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APORIE SEVERINIANE
Roberto Fiaschi

<<E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà paragonato a un uomo
stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i
venti hanno soffiato e hanno fatto impeto contro quella casa, ed essa è caduta e la sua rovina è
stata grande>>. (Matteo 7:24-27).

Parte 1.
NIHIL ABSOLUTUM E IDENTITÀ CON SÉ
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§.1- Ogni ente è identico a sé e differente dal proprio altro, sia, quest’ultimo, un altro ente o il
nihil absolutum: così la filosofia di Emanuele Severino.
§.2- D’accordo.
Dunque, ogni ente è identico a sé, tranne il nihil absolutum, naturalmente, giacché non è un ente.

§.3- Per cui, non essendo un ente, il nihil absolutum è la negazione dell’esser identico a sé e
differente dal proprio altro; se fosse identico a sé e differente dal proprio altro, sarebbe anch’esso
un ente, in quanto condividerebbe la medesima ‘legge’ dell’identità con sé e differenza dal proprio
altro valevole per ogni ente.

§.4- Come osserva uno studioso (A. S.) di Severino: <<solo ciò che esiste può essere identico a sé
(ciò che non esiste in alcun modo in che modo potrebbe essere identico a sé? L'identità è una
proprietà di ciò che è ed esiste, non del "nulla". Ciò che è ritenuto inesistente non può avere
alcuna proprietà, neanche quella di essere identico a sé)>>. (Brano tratto dal WEB).

§.5- Passiamo ora a Severino: <<che il nulla sia “significante” non significa che il nulla esplichi
una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del nulla non
appartiene al nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra
proprietà o attività possano appartenere. Il significare del nulla, in quanto il significare è
positività (e anzi è la positività stessa, lo stesso esser essente), appartiene cioè all’essente, e
propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare, nella struttura originaria della
verità, come ciò di cui il nulla è nulla>>. (Intorno al senso del nulla. Adelphi, pag. 112).

§.6- Va premesso che in Severino <<Ogni significato è una sintesi semantica tra la positività del
significare e il contenuto determinato [qui, nel nostro caso, tale contenuto è il nihil absolutum]
del positivo significare>> - (Severino: La struttura originaria; pag. 213).

§.7- Quindi, il nihil absolutum è momento in sintesi con l’altro momento cui è il suo essere o
positivo significare, sintesi concorrente a formare il significato concreto nulla quale significato
contraddicentesi, in quanto entrambi i momenti _ attenzione _ sono significanti
incontraddittoriamente ciò che intendono significare, nel senso che il nihil absolutum significa
incontraddittoriamente soltanto nihil absolutum ed il suo positivo significare significa
incontraddittoriamente positivo significare, sempre secondo Severino.
§.8- Senonché, il significare incontraddittoriamente da parte di qualsiasi ente/significato comporta
la propria identità con sé nonché il proprio differire da altro, perciò anche il nihil absolutum,
differendo dall’essere, è una identità con sé, altrimenti esso (quale momento della sintesi cui è il
significato autocontraddicentesi nulla) non significherebbe neppure nihil absolutum e perciò non
potrebbe neppure venir posto come contraddicente (come differente da) il suo positivo significare.

§.9- Ora, se il nihil absolutum non fosse <<un essente a cui questo significare [ = appunto come il
nihil absolutum] o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere>>, e cioè se
l’identità fosse <<una proprietà di ciò che è ed esiste, non del "nulla">>, cosicché il nihil
absolutum non possa <<avere alcuna proprietà, neanche quella di essere identico a sé>>, allora
il nulla NON potrebbe neppure venir considerato come <<il significato in cui è posto soltanto
l’assolutamente altro da ogni essere e quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla
come momento>>, giacché per significare come <<l’assolutamente altro da ogni essere>>, cioè
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per differire <<da ogni essere>>, il nihil absolutum deve innanzitutto significare, ripeterei, la
propria identità con sé consistente nell’esser <<il significato [identico a sé] in cui è posto
soltanto l’assolutamente altro da ogni essere>>, giacché esso non significa: il significato in cui
NON è posto l’assolutamente altro da ogni essere>>.

§.10- D’altronde, è lo stesso Severino a confermare l’identità con sé del nihil absolutum:
<<Rispetto alla tesi della Struttura originaria che il ‘nulla’ è la sintesi del significato ‘nulla’
[nihil absolutum] e del positivo significare di tale significato (dove ‘nulla’ [nihil absolutum]
significa ‘nulla’ [cioè è identico a sé in quanto significa nihil absolutum] e non ‘essere’)
[etc…]>>. (Severino, tratto da Marco Simionato: Nulla e negazione (Prefazione di E. Severino),
Plus edizioni. Pisa 2011).

§.11- Infatti, per il filosofo bresciano, <<porre un significato equivale a porre una certa
positività [ = una certa identità con sé], o una certa determinazione del positivo, dell’essere>>.

§.12- Il che vuol dire che anche il nihil absolutum, differendo, deve ubbidire alla legge ontologica
cui ogni ente sottostà, o cui ogni ente è; legge consistente nell’identità con sé e differenza dal
proprio altro.

§.13- Se infatti il nihil absolutum NON fosse identico a sé, non differirebbe neppure dall’essere,
cioè NON sarebbe neppure <<l’assolutamente altro [ = differente] da ogni essere>>.

§.14- Se NON differisse dal proprio altro, il nihil absolutum sarebbe indistinguibile da, o identico
all’essere, appunto perché non vi differirebbe.

§.15- Anche la precisazione secondo la quale <<la distinzione tra il significante [il positivo
significare] e il non significante [il nihil absolutum] è la stessa distinzione tra l’essere e il
niente>> (Severino: Essenza del nichilismo), comporta che il <<non significante>> sia pur sempre
una forma del significare, giacché il <<non significante>> significa come il <<non
significante>>, per cui il <<non significante>> è intelligibile, quindi è <<una certa positività, o
una certa determinazione del positivo, dell’essere>>.

§.16- E ciò non fa altro che ribadire che per poter significare <<l’assolutamente altro [ =
differente] da ogni essere>>, anche il nihil absolutum deve essere identico a sé quale significante,
cioè deve inevitabilmente costituirsi come un ente, paradossale quanto si vuole ma comunque un
ente.

§.17- Severino ritiene di poter ovviare a ciò precisando che <<il nulla è, nel suo significato
concreto, la contraddizione del nulla [cioè del nihil absolutum] essente; ma questo essere del
nulla, che consente al nulla [al nihil absolutum] di essere momento, è posto nell’altro momento
[nel suo positivo significare] (o come l’altro momento) di quel significato concreto; e, proprio
perché è posto nell’altro o come l’altro momento, al nulla-momento [al nihil absolutum] è
consentito di essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere e
quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla [del nihil absolutum] come momento>>. -
(Essenza del nichilismo, pag. 223).

§.18- Ora, quand’anche l’<<essere del nulla [del nihil absolutum]>> fosse tutto <<posto nell’altro
momento [cioè nel suo positivo significare]>>, non verrebbe comunque meno la differenza tra il
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nihil absolutum quale <<assolutamente altro da ogni essere>> e l’<<altro momento>> in cui
sarebbe posto tutto l’<<essere del nulla [del nihil absolutum]>>!

§.19- Anzi, verrebbe vieppiù ri-confermata; infatti, sostenere che l’<<essere del nulla [del nihil
absolutum]>> sia <<posto nell’altro momento [nel suo positivo significare]>>, di modo che al
nihil absolutum sia <<consentito di essere il significato in cui è posto soltanto l’assolutamente
altro da ogni essere>>, vuol dire che al nihil absolutum è <<consentito di essere il significato>>
in cui è posta soltanto la sua differenza <<da ogni essere>> (altrimenti non differirebbe <<da ogni
essere>>)!
Pertanto, questa differenza è quanto basta e avanza…
§.20- NOTA 1:
affermare del nihil absolutum che non sia identico a sé ma che, però, sia differente dal proprio
altro (ove la sua differenza sarebbe costituita dal non essere identico a sé), significa ugualmente
entificare il nihil absolutum, nella misura in cui (e proprio perché) differisce dall’identità con sé
che informa ciascun ente.
§.20a- NOTA 2:

affinché il nihil absolutum non venga fatto rientrare nell’ente in quanto differ-ente, di esso si
sarebbe dovuto affermarne il nihil absolutum-della-differenza ed il nihil absolutum-della-identità,
ossia la sua assoluta nullità avrebbe dovuto dirsi anche per il suo differire, sì da esser nulla la sua
differenza, nullo il suo differire, nonché della sua identità cioè del suo esser nihil absolutum, sì da
esser nulla anche il suo stesso esser nulla.
Ancor meglio, di esso dovremmo affermare che né differisce, né non-differisce.

Ma, affinché il nihil absolutum ottemperasse a tutto ciò, tale assoluta nullità non avrebbe dovuto
neppure mai sorgere nella consapevolezza, restando, noi, nella completa inconsapevolezza di esso,
ed esso, perciò, nella più totale apofaticità, ma ormai è troppo tardi, perché, essendo noto, allora il
nihil absolutum non può evitare di costituirsi come un differ-ente.
Fine delle NOTE.

§.21- Poiché il differ-ente è lo stesso esser ente, e l’esser ente è lo stesso ineludibile differire (e
quindi è la stessa identità con sé), allora la suddetta strategia del filosofo bresciano è destinata suo
malgrado a consolidare l’irrisolvibilità dell’aporia del nulla nonché l’aporeticità dell’opposizione
originaria ( = aporeticità originaria), giacché in tanto è possibile porre la innegabile differenza tra i
due momenti (tra il nihil absolutum e l’essere in inscindibile sintesi), in quanto entrambi
differiscono tra loro ed in quanto ciascuno è incontraddittoriamente identico a sé, sì che la loro
differenza nella sintesi che dà luogo al significato concreto nulla, si costituisca come differenza tra
due enti; differenza, perciò, tutta interna all’essere;
come dire che l’essere si oppone soltanto a se stesso, in se stesso. (Vedasi Parte 2).

§.22- Peraltro, Severino oscilla pesantemente circa il ruolo da conferire al significato nihil
absolutum, tradendo così un’incertezza di fondo dettata dall’aporia facente capolino in ogni
direzione egli intenda guardare…
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§.23- Infatti, dapprima afferma <<che il nulla [il nihil absolutum] sia “significante” non significa
che il nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il
significare del nulla non appartiene al nulla [al nihil absolutum], perché il nulla non è un
essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere>>,
giacché tale significare apparterrebbe all’altro momento.

§.24- Per cui al nihil absolutum non appartiene né <<questo significare [come nihil absolutum]>>,
né <<qualsiasi altra proprietà o attività>>.
§.25- Poi, però, il nihil absolutum torna ad <<essere il significato in cui è posto soltanto
l’assolutamente altro [appunto, il nihil absolutum] da ogni essere>>, cioè diventa esso stesso
significante, e non in virtù dell’altro momento!

§.26- Ma poi, nuovamente, il suo esser significante come nihil absolutum o come <<significato in
cui è posto soltanto l’assolutamente altro [appunto, il nihil absolutum] da ogni essere>>, ritorna
a competere all’altro momento:

<<l’esser significante, da parte di questa negazione [del nihil absolutum], è appunto l’altro
termine della sintesi nella quale consiste il significato autocontraddittorio ‘nulla’>>. –
(Severino in: Simionato; op. cit.).

