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Oscar gialli

Sir Arthur Conan Doyle


Sir Arthur Conan Doyle

I racconti del terrore


e del mistero

Traduzione di Paola Forti

Arnoldo Mondadori Editore


© Sir Arthur Conan Doyle
© 1965 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Pubblicato per concessione degli eredi di Sir Arthur Conan Doyle
Titolo dell'opera originale The Conan Doyle Stories
I edizione Opere di Sir Arthur Conan Doyle luglio 1965
1 edizione Oscar Mondadori gennaio 1973
1 ristampa Oscar Mondadori settembre 1979
Sir Arthur Conan Doyle

«Ho avuto una vita che per varietà romanzesca potrebbe,


credo, essere difficilmente superata. Ho conosciuto che cosa
significhi essere povero, e ho goduto di una discreta agiatezza.
Ho vissuto ogni forma di esperienza umana. Ho conosciuto
molti degli uomini più insigni del mio tempo... Ho assistito a
tre guerre: la sudanese, la sudafricana e la tedesca... La mia vita
è costellata d'avventure d'ogni genere...»
Conan Doyle nacque a Edimburgo il 22 maggio 1859, da
una famiglia di irlandesi di antico lignaggio, ma poveri. Il
padre, Charles, di professione architetto, è impiegato ai Lavori
pubblici per poche sterline al mese. Sul secondogenito Arthur
ripone grandi ambizioni : ne vorrebbe fare un uomo d'affari o
un matematico : ma il ragazzo detesta l'aritmetica, preferendole
i romanzi di Sir Walter Scott e i racconti di Edgar Allan Poe. Si
dice che l'influsso di queste storie si sia manifestato in lui fin
dall'età di cinque anni, quando, in un breve componimento -
ricco d'avventure di spada, fucili e pistole - egli rivela per la
prima volta un'estrema facilità a scrivere.
Del resto, la vena artistica era patrimonio familiare dei
Doyle : oltre a Charles Doyle, ottimo pittore a tempo perso.
John e Richard, rispettivamente nonno e zio di Arthur Conan,
erano caricaturisti affermati, e il prozio Michael "Conan" (da
cui il secondo nome dello scrittore) era critico d'arte e editore
dell'«Art Journal».
Figlio di cattolici, Arthur Conan Doyle riceve
un'educazione improntata ai principi del cristianesimo - che
egli poi ripudierà dichiarandosi agnostico - alla Hodder House
-prima, presso il college di Stonyhurst (Lancashire) poi :
entrambi tenuti dai gesuiti. Durante questi anni fa una vita
spartana divisa fra studio, sport, poesie, molte letture (è sempre
più affascinato da Dupin, il poliziotto di Poe), molte lettere a
casa, alla madre soprattutto cui sarà sempre particolarmente
legato.
Nel '74 si reca a Londra per la prima volta per una vacanza
di tre settimane, ospite degli zii paterni. Ne ritorna entusiasta.
Sedicenne, licenziato "cum laude" da Stonyhurst, viene
mandato dal rettore in Austria, a Feldkirch, per un anno di
perfezionamento del tedesco. Nel 76, dopo un viaggio a Parigi,
inizia i corsi di medicina all'università di Edimburgo, dove si
laureerà nel 1885.
Di questo periodo scrive nelle sue Memorie : «Si viveva
allora nella salutare atmosfera della povertà e ciascuno di noi si
industriò a turno per aiutare i più piccini [erano sette fratelli]...
io, da parte mia, m'ingegnavo come potevo...». Per mantenersi
agli studi senza gravare sulla famiglia, lavora infatti come
assistente medico e, durante le vacanze, fa i mestieri più
disparati.
Dopo la laurea, presta servizio per qualche tempo
all'ospedale della sua città, dove ha modo di conoscere di
persona il dottor Joseph Bell, suo insegnante, e di diventargli
amico. L'abilità quasi diabolica di quest'uomo di dedurre dai
minimi dettagli i caratteri psico-fisiologici dei suoi pazienti
stupisce il giovane medico, e lo porta a riflettere: un poliziotto
con simili qualità potrebbe essere più strabiliante di Dupin! Da
tali meditazioni nascerà, nel 1887, Sherlock Holmes.
Prima però, nel 1880, Conan Doyle si imbarca come
medico di bordo su una baleniera, e trascorre alcuni mesi
nell'Atlantico e più tardi in Africa.
Tornato alla professione, apre senza troppa fortuna un
ambulatorio a Southsea, un sobborgo di Portsmouth, dove
passa le numerose ore libere a scrivere e a dare corpo a
problemi polizieschi. Dopo il successo dei primi racconti,
pubblicati su vari giornali inglesi, scrive alla madre :
«Incomincio a pensare di poter diventare qualcosa di meglio di
un semplice medico di bordo». Arthur Conan Doyle ha trovato
ormai una nuova e più redditizia fonte di guadagni.
A Study in Scarlet (Uno studio in rosso), del 1887, è il
primo libro della serie Sherlock Holmes, seguito da The Sign
o f the Four ( I l segno dei quattro), apparso in America sul
«Lippincott's Magazine» nel febbraio del 1890, e accolto dal
pubblico inglese e americano con un favore ineguagliato nella
storia della letteratura poliziesca. Holmes, l'aiutante dottor
Watson, lo studio londinese di Baker Street sono diventati
quasi una realtà per i lettori, e l'autore non riesce più a liberarsi
dall'ombra delle sue creature.
Tuttavia egli dedica i suoi sforzi di studioso e di scrittore
anche ad altri campi : anzi, fra i suoi scritti preferisce non i
romanzi polizieschi, ma quelli storici : The White Company (La
compagna bianca) del 1891, ad esempio, e The Exploits o f
Brigadier Gerard (Le avventure del colonnello Gerard) del '96,
un quadro assai brillante delle campagne napoleoniche.
Abbandonata la professione medica, esercita una intensa
attività giornalistica, come corrispondente nella guerra boera e
successivamente in quella mondiale. Per l'opera The Great
Boer War [La grande guerra boera] del 1900, si guadagna, nel
1902, il titolo di baronetto. I numerosi servizi giornalistici sulla
prima guerra mondiale sono stati ordinati, nel 1928, nel volume
The British Campaigns in Europe 1914-1918 [Le campagne
britanniche in Europa]. Anche in questi scritti fa spicco
l'esattezza d'informazione e di documentazione, caratteristica di
tutta l'opera di Conan Doyle.
Più che mai indispettito perché Sherlock Holmes va
offuscando tutte le altre sue opere, rompe i rapporti col suo
eroe, positivista e ragionatore, e pensa di ottenere nuova fama
dedicandosi allo spiritismo (scrive sull'argomento numerosi
articoli e anche una grossa opera: The History o f
Spiritualism).
Passa dunque l'ultima parte della sua vita a girare per il
mondo predicando la necessità della scienza occulta per la
conquista dell'umano benessere. Uno dei frutti di queste
ricerche (oltre che delle sue giovanili letture di Poe), sono I
racconti del terrore e del mistero, del 1922, che qui
pubblichiamo.
Poco noti, inspiegabilmente ignorati dalla critica, essi sono
estremamente moderni, sia per l'impianto narrativo sia per la
"storia" raccontata, sempre imprevedibile e ricca di suspense.
Come in Poe, c'è qui l'applicazione dell'analisi, del puro
ragionamento ai doni dell’immaginazione. Magiche
reincarnazioni, visioni occulte, misteriosi delitti che nessun
detective riesce a sbrogliare, mostri scaturiti dalla fantasia più
pura popolano queste pagine creando una tensione psicologica
quasi spasmodica. Più che ai personaggi l'autore è attentissimo
all'atmosfera in cui si muovono, alle sfumature del loro
pensiero.
Dopo aver molto scritto e molto viaggiato, il 7 luglio 1930
a Crowborough, Sussex, Sir Arthur Conan Doyle conclude la
sua esistenza terrena, durante la quale ha amato la famiglia (si è
sposato due volte), la vita di buon padre, i viaggi, le avventure.
Viene seppellito, alla presenza della moglie, dei figli e di
un'immensa folla, nel giardino di casa sua. Sul cippo la moglie
ha fatto incidere solo il nome, la data di nascita e quattro
parole: «Acciaio sincero, lama diritta».

E. A.
La casa natale di Sir Arthur Conan Doyle.

Arthur Conan Doyle studente a Edimburgo.


Ex libris di Sir Arthur Conan Doyle con lo stemma di famiglia.
La casa di Southsea, dove il dottor Conan Doyle apri, nel 1882, un ambulatorio
medico.
Il dottor Joseph Bell che ispirò a
Conan Doyle il personaggio di Sherlock Holmes.

La copertina del «Lippincott's


Magazine», dove apparve per la prima volta Il segno dei quattro.
I racconti del terrore
L'imbuto di cuoio

Il mio amico, Lionel Dacre, abitava nell'Avenue de


Wagram, a Parigi. La sua casa era quella piccola, con la
cancellata di ferro e il giardinetto davanti, che s'incontra sulla
sinistra, venendo dall'Arco di Trionfo. Immagino che essa
esistesse già molto tempo prima che il viale venisse costruito,
poiché i tegoli erano cosparsi di licheni, e i muri erano
ammuffiti e scoloriti dagli anni. Sembrava piccola vista dalla
strada, cinque finestre sulla facciata, se ben ricordo, ma sul
retro si estendeva in un'unica, lunga sala. Era qui che Dacre
teneva quella singolare biblioteca di letteratura occulta, e quei
bizzarri oggetti che costituivano il suo hobby e il divertimento
dei suoi amici. Uomo ricco, dai gusti eccentrici e raffinati,
aveva speso la miglior parte della sua vita e della sua fortuna
mettendo insieme una raccolta privata, che si diceva unica nel
suo genere, di opere talmudiche, cabalistiche e di magia, molte
delle quali assai rare e di grande valore. I suoi gusti tendevano
al soprannaturale e all'orrido, e ho sentito dire che i suoi
esperimenti nel campo dell'ignoto hanno passato ogni limite di
civiltà e di decoro. Con i suoi amici inglesi egli non parlava
mai di queste cose, anzi si atteggiava a studioso e a grande
esperto; ma un francese, i cui gusti erano analoghi ai suoi, mi
ha assicurato che le più macabre delle messe nere si sono
svolte in quella vasta sala, le cui pareti sono tappezzate da libri
e da bacheche che la rendono simile a un museo.
L'aspetto di Dacre era sufficiente a dimostrare che il suo
profondo interesse in queste faccende psichiche era
intellettuale piuttosto che spirituale. Il volto massiccio non
recava alcuna traccia di ascetismo, ma l'enorme cranio a cupola
che spuntava al di sopra dei capelli ormai radi, simile a una
vetta innevata circondata da una frangia di abeti, rivelava una
grande forza mentale. La sua sapienza superava la sua
saggezza, e la volontà era di gran lunga superiore al carattere.
Gli occhi piccoli e vivaci, profondamente infossati nel volto
carnoso, brillavano di intelligenza e di un'insaziabile curiosità
della vita, ma erano gli occhi di un sensuale e di un egoista. Ma
basta col parlare di lui, poiché adesso egli è morto, povero
diavolo, morto proprio quando era sicuro di avere finalmente
scoperto l'elisir di lunga vita. Non è del suo complesso
carattere che io voglio parlare, ma della strana e inspiegabile
vicenda che avvenne durante la visita che gli feci nella
primavera dell"82.
Avevo conosciuto Dacre in Inghilterra, poiché le mie
ricerche nella Sala Assira del British Museum si erano svolte
nel medesimo tempo in cui egli stava tentando di attribuire un
significato mistico ed esoterico alle tavole babilonesi, e questi
comuni interessi ci avevano avvicinati. I primi casuali
commenti si erano approfonditi in conversazioni quotidiane, e
queste, a loro volta, si erano trasformate in qualcosa di simile
all'amicizia. Avevo promesso di fargli visita, la prima volta che
mi fossi recato a Parigi. All'epoca in cui potei adempiere alla
mia promessa, abitavo in una villetta a Fontainebleau, e poiché
i treni della sera erano scomodi, egli mi chiese di trascorrere in
casa sua la notte.
«Non ho che quel letto da metterle a disposizione» mi disse,
indicando un ampio divano nel suo grande salone. «Spero che
potrà starci comodo.»
Era una singolare stanza da letto, quella, con le sue alte
pareti tappezzate di volumi, ma non potevano esistere mobili
più gradevoli per un amante di libri quale io ero, né vi è alcun
profumo così attraente alle mie nari quanto quel tenue, leggero
tanfo che emana da un libro antico. Lo assicurai che non avrei
potuto desiderare una camera più piacevole, né un arredamento
più congeniale.
«Se l'arredamento non è né comodo né convenzionale, è
perlomeno costoso» commentò Dacre guardandosi attorno.
«Questi oggetti che la circondano mi sono costati quasi un
quarto di milione. Libri, armi, gemme, intarsi, arazzi, quadri...
non esiste un solo oggetto che non abbia la sua storia, e una
storia che generalmente vale la pena raccontare.»
Mentre parlava, egli era seduto da un lato del caminetto
aperto, e io dall'altro. Alla sua destra si trovava lo scrittoio, sul
cui piano una lampada proiettava un vivido cerchio di luce
dorata. In mezzo al tavolo c'era un palinsesto semi-arrotolato, e
attorno una collezione di strani oggetti. Fra questi, notai un
grande imbuto, di quelli che si adoperano per riempire i barili
di vino. Pareva fatto di legno nero, e aveva il bordo di ottone
scolorito.
«Quello è un oggetto curioso» commentai. «Qual è la sua
storia?»
«Ah» replicò «anch'io mi sono posto questa stessa
domanda. Darei non so che cosa per conoscerla. Lo prenda in
mano e lo esamini bene.»
Lo presi, e scoprii che ciò che io avevo creduto fosse legno
era in realtà cuoio, benché prosciugato e indurito dagli anni.
Era piuttosto grande come imbuto, e giudicai che potesse
contenere all'incirca un litro. Un bordo di ottone ne circondava
il capo più largo, ma anche quello stretto era rifinito in metallo.
«Cosa gliene pare?» mi chiese Dacre.
«Penso che sia appartenuto a un vinaio o a un birraio del
Medioevo» risposi. «Ho visto dei fiaschetti di cuoio inglesi del
diciassettesimo secolo, che erano dello stesso colore e della
stessa consistenza di questo imbuto.»
«Suppongo che la data sia suppergiù la medesima»
confermò Dacre «e indubbiamente serviva per riempire un
recipiente di un qualche liquido. Però se i miei sospetti sono
fondati, era uno strano vinaio colui che se ne serviva, e un
insolito barile che veniva riempito. Non notate qualcosa di
strano sul beccuccio dell'imbuto?»
Tenendolo alla luce, osservai che in un punto a una diecina
di centimetri circa dal puntale di ottone, lo stretto collo
dell'imbuto era tutto segnato e tagliuzzato, come se qualcuno
avesse tentato di inciderlo con un coltello poco tagliente.
Soltanto in quel punto l'opaca superficie nera era irruvidita.
«Qualcuno ha tentato di tagliarne via il collo.»
«Lo chiamereste un taglio?»
«È strappato e lacerato. Ci deve essere voluta una certa
forza per lasciare dei segni simili su un materiale così duro,
qualsiasi fosse stato lo strumento. Ma lei cosa ne penta? È
chiaro che ne sa più di quanto non abbia detto.»
Dacre sorrise, e i suoi occhietti brillarono divertiti.
«Ha incluso la psicologia dei sogni fra i suoi dotti studi?»
mi chiese.
«Non sapevo neppure che esistesse una simile psicologia.»
«Mio caro signore, quello scaffale sopra alla bacheca di
gemme è pieno di volumi, da Albertus Magnus in avanti, che
trattano unicamente quel soggetto. E una scienza in se stessa.»
«Una scienza di ciarlatani.»
«Il ciarlatano è sempre il pioniere. Dall'astrologo è nato
l'astronomo, dall'alchimista il chimico, dal mesmerista lo
psicologo sperimentale. Il ciarlatano di ieri è il professore di
domani. Anche delle cose così lievi e inconsistenti come i
sogni, saranno col tempo ordinate e classificate. Quando quel
tempo verrà, le ricerche dei nostri amici sullo scaffale laggiù
non saranno più il passatempo del mistico, ma le fondamenta di
una scienza.»
«Anche supponendo che sia cosi, qual è il rapporto fra la
scienza dei sogni e un grande imbuto nero bordato di ottone?»
«Glielo dirò. Lei sa che io ho un agente che è
costantemente alla ricerca di oggetti rari e curiosi per la mia
collezione. Qualche giorno fa, egli ha sentito parlare di un
mercante lungo uno dei quais, il quale aveva acquistato delle
vecchie cianfrusaglie trovate in un armadio in un'antica casa
dietro a rue Mathurin, nel Quartiere Latino. La sala da pranzo
di questa vecchia casa è decorata con uno stemma, strisce rosse
in campo argenteo, che si è dimostrato, dopo un'indagine,
essere il blasone di Nicholas de la Reyne, un alto ufficiale di re
Luigi XIV. Non vi è alcun dubbio che anche gli altri oggetti in
quell'armadio rimontano ai lontani giorni di quel re. Se ne
deduce, pertanto, che erano tutti proprietà di questo Nicholas
de la Reyne, il quale era, a quanto mi risulta, il gentiluomo
incaricato di far osservare ed eseguire le draconiche leggi di
quell'epoca.»
«E con ciò?»
«Ora le chiederò di prendere nuovamente in mano l'imbuto
e di osservarne il cerchio di ottone sull'imboccatura. Riesce a
distinguervi delle lettere?»
Vi erano certamente degli sgraffi, quasi cancellati dal
tempo. L'effetto che essi davano era di una serie di lettere,
l'ultima delle quali somigliava vagamente a una B.
«Non le sembra una B?»
«Si.»
«Anche a me. Anzi, non dubito minimamente che non si
tratti di una B.»
«Ma il nobiluomo di cui avete parlato avrebbe avuto una R
per iniziale.»
«Esattamente! È proprio questo il bello. Egli possedeva
questo curioso oggetto, eppure esso recava le iniziali di un
altro. Perché fece questo?»
«Non riesco a immaginarlo; e lei?»
«Be', potrei forse tirar a indovinare. Ha notato qualcosa
disegnato un po' più avanti sul bordo?»
«Direi che si tratta di una corona.»
«E indubbiamente una corona; ma se lei la esamina in piena
luce, si convincerà che non è una normale corona, è una corona
araldica, un emblema nobiliare, e consiste in quattro perle e
foglie di fragola alternate, e cioè l'emblema di marchese. Ne
possiamo dedurre, perciò, che la persona il cui nome
cominciava per B aveva il diritto di fregiarsi di quella corona.
«Allora questo comune imbuto di cuoio apparteneva a un
marchese?»
Dacre mi rivolse uno strano sorriso.
«O a un membro della famiglia di un marchese» disse.
«Tutto ciò lo possiamo dedurre da questo bordo inciso.»
«Ma che cosa c'entra tutto questo con i sogni?» Non so se
dipendesse dall'espressione sul volto di Dacre, o da
un'impercettibile suggestione nel suo atteggiamento, ma un
senso di repulsione, di inspiegabile orrore, mi assali mentre
guardavo quel vecchio pezzo di cuoio contorto.
«Più di una volta ho ricevuto importanti informazioni
attraverso i miei sogni» disse il mio compagno, col tono
didattico che egli amava assumere. «Ne ho fatto una regola,
adesso. Ogni qualvolta sono in dubbio riguardo a un dato
materiale qualsiasi, mentre dormo metto l'oggetto in questione
accanto a me. Spero così di venire in qualche modo illuminato.
A me il procedimento non appare affatto oscuro, benché non
abbia ancora ricevuto il riconoscimento della scienza
ortodossa. Stando alla mia teoria, qualsiasi oggetto che sia stato
intimamente legato a qualsiasi supremo parossismo di
emozione umana, sia essa gioia o dolore, rimarrà impregnato di
una certa atmosfera o associazione che esso è in grado di
comunicare a una mente sensibile. Quando dico mente
sensibile, non intendo dire anormale, ma una mente istruita e
colta come la possediamo lei o io.»
«Vuoi dire, per esempio, che se io dormissi accanto a quella
vecchia spada sulla parete, potrei sognare qualche sanguinosa
impresa alla quale partecipò proprio quella spada?»
«Un ottimo esempio, perché, a dire la verità, ho usato
appunto quella spada, e ho visto nel sonno la morte del suo
proprietario, il quale peri in uno scontro armato, che non sono
stato in grado di identificare ma che ebbe luogo all'epoca delle
guerre dei Frondisti. Se ci pensa bene, alcune delle nostre
usanze popolari dimostrano che il fatto era già conosciuto dai
nostri antenati, benché noi, nella nostra saggezza, lo abbiamo
classificato fra le superstizioni.»
«Per esempio?»
«Be', l'usanza di mettere il dolce della sposa sotto al
cuscino per assicurare al dormiente dei sogni piacevoli. Questo
è uno dei tanti esempi che lei troverà elencati in una piccola
brochure che sto scrivendo sull'argomento. Ma per tornare al
punto, ho dormito una notte con questo imbuto accanto a me,
ed ebbi un sogno che certamente getta una curiosa luce sul suo
uso e la sua origine.»
«Che cos'ha sognato?»
«Ho sognato...» Si interruppe, e un'espressione di grande
interesse si dipinse sul suo volto massiccio. «Per Giove, questa
si che è una buona idea» disse. «Sarà un esperimento del
massimo interesse. Lei stesso è un soggetto psichico, con i
nervi che reagiscono prontamente a qualsiasi impressione.»
«Non mi sono mai sottoposto a una prova di questo
genere.»
«E allora la sottoporremo stasera. Posso chiederle come
grande favore, quando lei occuperà questo divano stanotte, di
dormire con questo vecchio imbuto appoggiato accanto al
cuscino?»
La richiesta mi parve grottesca; ma anch'io ho, nella mia
complessa natura, una autentica fame per tutto ciò che è
bizzarro e fantastico. Non avevo la minima fiducia nella teoria
di Dacre, né alcuna speranza che un simile esperimento desse
dei frutti; ciononostante mi divertiva che l'esperimento venisse
fatto. Dacre, con grande solennità, avvicinò un tavolinetto a un
capo del divano, e vi appoggiò l'imbuto. Poi, dopo una breve
conversazione, mi augurò la buona notte e mi lasciò.

Rimasi per un po' seduto accanto al fuoco morente,


fumando e riflettendo sulla curiosa conversazione che si era
svolta, e sulla strana esperienza che forse mi attendeva. Per
scettico che fossi, vi era un che di impressionante nella
sicurezza dell'atteggiamento di Dacre, e lo straordinario
ambiente che mi circondava, l'enorme sala piena di strani e
spesso sinistri oggetti, fini coli'incutermi un senso di solennità.
Infine mi svestii e, spento il lume, mi sdraiai. Dopo essermi a
lungo rigirato, mi addormentai. Lasciate che tenti di descrivere,
con la maggior precisione possibile, la scena che si presentò
nei miei sogni. Spicca ancora oggi nella mia memoria, più
vivida di qualsiasi cosa che io abbia visto con i miei occhi.
Vi era una stanza che dava l'impressione di essere un
sotterraneo. Dai quattro angoli si alzavano volte a crociera.
L'architettura era rozza, ma molto robusta. La stanza faceva
chiaramente parte di una grande costruzione.
Tre uomini vestiti di nero, con bizzarri, enormi copricapo di
velluto nero, erano seduti in fila su una pedana tappezzata di
rosso. I loro volti erano molto solenni e tristi. Alla loro sinistra,
si trovavano due uomini vestiti di una lunga toga; avevano
delle borse in mano, che parevano piene di carte. A destra,
rivolta verso di me, era una piccola donna con i capelli biondi e
singolari occhi di un azzurro chiarissimo: gli occhi di una
bambina. Aveva passato la prima giovinezza, eppure non si
poteva ancora definirla di mezza età. La sua figura era alquanto
robusta, e il suo portamento fiducioso e arrogante. Il suo volto
era pallido, ma sereno. Era uno strano volto, attraente eppure
felino, con appena un accenno di crudeltà nella piccola bocca
forte e diritta e nel mento grassoccio. Era avvolta in una specie
di tunica, bianca e morbida. Un prete magro e ansioso le stava
accanto, bisbigliandole nell'orecchio e sollevando
continuamente un crocifisso davanti ai suoi occhi. La donna
voltava la testa e guardava fissamente oltre il crocifisso verso i
tre uomini in nero, i quali erano, ne ero certo, i suoi giudici.
Mentre guardavo, i tre uomini si alzarono e dissero
qualcosa, ma non potei udire parola, benché fossi consapevole
che era'quello in mezzo a parlare. Poi essi uscirono dalla
stanza, seguiti dai due uomini con le carte. Nello stesso istante,
numerosi uomini dall'aspetto rozzo e vestiti di pesanti giubbotti
entrarono e presero a togliere prima il tappeto rosso, e poi le
assi che formavano la pedana, in modo da sgombrare
completamente la stanza. Quando questo impedimento fu tolto,
potei vedere in fondo alla stanza degli strani pezzi di mobilia.
Uno di questi pareva un letto, con dei rulli di legno alle due
estremità, e una manovella per regolarne la lunghezza. Un altro
era una cavalletta di legno. Vi erano altri curiosi oggetti, fra cui
un certo numero di corde pendenti dal soffitto, assicurate a
pulegge. Il tutto somigliava vagamente a una palestra dei nostri
tempi.
Quando la stanza fu sgombrata, un nuovo personaggio
apparve sulla scena. Si trattava di un uomo alto e magro,
vestito di nero, dal volto austero e macilento. Il suo aspetto mi
fece rabbrividire. Aveva gli abiti lucidi di unto e cosparsi di
macchie. Si muoveva con una lenta e terribile dignità, come se
avesse preso comando della situazione dall'istante in cui era
entrato. Nonostante il suo aspetto rozzo e il suo abito lurido,
adesso era lui a comandare, sua la stanza. Sul braccio sinistro
portava un rotolo di corda leggera. La donna lo scrutò dalla
testa ai piedi, ma la sua espressione rimase immutata. Era
un'espressione di sicurezza, perfino di sfida. Ma non così il
prete. Il suo volto si fece di un mortale pallore, e vidi il sudore
luccicare e' scendere lungo la sua fronte alta e inclinata.
Sollevò le mani in gesto di preghiera e si chinò a borbottare
frenetiche parole all'orecchio della donna.
Ora l'uomo in nero avanzava, e prendendo una delle corde
dal braccio sinistro, legò le mani della donna, la quale gliele
porse docilmente. Poi l'uomo le afferrò un braccio ruvidamente
e la condusse verso la cavalletta di legno, che era un po' più
alta della vita di lei. Su questa ella fu alzata e deposta supina,
con il viso rivolto al soffitto, mentre il prete, sopraffatto
dall'orrore, fuggiva in fretta dalla stanza. Le labbra della donna
si muovevano rapidamente, e benché io non potessi udire
parola, sapevo che stava pregando. I suoi piedi pendevano uno
di qua, uno di là, lungo i lati della cavalletta, e vidi che i rozzi
assistenti avevano assicurato delle corde alle sue caviglie,
legandone l'altro capo agli anelli di ferro infissi nel pavimento
di pietra.
Mi sentii mancare, alla vista di questi funesti preparativi,
eppure ero avvinto dal fascino dell'orrido, e non riuscii a
staccare gli occhi dal macabro spettacolo. Un uomo era entrato
nella stanza recando due secchi d'acqua. Un altro lo seguiva
con un terzo secchio. I tre secchi vennero deposti accanto alla
cavalletta di legno. Il secondo uomo portava anche un ramaiolo
di legno, una specie di ciotola dal lungo manico diritto,
nell'altra mano. Lo porse all'uomo in nero. Nello stesso istante,
uno degli assistenti si avvicinò con un oggetto scuro in mano,
che anche in sogno mi riempi di un vago senso di familiarità.
Era un imbuto di cuoio.
Con mostruosa energia egli lo conficcò... ma non potei
resistere più a lungo. Mi si drizzarono i capelli dall'orrore. Mi
contorsi, lottai, spezzai i vincoli del sonno e tornai con un grido
nella mia propria vita, per trovarmi disteso, tremante di terrore,
nell'enorme biblioteca, con la luce lunare che penetrava a fiotti
dalla finestra e gettava strane ombre nere ed argentee sulla
parete opposta. Oh, quale senso di sollievo provai nel sentire
che ero tornato nel diciannovesimo secolo, tornato da quella
cripta medioevale a un mondo dove gli uomini avevano cuori
umani nel petto. Mi rizzai a sedere sul divano, tremando per
tutto il corpo, con la mente divisa fra il sollievo e l'orrore.
Pensare che simili cose fossero mai avvenute, che potessero
avvenire senza che Dio fulminasse i colpevoli! Era stata tutta
una fantasia, o rappresentava davvero qualcosa che era
accaduto nel periodo più oscuro e crudele della storia del
mondo? Appoggiai il capo dolorante sulle mie mani tremanti. E
allora, improvvisamente, mi parve che il cuore mi si fermasse
nel petto, e non potei neanche gridare, tale era il mio terrore.
Qualcosa avanzava verso di me nell'oscurità della stanza.
È quando un terrore si assomma a un altro terrore, che lo
spirito di un uomo si spezza. Non riuscivo a ragionare, non
riuscivo a pregare; potevo soltanto restare immobile, come una
statua, e fissare la tenebrosa figura che avanzava nella vasta
sala. Poi la figura si inoltrò nel bianco raggio della luna, e potei
nuovamente respirare. Era Dacre, e il suo volto mostrava che
era spaventato quanto me.
«E stato lei? Per l'amor del cielo, che cosa succede?» chiese
con voce rauca.
«Dacre, quanto sono lieto di vederla! Sono stato
nell'inferno. Era spaventoso.»
«Allora è stato lei a gridare?»
«Credo proprio di si.»
«Il suo grido ha echeggiato per tutta la casa. I domestici
sono rimasti terrorizzati.» Accese la lampada con un
fiammifero. «Credo che possiamo riattivare il fuoco» aggiunse,
gettando dei ceppi sulla brace. «Santo cielo, amico mio, com'è
bianco il suo viso! Si direbbe che abbia visto un fantasma.»
«E infatti ne ho visti più d'uno.»
«Dunque l'imbuto ha sortito il suo effetto?»
«Non dormirei mai più vicino a quell'oggetto infernale per
tutto l'oro del mondo.»
Dacre ridacchiò.
«Prevedevo che avrebbe passato una notte agitata» disse.
«Ma sono stato punito, perché quel suo urlo non era molto
piacevole da udirsi alle due del mattino. Arguisco da quanto mi
dice che ha visto tutta la spaventosa vicenda.»
«Quale spaventosa vicenda?»
«La tortura dell'acqua, o il "Trattamento Straordinario",
come veniva chiamata negli amabili giorni del Re Sole. Lei ha
resistito fino alla fine?»
«No, grazie al cielo, mi sono destato prima che
incominciasse per davvero.»
«Ah! è una fortuna per lei. Io resistetti fino al terzo secchio.
Be', è una vecchia storia, e i protagonisti sono ormai tutti nella
tomba, perciò che importanza ha il modo in cui ci sono
arrivati? Suppongo che lei non abbia alcuna idea di cosa fosse
quello che ha visto?»
«La tortura di qualche criminale. Quella donna dev'essere
stata davvero una terribile delinquente, se i suoi delitti sono
proporzionati alla punizione inflittale.»
«Infatti, abbiamo questa piccola consolazione» disse Dacre,
avvolgendosi meglio nella veste da camera e accucciandosi più
vicino al fuoco. «Erano proporzionati alla sua punizione.
S'intende, se ho riconosciuto con esattezza l'identità della
donna.»
«Com'è possibile che lei conosca la sua identità?»
Per tutta risposta, Dacre tolse da uno scaffale un vecchio
volume ricoperto in pergamena.
«Ascolti questo» disse. «È scritto nel francese del
diciassettesimo secolo, ma mentre leggo glie ne darò una
traduzione approssimativa. Lei stesso giudicherà se ho risolto o
meno l'enigma.
«"La prigioniera venne portata davanti a uno speciale Giuri
che agiva come tribunale, imputata dell'assassinio di Dreux
d'Aubray, suo padre, e dei suoi due fratelli, uno dei quali
tenente e l'altro consigliere del Parlamento. A giudicare dalla
sua persona, sembrava difficile credere che avesse davvero
commesso delle simili malvagità, poiché era di aspetto mite, e
di piccola statura, con una carnagione chiara e occhi azzurri.
Eppure la Corte, avendola trovata colpevole, la condannò al
trattamento ordinario e straordinario, in modo da costringerla a
fare i nomi dei suoi complici, dopo di che un carro l'avrebbe
trasportata alla place de Grève, dove le avrebbero tagliato la
testa, per bruciarne poi il corpo e spargerne le ceneri al vento."
«Questa annotazione è datata 16 luglio, 1676.»
«È molto interessante» replicai «ma non convincente.
Come può dimostrare che si tratti della medesima donna?»
«Ci sto arrivando. Il racconto prosegue, e narra il
comportamento della donna durante l'interrogatorio. "Quando il
boia le si avvicinò, ella lo riconobbe dalle corde che teneva in
mano, e subito gli tese le proprie mani, scrutandolo dalla testa
ai piedi senza profferire parola." Cosa ne dice?»
«Si, èra proprio cosi.»
«"Essa guardò, senza distogliere lo sguardo, la cavalletta di
legno e gli anelli che avevano straziato tante persone e
provocato tante grida di agonia. Quando i suoi occhi caddero
sui tre secchi d'acqua, che erano li pronti per lei, ella disse con
un sorriso: 'Tutta quell'acqua dev'essere stata portata qui allo
scopo di affogarmi, signore. Non avete intenzione, spero, di
costringere una persona piccola come me a ingoiarla tutta'."
Devo leggere i particolari della tortura?»
«No, per l'amor del cielo, non lo faccia.»
«Ecco qua una frase che sicuramente vi dimostrerà che ciò
che è riportato qui si riferisce alla medesima scena alla quale
ha assistito stanotte: "Il buon Abate Pirot, incapace di
contemplare le agonie sofferte dalla sua penitente, si affrettò a
uscire dalla stanza". Questo la convince?»
«Assolutamente. Non può sussistere alcun dubbio che non
si tratti della stessa persona. Ma chi è dunque questa donna il
cui aspetto era così attraente, e la cui fine fu tanto orribile?»
Per tutta risposta Dacre mi si avvicinò, e appoggiò la
lampada sul tavolino che era accanto al mio letto. Sollevando
l'infausto imbuto, ne voltò il bordo di ottone in modo che la
luce lo colpisse in pieno. Vista cosi, l'incisione sembrava più
chiara di quanto non lo fosse stata la sera precedente.
«Abbiamo già convenuto che questo è l'emblema di un
marchese o di una marchesa» disse egli. «Abbiamo anche
stabilito che l'ultima lettera è una B.»
«Tutto ciò è indubbio.»
«Mi permetto ora di suggerirle che le altre lettere da sinistra
a destra sono: M, M, una d minuscola, A, una d minuscola, e
poi la B finale.»
«Si, sono certo che lei ha ragione. Riesco a vedere
chiaramente le due d minuscole.»
«Ciò che le ho letto stasera» disse Dacre «è il resoconto
ufficiale del processo di Marie Madeleine d'Aubray, Marchesa
di Brinvilliers, una delle più famose avvelenatrici e assassine di
tutti i tempi.»
Rimasi in silenzio, sopraffatto dalla straordinaria natura
della vicenda, e dalla completezza dell'evidenza con cui Dacre
ne aveva esposto il vero significato. Ricordavo vagamente
alcuni particolari della carriera della donna, la sua
depravazione senza limiti, la sua fredda e prolungata tortura del
padre ammalato, l'assassinio dei fratelli per meschini motivi di
lucro. Rammentai anche che il suo coraggioso comportamento
di fronte alla morte aveva in qualche modo fatto ammenda per
l'orrore della sua vita, e che tutta Parigi era stata solidale con
lei nei suoi ultimi istanti, benedicendola come una martire,
quando pochissimi giorni prima l'avevano maledetta come
un'assassina. Una obiezione, e una sola, mi venne alla mente.
«Come mai le sue iniziali e il suo stemma finirono su
quell'imbuto? Non posso credere che i suoi giustizieri
portassero il loro medioevale rispetto per la nobiltà al punto da
decorare gli strumenti di tortura con i loro titoli.»
«Anch'io mi sono posto la stessa domanda» replicò Dacre
«ma mi pare che sia facilmente spiegabile. Il caso destò a
quell'epoca un interesse eccezionale, e niente di più naturale
che La Reyne, capo della polizia, abbia serbato questo imbuto
quale macabro ricordo. Non succedeva spesso che una
marchesa di Francia fosse sottoposta al trattamento
straordinario. Che egli vi incidesse le iniziali di lei ad uso dei
posteri, mi pare un atto molto normale da parte sua.»
«E questi?» chiesi, indicando i segni sul collo dell'imbuto.
«Quella donna era una vera tigre» disse Dacre,
allontanandosi. «Mi pare evidente che, come le altre tigri, i
suoi denti fossero sia robusti che affilati.»
Il caso di Lady Sannox

