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La curva pericolosa delle immagini.

Introduzione.
Michele Di Monte


Due debolezze [insieme] si convertono in ununica fortezza
Leonardo da Vinci


Nella lettera dedicatoria a Bernard de Fontenelle che fa da
prefazione al Newtonianismo per le dame, pubblicato nel 1737,
Francesco Algarotti si preoccupava di avvertire il lettore non a
dispetto, si badi, ma proprio a causa degli intenti illuministicamente
divulgativi della sua opera che le linee e le figure sono affatto
sbandite, come quelle che darebbono a questi Discorsi unaria troppo
dotta e che metterebbon paura a coloro a quali si vuol piacere per
istruirli (Algarotti 1737, p. VI).
Scelta veramente sorprendente e singolare quella dellAlgarotti, se
non altro perch pare dimenticare come niente fosse una tradizione
plurisecolare, che risale come minimo a Gregorio Magno ed ancora
ben viva, per restare solo al Settecento, nel grande progetto
dellEncyclopdie, secondo la quale proprio le immagini varrebbero
come idiotarum libri, strumenti per eccellenza con cui istruire alla
svelta gli illetterati, e a far paura, diversamente da quel che credeva lo
scrittore veneziano, sarebbe semmai il rischio che le immagini
finiscano per piacere un po troppo.
Non possiamo sapere se Algarotti fosse del tutto in buona fede o
volesse solo risparmiare sul corredo iconografico del suo volume, ma
certo che oggi difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a
sottoscrivere le sue cautele. Anzi, la convinzione opposta sembra
essere divenuta un luogo talmente comune che nessuno, di solito, si
perita di documentarne termini e rispetti. Parlare del ruolo delle
immagini nella vita delle societ moderne che si tratti di pratiche
quotidiane o di attivit specialistiche significa riconoscerne
innanzitutto, in un modo o nellaltro, lubiquitaria presenza,
lipertrofica moltiplicazione, linarginabile, pervasivo lavorio di
persuasione e indottrinamento, pi o meno subliminale, ben oltre la
pi ottimistica fiducia degli iconofili di un tempo.
Che i regimi scopici, come li si definisce con gergo tecnico per
s gi sintomatico, abbiano conquistato ormai lo statuto di nuovo
iperparadigma della comunicazione globale sembra ai pi un fatto
assodato. Il problema, per molti, semmai cercare di appurare se
questo potere prepotentemente esercitato dalle immagini sia una
cosa buona o cattiva. E infatti, comera prevedibile, non sono
mancati coloro che, se non proprio affetti da iconofobia reattiva,
hanno nondimeno espresso serie preoccupazioni per le conseguenze
pi o meno prossime e nefaste di una tale situazione, denunciando la
progressiva atrofizzazione di competenze e capacit cognitive che
andrebbero scomparendo di pari passo con laffermarsi incondizionato
dellHomo videns (Sartori 1997, Simone 2000). Ma tanto gli entusiasti
quanto gli apocalittici sono comunque daccordo nel ritenere che il
dominio del visivo abbia ridisegnato un inedito scenario culturale, di
portata persino epocale, con il quale fare i conti, nel bene o nel male.
A queste condizioni, era pressoch inevitabile che si facesse prima
o poi appello alla retorica, anzi allimmagine, sarebbe il caso di dire,
della svolta. E che i tempi fossero maturi lo mostra la coincidenza
per cui lespressione svolta iconica spuntata fuori
contemporaneamente, ma indipendentemente, negli scritti di due
autori diversi e di diversa formazione. Nel 1994 Gottfried Boehm
pubblica un saggio (incluso ora nella presente raccolta) dal titolo
programmaticamente significativo: Il ritorno delle immagini, in cui si
prospetta appunto una ikonische Wendung; ma proprio nello stesso
anno esce anche il volume dello studioso americano Thomas Mitchell,
Picture Theory, che dedica un intero capitolo a quello che lautore
chiama a sua volta il Pictorial Turn
1
. il duplice atto di battesimo
della svolta iconica. Da allora la formula ha incontrato un notevole
successo e non ha mancato di riscuotere una favorevole ricezione in
ambiti di ricerca molto diversi, bench a vario titolo collegati, dalla
storia dellarte allestetica, dallantropologia culturale alla sociologia
della comunicazione
2
. Soprattutto, poi, ha fornito un decisivo impulso
a quelli che si usa ormai chiamare Visual Culture Studies, quella
corrente largamente interdisciplinare che appunto si dedica
allindagine della dimensione visiva della cultura nelle sue varie
forme, sotto il profilo storico, sociale, politico, ideologico e oltre.
