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IL DOLORE/THE PAIN
A cura di
Gloria Galloni e Manrica Rotili

MIMESIS
Collana diretta da: Tonino Griffero

© 2010 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


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131

9.
DOLOROSA FICTA.
SOFFRIRE PER FINTA È SEMPRE SOFFRIRE?

di Michele Di Monte

Non soltanto nelle rappresentazioni


drammatiche, ma in tutta la tragedia
e la commedia della vita, come in
altri infiniti casi, dolori e piaceri si
mescolano ad un tempo insieme.

Platone, Filebo, 50b

Dolori veramente finti

A voler essere sbrigativi, all’interrogativo posto dal titolo si potrebbe in


effetti dare subito una risposta, che a mio parere è, forse banalmente, forse
prevedibilmente, sì e no. Tuttavia, come le opere di finzione non servono
tanto a fornire una lapidaria informazione sull’esito di una storia, al punto
che basti leggere subito l’ultima pagina per sapere come va a finire, così
spero che possa essere più interessante seguire il modo in cui cerco di arri-
vare a questa conclusione, per quanto scontata e anodina possa sembrare.
L’analogia con le opere di finzione può essere qui giustificata, giacché
è proprio dei ficta, di oggetti finti, che dovremo trattare, sia pure secondo
una prospettiva dichiaratamente strumentale. Non già perché tra le fitte
del dolore e le res fictae ci sia un qualche privilegiato rapporto, quanto
piuttosto per il fatto che – prendendo la questione un po’ alla lontana – il
concetto di finzione pone di solito delle speciali problematiche di ordine
metafisico, sia da un punto di vista ontologico – chiamando in causa que-
stioni di identità: formale, materiale, singolare, universale ecc. – sia da
un punto di vista epistemologico – che tocca questioni di identificazione,
classificazione, categorizzazione percettiva, cognitiva ecc. Tenendo conto
di tali problematiche può essere allora interessante chiedersi in che misura
la dimensione finzionale possa riguardare anche un oggetto come il dolo-
132 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

re: se abbia senso, per esempio, parlare di un dolore “finto”, e se sì, come
spiegarne lo statuto, come distinguerlo da un dolore non finto, e così via. È
chiaro, infatti, che queste curiosità sottendono problematicamente l’auten-
ticità, o la verità, del dolore, tanto quanto mettono alla prova l’autenticità
della finzione, se così possiamo dire.
Ma per porre meglio in evidenza le connessioni che ci interessano cer-
cherò inoltre di confrontare, e per certi versi anche di opporre, due diver-
se prospettive di analisi sul tema del dolore: una che potremmo definire,
all’ingrosso e con libertà, fenomenologica e l’altra, un po’ più specifica-
mente, neurobiologica – “specificamente” se non altro perché qui mi rifarò
soprattutto all’autorità di un ben noto e riconosciuto specialista della mate-
ria, vale a dire Antonio Damasio, che qualche anno fa ha appunto pubblica-
to un volume, prontamente tradotto anche in italiano (Damasio 2003), dal
titolo promettente per il nostro argomento e al quale farò prevalentemente
riferimento: Looking for Spinoza. Joy, Sorrow and the Feeling Brain.
Non intendo con ciò, sia chiaro, contrapporre in generale approcci che
invece penso possano, e debbano, convivere e integrarsi complementar-
mente, quanto piuttosto rilevare, attraverso la lente particolare della “fin-
zionalità”, quali diversi esiti possano derivare da scelte di fondo, inevitabi-
li, credo, che poggiano su un substrato, volenti o nolenti, metafisico, che si
tratti di biologia, di psicologia o di arte, e che implicano alla fine sempre le
stesse domande fondamentali: che cos’è il dolore?, con quali tipi di oggetti
lo classifichiamo?, cosa è essenziale e cosa accidentale per distinguerlo da
altre categorie di oggetti? e simili.
Naturalmente queste domande riguardano e dipendono (in parte) anche
dal modo in cui parliamo del dolore, anche se spesso ne parliamo in manie-
ra vaga, equivoca e perfino contraddittoria, forse proprio perché tutti primo
a poi lo abbiamo sperimentato, o almeno ne siamo convinti, e dunque pen-
siamo che non ci sarebbe granché da imparare da un linguaggio più rigoro-
so. Il che, però, ci fornisce un punto di partenza empirico su cui cominciare
a lavorare per fare maggiore chiarezza, se non altro per via diaporetica, in
altri termini: a forza di domande1. Come che sia, una situazione del genere
esclude che qualcuno possa dire, come fece Montaigne (non sappiamo se
proprio in buona fede) a proposito dell’invidia, «di questa passione non
posso parlare perché, per grazia, proprio non mi tocca». Invece il dolore
tocca tutti e dunque se ne parla, per esperienza e intuizione dirette, anzi, il
più delle volte, se ne parla al plurale. Questo ci porta alla prima questione,

1 Vedi Oatley (1992: 147, 151) sul punto di partenza aristotelico dal linguaggio
comune nell’analisi delle emozioni.
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 133

che riguarda la dimensione eminentemente estetica, o estetico-sensibile,


del dolore, e si può declinare così:

