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Luca Cardinalini, Pietro Licciardi

La strana morte
del dr. Narducci
Il rebus dei due cadaveri
e il «mostro» di Firenze
CRONACHE
I edizione: novembre 2007

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DeriveApprodi

Luca Cardinalini e Pietro Licciardi

La strana morte
del dr. Narducci
Il rebus dei due cadaveri
e il «mostro» di Firenze
NOTA ALLA LETTURA

Giornali e televisioni, ormai da anni, si occupano ciclicamen­


te del «caso Narducci», riferendosi cioè alla storia e all’inchiesta
della Procura di Perugia, sulle cause della morte del giovane me­
dico umbro, avvenuta nell’ottobre del 1985.
Una vicenda lontana dalla conclusione, anche dal punto di
vista giudiziario, visto che si è ancora nella fase di incidente pro­
batorio: prima cioè di un vero e proprio processo.
Noi non siamo giudici, ma semplici cronisti. Il nostro obbiet­
tivo era ed è stato solo uno: ricomporre i vari tasselli di un intrica­
to mosaico che, di volta in volta, si è venuto disegnando.
Alla fine di una sola cosa siamo convinti: di aver toccato con
mano una ferita ancora molto aperta. Ne è prova la totale chiusu­
ra a qualsiasi tipo di collaborazione, non solo da parte degli inda­
gati - ai quali, da garantisti quali siamo, auguriamo la più com­
pleta assoluzione - ma anche dei semplici testimoni di quel fatto.
Nonostante siano passati così tanti anni, dominano ancora fasti­
dio e, soprattutto, paura. Di chi 0 di cosa, non è del tutto chiaro.
Ed è anche per questo che abbiamo voluto provare a racconta­
re - unicamente sulla base di documenti pubblici e pubblicati -
un fatto di cronaca che è anche un «giallo» a tutti gli effetti. Un
unicuum nella storia della cronaca italiana, visto che non si ha
memoria (quantomeno) di un (ormai acciarato) avvenuto scam­
bio di cadaveri.
Per quanto riguarda il collegamento della vicenda del dottor
Narducci con quella dei delitti seriali del cosiddetto «mostro» di
Firenze, non è compito nostro dire se ciò sia reale, plausibile o so­
lamente un abbaglio. Di certo però, come potrà rendersi conto il
lettore, almeno le inchieste si sono incrociate e accavallate più di
una volta. Questo dicono le carte. E questo è quanto volevamo
raccontare, senza aggiungere o togliere nemmeno una parola.
A Vincenzo Licciardi, assistente capo della Polizia di Stato
Prologo
All’inizio sono strani silenzi, mugolii, rumori indecifrabili in sot­
tofondo. Devono solo farti capire che loro ci sono, che tu devi
stare in guardia, temere qualcosa. L’utenza appartiene a una si­
gnora di Foligno, un’estetista, alla quale giorni prima hanno cer­
cato di rapire il figlio.
Chi chiama si definisce affiliato a una setta satanica.
Sono voci alterate e travisate, quelle di un uomo e di una
donna, che l’estetista decide di registrare dotandosi di un sistema
artigianale quanto efficace.
Una notte la voce maschile le ricorda minacciosa che i patti
vanno rispettati, che non conviene a nessuno cercare di fare i
furbi.
Un altro giorno è la voce femminile a invitarla a «provvedere
quanto prima», se vuole evitare guai.
Ogni squillo del telefono oramai le provoca un sobbalzo. La vo­
gliono davvero spaventare e ci riescono molto di più quando le m i­
nacce non la riguardano personalmente, ma toccano suo figlio:
«Sarà sacrificato sulle colline del Mugello... farà la fine di Pac-
ciani».
Che c’entra Pacciani? Il contadino che aveva visto in televisio­
ne e sui giornali accusato di essere il «mostro» di Firenze?
Fino a che, un giorno, viene minacciata con queste parole:
«Verrai uccisa e seppellita come l’amico di Pacciani, quello del
lago Trasimeno... come i traditori di Firenze e il grande dottore».
Ancora troppo vago. Ma le generalità del «grande dottore»
sono esplicitate qualche secondo dopo:
«Il dottore, il grande dottor Narducci... La tua vagina sarà
spaccata come le vittime di Firenze e dei traditori Pacciani e Nar­
ducci, che tradirono il nome di Satana».
Nell’ultima pagina della trascrizione, l’agente di polizia che la
redige scrive:
«Il grande professore Narducci, che è finito nel lago strango­
lato».
Per la polizia, e per il magistrato Giuliano Mignini che sta se­
guendo il caso delle minacce telefoniche, collegare i due fatti, ap­
parentemente così lontani e distanti nel tempo e nella sostanza, è
stato quasi obbligatorio.
Difficile vedere d’acchito qualche nesso. L’unico, molto flebi­
le, è la città, Foligno, dove abita la signora e dove da ragazzo aveva
abitato lo stesso Francesco Narducci. Foligno dove il padre di
quest’ultimo, il ginecologo Ugo Narducci, aveva uno studio. Foli­
gno dove, come si vedrà in seguito, furono svolte da uomini della
Polizia di Stato indagini «coperte», segrete, ma collegate ai delit­
ti del «mostro» di Firenze.
Così il magistrato Mignini nei giorni successivi non può far
altro che recarsi all’archivio del tribunale e riportare alla luce il
vecchio fascicolo polveroso e dimenticato. Una cartella come
tante altre, con sopra la scritta: «Atti relativi alla scomparsa di
Narducci Francesco». Il fine è solo uno: verificare in sostanza le
circostanze del ritrovamento del corpo e metterle a confronto con
le minacce alla signora.
Solo scorrendo in fretta le pagine, nemmeno troppo numero­
se, risaltano in maniera evidente inquietanti interrogativi sull’af­
fidabilità dei dati e sull’intera vicenda. Che ci accingiamo a riper­
correre sulla base delle testimonianze e degli atti redatti nel corso
dell’indagine che si intreccia, in più di un episodio e di un perso­
naggio, a urialtra indagine che dal 1974 a oggi non si è mai chiu­
sa: quella sul «mostro» di Firenze.
Misteri perugini
FRANCESCO NARDUCCI, CHI ERA?

In un certo senso, Francesco Narducci è un figlio d’arte. Il


padre Ugo è un affermato ginecologo, primario all’ospedale di
Foligno. Il fratello Pierluca, cinque anni più giovane, seguirà la
carriera medica, anche lui ginecologo. Solo la sorella, Maria Eli­
sabetta, sceglierà una strada diversa, diventando uriinsegnante
di educazione fisica nelle scuole medie.
Fino al giorno della sua scomparsa è per tutti un giovane m e­
dico, un gastroenterologo, che ha fatto una folgorante carriera.
Laurea in medicina alla Sapienza di Roma con il m assimo dei
voti nel 1974, titolare di un assegno di studio del ministero della
Pubblica Istruzione dal 1974 al 1978, assistente incaricato presso
la clinica medica del Policlinico di Perugia fino al 1980, assisten­
te ordinario fino al 1984, anno in cui diventa il più giovane pro­
fessore associato d’Italia: cattedra di Fisiopatologia Digestiva del-
l’Università di Perugia.
Francesco è alto un metro e ottanta, ha un fisico asciutto e atle­
tico, quello che si dice una bella presenza. Pratica molti sport, ten­
nis e nuoto in particolar modo. Da ragazzo andava a caccia insieme
al padre ed è allora che impara a sparare, passione che coltiva come
conferma l’iscrizione al poligono di tiro di Umbertide, alle porte di
Perugia, dove si allena con una pistola Beretta calibro 22 Long
Rifle che tiene nel vano portaoggetti della sua auto. Insomma, è un
giovane bello, sportivo e benestante. Eppure, quando riceve la car­
tolina precetto, poco dopo ottenuta la laurea, viene riformato per
una causa molto singolare: «marcescenza ai piedi». I suoi piedi,
ovviamente, sono sanissimi; in attesa del congedo deve tuttavia
trascorrere un mese alla Scuola di Sanità Interforze di Firenze.
Giancarla Sogaro, la zia di Francesca Spagnoli che diventerà
sua moglie, conosce molto bene la famiglia Narducci. Ugo è stato
il suo ginecologo fin dal 19 6 4 e lei gioca spesso a bridge con la
moglie di lui, Lisetta. Trascorrono insieme, nello stesso albergo,
le vacanze estive a Cortina, fin da quando i rispettivi bambini
erano piccoli:
«Francesco era un ragazzo molto esuberante e scherzoso. Ri­
cordo che organizzava sempre degli scherzi, come quando rico­
prì di carta igienica i corrimano dell’albergo Miramonti».
Lo stesso ritratto ne fanno anche gli amici, con i quali ogni
tanto organizzava qualche raid notturno. Come quella volta che,
a mezzanotte, si mise a lanciare a tutta velocità i carrelli di un su­
permercato. Naturalmente ha gli occhi di molte ragazze addosso
e lui ricambia. In camera ha una cesta piena di lettere e di fotogra­
fìe delle sue «fidanzate», anche se i genitori, soprattutto la
madre, hanno idee chiare sul tipo di donna con la quale avrebbe
dovuto metter su casa.
«Francesco si innamorò follemente di una certa Mecatti», ricor­
da ancora Giancarla Sogaro, «ma la madre osteggiò questo rappor­
to ritenendo la ragazza di condizioni sociali inferiori alle sue aspet­
tative e non trovando opportuna la maggiore età di lei rispetto a
Francesco. Improvvisamente, un giorno, venimmo a sapere che
Francesca, mia nipote, si era fidanzata con Francesco Narducci».
Pure Francesca Spagnoli viene da uriottima famiglia, anche
se, secondo la zia, «lei era molto ingenua e di educazione rigida».
Francesca e Francesco si conoscono solo di vista - il fratello di
lui, Pierluca, era fidanzato con la sorella di lei, Nicoletta - si salu­
tano e si presentano per la prima volta solo nel 1977, nella villa
dei nonni, a Prepo, un sobborgo di Perugia, in occasione del di­
ciottesimo compleanno di una delle tre sorelle Spagnoli. La scin­
tilla tra i due scoccherà poco dopo.
«Francesco era diventato il primo in tutto nella vita. Conosce­
va alla perfezione l’arte di essere protagonista», si legge nel libro
di Diego Cugia, Un amore all’inferno (Milano 2004), che France­
sca Spagnoli vorrà far scrivere per liberarsi dall’insopportabile
peso di essere ormai considerata come quella che non poteva non
sapere o, peggio, come la «moglie del mostro». Ecco come ricor­
da l'incontro:
«Francesco indossava un abito di lino bianco e immaginai lui e
mia sorella predestinati a un amore eterno. Invece quella sera lui
si accorse di me. Da principio non mi parve possibile. Chi soprav­
vive nella penombra in cattività stenta ad abituarsi all’essere lum i­
noso e libero; presi però coscienza del miracolo il sabato sera di
due giorni dopo, alla festa per i diciotto anni di sua sorella Maria
Elisabetta alla villa di San Feliciano. [...] Francesco mi venne in­
contro: “Come stai?”. Non mi abbandonò più da quell’istante fino
alla morte. Avevo sedici anni e mezzo, lui quasi ventotto».
Segue un breve fidanzamento e poi le nozze, che si celebrano
nella chiesa di Santa Maria di Prepo, il 20 giugno 1981.
Ancora la Sogaro:
«Andarono in viaggio di nozze in un’isola caraibica ma, appe­
na tornati, Francesco partì subito per gli Stati Uniti, dove si trat­
tenne per circa otto mesi. La cosa mi sorprese molto, non riusci­
vo a capire come potesse andarsene così a breve distanza dal ma­
trimonio, lasciando da sola la giovane moglie. In quell’anno, a
Natale, Francesca ed Elisabetta andarono a trovarlo in America,
ma non tutto era perfettamente chiaro».
Il trasferimento negli States per motivi professionali, comun­
que, non sembra intaccare l’apparentemente tranquillo e felice
menage familiare. Secondo Massimo Spagnoli, zio di Francesca, i
due sembravano affiatati, anche se non c’erano figli, con ram ma­
rico soprattutto di Francesca. Tuttavia, confessa, qualche resi­
stenza alla loro unione in famiglia c’era stata:
«Debbo dire che mia nipote volle assolutamente sposare
Francesco, anche se mio fratello [Gianni Spagnoli N.d.A.] non
era d’accordo. Cedette dopo molte insistenze, credo che fu il pro­
fessor Mario Bellucci [medico e amico di famiglia sia dei Narduc­
ci che degli Spagnoli N.d.A.] ad adoperarsi per convincerlo».
Forse a preoccupare il papà di Francesca è la fama di play boy
del giovane e brillante dottore. La figlia della Sogaro, Federica, lo
incontra in compagnia di altre donne in locali notturni della città,
nei periodi in cui la moglie è al mare l’estate. E accade spesso che
nei fine settimana il dottore si assenti col pretesto di improvvisi
problemi sul lavoro. C ’è anche chi racconta di sue relazioni con
diverse infermiere e colleghe.
«Francesca non sospettava di nulla, era talmente ingenua e
credulona nei confronti di Francesco», dice la zia.

UNA GITA SUL LAGO

La mattina dell’8 ottobre 1985 il dottor Narducci è al lavoro, al­


l’ospedale di Monteluce di Perugia. Alla normale routine della
corsia aggiunge un impegno in qualità di assistente in una ses­
sione d’esami universitari, presieduta dal primario di Gastroen­
terologia, il professor Antonio Morelli, amico di fam iglia da
lunga data e suo testimone di nozze. È una giornata di sole, calda
e apparentemente tranquilla. Anche se, quando a metà mattinata
Narducci incrocia il collega Giovan Battista Pioda, lungo lo stret­
to e in quel momento deserto corridoio che conduce ai laboratori,
non sembra affatto rilassato:
«Non indossava il camice ma un giubbotto scamosciato. Lo
salutai e stranamente non mi rispose. La cosa mi sorprese molto,
visto che Francesco era sempre educato e corretto. Mi sembrò
pensieroso, camminava guardando dritto davanti a sé».
Narducci torna in aula e continua gli esami. Pochi minuti
dopo, sull’utenza del reparto, arriva una telefonata. Qualcuno,
uomo o donna non si sa, chiede del dottor Francesco Narducci. È
un infermiere, forse Giuseppe Pifferotti, a entrare nell’aula e ad
avvertire della chiamata il giovane medico. Questi esce dalla stan­
za e torna dopo pochissimo ma non per riprendere il suo posto. Si
avvicina al professor Morelli e a bassa voce gli comunica che è co­
stretto ad allontanarsi, subito, a causa di un impegno improvviso.
La cosa stupisce tutti i presenti, a cominciare proprio dal pro­
fessor Morelli, che dirà di aver pensato, sul momento, a un’emer­
genza di carattere personale. Molti anni dopo, a indagini ormai
avviate, in una cena a Gubbio a casa dell’imprenditore Carlo Cola-
iacovo, lo stesso Morelli confiderà quello stupore al dottor Mario
Beliucci, anch’egli medico e amico di famiglia sia dei Narducci
che degli Spagnoli, anche lui testimone di nozze, ma da parte di
Francesca. Quest’ultimo già iscritto alla loggia massonica P2 ora
frequenta quella intitolata al padre, Bruno Bellucci, tra le più im ­
portanti di Perugia, la stessa che vede iscritti i due consuoceri,
Ugo Naducci e Gianni Spagnoli.
Prima di lasciare l’ospedale, Narducci passa velocemente dal­
l’ufficio per riprendere le sue cose e si affaccia dalla segretaria
chiedendole di spostare all’indomani gli esami previsti per il po­
meriggio. Dei motivi di quell’uscita anticipata il medico non dà
spiegazioni a nessuno. Un generico «devo scappare via» basta a
soffocare qualsiasi curiosità. Uscendo sul piazzale del Policlinico
incontra altri colleghi.
Il dottor Franco Aversa sta arrivando in quel momento con già
addosso il camice. Deve montare di guardia medica, l’orario è quin­
di quello del cambio di turno, all’incirca le tredici e trenta, quattor­
dici. Dopo alcuni convenevoli, Francesco gli rivolge una proposta
inaspettata: di accompagnarlo al lago, vista la bella giornata. «Lo
mandai bonariamente a quel paese, credendo che me lo avesse
detto apposta, per prendermi in giro, vedendo che stavo entrando
allora. Alla fine andammo a prendere un aperitivo al bar dell’ospe­
dale, poi ci salutammo e lui si diresse verso il parcheggio».
Durante il tragitto incontra un altro collega, il dottor Claudio
Cassetta, che di quell’incontro frettoloso conserva, a distanza di
anni, solo una sensazione e un dato di fatto:
«Ebbi l’impressione che volesse confidarsi con qualcuno. Ri­
cordo perfettamente che indossava una maglietta».
Narducci arriva al parcheggio e sale a bordo della sua Citroen
Cx azzurrina. Ma, contrariamente all’urgenza annunciata, pren­
de la strada di casa, che è in via dei Filosofi.
Quando lui apre la porta Francesca non nasconde il suo stu­
pore per quel ritorno inatteso; sapendo degli impegni in ospeda­
le, si erano dati appuntamento per la sera. Francesco le dice che
ha deciso all’ultimo minuto di rincasare per un pranzo veloce e
che doveva tornare in ospedale nel pomeriggio ma non avrebbe
fatto tardi; tanto più che in prima serata c’era un programma in
televisione che lo interessava.
Consumano insieme in fretta un pasto frugale - riso integra­
le in bianco, uno dei suoi piatti preferiti - che sarà anche l’ultimo.
Francesca ha ancora negli occhi l’immagine del marito, con in­
dosso quel paio di jeans marca Burberrys che lei stessa gli aveva
regalato per il suo trentaseiesimo compleanno, festeggiato pochi
giorni prima. Ricorda anche che mentre in cucina sta sparec­
chiando la tavola lo sente parlare con i suoi parenti al telefono:
forse con la madre, forse con il fratello Pierluca, che pur essendo
già sposato a pranzo si ferma spesso a casa dai genitori.
Ma l’ultima telefonata la fa a Peppino Trovati, il proprietario
della darsena di San Feliciano, sul lago Trasimeno, dove la fam i­
glia ha una villa e, appunto, una barca. Da lui si informa se il na­
tante è funzionante e ricevuta conferma avverte che arriverà tra
non molto, senza spiegare altro.
Quando saluta la moglie, dandole appuntamento alla sera,
anziché il consueto, fuggevole bacetto sulla guancia, la bacia
sulla bocca, a lungo e con passione.
Francesca ricorderà che nell’ultim o periodo prim a della
scomparsa, il marito stentava a prender sonno e la sera prima
aveva armeggiato fino alle tre del mattino con i cassetti del mobi­
le, dove custodiva tutti i suoi documenti e i suoi scritti, nello stu­
dio adiacente alla camera da letto, inaccessibile a tutti.
Francesco sceglie di non prendere la macchina, ma la sua moto
Honda 4 00 rossa, targata PG 102777, e anziché dirigersi verso
l’ospedale imbocca la superstrada E45 per San Feliciano, piccola
frazione di Magione, sulla sponda orientale del Trasimeno.
Impiega un quarto d’ora, ma prima di recarsi alla darsena
passa dalla villa di famiglia che sta in alto, insiem e ad altre abita­
zioni immerse nel verde, alla fine di una strada stretta e in salita.
Sono case sfruttate soprattutto d’estate o nei weekend; in quel
momento quasi tutte disabitate.
Impossibile stabilire quanto tempo si trattenga in casa, non
essendoci testimoni. Si sa però che quando lascia la villa lo fa a
grande velocità, come racconta un vicino - Alberto Buini - e
come prova il segno profondo della sgommata sulla ghiaia da­
vanti all’ingresso.
Percorre il chilometro in discesa che lo separa dalla darsena. È
ormai pomeriggio inoltrato quando saluta Trovati, che lo conosce
da sempre, anche se non a fondo, pur avendolo visto raramente
negli ultimi anni. Dirà che Narducci gli sembrò tranquillo. Ver­
sione che contrasta con quella della madre di Francesca Spagno­
li, signora Maria Bona Franchini:
«Trovati mi riferì di un Francesco arrivato alla darsena molto
pallido e agitato».
[ Il dottore lascia la moto sotto un salice, poco distante dal molo,
e sale a bordo del suo Grifo plaster con motore fuoribordo da 70 ca­
valli. Si appresta a mollare l’ormeggio quando Trovati lo avverte:
«Dottore, guardi che il serbatoio è pieno solo a metà».
E Narducci risponde:
«Tanto per quello che m i serve... Vado qui vicino e torno», ag­
giungendo che, all’occorrenza, poteva contare anche su una scor­
ta di altri sei o sette litri.
Trovati lo vede dirigersi all’isola Polvese, verso la cosiddetta
punta del Muciarone, nella parte più appartata dell’isola. Nessu­
no lo vedrà più vivo. A parte, forse, un paio di pescatori del posto.
Il primo si chiama Giovanni Dolciami e quel pomeriggio sta
mettendo le reti per le anguille quando, a un centinaio di metri di
distanza, vede un barchino che prima punta verso l’isola Polvese
e poi vira verso Sant’Arcangelo. A bordo c’è un uomo seduto sui
sedili di dietro. Ogni tanto, quando Dolciami si gira per sistema­
re le reti, volge uno sguardo alla piccola imbarcazione, sempre
ferma, «finché, a un certo punto quell’uomo non c'era più, spari­
to». Ed è per questo che, al ritorno, decide di deviare e di avvici­
narsi alla barca.
In un primo momento dice di essersi fermato a una decina di
metri per la paura, mentre in sede di incidente probatorio dirà
che c’è quasi salito a bordo. Comunque la barca è vuota. Dolciami
le gira intorno un paio di volte per vedere se il corpo è caduto in
acqua, in quel punto trasparente e poco profonda. Niente. Quan­
do attracca a San Feliciano, all’imbrunire, c’è già qualcuno che gli
chiede se abbia visto il battellino, e lui racconta tutto.
Il secondo si chiama Enzo Ticchioni, conosce a menadito
ogni metro del lago, dove ha trascorso tutta la vita, scandita da
gesti sempre uguali, ripetuti tutti i giorni dell’anno. Si esce presto
la mattina per tirar su le nasse, dette tofoni, le reti per le anguille;
a mezzogiorno si torna a riva per vendere il pesce; poi, nel pome­
riggio, se non c’è vento, si torna a ributtare in acqua le reti.
Quel pomeriggio il lago è una tavola, ci sono poche imbarca­
zioni in giro, qualche raro pescatore sportivo, solo silenzio, il ru­
more dei gabbiani e, lontano, l’eco del passaggio di uriautomobile
o il rintocco di una campana. Enzo, con gesti calmi e consueti, sta
mettendo le reti nei pressi dell’isola Polvese, quasi di fronte al ca­
stello. Si ferma lì un paio d’ore e quando riparte - all’incirca verso
le diciassette e trenta - il sole rosso sta già iniziando a tramontare.
Sulla via del ritorno, a circa duecento metri di distanza, vede
un’imbarcazione, «uno scaletto in mezzo alle cannine, dove l’ac­
qua sarà al m assim o alta un metro e venti», ferma, girata di
poppa, con a bordo un uomo appoggiato sul lato destro, seduto,
apparentemente immobile. Ne dà anche una descrizione abba­
stanza dettagliata: capelli castano scuri, sui quarantacinque anni,
indossa un giubbotto di renna marrone. Enzo accenna un saluto,
l’altro risponde alzando la mano.
Ticchioni non può dire che l’uomo visto sulla barca fosse Nar­
ducci, perché di persona non lo ha mai conosciuto. Però, curiosa­
mente, ne ha sentito parlare proprio il giorno prima da Emanue­
le Petri, il poliziotto che nel 2003 verrà ucciso dalle Brigate rosse
sul treno Roma-Firenze, che vive a Tuoro, un paesino sulle rive
del Trasimeno.
Petri, come capitava spesso, era passato a casa di Ticchioni per
acquistare del pesce fresco. Parlando del più e del meno gli aveva
accennato a un inseguimento fatto al dottor Francesco Narducci,
avvenuto dalle parti di Cortona. Purtroppo infruttuoso ma com­
mentato con parole eloquenti:
«Guarda che tanto lo chiappiamo».
Di quella confidenza Ticchioni cambierà versione nel tempo. Al
magistrato Giuliano Mignini, all’inizio delle indagini, racconta:
«Petri mi disse che stavano pedinando da tempo il medico,
perché avevano trovato dei resti um ani femm inili dentro il frigo­
rifero della sua abitazione di Firenze».
In sede di incidente probatorio però Ticchioni afferma di non
ricordarsi più di quelle dichiarazioni, rese solo un anno prima.
Nell’aula di tribunale è molto meno loquace, si giustifica con le
precarie condizioni di salute, con il tumore che l'ha colpito e che
l’ha costretto a subire ben sette operazioni.
Gli vengono mosse delle contestazioni precise su questo cam­
bio di scenario e di particolari. Come ad esempio il mezzo utiliz­
zato da Narducci per sfuggire ai poliziotti: mentre in un primo
tempo aveva parlato di una moto, in aula parla di una macchina,
molto potente.

LE RICERCHE

Non vedendo tornare Narducci, Trovati, il proprietario della


darsena, inizia a preoccuparsi e decide di avvertire qualcuno.
Non i Carabinieri, come ci si aspetterebbe, ma il fratello del me­
dico, Pierluca, che lo rassicura:
«Vengo subito».
Quando? A così tanta distanza dai fatti è difficile poter rico­
struire con esattezza i tempi. Trovati fìssa inizialmente l’arrivo di
Pierluca Narducci intorno alle diciotto e quarantacinque. In se­
guito sposterà in avanti gli orari, dicendo di averlo chiamato alle
diciannove e quarantacinque e collocando il suo arrivo al lago alle
venti e quindici.
Di sicuro la stazione dei Carabinieri competente per territo­
rio, quella di Magione, riceve la segnalazione della scomparsa
solo alle ventitré e quindici. Viene messa in allarme anche la cen­
trale operativa che chiama i Vigili del Fuoco e iniziano imm edia­
tamente le ricerche.
Più o meno alla stessa ora Francesca Spagnoli viene informa­
ta della scomparsa del marito, cioè dopo almeno quattro o cinque
ore dalla chiamata di Trovati a Pierluca.
È quest’ultimo a informarla dell’accaduto. Subito dopo si reca
insieme alla madre, Maria Bona Franchini, alla villa dei Narducci
a San Feliciano, cercando di avere ulteriori notizie sugli ultimi
spostamenti del marito. Francesca in quel momento di una sola
cosa è sicura: che il marito le ha mentito, dicendole che sarebbe
tornato in ospedale. Quindi, forse ipotizzando un incontro clan­
destino, chiede anche se il consorte fosse giunto alla darsena da
solo. A questa domanda Pierluca, il cognato ginecologo, reagisce
in modo brusco, quasi gridandole:
«Non cominciate a infangare la memoria di Francesco».
Un comportamento incomprensibile questo radicale pessi­
mismo sulla sorte del fratello, dato già come per spacciato.
Nella villa ci sono già altri parenti. Ugo Narducci prega la con­
suocera di stare vicina alla moglie, Lisetta Valeri, che, sconsolata,
ripete di vedere il figlio già in fondo al lago. Il giorno seguente, il
9 ottobre, la Bona Franchini si stupisce ancora di più quando il
consuocero Ugo la avvicina e le sussurra:
«Mi sono messo d’accordo con il questore per non fare l’au­
topsia a Francesco».
Eppure, del genero, non c’è alcuna traccia, tutte le ipotesi
sono in piedi - dalla scomparsa in acqua, al rapimento, all’allon­
tanamento volontario - e ciò stride con l’ostentata sicurezza della
famiglia Narducci circa l’esito infausto della vicenda.
In realtà, la barca del medico disperso viene recuperata quasi
subito, la notte stessa, anche con l’aiuto delle indicazioni dei due
pescatori. A setacciare le acque del lago sono due imbarcazioni. A
bordo della prima c’è Ugo Mancinelli, che ha una rimessa e un'of­
ficina per la riparazione delle barche a San Feliciano:
«Ero uscito di casa verso le diciannove, diciannove e trenta,
avendo sentito le sirene dell’allarme. La voce che girava era che
non si ritrovava il figlio del professor Narducci. Andai alla darse­
na di Trovati, presi la barca del dottor Spartaco Ghini e insieme ad
Alberto Ceccarelli, suocero di Pierluca, ci mettemmo in acqua. Il
lago era una tavoletta, piatto. Puntammo dritto verso il Muciaro-
ne e costeggiammo l’isola finché, in mezzo ai canneti, avvistam­
mo la barca. Aveva il motore giù, la marcia disinserita, sul cru­
scotto c’erano una scatola di fiamm iferi e un paio di occhiali. Sa­
ranno state le ventidue».
L’altra im barcazione è la motovedetta della polizia delle
acque, che ha a bordo un carico umano sorprendente. Alla guida
c’è il maresciallo Piero Bricca:
«Insiem e al collega Paolo Gonnellini, la notte stessa della
scomparsa trovammo la barca, poco dopo la mezzanotte. Erava­
mo in compagnia del dottor Alberto Speroni, del questore Fran­
cesco Trio, del padre del Narducci e del professor Antonio Morel­
li. Ricordo che il professor Ugo Narducci si chiedeva, e mi chie­
deva, dove potesse trovarsi suo figlio, come se avesse bisogno di
conforto. Di sicuro era in confidenza con il questore. Non riusci­
vamo a capire come un provetto nuotatore qual era Francesco
Narducci, che io peraltro conoscevo solo di vista, potesse essere
annegato».
Pur con una differenza di orario - le ventiquattro invece che le
ventidue - Bricca conferma il rinvenimento dell’imbarcazione
nel canneto del lato sud ovest dell’isola Polvese, vicino al castello,
con le chiavi ancora inserite, il cambio in folle, sul cruscotto un
paio di occhiali, un pacchetto di sigarette e un giacchetto di
renna. La barca viene poi rimorchiata fino alla darsena.
Ma Bricca ricorda anche qualcos’altro:
«In quel tempo giravano le voci del possibile coinvolgimento
di un medico nei delitti del “mostro” e della sua abilità a usare il
bisturi. Ricordo anche che nei giorni seguenti la scomparsa i fa­
miliari di Narducci fecero venire dei maghi e anche una donna
che ospitai sulla mia motovedetta, insieme al professor Morelli,
che me li presentò come sensitivi, e a un altro dottore. Usarono
dei pendolini e altri accessori magici».
Il mattino seguente continuano le ricerche del medico, alle
quali partecipano numerosi volontari e pescatori della zona. In­
tervengono anche i sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Grosse­
to e l’elicottero con base ad Arezzo, ma invano. Risultano infrut­
tuose le capillari ispezioni dei numerosi casolari abbandonati e
l’imponente battuta effettuata dai Carabinieri all’isola Polvese la
mattina dell’n ottobre.
Le ricerche, condotte con grande impiego di uomini e mezzi,
durano cinque giorni, durante i quali il padre, Ugo Narducci,
resta per tutto il tempo in stretto contatto col questore di Perugia,
Francesco Trio.
Il giorno dopo la scomparsa, però, avviene un primo fatto stra­
no. A raccontarlo è Elisa Zelioli Lenzini, moglie del professor
Fausto Grignani, allora primario di Medicina Interna del Policli­
nico di Perugia, coinquilini dei Narducci.
Quando la signora esce la mattina per sbrigare alcune com­
missioni, il portiere del palazzo la informa della scomparsa di
Francesco al lago. Resta senza parole, sgomenta, dice ovviamente
di non sapere nulla, poi continua il suo giro. Mentre aspetta di es­
sere servita nel negozio di un fioraio in via dei Filosofi vede entra­
re un uomo sui quaranf anni, magro, alto, il viso allungato, capelli
lisci pettinati all’indietro, vestito di grigio e con una parlata che
«potrebbe essere anche di Foligno», il quale chiede a voce alta:
«Conoscete i Narducci? So che abitano qui vicino».
La titolare del negozio, signora Carnevali, risponde di sì, e
l’uomo replica:
«Volevo mandare dei fiori».
Appare eccitato e un po’ teso, mentre gli stanno preparando il
mazzo di rose rosse aggiunge:
«D’altronde si sa, quando le persone frequentano certi am ­
bienti probabilmente possono succedere certe cose».
Nel silenzio dei presenti, l’uomo paga e prima di uscire si rac­
comanda ancora:
«Devono essere consegnati alla famiglia Narducci».
Sui fiori c’è anche un bigliettino col nome del mittente: Bruno.
Sempre più stupita e preoccupata, la signora Grignani torna
verso casa. Suo marito non c’è, è in Sicilia a un congresso medico.
Si fa forza e sale per rendere visita ai condomini, che trova addo­
lorati. Soprattutto Ugo, tanto che lei prova a rincuorarlo:
«Non disperi, vedrà che suo figlio sarà partito per un appunta­
mento, le telefonerà per farvi sapere come sta».
Ugo le racconta che il pomeriggio Francesco aveva chiamato
la madre e aveva chiuso la telefonata con queste parole: «Ciao
mammina ti saluto», poi più niente.
Nel corso dell’incidente probatorio la signora Grignani riferi­
sce però di una confidenza fattale dalla signora Lorenzi, urialtra
inquilina che abita al piano inferiore al suo. Le disse che Narduc­
ci sarebbe stato ritrovato con una corda al collo, mentre in casa
Grignani, ovvio che si parlasse di questo fatto, «pensavamo che
Francesco fosse malato e che si fosse suicidato».
Dello strano episodio dei fiori dà una sua versione pure Gian­
ni Spagnoli, il padre di Francesca:
«Un giorno, mentre eravamo a casa dei Narducci, qualcuno
bussò alla porta, consegnò alla domestica un pacco e si allontanò
in fretta. Quando la signora Lisetta aprì il pacco scoppiò in un
pianto dirotto, dicendo che erano i soliti che portavano male, che
fanno le fatture. Nel pacco, confezionato disordinatamente, c’era­
no dei fiori di campo, forse margherite spezzate in due, e uno sco­
pette del gabinetto, con il manico di colore giallo, anche questo
spezzato a metà. Rincorsi l’uomo che aveva portato il pacco, che
mi venne descritto come un omino, ma si era già dileguato».
Di questo fatto ne parlerà anche colei che materialmente riti­
ra il «regalo», Ornella Servadio, amica di famiglia dei Narducci,
compagna di bridge di Lisetta:
«Suonò a casa Narducci un signore, che si seppe poi essere
probabilmente Bruno Bordighini, inferm iere di Foligno, un
ometto insignificante di mezz’età, vestito in modo modesto con
in mano un pacchetto e un mazzo di fiori spelacchiati. Quando
aprii la porta me lo trovai di fronte, lui mi porse il tutto dicendo:
“ Sono... queste per il professore, li dia al professore” . Poi si dile­
guò. Nel pacchetto c’era una cravatta, il pacchetto incartato male,
forse con carta di giornale».
Dell’episodio riferiranno anche i giornali e due ispettori della
Polizia: Alberto Speroni e Luigi Napoleoni. Secondo Napoleoni i
fiori sarebbero stati consegnati alla moglie, Francesca Spagnoli,
da uno sconosciuto in tuta che le avrebbe detto:
«Sono dei fiori di suo marito, li manda Bruno», baciandola
poi sulle guance e sulla mano.
Sul significato di questo strano mazzo di fiori si è dibattuto a
lungo. Nel libro Gli «Affari riservati» del mostro di Firenze di Pietro
Licciardi e Gabriella Carlizi (Roma 2002) si avanza un’ipotesi,
che potrebbe avere avuto un riscontro nel corso delle indagini se­
guite alla riapertura del caso. Ci sarebbe un significato esoterico
in quei fiori spezzati, mancanti delle corolle. Apuleio, mago isi-
dèo del II secolo dopo Cristo, scrisse L’asino d’oro, un’opera in cui
un giovane chiamato Lucio, appassionato di magia, si reca per af­
fari in Tessaglia, paese delle streghe. Là conosce Panfila, una
maga che ha facoltà di trasformasi in uccello. Lucio vuole imitar­
la ma, entrato nella stanza dove ella conserva i suoi portentosi un­
guenti, sbaglia contenitore e viene trasformato, appunto, in un
asino pur conservando la coscienza e l’intelligenza di un uomo.
Per una simile disgrazia non c’è che un rimedio: mangiare alcu­
ne rose, solo così Lucio può ridiventare umano.
I fiori in sostanza potrebbero essere una sorta di messaggio
cifrato: consideratemi come morto, perché la mia identità, ades­
so, è urialtra.
Di tale «Bruno» parla anche un’infermiera di Ginecologia e
Ostetricia dell’ospedale di Foligno, Giordana Baldassarri, ottima
conoscente del professor Ugo:
«La mattina del 9 ottobre, mercoledì, mentre stavamo tutti,
medici, infermieri e ostetriche, aspettando il professore, squilla
il telefono, era lui, che avvertì: “ Sto cercando Francesco sono al­
l’isola Polvese, non lo ritrovo, quindi non vengo”».
Insieme a due dottori, l’infermiera va a San Feliciano dove
trova altre persone, tra le quali il professor Morelli, ma non il pro­
fessore Ugo. Decidono così di andarlo a trovare nella sua abita­
zione di Perugia, dove effettivamente è insieme alla moglie, al­
l’anziana madre e a una badante.
«Sembravano distrutti, non si spiegavano cosa potesse essere
successo», dice la Baldassarri, «la signora era a letto e piangeva.
Ricordo che qualcuno, esterno alla famiglia, ipotizzò un seque­
stro».
Anche secondo la Baldassarri fu Bruno Bordighini, inferm ie­
re, sindacalista, marito della caposala di ginecologia Zenobi, a
spedire una cravatta e dei bulbi a casa Narducci. E quando, du­
rante la settimana delle ricerche, lui la chiamò chiedendole noti­
zie di questo Bordighini, lei gli rispose:
«È quel matterello che conosciamo tutti».
Continua la Baldassarri:
«Nell’estate del 2002 mi telefonò il professor Ugo Narducci e ci
incontrammo a casa sua. Iniziò un discorso sul figlio deceduto. In
particolare mi chiese se mi ricordassi di Bruno Bordighini, gli
dissi che era morto e che era la persona che aveva portato personal­
mente a Perugia, durante la scomparsa, i bulbi e la cravatta. Così
mi chiese se ero disposta a testimoniare ciò alla magistratura».
E aggiunge:
«Un altro giorno il professor Ugo, andando all’ospedale, lesse
sulla locandina del possibile coinvolgimento del figlio nella sto­
ria del "mostro” di Firenze, e commentò distrutto: “Così muore
una seconda volta”».
Durante i cinque giorni di ricerche i familiari ricorrono a tutto
ciò che può aiutarli a trovare il caro congiunto. Compresi alcuni
«sensitivi». Oltre a quelli ospitati nella sua motovedetta dal mare­
sciallo della Polizia provinciale Piero Bricca - una donna che ar­
meggiava con pendolini e altri accessori «magici» - viene contatta­
to un «veggente», dimesso nell’aspetto ma preciso nell’intuizione.
È il collega e amico intimo di Francesco Narducci, il professor
Ferruccio Farroni, che nel corso di una cena racconta di aver ri­
trovato il corpo di Francesco dopo essersi recato la notte prima da
un «sensitivo», un uomo «molto trasandato che abitava dalle
parti di Monte Tezio», tra Umbria e Toscana, che gli avrebbe indi­
cato il luogo preciso del ritrovamento. Interrogato nel 2003 Far­
roni diventa più preciso. Racconta di essersi recato due volte con
Pierluca, il fratello minore di Narducci, l’u e il 12 ottobre, a casa
del sensitivo. E fu nel secondo incontro che l’uomo rivelò: Fran­
cesco è morto e riaffiorerà domattina nelle acque antistanti San­
t’Arcangelo, «sarà gonfio e irriconoscibile».

UN CORPO RIAFFIORA. È NARDUCCI?

