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A CURA DI
TONINO GRIFFERO E MICHELE DI MONTE
Mimesis
1. Inizi
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2. Delimitazioni
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4 Vedi, per un esempio recente, O. Meo, Mondi possibili. Un’indagine sulla costru-
zione percettiva dell’oggetto estetico, Genova, Il Melangolo, 2002, in part. pp. 21
e 25, dove si sostiene che l’arte (di Escher, in particolare) potrebbe “permettersi la
violazione del principio di [non-] contraddizione”.
5 Ciò vale, più specificamente, per tutte le dimensioni sensorialmente inaccessibili
a una certa modalità. Una precisa quantità di calore o un gradiente, per esem-
pio, possono essere rappresentati visivamente solo grazie a quella che Massironi
ha chiamato “ipotetigrafia”. Vedi M. Massironi, Vedere con il disegno, Padova,
Muzzio, 1982, pp. 125-126. Resta da decidere se si possano chiamare immagini in
senso stretto i grafici e le figure geometriche pure. Dal nostro punto di vista, non
sussistendo in tal caso una rappresentazione per somiglianza percettiva aspet-
tuale, dovremmo parlare delle figure geometriche come di immagini in senso
improprio, o comunque derivato, e considerarle un caso limite.
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(5) “I2” ⊂ I1
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4. Priorità
9 Ciò vale pure per quanto riguarda la finzione per azioni. Anche volendo, non
si può fingere di diventare poveri dilapidando i propri averi, per ottenere una
finzione più realistica. Su questo, vedi il classico J.L. Austin, Fingere, in Saggi
filosofici, Milano, Guerini, 1990.
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12 Anche i segni convenzionali, per esempio i simboli, possono (ma non sempre)
mancare di simili informazioni paratestuali, ma proprio per questo il loro conte-
nuto deve essere acquisito per apprendimento associativo, il quale, tipicamente,
non consente estensioni inferenziali e transitive. Quando so che la bandiera x rap-
presenta l’Italia ed è così e così, non ho poi alcun modo di capire cosa rappresenta
una qualunque altra bandiera, se qualcuno non me lo dice. Se si può riconoscere
uno stile “araldico” (solo attraverso la somiglianza, peraltro), questo non serve a
determinare i valori della variabile y e dunque non è neppure facile capire come
possa funzionare in quanto codice.
13 Lo stesso discorso vale anche nel caso in cui si faccia dipendere l’individuazione
e l’applicazione del codice – nonché l’interpretazione del contenuto rappresenta-
zionale – da una più comprensiva collocazione categoriale, come si potrebbe per
esempio suggerire sulla scorta di K. Walton, Categories of Art, in «Philosophical
Review», LXXIX, n. 3, 1970, pp. 334-367. Anche così, infatti, posso catalogare
un busto scultoreo qua scultura (per riprendere l’esempio dello stesso Walton)
solo perché somiglia in modo rilevante e pertinente ad altre sculture, le quali, a
loro volta, sono riconoscibili in quanto tali proprio perché sono un certo tipo di
immagine che raffigura certi oggetti (direttamente e in primo luogo) riconoscibili
nell’immagine stessa. Diversamente non si potrebbe mai imparare che cos’è una
scultura e come riconoscerne occorrenze inedite.
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16 Per una discussione recente di questi dati, e la loro possibile interpretazione in or-
dine al problema della cosiddetta penetrabilità cognitiva della percezione, vedi Z.
Pylyshyn, Seeing and Visualizing, Cambridge, Mass., Press, 2003, in part. capp.
2 e 4. Per quel che ci riguarda, è chiaro che il riconoscimento di somiglianze si
situa oltre lo stadio che Pylyshyn qualifica come “early vision”.
17 Piana, op. cit., p. 65.
18 Tenendo conto, inoltre, dei limiti specificati nei paragrafi precedenti. Alcuni di-
pinti astratti, per esempio, si potrebbero anche vedere come immagini, proprie
loquendo, di qualche oggetto: un “Pollock” potrebbe forse rappresentare, magari
con la fedeltà di un dipinto iperrealista, un pavimento sporco di colature di verni-
ce. Ma su questa via si torna rapidamente alla situazione di un’insostenibile auto-
riflessività, per cui ogni dipinto astratto potrebbe essere considerato l’immagine
di una tela sporca così e così, e avanti fino al caso già citato del ready-made.