La relazione fra Douglas Stone e la ben nota Lady Sannox


era di pubblico dominio, sia nell'ambiente mondano in cui essa
spiccava, che negli istituti accademici di cui egli era autorevole
membro. Pertanto, quando venne annunciato una mattina che la
donna aveva irrevocabilmente e per sempre preso il velo, il
fatto destò un grande interesse. Quando poi, sulla scia di questa
voce, si seppe che il celebre chirurgo, l'uomo dai nervi
d'acciaio, era stato trovato quella stessa mattina, dal suo
cameriere, seduto sul letto che sorrideva vacuamente al mondo
intero, con tutti e due i piedi cacciati in una gamba dei
pantaloni e il gran cervello degenerato in quello di un povero
imbecille, la notizia fu tanto emozionante da provocare un
brivido di interesse in gente che non aveva mai sperato che i
propri nervi logorati fossero in grado di provare una simile
sensazione.
Douglas Stone, nella sua piena maturità, era uno dei più
straordinari uomini di tutta l'Inghilterra. A dire il vero, non si
può neanche dire che abbia mai raggiunto la maturità, poiché
aveva appena trentanove anni all'epoca di questo piccolo
incidente. Coloro che lo conoscevano bene, si rendevano conto
che per quanto famoso fosse come chirurgo, avrebbe potuto
raggiungere il successo con ancora maggior rapidità in una
qualsiasi di altre innumerevoli carriere. Avrebbe potuto
conquistarsi la fama come soldato, avrebbe potuto lottare per
farsene una come esploratore, o declamando nei tribunali, o
avrebbe potuto edificarsela in pietra e acciaio come ingegnere.
Era nato per essere grande, poiché sapeva progettare ciò che
nessun altro uomo avrebbe osato fare, e sapeva fare ciò che
nessun altro uomo avrebbe osato progettare. Nel campo della
chirurgia, nessuno era alla sua altezza. Il suo coraggio e il suo
intuito erano leggendari. A più riprese il suo bisturi aveva
sconfitto la morte, sfiorando le fonti stesse della vita, fino al
punto da ridurre i suoi assistenti pallidi come lo stesso
paziente. L'energia, l'audacia, la sanguigna sicurezza di sé sono
ancora ben vive nel ricordo a sud di Marylebone Road e a nord
di Oxford Street.
I suoi vizi erano altrettanto grandiosi delle sue virtù, e
infinitamente più pittoreschi. Per cospicuo che fosse il suo
reddito, ed era il terzo dei professionisti di tutta Londra, era di
gran lunga insufficiente al suo tenore di vita. Profondamente
radicata nella sua complessa natura-, egli nascondeva una ricca
vena di sensualità, che condizionava ogni atto della sua
esistenza. L'occhio, l'orecchio, il tatto, il palato erano i suoi
padroni. Il bouquet dei vecchi vini, il profumo di spezie rare, le
forme e le tinte delle più delicate porcellane d'Europa, era in
tutto ciò che si trasformava il costante flusso d'oro che entrava
nelle sue tasche. Poi vi fu la sua improvvisa, folle passione per
Lady Sannox, quando un solo incontro con lei, due sguardi di
sfida e una parola bisbigliata, erano sufficienti per farlo
infiammare. Lei era la più incantevole donna di Londra, e la
sola donna per lui. Lui era uno dei più begli uomini di Londra,
ma non era il solo per lei. Essa amava sperimentare ciò che era
nuovo, ed era condiscendente verso gli uomini che la
corteggiavano. Poteva esserne la causa o poteva esserne
l'effetto, il fatto che Lord Sannox dimostrasse cinquantanni,
benché ne avesse appena trentasei.
Era questo lord un uomo tranquillo, silenzioso, di aspetto
modesto, le labbra sottili e le palpebre pesanti.
Era dedito al giardinaggio e pieno di abitudini casalinghe.
In gioventù aveva avuto un debole per la recitazione, a Londra
aveva perfino noleggiato un teatro, sul cui palcoscenico aveva
visto per la prima volta la signorina Marion Dawson, alla quale
aveva poi offerto la sua mano, il suo titolo, e il terzo di una
contea. Dopo il matrimonio, questo giovanile hobby aveva
perso per lui ogni attrattiva. Anche nelle recite private, non era
più possibile persuaderlo a esibire quel talento che spesse volte
aveva dimostrato di possedere. Era più felice fra le sue
orchidee e i suoi crisantemi, con una zappetta e un annaffiatoio
in mano.
Era un problema assai interessante, quello di decidere se
egli fosse del tutto privo di buonsenso, o piuttosto
miserabilmente mancante di coraggio. Era egli al corrente della
condotta di sua moglie e la perdonava, o era semplicemente un
marito stolto? Era un argomento da discutere sorbendo il tè in
piccoli, raccolti salottini, o con l'aiuto di un sigaro fra le
poltrone dei club. I commenti degli uomini riguardo alla sua
condotta erano taglienti e decisi. Vi era un solo uomo che
avesse una buona parola per lui, ed era il membro più
silenzioso del club. Egli aveva visto Lord Sannox domare
all'Università un cavallo, e questo ricordo pareva avergli
lasciato un'impressione indelebile.
Ma quando Douglas Stone divenne il favorito, ogni dubbio
riguardo alla consapevolezza o all'ignoranza di Lord Sannox fu
dissipato. Stone non conosceva sotterfugi. Nella sua maniera
ardita e impetuosa, abbandonò ogni resto di cautela e di
discrezione. Lo scandalo dilagò. Un corpo accademico intimò
che il suo nome fosse cancellato dalla lista dei suoi vice
presidenti. Due amici lo supplicarono di pensare al suo credito
professionale. Stone li mandò al diavolo tutti e tre, e spese
quaranta ghinee per un braccialetto da portare alla donna. Egli
passava le serate in casa di lei, e lei si faceva vedere nella
carrozza di lui ogni pomeriggio.
Nessuno dei due faceva il minimo tentativo per nascondere
la loro relazione; ma finalmente accadde un piccolo incidente
che li divise.
Era una tetra serata d'inverno, molto fredda e burrascosa,
con il vento che ululava nelle cappe dei camini e scuoteva i
vetri delle finestre. La pioggia picchiettava contro i vetri a ogni
raffica della bufera, sopraffacendo per un istante il triste
gorgoglio e gocciolio delle grondaie. Douglas Stone aveva
finito di cenare ed era seduto accanto al fuoco nello studio, con
un bicchiere di buon porto sul tavolo di malachite accanto a lui.
Prima di portarlo alle labbra, lo alzò verso la luce della
lampada e ne osservò con occhio da intenditore il ricco color
rubino. I guizzi delle fiamme illuminavano a tratti il suo volto
audace dai lineamenti ben definiti, i grandi occhi grigi, le
labbra spesse eppure risolute, e la mascella larga e quadrata,
che aveva qualcosa di romano nella sua forza e nella sua
animalità. Ogni tanto sorrideva, sprofondato nella sua comoda
poltrona. Invero aveva il diritto di sentirsi soddisfatto di sé,
poiché quel giorno stesso, nonostante il parere contrario di sei
colleghi, aveva eseguito un'operazione che era stata portata a
termine due sole volte prima d'allora negli annali della
medicina, e il risultato era stato brillante oltre ogni previsione.
Nessun altro in tutta Londra avrebbe avuto il coraggio di
progettare, o l'abilità di portare a termine, un'impresa tanto
rischiosa.
Ma aveva promesso a Lady Sannox di recarsi da lei quella
sera, ed erano già le otto e mezzo. La sua mano era tesa verso il
campanello per ordinare la carrozza, quando udì il tonfo sordo
del battaglio. Dopo un istante, gli giunse uno strascicare di
piedi nell'ingresso, e il colpo secco della porta che si chiudeva.
«C'è un cliente, signore, nella sala d'aspetto» annunciò il
maggiordomo.
«E lui il malato?»
«No, signore; credo che sia venuto a chiamarla.»
«È troppo tardi» esclamò Douglas Stone irritato. «Non ci
andrò.»
«Ecco il suo biglietto da visita, signore.»
Il maggiordomo glielo porse sul vassoio d'oro che era stato
regalato al suo padrone dalla moglie di un Primo Ministro.
«"Hamil Ali, Smirne." Hm! Quell'individuo è un turco,
suppongo.»
«Si, signore. Sembra uno straniero, signore. Ed è molto
agitato.»
«Che seccatura! Ho un impegno. Devo uscire. Ma gli
parlerò. Fatelo accomodare qui, Pim.»
Dopo pochi istanti, il maggiordomo apri nuovamente la
porta e fece entrare un ometto piccolo e decrepito, che
camminava con la schiena curva, e con il viso proteso e gli
occhi socchiusi che denotavano una fotte miopia. Aveva il
volto olivastro e i capelli e la barba corvini. In una mano
teneva un turbante di mussola bianca a righe rosse e nell'altra
un sacchetto di camoscio.
«Buonasera» disse Douglas Stone, quando il maggiordomo
ebbe richiuso la porta. «Presumo che lei parli inglese.»
«Si, signore. Vengo dall'Asia Minore, ma parlo l'inglese
anche se lentamente.»
«Lei vuole che io venga con lei, se ho ben capito?»
«Si, signore. Ci terrei molto che lei vedesse mia moglie.»
«Potrei venire domattina, poiché ho un impegno che mi
impedisce di recarmi da sua moglie stasera.»
La risposta del turco fu singolare Tirò la cordicella che
chiudeva l'imboccatura del sacchetto di camoscio, e rovesciò
sul tavolo un fiume d'oro.
«Qui ci sono cento sterline» disse «e le prometto che non
perderà più di un'ora. Ho alla porta una carrozza.»
Douglas Stone diede un'occhiata all'orologio. Avrebbe
potuto andare ugualmente da Lady Sannox anche un'ora dopo.
Ci era andato anche più tardi, in passato. E la ricompensa era
estremamente allettante. Negli ultimi tempi era stato
perseguitato dai creditori, e non poteva trascurare una simile
occasione. Ci sarebbe andato.
«Di che malattia si tratta?» chiese.
«Oh, è una così triste malattia! così triste! Avete per caso
mai sentito parlare dei pugnali degli Almohades?»
«No, mai.»
«Ah, si tratta di pugnali orientali antichissimi e dalla forma
curiosa, con l'impugnatura simile a ciò che voi chiamate staffa.
Io commercio in oggetti rari, ed è per questo che sono venuto
in Inghilterra da Smirne, ma la settimana prossima torno
laggiù. Ho portato con me molti oggetti, e qualcuno me ne è
rimasto, ma fra questi, con mio grande dolore, c'è uno di questi
pugnali.»
«La prego di ricordarsi che ho un appuntamento» sbottò il
chirurgo con una certa irritazione. «Per favore, si limiti
all'indispensabile.»
«Vedrà che tutto questo è indispensabile. Oggi mia moglie
ha avuto uno svenimento nella stanza in cui tengo la mia merce
e, cadendo, si è tagliata il labbro inferiore con questo maledetto
pugnale di Almohades.»
«Capisco» disse Douglas Stone, alzandosi in piedi. «E lei
vuole che io le medichi la ferita?»
«No, no, è molto peggio di cosi.»
«E cioè?»
«Questi pugnali sono avvelenati.» «Avvelenati!»
«Si, e non esiste oggi nessuno in grado di sapere di che
veleno si tratti o quale ne sia la cura. Ma quel poco che si sa, io
lo so, poiché mio padre faceva questo mestiere prima di me, e
abbiamo avuto un commercio amplissimo con queste armi
avvelenate.» «Quali sono i sintomi?»
«Un sonno profondo, e la morte entro trenta ore.» «E lei
dice che non esiste cura. Perché dunque mi offre un onorario
così lauto?»
«Nessuna medicina può curare, ma il coltello si.» «E
come?»
«Il veleno si assorbe lentamente. Ristagna per ore nella
ferita.»
«Non si potrebbe eliminarlo lavando la ferita?»
«Sarebbe altrettanto inutile quanto lavare il morso di un
serpente. E un veleno troppo infido e mortale.»
«Escissione della ferita, allora ?»
«Appunto. Se la ferita è sul dito, tagliate il dito. così diceva
sempre mio padre. Pensi dove si trova questa ferita, e che si
tratta di mia moglie. È spaventoso!»
Ma la lunga dimestichezza con queste macabre faccende
può talvolta attutire la sensibilità di un uomo. Per Douglas
Stone, questo era già un caso interessante, e respinse come
trascurabili le deboli obiezioni del marito.
«Mi pare che non abbiamo alternative» disse bruscamente.
«E meglio perdere un labbro che la vita.»
«Ah, certo, lo so che lei ha ragione. Be' be', è il destino e
bisogna affrontarlo. La carrozza è qui, e lei verrà con me e farà
questa cosa.»
Douglas Stone prese l'astuccio dei bisturi da un cassetto e
se lo mise in tasca assieme a un rotolo di bende e a qualche
garza. Non aveva tempo da sprecare, se voleva vedere Lady
Sannox.
«Sono pronto» dichiarò, infilandosi il soprabito. «Vuol
prendere un bicchiere di vino prima di uscire con questo
freddo?»
L'ospite arretrò, alzando una mano in segno di protesta.
«Lei dimentica che sono un musulmano, e un fedele
seguace del Profeta. Ma mi dica, che cose quella bottiglietta di
vetro verde che si è messa in tasca?»
«Cloroformio.»
«Ah, anche quello ci è vietato. E un'essenza alcolica, e noi
non ci serviamo di simili cose.»
«Come! Lei vorrebbe che sua moglie venisse sottoposta a
un'operazione senza anestetizzarla?»
«Ah! non sentirà niente, poveretta. Il sonno profondo, che è
il primo effetto del veleno, l'ha già ghermita. E poi le ho dato
del nostro oppio di Smirne. Andiamo, signore, che si fa tardi.»
Come uscirono nell'oscurità, furono investiti da uno
scroscio di pioggia, e la lampada nell'ingresso, che pendeva dal
braccio di una cariatide di marmo, si spense con un soffio. Pim,
il maggiordomo, dovette lottare per richiudere il pesante
portone, spingendolo con tutto il suo peso per vincere la forza
del vento, mentre i due brancolavano in direzione del bagliore
giallastro che mostrava dove la carrozza li attendeva. Un
istante più tardi, la carrozza partiva.
«E lontano?» chiese Douglas Stone.
«Oh, no. Abitiamo in un posticino tranquillo vicino a
Euston Road.»
Il chirurgo premette la molla del suo orologio a ripetizione,
e ascoltò i piccoli rintocchi che gli dicevano l'ora. Erano le
nove e un quarto. Calcolò le distanze, e il poco tempo che gli
sarebbe bastato per eseguire un così triviale intervento.
Avrebbe dovuto essere da Lady Sannox per le dieci. Attraverso
i finestrini appannati, vedeva passare le macchie confuse dei
fanali a gas, e ogni tanto il bagliore più grande di una vetrina.
La pioggia batteva sul tetto di cuoio della carrozza, e le ruote
sciabordavano rotolando fra il fango e le pozzanghere. In faccia
a lui, il copricapo bianco del suo compagno riluceva
debolmente nell'oscurità. Il chirurgo armeggiò nelle sue tasche,
e sistemò i suoi aghi, le sue bende e le spille di sicurezza, in
modo da non perdere tempo una volta arrivati. Fremeva
dall'impazienza, e tambureggiava il piede sul pavimento.
Infine la carrozza rallentò, e poi si fermò del tutto.
Immediatamente Douglas Stone ne discese, tallonato dal
mercante di Smirne.
«Aspetti pure» disse quest'ultimo rivolto al cocchiere.
La casa era squallida, e la via stretta e sordida. Il chirurgo,
che conosceva bene la sua Londra, gettò una rapida occhiata
attorno a sé, ma non vi era alcunché di riconoscibile — nessun
negozio, nessun movimento, nient'altro che una duplice fila di
case buie e insignificanti, un duplice rettifilo di lastre di pietra
bagnate che rilucevano alla luce dei fanali, e un duplice
torrente d'acqua nei rigagnoli che turbinava e gorgogliava verso
i tombini. La porta di fronte a cui si trovavano era scrostata e
stinta, e la pallida luce che traspariva dalla vetrata a mezzaluna
che la sovrastava serviva soltanto a mostrare la polvere e lo
sporco di cui era ricoperta. In alto, da una delle finestre delle
camere da letto, traspariva un tenue barlume giallastro. Il
mercante bussò con forza, e quando si voltò verso la luce,
Douglas Stone vide che il suo volto era contratto dall'ansia.
Venne tirato un paletto, e una donna anziana con una candela
apparve sulla soglia, riparando con una mano nodosa la tenue
fiammella.
«Niente di nuovo?» chiese il mercante con voce soffocata.
«La signora è come l'ha lasciata.» «Non ha parlato?»
«No, è addormentata profondamente.»
Il mercante richiuse la porta, e Douglas Stone percorse lo
stretto corridoio, guardandosi attorno con un certo stupore. Non
vi erano tende, né tappeto, né attaccapanni. Soltanto polvere e
tele di ragno incontravano i suoi occhi. Seguendo la vecchia su
per le scale, il suono del passo deciso di Stone echeggiava
seccamente per la casa silenziosa.
La camera da letto era al secondo piano. Douglas Stone vi
entrò dietro alla vecchia infermiera, seguito a sua volta dal
mercante. Qui, perlomeno, vi era arredamento in abbondanza:
mobiletti turchi, tavoli intarsiati, giubbotti di maglia di ferro,
strane pipe ed armi grottesche. Un'unica lampada era infissa in
un braccio sulla parete. Douglas Stone se ne impadronì e
facendosi strada fra i mobili, si diresse verso un letto
nell'angolo, sul quale giaceva una donna vestita alla maniera
turca, con "yashmak" e velo. La parte inferiore del suo viso era
esposta, e il chirurgo vide un taglio irregolare che spiccava sul
bordo del labbro inferiore.
«Lei scuserà lo "yashmak"» disse il turco. «Certo conosce il
punto di vista dei levantini a proposito delle donne.»
Ma il chirurgo non stava pensando allo "yashmak". Quella
li non era più una donna per lui. Era un caso. Si chinò ed
esaminò attentamente la ferita.
«Non vi è nessuna traccia di infiammazione» disse.
«Potremmo rimandare l'operazione finché non si sviluppano i
sintomi locali.»
Il marito si torse le mani in preda a un'incontrollabile
agitazione.
«Oh! signore» esclamò. «Non indugi. Lei non se ne rende
conto, è mortale. Io lo so, e le do la mia parola d'onore che
un'operazione è assolutamente indispensabile. Solo il coltello la
può salvare.»
«Ciononostante preferirei aspettare» ribatté Douglas Stone.
«Basta cosi» urlò il turco, furibondo. «Ogni minuto è della
massima importanza, e io non posso restarmene qui a vedere
mia moglie morire. Non ho altra alternativa che di ringraziarla
per essere venuto, e chiamare un altro chirurgo prima che sia
troppo tardi.»
Douglas Stone esitò. Non sarebbe stato piacevole restituire
quelle cento sterline. Ma naturalmente, se abbandonava il caso,
doveva per forza restituirle. E se il turco avesse avuto ragione e
la donna fosse morta, la sua posizione di fronte a un medico
legale avrebbe potuto essere imbarazzante.
«Lei ha un'esperienza personale di questo veleno?» chiese.
«Si.»
«E mi assicura che un intervento è necessario?»
«Lo giuro su tutto quello che è sacro.»
«La donna rimarrà orrendamente sfigurata.»
«Capisco che non sarà una bella bocca da baciare.»
Douglas Stone si voltò inferocito verso l'uomo. Il discorso
era brutale. Ma il turco aveva il proprio modo di pensare e
parlare, e non c'era tempo per litigare. Douglas Stone trasse
dall'astuccio un bisturi, lo apri, e passò l'indice sulla lama
tagliente. Poi avvicinò la lampada al letto. Due occhi scuri lo
fissavano attraverso l'apertura nello "yashmak". Erano tutta
iride, e la pupilla era quasi scomparsa.
«Le avete dato una dose assai massiccia di oppio.»
«Si, ne ha preso una buona dose.»
Il chirurgo osservò nuovamente gli occhi scuri che
guardavano fissamente i suoi. Erano opachi e privi di vivacità,
ma mentre li guardava, furono animati da una breve scintilla, e
le labbra tremarono.
«Non è del tutto priva di conoscenza» disse.
«Non sarebbe meglio usare il coltello finché sarà
insensibile al dolore?»
Lo stesso pensiero aveva attraversato la mente del chirurgo.
Afferrò il labbro ferito con la pinza, e con due tagli veloci ne
staccò un largo lembo a forma di V. La donna balzò a sedere
sul letto con uno spaventoso grido gorgogliante. Si strappò il
velo dal viso.
Era un volto che lui conosceva. Nonostante quel labbro
superiore sporgente e quella carne sanguinante, era un volto
che lui conosceva. La donna seguitava a premersi la mano sullo
squarcio e a urlare. Douglas Stone si sedette ai piedi del letto
con il bisturi e la pinza in mano. La stanza gli girava
vorticosamente intorno, e aveva sentito qualcosa cedergli in
testa, come un'improvvisa lacerazione. Uno spettatore avrebbe
detto che, dei due volti, il suo era il più spettrale. Come in un
sogno, o come se fosse stato intento a seguire qualcosa su un
palcoscenico, si rese conto che i capelli e la barba del turco
giacevano sul tavolo, e che Lord Sannox stava appoggiato
contro la parete, con una mano sul fianco, ridendo
silenziosamente. Le urla erano ormai cessate, e quell'orribile
testa era ricaduta sul cuscino, ma Douglas Stone continuava a
sedere immobile, e Lord Sannox continuava a ridere
silenziosamente fra sé e sé.
«Per Marion quest'operazione era veramente
indispensabile» diss'egli. «Non fisicamente, lei capisce bene,
ma moralmente,.»
Douglas Stone si chinò in avanti e cominciò a giocherellare
con la frangia del copriletto. Il bisturi cadde tintinnando per
terra, ma continuava a tenere in mano la pinza.
«Era da molto che volevo darle una piccola lezione» disse
Lord Sannox in tono mellifluo. «Il vostro bigliettino di
mercoledì scorso sbagliò recapito; ce l'ho qui con me nel mio
portafogli. È stato piuttosto difficile attuare il mio progetto. La
ferita, a proposito, è stata prodotta semplicemente dal mio
anello.»
Lanciò un'acuta occhiata al suo compagno ammutolito, e
tolse la sicura dalla piccola pistola che teneva nella tasca del
soprabito. Ma Douglas Stone continuava a giocherellare con il
copriletto.
«Vede che dopotutto ha mantenuto il suo appuntamento»
disse Lord Sannox.
A quelle parole, Douglas Stone cominciò a ridere. Rise a
lungo, a gola spiegata. Ma ora Lord Sannox non rideva più.
Qualcosa di simile alla paura gli aguzzò e gli indurì i tratti.
Usci dalla stanza, camminando in punta di piedi. La vecchia lo
aspettava fuori dalla porta.
«Occupati della tua padrona quando si sveglierà» disse
Lord Sannox.
Poi scese in strada. La carrozza era davanti al portone, e il
cocchiere alzò una mano al berretto.
«John» disse Lord Sannox «prima di tutto porterai a casa il
dottore. Avrà bisogno di aiuto per scendere le scale, credo. Di'
al suo maggiordomo che durante una visita si è sentito male.»
«Molto bene, signore.»
«Poi porterai Lady Sannox a casa.»
«E lei, signore?»
«Oh, il mio indirizzo per i prossimi mesi sarà Hotel Roma,
Venezia. Procura di farmi recapitare la posta. E di' a Stevens di
mandare lunedì alla mostra i crisantemi viola e di telegrafarmi
il risultato del mio esperimento di floricultore.»
Il terrore del Blue John Gap

Il seguente resoconto fu trovato fra le carte del dottor James


Hardcastle, morto di tisi il 4 febbraio del 1908, in Upper
Coventry Flats 36, South Kensington. I suoi migliori amici, pur
rifiutandosi di esprimere un'opinione riguardo allo scritto in
questione, sono unanimi nell'asserire che egli era un uomo
dalla mente sobria e scientificamente dotata, privo del tutto di
immaginazione, e incapace di inventare una serie di
avvenimenti abnormi. Il documento era chiuso in una busta che
recava la scritta: "Breve resoconto degli avvenimenti che si
svolsero nella scorsa primavera nei pressi della fattoria delle
signorine Allerton nel North-West Derbyshire". La busta era
sigillata, e sul retro vi era scritto a matita:

"Caro Seaton,
"Ti potrà interessare, e forse addolorare, di apprendere che
l'incredulità con cui accogliesti il mio racconto mi ha impedito
di riparlare in seguito del problema con chicchessia. Lascio
questa breve documentazione che andrà letta dopo la mia
morte; potrà forse succedere che degli sconosciuti avranno più
fiducia in me che non il mio amico."

Le indagini successive non hanno appurato chi fosse questo


Seaton. Potrei aggiungere che la visita del defunto alla fattoria
delle Allerton e il motivo dell'allarme che si ebbe nei dintorni,
sono stati verificati e controllati, al di fuori di questa
particolare spiegazione. Con questa premessa, faccio seguire il
suo resoconto esattamente come lui lo ha lasciato. E sotto
forma di un diario, dei cui brani, alcuni sono stati ampliati, altri
cancellati.
17 aprile. Già sento i benefici di questa meravigliosa aria di
collina. La fattoria delle Allerton è a quattrocentotrenta metri
sopra il livello del mare, ed è quindi comprensibile che qui il
clima sia tanto tonificante. Tranne la solita tosse del mattino,
ho pochissimi altri disturbi e, con l'aiuto del latte appena munto
e il montone allevato sul luogo, credo proprio che riuscirò a
ingrassare un po'. Penso che Saunderson sarà contento.
Le due signorine Allerton sono deliziosamente bizzarre e
gentili, due tesori di zitelle laboriose e instancabili, pronte a
versare la piena del loro affetto, di cui avrebbero potuto
colmare marito e figli, su uno sconosciuto, e invalido per
giunta. Invero, la zitella è una figura di grande utilità, una delle
più preziose riserve della comunità. La gente parla della donna
superflua, ma come se la caverebbe un poveraccio superfluo
senza la sua dolce presenza? A proposito, nella loro ingenuità
hanno subito lasciato sfuggire il motivo per cui Saunderson mi
raccomandò la loro fattoria. Il Professore è di umili natali, e
credo che trascorse la sua infanzia giocando proprio in questi
campi.
E un luogo assai solitario e le passeggiate sono
estremamente pittoresche. La fattoria consiste in terreni da
pascolo che giacciono in un fondovalle. Sui due lati sorgono
delle fantastiche colline calcaree, formate da pietra così
morbida che la si può sgretolare con le mani. L'intera regione è
una cava. Se la si potesse percuotere con un gigantesco
martello, rimbomberebbe come un tamburo, o forse
sprofonderebbe del tutto, rivelando uno sconfinato mare
sotterraneo. Un grande mare indubbiamente ci deve essere,
perché ovunque i ruscelli scompaiono dentro alla montagna
stessa, senza più riapparire. Le rocce sono piene di crepe, e se
si entra in una di esse ci si trova poi in enormi caverne, che si
insinuano nelle viscere della terra. Ho una piccola lampada a
pila, ed è per me una gioia continua portarla in queste
misteriose solitudini, e vedere i meravigliosi effetti argentei e
neri che si formano, quando getto la sua luce sulle stalattiti che
pendono dalle altissime volte. Spengo la lampada, e mi trovo
nella più assoluta oscurità. La accendo, ed è una scena da Mille
e una notte.
Ma vi è una di queste strane aperture nella terra che riveste
un interesse particolare, poiché non è opera della natura, ma
dell'uomo. Non avevo mai sentito parlare di Blue John quando
sono venuto da queste parti. E il nome che danno a uno strano
minerale di un bellissimo color viola, che si trova soltanto in
uno
0 due luoghi in tutto il mondo. E così raro, che un vaso
qualsiasi di Blue John avrebbe un valore astronomico. I
romani, con lo straordinario istinto da loro posseduto,
scoprirono che lo si poteva estrarre in questa valle, e scavarono
un profondo pozzo orizzontale nel fianco della montagna.
L'imboccatura della loro miniera viene chiamata Blue John
Gap, ed è un arco ben delineato nella roccia, la cui apertura è
tutta ricoperta di cespugli. E un pozzo ben lungo, quello che
1 minatori romani scavarono, e incrocia alcune grandi
caverne erose dall'acqua, cosicché chiunque entrasse nel Blue
John Gap, farebbe bene a stare molto attento e a portarsi dietro
una buona provvista di candele, altrimenti rischierebbe di non
rivedere mai più la luce del sole. Per ora non mi ci sono
inoltrato di molto, ma oggi stesso mi sono fermato
all'imboccatura ad arco del tunnel, e, sbirciando nelle sue nere
profondità, ho giurato a me stesso che, non appena mi fossi
rimesso in salute, avrei dedicato alcuni giorni di vacanza ad
esplorare quelle misteriose profondità e a scoprire fin dove i
romani sono penetrati nelle colline del Derbyshire.
Strano come siano superstiziosi questi contadini! Non
l'avrei detto del giovane Armitage, poiché egli è un uomo di
una certa istruzione e di carattere, e un ottimo giovane per la
sua condizione sociale. Io mi trovavo in piedi vicino al Blue
John Gap, quando attraversò il campo per venire verso di me.
«Be', dottore» mi disse «non si può dire che lei abbia
paura.»
«Paura!» gli risposi. «Paura di che?»
«Di quello» disse, indicando con il pollice il nero antro.
«Del Terrore che abita nella caverna del Blue John.»
Com'è assurdamente facile che una leggenda nasca in una
campagna solitaria! Lo interrogai sui motivi della sua strana
convinzione. Pare che alcune pecore siano scomparse a
intervalli dai campi, portate via di peso, stando ad Armitage.
Che le pecore avessero potuto allontanarsi di propria iniziativa
e perdersi sulle montagne, era una ipotesi alla quale lui non
volle dare credito. Una volta trovarono una pozza di sangue, e
dei ciuffi di lana. Anche quello, gli feci notare, poteva avere
una spiegazione del tutto naturale. Inoltre, le notti in cui le
pecore sparivano, erano immancabilmente notti nuvolose e
senza luna. Controbattei molto logicamente che erano proprio
quelle le notti che un normale ladro di pecore sceglierebbe per
svolgere il suo lavoro. Una volta, mi disse, era stata praticata
un'apertura in un muro, e alcune delle pietre erano state
ritrovate a una considerevole distanza. Anche questo, secondo
me, poteva essere opera di un uomo. Infine, Armitage pose fine
alla discussione dicendomi che lui aveva udito la Creatura con i
propri orecchi, che, anzi, chiunque poteva udirla se si fermava
per un po' davanti al Gap. Era un rombo lontano di immenso
volume. Non potei trattenere un sorriso a questa uscita,
conoscendo, come io conosco, gli strani riverberi provocati dai
corsi d'acqua sotterranei che scorrono fra le voragini di una
formazione calcarea. La mia incredulità irritò Armitage, tanto
che mi voltò le spalle e si allontanò bruscamente.
Ed ora vengo alla parte più strana di tutta la faccenda. Ero
ancora ritto vicino all'imbocco della caverna, intento a riflettere
a proposito delle varie asserzioni di Armitage e a come si
potessero facilmente spiegare in modo logico, quando
improvvisamente, dalle profondità del tunnel accanto a me,
emerse un suono straordinario. Come posso descriverlo? In
primo luogo, sembrava che venisse da molto lontano, dalle
viscere stesse della terra. In secondo luogo, nonostante questa
impressione di lontananza, era molto forte. Infine, non era un
rombo, né un tonfo, come potrebbe essere prodotto da una
cascata d'acqua o dal rovinio di una pietra, ma era piuttosto un
lamento altissimo, tremulo e vibrante, quasi come il nitrito di
un cavallo. Certo che era un'esperienza notevole e tale, lo
ammetto, da dare un nuovo significato alle parole di Armitage.
Attesi vicino al Blue John Gap per una mezz'ora e più, ma quel
suono non si ripeté, e così tornai alla fattoria, piuttosto
sconcertato da quanto era accaduto. Senz'altro esplorerò quella
caverna quando mi sarò rimesso in forze. Naturalmente, la
spiegazione di Armitage è troppo assurda per essere presa in
considerazione, eppure quel suono era molto strano. Anche
adesso, mentre scrivo, lo sento ancora risuonare nelle orecchie.

20 aprile. Negli ultimi tre giorni ho fatto varie spedizioni al


Blue John Gap, e mi sono anche inoltrato per un breve tratto,
ma la mia lampada a pila è così piccola e debole che non oso
allontanarmi troppo. Mi organizzerò meglio. Non ho più udito
alcun suono, e potrei quasi convincermi di essere rimasto
vittima di un'allucinazione, suggerita, forse, dalle parole di
Armitage. Naturalmente, è una cosa assurda, eppure debbo
confessare che quei cespugli all'imbocco della caverna danno
l'impressione di essere stati calpestati da un'enorme creatura.
Comincio a essere profondamente interessato. Non ho detto
niente alle signorine Allerton, poiché esse sono già abbastanza
superstiziose, ma ho comprato delle candele, e intendo
indagare per conto mio.
Stamattina ho osservato che, fra i numerosi ciuffi di lana di
pecora cosparsi fra i cespugli vicino alla caverna, ve n'era uno
intriso di sangue. Naturalmente, la ragione mi dice che, se le
pecore si avventurano in luoghi scoscesi, è facile che si
feriscano, eppure in qualche modo quella macchia cremisi mi
ha dato un improvviso tuffo al cuore, e per un istante mi sono
trovato ad arretrare inorridito da quell'antico arco romano.
Pareva che un alito fetente si sprigionasse dalle nere profondità
nelle quali scrutavo. È davvero possibile che qualche oggetto
innominato, qualche spaventosa presenza, si nasconda laggiù?
Sarei stato incapace di simili pensieri all'epoca in cui godevo di
buona salute, ma si diventa più nervosi e fantasiosi quando la
salute vacilla.
Li per li, pensai di rinunciare al mio progetto e di lasciare
che il segreto dell'antica miniera, se pur esisteva, restasse
insoluto per sempre. Ma stasera il mio interesse si è ravvivato e
i miei nervi sono più saldi. Spero che domani riuscirò ad
approfondire la questione.
22 aprile. Voglio tentare di descrivere il più accuratamente
possibile la mia straordinaria esperienza di ieri. Mi incamminai
nel pomeriggio verso il Blue John Gap. Confesso che le mie
paure mi riassalirono quando mi trovai a scrutarne le nere
profondità, e mi pentii di non essermi portato dietro un
compagno con cui compiere l'esplorazione. Finalmente, con un
ritorno di coraggio, accesi la mia candela, mi feci strada
attraverso i rovi e mi inoltrai nel pozzo roccioso.
Il pozzo scende ad angolo acuto per una quindicina di
metri, e in questo tratto il terreno è ricoperto di pietre. Da li si
diparte un lungo corridoio diritto, tagliato nella roccia. Non
sono un geologo, ma il rivestimento di questo corridoio è
indubbiamente di una materia più dura che non la pietra
calcarea, poiché vi erano alcuni punti dove riuscivo a vedere i
segni lasciati dai picconi degli antichi minatori, altrettanto
freschi che se fossero stati lasciati ieri. Incespicando, percorsi
questo strano, antico corridoio, mentre la debole fiamma della
mia candela gettava attorno un tenue chiarore, che rendeva
ancora più nere e minacciose le ombre che mi stavano davanti.
Infine, arrivai in un punto dove il tunnel romano si apriva in
una caverna prodotta dalle acque: un enorme antro, dal cui
soffitto pendevano innumerevoli, lunghi ghiaccioli bianchi di
deposito calcareo. Aguzzando la vista, riuscii a vedere che da
questa sala centrale si dipartivano un gran numero di
diramazioni, formate da torrenti sotterranei, le quali si
inoltravano nelle viscere della terra. Me ne stavo li fermo,
chiedendomi se mi convenisse tornare indietro, o se avevo
l'ardire di avventurarmi oltre in quel pericoloso labirinto,
quando il mio sguardo cadde su qualcosa ai miei piedi, che
attirò prepotentemente la mia attenzione.
Il pavimento della caverna era in genere ricoperto da massi
di pietra e da dure incrostazioni di calcio, ma in quel
particolare punto vi era stato uno sgocciolio dal soffitto, che
aveva lasciato una vasta chiazza di fango molle. Nel bel mezzo
di questa, vi era un'enorme infossatura, un segno dai contorni
mal definiti, profondo, largo e irregolare, come se vi fosse
caduto un pesante masso. Eppure non vidi nessuna pietra
rotolata li vicino, né qualsiasi altra cosa che potesse giustificare
quel segno. Era molto, troppo grande per essere l'orma di un
qualsiasi animale e, inoltre, ve ne era una sola, e la chiazza di
fango era di una misura tale che nessuno avrebbe potuto
superarla con un solo passo. Quando rialzai la testa dopo aver
esaminato quella singolare traccia e mi fui guardato attorno, in
quelle ombre nere che mi circondavano, debbo confessare che
provai per un istante uno sgradevole senso di paura e, per
quanto tentassi di dominarmi, la candela tremò nella mia mano
protesa.
Ben presto comunque riacquistai il mio sangue freddo,
riflettendo come fosse assurdo associare una così vasta e
informe traccia con l'orma di qualsiasi animale noto all'uomo.
Neppure un elefante avrebbe potuto lasciarla. Decisi pertanto
che non avrei permesso a delle vaghe e informi paure di
impedirmi di portare a termine la mia esplorazione. Prima di
proseguire, presi accuratamente nota di una bizzarra
formazione calcarea nella parete, dalla quale avrei potuto
riconoscere l'entrata del tunnel romano. Era una precauzione
indispensabile, poiché la vasta caverna, fin dove potevo vedere,
era intersecata da diramazioni. Essendomi garantito il ritorno, e
dopo aver riesaminato la scorta delle candele e dei fiammiferi,
presi ad avanzare lentamente sul terreno roccioso e sconnesso.
Fu allora che mi capitò l'improvviso e agghiacciante
disastro. Un torrentello con poca acqua ma largo cinque o sei
metri, attraversava il mio cammino, e io percorsi una certa
distanza lungo la riva per trovare un punto che mi permettesse
di attraversarlo senza bagnarmi i piedi. Infine, giunsi in un
punto dove un unico masso piatto affiorava proprio in mezzo al
corso, e che io potevo raggiungere con un solo passo.
Purtroppo, invece, sotto alla superficie del masso, la pietra era
stata consumata dallo scorrere delle acque, cosicché quando ci
appoggiai il mio peso si inchinò e mi catapultò nell'acqua
gelida. La mia candela si spense, e mi ritrovai immerso nella
più completa e totale oscurità.
Mi rialzai incespicando, più divertito che spaventato dalla
mia avventura. La candela mi era caduta di mano e si era persa
nel fiume, ma ne avevo altre due in tasca,
quindi la perdita non era di nessuna importanza. Ne
approntai un'altra, e tirai fuori la mia scatola di fiammiferi per
accenderla. Soltanto allora mi resi conto della situazione. La
scatola si era inzuppata durante il mio tuffo nel fiume. Era
impossibile accendere i fiammiferi.
Mi sembrò che una gelida mano mi ghermisse il cuore,
quando mi resi conto di quel fatto. L'oscurità era densa,
orribile, così totale da farmi alzare una mano al viso, come per
respingere da me qualcosa di solido. Rimasi immobile,
dominandomi con uno sforzo. Tentai di ricostruire nella mia
mente una mappa della caverna, come l'avevo vista per l'ultima
volta. Ahimè! gli orientamenti che si erano impressi nella mia
mente erano in alto sulle pareti, e non avrei potuto ritrovarli al
tatto. Comunque, ricordavo vagamente come fossero disposte
le pareti, e sperai, strisciando, di arrivare prima o poi all'entrata
del tunnel romano. Muovendomi lentissimamente, e battendo
di continuo contro le rocce, mi accinsi a questo disperato
tentativo.
Ben presto però mi resi conto di come fosse impossibile. In
quell'oscurità nera e ovattata, l'orientamento si perdeva di
colpo. Prima che avessi percorso dieci passi, ero
completamente confuso e non avevo la minima idea di dove mi
trovassi. Lo scroscio del corso d'acqua, l'unico suono
percettibile, mi indicava dove si trovasse, ma, non appena ne
abbandonavo la riva, ero irrimediabilmente perso. L'idea di
ripercorrere i miei passi nella totale oscurità in quel labirinto di
pietra era chiaramente un'impresa impossibile.
Mi sedetti su un masso, e riflettei sulla mia situazione. Non
avevo detto a nessuno che intendevo scendere nella miniera, ed
era improbabile che mi venissero a cercare laggiù. Dovevo
quindi fare affidamento sulle mie sole forze per cavarmi
d'impiccio. Vi era una sola speranza, e cioè che i fiammiferi si
sarebbero asciugati. Quando ero caduto nell'acqua, soltanto-una
metà del mio corpo si era bagnata. La mia spalla sinistra era
rimasta fuori dall'acqua. Perciò presi la scatola di fiammiferi e
la misi sotto l'ascella sinistra. La mia speranza era che il calore
del mio corpo vincesse l'aria umida della caverna, ma anche nel
migliore dei casi, sapevo che non avrei potuto accendere un
fiammifero per molte ore. Nel frattempo, non potevo fare altro
che aspettare.
Per mia fortuna, mi ero ficcato parecchi biscotti in tasca
prima di lasciare la fattoria. Li divorai, buttandoli giù con un
sorso d'acqua di quel maledetto ruscello che era la causa di
tutte le mie disgrazie. Poi mi diedi da fare per trovare fra i
massi un sedile comodo e avendo trovato un posto dove poter
appoggiare la schiena, allungai le gambe e mi preparai
all'attesa. Ero bagnato e infreddolito, ma tentai di rallegrarmi
pensando che la medicina moderna prescrive per la mia
malattia le finestre aperte e le passeggiate col brutto e col bel
tempo. Pian piano, cullato dal monotono gorgoglio del fiume e
dalla profonda oscurità, caddi in un sonno agitato.
Non so dire quanto dormii. Forse un'ora, forse parecchie
ore. Improvvisamente balzai a sedere sul mio letto di roccia,
con ogni nervo percorso da un fremito, e ogni senso all'erta. Al
di là di ogni possibile dubbio, avevo udito un suono, un suono
molto diverso dal gorgoglio dell'acqua. Era passato, ma l'eco
perdurava ancora nei miei orecchi. Si trattava forse di una
spedizione di salvataggio? Ma in quel caso, mi avrebbero
certamente chiamato, e per vago che fosse il suono che mi aveva
svegliato, era molto diverso dalla voce umana. Rimasi
immobile, tremante, incapace di respirare. Eccolo di nuovo! E
di nuovo! Adesso era diventato continuo, j Era un passo, si,
certamente era il passo di qualche creatura vivente. Ma quale
passo! Dava l'impressione di uni peso enorme portato da piedi
spugnosi, che emettevano! un suono attutito e pur pieno.
L'oscurità era sempre \ assoluta, ma il passo era deciso e
regolare. E veniva senza alcun dubbio nella mia direzione.
Al suono di quel passo poderoso e risoluto mi si rizzarono i
capelli e mi si ghiacciò la pelle. Vi era una creatura li e, a
giudicare dalla velocità con cui avanzava, era un essere che
poteva vedere al buio. Mi appiattii sulla roccia, tentando di
diventare tutt'uno con essa. I passi si avvicinarono ancora di
più, poi si fermarono, e ben presto fui conscio di un rumoroso
sciacquio e gorgoglio. La creatura stava abbeverandosi al
fiume. Poi vi fu nuovamente silenzio, interrotto da una
successione di respiri e grugniti di tremendo volume e energia.
La creatura aveva colto il mio odore? Le mie proprie narici
furono colpite da un puzzo fetido, mefitico, abominevole. Poi
udii nuovamente i passi. Adesso erano sulla sponda del fiume
dove mi trovavo. Le pietre scricchiolarono a pochi metri di
distanza da me. Mi rannicchiai sulla mia roccia, trattenendo
perfino il respiro. Poi i passi si allontanarono. Udii gli schizzi
mentre la Creatura attraversava nuovamente il fiume, poi il
suono si allontanò nella direzione dalla quale era venuto, fino a
scomparire del tutto.
Rimasi a lungo disteso sulla roccia, troppo terrorizzato per
potermi muovere. Ripensai al suono che avevo udito,
proveniente dalle nere viscere della caverna, ripensai alle paure
di Armitage, alla strana orma impressa nel fango, ed ora a
quest'ultima e irrefutabile prova che vi era davvero qualche
inconcepibile mostro, qualcosa di ignoto e di spaventoso, che
stava in agguato nel cuore della montagna. Non potevo farmi
alcuna idea della sua forma o della sua natura. La lotta fra la
ragione, che mi diceva che simili cose non esistono, e i miei
sensi, che mi dicevano che esse esistono, infuriava dentro di
me mentre giacevo. Infine, ero quasi disposto a convincermi
che questa esperienza era stata parte di un angoscioso incubo, e
che le mie anormali condizioni di salute avrebbero potuto
evocare un'allucinazione. Ma dovevo ancora affrontare
un'ulteriore esperienza, la quale rimosse ogni possibile dubbio
dalla mia mente.
Avevo preso i fiammiferi dalla mia ascella e li avevo tastati.
Sembravano perfettamente asciutti e rassodati. Chinandomi
verso una fessura fra le rocce, tentai di accenderne uno. Con
mia grande gioia, prese immediatamente fuoco. Accesi la
candela e, con un'ultima occhiata terrorizzata verso le oscure
profondità della caverna, mi affrettai in direzione del tunnel
romano. così facendo, passai davanti alla chiazza di fango sulla
quale avevo visto la gigantesca orma. Rimasi inchiodato dallo
stupore, poiché ora vi erano tre orme uguali sulla sua
superficie, enormi di misura, irregolari di contorno, e di una
profondità che rivelava il peso poderoso che le aveva impresse.
Allora una paura incontrollabile si impossessò di me.
Chinandomi e riparando la fiamma della candela con una
mano, corsi in preda a un parossismo di paura verso l'arco di
pietra, mi affrettai su per la salita, senza mai fermarmi finché, i
piedi doloranti e i polmoni in fiamme, non ebbi superato
l'ultimo tratto, non mi fui aperto un varco fra i rovi, e non mi
fui gettato esausto sulla morbida erba sotto la tranquilla luce
delle stelle. Erano le tre del mattino quando raggiunsi la
fattoria, e ancora oggi sono agitato e sconvolto dalla mia
spaventosa avventura. Per il momento non ne ho parlato a
nessuno. Bisogna agire con prudenza. Che cosa potrebbero
pensare queste povere donne sole, o questi contadini ignoranti
se raccontassi loro la mia esperienza? È meglio che mi rivolga
a qualcuno in grado di capirmi e di consigliarmi.

