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Da: Dizionario Biografico degli Italiani, v. 54, Roma 2000, pp.

751-754

GILIO Giovanni Andrea

[p. 751] GILIO, GIOVANNI ANDREA. – Nacque a Fabriano in un anno non precisabile della prima
metà del XVI secolo (la sua prima opera nota fu pubblicata nel 1550). Nulla si conosce circa la sua
formazione ed educazione; e assai scarse sono le notizie sui fatti esterni della vita, che dovette essere
comunque piuttosto ritirata. Come infatti attestano le fonti più antiche, il G. non si allontanò mai dalla
sua terra natia, tutto dedito allo studio e all’erudizione personale, intesa alla raccolta del vasto materiale
da cui dovevano uscire i suoi scritti. Temperò l’interesse per i libri e la cultura con gli impegni e gli
obblighi che gli venivano dall’abito sacerdotale, che vestì in data imprecisata. Fu canonico di S.
Venanzio; quindi, al più tardi nel 1579, si ritirò nell’eremo di Suavicino, poi S. Domenico Loricato, di
cui divenne priore. Qui continuò nondimeno a preoccuparsi della cura d’anime, amministrando i
sacramenti agli abitanti dei vicini villaggi di Villanova, di Trivio e Frontale – sperduti paesini non
lontani da Fabriano – come si evince dagli atti della visita pastorale di monsignor Alfonso Maria
Binarini, che fu vescovo di Camerino dal settembre del 1574 all’aprile del 1580 (Vecchietti). Da
Fabriano il G. firmò la lettera dedicatoria della Topica poetica, la sua ultima opera, pubblicata nel 1580; e
sempre presso Fabriano, probabilmente nell’eremo stesso in cui si era ritirato, morì nel 1584 (Sassi).
Il G. fu una figura di studioso e scrittore per molti versi tipica e sintomatica di quella fase di
transizione, ma anche di vera e propria commistione, tra gli ideali classicistici dell’umanesimo
rinascimentale e le istanze sociali, culturali e dottrinali dell’età del disciplinamento postridentino. Di
questa concomitanza di fattori – così come del prevalere dei secondi sui primi – è testimonianza il
carattere eclettico della sua variegata, ancorché non prolifica, produzione. I suoi interessi vanno dalla
controversistica in senso stretto all’apologetica agiografica e storico-erudita, dalla trattatistica più
propriamente letteraria a quella storico-artistica e cortigiana. Altrettanto diversificata è poi la scelta delle
forme e dei generi di espressione e di scrittura, che si muove con disinvoltura tra il modello
classicheggiante del dialogo, il tipo narrativo della biografia e la struttura più tecnica e «scientifica» del
trattato e del manuale. Ciò non significa però che l’insieme dell’opera del G. sorga da motivazioni
contingenti o occasionali, né tanto meno eterogenee nelle finalità, perché anzi sembra rispondere a un
disegno complessivo di carattere, se non proprio veramente enciclopedico, almeno tendenzialmente
sistematico. Un disegno che riflette e mette in opera, dal punto di vista di un ecclesiastico di provincia,
le indicazioni di politica culturale e le preoccupazioni pedagogiche e formative elaborate e quindi
promosse dai lavori conciliari che si concludevano nel 1563. Proprio questo evidente impegno valse al
G. la lode tributatagli dal gesuita Antonio Possevino nella sua Bibliotheca selecta, edita a Roma nel 1593 e
appunto modello di una ratio studiorum; e lo stesso impegno lo ha reso un autore così interessante e
persino esemplare agli occhi di quegli storici moderni che si occupano dell’età della Controriforma, in
specie per quanto attiene al problema delle immagini e della censura.
Già prima della chiusura del concilio, quando cioè la polemica con i protestanti in materia di culto e
liturgia era ancora fortemente vivace, il G. pubblicò a Venezia nel 1550 un Trattato de la emulatione che il
Demonio ha fatta a Dio ne [p. 752] l’adorazione, ne’ sacrificii e ne le altre cose appartenenti alla divinità (senza
indicazioni tipografiche).
