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POTERE DELLE IMMAGINI?

A CURA DI
TONINO GRIFFERO E MICHELE DI MONTE

Mimesis

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Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano,
Dipartimento di Filosofia (prin 2005-2007)

© 2008 – MIMESIS EDIZIONI


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MICHELE DI MONTE

EIKON DELOI. IL BUON ESEMPIO DELLE IMMAGINI

Stultus est qui sic picturae coloribus


inhaeret, ut res quae pictae sunt ignoret.
Gregorio Magno, In Canticum Canticorum

1. Inizi

È stato spesso osservato che il primo documento esplicito di una possi-


bile teoria delle immagini, almeno nel mondo occidentale, sarebbe rappre-
sentato paradossalmente da un divieto, una proibizione dell’immagine che
appunto ne bandisce la produzione e l’uso in termini perentori e radicali. È
Dio stesso che comanda a Mosè, senza equivoci apparentemente possibili:
“Non facies tibi sculptile, necque omnem similitudinem quae est in coelo
desuper et quae in terra deorsum, nec eorum quae sunt in acquis sub ter-
ra”. Così la Vulgata (Es. 20, 4). Tuttavia, non molto più avanti, nello stes-
so libro dell’Esodo – in un passo celebre ancorché meno frequentemente
citato e commentato dagli storici dell’immagine – ancora Dio si rivolge a
Mosè, dopo avergli dato dettagliate istruzioni verbali circa la costruzione
dell’arca, con queste parole: “Inspice et fac secundum exemplar quod tibi in
Monte monstratum est” (Es. 25, 40). Si tratta di una circostanza che, dopo
quanto si è appena osservato, può sollevare qualche legittimo interrogati-
vo. Che genere di “exemplar”, o typon, viene qui indicato (“inspice”) o, più
precisamente, richiamato alla memoria visiva (“monstratum est”) di Mosè?
Il Dio invisibile, il Dio aniconico della parola trova in fondo più economico
ed efficace servirsi all’occorrenza anche di immagini? Oltretutto, si noti,
non già di immagini da intendersi in un senso più o meno ermeneuticamen-
te metaforico, prefigurale o simbolico, bensì, come qui sembrerebbe, in
un senso precisamente tecnico, anche se, certo, più pianamente “prosaico”
e pragmatico, se così si può dire. Ma soprattutto percettivamente diretto.

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L’immagine secundum quam Mosè è chiamato ad operare sembra qualcosa
come un archetipo, un paradigma, o ancora, con un termine più familiare
ma non meno appropriato, un modello visivo, un esempio appunto, nella
duplice valenza che queste nozioni conservano nel nostro linguaggio ordi-
nario: una forma originaria che fornisce il confronto sensibile (la matrice)
per ogni derivazione conforme e corretta e, nello stesso tempo, una realiz-
zazione particolare, un caso valido, di un originale più astratto. Insomma,
qualcosa che si può (o si deve, eventualmente) imitare e insieme qualcosa
che a sua volta imita rappresentando concretamente e intuitivamente ciò
che altrimenti sarebbe difficile insegnare. Un tipico “lavoro” per le imma-
gini, si direbbe, che comporta altresì un “lavoro” non meno specifico da
parte di chi intende (o è chiamato a) servirsene.
E di “lavoro” – prosaico, potrebbe aggiungersi – qui è opportuno parlare
subito onde chiarire in via preliminare l’oggetto e l’orientamento preferenzia-
le delle nostre riflessioni. Infatti, forse più che di un inizio di una teoria nega-
tiva delle immagini sotto il segno del divieto divino – che nello stesso tempo
ne sancisce però, sia pure e contrario, il potere e la forza – si potrebbe parlare
più propriamente di duplice inizio, con cui le immagini vengono convocate
nello stesso tempo a svolgere forse più umili ma anche più utili funzioni, e
comunque lecite, a quanto pare, e raccomandabili. Non solo perciò l’idolo,
l’immagine sacra e di culto, luogo di rivelazioni ierofaniche, quand’anche so-
spette e pericolose; ma anche l’immagine comune, la figura quale strumento
cognitivo di comunicazione e conoscenza, di lavoro appunto.
E proprio a partire da quest’ultima accezione conviene forse provare a
delineare alcune precisazioni e distinzioni, sia pure largamente prelimina-
ri, che possano eventualmente rivelarsi utili in ordine alla messa a punto di
una più comprensiva teoria dell’immagine.

2. Delimitazioni

Quando si discute di immagini, uno dei motivi di maggiore confusione –


da cui dipende pure la difficoltà di inquadrare e confrontare adeguatamen-
te le diverse posizioni in materia – è costituito dal fatto che molto spesso
manca una chiara ed esplicita delimitazione dell’oggetto proprio della di-
scussione stessa, giacché una delimitazione tacita riesce, altrettanto spesso,
troppo vaga per costituire un criterio valido sulla cui base distinguere tra
argomenti (e controargomenti) pertinenti o irrilevanti. È chiaro che la poli-
vocità del concetto di immagine, e persino il carattere apparentemente ena-
tiologico della sua amplissima estensione semantica, riflette l’importanza e

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la centralità di cui esso ha goduto e gode – nel bene e nel male, come abbia-
mo accennato – nella storia della nostra cultura. Tuttavia, a costo di sacrifi-
care una parte della ricchezza di queste implicazioni e delle esperienze che
vi sono connesse, sembra qui preferibile specificare, in modo possibilmen-
te non arbitrario, cosa debba intendersi per immagine e cosa no.
Sulla scorta di una comune intuizione preteoretica, così com’è pure cat-
turata dall’uso del nostro linguaggio ordinario, credo si possa sostenere
plausibilmente che uno dei tratti fondamentali e costitutivi di ogni immagi-
ne sia il suo carattere referenziale o, come preferirei dire, rappresentazio-
nale. Per questo, quando parliamo di immagini intendiamo normalmente
degli oggetti che intrattengono uno specifico rapporto, o connessione, con
qualcos’altro. In questo senso ogni immagine è sempre immagine-di. Natu-
ralmente ciò non è letteralmente e invariabilmente vero per le nostre prati-
che linguistiche, che ammettono accezioni assai più elastiche, per esempio
quando ci si riferisce al contenuto ordinario delle esperienze percettive (“le
immagini che vedo dalla mia finestra” ecc.), dove il termine, in assenza di
ulteriori specificazioni, potrebbe applicarsi alle “cose” percepite, oppure a
entità più tecnicamente definite, come i dati sensoriali, le immagini men-
tali e simili. Motivato o no che sia un simile uso indifferenziato, in questa
sede, per le ragioni che abbiamo detto, si distinguerà innanzitutto netta-
mente tra immagini, in quanto oggetti di un certo tipo, e scenari percettivi,
quindi, conseguentemente, anche tra scenari percettivi (con il loro conte-
nuto articolato) e immagini mentali (o immagini mnemoniche), che come
tali conservano un carattere rappresentazionale o comunque rientrano nel
senso già chiarito di “immagini-di”. Possiamo cercare di formalizzare que-
sta prima distinzione come segue:

(1) ∀x∀y ((Ix) → (RIxy) & x≠y)

dove, per ogni immagine I, con R si indica la relazione di rappresentazione,


che – come vedremo meglio – sarà da intendere in quanto asimmetrica, tra
l’immagine stessa e un qualsiasi oggetto y che ne costituisce il contenuto
rappresentazionale. È pure chiaro che ancora in questa forma (1) non è suf-
ficientemente delimitativa, almeno per le nostre esigenze. Che l’immagine
abbia un contenuto rappresentazionale non esclude – almeno intendendo
rappresentazione in senso abbastanza lato, come qualcuno fa – che pratica-
mente ogni cosa possa rappresentarne qualunque altra, secondo una qual-
che relazione stipulativa o convenzionale, più o meno arbitraria. È quanto
capita di regola nella categoria degli oggetti che si possono definire come

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“contrassegni”1 ovvero, secondo la classica tripartizione peirceana dei se-
gni, come “simboli” (ragion per cui si può anche dire correttamente che,
per esempio, la bandiera italiana è l’immagine dell’Italia). Anche a questo
riguardo è dunque opportuno distinguere un’accezione più ristretta, che po-
trebbe coincidere – per restare alla ben nota terminologia di Peirce – con
l’ambito delle icone, alle quali si richiede non una generica relazione segni-
ca con il denotato, ma un particolare rapporto di somiglianza, un rapporto
di somiglianza specificamente iconica, appunto. Di qui possiamo integrare
e precisare (1) nei termini seguenti:

