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23.
Collana diretta da
Erasmo Silvio Storace
Comitato scientifico
NEL CONFINE
Indagine sul principio
del terzo escluso
© Proprietà letteraria riservata
Edizioni AlboVersorio, Milano 2014
www.alboversorio.it
mail-to: alboversorio@gmail.com
tel.: (+39)340.9247340
ISBN: 978-88-97553-87-8
Introduzione p. 9
Preludio
Socrate. La cessazione della vita p. 15
Prima variazione
Teseo. Pieghe, ripiegamenti, labirinti p. 35
Intermezzo
Signor Signore. Il mondo incantato p. 63
Seconda variazione
Eracle. Linee d’acqua e confini ideali p. 85
Terza variazione
Natanaele. Pelle e membrane p. 135
Quarta variazione
Romolo. Fondazioni, soglie, edifici p. 169
Quinta variazione
Sandhya. Crepuscoli, aurore, tramonti, sogni p. 207
Sesta variazione
Hermafroditos. Transizioni fase, duplicità, molteplicità p. 239
Settima variazione
Hermes. Ponti, strade, sentieri p. 267
Finale
Dioniso. Maschere, riti, giochi, travestimenti p. 297
Il Principio del Terzo escluso appare così in tutta la sua necessità come
garanzia del fondamento di ogni parola. Aristotele sembra quasi nemmeno
porsi il problema di assumere il Principio in maniera critica. Certo, non si
tratta di dimostrarlo, ché la sua natura assiomatica lo rende evidente, ma
piuttosto di evidenziare il fatto che, se esso non fosse vero, non potrebbe
esistere alcun discorso coerente e fondato, nessuna metafisica, nessuna
filosofia e nemmeno pensiero. Forse, ci dice Aristotele poche righe dopo,
criticando con aspra superiorità Eraclito ed Anassimandro, se non vi fosse
quella certezza che decisa e perentoria esclude il Terzo, non potrebbe
esistere nemmeno un mondo, poiché ogni cosa sarebbe tanto vera quanto
falsa, tutte le cose sarebbe dunque mescolate e nulla sarebbe fondato e
possibile. Nulla sarebbe infine reale. Bisogna riconoscere che senza il
Principio del Terzo escluso ogni gesto, pensiero ed esistere umano sarebbe
assai complicato, perché l’indeterminazione, l’incertezza, l’equivoco
si impadronirebbero di ogni cosa e di ognuno. Ma, altrettanto, si deve
riconoscere che quel vuoto beante di equivocità sembra attrarre come il
vortice che rimescola ogni elemento, come una spirale che riavvolgendosi
muta costantemente il segno, la direzione, fino ad assumere tutti i segni
ed ogni direzione. Nessuna meraviglia, dunque, che di fronte al Terzo
escluso per tanti secoli si sia raccolta tanta timorosa reverenza, quella
della necessità di fondare la parola e la vita del mondo nel quale viene
pronunciata, quanta esuberante sfida, quella della ricerca di un’altra parola
capace di dare altre risposte al mondo che la ospita. Non è intenzione di
queste pagine né di ripercorrere la storia di questa infinita disputa (che
finora è stata vinta da Aristotele, con l’aiuto fondamentale della maggior
parte dei pensatori che lo hanno succeduto), né di assumere un partito
e di tentare l’ennesima rifondazione (della) logica. Nessuna metafisica
seconda né visioni del mondo: ciò che si intende qui proporre è soltanto,
e più umilmente, un modello di lettura, uno schema di visione, una lente
per guardare un poco meglio da vicino e insieme con più attenzione da
lontano. Accettando, preliminarmente, l’equivocità di un Terzo che possa
anche essere dato. Insomma: un approccio metodico, prudente, come un
provare a vedere che cosa accade se il Terzo è dato, se mai si possano
aprire degli interstizi tra le ragioni della perentoria opposizione, nei quali
scovare qualche indizio di mondo, anche soltanto un filo arianneo che
possa condurre il qualche luogo – regione, mondo, spazio/tempo – nel
quale il Terzo possa albergare.
Ma che forma potrebbe avere questo Terzo? Quella di un ambito
logico, di una possibilità di negazione sia dell’uno sia dell’altro dei
1011 b, 22-24; 1011 b, 26-30; 1012 a, 7-9, 10, 12-15; Laterza, Roma Bari 1982].
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Introduzione
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Stefano Bevacqua
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Introduzione
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Stefano Bevacqua
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PRELUDIO
SOCRATE
La cessazione della vita
Inversione crono-logica, nel tempo e del senso. Iniziare dalla fine, non
per effettuare un percorso a ritroso, bensì perché la fine si impone come
necessità e, quindi, come passaggio obbligato. E i passaggi obbligati
non stanno mai al termine dei percorsi, ma al loro debutto, come prova il
cui superamento è necessario per accedere al sentiero, al cammino; non,
dunque, ad un percorso, che è un participio passato, già fatto, già corso
e per intero, totalmente, senza lasciare alcun avanzo. Prova iniziatica,
come un primo capitolo. Prova iniziatica perché l’idea di discutere del
luogo dei confini, inteso come quello spazio e quel tempo che separa un
al di qua dal suo necessario al di là, propone mille pericoli e arditezze e
le prime pagine sono quelle che permettono di accedere al contenuto –
porta di accesso, soglia oltre la quale inizia il cammino. Prova iniziatica,
in quanto il confine più difficile da discutere, nel quale la definizione
del luogo in cui esso si giustifica appare impossibile, misterioso perché
definitivo, la cui conoscenza ed esperienza è per definizione non
riferibile, il confine che coincide con la cessazione della vita, che il
senso comune avrebbe suggerito di collocare nelle ultime pagine, si è
imposto in maniera brutale, immediatamente, come dicendo che prima
di discutere degli infiniti possibili confini che costellano il mondo, è
necessario pensare l’ultimo, anche se non riferibile e così arcano e
terribile, oggetto di interminabile angoscia, inevitabile, inrinviabile,
che sgomenta e stordisce. Forse proprio per questo non esiste – perché
forse non può esistere – una filosofia della morte, ma soltanto una
filosofia che in qualche peraltro rara occasione si è limitata a parlare
della morte, prevalentemente liquidata come quell’evento nel quale
l’anima si separa dal corpo, oppure scandagliata meticolosamente, come
nell’affresco tracciato da Vladimir Janckélévitch, il quale ha analizzato
la sua struttura, con un prima, riferibile, un poi, teologizzabile, ed un
durante, temporalmente e materialmente indicibile:
Anche Janckélévitc, che pure è stato uno dei pensatori che con
maggiore attenzione ha riflettuto sul fatto della morte, riuscendo a
districarsi dalla presa che conduce sempre a pensare al suo significato
invece che alla sua essenza, sembra non cogliere alcuna possibilità di
ampiezza nella morte, quel luogo in cui essa si dispiega. La difficoltà,
che a prima vista era parsa insormontabile, risiede proprio nella
temporalità indicibile del durante, perché il luogo che si intende qui
cercare all’interno di ogni confine, quello spazio o tempo che permane
tra un al di qua ed il suo al di là, può in questo caso essere soltanto
fantasticato, ma non ipotizzato né, tanto meno, pensato o ancora meno
esperito. Nel confine che separa la vita da ciò che potrebbe esserci
oltre di essa esiste necessariamente un luogo, ma forse è soltanto
una contrazione di tempo, infinitamente piccola, così infinitesima da
ridursi ad un indicibile frazionario, un istante puntuale, un quasi niente,
anzi: un nulla. Il tempo non si presta ad una geometrizzazione di
stampo euclideo, non esiste un punto temporale. Certo, anche il punto
spaziale è un’astrazione – che sfiora il paradosso quando si pensi che
il punto non ha alcuna dimensione e che il suo rapporto con lo spazio
si esaurisce totalmente nella fissazione del suo luogo – ma riesce ad
essere intuibile, maneggiabile, comprensibile. L’istante, il tempo che ha
una durata che tende a zero, questo tempo del momento o momento di
tempo, invece, non si lascia comprendere, perché non ha alcuno spazio
in cui avere un luogo, ma soltanto una linea, quella del tempo, cioè
di sé medesimo, che a sua volta scorre inesorabile. Si può pensare ad
un punto che sia collocato in uno spazio, ma non si può pensare ad un
istante che immediatamente viene sostituito dall’istante successivo e
che si colloca, anzi, no, ormai occorre dire: si collocava, in un luogo
temporale che si allontana continuamente, dunque negandosi, facendosi
schermo con l’infinità di istanti che lo succedono. Dunque non si
riesce a pensare il momento della morte, non soltanto perché la sua
inesorabile ultimatività ed irreversibilità impedisce ogni topografia per
2. V. Janckélévitch, La mort, Flammarion, Paris 1977, pp. 244-245.
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lasciare campo libero alla sola teologia, ma anche perché non è dato di
pensare il momento come tale se non come una estrema compressione
del tempo definibile soltanto con il linguaggio della matematica e che,
quindi, non può contenere alcun luogo. Nessuno spazio e nessun tempo
possono insistere in un momento infinitamente contratto, in questa sorta
di big bang all’inverso, di implosione in cui tutto il tempo precedente
annichilisce.