19 Per l’impossibilità di individuazioni di oggetti indeterminati, a livello ontologico,
vedi D. Wiggins, Sameness and Substance Renewed, Cambridge, Cambridge UP,
2001, pp. 160-170.
20 R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli,1962, p. 32.
21 Piana, op. cit., p. 67.
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Come si vede, non è dunque tanto facile sbarazzarsi di una old fashioned
Resemblance Theory – d’altronde, non è scritto da nessuna parte che se una
cosa è out of fashion è anche automaticamente out of question. Ma, soprat-
tutto, non è tanto utile metter da parte la somiglianza, perché senza questa
non si articolerebbe quella duplicità che è essenziale per la costituzione
ontologica e fenomenologica delle immagini. Essenziale, però anch’essa
problematica, perché se è vero che per l’Homo pictor vedere, fabbricare e
riconoscere immagini è un fenomeno del tutto spontaneo, non altrettanto
immediate sono le risposte agli interrogativi che il fenomeno stesso susci-
ta, forse proprio a motivo della sua primitiva “naturalità”. Si è parlato del-
la “presenza di un’assenza”, ma, di là dalla suggestione retorica, come si
spiega (se si spiega), precisamente, una simile formula? Quando diciamo di
riconoscere un oggetto in un’immagine, cosa intendiamo esattamente con
“in”? E se l’immagine è anche (o almeno dipende costitutivamente da) un
supporto materiale dal quale deve però distinguersi, dove andrà localizza-
ta? Sono domande che, con ogni evidenza, si connettono reciprocamente.
Ma cominciamo intanto dall’ultima.
Vari autori hanno insistito sulla compresenza, nel processo unitario di
percezione dell’immagine, di una consapevolezza sensibile – qualcosa che
suona forse meno strano nell’inglese “perceptual awareness” – di ciò che
è rappresentato ma anche, contemporaneamente, della struttura e della su-
perficie materiale che ne costituisce il supporto concreto e, in un certo sen-
so, come s’è detto, ne smentisce l’apparenza consegnandolo ad uno spazio
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30 Così, per un esempio celebre e autorevole, E. Panofsky, Sul problema della de-
scrizione e interpretazione del contenuto di opera d’arte figurativa, in La pro-
spettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 219.
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31 “Sic enim ad omnium leonum naturam demonstrandam una potest pictura fieri
nullius eorum quod proprium est, repraesentans et rursus ad quemlibet eorum di-
stinguendum alia commodari, quae aliquid eius proprium denotet, ut si pingatur
claudicans uel curtata uel telo Herculis sauciata. Sicut ergo quaedam rerum com-
munis figura, quaedam singularis pingitur, ita etiam concipitur, scilicet quaedam
communis, quaedam propria”. Vedi Glossae super Porphyrium, in Peter Abae-
lards Philosophische Schriften. I. Die Logica 'Ingredientibus'. 1. Die Glossen zu
Porphyrius, a c. di B. Geyer, Münster, 1919, p. 22.
32 N. Wolterstorff, Works and Worlds of Art, Oxford, Press, 1980, pp. 18-20.
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7. Universalità
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38 Per una sintesi delle varie opzioni, vedi almeno Armstrong, 1989, op. cit.; More-
land, 2001, op. cit. Per la teoria dei Tropi: D.C. Williams, The Elements of Being,
in The Principles of Empirical Realism, a cura di D.C. Williams, Springfield,
C. Thomas, 1966; K. Campbell, Abstract Particulars, Oxford, Blackwell, 1990.
Un’ampia discussione dei problemi legati al concetto di “Bare Similarity”, secon-
do un approccio realista ma non universalista, è in J. Heil, From an Ontological
Point of View, Oxford, Clarendon Press, 2003, in part. cap. 14.
39 P. Butchvarov, Resemblance and Identity. An Examination of the Problem of Uni-
versals, Bloomington and London, University Press, 1966.
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