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VERITÀ E FLAGRANZA

Che vuol dire “verità”? Qual è il suo senso originario? È vera una proposizione che corrisponde a ciò che
essa dice, cioè al fatto indicato; è invece falsa se il fatto che essa indica o significa non èil fatto osservato.
Vediamo tutto questo grazie a un semplice esempio.
«Questa stanza è rettangolare». La verità della proposizione si fonda sull’essere rettangolare della stanza (che
assumiamo tale). La proposizione è vera poiché è vero che la stanza è rettangolare. Non si tratta di due
diversi veri. Diciamo vera la proposizione perché corrisponde al fatto, cioè alla “rettangolarità” della
stanza. Che la stanza sia rettangolare è palese; anche in tal caso, la sua forma corrisponde infatti alla sagoma
‘rettangolo’. Mutuo corrispondersi fra corrispondenze: la proposizione è vera poiché corrisponde al fatto,
e il fatto è vero perché la stanza corrisponde al rettangolo, ossia al senso indicato nella proposizione. La
verità della proposizione appare nel fatto, il quale però appare come tale grazie all’asserto della proposizione.
Se asserisse l’essere triangolare della stanza, la proposizione sarebbe falsa, perché il fatto asserito non
avrebbe sussistenza. Se si dice «la stanza è triangolare», il fatto non sussiste; è un fatto falso perché “i fatti”
sono diversi: la stanza è in verità rettangolare, e i rettangoli e i triangoli non sono la stessa cosa.

Vige qui un circolo: che la proposizione sia vera appare nel fatto, il quale si mostra, nella sua effettiva
fattualità, nella sua verità fattuale, grazie alla proposizione. Se così non fosse, non potrebbe mai mostrarsi la
falsità del proporre l’essere triangolare della stanza. La proposizione s’invera nel fatto, il quale s’invera nella
proposizione. Inveramento reciproco. Circolo, per l’appunto. Il quale, lungi dall’essere “vizioso” o
“virtuoso”, mostra un tratto costitutivo della verità, dell’essere vero.

«Questa stanza è rettangolare.» Si asserisce il vero poiché è stato tradotto in un’asserzione l’apparire della
stanza sotto l’aspetto della sua sagoma piana (ci si è limitati, infatti, al suo profilo bidimensionale). La
proposizione attesta un apparire, cioè una flagranza. Essa, limitatamente al suo intento, è vera non solo
perché il suo asserto corrisponde al fatto, bensì innanzitutto perché dà forma a una flagranza, la fa risuonare
in parole. Ciò che si chiama «fatto», o «dato reale», ha il carattere di un che di flagrato. La fattualità, sebbene
non vi si ponga mai mente, è sempre una conseguenza della flagratezza; la flagratezza è più originaria di
ogni fattuale effettività.

Quando s’è detto che la proposizione s’invera nel fatto, in realtà s’intendeva dire che la proposizione
s’invera nella flagranza — cioè: la proposizione si addice al già flagrato essere rettangolare della stanza.
D’altro canto l’essere rettangolare della stanza diviene a sua volta compiutamente vero, ossia pienamente
flagrante, quando è asserito. Sicché si diceva bene quando si osservava che il fatto — ossia, ora lo si sa, il
flagrato — s’invera nella proposizione. Si tratta dunque di un circolo sui generis: il circolo
dell’inveramento, sorretto dall’originario fenomeno della flagranza. Ogni apparire di un vero, ogni
inverarsi, è dovuto alla flagranza; ogni essere vero si stanzia nella sua luce. Sicché, se «verità» vuol dire
«essere vero», il suo significato originario — il tratto di fondo sempre richiesto, e richiamato ogni volta che
un vero appare, cioè ogni volta che si genera un inveramento — è la flagranza.

Se «verità» non significasse originariamente getto di flagranza, essa non avrebbe mai potuto mostrarsi come
caratterizzata dal corrispondere. L’attendibilità della corrispondenza si fonda nel più attendibile, cioè nel
flagrare.

Posto che la verità consiste innanzitutto nel getto di flagranza — e non in un effetto della proposizione in
relazione al fatto —, il più flagrante non può che costituirsi come ‘essere’. Nessun “che” potrebbe invero
apparire e lasciarsi scorgere e percepire come un flagrato, ed avere quindi un determinato significato, se,
ancor prima, non fosse già flagrato il senso d’essere, cioè se non si pre-intendesse l’essere. Così, se l’essere è
necessariamente il più flagrante tra i flagrati — nel senso che dona loro l’addetta flagranza —, come
potrebbe esso non costituire questo stesso donare?

Per esempio: se questa matita appare in quanto matita, cioè come un attrezzo atto a un certo uso e scopo, il
suo flagrare in quanto tale non potrà che consistere nell’essere-matita. L’essere-matita (la sua attrezzità) deve
già risultare flagrante perché si possa percepire e adoperare la matita. L’essere-matita, ossia l’essere,
precede questa matita, cioè l’ente. Ma l’essere-matita consiste nella flagranza ‘matita’; sicché l’essere “è”
flagranza, anzi ne “è” ogni volta il getto. E giacché la flagranza è la verità, allora «verità» è un attendibile
nome dell’essere. Verità, getto di flagranza, senso d’essere — il medesimo, la sinonimia d’origine.

Un altro nome della verità in quanto getto di flagranza sarà per noi la parola «stagliatura» — che è formata
sul verbo «stagliare/stagliarsi».

Tuttavia tale sinonimia, in sé flagrante, può non apparire, quando, udendo le sue voci, si sentano in esse dei
valori, ossia dei contenuti e dei tratti che possano in qualche guisa divenire oggetto della stima umana.
Il dominio del pensare mediante valori e del valutare, imposti dalla spirale della pluspotenza (quali sostituti
del giudizio e del giudicare), costituisce il più efficace sbarramento contro lo scorgimento della sinonimia
d’origine. Laddove la verità sia ridotta a (un) valore ed «essere» significhi «valere» (per il plus-
potenziamento), la sinonimia non è (più) attendibile.

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