Nemmeno la discussione di carattere etico-scientifico è riuscita a
circoscrivere e descrivere un qualche cosa che potesse assomigliare ad
un luogo nel quale si possa pensare il confine tra l’al di qua della vita e
ciò che la succede. La stessa definizione di morte è stata oggetto di un
lungo dibattito che in Italia ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta
del secolo scorso coinvolgendo medici, biologi, psicologi, antropologi,
filosofi, teologi. Questione difficile, infatti. Difficile è districarsi tra i
diversi aspetti di natura etico-biologica che continuamente emergono e
riemergono non appena si tenta di cogliere una chiarezza. Perché c’è un
morire di natura biologica ed una morte che può essere cardiopolmonare
oppure cerebrale, e quella cerebrale può riguardare la sola corteccia
cerebrale oppure l’intero encefalo. Per morire si intende il “processo
evolutivo che colpisce gradualmente le cellule dei diversi tessuti e le
relative strutture subcellulari sulla base della loro differente resistenza
alla carenza d’ossigeno”3. Un morire dunque protratto nel tempo, ma
che sembra svolgersi essenzialmente in un luogo che è già oltre la vita,
poiché se anche il corpo stesse già corrompendosi così gravemente
da indicare l’irreversibilità del termine vitale, sempre e comunque si
sarebbe ancora in un quadro prognostico e niente affatto diagnostico e
dunque ben lontani dal luogo del confine ultimo del vitale che si vorrebbe
qui mettere a fuoco. Occorre dunque fare un passo all’indietro, verso
una definizione di morte che possa avvicinarsi maggiormente all’istante
dell’irreversione, al momento nel quale, secondo la concezione più
antica, l’anima ed il corpo si separano, lasciando quest’ultimo ad un più
meschino destino. Occorre allontanarsi dalla corruzione del corpo, che
è già un dopo, un oltre il confine che si cerca di disegnare per indagarlo
e poterlo così riferire, per fermarsi un poco prima, al momento in cui
qualche cosa appare come limite insondato, sottile barriera dalla quale
potersi sporgere, protendere, per cogliere l’opaca idea di ciò che essa
nasconde, non attraverso un celare, come un riporre al di sotto, un non
fare emergere in superficie, schiacciando sotto un peso, bensì attraverso
uno schermare, un velare, come il porsi tra il qua ed un là, come un velo
3. Comitato nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte nell’uomo,
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1991.
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coordinatrice del tronco encefalico. In ogni caso, queste ultime due tesi sono
abbastanza diverse dal punto di vista della diagnosi della morte clinica.7
Così come il corpo non è subito condotto alla sua ultima dimora, l’anima
non arriva alla sua destinazione definitiva immediatamente dopo la morte.
Bisogna che prima si compia una sorta di tirocinio, durante il quale essa
rimane sulla terra, nei dintorni del cadavere, errando nella foresta oppure
frequentando i luoghi che abitava quando era nel corpo vivente: soltanto al
termine di questo periodo, durante le seconde esequie, essa potrà, grazie ad
una speciale cerimonia, entrare nel paese dei morti. [...] L’anima non rompe
mai d’un colpo i legami che la collegano al suo corpo e la trattengono sulla
terra. Per tutto il tempo che dura la sepoltura temporanea del cadavere, il
morto continua ad appartenere esclusivamente al mondo che ha appena
lasciato. [...] Durante tutto questo periodo, il morto è considerato come se
non avesse ancora terminato completamente la sua vita terrestre.11
Durante il lutto, per tutti coloro che ne sono colpiti, la vita sociale subisce
un’interruzione la cui durata dipende: 1) dal legame naturale più o meno
stretto con il defunto; 2) dalla condizione sociale più o meno elevata del
morto. Se il defunto era un capo, questa sospensione colpisce la società
intera. [...] Sono convinti che i morti vadano nel regno delle anime soltanto
se spogliati della carne.12
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avviene. Non ci si vuole qui riferire alla situazione nella quale una
persona decida deliberatamente di porre fine alla propria esistenza, né
a quella di colui che fosse condannato a pagare con la propria vita per
i crimini commessi. Il luogo della cessazione della vita, in entrambi i
casi, sarebbe infatti penetrato dalla disperazione che muove verso la
soluzione drastica e irreversibile del proprio dolore oppure dall’attesa
dell’inevitabile. In entrambi i casi un velo di speranza troverebbe sempre
una sua possibilità: nel primo caso, sotto forma di quel messaggio che
il porre fine alla propria esistenza sempre implica; nel secondo caso,
sotto forma di un ravvedimento, di un intervento estremo. Ancor meno
ci si potrebbe riferire a colui che fosse condannato a perire per una
malattia sicuramente letale, nel qual caso la speranza sarebbe la vera,
magari inconfessata, protagonista dello spazio della cessazione della
vita. Per potersi porre in un simile spazio, al fine di indagarlo e trarne
conoscenza – e non più soltanto credenza – servirebbe un caso nel quale
non vi sia alcuna speranza, ma nemmeno rassegnazione, nel quale la
cessazione della vita fosse una certezza imminente e soltanto sospesa
nel tempo in funzione di un preciso evento, il quale, nel suo accadere
determinerà il termine dell’attesa, nel quale vi fosse anche un elemento
di deliberazione propria, ma non un desiderare la cessazione della
propria vita – come nel caso di colui che intende arrestare la propria
esistenza – ma piuttosto l’agire affinché ciò avvenga per mano di altri.
È il luogo della morte di Socrate.
Platone impiega quattro distinti dialoghi per disegnare e riferire
questo luogo: Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone. Questi
scritti costituiscono la prima delle nove tetralogie nelle quali Trasillo
suddivise l’insieme degli scritti platonici.14 Si ritiene che, con tutta
probabilità, il Fedone appartenga all’età più matura di Platone. Giovanni
Reale lo colloca, infatti, intorno alla metà degli anni Settanta del IV
secolo avanti Cristo, quando Platone aveva ormai quasi sessant’anni
(era nato nel 427 a. C.), mentre i primi tre dialoghi che riferiscono
direttamente del processo celebrato contro Socrate e della sua condanna
a morte si ritiene siano stati redatti tra il 399 ed il 388 a. C.15 La cosa
non sorprende affatto, nella misura in cui il Fedone è dedicato ad uno
dei temi di più ardua discussione che mai la filosofia antica – ed invero
anche quella successiva – abbia affrontato, il tema dell’anima, ma dice
anche che in quelle pagine pesano i trent’anni che separano ormai
Platone dalla scomparsa del suo maestro, avvenuta nel 399 a. C., anni
���. G. Reale, introduzione e commento a Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano
2000, p. LXII.
15. Ivi p. LXV.
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Stefano Bevacqua
Avere paura della morte, o cittadini, non significa altro che credere di
essere un sapiente, mentre in realtà non lo si è: infatti, è un credere di
sapere cose che non si sanno. In effetti, nessuno sa che cosa sia la morte
e se essa non si trovi ad essere per l’uomo il maggiore di tutti i beni; e
invece gli uomini ne hanno paura, come se sapessero bene che essa è il più
grande dei mali. E questa non è forse ignoranza, e anzi la più riprovevole,
l’essere convinti di sapere le cose che invece non si sanno? Io, o cittadini,
appunto per questo e in questo sono forse diverso da molti degli uomini. E
se potessi dire di essere più sapiente di qualcuno in qualche cosa sarebbe
proprio in questo, ossia che, non sapendo a sufficienza per quanto concerne
le cose dell’Ade, sono anche convinto di non saperle.17
cosa: “Socrate, componi e pratica musica!”. E io, per il passato, ritenni che
il sogno mi stimolasse e mi spronasse a fare quello che già stavo facendo.
