "Nella zona di
Pontassieve, ritenuta prossimo obiettivo del maniaco, i luoghi isolati per
gli innamorati sono deserti".
Per la cronaca, il delitto successivo, il MdF l'avrebbe commesso da
tutt'altra parte, a Giogoli.
● IMPORTANTE: Dopo il delitto di Baccaiano le indagini presero
presto un'inaspettata direzione.
Il 3 luglio 1982, infatti, il Procuratore aggiunto Pier Luigi Vigna e il
Sostituto Procuratore Silvia Della Monica, a capo delle indagini sui
delitti del MdF, diedero ufficialmente mandato alle forze
dell'ordine di verificare l'esistenza di eventuali altri delitti
commessi nei dintorni di Firenze a partire dal 1970 con una Beretta
calibro 22, che ricalcassero le modalità degli omicidi commessi dal
mostro. Queste indagini condotte dai carabinieri, forse con qualche
aiuto esterno presumibilmente anonimo, portarono gli inquirenti
sulle tracce del delitto commesso a Signa nel 1968 e
successivamente verso la cosiddetta Pista sarda.
● Come già accennato nel precedente punto, circa un mese dopo
questo omicidio, gli inquirenti scoprirono che la pistola del Mostro
aveva già ucciso a Signa nel 1968, dunque le indagini presero una
direzione del tutto nuova. Cominciarono infatti ad indagare sul clan
dei sardi che ruotava attorno a Barbara Locci, la vittima femminile
di quel delitto.
Alcuni mostrologi ritengono che il collegamento con Signa non solo
sia stato indotto dal Mostro, ma fosse del tutto inesistente. Secondo
costoro, che genericamente e senza il minimo intento offensivo,
chiameremo Complottisti, Baccaiano rappresentò un punto di
svolta nella tragica epopea del MdF. Dopo il delitto, infatti, il killer
avrebbe sentito sul collo il fiato degli inquirenti, rischiando
seriamente di essere scoperto e per tale motivo avrebbe avuto la
necessità di sviare le indagini e allontanarle da sé.
Questa ipotesi prevede, dunque, che fu il Mostro stesso a lanciare
gli inquirenti verso la Pista Sarda che, a questo punto, altro non
sarebbe che un clamoroso depistaggio.
Il noto youtuber fiorentino fiorentino Etrusco Viola è uno dei
fautori della teoria del depistaggio. In precedenza anche il più volte
citato De Gothia aveva abbracciato questa idea (per maggiori
dettagli si rimanda al capitolo dedicato alla Pista Sarda).
Nell'ipotesi che questa teoria possa aver un qualche fondamento,
vediamo dunque quali furono i passi compiuti dagli inquirenti nei
giorni immediatamente successivi a Baccaiano che potrebbero aver
fatto sentire il MdF in serio pericolo:
1. Il bluff della dottoressa Della Monica: per quanto strano possa
sembrare, il killer potrebbe essersi sentito minacciato dalla
possibilità che il Mainardi fosse riuscito a dire qualcosa prima di
morire. Qualcosa magari non di determinante (e del resto come
avrebbe potuto essere diversamente?), ma che potrebbe aver dato
agli inquirenti una pista più o meno concreta da seguire.
2. La divulgazione dell'identikit di Calenzano: come abbiamo visto,
tale identikit fu reso pubblico in data 30 giugno 1982; dunque,
qualora avesse rappresentato davvero e in maniera somigliante il
killer, tale pubblicazione potrebbe aver fatto nascere nel MdF la
necessità di allontanare le indagini da sé.
3. La volontà della Procura di indagare su eventuali altri omicidi
commessi nella provincia di Firenze a danni di coppie: ovviamente
in questo caso parliamo di omicidi diversi da quello di Signa,
realmente commessi dal MdF, che - qualora individuati - avrebbero
potuto essere pericolosi per il killer.
4. Le indagini intraprese proprio nei giorni successivi a Baccaiano
su una Beretta calibro 22 scomparsa da un'armeria di Borgo San
Lorenzo.
Su questo apsetto ci soffermeremo maggiormente nel dettaglio nel
capitolo dedicato a La pistola del Mostro, adesso ci limitiamo a una
breve sintesi.
Attorno alla metà di luglio del 1982 la Procura di Firenze aveva
scoperto che una pistola compatibile con quella usata dal Mostro,
costruita nel 1967 ma messa in commercio a partire dal febbraio del
1969, era scomparsa da un'armeria del comune mugellese. Pare
che Pier Luigi Vigna in persona si fosse mosso per recarsi a Borgo
(il luogo in cui era nato, ad colorandum) e svolgere indagini in tal
senso.
Il primo a raccontare di questo nuovo filone d'inchiesta era
stato Mario Spezi che il 14 e 15 luglio 1982 titolava su "La
Nazione" rispettivamente: "Carabinieri e magistrati si sono recati a
Borgo San Lorenzo. Frenetica attività degli inquirenti" e "Frenetico lavoro
svolto martedì sera a Borgo San Lorenzo dal giudice Pier Luigi Vigna e da
alcuni ufficiali dei carabinieri".
Ecco che, qualora le indagini su tale arma avessero rappresentato
un serio pericolo per il killer, diventava per lui di vitale importanza
tentare di sviare le indagini.
Infatti, risulta facile intuire che, quando pochissimi giorni dopo
arrivò il collegamento con il delitto di Signa, la pista della Beretta
calibro 22 di Borgo fu abbandonata, poiché tale delitto era avvenuto
precedentemente alla messa in commercio dell'arma oggetto di
indagini.
Risposte
1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:43
2.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:26
3.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:28
Risposte
1.
Luigi Sorrenti15 febbraio 2023 alle ore 02:54
Grazie, gentilissimo!
Mostrologia a Baccaiano
Riportiamo ora i dati oggettivi che sono stati riscontrati sul luogo
del delitto e già descritti nel precedente capitolo:
● il sedile del posto di guida copiosamente imbrattato di sangue;
● il freno a mano dell'automobile parzialmente tirato;
● la retromarcia inserita;
● il finestrino sinistro infranto;
● il bossolo rinvenuto sul tappetino posteriore destro della vettura;
● l'orologio di Antonella con il cinturino privo di una delle due
maglie di giunzione rinvenuto sul sedile posteriore;
● la maglia mancante del cinturino rinvenuta in ospedale fra i
capelli di Paolo;
● le chiavi dell'automobile rinvenute sull'erba a una certa distanza
dalla vettura.
● Ci sarebbe inoltre da segnalare una presunta macchia di sangue
sull'asfalto, più o meno al centro della carreggiata. Presunta perché
- come detto - non vi è traccia di questo particolare nei rapporti
ufficiali, ma esiste una documentazione fotografica a opera dai
giornalisti accorsi in loco. Dunque tale macchia potrebbe essere
sfuggita all'occhio degli inquirenti, ma potrebbe anche essere
successiva all'assalto del killer, ad esempio nel caso in cui si fosse
formata mentre il Mainardi veniva caricato in barella e portato
verso l'ambulanza.
● Infine riportiamo la dichiarazione durante il Processo ai CdM del
signor Giuliano Ulivelli, marito della sorella di Paolo Mainardi.
Presentato come testimone dall'avvocato di Parte Civile, Aldo
Colao, Ulivelli dichiarò di aver visionato l'automobile di Paolo
diverso tempo dopo il delitto e questa presentava vistose colature
di sangue nel pannello dello sportello anteriore sinistro (quello del
conducente), lì dove scorre il finestrino. Riportiamo le parole esatte
del testimone perché sono importanti: "Sicché, nel canale dove scorre il
vetro, c'era tanto sangue, con una bella macchia abbastanza larga, gl'era
colato fino in fondo e gl'era andato giù fino... All'intercapedine fra il pa...
Siccome il pannello l'era stato levato, l'era lì appoggiato alla portiera, però
l'era stato levato. Noi s'è visto bene che l'era dietro, però... perché e un
c'era pannello. E allora questo sangue gl'era colato, questa striscia, fino in
fondo, fino alla moquette, insomma, al pavimento della macchina. L'aveva
fatto il bordino dove chiude lo sportello, era risceso fino un pochino in terra
lì della... E tutta questa macchia di sangue c'ha dato molto da pensare. Noi
s'è fatto delle considerazioni, non so se qui le posso dire."
Da questa testimonianza sembra dunque accertato che una vistosa
quantità di sangue fosse colata dalle ferite di Paolo attraverso
l'intercapedine del finestrino anteriore sinistro, scendendo fino al
pavimento dell'automobile.
2. Ipotesi Filastò
Contraria alla versione ufficiale c'è l'ipotesi portata avanti
dall'avvocato Filastò durante il Processo ai CdM e descritta
dettagliatamente nel suo celebre libro "Storia delle merende
infami".
Filastò ritiene che Paolo e Antonella avessero appena terminato il
rapporto sessuale, consumatosi sul sedile posteriore
dell'automobile, quando improvvisa e ferale era cominciata l'azione
d'assalto del MdF. Tutto si era svolto in pochissimi secondi nella
piazzola. Eliminati i due giovani fidanzati, il killer aveva aperto lo
sportello della vettura per mettersi alla guida e portare la coppia in
un posto più nascosto al fine di commettere l'escissione. Durante la
retromarcia per uscire dalla piazzola, un movimento alle sue spalle
della moribonda Migliorini lo aveva però fatto sobbalzare e il MdF
era stato costretto a rimettere mano alla pistola e sparare un ultimo
colpo verso la ragazza (il bossolo trovato sul tappetino posteriore).
Era stata la concitazione del momento a fargli perdere il controllo
della vettura che era finita rovinosamente nella cunetta. Non
riuscendo più ad uscirne, l'assassino era sceso rapidamente
dall'automobile portandosi dietro le chiavi, aveva sparato ai fari per
spegnere le luci, aveva lanciato le chiavi lontano in un gesto di
rabbia ed era fuggito via.
3. Ipotesi De Gothia
Un'ipotesi simile a quella di Filastò la fornì De Gothia in un celebre
scritto denominato "La Notte Dei Salami".
Secondo il rinomato e compianto autore del saggio, il Mainardi non
avrebbe avuto il tempo materiale di mettere in moto l'automobile e
partire nel momento in cui aveva visto l'assassino spuntare
improvvisamente dalla vegetazione che circondava l'automobile.
Dunque, avendo il killer avuto tutto il tempo di fare fuoco verso la
coppia, l'azione delittuosa era iniziata e terminata nella piazzola
iniziale. A supporto di questa ipotesi De Gothia portò delle copiose
ed evidenti colature di sangue sul longherone sinistro della vettura
che – a suo dire – potevano essere fuoriuscite solo a sportello aperto
(quelle che passeranno alla storia mostrologica come
appunto "colature De Gothia"). Poiché queste macchie erano
perfettamente verticali, dovevano obbligatoriamente essere colate
quando la macchina era in piano nella piazzola iniziale e non
quando era già nella cunetta con il muso rivolto verso l'alto e in
posizione obliqua. Questo signifca che, dopo aver ucciso
immediatamente la giovane coppia, il MdF aveva aperto lo
sportello anteriore sinistro per mettersi alla guida quando
l'automobile sostava ancora nella piazzola. Anche secondo questa
ipotesi era stato ovviamente lo stesso assassimo a finire con
l'automobile nel fossato dall'altro lato della strada.
Sia la teoria di Filastò che quella di De Gothia presuppongono
dunque che al passaggio dell'automobile del Carletti (Tempo T0), il
delitto si fosse già consumato.
Successivamente, al primo passaggio dell'auto di Poggiarelli e
Calamandrei, la macchina con il MdF alla guida era appena finita
nella cunetta, tant'è vero che si presuppone che il mostro, seduto al
volante, dovette nascondersi per non essere scorto. Quando, cinque
minuti dopo, i due ragazzi si fermarono sul luogo del delitto, il
killer era invece già fuggito lontano.
Entrambe le teorie, pur apprezzabili, presentano diverse lacune che
vedremo in seguito, in special modo non spiegano il sedile di guida
copiosamente imbrattato di sangue, le dichiarazioni dell'Ulivelli o i
fari dell'automobile già spenti al primo passaggio di Poggiarelli e
Calamandrei. Inoltre, come l'ipotesi ufficiale, non spiegano perché i
primi ragazzi videro il Mainardi seduto avanti, mentre i soccorritori
sostennero che fosse seduto dietro. Anche in questo caso dunque
bisogna ipotizzare un errore di prospettiva.
4. Ipotesi Spezi
Fra l'ipotesi ufficiale e quella di Filastò, ce n'è una intermedia che
descrisse il giornalista Mario Spezi nel suo libro "Dolci colline di
sangue".
La teoria di Spezi è inizialmente simile a quella ufficiale, con il
Mainardi che tenta la fuga ma finisce nella cunetta. A quel punto
però il killer, dopo aver centrato i fanali con due precisi colpi di
pistola, sarebbe entrato nella vettura spostando il corpo del
Mainardi (forse facendolo scivolare nell'intercapedine fra i due
sedili, non viene specificato nulla a riguardo) e si sarebbe seduto al
posto di guida per portare la coppia in un posto isolato ed
effettuare le escissioni. Non riuscendo però a togliere l'automobile
dalla cunetta, il MdF avrebbe lasciato di corsa la vettura portandosi
dietro le chiavi che in seguito avrebbe lanciato lontano.
La dinamica descritta da Spezi, inserita in una narrazione
romanzata come "Dolci colline di sangue", non è troppo dettagliata.
Spezi non colloca temporalmente l'ingresso del mostro
nell'automobile del Mainardi rispetto al passaggio delle vetture
sulla strada, né si pone il problema delle differenti dichiarazioni dei
testimoni.
5. Ipotesi Segnini
Degna di nota è l'ipotesi formulata da Antonio Segnini, ottimo
autore del blog "Quattro cose sul mostro".
Secondo Segnini, l'agguato ebbe inizio nella piazzola, mentre la
Migliorini si rivestiva sul sedile posteriore e il Mainardi era al posto
di guida. I colpi di pistola sparati dal MdF uccisero la Migliorini e
misero temporaneamente fuori combattimento il Mainardi, che
perse o finse di perdere conoscenza. Il mostro fu poi costretto a
nascondersi fra la vegetazione a causa del passaggio
dell'automobile del Carletti; una manciata di secondi che permise al
Mainardi di riprendere conoscenza, mettere in moto l'automobile e
provare a uscire dalla piazzola. A quel punto il MdF ritornò senza
remore all'attacco aprendo il fuoco verso il ragazzo alla guida.
L'automobile finì nella cunetta, il killer sparò ai fari, poi fu costretto
nuovamente a nascondersi a causa del passaggio di Poggiarelli e
Calamandrei. Scomparsa l'automobile dei due giovani, il MdF
estrasse le chiavi dal quadro per aprire il bagagliaio da cui,
arrivandole alle spalle, avrebbe potuto compiere l'escissione del
seno sul corpo di Antonella. Cosa che ovviamente non riuscí a fare
a causa del passaggio di automobili, pur rimanendo a ciondolare
attorno alla vettura incidentata per cinque, sei minuti,
nascondendosi al passaggio delle macchine e sbucando fuori
quando la strada era libera, fino all'arrivo dei primi quattro giovani
che si fermarono.
Sempre secondo la ricostruzione di Segnini, il mostro avrebbe
ascoltato le parole concitate dei ragazzi attorno all'automobile e
avrebbe così appreso che Mainardi era ancora vivo. Attese dunque
che questi si allontanassero, quindi uscì nuovamente allo scoperto e
diede il colpo di grazia al Mainardi, che nel frattempo, pur fra mille
difficoltà, si era trascinato sul sedile posteriore per stare vicino alla
povera e amata Antonella (bossolo trovato sul tappetino posteriore
all'interno della macchina).
Questa ipotesi spiega pienamente l'atavico dilemma delle differenti
dichiarazioni fornite sulla posizione del Mainardi, ma presuppone
che il ragazzo fosse in grado di compiere gesti volontari al termine
dell'azione omicidiaria, particolare che - come vedremo - non è
affatto certo. Inoltre, l'ipotesi Segnini prevede che il MdF fosse
ancora sul luogo del delitto ben oltre dieci minuti dopo l'inizio della
sparatoria. Il che grossolanamente significa che dieci minuti dopo
aver attaccato la coppia, il MdF non era ancora riuscito a uccidere
un ragazzo bloccato in un'auto ferma in una cunetta, pur
ciondolando nei pressi dell'automobile e soprattutto pur
consapevole che il delitto sarebbe stato scoperto da un momento
all'altro.
6. Ipotesi Accent
Secondo il forumista denominato Accent, che ha realizzato una
ricostruzione del delitto accattivante e decisamente alternativa
rintracciabile sul web col nome "Il mostro e la legge di Murphy", le
cose andarono in maniera completamente diversa.
Come Filastò, anche Accent parte dal presupposto che i due ragazzi
erano entrambi sul sedile posteriore ad amoreggiare quando
cominciò l'azione delittuosa del MdF. Mainardi fu il primo a essere
colpito, così a spostare l'auto in retromarcia sarebbe stato il
motorino di avviamento azionato da Antonella in uno slancio dal
sedile posteriore verso il volante. Il killer avrebbe dunque inseguito
l'auto che singhiozzava a marcia indietro fino a fermarsi al centro
della carreggiata. Qui avrebbe aperto la portiera e ingaggiato una
vera e propria colluttazione con Antonella. In questo momento si
sarebbero formate le "colature De Gothia" sul longherone
dell'automobile e la macchia di sangue sull'asfalto. Vinta la
resistenza di Antonella, il killer sarebbe entrato nell'abitacolo e
avrebbe finito la povera ragazza con un proiettile, quindi si sarebbe
messo alla guida dell'automobile. Tuttavia, l'eccitazione per il
duplice omicidio, la concitazione del momento, la poca conoscenza
della macchina, avrebbero fatto finire la vettura nella cunetta.
2.
Anonimo12 dicembre 2022 alle ore 10:35
Il cittadino amico
L'ipotesi dell'aiuto anonimo giunto dall'esterno venne in parte
supportata anche dalle indagini condotte dal solito De Gothia, il
quale nel suo pregevole scritto "Notte Del Cittadino
Amico" riportò un trafiletto de "La Nazione" del 20 luglio 1982 (un
mese dopo Baccaiano dunque) in cui i carabinieri della caserma di
Borgo Ognissanti chiedevano a un anonimo "cittadino amico" di
mettersi in contatto con loro.
Nel trafiletto era specificato che questo cittadino amico aveva già
dato tre volte un aiuto alle indagini e adesso c'era nuovamente
bisogno di un suo supporto. Poiché la data in cui venne pubblicato
questo trafiletto è successiva di tre giorni a quella in cui il Giudice
Istruttore Vincenzo Tricomi iniziò a interessarsi ufficialmente della
Pista Sarda, secondo De Gothia è legittimo supporre che in una
delle tre lettere precedenti (probabilmente l'ultima) potesse essere
stato proprio il "cittadino amico" a indirizzare i carabinieri verso il
delitto del 1968.
Di diversa opinione era il giornalista Mario Spezi che tanto ha
scritto sul tema dei sardi: a suo dire, l'input alla Pista Sarda arrivò
da un anonimo che aveva inviato ai carabinieri dei ritagli di
giornale sul delitto di Signa e che nulla aveva a che vedere con il
"cittadino amico".
Spezi sosteneva di aver ricevuto queste informazioni dal Giudice
Istruttore del Tribunale di Firenze, dottor Vincenzo Tricomi in
persona, colui che per primo aveva cominciato a cercare il MdF fra i
sardi implicati nel delitto del 1968.
Sempre secondo Spezi, con cui il sottoscritto ha avuto modo di
confrontarsi in occasione delle indagini sull'omicidio "Kercher", il
"cittadino amico" aveva invece inviato tre lettere di tutt'altro genere
ai carabinieri di Borgo Ognissanti, in cui affermava di conoscere
bene la psicologia del MdF. Le prime due lettere erano state prese
seriamente, la terza invece venne considerata la missiva di un
mitomane e andò a inficiare le due precedenti: in essa infatti il
"cittadino amico" affermava che il MdF sceglieva il luogo dei delitti
in modo da comporre con l'iniziale della località la parola "BABBO"
(Borgo San Lorenzo, Arrigo, Bartoline). Una teoria che giustamente
venne ritenuta assurda, tuttavia dopo che il quarto duplice
omicidio venne commesso a Baccaiano, gli inquirenti decisero di
andare più a fondo e provarono a ricontattare il "cittadino amico"
con il trafiletto riportato in foto, quasi scusandosi di non avergli
dato troppo credito.
Il tutto si risolse con un nulla di fatto, anche perché il delitto
successivo avvenne a via di Giogoli (Galluzzo).
Teorie a confronto
In definitiva abbiamo tre versioni su come gli inquirenti possano
essere giunti al delitto del 1968 e dunque su come possa aver preso
piede la Pista Sarda:
Nota Bene 2: Talvolta viene affermato (Mario Spezi è stato uno dei
precursori di questa affermazione, ma al giorno d'oggi anche
l'investigatore privato Davide Cannella se l'è lasciato sfuggire) che
i proiettili usati nei delitti del MdF provenissero dalle stesse scatole
dei proiettili usati dal MdF nel 1968. In realtà questo è un falso
storico!
Come dichiarato nel 1984 dalla casa produttrice Winchester e come
esplicitato più che bene nel blog dell'esperto balistico Enrico
Manieri, meglio noto in mostrologia come Henry62, l'unica cosa che
si può affermare con certezza è che le cartucce usate negli otto
duplici omicidi del Mostro sono tutte di produzione risalente
all'incirca al 1966 e corrispondenti a uno stesso lotto. Questa
conclusione è dovuta al fatto che la H stampigliata sul fondello
presentava la stessa imperfezione per tutti i bossoli (sia quelli del
1968, sia quelli dei delitti successivi) e quindi si poteva e si può
affermare con ragionevole certezza che questi proiettili erano stati
fabbricati tutti nello stesso periodo, nella stessa fabbrica e la lettera
H era stata impressa dallo stesso punzone. Non si può
ragionevolmente affermare nulla più di questo, anche perché prima
che il punzone difettoso fosse cambiato, questi avrebbe potuto
stampigliare le H su diverse migliaia di proiettili e di conseguenza
su diverse decine di scatole.
È doveroso fare questa precisazione nell'eventualità - come
vedremo - di un passaggio di mano della pistola fra il 1968 e il 1974.
Affermare che i proiettili provenivano tutti dalle stesse due scatole,
implica infatti un passaggio di mano anche delle scatole. Mentre,
affermare che i proiettili provenivano tutti dalla stessa partita (e a
queste partita possono essere fatte risalire decine di scatole) non
implica necessariamente anche il passaggio delle scatole.
Risulta facilmente comprensibile come questa distinzione sia
tuttavia puramente filologica, perché sarebbe davvero un caso
fortunoso (anche se non aprioristicamente impossibile) che la
pistola passasse in qualche modo di mano dall'autore del delitto del
1968 all'autore dei delitti successivi e quest'ultimo venisse in
possesso di proiettili appartenenti alle stesse partite di quelli
posseduti dal suo predecessore.
1. L'aiuto:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da Fiori o molto più
probabilmente da una segnalazione anonima prodotta da qualcuno
che voleva realmente aiutare le forze dell'ordine. I bossoli allegati al
fascicolo erano un caso e i delitti erano davvero collegati dalla
stessa pistola (forse anche dalla stessa mano, ma non è detto).
2. La rivendicazione:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da una segnalazione
anonima prodotta dal MdF, il quale in pieno delirio di onnipotenza
voleva che si sapesse che lui era stato autore anche di altri crimini ai
danni di coppie. In pratica con quella segnalazione il MdF
rivendicava il delitto di Signa. I bossoli allegati al fascicolo erano un
caso e i delitti erano davvero collegati dalla stessa pistola e dalla
stessa mano.
3. Il piccolo depistaggio:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da una segnalazione
anonima prodotta da qualcuno che NON voleva aiutare le forze
dell'ordine; un anonimo "nemico" (il MdF o un suo sodale, ad
esempio, ma anche una qualsiasi persona ostile ai sardi e/o agli
inquirenti) che voleva cioè depistare le indagini. L'anonimo infatti
sapeva che la pistola era la stessa per tutti i delitti ma
contemporaneamente sapeva che l'autore dei delitti non era lo
stesso, quindi indirizzando gli inquirenti sul caso del 1968, li
indirizzava verso la cosiddetta Pista Sarda, allontanandoli dalla
verità.
È questa banalmente l'ipotesi molto in voga nella prima metà degli
anni '80 del cosiddetto "guardone" che aveva assistito al delitto del
1968, aveva visto dove gli autori di quell'omicidio (eventualmente il
Mele, i Vinci o chi per loro) avevano nascosto (o forse gettato) la
pistola, se n'era impossessato e molti anni dopo era diventato
l'MdF. Per poi infine inviare una segnalazione agli inquirenti e
indirizzarli verso i sardi, dunque lontano da se stesso.
4. Il grande depistaggio:
Il delitto del 1968 venne tirato in ballo da una segnalazione
anonima prodotta da qualcuno che NON voleva aiutare le forze
dell'ordine; un anonimo "nemico" (il MdF o un suo sodale, ad
esempio) che voleva completamente depistare gli inquirenti. A
differenza dell'ipotesi numero 3, in questo caso colui che ha inviato
la lettera anonima sapeva che la pistola usata dal MdF NON era la
stessa del delitto del 1968, però aveva accesso a "luoghi importanti"
e dunque aveva la possibilità di manomettere il faldone del delitto
di Signa, allegando dei bossoli "falsi". In pratica il MdF (o chi per
lui) aveva inventato un collegamento inesistente fra il delitto del
1968 e i seguenti per depistare completamente le indagini e
indirizzarle verso quel gran calderone che è stata la Pista Sarda.
Quest'ultima ipotesi è molto seguita da chi vede nel
dottor Francesco Narducci il MdF e da chi crede che il MdF sia o sia
stato personaggio potente, magari inserito nei palazzi di giustizia.
Al clamoroso depistaggio sembra credere ad esempio un
importante magistrato di Perugia che a lungo ha indagato sul
Narducci. A questa ipotesi hanno creduto e credono due insigni
esponenti della mostrologia, il già citato Etrusco Viola e il mai
troppo compianto De Gothia, il quale addirittura dichiarò di aver
avuto qualche problema a causa delle sue indagini (estranei
entrarono in casa sua e misero a soqquadro la sua roba alla ricerca
di qualcosa).
1.
Phoenix10 luglio 2021 alle ore 13:56
Risposte
1.
Luigi Sorrenti22 luglio 2021 alle ore 11:29
Ciao. Non esiste certezza che la lettera anonima facesse
esplicito riferimento a Castelletti di Signa piuttosto che a
un generico delitto a sfondo sessuale brillantemente
risolto dalla magistratura. Oltretutto, per quello che può
valere, la prima volta che si parla di lettera anonima
(nell'articolo di Sgherri), Signa non è citata. Il problema è
che quei pochi che hanno visto la lettera, o sono morti o
negano di averla ricevuta.
2.
Phoenix25 luglio 2021 alle ore 11:20
Risposte
1.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:36
3.
Phoenix25 luglio 2021 alle ore 11:31
4.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:32
I sardi mangiano u porceddu e u casumarcizu non vanno ad
ammazzare coppiette .. a hh aha h a quanti completi deficenti
hanno scritto e indagato su questo caso solo per fare soldi.
Rispondi
5.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:34
Le frequentazioni mugellane
Uscito indenne dal processo, il Vinci continuò la sua vita fatta di
piccoli reati e violenze domestiche.
Nel 1972 fu condannato per furto e detenuto fino al marzo del 1973,
quando gli fu concessa la libertà provvisoria con l'obbligo di
residenza. Uscito dal carcere, si trasferì con la famiglia sulle rive
dell'Arno, in via Gramsci, sempre a Montelupo Fiorentino.
Nei primi mesi del 1974 conobbe e divenne l'amante
di Alessandrina Rescinito una donna originaria di Barberino del
Mugello, in quel momento senza fissa dimora. Il Vinci obbligò la
sua famiglia ad accogliere in casa la nuova fiamma, ma ben presto
contravvenne all'obbligo di residenza e fu incarcerato dal 12 aprile
al 9 settembre del 1974 (cinque giorni prima del duplice omicidio di
Rabatta). Uscito dal carcere, Francesco non trovò la Rescinito in casa
propria, andò dunque a cercarla in casa della di lei madre a
Barberino (e non a Borgo San Lorenzo come viene riportato
erroneamente in quasi tutti i trattati mostrologici). Non la trovò
neanche lì e si rese protagonista di una scenata furiosa nei confronti
della madre, minacciandola di farle passare "guai grossi". Un paio di
giorni dopo, nella campagna di Borgo San Lorenzo, ci fu l'omicidio
Gentilcore/Pettini, il primo convenzionalmente attribuito al MdF.
Dopo il 1974 Francesco Vinci entrò e uscì dal carcere diverse volte
per reati vari. Fu condannato dal tribunale di Lucca per furto e per
porto e detenzione di arma, una rivoltella a tamburo calibro 22.
Contravvenne nuovamente all'obbligo di residenza e tornò in
carcere dal 10 al 27 marzo 1975.
Successivamente fu coinvolto in un altro caso di omicidio. Il 2
Febbraio 1976 un pastore sardo affiliato all'Anonima Sequestri di
nome Natalino Sechi e sua figlia Lorella, residenti in un casolare
nei pressi di Castel San Pietro, vicino Bologna, furono uccisi a colpi
di fucile davanti all'uscio di casa. Il Vinci e il suo amico Giovanni
Calamosca furono accusati dell'omicidio e reclusi dal dicembre del
1976 al marzo del 1977, per poi essere rilasciati in quanto ritenuti
estranei alla vicenda.
Da notare che il Calamosca, proprietario terriero ed allevatore di
bestiame imolese, era in stretti rapporti di affari e amicizia con
alcuni noti esponenti dell'Anonima Sequestri sarda, quali Mario
Sale e Giovanni Farina.
Dopo il Delitto
Il duplice omicidio venne scoperto quasi ventiquattro ore dopo;
precisamente sabato 10 dicembre alle 19.30 da Rolf Reinecke,
imprenditore tedesco che viveva in un appartamento di villa La
Sfacciata, costruzione vicinissima al luogo del delitto e che domina
tutta via di Giogoli. Il Reinecke, avendo già visto il furgone con
targa tedesca fermo nello spiazzo nella stessa posizione quella
mattina, ma a suo dire impossibilitato a fermarsi per via del traffico
su via di Giogoli, in serata si avvicinò al mezzo per scambiare due
chiacchiere con i connazionali. Fatta la macabra scoperta, l'uomo
avvertì immediatamente le forze dell'ordine.
Lo stesso Reinecke si ritrovò in seguito coinvolto nelle indagini: una
prima volta subito dopo l'omicidio quando a seguito di una
perquisizione le forze dell'ordine scoprirono che era possessore di
alcune armi da fuoco non dichiarate; una seconda volta molti anni
dopo quando gli inquirenti cominciarono a indagare sui presunti
festini esoterici a villa La Sfacciata e sul cosiddetto secondo livello,
vale a dire i presunti mandanti degli omicidi (vedasi a tal proposito
il capitolo Il secondo livello).
Tornando alla scoperta dei cadaveri, il fatto che le vittime fossero
due uomini ha dato adito sul momento a due possibili ipotesi: un
errore del mostro che aveva scambiato il Rüsch per una donna
oppure un tentativo di scagionare Francesco Vinci da parte di un
complice, il quale aveva inteso colpire una coppia qualsiasi con la
pistola del MdF, ma senza essere costretto a effettuare le escissioni.
Col tempo sono nate altre ipotesi, come la scelta volontaria del MdF
di colpire una coppia di uomini oppure la necessità di agire in tal
modo data dalla mancanza di coppie appartate in auto.
Il giorno successivo alla scoperta del delitto, nelle vicinanze del
camper (10/15 metri secondo il maresciallo Storchi; 30 metri
secondo l'ispettore Autorino) furono ritrovate fra la vegetazione, in
condizioni tutto sommato buone, alcune pagine di una rivista
pornografica italiana, denominata Golden Gay. Si trattava di una
rivista di pubblicazione mensile il cui primo numero era uscito
nell'aprile del 1981 e che aveva riscontrato scarsissimo successo fra
il pubblico. Stando a quanto riporta l'Avvocato Santoni
Franchetti al Processo Pacciani, a dispetto del nome, tale rivista era
di tipologia eterosessuale e le pagine trovate a poca distanza dal
camper, disposte a formare una specie di altarino, appartenevano al
quinto numero, uscito nell'agosto del 1981.
Particolarità a Giogoli
● In questo duplice delitto, il MdF tornò a usare una cartuccia
a palla ramata insieme a quelle a piombo nudo. Il motivo secondo
alcuni è dato dal fatto che il proiettile a palla ramata si sarebbe
prestato meglio a forare la carrozzeria del furgone, idea smentita
comunque da diversi esperti balistici.
È opportuno ricordare che le cartucce a palla ramata erano state
usate nel 1968 e 1974. Quelle a piombo nudo nei due delitti del 1981
e in quello del 1982. Ricordiamo inoltre che i proiettili venivano
comunque tutti dalla stessa partita (avendo lo stesso difetto sulla
lettera H) e che sono indubbiamente sparati dalla stessa pistola.
● Il singolo proiettile a palla ramata in questo delitto ha comunque
una discreta importanza perché ci mostra come l'autore della serie
omicidiaria a cadenza annuale degli anni '80 avesse conservato
almeno un proiettile della scatola di proiettili usati nel 1968 e nel
1974. Dunque questo singolo proiettile lega una volta di più la serie
omicidiaria degli anni '80 al delitto del 1968. Può sembrare un dato
scontato, ma considerati i 7 anni trascorsi fra il 1974 e il 1981 e gli
addirittura 13 trascorsi fra il 1968 e il 1981, avrebbe anche potuto
non essere così ovvio.
● Come detto, dai fori dei proiettili sul vetro del furgone fu
possibile stabilire da parte dell'equipe di Modena, guidata del
celebre e più volte citato criminologo Francesco De Fazio, che il
killer dovesse essere alto almeno 180 centimetri. Questo calcolo fu
poi contestato dal PM Canessa durante il Processo Pacciani; in
quell'occasione gli stessi criminologi dichiararono di aver creduto
erroneamente che il corpo del Meyer si trovasse sul pianale anziché
su una piattaforma rialzata e dunque l'altezza dello sparatore
doveva essere abbassata di una quindicina di centimetri. Con tale
affermazione si arrivava più o meno proprio all'altezza
dell'imputato Pacciani, compresa fra i 165 e i 170 centimetri.
Questo ovviamente ha fatto nascere diversi dibattiti in seno alle
varie correnti mostrologiche. Per i Paccianisti, i Merendari e
ovviamente anche per i Sardisti (Salvatore Vinci, ad esempio, non
era particolarmente alto), la presunta "ritrattazione" dell'equipe di
Modena sull'altezza del killer era acqua a favore del proprio
mulino. Per i fautori del serial killer unico mai rientrato nelle
indagini o per i Lottiani, invece, è stato solo un tentativo dei periti
di andare incontro alle tacite richieste della Pubblica Accusa. Ipotesi
che - a parere di chi scrive - contrasterebbe nella maniera più
assoluta con la professionalità al di sopra di ogni sospetto da
sempre mostrata dai criminologi modenesi.
● Come già riportato, da accertamenti testimoniali risultò che i due
ragazzi tedeschi erano partiti dalla città universitaria di Münster il 7
settembre. Avevano lasciato la zona di Spessart la mattina
successiva per arrivare a Firenze verso la tarda serata di giovedì 8
settembre, dunque ventiquattro ore prima del delitto.
Tuttavia questo contrasta con la testimonianza della signora Teresa
Buzzichini che nell'udienza del giorno 8 luglio 1997 del Processo ai
CdM dichiarò: "...vedevamo questi ragazzi già da una settimana, che
avevano questo pulmino. Non un camper, un pulmino qualsiasi insomma.
La mattina, si vedeva la radio... si sentiva perlomeno la radio, presto..."
Dunque da un lato abbiamo accertamenti testimoniali che indicano
che i ragazzi la sera del 7 settembre erano ancora in Germania,
dall'altro abbiamo una rispettabile, anziana e simpatica signora che
testimonia in maniera particolareggiata che il camper dei tedeschi
stazionava dalle parti della piazzola di Giogoli già da una settimana
e veniva visto tutti i giorni da lei e dal marito, nel frattempo
deceduto.
È ovvio come la dichiarazione della Buzzichini, sebbene
probabilmente in buona fede, non può considerarsi attendibile. Non
venne tenuta in considerazione neanche nella sentenza del Processo
ai CdM perché non coerente con le testimonianze che provenivano
dalla Germania.
Ne abbiamo accennato sia perché è ottimo esempio di come la
memoria possa riservare brutti scherzi a tanti anni di distanza, sia
perché decisamente più interessante fu la testimonianza resa in
occasione del delitto, del marito della suddetta signora, Giovanni
Nenci.
In data 13 settembre 1983, il Nenci dichiarò ai carabinieri del
Galluzzo che la sera di giovedì 8 settembre attorno alle 20.30 aveva
notato nello spiazzo dove il giorno successivo sarebbe avvenuto
l'omicidio, il camper dei tedeschi regolarmente parcheggiato, al cui
fianco vi era un'automobile Fiat 128 color rosso targata Firenze.
La testimonianza del Nenci potrebbe essere importante perché:
▪ come visto, è molto probabile che la sera dell'otto settembre i due
tedeschi fossero già in zona ed è anche possibile che sostarono nella
stessa piazzola dove il giorno dopo sarebbero stati uccisi;
▪ a possedere una FIAT 128 coupé color rosso in quel periodo era il
futuro compagno di merende, Giancarlo Lotti, il quale proprio nel
febbraio del 1983 aveva acquistato tale vettura;
▪ al momento dell'acquisto la vettura del Lotti era targata Gorizia,
ma è lecito supporre che a sei mesi di distanza, il Lotti avesse già
provveduto al cambio di targa (all'epoca obbligatorio);
▪ d'altro canto, il Nenci parla genericamente di una 128 rossa,
quindi potrebbe essere altrettanto lecito supporre che si riferisse
alla "berlina" della 128, perché se avesse visto una ben più rara e
particolare coupé, avrebbe sentito il bisogno di specificarlo.
Risulta comunque una coincidenza piuttosto curiosa (o forse non è
una coincidenza!) la testimonianza di un uomo che riferisce di aver
visto un modello di macchina simile a quello posseduto da uno dei
compagni di merende parcheggiato a fianco del furgone di due
vittime del Mostro, a circa 24 ore dall'omicidio.
● A proposito di automobile viste nei pressi del camper dei
tedeschi, una guardia giurata di nome Giancarlo
Menichetti dichiarò che passando da via Giogoli la mattina di
sabato 10 settembre (dunque a omicidio già avvenuto ma non
ancora scoperto), notò una FIAT 126 bianca parcheggiata accanto al
furgone, col motore spento e senza nessuno all'interno.
Successivamente gli inquirenti credettero di individuare nel
signor Mario Robert Parker, all'epoca abitante a villa La Sfacciata, il
proprietario della 126. Finito nel mirino delle indagini, Parker
dimostrò di aver ricevuto la 126 bianca, di proprietà della madre,
solo nell'ottobre del 1983 e dunque di non poter essere lui il
proprietario della vettura vista dal Menichetti.
Come il Reinecke, il Parker tornò al centro delle indagini quasi una
ventina d'anni dopo quando le attenzioni della Procura si
spostarono sul cosiddetto secondo livello e anche lui fu accusato di
far parte dei misteriosi mandanti (vedasi capitolo Il secondo
livello).
Piccola postilla: il Menichetti morì nell'ottobre del 1998, colpito a
morte da una fucilata sparata da un ex collega, Lorenzo Boretti, che
affetto da turbe psichiche, si era convinto che il Menichetti fosse il
Mostro di Firenze.
● Un'altra testimonianza emersa nei giorni successivi al delitto è
quella del signor Attilio Pratesi, giardiniere e tuttofare di Villa La
Sfacciata, il quale dichiarò che la mattina del venerdì 9 settembre
verso le 11.30 aveva notato nello spazio dove poi quella stessa sera
sarebbe avvenuto il delitto, un ciclomotore di tipo BETA col
serbatoio a goccia, di colore scuro, appoggiato a un muretto. Notò
anche, a una distanza di cinque o sei metri dal ciclomotore, un
individuo seminascosto dai cespugli sui 45/50 anni, alto circa
165/170 centimetri, di corporatura robusta, con maglietta a maniche
corte a strisce blu e bianche, dai capelli radi, lisci e curati. Costui,
che gli dava le spalle, guardava attentamente verso il campo, con la
schiena rivolta appunto verso la strada.
Qualche anno dopo, quando la Procura di Firenze individuò in
Pacciani l'autore di questi delitti, tornò a interrogare il Pratesi,
mostrandogli le foto di un motorino del Pacciani. Il Pratesi
confermò che presumibilmente si trattava dello stesso ciclomotore,
tanto più che dalle foto si intravedeva sotto la seconda mano di
vernice un colore rossastro molto simile a quello del ciclomotore
che aveva visto a Giogoli la mattina del delitto.
● Come detto, fino al delitto di Travalle, gli inquirenti erano stati
convinti che il MdF scegliesse con notevole anticipo le proprie
vittime femminili, probabilmente sulla base di alcuni canoni fisici,
quindi le pedinasse, ne studiasse le abitudini e i luoghi in cui
solevano appartarsi con i rispettivi compagni. Se però il delitto di
Baccaiano aveva fatto nascere qualche dubbio in merito, quello di
Giogoli effettivamente stroncò questa teoria. Infatti se il delitto era
stato un errore del MdF che aveva confuso il Rüsch per una donna,
sicuramente i due ragazzi tedeschi non erano stati adeguatamente
controllati. Ma anche ammettendo che il mostro li avesse comunque
pedinati e avesse voluto uccidere proprio loro, considerando che i
due tedeschi la sera del 7 settembre erano ancora a Spessart e che
verosimilmente erano partiti per Firenze la mattina dell'8 settembre,
nella migliore delle ipotesi non potevano essere giunti in zona da
più di 24 ore, un lasso di tempo minimo per essere individuati,
pedinati e studiati.
● Questo risulta il secondo omicidio consecutivo in cui il killer – per
un motivo o per un altro – non solo non ha compiuto escissioni, ma
non ha neanche infierito sui cadaveri con l'arma bianca. Risulta a
questo punto inevitabile pensare come nei primi tre delitti (1974 e i
due del 1981) il killer non avesse almeno apparentemente
riscontrato problemi di sorta, cosa che non può certamente dirsi per
gli ultimi due (1982, 1983).
● A proposito della tipologia di vittime scelte dal MdF e del suo
modus operandi, questo risulta un delitto anomalo non solo perché
furono uccisi due uomini, ma anche perché i due tedeschi
verosimilmente non erano impegnati in un rapporto sessuale né in
effusioni amorose.
Scrive a tal proposito il Giudice Istruttore, dottor Mario
Rotella: "Gli uccisi sono due uomini e, pur sussistendo un sospetto di
relazione omosessuale tra loro (poi avallata da riscontri della polizia
tedesca), non risulta minimamente che fossero in atteggiamento intimo al
momento del fatto."
Dunque, indipendentemente dall'orientamento sessuale dei due
giovani tedeschi (la polizia italiana ebbe riscontri sulla loro
omosessualità dai colleghi tedeschi), ciò che veramente ci preme
sottolineare in questa sede è la certezza - come scrive Rotella - che i
ragazzi non erano nel momento dell'assalto impegnati in effusioni
amorose. Ciò significa che l'assassino non era intervenuto per
impedire un rapporto sessuale o prima dello stesso, come era
sempre accaduto nei delitti precedenti.
Sembra dunque cadere, almeno in questa occasione, il movente
sessuale legato a una qualche parafilia dell'assassino. È un omicidio
che, anche se frutto di un errore, risulta apparentemente slegato
dalla serie poiché riguarda una coppia (di fidanzati, di amici, etero,
omo, non è importante), accampata in uno spiazzo, apparentemente
senza legami sentimentali, in cui i due componenti erano ognuno
per fatti propri.
Questo ovviamente acuì nelle forze dell'ordine l'idea che tale
omicidio fosse stato commesso per scagionare Francesco Vinci.
● A tal proposito, il delitto di Giogoli avvenne oltre un anno dopo
quello di Baccaiano e il successivo arresto di Francesco Vinci. Se il
fine del delitto era scarcerare il Vinci, ci si potrebbe chiedere come
mai il MdF o chi per lui avesse aspettato così tanto prima di
intervenire, quando in occasione dell'arresto di Spalletti aveva
atteso circa quattro mesi. Potremmo avere diverse risposte a questa
domanda:
▪ l'omicidio di Giogoli non è stato eseguito per scarcerare il Vinci;
▪ il Vinci era meno importante di Spalletti; o meglio, per una serie di
motivi che non conosciamo, c'era più urgenza di scarcerare lo
Spalletti che non il Vinci;
▪ questa duplice omicidio ha richiesto una preparazione più
accurata che ha portato via molto più tempo;
▪ l'omicidio delle Bartoline non era stato eseguito per scarcerare lo
Spalletti e dunque il fatto che fosse avvenuto a soli quattro mesi di
distanza dal precedente era solo un caso.
● Da un articolo del giornalista Mario Spezi su La Nazione, emerge
che uno o due giorni prima di accamparsi nello spiazzo di via di
Giogoli, i tedeschi provarono a fermarsi con il loro furgoncino nei
pressi della piazzola degli Scopeti (precisamente su via degli
Scopeti davanti al cancello di una villa non lontana delle cantine
Serristori), ma da lì furono allontanati da un metronotte di
nome Gian Pietro Salvadori.
Tale episodio venne confermato durante il Processo ai CdM dal
maresciallo Giuseppe Storchi che nell'udienza del 28 ottobre 1997
riportò questo particolare. Lo stesso Canessa dichiarò che questo
episodio era confermato dagli atti. Stando a quanto detto prima, se i
ragazzi sul furgoncino allontanati dal metronotte erano gli stessi
che vennero uccisi a Giogoli (ed è probabile anche se non abbiamo
la certezza), questo episodio deve essere necessariamente avvenuto
la sera precedente al delitto (giovedì, 8 settembre 1983), cioè non
appena i due giovani tedeschi erano giunti in zona.
Inutile dire che la piazzola degli Scopeti sarà il luogo dell'ultimo
duplice omicidio del MdF.
Nota a margine: Salvadori dichiarò di aver scambiato la coppia
all'interno di un furgone per un uomo e una donna a causa dei
capelli lunghi di uno dei due.
● Questo delitto è passato alla storia come quello che attesta
maggiormente l'inefficienza della polizia, dei rilevamenti balistici e
di conseguenza delle indagini dell'epoca di fronte ai delitti del MdF.
Storica a questo proposito la testimonianza del maresciallo dei
carabinieri Giovanni Leonardi, durante il Processo ai CdM.
Emergono infatti la superficialità con cui furono fatti i rilievi
(misurazioni prese ad occhio a detta dello stesso maresciallo) e la
totale mancanza di un cordone di sicurezza che tenesse lontano i
curiosi. A questa testimonianza risale la famosa frase del presidente
Ognibene: "Maresciallo, mancavano i brigidini e poi era la fiera
all'Impruneta".
● Un altro particolare che sollevò l'indignazione della Corte
durante il Processo Pacciani, fu il trasporto del furgone dei tedeschi
dal luogo del delitto alla caserma dei carabinieri di Ognissanti la
sera stessa del duplice omicidio. Durante questo trasporto, si ruppe
il vetro del furgone, rendendo di fatto impossibile ripetere le
misurazioni sull'altezza dei fori del proiettile rispetto al terreno.
Tuttavia, come ebbe modo di chiarire nell'udienza del 28 ottobre
1997 del Processo ai CdM sempre il maresciallo Giuseppe Storchi,
tale decisione era stata presa dal magistrato (presumibilmente la
dottoressa Della Monica) perché sembrava potesse piovere da un
momento all'altro e dunque per evitare che la pioggia pulisse il
furgone da eventuali impronte digitali.
● Parecchi anni dopo (metà anni '90), il reo-confesso Giancarlo
Lotti dichiarerà esplicitamente che questo delitto era stato
commesso dai Compagni di Merende per scagionare appunto il
Vinci. Vedremo come anche questa parte di deposizione presterà il
fianco a un serrato contraddittorio e lascerà molti dubbi sulla
veridicità complessiva delle sue dichiarazioni.
● Questo risulta l'omicidio che ha fornito alla Procura di Firenze un
paio degli indizi su cui poi si è basato l'intero processo a Pietro
Pacciani. Il blocchetto Skizzen Brunnen e il portasapone di
marca Deis, secondo la Pubblica Accusa, provenivano infatti
proprio dal camper dei tedeschi. Ma di questo si avrà modo di
parlare adeguatamente nei capitoli dedicati alla vicenda giudiziaria
che ha visto Pietro Pacciani protagonista.
● Una testimone di nome Laura Simoncini riferì di aver percorso in
automobile, verso le 21:15 del 9 settembre 1983, ora in cui si può far
risalire l'omicidio dei due tedeschi, via del Vingone, parallela e
sottostante a via di Giogoli. In quell'occasione la donna illuminò
con i fari un uomo proveniente verosimilmente dalla zona del
delitto, dall'età di 40-45 anni, di circa 170 centimetri di altezza, con
indosso una maglietta celeste con strisce rosso orizzontali, pantaloni
scuri, capelli folti, lisci e tirati indietro.
Tale testimonianza verrà riportata testualmente nel celebre
rapporto del colonnello Nunziato Torrisi, il quale ipotizzerà che
l'uomo visto dalla Simoncini fosse Salvatore Vinci.
Scrive a tal proposito, il colonnello: "...Il VINCI Salvatore, che secondo
il nostro parere potrebbe corrispondere alla descrizione della donna,
avrebbe avuto una maglietta a fondo bleu (celeste) con delle righe
orizzontali."
A parlare della maglietta del Salvatore Vinci, sarebbe stata la sua
compagna dell'epoca Ada Pierini
● A proposito di sardi, la convinzione maturata in seno agli
inquirenti che si trattasse di un delitto nato con motivazioni diverse
dagli altri, portò nei giorni immediatamente successivi ad alcune
perquisizioni nei confronti dei personaggi che erano stati coinvolti
nel delitto del 1968. Abbiamo nell'ordine:
1. All'alba dell'11 settembre (dunque poche ore dopo la scoperta dei
cadaveri), venne eseguita una perquisizione a casa del
ventiquattrenne Antonio Vinci, figlio di Salvatore, nipote e amico
di Francesco. La perquisizione nacque in seguito a una segnalazione
anonima che denunciava la presenza di armi a casa di Antonio. La
perquisizione non diede alcun esito. L'alibi del ragazzo per la sera
del 9 settembre venne confermato dalla moglie e da alcuni amici.
2. Quello stesso giorno venne effettuata una perquisizione a casa
di Salvatore Vinci. Anche questa perquisizione non diede esiti. Per
il giorno del delitto, Salvatore dichiarò di essere stato sempre in
casa, tranne per un intervento di lavoro eseguito verso le 16:00 a
Firenze (a casa presumibilmente di una prostituta di nome Luisa
Meoni) e per un breve lasso di tempo fra le 20 e le 21 quando aveva
accompagnato la signora delle pulizie nella sua abitazione a Prato
(per il dettaglio degli alibi di Salvatore Vinci in occasione dei delitti
si veda il paragrafo dedicato al rapporto Torrisi nel capitolo a lui
dedicato).
3. Sempre in data 11 settembre, fu eseguita una terza perquisizione
a casa del maggiore dei fratelli Vinci, Giovanni. Anche questa
diede esito negativo.
4. Fu poi la volta della perquisizione a casa di Carmelo Cutrona, già
sospettato e incarcerato per il delitto di Signa del 1968, prima di
venire completamente assolto. Inutile dire che non venne rilevato
nulla di significativo per le indagini.
5. Il 14 settembre i difensori di Francesco Vinci chiesero al giudice
istruttore Rotella la scarcerazione del proprio assistito. Richiesta che
venne respinta.
6. Due giorni dopo, il 16 settembre, Antonio Vinci venne scoperto
in un cascinale ad Artimino (vicino Prato) mentre trafficava con dei
fucili da caccia detenuti illegalmente. Fu arrestato e processato,
infine assolto con formula piena.
Le indagini sui sardi continueranno ancora a lungo e sfoceranno di
lì a qualche mese con l'arresto di Giovanni Mele e Piero
Mucciarini, rispettivamente fratello e cognato di Stefano Mele.
Entrambi, nel gennaio del 1984, saranno accusati di aver commesso
tutti i delitti attribuiti al Mostro.
● IMPORTANTE: La piazzola del delitto di Giogoli dista
pochissimi chilometri dalla piazzola degli Scopeti, luogo in cui,
esattamente due anni dopo, il Mostro di Firenze avrebbe colpito per
l'ultima volta e anche in questo caso avrebbe ucciso una coppia di
stranieri. La distanza fra Giogoli e Scopeti è quantificabile in poco
meno di 8 km, percorrendo la via più breve (via Torricella, via
Volterrana, per poi imboccare la stessa via di Giogoli), ma in linea
d'area si tratta di una distanza decisamente inferiore. La vicinanza
fra questi due luoghi e il particolare che in entrambi i casi siano
state uccise coppie straniere (dunque parliamo di due delitti in cui
sicuramente le vittime non erano state attenzionate da troppo
tempo), potrebbe portare a pensare a delitti "improvvisati", in cui il
killer avrebbe individuato le vittime in maniera casuale,
incrociandole o incontrandole quindi per un puro caso. Questo
porterebbe a pensare che la zona fra Giogoli e Scopeti fosse
solitamente frequentata dall'assassino, vuoi perché abitava in zona,
vuoi perché la percorreva abitualmente per questioni
private/lavorative, vuoi perché la bazzicava proprio alla ricerca di
possibili vittime, vuoi per un insieme di questi fattori.
● Qualche mese dopo l'omicidio di Giogoli, agli inizi del 1984, la
dottoressa Silvia Della Monica abbandonò le indagini; ne prese il
posto il Sostituto Procuratore Paolo Canessa. A capo delle
operazioni di indagine sarebbe comunque rimasto Pier Luigi
Vigna, Procuratore aggiunto della Repubblica di Firenze, coinvolto
in prima persona a partire dal 1982.
Mostrologia a Giogoli
Ovviamente le teorie per questo duplice omicidio riguardano la
volontarietà o meno del MdF di uccidere proprio due ragazzi.
