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I

FOTOGRAFARE
COME UN’INTRODUZIONE

L’espressione, con cui soprattutto di continuo si accompagnano, è quella da cui si


distinguono, e le cose in cui si imbattono ogni giorno sono quelle che a essi ap-
paiono straniere […] Di fronte a ciò che mai tramonta, come potrebbe nascondersi
qualcuno?
(Eraclito, 14 [A95 – A100])

La facoltà di immaginare che è in me, e della quale vedo, per esperienza, che mi
servo quando mi pongo a considerare le cose materiali, è capace di persuadermi
dell’esistenza di queste stesse cose: perché quando considero con attenzione che
cosa mai sia l’immaginazione, trovo che non sia null’altro che l’applicazione della
facoltà di conoscere ciò che esiste, insieme al mio corpo che ad essa è intimamen-
te connesso. Per rendere tutto ciò più chiaro, insisto anzitutto sulla differenza che
esiste tra immaginazione e pura intelligenza o concezione. Per esempio, quando
immagino un triangolo, non lo concepisco soltanto come una figura composta e
delimitata da tre linee, oltre a questo, considero le tre linee presenti, in forza e
grazie all’applicazione del mio spirito; e questo è ciò che propriamente io defini-
sco immaginare. Ché, se io voglio pensare a un chiliogono, concepisco bene, in
verità, che è una figura costituita da mille lati tanto facilmente come concepisco
che un triangolo è una figura composta da tre lati soltanto; ma io non posso im-
maginare i mille lati del chiliogono come invece posso farlo dei tre lati del trian-
golo, né, per così dire, guardarli come presenti con gli occhi della mia mente. E, in
ogni caso, seguendo l’abitudine di servirmi sempre della mia immaginazione
quando penso a questioni che attengono al mio corpo, capita che concependo un
chiliogone mi si presenti confusamente una qualche immagine, tuttavia è evidente
che questa figura non è affatto un chiliogone, poiché essa non differisce in nulla
da quella che mi rappresenterei se pensassi a un miriogone, o a qualsiasi altra fi-
gura con una molteplicità di lati; e che essa non serve in alcun modo a scoprire le
proprietà che fanno la differenza tra un chiliogone e tutti gli altri poligoni.
(René Descartes, Méditations, 1641, p. 318)

Rifarsi al significato della parola aletheia non ci fa fare alcun passo avanti e non
ci fornisce niente di utile. Indeciso resta anche necessariamente il problema se ciò
di cui si parla nel commercio quotidiano con termini come «verità», «certezza»,
«obiettività», «realtà», abbia il minimo rapporto con quello verso cui il pensiero è
La luce e le cose

richiamato dal disvelamento e dallo «slargo». Probabilmente, per il pensiero che


segue un tale richiamo, è in gioco qualche cosa di più alto che l’assicurazione (Si-
cherstellung) della verità obiettiva nel senso di enunciati validi. Da che cosa di-
pende il fatto che ci si affretta costantemente a dimenticare la soggettività che ap-
partiene a ogni obiettività? Come mai succede che, anche quando se ne rileva la
connessione, si cerca di spiegarla sulla base di uno dei due termini in gioco, oppu-
re si introduce un terzo termine che dovrebbe abbracciarli entrambi? Da che cosa
dipende il fatto che ci si rifiuta con pervicacia di domandarsi finalmente se la con-
nessione reciproca di soggetto ed oggetto non dispieghi il suo essere in ciò che
concede, all’oggetto e alla sua obiettività, al soggetto e alla sua soggettività, la lo-
ro essenza, e cioè anzitutto l’ambito del loro reciproco rapportarsi? Che il nostro
pensiero faccia tanta fatica a ritrovarsi in e verso questo concedente, anche solo in
modo da guardarsi intorno alla ricerca di esso, questo fatto non può dipendere né
da una limitatezza della mentalità dominante, né da una avversione per prospettive
che scuotono ciò che è consueto e disturbano le nostre abitudini. Dobbiamo piut-
tosto supporre un’altra cosa: noi sappiamo troppo e crediamo troppo affrettata-
mente di poter prendere dimestichezza con un domandare vissuto in modo auten-
tico. Per questo occorre la capacità di meravigliarsi di fronte a ciò che è semplice
e di prendere dimora in questa meraviglia […] Noi crediamo troppo facilmente
che il segreto del da-pensare sia ogni volta qualche cosa di remoto, e giaccia pro-
fondamente celato sotto strati di occultamento difficilmente penetrabili. Eppure
esso ha il suo luogo essenziale nella vicinanza che avvicina ogni essere presente
che avviene e che custodisce ciò che è avvicinato. Ciò che costituisce l’essere del-
la vicinanza, per il nostro modo di rappresentazione abituale che si immerge tutto
in ciò che è presente e nel suo impiego, è troppo vicino perché noi si sia in grado,
senza una preparazione, di esperire e pensare in modo adeguato il vigere della vi-
cinanza. Probabilmente, il segreto che nel da-pensare ci chiama non è null’altro
che quel che costituisce l’essere di ciò che noi cerchiamo di suggerire con il ter-
mine Lichtung (radura). Per questo, anche, il modo di pensare quotidiano passa si-
curo e ottuso accanto al segreto senza notarlo. Eraclito lo sapeva.
(Martin Heidegger, Aletheia, 1943, pp. 177 e 191)