Qui l’autore si muove sulla scia già sicuramente segnata da altri controversisti e polemisti
contemporanei, in particolare da Ambrogio Catarino Politi con le De certa gloria invocatione ac veneratione
sanctorum disputationes (Lugduni 1542), da Giovanni Cocleo con la Defensio caeremoniarum (Ingolstadii
1544) e da Konrad Braun con il De caeremoniis e il De imaginibus (Maguntiae 1548). Gli argomenti sono
quelli tipici – e a questa data ormai collaudati – che mirano a sottrarre le cerimonie del culto che la
Chiesa cattolica tributava tradizionalmente ai santi, alle reliquie e alle immagini, dalle accuse di idolatria
mosse dai riformatori protestanti, cercando di distinguere il più precisamente possibile tra osservanza di
un culto ortodosso e forme di superstizione. Significativa è comunque l’opzione, rispetto ai precedenti
testuali e culturali, della lingua volgare, che metteva a disposizione di un pubblico molto più vasto e
diversificato tematiche altrimenti accessibili a una cerchia assai più ristretta di specialisti, anche per via
di una tecnica espositiva e argomentativa di ascendenza scolastica. Il Trattato venne infatti ripubblicato,
sempre a Venezia, nel 1563, presso Francesco de’ Franceschi.
Ancora nella città lagunare usciva, stampata da Pietro Bosello nel 1559, la Vita di s. Atanasio patriarca
di Alessandria, che mostra l’interesse piuttosto tempestivo del G. per il genere agiografico, che proprio in
quegli anni tornava a essere di grande attualità, attirando l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche. A
parte l’ovvio motivo di contrasto con il fronte estremo dei riformatori più radicali che avevano revocato
in dubbio e anche condannato la venerazione dei santi, si trattava soprattutto di confrontarsi con una
nuova agiografia protestante, storiograficamente e filologicamente agguerrita, la quale, bandendo
espressamente tutti gli elementi leggendari, fantastici e apocrifi cari alla tradizione tardomedioevale,
declinava la storia della Chiesa, in specie quella primitiva del martirio, in chiave antiromana e antipapale.
Da questo punto di vista la fatica del G. deve considerarsi nel contesto di imprese analoghe, come
quella pressoché contemporanea, ma assai più ponderosa, del vescovo di Verona Alvise Lippomano,
dedicata alle vite dei santi Padri della Chiesa antica, o quella di Lorenzo Surio, fino alle ricerche
documentarie e archeologiche di Cesare Baronio. La scelta monografica del G., e nuovamente
attraverso l’adozione del volgare, poteva poi rivelarsi funzionale tanto a una strategia ideologica,
fornendo un’alternativa «seria» a letture agiografiche più di «intrattenimento» – per esempio le Vite dei
santi aretiniane – quanto rispondere agli ideali perseguiti dall’autore stesso. Atanasio era stato infatti il
campione e lo strenuo difensore dell’ortodossia nicena, per questo era stato perseguitato dagli eretici, e
per questo gli venne tributato l’onore dell’altare, eccezionalmente, pur senza aver subito il martirio. Egli
poteva dunque rappresentare non solo un modello accessibile di santità, ma anche il tipo esemplare del
pastore e del vescovo, problematica tridentina per eccellenza.
Agli stessi intenti di propaganda, edificazione e istruzione si uniforma l’altra opera storico-
apologetica del G.: Le persecutioni della Chiesa descritte in cinque libri, pubblicata anch’essa a Venezia presso
Gabriele Giolito de’ Ferrari, nel 1573, e dedicata al cardinale Giacomo Savelli.