25 aprile. Sono dovuto restare a letto due giorni dopo la mia


incredibile avventura nella caverna. Adopero l'aggettivo nel
suo senso più autentico, perché nel frattempo mi è capitata
un'esperienza che mi ha sconvolto quasi quanto l'altra. Ho detto
come intendessi cercare qualcuno che mi potesse consigliare.
Vi è un certo dottor Mark
Johnson che esercita a pochi chilometri da qui. È stato il
professor Saunderson a raccomandarmelo. Andai a trovarlo,
quando mi fui sufficientemente rimesso, e gli raccontai la mia
strana esperienza. Egli mi ascoltò attentamente, poi mi visitò
con cura, con particolare riguardo ai miei riflessi e alle pupille
degli occhi. Quando ebbe terminato, si rifiutò di parlare della
mia avventura, dicendo che non era di sua competenza, ma mi
diede un biglietto per il signor Picton di Castleton,
consigliandomi di andare immediatamente da lui e di
raccontargli la storia esattamente come l'avevo raccontata a lui.
Il signor Picton era, secondo lui, l'uomo che faceva al caso mio.
Andai dunque alla stazione, e mi recai nella piccola cittadina,
che dista una quindicina di chilometri. Il signor Picton doveva
essere un tipo di una certa importanza, poiché la sua targa di
ottone faceva bella mostra di sé sul portone di uno dei più
grossi edifici alla periferia della città. Stavo per suonare il
campanello, quando fui assalito da un dubbio e, attraversata la
strada, entrai in un negozio, chiedendo all'uomo dietro al banco
ragguagli sul signor Picton. «Ma come» mi disse «è il miglior
medico alienista di tutto il Derbyshire, e quello è il suo
manicomio.» Come potete bene immaginare, mi affrettai a
lasciare Castleton e a tornare alla fattoria, maledicendo tutti i
pedanti privi di fantasia, incapaci di concepire che possano
esistere delle cose nel creato, che essi non abbiano toccato con
mano. Dopotutto, adesso che sono più calmo, sono disposto ad
ammettere che io stesso non fui più comprensivo nei confronti
di Armitage di quanto il dottor Johnson non lo sia stato con me.

27 aprile. Da studente, avevo la fama di essere un uomo


coraggioso e intraprendente. Ricordo che quando andammo a
caccia di fantasmi a Coltbridge, fui io a vegliare nella casa
frequentata dagli spettri. Sono gli anni (ma, dopotutto, ne ho
soltanto trentacinque), o è questa malattia fisica la causa della
mia degenerazione? Certo che il mio cuore trema di paura,
quando penso a quell'orribile caverna nella collina, e alla
certezza che in essa risiede qualche mostruoso occupante. Che
cosa debbo fare? Mi dibatto continuamente in questa
incertezza. Se non dico niente, allora il mistero rimane
insoluto. Se viceversa parlo, ho l'alternativa di gettare un
angoscioso allarme su tutta la zona, o di suscitare un'assoluta
incredulità che potrebbe farmi finire in manicomio. Visto e
considerato il problema, credo che mi convenga aspettare, e
preparare una spedizione più metodica e meglio organizzata
dell'ultima. Il primo passo è stato di recarmi a Castleton per
ottenere alcune cose indispensabili: per incominciare una
grossa lanterna ad acetilene, e una buona doppietta da caccia.
Quest'ultima l'ho noleggiata, ma ho acquistato una dozzina di
cartucce per la caccia grossa, capaci di atterrare anche un
rinoceronte. Adesso sono pronto per il mio amico troglodita. Se
mi sarà concessa un po' di salute e un pizzico di energia, mi
sentirò in grado di affrontarlo. Ma chi e che cos'è quella
creatura? Ah! è questa la domanda che si frappone fra me e il
sonno. Quante ipotesi continuo a formulare, solo per scartarle
ad una ad una! È tutto così inconcepibile. Eppure il grido,
l'orma, il passo nella caverna, nessun ragionamento può farli
scomparire. Penso alle antiche leggende di draghi e di altri
mostri. E possibile dunque che non fossero, come noi le
ritenevamo, puro frutto di fantasia? E possibile che fossero
basate su fatti realmente accaduti, e sono proprio io, fra tutti i
mortali, quello prescelto per svelarli?

3 maggio. Per alcuni giorni sono stato costretto a rimanere a


letto, grazie ai capricci della primavera inglese. Durante quei
giorni vi sono stati degli avvenimenti il cui vero e sinistro
significato non può essere compreso da nessuno, tranne che da
me. Aggiungo che ultimamente abbiamo avuto una serie di
notti nuvolose e senza luna che, stando alle mie informazioni,
erano quelle in cui le pecore sparivano. Be', alcune pecore sono
scomparse. Due pecore delle signorine Allerton, una del
vecchio Pearson di Cat Walk, e una della signora Moulton. Un
totale di quattro, in tre notti. Di esse non è rimasta traccia
alcuna, ma nella zona circolano voci sulla presenza di zingari e
ladri di bestiame.
E accaduto però un fatto più grave di questo. E scomparso
anche il giovane Armitage. Ha lasciato la sua casetta nella
brughiera mercoledì sera di buonora, e da allora non se ne è più
saputo niente. Viveva solo, quindi la sua scomparsa ha destato
meno scalpore di quanto non avrebbe fatto se avesse avuto
famiglia. La gente dice che lo ha fatto per sfuggire ai suoi
debitori, che avrà trovato lavoro da qualche altra parte, e che
ben presto scriverà per farsi mandare i suoi effetti personali.
Ma io ho dei gravi dubbi. Non è più probabile che la recente
scomparsa delle pecore lo abbia indotto a un'azione che
potrebbe aver provocato la sua fine? Potrebbe, per esempio,
avere teso un trabocchetto alla creatura mostruosa e anonima
ed essere stato da essa ghermito e portato nella tana nella
montagna. Quale inconcepibile sorte, per un inglese civilizzato
del ventesimo secolo! Eppure io sento che è possibile, e perfino
probabile. Ma in tal caso, fino a dove sono io responsabile, sia
della sua morte che di qualsiasi altro disastro che possa
accadere? Sicuramente, al corrente di alcuni fatti, dovrei far
prendere qualche provvedimento, o, se necessario, dovrei
prenderli io stesso. Ma credo che proprio dovrò prenderli io
stesso, poiché stamattina mi sono recato al posto di polizia
locale, e ho raccontato la mia storia. Mentre parlavo, l'ispettore
segnava qualcosa in un grosso libro e poi mi accompagnò alla
porta con encomiabile serietà, ma prima che fossi arrivato in
fondo al viottolo del suo giardino, udii uno scoppio di risa.
Certamente stava raccontando la mia avventura alla sua
famiglia.

10 giugno. Sto scrivendo questi appunti seduto a letto; sono


passate sei settimane dalle mie ultime annotazioni in questo
diario. Ho subito uno choc terribile, sia psichico che fisico in
seguito a un'esperienza che raramente può essere accaduta a un
essere umano. Ma ho ottenuto il mio scopo. La fonte del terrore
che sopravviveva nel Blue John Gap è scomparsa per sempre.
Almeno io, povero invalido, ho fatto questo per il bene
comune. Lasciate che racconti il più chiaramente possibile ciò
che è accaduto.
La notte di venerdì, 3 maggio, era buia e nuvolosa, proprio
il tipo di notte in cui il mostro si sarebbe spinto fuori dalla sua
tana. Verso le undici, sono uscito dalla fattoria con la mia
lanterna e il mio fucile, dopo aver lasciato un biglietto sul
tavolo in camera mia, in cui dicevo che se non fossi tornato,
avrebbero dovuto mandare una squadra di soccorso in
direzione del Blue John Gap. Mi recai all'imbocco della
miniera romana e, dopo essermi appostato fra i massi vicino
all'arco, spensi la lanterna e attesi pazientemente con il fucile
carico a portata di mano.
Fu un'attesa malinconica. Vedevo lungo il fondovalle le luci
sparse delle fattorie, e da lontano giungevano i rintocchi del
campanile di Chapel-le-Dale. Questi lontani segni di vita
servirono soltanto a farmi sentire più solo, e a rendere
necessario uno sforzo maggiore per superare il terrore che mi
istigava continuamente a tornare alla fattoria e ad abbandonare
per sempre questa pericolosa impresa. Eppure ogni uomo
possiede, radicato in sé profondamente, un forte amor proprio
che gli rende difficile di abbandonare un'impresa una volta che
egli l'abbia incominciata. Questo orgoglio fu la mia salvezza, e
fu soltanto quello a tenermi inchiodato li, quando ogni mio
istinto mi avrebbe trascinato lontano.
Adesso sono felice di averne avuto la forza. Nonostante
tutto ciò che mi è costato, la mia dignità non ha subito affronti.
Suonarono le dodici al lontano campanile, poi l'una, e le
due. Era l'ora più buia della notte. Le nuvole vagavano basse, e
neanche una stella riluceva nel cielo. Non vi era suono alcuno,
tranne l'occasionale grido di una civetta e il dolce respiro del
vento. Poi improvvisamente li udii! Da molto lontano in fondo
al tunnel, udii quei passi attutiti, così dolci eppure minacciosi.
Udii anche il crepitare dei sassi mentre cedevano sotto a quel
passo gigantesco. I passi si avvicinarono sempre di più. Mi
furono a ridosso. Udii un rovinio fra i cespugli attorno
all'imboccatura, e poi a malapena intravvidi delinearsi
nell'oscurità una forma enorme, una mostruosa creatura
rudimentale, che usciva veloce e silenziosa dal tunnel. Fui
paralizzato dalla paura e dallo stupore. Per quanto avessi atteso
a lungo, adesso che la creatura era veramente apparsa, ero
impreparato al colpo. Rimasi disteso, immobile, senza respiro,
mentre l'enorme massa scura mi passò accanto e scomparve
nella notte.
Mi preparai al suo ritorno. Nessun suono giungeva dalla
campagna immersa nel sonno, a raccontare del mostro che vi
vagava in libertà. Non potevo in alcun modo giudicare a quale
distanza fosse andato, che cosa stesse facendo, o quando
sarebbe tornato. Ma il mio coraggio non mi avrebbe
abbandonato una seconda volta, il mostro non sarebbe passato
indisturbato una seconda volta. Lo giurai a denti stretti, mentre
appoggiavo il mio fucile puntato sulla roccia.
Eppure, per poco non accadde. Non ebbi alcun avviso che
la creatura stesse attraversando il campo. Improvvisamente,
come un'enorme ombra vagante, l'immensa mole mi si parò
nuovamente davanti, diretta all'ingresso della caverna. Provai
ancora una volta quella paralisi della volontà, che mi
inchiodava l'indice impotente sul grilletto. Ma riuscii a
liberarmene con uno sforzo disperato. Nell'istante stesso in cui
i cespugli stormirono, e la mostruosa bestia si confuse con
l'ombra del Gap, feci fuoco su quella forma fuggente. Alla luce
della fiammata del fucile, intravvidi una grande massa irsuta,
un qualcosa rivestito di un irto e ruvido pelo di un grigio stinto,
che si faceva bianco nelle parti inferiori, il cui corpo enorme
poggiava su corte zampe, tozze e ricurve. Ebbi quell'unica
fugace visione, poi udii un rotolio di sassi mentre la creatura
fuggiva nella sua tana. In un attimo, con una trionfale e
improvvisa rivoluzione di sentimenti, avevo gettato le mie
paure al vento, e scoprendo la mia potente lanterna, con il
fucile in mano, balzai giù dalla mia roccia e mi precipitai dietro
al mostro lungo la vecchia miniera romana.
La mia magnifica lampada gettava davanti a me un potente
raggio di luce; era molto diverso dal tremulo bagliore giallastro
che mi aveva rischiarato il cammino soltanto dodici giorni
prima. Mentre correvo, vedevo l'immane bestione caracollare
davanti a me, con la sua enorme mole che riempiva tutto lo
spazio da una parete all'altra. Il suo pelo, simile a una massa di
ruvida stoppa sbiadita, ricadeva in lunghi folti ciuffi che
ondeggiavano a ogni passo. Il suo vello lo faceva somigliare a
un'enorme pecora mai tosata, ma la sua mole oltrepassava
quella del più grande elefante, e la sua larghezza era tale quale
la sua altezza. Adesso che ci ripenso, sono stupito di aver avuto
il coraggio di inseguire un simile mostro nelle viscere della
terra, ma quando il proprio sangue bolle nelle vene e la preda
ha le ali ai piedi, si risveglia l'antico, primitivo istinto del
cacciatore e ogni prudenza viene messa da parte. Fucile
imbracciato, correvo a tutta velocità al seguito del mostro.
Mi ero reso conto che la creatura era veloce. Ora dovevo
scoprire, a mio danno, che essa era anche molto astuta. Avevo
creduto che stesse fuggendo in preda al panico, e che io dovessi
soltanto inseguirla. L'idea che potesse rivoltarsi contro di me,
non aveva neppure sfiorato la mia mente esaltata. Ho già
spiegato come il tunnel lungo il quale correvo, si aprisse in una
vasta caverna centrale. Mi precipitai in questa caverna,
temendo di perdere ogni traccia del bestione. Ma questi si era
girato improvvisamente, e l'istante dopo ci trovammo l'uno di
fronte all'altro.
Quell'immagine, vista alla bianca e brillante luce della mia
lanterna, è scolpita per sempre nel mio cervello. Il mostro si era
impennato sulle zampe posteriori come farebbe un orso, e mi
sovrastava, enorme, minaccioso, una creatura come neanche il
peggiore degli incubi aveva mai evocato alla mia mente. Ho
detto che si era impennato come un orso, e infatti vi era
qualcosa dell'orso, se si riesce a concepire un orso dieci volte
più grande di qualsiasi orso mai visto sulla terra, nella sua
posizione e nel suo atteggiamento, nelle sue grandi zampe
anteriori ricurve munite di artigli bianco-avorio, nella sua pelle
rugosa, e nelle sue fauci spalancate e rossastre, orlate di
mostruose zanne. Soltanto in una cosa esso differiva da un
orso, o da qualsiasi altra creatura esistente, e anche in
quell'istante supremo, quando vidi che gli occhi che rilucevano
al raggio della mia lanterna, erano degli enormi bulbi
sporgenti, bianchi e privi di vista, un brivido di orrore mi
percorse. Per una frazione di secondo le sue gigantesche zampe
rotearono sopra la mia testa. Poi cadde in avanti sopra di me, io
e la mia lanterna rotta precipitammo a terra, e non ricordo altro.

Quando ripresi conoscenza, mi trovavo nella fattoria delle


Allerton. Erano trascorsi due giorni dalla mia terribile
avventura nel Blue John Gap. Pare che fossi rimasto tutta la
notte nella caverna, privo di conoscenza in seguito a
commozione cerebrale, con il braccio sinistro e due costole
fratturati. La mattina dopo era stato trovato il mio biglietto, una
dozzina di contadini avevano organizzato una spedizione di
soccorso, ed io ero stato trovato e riportato nella mia camera,
dove da allora ero rimasto in preda al delirio. Pare che non vi
fosse traccia del mostro, né alcuna macchia di sangue a
testimoniare che la mia pallottola lo avesse- colpito mentre mi
passava davanti. Tranne le mie condizioni e le orme nel fango,
non vi era niente che dimostrasse che ciò che dicevo era vero.
Adesso sono passate sei settimane, e io sono nuovamente in
grado di sedere all'aperto, sotto i tiepidi raggi del sole. Proprio
dirimpetto a me si erge la ripida collina, grigia di rocce porose,
e laggiù, sul pendio, c'è la nera fessura che segna l'imbocco del
Blue John Gap. Ma essa non è più fonte di terrore. Non passerà
mai più, per quel sinistro tunnel, alcuna mostruosa creatura per
avventurarsi nel mondo degli uomini. Le persone istruite e gli
uomini di scienza, il dottor Johnson e i suoi simili potranno
sorridere del mio racconto, ma le semplici genti della regione
non hanno mai dubitato della sua veridicità. Il giorno dopo che
io ebbi ripreso conoscenza, essi si radunarono a centinaia
attorno al Blue John Gap. Ecco il resoconto del Castleton
Courier:

"Non è servito a nulla che il nostro corrispondente, o


parecchi degli avventurosi giovanotti convenuti da Matlock,
Buxton, o altri villaggi, si offrissero di scendere, di esplorare la
caverna fino in fondo, e di mettere finalmente alla prova lo
straordinario racconto del dottor James Hardcastle. I contadini
locali si erano impadroniti della situazione, e fin dalle prime
ore del mattino avevano lavorato di lena per bloccare l'ingresso
del tunnel. Vi è una ripida discesa subito dopo l'imbocco del
tunnel, e centinaia di mani volonterose hanno spinto un gran
numero di enormi massi giù per la china, finché il Gap non è
stato completamente ostruito. così si conclude l'episodio che ha
destato tanta agitazione in tutto il paese. L'opinione locale è
ferocemente divisa sulla questione. Da una parte, vi sono quelli
che fanno notare come la salute del dottor Hardcastle sia
compromessa, per cui ci sarebbe la possibilità di lesioni
cerebrali di origine tubercolare che hanno dato luogo a strane
allucinazioni. Secondo loro, qualche idée fixe ha spinto il
dottore ad avventurarsi nel tunnel, e una caduta fra le rocce è
più che sufficiente per spiegare le sue ferite. D'altra parte, una
leggenda a proposito di una strana creatura nel Gap circolava
già da vari mesi, e i contadini considerano il racconto del dottor
Hardcastle e le sue lesioni come la prova decisiva. così
l'episodio si conclude nell'incertezza, e nell'incertezza
perdurerà, poiché ormai non. ci sembra più possibile alcuna
soluzione definitiva. Una spiegazione scientifica che possa
chiarire quanto Hardcastle afferma, trascende le possibilità
della mente umana."
Forse, prima che il Courier pubblicasse queste parole,
sarebbe stato più saggio mandare da me il loro cronista. Ho
riflettuto a lungo sull'accaduto, più di quanto chiunque altro
possa aver fatto. È quindi possibile che io avrei potuto
eliminare alcuni aspetti apparentemente incredibili del mio
racconto, rendendo più plausibile una spiegazione scientifica.
Lasciate che esponga l'unica spiegazione che secondo me può
chiarire ciò che ho imparato a mie spese, e che so
corrispondere a verità. La mia teoria potrà sembrare altamente
improbabile, ma perlomeno nessuno oserà dire che sia
impossibile.
La mia opinione è, e me la sono formata, come il diario
dimostra, prima della mia avventura, che in questa regione
dell'Inghilterra esiste un vasto lago o mare sotterraneo,
alimentato da numerosi corsi d'acqua che si infiltrano
attraverso la pietra calcarea. Dove esiste una grande quantità di
acqua, deve esistere anche dell'evaporazione, nebbia o pioggia,
e la possibilità di una determinata vegetazione. A sua volta ciò
suggerisce che possa sussistere una vita animale, derivante, allo
stesso modo della vita vegetale, da quei semi e da quei
prototipi che furono introdotti in un'epoca antichissima della
storia del mondo, quando la comunicazione con il mondo
esterno era più facile. Questo luogo aveva sviluppato a quei
tempi una flora e fauna particolari, ivi compresi dei mostri
simili a quello che io ho visto e che potrebbero essere
benissimo l'antico orso delle caverne, enormemente ingrandito
e modificato dalle nuove condizioni ambientali. Per un numero
incalcolabile di millenni, quei due mondi, uno interno e uno
esterno, sono rimasti divisi, allontanandosi l'uno dall'altro
sempre di più. Poi si deve essere prodotta qualche crepa nelle
profondità della montagna, che ha permesso a una di queste
creature di salire e, per mezzo del tunnel romano, di
raggiungere l'aria aperta. Come tutti gli abitanti del mondo
sotterraneo, essa era priva della vista, ma indubbiamente la
natura aveva provveduto a dotarla di altre capacità. È certo che
avesse un sistema per orientarsi e per cacciare le pecore sul
pendio della collina. In quanto alla sua scelta delle notti oscure,
fa parte della mia teoria che la luce è intollerabile per quegli
enormi bulbi oculari bianchi, per cui essi possono tollerare
soltanto un mondo immerso nella oscurità più completa. Può,
anzi, darsi che fosse proprio il riverbero della mia lanterna a
salvarmi la vita in quello spaventoso istante in cui ci trovammo
faccia a faccia. È così che io spiego l'enigma. Lascio questi
fatti ai miei posteri, e se voi potete spiegarli, fatelo pure; o se
preferite diffidatene pure. Né la vostra fiducia né la vostra
incredulità possono mutarli, o influire in modo alcuno su una
persona il cui compito è quasi terminato.

Cosi finiva lo strano racconto del dottor James Hardcastle.