Noi chiamiamo questa apertura che rende possibile un lasciar apparire e un mo-
strare: Lichtung (radura). Dal punto di vista della storia della lingua, la parola te-
desca Lichtung è un calco del francese clairière. Essa è formata al modo dei vo-
caboli arcaici Waldung (boscaglia) e Feldung (campagna). La Waldlichtung (radu-
ra nel bosco) è esperita nella sua differenza dal dichter Wald (bosco fitto), chia-
mato nella lingua arcaica Dickung (boscaggio). Il sostantivo Lichtung deriva dal
verbo lichten (diradare). L’aggettivo licht (rado) è lo stesso che leicht (lieve, leg-
gero). Etwas lichten (diradare qualche cosa) significa: rendere qualche cosa rado,
cioè renderlo libero e aperto, per esempio rendere il bosco in un posto libero dagli
alberi. Lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung (radura). Il rado nel
senso di ciò che è libero e aperto non ha nulla in comune – né dal punto di vista
linguistico, né quanto alla cosa cui si riferisce – con l’aggettivo licht nel significa-
to di chiaro. Ciò va tenuto presente per la diversità tra Lichtung (radura) e Licht

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Fotografare

(luce). Nondimeno sussiste la possibilità di un nesso oggettivo tra le due parole,


cioè basato sulla cosa a cui entrambe si riferiscono. La luce può infatti entrare nel-
la radura, nel suo spazio aperto, e lasciarvi giocare il chiarore con l’oscurità. Ma
giammai la luce crea prima la radura, bensì quella, cioè la luce, presuppone que-
sta, cioè la radura. Tuttavia la radura, l’aperto, è libera non solo per il chiarore e
l’oscurità, ma anche per l’eco e il suo perdersi, per il risonare e il suo smorzarsi.
La radura è l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. È necessario che il pen-
siero faccia espressamente attenzione alla cosa che qui è chiamata radura. Come
subito potrebbe troppo facilmente sembrare, qui non si estraggono da semplici pa-
role – ad esempio, radura – mere rappresentazioni. Piuttosto è necessario fare at-
tenzione alla cosa, unica nel suo genere, che è nominata in maniera corrispondente
con la parola radura. Ciò che la parola nomina nel contesto poc’anzi indicato (os-
sia l’aperto ambito libero) è – per usare una parola di Goethe – un Urphaenomen
(un fenomeno originario). Noi dovremmo dire: Ur-sache (una cosa originaria).
Goethe osservava: «Non si cerchi nulla dietro i fenomeni: essi stessi sono
l’insegnamento». Ciò vuole dire: il fenomeno stesso – nel nostro caso la radura –
ci pone dinanzi al compito di imparare da esso interrogandolo, cioè di lasciarci di-
re da esso qualche cosa.
(Martin Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, 1969, p. 85)

1. In queste pagine non tenterò di discutere della fotografia in generale.


E nemmeno di un genere specifico di fotografia riferibile alle classifica-
zioni più comunemente utilizzate. Non intendo infatti affrontare la com-
plessa natura dei segni fotografici, con i suoi significati e significanti, e
della relazione che li lega; non intendo percorrere una via semiologica né
fenomenologica, ma soltanto e più modestamente una via intellettuale,
individuale, fondata sul mio sincero vissuto. Prima di inoltrarmi in questo
percorso, è però necessario identificare almeno un ambito, una tipologia
di fotografia alla quale fare univocamente riferimento. Per effettuare que-
sta selezione, ho scelto di classificare le fotografie in base al movente,
anche se non deliberato nell’atto fotografico, che ha guidato l’autore.
Questa selezione non deve essere intesa come una immotivata esclusione
di una parte del variegato e complesso mondo delle immagini fotografi-
che, ma soltanto come un preliminare e necessario atto di circoscrizione
delle mie intenzioni. Atto legittimo, in quanto queste pagine non intendo-
no in alcun modo essere un’analisi esaustiva e nemmeno parziale della fo-
tografia così come oggi è praticata nel mondo e tanto meno degli oltre
150 anni della sua storia.
A questo, e soltanto a questo specifico scopo, ho dunque individuato tre
ambiti. Il primo è costituito dalla fotografia realizzata al fine di informare.
Voglio qui intendere ogni fotografia la quale sia destinata a rendere il
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La luce e le cose