Come tutte le formule fortunate, tuttavia, anche la svolta iconica
ha finito per trasformarsi rapidamente in unetichetta che massimizza
soprattutto le convergenze, suggerendo unimpressione di univocit
laddove sussistono invece differenze di una qualche importanza,
anche a proposito di questioni essenziali.
I testi raccolti in questo volume possono allora rivelarsi un
prezioso strumento per cercare di chiarirsi le idee e mettere a fuoco
con la massima nitidezza le istanze cardinali della svolta iconica, in
particolare per quel che concerne i suoi fondamenti teorico-

1
Il testo era in realt gi apparso in Mitchell 1992.
2
Per una panoramica indicativa vedi Jay 2002a e 2002b; Majetschak 2002;
Roeck 2003; Maar e Burda 2004 e 2006; Moxey 2008.
metodologici. Scritti nellarco di un decennio a partire dal 1994,
appunto e appositamente selezionati per questa edizione italiana
dallo stesso autore, i saggi di Boehm affrontano, da angolature volta a
volta diverse ma strettamente coordinate, le questioni chiave che
dovrebbero fissare lagenda di una scienza delle immagini in realt
ancora da farsi e che anzi costituisce il vero desideratum intorno al
quale si raccolgono le attenzioni di studiosi di indirizzo e interessi per
altro piuttosto difformi, da Hans Belting a Horst Bredekamp, da James
Elkins a Georges Didi-Huberman, per limitarsi a fare solo qualche
nome.
Il problema che delle immagini si pu parlare in molti, forse in
troppi, modi e non facile individuare una prospettiva unitaria,
teoreticamente coerente, da cui affrontare la materia: troppo astratta,
ad esempio, per i protocolli ordinari della storiografia artistica, troppo
concretamente legata allanalisi di specifiche occorrenze per discipline
filosofiche come lestetica. Ci sarebbe da aggiungere, oltretutto, come
sia spesso difficile coordinare linee di ricerca tradizionalmente
parallele anche quando vertono sui medesimi oggetti e problemi, e
penso alla fenomenologia e alla psicologia della percezione, agli studi
sulla rappresentazione figurativa nellambito dellestetica analitica
da Gombrich a Wollheim a Walton, per intenderci per non parlare
delle scienze cognitive o dei pi recenti interessi per la
neuroestetica.
Anche in questo senso, tuttavia, il punto di vista offerto dalle
ricerche di Boehm si prospetta come singolarmente privilegiato,
giacch rifonde, in misura non comune, le competenze tecniche dello
storico dellarte non affetto da iperspecialismo parrocchiale, una
notevole padronanza della letteratura filosofica, non solo recente e non
solo continentale, oltre a una spiccata propensione, cosa forse anche
pi rara, per lindividuazione dei problemi essenziali. Una rapida
scorsa al sommario del presente volume sufficiente a darne unidea:
che cos unimmagine? qual il suo funzionamento proprio? quali
conoscenze consente e quali conoscenze presuppone? cosa pu e cosa
non pu fare? quali rapporti intrattiene con altre forme di sapere e
conoscenza? a partire da queste domande che secondo Boehm si
pu cercare di metter capo a qualcosa come una teoria generale
delliconico.