Il gatto brasiliano

E' duro per un giovanotto trovarsi ad avere gusti costosi,


grandi aspettative, parenti aristocratici, ma neanche un soldo in
tasca e nessuna professione per procurarseli. Il fatto è che mio
padre, un buon uomo ottimista e facilone, si fidava a tal punto
della ricchezza e della benevolenza del suo fratello maggiore,
Lord Southerton, uno scapolo, da prendere per scontato il fatto
che io, l'unico suo figlio, non avrei mai avuto bisogno di
guadagnarmi la vita. Egli immaginava che se non ci fosse stato
un posto vacante per me nei vasti possedimenti dei Southerton,
qualcuno mi avrebbe fatto entrare nel servizio diplomatico, che
è tuttora dominio delle nostre classi privilegiate, è morto troppo
presto per rendersi conto di come i suoi calcoli fossero errati.
Né mio zio né lo Stato si curarono minimamente di me, o
mostrarono il minimo interesse per la mia carriera.
Un'occasionale coppia di fagiani o un cesto di lepri furono le
sole cose che mi ricordassero che io ero erede di Orwell House,
e di una delle più ricche tenute del paese. Nel frattempo, da
bravo scapolo e uomo di mondo, abitavo in un appartamento in
Grosvenor Mansions, senza alcuna occupazione tranne il tiro al
piccione e il giuoco del polo a Hurlingham. Col passare dei
mesi, mi resi conto che diventava sempre più difficile poter
indurre i mediatori a rinnovare le mie cambiali, o a incassare
ulteriori anticipi su un'eredità non vincolata. La rovina mi si
parava davanti, e ogni giorno la vedevo avvicinarsi sempre di
più, farsi sempre più chiara e inevitabile.
Ciò che contribuiva a farmi sentire più acuta la mia povertà,
era il fatto che, a parte la grande ricchezza di Lord Southerton,
tutti gli altri miei parenti erano piuttosto benestanti. Il mio
parente più prossimo era Everard King, nipote di mio padre e
mio cugino di primo grado, il quale aveva trascorso una vita
avventurosa nel Brasile ed era tornato da poco in questo paese
per vivere di rendita. Non venimmo mai a sapere in quale
modo avesse fatto soldi, ma sembrava che ne avesse fatti
parecchi, poiché aveva comperato la tenuta di Greylands,
vicino a Clipton-on-the-Marsh, nel Suffolk. Durante il primo
anno del suo soggiorno in Inghilterra, non si curò di me più di
quanto non se ne curasse il mio avaro zio; ma infine, una
mattina d'estate, con mia grandissima gioia e sollievo, ricevetti
una lettera in cui mi invitava ad andare da lui quel giorno
stesso, per trascorrere un breve periodo a Greylands Court.
Proprio allora mi aspettavo di dover trascorrere un periodo
piuttosto lungo in carcere per i debiti, e questo intervallo mi
sembrò quasi un dono della provvidenza. Se soltanto fossi
riuscito a mettermi d'accordo con questo sconosciuto parente,
forse me la sarei ancora potuta cavare. Per l'onore della
famiglia, non poteva lasciarmi andare a picco. Ordinai al mio
cameriere personale di prepararmi la valigia, e quella sera
stessa partii per Clipton-on-the-Marsh.
Dopo aver cambiato a Ipswich, un trenino locale mi
depositò in una piccola stazione del tutto deserta, che sorgeva
in una campagna verdeggiante e mossa, dove un fiume pigro e
tortuoso si snodava fra una valle e l'altra, chiuso fra sponde alte
e cosparse di deposito marino, segno che era a portata della
marea. Nessuno era ad attendermi (venni a sapere più tardi che
il mio telegramma aveva subito un ritardo), così noleggiai un
calesse dell'alberghetto locale. Il cocchiere, bravissima
persona, era pieno di lodi per il mio parente, e da lui seppi che
Everard King godeva in quella zona di un certo prestigio.
Aveva organizzato un ricevimento per gli alunni della scuola,
aveva spalancato i cancelli della sua tenuta ai visitatori, aveva
contribuito a innumerevoli beneficenze, per farla breve, la sua
benevolenza era così universale, che il mio cocchiere poteva
spiegarla soltanto con la supposizione che egli mirasse a un
seggio al Parlamento.
La mia attenzione fu distolta dal panegirico,
dall'apparizione di un bellissimo uccello che andò a posarsi su
un palo telegrafico lungo la strada. A prima vista lo scambiai
per una ghiandaia, ma era più grande e aveva il piumaggio più
brillante. Il cocchiere ne chiari subito la provenienza,
spiegandomi che apparteneva proprio all'uomo dal quale
stavamo andando. Pare che l'acclimatazione degli animali
esotici fosse uno dei suoi hobbies, e che egli si fosse portato
con sé dal Brasile un certo numero di uccelli e altri animali,
che stava tentando di allevare in Inghilterra. Una volta varcato
il cancello di Greylands Park, incontrammo prove palesi di
questa sua inclinazione. Alcuni piccoli cervi macchiati, un
curioso maiale selvatico chiamato, se non sbaglio, pecari, un
rigogolo dalle stupende penne, un tipo di armadillo, e un
singolare, goffo animaletto simile a un tasso molto pingue:
questi, alcuni fra gli animali che osservai mentre il calesse
percorreva il viale alberato.
Il signor Everard King, il mio cugino mai visto, era ad
attendermi di persona sulla scalinata davanti a casa sua, poiché
ci aveva visti da lontano, e aveva immaginato che fossi io. Era
di aspetto dimesso e benevolo, piccolo e tracagnotto; poteva
avere quarantacinque anni circa, e il suo volto tondo e bonario
era bruciato dal sole tropicale e solcato da mille rughe.
Indossava un abito di lino bianco, in puro stile coloniale, aveva
fra le labbra un sigaro e un cappello di paglia spinto verso la
nuca. Era una figura come quelle che si associano a un
bungalow con veranda, e pareva curiosamente fuori posto
davanti a questo imponente castello tutto pietra, con le sue
colonne palladiane davanti al portone.
«Mia cara!» chiamò egli, voltandosi indietro. «Mia cara,
ecco il nostro ospite! Benvenuto, benvenuto a Greylands! Sono
lietissimo di fare la tua conoscenza, cugino Marshall, e sono
lusingato che tu abbia voluto onorare della tua presenza questo
sonnolento paesino di campagna.»
Non poteva esserci niente di più cordiale dei suoi modi, che
mi fecero immediatamente sentire a mio agio. Ma ci voleva
tutta la sua cordialità quale compenso alla freddezza e perfino
alla maleducazione di sua moglie, una donna alta ed emaciata,
che si presentò in risposta al suo richiamo. Credo che fosse di
origine brasiliana, benché parlasse un ottimo inglese, e io le
perdonai le sue cattive maniere imputandole alla sua ignoranza
delle nostre consuetudini. Ciononostante, ella non tentò di
nascondere, né allora né in seguito, che io non fossi un ospite
molto gradito a Greylands Court. Le poche parole che mi
rivolgeva erano generalmente cortesi; ma essa aveva un paio di
occhi scuri particolarmente espressivi, e io vi lessi molto
chiaramente, fin dal primo istante, il suo desiderio di vedermi
ripartire per Londra.
Ma i miei debiti erano troppo pressanti e le mie mire nei
confronti del mio ricco cugino troppo vitali, perché mi lasciassi
offendere dal cattivo carattere di sua moglie, e quindi ignorai la
sua freddezza e viceversa ricambiai l'estrema cordialità del
benvenuto di lui. Tutto era stato previsto per rendere gradevole
il mio soggiorno. La mia stanza era deliziosa. Mio cugino mi
supplicò di dirgli se ci fosse qualcosa che lui avrebbe potuto
fare per rendermi felice. Poco ci mancò che gli dicessi che un
assegno in bianco avrebbe contribuito materialmente alla mia
felicità, ma mi sembrò prematuro allo stadio attuale della
nostra conoscenza.
La cena fu ottima, e a pasto terminato, mentre ci
intrattenevamo con un buon avana e il caffè, che egli mi disse
veniva preparato appositamente nella sua piantagione, mi parve
che tutte le lodi del mio cocchiere fossero giustificate, e che io
non avessi mai conosciuto un uomo più generoso e ospitale.
Nonostante il suo buon umore, era però un uomo dotato di
una forte volontà, incline alla violenza. Di questo ebbi una
prova il mattino seguente. La curiosa antipatia che la signora
King aveva concepito nei miei riguardi era così forte, che il suo
comportamento durante la colazione fu quasi offensivo. Ma la
sua mira divenne inconfondibile quando suo marito usci dalla
stanza.
«Il miglior treno è quello delle dodici e un quarto» mi disse.
«Ma io non avevo intenzione di partire oggi» risposi con
franchezza, forse anche in tono di sfida, poiché ero deciso a
non lasciarmi mettere alla porta da questa donna.
«Oh, se dipende da lei...» replicò la signora King,
interrompendosi con un'espressione assai insolente negli occhi.
«Sono sicuro» dissi «che il signor King me lo direbbe, se io
prolungassi troppo la mia visita.»
«Come? Come?» esclamò una voce e mio cugino apparve
nella stanza. Aveva udito le mie ultime parole, e uno sguardo ai
nostri visi gli disse il resto. Di colpo il suo viso allegro e
grassoccio si indurì in un'espressione di ferocia assoluta.
«Potrei chiederti di uscire un momento, Marshall?» mi
disse. (A proposito, io mi chiamo Marshall King.)
Egli richiuse la porta alle mie spalle e, per qualche istante,
lo udii parlare a sua moglie con un tono di furia repressa.
Evidentemente, questa grossolana mancanza di ospitalità lo
aveva dolorosamente colpito. A me non piace origliare, così
me ne andai in giardino. Poco dopo, udii un passo affrettato
dietro di me e, voltandomi, vidi la signora, il viso pallido
dall'agitazione e gli'occhi rossi dal pianto.
«Mio marito mi ha detto di chiederle scusa, signor Marshall
King» mi disse, ritta davanti a me e con gli occhi bassi.
«La prego, non parliamone più, signora King.»
Improvvisamente, i suoi occhi scuri mi trafissero con uno
sguardo fiammeggiante.
«Imbecille!» sibilò con una foga disperata, poi, voltandosi
bruscamente, si diresse verso la casa.
L'insulto era così oltraggioso, così intollerabile, che potei
soltanto restare li immobile, sconcertato, seguendo la donna
con gli occhi. Ero ancora li, quando il mio ospite mi raggiunse.
Era ritornato la persona allegra e pacioccona di sempre.
«Spero che mia moglie ti abbia chiesto scusa per i suoi
sciocchi discorsi» mi disse.
«Oh, si... si, certo!»
Mi prese sottobraccio e passeggiammo su e giù per il prato.
«Non devi prendertela» prosegui mio cugino. «Sarei
oltremodo desolato se abbreviassi la tua visita di una sola ora.
Il fatto è, e non vi è alcun motivo che ci si debba nascondere
qualcosa fra parenti, che la mia povera moglie è
incredibilmente gelosa. Non può sopportare che chiunque,
uomo o donna, si intrometta fra noi due, anche per un solo
istante. Il suo ideale sarebbe un'isola deserta e un eterno
tète-à-tète. Questo ti può spiegare il suo comportamento, il
quale è, lo confesso, riguardo al particolare aspetto, assai
vicino a una mania. Rassicurami che non ci penserai più.»
«Ma no, no di certo.»
«Allora, accenditi questo sigaro, e vieni con me a
ispezionare il mio piccolo serraglio.»
L'intero pomeriggio trascorse in questa ispezione, che
comprendeva tutti gli animali, uccelli e perfino rettili, che egli
aveva importato. Alcuni erano in libertà, altri in gabbia, altri
addirittura in casa. Mio cugino mi parlò con entusiasmo dei
suoi successi e dei suoi fiaschi, delle nascite e delle morti,
gettando ogni tanto un gridolino di gioia quando, durante la
nostra passeggiata, qualche uccello variopinto si alzava in volo,
o qualche strano animaletto sgattaiolava nella sua tana. Infine
mi condusse lungo un corridoio che si dipartiva da un'ala
dell'edificio. In fondo al corridoio, vi era una massiccia porta
munita di una persiana scorrevole, e accanto ad essa, infissa nel
muro, una manovella di ferro, collegata a una ruota e a un
rullo. Una teoria di robuste sbarre attraversava il corridoio.
«Sto per mostrarti il gioiello della mia collezione» disse
mio cugino. «Vi è un solo altro esemplare in Europa, adesso
che il cucciolo di Rotterdam è morto. Si tratta di un gatto
brasiliano.»
«Ma come si differenzia da un qualsiasi altro gatto?»
«Te ne renderai conto assai presto» mi disse, ridendo. «Ti
dispiace aprire quella persiana e guardarci dentro?»
Feci come mi aveva detto, e scoprii che stavo guardando in
una grande stanza vuota, dall'impiantito di pietra e munita,
sulla parete di fondo, di piccole finestre sbarrate. Al centro di
questa stanza, sdraiato in mezzo a una chiazza dorata di sole,
stava disteso un enorme animale, grande come una tigre, ma
nero e lucido come l'ebano. Sembrava nient'altro che un gatto
gigantesco e molto ben curato; infatti se ne stava rannicchiato,
crogiolandosi al sole, esattamente come farebbe un gatto. Era
così pieno di grazia, così muscoloso, e così dolcemente e
subdolamente diabolico, che non riuscii a distoglierne lo
sguardo.
«Non è splendido?» esclamò il mio ospite, pieno di
entusiasmo.
«Magnifico! Non ho mai visto una così nobile creatura.»
«Alcuni lo chiamano un puma nero, ma in realtà non è per
niente un puma. Quest'animale misura quasi tre metri e mezzo
dalla testa alla coda. Quattro anni fa era una pallina di pelo
nero, con due occhioni gialli che ti fissavano. Mi fu venduto
che era un cucciolo appena nato, nella selvaggia regione della
sorgente del Rio Negro. Sua madre era stata finita a colpi di
lancia, dopo che aveva ucciso una decina di indigeni.
«Dunque, sono animali feroci?»
«Sono le creature più infide e assetate di sangue che
esistano sulla faccia terrestre. Prova a parlare di un gatto
brasiliano a un indigeno di quelle parti, e vedrai come reagisce.
Sono animali che preferiscono cibarsi di esseri umani, che di
selvaggina. Quello che vedi non ha ancora assaggiato sangue
umano, ma quando ciò avverrà, sarà il terrore. Ora come ora,
nella sua gabbia non tollera nessuno, tranne me. Perfino
Baldwin, lo stalliere, non osa avvicinarsi a lui. In quanto a me,
gli faccio da padre e da madre.»
Mentre parlava, con mio grande stupore, apri
improvvisamente la porta e si infilò nella stanza, richiudendola
subito alle sue spalle. Al suono della sua voce, l'enorme, agile
animale si alzò sbadigliando e gli andò a strofinare
affettuosamente il capo nero e rotondo contro il fianco, mentre
Everard lo carezzava e lo vezzeggiava.
«Adesso entra nella tua gabbia, Tommy!» gli disse.
L'enorme felino si avviò a un angolo della stanza e si
rannicchiò sotto un'inferriata. Everard King usci, e afferrando
la manovella di ferro a cui ho già accennato, prese a girarla.
Via via che girava, la fila di sbarre nel corridoio prese a passare
attraverso una fessura nella parete e chiuse la parte anteriore di
quell'inferriata, in modo da formare una vera e propria gabbia.
Quando fu a posto, egli apri nuovamente la porta e mi invitò a
entrare nella stanza, che era pregna dell'odore acre e pungente
proprio ai grossi carnivori.
«È così che l'abbiamo abituato» mi spiegò. «Di giorno, ha a
disposizione tutta la stanza per poter fare un po' di moto, poi la
sera lo rinchiudiamo in gabbia. Lo si libera girando la
manovella dal corridoio, e si può, come hai visto, rinchiuderlo
nello stesso modo. No, no, questo non lo devi fare!»
Avevo infilato la mano fra le sbarre per accarezzare il
fianco lucido e fremente della belva. Everard me la tirò
indietro, con un'espressione seria.
«Ti assicuro che non ci si può fidare di lui. Non credere che
chiunque lo possa fare, perché io mi prendo delle libertà con
lui. È molto esclusivo nelle sue amicizie, vero, Tommy? Ah,
sente che sta arrivando la sua cena! Vero, ragazzo?»
Infatti udimmo un rumori di passi sull'impiantito del
corridoio. Il felino balzò in piedi e prese a camminare avanti e
indietro nell'angusta gabbia, gli occhi gialli che rilucevano e la
lingua scarlatta che palpitava fremente sulla candida fila dei
denti frastagliati. Uno stalliere entrò con un grosso pezzo di
carne su un vassoio e lo gettò all'animale attraverso le sbarre.
La bestia l'afferrò, se lo portò in un angolo, e li, tenendolo fra
le zampe, vi affondò voracemente i denti, alzando ogni tanto il
muso sporco di sangue per guardarci. Era uno spettacolo
crudele eppure affascinante.
«Puoi capire come sia affezionato a Tommy, vero?» disse il
mio ospite, mentre uscivamo dalla stanza. «Tanto più se si
pensa che sono stato io ad allevarlo. Non è stato facile portarlo
fin qui dal centro dell'America meridionale; ma ora è qua, sano
e salvo, e come ti ho già detto, esso è di gran lunga l'esemplare
più perfetto in tutta l'Europa. La gente dello zoo darebbe non so
che cosa per averlo, ma io non potrei separarmene. E adesso,
credo proprio di averti inflitto fin troppo il mio hobby, quindi
non ci resta che seguire l'esempio di Tommy, e andare a cena.»
Il mio cugino, chiamiamolo così sudamericano, era
talmente preso dalla sua tenuta e dai suoi singolari inquilini,
che pareva non avere altri interessi al di fuori di quelli. Che
viceversa ne avesse, e molto pressanti, mi fu ben presto
dimostrato dal numero di telegrammi che egli riceveva.
Arrivavano a tutte le ore, e venivano sempre aperti da lui con
un'espressione del viso della massima impazienza e addirittura
dell'ansia. Talvolta immaginavo che si trattasse di un suo
allibratore, e talvolta del suo agente di cambio, ma certamente
si trattava di un affare molto urgente le cui trattative non si
svolgevano a Downs nel Suffolk. Durante i sei giorni della mia
visita, non ricevette mai meno di tre o quattro telegrammi al
giorno, e talvolta perfino sette o otto.
Mi ero così ben destreggiato in quei sei giorni, che al
termine di essi ero riuscito a stabilire un rapporto della
massima cordialità con mio cugino. Ogni sera eravamo rimasti
alzati fino a tardi, nella sala del biliardo, mentre lui mi
raccontava i più straordinari racconti delle sue avventure in
America, racconti così temerari e spericolati, che mi era quasi
impossibile associarli a quell'ometto grassoccio e bruciato dal
sole che mi stava davanti. A mia volta, lo intrattenevo con le
mie esperienze della vita londinese, che lo interessavano a tal
punto da indurlo a dichiarare che sarebbe venuto a trascorrere
un lungo periodo da me, a Grosvenor Mansions. Era ansioso di
conoscere la vita notturna della città e, modestia a parte, non
avrebbe potuto scegliere una guida più competente di me. Fu
soltanto l'ultimo giorno della mia visita, che mi azzardai a
parlare di ciò che mi stava a cuore. Gli dissi con molta
franchezza delle mie difficoltà finanziarie e della mia
imminente rovina, e gli chiesi un consiglio, benché sperassi in
qualcosa di più concreto. Egli mi ascoltò attentamente,
fumando il suo grosso sigaro.
«Ma certo» mi disse «tu sei l'erede del nostro parente, Lord
Southerton?»
«Ne sono convinto, ma egli non ha mai voluto assegnarmi
una rendita.»
«No, no, ho sentito parlare della sua avarizia. Mio povero
Marshall, la tua posizione è molto difficile. A proposito, hai
avuto recentemente notizie della salute di Lord Southerton?»
«La sua salute è sempre stata critica, fin dalla mia
infanzia.»
«E magari camperà cent'anni. La tua eredità potrebbe essere
ancora molto lontana. Santo cielo, in che brutta situazione ti
trovi!»
«Avevo qualche speranza che tu, sapendo come stanno le
cose, avresti ritenuto di potermi anticipare...»
«Non dire un'altra parola, mio caro ragazzo» esclamò egli,
con la massima cordialità. «Ne riparleremo stasera, e ti do la
mia parola che farò quanto è in mio potere...»
Non ero del tutto dispiaciuto che la mia visita stesse
volgendo al termine, poiché è sgradevole sentire che c'è
qualcuno in casa che desidera ardentemente di vederti partire.
Il viso giallastro e gli occhi severi della signora King mi
diventavano sempre più odiosi. La donna non era più
esplicitamente scortese (il timore di suo marito la tratteneva)
ma spingeva la sua insana gelosia al punto di ignorarmi, non
parlandomi mai, e industriandosi per rendere il mio soggiorno a
Greylands quanto più sgradevole possibile. Il suo
atteggiamento nei miei riguardi fu, quell'ultimo giorno, così
offensivo, che sarei certamente partito, se non fosse stato per
quel colloquio con mio cugino che avrebbe, così mi auguravo,
risolto il mio dilemma.
Era molto tardi quando ebbe luogo, poiché il mio parente,
che aveva ricevuto, durante la giornata, più telegrammi del
solito, si era ritirato nel suo studio dopo pranzo, e ne emerse
soltanto quando gli altri membri della casa se ne furono andati
a letto. Lo udii fare il giro della casa chiudendo le porte a
chiave, come al solito la sera, e infine mi raggiunse nella sala
del biliardo. La sua pingue figura era avvolta in una veste da
camera, e indossava un paio di pantofole rosse. Prima di
sistemarsi in poltrona, si preparò un bicchiere di grog e non
potei fare a meno di notare che il whisky predominava di gran
lunga sull'acqua.
«Parola mia!» esclamò «che nottata da lupi!»
Lo era davvero. Il vento ululava e gemeva intorno alla casa,
e le finestre vibravano e tintinnavano come se fossero sul punto
di cedere. La luce che spandevano le lampade e il profumo dei
nostri sigari parevano, per contrasto, più accoglienti e fragranti.
«E ora, ragazzo mio» disse il mio ospite «abbiamo la casa e
la serata tutta per noi. Dammi un quadro dei tuoi affari, e io
vedrò ciò che si può fare per raddrizzarli. Voglio che tu mi
racconti ogni particolare.»
Cosi incoraggiato, intrapresi una lunga esposizione nella
quale figuravano tutti i miei fornitori e creditori," dal mio
padrone di casa al mio cameriere personale. Avevo degli
appunti nel portafogli, e conoscevo i miei debiti a menadito;
riuscii a dargli un quadro analitico e preciso, oserei dire, delle
mie deplorevoli abitudini e della mia precaria situazione. Ero
tuttavia avvilito dalla constatazione che gli occhi del mio
compagno erano vacui e la sua attenzione rivolta altrove.
Quando infatti ogni tanto faceva un commento, era così casuale
e privo di senso, che fui sicuro che non aveva minimamente
seguito il mio discorso. Ogni tanto si destava e mostrava una
parvenza di interesse, chiedendomi di ripetere qualcosa o di
spiegarmi meglio, ma sempre per sprofondarsi' nuovamente nei
propri pensieri. Infine si alzò e gettò il mozzicone del sigaro
nel caminetto.
«Ti dirò, ragazzo mio» mi disse. «Le cifre non sono mai
state il mio forte, quindi devi scusarmi. Dovresti scrivere tutto
quanto su un foglietto, e darmi un appunto del totale. Lo capirò
quando lo vedrò nero su bianco.»
La proposta era incoraggiante. Promisi di farlo.
«E adesso è ora di andare a letto. Per Giove, sta suonando
l'una all'orologio dell'ingresso.»
I rintocchi dell'orologio sovrastarono il frastuono della
bufera. Il vento si avventava sulla casa, con un rombo simile a
quello di un grande fiume.
«Bisogna che vada a vedere il mio gatto prima di
coricarmi» disse il mio ospite. «Il vento lo eccita. Vuoi venire
anche tu?»
«Volentieri.»
«Allora cammina in punta di piedi e non parlare, perché gli
altri dormono tutti.»
Attraversammo silenziosamente l'atrio illuminato e
ricoperto di tappeti persiani e varcammo la porta nella parete
opposta. Il corridoio dall'impiantito di pietra era buio, ma vi era
una lanterna appesa ad un gancio, e il mio ospite la staccò e
l'accese. Non vidi le sbarre di ferro nel corridoio, perciò capii
che la bestia si trovava nella sua gabbia.
«Entra!» disse mio cugino aprendo la porta.
Un sordo ringhio ci accolse quando entrammo; stava a
dimostrare che effettivamente la tempesta aveva eccitato
l'animale. Alla tremula luce della lanterna lo vedemmo, enorme
sagoma nera sdraiata nell'angolo del suo antro, che gettava
un'ombra tozza e grottesca sulla parete imbiancata. La sua coda
sferzava rabbiosamente la paglia.
«Il povero Tommy non è di un gran buon umore» disse
Everard King, alzando la lanterna e affacciandosi alla gabbia.
«Sembra proprio un diavolaccio nero, no? Gli darò qualcosa da
mangiare per rallegrarlo un poco. Ti dispiace reggere per un
momento la lanterna?»
Gliela presi di mano ed egli si diresse verso la porta.
«La sua dispensa è proprio qui fuori» mi disse. «Mi
scuserai per un istante, vero?» Usci, e la porta si richiuse alle
sue spalle con un colpo secco e metallico.
Quel suono duro e deciso mi agghiacciò il sangue.
Un'improvvisa ondata di terrore mi pervase. Fui colto da
una vaga percezione di un mostruoso trabocchetto. Balzai
verso la porta, ma il lato interno era privo di maniglia.
«Everard!» gridai. «Fammi uscire!»
«D'accordo! Ma non fare tanto baccano!» disse mio cugino
dal corridoio. «Dopotutto hai la lanterna.»
«Si, ma non ci tengo a rimaner chiuso qui dentro da solo.»
«Davvero?» Udii la sua risata cordiale e divertita. «Non
rimarrai solo a lungo.»
«Fammi uscire, Everard!» ripetei furibondo. «Non mi
piacciono gli scherzi di questo genere.»
«Un momento» disse egli, con un'altra odiosa risata. Poi
udii improvvisamente, fra l'infuriare della tempesta, il cigolio e
lo scricchiolio della manovella che girava, e il rumore delle
sbarre che passavano attraverso la scanalatura. Gran Dio, stava
liberando il gatto brasiliano!
Alla luce della lanterna, vidi le sbarre scivolare davanti a
me lentamente. Già vi era un'apertura di una trentina di
centimetri sul lato opposto. Con un urlo, afferrai l'ultima sbarra
con le mani e la tirai con la forza di un invasato. Ero invasato,
dalla furia e dall'orrore. Per un minuto, o fors'anche più, riuscii
a tenere immobile la sbarra. Sapevo che egli premeva sulla
manovella con tutte le sue forze e sapevo che il potere della
leva l'avrebbe ben presto avuta vinta. Cedevo centimetro per
centimetro, i miei piedi scivolavano sulle pietre, e tutto il
tempo supplicavo e pregavo questo mostro disumano di
salvarmi da questa orribile morte. Gli rammentai la nostra
parentela. Gli ricordai che ero suo ospite; lo implorai di dirmi
che male gli avevo mai fatto. Le sue sole risposte furono gli
strappi della manovella, ognuno dei quali, nonostante i miei
sforzi disperati, tirava un'altra sbarra attraverso la scanalatura.
Fui trascinato, aggrappato e avviticchiato, attraverso tutta la
larghezza della gabbia, finché finalmente, con i polsi dolenti e
le dita lacerate, rinunciai all'inutile lotta. Le sbarre
scomparvero con un rumore di ferraglia quando mollai, e dopo
un istante udii lo scalpiccio delle pantofole nel corridoio, e il
tonfo della porta lontana. Poi tutto tacque.
Nel frattempo l'animale non si era mosso. Giaceva
immobile nell'angolo, aveva smesso di agitare la coda. Questo
spettacolo di un uomo aggrappato alle sbarre e trascinato
urlante davanti a lui, apparentemente lo aveva riempito di
stupore. Avevo lasciato cadere la lanterna quando mi ero
afferrato alle sbarre, ma essa non si era spenta, e feci una
mossa per riprenderla, con l'idea che in qualche modo la luce
mi avrebbe protetto. Ma nell'istante in cui mi mossi, la bestia
emise un ringhio profondo e minaccioso. Mi arrestai e rimasi
immobile, tremando di paura dalla testa ai piedi. Il gatto (se si
può attribuire un nome così pacifico a un tanto orribile
animale) giaceva a non più di tre metri da me. I suoi occhi
rilucevano come due dischi fosforescenti nell'oscurità. Mi
riempivano di terrore, eppure mi affascinavano. Non riuscivo a
distoglierne lo sguardo. La natura ci giuoca degli strani scherzi
in simili momenti di tensione, e il bagliore di quegli occhi
pareva aumentare e diminuire con un ritmo regolare. Talvolta
parevano essere minuscoli punti di una brillantezza estrema,
piccole scintille elettriche nella nera oscurità, altre volte invece
si ingrandivano sempre più fino a riempire della loro luce
sinistra e cangiante tutto l'angolo della stanza. Poi,
improvvisamente, si spensero del tutto.
La bestia aveva chiuso gli occhi. Non so se vi sia qualcosa
di vero nell'idea che attribuisce un potere particolare allo
sguardo umano, o se invece l'enorme gatto fosse
semplicemente assonnato, ma resta il fatto che, lungi dal
mostrare qualsiasi intenzione di aggredirmi, la bestia appoggiò
il liscio capo nero sulle grosse zampe anteriori e parve
addormentarsi. Rimasi immobile, non osando muovermi nel
timore di ridestarlo. Ero in grado perlomeno di pensare
chiaramente, ora che non sentivo più su di me quello sguardo
minaccioso. Dunque eccomi qua, rinchiuso per la notte con
quella belva feroce. I miei propri istinti, per non parlare delle
parole di quell'infida carogna che mi aveva teso questo tranello,
mi dicevano che l'animale era altrettanto feroce del suo
padrone. Come avrei potuto tenerlo a bada fino al mattino? Né
la porta, né le strette finestre munite di inferriate offrivano
alcuna speranza di salvezza. Non vi era riparo alcuno nella
nuda stanza. Sarebbe stato assurdo gridare aiuto. Sapevo che
questa tana era esterna al corpo vero e proprio dell'edificio, e
che il corridoio che la collegava era lungo almeno trenta metri.
Inoltre, la bufera che infuriava avrebbe attutito le mie grida.
Avevo soltanto il mio coraggio e la mia prontezza d'animo su
cui fare affidamento.
E allora, con una nuova ondata di terrore, i miei occhi
caddero sulla lanterna. La candela era quasi del tutto
consumata, e già la fiamma stava vacillando. Entro dieci minuti
si sarebbe spenta. così mi restavano soltanto dieci minuti in cui
fare qualcosa, poiché sentivo che quando fossi rimasto al buio
con quella belva spaventosa, sarei stato incapace di agire. Il
solo pensiero mi paralizzava. Disperato, mi guardai attorno in
quella cella di morte, e i miei occhi si soffermarono sull'unico
punto che pareva promettere, se non la salvezza, perlomeno un
pericolo meno immediato e imminente che non il terreno
aperto.
Ho detto che la gabbia era munita in alto di un'inferriata
orizzontale, che la chiudeva a mo' di soffitto, oltre che di
un'inferriata verticale che la divideva dal resto della stanza, e
questo soffitto rimaneva al suo posto quando l'inferriata
verticale veniva ritratta attraverso l'apertura nella parete. Il
soffitto della gabbia era composto di una fila di sbarre a pochi
centimetri di distanza l'una dall'altra, e ricoperto da una robusta
rete di filo metallico, e le due estremità poggiavano su un
grosso palo. Si ergeva come un glande baldacchino metallico
sopra la figura accovacciata nell'angolo. Fra questa mensola di
ferro e il soffitto vero e proprio c'era uno spazio di un'ottantina
di centimetri. Se solo fossi riuscito a inerpicarmi lassù,
racchiuso fra le sbarre e il soffitto, avrei avuto un solo lato
vulnerabile. Sarei stato difeso dalla parte inferiore, da quella
posteriore e dai due lati. Avrei potuto essere attaccato
unicamente dalla parte anteriore, aperta. Da quella parte, è
vero, non avrei avuto alcuna protezione; ma perlomeno sarei
stato fuori dai piedi, quando la belva avesse preso a camminare
avanti e indietro per la tana. E avrebbe dovuto fare uno sforzo
per raggiungermi. Dovevo tentare subito o mai più, perché una
volta che la luce si fosse spenta, sarebbe stato impossibile.
Inghiottii spasmodicamente, poi feci un balzo, afferrai il bordo
della mensola, e con una spinta possente di tutto il corpo mi ci
trovai sopra. Ansimando, mi divincolai bocconi in avanti
nell'angusto spaziose mi trovai a guardare in giù, dritto nei
terribili occhi e nella bocca sbadigliante del gatto. Il suo alito
fetido mi colpi in faccia, come il vapore da una pentola
puzzolente.
Comunque, pareva piuttosto incuriosito che adirato. Con un
fremito della lunga groppa nera si alzò, si stirò, poi, alzandosi
sulle zampe posteriori, appoggiò una delle zampe anteriori
contro la parete, sollevò l'altra, e passò gli artigli lungo la rete
metallica sotto di me. Un uncino bianco e tagliente sbranò i
miei pantaloni bianchi, poiché ero ancora in abito da sera, e mi
scavò un solco nel ginocchio. Non era inteso come un attacco,
ma piuttosto come un esperimento, poiché al mio improvviso
grido di dolore, l'animale si lasciò ricadere a terra, e, balzando
agilmente nella stanza, prese a percorrerla rapidamente avanti e
indietro, gettando ogni tanto uno sguardo nella mia direzione.
In quanto a me, mi trascinai indietro finché non mi trovai a
giacere con la schiena contro il muro, rannicchiandomi nel
minor spazio possibile. Più lontano mi rintanavo, più
difficilmente mi poteva attaccare.
Adesso che aveva incominciato a muoversi, sembrava più
eccitato, e correva velocemente e silenzioso in giro per la tana,
passando continuamente sotto il letto di ferro sul quale giacevo.
Era meraviglioso vedere un simile bestione passare come
un'ombra, senza alcun suono tranne il fruscio leggero delle
zampe vellutate. La candela era ormai agli sgoccioli per cui a
malapena riuscivo a intravvedere la belva. Poi, con un ultimo
guizzo, si spense del tutto. Ero solo al buio col gatto!
È più facile affrontare un pericolo quando si sa di aver fatto
tutto ciò che è possibile fare. A quel punto, non resta altro che
attendere tranquillamente l'esito. In questo caso, il solo posto
che offrisse una qualche speranza di salvezza era precisamente
quello dove mi trovavo. Perciò mi sdraiai lungo disteso e
giacqui in silenzio, senza quasi respirare, sperando che la belva
si sarebbe dimenticata della mia presenza se io non avessi fatto
niente per ricordargliela. Calcolai che dovevano essere già le
due. Alle quattro sarebbe stata l'alba. Dovevo attendere soltanto
due ore, prima che fosse giorno.
Fuori, la tempesta continuava a infuriare, e la pioggia
sferzava senza soste le piccole finestrelle. All'interno, l'aria era
irrespirabile. Non potevo vedere né udire il gatto. Tentai di
pensare ad altro, ma vi era un solo pensiero che avesse il potere
di distogliere la mia mente dalla mia tremenda situazione: il
considerare la malvagità di mio cugino, la sua ipocrisia senza
precedenti, il suo perfido odio per me. Sotto quel volto bonario,
si nascondeva lo spirito di un assassino di tipo medioevale. E
ripensando a quanto era accaduto, vidi chiaramente con quanta
astuzia egli avesse eseguito il suo piano. Apparentemente, egli
era andato a letto insieme agli altri. Senza dubbio, aveva dei
testimoni pronti a dimostrarlo. Poi, a loro insaputa, era sceso di
nascosto, mi aveva attirato in questa tana e mi aveva
abbandonato. La sua versione sarebbe stata assolutamente
semplice: mi aveva lasciato nella sala dei biliardi, a finire il
mio sigaro. Io ero andato per conto mio a dare un'ultima
occhiata al gatto. Ero entrato nella stanza senza accorgermi che
la gabbia era aperta, ed ero stato aggredito. Come accusarlo di
un simile delitto? Sospetti, forse, ma prove, mai!
Come passarono lentamente quelle due terribile ore! Una
volta udii un suono basso, raschiante, e pensai che fosse
l'animale che si leccava il proprio pelo. Più di una volta quegli
occhi fosforescenti mi guardarono nel buio, ma mai a lungo, e
si rafforzò in me la speranza di essere stato dimenticato o
ignorato. Finalmente, un tenue chiarore illuminò le finestre,
dapprima le intravvidi a malapena come due riquadri grigi sulla
parete nera, poi il grigio si trasformò in bianco, e potei
nuovamente vedere il mio tremendo compagno. Ed egli, ahimè,
poteva vedere me!
Fu subito evidente che era di umore molto più pericoloso e
aggressivo di quando lo avevo visto l'ultima volta. Il freddo
mattutino lo aveva irritato, inoltre aveva fame. Con un ringhio
continuo, camminava velocemente su e giù per il lato della
stanza più distante dal mio nascondiglio, con i baffi
rabbiosamente irti, e la coda sferzante. Ogni volta che faceva
dietro front, alzava su di me i suoi occhi selvaggi, pieni di una
terribile minaccia. Capii allora che intendeva uccidermi.
Eppure, anche in un momento simile, non potei fare a meno di
ammirare la grazia sinuosa di quel diabolico animale, i suoi
lunghi movimenti ondulati, la lucentezza dei magnifici fianchi,
il vivo, palpitante scarlatto della lingua luccicante che pendeva
dal muso nerissimo. E tutto il tempo quel ringhio profondo e
minaccioso saliva e saliva in un crescendo ininterrotto. Seppi
che il momento della crisi era giunto.
Era un'ora infelice per incontrare una simile morte, così
fredda, così severa; tremavo nel mio leggero abito da sera sul
letto di tortura dove ero sdraiato. Tentai di farmi forza per poter
affrontare quella morte, di innalzare la mia anima al di sopra di
essa, e al medesimo tempo, con la lucidità che sopravviene nei
momenti di tale disperazione, tentai di escogitare un mezzo per
fuggire. Una cosa era chiara: se le sbarre che formavano la
parete anteriore della gabbia fossero state nuovamente al loro
posto, avrei potuto trovare dietro ad esse un rifugio sicuro. Mi
sarebbe stato possibile riportarle al loro posto? Non osavo
muovermi per paura di attirare la bestia su di me. Lentamente,
molto lentamente, protesi una mano finché non afferrò
l'estremità di quella parete mobile, l'ultima sbarra che sporgeva
dal muro. Con mia grande sorpresa, cedette facilmente al mio
strattone. Naturalmente la difficoltà di tirarla dipendeva dal
fatto che io vi ero appoggiato. Tirai ancora, e altri cinque
centimetri emersero dalla parete. Evidentemente scorreva su
ruote. Tirai ancora... e allora il gatto balzò!
Fu così rapido, così improvviso, che non vidi neppure come
avvenne. Udii soltanto il ringhio selvaggio, e dopo neanche un
istante i gialli occhi fiammeggianti, la testa nera e appiattita
con la sua lingua rossa e i denti balenanti mi furono
vicinissimi. L'impatto della belva scosse le sbarre sulle quali
giacevo, finché pensai (per quel poco che potevo pensare in un
momento simile) che non avrebbero resistito. Il gatto ondeggiò
li per un istante, la testa e le zampe anteriori vicinissime a me,
annaspando per cercare un appiglio sul bordo delle sbarre. Udii
il raspare degli artigli sulla rete metallica, e il fiato della belva
mi diede il voltastomaco. Ma aveva calcolato male il suo balzo.
Non riuscì a mantenere la sua posizione. Lentamente, con un
ghigno furibondo e annaspando follemente sulle sbarre, si girò
indietro e cadde pesantemente a terra. Con un ringhio si girò
immediatamente verso di me, accovacciandosi, pronto a
balzare nuovamente.
Sapevo che i prossimi istanti avrebbero deciso della mia
sorte. L'animale aveva imparato con l'esperienza. Non avrebbe
più sbagliato i suoi calcoli. Dovevo agire immediatamente,
intrepidamente, se" volevo avere qualche speranza di salvezza.
In un istante ideai il mio piano. Togliendomi la giacca, la gettai
giù sulla testa della belva. Nello stesso istante, mi lasciai
cadere a terra, afferrai la prima sbarra e la tirai freneticamente
verso di me.
Cedette più facilmente di quanto non mi fossi aspettato. Mi
precipitai attraverso la stanza, tirandomela dietro; ma
purtroppo, correndo, mi trovai sul lato esterno della gabbia. Se
fosse stato all'incontrario, avrei potuto cavarmela
impunemente. così come andarono le cose, viceversa, vi fu un
attimo di sosta mentre mi fermai e tentai di infilarmi attraverso
l'apertura che mi ero lasciato. Quell'attimo fu sufficiente
all'animale per sbarazzarsi della giacca con la quale lo avevo
accecato e per balzarmi addosso. Mi scagliai attraverso
l'apertura e chiusi le sbarre dietro di me, ma la belva afferrò la
mia gamba prima che avessi il tempo di ritirarla. Un solo colpo
di quell'immane zampa mi strappò via il polpaccio, come un
truciolo di legno sollevato dalla pialla. L'istante dopo,
sanguinante e semi-svenuto, ero disteso fra la putrida paglia,
con una fila di amichevoli sbarre fra me e la belva che vi si
gettava contro tanto freneticamente.
Ferito in modo troppo grave per potermi muovere, e troppo
debole per aver paura, potevo soltanto restare sdraiato, più
morto che vivo, e guardarlo. Premeva il suo largo petto nero
contro le sbarre e tentava di agguantarmi con le sue zampe
ricurve, così come ho visto fare a un gattino davanti alla
trappola di un topo. Mi strappava i vestiti, ma per quanto si
sforzasse, non ce la faceva ,ad arrivare fino a me. Ho sentito
parlare del curioso intorpidimento provocato dalle ferite dei
grandi animali carnivori, ed ora ero destinato a sperimentarlo di
persona, poiché avevo perso qualsiasi senso della realtà, e
provavo lo stesso interesse nella sconfitta o nel successo della
belva, come se si fosse trattato di un giuoco che io stessi
guardando. A poco a poco, la mia mente si perse in strani e
vaghi sogni, sempre popolati da quel muso nero e da quella
lingua rossa, e così mi smarrii nel nirvana del delirio, che aiuta
coloro che troppo hanno sofferto.
Ricostruendo in seguito gli avvenimenti, sono giunto alla
conclusione che rimasi privo di conoscenza per quasi due ore.
Ciò che mi ridestò fu quel suono secco e metallico che era stato
il precursore della mia terribile esperienza. Era il riaprirsi della
serratura. Poi, prima che i miei sensi fossero sufficientemente
desti per capire chiaramente ciò che vedevano, fui conscio del
volto grassoccio e benevolo di mio cugino che si era affacciato
alla porta. Ciò che vide dovette stupirlo. Il gatto era
accovacciato per terra. Io ero sdraiato supino in maniche di
camicia dentro alla gabbia, con i calzoni ridotti a brandelli, e
una gran pozza di sangue intorno a me. Ancora oggi rivedo il
suo viso stupefatto, illuminato da un raggio di sole. Mi guardò,
e mi guardò ancora. Poi si chiuse la porta alle spalle, e si
diresse verso la gabbia per accertarsi che fossi davvero morto.
Non sono in grado di raccontare ciò che avvenne. Non ero
in condizioni da seguire o da riferire simili avvenimenti. Posso
soltanto dire che mi resi improvvisamente conto che il viso di
mio cugino non era più rivolto verso di me, stava guardando
l'animale.
«Buono, Tommy!» gridò. «Buono, Tommy!»
Poi si avvicinò alle sbarre, sempre volgendomi la schiena.
«Giù, stupida bestiaccia!» ruggì. «Giù, Tommy! Non
riconosci il tuo padrone?»
Di colpo, nella mia mente confusa si fece strada il ricordo
delle parole di mio cugino, quando mi aveva detto che il sapore
del sangue avrebbe trasformato quel gatto in un demonio. Era
stato il mio sangue a compiere la trasformazione, ma lui
avrebbe pagato.
«Vai via!» urlò. «Va' via, diavolaccio!... Baldwin! Baldwin!
Oh, accidenti!»
E poi lo udii cadere, e rialzarsi, e cadere di nuovo, con un
rumore simile a una tela da sacco che viene lacerata. I suoi urli
si fecero più deboli, poi si persero nel ringhio furioso della
belva. Infine, quando già lo credevo morto, vidi, come in un
incubo, una figura lacera, cieca, grondante sangue che correva
follemente per la stanza, e quella fu l'ultima volta che lo vidi
prima di perdere nuovamente i sensi.

La mia degenza durò molti mesi, ma in effetti non posso


dire di essere mai guarito, poiché fino alla fine dei miei giorni
dovrò servirmi di un bastone come ricordo della notte che
passai col gatto brasiliano. Baldwin, lo stalliere, e gli altri
domestici non furono in grado di capire ciò che era successo,
quando, attirati dalle grida mortali del loro padrone, trovarono
me dietro le sbarre e i suoi resti, o ciò che in seguito scoprirono
essere i suoi resti, nelle grinfie dell'animale che egli aveva
allevato. Lo allontanarono con dei ferri ardenti, e poi dovettero
sparargli attraverso la serratura della porta, prima di riuscire a
liberarmi. Mi portarono nella mia stanza, e li, sotto il tetto di
colui che aveva tentato di uccidermi, rimasi fra la vita e la
morte per parecchie settimane. Era stato convocato un chirurgo
da Clipton e un'infermiera da Londra, e dopo un mese potei
essere portato alla stazione, e così ritornai a Grosvenor
Mansions.
Ho un ricordo di quel periodo, che potrebbe essere stato
frutto del sempre cangiante panorama evocato dal delirio, se
non fosse così saldamente fissato nella mia memoria. Una
notte, quando l'infermiera si era allontanata, la porta della mia
camera si apri, e una donna alta, in gramaglie, scivolò nella
stanza. Venne verso di me, e quando chinò il suo volto
giallastro, vidi, al debole chiarore del lumino da notte, che era
la donna brasiliana che mio cugino aveva sposato. Mi guardò
fissamente in viso, e la sua espressione era più gentile di
quanto non l'avessi mai vista. «È in sé?» mi chiese.
Annuii appena, poiché ero ancora molto debole.
«Bene, allora volevo soltanto dirle che deve rimproverare
soltanto se stesso. Non ho forse fatto tutto ciò che ho potuto per
lei? Tentai di mandarla via di casa fin dall'inizio. Tentai in ogni
modo, tranne che tradendo mio marito, di salvarla da lui.
Sapevo che lui aveva una ragione per portarla qui. Sapevo che
non l'avrebbe mai più lasciato andar via. Nessuno lo conosceva
come lo conoscevo io, che con lui avevo tanto sofferto. Non
osavo dirle tutto questo. Egli mi avrebbe uccisa. Ma ho fatto
del mio meglio per salvarla. così come le cose sono andate, lei
è stato il miglior amico che io abbia mai avuto. Mi ha liberata,
e io pensavo che solo con la morte sarei stata libera. Mi
dispiace che sia stato ferito, ma non posso rimproverarmi.
Glielo dissi che lei era un imbecille... e imbecille è stato.» Usci
dalla stanza in punta di piedi, quella donna strana e amara, e
non la rividi mai più. Con quanto ereditò da suo marito, ritornò
nella sua terra nativa; in seguito ho sentito dire che aveva preso
il velo a Pernambuco.
Non fu che parecchio tempo dopo il mio ritorno a Londra
che i medici mi dichiararono in grado, fisicamente, di potermi
occupare dei miei affari. Non era un permesso molto piacevole,
poiché temevo che sarebbe stato il segnale per un'invasione di
creditori: ma fu Summers, il mio avvocato, il primo ad
approfittarne.
«Sono lieto che stia molto meglio» disse. «È da tanto che
aspetto per porgerle i miei rallegramenti.»
«Che intende dire, Summers? Non mi sembra il momento
di scherzare.»
«Voglio dire proprio ciò che sto dicendo» mi rispose. «Lei
è Lord Southerton da sei settimane, ma temevamo di ritardare
la sua guarigione, dicendoglielo prima.»
Lord Southerton! Uno dei più ricchi Pari d'Inghilterra! Non
potevo credere ai miei orecchi. Poi di colpo pensai al tempo
che era trascorso, e come esso coincidesse con l'epoca in cui
ero rimasto ferito.
«Allora Lord Southerton dev'essere morto all'incirca lo
stesso giorno in cui sono rimasto ferito?»
«La sua morte avvenne proprio il medesimo giorno.»
Mentre parlavo Summers mi guardò fissamente e sono
convinto, poiché egli è un uomo molto perspicace, che avesse
indovinato il vero retroscena della vicenda. Si interruppe per un
momento, come in attesa di una mia conferma, ma io non
vedevo l'utilità di confermare un simile scandalo familiare.
«Si, una coincidenza molto strana» continuò con lo stesso
sguardo di chi la sa lunga. «Naturalmente, lei sa che suo cugino
Everard King era il secondo in linea di eredità al titolo e alla
successione. Quindi, se fosse stato lei invece di lui a essere
sbranato da quella tigre, o quel che diavolo fosse, naturalmente
adesso sarebbe lui Lord Southerton.»
«Indubbiamente» replicai.
«Egli si interessava molto al problema» disse Summers. «È
accaduto poi che io venissi a sapere che il cameriere personale
di Lord Southerton era prezzolato da suo cugino, e che
quest'ultimo riceveva ogni poche ore dei telegrammi da lui nei
quali si informava delle condizioni di salute del suo padrone.
Doveva essere più o meno l'epoca in cui lei si trovava laggiù.
Non è strano che egli desiderasse essere tanto bene informato,
dal momento che sapeva di non essere l'erede diretto?»
«Molto strano» dissi. «E adesso, Summers, se vuole
portarmi i miei conti e un nuovo libretto degli assegni,
cominceremo a sistemare i miei affari.»
I racconti del mistero
Il treno scomparso

La confessione di Herbert de Lernac, che adesso è a


Marsiglia in attesa di venir condannato a morte, ha fatto
luce su uno dei più inspiegabili delitti di questo secolo,
un caso che non credo abbia precedenti negli annali
criminali di nessun paese. Nonostante vi sia una certa
riluttanza a parlare di questa vicenda negli ambienti
ufficiali, e ben poche notizie siano state rilasciate
alla'stampa, vi sono comunque indicazioni sufficienti per
dimostrare che la dichiarazione di questo arci-criminale è
corroborata dai fatti, e che è stata finalmente trovata la
soluzione a una vicenda sbalorditiva. Poiché il caso è
successo otto anni fa, e poiché la sua importanza è stata
alquanto oscurata da una crisi politica che a quell'epoca
occupava la pubblica opinione, sarà meglio riepilogare i
fatti per quanto ci è stato possibile appurarli. Li abbiamo
raccolti dai giornali di Liverpool, dal resoconto
dell'inchiesta svolta in seguito alla morte di John Slater, il
macchinista, e dagli archivi della "London and West
Coast Railway Company", che mi sono stati messi a
disposizione. In breve, essi sono i seguenti:
Il 3 giugno, 1890, un signore che disse di chiamarsi
Monsieur Louis Caratai, chiese di parlare con il signor
James Bland, sovrintendente della stazione "London and
West Coast Central" di Liverpool. Questo Caratai era un
uomo piccolo e bruno, di mezza età, con un portamento
così incurvato da suggerire qualche deformità della spina
dorsale. Era accompagnato da un amico, un uomo dal
fisico imponente, i cui modi rispettosi e la cui: costante
attenzione mostravano come fosse li in qualità di
sottoposto. Questo amico o compagno, di cui non venne
fatto il nome, era certamente uno straniero e, a giudicare
dalla sua carnagione olivastra, probabilmente uno
spagnolo o un sudamericano. Fu notato in lui uno strano
particolare. Egli teneva nella mano sinistra una piccola
custodia di pelle nera, e un impiegato della stazione, dalla
vista acuta, notò che quella custodia era assicurata al suo
polso mediante un laccio. Allora non venne attribuita
importanza alcuna al fatto, ma ciò che successe in seguito
gli conferì un preciso significato. Monsieur Caratai fu
accompagnato nell'ufficio del signor Bland, mentre il suo
compagno rimase ad attenderlo fuori dalla porta.
Monsieur Caratai chiari subito il motivo della sua
visita. Era arrivato quel pomeriggio stesso dall'America
centrale. Affari della massima importanza gli
imponevano di recarsi a Parigi nel minor tempo possibile.
Aveva perso il rapido per Londra. Era indispensabile che
gli mettessero a disposizione un treno speciale. Non si
preoccupava della spesa. Il tempo era il solo fattore che
contasse. Se la compagnia gli avesse fornito i mezzi per
partire immediatamente, avrebbe potuto fissare i propri
prezzi.
Il signor Bland premette un pulsante, chiamò Potter
Hood, l'incaricato addetto al movimento ferroviario, ed
entro cinque minuti furono presi gli accordi necessari. Il
treno sarebbe partito dopo tre quarti d'ora. Quel tempo
era necessario per assicurarsi che la linea fosse sgombra.
La potente locomotiva, chiamata Rochdale (numero 247
nel registro della compagnia), venne attaccata a due
vagoni, con dietro il vagoncino del capotreno. Il primo
vagone serviva unicamente per attenuare il disagio
derivante dall'oscillazione. Il secondo era diviso, come al
solito, in quattro scompartimenti: uno di prima classe,
uno di prima classe per fumatori, uno di seconda, e uno di
seconda per fumatori. Il primo scompartimento, quello
più vicino alla locomotiva, era quello destinato ai
viaggiatori. Gli altri tre erano vuoti. Il capotreno del
convoglio speciale era James McPherson, il quale da
parecchi anni era alle dipendenze della compagnia. Il
macchinista John Slater e il fuochista William Smith, che
era stato appena assunto.
Monsieur Caratai, uscendo dall'ufficio del
sovrintendente, raggiunse il suo compagno, ed entrambi
manifestarono la massima impazienza di partire. Avendo
pagato la cifra richiesta, che ammontava a cinquanta
sterline e cinque scellini, alla consueta tariffa per treni
speciali di tre scellini al chilometro, chiesero di essere
accompagnati al loro scompartimento, dove presero
immediatamente i loro posti, nonostante essi fossero stati
informati che avrebbe dovuto trascorrere quasi un'ora
prima che la linea potesse essere libera. Nel frattempo,
una singolare coincidenza aveva avuto luogo nell'ufficio
che Monsieur Caratai aveva appena lasciato.
Una richiesta per un treno speciale non è un fatto
molto raro in un ricco centro commerciale, ma che ne
venissero richiesti due nello stesso pomeriggio era
assolutamente insolito. Accadde, tuttavia, che pochi
istanti dopo che Bland aveva congedato il primo
viaggiatore, se ne presentasse un secondo con una
richiesta identica. Si trattava stavolta di un certo signor
Horace Moore, un tipo dall'aspetto militaresco, il quale
dichiarò che la grave e improvvisa malattia di sua moglie
a Londra rendeva assolutamente imperativo che egli la
raggiungesse senza perdere un solo istante. La sua pena e
la sua ansia erano così evidenti, che Bland fece il
possibile per accontentarlo. Un secondo treno speciale
era fuori discussione, poiché il normale servizio era già
stato un po' messo in crisi dal primo. Vi era tuttavia
l'alternativa, che il signor Moore dividesse le spese del
treno di Monsieur Caratai, e viaggiasse nell'altro
scompartimento, vuoto, di prima classe, se Monsieur
Caratai si fosse dichiarato contrario alla sua presenza nel
proprio scompartimento. Sembrava che non ci potesse
essere niente da obbiettare per un simile accordo, eppure
Monsieur Caratai, quando la proposta gli venne avanzata
da Potter Hood, rifiutò assolutamente di prenderla in
considerazione. Il treno era suo, egli disse, ed egli
insisteva che gliene fosse riservato l'uso esclusivo.
Nessun argomento poté prevalere sulle sue scortesi
obbiezioni, e infine il piano dovette essere abbandonato.
Il signor Horace Moore lasciò la stazione assai abbattuto,
dopo avere appurato che la sola cosa che gli restasse da
fare era di prendere il normale treno accelerato che
partiva da Liverpool alle sei. Alle quattro e trentuno
esatte all'orologio della stazione, il treno speciale con a
bordo lo storpio Monsieur Caratai e il suo gigantesco
compagno lasciò la stazione di Liverpool. La linea a
quell'ora era libera, e non avrebbero dovuto esserci
intoppi fino a Manchester.
I treni della "London and West Coast Railway"
usufruiscono delle linee di un'altra compagnia fino a
quella città, dove il treno speciale avrebbe dovuto
arrivare qualche minuto prima delle sei. Alle sei e un
quarto, un telegramma da Manchester, in cui si diceva
che il treno non era ancora arrivato, provocò stupore e
costernazione fra i funzionari della stazione. Una
richiesta diretta a St. Helens, che si trova a un terzo della
distanza fra le due città, suscitò la seguente risposta:
"A James Bland, Sovrintendente, Central L. and W. C,
Liverpool. Treno speciale transitato ore 4,52, perfetto
orario. Dowser, St. Helens."
Questo telegramma fu recapitato alle sei e quaranta.
Alle sei e cinquanta, un secondo messaggio venne
ricevuto da Manchester:
"Nessun segno del treno speciale da voi annunciato."
E dopo dieci minuti un terzo, più sconcertante ancora:

"Riteniamo che abbiate commesso un errore


segnalando orario treno speciale. Treno locale da St.
Helens che secondo vostre informazioni avrebbe dovuto
giungere dopo treno speciale è appena arrivato e non ne
ha visto traccia. Preghiamovi telegrafare chiarimenti.
Manchester."

La faccenda andava assumendo un aspetto


sbalorditivo, benché da un certo punto di vista l'ultimo
telegramma recasse un certo sollievo alle autorità di
Liverpool. Se il treno speciale aveva avuto un incidente,
sembrava impossibile che il treno locale avesse potuto
transitare per la stessa linea senza accorgersene. Eppure,
qual era l'alternativa? Dove poteva essere finito il treno?
Era forse stato deviato, per qualche ragione, su un binario
morto, onde lasciar passare il treno più lento? Una
spiegazione simile era possibile, nel caso che si fosse resa
necessaria una piccola riparazione. Venne inviato un
telegramma a ognuna delle stazioni fra St. Helens e
Manchester, e il sovrintendente e l'addetto al movimento
ferroviario, in preda a grande ansia, attesero vicino
all'apparecchio la serie di risposte che li avrebbe messi in
grado di dire con certezza ciò che era capitato al., treno
scomparso. Le risposte giunsero nell'ordine in cui erano
state inviate le domande, e cioè l'ordine delle stazioni a
partire da St. Helens:
"Treno speciale transitato ore 17. Collins Green."
"Treno speciale transitato ore 17,06. Earlestown."
"Treno speciale transitato ore 17,10. Newton."
"Treno speciale transitato ore 17,20. Kenyon
Junction."
"Nessun treno speciale transitato di qui. Barton
Moss."
I due funzionari si guardarono in faccia sbalorditi.
«È un fatto senza precedenti nei miei trent'anni di
esperienza» disse il signor Bland.
«Senza precedenti e del tutto inspiegabile, signore. Il
treno speciale deve essersi guastato fra Kenyon Junctions
e Barton Moss.»
«Eppure non vi sono binari morti, per quanto io
ricordi, fra le due stazioni. Il treno deve essere uscito dai
binari.»
«Ma com'è possibile che l'accelerato delle sedici e
cinquanta sia passato per la stessa linea senza
accorgersene?»
«Non ci sono alternative, signor Hood. Deve essere
cosi. Può darsi che il personale del treno locale abbia
notato qualcosa che possa chiarire la faccenda.
Telegraferemo a Manchester per chiedere ulteriori
informazioni, e a Kenyon Junction pregandoli di
controllare immediatamente la linea fino a Barton Moss.»
La risposta da Manchester arrivò dopo pochi minuti.
"Nessuna notizia del treno scomparso. Macchinista e
capotreno dell'accelerato sicurissimi nessun incidente fra
Kenyon Junction e Barton Moss. Binari sgombri e nessun
segno di irregolarità. Manchester."
«Quei due, il macchinista e il capotreno, dovranno
essere licenziati» disse il signor Bland furibondo. «C'è
stato un incidente e non se ne sono accorti. Quel treno
speciale è evidentemente deragliato senza ingombrare la
linea; come questo sia potuto accadere, supera la mia
capacità di immaginazione, ma deve essere cosi, e ben
presto riceveremo un telegramma da Kenyon o da Barton
Moss in cui ci avvertono di averlo trovato in fondo a una
scarpata.»
Ma non era destino che la previsione del signor Bland
si avverasse. Trascorse mezz'ora, e arrivò il seguente
messaggio dal capo stazione di Kenyon Junction:
"Nessuna traccia del treno scomparso. È assodato che
il treno è transitato di qui e che non è giunto a Barton
Moss. Abbiamo staccato locomotiva dal treno merci e io
stesso ho percorso la linea, ma è del tutto sgombra e non
vi sono tracce di incidenti."
Il signor Bland si strappò i capelli al colmo della
disperazione.
«È pura follia, Hood!» esclamò. «Le pare possibile
che un treno svanisca nel nulla, qui in Inghilterra, in
pieno giorno? È assurdo. Una locomotiva, un tender, due
vagoni, un vagoncino, cinque esseri umani... tutti
scomparsi su un tratto di binari perfettamente diritto! A
meno di non ricevere qualche notizia positiva entro
un'ora, prenderò l'ispettore Collins e andrò li di persona.»
Infine accadde qualcosa di positivo. Venne sotto
forma di un altro telegramma da Kenyon Junction.
"Rattristati dovervi informare che cadavere di John
Slater, macchinista del treno speciale, è stato appena
rinvenuto fra i cespugli a quattro chilometri da Kenyon
Junction. È caduto dalla locomotiva, rotolato giù per il
terrapieno e finito fra i cespugli. Le ferite alla testa
provocate dalla caduta sembra siano la causa della morte.
La zona all'intorno è stata attentamente controllata ma
non vi è traccia del treno mancante."
La nazione, come già abbiamo detto, era travagliata da
una crisi politica, e l'attenzione del pubblico era
ulteriormente distolta da importanti e sensazionali
avvenimenti a Parigi, dove un enorme scandalo
minacciava di far saltare il governo e di rovinare le
reputazioni di molti fra i personaggi più in vista della
Francia. I giornali erano pieni di questi avvenimenti, e la
singolare scomparsa del treno speciale attirò meno
attenzione di quanto non avrebbe fatto in momenti più
tranquilli. La grottesca natura del caso contribuì a
minimizzarne l'importanza, poiché i giornali erano poco
propensi a credere ai fatti di cui erano stati informati. Più
di un giornale londinese considerò la faccenda alla
stregua di un'abile beffa, finché l'istruttoria riguardo allo
sfortunato macchinista (istruttoria che non appurò niente
di importante) non li convinse della tragica natura del
caso.
Il signor Bland, accompagnato dall'ispettore Collins,
l'investigatore con la massima anzianità di grado alle
dipendenze della compagnia, si recò a Kenyon Junction
la sera stessa, e le loro ricerche durarono tutta la giornata
successiva, ma con risultati assolutamente negativi. Non
soltanto non venne trovata alcuna traccia del treno
mancante, ma non poté essere avanzata alcuna ipotesi che
potesse comunque spiegare l'accaduto. Al tempo stesso, il
rapporto ufficiale dell'ispettore Collins (che ho qui sotto i
miei occhi mentre scrivo) servi a mostrare che le
possibilità erano più numerose di quanto non ci si potesse
aspettare.
"Nel tratto di linea ferroviaria fra queste due località"
vi si legge "la campagna è punteggiata da ferriere e da
miniere di carbone. Di queste ultime, alcune vengono
ancora sfruttate e altre sono state abbandonate Almeno
dodici di queste miniere dispongono di linee a
scartamento ridotto per portare i carrelli trasportatori alla
linea principale. Naturalmente, le possiamo escludere.
Oltre a queste, però, ve ne sono sette che hanno, o
avevano, linee a scartamento normale collegate alla linea
principale, per trasportare i loro prodotti direttamente
dall'imbocco della miniera ai grandi centri di
distribuzione. Tutte queste linee, senza eccezione, non
superano tratti di pochi chilometri. Delle sette linee,
quattro appartengono a miniere ormai abbandonate, o
perlomeno a pozzi che non vengono più sfruttati. Queste
sono le miniere di Redgauntlet, Hero, Slough of Despond
e Heartsease; quest'ultima, dieci anni fa, era una delle
principali miniere del Lancashire. Possiamo eliminare
queste quattro diramazioni dalla nostra indagine, poiché,
per evitare possibili incidenti, i binari più vicini alla linea
principale sono stati tolti, e non vi è più nessun
collegamento. Restano altre tre diramazioni che
conducono: A) alle Ferriere Carnstock; B) alla Miniera
Big Ben; C) alla Miniera Perseverance.
"Di queste, la linea che porta alla Miniera Big Ben è
lunga appena mezzo chilometro, e termina davanti a un
deposito di carbone posto proprio all'imbocco della
miniera, in attesa di essere caricato. Nessuno li ha visto o
udito niente di particolare. La linea della Ferriera
Carnstock è stata bloccata tutto il giorno 3 giugno da
sedici vagoni di ematite. È a binario unico, e pertanto non
potrebbe essere transitato nessun altro treno. Quanto alla
linea della Miniera Perseverance, si tratta di un doppio
binario di una certa lunghezza, dove si svolge un
notevole traffico, poiché la produzione della miniera è
molto forte. Il 3 giugno, questo traffico si svolgeva come
al solito; centinaia di uomini, compresa una squadra di
operai addetta alla riparazione delle massicciate,
lavoravano lungo i tre chilometri e mezzo che
costituiscono la lunghezza totale della linea, ed è
inconcepibile che un treno possa essere transitato
inopinatamente per di là senza destare l'attenzione
generale. Possiamo, inoltre, aggiungere che questa
diramazione è più vicina a St. Helens di quanto non lo sia
il punto dove è stato rinvenuto il macchinista, per cui
possiamo ritenere con fondate ragioni che il treno ha
sorpassato la diramazione.
"In quanto a John Slater, non possiamo ricavare
nessun indizio dal suo aspetto né dalle sue ferite.
Possiamo soltanto dire che, a quanto ci risulta, egli è
morto cadendo dalla locomotiva; ma perché egli sia
caduto, o che cosa sia capitato alla locomotiva dopo la
sua caduta, è una domanda alla quale non ritengo di poter
rispondere."
In seguito, l'ispettore diede le sue dimissioni dal
consiglio di amministrazione, indispettito dall'essere stato
accusato di incompetenza dalla stampa.
Trascorse un mese, durante il quale sia la polizia che
la compagnia continuarono a svolgere le loro indagini,
senza il minimo successo. Fu offerta una ricompensa e fu
promesso il perdono nel caso di un delitto, ma nessuna
delle due cose sorti un effetto. Ogni giorno il pubblico
apriva il giornale convinto che un mistero tanto grottesco'
sarebbe stato finalmente risolto, ma le settimane
passavano, e la soluzione restava un pio desiderio. Di
pieno giorno, in un pomeriggio di giugno, nella regione
più densamente popolata dell'Inghilterra, un treno con i
suoi occupanti era scomparso in modo tale, come se un
esperto in chimica occulta l'avesse trasformato in un gas.
In effetti, fra le varie ipotesi formulate dalla stampa, ve
ne erano alcune che sostenevano con tutta serietà che vi
fossero coinvolte delle forze soprannaturali, o,
perlomeno, preternaturali, e che il deforme Monsieur
Caratai era probabilmente una persona che è meglio
conosciuta sotto altro, e meno lusinghiero, nome. Altri
sostennero che fosse il suo olivastro compagno l'autore
del guaio, ma che cosa esattamente egli avesse fatto, mai
si fu in grado di formulare.
Fra le molte teorie avanzate dai vari giornali o privati
cittadini, ve ne erano una o due abbastanza plausibili da
colpire l'attenzione del pubblico. Una di queste, che
apparve sul Times, firmata da un filosofo dilettante che a
quell'epoca godeva di una certa fama, tentava di chiarire
la vicenda in maniera critica e semi-scientifica. Sarà
sufficiente citarne qui un estratto, anche se il lettore
curioso potrà leggere tutta la lettera nel numero del 3
luglio.
"È uno dei principi elementari del pensiero pratico" egli
commentava "che quando l'impossibile sia stato
eliminato, ciò che resta, per quanto improbabile, deve
contenere la verità. È certo che il treno sia transitato per
Kenyon Junction. È certo che esso non è mai arrivato a
Barton Moss. È estremamente improbabile, ma non
impossibile, che abbia imboccato una delle sette
diramazioni esistenti. È chiaramente impossibile che un
treno vada dove non ci sono rotaie e, pertanto, possiamo
ridurre il numero delle nostre improbabilità alle tre
diramazioni aperte, e cioè la ferriera Carnstock e le
miniere Big Ben e Perseverance. Esiste una società
segreta, una Camorra inglese, in grado di distruggere sia
un treno che i suoi passeggeri? È improbabile, ma non
impossibile. Confesso di non essere in grado di suggerire
altre soluzioni. Consiglierei vivamente alla compagnia di
incanalare tutte le sue energie nell'effettuare un controllo
di queste tre linee, e degli operai che vi lavoravano. Un
attento esame dei monti di pegno nella zona potrebbe
dare dei frutti interessanti."
Il fatto che il suggerimento provenisse da un'autorità
indiscussa in queste faccende creò un interesse notevole e
una feroce opposizione da parte di coloro che ritenevano
che una tale dichiarazione fosse una gratuita calunnia nei
confronti di una così onesta e meritevole categoria.
L'autore della lettera si limitò a rispondere a queste
critiche, sfidando gli obbiettori a offrire al pubblico una
più plausibile spiegazione. Ne giunsero due, in risposta
(Times, 7 e 9 luglio). La prima suggeriva che il treno
poteva essere uscito dai binari ed essere sprofondato nel
Lancashire and Staffordshire Canal, il quale corre
parallelo alla ferrovia per qualche centinaia di metri.
Questo suggerimento fu decisamente scartato per via
della profondità del canale, del tutto insufficiente per
nascondere una simile mole. Il secondo interlocutore
scriveva, richiamando l'attenzione alla custodia che
pareva essere il solo bagaglio che i viaggiatori si fossero
portati appresso, e suggerendo che qualche nuovo
esplosivo, di immenso potere polverizzante, vi potesse
essere stato nascosto. L'evidente assurdità
nell'immaginare che l'intero treno potesse essere
polverizzato mentre le rotaie rimanevano indenni, ridusse
una simile spiegazione a una farsa. Le indagini erano
giunte a questo punto morto, quando avvenne un nuovo e
del tutto inaspettato sviluppo.
Si trattava di una lettera scritta alla signora
McPherson da parte di suo marito, James McPherson, il
capotreno scomparso. La lettera, datata 5 luglio, 1890,
era stata imbucata a New York e giunse a destinazione il
14 luglio. Qualcuno espresse un dubbio sulla sua
autenticità, ma la signora McPherson riconobbe la
scrittura di suo marito, e il fatto che vi fossero allegati
cento dollari in biglietti da cinque dollari fu sufficiente
per dissipare il sospetto di uno scherzo. La lettera non
conteneva alcun indirizzo; eccone il testo:

"Mia cara moglie,


"Ho molto pensato a te in questi giorni, ed è assai duro
rinunciare a te. Lo stesso vale per Lizzie. Cerco di essere
forte, ma non credo che ce la farò.. Ti mando dei
quattrini, che potrai cambiare in una ventina di sterline.
Dovrebbero bastare per far venire in America sia te che
Lizzie; vedrai che le navi che partono da Amburgo e che
fanno scalo a Southampton sono molto buone, e meno
care di quelle che partono da Liverpool. Se tu potessi
venire qui e fermarti alla Johnson House, farei del mio
meglio per farti sapere dove ci potremo incontrare, ma
per ora sono in una situazione piuttosto difficile, e mi
sento molto infelice all'idea di dover rinunciare a voi due.
Basta per oggi, un abbraccio affettuoso da tuo marito.
James McPherson."

Per un po', nessuno mise in dubbio che questa lettera


non sarebbe servita per chiarire tutta la faccenda, tanto
più quando fu accertato che un passeggero molto
somigliante al capotreno scomparso aveva viaggiato sotto
il nome di Summers sulla nave Vistala della linea
Amburgo-New York, salpata il 7 giugno. La signora
McPherson e sua sorella Lizzie Dolton andarono a New
York secondo le istruzioni, e si fermarono per tre
settimane alla Johnson House, ma senza ricevere alcuna
notizia da parte dell'uomo scomparso. È probabile che
alcuni incauti commenti della stampa lo avessero
avvisato che la polizia si serviva delle due donne come
esca. Questo comunque non è certo, ma è certo che lui né
scrisse né si fece vivo di persona, per cui le due donne
furono costrette a tornare a Liverpool.
A questo punto rimase la vicenda, e ha continuato a
rimanere fino a oggi, 1898. Per incredibile che possa
sembrare, in questi otto anni non è emerso nulla che
abbia gettato la minima luce sulla straordinaria
scomparsa del treno speciale che portava Monsieur
Caratai e il suo compagno. Le approfondite ricerche
svolte per chiarire i trascorsi dei due viaggiatori sono
servite soltanto a stabilire il fatto che Monsieur Caratai
era assai noto come finanziere e agente politico
nell'America centrale, e che durante il suo viaggio in
Europa egli si era mostrato esageratamente ansioso di
raggiungere Parigi. Il suo compagno, che dalle liste dei
passeggeri risultò chiamarsi Eduardo Gomez, era un
uomo dal passato violento, con una reputazione di sicario
e di prepotente. Risultava chiaro, tuttavia, che egli aveva
avuto sinceramente a cuore gli interessi di Monsieur
Caratai, e che quest'ultimo, essendo di debole
costituzione, aveva assunto Gomez come sua guardia
personale. Possiamo aggiungere che da Parigi non giunse
alcuna informazione che si riferisse alle ragioni del
frettoloso viaggio intrapreso da Monsieur Caratai. Questi
sono tutti i fatti noti inerenti al caso, fino alla
pubblicazione nei giornali di Marsiglia della recente
confessione di Herbert de Lernac, ora in attesa della
condanna a morte per l'omicidio di un mercante a nome
Bonvalot. Tale dichiarazione può essere letteralmente
tradotta come segue:
"Non è per puro orgoglio o vanteria che do le seguenti
informazioni; se infatti fosse quello il mio scopo, potrei
raccontare una decina di imprese altrettanto splendide; lo
faccio, invece, perché certi signori di Parigi si mettano
bene in testa che io, così come mi accingo a raccontare la
fine di Monsieur Caratai, sono anche in grado di fare i
nomi delle persone nel cui interesse e per cui richiesta il
fatto avvenne, a meno che non mi venga al più presto
concessa la grazia che sto attendendo. State quindi
attenti, messieurs, prima che sia troppo tardi! Voi
conoscete Herbert de Lernac, e sapete che egli mantiene
ciò che dice. Affrettatevi dunque, o siete perduti!
"Per ora non farò nomi - se solo sentiste i nomi, che
cosa non pensereste! - ma vi dirò soltanto con quanta
abilità io abbia agito. Allora io fui leale con i miei
superiori, e non dubito che essi saranno leali con me
adesso. Lo spero, e finché non sarò convinto che essi mi
hanno tradito, questi nomi, che sconvolgerebbero
l'Europa, non saranno divulgati. Ma quel giorno... be',
non voglio aggiungere altro!
"Dunque, venendo al sodo, vi fu un famoso processo a
Parigi nel 1890, a proposito di un mostruoso scandalo
politico e finanziario. Nessuno era in grado di sapere
quanto mostruoso fosse quello scandalo, tranne quegli
agenti confidenziali quale io ero. L'onore e la carriera di
numerosi uomini più importanti della Francia erano in
gioco. Vi sarà capitato di vedere un gruppo di birilli in
fila, tutti rigidi, impettiti e severi. Poi da molto lontano
arriva la palla e pop, pop, pop, i birilli si rovesciano tutti.
Be', immaginate che alcuni dei più grandi uomini della
Francia fossero questi birilli, e che Monsieur Caratai
fosse la palla e che la si potesse veder giungere da
lontano. Se lui fosse arrivato, sarebbe stato pop, pop, pop
per tutti i birilli. Si decise che egli non sarebbe arrivato.
"Non accuso tutti, naturalmente, di essere stati al
corrente di quanto stava per accadere. Vi erano in gioco,
come ho già detto, enormi interessi sia finanziari che
politici e venne organizzato una specie di trust che si
doveva occupare della faccenda. Alcuni si iscrissero
senza neppur sapere molto chiaramente quali fossero i
suoi obbiettivi. Ma altri li conoscevano benissimo, e
costoro possono star certi che non ho dimenticato i loro
nomi. Essi furono avvertiti dell'arrivo di Monsieur
Caratai molto tempo prima che egli partisse dal Sud
America, ed essi sapevano che le prove che egli avrebbe
portato con sé avrebbero significato la rovina per tutti
loro.
Questo trust disponeva di una quantità illimitata di
fondi. Ripeto: assolutamente illimitata. I membri del trust
cercarono un agente che fosse in grado di esercitare
questo enorme potere. L'uomo prescelto doveva essere
risoluto, malleabile e pieno di fantasia, un uomo fra un
milione di altri uomini. Scelsero Herbert de Lernac, e
devo ammettere che scelsero bene.
"I miei incarichi erano di scegliere i miei subordinati,
di servirmi liberamente del potere conferitomi dal denaro,
e di assicurarmi che Monsieur Caratai non giungesse mai
a Parigi. Con la mia caratteristica energia mi misi al
lavoro non appena ebbi ricevuto le istruzioni, e i passi
che intrapresi erano i migliori e i più atti allo scopo che
mente umana potesse escogitare.
"Un uomo di mia fiducia fu mandato immediatamente
nel Sud America per compiere il viaggio di ritorno con
Monsieur Caratai. Se solo fosse arrivato in tempo, la nave
non sarebbe mai giunta a Liverpool; ma, ahimè! essa era
partita prima dell'arrivo del mio agente. Feci attrezzare
un piccolo brigantino armato per intercettarla, ma
nuovamente la fortuna non mi arrise. Come tutti i grandi
organizzatori, avevo tuttavia previsto gli eventuali
insuccessi ed avevo già pronte una serie di alternative, di
cui almeno una avrebbe funzionato. Non dovete
sottovalutare le difficoltà della mia impresa, né
immaginare che un semplice e comune omicidio sarebbe
bastato. Dovevamo distruggere non soltanto Monsieur
Caratai, ma i documenti di Monsieur Caratai, e anche i
compagni di Monsieur Caratai, se avevamo fondati
motivi per credere che egli avesse comunicato loro i suoi
segreti. Dovete considerare inoltre che essi erano in
guardia, estremamente sospettosi di eventuali attentati.
Era un compito, sotto ogni aspetto, degno di me, poiché è
proprio dove gli altri vacillano, che io sono
maggiormente audace.
"Avevo predisposto ogni cosa per l'arrivo di Monsieur
Caratai a Liverpool, ed ero tanto più impaziente perché
mi risultava che egli aveva preso accordi per godere di
una massiccia sorveglianza fin dal suo arrivo a Londra.
Qualsiasi cosa intendessi fare, andava fatta fra il
momento in cui metteva piede sul molo di Liverpool e il
suo arrivo alla stazione di Londra. Preparammo sei piani,
di cui uno più elaborato dell'altro; di quale dei sei ci
saremmo serviti, ciò sarebbe dipeso dalle mosse del
nostro avversario. Qualsiasi cosa avesse fatto, noi
eravamo pronti. Se si fosse trattenuto a Liverpool,
eravamo pronti. Se avesse preso un accelerato, un rapido,
o un treno speciale, tutto era pronto. Tutto era stato
previsto e a tutto avevamo provveduto.
"Come potete ben immaginare, non potevo fare tutto
questo da solo. Cosa potevo saperne io delle linee
ferroviarie inglesi? Ma i quattrini possono procurare
agenti volenterosi in tutto il mondo, e ben presto ebbi
dalla mia, per assistermi, una delle menti più acute
d'Inghilterra. Non voglio fare nomi, ma sarebbe ingiusto
che io mi rivendicassi tutto il merito. Il mio alleato
inglese era degno di tale alleanza. Conosceva a fondo la
linea «London and West Coast», ed aveva alle sue
dipendenze una squadra di uomini fidati e intelligenti. Il
piano fu suo, e il mio giudizio si rese necessario solo nei
particolari. Corrompemmo vari funzionari, fra i quali il
più importante era James McPherson, che secondo i
nostri accertamenti ci risultava essere l'uomo che aveva le
maggiori probabilità di venir prescelto quale capotreno di
un treno speciale. Smith, il fuochista, era anch'egli dei
nostri. John Slater, il macchinista, era stato abbordato, ma
si era mostrato testardo e pericoloso, e pertanto
desistemmo. Non eravamo certi che Monsieur Caratai
avrebbe richiesto un treno speciale, ma lo ritenevamo
molto probabile, poiché era oltremodo importante per lui
raggiungere rapidamente Parigi. Per questa contingenza
noi predisponemmo le cose in modo particolare e molto
tempo prima che la sua nave avvistasse le coste
dell'Inghilterra. Forse vi potrà divertire il sapere che vi
era uno dei miei uomini nel battello pilota che condusse
in porto quella nave.
"Nell'istante in cui Caratai giunse a Liverpool,
comprendemmo che egli intuiva il pericolo e che stava in
guardia. Si era portato come scorta un tipo pericoloso, un
certo Gomez, un uomo armato e che non avrebbe certo
esitato a servirsi delle sue armi. Era lui a portare le carte
confidenziali di Caratai, ed era pronto a proteggere sia
quelle che il suo padrone. Probabilmente Caratai lo aveva
messo al corrente dei suoi segreti, e quindi liberarsi di
Caratai senza liberarsi di Gomez sarebbe stato uno spreco
di energie. Era indispensabile per noi che quei due
facessero la stessa fine, e i nostri progetti in quel senso
furono assai facilitati dalla loro richiesta di un treno
speciale. Tenete in mente che, su quel treno speciale, due
dei tre dipendenti della compagnia erano assoldati da noi,
per una cifra che li avrebbe resi indipendenti per il resto
della loro vita. Non voglio arrivare a dire che gli inglesi
siano più onesti di qualsiasi altro popolo, però mi sono
accorto che l'onestà vi ha un prezzo più alto.
"Ho già parlato del mio agente inglese, il quale ha un
promettente avvenire davanti a sé, a meno che un qualche
disordine delle corde vocali non se lo porti via prima del
tempo. Egli era incaricato di compiere i passi necessari a
Liverpool, mentre io mi trovavo nell'albergo di Kenyon,
dove aspettavo un segnale cifrato per mettermi in moto.
Quando furono presi gli accordi per il treno speciale, il
mio agente mi telegrafò istantaneamente e mi disse l'ora
per cui avrei dovuto tenermi pronto. Egli stesso, sotto il
nome di Horace Moore, fece a sua volta un'immediata
richiesta per un treno speciale, nella speranza di riuscire a
viaggiare nello stesso treno di Monsieur Caratai, cosa
che, in certe circostanze, avrebbe potuto esserci assai
utile. Se per esempio, il nostro grande coup avesse fatto
fiasco, sarebbe stato compito del mio agente di sparare a
entrambi e di distruggere le loro carte. Caratai, viceversa,
stava bene in guardia, e rifiutò la presenza di altri
passeggeri. Quindi il mio agente si allontanò dalla
stazione, vi rientrò da un altro ingresso, sali nel
vagoncino del capotreno dal lato opposto a quello della
banchina, e compi il tragitto con McPherson, il
capotreno.
"Vi potrà interessare sapere quali fossero le mie mosse
nel frattempo. Tutto era ormai pronto da parecchi giorni,
e mancavano soltanto gli ultimi tocchi. La diramazione
che avevamo scelto era un tempo collegata alla linea
principale, ma era stata interrotta. Bastava riattare alcuni
metri di rotaie per ricollegarla al resto della derivazione.
Avevamo già rimesso il maggior numero di rotaie che era
possibile mettere senza .correre il rischio di attirare
l'attenzione, e ora si trattava soltanto di completare la
congiunzione con la linea principale, e di sistemare gli
scambi nella loro posizione originale. Le traversine non
erano mai state tolte, e -le rotaie e i grossi chiodi, che
avevamo tolti da un binario morto della diramazione
abbandonata, erano li pronti. Con la mia piccola ma
capace squadra di operai, sistemammo tutto molto tempo
prima che giungesse il treno speciale. Quando infine
arrivò, infilò la diramazione così facilmente che i due
passeggeri non parvero neanche avvedersi della scossa
provocata dallo scambio.
"Il nostro progetto prevedeva che Smith, il fuochista,
cloroformizzasse John Slater, il macchinista, in modo che
quest'ultimo scomparisse con gli altri. Sotto questo
aspetto, e unicamente sotto questo aspetto, i nostri piani
fallirono. Sorvolo sulla criminale follia che spinse
McPherson a scrivere a sua moglie. Il nostro fuochista
fece la sua parte con tanta goffaggine che Slater,
dibattendosi, cadde dalla locomotiva, e nonostante che la
fortuna fosse dalla nostra, poiché, cadendo, si ruppe il
collo, tuttavia egli rimane una macchia nera su quello che
altrimenti sarebbe stato uno di quei capolavori assoluti,
che si possono contemplare soltanto in una specie di muta
ammirazione. L'esperto in criminologia troverà in John
Slater l'unico difetto nella nostra ammirevole regia. Un
uomo che ha avuto i trionfi che ho avuto io, può
permettersi di essere franco, e quindi io metto un dito su
John Slater, e lo definisco un 'difetto'.
"Ma ora il nostro treno sta percorrendo la breve
diramazione lunga circa due chilometri, che porta, o
piuttosto portava, alla miniera abbandonata di Heartsease,
che ai suoi tempi era una delle più grandi miniere di
carbone dell'Inghilterra. Voi mi chiederete come fosse
possibile che nessuno abbia visto il treno percorrere
questa linea ormai in disuso. Io vi rispondo che la linea,
per tutta la sua lunghezza, si snoda in un profondo
avvallamento, e che, a meno che non si fosse stati sul
ciglio di quell'avvallamento, nessuno avrebbe potuto
vederlo. Ma vi era qualcuno sul ciglio di
quell'avvallamento. Io ero li. Ecco che cosa vidi:
"Il mio assistente era rimasto vicino allo scambio in
modo da sovraintendere al deviamento del treno. Aveva
con sé quattro uomini armati, così che se il treno avesse
deragliato, cosa che ritenevamo possibile, perché gli
scambi erano molto arrugginiti, avremmo potuto
ugualmente far fronte alla situazione. Una volta che il
treno ebbe felicemente superato lo scambio, egli cedette a
me la responsabilità dell'azione. Io aspettavo in un punto
che guarda dall'alto l'imbocco della miniera, ed ero
anch'io armato, come lo erano i miei due compagni.
Qualsiasi cosa fosse potuta accadere, io ero sempre
pronto.
"Non appena il treno ebbe percorso un breve tratto
della linea, Smith, il fuochista, rallentò la locomotiva, e
poi, dopo averla spinta nuovamente alla massima
velocità, lui e McPherson, con il mio agente inglese,
balzarono giù prima che fosse troppo tardi. Può darsi che
sia stato questo rallentamento a richiamare l'attenzione
dei viaggiatori, ma il treno correva di nuovo a tutta
velocità prima che le loro teste si fossero affacciate al
finestrino aperto. Mi viene da sorridere, al pensiero del
loro smarrimento. Provate a immaginarvi ciò che voi
stessi avreste provato se, affacciandovi dal vostro
lussuoso scompartimento, vi foste improvvisamente
accorti che i binari sui quali state viaggiando sono
arrugginiti, corrosi, rossastri, giallastri per il mancato uso.
Che tuffo al cuore dovettero provare, quando di colpo
capirono che non era Manchester, ma la Morte, che li
attendeva, al termine di quel sinistro viaggio. Il treno
viaggiava a velocità folle, rullando e oscillando sui binari
marci, mentre le ruote emettevano un gemito spaventoso
sulla superficie rugginosa. Io ero vicino a loro e potei
vedere i loro volti. Caratai stava pregando, credo; aveva
qualcosa di simile a un rosario che gli pendeva dalla
mano. L'altro ruggiva come un toro che sente l'odore del
sangue del macello. Ci vide fermi sul ciglio e ci fece dei
cenni frenetici. Poi si strappò qualcosa dal polso, e gettò
la custodia fuori dal finestrino, verso di noi.
Naturalmente, il significato del suo gesto era chiaro. Ecco
le prove, ed essi ci avrebbero garantito il silenzio, se noi
avessimo salvato loro la vita. Sarebbe stato molto
simpatico a poterlo fare ma gli affari sono affari. Inoltre,
il treno era ormai fuori dal nostro dominio, quanto lo era
dal loro.
"Gomez cessò di urlare quando il treno imboccò la
curva ed essi videro la nera bocca della miniera
spalancarsi davanti a loro. Avevamo tolto le assi che la
ricoprivano e avevamo sgombrato l'entrata. Un tempo, i
binari si fermavano molto vicini al pozzo per poter
caricare più facilmente il carbone, e dovemmo soltanto
aggiungere due o tre tronchi di binario per farli giungere
proprio all'orlo del pozzo. In effetti, poiché i binari non
coincidevano del tutto, la linea superava l'orlo di circa un
metro. Vedemmo le due teste al finestrino: Caratai in
basso, Gomez sopra; ciò che avevano visto, li aveva
ridotti al silenzio. Eppure non riuscivano a tener dentro la
testa. Pareva fossero paralizzati.
"Mi ero chiesto come il treno, procedendo a così forte
velocità, avrebbe imboccato il pozzo nel quale lo avevo
guidato, e ci tenevo molto a vederlo. Uno dei miei
colleghi riteneva che il treno lo avrebbe addirittura
superato, ed effettivamente poco ci mancò. Per fortuna,
invece, non ce la fece a superare il vuoto, e i respingenti
della locomotiva colpirono l'altra sponda del pozzo con
uno schianto fragoroso. La ciminiera volò via. Tender,
vagoni e vagoncino si sfasciarono in un solo mucchio di
ferraglia, che, insieme ai resti della locomotiva,
ostruirono per un minuto e più l'imboccatura del pozzo.
Poi qualcosa cedette nel mezzo, e tutta la massa di ferro
verde, di carboni fumanti, rifiniture di ottone, ruote,
rivestimenti in legno, e cuscini franarono assieme e
precipitarono nella miniera. Udimmo il frastuono dei
rottami che urtavano le pareti del pozzo, poi, dopo
parecchio tempo, ci giunse un rombo immane: i resti del
treno cozzavano contro il fondo. Può darsi anche che
fosse scoppiata la caldaia, poiché al rombo fece seguito
uno schianto secco, e una densa nube di vapore e fumo
usci turbinando dalle nere profondità, ricadendo attorno
ai noi come pioggia. Poi il vapore si dileguò in nuvolette
leggere, che si allontanarono nel chiaro cielo estivo, e il
silenzio ricadde sulla miniera di Heartsease.
"Eseguiti i piani con tanto successo, per noi rimaneva
solo il problema di cancellare le nostre tracce. La piccola
squadra di operai all'altro capo della linea aveva già
divelto i binari e staccato la diramazione dalla linea
principale, rimettendo ogni cosa al punto di prima. Noi
eravamo ugualmente affaccendati alla miniera. La
ciminiera e altri frammenti furono gettati dentro, il pozzo
fu ricoperto come prima da assi, e i binari che vi
conducevano furono divelti e portati via. Poi, senza fretta,
ma senza perdere tempo, lasciammo il paese, la
maggioranza di noi diretti a Parigi, il mio collega inglese
a Manchester, e McPherson a Southampton, donde
emigrò in America. Possono testimoniare i giornali
inglesi di quell'epoca con quanta precisione e
meticolosità compimmo il nostro lavoro, e con quanta
abilità riuscimmo a far perdere le nostre tracce ai più abili
dei loro investigatori.
"Gomez aveva gettato dal finestrino la sua cartella con
i documenti; è inutile che vi dica che io me ne
impossessai immediatamente portandoli ai miei superiori.
Oggi tuttavia potrà interessare i miei superiori di sapere
che tolsi dalla cartella uno o due fogli, una specie di
ricordo del fatto. Non ho alcun desiderio di rendere noto
il contenuto di quei fogli; però a questo mondo, ciascuno
deve badare ai propri interessi e cos'altro posso fare, se i
miei amici non vorranno aiutarmi quando io ho bisogno
di loro? Messieurs, credetemi pure, Herbert de Lernac è
altrettanto temibile come nemico che come amico, ed egli
non è uomo da andare alla ghigliottina finché non vi ha
visti tutti quanti en route per la Nuova Caledonia. Per
amor vostro, se non per il mio, affrettatevi, Monsieur
de..., e General..., e Baron... (potete riempire voi stessi .i
puntini di sospensione leggendo queste mie righe). Vi
prometto che nella prossima edizione non vi saranno
vuoti da riempire."

"P.S. - Rileggendo queste mie righe, mi accorgo di


un'unica omissione. Si riferisce al disgraziato McPherson,
che fu tanto sciocco da scrivere a sua moglie e da fissarle
un appuntamento a New York. È evidente che, quando ci
sono in gioco degli interessi come i nostri, non potevamo
affidarli alla probabilità che un uomo della sua classe
sociale tradisse i suoi segreti con una donna. Avendo
mancato una volta alla sua parola con la lettera alla
moglie, non potevamo più fidarci di lui. Ci premunimmo,
dunque, perché l'amico non fosse in grado di rivedere la
donna. Talvolta ho pensato che sarebbe stato cortese
scriverle, assicurandole che non esiste impedimento
alcuno per un suo nuovo matrimonio."
L'uomo dagli orologi

Ci sono certamente parecchie persone che ricordano


ancora le singolari circostanze che, sotto il titolo "Il
mistero di Rugby", riempirono molte colonne dei
quotidiani nella primavera del 1892. Capitando infatti in
un periodo eccezionalmente scarso di notizie, il fatto
attirò forse più attenzione di quanto non meritasse;
tuttavia esso offriva al pubblico quel miscuglio di assurdo
e di tragico che è il dato più stimolante per
l'immaginazione popolare. L'interesse però decadde
quando, dopo settimane di infruttuose ricerche, fu chiaro
che non sarebbe sopraggiunta alcuna definitiva
spiegazione ai fatti. La tragedia è parsa finora rimanere in
un oscuro catalogo di delitti inspiegabili e senza imputati.
Un recente comunicato, la cui autenticità pare essere
indiscutibile, ha gettato tuttavia una nuova e più chiara
luce sulla faccenda. Prima di renderlo noto al pubblico
sarà utile, penso, rinfrescarne la memoria, relativamente
ai singolari fatti sui quali si basa questo comunicato. I
fatti sono questi:
Alle ore cinque pomeridiane del 18 marzo dell'anno
già menzionato, un treno diretto a Manchester lasciava
Euston Station. Pioveva e tirava un forte vento e, col
passare delle ore, il tempo si faceva sempre più
burrascoso, tanto che non era certamente la giornata in
cui una persona avrebbe scelto di viaggiare, a meno di
non esservi costretta. Quel treno, tuttavia, è il preferito
dagli uomini di affari di Manchester che rientrano da
Londra, poiché compie il tragitto in quattro ore e venti
minuti, effettuando tre sole fermate. Nonostante quindi la
serata inclemente il treno era quasi al completo. Il
capotreno era un fedele dipendente della compagnia, un
uomo che aveva lavorato per ventidue anni, senza che
nessuno avesse mai trovato da ridire sul suo lavoro. Si
chiamava John Palmer.
Le lancette dell'orologio della stazione segnavano le
diciassette e il capotreno stava per dare il consueto
segnale al macchinista, quando si avvide che due
passeggeri ritardatari si stavano affrettando lungo la
banchina. Uno di essi era un uomo eccezionalmente alto,
e indossava un lungo cappotto nero con collo e polsi di
astrakan. Ho già detto che la serata era inclemente, e il
viaggiatore aveva alzato il bavero per proteggersi il collo
dal gelido vento di marzo. Doveva avere, per quanto il
capotreno potesse giudicare da una tanto affrettata
osservazione, fra i cinquanta e i sessant'anni. Tuttavia
aveva conservato il passo risoluto ed energico della
giovinezza. Aveva con sé una valigetta di pelle color
marrone. Era accompagnato da una signora, alta e di
portamento eretto, la quale camminava con un passo
vigoroso che distanziava il suo compagno. Indossava un
lungo spolverino marrone chiaro, un cappello nero
aderente e un velo scuro che le nascondeva quasi tutto il
viso. I due avrebbero potuto benissimo passare per padre
e figlia. Camminavano rapidamente lungo la teoria dei
vagoni, gli occhi rivolti ai finestrini, fintanto che il
capotreno, John Palmer, non li raggiunse.
«Si affretti, signore, il treno sta partendo» diss'egli.
«Prima classe» rispose l'uomo.
Il capotreno girò la maniglia dello sportello più
vicino. Nello scompartimento, sedeva un uomo con in
bocca un sigaro. II suo aspetto rimase impresso nella
memoria del capotreno, poiché, in seguito, fu in grado di
descriverlo. Era un uomo sui trentaquattro, trentacinque
anni, vestito di grigio, dall'espressione sveglia, il volto
rossiccio e provato dalle intemperie, il naso aguzzo e con
una piccola barba nera tagliata molto corta. Alzò gli
occhi quando lo sportello fu aperto. L'uomo alto indugiò,
col piede già sul predellino.
«Questo è uno scompartimento per fumatori. Alla
signora dà fastidio il fumo» disse, rivolgendosi al
capotreno.
«Va bene! Ecco qua, signore!» replicò John Palmer.
Sbatté lo sportello dello scompartimento per fumatori,
apri quello accanto, che era vuoto, e aiutò i due a salirvi.
Nello stesso istante diede il segnale di partenza e le ruote
del treno cominciarono a girare. L'uomo col sigaro si era
affacciato al finestrino del suo scompartimento, e gridò
qualcosa al capotreno mentre gli passava davanti, ma le
parole si persero nel frastuono della partenza. Il
capotreno sali nel suo vagoncino, quando giunse alla sua
altezza, e non pensò più all'incidente.
Dodici minuti dopo la partenza, il treno raggiunse
Willesden Junction, dove si fermò per una brevissima
sosta. Un successivo controllo dei biglietti dimostrò che
nessuno scese o sali sul treno durante la sosta, e che
nessun passeggero fu visto scendere sulla banchina. Alle
diciassette e quattordici il treno riparti, e raggiunse
Rugby alle diciotto e cinquanta, con un ritardo di cinque
minuti.
A Rugby, i funzionari della stazione notarono che lo
sportello di uno degli scompartimenti di prima classe era
aperto. Un esame di quello scompartimento, e di quello
attiguo, rivelò una situazione quanto mai preoccupante.
Lo scompartimento per fumatori nel quale era stato
visto l'uomo dal viso rubicondo e la barba nera, adesso
era vuoto. Tranne un sigaro fumato per metà, non vi era
alcuna traccia del suo occupante. Lo sportello di questo
scompartimento era chiuso. Nello scompartimento
attiguo, quello che aveva richiamato l'attenzione, non vi
era traccia alcuna né del signore con il bavero di astrakan,
né della giovane donna che lo accompagnava. Tutti e tre i
passeggeri erano scomparsi. Viceversa, trovarono sul
pavimento di questo scompartimento, quello occupato dal
viaggiatore alto e dalla signora, un giovane,
elegantemente vestito e di aspetto distinto. Giaceva con le
ginocchia piegate e la testa appoggiata contro lo sportello
del lato opposto, e i gomiti, uno di qua, uno di là, sui due
sedili. Una pallottola gli aveva trapassato il cuore, e la
sua morte doveva essere stata istantanea. Nessuno aveva
visto quell'uomo salire sul treno, e nessun biglietto
ferroviario fu rinvenuto nelle sue tasche, né vi erano
segni particolari nei suoi abiti, e tantomeno documenti od
oggetti personali che potessero servire a identificarlo. Chi
egli fosse, donde venisse, e in che modo avesse trovato la
morte, erano tre interrogativi tanto misteriosi quanto era
misterioso ciò che era accaduto alle tre persone che
un'ora e mezzo prima, a Willesden, erano in quei due
scompartimenti.
Ho detto che non vi erano oggetti personali che
servissero a identificarlo, ma viceversa vi era in questo
giovanotto sconosciuto un particolare assai strano che a
quell'epoca destò non pochi commenti. Nelle sue tasche
furono rinvenuti nientemeno che sei costosi orologi d'oro,
tre nelle varie tasche del panciotto, due nel taschino della
giacca, e uno piccolo, legato a un cinturino di cuoio e
fissato sul polso sinistro. La spiegazione più ovvia, e cioè
che il giovanotto fosse un borsaiolo e che gli orologi
costituissero il suo bottino, era screditata dal fatto che
tutti e sei erano americani, e di un tipo assai raro in
Inghilterra. Tre di essi recavano il marchio di fabbrica
della Rochester Watchmaking Company; uno proveniva
dalla Mason Company di Elmira; uno era senza marchio;
e quello piccolo, incrostato di gioielli, proveniva da
Tiffany, di New York. Inoltre, nelle sue tasche furono
rinvenuti un temperino di avorio munito di cavaturacciolo
della ditta Rodgers, di Sheffield; un piccolissimo
specchio rotondo, di un paio di centimetri di diametro;
una contromarca del Lyceum Theatre; una scatoletta
d'argento piena di fiammiferi; un porta sigari di cuoio
marrone con due sigari, e due sterline e quattordici
scellini in contanti. Era quindi chiaro, che qualsiasi
fossero i motivi che avevano causato la sua morte, la
rapina non vi era compresa. Come ho già detto, non vi
erano etichette sui suoi vestiti, che sembravano nuovi, né
il nome del sarto sul cappotto. Di aspetto era giovane,
piuttosto piccolo, aveva i lineamenti delicati e la
carnagione liscia. Uno dei suoi incisivi aveva una vistosa
otturazione d'oro.
Dopo la scoperta del cadavere, fu effettuato un
immediato controllo dei biglietti di tutti i passeggeri, e
furono contati i passeggeri stessi. Risultarono esservi
soltanto tre biglietti in sovrappiù, corrispondenti ai tre
viaggiatori mancanti. Il treno poté quindi riprendere il
viaggio, accompagnato però da un nuovo capotreno, e
John Palmer fu trattenuto a Rugby come testimone. Il
vagone che comprendeva i due scompartimenti in
questione fu staccato e avviato su un binario morto. Poi,
all'arrivo dell'ispettore Vane, di Scotland Yard, e del
signor Henderson, un investigatore alle dipendenze della
compagnia ferroviaria, fu svolta un'esauriente indagine.
Che un delitto fosse stato commesso era indiscutibile.
La pallottola, che sembrava provenire da un piccola
pistola o da un revolver, era stata sparata da una certa
distanza, poiché gli abiti non erano bruciacchiati. Nello
scompartimento non venne trovata alcuna arma (il che
eliminò l'ipotesi di suicidio), né vi fu più traccia della
valigetta di pelle marrone che il capotreno aveva visto in
mano al viaggiatore alto. Un ombrello da signora fu
trovato sulla reticella, ma non vi era nessun'altra traccia,
nei due scompartimenti dei viaggiatori. A parte il delitto,
l'interrogativo di come o perché tre passeggeri (tra cui
una donna) fossero scesi dal treno e un altro salito
durante l'ininterrotta corsa fra Willesden e Rugby, era
tale da destare la massima curiosità nel pubblico, e diede
adito nella stampa londinese a una serie di congetture.
John Palmer, il capotreno, fu in grado di fornire
alcune informazioni all'istruttoria preliminare, che gettò
un po' di luce sulla vicenda. Vi era un punto fra Tringe
Cheddington, stando alla sua dichiarazione, dove, per
restauri alla linea, il treno aveva rallentato per qualche
minuto la sua andatura a un velocità non superiore ai
dodici-quindici chilometri orari. In quel punto, un uomo
o anche una donna eccezionalmente svelta, avrebbe
potuto scendere dal treno senza gravi conseguenze. Vero
è che vi era una squadra di operai addetti alla posa delle
rotaie, e che essi non avevano visto niente, ma era loro
consuetudine, quando passava un treno, di aspettare fra
un binario e l'altro, e lo sportello aperto dello
scompartimento si trovava sull'altro lato, di modo che era
plausibile che qualcuno fosse sceso senza essere visto,
tanto più che a quell'ora doveva essere ormai quasi buio.
Un ripido terrapieno avrebbe immediatamente nascosto
agli occhi degli operai chiunque fosse balzato dal treno.
Il capotreno dichiarò inoltre che vi era parecchio
movimento sulla banchina di Willesden Junction, e
benché risultasse che nessuno fosse salito sul treno o ne
fosse disceso li, era comunque possibile che qualcuno dei
passeggeri fosse passato da uno scompartimento all'altro
senza essere visto. Non era affatto raro che un viaggiatore
finisse di fumare un sigaro in uno scompartimento per
fumatori, e poi si trasferisse in uno con l'aria più
respirabile. Supponendo che l'uomo con la barba nera
avesse fatto ciò a Willesden (e il sigaro fumato a metà sul
pavimento pareva confermare l'ipotesi), naturalmente si
era spostato nello scompartimento più vicino, venendo in
tal modo a trovarsi in compagnia degli altri due
protagonisti del dramma. Il primo atto della vicenda
poteva così essere ricostruito senza eccessivo sforzo di
immaginazione. Ma quale fosse stato il secondo atto, o
come si fosse svolto quello finale, né il capotreno né gli
investigatori, per quanto abili, furono in grado di
suggerirlo.
Un attento sopralluogo alla linea fra Willesden e
Rugby favori una scoperta che poteva o meno avere un
rapporto con la tragedia. Vicino a Tring, proprio dove il
treno aveva rallentato, venne trovata in fondo al
terrapieno una piccola Bibbia tascabile, assai logora e
consunta. Era stampata dalla Bible Society di Londra, e
recava una dedica sulla prima pagina: "Da John a Alice.
13 gennaio, 1856". Sotto vi era scritto: "James, 4 luglio,
1859". E sotto ancora: "Edward, 1 novembre, 1869".
Tutte le annotazioni risultavano fatte dalla stessa mano.
Questo fu il solo indizio, se indizio lo si può chiamare,
che la polizia scopri e il verdetto del magistrato
inquirente di "Omicidio per mano di persona o persone
ignote" fu l'insoddisfacente finale di un caso singolare.
Inserzioni, ricompense e ricerche si dimostrarono
ugualmente infruttuose, e non fu trovato niente di
sufficientemente concreto per costituire da base a una
proficua indagine.
Sarebbe tuttavia un errore supporre che non fossero
formulate ipotesi per spiegare la vicenda. Al contrario, la
stampa, sia in Inghilterra che in America, pullulava di
suggerimenti e supposizioni, gran parte dei quali
palesemente assurdi. Il fatto che gli orologi fossero di
fabbricazione americana, e qualche particolare riguardo
all'otturazione d'oro dell'incisivo parevano indicare che il
defunto fosse cittadino degli Stati Uniti, nonostante che i
suoi abiti e stivali fossero indubbiamente inglesi. Alcuni
ritennero che egli si era nascosto sotto il sedile, e che,
essendo stato scoperto, fosse stato ucciso per qualche
ragione dai suoi compagni di viaggio, forse per aver udito
i loro colpevoli segreti. Collegata con alcuni luoghi
comuni che circolavano sulla ferocia e sull'astuzia degli
anarchici e di altre società segrete, questa ipotesi trovò i
suoi seguaci.
Il fatto che egli fosse privo di biglietto, pareva
avallare l'ipotesi che avesse voluto nascondersi, ed era
risaputo che le donne ricoprivano un ruolo importante
nella propaganda nichilista. D'altra parte, era chiaro, dalla
dichiarazione del capotreno, che l'uomo doveva essersi
nascosto li prima che gli altri arrivassero, e com'era
improbabile la coincidenza che i cospiratori capitassero
proprio nello scompartimento nel quale una spia era già
nascosta! Inoltre, questa spiegazione non teneva conto
dell'uomo nello scompartimento per fumatori, e non
forniva alcuna ragione per la sua simultanea scomparsa.
La polizia non ebbe difficoltà a dimostrare che una simile
teoria non teneva sufficientemente conto dei fatti, ma non
fu in grado, per mancanza di prove, di avanzare una
diversa alternativa.
Apparve nel Daily Gazette una lettera, firmata da un
noto detective, che provocò a quell'epoca una nutrita
polemica. Egli aveva formulato un'ipotesi che, se non
altro, era ingegnosa. Potrà essere utile trascriverla qui.
"Qualsiasi possa essere la verità" diceva la lettera
"essa deve dipendere da una bizzarra e rara combinazione
di eventi, per cui non dobbiamo esitare a dare questi
eventi per scontati se vogliamo spiegarli. In mancanza di
dati, dobbiamo abbandonare il metodo analitico o
scientifico dell'indagine, e dobbiamo abbordarla in
maniera sintetica. In altre parole, invece di partire da
eventi conosciuti e dedurre da essi ciò che è accaduto,
dobbiamo fabbricare una spiegazione ipotetica, che dovrà
però corrispondere agli elementi che conosciamo.
Metteremo poi alla prova la nostra spiegazione con ogni
nuovo fatto che possa emergere. Se tutti i fatti
combaceranno, ciò dimostrerà che siamo sulla giusta via;
e con ogni nuovo fatto, questa probabilità aumenta in
progressione geometrica finché la prova non diventi
decisiva e convincente.
"Ora, vi è un fatto oltremodo suggestivo e interessante
che non ha avuto l'attenzione che meritava. Vi è un treno
locale che fa servizio fra Harrow e King's
Langley, che, stando all'orario, deve essere stato
raggiunto dal treno rapido all'incirca nel momento in cui
quest'ultimo stava rallentando la sua velocità a dodici
chilometri orari per via dei lavori sulla linea. Quindi i due
treni stavano viaggiando nella stessa direzione, a uguale
velocità e su linee parallele. Tutti quanti sanno, per averlo
sperimentato di persona, come, in casi analoghi,
l'occupante di ogni scompartimento possa vedere
benissimo i passeggeri del vagone dirimpetto a lui. Le
luci del rapido erano state accese a Willesden, di modo
che ogni scompartimento era illuminato, e del tutto
visibile a un osservatore esterno.
"Dunque, la sequenza degli eventi così come io li ho
ricostruiti sarebbe questa: il giovanotto con l'abnorme
quantità di orologi era solo in uno scompartimento del
treno locale. Il suo biglietto, assieme ai suoi giornali e
guanti e altri oggetti, era, supporremo, sul sedile accanto
a lui. Si trattava probabilmente di un americano, e
probabilmente di un uomo di scarsa intelligenza.
Indossare un numero eccessivo di gioielli è un precoce
sintomo di certe forme di pazzia.
"Mentre se ne stava seduto a guardare gli
scompartimenti del rapido che andavano (per via delle
condizioni della linea) alla sua stessa velocità, vi vide
improvvisamente delle persone che egli conosceva.
Immaginiamo, ai fini della nostra teoria, che queste
persone fossero una donna che egli amava e un uomo che
egli odiava, e che a sua volta odiava lui. Il giovane era
eccitabile e impulsivo. Aperto lo sportello del suo
scompartimento, passò dal predellino del treno locale a
quello del rapido, apri l'altro sportello e si trovò in
presenza degli altri due. L'impresa (sempre che i due treni
stessero viaggiando alla stessa velocità) non è tanto
difficile come si potrebbe pensare.
"Ecco dunque che il nostro giovanotto, senza biglietto,
si trova nello scompartimento nel quale stanno
viaggiando il signore anziano e la giovane donna, e non è
difficile immaginare che ne consegui una violenta
scenata. È possibile che anche la coppia fosse americana,
anzi, assai probabile, dal momento che L'uomo era
armato, cosa assai insolita in Inghilterra. Se la nostra
ipotesi di pazzia incipiente è esatta, è facile pensare che il
giovanotto abbia aggredito il suo rivale. L'esito della lotta
fu che l'uomo anziano sparò all'intruso e poi fuggi dallo
scompartimento, portando con sé la giovane donna.
Riteniamo che tutto questo si sia svolto molto
rapidamente, e che il treno andasse ancora a una velocità
tale da consentir loro di scendere. Una donna può essere
in grado di scendere da un treno che viaggia a dodici
chilometri l'ora. In effetti, noi sappiamo che questa donna
lo ha fatto.
"E ora dobbiamo situare nel quadro l'uomo con il
sigaro. Presumendo di avere ricostruito correttamente la
tragedia fino a questo punto, non vi è niente in quest'altro
uomo che ci induca a cambiare le nostre conclusioni.
Stando alla mia teoria, quest'uomo ha visto il giovanotto
passare da un treno all'altro, lo ha visto aprire lo
sportello, ha udito il colpo di pistola, ha visto i due
fuggiaschi balzare a terra, si è reso conto che un omicidio
era stato commesso e, balzato a terra a sua volta, ha
tentato di inseguirli. Da allora non si è più saputo nulla di
lui: forse è andato incontro alla morte durante
l'inseguimento o, cosa assai più probabile, gli è stato
d'etto che il fatto non lo riguardava. Si tratta di una
alternativa che ora come ora non siamo in grado di
chiarire. Ammetto che vi sono alcuni punti oscuri. A
prima vista, può sembrare improbabile che in un
momento simile un omicida abbia voluto intralciare la
sua fuga con una valigia di pelle marrone. La mia risposta
è che egli sapeva bene che se la valigia fosse stata
ritrovata, avrebbero potuto identificarlo facilmente. Era
assolutamente indispensabile che lui se la portasse con sé.
La mia teoria regge o cade su un particolare, e faccio
appello alla compagnia ferroviaria di svolgere una
immediata inchiesta per stabilire se venne trovato un
biglietto privo di proprietario sul treno locale che fa
servizio fra Harrow e King's Langley il giorno 18 marzo.
Se tale biglietto è stato trovato, la mia ipotesi è
confermata. In caso contrario, la mia ipotesi può
ugualmente essere esatta, poiché è concepibile che egli
viaggiasse senza biglietto, o che il suo biglietto fosse
andato smarrito."
La risposta della polizia e della compagnia ferroviaria
a questa elaborata e plausibile ipotesi fu, in primo luogo,
che nessun biglietto del genere era mai stato ritrovato; in
secondo luogo, che il treno locale non percorre mai
quella linea contemporaneamente al rapido; e, in terzo
luogo, che il treno locale era fermo Sila stazione di
King's Langley, quando il rapido, viaggiando a ottanta
chilometri orari, lo aveva sorpassato. Fu così smantellata
la sola spiegazione soddisfacente, e cinque anni sono
trascorsi senza che se ne presentasse un'altra. Ora,
finalmente, giunge una precisazione che soddisfa ogni
particolare, e che dobbiamo considerare emessa in
perfetta buona fede, È stata presentata sotto forma di una
lettera spedita da New York, indirizzata allo stesso
detective la cui ipotesi ho citato. Viene riprodotta qui per
esteso, eccezion fatta per i primi due paragrafi, che sono
di carattere strettamente personale:
"Lei mi scuserà, se non faccio molti nomi. In questo,
sono meno giustificato adesso di quanto non lo fossi
cinque anni fa, quando mia madre era ancora viva. Ma
nonostante ciò, preferisco nascondere le mie tracce
quanto più mi è possibile. Ma le devo una spiegazione,
poiché anche se la sua versione dell'accaduto era
completamente sbagliata, essa era comunque molto
ingegnosa. Dovrò rifarmi a parecchi anni fa, perché lei
possa rendersi conto della vicenda.
"I miei erano originari del Bucks, Inghilterra, ed
emigrarono negli Stati Uniti verso il 1850. Si stabilirono
a Rochester, nello Stato di New York, dove mio padre
apri un negozio di mercerie. Aveva due figli: James, io,
appunto, ed Edward, mio fratello. Io avevo dieci anni più
di mio fratello, e dopo la morte di mio padre gli feci io da
padre: da bravo fratello maggiore. Era un ragazzo vivace
e intelligente, e una delle più belle creature che siano mai
esistite. Ma fin da piccolo c'era in lui qualcosa di corrotto
e, come la muffa nel formaggio, si allargava sempre più.
Per quanto si tentasse, non si riusciva a bloccarlo. Nostra
madre se ne rendeva conto quanto me, ma ugualmente
continuò a viziarlo, perché Edward ci sapeva fare così
bene, che era impossibile rifiutargli alcunché. Usai ogni
mezzo per tenergli testa, e lui appunto per questo mi
odiava.
"Infine ne combinò di ogni colore e, per quanto
tentassimo, nessuno riuscì più a bloccarlo. Si rifugiò a
New York e le cose andarono rapidamente di male in
peggio. All'inizio, era soltanto dissoluto, poi divenne un
piccolo delinquente; poi, dopo un anno o due, divenne
uno dei più famigerati giovani furfanti della città. Aveva
stretto amicizia con Sparrow MacCoy, un individuo
degno di lui, truffatore notissimo. Si misero a fare i bari,
frequentando i migliori alberghi di New York. Mio
fratello era un ottimo attore (avrebbe potuto diventare
qualcuno, se solo lo avesse voluto) e, a seconda delle
necessità di Sparrow MacCoy, si fingeva un giovane
titolato inglese, un semplice ragazzo del West, o uno
studente universitario. Poi un giorno si travesti da
ragazza, e recitò così bene la parte, funzionando tanto
bene da esca, che da allora quello fu il loro giochetto
preferito. Erano riusciti a corrompere Tammany Hall e la
polizia, e pareva che niente li avrebbe mai fermati, perché
allora non esisteva ancora il comitato Lexow, e se uno era
ben introdotto, poteva fare quanto voleva.
"Niente li avrebbe bloccati se si fossero accontentati
delle partite a carte e di rimanere a New York; invece
pensarono di venire a Rochester e di apporre una firma
falsa su un assegno. Fu mio fratello a farlo, ma tutti
sapevano che era stato ispirato da Sparrow MacCoy. Fui
costretto a coprire quell'assegno, e mi costò una bella
cifra. Poi andai da mio fratello, glielo misi sotto il naso, e
giurai di denunciarlo se non avesse lasciato il paese. In un
primo momento, mi rise in faccia. Non potevo
denunciarlo, disse, se non volevo spezzare il cuore a
nostra madre, e lui sapeva che io non potevo agire cosi.
Gli feci capire, tuttavia, che il cuore di nostra madre era
comunque spezzato, e che io preferivo vederlo in una
prigione di Rochester che non in un albergo di New
York. Cedette infine, e mi promise solennemente che non
avrebbe mai più visto Sparrow MacCoy, che se ne
sarebbe andato in Europa, e che si sarebbe dedicato a
qualsiasi lavoro io gli avessi procurato. Senza perdere
tempo lo accompagnai da un vecchio amico di famiglia,
Joe Wilson, che esporta orologi e sveglie americane, e lo
indussi ad affidargli un'agenzia a Londra, con un piccolo
salario e una provvigione del quindici per cento su tutte
le vendite. Il suo aspetto e il suo comportamento gli
valsero l'immediata fiducia del mio vecchio amico, ed
entro una settimana parti per Londra con una valigia di
campioni.
"Ebbi l'impressione che la faccenda dell'assegno fosse
stata una salutare lezione per mio fratello, e che ci fosse
ancora qualche speranza. Mia madre gli aveva parlato a
lungo, e ciò che gli aveva detto lo aveva commosso,
perché lei era sempre stata la migliore delle madri, e lui
naturalmente era stato il grande dolore della sua vita. Ma
io sapevo che questo Sparrow MacCoy aveva una
grandissima influenza su di lui, e che soltanto troncando i
legami fra loro potevo sperare che mio fratello si
salvasse. Avevo un amico nella polizia di New York e,
tramite costui, tenni d'occhio Sparrow MacCoy. Quando,
neanche due settimane dopo la partenza di Edward, venni
a sapere che MacCoy aveva prenotato un passaggio
sull'Etruria, fui certo, come se me lo avesse detto, che
andava in Inghilterra per indurre Edward a riprendere la
vita di prima. Decisi immediatamente che ci sarei andato
anch'io, e che avrei fatto valere la mia influenza su quella
di MacCoy. Sapevo che era una battaglia persa in
partenza, ma io ritenevo, e mia madre pure riteneva, che
fosse mio dovere agire in questo modo. Passammo
l'ultima sera pregando insieme per il mio successo, e lei
mi diede la Bibbia che mio padre le aveva regalato il
giorno del loro matrimonio nella loro vecchia patria, di
modo che io potessi tenerla sempre vicino al cuore.
"Sulla nave, ero compagno di viaggio di Sparrow
MacCoy, e almeno ebbi la magra consolazione di
rovinargli i suoi programmi per la traversata. La prima
sera del viaggio mi recai nella sala da giuoco e lo trovai
seduto a un tavolo con una mezza dozzina di giovanotti
che portavano in Europa i loro portafogli imbottiti e le
loro zucche vuote. MacCoy si stava preparando a
raccogliere un assai lauto bottino. Non persi tempo.
" 'Signori' dissi, 'vi rendete conto chi è l'uomo con cui
state giuocando?'
" 'E a lei cosa gliene importa? Si occupi degli affari
suoi!' replicò MacCoy, con una bestemmia.
" 'Chi è, si può sapere?' chiese uno di quei giovani
imbecilli.
" 'Sparrow MacCoy, il più famigerato baro degli Stati
Uniti.'
"MacCoy balzò in piedi con una bottiglia in mano, ma
si ricordò di essere sotto la giurisdizione della vecchia
Europa, dove imperano la legge e l'ordine, e dove
Tammany Hall non ha alcun potere. Il carcere e la forca
puniscono la violenza e l'omicidio, e su un transatlantico
non ci si mette in salvo scappando dalla porta di servizio.
" 'Provi quello che ha detto, cane maledetto!' gridò
MacCoy.
" 'Lo farò' replicai. 'Se lei tira su la manica destra della
camicia fino alla spalla, proverò le mie parole o me le
rimangerò.'
"MacCoy impallidì e non aggiunse parola. Vede, io
conoscevo alcuni dei suoi trucchi, e sapevo che uno di
essi, di cui si servono lui e i suoi colleghi, consiste in un
elastico che scende lungo il braccio con una molletta
proprio al di sopra del polso. È per mezzo di questa
molletta che essi si liberano delle carte indesiderate che si
trovano in mano, mentre vi sostituiscono altre carte da un
altro nascondiglio. Contavo sulla presenza di quella
molletta, e infatti c'era. Lui mi maledisse, usci dalla sala
con la coda fra le gambe, e non si fece più vedere per
tutta la traversata. Per una volta, almeno, avevo prevalso
sul signor Sparrow MacCoy.
"Non tardò a prendersi la sua vendetta naturalmente,
poiché, quando si trattava di influenzare mio fratello, lui
mi batteva comunque. Edward si era comportato bene le
prime settimane a Londra, e aveva fatto qualche buon
affare con i suoi orologi americani, finché quel furfante
non lo andò a cercare. Io feci del mio meglio, ma il mio
meglio non era sufficiente. Poco dopo sentii dire che in
uno degli alberghi di Northumberland Avenue vi era stato
uno scandalo: un cliente era stato spogliato di una grossa
somma da due bari americani, e la faccenda era nelle
mani di Scotland Yard. Appresi l'accaduto dal giornale
della sera, ed ebbi immediatamente la certezza che mio
fratello e MacCoy avevano ripreso le loro vecchie
abitudini. Mi affrettai subito all'alloggio di Edward. Mi
dissero che lui e un signore alto (capii che si trattava di
MacCoy) se ne erano andati insieme, e che lui aveva
disdetto la camera, portandosi via la sua roba.
L'affittacamere li aveva sentiti dare varie istruzioni al
cocchiere, terminando con Euston Station, e per caso
aveva sentito dire al signore alto qualcosa a proposito di
Manchester. La donna riteneva che quella fosse la loro
destinazione.
"Un'occhiata all'orario mi convinse che il treno più
probabile era quello delle diciassette, benché forse
avrebbero potuto prendere anche quello delle sedici e
trentacinque. Ormai io non potevo acciuffare che quello
delle diciassette e dei due non vidi traccia né alla
stazione, né nel treno. Dovevano aver preso quello
precedente; mi risolsi lo stesso a seguirli a Manchester e
a cercarli negli alberghi di quella città. Un ultimo appello
a mio fratello, ricordandogli nostra madre e tutto ciò che
aveva fatto per lui, poteva ancora essere la sua salvezza.
Avevo i nervi tesi, e per calmarli accesi un sigaro. In
quell'istante, proprio mentre il treno stava per partire, lo
sportello del mio scompartimento si apri di colpo, e vidi
sulla banchina MacCoy e mio fratello.
"Erano entrambi travestiti, e con ragione, poiché
sapevano che la polizia di Londra era sulle loro tracce.
MacCoy aveva un grande collo di astrakan che gli
lasciava liberi solo gli occhi e il naso. Mio fratello era
vestito da donna, ma naturalmente il suo abbigliamento
non mi trasse in inganno, e non mi avrebbe ingannato
anche se non avessi saputo che spesse volte in passato si
era travestito in tal modo. Come stavo per alzarmi,
MacCoy mi riconobbe. Disse qualcosa, il capotreno
sbatté lo sportello e li introdusse nello scompartimento
attiguo. Tentai di far fermare il convoglio per poterli
seguire, ma già le ruote si muovevano ed era troppo tardi.
"Quando ci fermammo a Willesden, cambiai subito
scompartimento. Pare che nessuno mi abbia notato, e non
me ne meraviglio, poiché la stazione era assai affollata.
Naturalmente MacCoy mi stava aspettando, e aveva
trascorso il tempo fra Euston e Willesden dicendo tutto
ciò che poteva per indurire il cuore di mio fratello e
mettermelo contro. Questo io lo intuii, poiché non lo
avevo mai visto così irremovibile. Tentai ogni mezzo; gli
descrissi il suo avvenire in un carcere inglese; gli parlai
del dolore di sua madre quando le avrei recato la notizia;
dissi tutto ciò che potevo per commuoverlo, ma
inutilmente. Se ne stava li sogghignando, mentre ogni
tanto MacCoy mi apostrofava con espressioni beffarde, o
rivolgeva a mio fratello parole di incoraggiamento per
indurlo a tener duro.
«'Perché lei non va a dirigere una scuola
parrocchiale?' mi diceva, e poi subito, rivolto a mio
fratello: 'Quello ti crede senza spina dorsale. Ti tratta
come un bamboccio. Crede di poterti costringere a fare
ciò che vuole. Sta scoprendo soltanto adesso che sei un
uomo esattamente come lui.'
"Furono quelle sue parole a farmi perdere la pazienza.
Nel frattempo avevamo lasciato Willesden, perché tutto
questo andò avanti per un bel po'. Persi le staffe, e per la
prima volta in vita mia mi comportai duramente con mio
fratello. Forse sarebbe stato meglio se lo avessi fatto
prima e più spesso.
" 'Un uomo!' esclamai.' 'Be', mi fa piacere che almeno
il tuo amico lo pensi, perché nessuno lo sospetterebbe,
vedendoti conciato come una scolaretta. Non credo che in
tutto il paese ci sia un essere più spregevole di te, seduto
li con quel vestituccio da femmina.' Edward, che era un
uomo vanitoso, arrossi alle mie parole, e si dimostrò
sconcertato della mia derisione.
" 'È soltanto uno spolverino' disse, togliendoselo.
'Bisogna pur sfuggire ai poliziotti, e non avevo altro
modo.' Si levò il cappello con il velo e mise sia quello
che il soprabito nella valigetta marrone. 'Comunque,
posso farne a meno finché non viene il capotreno'
aggiunse.
" 'Non ti serviranno neanche allora' replicai, e
afferrando la valigia, la scagliai con tutta la forza dal
finestrino. 'Stammi a sentire, non ti vestirai più da
donnicciola finché vi sono io presente. Se fra te e la
prigione non c'è altro che quel travestimento, vuol dire
che andrai in prigione.'
"Era così che andava trattato. Sentii subito di avere un
vantaggio. La sua debole natura cedeva più facilmente
alla durezza che non alle suppliche. Arrossi dalla
vergogna, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Ma
anche MacCoy si avvide del mio vantaggio, ed era deciso
a non lasciarmelo sfruttare.
" 'Edward è il mio compagno, e lei non farà il
prepotente con lui' esclamò.
" 'È mio fratello, e lei non lo rovinerà' replicai. 'Credo
che un soggiorno in carcere sia il miglior modo per
tenervi lontani, e questo soggiorno sarà lei a farlo, quant'è
vero il Padreterno.'
" 'Ah, vuol agire da spia, eh?' gridò, tirando fuori la
sua pistola. Mi avventai contro la sua mano, ma vidi che
era troppo tardi e balzai in disparte. Nello stesso istante
MacCoy fece fuoco, e la pallottola destinata a me
trapassò il cuore del mio povero fratello.
"Cadde a terra senza un lamento, e MacCoy ed io,
ugualmente inorriditi, ci inginocchiamo accanto a lui,
tentando di richiamare in lui qualche segno di vita.
MacCoy teneva ancora in mano la pistola carica, ma la
sua ira contro di me e il mio risentimento contro di lui
erano entrambi stati annientati da questa improvvisa
tragedia. Fu lui il primo a rendersi conto della situazione.
Per qualche ragione, in quel tratto il treno stava
procedendo molto lentamente, ed egli intravvide
l'occasione per mettersi in salvo. In un lampo apri lo
sportello, ma io fui altrettanto svelto e, saltandogli
addosso, cademmo ambedue dal predellino rotolando
avvinghiati giù per la ripida scarpata. Arrivati in fondo,
andai a sbattere il capo contro una pietra e non ricordo
altro. Quando rinvenni, ero sdraiato fra dei bassi cespugli
non lontano dai binari; qualcuno mi passava sulla fronte
un fazzoletto bagnato. Era Sparrow MacCoy.
" 'Non me la sono sentita di lasciarla' mi disse. 'Non
volevo macchiarmi del sangue di tutti e due voi lo stesso
giorno. Lei amava suo fratello, non ne dubito affatto; ma
non lo amava un briciolo più di quanto non lo amassi io,
benché lei dirà che avevo uno strano modo di mostrare il
mio affetto. Comunque, il mondo mi sembra
maledettamente vuoto adesso che lui non c'è più, e non
me ne importa un fico se lei mi denuncia.'
"MacCoy si era slogato una caviglia nella caduta, e ce
ne stavamo li, lui col suo piede immobilizzato e io con la
mia testa malconcia; parlammo finché a poco a- poco la
mia amarezza si attenuò e si trasformò in qualcosa di
molto simile alla compassione. A che pro vendicare la
morte di mio fratello su di un uomo che era altrettanto
addolorato da quella morte quanto lo ero io? E poi,
riprendendo a ragionare lucidamente, cominciai a
rendermi conto che, oltre a tutto, non potevo fare niente
contro MacCoy che non si sarebbe ritorto contro mia
madre e me stesso. Come potevamo farlo condannare
senza che fosse resa di pubblico dominio tutta la carriera
di mio fratello, proprio la cosa che noi volevamo evitare?
In effetti, era altrettanto nel nostro interesse che nel suo
di tenere celata la storia, e dall'essere un vendicatore del
delitto, mi trovai trasformato in un cospiratore contro la
giustizia. Il luogo in cui ci trovavamo era una di quelle
riserve di caccia così comuni in Europa, e mentre la
attraversavamo brancolando,. mi trovai intento a
consultare l'uccisore di mio fratello sul miglior modo per
tener nascosto l'accaduto.
"Mi resi conto dalle parole di MacCoy che se non ci
fossero stati dei documenti, di cui peraltro non sapevamo
niente, nelle tasche di mio fratello, non vi era alcun
mezzo per la polizia di identificarlo, o di capire come
avesse fatto a trovarsi su quel treno. Il suo biglietto e lo
scontrino per alcune valigie che avevano lasciato alla
stazione erano in tasca di MacCoy. Come la maggior
parte degli americani, Edward aveva trovato più comodo
e più economico rinnovare il proprio guardaroba a
Londra piuttosto che portarselo dietro da New York, di
modo che i suoi abiti erano nuovi e privi di segni di
identificazione. La valigia contenente lo spolverino che
io avevo gettato dal finestrino, doveva essere finita fra
dei cespugli dove si trova tuttora, o forse se ne era
impossessato qualche vagabondo, o forse la polizia l'ha
ritrovata, e non ne ha fatto parola. Comunque, i giornali
non ne hanno parlato. In quanto agli orologi, essi
facevano parte del campionario che gli era stato affidato
per promuoverne la vendita. Può darsi che egli si stesse
recando a Manchester proprio per questo motivo, ma...
be', è inutile ormai rinvangare il passato.
"La polizia non ha nessuna colpa dello scacco subito.
Non vedo come avrebbe potuto succedere diversamente.
Vi era un solo indizio che avrebbe potuto aiutarli, ma era
molto limitato. Mi riferisco allo specchietto rotondo che
fu rinvenuto in tasca a mio fratello. È un oggetto piuttosto
insolito in tasca a un giovanotto, non le pare? Ma un
giocatore sarebbe stato in grado di spiegare ciò che uno
specchietto di questo genere può significare per un baro.
Se uno si siede un po' distante dal tavolo e si pone lo
specchio sul grembo, si possono vedere, mentre si
distribuiscono, tutte le carte che si danno al proprio
avversario. Non è difficile dire se sia il caso di 'vedere' o
di rilanciare, quando si conoscono le carte dell'avversario
come le proprie. È uno dei ferri del mestiere del baro, così
come lo è l'elastico con la molletta di Sparrow MacCoy.
Se la polizia avesse capito il significato dello specchietto,
e lo avesse collegato alle recenti truffe negli alberghi,
forse avrebbe trovato il bandolo della matassa.
"Non credo che ci sia altro da spiegare. Quella sera
arrivammo in un paesetto che si chiama Amersham.
Passavamo per turisti, e in seguito tornammo a Londra,
donde MacCoy riparti per il Cairo. Io proseguii per New
York. Mia madre mori sei mesi dopo, e sono lieto di dire
che non seppe mai ciò che era successo. Si illuse fino
all'ultimo che Edward si stesse guadagnando la vita a
Londra, onestamente, e io non ebbi mai il coraggio di
dirle la verità. Non ricevette sua posta, naturalmente;
tuttavia, non le scriveva mai neanche prima, e quindi
nulla cambiava. Le ultime parole di mia madre furono per
lui.
«Vi è un solo favore che vorrei chiederle, signore, in
cambio di questa lunga spiegazione, e le sarei molto grato
se lo potesse fare. Si ricorderà certo della Bibbia
ritrovata. La portavo sempre nel taschino interno della
mia giacca, e dev'essere caduta durante il mio ruzzolone.
Mi è molto cara, poiché era la Bibbia di famiglia, con il
nome mio e di mio fratello scritti da mio padre nella
prima pagina. La pregherei di farsela dare da chi di
dovere e di inviarmela. Non vedo come possa servire ad
altri. Se la indirizza a X, Libreria Bassano, Broadway,
New York, essa mi giungerà certamente."
Il dottore nero

Bishop's Crossing è un piccolo villaggio a quindici


chilometri a sud-ovest di Liverpool. In quel villaggio
venne a stabilirsi, verso l'anno 1870, un medico che si
chiamava Aloysius Lana. I locali non sapevano niente
delle sue origini né delle ragioni che lo avevano spinto a
stabilirsi in questo piccolo borgo del Lancashire. Due
sole cose si sapevano sul suo conto: la prima, che si era
laureato in medicina a pieni voti a Glasgow; l'altra, che
egli discendeva indubbiamente da una razza tropicale, ed
era infatti così scuro che poteva quasi avere del sangue
indiano nelle vene. Le sue caratteristiche predominanti
erano tuttavia europee; e la sua cortesia cerimoniosa e il
suo portamento solenne suggerivano un'origine spagnola.
La pelle olivastra, i capelli corvini e gli occhi scuri e
lucenti sotto le folte sopracciglia formavano uno strano
contrasto con i biondi o castani indigeni, e il nuovo
venuto fu ben presto conosciuto come "Il dottore nero di
Bishop's Crossing". In un primo tempo, era una
definizione spregiativa; ma, con il passare degli anni,
divenne un titolo di rispetto; egli era noto infatti in tutta
la regione, la sua fama aveva superato di gran lunga i
ristretti confini del villaggio.
Il nuovo venuto si era mostrato un abile chirurgo e un
bravissimo internista. Prima del suo arrivo, il medico di
quella condotta era Edward Rowe, figlio di Sir William
Rowe, il noto medico consulente di Liverpool, ma egli
non aveva ereditato il talento del padre, e il dottor Lana,
grazie al suo aspetto e al suo comportamento, prese ben
presto il suo posto. Il successo mondano del dottor Lana
fu altrettanto rapido di quello professionale. Uno
straordinario intervento chirurgico praticato all'onorevole
James Lowry, figlio minore di Lord Belton, servi a
introdurlo nella buona società della contea, dove divenne
assai ricercato grazie al fascino della sua conversazione e
all'eleganza dei modi. L'assenza di antenati e di familiari
può essere talvolta di giovamento piuttosto che d'ostacolo
nell'ascesa sociale, e la distinta personalità del bel dottore
era la sua migliore commendatizia.
I suoi clienti gli trovavano un solo difetto. Si era fatto
la fama di scapolo incorreggibile. Questo era tanto più
strano, in quanto la casa dove abitava era molto grande, e
inoltre era risaputo che il suo successo professionale gli
aveva permesso di mettere da parte delle cifre notevoli.
In un primo tempo, le comari locali si affannavano ad
accoppiare il suo nome a quello di una o dell'altra delle
giovani donne da marito, ma via via che gli anni
passavano e il dottor Lana non accennava a volersi
sposare, si sparse la voce che qualche ragione lo induceva
a rimanere scapolo. Alcuni arrivarono persino a dire che
era già sposato, e che era proprio per sfuggire a un
matrimonio sbagliato che egli era venuto a seppellirsi a
Bishop's Crossing. Poi, proprio quando le comari si erano
finalmente date per vinte, improvvisamente fu annunciato
il suo fidanzamento con la signorina Frances Morton, di
Leigh Hall.
La signorina Morton era una giovane assai conosciuta
nella zona -perché suo padre, James Haidane Morton, era
stato il signorotto di Bishop's Crossing. Entrambi i suoi
genitori erano però morti, ed essa abitava con il suo unico
fratello, Arthur Morton, il quale aveva ereditato la tenuta
di famiglia. La Morton era alta e imponente, nota per il
suo temperamento focoso e impulsivo e per la sua forza
di carattere. Conobbe il Lana a una festa all'aperto e fra i
due sorse un'amicizia che ben presto si trasformò in
amore. Essi si amavano di un amore tenerissimo. Vi era
fra loro una certa differenza di età, avendo egli trentasette
anni ed essa appena ventiquattro; ma a parte questo
particolare, non poteva esserci la minima obiezione al
loro matrimonio. Il fidanzamento ebbe luogo in febbraio,
e fu deciso che il matrimonio si sarebbe svolto in agosto.
Il 3 giugno, il dottor Lana ricevette una lettera
dall'estero. In un piccolo villaggio, il titolare dell'ufficio
postale, grazie alla sua posizione, detiene spesso anche il
primato dei pettegolezzi, e il signor Bankley, di Bishop's
Crossing, era a conoscenza di molti dei segreti dei suoi
compaesani. Di questa particolare lettera, egli notò
soltanto che la busta era di forma insolita, che era
indirizzata con una scrittura maschile, che il timbro era di
Buenos Ayres e il francobollo della Repubblica
argentina. A quanto gli risultava, questa era la prima
lettera che Lana aveva ricevuto finora dall'estero, ed era
questo il motivo per cui la studiò con particolare
attenzione prima di affidarla al postino. La lettera venne
consegnata con la distribuzione della sera.
Il mattino seguente, e cioè il 4 giugno, il dottor Lana
andò a far visita alla signorina Morton e ne segui un
lungo colloquio, al termine del quale egli fu visto
rientrare a casa in uno stato di grande agitazione. La
Morton rimase rinchiusa tutto il giorno, e la cameriera la
trovò più d'una volta in lacrime. Entro una settimana, era
un segreto noto a tutto il villaggio che il fidanzamento era
stato buttato all'aria, che il dottor Lana si era comportato
in maniera vergognosa nei confronti della giovane, e che
Arthur Morton, suo fratello, si riprometteva di dargli una
buona lezione. Quale fosse l'esatta natura del vergognoso
comportamento del medico, nessuno era in grado di
saperlo: chi diceva una cosa e chi un'altra; ma fu
osservato, e interpretato come un evidente segno di
cattiva coscienza, che egli preferiva fare un giro assai
lungo piuttosto che passare sotto le finestre di Leigh Hall,
e che aveva rinunciato a recarsi in chiesa la domenica,
per timore di imbattersi nella giovane. Fu notata inoltre
un'inserzione nel Lancet che si riferiva alla cessione di
una clientela avviata, dove non si facevano nomi, ma che
secondo alcuni si riferiva a Bishop's Crossing e ciò
significava che Lana era in procinto di abbandonare la
scena del suo successo. Questa la situazione quando, la
sera di lunedì 21 giugno, avvenne un fatto imprevisto che
trasformò ciò che era stato un semplice scandalo locale in
una tragedia che richiamò l'attenzione di tutto il paese. È
necessario addentrarsi nei particolari, affinché i fatti di
quella sera si possano presentare in tutta la loro
importanza.
Gli unici abitanti nella casa del medico erano la sua
governante, una donna anziana e di provata moralità, che
si chiamava Martha Woods, e una giovane cameriera,
Mary Pilling. Il suo assistente e il cocchiere erano
alloggiati altrove. Il medico era solito trattenersi la sera
nel suo studio, che si trovava accanto al gabinetto medico
nell'ala della casa più lontana dalle stanze della servitù.
Quest'ala dell'edificio aveva un'entrata di svincolo, per
maggior comodità dei pazienti, di modo che era possibile
per il medico far entrare e ricevere un paziente
all'insaputa di tutti. Effettivamente, quando i pazienti si
recavano da lui a tarda ora, era sua abitudine farli entrare
e uscire da quella porta, poiché la cameriera e la
governante erano solite ad andare a letto assai presto.
La sera in questione, Martha Woods entrò nello studio
del medico alle nove e mezzo, e lo trovò intènto a
scrivere alla sua scrivania. Gli augurò la buona notte,
mandò la cameriera a letto, quindi si occupò di alcune
faccende casalinghe fino alle undici meno un quarto.
Suonavano le undici all'orologio nell'ingresso quando la
donna si ritirò in camera. Dopo un quarto d'ora o venti
minuti al massimo, udì un grido o un richiamo, che
sembrava provenire dall'interno della casa. Rimase un
istante in attesa, ma il grido non si ripeté. Allarmata,
poiché il grido era stato fortissimo e urgente, indossò la
vestaglia e corse a precipizio verso lo studio del medico.
«Chi è?» gridò una voce, quando lei bussò alla porta.
«Sono io, la signora Woods.»
«Mi lasci in pace, per favore. Se ne torni subito in
camera sua» gridò la voce, che era, a quanto pareva,
quella del suo padrone. Il tono era così duro e diverso dal
solito tono di voce del suo padrone, che la donna ne fu
stupita e offesa.
«Mi pareva di averla sentita chiamare, signore» disse
a mo' di spiegazione, ma non ricevette alcuna risposta. La
Woods diede un'occhiata all'orologio mentre tornava in
camera sua, ed erano allora le undici e mezzo.
Fra le undici e la mezzanotte (la donna non riuscì in
seguito a ricordare l'ora esatta) una cliente si recò dal
medico ma senza riceverne alcuna risposta. Questa
cliente ritardataria era la signora Madding, la moglie del
droghiere del paese, il quale era gravemente ammalato di
tifo. Il dottor Lana le aveva detto di passare da lui sul
tardi, per dargli notizie di suo marito. La donna osservò
che la luce nello studio era accesa, ma, dopo aver bussato
varie volte alla porta del gabinetto medico, concluse che
il medico doveva essere stato chiamato altrove, e pertanto
se ne tornò verso casa.
Vi è un breve vialetto tortuoso con una lampada in
fondo che unisce la casa del medico alla strada. Proprio
mentre la signora Madding usciva dal cancello, vide
venirle incontro un uomo. Pensando che si trattasse del
dottor Lana che tornava da una visita a un suo paziente,
rimase ad attenderlo, e fu stupita di accorgersi che si
trattava di Arthur Morton. Alla luce della lampada, si
avvide che l'uomo appariva sconvolto e che teneva in
mano un grosso frustino. Stava entrando dal cancello,
quando lei lo apostrofò.
«Il dottore non è in casa, signore» gli disse.
«Come fa a saperlo?» le chiese Morton aspramente.
«Ho appena bussato alla porta dello studio.»
«Vedo una luce» osservò 'il giovane, guardando verso
la casa. «Quello è il suo studio, no?»
«Certamente, ma sono sicura che il dottore non è in
casa.»
«Be', prima o poi dovrà rientrare» disse il giovane
Morton, e varcò il cancello mentre la Madding si avviava
verso casa.
Alle tre del mattino, suo marito ebbe una forte
ricaduta, e la donna, spaventata dai sintomi, decise di
andar a chiamare senza indugi il medico. Varcando il
cancello, fu stupita di vedere qualcuno appostato fra i
cespugli di alloro. Era sicuramente un uomo, e le sembrò
di riconoscere il signor Arthur Morton. Assorta nei propri
guai, non gli prestò particolare attenzione, ma prosegui
per la sua strada.
Quando fu giunta alla casa, si avvide con stupore che
la luce nello studio era ancora accesa. Pertanto bussò alla
porta del gabinetto medico. Non ebbe risposta. Continuò
a bussare ripetutamente, ma senza effetto. Le sembrò
improbabile che il medico fosse andato a letto o fosse
uscito lasciando accesa una luce così forte, e la donna
pensò che forse egli si era addormentato nella poltrona.
Bussò pertanto alla finestra dello studio, ma inutilmente.
Poi, avvedendosi che vi era uno spiraglio fra la tenda e la
cornice della finestra, sbirciò dentro.
La piccola sala era brillantemente illuminata da una
grande lampada sul tavolo centrale, il cui piano era
cosparso di libri e di strumenti medici. La signora
Madding non vide nessuno, né notò nulla di insolito, se
non che in un angolo, nell'ombra proiettata dal tavolo, un
guanto bianco sporco giaceva sul tappeto. E poi,
improvvisamente, a mano a mano che i suoi occhi si
abituavano alla luce, uno stivale emerse all'altro capo
dell'ombra, e la donna si rese conto, con orrore, che ciò
che aveva preso per un guanto era la mano di un uomo,
disteso per terra. Intuendo che qualcosa di anormale era
accaduto, andò a suonare alla porta principale, svegliò la
Woods, e le due donne si introdussero nello studio, dopo
aver mandato la cameriera al comando di polizia.
Accanto al tavolo, dal lato opposto della finestra,
trovarono il dottor Lana disteso supino, morto. Fu subito
evidente che, prima, era stato brutalmente picchiato,
poiché aveva un occhio pesto e .recava tracce di lividi sul
viso e sul collo. Un leggero gonfiore e ispessimento dei
tratti pareva indicare che la morte era avvenuta per
strangolamento. Era vestito dei suoi soliti abiti
professionali, ma indossava delle pantofole di panno, le
cui suole erano perfettamente pulite. Il tappeto recava
ovunque, e in particolare in prossimità della porta, tracce
di scarpe sporche, presumibilmente lasciate
dall'assassino. Era evidente che qualcuno era entrato dalla
porta dello studio, aveva ucciso il medico, ed era poi
fuggito senza essere visto. Che l'assassino fosse un uomo
era indubbio, a giudicare dalle dimensioni delle orme e
dalla natura delle ferite. Ma al di là di questo, la polizia
non aveva molto su cui basarsi.
Non vi erano tracce di furto, e l'orologio d'oro del
medico fu rinvenuto nella sua tasca. Egli era solito tenere
i suoi quattrini in una robusta cassetta nello studio, e
questa fu trovata chiusa a chiave, ma vuota. La signora
Woods aveva l'impressione che solitamente egli vi
tenesse delle forti somme, ma quel giorno stesso il
medico aveva pagato un grosso conto; si pensò quindi
che fosse dovuto a questo fatto, e non a un ladro, se la
scatola era vuota. Un solo oggetto mancava nella stanza,
ma quell'oggetto dava da pensare. Il ritratto della
signorina Morton, che di solito stava sul tavolino accanto
alla poltrona, era stato tolto dalla cornice e portato via. La
Woods l'aveva visto li poche ore prima quando era andata
ad augurare la buona notte al suo padrone, e adesso era
scomparso. Viceversa, fu trovata a terra una benda verde
per occhi, che la governante non ricordava di avere mai
vista. Tuttavia, una benda del genere poteva forse anche
far parte dell'attrezzatura di un medico, e niente indicava
che fosse in alcun modo collegata con il delitto.
I sospetti potevano confluire in un'unica direzione, e
Arthur Morton venne immediatamente arrestato. Le
prove a suo carico erano indiziarie, ma schiaccianti. Egli
era affezionatissimo a sua sorella, e fu dimostrato che più
volte, dopo la rottura fra lei e il Lana, era stato udito
esprimersi in termini violenti nei riguardi
dell'ex-fidanzato. Era stato visto, come abbiamo già
detto, imboccare il vialetto della casa del medico verso le
undici, con un frustino in mano. In seguito, stando alla
versione della polizia, egli aveva fatto irruzione nello
studio del Lana, il cui grido di spavento o di ira era stato
tanto forte da attirare l'attenzione della signora Woods.
Quando la Woods aveva bussato, il Lana aveva nel
frattempo deciso di riparlarne con il suo ospite, e aveva
pertanto pregato la governante di ritornare in camera sua.
La conversazione era durata a lungo, facendosi sempre
più accesa, ed era degenerata in un corpo a corpo, nel
corso del quale il medico aveva trovato la morte. Il fatto,
rivelato dall'autopsia, che egli soffriva di una grave
malattia di cuore, malattia di cui nessuno aveva
sospettato, faceva supporre che la morte in questo caso
potesse essersi verificata in seguito a ferite che non
sarebbero state letali per un uomo in buone condizioni di
salute. Arthur Morton si era poi impossessato del ritratto
di sua sorella e se n'era andato a casa, nascondendosi nei
cespugli di alloro per evitare di incontrare la signora
Madding sul cancello. Questa la tesi dell'accusa, e le
prove a carico di Morton parevano schiaccianti.
Viceversa, anche la difesa aveva delle buone carte.
Morton era focoso e impulsivo, come sua sorella, ma era
rispettato e amato da tutti, e la sua natura onesta e
generosa pareva incapace di un simile delitto. La sua
versione era che egli era ansioso di avere un colloquio
con il Lana riguardo a urgenti questioni familiari (dal
principio alla fine si rifiutò di fare il nome di sua sorella).
Non tentò di negare che questo colloquio sarebbe stato
certamente spiacevole. Era stato informato da una
paziente che il medico non era in casa, e aveva perciò
atteso il suo ritorno fin verso le tre del mattino, ma
poiché a quell'ora non era ancora rientrato, aveva
rinunciato ed era tornato a casa sua. Quanto alla sua
morte, non ne sapeva niente più di ciò che non ne sapesse
il poliziotto che l'aveva arrestato. In precedenza, era stato
amico intimo del defunto; ma le circostanze, di cui
preferiva non parlare, avevano mutato i suoi sentimenti.
Vi erano parecchi fatti che confermavano la sua
innocenza. Pareva accertato che il Lana fosse vivo e nel
suo studio alle undici e mezzo. La signora Woods era
disposta a giurare che a quell'ora aveva sentito la sua
voce. Gli amici dell'imputato opponevano che era
probabile che a quell'ora il dottor Lana non fosse solo. Il
grido che aveva richiamato l'attenzione della governante,
e l'insolita impazienza del suo padrone per essere lasciato
in pace, parevano confermare questa versione dei fatti. Se
così era, allora pareva probabile che egli fosse stato
ucciso nell'intervallo di tempo intercorso fra il momento
in cui la governante aveva sentito la sua voce e il
momento in cui la Madding si era recata da lui per la
prima volta, senza essere riuscita a richiamare la sua
attenzione. Ma se era questa l'ora della sua morte, allora
era dimostrato che Arthur Morton non poteva essere il
colpevole, poiché era dopo questo fatto che la donna
aveva incontrato il giovane davanti al cancello.
Se questa ipotesi era esattale se qualcuno si trovava
davvero con il dottor Lana prima che la Madding
incontrasse Arthur Morton, chi era dunque questo
qualcuno, e quale motivo poteva avere per desiderare la
morte del medico? Era universalmente riconosciuto che
se gli amici dell'imputato fossero riusciti a chiarire questo
interrogativo, avrebbero praticamente dimostrato la sua
innocenza. Ma nel frattempo il pubblico era libero di dire,
come infatti diceva, che non vi era alcuna prova che
qualcuno fosse stato li tranne il giovane Morton; mentre,
d'altra parte, vi erano ampie prove che le ragioni della sua
visita erano assai poco amichevoli. Quando la Madding si
era recata li la prima volta, il medico poteva essersi
recato in camera sua, o poteva, come la donna pensò
allora, essere uscito e in seguito tornato per trovare
Arthur Morton che lo aspettava. Alcuni sostenitori
dell'imputato sottolineavano il fatto che il ritratto di sua
sorella Frances, che era stato sottratto dallo studio del
medico, non era stato trovato in possesso del giovane.
Questo argomento, tuttavia, non aveva molto peso,
poiché egli aveva avuto tempo sufficiente prima del suo
arresto per bruciarlo o distruggerlo. In quanto agli unici
indizi concreti nel caso, le orme di fango sul pavimento,
erano talmente imprecisi per via della morbidezza del
tappeto, che era impossibile trarne delle deduzioni
decisive. Il massimo che se ne potesse dire, era che il loro
aspetto non era in contrasto con la teoria che esse vi
fossero state lasciate dall'imputato; inoltre, risultava che
la sera in questione i suoi stivali erano ben infangati:
aveva piovuto copiosamente quel pomeriggio, e
probabilmente tutti gli stivali erano nelle stesse
condizioni.
Questo è il nudo resoconto della singolare e romantica
serie di eventi che richiamò l'attenzione del pubblico su
questa tragedia dei Lancashire. L'ignota origine del
medico, la sua curiosa e raffinata personalità, la posizione
dell'uomo accusato dell'assassinio, e la storia
d'amore che aveva preceduto il delitto, tutto
contribuiva a fare della vicenda uno di quei drammi che
assorbono l'interesse dell'intera nazione. Ovunque in
Gran Bretagna, gli uomini discutevano il caso del dottore
nero di Bishop's Crossing, e molte furono le tesi avanzate
per spiegare i fatti; ma si può dire, senza tema di
smentita, che fra tutte non ve n'era una che preparasse il
pubblico allo straordinario colpo di scena, che provocò
tanto scalpore il primo giorno del processo, giungendo al
punto culminante il secondo. Ho davanti a me mentre
scrivo la raccolta del Lancashire Weekly con il suo ampio
resoconto del caso, ma debbo accontentarmi di dare una
sintesi del processo fino al momento in cui, la sera del
primo giorno, la testimonianza della signorina Frances
Morton gettò una singolare luce sulla vicenda.
Porlock Carr, il Pubblico Ministero, aveva presentato
la sua tesi con l'abilità che gli era propria e, col
trascorrere delle ore, diveniva sempre più evidente come
fosse arduo il compito di Humphrey, l'avvocato
difensore. Vari testimoni furono chiamati a riferire le
minacciose frasi che il giovane Morton si era lasciato
sfuggire nei riguardi del medico, e la collera con la quale
aveva reagito al supposto maltrattamento di sua sorella.
La Madding ripeté la sua testimonianza riguardo alla
visita fatta dall'imputato al defunto, e. un altro teste
dimostrò che l'imputato era a conoscenza della
consuetudine del medico di trascorrere le serate in
quell'ala isolata dell'edificio, e che egli aveva scelto
quell'ora inoltrata per recarsi li, sapendo che la vittima
sarebbe stata alla sua mercé. Un domestico di casa
Morton fu costretto ad ammettere di aver sentito il suo
padrone rincasare verso le tre del mattino, il che
confermava la dichiarazione della signora Madding,
secondo cui la donna lo aveva visto fra i cespugli di
alloro nei pressi del cancello, in occasione della sua
seconda visita. Gli stivali infangati e una supposta
somiglianza delle orme furono debitamente sfruttati, e
l'opinione generale, al termine della tesi dell'accusa, fu
che, per quanto indiziaria essa fosse, era tuttavia così
completa e così convincente da far ritenere che il destino
dell'imputato fosse deciso, a meno che la difesa non
rivelasse qualcosa di assolutamente inatteso. Erano le
quindici quando l'accusa concluse. Alle sedici e trenta,
quando l'udienza venne ripresa, si verificò una nota del
tutto inattesa. Riporto l'incidente, o parte di esso,
basandomi sul giornale cui ho già accennato, e
tralasciando i discorsi preliminari della difesa.
Vi fu un grande scalpore nell'aula affollata quando la
prima teste chiamata dalla difesa risultò essere la
signorina Frances Morton, sorella dell'imputato. I nostri
lettori rammenteranno che la giovane era stata fidanzata
del Lana, e si riteneva appunto che fosse l'ira per
l'improvvisa fine di questo fidanzamento ad aver spinto
suo fratello a commettere il delitto. La Morton non era
stata, tuttavia, in alcun modo implicata nel caso, né
durante l'inchiesta né durante l'istruttoria, e la sua
comparsa come testimone principale per la difesa destò
grande sorpresa fra il pubblico.
La signorina Frances Morton, una bella giovane, alta e
bruna, rese la sua testimonianza a voce bassa ma chiara,
benché fosse evidente durante tutta la sua deposizione
che era in preda a una forte emozione. Alluse al
fidanzamento con il medico, accennò brevemente alla sua
fine, dovuta, ella disse, a questioni private della famiglia
di lui, e sorprese la corte dichiarando che ella aveva
sempre ritenuto lo sdegno di suo fratello irragionevole e
immotivato. In risposta a una domanda diretta
dell'avvocato difensore, la giovane replicò che non si
riteneva in alcun modo offesa dal dottor Lana, e che
secondo lei egli aveva agito in modo del tutto onorevole.
Suo fratello, non essendo a completa conoscenza dei fatti,
aveva assunto un atteggiamento differente, ed essa fu
costretta a riconoscere che, nonostante le sue suppliche,
egli aveva proferito minacce contro il medico, ed aveva,
la sera della tragedia, annunciato la sua intenzione di
"vedersela con lui". La giovane aveva fatto del suo
meglio per indurlo a ragionare, ma suo fratello era un tipo
molto testardo e assai poco controllato quando erano in
gioco le sue emozioni o i suoi pregiudizi.
Fino a questo punto, la deposizione della giovane
donna era sembrata andare più a carico dell'imputato, che
non a suo favore. Le domande dell'avvocato difensore
gettarono, tuttavia, ben presto una luce assai diversa sulla
vicenda, e rivelarono un'inaspettata linea di difesa.
Humphrey. Lei ritiene suo fratello colpevole di questo
delitto?
Giudice: Non posso permettere questa domanda,
signor Humphrey. Siamo qui per vagliare i fatti, non le
opinioni.
Humphrey: Lei sa con certezza che suo fratello non è
colpevole della morte del dottor Lana?
Frances Mortori: Si.
Humphrey: Come fa a saperlo?
Frances Morton: Perché il dottor Lana non è morto.
Segui nell'aula un lungo brusio che interruppe
l'interrogatorio della teste.
Humphrey: E come fa a sapere, signorina Morton, che
il dottor Lana non è morto?
Frances Morton: Perché ho ricevuto una lettera da lui
dopo la data della sua presunta morte.
Humphrey: Ha con sé questa lettera?
Frances Morton: Si, ma preferirei non mostrarla.
Humphrey: Ha la busta?
Frances Morton: Si, eccola qua.
Humphrey: Che timbro reca?
Frances Morton: Liverpool.
Humphrey: E la data?
Frances Morton: 22 giugno.
Humphrey: Cioè il giorno successivo alla sua presunta
morte. È disposta a giurare che si tratta della sua scrittura,
signorina Morton? Frames Mortori: Certamente.
Humphrey: Sono pronto a chiamare altri sei testimoni,
Vostro Onore, per attestare che questa lettera è stata
scritta dal dottor Lana.
Giudice: Allora dovrà chiamarli domani.
Porlock Carr, Pubblico Ministero: Nel frattempo,
Vostro Onore, chiediamo che ci venga consegnato questo
documento, in modo da potere far eseguire una perizia
che dimostri fino a che punto sia stata contraffatta la
scrittura di questo signore, che noi tuttora affermiamo
con sicurezza essere morto. Mi pare inutile far osservare
che la tesi, così inaspettatamente presentataci, potrebbe
dimostrarsi un espediente escogitato dagli amici
dell'imputato allo scopo di sviare la nostra indagine.
Vorrei però richiamare l'attenzione sul fatto che la
signorina doveva essere, stando alle sue proprie parole, in
possesso di questa lettera durante l'inchiesta e l'istruttoria
preliminare. La signorina vorrebbe farci credere di aver
lasciato che questi preliminari avessero luogo, benché
avesse in tasca una prova tale che avrebbe potuto in
qualsiasi momento interromperli.
Humphrey: Può spiegarci questo, signorina Morton?
Frames Morton: Il dottor Lana voleva che il suo
segreto fosse rispettato.
Porlock Carr: E allora perché lo avete reso di
pubblico dominio?
Frames Morton: Per salvare mio fratello.
Un mormorio di compassione, subito represso dal
giudice, proruppe nell'aula.
Giudice: Amméttendo la vostra linea di difesa, sta a
lei, signor Humphrey, di far luce sull'identità dell'uomo il
cui corpo è stato riconosciuto da tanti amici e pazienti del
dottor Lana come il corpo dello stesso medico.
Un membro della giuria: Esiste qualcuno che abbia
precedentemente espresso qualche dubbio sul
riconoscimento?
Porlock Carr: No, che io sappia.
Humphrey: Ci auguriamo di poter chiarire la vicenda.
Giudice: Allora l'udienza è sospesa e rinviata fino a
domani mattina.
Questo nuovo sviluppo del caso suscitò nel pubblico
un grandissimo interesse. I commenti della stampa erano
ostacolati dal fatto che il processo era tuttora in corso, ma
ovunque la gente si chiedeva fin dove fosse veritiera la
dichiarazione della signorina Morton, e fin dove potesse
essere un audace trucco per salvare suo fratello.
L'evidente dilemma nel quale si trovava il medico
scomparso era che se per uno straordinario caso non era
morto, allora egli doveva essere ritenuto responsabile
della morte dello sconosciuto trovato nel suo studio, e
che gli somigliava in modo così impressionante. La
lettera che la Morton si rifiutava di esibire poteva essere
una confessione di colpevolezza, e poteva darsi che lei si
trovasse nella terribile posizione di potere salvare suo
fratello dalla forca unicamente con il sacrificio del suo
ex-fidanzato. Il mattino seguente l'aula era stipata
all'inverosimile, e un mormorio di eccitazione la percorse
quando l'avvocato Humphrey fu visto entrare in uno stato
di grande agitazione, che neanche i suoi nervi ben muniti
di grasso potevano dominare, e conferire con il Pubblico
Ministero. Poche frettolose parole, parole che lasciarono
un'espressione stupefatta sul volto del signor Porlock
Carr, furono scambiate fra di loro, e poi l'avvocato
difensore, rivolgendosi al giudice, annunciò che, con il
consenso della parte avversa, la giovane donna che aveva
deposto nella seduta precedente non sarebbe stata
richiamata.
Giudice: Ma ho l'impressione, signor Humphrey, che
la questione sia rimasta in sospeso.
Humphrey: Vostro Onore, forse il mio prossimo teste
potrà chiarirla.
Giudice: Allora chiamate il teste.
Humphrey: Chiamo il dottor Aloysius Lana.
Molte furono le frasi decisive pronunciate dall'illustre
avvocato durante la sua carriera, ma certamente egli non
suscitò mai una simile sensazione con una frase così
breve. La corte fu semplicemente fulminata dallo stupore,
mentre proprio l'uomo la cui sorte era stata causa di tanta
discordia, comparve di persona davanti a loro sul banco
dei testimoni. Quelli fra il pubblico che lo avevano
conosciuto a Bishop's Crossing lo videro adesso, magro
ed emaciato, il volto profondamente segnato dal dolore.
Ma nonostante il suo malinconico atteggiamento e la sua
espressione abbattuta, ben pochi potevano dire di aver
mai visto un uomo di più distinto aspetto. Inchinandosi al
giudice, chiese il permesso di fare una dichiarazione, ed
essendo stato debitamente informato che qualsiasi cosa
egli avesse detto avrebbe potuto essere usata contro di
lui, si inchinò nuovamente e cominciò a parlare:
«È mio desiderio» egli disse «di non nascondere
niente, ma di raccontare con perfetta franchezza tutto ciò
che accadde la sera del 21 giugno. Se avessi saputo che
degli innocenti stavano soffrendo, e che tanto dolore si
era rovesciato su coloro che io amo di più al mondo, mi
sarei fatto vivo molto tempo prima, ma vi erano motivi
che impedirono a queste cose di giungermi a orecchio.
Era mio intento che un disgraziato scomparisse dal
mondo. Ma non avevo previsto che altri avrebbero
sofferto delle mie azioni. Lasciatemi, per quanto mi è
possibile, rimediare al male fatto.
« A chiunque conosca la storia della Repubblica
ar-gentina, il nome di Lana è ben noto. Mio padre, che
discendeva da una delle migliori famiglie della vecchia
Spagna, ricopri le più alte cariche dello Stato, e sarebbe
divenuto presidente se non fosse morto nella rivolta di
San Juan. Una brillante carriera avrebbe potuto schiudersi
davanti a Ernest, mio fratello gemello e a me, se dei
rovesci finanziari non ci avessero messi in condizioni di
doverci guadagnare la vita. Chiedo scusa, Vostro Onore,
se questi particolari possono sembrare irrilevanti, ma essi
sono una indispensabile premessa a ciò che deve seguire.
«Come ho già detto, avevo un fratello gemello di
nome Ernest. Egli mi somigliava talmente che anche
quando eravamo insieme la gente non riusciva a vedere
alcuna differenza fra noi due. Eravamo identici fin nel
più piccolo particolare. Con gli anni, questa somiglianza
si fece meno marcata perché le nostre espressioni non
erano simili, ma in determinati momenti la differenza nei
nostri volti era minima.
«Non desidero parlare troppo di una persona che è
morta, tanto più che egli era il mio unico fratello, ma
lascio un giudizio sul suo carattere a coloro che lo
conoscevano meglio. Dirò soltanto, poiché debbo dirlo,
che in gioventù io concepii un vero orrore per lui, e che
l'avversione che mi riempiva era motivata. La mia stessa
reputazione ebbe a soffrire per causa sua, poiché, per via
della nostra somiglianza, ero spesso ritenuto responsabile
di molte sue azioni. Infine, in occasione di un episodio
particolarmente vergognoso, egli fece in modo di far
ricadere tutto l'odio su di me in maniera tale, che fui
costretto a lasciare l'Argentina per sempre, e cercarmi un
lavoro in Europa. L'essermi liberato della sua odiata
presenza mi ricompensava abbondantemente della perdita
della mia terra natia. Avevo abbastanza denaro per
pagarmi gli studi di medicina a Glasgow, e mi stabilii in
seguito nella condotta di Bishop's Crossing, con la ferma
convinzione che in quel remoto paesetto del Lancashire
non avrei mai più saputo nulla di lui.
«Per anni le mie speranze si realizzarono, ma poi
finalmente Ernest mi scopri. Un tale di Liverpool,
recatosi per caso a Buenos Ayres, lo mise sulle mie
tracce. Aveva perso tutto il suo denaro, e pensò di
raggiungermi e di spartirsi il mio. Conoscendo l'orrore
che nutrivo per lui, pensò esattamente che sarei stato
disposto a pagarlo purché mi lasciasse in pace. Ricevetti
una sua lettera, in cui mi annunciava il suo arrivo. Mi
trovavo in un momento delicato, e temevo che il suo
arrivo avrebbe arrecato guai a coloro che io ero tenuto in
particolar modo a proteggere da una cosa del genere.
Intrapresi pertanto dei passi per assicurarmi che qualsiasi
danno ne potesse venire, ricadesse soltanto su di me, e fu
lui» qui il medico si voltò a guardare l'imputato «il
motivo della mia condotta così severamente giudicata. Il
mio unico desiderio era di difendere coloro che mi erano
cari da ogni possibile pericolo di scandalo o di disonore.
«Mio fratello giunse una sera, non molto tempo dopo
l'arrivo della sua lettera. Mi trovavo nel mio studio dopo
che i domestici erano andati a letto, quando udii un passo
sulla ghiaia del giardino, e dopo un istante vidi il suo
volto che mi fissava attraverso la finestra. Neanche lui
aveva la barba, come non ce l'ho io, e la somiglianza fra
noi due era ancora così pronunciata che, per un istante,
pensai che si trattasse della mia propria immagine riflessa
nel vetro. Egli portava una benda scura su un occhio, ma i
nostri lineamenti erano assolutamente identici. Poi Ernest
sorrise con quel ghigno sardonico che era stato suo fin da
ragazzo, e io capii che era lo stesso fratello che mi aveva
cacciato dalla mia terra, coprendo di vergogna un nome
onorato. Andai alla porta e lo feci entrare. Saranno state
circa le ventidue.
«Quando entrò nel raggio di luce della lampada, vidi
subito che era molto malconcio. Era giunto a piedi da
Liverpool, ed era stanco e ammalato. Fui sconvolto dalla
sua espressione. Le mie nozioni mediche mi dissero che
egli soffriva di una grave malattia. Inoltre aveva bevuto, e
il suo viso recava i segni di una rissa sostenuta con dei
marinai. Soltanto per coprirsi l'occhio pesto egli portava
la benda, ma se la tolse entrando nella stanza. Indossava
un giaccone da marinaio e una camicia di flanella, e i
suoi stivali consunti lasciavano intravvedere i piedi nudi.
Eppure la miseria lo aveva soltanto reso più ferocemente
vendicativo nei miei confronti. Il suo odio sfiorava la
pazzia. Io facevo una vita da nababbo, secondo lui,
mentre lui moriva di fame nell'America meridionale. Non
occorre ripeta le sue minacce, o gli insulti di cui mi
ricoperse. La mia impressione è che la miseria e la
dissolutezza gli avessero sconvolto il cervello.
Camminava su e giù per la stanza come una belva in
gabbia, chiedendomi da bere, chiedendomi denaro, e tutto
nel linguaggio più osceno. Io perdo facilmente il
controllo, ma per fortuna in quella occasione mi
padroneggiai, e mai alzai la mano su di lui. La mia
freddezza servi soltanto a irritarlo maggiormente.
Farneticava, bestemmiava, mi scuoteva i pugni davanti al
viso, poi improvvisamente un orribile spasimo gli
contrasse il volto, si batté una mano sul petto, e con un
grido altissimo mi cadde ai piedi. Lo sollevai e lo adagiai
sul divano, ma i miei richiami non ebbero risposta, e la
mano che tenevo nella mia era fredda e viscida. Il cuore
aveva ceduto. La sua violenza lo aveva ucciso.
«Rimasi a lungo seduto come in preda a uno
spaventoso incubo, fissando il corpo di mio fratello. Fui
destato dalla Woods che. bussava alla porta. Era stata
disturbata da quel grido di morte. La mandai a letto. Poco
dopo, una paziente bussò alla porta dello studio medico,
ma poiché io non mi mossi, lui o lei che fosse, se ne andò.
A poco a poco, gradatamente, mentre me ne stavo li
seduto, un piano prendeva forma nella mia mente, in quel
curioso modo automatico in cui i piani si formano.
Quando mi alzai dalla sedia, i miei movimenti futuri
erano irrevocabilmente decisi senza che io avessi
consapevolmente formulato dei pensieri. Era l'istinto che
mi spingeva irresistibilmente in una direzione.
«Fin da quel mutamento nella mia vita al quale ho
accennato, Bishop's Crossing mi era diventata
intollerabile. I miei progetti per l'avvenire erano stati
rovinati, e mi ero imbattuto in giudizi affrettati, ero stato
trattato in modo crudele proprio là dove mi ero aspettato
di essere compreso. È vero che qualsiasi pericolo di
scandalo da parte di mio fratello era scomparso con la sua
morte; ma ero addolorato dal passato, e sentivo che le
cose non avrebbero potuto essere mai più come una volta.
Può darsi che la mia sensibilità mi avesse giocato un
brutto scherzo e che non fossi sufficientemente
comprensivo verso gli altri, ma i miei sentimenti erano
quelli. Non vedevo l'ora che mi si presentasse
un'occasione per lasciare Bishop's Crossing e tutti i suoi
abitanti. Ed ecco presentarsi un'occasione quale non avrei
mai osato sperare, un'occasione che mi avrebbe dato
modo di dare un taglio netto al passato.
«C'era quest'uomo morto disteso sul divano, così
simile a me, che, tranne una certa gonfiezza e
grossolanità dei lineamenti, non vi era nulla che da me lo
differenziasse. Nessuno lo aveva visto arrivare, e nessuno
si sarebbe accorto della sua scomparsa. Né io né lui
portavamo la barba, e i suoi capelli erano circa della
stessa lunghezza dei miei. Se io avessi scambiato i nostri
abiti, il dottor Aloysius Lana sarebbe stato trovato morto
nel suo studio, e sarebbe stata la fine di un disgraziato
con una carriera rovinata. Avevo abbastanza danaro
liquido e avrei potuto portarmelo dietro; avrei potuto così
ricostruirmi una vita altrove. Vestito degli abiti di mio
fratello, avrei potuto camminare nottetempo fino a
Liverpool senza richiamare l'attenzione, e in quel grande
porto avrei potuto trovare modo assai presto di
andarmene dal paese. Dopo il crollo delle mie speranze,
la più umile esistenza in un luogo dove fossi sconosciuto
era di gran lunga preferibile, nel mio giudizio, a una
carriera, per quanto brillante, a Bishop's Crossing, dove
in un momento qualsiasi potevo trovarmi faccia a faccia
con coloro che, se possibile, desideravo dimenticare.
Decisi di effettuare lo scambio.
«E così feci. Non entrerò in particolari, perché il
ricordo mi è altrettanto doloroso dell'esperienza stessa;
ma entro un'ora mio fratello giaceva, rivestito fin nei
minimi particolari, con i miei abiti, mentre io me la
svignavo per l'ingresso dello studio, e prendendo il
viottolo sul retro che portava attraverso i campi, mi misi
in cammino verso Liverpool, dove giunsi la notte stessa.
La borsa col mio danaro e un certo ritratto erano le sole
cose che mi portai dietro; nella fretta lasciai nello studio
la benda che mio fratello portava sull'occhio. Recai con
me anche quanto gli era appartenuto.
«Le do la mia parola, Vostro Onore, che neanche per
un istante mi passò per la mente l'idea che la gente
avrebbe potuto pensare che io fossi stato assassinato, e
neppure immaginai che qualcuno avrebbe potuto trovarsi
in grave pericolo a causa di questo stratagemma, tramite
il quale io tentavo di rifarmi una nuova vita. Al contrario,
era proprio il pensiero predominante di liberare gli altri
dal fardello della mia presenza. Un veliero, salpava da
Liverpool quel giorno stesso diretto a La Coruna, e su di
esso decisi di imbarcarmi, sperando che il viaggio mi
avrebbe dato il tempo di ritrovare il mio equilibrio, e di
decidere per l'avvenire. Ma prima di partire, ebbi un
ripensamento. Riflettei che vi era una sola persona al
mondo alla quale non volevo causare neanche un'ora di
dolore. Lei mi avrebbe pianto in cuor suo, per quanto
rigidi e ostili potessero essere i suoi parenti. Lei aveva
capito e apprezzato le ragioni che mi avevano spinto ad
agire come avevo agito, e se il resto della sua famiglia mi
disprezzava lei, almeno, non mi avrebbe dimenticato.
Perciò le scrissi una lettera sotto il vincolo della
segretezza per risparmiarle un dolore immotivato. Se,
sotto la pressione degli eventi, essa ha rotto quel vincolo,
essa ha tutta la mia comprensione e il mio perdono.
«Soltanto ieri sera sono ritornato in Inghilterra, e in
tutto questo tempo non avevo saputo niente dello
scalpore suscitato dalla mia presunta morte, né del fatto
che ne era stato incriminato Arthur Morton. Lessi il
resoconto della seduta di ieri in un giornale della sera, e
sono arrivato qui stamani con tutta la velocità
consentitami da un treno diretto, per attestare la verità.»
Questa fu la stupefacente dichiarazione del dottor
Aloysius Lana, che provocò l'improvvisa conclusione del
processo. Una successiva indagine la corroborò fino al
punto da individuare la nave sulla quale suo fratello
Ernest Lana aveva compiuto la traversata dall'America
meridionale. Il medico di bordo fu in grado di attestare
che egli si era lamentato durante il viaggio di disturbi
cardiaci, e che i suoi sintomi erano compatibili con una
morte come quella descritta.
Quanto ad Aloysius Lana, egli fece ritorno al villaggio
dal quale era così drammaticamente scomparso, e una
completa riconciliazione ebbe luogo fra lui e il giovane
Morton, dopo che quest'ultimo ebbe riconosciuto di avere
grossolanamente frainteso i motivi che avevano spinto
l'altro a porre fine al suo fidanzamento. Un'altra
riconciliazione ebbe luogo successivamente e i risultati si
possono dedurre da un trafiletto apparso nel Morning
Post:
"Il 19 settembre è stato celebrato un matrimonio dal
reverendo Stephen Johnson della parrocchia di Bishop's
Crossing. Gli sposi erano Aloysius Xavier Lana, figlio
di Alfredo Lana, ex-Ministro degli esteri della
Repubblica argentina, e Frances Morton, figlia del
compianto James Morton di Leigh Hall, Bishop's
Crossing nel Lancashire.".
La stanza degli incubi

Il salotto dei Mason era una stanza assai singolare.


Una parte di esso era arredata lussuosamente. I morbidi
divani, le ampie, basse poltrone, le voluttuose statuette, e
i ricchi tendaggi che scendevano da alte e decorative
griglie di ferro battuto, formavano una degna cornice alla
bellissima padrona di casa. Appariva evidente che
Mason, giovane ma ricco uomo d'affari, aveva fatto di
tutto pur di accontentare ogni desiderio e capriccio della
sua incantevole moglie. Era naturale che così fosse,
poiché essa aveva rinunciato a molto per amor suo. La
più famosa ballerina di tutta la Francia, l'eroina di una
dozzina di romantiche storie d'amore, aveva rinunciato
alla sua vita di sfavillanti piaceri per condividere la sorte
del giovane americano, il cui austero comportamento
differiva tanto dal suo. In tutto quello che la ricchezza
poteva procurare, egli tentava di ripagarla per ciò che
aveva perduto. C'era forse chi pensava che sarebbe stato
di miglior gusto non sbandierare questo fatto, e
tantomeno permettere che venisse reso pubblico ma,
tranne alcune stranezze di questo tipo, il suo
comportamento era quello di un marito che non ha mai
smesso neppure per un attimo di essere anche amante. La
presenza di altre persone non ostacolava del resto la
pubblica esibizione del suo travolgente amore.
Eppure la stanza era strana. In un primo momento
sembrava accogliente, ma un più approfondito esame
rivelava le sue sinistre peculiarità. Era silenziosa, molto
silenziosa. Nessun rumore di passi poteva udirsi su quei
ricchi e pesanti tappeti. Una lotta, perfino la caduta di un
corpo, non avrebbe fatto alcun rumore. Inoltre, era
stranamente priva di colore, sotto una luce che pareva
sempre smorzata. Né la sala era arredata con un gusto
coerente. Si sarebbe detto che quando il giovane
banchiere aveva speso dei milioni in questo boudoir,
questo scrigno per il suo più prezioso possedimento, egli
si fosse dimenticato di calcolare le spese e fosse stato
bruscamente interrotto da una minaccia alla propria
solvibilità. Era lussuosa dalla parte che si affacciava sulla
strada affollata. Dal lato opposto, era nuda, spartana, e
rifletteva più il gusto di un asceta che non quello di un
essere avido di piaceri. Forse per questo la donna vi
trascorreva poche ore della sua giornata, talvolta due,
talvolta quattro, ma mentre era li viveva intensamente, e,
fra le pareti di questa stanza degli incubi, Lucilie Mason
era un essere molto diverso e molto più pericoloso che
non altrove.
Pericoloso, ecco la definizione. Chi poteva dubitarne,
vedendo la sua delicata figura reclinata sulla grande pelle
di orso che ricopriva il divano. Stava appoggiata sul
gomito destro, il mento delicato ma volitivo appoggiato
sulla mano, mentre i grandi occhi languidi, incantevoli
ma inesorabili, guardavano davanti a sé con una fissità
che possedeva qualcosa di intenso e vagamente terribile.
Era un volto incantevole, un volto di fanciulla, eppure la
natura vi aveva posto un marchio sottile, un'espressione
indefinibile, che poteva far presumere che in lei
albergava un'anima diabolica. Era stato notato che i cani
la fuggivano, e che i bambini urlavano rifiutando le sue
carezze. Vi sono istinti più profondi della ragione.
In un particolare pomeriggio qualcosa l'aveva turbata
enormemente. Aveva in mano una lettera che leggeva e
rileggeva, aggrottando quelle delicate piccole
sopracciglia e serrando le deliziose labbra.
Improvvisamente trasali, e un'ombra di paura ammorbidì
la felina minaccia dei suoi lineamenti. Si sollevò sul
braccio, e i suoi occhi erano ansiosamente fissi sulla
porta. Ascoltava intenta, tesa a percepire qualcosa che
temeva. Per un attimo, un sorriso di sollievo illuminò il
suo volto. Poi, con uno sguardo di orrore, si cacciò la
lettera nel corpetto dell'abito. Aveva a malapena finito,
quando la porta si apri, e un giovane entrò a gran passi
nella stanza. Era Archie Mason, suo marito, l'uomo che
essa aveva amato, l'uomo al quale aveva sacrificato la sua
fama, l'uomo che adesso lei considerava come l'unico
ostacolo a una nuova e meravigliosa esperienza.
L'americano era un tipo di una trentina d'anni, atletico,
vestito assai bene, con un abito aderente, che delineava il
suo corpo perfetto. Si fermò accanto alla porta, le braccia
conserte, guardando attentamente sua moglie. Il volto
avrebbe potuto essere una bella maschera abbronzata se
non fosse stato per quegli occhi intensi. La donna era
ancora reclinata, ma i suoi occhi erano fissi su quelli di
lui. Vi era qualcosa di terribile in quel dialogo muto.
Ciascuno dei due interrogava l'altro, e ciascuno dei due
trasmetteva la sensazione che la risposta alla propria
domanda era di vitale importanza. Pareva che lui le
chiedesse: "Che cos'hai fatto?". Lei a sua volta sembrava
domandargli: "Che cosa sai?". Infine, lui le si avvicinò, si
sedette sulla pelle d'orso accanto a lei, e prendendole
dolcemente l'orecchio delicato fra le dita, girò il viso
verso di lui.
«Lucilie» disse l'uomo «mi stai avvelenando?»
La donna al suo contatto si ritrasse, il viso pieno di
orrore, le labbra pronte a protestare. Troppo turbata per
poter parlare, il suo stupore e la sua collera parevano
mostrarsi piuttosto nelle mani gesticolanti e nei
lineamenti convulsi. Tentò di alzarsi, ma la mano di lui le
serrava il polso. Ancora una volta il marito le pose una
domanda, ma questa volta il suo terribile significato si era
fatto più pressante.
«Lucilie, perché mi stai avvelenando?»
«Sei pazzo, Archie! Pazzo!» ansimò la donna.
La risposta di Mason le raggelò il sangue. Con le
pallide labbra socchiuse e le guance sbiancate, poté
soltanto fissarlo in muta impotenza, mentre egli traeva ,
una bottiglietta dalla sua tasca e gliela metteva davanti
agli occhi.
«Era nel tuo scrigno!» esclamò egli.
Per due volte, essa tentò di parlare, senza riuscirvi.
Finalmente le parole uscirono lentamente una ad una
dalla sua bocca contorta:
«Perlomeno non me ne sono mai servita.»
Di nuovo l'uomo si infilò in tasca una mano. Ne trasse
un foglio di carta, che egli apri mostrandoglielo.
« È il certificato del dottor Angus. Dimostra la
presenza di dodici grani di antimonio. Ho anche la
testimonianza di Du Val, il farmacista che l'ha venduto.»
Il viso di Lucilie era terribile. Non poteva dire niente.
Poteva soltanto restare li sdraiata, con quello sguardo
fisso e privo di speranza, come un animale feroce caduto
in una trappola mortale.
«Ebbene?» fece Mason.
Non vi fu risposta, tranne un gesto di disperazione e di
supplica.
«Perché?» prosegui Mason. «Voglio sapere il perché.»
Mentre parlava, il suo occhio colse un lembo della lettera
che essa si era nascosta nel seno. In un lampo, l'ebbe in
mano. Con un grido disperato, la donna tentò di
recuperarla, ma lui la tenne discosta mentre i suoi occhi
scorrevano rapidamente il testo.
«Campbell!» esclamò con voce soffocata. «Era
Campbell!»
Lucilie aveva ritrovato il suo sangue freddo. Non
aveva più niente da nascondere. Il volto le si indurì. Gli
occhi fiammeggiavano.
«Si» disse «è Campbell.»
«Perdiana! Proprio Campbell!»
Mason si alzò, andando su e giù per la stanza a grandi
passi. Campbell, il miglior uomo che egli avesse mai
conosciuto, un essere la cui vita intera era una
testimonianza di abnegazione, di coraggio, di tutte le
qualità che contraddistinguono un uomo superiore.
Eppure, anche lui era caduto preda di questa sirena, ed
era stato costretto ad abbassarsi al punto di tradire, nelle
intenzioni se non nei fatti, l'uomo la cui mano egli
stringeva in segno di amicizia. Era incredibile, eppure
aveva sotto gli occhi l'appassionata, implorante lettera
nella quale costui supplicava sua moglie di fuggire e di
tentare la sorte con un tipo che praticamente non
possedeva il becco d'un quattrino. Ogni parola della
lettera dimostrava che almeno Campbell non pensava
affatto alla morte di Mason, quale mezzo per rimuovere
ogni ostacolo. Quella diabolica soluzione era frutto della
tortuosa e perversa mente che covava sotto un'apparenza
perfetta.
Mason era un tipo straordinario, un tipo di filosofo, di
pensatore, provvisto di grande comprensione verso gli
altri. Per un attimo, il suo animo era stato sopraffatto
dall'amarezza. In quel breve intervallo, avrebbe potuto
uccidere sia sua moglie che Campbell, e affrontare la
propria morte con la serenità di uno che ha soltanto fatto
il suo dovere. Ma pochi secondi dopo, mentre camminava
su e giù per la stanza, pensieri più equilibrati avevano
cominciato a prevalere. Come poteva incolpare
Campbell? Conosceva il diabolico potere di questa
donna. Non si trattava soltanto della sua meravigliosa
bellezza fisica. Essa aveva l'impareggiabile dote di
mostrarsi interessata a un uomo, di intrufolarsi nel più
profondo del suo animo, in quelle parti della natura che
erano troppo sacre per mostrarle di fronte al mondo, e di
fingere di stimolarlo all'ambizione e perfino alla virtù.
Era proprio li che si affermava il letale potere della sua
rete. Mason ricordava come fossero andate le cose nel
suo caso. Lei allora era libera, o così aveva creduto, e
aveva potuto sposarla. Ma supponiamo che non fosse
stata libera. Supponiamo che fosse già sposata. E
supponiamo che essa si fosse impossessata della sua
anima nello stesso modo. Lui si sarebbe fermato li?
Sarebbe stato in grado di allontanarsi da lei con i suoi
desideri insoddisfatti? Fu costretto ad ammettere che,
nonostante la sua forza d'animo, non avrebbe potuto
farlo. Perché, allora, doveva provare tanta amarezza nei
confronti del suo disgraziato amico che era natia sua
stessa situazione? Furono dei sentimenti di pietà, di
umana comprensione a riempirgli la mente mentre
pensava a Campbell.
E lei? Eccola là, distesa sul divano, una povera
farfalla spezzata, con i suoi sogni infranti, il suo
complotto scoperto, il suo avvenire buio e incerto. Anche
per lei, omicida non ancora arrivata all'ultimo atto, il suo
cuore si impietosi. Egli conosceva il suo passato, sapeva
che fin dalla nascita era stata una bambina viziata, che era
stata un essere incontrollato, che aveva travolto ogni cosa
con la sua sensitività, la bellezza, e il fascino. Non aveva
mai conosciuto ostacoli. Ed ora uno le si parava davanti,
e lei, con folle perfidia, aveva tentato di farlo fuori. Ma se
aveva provato il desiderio di eliminarlo, non era quello
un segno intrinseco che lui, Mason, era stato trovato
mancante, che non era lui l'uomo che potesse darle
serenità e tranquillità? L'americano era troppo rigido e
riservato per quella natura allegra e volubile. Lui era un
tipo nordico, lei era meridionale e per un certo periodo
erano stati fortemente attratti l'uno verso l'altra appunto
perché tanto diversi, ma essi non erano fatti per un
legame duraturo. Egli avrebbe dovuto prevederlo,
avrebbe dovuto capirlo. Era su di lui, con la sua superiore
intelligenza, che ricadevano le responsabilità della
situazione. Ebbe verso di lei della tenerezza, come verso
un bambino che, senza alcuna colpa, si trovi nei guai.
Mentre rifletteva, Mason aveva camminato su e giù per la
stanza in silenzio, le labbra serrate, i pugni stretti. Ora,
con un movimento improvviso, si sedette accanto a lei e
prese una delle sue mani fredde e inerti. Un pensiero gli
martellava nel cervello. "!È generosità o è debolezza, la
mia?" L'interrogativo gli risuonava nelle orecchie, si
formulava davanti ai suoi occhi, poteva quasi
immaginarlo materializzato, scritto a chiare lettere in
modo che tutto il mondo potesse leggerlo.
Una dura lotta, ma Mason aveva vinto.
«Sceglierai fra noi due, mia cara» le disse infine. «Se
sei veramente sicura, sicura, capisci, che Campbell ti
potrà far felice come marito, io non ti ostacolerò.»
«Divorzio?» esclamò la donna con voce soffocata.
La mano di Mason si strinse sulla bottiglietta di
veleno. «Puoi averlo» disse.
Una nuova, strana luce splendeva negli occhi di
Lucilie mentre guardava suo marito. Quest'uomo le era
sconosciuto, l'americano duro e concreto era scomparso.
Le parve di vedere al suo posto un eroe, un santo, un
essere capace di assurgere a vette sovrumane di
altruismo. Stringeva con le due mani quella di lui, stretta
sulla fiala letale.
«Archie» esclamò la donna «sapresti perdonarmi
anche questo!»
Mason la guardò sorridendo. «Dopotutto, sei soltanto
una bambina capricciosa.»
Lucilie gli stava tendendo le braccia quando
bussarono alla porta e la cameriera entrò nello strano
modo silenzioso in cui ogni cosa si muoveva in quella
stanza degli incubi. Portava su un vassoio un biglietto.
Lucilie vi gettò un'occhiata.
«Il capitano Campbell! Non voglio vederlo.»
Mason balzò in piedi.
«Al contrario, che sia il benvenuto. Lo faccia passare
immediatamente.»

Dopo poco, un giovane alto e abbronzato fece il suo


ingresso nella sala. Entrò con un sorriso sul volto
attraente, ma come la porta si richiuse alle sue spalle, e le
due persone davanti a lui riassumevano la loro
espressione naturale, egli si fermò indeciso e guardò l'uno
poi l'altra.
«Ebbene?» chiese.
Mason gli si avvicinò e gli appoggiò una mano sulla
spalla.
«Non ti serbo rancore.» «Rancore?»
«Si, so tutto. Ma forse avrei fatto lo stesso anch'io, se
la situazione fosse stata capovolta.»
Campbell indietreggiò e guardò la donna con sguardo
interrogativo. Essa annui, alzando le belle spalle. Mason
sorrise.
«Non temere, non è una trappola per costringerti a
confessare. Lucilie e io ne abbiamo parlato con tutta
franchezza. Senti, Jack, tu sei sempre stato un buon
giocatore. Ecco qua una bottiglia. Non mi chiedere da
dove proviene. Se uno di noi due la beve, risolverebbe la
situazione.» Parlava in modo incontrollato, quasi
delirante. «Lucilie, scegli, chi dei due deve berla?»
Una strana forza si era imposta nella stanza degli
incubi. Un terzo uomo era li presente, benché non uno dei
tre che si trovavano nel momento cruciale della loro vita
aveva il tempo o la voglia di pensare a lui. Da quanto
tempo si trovasse li, o quanto avesse udito, nessuno era in
grado di dirlo. Nell'angolo più lontano dal piccolo
gruppo, egli giaceva rannicchiato contro la parete, una
sinistra, serpentina figura, muta e quasi immobile, tranne
una contrazione nervosa della mano destra serrata. Era
nascosto, coperto da una cassetta quadrata e da un panno
scuro astutamente appeso sopra ad essa, in modo da
celare il suo volto. Attento, osservando ansiosamente
ogni nuovo sviluppo del dramma, era quasi giunto al
momento del suo intervento. Ma i tre non pensavano a
quello. Assorti nelle proprie emozioni, avevano
dimenticato l'esistenza di una forza più potente di loro
stessi, una forza che avrebbe potuto dominare la scena da
un momento all'altro.
«Ci stai, Jack?» chiese Mason.
Il militare annui.
«No!... per l'amor di Dio, no!» gridò la donna.
Mason aveva stappato la bottiglietta e, andando verso
il tavolino, prese un mazzo di carte. Carte e bottiglia
erano vicine.
«Non possiamo lasciare a lei la responsabilità» disse
Mason. «Su, Jack, la carta più alta.»
Il militare si avvicinò al tavolo. Le sue dita sfiorarono
le carte fatali. La donna, appoggiata su una mano, protese
il volto e fissò i due uomini con occhi affascinati.

Allora, e soltanto allora, il fulmine squarciò


l'atmosfera.'
L'estraneo si era alzato, pallido e grave.
Tutti e tre furono improvvisamente consci della sua
presenza. Si rivolsero a lui, con uno sguardo di
impaziente interrogativo. Egli li guardò freddamente, con
tristezza, con qualcosa di didascalico nel suo
atteggiamento.
«Com'era?» gli chiesero, insieme. «Schifoso!» egli
replicò. «Schifoso! Domani dovremo girare daccapo la
scena.»
Lo specchio d'argento
3 gennaio. Questa revisione dei conti di White e
Wotherspoon si sta rivelando un'impresa titanica. Vi sono
venti grossi libri mastri da esaminare e controllare. Ecco
cosa capita, quando si è il socio più giovane in una ditta.
Comunque, è la prima volta che mi viene affidato un vero
e proprio incarico, e debbo dimostrarmi all'altezza. Ma
devo portarlo a termine, questo incarico, in modo che gli
avvocati possano averne l'esito in tempo utile per il
processo. Johnson ha detto stamattina che dovrò
controllare tutto entro il venti del mese. Santo cielo! Be',
farò del mio meglio, e se mente umana e sistema nervoso
resisteranno allo sforzo, me la caverò. Ciò significherà
lavorare in ufficio dalle dieci alle diciassette, e poi
rimettermi al lavoro dalle venti all'una del mattino.
Anche la vita di un contabile può essere drammatica.
Quando, nelle silenziose ore notturne, mentre tutto il
mondo dorme, mi trovo intento a cercare accanitamente
in una colonna dopo l'altra quelle cifre mancanti che
trasformeranno un rispettabile assessore municipale in un
delinquente, capisco che la mia non è poi una professione
tanto prosaica.
Lunedì ho individuato la prima traccia di
appropriazione indebita. Mai nessun cacciatore provò
maggior emozione, scorgendo per primo le tracce della
preda. Guardo i venti libri mastri, e penso alla giungla
attraverso la quale dovrò inseguire la mia preda prima di
poterla afferrare. Un duro lavoro... ma anche un
divertimento emozionante, in un certo senso! Ho avuto
occasione di incontrare l'individuo in questione a una
cena ufficiale; ricordo il suo faccione rubicondo al di
sopra del tovagliolo bianco. Stava guardando un ometto
pallido seduto in fondo al tavolo. Anche lui sarebbe stato
pallido, se avesse saputo il compito che avrei dovuto
svolgere.

6 gennaio. Che assurdità da parte dei medici, ordinare


il riposo quando il riposo è fuori questione! Idioti! Tanto
varrebbe gridare a un uomo inseguito da un branco di
lupi che la cosa di cui ha bisogno è l'assoluta tranquillità.
Devo concludere la verifica delle cifre entro una data
precisa; se non lo faccio, perderò un'occasione unica, e
quindi come diavolo posso riposare? Mi prenderò una
settimana di vacanza dopo il processo.
Forse è stato sciocco da parte mia l'essere andato dal
dottore. Ma divento nervoso e iperteso quando sto seduto
al tavolino, di notte. Non si tratta di un dolore, ma di una
specie di confusione in testa, e ogni tanto di un
annebbiamento alla vista. Avevo pensato che forse del
bromuro, o della valeriana, o qualcosa del genere
avrebbero potuto giovarmi. Ma interrompere il lavoro?
Assurdo pretendere una cosa simile. È come quando si
partecipa a una lunga corsa. Dapprima ci si sente strani, il
cuore martella e i polmoni ansimano, ma se soltanto si ha
la forza di tener duro, si riprende fiato. Continuerò a
lavorare e aspetterò di riprendere fiato. Se non lo
riprenderò, pazienza, continuerò ugualmente a lavorare.
Due libri mastri sono finiti, e il terzo è già a buon punto.
Quel mascalzone ha nascosto bene le sue tracce, ma io le
scoprirò nonostante tutto.

9 gennaio. Non avevo alcuna intenzione di tornare dal


medico. Eppure ho dovuto farlo. «Sta compiendo uno
sforzo eccessivo, rischia un grave esaurimento nervoso,
mette perfino in giuoco la sua sanità mentale.» Bella
roba, sentirsi dire una frase simile. Be', resisterò allo
sforzo e correrò il rischio, e fintanto che sarò in grado di
star seduto in una sedia e di muovere la penna, seguirò le
orme di quel vecchio furfante.
A proposito, tanto vale che annoti qui la strana
esperienza che mi ha spinto a recarmi dal medico per la
seconda volta. Terrò un'esatta documentazione dei miei
sintomi e delle mie sensazioni, perché sono interessanti in
se stessi, "un curioso studio psico-fisico", dice il medico;
e anche perché sono sicurissimo che quando li avrò
superati, mi sembreranno confusi e irreali, come uno
strano sogno fatto nel dormi-veglia. così ora, finché sono
freschi, li appunterò, se non altro per distrarmi da quelle
interminabili cifre.
Nella mia stanza ho un antico specchio con la cornice
d'argento. Mi è stato regalato da un amico, appassionato
di oggetti antichi, il quale, a quanto pare, lo aveva
comperato a una vendita all'asta e non aveva la minima
idea di dove provenisse, È un oggetto piuttosto grande,
largo un metro e alto un'ottantina di centimetri e, mentre
scrivo, si trova alla mia sinistra, appoggiato alla parete
sopra a una credenza. La cornice è piatta, larga circa sei
centimetri, e molto vecchia; di gran lunga troppo vecchia
per avere marchi di fabbrica o altri segni in base ai quali
poter determinare la sua età. Lo specchio ne emerge, con
un bordo smussato, e possiede quella qualità di riflettere
le immagini in modo eccezionale, che si trova soltanto,
secondo me, negli specchi molto antichi.
Specchiandovisi, dà un senso di prospettiva come
nessuno specchio moderno potrà mai dare.
Lo specchio è sistemato in modo tale che, quando sto
al mio tavolo, non riesco a vedervi altro se non il riflesso
dei tendaggi rossi della finestra. Ma ieri sera è avvenuta
una cosa strana. Stavo lavorando da parecchie ore, e assai
svogliatamente con continui ritorni di quel disturbo alla
vista cui ho già accennato. Più d'una volta sono stato
costretto a interrompere e a riposare gli occhi. Be', in uno
di quegli intervalli il caso ha voluto che guardassi lo
specchio. Aveva un aspetto stranissimo. I tendaggi rossi
che avrebbero dovuto esservi riflessi non si vedevano più,
ma lo specchio pareva essere rannuvolato e coperto di
vapore, non in superficie, poiché riluceva come l'acciaio,
ma in profondità, nella fibra stessa dello specchio. Questa
opacità, mentre la fissavo intensamente, parve roteare
lentamente, prima da una parte, poi dall'altra, fino a
trasformarsi in una spessa nube bianca che turbinava in
pesanti volute. Tanto l'immagine era reale e concreta, e
tanto io ero in me, che ricordo di essermi voltato,
convinto che i tendaggi avessero preso fuoco. Ma tutto
nella stanza era mortalmente immobile: nessun suono
tranne il ticchettio dell'orologio, nessun movimento
tranne il lento turbinare di quella strana, soffice nube,
profondamente radicata nel cuore dell'antico specchio.
Poi, mentre guardavo, il vapore, o il fumo, o la
nuvola, in qualsiasi modo la si voglia definire, parve
concentrarsi e solidificarsi in due punti piuttosto
ravvicinati, e mi avvidi, con un brivido di interesse
anziché di paura, che quei punti erano due occhi che
guardavano nella stanza. Potevo intravvedere anche il
vago contorno di una testa... una testa di donna a
giudicare dai capelli, ma quella parte restava nell'ombra.
Soltanto gli occhi spiccavano, ma quali occhi! Scuri,
luminosi, colmi di una fortissima emozione, furia od
orrore. Mai ho visto occhi così pieni di vita intensa e
fremente. Non erano intenti su di me, ma guardavano
fissamente nella stanza. Poi, come mi raddrizzai,
passandomi una mano sulla fronte e facendo uno sforzo
su me stesso per dominarmi, la vaga figura scomparve
nell'opacità, lo specchio lentamente si schiarì e vidi
nuovamente apparire i tendaggi rossi.
Uno scettico direbbe indubbiamente che mi ero
addormentato sulle mie cifre, e che la mia esperienza era
un sogno. A dire il vero non sono mai stato così sveglio
in vita mia. Ero in grado di discuterne perfino mentre
guardavo quell'immagine, e di dirmi che si trattava di
un'impressione soggettiva, di uno scherzo dei nervi, nato
dalla preoccupazione e dall'insonnia. Ma perché proprio
quella forma? E chi era quella donna, quale la terribile
emozione che leggo in quei magnifici occhi castani? Essi
si frappongono fra me e il mio lavoro. Per la prima volta,
sono venuto meno al compito quotidiano che mi ero
prefisso. Forse è per ciò che stasera non ho provato
nessuna sensazione abnorme. Domani devo rimettermi al
lavoro, succeda quello che succeda.

11 gennaio. Tutto bene; proseguo nel mio lavoro.


Tendo la rete, un capo dopo l'altro, attorno a quel corpo
massiccio. Forse però sarà lui a trionfare, se i miei nervi
si spezzeranno nella fatica. Lo specchio sembra essere
una specie di barometro che segna la pressione nel mio
cervello. Ogni notte ho notato che si è appannato prima
che giungessi alla fine del mio compito.
Il dottor Sinclair (che è, a quanto pare, un po' uno
psicologo) si è talmente interessato al mio racconto, che
stasera è venuto a trovarmi' per dare un'occhiata allo
specchio. Avevo già notato che qualcosa stava
scarabocchiato sul retro della cornice, a caratteri antichi.
Il medico li ha esaminati con una lente, ma non è riuscito
a decifrarli. "Sane. X. Pai." è ciò che ne ha ricavato, ma
questo non ci è stato di grande aiuto. Mi ha consigliato di
mettere lo specchio in un'altra stanza; ma, dopo tutto,
qualsiasi cosa io vi veda, lo ha ammesso lui stesso, è
soltanto un sintomo. Il pericolo sta nella causa. I venti
libri mastri, e non lo specchio d'argento, dovrebbero
essere riposti, se solo potessi farlo. Sono già all'ottavo,
quindi faccio progressi.

13 gennaio. Forse, dopo tutto, avrei fatto bene a


portare altrove lo specchio. La notte scorsa esso mi ha
procurato una straordinaria esperienza. Eppure lo trovo
così interessante, così pieno di fascino, che continuerò
ugualmente a lasciarlo al suo posto. Che cosa diavolo può
significare tutto ciò?
Dovevano essere circa luna, e io stavo chiudendo i
libri in procinto di buttarmi sul letto, quando vidi la
donna, li davanti a me. La fase di annebbiamento e di
formazione doveva essere passata inosservata, e
improvvisamente eccola là, in tutta la sua bellezza e
passione e pena, così viva come se fosse stata davvero
davanti a me in pelle e ossa. La figura era piccola, ma
molto netta, tanto che ogni suo lineamento e ogni
particolare del suo abito sono impressi nella mia
memoria. È seduta nella zona sinistra dello specchio. Una
figura indistinta è accovacciata accanto a lei, riesco a
malapena a distinguere che si tratta di un uomo; dietro a
loro c'è una nuvola, nella quale vedo altre figure, figure
in movimento. Non è semplicemente un quadro che vedo.
È una scena vivente, un vero e proprio episodio. La
donna si stringe le braccia, tutta fremente. L'uomo
accanto a lei sta rannicchiato, in preda al terrore.
L'interesse da me provato allontana ogni mio timore. Mi
rende furioso il poter vedere tanto, ma non di più.
Posso almeno descrivere la donna fin nel più piccolo
particolare. A mio giudizio è molto bella e piuttosto
giovane, e non può avere più di venticinque anni. I
capelli sono di un bellissimo colore bruno, con dei caldi
riflessi castani che si tramutano in oro. Una piccola
cuffietta aderente di trine bordata di perle le delimita la
fronte. La fronte è alta, troppo alta forse perché la sua
bellezza sia perfetta, ma non si potrebbe desiderare che
fosse altrimenti, poiché dà un tocco di autorevolezza e di
forza a un volto che altrimenti sarebbe dolcemente
femminile. Le sopracciglia formano un arco delicato al di
sopra delle palpebre pesanti. Gli occhi sono stupendi:
così grandi, così scuri, così colmi di un'incontrollabile
emozione, di rabbia e di orrore, in lotta con la volontà di
controllarsi che la trattiene dalla disperazione! Le guance
sono pallide, le labbra sbiancate dall'agonia, il mento e il
collo squisitamente tondeggianti. La figura, seduta su una
sedia, si protende in avanti, tesa e rigida, folle di orrore.
L'abito è di velluto nero, un gioiello le splende come una
fiamma sul seno, e un crocifisso d'oro arde cupo
nell'ombra di una piega. Questa è la dama la cui
immagine vive ancora nell'antico specchio d'argento.
Quale può essere lo spaventoso fatto che ha lasciato li la
sua impronta, facendo si che oggi, in un'altra epoca, non
appena lo spirito di un uomo sia sufficientemente
provato, egli possa essere consapevole della sua
presenza?
Ancora un particolare: in basso, sul lato sinistro
dell'abito nero vi era, o così mi parve a prima vista, un
informe nodo di nastri bianchi. Poi, guardando con
maggior attenzione, o forse definendosi più chiaramente
la visione, capii ciò che era. Era la mano di un uomo,
contratta e sbiancata dall'agonia, avvinghiata con una
stretta convulsa alla piega dell'abito. Il resto della figura
accovacciata era appena una vaga ombra, ma quella mano
aggrappata spiccava chiaramente sullo sfondo scuro, con
un sinistro senso di tragedia nel suo disperato gesto.
L'uomo è spaventato, terribilmente spaventato. Questo lo
discerno chiaramente. Che cosa lo ha terrorizzato a quel
punto? Perché stringe l'abito della donna? La risposta sta
nelle figure sullo sfondo. Esse sembrano portare pericolo
sia a lei che a lui. L'interesse della scena mi teneva
avvinto. Non ho più pensato al suo rapporto con i miei
nervi. Guardavo fissamente come fossi stato a teatro. Ma
non sono andato oltre. La nebbia si è diradati. Vi furono
movimenti affannosi in cui tutte le figure si trovavano
vagamente coinvolte. Poi lo specchio fu di nuovo
limpido.
Il medico dice che devo smetterla di lavorare per un
giorno, e invero posso farlo perché ho proceduto
alacremente negli ultimi tempi. È evidentissimo che le
visioni dipendono solo dalla condizione dei miei nervi,
perché stasera sono rimasto seduto per un'ora davanti allo
specchio, senza alcun risultato. La giornata di riposo ha
cacciato ogni visione. Mi domando se riuscirò mai a
comprendere appieno il loro significato. Stasera ho
esaminato lo specchio con una buona luce; accanto alla
misteriosa scritta "Sane. X. Pai.", sono riuscito a scoprire
tracce di uno stemma araldico, appena appena visibili
sull'argento. Devono essere antichissime, poiché sono
quasi del tutto scomparse. Se ho decifrato bene, si tratta
di tre punte di lancia, due in alto e una in basso. Le
mostrerò al medico quando verrà domani.

14 gennaio. Mi sento nuovamente in forma, e non


intendo che qualcosa si frapponga fra me e il mio lavoro,
almeno finché non avrò concluso. Ho mostrato al medico
le scritte sullo specchio e lui era d'accordo nel sostenere
che si tratta di uno stemma araldico. È estremamente
interessato a tutto ciò che gli ho raccontato, anzi ha
voluto che lo informassi su ogni particolare. Mi diverte
notare come egli sia diviso fra due desideri contrastanti:
da una parte, che il suo paziente guarisca dai sintomi;
dall'altra, che il medium, poiché tale mi considera, riesca
a risolvere questo mistero del passato. Mi ha consigliato
di rimettermi quieto, a riposo, ma non si è ribellato
troppo alla mia dichiarazione che un fatto simile è
impensabile finché i rimanenti dieci libri mastri non siano
stati controllati.

17 gennaio. Per tre notti non ho avuto ulteriori


esperienze; il mio giorno di riposo ha dato i frutti sperati.
Mi resta da fare soltanto un quarto del mio compito, ma
si tratterà di una marcia forzata, poiché gli avvocati
reclamano a gran voce il materiale. Ne avrò fin troppo di
materiale da consegnar loro. Ne ho scoperte di belle, sul
conto di quel delinquente. Quando si renderanno conto di
quanto infido e astuto sia quel mascalzone, dovrei trarne
un certo prestigio. Fatture falsificate, bilanci alterati,
dividendi attinti dal capitale, perdite segnate come
guadagni, soppressione di costi, giochetti con la piccola
cassa... un bel primato!

18 gennaio. Mal di testa, tic nervosi, annebbiamenti


alla vista, le tempie scoppiano: tutti i cenni premonitori di
guai vicini, e i guai non si sono fatti aspettare. Eppure, il
mio vero dispiacere non è tanto che la visione mi si
presenti, quanto che si interrompa prima che tutto sia
stato svelato.
Ma stanotte ho visto di più. L'uomo accovacciato era
altrettanto ben visibile quanto la dama alla cui veste egli
si stringeva. È un uomo piccolo, di pelle scura, con una
barba nera e appuntita. Indossa un'ampia veste bordata di
pelliccia. Il colore predominante sul suo abito è il rosso.
Com'è terrorizzato, quel poveretto! Si rannicchia, tutto
tremante, e guarda alle sue spalle con sguardo malevolo.
Ha in una mano un piccolo pugnale, ma è assolutamente
intimorito e vile per servirsene. Ora comincio a
distinguere vagamente le figure sullo sfondo. Volti feroci,
barbuti e scuri, prendono forma nella nebbia. Vedo un
essere spaventoso, uno scheletro vivente, le guance
incavate e gli occhi infossati nella testa. Anche costui ha
in mano un coltello. Un uomo alto, molto giovane, dai
capelli biondi, dal volto torvo e duro sta in piedi sulla
destra della donna. La bellissima dama alza gli occhi
verso di lui con sguardo supplichevole. Altrettanto fa
l'uomo rannicchiato accanto a lei. Questo giovane pare
essere l'arbitro del loro destino. L'uomo accovacciato si
avvicina ancora di più alla donna, nascondendosi fra le
sue gonne. Il giovane alto si china e tenta di strapparlo da
lei. Tutto questo ho visto stanotte prima che lo specchio
ridiventasse limpido. Non saprò mai come finisce questa
storia? Non si tratta di semplice immaginazione, di ciò
sono più che certo. Questa scena è accaduta in un luogo,
in una determinata epoca e l'immagine si è riflessa
nell'antico specchio. Ma dove?... Quando?...
20 gennaio. Il mio lavoro sta per giungere alla fine, ed
era ora. Sento una tensione, un senso di costrizione
intollerabile che mi dice che qualcosa deve succedere. Ho
lavorato fino allo stremo delle mie forze. Questa
dovrebbe essere però l'ultima sera. Con uno sforzo
supremo dovrei finire l'ultimo libro mastro e concludere
il caso prima di alzarmi dalla sedia. Devo riuscirci. Ci
riuscirò.

7 febbraio. Ci sono riuscito. Ma che esperienza! Non


so ancora se le mie forze mi consentiranno di metterla per
iscritto.
Permettete che, prima di tutto, io spieghi come stia
scrivendo questi appunti nella clinica privata del dottor
Sinclair, circa tre settimane dopo l'ultima annotazione nel
mio diario. La notte del 20 gennaio il mio sistema
nervoso ha finalmente ceduto, e non ricordo più nulla di
quanto è accaduto in seguito, finché non mi sono
ritrovato qui, tre giorni fa, in una casa di cura. Ora posso
riposare con la coscienza in pace. Prima di crollare ho
portato a termine il mio lavoro. Le mie cifre sono in
mano agli avvocati. La caccia è finita.
Adesso devo descrivere l'ultima nottata. Avevo
giurato di finire il mio lavoro, e mi ci dedicai con tanta
costanza, benché mi sentissi scoppiare la testa, che mi
rifiutai cocciutamente di alzare gli occhi fin quando non
avessi finito di controllare l'ultima colonna di cifre.
Eppure era una imposizione crudele, poiché sapevo che
per tutto il tempo nello specchio stavano succedendo cose
meravigliose. Me lo diceva ogni nervo del mio corpo. Ma
se avessi alzato gli occhi, sarebbe stata la fine del mio
lavoro. Non sollevai dunque lo sguardo finché non ebbi
finito tutto. Allora, quando gettai la penna con la testa in
fiamme e alzai gli occhi, quale visione!
Lo specchio nella sua cornice d'argento era una specie
di palcoscenico meravigliosamente illuminato, sul quale
si stava svolgendo un dramma. Non vi era più nebbia. La
tensione dei miei nervi aveva provocato questa
stupefacente chiarezza. Ogni espressione, ogni
movimento era nitido come in una scena di vita reale.
Strano come io, uno stanco contabile, l'essere più
prosaico della razza umana, davanti a me i libri mastri di
un astuto delinquente, debba essere stato scelto fra tutti
gli uomini per contemplare una simile scena!
La scena era la stessa e uguali erano i personaggi, ma
il dramma aveva progredito. Il giovane alto stava
stringendo fra le braccia la donna. Lei cercava di sfuggire
alla stretta e lo guardava con espressione d'odio. Avevano
allontanato con la forza dalla donna l'uomo rannicchiato.
Una dozzina di esseri selvaggi e barbuti, lo circondavano.
Lo stavano massacrando a colpi di pugnale. Pareva che lo
colpissero all'unisono. Le loro braccia si alzavano e
ricadevano. Il sangue non sgorgava da lui: zampillava. La
veste rossa ne era tutta macchiata. Egli si gettava da una
parte e dall'altra, grondante di rosso sangue, come una
susina troppo matura. Eppure essi continuavano a
pugnalarlo, e il sangue continuava a zampillare. Era
orribile!... Lo trascinarono verso la porta mentre lui
tentava ancora di scalciare. La donna voltò la testa per
guardarlo, la bocca spalancata. Non udivo nulla, eppure
sapevo che stava urlando. Poi, non so se per via della
terrificante visione che mi stava di fronte, o se invece per
l'eccesso di fatica delle ultime settimane, la stanza prese a
girarmi attorno, il pavimento parve sprofondare sotto i
miei piedi; dopodiché non ricordo più nulla. L'indomani
mattina, di buonora, la padrona di casa mi ha trovato
steso, privo di sensi, davanti allo specchio d'argento, ma
io stesso non ricordo altro finché non mi sono svegliato
tre giorni fa nella pace assoluta della casa di cura del mio
medico.

9 febbraio. Soltanto oggi ho raccontato al dottor


Sinclair la mia esperienza. Finora non mi aveva permesso
di parlare di questo argomento. Mi ha ascoltato con
profondo interesse. «Lei non crede di poter identificare
tutto questo con un noto episodio storico?» mi chiese
sospettoso. Lo assicurai che non conosco la storia. «Non
ha proprio idea dell'origine di quello specchio, né a chi
appartenesse una volta?» continuò il medico. «E lei lo
sa?» chiesi a mia volta, poiché la sua domanda mi era
parsa densa di significato. «È incredibile» disse Sinclair
«'eppure come si può spiegarlo altrimenti? Le scene che
lei mi aveva descritto precedentemente lo suggerivano,
ma adesso le cose sono andate oltre ogni possibilità di
coincidenza. Questa sera le porterò alcuni appunti.»
Ed ecco quanto mi disse quella sera. Permettete che
annoti le sue parole quanto più esattamente possibile. Ha
esordito appoggiando vari volumi ammuffiti sul mio
letto.
«Questi li potrà consultare con suo comodo» mi ha
detto. «Ho qui degli appunti che lei potrà controllare.
Non vi è alcun dubbio che ciò che lei ha visto è
l'assassinio di Rizzio da parte dei nobili scozzesi alla
presenza della regina Mary, che avvenne nel marzo del
1566. La descrizione da lei fatta della donna è assai
precisa. La fronte alta e le palpebre pesanti accoppiate a
una grande bellezza, difficilmente potrebbero riferirsi a
due donne. Il giovane alto era suo marito, Darnley.
Rizzio, dice la cronaca, "era vestito di un'ampia veste da
camera bordata di pelliccia, con calze di velluto color
ruggine". Con una mano si aggrappava alla veste di
Mary, con l'altra teneva un pugnale. L'uomo
dall'espressione feroce e dagli occhi infossati era
Ruthven, appena rimesso da lunga malattia. Ogni
particolare corrisponde.»
«Ma perché a me?» chiesi, sconcertato. «Perché di
tutti gli uomini, proprio a me?»
«Perché lei era in una condizione mentale idonea a
ricevere l'impressione. Perché per puro caso possedeva lo
specchio...»
«Lo specchio!» gridai. «Lei è dunque convinto si tratti
dello specchio della regina Mary... che si trovasse nella
stanza dove successe il fatto storico?»
«Sono convinto che si tratti dello specchio di Mary.
Essa era stata regina di Francia. I suoi oggetti personali
avrebbero recato l'insegna reale. Ciò che lei ha scambiato
per tre punte di lancia erano in realtà i gigli di Francia.»
«E la scritta?»
«"Sane. X. Pai" la si può spiegare con Sanctae Crucis
Palatium. Qualcuno ha segnato sullo specchio il luogo
donde proveniva. Era il Palazzo della Santa Croce.»
«Holyrood!» esclamai.
«Precisamente. Il suo specchio proveniva da
Holyrood. Lei ha avuto un'esperienza unica ed è riuscito
a liberarsene. Mi auguro che non si metterà mai più in
condizioni di doverne affrontare una analoga.»
Indice

Sir Arthur Conan Doyle

I RACCONTI DEL TERRORE

L'imbuto di cuoio
Il caso di Lady Sannox
Il terrore del Blue John Gap
Il gatto brasiliano

I RACCONTI DEL MISTERO

Il treno scomparso
L'uomo dagli orologi
Il dottore nero
La stanza degli incubi

LO SPECCHIO D'ARGENTO

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