pubblico edotto di qualche cosa o di qualsiasi cosa. Essa comprende dun-


que tutto il fotogiornalismo, la fotografia scientifica, quella documentari-
stica e molta altra parte dell’infinito universo delle immagini fotografi-
che. Il secondo ambito è relativo alle fotografie realizzate al fine di sedur-
re. Intendo qui riferirmi alla fotografia pubblicitaria, a quella di moda, a
una parte di quella geografico-naturalistica, a quella erotica e pornografi-
ca e a tutte quelle immagini fotografiche il cui intento è, manifestamente
o meno, di indurre nel fruitore funzioni assimilabili a quella desiderante.
Il terzo ambito è quello delle foto realizzate al fine di mostrare. Parlo di
quella fotografia che circoscrive le sue intenzioni nel proporre al fruitore
una possibile visione delle cose del mondo, una possibile ricerca delle
forme generate dalla luce nello spazio costruito nella ripresa, senza altro
aggiungere, senza strizzare l’occhio alla funzione informativa e documen-
tale, né ai sentimenti, ai desideri o alle emozioni. Si collocano in questo
ambito le fotografie realizzate da innumerevoli artisti e dilettanti, volte a
rappresentare spazio e cose utilizzando la sola funzione del mostrare e
mai quella del di-mostrare (come di una verità conforme a ciò che è stato
prefigurato) o del se-durre (come il colmare di senso al di là dell’im-
magine attraverso il rinvio all’universo pulsionale).
È una distinzione per negazione, come si può facilmente osservare. Ma
non potrebbe essere diversamente. La fotografia che intende soltanto mo-
strare giace infatti in uno stretto interstizio, compreso tra i due grandi
mondi nei quali viene generata la gigantesca messe di immagini, quoti-
dianamente digerita e metabolizzata da miliardi di individui attraverso
una rete di trasmissione dei messaggi ormai senza limiti né temporali né
spaziali. Le immagini costruite da coloro i quali hanno scelto di muoversi
tra le incomodità di quello stretto interstizio si collocano in un piccolo u-
niverso proprio, abitato dall’editoria di settore (riviste e libri fotografici),
da piccole mostre, da qualche circolo di appassionati, che spesso si rivol-
gono a se medesimi, sovente in un meccanismo di autoreferenzialità, do-
ve tende a prevalere il criticismo tecnico e formale a discapito di analisi
più attente e, soprattutto, più profonde.

2. Fotografare non significa “scrivere con la luce”. La luce non disegna


la fotografia, ma soltanto sottolinea e delinea le forme e lo spazio che le
sostiene. Fotografare significa rappresentare mettendo in luce, utilizzando
la scena generata dallo spazio che l’autore ha scelto e ritagliato dal mon-
do e nel quale colloca forme a loro volta determinate dalle cose del mon-
do che egli ha trovato durante il suo vagare. Dico vagare e non ricercare,
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Fotografare

perché quando si ricerca, si conosce ciò che si intende trovare – a pre-


scindere dal successo finale dell’impresa. Vagare, invece, è più appro-
priato, perché dice di un percorso non ben definito, che potrebbe dunque
non avere fine né un fine, perché è ricerca non di precise intenzioni, ma
solo di elementi capaci di indurre ed alludere ad altro, a qualche cosa di
celato e ancora indefinito. E poi perché vagare riferisce in sé anche il si-
gnificato dantesco di vago come insofferente ed incerto nell’amare e al
tempo stesso bramoso di amore.
Fotografare significa percorrere almeno due esperienze emotive, legate
l’una all’altra e che si condizionano reciprocamente. La prima è quella
del cogliere con lo sguardo. Cogliere tempo, spazio, forme, luce, contra-
sti. È una frazione di tempo, un evento illuminante. Appunto, illuminante,
che dà luce e rischiara, nella mia mente, la quale può intuitivamente pre-
figurare. La seconda, immediatamente successiva, è quella in cui la tecni-
ca arma l’idea di un possibile risultato, è l’atto di portare la fotocamera
all’occhio, di predisporre tecnicamente l’apparecchio alla realizzazione
dell’immagine, di verificare i contorni dello spazio, delle cose, delle for-
me e della luce prescelti nel momento del coglimento. Oggi è un tempo
breve, anche se non brevissimo. In passato, utilizzando per scelta consa-
pevole solo attrezzature tecniche di enorme peso ed ingombro, era un
tempo assai più lungo, nel quale mi obbligavo a riflettere e ponderare o-
gni elemento dell’immagine, già colta, ma ancora soltanto come ipotesi.
Non ci trovo grandi differenze, se non il fatto che le tecniche più recenti
permettono di realizzare un numero di immagini più grande. Ciò non è af-
fatto un vantaggio in sé, perché diventa facile cadere nella bulimia e rea-
lizzare innumerevoli immagini inutilmente, senza un’adeguata prepara-
zione né la dovuta attenzione. Ma se si fa lo sforzo intellettuale di dimen-
ticare che non c’è più una pellicola destinata prima o poi a scivolare per
intero nel rocchetto ricevente, si riesce a trarre solo opportunità e vantag-
gi. Ho scritto più sopra: “tecniche più recenti” e non “più evolute”, poiché
non ritengo che la tecnica, intesa anche al di là della pratica fotografica,
sia un organismo vivente in procinto di sopraffarci, ma nemmeno sia uno
strumento asettico, indifferente, neutrale. La tecnica è una condizione del-
l’umano conoscere che genera innumerevoli effetti. La questione sta nella
consapevolezza di che cosa essa comporta, sia come occasione, sia come
ostacolo, e nella capacità di governare la propria potenza e gli effetti che
essa, in unione alla tecnica, può generare. È un argomento cruciale, per la
fotografia, per la filosofia e per il futuro dell’uomo. Non è questo il luogo
dove approfondire la cosa; solo alcuni aspetti del problema saranno dove-
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La luce e le cose