1. I dolori sono singolari?

Detto altrimenti: gli eventi dolorosi di cui facciamo esperienza sono


eventi unici? Si presentano come delle occorrenze (tokens) sempre partico-
lari o possono invece essere sussunti sotto un qualche tipo (type) più gene-
rale? Nella misura in cui i dolori si considerano esperienze assolutamente
personali hic et nunc, dei qualia ineffabili e radicalmente estranei a condi-
zioni e contenuti proposizionali – sulla scia di certe ben note osservazioni
di Wittgenstein, per esempio – si sarebbe tentati di rispondere affermati-
vamente alla nostra domanda (1). Si potrebbe pensare, in tal senso, che il
dolore o, se vogliamo, il giudizio di dolore (“questo mi addolora”) – o più
genericamente di dispiacere: “questo mi dispiace” – funzioni simmetrica-
mente al giudizio di piacere estetico kantiano, che appunto, notoriamente,
in quanto estetico (che sia o no di gusto), può essere solo singolare (posso
solo dire: “questa rosa qui è piacevole” o “è bella”). Tutt’al più, sostie-
ne Kant nella Critica del Giudizio (§8), «se la rappresentazione singola
dell’oggetto del giudizio di gusto vien cambiata per via di paragone in un
concetto, secondo le condizioni che determinano il giudizio stesso» si può
avere «un giudizio logicamente universale», del tipo «le rose in generale
son belle». Quindi, in una simile vena, uno come Giulio Cesare, poniamo,
avrebbe dovuto dire “questa pugnalata è spiacevole”, “quest’altra pugnala-
ta qui è spiacevole” e così via, ma per sostenere che le pugnalate in gene-
rale fanno male – e dunque è saggio evitare di prenderle – avrebbe dovuto
cambiare la rappresentazione della singola pugnalata «per via di paragone
in un concetto».
Sennonché non è molto chiaro – e Kant non è di grande aiuto a questo
proposito – come si possa cambiare una singola rappresentazione in concet-
to per via di “paragone”. Infatti, cosa si dovrebbe paragonare precisamente
della pugnalata? Tra le altre cose, forse anche – perché no? – la proprietà
di far male. E perché allora non si dovrebbero poter paragonare le sensa-
zioni o i sentimenti stessi, di piacere o di dolore? In realtà, ed è piuttosto
ovvio, è quello che facciamo tutti, anche Kant, per il quale sono comunque
altrettanto piacevoli cose assai diverse come il colore della violetta e il vino
delle Canarie. Se gli oggetti sono diversi, cosa li accomuna? O meglio,
cosa accomuna delle esperienze che, almeno sul piano puramente estetico,
dovrebbero essere assolutamente singolari? Più in generale, cosa ci con-
134 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

sente di parlare e cosa implichiamo quando parliamo, appunto, di dolori (e


non piuttosto di questa esperienza x, di quell’esperienza y, z…)? Se in que-
ste esperienze c’è qualcosa che cambia, c’è anche, ad evidenza, qualcosa
che intuitivamente resta costante, e non può essere semplicemente il fatto
che si tratta comunque di esperienze o di esperienze vissute da me, poiché
questo non avrebbe sufficiente forza discriminativa: piaceri e dolori non
farebbero differenza, come non ne farebbero bello e brutto2.
Come che sia, pare almeno ragionevole che i dolori si possano parago-
nare. Il che, per altro, non facilita la nostra indagine; infatti, su questa base
possiamo ulteriormente articolare la questione (1) e chiederci:

2. I dolori si somigliano?

Anche qui, se i paragoni non sono arbitrari e se le intuizioni che sotten-


dono il nostro linguaggio ordinario non sono sistematicamente erronee,
verrebbe da pensare che qualche somiglianza ci sia. Tutto il ricco arma-
mentario metaforico che sfoggiamo a proposito della nostra percezione del
dolore poggia su questa possibilità, quale che sia la teoria della metafora
che si è disposti a sottoscrivere. Anzi, le somiglianze metaforiche si esten-
dono ben oltre il dominio ristretto dell’effettivamente esperito, e persino
dell’effettivamente esperibile: posso dire di provare una fitta “lancinante”
nella schiena anche se, a differenza di Cesare, non ho mai ricevuto pugna-
late alle spalle. Ma se si possono confrontare per somiglianza, allora vuol
dire che i qualia del dolore, se esistono, non solo restano accessibili in
memoria, per così dire, ma comportano anche una qualche struttura, dal
momento che la somiglianza – e qui c’è poco da variare, con buona pace di
Wittgenstein – non può che essere un’identità parziale, e dunque implica
delle parti, o, se si preferisce, più tecnicamente, delle proprietà, in senso
ontologico. Si può dire che i dolori hanno proprietà? E se sì, di che tipo?
Per altro, a questa condizione, più o meno tacita, si lega non solo la
possibilità di costruire una «nomenclatura passionale», come la chiamano
Greimas e Fontanille (1991: 77), o comunque delle tassonomie che inclu-

2 Per restare alla simmetria suggerita, non è un caso che Kant eviti di spiegare in
maniera coerente cosa impedisca che in ogni singola rappresentazione si dia la
stessa «coscienza della finalità puramente formale nel giuoco delle facoltà cono-
scitive» (§12), con l’imbarazzante conseguenza che tutte le rappresentazioni risul-
tino ugualmente belle, oppure – cosa non meno implausibile – che una qualunque
rappresentazione appaia bella ogniqualvolta si produca, spontaneamente e a parte
subjecti, un simile accordo delle facoltà.
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 135