Naturalmente, fin troppo ovvio, non ci si illude che si tratti di un
percorso agevole, al contrario, la svolta iconica prende le mosse
dalla convinzione che una strada del genere debba essere ancora
lastricata, se non addirittura aperta, per poter essere percorribile da
una scienza dellimmagine che proceda sicura sulle proprie gambe.
E qui sta un punto veramente cruciale sul quale conviene soffermarsi
introduttivamente e in termini generali. Poich, di l dalle difficolt
tecniche di metodo, di strumentazione, di lessico e simili, c da
chiedersi in che senso e a quali condizioni lo studio delle immagini in
quanto tali possa o debba ambire a una qualche autosufficienza
scientifica, sia pure nel senso pi lato del termine. Allora, per capire
verso dove fa rotta la svolta della immagini bisogna forse anche
chiarire da cosa intende prendere le distanze.
Una prima, pi immediata risposta sembra persino scontata. I
sostenitori della svolta iconica, infatti, non si limitano a segnalare un
fenomeno emergente, ma rivendicano contemporaneamente anche il
superamento, pi o meno dialettico, di unaltra svolta non meno
celebre ed epocale, quella linguistica, appunto, ratificata ormai pi di
quarantanni fa da Richard Rorty; anche su questo sembrano essere
tutti daccordo. Non qui il caso di richiamare neppure
sommariamente i termini di un dibattito tuttaltro che risolto, se non
per sottolineare brevemente un punto che di solito passa inosservato.
Il Linguistic Turn, in realt, non pretendeva di richiamare lattenzione
sul fatto che il linguaggio avesse conquistato alla fine degli anni 60
del secolo scorso un ruolo, una presenza e un potere
significativamente pi cospicui di quelli che avrebbe effettivamente
detenuto allinizio dellet moderna o ai tempi di Socrate. La svolta
linguistica, non ci sarebbe bisogno di ricordarlo, voleva essere
essenzialmente una svolta della filosofia, che concerne il posto
occupato dal linguaggio nellordine del giorno della riflessione
filosofica, o metafilosofica, come precisava Rorty (1967, p. 23);
considerazione che pu valere analogamente per le altre svolte,
presunte o reali, che pure hanno segnato e accompagnato il volgere del
XX secolo, da quella semiotica a quella ontologica. Pu dirsi lo stesso
nel caso delle immagini?
Da questo punto di vista lo scenario cui abbiamo accennato si
rivela assai pi accidentato di quanto potrebbe sembrare sulle prime.
Tanto per cominciare, c un problema storico. Se oggi abbiamo
motivo di riconoscere alliconico una forza sua propria, perch non
dovremmo ammettere che questa stessa forza, quale che sia, le
immagini in quanto tali labbiano sempre posseduta, dal
Magdaleniano, almeno, allera digitale? Perch pensare che
limmagine scopra i suoi pieni poteri solo al crepuscolo del XX
secolo, spiccando finalmente il volo come una sorta di nuova nottola
hegeliana, per di pi con una brusca virata? Per scrivere una storia
delle immagini, sia pure depurata da ogni tentazione ortogenetica,
necessario assumere che sussistano come minimo unomogeneit e
una stabilit strutturale degli oggetti di cui si vuol tracciare appunto la
storia. Le immagini di cui si preoccupava Platone non possono essere
troppo radicalmente diverse, sotto un profilo ontologico e
fenomenologico, da quelle che ci si offrono oggi, pena limpossibilit
anche solo di immaginare qualcosa come un punto di svolta in una
traiettoria di pi lunga durata. Non per caso c pure chi come David
Freedberg, per esempio ha pensato bene di tagliar corto con i
paradossi dello storicismo collocando il potere delle immagini sotto il
segno del famoso versetto dellEcclesiaste: nihil sub sole novum
(Freedberg 1989, p. 1). Se le cose stanno cos, allora la novit, la
svolta, consiste piuttosto nel modo in cui delle immagini si parla, il
che, proprio a proposito di compromissioni con il linguaggio, non
una circostanza di poco conto. Ma come si pu parlare dellimmagine
o, pi precisamente, di una filosofia dellimmagine senza restare,
magari involontariamente, nel paradigma di una filosofia del
linguaggio (sulle immagini)? e pi in generale, possibile un sapere,
che lo si voglia qualificare come filosofico o in qualche altro modo,
che si realizzi e si tematizzi esclusivamente nelle e attraverso le
immagini? Anche questi non sono in verit interrogativi inediti e
attraversano la storia del pensiero occidentale a dir poco dal Sofista
platonico al Pensiero visivo di Rudolf Arnheim.