(2) ∀x∀y ((Ix) → (RsIxy) & x≠y)

dove Rs indica la specifica connotazione di somiglianza che sussiste nel


rapporto di rappresentazione tra l’immagine x e l’oggetto y, tale che x pos-
sa essere l’immagine di y. Va aggiunto, come è facile intuire, che la somi-
glianza che ci interessa qui è, proprio in quanto iconica, una somiglian-
za specificamente sensibile e percettiva (anche se non necessariamente ed
esclusivamente visiva), il che comporta un’ulteriore delimitazione. La re-
lazione di somiglianza costitutiva dell’icona sussiste tra l’immagine, indi-
pendentemente dal particolare oggetto materiale che la realizza, e un in-
sieme di certi caratteri percepibili (nella stessa modalità dell’immagine) di
un qualche altro oggetto, distinto dall’immagine stessa. Ricorrendo ad un
concetto di ascendenza wittgensteiniana, ma conferendogli una più ridut-
tiva valenza percettiva (sulla scorta di Ingarden2, per esempio) potremmo
riferirci a questo insieme parziale di caratteri o proprietà
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dell’oggetto rap-
presentato con il termine di “aspetti”, o “vedute” . Volendo rifinire ancora
la nostra formula, e posto che y (Ay), avremo che:

(3) ∀x∀y ((Ix) → (Rsp(Ix,Ay)) & x≠y))

1 Cosi, per esempio, G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Milano, Il


Saggiatore, 1979, p. 66.
2 R. Ingarden Untersuchungen zur Ontologie der Kunst, Tübingen, Niemeyer, 1962
3 Sul rapporto tra rappresentazione figurativa e teoria degli aspetti, in particolare
di matrice wittgensteiniana, vedi soprattutto T. E. Wilkerson, Art, Illusion and
Aspects, in «British Journal of Aesthetics», XVIII, n. 3, 1978, pp. 45-58 e, dello
stesso Wilkerson, Pictorial Representation. A Defence of the Aspect Theory, in
«Midwest Studies in Philosophy», XVI, 1991, pp. 152-165.

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dove Rsp delimiterà evidentemente il rapporto di rappresentazione per somi-
glianza percettiva (visiva, ad esempio) e A la configurazione aspettuale sen-
sibile (visiva, per lo stesso esempio) di y, di cui l’immagine x è immagine.
Come si capisce, con ciò ridisegniamo l’ambito che stiamo trattando se-
condo un perimetro che per molti versi si discosta non poco da quello con
cui tradizionalmente si considerano il fenomeno e (soprattutto) la storia
delle immagini. Da una parte, il nostro insieme è assai più generosamente
inclusivo, comprendendo tutti i casi di effettiva rappresentazione iconica o,
come si potrebbe anche dire, figurativa, indipendentemente dal materiale,
dal genere – pittura, scultura, grafica, manuale o meccanica ecc. –, dalla
qualità “estetica” – che si tratti di arte (anche solo presunta) oppure no –
e persino dalla modalità sensoriale e genetica, visto che nella definizione
proposta potrebbero rientrare (con poche sufficienti specifiche) anche im-
magini sensoriali non-visive, nonché le immagini mentali. D’altra parte, lo
stesso insieme risulterà più severamente esclusivo, non ammettendo, tanto
per fare un esempio eclatante, la cosiddetta “pittura astratta”, che molti, in
specie gli storici dell’arte, stenterebbero a non considerare una forma di
immagine a pieno (e persino a maggior) titolo. Per minimizzare i possibili
fraintendimenti, e tener conto di alcuni casi apparentemente problematici,
conviene di nuovo fornire qualche ulteriore delucidazione.
Da quanto abbiamo detto risulta intanto ovvio che non ogni cosa può es-
sere oggetto di diretta rappresentazione in immagine: un rotondoquadrato –
checché ne pensino alcuni4 – non è in nessun modo raffigurabile diretta-
mente in quanto oggetto unitario, neppure come immagine mentale. Quan-
to agli oggetti astratti (e non contraddittori), poniamo la “Saggezza” o una
certa dimensione temporale, è altrettanto chiaro che possono essere rap-
presentati solo indirettamente, tramite la rappresentazione (più diretta) di
qualcos’altro, per esempio una personificazione o una figura geometrica5.

4 Vedi, per un esempio recente, O. Meo, Mondi possibili. Un’indagine sulla costru-
zione percettiva dell’oggetto estetico, Genova, Il Melangolo, 2002, in part. pp. 21
e 25, dove si sostiene che l’arte (di Escher, in particolare) potrebbe “permettersi la
violazione del principio di [non-] contraddizione”.
5 Ciò vale, più specificamente, per tutte le dimensioni sensorialmente inaccessibili
a una certa modalità. Una precisa quantità di calore o un gradiente, per esem-
pio, possono essere rappresentati visivamente solo grazie a quella che Massironi
ha chiamato “ipotetigrafia”. Vedi M. Massironi, Vedere con il disegno, Padova,
Muzzio, 1982, pp. 125-126. Resta da decidere se si possano chiamare immagini in
senso stretto i grafici e le figure geometriche pure. Dal nostro punto di vista, non
sussistendo in tal caso una rappresentazione per somiglianza percettiva aspet-
tuale, dovremmo parlare delle figure geometriche come di immagini in senso
improprio, o comunque derivato, e considerarle un caso limite.

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Anche sul versante opposto, quello degli oggetti concreti, possono pre-
sentarsi problemi di confine. Se il caso dell’architettura normalmente non
pone grandi difficoltà, appunto perché le architetture di solito non sono im-
magini-di, è però ben possibile che certi oggetti che potremmo a giusta ra-
gione definire di tipo architettonico possano rientrare perfettamente, e per-
sino esemplarmente, nel campo delle immagini, come sembrerebbe pure
suggerire il passo biblico che abbiamo citato in apertura. È ciò che capita, di
regola, con i modelli in scala, che appunto rappresentano, e rappresentano
iconicamente, e in tal senso potrebbero anche considerarsi, altrettanto cor-
rettamente, come delle sculture6. L’immagine, qui, è un genere trasversale.
Lo stesso può dirsi a proposito di altre categorie. Se è vero, per esempio –
ricorrendo ancora a Peirce – che non definiremmo immagini tutti i tipi di
indici, è pure vero che ce ne sono alcuni che certamente soddisfano i re-
quisiti posti da (3). È il caso delle impronte, o almeno di quelle che “regi-
strano” nella propria configurazione formale le fattezze aspettuali dell’og-
getto di cui sono impronte. Se possiamo considerare un ritratto scultoreo
come un’immagine, non si vede in effetti perché non dovremmo consi-
derare allo stesso titolo anche una maschera facciale ottenuta per calco.
Perciò pare lecito concludere che alcuni indici sono anche icone, o vice-
versa, né è difficile immaginare come si possa ottenere una vera icona
producendo un indice – e qui si può pensare a casi celebrati e consacrati,
letteralmente, dalla tradizione, oppure ridare un’occhiata alla vignetta che
abbiamo messo in esergo.
In ogni caso, resta che la genesi tecnico-materiale dei diversi oggetti non
è necessariamente rilevante rispetto al loro carattere rappresentazionale.
Così come non lo è, de re, l’intervento deliberato di un autore in tutte le
fasi della realizzazione dell’oggetto: una fotografia scattata per caso o per
sbaglio è pur sempre un’immagine, peraltro proprio un genere di immagi-
ne che dal punto di vista della sua genesi fisica si può assimilare piuttosto
alle impronte che ai disegni, ai dipinti, alle sculture e simili. Senza contare
che, impronte o no, molte immagini possono prodursi fortuitamente e per-
sino del tutto indipendentemente dalla presenza di un qualche artefice. E
qui non c’è bisogno di scomodare ancora una volta il celeberrimo passo del

6 Secondo H. Clapin, per esempio, il genere di rappresentazione “iconica” trova


il suo più adeguato tipo paradigmatico non tanto nelle “figure” (dipinti, disegni,
fotografie e simili) quanto nelle sculture o nei modelli in scala, in ragione del
numero di proprietà condivise tra oggetto e rappresentazione. Si tratta di un ar-
gomento in generale condivisibile, sul quale torneremo più avanti. Vedi “Visual
Representation and Taxonomy”, in R. Paton e I. Neilson (Eds.), Visual Represen-
tations and Interpretations, London, Springer, 1999, pp. 313-321.