La mattina di domenica 13 ottobre, due pescatori di SanfAr-


cangelo, Ugo Baiocco e Arnaldo Budelli, cognati, decidono di
prendersela un po’ più comoda del normale. Quando lasciano la
rimessa di Sant’Arcangelo sono già le sette. Il lago è un po’ mosso
e ci sono parecchie alghe, forse a causa del caldo. Soffia un po’ di
vento da nord est, che da queste parti chiamano «fagone».
Sono in acqua da pochi minuti quando, da una distanza di
circa cento metri, scorgono qualcosa di strano che affiora, come
un grosso mucchio di erba che spunta dalla superficie del lago, in
quel punto profondo un paio di metri.
I due pescatori si avvicinano lentamente e si rendono subito
conto che sotto uno strato di alghe, in posizione supina, c’è un
corpo completamente vestito.
Baiocco è sconvolto, si sente mancare. La mente corre a quat­
tro anni prima, quando lui stava per morire annegato e fu salvato
per miracolo. Così si mette a sedere sulla cassetta del pesce e la­
scia la barca al cognato, il quale con un remo inizia a toccare il
corpo per sincerarsi che l’uomo sia davvero morto, mentre lui ri­
corda così quei momenti:
«Vidi un monte di erba e sotto un corpo grosso, fuori del nor­
male. Esclamai: “ Non sarà mica il corpo del professore?”. Era
come se fosse seduto sull’acqua, affiorava dallo sterno in su, leg­
germente pendente all’indietro. Il volto era nero, tumefatto e
gonfio, tanto che quasi non si vedevano gli occhi».
La mano sinistra è poggiata sullo stomaco, particolarmente
gonfia, deforme e scura, ricoperta da qualche alga, mentre l’altra
è sotto il livello dell’acqua.
I due, ripresisi dallo spavento, decidono di chiamare alcuni
pescatori sportivi che si trovano lì vicino, pregandoli di avvertire
le forze dell’ordine. Nel giro di poco arriva la pilotina dei Carabi­
nieri dall’isola Polvese e una piccola imbarcazione con due guar­
die lacustri, tra cui anche il maresciallo Bricca che dirà:
«Non sembrava Narducci, non sembrava nemmeno un uomo
bianco. Aveva labbra tumefatte, molto grosse e la pelle scurissi­
ma. Aveva una camicia e, attorno al collo, una cravatta allacciata
molto stretta, tanto che pensai che il colore scuro dipendesse
dalla strozzatura della cravatta».
Con l’aiuto di alcuni bastoni fanno passare un telo sotto il
corpo e lo issano a bordo. L’operazione è abbastanza laboriosa,
tanto che quando arriva l’elicottero dei Vigili del Fuoco gli chiedo­
no di risalire, perché le pale alzano troppo vento e disturbano la
manovra di recupero.
Appena poggiato sul motoscafo dei Carabinieri, raccontano i
testimoni, dal cadavere uscì qualcosa che sprigionò un fetore ter­
ribile. Baiocco:
«Non so se dalla bocca o dal ventre, vi fu una puzza indescrivi­
bile, tanto che i carabinieri dovettero mettersi una garza al naso e
alla bocca».
L’uomo senza vita è vestito con un giubbetto aperto, una cami­
cia, una cravatta allentata sul collo, un paio di pantaloni e dei mo­
cassini marroni.
Quando la pilotina raggiunge il pontile di Sant’Arcangelo, Ba­
iocco rimane subito colpito dall’insolito spiegamento di forze che
trova sul molo: oltre alla polizia e ai carabinieri in gran numero,
ci sono anche il questore di Perugia Francesco Trio e altre perso­
nalità. Una folla che, secondo lui che aveva trascorso tutta la vita
sul lago, dove ogni anno si verificavano tre o quattro annegamen­
ti, era del tutto anomala.
Appena sbarcati, Baiocco e il cognato vengono invitati ad al­
lontanarsi. Un fìtto cordone di poliziotti, guardie lacustri, vigili
del fuoco, medici e carabinieri a copertura del cadavere tiene a di­
stanza curiosi, giornalisti e fotografi.
Il corpo viene adagiato sul pontile di Sant'Arcangelo dove, se­
condo il racconto di Baiocco, resta per circa un’ora.
Il giorno seguente, incontrando Ticchioni mentre escono per la
pesca, Baiocco gli confessa che, pur avendo fatto il bagnino per ven­
tanni e avendo ripescato vari morti per annegamento, mai gli era
capitato uno che stesse con le braccia alte e la pancia all’aria, di soli­
to «avevano la bocca piena di melma ed erano tutti ricurvi, il viso ri­
volto verso il basso, pieni di alghe». E soprattutto «erano bianchi,
perché stare in acqua per giorni interi, fa diventare bianchi».
Anche limitandosi al vestiario di quel corpo recuperato dalle
acque, salta subito agli occhi una incongruenza. Come sostengo­
no la moglie e i colleghi che lo incontrarono il giorno della scom­
parsa, Francesco Narducci indossava una maglietta e non una ca­
micia. Inoltre l’uomo seduto sulla barca che Ticchioni vede e sa­
luta da lontano, nel tardo pomeriggio dell’8 ottobre, ha indosso
un giubbetto, che verrà poi ritrovato a bordo.
Se quello era davvero il corpo del medico - ma non collime­
rebbe né l’età, Narducci aveva 36 anni e ne dimostrava semmai di
meno, né il colore dei capelli, che aveva chiari - avremmo l’indi­
cazione che al tramonto dell’8 ottobre era ancora vivo. Sarebbe
quindi scomparso senza il giubbetto, che invece il cadavere ripe­
scato indossava.
Se invece quell’uomo non era Narducci, vorrebbe dire che
probabilmente il pescatore ha visto - sia pure di sfuggita - qual­
cuno che per meglio mimetizzarsi ha indossato il giubbetto della
vittima, poi lasciato nella barca. Ma anche in questo caso: come
faceva il cadavere del lago ad avere il giubbetto?

NIENTE AUTOPSIA

La massiccia e inconsueta presenza di autorità e personaggi


vari sul molo di Sant’Arcangelo non colpisce solo il pescatore Ba­
iocco. Ne parla anche Lorenzo Bruni, maresciallo dei Carabinieri
che comanda la stazione di Magione.
Originario di Fresinone, quella domenica mattina è di riposo
e ha in programma di andare a Roma, come ha avvertito al co­
mando con un fonogramma il giorno prima, il 12 ottobre. Si sta
preparando per partire quando, verso le otto del mattino, viene
chiamato con urgenza nel suo appartamento di servizio dal m ili­
tare di turno alla stazione.
Si precipita al telefono dove c’è il capitano della Compagnia
Carabinieri di Perugia, Di Carlo, che lo allerta su quello che gli
dice essere un semplice annegamento:
«È stato ritrovato il cadavere di Narducci, vada al molo di San­
t’Arcangelo, ho avvertito la dottoressa Seppoloni che sbrigherà
tutte le pratiche in quattro e quattr’otto, poi potrà andare tran­
quillamente a Roma».
Il tempo di indossare la divisa e recarsi sul posto, in venti m i­
nuti il maresciallo raggiunge il molo di Sant’Arcangelo e anche
lui rimane colpito dal quadro d’insieme che è per la sua esperien­
za singolare. Al lago Trasimeno i casi di annegamento sono in
media quattro o cinque all’anno e sempre era intervenuta la sta­
zione dei Carabinieri di Magione. Per la prima volta, adesso, era
stata avvisata prima la Questura e solo in un secondo momento
era stato chiesto l’intervento dei Carabinieri.
Non è la sola anomalia. Mai nel passato si erano viste così
tante autorità sul posto: Bruni riconosce il giudice della Corte
d’Appello dottor Arioti, il sostituto procuratore della Repubblica
Federico Centrane, il procuratore Nicola Restivo, il capo del nu­
cleo radiomobile operativo dei Carabinieri, capitano Roberto Fio­
ravanti, il suo stesso comandante, capitano Francesco Di Carlo.
E ancora: in tutti i casi precedenti la ricognizione cadaverica
l’aveva eseguita il medico condotto, il dottor Alessandro Trippetti.
Loro, i carabinieri della stazione locale, si limitavano a fare i rilie­
vi fotografici realizzati dal personale fotografico del gruppo - gli
appuntati Fiore o Camera - e quando non c’erano loro, dice
Bruni, «prendevo il fotografo locale e lo pagavo». Quel giorno né
l’uno né l’altro. «Siccome il capitano Di Carlo mi disse di aver
provveduto a tutto», dirà Bruni in sede di incidente probatorio,
«credevo avesse pensato anche al fotografo, invece foto non ven­
nero fatte». La cosa gli sembra molto strana da subito, ma si guar­
da bene dal chiedere spiegazioni al superiore.
Per la verità, in un momento di distrazione, si apre un varco
nel «muro» di carabinieri, poliziotti e vigili del fuoco fatti dispor­
re attorno al cadavere adagiato sul pontile; ne approfitta Pietro
Crocchoni, il fotografo di un giornale locale il quale, seppur a di­
stanza, riesce a fare alcuni scatti che si riveleranno fondamentali.
Normalmente solo dopo aver svolto tutti i rilievi, se le cause
del decesso erano chiare, il medico, sentito il parere del sostituto
procuratore, dava l’autorizzazione alla sepoltura o all’autopsia e i
cadaveri venivano portati all’obitorio di Perugia. Sempre. Una
prassi consueta, collaudata, senza eccezioni.
Questa volta invece la procedura è urialtra.
I rilievi, secondo Bruni, durano una ventina di minuti, po­
chissimi, considerando anche le perplessità che esprime, a bassa
voce, al capitano Di Carlo:
«Capitano, qui le cose non mi sembrano molto chiare», rife­
rendosi soprattutto alla strana fretta di concludere le operazioni
di rito, fino a chiedere con franchezza:
«Ma le sembra questo il modo di fare una rimozione del cada­
vere?».
II capitano dei Carabinieri risponde cercando di minimizzare
e allo stesso tempo di tranquillizzarlo:
«Non ti stare a preoccupare, fatti gli affari tuoi tanto la vita
continua lo stesso, d’altronde qui ci sono tante autorità...».
Nel corso delle operazioni il maresciallo Bruni ha però modo
di osservare da vicino il corpo del presunto annegato, che descri­
ve così:
«Era gonfio, con macchie. Mi dissero che era stato ripescato
dentro un tofo, una rete dei pescatori. Indossava un paio di jeans
tirati giù fino alla metà e una maglia scura, una specie di tuta con
cerniera, e un giubbotto scuro di pelle, sembrava un sommozza­
tore, erano nere anche le scarpe. Dalla bocca usciva una saliva
giallognola. Era stempiato ma dei capelli ricci parevano formare
un semicerchio sulla testa. Dalle fattezze e dalla forma sembrava
un negroide».
Il maresciallo nota anche l’orologio in metallo sul polso sini­
stro, fermo, visto che era stato alcuni giorni in acqua. E poi un par­
ticolare che ha del miracoloso: in una tasca della giacca del cadave­
re viene ritrovata la patente di Francesco Narducci, completamen­
te asciutta, come non fosse stata immersa nemmeno un istante,
addirittura con ancora perfettamente attaccati i bolli dei vari anni.
Tra i carabinieri arrivati sul molo c’è anche il brigadiere Aurelio
Piga, che fa parte dell’equipaggio di un’auto del nucleo radiomobi­
le. Anche lui è scosso dalle condizioni del cadavere, gonfio, che
emana cattivo odore, con vistosi ematomi sul petto, sulla zona
mammaria e sulla parte sinistra del costato, che lui considera
come frutto di percosse e colpi violenti, tanto che si lascia sfuggire:
«Ma questo non è morto annegato, quelle sono lesioni».
Non fa in tempo a finire la frase che viene zittito da «un perso­
naggio che si comportava in modo autoritario». Per i magistrati
dalle foto risulterebbe essere il questore Trio, che ha sempre ne­
gato e che ha raccontato così ai giudici quella maledetta mattina:
«Quando giunsi sul molo del lago Trasimeno, dove era stato
portato il cadavere di Narducci, non ebbi il minimo sospetto che ci
fosse stato qualcosa di irregolare. Tutti gli adempimenti formali e
sostanziali erano stati compiuti. Il dirigente della squadra mobile
mi riferì che quella mattina, il 13 ottobre, il corpo era stato trovato
e portato sul molo. Il comandante della stazione dei Carabinieri
competente aveva chiamato un medico, il quale aveva eseguito
l’ispezione cadaverica dopo che i colleghi di Narducci lo avevano
riconosciuto formalmente, come risulta dal relativo verbale. Il
magistrato, mi venne riferito, aveva quindi parlato telefonicamen­
te con il medico, ordinando la riconsegna del corpo ai familiari.
Uno scenario che presentava una grande regolarità».
Il brigadiere ricorda anche che mentre la dottoressa Seppolo-
ni stava compiendo la ricognizione cadaverica, da dietro qualcu­
no aveva commentato dicendo che probabilmente quei segni
erano stati provocati dall’urto contro la barca, non appena Nar­
ducci era stato colto da malore.
Il professor Franco Fabroni, titolare della cattedra di Medicina
Legale dell’Università di Perugia, conferma che in caso di rinve­
nimento di cadaveri annegati al lago Trasimeno veniva chiamato
il medico legale di turno e si effettuava sempre l’autopsia, senza
la quale non si può in nessun caso certificare l’annegamento
come causa di morte. Aggiunge dell’altro: quando i cadaveri veni­
vano ripescati a distanza di tre o quattro giorni dalla scomparsa si
presentavano in condizioni normali, salvo le ipostasi agli arti in­
feriori e superiori o al volto - cioè un ristagno di sangue - , e non
presentavano una fase enfisematoso putrefattiva, poiché l’acqua
rallenta i processi di putrefazione.
Il medico legale di turno quella domenica è la dottoressa Fran­
cesca Barone, patologa dell’Università di Perugia, la quale però
non viene nemmeno avvertita. Invece a essere convocata sul pon­
tile è la dottoressa Daniela Seppoloni. Dall’ospedale di Castiglio­
ne del Lago la chiamano per «un’urgenza sul molo di Sant’Arcan­
gelo, do Vera stato rinvenuto un cadavere».
Della scomparsa di Narducci la dottoressa ha sentito parlare nei
giorni precedenti da conoscenti e letto qualcosa sui giornali locali.
Quando arriva al pontile, in un pomeriggio di forte vento e
con una fastidiosa pioggia che cade a intermittenza, ci mette un
secondo a capire che non è una situazione «normale». Anche lei
si stupisce per quella massiccia presenza di forze dell’ordine, vi­
gili del fuoco, autorità. Della famiglia Narducci c’è il fratello Pier-
luca, che parla con due colleghi di Francesco: il dottor Antonio
Morelli e l’altro gastroenterologo, il dottor Ferruccio Farroni.
A circa metà del molo la dottoressa incontra il medico condot­
to, il dottor Trippetti, che le conferma come quello disteso giù in
fondo, vicino alle scalette di risalita, sia proprio Narducci. A
prima vista il cadavere le appare gonfio - specie al viso, alle brac­
cia e all’addome - edematoso, maleodorante e di colore violaceo:
«I vigili del fuoco mi aiutarono ad allontanare la gente, ricor­
do che ci si chiedeva come potesse essere successo e si facevano
commenti sul dispiacere del padre. Era una giornata tempestosa,
grigia e con molto vento. Io dovevo fare soltanto una constatazio­
ne di morte e redigere il conseguente verbale. Il cadavere non
venne spogliato perché non serviva al fine della constatazione».
A parte le precarie condizioni atmosferiche, il lavoro della dot­
toressa è complicato anche da altri fattori «ambientali», diffìcili
da considerare «normali»:
«Ricordo che Pierluca Narducci e i dottori Morelli e Farroni mi
giravano continuamente intorno e questo mi dava fastidio, tanto
che a un certo punto chiesi espressamente di farli allontanare.
Poi, passando tra la folla che aveva fatto ala e circondata dai carabi­
nieri, giunse un’autorità, di corporatura robusta, con una divisa
scura, dei gradi sulle spalle e qualcosa sulle maniche. Questa per­
sona mi chiese di fare uri ispezione cadaverica. I ntorno a me c’era­
no i carabinieri di Magione. Io di norma redigevo solo certificati di
morte, non avendo le competenze specifiche professionali per
fare ispezioni cadaveriche. Così dissi che non ero in condizioni di
poterla fare e che il cadavere doveva essere trasportato all’ospedale
di Castiglione del Lago. Qui iniziarono insistenze e pressioni for­
tissime per fare immediatamente l’ispezione sul posto perché si
trattava di un caso urgente; c’erano i familiari affranti e non si po­
teva attendere il trasporto alla camera mortuaria».
Quando la dottoressa prova a controbattere, dicendo che
quantomeno il corpo va trasportato in un ambiente più idoneo, le
pressioni diventano ancora più forti. Non importa nemmeno il
fatto che questa ispezione fosse stata o no disposta dall’autorità
giudiziaria: la esigono subito e, alla fine, la dottoressa cede.
La Seppoloni quindi chiede al maresciallo Lorenzo Bruni di
farle da segretario per l’ispezione cadaverica. Ci sono delle diffi­
coltà oggettive, viste le condizioni generali del cadavere, quasi
impossibile da spogliare essendo gli abiti del tutto attaccati alla
pelle. Così i vigili del fuoco con delle forbici iniziano a tagliare
parzialmente i vestiti. Viene scoperto quasi del tutto il braccio si­
nistro, una parte di quello destro, parte del torace, all’infuori delle
spalle, il collo. Poi vengono abbassati leggermente i pantaloni,
fino a poco sotto l’ombelico, visto che non vanno più giù.
La dottoressa chiede di girare il corpo, per osservare le spalle.
Nel compiere l’operazione dalla bocca del cadavere esce un liqui­
do, leggermente schiumoso, di colore rosso cupo, come un cona­
to di vomito. La dottoressa continua a ripetere che in quelle con­
dizioni è impossibile fare una ispezione, tanto più che i vigili del
fuoco continuano ad avere difficoltà nel tagliare gli abiti per via
del gonfiore del corpo. Le rimostranze cadono nuovamente nel
vuoto: la persona in divisa e con i gradi insiste, ribadendo l’urgen­
za di provvedere.
Ancora la Seppoloni:
«Ricordo che il volto era tumefatto e violaceo, appariva gonfio,
edematoso. Esaminai la scatola cranica nella parte esterna, il
volto, il collo e il resto e notai che non vi erano lesioni e altri segni
particolari, pur non avendo io esperienza di ispezioni cadaveri­
che. Ripetei a me stessa che dovevo limitarmi ad accertare la
morte e non la causa della morte. Di sicuro il verbale di riconosci­
mento del cadavere, dove c’era scritto che Narducci era morto da
centodieci ore, non fu opera mia ma venne redatto materialmen­
te nel locale della cooperativa [la dottoressa si riferisce alla locale
cooperativa di pescatori “Alba” , N.d.A.]».
Dall’ispezione cadaverica, comunque, si evidenzia: «macera­
zione e necrosi iniziale della cute e delle mucose [...]; edema tis-
sutale; emiduluzione con perdita di liquido organico dalla cavità
orale e dagli orifìzi nasali; assenza di lesioni esterne visivamente
e obbiettivamente apprezzabili sul cadavere esaminato».
A distanza di anni la dottoressa Seppoloni riconosce nel dot­
tor Morelli, nel dottor Farroni e in Pierluca Narducci le persone
che la pressavano, commentando pesantemente il suo operato
mentre effettuava l’ispezione, dicendo che «era uno schifo», che
si trattava «di profanazione di cadavere, una cosa immorale».
Lo stesso maresciallo Bruni non può fare a meno di ascoltare
e vedere:
«Mentre la dottoressa era intenta a verificare lo stato del cada­
vere, qualcuno da dietro cercava di suggerirle cosa dire a me che
dovevo redigere il verbale, forse erano medici. La storia delle cen­
todieci ore non veniva dalla dottoressa ma era strana, perché era
difficile stabilire l’ora esatta».
Nel verbale sottoscritto dalla Seppoloni e redatto dal mare­
sciallo si parla però apertamente di «probabile annegamento».
Precisa la dottoressa:
«Le pressioni ci furono anche affinché togliessi quel “proba­
bile” e dessi per certa la causa della morte, dicendo: “è chiaro que­
sto è morto annegato”».
Ma il pressing aumenta quando si tratta di decidere sul da farsi:
«Volevo scrivere anche che era necessaria l’autopsia ma la
pressione del Morelli e di Pierluca Narducci fu talmente forte che
mi trovai intimidita psicologicamente e pur avendo scritto "vero­
similmente” ho desistito dal convincimento iniziale, quello di
chiedere l’autopsia. Anche il dottor Trippetti faceva leva sul dolore
dei familiari e sul loro desiderio di riavere il corpo quanto prima».
Altro mistero: nel certificato di accertamento della morte, pre­
sentato alla Seppoloni, c’è la firma della dottoressa Luciana Men-
cuccini, che non aveva partecipato alle operazioni. «Ne parlai al
dirigente di medicina legale Piero Giorgi che mi diede ragione e
che condivise la stranezza del tutto, dicendo che circolava la voce
che il Narducci facesse uso di sostanze stupefacenti, forse eroi­
na», dirà poi il medico.
È proprio il mancato esame autoptico a far nascere i primi
dubbi. Il quotidiano «Il Messaggero», nell’edizione umbra del 14
ottobre 1985, commentando il ritrovamento di quello che uffi­
cialmente doveva essere Francesco Narducci, scrive: «[...] forse il
giovane e affermato medico, aveva maturato il proposito di to­
gliersi la vita. Ma come? Forse aveva ingerito dei barbiturici
prima di prendere la barca: l’unico modo per neutralizzare la re­
sistenza fisica e il proprio istinto di sopravivenza visto che era un
esperto nuotatore. [...] Ma come è stato possibile accertare se que­
sto sventurato medico ha ingerito barbiturici o altre sostanze
senza un accertamento autoptico?».
Non solo: come si fa a stabilire se il gastroenterologo è vera­
mente deceduto per annegamento, se non è stata accertata la pre­
senza di acqua nei polmoni?
Neppure l’inconsueta rapidità con la quale si è proceduto ad
archiviare l’intera vicenda passa inosservata. Leggiamo ancora su
«Il Messaggero»: «[...] e sotto questa luce il caso sembra essere
stato chiuso con una celerità inusitata. A meno che gli investiga­
tori non siano in possesso di una prova, di un elemento di certez­
za che tolga forza ai dubbi».
Una fretta accompagnata anche da una serie di irregolarità,
nonostante quel 13 ottobre sul molo di Sant’Arcangelo fossero
presenti le m assim e autorità provinciali dello Stato.
La Procura perugina ad esempio accerterà che, nonostante l’au­
topsia non sia stata eseguita, è stato inviato al Ministero degli Inter­
ni un dispaccio che attesta l’esatto contrario, mentre il nulla osta al
seppellimento del cadavere arriverà solo il giorno dopo i funerali. I
certificati di morte sono addirittura due, con la data del 14 ottobre
1985, rilasciati dal servizio necroscopico della Usi del Trasimeno.
Non solo: ci sono incongruenze anche sugli orari del ritrova­
mento del cadavere. La stazione dei Carabinieri di Magione segna­
la alla Procura della Repubblica di Perugia che alle ore sette e venti
del 13 ottobre «da due pescatori della cooperativa “Alba” mentre la­
voravano nello specchio d’acqua antistante la località “Arginone”
veniva avvistato un corpo esamine galleggiante in superfìcie».
Ma nel fascicolo «Atti relativi» che condensa gli accertamenti
dell’epoca, e quelli del Gides (Gruppo investigativo delitti seriali)
compiuti nel 20 0 4, ci sono le dichiarazioni dell’elicotterista
Mauro Cioni, responsabile del nucleo elicotteri dei Vigili del
Fuoco di Arezzo, che ha indicato l’avvistamento in un periodo
che va dalle nove alle dieci e trenta del mattino, mentre secondo
la versione ufficiale, consacrata nel fascicolo del tribunale e ac­
quisito agli atti, i Carabinieri intervennero alle sette e venti. E an­
cora: mentre sono state rinvenute le schede d’intervento dei Vigi­
li del Fuoco nei giorni 9, 1 0 , 1 1 , 1 2 manca quella più importante
del 13, inspiegabilmente non rinvenuta, andata smarrita nono­
stante l’obbligo di custodia permanente delle schede stesse.
Dalle testimonianze delle persone che furono presenti quel
giorno risulta inoltre che il cadavere è ancora sul molo, quando
arriva il carro funebre della ditta Moretti di Magione. Ai due in­
servienti, alla fine dei tormentati rilievi, la dottoressa Seppoloni
dice di portare via la salma e metterla a disposizioni dei familiari.
E quando il maresciallo Bruni fa notare al suo comandante che a
quel cadavere doveva ancora essere fatta l’autopsia, il capitano Di
Carlo lo gela ancora una volta: '
«Ma lascia stare...!».
Più tardi Bruni riferisce al proprio superiore di un biglietto ri­
trovato sul davanzale della finestra della villa dei Narducci a San
Feliciano, forse scritto dallo stesso Francesco, e non più trovato.
Ma il capitano risponde:
«Ma sì, stai a pensare a queste cose! Si tratta di un semplice
annegamento, non andiamo a...».
La cosa si ripeterà a distanza di alcuni giorni, quando sulle
edizioni perugine dei quotidiani «Il Corriere deH’ Umbria» e «La
Nazione» cominciano a comparire articoli dove si parla di un
possibile collegamento fra il dottor Narducci e il «mostro» di Fi­
renze. Bruni, incuriosito, si rivolge ancora al suo comandante:
«Come mai tutto è stato messo a tacere qua? Perché non sono
state fatte indagini al riguardo di questi articoli?».
Ancora una volta il capitano Di Carlo blocca sul nascere la sua
curiosità:
«Ma non ti preoccupare sono tutte voci» e quando il mare­
sciallo insiste, il capitano a un certo punto quasi si arrabbia:
«Ci sono ben altre persone che dovrebbero occuparsi del caso,
tu sei l’ultima ruota del carro...».
Riguardo la mancata autopsia l’allora sostituto procuratore
della Repubblica Federico Centrane spiega:
«Non la disposi perché non lo facevo mai nei casi di annega­
mento, a meno che dalla ricognizione cadaverica non emergesse­
ro ipotesi di reato o altri elementi che facessero pensare a una
morte violenta. E in quel caso mi dissero che non c’erano sospetti».
Intervistato da «La Nazione», chiarirà inoltre che non era sul
molo quella mattina, contrariamente a quanto affermato da un
testimone:
«Non lo facevo mai in casi come quelli di un annegamento
classico, come quello».
E di aver pensato subito a un suicidio:
«Ma se anche fosse stato così, non avrei disposto l’autopsia,
perché si fa quando ci sono segni di violenza».
Quanto alle presunte minacce ricevute dalla dottoressa Sep­
poloni, Centrone dice:
«È strano che, se effettivamente ci sono state, non si sia senti­
ta in dovere di riferirle subito al Pm. L’unica cosa che può venire
in mente sono eventuali pressioni per restituire al più presto il
corpo alla famiglia, come sempre avviene in questi casi, ma non
per alterare i risultati del suo lavoro».

SCAMBIO DI CADAVERE?

Dopo le frettolose incombenze di rito svolte sul molo di San­


t’Arcangelo, le spoglie del medico sono caricate sul carro di Nazza­
reno Moretti, titolare della ditta di pompe funebri di Magione. Il
mezzo, in teoria, dovrebbe dirigersi alla volta dell'istituto di Medi­
cina legale del Policlinico di Perugia, dove però non arriverà mai.
Come racconta lo stesso Moretti è la dottoressa Seppoloni,
contravvenendo alla consuetudine, a non fornirgli alcun docu­
mento per il trasporto della salma. Ma la cosa ancor più singolare
è che a bordo del furgone, al posto del passeggero, sale un non
meglio identificato «ufficiale di polizia».
Ecco la dichiarazione testimoniale di Anna Rita Fino, moglie
del Moretti:
«Tornato a casa disse che era rimasto sconvolto dal cadavere,
che definì molto grosso. Forse partì con un amico, Pietro Cesari-
ni. Disse che fu costretto a portarlo non all’obitorio come voleva
lui, ma nella villa dei Narducci, come gli ordinò una persona che
comandava e che era salita a bordo, insieme anche a un familiare
del defunto. Gli dissi: “ma ti sei rimbecillito? Guarda che rischi
cose gravi", e lui si giustificò dicendo che la persona potente gli
disse di non preoccuparsi, che avrebbero pensato a tutto loro».
Della presenza di un familiare di Narducci a bordo del carro fu­
nebre non c’è sicurezza. Però, quando il mezzo arriva al bivio per
San Feliciano, viene bloccato da una giovane donna, che Moretti
associa a Giovanna Ceccarelli, la moglie di Pierluca Narducci:
«Mi intimò di invertire la marcia e di raggiungere la villa di
San Feliciano, esclamando: “ Papà lo vuole a casa!” o qualcosa del
genere».
A tale «ordine» l’ufficiale di polizia stranamente non ha nien­
te da eccepire e il veicolo col feretro, dopo aver cambiato direzio­
ne, si mette in marcia verso la villa.
Molti anni dopo sarà proprio Moretti a confidare preoccupato
al maresciallo Bruni:
«Ho proprio fatto una cavoiata, ma pensavo fosse una cosa
normale».
Arrivati alla villa il cadavere viene sistemalo in garage e la ditta
Moretti esce di scena. Subentra urialtra ditta funebre, la Passeri
di Perugia. Titolare è Nazzareno Morarelli che conferma l’aspetto
«negroide, per la protuberanza delle labbra» e il gonfiore.
Anche Gabriele Barbetta, suo collaboratore, resta impressio­
nato dalle condizioni della salma, tanto da esclamare al suo socio:
«Dio com’è ridotto, ma ce lo fanno anche rivestire?».
Barbetta ricorda anche che a chiamarli fu la famiglia Narducci:
«Quando arrivammo al pontile c’era però l’impresa di Magio­
ne. La bara di recupero era la loro, così abbiamo seguito il corteo
fino alla villa di San Feliciano. Il cadavere era stato messo in un
salone al piano terra, sopra un tappeto o una coperta. Era gonfio,
grigio con chiazze color kaki, caratteristiche di un avanzato stato
di decomposizione ed emanava fetore. Aveva dei capelli sul nero,
un po’ stempiato, gli occhi semichiusi».
Prosegue Barbetta:
«I familiari avevano preparato gli abiti. Quando lo spogliam­
mo ricordo che aveva una canottiera bianca e dei pantaloni scuri.
Lo svestimmo in fretta, ricordo delle macchie su tutto il corpo.
Una in particolare, dalla tempia passava per la guancia fino alla
spalla. Sarà stato un metro e ottanta di altezza e cento chili di
peso. Gli facemmo indossare delle mutandine, una maglietta
bianca, un paio di pantaloni, una camicia e sopra la maglietta in­
filammo un golf marrone con ricami fatti a “V ”, che andavano
orizzontalmente, da un pettorale all’altro. I pantaloni erano di
una tuta, quindi elastici e senza passanti. A quel cadavere era im ­
possibile far indossare alcun paio di pantaloni, che avrebbero do­
vuto essere tagliati sul retro e indossanti da davanti».
Anche Morarelli racconta che dovettero tagliare sul retro una
camicia bianca per fargliela indossare, una giacca o un golf blu.
Sulle condizioni del corpo recuperato insomma i giudizi sono
unanimi.
Ugo Baiocco, il maresciallo Bruni, la dottoressa Seppoloni, gli
stessi funzionari della Polizia Speroni («notai dei grumi di schiu­
ma alle narici») e Napoleoni («era gonfio e scuro»), gli addetti
delle imprese funebri concordano nel descrivere il corpo affioran­
te dalle acque del Trasimeno come gonfio, scuro di pelle, tumefat­
to e maleodorante perché in avanzato stato di decomposizione.
C ’è poi la testimonianza di una ragazza del posto, Francesca
Raspati, che quella mattina assieme alla madre, arriva al molo e
si ferma a guardare:
«Eravamo tenuti a distanza ma non abbastanza da impedirmi
di vedere il cadavere, anche se non in viso. Era estremamente
gonfio, indossava pantaloni chiari, mi sembravano di fattura
rozza, di colore tra il carta da zucchero e il grigio comunque ina­
deguati per una persona raffinata come Narducci. Indossava un
giacchetto marrone di renna di due tonalità, una più scura e una
con due riquadri, uno a destra e uno a sinistra, chiuso davanti,
ma l’enorme ventre premeva sull’indumento».
Urialtra cosa colpisce la ragazza:
«Il fatto che i pantaloni erano asciutti, tanto che vidi la riga
nettamente».
Ma i primi commenti della gente del lago riguardano il come
avesse fatto un corpo rimasto in acqua cinque giorni a ridursi in
quelle condizioni. Sempre Francesca Raspati racconta delle consi­
derazioni di sua madre, la quale veniva da una famiglia di pescato­
ri e tutte le volte che il Trasimeno aveva restituito il corpo senza
vita di qualche affogato, questi era sempre bianco e saponificato.
Praticamente la stessa osservazione fatta dal pescatore Ticchioni e
avallata, come abbiamo visto, dal professor Fabbroni, titolare della
cattedra di Medicina Legale dell’Università di Perugia.
Perfino il professore Morelli, che da lì a poco effettuerà il rico­
noscimento accompagnando la salma alla villa di San Feliciano,
descrive così quel cadavere steso sul molo:
«Era irriconoscibile, edematoso, aveva il volto cianotico ed era
talmente gonfio che i bottoni della camicia tiravano a dismisura,
con pochi capelli come appiccicati, la fronte molto prominente.
Aveva il volto “batraciano” per prominenza delle parti laterali».
Morelli però ricorda un particolare importante, lo stesso nota­
to dal maresciallo Bruni:
«Vidi la patente di Francesco spuntare dal giubbotto o dai pan­
taloni. Mi colpì perché era ben conservata, pur non essendo pla­
stificata. La cosa mi stupì molto perché un documento cartaceo
rimasto in acqua per cinque giorni diffìcilmente si sarebbe con­
servato in quel modo».
Ma a garantire che quel corpo, quasi irriconoscibile per am ­
missione di tutti i presenti, appartenesse realmente a Francesco
Narducci, insiem e al professor Morelli, è un altro medico e
amico di Narducci: il professor Ferruccio Farroni, anche lui pre­
sente sul molo. Pure lui descrive il cadavere «enormemente ede­
matoso», con il volto cianotico e «l’aspetto di un pallone, sfigura­
to, sembrava l’omino della Michelin».
Alla contestazione, legittima e sensata, di come avesse potuto
allora affermare di riconoscervi l’amico scomparso, Farroni ri­
sponde di essere stato tratto in inganno forse dagli indumenti in­
dossati; a suo dire jeans, giacchetto in renna e Lacoste blu [men­
tre l’uomo ripescato aveva una camicia, N.d.A.] e dalla patente.
Farroni accompagnerà la salma dal pontile fino alla villa dei Nar-
dcucci, dove vedrà il cadavere appoggiato su delle coperte messe
a terra, per essere ripulito e vestito.
Ascoltato dai magistrati il professore dirà di aver «litigato fu­
riosamente con il padre Ugo Narducci», cercando di convincerlo
di far eseguire l’autopsia, sottolineando che altrimenti sarebbe
stato un errore e ne sarebbe seguita una valanga di illazioni. Vista
però l’irremovibilità del professore - «assolutamente no», disse -
il discorso fini lì.
A confermare il quadro delle condizioni di quel corpo c’è
urialtra e ben più importante testimonianza: quella dello stesso
Ugo Narducci.
A suo dire il momento della ricomposizione e vestizione fu
anche l’unico in cui vide il cadavere del figlio morto:
«L’ho visto quando fu portato dal molo nella mia villetta. Pur
riconoscendolo, vidi che il viso era gonfio e sembrava quello di
un negro. Il corpo lo vidi quando lo stavano girando e ricordo che
era gonfio anche il corpo, ma quello che colpiva di più era il volto,
estremamente gonfio, labbra comprese. Facevo capolino dalle
scale, malgrado gli uomini delle pompe funebri mi invitassero a
venire dopo che il cadavere fosse stato ricomposto».
La salma viene vista anche da un altro collega di Narducci, il
dottor Stefano Fiorucci, che va alla villa di San Feliciano insieme
alla dottoressa Federica Franciosini e al dottor Cassetta. In segui­
to racconterà di aver solo intravisto il corpo da una porta sem i­
chiusa, di aver riconosciuto il giacchetto di renna marrone, ma di
essere stato colpito per il volto «gonfio, scuro di colore, quasi irri­
conoscibile».
Gli abiti del defunto non furono mai restituiti alla vedova, che
pure li aveva chiesti alla famiglia Narducci, mentre le furono re­
stituiti il portafoglio con alcune banconote, la fede nuziale e la ca­
tenina.
A Francesca, invece, vengono chiesti altri abiti per la vestizio­
ne del congiunto. Non li porta direttamente, ma ne manda parec­
chi; tra quelli scelti con cura un completo scuro, scarpe anch’esse
scure e un pullover, oltre a un altro paio di pantaloni. Francesco
era di costituzione magra e negli ultimi tempi, a partire dal suo
viaggio negli Stati Uniti, era sem mai ancor più dimagrito.
La salma di Francesco Narducci viene vestita da quattro addet­
ti delle pompe funebri, senza la presenza dei familiari. Non è
chiaro nemmeno il momento in cui la bara viene sigillata e quan­
do viene lasciata aperta per l'ultimo saluto di amici e parenti, dal
momento che le testimonianze sono discordanti. Dice l’addetto
alle pompe funebri Morarelli:
«La bara venne sigillata la sera della domenica 13 ottobre o la
mattina successiva prima delle dieci».
Ugo Narducci avverte la nuora del ritrovamento verso le undi­
ci, undici e trenta, aggiungendo che avrebbe fatto chiudere la
bara di lì a poco. Quando la vedova arriva, alle quindici di lunedì
volontariamente in ritardo, volendo conservare l’immagine del
marito come era in vita, la cassa era effettivamente già chiusa.
Una visita, tra le altre, risulterà però decisiva. È quella della si­
gnora Maria Teresa Miriano, sorella del procuratore capo di Peru­
gia Nicola Restivo, la quale darà una descrizione della salma as­
solutamente diversa.
Amica di famiglia, conosce Francesco fin da piccolo. Alla noti­
zia della tragedia, la Miriano si reca a San Feliciano insieme al­
l’amica Tati Altissimi a rendere omaggio al defunto, dove arriva
intorno alle quindici e trenta. C ’è già molta gente: i coniugi Can-
cellotti, la signora Solinas, la signora Nicolini, tutti del giro di
amicizie del professor Narducci. La signora Miriano è «fortuna­
ta», capita infatti proprio nel breve lasso di tempo in cui il feretro
è aperto e riconosce senza ombra di dubbio Francesco, il quale
aveva «una espressione serena del viso», «al punto che sembrava
truccato», senza alcun segno di violenza, assolutamente non
gonfio e con tutti i suoi «capelli chiari e lisci», insomma perfetta­
mente riconoscibile. Vestito con pantaloni di jeans o del colore
dei jeans e una giacca di lana e pelle abbottonata sul davanti, dalla
quale spunta una camicia verde.
L’unica cosa insolita è quel rigonfiamento all’altezza dell’ad­
dome, come se avesse po’ di pancetta, lui che era sempre così
slanciato. Solo molti anni dopo si scoprirà che non di pancetta si
trattava ma di un telo chiaro, di forma rettangolare, messo da
chissà chi all’altezza dell’addome, a contatto della pelle.
Quello stesso telo che gli addetti alla vestizione della ditta Pas­
seri escludono di aver sistemato sul cadavere dell’uomo ripescato
nel lago e che sarà rinvenuto solo al momento della riesumazio­
ne del corpo.
Anche lo stesso professor Morelli, che il giorno del recupero
del cadavere al lago disse di aver riconosciuto Francesco Narduc­
ci più per i vestiti che indossava che per la fisionomia, essendo
questa ormai quasi «irriconoscibile», viene sorpreso dalle fattez­
ze del defunto sistemato nella bara:
«Non so dire in che modo, ma quel cadavere aveva qualcosa di
diverso da quello che avevo visto sul molo. Questo assomigliava
di più a Francesco».
Il professore però decide di fermare lì la sua curiosità e non si
chiede come ciò sia stato possibile.
La scienza non contempla un tale repentino mutamento di
condizioni e proporzioni. Un corpo in avanzato stato di putrefa­
zione, gonfio, tumefatto non può regredire «naturalmente» fino
alle condizioni di partenza, ovvero ai tratti quasi nordici, come
quelli di Francesco Narducci. I capelli scuri, ricci e radi non pos­
sono diventare castano chiaro e lisci. Il tutto, poi, in poche ore.