Vecchie o no, sono comunque questioni che la nuova
Bildwissenschaft, che della svolta iconica dovrebbe farsi carico
teoreticamente, non pu evitare di affrontare, sotto un profilo e
metodico e sistematico, giacch i due aspetti sono evidentemente
vincolati. Se le immagini comunicassero e consentissero un sapere
secondo una logica del tutto sui generis, se la Visual Culture fosse in
effetti un tipo di cultura acquisita e intrattenuta in un formato
puramente visivo, allora non ci sarebbe bisogno di parlarne e scriverne
tanto, n, a fortiori, di spiegare come funziona o potrebbe aver
funzionato (diversamente) in passato. Lequivoco dipende per da
unindividuazione insufficientemente precisa delloggetto danalisi, e
questo ci porta appunto a una sistematica di ordine ontologico. A che
livello si situano le immagini protagoniste della svolta e
lesperienza visiva che le riguarda? Se voglio sapere se la neve
bianca come scriveva gi Aristotele nei Topici (I 105a 7) mi basta
solo dare unocchiata: ecco un tipo di conoscenza visiva che non
abbisogna di supporti o surrogati linguistici e richiede semmai solo
una verifica reiterativa. Cos era ai tempi di Aristotele e cos oggi:
nessuna novit. Ma non tutti sarebbero daccordo sul fatto che qui
siamo gi nel dominio delliconico. Se invece voglio capire, per
esempio, in che modo la pittura olandese del XVII secolo costituisca
un capitolo di una possibile storia di una scienza delle immagini, devo
leggere un saggio ponderoso come Arte del descrivere di Svetlana
Alpers (1983), che non solo fa ricorso a una dose massiccia di
erudizione proprio mentre polemizza, si noti, con il testocentrismo
di Panofsky e scuola ma chiama in causa a titolo esplicativo una
cultura storica che in larga parte linguistica, e non delle pi
accessibili, da Tolomeo a Keplero a Huygens. N meno sintomatico,
per citare un caso per altro verso anche pi eclatante, che il famoso
atlante di Mnemosyne progettato da Aby Warburg, secondo molti uno
dei profeti (come al solito inascoltati) della svolta iconica, abbia
fatto versare fiumi di inchiostro ermeneutico, quando a parlare,
secondo gli intenti, sarebbero dovute bastare le sole immagini. Forse,
dopotutto, le riserve dellAlgarotti non erano cos fuori luogo.
Ma a ben guardare, la svolta iconica, che pure non pu
rinunciare a ricostruire la propria genealogia intellettuale, non
racconta tanto la storia delle immagini e neppure quella di una pi o
meno rapsodica riflessione teorica sul loro statuto, quanto piuttosto
riflette sulla lenta e accidentata presa di coscienza di una disciplina
ancora senza nome che delle immagini si occupi a pieno titolo e senza
complessi di inferiorit o di sudditanza, che trasformi una marginalit
teoretica in una posizione di centralit intellettuale (Mitchell 1994, p.
15). Ci spiega tanto un certo effetto di drammatizzazione conferito
alla trama che mette infine capo a una sorta di agnizione epocale
quanto le inevitabili parzialit e persino deliberate omissioni di un tale
disegno retrospettivo. Il ritorno delle immagini, di cui qui Boehm si fa
autorevole portavoce, in primo luogo il ritorno da un lungo esilio,
ovviamente forzato: il ritorno di un rimosso. Non stupisce che in
questa ideale e sofferta anabasi storico-culturale non manchino n i
cattivi (Platone, i padri della Chiesa, i positivisti logici) n i buoni
(Nietzsche, Wittgenstein, Merleau-Ponty). Di qui la preferenza per
quei temi che meglio si accordano con questo quadro, come quello dei
ricorrenti fenomeni di iconoclastia e iconofobia radicati nella storia
della cultura occidentale e non solo. I contrasti risaltano cos
sicuramente pi netti, anche a costo di qualche sommaria
semplificazione laddove le cose potrebbero essere pi sfumate. Certo
non mancano nel pensiero antico e medievale speculazioni che
affrontino esplicitamente il problema della definizione dellimmagine:
persino santAgostino, per fare un solo esempio significativo senza
alcun dubbio filosofo della parola, scritta, ascoltata, meditata, rivelata
anche lautore di una quaestio (LXXIV, PL 40, coll. 85-86), di
finezza e acume peraltro rari, che anticipa di quindici secoli i rovelli
tassonomici dei filosofi analitici di oggi e avrebbe qualcosa da
insegnare ad autori come Nelson Goodman. Ma chiaro che Agostino
non avrebbe neppure lontanamente vagheggiato una teoria
dellimmagine intesa quale scienza autonoma.
Invece, come abbiamo segnalato, proprio lautonomia il
problema nuovo sul quale sembra far perno liconic turn, sebbene si
tratti di unautonomia tuttaltro che facilmente praticabile, e forse
persino costitutivamente paradossale, come paiono riconoscere i suoi
stessi sostenitori (Mitchell 1994, p. 15). Sotto questo rispetto, in
effetti, una teoria delliconico, che si presenti come scienza o come
antropologia
3
, si trova, pi che a una svolta, di fronte a un bivio.
Laddove, da una parte, accampi pretese di sistematicit e
comprensivit, trasversali rispetto ai consueti confini disciplinari, non
pu eludere criteri che siano trasversali anche in senso epocale e
contestuale e che privilegino le permanenze rispetto alle discontinuit:
locchio come si voluto ribadire anche di recente (Danto 2001)
non ha alcuna storia da raccontare. Se, daltra parte, si insiste sul
carattere storicamente e localmente costruito dei fenomeni iconici e
pi in generale della visione stessa (Crary 1990, p. 1), diventa assai
pi difficile argomentare a favore della presunta immediata
accessibilit delle immagini, linguisticamente o addirittura
concettualmente indipendente: se c da imparare per capire con gli
occhi, allora il visivo, quale che sia il suo medium, viene solo dopo e
larcheologia del vedere deve ricorrere a testimonianze pi dirette di
altro genere, di solito verbali, come succede appunto con larcheologia
di Foucault, il quale, a dispetto delle simpatie degli iconofili recenti,
era molto pi interessato alle parole che alle figure.
Se abbiamo parlato di un paradosso costitutivo, tuttavia, perch
simili difficolt non riguardano solo il compito irrisolto di mediare la
distanza storica dei diversi regimi visivi attraverso la visione stessa
vizio dorigine comune a ogni storicismo e neppure soltanto quegli
approcci intesi a sondare i presupposti e gli effetti socioculturali della
visual literacy, che non per niente denuncia fin nelluso del termine
il suo debito con le competenze linguistiche
4
. Anche la ricerca di
Gottfried Boehm che si distingue dalla prevalente declinazione
sociologica dei Visual Studies di ambito anglo-americano proprio per
un pi eminente interesse teorico-filosofico per lo statuto ontologico
ed epistemico dellimmagine, per larticolazione delle sue immanenti
strutture di senso deve misurarsi con la problematica definizione dei
confini di uninstabile autonomia delliconico.
Se da una parte il lavoro di Boehm mira giustamente a rivendicare
e restituire allimmagine una valenza autenticamente gnoseologica,
finalmente irriducibile al modello linguistico, resta da vedere, daltro

3
Per la proposta di unantropologia dellimmagine vedi Belting 2002 e 2005.
4
Recentemente, J. A. W. Heffernan (2006) ha proposto di adottare il
termine picturacy per indicare una specifica competenza o
alfabetizzazione figurativa. Tuttavia, abbastanza significativo che il libro
di Heffernan tratti in larga misura di testi oltre che di immagini e soprattutto
che egli dichiari fin dallinizio che imparare a comprendere ci che le
immagini rappresentano o significano assomiglia sotto molti rispetti al
processo attraverso cui si impara a leggere la parola scritta (p. 7).

canto, fin dove possa spingersi questo processo di purificazione. La
posta in gioco appare perfettamente chiara quando si tenga conto, per
esempio, della proposta teorica di Konrad Fiedler, che Boehm
considera a ragione uno dei pi importanti pionieri della svolta
iconica. Nondimeno, se si prendesse alla lettera il progetto
fiedleriano di depurare il vedere da ogni interferenza del sapere, del
sentire o del ricordare (Descrizione dellimmagine, in questo volume)
proprio la visione pienamente sviluppata, quel sehenden Sehen che
Fiedler oppone al vedere meramente ricognitivo, finirebbe per
coincidere involontariamente ma fatalmente con il vedere disumano
e disincarnato dellocchio meccanico, con la registrazione puramente
passiva della telecamera: quanto dire lesatto opposto del vedere
poietico vagheggiato dal purovisibilismo. Se aprendo gli occhi il
mondo ci apparisse ogni volta come uno spettacolo totalmente nuovo,
privo di ogni pregressa stratificazione, non solo, come ovvio, non
sarebbe possibile alcuna esperienza, nel senso proprio del termine, ma
neppure le arti visive alle quali Boehm, come Fiedler, affida un
ruolo emancipativo potrebbero mai dischiudere nuove possibilit.
Il thaumaston sar anche linizio del sapere, ma appunto solo
linizio.
Anche lasciando da parte le aporie che affliggono le teoria
fiedleriana della reine Sichtbarkeit, dovrebbe essere evidente che la
concreta comprensione, cos come lanalisi metodica, dellimmagine
reale deve far ricorso a un vedere ricognitivo o impuro, se cos
si vuol dire in misura assai pi cospicua di quanto ci si dovrebbe
attendere a partire da posizioni di principio. Il celebre esperimento
mentale-narrativo escogitato da Paul Valery e qui rievocato da Boehm
(Concetti e immagini, in questo volume), che ci presenta il giovane
Socrate alle prese con un objet ambigu indefinibile e recalcitrante a
ogni categorizzazione logico-concettuale, funziona in realt solo in
forza di unastrazione che resa possibile proprio e unicamente dal
medium linguistico. Se lapologo di Valery riesce a comunicarci
limbarazzo del filosofo proprio perch noi di fatto non vediamo
loggetto misterioso trovato da Socrate, e non ci permesso di
cogliere con una koine aisthesis la concreta sussistenza simultanea
delle propriet puramente nominate delloggetto stesso. Il che
dimostra, sia pure e contrario, la forza della tesi centrale di Boehm,
vale a dire che non si pu comprendere n descrivere unimmagine se
non guardandola con i propri occhi e che nessuna analisi linguistica
pu sostituire una tale esperienza diretta.
Da ci non consegue, naturalmente, che delle immagini o degli
oggetti visivi non si spossa parlare affatto ed lo stesso Boehm, se ce
ne fosse bisogno, a offrirci a pi riprese degli esemplari saggi di
lettura. Ma quel che conta da un punto di vista filosofico che si
tratta appunto di letture esperte, non solo e non tanto nel senso
tecnico-professionale del termine, che fa appello alle raffinate e non
comuni competenze dello storico dellarte, quanto piuttosto in
unaccezione possibilmente gnoseologica e cognitiva. Lesplicitazione
di quelle strutture che consentono per esempio alla scultura di
Brancusi di portarsi in una regione di senso, oltre la fatticit della
mera cosa, possibile solo grazie al fatto che lartista innesca quel che
Boehm chiama il gioco delle somiglianze, plurime, eventualmente,
ma non assolutamente indeterminate e soprattutto ri-conoscibili
nellimmagine stessa, luovo, la testa, la figura geometrica; senza
contare il contributo di pi elementari polarit: gravit e leggerezza,
alto e basso, immagine e riflesso, luce e ombra e simili. Qui la scultura
di Brancusi assai meno ambigua delloggetto misterioso evocato da
Valery, e a essere insofferente alla presa delleidos semmai proprio
la mera cosa, loggetto materiale (peraltro pur sempre definibile
come un blocco di marmo cos e cos) prima che metta in gioco un
vedere ricognitivo.
Se vero che un minor grado di differenziazione corrisponde qui
a una superiore pienezza di senso altrettanto vero che ci non pu
dipendere dal sussistere di una relazione di proporzionalit
generalizzabile, altrimenti si dovrebbe ammettere che la massima
indifferenziazione produca sempre la massima espressione di senso, il
che, almeno nel caso della visione e delle immagini, sembra piuttosto
assurdo. Se nel marmo di Brancusi potessi vedere indifferentemente
qualunque cosa, secondo una spontaneit totalmente autoreferenziale,
o un assoluto tode ti, finirei, nel migliore dei casi, in una posizione
analoga a un formalismo estremo, magari siglato dalla banale
tautologia di Frank Stella: What you see is what you see (che lo
stesso Boehm cita infatti non senza riserve), ma certo difficilmente
potrei parlare di autonomia epistemica. Persino laddove le opere
perseguano una radicale estraneit a tutto ci che possa essere in
qualche modo visivamente familiare, questa stessa estraneit si pu
misurare solo grazie a un vedere cognitivamente informato da una
dimensione almeno potenzialmente predicativa.
Le stesse considerazioni possono valere anche per la fondamentale
nozione di differenza iconica, con cui Boehm individua il nucleo
costitutivo e la logica specifica del funzionamento dellimmagine nel
contrasto tra la consistenza materiale del supporto e lidentit
intenzionale della figura che visivamente ne emerge. Per cogliere
limmagine in quanto tale, e non scambiarla illusivamente, per
esempio, per loggetto solo rappresentato, necessario percepire
contemporaneamente (o quasi) anche il suo statuto fittivo, il fatto che
si tratta di una cosa una tela, un foglio di carta o altro che non
ci che fa vedere. In questo sta la twofoldness, come lha chiamata
Richard Wollheim (1987), tipica della fenomenologia della percezione
figurativa. Ma, a parte il fatto, comunque significativo, che tale
processo esemplarmente comprensibile a partire dal caso delle
immagini di carattere figurativo (e dunque ricognitivo) e solo per
estensione applicabile alle forme aniconiche, resta che lapprensione
della simultaneit cos come del contrasto poggia sempre su una
percezione che gi apofanticamente orientata in senso categoriale,
quandanche in termini minimali: questo questo, questo non
quello
5
. Lestensione del fenomeno iconico, come Boehm ci ricorda,
certamente limitata, a un estremo, da un eccesso di riproduzione
sostitutiva, di mimesi illusionistica, che inganna locchio e si annulla
in quanto immagine, ma non meno limitata anche allestremo
opposto, laddove la mera cosa, quando pure fosse il ready made
artisticamente consacrato, resta quella mera cosa: qualunque
significato si supponga che debba poi incarnare, questo non
unimmagine e neppure un fenomeno visibile e qui sarebbe difficile
dar torto ad Arthur Danto. Daltra parte, il dominio dellarte, posto che
lo si sappia delimitare, e quello delle immagini non devono essere
necessariamente coestensivi.
Come la Bildbewusstsein comporta dunque una percezione che
gi almeno in qualche misura cognitivamente permeabile, leidos e il
logos sono certamente meno estranei alla dinamica della
comprensione dellimmagine di quanto la desiderata autonomia del
visivo pretenderebbe. Cos, anche per quel che concerne la questione
fondamentale della teoreticit delliconico, la svolta si trova di
fronte a unalternativa difficile da comporre. O il sapere poietico,
per usare ancora unespressione di ispirazione fiedleriana, mette capo
a una realt sui generis ordinata da una razionalit esclusivamente
interna allintelligenza delle immagini e con ci si acuisce il
problema della relazione di accessibilit a questo mondo altro e
diventa problematico distinguere tra realt percepita e immagine
percepita della realt oppure le strutture di senso che la sensibilit
afferra o anticipa nelle immagini sono omogenee a (e derivate da)
quelle della realt ma con ci si rinuncia allidea che nelle arti
figurative sia in opera un modo diverso e privilegiato di organizzare
percettivamente il mondo o, peggio, di costruirne di alternativi. Ma
razionalit, logos, non equivale affatto a linguisticit e se le ragioni
dellimmagine non sono riducibili a questultima, non sono perci
neppure incompatibili con la prima.
Si pu forse osservare pi in generale, a questo proposito, che uno
dei problemi di fondo della svolta iconica dipende proprio dalla

5
Per usare lespressione di Boehm: Il fattuale si lascia vedere come diverso
da ci che (Oltre il linguaggio, in questo volume).
posizione in certo modo ambigua tenuta nei confronti della svolta
linguistica. Mentre infatti i teorici dellimmagine dichiarano di
volerla superare, ne recepiscono per, persino tacitamente, alcuni
degli assunti fondamentali, che per mal si conciliano con la
fondazione filosofica di una Bildwissenschaft indipendente. Ci vale
per lequazione senza residui tra linguaggio e razionalit cos come
per il carattere pi o meno semioticamente o convenzionalmente
costruzionale della realt, o ancora per il rifiuto della dimensione
ultimativamente fondativa dellevidenza sensibile. Persino lo stesso
Gottfried Boehm, che pure assai perentorio nel denunciare il
disastroso presupposto per cui sarebbe reale solo ci che
linguisticamente articolabile, sembra a tratti cercare unalternativa
praticabile per la logica propria delliconico nello spazio residuo e
negativo dellindeterminato, del potenziale, dellassente o
addirittura di ci che nullo in senso predicativo (Oltre il
linguaggio, in questo volume).
Queste rapide considerazioni introduttive ci ricordano, da ultimo,
se pure ce ne fosse bisogno, che il difficile compito di localizzare
lidion topos, il luogo proprio dellimmagine e della riflessione teorica
che lelegge a proprio oggetto non pu fare a meno di prender
posizione, possibilmente inequivoca, su questioni fondamentali di pi
ampia portata ontologica ed epistemologica. In questo senso, una
filosofia delle immagini, comunque la si voglia concepire, non potr
mai pretendere a una rigorosa autonomia, e non solo da un punto di
vista disciplinare, perch non potr che essere anche una filosofia
della percezione, una filosofia della mente e persino, non troppo
paradossalmente, una filosofia del linguaggio, anche quando ci
significhi, talvolta, tornare sui propri passi invece che cambiare
totalmente strada.
Non di rado scrive giustamente Boehm proprio la perdita
dellovviet serve ad aprire gli occhi. Tuttavia perdere di vista
lovvio, nel senso proprio del termine, sarebbe una forma di cecit
ancora pi grave. Come scriveva Archiloco di Paro: La volpe sa
molte cose, ma il riccio ne sa una pi importante, e anche a questo
proposito, da quel tempo, non molto cambiato.

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