Vediamo le ipotesi in oggetto:
Dopo il Delitto
Il giorno dopo l'omicidio fu eseguita una perquisizione a casa
di Salvatore Vinci, l'ultimo del clan dei sardi rimasto a piede libero.
In un armadio della camera da letto fu trovata una borsa di paglia
al cui interno erano conservati tre stracci di cotone ben ripiegati,
uno dei quali macchiato di sangue e recante tre strisce grigiastre,
dovute a polvere da sparo. Le analisi su questi stracci non
portarono mai a nulla di certo (vedasi capitolo successivo), ma da
questo momento in poi e fino al 1989, Salvatore Vinci divenne
l'indiziato numero uno per gli omicidi attribuiti al MdF.
L'efferatezza del delitto di Vicchio e la tragica eco che questo ha
avuto sull'opinione pubblica portarono a due effetti immediati: da
un lato una certa perdita di credibilità da parte del Giudice
Istruttore Mario Rotella e di quanti stavano seguendo la Pista
Sarda; dall'altro la nascita il 4 Agosto 1984 per ordine delle Procura
di Firenze della SAM, la celebre Squadra Anti Mostro, con a capo il
poliziotto della Mobile Sandro Federico, il quale seguiva le indagini
sul Mostro sin dal delitto di Mosciano nel giugno del 1981.
In seguito, il 3 settembre e il 13 ottobre 1984, la Procura della
Repubblica di Firenze, nei magistrati Pier Luigi Vigna, Francesco
Fleury e il neo-entrato Paolo Canessa, chiese al dottor Francesco
De Fazio, direttore dell'Istituto di medicina legale e della scuola di
specializzazione in criminologia clinica di Modena, una "Indagine
peritale criminalistica e criminologica in tema di ricostruzione
della dinamica materiale e psicologica di delitti ad opera di ignoti
verificatisi in Firenze nel periodo dal 21 agosto 1968 al 29 luglio
1984".
Il professore De Fazio, a capo di una equipe di tecnici composta dai
professori Salvatore Luberto e Ivan Galliani, cui si aggiunsero
successivamente i professori Giovanni Pierini e Giovanni
Beduschi, esaminò tutti i delitti per poi erigere e consegnare una
prima perizia alla fine del 1984. Nel maggio del 1986, dopo il
duplice delitto successivo compiuto dal MdF, l'equipe
criminologica dell'Università di Modena presentò una nuova
relazione aggiornata (per maggiori dettagli, vedasi
capitolo Accadimenti finali).
Sempre nel 1984, anche se non è nota la data precisa, l'allora capo
del SISDE, Vincenzo Parisi, commissionò al professor Francesco
Bruno una relazione sul profilo psicologico del cosiddetto Mostro.
Tale relazione che non è mai stata resa pubblica (almeno non nella
versione del 1984) aveva come titolo "Profilo comportamentale e
psicologico del Mostro di Firenze" ed evidenziava come l'autore
dei delitti fosse un perfetto conoscitore dei luoghi e probabilmente
svolgesse una professione che lo aiutasse nella sua attività
criminale.
Dieci anni dopo, nel 1994, lo stesso professor Bruno si occupò di
riprendere e ampliare la sua relazione, nonché di renderla pubblica.
Il 15 luglio 1994, il professor Bruno fu testimone della difesa
(avvocati Bevacqua e Fioravanti) nel Processo Pacciani. Il 12
gennaio 1998 fu testimone della difesa (avvocato Filastò) nel
Processo ai Compagni di Merende.
1.
Carmen17 dicembre 2021 alle ore 07:44
2.
Luigi Sorrenti21 dicembre 2021 alle ore 00:10
Salve, concordo con quanto lei sta sottintendendo. Come avrà
visto il fine di questo blog è però presentare tutte le ipotesi
possibili e poi ragionare su base probabilistica.
Rispondi
3.
Anonimo28 aprile 2022 alle ore 08:43
Risposte
1.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:36
il mostro sicuramente e' uno che ha sofferto moltissimo
per amore.
2.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 09:05
La borsa di paglia
Quando nel 1984, dopo gli inutili arresti di Francesco Vinci, di
Giovanni Mele e del Mucciarini, le forze dell'ordine tornarono a
interessarsi di Salvatore, emersero ai loro occhi tutte le verità sulla
vita che costui conduceva. Scoprirono che nonostante l'aspetto mite
e quasi da intellettuale, Salvatore era in realtà anch'egli un uomo
violento, aduso a picchiare le proprie compagne quando queste non
accondiscendevano ai suoi disinibiti desideri sessuali. Scoprirono
che non solo era uomo dalle spiccate perversioni (andava
indifferentemente con uomini e donne, prediligeva le orge e i
rapporti promiscui) ma anche un guardone estremamente abile e
attrezzato, provvisto ad esempio di lunghi chiodi per arrampicarsi
sugli alberi e spiare le coppie ignare.
Il giorno dopo l'omicidio di Vicchio, il 30 luglio 1984, Salvatore
Vinci subì una perquisizione in casa. Qui vennero rinvenuti,
all'interno di una borsa di paglia nascosta in un armadio della sua
camera da letto, tre stracci di cotone. Uno di questi aveva 38
macchie rosso scuro e - stando a quanto riporta il rapporto Torrisi -
"un segno lungo, grigio, lasciato dalla canna, c'erano poi simmetrici altri
segni. Era indubbio che lo straccio fosse stato usato per pulire un'arma".
Il reperto fu analizzato dalla scientifica, i risultati giunsero nella
primavera del 1985. Le macchie rosse risultarono tracce di sangue
umano dei gruppi B e 0. Le macchie grigie erano state prodotte
dalla combustione di polvere da sparo.
Salvatore Vinci dichiarò che la borsa non era sua e che
probabilmente apparteneva a una delle donne che aveva vissuto
con lui.
La compagna del momento, Antonietta D'Onofrio, negò di aver
mai visto prima quella borsa. L'ex moglie e la ex convivente, Ada
Pierini, negarono d'averla mai posseduta. La donna delle pulizie
disse d'averla notata tra l'inverno del 1983 e la primavera del 1984.
Tuttavia, una volta repertate le tracce, "non fu possibile il paragone
con reperti delle vittime dei duplici omicidi, perché non conservati dopo le
autopsie", stando alle parole di Rotella.
Nel 1987 fu fatto un ultimo tentativo. Lo straccio venne inviato in
Gran Bretagna per comparare le tracce di DNA sul tessuto con il
DNA di Salvatore Vinci ma i periti inglesi lo rispedirono indietro in
quanto era trascorso troppo tempo e i campioni erano inutilizzabili.
I magistrati in mancanza dei risultati delle perizie furono costretti
ad alzare bandiera bianca.
In tempi più recenti, con le nuove opportunità offerte dalla
tecnologia, è stato possibile tuttavia eseguire analisi più
approfondite su quei pezzi di stoffa. Nel 1998 fu infatti stabilito che
i campioni di sangue rinvenuti sullo straccio erano compatibili con
quelli delle vittime dei delitti del 1983 (uno dei due tedeschi aveva
gruppo sanguigno B) e del 1984 (Stefanacci era del comunissimo
gruppo 0), tuttavia i segni di polvere da sparo riportavano tracce di
BARIO, ANTIMONIO e PIOMBO, mentre i proiettili della
Winchester usati dal mostro non contenevano antimonio. Dunque,
lo straccio era stato sì usato per avvolgere o pulire una pistola, ma
certamente non la pistola del mostro. Questo – ad oggi - porta a
stabilire che Salvatore Vinci probabilmente mentiva quando diceva
di non aver mai posseduto una pistola, ma nulla più di questo.
Inoltre, a fine 2019, il perito Ugo Ricci è riuscito a isolare sullo
straccio tracce epiteliali (della pelle, NdA) che combaciavano con il
DNA di Salvatore Vinci.
Anche in questo caso, non sembra una grande scoperta l'aver
trovato tracce di DNA del Vinci su uno straccio contenuto in una
borsetta rinvenuta a casa sua, tuttavia questo ci dimostra quanto
meno che il Vinci mentiva quando affermava di non aver mai
saputo nulla di quella borsetta. Cosa comunque che era facilmente
intuibile a priori.
Il rapporto TORRISI
Il 22 aprile del 1986 venne completato dal colonnello Nunziato
Torrisi dell'arma dei carabinieri il già più volte citato rapporto di
180 pagine su Salvatore Vinci. Questo documento, passato alla
storia appunto come Rapporto Torrisi, è considerato uno dei
capisaldi della vicenda del MdF, nonché uno dei maggiori capi
d'accusa nei confronti di un indagato per i delitti del Mostro, e
riassume anni di serrate indagini dal punto di vista di chi – l'intera
arma dei carabinieri - credeva fermamente nella colpevolezza di
Salvatore Vinci.
Comunque la si pensi, pur risultando doveroso ribadire che non
esiste alcuna prova sul fatto che Salvatore Vinci fosse davvero
implicato negli omicidi del MDF, nel rapporto emergono
avvistamenti, particolarità e coincidenze sinistre, oltre ad alcuni
dubbi che tuttora permangono sugli alibi forniti dall'indagato in
occasione di tre delitti attribuiti al MdF.
In estrema sintesi:
● per quanto riguarda gli avvistamenti del Vinci in prossimità dei
luoghi degli omicidi in orari compatibili con gli stessi, in occasione
di due delitti (1982 e 1983) era stata segnalata da due differenti
testimoni la presenza di un uomo che - almeno a parere del Torrisi -
aveva fattezze e verosimilmente abbigliamento simili a quelli di
Salvatore Vinci;
● per quanto riguarda le coincidenze, alcune dei momenti più
significativi della vita di Salvatore Vinci coincisero, sempre a parere
del Torrisi, con alcune date significative nell'epopea del MdF.
Ad esempio, nella primavera del 1974 fu abbandonato dalla moglie
Rosina Massa e nel settembre di quello stesso anno, il MdF
commise il suo primo omicidio. Successivamente, nel 1980,
Salvatore venne dapprima ricoverato in una clinica psichiatrica, in
seguito lasciato nuovamente e definitivamente dalla moglie che era
fuggita a Trieste con un altro uomo; a partire dal 1981 cominciò la
catena di omicidi a cadenza annuale del MdF.
● per quanto riguarda gli alibi, abbiamo tre situazioni da valutare:
1. Castelletti di Signa: Per il delitto del '68, l'alibi del Vinci si rivelò
forse falso, sicuramente non verificabile. All'epoca il verbale con le
dichiarazioni del Vinci riportava: "...uscito di casa, sita in località "La
Briglia " di Vaiano, verso le ore 20.30, si è intrattenuto presso il locale bar
Sport, sino alle ore 22.15, in compagnia di Vargiu Silvano e di un certo
Nicola Antenucci, suo dipendente, di essersi recati successivamente con i
due amici a Prato, presso il Circolo dei Preti, ove sarebbero rimasti a
giocare fino alle ore 24, facendo rientro a casa. Egli conclude affermando di
aver saputo dell'omicidio il mattino del giorno successivo, perché un suo
operaio aveva il giornale e lo stava leggendo..."
In realtà, come si scoprirà in seguito, il "Circolo dei Preti" osservava
il giorno di chiusura proprio il mercoledì e dunque probabilmente
la sera del delitto di Signa era chiuso; è doveroso precisare che non
se ne ha tuttavia la certezza. Interrogato in merito nel 1986 (a
distanza di 18 anni), il Vargiu dichiarerà di ricordare di essere stato
a giocare a biliardo con il Vinci e l'Antenucci, ma (ovviamente, NdA)
di non essere assolutamente in grado di precisare il giorno.
La presunta fuga
Il giornalista Alessandro Cecioni, da sempre convinto che
Salvatore Vinci fosse il MdF, andò a cercarlo fin in Sardegna subito
dopo l'assoluzione. Lo trovò a un matrimonio. Il Vinci all'inizio si
mostrò cordiale e disponibile (del resto Cecioni già lo aveva
intervistato in passato), poi quando le domande si fecero via via più
inquisitorie, cambiò atteggiamento; finché alla domanda "quando
confesserai di essere il mostro?", ebbe una vera e propria esplosione di
rabbia. Cecioni tuttora afferma che se fossero stati soli, lui
difficilmente avrebbe lasciato vivo quel matrimonio. Quella fu
l'ultima volta che Salvatore Vinci fu visto in pubblico e intervistato
sull'argomento. Dal novembre del 1988, almeno a livello mediatico,
se ne persero le tracce.
Un anno dopo, il 13 dicembre 1989, il giudice istruttore Mario
Rotella chiuse definitivamente l'indagine sul Mostro di Firenze
relativa alla cosiddetta Pista Sarda con una sentenza di 162 pagine
nella quale assolse rispettivamente Francesco Vinci, Giovanni
Mele, Pietro Mucciarini, Marcello Chiaramonti, Salvatore Vinci e
anche l'ex indagato e guardone Vincenzo Spalletti. Tale sentenza
indispettì i vertici dell'Arma dei Carabinieri da sempre legatissimi
alla pista investigativa sarda (e in particolar modo a quella che
conduceva a Salvatore Vinci). Fu da quel momento che i carabinieri
smisero di occuparsi del caso del Mostro di Firenze.
A onor del vero va detto che Rotella, pur essendo convinto della
colpevolezza del Vinci, intese agire in tal maniera perché, non
avendo trovato alcuna prova a carico di Salvatore, sarebbe stato
controproducente portarlo a Processo e vederlo assolto. In tal caso,
infatti, il Vinci non sarebbe stato più imputabile per i delitti del
Mostro, neanche se in futuro fossero emerse nuove prove.
Un proscioglimento in fase di istruttoria, invece, avrebbe permesso
una riapertura delle indagini e una nuova imputazione a carico di
Salvatore Vinci, in caso di eventuali sviluppi futuri di carattere
probante. Prove che, ovviamente, non sono mai emerse. Anzi, a
dirla tutta, di Salvatore Vinci non si è mai saputo più nulla. Anche i
suoi figli hanno più volte dichiarato di non sapere che fine possa
avere fatto.
Alcuni anni dopo, nella trasmissione Chi l'ha visto, il detective
privato Davide Cannella dichiarò che Salvatore Vinci era ancora
vivo, si era trasferito in Spagna e telefonava regolarmente ai suoi
parenti in Sardegna.
Nel 2017 anche il documentarista Paolo Cochi ha espresso in
un'intervista su youtube la certezza che Salvatore fosse ancora vivo,
non specificando tuttavia la fonte di questa informazione. Nel
maggio del 2020, un interlocutore telefonico della trasmissione "La
notte del Mistero" dell'emittente radiofonica "Florence
International Radio" ha dichiarato di aver incontrato Salvatore
Vinci nel settembre 2020 e che lo stesso tuttora è ancora vivo. Per
maggiori dettagli, vedasi la sezione dedicata agli Aggiornamenti.
Oggi (primo scorcio 2022) comunque avrebbe circa 86 anni anni.
La teoria "Carlo"
Il giornalista Mario Spezi, fervente sostenitore della pista sarda,
elaborò un'ipotesi diversa che non vedeva in Salvatore Vinci il MdF.
A far nascere questa ipotesi era stata una conversazione avuta con
Francesco Vinci durante una cena. Complice forse qualche bicchiere
di troppo, pare che il Vinci gli avesse infatti confidato: "Il mostro è
uno che si sa muovere di notte, in campagna, e che ha sofferto tanto da
bambino". A sentire lo Spezi, il tono con cui Francesco disse queste
parole era estremamente affettuoso.
Tempo dopo lo Spezi riuscì a identificare il soggetto descritto da
Francesco Vinci nel cosiddetto "Carlo".
Carlo (lo pseudonimo si era reso necessario per questione legali) è
in realtà Antonio Vinci, figlio di Salvatore e della prima moglie
Barbarina, molto legato proprio allo zio Francesco.
Nato nel 1959, attualmente ancora vivo e di professione camionista,
stando a quanto sosteneva Spezi, nel 1974 avrebbe rubato la Beretta
calibro 22 dalla casa del padre e commesso il suo primo duplice
omicidio a Rabatta. A muovere la terribile furia omicida del
ragazzo, all'epoca appena quindicenne, era il dolore per la morte
della mamma nel 1960 e l'odio inestinguibile per il padre che
l'aveva uccisa.
Ma di "Carlo" e della varie ipotesti sardiste si parlerà meglio nel
capitolo successivo.
1.
gionni15 dicembre 2021 alle ore 13:59
1.
Luigi Sorrenti21 dicembre 2021 alle ore 00:04
Ciao, grazie, in realtà sono io a non cercare visibilità. Non
mi è mai capitato di pubblicizzare il mio blog o di
segnalarlo a qualcuno. Vorrei rimanere fuori dal
bailamme mostrologico odierno ed essere letto solo da chi
sa cercare.
Rispondi
2.
Phoenix8 febbraio 2022 alle ore 10:14
Ad integrazione.
*****1974******
"...Infatti, la propria moglie M. R., nella tarda primavera del
1974, stanca delle
continue sevizie a cui viene sottoposta, lo abbandona,
recandosi in Sardegna presso i suoi vecchi genitori i quali,
invece, la rimandano dal marito alla fine dello stesso anno".
[Rapporto Torrisi]
*****1981*******
"Va rimarcato che costei, denunciata dal marito, nel 1981, per
abbandono del
tetto coniugale, è stata assolta, pur essendo pacifico il fatto —
era scappata con un giovane a Trieste —, per aver dimostrato
che egli la determinava, tra l'altro, a condotte riprovevoli."
[Sentenza Rotella]
A correzione.
3.
Luigi Sorrenti8 febbraio 2022 alle ore 21:49
Ciao, ti ringrazio molto per le integrazioni, le avevo omesse
per non appesantire ulteriormente il pezzo, ma posso sempre
aggiungerle.
Per quanto riguarda la correzione, invece, nelle strutture in
special modo psichiatriche, abbiamo i ricoveri volontari e
quelli senza consenso del paziente (Tso).
Nel caso specifico, anche se è stata Rosina (ma potrebbe essere
stato chiunque) a convincere il Vinci a ricoverarsi, si tratta
sempre di ricovero volontario.
Rispondi
4.
Phoenix9 febbraio 2022 alle ore 04:05
5.
alessio zazzi 20 aprile 2022 alle ore 09:14
D'alro canto, il delitto del 1968 NON è stato commesso dai sardi
perché:
▪ Stefano Mele non è mai stato sul luogo del delitto: nessuno l'ha
visto uscire da casa, andare in piazza, incontrare i suoi complici,
aspettare la Locci e il Lo Bianco all'esterno del cinema Michelacci,
cose che lui invece dichiara di aver fatto; inoltre le sue confessioni
sono inattendibili, dimostra di non conoscere luoghi e dinamica;
▪ i sardi non avrebbero sicuramente scelto di uccidere la Locci e il
Lo Bianco proprio la sera in cui i due amanti si portarono dietro
Natalino con il rischio di complicare terribilmente il delitto;
▪ i delitti avvenuti successivamente con la stessa arma, la stessa
metodologia e presumibilmente la stessa mano, le cui motivazioni
appaiono di tipo maniacale e sicuramente non di tipo familiare,
dimostrano chiaramente che col primo delitto i sardi non vi
avevano a che fare.
La probabilità che Stefano Mele fosse sul luogo del delitto sembra
mediamente alta, assolutamente non certa, ma alcuni particolari
farebbero propendere per questa ipotesi. Del resto, come disse il
colonello Olinto Dell'Amico al processo Pacciani: "...la sensazione
che avemmo all'epoca è che lui sul luogo del delitto ci fosse stato."
Non è un caso se durante il Processo di primo grado a Pietro
Pacciani, la Procura di Firenze per bocca del PM Paolo Canessa,
prese a sostenere che il delitto del 1968 fosse sì stato commesso dal
contadino di Mercatale, ma Stefano Mele era arrivato
successivamente sul luogo del delitto. Ipotesi questa, poi
"sbeffeggiata" dal giudice del Processo d'Appello, Francesco Ferri, il
quale da sardista convinto, nel suo libro "Il Caso Pacciani",
riportava testualmente: "...sostiene l'Accusa che il Mele... sarebbe
arrivato a cose fatte ed in realtà l'omicidio sarebbe stato commesso
immediatamente prima dal Pacciani. È questa l'unica maniera che si è
riusciti a escogitare per superare lo scoglio rappresentato dalla matrice
sarda del primo delitto."
Dunque, secondo il giudice Ferri, era così evidente la presenza del
Mele sul luogo del delitto che la Procura era stata costretta a
ricorrere a un ragionamento del tutto improbabile per dimostrare
come quel delitto fosse stato compiuto dal Pacciani.
Schematizzando, di seguito riportiamo nel dettaglio i fattori che
potrebbero indicare la presenza di Stefano Mele sul luogo del
delitto (per approfondimenti si può fare riferimento al capitolo
dedicato al delitto di Signa):
1. il particolare della freccia direzionale lasciata accesa
sull'automobile del Lo Bianco, correttamente riportato dal Mele;
2. il particolare della scarpa del Lo Bianco poggiata allo sportello
anteriore sinistro, correttamente riportato dal Mele;
3. il particolare del numero di colpi sparati durante l'azione
delittuosa, correttamente riportato dal Mele;
4. è difficile che Natalino sia arrivato a casa del De Felice da solo; e
se è stato accompagnato è più probabile sia stato il padre o
qualcuno dei sardi ad accompagnarlo. Collegato a questo punto, c'è
la profonda esitazione che un ormai adulto Natalino ebbe durante
la sua testimonianza al processo Pacciani, prima di
rispondere "NO" alla domanda dell'avvocato Santoni-
Franchetti: "Lei vide suo padre quella notte?". A sentirlo sembra
davvero un momento di grande indecisione del teste su quale
risposta dare;
5. la sensazione che il Natalino adulto menta. È impensabile che –
come sostiene lui – non abbia sentito gli spari che sono detonati a
pochi centimetri dalle sue orecchie in un ambiente chiuso come
l'automobile dentro la quale dormiva, nel silenzio della campagna
toscana, in piena notte. È improbabile si sia svegliato solo all'ultimo
sparo e non abbia visto nulla se non madre e amante della madre
morti;
6. la prova del guanto di paraffina leggermente positiva su Stefano
Mele, pur con tutti i dubbi del caso;
7. la frase detta dal Natalino al De Felice ("mio padre è a letto
malato"), che fa pensare che il bambino fosse stato appunto
indottrinato su quanto doveva dire; le stesse identiche parole
pronunciate anche da Stefano Mele ("ero a letto malato") fanno
pensare a un accordo fra i due;
8. il fatto che Mele alle sette della mattina successiva al delitto fosse
già vestito di tutto punto come in attesa di qualcosa e con le mani
sporche di grasso;
9. la sensazione riportata dal brigadiere Matassino che in
quell'occasione Stefano Mele sapesse già della sorte toccata a moglie
e figlio;
Vediamo ora quali sono gli aspetti che questo delitto NON ha in
comune con i successivi del MdF:
▪ il delitto non avviene nel weekend (l'unico a parte quello di
ottobre 1981);
▪ c'è una forte discrepanza temporale: 6 anni dal delitto successivo,
ben 13 dall'inizio degli omicidi a cadenza annuale (più o meno
lunghi periodi cosiddetti di cooling off possono però non essere
un'anomalia nella letteratura degli omicidi seriali);
▪ non c'è utilizzo di arma bianca (la presenza di Natalino però
potrebbe aver impedito l'overkilling);
▪ mentre negli altri delitti, il MdF non ha alcun riguardo verso la
vittima femminile, anzi spesso tende a lasciare il suo corpo ben
visibile a occhi esterni, se non addirittura in posizione sguaiata, nel
delitto del 1968 il killer copre le nudità della Locci, forse alzandole
le mutandine. Questa oltre ad essere un'importante differenza, fa
inevitabilmente pensare al marito o una persona a lei vicina;
▪ le vittime non sono una coppia di fidanzati, ma di amanti; almeno
inizialmente appare un delitto maturato in ambito familiare, per
vendetta, onore o gelosia e in questo senso si orientano anche le
indagini;
▪ c'è un colpevole: Stefano Mele, marito della vittima, che dopo aver
accusato diversi amanti della moglie, confessa l'omicidio e viene
condannato a 13 anni di carcere;
▪ il legame fra questo delitto e quelli attribuiti al mostro non è
avvenuto in maniera genuina per logica deduzione degli inquirenti,
ma è stato indotto nel 1982 da mano esterna. Come abbiamo visto
nel capitolo dedicato alla pista sarda, la lettera anonima che
informava gli inquirenti del collegamento difficilmente aveva il fine
di aiutare realmente le indagini; questo porterebbe a pensare che,
anche se i sardi sono stati gli autori del delitto del 1968, potrebbero
non avere nulla a che fare con i successivi.
► 4. La pistola con cui è stato commesso il delitto del 1968 dai sardi
non è la stessa con cui sono stati commessi i delitti del MdF. Questa
è ovviamente la teoria già vista nel capitolo dedicato alla pista
sarda del cosiddetto grande depistaggio.
Ora, come già più volte ribadito, tutti coloro che fra i mostrologi
credono più o meno fermamente nella Ipotesi 1 e su questa basano
le loro certezze e le loro elucubrazioni, sono i cosiddetti Sardisti.
Di seguito riportiamo tutte le teorie di estrazione sardista.
Rispondi
Risposte
1.
Luigi Sorrenti8 settembre 2021 alle ore 04:54
Ti ringrazio davvero per i complimenti. Il mio fine è solo
quello di far maggiore chiarezza possibile nel mare
magno della Mostrologia. La maggior parte del merito va
però ai veri studiosi del caso, ai vari Flanz Vinci, Omar
Quatar, Segnini e compagnia bella.
Rispondi
2.
Anonimo18 aprile 2022 alle ore 12:08
Risposte
1.
Luigi Sorrenti20 aprile 2022 alle ore 04:04
Ciao, ben noti a chi scrive queste pagine le interviste di
"Giovanni" sul canale di Flanz. Lo stesso "Giovanni" ebbe
poi modo di intervenire in una puntata de "Le notti del
mistero" su "Florence International Radio" in cui si
parlava di Salvatore Vinci.
Rispondi
3.
Anonimo21 aprile 2022 alle ore 13:49
4.
Anonimo8 maggio 2022 alle ore 03:33
Risposte
1.
Luigi Sorrenti6 giugno 2022 alle ore 06:38
Ciao, se leggi il capitolo "La Pista Sarda", fra le avrie
possibilità è contemplata anche quella che stai
sostenendo. ;-)
Rispondi
5.
Anonimo6 giugno 2022 alle ore 07:28
6.
Anonimo6 giugno 2022 alle ore 07:35
Forse chi "avvisò" gli inquirenti che anche il delitto '68 era
opera della stessa arma era il mostro stesso e voleva solo
appropriarsi di un delitto che era stato erroneamente attribuito
ad altri (Stefano mele). Unica arma, unico serial killer per tutti
gli 8 duplici omicidi. Questa per me è lo scenario più realistico
perché è anche il più semplice. Trovo il passaggio di mano
della pistola una forzatura enorme che non sta in piedi mai. E
diffidare dai testimoni che ricordano a decenni di distanza.
Rispondi
7.
Anonimo13 luglio 2022 alle ore 23:30
8.
Anonimo9 agosto 2022 alle ore 00:05
9.
Anonimo16 gennaio 2023 alle ore 15:19
Che ne pensi?
Francesco S.
Rispondi
Scopeti
Particolarità a Scopeti
● I proiettili usati per questo delitto sono Winchester a piombo
nudo così come Mosciano, Calenzano, Baccaiano, Vicchio e in parte
Giogoli, ma diversi da Lastra a Signa, Rabatta e in parte Giogoli.
Anche questi proiettili hanno la lettera H impressa sul fondello del
bossolo e sono indubbiamente sparati dalla pistola del MdF.
● Per la prima volta nella storia dei delitti commessi dal MdF,
venne trovata sui bossoli una patina di una sostanza che all'analisi
risultò essere un misto fra gesso, silicone e ossido di zinco. Questo
ha portato molti mostrologi sia a ritenere che fra il delitto di Vicchio
dell'anno prima e quello degli Scopeti, il killer avesse cambiato
luogo dove custodiva i proiettili, sia a ipotizzare che l'autore di
questi omicidi (o eventualmente il custode dei proiettili) avesse a
che fare con ambulatori o ospedali ortopedici, in quanto gesso e
ossido di zinco - come è noto - servono proprio per la realizzazione
di gessi ortopedici.
In tempi recenti, il blogger ed esperto balistico Henry62 ha
ipotizzato invece che la suddetta patina potesse essere stata causata
da una contaminazione operata proprio dagli agenti della polizia
scientifica, i quali per poter eseguire le fotografie sui bossoli si
erano serviti di alcune piastrelle trovate in loco (è noto che la
piazzola degli Scopeti era utilizzata dagli abitanti della zona come
discarica), la cui colla avrebbe appunto contaminato i bossoli.
● Venne rinvenuta sul luogo del delitto un'impronta di scarpa
numero 44 che richiamava alla mente quella rinvenuta a Travalle di
Calenzano nell'ottobre del 1981. Solo in seguito si scoprì che
quell'orma apparteneva a un incauto membro delle forze
dell'ordine.
● Nell'edizione pomeridiana/serale del TGR Toscana del 9
settembre 1985, andata in onda poco dopo la scoperta dei cadaveri,
venne detto esplicitamente che il duplice omicidio risaliva a un paio
di giorni prima. Questo dimostra come la prima impressione che si
ebbe al ritrovamento dei cadaveri fu che i due ragazzi fossero morti
da parecchio.
● Per la prima volta il MdF non colpì una coppia in automobile, ma
una coppia in tenda. Inoltre, la Mauriot aveva 36 anni quando
venne uccisa, piuttosto distante dall'età media delle vittime
femminili del mostro. Infine, per la seconda volta, il MdF attaccò
una coppia di stranieri.
Bisogna anche considerare che nell'estate del 1985, dopo il terribile
delitto di Vicchio, la tensione e la preoccupazione per un nuovo
omicidio del mostro, erano alle stelle. La soglia di allerta era molto
elevata, almeno fra gli abitanti della zona di Firenze, soprattutto nei
weekend e soprattutto quel settembre. È dunque molto probabile
che le coppie appartate in automobile in orari notturni
scarseggiassero. Da qui potrebbe essere scaturita la necessità o la
scelta di colpire una coppia straniera, presumibilmente ignara del
pericolo e soprattutto che non era attesa per il rientro a casa;
dunque nessuno avrebbe potuto dare l'allarme prematuramente.
● Per la prima volta il MdF si preoccupò di nascondere i colpi delle
vittime (quello dell'uomo in un anfratto celato da coperchi di
vernice, quello della donna nella tenda). Tre potrebbero essere le
motivazioni di questo gesto:
1. Un atroce scherzo a danno degli inquirenti; un'ipotesi questa,
proposta più volte dal giornalista Mario Spezi, secondo cui il MdF
voleva inviare la sua particolare "missiva" e farla arrivare a
destinazione prima della scoperta dei cadaveri in modo da far
intendere che c'era stato un nuovo delitto e innescare una specie di
terribile caccia alle vittime anziché al Mostro.
Questa ipotesi, tuttavia, perde un po' di credibilità in caso di
duplice omicidio avvenuto non la domenica sera, ma il sabato o
addirittura il venerdì. Sappiamo infatti che la raccolta della posta
non sarebbe avvenuta prima del lunedì mattina e più si tende a
retrodatare il delitto, più le probabilità che i cadaveri venissero
scoperti prima dell'arrivo a destinazione della lettera sarebbero
aumentate. Un assassino che voleva farsi beffe delle forze
dell'ordine come proposto da Spezi, teoricamente avrebbe dovuto
commettere il duplice omicidio quanto più a ridosso della raccolta
della posta e dunque proprio la domenica sera.
2. Il MdF temeva di essere tenuto sotto controllo, voleva quindi che
i cadaveri venissero ritrovati più tardi possibile, per avere il tempo
di rientrare, sistemare tutte le sue faccende, crearsi eventualmente
un alibi. Da questo punto di vista, bisogna anche considerare che
Scopeti era un luogo molto più battuto (da coppie, guardoni,
cercatori di funghi, personaggi vari) rispetto ad esempio alla
Boschetta di Vicchio. Due cadaveri lasciati sul luogo del delitto,
senza nessun riparo, come era accaduto nei delitti precedenti,
sarebbero con ottime probabilità stati scoperti nel giro di poco
tempo.
Da notare che i personaggi tenuti sotto controllo in quel periodo
erano parecchi. Alcuni tuttavia (come il dottor B.) erano
attenzionati da tempo ed erano abituati a ricevere perquisizioni
subito dopo ogni delitto del MdF, dunque la loro eventuale
colpevolezza non spiegherebbe perché proprio a Scopeti avrebbero
dovuto tenere un comportamento diverso rispetto ai precedenti
duplici omicidi, quando erano comunque a conoscenza di essere nel
mirino degli inquirenti.
Altri personaggi invece erano stati attenzionati dopo il delitto
dell'anno prima a Vicchio e in questo caso avrebbe avuto più senso
assumere un comportamento differente rispetto agli omicidi
precedenti: si pensi, ad esempio, a Salvatore Vinci, il quale era
soggetto a pedinamenti e intercettazioni telefoniche, o - come
vedremo nel capitolo denominato La pistola del Mostro - al
personaggio attenzionato dal maggiore Sebastiano Anzà proprio
nel giugno del 1985, perquisito nella sua abitazione fiorentina e
dunque in quel periodo entrato per la prima volta nelle indagini.
Da notare, infine, che né Pacciani, né alcuno dei Compagni di
Merende erano all'epoca del delitto degli Scopeti ancora finiti nel
mirino degli inquirenti.
3. Pur non essendo il killer tenuto sotto controllo, gli eventi accaduti
nella piazzola avrebbero potuto richiamare altre persone, semplici
curiosi se non addirittura le forze dell'ordine. Di qui l'esigenza di
nascondere i cadaveri. Bisogna considerare, infatti, l'eventualità che
il giovane Jean-Michel abbia urlato nel tentativo di sfuggire al suo
aggressore.
Nel silenzio della campagna, esisteva una pur minima possibilità
che qualcuno potesse aver udito quelle grida e allertato le forze
dell'ordine. In piena epoca "Mostro" è probabile che queste si
sarebbero subito precipitate sul luogo del delitto. Il killer potrebbe
aver contemplato tale possibilità e dunque aver predisposto le cose
affinché i cadaveri non fossero immediatamente visibili per aver il
tempo comunque di allontanarsi dalla zona.
● Connesso al punto precedente, il suddetto Salvatore Vinci fu
sottoposto alla prova del guanto di paraffina dopo l'omicidio di
Scopeti. Prova che risultò leggermente positiva alla mano sinistra.
Ancora una volta, però, come già visto nei casi di Stefano Mele e
Carmelo Cutrona, per una persona che svolgeva lavori manuali
come il muratore, la prova non aveva un alto grado di attendibilità.
● In diversi ambienti mostrologici è piuttosto diffusa la voce
secondo cui nel pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 allo
stadio di Firenze (dove era in corso la partita Fiorentina-Sampdoria,
valida per la prima giornata del campionato di calcio di Serie A
1985-86) si era sparsa la notizia di un nuovo delitto commesso dal
Mostro. Addirittura c'è chi sostiene che tale notizia arrivò in tribuna
stampa e venne divulgata da un emittente radiofonica privata. Da
notare che il pomeriggio di domenica 8 settembre, non solo i
cadaveri non erano ancora stati scoperti (lo sarebbero stati il
pomeriggio del giorno successivo), ma addirittura secondo la
versione ufficiale il delitto non era ancora stato commesso (lo
sarebbe stato quella sera verso le ore 23.00).
È doveroso sottolineare che non esiste alcuna prova documentale
che tale notizia si fosse sparsa realmente fra le gradinate dello
stadio, né tantomeno che venne diffusa da una radio privata.
Tuttavia, vista l'insistenza con cui anche a distanza di molti anni,
questa voce persiste e spesso ricorre in molti dibattiti mostrologici,
è lecito contemplare l'evenienza che possa avere un fondo di
attendibilità. Un'ipotesi più volte avanzata (anche
indipendentemente da questo episodio) è che in realtà i cadaveri
delle due vittime francesi fossero stati scoperti prima del
rinvenimento ufficiale, forse da un guardone, forse da una coppia
non regolare o più in generale da qualcuno che non voleva essere
coinvolto nella vicenda e quindi si era ben guardato dal dare
l'allarme, ma che potrebbe non aver mantenuto lo stesso riserbo con
amici, parenti o compagni di voyeurismo, dando di fatto il via a un
sotterraneo propagarsi di voci e illazioni.
● Connesso al punto precedente, risulta un verbale di "sommarie
informazioni testimoniali" reso alle ore 20.00 del 14 settembre 1985
da un operaio (iniziali B.D.) presentatosi spontaneamente alla
caserma dei carabinieri di San Casciano. In tale verbale l'uomo
dichiarava di aver accompagnato sua madre all'ufficio postale di
Castel Fiorentino verso le 7.45 del mattino del 9 settembre 1985
(dunque il lunedì mattina, quando i cadaveri non erano ancora stati
scoperti, NdA) e lì di aver udito una donna di circa 60/65 anni,
anch'ella in attesa che aprisse l'ufficio postale, affermare - testuali
parole - "la mia nipote ascoltando la radio questa mattina ha sentito dire
che il mostro ha ammazzato un'altra coppia". L'uomo non sapeva
precisare il luogo dell'eventuale delitto, dichiarava di non conoscere
la donna che aveva fatto tali affermazioni e di non saper dare
riferimenti su come rintracciarla; ne forniva una sommaria
descrizione, infine asseriva che c'erano state altre persone che
avevano udito tale dichiarazione. L'uomo sosteneva infine che
quando quella stessa sera aveva appreso in TV del delitto appena
scoperto dal MdF, si era chiesto come la donna potesse esserne stata
a conoscenza sin dalla mattina.
A seguito di questo verbale, la stazione dei carabinieri di San
Casciano nella persona del maresciallo Lodato inviò un
fonogramma alla corrispettiva stazione di Castel Fiorentino,
chiedendo urgenti accertamenti sull'episodio riportato dal predetto
B.D.
Non esistono riscontri sugli sviluppi di tali accertamenti.
● Fra gli effetti personali dei francesi, all'interno della tenda, non
venne rinvenuta alcuna fonte luminosa, una torcia o altro oggetto
adatto allo scopo. Il che risulta piuttosto strano considerando che
erano due campeggiatori in viaggio dalla Francia e che, soprattutto
a Scopeti, sostavano in una zona estremamente buia e priva di fonti
luminose esterne. Tanto più che una torcia venne rinvenuta in una
borsa chiusa all'interno dell'automobile della coppia, dunque se
Nadine e Jean-Michel avessero avuto bisogno di una luce avrebbero
potuto attingere a quella. Se non l'hanno fatto è ragionevole
supporre che avessero già a disposizione nella tenda una fonte di
luce e che questa possa essere stata sottratta proprio dall'autore del
duplice omicidio o in misura minore da eventuali curiosi capitati in
zona successivamente al delitto (cosiddetti sciacalli).
● Sempre a proposito di effetti personali dei francesi, sul sedile
posteriore della Golf era posizionato un seggiolino per bambini
appartenente a uno dei due figli della Mauriot, rimasto in Francia.
Quando nel pomeriggio del 9 settembre arrivarono gli inquirenti
sul luogo del delitto, la prima cosa che fecero fu delimitare la
piazzola e - tramite l'utilizzo di unità cinofile - battere la zona alla
ricerca di un ulteriore cadavere, verosimilmente quello
dell'eventuale bambino. Inutile dire che alla mente degli inquirenti
balzò la similitudine con il primo delitto della serie, quello
a Signa in cui nell'automobile assieme alla Locci e al Lo Bianco,
c'era anche il piccolo Natalino Mele.
● Abbiamo accennato al fatto che, secondo alcuni mostrologi, per
esempio secondo il noto blogger Antonio Segnini, Jean-Michel
potrebbe non essere stato nudo durante la sua fuga dalla tenda, ma
potrebbe aver indossato un paio di pantaloni. Questo perchè, da
alcune foto divulgate dal ricercatore Paolo Cochi, tale indumento
venne rinvenuto nei pressi del corpo senza vita del giovane
francese.
I pantaloni erano di taglia 44 (compatibile con il fisico longilineo di
Jean-Michel), di velutto a coste sottili (meno compatibile con il
clima estivo, in ogni caso dalle foto non sembrano pantaloni
eccessivamente pesanti) e marca "Maman" (mamma in francese,
dunque pienamente compatibile con la provenienza del ragazzo). È
piú che ragionevole supporre che tale indumento appartenesse
proprio a Jean-Michel e non fosse finito sul luogo del delitto (che
ricordiamo era cosparso di spazzatura di vario genere) per altre vie.
Dunque, piuttosto che ipotizzare che fosse stato lo stesso assassino,
a omicidio concluso, a recuperare i pantaloni dalla tenda e a portarli
vicino al cadavere di Jean-Michel, secondo Segnini è banalmente
più logico che il ragazzo li avesse con sé durante la fuga, forse in
mano o più probabilmente indossati. Se li avesse avuti in mano,
bisogna pensare a un Jean-Michel completamente nudo nella tenda,
che si sveglia di soprassalto all'assalto del killer, viene ferito, afferra
per normale istinto i vicini pantaloni e - ovviamente senza infilarli -
si precpita all'esterno. Se invece li avesse avuti addosso, bisogna
pensare a un Jean-Michel che nella tenda indossava i pantaloni ma
non le mutande, dato che queste non sono state rinvenute nei pressi
del suo cadavere. Ancora, se li avesse avuti in mano è normale
averli trovati sul luogo dove poi il ragazzo francese sarebbe stato
ucciso. Se invece li avesse normalmente calzati, secondo Segnini
bisogna supporre che sia stato il killer a sfilarglieli, probabilmente
in maniera involontaria mentre lo afferrava per le estremità inferiori
per gettarlo nell'anfratto fra i rovi dove poi il cadavere sarebbe stato
rinvenuto.
Al solito, peró, la situazione è un po' piú complessa di come la
stiamo raccontando. Questo perché, dalla relazione del genetista
forense Ugo Ricci, incaricato dalla Procura di Firenze di analizzare
l’indumento, non risulta alcuna traccia biologica sui pantaloni,
escludendo la presenza di tracce epiteliali sulla tasca del pantalone
stesso.
Premesso che della traccia epiteliale parleremo dopo, l'assenza di
macchie biologiche indurrebbe a pensare che i pantaloni non
avessero alcuna macchia di sangue, cosa difficilmente credibile. È
davvero arduo immaginare che durante gli spari nella tenda e ancor
di più durante il massacro che il MdF ha compiuto con il coltello sul
corpo del povero Jean-Michel, questi pantaloni (in mano o
regolarmente indossati che fossero) non si siano minimamente
sporcati del sangue del ragazzo.
L’assenza di macchie biologiche può avere due spiegazioni:
▪ O, come sostiene Segnini, era così normale che i pantaloni fossero
impregnati del sangue e più in generale del DNA di Jean-Michel
che quando il genetista ha parlato nella propria relazione di assenza
di macchie biologiche, faceva riferimento a tracce che non fossero
appartenute a Jean-Michel e dunque tracce di soggetti diversi
rispetto al proprietario.
▪ Oppure - contrariamente a quanto ci dicono le foto - i pantaloni
non sono stati rinvenuti vicino al corpo del giovane francese, ma
normalmente nella tenda. E solo in un secondo momento - per non
si sa quale motivo - sono stati portati vicini al cadavere e
fotografati. Nel caso, il povero Jean-Michel sarebbe uscito dalla
tenda completamente nudo, come del resto si è sempre ipotizzato.
Negli atti della Procura, viene avvalorata proprio questa versione,
in quanto si può leggere: "Un profilo maschile, battezzato "Uomo
Sconosciuto 1", differente da quello della vittima Jean Michel Kraveichvili,
è stato isolato su una paio di pantaloni taglia 44 presenti nella tenda".
Mettiamo ora da parte il luogo del rinvenimento dei pantaloni e
soffermiamoci brevemente sul profilo maschile cui si fa riferimento
nel suddetto atto. Com'è facile intuire, si tratta proprio delle tracce
epiteliali sulla tasca cui accennavamo in precedenza.
A chi appartenga il profilo di "Uomo Sconosciuto 1" non è
ovviamente cosa nota. Quel che appare certo è che non si tratta di
profilo compatibile con i principali sospettati della vicenda,
eccezion fatta per i due compagni di merende, Vanni e Lotti, di cui -
a quanto si dice e stranamente - non si possiede un profilo genetico.
● Stando a quanto dice l'avvocato difensore Rosario Bevacqua al
Processo Pacciani durante la testimonianza del maresciallo Lodato,
subito dopo la scoperta dei cadaveri agli Scopeti, fu inviata una
pattuglia di carabinieri a casa di un medico di Montelupo
Fiorentino. Probabile, per non dire certo visto il riferimento a
Montelupo Fiorentino, che si tratti del famoso e misterioso dottor
B., rientrato nelle indagini dopo il delitto di Scandicci del giugno
del 1981 e dunque evidentemente ancora attenzionato nel 1985.
● Più volte è stato sostenuto che durante il delitto degli Scopeti, il
celebre gastroenterologo perugino Francesco Narducci si trovava
negli Stati Uniti. Questo particolare è stato smentito sia dal
magistrato Giuliano Mignini che ha dichiarato di aver controllato
personalmente il passaporto del medico, sia dalla stessa moglie del
Narducci. Sembra infatti essere certo che il dottore partì per
Rochester, negli USA, verso la fine del mese di settembre.
Sempre a proposito del Narducci, c'è anche da riportare la voce
secondo cui la targa della sua Citroen Pallas fosse stata registrata a
un casello autostradale nei pressi di Firenze la presunta notte
dell'omicidio dei francesi. Non vi sono fonti ufficiali su questo
episodio che viene spesso riportato senza però - ribadiamo - che
almeno apparentemente esista alcun documento che ne attesti la
veridicità. Per maggiori dettagli, si veda il capitolo dedicato al
gastroenterologo perugino.
● A proposito di personaggi indagati per i crimini del Mostro, c'è
da sottolineare come il delitto degli Scopeti rappresenti quello in cui
si sono verificate il maggior numero di segnalazioni che collocano i
futuri Compagni di Merende sulla scena del crimine. Probabilmente
a determinare questo fattore hanno influito la maggior prossimità
temporale di questo omicidio rispetto agli altri, ma soprattutto
l'estrema vicinanza con il luogo del delitto delle abitazioni o più in
generale dei luoghi frequentati dai Compagni di Merende.
Vedremo nei capitoli dedicati ai Processi come non sempre queste
segnalazioni si siano dimostrate attendibili.
Un esempio ci viene dato dalla già citata testimonianza dell'agente
della DIGOS, Edoardo Iacovacci, il quale - come abbiamo visto -
aveva dichiarato nell'udienza del 6 giugno 1994 del Processo
Pacciani di aver notato la mattina del sabato 7 settembre la tenda
dei ragazzi francesi già montata nella piazzola degli Scopeti. In tale
udienza lo Iacovacci aveva anche affermato di aver visto giungere
nella piazzola un uomo su un motorino di tipo Beta e che costui,
che aveva tutta l'aria di essere un guardone, aveva preso ad
aggirarsi nelle prossimità della tenda. Parecchi anni dopo, lo
Iacovacci riconobbe in una fotografia del Pacciani, l'uomo visto
quella mattina nella piazzola.
Sembra tuttavia molto probabile, confrontando i vari verbali resi
alla caserma dei carabinieri di San Casciano, che il personaggio
visto dallo Iacovacci non fosse il Pacciani, ma un tale Giuliano
Pucci, noto guardone di San Casciano, il cui profilo aveva una certa
somiglianza con quello del Pacciani.
Infatti nei giorni immediatamente successivi al delitto, il Pucci era
stato interrogato dai carabinieri di San Casciano e aveva lui stesso
dichiarato di essere giunto a bordo del suo ciclomotore Vespa agli
Scopeti la mattina del 7 settembre e ivi di aver notato la tenda, una
golf bianca (quella dei francesi) e una 126 bianca (l'automobile dello
Iacovacci) con dentro un uomo. La testimonianza del Pucci è
indipendente ma al contempo coincidente con quella dello
Iacovacci, dunque è estremamente probabile (per non dire certo)
che i due si fossero incontrati quella mattina nella piazzola e che, a
distanza di anni, lo Iacovacci avesse scambiato il Pucci per il
Pacciani, anche probabilmente suggestionato dalle indagini che
stavano conducendo i suoi colleghi sul contadino di Mercatale.
Resta la discrepanza sul tipo di ciclomotore su cui sarebbe arrivato
il guardone nella piazzola, ma anche qui è possibile che la
suggestione abbia giocato un certo ruolo nel confondere il ricordo
dello Iacovacci.
● A proposito del Pacciani, un aspetto forse sottovalutato, anche se
puramente suggestivo, riguarda la contemporanea presenza della
coppia francese e di Pietro Pacciani alla festa dell'Unità di Cerbaia a
non molte ore di distanza dall'omicidio stesso.
Sappiamo infatti che con buona proabilità i ragazzi francesi
cenarono in una o più sere della loro permanenza a San Casciano
alla festa dell'Unità di Cerbaia. Abbiamo un paio di testimonianze
(quella del Fantoni e quella del Cantini) che sembrano non lasciare
spazio a dubbi. Entrambe le testimonianze non ci danno certezze
sul giorno (Cantini dice il venerdì, Fantoni dice la domenica, ma
abbiamo visto come entrambe presentino alcune lacune), tuttavia
difficilmente si può mettere in dubbio che almeno uno di questi
giorni Nadine e Jean-Michel cenarono davvero a Cerbaia.
Sappiamo altresì con certezza che anche Pacciani trascorse almeno
una di quelle sere alla stessa festa dell'Unità. È lui stesso ad
affermarlo, parlando degli ottimi "polletti fritti" che ivi cucinavano e
fornendo questa sua partecipazione come alibi per la domenica
sera, giorno in cui ufficialmente venne commesso il duplice omcidio
degli Scopeti (vedasi capitolo Il contadino di Mercatale).
A scanso di equivoci, è bene ribadire come questo punto, pur
essendo piuttosto inquietante, sia puramente suggestivo, perché
non vi sono prove per affermare che i due francesi e Pacciani
cenarono la stessa sera alla festa di Cerbaia, né tantomeno che si
incrociarono realmente. A dirla tutta non si sa nemmeno con
certezza se i due giovani furono realmente uccisi dopo aver cenato
a Cerbaia, anche se i resti di cibo rinvenuti nel loro apparato
gastrico rendono - come vedremo - plausibile questa possibilità.
● Fra i numerosi avvistamenti nella piazzola degli Scopeti di
domenica 8 settembre 1985, ce n'è uno particolarmente inquietante:
venne infatti notato il motorino di Andrea Rea, colui che
esattamente quattro anni dopo diverrà noto come il Mostro di
Posillipo.
Rea, napoletano, classe 1956, aveva ucciso una donna già nel 1983 a
Ischia, senza però venire minimamente sfiorato dalle successive
indagini. Sempre nel 1983 aveva stuprato una turista finalndese e
dato i primi segnali di profonda instabilità mentale. Era stato
ricoverato forzatamente in una casa di cura dalla propria famiglia.
Proprio nel 1985 era stato ospite della comunità per giovani
bisognosi d'aiuto Emmaus a Firenze, trovandosi spesso a girare per
la campagna fiorentina e probabilmente finendo dalle parti di
Scopeti proprio il giorno precedente alla scoperta dei cadaveri dei
due francesi.
Rintrato nella sua città natale, nel 1987 era stato protagonista di un
altro stupro, infine nel 1989 aveva commesso il suo delitto più
atroce, uccidendo la trentottenne Silvana Antinozzi a morsi e
coltellate e provando a occultarne il cadavere in una valigia da
disperdere nel golfo di Napoli. Il suo piano era fallito miseramente
e Rea era stato definitivamente condannato.
Quando il Mostro di Posillipo salì agli onori della cronaca italiana,
venne ripescato dagli inquirenti fiorentini quello strano
avvistamento nei pressi degli Scopeti lo stesso giorno in cui secondo
la versione ufficiale erano stati uccisi i ragazzi francesi. Furono
dunque controllati tutti gli alibi di Rea sia in occasione di ogni
singolo delitto del MdF, sia in occasione dei famosi omicidi delle
prostitute fiorentine avvenuti fra il 1982 e il 1984 (vedasi capitolo Le
morti collaterali).
Le successive indagini non diedero comunque alcun esito. Per tutti i
delitti presi in considerazione, Rea aveva alibi di ferro, trovandosi
oltretutto piuttosto lontano dalle campagne fiorentine.
● A proposito di segnalazioni, piuttosto interessante risulta quella
rilasciata dal signor Giovanni U. al Reparto operativo dei
carabinieri di Firenze, il quale dichiarò di aver visto un uomo di 40-
45 anni, alto circa 180 cm, robusto, dai capelli castano rossicci
aggirarsi nei pressi della piazzola degli Scopeti poco dopo le 18 di
venerdi 6 settembre 1985.
Sulla base di questa testimonianza i carabinieri realizzarono
un photo-fit dell'individuo indicato.
Da notare come le caratteristiche fisiche del soggetto indicato
potrebbero essere simili a quelle descritte da diversi testimoni in
occasione del delitto di Vicchio (vedasi relativo capitolo) e che
potrebbero condurre al cosiddetto Rosso del Mugello, ultimamente
teorizzato da parecchi studiosi come autore dei duplici delitti.
● Sempre in tema di segnalazioni, interessanti risultano anche
quelle convergenti di due testimoni, che resero spontanea
testimonianza ai carabinieri di San Casciano e indicarono una stessa
automobile nei dintorni della piazzola degli Scopeti il presunto
giorno del delitto.
Nello specifico, il signor Salvatore Suppa dichiarò che domenica 8
settembre 1985 verso le ore 22:00, mentre percorreva via degli
Scopeti da San Casciano verso la Cassia, aveva notato
un'automobile Renault 4, colore beige, parcheggiata con i fari spenti
sul bordo della strada, un centinaio di metri dopo la piazzola del
delitto. All'interno c'era un uomo di circa 40 anni, con i capelli scuri
e folti, di corporatura normale. Sulla base dell'accurata descrizione
fornita dal testimone, venne realizzato anche in questo caso
un photo-fit. Il risultato fu un individuo con i baffi, i cui lineamenti
richiamavano vagamente una versione più magra del Lotti. È bene
precisare che Lotti non è mai stato possessore di una Renault 4
beige.