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trattato di Leonardo sulla nostra capacità di riconoscere delle figure finan-
che nelle macchie dei muri.
Ci sono poi degli oggetti che, se non per la loro effettiva morfologia,
almeno per lo statuto istituzionalmente acquisito possono sollevare delle
perplessità categoriali e prospettare questioni più generali. Che dire dei
ready-mades (almeno quelli intesi in senso proprio)? Prima facie la risposta
sembra affatto scontata: pare difficile pensare alla pala di Duchamp come
a un’immagine. Immagine di cosa, poi? Non di sé stessa, quanto meno per
il fatto che, come si è precisato, l’immagine e l’oggetto della rappresenta-
zione sono due cose distinte collegate da un rapporto che abbiamo defini-
to “asimmetrico”. Come Socrate suggerisce nel Cratilo (432c), se qualcuno
producesse una replica di Cratilo in tutto e per tutto identica all’originale
si avrebbero due Cratili e non più Cratilo e una sua immagine. Su questo
dovremo tornare tra breve, ma possiamo intanto assumere che in generale
nessun oggetto può mai essere immagine di sé stesso? In senso proprio la
risposta è sì. Tuttavia, indipendentemente da problemi logico-formali, qual-
cuno potrebbe obiettare che in pratica, almeno in certi casi particolari, an-
che un dipinto astratto o un ready-made possono diventare autentiche im-
magini e persino immagini di sé stessi: a condizione, beninteso, di essere
inseriti in un adeguato contesto rappresentazionale. Se Norman Rockwell
ha potuto rappresentare un “Pollock” in una sua celebre illustrazione, dipin-
gendovi appunto l’immagine di un “Pollock”, allora avrebbe potuto fare lo
stesso anche montando nel suo dipinto un “Pollock” originale. Ciò viola il
nostro assunto? Non pare. In tal caso, infatti, a fare di un’opera di Pollock
un’immagine (perfettamente indiscernibile) dell’originale – e quindi, si po-
trebbe dire impropriamente, di sé stessa – sarebbe piuttosto l’immagine di
Rockwell, del cui contenuto rappresentazionale l’ex originale verrebbe così
a costituire un parte dipendente e non più autosufficiente. Allo stesso modo,
per passare a un piano più generale, quando Donatello include un pezzo di
stoffa nella fusione della Giuditta, per un maggiore effetto di realismo, la
stoffa “reale” serve effettivamente a rappresentare la stoffa, ma questa è ora
la stoffa “finzionale”, l’immagine appunto, del panneggio di Giuditta e non
più l’immagine del particolare pezzo di stoffa posseduto e utilizzato dallo
scultore, anche se materialmente si tratta della stessa cosa.
Indubbiamente questa rapida panoramica non esaurisce una casistica
che può essere assai più ampia e contare problemi di difficile decidibilità
anche più sottili e sofisticati. Nondimeno, le clausole che abbiamo esposto
fin qui possono servire a delimitare, almeno provvisoriamente, il nostro
campo di indagine in termini, credo, non arbitrari.

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3. Trasparenze

Abbiamo detto “provvisoriamente”, perché è chiaro che qui si affaccia-


no subito altre questioni cruciali e ben note. In particolare, il passo platoni-
co appena citato coglie un punto critico che parrebbe del tutto controintui-
tivo limitarsi a negare o aggirare, assieme con le sue implicazioni. Il punto,
in effetti, è duplice: non solo non saremmo disposti ad ammettere che un
uomo, come nella domanda posta da Socrate, possa essere l’immagine di
un secondo uomo da quello assolutamente indiscernibile, ma nemmeno
ammetteremmo che possa essere l’immagine di un qualsiasi altro uomo
(non solo numericamente) diverso. Eppure le condizioni che possiamo de-
finire pensando a un caso inequivoco, come quello di un dipinto, sembrano
sussistere intatte anche in questo: pure qui avremmo un oggetto x che pre-
senta dei tratti di somiglianza percepibile rispetto a certi aspetti manifesti
dell’oggetto y ed è diverso da y. Però non diremmo certo che l’uomo x raffi-
gura l’uomo y. Non si tratta, beninteso, di prender posizione su certe abitu-
dini linguistiche, ma di tener conto dell’intuizione noetica che il linguaggio
stesso asseconda. E l’intuizione qui è difficile da estirpare. Possiamo spie-
garla? Proviamo a sondare alcune opzioni.
Se è vero, come s’è visto, che la pala di Duchamp non può essere l’im-
magine di sé stessa e neppure di un’altra pala qualsiasi più o meno simi-
le, possiamo però provare a pensarla come l’immagine di un oggetto even-
tualmente più “generale”: non un oggetto qualunque, che non abbia alcuna
somiglianza percettiva con la pala – ché così diventerebbe tutt’al più un
simbolo –, ma qualcosa che riesca ad adeguare il carattere specifico del rap-
porto fissato in (3). L’objet trouvé di Duchamp si potrebbe allora conside-
rare, forse non abusivamente, come un esempio (magari paradigmatico) di
pala da neve generaliter sumpta. Qualcosa di analogo all’exemplar mosaico
citato all’inizio. A queste condizioni avremmo dunque a che fare con un’im-
magine in senso proprio? Il caso sembra forse un po’ meno controintuitivo
di prima, e per questo dovremo tornaci. Tuttavia, per ora, assimilando di-
rettamente l’esempio all’immagine, almeno in questi termini, otterremmo
soltanto una nozione banalmente e completamente ridondante rispetto alle
distinzioni che stiamo cercando di individuare. Infatti, in forza di quello che
viene talvolta definito “principio di implicazione predicativa”7 – per cui, ne-
cessariamente, se qualcosa è F allora esemplifica la F-ità ed esiste una cosa
come la F-ità – ogni oggetto, ogni particolare concreto, esemplifica sempre
la categoria o, nel caso, le categorie cui appartiene: anche un quadro qua-

7 Vedi N. Wolterstorff, On Universals, Chicago, of Chicago Press, 1970, p. 114.

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lunque, che in quanto immagine può essere il ritratto di qualcuno, è pure
un esempio di quadro, di dipinto su tela, di dipinto a olio e così via, oltre ad
essere naturalmente, sempre in quanto immagine, un’esemplificazione di
immagine. Né è mancato chi ha fatto notare – magari con un inavvertito ca-
tegory mistake – che un dipinto assomiglia a ogni altro dipinto più di quanto
assomigli a ciò che rappresenta8.
Il fatto davvero decisivo è che nel quadro possiamo distinguere il quadro
stesso dall’immagine di qualcos’altro, come invece non è possibile fare con
il ready-made. Da ciò si potrebbe essere indotti a concludere che tra l’im-
magine x e il rappresentato y debba implicarsi una differenza più profonda
di quella che separa due singolari di uno stesso genere e che, in altre paro-
le, tale differenza vada intesa a livello sortale. Formalmente, e indicando
il sortale con S:

(4) ∀x∀y (S(x) → ~S(y))

Ma se così fosse, dovremmo anche ammettere che, per esempio, un di-


pinto non può rappresentare un altro dipinto, caso che invece abbiamo già
esaminato nel paragrafo precedente. È vero, possiamo aggiungere qui, che
affinché un’immagine I1 (poniamo appunto un dipinto) possa rappresen-
tare propriamente un’immagine I2 (un altro dipinto) è necessario che I1
esibisca o suggerisca qualcosa di analogo a uno schema decitazionale, per
così dire. Qualcosa del tipo:

(5) “I2” ⊂ I1

cosicché il contenuto rappresentazionale dell’immagine oggetto sia incluso


evidentemente come parte propria nel contenuto rappresentazionale della
meta-immagine. Ciò vuol dire che il contenuto di I2 non può essere perfet-
tamente coestensivo a quello di I1, altrimenti il contenuto di questa sarebbe
meramente e completamente il contenuto dell’altra. In pratica, e più sempli-
cemente, se un dipinto deve rappresentarne un altro deve necessariamente
rappresentare anche qualcosa di più del dipinto stesso per poterlo “virgolet-
tare”: potrebbe essere la cornice, una parete, un ambiente, un oggetto frappo-
sto o un qualche contesto simile: come appunto succede nell’illustrazione di
Rockwell. In caso contrario, I1 diventa perfettamente “trasparente”, e quindi
invisibile. Le conseguenze sono più chiare nel caso della scultura. Supponia-
mo, per esempio, che il busto di Aristotele del Kunsthistorisches Museum di

8 N. Goodman, I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1976, p. 12.

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Vienna non intenda rappresentare le fattezze del filosofo ma quelle di un altro
ritratto dello stesso Aristotele, poniamo il perduto originale lisippeo o la co-
pia della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. Forse possiamo saperlo –
grazie a un’eventuale informazione storica. Ma come possiamo vederlo? In
realtà, non c’è alcun modo di distinguere i due contenuti rappresentazionali.
Il busto di “Aristotele” è in ogni caso il busto-di Aristotele.
Tuttavia, pur con questi caveat e a patto che si possa garantire un’effet-
tiva distinguibilità, la condizione posta da (4) sembra invero dispensabile.
D’altra parte, per tornare alla suggestione del Cratilo platonico, non è det-
to che un uomo non possa in alcun modo rappresentarne (mostrare un’im-
magine di) un altro. Stando così le cose, gli attori farebbero la fame, e non
pare il caso. Semmai c’è da precisare che un attore può rappresentare visi-
vamente un personaggio – e non solo impersonarlo in un contesto d’azione
drammatico-narrativo – se “finge”, o esibisce finzionalmente, le fattezze
aspettuali che individuano riconoscibilmente quel dato personaggio. Per
questo, volendo di nuovo giustificare le nostre pratiche linguistiche, suona
implausibile dire genericamente che Tizio è l’immagine di Caio, mentre è
persino ovvio che Marlon Brando, poniamo, possa presentarci l’immagine
di Napoleone. Perché ciò accada è necessario che si ri-conosca l’aspetto di
Napoleone come finzionalmente presente nell’aspetto, diverso, di Brando.
Se i due fossero gemelli, senza altri contrassegni, non ci sarebbero più un
attore e un personaggio, la dimensione rappresentazionale si perderebbe e
resterebbe solo la somiglianza, che a limite potrebbe confondersi illusiva-
mente con l’identità9. D’altra parte, se i due non avessero proprio nulla in
comune in quanto individui particolari – e qui, contrariamente a (4), conta
proprio il parametro dell’appartenenza a uno stesso genere – non avremmo
nessun aspetto e nessuna immagine da riconoscere. Ecco perché in casi
simili si ricorre di solito ad attributi facilmente diagnostici: acconciature,
costumi, segni particolari. In una parola: all’iconografia più nota.