E come coloro che incoraggiano quelli che corrono, così io credevo che il
sogno mi volesse incoraggiare a fare quello che facevo, cioè a fare quella
musica che già facevo, in quanto la filosofia è la musica più grande. Ma
dopo che il processo ha avuto luogo e la festa del dio ha differito la mia
morte, mi parve opportuno, nel caso che il sogno mi comandasse di fare
proprio questa musica nel senso comune del termine, di non disubbidirgli
e di farla, perché era più sicuro non andarmene prima di essermi liberato
dallo scrupolo, facendo poesie e ubbidendo a quel sogno.20
quel momento cantano tuttavia i loro canti più lunghi e più belli, pieni di
gioia, perché stanno per andare presso quel dio del quale sono ministri.
[...] Ma a me pare che i cigni non cantino per sfogare il loro dolore. E,
anzi, credo, i cigni, poiché sono sacri ad Apollo, sono indovini; e, avendo
la visione dei beni dell’Ade, nel giorno della loro morte cantano e si
rallegrano, più che nel tempo passato. Ora, anch’io mi ritengo compagno
dei cigni nel loro servizio, e sacro al medesimo dio, e ritengo di avere
avuto da dio il dono della divinazione non meno di essi, e, quindi, di dover
andarmene da questa vita non più tristemente di loro.23
E già le parti del suo corpo attorno al ventre erano pressoché fredde,
quando, scoprendosi, perché prima si era coperto, disse queste parole, e
furono le ultime sue: “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo,
non dimenticatevene!”. “Sarà fatto – disse Critone – ma vedi se hai qualche
altra cosa da dire”. E a questa domanda egli non rispose più nulla. Dopo un
poco ebbe come un sussulto, e l’uomo lo coprì. Gli occhi gli erano rimasti
aperti, e Critone, vedendo questo, gli chiuse la bocca e gli occhi.24
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Nel confine
il testo del Fedone. Tra i due scritti corrono forse più di 25 anni, un
tempo sufficiente per lasciar emergere lo sforzo di Platone volto a non
attribuire quasi alcuna concretezza terrena al luogo della cessazione
della vita di Socrate, come fosse soltanto luogo di attesa di una vita
ulteriore. Ma sembra emergere anche l’insopprimibile dubbio che il
maestro, in realtà, abbia vissuto questo suo luogo della fine con tutta
l’ansia dovuta da qualsiasi mortale, attraversata dalla reverenza verso
il dio, dall’attenzione nel comportarsi come dovuto – il comporre i
versi dell’inno di Apollo – e dalla speranza che questo canto sia come
quello del cigno, l’ultimo e il più bello proprio perché detto un istante
prima di avvicinarsi all’Ade. Socrate non ebbe timore nel veder cessare
la propria esistenza, ma riempì il luogo dell’evento che attendeva da
trenta giorni attraverso la sua ultima riflessione, tutta dedicata alla
chiarezza su quello che poteva attenderlo, ma senza alcuna certezza,
senza conoscenza, soltanto con la credenza. Credenza fondata sulla
dimostrazione filosofica, certo, ma poiché essa proviene da un uomo, lo
stesso Socrate, che è mortale e, soprattutto, che ammette di non sapere
ciò che non può sapere, questa dimostrazione risulta insufficiente, così
come lo è la vita materiale di chi la proferisce. La dimostrazione si
trasforma in credenza, la quale, in quanto tale, è incerta ed apre la porta
al dubbio, al sottile velo che ricorda la possibilità che ciò che appare
come esistente non sia, che il momento tanto atteso dal maestro che si
avvia a bere il veleno fatale sia diverso dal creduto. Robert Musil, forse,
pensava a Socrate quando, nel 1916, lungo la valle del Brenta, udendo
il brontolio lontano dei cannoneggiamenti che tentavano di disfare le
trincee italiane, scriveva:
Si crede sempre che quando si è faccia a faccia con la morte si goda più
follemente la vita, la si beva più pienamente. Non è così. Si è semplicemente
liberi da un impedimento, come da un ginocchio rigido o da uno zaino
pesante. Dall’impedimento del voler essere vivi, dall’orrore della morte.
Non si è più in ceppi. Si è liberi. Si è meravigliosamente padroni.25
TESEO
Pieghe, ripiegamenti, labirinti
Erano cinque gli strati di questo scudo; e su di esso | tracciava molte figure
con arte sapiente. | Vi scolpì la terra ed il cielo ed il mare, | il sole che mai
non si smorza, la luna nel pieno splendore, | e tutte le costellazioni, di cui
s’incorona il cielo, | le Pleiadi, le Iadi, la forza d’Orione.26
Poi disegnò una pista di danza, lo sciancato abilissimo, | simile a quella che
nella grande città di Cnosso | Dedalo fece per Arianna dalla bella chioma.
| Vi danzavano giovani e fanciulle desiderabili, | al polso gli uni alle altre
tenendo la mano. | Queste avevano vesti sottili di lino, quelli indossavano |
chitoni ben lavorati, ancora brillanti d’olio; | le une portavano belle corone,
gli altri avevano | spade d’oro appese a cinturoni d’argento. | Talvolta con
piede esperto giravano su se stessi | agilmente, come quando la ruota
girevole tra le sue mani | il vasai prova seduto, per vedere se scorre; | altre
volte in fila si venivano incontro tra loro. | Molta folla era intorno al bel
coro | e ne godeva; tra loro due acrobati, | aprendo la danza, piroettavano
al centro.27
Ben noto è quanto pregnante fosse nella cultura greca arcaica, così
come in ogni popolazione del passato, la funzione della danza rituale,
e soltanto questa considerazione permette di intuire per quale motivo
Omero dedichi tanta attenzione e dettaglio nella descrizione di questi
minuti particolari dell’ornamento dello scudo di Achille. Verrebbe da
immaginare che la sua funzione materiale, di difesa contro l’offesa,
derivasse più dal perfetto equilibrio tra gli elementi rappresentati
che dalla sua effettiva capacità di raccogliere e neutralizzare il filo
della spada nemica. E, di fatti, è proprio così, perché, altrimenti, non
si spiegherebbe il rispetto rigoroso del dualismo che porta il poeta a
individuare anche nella danza finale, quella rappresentata nel quarto
cerchio, un riferimento che permetta di leggere un’alternativa, quella
tra un acrobata e l’altro e tra gli acrobati e i danzatori e quella tra i due
gruppi di danzatori e gli stessi acrobati, in perfetta analogia agli eventi
che attraversano le due città e alle quattro attività dedicate alla terra ed
agli animali. Ecco che il primo ed il quarto cerchio quasi si riflettono,
laddove la danza in cerchio e poi gli uni di fronte agli altri sembra
mimare quella degli astri nel cielo. I conti tornano, perfetta armonia: il
labirinto che Minosse fece costruire da Dedalo a Cnosso per rinchiudervi
il Minotauro era disegnato dal lieve danzare delle sette fanciulle e dei
sette ragazzi che ripercorrevano il disegno tracciato in cielo dai pianeti
e dalle stelle. Non è dato sapere se Dedalo costruì il labirinto di Cnosso
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. Ivi, 490-496, p. 985.
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. Ivi, 561-572, p. 991
37
Stefano Bevacqua
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Nel confine
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. La spiegazione dettagliata del meccanismo attraverso il quale questa danza disegna il
labirinto può essere colta con precisione nel lavoro di J. Hébert, Le labyrinthe médiéval,
www.labyreims.com. Nel sito è disponibile anche un’animazione virtuale che spiega in
dettaglio la logica dei movimenti di ripiegamento e avvolgimento dei danzatori.
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. La discussione sull’origine del labirinto è interminabile e terribilmente poco
importante. Interessa il suo essere un elemento che appartiene da forse più di trenta secoli
alla tradizione e alla cultura occidentale e non soltanto occidentale.
���.J. Hébert, Le labyrinthe, cit.