QUALCOSA NON QUADRA

Il modo col quale viene gestita la scomparsa del giovane medi­


co e soprattutto il successivo ritrovamento del cadavere sono deci­
samente inusuali. È vero che la famiglia del gastroenterologo è
una delle più in vista della città e in una tragica circostanza come
questa, qualche riguardo nei confronti dei congiunti sarebbe sen­
z’altro comprensibile. Niente di strano, ad esempio, se si fosse
solo cercato di accelerare le pratiche burocratiche di rito, sempre
estremamente penose. Ma ciò che avviene sul molo di Sant'Arcan­
gelo quella domenica mattina, come abbiamo visto, va ben oltre.
Per gli inquirenti è il questore Francesco Trio, buon amico e
fratello di loggia di Ugo Narducci, a mettere a disposizione della
famiglia parte dell’apparato istituzionale di cui è a capo. Partecipa
subito in prima persona alle ricerche, si mette alla guida del
gruppo di autorità accorse sul pontile di Sant’Arcangelo per diri­
gere tutte le operazioni, disponendo una sorta di cordone sanita­
rio intorno al cadavere adagiato sul molo e impedendo che siano
scattate foto.
Forse è a causa di tutto ciò che le voci sul conto di Francesco
Narducci e di un suo possibile coinvolgimento nei delitti del
«mostro» cominciano a circolare, diventando sempre più insi­
stenti col passare dei giorni e delle settimane.
Oppure perché qualcuno si lascia scappare qualche confiden­
za su «cose strane» avvenute sul conto del medico, come ad
esempio gli impiegati civili della Questura che hanno visto il fa­
scicolo «Atti relativi», che condensa gli accertamenti riguardanti
Narducci, già compilato in maniera quantomeno affrettata e
senza alcuni degli accertamenti di routine in casi del genere, «al­
leggerirsi» ulteriormente. Intanto manca la scheda d’interveto
più importante, quella del 13 ottobre 1985, redatta dai Vigili del
Fuoco. Da essa ci si sarebbe accorti di urievidente incongruenza,
come accerterà il Gruppo investigativo per i delitti seriali, Gides,
^nel 2004. Agli uomini del Gides l’elicotterista Mauro Cioni, re­
sponsabile del nucleo elicotteri del comando Vigili del Fuoco di
Arezzo, dirà infatti che l'avvistamento del corpo affiorante dalle
acque del Trasimeno è avvenuto in un periodo di tempo che va
! dalle nove alle dieci e trenta del mattino, mentre secondo la ver­
sione ufficiale, contenuta nel fascicolo del tribunale e acquisita
agli atti, i Carabinieri intervennero alle sette e venti.
Anche gli impiegati all’ufficio personale dell’Università, circa
un mese dopo la scomparsa di Narducci, assistono al precipitoso
arrivo degli uomini della Procura di Firenze, agli ordini di Pier­
luigi Vigna, per indagare sugli ultimi spostamenti del giovane
gastroenterologo.
L’ultima busta anonima arrivata agli inquirenti conteneva fo­
tocopie di ritagli del quotidiano fiorentino «La Nazione» con un
titolo: «Altro errore del mostro. La notte del delitto le strade erano
controllate e la sua auto potrebbe essere stata segnalata da un ca­
sellante». E infatti gli investigatori arrivano all’ufficio personale
dell’Università esibendo proprio un mazzetto di scontrini auto-
stradali e chiedono di visionare tutta la documentazione relativa
alle sue assenze, alle entrate e alle uscite dal lavoro. Sono tre gior­
ni molto concitati, ricorda una delle impiegate, e più di una volta
dalla stanza del capoufficio sentono alzarsi il tono della voce.
Il settimanale «Tempi» ha intervistato nel 19 9 6 Pierluigi
Vigna, diventato nel frattempo procuratore antimafia, chiedendo
perché abbia indagato sul medico perugino:
«Non è che avessimo indagato. Era venuto da noi un anoni­
mo. Si sono fatti tutti i riscontri. Scoprimmo che all’epoca di uno
degli omicidi questa persona era in America. Quindi abbando­
nammo quella pista».
In quell’occasione venne acquisito il decreto che autorizzava il
congedo straordinario di Narducci per motivi di studio dal 16 set­
tembre al 31 dicembre del 19 81, per frequentare un corso di spe­
cializzazione a Philadelphia. Nell’ottobre di quello stesso anno
avviene l’omicidio di Calenzano, in cui morirono Susanna Cambi
e Stefano Baldi, il quarto dei delitti seriali fiorentini.
Pierluigi Vigna e Paolo Canessa, quest’ultimo tuttora titolare
dell’inchiesta sui mandanti degli omicidi del «mostro» di Firen­
ze, chiesero mediante l’interpol accertamenti negli Stati Uniti e
risultò che effettivamente Narducci aveva frequentato l’universi­
tà in quella città della Pennsylvania come «uditore», alloggiando
presso la International House dal 16 settembre al 13 dicembre di
quell’anno. Ma i detective americani riferiscono anche che pres­
so la struttura ricettiva non c’è un registro di ingresso e di uscita e
neppure uno che registri le telefonate in arrivo e in partenza. Rie- j
scono a rintracciare una collega di Narducci la quale confermai
che il medico partecipò a tutte le lezioni che però si svolgevano j
soltanto il lunedì e il mercoledì. Tra l’ultima lezione della settima- j
na e la prima di quella successiva c’era insomma un «buco» dij
quattro giorni; in teoria un tempo sufficiente per prendere uri
volo transoceanico di andata e ritorno per l’Italia. ^— 1
Tuttavia dopo l’incursione degli uomini della Procura fioren­
tina tutto tace. Il fascicolo riguardante il gastroenterologo si
«smarrisce» per diverso tempo. Viene ritrovato qualche anno
dopo, anche questo molto «dimagrito»: dei fogli riguardanti i
viaggi di studio e di lavoro, le ferie, le entrate e le uscite dal Policli­
nico in cui lavora Narducci non c’è più traccia.
C ’è dell’altro.
Narducci tornerà dalle vacanze estive con vistose ferite a un
braccio e al viso, come ricorda una collega, la dottoressa Manuela
Gaburri, che interrogata nel 200 2 dice:
«Nel settembre 1985 Francesco, come lui disse, soffrì di una
dermatite allergica più una congiuntivite a un occhio, mi sembra
quello destro. Rammento che aveva la congiuntiva molto arrossa­
ta e delle chiazze rosse nell’area peripalpebrale e fu lui stesso a
mostrarmi quelle lesioni al ritorno dalle ferie».
Anche un’infermiera, Gianlaura Lilli, circa un mese prima
della scomparsa del medico, vide una ferita, al braccio:
«Disse che era caduto e che non lo poteva utilizzare e quindi
non poteva effettuare gli esami di manometria».
L’8 settembre 1985 avviene l’ultimo degli omicidi attribuiti al
«mostro». È notte. Nadine Mauriot, 36 anni, e Jean Michel Krave-
chvili, 25 anni, stanno facendo l’amore in una tenda da campeg­
gio che hanno montato in una radura nei pressi di San Casciano.
Improvvisamente qualcuno squarcia il telo e fa fuoco con una ca­
libro 22. Il giovane, ferito, tenta di fuggire e si nasconde tra i rovi,
ma viene raggiunto da uno degli assassini.
Due giorni dopo l’omicidio della coppia di francesi, vicino a
un lavatoio vengono trovate delle tracce di sangue, a meno di un
chilometro di distanza dalla piazzola dove erano stati uccisi i due
ragazzi francesi e, dalle cronache de «La Nazione», si sa che ac­
canto alla tenda è stato trovato anche un rotolo asciugamani di
carta, forse usato dal «mostro» per pulirsi gli abiti o una ferita.
Sono proprio questi elementi che fanno pensare agli investi­
gatori che tra Michael e l’aggressore sia nata una disperata collut­
tazione e prima di ricevere il definitivo colpo di pistola al cuore il
giovane sia riuscito a ferirlo.
Poiché i cani poliziotto portati nella radura hanno fiutano il
sangue solo per pochi metri fermandosi aH’im prowiso, si pensa
anche che il «mostro» abbia riposto i feticci tagliati alla povera ra­
gazza in una busta di plastica o comunque in un contenitore con
chiusura ermetica.
Il 14 settembre il sindaco di Firenze Landò Conti, comunica
che su pressione dei magistrati fiorentini il ministro degli Inter­
ni, Oscar Luigi Scalfaro, ha autorizzato una «taglia» di 500 milio­
ni di lire - Vigna: «L’ho proposta io, qualcuno deve sapere ed è ora
che parli» - per chi fornisca informazioni utili a rintracciare l’as­
sassino. Per raccogliere le eventuali segnalazioni sono a disposi­
zione due numeri di telefono: il 4 76 26 2 della Polizia e il 211025
dei Carabinieri.
Ancora una volta è il quotidiano fiorentino «La Nazione» a se­
guire, per ovvi motivi, il caso attraverso la penna di Mario Spezi,
che si era già guadagnato il soprannome di «mostrologo» ed è
proprio lui a scrivere di «un’impronta di scarpe numero quaran­
taquattro, che farebbe pensare a un’altezza di circa 1,85» rinvenu­
ta sulla scena del crimine. Il 5 ottobre, sempre Spezi, sulle colon­
ne del giornale racconta un episodio che ha dell’incredibile: due
giovani di Prato, andati in gita come tanti fino alla piazzola ora­
mai divenuta tristemente famosa, avrebbero ritrovato, a circa
dieci metri dal posto doVera montata la tenda dei francesi, due
guanti di plastica, di quelli in uso ai medici, puliti e non rovescia­
ti, numero sette, quindi di taglia piccola, fuori dalla loro busta. E,
proprio sotto ai guanti, un fazzolettino di carta con macchie
scure, a prima vista di sangue, e alcuni capelli color castano. L’ar­
ticolo racconta anche dello scetticismo degli investigatori: «Ave­
vamo raccolto anche i fiammiferi». Ma i reperti vengono comun­
que portati alla caserma di Borgo Ognissanti a Firenze, a disposi­
zione dei magistrati Canessa e Fleury.
L’8 ottobre ancora Mario Spezi, come sempre informatissimo
sui progressi delle indagini, viene a sapere che «stanno arrivando
le prime conferme, le macchie sul fazzolettino di carta sono di
sangue umano». La notizia uscirà il giorno dopo sulle colonne de
«La Nazione».
Gli inquirenti, cioè, sanno forse qualcosa in più, e forse qual­
cosa di importante. E, proprio quel giorno, Narducci prima rice­
ve una telefonata e poi scompare per sempre.
Appena un mese dopo, a novembre, la taglia del ministro
degli Interni verrà ritirata.

INDAGINI SEGRETE

Un fatto sembra certo: sul conto di Francesco Narducci si


svolgono, fin da epoca non sospetta, indagini «segrete», coperte,
in qualche modo collegate con i fatti fiorentini.
L’incaricato è il fidato ispettore della Squadra mobile Luigi Na­
poleoni che, secondo la Procura perugina, agisce a volte perfino
all’insaputa del suo diretto superiore Alberto Speroni.
Di tutte le sue iniziative di indagine il Pm Mignini non trova
traccia nei rapporti di servizio che invece avrebbero dovuto essere
redatti e custoditi. La mappa delle attività viene così parzialmente
ricostruita per via deduttiva consultando, negli archivi della Que­
stura, la cartellina dei «Prospetti di lavoro straordinario».
Cosa dicono quelle carte? Ad esempio che in data 8 ottobre
1985, vale a dire la sera della scomparsa di Narducci, sono regi­
strate «due ore di straordinario (ore ventuno-ventitre) per indagi­
ni a Foligno sul mostro di Firenze».
Altre ore, diciannove in totale, sono segnate sui brogliacci nei
giorni successivi e riguardano gli altri collaboratori di Napoleoni,
ore destinate alle «ricerche per la scomparsa di Francesco Nar-
ducci» oppure alle «indagini relative al mostro di Firenze», ese­
guite anche a Foligno, dove il dottore aveva uno studio privato.
Come quelle in data 15 ottobre 1985, il giorno dei funerali, dalle
ventuno all’una del mattino, quando viene effettuato «un servizio
riservato nella città di Foligno».
Ma le attività di Napoleoni si estendono anche oltre il territo­
rio di competenza, - dicono sempre gli inquirenti perugini -
senza la minima presa di contatto con la magistratura e le autori­
tà locali di polizia giudiziaria.
Si viene a sapere che, sempre nel settembre 1985, Napoleoni
va a San Casciano e poi a Firenze, in cerca di un appartamento in
uso al Narducci e forse dei reperti asportati alle vittime. C ’è una
traccia lasciata in Questura: un foglio con la data del 30 settembre
1985 su cui risulta annotato «mostro di Firenze - ufficio postale -
bar Jolly - via stretta - città - seduto fuori - colore di capelli casta­
ni - occhi - occhiali scuri - vestito maglietta bianca , blu jeans -
un po’ di barba - niente orologi - bracciale».
Sull’altro lato del foglio c'è scritto: «Timberland - solo al bar -
soldi dove sono - in tasca della maglietta». E di traverso: «Jach’ò
[ forse la discoteca N.d.A.] - no macchina - sembra che... lettere si­
gillate pubblico presente - raccomandata - occhiali nel cassetto
dell’uffìcio pistola - soldi in barca [o banca N.d.A.]... ore 14... finire
il suo lavoro... 21.00 oggi pizzeria in taxi (Fi)... telo marrone m an­
cante in una casa disabitata lontana dall’... taxi colore azzurro».
Colpisce soprattutto un fatto: nella data dell’ultimo duplice de­
litto del «mostro», quello dei turisti francesi avvenuto l’8 settem­
bre 1985, Napoleoni e i suoi uomini svolgono indagini a Foligno,
dalle ore diciotto alle venti e dalle ore ventidue alle quattro del mat­
tino; poi dalle ore diciassette alle ore venti del giorno seguente.
Dirà l’ispettore Napoleoni all’inizio del 2002:
«La notte tra l’8 e il 9 ottobre, mi chiamò il questore Trio e mi
disse di recarmi presso il lago Trasimeno in quanto era scompar­
so il dottor Francesco Narducci. Rimasi sorpreso da questa chia­
mata perché il questore avrebbe dovuto, a mio avviso, chiamare
prima il dirigente dottor Speroni... Durante i tre giorni seguenti,
nei quali rimasi sempre al lago, chiesi al questore di poter inter­
rogare la moglie e i familiari, e comunque di effettuare gli accer­
tamenti approfonditi ma il questore mi ripeteva che non erano
necessari perché tanto si trattava di una disgrazia. E tutto questo
prima ancora che fosse rinvenuto il cadavere. Il giorno del ritro­
vamento, una domenica, fui avvertito dalla sala operativa del rin­
venimento di un corpo nel lago, immaginando che si trattasse del
Narducci, insieme all’agente Antonio Tardioli andai sul posto. Ri­
cordo che il cadavere era gonfio e di colore marrone scuro, un po’
saponato. Ricordo anche che, alcuni giorni dopo, ma non so dire
con precisione quando, andai a Firenze nell’abitazione che pote­
va essere stata utilizzata dal Narducci per ricercare parti di corpo
fem m inili sotto alcool e sotto formalina. Non ricordo né la zona
né l’ubicazione dell’appartamento, ricordo solo che si trattava di
una costruzione non recente a più piani, forse un condominio.
Mi sembra che eravamo entrati dentro Firenze. Di quella casa ho
un solo ricordo, di un corridoio, ma non ricordo chi mi ci mandò
né con chi fossi, probabilmente con un collaboratore della squa­
dra mobile. Le ricerche dettero esito negativo».
Dunque, esito negativo. Peccato che tale risultato contrasti
con le testimonianze di altre persone. Nel giugno 200 2, cioè cin­
que mesi dopo quella deposizione, Napoleoni ha un soprassalto
di memoria e ricorda qualcos’altro, sull’appartamento fiorentino.
Ad esempio di quanto gli disse un certo Edoardo Frivola, che li
aveva indirizzati verso un vicolo tra i palazzi antichi del centro:
«Andammo a Firenze e individuammo la strada, ricordo che
entrammo in un appartamento con un corridoio lungo. Non ri­
cordo nemmeno se chiedemmo aiuto alla mobile fiorentina o av­
visammo l’autorità giudiziaria, come si fa in questi casi».
Come risulta dal brogliaccio, i servizi degli agenti fatti a Foli­
gno o altrove, in date vicine o coincidenti a quelle in cui il «mo­
stro» aveva colpito, erano, per la Questura, legate ai fatti di Firen­
ze. In altre parole: a Perugia, fin da allora, Narducci era stato col­
legato a Firenze. Il perché nessuno lo ha mai spiegato, forse
perché le attività investigative sono state svolte in maniera del
tutto irrituale.
Insomma, dopo le indagini «private» 0 ufficiose, quelli che
inizialmente erano solo sospetti cominciano ad avere un certo
fondamento. È allora che iniziano a manifestarsi taluni atteggia­
menti da parte di ambienti interessati a mascherare le possibili
cause della morte di Francesco Narducci.
Tanto più che potrebbe essere stato lo stesso medico a confes­
sare il suo opprimente legame con le tragiche uccisioni avvenute
sulle colline intorno Firenze, o un altro terribile segreto, proprio
in quella lettera che avrebbe lasciato in vista nella villa di San Fe­
liciano, prima di allontanarsi, per l’ultima volta.
Poco dopo che Francesco se ne è andato, nella villa arriva il cu­
stode, Luigi Stefanelli. È il factotum e si occupa di piccoli lavoretti di
manutenzione, pulizia, cura delle piante. Quel pomeriggio deve si­
stemare la legna, così passa a prendere la moglie Emma Magara e si
dirige verso casa Narducci, della quale è l’unico estraneo ad avere le
chiavi. Non trova nessuno ma capisce che qualcuno è appena pas­
sato, lo prova il segno della moto sulla ghiaia, come se quel qualcu­
no fosse partito in fretta. L’uomo entra in casa e trova una lettera sul
davanzale della finestra o sul tavolo, questo non è del tutto chiaro.
La stessa signora Emma parlerà ad Alberto Buini, il vicino, di
un messaggio scritto su tutte e due le parti del foglio, con una gra­
fia quasi illeggibile, attribuibile a colpo d’occhio a quella di un me­
dico, quindi a uno dei figli del professore. Aggiungendo che, quan­
do il marito era tornato nella villa [la sera o il giorno dopo, N.d.A.],
della lettera non Vera più traccia, qualcuno l’aveva fatta sparire.
Cosa c’era scritto in quella lettera? È improbabile che Stefa­
nelli e la moglie non l’abbiano letta, almeno le prime righe. La cu­
riosità deve averli attirati, almeno quanto il riserbo li deve aver re­
spinti, ma l’indecifrabilità e, forse, il contenuto devono averli dis­
suasi dall’arrivare fino in fondo. E la lasciano lì, sul davanzale.
Stefanelli non può riferire cosa vi fosse scritto perché è morto,
portando con sé il suo segreto. Parla invece Cesare Agabitini, cu­
stode dell’isola Polvese, suo amico e collega. A lui confidò di quel
foglio A4 scritto fitto su entrambi i lati e di essere sicuro che fosse
stato il fratello di Francesco, Pierluca, passato in serata nella villa,
ad aver preso e fatto sparire la lettera.
Di questa lettera parlano anche altri testimoni. Uno in parti­
colare, un maresciallo dell’Arma, Giuliano Bambini, già coman­
dante del nucleo investigativo del gruppo Carabinieri di Perugia.
Anche la sua è una testimonianza de relato.
Parlando un giorno con l’ispettore Luigi Napoleoni, questi gli
aveva fatto capire di non voler affrontare l’argomento Narducci,
bisbigliandogli che si trattava di un suicidio e la lettera, che lo
provava, l’aveva presa lui.
Pure Euro Grilli, giornalista a quel tempo del «Corriere del­
l’Umbria», ricordando le anomalie di quel ritrovamento conferma:
«Non mi ricordo chi me lo riferì, ma venni a conoscenza che,
nei pressi della barca o all’interno di essa, venne ritrovata una let­
tera manoscritta lasciata da Narducci dove tra le righe, e fra le
altre cose non meglio conosciute, avrebbe scritto: “Chiedo scusa
al mondo intero” o “a tutto il mondo”».
Che la famiglia Narducci sapesse qualcosa del terribile segre­
to di Francesco potrebbe provarlo il racconto di Michele Baratta,
all’epoca fidanzato di Elisabetta, sorella del medico. Subito dopo
la morte, davanti alle dicerie e alle pesanti insinuazioni sul fratel­
lo, lei non reagisce stizzita ma segue fedelmente i consigli che le
dà un mago, utili per «liberare» dalle colpe la sua anima. Il mago
che Elisabetta incontra a Elee, un quartiere di Perugia, si chiama
Stefano Capitanucci.
Dopo essersi fatta leggere la mano, lui le dice che bisogna libe­
rare l’anima irrequieta del fratello, implicato nei delitti del «mo­
stro di Firenze», e che per far questo va compiuto un rituale ma­
gico: il venerdì, per tre settimane consecutive, bisogna bruciare
dei chiodi di garofano o incenso nella villa al lago.
Baratta racconta che questi riti, ai quali partecipò, vennero ef­
fettivamente eseguiti sempre dopo cena, all’insaputa dei genito­
ri. Era Elisabetta che, al buio, metteva dei chiodi di garofano e
altre essenze, non esclusa la rosa canina, in una ciotolina che poi
appoggiava a terra dando fuoco.
Ascoltato dagli inquirenti Capitanucci prima dirà di non ri­
cordare più quei fatti a così distanza di tempo, nascondendosi
dietro una realtà di alcolista, poi ha invece un soprassalto di luci­
dità e conferma di aver fatto un rito insieme alla ragazza, avendo
intuito che l’anima di Francesco fosse infelice:
«Andammo nella villa al lago, perché Elisabetta mi disse che lì
avevano portato il corpo di suo fratello. Mi chiese di accendere
l’incenso di sandalo perché quello serve a togliere le negatività e a
scontare le colpe degli altri. L’incenso di gelsomino serve invece a
dare pace e armonia».
Secondo Baratta i rapporti tra la Elisabetta e Francesca erano
pessimi. Se il matrimonio sembrava non funzionare, secondo
Elisabetta, era soprattutto per colpa della cognata:
«Anche dopo la morte se la prendeva con lei, dicendo che era
colpa sua perché Francesco non le voleva bene. Una sera Elisa-
betta prese a calci e graffiò con una chiave l’auto di Francesca, in
piazza Piccinino».

SULLE TRACCE DEL «MOSTRO»

Per gli investigatori, quindi, Narducci non era uno sconosciuto.


Lo dice, come già visto, il pescatore Enzo Ticchioni, al quale il
sovrintendente della Polizia di Stato Emanuele Petri, ucciso nel
marzo 2003’sul treno Roma-Firenze dai due brigatisti rossi Mario
Galesi e Desdemona Lioce, raccontò dell’inseguimento fattogli
poco prima della scomparsa, fallito perché perso di vista all’altezza
di Terontola, sulla strada che da Firenze va a Perugia, poco prima
che arrivasse a un posto di blocco appositamente istituito.
La Polizia si occupa anche della casa del medico. A confermar­
lo, indirettamente, è la stessa cognata di Narducci, Giovanna Cec-
carelli, la quale, intercettata telefonicamente, racconta a un’am i­
ca che nei giorni tra l’8 e il 13 ottobre 1985 ha fatto una puntata
nell’appartamento di Perugia:
«Appena sono entrata ho tolto quella foto, perché dopo che fa­
cevo? C ’era la Scientifica...».
Quindi, la Ceccarelli sente il bisogno di mettere in salvo
un’im m agine di Francesco per impedire che venga prelevata
dalla polizia scientifica, foto che evidentemente si trova nell’ap­
partamento uno o due giorni prima che il lago restituisca il suo
presunto corpo. Cosa ci faceva la scientifica in casa del medico se
per quanto riguarda la sua scomparsa non erano emersi indizi di
reato? Forse indagava su qualcos’altro?
Anche di questo rapporto in Questura non si trova più traccia,
e nemmeno nel fascicolo dell’ufficio istruzione del tribunale.
Sulle tracce del «mostro» arriva pure l’investigatore privato
Valerio Pasquini, residente a Impruneta, di fronte a via di Giogo-
li, proprio davanti alla villa «La Sfacciata» presso la quale furono
uccisi i due ragazzi tedeschi e sede, secondo diverse testimonian­
ze, di festini a luci rosse cui partecipavano molte persone.
Pasquini, in aula, dichiara di aver iniziato a occuparsi della vi­
cenda dopo aver conosciuto, in vacanza all’Argentario, Claudio
Mazza, professore di scuole medie, e la moglie Annarita. È da lei
che sente per la prima volta il nome di Narducci.
I due raccontano all’investigatore che nell’estate 1989, in tri­
bunale a Perugia, erano stati uditi due avvocati dire che il «mo­
stro» non avrebbe più colpito perché si era suicidato, era un m e­
dico di quella stessa città. Inoltre, secondo la signora Mazza, il
giorno stesso della scomparsa, Narducci avrebbe ricevuto una te­
lefonata anonima che lo avvertiva che i Carabinieri erano sulle
sue tracce e lo stavano tallonando.
Pasquini decide di saperne di più. Nel 1993 - sempre secondo
la sua deposizione - va all’ufficio anagrafe del capoluogo umbro e
parla con due impiegate, Silvana Alberati e Emilia Cataluffi.
È quest7ultima che gli racconta di come i Carabinieri della
compagnia di Perugia, già da prima della scomparsa e della
morte di Narducci, abbiano svolto indagini sul medico, di come
era stato assiduamente pedinato prima ancora dell’ultimo delitto
e di come le indagini erano state però bloccate. Fa riferimento ad
alcune lettere anonime arrivate ai Carabinieri, una in particolare
ritenuta assai interessante, dove erano riportate le date dei viaggi
di andata e ritorno per Firenze di Narducci, che coincidevano
perfettamente con quelle dei duplici omicidi.
Pasquini incontra anche due infermieri di Gastroenterologia,
Sandro Paciola e Peppino Pifferotti, che lo informano di come,
nei giorni della scomparsa, l’ambulatorio in ospedale del profes­
sor Narducci venne perquisito da carabinieri in borghese venuti
da Firenze. Un altro giorno, racconta sempre Pifferotti, le locan­
dine di un giornale locale «gridarono» che Narducci era implica­
to nelle vicende del «mostro» e che due vigili del fuoco avevano
visto alcuni feticci nella villa di San Feliciano.
Pasquini cerca una copia di quel giornale ma non ne trova trac­
cia nemmeno in biblioteca. Passa allora dal «Corriere dell’Um ­
bria» dove parla con il capo cronista Mauro Avellini, il quale con­
ferma tutto. Il giornalista ha effettivamente raccolto la confidenza
di uno dei vigili del fuoco, intervenuti nel recupero della salma a
San Feliciano, che avrebbe visto nello scantinato un barattolo di
vetro con dei resti umani. Naturalmente lo scrisse in un pezzo
previsto per la prima pagina, con tanto di strillo sulle locandine
fuori dalle edicole. In un batter d’occhio tutte le copie del giornale
diventarono introvabili e al giornalista arrivò un avvertimento: se
non avessero ritirato quelle locandine gli avrebbero sparato.
Riguardo i «feticci» agli atti risulta urialtra testimonianza,
quella del maresciallo dei Carabinieri Antonio De Blasi, con il
quale, durante la battuta all’isola Polvese in cerca del gastroentero­
logo si confida il vice-brigadiere Salvatore De Mattia. Gli dice che
lui e altri militari della stazione di Magione si recarono nell’appar­
tamento fiorentino del Narducci per effettuare una perquisizione
domiciliare dalla quale sarebbero dovute uscire fuori le parti ana­
tomiche femminili asportate alle vittime dal «mostro» di Firenze.
Purtroppo non trovarono nulla perché qualcuno, forse un parente
stretto, era arrivato prima facendo sparire tutto quanto.
Sempre più incuriosito Pasquini decide allora di spacciarsi
per un conoscente di Francesco e si presenta in ospedale per
avere da Ferruccio Farroni spiegazioni sulla dinamica dei fatti.
Farroni risponde che avrebbero dovuto fissare un appuntamento
perché indaffarato:
«Avrei da dire alcune cose e il discorso sarebbe lungo».
Sempre tramite la Cataluffi incontra l’ispettore Napoleoni, il
quale gli conferma le anomalie di quel caso, evidenti fin dall’ini­
zio. In tutti i casi di morte sospetta, dice, si interrogano tutti i fa­
miliari per sapere se il defunto avesse dei nemici. Si fanno cioè
delle indagini a trecentossessanta gradi. Quando morì Narducci
invece si cominciò a dire che bisognava sbrigarsi, che le indagini
non erano necessarie, non fu fatto quasi niente, né perquisizioni
né ricerche nell’abitazione. E non era mai successo che non ve­
nisse fatta l’autopsia.
Interrogata dai magistrati, la Cataluffì conferma tutto, fin dal
suo incontro col Pasquini, anche se le date sembrano non coinci­
dere:
«Non mi era ancora arrivato dal Comune di Magione l’incarta­
mento relativo alla certificazione di morte, quindi eravamo pro­
prio nei giorni seguenti il ritrovamento del corpo. Rilasciai a Pa­
squini i certificati anagrafici, lo stato di famiglia e quanfaltro po­
teva interessargli in relazione alla fam iglia Spagnoli,
specificandogli che i Narducci erano originari di Assisi e quindi,
per gli accertamenti sul loro conto, si doveva rivolgere a quel Co­
mune».
Pasquini torna altre due volte all’anagrafe di Perugia per riti­
rare i documenti e circa un mese dopo chiama a casa la Cataluffì:
«Mi disse che doveva smettere l’indagine perché così gli era
stato ordinato, senza però dirmi da chi. Da quel momento non lo
rividi più».
La Cataluffì aveva pensato di scrivere un libro con l’investigato­
re e per questo aveva iniziato a fare un sacco di domande. In parti­
colare alcuni giornalisti del «Corriere dell’Umbria» dovevano por­
tarle il nome del vigile del fuoco che aveva visto i feticci, ma «a un
certo punto tutti hanno smesso di collaborare, dicendo che dietro
la vicenda Narducci c’era qualcosa di molto grosso e pericoloso».
Alla Cataluffì l’ispettore Luigi Napoleoni dice di aver iniziato a
indagare sul conto del medico fin dal 1981-82. Un giorno la va a
trovare in abiti civili, con in mano una lettera anonima che riguar­
dava la morte di Narducci, scritta a mano su entrambi i lati. Le dice
di dover fare alcune indagini proprio sulla base di questa lettera.
Ancora la Cataluffì:
«A causa del mio lavoro ero spesso a contatto con esponenti di
tutte le forze dell’ordine. In questo caso, rilasciai anche a lui la do­
cumentazione anagrafica richiesta. Tornò dopo circa due mesi,
per altri motivi, gli chiesi come fosse finita quella vicenda e anche
lui mi disse: “È tutto bloccato, tutto fermo, ordini superiori”, facen­
do un gesto con la mano come a dire: non posso parlare di più».
L’impiegata dirà poi che Napoleoni avrebbe ricevuto una tele­
fonata da Roma che lo invitava a sospendere qualsiasi indagine.
Lo riferisce anche a Pasquini, il quale però dubita: se mai vi fosse­
ro stati dei messaggi dal Viminale, avrebbero usato fonogrammi
e non telefonate; di certo non si sarebbero rivolti a un sottufficia­
le ma avrebbero contattato uno più alto in grado. A meno che, ed
è questa una delle letture possibili, non si volesse di proposito
percorrere una strada «irrituale» per non lasciare tracce.
Anche un altro funzionario della Questura, Alberto Speroni,
confida all’impiegata dell’anagrafe:
«Tutto a tacere», aggiungendo che si supponeva che il medico
fosse coinvolto nei delitti del «mostro» di Firenze.
All’ufficio anagrafe, poco dopo la morte di Narducci, arrivano
pure i Carabinieri. La Cataluffi ricorda l’appuntato Cecchi e il m a­
resciallo Magiionico. Uno dei due le chiede lo stato anagrafico
completo del casato Spagnoli. La Cataluffi gli domanda:
«Ma ci credete al suicidio, visto che state anche voi facendo
l’indagine sulla morte di Narducci?».
Quello non risponde e se ne va. Cataluffi:
«Tornò dopo un po’ di tempo e anche a lui chiesi come erano
finite le indagini. Mi rispose come gli altri due: “ Bloccate da un
ordine superiore”».
Quando Pasquini ha ormai m esso insiem e del materiale
cerca di farlo pubblicare, ma senza successo. Prima prova con il
settimanale «Visto», che però gli chiede di assum ersi ogni re­
sponsabilità in caso di querela, poi con altre due testate. Avuta ri­
sposta negativa decide di consegnarlo direttamente a Pierluigi
Vigna. È l’ottobre 1993.
Vigna, che in quel momento è molto impegnato, sta andando a
La Spezia ad arrestare Donatella Di Rosa, che aveva appena accu­
sato il generale Monticone e altri militari di lavorare all’organizza­
zione di un colpo di Stato, non prende minimamente in conside­
razione i fatti e le testimonianze raccolte da Pasquini. È Narducci?
S’informa il Pm. È proprio lui assicura l’investigatore. Allora
Vigna ribatte che di quel dottore se riera occupato e aveva accerta­
to la sua estraneità con la vicenda del «mostro». Suggerisce anche
a Pasquini di non insistere oltre perché non può certo saperne più
di lui, che su questa storia c’è sopra ormai da venticinque anni.
VOX POPULI