4. Priorità

Affinché si determini il fenomeno dell’immagine è dunque indispensa-


bile una costitutiva duplicità, per cui il mezzo grazie al quale l’immagi-

9 Ciò vale pure per quanto riguarda la finzione per azioni. Anche volendo, non
si può fingere di diventare poveri dilapidando i propri averi, per ottenere una
finzione più realistica. Su questo, vedi il classico J.L. Austin, Fingere, in Saggi
filosofici, Milano, Guerini, 1990.

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ne emerge “nega”, per così dire, la presenza dell’oggetto che l’immagine
stessa, in quanto tale, presenta. Per dirlo con una formula suggestiva ed
icastica – ancorché, come vedremo, troppo letteralmente paradossale – :
l’immagine è sempre la presenza di un’assenza10. Rende immediatamente
percepibile qualcosa senza essere la cosa che in essa si percepisce. In que-
sto apparente paradosso sta il carattere peculiarmente asimmetrico e non
biunivoco della relazione di rappresentazione figurativa.
Se abbiamo rilevato, a questo proposito, come la semplice somiglianza,
non meglio specificata, non sia da sola sufficiente a garantire il senso e la
direzione di questo rapporto, non sembra tuttavia affatto plausibile che se
ne possa fare a meno in quanto neppure necessaria, come hanno sostenu-
to e sostengono tutti quegli autori, vecchi e nuovi, che si richiamano a un
radicale convenzionalismo (di solito complementare a un costruttivismo
epistemologico di stampo anti-realista). Qui non possiamo soffermarci par-
titamente sui singoli argomenti, così come sono stati variamente formula-
ti nell’ambito del dibattito intorno al cosiddetto “iconismo” o a quella che
oggi si usa definire Resemblance Theory, nondimeno, per i nostri scopi
presenti, si può osservare almeno quanto segue11.
Ove si consideri la fenomenologia della concreta percezione di un’im-
magine, così come si realizza in una situazione reale, bisogna tener pre-
sente che ciò che si dà materialmente alla visione, in un primo momento,
è soltanto un oggetto x con le sue proprietà. È da vedere – letteralmente –
se I(x) e se per esso valga la relazione R che designa (o denota, secondo
preferenze) y. Per accertare il valore di y, come è stato spesso sottoline-
ato, devo conoscere la funzione di R. Ma se R è un codice determinato
culturalmente per convenzione, stipulazione o comunque in modo arbitra-
rio, allora per riconoscerlo in x devo prima averlo acquisito da qualche al-
tra parte, donde l’importanza essenziale che i convenzionalisti assegnano
all’“addottrinamento” (e all’“inculcation”). Se però le cose stessero effet-
tivamente così il processo di percezione dell’immagine x si incepperebbe
al primo stadio ed è fortemente dubbio che si riuscirebbe mai a “calcola-
re” in tal modo il valore di y. Infatti, chi dovrebbe avvertirci che siamo
di fronte a un oggetto cui è lecito applicare R? E, soprattutto, come de-
cidere quale tipo di R applicare (visto che ce ne dovrebbero essere molti,
tutti altrettanto funzionali, secondo i convenzionalisti)? Se, per esempio,

10 G. Boehm, Al di là del linguaggio? Osservazioni sulla logica delle immagini, in


Id., La svolta iconica, Roma, Meltemi, 2008, in corso di stampa.
11 Per un più dettagliato sviluppo di una critica delle tesi convenzionaliste, di cui sin-
tetizzo qui alcuni punti, rimando a M. Di Monte, Se un leone potesse disegnare, in
Immagine e scrittura, a c. di M. G. Di Monte, Roma, Meltemi, 2006, pp. 270-303.

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il riconoscimento del contenuto rappresentazionale di un dipinto egizio
dipendesse dal previo riconoscimento di un codice stilistico-figurativo,
diciamo, “lineare” (linee = bordi, campiture = corpi ecc.), il codice stes-
so sarebbe imperscrutabile e inapplicabile. Normalmente (direi presso-
ché sempre) le immagini non presentano informazioni esplicite sul forma-
to del codice utilizzato per costruirle, come succede nei file del sistema
operativo di un computer12. Ma è unicamente dalle immagini stesse che
possiamo ricavare simili “informazioni”13. Per uscire dal circolo dobbia-
mo perciò necessariamente attingere a una dimensione più direttamente
accessibile. In realtà, è solo se prima riconosco cosa l’immagine rappre-
senta che posso stabilire poi come lo rappresenta. Senza questa priorità
non potrebbe neppure darsi alcun addottrinamento. Non solo non potrei
confrontare codici diversi – infatti, sulla base di cosa potrebbero commi-
surarsi? – ma non potrei neanche impararli, amplificarli per estensione e
quindi adottarne di nuovi.
La prima dimensione che ci interessa non può essere perciò se non quella
del riconoscimento diretto degli oggetti rappresentati nell’immagine, vale
a dire, appunto, y. “Diretto” significa qui, innanzitutto, determinato ogget-
tivamente dalla natura delle proprietà aspettuali di x e y. La relazione di
somiglianza che qui sussiste è quel genere di relazione che è stata chiamata

12 Anche i segni convenzionali, per esempio i simboli, possono (ma non sempre)
mancare di simili informazioni paratestuali, ma proprio per questo il loro conte-
nuto deve essere acquisito per apprendimento associativo, il quale, tipicamente,
non consente estensioni inferenziali e transitive. Quando so che la bandiera x rap-
presenta l’Italia ed è così e così, non ho poi alcun modo di capire cosa rappresenta
una qualunque altra bandiera, se qualcuno non me lo dice. Se si può riconoscere
uno stile “araldico” (solo attraverso la somiglianza, peraltro), questo non serve a
determinare i valori della variabile y e dunque non è neppure facile capire come
possa funzionare in quanto codice.
13 Lo stesso discorso vale anche nel caso in cui si faccia dipendere l’individuazione
e l’applicazione del codice – nonché l’interpretazione del contenuto rappresenta-
zionale – da una più comprensiva collocazione categoriale, come si potrebbe per
esempio suggerire sulla scorta di K. Walton, Categories of Art, in «Philosophical
Review», LXXIX, n. 3, 1970, pp. 334-367. Anche così, infatti, posso catalogare
un busto scultoreo qua scultura (per riprendere l’esempio dello stesso Walton)
solo perché somiglia in modo rilevante e pertinente ad altre sculture, le quali, a
loro volta, sono riconoscibili in quanto tali proprio perché sono un certo tipo di
immagine che raffigura certi oggetti (direttamente e in primo luogo) riconoscibili
nell’immagine stessa. Diversamente non si potrebbe mai imparare che cos’è una
scultura e come riconoscerne occorrenze inedite.

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“intrinseca” o “interna”14, e dunque ontologicamente data e fissata con la
struttura stessa di x e y in ogni mondo possibile che comprenda x e y.
Ma “diretto” significa anche, dal punto di vista fenomenologico della
percezione, che il riconoscimento è un processo intuitivo, “spontaneo”, se
così si può dire, e come tale si innesca in effetti anche di fronte a fenome-
ni figurativi altrettanto spontanei, come le immagini naturali o casuali,
in cui, ovviamente, non c’è da interpretare alcun codice convenzionale
che denoti il rappresentato e tanto meno ha senso postularvi una qualche
arbitrarietà. La mancanza di un codice noto non mi impedisce affatto di
vedere-in una nuvola una lumaca, per esempio15. Anzi, quando l’“afferro”
non posso fare a meno di riconoscerla, come capita tipicamente con le im-
magini multistabili.
A questo punto può essere utile esplicitare una questione finora rimasta
latente, ma che può essere ed è spesso motivo di confusione e controversia.
Abbiamo detto che la somiglianza è oggettivamente fondata e che la sua
percezione è un fenomeno diretto e spontaneo, ma questo non vuol dire che
ogni somiglianza reale, come ogni proprietà reale, sia ipso facto una so-
miglianza o una proprietà percepita in tutti i casi. La dinamica complessa
della percezione può mettere capo a esiti contingenti relativamente diversi,
che possono dipendere da vari fattori. L’allocazione attenzionale o il preo-
rientamento intenzionale di specifici compiti percettivi hanno di norma un
ruolo determinante nella capacità di riconoscimento delle immagini e del

14 Vedi G. Bergman, Realism. A Critique of Brentano and Meinong, Madison, of


Wisconsin Press, 1967, p. 54; D. Armstrong, A Theory of Universals, II, Cambridge,
Cambridge UP, 1978, pp. 84-86; D. Armstrong, Universals. An Opinionated In-
troduction, Boulder, S. Francisco, London, Westview Pres, 1989, pp. 43-44; J.P.
Moreland, Universals, Montreal-Kingston, McGill-Queen’s UP, 2001, pp. 55-56.
15 Il riferimento è qui ovviamente alla nozione di seeing-in formulata da R. Woll-
heim, Art and its Object, Cambridge, Cambridge UP, 1980 e Painting as an Art,
London, and Hudson, 1987. Tuttavia, Wollheim sembra sostenere che il fenomeno
abbia un fondamento soggettivo (in senso psicologico) piuttosto che propriamente
oggettivo, e cioè che la relazione iconica sussista sempre e soltanto quando (ma
anche perché?) c’è una relazione “percepita”. In termini strettamente causali la
tesi pare troppo controintuitiva e non è chiaro in che misura la si possa addebitare
a Wollheim. Per una linea analoga si veda più recentemente R. Hopkins, Picture,
Image and Experience, Cambridge, Cambridge UP, 1998 e The Speaking Image.
Visual Communication and the Nature of Depiction in M. Kieran (Ed.), Aestheti-
cs and the Philosophy of Art, Oxford, Blackwell, 2006, pp. 145-159. Per una criti-
ca del soggettivismo del tipo di Wollheim vedi da ultimo J. Hyman, The Objective
Eye. Color, Form, and Reality in the Theory of Art, Chicago, The University of
Chicago Press, 2006. Vedi anche ultra.