39
Stefano Bevacqua
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Stefano Bevacqua
Attraversai ponte dei Ferali e per la marzeria San Zulian giunsi nel
campo attiguo. Ero in ritardo, ma sapevo di essere vicinissimo alla calle
della Passion. La volta precedente l’avevo raggiunta venendo da San
Marco e passando per il ponte de l’Anzolo. Questa volta avrei dovuto
pervenirvi attraverso il ponte de la Guerra, che sapevo adiacente alla
chiesa di San Zulian; ma invece di imboccare il piccolo ramo, quella
sera a me invisibile, che congiunge il campiello con la calle San Zulian,
proseguii per un breve tratto lungo la piscina San Zulian e girai a destra
nella calle. Tutto pareva irrevocabile. Per attraversare velocemente
il rio entrai nella prima via a sinistra, percorsi il sottoportego, la calle
e il ponte Balbi e giunsi nella calle Sant’Antonio. Svoltai a sinistra e
finii nella calle e quindi nella corte dei Boteri: un vicolo cieco. Non ero
mai stato in quei luoghi; intuii che dovevo andare a destra; entrai nel
sottoportego, poi nel ramo e finii nella corte Sant’Antonio, chiusa su
tutti i lati, senza uscita. Avevo compiuto due errori consecutivi. Decisi
di proseguire seguendo una linea retta; superata la salizada San Lio mi
infilai nel sottoportego Veniera e giunsi nella corte; anch’essa vicolo
cieco. Oramai non commettevo che errori. Tornai indietro; non sapevo
più riconoscere quale fosse la destra, quale la sinistra. Ogni calle finiva
in un bivio e la scelta, non riuscendo a divenire cosciente, era sempre
più automatica. Il Leitmotiv dell’Errore non risonava più; era svanito
lasciandomi in un silenzio totale che evocava sensazioni di vuoto.37
���.G. Sinopoli, Parsifal a Venezia, Consorzio Venezia Nuova, Venezia 1991, p. 13.
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. Ivi, pp. 17-18.
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Nel confine
Nel labirinto, dunque si erra nel doppio significato del termine, quello
dello sbaglio, che si compie nel tentativo di districarsi tra i meandri e le
circonvoluzioni, le pieghe e le riaperture, e quello del muoversi senza
conoscere il proprio futuro, essendo il passo successivo lasciato al caso.
Il Maestro lo riferisce in piena consapevolezza: quel momento in cui ha
smesso di sapere dove andava, nel quale ogni decisione è stata guidata
dall’istinto o dal caso – forse solo dal caso, alla fine, prima che gli si
rivelasse finalmente l’uscita dal labirinto, definita come una nascita o
una ri-nascita, corroborata dall’emergere del giorno.
Le vie di questa città non hanno nome. [...] Questa obliterazione domiciliare
sembra scomodo a coloro (come noi) abituati a decretare che ciò che è più
���.F. La Cecla, Perdersi, cit. p. 91.
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pratico è anche sempre più razionale (principio in virtù del quale il miglior
toponimo urbano sarebbe quello delle strade numerate, come negli Stati
Uniti o a Kyoto, città cinese). Tokyo ci ricorda peraltro che la razionalità
non è altro che un sistema tra gli altri. Per dominare una realtà (in questo
caso, quella degli indirizzi), è sufficiente che ci sia un sistema, fosse anche
apparentemente illogico e complicato [...]. L’anonimato è supplito da
un certo numero di espedienti (o, almeno, è così che ci appaiono), la cui
combinazione forma un sistema.41
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deriva sempre da un’altra piega, almeno all’interno dei uno stesso tipo di
organizzazione: ogni piega viene da una piega, plica ex plica.42
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SIGNOR SIGNORE
Il mondo incantato
Non vedo dunque nulla che ci impedisca di arrivare un giorno ai più sicuri
e solidi princìpi della religione, a queste virtù tradizionali che vogliono
che l’avarizia sia un vizio, la pratica dell’usura un delitto, e l’amore per il
denaro disprezzabile. [...] Ma diffidate! Quel tempo non è ancora venuto.
Almeno cento anni dovremo ancora trascorrere guardando in volto noi
stessi e tra noi tutti perché, come dicono le streghe di Macbeth, ciò che è
brutto è bello, poiché ciò che brutto è utile e ciò che è bello non lo è affatto.
L’avarizia, l’usura e la sfiducia sono dei che dovremo conservare ancora
un momento. Poiché essi soli possono guidarci attraverso il tunnel delle
necessità economiche, verso la luce.49
svolge, appunto, nella metà fatata del mondo attraversato dal racconto,
che appare speculare all’altra metà, quella reale, ma senza essere in
reale contraddizione: le stesse regole sembrano infatti valere sia di qua
sia di là, rendendo estraniante anche l’al di qua, irreale quanto basta
per consentire una costante inversione di ruoli, persone e situazioni che
non si manifesti mai con un salto, una rottura. Non c’è un vero confine,
tra mondo reale e mondo fatato, piuttosto un luogo, assai vasto nello
spazio e nel tempo, nel quale le due possibilità che Carroll presenta
si congiungono mischiandosi. Un luogo nel quale il senso assume un
carattere del tutto particolare, quasi una caricatura, ironica riflessione
di quel che ci si potrebbe attendere e che non accade. Racconta Carroll:
“È soltanto il sarto, Signore, con il suo conticino,” disse una voce flebile
fuori dalla porta. “Ah, bene, se aspettate un minuto sistemerò subito questa
faccenda,” disse il professore ai bambini. “Quanto devo, quest’anno,
buonuomo?”. Il sarto era entrato, mentre lui parlava. “Vede, si è andato
raddoppiando per tanti anni, capisce,” replicò il sarto un po’ bruscamente,
“che vorrei il denaro subito. Sono duemila sterline, proprio così!”. “Ho,
ma non è nulla!”, replicò con noncuranza il Professore tastandosi le tasche
come se si portasse sempre dietro, come minimo, quella somma. “Ma non
vorrebbe aspettare un altro anno e farle diventare quattromila? Immagini
quanto diventerebbe ricco! Potrebbe essere un Re, se lo volesse!”. “Non
sono sicuro che mi piacerebbe essere un Re,” replicò l’uomo con aria
pensosa. “Ma, certo, sarebbe una gran bella somma di denaro! Sì, credo
che aspetterò...”. “Ma certo che lo farà,” disse il Professore. “Vedo che è
una persona di buon senso. E buona giornata a lei, brav’uomo!”. “Gliele
dovrà pagare mai, quelle quattromila sterline?”, chiese Sylvie mentre
la porta si chiudeva alle spalle del creditore che usciva. “Mai! ragazza
mia!”, replicò con enfasi il Professore. “Continuerà a raddoppiarle fino
alla morte. Vedi, vale sempre la pena aspettare un altro anno per avere il
doppio della somma!”.50
66
Nel confine
del racconto del matematico di Oxford produce, come del resto anche
le sue altre e precedenti opere, un senso quasi di disagio, per questa
indecidibilità di ogni cosa la quale, sdoppiandosi, propone al lettore
una sempre ulteriore possibilità, allontanandolo ogni volta da ciò che
aveva creduto ormai sapere, come sfilandogli dalla tasca il portafoglio
delle certezze. Ma da questo a compiere il passo per cui il meccanismo
narrativo di Carroll sarebbe quasi una sorta di affresco della schizofrenia
corre troppa distanza, facendo confondere tra l’astuzia, l’ironia, il gioco
e la pervicacia di un disegno discorsivo volto a generare quello stesso
disagio. Scrive Deleuze:
Niente passeggiate sui bordi, per Artaud, niente luogo ai margini, nei
pressi, né di qua né di là, niente agibilità terza. Artaud eredita, nella
sua malattia amplificata da una psichiatria da macello, l’idea che non
possa esistere alcuna terzietà in cui dimorare: sani o folli, e basta, per
Artaud, e tanto vale infatti anche per il linguaggio, che non può e non
deve essere allusivo, perché se la parola smette di avere anche un senso
è per perderlo, non per acquisirne una molteplicità nell’equivocità
dell’allusione. Artaud non può tradurre Jabberwocky perché non può
leggere l’equivocità della superficie. Scrive Deleuze:
In Sylvie e Bruno, la tecnica del passaggio dal reale al sogno, e dal corpo
all’incorporeo, è moltiplicata, completamente rinnovata, portata alla
perfezione. Ma è sempre costeggiando la superficie, il confine, che si
passa dall’altra parte, attraverso ed in virtù di una spira. La continuità del
rovescio e del diritto sostituisce ogni riferimento della profondità; e gli
effetti di superficie in un solo e medesimo Evento, che vale per tutti gli
eventi fanno emergere nel linguaggio tutto il divenire e i suoi paradossi.
Come dice Lewis Carroll in un articolo intitolato The dynamics of parti-
cle, “Superficie piana è il carattere di un discorso...”.58
viaggi che Signor Signore compie a Elveston, in ciascuna delle due parti
in cui si separa la fiaba di Carroll.
Nulla o quasi viene svelato sul narratore, eppure senza di lui non
esisterebbe alcuna narrazione. Non è noto il suo nome: nessuno degli
altri personaggi mai lo nomina, come se fosse risaputo anche al lettore,
oppure non fosse necessario, perché egli è ognuno, è l’autore medesimo,
il matematico di Oxford. Soltanto il piccolo Bruno, il fratellino adorato
di Sylvie, lo chiama, appunto, Signor Signore.