Il carattere e le finalità dello scritto sono espliciti fin dal sottotitolo, che recita: «Cominciando dal
nascimento di nostro Signor Giesu Christo, et venendo fino a Costantino V imperatore, si vede con
bell’ordine d’historia quanto sangue sia stato sparso ne’ crudelissimi tormenti da’ santi martiri per amor
del Signore et quanto la santa Chiesa catholica sia stata sempre perseguitata; et quanto ella ogni hora ne
sia riuscita più trionfante e gloriosa». All’indomani della battaglia di Lepanto, non poteva mancare un
riferimento d’attualità alle efferatezze compiute dai Turchi, benché nella dedica il G. si lamenti
soprattutto del fatto che i cristiani sono meno attenti nel ricordare e celebrare le gesta dei propri martiri
di quanto lo sarebbero ebrei e musulmani. Più interessante, nella lettera dedicatoria specificamente
indirizzata ai lettori, è una breve digressione sul significato della parola «apocrifo», laddove si specifica
che essa può intendersi nel senso di «falso» ovvero nel senso di «anonimo», e che è considerando la
prima accezione che il concilio di Trento ha espunto e condannato i testi non canonici. Le fonti cui il
G. dichiara di aver attinto rivelano lo spettro di interessi dell’autore e nello stesso tempo gli impacci di
questa agiografia ancora «protoscientifica». Vi si cita, oltre al Vangelo e agli Atti, Gerolamo, Orosio,
Paolo Diacono, accanto ad autori antichi, come Svetonio, Tacito, Aurelio Vittore, o moderni, come il
Platina; ma continuano a figurarvi testi come la Legenda aurea di Iacopo da Varagine e il Catalogus di
Pietro de’ Natali. Significativo, ancorché un po’ schematicamente estrinseco, il tentativo di organizzare
e suddividere tematicamente la materia, che tradisce un desiderio di sistematicità esaustiva ed
enciclopedica avvertibile spesso nelle opere del Gilio. I primi due libri sono dunque dedicati alla
trattazione delle persecuzioni che l’autore definisce «idolatre», vale a dire quelle perpetrate dagli
imperatori pagani, il terzo libro tratta delle persecuzioni «miste», il quarto delle «heretiche», soprattutto
quelle volute dagli imperatori bizantini. Queste ultime furono assai più dannose di quelle pagane, «però
maggior supplitio e più grave pena eternamente haranno gli heretici che i pagani». E qui il G. non
manca di riferirsi espressamente alla Riforma protestante tedesca, [p. 753] inglese e francese, rilevando
come «maggiore è stata per lo più la rabbia de gli heretici che de gli idolatri» (p. 248). Il quinto e ultimo
libro contiene le vite di s. Giovanni Battista, di s. Paolo e dei dodici apostoli.
Ben più noto è il G., almeno presso gli studiosi moderni, per via dei Due dialogi, pubblicati a
Camerino, presso Antonio Gioioso, nel 1564 e dedicati al cardinale Alessandro Farnese.
Il primo dialogo, nel quale «si ragiona de le parti morali, e civili appartenenti a’ letterati cortigiani et
ad ogni gentilhuomo, e l’utile che i prencipi cavano dai letterati», si inserisce in quel filone della
letteratura delle «buone maniere» che trova il suo referente privilegiato nel testo di Baldassarre
Castiglione, ma che dopo la metà del secolo tornava in auge con una più specifica connotazione
precettistica e normativa. Gli interessi didascalici e gli ideali formativi, nonché i sottesi valori sociali, cui
il G. mira sono evidenti, tanto nelle posizioni assunte esplicitamente, quanto nella scelta degli strumenti
e dei materiali donde ricavare argomento. Oltre agli abbondanti esempi tratti dalla storia antica, greca e
romana, accanto ad Aristotele compare anche Boezio, figura esemplare di illuminato consigliere
cristiano. Al letterato cortigiano è richiesta infatti una capacità di giudizio che vada «oltre la scorza»,
onde egli possa essere considerato «catholico, devoto, buon cristiano, ne che fusse d’heresia sospetto in
qual si voglia minima parte» (p. 19v). Torna anche qui il riferimento polemico d’attualità alle
contemporanee vicende della Riforma protestante. Sintomatico, in questo senso, è il fatto che laddove
si elogia e si promuove la morigeratezza grave e un po’ austera che secondo il G. dovrebbe
contraddistinguere il letterato, gli esempi e i modelli non sono ripresi più soltanto dalla storia antica, ma
anche da quella biblica e dalla agiografia cristiana, addirittura in chiave di contemptus mundi. Simile
atteggiamento conservativo si rivela a proposito delle questioni più specificamente linguistiche e
letterarie, che pure costituiscono una parte interessante del dialogo, come ha giustamente notato Paola
Barocchi. Su questi punti il G. ripropone un’ossequiosa osservanza bembesca, per cui l’unica lingua
letteraria veramente comune a tutti gli scrittori resta quella toscana.