Ci sarebbe poi la testimonianza del signor Paolo Pecci, il quale
dichiarò che la mattina di domenica 8 settembre 1985, mentre
percorreva via degli Scopeti da San Casciano verso Tavernuzze,
aveva notato una Renault 4, colore beige chiaro, parcheggiata sul
bordo strada a circa 300/400 metri dalla piazzola del delitto. In
questo caso, però, non vi era nessuno all'interno dell'automobile. Al
rientro del Pecci da Tavernuzze, verso le ore 11:10, transitando
dallo stesso punto, l'automobile non c'era più.
Dando per scontato che le due segnalazioni indicavano con ottime
probabilità la stessa vettura, possiamo desumere che l'auto in
oggetto era parcheggiata nei dintorni della piazzola sia la mattina
della domenica, per un tempo piuttosto limitato, sia a sera inoltrata
verso le 22:00, stavolta con un uomo all'interno. Giova ricordare che
secondo la ricostruzione ufficiale (quella fornita dal reo-confesso
Giancarlo Lotti) il delitto sarebbe avvenuto da lì a circa un'ora.
● Abbiamo già visto a proposito del delitto di Giogoli come la
distanza fra la piazzola degli Scopeti e quella dell'omicidio del 1983
fosse estremamente ridotta, quantificabile in pochissimi chilometri
in linea d'area. La vicinanza fra questi due luoghi e il particolare
che in entrambi i casi siano state uccise due coppie straniere,
dunque coppie che non potevano essere state scelte con cura da
troppo tempo, porterebbe a pensare, almeno in questi due casi, a
delitti in cui il killer avrebbe incontrato casualmente le proprie
vittime e nel giro di pochissimo tempo avrebbe deciso di ucciderle.
La zona fra Giogoli e Scopeti, per un motivo o per un altro,
potrebbe dunque essere stata frequentata con una certa assiduità
dall'assassino.
● Alcune settimane dopo il delitto, un ragazzo di Prato, identificato
come W.D.B., si recò in visita presso la piazzola del delitto assieme
al suo cane di razza cocker. Il cane, sfuggito per alcuni secondi al
controllo del proprietario, ritrovò in un cespuglio non distante dal
punto in cui era stato rinvenuto il cadavere di Jean-Michel
Kraveichvili, un paio di guanti da chirurgo e un fazzolettino intriso
di sangue, contenente un frammento di capello castano.
I reperti vennero consegnati alla vicina caserma dei carabinieri, di
qui il 5 ottobre 1985 giunsero all'istituto di Medicina Legale di
Firenze. Il 7 novembre 1985 il dottor Riccardo Cagliesi
Cingolani stilò in merito una relazione di tredici pagine. In essa era
scritto che il materiale ematico era sangue umano di gruppo B,
mentre il frammento pilifero, lungo circa due centimetri, di colore
castano, liscio, provvisto di cuticola a scaglie sottili, era un capello
umano. Veniva comunque escluso potesse trattarsi di sangue delle
vittime in quanto Nadine era di gruppo A e Jean-Michel di gruppo
0.
In seguito, i reperti sono stati nuovamente analizzati a distanza di
moltissimi anni (luglio 2017), pervenendo grazie alle nuove
possibilità offerte dalla tecnologia, a un risultato diverso. Non c'è
molta chiarezza in merito e non vi sono documenti ufficiali a
riguardo, se non qualche articolo di giornale rintracciabile sul web,
comunque pare che il sangue rinvenuto nel fazzoletto possa
appartenere a entrambe le vittime e parte di esso sia riconducibile a
un uomo di origine est-europea. Da notare che il Kraveichvili aveva
origini georgiane.
● Il delitto degli Scopeti scatenò attorno al caso del MdF un
interesse mediatico senza precedenti. Oltre a quello che presto
sarebbe stato definito "turismo dell'orrore" e che vide, nei giorni e
nelle settimane successive al delitto, un'enorme quantità di gente
andare in visita sul luogo dell'eccidio, a livello di indagini venne
messa per la prima volta in Italia una taglia di 500 milioni di lire
sulla testa dell'assassino, da consegnare a chiunque avesse dato una
mano per la sua identificazione. A novembre la taglia venne ritirata
senza che nessuno fosse riuscito a intascarla.
● Questo è stato l'ultimo delitto (almeno di cui si abbia notizia)
commesso dal Mostro Di Firenze.
Risposte
1.
Luigi Sorrenti17 febbraio 2022 alle ore 09:03
Ciao, di Joe Bevilacqua trovi scritto sia nel capitolo
dedicato al processo Pacciani, sia nel capitolo dedicato
alla Mostrologia minore, anche se forse è un po' riduttivo
confinare la pista "Zodiac" in tale contesto.
Non si è parlato in questo capitolo della sua deposizione,
in quanto non aggiungeva nulla alla storia degli Scopeti,
se non informazioni contraddittorie e in alcun casi errate.
Mostrologia a Scopeti
Teoria di Henry62
Il blogger Henry62, al secolo Enrico Manieri, esperto balistico e
Consulente Tecnico di Parte per la difesa nel processo d'Appello
contro Pietro Pacciani, ha elaborato una teoria differente sulla
dinamica del duplice omicidio degli Scopeti e in special modo
sull'orario e sul giorno in cui questi avrebbe avuto luogo.
Secondo il noto studioso del caso, il delitto sarebbe sì avvenuto
precedentemente rispetto a quanto dichiarato da Lotti, ma
sicuramente non andrebbe retrodatato di uno o due giorni come la
mostrologia odierna sostiene, andandosi dunque a collocare alle
prime luci dell'alba di domenica 8 settembre. A sostegno della
propria tesi, Manieri porta diversi fattori, ma in special modo
cinque sono le evidenze che ci preme sottolineare in queste pagine:
1. Il percorso seguito da Jean Michel durante la sua fuga è il
percorso compiuto da una persona che ha una discreta visibilità dei
dintorni, che quantomeno vede dove mette i piedi. Cosa
improbabile se il delitto fosse avvenuto in orario serale/notturno,
considerando la situazione di particolare oscurità in cui è immersa
la piazzola. All'alba o poco prima, si ha sicuramente una visibilità
migliore e ciò avrebbe permesso al ragazzo francese di poter
muoversi nella piazzola e tentare una fuga.
2. Gli studi entomologici sono stati eseguiti sulle foto non originali
dei cadaveri dei giovani francesi, il che non può non essere tenuto
in considerazione quando si parla del grado di attendibilità e
accuratezza dei suddetti studi.
3. Il rigor mortis non ancora completamente risolto sul cadavere di
Jean Michel Kraveishvili alla mattina di mercoledì 11 settembre
1985 porterebbe a escludere come data dell'omicidio il venerdì sera,
rendendo i tempi piuttosto stretti anche per un omicidio avvenuto il
sabato sera.
4. L'assenza di morsi significativi da parte di fauna locale di piccola
e media taglia sul cadavere di Jean Michel risulterebbe un po'
strano per un cadavere rimasto due o addirittura tre notti all'aperto.
Collocando, invece, il delitto all'alba della domenica mattina, i
cadaveri avrebbero invece trascorso una sola notte all'aperto.
5. I resti di cibo rinvenuti nell'apparato gastrico della coppia,
considerando l'orario serale/notturno, il fatto che i due ragazzi
fossero sdraiati e il fatto che verosimilmente avessero consumato un
pasto estremamente pesante a base di lepre o cinghiale, sarebbe più
compatibile con una cena avvenuta diverse ore prima del decesso e
non con le tre ore dichiarate ufficialmente dai medici legali.
Ipotesi 1: Il MdF sapeva già a priori che quello del 1985 sarebbe
stato l'ultimo delitto. Aveva dunque concepito il duplice omicidio e
il successivo invio della missiva alla Della Monica come una sorta
di commiato dal suo pubblico, rappresentato nell'occasione da
inquirenti, organi di informazione, opinione pubblica.
Hanno sposato questa teoria, per un motivo o per un altro, diversi
insigni studiosi del caso, come Antonio Segnini (secondo cui il
Lotti aveva deciso di smettere perché aveva terminato i proiettili) o
lo stesso Enrico Manieri (secondo cui il killer aveva capito che se
avesse continuato anche solo con un altro delitto sarebbe stato
inevitabilmente preso).
Ipotesi 2: Il MdF non aveva deciso a priori di smettere, ma dopo
Scopeti si era trovato semplicemente impossibilitato, per un
qualsiasi motivo, a commettere un nuovo delitto.
Secondo questa ipotesi, fra il settembre del 1985 e l'estate del 1986
era accaduto qualcosa nella vita del Mostro che gli aveva impedito
di commettere ulteriori delitti. Forse era stato arrestato per altri
reati, forse era morto, forse era emigrato o aveva avuto un incidente
che lo aveva reso menomato o forse, più semplicemente, era stato
attenzionato dagli inquirenti.
Questa è un'ipotesi contemplata per ovvie ragioni
da Paccianisti, Merendari, Sardisti, Narducciani, probabilmente
anche Vigilantiani.
Questa è l'ipotesi che - come vedremo - è stata seguita anche dalla
SAM e che avrebbe contribuito all'individuazione di Pacciani.
Subito dopo Scopeti, infatti, Pacciani avrebbe subìto dapprima una
perquisizione, in seguito, nel maggio del 1987, sarebbe stato
arrestato per la violenza sulle figlie.
Oltre al Pacciani, vi sono altri personaggi di indubbio interesse che,
nel lasso di tempo fra il delitto degli Scopeti e l'estate successiva, si
sarebbero ritrovati più o meno impossibilitati a commettere
ulteriori delitti: questi sono il Vigilanti (nel settembre del 1985
venne per la prima volta perquisito), il dottor Narducci (morto
nell'ottobre del 1985), Salvatore Vinci (arrestato nell'aprile del 1986).
Subito dopo l'arresto del Vinci, quella del 1986 sarebbe risultata la
prima estate dopo cinque lunghissimi anni senza delitti.
La segnalazione su Pacciani
L'11 settembre 1985, dunque esattamente due giorni dopo il
ritrovamento dei cadaveri dei francesi a Scopeti, venne spedita ai
carabinieri di San Casciano una segnalazione anonima che invitava
gli inquirenti a indagare su tale Pietro Pacciani, contadino di
Mercatale. La segnalazione (contenente un palese errore perché
Pacciani non aveva ucciso la fidanzata, ma il di lei amante) arrivò a
destinazione il 16 settembre 1985 e riportava testualmente:
"Vogliate al più presto interrogare il nostro concittadino Pacciani Pietro
nato a Vicchio e residente nel nostro paese in Piazza del Popolo a
Mercatale V.P. Questo individuo a detta di molta gente è stato in carcere
per 15 anni per avere ammazzato la propria fidanzata; conosce 1000
mestieri, un uomo scaltro, furbo, «un contadino con le scarpe grosse e il
cervello fine». Tiene sotto sequestro tutta la famiglia, la moglie grulla, le
figliole non le fa mai uscire di casa, non hanno amicizie. Vogliate
intervenire ed interrogare l'individuo e le figlie. È un tiratore scelto."
Era la prima volta che il nome di Pietro Pacciani veniva accostato
alla vicenda del mostro. Tale segnalazione portò nel giro di qualche
giorno a indagini a casa del contadino di Mercatale che
nell'immediato si conclusero con un nulla di fatto.
La guardia giurata
Come già riportato nel paragrafo dedicato al delitto delle
Bartoline, sempre l'11 settembre 1985, una guardia giurata di
nome Nicola Esposito si presentò presso gli uffici del Nucleo
Investigativo di Prato, allora comandato dal giovane
tenente Giovanni Fichera.
L'Esposito, alla presenza dello stesso Fichera e del
maresciallo Antonio Amore, dichiarò che nel luglio del 1981 era
stato avvicinato in un bar di Calenzano da un uomo che si era
mostrato piuttosto interessato sia alla divisa che all'arma che
l'Esposito stesso portava in dotazione. Quest'uomo gli aveva
regalato tre proiettili, vecchi e ossidati, calibro 22 Long Rifle con la
lettera H sul fondello, sostenendo di averne altri 500 o 600 in casa.
L'uomo venne descritto alto circa 1.80, di corporatura robusta,
spalle larghe, stempiato, con i capelli color biondo-rossiccio. Come
visto, la descrizione che fa l'Esposito è simile a quella che altri
testimoni hanno fornito di un possibile sospetto in occasione del
delitto del 1984 di Vicchio.
L'autostoppista mugellana
Alle due del pomeriggio del 26 settembre 1985, un'ora e mezza
prima che la notizia della lettera spedita dal Mostro alla Della
Monica venisse resa pubblica da un'agenzia dell'ANSA, una
autostoppista mugellana di sedici anni, dal nome fittizio Anna,
accettò un passaggio da uno sconosciuto che viaggiava a bordo di
una Talbot chiara. L'uomo, di circa 45-50 anni, piuttosto robusto e
vestito elegantemente, accompagnò la studentessa da Firenze fino a
San Piero a Sieve e durante il viaggio le parlò della lettera di cui,
fino a quel momento, solo in pochi fra le forze dell'ordine erano a
conoscenza.
Resasi conto di aver ricevuto informazioni che non dovevano essere
pubbliche, il 19 ottobre 1985, la ragazza rese testimonianza
dell'episodio ai carabinieri di Borgo San Lorenzo. Una
testimonianza cui gli inquirenti - almeno apparentemente - non
attribuirono grande importanza. Il Sostituto Procuratore Francesco
Fleury dichiarò in merito: "La notizia della lettera spedita dal maniaco
ormai circolava da qualche giorno, inoltre la ragazza potrebbe anche
sbagliare di un giorno. Per noi comunque non cambia nulla". Il 21
ottobre 1985 si presentò ai carabinieri di Borgo Ognisanti,
accompagnato dall'avvocato Giuseppe Taddeucci Sassolini,
l'uomo che aveva dato il passaggio ad Anna per chiarire la sua
posizione. Costui confermò il racconto della ragazza, ma non il
particolare della lettera, su cui affermò di non sapere nulla.
In tempi molto recenti (luglio 2019), nell'ottica di un mostro da
ricercare nel Mugello e considerando che la descrizione dell'uomo
al volante della Talbot poteva risultare simile alle varie descrizioni
fatte a Vicchio del misterioso "Rossano", il documentarista Paolo
Cochi si è reso promotore di un appello rivolto all'ormai
cinquantenne "Anna" dalle pagine del giornale online "Ok
Mugello", chiedendole di palesarsi e di fornire maggiori
informazioni su quello strano incontro. La signora ha risposto
positivamente all'appello rilasciando una breve intervista al
documentarista.
In seguito, nel marzo del 2020, questa tale Anna è intervenuta in
una diretta Facebook dello stesso Paolo Cochi e ha risposto
pubblicamente alle domande a lei poste.
Tale vicenda ha successivamente avuto uno strascico polemico
quando, nel luglio 2020, in una trasmissione telefonica
dell'emittente "Florence International Radio", uno degli invitati, il
dottor Emanuele Santandrea, ha dichiarato di avere lui stesso
intervistato la suddetta "Anna" un mese prima di Cochi e che a lui
erano state rilasciate dichiarazioni differenti. Nella stessa occasione
il Santandrea ha aggiunto che di questa vicenda dovrebbe occuparsi
la Procura di Firenze perché sarebbe - a suo dire - un caso di
"depistaggio" o comunque un voler confondere le acque, fornendo
al pubblico false informazioni.
La signora "Anna" ha replicato dichiarando in una nuova intervista
rilasciata a Paolo Cochi di non aver mai parlato e di non aver mai
sentito nominare il suddetto Santandrea.
Indipendentemente dalla querelle venutasi a creare, a parere
prettamente personale di chi scrive, forse è stata data eccessiva
importanza a un episodio che potrebbe non averne. Ragionando in
maniera puramente intuitiva che - beninteso - non ha alcuna pretesa
di verità, se la notizia della lettera alla Della Monica era stata
battuta dall'Ansa alle 15.30 del 26 settembre 1985, è molto probabile
che la notizia circolasse negli ambienti giornalistici e affini già da
qualche ora. È dunque possibile che alle 14 la notizia fosse in
qualche modo trapelata o comunque non fosse di stretta pertinenza
degli inquirenti. Come dichiarò la stessa Procura per bocca del
dottor Fleury, a cui in questa occasione ci sentiremmo di dar
ragione, è anzi possibile che la notizia circolasse, sia pur in maniera
ufficiosa, già da qualche giorno.
Occhio Ragazzi
Nella primavera del 1986, quando la psicosi del Mostro aveva
probabilmente raggiunto il proprio acme, venne realizzata una fitta
campagna d'informazione su tutto il territorio fiorentino per
prevenire nuovi agguati. Furono stampati manifesti e volantini con
la famosa scritta "Occhio Ragazzi", che vennero diffusi nei circoli
universitari, nelle scuole, nei bar, nelle discoteche e in qualsiasi
punto di aggregazione giovanile.
Tali volantini vennero anche affissi ai caselli autostradali, alle
fermate degli autobus, sugli alberi, sui muri delle case di campagna,
distribuiti presso gli ostelli e i centri del turismo e riportavano in
cinque lingue l'avvertimento: "Pericolo di aggressioni. È consigliato di
non appartarsi e non sostare in luoghi isolati durante la notte fuori dai
centri urbani". Inoltre, stradine, sentieri, piazzole di campagna
vennero tappezzati di cartelli che per motivi di sicurezza vietavano
alle auto, alle roulotte e alle tende la sosta dalle 19 alle 7.
Nel maggio dell'anno dopo, in seguito a nuovi eventi che verranno
analizzati nel prossimo punto, al fitto volantinaggio si aggiungerà
una campagna pubblicitaria che verrà trasmessa sulle televisioni
nazionali, divulgata dalle radio e riprodotta nelle discoteche: sulle
note della celebre canzone di Renzo Arbore del 1985, "Ma la notte
no", verrà infatti diffuso un video che, con maggior incisività,
inviterà i giovani a non appartarsi nelle campagne fiorentine in
orari notturni. A questo videoclip ne verrà affiancato un altro,
decisamente più inquietante, in cui al posto del refrain di Arbore, a
far da colonna sonora sarà un battito cardiaco.
Nel maggio del 1988, per il terzo anno consecutivo, il Comune di
Firenze lancerà per l'ultima volta la campagna "Anti-Mostro",
divulgando circa 175 mila volantini per la città e le campagne
circostanti il capoluogo toscano.
Telefono giallo
In data 6 Ottobre 1987 andò in onda su Rai3 la seconda puntata
della fortunata trasmissione televisiva "Telefono Giallo", condotta
dai giornalisti Corrado Augias e, limitatamente a quella prima
stagione, Donatella Raffai. La puntata fu interamente dedicata al
caso del Mostro di Firenze.
Risultano interessanti i temi trattati a distanza di due anni
dall'ultimo duplice omicidio noto; furono molte le telefonate giunte
in trasmissione e molti i protagonisti della vicenda invitati in
studio, da Pier Luigi Vigna a Sandro Federico, da Nino Filastò a
Mario Spezi.
Ferma era la convinzione di tutti i presenti che il Mostro fosse
davanti alla TV a seguire il dibattito.
Da sottolineare in questa sede lo sbrigativo riferimento alla
videocassetta spedita alla Procura pochi mesi prima, cui Vigna dà
l'idea di non prestare troppa attenzione e non attribure eccessiva
credibilità.
Interessanti anche gli interventi del professore Giorgio Abraham,
psichiatra e sessuologo di chiara fama internazionale, che ha
tratteggiato un ipotetco profilo del killer e ne ha più volte tentato di
stuzzicare la vanità, affinché si palesasse e rendesse il mondo
finalmente consapevole della sua identità e delle sue gesta.
Inutile dire che il tentativo si rivelerà vano.
15. Quattro delle sei vittime femminili avevano dichiarato nei giorni
immediatamente precedenti al delitto di essere state importunate
da qualcuno. Uniche eccezioni, la De Nuccio e ovviamente la
Mauriot.
16. Pur collocandosi i delitti in un'epoca in cui il periodo di ferma
militare era obbligatorio, nessuna delle vittime maschili aveva
espletato il servizio militare.
17. Tre delle prime cinque vittime femminili lavoravano nel campo
tessile, una lavorava nel campo della pelletteria, affine al
precedente. Solo la Locci esulava da attività lavorative di questa
tipologia. Per quanto riguarda gli ultimi tre delitti, la Rontini
lavorava in un bar, la Mauriot nel commercio delle scarpe.
Come già detto, il campo tessile era comunque fra le attività
lavorative più diffuse nella Toscana degli anni 70/80.
18. Tre delle prime cinque vittime femminili avevano una
superficiale somiglianza fra loro: magre, capelli neri, carnagione
lattea. In seguito la Migliorini e la Rontini sarebbero state piuttosto
diverse fisicamente, mentre la Mauriot, anche per questioni
angrafiche, esulava abbastanza dalla tipologia di vittima del serial
killer.
19. Nei primi quattro delitti c'è stata manomissione dei cadaveri da
parte del killer; manomissione che manca nel quinto (Baccaiano,
1982) e nel sesto (Giogoli, 1983) perché le condizioni potrebbero
averlo impedito. Ampia manomissione su entrambi i cadaveri nel
settimo e per ovvie ragioni nell'ottavo delitto.
20. Nei primi tre delitti, l'autore ha frugato nelle borse delle vittime
femminili. Nel quarto (Travalle) ci sono discrete probabilità che
l'abbia fatto. Nel quinto e nel sesto le condizioni potrebbero averlo
impedito. Nel settimo e nell'ottavo non ci sono indizi rilevanti in
merito.
21. In sette delitti su otto, c'è stata una qualche interazione (spesso
telefonica) da parte di un anonimo nei confronti delle forze
dell'ordine o di qualche parente delle vittime o di qualcuno che più
o meno volontariamente si fosse trovato implicato nell'omicidio.
Un'interazione che aveva in ogni caso a che fare con il delitto:
▪ nel 1974, la telefonata anonima ai carabinieri di Borgo San Lorenzo
per segnalare il luogo dove sarebbe stato possibile ritrovare la borsa
della Pettini;
▪ nel giugno del 1981, le telefonate anonime a casa della moglie e
del fratello di Enzo Spalletti, arrestato dopo il delitto;
▪ nell'ottobre 1981, la telefonata a casa della zia di Susanna Cambi
da parte di uno sconosciuto che evidentemente sapeva che Susanna
alloggiava temporaneamente lì; forse anche quella del misterioso
geometra a casa Baldi;
▪ nel 1982, la telefonata al Pronto Soccorso di Empoli per sapere
delle condizioni di salute del Mainardi; inoltre la telefonata ricevuta
dallo zio di Paolo e infine le telefonate all'autista di ambulanze,
Lorenzo Allegranti;
▪ nel 1983, la specie di altarino costruito con le riviste porno a poca
distanza dal furgone dei ragazzi tedeschi;
▪ nel 1984, la telefonata anonima che segnalava un incidente in
località Sagginale non distante dal luogo del delitto;
▪ nel 1985, anche se interazione di tipo diversa, l'invio della lettera
anonima alla dottoressa Silvia Della Monica.
Rimane escluso da qualsiasi forma di interazione unicamente il
delitto di Signa (1968).
Poiché, a parte il caso del 1985, non vi è certezza che tali episodi
siano addebitali all'autore degli omicidi, molto spesso si sostiene
che il Mostro di Firenze non sia stato un serial killer comunicatore
(alla Zodiac o alla BTK). Tuttavia, nel caso in cui alcune delle
interazioni di cui sopra (o di quelle successive al settembre del
1985) portino la sua firma, il MdF diventerebbe quanto meno un
discreto comunicatore, certamente atipico, ma sicuramente non
scevro da impulsi comunicativi.
A parere di chi scrive, oltre a una certa ritualità nel modus operandi
e nelle scelte dei luoghi e dei tempi dei delitti, che individuano
indubitabilmente la stessa mano in almeno sette degli otto episodi
delittuosi, gli unici aspetti che realmente accomunano tutti i delitti
sono l'arma da fuoco e relativo munizionamento, l'ambientazione
geografica (la campagna della provincia fiorentina) e la tipologie di
vittime (tutte coppie o presunte tali appartate in solitudine per
scambiarsi effusioni amorose).
Quest'ultimo aspetto non è affatto da sottovalutare quando si parla
di manifestazioni maniacali o di firma dell'assassino. All'autore dei
delitti, infatti, non interessava la donna in quanto tale. Non assaliva
facili prede come prostitute isolate da caricare sulla propria
automobile, cui praticare escissioni.
Al Mostro di Firenze interessavano donne all'interno di un contesto
di coppia, e non un contento qualsiasi, ma uno particolarmente
intimo. Il Mostro interveniva per interrompere un rapporto
sessuale, molto spesso per impedirlo sul nascere.
Non si può non tenere conto di questo aspetto, quando ad esempio
si parla di mandanti, di omicidi su commissione, di soldi in cambio
di feticci, quasi a voler far rientrare questi omicidi nel gran
calderone di quelli commessi a scopo di lucro o con finalità diverse
da quelle dettate da una profonda instabilità psichica dell'autore dei
delitti.
Se il fine era, infatti, ricavare denaro dai cosiddetti "feticci escissi", ci
si potrebbe chiedere perché il killer prezzolato non colpisse donne
sole in contesti isolati (come quasi nello stesso periodo stavano
facendo sia il mostro di Udine che quello di Modena), senza dover
correre il rischio di un agguato a danno di una coppia, in luoghi
aperti e frequentati da guardoni?
Certo, è onesto quanto doveroso ammettere l'anomalia in questo
quadro del delitto di Giogoli, come ben evidenziato dalla sentenza
Rotella. Senza tuttavia scomodare le motivazioni (sarde) sottese da
Rotella per spiegare questo duplice omicidio, nulla esclude che a
distanza di quindici mesi dall'ultimo episodio delittuoso e con
l'estate ormai prossima al termine, abbia in questo caso prevalso più
l'istinto omicida che non la "corretta situazione" su cui placare il
proprio bisogno di sangue.
2.
Anonimo18 aprile 2022 alle ore 12:41
3.
Grantottero9 ottobre 2022 alle ore 01:27
4.
Grantottero9 ottobre 2022 alle ore 01:30
1.
il cagamobile2 gennaio 2022 alle ore 03:29
Mi complimento per il blog e per la scrupolosità. Potrei
suggerire di completare l'articolo con le suggestioni derivanti
dai ritrovamenti, nel corso degli anni, di pistole compatibili
sulle quali rimane ancora il dubbio possano effettivamente
essere quella incriminata?
Risposte
1.
Luigi Sorrenti3 gennaio 2022 alle ore 01:49
Grazie per i complimenti e per il suggerimento. Appena
avrò tempo, non mancherò di completare l'articolo con
qualche riga sulle "pistole ritrovate".
L.
Rispondi
2.
Alessiozazzimostrodifirenze3 aprile 2022 alle ore 13:29
3.
Devilock5 aprile 2022 alle ore 06:59
4.
Unknown12 aprile 2022 alle ore 00:10
Risposte
1.
Anonimo27 giugno 2022 alle ore 05:54
5.
Anonimo5 novembre 2022 alle ore 08:05
6.
Anonimo10 dicembre 2022 alle ore 13:33
prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
rrrrrrrr
Rispondi
7.
Anonimo18 dicembre 2022 alle ore 14:15
8.
Anonimo11 gennaio 2023 alle ore 09:09
si cerca la pistola, ma non e' detto che il mostro usi una pistola
trovata per caso ,puo benissimo usare solo canna e percussore
del mostro e montarle su di una pistola cal 22 beretta
regolarmente detenuta quando deve commettere gli omicidi.e'
secondo me dal 68 che bisogna indagare dove e' finita quella
pistola ,quel primo duplice omicidio non centra niente col
mostro di firenze . chi ha ritrovato quella pistola??????? dove
disse di aver gettato l'arma il mele????
Rispondi
9.
Anonimo11 gennaio 2023 alle ore 09:11
2.
Luigi Sorrenti7 ottobre 2021 alle ore 02:25
Petri è stato ucciso in uno scontro a fuoco con esponenti delle
NBR sul treno regionale Roma-Firenze. Una morte tragica, ma
chiarita in ogni suo aspetto, che nulla ha a che vedere con le
vicende di cui si parla in questi scritti.
Rispondi
3.
Pio29 dicembre 2021 alle ore 11:57
4.
Il Custode dei mondi25 ottobre 2022 alle ore 06:18
Oppure ci sono nomi che non vanno fatti e persone che non
vanno trovate ...
Rispondi
5.
Boris Mol1 dicembre 2022 alle ore 15:32
La prima segnalazione
Pacciani entrò nelle indagini subito dopo l'ultimo duplice omicidio
commesso dal MdF agli Scopeti, presumibilmente a causa di una
lettera anonima scritta l'11 settembre 1985 e giunta alla caserma dei
carabinieri di San Casciano il 16 settembre. La missiva invitava le
forze dell'ordine a indagare sul contadino di Mercatale, in quanto
personaggio pericoloso ed estremamente losco (vedasi
capitolo Accadimenti finali).
Piccola parentesi: undici anni dopo, nel 1996, il capo della squadra
mobile, Michele Giuttari scoprirà, grazie a una perizia calligrafica,
che tale lettera era stata inviata dal signor Floriano Delli, di
professione impiegato di banca. Il Delli, infatti, era stato chiamato a
rendere testimonianza presso gli uffici della Procura perché agli
inizi degli anni '80 aveva preso in locazione insieme ad alcuni amici,
una parte di una colonica ubicata di fronte all'abitazione del
Pacciani. Il Delli testimoniò nell'occasione che un giorno del 1981,
con la moglie ed alcuni amici, aveva notato nel giardino di casa
Pacciani, accanto alla fontana, "delle cose schifose", come dei
brandelli di pelle stesi ad essiccare.
Sempre stando alla testimonianza del Delli, inoltre, nello stesso
periodo aveva affidato al Pacciani un cane trovatello di nome Pluto
da custodire e del cibo con cui sfamare l'animale. Pietro, stando a
quanto raccontato dalle figlie, aveva invece utilizzato quel cibo per
sfamare i propri familiari e aveva preso a bastonare
quotidianamente il cane fino a provocarne il decesso. Delli aveva
dunque sicuramente motivi di astio nei confronti del Pacciani.
Come dicevamo, comunque, è proprio la sua lettera anonima nel
settembre del 1985 a portare inizialmente Pacciani nel mirino degli
inquirenti. Il 16 settembre la missiva giunse alla caserma dei
carabinieri di San Casciano e il 19 settembre 1985, forse per una
sorta di scrupolo professionale, il maresciallo Vincenzo
Lodato assieme al maresciallo D'Aidone e all'appuntato Antonio
Scanu si recarono presso l'abitazione di Pietro Pacciani in Piazza
del Popolo a Mercatale. Eseguirono una sommaria perquisizione,
pur sprovvisti di mandato, da cui non risultò alcunché, e chiesero al
padrone di casa di render conto su cosa avesse fatto la sera
dell'omicidio.
Come emerse al processo Pacciani, nell'udienza del 3 Maggio 1994,
Pietro sosterrà che la prima perquisizione a suo carico fosse invece
avvenuta il 9 settembre attorno alle 15.30, il giorno stesso del
ritrovamento dei cadaveri dei due francesi, e non il 19, dando di
fatto il via a un serrato confronto. In sintesi, lo scambio dialettico fra
le varie parti del processo fu il seguente:
● Pacciani dichiarò che il 9 settembre verso le 15:30 era arrivato il
maresciallo Lodato a perquisire la sua abitazione; il maresciallo gli
aveva chiesto cosa avesse fatto il giorno prima da dopo pranzo fino
a sera. Domanda cui Pacciani aveva risposto che era stato alla Festa
dell'Unità di Cerbaia, ma non per il partito, quanto per gli
ottimi "polletti fritti" che cucinavano.
● Il giudice Ognibene intervenne affermando che probabilmente la
perquisizione non era avvenuta quel giorno (9 settembre) ma il 19
settembre, perché c'era un verbale dei carabinieri che riportava
l'evento e che appunto risaliva al 19.
● Pacciani ribadì che la prima perquisizione era avvenuta proprio il
9 e che il 19 era avvenuta un'altra perquisizione in seguito a una
lettera anonima giunta alla caserma dei carabinieri di San Casciano.
● Intervenne Canessa che chiese dunque al maresciallo Lodato dove
fosse stato il 9 settembre alle ore 14:00, al fine di dimostrare che non
poteva essere andato a casa del Pacciani.
● Pacciani a quel punto si arrabbiò: "...ma chi lo ha detto alle 14?... non
andiamo a cercare le frottole... che si cerca di imbrogliare le acque qui?... lo
cerco pure io chi ha fatto del male...!"
Ribadì quindi che la perquisizione era avvenuta alle 15:30.
● Il maresciallo Lodato affermò che dopo la scoperta dei cadaveri,
lui non si era mai mosso dagli Scopeti fino a tarda sera, quindi
ritenne impossibile che fosse andato a perquisire Pacciani il
pomeriggio del 9 settembre.
● Intervenne l'avvocato Bevacqua che parlò di alcune perquisizioni
condotte proprio il 9 settembre alle 17:30 su alcune persone
sospettate (tra cui il famoso ginecologo di Montelupo Fiorentino,
meglio conosciuto come dottor B.). Il fine di Bevacqua era appunto
dimostrare che le perquisizioni erano partite proprio dal
pomeriggio del 9.
● Canessa ribatté che di quelle perquisizioni non si era occupato il
maresciallo Lodato, ribadendo che il carabiniere quel pomeriggio
era rimasto dalle parti di Scopeti fino a sera.
Inutile dire che la prima risposta, per quanto molto poco piacevole
da valutare, appare quantomeno possibile.
La seconda presupporrebbe, invece, un piano ordito con diversi
anni di anticipo ai danni del Pacciani. In altre parole ci sarebbe stata
una vera e propria cospirazione secondo cui la condanna per gli
abusi alle figlie avrebbe dovuto condizionare l'opinione pubblica
allorché, quasi cinque anni dopo, la tempesta mediatica si sarebbe
abbattuta sul contadino di Mercatale; e ancor di più avrebbe dovuto
condizionare l'esito di un eventuale Processo sui delitti del Mostro,
un processo che si sarebbe svolto oltre sette anni dopo quella
condanna. E tutto questo con il fine di provare a portare in
tribunale le figlie per farle dire che sì, il padre le aveva violentate.
Opinione di chi scrive è che se è vero che ogni teoria ha più o meno
una propria dignità e ragione d'essere, questa francamente desta
qualche perplessità.
La maxi perquisizione
Un paio di mesi dopo l'appello di Perugini, stando alle
dichiarazioni degli stessi inquirenti, Pacciani venne visto per diversi
giorni consecutivi frugare nel proprio orto, come alla ricerca di
qualcosa. In precedenza c'erano state le dichiarazioni dello stesso
indagato su un eventuale "gingillo" che qualcuno avrebbe potuto
mettere nell'orto per incastrarlo e questo insospettì fortemente i
poliziotti della SAM. Verso la fine dell'aprile del 1992 le
perlustrazioni del contadino si erano fatte talmente intense e
prolungate da spingere Vigna a ordinare una profondissima
perquisizione in casa Pacciani.
La mattina del 27 aprile 1992 ebbe così inizio la più accurata e
spettacolare perquisizione nella storia giudiziaria italiana. Al terzo
di dodici giorni di perquisizione, il 29 aprile, venne ritrovata la
cosiddetta "prova regina".
Erano le 17.45 quando lo stesso Perugini estrasse dal terreno
fangoso dell'orto di casa Pacciani una cartuccia inesplosa della
Winchester, calibro 22, a piombo nudo con la lettera H sul bossolo,
lo stesso tipo di proiettili utilizzati dal MdF. Sarà questo proiettile il
più grande indizio a carico del Pacciani, ma anche uno dei punti più
controversi dell'intera indagine (vedasi a tal proposito il capitolo
dedicato al Processo).
L'asta guidamolla
Meno di un mese dopo, il 25 maggio 1992, giunse alla stazione dei
carabinieri di San Casciano, nella persona del maresciallo Arturo
Minoliti, una busta bianca al cui interno, avvolta in due pezzi di
stoffa, c'era l'asta guida-molla di una pistola beretta calibro 22 serie
70 (il modello d'arma del mostro). Ad accompagnare il reperto c'era
uno biglietto anonimo piuttosto sgrammaticato in cui era scritto che
si trattava di un pezzo della pistola del mostro, ritrovata in un
punto della campagna attorno a San Casciano che Pacciani di solito
frequentava; il misterioso mittente accludeva anche uno schizzo del
luogo.
Più precisamente il biglietto riportava testualmente:
"Questo è un pezzo della pistola del Mostro di Firenze e sta' sulla
Nazione: c'era la fotografia. Stava in un barattolo di vetro stiantato
(qualcuno lo à trovato prima di me) sotto un albero a Crespello-Luiano – e’
si vede il tabbenacolo della vergine. Il Pacciani andava lì e lavorava alla
fattoria. Anche la moglie e la figlia grande passeggiavan lì e’ sono grulle e’
fanno tutto quello e’ lui gli comanda se no ne toccano. Il Pacciani è un
diavolo e incanta i bischeri alla t.v. Ma noi lo si conosce bene e lo avete
conosciuto anche voi. Punitelo e Dio vi benedirà perché un è un omo è una
berva. Grazie.
Il riferimento al quotidiano "La Nazione" è dovuto a un articolo
uscito pochi giorni prima, il 5 maggio, nel quale venivano illustrati
tramite un accurato disegno tutti i componenti smontati di una
Beretta calibro 22 serie 70.
Le indagini appurarono che i pezzi di stoffa in cui era stata avvolta
l'asta provenivano da casa Pacciani: infatti il 31 maggio, quasi
casualmente a detta degli stessi inquirenti, durante una
perquisizione a casa dell'indagato, l'ispettore Riccardo
Lamperi notò uno straccio appeso a una parete con la stessa
fantasia della stoffa in questione. Il 2 giugno, in seguito a una nuova
perquisizione, fu rinvenuto proprio lo straccio combaciante nelle
sfilacciature con quello che aveva avvolto l'asta.
Il dubbio che quella lettera l'avesse potuta inviare proprio
l'indagato stesso per confondere le acque e dimostrare di essere
vittima di persecuzione da parte di anonimi segnalatori, fu forte tra
gli inquirenti. Le cose che insospettirono furono:
● Pacciani scriveva S. Casciano anziché San Casciano, esattamente
come era riportato sulla busta arrivata;
● La lettera conteneva errori grammaticali che Pacciani era solito
fare nei suoi memoriali, ad esempio l'accento sull'ausiliare "avere"
anziché l'utilizzo dell'acca o i classici errori di doppia;
● L'indubbia bravura del Pacciani nel disegnare, soprattutto le
mappe; e la bravura evidenziata dal mittente anonimo nel
realizzare la mappa del luogo dove aveva recuperato l'asta guida-
molla;
● L'utilizzo dello stampatello maiuscolo, carattere che Pacciani
usava sempre nei suoi memoriali.
Sfugge tuttavia la motivazione per cui Pacciani, qualora fosse stato
il MdF, avrebbe dovuto inviare un pezzo dell'arma con cui eseguiva
i delitti alle forze dell'ordine, considerando che se c'era una cosa su
cui poteva farsi forza era appunto che l'arma non fosse mai stata
trovata.
Un'ipotesi ventilata dalla difesa dell'imputato (nello specifico
dall'avvocato Bevacqua) era invece che quella lettera anonima fosse
stata inviata dalle figlie del Pacciani, ormai in guerra aperta con il
padre, per incastrarlo definitivamente e farlo tornare in galera.
Durante lo stesso Processo, emerse anche la possibilità, espressa
dall'avvocato Luca Santoni Franchetti, che il biglietto fosse stato in
realtà scritto in maniera volutamente rozza e sgrammaticata, in
modo da far credere che l'autore fosse proprio Pacciani.
Qualche anno dopo il processo di primo grado, precisamente nel
1998, il comandante della stazione dei carabinieri di San Casciano,
maresciallo Arturo Minoliti, si lasciò andare ad alcune
"imprudenti" dichiarazioni con il giornalista Mario Spezi,
sostenendo che a suo parere straccio e asta guidamolla erano stati
elementi appositamente costruiti dagli inquirenti per incastrare
Pacciani (per maggiori dettagli, vedasi il capitolo dedicato
al Processo Pacciani).
A rendere tanto per cambiare ancor piú complicata la situazione,
qualche anno dopo, verrà accusato di aver inviato la missiva
anonima contenente straccio e asta, il già citato giornalista della
RAI, Giovanni Spinoso, paccianista convinto, marito di Marzia
Rontini (la sorellastra di Pia), e finito più volte nel mirino della
Procura forse per le sue inchieste giornalistiche, forse per le sue
ingerenze nelle indagini. Il giornalista verrà assolto nel febbraio
2006 per non aver commesso il fatto.
Oggi parecchi mostrologi pensano (ovviamente senza alcuna base
documentale) che a prelevare subdolamente i pezzi di stoffa da casa
Pacciani, avvolgervi all'interno l'asta guidamolla e inviare il tutto
alla caserma dei carabinieri di San Casciano, fosse stato un non
meglio identificato tutore dell'ordine il cui fine era appunto
incastrare Pacciani.
Risposte
1.
Luigi Sorrenti3 luglio 2022 alle ore 09:53
Antonio Pacciani era il padre, Rosa Bambi la madre.
Pio era il padre di Angiolina.
2.
Anonimo17 agosto 2022 alle ore 04:06
2.
Anonimo17 agosto 2022 alle ore 04:07
https://youtu.be/qa4F-0_uh08
Rispondi
3.
Luigi Sorrenti24 agosto 2022 alle ore 03:29
Lo so, sono viedo che conosco discretamente. Ma da rapporto
della questura di Firenze sulla situazione finanziaria del
Pacciani, redatto il 9 gennaio 1997, i nomi dei genitori di
Pacciani sono quelli che ti ho scritto nel precedente commento.
Antonio Pacciani e Rosa Bambi per Pietro.
Pio Manni e Giulia Gaudenzi per Angiolina.
Rispondi
L'anonimo fiorentino
Agli inizi di Novembre del 1991, nel pieno delle indagini che la
SAM e la Procura di Firenze stavano conducendo sul contadino di
Mercatale Pietro Pacciani, giunse al Procuratore della Repubblica di
Firenze, Piero Luigi Vigna, una lettera scritta interamente a
macchina, di un soggetto anonimo che dichiarava di conoscere
parecchie cose sul Mostro di Firenze. Costui si diceva certo
dell'innocenza dell'indagato Pacciani e invitava Vigna a dargli
ascolto in quanto si definiva "un pensatore dotato di una certa
intuizione, in svariate situazioni dimostrata".
Questa sarebbe stata una lettera anonima come migliaia di altre
giunte in Procura sul caso del Mostro, se non fosse che una decina
di giorni dopo l'anonimo si sarebbe rifatto vivo, questa volta con
una missiva indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia, al Vice
Presidente del CSM e al Procuratore Generale della Corte di
Appello di Firenze. In questa nuova lettera, scritta sempre a
macchina e dal contenuto delirante, l'anonimo accusava
apertamente il magistrato mugellano di cui sopra, Pier Luigi Vigna,
di essere il Mostro di Firenze. Ma il particolare più importante,
forse, è che scrisse la parola "dubbio" con una sola "B", esattamente
come aveva fatto il Mostro in occasione della missiva inviata alla
Della Monica nella parola "Repubblica".
La terza lettera firmata da colui che ormai stava diventando noto
come l'Anonimo Fiorentino è datata 18 Novembre 1991 e venne
inviata in duplice copia al direttore del quotidiano "La Nazione" e
all'avvocato di Pacciani, Pietro Fioravanti.
In questo scritto, quasi profetico, l'anonimo avvertiva che
"qualcuno" avrebbe potuto sotterrare nell'orto di Pacciani la pistola
del MdF, dopo averla trattata opportunamente con acido muriatico
per invecchiarla e farla apparire usurata, con lo scopo di incastrare
definitivamente il contadino di Mercatale.
Ricordiamo che la maxi-perquisizione a casa del Pacciani in cui
venne rinvenuta la cartuccia, sarebbe stata eseguita alla fine di
aprile del 1992 e dunque oltre cinque mesi dopo l'invio di tale
missiva.
A queste tre lettere ne seguiranno numerose altre, tutte dallo stesso
mittente, tutte con unico scopo: proclamare l'innocenza di Pacciani
e sfidare e insolentire la Procura di Firenze. In totale le lettere
saranno poco meno di trenta e i destinatari molteplici.
Le maggior parte arriveranno in Procura e in quelle occasioni
saranno infamanti, calunniose, intimidatorie.
L'anonimo fiorentino odiava visceralmente Vigna nei cui confronti
sembrava avere un "conto aperto", ma non risparmiava neanche il
suo secondo, quel Paolo Canessa che presto diverrà il celebre
Pubblico Ministero nel Processo contro Pietro Pacciani. E fu proprio
nei giorni e nei mesi del Processo che l'attività dell'anonimo
divenne quasi frenetica.
"Vigna e Canessa vi avevo già avvisati, fatevi aumentare la scorta perché
sarà una carneficina" scriveva l'anonimo in pieno delirio. Ma
anche: "Per me uccidervi e facilissimo" oppure "Vigna libera Pacciani.
Lo sai che è innocente! Esci allo scoperto e confessa. Non fare il
vigliacco!" o ancora "Se Pacciani sarà condannato potete già prepararvi
la fossa" per finire con "Io vivo al vostro fianco... sono armato
regolarmente dallo Stato. Per questo in procura vi ho sempre tra i piedi".
La magistratura indagò a lungo senza successo, ma l'anonimo
fiorentino non sembrava avere intenzione di fermarsi. Al contrario
continuava imperterrito con le sue accuse, gli insulti, le sfide, ma
anche congetture, ipotesi, teorie e messaggi in codice. Scrisse al
Ministro di Grazia e Giustizia Martelli, al capo della polizia Parisi,
a Perugini, ai dirigenti della SAM, ai giornali, al Presidente della
Corte d'Assise Ognibene, ai difensori del Pacciani,
al Pacciani stesso. In talune missive lasciava intendere di essere un
poliziotto di stanza in Mugello, in altre di conoscere particolari sui
delitti che solo chi era presente potrebbe sapere. In un'occasione
affermò infatti: "il mostro ormai non ucciderà più. La lezione l'ha avuta
dal giovane francese agli Scopeti che con la sua reazione non gli permetterà
più di nuocere", sostenendo che sotto le unghie di Jean-Michel erano
rimasti brandelli di pelle del Mostro (in realtà, l'autopsia al ragazzo
francese non aveva rilevato alcun frammento di pelle sotto le sue unghie,
NdA).
Nell'ottobre del 1994, pochi giorni prima della sentenza Pacciani,
venne ritrovata una raccolta di lettere dell'anonimo fiorentino in
una cabina telefonica di San Piero a Sieve, nel Mugello, non lontano
da dove il MdF aveva imbucato la lettera per la Della Monica nel
settembre di nove anni prima. Si pensò che fosse stato lo stesso
anonimo a lasciarle con il fine di renderle pubbliche. Si trattava
delle lettere inviate alla Procura nel 1991 e il 1992. Alcune erano
state copiate con una macchina da scrivere diversa da quella usata
nella versione originale.
Il 2 Novembre 1994, il giorno successivo alla sentenza che condannò
Pacciani, l'anonimo fiorentino scrisse le ultime due lettere
sicuramente addebitabili a lui di cui si abbia notizia. Erano
riconoscibili dallo stile e dalla firma. Una la scrisse a Renzo Rontini,
il padre della povera Pia, insultandolo: "Volevi giustizia e l'hai
ottenuta, ma hai mandato all'ergastolo un innocente", l'altra a Vigna, al
solito oltraggiosa. Entrambe queste lettere erano state imbucate a
Borgo San Lorenzo, nel Mugello.
Tuttora l'identità dell'anonimo fiorentino è ignota nonostante siano
state fatte diverse congetture e si sia tenuto anche un processo poi
conclusosi con l'assoluzione del maggior sospettato, il criminologo
e investigatore Carmelo Lavorino, direttore della
rivista "Detective&Crime", nonché consulente della Difesa nel
Processo d'Appello a Pietro Pacciani, a lungo ritenuto dalla SAM, e
in special modo dall'ispettore Riccardo Lamperi, l'autore delle
missive.
A indirizzare i sospetti sul Lavorino erano stati alcuni esposti che il
suddetto criminologo aveva inviato alla Procura di Firenze nel 1993
e che, nello stile e nell'utilizzo di alcuni termini e modi di dire (per
esempio l'utilizzo reiterato della locuzione "il gran burattinaio"),
ricordavano le missive dell'anonimo.
Fra gli addetti ai lavori, c'è chi ha letto nelle frasi battute a macchina
dall'anonimo, la tecnica tipica usata dai servizi deviati.
Durante gli anni dei Processi, era opinione comune che le missive si
inserissero in un contesto di denigrazione della magistratura
fiorentina piuttosto in voga in quel periodo.
C'è tuttavia una buona fetta di moderna mostrologia che ritiene che
dietro l'anonimo fiorentino si nascondesse il Mostro in prima
persona o qualcuno a lui molto vicino.
La missiva che profetizzava un importante rinvenimento nel
giardino del Pacciani, del resto, potrebbe essere buon indizio.
Il Processo Pacciani
2. Il portasapone Deis
Venne trovato in casa del Pacciani un portasapone di marca
tedesca Deis che fu riconosciuto dai parenti del Meyer come
appartenente al congiunto ucciso.
Anche in questo caso valgono tutte le considerazioni espresse
sopra. Oltretutto il riconoscimento da parte dei parenti del Meyer
non fu di quelli che possono definirsi sicuri. La matematica certezza
che quel portasapone fosse appartenuto al Meyer non c'era mai
stata e anche se così fosse stato, mancava la certezza che il Pacciani
se ne fosse impadronito dopo aver commesso il delitto e non
qualche tempo dopo, magari rovistando in una discarica dalle parti
di Giogoli.
3. La cartuccia nell'orto
L'indizio principale era dato dalla famosa cartuccia trovata dal capo
della SAM in persona, Ruggero Perugini, nell'orto del Pacciani in
occasione della maxi-perquisizione fra l'aprile e il maggio del 1992
(vedasi capitolo Il contadino di Mercatale).
La cartuccia Winchester calibro 22 LR a piombo nudo, inesplosa,
scarrellata e deformata, aveva la lettera H sul fondello che
presentava buone analogie con quella incisa sui bossoli lasciati sulla
scena del crimine del MdF. La cartuccia fu sottoposta a numerose
analisi il cui fine era accertare se la pistola che l'avesse contenuta
fosse stata quella del Mostro.
Ovviamente non si poté arrivare a una prova certa: durante il
Processo i periti della Procura (Spampinato e Benedetti) non furono
in grado di dimostrarlo al di là di ogni ragionevole dubbio. C'erano
similitudini, ma non sufficienti a dare certezze. Inoltre l'esperto
perito della difesa (Marco Morin, personaggio dal passato discusso
e nebuloso; degna di nota la caustica battuta di Canessa "noi la
conosciamo di fama") mise in risalto una contraddizione nella perizia
Spampinato-Benedetti. Secondo Morin, infatti, i due periti nella loro
relazione avevano affermato che l'impronta sul bossolo che
apparentemente poteva sembrare dovuta all'estrazione, non
essendo compatibile con quella lasciata dalla pistola del mostro,
non era dunque una reale impronta d'estrazione. I periti avevano di
fatto capovolto l'onere della prova, utilizzando la tesi da dimostrare
a mo' di ipotesi: anziché, cioè, dire che le striature verosimilmente
dovute ad estrazione rilevate sulla "cartuccia Pacciani" differivano
da quelle lasciate dalla pistola del MdF e dunque l'arma che aveva
contenuto la cartuccia in esame non era quella del mostro,
affermavano che questa differenza provava che le striature sulla
"cartuccia Pacciani" non erano dovute ad estrazione.
Anche le analisi condotte sulla lettera H non diedero certezze;
venne definita simile e compatibile ma non identica a quelle
rivenute sulle scene del crimine.
Infine non fu neanche possibile accertare quando la cartuccia
sarebbe finita nell'orto del Pacciani: si parlò di un tempo massimo
di cinque anni, quando cioè l'imputato era ancora in prigione, ma
risultò un dato troppo aleatorio per costituire elemento su cui
dibattere in sede processuale.
Dal canto suo, Pacciani portò a propria difesa la lettera scritta
dall'Anonimo Fiorentino che era stata inviata al quotidiano "La
Nazione" e al suo avvocato Pietro Fioravanti cinque mesi prima
della perquisizione. Come visto nel precedente capitolo, in questa
lettera l'ignoto autore avvisava i destinatari che avrebbero cercato
di incastrare Pacciani facendo ritrovare nel suo orto qualcosa di
compromettente, come poteva essere ad esempio la pistola del
MdF, debitamente invecchiata tramite acido muriatico per simulare
un interramento di lungo termine.
Pacciani parlò della lettera in occasione della sua deposizione
spontanea; ne fecero brevemente cenno anche gli avvocati Bevacqua
e Fioravanti, pur nei limiti consentiti dalla legge, visto che si
trattava di una segnalazione anonima, tanto più dell'anonimo
fiorentino che stava tempestando non solo la Procura ma tutte le
parti del Processo di missive decisamente sgradevoli e oltraggiose.
Forse questo fu il motivo per cui non venne dato particolare
clamore mediatico alla lettera (il quotidiano "La Nazione", ad
esempio, non ne aveva fatto cenno, né aveva mai pubblicato il
contenuto), che pure aveva una sua rilevanza storica e giudiziaria.
Sembrava infatti indicare che qualcuno sapesse chiaramente e con
largo anticipo che ci sarebbe stata una perquisizione a casa Pacciani
e che sarebbe stato trovato qualcosa di importante nel suo orto.
Tale lettera, dimenticata per anni fra gli archivi processuali, è
tornata agli onori della cronaca nell'estate del 2018, ritrovata dal
documentarista Paolo Cochi fra le carte dell'avvocato Bevacqua.
Ovviamente il ritrovamento ha fatto riemergere fra i Mostrologi
l'antico e mai sopito dubbio di una contraffazione del proiettile
appositamente messa in atto per incastrare l'imputato.
Sogno di Fatascienza
Accanto agli indizi di cui abbiamo parlato finora, ce ne fu un altro
che si trasformò in un vero e proprio boomerang per la Pubblica
Accusa e fu il famoso quadro sequestrato a casa Pacciani, intitolato
dall'imputato "Sogno di Fatascienza".
Per Perugini e la Procura di Firenze, il quadro (che in realtà poi era
un disegno) era senza dubbio opera di Pacciani; rappresentava una
figura orrenda, vestita da militare che brandiva una sciabola, con
zampe d'asino ed enormi scarpe da tennis ai piedi. A completare il
disegno c'erano un toro, una mummia, una chiave di violino, delle
stelle, delle croci, numerose figure astratte, ognuna con un simbolo
particolare.
