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1 Capitolo 1
1 Capitolo 1
FOTOGRAFARE
COME UN’INTRODUZIONE
La facoltà di immaginare che è in me, e della quale vedo, per esperienza, che mi
servo quando mi pongo a considerare le cose materiali, è capace di persuadermi
dell’esistenza di queste stesse cose: perché quando considero con attenzione che
cosa mai sia l’immaginazione, trovo che non sia null’altro che l’applicazione della
facoltà di conoscere ciò che esiste, insieme al mio corpo che ad essa è intimamen-
te connesso. Per rendere tutto ciò più chiaro, insisto anzitutto sulla differenza che
esiste tra immaginazione e pura intelligenza o concezione. Per esempio, quando
immagino un triangolo, non lo concepisco soltanto come una figura composta e
delimitata da tre linee, oltre a questo, considero le tre linee presenti, in forza e
grazie all’applicazione del mio spirito; e questo è ciò che propriamente io defini-
sco immaginare. Ché, se io voglio pensare a un chiliogono, concepisco bene, in
verità, che è una figura costituita da mille lati tanto facilmente come concepisco
che un triangolo è una figura composta da tre lati soltanto; ma io non posso im-
maginare i mille lati del chiliogono come invece posso farlo dei tre lati del trian-
golo, né, per così dire, guardarli come presenti con gli occhi della mia mente. E, in
ogni caso, seguendo l’abitudine di servirmi sempre della mia immaginazione
quando penso a questioni che attengono al mio corpo, capita che concependo un
chiliogone mi si presenti confusamente una qualche immagine, tuttavia è evidente
che questa figura non è affatto un chiliogone, poiché essa non differisce in nulla
da quella che mi rappresenterei se pensassi a un miriogone, o a qualsiasi altra fi-
gura con una molteplicità di lati; e che essa non serve in alcun modo a scoprire le
proprietà che fanno la differenza tra un chiliogone e tutti gli altri poligoni.
(René Descartes, Méditations, 1641, p. 318)
Rifarsi al significato della parola aletheia non ci fa fare alcun passo avanti e non
ci fornisce niente di utile. Indeciso resta anche necessariamente il problema se ciò
di cui si parla nel commercio quotidiano con termini come «verità», «certezza»,
«obiettività», «realtà», abbia il minimo rapporto con quello verso cui il pensiero è
La luce e le cose
Noi chiamiamo questa apertura che rende possibile un lasciar apparire e un mo-
strare: Lichtung (radura). Dal punto di vista della storia della lingua, la parola te-
desca Lichtung è un calco del francese clairière. Essa è formata al modo dei vo-
caboli arcaici Waldung (boscaglia) e Feldung (campagna). La Waldlichtung (radu-
ra nel bosco) è esperita nella sua differenza dal dichter Wald (bosco fitto), chia-
mato nella lingua arcaica Dickung (boscaggio). Il sostantivo Lichtung deriva dal
verbo lichten (diradare). L’aggettivo licht (rado) è lo stesso che leicht (lieve, leg-
gero). Etwas lichten (diradare qualche cosa) significa: rendere qualche cosa rado,
cioè renderlo libero e aperto, per esempio rendere il bosco in un posto libero dagli
alberi. Lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung (radura). Il rado nel
senso di ciò che è libero e aperto non ha nulla in comune – né dal punto di vista
linguistico, né quanto alla cosa cui si riferisce – con l’aggettivo licht nel significa-
to di chiaro. Ciò va tenuto presente per la diversità tra Lichtung (radura) e Licht
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Fotografare
fuori, estraniato, distaccato, tolto dalle cose del mondo, estratto da esse, e
che le osserva senza farne parte. Ma è possibile una situazione in cui co-
lui che genera l’immagine e che la immagina e la costruisce e la mette in
forma con le cose del mondo, non faccia parte di questo mondo, non ne
sia implicato fino alla più radicale compromissione, non ne sia complice,
artefice, come colui che per cercare una verità nega la sua, la propria, la
sua stessa esistenza? Sarebbe questa una situazione possibile? Forse, sì,
ma soltanto a certe condizioni. Quali esse siano è prematuro dirlo. È un
percorso, una missione piena di ostacoli, che non ho affatto compiuto e
che anzi mi propongo di tentare proprio con queste pagine. Sto muovendo
i primi passi, tentando di inseguire idee fugaci, impressioni deboli e ipo-
tesi malferme che spero possano comunque essere lette senza filtri e pre-
giudizi.