“Giatinti?59”, disse Bruno. “Oh, ma quelli sono così carini! E le pietre non
lo sono per niente. Ti piacerebbero dei giatinti, Signor Signore?”. “Bruno!”,
mormorò Sylvie in tono di rimprovero. “Non devi dire Signore e Signore
insieme. Ricordati quello che ti ho detto!”. “Mi hai diciato che dovevo
dire quel Signore quando parlavo di lui, e Signore quando gli parlavo!”.
“Non stai facendo nessuna delle due cose”. “Ma sì che le sto facendo tutte
e due, Signorina Pignola!”, spiegò Bruno trionfante. “Vo-evo parlare del
Signore... e vo-evo parlare al Signore, per cui ho detto Signor Signore!”.
“Va bene così, Bruno”, dissi.60
mondo fatto dalla carta sul quale è stata stampata ogni copia di Sylvie e
Bruno e quell’altro mondo, quello fatato. Sempre in bilico tra la veglia
ed il sogno, tra una veglia continuamente imbevuta di magia ed un
sogno che sfida la realtà a farsi riconoscere differente. Accade così al
Signor Signore di attraversare il bosco e di incontrare nuovamente i due
Bambini Fatati per ripetere poi la stessa esperienza con Muriel e gli
altri ospiti del Conte. È il percorso a descrivere gli eventi, a risvegliare
ricordi e ad indurre nuovi eventi.
“Questa radura”, mi dissi, “sembra risvegliare dei ricordi che non riesco a
rammentare distintamente... ma certo! È proprio il punto dove incontrai i
Bambini Fatati!”. “Speriamo che non ci siano in giro serpenti!”, pensai ad
alta voce, sedendomi su un tronco caduto. “I serpenti non mi piacciono di
certo... e credo che non piacciano neanche a Bruno”. “No, non gli piacciono
affatto”, disse una timida vocina al mio fianco. “Non ha paura di loro, sa,
ma non gli piacciono. Dice che sono troppo dinoccolati”. [...] “Troppo
dinoccolati?”, fu tutto quello che riuscii a dire in un momento simile. “Non
sono un pignolo”, disse Bruno con noncuranza, “ma preferisco gli animali
dritti”.63
“Non gli piacciono i serpenti!”, disse [Muriel riferendosi al padre, nda] con
un bisbiglio teatrale. “Non vi sembra un’avversione ingiustificata? Come
si fa a non amare delle creature così care, affezionate, che ti costringono,
ti si aggrappano, come i serpenti?”. “Non amare i serpenti!”, esclamai io.
“Ma come è possibile?”. “No, lui non li ama”, ripeté con una graziosa
finta serietà. “Non che abbia paura di loro, ma non gli piacciono. Dice che
sono troppo dinoccolati!”. Rimasi più sorpreso di quanto dessi a vedere.
C’era qualcosa di così soprannaturale in questa eco delle parole udite tanto
recentemente dalla bocca di quello spiritello della foresta.64
“Potrei disturbarla, Signore, per chiederle qual è la strada più breve per
l’Ultra-Paese?”. Nonostante la bizzarria delle apparenze, in virtù di quella
natura essenziale che nessun travestimento esterno può celare, il Professore
era un vero gentiluomo. E come tale, Eric Lindon lo accettò all’istante. Si
tolse il sigaro di bocca e delicatamente scrollò la cenere, meditabondo: “Il
nome mi rimane nuovo”, disse. “Dubito di potervi aiutare”. [...] Ormai ero
convinto che Eric Lindon non fosse cosciente della mia presenza. Anche
il Professore e i bambini sembrava mi avessero perso di vista; così rimasi
in mezzo al gruppo insospettato, come uno spettro, vedendo senza essere
veduto. [...] Lasciato a me stesso, sentii la solita sensazione “magica”
scorrermi nelle vene e vidi, davanti alla porta Numero Venti, le tre note
figure. “Allora è sbagliata la casa?”, diceva Bruno. “No no; la casa è
giusta”, replicò allegramente il Professore. “Ma è la strada che è sbagliata.
È questo lo sbaglio che abbiamo fatto! Il piano migliore, adesso, è di...”.
Finito. La strada era vuota. La banale vita mi circondava di nuovo, e la
sensazione “magica” era fuggita via.65
77
Stefano Bevacqua
Riunione che avviene anche per i Bambini Fatati proprio con i loro
omologhi, Muriel e Arthur, nei salotti del Palazzo, quando Sylvie fa
comparire tra gli spartiti pronti per essere suonati da Muriel una pagina
vergata di una musica anch’essa fatata. Muriel scivola dalla panchetta
per far posto a Sylvie; la piccola si schernisce, ha gli occhi gonfi di
lacrime per l’emozione, non vorrebbe, ma prende il sopravvento “la
grande dolcezza del suo carattere: capii che era decisa a dimenticare
sé stessa e a fare del suo meglio per compiacere Lady Muriel”67. Le
minuscole dita della piccola volano sui tasti con una leggerezza che
nessuno poteva aver mai conosciuto.
Sylvie si allontana, Bruno si eclissa. Rimane Mein Herr, tra gli altri
convitati; lui, oscuro personaggio omologo del Professore che abita nel
mondo incantato, era assorto in un interminabile dialogo con Bruno, a
proposito dello straordinario paese ove egli ha viaggiato. Mein Herr,
Mio Signore senza il nome che dica quale Signore egli sia, come un
nome e cognome cancellati dal duplice esortativo-appellativo che si
conclude in sé stesso, viene dal paese in cui ha viaggiato, che potrebbe
essere vicino o lontano; le cose fantastiche di cui racconta non sono
accadute in un luogo che si possa ritrovare e riconoscere, sono cose
che avvengono nel paese che egli viaggia, che si situa al di là di questo
luogo che è già abitato tanto da un di qua, quanto da un al di là; è
un ulteriore luogo, misterioso, come una propaggine di differenza che
si propaga nel mondo reale. Mein Herr, dotato di una grande chioma
bianca che si chiude su una barba fluente e che circonda due enormi
occhi fiammeggianti, non potrebbe dunque che riferire eventi e cose
differenti da quelle che si possono anche soltanto immaginare; eventi
di un altro mondo, che qui aleggiano tra le distinte dame e gentiluomini
convenuti a Palazzo con la più assoluta naturalezza. Come se un
67. Ivi, p. 294.
68. Ivi, p. 295.
78
Nel confine
79
Stefano Bevacqua
“Per prima cosa”, disse Mein Herr, impossessandosi di due fazzoletti che
mise uno sull’altro, dispiegati, sollevandoli poi per i due pizzi, “per prima
cosa bisogna unire questi angoli superiori, il destro con il destro, il sinistro
con il sinistro, e l’apertura in mezzo sarà la bocca del borsellino”. [...]
“Ne rovesci uno, e ne unisca l’angolo inferiore destro con quello inferiore
sinistro dell’altro, e cucia insieme i lati inferiori in quella che si potrebbe
chiamare la maniera sbagliata”. [...] “Il contorno dell’apertura è formato
dai quattro bordi dei fazzoletti e può seguire ininterrottamente il tracciato
tutt’intorno all’apertura, giù per il lato destro di un fazzoletto, su per il
lato sinistro dell’altro, e poi giù per il lato sinistro dell’uno e su per il lato
destro dell’altro!”. [...] “Ho capito”, interruppe con foga Lady Muriel, “la
sua superficie esterna sarà in continuità con quella interna!”. [...] “Ogni
cosa [dice Mein Herr, nda] che è dentro la borsa è anche fuori, e tutto ciò
che è fuori è dentro. Così in quella piccola borsa avrà tutta la ricchezza del
mondo!”.69
ERACLE
Linee d’acqua e confini ideali
proietta sul mare diritto davanti a sé, ritti in piedi a contemplare le acque
di Otranto, dal punto di massima visibilità, dal Faro della Palascìa,
cercando la vista della costa albanese, vista impossibile, ché la Terra è
tonda e quelle 40 miglia sono troppe perché l’altro lato del mare possa
lasciare qualche segno nello sguardo. Quel confine può essere soltanto
immaginato: nessuna imbarcazione che attraversi quel braccio di mare,
come accade centinaia di volte ogni giorno, si accorgerebbe mai di
averlo valicato, di avere cambiato mare, di essere passati dallo Ionio
su per l’Adriatico, ovvero di essere scesi giù, verso un avanzo d’Italia
e l’improvviso pullulare delle isole e delle propaggini crostose della
Grecia, al di là del margine, in un mondo che si allontana dalla penisola
italica e si allarga in un mare più aperto, tanto aperto da confondersi con
il più vasto contenitore del Mediterraneo.