Profili a confronto
Oltre al passo falso rappresentato dal quadro, ciò su cui puntò
parecchio la Difesa dell'imputato fu l'evidente divergenza fra il
Pacciani e il profilo del serial killer proposto dal team di
criminologi di Modena, presieduto da un luminare nel campo, il
professor Francesco De Fazio.
Età e condizioni di salute a parte, ciò che più strideva nel confronto
era che De Fazio aveva parlato di individuo probabilmente, ma non
necessariamente, scapolo, con buona presunzione affetto da
iposessualità, se non addirittura incapace di avere rapporti sessuali
normali con l'altro sesso. Pacciani al contrario, oltre che sposato con
prole (ma questo lasciava un po' il tempo che trovava, considerando
la sua situazione familiare) era sicuramente soggetto sessualmente
iperattivo, uno che oltre alla moglie soleva frequentare e violentare
prostitute, che era solito importunare le donne altrui, addirittura
che stuprava le figlie.
Inoltre in molti, all'epoca ma anche oggi, facevano e fanno fatica a
vedere in lui quel serial killer metodico, sistematico, cauto, astuto,
sufficientemente organizzato da non lasciare evidenti tracce, di cui
parlava De Fazio. Non che Pacciani fosse stupido, anzi, sicuramente
era dotato di una buona dose di astuzia e d'istinto felino per la
sopravvivenza, ma rimaneva difficilmente classificabile come
metodico, organizzato, soprattutto cauto. Non per nulla era il
Vampa, uno che andava in collera facilmente, a stento contenibile,
violento e brutale nelle sue esplosioni d'ira.
Nonostante in sede processuale, contrariamente a quanto si
aspettavano gli innocentisti, la deposizione del team De Fazio non
fu in antitesi con le tesi della Pubblica Accusa, ma anzi risultò
piuttosto accomodante verso l'individuazione del Pacciani, ancora
oggi la divergenza di profili viene vista da buona parte della
mostrologia Non Paccianista, Non Merendara, Non
Giuttariana come uno dei punti fermi da cui partire per
l'elaborazione di teorie alternative a quella ufficiale.
La condanna
Sulla base dei succitati indizi e delle succitate deposizioni, ma anche
sulla base di nuove testimonianze da parte di chi - a distanza di
anni - ricordava di aver visto Pacciani nei pressi dei luoghi di alcuni
delitti, si sviluppò l'intero dibattimento, giostrato con indubbia
valenza dal PM Canessa. Si alternarono scene ad altissima intensità
emotiva (si pensi alla deposizione della signora Bruna Bonini,
mamma di Stefania Pettini, o di Renzo Rontini, padre della povera
Pia, o le deposizioni delle due figlie di Pacciani) con scene
involontariamente comiche che col tempo sarebbero diventate veri
e propri cult nel mondo del web (si pensi al battibecco fra
l'imputato e la sua amante, la signora Maria Antonietta Sperduto).
Due furono comunque le deposizioni di particolare interesse per gli
sviluppi processuali futuri: una fu la testimonianza dell'amico del
Pacciani, il postino Mario vanni, l'altra quella di un conoscente del
Pacciani, tale Lorenzo Nesi.
Il Vanni rese una testimonianza talmente reticente, non solo da
provocare l'ira del presidente Ognibene, ma anche da far
convergere su di lui l'interesse della Procura di Firenze.
Dal canto suo, il Nesi dichiarò di aver visto il Pacciani in compagnia
di un'altra persona non identificata la sera in cui verosimilmente era
avvenuto il delitto degli Scopeti, in un luogo non lontano dalla
piazzola stessa. Entrambe le testimonianze porteranno col tempo la
Procura ad abbandonare la pista del serial killer solitario e cercare
eventuali complici del Pacciani.
"Sono rimasto sorpreso, la mia idea è che dentro il processo, cioè dentro le
prove e le testimonianze raccolte, la condanna non c'era. Evidentemente i
giudici hanno agito in base a due ordini di motivo: o hanno dato molto peso
ai precedenti, al temperamento di quest'uomo che è un uomo odioso, già
riconosciuto colpevole di delitti gravi e infamanti, oppure siccome si tratta
di un processo indiziario e gli indizi per costituire prova devono essere
gravi e concordanti, sono riusciti a stabilire la congruità e la concordanza
di indizi che a noi cronisti era per la verità sfuggita. Se ci fosse stata
ancora la vecchia assoluzione per insufficienza di prove, era quello il caso
in cui doveva rientrare Pacciani", le parole di Augias.
"Io credo che a questa sentenza abbia contribuito Pacciani, un uomo che
non inspira nemmeno alcuna pietà... quindi può anche darsi che questa
sentenza sia rispettosa di una giustizia in senso astratto, si manda
all'ergastolo un uomo che merita di starci; che sia rispettosa della legge, ho
qualche dubbio, perché la legge esige delle prove e mi pare che qui di indizi
ce ne fossero molti, ma nessuno di questi potesse essere considerato una
prova. Questa sentenza mi soddisfa solo a metà...", le parole a caldo di
Montanelli.
La morte di Pacciani
Il nuovo processo d'appello non ebbe, tuttavia, mai luogo a causa
dell'improvvisa morte dell'imputato. Infatti, il pomeriggio del 22
febbraio 1998, mentre era in pieno svolgimento il Processo ai suoi
eventuali complici, Pacciani venne ritrovato morto nella sua
abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato
in alto fino al collo.
La relazione del medico legale stilata dal professore Giovanni
Marello su incarico del Sostituto Procuratore Paolo Canessa,
riportava che il decesso era avvenuto verso le 22.30 del giorno
prima (21 febbraio) e che era dovuto a "insufficienza cardiaca con
edema polmonare in recente infarto del miocardio".
L'esame tossicologico rivelò nel suo stomaco tracce di un farmaco
anti-asmatico, l'Eolus, fortemente controindicato per un
cardiopatico infartuato come lui.
La morte di Pacciani gettò nuove ombre sull'intera vicenda e strane
voci presero a circolare - spesso incontrollate - su quel misterioso e
decisamente intempestivo decesso. La stampa contribuì ad
alimentare le voci che volevano Pacciani ucciso da ignoti, rendendo
difficile in quel tourbillon di chiacchiere distinguere la verità dalle
fandonie.
Si venne a sapere, ad esempio, che Pacciani, tornato a vivere a
Mercatale dopo l'assoluzione in appello e abbandonato anche dalla
moglie, viveva barricato in casa come se avesse paura di qualcosa o
qualcuno. La sera della sua morte invece aveva ricevuto la visita di
un misterioso erborista e porte e finestre della casa erano state
rinvenute spalancate. Si venne a sapere che c'era un forte odore di
ammoniaca per casa e che il suo cadavere era rivestito da una specie
di grembiule; tale grembiule sarebbe stato in realtà un indumento
rituale massonico utilizzato nelle cerimonie come simbolo di
declassamento punitivo di chi lo indossava.
Nonostante il correre incontrollato di queste voci, come vedremo,
non è mai stato trovato alcun riscontro documentale che
supportasse la teoria dell'omicidio, né tantomeno l'intervento della
massoneria o addirittura dei servizi deviati. Al contrario, a dispetto
di quanti ancora oggi - anche fra addetti ai lavori - considerando la
morte del Pacciani causata da non meglio precisati poteri forti, le
carte sembrerebbero far propendere per una morte naturale.
In realtà, a parlare della visita dell'erborista era stato un pittore
bolognese, tale Celso Barbari che, appassionatosi alle vicende
giudiziarie del contadino di Mercatale, ne era divenuto amico. Fu lo
stesso pittore a riferire per la prima volta nell'aprile del 2001 le
seguenti parole: "Sentii Pietro proprio il giorno prima del rinvenimento
del suo cadavere. Lo sentii per telefono la sera e lui fu molto frettoloso nel
liquidarmi dicendomi che da lui c'era un erborista. Tant'è che ebbi modo di
udire Pietro che rivolgendosi a questa persona gli diceva «è quel grullo del
pittore», chiudendo la comunicazione. Il giorno dopo in paese ebbi la
notizia della sua morte."
Tuttavia dalle intercettazioni telefoniche (il telefono del Pacciani era
tenuto sotto rigido controllo) tale telefonata non è mai emersa;
questa mancanza ha ovviamente fatto sorgere qualche dubbio sulla
veridicità dell'episodio, rendendo il contesto in cui era maturata la
morte del Pacciani ancor più incerto e nebuloso.
Fra le poche cose certe, sappiamo che in quei giorni si stava
svolgendo il processo di primo grado ai cosiddetti Compagni di
Merende e in aula stavano emergendo alcune rivelazioni da parte
del pentito reo-confesso, Giancarlo Lotti, circa un non meglio
precisato dottore che pagava il Pacciani affinché commettesse gli
omicidi con il fine di procurarsi i cosiddetti feticci, ove per feticci
erano intesi i lembi della vagina e del seno escissi alle ragazze
uccise.
Indipendentemente dalla scarsissima attendibilità del Lotti (che
vedremo meglio in seguito), la possibilità dell'esistenza di
fantomatici committenti degli omicidi hanno condotto numerosi
mostrologi (in special modo fra Giuttariani e Complottisti) a
ritenere non solo molto sospetta la morte del Pacciani, ma
addirittura procurata presumibilmente dai cosiddetti mandanti in
guanti bianchi. Un omicidio dunque reso necessario dal fatto che
Pacciani era divenuto nel frattempo possibile scomodo testimone in
vista del nuovo Processo d'appello che lo attendeva, processo in cui
- ormai spacciato dopo le confessioni del Lotti - sarebbe stato
finalmente pronto a raccontare le sue verità.
Questo non toglie che l'eventualità di più autori, così come quella
dei mandanti e, in misura minore, quella di una setta, sebbene
meno proabile, non può essere aprioristicamente esclusa (non ci
sono altresì palesi evidenze scientifiche che escludano la presenza
di più autori sui luoghi dei delitti) ed è stata talvolta avanzata nel
corso degli anni, indipendentemente dai Compagni di Merende.
Il Processo ai CdM
La registrazione in carcere
Tre anni dopo la sentenza definitiva, il 30 giugno 2003, il
testimone Lorenzo Nesi, in accordo con la Procura di Firenze che
stava indagando sul cosiddetto secondo livello, si recò presso il
carcere Don Bosco di Pisa dove era recluso il Vanni per aver un
colloquio chiarificatore. Il Nesi si disse certo, in virtù della fraterna
amicizia che li legava, di poter convincere il Vanni a dire finalmente
la verità sull'intera vicenda del Mostro. Il colloquio tra i due venne
registrato dalla Polizia Giudiziaria: ebbe inizio alle 19.21 e si
concluse alle 20.50.
Emersero chiaramente durante il colloquio le precarie condizioni
psichiche in cui versava il Vanni e le sue difficoltà cognitive.
L'intero dialogo, a un attento ascolto, ha infatti ben poco senso. Ma
ciò che è da sottolineare è il seguente botta e risposta:
Alla luce di quanto appena esposto, risulta evidente come gli organi
inquirenti, probabilmente profondamente convinti della
colpevolezza del Vanni, cercassero un modo (anche non ortodosso)
per incastrarlo in maniera definitiva con una testimonianza oculare
che esulasse da quelle di Lotti e Pucci, evidentemente giudicate
persino da loro estremamente dubbie o comunque non sufficienti
per una condanna.
Ci provarono (in maniera finanche sgradevole, almeno a leggere
taluni resoconti) con la Carmignani, ma andò male a causa della
meritevole fermezza della ragazza.
Alla fine una testimonianza di questo tipo venne a mancare, ma la
sentenza di condanna nei confronti del Vanni arrivò ugualmente,
basandosi esclusivamente sulle parole di Lotti e Pucci, che più di un
sincero dubbio lo destano.
Ora, per i difensori del Vanni era una cosa altamente improbabile
che il Lotti potesse permettersi economicamente di possedere due
automobili funzionanti. Secondo la loro tesi, se una persona dalla
scarsissima disponibilità economica aveva acquistato una "nuova"
vettura, significava necessariamente che l'altra non funzionava più.
Di conseguenza, l'automobile rossa vista a Scopeti non poteva
essere la 128 del Lotti. Del resto, fu lo stesso imputato a dichiarare a
dibattimento che la vecchia 128 "non andava più tanto bene".
La Difesa tentò a questo punto di dimostrare, tramite
testimonianze, la completa inagibilità nell'estate del 1985 della 128
rossa, sostenendo fosse stata parcheggiata in prossimità della cava
dei signori Scherma, lì dove Lotti abitava e lavorava, e che fosse
completamente inutilizzabile, addirittura senza ruote.
A differenza di quanto si sente oggi dire in taluni ambienti
mostrologici, tale tentativo però fallì. Nessuno dei testimoni, né in
primo grado né in Appello, a distanza di quasi 15 anni dagli eventi,
fu in grado di dire precisamente quando Lotti avesse cessato di
usare la 128 rossa e da quale momento questa fosse rimasta ferma e
inagibile davanti casa degli Scherma. Tutto ciò che si poté appurare
con certezza è che tale vettura era stata demolita nell'aprile del 1986
e che negli ultimi mesi era stata effettivamente ferma e
inutilizzabile. Ma quanto valessero numericamente questi "ultimi
mesi" nessuno era stato in grado di dirlo né in primo, né in secondo
grado.
Anche se tale incertezza lascia tuttora il dilemma delle automobili
senza soluzione e consente virtualmente di collocare effettivamente
la 128 rossa a Scopeti la sera dell'omicidio, è comunque possibile
fare un paio di considerazioni in merito.
▪ La prima è che durante il processo di primo grado Lotti mentì in
piena consapevolezza. Affermò infatti che fino al 20 settembre 1985
non aveva mai guidato la 124 celeste perché non era assicurata.
Si ricordi che, all'epoca, gli avvocati difensori del Vanni - come
detto - non erano ancora entrati in possesso dei documenti che
attestavano sia la voltura dell'assicurazione dall'automobile vecchia
a quella nuova, sia gli incidenti che Lotti aveva avuto con
l'automobile nuova. Durante il Processo d'Appello, dopo che i
suddetti avvocati avevano recuperato la documentazione in
oggetto, il Lotti cambiò versione, dichiarando che per un certo
periodo aveva guidato entrambe le automobili, la 124 assicurata e la
128 non assicurata, smentendo quanto lui stesso aveva dichiarato
nel precedente dibattimento. Posto di fronte all'evidente
contraddizione, il Lotti sostenne in maniera decisamente
improbabile (almeno stando all'ascolto delle registrazioni delle
udienze) di essere stato mal interpretato durante la testimonianza
in primo grado o più probabilmente di non essersi saputo
esprimere correttamente.
▪ La seconda considerazione da fare è che se il Lotti nel settembre
del 1985 guidava davvero entrambe le automobili, risulta piuttosto
improbabile che il presunto giorno dell'omicidio degli
Scopeti avesse adoperato una automobile vecchia, che funzionava
male e soprattutto non assicurata per andare a Firenze dalla
Ghiribelli, ritornare a San Casciano a tarda sera e fermarsi agli
Scopeti per adempiere all'appuntamento con il Pacciani, quando
contemporaneamente aveva un'automobile comprata da poco,
funzionante, assicurata e che soprattutto usava regolarmente.
Si lascia al lettore qualsiasi altra conclusione sull'argomento.
Lotti aveva, infatti, dichiarato che una sera di maggio attorno alle 21
aveva spiato con il Vanni la coppia Stefanacci-Rontini alla
Boschetta. Quindi, i due compagni di merende avevano seguito
l'automobile della coppia fino al bar "La Nuova Spiaggia" di
Vicchio, dove la ragazza era scesa, verosimilmente per recarsi al
lavoro. Il Vanni si era affrettato a seguire Pia all'interno del bar e ne
era uscito molto contrariato dopo una decina di minuti. Durante il
viaggio di ritorno a San Casciano, il Vanni, ancora piuttosto
arrabbiato, aveva riferito al Lotti che la ragazza aveva rifiutato le
sue "avances" e che per questo motivo sarebbe stata uccisa.
Ora, tralsciando il fatto che sembra piuttosto improbabile che
l'allora quasi sessantenne Vanni ci provasse con una ragazza
appena diciottenne quale la Rontini e che si risentisse a tal punto
per il rifiuto da decidere di farne la successiva vittima del Mostro,
in ogni caso è documentato che Pia aveva vissuto in Danimarca dai
primi di gennaio fino al 18 maggio 1984 e che aveva iniziato a
lavorare al bar "La Nuova Spiaggia" solo dal 1 luglio dello stesso
anno. Per buona parte di maggio, dunque, la Rontini non era in
Italia e per l'altra parte non lavorava al bar "La Nuva Spiaggia".
2.
Anonimo16 novembre 2022 alle ore 20:12
3.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 22:46
Giovanni Faggi
Nato a Calenzano il 17 agosto 1920, negli anni '50 fu assessore per il
Partito Comunista della sua città; in seguito divenne rappresentante
di ceramiche e piastrelle, lavoro che svolse fino alla pensione.
Quando nel 1996 si ritrovò imputato nel Processo ai CdM aveva già
76 anni. A inizio anni '90 era stato sfiorato dalle indagini, allorché
gli inquirenti scoprirono la sua amicizia col Pacciani. Durante una
perquisizione nella casa di Mercatale di Pacciani, vennero infatti
rinvenute due cartoline dello stesso Faggi indirizzate all'amico
Pietro. La prima aveva timbro postale 19/03/1979 e recava
scritto: "Caro Pietro sono stato fuori da Toscana a lavorare. Ti ricordo
sempre con tanto affetto. Fammi sapere se posso venire a trovarti per quel
tuo amico che aveva bisogno di (pavimenti e rivestimenti). Sentimi, dimmi
quando devo venire, il giorno e l’ora pressappoco e dove. Nuovamente ti
saluto tanto dal tuo amico Faggi Giovanni".
La seconda cartolina con timbro postale 16/03/1979 in cui si
leggeva: "Dimmi se ti è andata bene la tuta che ti portai. Ti saluto tanto,
Faggi Giovanni".
Dato che il teorema dell'Accusa prevedeva che Pacciani avesse
colpito in posti dove o nelle vicinanze viveva Miranda Bugli o il
Pacciani stesso aveva degli appoggi e dato che proprio a poche
centinaia di metri dall'abitazione del Faggi, era stato commesso il
duplice delitto dell'ottobre del 1981, gli inquirenti concentrarono le
loro attenzioni sull'ormai anziano rappresentante. Venne perquisita
la sua casa e vennero trovati falli di gomma o in legno, oltre a
diverse riviste pornografiche che il Faggi stesso spontaneamente
aveva inteso consegnare alle autorità competenti. Durante la
perquisizione, su un vecchio calendario del 1977 relativo al giorno 3
ottobre, venne trovato scritto e sottolineato il nome di Pietro
Pacciani.
Faggi fu invitato a testimoniare proprio durante il Processo
Pacciani. Interrogato da Canessa, respinse qualsiasi insinuazione
sull'amicizia con l'imputato, sminuendola fortemente. Dichiarò che
aveva conosciuto Pietro casualmente durante un pranzo a Scarperia
dopo una giornata di pesca, probabilmente proprio il giorno 3
ottobre 1977 segnato sul calendario (alcune fonti riportano che in
quell'occasione Pacciani era accompagnato da Francesco Simonetti,
maresciallo dei carabinieri in pensione e buon amico del Pacciani
stesso). Durante il pranzo, Faggi aveva saputo che un amico del
Pacciani doveva rifare il pavimento di casa e data la sua professione
di rappresentante, aveva fiutato l'opportunità di un piccolo affare.
Era dunque andato a trovare Pacciani per cercare di concretizzare la
vendita, ma in quell'occasione aveva notato lo stato di profondo
disagio in cui viveva il contadino di Mercatale, decidendo così di
regalargli una tuta di rappresentanza, andare via e interrompere
qualsiasi rapporto.
Durante quella testimonianza emersero alcune contraddizioni nelle
dichiarazioni del Faggi, dovute probabilmente a un comprensibile
tentativo di sminuire il suo rapporto con l'imputato Pacciani. In
ogni caso, la figura del Faggi rimase in secondo piano finché Lotti e
Pucci non lo accusarono di aver assistito agli omicidi che avvennero
a Calenzano (ottobre 1981) e a Scopeti (settembre 1985). Non solo, il
Faggi fu accusato dal Lotti di aver dato aiuto logistico a Pacciani in
occasione del delitto delle Bartoline.
Il 15 maggio 1996 fu emesso un avviso di garanzia nei confronti del
Faggi per vilipendio di cadavere, porto illegale di arma e concorso
in omicidio per i delitti del Mostro di Firenze. In occasione di una
nuova perquisizione alla sua abitazione vennero sequestrati soldi,
libretti bancari ed agende telefoniche. Su un'agenda risalente al
1981, al giorno 20 aprile, venne trovata la scritta "bella gita a
Travalle" (Travalle di Calenzano era appunto il luogo del delitto del 1981,
NdA).
Il primo luglio 1996 il Faggi venne arrestato e condotto nel carcere
di Firenze. L'imputato decise di non presenziare ad alcuna udienza
del Processo. Tramite i suoi avvocati, si difese sostenendo di non
sapere nulla delle accuse di Lotti e Pucci, di non aver mai fatto
merende a San Casciano e di non essere una persona che faceva
nella maniera più assoluta vita notturna. La tesi difensiva sostenne
anche che in prossimità della data del delitto di Calenzano, il Faggi
avesse compiuto una gita a Celano in Abruzzo in compagnia di un
tale Antonio Felli, intervenuto come testimone della Difesa a
processo.
In aula furono inoltre chiamati a deporre diversi abitanti di
Calenzano che testimoniarono a favore dell'imputato e fornirono il
ritratto di una persona molto riservata, piuttosto metodica, non
dedita a particolare vita sociale, non bevitore, lontana da giri
particolari. Emersero anche altri particolari su cui calcò la mano la
Pubblica Accusa, ad esempio il fatto che il Faggi fosse chiacchierato
in paese come omosessuale e che soleva frequentare forse troppo
affettuosamente uomini e giovani ragazzi di cui appuntava
impressioni e commenti sulle sue numerose agendine.
Tralasciando però l'eventuale omosessualità dell'imputato, a parte
le dichiarazioni spesso contradditorie del Lotti e del Pucci, durante
l'intero dibattimento non emerse alcuna prova del suo
coinvolgimento ai delitti, neanche come spettatore.
Al contrario, lo stesso Pucci effettuò dichiarazioni non vere che
portarono acqua al mulino della Difesa. Pucci affermò infatti che
conosceva di vista il Faggi in quanto gli era stato indicato una sera a
San Casciano dal Lotti. Lotti aveva invece dichiarato più volte di
non aver mai visto o incontrato il Faggi, ma di averlo soltanto
sentito nominare dal Pacciani e dal Vanni.
Il colpo di grazia al teorema dell'Accusa venne dato dall'avvocato
difensore del Faggi, Bagattini, che rivelò come la nota "bella gita a
Travalle" trovata sull'agenda dell'imputato che tanta suggestione
aveva procurato, era riferita alla giornata di Pasquetta di quell'anno
(appunto il 20 aprile), solitamente dedita alle gite fuori porta.
A fine processo, la stessa Accusa chiese con molta onestà il
proscioglimento dell'imputato, per poi cambiare idea nei giorni
successivi (sulla base del ritrovamento di nuove agende) e
chiederne la condanna a 21 anni di reclusione.
Il 24 Marzo 1998, tuttavia, la Corte d'Assise assolse Giovanni Faggi
per non aver commesso il fatto. La Procura fece ricorso in Appello
(sostenendo che se Lotti era credibile quando accusava Vanni,
doveva essere credibile anche quando accusava il Faggi), ma
l'assoluzione venne ulteriormente confermata dai giudici del
Processo di secondo grado.
Alberto Corsi
Avvocato di San Casciano, come già detto, Alberto Corsi fu
accusato di favoreggiamento per aver taciuto una lettera dal
contenuto ignoto ma probabilmente minaccioso che Mario Vanni
ricevette da Pacciani quando questi era detenuto per la violenza
sulle figlie e indagato per i delitti del Mostro di Firenze. Secondo
l'Accusa quella lettera poteva rappresentare la prova mancante del
coinvolgimento di Pacciani e Vanni nei delitti e per questo motivo il
Corsi aveva suggerito al Vanni di farla sparire.
Il Corsi non negò mai che Vanni era andato da lui per chiedere
consiglio su cosa fare della lettera (del resto in merito c'erano
diverse testimonianze, fra cui quella del Nesi e del Lotti), ma negò
decisamente di conoscerne il contenuto. Durante un'udienza del
Processo ai CdM in cui Corsi decise di rispondere personalmente
alle domande delle varie parti, dichiarò fra le altre cose di aver
semplicemente consigliato al Vanni di stare tranquillo e rivolgersi ai
carabinieri.
Inoltre, diversi sancascianesi testimoniarono a favore del Corsi
durante il Processo, smentendo la tesi dell'Accusa secondo cui fra
l'avvocato Corsi e il Vanni ci fosse un buon rapporto d'amicizia,
probabilmente causa del favoreggiamento dell'avvocato nei
confronti dell'imputato. Da quanto emerse in varie udienze, i due
avevano un normale rapporto di conoscenza come concittadini,
rapporto che il Corsi coltivava con molte persone della comunità
per via del suo lavoro.
Il 24 marzo 1998, Alberto Corsi fu dunque assolto per non aver
commesso il fatto. La Pubblica Accusa intese non fare ricorso in
Appello per tale assoluzione.
Alfa, gamma e delta
Filippa Nicoletti:
Anche lei di origine siciliane, la Nicoletti nacque in provincia di
Caltanissetta il 2 luglio 1952. Anche lei si trasferì ad Alessandria
negli anni '70. Qui conobbe Salvatore Indovino, di trent'anni più
anziano. Sposata con figli, la vita coniugale della Nicoletti era
funestata da continui e violenti litigi. Nel 1977 la donna dapprima
tentò il suicido, quindi decise di separarsi dal marito per fuggire
con Salvatore. La coppia inizialmente andò a vivere in Sicilia, nel
paese natale di lui, poi nel 1978 si trasferì a Prato, dove viveva il
fratello di Salvatore, infine nello stesso anno, prese in affitto la casa
in via Faltignano, a San Casciano.
Spinta dal proprio compagno, la Nicoletti iniziò in quel periodo
l'attività di prostituta a Firenze. Nell'agosto del 1981, mentre
Indovino era in carcere, conobbe in piazza a San Casciano Giancarlo
Lotti e ne divenne amica e amante. Con l'Indovino le cose non
sempre andavano bene e durante qualcuna delle numerose liti, la
Nicoletti aveva tentato di trasferirsi presso l'abitazione del Lotti al
Ponte Rotto, non trovando però disponibilità ad accoglierla da parte
del suo "amante", che da un lato temeva la reazione dell'Indovino,
dall'altro non voleva rinunciare alla propria indipendenza. I
rapporti fra Nicoletti e Lotti rimasero comunque sempre piuttosto
cordiali. Per stessa ammissione della donna, con il Lotti
condivideva la dipendenza dall'alcool, dichiarando in una famosa
udienza del Processo ai CdM: "fra me e il Lotti c'era il bottiglione
di mezzo".
Nel marzo del 1984, a causa di un violento litigio dovuto a una
relazione che aveva intrapreso con un suo giovane cliente, la
Nicoletti lasciò l'ormai sessantaduenne e già malato Salvatore
Indovino, per trasferirsi ad Arezzo, a casa del suo nuovo
compagno. Tornò saltuariamente in via Faltignano nei due anni
successivi per fare visita all'ormai malato terminale Salvatore.
Nonostante un nuovo compagno e il trasferimento in una città
distante un'ottantina di chilometri da San Casciano, evidentemente
la Nicoletti continuò a frequentare anche il Lotti, se è vero che
nell'estate del 1984 i due si appartarono alla Boschetta di Vicchio, la
piazzola teatro poco tempo dopo del tragico delitto in cui persero la
vita lo Stefanacci e la Rontini, distante a sua volta circa una
sessantina di chilometri da San Casciano.
Anche della Nicoletti sappiamo molto poco sulla vita che condusse
dalla metà degli anni '80 fino alla metà dei '90, quando anche lei
tornò al centro delle indagini in seguito alle dichiarazioni del Lotti e
della Ghiribelli.
Ripetutamente intercettata e interrogata, la donna ha sempre
smentito di aver mai conosciuto Pacciani e Vanni. Negò inoltre che
la dimora del suo convivente fosse mai stata teatro di sedute
spiritiche e orge, smentendo di fatto le dichiarazioni
della Ghiribelli.
Al momento risulta una dei pochi protagonisti della vicenda ancora
in vita.
Sebastiano Indovino:
Fratello di Salvatore, verso la fine degli anni '70, Sebastiano
frequentava il famoso "bar dei sardi" a Prato. Fu lui, secondo alcune
narrazioni, a conoscere per primo la Ghiribelli e a presentarla a
Salvatore. Da notare che quello stesso bar di Prato era il punto di
ritrovo anche del clan dei sardi presumibilmente coinvolto nel
delitto del 1968.
Interrogato anch'egli a metà anni '90, dichiarò di aver frequentato
suo fratello soprattutto durante gli ultimi anni di vita, quando con
tutta la famiglia andava a trovarlo nei fine settimana nella sua
abitazione a San Casciano Val di Pesa. Nessun riferimento da parte
di Sebastiano alle presunte orge che in quello stesso periodo
proprio nei fine settimana sarebbero avvenute nella casa di via
Faltignano. Anche da lui, dunque, una secca smentita alle
dichiarazioni della Ghiribelli.
Domenico Agnello:
Classe 1954, di origini catanesi come l'Indovino, residente a Prato,
pluripregiudicato, venditore ambulante di frutta e verdura in quel
di Mercatale, l'Agnello aveva frequentato sia il cosiddetto bar dei
sardi a Prato (ufficialmente il bar Rolando, sito in piazza Duomo
41), sia negli anni '80 la casa di Salvatore Indovino, di cui era amico.
Secondo la teste Gabriella Ghiribelli, Agnello era stato amico anche
di un sardo di cognome Sanna e di un tale, il cui soprannome
era Draculino. Inoltre, sempre stando alle dichiarazioni della
Ghiribelli, aveva frequentato lo stesso Francesco Vinci.
Quest'ultimo particolare viene riportato anche dal superpoliziotto e
scrittore, Michele Giuttari nel suo libro "Compagni di sangue".
Tuttavia, pur non volendo dubitare delle parole della Ghiribelli e
degli scritti di Giuttari, dell'amicizia fra Agnello e Vinci non c'è
alcun riscontro nelle carte e - a dirla tutta - si tratta di un dato che
non è mai stato tenuto in considerazione da nessuno degli
inquirenti che si era ritrovato a indagare su un ipotetico passaggio
di pistola dal clan dei sardi alla congrega di via Faltignano.
L'Agnello rimane comunque un personaggio misterioso, di cui si sa
molto poco. Il 4 agosto del 1994 (in pieno processo Pacciani) uscì da
casa sua a Prato dichiarando alla moglie che si sarebbe recato al bar,
ma non fece più ritorno. La sua Alfa 164 fu ritrovata bruciata un
paio di giorni dopo in un bosco del Mugello. Di lui si è persa
qualsiasi traccia.
Mago Manuelito:
Anch'egli di origine siciliane, nativo di Nissoria in provincia di
Enna, il suo vero nome era Francesco Verdino, ma era più
conosciuto come Mago Manuelito o Mago del Messico, in quanto
aveva trascorso diversi anni a Guadalajara, nella parte occidentale
dello stato nordamericano.
Amico di Salvatore Indovino, Manuelito lavorava come mago a
Sesto Fiorentino e possedeva un grande camper con cui era solito
recarsi a casa dell'Indovino, in via Faltignano a San Casciano.
Proprio qui, nei primi anni '80 sembra che instaurò una relazione
con Milva Malatesta, la giovane donna di cui abbiamo già parlato
svariate volte nel corso di queste pagine e sulla quale a breve ci
soffermeremo nuovamente.
Milva Malatesta:
Figlia di Renato Malatesta, l'uomo trovato impiccato nel Dicembre
del 1980 (vedasi capitolo dedicato alle Morti Collaterali) e di Maria
Antonietta Sperduto, l'amante del Pacciani e del Vanni.
Prostituta fin dalla più giovane età, nel 1979, all'età di 17 anni,
conobbe Vincenzo Limongi con cui ebbe un figlio che venne dato in
affidamento ai genitori di lui. Fra la fine degli anni '70 e l'inizio
degli anni '80, secondo il già citato Giovanni Calamosca, divenne
l'amante di Francesco Vinci. Da notare che all'epoca Milva aveva
meno di vent'anni, mentre Francesco ne aveva all'incirca 45.
Poco prima della morte del padre, nel dicembre 1980, si trasferì con
la mamma e i due fratelli in via Faltignano nella casa confinante a
quella di Salvatore Indovino. Milva conobbe Salvatore, all'epoca
quasi settantenne, e secondo la Ghiribelli ne divenne amante,
nonostante la differenza d'età. Fu probabilmente anche amante del
su citato mago Manuelito.
Come già ampiamente dibattuto, Milva potrebbe rappresentare il
punto di contatto fra i sardi e la congrega di casa Indovino, dunque
fra i sardi e Pacciani (spiegando così il famoso passaggio di pistola).
Ribadiamo tuttavia che non esiste alcuna prova concreta (a parte le
dichiarazioni non verificabili di Calamosca) che Milva sia stata
realmente l'amante del Vinci.
Nel 1988, la donna si trasferì nella piccola frazione di Pino, nel
comune di Certaldo e si sposò con un muratore palermitano,
Francesco Rubino. Il 30 agosto 1990 nacque Mirko, figlio suo e del
Rubino. In seguito Milva sporse una serie di denunce contro il
marito per maltrattamenti e percosse, che condussero a una
separazione nel luglio del 1993. Circa un mese dopo, fra il 19 ed il
20 agosto 1993, Milva Malatesta morì in circostanze tragiche e
fortemente sospette (anche perché a distanza di una settimana
dall'analogo assassinio di Francesco Vinci), uccisa e bruciata
all'interno della sua vettura assieme al figlio Mirko. C'erano molti
indizi a carico del suo ex marito, Francesco Rubino, il quale però nel
1995 fu assolto per non aver commesso il fatto.
Vincenzo Limongi:
Soprannominato Kociss per il suo essere "selvaggio", Limongi era
stato il primo convivente di Milva Malatesta dalla quale aveva
avuto un figlio che venne cresciuto dai genitori di lui. La vita del
Limongi trascorse fra furti, rapine e spaccio di droga. Finì in carcere
a Sollicciano nello stesso periodo in cui Pacciani era detenuto per la
violenza sulle figlie. Il 19 maggio 1991, pochi giorni prima che
scadesse il suo periodo di detenzione, a 37 anni, si impiccò nella sua
cella. Senza ombra di dubbio un suicidio, ma davvero difficile da
spiegare.
Tutto dovrebbe aver avuto inizio nel 1978, quando cioè il Mostro o
almeno la sua pistola aveva già colpito nel 1968 e nel 1974, con il
trasferimento di Salvatore Indovino e di Filippa Nicoletti in quel
di via Faltignano.
Tra la fine del novembre e gli inizi di dicembre del 1980, circa sei
mesi prima dell’inizio dei delitti a cadenza annuale, si trasferirono
nella casa accanto a quella del non ancora mago, Maria Antonietta
Sperduto con i tre figli, fra cui Milva Malatesta. In teoria la
Sperduto potrebbe essere stata colei che condusse in via Faltignano
il Pacciani e il Vanni, suoi amanti, divenendo di fatto il trait d'union
fra i due merendari e Salvatore Indovino.
Sempre in teoria, ma su questo non ci sono decisamente prove,
Milva potrebbe aver condotto in via Faltignano il suo presunto
amante, Francesco Vinci, divenendo a sua volta il trait d'union fra
Indovino, Pacciani e appunto il Vinci. Da notare però che Salvatore
Indovino aveva vissuto per qualche tempo a Prato e aveva
frequentato insieme alla Nicoletti e a suo fratello Sebastiano il bar
dei sardi a Prato, quindi la conoscenza con Francesco Vinci
potrebbe essere stata pregressa e indipendente dalla figura di Milva
Malatesta. Da notare anche che per un brevissimo periodo (tre
settimane circa) Indovino e Vinci erano stati entrambi detenuti nel
carcere delle Murate a Firenze.
Abbiamo comunque una situazione in cui dagli inizi del 1981 la
casa di Indovino potrebbe essere divenuta la meta di Pacciani,
Vanni, la Malatesta e lo stuolo di persone che ruotavano attorno a
questi. Pochi mesi dopo, nel giugno 1981, a Mosciano di Scandicci, a
11 km esatti da via Faltignano, venne commesso il primo duplice
delitto del mostro fra quelli a cadenza annuale.
Entrando nel dettaglio, a pagina 240 del suo libro "Il mostro.
Anatomia di un'indagine", Giuttari stima il patrimonio di Pacciani
come di seguito indicato:
● Buoni Postali Fruttiferi, sia ordinari che vincolati, alcuni intestati
a lui, altri a lui e alle figlie, emessi dagli Uffici postali di
Montefiridolfi, di San Casciano, di Cerbaia e Mercatale. Il primo
venne acquistato il 18 giugno 1981, dodici giorni dopo il primo
degli omicidi del MdF a cadenza annuale; l'ultimo il 26 maggio
1987. Tra le due date, gli acquisti erano avvenuti ogni anno;
● Libretti di risparmio presso gli Uffici Postali di Mercatale e
Scandicci.
Il totale fra i Buoni Postali Fruttiferi e i libretti di risparmio
ammontava a circa 158 milioni di vecchie lire.
Sempre dal resoconto letterario di Giuttari, a ciò andava aggiunto:
● Una casa acquistata in data 30 settembre 1979 (pagata 26 milioni),
un'altra il 30 giugno 1984 (pagata 35 milioni);
● Un'automobile Ford Fiesta acquistata nuova nel dicembre 1982 e
pagata in contanti 6 milioni di lire.
Facendo le debite somme, dal 1979 al 1987 gli
investimenti/risparmi di Pacciani, ammontavano a circa 225
milioni di lire.
Sempre secondo Giuttari, a fronte di questo piccolo patrimonio,
c'erano state le seguenti entrate:
● Proventi del lavoro in carcere dal 1951 al 1964, equivalenti 350.000
lire;
● Pensioni sociali dei suoceri finché questi furono in vita;
● Attività di mezzadro agricolo, equivalenti a poche migliaia di lire
al giorno negli anni '60 e '70.
Facendo qualche rapido calcolo, possiamo dire che nei quattro anni
fra il 1984 e il 1987, Pacciani ebbe spese/investimenti pari
a 99.850.000 lire, senza considerare le spese della ristrutturazione
della casa che, seppur minime, non possono non esserci state.
Nello stesso periodo è difficile quantificare le entrate ufficiali di
casa Pacciani: sicuramente c'erano le due pensioni (sua e della
Angiolina), che all'epoca potremmo quantificare complessivamente
in una decina scarsa di milioni all'anno, quindi 40 milioni totali.
C'erano i soldi dell'affitto della Betti, che potremmo quantificare in
circa 7.000.000 di lire, i soldi dell'affitto dei musicisti (2.400.000) e lo
stipendio percepito per il lavoro alla fattoria di Luiano (1.600.000);
per un totale di 52 milioni di lire.
A questa cifra andrebbero aggiunti i sei mesi di lavoro dai Gazziero
che non sono documentati e una molto eventuale liquidazione (non
parliamo sicuramente di cifre elevate), i due lavori saltuari a
Mercatale e a Villa Verde (parliamo molto probabilmente di
spiccioli) e la vendita della porzione di casa in via Sonnino.
Quest'ultimo è un dato che sicuramente sarebbe stato interessante
avere, ma che non risulta da nessun documento ufficiale e in ogni
caso non potrebbe compensare il profondo gap di quasi 50 milioni
fra entrate e uscite del suddetto quadriennio.
È corretto tuttavia dire che alle finanze di casa Pacciani potrebbero
aver contribuito le entrate delle due figlie di Pietro. Infatti risulta
che:
● Dall'ottobre 1985 al marzo 1991, Rosanna Pacciani lavorò come
domestica percependo una retribuzione mensile compresa fra le
500.000 e le 750.000 lire mensili, vitto e alloggio compresi. Quindi
fino al 1987 la Rosanna potrebbe aver portato a casa una dozzina di
milioni, verosimilmente finiti fra le grinfie paterne.
● Nel 1987 e nel 1988, Graziella Pacciani lavorò come domestica per
800.000 lire mensili, vitto e alloggio compresi. Quindi fino al 1987 la
Graziella potrebbe aver portato a casa circa 9 milioni.
Se consideriamo dunque questa ventina di milioni e l'ipotetico
prezzo della vendita di porzione di casa in via Sonnino, il gap
potrebbe ridursi notevolmente. A colmarlo definitivamente
potrebbero averci pensato i traffici e le attività collaterali del
Pacciani o i già citati notevoli tassi di rendimento che all'epoca
avevano i buoni fruttiferi postali e che sicuramente in buona parte
hanno contribuito a far lievitare il patrimonio del Pacciani.
Per contro Giancarlo Lotti non ha mai dato l'idea di avere grosse
disponibilità economiche. Per quanto è dato saperne, ha sempre
vissuto in condizioni di estrema ristrettezza, concedendosi pochi
svaghi, il cibo, il vino, le prostitute, la benzina per le sue vecchie
automobili con cui poteva andare in giro.
Dalle testimonianze raccolte, solo due persone hanno parlato di una
possibile (e forse sporadica) agiatezza economica del Lotti; queste
sono la Ghiribelli che dichiarò di aver visto un tale di nome Parker
dare molti soldi al Lotti (vedasi capitolo Il secondo livello) e la
stessa Bartalesi che, facendo riferimento sempre alla famosa estate
del 1995, dichiarò: "Anche Lotti mi chiedevo come faceva ad avere tutti
quei soldi, ma non gli chiesi niente perché ero solo un'amica. Ho visto più
volte che nel portafoglio aveva solo pezzi da cento e cinquantamila lire e
una volta mi disse: Fa pari col tuo che è vuoto!".
Tuttavia, tale dichiarazione contrasta con altre affermazioni della
stessa Bartalesi, secondo la quale alla fine di quella stessa estate il
Lotti aveva urgentemente bisogno di un prestito, in quanto aveva
perso il lavoro.
Non è da escludere che anche il Lotti, in quell'ultima e
inconsapevole estate da uomo libero, avesse deciso di spassarsela
dando fondo a tutti i suoi risparmi e rimanendo ben presto senza
più alcuna disponibilità economica.
Il secondo livello
L'indagine sul secondo livello prese dunque corpo sulla base delle
dichiarazioni di Gabriella Ghiribelli e di Giancarlo Lotti.
Quest'ultimo aveva fatto a più riprese vaghi riferimenti a un non
meglio identificato dottore che pagava i feticci al Pacciani e al
Vanni, senza però fornire maggiori dettagli in merito.
A differenza del Lotti, la Ghiribelli aveva fornito resoconti (veri o
falsi che fossero) decisamente più approfonditi, almeno
inizialmente tesi a inquadrare la vicenda in un'ottica esoterica che
privilegiava la pista di molteplici mandanti gaudenti.
Fra le numerose dichiarazioni, la Ghiribelli parlò di un medico
svizzero che faceva strani esperimenti in una villa dalle parti di via
Faltignano, dei famigerati festini cui partecipavano oltre a
numerose ragazze di giovanissima età, un orafo, un medico di
malattie tropicali, un carabiniere di San Casciano e numerosi altri
personaggi di elevato livello sociale.
A un certo punto, anche le dichiarazioni della Ghiribeli
cominciarono comunque a diventare poco credibili persino agli
occhi dei più fervidi sostenitori della pista esoterica. A tal
proposito, il 28 febbraio 2003, presso gli uffici della Squadra mobile
di Firenze fece verbalizzare quanto segue:
"Nel 1981 vi era un medico che cercava di fare esperimenti di
mummificazione in una villa vicino a Faltignano. Questa villa so trovarsi
nei pressi del luogo dove furono uccisi nel 1983 i due ragazzi tedeschi... di
questo posto mi parlò anche Giancarlo Lotti in più occasioni e sempre negli
anni '80 quando ci frequentavamo. Sempre il Lotti mi raccontò che questa
villa aveva un laboratorio posto nel sottosuolo, dove il medico svizzero
faceva gli esperimenti di mummificazione. Questo medico svizzero, a
seguito di un viaggio in Egitto, era entrato in possesso di un vecchio
papiro dove erano spiegati i procedimenti per la mummificazione dei corpi.
Detto papiro mancava però di una parte che era quella relativa alla
mummificazione delle parti molli e cioè tra le altre il pube ed il seno. Mi
disse che era per quello che venivano mutilate le ragazze nei delitti del
Mostro di Firenze. Mi spiegò anche che la figlia di questo medico nel 1981
era stata uccisa e la morte non era stata denunciata. Il procedimento di
mummificazione gli necessitava proprio per mummificare il cadavere della
figlia che custodiva nei sotterranei..."
Durante il processo al dottor Calamandrei del 2008, il Pubblico
Ministero Alessandro Crini giustificherà tali farneticanti
dichiarazioni come il frutto di quanto gli stessi mandanti avevano
lasciato intendere a gente dal bassissimo livello culturale come
Lotti, forse per prenderli in giro o forse per fornir loro una
motivazione "plausibile" ai delitti e alle escissioni.
Qualunque sia il giudizio sulle dichiarazioni di simil fatta della
Ghiribelli, durante le varie testimonianze, la donna riconobbe in
una foto il medico svizzero, identificato dagli inquirenti nel Rolf
Reinecke, l'imprenditore tedesco che abitava a La Sfacciata e che
aveva scoperto i cadaveri delle due vittime tedesche nel 1983. Da
segnalare che al Reinecke non risultava morta alcuna figlia. L'uomo,
a dire della Ghiribelli, si accompagnava spesso con l'orafo di cui
sopra, con un medico di Perugia (il dottor Francesco Narducci) e
con un medico di malattie tropicali (identificato con il
dottor Achille Sertoli).
In seguito, la donna riferì di aver visto un abitante di villa La
Sfacciata di nome Mario Robert Parker, soprannominato "Ulisse",
dare molti soldi al Lotti.
Anche il testimone Ferdinando Pucci parlò di questi strani
personaggi. Sottoposto a un riconoscimento fotografico, Pucci
riconobbe il dottor Narducci (che definì finocchio), il Reinecke e il
farmacista di San Casciano, dottor Francesco Calamandrei.
Molti di questi notabili furono riconosciuti fotograficamente anche
da una prostituta che per un certo periodo aveva frequentato San
Casciano, di nome Marzia Pellecchia.
Sull'attendibilità di tali riconoscimenti avremo modo di parlare
dettagliatamente nel capitolo "Il Medico di Perugia"; qui è
interessante far notare come la Pellecchia fu sentita per la prima
volta nel febbraio del 2003 e in quell'occasione dichiarò di aver
partecipato all'incirca nel 1982 (dunque ventun'anni prima del
riconoscimento) a festini a base di sesso in una casa malmessa nelle
campagne di San Casciano. Erano presenti oltre ai vari Vanni,
Pacciani e Lotti, anche personaggi ben più importanti come un noto
ortopedico fiorentino di nome Jacchia, il farmacista Calamandrei e
il dottor Narducci, tutti riconosciuti tra le foto di un album che gli
inquirenti le avevano mostrato. A introdurre la Pellecchia a questi
festini sarebbe stata la prostituta Angiolina Giovagnoli, detta Lina,
frequentata assiduamente dal Calamandrei.
Le dichiarazioni della Pellecchia furono smentite a stretto giro dalla
stessa Giovagnoli, che non negò mai il suo intimo rapporto col
Calamandrei ma negò di aver partecipato a tali festini a San
Casciano. Messe a confronto fra loro dagli inquirenti, ognuna delle
due prostitute rimase ferma sulle proprie posizioni. Secondo
quanto emerge dai verbali, alla fine la Giovagnoli dichiarò di
consideare la Pellecchia una persona attendibile, ma di non aver
ricordi di tali episodi, dunque forse di averli rimossi.
Giuseppe Jommi
Avvocato di origine marchigiana, nato nel 1932, residente a Bagno a
Ripoli. Amico di infanzia del dottor Pier Luigi Vigna, con cui aveva
condiviso studi e qualche incarico lavorativo.
Nel 2003 fu convocato dagli inquirenti in quanto sospettato di
essere amico di Francesco Narducci e di far parte della setta di
ricchi che commissionava gli omicidi attribuiti al mostro, almeno
quelli a cadenza annuale degli anni '80. L'avvocato smentì tutto, ivi
compresa la sua conoscenza col Narducci.
Sono da sottolineare due peculiarità riguardanti la moglie e
l'amante dell'avvocato.
1. La moglie era proprietaria dell'appartamento a Firenze dove
aveva alloggiato la famiglia di Susanna Cambi, vittima del MdF
nell'ottobre del 1981. Una coincidenza che tanto ha fatto discutere
fra i mostrologi, in special modo quelli di estrazione giuttariana,
narducciana e/o complottista.
2. L'amante di lunghissima data dell'avvocato, la signora Alves
Jorge Emilia Maria, fu invece colei che portò la Procura ad
indagare sull'avvocato stesso, in quanto la donna riferì agli
inquirenti che la sera dell'8 settembre 1985 (all'epoca si ipotizzava
fosse quella la data del duplice omicidio di Scopeti), Jommi le disse
testualmente: "Sono un mostro". In seguito tramite un'agenzia
investigativa la donna aveva scoperto che l'avvocato frequentava
dalle parti di San Casciano un tale medico di Foligno, estremamente
benestante. Questo medico (evidentemente il Narducci) era
proprietario di una Citroen Pallas color verde che ogni tanto
prestava all'avvocato.
Achille Sertoli
Il Sertoli è il famoso dottore delle malattie tropicali di cui parla la
Ghiribelli. In realtà è un dermatologo ed ex professore associato del
dipartimento di dermatologia all'università di Firenze.
Nel giugno del 2003 finì nel registro degli indagati per i fatti
inerenti alle vicende del Mostro di Firenze. Amico per sua stessa
ammissione di Francesco Calamandrei, presso la cui farmacia
(inizialmente gestita dal padre di Francesco) prestava servizio
ambulatoriale.
Interrogato ripetutamente nel 2003 da Giuttari, Sertoli dichiarò di
essere specializzato in dermatologia e allergologia, ma di non aver
mai trattato malattie tropicali e di non aver mai frequentato
prostitute, tanto più in compagnia del Calamandrei. Affermò di
conoscere Calamandrei fin dai tempi universitari allorché avevano
diviso la stessa abitazione a Firenze. A quei tempi, lui veniva da
famiglia poco agiata e faceva vita piuttosto ritirata, mentre il
Calamandrei che veniva da una famiglia benestante (il padre era
stato a sua volta farmacista), faceva molta vita notturna e sin da
allora frequentava molte donne. In seguito, i due amici avevano
talvolta fatto dei viaggi in compagnia di ragazze, uno a Venezia,
l'altro sul Trasimeno.
Sempre secondo le dichiarazioni del Sertoli, una sera di fine anni
'60, in quel di San Casciano, il Calamandrei convinse lui e altri
medici della zona di fare una visita a scopo canzonatorio a un
sedicente mago di nome Indovino. Arrivati all'abitazione del mago,
costui invitò tutti a entrare in casa e – sempre secondo il Sertoli –
era evidente che fra Indovino e Calamandrei ci fosse una certa
confidenza.
Ora in queste dichiarazioni c'è un evidente problema: Indovino
andò ad abitare a San Casciano alla fine degli anni '70, quindi o il
Sertoli mentì spudoratamente o confuse le date di un buon
decennio (del resto queste dichiarazioni erano arrivate a distanza di
moltissimi anni dagli eventuali fatti).
Intercettato in quello stesso periodo dalla Procura, in una telefonata
privata a suo cugino, Sertoli confidò: "Calamandrei potrebbe anche
essere un mandante; la mano sul fuoco al contrario non la metterei!"
Risentito dalla Procura in merito a queste confidenze, il Sertoli
ovviamente precisò che erano sue mere supposizioni senza alcuna
base di verità e alcun riscontro concreto.
Gaetano Zucconi
Fratello del ben più (mostrologicamente) interessante Giulio,
Gaetano fu diplomatico e ambasciatore proveniente da ricca e
potente famiglia. Fu sospettato di avere protetto, grazie alle sue
conoscenze, nel corso degli anni suo fratello dalle indagini sul
Mostro di Firenze. Nel 2002 rilasciò una lunga intervista a
Repubblica per difendersi dalle infamanti accuse mai provate e per
recriminare su quanto la gogna mediatica sia stata un male talvolta
peggiore della galera per lui e soprattutto per il compianto fratello.
Nei giorni successivi all'intervista, la Procura di Firenze si premunì
di far sapere che Gaetano Zucconi non era mai stato iscritto nel
registro degli indagati.
Eppure dopo breve tempo, la donna ritornò alla carica con le accuse
al marito. Chiunque abbia raccolto le testimonianze della Ciulli
sostiene che a sentirla parlare non si sarebbe mai detto che fosse
affetta da un qualche disturbo psichiatrico. Era estremamente
coerente, lucida e precisa nei suoi particolareggiati racconti, tanto
da instillare inevitabilmente il dubbio nei suoi interlocutori che
quelle accuse avessero un certo fondamento. Lo stesso Rontini, pur
profondamente scettico ma nel contempo strenuamente impegnato
nella spasmodica ricerca degli assassini di sua figlia, nella
primavera del 1992 decise di contattare telefonicamente il
Calamandrei nella sua farmacia a San Casciano per invitarlo a un
colloquio privato e cercare di capire cosa ci fosse di vero nelle
dichiarazioni della moglie. Il colloquio fra i due si tenne a Vicchio
nella casa di Renzo Rontini e dovette concludersi positivamente,
perché al termine dello stesso il Calamandrei, a detta della sua
compagna, apparve visibilmente sollevato.
Equivoci Mostrologici
Almeno due sono gli episodi relativi alla figura di Francesco
Narducci che fino a poco tempo fa venivano dati per certi e che
invece recentemente si è scoperto essere se non proprio bufale,
sicuramente grotteschi equivoci:
Vedremo come sia per le indagini svolte a Firenze, sia per quelle
svolte a Foligno, la realtà sembra essere piuttosto distante da tali
interpretazioni.