dano il dolore (o i dolori), ma persino, per un paradosso solo apparente, la


possibilità di contestarle. Tesi tanto (controintuitivamente) radicali di au-
tori come Lévy-Bruhl o Whorf a proposito di mondi emotivi etnicamente
incommensurabili non sarebbero neppure grammaticalmente formulabili
se non si potesse parlare, per esempio, di emozioni in generale, né sareb-
be praticabile qualcosa come un’etnografia comparata, da cui appunto do-
vremmo apprendere tali verità (presuntivamente universali, si suppone),
nonché le solite avvertenze, invariabilmente autocontraddittorie, sul fatto
che certe traduzioni interlinguistiche non rendono in modo adeguato il si-
gnificato originario dei termini etnici3.
Comunque, a proposito delle classificazioni del dolore, universalmente
o culturalmente fondate, la letteratura non è sempre chiara. Alcuni autori
parlano del dolore come di una sensazione, uno stato fisico, altri come di
un’emozione, altri ancora come di un sentimento; persino in uno stesso
testo può capitare di trovare qualificazioni diverse, multiple e magari anche
mutuamente esclusive. Oltretutto, quanto abbiamo detto si può declinare in
due sensi complementari, vale a dire in direzione di una categorizzazione
oggettuale delle emozioni (in quanto oggetti, per generi e specie, ad esem-
pio) e in vista di una possibile categorizzazione emotiva degli oggetti. Su
quest’ultimo punto torneremo più avanti, ma, per il momento, possiamo
intanto affrontare una distinzione primaria che mi pare essenziale, anche
se spesso latente in molte discussioni sulla materia, e che pone un terzo
interrogativo:

3. Cosa distingue dolore fisico e dolore psichico?

In realtà, ci si dovrebbe chiedere prima ancora se la distinzione esista


realmente e non sia invece frutto di qualche confusione terminologico-con-
cettuale, ancorché inveterata. Naturalmente, la qualificazione di “fisico” e
“psichico” si può intendere qui in senso pragmatico, come una specificazio-
ne di comodo, che non comporta necessariamente una presa di posizione su
problemi di dualismo, riduzionismo, eliminativismo, materialismo e simili,
attualmente discussi in seno alla filosofia della mente. Ma la questione della
distinzione resta rilevante, e sarei propenso a dire che da un punto di vista
fenomenologico l’esperienza diretta e l’introspezione dovrebbero fornirci
argomenti almeno accettabili. Persino a un’analisi superficiale, quello che

3 Su questo punto, vedi Boster 2005. Per il problema dell’universalità delle emozio-
ni, anche in termini di essenzialità biologica, vedi il recente Matthen 1998.
136 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

si prova per la perdita di un dente non è quello che si prova per la perdita
di un parente, anche se la natura neurofisiologica elementare dei due stati
è la stessa e coinvolge in ogni caso certe aree cerebrali. Eppure, nonostan-
te la differenza provata, almeno in italiano, possiamo parlare comunque
di dolore. Altre lingue, per esempio l’inglese, distinguono forse meglio
(pain, per il dolore fisico, sorrow, grief, sadness, distress, regret, misery
ecc., per un’afflizione di ordine più specificamente psicologico), sebbene
non sempre sistematicamente, ma indubbiamente anche in italiano certi usi
sono selettivi: non diremmo, in linea di massima, che una pugnalata “ci
rattrista” e neppure, a non voler essere ironici, che “ci addolora”. D’altra
parte, proprio il fatto che si tratti di una distinzione immediatamente per-
cepibile all’introspezione tollera bene un uso anche relativamente ambiguo
del lessico: «Pauca sunt enim, quae proprie loquimur, plura non proprie
– diceva Sant’Agostino (Confessiones, XI, XX) – sed agnoscitur quid veli-
mus», sappiamo di cosa parliamo e di solito parliamo di dolore a proposito,
per riferirci ad esperienze semanticamente e concettualmente correlate ma
fenomenologicamente diverse.
Perciò, almeno per i nostri scopi presenti, può essere utile abbozzare, sia
pure in forma molto approssimativa e provvisoria, alcune demarcazioni.
Così, adottando qui una distinzione terminologica di venerabile memoria,
già definita da Agostino (De Civitate Dei, XIV, 7, 2)4, ratificata da Tomma-
so d’Aquino (Summa Theologiae, I-II, q. 35, a. 2) e recentemente ripresa da
Damasio attingendo a Spinoza (che ovviamente si rifaceva alla psicologia
della tarda Scolastica), si potrebbe dire che:
il dolore fisico, chiamiamolo dolor: 1) ha sempre una localizzazione
corporea, per quanto sfumata e talvolta multipla, 2) attuale e presente nel
momento della percezione, e 3) non ha un oggetto intenzionale extracor-
poreo.
Per contro, il dolore psichico, chiamiamolo tristitia: 1) non ha necessa-
riamente una localizzazione corporea (anche se comporta di solito anche
manifestazioni corporee più o meno specifiche), 2) ha sempre un oggetto
intenzionale, il quale 3) nel momento della percezione può anche non esse-
re presente come oggetto esterno (può cioè essere passato, presente, futuro
o, eventualmente, immaginario, fittizio, finzionale).
Per non incorrere in un eccesso di semplicismo è però necessario aggiun-

4 La distinzione operata da Agostino muove precisamente nella direzione che qui


stiamo seguendo, egli, infatti, preferisce parlare di tristitia, invece che di aegritu-
do, come fa Cicerone (Tusculanae disputationes, III, 10, 22), o di dolor, come fa
Virgilio (Aeneis, VI, 734), appunto «quia aegritudo vel dolor usitatius in corpori-
bus dicitur».
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 137