Lo Ionio è meno definito, si fatica ad assumerne la posizione, a
individuarlo con precisione. Verso il Nord, si è appena visto, il confine
è netto: la linea da Capo Palascìa a Kepi i Gjuhezes, 40 miglia tonde
in direzione Nord-Est, con un orientamento di circa 61° rispetto alla
latitudine. Ma verso Sud lo Ionio sembra rinunciare ad avere un bordo,
un limite che ne assicuri l’identità, che permetta di dire al navigante
ove si trovi e al mare di imporre la sua volontà. Una linea, c’è, ma
è più difficile da immaginare. Essa congiunge, sempre idealmente,
si intende, oppure sulla solita mappa che schiaccia la sfera in una
lamina bidimensionale, Capo Passero, in Sicilia, ad Elafonisi, a
Creta, 416 miglia lontano, verso Oriente, secondo una direzione quasi
perfettamente ortogonale alla latitudine. Una retta che taglia un arco
di mare Mediterraneo ampio più di un quinto dell’intero suo sviluppo
dall’Ovest all’Est. Un taglio netto nel cuore del grande mare, quasi
nel suo baricentro, e che divide l’indivisibile; pura astrazione che
vede soltanto la superficie delle acque dimenticando che sotto quella
linea c’è la terza dimensione, quella che rende la Terra sferica, che in
qualche punto della linea può valere anche oltre cinque mila metri, per
una massa d’acqua enorme, che nessuna linea tracciata con righelli e
compassi potrebbe contenere – e nemmeno dire. Un mare, lo Ionio, che
sembra ribellarsi ad una sua descrizione, perché se al Nord dispone di
un rassicurante confine che quasi si potrebbe tracciare con lo sguardo,
al Sud sembra sciogliersi nella più grande madre che l’ha generato,
mentre sui lati deve ammettere altre due ferite, quella dello stretto di
Messina, nemmeno due miglia che lo collegano al Tirreno senza dover
aggirare la Sicilia, e quella di un’altra linea, anch’essa mal definita,
inquietante perché effimera, che unisce Capo Maléas, all’estremità
della più orientale delle propaggini del Peloponneso, con Gramvousa,
86
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Nel confine
90
Nel confine
dei mari fondata sulla gittata dei cannoni; le tre miglia dalla costa sopra
le quali si esercitavano i diritti nazionali e che situavano il confine
marittimo ben al di là della capacità di tiro delle armi da fuoco di cui
si poteva disporre fino al XIX secolo. L’inferno delle guerre suggerì di
stabilire regole comuni e condivise, capaci di prevenire dissidi, in base
alle quali è oggi stabilito che la zona economica esclusiva è profonda
200 miglia, comprese le acque territoriali, costituite dalla prima fascia
di 12 miglia a ridosso della terra ferma74.
Ha così termine la lunga vicenda che per secoli ha visto i mari, del
Mediterraneo, prima, dell’Occidente, poi, e del mondo intero, infine,
al tempo stesso liberi e divisi, praticabili e praticati senza sottostare a
norme e, insieme, disegnati in sfere di influenza e di potere. Sempre un
segno vergato sulla mappa stabiliva il diritto ed il possesso, così che la
storia della libertà dei mari è sovrapponibile e a quella della cartografia
marittima e se non gli coincide è soltanto per l’imprecisione decrescente
di quest’ultima. Disegni stentati, appaiono oggi quelli che nell’antichità
tentavano di dar conto del mare attraverso l’indicazione dei lembi di
terra ferma che lo racchiudevano o delimitavano. Il concetto stesso di
carta nautica segue la storia della navigazione di molti secoli. La carta
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. La zona economica esclusiva è un’area esterna e adiacente alle acque territoriali in
cui lo Stato costiero ha la titolarità di diritti sovrani (UNCLOS 56, 1, (a)) sulla massa
d’acqua sovrastante il fondo marino ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione
e gestione delle risorse naturali, viventi o non viventi, compresa la produzione di energia
dalle acque, dalle correnti o dai venti e la giurisdizione (UNCLOS 56, 1, (b)) in materia
di installazione ed uso di isole artificiali o strutture fisse, ricerca scientifica in mare e
di protezione e conservazione dell’ambiente marino. La zona economica esclusiva può
estendersi sino a 200 miglia dalle linee di base dalle quali è misurata l’ampiezza delle
acque territoriali (UNCLOS 57). La sovranità dello Stato costiero strettamente intesa,
invece, si estende, al di là della terraferma e delle acque interne e, nel caso di uno Stato
arcipelagico, nelle sue acque arcipelagiche su una zona di mare adiacente denominata
acque territoriali (Ginevra, I,1,1, UNCLOS 2,1). Questa sovranità si estende anche
allo spazio aereo sovrastante le stesse e al loro fondo e sottofondo marino. L’ampiezza
massima delle acque territoriali è attualmente stabilita in 12 miglia misurate a partire
dalle linee di base (UNCLOS 3). In precedenza, pur non essendo prefissata una loro
ampiezza, era previsto che quella delle 12 miglia fosse la misura massima dell’ampiezza
complessiva di acque territoriali e zona contigua (Ginevra, 1, 24). Quando la distanza tra
due stati costieri sia inferiore alle 400 miglia diviene necessaria l’adozione di specifici
trattati che disegnino il confine delle rispettive zone economiche esclusive; se la distanza
è inferiore alle 24 miglia si ricorre ad analoghe convenzioni per fissare il limite delle acque
territoriali. Nel caso di Grecia e Turchia, che hanno entrambe assunto acque territoriali di
sole 6 miglia, quando le coste arcipelaghe rispettive si trovano a distanza inferiore alle 12
miglia si ricorre alla mediana geografica tra le coste. L’Italia ha definitivamente ratificato
la convenzione UNICLOS con la legge 2 dicembre 1994 n. 689. [Riferimenti tratti da
Glossario di Diritto del Mare, a cura del Ministero della Difesa, Marina Militare, in www.
marina.difesa.it.]
91
Stefano Bevacqua
alla slealtà e alla incostanza, con il risultato di rendere ogni Stato infido e
conflittuale. [...] Minosse, giocando sulla sua superiorità nella guerra per
mare, una volta impose un grave carico di tributi agli abitanti dell’Attica
che ancora non possedevano come ora navi da battaglia e neppure
avevano un territorio ricco di alberi per fare imbarcazioni, in modo da
poter costituire senza difficoltà una forza navale. E fu così che allora non
riuscirono a trasformarsi in uomini di mare per imitazione dell’arte navale,
e, improvvisatisi marinai, a difendersi in quelle circostanze dai nemici.