§.27- Quindi, il significare nihil absolutum <<non appartiene al nulla [al nihil absolutum]>>
(perché appartiene all’altro momento) ed insieme tale significare come nihil absolutum gli
appartiene, perché ad esso è <<consentito di essere il significato in cui è posto soltanto
l’assolutamente altro da ogni essere e quindi anche da quell’essere che è l’essere del nulla [del
nihil absolutum] come momento>>!
§.28- Inoltre, last but not least, sorpresa delle sorprese:

se il nihil absolutum _ esso, non il suo positivo significare! _ significa: non-identico a sé e non-
differente dal proprio altro, allora il nihil absolutum si ritraduce nuovamente nell’esser (un) ente,
perché, non essendo identico a sé, non è neppure nihil absolutum come dovrebbe essere quale
significato incontraddittorio (il nihil absolutum è = il nihil absolutum) e quindi, non essendo nihil
absolutum, sarà altro proprio perché esso è ritenuto non-differente dal proprio altro, ove tale
altro dal nihil absolutum è soltanto l’ente, cosicché, anche per questa via, il nihil absolutum è tutto
interno all’essere.

§.29- Non solo, ma si dovrà anche dire che il nihil absolutum, significando il non-identico a sé e
non-differente dal proprio altro, si costituisce inevitabilmente _ esso, non il suo positivo
significare _ come quell’identico a sé e differente dal proprio altro (appunto perché il nihil
absolutum è un significato incontraddittorio, come afferma Severino) che però significa il non-
identico a sé e non-differente dal proprio altro, cosicché la dualità nihil absolutum//positivo
significare che Severino attribuiva al significato contraddicentesi “nulla” quale sintesi di quei due
momenti, si ripresenti pari pari nello stesso nihil absolutum, giacché questi è un significato
incontraddittorio (cfr. §.7) che significa il contraddittorio non-identico a sé e non-differente dal
proprio altro, quindi il nihil absolutum _ e ribadirei: esso, non il significato concreto “nulla” come
vorrebbe Severino _ è un significato incontraddittorio ed insieme contraddittorio…
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§.30- Per completezza, devo riportare anche quest’altra osservazione di Severino la quale, nelle sue
intenzioni, vorrebbe essere risolutiva:

<<Che il significato ‘nulla’ [nihil absolutum], come termine della sintesi col suo positivo
significare, non riesca ad evitare di essere un essente perché è un significato è una tesi alla
quale il mio critico [Marco Simionato] dà invece molta importanza […], ma è una tesi che
finisce col non tener presente (ripeto ancora una volta) che questo significato [nihil absolutum]
non significa ‘essente’, ma ‘negazione assoluta dell’essente’>>. – (Severino in: Simionato; op.
cit.).

§.31- Ricordando che per Severino <<porre un significato equivale a porre una certa positività
[una certa identità], o una certa determinazione del positivo, dell’essere>>, e quindi che,
ponendo una differenza, è con essa posta l’identità con sé di essa, e ricordando, perciò, che
qualsiasi differenza/identità è lo stesso ente, allora la <<‘negazione assoluta dell’essente’>> cioè
la differenza assoluta dall’essente, è anch’essa un essente, è cioè il negativo in quanto tale, sì che
tale differenza assoluta si tolga in quanto differenza assoluta per riconfermarsi una differenza tra
enti, interna all’essere.

§.32- Sì che, alla fine della fiera, ci si trovi <<costretti […] ad affermare che il nulla [il nihil
absolutum], essendo significante, è, è un essente, sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé
stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla separazione [ma già in forza della
distinzione tra i due momenti], l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il
pensiero è definitivamente legato all’assurdo della contraddizione>>. – (Severino: Essenza del
nichilismo; pag. 111).

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Parte 2.
APORETICITÀ DELL’ESSERE (SEVERINIANO)

§.33- L’essere ( = E) è inteso da Emanuele Severino come totalità concreta dei determinati ( =
DD); totalità unificata dal loro esser, appunto, E e non nulla ( = N).

§.34- In tal modo, l’E _ quale significato inclusivo di tutti i DD dei quali esso (l’E) costituisce la
loro positività, il loro non esser N, tanto quanto essi (i DD) sono manifestazione dell’E _, si rivela
come intrinsecamente auto-opponentesi quindi contraddicente-sé.

§.35- Perciò l’E _ sempre nell’accezione severiniana di cui sopra _ si rivela sub eodem come
identico-a-sé e differente-da-sé.
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§.36- È identico-a-sé;
l’E non ha quiddità propria, altrimenti sarebbe esso stesso un determinato ( = D), per cui l’E è ciò
che vi è di identico in tutti i DD, accomunati perciò dall’esser, tutti, identicamente ed
integralmente E.

§.37- È differente-da-sé;
in quanto gli stessi DD (che sono tutti integralmente E) sono differenti l’un dall’altro, giacché l’E
della casa differisce dall’E della montagna, pur essendo sempre il medesimo E.

§.38- Non solo:

in ogni ente (che è sintesi tra D + E), ciascun D, ogni ciò-che, si distingue (e non: si separa!)
anche dal suo stesso E, di modo che in relazione a quest’ultimo, ogni D sia non-E in forza di tale
distinzione, tenendo sempre presente che, per Severino, soltanto il non-E ( = N) può distinguersi
dall’E.

§.38a- NOTA:

che cosa distingue propriamente l’E dal D (in ogni ente)?

Evidentemente vi deve essere nell’uno uno scarto che non sia interamente ri(con)ducibile all’altro,
e viceversa.

Infatti, se D fosse interamente ri(con)ducibile a E, non potrebbe sussistere alcuna distinguibilità


tra essi, in quanto l’ente sarebbe perfettamente ed indistinguibilmente ‘uno’, ovvero una non-sintesi.
Siccome l’ente è una sintesi tra due termini distinti, ecco perciò la loro reciproca dis-tinguibilità.

Parimenti, se l’E fosse l’E della totalità di D, neanche in questo caso D potrebbe affatto distinguersi
da ciò che interamente lo costituisce.

Senonché, tale scarto dell’E non ri(con)ducibile a D è lo stesso E, e lo scarto di D non


ri(con)ducibile a E è lo stesso D, costituendosi perciò (nonché aporeticamente) l’E come non-D e
D come non-E, sì che D si ponga quale N o, non essendo neppure N, D si costituirà come terzo
(incomodo) tra E e N.

Severino afferma l’<<essere come sintesi di essenza [D] _ la determinazione _ e di esistenza _


l’“è”>> e precisa che <<se ‘rosso’, ‘casa’, ‘mare’ [i DD] non significano ‘essere’ [E] _ e questo
deve restar fermo! _, essi non significano nemmeno ‘nulla’ [N] (cioè non sono l’essere _ e in
questo senso sono non-essere [sono N] […])>>. – (Essenza del nichilismo, pag. 24),

Si conferma perciò come anche per Severino, i DD <<‘rosso’, ‘casa’, ‘mare’>> <<non sono
l’essere>> giacché ne sono distinti _ sono diversi _ (proprio perché uniti ad esso in sintesi, non a
prescinderne!).

Questo <<deve restare fermo!>>.


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Tuttavia esse non significano nemmeno non-essere, infatti Severino, proseguendo il brano, afferma
che di essi (dei DD) <<si deve predicare l’essere>>.

Quindi i DD sono E, giacché a detta di Severino di essi <<si deve predicare l’essere>>, e al
contempo sono ‘non-essere’ [N], perché i DD <<non sono l’essere _ e in questo senso sono non-
essere>>!

Lo ripeto fino allo sfinimento: tutto ciò in quanto distinti _ non separati! _ dall’E.
Non c’è infatti nessun bisogno di separarli per poterli distinguere.

Appunto in virtù di detta distinzione, D (l’essenza o la differenza) è non-essere (N), dimodoché l’E
divenga così l’E di un significato (D) distinto quindi come non-essere, e l’E divenga l’E di N
giacché D non significa (non è) E; altresì, D si ritrova ad esser il D di N giacché E non significa D,
è distinto da D.

Ma si potrà nuovamente obiettare come qui si stia ancora una volta separando D dal suo E, onde
così separati, D sia non-E ( = N) ed E sia non-D ( = N; giacché l’E senza D è indistinguibile da N);
cioè, che E sia l’E-di-N, se D è E, come vuole Severino.

Ovvero, si potrà pur sempre obiettare che D _ distintamente da E _ sia D-originariamente-incluso-


nell’E, e viceversa: l’E sia originariamente-l’E-di-D.

Senonché, D può originariamente esser incluso nell’E per quel tanto che esso (D) non è E,
altrimenti come potrebbe ‘qualcosa’ che fosse interamente identico a (indistinguibile da) l’E esser
incluso in esso?

È vero che l’E è concretamente sempre l’E-di-D; ciò nonostante, in grazia della possibilità di
distinguerli, allora ciò testimonia ancora una volta che l’E non è il D (e viceversa) in virtù di quella
differenza/distinzione che fa dell’uno altro da D e di D altro da E, altrimenti E non sarebbe l’E-di-
D, col risultato della loro perfetta indistinguibilità.

Tra l’altro va aggiunto che, a rigor di termini, se i DD non sono (se non significano) né E né N,
allora perché di essi <<si deve predicare>> soltanto l’E e non (anche) il N, o meglio: nessun dei
due?

Forse perché appaiono? Certo; tuttavia, non significando l’E _ <<e questo deve restar fermo!>>
_, e per far sì che ciò resti davvero fermo, non sono permessi accomodamenti.

Pertanto, pur apparendo ed al contempo non essendo né l’uno né l’altro, bisognerà più
consequenzialmente considerare le determinazioni-degli-enti come ‘luogo’ a sé, non rientranti
pienamente né nell’uno né nell’altro ambito.

Altrimenti, non resterebbe perciò che concludere nell’unico modo possibile, ossia _
aporeticamente _ che i DD sono _ sub eodem _ sia non-E che non-N.
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FINE DELLA NOTA.

§.39- Riprendendo ora il discorso dei §§.33-37, proseguo mostrando le aporie che derivano.

Nonostante Severino affermi che <<affermare che l'essere è essere significa appunto togliere
ogni distinzione o differenza tra l'essere e sé medesimo, sia che l'essere sia inteso come identità
con sé, ossia come E' = E", sia che sia inteso come noesi>> (La struttura originaria, p. 189), l’E
_ come totalità concreta dei DD _, si struttura come l’identico-differenziantesi, ovvero l’identico-
non-identico-a-sé ed, al contempo, come il differenziantesi-identico, ovvero il differente-non-
differente-da-sé.

§.40- In che modo? Tutti siamo soliti ritenere impossibile/contraddittorio che, ad esempio, al
triangolo ( = T) possa convenire il predicato rotondo ( = R).

§.41- Perciò T e R sono reciprocamente escludentisi, incompatibili, giammai identici.

§.42- Eppure entrambi sono pienamente, integralmente E, ossia hanno di identico il loro esser
interamente, solamente ed unicamente E, senza residui.

§.43- T e R differiscono tuttavia per la loro rispettiva determinatezza/diversità, che fa di ognuno di


essi appunto un T ed un R. Tali determinatezze _ tale loro differire _ sono però anch’esse
interamente, solamente ed unicamente E, giacché niente pare possa darsi al di fuori/oltre l’E.