gere almeno qualche specificazione a questa demarcazione di massima. In


particolare, quanto al dolor che riguarda il corpo fisico, si potrebbe non es-
sere così categorici circa la sua invariabile ubicazione somatica, così come
rispetto alla mancanza di oggetti intenzionali. In realtà, il dibattito attuale
ammette posizioni diverse e controverse, in ragione del tipo di filosofia della
mente che si decide di praticare. Così, ci sono molti autori, soprattutto quelli
che sposano un tipo di materialismo eliminativista o un certo tipo di funzio-
nalismo, che negherebbero che i dolori stiano veramente da qualche parte,
se non, forse, nella testa. Ma ci sono anche alcuni che, sebbene in minoran-
za, sostengono con buoni argomenti che i dolori sono realmente localizzati
in specifiche parti del corpo (per esempio Hyman 2003).
La questione dipende anche da come si interpreta l’intenzionalità. Si
potrebbe sostenere, infatti, come fa, tra gli altri, Michael Tye (2003, 2006),
che l’esperienza del dolore abbia essenzialmente una dimensione corporea
ed insieme «rappresentazionale» (Tye 2003: 54), sicché, sebbene il dolore
non sia “presente” in realtà nella schiena, o in qualche altro posto, l’espe-
rienza lo “rappresenta” (per esempio in quanto danno) come localizzato in
quel punto del corpo. Secondo una tesi per certi versi analoga (cfr. Crane
2001), la parte del corpo in cui si sente il dolore è appunto l’oggetto in-
tenzionale che individua lo stato relativo, senza per altro dover ammettere
che esista qualcosa come un dolore-oggetto che sia ubicato realmente da
qualche parte. Di qui deriverebbe anche che, proprio in quanto intenziona-
le, l’oggetto del dolore potrebbe persino non esistere concretamente, come
mostrerebbe il caso, sempre citato a questo proposito, degli arti fantasma.
Per quel che riguarda la caratterizzazione del dolor che abbiamo de-
lineato sopra, non c’è ovviamente difficoltà ad assumere una prospettiva
“intenzionalista forte” come quella prospettata ad esempio da Crane, seb-
bene non si possa generalizzare senza ulteriori qualificazioni l’idea per cui
«l’intenzionalista non può dire che il dolore è una relazione con una par-
te del corpo» (Crane 2001: 129). Lo stesso Crane, in effetti, precisa che
«qualcuno può provare dolore a una parte del corpo anche quando essa
non esiste più» (Ibidem, corsivo mio), che è diverso – per quanto sembri
pedante puntualizzarlo – dal dire che si può provare dolore in una parte del
corpo che non è mai esistita o non può esistere: la coda fantasma o le ali
fantasma (agli uomini) non fanno male, qui c’è un vincolo normativo che è
dettato dalla struttura sensibile del corpo reale5.

5 Il che, peraltro, impone delle restrizioni anche da un punto di vista intracorporeo:


è ovvio che non tutto ciò che fa parte del corpo può essere percepito, e neppure
rappresentato o intenzionato, come doloroso. Suonerebbe piuttosto strambo dire,
138 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

Si capisce, allora, che in questi termini la distinzione che ci interessa ri-


siede in primo luogo nel tipo di oggetti intenzionali accessibili, e da questo
dipende anche la possibilità di articolare concettualmente il problema dei
finti dolori o dei dolori finzionali. Ma prima di prendere direttamente in
considerazione questo aspetto, soffermiamoci ancora sulla differenza della
tristitia rispetto al dolor.
Succede, infatti, di essere addolorati, di soffrire non già in qualche par-
te del nostro corpo sensibile, quanto piuttosto per qualcosa di diverso e di
esterno, per un certo stato di cose al quale “guardiamo” e che in qualche
modo ci “ri-guarda”, per così dire. Anzi, si potrebbe sostenere che non vi sia
veramente una sofferenza dolorosa senza una qualche aboutness. Natural-
mente, si può pensare a delle possibili eccezioni: una melanconica afflizione
generalizzata e ingiustificata, poniamo. Anche in casi del genere, tuttavia,
un intenzionalista convinto – come Robert Solomon, per esempio – potreb-
be replicare che un simile stato è almeno «about the world» (cfr. Solomon
1984: 306). L’obiezione non è forse molto convincente, ma il problema qui è
anche la vaghezza di certe descrizioni fenomenologiche. Inoltre, non è detto
che ogni stato in qualche senso negativo debba rubricarsi come dolore, né
che si debbano escludere stati emotivi che abbiano componenti “miste”.
In ogni caso, un approccio intenzionalista ci consente, in primo luogo, di
prospettare una questione di identità formale, così come viene per esempio
suggerita proprio da San Tommaso nella Summa. Secondo Tommaso, ci
sono cose, come le sostanze, che hanno una forma absoluta, autonoma, e
ci sono cose che ce l’hanno per comparationem ad aliquid extra, in parti-
colare, le passiones, come la tristitia appunto, «recipiunt speciem ex ter-
minis sive ex obiectis» (I-II, 35, 4), sono cioè specificate dal loro oggetto
esterno.
In secondo luogo, una linea di questo tipo ci permette di considerare più
precisamente la natura dei “contenuti” del dolore in quanto tristitia, ciò che
delinea la nostra quarta questione.

4. Che tipo di oggetti sono quelli del dolore?

Interrogarsi sulla natura degli oggetti del dolore significa sottoscrive-


re un qualche tipo di teoria cognitiva delle emozioni, posizione che gode
oggi di larghi consensi, tra autori peraltro persino molto diversi, e che si è

per esempio, di provare una fitta alla punta dei capelli o un indolenzimento del
sangue. Non si tratta di un limite meramente intenzionale.
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 139