È onesto comunque affermare che i suddetti equivoci sono
probabilmente nati proprio a seguito delle dichiarazioni dello stesso
Napoleoni che, interrogato il 25 gennaio del 2002, alla presenza del
magistrato Giuliano Mignini, dichiarò:
"Ricordo anche che, dopo il ritrovamento del cadavere (del Narducci
stesso), non ricordo con precisione quando, andai a Firenze nell'abitazione
che poteva essere stata utilizzata dal dr. Francesco Narducci per ricercare
parti di corpo femminili sotto alcool e sotto formalina; non ricordo
l'ubicazione dell'appartamento, ricordo solo che si trattava di una
costruzione non recente a più piani, non ricordo se relativa ad un
condominio. Non ricordo neppure la zona dove si trovava l'abitazione; a
me sembra, ma non ne sono sicuro, che siamo entrati dentro Firenze. Di
quella casa ho un solo ricordo, di un corridoio, ma non ricordo chi mi ci
mandò né con chi fossi, probabilmente con un collaboratore della squadra
mobile. Le ricerche diedero esito negativo".
Come si evince, a distanza di 17 anni dai fatti, Napoleoni dimostrò
di non ricordare quasi nulla della pur importante perquisizione che
aveva condotto alla ricerca dei feticci del Mostro. Tuttavia, sebbene
piuttosto confuse e farcite di "non ricordo", tali dichiarazioni non
sembravano lasciare spazio a dubbi sul fatto che l'ispettore avesse a
lungo cercato a Firenze e dintorni i feticci nascosti dal Narducci e
dunque lo avesse inequivocabilmente associato ai delitti del Mostro.
Solo recentemente la verità, o parte di essa, è venuta a galla grazie
alle ricerche di alcuni studiosi, in particolar modo del più volte
citato blogger Francesco Cappelletti.
Studiando carte e verbali venuti ultimamente alla luce, è stato
possibile ricostruire le indagini condotte dal Napoleoni sia a
Firenze che a Foligno, arrivando alla sorprendente conclusione che
le stesse non fossero indirizzate verso il Narducci.
Per fare charezza partiamo dal rinvenimento di un rapporto, datato
30 settembre 1985, in cui Napoleoni informava il proprio diretto
superiore, dottor Alberto Speroni, delle proprie attività
investigative.
Tali attività possono essere riassunte come segue: quattro giorni
prima, per la precisione il 26 settembre, un amico di Perugia,
tale Franco Picchi, aveva presentato al Napoleoni una ragazza
ventenne di Prato, di nome Cristina P., affinché la stessa potesse
esporgli confidenzialmente quanto le era capitato. La suddetta
Cristina rivelò che nel gennaio o nel giugno del 1984 (la ragazza sarà
piuttosto titubante sul mese esatto, NdA) aveva conosciuto nella
discoteca Jackie O' di Firenze il signor Paolo Poli, pratese anch'egli,
di altezza superiore ai 185 centimetri, corporatura robusta, di 40
anni circa, dai capelli brizzolati tirati indietro e il naso lungo e
dritto. In seguito questo Paolo l'aveva convinta a seguirlo all'interno
di un appartamento sito in Firenze e qui l'aveva minacciata di
morte e violentata. In tale circostanza il Poli, forse per rendere più
credibili le proprie minacce, le aveva rivelato di essere il Mostro di
Firenze e di aver già ucciso in passato una studentessa, il cui
cadavere era stato rinvenuto in un campo alla periferia del
capoluogo toscano, vicino ad una pianta di ulivo. Piccola parentesi:
se l'incontro fosse avvenuto in giugno, l'omicidio cui fa riferimento
il Poli potrebbe essere quello di Gabriella Caltabellotta del febbraio
1984. Ça va sans dire, nel caso l'incontro fosse avvenuto in gennaio,
il riferimento del Poli andrebbe cercato in un altro non meglio
identificato omicidio.
A ogni modo, le successive indagini del Napoleoni portarono a
rintracciare l'uomo, residente a Prato, e a riscontrare che questi,
oltre a somigliare fisicamente alla descrizione fatta dalla ragazza,
aveva alcuni precedenti penali, molti dei quali a sfondo sessuale.
Da un secondo rapporto, datato 8 ottobre 1985, risulta che il
Napoleoni si era recato personalmente a Firenze e, con l'aiuto della
ragazza, era riuscito a localizzare l'appartamento dove era avvenuto
lo stupro, sito in via dei Serragli, 6.
In seguito a tali nuovi sviluppi, verrà richiesto alla Cristina P. di
rendere una testimonianza ufficiale relativa alla violenza subita dal
Poli. Tale testimonianza sarà rilascata in data 28 novembre 1985.
Quanto riportato spiegherebbe, dunque, la presenza del Napoleoni
nel capoluogo toscano fra fine settembre e inizi ottobre del 1985,
presenza che nulla aveva a che vedere con la figura del dottor
Narducci.
A ulteriore conferma, presso la questura di Perugia, nel fascicolo
dedicato al Poli, son stati rinvenuti alcuni appunti dello stesso
Napoleoni che ribadivano quanto da lui già verbalizzato nel
rapporto del 30 settembre 1985.
Da segnalare, infine, che da successive indagini, svolte a Firenze e a
Perugia, non risulta siano mai emersi collegamenti di alcun tipo fra
il Paolo Poli e Francesco Narducci.
È tuttavia doveroso riportare che, in un recente incontro pubblico,
tenutosi a Perugia il 30 settembre 2022 e intitolato "Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto", il dottor Mignini ha
affermato che invece risulterebbero provati i collegamenti fra il Poli
e il Narducci, senza però approfondire meglio questo aspetto.
Chi vi scrive, ovviamente, al momento non è in grado di dire su
quali basi Mignini sostenga questo collegamento e dove
eventualmente risieda la verità.
Il Narducci a Firenze
Dando comunque per scontato che il chiacchierato medico perugino
potesse non c'entrare nulla con le indagini del Napoleoni, vediamo
a questo punto come e perché possa essere rientrato nella vicenda
del Mostro e soprattutto nella lista della SAM, tant'è che nel 1987 lo
stesso Procuratore capo Pier Luigi Vigna decise di interessarsi alla
figura del medico perugino.
Come dicevamo, ancora oggi non vi sono certezze in merito,
possiamo dunque limitarci a fare tre ipotesi:
I riconoscimenti fotografici
Indipendentemente da come tutto abbia avuto inizio e dall'effettivo
legame fra il Narducci e le vicende del Mostro, sembra infatti che
nella prima metà degli anni '80 il medico perugino frequentasse la
zona di San Casciano.
Esistono diverse testimonianze, rese a posteriori, che non solo
collocano Narducci in Val di Pesa, ma lo rendono amico piuttosto
intimo del farmacista di San Casciano, il dottor Francesco
Calamandrei, e di altri notabili della zona. Alcune dichiarazioni
(sempre rese a posteriori) raccontano anzi di un Narducci che -
come il Sertoli e lo Zucconi - utilizzava alcune stanze messe a
disposizione della farmacia Calamandrei come ambulatorio privato.
Si tratta in realtà di testimonianze sulla cui effettiva attendibilità è
lecito nutrire qualche dubbio, ma che non possono non essere
tenute in debita considerazione.
Assume una certa rilevanza in questo contesto il famoso album
della Procura di Firenze, riportante le fotografie di tutti i principali
personaggi coinvolti nella vicenda del Mostro e con cui tutti i
testimoni hanno dovuto confrontarsi.
Si è già accennato nei capitoli precedenti, come alcuni frequentatori
di via Faltignano abbiano coinvolto nelle indagini della Procura
diversi notabili, sostenendo di averli visti a San Casciano nella
cosiddetta "epoca Mostro" intrattenersi con i vari Pacciani, Vanni,
Lotti e prostitute della zona.
Queste testimonianze hanno creato un effetto domino di non
marginale importanza. Difatti, nel momento in cui la Procura ha
identificato nel dottor Calamandrei il collante fra manovalanza e
secondo livello, tutti coloro che negli anni '80 avevano avuto
contatti con il suddetto e che, a distanza di vent'anni, venivano
riconosciuti dai vari testimoni nel famoso album fotografico della
Procura, si ritrovavano oggetto di indagine. Tra questi, quasi
inevitabilmente, è finito lo stesso dottor Narducci.
In ordine di importanza e non mancando di valutare pregi e difetti
di ciascuna dichiarazione, a riconoscerlo sono stati i seguenti
testimoni:
Il Narducci e il Mostro
A parte le suddette dichiarazioni di persone distinte fra loro che,
per quanto inattendibili, affermano di aver visto il Narducci a San
Casciano, ci sono altri particolari che avvicinano il medico perugino
alla complessa vicenda del Mostro di Firenze. In alcuni casi si tratta
sicuramente anche qui di suggestioni maturate nel corso del tempo,
in altri è inevitabile soffermarsi a riflettere su un eventuale rapporto
del giovane gastroenterologo con la vicenda.
Vediamoli nello specifico, tentando di seguire un pur difficile
ordine cronologico:
● Nel 1974, Narducci prestava servizio militare presso la Scuola
Sanitaria Interforze di Firenze. Pasquale Gentilcore (vittima del
delitto di Rabatta, settembre 1974) lavorava nella stessa zona.
Anche la sua fidanzata, Stefania Pettini, lavorava nella medesima
zona (via San Gallo). Qualche giorno dopo l'omicidio di Borgo San
Lorenzo, il Narducci si fece riformare e rientrò a Perugia.
● La famiglia di Susanna Cambi (vittima del delitto delle Bartoline,
ottobre 1981) viveva in una casa di proprietà della moglie
dell'avvocato Jommi. Costui, come già visto, era probabilmente
amico del Narducci e spesso ne condivideva l'automobile
(una Citroen Pallas color verde), almeno stando alle dichiarazioni
dell'amante di Jommi stesso.
● Abbiamo già avuto modo di accennare alle voci secondo cui a
Perugia negli anni dei delitti seriali, in molti sospettassero che
Narducci avesse a che fare con gli omicidi. Abbiamo già anche visto
che già dal biennio 1985/1986 il suo nome figurava in una lista di
sospettati della SAM.
● Nell'ottobre del 1985, un mese dopo il duplice omicidio degli
Scopeti, il dottor Narducci trovò una misteriosa morte nelle acque
del lago Trasimeno, che tanto avrebbe contribuito in futuro ad
alimentare le voci di un suo coinvolgimento nei delitti del Mostro.
● Due anni dopo, nel 1987, alcuni agenti della SAM si recarono sia a
Sant'Angelo sul Trasimeno (dove era stato rinvenuto il cadavere del
medico), sia a Perugia, per svolgere indagini sulla figura del
Narducci e sulla sua misteriosa morte. I giornali parlarono
logicamente di un ipotetico collegamento fra tale morte e i delitti
del MdF. Fu in questa occasione che negli uffici della SAM venne
aperto il fascicolo - cui facevamo riferimento prima - a nome del
Narducci, datato 21 marzo 1987. Sul cartellino di tale fascicolo era
scritto, stando a quanto riporta il giudice Micheli: "Deceduto
misteriosamente presso il Lago Trasimeno - accertamenti svolti dai CC di
Firenze perché sospettato quale Mostro - il decesso risale all'ottobre
1985?".
Le indagini non ebbero tuttavia alcun seguito e il
colonnello Vittorio Rotellini riferì in un rapporto scritto a Pier
Luigi Vigna che la morte del Narducci era dovuta probabilmente a
suicidio. In seguito la famiglia del Narducci fece pubblicare un
breve trafiletto sui giornali in cui diffidava chiunque dal fare
ulteriori illazioni sulla vicenda.
Cadde quindi una coltre di silenzio sul nome del Narducci, almeno
fino al 2001 quando il famoso gastroenterologo ritornò per quello
che si può definire un puro caso (vedasi in proposito il prossimo
capitolo) al centro delle indagini sul MdF e il magistrato
perugino Mignini cominciò a indagare sulla sua morte.
● Un pescatore umbro, tale Enzo Ticchioni, riferì in Procura, dopo
la riapertura del caso, di alcune confidenze che gli erano state fatte
da un sovrintendente di polizia durante le ricerche del corpo di
Francesco Narducci nel lago Trasimeno. Tale sovrintendente, di
nome Emanuele Petri, in seguito ucciso nel marzo 2003 sul treno
Roma-Firenze dalle Brigate Rosse, gli aveva parlato di un
inseguimento infruttuoso fatto al dottor Narducci sul raccordo
autostradale Bettolle-Perugia, qualche giorno prima della sua
scomparsa; l'inseguimento si era rivelato infruttuoso perché il
medico era stato perso di vista dalla pattuglia all'altezza di
Terontola, poco prima che arrivasse a un posto di blocco. Non è
chiaro in realtà quando fosse avvenuto questo episodio raccontato
dal Petri al Ticchioni, se la notte del duplice omicidio dei francesi,
come riportano alcune fonti, o successivamente. Anche questa
testimonianza è avvolta da un velo di mistero che ne rende i
contorni sfumati e incerti. In merito non c'è nulla di ufficiale, se non
una serie di voci che sul più bello vengono puntualmente smentite.
In seguito, infatti, durante il processo di Perugia, in fase di
incidente probatorio, Ticchioni, già malato gravemente di tumore,
riferì di non ricordare nulla di quelle dichiarazioni.
● Il suocero del Narducci, Gianni Spagnoli (che aveva un'impresa
dolciaria a Sambuca Val di Pesa, dunque alle porte di San Casciano)
in un'intercettazione telefonica con sua figlia Luisa, risalente al 23
gennaio 2004, parlò di una casa colonica a San Pancrazio, di
proprietà proprio del Narducci (per inciso, il Mainardi, vittima del
delitto di Baccaiano, era di San Pancrazio). Nel prosieguo della
telefonata lo Spagnoli riferì alla figlia della notizia data dal
quotidiano "Il Corriere della Sera" circa il rinvenimento di feticci in
un'abitazione in uso al Narducci nei pressi di Firenze, precisamente
una "vecchia casa colonica in località San Pancrazio". Sempre secondo
quanto lo Spagnoli riferì di aver letto, la proprietaria della casa, non
avendo più ricevuto il canone di locazione da Francesco, aveva
chiamato suo padre, l'altrettanto famoso professor Ugo Narducci, il
quale vi si era precipitato con alcuni agenti di Polizia, trovando in
un frigorifero le parti asportate alle vittime.
Banale a dirsi, non vi è traccia di alcuna casa colonica di proprietà
del Narducci a San Pancrazio, tanto meno vi è traccia di feticci
conservati nella stessa. Qualunque articolo avesse letto lo Spagnoli,
riportava sicuramente notizie non vere.
Lo stesso super-poliziotto e capo del Gides, Michele Giuttari,
anche lui fermamente convinto del coinvolgimento del Narducci
come mandante nei delitti del Mostro, affermerà infatti: "L'esistenza
di questo appartamento in uso a Narducci e della presenza al suo interno
di resti umani appartenenti alle vittime del Mostro era frutto di voci.
L'appartamento non fu mai individuato. Lo stesso ispettore Napoleoni, che
ora è morto, ci riferì a riguardo notizie confuse".
In realtà, come visto, per sua stessa ammissione, inizialmente
Napoleoni sovrappose nei suoi ricordi filoni d'inchiesta diversi.
Risulta a questo punto doveroso precisare che gli articoli che si
possono trovare ancora oggi in giro per il web in cui si racconta di
una fantomatica casa colonica in locazione al Narducci contenente i
feticci, sono da considerarsi assolutamente non veritieri.
● A dispetto di ciò, il 22 gennaio 2004, Napoleoni fu intercettato
telefonicamente mentre parlava con sua figlia Monica (anche lei nel
corpo di polizia) e, relativamente al farmacista di San
Casciano, Francesco Calamandrei, affermò: "Fa parte di una setta
esoterica, lui è uno di quelli che mandava... E poi sembra che 'sto Narducci
fosse colui il quale, questo lo dico io, teneva i macabri resti delle donne
uccise eccetera... Poi a un certo momento sicuramente questo forse voleva
uscire dal giro e l'hanno amma... insomma, il mandante anche
dell'omicidio di Narducci... quando esce fuori Trio..."
Si badi bene che queste sono semplici congetture personali del
Napoleoni, non frutto di indagini ma di opinioni maturate a quasi
vent'anni dai fatti, dopo la riapertura delle indagini da parte del
dottor Mignini.
● Esiste una intercettazione telefonica risalente al 1 Marzo 2006
fra Francesca e Marco Calamandrei, i due figli del farmacista di San
Casciano, nella quale Marco afferma: "Loro vogliono sapere... da come
capii io... non me lo ricordo chi... che praticamente devono sapere cioè che
vogliono trovare l'appiglio da Perugia a Firenze e se qualcuno confermasse
che il babbo conosceva... questo Narducci... questo coso... il babbo è
fregato!"
Francesca risponde: "...questo era a san Casciano fino all'85... quanti
anni avevi te nell'85?... ce ne avevi 11, 13... quindi o sei un mentecatto o
non ti ricordi... capito?... o io e te siamo dei mentecatti capito?"
Da tale intercettazione si può ricavare che Marco sembra non avere
familiarità con il Narducci, ne parla infatti come di una persona che
non conosce bene o che non conosce affatto. Afferma però di aver
sentito, non ricorda da chi, che se gli inquirenti avessero trovato
qualcuno in grado di testimoniare la conoscenza fra Narducci e suo
padre, quest'ultimo sarebbe stato fregato. Si badi bene, Marco non
dichiara che il padre ha conosciuto il dottor Narducci, ma che una
testimonianza in tal senso potrebbe essere pericolosa.
Nella risposta, Francesca dimostra anche lei di avere molto poca
familiarità col Narducci (lo chiama "questo"), quindi sembra
sostenere che siccome il medico perugino ha frequentato San
Casciano fino al 1985 (non si capisce però se ciò è quello che ritiene
lei o è quello che ritengono gli inquirenti), e siccome loro - pur
all'epoca essendo abbastanza grandi - non l'hanno mai visto, questo
implicherebbe che o non ricordano o sono dei mentecatti.
● Durante il Processo Calamandrei (2008) emerse per bocca del
Pubblico Ministero Alessandro Crini che subito dopo la morte del
Narducci, i suoi familiari, e in particolar modo la sorella, avevano
organizzato alcune sedute spiritiche, presediute da medium di loro
fiducia, con il fine di affrancare l'anima del loro congiunto dalle
vicende del Mostro.
Trattasi ovviamente di narrazione che non ha alcuna base
probatoria, ma indicativa di come, a un certo punto, forse la stessa
famiglia del medico covasse qualche un sospetto sui rapporti che
legavano Francesco a Firenze.
● Punto puramente suggestivo: tutte le persone di Firenze e San
Casciano con cui Narducci si presume fosse entrato in contatto
negli anni '80, si sono affrettate a negare di averlo conosciuto. Ha
negato l'avvocato Jommi, ha negato il dottor Jacchia, ha negato
soprattutto il farmacista Calamandrei. Questo porta inevitabilmente
a chiedersi perché negare con veemenza quella che almeno in alcuni
casi sembrava una verità acquisita. Ancora una volta possiamo
limitarci a fare solo delle ipotesti:
▪ forse perché questi personaggi realmente non si conoscevano e i
riconoscimenti e le testimonianze sono state frutto del caso, di
cattivi ricordi o peggio di un disegno;
▪ forse c'era stata fra taluni di questi personaggi una conoscenza con
il Narducci; questa veniva aprioristicamente negata per la semplice
paura di essere coinvolti in qualcosa di scabroso, soprattutto dopo
che era emersa la misteriosa e controversa vicenda del doppio
cadavere (anche qui vedasi il prossimo capitolo);
▪ forse Narducci aveva davvero qualcosa da nascondere e quindi
bisognava mantenere assolutamente le distanze dalla sua figura;
▪ forse alcuni o molti di questi personaggi avevano qualcosa da
nascondere e dovevano assolutamente mantenere le distanze l'un
dall'altro.
● Infine, larga parte avrebbe avuto nell'avvicinare
nell'immagginario collettivo la figura del Narducci a qualcosa di
estremamente grave come la vicenda del Mostro di Firenza, la già
citata, misteriosa e controversa questione del cosiddetto doppio
cadavere.
Soleva dire a tal proposito il noto e mai troppo compianto De
Gothia, narducciano convinto, che il doppio cadavere era come "un
elefante" posto davanti agli occhi di chi era alla ricerca della verità:
qualcosa di così grande che non si poteva fingere di non vedere e da
cui non si poteva prescindere.
Risposte
1.
Luigi Sorrenti15 settembre 2021 alle ore 22:16
Ciao e grazie per il commento, che mi dà una piacevole
sensazione di déjà vu. Una medesima discussione la ebbi,
molti anni or sono, con De Gothia. Anche lui sosteneva
che le tempistiche per un A/R dagli Stati Uniti ci
potevano essere, pur dovendo ammettere che in quella
seconda metà di ottobre 1981, l'Italia era dilaniata da
numerosi scioperi, anche e soprattutto nel settore
trasporti. Scioperi che, all'epoca, facevano ben pochi
prigionieri, spesso non garantendo alcun tipo di servizio
basilare.
A ogni modo, io ho semplicemente riportato le parole di
Mignini in una recentissima intervista web, in cui
affermava (quasi con una punta di rammarico, ma in
maniera piuttosto tranciante) che dai controlli effettuati
(comprensi quelli sui passaporti) non sembrano esserci
molti margini perché Narducci potesse essere in Italia il
22 ottobre 1981.
Grazie ancora e complimenti per il vostro lavoro.
Lu.
Rispondi
2.
bonik22 gennaio 2022 alle ore 16:57
Risposte
1.
Luigi Sorrenti23 gennaio 2022 alle ore 00:35
Ciao, grazie per il commento.
Come riportato nel paragrafo dedicato al Parker, costui
abitò in via dei Serragli fra il 1994 e il 1996, a oltre dieci
anni di distanza dai delitti del mostro, dalle vicende de
La Sfacciata e dalla morte del Narducci.
Rispondi
3.
Anonimo3 luglio 2022 alle ore 01:31
Risposte
1.
Luigi Sorrenti31 luglio 2022 alle ore 06:25
Salve e grazie a te. La tua domanda se ne porta dietro
altre, che difficilmente potrebbero avere risposta in
questa sede.
La versione ufficiale è che la ragazza oggetto di violenza
da parte del Poli (Cristina P.) ne avrebbe parlato con suo
compagno dell'epoca (Franco P.), il quale era amico del
Napoleoni e dunque avrebbe denunziato la vicenda a lui.
Poi, perché l'ispettore perugino avesse cominciato a
indagare personalmente invece che trasmettere gli attimi
a Firenze, non è dato sapersi.
Rispondi
4.
Anonimo30 luglio 2022 alle ore 06:40
Risposte
1.
Luigi Sorrenti31 luglio 2022 alle ore 06:30
Ciao Anonimo, a parte l'utilizzo del termine
"depistaggio" che nel contesto di queste pagine fa
sorridere, comunque probabilmente hai sbagliato blog,
dato che in questa sede non si propende né per una tesi,
né per l'altra, ma si riportano fatti, studi e ricerche che
vengono condotti sull'argomento, dando spazio un po' a
tutte le teorie, anche a quelle più improbabili.
Una morte misteriosa
La riapertura dell'inchiesta
Per quattordici anni non si parlò più del possibile legame di
Francesco Narducci con i fatti del Mostro, almeno fino al 2001,
quando un'estetista di Foligno, di nome Dora, ricevette nell'arco di
svariati mesi numerose telefonate intimidatorie da parte di ignoti.
In queste telefonate gli anonimi interlocutori minacciarono, fra
insulti vari, di uccidere la donna e suo figlio durante non meglio
identificati riti satanici e in un alcune occasioni uno di questi
pronunciò la neanche troppo sibillina frase: "Ti faremo fare la stessa
fine di Pacciani e del dottor Narducci annegato nel Trasimeno".
L'estetista, che aveva preso l'abitudine di registrare le telefonate,
decise di rivolgersi alla polizia, cui consegnò i nastri. Fu indagando
su queste strane minacce che in seguito la Procura di Perugia, nella
persona del magistrato Giuliano Mignini, riaprì il fascicolo
riguardante la morte del Narducci col fine di fare chiarezza su
eventuali legami fra la sua morte e quella del Pacciani.
Il doppio cadavere
A dispetto delle presunte ritrattazioni dei vari testimoni, la Procura
di Perugia era ormai certa delle conclusioni audaci, ma in linea con i
riscontri ottenuti fino a quel momento, cui era giunta.
Di seguito esponiamo tali conclusioni, non mancando però di
rilevare eventuali incongruenze o aspetti poco chiari:
1. Il Narducci era stato ucciso per strozzamento o strangolamento
da ignoti e non era caduto accidentalmente in acqua, né si era
suicidato come a volte era stato ventilato. L'omicidio doveva essere
avvenuto il giorno 9 ottobre 1985, data riportata sulla lapide del
medico, dunque il giorno successivo alla scomparsa. Dove il
Narducci avesse passato la notte fra il giorno 8 e il giorno 9, non è
dato sapersi. A ogni modo, ad ampia riprova dell'omicidio c'era la
rottura del corno tiroideo.
Da notare che gli avvocati difensori della famiglia Narducci
sostenevano invece che il corno tiroideo era stato rotto quando il
dottore era già cadavere, nel frettoloso tentativo di spogliarne il
corpo gonfio sul molo, in particolar modo nel tentativo di slacciare
la cravatta e allentare il primo bottone della camicia.
2. Il cadavere del dottore era stato molto probabilmente recuperato
dai familiari (o da persone a loro vicine) e nascosto da qualche
parte. Considerando che le ricerche da parte delle forze dell'ordine
erano partite il giorno prima (8 ottobre), è probabile che per un
certo lasso di tempo si fossero sovrapposte le ricerche ufficiali con
quelle - chiamiamole ufficiose - dei familiari. Non è dato sapere se
la famiglia Narducci avesse avuto semplicemente più fortuna o
fosse andata a colpo scuro, sapendo dove cercare.
3. In seguito era stato buttato nel lago il cadavere di una seconda
persona, molto probabilmente un barbone o un extracomunitario
prelevato dall'obitorio, se non addirittura ucciso per l'occasione
(ipotesi quest'ultima mai formulata apertamente, invero). Tale
cadavere era stato fatto rinvenire il 13 ottobre, dando il via a quella
che - sempre secondo la Procura perugina - era stata una vera e
propria messinscena.
4. Con l'aiuto di autorità compiacenti e complici, era stato fatto
identificare il cadavere per quello di Francesco Narducci ed erano
state fatte pressioni su una dottoressa inesperta perché certificasse
che la morte era dovuta ad annegamento. In seguito erano state
opportunamente evitate ulteriori indagini sul corpo.
5. Infine, prima della sepoltura, era stato effettuato lo scambio dei
cadaveri in modo da seppellire il vero corpo del dottor Narducci,
fino a quel momento opportunamente nascosto dalla famiglia del
medico.
La doppia inchiesta
L'inchiesta sulla strana morte del dottor Narducci a questo punto si
sdoppiò:
● da un lato in collaborazione con la Procura di Firenze si indagava
sulle connessioni con la vicenda del Mostro e sull'omicidio del
Narducci da parte dei suoi presunti complici;
● dall'altro sul presunto scambio di cadavere e i relativi depistaggi
realizzati da personaggi insospettabili appartenenti alla Perugia
bene.
Risposte
1.
Luigi Sorrenti22 settembre 2021 alle ore 05:19
Ciao, collegare Narducci al 1968 non è difficile solo per te,
ma per chiunque. Non è un caso se la corrente
mostrologica "narducciana" esclude che il medico possa
essere stato coinvolto nel delitto del 1968, propendendo
per un depistaggio oppure per un passaggio della pistola,
che può asusmere qualsiasi sfaccettatura, a seconda del
proprio "credo".
Rispondi
2.
labirinth6@gmail.com26 gennaio 2022 alle ore 14:14
L'arma ha girato
Il legionario
La Pista Francini
Teoria De Biasi
Claudio De Biasi, detenuto per aver sparato nel 1973 a una coppia
appartata in macchina in un campo alle porte di Firenze, entrò per
la prima volta nella vicenda del Mostro nel dicembre del 1982
quando fu ascoltato dai carabinieri della Legione Operativa di
Firenze e nell'occasione dichiarò di conoscere l'identità dell'autore
dei duplici omicidi a danno delle coppiette, identificandolo in
tale "Carlo" di Prato.
L'interrogatorio era nato in seguito a una lettera che il De Biasi,
all'epoca detenuto alle Murate, aveva scritto alla mamma di
Susanna Cambi, la ragazza uccisa dal mostro
alle Bartoline nell'ottobre del 1981.
In questa lettera il De Biasi raccontava infatti: "Io conosco il mostro e
mi sento un po' colpevole di questi assurdi omicidi perché io sparai a una
coppietta e sembra che il mio gesto abbia dato vita a questi omicidi".
Nella lettera De Biasi ammetteva inoltre di essere stato un
guardone, di avere bazzicato a lungo e nottetempo le campagne
attorno a Firenze, di avere visto in faccia il mostro e addirittura di
essere stato in precedenza il possessore della calibro 22 con cui
venivano commessi gli omicidi; pistola che lo stesso MdF gli
avrebbe rubato nel 1968. Scriveva a tal proposito il De Biasi: "Lui
praticava spesso il campo delle Bartoline, poi l'ho visto dopo a Le Croci di
Calenzano. Lo rividi dalle parti di Scarperia e una volta nei pressi del
paese La Lisca per andare a Montelupo e l'ultima volta che lo vidi fu nel
1976 tramite una licenza che mi diede il carcere di Firenze".
Successive indagini non portarono a nulla, ma parecchi anni dopo il
nome del De Biasi venne ripescato dall'ex confidente spirituale del
Pacciani, la signora Anna Maria Mazzari, conosciuta all'epoca come
suor Elisabetta.
In alcune interviste rilasciate nel settembre del 2018, l'ex suora ha
dichiarato di avere avuto anch'ella confidenze dal De Biasi, il quale
ha continuato a sostenere di conoscere l'identità del Mostro. Stando
alle dichiarazioni che il De Biasi avrebbe fatto alla Mazzari, il
presunto Mostro frequentava un bar in piazza Mercatale a Prato,
possedeva numerosi proiettili calibro 22 e partecipava a
esercitazioni di tipo militare nelle zone più impervie della Calvana
(catena montuosa sopra Prato) "sotto la guida di quel signore della
legione straniera che ultimamente è stato indagato e che istruiva questi
ragazzi" (il Vigilanti, NdA). Durante queste esercitazioni, i
partecipanti indossavano divise fasciste e sparavano con pistole
Beretta calibro 22.
La stessa Mazzari si è detta tuttavia dubbiosa sulla veridicità di
queste dichiarazioni. Oltretutto il De Biasi non è mai sembrato
persona di assoluta attendibilità. Il suo curriculum criminale parla
da solo: squilibrato di estrazione fascista e fanatico di armi, nel 1973
fu protagonista del già citato assalto a una coppia in automobile
(l'uomo si giustificò dicendo di aver creduto che in quella vettura ci
fosse la moglie fredifraga con l'amante); venne condannato a otto
anni di reclusione; durante un permesso, nel 1978 si diede alla
latitanza; nel gennaio 1979 uccise un anziano durante una rapina,
venne nuovamente arrestato e condannato ad altri vent'anni. Evaso
dal carcere, si rifugiò sulla Calvana, dove venne catturato il 21
novembre 2002. Ha continuato a far parlare di sé nel corso degli
anni risultando uomo violento e pericoloso, fino a quando in tempi
recenti il tribunale di Prato ha chiesto una perizia psichiatrica per
valutarne le capacità cognitive.
Il Mostro Di Modena
Fra l'agosto del 1985 e il gennaio del 1995, otto giovani donne
furono uccise a Modena e nei dintorni del capoluogo emiliano da
mano ignota. Delle otto vittime, sette utilizzavano la prostituzione
come mezzo per procurarsi i soldi necessari per acquistare droga.
Secondo alcuni studiosi la scia di sangue perpetrata da colui che è
passato alla storia come il Mostro di Modena potrebbe essere
ancora più lunga e comprendere almeno altre due vittime.
Non è fine di questi scritti entrare nelle misteriose e complesse
vicende di tale brutale serial killer. Abbiamo accennato brevemente
a questa vicenda, perché secondo un noto ricercatore più volte
citato in questi scritti, Enrico Manieri, potrebbe esserci una sorta di
collegamento fra Mostro di Firenze e Mostro di Modena. Più volte,
in diverse interviste reperibili su youtube e anche privatamente al
sottoscritto, il Manieri ha ventilato la possibilità che dopo aver
deciso di metter la parola fine ai delitti delle coppiette nella
provincia di Firenze, il Mostro possa aver cambiato raggio d'azione
ed essersi spostato nel capoluogo emiliano, modificando oltretutto
anche la tipologia delle vittime e puntando le prostitute di zona.
Sempre secondo il Manieri, la scelta sarebbe caduta su Modena in
quanto questa era la città del criminologo Francesco De Fazio,
l'uomo incaricato dalla Procura di redigere un profilo psciologico
del Mostro e indicato dalla stampa dell'epoca come colui che ne
avrebbe consentito la cattura. Dunque il MdF potrebbe avere visto
nel De Fazio il suo nemico numero uno e aver deciso di spostare il
suo raggio d'azione proprio nella città del criminologo.
Risulta questa un'idea decisamente affascinante che però - per
stessa ammissione del Manieri - non ha nessun tipo di indizio a
sostegno e va presa esclusivamente come mera congettura.
Il sottoscritto ha comunque inteso dedicare qualche giorno di studio
alla vicenda del Mostro di Modena e rivolgere una serie di
domande ad alcuni esperti della materia. Sono emersi diversi
particolari che - ove mai ce ne fosse bisogno - decisamente
contrasterebbero la teoria dello stesso serial killer a Firenze e
Modena.
Innanzitutto, ipotizzare che i due serial killer fossero la stessa
persona, presupporrebbe che l'assassino avesse deciso di colpire a
Modena quando ancora non era terminata la sua scia di sangue a
Firenze. Il primo omicidio del Mostro di Modena (21 agosto 1985)
avvenne infatti un paio di settimane prima dell'ultimo omicidio del
Mostro di Firenze. Questo oltre a comportare che nell'arco di un
paio di settimane l'assassino avesse colpito due volte in due città
distanti fra loro quasi 150 chilometri, implicherebbe almeno per il
primo delitto non un trasferimento del serial killer da Firenze a
Modena, ma più che altro uno spostamento temporaneo
dell'omicida, il quale sarebbe partito da Firenze, arrivato a Modena,
ucciso e poi verosimilmente rientrato a Firenze dove viveva.
Inoltre, è parere abbastanza diffuso fra gli studiosi del caso del
Mostro di Modena, per non dire certezza acquisita, che chiunque
fosse l'utore degli omicidi di Modena, era persona che conosceva
benissimo la città e i suoi dintorni, i luoghi frequentati dalle
prostitute, gli anfratti più remoti della provincia e fra questi si
sapesse muovere con estrema capacità. Questo è un po' anche
quello che si diceva del Mostro di Firenze, un soggetto che
conosceva benissimo i luoghi in cui colpiva. Risulta dunque
piuttosto complicato pensare a un unico serial killer che conoscesse
profondamente la geografia e la toponomastica di entrambe le città
e delle loro rispettive province. Senza considerare che entrambe le
tipologie di delitto presupponevano un'adeguata preparazione e
ricognizione dei luoghi, dunque un assassino che almeno
limitatamente al periodo precedente all'omicidio fosse stanziale.
Possiamo dunque affermare quasi senza timore di smentita che
l'idea di un unico assassino prima a Firenze e poi a Modena, per
quanto affascinante, appare decisamente poco credibile.
Il Forteto
Il Forteto è una cooperativa agricola attiva nel comune di Vicchio,
fondata nel 1977 da Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi, con
l'obiettivo di creare una comunità produttiva e alternativa alla
famiglia tradizionale ispirata agli insegnamenti di don Milani.
Rodolfo Fiesoli, detto il Profeta, era a capo della struttura, mentre
Luigi Goffredi era il cosiddetto ideologo del progetto; entrambi
millantavano una laurea in psicologia che in realtà non avevano.
Già nel 1978 i fondatori vennero indagati per atti di libidine e
maltrattamenti nei confronti degli adolescenti disabili che il
tribunale dei minori aveva inviato presso la comunità; i due
vennero condannati nel 1985. Tuttavia il tribunale dei minori
continuò ad affidare alla comunità bambini disabili o con
problematiche sociali e familiari. La comunità riuscì a crearsi col
tempo un'immagine di centro di eccellenza educativa ottenendo
importanti finanziamenti pubblici e riuscendo a divenire una
rilevante realtà economica e produttiva nel campo agricolo, grazie
soprattutto al lavoro degli ospiti della comunità stessa.
A lungo, nonostante le condanne, il Tribunale dei minori e la
politica locale riposero la propria fiducia in Fiesoli e nel suo operato
tanto che, quando nel 2011 i due capi della comunità vennero
nuovamente accusati di maltrattamenti verso i minori e lo scandalo
che seguì portò alla richiesta dell'istituzione di una commissione
d'inchiesta parlamentare, questa trovò la strenue opposizione del
PD con il quale Fiesoli aveva instaurato una fitta rete di scambi e
relazioni.
Le accuse tuttavia erano troppo gravi per poter essere taciute. Nel
2011 Fiesoli venne nuovamente arrestato per violenza sessuale su
minori e maltrattamenti. Venne definitivamente condannato nel
2017 a oltre 15 anni di carcere. Nelle sentenze si parla
di "un'esperienza drammatica, per molti aspetti criminale", "un
martellante e sistematico lavaggio del cervello". Sempre secondo la
sentenza, la comunità era divenuta "territorio di caccia di Rodolfo
Fiesoli", il quale ebbe rapporti sessuali con quasi tutti gli uomini
della comunità e con molti adolescenti. Inoltre i bambini accolti
venivano sottoposti a lavaggio del cervello al fine di creare falsi
ricordi di abusi nelle famiglia per spingerli ad accusare i genitori
naturali. Nel 2018 la copperativa venne commissariata e tuttora
versa in stato di commissariamento. Ad oggi Rodolfo Fiesoli è in
carcere e non sono previsti sconti di pena nonostante le numerose
richieste.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere cosa c'entra tutto ciò con la
storia del Mostro di Firenze. In realtà le connessioni sviluppatesi
negli anni fra le due vicende sono molteplici e talvolta (non sempre)
significative.
Innanzitutto il Forteto è estremamente vicino alla Boschetta di
Vicchio, dove nel 1984 trovarono tragica morte Claudio Stefanacci e
Pia Rontini. In linea d'aria parliamo di pochissime centinaia di
metri.
In secondo luogo, esiste una testimonianza secondo cui Rodolfo
Fiesoli sarebbe stato visto nella piazzola degli Scopeti il venerdì
precedente all'omicidio dei due giovani francesi (dunque il 6
settembre 1985). La testimonianza è di tale Giovanni Biscotti,
conoscente dello stesso Fiesoli, che riferì agli inquirenti di essersi
trovato a passare da via degli Scopeti e di aver visto il Fiesoli fermo
all'ingresso della piazzola, intento a urinare.
Tale testimonianza, unita probabilmente ai precedenti per reati
sessuali, portarono a una perquisizione in casa del Fiesoli e
all'inserimento del suo nome nella famosa lista della SAM di cui si è
parlato a proposito delle indagini su Pacciani. Per la precisione il
nome di Fiesoli figurava alla posizione numero 3 della lista.
Altri piccoli e suggestivi riscontri sono seguiti nel corso degli anni.
L'ultimo indagato, il dotto Francesco Caccamo, di cui si è parlato
nel capitolo dedicato al legionario, ad esempio viveva in una casa
che confinava con la proprietà del Forteto.
I carabinieri hanno ascoltato diverse persone che negli anni degli
omicidi avevano vissuto o frequentato la comunità per cercare
informazioni su Caccamo, cogliendo l'indiscrezione che ai bambini
del Forteto veniva proibito di andare a giocare vicino alla casa del
medico.
Ci sono testimonianze che sconfinano un po' nella leggenda e che
parlano di un bossolo come quelli usati dal MdF conservato per
anni in un barattolo nel negozio della comunità.
Infine ci sarebbe la scheda telefonica utilizzata per effettuare alcune
telefonate anonime all'estetista Dora di Foligno (quelle che avevano
portato a riaprire il caso Narducci, vedasi capitolo Una morte
misteriosa), da cui sarebbero partite anche alcune telefonate dirette
proprio al Forteto.
Il Cardiologo Fiorentino
Nell'agosto del 2002 entrò nelle indagini sui delitti del Mostro un
noto cardiologo fiorentino, 67 anni, di nome Paolo Perez. Il dottore
venne arrestato nella sua villa di Fiesole per aver violentato una
giovane tossicodipendente in coma e per aver documentato
fotograficamente la violenza in maniera dettagliata.
Nella perquisizione della sua villa vennero rivenuti, oltre a
parecchio materiale pornografico, anche una pistola Beretta calibro
22 Long Rifle e molti proiettili, marca Winchester, con impresso sul
fondello il simbolo H. Pistola e proiettili, dunque, dello stesso tipo
di quelli usati dal Mostro di Firenze per commettere i suoi 16
omicidi. Di qui il forse inevitabile coinvolgimento del cardiologo
nell'annosa vicenda criminale.
Ad alimentare i sospetti furono non solo i precedenti penali del
medico, tutti a sfondo sessuale, ma anche il suo passato tragico (suo
nonno, suo padre e il suo unico figlio maschio si erano suicidati) e
la depressione di cui egli stesso soffriva e che alternava a fasi
maniacali di euforia, durante le quali era iperattivo e aveva un
irrefrenabile appetito sessuale.
Di particolare interesse, per quanto terribile, il suicidio del figlio del
dottor Perez, avvenuto in data 17 maggio 1981, dunque una ventina
di giorni prima del duplice delitto di Mosciano, il primo fra quelli a
cadenza annuale commessi dal MdF. Sarà però proprio questo
tragico evento a scagionare il Perez. Emerse infatti che in occasione
del delitto, la Beretta del medico era sotto sequestro, custodita
nell'ufficio corpi di reato del tribunale, in quanto utilizzata proprio
dal figlio per togliersi la vita. Tale pistola era stata restituita al
dottore in data 17 agosto 1981.
Emerse altresì, particolare inquietante, che ai tempi dei delitti del
Mostro, gli inquirenti avevano identificato tutti i possessori di
Beretta calibro 22 residenti in Toscana e le rispettive armi erano
state tutte periziate. Tuttavia quella del dottor Perez,
inspiegabilmente, non risultava essere mai stata controllata. Risulta
spontaneo a questo punto chiedersi quante altre Beretta calibro 22
possono essere sfuggite ai serrati e rigidi controlli portati avanti
negli anni '80.
La pistola del Perez venne in seguito periziata e risultò estranea ai
delitti del MdF. A proposito dello stupro, il dottore venne assolto
nel gennaio 2004, perché ritenuto completamente incapace di
intendere e di volere e non più pericoloso (pare che fisicamente,
psicologicamente e moralmente riversasse in uno stato di assoluta
prostrazione). Per mera curiosità, a processo il medico giustificò la
violenza asserendo di averla compiuta per fini teraupetici, per
svegliare cioè dal coma la giovane donna ospite nella sua villa.
4. La teoria definitiva:
Il Mostro di Firenze altri non era che un gruppo di persone,
appartenenti a una setta esoterica, ciascuno con il proprio ruolo e i
propri compiti. Di questo gruppo facevano parte sia eminenti
personalità come il Sostituto Procuratore Pier Luigi Vigna, il
giornalista Mario Spezi, il compositore Franco Ferrara (padre dello
Spezi), il dottor Francesco Calamandrei, lo scrittore Alberto
Bevilacqua, ovviamente il dottor Francesco Narducci, sia
personaggi squallidi che costituivano la manovalanza spicciola,
coloro che si sporcavano le mani, come i Comapgni di Merende, il
mago Indovino, buona parte dei frequentatori di via Faltignano, il
sardo Francesco Vinci.
Questa teoria viene tuttora portata avanti dal già citato Paolo
Franceschetti, seguace delle idee della Carlizzi. Inoltre, come
accennato nella sezione degli Aggiornamenti, buona parte di
questa teoria è stata esposta in tempi recenti da Luciano
Malatesta (il figlio secondogenito di Renato Malatesta e di Maria
Antonietta Sperduto) in una delirante intervista andata in onda sul
canale youtube "Le Notti Del Mostro". Tra le altre cose, in tale
intervista, il Malatesta ha dichiarato apertamente che suo padre
Renato gli aveva confidato "vogliono uccidermi" poco prima di
morire nel dicembre del 1980 (vedasi capitolo Le morti collaterali).
Ci sarebbe però da chiedersi perché nei due processi in cui è stato
testimone (quello contro Pacciani e quello contro i Compagni di
Merende) l'allora giovane Luciano non aveva mai fatto rivelazioni
del genere, al contrario aveva dichiarato che in più di un'occasione
aveva distolto il padre da intenti suicidi.
Nell'intervista, il Malatesta ha rivelato anche che sua sorella Milva
gli aveva fatto nomi e cognomi di tutti i personaggi coinvolti nella
vicenda; nomi che evidentemente lui ha taciuto per trent'anni; li ha
taciuti sia dopo la terribile morte di Milva, sia nei due Processi in
cui è stato testimone, salvo poi ricordarsene improvvisamente con
anni e anni di ritardo durante un'intervista sul web.
Ma le dichiarazioni del Malatesta non si sono limitate a questo: in
un crescendo emotivo di rara intensità ha parlato di cancro indotto
da medici compiacenti ad alcuni testimoni per evitare che
parlassero, di giro di pedofilia internazionale, di servizi segreti
deviati, di un secondo e di un terzo livello, di massoneria, di Rosa
Rossa e di tutti i più disparati complottismi di cui si può trovare
traccia sul web, tutto in quel grande calderone che è stata la tragica
epopea del Mostro di Firenze.
Si lascia al lettore ogni possibile valutazione.
La Pista Eversiva
Prendendo spunto da quanto dichiarato nel paragrafo dedicato al
De Biasi a proposito delle milizie irregolari di estrazione fascista
che si esercitavano sui monti della Calvana, e strettamente connessa
alla teoria secondo cui il MdF sarebbe stato il legionario Giampiero
Vigilanti, nell'estate del 2017 nacque la cosiddetta pista
dell'eversione nera. Una teoria riportata da diversi giornali, fra cui
anche La Nazione, nata dalla convinzione che i magistrati che
stavano indagando sul Vigilanti avessero in realtà esteso le loro
indagini ad ambienti di estrema destra legati ai servizi segreti.
Secondo tale teoria, i delitti storicamente attribui al Mostro di
Firenze sarebbero stati infatti programmati ed eseguiti in ambienti
eversivi di impostazione fascista per distrarre inquirenti e opinione
pubblica dalle vicende italiane di quegli anni.
I sostenitori di tale teoria si erano pertanto affrettati a trovare dei
collegamenti temporali fra i delitti del MdF e alcune di queste
vicende. Ne accenniamo brevemente:
▪ nell'agosto del 1974 era esplosa la bomba sull'Italicus e un mese
dopo era avvenuto il delitto di Rabbata;
▪ nell'agosto del 1980 c'era stata la strage di Bologna, nel maggio del
1981 c'era stato l'attentato al Papa e in giugno c'era stato il delitto di
Mosciano;
▪ il giorno dopo il delitto di Calenzano era previsto uno sciopero
generale di vastissima adesione;
▪ il giorno successivo al delitto di Baccaiano era stato trovato
impiccato a Londra il banchiere Roberto Calvi;
▪ nell'agosto del 1983 era evaso da un carcere svizzero Licio Gelli e
nel settembre dello stesso anno era avvenuto il delitto di Giogoli.
Da questo brevissimo elenco, è immediato intuire come in un
decennio così ricco di avvenimenti sociali, politici e criminali quale
quello italiano a cavallo fra gli anni '70 e gli anni '80, un qualunque
collegamento con i delitti del MdF sarebbe stato estremamente
facile da trovare.
A ogni modo, furono gli stessi magistrati a smentire le indagini
sulla cosiddetta pista eversiva, troncando sul nascere un filone
mostrologico che avrebbe sicuramente alimentato le varie teorie
complottistiche di ogni tipo.
Zodiac
Terminiamo questa breve carrellata di teorie alternative con quella
che è forse la più importante fra le tante della cosiddetta
Mostrologia minore.
Una pista che probabilmente avrebbe meritato un capitolo a parte,
ma per la pochezza di informazioni che abbiamo e anche per una
certa ambiguità dell'argomento, non può che rientrare fra le teorie
che abbiamo evidenziato come minori. Almeno per il momento.
Cominciamo con il chiarire chi è Zodiac.
Zodiac, anche noto come Zodiac Killer o killer dello Zodiaco, è stato
un assassino seriale che ha agito nella California settentrionale tra il
dicembre 1968 e l'ottobre 1969. L'appellativo venne coniato dallo
stesso autore dei delitti in una serie di lettere inviate alla stampa
dall'agosto 1969 fino al luglio del 1974, dunque ben oltre l'ultimo
delitto ufficialmente da lui commesso. Tali lettere contenevano fra
l'altro anche quattro crittogrammi (messaggi cifrati), uno dei quali
rimane ancora oggi senza soluzione, mentre un altro è stato
decriptato solo pochi mesi fa.
Zodiac uccise cinque persone in quattro agguati che videro
complessivamente coinvolte sette persone, quattro uomini e tre
donne; due di loro sopravvissero alle aggressioni. In verità al killer
dello Zodiaco sono state attribuite numerose altre vittime, senza
tuttavia che vi fossero prove sufficienti per confermarle.
Al di là del numero piuttosto esiguo di vittime e del tempo limitato
in cui ha colpito, Zodiac è stato uno dei serial killer più conosciuti e
temuti del ventesimo secolo. A far di lui quasi una tragica icona
popolare sono state soprattutto le numerose lettere inviate a
importanti giornali locali in cui sfidava, minacciava, derideva e
quasi giocava con gli inquirenti.
Nonostante le serrate indagini e i numerosi sospetti, ad oggi
l'identità dell'assassino rimane ancora sconosciuta. Forse questo è il
motivo per cui il nome di Zodiac è stato recentemente accostato a
quello del Mostro di Firenze.
Ma proviamo ad andare con ordine.
Il 6 giugno 1994 si presentò a deporre al Processo Pacciani l'ex
soldato americano Giuseppe Bevilacqua, detto Joe. Dopo aver
lasciato l'esercito, dal 1974 al tardo 1988 il Bevilacqua fu direttore
del cimitero militare statunitense dei Falciani, a San Casciano in Val
di Pesa. Il cimitero era estremamente vicino alla piazzola degli
Scopeti. Lo stesso Bevilacqua abitava in prossimità del cimitero,
dunque a una distanza di circa trecento metri in linea d'aria dalla
suddetta piazzola.
Durante la sua testimonianza a processo (vedasi la relativa
appendice), il Bevilacqua dichiarò fra le altre cose di aver visto
Pacciani, vestito da guardiacaccia o con abbigliamento simile,
aggirarsi sul luogo del delitto nei giorni in cui lo stesso ebbe luogo.
Fu obbiettivamente una strana deposizione quella del Bevilacqua,
abbastanza ricca di contraddizioni e incongruenze, in cui l'avvocato
difensore del Pacciani, Rosario Bevacqua, sembrò quasi accusare il
teste di poter avere a che fare con gli omicidi. Gli chiese infatti se
nel 1968 fosse stato in Italia, se avesse posseduto o possedesse armi,
fece notare alla corte l'estrema somiglianza con il Pacciani e in un
fuori onda si lasciò andare a un commento scherzoso "può essere lui
il mostro".
La testimonianza del Bevilacqua non fu comunque particolarmente
determinante per la condanna dell'imputato e la questione sembrò
terminare lì.
Tuttavia, circa ventiquattro anni dopo, precisamente nel maggio del
2018, il nome di Joe Bevilacqua tornò prepotentemente agli onori
della cronaca mostrologica quando un giovane
giornalista, Francesco Amicone, dichiarò in un lungo articolo su "Il
Giornale" di aver raccolto le confidenze dell'ex soldato
italoamericano, il quale gli avrebbe rivelato di essere stato sia
l'autore degli omicidi in California attribuiti a Zodiac sia di quelli in
Toscana attribuiti al Mostro di Firenze a partire da Rabatta nel 1974.
Le prime ammissioni sarebbero avvenute, stando a quanto
dichiarato dallo stesso Amicone, nel corso di una lunga telefonata
sopraggiunta al culmine di una serie di colloqui a casa dello stesso
Bevilacqua, in un paese della provincia fiorentina. A tale telefonata
sarebbe seguita la confessione vera e propria, durante la quale
Bevilacqua avrebbe sostenuto che, dopo tanti anni, gli inquirenti
americani non avrebbero potuto dimostrare chi fosse l'autore degli
omicidi commessi da Zodiac.
Sempre stando alle dichiarazioni di Amicone, lui avrebbe
consigliato al Bevilacqua di costituirsi ai carabinieri e di portare con
sé la pistola con cui avrebbe commesso i delitti attribuiti al Mostro
di Firenze.
Risulta facile capire come questa incredibile rivelazione, caduta
come un fulmine a ciel sereno, risolvesse due annosi e inestricabili
enigmi criminologici, l'identità di Zodiac e quella del MdF. Accolta
con un certo scetticismo da gran parte della comunità mostrologica,
a lungo sono state attese le prove promesse dall'Amicone che
attestassero senza ombra di dubbio le rivelazioni del Bevilacqua.
Prove (ovviamente) mai arrivate.
Inutile dire che non solo il Bevilacqua non si è mai costituito e non
ha mai portato agli inquirenti la famosa pistola del Mostro, ma
dopo l'esplosione medatica del caso (anche la trasmissione "Chi
L'ha Visto" su RaiTre se n'è occupata) minacciò di querela il
giovane Amicone. Non solo, pare che anche il difensore delle
vittime francesi, l'avvocato Vieri Adriani, avrebbe presentato un
esposto contro il giornalista per depistaggio delle indagini.
Negli ultimi tempi, infatti, le indagini in Procura si sarebbero
orientate in modo da far chiarezza su alcuni punti della vicenda.
Fonti giornalistiche (che, beninteso, potrebbero indubbiamente
lasciare il tempo che trovano) rivelano che la Procura di Firenze
avrebbe recentemente acquisito il DNA di Bevilacqua. L'ex direttore
del cimitero americano sarebbe inoltre già stato sottoposto a un test
su richiesta della Procura della Repubblica di Siena, nell' ambito
delle indagini sull'omicidio della tassista Alessandra Vanni, uccisa
nel 1997 a Castellina in Chianti. L'esito del test sarebbe stato
negativo.