§.44- Da ciò segue che la predicazione contraddittoria: <il triangolo è rotondo>, manifesti la
contraddittorietà anche dell’E dal quale sia T che R sono interamente costituiti, poiché, se <T ≠
R>; o anche: ¬ <T = R>, ed essendo <T = E> e <R = E> cioè il medesimo E, allora, lo stesso E
sarà differente/altro da sé:

<E ≠ E>; o anche: ¬ <E = E>.

§.45- Poiché T e R (così come la totalità concreta dei differenti) sono interamente, solamente ed
unicamente E, quest’ultimo si oppone a sé di un’opposizione di contraddittorietà intrinseca, allo
stesso modo in cui T = E si oppone (contraddice) R = E, appunto perché la differenza che rende
reciprocamente incompatibili T e R è tutta interna all’E, cosicché scaturisca

o l’impossibilità che

(a) l’E sia identico a sé (piano Logico);

oppure l’impossibilità che

(b) i DD siano tra loro differenti (piano Fenomenologico).


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§.46- I due punti (a) e (b), o il piano L ed il piano F, si rivelano reciprocamente escludentisi,
perché se li volessimo ritenere entrambi unitariamente inseparabili, allora, in base al piano L,
secondo il quale i DD sono tutti integralmente E, essi non potrebbero differire tra loro e ne
discenderebbe che T sarebbe da sempre uguale a R, giacché, ripeterei, essendo entrambi unicamente
e integralmente E, allora non vi è nulla che possa reciprocamente differenziarli all’infuori dell’E
stesso, in quanto l’unica differenza dall’E è N, che però non è l’E (stiamo sempre ragionando
assecondando i parametri semantico-ontologici come concepiti dalla teoresi severiniana).

§.47- Cosicché, se T e R differiscono tra loro e al contempo sono perfettamente identici in quanto
entrambi integralmente E, allora svaniscono le differenze del piano F.

§.48- Parimenti, in base all’attestazione F, secondo la quale i DD sono tutti diversi l’un dall’altro,
l’E diverrebbe un significato contraddicente-sé, come già detto, in quanto esso si opporrebbe a se
stesso mediante le sue stesse differenze _ che è come dire: mediante se stesso! _ perché tali
differenze (o essenze) sono tra loro reciprocamente escludentisi/incompatibili.

§.49- Per cui, se (e poiché) <T è E> e <R è E> ed al contempo <T non è R>,

allora <E non è E>, o anche: <E ≠ E>,

cosicché svanisca l’identi(ci)tà/unità con sé supposta incontraddicentesi dell’E.

§.50- Notare bene come qui non si stia considerando il piano L astrattamente/separatamente
(prescindendo) dal piano F bensì, come vuole Severino, già concretamente in sintesi, dal momento
che stiamo parlando della totalità concreta di tutti i differ-enti (DD) i quali appunto sono _ tutti _
pienamente, integralmente E, in ogni loro parte (differendo però ed al contempo _ tutti, in ogni loro
parte _ dall’E del quale sono parte-cipi: essi sono-E-ed-al-contempo-non-sono-E).

§.51- Non a caso parliamo dell’E-dei-DD (T, R…etc.) o dell’E-cui-è-ogni-D (rispettivamente,


piano L e piano F).

§.52- Infatti, se i due piani non fossero considerati, qui, già in sintesi, non potremmo rinvenire
neppure la loro distinguibilità, quindi neanche ascrivere una qualche contraddittorietà all’E, giacché
prescindendo da F ( = dall’apparire dei differenti DD: T, R…), l’E _ in quanto è l’unico ed il solo
protagonista ed è quindi ciò che in tutto è identico ossia è sempre e soltanto E _ non entrerebbe
in contraddizione con la differenza manifestata dai DD o da se stesso, visto che i DD sono E.

§.53- Allo stesso modo, non potremmo neppure rilevare la contraddittorietà dei DD in rapporto
all’E, se prescindessimo dall’attribuir loro l’E, giacché in tal caso non avremmo un significato
unitariamente identico ed omni-inclusivo (quale appunto dovrebbe esser l’E) che possa rivelarsi in
sé differenziante-sé-da-sé.

Ricapitolando:
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§.54- se l’E è l’identico-a-sé, allora i DD non possono differire tra loro;

§.55- se i DD differiscono tra loro, allora l’E non è identico-a-sé;

§.56- se l’E non è identico-a-sé giacché i DD differiscono tra loro, l’E è contraddicente-sé;

§.57- se i DD non differiscono tra loro poiché l’E è l’identico a sé, allora T è identico a R…

§.58- Data l’irrinunciabilità _ per Severino _ della incontraddittorietà della sintesi concreta tra piano
L e piano F, ma vista anche la loro incompatibilità mostrata dai suddetti punti (a) e (b) del §.45, egli
paventa la seguente evenienza: <<Qui si deve dire innanzitutto che se non si fosse in grado di
risolvere l’aporia che è così venuta a presentarsi [l’aporia, cioè, secondo la quale <<Non attesta
forse l’esperienza [piano F] precisamente l’opposto di quanto la verità dell’essere [piano L]
proibisce?>>], non la si potrebbe nemmeno evitare abbandonando la verità dell’essere e
rimettendosi in marcia con quel concetto dell’essere come indifferenza (a essere e non essere)
sin qui adoperato dell’ontologia occidentale>>.

§.59- Quindi, nel caso suesposto, Severino si sentirebbe costretto a concludere così: <<Si dovrebbe
invece prendere atto della radicale aporeticità in cui verrebbe a trovarsi il pensiero, conteso
tra due richiami egualmente intransigenti [ = logos ed esperienza]: si dovrebbe prendere atto
della realtà dell’assurdo>>. - (Essenza del nichilismo. Adelphi, Milano 1995. Pagg. 22-23).

Appunto…

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Parte 3.
<<L’OCCHIO CIECO>> E LA TESTIMONIANZA DELLA
VERITÀ DEL DESTINO

§.60- L’<<occhio cieco>> è un’espressione di Severino.


Di che si tratta?

§.61- Lo vediamo per gradi, cominciando dal prius, ossia dal ‘luogo’ per mezzo del quale ciascuno
di noi entra in contatto con i pensieri di un determinato filosofo, scienziato, scrittore, etc.
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Banalmente ma inevitabilmente, tale luogo è costituito dai testi e/o dalle conferenze quale corpus
culturale (filosofico, letterario, etc.) ove vengono espresse le tesi e le concezioni che ciascun
filosofo (ma poi chiunque altro) intenda mettere a conoscenza.

§.62- Pertanto, qui, vorrei intraprendere un percorso critico su questo aspetto relativo alla
testimonianza del destino (o della verità) della quale quei testi e/o conferenze di Severino
costituiscono la prima (ed unica) fonte di approccio ad essa.
§.63- Ma intanto: perché ho testé evidenziato la preposizione “di”?

§.64- Perché negli scritti di Severino è facile imbattersi nella negazione che tali scritti siano
appunto di Severino. Egli sovente scrive: <<I cosiddetti “miei” scritti>>…
§.65- Questa negazione ha una ‘ragione’ teoretico/filosofica:

evitare a tutti i costi di associare il contenuto dei propri testi ad <<un occhio cieco>> (espressione
di Severino, tratta dal suo libro: La legna e la cenere. Rizzoli, Milano 1999) cui è, nell’ottica del
filosofo bresciano, ogni individuo o io empirico (incluso egli stesso, ovviamente), in quanto
ritenuto errore e come tale incapace di verità.

§.66- Per cui, a dire di Severino, che egli sia l’autore degli scritti che portano il suo nome è soltanto
una fede, ossia internamente alla fede cui è la terra isolata, appare _ si crede _ che egli ne sia
l’autore, e questa fede è lo stesso apparire dell’errore-individuo il quale non può non credervi.
§.67- Leggiamolo direttamente, sempre dal summenzionato testo.
Severino, alla domanda:
<<Chi può dare testimonianza della verità?>>,

§.68- risponde: <<Innanzitutto, non è l'individuo che testimonia, cioè pensa esplicitamente la
verità. Se fosse l'individuo a testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per
definizione individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo. Bisogna
vedere l'errore del concetto che "Io vado verso la verità" e che "se mi va bene, a un certo
momento la vedrò". No! Perché se "Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica
determinata, allora sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un
occhio cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l'individuo.
L'apparire della verità non è la mia coscienza della verità. All'opposto: io sono uno dei
contenuti che appaiono. […] Invece dobbiamo dire che l'individuo è il non illuminabile.
Perché l'individuo è errore. Se ci si rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non
ha il compito di rendere verità l'errore. […] All'opposto, la verità include me, e te, e gli altri
come conformazioni specifiche dell'errore.
[D]: Ma io posso pormi oltre l'errore, una vota riconosciutolo come tale...
[SEVERINO]: Non "io"... E' la coscienza della verità ad essere oltre l'errore.
[D]: Questa coscienza per la quale la verità è, è coscienza di chi?
[SEVERINO]: E' un tratto della verità. La verità non è un atto soggettivo. Quindi siamo
totalmente al di fuori del concetto, poniamo, aristotelico, cristiano, marxiano, che intende la
coscienza come prodotto teorico dell'individuo. È contraddittorio che l'individuo sia cosciente
della verità. L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che
13

appare. E il mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso
stesso una delle cose che si mostrano>> (parentesi quadre sempre mie: RF).

§.69- Abbiamo appena letto un’affermazione di Severino, secondo la quale <<L'apparire della
verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare>>.
Sorge immediata la domanda:
§.70- a chi (o a cosa) è riferito tale <<mostrarsi>>?
§.71- All’errore/individuo/fede Severino,
oppure

§.72- alla verità stessa?


§.73- La risposta dell’errore/individuo/fede Severino l’abbiamo appena letta:

la verità si mostra in se stessa, cioè alla verità o <<Io del destino>> giacché, afferma Severino:
<<io in quanto Io del destino, ossia in quanto Io sono la verità stessa che appare in sé stessa,
come contenuto di sé stessa>>.
§.74- Ora, anche riguardo a questa risposta, vi è da domandarsi:
è essa la risposta di Severino in quanto errore/individuo/fede,
oppure
è la risposta della verità?

§.75- Già, perché se fosse la risposta di Severino, come ciascuno di noi abitualmente ritiene
allorché lo cita riferendosi espressamente a Severino anziché a Stephen King o a Mario Rossi,
allora essa non potrebbe vantare alcun titolo per ritenersi verità, in quanto proferita da un
errore/individuo/fede circa il quale la verità avrebbe sancito esser <<contraddittorio che
l'individuo sia cosciente della verità>>.

§.76- Ammettendo, invece, che sia la risposta data dalla stessa verità, è innegabile che essa venga
reperita in quel corpus di scritti facenti capo a quell’errore/individuo/fede cui è Severino il quale,
però, in base alle sue stesse premesse teoretiche, non può sapere trattarsi della verità (o della
risposta offerta dalla verità), poiché l’errore-Severino è <<un occhio cieco>> che non può
<<vedere la verità>>…
§.77- La replica pronta per questa situazione aporetica consiste nel rilevare, sempre da parte
dell’errore-Severino, che l’errore presuppone la priorità della verità la quale, perciò, appare sempre,
anche quando appare l’errore/fede, non essendo mai completamente obliata.