sviluppata soprattutto in risposta a un indirizzo di tipo riduzionista, magari


recuperando posizioni anche non nuove, classiche, come nel caso della
teoria neostoica rilanciata da Martha Nussbaum (2001). Ma, come ho detto
all’inizio, qui mi interessano più alcune distinzioni concettuali di ordine
fenomenologico, che pure sono coerenti con una prospettiva cognitiva, e
per le quali conviene risalire alla linea che unisce Brentano e Husserl.
A proposito dell’essenza dei fenomeni psichici – o, più precisamente,
secondo Husserl (1922: 158), degli «atti psichici» – Brentano sostiene che
«ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioe-
vali chiamarono in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto»
(Brentano 1874: I, 154), motivo per cui, come commenta Husserl, «nella
percezione viene percepito qualcosa […] nell’amore qualcosa viene amato,
nell’odio qualcosa viene odiato, nel desiderio qualcosa viene desiderato
ecc.». Sicché, conclude Brentano, «nulla può essere giudicato, ma anche
nulla può essere desiderato, sperato o temuto se non viene rappresentato».
E questo mi pare un punto essenziale anche per ciò che concerne il dolore
come atto psichico.
Ma è non meno rilevante un’ulteriore distinzione, operata da Husserl
nella Quinta ricerca logica, tra «oggetto intenzionale» e «vissuto intenzio-
nale». Infatti, come precisa Husserl, non solo l’oggetto intenzionale può
anche non esistere extra mentem, come il dio Giove, per esempio, senza
che ciò impedisca che «questo “rappresentare il dio Giove” sia effettivo,
che esso cioè sia un vissuto di una determinata specie, uno “stato d’animo”
tale per cui chi lo vive in sé può dire a buon diritto di rappresentare quel
mitico re degli dei», ma, soprattutto, «i contenuti veramente immanenti,
che appartengono alla compagine reale dei vissuti intenzionali, non sono
intenzionali: essi costituiscono l’atto, rendono possibile l’intenzione come
sostegni necessari, ma non sono essi stessi intenzionati […]. Io non vedo
le sensazioni di colore, ma le cose colorate, non odo le sensazioni sono-
re, ma il canto della cantante ecc. E ciò che vale per le rappresentazioni,
vale anche per gli altri vissuti intenzionali costruiti su di esse» (Husserl
1922: 164). Qui Husserl richiama un fenomeno che possiamo qualificare,
come capita ormai nella letteratura corrente, “trasparenza” dell’esperienza
intenzionale6, e che dovrebbe valere ovviamente anche per l’esperienza del
dolore (cfr. Tye 2003: 55).
Assumendo questa linea, si può descrivere la tristitia come una perce-
zione (o una rappresentazione) cognitiva di un certo stato di cose secondo

6 Vedi, per esempio, la discussione di Martin 2002.


140 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

una specifica modalità di vissuto, che appunto chiamiamo dolorosa7. Il che


si accorda appunto con quanto in genere rivendicano le teorie cognitive.
Ma l’esigenza di mantenere il carattere trasparente della cognizione com-
porta anche, in questo caso, che la dolorosità dell’esperienza sia percepita
come proprietà dell’oggetto più che del particolare stato mentale in cui si
trova il soggetto, proprio per non incorrere nei limiti che di solito vengono
imputati alle cosiddette teorie avverbiali della percezione. Se l’azzurro del
cielo non è una qualità della mia esperienza visiva, ragione per cui sarebbe
erroneo dire che vedo “azzuramente”, allora, per simmetria, dovrebbe es-
sere altrettanto erroneo concludere che percepisco dolorosamente una certa
cosa. Ma, almeno in questi termini, la conclusione suona in effetti meno
perentoria e qui la differenza tra dolor e tristitia ha una decisiva rilevanza.
In generale, sembra plausibile supporre che un certo stato di cose non sia
“oggettivamente” doloroso al modo in cui il cielo è azzurro, per esempio,
e che quindi alcuni soggetti possano viverlo dolorosamente mentre altri
no. Pare inevitabile tener conto in simili casi di una componente valuta-
tiva, o modale, comunque variabile. Ciò non significa, nondimeno, che si
debba rinunciare a una prospettiva intenzionale e cognitiva. Al contrario,
qui è proprio il maggiore e più complesso importo cognitivo che qualifica
l’aspetto soggettivo della tristitia rispetto al dolor.
Volendo richiamarci ancora una volta alla terminologia tomista, possia-
mo precisare che il fatto essenziale è che ci sia un qualche oggetto, reale
o immaginario, che viene percepito o rappresentato, secondo modalità co-
gnitive variabili, ma viene percepito «sub ratione mali» (I-II, 35, 1), e a
condizione di essere attualmente coscienti di codesta ratio o coniunctio che
lega il soggetto all’oggetto (perceptio huius coniunctionis). In questo senso
si potrebbe anche parlare di quella cui abbiamo accennato sopra come a
una sorta di categorizzazione specificamente emotiva, sub specie tristitiae,
degli oggetti intenzionali8. In una prospettiva del genere, inoltre, possiamo
anche contemplare la tesi per cui l’esperienza emotiva (del dolore) com-

7 Di nuovo, si potrebbe obbiettare che ci sono emozioni o stati d’animo “liminari”


non facilmente classificabili in senso intenzionale eppure apparentabili a espe-
rienze dolorose, ma qui risponderei, come fa Husserl (1922: 210), che più che
chiederci se tutti questi fenomeni abbiano una simile caratteristica, dovremmo
appunto distinguere in un gruppo omogeneo quelli che in effetti ce l’hanno. Non
tutto si può qualificare come dolore in base a qualunque somiglianza.
8 Ciò può valere sia per quegli approcci che interpretano la componente valutativa
in termini di “giudizio”, come in Robert C. Solomon, per esempio, sia per quelli
che si rifanno al modello del “seeing as”, a un tipo di “vedere come” (cfr. Robin-
son 2004).
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 141

porti una passività, ma anche una certa attività, almeno estimativa, da parte
del soggetto, nonché l’attivazione, più o meno spontanea e controllabile,
di una certa attitudine disposizionale9 ad assumere certi stati psicofisici o a
intraprendere un certo corso d’azione.
Altra conseguenza, assai rilevante dal punto di vista che qui ci interessa,
è che in tal modo si conserva un legame non accidentale, ma nomologico
e normativo, tra oggetto intenzionale e modalità estimativo-cognitiva10. Il
che ci fornisce anche un possibile criterio per decidere se le nostre perce-
zioni dolorose siano corrette, adeguate, autentiche o inautentiche, vere o
fittizie. E con ciò siamo alla quinta questione.