Negli ambienti mostrologici la teoria Zodiac, accolta inizialmente
come la classica bufala estiva, ha catturato l'attenzione di qualche
studioso come Valeria Vecchione, la principale artefice delle
indagini condotte sulla busta inviata dal MdF alla dottoressa Della
Monica (vedasi il relativo capitolo), ma in generale è sempre stata
accolta con estremo scetticismo.
Gli indizi che hanno portato una sparuta parte dell'odierna
mostrologia a interessarsi alla pista Zodiac, a onor del vero al
momento ancora labili e aleatori, sarebbero:
▪ i messaggi cifrati inviati da Zodiac contenevano spesso
riferimento alla parola "acqua";
▪ l'articolo di giornale da cui erano state ritagliate la maggior parte
delle lettere utilizzate per comporre l'indirizzo sulla busta inviata
alla Della Monica, era intitolato "Cari dolce acque";
▪ abbiamo visto che la rivista da cui furono ritagliate le suddette
lettere era la numero 51 di "Gente", in edicola fra il 14 e il 20
Dicembre 1984; è risaputo che la data del 20 dicembre era una data
molto cara a Zodiac: il 20 dicembre del 1968 Zodiac commise il suo
primo omicidio; il 20 dicembre 1969 Zodiac spedì una lettera
all'avvocato Belli, in cui chiedeva aiuto e allegava un pezzo della
camicia di una sua vittima; pare che lo stesso Zodiac fosse nato il 20
dicembre;
▪ l'ultima comunicazione ufficiale inviata da Zodiac risaliva al luglio
del 1974; da quel momento in poi, dopo cinque lunghi anni di
intensa corrispondenza, di Zodiac si sarebbero perse tutte le tracce.
Due mesi dopo, il 14 Settembre 1974, prendeva vita la tragica
epopea del Mostro di Firenze con il delitto di Rabatta;
▪ le metodologie di attacco e le firme lasciate sui luoghi del delitto
da Zodiac e dal Mostro sembrano (a parere di chi segue questa
pista) piuttosto simili.
A onor del vero c'è da dire che questa è un indizio talmente labile
che non può neanche definirsi tale. Innanzitutto va precisato che
Zodiac non attaccava solo coppie appartate in auto, ma in
un'occasione uccise un tassista nella sua automobile. Inoltre in due
occasioni Zodiac non riuscì a concludere mortalmente il proprio
assalto, mancando di uccidere due delle vittime prescelte. Il Mostro
di Firenze ha sempre attaccato coppie appartate in auto o in tenda e
non ha mai lasciato in vita alcuna vittima, né alcuno scomodo
testimone. Il Mostro aveva una vera e propria firma, forse anche più
di una: sicuramente l'arma da fuoco, sempre la stessa dal 1968 al
1985; un'altra possibile firma (anzi secondo lo Spezi, la vera firma
del killer) è stata l'allontamento del cadavere dell'uomo da quello
della donna. Non risulta che gli omicidi di Zodiac siano stati
contraddisti da una metodologia e un'eventuale firma
inequivocabilmente riconducibile a lui;
▪ la registrazione del colloquio nel carcere di Pisa fra Mario Vanni e
Lorenzo Nesi (vedasi il relativo capitolo); in quell'occasione Vanni
rivelò al Nesi che l'autore dei delitti fosse un tale Ulisse,
l'americano. La Procura credette di individuare tale Ulisse nello
stilista americano Mario Robert Parker (vedasi capitolo Il secondo
livello), ma abbiamo già avuto modo di vedere come questa strada
difficilmente possa essere considerata quella giusta. I seguaci della
teoria Zodiac ritengono appunto che l'americano Ulisse fosse
proprio il Bevilacqua;
▪ infine, quando l'ex soldato si presentò a deporre al processo
Pacciani si era ben guardato dal dichiarare di essere stato un ex
sergente dell'esercito degli Stati Uniti con 20 anni di carriera alle
spalle e un turno di servizio in Vietnam. Al contrario si era
presentato semplicemente come ex direttore del cimitero dei
Falciani e, pressato dalle domande dell'avvocato Bevacqua, come ex
"poliziotto criminale". Questa omissione sul suo passato sembra
destare qualche dubbio all'interno della comunità mostrologica che
crede nella teoria Zodiac. Come se omettere di esser stato un reduce
del Vietnam potesse allontanare sospetti di qualsiasi tipo.
2.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:27
3.
Anonimo13 dicembre 2022 alle ore 06:29
19 Aprile 1994:
Giornata di apertura del dibattimento. I giudici popolari prestano
giuramento.
Vengono presentate le istanze di Parte Civile e, su opposizione del
collegio difensivo di Pietro Pacciani, vengono respinte le richieste di
parte civile degli eredi di Francesco Vinci.
21 Aprile 1994:
Relazione introduttiva del Pubblico Ministero Paolo Canessa. Il PM
dichiara che i referti parlano chiaramente di un unico serial killer
che ha effettuato tutti gli omicidi e tutte le escissioni. Descrive in
maniera sommaria gli indizi che gravano sulla testa del Pacciani,
soffermandosi anche sul quadro "Sogno di Fatascienza". Entra
infine nel dettaglio del delitto del 1968, sul perché - a parere
dell'Accusa - Stefano Mele ha mentito e non è colpevole di quel
delitto.
Svolgono le loro relazioni e presentano le loro richieste anche le
Parti Civili, nell'ordine: avvocato Santoni Franchetti; avvocato
Colao; avvocato Pellegrini; Avvocato Saldarelli; Avvocato Capanni.
Infine, la parola passa alla difesa per la relazione introduttiva e le
richieste di ammissione di prove e testimoni: parla prima
l'avvocato Pietro Fioravanti, quindi l'avvocato Rosario Bevacqua.
22 Aprile 1994:
Risposta della Corte per bocca del giudice Enrico Ognibene alle
richieste e alle istanze presentate da Pubblica Accusa, Parti Civile e
Difesa.
Nel pomeriggio si entra nel vivo del processo, partendo dal delitto
del 1968 con la testimonianza del colonello Olinto Dell'Amico,
chiamato a deporre sulle indagini condotte all'epoca dai carabinieri.
È durante questa testimonianza che l'avvocato Bevacqua fa
riferimento ai calzini a suo dire puliti del piccolo Natalino Mele.
Segue la deposizione del professor Biagio Montalto che si è
occupato delle analisi sul cadavere di Barbara Locci.
26 Aprile 1994:
L'udienza si apre con la richiesta dall'avvocato Aldo Colao di
ammettere a processo un teste che sosteneva di essere stato
aggredito da Pacciani nel 1978 dalle parti di Vicchio mentre era
appartato in automobile con la propria compagna. La richiesta non
viene accolta dalla corte.
Il PM Paolo Canessa continua con l'evoluzione cronologica dei
delitti. Il primo testimone a essere ascoltato è il dottor Massimo
Grazioso che si è occupato delle analisi sul cadavere di Antonio Lo
Bianco.
Al termine di questa deposizione, il PM comunica la sua decisione
di rinviare a data da destinarsi la testimonianza del generale
Matassino, in quanto la Parte Civile rappresentata dall'avvocato
Luca Santoni Franchetti ha chiesto che vengano chiamati a
deporre Stefano e Natalino Mele.
Il PM passa dunque al delitto del 1974 con la testimonianza
di Michele Falcone, all'epoca comandante della caserma di Borgo
San Lorenzo.
Segue la deposizione dell'ex maresciallo dei carabinieri Domenico
Trigliozzi, all'epoca di stanza a Borgo San Lorenzo. Da queste
ultime due deposizioni emerge poca chiarezza e ricordi piuttosto
confusi sul ritrovamento della borsa di Stefania. Secondo entrambi,
ad esempio, quando fu consegnata la borsa alla famiglia, non
mancava nulla fra gli effetti personali della ragazza. Cosa che poi si
appurerà non vera.
Segue infine la deposizione del medico legale, dottor Mauro
Maurri, che ha esaminato i cadaveri di entrambe le vittime.
27 Aprile 1994:
Viste le incertezze emerse il giorno precedente riguardo il
ritrovamento della borsa, vengono ascoltati in aula l'ex
brigadiere Mario Sciarra e la signora Bruna Bonini, mamma di
Stefania Pettini.
Emerge dalla testimonianza della Bonini che la borsa di Stefania era
stata restituita alla famiglia molto tempo dopo il duplice omicidio
(la donna parla di anni), mentre non furono mai restituiti i gioielli
(braccialetti, catenina d'argento, portafogli e orologio). Vestiti e
documenti erano invece stati regolarmente restituiti.
Viene successivamente ascoltato nuovamente l'ex comandante della
caserma di Borgo, Michele Falcone, il quale relaziona sulla sua
conoscenza con l'imputato Pietro Pacciani e sulla vicinanza fra il
luogo dove aveva vissuto Pacciani (podere del signor Cesari a Badia
a Bovino, frazione di Vicchio) e i luoghi dei delitti del 1974 e del
1984.
Al termine, viene chiamato a deporre l'ex maresciallo dei
carabinieri, Pietro Frillici, che rende dettagliata testimonianza sulle
residenze di Pietro Pacciani nel corso degli anni: Pacciani vive dalle
parti di Ampinana dalla nascita fino al 1951, anno dell'omicidio
Bonini; dal 1951 al 1964 è in carcere; dal 1964 al 1970 vive a Vicchio;
dal 1970 al 1973 vive alla Rufina; nel 1973 emigra a San Casciano.
Si passa al duplice omicidio di giugno del 1981. Il primo testimone
a deporre è l'ex brigadiere della Pubblica Sicurezza, Vittorio
Sifone, colui che ha trovato i corpi dei ragazzi uccisi a Mosciano di
Sacndicci.
Si succedono dunque sul banco dei testimoni: l'ispettore di
polizia Giovanni Autorino, che eseguì i rilievi tecnici dell'omicidio;
il sovrintendente di polizia Giovanni Libertino, che intervenne sul
posto per eseguire le foto; l'ex funzionario di polizia Nunzio
Castiglione; i medici legali, dottor Mauro Maurri e dottor Aurelio
Bonelli (colui che intervenne direttamente sul luogo del delitto);
infine il generale Ignazio Spampinato, esperto balistico che eseguì
le analisi sui bossoli rinvenuti sul luogo e sulle similitudini con i
bossoli repertati nel 1974.
28 Aprile 1994:
L'udienza si apre con l'analisi del duplice omicidio di Calenzano
(Ottobre 1981). Il primo testimone chiamato a deporre è Dino
Salvini, maresciallo dei carabinieri e comandante della caserma di
Calenzano.
Seguono le testimonianze di Vittorio Trapani, comandante del
nucleo operativo della compagnia di Prato, e quelle di Mario
Balanzano e Claudio Valente, della polizia scientifica.
Tocca dunque al medico legale che eseguì i rilievi sui cadaveri,
dottoressa Maria Grazia Cucurnia, quindi nuovamente al
generale Ignazio Spampinato, il quale disserta egregiamente sulla
tipologia di pistola con cui il MdF ha effettuato le sue azioni
delittuose. Il generale precisa che esistono alcuni modelli di Beretta
Calibro 22 Long Rigle Serie 70 che possono contenere nel proprio
caricatore 10 proiettili più uno eventualmente in canna, per un
totale di 11 proiettili. Segue la testimonianza del funzionario di
polizia Nunzio Castiglione che completa la dissertazione sull'arma
del generale Spampinato.
Al termine di questa deposizione, l'avvocato Rosario
Bevacqua chiede alla corte che vengano ammessi a deporre Enzo
Spalletti, la moglie e suo fratello Dino. Le parti civili si dicono
remissive, la Pubblica Accusa si dichiara anch'essa remissiva ma
esprime profondo scetticismo sull'utilità di queste testimonianze.
La Corte respinge la richiesta della Difesa.
Il PM passa quindi a trattare il duplice delitto di Baccaiano di
Montespertoli (Giugno 1982). Il primo testimone a deporre sul
nuovo fatto di sangue è il tenente colonnello dei carabinieri Silvio
Ghiselli, all'epoca dei fatti comandante della compagnia di Signa,
sotto la cui giurisdizione ricadeva il luogo del delitto.
Segue la deposizione del dottor Giuseppe Grassi, all'epoca dei fatti
dirigente della Squadra Mobile di Firenze. Il Grassi afferma che sin
dal 1981 era stata costituita una squadra diretta dal dottor Sandro
Federico che si interessava prevalentemente di questo tipo di delitti.
Ultimo testimone della giornata è il già ascoltato colonnello Olinto
Dell'Amico, intervenuto sul luogo del delitto di Baccaiano dopo la
mezzanotte. Al colonnello Dell'Amico l'avvocato Bevacqua chiede
se ricorda se subito dopo l'omicidio furono perquisiti due noti
medici, a suo dire uno della zona di Empoli, l'altro della zona di
Firenze. Il colonnello risponde che lui ricorda della perquisizione a
un solo medico.
29 Aprile 1994:
Continuano le deposizioni inerenti al duplice omicidio di Baccaiano
(giugno 1982). Intervengono nell'ordine: Sergio Spinelli, cine-foto-
segnalatore addetto ai sopralluoghi, il dottor Riccardo Cagliesi
Cingolani e la dottoressa Laura Parrini, entrambi medici legali che
hanno eseguito le analisi sui cadaveri.
Successivamente il PM passa ad analizzare il delitto di Giogoli,
chiamando nell'ordine l'ispettore di polizia Giovanni Autorino, che
aveva eseguito i rilievi sul luogo del delitto, il perito della polizia
scientifica Giovanni Iadevito, che si era occupato della perizia
balistica comparativa sui bossoli del delitto di Giogoli, l'allora
maresciallo dei Carabinieri, Giuseppe Storchi, fra i primi ad
arrivare sul luogo del delitto, infine l'allora maresciallo dei
carabinieri Giovanni Leonardi, sottoufficiale addetto al Nucleo
Operativo del gruppo Carabinieri di Firenze. Quest'ultima
testimonianza è passata a suo modo alla storia come chiara
dimostrazione dell'inefficienza delle forze dell'ordine di fronte ai
delitti del MdF. Emergono infatti pienamente la superficialità con
cui furono fatti i rilievi a seguito di questo omicidio (misurazioni
prese ad occhio a detta dello stesso maresciallo), la totale mancanza
di un cordone di sicurezza che tenesse lontano i curiosi (famosa la
battuta del presidente Ognibene: "Maresciallo, mancavano i brigidini e
poi era la fiera all'Impruneta"), infine forse per la prima volta risulta
evidente il nervosismo del PM Canessa che, di fronte alla quasi
totale mancanza di ricordi del testimone il quale però sembrava
ricordare benissimo che dalla radio del furgone dei tedeschi usciva
una canzone di Sting, tanto da ripeterlo più volte, sbotta: "Sì.
Capisce che in questo momento, maresciallo, è l'ultima cosa che a noi
interessa del suo ricordo, lo capisce anche lei?"
L'ultima testimonianza della giornata è quella del medico legale,
dottor Mauro Maurri, sempre inerente al delitto di Giogoli.
2 Maggio 1994:
Il PM passa ad analizzare il delitto del 1984 alla Boschetta di
Vicchio. Forniscono testimonianza nell'ordine:
il maresciallo Michele Polito, che all'epoca comandava la stazione
dei carabinieri di Vicchio ed era stato il primo fra le forze
dell'ordine ad arrivare sul luogo del delitto; il colonnello Emanuele
Sticchi dell'arma dei carabinieri, primo ufficiale a intervenire sul
luogo del delitto. Questa testimonianza è particolarmente
significativa perché l'avvocato Bevacqua introduce per la prima
volta la vicenda Bardazzi, parlando del misterioso individuo visto
al bar e che - secondo le parole del Bevacqua - sembrava essere stato
visto anche qualche tempo prima proprio nel bar dove lavorava Pia
Rontini.
Seguono le deposizioni dell'ormai ricorrente ispettore di
polizia Giovanni Autorino, dell'allora sovrintendente di
polizia Giovanni Libertino, entrambi intervenuti a fare rilievi sul
luogo del delitto, infine del medico legale, dottor Franco Marini.
3 Maggio 1994:
Udienza che si apre con l'intervento del dottor Mauro Maurri,
medico legale, sempre per il delitto di Vicchio.
Si passa successivamente al delitto nella piazzola degli Scopeti
(Settembre 1985). Depone per primo il maresciallo Vincenzo
Lodato, ex comandante della caserma dei carabinieri di San
Casciano. Lodato fu anche colui che ricevette la lettera anonima che
segnalava alle autorità per la prima volta il nome di Pacciani e che
si incaricò di effettuare la perquisizione a casa del contadino in data
19 settembre. Questa è la famosa udienza in cui c'è il diverbio fra
Pacciani e Canessa sulla data di tale perquisizione.
Seguono le deposizioni del solito ispettore Giovanni Autorino e
nuovamente del dottor Mauro Maurri, a lungo interrogato da
Bevacqua sulla complicata dinamica del delitto degli Scopeti e sulla
eventuale data della morte dei due francesi. In questo momento
ancora nessuno sembra mettere in dubbio che l'8 settembre sia la
data più probabile della morte, come dichiarato da Maurri.
Finisce con questa udienza l'excursus storico degli 8 duplici omicidi
commessi dal MdF.
23 Maggio 1994:
Giornata importante per il processo.
L'udienza si apre con l'autorizzazione alla perizia da parte del
giudice Ognibene per valutare l'altezza del Pacciani e l'ipotetica
altezza che l'imputato aveva 11 anni prima, vale a dire nel 1983, in
occasione del delitto di Giogoli. Il PM Canessa depone agli atti un
documento del carcere Don Bosco di Pisa dove era detenuto
Pacciani per la violenza alle figlie, in cui si attesta che nel 1987
l'imputato era alto 169 centimetri.
Successivamente c'è la richiesta del PM Canessa di consegnare alla
corte il fascicolo del delitto del 1951 commesso da Pacciani ai danni
di Severino Bonini e di proiettare in aula le foto della vittima e del
luogo del delitto. Richiesta che viene respinta dalla corte; la
sentenza di quel delitto risulta comunque depositata agli atti.
A seguire l'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti chiede
che venga analizzata la rivista pornografica trovata nei pressi del
furgoncino dei tedeschi in occasione del delitto del 1983, giudicata
importante ai fini del processo.
Si passa poi con i testimoni della Pubblica Accusa. Il primo a sedersi
sul banco è Ruggero Perugini, ex capo della SAM e più grande
accusatore di Pietro Pacciani. Durante la sua lunghissima
deposizione, Perugini illustra come e perché la SAM sia arrivata a
indagare su Pietro Pacciani. Non parla ancora degli indizi che
hanno portato al Processo, ma semplicemente dell'excursus storico
seguito dalle indagini per arrivare a puntare i riflettori sull'attuale
imputato.
A quella di Perugini, segue un'altra storica testimonianza: arriva
infatti per la prima volta a deporre Lorenzo Nesi, ex amico del
Pacciani, che interloquisce sulla sua conoscenza con l'imputato e
dichiara che questi andava regolarmente a caccia e si vantava di
sparare ai fagiani. Durante questa testimonianza vien fuori per la
prima volta il nome di Mario Vanni, definito semplicemente un
amico intimo del Pacciani; inoltre viene citata per la prima volta la
famosa lettera che dal carcere Pacciani scrisse al Vanni.
24 Maggio 1994:
Comincia la sfilza di testimonianze degli abitanti di San Casciano. Il
primo a testimoniare è Emilio Calosi, conoscente e collega di
Pacciani presso la tenuta Rosselli Del Turco. Seguono le
testimonianze di Walter Ricci e di sua moglie Laura Mazzei,
quest'ultima cugina di Mario Vanni. Queste tre testimonianze sono
tese a dipingere su Pacciani il quadro di un uomo violento, avvezzo
all'uso di armi, che teneva in soggezione l'intera sua famiglia.
È il turno quindi dei tre periti designati dal giudice Ognibene per il
calcolo dell'altezza del Pacciani, Carlo Fazzari, Bruno
Chiarelli, Mario Cianciulli. Questi accettano l'incarico prendendosi
due settimane di tempo prima di depositare la perizia.
Segue la drammatica, ma nel contempo grottesca e a tratti persino
ridicola, testimonianza della signora Maria Antonietta Sperduto,
moglie di Renato Malatesta e amante del Pacciani. È durante questa
testimonianza che il Pacciani prorompe nelle ormai storiche
dichiarazioni divenute tormentoni del web: "...puzzava di volpe come
una bubola..."; "...poi siccome ballavano un tango lei ballava il salto di
capretto...".
Seguono infine le testimonianze dei due figli della Sperduto ancora
vivi, Laura Malatesta e Luciano Malatesta (Milva Malatesta era
stata assassinata nell'agosto dell'anno prima).
25 Maggio 1994:
È la giornata delle drammatiche deposizioni delle due figlie del
Pacciani, prima Graziella, poi Rosanna. Estremamente difficili e a
tratti toccanti le suddette testimonianze. Tocca poi alla moglie
dell'imputato, Angiolina Manni, la quale però rifiuta di fornire
dichiarazioni e viene subito accompagnata fuori.
È il turno quindi di Romano Pierini, abitante di San Casciano, il
quale rende testimonianza riguardo un'esperienza vissuta sul finire
degli anni '70 (il teste parla di 1978 o 1979) mentre era in macchina
appartato con la propria compagna di allora nella piazzola degli
Scopeti: la coppia fu vittima delle attenzioni di un guardone
appiccicato al vetro della macchina, che il Pierini stesso riconobbe
in Pietro Pacciani.
Dopo la testimonianza del Pierini, tocca alla sua compagna
dell'epoca, nonché attuale moglie, la signora Daniela Bandinelli,
rendere testimonianza e confermare grosso modo le dichiarazioni
del marito. Da notare che la moglie non riconobbe nel guardone
l'imputato Pacciani.
26 Maggio 1994:
Continuano le testimonianze degli abitanti di San Casciano.
Nell'ordine si siedono a deporre:
Gina Cengin, vicina di casa di Renato Malatesta e della Sperduto,
che conferma le soventi visite del Pacciani e del Vanni nella casa
della signora Maria Antonietta.
Rolando Castrucci, titolare di un'impresa di costruzioni che aveva
fatto dei lavori a casa di Pacciani per ordine del marchese Rosselli.
Il Castrucci sostiene che in quell'occasione il Pacciani gli mostrò una
pistola.
Mario Lasagni, vicino di casa del Pacciani, la cui testimonianza
conferma lo stato di profonda soggezione in cui vivevano moglie e
figlie del Pacciani.
Tocca quindi a Mario Vanni, il grande amico di Pietro Pacciani.
Una testimonianza cardine questa, perché il Vanni si mostra
chiaramente reticente, facendo convergere i sospetti degli inquirenti
su di lui. Storici, oltre che l'esordio del Vanni (da cui nacque la
famosa locuzione "I compagni di merende"), anche altri passaggi
chiave della deposizione, come l'ira del presidente Ognibene a
proposito delle omissioni del Vanni sulla lettera che Pacciani gli
aveva spedito dal carcere.
Infine è la volta di Giovanni Faggi, amico del Pacciani, residente a
Calenzano. Il Faggi nega una profonda conoscenza col Pacciani,
dichiarando di averlo visto esclusivamente due volte, la prima in
un ristorante di Scarperia dove si conobbero, la seconda quando
andò a casa del Pacciani e gli regalò una tuta. Il Faggi nega
categoricamente anche di aver mai frequentato casa della Sperduto
o la Cantinetta a San Casciano.
30 Maggio 1994:
Continuano anche in questa giornata le testimonianze degli abitanti
di San Casciano. Nell'ordine si siedono a deporre:
Paola Lapini, anche lei vittima delle attenzioni di un guardone
attorno al maggio del 1981, mentre era appartata in automobile con
un uomo in una piazzola poco distante da quella dove sarebbe
avvenuto il duplice omicidio degli Scopeti. La donna sostiene che il
guardone fosse proprio Pietro Pacciani.
Benito Acomanni, che dichiara di aver scorto nell'inverno a cavallo
fra il 1980 e il 1981 il Pacciani intento nella sua attività di guardone
mentre lui era appartato sul suo furgone con una signorina dalle
parte di Crespello, in via di Luiano. Acomanni si mostra dotato di
una memoria prodigiosa (dichiarando di essere
soprannominato Pico della Mirandola), nonché - a suo dire –
esperto in topografia, tanto da fornire dati e coordinate decisamente
esagerate considerato il contesto e suscitando finanche l'ilarità dei
presenti all'udienza. Fra le altre cose che il colorito personaggio
sostiene, è quella di essere il miglior venditore di auto della
provincia di Firenze, dicendosi pronto a sostenere qualsiasi
confronto in merito.
Claudio Pitocchi, proprietario di una FIAT 131, targata FI F773759.
Tale numero di targa era stato trovato su un foglietto fra gli appunti
del Pacciani, sotto la dicitura "COPPIA". Indagando, gli inquirenti
avevano scoperto che l'automobile apparteneva proprio al Pitocchi,
il quale attorno al 1987 era solito appartarsi in auto con varie
ragazze dalle parti di Mercatale, non distante dall'abitazione del
Pacciani. Il Pacciani si era giustificato sostenendo di aver notato più
volte quella macchina appartata e di essersi segnato la targa per
avvisare la coppia di stare attenti perché quella era zona
frequentata dal cosiddetto mostro. Durante la sua deposizione, il
Pitocchi conferma quanto rinvenuto dagli inquirenti, dichiarando
appunto di aver avuto quell'automobile negli anni '80 e di essersi
appartato diverse volte in zona Mercatale.
Scilla Lapini, compagna del Pitocchi, conferma grosso modo le
dichiarazioni del precedente testimone dichiarando di essere stata
la sua ragazza nel 1987 e di essersi appartata alcune volte con la 131
dalle parti di Mercatale, non lontano da casa del Pacciani, zona in
cui ella stessa abitava.
Marcello Fantoni, meccanico di San Casciano e residente a
Mercatale di fronte casa del Pacciani. La testimonianza del Fantoni
nasce dal fatto che Pacciani aveva sostenuto di essere stato alla festa
dell'Unità a Cerbaia la sera dell'8 settembre 1985 (considerata
all'epoca la data del duplice omicidio dei francesi a Scopeti) e
attorno alle 21.30 di essere rimasto in panne con la macchina (la
Ford Fiesta), tanto da aver avuto bisogno dell'intervento del Fantoni
che stava mangiando a un tavolo vicino.
Durante la sua deposizione il Fantoni dichiara però di non essere
mai andato alla festa dell'Unità di Cerbaia, inoltre di aver riparato
solo una volta una macchina al Pacciani, per la precisione la 500,
che aveva i fili dell'accensione invertiti.
Ultima deposizione della giornata è quella di Floriano DellI, ex
impiegato di banca, che aveva affittato assieme ad alcuni amici una
parte di casa colonica a Mercatale, accanto a casa del Pacciani, dove
andava a trascorrere i weekend estivi con la famiglia. Durante la
sua deposizione il Delli racconta del cane affidato al Pacciani e
lasciato morire di percosse, inoltre parla dello stato di soggezione in
cui vivevano moglie e figli.
Nota Bene: In quel momento ancora nessuno sa che era stato
proprio il Delli nel 1985 a inviare la lettera anonima che aveva
portato Pacciani sotto la lente degli inquirenti.
31 Maggio 1994:
Continuano le deposizioni dei conoscenti del Pacciani. Nell'ordine
rendono testimonianza:
Luigi Caioli, il quale riferisce di conoscere un certo Luca Iandelli
che, appartato in auto con una donna presso il cimitero di San
Casciano attorno al 1986, era stato oggetto di attenzioni da parte di
un guardone che aveva un braccio fasciato e una pistola nell'altra
mano. Lo Iandelli, spaventato, era fuggito, per poi notare il giorno
dopo il Pacciani con un braccio fasciato. A quel punto, l'uomo lo
aveva spontaneamente collegato al guardone della sera prima. Lo
Iandelli aveva poi raccontato questo episodio al Caioli, il quale di
fronte alla reticenza dello Iandelli stesso di parlarne con gli
inquirenti, aveva deciso di presentarsi spontaneamente in Procura
per raccontare l'episodio.
Franco Lotti, medico curante del Pacciani, chiamato a testimoniare
sullo stato di salute dell'imputato.
Francesco Lotti, marito di Antonella Salvadori, la donna che da
giovane era stata in macchina con Luca Iandelli ed entrambi erano
stati spaventati da un guardone con un braccio fasciato e una
presunta pistola nella mano.
Antonella Salvadori, la quale conferma grosso modo quanto
riportato sia dal Luigi Caioli, sia dal marito Francesco Lotti, circa la
sua disavventura con il guardone dal braccio fasciato. La Salvadori
precisa che lo Iandelli aveva riconosciuto nel guardone il Pacciani.
Luca Iandelli, finalmente interrogato, smentisce clamorosamente
tutti, confermando sì l'episodio col guardone del 1986, ma
dichiarando di non aver mai riconosciuto in costui il Pacciani, né
quella sera, né tantomeno il giorno successivo.
A quel punto, il PM chiede un confronto pubblico fra il Caioli, la
Salvadori e lo Iandelli in data da destinarsi.
Angelica Scardigli, la quale nel 1986 assieme a un gruppo di amici
aveva preso in affitto la casa del Pacciani in via Sonnino per
utilizzarla come sala prove del suo gruppo musicale. La Scardigli
parla del quadro "Sogno di Fatascienza" e di altri quadri trovati in
casa del Pacciani.
Vengono dunque chiamati a testimoniare Tiziano
Pieraccini e Marco Paolini, altri due ragazzi del gruppo che aveva
preso in affitto la casa.
Giunge quindi il turno di Lucia Mecacci, la quale abitava in piazza
del Popolo 5 a Mercatale, esattamente sopra il Pacciani. La Mecacci
racconta di aver visto all'alba di un giorno di dicembre del 1991 il
Pacciani e l'Angiolina uscire di casa con uno strano fagotto sulle
spalle, quindi dirigersi silenziosamente verso i cassonetti per
andare a buttarlo. La donna poi passò dal cassonetto e tastò il
fagotto senza riuscire a capire cosa contenesse.
Santina Lalletti, mamma della Mecacci, conferma sostanzialmente
il racconto della figlia.
Alessandro Gazziero, figlio di Afro Gazziero, presso cui il Pacciani
aveva lavorato sia a Mercatale sia dalle parti di Calenzano. Il
ragazzo smentisce di essere mai stato possessore della pistola di
tipo scacciacani rinvenuta dal Vanni nell'automobile del Pacciani.
Elena Betti, fisioterapista che ha abitato in affitto nella casa del
Pacciani in via Sonnino. La donna riferisce sia del quadro "Sogno di
Fatascienza", sia delle sere in cui il Pacciani, ubriaco, tentava di
importunarla. La sensazione, tuttavia, è che la donna avesse vissuto
quei momenti senza troppa apprensione, ma quasi con un misto fra
ilarità e compassione.
1 Giugno 1994:
L'udienza si apre con l'intervento del PM Canessa che riporta
alcune novità recentemente apprese e così riassumibili: una coppia
(Giampaolo Cairoli e Emanuela Consigli) si era presentata in
Procura dichiarando di conoscere un guardacaccia di Vicchio di
nome Gino Bruni, il quale durante un colloquio privato avrebbe
loro dichiarato che Pacciani possedeva con certezza una Beretta
Calibro 22. Il PM invita, dunque, la corte ad ammettere i nuovi
importanti testimoni. La corte acconsente e vengono dunque subito
ascoltati la signora Emanuela Consigli e suo marito Giampaolo
Cairoli. Entrambi confermano per filo e per segno quando riportato
da Canessa. Si stabilisce dunque di convocare il guardacaccia Bruni
per ascoltarlo personalmente come teste.
A queste due testimonianze segue quella contradditoria
di Vincenzo Trancucci, spazzino di San Casciano, e compagno per
un breve periodo della Maria Antonietta Sperduto. Trancucci
accusa Pacciani di essere un noto guardone, tuttavia la sua
testimonianza si rivela profondamente inattendibile. L'avvocato
Bevacqua fa anzi notare la grave contraddizione fra il verbale stilato
dalla polizia e firmato dal Trancucci (il quale comunque non sapeva
né leggere né scrivere), in cui il teste dichiarava di conoscere
personalmente il Pacciani e quanto invece dichiara in udienza e cioè
di non conoscere il Pacciani, addirittura di non averlo mai visto in
vita sua.
Segue la deposizione di Orlando Celli, abitante in via di Giogoli,
vicino al luogo dell'omicidio del 1983, che il sabato mattina 10
settembre (l'omicidio era avvenuto il venerdì sera) aveva notato un
uomo e un ciclomotore vicino al furgone.
Seguono una serie di brevi testimonianze relative alla visita
della "Vicchio Folk Band" (di cui faceva parte anche Pia Rontini) a
Mercatale nel settembre del 1983.
Le testimonianze di Liliana Benvenuti, Marzia Sottili, Monica
Giovanetti, Renato Giovanetti, Laura Materassi, Enzo Materassi,
indicano univocamente che Pia quel giorno era a Mercatale con la
banda e ad assistere all'esibizione c'era pure Pacciani che offrì del
vino ai musicanti.
Segue la breve deposizione di Rosa Fontani, che nel 1951 aveva un
trattoria a Vicchio e parla sommariamente di Pacciani ai tempi di
quel delitto della Tassinaia.
Tocca quindi ad Amelia De Giorgio, abitante a Giogoli nel 1983,
che parla del ciclomotore lasciato all'interno del cortile della villa La
Sfacciata nei giorni precedenti all'omicidio.
Seguono le deposizioni di Tiziana Battoli e Nicoletta Fantappiè,
due ragazze che un giorno di aprile del 1992 (quattro, cinque giorni
prima della grande perquisizione), mentre facevao footing avevano
incontrato Pacciani seduto sul ciglio della strada dalle parti di
Crespello, che armeggiava con le mani su qualcosa di non
identificato. Il luogo era pressocché quello in cui sarebbe stata
ritrovata la famosa asta guida-molla, poi fatta pervenire in forma
anonima alla caserma dei carabinieri di San Casciano.
Tocca dunque a Vito Gusmano, compagno di cella di Pacciani a
Solliciano che parla dei disegni dell'imputato.
Infine è il turno di Afro Gazziero, datore di lavoro di Pacciani a
partire dal 1982. L'imprenditore parla degli impegni lavorativi
dell'imputato, dell'incendio alla sua azienda sita in Calenzano, del
quadro "Sogno Di Fatascenza" e infine della famosa scacciacani che
Pacciani avrebbe eventualmente sottratto ai figli del Gazziero stesso
e che Vanni avrebbe successivamente notato nel cassetto porta-
oggetti dell'automobile del Pacciani.
6 Giugno 1994:
Si presentano a rendere testimonianza nell'ordine: Luigi
Ciani e Gherardo Gherardi, entrambi ottici di San Casciano,
chiamati a testimoniare sulla nota scritta dal Pacciani sul taccuino
Skizzen Brunnen, relativa a una visita agli occhi e all'acquisto di un
paio di lenti. Entrambi negano che Pacciani fosse mai stato loro
cliente.
Nilo Donati, istruttore di scuola guida di San Casciano, anche lui
chiamato a testimoniare circa le visite sostenute dal Pacciani.
Palmerio Metaponti, originario di Vicchio e dunque conoscente di
Pacciani, marito di Iris Martelli la cui sorella aveva sposato il
fratello di Miranda Bugli. In udienza dichiara che intorno a marzo
del 1986 il Pacciani si era presentato inaspettatamente a casa sua,
per chiedere a lui e alla moglie dove abitasse ora la Bugli. Secondo
il Metaponti, sua moglie rispose di non saperlo precisamente ma
che la Bugli abitava circa dalle parti di Montelupo Fiorentino.
Iris Martelli, moglie del Metaponti e parente acquisita della Bugli,
la quale smentisce il marito e dichiara di non aver mai sentito dal
Pacciani, durante la famosa visita del marzo 1986, domande circa
l'abitazione della Bugli. I due test, marito e moglie, si contraddicono
reciprocamente nel giro di pochi minuti.
Franco Lotti, medico curante del Pacciani, già ascoltato in
precedenza. Anch'egli depone in merito ad eventuali visite
oculistiche sostenute dal Pacciani per il rinnovo della patente.
Seguno alcune testimonianze di notevole importanza.
La prima è quella di Giuseppe Bevilacqua, detto Joe, custode del
cimitero dei Falciani, a poche centinaia di metri in linea d'area dalla
piazzola degli Scopeti. In una controversa e storica deposizione
(vedasi capitolo Mostrologia minore) il Bevilacqua dichiara di aver
visto Pacciani, vestito da guardiacaccia o con un abbigliamento
simile, aggirarsi sul luogo del delitto nei giorni in cui lo stesso ebbe
luogo.
Edoardo Iacovacci, agente della Digos, dichiara che la mattina di
sabato 7 settembre 1985 si fermò con la propria automobile alla
piazzola degli Scopeti, vide la tenda dei francesi e poco dopo un
uomo giunto in loco su un motorino che si muoveva fra le frasche
con modo di fare da guardone. In tale guardone riconobbe le
fattezze di Pietro Pacciani.
Bruna Vieri, conoscente della figlia Graziella di Pietro Pacciani, cui
aveva regalato il lenzuolo su cui in seguito era stata avvolta l'asta
guida-molla.
Igino Borsi e Paolo Bonciani, che nel 1985 gestivano il bar
"Pensione agli Scopeti" e confermano quanto dichiarato all'epoca
del delitto. Entrambi sostengono aver servito la mattina di
domenica 8 settembre 1985 una ragazza francese simile alla foto che
era stata loro mostrata di Nadine Mauriot; la ragazza era poi salita
su un'automobile con targa francese. Da notare che durante la
deposizione il Bonciani parla di una automobile Renault 4 e il PM
Canessa fa subito notare che nella deposizione di dieci anni prima
aveva invece parlato di una Volkswagen Golf.
7 Giugno 1994:
Vengono ascoltati in udienza nell'ordine:
Antonello Frongia, agente di polizia che aveva eseguito i rilievi
planimetrici di Villa La Sfacciata e dei relativi cancelli d'ingresso.
Adriana Sbraci, ex moglie di Franco Martelli, proprietario di Villa
La Sfacciata. Nel 1983 la signora viveva proprio a La Sfacciata e
testimonia a proposito di un motorino notato nei giorni
immediatamente precedenti all'omicidio all'interno dei cancelli
della villa; motorino che l'Accusa ritiene di proprietà del Pacciani.
Miranda Bugli, ex fidanzata del Pacciani e sua correa nel 1951
nell'omicidio del Bonini. Dichiara di aver visto Pacciani dai tempi
del delitto della Tassinaia una sola volta nel 1969: se lo ritrovò
davanti alla porta di casa, scambiarono due chiacchiere veloci e non
lo rivide mai più. Dichiara anche di essere solo molto
superficalmente informata dell'omicidio del 1968 a Signa, sebbene
vivesse a poca distanza dall'abitazione del Lo Bianco, perhcé in quei
giorni era in vacanza al mare.
Giuseppe Di Bella, brigadiere dei carabinieri di stanza a San
Casciano dal 1958 al 1989, depone a proposito della richiesta
inoltrata da Pacciani per la licenza di caccia. Interrogato
dall'avvocato Bevacqua, confermerà di non avere notizie che
Pacciani girasse di notte e svolgesse attività di guardone.
Gianfranco Bruci, idraulico di San Casciano, depone circa
l'eventuale acquisto di Pacciani di uno sportello del gas, come
riportato dall'imputato negli appunti ritrovati sull'album da
disegno Skizzen Brunen.
Chiudono la giornata di udienza i periti chiamati dalla Corte a
relazionare sull'altezza del Pacciani e sull'ipotetica altezza che
questi aveva nel 1983, in occasione del delitto di Giogoli.
Depongono in merito i dottori Carlo Fazzari, Brunetto
Chiarelli e Mario Cianciulli.
8 Giugno 1994:
Giornata importante per le sorti del Processo. Depongono
nell'ordine:
Gino Bruni, l'anziano guardiacaccia che, secondo la testimonianza
dei coiniugi Cairoli e Consigli del 1 giugno, aveva dichiarato che
Pacciani possedeva una Beretta Calibro 22. Il Bruni nega
decisamente di aver mai proferito tale affermazione, anzi sostiene
di non essere a conoscenza di una pistola posseduta dall'imputato.
Si scopre durante qesta deposizione che tra la fine degli anni '60 e
l'inizio degli anni '70 il Bruni era stato violentemente picchiato dal
Pacciani, tanto da riportare lesioni che l'avevano obbligato a un
lungo ricovero in ospedale. Secondo il Bruni, l'aggressione da parte
del Pacciani era avvenuta perché lo aveva scoperto a cacciare di
frodo; secondo il Pacciani l'aggressione era avvenuta perché il Bruni
aveva insidiato sua moglie, Angiolina. Il Bruni non aveva mai fatto
menzione di tale aggressione e anche in ospedale aveva dichiarato
di essere caduto da un albero, per paura del Pacciani.
Segue un serrato confronto fra il Bruni e Giampaolo Cairoli, in cui
ognuno rimane delle proprie posizioni. Il Cairoli sostiene di aver
udito dal Bruni l'affermazione circa la pistola del Pacciani. Il Bruni
ribadisce la sua estraneità a tali discorsi. Interviene il giudice
Ognibene durante questo confronto che, piuttosto infervorato,
accusa il Bruni di mentire e lo invita a dire la verità.
Ovviamente le parti si dividono: Canessa ritiene che Bruni menta
perché è ancora terrorizzato dal Pacciani; Bevacqua sostiene che
Bruni, ultra-ottantenne e malato terminale per un tumore alla
prostrata, avrebbe finalmente l'occasione per vendicarsi del
Pacciani senza poter temere nessun tipo di ritorsione, dichiarando
che l'imputato possedeva effettivamente la Beretta Calibro 22.
Dunque, secondo Bevacqua, se Bruni non effettua questa
dichiarazione è perché non vuole dire il falso in punto di morte.
Al termine di questo serrato confronto, è la volta di un'altra storica
deposizione, quella di Lorenzo Nesi che, per la seconda volta, si
siede sul banco dei testimoni. Il Nesi è tornato per dire che la sera di
domenica 8 settembre 1985 verso le ore 23:00 su via degli Scopeti
aveva incrociato l'automobile del Pacciani, al cui interno vi era il
Pacciani stesso e un altro uomo che non era riuscito a identificare. Il
Nesi sostiene di non aver fatto mai menzione in precedenza di
questo incontro perché non aveva mai dato particolare peso
all'episodio; ma dopo che Pacciani aveva finto di non conoscerlo in
occasione della sua precedente testimonianza in aula, aveva
pensato che l'atteggiamento del Pacciani fosse stato proprio dettato
da quell'incontro che evidentemente l'imputato giudicava
estremamente compromettente. Sulla base di questo ragionamento
un po' contorto e di un discorso probabilistico poco comprensibile
in cui il Nesi si avventura, aveva dunque deciso di riferire in
udienza di questo incontro.
Risulta questa una delle deposizioni più controverse dell'intero
dibattimento, densa di momenti emotivamente carichi di tensione,
ma anche piuttosto ridicoli, soprattutto nei serrati battibecchi fra il
Nesi stesso e l'avvocato Bevacqua. Al termine di questa
deposizione, il Nesi querelerà l'avvocato.
Chiude la giornata dibattimentale la signora Bruna Arcusi, abitante
di Vicchio, che depone sulla visita della banda di Vicchio a
Mercatale.
13 Giugno 1994:
Udienza che si apre con la richiesta dell'avvocato Bevacqua di
reperire i tabulati ANAS relativi alla chiusura della superstrada
Firenze-Siena la sera del delitto agli Scopeti, come precedentemente
dichiarato da Lorenzo Nesi. Richiesta che viene accolta dalla corte.
Successivamente prestano testimonianza:
Antonio Andriaccio, cognato di Maria Antonietta Sperduta (marito
della sorella), il quale nega categoricamente di aver mai conosciuto
Pacciani.
Maria Mugnaini, cognata di Maria Antonietta Sperduta (moglie del
fratello di Renato Malatesta), la quale nega di avere mai conosciuto
Pacciani e presenta fortissimo astio nei confronti della cognata.
Torna quindi a sedersi sul banco dei testimoni Ruggero
Perugini che in una nuova lunghissima deposizione parla delle
perquisizioni compiute e degli oggetti sequestrati in casa Pacciani.
15 Giugno 1994:
Rendono testimonianza nell'ordine:
Rolando Nesi, chiamato a testimoniare in quanto era nella stessa
automobile di Lorenzo Nesi (non vi è grado di parentela fra i due)
la sera dell'8 settembre 1985 in cui il Lorenzo dichiara di aver
incrociato l'automobile di Pacciani in via degli Scopeti.
Carla Marretti, moglie di Rolando Nesi, anch'ella nella stessa
vettura la sera dell'8 settembre 1985.
Pasquale Massoli, amico di Ronaldo e Lorenzo, nonché il
proprietario della casa in cui avevano passato la serata i due Nesi
prima di rientrare verso Firenze e San Casciano.
Carla Rossi, moglie di Pasquale Massoli.
Giuseppe Daidone, maresciallo dei carabinieri, chiamato a
testimoniare sulla perquisizione della cella di Pacciani, prima che
questi venisse scarcerato.
Giuseppe Pizzo, assistente della Polizia di Stato, uno degli
incaricati delle intercettazioni ambientali, riprese video e
documentazione fotografica in casa del Pacciani fra dicembre 1991 e
maggio 1992. Dichiara a Processo che da tale attività indagativa
risultò evidente che Paccani perlustrasse insistentemente una parte
del suo orto come alla ricerca di qualcosa. Fu in seguito a questa
segnalazione che prese il via la maxi perquisizione dell'aprile 1992.
Enrico Colagiacomo, assistente della Polizia di Stato, svolse fra il
1991 e il 1992 la stessa attività dell'appena citato Pizzo.
A seguito delle deposizioni di Pizzo e Colagiacomo, prende la
parola l'imputato Pietro Pacciani che parla della potatura di
un'acacia nel punto in cui venne visto trafficare nel suo orto.
Infine tocca nuovamente a Ruggero Perugini che stavolta tratta il
delicato tema del ritrovamento della cartuccia nell'orto del Pacciani
duranre la maxi-perquisizione.
22 Giugno 1994:
Apre la giornata di udienza il giudice Enrico Ognibene in merito
all'eventuale chiusura della superstrada Siena-Firenze la sera dell'8
settembre 1985, così come aveva sostenuto il Nesi. Non è risultato
possibile effettuare tale accertamento, mancando documentazione
scritta.
Segue una richiesta del Pubblico Ministero Paolo Canessa di
eseguire con la Corte un sopralluogo in via degli Scopeti per
studiare i luoghi dove il Nesi afferma di aver incrociato la vettura
del Pacciani e dove il Bevilacqua afferma di aver incontrato il
Pacciani in divisa da guardiacaccia. La Corte accoglie l'istanza del
PM.
Seguono le deposizioni di:
Paolo Scriccia, capitano dei carabinieri, che nell'aprile del 1992
aveva partecipato alla maxi-perquisizione nell'orto di casa Pacciani.
Pietro Frillici, maresciallo dei carabinieri, anch'egli nell'aprile del
1992 aveva partecipato alla maxi-perquisizione nell'orto di casa
Pacciani.
Ruggero Perugini, che rende testimonianza sulle intercettazioni
ambientali in casa Pacciani. Vengono ascoltate alcune
intercettazioni giudicate significative.
Giulia Matteucci, cui viene affidato l'incarico di provvedere alla
trascrizione integrale della bobina numero 59B relativa ad
intercettazioni ambientali a casa del Pacciani.
29 Giugno 1994:
Rendono testimonianza rispettivamente:
Mauro Buonaguidi, motociclista di Scandicci, il quale dichiara che
domenica 8 settembre 1985 verso le ore 15:00 aveva notato durante
un giro in moto un'automobile Golf con targa francese parcheggiata
in una strada non lontana dalla piazzola degli Scopeti. Secondo il
testimone, l'automobile sarebbe la stessa della coppia francese
uccisa dal MdF. Fosse vera, questa testimonianza sarebbe
importante perché indicherebbe che la domenica pomeriggio
l'automobile della coppia era stata spostata e dunque
presumibilmente la coppia era ancora viva.
Italo Buiani, abitante di San Casciano, che dichiara di aver
incrociato l'automobile del Pacciani in una stradina di campagna
dalle parti di via degli Scopeti la sera di venerdì 6 settembre 1985,
orientativamente verso le 21.
Successivamente vengono ascoltati i professori Salvatore De
Marco, Franco Lotti e Susanna Contessini, incaricati di esaminare
le scritte eseguite dal Pacciani sul blocco Skizzen Brunnen.
Infine è la volta di Mario Spina, agente scelto della Polizia di Stato,
addetto alle intercettazioni teleofniche in casa Pacciani. Durante la
sua deposizione vengono ascoltate due registrazioni importanti
effettuate in casa dell'imputato: la prima è quella in cui Pacciani
agggredisce verbalmente e fisicamente la moglie appena rientrata
da un colloquio con il Pubblico Ministero, rea di aver accennato a
un fucile posseduto dal marito; la seconda è quella in cui si sente un
affannatissimo Pacciani spostare mobili per casa (forse il frigorifero)
e poi nel frastuono mormorare un'unica frase: "in do' la metto
ora?". Per la Pubblica Accusa, Pacciani si riferisce alla pistola usata
per i delitti. Per la difesa la frase corretta è invece "in do' lo metto
ora?", parlando dunque di qualcos'altro.
4 Luglio 1994:
I professori Franco Marini, Riccardo Cagliesi
Cingolani e Francesco Saint Omer Bartoloni depongono a
proposito della lettera inviata dal MdF alla dottoressa Della Monica
contenente il lembo di seno della Mauriot.
Il maresciallo dei carabinieri Pietro Frillici parla delle indagini
svolte sulla busta imbucata in una cassetta di San Piero a Sieve.
Il professor Pietro Benedetti e il generale Ignazio
Spampinato rendono testimonianza sulla pistola e sui proiettili
usati dal MdF durante i delitti.
5 Luglio 1994:
L'avvocato Luca Santoni Franchetti apre la giornata dibattimentale
parlando del possibile coinvolgimento dei sardi nelle vicende del
MdF e delle difficoltà riscontrate nel portare in aula molti dei
personaggi coinvolti, in special modo Salvatore Vinci, risultante
disperso.
Seguono le deposizioni di:
Vinicio Caselli, dottore di San Casciano, parla dello stato di salute
di Pacciani.
Giuliano Pucci, noto guardone di San Casciano, parla del suo
rapporto di presunta amicizia con il Pacciani.
Heidemarie Meyer, sorella di Horst Meyer, uno dei due ragazzi
uccisi a Giogoli. La ragazza parla del blocco Skizzen Brunnen e del
portasapone Deis.
Il dottor Francesco Donato, consulente tecnico del PM, chiamato a
relazionare sulla pistola e i proiettili del MdF e sul proiettile trovato
nell'orto di casa Pacciani.
Il dottor Claudio Proietti, direttore della Divisione Identità della
Polizia Scientifica, disserta sugli appunti scritti dal Pacciani sul
blocco Skizzen Brunnen.
8 Luglio 1994:
Rendono testimonianza rispettivamente:
Giorgio Trinca, tecnico della Polizia Scientifica, che ha svolto
accertamenti chimico-merceologici sulla busta inviata alla
dottoressa Silvia Della Monica contenente il lembo di seno della
Mauriot.
Dottor Giancarlo Mei, incaricato di fare esami chimici sulla
cartuccia trovata nell'orto del Pacciani per determinare
orientativamente i tempi di interramento.
Pietro Frillici, maresciallo dei carabinieri che stavolta disserta sulle
indagini condotte in Germania sul blocco Skizzen Brunnen.
Paolo De Simone, agente di Polizia Giudiziaria, chiamato a
testimoniare a proposito delle indagini condotte sul portasapone
Deis.
Callisto Di Genova, agente di Polizia Giudiziaria, che testimonia a
proposito delle indagini condotte sui rapporti fra Pacciani e la
Sperduto e fra Pacciani e la Bugli.
Paola Baghino, agente della Polizia di Stato, incaricata dei
pedinamenti nei confronti dell'imputato Pacciani dopo che questi
era uscito dal carcere dove era stato recluso per la violenza sulle
figlie.
Tocca quindi sedersi sul banco dei testimoni a Natale Mele, figlio di
Stefano Mele e Barbara Locci. Natalino dichiara in questa occasione
di non ricordare nulla a proposito della notte in cui fu uccia sua
mamma.
Chiude la giornata d'udienza Pietro Locci, fratello di Barbara.
12 Luglio 1994:
Rendono testimonianza rispettivamente:
Antonio Amore, maresciallo dei carabinieri di Prato, indotto dalla
difesa del Pacciani, che nel 1985 aveva indagato su Giampiero
Vigilanti. Durante la deposizione, sollecitato dalle domande
dell'avvocato Bevacqua, il teste parla anche dell'episodio della
guardia giurata che a Calenzano incontrò un personaggio piuttosto
sospetto, possessore di diverse cartucce calibro 22, serie H.
Angiolina Manni, moglie del Pacciani, che fra mille difficoltà e
piuttosto confusamente parla dei rapporti con il marito.
Roberto Pabi, segretario della commissione esami per il rilascio di
certificati, chiamato a testimoniare sulla domanda presentata
dall'imputato per il porto di un fucile.
13 Luglio 1994:
Giornata dibattimentale che si apre con la deposizione di Giulia
Matteucci precedentemente incaricata dalla Corte della trscrizione
di una bobina relativa ad alcune intercettazioni telefoniche in casa
Pacciani.
Seguono nell'ordine le seguenti deposizioni: il maresciallo dei
carabinieri Pietro Frillici che testimonia sulla rogatoria in Germania
relativa al taccuino e al portasapone.
Guido Iandelli, zio di Luca Iandelli, chiamato dalla Difesa del
Pacciani a testimoniare sulla vicenda che ha visto coinvolto il
nipote.
Ivo Longo, di professione ottico, che dichiara di aver visto la
presunta notte dell'omicidio della coppia francese, il Pacciani a
bordo di un'automobile di grossa cilindrata in uno stato di
completa trance che procedeva a forte velocità sulla superstrada
Firenze-Siena. In questa deposizione il Longo fa riferimento al
sudore che colava dal volto del Pacciani e ai peli delle sue braccia,
suscitando fra le altre cose la pungente ironia dell'avvocato
Bevacqua.