Eppure, per loro sarebbe stato più vantaggioso perdere molte volte sette
giovinetti, piuttosto che lasciare le abitudini dei fanti.78
ha così perduto almeno una grande parte di quel suo essere luogo che
riunisce le differenze, per assumere il ruolo di superficie sulla quale
operare nette cesure, definendo innumerevoli linee monodimensionali
– confini, margini, bordi – che separano altrettanto innumerevoli al
di qua dai loro necessari al di là. Eppure, almeno fino a tutto il XVII
secolo, l’idea di indivisibilità del mare, di uniformità necessaria delle
sue acque, era data per assodata ed incontrovertibile, ed essa stessa idea
era posta a fondamento della res communes omnium. La risposta che
Latona, la figlia di Ceo che vegliava sui fabbri e per Zeus generò Apollo,
riserva ai contadini implica l’indivisibilità della sostanza, delle acque
così come dell’aria e della luce. Il possesso comune presuppone infatti
che il suo oggetto non sia divisibile, che sia di ciascuno e di tutti, nel
senso di possibilità di fruirne da parte di ognuno e di possesso comune
ed indivisibile da parte della totalità degli individui. L’impossibilità di
differenziare per separazione, di definire un’acqua differente da un’altra
o un cielo o una luce che sia separata da quella vicina rende necessaria
questa fruizione collettiva che non può escludere alcuno e che nessun
individuo può proporre di far sua nella totalità o in una parte. Un’idea
di totalità generata dall’impossibilità di separare ben presente e radicata
nei secoli successivi al Medioevo. È il caso, tra i tanti, di Hobbes, il
quale, per spiegare come a suo avviso ogni ambito della ricerca non
potesse che rifluire nella più vasta area della filosofia, prende ad esempio
proprio il mare:
Quanti sono i generi delle cose in cui può trovare luogo la ragione umana,
tanti sono i rami in cui si divide la filosofia, prendendo un nome diverso
a seconda della diversa materia trattata. Quella che tratta delle figure è
detta Geometra; del moto, Fisica; del diritto naturale, Filosofia Morale; ma
tutta è filosofia, come il mare, che qui è Britannico, là Atlantico, e altrove
Indiano, a seconda dei diversi litorali; ma è tutto Oceano.81
Questo sarà abbastanza chiaro per tutti coloro che sanno distinguere tra
immaginazione e intelletto: soprattutto se si considera che la materia è
dovunque la stessa e in essa non si distinguono parti se non in quanto la
concepiamo affetta in diversi modi, dal che consegue che le sue parti sono
distinte solo modalmente e non realmente. Per esempio, noi pensiamo che
l’acqua sia divisibile e che le sue parti siano separabili le une dalle altre, in
L’unità stessa dell’indivisibile, quel mare solcato dalle navi che portano
la conoscenza ai popoli che ne sono privi, è garantita proprio dal dominio
dell’unicità ateniese. Il mare è garantito nella disponibilità di ciascuno
perché il suo possesso è a tutti, ma questi tutti si riassumono nell’unico
capace di portare la sua parola come universale. Le prove di Eracle
sono simboliche di come forza e astuzia, derivate dall’illuminazione
offerta dagli dèi e dalla sapienza che grazie a loro l’uomo dell’Attica
è capace di produrre ed ammannire, abbiano per destino di portare il
beneficio di tutti e non il dominio di un unico. Non dissimile appare,
adottando procedimenti che permettano di cogliere, tra le innumerevoli
possibili letture, quella che serve a mettere in luce un’intenzione
ideale, più che politica o economica o militare, il comportamento
degli Stati Uniti riassunto nella cosiddetta Dottrina Monroe, dal nome
di James Monroe, quinto presidente americano tra il 1817 ed il 1825.
Il messaggio che il presidente inviò al Congresso il 2 dicembre 1823
aveva la finalità di stabilire in via definitiva l’indipendenza degli Stati
Uniti dal vecchio continente, ma, nello stesso tempo, poneva le basi per
una politica di egemonia in tutto l’emisfero occidentale. Certamente,
il primo elemento prevaleva, ma non è affatto un caso se la dottrina
è stata definita all’indomani di un accresciuta tensione con i lontani
dirimpettai dell’oceano Pacifico. Nel 1821 gli Stati Uniti avevano ormai
aperto una finestra anche su quell’oceano, portando la loro presenza
fino all’estremo occidente del continente, nei cosiddetti territori non
organizzati, gestiti unitamente alla Corona britannica. Ciò provocò la
reazione della Russia, che in quell’epoca dominava l’attuale Alaska,
allora denominata America Russa. Con decreto dello Zar Alessandro I,
fu vietato il commercio alle imbarcazioni straniere nelle acque distanti
meno di cento miglia dalla costa che andava dall’Alaska fino al 51°
parallelo, che corrisponde all’attuale baia di Vancouver. Un confine
marittimo, dunque, fissato per rinchiudere il nuovo stato americano in
un recinto, proprio mentre dal lato opposto, quello europeo, permaneva
aperta la ferita di un indipendentismo considerato offensivo e pericoloso
per la stessa indipendenza delle monarchie storiche del Continente,
appena ristabilitesi dalla violenta bufera scatenata dalla rivoluzione
���. C. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir, Les Belles Lettres, Paris 1989,
p. 312.
99
Stefano Bevacqua
102
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Così Eracle separa i due monti di Abila e Capile e si lancia nella folle
navigazione verso le mandrie custodite dal mostro tricefalo cavalcando le
onde sul battello d’oro che Helios gli concede, nel suo rosso tramontare,
oltre quello stesso confine ultimo, nell’immensità dell’Oceano. E fissa
la memoria del suo passaggio con le colonne che portano il suo nome
– i due grandi fari che illuminano ed indicano la strada, secondo la
tradizione araba. Colonne che prima di Eracle erano state di Melqart,
l’eroe fenicio cui Eracle si sovrappone; Melqart che ha lasciato questi
suoi segni presso tutti i lidi che ha toccato, a Cipro come in Sicilia, in
Sardegna e nella stessa Roma, ove, secondo l’interpretazione di alcuni
studiosi, il mito di Ercole precede la fondazione tradizionale di tanti
anni quanti ne parrebbero necessari per poter affermare che è Melqart
il primo ed unico fondatore, colui che, nel IX secolo, ha posto la prima
pietra di un luogo che diverrà il Foro Boario, il cuore della città arcaica,
ove la via del Tevere incrociava l’asse che portava dall’Etruria alla
Campania attraverso il guado dell’attuale isola Tiberina, esso stesso
luogo di fondazione. Eracle-Melqart disegna così il chiuso mare del
Mediterraneo, fino a quella che Esiodo definisce come frontiera della
notte, poiché è nel suo luogo che il sole ogni giorno lascia posto alla
tenebra, partendo dalla sponda opposta, quella più orientale, passando,
come in una navigazione che volesse cucire i lembi di un suolo comune,
attraverso tutte le terre che lambiscono il mare. Erythia è luogo di
massimo pericolo, che richiede, per essere vissuto, di sporgersi anche
di molto al di fuori della tranquillizzante certezza del conosciuto; e,
al tempo stesso, è luogo sublime, ricco e pregno di ricchezza, di una
natura abbondante e generosa e dei suoi più preziosi frutti, di una
���.Plinio il Vecchio, Historia naturalis, V 6.
���.Jourdain-Annequin, Héraclès, cit., p. 91.
103
Stefano Bevacqua
Per parte mia non so affatto che ci sia un qualche fiume Oceano, ma credo
che Omero o qualcuno dei poeti vissuti prima di lui abbia inventato il
nome e lo abbia introdotto nella poesia.94 [...] È chiaro infatti che la Libia
è cinta tutta intorno da acque, tranne dove confina con l’Asia, avendolo
dimostrato, primo fra quelli che conosciamo, Neco re d’Egitto, il quale,
dopo che ebbe fatto interrompere lo scavo che portava dal Nilo al Golfo
Arabico, mandò dei fenici su navi, dando loro ordine che al ritorno
passando attraverso le colonne d’Eracle navigassero fino al mare boreale e
per questa via ritornassero in Egitto.95
Nel mare non cresce niente di buono e, in generale, in esso nulla è perfetto,
ma vi sono rocce e arene e immense distese di melme e pantani in tutti quei
luoghi in cui vi sia anche terra: cose che, per nessuna ragione, sono degne
di venir comparate con le bellezze che ci sono quassù.102
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. “Così in essa [l’Attica, nda] Efesto ed Atena fecero nascere uomini virtuosi e
ispirarono nelle loro menti l’ordine politico. I nomi di costoro sono giunti fino a noi; non
così la memoria della loro opere a causa dell’estinzione di chi doveva tramandarla e della
distanza di tempo”. [Platone, Crizia, 109, cit. p. 1422.]
109
Stefano Bevacqua
Deioce fece costruire mura ampie e possenti, quelle che hanno ora il nome
di Ecbatana, con cinte di mura poste l’una dentro l’altra. Questa fortezza
è fabbricata in modo tale che una cinta è più alta dell’altra soltanto dei
propugnacoli. [...] Le cinte sono in tutto sette, e dentro l’ultima c’è la reggia
e i tesori. [...] La prima cinta ha propugnacoli bianchi, la seconda neri, la
terza purpurei, la quarta azzurri, la quinta rossicci. Così i propugnacoli di
tutte le cinte sono colorati: le due ultime poi li hanno l’una argentati, l’altra
dorati. [...] Il perimetro della città è in totale 480 stadi. Questa dunque
è l’estensione di Babilonia, e inoltre essa è adorna quanto nessun’altra
città a noi nota. Prima di tutto la circonda un fossato profondo e largo e
pieno d’acqua, quindi un muro che ha una larghezza di 50 cubiti regi ed
un’altezza di 200 cubiti.107
Dopo aver disposto, uno per uno, gli attrezzi sulla nave, noi stavamo
seduti: la guidavano il vento e il nocchiero. Per un giorno intero, a vele
spiegate, correva sul mare. Tramontò il sole, si velarono d’ombra le strade,
ed essa giungeva ai confini di Oceano dalle acque profonde. Là c’è il
popolo e la città dei Cimmeri, avvolti di nuvole e nebbie; il Sole fulgente
non li illumina mai coi suoi raggi né quando sale verso il cielo stellato
né quando dal cielo ridiscende verso la terra: una cupa notte incombe su
quella gente infelice.110
La città dei Cimmeri come Erythia, luogo al limite, nel limite, ma non
oltre il limite, nel quale Odisseo, compiuto il complesso cerimoniale
sacrificale, vede aprirsi la soglia che conduce nel mondo dei non più
viventi, per interrogare l’indovino tebano Tiresia e conoscere quale
potrà essere il suo destino. La città dei Cimmeri, lido di un continente
lontano ma ancora situato in questo mondo, forse isola o lembo di
terra proteso verso l’Oceano, bagnato dall’immenso fiume e da esso
. Omero, Odissea, XI, Rizzoli, Milano 2008, p. 361.