5. Posso provare veramente un dolore che non credo di provare?

Porre una domanda di questo tipo equivale a chiedersi se e come sia


possibile ingannarci a proposito del nostro dolore. Così come è del tutto
ovvio che si può fingere di provare qualcosa, e dunque cercare di inganna-
re qualcun altro a questo proposito, pare piuttosto controintuitivo pensare
che possiamo provare qualcosa che però siamo convinti di non provare.
Tuttavia, si può cercare di complicare la questione e di rubricarla, come
è stato fatto spesso, sotto il più ampio problema della sensibilità alle cre-
denze degli stati emotivi (che abbiano evidentemente una componente co-
gnitiva). Se vedo un oggetto per terra e lo scambio per un serpente posso
provare un sentimento di paura, ma se mi accorgo che è solo un tubo di
plastica normalmente non proverò più lo stesso sentimento. Così, se sono
un giocatore, posso essere in ansia per un incontro difficile e importante,
ma se prima di giocare qualcuno mi assicura, e io ci credo, che la partita
è truccata e vincerò di sicuro, difficilmente potrò conservare la stessa an-
sia, anche se certamente potrò provare altri sentimenti per lo stesso fatto.
Anche questo pare abbastanza pacifico. Dunque, ammesso che anche le
emozioni (almeno certe emozioni) sono belief-sensitive, si tratta di capire

9 Vedi, per esempio, il modello “ibrido” proposto da ultimo da Harré 2009 e battez-
zato “Cognitive-Affective-Somatic Hybrid”.
10 Questo ci consentirebbe, peraltro, di formulare un principio di identità formale
dei vissuti intenzionali del dolore, sia pure per aliquid extra, come si è detto. Se
le cose stanno così, dovremmo dedurne che non solo la capacità di cognizione
del dolore, come habitus, ma anche l’atto formale stesso della cognizione, più
che individuarci e singolarizzarci, è qualcosa che ci accomuna, e dunque la mia
percezione dolorosa non è mia più o diversamente da come può esserlo, poniamo,
la mia cognizione del freddo, o anche la mia cognizione di oggetti matematici.
142 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

da quale genere di credenze siano cognitivamente penetrabili. Certamente


non da tutte e non da tutte allo stesso modo. La mia certezza inconcussa
che morirò e che prima o poi perderò delle persone care può inquietarmi, in
un certo momento, in minor misura di una circostanza effettivamente meno
inderogabile, meno grave, ma più imminente, per esempio la possibilità di
perdere del denaro, o di perdere la faccia.
Ora, un problema che potrebbe revocare in dubbio l’apparente impossi-
bilità di provare autoingannevolmente un finto dolore è quello rappresen-
tato dal ben noto “paradosso della finzione”, che chiama appunto in causa
i rapporti tra stati emotivi, giudizi cognitivi e credenze, in particolare cre-
denze esistenziali. La paradossalità sta nel fatto che l’evidenza empirica,
per esempio nell’esperienza di certe forme d’arte, dimostra che è in effetti
possibile provare delle emozioni, o dei sentimenti (secondo le classifica-
zioni) più o meno tristi e dolorosi per oggetti, fatti e azioni che sappiamo e
crediamo essere fittizi, inesistenti extra mentem. Il che, però, sembra anche
collidere con un’idea apparentemente altrettanto intuitiva, e cioè che non
possiamo provare veramente qualcosa, per esempio paura, per un oggetto
che non c’è, per esempio il serpente che si rivela un tubo di plastica. Su
questa questione si è prodotta una letteratura specifica ormai molto corposa
e molto tecnica, nella quale sarebbe impossibile qui addentrarci e spera-
re di prendere posizione partitamente. Tuttavia, si può almeno rilevare, in
estrema sintesi e rispetto a quanto ci interessa, che le opzioni si riducono
in fondo a due: o 1) quando soffro per qualcuno o per qualcosa nella cui
esistenza reale non credo non sto veramente soffrendo (e se ne sono con-
vinto, allora mi sto ingannando), oppure 2) la credenza esistenziale negli
oggetti dell’emozione non è veramente rilevante, o è almeno neutrale, per
il mio autentico coinvolgimento emotivo. Al primo corno del dilemma fan-
no riferimento le varie forme di non realismo, eventualmente declinabili
secondo strategie più o meno sofisticate, dall’irrazionalismo rivendicato
da Colin Radford (1975, 1990) al quasi-realismo delle emozioni finzionali
elaborato da Kendall Walton (1990). Per il secondo corno optano invece
i sostenitori, di varia estrazione, di un “emotional realism”, i quali, pur
non opponendosi a una teoria cognitivo-valutativa delle emozioni, ne re-
spingono un’interpretazione restrittiva in senso doxastico, etichettata come
“judgementalism”, e vincolata appunto al ruolo essenziale delle credenze
esistenziali11.
Da un punto di vista eminentemente fenomenologico, che qui stia-
mo adottando, il dilemma è forse però meno radicale, giacché almeno le