rosamente affrontati, spero con un livello di competenza accettabile, in un


capitolo specifico.

3. Perché si fotografa? A questa domanda, che giudico oziosa perché le


risposte possibili sono innumerevoli, ma che non potrebbe non essere po-
sta in un orizzonte come quello che sto tentando di dischiudere, posso ri-
spondere soltanto in due modi, accertato che si parla soltanto della foto-
grafia che mostra e mai di quella che informa e ancor meno di quella che
seduce.
La prima risposta fa riferimento ad un contesto psicologico ed intimo.
Si scattano immagini per ricordare e per allontanare la morte, tenendo
sempre in vita, attraverso l’immagine, ogni persona, ogni cosa, lo spazio
che le cinge e la luce che le sottolinea. La fotografia diventa un apparec-
chio cuore-polmone-cervello, per rassicurarci della nostra esistenza e del-
l’esistenza delle cose del mondo, arrestando il loro mutare, fermando il
loro tempo e con esso il nostro, contrastando la loro incertezza e volatili-
tà. Scattare fotografie per fissare in un tempo umanamente brevissimo
memorie e cose. Per sempre.
La seconda risposta fa riferimento ad un altro contesto, di natura intel-
lettuale, quello che si determina quando all’intenzione fotografica succe-
de l’atto della ripresa e quindi il ciclo della generazione dell’immagine ha
fine. Dico “generazione” e non “produzione” dell’immagine, intendendo
con generazione l’atto primario che permette il successivo sviluppo di
una cosa ancora da far progredire ed animare, e non produzione, che si-
gnifica il porre oltre sé la fotografia come oggetto finale, quindi stampata
su un libro o incorniciata ed appesa su una parete. Al termine dell’atto
della ripresa, la fotografia in effetti ancora non esiste. Essa è, stante le più
recenti tecnologie, un semplice file binario registrato sulla superficie sili-
cea di un concentrato di molti milioni di transistor. Ma esiste in me, nella
mia memoria, nella quale riecheggia da quando era ancora una semplice
pre-visione possibile e dove posso ricostruirla risalendo alla sensazione
percepita al momento della ripresa. È un momento, un istante, molto par-
ticolare. Esso non sempre si costituisce, perché non tutti gli scatti, per
quanto ponderati, riescono come l’intenzione prometteva. Anzi, solo una
piccola parte riesce nell’opera, lasciando così alle sue spalle la percezione
di avere colto soltanto un istante, un momento, un segnale, un indizio di
senso. L’immagine fotografica potrebbe essere il momento, il luogo, nel
quale diventa possibile andare al di là della dualità tra presenza ed assen-
za, per cogliere un senso diverso, più vicino ad una presenza possibile, da
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scoprire, svelare, raccogliere, e tentare poi di fermare. Nell’essere di ogni