§.78- Nicoletta Cusano, nel suo libro: Emanuele Severino. Oltre il nichilismo (Morcelliana 2011),
riporta il seguente brano del filosofo bresciano tratto da Oltrepassare, pag. 302: <<A volte accade
che il linguaggio dei mortali, pur dicendo cose il cui senso è essenzialmente diverso da quello
al quale si rivolge il linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità,
risuoni in modo che sia possibile sentire nelle sue parole qualcosa di radicalmente diverso _
addirittura il destino della verità. Da che cosa sia reso possibile rimane un problema>>.
14

§.79- Tuttavia, lo stesso Severino ebbe a precisare che l’errore/io empirico-Severino <<proprio
perché è fede, è destinato a non sentire la verità: in quanto ascoltata da “me”, cioè dalla fede
in cui “io” come individuo mortale consisto, la verità non può essere verità, e io sono destinato
ad essere soltanto il desiderio, in indefinitum, della verità>>. - (La struttura originaria, pag. 89).
Bisogna decidersi riguardo quel <<problema>>:

§.80- oppure (AUT) l’errore/io empirico/fede è <<destinato a non sentire la verità in quanto
ascoltata da “me”>>!

§.81- o (AUT) all’errore/io empirico/fede è <<possibile sentire>> il destino della verità nel
linguaggio dell’errore;

§.82- Se gli è possibile, allora non è vero che l’errore/io empirico/fede sia <<destinato a non
sentire la verità>>!

§.83- In tal caso verrebbe a cadere la tesi severiniana circa la dicotomia tra <<Io del destino>> ( =
la verità) ed io individuale ( = l’errore/fede), in quanto sarebbe sufficiente quest’ultimo per
<<essere cosciente del proprio essere veritativo>>.

§.84- Se, invece, all’errore/io empirico/fede non è mai possibile <<essere cosciente del proprio
essere veritativo>>, allora cade la tesi severiniana secondo la quale nel <<linguaggio dei
mortali>> sia possibile ascoltare, a volte, <<qualcosa di radicalmente diverso _ addirittura il
destino della verità>>.

§.85- Insomma, Severino è ben conscio del vicolo cieco, sforzandosi di non vederne l’intrinseca
aporeticità cui è il rapporto io-empirico-errore-fede//Io-del-destino-verità, tant’è vero che si ritrova
poi costretto a smussare la tesi vista al §.80 per accarezzare la tesi del §.81, ammettendo che <<la
verità […] è necessario che sia in qualche modo presente nella non verità>> (Severino; La
Gloria, pag. 69).

§.86- Proseguiamo con la Cusano: <<La testimonianza attuale del destino è affermazione della
impossibilità che l’io mortale [l’io dell’individuo] comprenda la verità del destino porta con sé
la necessità di abbandonare ogni velleità veritativa in relazione alla propria coscienza
individuale>>. (Cusano; op. cit., pag. 437).
§.87- Più chiaro di così non è dato scrivere;
per cui il <<linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> non è
possibile che <<risuoni in modo che sia possibile sentire nelle sue parole qualcosa di
radicalmente diverso _ addirittura il destino della verità>>, giacché <<nel mortale quella
presenza [della verità] è e non può che essere inconscia. La verità nella non verità è presente in
modo indiretto. Se fosse presente direttamente, sarebbe posta e saputa come verità, e dunque
non saremmo nella non verità [quindi, poiché siamo <<nella non verità>>, allora la verità non
può esser <<posta e saputa come verità>> né, perciò, potrà mai esser testimoniata da Severino].
La presenza, necessaria, del destino [cioè della verità] nel mortale [nell’errore/individuo] non
può che essere inconscia proprio perché non è diretta: sarebbe saputa come tale, solo [segue
citazione di Severino tratta da La Gloria, pag. 69 ->] “se la verità _ che è necessario che sia in
qualche modo presente nella non verità _ fosse direttamente presente nella non verità”>>.
(Cusano, op. cit., pag. 444).
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§.88- Infatti, il <<linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino della verità>> è <<il
linguaggio malato>> tramite il quale affiora il <<pensiero malato>> latore della <<verità del
destino>> e, di tale pensiero, la Cusano afferma incredibilmente che <<Seguendo il linguaggio
[malato!] che testimonia il destino si deve sostenere [che] non solo è necessario che la verità
del destino affiori nel pensiero malato, ma è anche necessario che da quel pensiero essa [la
verità] non possa essere compresa: è impossibile che nel linguaggio della terra isolata [quindi
nell’errore/individuo] ci sia comprensione della verità del destino, anche se formalmente le sue
parole suonano identiche al linguaggio che testimonia il destino. È cioè necessario che il
linguaggio malato, proprio in quanto tale, non le possa comprendere. Anche se le parole del
linguaggio malato suonano simili a quelle del linguaggio che testimonia il destino, e simili in
maniera così impressionante da poter vedere in ciò una certa “problematicità”, si deve
affermare la necessaria formalità di quella identità>>. (Cusano, op. cit., pag. 446).

§.89- Senonché, avendo posto come necessario <<che da quel pensiero essa [la verità] non possa
essere compresa>>, e cioè che <<è impossibile che nel linguaggio della terra isolata [ =
nell’errore/individuo] ci sia comprensione della verità del destino>>, è allora contraddittorio
pretender che <<Seguendo il linguaggio [anch’esso malato!] che testimonia il destino si deve
sostenere [che] è necessario che la verità del destino affiori nel pensiero malato>>, giacché
quest’ultima pretesa è pur sempre una <<comprensione della verità del destino>> da parte di chi
non può comprenderLa ossia del <<linguaggio della terra isolata>>!

§.90- Prosegue inoltre a pag. 447: se <<il linguaggio mortale che suona identico a quello che
testimonia il destino è necessariamente un affiorare rovesciato (e dunque sviante)
dell’inconscio dell’inconscio (e che sia rovesciato significa che sono impossibili lampi di
comprensione autentica)>>, allora <<Si deve pertanto concludere che nel pensiero
dell’isolamento un lampo di comprensione autentica è impossibile (nello stesso senso e per lo
stesso motivo per cui lo si deve escludere in relazione all’io dell’individuo): è necessario che,
all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il pensiero mortale [dell’io individuale,
dunque] fraintenda, sempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia. Se dunque “anche
nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa “non può non essere
ambigua, sviante, cioè non può condurre gli abitatori della terra isolata alla luce del destino.
Altrimenti la terra non sarebbe isolata”>>.

§.91- La sequenza di contraddizioni presente in queste tesi consiste nella posizione di un


<<pensiero malato>> che attraverso un <<linguaggio malato>> ( = gli scritti dell’errore-
Severino) testimonierebbe in modo non-malato la necessità che la verità ( = la non-malattia) affiori
nella malattia ( = nel linguaggio malato) in modo non-malato (altrimenti affiorerebbe una verità
malata, ossia una non-verità) onde, tale verità, venga compresa da quell’errore cui è Severino (ed
ogni altro io empirico) senza poterla, però, affatto comprendere, giacché quella stessa verità <<è
affermazione della impossibilità che l’io mortale comprenda la verità del destino>>, cosicché
essa si annunci a chi è costitutivamente impossibilitato a comprenderLa (e quindi a scriverNe)!

§.92- Non solo, ma se <<Nell’apparire rovesciato in cui consiste la coscienza malata del
nichilismo la verità non può che apparire alterata>> (pag. 446), allora il suddetto <<pensiero
malato>> (dell’errore/io empirico-Severino) non può neppure testimoniare in modo non-malato
( = cioè alethico) la necessità che la verità ( = la non-malattia) affiori nella malattia ( = nel
linguaggio malato) in modo non-malato (appunto perché essa appare <<alterata>>)!
16

§.93- A questo punto, la precisazione che il destino _ ciascuno di noi in quanto sarebbe anche <<Io
del destino>> _ sia <<autoapparire>>, cosicché sia escluso l’apparir di esso all’errore/individuo,
rende tutto ancor più surreale e aporetico: <<L’io dell’individuo è un contenuto della follia, un
fascio di convinzioni contraddittorie. [...] Nello sguardo del destino l’io dell’individuo è errore,
e perciò a esso non può apparire il destino della verità. Ma qui si rifletta sull’espressione
linguistica “a esso”: l’io non è ciò “a cui” qualcosa appare, ma è l’apparire del destino, ossia
l’apparire che il destino è: il destino è autoapparire. L’esser “Io” del destino è questo
autoapparire. Severino mostra che, qualora si intenda l’apparire come “apparire a”, ci si
chiude nella cattiva infinità, determinata dall’impossibilità che apparente [ = ciò che appare] e
destinatario [ = l’io individuale] di quell’apparire si incontrino: se l’apparire che è il destino
apparisse “a”, tale destinatario dovrebbe a sua volta essere apparire, che, come tale, dovrebbe
apparire “a”; anche quest’ultimo destinatario, in quanto apparire, dovrebbe apparire “a”, e
così via all’infinito. L’io individuale è un essente della follia e il destino non appare “a”, ma è
apparire a sé: l’apparire non può che essere apparire a sé, autoreferenzialità>> dell’Io del
destino. (Cusano, pag. 297).

§.94- Surreale e aporetico, perché ciò ci costringerebbe a prospettare la bizzarra evenienza secondo
la quale ogni qual volta l’errore/individuo Severino parli e scriva del destino, in realtà a parlarNe
ed a scriverNe sarebbe sempre e soltanto l’io del destino che però non pare possa parlare né
scrivere se non per mezzo dell’errore/fede/individuo-Severino.

§.95- Epperò questi, in quanto io empirico, non può comprendere la verità del destino di cui va
descrivendone la struttura, quindi neppure può parlarNe/scriverNe tout court.
§.96- Insomma, una sorta di schizofrenìa ontologica, ove l’errore/individuo-Severino si ritrova a
scrivere quasi ‘sotto dettatura’ come un amanuense privo di coscienza circa il valore alethico di ciò
che va scrivendo, cosicché la mano destra ( = l’io empirico-Severino) non possa sapere che cosa
scriva la mano sinistra ( = l’io del destino) e, nonostante ciò, pretenda di saperNe scrivendone…

§.97- D’altronde, è già inverosimile di per sé che negli scritti severiniani sia l’autoapparire del
destino a darsi testimonianza, se non altro perché ciò non spiegherebbe la presenza di tesi erronee
poi successivamente corrette o abbandonate dallo stesso errore/individuo-Severino.
§.98- E che Severino cerchi strenuamente di ritagliarsi una deroga per se stesso (come chiaro
segnale della consapevolezza di una irrisolvibile aporia), lo si evince anche da quanto segue, ove
egli osserva che

§.99- <<a esso [all’errore/individuo-Severino] non può apparire il destino della verità>>, data
l’<<impossibilità che l’io mortale [Severino] comprenda la verità del destino>>, tuttavia <<Nel
linguaggio [di Severino, perciò <<a esso>>, all’errore/individuo-Severino] può però farsi innanzi
già ora, a volte, il senso autentico del destino. Nel linguaggio _ perché nel profondo di ogni
uomo quel senso è già da sempre manifesto>>.

§.100- Dunque, questa eccezione che Severino presume di sé evidenzia innanzitutto come sia
proprio l’errore/individuo-Severino a testimoniare la verità del destino (anziché indurre a ritener che
sia un fantomatico <<autoapparire>>), giacché egli, qui, sta riferendosi al suo linguaggio, quello
leggibile nei suoi libri e attraverso i quali si farebbe <<innanzi già ora, a volte, il senso autentico
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del destino>>, cosicché l’io mortale-Severino sia esonerato dall’<<impossibilità>> che il suo io
mortale <<comprenda la verità del destino>>:
curiosamente, un’impossibilità per lui non valida…
§.101- Poiché così, allora risulta sostanzialmente falsa la tesi severiniana che recita: <<[L]’io
individuale non può pensare la verità del destino, anche se questa è, come inconscio
dell’inconscio, la verità del suo apparire ed essere: l’io dell’individuo non è e non può essere
cosciente del proprio essere veritativo. Tale coscienza appartiene solo all’Io del destino>>.