11 Vedi la recente ed equilibrata disamina del problema in Gaut (2007: 208-216).


M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 143

quasi-emozioni teorizzate da Walton condividono con le emozioni reali


una medesima fenomenologia e dunque la differenza non dovrebbe stare
in ciò che si sente o in come lo si sente. Non può trattarsi, comunque, né
di intensità, né di disposizione all’azione, né, propriamente, di desidera-
bilità o godimento. Sappiamo bene, come lo sapeva Shakespeare, che per
Ecuba – sebbene ciò non significhi esattamente “for nothing” – si può
provare una pena altrettanto grande, se non maggiore di quella che speri-
mentiamo di fatto per molti casi drammatici della cui realtà non dubitia-
mo, ma che ci si presentano in forme meno spettacolari. Credo si possa
riconoscere che si piange molto più spesso guardando un film che guar-
dando un telegiornale. Allo stesso modo, venire a conoscenza di un fatto
reale che muove a compassione non implica necessariamente – come è
stato giustamente osservato12 – che si dia corso a qualche specifico tipo di
azione o comportamento. Scoprire che Cesare è stato realmente pugnala-
to non mi scompone più di quanto mi agiti vedere la fine teatrale di Egisto
e Clitennestra. Quanto al fatto che il dolore suscitato dalla finzione possa
accompagnarsi a un particolare piacere, che di solito si definisce estetico,
esso non sminuisce la natura dell’emozione a un grado di quasi-realtà o
la rende, in sé, meno spiacevole di un’emozione reale, proprio perché
questo comporterebbe uno scarto fenomenologico evidente. Piuttosto, il
piacere o il desiderio di vedere certi spettacoli o di leggere certe storie
non hanno per oggetto proprio le emozioni negative che questi possono
suscitare, quanto la riuscita dell’opera stessa, sebbene questa si riveli
anche attraverso il grado di coinvolgimento emotivo, ma, come succede
nei contesti intensionali, non sussiste necessariamente un’inferenza va-
lida da un piano all’altro. Quando Agostino, nelle Confessioni (I, XIII),
notava acutamente: «si prohiberer ea legere, dolerem, quia non legerem
quod dolerem», giocava sull’omonimia ma anche sulla sottile differenza
di piani semantici.
Se le cose stanno così, le emozioni finzionali sono tali solo perché
finzionali sono i loro oggetti intenzionali. D’altra parte, se la forma del
vissuto intenzionale è data dalla modalità o dal tenore con cui percepi-
sco coscientemente qualcosa (sub ratione mali), non c’è in effetti altra
istanza che possa decidere che non sto effettivamente percependo in quel
modo. Posso naturalmente ingannarmi (o disingannarmi) quanto alla for-
ma dell’oggetto intenzionale, giacché potrebbe in effetti non essere re-
almente male ciò che ho stimato tale, anche laddove si tratti «de alieno
malo, in quantum tamen aestimatur ut proprium» (Summa Theologiae,

12 Per esempio, tra gli altri, da Dadlez (1997: 46-48).


144 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

I-II, 35, 8), come nella misericordia, ma si tratterebbe allora di un errore


cognitivo, più che di un (auto)inganno emotivo fenomenologico. Infatti,
per poter dire a rigore che sto provando e (“in realtà”) non sto provando
la medesima emozione, dovrei necessariamente sdoppiare il piano di re-
altà e così il punto di vista cosciente da cui si giudica quei piani contrad-
dittori. Il che non pare possibile13.
Senza ricorrere al freudismo (si può dire che sono inconsciamente ad-
dolorato? Oppure che sento dolore ma ancora non so di sentirlo?), un ten-
tativo – sebbene indiretto – di rispondere alla nostra domanda (5) ci viene
dalle ricerche recenti condotte in ambito neurobiologico. Veniamo così,
infine, all’ipotesi radicalmente alternativa suggerita da Antonio Damasio,
che prospetta l’ultima questione:

6. Posso credere di provare un dolore che veramente non provo?

L’idea di Damasio è che la tristitia non sia tanto un’emozione, almeno


secondo la sua classificazione, quanto piuttosto un sentimento (sempre
secondo la sua terminologia) e che dunque comporti le caratteristiche
che a questo genere di stati l’autore attribuisce definizionalmente. Senza
entrare troppo nel dettaglio, è sufficiente segnalare che anche per Dama-
sio il sentimento di dolore, come appunto tutti i sentimenti, è una sorta
di rappresentazione, sennonché in questo caso si tratta di una rappresen-
tazione neurale che monitora, registra e restituisce in forma di mappa
uno stato interno del corpo, uno stato funzionale generale. Il sentimento
sopravviene di solito all’«esecuzione» di un’emozione, innescata nor-
malmente da uno stimolo emozionale «adeguato», che produce, almeno
nel caso del dolore, delle condizioni dello stato corporeo funzionalmente
“difficili” o “svantaggiose”. Il dolore è dunque «l’idea che il corpo sia
in un certo modo» (Damasio 2003: 107) e questo modo è appunto «ori-
gine» e «contenuto» del sentimento (ivi: 109). Damasio finisce così per
postulare due oggetti del sentimento di dolore, uno distale e l’altro pros-
simale, per così dire, uno extra- e l’altro intracorporeo: «la vista di un

13 Almeno nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto, come nel principio di non
contraddizione. Naturalmente, l’eventuale disinganno può avvenire a distanza di
tempo, facendo dell’emozione X provata al tempo T1 un oggetto di memoria e
cognizione (ed eventualmente anche di meta-emozione: per esempio la vergogna
presente a T2 per un dolore che ora si ritiene ingiustificato), ma senza che ciò
comporti un carattere effettivamente contraddittorio e inconsciamente autoingan-
nevole della stessa emozione X allo stesso tempo T1.
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 145

paesaggio marino spettacolare è un oggetto emozionalmente adeguato.