cosa del mondo c’è sempre anche la sua non esistenza, come dato di pos-
sibilità con il quale confrontarsi. Non me la sento di fermarmi lì, sulla so-
glia del piccolo mondo che colgo nel mirino dell’apparecchio fotografico,
come se esso fosse il solo mondo che esiste in quel momento di fronte a
me. Mi sento di poter provare ad andare oltre, verso qualche cosa che an-
cora non appare, ma che potrebbe celarsi nelle forme e nella luce che le
disegna.
Si tratta di tenersi aperti alla rivelazione del contenuto più recondito.
Quale contenuto, materialmente, non mi è dato di sapere, non è definibile.
È il visto, il pre-visto, il pre-visibile e nello stesso tempo la sorpresa, fatta
dall’in-dicibile, dall’im-previsto. È il negato che appare, il niente che su-
pera l’occultamento e si manifesta attraverso un segnale. Dico un segnale,
non un segno, perché il segnale è privo di un significato effettivamente ri-
conducibile; esso segnala solo la possibilità che vi sia altro da scorgere,
cogliere e rappresentare, non mostrandolo come una cosa del mondo, ma
alludendovi, come traccia di una possibile identità conoscibile. Ma, ver-
rebbe da chiedersi, perché mai l’uomo, nella sua quotidiana concretezza,
nel bisogno immediato di vivere sopra le cose per uscirne indenne (il co-
siddetto “sopravvivere”) mai dovrebbe indugiare su queste lacune lasciate
in un percorso che ciascuno, nella sua individualità, mai ha percorso e che
forse attengono ad un altro modo di essere, esserci, esistere? La risposta
giace forse nella considerazione che ciascuno di noi esiste nel tenersi a-
perto alla percezione del possibile, all’intrusione di altro e diverso
dall’ovvio e consueto. Potremmo chiamarla tensione emotiva, ma questo
non muta l’esito dell’interazione tra ciò che è fuori di noi, ovvero le cose
del mondo che ricerchiamo attraverso il nostro vagare, e ciò che riesce ad
emergere come idea di un’opera possibile, da un lato, e come emozione,
dall’altro. Emozione, come il muovere da qualche cosa e verso altro, e-
strarre da un luogo, da una cavità, dalla cavità che è nostra, il noi, per il
rigurgitare fuori, all’esterno. E-mozione assolutamente non come rimo-
zione; nessuna intenzione di togliere qualche cosa a ciò che sono, solo
l’idea di poter espellere ciò che genera disagio verso un possibile schermo
del raffigurare. Una fotografia, insomma.
Mi pare di poter cogliere un utile indizio nell’idea che la possibilità di
vedere, individuare, selezionare, cogliere e riproiettare le cose del mondo
per costruire una fotografia derivi, in maniera e misura certamente non
assoluta, ma nemmeno secondaria, dal fatto che il nostro esistere, che
suona perfino come un “in-sistere”, convogli il senso verso un essere di
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fuori, estraniato, distaccato, tolto dalle cose del mondo, estratto da esse, e
che le osserva senza farne parte. Ma è possibile una situazione in cui co-
lui che genera l’immagine e che la immagina e la costruisce e la mette in
forma con le cose del mondo, non faccia parte di questo mondo, non ne
sia implicato fino alla più radicale compromissione, non ne sia complice,
artefice, come colui che per cercare una verità nega la sua, la propria, la
sua stessa esistenza? Sarebbe questa una situazione possibile? Forse, sì,
ma soltanto a certe condizioni. Quali esse siano è prematuro dirlo. È un
percorso, una missione piena di ostacoli, che non ho affatto compiuto e
che anzi mi propongo di tentare proprio con queste pagine. Sto muovendo
i primi passi, tentando di inseguire idee fugaci, impressioni deboli e ipo-
tesi malferme che spero possano comunque essere lette senza filtri e pre-
giudizi.
Le opere dell’uomo che, per una convenzione assolutamente vaga, de-
finiamo come arte, potrebbero costituire quel momento in cui esse stesse,
insieme a colui che le ha generate, emergono dal contorno dell’orizzonte
dato come esistente, assumendosi la responsabilità di disturbare la quiete
data dal profondo di un mondo senza sussulti, in cui i segnali sono appiat-
titi nella percezione omogenea delle assenze.
Il fatto è che, se davvero l’uomo è qualche cosa di diverso da ciò che
emerge dai flutti sconnessi del divenire di ogni cosa, se esso costituisce
un valore in sé, se l’uomo è altro rispetto a questo mutare delle cose del
mondo, allora, forse, è che l’uomo vige nella sua esistenza. Che cosa po-
trebbe significare? Forse che l’uomo ha (innata? o è grazia di Dio o di un
dio?) la capacità di aprirsi all’essere delle cose del mondo, di superare la
dimensione ontica, per proiettarsi verso un altro piano, un diverso modo
di vedere e accogliere le cose del mondo, di leggerle e di leggersi in esse?
Fortissima, qui, sarebbe la tentazione di fuggire in avanti per compilare
una minuziosa carta d’identità dell’arte e, in questo frangente, della foto-
grafia. Ma finirei per cadere nelle ovvietà e nelle facilità che un linguag-
gio sempre meno adeguato obbliga a percorrere, oppure con il rifugiarmi
in un sistema autoreferenziale per cui, stante l’inadeguatezza del parlare
corrente, l’arte parla di se stessa con il suo stesso linguaggio, nel quale
tutto si traduce e nessuno comprende.