Baldo Bardazzi, testimone introdotto dalla Difesa, proprietario del
bar presso cui si erano presuntamente diretti la Rontini e lo
Stefanacci il pomeriggio del 29 luglio e ivi incontrarono un signore
che mostrava un forte risentimento nei loro confronti. Vedasi a tal
proposito il relativo capitolo.
Pancrazio Matteuzzi, ex collega e amico di Paolo Mainardi, la
vittima maschile dell'omicidio di Baccaiano. Matteuzzi diichiara che
Mainardi e Migliorini erano soliti appartarsi in auto nella piazzola
dove si verificò l'omicidio e che tempo prima erano stati disturbati
da un guardone claudicante.
Attilio Pratesi che nel 1983 lavorava come giardiniere a Villa La
Sfacciata, viene chiamato a rendere testimonianza sul motorino
fermo oltre il cancello della villa nei giorni dell'omicidio di Giogoli.
Franco Corti, convocato dalla Difesa dell'imputato perché avrebbe
visto un signore molto distinto accampato con una piccola tenda in
una stradina sterrata e in disuso parallela a via degli Scopeti. Il teste
dichiara di aver fatto questo incontro la domenica precedente a
quella dell'omicidio. Il PM contesta che dal verbale dei carabinieri
reso il 15 settembre 1985, tale incontro sarebbe invece avvenuto
l'ultima domenica di luglio del 1985, quindi temporalmente
piuttosto distante dal giorno del delitto.
Al termine della deposizione di Franco Corti, l'avvocato Bevacqua
chiede di introdurre a Processo una lettera anonima giunta al
giornalista del quotidiano "La Repubblica" Paolo Vagheggi di cui
abbiamo già parlato a proposito dell'omicidio di Miriam Ana
Escobar (vedasi capitolo Le morti collaterali). Richietsa ovviamente
respinta.
In ultimo depone Giovanni Attianese, agente di polizia, che si
presenta in veste di operatore di un video realizzato nell'orto del
Pacciani durante la maxi-perquisizione al fine di individuare la
presenza dell'acacia di cui parlava Pacciani.
14 Luglio 1994:
Giornata processualmente molto importante. Rendono
testimonianza nell'ordine:
L'avvocato Giuseppe Zanetti, ciclista amatoriale, il quale dichiara
di aver incontrato durante i suoi allenamenti per alcuni giorni
consecutivi e immediatamente precedenti al giorno del delitto degli
Scopeti un'atomobile Ford Fiesta parcheggiata nei pressi della
piazzola. L'ultimo giorno, vicino a questa vettura, c'era un uomo
piuttosto distinto che guardava in direzione della piazzola e che
indubbiamente non era il Pacciani.
Pietro Mucciarini, chiamato a testimoniare dall'avvocato di Parte
Civile Luca Santoni Franchetti, il quale da ex indagato, si rifiuta -
come suo diritto - di rendere testimonianza.
Rosina Massa, ex moglie di Salvatore Vinci; deposizione che è
manna per tutti i sardisti.
L'ispettore di polizia Riccardo Lamperi, secondo di Perugini da un
punto di vista gerarchico nella SAM. Deposizione chiara ed
estremamente interessante la sua.
Infine è il turno di Marco Morin, esperto di balistica giudiziaria,
consulente della difesa per quanto riguarda le analisi effettuate sul
proiettile rinvenuto nell'orto di Pacciani.
15 Luglio 1994:
Ultimo giorno di udienza prima della lunga pausa estiva. Sono
chiamati a deporre nell'ordine:
Arturo Minoliti, maresciallo dei carabinieri e comandante della
Stazione di San Casciano, il quale disserta di Pacciani, della
Sperduto, delle perquisizioni in casa dell'imputato.
Segue l'interessantissima deposizione dei criminilogi del pool di
Modena, i professori Francesco De Fazio, Giovanni
Beduschi, Salvatore Luberto, Ivan Galliani e Giovanni Pierini. I
professori spiegano la relazione che, su richiesta della Procura di
Firenze, avevano presentato nel Maggio 1986 sul tipo di autore
degli omicidi.
A questi fa da contraltare la deposizione del criminologo Francesco
Bruno, chiamato dalla Difesa, che si schiera nettamente a favore di
un serial killer completamente diverso sia da un punto di vista
fisico e che psicologico da Pacciani.
Per ultimo si siede sul banco dei testimoni nuovamente
l'ispettore Riccardo Lamperi, chiamato brevemente a deporre su un
particolare emerso nella mattinata riguardo un'utenza telefonica del
Pacciani.
18 Ottobre 1994:
L'udienza riprende dopo la lunghissima interruzione estiva.
L'imputato Pietro Pacciani rende dichiarazioni spontanee alla
Corte. È questo il celebre monologo in cui il contadino di Mercatale
racconta la sua vita, parla dell'omicidio del 1951, tenta di
discolparsi dalle accuse, fa riferimenti religiosi, recita poesie ("Se ni'
mondo esistesse un po' di bene e ognun si considerasse suo fratello, ci
sarebbe meno pensieri e meno pene e il mondo ne sarebbe assai più bello").
Al termine, il Pubblico Ministero Paolo Canessa comincia la sua
requisitoria finale.
19 Ottobre 1994:
Giornata interamente dedicata all'ottima e mirata requisitoria del
Pubblico Ministero Paolo Canessa.
20 Ottobre 1994:
Giornata dedicata alle arringhe degli avvocati di Parte Civile.
Parla per primo l'avvocato Luca Santoni Franchetti. Curiosa la sua
posizione in quanto sostiene la colpevolezza di altri imputati,
probabilmente più di uno e probabilmente appartenenti alla Pista
Sarda, ma nel contempo chiede la condanna per Pacciani, perché
mentitore indefesso e seriale e dunque sicuramente implicato in
qualche modo nella vicenda. Una posizione che non mancherà di
sollevare qualche polemica sia fra gli altri avvocati di Parte Civile,
sia soprattutto fra i difensori del Pacciani.
A seguire, nell'ordine, parlano gli avvocati Luca
Saldarelli, Manuele Ciappi, Capanni, Eriberto Rosso, Patrizio
Pellegrini, Aldo Colao.
24 Ottobre 1994:
In questo gironata di udienza la parola va al primo dei difensori di
Pietro Pacciani, l'avvocato Pietro Fioravanti.
25 Ottobre 1994:
Termina la sua disamina difensiva l'avvocato Pietro Fioravanti e
comincia la sua lunga arringa difensiva l'avvocato Rosario
Bevacqua.
26 Ottobre 1994:
Giornata interamente occupata dall'arringa difensiva
dell'avvocato Rosario Bevacqua.
27 Ottobre 1994:
Ultimo giorno di arringa difensiva dell'avvocato Rosario Bevacqua.
28 Ottobre 1994:
Giornata di repliche per il Pubblico Ministero Paolo Canessa e per
le parti civili Luca Santoni Franchetti, Luca Saldarelli, Aldo
Colao e Patrizio Pellegrini.
29 Ottobre 1994:
Giornata conclusiva del dibatitmento processuale.
La parola agli avvocati Pietro Fioravanti prima e Rosario
Bevacqua per la loro ultima replica.
Infine, come previsto dalla legge, l'ultima parola spetta all'imputato
per una dichiarazione spontanea. Pietro Pacciani non manca di
sollevare polemiche quando fra le lacrime dichiara "Gesù è mio
fratello" e "Sono innocente come Cristo sulla croce".
Si chiude con queste frasi il Processo Pacciani.
1 Novembre 1994:
Il giudice Enrico Ognibene legge la sentenza di condanna nei
confronti dell'imputato. Giudicato colpevole di sette degli otto
duplici omicidi storicamente attribuiti al Mostro di Firenze (escluso
quello del 1968), Pietro Pacciani viene condannato all'ergastolo.
Appendice B - Il Processo ai CdM
20 Maggio 1997:
Introduzione da parte del giudice Federico Lombardi.
Richiesta immediata dell'avvocato difensore di Mario Vanni, Nino
Filastò, che venga dichiarato nullo l'incidente probatorio del 10
febbraio 1996 per - a suo dire - palesi violazioni da parte del GIP
delle norme di Procedura Penale.
Immediata risposta del Pubblico Ministero Paolo
Canessa all'eccezione presentata da Filastò. Gli avvocati di Parte
Civile si allineano con quanto dichiarato dal Pubblico Ministero.
L'avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi, si associa al PM.
L'avvocato Federico Bagattini, difensore del Faggi, si dice
remissivo.
L'eccezione dell'avvocato Filastò viene giudicata infondata dalla
Corte.
21 Maggio 1997:
Eccezione sollevata dall'avvocato Gabriele Zanobini che chiede il
proscioglimento immediato del suo assistito, avvocato Corsi.
Replica del PM e contro-replica di Zanobini. La Corte rigetta la
richiesta dell'avvocato Zanobini.
Richiesta da parte del secondo avvocato difensore del
Vanni, Giangualberto Pepi di scarcerazione del suo assistito.
Replica del PM.
23 Maggio 1997:
L'udienza si apre con il ricordo di Giovanni Falcone, nel quinto
anniversario della sua morte.
Prende la parola il Pubblico Mnistero Paolo Canessa per la propria
relazione introduttiva al Processo. In essa il PM illustra
sinteticamente l'excursus che ha portato alla confessione del Lotti e
alla successiva imputazione del Vanni, del Faggi e del Corsi.
La Corte rigetta la richiesta dell'avvocato Pepi di scarcerazione per
Mario Vanni.
3 Giugno 1997:
Apre la giornata d'udienza l'avvocato Rodolfo Lena in sostituzione
dell'avvocato Bagattini per la difesa di Giovanni Faggi.
Segue una lunga replica dell'avvocato Nino Filastò alla relazione
introduttiva del giorno precedente del Pubblico Ministero. È
durante questa replica che Filastò nomina il dottor Stefano Galastri,
meglio noto in Mostrologia come De Gothia, autore dello studio su
Maniac.
A seguire, prendono la parola prima le Parti Civili, poi
l'avvocato Stefano Bertini, giovane difensore del Lotti, quindi
l'avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi. Chiude
l'udienza l'avvocato Giangualberto Pepi, secondo difensore del
Vanni, il quale fra le altre cose polemizza con il collega Filastò che
aveva denunciato la mancata richiesta di perizia psichiatrica del
Vanni. Emerge per la prima volta una sorta di conflitto fra i due
difensori dell'imputato.
4 Giugno 1997:
Apre l'udienza il lungo intervento dell'avvocato di Parte
Civile, Luca Santoni Franchetti, il quale coerentemente con quanto
portato avanti anche in occasione del Processo Pacciani, batte la
pista degli autori multipli, dei sardi coinvolti in alcuni omicidi, di
un'eventuale complicità fra sardi e sancascianesi.
Segue la replica del PM Canessa agli interventi del giorno
precedente e della giornata odierna.
6 Giugno 1997:
L'udienza si apre con la notizia comunicata dal presidente Federico
Lombardi della rinuncia dell'avvocato Filastò alla difesa del Vanni.
A seguire il giudice annuncia che nella giorata odierna non si terrà
udienza per problemi logistici dovuti ad altri processi in corso e dà
appuntamento al 23 giugno.
23 Giugno 1997:
Si entra nel vivo del processo con il primo teste. Tocca al super-
poliziotto Michele Giuttari sedere per primo sul banco dei
testimoni con una deposizione lunghissima in cui spiegherà il
percorso investigativo compiuto dalla Procura di Firenze per
arrivare alla confessione di Giancarlo Lotti.
Da notare che da questa udienza la difesa di Mario Vanni spetta al
solo avvocato Giangualberto Pepi.
25 Giugno 1997:
Continua la lunga deposizione del dottor Michele Giuttari.
26 Giugno 1997:
Ultima giornata dedicata alla deposizione del dottor Michele
Giuttari.
27 Giugno 1997:
Controesame per il dottor Michele Giuttari: prima
l'avvocato Federico Bagattini, difensore del Faggi, poi
l'avvocato Giangualberto Pepi, difensore di Vanni, interrogano il
super-poliziotto.
A seguire rendono testiminanza Winnie Kristensen e Renzo
Rontni, genitori di Pia. Winnie dichiara di avere la certezza di aver
visto più di una volta il Vanni a Vicchio, pur non riuscendo a
ricordare dove precisamente. Si dice sicura che tali incontri siano
avvenuti prima della morte di Pia.
Renzo Rontini si dice sicuro di aver visto due o tre volte il Vanni
aggirarsi all'esterno del bar dove lavorava Pia nei giorni precedenti
all'omicidio.
30 Giugno 1997:
Il primo a rendere testimonianza in questa giornata d'udienza è
l'ultrasettantenne, analfabeta, Ennio De Pace, il quale in una
grottesca deposizione in cui parla confusamente di essere stato
pedinato e di aver visto cose indicibili, dichiara di aver incontrato il
Pacciani nella piazzola degli Scopeti all'alba di lunedì 9 settembre
1985 (giorno in cui alle 15 verranno scoperti i casaveri dei francesi).
In quell'occasione il De Pace avrebbe apostrofato il Pacciani
con: "Ciuccio, bestia, saluta!"). Nel prosieguo della deposizione, il
teste dichiara confusamente di aver visto agli Scopeti anche il Lotti,
il quale tentava di coprirsi con un giornale, ma non si capisce in
quale occasione sia avvenuto questo avvistamento; questa parte di
testimonianza richiama alla mente quella del giorno prima del
Rontini a proposito del Vanni. La sensazione è che De Pace spari a
caso, prendendo spunto da altri dichiarazioni ascoltate in
precedenza. Lo stesso Canessa giudica inattendibile il De Pace,
chiedendo venga valutato il suo stato di salute dopo alcune malattie
che l'hanno colpito recentemente. Il contro-interrogatorio
dell'avvocato Pepi mette ancor più in evidenza le contraddizioni del
De Pace.
Seguono le deposizioni dei coniugi Marcella De Faveri e Vittorio
Chiarappa, i quali il pomeriggio della domenica 8 settembre 1985
erano stati ospiti nella villa dei Rufo, di fronte alla piazzola degli
Scopeti, e dichiarano che dalle tre del pomeriggio alle otto di sera
all'ingresso della piazzola era parcheggiata un'automobile color
rosso sbiadito con il retro tronco (descrizione che ricorda la
macchina del Lotti). Accanto alla vettura vi sarebbero stati due
uomini che guardavano verso la piazzola.
Segue la deposizione di Valeriano Raspolini, il quale riferisce de
relato l'episodio capitato alla sua amica Sharon Stepman (per
maggiori dettagli vedasi udienza del 7 luglio 1997).
Infine è la volta dell'interessante deposizione di Sabrina
Carmignani, la quale - come già visto - era stata nella piazzola degli
Scopeti il pomeriggio di domenica 8 settembre 1985. La Carmignani
parla di una tenda malandata, delle presenza di mosche nella
piazzola e di un cattivo odore nei dintorni, come di putrefazione. È
durante questa testimonianza che l'avvocato Colao fa
involontariamente intendere che la Carmignani potrebbe essere
stata in precedenza spinta a rilasciare dichiarazioni non veritiere su
un eventuale incontro col Vanni nella piazzola (vedasi capitolo
dedicato a Mario Vanni).
1 Luglio 1997:
Rendono testimonianza nell'ordine:
James Taylor e Luisa Gracili, i quali nel 1985 erano fidanzati. I due
dicharano che la notte fra domenica 8 settembre e lunedì 9
settembre fra le 00:15 e le 00:45 transitavano su via degli Scopeti,
notando un assembramento di persone nella piazzola e
un'automobile FIAT 131 parcheggiata all'imbocco della stessa.
Secondo il Taylor la vettura era di colore argento, secondo la Gracili
di colore bianco. Risulta semplice pensare che, secondo l'Accusa,
tale automobile sarebbe appartenuta al Faggi.
Giovanni Battista Zanieri, orefice di San Casciano, il quale dichiara
che nei giorni successivi all'omicidio nel bar in piazza dell'Orologio
si vociferava che Giancarlo Lotti fosse passato dalla piazzola degli
Scopeti la sera dell'omicidio. Lo Zanieri non ricorda chi avesse
messo in giro questa voci e parla genericamente di dicerie di paese.
Aldo Nesi, proprietario di un'armeria a San Casciano, dichiara che
agli inizi degli anni '90 (periodo dunque orientativamente
coicindente con la presunta lettera scritta dal carcere da Pacciani al
Vanni), il Vanni stesso più volte aveva provato (senza successo) ad
acquistare una pistola nel suo negozio.
3 Luglio 1997:
Deposizioni di grande importanza in questa giornata d'udienza.
Nell'ordine abbiamo:
Gabriella Ghiribelli, ex testimone gamma al processo d'appello
contro Pacciani. La sua lunga deposizione è tesa oltre a dare un
quadro generale dei personaggi che frequentavano casa di
Salvatore Indovino in via di Faltignano, anche a collocare Giancarlo
Lotti nella piazzola degli Scopeti la sera di domenica 8 settembre
1985, all'epoca ritenuta la data dell'omicidio. La Ghiribelli dichiara
che quella sera era passata in automobile da via degli Scopeti con il
Galli e aveva notato l'automobile Fiat 128 rossa del Lotti.
Norberto Galli, ex testimone delta al processo d'appello contro
Pacciani. Conferma che la sera di domenica 8 settembre 1985 passò
con la Ghiribelli da via degli Scopeti, ma non è in grado di
confermare la presenza della tenda dei francesci, né tanto meno la
presenza della macchina del Lotti all'imbocco della piazzola. Galli
precisa che la Ghiribelli è un'alcolista di lungo corso, secondo lui
non eccessivamente attendibile.
Il dottor Fausto Vinci, responsabile della Sezione Omicidi della
squadra Mobile di Firenze, il quale rende testimonianza a proposito
dell'automobile FIAT 128 di Giancarlo Lotti. Il Vinci dichiara che
tale vettura (immatricolata per la prima volta nel 1972) era stata di
proprietà del Lotti dal 16 febbraio 1983 fino al 19 marzo 1986. Si
vedrà poi che la data del 19 marzo 1986 era quella in cui
l'automobile era stata rottamata, ma già da qualche mese non
circolava più.
Filippa Nicoletti, prostituta, compagna e convivente di Salvatore
Indovino nonché amante del Lotti. La donna rende testimonianza a
proposito dei frequentatori di via Faltignano e dei suoi rapporti con
lo stesso Lotti: a questo proposito la Nicoletti parla anche della loro
visita alla Boschetta, la piazzola di Vicchio dove erano stati uccisi
Sefanacci e Rontini. Secondo la Nicoletti a quei tempi sia lei che
Lotti erano spesso ubriachi, dunque si mettevano in macchina e si
spostavano senza meta per la provincia fiorentina.
4 Luglio 1997:
Parte col botto questa giornata d'udienza. Il primo a rendere
testimonianza è Lorenzo Nesi, che parla dei suoi rapporti di intima
amicizia con Mario Vanni, della frequentazioni da parte di entrambi
di prostitute fiorentina (compresa la Gina Manfredi), della lettera
che Pacciani avrebbe scritto a Vanni dal carcere.
Seguono le testimonianze di Andrea Caini e Tiziana Martelli, i
quali poco prima di mezzanotte di domenica 29 luglio 1984 si
fermarono a una fonte a fare rifornimeto d'acqua, non lontana dalla
piazzola in cui poco prima era stata uccisa la coppia Stefanacci-
Rontini. Mentre erano fermi presso la fonte videro passare due
automobili ad alta velocità, praticamente attaccate l'una all'altra, la
seconda delle quali viaggiava con le sole luci di posizioni accese. Le
automobili, guidate non da ragazzi ma da persone di una certa età,
sollevavano un gran polverone sulla strada non asfaltata.
Seguono nell'ordine le deposizioni di: Pietro Pasquini, che il giorno
dopo il duplice omicidio del 1984, aveva trovato tracce
presumibilmente di sangue sul greto del fiume Sieve. Le tracce
sembravano provenire dal luogo del delitto.
Luciano Bartolini, che aveva accompagnato il Pasquini a fare la
denuncia dai carabinieri dopo il rinvenimento dele tracce ematiche.
Renzo Rontini, padre di Pia, che conferma i racconti del Pasquini e
del Bartolini.
7 Luglio 1997:
Sono chiamati a rendere testimonianza:
Sharon Stepman, che la sera dell'8 settembre 1985 aveva percorso
via degli Scopeti e aveva notato un'automobile proveniente da uno
spiazzo o da una stradina laterale immettersi sulla via principale.
Alla vista della vettura della Stepman che sopraggiungeva, tale
automobile aveva spento le luci e fatto retromarcia per non essere
vista.
Maria Grazia Frigo, che in una lunghissima deposizione dichiara
nell'ordine:
di essere stata ospite, la sera dell'omicidio Stefanacci-Rontini, in una
casa molto vicina al luogo dell'omicidio;
di aver sentito dei rumori che in seguito avrebbe ricollegato a colpi
d'arma da fuoco verso le dieci e trenta della sera;
di aver incrociato in prossimità del luogo del delitto, al rientro
verso la sua abitazione attorno a mezzanotte, un'automobile bianca
che procedeva a forte velocità e che solo all'ultimo istante tale
vettura ha evitato l'impatto con la loro automobile;
di aver incrociato un 200 o 300 metri dopo un'automobile di color
rosso sbiadito che procedeva tranquillamente e che si dirigeva
verso l'abitazione di un contadino della zona;
di aver riconosciuto molti anni dopo nell'uomo che guidava
l'automobile bianca il volto di Pietro Pacciani;
di aver riconosciuto molti anni dopo nell'uomo che guidava
l'automobile rossa il volto di Giancarlo Lotti; si noti bene che la
Frigo non vide chi guidava l'automobile rossa la sera dell'omicidio,
ma a distanza di una settimana dall'avvistamento vide alla guida
della stessa automobile un uomo che poi anni dopo avrebbe
riconosciuto come il Lotti.
La deposizione della Frigo ha sin da subito presentato molti
problemi di attendibilità. Durante le sue segnalazioni telefoniche e
dal vivo in Procura, avvenute nel corso degli anni, la Frigo si ad
esempio è più volta contraddetta sui colori delle vetture che aveva
incrociato; lo stesso riconoscimento del Lotti presenta più di un
dubbio. La Frigo non verrà giudicata attendibile durante la stesura
della sentenza.
Giampaolo Bertaccini, marito di Maria Grazia Frigo. L'uomo
conferma il racconto della moglie, ammettendo però di non aver
mai visto in viso colui che guidava l'automobile bianca perché
impegnato a manovrare la leva per azionare le sospensioni della
sua Citroen.
Mauro Poggiali, abitante di Vicchio e frequentatore del bar La
Nuova Spiaggia, dove lavorara Pia Rontini. Costui aveva talvolta
accompagnato a casa la Rontini quando staccava la sera tardi dal
proprio turno di lavoro. In un paio di queste occasioni il Poggiali
rivela di aver avuto l'impressione di essere stato seguito da
un'automobile. Alla visione delle fotografie della 128 rossa del Lotti,
il Poggiali dichiara che avrebbe pouto essere la stessa automobile.
Fabio Badii, amico del Poggiali, il quale somamriamente conferma
di aver sentito dire da Mauro che la sua automobile era stata
seguita da qualcuno quando aveva accompagnato la Rontini a casa,
ma di non aver mai dato peso a questo particolare.
8 Luglio 1997:
Sono chiamati a rendere testimonianza, nell'ordine:
Paolo Santoni, detenuto per spaccio di droga, dichiara di aver visto
ai tempi dell'omicidio del 1984 il Vanni a Vicchio dalle parti del bar
"La Nuova Spiaggia" e nella piazza del paese. Trattasi di una
deposizione che comunque lascia più di un dubbio fra le parti
processuali, dando l'impressione che il test faccia tali dichiarazioni
esclusivamente per ottenere dei benefici in carcere. Non verrà
infatti tenuta in considerazione.
Walter Ricci, impiegato di banca sancascianese, testimonia a
proposito della sua conoscenza col Vanni, delle frequentazioni di
quest'ultimo con le prostitute fiorentine, della conoscenza con
l'avvocato Corsi e con tutti gli avventori del bar nella piazza
principale del paese. Parla anche della conoscenza del Vanni col
Pacciani e di come il postino avesse più volte riferito che Pacciani
possedeva un cosiddetto "pistolone". Infine parla della famosa
lettera che il Vanni avrebbe ricevuto dal Pacciani.
Laura Mazzei, moglie del Ricci e parente del Vanni, le sue
dichiarazioni sono grosso modo in linea con quelle del marito.
Teresa Nenci Buzzichini, residente della parti di via di Giogoli,
non lontana dal luogo dell'omicidio del 1983, dichiara che il camper
dei tedeschi alloggiava sulla piazzola dell'omicidio già da parecchi
giorni prima dell'omicidio. Come visto nel relativo capitolo, questa
testimonianza contrasta però con gli accertamenti condotti sugli
spostamenti dei due ragazzi tedeschi, partiti da Monaco il 7
settembre 1983.
Edmondo Bianchi, proprietaro della casa in cui avevano passato la
serata del 29 luglio 1984 i coniugi Bertaccini e Frigo. Pur non
avendo ricordi precisi, l'uomo sembra confermare grosso modo il
racconto della Frigo.
Roberto Bini, proprietario del bar "La Nuova Spiaggia" presso cui
aveva lavorato Pia Rontini nel mese di luglio del 1984. L'uomo
dichiara che Pia era solita fare l'ultimo turno al bar e che quando
staccava, se non era accompagnata dal padre o non aveva il proprio
motorino, lui si adoperava affinché qualcuno la accompagnasse a
casa.
Bini inoltre dichiara che la sera dell'omicidio la Rontini aveva
scambiato il proprio turno con la collega Manuela Bazzi, anche se
su questo punto non c'è molta chiarezza fra le varie testimonianze
rese durante gli interrogatori e quelle rese in sede dibattimentale.
Manuela Bazzi, collega di Pia presso il bar "La Nuova Spiaggia". La
donna dichiara che la sera dell'omicidio aveva scambiato il turno
con Pia su richiesta della stessa. A suo dire, infatti, Pia quella sera
doveva andare a cena fuori con il proprio ragazzo. Questa
testimonianza stride fortemente con quanto dichiarato dalla
mamma di Pia circa la poca voglia che aveva la ragazza di uscire
dopo il proprio turno di lavoro.
La Bazzi inoltre dichiara di non essere a conoscenza del fatto che
Pia fosse stata importunata da qualcuno all'interno del bar, né ha
ricordi di situazioni particolari verificatesi nel bar con qualcuno
degli avventori. Parla sommariamente di solite situazioni che si
creano fra clienti e bariste. Anche questa testimonianza stride con
quanto dichiarerà la Bazzi anni dopo circa il cosiddetto "Uomo del
Mugello".
Infine la Bazzi dichiara su domanda del PM di non aver ricordi di
aver mai visto Vanni a Vicchio nei giorni precedenti all'omicidio.
Dario Pampaloni, di professione pastore, portava a pascolare il
proprio gregge alla Boschetta. Dichiara che in quel luogo erano
diverse le coppie che erano solite appartarsi.
10 Luglio 1997:
Sono chiamati a rendere testimonianza, nell'ordine:
Rossella Parisi e Giampaolo Tozzini, la coppia di Calenzano che la
sera del 22 ottobre 1981 aveva incrociato sul ponte sul fiume della
Marina un'automobile che proveniva verosimilmente dalla zona del
delitto a forte velocità. Per evitare l'impatto con tale vettura, il
Tozzini era stato costretto a salire con la sua automobile sul
marciapiede. In seguito a questo incontro, fu realizzato il celebre
identikit ritraente l'ipotetico Mostro di Firenze. Viene accertato in
dibattimento che l'uomo alla guida dell'automobile appariva
sconvolto, che poteva provenire (ma non necessariamente) dalla
zona del delitto distante poche centinaia di metri e che poteva
essere anche un guardone sconvolto dall'aver assistito all'omicidio.
Di fronte alle domande del PM, i due coniugi non riconoscono nel
Giovanni Faggi l'uomo alla guida dell'automobile, pur rimarcando
una buona somiglianza.
Tiziano Giugni e Stefano Giugni, figli di un amico del Faggi,
chiamati a testimoniare sui rapporti che intercorrevano fra il
proprio padre e l'imputato. Entrambi smentiscono di esser stati
presenti al primo incontro fra il Faggi e Pacciani in un ristorante di
Scarperia dopo una mattinata di pesca.
La signora Maria Grazia Patierno, che ha frequentato
saltuariamente con il suo compagno dell'epoca Luciano Paradiso la
casa di Salvatore Indovino fra il 1984 e il 1985. Chiamata a
testimoniare perché quando fu ascoltata dalla polizia aveva
dichiarato di aver visto nell'alimentari del signor Ezio Pestelli in
via Scopeti 36/38 (dalle parti di via Faltignano) il Faggi. In sede
processuale il suo riconoscimento non sembra tuttavia affato certo.
Luciano Malatesta, figlio di Renato Malatesta e Maria Antonietta
Sperduto, il quale conferma quanto già dichiarato in sede di
Processo a Pietro Pacciani: parla della relazione fra sua mamma e il
Vanni, del fatto che il padre venisse spesso picchiato da Pacciani e
avesse più volte tentato il suicidio. Per quanto riguarda le nuove
dichiarazioni, parla di un'automobile targata Gorizia spesso
parcheggiata davanti casa degli Indovino (la 128 del Lotti era
inizialmente targata Gorizia) e di un uomo elegante su
un'automibile berlina che nei primissimi anni '80 passava spesso
davanti casa loro con l'intento di curiosare se non proprio spiare
cosa avvenisse all'interno. Riconosce in quest'uomo l'imputato
Giovanni Faggi.
Gina Cencin, vicina di casa dei Malatesta prima che questi si
trasferissero in via Faltignano. Anche lei conferma quanto già
dichiarato in sede di Processo a Pietro Pacciani. Anche lei afferma
di aver visto l'imputato Faggi aggirarsi con Pacciani e Vanni dalle
parti di San Casciano.
14 Luglio 1997:
Anche questa è una giornata dibattimentale dalle importanti
deposizioni. Rendono testimonianza:
Paolo Vanni, nipote di Mario Vanni, chiamato a testimoniare sui
suoi rapporti con lo zio e sull'eventuale frequentazione di Mario
con l'avvocato Corsi.
La signora Francesca Bartalesi, nipote di Mario Vanni, chiamata
anch'ella a testimoniare sui suoi rapporti con lo zio e sulle
frequentazione che sua sorella Alessandra aveva col Vanni e col
Lotti.
La signora Alessandra Bartalesi, sorella maggiore di Francesca, che
aveva intrattenuto un forte rapporto di amiciza con il Vanni e con il
Lotti nell'estate del 1995. Tale testimonianza è particolarmente
importante ai fini processuali e della narrazione mostrologica degli
eventi. Fra le altre cose la Bartalesi riferisce della forte disponibilità
economica del Vanni in quel periodo, dell'impotenza del Lotti, del
mancato prestito del Vanni al Lotti mal digerito da quest'ultimo.
Infine riferisce la famosa frase del Lotti: "Quando sei con me il
mostro non c'è".
Giovanni Bonechi, ex muratore che aveva conosciuto il Lotti fin da
bambino, chiamato a testimoniare sull'eventuale omosessualità del
Lotti. Il Bonechi in udienza dichiara di non sapere nulla
dell'argomento, ma gli viene subito contestato dal PM che negli
interrogatori precedenti aveva riferito che sin dagli anni '80 a San
Casciano si diceva che Lotti fosse omosessuale di tipo passivo
(ovviamente i termini usati dal Bonechi furono ben altri, NdA).
Fabrizio Butini, l'uomo che - stando alla confessione del Lotti - si
sarebbe intrattenuto in atteggiamenti intimi con lui in automobile.
Pacciani li avrebbe scoperti e avrebbe minacciato il Lotti di
divulgare a tutti la sua omosessualità se non avesse accettato di
partecipare al duplice omicidio di Giogoli (1983). Interrogato il
merito, Butini smentisce tutti dichiarando non solo di non essersi
mai intrattenuto in rapporti intimi con Lotti, ma di aver conosciuto
e frequentato il Lotti addirittura negli anni '90, molti anni dopo il
duplice omicidio di Giogoli.
Vincenzo Siracusa, carabiniere che nel 1984 era di stanza a Borgo
San Lorenzo, chiamato a testimoniare relativamente alle indagini
condotte sulle pietre rivenute sulle sponde del fiume Sieve che
presentavano macchie di tipo ematico. Il teste dichiara di non avere
ricordanze in merito e di non aver partecipato a tali sopralluoghi.
18 Luglio 1997:
Ultima giornata d'udienza prima della lunga pausa estiva. Si
presentano a deporre sul banco dei testimoni rispettivamente:
Ingrid Von Pflugk Harttung, amica danese di Pia Rontini, che
riferisce delle preoccupazioni che la Pia le aveva esternato
telefonicamente nei giorni immediatamente precedenti all'omicidio.
Stando al racconto della Ingrid, la giovane Rontini era impaurita da
alcuni frequentatori anziani del bar in cui lavorava. Da segnalare
che la Ingrid ha raccontato per la prima volta questi particolari
esclusivamente dopo le indagini sui Compagni di Merende. Invitata
dagli avvocati difensore a fornirne motivazione, la donna risponde
che in precedenza non riteneva fossero importanti. Abbiamo già
espresso nel capitolo dedicato a La Boschetta le perplessità su tale
testimonianza.
Heinz Diether Von Pflugk Harttung marito della Ingrid, chiamato
a confermare la deposizione di sua moglie.
Salvatore Risi, carabiniere che nel 1984 era di stanza a Borgo San
Lorenzo, chiamato a testimoniare relativamente alle indagini
condotte sulle pietre rivenute sulle sponde del fiume Sieve che
presentavano macchie di tipo ematico. Il teste dichiara che all'epoca
svolgeva la funzione di semplice autista e dunque di aver soltanto
accompagnato il maresciallo Lamuratta in loco a svolgere indagini.
Non ha contezza dell'esito delle stesse.
Successivamente prende la parola l'avvocato Giangualberto Pepi,
difensore del Vanni, per chiedere ancora una volta la scarcerazione
del suo assistito e la concessione degli arresti domiciliari come
nuova misura cautelare.
Pronta replica del Pubblico Ministero Paolo Canessa, secondo cui
non ci sono le condizioni per dare al Vanni gli arresti domiciliari.
Il giudice si riserva di prendere una decisione e augura a tutti
buone vacanze. Al termine, la registrazione non viene spenta e
viene colto il breve dialogo fra Canessa e Pepi, riportato in
precedenza, sulla misure cautelari adottate nei confronti del Lotti.
30 Settembre 1997:
Al ritorno dalla lunga pausa estiva si apprende sia che al Vanni
sono stati negati gli arresti domiciliari come era stato richiesto dalla
difesa in data 18 luglio, sia che l'avvocato Nino Filastò ha ripreso il
ruolo di difensore del Vanni, al fianco dell'avvocato Pepi. Da questa
data in poi, Filastò prenderà in mano le redini difensive del postino
di Montefiridolfi, dettando la strategia e conducendo in prima
persona gli interrogatori.
Seguono le testimonianze del dottor Fausto Vinci, dirigente della
Squadra Mobile di Firenze, incaricato di svolgere accertamenti
patrimoniali su Mario Vanni, e dell'ispettore di polizia Ugo Nativi,
incaricato dal dottor Vinci di svolgere accertamenti patrimoniali su
Pietro Pacciani.
È il turno poi dei professori Ugo Fornari (psichiatra e professore di
psichiatria forense all'università di Torino) e Marco
Lagazzi (medico specialista in psicologia e professore all'università
di Genova), consulenti tecnici del PM, chiamati a esporre le proprie
relazioni, una relativa al profilo psicologico ed eventuali malattie
del Lotti, l'altra relativa alle capacità di rendere testimonianza del
Pucci.
4 Ottobre 1997:
Il giudice Federico Lombardi comunica in apertura d'udienza che
l'avvocato Giangualberto Pepi ha fatto pervenire un'istanza di
rinuncia all'incarico di difensore del Vanni, lasciando di fatto tutto
nelle mani dell'avvocato Filastò.
Successivamente siedono sul banco dei testimoni:
Paola Fanfani, cognata di Fernando Pucci, moglie del
fratello Valdemaro, chiamata a testimoniare sui rapporti fra
Fernando e Giancarlo Lotti. In questa occasione la signora Fanfani
rivela che il 13 febbraio 1996, dopo essere stato ascoltato dalla
polizia, il Pucci rivelò pure a lei e a suo marito di aver assistito al
delitto degli Scopeti e fece i nomi di Pacciani e Vanni come autori
del duplice omicidio.
Marisa Pucci, sorella di Fernando, chiamata a raccontare alla Corte
dell'infanzia di Fernando, della morte dei suoi genitori, dei suoi
problemi di salute e dei rapporti con Lotti.
Arturo Minoliti, maresciallo dei carabinieri e comandante della
Stazione di San Casciano Val di Pesa, chiamato a testimoniare sulle
informazioni raccolte circa un'eventuale omosessualità del Lotti. Il
maresciallo dichiara di non aver raccolto informazioni chiare e
attendibili in un senso o nell'altro. Riguardo il Butini dichiara che
l'uomo era fatto spesso oggetto di scherno da parte di alcuni
concitaddini per una presunta omosessualità, ma di non essere in
grado di affermare cosa ci fosse di vero dietro questi "atteggiamenti
scherzosi".
Paolo Faggioli, cittadino di San Casciano e conoscente del Butini,
uno di quelli che era solito schernire il Butini chiamandolo
"finocchio". Il Faggioli dichiara di non aver mai ritenuto il Butini
omosessuale e che gli appellativi a lui rivolti erano frutto solo di
uno scherzo.
Mario Marchi, proprietario del bar Sport a San Casciano,
frequentato assiduamente dal Vanni, dal Lotti, dal Butini. Come il
Faggioli, anche il Marchi dichiara di non ritenere il Butini
omosessuale e di ritenere gli epiteti a lui rivolti semplici sfottò di
paese.
Simone Bandinelli, barista del bar Sport, si allinea alle
dichiarazioni precedenti sia sul Lotti che sul Butini.
Gherardo Gherardi, proprietario di un negozio di ottica a San
Casciano e avventore abituale del bar Sport, anche lui conferma le
precedenti deposizioni.
6 Ottobre 1997:
È il giorno della lunghissima, estenuante ed estremamente
controversa deposizione di Fernando Pucci. Numerosi gli scontri in
aula, in special modo fra Filastò e Canessa e fra Filastò e il giudice
Lombardi. L'avvocato di Vanni lamenta esplicitamente il modo - a
suo dire - poco ortodosso con cui viene condotto l'interrogario.
Segue la deposizione del fratello di Fernando, Valdemaro Pucci,
chiamato soprattutto a parlare dei rapporti fra Pucci e Lotti.
8 Ottobre 1997:
Giornata dedicata alla difesa del Faggi che produce in aula i
seguenti testimoni:
Stefania Faggi, figlia di Giovanni;
Stefano Fiorucci, gommista di Calenzano;
Alessandro Azzini, genero e proprietario di un'officina meccanica
presso cui si rivolgeva il Faggi;
Rosetta Faggi, altra figlia del Faggi.
Tutte le testimonianze concordano sullo stile di vita morigerato e
assolutamente lontano da qualsiasi sospetto condotto dall'imputato.
Inoltre tutti i teste riferiscono delle automobile possedute nel corso
degli anni dal faggi.
10 Ottobre 1997:
È la giornata della deposizione di Giovanni Calamosca, il quale
parla della sua conoscenza con Francesco Vinci e delle dichiarazioni
che lo stesso gli fece a proposito del delitto del 1968 (omicidio
commesso da lui e dal Mele). Riferisce inoltre del rapporto fra Vinci
e Milva Malatesta, figlia dell'amante del Pacciani (per maggiori
dettagli vedasi il capitolo dedicato a Francesco Vinci).
Le dichiarazioni di Calamosca non risultano a priori incoerenti o
poco credibili, come lo sono invece quelle dello Sgangarella, ma non
risultano supportate da prove e sembrano più figlie di congetture e
collegamenti del Calamosca stesso che non di vere e proprie
rivelazioni. C'è da dire che dalla deposizione emerge che il
Calamosca riconosce in foto la Malatesta come amante del Vinci,
cosa che potrebbe far propendere per una certa attendibilità del
Calamosca.
Nota Bene: Il Calamosca parla anche di una breve e superficiale
conoscenza con il Pacciani in carcere a Sollicciano (quando questi fu
arrestato nel 1987 per la violenza sulle figlie) e del Pacciani parla
come di una delle persone più avare che avesse mai conosciuto.
Parla inoltre di una altrettanto superficiale conoscenza con
l'ergastolano Sgangarella sempre in carcere e di lui parla come una
delle persone più odiose e repellenti che avesse mai conosciuto.
A questa segue la deposizione di Mario Betti che assunse per un
breve periodo il Lotti nella sua ditta di costruzioni, dietro
suggerimento di Valdemaro Pucci, il quale si era prodigato per
aiutare l'amico del fratello Fernando.
20 Ottobre 1997:
Rendono testimonianza in questa giornata d'udienza don Danilo
Cubattoli e Giuseppe Sgangarella.
Il famoso don Cuba è il cappellano del carcere prima delle Murate e
poi di Sollicciano. Ha conosciuto Francesco Vinci durante il suo
arresto fra il 1982 e il 1984 e di lui parla come di un duro che però si
disperava perché era accusato di delitti che non aveva mai
commesso. Dom Cuba conosciuto anche Pacciani dopo l'arresto per
la violenza alla figlie nel 1987 e di lui parla come di una persona che
si professava innocente ma che - a personalissimo parere del prete -
poteva effettivamente sapere qualcosa sulla vicenda del Mostro. Ha
conosciuto anche lo Sgangarella e di lui parla come di un povero
ragazzo che aveva fatto del male e che - lascia intendere il prete -
cercava in qualche modo di trarre benefici dall'aver conosciuto due
dei personaggi principali coinvolti nella vicenda del Mostro.
Sensazione confermata durante la deposione dello stesso
Sgangarella, il quale dà chiaramente l'idea di esser lì solo per trarre
qualche vantaggio dalla situazione (vedasi il capitolo
dedicato Francesco Vinci).
Sgangarella racconta cose cui si fa fatica a credere, ad esempio che
Francesco Vinci gli avrebbe raccontato tutta la verità sulla vicenda
del MdF in un unico giorno trascorso con lui al centro clinico
penitenziario (i due non si erano mai visti prima e non si sarebbero
mai visti dopo) oppure che in carcere Pacciani desse in
escandescenza ogni volta che qualcuno gli parlava di Dio,
dimostrandosi per questo un satanista convinto. Lo Sgangarella
parla anche di una casa che Pacciani gli avrebbe promesso, ma
anche su questo punto risulta poco credibile e soprattutto poco
chiaro durante la deposizione.
24 Ottobre 1997:
Si siedono sul banco dei testimoni rispettivamente:
Angelo Randellini, ingegnere per le Ferrovie dello Stato, chiamato
dall'avvocato Luca Santoni Franchetti a testimoniare sugli orari
delle chiusure dei passaggi a livello siti in prossimità di Vicchio nel
luglio del 1984.
Dino Salvini, all'epoca del delitto dell'ottobre 1981 comandante
della stazione dei carabinieri di Calenzano, già ascoltato durante il
Processo Pacciani e chiamato a confermare quanto dichiarato nel
precedente dibattimento. Salvini stupisce le parti processuali
fornendo un'inedita versione relativa all'identikit del presunto killer
eseguito dopo il duplice omicidio di Travalle. Rivela infatti per la
prima volta che, a sua memoria, tale identikit non fu ricavato solo
dalla testimonianza dei signori Tozzini e Parisi, ma anche sulla base
della testimonianza di un'altra coppia che, appartata in automobile
in un luogo non lontano da quello del delitto, aveva visto
presumibilmente la stessa persona icrociata da Tozzini e Parisi, che
si muoveva tra i campi a piedi.
Ovviamente le parti processuali si dicono d'accordo nell'indagare
più a fondo su queste inedite rivelazioni.
Francesco Messina, agente dei carabinieri di Borgo San Lorenzo, in
servizio notturno dalle 20.00 alle 08.00 presso la propria caserma la
notte del duplice omicidio di Vicchio. Fu colui che ricevette la
telefonata dell'anonimo "fornaio Farini" che segnalava un incidente
stradale sulla Sagginalese.
Baldo Bardazzi, proprietario del bar "La Torre" a Borgo San
Lorenzo, già ascoltato in occasione del Processo Pacciani. Bardazzi
conferma quanto già dichiarato in precedenza riguardo a un uomo
che sembrava seguire e nutrire astio verso una coppia che lui
avrebbe successivamente identificato come le vittime dell'omicidio
del 1984.
28 Ottobre 1997:
Giornata interamente dedicata alle forze dell'ordine che hanno
effettuato sopralluoghi negli omicidi di Calenzano, Baccaiano,
Giogoli, Vicchio e Scopeti. Tutti già ascoltati in occasione del
Processo Pacciani. Giungono in aula a rendere testimonianza
nell'ordine:
Claudio Valente, nel 1981 agente della polizia scientifica, chiamato
a testimoniare in merito ai rilevamente da lui effettuati sulla scena
del crimine commesso alle Bartoline. Dichiara di non sapere nulla
delle dichiarazione del maresciallo Salvini relative all'identikit del
presunto MdF.
Silvio Ghiselli, nel 1982 capitano dei carabinieri e comandante
della stazione di Signa, uno dei primi ad arrivare sul luogo del
duplice delitto di Baccaiano.
Giuseppe Storchi, maresciallo dei carabinieri, nel 1983 comandante
della Stazione di Firenze Galluzzo, chiamato a descrivere la scena
del crimine del delitto di Giogoli.
Michele Polito, maresciallo dei carabinieri, nel 1984 comandante
della stazione dei carabinieri di Vicchio, chiamato a testimoniare
sulla scena del crimine di Vicchio.
Emanuele Sticchi, all'epoca comandante della stazione dei
carabinieri di Pontassieve, chiamato a testimoniare sempre sul
duplice omicidio di Vicchio.
Giovanni Autorino, ispettore della Polizia Scientifica, rilascia con la
consueta precisione e puntualità una lunga deposizione sui rilievi
effettuati sulle scene del crimine di Giogoli, Vicchio e Scopeti.
30 Ottobre 1997:
Udienza in cui viene ascoltato un unico testimone, il
maresciallo Angelo Diotiaiuti del nucleo operativo di Firenze,
incaricato dal PM Canessa di svolgere indagini per chiarire i dubbi
aperti dalla testimonianza in data 24 ottobre del maresciallo Dino
Salvini sul famoso identikit di Calenzano. Il maresciallo Diotiaiuti
conferma che agli atti risulta che l'identikit di Calenzano è stato
tracciato sulla base della testimonianza di un'unica coppia (Parisi e
Tozzini) e dunque che il ricordo del Salvini è fallace.
31 Ottobre 1997:
Giornata d'udienza in cui siedono sul banco dei testimoni
rispettivamente:
Piero Becherini, amico di Claudio Stefanacci, il primo ad arrivare
sul luogo del delitto alla Boschetta, dopo che lo stesso era stato
commesso. Becherini dichiara di avere visto talvolta la Panda
celestina di Claudio bazzicare la piazzola della Boschetta, dunque
aveva inteso, durante le ricerche della coppia, controllare quel
luogo. Becherini vi giunse a tarda notte, notò la Panda da cui non
proveniva alcun segno di vita, provò a chiamare ad alta voce la
coppia, ma il luogo era estremamente buio e non ebbe il coraggio di
avvicinarsi, limitandosi dunque ad andare a chiamare i soccorsi.
Giovanni Carminati, nipote di Pietro Pacciani, che lavorò presso il
bar "La Nuova Spiaggia" poco dopo la morte di Pia Rontini.
6 Novembre 1997:
Interessante giornata, interamente dedicata alla deposizione dei
medici legali che hanno eseguito i rilievi sui cadaveri delle vittime
del MdF per il delitti di Calenzano, Giogoli, Baccaiano, Vicchio e
Scopeti.
I dottori chiamati a deporre sono: Mauro Maurri, Giovanni
Marello, Riccardo Cagliesi Cingolani, Maria Grazia
Cucurnia e Antonio Cafaro.
Durante queste deposizioni si parla fra le altre cose della possibilità
che la Rontini possa aver gridato mentre veniva trascinata dal
Pacciani verso il campo di erba medica dove poi venne mutilata
(così come aveva dichiarato il Lotti) e sull'eventuale data del delitto
degli Scopeti.
11 Novembre 1997:
Giornata d'udienza in cui siedono sul banco dei testimoni
rispettivamente:
Giuseppe Fazzina, detenuto e vicino di cella del Pacciani, che in
precedenza aveva dichiarato di aver ricevuto l'incarico dallo stesso
Pacciani di ammazzare e mutilare una coppia con una Beretta
calibro 22 che gli avrebbe fornito lui, al fine di scagionarlo dalle
accuse di essere il MdF. Durante la sua deposizione il Fazzina
ritratta le precedenti dichiarazioni, parvendo seriamente
indispettito dal fatto che i benefici che aveva richiesto in cambio
delle sue rivelazioni non gli erano stati concessi. Anche in questo
caso appare da dibattimento un chiaro esempio di carcerato che
aveva tentato di avere dei vantaggi millantando improbabili
rivelazioni.
Massimo Fanni, ispettore della Squadra Mobile di Firenze,
incaricato dalla Procura di condurre indagini sulla situazione
patrimoniale di Mario Vanni.
Infine, don Fabrizio Poli, parroco presso la chiesa di San Donato a
Chiesanuova, nella cui comunità ospitò Giancarlo Lotti fino ai primi
di febbraio del 1996, quando poi il Lotti divenne un "pentito" e fu
trasferito dalla Procura in località segreta.
13 Novembre 1997:
In questa giornata siedono sul banco dei testimoni:
Il dottor Mauro Maurri, convocato per effettuare una valutazione
di compatibilità su alcuni coltelli che vengono presentati in aula, tra
cui è presente quello sequestrato nella cucina del Vanni.
Giovanni Simpatia, graduato della polizia scientifica, autore
materiale del famoso identikit realizzato dopo il delitto di
Calenzano. Il Simpatia dichiara senza tema di smentita che tale
identikit era stato eseguito esclusivamente sulla base delle
deposizioni della coppia Tozzini e Parisi, mettendo di fatto la
parola fine a qualsiasi speculazione sull'argomento.
27 Novembre 1997:
Udienza che si apre con la richiesta dell'avvocato Filastò di
scarcerazione del Vanni. Segue la prima parte della lunghissima
testimonianza dell'imputato reo confesso Giancarlo Lotti.
28 Novembre 1997:
Seconda giornata di udienza dedicata alla testimonianza
di Giancarlo Lotti.
3 Dicembre 1997:
Terza giornata di udienza dedicata alla testimonianza di Giancarlo
Lotti. Comincia il controesame dell'avvocato Filastò.
5 Dicembre 1997:
Quarta estenuante giornata di udienza dedicata alla testimonianza
di Giancarlo Lotti.
9 Dicembre 1997:
Quinta giornata di udienza dedicata alla testimonianza
di Giancarlo Lotti.
11 Dicembre 1997:
Sesta e ultima giornata dedicata alla deposizione del reo-
confesso Giancarlo Lotti.
Segue quindi deposizione dell'imputato Alberto Corsi, il quale
accetta di rispondere alle domande del PM, delle Parti e del proprio
avvocato difensore.
Infine è la volta del dottor Carlo Nocentini, psicologo e
psicoteraupeta che nel novembre del 1981 era stato incaricato dal
Giudice Istruttore del Tribunale di Prato, dottor Palazzo, di
redigere una perizia psichiatrica sull'autore degli omicidi.
Nocentini commenta la sua perizia, parlando di un soggetto
probabilmente affetto da sindrome paranoide e ponendo l'accento
su un eventuale episodio traumatico avvenuto in età infantile, forse
avente a che fare con la figura materna, che potrebbe aver scatenato
l'odio del cosiddetto Mostro nei confronti delle donne.
12 Dicembre 1997:
Giornata dedicata ai testimoni dell'avvocato Filastò, difensore del
Vanni. Vengono chiamati a deporre:
Luciano Calonaci, abitante di Cerbaia. L'uomo sostiene di aver
visto la sera dell'omicidio di Bacciano, attono alle 21.30,
un'automobile della polizia percorrere molto lentamente la strada
davanti casa sua. Alla guida c'era un individuo sospetto che si
guardava attorno come in cerca di qualcosa. Secondo Calonaci,
quando l'uomo si accorse di essere ben illuminato dalle luci della
festa di paese, cercò di nascondersi o quanto meno di pararsi il
volto.
Come visto in occasione del capitolo dedicato a Baccaiano, in realtà
il controinterrogatorio del PM Paolo Canessa mette in evidenza le
contaddizioni della testimonianza del Calonaic. In special modo,
quando Calonaci, il 10 Settembre 1985 (3 anni dopo l'omicidio di
Baccaiano), andò a denunciare questo fatto, dichiarò di aver visto la
macchina e il poliziotto il giorno prima dell'omicidio e non lo stesso
giorno; la distanza fra casa del Calonaci e luogo del delitto era di
circa 7 km, dunque non proprio vicinissimi; infine Calonaci non era
neanche certissimo che quella da lui vista fosse una macchina della
polizia.
Maria Grazia Vanni, sorella dell'imputato Mario Vanni e mamma
di Alessandra Bartalesi. Una deposizione interessante questa
perché fornisce uno spaccato di vita del Vanni e dell'Alessandra,
pur senza ovviamente essere dirimente in un senso o nell'altro.
16 Dicembre 1997:
Giornata nuovamente dedicata ai testimoni dell'avvocato Filastò,
difensore del Vanni. Vengono chiamati a deporre nell'ordine:
Lorenzo Allegranti, autista dell'ambulanza della Croce Verde che
era intervenuta per soccorrere il Mainardi e la Migliorini, vittime
del MdF a Baccaiano nel 1982. Allegranti parla dell'intervento
effettuato la notte dell'omicidio (sostiene di aver estratto lui il
Mainardi dalla vettura) e delle telefonate anonime ricevute dal
presunto mostro nei giorni, nei mesi e addirittura negli anni
successivi all'omicidio (vedasi capitolo dedicato al delitto
di Baccaiano). La testimonianza dell'Allegranti verrà in parte
smentita dai barellieri della sua ambulanza (i quali affermeranno
che l'Allegranti non aveva avuto accesso all'interno dell'automobile
del Mainardi). Anche per quanto riguarda le telefonate anonime,
son sempre apparse più convincenti le rimostranze della Pubblica
Accusa, piuttosto che le convinzioni dell'Allegranti (e del Filastò).