Lo stato corporeo che risulta dalla contemplazione di quel paesaggio è
l’oggetto reale originario, poi avvertito nello stato del sentimento» (ivi:
115, corsivo mio).
Una simile giustapposizione, tuttavia, resta piuttosto precaria, perche
non è chiara la relazione e le possibili interazioni funzionali che dovreb-
bero collegare i due oggetti, in particolare non si capisce se sussista una
semplice concomitanza oppure una vera connessione causale o nomolo-
gica. Talvolta Damasio ci dice che i sentimenti sono «accompagnati» da
stati emozionali, in altri luoghi, mi pare una volta sola, ci dice invece che
sono «determinati» (ivi: 162). Ma in effetti il legame è strutturalmente
labile, a cominciare dalla considerazione che se il sentimento (di dolore)
è una sorta di mappa di monitoraggio dello stato funzionale corporeo,
dovrebbe registrare continuamente più o meno piccole disfunzioni che
compromettono uno stato ottimale generale (una media?), a meno di vo-
ler ammettere che ci siano momenti, piuttosto prolungati, in cui l’orga-
nismo funziona perfettamente sotto ogni rispetto. A queste condizioni,
il sentimento della tristitia può anche fare a meno delle emozioni, così
come dell’oggetto esterno che costituirebbe lo stimolo emozionalmen-
te adeguato. Ed è quanto lo stesso Damasio ammette con disinvoltura.
Infatti, il vantaggio di questa architettura starebbe nel fatto che «il cer-
vello può agire direttamente sull’oggetto della percezione», modificando
lo stato corporeo, ma non certo sull’oggetto esterno. Il che significa una
sorta di simulazione interna. «È evidente – scrive l’autore – che il cer-
vello può simulare internamente alcuni stati corporei emozionali» (ivi:
143), creando così «una serie di mappe del corpo che non corrispondono
esattamente allo stato reale in cui esso si trova» (ivi: 144). «Quello che si
sente, allora – conclude Damasio – è basato su quella “falsa” costruzione
e non sul “reale” stato del corpo» (Ibidem). In tal modo, il corpo stesso
(o almeno le aree somatosensitive) diventa «una sorta di teatro, dove non
solo possono essere “rappresentati ed esibiti” gli stati corporei reali, ma
è possibile mettere in scena anche un vasto assortimento di stati corporei
“falsi”» (ivi: 146, corsivo mio).
Si capisce bene che se le cose stessero così, avremmo non pochi pro-
blemi a sapere che cosa stiamo in effetti provando. Infatti se il sentimento
di dolore si identifica con la rappresentazione di una mappa neurale, ma
il cervello stesso può produrre false mappe, quale facoltà può distinguere
i due fenomeni, cogliendoli da punti di vista diversi? E se non si tratta,
fisicalisticamente, di fenomeni diversi, perché parlare di rappresentazioni
“reali” e rappresentazioni “false”?
146 Sensibilia 4 - Il dolore/The pain

La prospettiva dichiarata di Damasio – che, come noto, si proclama an-


ticartesiano e risolutamente antidualista – complica ulteriormente le cose.
Infatti, rispetto a quale criterio o punto di osservazione il corpo non è “in
realtà1” come “in realtà2” si presenta e si rappresenta? Se tutto il mondo
è un palcoscenico, come avrebbe potuto ricordarci Shakespeare, dove si
siedono gli spettatori?
Senza contare, infine, che non sarebbe molto chiaro il vantaggio funzio-
nale di simili simulazioni finzionali. Perché infatti il cervello non dovrebbe
allora inclinare a simulare continuamente il piacere invece del dolore, e, anzi,
perché non rispondere appunto al dolore modificando sistematicamente le
mappe in senso piacevole, come succede in fondo con quella che lo stesso
autore definisce «analgesia naturale» (ivi: 141), cioè l’inibizione della no-
cicezione? Anche da un punto di vista adattativo evolutivo, che è decisa-
mente dominante nel lavoro di Damasio, l’insorgenza di simili meccanismi
di autoinganno non è facilmente spiegabile: «All’inizio – ci vien detto (ma
quando?) – il cervello produceva esclusivamente mappe fedeli dello stato
del corpo» anche se non è ben chiaro in che modo potremmo sapere una
cosa del genere. «In seguito sorsero altre possibilità, per esempio quella di
eliminare temporaneamente, nelle mappe, la rappresentazione di stati come
quelli culminanti nel dolore. Successivamente, forse, comparve la capacità
di simulare stati dolorosi là dove non esistevano. Con ogni evidenza, queste
nuove possibilità presentavano un vantaggio selettivo e furono conservate»
(ivi: 147, corsivo mio). Francamente non pare che tale evidenza, almeno in
questi termini, sia così intelligibile, né sembrano così indiscutibili i presunti
vantaggi adattativi cui ci si riferisce, ma, come ha scritto di recente e non
senza ironia Jon Elster, «non dubito che qualunque sociobiologo in gamba
possa imbastire su due piedi una Just so story sui vantaggi evolutivi di [certe]
emozioni» (Elster 1999: 53).

Conclusioni

In conclusione, e per riprendere le fila del nostro discorso, se assumiamo


una tesi intenzionalista, dobbiamo ammettere che l’esperienza del dolore,
e più in generale le emozioni, implicano necessariamente qualcuno che le
provi, e sappia di provarle, e un qualche oggetto su cui vertano. Questo ci
consente di chiarire a quali condizioni distinguere tra dolori falsi, che nes-
suno in realtà prova, finti dolori, che qualcuno finge di provare, dolori veri
che si provano per oggetti scambiati per veri e dolori veri che si provano
per oggetti veramente finti.
M. Di Monte - Dolorosa ficta. Soffrire per finta è sempre soffrire? 147

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