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loro contenuto, come è stato spesso evidenziato sperimentalmente16. Que-
sta situazione viene talvolta descritta dicendo che in ogni contenuto percet-
tivo, volendo, si può riconoscere un qualche elemento di rappresentazione
iconica, suscitando un “effetto raffigurativo”17. In termini molto generali le
cose si possono anche mettere così.
In ogni caso, quel che qui ci interessa è che quand’anche si assuma che
ogni immagine è, prima di essere tale, una configurazione percettiva iconi-
camente “neutra”, per così dire, (il semplice oggetto x con le sue proprietà)
resta vero che ogni effetto raffigurativo dipende comunque dalla possibilità
di riconoscere e individuare percettivamente qualcosa nella configurazio-
ne18, sicché ogni effetto raffigurativo è sempre un effetto determinato, dato
che pare difficile poter ri-conoscere e individuare percettivamente qualcosa
se non in quanto determinatamente qualcosa19. Ma questa determinazione ri-
cognitiva dipende a sua volta dalle relazioni interne di somiglianza, che sono
appunto oggettive. Posso non riuscire a “vedere” un’immagine in una confi-
gurazione neutra finché non faccio attenzione a certi tratti – e il “risveglio”
di questa attenzione, come l’ha chiamato Arnheim20, può essere variamente
motivato e guidato – ma non posso vedere, poniamo, in un cerchio, per quan-
to semplice, una mucca più che la luna, pur con tutta la buona volontà.
Si delinea così, nella misura in cui gli effetti di rappresentazione iconica
sono determinati dal giusto tipo di connessione causale tra l’immagine e
gli oggetti reali in essa riconoscibili, un gradiente di dipendenza normati-
va tra la configurazione percettiva di x e quella che è stata appropriatamen-
te descritta come “sintesi” o “apprensione raffigurativa”21. Un semplice

16 Per una discussione recente di questi dati, e la loro possibile interpretazione in or-
dine al problema della cosiddetta penetrabilità cognitiva della percezione, vedi Z.
Pylyshyn, Seeing and Visualizing, Cambridge, Mass., Press, 2003, in part. capp.
2 e 4. Per quel che ci riguarda, è chiaro che il riconoscimento di somiglianze si
situa oltre lo stadio che Pylyshyn qualifica come “early vision”.
17 Piana, op. cit., p. 65.
18 Tenendo conto, inoltre, dei limiti specificati nei paragrafi precedenti. Alcuni di-
pinti astratti, per esempio, si potrebbero anche vedere come immagini, proprie
loquendo, di qualche oggetto: un “Pollock” potrebbe forse rappresentare, magari
con la fedeltà di un dipinto iperrealista, un pavimento sporco di colature di verni-
ce. Ma su questa via si torna rapidamente alla situazione di un’insostenibile auto-
riflessività, per cui ogni dipinto astratto potrebbe essere considerato l’immagine
di una tela sporca così e così, e avanti fino al caso già citato del ready-made.
19 Per l’impossibilità di individuazioni di oggetti indeterminati, a livello ontologico,
vedi D. Wiggins, Sameness and Substance Renewed, Cambridge, Cambridge UP,
2001, pp. 160-170.
20 R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli,1962, p. 32.
21 Piana, op. cit., p. 67.

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cerchio può essere immagine di tante (ma non di tutte le) cose, una mucca
dipinta da Paulus Potter molto meno. In quest’ultimo caso è difficile, se non
impossibile, vedere la mera configurazione prima di vedere la mucca, allo
stesso modo in cui, sul versante linguistico, riconosciamo il proferimento
di una parola nota prima di consideralo un fenomeno sonoro neutro. Come
ha detto una volta Jerry Fodor: “Non si può udire il parlato come se fosse
rumore, neppure se lo si preferisce”22.
Da questo punto di vista non sarebbe anzi scorretto sostenere che si
può consapevolmente vedere un certo oggetto x come una configurazione
“astratta” (o iconicamente neutra) proprio perché e solo fintanto che non
raffigura nulla di riconoscibile: vale a dire, appunto, in quanto non-figura-
tiva. Per contro, non sarebbe evidentemente molto sensato e molto infor-
mativo dire che un’immagine rappresenta qualcosa in quanto non è non-
figurativa. Perciò, benché possa sembrare sorprendente, se definiamo con
C la mera configurazione predenotativa ed è vero che:

(6) ∀x (C(x) → ~I(x))

allora persino quello che in estetica viene talvolta chiamato “formalismo


estremo” finirebbe forse per dipendere da una “Qua thesis”23 di indole co-
gnitivista più sostanzialmente di quanto i suoi fautori vorrebbero ammet-
tere.
Per tornare infine ai limiti del convenzionalismo, dovrebbe essere su-
perfluo precisare che il discorso sin qui svolto non esclude che le immagini
possano essere all’occorrenza utilizzate come simboli, segnali o contras-
segni, né che certe convenzioni possano formarsi non arbitrariamente sul-
la base di elementi figurativi, e neanche, per altro verso, che le immagini
possano includere o servirsi di segni più o meno convenzionali. Semplice-
mente tutto questo non toglie le differentiae che abbiamo delineato: a dicto
secundum quid ad dictum simpliciter non valet consequentia. Se poi si vo-
gliono considerare le icone come un certo tipo di segni, allora bisognerà al-
meno precisare che in quanto somigliano, pace Goodman, significano “per
natura”, secondo la nota distinzione di Aristotele nel Perì Hermenéias24.

22 J. Fodor, La mente modulare, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 92.


23 La tesi, cioè, per la quale posso apprezzare esteticamente x solo in quanto (qua) è
un certo tipo di cosa, solo se so o se riconosco che tipo di cosa è. Vedi, per esempio,
N. Zangwill, The Metaphysics of Beauty, Ithaca, New York, Cornell UP, 2001.
24 Nel Perì Hermenéias si parla in effetti di immagini mentali (phantasmata), ma
ciò che qui ci interessa è il rapporto definito dagli homoiomata (16a 7-8), cioè
dalle “similitudini” degli oggetti reali percepiti, termine che chiama in causa

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5. Localizzazioni

Come si vede, non è dunque tanto facile sbarazzarsi di una old fashioned
Resemblance Theory – d’altronde, non è scritto da nessuna parte che se una
cosa è out of fashion è anche automaticamente out of question. Ma, soprat-
tutto, non è tanto utile metter da parte la somiglianza, perché senza questa
non si articolerebbe quella duplicità che è essenziale per la costituzione
ontologica e fenomenologica delle immagini. Essenziale, però anch’essa
problematica, perché se è vero che per l’Homo pictor vedere, fabbricare e
riconoscere immagini è un fenomeno del tutto spontaneo, non altrettanto
immediate sono le risposte agli interrogativi che il fenomeno stesso susci-
ta, forse proprio a motivo della sua primitiva “naturalità”. Si è parlato del-
la “presenza di un’assenza”, ma, di là dalla suggestione retorica, come si
spiega (se si spiega), precisamente, una simile formula? Quando diciamo di
riconoscere un oggetto in un’immagine, cosa intendiamo esattamente con
“in”? E se l’immagine è anche (o almeno dipende costitutivamente da) un
supporto materiale dal quale deve però distinguersi, dove andrà localizza-
ta? Sono domande che, con ogni evidenza, si connettono reciprocamente.
Ma cominciamo intanto dall’ultima.
Vari autori hanno insistito sulla compresenza, nel processo unitario di
percezione dell’immagine, di una consapevolezza sensibile – qualcosa che
suona forse meno strano nell’inglese “perceptual awareness” – di ciò che
è rappresentato ma anche, contemporaneamente, della struttura e della su-
perficie materiale che ne costituisce il supporto concreto e, in un certo sen-
so, come s’è detto, ne smentisce l’apparenza consegnandolo ad uno spazio

