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IL DOLORE/THE PAIN
A cura di
Gloria Galloni e Manrica Rotili
MIMESIS
Collana diretta da: Tonino Griffero
9.
DOLOROSA FICTA.
SOFFRIRE PER FINTA È SEMPRE SOFFRIRE?
di Michele Di Monte
re: se abbia senso, per esempio, parlare di un dolore “finto”, e se sì, come
spiegarne lo statuto, come distinguerlo da un dolore non finto, e così via. È
chiaro, infatti, che queste curiosità sottendono problematicamente l’auten-
ticità, o la verità, del dolore, tanto quanto mettono alla prova l’autenticità
della finzione, se così possiamo dire.
Ma per porre meglio in evidenza le connessioni che ci interessano cer-
cherò inoltre di confrontare, e per certi versi anche di opporre, due diver-
se prospettive di analisi sul tema del dolore: una che potremmo definire,
all’ingrosso e con libertà, fenomenologica e l’altra, un po’ più specifica-
mente, neurobiologica – “specificamente” se non altro perché qui mi rifarò
soprattutto all’autorità di un ben noto e riconosciuto specialista della mate-
ria, vale a dire Antonio Damasio, che qualche anno fa ha appunto pubblica-
to un volume, prontamente tradotto anche in italiano (Damasio 2003), dal
titolo promettente per il nostro argomento e al quale farò prevalentemente
riferimento: Looking for Spinoza. Joy, Sorrow and the Feeling Brain.
Non intendo con ciò, sia chiaro, contrapporre in generale approcci che
invece penso possano, e debbano, convivere e integrarsi complementar-
mente, quanto piuttosto rilevare, attraverso la lente particolare della “fin-
zionalità”, quali diversi esiti possano derivare da scelte di fondo, inevitabi-
li, credo, che poggiano su un substrato, volenti o nolenti, metafisico, che si
tratti di biologia, di psicologia o di arte, e che implicano alla fine sempre le
stesse domande fondamentali: che cos’è il dolore?, con quali tipi di oggetti
lo classifichiamo?, cosa è essenziale e cosa accidentale per distinguerlo da
altre categorie di oggetti? e simili.
Naturalmente queste domande riguardano e dipendono (in parte) anche
dal modo in cui parliamo del dolore, anche se spesso ne parliamo in manie-
ra vaga, equivoca e perfino contraddittoria, forse proprio perché tutti primo
a poi lo abbiamo sperimentato, o almeno ne siamo convinti, e dunque pen-
siamo che non ci sarebbe granché da imparare da un linguaggio più rigoro-
so. Il che, però, ci fornisce un punto di partenza empirico su cui cominciare
a lavorare per fare maggiore chiarezza, se non altro per via diaporetica, in
altri termini: a forza di domande1. Come che sia, una situazione del genere
esclude che qualcuno possa dire, come fece Montaigne (non sappiamo se
proprio in buona fede) a proposito dell’invidia, «di questa passione non
posso parlare perché, per grazia, proprio non mi tocca». Invece il dolore
tocca tutti e dunque se ne parla, per esperienza e intuizione dirette, anzi, il
più delle volte, se ne parla al plurale. Questo ci porta alla prima questione,
1 Vedi Oatley (1992: 147, 151) sul punto di partenza aristotelico dal linguaggio
comune nell’analisi delle emozioni.
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2. I dolori si somigliano?
2 Per restare alla simmetria suggerita, non è un caso che Kant eviti di spiegare in
maniera coerente cosa impedisca che in ogni singola rappresentazione si dia la
stessa «coscienza della finalità puramente formale nel giuoco delle facoltà cono-
scitive» (§12), con l’imbarazzante conseguenza che tutte le rappresentazioni risul-
tino ugualmente belle, oppure – cosa non meno implausibile – che una qualunque
rappresentazione appaia bella ogniqualvolta si produca, spontaneamente e a parte
subjecti, un simile accordo delle facoltà.
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3 Su questo punto, vedi Boster 2005. Per il problema dell’universalità delle emozio-
ni, anche in termini di essenzialità biologica, vedi il recente Matthen 1998.