Le opere dell’uomo che, per una convenzione assolutamente vaga, de-
finiamo come arte, potrebbero costituire quel momento in cui esse stesse,
insieme a colui che le ha generate, emergono dal contorno dell’orizzonte
dato come esistente, assumendosi la responsabilità di disturbare la quiete
data dal profondo di un mondo senza sussulti, in cui i segnali sono appiat-
titi nella percezione omogenea delle assenze.
Il fatto è che, se davvero l’uomo è qualche cosa di diverso da ciò che
emerge dai flutti sconnessi del divenire di ogni cosa, se esso costituisce
un valore in sé, se l’uomo è altro rispetto a questo mutare delle cose del
mondo, allora, forse, è che l’uomo vige nella sua esistenza. Che cosa po-
trebbe significare? Forse che l’uomo ha (innata? o è grazia di Dio o di un
dio?) la capacità di aprirsi all’essere delle cose del mondo, di superare la
dimensione ontica, per proiettarsi verso un altro piano, un diverso modo
di vedere e accogliere le cose del mondo, di leggerle e di leggersi in esse?
Fortissima, qui, sarebbe la tentazione di fuggire in avanti per compilare
una minuziosa carta d’identità dell’arte e, in questo frangente, della foto-
grafia. Ma finirei per cadere nelle ovvietà e nelle facilità che un linguag-
gio sempre meno adeguato obbliga a percorrere, oppure con il rifugiarmi
in un sistema autoreferenziale per cui, stante l’inadeguatezza del parlare
corrente, l’arte parla di se stessa con il suo stesso linguaggio, nel quale
tutto si traduce e nessuno comprende.
vimento. Gli occhi hanno visto che cosa fotografare e la mente ha imma-
ginato la foto possibile. L’immagine, prima di esistere, è immaginata.
In greco mimos è l’imitatore. Non quello stralunato circense che usa il
suo corpo come uno strumento musicale senza mai proferire parola. L’i-
mitatore, qui, è colui che ri-fa, ri-costruisce, ri-pete – come un rappresen-
tare l’agire in un nuovo agire; come un edificare una cosa del mondo ad
immagine di quella osservata; come un chiedere nuovamente il compenso
per il proprio agire ed edificare, il compenso della fruizione, quello che
premia il mostrare ed il mostrarsi. Ovvero è il caso dell’emulo, che imita,
ma nel senso del greco aimylos, che voleva significare colui che imitava
con l’astuzia necessaria a trarre, cogliere, fare proprio. Fare una fotografia
significa anzitutto pensarla, nel senso di immaginarla, e quindi coglierla
nella realtà verso la quale ci siamo posti. Significa sottrarne il senso per
riproporlo, attraverso la mediazione della tecnica ed il filtro della nostra
immaginazione. Qualche cosa, situata nel mondo che abbiamo prelimi-
narmente deciso di esplorare, ci ha colpiti in modo particolare. Può essere
un colore, la forma di una cosa, un contrasto di luci oppure un contrasto
di cose, alle quali, in base all’universo delle nostre sensazioni, ricordi e
bisogni, attribuiamo possibili significati, i quali, nella loro combinazione,
ci appaiono come qualche cosa capace di costituire il segnale che stiamo
cercando – nell’impronta del termine latino signalis, che contiene in sé il
segno ed insieme anche il suo essere portatore del segno, come essere po-
sto in forma di segno, quindi come fine del segno segnalato e non come
nella tradizione linguistica del significante, avvilente riduzione di un’es-
senza a mero supporto. Oppure abbiamo costruito con i mattoni del reale,
utilizzando cioè le cose del mondo che riteniamo più adatte, quel-
l’immagine che abbiamo prima di tutto immaginato grazie alla nostra fan-
tasia e che abbiamo poi proiettato nella nostra mente. In entrambi i casi
abbiamo esplorato preliminarmente quella parte del mondo che in quel
tempo ci si è offerta. Nel primo caso, abbiamo passato al setaccio ciò che
ci circonda e che appare direttamente coglibile dal nostro vedere per quel-
lo che è. Nel secondo caso, abbiamo perlustrato la nostra memoria per ri-
costruire il segnale che vorremmo realizzare utilizzando i mattoni del rea-
le, le cose del mondo che sono davanti a noi, a disposizione. In entrambi i
casi, l’immagine nasce prima nella nostra mente e poi nell’atto di sottrar-
re per imitazione il segno che si forma nelle cose come esse sono. Co-
munque, siamo in presenza di un progetto. Ciò significa che siamo pronti
a proporre e fondare di nuovo, in avanti, di fronte a noi e quindi al futuro
possibile fruitore di questa immagine che stiamo costruendo, quelle rego-
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La luce e le cose
le, quella intelaiatura, quel segnale sul quale si fonda la nostra intenzione.