proprio una nozione di somiglianza percettiva naturale. Recentemente Franco Lo


Piparo (Aristotele e i linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003) ha proposto una let-
tura dell’intero passo che si discosta sensibilmente dalla tradizione esegetica con-
solidata e mira, da una parte, a fornire un’interpretazione non convenzionalista
della variabilità linguistica richiamata da Aristotele, ma tende anche, dall’altra, a
considerare l’homoiosis più in senso proporzionale (in un’accezione geometrico-
matematica) e meno come “immagine”, “copia” o “somiglianza” causalmente de-
terminata (secondo un modello presuntivamente troppo “ingenuo”). Tuttavia, dal
momento che lo stesso Lo Piparo riconosce ovviamente che gli oggetti e i fatti
(pragmata) sono esterni e indipendenti dalle facoltà logico-cognitive dell’anima
che deve “intercettarli” (p. 171), resta inevitabile un rapporto di priorità e di con-
formità per dipendenza causale tra pragmata e homoiomata, secondo il modello
classico dell’adaequatio. Si veda su questo punto anche il notevole D. Charles,
Aristotle on Meaning and Essence, Oxford, Clarendon, 2000; D.K.W. Modrak,
Aristotle’s Theory of Language and Meaning, Cambridge, Cambridge UP, 2001 e
P. Crivelli, Aristotle on Truth, Cambridge, Cambridge, UP, 2004.

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di virtualità. È sintomatico che le formule utilizzate facciano appello alle
nozioni di contemporaneità e colocalizzazione nel tentativo di descrivere la
specifica esperienza fenomenologica della sintesi raffigurativa. Ed è forse
altrettanto sintomatica la preferenza di solito accordata, sia pure paradig-
maticamente, al modello planare della pittura (o della grafica, qui fa lo stes-
so), che sembra meglio prestarsi a illustrare e, per così dire, spazializzare
la contrapposizione tra due dimensioni apparentemente inconciliabili ep-
pure compresenti. La “twofoldness”, che è il termine con cui Richard Woll-
heim25 ha designato la peculiare fenomenologia dell’immagine, implica ap-
punto in un unico atto la contemporanea consapevolezza visiva tanto della
superficie materiale e bidimensionale del dipinto quanto della profondità
virtuale della scena raffigurata. Non troppo diversamente, Michael Polany
ha parlato, sempre assumendo il modello della pittura, di una “focal aware-
ness” in quanto correlata e concomitante con una “subsidiary awareness”26,
rivolte rispettivamente alla percezione della figura e del supporto.
Qui la difficoltà, a lungo discussa, riguarda evidentemente la possibilità
di una descrizione, fenomenologicamente accettabile, del processo di per-
cezione che è contemporaneamente rivolto a due oggetti diversi e in certa
misura incompatibili. La questione ha però una ricaduta decisiva anche
sul piano del rapporto tra causa materiale e causa formale dell’immagine
e dunque sul problema della sua appropriata collocazione ontologica. L’es-
senziale intreccio dei due piani è (prevedibilmente) più evidente nella rifles-
sione di Ingarden27, il quale, prendendo le mosse – ma anche le distanze –
dalle posizioni di Husserl, negava che in un unico atto di percezione potes-
sero darsi contemporaneamente ed intuitivamente i due oggetti, quello ma-
teriale e quello intenzionale, ed era parimenti convinto che la “coscienza
d’immagine” non si fondasse neppure sul pieno atto di percezione con cui
si coglie il supporto materiale di quella. Di qui una chiara e netta distin-
zione – che invece manca, indicativamente, in Wollheim e Polany – tra il
dipinto, in quanto oggetto concreto materiale, e l’immagine, in quanto og-
getto puramente intenzionale. Il punto è decisivo, perché ci si deve chiedere
allora dove si fonda propriamente la percezione del contenuto dell’immagi-
ne. Qui ciò che per Wollheim è una “semplice” duplicità si sdoppia ulterior-
mente, di modo che quella configurazione, che abbiamo chiamato “neutra”,
ma che è già puramente visiva e che posso intanto distinguere dal mero

25 Wollheim, 1987, op. cit.


26 M. Polanyi, What is a Painting?, in «British Journal of Aesthetics», X, 1970, pp.
225-236.
27 Ingarden 1962, op. cit., cap. 2, § 8.

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supporto materiale del quadro (pigmenti, imprimitura, tela ecc.), diviene a
sua volta il “materiale” percettivo per un ulteriore struttura formale, nella
quale soltanto, propriamente, riconosco l’oggetto reale rappresentato. Ed è
a questo livello che si situa la somiglianza distintiva che ci interessa, e non
certo tra il quadro, la cornice, la tela e quant’altro.
La complessa articolazione del processo, che in effetti anche Ingarden
sviluppa analizzando il caso della pittura, attinge tuttavia, come si può
vedere, a una grado di generalità che non la riduce e non la limita all’am-
bito specifico delle arti grafiche, tanto più se si accentuano i termini di
individuazione materiale e formale fra i vari livelli costitutivi dell’og-
getto. Ma se questa può essere una descrizione adeguata della struttu-
ra stratificata dell’immagine e della sua dinamica fenomenologica, non
esaurisce però le nostre domande e anzi ci spinge a interrogarci su una
questione anche più fondamentale.
Quando nella più ordinaria e persino casuale delle esperienze visive ri-
conosco un qualche oggetto rappresentato, ho “presente” in effetti proprio
l’oggetto, ma pure che è solo rappresentato, anche laddove la rappresen-
tazione fosse particolarmente convincente e quasi illusionistica, come nel
caso del manichino – stavolta né dipinto e tanto meno opera d’arte – di-
scusso da Husserl in Esperienza e giudizio, a proposito del fondamento
antepredicativo delle modalizzazioni della certezza. Dal momento che io
vedo il manichino, ma mi sembra a tratti di vedere un uomo in carne ed
ossa, si verifica – dice Husserl – un “disgiungersi della normale
28
percezione
originaria, […] in certo modo, in una percezione doppia” . Il punto note-
vole è che questa percezione “doppia” si mantiene, come sappiamo, anche
quando non sussistano più dubbi circa il diverso statuto della raffigura-
zione e dell’oggetto raffigurato, vale a dire anche quando questa duplici-
tà venga diversamente composta sul piano del giudizio predicativo, che è
comunque indispensabile – forse è bene ricordarlo – per avere coscienza
di un oggetto in quanto immagine che però è appunto, per esempio, un
manichino e non un uomo in carne e ossa. Qui non vale più quel che vie-
ne chiamato confusion model – che domina ancora nell’illusione – e opera
invece un equivalence model29. Il manichino sta, non arbitrariamente, per
qualcos’altro, che non è né il manichino particolare né un particolare uomo
in carne ossa. Ma allora di che uomo si tratta?

28 E. Husserl, Esperienza e giudizio, Milano, Bompiani, 1995, p. 84.


29 Vedi G. Currie, Arts and Mind, Oxford, Clarendon Press, 2004.

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6. Esemplarità

Abbiamo fin qui parlato a più riprese di “riconoscimenti”, senza però


chiederci esplicitamente che genere di oggetti le immagini ci fanno ricono-
scere e quindi cosa possiamo o non possiamo intendere propriamente con
questo termine. Visto che stiamo trattando e dobbiamo trattare di esempla-
rità, la cosa migliore è forse prospettare ancora un altro esempio.
Le celebri pitture preistoriche di Lascaux sorprendono sempre per il loro
realismo, per il fatto che nonostante l’economia dei mezzi tecnici gli anima-
li rappresentati sono appunto così efficacemente somiglianti. Senza grandi
sforzi ermeneutici, senza essere previamente “atteggiati” – come vorrebbe-
ro gli storici dell’arte – “secondo i principi della raffigurazione”30 dell’epo-
ca, di cui non sappiamo un bel niente, anche da semplici profani, guardia-
mo le immagini e immediatamente riconosciamo la figura di un toro. Però
il toro che riconosciamo noi non è certo il toro veduto e ritratto dall’artista:
quel particolare esemplare non lo abbiamo mai visto, e dunque non è quel-
lo che, in particolare, ri-conosciamo. Ma siamo poi sicuri che il pittore di
Lascaux abbia rappresentato un particolare esemplare? Non potrebbe aver
lavorato piuttosto sui propri ricordi visivi, a partire dalle immagini mne-
moniche – sulla cui presunta vividezza eidetica si è peraltro favoleggiato a
sproposito – di tanti (o pochi) singoli animali diversi? Non potrebbe trat-
tarsi qui di un toro ideale, o idealizzato? Di un Bos primigenius generaliter
sumptus, quale suggerirebbe anche il carattere compendiario e schemati-
co dell’immagine? Come che sia, ciò che è dipinto, e ciò che noi effettiva-
mente vediamo, l’artista non l’ha tirato giù per metessi dall’iperuranio, né
l’ha cavato da qualche misteriosa regola celata nelle “profondità dell’anima
umana”, dato che le regole non sono figure, né l’ha ereditato dai suoi mae-
stri, che non aveva: deve averlo estrapolato dalla realtà.
Ma forse la domanda è mal posta. Pensiamo a un dipinto dello speciali-
sta in bovini Paulus Potter. Anche in questo caso il realismo è sorprenden-
te, ma il grado di risoluzione della somiglianza è assai maggiore, persino
lenticolare, e non diremmo certo che si tratta di immagini schematiche.
Ma anche qui, possiamo dire che il pittore abbia rappresentato un token e
non un type? Secondo Peirce, che com’è noto ha introdotto la distinzione,
un type non è neppure un oggetto sensibile, e dunque non sarebbe diretta-
mente rappresentabile, pur essendo però istanziabile in tokens particolari.

30 Così, per un esempio celebre e autorevole, E. Panofsky, Sul problema della de-
scrizione e interpretazione del contenuto di opera d’arte figurativa, in La pro-
spettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 219.

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Poiché non è tanto chiaro quale statuto ontologico Peirce riconoscesse ai
tipi, potremmo forse più precisamente parlare di universali, magari in sen-
so realista o, come dicono alcuni, “immanentista”. Ma quali che fossero le
preferenze filosofiche del pittore egli avrebbe dovuto comunque raffigura-
re un particolare individuo con caratteri determinati così e così, visto che
non sarebbe stato facile seguire alla lettera le indicazioni di Abelardo per
costruire l’immagine comune di un certo animale (il leone, nel suo esem-
pio), senza cioè rappresentare nessuna delle proprietà che siano possedu-
te esclusivamente da singoli individui, ma soltanto quelle comuni a tut-
ti31. Ciò non toglie, tuttavia, che anche una figura con delle caratteristiche
inevitabilmente particolari possa rappresentarsi come l’istanziazione di un
tipo universale, naturalmente per quel che riguarda le proprietà registrabili
nell’immagine: qualcosa, insomma, come un iconotipo, un esemplare che,
nel senso più pieno del termine, sta per l’intera specie. Non troppo diver-
samente, peraltro, da come, in biologia, un olotipo – che è pur sempre un
particolare concreto – sta per una categoria generale.
In fondo, così come l’artista di Lascaux, neppure il pittore iperrealista
deve aver necessariamente ritratto un particolare individuo esistente che si
debba riconoscere come tale. Può non sussistere affatto la distinzione – pro-
posta tempo fa da Nicholas Wolterstorff – tra rendering e representation,
tra il ritratto, poniamo, di una particolare modella e la figura di Bethsabea
che con essa si rappresenta32. Ma non per questo è illecito parlare di reali-
smo o di riconoscimento. Così come ogni particolare concreto esemplifica
un universale, una figura particolare è pure un’esemplificazione, nel senso
ontologico del termine. Sennonché, nelle immagini, l’universale iconico (o
iconotipo), oltre ad essere in re, può anche diventare l’oggetto intenzionale
proprio della rappresentazione, secondo quell’effetto di “trasparenza” co-
gnitiva della forma che abbiamo già esaminato, e grazie al quale possiamo
vedere il medesimo nel diverso.
Quanto possibilmente diverso? Solo nella concreta rappresentazione lo
si può verificare. Anche la Mucca col naso sottile di Dubuffet, che non de-

31 “Sic enim ad omnium leonum naturam demonstrandam una potest pictura fieri
nullius eorum quod proprium est, repraesentans et rursus ad quemlibet eorum di-
stinguendum alia commodari, quae aliquid eius proprium denotet, ut si pingatur
claudicans uel curtata uel telo Herculis sauciata. Sicut ergo quaedam rerum com-
munis figura, quaedam singularis pingitur, ita etiam concipitur, scilicet quaedam
communis, quaedam propria”. Vedi Glossae super Porphyrium, in Peter Abae-
lards Philosophische Schriften. I. Die Logica 'Ingredientibus'. 1. Die Glossen zu
Porphyrius, a c. di B. Geyer, Münster, 1919, p. 22.
32 N. Wolterstorff, Works and Worlds of Art, Oxford, Press, 1980, pp. 18-20.

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finiremmo propriamente un dipinto realistico – e comunque molto meno di
quelli già citati – è cognitivamente classificabile nel natural pictorial kind,
se così possiamo definirlo, cui sono ascritti i tori di Lascaux e le vacche di
Potter. A questo livello dell’immagine non operiamo soltanto un riconosci-
mento e un’individuazione modale: “questo x è solo una figura dipinta di
y”, ma anche un’individuazione e un’estensione categoriale: “y è un tipo
particolare di mucca, che non ho mai visto prima, ma che è sicuramente
una mucca”. Cosa mi consente con tanta facilità un riconoscimento “feli-
ce”, come si usa dire? L’unica risposta sensatamente possibile è, come sap-
piamo, la somiglianza.

7. Universalità

Della somiglianza figurativa, tuttavia, non è facile parlare. Anche chi


preferisce non considerarla in senso stretto un fenomeno primitivo irri-
ducibile e non analizzabile, se non addirittura un mirandum, in realtà ha
poco da dire. In un caso come quello del dipinto di Dubuffet, oltretutto,
di somiglianza sembra essercene pochina, ancorché essenzialmente suffi-
ciente allo scopo. E questo è il punto critico. Dove rintracciare le invarianti
essenziali che ci servono? Il problema è ancora quello di Abelardo. Ma le
spiegazioni in termini di sovrapponibilità o coincidenza di outline shape33,
occlusion shape34, o effective shape35, così come sono state recentemente
proposte, non sembrano in effetti soddisfacenti né del tutto adeguate, in
quanto o troppo rigide o troppo generiche: anche in termini meramente
pratici, non pare facile sovrapporre semplicemente il profilo della mucca di
Dubuffet a quello di un bovino reale. Si capisce, perciò, che alcuni autori36
preferiscano rimettere la questione alle competenze di psicologi e neuro-
scienziati, cui spetterebbe più propriamente il compito di far luce sui mec-
canismi interni della cognizione delle immagini37.

33 Hopkins 1998, 2006, op. cit.


34 Hyman, op. cit.
35 J. Willats, Art and Representation. New Principles in the Analysis of Pictures,
Princeton, Princeton UP, 1997.
36 Per esempio N. Carroll, Philosophy of Art. A Contemporary Introduction, Lon-
don and New York, Routledge, 1999 e D.M. Lopes, The Domain of Depiction,
in Aesthetics and the Philosophy of Art, in M. Kieran (Ed.), Oxford, Blackwell,
2006, pp. 160-176.
37 In effetti, i problemi interconnessi del riconoscimento oggettuale e della catego-
rizzazione percettiva godono oggi di uno spiccato rilievo nell’agenda delle scienze
cognitive, e la circostanza è tanto più degna di interesse perché nell’ambito delle

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Tuttavia, sebbene dal punto di vista della diretta esperienza percettiva
il fenomeno della somiglianza rappresenti in realtà una soglia ultima ol-
tre la quale non sembra possibile spingersi, non è detto che il fenomeno
stesso non sia trattabile in termini più essenziali, non tanto in un’ottica
psicofisiologica quanto da una prospettiva filosofica, e più specificamente
ontologica e metafisica.
Ora, proprio in forza del luogo comune per cui ogni cosa può somiglia-
re a qualunque altra sotto qualche rispetto – che di norma si considera un
efficace argomento contro la Resemblance Theory – si deve assumere che
tali rispetti siano comunque determinati. Allora, dire che una figura somi-
glia ad un oggetto significa dire che gli somiglia in qualcosa, sicché sarà
proprio questo qualcosa a determinare e rendere evidente la connessione di
similarità. Ciò comporta che questa situazione possa dunque analizzarsi in
termini di proprietà discrete. Ma assumere che due oggetti si somiglino ri-
spetto a certe loro proprietà significa portare il problema della relazione su
un piano ulteriore. Cosa succede quando finiamo per confrontare due pro-
prietà nelle quali non sono più individuabili rispetti diversi, due proprietà
perfettamente semplici (per esempio due sfumature infime di colore)? Evi-
dentemente, non potremo più dire che hanno qualcosa, ma non tutto, in co-
mune – giacché una proprietà perfettamente semplice non ha parti o aspetti

ricerche recenti dedicate a questi fenomeni hanno progressivamente guadagnato


favore proprio quelle teorie, cosiddette view-based o exemplar-based, che appunto
cercano di spiegare le nostre capacità di riconoscimento e categorizzazione facen-
do appello alla nozione di somiglianza tra “stored exemplars” (più o meno “view-
point dependent”) e nuove occorrenze percettive. Sennonché, nella maggior parte
di questi lavori la nozione stessa di somiglianza viene definita come una funzione
decrescente della distanza in uno spazio psicologico multidimensionale i cui punti
sono rappresentati dagli stessi esemplari immagazzinati. Con ciò, evidentemente,
ci si limita soltanto a spostare su un altro piano la domanda circa la determina-
zione essenziale della somiglianza (peraltro del tutto legittimamente rispetto agli
obiettivi della ricerca). Ma la questione resta: cosa determina oggettivamente (nel
mondo esterno) la corrispondente distanza dei punti nello spazio psicologico? Si
veda, solo per alcuni esempi, R. Nosofsky, Attention, Similarity and the Identi-
fication-Categorization Relationship, in «Journal of Experimental Psychology»,
115, n. 1, 1986, pp. 39-61; S. Edelman, Representation and Recognition in Vision,
Cambridge, Mass., MIT Press, 1999; U. Hahn, M. Ramscar, Similarity and Cate-
gorization, Oxford, Oxford UP, 2001, e per una sintetica panoramica recente: T.
Palmeri, I. Gauthier, Visual Object Understanding, in «Nature Reviews. Neuro-
science», V, n. 4, 2004, pp. 291-304. Una prospettiva che tenga conto dei risultati
delle scienze cognitive senza rinunciare a prendere posizione sulla questione filo-
soficamente fondamentale del rapporto tra percezione di somiglianza e realismo
è in M. Matthen, Seeing, Doing and Knowing. A Philosophical Theory of Sense
Perception, Oxford, Oxford UP, 2005, Capp. 4 e 5, in part. pp. 141-145.

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distinti – a meno che non si voglia concludere che a questo livello infimo la
condivisione implichi eo ipso l’identità. Ma se due diversi particolari con-
creti condividono una medesima proprietà, numericamente identica, allora
la stessa proprietà, pur essendo una, possiede diverse istanziazioni. È la
famosa questione dell’unum in multis, che notoriamente costituisce il noc-
ciolo del venerando problema degli universali, su cui si fronteggiano, da
opposti versanti, realisti e nominalisti.
Non è questa la sede per entrare nel merito delle molte difficoltà tecni-
che del dibattito, oggi non meno fiorente che un tempo (soprattutto nell’al-
veo della filosofia analitica). Ma per quel che ci interessa qui, possiamo
limitarci a richiamare molto schematicamente almeno due posizioni alter-
native. Da una parte, la tesi realista, secondo la quale ogni genuina somi-
glianza è riducibile a un’identità parziale, che implica proprietà e relazioni
universali. Dall’altra, il cosiddetto Resemblance Nominalism, per il quale
la somiglianza, sia pure al livello di proprietà, è comunque un fatto primiti-
vo e non analizzabile, appunto perché tali proprietà, anche chiamate tropi,
sono sempre particolari38. In una prospettiva realista, infine, si può anche
arrivare a negare, come ha fatto qualcuno39, che la somiglianza sia in effetti
una vera relazione, per ridefinirla piuttosto come un genuino caso di iden-
tità qualitativa “generica”.
Tornando ora al nostro caso, possiamo provare a ridescrivere, sul piano
più strettamente ontologico, il nesso (se preferiamo non parlare di relazione)
che accomuna l’immagine all’oggetto che in essa si lascia riconoscere? Se
è plausibile assecondare qui l’intuizione di senso comune per cui si è detto
che i due oggetti si assomigliano nella misura in cui condividono qualcosa,
allora siamo appunto autorizzati a pensare quel nesso come una parziale
identità. L’idea della presenza di un’assenza ci si prospetta forse in una luce
meno paradossale. Almeno alcune delle proprietà che l’immagine istanzia,
o esemplifica, sono le stesse proprietà universali, numericamente identiche,
istanziate o esemplificate dall’oggetto. Ma “almeno alcune proprietà” è un
po’ troppo poco per funzionare. Qui stiamo parlando, rammentiamolo, di

38 Per una sintesi delle varie opzioni, vedi almeno Armstrong, 1989, op. cit.; More-
land, 2001, op. cit. Per la teoria dei Tropi: D.C. Williams, The Elements of Being,
in The Principles of Empirical Realism, a cura di D.C. Williams, Springfield,
C. Thomas, 1966; K. Campbell, Abstract Particulars, Oxford, Blackwell, 1990.
Un’ampia discussione dei problemi legati al concetto di “Bare Similarity”, secon-
do un approccio realista ma non universalista, è in J. Heil, From an Ontological
Point of View, Oxford, Clarendon Press, 2003, in part. cap. 14.
39 P. Butchvarov, Resemblance and Identity. An Examination of the Problem of Uni-
versals, Bloomington and London, University Press, 1966.

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immagini: la coesemplificazione che ci interessa si situa al livello propria-
mente aspettuale. In tal senso potremmo servirci, tentativamente, di una
nozione come quella di “sensible profile” – prendendo in prestito il termine
da Mark Johnston, che l’ha utilizzato nel contesto del dibattito sul realismo
diretto40. Un sensible profile, come lo definisce Johnston, è una configura-
zione strutturata di proprietà sensibili universali istanziate, ma anche va-
riamente istanziabili. Nel medesimo senso, si potrebbe forse far ricorso,
alternativamente, all’antico concetto democriteo di eidolon (o “fantasma”
o “simulacro”) così come di recente è stato rispolverato da Arthur Dan-
to proprio per spiegare il fenomeno della competenza figurativa41. Questo
potrebbe forse contribuire a spiegare la “separabilità”, più che meramente
intelligibile, e la selettività di un certo insieme di proprietà sensibili rico-
gnitivamente rilevanti. La strada, tuttavia, è meno piana di quanto potrebbe
sembrare, perché, intanto, è da tenere in conto che un simile “profilo” per-
cettivo dovrebbe garantire un’invarianza (identità) flessibile in occorrenze
accidentalmente anche molto diverse: non certo come un’illusione allucina-
toria o come qualche sagoma da ritagliare e sovrapporre. Ci si deve chiedere
poi cosa istanzi le proprietà dell’immagine, nel nostro caso, del bovino di
Dubuffet. Non proprio il dipinto con le sue linee e colori, e tanto meno il suo
supporto materiale (pigmenti, tela, legno ecc.), perché le proprietà rilevan-
ti che riconosciamo sono quelle dell’immagine, della figura in quanto è la
figura di una mucca. Ma l’immagine è un oggetto puramente intenzionale,
benché un oggetto visivo: in che modo un oggetto del genere istanzia pro-
prietà qualitative? Inoltre, comunque siano individuate a livello metafisico,
tali proprietà dipendono fisicamente dalla struttura del particolare concreto
costituito dal quadro dipinto, e quindi si dovrebbe più propriamente parlare
di proprietà sopravvenienti, che appunto dipendono, covariano, ma non si
identificano né di riducono al substrato fisico subveniente. Anzi, come ab-
biamo visto, è l’intera figura che si dovrebbe considerare emergente per so-
pravvenienza sulla configurazione formale del dipinto. Insomma, la doman-
da cruciale è: cosa tiene insieme e fonda l’unità stabile di queste proprietà, e
dunque, in definitiva, l’identico nel diverso, l’uno nei molti?
In fondo, si sarà notato, quello che abbiamo cercato di descrivere: profi-
lo, eidolon, simulacro o fantasma, non è che un altro nome dell’immagine
stessa. Non è per caso e non dovrebbe stupire che fin dall’inizio di una ri-

40 M. Johnston, The Obscure Object of Hallucination, in «Philosophical Studies»,


120 (1-3), 2004, pp. 113-183, in part. pp. 134-136.
41 A. Danto, “Il piccione dentro di noi. Una risposta a tre critici”, in A. Danto, N.
Carroll, M. Rollins, La storicità dell’occhio, a c. di M. Di Monte, Roma, Arman-
do, 2007, pp. 107-126.

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flessione teoretica intorno ai problemi della percezione – a partire almeno
dalla trattazione aristotelica – per spiegare il fenomeno del riconoscimento
delle immagini si sia fatto ricorso, con apparente paradosso, alla metafora
del disegno e della figura (all’immagine di un’immagine, si direbbe), cose
che sono appunto possibili solo grazie a ciò che dovrebbero aiutare a chia-
rire. Quella “specie di disegno” (zographema ti) impresso nell’anima dalla
percezione (De memoria 450a 30) – in cui si coniuga in realtà una duplice
e duratura metafora, quella grafica dell’iscrizione e quella plastica del si-
gillo42– è qualcosa sulla cui precisa natura sembra difficile pronunciarsi se
non indirettamente e per analogia, senza averla già assunta intuitivamente
come modello. Anche l’attuale dibattito sullo statuto della mental imagery
non fa che restituire, nelle sue contrapposizioni polari, proprio la duplicità
dell’oggetto stesso del contendere, che non può ridursi a una semplice figu-
ra, quasi materiale, pena la sua difficoltosa applicabilità, appunto in quanto
universale, ma neppure può perdere del tutto il suo formato visivo e sensi-
bile, dato che questo deriva già dalla percezione delle cose e alla percezio-
ne delle cose poi serve di nuovo: è signum proprio in quanto è vestigium,
per usare i termini di Agostino.
Forse proprio per questo l’immagine, che dell’universale è sempre un
esempio, dell’universale è anche sempre un buon esempio. E forse per que-
sto quando parliamo di esempi, come qui, intendiamo sempre due cose.

42 Secondo la felice descrizione di P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Mila-


no, Raffaello Cortina, 2003, pp. 31-32.

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