Carlo Nocentini, psicologo e psicoteraupeta, chiamato a completare
la testimonianza dell'11 dicembre quando per esigenze di tempo era
stato costretto a interromperla.
Giuseppe Zanetti, avvocato già ascoltato in occasione del Processo
Pacciani. Ripete bene o male la stessa deposizione fornita in
occasione del precedente processo: dichiara di aver incontrato
durante i suoi allenamenti in biciletta per alcuni giorni consecutivi e
immediatamente precedenti al delitto degli Scopeti un'atomobile
Ford Fiesta parcheggiata nei pressi della piazzola. L'ultimo giorno,
vicino a questa vettura, c'era un uomo piuttosto distinto che
guardava in direzione della piazzola e che sicuramente non era il
Pacciani.
17 Dicembre 1997:
Giornata quasi interamente dedicata ai testimoni dell'avvocato
Zanobini, dinfensore del Corsi. Vengono chiamati a deporre
nell'ordine:
Dante Fusi, chiamato a testimoniare sul grado di conoscenza fra
Corsi e Vanni e sulle cene estive tenute a San Casciano cui
partecipava parte degli abitanti.
Gino Cirri, amico di famiglia dell'avvocato Corsi e saltuariamente
aiutante nel suo studio. Anche lui chiamato a deporre sul grado di
conoscenza fra l'avvocato Corsi e il Vanni.
Giovacchino Leoncini, amico dell'avvocato Corsi, anche lui
chiamato a deporre sulla conoscenza fra Vanni e Corsi e sulle cene
estive sancascianesi.
Giuseppe Zanetti, chiamato nuovamente a deporre, questa volta
dal PM Canessa che vuole contestargli alcune incongruenze fornite
nella sua testimonianza del giorno prima.
19 Dicembre 1997:
Giornata densa di testimoni. Nell'ordine si presentano a deporre:
Concetta Bartalesi e Graziano Marini, una delle due coppie che per
prima si era fermata a verificare cosa fosse successo all'automobile
del Mainardi in occasione dell'omicidio di Bacciano.
Adriano Poggiarelli e Stefano Calamandrei, l'altra coppia (questa
volta di amici) giunta per prima nella piazzola nel delitto.
Mario Di Lorenzo, proprietario del ristorante presso cui si erano
fermati la Bartalesi e il Marini per chiamare i soccorsi. Al termine
della telefonata il Di Lorenzo si era precipitato lui stesso sul luogo
del delitto.
Silvano Gargalini, Marco Martini e Paolo Ciampi, i ragazzi,
all'epoca minorenni, che prestavano servizio presso la Croce Verde
di Monterspertoli e giunsero sul luogo del delitto a bordo
dell'ambulanza guidata dall'Allegranti.
Tutte queste deposizioni non chiariscono definitivamente la
posizione del corpo del Mainardi. Come ampiamente visto nei
capitoli dedicati al duplice omicidio di Baccaiano, per le due coppie
giunte per prime sul luogo, il Mainardi era davanti. Per i
soccorritori era dietro. Per il Di Lorenzo era nell'incavo fra i due
sedili anteriori con il busto completamente reclinato sul sedile
posteriore.
Giuliano Ulivelli, marito della sorella del Mainardi, portato a
testimoniare dall'avvocato di Parte Civile, Aldo Colao. L'Ulivelli
racconta le vicende concitate vissute la notte del duplice omicidio.
Inoltre parla delle condizione dell'automobile di Paolo, da lui vista
diverso tempo dopo il delitto che presentava vistose colature di
sangue nel pannello dello sportello anteriore sinistro (quello del
conducente), lì dove scorre il finestrino. La testimonianza di Ulivelli
porta indubbiamente ad ipotizzare che Paolo fosse seduto sul sedile
anteriore. Per maggiori dettagli, si veda il capitolo Mostrologia a
Baccaiano.
Don Renzo Polidori, parroco di San casciano, testimone della
difesa. Il prete parla della sua conoscenza del Vanni, da lui definito
persona piuttosto credente ed ottimo cittadno.
Piero Ciappi, medico di famiglia del Vanni, testimone della difesa.
Riferisce sommariamente delle condizioni di salute della moglie del
Vanni.
Francesca Bartalesi, nipote di Mario Vanni e sorella minore
dell'Alessandra, viene ascoltata nuovamente come testimone della
difesa.
Alessandra Bartalesi, nipote di Mario Vanni, anche lei viene
ascoltata nuovamente come testimone della difesa. Sia lei che la
sorella non aggiungono nulla di nuovo al quadro rispetto a quanto
già detto nelle deposizioni del 14 luglio. Tuttavia queste due nuovi
deposizioni si sono rese necessarie per permettere all'avvocato
Filastò (all'epoca dimessosi dal ruolo di difensore del Vanni) di
poterle ascoltare e interrogare.
Anna Bandinelli, cuoca alla festa dell'Unità a Cerbaia nel settembre
del 1985. Viene portata a deporre dall'avvocato Filastò
sull'eventuale avvistamento della coppia francese alla suddetta
festa. In realtà la signora dichiara di non sapere nulla a riguardo,
poiché dalla cucina non era possibile vedere gli avventori.
Marcello Fantoni, omonimo del Fantoni meccanico che aveva
testimoniato al Proceso Pacciani. Costui era stato volontario alla
festa dell'Unità di Cerbaia, addetto a servire ai tavoli. Dichiara di
aver servito la coppia francese uccisa agli Scopeti e di averli
riconosciuti dopo l'omicidio, avendo visto la loro foto sui giornali.
Abbiamo già parlato nel capitolo dedicato agli Scopeti di una
possibile fallacità di questa testimonianza.
Massimiliano Malanchi, volontario alla festa dell'Unictà di
Cerbaia, era l'addetto al bar. Non ha visto i francesi alla festa, non è
in grado di avvalorare o meno la deposizione precedente del
Fantoni.
Angelo Cantini, volontario alla festa dell'Unictà di Cerbaia, addetto
alla cottura della carne alla brace. Afferma di avere pochi ricordi di
quanto avvenuto oltre dieci anni prima, così durante la sua
deposizione viene letto il verbale d'interrogatorio risalente al
settembre 1985. In tale verbale il Cantini affermava di aver visto i
due ragazzi francesi alla festa dell'Unità la sera del venerdì, di
averli riconosciuti dalle foto pubblicate sui giornali dopo il duplice
omicidio e di aver notato che la ragazza delle foto aveva i capelli
più corti rispetto a quella che aveva incontrato, particolare questo
coerente con l'effettivo taglio di capelli che la Mauriot portava in
quel settembre del 1985. Da notare però che in tale verbale è scritto
che l'incontro era avvenuto venerdì 7 settembre, quando invece
venerdì era il 6 settembre. Resta dunque il dubbio se i francesi
fossero stati visti dal Cantini venerdì 6 o sabato 7. Da un punto di
vista puramente nasometrico, come già accennato nel capitolo
dedicato agli Scopeti, per esperienza quotidiana è probabile che sia
più corretto il riferimento al giorno della settimana che non al
numero del mese. Ma di questo ovviamente non v'è certezza.
Giuliano Del Mastio, amico di vecchia data del Vanni, ascoltato
dall'avvocato Filastò, parla sommariamente e brevemente della
figura di Mario Vanni.
22 Dicembre 1997:
L'udienza si apre con la lettura da parte del presidente Federico
Lombardi di una lettera scritta da un detenuto di nome Massimo
Ricci e pervenuta alla Corte di Assise di Firenze. Tale Ricci,
detenuto nello stesso carcere del Vanni, afferma di essere a
conoscenza di "varie cose riguardanti i delititti delle coppiette",
rivelategli proprio dallo stesso Vanni. Il Vanni tuttavia nega di aver
mai conosciuto questo tale Ricci; inoltre emerge chiaramente che il
postino di San Casciano ha pochissimi contatti con gli altri detenuti.
Di seguito le testuali parole del Vanni: "Senta, io sono amico solamente
di Arvaro, di quello che sono in cella, e basta; e qualche volta vo a pigliare
il mangiare, quando un c'è: 'buongiorno' o 'buonasera', secondo... Se gli è
mezzogiorno, buongiorno; se gli è di sera, gli è di sera. Poi un conosco più
nessuno..."
A tutti gli effetti appare la classica lettera di qualcuno che millanata
informazioni in cambio di possibili benefici. Sebbene tutti appaiono
(giustamente) piuttosto scettici sull'attendibilità di questa lettera, il
PM chiede di poter ascoltare tale Ricci. L'avvocato Filastò si
oppone. La Corte respinge la richiesta del PM.
23 Dicembre 1997:
Ultima giornata di udienza prima della pausa natalizia dedicata alle
deposizioni di:
Michele Giuttari, chiamato nuovamente in udienza dall'avvocato
Filastò per rispondere a domande sull'attendibilità del Lotti.
Pietro Frillici, maresciallo dei carabinieri, convocato a deporre
dall'avvocato Filastò sulle indagini condotte sulla lettera spedita
alla dottoressa Della Monica nel settembre del 1985.
Giorgio Torricelli, e Umberto Marini, amici di infanzia del Vanni,
anche loro chiamati a deporre su richiesta dell'avvocato Filastò circa
la loro amicizia con l'imputato.
07 Gennaio 1998:
Al ritorno dalla pausa natalizia, erano attesi a deporre per la Difesa
del Vanni i periti di Modena, ma per disguidi vari costoro non si
sono presentati in aula. L'udienza viene così rimandata al 12
gennaio per mancanza di testimoni.
12 Gennaio 1998:
Giornata dedicata alle deposizione dei Periti di Modena, i
professori Francesco De Fazio, Salvatore Luberto, Giovanni
Beduschi, Ivan Galliani e Giovanni Pierini. L'equipe di Modena
era stata chiamata a testimoniare dalll'avvocato Filastò, difensore
del Vanni. Probabilmente l'idea del Filastò era che tale equipe
avesse difeso il proprio lavoro svolto fra il 1984 e il 1985, nel quale
parlava di un serial killer unico, mosso da evidenti parafilie di tipo
sessuale. In realtà, come nel precedente Processo qiando l'imputato
era Pacciani, anche stavolta l'equipe De Fazio tenta di barcamenarsi
fra le teorie della Pubblica Accusa e il profilo emerso dal proprio
lavoro. In definitiva, non sembra porre un veto assoluto a ciò che
sostiene l'Accusa, pur lasciando intendere comunque di preferire la
pista del serial killer unico.
Completa la giornata di udienza l'interessante deposizione del
professor Francesco Bruno, in questo caso convinto assertore della
teoria del serial killer unico.
13 Gennaio 1998:
Giornata dedicata ai testimoni chiamati dalla difesa del Faggi.
Il primo testimone è Antonio Felli, il quale parla di una gita che
aveva compiuto a Celano in Abruzzo con il Faggi tra la fine di
ottobre e l'inizio di novembre dell'anno 1980 o 1981 e che potrebbe
costituire un alibi per l'imputato. La difesa tende, infatti, a collocare
questo viaggio proprio in prossimità della data del delitto di
Calenzano.
Segue la testimonianza di Ennio Pisi, vicino di casa del Faggi.
L'uomo parla dello stile di vita estremamente abitudinario e
morigerato dell'imputato. Viene descritta difatti una persona
metodica, tranquilla, lontana da ogni eccesso.
16 Gennaio 1998:
L'udienza si apre con le dichiarazioni dell'avvocato Filastò che
informa la corte dello stato di salute notevolmente peggiorato del
Vanni, ricoverato il giorno prima in ospedale per accertamenti.
Viene disposta una perizia su tale stato di salute da parte della
Corte.
Rendono a seguire testimonianza rispettivamente:
Il signor Giuseppe Paride Rizzi, testimone della difesa del Faggi,
colui che aveva venduto all'imputato una Fiat Argento grigio
metalizzata. Secondo il Rizzi, tale automobile era stata acquistata
dal Faggi nel febbraio/marzo 1987, dunque oltre cinque anni dopo
il delitto di Calenzano e quasi due anni dopo il delitto degli Scopeti.
Si ricordi che secondo il Lotti, il Faggi aveva assistito al delitto degli
Scopeti a distanza di sciurezza, a bordo della sua auto, che
verosimilmente era appunto una Fiat Argenta grigio metalizzata.
Il dottor Ruggero Perugini, chiamato a rendere testimonianza dalla
difesa del Vanni. Il Perugini descrive brevemente il percorso che ha
portato all'imputazione del Pacciani, dichiara che le indagini a suo
tempo svolte sugli amici del Pacciani (Vanni, Lotti, Faggi,
Simonetti, Toscano) non avevano portato a nulla. Fra le righe
Perugini ribadisce la sua convinzione di Pacciani serial killer unico.
Infine tocca al dottor Giuseppe Forti, chiamato a presentare un
elaborato sulla situazione lunare in occasione di tutti gli omicidi
commessi dal MdF.
23 Gennaio 1998:
Breve udienza dedicata all'accertamento dello stato di salute di
Mario Vanni. Si profila un serrato dibattito fra i medici e i periti di
parte per verificare lo stato cognitivo dell'imputato. Depongono i
dottori Franco Barontini e Mauro Maurri per l'Accusa e i
dottori Carla Niccheri e Massimo Sottini per la Difesa.
I primi sostengono che il decadimento mentale del Vanni sia di
lieve grado e comunque in linea con una persona della sua eta,
diabetica e vittima di TIA (attacchi ischemici transitori). I periti di
parte sostengono che il decadimento mentale del Vanni sia
accentuato e non gli permetta di essere orientato nel tempo e nello
spazio.
27 Gennaio 1998:
Giornata di udienza molto interessante. Rendono tesimonianza
nell'ordine:
la signora Maria Antonietta Sperduto, che fra le lacrime depone
sulle violenze da lei subite da parte di Pacciani e Vanni, una di
queste a suo dire avvenuta nei pressi della piazzola degli Scopeti
nell'automobile 500 del Pacciani. La Sperduto ricorda durante
questa testimonianza anche le violenze subite da suo marito ad
opera del Pacciani, del carabiniere Filippo Neri Toscano, di sua
cognata Maria Mugnaini (moglie di Bruno Malatesta, fratello di
Renato) e di suo cognato Antonio Andriaccio (marito della sorella
della stessa Sperudto).
Segue la deposizione del nipote del Vanni, il signor Paolo Vanni,
chiamato nuovamente a rispondere ad altre domande sui suoi
colloqui con l'avvocato Corsi e sulla famosa lettera inviata dal
Pacciani al Vanni, quando Pietro era in carcere.
Il signor Renzo Rontini, chiamato nuovamente a deporre sugli
spostamenti di Pia il giorno dell'omicidio, sulle sue abitudini e gli
orari lavorativi e infine sulla eventuale buca ritrovata alla Boschetta,
cui aveva fatto cenno il Lotti: secondo il Rontini tale buca era
coperta da un sasso e conteneva al suo interno paglia e terriccio.
Pare che la prima persona a parlare dell'esistenza di questa buca
fosse stata una medium.
I signori Igino Borsi e Paolo Bonciani, rispettivamente genero del
proprietario e proprietario della pensione Ponte Agli Scopeti, i
quali affermano che la domenica mattina 8 settembre 1985 videro
Nadine Mauriot fare colazione presso il loro bar e dunque attestano
che la domenica mattina la coppia fosse ancora viva (abbiamo già
parlato di tale tesitmonianza in occasione del capitolo dedicato
agli Scopeti).
Infine, il dottor Michele Giuttari, chiamato nuovamente a
rispondere a qualche domanda sia sulla buca cui aveva fatto
precedentemente riferimento il Rontini, sia sulle indaigni condotte
sul carabiniere Filippo Neri Toscano.
28 Gennaio 1998:
Giornata dedicata alle ultime richieste delle parti. Parlano il
PM Paolo Canessa, l'avvocato Gabriele Zanobini e l'avvocato Nino
Filastò. Quest'ultimo sembra intenzionato a voler prendere tempo,
facendo richieste (per esempio una perizia psichiatrica sul Vanni)
che inevitabilmente la Corte sarà portata a respingere. Si può
presupporre che questa strategia avesse come fine permettere alla
Difesa di concludere alcune indagini parallele (come quella
sull'automobile del Lotti) che stava conducendo.
31 Gennaio 1998:
In questa giornata la Corte, per voce del Presidente Federico
Lombardi, risponde alle richieste presentate in data 28 gennaio
dalle parti processuali. Viene inoltre stabilito - su richiesta del PM
senza alcuna opposizione delle Parti - che venga chiamato a
testimoniare il signor Lorenzo Mocarelli per deporre sulla
questione cartucce Winchester trovate in possesso del carabiniere
amico del Pacciani, Filippo Neri Toscano (vedasi capitolo dedicato
a via Faltignano.
Il Processo viene aggiornato alla data del 16 Febbraio 1998 per
permettere alle Parti di preparare le loro rquisitorie finali.
16 Febbraio 1998:
Riprende l'udienza con gli interventi del Presidente Federico
Lombardi, del PM Paolo Canessa e dell'avvocato difensore Nino
Filastò. Continua ad apparire chiaro il tentativo di Filastò di
allungare i tempi del Processo.
17 Febbraio 1998:
Giornata dedicata unicamente alla deposizione del signor Lorenzo
Mocarelli, chiamato a testimoniare sul passaggio di cartucce
Winchester dalle sue mani a quelle del carabiniere Filippo Neri
Toscano.
Il Mocarelli è un ex carabiniere ottantenne con problemi d'udito.
Dichiara di avere grande stima del Toscano e di avergli venduto nel
1985 una Beretta Calibro 22, regolarmente denunciata. Insieme alla
Beretta dichiara di avergli regalato alcune cartucce, non sapendone
però quantificare il numero. Il Mocarelli non ha ricordi precisi sul
lasso di tempo in cui ha frequentato il poligono delle Cascine. Alla
fine la sua testimonianza non risulta di grande utilità.
19 Febbraio 1998:
Comincia in questa data la requisitoria finale del Pubblico
Ministero, Paolo Canessa.
20 Febbraio 1998:
Giornata interamente dedicata alla requisitoria del sempre ottimo
oratore Pubblico Ministero, Paolo Canessa.
23 Febbraio 1998:
Il Pubblico Ministero, Paolo Canessa, termina la sua requisitoria
con le seguenti richieste: ergastolo per Mario Vanni, 21 anni
per Giancarlo Lotti, 1 anno e 6 mesi per Alberto Corsi. Assoluzione
invece per Giovanni Faggi, in quanto secondo la Pubblica Accusa
non sono state trovate prove sufficienti alla condanna.
Al termine l'avvocato Francesco Paolo Guidotti, in sostituzione
dell'avvocato Luca Santoni Franchetti, gravemente malato (morirà
il 24 gennaio 1999), legge le richieste della suddetta parte civile,
riassumibile nella condanna degli imputati secondo le pena previste
dal Codice.
24 Febbraio 1998:
Cominciano le dichiarazioni finali delle Parti Civili. Parlano
nell'ordine l'avvocato Andrea Capanni per Marzia Rontini, sorella
di Pia; l'avvocato Aldo Colao per la mamma di Paolo Mainardi,
l'avvocato Patrizio Pellegrini per i genitori di Pia Rontini, infine
l'avvocato Rossi per Cinzia Cambi, sorella di Susanna.
Le parti civili, nessuna esclusa, chiederanno la condanna di tutti gli
imputati, compreso il Faggi, non allineandosi almeno in questo alla
richiesta del PM.
25 Febbraio 1998:
Giornata ancora interamente dedicata alle Parti Civili. Parlano
nell'ordine, l'avvocato Gian Paolo Curandai per la sorella di Renzo
Rontini, l'avvocato professor Giovanni Paolo Voena per la mamma
del Baldi e l'avvocato Luca Saldarelli per la signora Nencini,
mamma di Susanna Cambi.
26 Febbraio 1998:
Giornata dedicata alla prima arringa difensiva. Il solito impeccabile
avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi, replica alle
richieste del PM.
27 Febbraio 1998:
Tocca all'avvocato Stefano Bertini, difensore del Lotti, tenere la sua
arringa difensiva.
2 Marzo 1998:
Giornata dedicata alle arringhe difensive degli avvocati Sigfrido
Fenyes e Federico Bagattini, a difesa dell'imputato Giovanni Faggi.
3 Marzo 1998:
Comincia la lunga arringa dei difensori di Mario Vanni. Prende la
parola per primo l'avvocato Antonio Mazzeo, il cui fine è mettere
in evidenza tutte le bugie dichiarate dal Lotti e dal Pucci durante le
loro confessioni e testimonianze.
4 Marzo 1998:
Nella giornata odierna, continua l'arringa dell'avvocato Antonio
Mazzeo.
5 Marzo 1998:
L'udienza comincia con una breve dichiarazione del PM Paolo
Canessa, il quale rivela che dopo un'attenta analisi di quanto
sequestrato al Faggi, è stata rivenuta una seconda agenda da cui
emergerebbe che la gita a Celano in Abruzzo con il Felli non
sarebbe avvenuta nel weekend più prossimo alla data dell'omicidio
di Calenzano ma il primo weekend di novembre, smontando così in
parte - a suo dire - l'alibi del Faggi. Il PM lascia intendere di voler
cambiare in fase di replica la propria richiesta di assoluzione per
l'imputato.
Prende la parola l'avvocato Nino Filastò, che in questa prima
giornata di arringa si limita a tracciare un profilo psicologico del
Vanni e a narrarne la difficile vita, soffermandosi in particolar
modo sui rapporti con la moglie e sull'episodio della presunta
caduta dalle scale della stessa.
6 Marzo 1998:
Continua la lunga arringa difensiva dell'avvocato Nino Filastò.
9 Marzo 1998:
Terza giornata d'udienza interamente dedicata all'arringa difensiva
dell'avvocato Nino Filastò.
10 Marzo 1998:
Quarta giornata d'udienza interamente dedicata all'arringa
difensiva dell'avvocato Nino Filastò.
11 Marzo 1998:
Ancora una giornata d'udienza interamente dedicata all'arringa
difensiva dell'avvocato Nino Filastò. In questa occasione l'avvocato
accenna per la prima volta in maniera che passa quasi
completamente inosservata al fatto che Lotti potesse non essere
possessore della 128 rossa nel settembre del 1985.
12 Marzo 1998:
Termina l'arringa definitiva dell'avvocato Nino Filastò.
Successivamente prende la parola il PM Paolo Canessa che replica
alle arringhe dell'avvocato Zanobini (in difesa di Corsi) e
dell'avvocato Bagattini (in difesa di Faggi). In questa occasione il
dottor Canessa modifica ufficialmente le richieste iniziali
per Giovanni Faggi, chiedendo anche per lui la condanna a 21 anni
di carcere.
13 Marzo 1998:
Giornata interamente dedicata alla replica del PM Paolo
Canessa nei confronti dei difensori del Vanni, avvocati Mazzeo e
Filastò.
16 Marzo 1998:
Giornata importante questa a livello processuale. Apre l'udienza la
replica dell'avvocato di Parte Civile, Aldo Colao.
Al termine, prende la parola l'avvocato Nino Filastò, il quale
consegna i documenti relativi all'acquisto di una nuova automobile
del Lotti (la FIAT 124 celeste) nel luglio 1985. Filastò ancora non
parla di voltura dell'assicurazione in questo contesto, ma si limita a
considerare che nel settembre 1985 il Lotti fosse possessore di due
automobili, una che probabilmente non circolava più (la 128 rossa,
poi demolità nell'aprile 1986) e una che aveva appena acquistato.
Chiede dunque l'acquisizione dei nuovi documenti, la riapertura
dell'istruttoria ed eventualmente che vengano ammessi come
testimoni i signori Scherma, datori di lavoro del Lotti nel settembre
1985.
Il PM Paolo Canessa si dice remissivo all'acquisizione dei nuovi
documenti ma altresì convinto che son documenti che non provano
granché. Le Parti Civili (nelle persone degli avvocati Gian Paolo
Curandai e Aldo Colao) invece si oppongono alla riapertura
dell'istruttoria. L'avvocato difensore del Faggi, Federico Bagattini,
è d'accordo con Filastò.
La Corte accoglie la riapertura dell'istruttoria, l'acquisizione dei
documenti e la deposizione di ulteriori testimoni. Vengono dunque
interrotte requisitorie e repliche.
17 Marzo 1998:
L'istruttoria è riaperta. Viene interrogato nuovamente Giancarlo
Lotti, il quale dichiara che per un certo periodo era stato in possesso
di entrambe le macchine, di essere comunque stato a Scopeti la sera
del delitto con la 128 rossa e di avere assicurato la nuova vettura a
partire dal 20 settembre 1985, data in cui scadeva l'assicurazione
alle vecchia automobile. Lotti è in questa occasione particolarmente
reticente, non capisce le domande, dà risposte vaghe e polemiche,
non chiarisce alcun dubbio, tanto che persino il
presidente Lombardi perde la pazienza, accusandolo di mentire.
Effettivamente, si scoprirà in appello, che in questa occasione il
Lotti stava mentendo.
In seguito vengono chiamati a deporre: Franco Bellini, proprietario
dell'officina meccanica presso cui Lotti aveva acquistato la 124
celeste.
Karl Schwarzenberg, vecchio proprietario della 124 celeste.
Gino Coli, collaboratore del Bellini, colui che materialmente si è
occupato della vendita della 124 celeste al Lotti.
Roberto Scherma, datore di lavoro di Giancarlo Lotti alla draga,
colui che gli ha anticipato i soldi per l'acquisto della 124 celeste.
Luigi Scherma, figlio di Roberto.
Nessuno di queste testimonianze è dirimente in un senso o
nell'altra. Nessuno ricorda con precisione la data in cui Lotti è
entrato in possesso della 124 celeste, né precisamente la data in cui
Lotti ha smesso di utilizzare la 128 rossa. Le uniche informazioni
certe in questo momento del dibattimento sono: il documento che
attesta l'acquisto da parte del Lotti della 124 celeste in data 3 luglio
1985; i documenti che attestano che l'assicurazione della 128 rossa
scadeva in data 20 settembre 1985 e che da quel giorno veniva
assicurata la 124 celeste. Nessuno in quel momento parla ancora di
voltura dell'assicurazione da un'automobile all'altra al momento
dell'acquisto da parte del Lotti della nuova automobile. Tanto meno
nessuno in quel momento sa ancora che prima del settembre 1985 il
Lotti aveva già avuto due incidenti con la 124 celeste. Tali
acquisizione verranno fatte solo in seguito e presentate al Processo
d'Appello.
18 Marzo 1998:
Il dibattimento riprende il proprio naturale corso con le repliche
delle Parti Civile, in particolare gli avvocati Giovanni Paolo
Voena e Gian Paolo Curandai.
E poi il turno degli avvocati difensori; parlano nell'ordine,
l'avvocato Federico Bagattini, difensore del Faggi, e
l'avvocato Gabriele Zanobini, difensore del Corsi.
In serata comincia la sua replica il secondo difensore del Vanni,
l'avvocato Antonio Mazzeo.
19 Marzo 1998:
Termina la sua replica l'avvocato Antonio Mazzeo. A seguire
prende la parola il primo difensore del Vanni, l'avvocato Nino
Filastò, con la cui arringa si chiude definitivamente il Processo di
primo grado ai Compagni di merende.
24 Marzo 1998:
Il giudice Federico Lombardi legge la sentenza che stabilisce
quanto segue:
condanna per Mario Vanni alla pena dell'ergastolo per aver
commesso i cinque ultimi duplici omicidi attribuiti al Mostro di
Firenze (dal secondo 81 in poi);
condanna per Giancarlo Lotti a trent'anni di reclusione per essere
stato complice negli ultimi quattro duplici omicidi attribuiti al
Mostro di Firenze (dal 1982 in poi);
assoluzione per Alberto Corsi perché il fatto non sussiste.
assoluzione per Giovanni Faggi per non aver commesso il fatto.
Appendice D - Il Processo Calamandrei
27 Novembre 2007:
Introduzione da parte del giudice Silvio De Luca.
Breve intervento dell'avvocato difensore dell'imputato Gabriele
Zanobini, cui segue la relazione introduttiva al Processo del
Pubblico Ministero Paolo Canessa, il quale illustra il percorso che
ha seguito la Procura di Firenze per arrivare all'individuazione
nell'imputato Francesco Calamandrei del mandante dei delitti del
Mostro di Firenze.
28 Novembre 2007:
Giornata interamente dedicata alla conclusione della relazione del
PM Paolo Canessa.
29 Novembre 2007:
Prende la parola l'altro Pubblico Ministero del processo, il
dottor Alessandro Crini, il quale nella sua lunga relazione pone
l'accento sull'attendibilità dei testimoni che hanno portato
all'individuzione del Calamandrei.
21 Gennaio 2008:
Dopo una lunga pausa, prosegue la relazione del dottor Alessandro
Crini. Numerosi i riferimenti da lui fatti alla persona di Francesco
Narducci, considerato dalla Pubblica Accusa uno dei mandanti dei
delitti, nonché a sua volta vittima dei propri complici.
22 Gennaio 2008:
Ultima giornata di udienza dedicata alla relazione del
dottor Alessandro Crini: vengono illustrate e spiegate le accuse
rivolte al marito della signora Mariella Ciulli, moglie
dell'imputato. Secondo il PM, le prime accuse della Ciulli, risalenti
al 1988, avevano una solida base di verità. In seguito la donna
avrebbe visto scemare profondamente la propria capacità di
intendere e di volere, proprio a causa di ciò che aveva scoperto sul
conto del marito.
Al termine, prende la parola il dottor Paolo Canessa per chiedere al
giudice di ammettere nel fascicolo del processo la testimonianza del
dottor Achille Sertoli, dermatologo e amico del Clamandrei, il
quale durante un interrogatorio aveva dichiarato che l'amicizia fra
l'imputato e il mago Indovino risaliva all'incirca alla fine degli
sessanta.
L'avvocato difensore dell'imputato, Gabriele Zanobini, si dice
contrario all'ammissione per questioni di procedura penale e non
manca di far notare come alla fine degli anni '60, il mago Indovino
neanche vivesse in Toscana.
Il giudice De Luca accoglie la richiesta del PM e scioglie la seduta.
5 Febbraio 2008:
Giornata dedicata agli avvocati di parte civile. Apre l'udienza
l'avvocato Vieri Adriani, parte civile per la famiglia Kraveichvili, il
quale si limita a leggere le conclusioni, allineandosi alle richieste di
colpevolezza e di pena formulate dalla Pubblica Accusa. Segue,
sempre per la famiglia Kraveichvili, l'avvocato Fabrizio Corbi, il
cui intervento è lungo e dettagliato e le cui conclusioni sono
chiaramente in lingua a quelle della Pubblica Accusa.
Infine, è la volta dell'avvocato Patrizio Pellegrini, parte civile per la
signora Winnie Kristensen, madre di Pia Rontini. Dopo lunga
disamina degli eventi, l'avvocato chiede la condanna dell'imputato
e il risarcimento danni.
6 Febbraio 2008:
L'unico intervento dell'udienza odierna è quello dell'avvocato Luca
Saldarelli, parte civile per la famiglia Cambi.
4 Marzo 2008:
In questa giornata d'udienza comincia l'arringa difensiva
dell'avvocato Gabriele Zanobini, primo difensore dell'imputato.
Nel corso della mattina l'avvocato pone l'accento su quella che - a
suo parere - è un'intrinseca contradditorietà nel teorema della
Pubblica Accusa. Il suo ragionamento è semplice: l'imputato
Calamandrei è accusato di aver fatto da intermediario fra i
mandanti gaudenti e gli assassini per i delitti che vanno dal 1982 al
1985; il fine dei delitti era procurare i feticci da portare a villa La
Sfacciata per dar vita ad orge e riti esoterici; il punto di riferimento
a villa La Sfacciata erano il Parker e il Reinecke che ivi abitavano nel
1982 e nel 1983; nel 1982 e nel 1983 però non erano stati procurati i
feticci; nel 1984 e nel 1985, né il Reinecke, né il Parker abiatavano
più alla Sfacciata; a cosa dunque avrebbe fatto da intermediario il
Calamandrei?
Durante la sospensione per il pranzo, arriva la ferale notizia che è
stato ritrovato sulle mura medicee di Grosseto il cadavere di un
ragazzo che si sospetta essere il figlio del dottor Calamandrei. La
seduta viene sospesa e rinviata in data 7 marzo 2008.
Si appurerà in seguito che il ragazzo morto è proprio il figlio
minore del dottor Calamandrei, da tempo tossicodipendente. Una
overdose ha messo tragicamente fine alla sua troppo breve e
travagliata esistenza.
7 Marzo 2008:
Riprende il processo dopo la pausa per i funerali del povero Marco,
figlio del dottor Calamandrei.
Riprende la sua arringa difensiva l'avvocato Gabriele Zanobini,
che in questa udienza pone l'attenzione sulla profonda
inattendibilità della signora Mariella Culli, ex moglie e prima
accusatrice dell'imputato. Secondo la Difesa, la Ciulli, cui era stata
diagnosticata una psicosi schizoaffettiva di tipo depressivo, già dai
tempi delle prime accuse al marito (1988) dimostrava i sintomi della
grave malattia.
25 Marzo 2008:
Dopo un paio di settimane di pausa, riprende il processo e riprende
la parola l'avvocato Gabriele Zanobini, difensore dell'imputato, il
quale dedica larga parte dell'udienza all'analisi delle dichiarazioni
della Ghiribelli e delle prostitute che avrebbero accusato il
Calamendrei di aver partecipato ai famosi festini a villa La
Sfacciata, a casa dell'Indovino e in una terza e non meglio
identificata dimora.
Segue un breve intervento del secondo avvocato difensore, Nicola
Zanobini, il quale si sofferma sulla lettera e successive
dichiarazioni del Lotti che chiamavano in causa un non meglio
specificato dottore che pagava i feticci. Appare evidente - secondo
la Difesa - che tali confuse dichiarazioni, ammesso avessero un
fondo di verità, erano riferite non a un dottore generico
(intendendo un qualsiasi laureato), ma a un medico vero e proprio.
26 Marzo 2008:
Continua l'arringa difensiva dell'avvocato Gabriele Zanobini. Il
difensore dedica l'intera giornata a esaminare la dichiarazioni del
Vanni, che - secondo la Procura - chiamerebbero in causa il
Calamandrei come mandante degli omicidi. A parere della Difesa,
invece, emerge chiaramente dalla lettura dei verbali
d'interrogatorio, una situazione cognitiva del Vanni decisamente
compromessa.
28 Marzo 2008:
Ultimo giorno di requisitoria dell'avvocato difensore, Gabriele
Zanobini, interamente dedicata alla figura del dottor Francesco
Narducci, agli eventuali rapporti fra il Narducci e il Calamandrei e
ai riconoscimenti fotografici - parere della Difesa decisamente
dubbi - che avrebbero visto protagonista il ben noto
gastroenterologo perugino. Per il dettaglio di tali riconoscimenti si
rimanda al capitolo Il medico di Perugia.
6 Maggio 2008:
Replica da parte della Pubblica Accusa alla requisitoria difensiva.
Prende la parola per primo il dottor Paolo Canessa, il quale si
sofferma sulle dichiarazioni del Vanni e della Ghiribelli e su come -
a parere dei PM - possano essere considerati pienamente attendibili.
A tal proposito viene visionato in aula il filmato dell'intervista della
Ghiribelli alla dottoressa Roberta Petrelluzzi, conduttrice della
trasmissione "Un giorno in Pretura". Vengono inoltre visionate
alcune riprese, realizzate da operatori di polizia, relative alla villa
"La Sfacciata", alla chiesa sconsacrata ad essa annessa e
all'abitazione del Reinecke.
Segue una più lunga replica da parte del dottor Alessandro Crini, il
quale si sofferma sulla salute mentale della signora Ciulli all'epoca
delle prime accuse al marito (a parere della Pubblica Accusa, i
problemi psichici della donna sarebbero giunti solo
successivamente) e sulla figura del Narducci (i cui riconoscimenti -
sempre a parere dell'Accusa - sarebbero attendibilissimi). Tocca
quindi replicare alle Parti Civili. Prende la parola per primo
l'avvocato Aldo Colao per la famiglia del Mainardi, il quale non
aveva parlato in precedenza per problemi di salute.
Segue infine la replica dell'avvocato Luca Saldarelli.
7 Maggio 2008:
Ultimo giorno di dibattimento.
21 Maggio 2008:
Il giudice Silvio De Luca legge la sentenza di assoluzione nei
confronti dell'imputato Francesco Calamandrei perché il fatto non
sussiste.
A tale sentenza la Pubblica Accusa non intenderà fare ricorso.
AGGIORNAMENTI
► 4 Novembre 2022
► 18 Marzo 2022
Dopo il dottor Perugini e l'avvocato Filastò, un altro pezzo di storia
legata alla vicenda del Mostro di Firenze ci ha lasciati. Nella
giornata odierna è infatti venuto a mancare l'avvocato Pietro
Fioravanti, classe 1935, storico difensore di Pietro Pacciani.
Chi vi scrive ha passato un piovoso pomeriggio di maggio nella
casa dell'avvocato a Firenze, in compagnia sua e del figlio Alessio, a
discutere non tanto delle vicende del Mostro, quanto della vita e
delle vicissitudini del Pacciani. Resta nel sottoscritto il ricordo di
una persona, sebbene in là con gli anni e provata nel fisico,
estremamente lucida, determinata nelle sue convizioni, combattiva
come ai tempi dei processi, ma nel contempo piacevole e dalla
grande cultura.
A quell'incontro sono seguite diverse, piacevoli telefonate, in alcune
delle quali mi ero ripromesso di tornarlo a trovare. Purtroppo il
destino ha deciso diversamente. Alla famiglia vanno le mie più
sentite condoglianze.
► 23 Febbraio 2022
Stando a un articolo del quotidiano "La Nazione" firmato
da Stefano Borgioni, il PM titolare dell'inchiesta sul Mostro di
Firenze, dottor Luca Turco, lo stesso che in tempi recenti ha svolto
indagini su Vigilanti e Caccamo, avrebbe archiviato la posizione
di Joe Bevilacqua, accusato di essere il Mostro di Firenze.
Fra il maggio del 2018 e il maggio del 2021, il giornalista
freelance Francesco Amicone aveva infatti pubblicato una trentina
di articoli in cui accusava il suddetto Bevilacqua di essere
contemporaneamente il serial killer statunitense
denominato "Zodiac" e l'autore dei duplici omicidi attribuiti al MdF
(per maggiori dettagli, vedasi il capitolo Mostrologia Minore).
Le indagini svolte dalla Procura sulla base dell'esposto presentato
dall'Amicone e sulla querela per diffamazione presentata nei
confronti dello stesso Amicone da Joe Bevilacqua, nell'occasione
assistito dall'avvocata Elena Benucci, hanno portato da un lato
all'archiviazione della posizione del Bevilacqua, dall'altro a una
netta stroncatura dell'inchiesta giornalistica condotta dall'Amicone,
che la Procura ha giudicato: "caratterizzata da suggestioni,
supposizioni, asserite intuizioni e non contiene alcun elemento fattuale
suscettibile ad assurgere a dignità di indizio".
Il giornalista adesso rischia di finire a processo con l'accusa di
diffamazione.
Si attendono, ovviamente, ulteriori sviluppi sulla vicenda.
► 29 Dicembre 2021
Dopo una lunga malattia si è spento l'avvocato Nino Filastò,
difensore di Mario Vanni al Processo contro i Compagni di
Merende e, più in generale, studioso sin dai primi anni '80 della
complessa vicenda del Mostro.
Autore di dieci romanzi (di genere giallo) e di due saggi, uno dei
quali è il celebre "Storia delle Merende Infami", pubblicato nel
2005 al termine dei Processi contro i CdM e vera pietra miliare nella
sterminata bibliografia sul Mostro di Firenze.
Con l'avvocato Nino Filastò se ne va oltre che un grande penalista,
anche un uomo colto, ecclettico, piacevole, di rara intelligenza,
nonché uno dei massimi studiosi della vicenda.
►9 Dicembre 2021
È andato in onda in prima serata su Rai2 un documentario dal
titolo "Il Mostro di Firenze - Quel silenzio che non tace: bugie e
verità", realizzato dal giornalista e studioso del caso, Pino Rinaldi.
Hanno partecipato alla realizzazione diverse figure di spicco della
odierna Mostrologia, come i più volte citati Francesco
Cappelletti ed Enrico Manieri.
Da segnalare che si tratta probabilmente del primo documentario
andato in onda su una TV pubblica a mettere pesantemente in
discussione le confessioni del Lotti e del Pucci e di conseguenza le
sentenze che hanno condannato i Compagni di Merende come
coautori di quattro degli otto duplici omicidi storicamente attribuiti
al Mostro.
Sono interevnuti nel corso dello speciale, diverse personalità che
hanno seguito in prima persona il caso, come il magistrato Adolfo
Izzo, il colonnello Nunziato Torrisi, l'avvocato Nino Marazzita.
Particolarmente pesanti nei confronti della Procura di Firenze le
dichiarazioni rese dall'ex Procuratore Piero Tony, esponente
dell'Accusa nel Processo d'Appello a Piero Pacciani.
Alto il gradimento, per una volta, del mondo del web e della
Mostrologia.
► 16 Novembre 2021
Dopo lunga malattia è venuto a mancare il dottor Ruggero
Perugini, il poliziotto che dal 1986 è stato a capo della SAM e che
ha creduto di individuare il Mostro di Firenze nella persona di
Pietro Pacciani.
Perugini, da sempre fedele alla sua teoria di serial killer unico,
identificato appunto nel contadino da Mercatale, viene descritto da
chiunque l'abbia conosciuto (colleghi e avversari) come una persona
per bene, un poliziotto competente e dalla specchiata moralità.
Per quello che può valere, chi vi scrive ha ricavato dall'unico
incontro che ha avuto con il dottor Perugini, esattamente questa
impressione.
Si porgono sentite condoglianze alla famiglia.
► 14 Settembre 2021
Si è creato un certo scompiglio nei vari ambienti mostrologici nel
corso della mattinata di martedì 14 settembre, quando la polizia
scientifica si è recata nella piazzola degli Scopeti, luogo dell'ultimo
duplice omicidio del Mostro di Firenze, per compiere un'accurata
perlustrazione dei luoghi. Pare che le operazioni siano state svolte
con strumenti tecnologici di ultima generazione: un drone ha
sorvolato la piazzola e il bosco circostante, inoltre sono stati studiati
la strada prospiciente, il muro di villa Rufo e le file di cipressi
circostanti. Il fine del sopralluogo pare essere ricostruire, attraverso
il teatro virtuale, la scena del crimine in 3D.
Le ipotesi si sono rincorse per tutta la mattinata e per i giorni
successivi, non pervenendo comunque a una verità univoca: si è
parlato di nuove indagini disposte dalla Procura di Firenze, la quale
tuttavia si è affrettata a smentire di averle richieste; si è sparsa la
voce una ricostruzione di tipo cinematografico per una docu-fiction
della Rai, ma anche questa notizia è apparsa infondata.
Restiamo in attesa di nuovi sviluppi.
► 6 Maggio 2021
Durante una puntata della trasmissione "La Notte del
Mistero" dell'emittente radiofonica "Florence International Radio",
interamente dedicata alla figura di Salvatore Vinci, è arrivata la
telefonata di uno spettatore, qualificatosi come Giovanni. Costui ha
dichiarato con estrema sicumera che nel settembre del 2020
Salvatore era ancora vivo e abitava in una frazione a nord di
Saragozza, in Spagna. Tal Giovanni, che in realtà chiunque abbia
familiarità con la comunità mostrologica non può non aver
riconosciuto per via di alcuni interviste rilasciate sul canale
youtube Insufficienza di Prove, ha dichiarato anche che Salvatore
non si nasconde, che percepisce ancora una regolare pensione
dall'INPS e dunque è facilmente rintracciabile da chiunque, che è
ancora in buona salute e infine che lui stesso ha avuto modo di
parlarci all'incirca tre anni fa.
Sebbene da tale telefonata non sia arrivata alcuna rivelazione
clamorosa (se non la personale convinzione di Giovanni che
Salvatore sia estraneo ai delitti del MdF), la certezza che Salvatore
Vinci fosse ancora vivo appena sei mesi fa, ha smosso comunque la
comunità mostrologica.
► 19 Aprile 2021
Sul canale youtube "Le notti del Mostro", un canale che fra le varie
comunità mostrologiche non riscuote di grandissima fama, è stato
intervistato Luciano Malatesta, figlio di Renato Malatesta e Maria
Antonietta Sperduto. In questa intervista, il Malatesta ha ribadito
quelle che sono le sue convinzioni sulla vicenda del MdF,
chiaramente ispirate alle teorie della controversa signora Carlizzi.
Trattasi fondamentalmente di un confuso miscuglio di idee in cui
trovano posto lo scrittore, il giornalista, il farmacista, il medico, il
magistrato, persino zodiac, tutti coinvolti negli omicidi. In aggiunta,
il Malatesta parla di cancro indotto da medici implicati nel caso ad
alcuni testimoni per evitare che parlassero, di giro di pedofilia
internazionale, di servizi segreti deviati, di un secondo e di un terzo
livello, di massoneria, della rosa rossa e di tutti i più disparati
complottismi di cui si può trovare traccia sul web.
Per maggiori approfondimenti sulle teorie del Malatesta vedasi il
capitolo Mostrologia Minore.
► 31 Marzo 2021
La sera di mercoledì 31 marzo è andata in onda su LA7 una puntata
del progamma Atlantide, condotto da Andrea Purgatori,
completamente dedicata alla vicenda Mostro di Firenze. In studio,
oltre al conduttore, anche l'avvocata e criminologa Chiara Penna e
il celebre scrittore e presentatore Carlo Lucarelli.
La Penna proponeva la tesi del serial killer solitario, in accordo con
i profili redatti dall'equipe De Fazio nel 1985 e dall'FBI nel 1989.
Lucarelli da sempre è fautore invece della pista merendara, ove i
compagni di merende sono intesi come manovali di un secondo
livello, i cosiddetti mandanti in guanti bianchi, forse protetti
addirittura da un terzo livello, posto ancora più in alto.
Fra gli altri interventi, da sottolineare quelli del blogger e
mostrologo Francesco Cappelletti, autore del più importante sito
web dedicato alla vicenda del Mostro di Firenze.
Le reazioni alla puntata da parte della comunità mostrologica sono
state per lo più negative. Questi gli aspetti che hanno suscitato il
maggior malcontento:
▪ sono stati commesse varie imprecisioni nella ricostruzione dei
fatti;
▪ è stato dato un taglio alla trasmissione in cui veniva chiaramente
privilegiata la pista esoterica e/o massonica, il collegamento col
Narducci e con un secondo (o addirittura terzo) livello che
commissionava i delitti ai compagni di merende e copriva le loro
efferate gesta;
▪ non sono state per nulla evidenziate le contraddizioni in seno a
questa pista e soprattutto le contraddizioni nelle confessioni del
Lotti e nella testimonianza del Pucci;
▪ non è stato dato per nulla spazio alla Pista Sarda;
▪ non è stato dato spazio a ipotesi alternative, se non per i brevi
interventi concessi all'avvocata Penna.
Risulta comunque ovvio che, essendo una tramissione in prima
serata su una TV nazionale, dunque dedicata a un pubblico
generalista e poco informato su una vicenda di così vaste
dimensioni, era inevitabile si creasse un diffuso malcontento in una
comunità - quella mostrologica - così informata, attenta e
soprattutto frastagliata.
►1 Marzo 2021
L'avvocato Antonio Mazzeo, legale della sorella di Carmela De
Nuccio, vittima del Mostro nel delitto del giugno 1981, dopo un
primo assenso alla disamina degli atti da parte del Presidente della
Corte d'Assise di Firenze e dopo un'ulteriore e più circostanziata
richiesta di disamina, si è visto revocare l'accesso agli atti da parte
del Sostituto Procuratore Luca Turco.
La motivazione addotta per tale diniego è stata fondamentalmente
che gli atti richiesti "non riguardano il reato in esame, bensì altri fatti di
reato". In altre parole, stando a quanto riporta l'entourage
dell'avvocato Mazzei, la Procura di Firenze pretenderebbe che il
pool difensivo consultasse solo gli atti relativi al duplice omicidio
Foggi-De Nuccio e non tutti quelli connessi alla vicenda del Mostro
di Firenze.
Tale decisione non è impugnabile dal legale.
Da parte degli interessati c'è stato un tentativo di dare un certo
risalto mediatico alla vicenda, intervenendo sia su Radio Radicale
che su Cusano Italia TV, e promuovendo inoltre diverse dirette su
YouTube per informare il pubblico di quella, che per usare le
testuali parole dell'avvocato Mazzei, è una "decisione abnorme".
Tuttavia, al momento, non sembra che l'ambiente mostorlogico sia
particolarmente scosso dalla notizia.
► Febbraio 2021
Come riportato dallo stesso autore nelle opportune sedi, il libro "Al
di là di ogni ragionevole dubbio" (2020) di Paolo Cochi è tornato a
essere disponibile nelle librerie e nelle piattaforme on line.
La querelle giudiziaria fra la Casa Editrice e soggetti terzi, che
avevano portato all'inibizione della vendita, è evidentemente stata
risolta con esito positivo.
► 12 Dicembre 2020
Il libro "Al di là di ogni ragionevole dubbio" (2020) del più volte
citato Paolo Cochi è stato inibito da un giudice con procedimento
cautelare (ex art.700) a seguito della richiesta di una terza parte, le
cui motivazioni non riguardano l'autore, ma problematiche legali
tra casa editrice e i suddetti soggetti terzi. Il libro dunque non
risulta più disponibile nelle librerie, negli store digitali e in nessun
altro canale di distribuzione, non essendo più consentita la sua
distribuzione.
La casa editrice, pur conformandosi a quanto momentaneamente
disposto dal giudice, ha impugnato il provvedimento.
Si attendono eventuali nuovi sviluppi.
► 10 Novembre 2020
Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di
Firenze, Angela Fantechi, ha archiviato l'ultima inchiesta sul
Mostro che vedeva indagati l'ex legionario pratese, Giampiero
Vigilanti (89 anni), e il medico mugellano Francesco Caccamo (88
anni).
Il giudice ha quindi rigettato l'istanza di opposizione
all'archiviazione presentata dall'avvocato Vieri Adriani, legale dei
familiari delle vittime francesi dell'ultimo duplice omicidio
attribuito al Mostro.
► 20 Ottobre 2020
È stata trovata divelta e danneggiata la lapide collocata nella
piazzola degli Scopeti il 4 settembre 2020 in memoria delle ultime
due vittime del Mostro di Firenze. I carabinieri del nucleo operativo
e radiomobile e della stazione di San Casciano in Val di Pesa hanno
eseguito i rilievi tecnici e fatto partire le relative indagini.
Si attendono (molto) eventuali sviluppi.
►8 Ottobre 2020
In una diretta su YouTube, ospite della trasmissione di Angelo
Marotta, il mostrologo Luca Scuffio ha presentato una versione
alternativa alla dinamica del duplice delitto di Giogoli, molto
apprezzata dagli utenti della rete. In questa nuova ricostruzione i
colpi sparati a Giogoli diventano 9 e non più i 7 riportati dalla
Mostrologia ufficiale.
►1 Ottobre 2020
Il giudice per le indagini preliminari Angela Fantechi si è riservato
qualche giorno di tempo prima di decidere sulla richiesta di
archiviazione avanzata dal procuratore aggiunto Luca
Turco riguardo la posizione dell'indagato Giampiero Vigilanti. Il
giudice ha davanti a sé tre possibilità:
1. accogliere la richieste di archiviazione della Procura;
2. disporre gli ulteriori accertamenti richiesti dal legale delle vittime
uccise a Scopeti, l'avvocato Vieri Adriani;
3. ipotesi piuttosto remota, istituire un processo.
► 19 Settembre 2020
Per la prima volta nella storia processuale legata ai delitti del MdF,
la famiglia di Carmela De Nuccio, vittima femminile del duplice
delitto del 6 giugno 1981 a Mosciano di Scandicci, si è costituita
parte offesa. La sorella di Carmela, Rosanna De Nuccio ha infatti
dato mandato all'avvocato Antonio Mazzeo, già avvocato
dell'imputato Mario Vanni al processo ai CdM, di essere
rappresentata legalmente nei procedimenti sul Mostro. Pare che
l'avvocato Mazzei si avvarrà della consulenza di Paolo Cochi.
Chiara a questo punto la presa di posizione della famiglia De
Nuccio, che dimostra con questa scelta di parte, di non credere alle
sentenze emerse dai processi contro Pietro Pacciani e contro i
Compagni di Merende.
►4 Settembre 2020
Nella piazzola degli Scopeti è stata collocata una lapide
commemorativa in onore delle due vittime francesi, Nadine
Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili. La raccolta fondi per
l'installazione della lapide, recante l'iscrizione "A Nadine et Jean
Micxhel qui n'existent plus a la justice qui n'a jamais ete rendue", è stata
promossa dall'amministratore del gruppo Facebook "Il Mostro di
Firenze", Francesco Cappelletti, meglio conosciuto sul web
come Flanz Vinci.
La cifra richiesta era stata raggiunta nel giro di pochissimi giorni.
►5 Luglio 2020
Sono emerse novità a seguito della consulenza grafologica richiesta
dal mostrologo Francesco Cappelletti sulla comparazione fra una
ricevuta fiscale veromisilmente scritta da Salvatore Vinci e la
lettera "In me la notte non finisce mai", scritta da un anonimo nel
settembre 1985 e inviata al quotidiano fiorentino "La Nazione"
(vedasi capitoli Accadimenti finali e Le morti collaterali).
La consulenza fornita dalla grafologa Sara Codella, secondo cui le
due grafie possono essere verosimilmente ricondotte a una stessa
persona, ha riacceso speranze e polemiche all'interno dell'universo
mostrologico. Non sembra comunque che possa portare almeno
nell'immediato a clamorose novità e ognuno rimane fermamente
arroccato sulle proprie posizioni.
► 19 Giugno 2020
L'ultima intervista rilasciata da Natalino Mele al
documentarista Paolo Cochi nel giugno del 2020 ha riacceso il
dibattito sulle metodologie di interrogatorio usate dagli inquirenti
nei confronti dei due Mele (padre e figlio), andando ulteriormente a
minare la già di per sé scarsa attendibilità delle dichiarazioni dei
suddetti.
Un'antica domanda che da sempre affligge la Mostrologia è tornata
a galla: le loro erano le confuse e spontanee dichiarazioni di menti
semplici o erano imposte (estorte?) durante gli interrogatori dagli
stessi inquirenti?
Infine, si ringraziano: