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VISSUTO
A cura di
Michele Di Monte e Manrica Rotili
MIMESIS
Collana diretta da:
Tonino Griffero
Traduzioni di:
Tonino Griffero (G. Böhme), Emanuele Antonelli (M. Augé)
INTRODUZIONE
di Michele Di Monte e Manrica Rotili p. 7
1. LO SPAZIO TEATRALE COME SPAZIO COGNITIVO PRIMARIO.
PROGETTO PER UNO STUDIO DELLA COGNIZIONE TEATRALE
di Brunella Antomarini p. 11
2. «C’È SOLTANTO UNO SPAZIO».
FORMA SOGGETTIVA DELL’INTUIZIONE E SPAZI SENSIBILI
NELLA FILOSOFIA DI KANT
di Anselmo Aportone p. 29
3. LA GLOBALIZZAZIONE E LE TRASFORMAZIONI
DEL PAESAGGIO URBANO
di Marc Augé p. 45
4. PROCESSI COGNITIVI NELLA PIANIFICAZIONE VISUOSPAZIALE:
COSA SUCCEDE NELLA TESTA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
di Demis Basso p. 59
5. LO SPAZIO DELLA PRESENZA PROPRIO-CORPOREA
E LO SPAZIO COME MEDIUM DELLA RAPPRESENTAZIONE
di Gernot Böhme p. 85
6. L’ESPERIENZA DELL’ARTE VISIVA.
GLI SPAZI (MENTALI) DELL’ATTENZIONE, DELL’INTERAZIONE
E DELL’APPREZZAMENTO NEL CONFRONTO COI TESTI FIGURATIVI
di Luca Bortolotti p. 99
7. HIDETOSHI NAGASAWA E SHU TAKAHASHI.
LA CONCEZIONE DELLO SPAZIO IN DUE ARTISTI GIAPPONESI
RESIDENTI IN ITALIA
di Rossana Buono p. 123
8. SPAZIO OGGETTO. SPAZIO COME SOGGETTO
di Maria Giuseppina Di Monte p. 139
9. IL MUSEO DELLO SPAZIO CHE NON C’È
di Michele Di Monte p. 149
10. LO SPAZIO: NELLA LINGUA E DELLA LINGUA
di Francesca Dragotto p. 173
11. LO SPAZIO ASSOLUTO: FINITO E INFINITO
di Elio Franzini p. 191
12. IL RITORNO DELLO SPAZIO (VISSUTO)
di Tonino Griffero p. 207
13. MANO DESTRA, MANO SINISTRA.
LO SPAZIO VISSUTO E LA LATERALITÀ
di Andrea Pinotti p. 241
14. SPAZIO URBANO COME LUOGO.
CAMILLO SITTE E IL RUOLO DELLA VISIONE NELLA MODERNITÀ
di Heleni Porfyriou p. 261
15. ESISTE LO SPAZIO FISICO?
di Carlo Rovelli p. 279
16. VIAGGINEL TEMPO.
LO SPAZIO DEL RACCONTO NELLA NARRAZIONE VISIVA
(DI ETÀ MODERNA)
di Francesco Sorce p. 305
17. CHORA-ETHOS: PER UN CONCETTO DI LUOGO
di Massimo Venturi Ferriolo p. 329
GLI AUTORI p. 341
7
INTRODUZIONE
I curatori
149
9.
IL MUSEO DELLO SPAZIO CHE NON C’È
di Michele Di Monte
Perception is not a way of adding new facts to the world - this is the task of
art and invention […]. In a perceiver creativity can only consist in inventing
better and better methods of putting questions to phenomena and of making
them answer these questions. But finally everything depends on listening to the
answers. A judge who is talking all the time instead of having the witness speak
does not get the information he needs.