La nostra intenzione di costruire l’immagine è dunque fondata sugli e-
lementi che ci appaiono alla vista, che subiscono una radicale selezione
nella ricerca dei singoli mattoni meglio adatti a costruire l’edificio del-
l’immagine. C’è dunque una duplice funzione di fondazione dell’im-
magine. Anzitutto, sussiste un atto fondante nella nostra immaginazione:
sia che essa subisca la sollecitazione di un mondo esterno nel quale cer-
chiamo di cogliere ciò che abbiamo preliminarmente atteso, colto senza
disegnarlo compiutamente, immaginato senza poterne davvero descrivere
i contorni, fidandoci soltanto di un minimo apparire di senso, un suo e-
mergere dalla profondità di ciò che non è ancora rappresentato, ma che è
comunque inteso e si percepisce il bisogno di portare a galla, di far emer-
gere, mettere in luce; sia che essa ospiti già la primigenia idea che si vor-
rebbe ricostruire e portare in evidenza utilizzando le tessere di cui si
compone il reale che osserviamo. In secondo luogo, è atto fondante il fat-
to stesso di costruire, con gli ingredienti del reale, l’immagine immaginata.
In tutti i casi, questa fondazione si rende possibile soltanto per quello
che di riproiettato dal reale possiamo disporre. La fotografia, tutta la foto-
grafia, si fa soltanto con le cose del mondo, intese come sterminato ed i-
nesauribile magazzino di oggetti e di cose, di luci e di ombre, di situazio-
ni portatrici di significati e di accostamenti indecidibili, di colori e di o-
scurità, di persone e visi e corpi e di forme della natura, di assenze e di
presenze. Essa si fonda come idea che appare fugace mentre con lo
sguardo si cerca la corrispondenza tra un semplice germe di segnale, op-
pure come ipotesi di forme e relazioni e luce e colori che si tenta poi di
comporre con le tessere offerte dal magazzino del reale. Raramente l’idea
fuggevole che a stento sporge dall’orizzonte della memoria coincide dav-
vero con quello che lo sguardo riesce a cogliere nello spazio, così come
raramente quel barlume di progetto che si è andato formando nella nostra
mente riesce a trovare piena soddisfazione nella giustapposizione dei di-
versi elementi chiamati a formare l’immagine.
Quello che sembra richiedersi è un esercizio talvolta assai arduo: vedere
le cose attraverso le lenti ed i filtri della propria fantasia, ma adoperando
le cose del mondo. Non intendo qui avventurarmi nelle complessità della
psicologia cognitiva (ribattezzata da molti come più generale scienza co-
gnitiva), se non per cogliere almeno alcuni indizi, sottili allusioni che mi
permettano di intuire, almeno in via generale, ciò che accade nella nostra
mente quando progettiamo e immaginiamo l’immagine fotografica un i-
stante prima di realizzarne il suo contenuto (ma molti istanti prima di po-
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Fotografare
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