Un atteggiamento anche più conservativo, o francamente reazionario, il G. mostra invece nel
secondo dialogo, in cui «si ragiona de gli errori e degli abusi de’ pittori circa l’historie, con molte
annotationi fatte sopra il Giuditio di Michelangelo et altre figure, tanto de la vecchia quanto de la nova
Capella; et in che modo vogliono essere dipinte le sacre imagini». Il punto fermo resta qui l’esigenza del
decorum, declinato però soprattutto come adeguamento e rispetto pedissequo del testo sacro. Da questa
istanza scaturiscono una capillare requisitoria contro gli «abusi» dei pittori e le ormai notissime critiche
al Giudizio michelangiolesco. Il primato dell’«historia», che è la storia narrata dalle Scritture e dalla
letteratura agiografica, filologicamente rivista e corretta, non può dunque essere messo in discussione,
anche perché qui ne va dei limiti di una libertà ermeneutica che era diventata problematica proprio con
la Riforma, e proprio a partire dal testo e dalla storia sacra. D’altra parte le evidenti necessità di ordine
pratico, derivanti anche dall’analisi di una casistica concreta, spingono il G. a individuare e mediare tra
tre diverse categorie di pittore: lo storico, il poetico e, anche qui, il misto, che poi, nella realtà della
prassi, finisce per essere la categoria dominante. Lo stesso G., infatti, è costretto a riconoscere che
talvolta solo scostandosi dalla lettera del testo si può ottenere quell’efficacia didascalica e psicagogica
che per lui, come per la maggior parte dei trattatisti tridentini, costituisce il fine morale della pittura
religiosa.
Opera meno interessante, perché di carattere più piattamente compilativo e concepita quasi ad usum
Delphini, è l’ultimo scritto del G., Topica poetica, stampato a Venezia da Orazio de’ Gobbi nel 1580, ma
risalente nell’elaborazione, come l’autore stesso dichiara, a diversi anni addietro.
Divisa in quattro libri, la Topica, «nella quale con bell’ordine si dimostrano le parti principali che
debbono havere tutti quelli che poetare disegnano», è il prodotto caratteristico, e minore, di quel
sincretismo platonico-aristotelico-oraziano che attraversa il dibattito e la trattatistica poetica medio e
tardocinquecentesca. Da Orazio il G. desume le consuete finalità strutturali della poesia: giovare,
dilettare, commuovere, cui aggiunge l’esser dolce. Da Aristotele dipende l’individuazione dei tre generi
retorici in cui ogni discorso, anche quello poetico, può essere ricompreso: il «consultativo», il
«dimostrativo» e il «giudiziale». Anche qui un posto preminente spetta al concetto di decorum, inteso
come convenienza dello stile col soggetto. Ne deriva che prioritaria per il poeta sarà l’invenzione, che,
insieme con la disposizione e l’elocuzione, costituisce la vera natura dell’imitazione. La seconda parte
del trattatello è dedicata all’esame, per altro assai sbrigativo, dei veri e propri topici: definizione, parti,
genere e specie, luoghi, tempi, materie particolari e così via; mentre gli ultimi due libri presentano un
rapido elenco delle figure retoriche di parola e di concetto. Ogni capitolo è illustrato con esempi tratti
pressoché esclusivamente dalla lirica petrarchesca.
Non stupisce dunque che lo scritto del G. abbia conosciuto, a suo tempo, scarsa fortuna, ma in
realtà lo stesso può dirsi anche per i Dialogi, se si eccettuano le citazioni di Borghini e Possevino, e per
le altre opere, che infatti non furono mai ristampate.
Alla sua produzione bisogna infine aggiungere un Sonetto sulla Madonna dipinta da Gentile da Fabriano in
una tavola dell’eremo di Val di Sasso, presso Fabriano, stampato a Fabriano nel 1850, [p. 754] in occasione
delle nozze Sabolucci-Fornari. Mentre era in vita il G. fu elogiato con un epigramma del perugino
Aurelio Pellini.

FONTI E BIBL.: A. Pellini, Epigrammata ad Priores artium populumque Fabrianensem, Camerini 1578, p. 4;
R. Borghini, Il riposo (1584), I, Milano 1807, pp. 59 s.; A. Possevino, Bibliotheca selecta, XVII, Romae
1593, p. 315; Id., Tractatio de poësi et pictura ethnica, Lugduni 1595, pp. 290 s.; F. Vecchietti, Biblioteca
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MICHELE DI MONTE

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