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si prova per la perdita di un dente non è quello che si prova per la perdita
di un parente, anche se la natura neurofisiologica elementare dei due stati
è la stessa e coinvolge in ogni caso certe aree cerebrali. Eppure, nonostan-
te la differenza provata, almeno in italiano, possiamo parlare comunque
di dolore. Altre lingue, per esempio l’inglese, distinguono forse meglio
(pain, per il dolore fisico, sorrow, grief, sadness, distress, regret, misery
ecc., per un’afflizione di ordine più specificamente psicologico), sebbene
non sempre sistematicamente, ma indubbiamente anche in italiano certi usi
sono selettivi: non diremmo, in linea di massima, che una pugnalata “ci
rattrista” e neppure, a non voler essere ironici, che “ci addolora”. D’altra
parte, proprio il fatto che si tratti di una distinzione immediatamente per-
cepibile all’introspezione tollera bene un uso anche relativamente ambiguo
del lessico: «Pauca sunt enim, quae proprie loquimur, plura non proprie
– diceva Sant’Agostino (Confessiones, XI, XX) – sed agnoscitur quid veli-
mus», sappiamo di cosa parliamo e di solito parliamo di dolore a proposito,
per riferirci ad esperienze semanticamente e concettualmente correlate ma
fenomenologicamente diverse.
Perciò, almeno per i nostri scopi presenti, può essere utile abbozzare, sia
pure in forma molto approssimativa e provvisoria, alcune demarcazioni.
Così, adottando qui una distinzione terminologica di venerabile memoria,
già definita da Agostino (De Civitate Dei, XIV, 7, 2)4, ratificata da Tomma-
so d’Aquino (Summa Theologiae, I-II, q. 35, a. 2) e recentemente ripresa da
Damasio attingendo a Spinoza (che ovviamente si rifaceva alla psicologia
della tarda Scolastica), si potrebbe dire che:
il dolore fisico, chiamiamolo dolor: 1) ha sempre una localizzazione
corporea, per quanto sfumata e talvolta multipla, 2) attuale e presente nel
momento della percezione, e 3) non ha un oggetto intenzionale extracor-
poreo.
Per contro, il dolore psichico, chiamiamolo tristitia: 1) non ha necessa-
riamente una localizzazione corporea (anche se comporta di solito anche
manifestazioni corporee più o meno specifiche), 2) ha sempre un oggetto
intenzionale, il quale 3) nel momento della percezione può anche non esse-
re presente come oggetto esterno (può cioè essere passato, presente, futuro
o, eventualmente, immaginario, fittizio, finzionale).
Per non incorrere in un eccesso di semplicismo è però necessario aggiun-
per esempio, di provare una fitta alla punta dei capelli o un indolenzimento del
sangue. Non si tratta di un limite meramente intenzionale.
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porti una passività, ma anche una certa attività, almeno estimativa, da parte
del soggetto, nonché l’attivazione, più o meno spontanea e controllabile,
di una certa attitudine disposizionale9 ad assumere certi stati psicofisici o a
intraprendere un certo corso d’azione.
Altra conseguenza, assai rilevante dal punto di vista che qui ci interessa,
è che in tal modo si conserva un legame non accidentale, ma nomologico
e normativo, tra oggetto intenzionale e modalità estimativo-cognitiva10. Il
che ci fornisce anche un possibile criterio per decidere se le nostre perce-
zioni dolorose siano corrette, adeguate, autentiche o inautentiche, vere o
fittizie. E con ciò siamo alla quinta questione.
9 Vedi, per esempio, il modello “ibrido” proposto da ultimo da Harré 2009 e battez-
zato “Cognitive-Affective-Somatic Hybrid”.
10 Questo ci consentirebbe, peraltro, di formulare un principio di identità formale
dei vissuti intenzionali del dolore, sia pure per aliquid extra, come si è detto. Se
le cose stanno così, dovremmo dedurne che non solo la capacità di cognizione
del dolore, come habitus, ma anche l’atto formale stesso della cognizione, più
che individuarci e singolarizzarci, è qualcosa che ci accomuna, e dunque la mia
percezione dolorosa non è mia più o diversamente da come può esserlo, poniamo,
la mia cognizione del freddo, o anche la mia cognizione di oggetti matematici.
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13 Almeno nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto, come nel principio di non
contraddizione. Naturalmente, l’eventuale disinganno può avvenire a distanza di
tempo, facendo dell’emozione X provata al tempo T1 un oggetto di memoria e
cognizione (ed eventualmente anche di meta-emozione: per esempio la vergogna
presente a T2 per un dolore che ora si ritiene ingiustificato), ma senza che ciò
comporti un carattere effettivamente contraddittorio e inconsciamente autoingan-
nevole della stessa emozione X allo stesso tempo T1.
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