W. Metzger, Can the subject create his world?
Un titolo come quello del nostro intervento è quanto meno equivoco. Più
precisamente, non è chiaro se qui si voglia trattare di un tipo particolare
di museo dedicato a un altrettanto particolare tipo di spazio (che tuttavia
“non c’è”) o se, al contrario, si stia negando l’esistenza attuale di un museo
dello spazio (in generale). In entrambi i casi, indubbiamente, la cosa suona
un po’ strana, ma per il momento possiamo mantenere l’ambiguità – sulla
quale torneremo da ultimo – e servircene per introdurre la domanda dalla
quale vorrei invece prendere le mosse. Ciò che vorrei chiedermi, infatti, è
se e in che modo sia realizzabile, o persino in generale pensabile, qualcosa
come un “museo dello spazio”. Non, naturalmente, dello spazio generi-
camente inteso (posto che si possa intendere così) e neppure dello spazio
materiale del museo, o nel museo: spazio fisico, prima, e vissuto, poi, in
quanto appunto abitabile, percorribile, utilizzabile o fruibile in funzione
della sua struttura – che è quanto dire in pratica lo spazio dell’architettura,
dell’allestimento, del percorso ecc. Lo spazio di cui voglio occuparmi è
invece quello apparentemente sui generis della raffigurazione, lo spazio fi-
gurativamente rappresentato, che in quanto tale non si può dire né propria-
mente fisico né propriamente vissuto, ma che ci viene naturale continuare
a designare, quand’anche solo nominalmente, in quanto “spazio”1. Come
sappiamo bene, il museo è uno di quei luoghi, forse il luogo privilegiato,
3 In realtà, la riflessione semiotica più recente dedicata ai problemi delle immagini non
sembra aver fatto passi avanti sostanziali rispetto a quelle posizioni. Anche quando la
critica dell’iconismo è stata espressamente ridiscussa – per esempio, dagli autori del
Gruppo μ (1992) – allo scopo di «riconsiderare il problema su nuove basi» (ivi: 27),
non si è andati oltre la conclusione, assai più problematica e tutt’altro che nuova, se-
condo cui «l’idea di “copia del reale” è ingenua innanzitutto perché è ingenua l’idea
stessa di “reale”» (ivi: 29), che non esisterebbe come «realtà empirica», ma solo
come «oggetto culturalizzato» (ivi: 30). Diversamente vanno le cose quando sono
le “basi” a essere ridiscusse, come è capitato, notoriamente, a Umberto Eco (1997),
che pure è ancora accreditato come il più risoluto critico dell’iconismo. La questione
è stata lucidamente sintetizzata da Diego Marconi (1997) nella recensione al testo
di Eco: «Eco rievoca un dibattito degli anni sessanta-settanta, quello tra “iconisti” e
“iconoclasti” […]. Eco era iconoclasta: sosteneva allora, ad esempio, che il disegno
di un cavallo non condivide nessuna delle proprietà del cavallo reale, perché l’unica
proprietà del disegno – la linea nera di contorno, in cui consiste il disegno – è una
proprietà che il cavallo reale “non” possiede. […] Quelli del dibattito sull’iconismo
erano tempi culturalistici e relativistici, in cui anche il pancreas (per non dire della
schizofrenia) era un “oggetto culturale”, e l’unico modo politicamente corretto per
attaccare una posizione così controintuitiva come quella degli iconoclasti era accu-
sarla di “idealismo”. Ora i tempi sono cambiati: sono tempi cognitivisti e naturalisti-
ci, Marx e Roland Barthes sono stati sostituiti da Darwin come “clavis universalis”
[…]. Anche Eco è cambiato (“et nos mutamur in illis”), benché sostenga trattarsi solo
di uno switch gestaltico, in cui ciò che prima era sullo sfondo viene portato in primo
piano. E non è cambiata solo la sua posizione sulle icone, di cui ora riconosce il fon-
damento naturale (prima che segno, le (ipo-)icone sono stimoli percettivi che creano
l’effetto di essere di fronte all’oggetto); è cambiato in generale il suo atteggiamento
nei confronti del linguaggio e del rapporto linguaggio/mondo.
152 Sensibilia 3 - Spazio fisico / spazio vissuto
4 Lo riconosce di recente anche chi, come ad esempio John V. Kulvicki (2006), non fa
peraltro mistero delle proprie simpatie goodmaniane: a conclusione di un paragrafo
significativamente intitolato “Standard and inculcation”, l’autore ammette che «Just
how malleable our pictorial abilities are, and thus just how much standards can
change, how quickly they change, and by what means they can change are empiri-
cal questions», il che «is a far cry from claiming that realism is merely a matter of
habit» (ivi: 246). Tuttavia, proprio per queste ragioni, e a voler essere coerenti, la
“questione empirica” non riguarda solamente il “quanto” o il “come”, ma anche, più
essenzialmente, il “se”, vale a dire la possibilità stessa di sostenere in generale non
solo che «the standards that we bring to picture interpretation can certainly change»
ivi: 247, corsivo mio), ma anche che effettivamente cambino o siano cambiati.
5 La situazione non cambia anche supponendo che si disponga già di diverse griglie
interpretative intercambiabili. Un tesi del genere è stata proposta, tra gli altri, da
Greimas (1984), secondo il quale «la questione della figuratività degli oggetti
planari (“immagine”, “dipinto” ecc.) si pone soltanto se una griglia di lettura ico-
nizzante viene postulata e utilizzata per l’interpretazione di tali oggetti, cosa che
non costituisce la condizione necessaria per la loro appercezione e non esclude
l’esistenza di altri modi di lettura altrettanto legittimi» (ivi: 37, corsivi miei). Non
Il Museo dello spazio che non c’è 153
è affatto chiaro come si possa “postulare” una certa griglia a partire da zero, che
non sia minimamente motivata dall’oggetto, né si vede con quali vantaggi; ma
ancor meno chiaro è cosa si intenda con “lettura legittima” (ce ne sono allora di il-
legittime? Come le si distingue?). In ogni caso è evidente che un’ipotesi così inge-
nua non può funzionare: se applico una griglia “aniconizzante”, per così dire, a un
ritratto di Rembrandt (magari mettendolo sottosopra), posso forse vederlo come
un dipinto astratto o informale – e non importa se la mossa sia legittima – ma se
per qualche inspiegabile motivo applico una griglia “iconizzante” (e ammesso
che possa sapere cos’è senza aver prima riconosciuto un fenomeno iconico) a
un dipinto di Rothko non potrò vederci un ritratto di un uomo, anche se sono un
semiotico di immacolata fede greimasiana. Vedi anche oltre, nota 21.
154 Sensibilia 3 - Spazio fisico / spazio vissuto
12 Come dovrebbe essere persino logicamente ovvio, anche se ad alcuni non pare,
il tema delle differenze strutturali fra spazio reale e spazio figurativo è almeno
Il Museo dello spazio che non c’è 157
altrettanto discusso quanto quello delle somiglianze. Più interessanti sono le qua-
lificazioni di entrambi i rispetti, sebbene, a questo proposito, anche studi empiri-
camente orientati siano talvolta condizionati da premesse teoriche discutibili. Di
recente, Koenderink e van Doorn (2006) hanno voluto sostenere che il concetto di
«veridicality» – secondo loro dominante in letteratura – sarebbe «privo di senso»
se applicato allo spazio figurativo, e per evidenziarlo hanno fatto appello al solito
caso delle immagini di oggetti inesistenti (come San Cristoforo!) o non diretta-
mente conosciuti dall’osservatore dell’immagine (come una statua mai vista pri-
ma). In questi termini, tuttavia, privo di senso è l’esperimento mentale, giacché se
per “veridicality” si intende la verifica di una congruenza («congruity of pictorial
perceptions and physical objects», ma diciamo meglio: limitatamente agli aspetti
visivi) è banalmente vero che questa non si può realizzare se non c’è riconosci-
mento, e non c’è riconoscimento numericamente singolare nel caso di oggetti di
fantasia o di occorrenze inedite, ma ciò è vero in genere per tutti i riconoscimenti
visivi, figurativi e non. Inoltre, il fatto che non possa confrontare un’immagine
di San Cristoforo con il suo referente reale non mi impedisce di riconoscere che
l’immagine stessa rappresenta un uomo con tutta una serie di proprietà che lo
particolarizzano. Una foto di Koenderink e van Doorn non mi consentirebbe di
riconoscerli, perché non li ho mai visti prima, ma se, incontrandoli, li identifi-
cassi “veridicamente” sulla base della pregressa conoscenza dell’immagine (che
si tratti di una foto o di una configurazione accidentale indiscernibile) – com’è
certamente possibile – a cosa dovrei ascrivere questa possibilità se non a una
congruenza sufficientemente veridica?