Il funerale del giovane medico chiude l’attenzione sulla vicen­


da ma non placa le dicerie, che fin da subito vogliono un medico
perugino coinvolto nei delitti del «mostro».
Un giornalista del «Corriere dell’Umbria», Mino De Masi, rac­
conta di come il suo direttore, nell’ottobre del 1985, piombò in re­
dazione ordinando di fermare le rotative perché una fonte gli aveva
detto che da Firenze stavano per arrestare il «mostro», appunto un
dottore perugino. Tutto, alla fine, inspiegabilmente rientrò.
Il nome di Narducci comincia a circolare anche sui giornali
nazionali. Nel 1988 il cronista de «Il Giornale», Andrea Pucci,
viene avvisato da una fonte interna al Ministero della Difesa di al­
cune indagini in corso da parte della Procura fiorentina sulla
morte del gastroenterologo perugino.
Dice Pucci:
«Ne parlai con il caporedattore e andai all’ospedale di Montelu-
ce, a Perugia, dove tutti mi guardavano sbigottiti quando iniziai a
chiedere notizie sul medico. Fu il professor Morelli a dirmi che
era stato trovato cadavere nel Trasimeno e si stupì che lo cercassi.
Sembrava ancora turbato da quella vicenda e mi confidò che final­
mente era ora che qualcuno facesse luce su quella morte così stra­
na. Poi chiamò Farroni, un medico con i baffi, che mi sembrò
assai infastidito. Si vantava di essere il miglior amico di Narducci,
del quale disse che odiava le armi, che era una persona tranquilla,
che non aveva fatto il militare perché il padre glielo aveva evitato e
che era uno abile negli sport, specie nel tennis. Disse che si era
sposato con una Spagnoli e che non avevano avuto figli».
Ricevute queste informazioni Pucci richiama la fonte che gli
conferma la presenza di Narducci, per un mese, alla Scuola di Sa­
nità Interforze di Firenze, nel periodo coincidente con il delitto
del 1974, avvenuto nei presi di Borgo San Lorenzo; quello in cui
alla ragazza era stato infilato un tralcio di vite nella vagina.
Il cronista si sposta allora al lago Trasimeno e parla con il pe­
scatore Baiocco, che gli racconta di quel corpo ripescato «nero,
nero» e del padre «che aveva baciato in bocca il cadavere».
Più tardi Pucci va a Foligno e incontra Ugo Narducci. Lo trova
in ospedale e gli dice apertamente qual è il motivo della sua visita:
«Il professore non batté ciglio e mi invitò a seguirlo nel suo
studio, come se fosse desideroso di parlare della cosa con qualcu­
no. Mi confermò che il figlio aveva fatto il servizio militare solo
per un mese, che fin da piccolo lo portava a caccia con sé, che fre­
quentava il poligono di Umbertide dove si allenava con una Be-
retta 22, che gli aveva regalato lui una Mini Minor rossa per la
laurea 0 il diploma superiore, che c’erano dei problemi con la mo­
glie per la mancanza di figli, ma dimostrò un particolare senso di
protezione verso la nuora che pregò di non coinvolgere nella vi­
cenda. “Il Giornale” decise di fermasi lì».
L’eco del dubbio arriva a lambire anche ambienti vicini alla fa­
miglia. Il professore Mario Belluno, radiologo dell’ospedale di Pe- (
rugia, al vertice del Grande Oriente d’Italia nel capoluogo umbro e !
titolare della loggia intitolata al padre, dice agli inquirenti: ___ S
«Mi sono convinto che Francesco potesse avere dei legami con
un gruppo fiorentino ben determinato e potente, coinvolto in atti­
vità criminose. Questo l’ho sentito dire anche prima della scom­
parsa, in particolarità nel suo ultimo mese di vita. Un giorno un
contadino mi fece delle allusioni a un medico perugino che avreb­
be avuto una casa vicino ai luoghi degli omicidi. Ho saputo che la
proprietaria di questo appartamento sarebbe andata a denunciare
alla locale caserma dei Carabinieri la scomparsa dell’inquilino che
non pagava più il canone. Questa confidenza mi venne fatta da
una persona autorevole di cui non ricordo il nome, al quale a sua
volta era stata riferita da una persona di origine fiorentina, più pre­
cisamente l’appartamento doveva essere nella zona di Scandicci o
San Casciano. Debbo dire anche che Francesca mi confidò che
negli ultimi tempi il marito era molto turbato». ,
Bellucci, che fu testimone di nozze di Francesca, nutre delle
riserve sul carattere di Francesco, a suo parere «difficile, suppo­
nente verso le terze persone». E pur sembrandogli il menage fa­
miliare apparentemente tranquillo, aveva netta la sensazione che
Francesco non raccontasse proprio tutto alla consorte, che si te­
nesse dentro qualcosa.
A Beliucci non sfugge l’ostilità dimostrata dalla famiglia Nar-
ducci nei confronti di Francesca, e più in generale della famiglia
Spagnoli, motivata dal fatto che, a loro parere, la colpa di questo
«disagio» risiedeva nella mancata gravidanza di Francesca.
Di un certo disagio racconta la stessa Emilia Cataluffi, buona
conoscitrice della famiglia Spagnoli grazie alle confidenze di sua
zia, Emma Cacchi, balia di Lino, Mariella, Maria Luisa, Gianni e
dei molti nipoti.
Nella deposizione resa nel gennaio 2004, la Cataluffi racconta
di aver saputo dalla zia che Francesca, dopo la morte del marito,
era stata costretta a lasciare la città perché terrorizzata. Pur non sa­
pendo spiegare il motivo di questa paura, le disse di aver sempre
avuto dubbi sulla morte del marito e la sua convinzione era che
fosse stato ammazzato. Disse pure che tutti gli Spagnoli pensava­
no a un probabile omicidio e non a un suicidio o a una disgrazia.
Raccogliendo lo sfogo della vedova, la Cacchi, viene a sapere
che Francesco rimaneva fuori tutte le notti di luna piena e che si
, comportava in modo strano fin dai primi tempi del matrimonio.
I E che il giorno della scomparsa mandò dei fiori alla m amm a con
un biglietto: «mamma ti voglio tanto bene».
Le voci sul conto del gastroenterologo, e questo si saprà solo
più tardi, girano anche negli ambienti delle forze dell’ordine.
Ecco il racconto del colonnello, oggi a riposo, Antonio Colletti, al­
l’epoca comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri:
«A quel tempo ero alle dirette dipendenze del procuratore
capo e del comandante della Legione di Perugia. Qualcuno nel
corso delle indagini mi indicò Narducci come il capo di un grup­
po di persone legate ai delitti del “mostro” di Firenze, mi dissero
che forse era quello che eseguiva materialmente le mutilazioni.
La diceria mi arrivò anche da una mia fonte confidenziale».
Emblematica è anche la testimonianza dell’allevatore Attilio
Piselli, il quale accompagnando un giorno nel Mugello il mare­
sciallo dei Carabinieri Enzo Baldoni, arrivato più o meno all’al­
tezza dell’area di parcheggio di Scandicci, si sentì dire:
«Eravamo arrivati a mettere le mani sul mostro di Firenze e
invece tutte le nostre fatiche sono andate in fumo perché la m as­
soneria ha fatto archiviare ogni cosa».
Alla conseguente domanda di Piselli, su chi fosse veramente
il «mostro», il maresciallo risponde così:
«Il figlio del professor Narducci, che era uno degli esponenti
della massoneria. Il professore ha fatto ammazzare il figlio dal
garzone quando si è accorto di quello che stava combinando. Gli
faceva comodo trovare un coglione e l’hanno trovato».
Agli atti c’è pure la testimonianza di Letizia Ciaffaloni, che
racconta di alcuni volantini fatti circolare a Foligno dove Narduc­
ci veniva indicato come il «mostro» di Firenze, volantini che
anche Antonietta Fongo, dipendente dello studio notarile Biava-
ti, ricorda perfettamente.
Ma c’è un avvocato, Claudio Caparvi, che addirittura, si pre­
senta spontaneamente ai magistrati per riferire delle confidenze
fattegli dal professor Ferruccio Farroni. Fu durante una cena, nel
19 9 9 .a casa di amici, che Farroni gli esprime i suoi dubbi riguar­
do la morte del medico:
«Disse che per motivi professionali era venuto a conoscenza
che alcuni fiorentini potenti, che ritenni essere medici, avevano
costituito una sorta di loggia di "finocchi coperti”, come si espres­
se testualmente. Costoro, secondo Farroni, avevano organizzato i
delitti del “mostro”: Francesco ne era venuto a conoscenza, e
quindi era divenuto pericoloso per il gruppo che aveva deciso di
eliminarlo inscenando un finto suicidio. Ferruccio mi disse che
l’avevano narcotizzato, gli avevano messo una cintura da sub con
i piombi alla vita e poi l’avevano immerso nel lago. Quando i gior­
nali diedero la notizia del secondo livello dei delitti, mi telefonò e
mi disse: “Hai visto che avevo ragione?”».
Sentito dai magistrati Farroni dirà di essere un tipo particolar­
mente perspicace e di aver previsto gli avvenimenti...
Ma che Farroni sappia più di quello che dice o vuole far appa­
rire lo afferma anche Laura Berrettini, istitutrice delle figlie di
Gianni Spagnoli:
«Durante il fidanzamento con Cristina Peirone, nell’estate del
20 0 1, una sera a cena sul terrazzo della famiglia, in via Diaz, pre­
senti anche i figli di Cristina, il professor Farroni uscì con affer­
mazioni molto forti: disse che la situazione era ingarbugliatissi-
ma, che c’erano dei notabili che non dovevano apparire, che c’era
un’attività di indagine e lui sapeva chi aveva ucciso Francesco. Gli
chiesi perché non l’avesse detto prima e mi rispose che l'aveva già
fatto, che andava a smuovere una situazione che coinvolgeva per­
sonaggi intoccabili. Alla discussione si aggiunse anche un figlio
di Cristina, Simone Ramadori, che gli chiese la ragione del per­
ché non ne avesse parlato prima e lui rispose che non era il mo­
mento, che c’erano collegamenti con Firenze e alluse anche a un
coinvolgimento con i delitti fiorentini. Disse che Francesco era
entrato in un giro più grande di lui, pedina di una storia che aveva
a che fare con le sette e le messe nere. Dalla sua compagna seppi
che Farroni era un massone “in sonno”».
Le voci, le dicerie, quindi, si rincorrono e si intrecciano l’una al­
l’altra in un groviglio dove è diffìcile distinguere verità e fantasia.
Ravvisando i gravi indizi di un delitto volontario, il giudice per
le indagini preliminari di Perugia autorizza alcune intercettazio­
ni telefoniche.
In particolare viene registrata una telefonata tra Gianni Spa­
gnoli e la figlia Luisa, fatta il 23 gennaio 2004, alle ore venti e
trentacinque, nella quale si commentano le notizie pubblicate
dal «Corriere della Sera» dello stesso giorno. Il padre dice che era
verità il ritrovamento di feticci in un’abitazione in uso al Narduc-
ci nei pressi di Firenze, precisando che si trattava di «una vecchia
casa colonica» in località San Pa... (forse San Pancrazio), e che la
f proprietaria, non ricevendo più il canone da Francesco, aveva
chiamato il padre Ugo che vi si era precipitato insieme all’altro fi-
; glio Pierluca e ad alcuni elementi della Polizia. All’interno avreb-
: bero trovato un frigorifero con le parti asportate alle vittime.
Messo davanti alla registrazione, Spagnoli si giustifica dicen­
do di non aver fatto altro che riportare quanto scritto dai giornali,
ma nessun giornale, tantomeno il «Corriere», cita «una vecchia
casa colonica», ma semplicemente una casa, un appartamento,
un’abitazione. E solo due giorni dopo, il 25 gennaio sul «Corriere
della Sera» si legge di una «cascina».
Di una misteriosa casa in Toscana si parla anche in urialtra in­
tercettazione telefonica, quella tra una certa Daniela Cortona e
l’amica Rita, del 18 novembre 2003, ore diciassette e sei minuti,
nella quale Daniela confessa di essere stata convocata dai Carabi­
nieri ma non ritiene di «sbilanciarsi»; esortata anche dall’amica,
le confida di essere stata più volte alle feste organizzate da Fran­
cesco, in una casa della madre del Narducci in Toscana. Interro­
gata, dirà di sapere dell’esistenza ma di non esservi mai stata.
Altra telefonata, questa volta tra Daniela Ceccarelli, cognata di
Narducci, e la madre Adriana, 17 ottobre 2002, ore diciassette e
trentasette, nella quale si commenta una notizia di una vicenda
di riti satanici avvenuta a Pescara, Daniela sbotta:
«Eh, ma era tutto l’mi cognato che faceva casino, no?».
Il 22 gennaio 200 4 l’ispettore Luigi Napoleoni è al telefono con
la figlia Monica: le dice di aver letto l’articolo [come ha fatto a legge­
re un articolo che sarà pubblicato il giorno dopo? N.d.A.] dove si
parla di Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano:
«Fa parte di una setta esoterica, lui è uno di quelli che manda­
va... E poi sembra che ’sto Narducci fosse colui il quale, questo lo
dico io, teneva i macabri resti delle donne uccise eccetera... Poi a
un certo momento sicuramente questo forse voleva uscire dal
giro e l’hanno amma... Insomma, il mandante anche dell’omici­
dio di Narducci... quando esce fuori Trio...».
I feticci sono un argomento ricorrente. Ecco la testimonianza
di Sante Beccaccioli, autista dell’allora presidente del tribunale,
Raffaele Zampa, deceduto nel 1997:
«Una mattina, alcuni mesi dopo la morte di Narducci, il presi­
dente mi confidò di ciò che la sera prima, durante una cena, gli
aveva riferito una persona: cioè che in quei giorni, i proprietari di
un appartamento di Firenze di cui era locatario Narducci, inso­
spettiti dal mancato pagamento dell’affitto, avevano cercato di
contattare il medico. Saputo della sua morte, erano riusciti a con­
tattare i parenti che gli avevano procurato un mazzo di chiavi. E,
sempre secondo il racconto dell’amico, all’interno del frigorifero
sarebbe stato rinvenuto un barattolo o più con organi genitali
fem m inili, corrispondenti alle parti notoriamente asportate.
Chiesi al presidente se non fosse il caso di avvertire la polizia, e
questi mi rispose: “Ormai è morto. Sante, che vuol fare?”».
Perfino nelle Logge cittadine se ne parla. Massimo Spagnoli:
«Una cosa mi cólpi e cioè che pochi giorni dopo la morte di
Francesco, il professor Giovanni Ceccarelli, padre della cognata
del medico scomparso, che io conoscevo appena, mi disse che
non aveva mai visto un cadavere così gonfio. Ciò mi stupì perché
Francesco era notoriamente longilineo. In quei giorni invitai più
volte mio fratello a chiedere l’autopsia, ma Gianni mi diceva sem ­
pre che era stata Francesca a non volerla. Poi venni a sapere che
c’era stato “un inguacchio massonico” . Preciso che molti anni
prima, dopo pressanti richieste di Augusto De Megni, ero entra­
to in una loggia del Grande Oriente, la Guardabassi, ma dopo
aver partecipato a una riunione rinunciai, capendo che non face­
va per me. A quanto mi dissero mia moglie e alcuni massoni di
mia conoscenza, seppi che Ugo Narducci, tramite De Megni,
chiese al questore Trio, anche lui massone, di far chiudere rapi­
damente gli accertamenti senza che venisse fatta l’autopsia. So
che la magistratura venne tenuta all’oscuro e Trio si adoperò per­
ché l’autorità giudiziaria considerasse la morte un fatto acciden­
tale o un suicidio. Il motivo per cui Ugo non voleva l’autopsia ve­
niva spiegato con il coinvolgimento in una storia terribile del fi­
glio collegata con il m ostro: si diceva che a Firenze in un
appartamento a lui in dotazione, custodiva boccette con resti di
cadavere. Quello che non so spiegarmi è il voltafaccia di Ugo e
Pierluca nei confronti della famiglia Spagnoli. Mi è stato riferito
che Pierluca cacciò Francesca dalla chiesa per il trigesimo dicen­
dole che non apparteneva alla famiglia Narducci».
Ma delle turbolenze in loggia provocate dal «caso Narducci»
ne parla soprattutto un altro personaggio, Ferdinando Benedetti,
geometra delle ferrovie dello Stato, dirigente della sezione più
antica a Perugia del Partito repubblicano, la «Guglielmo Milioc-
chi». È il braccio destro dell’ex presidente della regione Enzo
Paolo Tiberi, «che seguivo come un cagnolino», fino al 1985,
quando Tiberi e altri si staccano e danno vita a una nuova sezio­
ne, la «Ugo La Malfa», composta praticamente da tutti coloro che
avevano la doppia iscrizione: al Pri e alla massoneria.
Benedetti non entra mai nella massoneria, nonostante i ripe­
tuti inviti. Conferm a invece la sua iscrizione alla Società di
Mutuo Soccorso, dal 19 9 1 al 2004, in qualità di revisore dei conti
e membro del consiglio di amministrazione, di cui facevano
parte come soci onorari anche De Megni e Bellucci.
Il geometra prende nota di tutto; a livello quasi maniacale,
spulcia elenchi e ne redige altri di sua spontanea iniziativa, per
avere un quadro esatto dei partecipanti. «C ’era l’usanza di mette­
re come soci onorari i capi loggia, cioè i Maestri Venerabili delle
diciotto logge perugine. Ebbi la possibilità di vedere degli elenchi
e ho ritrovato Bellucci in quello della P2, De Megni in quelli sia
della P2 e sia in quello del Pri».
Praticamente, da queH’osservatorio, Benedetti ha il polso ag­
giornatissimo e storico delle appartenenze massoniche. Parlan­
do della loggia Bellucci, alla metà degli anni Ottanta, cioè quella
dove erano affiliati i personaggi protagonisti della vicenda, Bene­
detti spiega:
«Era una loggia piena di medici universitari. Ascoltavo i loro
discorsi nelle riunioni conviviali, ad esempio in occasione delle
ricorrenze della presa di Porta Pia (20 settembre) 0 della Repub­
blica romana (9 febbraio), dove si parlava molto di spartizioni e
carriere. Accadeva spesso infatti in queste riunioni che persone
di età avanzata, alla fine, si estraniavano; andavano fuori da qual­
che parte a decidere per esempio chi nominare primario all’ospe­
dale di Perugia».
La vicenda della scomparsa e della morte del dottor Narducci
scuote la locale massoneria, tanto che, come osserva Benedetti,
«era oggetto di discussione in qualsiasi riunione».
Si nota una spaccatura ben delineata, amicizie personali esclu­
se: da una parte i massoni socialisti e dall’altra quelli repubblicani.
Narducci non veniva nemmeno mai nominato, al più ci si riferiva
«a quel medico morto al lago», ma tutti sapevano di cosa si parlava.
Durante l’incidente probatorio il Pm Mignini contesta a Bene­
detti alcune sue dichiarazioni rilasciate nel 20 0 2. La prima:
«L’argomento Narducci fu trattato come unico tema all’ordine
del giorno delle varie logge perugine dal giugno 19 86 . Per diver­
si mesi una maggioranza di stretta misura decise di coprire la vi­
cenda data la levatura dei personaggi implicati e tale decisione fu
poi confermata dal vertice dei diciotto maestri di loggia del Gran­
de Oriente d’Italia, nonostante in quelle riunione fosse emerso
che il Narducci fosse coinvolto probabilmente nella vicenda dei
delitti del cosiddetto mostro di Firenze, esattamente sapevano
che il Narducci custodiva i feticci delle vittime di tali duplici omi­
cidi, questo era il punto fondamentale delle riunioni».
La seconda: «In quelle riunioni non si era detto che Narducci
fosse il mostro di Firenze, ma che fosse uno dei mostri di Firen­
ze. A tale riguardo ricordo bene che prima delle riunioni le logge
tendevano a non recepire la voce pubblica di Narducci implicato
negli omicidi di Firenze, mentre dopo le discussioni approfondi­
te sul caso nelle riunioni e i particolari accertati dalle logge con le
loro indagini, che vi ho riferito, la conclusione di tutte le logge fu
che in effetti il Narducci era purtroppo coinvolto in quei delitti.
L’ordine dato dalle logge sui risultati delle loro indagini fu quello
di mantenere la segretezza ma devo precisare che mi risulta che
una parte fu dissenziente perché voleva far emergere la verità;
l’ala per così dire dura invece aveva sostenuto che per lo spirito di
corpo non bisognava far trapelare nulla perché altrimenti sareb­
bero stati coinvolti tutti».
Il geometra racconta un episodio avvenuto nel 1987:
«Capitai al tribunale di Perugia e lì incontro Tiberi che stava
parlando con l’avvocato Giancarlo Zuccaccia, entrambi massoni.
Ascoltai ciò che si dicevano mentre mi venivano incontro: “ne
parliamo in loggia e parliamo solo del medico”. Quando nel 1993
sono andato a vedere gli elenchi ho visto che Zuccaccia non ap­
parteneva alla stessa loggia di Tiberi. Quindi significava “ci vedia­
mo nell’agape” , che è una riunione conviviale che coinvolge tutta
l’altra massoneria».
Ci sono poi episodi minori, di voci su Narducci fatte in cene
private. Si parla perfino di una setta esoterica della quale, secon­
do il medico odontoiatra Egle Agostini, avrebbero fatto parte
molti medici perugini e della zona di Siena e Chiusi:
«Dal 1975 si diceva che Narducci avesse un appartamento a
Firenze, condiviso con un suo amico di Sinalunga. Sentii dire
che fin dal 1974, e nell’ultimo periodo universitario, Narducci ap­
parteneva alla setta della Rosa Rossa, nella quale aveva raggiunto
il grado di custode».
Uno spaccato della famiglia Narducci lo dipinge Ornella Ser-
vadio, amica di famiglia, compagna di bridge di Lisetta Narducci.
Sentita nel 20 0 2 accenna anche a una confidenza:
«Mi disse che a volte Francesco si chiudeva nella villa di San
Feliciano insieme ad alcune ragazze».
Quando però in sede di incidente probatorio il Pm le chiede di
ripetere quelle frasi, dice di non ricordare:
«Se l’ho detto saranno vere», si limita a dire.
Le due amiche sono insiem e anche il pomeriggio della scom­
parsa di Francesco, all’accademia dei Filedoni, in cima a via Ales­
si. Francesco aveva telefonato alla madre prima che uscisse, lei
gli aveva detto che sarebbe andata a giocare e il figlio l’aveva salu­
tata dicendole: «Ciao mamma, divertiti».
La sera stessa, almeno secondo il racconto di Lisetta, France­
sca era andata alla darsena di San Feliciano insieme ai genitori, e
appena vista la moto del marito con le chiavi inserite nel quadro,
una cosa insolita, mai successa, aveva esclamato: «Vuol dire che
si è ucciso».
Seguirono giorni carichi di angoscia e pena, dice la Servadio,
in cui tutti provavano a rincuorare i genitori, sforzandoli a non
pensare al peggio ma l’immagine che le resta impressa è quella di
Ugo Narducci che cammina per casa ripetendo: «Lasciatemi fare
che devo pensare a delle cose». Nella prima raccolta di informa­
zioni afferma che in quei giorni Ugo «si dava da fare per reperire
denaro pensando all’eventualità di un sequestro di persona, al­
meno nei primi giorni contattava le banche». Testimonianza che
stride con il racconto fatto da altri, di un Ugo Narducci sicuro fin
da subito della morte del figlio.
La Servadio conferma i contatti con i sensitivi e l’arrivo a casa
dei genitori, alcuni mesi dopo la morte di Francesco, di alcune
lettere anonime. Una in particolare, con su scritto, «Per il profes­
sor Ugo Narducci», Lisetta gliela fa vedere in macchina, dicendo­
le: «Guarda quello che sono capaci di dire di mio figlio». Era scrit­
ta con caratteri grandi e una frase, in particolare, la colpisce: «I
mostri generano i mostri». La Servadio le consiglia di buttarla via
e non farla nemmeno vedere al marito Ugo, per non dargli un ul­
teriore dispiacere.
Di Francesco, la Servadio ne parla anche con la signora Bona
Franchini, madre di Francesca, la quale le conferma che il genero
aveva in uso un appartamento a Firenze.
Federica Spagnoli invece racconta di come Alfredo Brizioli, che
diventerà poi il legale della famiglia, reagì quando lo avvertirono
della scomparsa dell’amico: «Cercate il passaporto perché se non
c’è il passaporto è scappato». Da cosa e da chi, non è dato sapere.
A dimostrazione del clima che si respirava, ecco la testimo­
nianza della signora Antonietta Vetrini:
«Nel 19 9 0 feci amicizia con Anna Maria Bevilacqua in Ales­
sandro, moglie del vecchio presidente del tribunale di Perugia,
dottor Mario Alessandro, entrambi sono deceduti. Anna Maria
mi disse della morte di Narducci che, a suo dire, faceva parte di
un gruppo di persone che si erano rese responsabili dell’uccisio­
ne di coppie nel territorio fiorentino, attribuite al cosiddetto mo­
stro di Firenze. Secondo la signora avrebbe goduto di forti coper­
ture istituzionali. Il gruppo frequentato dal Narducci era compo­
sto da gente altolocata e ben protetta dalle forze dell’ordine».
Ma ad accendere un potente riflettore sulla vita privata di Nar­
ducci è lo stesso professor Morelli:
«Sapevo che Narducci, insieme al dottor Farroni, frequenta­
vano e uscivano con donne. So anche, perché me lo ha raccontato
un mio collaboratore, che Narducci aveva delle frequentazioni
particolari, tipo delle orge, alle quali aveva partecipato anche lui,
ma dalle quali era subito scappato non appena avevano iniziato a
togliergli i pantaloni. Ed aveva uno strano modo di fare sesso, con
un comportamento violento e con urla».

LA RIESUMAZIONE

Nel marzo 200 2 la Procura di Perugia incarica il professore


Giovanni Pierucci, direttore dell’istituto di medicina legale di
Pavia, di valutare le operazioni compiute sul molo di Sant’Arcan­
gelo dal punto di vista medico-legale. Tre sono le cose che i m agi­
strati vogliono chiarire: capire se le cause e l’epoca della morte di
Narducci «potessero essere correttamente precisate senza un
esame autoptico»; specificare se il rigonfiamento del cadavere
fosse da ricondurre «soltanto allo stadio enfisematoso delle nor­
mali modificazioni subite dal corpo post mortem» e dare una spie­
gazione «sull’esatta colorazione estremamente scura della pelle».
Il risultato, depositato il 20 maggio 2002, parla di «totale in­
sufficienza» degli accertamenti eseguiti in sede di ispezione ca­
daverica esterna. Mentre la colorazione scura risulta essere lega­
ta alla «fase cromatica della putrefazione».
Quanto basta alla Procura per ordinare la riesumazione e l’au­
topsia, che viene eseguita dallo stesso professor Pierucci, coadiu­
vato dalla dottoressa Gabriella Carlesi, i quali sulla base dei pochi
documenti presenti esprimono dubbi sulla fattibilità dell’esum a­
zione, considerato il tempo trascorso e lo stato del cadavere. Ele­
menti questi che avrebbero comportato una notevole trasforma­
zione delle spoglie.
In altre parole: se il corpo ripescato era nello stato che tutti - ma
proprio tutti - i testimoni hanno descritto, aprendo la bara quasi
venf anni dopo sarebbe stato impossibile analizzare alcunché.
Invece all’apertura della cassa arriva la prima sorpresa: il
corpo è in buono stato di conservazione, «corificato» secondo la
relazione tecnica, tanto da risultare ancora riconoscibile. Situa­
zione che consente l’esecuzione di tutti gli esami chiesti dai m a­
gistrati (Dna, chimici, istologici, tossicologici).
Seconda sorpresa, più clamorosa, il vestiario: il cadavere in­
dossa pantaloni blu, chiusi, non elasticizzati e sopratutto taglia
«48 small», assolutamente incompatibili con il cadavere gonfio ri­
pescato al lago Trasimeno nel 1985. Ha un giubbetto in maglia, di
lana, con zip allacciata e una camicia di colore chiaro, impossibile
da stabilire se tagliata dietro perché sfaldatasi al primo contatto.
Di questa anomala «regressione» del cadavere, il Pubblico
ministero Giuliano Mignini chiede conto al padre di Francesco, il
professor Ugo Narducci, in un interrogatorio, quello del 16 giu­
gno 2002:
Pm: «Lei ha visto il cadavere di Francesco ripescato nel lago?».
Ugo Narducci: «Ricordo che vidi il volto che era gonfio e sem ­
brava quello di un negro, pur riconoscendolo. Il corpo lo vidi e ri­
cordo che era gonfio, ma quello che mi colpiva di più era il volto,
anche le labbra mi pare che fossero particolarmente gonfie».
Pm: «Che taglia aveva Francesco?».
Ugo Narducci: «Francesco era di costituzione magra ed era
anche dimagrito negli ultimi tempi, dal suo ritorno dall’America».
Pm: «Lei sa che addosso al cadavere riesumato sono stati trova­
ti un paio di pantaloni di taglia 48 small. Come è possibile che que­
sti pantaloni siano stati fatti indossare al cadavere del molo?».
Ugo Narducci: «Non lo so. Ricordo solo che quando la bara
stava per essere chiusa fui chiamato, vidi la camicia abbottonata
al collo di Francesco che sembrava quasi lo strozzasse tanto era
piccola, e pur essendo gonfio lo riconobbi, lo baciai in volto e poi
immediatamente dopo la bara venne sigillata».
Terza sorpresa: ci si sarebbe aspettato che capelli, peli e un-
ghie fossero integri ma distaccati, invece il corpo esaminato a
Pavia ha capelli folti castano chiari al capo, unghie e peli integri al
loro posto, compresi quelli pubici.
Quarta sorpresa: l’encefalo del Narducci è sufficientemente
ben conservato, cioè non è andato incontro al processo di degene­
razione che la fase cromatico-enfisematosa del cadavere ripesca­
to avrebbe comportato.
Una quinta sorpresa riguarda la modalità di decesso presun -1
ta, l’annegamento, che «potrebbe in via ipotetica trovare tracce di ;
avvenuta applicazione attraverso l’obiettivazione di diatomee j
negli organi del circolo genitale», ma di queste microscopiche
alghe unicellulari non c’è traccia.
Il professor Pierucci valuta insufficienti gli accertamenti fatti al­
l’epoca sul cadavere. Fare una ispezione esterna, condotta da un
medico per sua stessa ammissione ignaro di medicina legale e non
fare l’autopsia, equivale a scrivere un libro giallo senza l’ultima pagi­
na, quella in cui si svela il colpevole. Ma anche fermandosi all’ispe­
zione, sia pure importantissima ma solo come fase preliminare di
un accertamento complesso qual è l’autopsia, questa fu condotta in
condizioni proibitive: all’aperto e senza spogliare completamente il
cadavere. Il perito di allora, oltretutto, riteneva di dover compilare
solo un documento amministrativo, il certificato di constatazione
di morte, poco più di una formalità di fronte a un cadavere che non
prospettava dubbi solo su un fatto: che fosse appunto morto.
Ma dire, come fu frettolosamente detto all’epoca, che la causa
del decesso fu l’annegamento è impossibile da stabilire sulla base
di un’ispezione esterna, tanto più in un cadavere putrefatto.
Durante l’autopsia sul corpo riesumato viene eseguita una
complicata operazione di dissezione del blocco lingua-faringe-la-
ringe-organi del collo al termine della quale emerge che: «[...] il
corno superiore di sinistra è vistosamente fratturato alla sua
metà circa, con lussazione del moncone distale e formazione di
una sorta di ginocchio al vertice dei due segmenti fratturativi. In
corrispondenza di esso, il periostio-pericondrio risulta minuta­
mente lacerato». La frattura, sta scritto nella relazione, è causata
da «asfissia meccanica violenta prodotta mediante costrizione
del collo, o di tipo manuale (strozzamento) o mediante laccio
(strangolamento), secondo una modalità omicidiaria».
Viene anche rilevato l’oppiaceo di sintesi meperidina o petidi-
na, ad azione analgesico-narcotica, in estratti acquosi dello sto­
maco, della colecisti e della vescica, nell’encefalo e nei capelli.
È risultato che negli ultimi mesi di vita Narducci ha fatto uso
di meperidina, con una certa continuità, ma la concentrazione ri­
scontrata nell’encefalo è superiore alle dosi terapeutiche m assi­
me. Un livello quasi tossico, anche se ancora distante dalla soglia
letale.
Il legale dei genitori di Narducci spiega così il livello anomalo
del farmaco ansiolitico e antidolorifico, anche sulla base delle
consulenze di due eminenti tossicologi come i professori Rino
Froldi e Fraco Lodi (cfr. Brizioli, Ansa 19 dicembre 2002):
«La meperidina è un prodotto molto usato in gastroenterolo­
gia, settore nel quale Francesco era specializzato. Tra il marzo
1984 e la fine di settembre 1985 ne acquistò 150 fiale per la sua at­
tività privata che svolgeva in un ambulatorio di Foligno, come di­
mostrano le fatture e i certificati che abbiamo ritrovato. In quel
periodo aveva una diffìcile situazione emotiva per problemi sul
lavoro e per il difficile rapporto con la moglie. Soffriva poi per una
frattura non curata alla tibia e la meperidina è particolarmente
utilizzate per i dolori ossei».
L’alta concentrazione rilevata, quindi, a detta del legale, «po­
trebbe essere spiegata come una “dose finale” che, assunta per
bocca, l’avrebbe stordito dopo essere uscito con il suo motoscafo
sul Trasimeno, provocando la sua caduta dalla barca e quindi l’an­
negamento».
Difficile dire se il medico abbia assunto volontariamente una
dose eccessiva del farmaco o se il malore possa essere stato causa­
to da un progressivo accumulo nell’organismo. Così come è diffì­
cile stabilire se Narducci fosse già morto al momento in cui cade­
va in acqua 0 se il decesso sia avvenuto per annegamento.
Su un punto, però, i legali della famiglia Narducci non hanno
dubbi: la morte del giovane medico sarebbe dovuta proprio all’as­
sunzione di una quantità letale del potente narcotico.
Il punto centrale su cui si concentra l’autopsia del cadavere rie­
sumato, però, è la frattura del corno superiore sinistro della carti­
lagine tiroidea, che un esperto di parte Narducci, il professor Enri­
co Signorini, riconosce parzialmente parlando di «discontinua­
zione» ; termine un po’ soft per chiamare la frattura, che non
risolve però il problema di quando e come la lesione possa essersi
prodotta. Signorini esclude qualsiasi trauma dal vivo e ritenendo
logica una manovra traumatica sul cadavere, verificatasi nel lasso
di tempo che va dal momento del ritrovamento fino all’esame ese­
guito diciassette anni dopo.
Lo stesso perito, però, conferma che la lesione è circoscritta e
ampiamente protetta, quindi il meccanismo che deve averla pro­
dotta dev'essere compatibile con tali caratteristiche: pressione
circoscritta, meno di due centimetri, progressiva e localizzata, in
grado di raggiungere il punto in questione, superando le prote­
zioni ma senza perdere la sua caratteristica di concentrazione
della spinta.
Ma tale pressione è diffìcile da immaginare post jnortem, a
meno che non si ipotizzino manovre di strozzamento di un cada­
vere.
Urti contro il bordo della barca, colpi sul collo, cadute a terra
del cadavere, forzature nel collo per la vestizione, lasciando per­
dere il dondolìo o i sobbalzi nella bara, magari durante il traspor­
to all’istituto di medicina legale di Pavia, non avrebbero mai pro­
dotto la concentrazione e la progressività della pressione, insom ­
ma quelle caratteristiche che l’agente meccanico doveva usare
per raggiungere quel risultato.
La signora Barbara Cucchi, tecnico del Dipartimento di Medi­
cina legale di Pavia, ricorda così la sessione del 5 settembre:
«Ero presente alle operazioni di scarnificazione e dissezione
del corno superiore sinistro della cartilagine tiroidea. Era presen­
te l’avvocato Brizioli, un maresciallo dei Carabinieri con la barba,
i consulenti di parte e l’avvocato della moglie di Narducci, France­
sco Crisi. Il mio compito era quello di tenere immobilizzata con
le due mani la laringe, mentre il professor Pierucci la puliva per
mettere in luce la cartilagine tiroidea. L’operazione fu condotta
magistralmente, tanto che nessuno ha avuto da ridire. Una volta
posta in evidenza la parte interessata, Pierucci ha estratto la carti­
lagine tiroidea, stando bene attento a non toccare i corni della
stessa, estraendola con cautela e facilità. Mostrata, nessuno ha
fatto osservazioni. Ben scarnificata ha mostrato la linea di frattu­
ra esistente nel corno superiore sinistro e nessuno ha obiettato
nulla, né sulla parte né sull’operato del professore. L’operazione è
durata tre ore».
Nonostante le conclusioni del professor Signorini in pratica
andassero in direzione di quelle di Pierucci - pressione crescen­
te e localizzata tale da fratturare quel corno lasciando integre le
aree circostanti - tutti i consulenti di parte Narducci hanno conti­
nuato a sostenere l’ipotesi iniziale: disgrazia, malore e, in subor­
dine e senza spiegazione, il suicidio, escludendo a priori l’omici­
dio anche solo come eventualità remota.
La famiglia Spagnoli, invece, tramite il proprio legale France­
sco Crisi, è convinta che la causa della morte di Francesco non sia
attribuibile a un incidente.
I consulenti di parte Spagnoli, Mauro Bacci e Massimo Rama-
dori, hanno condiviso le perplessità sul raffronto tra i due cadave­
ri, quello ripescato e quello sepolto e poi trasportato a Pavia.
Hanno sottolineato la mancanza di diatomee e affermato che la
rottura del corno superiore sinistro della cartilagine tiroidea è
segno inequivocabile di un’azione traumatica di rilievo, attuata in
modo concentrato sulla regione laterale sinistra del collo. La let­
teratura scientifica valuta la rottura di uno o entrambi i corni
come tipici dello strozzamento, assai di più della rottura dell’osso
ioide o delle altre strutture laringee, quali la lamina tiroidea e la
cartilagine cricoide.
Bacci e Ramadori aggiungono:
«L’eventuale osservazione microscopica di proliferazione bat­
terica particolarmente abbondante, favorita da fenomeni microe­
morragici, potrebbe essere segno indiretto del carattere vitale
della lesione fratturativa riscontrata». E l’abbondante presenza di
miceti è stata effettivamente riscontrata dal professor Pierucci.
Questi i punti salienti della perizia, riconosciuti anche dai
consulenti delle parti private:
a) Narducci negli ultimi mesi di vita - sei, secondo la consu­
lenza di parte Spagnoli - faceva uso ripetuto e con una certa con­
tinuità di petidina o meperidina, oppiaceo di sintesi ad azione
analgesico narcotica, le cui tracce sono state rinvenute nell’ence­
falo e nei capelli del cadavere nonché nello stomaco, a dimostra­
zione che l’assunzione avveniva in forma orale e che l’ultima era
stata piuttosto recente rispetto al momento del decesso;
b) la lunghezza del cadavere era di un metro e ottanta centi-
metri, che corrispondeva a quella in vita;
c) sono stati rinvenuti anche gli esiti di una frattura che Nar­
ducci aveva contratto da ragazzo, durante una discesa con gli sci,
e l’esame radiologico conferma l’età tra i 25 e i 45 anni;
d) nessuna prova dell’annegamento, vista la mancanza di diato­
mee, anche se si tratta di un dato neutro che non esclude di per sé
la possibilità. Il valore di indizio certo di annegamento attribuito
alle diatomee è infatti circoscritto ai soli casi di cadavere recente;
e) riguardo la frattura del corno ioideo, che per Pierucci «si ri­
tiene avvenuta in vita», «rende quantomeno probabile che la causa
della morte sia un’asfissia meccanica violenta prodotta mediante
costrizione del collo o di tipo manuale (strozzamento) o mediante
laccio (strangolamento), secondo una modalità omicidiaria».
Tale scenario, secondo la Procura perugina, non è imm agina­
bile nemmeno con l’impiccagione, la cui azione fratturativa si
svolge con la retropulsione dello ioide e della tiroide contro le ver­
tebre, mentre la tendenza delle due formazioni alla divergenza
reciproca viene contrastata e impedita dalla membrana e dal le­
gamento tiro-ioideo.
Nello strozzamento invece l’azione si svolge direttamente in
uriarea limitata e riguarda un segmento piccolo e protetto, per­
ché esso è raggiunto nella sua relativa profondità da questa spe­
cie di sperone durante la presa manuale.
La riesumazione si conclude con un altro colpo di scena. Men­
tre si sveste il cadavere per l’autopsia, all’altezza dell’addome
viene trovato «un telo rettangolare in lino, con bordi a crochet con
motivo ornamentale a cinque fori ripetuti in sequenza e m inu­
ziosamente ripiegati».
È posizionato sotto i boxer in cotone e avvolge la salma anche
posteriormente. Annota la Carlesi: «Non vi è alcuna agevolazio­
ne alle operazioni di vestizione nel posizionare in tale modo un
panno di lino libero, non vincolato, mantenendone nel contem­
po scrupolosamente i bordi ripiegati posteriormente. Tale mano­
vra denota uno sforzo mirato e congiunto di più operatori».
Chi vestì la salma, gli addetti dell’impresa funebre, giurano di
non averlo messo.
A quel panno fa cenno ancora l’avvocato dei Narducci (cfr. Bri-
zioli, Ansa del 19 dicembre 2002):
«Effettivamente sul cadavere venne trovato un panno, ma
non c’è alcun mistero. Si tratta infatti di un asciugamano rettan­
golare di lino, con un merletto sui lati corti proveniente dall’abita­
zione dei Narducci di San Feliciano. Venne posto sul corpo per
normali esigenze di pudore legate alla vestizione, come si fa
spesso in questi casi».
La Procura perugina chiede una spiegazione alla dottoressa
Gabriella Carlesi, la quale fa brevi cenni riguardo la tanatoprassi,
disciplina che studia la ritualità funeraria, molto usata all’estero
ma non in Italia, dove ancora non rientra nel regolamento di Po­
lizia Mortuaria.
I «tanatoprattori», alcuni dei quali amano definirsi «manipo­
latori di corpi», applicano tecniche che ritardano le conseguenze
fisiche e biochimiche, altrimenti inevitabili, della morte allo
scopo di ridonare un'apparenza fìsica accettabile alla salma, al­
meno per la consolazione dei parenti.
Un limite è dato dallo stato avanzato di putrefazione. In que­
sto caso ci si limita a igenizzare il più possibile, segnalando ai pa­
renti le difficoltà di una vestizione completa, ricorrendo al taglio
dei vestiti e apposizione sul corpo, senza provocare nauseabonde
fuoriuscite di liquidi e liquami.
Per chiarire meglio il significato del telo viene comunque di­
sposta una ulteriore perizia, affidata al professor Massimo Intro-
vigne, uno dei m assim i esperti di nuove religioni e culti magico-
esoterici ma anche esperto di tradizioni funerarie.
La conclusione cui giunge è che il telo cinto attorno ai fianchi
appartiene a un arcaico simbolismo massonico e ha un possibile
significato punitivo.
A distanza di tempo, anche i consulenti di parte Narducci te-
stimonieranno delle «anomalie». Come il dottor Walter Patumi
ad esempio, che nel novembre 200 4 ammette di non conoscere
«le condizioni del cadavere ripescato il 13 ottobre 1985» e che l’as­
serita coincidenza da lui certificata tra quello e quello dell’autop­
sia derivava unicamente dal fatto che «non esistendo dei parame­
tri di riferimento, cioè a dire non essendo in letteratura segnalato
riesumazione di cadaveri di soggetti annegati venti anni prima»,
questa coincidenza doveva darsi per scontata.
L’altro consulente, il professore Giuseppe Fortuni, anche lui
nel 2004, dice di non aver «mai visto le foto riportanti dettagli del
cadavere ripescato al Trasimeno nel 1985».
Che Narducci possa essere stato strangolato è quindi un’ipote­
si plausibile che combacerebbe perfettamente con quanto di­
chiarato dall’ispettore Leonardo Mazzi, il quale ai colleghi della
squadra mobile racconta che - in un giorno lavorativo, e quindi
non di domenica - era andato al lago per recuperare il Narducci
che, gli dissero, era stato ritrovato incaprettato.
In definitiva lo stesso scenario riferito da Ferruccio Farroni,
Attilio Piselli e, vedremo dopo, dallo stesso Pietro Pacciani.
Il 26 settembre 200 2 viene affidata alla dottoressa Carlesi una
consulenza antropometrica.
Sulla base di foto del tempo - sostanzialmente una sola utiliz­
zabile, scattata da un fotografo all’inizio del pontile - confrontate
con vecchie foto di Narducci in vita, le viene chiesto di fare una
comparazione tra l’uomo ripescato al lago e il corpo di Narducci.
C ’è un elemento che gioca a favore: le piastrelle della pavi-
mentazione - venticinque centimetri per venticinque - sono le j
stesse del 1985, non sono mai state cambiate nel corso degli anni,
potendo così fungere da unità di misura per il calcolo. Con l’ausi­
lio di sofisticati programmi informatici vengono compiuti raf­
fronti tra le fotografie e analizzati i dati del corpo ripescato e quel­
lo del Narducci.
Alla fine la salma ripescata a Sant’Arcangelo risulta avere que­
ste caratteristiche: altezza un metro e settantatre centimetri, con
percentuale di errore di circa uno per cento, contro il metro e ot­
tanta del cadavere esumato.
L’uomo del lago ha una circonferenza alla vita tra i centodieci
e i centodiciannove centimetri, contro i settantadue, settantacin-
que della salma di Narducci, compatibile con una taglia «48
small».
Totale assenza di capelli nella zona tra padiglione auricolare
sinistro e parietale temporale sinistro dell’uomo del lago, mentre
la salma di Narducci ha i capelli ancora visibili, anche nella zona
occipitale.
Il 16 dicembre 200 2 la dottoressa Carlesi consegna la sua re­
lazione: incompatibilità tra i due cadaveri. __
Per la famiglia Narducci quello di uno scambio di cadaveri è
un’ipotesi «superfantasiosa», causato da un problema di espan­
sione di un errore compiuto nel calcolare i dati antropometrici.
Infatti nella controperizia il professor Francesco Mallegni, con­
sulente per la difesa, tende a smontare tale ricostruzione. Conte­
sta vari punti, a cominciare dalla questione dei capelli. Per il peri­
to di parte la fronte dell’annegato è ampia e con un’attaccatura
leggermente arretrata, ma perfettamente compatibile con quella
del Narducci riesumato.
Risponde la Carlesi:
«Non si capisce come Mallegni possa rilevare la presenza di
capelli con precisione tale da affermare che l’attaccatura è legger­
mente arretrata. Abbiamo ben presente le difficoltà avute per rag­
giungere una definizione delle immagini tale da consentire la
successiva applicazione di tecniche di analisi digitale. Le im m a­
gini acquisite da Mallegni non possono essere di qualità suffi­
ciente da risultare utilizzabili a un’analisi su base scientifica. Ri­
teniamo che l’enunciato in questione sia una pura valutazione
apodittica, priva di fondamento».
Altra contestazione è sulla lunghezza del cadavere. Scrive
Mallegni: «[...] le mattonelle, sette più un quarto, corrispondente
alla perpendicolare del culmine della testa rispetto al pavimento
(misurate sul posto danno una lunghezza totale di m i,8o)».
Senza contare, aggiunge il perito, i piedi, il cui termine risulta in­
certo in quanto «impossibile da misurare con precisione perché
coperti e perché va tenuta in conto la possibile lieve flessione tipi­
ca degli arti superiori e inferiori negli annegati». E conclude: «Ri­
tengo che l’altezza totale del cadavere sia di poco superiore al
metro e ottanta centimetri».
La Carlesi replica che in termini medico-legali i cadaveri si m i­
surano per lunghezza e non per altezza. Le misurazioni effettua­
te sono state ipotizzate con margine di errore in un caso del dieci
e nell’altro dell’uno per cento. Inoltre l’affermazione che la m isu­
ra «può essere fatta con m inimo margine di errore» sarebbe in
contraddizione con l’altra tesi di Mallegni, secondo cui «il termi­
ne dei piedi risulta incerto in quanto gli stessi sono coperti».
La conclusione è conseguente: «Volendo misurare la distanza
tra due punti e affermando di non conoscerne uno, ci si doman­
da quale metodo scientifico sia stato usato per determinare la
lunghezza della salma».
Altra contestazione è sulle dimensioni del corpo ripescato.
Mallegni lo ritiene compatibile con quello di Narducci, nono­
stante l’acqua assorbita nei cinque giorni di immersione.
Replica la Carlesi:
«Un cadavere sommerso non assorbe acqua come una spu­
gna. Inoltre lo stato di enfisema putrefattivo era conclamato ed
evidente, come risulta da numerose deposizioni e dalla consu­
lenza tecnica del professor Pierucci: “ la putrefazione era rigo­
gliosissima, in fase enfisematosa florida, caratterizzata dallo svi­
luppo di abbondante gas”».
Insomma, per la dottessa Carlesi le conclusioni del professor
Mallegni sono «apodittiche e prive di metodo scientifico».
Con uriulteriore consulenza, la Carlesi cerca di ricostruire il
volto dell’uomo del lago comparando tre fotografìe: quella della
salma esumata di Narducci, una che ritrae Narducci giovane e
con la testa rasata, una dell’uomo ripescato a Sant’Arcangelo. Gli
esperti rilevano i punti anatomici craniometrici sull’imm agine e
tracciano i piani tangenti. Secondo la classificazione di Broca ri­
sulta che il cranio dell’uomo ripescato è «brachicefalo», cioè con
la larghezza prevalente sulla lunghezza, mentre quello del Nar­
ducci è di tipo «subdolicocefalo», con un’altezza regolare del
terzo distale del volto, dato che indica una «post-rotazione della
mandibola normo o ipodivergente, con regolare intercispidazio-
ne dentale nei settori posteriori».
Dall’elaborazione tridimensionale delle foto, risulta la «totale
compatibilità» tra la testa virtuale di Narducci in vita e quella vir­
tuale della salma esumata. Mentre «appaiono evidenti le diversi­
tà anatomiche della conformazione - brachicefalo e subdolicoce­
falo - e della diversa lunghezza del terzo distale» tra quella del­
l’uomo del lago e le altre due immagini di Narducci.
Dunque, stando all’autopsia, la causa di morte del dottor Fran­
cesco Narducci non solo non sarebbe naturale, ma il corpo ripe­
scato nel lago quel 13 ottobre 1985 non era il suo, bensì quello di
uno sconosciuto, fatto passare per il gastroenterologo.
Per eliminare qualsiasi ombra di dubbio, nel 20 0 6 la Procura
di Perugia affida al Reparto investigazioni scientifiche (Ris) dei
Carabinieri di Parma una consulenza tecnica per verificare la
bontà e la correttezza dell’operato della dottoressa Carlesi e rico­
struire, per quanto possibile, sulla base delle foto e dei negativi, il
volto e il capo dell’uomo riemerso nel Trasimeno.
La prima fase riguarda l’esame oggettivo delle immagini a di­
sposizione. Tramite particolari software di recontruction, restora-
tion and enhancement, viene migliorata la qualità delle immagini,
che vengono studiate attentamente per determinare le caratteri­
stiche morfologiche (forma dell’orecchio, forma e dimensione
del naso, profilo dell’angolo mandibolare), i contorni delle strut­
ture anatomiche (andamento generale del volto, delle arcate so­
praccigliari, profilo della bocca) e i contrassegni: le cicatrici, i nei,
i porri, le eventuali malformazioni.
Per riprodurre l’apparenza di un volto, che ha una forma geo­
metrica estremamente complessa, l'ideale è ottenere un modello
in tre dimensioni. In linea generale due foto di uno stesso sogget­
to, una frontale e una laterale, sono sufficienti per la ricostruzio­
ne di un prototipo tridimensionale. Addirittura, mediante punti
di controllo detti marker, è possibile far aprire o chiudere gli occhi
e la bocca o applicare espressioni al viso del modello.
Dopo aver classificato le caratteristiche fisionomiche di un
volto si procede alla seconda fase: la comparazione dei caratteri
risultanti dall’analisi delle immagini dei volti in esame, per evi­
denziare compatibilità e incompatibilità.
Gli uomini del Ris lavorano su due foto. La prima è quella del
cadavere coperto da un telo, con evidenti solo pochi particolari
(punta scarpe, punto barella, addome), senza negativo - il che
non ha permesso una risoluzione maggiore -, di bassa qualità, in
bianco e nero, con una scena molto luminosa e poco contrastata.
La seconda è scattata dal fotografo da lontano, sempre con una
pellicola di bassa qualità, in bianco e nero, anche questa con una
scena molto luminosa e poco contrastata.
Questa seconda immagine, acquisita con scanner professiona­
le, mette in rilievo alcuni dettagli del corpo disteso, interessanti per
la misurazione della circonferenza. La diversa posizione di scatto
permette di avere punti di ripresa quasi ortogonali tra di loro. Aiuta
il fatto che alcuni elementi del pontile sono ancora esistenti, nelle
stesse forme, posizioni e dimensioni. Quindi si arriva a una acqui­
sizione tridimensionale anche della scena. E dalle misurazioni ri­
sulta «che la lunghezza proiettata a terra, tra punto testa e punto
piede, risulta essere di centosessanta centimetri virgola cinque».
Viene poi eseguita una sperimentazione sul molo di Sant'Ar­
cangelo, posizionando a terra un basamento simile a una barella,
prendendo poi i punti di interesse sul pontile corrispondenti
(punto testa, punto barella, punto piede, punto presa immagine),
mettendo una macchina fotografica alla stessa altezza di quella che
scattò la foto, e chiedendo a tre figuranti di altezza (centosessanta
virgola cinque, centosettantatre e centottantadue centimetri) e cir­
conferenza addominale (quella del corpo recuperato era di novan­
tanove centimetri) diversa, di stendersi nella stessa posizione del
cadavere ripescato. Poi vengono sovrapposte le immagini e quella
del soggetto alto centosessanta centimetri virgola cinque risulta
perfettamente compatibile con l’immagine dell’uomo del lago.
La ricostruzione del volto, invece, risulta impossibile. Le uni­
che parti valutabili (arcata sopraccigliare, palpebra dell’occhio si­
nistro, zona labiale, zona mentale, zona zigomatica, orecchio sini­
stro) sono insufficienti per permettere una ricostruzione fedele.
Nella relazione del Ris viene spiegato anche l’annegamento,
consistente nella penetrazione di acqua nei polmoni al posto del­
l’aria, che provoca asfissia. In acqua dolce viene assorbita rapida­
mente dai capillari polmonari e in pochi istanti penetra nel siste­
ma circolatorio, fino al raddoppio del volume del sangue. Lo squi­
librio piasmatico causa alterazioni miocardiche, e quindi la
fibrillazione ventricolare dopo pochi minuti dall’immerisone,
con arresto rapido del cuore.
Ha cinque fasi: la sorpresa, inspirazione appena caduto in
acqua; la resistenza, le prime boccate di acqua provocano uno spa­
smo serrato della glottide che impedisce la penetrazione dell’ac­
qua nei polmoni, fase di apnea durante la quale l’individuo si agita
e cerca di riemergere, dura circa un minuto; la dispnea respirato­
ria, non è più possibile trattenere il respiro, iniziano affannose re­
spirazioni sottacqua che durano un minuto e provocano l’introdu­
zione di grandi quantità di acqua nei polmoni e nello stomaco; l’ap-
noica, perdita di conoscenza, coma profondo con arresto del
respiro; terminale, boccheggiamento e arresto cardiaco. Si annega
in tre, cinque minuti in acqua dolce, in sei, sette minuti in mare.
L’annegamento ha dei segni caratteristici. Fenomeni cadave­
rici: le ipostasi sono accentuate e diffuse per la fluidità della
massa sanguigna, sono rosso chiare, disposte al viso, alle spalle e
alle regioni anteriore del torace perché il cadavere degli annegati
assume una posizione prona con la testa in basso e gli arti sem i­
flessi. La putrefazione è ritardata finché il cadavere è immerso,
ma si accelera appena fuori dall’acqua. La permanenza in acqua
determina la macerazione della cute, che gli fa assum ere un
aspetto rugoso, bianco e opaco.
Segni esterni: il più importante è il «fungo schiumoso» alla
bocca e alle narici. Si forma a livello bronchiale per commistione
del muco con l’aria residua e il liquido annegante, viene espulsa per
aumento della pressione intratoracica dovuta all’aumento della
temperatura corporea dopo l’estrazione del cadavere dall’acqua, e
allo sviluppo dei gas putrefattivi. Altri segni sono la cianosi, la cute
anserina - la pelle accapponata - per contrazione dei muscoli eret­
tori dei peli e la presenza di sabbia sotto le unghie e nella bocca.
Segni interni: presente enfisema acuto nei polmoni.
La sommersione del cadavere mostra i reperti dovuti alla per­
manenza nell’acqua, quali il deposito di sabbia e di alghe sugli
abiti e sul corpo, la lacerazione degli abiti provocati dal trascina­
mento della corrente, le morsicature degli animali acquatici, la
macerazione e la saponificazione.
La maggior parte degli annegamenti è accidentale. L’omicidio
è raro e riesce solo se la vittima è colta di sorpresa o è debole. In tal
caso è possibile osservare sul cadavere fatti lesivi che testimonia­
no una colluttazione o una aggressione, si tratta perlopiù di esco­
riazioni o lesioni contusive.
Le conclusioni del Ris sono depositate nel maggio 2007: il ca­
davere ripescato al lago il 13 ottobre 1985 era alto centosessanta
centimetri virgola cinque e aveva una circonferenza all’incirca di
novantanove. Non si può ricostruire il volto del cadavere per scar­
si elementi di valutazione.
La famiglia Narducci rimane ferma sulle sue posizioni, conti­
nuando a sostenere che quello ripescato nel 1985 e deposto sul
molo di Sant’Arcangelo era proprio Francesco. Qualsiasi collega­
mento con i fatti di Firenze, poi, un’autentica calunnia.

«SI PREPARI A COMBATTERE»

Non appena i giornali locali danno la notizia che la Procura di


Perugia ha cominciato a indagare sul medico scomparso dicias­
sette anni prima, un nuovo personaggio entra nella vicenda: è
l’avvocato Alfredo Brizoli, amico di Francesco Narducci, con cui
condivide le compagnie e col quale era solito andare al mare al­
l’Elba, nel residence «Napoleon» di Procchio.
Brizioli, che da anni non esercita più l’attività forense, si rii­
scrive all’Ordine degli avvocati in concomitanza con questi even­
ti, muovendosi secondo modalità definite «anomale in radice»
dagli ambienti della Procura. Sia lui sia la famiglia del defunto as­
sumono infatti fin dall’inizio «un atteggiamento da indagati, più
che da persone offese», come ci si potrebbe aspettare in un proce­
dimento il cui scopo principale è di far luce sulle reali cause che
hanno determinato la scomparsa e la morte del congiunto.
L’avvocato Brizioli mostra uno straordinario coinvolgimento
emotivo nella vicenda, tanto che è lui e non il fratello della vitti­
ma, Pierluca, a seguire il carro funebre, scortato dalla polizia,
fino a Pavia ed è sempre lui che segue con ansia le fasi dell’aper­
tura della bara o quelle dell’analisi dell’osso ioide, lasciandosi an­
dare a gesti di esultanza quando, nel corso dell’esame, sembra
che non emerga niente di anomalo.
Quando, invece, terminata l’operazione di scarnifìcazione
della cartilagine tiroidea il professor Pierucci rileva la frattura,
Brizioli è sconcertato e nei giorni successivi si dà un gran da fare
per attribuire la lesione a un’azione maldestra dello stesso perito.
Questo osso ioide sembra essere un vero e proprio incubo per
l’avvocato. Prima dell’autopsia fa inviare dal consulente tecnico
dei Narducci, il professor Giuseppe Fortuni, un fax a Pavia con
cui si preoccupa di sottolineare l’inutilità della dissezione del
complesso laringe-trache-osso ioide, avanzando anche l’ipotesi
che eventuali lesioni potrebbero derivare da manipolazioni. Suc­
cessivamente spedisce personalmente un telegramma in cui sot­
tolinea la necessità della presenza sua e dei consulenti per esami
effettuati «su parti così fragili come la parte anteriore del collo
che racchiude il delicatissimo osso ioide» che, afferma, è stato
«inevitabilmente indebolito dal lungo processo cadaverico e sot­
toposto allo stress traumatico conseguente alla necessità di iso­
larlo ed estrarlo completamente dalla salma». Osso ioide che,
sempre secondo Brizioli, «nel corso dei lunghi trasferimenti cui
è sottoposta la salma può essere oggetto di scuotimenti e urti al
suo interno, oltre che di eccessive quanto necessarie e più volte
ripetute manovre manuali effettuate da più persone».
Perché è così convinto che non sia importante l’esame ma è
nel contempo così preoccupato dell’esito?
A Brizioli e a Fortuni interessa solo l’osso ioide, prima della
riapertura della bara, non altre parti delicate della scatola cranica
o parti cartilaginose, quando a nessuno degli inquirenti è ancora
venuto in mente che avrebbe potuto essere leso.
Secondo gli inquirenti l'avvocato cerca anche di intervenire
presso la Procura generale per far avocare l’indagine e sollecita
interventi di politici e stampa per mettere in cattiva luce il sostitu­
to procuratore titolare.
Qualche settimana prima della riesumazione e dell’autopsia
esce infatti un articolo sul periodico «Avvenimenti» con pesanti
insinuazioni sul Pm Giuliano Mignini e sul professor Pierucci
«reo», fra l’altro, «di tenere un poderoso busto del Duce dietro le
spalle». In precedenza la deputata dei Comunisti italiani, Katia
Belillo, folignate ma residente a Perugia, aveva presentato due in­
terrogazioni al Ministro della Giustizia. La prima per segnalare
che Mignini ha scritto la prefazione di un volume pubblicato dal
sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, anche lui magi­
strato, ma eletto nelle liste di Alleanza nazionale. La seconda per
chiedere l’opportunità del prolungarsi di una inchiesta ritenuta
troppo costosa per i contribuenti.
Brizioli tenta anche di lusingare e subito dopo di intimidire
l’altro perito della Procura, la dottoressa Carlesi, «colpevole» di
avere accertato l’incompatibilità tra il corpo del lago e quello esa­
minato a Pavia.
Ecco cosa racconta la stessa Carlesi:
«Circa un mese dopo che ho consegnato la mia relazione,
esattamente il 21 dicembre 200 2, ricevetti una telefonata dell’av­
vocato Alfredo Brizioli sul mio cellulare. I numeri ce li eravamo
scambiati in sede di perizia, pratica peraltro inconsueta ma ce­
detti dopo qualche sua insistenza. Ero in casa con i miei figli. Lui
esordì così: “ Se m i riconosce le faccio gli auguri di Natale”. “Certo
che la riconosco avvocato” gli risposi, per aver riconosciuto la
voce e anche perché era comparso sul display il numero di Peru­
gia. Era una telefonata piacevolmente natalizia, con gli auguri ec­
cetera, fino a quando mi disse: “Guardi, dovrei incaricarla, se ha
piacere, di una relazione per la famiglia Narducci sull’elaborazio­
ne digitale di alcune foto...”».
La dottoressa declina, ricordandogli il suo impegno per la
Procura. Lui allora fa cenno al trattamento economico:
«Ma il consulente di parte è meglio pagato».
Di fronte a un nuovo rifiuto, sbotta:
«Ma non sarà mica lei quella Gabriella Carlesi che ha fatto
quella strombazzata consulenza tecnica per la Procura?».
La telefonata prende un altro tono:
«Brizioli iniziò a entrare nello specifico della mia consulenza,
chiedendomi i dettagli delle conclusioni che avevo fornito».
All’invito della dottoressa di rivolgersi alla Procura, dal mo­
mento che non può esserci alcun rapporto con i legali di parte,
Brizioli, con tono stizzito, replica:
«Io voglio sapere le conclusioni perché se lei... se queste con­
clusioni vanno contro un interesse di Francesco lei si deve prepa­
rare a combattere».
E la Carlesi, attonita:
«Come combattere?».
«Sì, sì, si prepari a combattere».
L’ordine degli avvocati di Perugia, informato di quanto è avve­
nuto, ha porto le scuse alla dottoressa.

UNA M ORTE... ANTICIPATA

L’autopsia ha stabilito che il «vero» Francesco Narducci non è


morto per cause naturali.
In seguito alle indagini sembrerebbe crollare anche urialtra
«certezza»: Narducci non sarebbe stato trovato il 13 ottobre 1985.
Emergono infatti una serie di testimonianze, di ricordi, magari
in parte anche affievoliti dal tempo ma non tanto da vanificarne il
contenuto, che sono concordi su una cosa: il giorno dell’effettivo
ritrovamento del corpo non fu domenica 13 ottobre, ma il 9, vale
a dire poche ore dopo la scomparsa del dottore.
La testimonianza più importante è quella dell’ispettore di poli­
zia Leonardo Mazzi. Il giorno del ritrovamento del cadavere del
Narducci lui era in servizio in Questura, in quel periodo lavorava
all’antidroga, dove rimase fin verso le ore venti. Dal registro dei ser­
vizi risulta che, in quella settimana di ottobre, l’unico giorno in cui
Mazzi era impegnato in quel turno corrispondeva a mercoledì 9.
Racconta Mazzi:
«Il pomeriggio in cui arrivò la notizia del ritrovamento del
corpo di Narducci, c’erano il dirigente Speroni e il comandante
della squadra mobile Napoleoni. Questi andò sul posto, forse con
un collega sardo, di quelli presenti che erano Giampiero Sardara,
Angelo Cambula e Giuliano Pascai. Alle venti, quando io finii il
turno e rincasai, loro non erano ancora rientrati. Ricordo invece
che partirono per il lago che stava già imbrunendo. Giorni dopo in
Questura si diceva che Narducci era quasi ubriaco e che era stato
ritrovato con le mani legate dietro alla schiena, incaprettato».
Una testimonianza che collima con le dichiarazioni di Gian­
carlo Ferri, un pescatore che ha visto Narducci portato a riva in un
momento e in un luogo diversi da quelli in cui fu rinvenuto il ca­
davere il 13 ottobre.
Al punto che quando gli viene mostrata la foto che ritrae il ca­
davere disteso sul pontile, non riconosce nulla:
«Il cadavere che vedo mi sembra piuttosto gonfio, mentre
quello che ho visto io era snello e asciutto. Inoltre l’uomo che
vedo nella foto sembra indossare una camicia mentre quello che
ho visto io aveva una maglietta marroncina. Infine l’uomo che io
vidi non aveva pantaloni né una cintura chiara come quella che io
vedo raffigurata».
Insomma, il pescatore Giancarlo Ferri avrebbe visto un cada­
vere diverso.
Nell’immagine che gli viene mostrata si vede anche un gruppo
di persone, tra cui alcuni carabinieri in divisa estiva, un ufficiale e
un brigadiere. Ancora Ferri:
«Escludo al cento per cento che il cadavere da me visto sia
quello della foto. Questo ha il volto nero in modo impressionan­
te, quello che io vidi era normalissimo e bianco, pallido».
Non riconosce nemmeno l’imbarcazione che porta il corpo
fino al pontile:
«Assolutamente no, il cadavere che io vidi era su una barca da
pescatore, a motore».
Messo davanti a delle foto segnaletiche, riconosce Narducci:
«Chi lo riportò a terra erano pescatori, forse nemmeno di San
Feliciano. Saranno state le quindici e trenta, le condizioni di luce
ottime, il tempo bello, senza vento, il lago calmo. A quanto ricor­
do la televisione fece vedere le immagini qualche giorno dopo il
ritrovamento del cadavere di Sant’Arcangelo e quando le vidi
dissi a mia moglie: “Ma questo non può essere, perché io l’ho
visto qualche giorno fa a San Feliciano e non a Sant’Arcangelo”».
Anche altri due pescatori del luogo confermano il ritrovamen­
to in un giorno lavorativo, mercoledì o giovedì. Sono Celestino
Scarchini e Mario Santocchia, il quale fornisce una versione ana­
loga a quella di Ferri.
Interessante pure la versione di Secondo Sisani, incriminato
per reticenza e poi presentatosi spontaneamente dai magistrati.
Racconta delle frequentazioni fiorentine del medico e conferma
«di aver sentito dire che il ritrovamento del corpo avvenne alcuni
giorni prima del 13 ottobre, verso l’isola Polvese, direzione Pani-
carola-Castiglione, a sud del Muciarone, incaprettato. Il corpo sa­
rebbe stato portato nella darsena di Trovati, poi nella villa dei Nar­
ducci dove era stato lasciato».
Fa i nomi di alcuni pescatori che sapevano tutto - Giuliano
Zoppitelli, Rino Momi, Rino Cocchini, Nando Belardoni, Enzo
Ticchioni, Luigi Dolciami, Vincenzo Bigi, Mario Santocchia, Leo­
nardo Raspati e il professor Fabio Bersiani di Perugia - «diceva­
no che era una tresca e che era stata fatta da fiorentini».
C ’è anche la testimonianza di Francesca Raspati, la giovane
presente tra la folla al molo di Sant’Arcangelo, che, l’indomani
della scomparsa - quindi il 9 ottobre - mentre era nel negozio di
Gonda Cocchini, sente dire del ritrovamento del cadavere in loca­
lità Muciarone, un punto del lago diverso da quello del ritrova­
mento ufficiale.
Dalla testimonianza del dottor Antonio Morelli si scopre che la
famiglia è perfettamente a conoscenza della vera data di morte del
congiunto. Quando va a rendere omaggio alla salma di Francesco,
esposto il 14 ottobre al cordoglio di familiari e amici più intimi,
nota che sulla bara c’è una targhetta con impressa una data diversa
da quella del rinvenimento del cadavere, il 9 e non il 13 ottobre.
A questo punto si chiarisce meglio anche il significato di quan­
to detto dalla madre di Francesca Spagnoli, la signora Bona Fran­
chini, che ricorda come già il 9 ottobre fosse stata avvicinata dal
consuocero, Ugo Narducci, che le disse di essersi già messo d’ac­
cordo con il questore per non far fare l’autopsia a Francesco. È tra­
scorso appena un giorno dalla scomparsa, le ricerche sono ancora
in corso eppure il padre lo considera già morto, forse a ragione.
Ma c’è anche la testimonianza di Franco Ticchioni, che seppe la
notizia del ritrovamento mentre era in un ristorante di Rodi Gar-
ganico, con una gita organizzata dalla parrocchia. Era la sera del 12
ottobre, quella precedente al ritrovamento di Sant’Arcangelo.
Agli atti c’è pure la deposizione della dottoressa Giuliana
Anita Spanu, che raccontò di una commessa, madre di urfalunna
di Elisabetta Narducci, insegnante di educazione fisica, che una
mattina, evidentemente non era domenica 13 ottobre 1985, fu av­
visata di andare a riprendere la figliola, perché la professoressa
era dovuta scappare in quanto «hanno ritrovato il corpo del fratel­
lo che forse è il mostro di Firenze».
Ma la conferma definitiva sembrerebbe venire dal doppio cer­
tificato di morte. Il primo, numero 786, riporta vistose cancella­
ture e all’annotazione 3-II-B: «Magione, 8.10.1985 acque Trasi­
meno (frazione Sant’Arcangelo), annegato Lago Trasimeno», so­
prascritta su: «9-10-1985, spiaggia di San Feliciano». Il secondo,
numero 788, reca il timbro di un ufficiale giudiziario e la dicitura
«copia», con i numeri di frequenza 20 0 /1 e 17, con su scritto:
«Magione, 8.10.1985, acque Trasimeno» a firma della dottoressa
Mencuccini. Secondo il consulente grafologo, professor France­
sco Donato, almeno tre mani hanno compilato il documento: la
prima quella dell’anatomo-patologo che ha redatto la parte relati­
va alle cause della morte, la seconda che ha vergato parzialmente
i dati di nascita e di residenza - inizialmente indicata nel luogo di
abitazione dei genitori - , e infine la terza che, adoperando una
penna diversa del tipo rollerball, non si è limitata a cancellare il
vecchio indirizzo e a riscriverlo ma ha provveduto a cancellare
con il bianchetto le indicazioni vergate con la precedente penna.
Una perizia tecnica ha consentito di ricostruire che dove la
prima mano ha scritto come data del decesso il 9 ottobre, la terza
ha corretto in 8 ottobre; laddove la prima mano ha indicato come
luogo della morte la spiaggia di San Feliciano urialtra mano ha
scritto «acque del Trasimeno, frazione di Sant’Arcangelo».
A questo punto la tesi del «doppio cadavere» appare più che
plausibile, suffragata da numerose e articolate testimonianze,
confermata anche dai risultati dell’autopsia.
Ma se ciò è vero, restano in sospeso almeno queste domande:
quando è stato ucciso il vero Narducci? Quando è stato recupera­
to? Come è stato gestito dalla famiglia nei giorni precedenti l’alle­
stimento della camera ardente, quando è stata data prova di di­
sporre della vera salma di Francesco? E che fine ha fatto il corpo
dell’uomo.di Sant’Arcangelo?
FIRENZE INDAGA

Quella voce agghiacciante, quasi un sussurro, dall’altra parte


del filo aveva sibilato: «[...] Finirai ammazzata... la tua vagina sarà
spaccata così come fecero i traditori Pacciani e il grande professo­
re Narducci, finito nel lago strangolato [...]».
Il caso del dottore scomparso è collegato, fin dalle prime bat­
tute delle indagini seguite alla riapertura del fascicolo, ai delitti
del «mostro» e infatti le prime deposizioni avvengono a Firenze,
davanti ai Pm Giuliano Mignini e Paolo Canessa. Anche il «su­
perpoliziotto» Michele Giuttari comincia a farsi vedere sempre
più spesso nel capoluogo Umbro. E infatti dal capoluogo toscano
cominciano ad arrivare vari atti a carico del Narducci.
Il primo riferimento risale proprio all’epoca dell’ultimo delitto
del «mostro» e della morte del medico. In un fascicolo d’archivio,
«Carteggio vario - anno ’85», della Questura di Firenze, risulta
che tra le vetture transitate nella provincia del capoluogo toscano
nei giorni 8 e 9 settembre - giorno del duplice delitto degli Sco­
peti - c’era registrata anche l’auto di Narducci.
Il secondo è un appunto, con la data del 30 aprile 19 86 , ed è
una cronistoria delle vicende del «mostro». Il terzo, datato 3 feb­
braio 1987, è a firma del maresciallo Salvatore Oggianu, nel
quale si riferisce della telefonata dell’ispettore Sirico della squa­
dra mobile, che chiede notizie ai Carabinieri circa il suicidio avve­
nuto «pochi giorni orsono nel lago Trasimeno» (ma sono trascor­
si sei mesi...). I Carabinieri di Firenze rispondono di non sapere
nulla e si rivolgono al nucleo operativo di Perugia.
È il brigadiere Fringuello a riferire che, alcuni giorni prima,
era stato avvicinato da un familiare del medico che gli aveva con­
fidato: Narducci aveva uno studio a Firenze e negli ultimi tempi
si comportava in modo strano. Particolari che Fringuello decide
di non approfondire, anche per la paura di essere intercettato, ma
che scrive nell’annotazione di servizio depositata in Procura. Vi si
racconta che, poco dopo la morte di Narducci, si presentarono al
reparto operativo di Perugia due marescialli provenienti da Fi­
renze - uno è forse Oggianu e l’altro è originario dell’Umbria set­
tentrionale - che stavano accertando alcuni fatti in merito al ritro­
vamento di bossoli o munizioni calibro 22 presso una clinica fio­
rentina, dove aveva operato il Narducci. Nell’appunto vi sono
alcune annotazioni, scritte a mano: «Morani, Marciana Marina
LI, Domenica, Cucinella, Nigiano Magione».
C ’è un quarto appunto del nucleo di polizia giudiziaria di Fi­
renze, Borgo Ognissanti 48, con data 5 febbraio 1987, in cui si ri­
ferisce di sapere già dalla fine del 1985 del ritrovamento di Nar­
ducci nelle acque del Trasimeno. Si racconta della sua scomparsa
e del ritrovamento del corpo da parte di due pescatori «nei pressi
della riva del lago, in comune di Magione». Si parla anche delle
voci che volevano un suicidio per essere il «mostro» di Firenze,
voce che circolava anche prima della sua morte. Viene tracciato
anche un quadro del personaggio e si parla del rinvenimento del
cadavere con i pesi. L’appunto, che nasce nel nucleo di polizia
giudiziaria di Perugia ed è stilato da un certo Magiionico, viene
consegnato dal comandante del nucleo al comandante della Le­
gione Carabinieri di Perugia, che a sua volta lo consegna al procu­
ratore generale di Firenze, al comandante della Brigata e al co­
mandante della Legione di Firenze.
Il 13 febbraio 1987 l’ufficio Ordinamento Addestramento In­
formazioni Operazioni (OAIO) di Firenze chiede ai Carabinieri
di Magione copia del rapporto sulla morte di Narducci, precisan­
do che ciò ha attinenza col «noto appunto», forse il secondo o
forse questo di Magiionico, che riferisce anche dell’individuazio­
ne di un appartamento in uso a Narducci a Fiesole.
Un mese più tardi, il 13 marzo 1987, l’OAIO di Firenze (colon­
nello Francesco Valentini) trasmette alla Procura fiorentina l’ap­
punto del tenente colonnello Antonio Colletta, comandante del
nucleo di polizia giudiziaria di Perugia. C ’è poi una richiesta, con
data 23 marzo 1987, di accertare i periodi di permanenza all’estero
di Narducci controllando il passaporto, d’intesa con il questore pe­
rugino; richiesta spedita dai Pm Pierluigi Vigna e Fabio Canessa.
Il 29 maggio 1987 Vigna e Canessa scrivono ai Carabinieri di
Firenze chiedendo di redigere un «elenco aggiornato di tutte le
persone, indicate per ordine alfabetico, oggetto di segnalazioni
con riferimento ai duplici omicidi accertati il 29 luglio 1984 a
Vicchio e il 9 settembre 1985 a San Casciano», invitando a predi­
sporre attività coordinata che verifichi la posizione dei vari sog­
getti «o di quelli che appaiono più rilevanti, per l’ipotesi che abbia
a ripetersi un episodio come quelli verificatisi in passato».
Il 14 maggio 1987 rispondono i Carabinieri di Firenze, riser­
vata a mano. L’elenco è intitolato «Elenco di tutte le persone se­
gnalate, da anonimi e non, dopo il duplice delitto Stefanacci-
Rontini, trattate da questo ufficio, escluse quelle segnalate con
elenco compilato in data 17 giugno 1987». Sono 254 nomi. Al nu­
mero 181 è indicato: «Narducci Francesco, nato a Perugia il 4 ot­
tobre 1949, già ivi residente, deceduto per annegamento sul lago
Trasimeno nel 1985».
Narducci, quindi, è segnalato come persona sospetta già da
dopo il delitto di Vicchio del 1984. Ma è anche l’unico dell’elenco
deceduto dopo il delitto del 1985, a eccezione di un certo Tampo­
ni. Dopo la morte del medico perugino comunque il «mostro»
non ha più colpito.
Il 4 luglio 1987 il comandante del nucleo di polizia giudiziaria
di Firenze, colonnello Rotellini, risponde che dalle ricerche con­
dotte dall’ufficio passaporti della Questura di Perugia non sono
stati trovati documenti validi per l’espatrio che potessero far rileva­
re la permanenza all’estero del medico, eccetto un rinnovo della
validità del passaporto in data 17 luglio 1984. Presso l’università di
Perugia era stato però trovato un decreto (del 14 agosto 1981) con il
quale Narducci veniva autorizzato a un congedo straordinario per
motivi di studio - dal 16 settembre al 31 dicembre 19 8 1 - dovendo
frequentare un corso di specializzazione a Philadelphia, presso il
Gastrointestinal Section Department o f Medicine Hospital o f
University o f Pennsylvania, dal professor William Snape jr.
Nell’informativa si dice che Narducci ha soggiornato negli Usa
dal 16 settembre al 13 dicembre 19 81 e che ha frequentato tutte le
lezioni, che si tenevano il lunedì e il mercoledì. Si dice anche che
non era possessore di armi, che il cadavere non è stato rinvenuto
nel Trasimeno con cinture per subacquei, che nessuno dei suoi
mezzi è stato notato nel corso dei servizi «antimostro», che non ha
svolto il servizio militare pur avendo fatto domanda di partecipare
al corso allievi ufficiali di complemento, perché venne riformato.
In sostanza si escludeva che potesse essere il «mostro».
Negli Stati Uniti le indagini dell’interpol erano state condotte
dal detective Frank Diegei, della divisione omicidi. Dai moduli ri­
sultava che Narducci aveva frequentato i corsi dal 16 settembre
19 81 al 3 o dicembre 19 81 come uditore, senza il titolo di studente o
di dipendente stipendiato. Era ricercatore, alle dipendenze del pro­
fessor Snape, al laboratorio di gastroenterologia dell’università.
Era arrivato il 16 settembre e aveva preso alloggio alla Interna­
tional House, 3701 Chestnut Street, Philadelphia, che ospitava
uditori stranieri, soggiornando in stanza doppia fino al 13 dicem­
bre pagando un prezzo simbolico. Presso quella struttura non
esisteva un registro che annotasse arrivi e partenze, né telefonate
in entrata o uscita.
Dal rapporto si sa che venne interrogata una collega uditrice,
Ann Ouyang, che confermò la presenza di Narducci a tutte le le­
zioni.
Per il colonnello Rotellini, insomma, Narducci non poteva esse­
re il «mostro» perché in coincidenza con uno dei sette omicidi,
quello del giovedì 22 ottobre 1981, in cui furono uccisi Stefano Baldi
e Susanna Cambi, era negli Usa dove ogni lunedì e mercoledì parte­
cipava alle lezioni, ma senza alcuna prova che fosse presente il mer­
coledì precedente al delitto in assenza di registri alla residenza.
Il 27 luglio 200 4 il Gruppo investigativo per i delitti seriali in­
forma i magistrati perugini del ritrovamento in un vecchio faldo-
ne della Squadra anti-mostro: «Carteggio vario [a matita N.d.A.] -
anno 1985 - 850 90 809 PSB sottolineato - auto transitate g 8-
9/9785 provincia di Firenze [a pennarello rosso N.d.A.]». In su­
perfìcie c’è un foglio, tipo modulo del ministero deUTnterno per
messaggio, ingiallito dal tempo; sul retro, vergato a mano, «dot­
tor Narducci Francesco - medico - Perugia via Savonarola 31 - ed
era proprietario di un appartamento a Firenze ove avrebbero tro­
vato dei bisturi e feticci - si sarebbe suicidato buttandosi nel Tra­
simeno». Non c’è sigla né data di compilazione.
Il documento deve essere stato stilato all’epoca perché, se suc­
cessivo, avrebbe dovuto trovarsi nel fascicolo personale del Nar­
ducci, formato il 21 marzo 1987, come risulta dal cartellino d'ar­
chivio, dove oltre ai dati anagrafici c’è scritto: «deceduto misterio­
samente presso il lago Trasimeno - accertamenti svolti dai CC di
Firenze perché sospettato quale mostro - il decesso risale all’otto­
bre 1985?».
Urialtra incongruenza riguarda il possesso di armi. La vedova
di Francesco Narducci ha riferito del desiderio espresso dal m ari­
to di acquistare una pistola e di averne vista una di colore nero, se­
miautomatica, nel vano portaoggetti della Citroen CX del marito,
mai denunciata. Disse che era stata acquistata nel periodo in cui
sono stati sposati, cioè tra il 20 giugno 19 8 1 e la morte, avvenuta
nel 1985.

IL MURO SI SGRETOLA

Fin dal momento del ritrovamento del presunto corpo di


Francesco Narducci, viene eretto un «muro» attorno a tutto ciò
che riguarda il giovane medico. Anche la moglie e la famiglia di
lei sono circondate da una pesante ostilità. Da subito attorno a
Francesca viene steso un invisibile cordone per allontanarla, iso­
larla; quasi che fosse lei la responsabile di tutto.
Francesca viene avvisata del presunto ritrovamento del m ari­
to solo dalla cognata della zia. Nel trigesimo della morte, secondo
il ricordo dello zio Massimo Spagnoli, Pierluca non solo le impe­
disce di sedersi al banco della famiglia ma addirittura la caccia
dalla chiesa:
«Tu non sei più una Narducci», le sibila.
Radicalmente diverso è anche l’atteggiamento che avrà la mo­
glie, attraverso il suo legale Francesco Crisi, rispetto a quello as­
sunto dalla famiglia Narducci, rappresentata dall’avvocato Alfredo
Brizioli, per tutto lo svolgimento delle indagini seguite alla riaper­
tura del caso. La prima si costituisce come parte offesa, cercando
nelle indagini una ragione per la morte comunque inattesa e pre­
matura del marito. I secondi si comportano quasi fossero loro gli
indagati, come notano in Procura. In particolare è proprio l’avvoca­
to Brizioli a vantare «di aver eretto muri e ostacoli insormontabili»
alle indagini giudiziarie; tutto per difendere la tesi della morte per
annegamento o in subordine per suicidio, quasi le vicende del me­
dico fossero qualcosa su cui non fosse lecito indagare.
Infatti sono presentate numerose richieste di archiviazione e
anche due istanze di avocazione delle indagini alla Procura gene­
rale (la prima respinta, la seconda dichiarata inammissibile e in­
fondata nel merito).
Dopo le prime testimonianze raccolte dal Pm e soprattutto la
perizia effettuata a Pavia, l’ipotesi del suicidio diventa però inso­
stenibile.
Del resto l’invito rivolto da Francesco Narducci alla segretaria
di spostare all’indomani la sessione d’esami e la richiesta fatta ad
alcuni colleghi di accompagnarlo al lago non rivelano certo pro­
positi suicidi, come pure l’invito rivolto alla moglie appena prima
di uscire di casa di preparargli in anticipo la cena.
Arrivato alla villa di San Feliciano, Narducci non trova nessu­
no e per circa due ore sarebbe stato completamente da solo: per­
ché allora andare alla darsena, prendere la barca a due ore dal tra­
monto e dirigersi verso Polvese, dopo aver detto a Peppino Trova­
ti che sarebbe andato e tornato? E come spiegare la rottura della
cartilagine tiroidea stando nella sua barca o sulle sponde dell’iso-
lotto? Visto che non si era ucciso nella casa di San Feliciano,
luogo adattissimo nonché solitario, come avrebbe potuto am ­
mazzarsi nell’isola?
Riguardo la meperidina, di cui secondo l’avvocato e i familiari
faceva normalmente uso, quando Narducci si presenta dal Trova­
ti per prendere la barca non appare alterato, tanto che risponde
normalmente e lucidamente alle domande e si allontana sull’im ­
barcazione manovrando senza difficoltà; perciò quando era in
villa non ha assunto il farmaco, quantomeno non lo ha fatto in
una dose così massiccia come rivela l’autopsia.
Falliscono pure i numerosi tentativi di far arenare l’inchiesta e
nonostante le intimidazioni e le minacce, più o meno velate, nu­
merosi testimoni cominciano a parlare. Quello che fino al giorno
prima si sussurrava soltanto, si trova il coraggio di riferirlo al m a­
gistrato inquirente e le «voci» sembrano avere riscontro, una
dopo l’altra.
Emergono anche pesanti sospetti a carico di Alfredo Brizioli.
Secondo la testimonianza di Angela Caligiani, commessa del ne­
gozio di articoli sportivi «Skipper» (poi denunciata per calunnia
dallo stesso Brizioli), nel primo pomeriggio del giorno seguente
la scomparsa di Narducci, Brizioli si procurò una muta e delle
pinne da sub che restituì la mattina del lunedì successivo al rin­
venimento del cadavere di Sant’Arcangelo parecchio usurata e
senza pinne, disponendo che fosse venduta sottocosto.
Il magazziniere del negozio fece delle domande sul tragico
rinvenimento dell’amico dottore, ma l’avvocato troncò la doman­
da, lasciandosi però sfuggire qualcosa sull’esistenza di una lette­
ra. Poi negherà con veemenza.
A che serviva quella muta? E come ha fatto il corpo che si do­
veva far passare per Francesco Narducci ad affiorare provviden­
zialmente proprio là dove aveva previsto il «veggente»?
Nel gennaio 2005 Brizioli sarà iscritto sul registro degli inda­
gati per favoreggiamento. A vario titolo, con lui sono «sottoposte
a indagini» persone come il padre Antonio; Ugo Narducci, Pier-
luca e Maria Elisabetta Narducci, Elisabetta Valeri, il questore a
riposo Francesco Trio, il colonnello dei Carabinieri Francesco Di
Carlo, Giuseppe Trovati, la dottoressa Donatella Seppoloni,
Marco Calcagni, Roberto Sgalla, Mario Viola, Gennaro De Stefa­
no, l’ispettore Luigi Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean.
Vengono anche via via ritirate le querele per diffamazione a
carico dei giornalisti che hanno scritto sul medico e sul suo coin­
volgimento nei fatti del «mostro» di Firenze.
«mostro», i «mostri»
1 9 6 8 -1 9 8 5 , LA SCIA DI SANGUE

Lastra a Signa, 21 agosto 19 6 8 notte di novilunio, mezzanotte


circa. Barbara Locci, 32 anni, e Antonio Lo Bianco, 29 anni, sono
appartati nell’auto di lui, un’Alfa Romeo Giulia TI bianca, sul se­
dile posteriore dorme il figlioletto della donna, Natalino Mele di
appena sei anni. AH’im prowiso alcuni colpi di pistola, esplosi dal
finestrino anteriore sinistro, centrano Lo Bianco, che giace supi­
no sul sedile destro ribaltato con i pantaloni slacciati. Un proietti­
le gli lacera il polmone sinistro, uno penetra lo stomaco e un altro
la milza. Poi tocca alla donna, seduta al posto di guida semisvesti­
ta e la gonna alzata.
L’assassino rovista nell’auto ma non prende nulla. Il figlioletto
in un primo momento dice di non essersi accorto di nulla, rac­
contando di aver raggiunto, dopo essersi svegliato, una vicina
casa colonica per chiedere aiuto. In una seconda versione dirà
che è stato un adulto a portarlo alla casa. L’arma del delitto, come
rivelano i bossoli recuperati, è una pistola Beretta calibro 22 Long
Rifle che però non verrà mai recuperata.
Passano sei anni, altra notte di novilunio, quella tra il 14 e il 15
settembre 1974, ancora mezzanotte circa. A Borgo San Lorenzo,
in località Sagginale, altri due giovani sono assassinati mentre
sono appartati in auto. Le vittime, Pasquale Gentilcore, un bari­
sta di 19 anni, e Stefania Pettini, segretaria d’azienda di 18, sono
nella Fiat 127 di lui quando qualcuno spara attraverso il finestri­
no di guida usando una pistola calibro 22. Pasquale muore quasi
sul colpo, raggiunto al cuore, mentre la ragazza è trascinata fuori
dall’auto e seviziata con pugnalate concentriche al pube e ai seni,
poi le infilano un tralcio di vite nella vagina. Anche questa volta le
vittime sono arrivate da poco e pur essendosi spogliate non
hanno ancora avuto il rapporto sessuale.
È con il duplice delitto del 19 81 che comincia a farsi strada
l’idea di un «mostro», un serial killer, il cui accanimento contro le
vittime femm inili denota una personalità disturbata. A convince­
re gli inquirenti non sono soltanto le modalità dell’agguato, più o
meno sempre le stesse, ma il ricordo di un maresciallo dell’Arma
che fa presente come nei precedenti delitti, a cominciare da quel­
lo del 19 6 8 a Signa, a sparare è sempre una Beretta calibro 22
Long Rifle, con proiettili marca Winchester; lo stesso tipo di quel­
le usate nei tirassegni.
Questa volta le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, e Car­
mela Di Nuccio, 21 anni, appartati su una Fiat Ritmo color rame
in un boschetto di ulivi a Mosciano di Scandicci. È la notte di no­
vilunio tra il 6 e il 7 giugno, sono circa le ventitré e quarantacin­
que quando tre colpi mandano in frantumi il finestrino della por­
tiera dal lato di guida. L’uomo è colpito alla testa, al polmone e al­
l’aorta. L’assassino infila il braccio nell’abitacolo e fa ancora fuoco
sulla ragazza, raggiunta da cinque colpi; quindi la trascina fuori
per una quindicina di metri e dopo aver ricomposto il corpo di lui
sul sedile si sofferma su Carmela. Rispetto all'omicidio di sette
anni prima c’è però una macabra novità: l’assassino, o gli assassi­
ni, tagliano i pantaloni e le asportano il pube. La borsetta sarà tro­
vata aperta con il contenuto sparpagliato sul prato.
Polizia e Carabinieri cominciano a setacciare il mondo dei
guardoni, ai quali non può essere certo sfuggito il dramma che si
consumava in quegli anni nelle campagne fiorentine.
Uno di questi, un autista di ambulanze di Montelupo, Enzo
Spalletti, finisce in carcere, incastrato dalla testimonianza di un
uomo che dice di aver visto la sua Ford rossa non lontano da via
Arrigo, dove sono stati massacrati Foggi e Di Nuccio. Cade anche
in una grave contraddizione: dice di aver saputo del delitto del
«mostro», compiuto nella notte di sabato, dai giornali della do­
menica ma la notizia fu pubblicata solo il lunedì. Spalletti verrà
definitivamente prosciolto solo nell’aprile 1989.
La stessa identica scena si ripete qualche mese dopo a Calen-
zano, nella notte tra il 23 e il 24 ottobre 19 81, alle ventitré e trenta
circa. È un giovedì - mentre gli altri due delitti si erano svolti tra il
sabato e la domenica - ma è da considerarsi un giorno prefestivo,
visto che l’indomani è in programma uno sciopero generale. Ste­
fano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, 24 anni, si stanno spo­
gliando nella Volkswagen nera del ragazzo quando attraverso il
finestrino di guida arrivano gli spari. Stefano è trovato giù dalla
macchina; forse spostato per far uscire più agevolmente il corpo
della ragazza, che giace in un fosso a pochi metri. Su entrambi vi
sono profonde ferite da taglio. Le mutandine e la gonna di lei
sono tagliate verticalmente, la maglietta e il reggiseno sollevati
ma l’assassino ha premura di coprirla con un maglione. Anche in
questo caso con tre tagli netti le è stato asportato il pube.
In Toscana si diffonde la paura e i giornali cominciano a parla­
re di un «mostro», abile nell’uso del coltello, forse un bisturi, che
con lucida pazzia si aggira per le campagne fiorentine. Gli psi­
chiatri fanno anche un primo identikit psicologico dell’assassi­
no: una persona di buona cultura, dall'apparenza rispettabile; un
maniaco la cui spinta omicida esplode improvvisamente, irrefre­
nabile, guidata da un istinto animale, lucido e attento. I medici
che hanno eseguito le autopsie sulle ragazze sono anche concor­
di nel dire che c’è «uriestrema perizia» nell’uso del coltello, pro­
babilmente un bisturi.
Otto mesi circa di tregua, poi ancora un duplice omicidio. È la
notte tra il 19 e 20 giugno 1982, un sabato di novilunio, sono
circa le ventitré e trenta quando in una radura nel comune di
Montespertoli, in località Baccaiano, risuonano ancora dei colpi
calibro 22. Stavolta l’agguato rischia di fallire perché Paolo Mai-
nardi, ventiduenne di Empoli, si accorge di qualcosa e innestata
la retromarcia cerca di fuggire. L’assassino corre a fianco dell’au­
to sparando contro i fari e gli occupanti. Purtroppo la corsa dura
poco, appena una quindicina di metri, perché le due ruote poste­
riori finiscono in un fosso e a quel punto per il guidatore e la sua
fidanzata, Antonella Migliorini, 20 anni, non c’è più niente da
fare. Saranno ritrovati da lì a poco: la ragazza seduta sul sedile po­
steriore, completamente vestita, gambe allungate in avanti e tre
fori di proiettili, due dei quali alla testa; il fidanzato ancora al
posto di guida, colpito da quattro proiettili: tre alla testa e uno alla
spalla sinistra.
Dagli accertamenti effettuati sembra che i due ragazzi aves­
sero già fatto l’amore, perché viene ritrovato un profilattico usato
e un fazzoletto sporco di sperma, si stavano rivestendo quando si
sono accorti della presenza del «mostro», che dimostra un note­
vole sangue freddo. Non solo non perde la calma, ma opera con
precisione: spara prima sui fari, così da assicurarsi la mira per
uccidere e una volta immobilizzata l’auto strappa le chiavi dal
cruscotto e le getta lontano. Tuttavia non si accorge che Paolo
Mainardi è ancora vivo. Morirà sei ore dopo senza riprendere co­
noscenza, ma il magistrato fiorentino Silvia Della Monica riuni­
sce tutti i cronisti e chiede loro di scrivere una bugia: il ragazzo
prima di morire ha fatto un identikit del killer. Il giorno seguen­
te i giornali escono con il titolo: «Forse l’assassino dei due fidan­
zati ha un volto».
Il quinto omicidio avviene a mezzanotte del 9 settembre
1983, un venerdì di novilunio, e per parecchio tempo gli inqui­
renti penseranno a un errore del maniaco. A morire infatti non
sono un ragazzo e una ragazza ma due ragazzi tedeschi di 24
anni: Horst Meyer Wilhelm e Rusch Jeans Uwe. L’agguato awie-
ne a Galluzzo, in una piazzola dove i due avevano posteggiato il
loro camper Volkswagen. I primi colpi di pistola vengono sparati
attraverso i finestrini laterali e poi attraverso la lamiera. Meyer,
disteso nel sacco a pelo nella parte anteriore sinistra, muore col­
pito da tre proiettili. Uno degli assassini entra poi nel veicolo e uc­
cide Rusch, che si trova nella parte posteriore. I due stavano
ascoltando la radio e forse leggendo riviste pornografiche gay,
che vengono trovate stracciate e sparpagliate intorno al camper.
Rusch è di corporatura esile e con lunghi capelli biondi, da qui
l’ipotesi dell’errore, ma con il procedere dell’indagine si scopre
che a compiere gli efferati delitti del «mostro» non è un solitario
serial killer, ma una complessa organizzazione in grado di piani­
ficare con cura gli assalti, presumibilmente dopo aver effettuato
anche degli appostamenti, il che lascia supporre che anche quel­
lo dei due tedeschi sia stato un omicidio premeditato. Tanto più
che i due erano in zona già da qualche giorno. Infatti la notte del
mercoledì o giovedì precedente il camper era già stato notato da
un metronotte, il quale aveva bussato allo sportello del furgone
parcheggiato di fronte al cancello di una villa per dire che in quel
punto non si poteva sostare.
Ancora una tregua, dieci mesi, poi ancora un duplice omicidio.
Notte tra il 29 e il 30 luglio 1984, ore ventidue e quaranta
circa, località La Boschetta nei pressi di Vicchio, vengono assassi­
nati Claudio Strefanacci, 21 anni, e Pia Gilda Rontini, 18 anni. La
dinamica è simile a quella degli altri delitti: la Fiat Panda celeste
ha il vetro sinistro abbassato di otto centimetri, quello destro
frantumato, i sedili ribaltati anteriormente. Sulla destra giace
Stefanacci, testa rivolta verso il portellone posteriore, indossa
una maglia a mezze maniche, slip e calzoni bianchi. È stato colpi­
to da quattro colpi di pistola, su tutto il corpo una decina di pu­
gnalate, non mortali. Pia Rontini è nuda a sette metri dall’auto,
gambe divaricate e braccio destro steso. Nella mano destra strin­
ge la maglietta e il reggiseno, vicino gli slip tagliati, come se stes­
se levandoseli prima di essere trascinata via. I due sono colti nella
fase preliminare dell’atto erotico e vengono uccisi quando sono
quasi completamente spogliati. Alla ragazza è asportato con tagli
netti e precisi il pube e per la prima volta anche il seno sinistro.
Investigatori e magistrati cominciano a sospettare che il killer
possa essere un medico, vista la perizia con la quale esegue le
escissioni.
Il settimo e ultimo omicidio avviene domenica 8 settembre
1985, poco prima della mezzanotte, a San Casciano, in una piaz-
zola sopra via degli Scopeti. La luna è all’ultimo quarto. Le vittime
sono due francesi: Jean Kraveichvilj, 25 anni, e Nadine Jeanine
Mauriot, 36 anni. L’orario è compreso tra le ventitré e mezzanot­
te; i due stanno facendo l’amore in una tenda canadese con aper­
tura centrale, quando qualcuno pratica sulla parete un taglio di
circa quaranta centimetri, introduce il braccio e spara in rapida
successione quattro colpi che centrano la donna. L’uomo è appe­
na ferito e riesce a fuggire, viene subito raggiunto e presumibil­
mente ingaggia una disperata lotta con l’assalitore; lo ferisce -
verranno trovate tracce di sangue presso un vicino lavatoio - tut­
tavia non riesce a evitare le pugnalate, ben dodici, che gli trafiggo­
no la schiena, l’addome, il torace, le braccia e la carotide. Il corpo
è gettato in un fosso, le gambe, sollevate di mezzo metro, poggia­
no su un cespuglio. Sul cadavere vengono trovate delle latte di
vernice, come se qualcuno si fosse preoccupato di nasconderlo.
Finito il lavoro con Kraveichvilj l’attenzione si concentra adesso
sulla Mauriot, che viene trascinata fuori dalla tenda dove le viene
asportato il pube e il seno sinistro, fino ai muscoli. Dopo l’opera­
zione è nuovamente trascinata dentro e ricomposta.
Si tratta di delitti in cui le vittime sono coppie giovani. Fino ad
allora di tale fenomenologia non vi erano precedenti nella lettera­
tura criminale, le coppie uccise appena prima che possano inizia­
re il vero e proprio rapporto sessuale, eccetto che nel 19 82 a Mon-
tespertoli.
L’asportazione delle parti anatomiche delle donne avviene sem­
pre in condizioni disagiate e verosimilmente in fretta, tuttavia col­
pisce la decisione del taglio e la perizia chirurgica con cui è effettua­
to. Inoltre il corpo delle ragazze non viene mai toccato, se non con
il coltello con cui vengono tagliate le vesti e la biancheria intima.
Nello studio redatto nel luglio 19 9 4 da Francesco Bruno, pro­
fessore di Psicopatologia forense e di Criminologia nell’Universi-
tà «La Sapienza» di Roma, si legge: «L’insieme degli elementi ri­
levanti sembra far escludere che l’assassino sia una persona por­
tatrice di una tipica perversione sessuale; viceversa sembra
indicare una tipica personalità paranoicale. [...] In altri termini la
personalità paranoicale, iperstrutturata e controllata, non soltan­
to può apparire completamene normale, ma, a volte, notevol­
mente migliore della media. L’assassino si configura dunque
come una persona “al di sopra di ogni sospetto” , quasi certamen­
te dall’intelligenza elevata, di buon livello culturale, socialmente
integrato e oggetto di stima, se non di ammirazione per la sua
condotta di vita integerrima e morigerata».
Nello stesso studio si dice anche che «gli elementi a disposi­
zione concordano nel ritenere che il soggetto sia un uomo di alta
statura, verosimilmente superiore a un metro e ottanta, forte,
d’età media, capace di premeditare ed eseguire con notevole cura
e precisione di dettagli i diversi omicidi in modo da non commet­
tere errori grossolani tali da fornire sicuri elementi indiziari [...].
L’assassino ha dimostrato una indubbia perizia nell’eseguire i
tagli anatomici degli organi che asporta e vi sono sufficienti indi­
cazioni che egli sappia come trasportare e conservare i pezzi ana­
tomici in suo possesso».
«Tutto ciò sembra rafforzare l’originaria convinzione che l’as­
sassino possa essere un medico, o anche una persona dotata di
cultura sanitaria, anche se non necessariamente un chirurgo, è
anzi probabile che egli sia una persona che non ha possibilità di
sublimare attraverso un mestiere o una professione (medico,
macellaio, conciatore, imbalsamatore etc.) l’aggressività e le ca­
pacità tecniche di cui è dotato».
«Il “modus operandi” dell’assassino è sempre simile, come
se egli eseguisse nella sua mente un piano accuratamente pre­
ordinato. Quasi nulla di quanto avviene sul luogo sembra lascia­
to al caso; al contrario sembra quasi che il “mostro” si muova se­
guendo precisi rituali, che vengono cambiati solo nel caso che si
verifichino imprevisti di natura obiettiva». «[...] Il “rituale” del­
l’assassino sembra rispondere ad assoluti criteri di efficienza e
di sicurezza ed è volto unicamente allo scopo di uccidere le vitti­
me e di poter procedere poi alle mutilazioni sul corpo delle
donne. L’azione è quindi rigidamente finalizzata ed è eseguita
con grande sangue freddo e padronanza di sé. L’analisi di tale
modus operandi consente alcune interessanti deduzioni sul
piano criminalistico».
«[...] La scelta dei luoghi non è completamente casuale, ma, al­
meno in parte, è preparata con cura. [...] I diversi teatri dei delitti
sono, infatti, molto simili gli uni agli altri e presentano caratteri­
stiche comuni: sono luoghi isolati, con alberi o alta vegetazione
ove è facile nascondersi, che possono essere raggiunti da più vie
e che quindi assicurano diverse vie di fuga».
«Probabilmente il soggetto giunge sul luogo contemporanea­
mente alle sue vittime, o è già sul posto [...]. Con ogni probabilità
il soggetto giunge sul luogo provenendo dalla campagna o a piedi
o con un mezzo non rumoroso o luminoso. È probabile che egli
lasci la sua auto piuttosto lontano e che abbia accuratamente stu­
diato le sue vie di fuga (nessuno ha quasi mai visto nulla, né nota­
to persone o movimenti sospetti). [...] La scelta dei tempi, anch’es-
sa, non appare completamente casuale; infatti l’assassino agisce
d’estate, forse per non lasciare tracce in campagna in notti buie e
quasi sempre in giorni festivi o prefestivi, in ore tarde, ma mai di­
verse dalle ventitre-ventiquattro».
«Da quanto detto fin qui emerge con nettezza l’ipotesi che
l’assassino in qualche modo conosca le sue vittime, nel senso che
le ha viste in precedenza e forse ne ha seguito per qualche tempo
le abitudini».
«Non è necessario che si tratti di una conoscenza personale
diretta, né esiste l’evidenza che ciò possa essere vero in tutti i casi.
Tuttavia è possibile che il “mostro” abbia notato in precedenza
una o entrambe le sue vittime, magari incontrandole per strada o
in qualche luogo pubblico. A questo punto egli segue la possibile
vittima, ne indaga le possibili amicizie e abitudini e solo dopo
una più o meno lunga preparazione giunge a compiere l’atto
omicidario. Alternativamente è possibile che nelle sue passeg­
giate per i boschi l’assassino noti delle auto o dei campeggiatori
isolati, e solo a questo punto cominci a studiare le abitudini di tali
persone, per poterle colpire nel momento in cui egli riterrà più
opportuno. Non si può escludere che con qualcuna delle vittime
l’assassino abbia potuto avere delle relazioni più dirette di cono­
scenza o per amicizia o per parentela».

LA PISTA SARDA

Il primo duplice delitto in cui compare la Beretta calibro 22


Long Rifle è quello del 19 6 8 a Lastra a Signa.
L’aggressore risparmia Natalino, che dorme sul sedile poste­
riore e viene portato vicino a una casa colonica. Nella cascina abi­
tano i signori De Felice, i quali diranno agli inquirenti di aver
sentito suonare il campanello e, una volta affacciati alla finestra,
di aver visto il bambino senza scarpe. A loro Natalino avrebbe
detto, testualmente:
«Aprimi la porta che ho sonno ed ho il babbo ammalato a
letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la m amm a e lo zio
che sono morti in macchina».
I De Felice notano che Natalino ha i calzini puliti e non è stan­
co, eppure ha percorso due chilometri a piedi, lungo un sentiero
impervio e pieno di sassi, che non conosceva.
Dopo un mese dai fatti, nell’istituto al quale era stato affidato,
dirà di essersi svegliato ai primi spari, di aver visto la mamma
immobile e sentito Lo Bianco dire, appena prima di morire, «Ci
hanno ammazzato», poi di essere sceso dalla macchina e di aver
visto Salvatore (Vinci) tra le canne. Lo stesso Natalino Mele,
molti anni più tardi, nel corso di una intervista televisiva, dirà
che la nonna gli intimò di non dire niente di quello che aveva
visto o sentito.
Particolare interessante: nella casa contigua a quella dove
chiede aiuto Natalino abita Silvano Vargiu, un sardo di 23 anni le­
gato da una relazione omosessuale a Salvatore Vinci, cui fornirà
l’alibi per quella notte.
Del delitto si autoaccusa Stefano Mele, il marito della vittima,
Barbara Locci. Nel corso della ricostruzione dei fatti sul luogo del
delitto Mele sembra riportare fedelmente ciò che sarebbe succes­
so la notte dell’assassinio ma poi si contraddice e cambia num e­
rose volte la versione dei fatti. Riguardo la pistola Mele dice di
averla gettata in un fosso, ma nonostante il corso d’acqua venga
accuratamente dragato dell’arma non c’è traccia. In seguito dirà
di averla consegnata a Salvatore Vinci.
Secondo i rilievi i colpi sarebbero stati sparati da due direzioni
diverse e mentre i primi sette sono precisi e mortali l’ultimo centra
inutilmente la spalla della donna. Per gli investigatori è probabile
che sulla scena del crimine vi siano state più persone. Il vero assas­
sino uccide Barbara Locci e Lo Bianco, poi mette la pistola in mano
a Mele e lo invita a premere il grilletto. Stefano si sporca le mani di
polvere da sparo, risultando così positivo al guanto di paraffina.
Il movente non è ritenuto maniacale, piuttosto passionale,
anche se Stefano Mele non poteva essere geloso della moglie,
non solo perché era lui il più delle volte a fare entrare gli amanti
in casa ma perché egli stesso aveva un legame «particolare» con
Salvatore Vinci. I due uomini usavano proprio Barbara per attira­
re soprattutto giovani e lei si prestava al gioco.
Non mancavano altri motivi di risentimento contro la donna.
Quando infatti i Mele si trasferirono sul continente riuscirono a
mantenere le distanze dai molti delinquenti sardi immigrati a
loro volta, conquistandosi una immagine di persone perbene,
fino a quando Barbara cominciò a far entrare i suoi numerosi
amanti nella casa di famiglia dei Mele.
Oltretutto due mesi prima dell’omicidio Stefano Mele incassò
un risarcimento per un incidente stradale, circa 450.000 lire,
l’equivalente di cinque mesi di stipendio. Quei soldi, appena entra­
ti in casa di Barbara, sparirono. Contemporaneamente la donna
ruppe la relazione con Salvatore Vinci e prese a frequentare Anto­
nio Lo Bianco. Il sardo prese molto male la cosa, anche perché sva­
niva la possibilità di organizzare i suoi adescamenti perversi.
Nel 19 8 2 Mele cambia versione e dopo il delitto di Montesper-
toli, durante un confronto, accusa Francesca Vinci, sardo, 48
anni, sposato, due figli, di essere l’assassino di Barbara Locci e
Antonio Lo Bianco. Vinci però sembra avere un alibi di ferro e
così a essere rinviato a giudizio è infine il marito della donna, che
sconterà quattordici anni di carcere, anche se rimarranno molti
dubbi su chi abbia effettivamente partecipato al delitto e quali ne
siano state le modalità.
L’unica cosa certa per gli investigatori è che il Mele quella sera
del 19 6 8 è presente sulla scena del crimine.
Dopo l’uccisione di Antonella Migliorini e Paolo Mainardi, ci
si accorge che l’arma usata è sempre la stessa, una Beretta calibro
22, che ha sparato anche nel 1968. Una serie di perizie balistiche
sembrano confermare l’intuizione. I magistrati tornano così a in­
terrogare Stefano Mele che accusa ancora una volta Francesco
Vinci, indiziato anche degli altri quattro duplici omicidi.
L’uomo si dichiara sempre innocente ma viene scarcerato
solo dopo il mortale agguato ai ragazzi tedeschi, avvenuto a Gal­
luzzo nel 1983.
Mele cambia ancora versione e nel 1984 racconta che gli auto­
ri materiali dell’assassinio Locci-Lo Bianco sono il fratello Gio­
vanni e suo cognato Piero Mucciarini, per i quali scatta l’accusa di
omicidio premeditato. I due vengono indiziati anche degli altri
duplici omicidi, adesso saliti a cinque.
Giovanni Mele è un pensionato, scapolo, con l’hobby di inta­
gliare il sughero, mentre Piero Mucciarini è vedovo e fa il panet­
tiere. Contro di loro ci sono accuse piuttosto generiche: le parole
di Stefano Mele, la cui personalità, definita oligofrenica, non lo
rende un accusatore attendibilissimo; un «bisturi» e il ricordo di
Natalino Mele, che all’epoca aveva sei anni, il quale aveva detto ai
Carabinieri che «quella sera c’era anche lo zio Piero», il quale
avrebbe rovistato nel cassetto del cruscotto dell’Alfa.
Anche queste accuse cadranno dopo l’ennesimo omicidio del
«mostro».
Un altro personaggio sul quale si concentrano le attenzioni
degli inquirenti è Salvatore Vinci, fratello di Francesco. Fa il m u­
ratore, è stato sposato e ha figli; anche lui è accusato dal Mele di
aver partecipato al delitto del ’68. A un certo punto una delle sue
numerose amanti, Ada Pierini, sembra fornire una testimonian­
za decisiva per risolvere il caso: la donna afferma di aver visto in
casa di Salvatore un panno sporco di sangue. Ad aggravare la sua
posizione anche le chiacchiere della gente, secondo cui Salvatore
Vinci è un personaggio «strano», con singolari gusti sessuali.
Qualche anno dopo Salvatore verrà processato in Sardegna per
la morte della prima moglie, Barbarina Steri, uccisa nel i9 6 0 a
Villacidro, il paese di origine dei Vinci. Verrà assolto ed emigrerà.
La cosiddetta pista sarda, sulla quale ha puntato per diversi
anni il giudice Mario Rotella, in realtà spiega il delitto del ’68 ma
manca di un collegamento con tutti gli altri delitti attribuiti al
«mostro» di Firenze. Venne definitivamente abbandonata quan­
do il presunto serial killer tornò a colpire nei giorni in cui due del
clan, Giovanni Mele e Piero Mucciarini, erano dietro le sbarre.
Tuttavia colpisce come i sardi accettino anche il carcere, accu­
sandosi l’un l’altro piuttosto di dire ciò che sanno sul delitto di La­
stra a Signa e soprattutto su che fine ha fatto la pistola che leghe­
rebbe quello a tutti gli altri duplici omicidi fiorentini.
1 personaggi coinvolti si sentono indubbiamente legati a un
dovere di omertà, ma c’è chi fa anche qualche altra supposizione:
se il movente degli assassini che avranno inizio da lì a sei anni
fosse quello esoterico, la Beretta calibro 22 utilizzata nel ’68 sa­
rebbe un reperto prezioso per i responsabili dei delitti, veri e pro­
pri sacrifici umani. A differenza di quanto avviene nella malavita
tradizionale, dove l’arma del delitto deve essere «pulita», in ambi­
to esoterico l’arma deve essere preferibilmente «sporca», cioè
deve avere già ucciso, in modo da aumentare la potenza rituale.
Forse, secondo questa ipotesi, è stato proprio uno dei sardi a
vendere l’arma a uno degli adepti, che la userà altre sette volte. At­
traverso quell’arma si verrebbe allora a creare un patto di sangue tra
i due clan. Nessuno parla e, in cambio, ogni volta che uno dei sardi
finisce in carcere, un nuovo omicidio del «mostro» lo scagiona.
A rendere ancora più impenetrabile il segreto, c’è il fatto che
chi viola questo patto muore. Come succederà nel 1993 a France­
sco Vinci e al servo pastore Angelo Vargiu, incaprettati e bruciati
nella loro auto.
PIETRO PACCIANI E I «COMPAGNI DI MERENDE»

Svanita la pista sarda gli inquirenti sono punto e a capo. Il


«mostro» ha già colpito sette volte, otto se si considera anche
l’omicidio del 1968.
In una intervista a «L’Europeo» del 19 9 4 il procuratore di Fi­
renze Pier Luigi Vigna racconta che nel 1989, dopo quattro anni
di tregua, cominciarono a chiedersi perché il «mostro» non aves­
se più colpito: era forse in carcere per qualche altro motivo? Così
fu deciso uno screening su detenuti per reati particolari, come
omicidi a sfondo sessuale, violenze carnali.
È così che l’attenzione si posa su Pietro Pacciani, coltivatore di­
retto, classe 1925, nato ad Ampinana, frazione di Vicchio del Mu­
gello. Il suo curriculum giudiziario inizia nel 1951 con l’omicidio
di un certo Severino Bonini, venditore ambulante, che amoreg­
giava nascosto dietro una siepe con la sua fidanzata, Miranda
Bugli. Lo uccide con diciannove coltellate, poi costringe lei a fare
l’amore accanto al corpo ancora caldo del rivale. Arrestato, torna in
libertà nel 1964, ma nel 1987 scattano ancora le manette ai polsi
per aver violentato le due figlie. Quindi è in libertà negli anni dei
delitti delle coppiette. E nel 19 9 1 riceve in carcere un altro avviso di
garanzia. L’accusa: sarebbe lui il «mostro» di Firenze.
Pacciani, il «Vampa», come è soprannominato un po’ per il
suo carattere, un po’ perché da giovane si esibiva come mangiato­
re di fuoco nelle sagre paesane, appare il candidato ideale: violen­
to, collerico, sessualmente perverso. Frequenta numerose prosti­
tute ed è anche un guardone: spia le coppiette che amoreggiano
in auto nei sentieri e nelle piazzole che punteggiano la campagna
e le colline intorno Firenze. Senza dimenticare che nel 1985, l’u
settembre per la precisione, tre giorni dopo l’omicidio dei due
francesi agli Scopeti, un anonimo aveva scritto al maresciallo dei
Carabinieri di San Casciano: «Indagate su Pacciani per i delitti
del mostro».
A inchiodarlo, nel corso di una perquisizione durata dodici
giorni nella sua casa di Mercatale Val di Pesa, è il ritrovamento di
un proiettile inesploso calibro 22, marca Winchester incastrato
in un palo dell’orto, lo stesso tipo rinvenuto in tutti i luoghi in cui
si sono verificati i mortali agguati del «mostro». Non solo: nel ga­
rage di casa, tra altre cianfrusaglie, viene rinvenuto anche un
block notes marca Skizzen Brunnen e un portasapone del tutto
simili a quelli posseduti da Horst Mayer e Uwe Ruesch, uccisi nel
1983, blocco commercializzato solo in Germania. Altro reperto
buono per l’accusa è uno straccio apparentemente uguale a quel­
lo che avvolge l’asta guidamolla di una Beretta inviata sempre da
un anonimo agli inquirenti.
Il 15 aprile 19 9 4 Pacciani è rinviato a giudizio e diventa il pro­
tagonista di un processo che richiama nell’aula bunker di Santa
Verdiana a Firenze inviati speciali da tutto il mondo e man mano
che si procede con le udienze divide l’opinione pubblica.
Dai polverosi verbali del 1951 riemerge una confessione di
Pacciani: «Quando ho visto il seno sinistro nudo di Miranda non
ho capito più nulla». Considerato che ad alcune vittime il «mo­
stro» asporta anche un lembo della mammella sinistra, quella
frase diventa per l’accusa una prova della psicologia malata e as­
sassina del contadino di Mercatale, che ucciderebbe per ripetere
il primo delitto e per punire la sua fidanzata.
Una perizia grafologica attribuisce addirittura a Pacciani la let­
tera anonima del 1985 e il biglietto che nel 19 9 2 accompagnava il
pezzo di pistola «compatibile» con la Beretta degli omicidi fioren­
tini. In questo biglietto l’autore sosteneva di aver trovato il pezzo di
metallo in un barattolo di vetro «stiantato» (rotto, secondo una tipi­
ca espressione toscana) a Crespello-Luiano, dove il Pacciani si re­
cava a lavorare. In poche parole, sarebbe stato lui ad attirare l’atten­
zione su di sé e a costruire in pratica una prova determinante per
l’accusa, dato che l’asta guidamolla era avvolta in un pezzo di strac­
cio del tutto simile a quello trovato a casa sua. La convinzione è
data dalla straordinaria somiglianza che la lettera M e le O della pa­
rola «mostro» avrebbero con la grafia del contadino di Mercatale.
Eppure Pacciani si professa sempre innocente, si paragona,
piagnucolando, a un «agnelluccio» e dice di essere come «Cristo
in croce», mostrando al pubblico ministero e al giudice santini e
immaginette di Padre Pio.
Di certo quell’anziano contadino sessantottenne, flebitico e
con problemi di cuore - ha già avuto due infarti -, appare lontano
dallo stereotipo dello spietato e freddo serial killer, capace di spa­
rare, soprattutto negli ultimi delitti, con precisione e sangue fred­
do, di lottare con vittime assai più giovani e sollevarne i corpi esa­
nimi per portarli in qualche caso a diversi metri dalle auto.
Qualcuno ipotizzerà perfino che il processo sia una specie di
m essinscena voluta dal procuratore Vigna per fare uscire allo
scoperto il vero «mostro». Insomma una trappola, in cui il conta­
dino di Mercatale è l’esca innocente.
Nonostante l’appassionata difesa dell’avvocato Pietro Fiora­
vanti, il i novembre 19 9 4 arriva la sentenza di primo grado: Pie­
tro Pacciani è riconosciuto colpevole di sette degli otto duplici
omicidi ed è condannato al carcere a vita. Assoluzione invece per
il primo delitto attribuito al «mostro», quello dèi 1968.
Nella motivazione della sentenza però i giudici parlano di
«presenza sicura e inequivoca» di complici del contadino. È la
pista su cui si comincia a muovere dall’ottobre 1995, appena inse­
diato a capo della squadra mobile, Michele Giuttari.
Ma le polemiche che hanno accompagnano lo svolgimento
del processo non si placano.
Secondo i difensori l’aver violentato le figlie è il suo vero alibi
psicologico, poiché un padre incestuoso non può fare quel tipo di
delitti. Per loro è in dubbio anche la forza probatoria dei due prin­
cipali indizi su cui si è basato il processo.
Riguardo al proiettile è ritenuto improbabile che una cartuc­
cia non sparata possa incastrarsi da sola in un paletto di cemento
e non è verosimile che a metterla lì sia stato lo stesso Pacciani, il
quale non è certo uno stupido. Per il blok notes e il portasapone,
sempre secondo la difesa, mancherebbe invece un requisito es­
senziale per poterli considerare delle vere prove: sono oggetti
prodotti in serie e privi di caratteristiche che li rendano di sicura
appartenenza a una delle vittime.
A suscitare dubbi sono anche le caratteristiche fìsiche di Pie­
tro Pacciani, di statura piuttosto bassa, mentre secondo tutte le ri-
costruzioni effettuate sulla scena dei delitti il«mostro» doveva es­
sere alto almeno un metro e ottanta centimetri e cbn una notevo­
le forza.
Intanto dal carcere fiorentino di Sollicciano, dove è rinchiuso,
il Vampa scrive memoriali, compone poesie e disegna: santi, Ma­
donne, animali e fiori, tra cui diverse rose rosse.
Il 29 gennaio 19 9 6 comincia il processo d’appello.
Questa volta a difendere Pacciani, oltre agli avvocati Pietro
Fioravanti e Rosario Bevacqua, c’è un pool messo in piedi dal di­
rettore della rivista «Detective & Crime» Carmelo Lavorino e di
cui fanno parte il criminologo Francesco Bruno e l’avvocato Nino
Marazzita.
Il dibattimento si svolge sulla base degli stessi atti giudiziari,
ma questa volta le certezze di un anno prima si trasformano in
dubbi. Al punto che lo stesso pubblico ministero, Piero Tony, di­
chiara che «mezzo indizio più mezzo indizio non fa un indizio
pieno ma zero assoluto» e che la prima sentenza è «carente», vi­
ziata da troppe «congetture e supposizioni». In sostanza è lo stes­
so rappresentante dell’accusa a chiedere l’assoluzione, dopo ap­
pena un mese di udienze. Il 13 febbraio 19 9 6 , dopo poco più di
due ore di camera di consiglio, il contadino di Mercatale Val di
Pesa viene dichiarato «non colpevole».
Una sentenza shock e diffìcile da accettare per chi ha speso
anni a tentare di dipanare la matassa dei duplici omicidi fiorenti­
ni e, infatti, il giorno stesso dell’assoluzione, il procuratore Pier
Luigi Vigna annuncia alla stampa che ci sono quattro supertesti,
li indica con le sigle «Alfa», «Beta», «Gamma» e «Delta», in
grado di inchiodare Pacciani.
«Alfa» è Mario Vanni, ex postino di San Casciano, sopranno­
minato «Torsolo». La Procura di Firenze gli aveva inviato un avvi­
so di garanzia già il 25 gennaio, ad appena quattro giorni dall’ini­
zio del processo d’Appello, e sarà proprio la sua testimonianza a
far coniare quel termine, «compagni di merende», che rimarrà
come un marchio su Pacciani e la strana combriccola su cui si in­
centrerà l’inchiesta «bis» sul «mostro» e il successivo processo.
«Beta» è Giancarlo Lotti, soprannominato «Katanga»; un ex
manovale di 56 anni, che ha cominciato a collaborare dopo lun­
ghe reticenze, ammettendo di aver assistito all’uccisione dei due
francesi nel 1985 a Scopeti.
«Gamma» è Gabriella Ghiribelli, ex prostituta, che conosce
bene i tre ed è lei la prima a parlare agli investigatori - salvo poi
smentire - di sedute spiritiche, riti satanici e messe nere, che si
trasformavano regolarmente in orge sfrenate, alle quali parteci­
pavano diversi personaggi, tra i quali Maria Antonietta Sperduto,
che avrà il marito impiccato e poi la figlia e il nipotino morti car­
bonizzati in uriautomobile.
È però Giancarlo Lotti a fornire gli elementi per mettere anco­
ra una volta sotto accusa Pacciani. Dal suo racconto emergono al­
cune contraddizioni, ma sembra certo che la notte dell’ultimo de­
litto «Katanga» fosse là, nella radura dove erano accampati Nadi­
ne Mauriot e Jean-Michel Kravechvili, ad assistere all’omicidio.
Ammette di essere un guardone e di frequentare quello strano
giro di prostitute, balordi e appassionati dell’occulto che ruota at­
torno alla casa del mago di San Casciano, Salvatore Indovino. Lotti
è infatti il protettore di Filippa Nicoletti, detta Pippa, convivente
del mago e nella cui casa di via Faltignano (a poca distanza da Sco­
peti) si ritrova il gruppo di cui fanno parte anche Pacciani e Vanni.
Secondo il racconto del superteste «Beta», sono stati proprio i
due amici a uccidere agli Scopeti. Poi Lotti comincia a raccontare
anche del delitto precedente, quello di Pia Rontini e Claudio Ste-
fanacci. In entrambi i casi sarebbe stato Vanni a sparare e Paccia­
ni a compiere le escissioni, mentre lui avrebbe solo fatto da palo.
Ma col tempo la «compagnia» si allarga. A sostenere la versio­
ne di Lotti c’è infatti anche la testimonianza di un altro guardone
che accompagnava «Katanga» quel 29 luglio 1984, la cui identità
viene accuratamente tenuta a lungo segreta dagli inquirenti. È il
testimone «Delta», Fernando Pucci, al quale sempre Lotti avreb­
be detto che agli Scopeti c’era anche «quello di Calenzano».
«Quello di Calenzano» è Giovanni Faggi, ex rappresentante di
piastrelle, arrestato nel luglio del 19 9 6 e scarcerato dopo alcuni
mesi.
Durante il successivo processo, Lotti descrive il clima di per­
versione e violenza che c’era all’interno del gruppo dei «compa­
gni di merende». Racconta dei suoi rapporti sessuali con Pietro
Pacciani, delle minacce e a un certo punto si autoaccusa:
«Ho ucciso anch’io».
Dice di aver partecipato all’agguato ai due tedeschi, perché co­
stretto da Pacciani. Farlo partecipare a quel delitto, spiegherà,
serviva a Vanni e a Pacciani per assicurarsi la sua fedeltà assoluta.
Il 13 maggio salta fuori un altro teste, Giuseppe Fazzina, il quale
accusa Pacciani di avergli offerto denaro per uccidere una coppia.
C ’è n’è abbastanza per convincere la Cassazione ad annullare
la sentenza d’appello e a ordinare un nuovo processo.
Tuttavia l’«agnelluccio», che neppure per un momento ha ri­
nunciato a proclamarsi innocente, riuscirà a evitare una nuova
probabile condanna. Il 22 febbraio 19 9 8 viene infatti trovato
morto nella sua abitazione di Mercatale, in circostanze quanto­
meno dubbie.
Vanni, Lotti e Faggi affrontano invece il processo scaturito
dalla cosiddetta «inchiesta bis», il cui inizio viene fissato per il 20
maggio 1997.
Il 24 marzo 19 9 8, dopo cinque giorni di camera di consiglio,
la Corte d’Assise, presieduta da Federico Lombardi, condanna
Mario Vanni all’ergastolo e Giancarlo Lotti a trenf anni di reclu­
sione. La sentenza d’Appello, emessa il primo giugno 19 9 9 , con­
ferma l’ergastolo a Vanni e riduce la pena da trenta a ventisei anni
per Lotti. I due sono riconosciuti colpevoli di quattro dei cinque
duplici omicidi loro contestati.
PACCIANI E IL MISTERIOSO MEDICO

Alla vigilia della sua deposizione a Perugia, in sede di inciden­


te probatorio relativo al caso Narducci, l’avvocato storico di Pac­
ciani, Pietro Fioravanti, riceve una telefonata: «Stai attento e bada
a come parli domani».
Del dottore perugino, il «Vampa» ne fa cenno in uno dei suoi
m emoriali, presum ibilm ente quello scritto tra il processo di
primo e secondo grado: «Cari avvocati, io vi ho incaricato di fare
indagini sulle persone scomparse ma soprattutto quel medico
morto sul lago Trasimeno con una pietra al collo, affogato, ed era
stato fatto andare o era andato con un gommone con la benzina...
con il rifornimento per la sola andata e non il ritorno».
In verità a Fioravanti, è lui stesso a dirlo, Pacciani chiede di in­
dagare anche su altre morti - una quindicina - tra le quali mette­
va anche Narducci, pur affermando che di questo medico «aveva
letto sui giornali».
Pacciani, che con il suo legale per nove anni si incontra ogni sa­
bato in carcere, in un altro memoriale gli chiede di comparare il
proprio Dna con quello del sangue del fazzolettino rinvenuto agli
Scopeti: «Fate il Dna e vedrete che non sono io l’assassino, non è
mio quel sangue». Dice l’avvocato Fioravanti al Gip perugino:
«Noi lo abbiamo chiesto in fase di giudizio di primo grado più
volte, ma nei fascicoli, testimone ancora l’ispettore Castelli, mi
dica quando è stato trovato questo fazzolettino, dentro un faldo-
ne, essiccato? È stato trovato qualche mese fa, dal Gides...».
Fioravanti racconta che Pacciani gli riferì anche di una lettera
anonima del 18 ottobre 1994, dove si faceva cenno a un medico
perugino «ma non per dire che è il mostro di Firenze 0 che altro,
no, sempre riferendosi a quelle indagini “perché è figlio di...” , di
una persona molto importante e i Carabinieri hanno nascosto le
prove di quell’omicidio».
E fu sempre Pacciani a dirgli che Narducci aveva una casa in
affitto a Vicchio o San Casciano e che la sua morte doveva essere
collegata a quella del conte Roberto Corsini, trovato morto con
un colpo di fucile il 20 agosto 1984, a Mercatali di Scaperia, omi­
cidio per il quale fu condannato tale Marco Parigi, cacciatore di
frodo. Pacciani diceva che Narducci e Corsini «erano in combut­
ta» nello svolgere attività magico sessuali di tipo violento.
L’«inchiesta bis» porta alla luce un mondo di guardoni, ses-
suomani e violenti. Un numero imprecisato di prostitute, maghi,
cartomanti e squallidi personaggi si muovono attorno al gruppet­
to di «compagni di merende» capeggiato da Pietro Pacciani. Le
loro avventure a sfondo sessuale sono una sorta di campo neutro
sul quale avviene l’incontro con alcuni esponenti della comunità
dei sardi, che non esitano a uccidere per vendetta o per «onore»,
e forse con altri individui violenti: la cerchia di professionisti,
colti, benestanti, stimati, comunemente definiti «i mandanti», di
cui si inizia a parlare con l’apertura delle indagini del Pm Giulia­
no Mignini sulla morte di Narducci. Cerchia della quale, secondo
alcune deposizioni, avrebbe fatto parte lo stesso gastroenterolo­
go col ruolo di custode delle parti anatomiche asportate.
È proprio durante queste scorribande sessuali e riti esoterici
che Pietro Pacciani potrebbe aver incontrato certe persone e co­
nosciuto individui appartenenti a un ceto sociale così diverso dal
suo. E che Pacciani abbia partecipato a «messe nere» e chissà a
cos’altro lo conferma anche l’avvocato, Pietro Fioravanti, il quale
ricorda che il «Vampa» era assai interessato al cardinale Milingo,
allora notissimo esorcista, di cui leggeva avidamente tutti i libri
sui quali riusciva a mettere le mani.
Nella sua testa di contadino, illetterato, dagli atteggiamenti
talvolta naif, ma sicuramente scaltro, Pacciani, a un certo mo­
mento ha cominciato ad avere una visione sempre più chiara del
complesso meccanismo nel quale si era trovato invischiato.
È a questo punto che ha cominciato a lanciare segnali, come
appunto quello di guardare dentro i fascicoli «di quel medico
morto affogato», pensando che una simile indagine potesse an­
dare «a suo vantaggio». Si rendeva però conto del rischio che
stava correndo e consegnando l’ennesimo suo memoriale all’av­
vocato Fioravanti una volta disse anche:
«Se sanno che ho fatto questi nomi me la faranno pagare...».
Quali nomi? Per esempio quello di Narducci e di Calamandrei?
Nel gennaio 20 0 4 Fioravanti, convocato a Perugia dai Pm Mi­
gnini e Canessa, che hanno appena iscritto nel registro degli in­
dagati il farmacista Francesco Calamandrei, sospettato di essere
tra i mandanti fiorentini, sorprende tutti affermando: «Effettiva­
mente devo dire che Pacciani mi aveva parlato di questa persona.
Poco prima di morire mi disse che sarebbe stato utile indagare
sui ruoli di Calamandrei e di Francesco Narducci. [...] Calaman­
drei era una persona interessata a questi discorsi di magia, chia­
ramente facendo riferimento ai delitti del “mostro” , nonché di un
medico di Firenze che non era buono a trombare».
Fioravanti aggiunge di aver sempre avuto l’impressione che il
suo assistito conoscesse di persona Narducci, ma i dettagli di
questa conoscenza non glieli raccontò mai.

LA PISTA ESOTERICA

A uccidere per almeno sette volte nei dintorni di Firenze tra il


1974 e il 1985 quindi non è stato un killer solitario, un maniaco
omicida. Era questa l’ipotesi sulla quale si erano mossi all’inizio
gli investigatori ed era questa la paura che aveva scatenato una
psicosi tra le giovani coppie toscane.
Le indagini su Pacciani svelano infatti l’esistenza di una vera e
propria associazione a delinquere, ma gli inquirenti non tralascia­
no altre piste e nel 19 9 6 acquisiscono un volume in copia unica di
Jean-Pierre Giudicelli de Cressac Bachelerie intitolato Pour La
Rose Rouge et la Croix d’Or, ove a pagina 72 si legge che un tale
conte Umberto Amedea Alberti di Catenaria, della nobiltà fioren­
tina, valente ufficiale durante la Prima guerra mondiale, ha tra­
smesso un «insegnamento» che riguarda le coppie in amore, con
un avvertimento: si tratta di un rito «mais fort dangereux».
Il documento comproverebbe come sul territorio fiorentino
abbiano particolare efficacia certi rituali compiuti proprio sulle
coppie colte durante l’atto amoroso ed è con ogni probabilità a
questo che si sono ispirati gli autori degli efferati agguati com­
piuti nell’arco di oltre un decennio nella campagna toscana.
Alla luce di questa nuova pista, il capo della Mobile di Firenze
Michele Giuttari e il Pm Paolo Canessa iniziano a riesaminare le
scene dei delitti dal 1974 al 1985 e ad analizzare con una prospet­
tiva diversa il tralcio di vite che l’omicida mise nella vagina di Ste­
fania Pettini; circostanza questa che all’epoca nessuno seppe
spiegare in modo plausibile.
Quello che si è via via rivelato agli inquirenti è un complesso
mondo popolato da personaggi con devianze psichiche e com­
portamentali, dedite a ogni sorta di eccessi e di perversioni.
Festini con prostitute, conditi con qualche rito satanico e altre
macabre messinscena per rendere più piccante le orge di sesso e
altri tipi di «giochi» perversi possono essere diventati un’arma di ri­
catto per altri «insospettabili» i quali, pur di non correre il rischio di
essere anche solo sfiorati da inchieste scomode, non avrebbero esi­
tato, al momento giusto, a intervenire.per sviare, intimidire, insab­
biare. Personalmente o con l’aiuto di altri «amici» influenti.
Per questo mondo forse l’esoterismo è stato soltanto il sugge­
stivo pretesto per alcune pratiche «estreme». Di sicuro si tratta di
una complessa e articolata organizzazione in cui ognuno ha un
suo ruolo e nella quale ovviamente ciascuno è legato a filo doppio
all’altro, sia perché complice di orrendi delitti, sia perché parte di
un «club» dove, una volta entrati, non si può più uscire vivi. Chi
sgarra muore.
Probabilmente è questo il motivo delle tante lettere anonime
recapitate nel corso degli anni a chi ha svolto indagini sul «mo­
stro».
Questo delle tracce disseminate qua e là attorno Firenze e
delle lettere anonime è un mistero nel mistero. Talvolta si tratta
di una manciata di proiettili calibro 22 Winchester, serie H, lo
stesso tipo di quelli esplosi negli agguati, fatti ritrovare nell’ospe­
dale Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri.
Oppure si tratta di missive con indizi molto precisi, come quel­
la contenente i ritagli di giornale tratti da «La Nazione» con le foto
e le didascalie dei sostituti procuratori che si occupano del caso:
Francesco Fleury, Paolo Canessa. Urialtra è quella recapitata al
«Sig. Procuratore della Repubblica Pier Luigi Vigna - Firenze»,
con gli indirizzi scritti a macchina e il titolo tratto da un quotidia­
no: «Altro errore del mostro. La notte del delitto tutte le strade
erano controllate e la sua auto potrebbe essere stata segnalata da
un casellante»; nella stessa busta il dito di un guanto da chirurgo,
un proiettile calibro 22 custodito in un foglietto di carta bianca pie­
gato che reca la scritta: «Poveri Fessi - Vi bastano uno a testa».
Il 10 settembre 1985, alla Procura di Firenze arrivava una busta
da lettera bianca, con timbro «San Piero a Sieve 9.9.1985», indi­
rizzata a «Dott. Silvia Della Monica - Procura della Repubblica
50 100 Firenze», redatto con ritagli di stampa. All’interno un fo­
glio bianco con una piccola busta di cellophan dentro alla quale c’è
un lembo di pelle, asportato due notti prima a Nadine Mauriot.
La dottoressa Della Monica fa parte del pool che si occupa del
«mostro»; il quale ha così deciso di inviarle un segnale, quasi
un’autodenuncia o un ennesimo gesto di sfida, per rendere anco­
ra più avvincente quello che considera un macabro gioco.
Le buste sono sempre uguali, così come la carta e la macchina
da scrivere usata. L’esame effettuato sulla saliva lasciata per bagna­
re la striscia di carta gommata - saliva rinvenuta in tutte le buste a
eccezione di quella inviata alla dottoressa Della Monica - rivela che
il mittente ha il gruppo sanguigno A, lo stesso di Narducci.
Il primo ottobre 1985 a Vigna arriva una busta regolarmente
affrancata e con il timbro di spedizione «Perugia 28 settembre
1985»; anche in questo caso l’indirizzo è scritto a macchina. Al­
l’interno un foglio dattiloscritto in alto e, in basso, la fotocopia di
due annunci: «Autoritaria e bellissima, amante calze nere e giar­
rettiere, si esibisce privatamente per generosi intenditori. Scrive­
re indicando indirizzo e affrancando con L. 700. Fermo posta Fi­
renze centrale. Passaporto F 6 2 3 9 6 5 » .
Questo il testo della lettera: «Illustrissimo Signor Magistrato,
l’annuncio di cui mi sono permesso di inviarle una copia appare
ormai con irritante periodicità da almeno sei-sette mesi sul gior­
nale di annunci gratuiti “Cerco e trovo” di Perugia. Io per carattere
sono una persona molto tollerante e che se ne frega altamente di
ciò che fanno gli altri, ma quando la gente eccede allora non sop­
porto più. È ben ora che questa signora che sarà pure bellissima, la
smetta di rompere i c... ai lettori di Perugia! A ben vedere poi que­
sta non è altro che una puttana che sfrutta i “generosi intenditori”
che altro non sono se non i ricchi scemi... Io per guadagnare (one­
stamente) un milione poco più devo lavorare sodo per un mese;
questa per far vedere il c... a degli imbecilli psicopatici fa i soldi a
palate in poche ore e la storia va avanti da mesi. Non crede signor
Magistrato che sarebbe ora di farla smettere??? Io credo di sì. Ora
decida lei se intervenire o no! Distinti ossequi da un intenditore
non... generoso». A piè pagina una sigla scritta a mano. Sembra
una F e secondo gli inquirenti del Gides è lo stesso segno rinvenu­
to in alcuni atti firmati dal dottor Francesco Narducci.
La missiva è stata rinvenuta nel fascicolo che raccoglie le se­
gnalazioni di anonimi, incluso tra gli atti del Pm di Firenze ri­
guardanti l’inchiesta relativa ai delitti del «mostro».
Alcune di queste «tracce» sembrano portare a Narducci ma
altre, come la busta contenente l’asta guidamolla di una pistola
Beretta inviata agli inquirenti fiorentini il 25 maggio 19 9 2 avvol­
ta in uno straccio proveniente dalla casa di Pacciani, oppure la let­
tera inviata l’u settembre 1985 ai Carabinieri con l’invito a inda­
gare sul contadino di Mercatale, hanno autori diversi. Forse per­
sone che sapevano e volevano indirizzare le indagini nel verso
giusto, senza però esporsi perché evidentemente erano ben con­
sapevoli che rivelare i segreti di un certo «giro» sarebbe costato
molto caro.
I MORTI AMMAZZATI E QUELLI «SUICIDATI»

Quella di Francesco Narducci non è l’unica morte misteriosa


riconducibile alle vicende del cosiddetto «mostro» di Firenze. Da
quando le indagini hanno portato a stringere il cerchio attorno al­
l’inquietante mondo di cui facevano parte Pietro Pacciani e i suoi
«compagni di merende» diversi personaggi scompaiono im ­
provvisamente e tragicamente dalla scena.
Come Renato Malatesta, marito di Maria Antonietta Sperduto,
già amante di Pacciani e di Vanni. L’uomo viene trovato nel 19 81 in
una stalla di Spedaletto, una località nei pressi di San Casciano Val
di Pesa, appeso penzolante a una corda. Il caso fu archiviato come
suicidio e solo dopo diversi anni, quando si iniziò a indagare sui
legami di Malatesta con i «compagni di merende», ci si è resi
conto che le fotografìe scattate dai Carabinieri mostravano il corpo
solo dalle ginocchia in su. Fu poi rinvenuto un rotolino non svi­
luppato in cui si vede che i piedi dell’impiccato toccavano terra.
Urialtra morte rimasta senza colpevole è quella di Milva Mala­
testa, figlia di Maria Antonietta Sperduto, e del suo figlioletto
Mirko, i cui corpi carbonizzati sono stati trovati nella Fiat Panda
della donna, la quale prima di morire aveva confidato al marito di
aver visto a Tavarnelle Val di Pesa Pacciani e un suo amico aggi­
rarsi attorno alla casa del padre, Renato Malatesta, il pomeriggio
in cui questi morì.
Nello stesso anno, il 1993, vengono incaprettati e bruciati ;
nella loro auto anche Francesco Vinci, uno dei sospettati degli
omicidi attribuiti al «mostro», e il servo pastore Angelo Vargiu.
Vinci e Milva Malatesta erano stati amanti. L’anno successivo, la
stessa fine tocca ad Anna Milva Mattei, una prostituta che convi­
ve con il figlio di Francesco Vinci. —
Il 10 dicembre 1995 muore invece un testimone al processo
istruito nei confronti di Pietro Pacciani, accusato di essere il se­
rial killer delle coppie fiorentine. Il suo nome è Claudio Pitocchi
ed è vittima di una rovinosa caduta dal motorino a causa di un in­
cidente stradale, ma dai rilievi effettuati non risulta nessuna
macchina e nessun testimone.
La trama delle morti misteriose o sospette non avvolge soltan­
to Firenze e Perugia.
Nell’agosto 1982 in un residence di Sampieri, in provincia di
Ragusa, è assassinata a colpi di arma da taglio una giovane ragazza
fiorentina, Elisabetta Ciabani, in vacanza con la sorella e il cognato.
La giovane è colpita con diverse coltellate, tra cui una al pube e una
sul fianco sinistro all’altezza del cuore. L’intera lama, lunga sedici
centimetri, è ancora conficcata nel corpo quando la ragazza viene
trovata in una pozza di sangue sul pavimento del solarium.
Mai, a memoria d’uomo, si erano verificati omicidi del genere
in quella zona e secondo i Carabinieri non vi erano attività crim i­
nose di rilievo, tali da giustificare l’eventuale eliminazione di un
testimone scomodo. Si decide perciò di archiviare il caso come
«suicidio», ma si tratta di una conclusione troppo inverosimile.
Intervistato a una quindicina di anni di distanza Severino Santia-
pichi, il giudice del processo Moro, in vacanza in un paese poco
distante e accorso al residence subito dopo il rinvenimento del
corpo, ricorda di essere rimasto assai colpito dal numero delle fe­
rite e dalla foga con cui sono state inferte. E poi quell’infierire at­
torno al pube, una modalità che rimandava immediatamente al
serial killer fiorentino.
Nel 19 84 gli atti del caso Ciabani sono chiesti dalla Procura di
Firenze al giudice Emanuele Di Quarto, il magistrato che nel
1983 dispose l’archiviazione del caso come suicidio. Il fascicolo è
riaperto nell’agosto di quello stesso anno, dopo il duplice omici­
dio di Vicchio, il penultimo della serie attribuita al «mostro» ma
nuovamente il sostituto procuratore Paolo Canessa non vi trova
alcuno spunto investigativo utile.
Nel 2 0 0 2 emerge un unico, per quanto flebile, punto di con­
tatto: l’anno precedente la morte, Elisabetta Ciabani ha lavorato
per circa un mese come cameriera in un hotel a pochi chilometri
da Perugia, Castel dell’Oscano, sede abituale per i ritrovi convi­
viali della massoneria cittadina, cui partecipano tra gli altri Ugo
Narducci e l’intera cerchia dei suoi amici che abbiamo visto riuni­
ti quasi al completo sul molo di Sant’Arcangelo.
Come ricorda Silvano Rotoli, marito della sorella e cognato di
Elisabetta, la giovane, studentessa di architettura a Firenze, lesse
su un giornale fiorentino l’inserzione con la quale la direzione
dell’hotel cercava personale da impiegare nel periodo estivo e
dopo qualche mese partì alla volta di Perugia.
La ragazza ha un carattere assai introverso e poiché «aveva
paura dei rapporti umani», ricorda ancora Silvano Rotoli, pratica-
mente non ha amici. Probabilmente sconta un’infanzia trascorsa
all’ombra di un padre assai severo e manesco.
Trascorre così l’intero mese tra le quattro mura dell’hotel dove
svolge servizio in camera e ai tavoli.
Il nome di Elisabetta Ciabani ricorre anche nell’omicidio di
uno psicologo, trovato nel maggio 2003 impiccato al parapetto
della sua casa di campagna di Trevignano in provincia di Venezia.
Maurizio Antonello, questo il nome dell’uomo, che nei primi
anni Ottanta è tra i fondatori dell’Aris, l’Associazione per la ricer­
ca e l’informazione sulle sette, è molto preoccupato perché qual­
che giorno prima un adepto della «Rosa Rossa» - l’organizzazio­
ne esoterica che, secondo alcuni, avrebbe a che fare con gli omici­
di fiorentini - in punto di morte gli avrebbe rivelato alcuni dei
crimini commessi dagli affiliati, nonché il nome del «mostro» di
Firenze e i retroscena della morte di Elisabetta Ciabani.
All’elenco dei morti ammazzati o «suicidati» bisogna infine
aggiungere pure il nome di Pietro Pacciani, trovato morto nella
sua casa, dove viveva ormai da solo. L’autopsia parla di cause na­
turali, ma anche in questo caso i dubbi sono molti: il corpo è
prono sul pavimento, i pantaloni abbassati e il maglione tirato su
fin quasi al collo, come se qualcuno lo avesse trascinato per i
piedi. Inoltre le macchie ipostatiche, quelle che si formano sulla
parte del cadavere rivolta verso terra, sono all’opposto di dove do­
vrebbero essere: sulla schiena anziché sul petto.
Nel marzo 20 0 1 la Procura di Firenze apre un fascicolo contro
ignoti per il decesso dell’agricoltore; l’ipotesi è un lento assassi­
nio a mezzo di medicinali.
Verso la conclusione?
IO SO CHE TU SAI.

Dopo ventidue anni dall’ultimo delitto, il caso «mostro» è an­


cora aperto. Un tempo lunghissimo, sufficiente per alcuni a farlo
catalogare tra i molti misteri italiani destinati a rimanere irrisolti.
Anche i cronisti di giornali e tv hanno ormai smesso di occu­
parsi dei duplici omicidi fiorentini: un po’ perché sui moderni
media le notizie hanno ormai vita brevissima e un po’ perché
anche loro hanno forse cominciato a considerare tutta la vicenda
come una storia a metà tra cronaca e leggenda.
Invece, a voler ripercorrere il filo rosso di tanti anni di indagi­
ni, ci si rende conto che molte delle tessere del mosaico sembre­
rebbero ormai al loro posto.
A colpire non fu un solitario omicida, un serial killer come
quello a cui ci hanno abituato i film di Hollywood, ma una com­
plessa organizzazione; le asportazioni di lembi di pelle dai seni e
dal pube delle ragazze servivano a compiere riti esoterici. Perché
allora a Perugia si sta battendo solo adesso una pista che si era ri­
velata essere quella buona già più di venf anni fa?
Per capirlo bisognerebbe aprire il capitolo dei depistaggi, dei
documenti e delle prove che nel corso dell’ormai più che trenten­
nale lavoro di Polizia, Carabinieri e magistratura sono scompar­
se e in qualche caso riapparse. Un lavorìo condotto nell'ombra,
nell’intento evidente di coprire verità imbarazzanti e coinvolgi­
menti «eccellenti».
Verità presumibilmente molto presto intuite da chi ha investi­
gato a fondo sui sette duplici omicidi, ma che non ha voluto o po­
tuto immediatamente condividere con gli apparati per i quali
operava.
Ruggero Perugini, ad esempio, per primo a capo della Squa­
dra antimostro (Sam), la squadra speciale investigativa istituita
per far luce sui delitti fiorentini, nel 19 9 4 scrive Un uomo abba­
stanza normale, edito da Mondadori, la cui copertina, che raffigu­
ra la Primavera del Botticelli con quello che sembra un rivo di
sangue - in realtà sono piccole rose rosse - uscire dalla bocca,
sembrerebbe già una sorta di m essaggio in codice. La Primavera,
in ambito magico-esoterico, rappresenta una sorta di talismano
utilizzato per scongiurare la malattia fisica e mentale. La rosa
rossa è il simbolo e il nome della schola esoterica nel cui ambito
operano e agiscono assassini e mandanti.
AH’interno si legge: «[...] I suoi delitti recano quasi sempre una
ben definita impronta: quella del pianificato sacrifìcio umano,
l’ossessivo, studiato ordine della scena, la scelta delle vittime, la
costrizione delle loro povere membra in posture gratificanti per la
sua fantasia. E l’arma, sacra e rituale, non la si trova mai sul luogo
del delitto perché l’assassino non può accettare l’idea di abbando­
narla: essa è parte della sua mostruosa identità, è un pezzo della
sua anim a.[...]», e ancora: «[...] Ed ecco bella e sistemata l’ipotesi
della cooperativa di mostri e della setta satanica. Noi ne eravamo
già persuasi da un bel pezzo, con grande disappunto di certa
stampa, di parecchi medium e di qualcuno dei numerosi, sedi­
centi, specialisti che facevano la fila davanti alle redazioni dei
giornali per farsi intervistare [...]»; prosegue: «[...] L’entità aliena
che ormai lo domina lo costringe a concentrarsi sui particolari.
Perché sono i particolari quelli che veramente contano. Non è im ­
portante che rispondano a una logica oggettiva, a criteri di oppor­
tunità: ciò che deve essere rigorosamente rispettato è il loro sim ­
bolismo, la loro rispondenza a un rituale interiore [...]».
«[...] Ma in quei giorni fu proprio il tralcio di vite che monopo­
lizzò l’attenzione di tutti. Le interpretazioni esoteriche con i loro
richiami a riti priapici di fertilizzazione, alle messe nere, a culti
antichi, esotici e sanguinosi fecero la parte del leone. Lasciando
intuire ai più la probabile responsabilità di una non ben definita,
malvagia setta di adoratori del demonio o chi per esso [...]»; «[...] E
allora per un po’ si tornò a narrare della solita setta satanica della
quale l’assassino era un seguace con il compito di procurare il
grasso umano che, come alcuni sanno, è indispensabile per con­
fezionare le candele per le messe nere. A questo servivano le parti,
che tutti chiamavano feticci, asportate alla vittime femminili [...]».
Si tratta di una appropriata descrizione di quella che è stata
definita solo nel 19 9 6 la «pista esoterica» e che l’investigatore
deve aver intuito in anticipo senza tuttavia rivelarla.
Perché?
Nel 19 8 0 una agente del Sisde fiorentino ha redatto un dos­
sier ancor più dettagliato e assai vicino al successivo filone d’in­
chiesta; ma è nel 1984, dopo l’omicidio di Vicchio del Mugello,
che ufficialmente si muove il Sisde il quale affida al criminologo
Francesco Bruno l’incarico di predisporre uno studio. Questa
volta infatti la scena del delitto contiene molti più elementi, a co­
minciare dalle mutilazioni sulle vittime femminili. Per la prima
volta avviene l’asportazione oltre al pube anche del seno sinistro.
Ma oltre alle modalità dell’omicidio di Vicchio, a far muovere
i servizi fu probabilmente anche la circostanza che in quel mo­
mento Pietro Mucciarini e Giovanni Mele, due personaggi legati
alla «pista sarda» e accusati dei precedenti delitti, erano in carce­
re. Si apre così la strada a una nuova ipotesi: a compiere gli om i­
cidi non è un solitario serial killer ma una complessa organizza­
zione di esecutori e mandanti.
Sia il dossier del 19 80 che lo studio di Bruno, però, non ven­
gono presi in considerazione e soltanto nel 1993 parte del lavoro
del criminologo riemerge, ancora una volta sottoforma di ro­
manzo. Aurelio Mattei, collaboratore di Bruno, pubblica infatti
Coniglio il martedì (Milano 1993), in cui vi sono numerose analo­
gie con quanto risulterà solo a partire dal 19 9 6 con le indagini
degli inquirenti fiorentini. Il libro parla infatti di movente esote­
rico, di depistaggi, di implicazione dei livelli istituzionali dello
Stato; insomma tutto quello che costituisce le attuali inchieste.
Nel 2 0 0 1 la Squadra mobile di Firenze, guidata da Michele
Giuttari, cerca di capire perché una sezione del Viminale legata al
Sisde si sia tanto appassionata alla storia del «mostro», senza pe­
raltro condividere con Polizia, Carabinieri e magistrati i risultati
di tale interessamento. Sempre nel 20 0 1 salterà fuori da uno
degli armadi dei servizi anche il dossier del 1980.
Altri tentativi di depistare le indagini e mettere i bastoni tra le
ruote dell’inchiesta risalgono ai primi anni del 2 0 0 0 , quando ap­
pare chiaro che la Procura di Perugia è intenzionata a mettere in
relazione la scomparsa e la morte di Francesco Narducci con il
«mostro» di Firenze.
Si cerca per prima cosa di delegittimare e mettere in cattiva luce
l’operato del Pm Giuliano Mignini; poi, alla vigilia della riesuma­
zione del corpo di Narducci, su cui eseguire la mai effettuata autop­
sia, il giornalista de «La Nazione» Mario Spezi, nel corso della pre­
sentazione di un libro intitolato II mostro di Firenze, annuncia la
pubblicazione di un articolo firmato assieme al collega Douglas
Preston sul settimanale statunitense «The New Yorker» e in con­
temporanea la trasmissione di una puntata di Chi l’ha visto?, pro­
gramma in onda su Raitre, in cui si sarebbe sostenuto che nell’ulti­
mo delitto firmato dal «mostro» i due turisti francesi, Nadine Mau-
riot e Jean Michel Kraveichvili, sarebbero stati uccisi nella radura
degli Scopeti non la notte di domenica 8 settembre 1985 ma la
notte precedente, quella tra il 7 e l’8 settembre. Crollerebbero così le
accuse a carico di Pacciani e dei «compagni di merende» e si gette­
rebbe un’ombra suH’ormai trentennale lavoro degli inquirenti.
Il presunto scoop si basa sulla presenza di alcune larve della
mosca carnaria sul corpo della francese e come è noto tale larva si
sviluppa su corpi in avanzato stato di decomposizione. Secondo
Spezi, dunque, la sua presenza può spiegarsi solo anticipando il
decesso di almeno 24 ore.
La Procura fiorentina risponde riproponendo la testimonian­
za dei periti fatta nel corso del processo a Pacciani, secondo i
quali la presenza delle larve si spiega col fatto che la donna è ri­
masta chiusa a lungo sotto il sole in una tenda piccola e non ven­
tilata, inoltre diverse persone hanno visto la coppia dei francesi
viva e vegeta la mattina dell’8 settembre.
Spezi nel 20 0 6 viene iscritto nel registro degli indagati per il
reato di «turbativa dello svolgimento delle indagini». La sua casa
viene perquisita e sarà indagato e arrestato nell’aprile dello stesso
anno con l’accusa di aver turbato il lavoro della magistratura.
Insieme a lui viene arrestato il pregiudicato campano Luigi
Rocco, che avrebbe collaborato alla presunta opera di depistag-
gio, compiendo per conto di Spezi alcuni sopralluoghi. Entrambi
vengono scarcerati dopo ventitré giorni.
Spezi infatti è da sempre un convinto assertore della cosiddet­
ta «pista sarda» e non ha mai fatto mistero di considerare Paccia­
ni una sorta di capro espiatorio. È per questo, secondo le accuse
mossegli, che il giornalista avrebbe tentato di far ritrovare pre­
sunti reperti riconducibili al «mostro» in una villa delle colline
fiorentine frequentata da parenti di personaggi coinvolti in pas­
sato in quelle indagini.
Sempre in base alla versione accusatoria, indicazioni in tal
senso erano contenute in un appunto fatto avere da Spezi agli in­
vestigatori tramite un ex ispettore. Il vero obiettivo sarebbe stato
quello di sviare chi stava investigando sull’omicidio Narducci.
Perché?
Il giornalista è stato comunque assolto dall’accusa di depistag-
gio.
E come in ogni giallo che si rispetti, entrano in scena anche le
spie che, facendosi passare per tecnici della Telecom tentano di
installare una cimice informatica nella sede del Gides, la sezione
speciale comandata da Giuttari, il cuore dell’attuale inchiesta
contro i mandanti dei delitti del «mostro». I «tecnici» si sono pre­
sentati per mettere una borchia Isdn, ma in realtà, si legge nel
rapporto dello stesso Gides, «nessuno nell’azienda telefonica ha
inviato quelle persone; la signora indicata come referente dagli
operai non sapeva nulla; la borchia istallata era una superlinea
dalla quale sarebbe stato possibile captare tutti i dati in possesso
della squadra antimostro». La linea arrivava a un armadio Tele­
com situato in una strada vicina e dal quale si diramano altre
linee che possono raggiungere tutta l’Italia.
Michele Giuttari rivelerà in una intervista rilasciata nel 2006
a «l’Unità» che, riesaminando i vecchi faldoni conservati nella
Procura di Firenze, sono saltati fuori un fazzoletto intriso di san­
gue, contenente peli umani, e un paio di guanti da chirurgo, en­
trambi rinvenuti a gli Scopeti. Erano spillati al verbale e stavano
lì, «dimenticati» da ventuno anni. Il sangue era risultato umano,
del gruppo B, ma nessuna delle vittime e neppure nessuno degli
indagati e dei condannati per i delitti del «mostro» sembrerebbe
avere quel gruppo sanguigno.
Secondo Giuttari ci sarebbe da approfondire l’analisi su un
altro reperto ritrovato in casa di uno dei sospettati la notte del­
l’omicidio del 1984, avvenuto a Vicchio, nel Mugello. Anche in
quel caso si trattava di un fazzoletto con delle macchie. Analizza­
te dai Carabinieri erano risultate di sangue umano, gruppo B. Il
reperto fu portato in Gran Bretagna per sottoporlo al test del Dna
ma non c’è traccia dell’esito.

L’INDAGINE SI ALLARGA

Sono numerose le testimonianze che il Gides raccoglie sulle


frequentazioni di Narducci a Firenze e dintorni.
Del «medico» ne parlano o lo riconoscono in maniera precisa in
parecchi, personaggi di diversa estrazione sociale e reputazione, te­
stimonianze che spetterà ai tribunali vagliare o verificare, anche se
nessuno riferisce episodi che abbiano una rilevanza penale.
Ne parla ad esempio Maria Pellecchia, prostituta, che dice di
aver partecipato a «festini a luci rosse» in una casa colonica di
San Casciano, in un giro che definisce di «prostituzione partico­
lare», perché le persone che vi partecipavano avevano «proble­
matiche sotto l’aspetto sessuale» e qualcuna manifestava «una
certa brutalità». Quando le vengono sottoposte fotografìe di vari
personaggi, riconosce Pietro Pacciani, Mario Vanni, Giancarlo
Lotti, il farmacista Francesco Calamandrei, Gian Eugenio Jacchia
e lo stesso Narducci, che le fu presentato come «un medico di
Prato»; «Era il più giovane di quella compagnia, vestiva elegante­
mente, parlava correttamente l’italiano senza alcuna inflessione
particolare, aveva una catena a maglie larghe con una medaglia
grande come le vecchie cento lire, entrambi d’oro, alto circa un
metro e ottanta, fisico sportivo. Lo sentii parlare di un suo viaggio
in Thailandia e di sport acquatici».
Con Narducci la Pellecchia ebbe anche un rapporto sessuale,
durante il quale «mi diede l’impressione di avere dei problemi.
Non fu violento, ma nell’amplesso fu brutale e aggressivo, in con­
trasto con il tipo di persona che sembrava esteriormente. Forse
aveva qualche problema fisico, ma non saprei spiegare quali».
Di Narducci parla un’altra prostituta, Gabriella Ghiribelli, che
dice di aver partecipato a uno di questi «festini» insieme a un
orafo, a un medico specialista in malattie tropicali, Achille Serto­
li, nato a Volterra ma che a San Casciano aveva uno studio, e un
altro medico, svizzero, non identificato con precisione, che
avrebbe ospitato nella sua villa, «La Sfacciata», vicinissim a al
luogo in cui nel 1983 furono uccisi i due ragazzi tedeschi.
La Ghiribelli racconta anche di altri incontri che si sarebbero
svolti a casa del mago Salvatore Indovino e ai quali avrebbero par­
tecipato bambini. Inoltre dice di «aver fatto sesso col dottore di Pe­
rugia, quattro o cinque volte». A suo dire il medico «aveva un com­
portamento ambiguo, nel senso che si eccitava solo quando me lo
appoggiava al sedere. In questo ultimo caso arrivava subito all’or­
gasmo». Si vedevano, dice, nei fine settimana in una stanza dell’al­
bergo di San Casciano e per ogni prestazione le dava trecentomila
lire. Ma lo ricorda anche in compagnia di un americano di colore,
che si rivolgeva a Lotti per avere delle donne._Soprannominato
«Ulisse», il suo vero nome era Mario Robert Parker, nato nel 1954
nel New Jersey da un cittadino statunitense che lavorava a Camp
Darby, la base militare Usa tra Pisa e Livorno, e da una livornese.
Parker è morto di Aids nel 19 9 6 a Pisa all’età di 42 anni.
In un interrogatorio del 17 gennaio 2005 Mario Vanni dichia­
ra che Calamandrei e un suo amico, che riconosce in foto come
Narducci, frequentavano un giro di prostitute insiem e a lui, Pac­
ciani e Lotti.
Anche Lorenzo Nesi, che frequenta la stessa compagnia, rico­
nosce senza esitazioni Narducci, visto più di una volta in compa­
gnia di Calamandrei:
«Aveva un fisico atletico, ben curato, mi era capitato di veder­
lo con una borsa con le racchette da tennis, probabilmente gioca­
va in qualche campo privato. Correva voce fosse gay, lo vidi anche
insieme a un tipo un po’ strano, un omone che vestiva stravagan­
te e con una camminata tipica da gay, con una macchina grande,
Mercedes o Jaguar, e che abitava anche lui vicino al paese».
L’uomo viene identificato in Nathan Vitta, nato a Gerusalem­
me, titolare di varie società nei settori dell’abbigliamento e immo­
biliare, residente a San Casciano presso la tenuta «Il Poggiale»,
l’unica nella zona a possedere all’epoca campi da tennis privati.
Fernando Pucci, amico del Lotti, riconosce le foto di Narducci
e Vitta, descrivendo il medico perugino come «alto e magro, un
tipo finocchino» e il secondo come «un omone che stava bene coi
soldi e che aveva una bella casa in zona».
Altra testimonianza quella di Filippa Nicoletti, compagna del
mago Salvatore Indovino, che ricorda di aver cenato in un risto­
rante di Firenze, «La Lampara», insieme a Narducci e ad altre
persone. Il medico le era stato presentato come un fotografo e re­
gista: «Era una persona diversa da quelle che frequentavo, per
ceto sociale e per i modi di comportamento molto fini, gentili con
un sorriso che mi rimase impresso; probabilmente ci sono anda­
ta a letto ma non me lo ricordo. Era esuberante e un po’ vanitoso,
mi sembra disse che abitava a Prato e che era calabrese, ma era
evidente che mentiva, la parlata era molto diversa».
A riconoscere Narducci è anche il cognato di Calamandrei,
Pietro Ciulli: «Una persona molto distinta, quasi un conte».
Tamara Martellini, ex moglie dell’architetto Gianni Ceccatelli,
amico di Calamandrei, lo incontrò un giorno nella farmacia di
quest’ultimo: «Nell’occasione aveva gli stivali di equitazione, era
appoggiato al bancone e parlava con Calamandrei. Era un giova­
ne molto fine, delicato, fisico da sportivo, piuttosto aristocratico,
aveva una Lacoste blu».
Urialtra testimone, la francese Jacqueline Melvetu, racconta
invece ai magistrati che nella notte tra il 30 e il 31 agosto 1985,
stava dormendo in un giardino nei pressi di San Miniato dentro
una tenda insieme a un egiziano conosciuto da poco a Firenze.
Qualcuno improvvisamente aprì il suo sacco a pelo, tanto che la
donna iniziò a urlare e a scappare. Arrivata alla strada riuscì a fer­
mare una macchina con due uomini, riconosciuti più tardi, tra­
mite foto, in Narducci e Calamandrei.
Francesco Calamandrei, a tutfoggi indagato a Firenze per as­
sociazione a delinquere e concorso in omicidio, sarebbe insom ­
ma il vero referente di Narducci. Ecco il racconto di Rossana Ma-
scia, che ebbe con il farmacista una relazione durata un paio
d’anni: «Un giorno mi disse che negli anni Ottanta prese la pisto­
la di suo padre che custodiva nella casa di San Casciano, sita
sopra la farmacia, si portò a Punta Ala, prese la sua barca e in
compagnia dell’architetto Ceccatelli, andò al largo e buttò in
mare la pistola, “per non avere noie burocratiche” , disse».
Ceccatelli confermerà dicendo però di non essere stato pre­
sente e di averlo solo raccontato. Ma anche lui riconosce in foto
Narducci, per «averlo visto a Viareggio insieme a Calamandrei in
occasione della visita di una barca che il farmacista voleva acqui­
stare, credo nel 1983 o 1984».
Narducci era stato visto a San Casciano con altri tre personag­
gi. Il primo è il medico di malattie tropicali Alessio Sertoli. Quan­
do la moglie viene ascoltata dagli inquirenti, il giorno dopo lui la
chiama e, senza sapere di essere intercettato dagli uomini del
Gides, le chiede il motivo di quella convocazione. Lei cerca di
tranquillizzarlo, gli dice che volevano sapere delle frequentazio­
ni di Calamandrei e poi esclama: «Meno male, io non ho detto...
niente... che tu mi hai detto di quel mago di San Casciano...
Zitta!... Non ho detto nulla per carità».
Sertoli, preoccupato, dopo commenta: «Come hanno fatto ad
arrivare a lui... quindi stanno indagando su di me... anche su di
me stanno... sono arrivati a questo punto, sono arrivati».
Il secondo è un altro medico, ortopedico al Cto, pregiudicato
per abuso su minori, si chiama Gian Eugenio Jacchia. Di «Gian-
gi», così lo chiamavano gli amici, parla Giancarla Sogaro, zia di
Francesca Spagnoli, moglie di Narducci:
«Aveva una casa a Porto Santo Stefano e uno studio a Orbetel-
lo, in via del Rosso, ci si frequentava d’estate e tutti lo ritenevamo
un buon medico. Rimanemmo molto male quando venimmo a
sapere del suo coinvolgimento in un giro di pedofilia e soprattut­
to quando sapemmo che aveva patteggiato la condanna».
Francesco Narducci ha incontrato Jacchia anche prima di scom­
parire, durante le vacanze estive in Toscana. Lo dice agli inquirenti
Giovanni Spagnoli rispondendo a una loro precisa domanda:
«Un giorno, mi pare nell’estate del 1983, tutti si radunarono
nella nostra barca. Qualcuno di noi notò che Francesco si intrat­
tenne a lungo con il professor Jacchia. Parlavano fitto fìtto tra
loro. È durata circa mezz’ora. Anche un famoso ortopedico roma­
no notò lo strano incontro, tanto che qualcuno commentò: ma
che avranno da dirsi quei due?».
Un terzo personaggio, che risulterebbe conoscere Narducci, è
l’avvocato Giuseppe Jommi, residente a Bagno a Ripoli. Ne parla
una signora brasiliana, Jorge Emilia Maria, Alves, nata a Petropo-
lis ma residente a Firenze, nella prima deposizione nel 19 9 0 e in
una, spontanea, nel 20 0 1. Con Jommi aveva avuto in passato una
lunga relazione ed è a lei che la domenica 8 settembre 1985,
prima ancora che vengano scoperti i cadaveri dei due ragazzi
francesi, l’avvocato dice: «Sono un mostro».
La donna sul momento non lega i due episodi e solo più tardi
inizierà a collegare ricordi e date. Ad esempio le viene in mente che
Jommi andava spesso a San Casciano a trovare suoi amici e una
volta era tornato a casa alle quattro del mattino, tutto impolverato,
giustificandosi dicendo che era andato a piedi in un bosco lì vicino.
Anche avvalendosi di un’agenzia privata di investigazioni la
Alves arriva a conoscere un po’ meglio la cerchia di amicizie del
compagno, come quel certo Francesco di Foligno, come lui le aveva
sempre riferito, che scopre essere Narducci, oltretutto sospettato di
avere a che fare con i delitti seriali del «mostro» di Firenze.
La donna viene inoltre a sapere che il misterioso amico appar­
teneva a una famiglia importante di Perugia, che era stato trovato
morto un mese dopo l’ultimo delitto, che aveva studiato negli Usa
ma, soprattutto, conferma che lui e Jommi si conoscevano e si
frequentavano: «Aveva all’epoca una Citroen Pallas di colore ver­
dino, che qualche volta vidi guidare dallo stesso Jommi».
L’avvocato si è sempre difeso smentendo qualsiasi conoscen­
za con Narducci.

GUERRA TRA PROCURE

Le indagini della Procura perugina in poco tempo fanno salta­


re il tappo di un pentolone che da più parti si è cercato di tenere
ben sigillato. E fin dall’inizio l’inchiesta sulla morte di Francesco
Narducci si «collega» con quella fiorentina sull’individuazione
dei mandanti dei delitti seriali del «mostro».
Colleganza di indagini significa, innanzitutto, che Firenze e
Perugia si avvalgono, per le rispettive indagini, del Gides, organo
ad hoc costituito dal ministero degli Interni nell’aprile 2003 e gui­
dato dall’ex dirigente della Squadra Mobile della Questura fioren­
tina, Michele Giuttari.
Nel 2005, però, questa «collaborazione» si interrom pe, con la
Procura fiorentina che solleva presso la Cassazione un conflitto
di competenze. È il via a un vero e proprio conflitto, combattuto a
colpi di denunce, perizie, perquisizioni, difficile anche solo da ri­
percorrere nelle sue innumerevoli puntate, e difficilissimo da se­
guire per un lettore normale. Proviamo a riassumerlo nelle sue
tappe principali.
Al centro c’è uriinformativa del Gides trasmessa alla Procura
di Perugia contenente la trascrizione di un dialogo tra Giuttari e il
Pm fiorentino Paolo Canessa - registrazione realizzata da Giutta­
ri in modo, a suo dire, fortuito, nel maggio 200 2, in un bar di
piazza della Repubblica a Firenze - dove, tra le altre cose, si parla
del parere negativo del procuratore capo fiorentino Ubaldo Nan-
nucci alla richiesta di delega delle indagini su Narducci, form ula­
ta dal Gides. E proprio riferendosi a Nannucci, uno dei due inter­
locutori (Canessa, per il Gides) afferma:
«Hai capito! Un uomo libero non ti delude... questo non è li­
bero... questa è la mia amarezza».
La Procura perugina, che stava già lavorando per accertare gli
ostacoli incontrati dall’indagine, apre così un nuovo procedimen­
to e trasmette gli atti alla Procura di Genova, competente per i
magistrati del distretto toscano.
Canessa, ai magistrati genovesi Giancarlo Pellegrino e Fran­
cesco Pinto, conferma che ha parlato di «compagni di scuola» al­
ludendo al fatto che uno dei sospettati - l’avvocato Jom m i - era
compagno di università sia di Vigna che di Nannucci, ma nega di
aver ricevuto pressioni e soprattutto nega di riconoscersi nella
frase che gli viene attribuita:
«La registrazione è disturbata, non mi sembra la mia voce e
neppure il tipo di espressione mi appartiene».
Il dottor Pinto apre un fascicolo a carico di ignoti, ipotizzando
una possibile manipolazione della cassetta e una conseguente al­
terazione del verbale di trascrizione. E incarica il consulente tec­
nico Lorenzo Gobbi di compiere accertamenti sulla cassetta con­
servata dallo stesso Mignini, il quale - nel gennaio 200 6 - decide
di effettuare un analogo accertamento sulla cassetta originale, af­
fidandolo al capitano dei Carabinieri Claudio Ciampini, coman­
dante del nucleo fonico del Ris.
A questo punto, quindi, ci sono due perizie. Solo che il consu­
lente Gobbi la esegue prendendo solo il saggio fonico di Canessa,
e al telefono, invece che nel canale ambientale originale, cioè al­
l’aperto, com’era nella registrazione. E conclude:
«Il modo di esprimere alcune vocali, lascia intendere che a
pronunciare la frase incriminata sia stato Giuttari».
Nella consulenza Ciampini, invece, si procede all’esame ge­
nerale linguistico-fonetico delle due voci: quella di Giuttari ha un
timbro baritonale, tipica dell’Italia del sud, alta intensità, raddop­
pio della plosiva «b» (impossibbile... indimostrabbile...), om is­
sione della consonante «r» (pallavi... verificallo...); quella di Ca-
nessa ha timbro basso, tipica dell’Italia centrale, intensità media,
pronuncia della «c» in modalità tipica fiorentina. Non vengono
rilevate manipolazione alla cassetta e si arriva alla conclusione
opposta: la frase incriminata appartiene a Canessa.
Il 19 maggio 20 0 6 Mignini interroga Gobbi, che dichiara la
«non definitività» dei suoi accertamenti (ma la perizia era stata
già depositata e trasmessa), e quindi apre un procedimento nei
suoi confronti per false dichiarazioni al Pubblico ministero.
Tra la Procura di Genova e Giuttari e i suoi assistenti è conflit­
to aperto, che si combatte da una parte con il rinvio a giudizio per
falsità ideologica del verbale di trascrizione, dall’altra con contro­
denunce per le modalità di svolgimento delle indagini e ingiusti­
ficato esercizio dell’azione penale, più altre azioni contro Canes­
sa a Genova e Gobbi a Perugia per falsità rese al Pm.
Il 17 ottobre la Procura di Firenze fa perquisire uffici e abita­
zioni di Giuttari e Mignini. Al Pm viene contestato il favoreggia­
mento nei confronti di Giuttari e l’abuso, svolgendo di fatto un’at­
tività di indagine parallela (la consulenza del capitano del Ris e i
verbali dei periti Gobbi e Pisani), definita estranea a quella sulla
morte di Narducci.
Nel novembre 20 0 6 il Gup di Genova Roberto Fenizia dichia­
ra il non luogo a procedere contro Giuttari e i suoi uomini «per­
ché il fatto non sussiste».
Sempre nel novembre 20 0 6 il tribunale del riesame annulla i
sequestri operati dalla Procura di Firenze per difetto del Jumus
del reato di abuso contestato. Di conseguenza, sia Giuttari che
Mignini presentano denunce-querele per concorso in diffama­
zione a mezzo stampa e rivelazione del segreto investigativo.
Questa, in sintesi, la ricostruzione dei principali passaggi di
un conflitto in atto tra due (o tre) procure, sorvolando su altri pas­
saggi minori di cui si occupano e occuperanno un gran numero
di avvocati.
A stabilire torti e ragioni, ci penseranno i giudici dei vari gradi
di giudizio.
Colpisce, semmai, l’eccesso di «dinamismo» e «suscettibili­
tà», da parte di tutti gli attori, intorno alla coda di un fatto, che è
pur sempre accaduto ben 22 anni fa.
EPILOGO

Si chiude qui il racconto dell’inchiesta perugina sulla morte


del dottor Francesco Narducci, che ha segnato una svolta anche
nell'altra inchiesta, quella ben più nota sul «mostro» di Firenze.
Una svolta che forse porterà ad altri clamorosi sviluppi.
Le stesse manovre giudiziarie descritte nel precedente para­
grafo, troppo insistite e inusuali per essere considerate solo il
frutto di una «semplice» rivalità professionale - di un fatto che è
appunto accaduto oltre venti anni fa - la dicono lunga sull’attuali­
tà dell’intera storia.
Al momento è impossibile sapere quali altre carte abbia in
mano la Procura di Perugia, che continua a indagare a trecento-
sessanta gradi e senza risparmio di energie e mezzi. È però facile
intuire la motivazione di fondo di questa frenetica attività: cerca­
re di scoprire, se ci sono state, quelle ulteriori scomode verità e
quei coinvolgimenti eccellenti per proteggere i quali non si è esi­
tato a trasformare il più clamoroso fatto italiano di cronaca nera
del Dopoguerra in una storia infinita, per la quale a pagare, fino­
ra, sono stati personaggi di secondo piano, come Pietro Pacciani
e i «compagni di merende».
Solo allora, probabilmente, si potrà finalmente archiviare la
vicenda dei duplici omicidi che hanno insanguinato la Toscana
dal 19 6 8 al 1985, e far sì che quello del «mostro» - o forse dei
«mostri» e non solo di Firenze - non debba essere più considera­
to uno dei tanti, troppi, misteri di questo Paese.
GLI OMICIDI

Mercoledì 21 agosto 1968 mezzanotte circa, Signa.


Barbara Locci, 32 anni e Antonio Lo Bianco, 2 9 anni; l’arma è
V it t i m e :
una pistola Beretta calibro 2 2 , proiettili Winchester serie II.
F e r it e d i l u i: 4 c o lp i al p o lm o n e .
F e r it e di l e i: 4 c o lp i a lla s p a lla e al c u o re .
D i n a m i c a : i primi colpi sono sparati attraverso il finestrino posterio­
re sinistro aperto, poi l’assassino infila la mano nell’abitacolo per spa­
rare gli altri colpi. Secondo la perizia Barbara Locci era distesa sopra
l’uomo. L’assassino sistema i due corpi separandoli e ricompone le
vesti di lei.
N o t e : all'interno dell’auto viene trovato un borsellino da donna e un
fazzoletto. Che fine ha fatto la borsa? Stefano Mele, marito della vitti­
ma, si autoaccusa dell’omicidio ed è condannato a 14 anni di reclusio­
ne. Ogni tanto tira in ballo qualche complice che regolarmente non
ha niente a che vedere con l’omicidio.

Sabato 14 settembre 1974 mezzanotte circa, Borgo San Lorenzo.


V ittim e : Stefania Pettini, 18 anni, e Pasquale Gentilcore, 1 9 anni; l’ar­
ma è una pistola Beretta calibro 22, proiettili Winchester serie II e
arma da taglio.
F e r i t e d i l u i : 5 colpi alla spalla sinistra e al cuore, 10 ferite da taglio.
F e r i t e d i l e i : 4 colpi all’addome e alla gamba, 97 ferite da taglio nella
zona toracica e pubica; introduzione nella vagina di un tralcio di vite.
D in a m i c a : il primo colpo è esploso attraverso il finestrino di guida e
raggiunge Pasquale al cuore. Dopo aver sparato gli altri colpi il mania­
co trascina fuori il corpo di Stefania e infierisce con un pugnale al
seno e al pube.
N o t e : la borsetta di Stefania è aperta e tutti gli oggetti sono sparpagliati
sull’erba. Il giorno prima del delitto Stefania, visibilmente sconvolta,
stava riferendo a uriamica un incontro che l’aveva terrorizzata ma il rac­
conto venne interrotto dall’arrivo di una terza persona. Qualche anno
dopo la sua tomba al cimitero di Borgo San Lorenzo fu manomessa.

Sabato 6 giugnoi98i, 23,45 circa>Scandicci.


V it t im e : Carmela Di Nuccio, 2 1 anni, e Giovanni Foggi, 3 0 anni; l’ar­
ma è una pistola Beretta calibro 2 2 , proiettili Winchester serie II e
arma da taglio.
F e r i t e d i l u i : 3 colpi al cuore, polmoni e testa, 3 pugnalate alla schie­
na e tagli al collo.
F e rite di l e i : 5 c o lp i al c u o re , b ra c c ia , te sta e co llo ; p ic c o le fe rite ai
s e n i, u n a p u g n a la ta al b a ss o v e n tre e a s p o rta z io n e d e l p u b e c o n tre
tagli n etti.
D i n a m i c a : l’assassino spara attraverso il finestrino di guida, poi in­
troduce il braccio nell’abitacolo e uccide la ragazza. Trascina il corpo
per 15 metri. Ricompone il corpo dell’uomo sul sedile.
N o t e : la b o rs e tta d e lla r a g a z z a è a p e rt a e gli o g g e tt i s p a r p a g lia ti.

Giovedì 22 ottobre 1981 23.30 circa, Cadenzano.


V ittim e : Susanna Cambi, 24 anni, e Stefano Baldi, 26 anni; l’arma è
una pistola calibro 22, proiettili Winchester serie II e arma da taglio.
F e r i t e d i l u i : 5 colpi alla spalla sinistra, al cuore e ai polmoni; 3 coltel­
late alla schiena.
F e rite di lei: 5 c o lp i a l s e n o e a l to race ; 2 c o lte lla te alla s c h ie n a e fe r i­
te in to rn o a i s e n i; a s p o rta z io n e d e l p u b e c o n tre ta g li n etti.
D i n a m i c a : l’assassino spara attraverso il finestrino di guida, poi in­
troduce il braccio e uccide la ragazza. Trascina fuori entrambi i corpi
che ricompone incrociando loro le braccia sul petto. Ricopre la ragaz­
za con un golf di lana.
N o t e : sono segnalati due uomini che viaggiavano con un’Alfa Romeo,
uno di questi, su un’Alfa rossa, ha circa 40 anni e desta sospetti. In base
a queste segnalazioni viene fatto il primo identikit. Prende corpo l’ipo­
tesi che il maniaco giri con una luce sulla testa per poter avere le mani
libere. Prima che il delitto fosse scoperto qualcuno telefona alla madre
di Susanna che da pochissimi giorni abita presso la sorella. Dice di
voler parlare solo con la mamma della ragazza e con nessun altro. Uno
dei soliti guasti sulla linea fa interrompere la comunicazione. L’uomo
aveva una voce educata, un po’ tremante. Con grande probabilità si
trattava dell’assassino che voleva essere il primo a dirle della figlia
morta. Questo conferma l’ipotesi che l’omicida conosceva Susanna o
che, comunque, da tempo ne seguiva le mosse. Il telefono era infatti
intestato alla sorella della madre e solo gli amici intimi sapevano del
trasloco.

Sabato 19 giugno 1982 23.45 circa>Montespertoli.


V it t i m e : Antonella Migliorini, 19 anni, e Antonio Mainardi, 22 anni;
l’arma è una pistola calibro 22, proiettili Winchester serie IL
F e r i t e d i l u i : 4 colpi alla spalla dietro l’orecchio e alla testa.
F e r it e d i l e i: 3 c o lp i a lla testa.
un colpo è esploso attraverso il finestrino di guida ma non
D in a m ica :
risulta mortale, così Mainardi riesce a mettere in moto la macchina.
Sfortunatamente il freno a mano gli impedisce di accelerare e con­
sente all’assassino di esplodere altri colpi, questa volta mortali. Due
colpi sono sparati contro i fari della macchina.
N o t e : a n c h e q u e s t a volta i c o r p i v e n g o n o r i c o m p o s t i, le p o r ti e r e c h i u ­
s e e le c h ia v i gettate n e lla v i c i n a s carp ata.
Venerdì 9 settembre 1983 mezzanotte circa, Galluzzo.
Horst Meyer, 2 4 anni, e Uwe Rusch Sens, 2 4 anni;
V ittim e :
l’arma è una pistola calibro 22, proiettili Winchester serie II.
F e rite di H o r s t : 3 c o lp i a lla s c h ie n a .
F e r it e di U w e : 4 c o lp i d i c u i u n o alla testa.
D i n a m i c a : il prim o colpo è esploso attraverso il finestrino oscurato
del furgone, l’assassino quindi spara alla cieca ad altezza d’uomo.
M eyer m uore. L’assassino entra nel veicolo dall’altro lato e colpisce
Rusch.
N o t e : q u e s t a volta l’a s s a s s i n o n o n to cca i d u e ca d a v e ri, m a fa a p e z z i
u n a riv is ta p o r n o g r a f i c a p e r o m o s e s s u a l i .

Domenica 29 luglio 1984 22.40 circa, Vicchio di Mugello.


V ittim e : Pia Rontini, 1 8 anni, e Claudio Stefanacci, 2 2 anni; l’arma è
una pistola calibro 22, proiettili Winchester serie II e arma da taglio.
F e r i t e d i l u i : 4 colpi al torace e all’orecchio destro, 10 coltellate alla
schiena, numerose ferite ai genitali.
F e r it e di l e i: 3 c o lp i a lla s c h ie n a , 2 c o lte lla te al c o llo , a s p o rta z io n e to ­
ta le d e l p u b e e d e lla m a m m e lla s in is tra .
D in am ica: il primo colpo viene esploso attraverso il finestrino, que­
sta volta lato passeggero. L’assassino estrae il corpo della ragazza, le
toglie maglietta e reggiseno che però restano impigliati nel braccio.
N o t e : il portafoglio di Stefanacci è forato da un proiettile che non cor­
risponde ai fori sull’auto e neppure con le ferite sul corpo.

Domenica 8 settembre 1985 ora incerta, San Casciano Val di Pesa -


bosco di Scopeti.
V i t t i m e : Nadine Mauriot, 3 6 anni, e Jean-Michel Kravechvili, 25
anni; l’arma è una pistola calibro 22, proiettili Winchester serie II e
arma da taglio.
F e r i t e d i l u i : numero imprecisato di colpi di arma da fuoco.
F e r i t e d i l e i : numero imprecisato di colpi di arma da fuoco, asporta­
zione totale del pube e della mammella sinistra.
D i n a m i c a : i due stanno facendo l’amore dentro la loro tenda da cam­
peggio e sono nudi. Il maniaco squarcia la tela della tenda e spara. Il
giovane tenta di fuggire e di nascondersi fra i rovi, ma l’assassino lo
raggiunge e gli spara al cuore. Probabilmente è costretto a lottare con
la vittima.
N o t e : il particolare chela donna sia stata trovata con le braccia strette al
petto fa sospettare che l’asportazione del seno sia avvenuta quando era
ancora viva. Per la prima volta l’assassino si preoccupa di occultare le
vittime con sacchi di immondizia. L’omicida invierà un frammento del
macabro trofeo al giudice Silvia Della Monica, l’unico magistrato
donna che si sia interessato del caso.
LE FONTI

Relazione di consulenza medicolegale (procedimento n.17869/2001


RG Mod 44), depositata presso la segreteria della Procura della Re­
pubblica di Perugia il 16 dicembre 2002 (incaricato: dottoressa Ga­
briella Carlesi).

Relazione di consulenza medicolegale in tema di metodiche identifì-


cative (procedimento n.17869/2001 RG Mod 44), depositata presso
la segreteria della Procura della Repubblica di Perugia il 16 dicembre
2002 (incaricato: dottoressa Gabriella Carlesi).

Relazione di consulenza medicolegale in tema di metodiche identifi-


cative, depositata presso la segreteria della Procura della Repubblica
di Perugia il 25 giugno 2004 (incaricato: dottoressa Gabriella Carlesi).

Regione Carabinieri Umbria. Comando Provinciale di Perugia. Re­


parto Operativo. Verbale di sommarie informazioni rese da Grilli
Euro l'8 novembre 2003.

Regione Carabinieri Umbria. Comando Provinciale di Perugia. Repar­


to Operativo. Verbale di sommarie informazioni rese ai sensi dell’art
351 c.p.p. del 27 gennaio 2004, persona ascoltata: Cataluffi Emilia.

Documento di richiesta per l’applicazione di misure cautelari


(artt.273 e seg. c.p.p.) nei confronti dell’aw. Brizioli Alfredo, del dott.
Trio Francesco e del col. Di Carlo Francesco redatto dal Pm Giuliano
Mignini in data 11 ottobre 2004.

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia. Dichiarazio­


ne d’appello del Pubblico Ministero del 15 novembre 2004 per la revo­
ca dell’ordinanza del Gip e accogliere la richiesta di misura cautelare.

Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Grup­


po investigativo Delitti Seriali, Verbale di trascrizione di intercettazio­
ne telefonica avvenuta in data 16 aprile 2005, decreto n.320/05, pro­
gressivo 182.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo + 17 -
Udienza del giorno 4 novembre 2005.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo + 17 -
Udienza del giorno 18 novembre 2005.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo + 17 -
Udienza del giorno 2 dicembre 2005.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo + 17 -
Udienza del giorno 16 dicembre 2005.

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia. Verbale di as­


sunzione di informazioni del 12 gennaio 2006, persona informata
dei fatti: Cataluffi Emilia.

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia. Verbale di as­


sunzione di informazioni del 17 gennaio 2006, persona informata
dei fatti: Cataluffi Emilia.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo +17 Udien­
za del giorno 20 gennaio 2006, testimone Ornella Servadio e Fernan­
do Benedetti.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo + 17 -
Udienza del giorno 3 febbraio 2006, testimone Pietro Fioravanti.

Tribunale di Perugia Ufficio del Giudice per le indagini preliminari


verbale di incidente probatorio a carico di: Brizioli Alfredo + 17 -
Udienza del giorno 17 febbraio 2006.

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia. Verbale di as­


sunzione di informazioni del 4 marzo 2006, persona informata dei
fatti: Agostini Ganucci Cancellieri Amadore.

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia. Verbale di as­


sunzione di informazioni del 17 marzo 2006, persona informata dei
fatti: Cataluffi Emilia.

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia. Verbale di as­


sunzione di informazioni del 9 maggio 2006, persona informata dei
fatti: Giovannoni Roberto.

Tribunale di Genova. Ufficio del giudice per le indagini preliminari,


n.5420/06 R.G. notizie di reato - n. 6434/06 R.G. Gip. Sentenza nei
confronti di Giuttari Michele, Castelli Michelangelo, Arena Davide
Giuseppe del 9 novembre 2006 e depositata in Cancelleria il 20 no­
vembre 2006.

Tribunale distrettuale del riesam e di Firenze, R.G. 10 3 / 0 6 / 3 2 4 ^ . Fir.-


R.G. 11019/06 r.g.n. Procura Tribunale di Firenze. Ordinanza del 10
novembre 2006, depositata in Cancelleria il 13 novembre 2006.

Procura della Repubblica di Genova. Verbale di sommarie informa­


zioni testimoniali rese dal Pm Paolo Canessa, del 21 novembre 2005.

Procura della Repubblica di Genova. Consulenza tecnico-fonica nel


procedimento penale nr. 2782/2005, r.g.n.r. Mod. 21, realizzata dal ca­
pitano dei Carabinieri Claudio Ciampini, depositata il 23 marzo 2006.

Tribunale del Riesame di Firenze. Ordinanza depositata il 13 novem­


bre 2006.

Relazione tecnica del Ris di Parma, 22 maggio 2007.

Relazione investigativa del Gides, depositata il 19 novembre 2003.


PERSONAGGI

A g a b itin i C esare,custode dell'isola di Polvese, amico e collega del custo­


de della villa dei Narducci a San Feliciano.
odontoiatra, autore di alcune indiscrezioni sul conto di
A g o s ta n i E g le ,
Francesco Narducci.
A v e llin i M auro,capocronista de II Corriere dell'Umbria, minacciato
di morte a causa di alcuni articoli che mettevano in relazione Francesco
Narducci con i «feticci» asportati alle vittime del mostro di Firenze.
A versa Franco, medico, collega di Francesco Narducci e tra gli ultimi a
vederlo in vita.
B a c c i M a u r o , perito di parte Spagnoli durante gli esami effettuati sulle
spoglie riesumate di Fancesco Narducci.
B a i o c c o U g o , pescatore, avvista per primo assieme al cognato il presunto
corpo di Francesco Narducci.
B a l d a s s a r r i G i o v a n n a , infermiera all’ospedale di Foligno identifica in
Bruno Bordighini l'uomo che invia il misterioso mazzo difiori a casa Nar­
ducci.
B a m b i n i G i u l i a n o , maresciallo dei Carabinieri, comandante del nucleo
investigativo di Perugia.
B a r a t t a M i c h e l e , fidanzato di Elisbetta Narducci.
B a r b e t t a G a b r i e l e , socio della ditta di pompe funebri «Passeri», parte­
cipa alla vestizione del presunto cadavere di Francesco Narducci.
B a r o n e F r a n c e s c a , medico legale di turno il giorno del ritrovamento non
viene convocata per effettuare i rilievi di rito sul presunto cadavere ripesca­
to di Francesco Narducci.
autista del presidente del tribunale di Perugia, Raf­
B e c c a c c io li San te,
faele Zampa, deceduto nel 1997.
B e l l u c c i M a r i o , buon amico dellefamiglie Spagnoli e Narducci, iscritto
alla loggia massonica «Bellucci» intitolata al padre, la più importante di
Perugia.
B e n e d e t t i F e r d i n a n d o , geometra delle Ferrovie dello Stato, profondo
conoscitore della massoneria perugina.
B e r r e t t in i Laura, istitutrice di alcune dellefiglie di Gianni Spagnoli.
B o n a F r a n c h in i M aria, moglie di Gianni Spagnoli e madre di Francesca.
infermiere e sindacalista,invia il misterioso mazzo
B o rd ig h in i B ru n o ,
di fiori a casa Narducci.
B r i c c a P i e r o maresciallo della Polizia provinciale che sulla sua imbar­
cazione ospita i familiari del medico e altri personaggi, tutti impegnati
nelle ricerche.
B r i z i o l i A l f r e d o , buon amico di Francesco Narduci, si iscriverà all'or­
dine degli avvocati per assumere la tutela legale dellafamiglia Narducci.
B ru n i Lorenzo, maresciallo dei Carabinieri e comandante della stazio­
ne di Magione.
C a c c h i Emma, balia di molti esponenti della famiglia Spagnoli e zia di
Emilia Cataluffi.
C a l a m a n d r e i F r a n c e s c o , farmacista
di San Casciano Val di Pesa, so­
spettato di essere uno dei mandanti dei duplici omicidifiorentini.
C a lig in i A n g ela , commessa di articoli sportivi in un negozio di Perugia.
C an essa P a o lo , sostituto procuratore di Firenze tuttora titolare dell’in­
chiesta sui delitti del mostro di Firenze.
C a p a r v i C l a u d i o , avvocato, riferisce di alcune confidenze ricevute dal
professor Ferruccio Farroni.
C a p i t a n u c c i S t e f a n o , mago, che dà a Elisabetta Narducci alcuni consi­
gli per «liberare» l’anima delfratello Francesco.
coadiuva il professor Giovanni Pierucci ed esegue al­
C a rle si G a b rie lla ,
cune perizie specifiche in occasione della riesumazione dei resti di France­
sco Narducci avvenuta nel 2002.
medico, dirà di aver avuto l’impressione che il collega
C assetta C la u d io ,
Francesco Narducci, il giorno della scomparsa avrebbe voluto confidare
qualcosa.
C a t a l u f f i E m ilia , impiegata all’ufficio Anagrafe di Perugia.
C e c c a re lli A lb e rto , padre di Giovanna, moglie di Pierluca Narducci.
C e c c a r e lli G io van n a, moglie di Pierluca Narducci, fratello di Francesco.
raconta di alcuni volantini fatti circolare a Foligno
C i a f f a l o n i L etizia,
sul conto di Francesco Narducci.
C i o n i M a u r o , responsabile del nucleo elicotteri dei Vigili del Fuoco di
Arezzo, sul cui rapporto è scritto che il corpo affiorante del presunto Fran­
cesco Narducci sarebbe stato avvistato in un orario diverso da quello ripor­
tato nella versione ufficiale.
C i u l l i P i e t r o , cognato di Francesco Calamandrei, riconosce in fotogra­
fia Francesco Narducci.
C o lle t t i A n to n io , comandante del nucleo operativo dei Carabinieri di
Perugia.
C o r t o n a D a n i e l a , sarebbe a conoscenza di una casa di proprietà dei
Narducci in Toscana.

C r i s i F r a n c e s c o , avvocato, legale di Francesca Spagnoli.

C u c c h i B a r b a r a , tecnico del Dipartimento di medicina legale di Pavia.

D e a n F a b i o , avvocato, legale di Ugo Narducci.

D e B l a s i A n t o n i o , maresciallo dei Carabinieri che raccoglie una confi­


denza sulla presenza di «feticci» in un appartamento fiorentino di France­
sco Narducci

De M a s i M i n o , giornalista de II Corriere dell’ Um bria.

D e M a t t i a S a l v a t o r e , vicebrigadiere dei Carabinieri, avrebbe partecipato


a una perquisizione domiciliare in un appartamentofiorentino di Francesco
Narducci alla ricerca diparti anatomiche umane.

D e M e g n i A u g u s t o , all’epoca esponente di spicco della massoneria peru­


gina.

D e S t e f a n o G e n n a r o , giornalista,

D i C a r l o F r a n c e s c o , capitano dei Carabinieri e comandante della


Compagnia di Perugia.

D o l c i a m i G i o v a n n i , pescatore, forse ha visto Francesco Narducci sulla


sua barca prim a della scomparsa.

F a b r o n i F r a n c o , titolare della cattedra di Medicina Legale dell'Universi­


tà di Perugia, conferma alcune incongruenze nella procedura seguita in
occasione del ritrovamento del presunto cadavere di Francesco Narducci e
nelle condizioni del corpo.

F a r r o n i F e r r u c c i o , gastroenterologo, amico intimo di Francesco, rac­


conta di aver accompagnato Pierluca dal "sensitivo” che avrebbe predetto il
luogo del ritrovamento del corpo dello scomparso. E ’ tra coloro che riconosce­
ranno il presunto corpo del gastroentrologo ripescato dalle acque del lago.

F e r r i G i a n c a r l o , pescatore, ha visto portare Francesco Narducci a riva


in un momento e in un luogo diversi da quelli indicati dagli ati ufficiali.

F i n o A n n a R i t a , moglie di Nazzareno Moretti, titolare dell’impresa di


pompe funebri di Magione.

F i o r a v a n t i P i e t r o , avvocato, difensore di Pietro Pacciani.

F i o r u c c i S t e f a n o , collega di Francesco Narducci si reca alla villa di San


Feliciano per fa r visita al defunto.

F o r t u n i G i u s e p p e , perito di parte Narducci durante gli esami effettuati


sulle spoglie riesumate di Fancesco Narducci.
collega di Francesco Narducci ricorda come nel set­
G a b u r r i M a n u e la ,
tembre 1985 il medico sia tornato dalleferie con vistose lesioni cutanee.
G h ir ib e lli G a b rie lla , prostituta, dice di aver fatto sesso col dottore di
Perugia.
segretario particolare dell'onorevole Giuseppe
G iu lim o n d i F a b riz io ,
Valentino, sottosegretario alla Giustizia nel Governo Berlusconi.
G iu tta r i M ic h e le , responsabile del Gruppo investigativo per i delitti se­
riali.
G r i l l i E u r o , giornalista de II Corriere dell’Umbria, ha sentito parlare
di una lettera scritta da Narducci prima di scomparire.
Ja c c h ia G ian E u g e n io , ortopedico, frequenta gli Spagnoli e conosce
Francesco Narducci.
J o m m i G i u s e p p e , avvocato, si reca spesso a San Casciano Val di Pesa e
frequenta Francesco Narducci.
I n t r o v i g n e M a s s i m o , autoredi una perizia sul telo rinvenuto attorno ai
fianchi della salma riesumata di Francesco Narducci.
L i l l i G i a n l a u r a , infermiera nel reparto di Francesco Narducci ricorda
come nel settembre 1985 il medicofosse nell'impossibilità di compiere alcu­
ni esami a causa di unaferita al braccio.
M a g a r a E m m a , moglie di Luigi Stefanelli, custode della villa dei Narduc­
ci a San Feliciano.
perito di parte Narducci durante gli esami effettua­
M a l l e g n i G iuseppe,
ti sulle spoglie riesumate di Fancesco Narducci.
U g o , proprietario di una officina e una rimessa per barche a
M anci n e lli
San Feliciano sul Trasimeno, partecipa alle ricerche del medico.
M a r t e l l i n i T a m a r a , ex moglie di un amico di Francesco Calamandrei,
fornisce ulteriori riscontri su Mario Robert Parker, Francesco Narducci e lo
steso Calamandrei visti insieme a San Casciano Val di Pesa.
M a sc ia R o ssan a, ebbe una relazione con Francesco Calamandrei
con la moglie riferisce alcune indiscrezioni sul conto di
M azza C la u d io ,
Francesco Narducci all’ investigatore privato Valerio Pasquini.
M azzi L eo n ard o ,ispettore della Polizia di Stato, ricorda che il corpo di
Francesco Narduccifu recuperato dalle acque del lago in un giorno diverso
da quello indicato dagli atti ufficiali.
la dottoressa chefirma il certificato di morte pur
M e n c u c c in i L u cian a,
non avendo partecipato ai rilievi effettuati sul presunto corpo di Fratesco
Narducci, ripescato dal Trasimeno.
M i g n i n i G i u l i a n o , sostituto procuratore di Perugia, tiolare dell’inchista
sulla scomparsa e sulla morte del dottor Francesco Narducci.
M ir ia n o M a ria Teresa, sorella del procuratore capo di Perugia, Nicola
Restivo visita la salma di Francesco Narducci dandone una descrizione as­
solutamente diversa da quella, unanime, di chi vide il corpo ripescato e
adagiato sul molo di Sant’Arcangelo.
M o r e l l i A n t o n i o , amico dellafamiglia Narducci e testimone alle nozze
tra Francesco Narducci e Francesca Spagnoli. E’ tra coloro che riconosce­
ranno il presunto corpo del gastroentrologo ripescato dalle acque del lago.
M o r a r e l l i N a z z a r e n o , titolare della ditta di pompe funebri «Passeri»,
incaricata della vestizione del presunto cadavere di Francesco Narducci.
M o r e t t i N a z z a r e n o , titolare dell'impresa di pompe funebri incaricata
di trasportare il presunto corpo di Francesco Narducci, il cui carro viene di­
rottato verso la villa difamiglia a San Feliciano.
N a rd u cci Fran cesco, gastroenterologo perugino, scomparso l'8 ottobre
1985 sul Trasimeno, il suo presunto corpo è stato ripescato il 13 ottobre.
N a p o l e o n i L u i g i , ispettore della Polizia di Stato inforza presso la Squa­
dra Mobile di Perugia.
N a r d u c c i U g o , noto ginecologo perugino, padre di Francesco, iscritto
alla massoneria di Perugia.
N a rd u cci P ie rlu c a , ginecologo, fratello minore di Francesco.
N a r d u c c i E lisa b e tta , sorella di Francesco.
N i c o l e t t i F ilip p a , compagna del mago Indovino, ha frequentato Fran­
cesco Narducci.
P a cio ia S an d ro , infermiere.
P a r k e r M a r i o R o b e r t , italoamericano, morto di Aids nel 1996, France­
sco Narducci sarebbe stato visto in sua compagnia.
P asq u in i V a le rio , investigatore privato, fece alcune indagini sul conto di
Francesco Narducci.
P a t u m i W a l t e r , perito di parte Narducci durante gli esami effettuati
sulle spoglie riesumate di Fancesco Narducci.
P e l l e c c h i a M a r i a , ha partecipato afestini a luci rosse in una casa coloni­
ca a San Casciano. Riconosce infotografia Francesco Narducci.
P e t r i E m a n u e l e , sovrintendente della Polizia di Stato, protagonista di
unfallito inseguimento di Francesco Narducci.
P ie ru c c i G io v a n n i, direttore dell’istituto di medicina legale di Pavia,
incaricato nel 2002 dalla Procura perugina di effettuare le perizie sulla
salma di Francesco Narducci.
P i f f e r o t t i P e p p i n o , infermiere, riferisce di una perquisizione dei Cara­
binieri nell'ambulatorio di Francesco Narducci, avvenuta presso l’ospedale
in cui lavorava.
P i g a A u r e l i o , carabiniere del nucleo radiomobile, tra coloro che videro il
presunto cadavere di Francesco Narducci adagiato sul molo di Sant’Arcan­
gelo.
P io d a G io van B a ttista , medico, collega di Francesco Narducci, tra gli
ultimi a vederlo in vita.
allevatore, raccoglie l’indiscrezione di un maresciallo dei
P ise lli A ttilio ,
Carabinieri che indica il figlio del professor Narducci come il «mostro» di
Firenze.
Pucci A n d r e a , giornalista de II Giornale, svolse indagini sul conto di
Francesco Narducci sulla base di indiscrezioni ricevute da una fonte del
Ministero della Difesa.
R a m a d o r i M a s s i m o , perito diparte Spagnoli durante gli esami effettua­
ti sulle spoglie riesumate di Fancesco Narducci.
R a s p a t i F r a n c e s c a , tra i curiosi nei pressi del molo di Sant’Arcangelo
scorge il presunto corpo di Francesco Narducci.
S a n to c c h ia M ario , pescatore, fornisce una versione analoga a quella di
Giancarlo Ferri.
S c a r c h in i C e le stin o , pescatore, fornisce una versione analoga a quella
di Giancarlo Ferri.
S e p p o l o n i D a n i e l a , la dottoressa che effettua i rilievi sul presunto corpo
di Francesco Narducci adagiato sul molo di Sant'Arcangelo.
S e r v a d i o O r n e l l a , amica difamiglia dei Narducci e compagna di brid­
ge della madre di Francesco ritira il misterioso mazzo di fiori.
S i g n o r i n i E n r i c o , perito di parte Narducci durante gli esami effettuati
sulle spoglie riesumate di Fancesco Narducci.
S i s a n i S e c o n d o , riferisce ai magistrati che il ritrovamento di Francesco
Narducci è avvenuto secondo modalità diverse da quelle «ufficiali».
S o g a ro G ia n c a rla , moglie di Massimo Spagnoli e zia di Francesca Spa­
gnoli.
S p a g n o li F ed erica, sorella di Francesca Spagnoli.
S p a g n o li Fran cesca, moglie del dottor Francesco Narducci.
S p a g n o l i G i a n n i , padre di Francesca.

S p a g n o l i M a s s i m o , marito di Giuncarla Sogaro e zio di Francesca Spa­


gnoli.

S p a n u G i u l i a n a A n i t a , racconta di una sua commessa che un giorno


lavorativo era dovuta andare a prendere la figlia a scuola, perché la profes­
soressa, Elisabetta Narducci, si era dovuta assentare poiché avevano trova­
to il corpo del fratello.

S p e r o n i A l b e r t o , dirigente della Polizia di Stato, in forza presso la


Squadra Mobile di Perugia.

S t e f a n e l l i L u i g i , custode della villa dei Narducci a San Feliciano.

T i c c h i o n i E n z o , pescatore, forse ha visto Francesco Narducci sulla sua


barca prim a della scomparsa.

T r i o F r a n c e s c o , questore di Perugia.

T r i p p e t t i A l e s s a n d r o , medico condotto di Magione.

T r o v a t i P e p p i n o proprietario della darsena di San Felicito, sul Trasime­


no, dove Francesco Narducci aveva ormeggiata la sua barca

V a l e r i L i s e t t a , moglie di Ugo Narducci e madre di Francesco.

V e t r i n i A n t o n i e t t a , raccoglie indiscrezioni sul contro di Francesco


Narducci.

V i g n a P i e r l u i g i , sostituto procuratore di Firenze, per primo effettuò


delle indagini su Francesco Narducci, sospettato di essere il mostro di Firen­
ze, appena pochi mesi dopo la sua scomparsa.

V i o l a M a r i o , stretto collaboratore di Roberto Sgalla, direttore delle rela­


zioni esterne del Ministero dell'interno.

Z e l i o l i L e n d i n i E l i s a , coinquilina dei genitori di Francesco Narducci.


INDICE

PROLOGO 9

MISTERI PERUGINI
FRANCESCO N A R D U C C I, C H I ERA? 13
U NA GITA SUL LAGO 15
LE R IC E R C H E 20
UN CORPO R IA F F IO R A . È N A R D U C C I? 25
N I E N T E AUTOPSIA 28
SC AM BIO DI cadavere? 36
QUALCOSA NO N QUADRA 41
in d a g in i se g re te 45
SULLE TRACCE DEL MOSTRO 49
VOX PO PU LI 54
LA RI E S U M A Z IO N E 63
« S I PR E P A R I A C O M B A T TER E» 76
U N A M ORTE... A N TIC IPA TA 78
F I R E N Z E IN D A G A 82
IL M URO SI SG RETOLA 85

IL «MOSTRO», I «MOSTRI
I 9 6 8 - I 9 8 5 : LA SCIA DI SA N G U E 91
LA PISTA SARDA 97
PIETRO PA C C IA N I E I « C O M P A G N I DI M E R E N D E » IO I
PAC C IAN I E IL M IST ER IO SO M ED IC O I0 6
LA PISTA ESOTERIC A I08
I M ORTI AM M AZZ AT I E QUELLI « S U I C I D A T I » III

VERSO LA CONCLUSIONE?
IO SO C H E TU SA I... II7
L’ I N D A G I N E SI ALLARGA 121
G U E R R A TRA PR O CU R E I25
EPILOGO 128

GLI O M I C ID I 130

LE FONTI 133

I P E R SO N A G G I 136

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