§.102- Giacché ad asserire ciò è innegabilmente sempre e soltanto l’errore/individuo-Severino il


quale, perciò, mostra di sapere ciò che in quanto errore/individuo non può sapere.

Non resta, ora, che esaminare il pensiero malato riverberantesi nel linguaggio malato che
testimonierebbe il destino…

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Parte 4.
LA STRUTTURA ORIGINARIA E LA STRUTTURA
PREDICATIVA CONTRADDITTORIA

§.103- La struttura originaria ( = S.O.) nasce strutturalmente _ ab origine _ già inficiata dalla
contraddizione indicata da Severino, prima ancora di essere espressa/formulata/redatta, perché tale
contraddittorietà comincia già con il <<pensiero malato>> (espressione di Severino) il quale si
esprime a sua volta mediante il linguaggio altrettanto <<malato>> (anch’essa espressione di
Severino, cfr. supra, Parte 3).
§.104- Qual è la contraddizione in oggetto tal da render <<malato>> il pensiero?

§.105- È l’identità dei differenti, ossia la contraddizione che Severino crede di ravvisare nel
divenire (vedasi Parte 6) ma che, invece, sta di casa proprio nella S.O., e che chiamo l’inguaribile
Struttura Predicativa Contraddittoria ( = SPC) concernente ogni pensiero e linguaggio e quindi
ogni ente che da tale struttura è detto.

§.106- Abbiamo già visto (Parte 3) che <<a esso [all’errore/individuo-Severino] non può apparire
il destino della verità>>, giacché è <<impossibile che nel linguaggio della terra isolata [ =
nell’errore/individuo] ci sia comprensione della verità del destino>>.
§.107- A ciò, aggiungiamo adesso la SPC.

Scrive Severino: <<Il linguaggio continua a dire che A è B; ma dice l’impossibile. Dice
l’impossibile anche se A = B è pensato come (A = B) = (B = A)>>. (Severino, Tautótes. Adelphi
1995).
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§.108- Dunque, lo stesso Severino riconosce che anche il suo <<linguaggio che tenta di mostrare
il destino della verità>> sia interamente commisto con la contraddizione esemplificata da:
<<A è B>>.
§.109- Altrove, scrive sempre Severino: <<Affermare che questa estensione [A] è [ = ] rossa [B],
significherà infatti affermare che questa estensione è non questa estensione [<A = ¬A>; ¬<A =
A>] (stante che il colore di questa estensione appartiene all’orizzonte del contraddittorio di
essa>> (Severino; La struttura originaria, pag. 269. Parentesi quadre mie: RF).

§.110- E prosegue: <<Aporia antichissima com’è noto, che già Platone discuteva (Sofista, 251
sg.), ma che da Platone fu piuttosto evitata che risolta [...] Aristotele aveva tentato di
eliminare la difficoltà introducendo la distinzione di sostanza ed accidente: nulla impedisce
che qualcosa (sostanza, o accidente in funzione di sostrato di un altro accidente) possa essere
anche altro, oltre a ciò che esso è; ma questa alterità non è negazione della sostanza _ ossia
non è un’altra determinazione sostanziale _ ma è l’ambito delle determinazioni accidentali
della sostanza (Met. 1. IV, cap. 4). Il che può essere accettato, nel senso che allorché si afferma
che questa estensione [A] è [ = ] rossa [B], non si nega che questa estensione sia un’estensione,
ma si afferma che questa estensione _ che è come questa estensione _ è, appunto, rossa; ossia
che l’identico (questa estensione che è questa estensione) è determinato in modo ulteriore
rispetto a quello che costituisce la determinatezza dell’identità>>.

§.111- <<Senonché _ osserva Severino _, nonostante il chiarimento fatto, l’aporia permane


egualmente: appunto in quanto l’identità è altro da sé. Ciò che provoca l’aporia è appunto _
per usare la terminologia aristotelica _ l’inesione della determinazione accidentale alla
determinazione sostanziale; ossia è il fatto che l’una è in qualche modo l’altra. Ogni giudizio
non tautologico ( = non identico) sembra pertanto una contraddizione. E quindi si dovrà dire
che ogni complessità semantica avente valore apofantico è una contraddizione: nella misura in
cui sembra che la complessità in questione non possa equivalere in quanto tale a un giudizio
tautologico>> - (Ibid).

§.112- <<Poiché pensare che qualcosa (soggetto) è qualcosa (predicato) è identificazione dei
non identici, perché soggetto e predicato sono isolati, sì che la loro relazione è prodotta dal
divenire del pensiero che li unisce [...] il divenire che li unisce è identificazione dei non
identici>> - (Severino; Tautòtes).
§.113- A ciò, la soluzione del filosofo bresciano consisterebbe nel <<giudizio tautologico>> i cui
termini siano concepiti come originariamente (eternamente) insieme, anziché divenuti tali a partire
dal loro iniziale isolamento:

<<Solo se al di sotto della forma linguistica “A è B” si pensa l’essere insieme a B da parte di A,


si può continuare a dire che (A = B) = (B = A). La formula adeguata è dunque:
[A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A].

Tuttavia, anche il linguaggio che tenta di mostrare il destino della verità può continuare a dire
(come accade anche in queste pagine) che A è B, che questa superficie è bianca, il cielo è
sereno, Socrate è un uomo, quest’ombra è sulla parete, la lampada è accesa (cioè, come in
queste esemplificazioni di “A è B”, può continuare ad esprimere come identità i contenuti non
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identici dell’interpretazione - e anche quei contenuti che invece non hanno questo
carattere)>>. (Severino, Tautótes. Parentesi quadre nel testo).

§.114- Precisa inoltre Severino: <<in questo linguaggio appare l’impossibilità che A sia B (ossia
non-A); ma dicendo che A “è” B, esso intende questo “essere” come un “essere insieme”; e
dicendo (A = B) = (B = A) esso intende [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A] (intende che è
A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-insieme-
a-B che è identico ad A)>>. (Tautótes; pag. 152. Parentesi quadre nel testo).
Andiamo per gradi.

§.115- Innanzitutto, come può <<in questo linguaggio>> <<malato>> apparire la non-malattia
consistente nell’<<impossibilità che A sia B (ossia non-A)>>, visto e considerato che tale non-
malattia ( = cioè tale presunta impossibilità) è essa stessa costituita come la stessa malattia ( = “A è
B”) della quale il linguaggio malato ne dice l’impossibilità?

§.116- Poiché secondo Severino <<A è B>> è la malattia, allora, inevitabilmente, l’asserzione: <<A
è B è la malattia>> è a sua volta una malattia, giacché <<è la malattia>> ripropone la stessa
malattia cui è <<A è B>>!

§.117- Che è come dire che la contraddizione ( = il linguaggio malato) mostra/esprime senza-
contraddizione ( = senza malattia) che essa, cioè la contraddizione, è impossibile…
§.118- Che è come dire, ancora, che il linguaggio (contraddittorio) mostra non-
contraddittoriamente che esso stesso è contraddittorio, e quindi tale linguaggio non mostra
alcunché; mostra-sé mostrando, di sé, che non è: non mostra tout court.
§.119- Torniamo alla ‘soluzione’ severiniana.

Essa recita che lo <<è>> di <<A è B>> vada pensato come <<l’essere insieme a B da parte di
A>>.
§.120- Ossia il linguaggio malato <<intende questo “essere” come un “essere insieme”; e
dicendo (A = B) = (B = A) esso intende [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A] (intende che è
A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-insieme-
a-B che è identico ad A)>> (parentesi quadre nel testo).

§.121- Diciamo subito che affermare che il linguaggio <<intende questo “essere” come un
“essere insieme”>> vuol dire che <<questo “essere”>> deve essere inteso come quell’altro-da-sé
cui è l’<<essere insieme>>, giacché la differenza tra <<A è B>> ed <<essere insieme>> sarebbe
(per Severino) la stessa differenza tra quegli infinitamente contraddittori cui sarebbero,
rispettivamente, il nichilismo ( = la contraddizione) è la verità del destino ( = la non-
contraddizione)!

§.122- Per cui il filosofo bresciano offre come soluzione (ciò che sulla base della sua teoresi è) una
contraddizione estrema, ossia (vuole) intendere la contraddizione <<A è B>> come se
significasse incontraddittoriamente <<essere insieme>>!
§.123- Ma non è finita qui.
Come visto, secondo Severino <<A è B>> deve intendersi come <<essere insieme a>>, cioè:
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<<(A = B) = (B = A)>>, il quale da Severino è inteso così:


<<[A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]>>,

cioè <<(che è A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a


quell’essere-insieme-a-B che è identico ad A)>>.

§.124- Siccome in OGNI sua ricorrenza lo <<è>> deve SEMPRE esser inteso come <<essere
insieme a>> _ cioè come: <<è insieme a>> _, allora quest’ultimo <<è insieme a>> diviene:
<<insieme a insieme a>>,
dove lo <<insieme a>> è lo stesso <<è>> di: <<è insieme a>> il quale, perciò, si dovrà
severinianamente ritradurre così:
<<insieme a insieme a>> (appunto perché ritraduce ‘veritativamente’ il ‘nichilistico’:
<<è insieme a>>).

§.125- E siccome anche lo <<è>> di <<è insieme a>> significa a sua volta: <<essere insieme a>>,
allora abbiamo:

A insieme a insieme a B.
§.126- Ugualmente, la formula: <<[A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]>>, ossia
<<[A è identico a (insieme a B)] che è identico a [(insieme a B) che è identico a A]>>
è da intendersi come:

<<[A insieme a identico a (insieme a B)] che insieme ad identico a [(insieme a B) che insieme a
identico a A]>>.
§.127- Pertanto, anche la frase di Severino:

<<(che è A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-


insieme-a-B che è identico ad A)>>,
sarà da intendersi severinianamente (cioè, a suo dire: veritativamente!) così:
<<(che essere insieme a A-che-essere insieme a-identico-al-suo-essere insieme a-B ad essere
insieme a B, ossia a quell’essere insieme a-B che essere insieme a identico ad A)>>.

§.128- Potremmo sfidare chiunque a tentar di pensare, parlare e scrivere intelligibilmente


mediante l’‘intendimento’ di cui poc’anzi e che vorrebbe fungere da soluzione, cioè intendendo o
sostituendo il verbo <<è>> con <<è insieme a>> e perciò con: insieme a insieme a;
essendo l’intendimento (a parer di Severino) incontraddittorio (di contro al presunto
contraddittorio <<A è B>>), dovrebbe risultare eminentemente facile e consequenziale
esprimerLo ed intelligerLo, il che è precisamente quanto non accade!
§.129- Un intendimento, perciò, che si rivela esser un completo fraintendimento!
§.130- Se la predicazione malata ( = SPC), espressione del <<pensiero malato>> costituente
qualsiasi discorso (anche questo) e qualsiasi tesi (di chiunque) non è trasformabile (lo vieta la
21

tesi severiniana dell’eternità dell’ente e quindi della presunta impossibilità del suo
trasformarsi/diventare-altro) in quell’altro da sé cui sarebbe la predicazione incontraddittoria
(benché inintelligibile, come appena constatato, giacché nessuno potrebbe mai farsi comprendere
pensando/parlando/scrivendo utilizzando l’espediente teoretico di Severino che legge <A è B>
come fosse da intendere: <A è insieme a B> quindi: <A insieme a insieme a B>, confermando
perciò stesso costitutivamente inaggirabile la SPC), allora tutto il sistema filosofico severiniano
presuppone _ alla sua base e via via lungo tutto il suo percorso esplicativo, tratto per tratto, frase per
frase _ ciò (-> la SPC) dalla quale egli vorrebbe liberarsi ma che in realtà non può non
riproporre/utilizzare continuamente, essendovi infatti completamente immerso.

Come colui che, stando sott’acqua, tentasse insistentemente di tener l’ombrello aperto per ripararsi
dalla pioggia…

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Parte 5.
L’ÉLENCHOS E LA STRUTTURA PREDICATIVA
CONTRADDITTORIA

Proseguo il discorso circa la Struttura Predicativa Contraddittoria (SPC), in questo caso in


rapporto all’élenchos severiniano.

§.131- Severino e discepoli sogliono frequentemente ribadire che <<la verità severiniana [cioè la
struttura originaria: S.O.) è ciò la cui negazione è auto-negazione>>, quindi essa è
incontrovertibile.

Tale affermazione esprime l’élenchos severiniano, ossia la (di)mostrazione per auto-confutazione


del confutatore.

§.132- Bene; senonché, anche tale verità severiniana la cui negazione è auto-negazione poggia su
(o è interamente informata da) la contraddizione mostrata nella Parte 4, ossia sulla
summenzionata SPC.
§.133- Tenendo presente che in ogni sua ricorrenza lo <<è>> deve sempre venir inteso _ secondo
Severino _ come: <<essere insieme a>> cioè come: <<è insieme a>>, allora proviamo adesso ad
applicare al suddetto élenchos la presunta soluzione severiniana alla SPC:
l’élenchos dice: <<la verità severiniana è ciò la cui negazione è auto-negazione>>.
§.134- Tale formulazione deve ora venir esplicitata sul seguente modello proposto come soluzione
alla SPC da Severino:
22

<<dicendo (A = B) = (B = A) esso intende [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]

(intende che

è A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-


insieme-a-B che è identico ad A)>> (parentesi quadre nel testo).
§.135- Quindi:

è (A)-la verità-che-è-identica-al-suo-essere-insieme-a-ciò-(B)-la cui negazione è auto-negazione


ad essere-insieme-a-ciò-(B)-la cui negazione è auto-negazione, ossia a quell’essere-insieme-a-
ciò-(B)-la cui negazione è auto-negazione che è identico ad A.
§.136- Pertanto, il risultato definitivo cui perviene la ‘verità’ non-nichilistica è:

insieme a insieme a (A)-la verità-che-insieme a insieme a-identica-al-suo-insieme a insieme a-


ciò-(B)-la cui negazione insieme a insieme a auto-negazione ad insieme a insieme a-ciò-(B)-la
cui negazione insieme a insieme a auto-negazione, ossia a quell’insieme a insieme a-ciò-(B)-la
cui negazione insieme a insieme a auto-negazione che insieme a insieme a identico ad A.
§.137- Per Severino, e con ancora più enfasi da parte di alcuni suoi discepoli, una tesi è
incontrovertibile soltanto se la sua negazione si rivela auto-negantesi, altrimenti è soltanto
un’ipotesi, per quanto confermata possa risultare.

§.138- Tanto per capirci: la sfericità del pianeta Terra _ la negazione della quale non si traduce
nella sua auto-negazione _ è perciò soltanto un’ipotesi, non una verità incontrovertibile…
Ma proseguiamo sul tema in oggetto.

§.139- Dunque, essi vanno ripetendo sino allo sfinimento che ogni critica rivolta alla S.O. sia una
critica auto-negantesi.

§.140- Ora, stante l’inevitabilità della predicazione: <A è B> (cioè di ciò che per Severino è la
contraddittoria/nichilistica <A è B> o SPC), succede che l’esposizione della S.O. sia interamente
consentita dalla SPC, ossia la presunta verità severiniana è pensabile/concepibile/esprimibile
soltanto sulla base di una intrinseca e strutturale SPC.

§.141- Quindi, se è vero che la SPC deve presupporre la S.O., è parimenti vero che la S.O. debba
anch’essa presupporre la SPC giacché, senza di questa, la S.O. sarebbe completamente
inintelligibile/inesprimibile.
§.142- A ciò, il severiniano replicherebbe:
<<No, Severino ha mostrato che <A è B> debba essere inteso come: <A è insieme a B>>>!

§.143- Senonché, intendendo lo <è> di <A è B> come: <è insieme a>, vuol dire far di <A è B> il
contraddittoriamente identico a quell’altro da sé cui è appunto <A è insieme a B>, ossia:
<A è B> è = <A è insieme a B> (visto che <A è B> differisce ≠ da <A è insieme a B>).

§.144- Infatti, ciò accade perché anche quest’ultima formula (<A è B> è = <A è insieme a B>)
ripropone lo stesso schema della SPC cui è: <A è B>, cosicché, per renderla incontraddittoria
(sempre a dire di Severino), essa andrà riformulata _ intesa! _ così:
23

<A è B> è insieme a <A è insieme a B>.


§.145- Ma, siccome ogni <è> deve essere a sua volta inteso come: <è insieme a>,
allora <A è B> è insieme a <A è insieme a B>
dovrà nuovamente esser riformulata così:
<A è B> insieme a insieme a <A è insieme a B>
e perciò:
<A è B> insieme a insieme a <A insieme a insieme a B>.
§.146- Concludendo.

S’è visto come l’alternativa _ la ‘soluzione’ severiniana _ ad <A è B> si involva nel groviglio
dell’inintelligibilità più completa, la qual cosa dovrebbe invece spettare alla contraddizione, non
certo ad una soluzione che si vorrebbe incontraddittoria!

§.147- Per cui, agli sbandieratori dell’élenchos severiniano, si farà allora notare che la negazione
severiniana della contraddittorietà insita nella verità severiniana si riveli una negazione auto-
negantesi, giacché anche tale negazione severiniana poggia su (ed è interamente informata da) la
contraddizione costituita dall’inemendabile SPC cui è <A è B> e secondo la quale <<l’identità è
altro da sé>> (Severino: cfr. §.111).

§.148- La quale SPC non è un semplice incidente di percorso attribuibile sbrigativamente al


linguaggio nichilista e perciò risolvibile ricorrendo ad un intendimento che ribalti il significato
corrente di <A è B>, facendolo peraltro significare come altro da sé cioè come un altro significato
rispetto a quello che ‘appare’ (e che perciò è noto a tutti), bensì è contraddizione strutturale, tant’è
vero che neppure Severino (ma poi nessuno) ha potuto mai aggirarla nei suoi scritti (come neppure
nel parlato).
§.149- Tale inaggirabilità è dimostrata dallo stesso Severino:

<<Tuttavia, anche il linguaggio che tenta di mostrare il destino della verità può continuare a
dire (come accade anche in queste pagine) che A è B, che questa superficie è bianca, il cielo è
sereno, Socrate è un uomo, quest’ombra è sulla parete, la lampada è accesa (cioè, come in
queste esemplificazioni di “A è B”, può continuare ad esprimere come identità i contenuti non
identici dell’interpretazione - e anche quei contenuti che invece non hanno questo
carattere)>>. (Severino, Tautótes. Parentesi quadre nel testo).
§.150- È chiaro; vista l’impossibilità di eludere la SPC cui è <A è B>, allora

<<anche il linguaggio che tenta di mostrare il destino della verità può continuare>>
(LEGGASI: tale linguaggio deve rassegnarsi) a dire <<(come accade anche in queste pagine)
che A è B>>, cioè a dire la contraddizione quale condizione per esprimere intelligibilmente
qualsivoglia tesi, inclusa la presunta verità.

§.151- Insomma, la SPC è una vera e propria struttura equiestensiva alla S.O., inseparabile da
quest’ultima, perciò una struttura (la SPC) nella struttura (nella S.O.):
la contraddizione nella non-contraddizione.
24

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Parte 6.
CONTRADDITTORIETÀ DEL <<DIVENTARE ALTRO>>?

§.152- Emanuele Severino, in Essenza del nichilismo, pag. 294 nota 15, riporta la seguente critica
mossagli:

<<“quando, parlando del divenire, diciamo che in un dato momento un essere non è, non
intendiamo porre […] in quel momento l’identità dell’essere e del nulla, ma solo il nulla: non
intendiamo porre, per esempio, la identità dell’essere di Socrate e del non essere di Socrate,
ma solo il non essere, la negazione di Socrate. Nel momento negativo del divenire non si ha
infatti l’identità di essere e nulla”>>.
§.153- Ad essa, così risponde Severino:

<<[…] Certo, il nichilismo non intende identificare l’essere al niente […]; ma l’essere è
identificato al niente proprio in quanto si pone “il non essere, la negazione di Socrate”. Il “non
essere di Socrate non è “solo il nulla”, ma è il positivo (Socrate) posto come nulla (nonostante
le intenzioni contrarie)>> (parentesi quadre mie: RF).

§.154- Da parte mia, direi: è nelle intenzioni di Severino che vi sia contraddizione (onde da essa
potervi costruire il suo impianto eternista), intenzione smentita dalla natura stessa della
contraddizione, giacché essa prevede la compresenza in unità ( = cioè come medesimo ente) di
entrambi i termini in reciproca esclusione:

Socrate e ( ∧ ) non-Socrate: S ∧ ¬S;


questa è la contraddizione: Socrate vivo che è al contempo morto, pur essendo vivo.

§.155- Severino si affretta ad osservare come <<Il “non essere di Socrate non è “solo il nulla”>>,
e si capisce; si affretta così perché ha ben chiaro che qualora <<Il “non essere di Socrate>> fosse
<<“solo il nulla”>>, allora non vi sarebbe contraddizione.
§.156- Per questo egli si premura di precisare: <<ma è il positivo (Socrate) posto come nulla>>.

§.157- Ma in ciò non vi è contraddizione, perché <<il positivo (Socrate) posto come nulla>> non
continua ad essere positivo e al contempo (simul) non-positivo ( = negativo), ossia non è affatto un
essere che permanga come essere insieme al suo non essere!
§.158- Soltanto in tal caso vi sarebbe contraddizione.
§.159- Ciò, d’altronde, lo riconosce _ contro la sua stessa tesi _ anche uno studioso (A. S.) di
Severino, del quale traggo dal WEB la seguente affermazione: <<Anzitutto, una contraddizione
25

vera deve violare il principio di non contraddizione e non limitarsi ad essere un mero
contraddirsi tra significati tendenti ad escludersi reciprocamente (il PDNC stabilisce che uno
stesso ente non possa avere proprietà in reciproca esclusione simultaneamente o nel medesimo
rispetto; per cui violare il PDNC significa violare queste condizioni)>>.
§.160- Appunto, esattamente; è quanto ho appena sostenuto sin qui.

§.161- Infatti, nel ritener contraddittorio il divenire (inteso come trasformazione), lo studioso A. S.
(ma in realtà prima di lui Severino) evidenzia giustamente l’insufficienza del <<contraddirsi tra
significati tendenti ad escludersi reciprocamente>> come Socrate vivo e Socrate morto, o come
l’essere ed il nulla.