4. A scattare una fotografia è la mia mano, non il mio sguardo. È la mia


mano, armata dalla tecnica, a produrre l’immagine. Mano, intesa come
quella parte di me che si estende al di fuori del mio corpo, lontano dalla
mia testa e dai miei occhi. Gli occhi vedono la mano e ne guidano il mo-
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Fotografare

vimento. Gli occhi hanno visto che cosa fotografare e la mente ha imma-
ginato la foto possibile. L’immagine, prima di esistere, è immaginata.
In greco mimos è l’imitatore. Non quello stralunato circense che usa il
suo corpo come uno strumento musicale senza mai proferire parola. L’i-
mitatore, qui, è colui che ri-fa, ri-costruisce, ri-pete – come un rappresen-
tare l’agire in un nuovo agire; come un edificare una cosa del mondo ad
immagine di quella osservata; come un chiedere nuovamente il compenso
per il proprio agire ed edificare, il compenso della fruizione, quello che
premia il mostrare ed il mostrarsi. Ovvero è il caso dell’emulo, che imita,
ma nel senso del greco aimylos, che voleva significare colui che imitava
con l’astuzia necessaria a trarre, cogliere, fare proprio. Fare una fotografia
significa anzitutto pensarla, nel senso di immaginarla, e quindi coglierla
nella realtà verso la quale ci siamo posti. Significa sottrarne il senso per
riproporlo, attraverso la mediazione della tecnica ed il filtro della nostra
immaginazione. Qualche cosa, situata nel mondo che abbiamo prelimi-
narmente deciso di esplorare, ci ha colpiti in modo particolare. Può essere
un colore, la forma di una cosa, un contrasto di luci oppure un contrasto
di cose, alle quali, in base all’universo delle nostre sensazioni, ricordi e
bisogni, attribuiamo possibili significati, i quali, nella loro combinazione,
ci appaiono come qualche cosa capace di costituire il segnale che stiamo
cercando – nell’impronta del termine latino signalis, che contiene in sé il
segno ed insieme anche il suo essere portatore del segno, come essere po-
sto in forma di segno, quindi come fine del segno segnalato e non come
nella tradizione linguistica del significante, avvilente riduzione di un’es-
senza a mero supporto. Oppure abbiamo costruito con i mattoni del reale,
utilizzando cioè le cose del mondo che riteniamo più adatte, quel-
l’immagine che abbiamo prima di tutto immaginato grazie alla nostra fan-
tasia e che abbiamo poi proiettato nella nostra mente. In entrambi i casi
abbiamo esplorato preliminarmente quella parte del mondo che in quel
tempo ci si è offerta. Nel primo caso, abbiamo passato al setaccio ciò che
ci circonda e che appare direttamente coglibile dal nostro vedere per quel-
lo che è. Nel secondo caso, abbiamo perlustrato la nostra memoria per ri-
costruire il segnale che vorremmo realizzare utilizzando i mattoni del rea-
le, le cose del mondo che sono davanti a noi, a disposizione. In entrambi i
casi, l’immagine nasce prima nella nostra mente e poi nell’atto di sottrar-
re per imitazione il segno che si forma nelle cose come esse sono. Co-
munque, siamo in presenza di un progetto. Ciò significa che siamo pronti
a proporre e fondare di nuovo, in avanti, di fronte a noi e quindi al futuro
possibile fruitore di questa immagine che stiamo costruendo, quelle rego-
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La luce e le cose