13 Vedi Sinigaglia 2003: 218.
14 Questa relazione è primaria ed essenziale anche in senso ontogenetico se, come
sembra (Yonas 1984), i neonati di appena sette mesi sono già in grado di va-
lutare la distanza relativa sulla sola base dell’interposizione, la quale viene in-
fatti utilizzata nel disegno infantile quando i bambini non sono ancora in grado
di padroneggiare altri indizi figurativi di profondità. Ciò non toglie, comunque,
che anche gli indizi figurativi che si suole considerare più culturalmente mediati,
158 Sensibilia 3 - Spazio fisico / spazio vissuto
come quello dalla diminuzione prospettica, siano in realtà percepibili non solo
da parte di bambini di pochi mesi, come hanno dimostrato le ricerche del gruppo
dello stesso Yonas, ma anche di cuccioli di scimmie, come nel caso di Macaca
nemestrina studiato da Gunderson et al. (1993). A parere della Gunderson: «These
findings suggest that infant macaques are sensitive to pictorial depth information,
the implication being that this ability has ancient phylogenetic origins and is not
learned from the exposure to the conventions of Western art» (ivi: 93).
15 Vedi, per una discussione del problema, Matthen 2005: 306-319.
Il Museo dello spazio che non c’è 159
David Friedrich, per fare solo qualche esempio facile. In questo senso, ol-
tretutto, parlare di “indizi” di profondità sarebbe a rigore fuorviante, giac-
ché qui non si tratta di deduzioni o abduzioni e se si operano inferenze al-
lora abbiamo a che fare con inferenze del tutto inconsce, nel senso definito
a suo tempo da Helmholz o, in tempi più recenti, da Irving Rock. Ma per
quel che ci riguarda – e per citare ancora una volta la Fenomenologia della
percezione – «il disegno prospettico non è dapprima percepito come dise-
gno su un piano e poi organizzato in profondità […]. È il disegno stesso
a tendere in profondità, così come una pietra che cade va verso il basso»
(1945: 349).
D’altra parte, la possibilità stessa, non infrequente, di incorrere in illu-
sioni prospettiche sarebbe altrimenti impraticabile e inintelligibile senza
una tale “robusta” continuità e isomorfismo strutturali. Qui non possiamo
far altro, appunto, che rimetterci al test dell’esperienza diretta, e c’è solo
l’imbarazzo della scelta.
19 Confronta Husserl (1913: 337): «che “a noi uomini” una cosa spaziale appare
sempre in una certa “orientazione”, ad esempio orientata nel campo visivo verso
l’alto o il basso, a sinistra o a destra, vicino o lontano; che possiamo vedere una
cosa solo in una certa “distanza”, “profondità”; che tutte le variabili profondità in
cui essa può essere veduta si riferiscono ad un invisibile, ma a noi, come ideale
punto limite, ben familiare centro di tutte le orientazioni, da noi “localizzato”
nella testa – tutte queste sedicenti fatticità, accidentalità della visione spaziale, che
sono estranee al “vero”, “oggettivo” spazio, si rivelano fino alla minima partico-
larità empirica come necessità essenziali. Si rivela pertanto che una cosa spaziale
è visibile soltanto per mezzo di apparizioni non soltanto da noi uomini, ma anche
da parte di Dio – quale rappresentante ideale della conoscenza assoluta –, nelle
quali apparizioni è e deve esser data soltanto “prospetticamente”».
162 Sensibilia 3 - Spazio fisico / spazio vissuto
20 L’immagine è stata discussa in questo senso da Arnheim 1972: 130. Sul tema
della prospettiva rovesciata si veda ora la ricognizione critica di Antonova, Kemp
(2005) e la più recente proposta di Antonova 2010.
21 Certo non si può pretendere – come pure talvolta viene suggerito (Calabrese
1999) – di considerare l’immagine quale configurazione puramente “astratta”,
«per partire non già da un esame del contenuto, come fa appunto l’iconologia, che
però non si riesce mai a capire quando stia veramente analizzando il contenuto e
Il Museo dello spazio che non c’è 163
una certa epoca – quando pure la si conosca già – sia stato necessariamente
obbligato a seguire certe regole dallo Spirito (dello stile) del Tempo – ol-
tretutto, in questo caso, non si tratta neppure di un artista bizantino. Ma,
soprattutto, non posso fare a meno di riconoscere quegli indizi di profon-
dità (quando ci sono) che, come si è detto, costituiscono la dimensione
intuitiva dello spazio virtuale figurativo. Per quanto “rovesciata”, la pro-
spettiva bizantina non abolisce – né si vede, letteralmente, come potrebbe
– il principio di interposizione, o quello dell’orizzonte del campo visivo,
che non solo mi consentono di cogliere la scansione dei piani in profondità,
ma anche di fare le sole ipotesi ragionevoli sul rapporto tra il lato frontale,
quelli laterali e quello posteriore, invisibile, della mangiatoia stessa22. Una
presunta applicazione sistematica e coerente della prospettiva rovesciata a
tutti gli indizi di profondità figurativa non è soltanto «un nonsenso», come
ha detto a suo tempo James Gibson (1973: 284)23, ma è semplicemente
inimmaginabile24 (fig. 3).
22 Quale che sia la sua effettiva utilità, la costruzione “rovesciata” non potrebbe
mai funzionare come rappresentazione dello spazio se non rendesse evidenti quei
principi intuitivi di “continuità” con lo spazio reale di cui abbiamo parlato. Anche
l’idea (Antonova 2010: 153) che questo espediente possa essere stato adottato
nell’arte bizantina come espressione visivamente metaforica dello “sguardo” on-
nipresente di Dio, che vede tutti gli oggetti simultaneamente da ogni lato, trova
qui un suo limite, un limite specificamente visivo.
23 Sulla polemica tra Gibson e Goodman a proposito della prospettiva rovesciata si
veda Couzin 1973.
24 Di fatto, che l’effetto della prospettiva rovesciata possa persino passare inosser-
vato lo mostra il caso delle costruzioni di questo tipo ottenute con obiettivi foto-
grafici, come quella in fig. 3, dove, nonostante la conoscenza della struttura degli
oggetti, si tende comunque a soggiacere a una normale illusione di profondità
prospettica (cosicché i pezzi in secondo piano paiono più grandi ecc.)
Il Museo dello spazio che non c’è 165
Un analogo discorso si può fare anche per quelle che sono state chia-
mate «non-perspective» e «anti-perspective pictures» (Elkins 2005: 13),
come le famose pitture rupestri di Lascaux. Per quanto l’insieme di una
parete palinsesto possa essere caotico – non troppo diversamente, peral-
tro, da un foglio di schizzi di Leonardo – non c’è altro modo di vedere
la parziale occlusione delle zampe di un cavallo o le corna di un toro se
non come l’articolazione in profondità, seppur minimale, di un copro
tridimensionale.
Tutto questo non toglie, naturalmente, che una qualunque configurazio-
ne (e, se per questo, non necessariamente un immagine) possa farci pen-
sare o concepire uno spazio alternativo, per esempio a quattro o cinque o
più dimensioni, ma, questo è il punto decisivo, “concezione” non è “per-
cezione”: pensare a uno spazio, quale che sia, non è la stessa cosa che
viverlo o percepirlo, così come un simbolo concettuale non è una rappre-
sentazione intuitiva. Tra le due cose passa quello che i filosofi della mente
chiamerebbero un explanatory gap. Un’opera che voglia rappresentare, in
qualunque modo, un “concetto spaziale” non rappresenta per questo anche
un “percetto spaziale” e, per essere precisi, neppure rappresenta uno spa-
zio. Ma che ne è, allora, della pretesa, irriducibile non-concettualità, non-
proposizionalità, non-linguisticità che la “svolta iconica” rivendicherebbe
all’episteme delle immagini? In fondo, non restiamo ancora, in tal modo,
nei termini di un’iconologia tradizionale, per la quale, secondo i suoi de-
trattori, l’opera non è che un “segnaposto” per una qualche più astratta
concezione intellettuale?
Si potrebbe obiettare che con questo discorso si continua, senza am-
metterlo, a far valere quel pregiudizio tacito che finisce comunque per
privilegiare il “paradigma epistemologico” instaurato con la prospetti-
va geometrica rinascimentale (attraverso la vituperata immagine guida
della “finestra albertiana”), laddove epoche e culture diverse potrebbe-
ro aver non solo concepito, ma anche percepito uno spazio diverso dal
“nostro” e dunque averlo diversamente rappresentato. Tuttavia, a parte
il fatto che queste diverse percezioni si situerebbero storicamente anche
nella “nostra” epoca e nella “nostra” cultura (perché non riesco a vedere
come i cubisti?), resta che pretendere di servirsi delle immagini come di
un documento di una diversa “sensibilità” – nel senso più generale del
termine – significa usarle appunto come una “finestra”, per giunta pre-
suntivamente oggettiva, nella quale, nondimeno, noi potremmo vedere
per ipotesi o (1) solo ciò che il modello naturale di visione (se esiste) ci
consente di vedere, oppure (2) solo ciò che il modello epistemologico
culturalmente dominante (e diverso) di visione ci permette di vedere.
166 Sensibilia 3 - Spazio fisico / spazio vissuto
In ogni caso non potremmo esperire l’alterità per quello che si postula
dovrebbe essere.
Né pare in qualche modo praticabile la strada dell’apprendimento,
dell’assuefazione, della sintonizzazione progressiva o simili, e tanto più
disperata diventa l’impresa di mediazione ermeneutico-comunicativa che
autori come Antinucci vorrebbero assegnare all’istituzione museale. Infat-
ti, non solo, come si è già osservato, se non esistono codici basati su rela-
zioni “naturali, “spontanee” o “intuitive”, non posso sperare di indovina-
re quale codice applicare per intendere il “linguaggio” (poniamo appunto
spaziale) di un’opera che per principio non conosco, ma quando pure lo
avessi magicamente divinato non saprei proprio come comunicarlo. Anche
ammesso che fin dall’origine della sua arbitraria istituzione il codice venga
tramandato come un insieme di istruzioni attraverso una catena ininterrot-
ta, magari eventualmente segreta (un po’ come il “codice da Vinci”), fino
ai funzionari del museo, resterebbe da capire come trasformare le istruzioni
stesse in esperienza vissuta. Esperire percettivamente lo spazio, sia pure
quello virtuale e simulato delle immagini, non è come decifrare la stele
di Rosetta con l’ausilio della lingua modello già conosciuta. Con tutta la
buona volontà culturale, non basta sapere che una X sta per un cavallo per
riuscire a vedere effettivamente un cavallo.
Senza contare, inoltre, che bisognerebbe tener conto non solo della ne-
cessità, ma anche degli effetti di questo genere di apprendimento. Se gli
amburghesi del 1915 – come ricordava Panofsky – non riuscivano a di-
stinguere bene il mandrillo dipinto da Franz Marc perché non erano an-
cora abbastanza assuefatti al codice “espressionista”, dovremmo dedurne
che una prolungata esposizione al codice stesso produca una percezione
progressivamente più realistica, tanto quanto quella che ingenuamente cre-
diamo di poter annettere alla pittura naturalistica o alla fotografia, sicché
oggi dovremmo vedere il Mandrillo nel dipinto di Marc come lo vediamo
in un’illustrazione di un libro di zoologia, e un esperto come John Rewald,
tanto per fare un esempio, sarebbe dovuto arrivare a non distinguere più un
paesaggio di Cézanne da una foto-ricordo.
D’altra parte, coloro che contestano la (maggiore) conformità del mo-
dello prospettico rinascimentale all’esperienza percettiva “naturale” (da
Florenskij a Panofsky, da Arnheim a Goodman e oltre) lo fanno di soli-
to mettendo in evidenza proprio gli scarti, le deviazioni e le distorsioni
che quel modello “artificiale” è costretto a produrre rispetto alla nostra
più spontanea esperienza della realtà, che dunque, almeno per contrasto
polemico, torna ad esistere e a rivendicare le sue ragioni, che la “ragion
prospettica”, per così dire, non potrebbe conoscere.
Il Museo dello spazio che non c’è 167
Una storia delle concezioni dello spazio figurativo, le cui concrete testi-
monianze dovremmo poter ripercorrere nello spazio ideale del museo, non
coincide con una percezione dello spazio figurativo, che, al contrario, in
quanto condizione invariante, rende in effetti riconoscibile e comprensibile
l’evoluzione stessa di quella storia, fissandone i limiti di variabilità. Dello
spazio che non c’è, quindi, non c’è neppure il museo, perché non ci può
essere.
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