§.162- Senonché, è proprio questa operazione che egli attua e che perciò lo inganna, inducendolo
a ‘vedere’ la contraddittorietà del divenire/trasformazione, giacché in esso lo studioso severiniano
si ritrova tra le mani dei <<significati tendenti ad escludersi reciprocamente>> (essere e nulla) e
li assume ipso facto quali condizione per sancire la contraddittorietà del divenire/trasformazione e
quindi come conferma della violazione del PDNC!

§.163- Mentre, invece, la <<contraddizione vera>> _ la violazione del PDNC _ accade dove, di
Socrate che è attualmente vivo, si dice che è al contempo (cioè attualmente) anche morto, o
dell’essere che è al contempo anche nulla pur restando essere, o di un cerchio che è al contempo
anche quadrato restando cerchio...

§.164- Pertanto, il divenire (cosiddetto ‘nichilistico’) non è contraddittorio appunto perché, per
esserlo, il risultato cui è il <<non essere di Socrate>> ( = Socrate morto) dovrebbe <<avere
proprietà in reciproca esclusione simultaneamente>> con Socrate vivo (o con l’essere di
Socrate), cioè, daccapo, il Socrate morto dovrebbe concernere un Socrate che sia al contempo vivo
e morto insieme, il che è quanto invece nel divenire non accade neppure implicitamente, come
detto, giacché nel risultato vi è <<solo il nulla>> di Socrate (solo il Socrate morto), e non anche il
permanere del suo precedente non-esser-nulla cioè il permaner del suo precedente esser Socrate
vivente/essente.

§.165- E allora non mi pare accettabile sostenere che <<il PNC aristotelico non riesce ad evitare
la contraddizione quando sostiene che in un dato istante un essente sia nulla (in pratica
afferma che, in un dato istante, nel medesimo rispetto un essente è e non è, perché quando
dice che un essente non è, non è del nulla simpliciter che afferma essere nulla, ma di un
essente. Identifica i distinti nel medesimo rispetto, implicitamente)>>.

§.166- Perché Aristotele non sta identificando <<i distinti nel medesimo rispetto>>, ove
identificare <<i distinti nel medesimo rispetto>> comporta la loro compresenza in atto, cioè
comporta che l’essere si annulli restando essere, così da avere un essere che sia-essere-ed-al-
contempo-non-lo-sia.

§.167- In questo caso sì che allora avremmo certamente la contraddizione identificante l’essere ed il
nulla, in quanto entrambi sussistenti a guisa di come dovrebbe sussistere un ente che fosse insieme
cerchio-e-quadrato.
26

§.168- Invece, quando vi è il nulla di Socrate ( = Socrate morto) non vi è simultaneamente anche
l’essere di Socrate ( = Socrate vivo), e viceversa.

§.169- Il non esservi ( = il nulla) di Socrate vivo, non è il non esservi (il nulla) di un Socrate che è
ancora vivo ( = essere), bensì è il nulla di un Socrate che è nullo.

§.170- Certo, <<non è del nulla simpliciter che afferma essere nulla, ma di un essente>>; ma
appunto, di tale essente, dicendo che è nulla, non si sta implicando che esso sia anche
simultaneamente non-nulla, ma soltanto nulla (o soltanto essente), di modo tale da non lasciar
sussistere alcuna contraddittoria compresenza tra elementi reciprocamente impossibilitati a stare
insieme nel medesimo tempo.

§.171- Parimenti, non è accettabile, a mio parere, il seguente brano: <<Di un essente ritenuto non
più o non ancora esistente si avrebbe una negazione dell'identità, che però è incontrovertibile
in quanto l'ipotesi contraria va in autonegazione>>.

§.172- Ritengo che non si dia alcuna <<situazione autonegantesi>> nel negare l’identità di <<un
essente ritenuto non più o non ancora esistente>> giacché, che l'identità di X sia
incontrovertibile (cioè che X sia X) non comporta che il suo esser <<non più o non ancora
esistente>> sia affermazione che <<va in autonegazione>>.

§.173- Seguiamo il ragionamento di A. S.:


<<per dire che X non sia X si deve assumere che X sia incontrovertibilmente X, altrimenti il
“non X” non sarebbe posto e con ciò neanche la negazione dell'identità di X; solo tenendo
ferma X come identica a sé si può prospettare “l'essere non X di X” da parte sua>>.
Sin qui d’accordo.

§.174- Prosegue A.S.:


<<ma “l'essere non X da parte di X” non riesce ad essere una negazione determinata
dell'identità di X, giacché deve già affermare e assumere implicitamente come
incontrovertibile l'identità di X per porre il “non X” (se così non fosse, il “non X” non sarebbe
differente da X e dunque X non potrebbe in ogni caso essere altro da sé, ovvero “non X”)>>.

§.175- Ma <<l'identità di X>> è già stata assunta <<come incontrovertibile>>, ossia è già stato
riconosciuto <<che X sia incontrovertibilmente X>> ( -> §.173), altrimenti di che cosa staremmo
parlando allorquando diciamo che X è <<ritenuto non più o non ancora esistente>>?

§.176- E da tale assunzione, finora, non discende alcuna impossibilità che <<“l'essere non X da
parte di X”>> sia <<una negazione determinata dell'identità di X>>.

§.177- Dunque, perché la <<negazione dell'identità di X>> sarebbe <<autonegazione>>?


27

§.178- Perché, secondo A. S., <<L'autonegazione della negazione dell'identità di X significa che
X, se è essente, non può aver avuto un tempo in cui non fosse o avere un tempo in cui non sia
più>>.

§.179- Ma questa non è una spiegazione;


egli, qui, osserva che tale autonegazione <<significa che X, se è essente, non può aver avuto un
tempo in cui non fosse o avere un tempo in cui non sia più>>.

§.180- Ossia, a suo dire <<significa>> ciò che, invece, A. S. dovrebbe ancora dimostrare, cosicché
presupponga l’impossibilità di <<un tempo in cui X non fosse o avere un tempo in cui X non
sia più>>.

§.181- E perché X <<non può aver avuto un tempo in cui non fosse o avere un tempo in cui
non sia più>>?

§.182- Vediamo di reperire una risposta cogente da parte di A. S., che perciò scrive:

<<Infatti, che X in quanto essente non sia più o non sia è impossibile perché per accadere ciò
dovrebbe essere l'identità di X a non essere più o ancora. Ma affinché X non sia, è necessario
innanzitutto che X sia, perché è X che sarebbe ritenuta non più o non ancora essente, non
altro>>.

§.183- Spiacente davvero, ma neppure qui vi è la minima traccia del perché la <<negazione
dell'identità di X>> si traduca in <<autonegazione>>.

§.184- Leggiamo bene il passaggio di cui sopra; egli si limita a ribadire la propria tesi, anziché
dimostrarla, giacché affermare che <<affinché X non sia, è necessario innanzitutto che X sia,
perché è X che sarebbe ritenuta non più o non ancora essente, non altro>> significa aver perso
di vista che l’identità con sé di X era già stata accettata e riconosciuta, ovvero era già stato
riconosciuto come non-problematico che <<è necessario innanzitutto che X sia>>.

§.185- Quindi, appurato nuovamente che <<X sia>>, cioè che: X è X, ritorna la domanda:

§.186- perché la <<negazione dell'identità di X>> si traduce in <<autonegazione>>?

§.187- Al che, A. S. prosegue così:

<<X, se essente, non può essere in alcun momento non essente, non perché il non esserlo
costituisca una semplice contraddizione, ma perché costituirebbe una situazione
autonegantesi, in cui la negazione dell'identità di X non riuscirebbe a darsi in quanto la
richiederebbe a monte, affermandola implicitamente ed essendo quindi impossibilitata a
negarla esplicitamente (che se lo facesse, finirebbe in autonegazione)>>.
28

§.188- Ma, ripeto, l’identità di X era già stata concessa a monte, per cui dove sarebbe la
<<situazione autonegantesi>>?

§.189- Non c’è, ahimè, almeno non in ciò che ho riportato qui.

Infatti, ripeto, nessuno nega la determinatezza di X, ché, se la si negasse, allora sì che la sua
negazione sarebbe auto-negantesi, in quanto tale negazione è essa stessa determinata.

§.190- Ma che la negazione della determinatezza sia negazione determinata e quindi auto-
negantesi, non comporta che, allora, la determinatezza ( = l’essente) non possa diventare-altro.

§.191- Né l’affermazione dell’annullamento di X comporta la negazione del riconoscimento


dell’identità con sé di X; parimenti, quel riconoscimento non implica che l’affermazione del
diventare-altro si traduca in auto-negazione.

§.192- Una volta che l’essente sia divenuto-altro, la negazione di quella determinatezza non sarà
più negazione auto-negantesi.

§.193- Chiedo perciò: dalla riconosciuta determinatezza di X, come discende che il suo (di X) non
esser più o non esser ancora esistente sia <<una situazione autonegantesi>>?
È ovvio: non ne discende in alcun modo.

§.194- A ciò, verrà replicato che la possibilità che l’ente divenga altro sia qui soltanto
presupposta, non dimostrata.

§.195- Senonché, da quanto visto sin qui, da parte severiniana non si è neppure intravista la benché
minima cogenza tale da far concludere obtorto collo circa la contraddittorietà del diventare-altro.

§.196- Allora non ha davvero senso tacciar di presupposto la tesi del diventare-altro da parte di
quell’altro presupposto che recita l’impossibilità del diventare-altro…

§.197- Giacché ci si illude grandemente, se si crede che sia sufficiente esibire la suddetta auto-
negazione, poiché essa non si ritorce contro chi sostiene che la determinatezza possa
incontraddittoriamente trasformarsi diventando altro, in quanto quell’auto-negazione è circoscritta
soltanto al fatto che, siccome la negazione del determinato è essa stessa determinata, allora tale
negazione si auto-nega, ossia dice che, poiché attualmente X è X, allora certamente non può essere
al contempo anche non X è X, e l’élenchos comincia e finisce qui, punto.

§.198- Ovvero, non dice assolutamente che diacronicamente (cioè non-al contempo) sia
impossibile che X è X diventi non X è X perché ciò, a dire di Severino, costituirebbe la
contraddizione di avere, simul, X è X e non X è X.
29

Questa presunta impossibilità è soltanto il grandioso presupposto severiniano, privo di quella


cogenza richiesta per ‘capitolare’, e nulla più.

§.199- Pertanto, a mio parere è sin qui emerso come non sia vero che <<X, se essente, non può
essere in alcun momento non essente, non perché il non esserlo costituisca una semplice
contraddizione, ma perché costituirebbe una situazione autonegantesi>>, appunto perché
affermare che <<X, se essente, non può essere in alcun momento non essente>> non costituisce
nessuna <<situazione autonegantesi>> ma al massimo _ contrariamente a quanto scritto da A. S. _
potrebbe rappresentare <<una semplice contraddizione>>, fino a prova contraria.

§.200- Vediamolo meglio, dunque, domandandoci:


vi è la prova della contraddittorietà del diventare-altro?
Ovvero, è possibile il diventare-altro?

§.201- Ritorniamo a monte. L’identità dei differenti (essere/nulla, Socrate-vivo/Socrate-morto, etc.),


per potersi dire contraddittoria, deve affermare la compresenza di entrambi i termini
contraddicentisi, non di uno soltanto (e neppure di uno come presente e dell’altro come
passato/assente o ricordato), come infatti accade nel divenire non-severiniano, dove appunto l’esser
nulla da parte di X non prevede che X sia ed al contempo non sia X, bensì prevede soltanto il non
essere di X, giacché, per sostenere che invece la contraddizione sussista in quanto è “di” X
esistente che si afferma la sua nullità, dovrebbe accadere che X esistente, affermandone la nullità,
rimanga esistente ED INSIEME non lo sia più:
soltanto questa sarebbe autentica contraddizione.