le, quella intelaiatura, quel segnale sul quale si fonda la nostra intenzione.
La nostra intenzione di costruire l’immagine è dunque fondata sugli e-
lementi che ci appaiono alla vista, che subiscono una radicale selezione
nella ricerca dei singoli mattoni meglio adatti a costruire l’edificio del-
l’immagine. C’è dunque una duplice funzione di fondazione dell’im-
magine. Anzitutto, sussiste un atto fondante nella nostra immaginazione:
sia che essa subisca la sollecitazione di un mondo esterno nel quale cer-
chiamo di cogliere ciò che abbiamo preliminarmente atteso, colto senza
disegnarlo compiutamente, immaginato senza poterne davvero descrivere
i contorni, fidandoci soltanto di un minimo apparire di senso, un suo e-
mergere dalla profondità di ciò che non è ancora rappresentato, ma che è
comunque inteso e si percepisce il bisogno di portare a galla, di far emer-
gere, mettere in luce; sia che essa ospiti già la primigenia idea che si vor-
rebbe ricostruire e portare in evidenza utilizzando le tessere di cui si
compone il reale che osserviamo. In secondo luogo, è atto fondante il fat-
to stesso di costruire, con gli ingredienti del reale, l’immagine immaginata.
In tutti i casi, questa fondazione si rende possibile soltanto per quello
che di riproiettato dal reale possiamo disporre. La fotografia, tutta la foto-
grafia, si fa soltanto con le cose del mondo, intese come sterminato ed i-
nesauribile magazzino di oggetti e di cose, di luci e di ombre, di situazio-
ni portatrici di significati e di accostamenti indecidibili, di colori e di o-
scurità, di persone e visi e corpi e di forme della natura, di assenze e di
presenze. Essa si fonda come idea che appare fugace mentre con lo
sguardo si cerca la corrispondenza tra un semplice germe di segnale, op-
pure come ipotesi di forme e relazioni e luce e colori che si tenta poi di
comporre con le tessere offerte dal magazzino del reale. Raramente l’idea
fuggevole che a stento sporge dall’orizzonte della memoria coincide dav-
vero con quello che lo sguardo riesce a cogliere nello spazio, così come
raramente quel barlume di progetto che si è andato formando nella nostra
mente riesce a trovare piena soddisfazione nella giustapposizione dei di-
versi elementi chiamati a formare l’immagine.
Quello che sembra richiedersi è un esercizio talvolta assai arduo: vedere
le cose attraverso le lenti ed i filtri della propria fantasia, ma adoperando
le cose del mondo. Non intendo qui avventurarmi nelle complessità della
psicologia cognitiva (ribattezzata da molti come più generale scienza co-
gnitiva), se non per cogliere almeno alcuni indizi, sottili allusioni che mi
permettano di intuire, almeno in via generale, ciò che accade nella nostra
mente quando progettiamo e immaginiamo l’immagine fotografica un i-
stante prima di realizzarne il suo contenuto (ma molti istanti prima di po-
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Fotografare

ter concretamente svelarla, in camera oscura o in “camera chiara”). Esi-


stono le immagini mentali, qui intese come capacità previsionale? E di
che cosa sono fatte? Come ci è dato di poterle “vedere”? Per “vedere”
un’immagine immaginata servirebbe uno strumento neurologico o intel-
lettivo che non sembra trovare riscontro, cioè una specie di “occhio della
mente”. Ma non basta, servirebbe anche uno “schermo” sul quale proiet-
tare l’immagine immaginata. È forse più semplice affidarsi all’idea di una
niente affatto banale capacità di introspezione, di un “vedersi dentro”,
almeno nel momento dell’immaginazione dell’immagine, durante il quale
si utilizza il nostro personale e in ogni momento mutevole codice attra-
verso il quale vediamo, leggiamo e selezioniamo le cose del mondo e
quindi poi approntiamo la “revisione” dell’immaginato, come per fissarne
almeno alcuni contorni, da riproporre nel gesto fotografico che conduce
all’immagine prodotta.
Insomma, una sorta di attività di ricostruzione a memoria di immagini
interiori a loro volta costituite da frammenti e visioni che si sono registra-
ti nella memoria e che resuscitano senza chiamarli, riemergono talvolta
stupendoci, talaltra come qualche cosa di molto familiare e perfino rassi-
curante. Come se esistesse qualche cosa di precostituito – di edificato
dall’esperienza sensibile unitamente a quella emotiva. Una sorta di a-
priori visionario che condiziona nel vedere e leggere le cose del mondo e
poi nell’immaginare l’immagine per costruirla. Un a-priori assolutamente
personale, opposto a quello cartesiano, privo di qualsiasi capacità genera-
lizzante, ma egoisticamente in atto soltanto per ciascuno. D’altra parte, lo
stesso processo attraverso il quale, in maniera soltanto parzialmente con-
sapevole, si procede nell’esaminare e selezionare le cose del mondo come
possibili mattoni con i quali costruire l’immagine è condizionato dalle
percezioni e le motivazioni, dalle aspettative e le conoscenze, dalle emo-
zioni e le pulsioni desideranti, dalle negazioni e gli oblii, dall’improvviso
riemergere dei ricordi dalle viscere più profonde della memoria.

5. A questo punto è opportuno chiarire quattro questioni. La prima ri-


guarda il significato che, arbitrariamente e anticonvenzionalmente attri-
buisco al termine “cose del mondo”. Le cose del mondo sono il mondo
delle cose che lo abitano: gli oggetti dell’uomo e la natura, l’uomo ed i
suoi infiniti possibili sguardi, i cieli e la terra con i mari ed ogni colore, la
luce generata dal sole e quella fabbricata dall’uomo, l’energia che avvol-
ge il mondo senza mostrarsi ma decidendone le sorti, il passato del mon-
do, il suo essere stato, ed il futuro del mondo, con l’impronta dell’uomo a
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La luce e le cose

marcarne molte sembianze.


La seconda questione concerne la capacità segnaletica che la mera cosa
può assumere. Chi o che cosa gliela attribuisce? L’autore, ma anche il
mondo, che ne condiziona l’operare chiamandolo in causa ma senza av-
vertirlo, senza che l’autore avverta di essere condizionato. L’autore sce-
glie e modella questa segnaleticità? Solo parzialmente. Esso si invaghisce
di una certa cosa, perché suscita una certa pulsione emotiva, che riferisce
di un altro possibile senso, di un altro sistema di concatenazione dei segni
e dei loro significati. Quella cosa, in quel momento, viene vissuta come
capace di spezzare la certezza monotona di un orizzonte predefinito e ga-
rantito, per inserire un elemento di discordanza, l’anomalia dell’incer-
tezza. Perché l’attribuire un senso diverso a cose che normalmente signi-
ficano altro, è come mischiare improvvisamente le carte del gioco e ren-
dere possibile un nuovo percorso ed un altro gioco.
La terza questione attiene all’indeterminatezza dello spazio nel quale
collocare le cose del mondo che sono state selezionate. È uno spazio arti-
ficiale, ritagliato, che elimina, sega via ogni riferimento all’orizzonte pos-
sibile del fruitore; in questo modo si taglia lo sguardo, lo si irrealizza e ri-
costruisce in base ad una funzione poietica, quella del generare l’opera, la
fotografia, ma non fondandosi su un reticolo spaziale condiviso tra tutti i
fruitori. L’opera richiede la destrutturazione dello spazio. È una questione
di luce, di contrasto, di taglio e di sbilanciamenti. Una fotografia degna di
uno stile nasce spesso da questo squilibrio tra l’orizzonte abituale e la sua
trasformazione attraverso il taglio e la misura, la luce e la sua assenza, i
confini ed i contorni dei suoi elementi evidenti. Nella fotografia non si re-
stituisce uno spazio ed un orizzonte diverso da quello in cui si era immer-
si nel momento dello scatto. E nemmeno si propone uno spazio ed un o-
rizzonte ricostruiti o inventati. Si segmenta lo spazio che c’era, che è stato
trovato, restituendo questi suoi brandelli così come sono stati metaboliz-
zati, mutando segni e segnali, sensi e incognite, possibilità e occlusioni.
L’idea è di annullare lo spazio e le cose che esso contiene per tentare di
disegnare un mondo in cui le cose che lo abitano e lo spazio che le con-
tiene è frutto soltanto dell’idea di un mondo che il fruitore potrebbe gene-
rare sulla base degli indizi e delle illusioni che l’autore decide di mettere
in opera.
La quarta questione riguarda se questa ultima decisione abbia un fon-
damento razionale, sia adeguatamente ponderata, programmata ed esegui-
ta secondo la ricetta che ci si è coscientemente dati. Oppure, se derivi es-
senzialmente dal proprio sommerso intendere, quella cosa non percepita,
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Fotografare

che ha assunto in due millenni infiniti nomi ma sempre un solo significa-


to, come istinto, inconscio, pulsione, memoria recondita o altro. Nel pri-
mo caso, il percorso generativo dell’opera appare fondato, affidabile, rea-
le nel suo vedere l’autore cosciente causa prima dell’opera. Nel secondo
prevarrebbe la casualità, l’autore agirebbe spinto da pulsioni che non con-
trolla e il suo fare conterebbe sempre un insopprimibile mistero, una sor-
presa fino ad allora occultata, un possibile senso che solo allora si svela.
Sono, necessariamente, le due cose insieme. Da una parte, è forte e pre-
sente una pulsione a generare l’opera. Generare, non costruire, come con
due cellule, non come con una panoplia infinita di segni e segnali. Ma
senza conoscerne davvero l’esito. La casualità gioca un ruolo molto gran-
de, quasi la formulazione dell’opera ne dipendesse in misura prevalente.
A guidare lo sguardo è una sorta di pulsione, che comunemente chiamia-
mo curiosità, che ci spinge verso il ricercare, in modo talvolta ossessivo,
pulsionale, appunto. Se seppellissimo questa pulsione sarebbe un addio
alla creatività. Curiosità che si svolge nel vagare, nel cercare, nel raffaz-
zonare, in un costante bisogno di cose cui far assumere il ruolo di segnale,
di rinvio. Una ricerca spesso angosciosa, senza meta, talvolta frustrante,
nella quale si cerca l’emozione, la sorpresa, il tumulto interiore che si sca-
tena quando ci si strugge davanti ad un edificio industriale in abbandono
oppure di fronte ad un infimo dettaglio con il quale rinviare alla maestosi-
tà di un edificio storico, insieme cancellandola, oppure ancora quando si
tenta di cogliere uno sguardo, un’espressione in un viso, nella sua perenne
equivocità, nella sua capacità di descrivere un mondo interiore per pul-
sioni e allusioni, senza dire nulla di razionalmente percepibile, ma un tut-
to di emozioni possibili, dalle quali il fruitore può, se lo vuole e se ne è
capace, riversare le sue intenzioni, emozioni, pulsioni.

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