§.202- NOTA:
come già indicato al §.109, per Severino la contraddizione cui sarebbe l’identità dei differenti
contempla l’essere nonché la presenza di entrambi gli elementi contraddicentisi; rileggiamolo:

<<Affermare che questa estensione [A] è [ = ] rossa [B], significherà infatti affermare che
questa estensione è non questa estensione (stante che il colore di questa estensione appartiene
all’orizzonte del contraddittorio di essa>> (Severino; La struttura originaria, pag. 269. Parentesi
quadre mie: RF). Sebbene, sempre per Severino, in virtù del presupposto di cui al §.198, l’identità
dei differenti sia contraddittoria soltanto se considerata come risultato di un divenire che unisce
entrambi i termini originariamente irrelati; ma appunto, entrambi i termini…
Fine della NOTA.

§.203- A. S. scrive che <<se ogni aspetto manifesto è necessariamente essente, in quanto non vi
è alternativa al non essere nulla assoluto, segue che per qualunque aspetto manifesto della
realtà (inclusi gli apparire delle cose, relativi alla triplice struttura dell'apparire indicata da
Severino) sia impossibile trasformarsi in altro da sé, cessare di essere o incominciare ad
esserlo (perché tutto ciò implicherebbe il passaggio dall'essere al non essere, e viceversa, per
gli aspetti essenti della realtà e […] ho mostrato che tale passaggio impossibile implichi un
30

momento nel quale un essente esista e insieme non esista, e che dunque esso assieme sia
essente e non essente)>>.

§.204- Ma ecco, riguardo all’affermazione evidenziata in giallo, ciò è quanto esattamente non
accade né è implicato.

§.205- Infatti, a non accadere mai (neanche implicitamente) è proprio quel <<momento nel quale
un essente esista e insieme non esista, e che dunque esso assieme sia essente e non essente)>>,
giacché l’inesistenza di X non comporta il suo permanere <<insieme>> all’esistenza di X, non più
di quanto l’esistenza di X permanga <<assieme>> alla sua inesistenza. Se è esistente, è soltanto
esistente, e se è inesistente, è soltanto inesistente, senza contraddizione, appunto perché sia
nell’un caso che nell’altro ad X non accade mai che <<assieme sia essente e non essente>>.

§.206- Desidererei proseguire ancora per un po’, riportando ciò che A. S. ritiene <<una
contraddizione certa per il divenire non severinianamente inteso (che esclude l'esistenza
dell'apparire infinito prospettato da Severino, in cui tutti gli aspetti essenti non più e non
ancora presenti nella dimensione dell'apparire processuale, sono ed appaiono eternamente).
Un essente X ritenuto esistente in T1 e non esistente in T2, per giustificare la sua inesistenza in
T2 dovrebbe implicare l'essere passato dall'esistenza alla non esistenza. Tale passaggio
comporta la necessità che X sia in esso presente, altrimenti non sarebbe mai il soggetto a cui
accade di cessare di esistere (e che dunque, non cessando di esistere, dovrebbe in tale ipotesi
esistere sempre, in modo sempiterno). Ma tale passaggio tra T1 e T2, implica che a un certo
momento X sia contemporaneamente esistente e non esistente. Se infatti, in tale passaggio, X
non fosse presente e dunque esistente, non potrebbe mai essere il soggetto che passa dalla
condizione dell'esistere al non esistere, cessando la sua esistenza. Ma risultando esistente in
quel passaggio, risulterebbe simultaneamente esistente e non esistente nello stesso rispetto,
contravvenendo al PDNC e dunque portando a contraddizione la suddetta ipotesi del
divenire>>.

§.207- Ahimè, temo che quella indicata da A. S. non sia affatto <<una contraddizione certa>>, e
neppure una <<contraddizione>> simpliciter.
L’implicazione che A. S. crede di vedere, infatti, non sussiste.

§.208- A. S. precisa che X debba essere <<in esso [cioè in T2] presente>>, <<altrimenti _ dice _
X non sarebbe mai il soggetto a cui accade di cessare di esistere>>.

§.209- Tutto al contrario:


X è <<il soggetto a cui [in T2] accade di cessare di esistere>> proprio perché a X esistente in T1
succede il suo diacronico diventar inesistente, giacché per poter essere <<il soggetto a cui accade
di cessare di esistere>>, X deve esistere soltanto in T1 come ciò che, successivamente (e non:
<<simultaneamente>>) cioè in T2, <<accade di cessare di esistere>>.
31

§.210- In tale diventar inesistente da parte di X, non accade mai che in T2 esso sia
<<simultaneamente esistente e non esistente nello stesso rispetto>>, perché se così fosse, non si
realizzerebbe quel <<passaggio>> di cui parla A. S. in quanto, X esistente, sarebbe ancora presente
in T2.

§.211- Quel passaggio è dunque diacronia e questa, proprio perché è tale, non prevede _ anzi, deve
escludere _ che in T2 si prolunghi l’esistenza di X <<simultaneamente>> all’attuale inesistenza di
X.

§.212- Ed è proprio questo il fondamentale, clamoroso abbaglio di Severino;


diventando non-X (cioè nulla o un altro ente), egli ritiene vi sia un tempo in cui X <<risulterebbe
simultaneamente esistente e non esistente nello stesso rispetto, contravvenendo al PDNC>>,
quando, invece, non si dà alcun tempo in cui sia implicata la contraddittoria simultaneità tra
esistente ed inesistente, bensì soltanto la diacronia ( = la non-simultaneità) tra X-esistente ed X-
inesistente.

§.213- Peraltro si deve notare come, curiosamente, sia lo stesso A. S. a confermare la critica sin qui
esposta; infatti, egli riconosce che per esservi contraddizione, sarebbe necessario che X, in T2,
risultasse <<simultaneamente esistente e non esistente nello stesso rispetto, contravvenendo al
PDNC e dunque portando a contraddizione la suddetta ipotesi del divenire>>.

§.214- Infatti, come già anticipato nel §.154, vi sarebbe autentica contraddizione allorquando
fossero compresenti X-esistente ed X-inesistente simul, ma ciò è appunto quanto non accade mai,
giacché quel passaggio _ quella diacronia _ è il toglimento della contraddittoria simultaneità.

§.215- È improduttivo insistere facendo notare come tale annullamento sia l’annullamento-di-X-
esistente posto come inesistente, certamente è di X-esistente che si dice essere, ora, inesistente; ma
l’annullamento-di-X-esistente non implica affatto il suo esser <<simultaneamente esistente e non
esistente>> in T2; tale nullità viene affermata di X perché diacronicamente essa succede ad (o
deriva da) X il quale è perciò esistente soltanto in T1.

§.216- Sì che T2 sia la incontraddittoria relazione del passato (o dell’esser stato) di X-a-quel-
tempo-(T1)-esistente (cioè il ricordo di X-esistente in T1) con il presente in cui vi è soltanto la
nullità-di-X-che-era-in-T1-esistente e che perciò in T2 non è certamente <<esistente e non
esistente nello stesso rispetto>>!

§.217- Infine, per ulteriore chiarezza, desidero riportare anche quest’altro brano di A. S., che
contiene una esplicitazione in più rispetto a quello riportato sopra al §.206:

<<[…] Ma tale passaggio implica un momento contraddittorio in cui l'essente esista e assieme
non esista nel medesimo tempo e rispetto: se l'essente non fosse presente e dunque esistente
nel suo cessare di esistere allora non sarebbe mai incluso in quel passaggio (che richiede la sua
presenza in quanto esistente, dato che il divenire non eternistico predica il cessare di esistere
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dell'essente in quanto esistente e non dell'esistente in quanto non già più esistente). Pertanto
l'essente, per cessare di esistere, deve essere presente nel momento della cessazione della sua
esistenza e quindi essere contemporaneamente esistente e non esistente nel medesimo
rispetto>>.

§.218- Senonché, questa sua ulteriore esplicitazione non è purtroppo accompagnata dalla sua
maggior plausibilità.

Mi spiego.

Ritener che X (l’essente) debba esser <<presente e dunque esistente nel suo cessare di esistere>>
cioè nel suo <<passaggio>> (da T1 a T2) non può significare che durante la trasformazione in
altro da sé ( = nel suo cessar di esistere), X sia al contempo esistente/presente esattamente come
era prima di andare incontro al processo di trasformazione, perché in tal caso X non andrebbe
incontro ad alcuna trasformazione tout court, giacché la sua stessa integrale esistenza/presenza in
esso costituirebbe la negazione di tale passaggio, ovvero sarebbe STASI, ossia la completa
irrealizzabilità del passaggio.

§.219- Nella diacronìa ( = nel processo di trasformazione o passaggio), infatti, non può essere
implicata l’intera nonché contraddittoria presenza/esistenza di X, ovvero <<nel momento della
cessazione della sua esistenza>>, perché ciò vorrebbe dire che, nel passaggio, X passi e non-
passi, assistendo perciò, dalla propria presenza/esistenza, alla sua stessa cessazione senza però
cessare, appunto perché entrambi (esistenza di X e sua inesistenza) simultaneamente presenti!

§.220- Quindi, la ragione addotta da A. S. per sostenere che l’essente debba <<essere
contemporaneamente esistente e non esistente nel medesimo rispetto>> perché, se così non
fosse, esso <<non sarebbe mai incluso in quel passaggio>> dall’esistente all’inesistente, risulta a
me del tutto incomprensibile.

§.221- Affinché <<quel passaggio>> includa X, e quindi, affinché esso sia realmente un passaggio
che concerna X (anziché esserne la stasi), esso non deve affatto esservi incluso nella sua integrale
presenza/esistenza, non solo perché, come detto, verrebbe meno lo stesso passaggio (giacché non
sussisterebbe nessuna differenza tra il terminus a quo ed il terminus ad quem la cui differenza segna
appunto il divenire di X; se infatti il terminus a quo fosse presente nel passaggio, non si sarebbe
avviato il divenire di X, sì che X resterebbe immoto), ma altresì perché la diacronìa di X esige che
una qualsiasi parte di X ancora esistente sia seguita dalla ( = diventi la) propria inesistenza, e ciò
costituisce l’essenza stessa del passaggio.

§.222- Sia seguita, s’è detto, ESCLUDENDO perciò il suo (di X) <<essere contemporaneamente
esistente e non esistente nel medesimo rispetto>> durante il passaggio, pena la negazione di
quest’ultimo.

§.223- Qualora un qualsiasi aspetto di X _ nel passaggio _ non fosse ancora divenuto nulla, non per
questo implicherà la propria contraddittoria inesistenza insieme alla propria esistenza, e qualora
fosse ormai divenuto nulla, non per questo esso sarà esistente e contemporaneamente inesistente,
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il che equivale a dire che giammai tale passaggio potrà implicare che una qualsiasi parte di X _ nel
suo divenire _ sia <<contemporaneamente esistente e non esistente nel medesimo rispetto>>!

§.224- Pertanto, nella misura in cui l’ente è severinianamente incontraddittorio, il divenire non è
contraddittorio;
nella misura in cui l’ente è anche contraddittorio (vedasi Parte 2 e 4), il divenire è anche
contraddittorio, sebbene di una contraddittorietà differente da quella rilevata da Severino.

RF (Agosto 2022).

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