����
113
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115
Stefano Bevacqua
grandi uomini, che mirano alla virtù ed alla conoscenza e non certo a
vivere come bruti. Cinque mesi, dura questo ultimo viaggio dell’eroe;
viaggio definitivo. Al termine dei quali Ulisse viene inghiottito dal
confine che tanto cercava e che, forse, nemmeno sapeva di avere, non
fosse che in quell’istante speso a rincuorarsi inutilmente della terra
promessa ritrovata, finalmente conosciuto. Il monte che appare dopo la
quinta rivoluzione della luna nel cielo che avvolge l’altro emisfero è il
Purgatorio, luogo che Dio ha interdetto ad ogni vivente. Ulisse vedeva
la sua possibilità come senza confini, illimitata, tale da permettergli ogni
attesa ed ogni percorso, ed è proprio nel confine che divide il mondo
da ciò che non gli appartiene che egli cade risucchiato. Il gorgo si apre
davanti alla nave e prima gli fa battere la prora e infine alza la poppa al
cielo, per richiudere il mare sopra l’eroe ed i reduci che ancora ebbero
la sventura di accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Gorgo come luogo
di delimitazione non dissimile dalla terra dei Cimmeri: lassù nel buio
del Nord si apriva il varco che metteva in comunicazione il mondo
e l’altro mondo; qui è il gorgo che risucchia la vita e la fa cessare
nell’oblio, rinchiudendola nell’eterna fiamma della punizione. Gorgo
che conduce al Tartaro; soglia di passaggio, luogo del tempo in cui si
comprime l’intera esistenza dell’eroe di Itaca e si condensa la sua eterna
dannazione. Gorgo labirintico, con una sola uscita possibile ma letale.
L’Ulisse di Dante sceglie la rotta diritta nel disco dorato del sole e infine,
dopo centoquaranta giorni e notti a colpi di remi, incontra il labirinto che
aveva voluto evitare rinnegando le orme dell’Odisseo di Omero, il quale,
con ben altra prudenza, scelse la via più lunga, sotto costa, e, soprattutto,
una meta meno ambiziosa, quella della conoscenza del passato, piuttosto
della vana pretesa di dominare ogni futuro.
Odisseo sapeva che il suo interminabile viaggio era costellato di pericoli
e intrighi e ben conosceva quali fossero le regole alle quali avrebbe dovuto
di volta in volta attenersi. Non sempre lo fece, come con la maga Circe,
presso la quale a lungo soggiornò e giacque dimenticando Itaca e Penelope e
Telemaco. Nessun dubbio, invece, lo attraversò di fronte al rischio di essere
risucchiato e distratto dalle Sirene. Omero, qui, diede a Odisseo istruzioni ben
precise, complesse, un piccolo sistema coerente di prevenzione e condotta,
dotato anche dei necessari correttivi qualora in alcuni suoi elementi esso
avesse dovuto mostrare qualche falla. È la divina Circe a premonirlo ed
istruirlo. Odisseo aveva appena lasciato le acque di Oceano ed era rinvenuto
dalla visita all’indovino Tiresia, puntando la prua della nave verso l’isola
Eea e la casa di Aurora, dove sorge il sole. Dopo il succinto rito funebre
dovuto ad Elpenore, caduto dal tetto della casa di Circe ove ebbro si era
addormentato, la divina maga trattiene Odisseo per la mano e lo premonisce:
116
Nel confine
Giungerai per prima cosa dalle Sirene che incantano tutti gli uomini che
passano loro vicino. Chi senza saperlo si accosta e ode la voce delle Sirene,
non torna più a casa, i figli e la sposa non gli si stringono intorno, festosi: le
Sirene lo stregano con il loro canto soave, sedute sul prato; intorno hanno
cumuli d’ossa di uomini imputriditi, dalla carne disfatta. Va oltre, dunque,
e chiudi le orecchie dei tuoi compagni con della morbida cera, perché
nessuno di loro le oda; tu ascolta, se vuoi, ma fatti legare coi piedi e le
mani alla base dell’albero, sulla nave veloce – all’albero siano attaccate
le funi – perché possa godere ascoltando la voce delle Sirene. E se preghi
i compagni, se comandi loro di scioglierti, con funi ancor più numerose ti
stringano.112
Odisseo ha potuto udire il fatato canto delle Sirene ma, con i suoi
compagni, è in salvo, pronto ad affrontare la furia di Scilla e di Cariddi,
. Omero, Odissea, XII, cit., p.403.
����
113. Ivi, p. 413.
117
Stefano Bevacqua
118
Nel confine
inizia il suo canto – ma non rimane a perire sul lido ove ha attraccato e
riprende, invece, il viaggio – ma non il suo viaggio; Ulisse ormai segue
il percorso che le Sirene gli indicano, oltre il confine terminale, quello
che unisce questo mondo all’altro mondo, troppo lontano e troppo diritto
verso il sole per poterne mai fare ritorno. Canto fatale, ma non perché
leghi ad un suolo inanimi uomini inebetiti; piuttosto canto che svia e
induce nell’errore perché suadente ed armonico, capace di riassumere
ogni giustezza fino a rispecchiare il moto perfetto degli astri e lo scandire
preciso del tempo, oppure il canto insufficiente, insoddisfacente, che pone
in errore perché se ne coglie soltanto un lembo, se ne vuole conoscere
l’interezza e si è così spinti a cercarlo e ricercarlo, oltre il confine.
Il primo è il canto delle Sirene di Platone, che generano la perfetta
armonia che si fa d’intorno ad Ananke, la divina ed ineluttabile necessità.
È la storia di Er, il guerriero venuto dalla Panfilia, il quale può narrare ciò
che accade nell’altro mondo, oltre la soglia della cessazione della vita.
Platone, nella Repubblica, riferisce come Er, giunto di fronte ai giudici,
sia stato a da questi posto in attesa: essi sapevano che egli sarebbe
tornato tra i vivi e gli ordinarono, quindi, di osservare ed ascoltare tutto
ciò che stava accadendo affinché ne riferisse in Terra. Il guerriero, una
volta tornato in vita, racconterà dunque di come le anime che affollano
inverosimilmente quest’altro mondo siano divise tra coloro che hanno
generato dei torti e compiuto delitti e le altre che ne siano emendate. I
migliori, nettati dal peccato o che non lo avessero per nulla compiuto,
attendevano la purificazione per alcuni giorni per giungere infine al
cospetto di una “luce diritta, a forma di colonna, che si protendeva
dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra”.114 Continua Platone:
Una sola voce ed un tono solo: una nota, esatta, cantata con la
medesima intensità da ciascuna delle Sirene, a comporre l’armonia
che riassume tutta la possibile articolazione della musica, sorta di
ripiegamento monotòno del molteplice. Otto note perfette e pure, che
corrispondono agli otto riferimenti che il destino fa roteare sempre
ed ineluttabilmente: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere,
Mercurio, Luna, ai quali le Sirene danno voce. Sono Sirene celesti,
chiamate a porre la perfezione del loro canto al servizio di Necessità,
la quale guida il coro perfetto dell’armonia del mondo. Platone le
arruola dall’oltretomba, ove le colloca quasi con fastidio e disgusto116,
oppure dal mondo quotidiano ove esse tentano di ammaliare i saggi
per fuorviarne l’intelletto117. Sirene perfette nel loro cantare, che
garantiscono perfino a Necessità, assoluta regina di ogni mondo,
l’ordine delle cose, in guisa di guardiane dell’armonia perché capaci
sempre di quella nota perfetta e monocorde, affinché il canto ne venga
come un unisono simile al necessario ed immutabile equilibrio del
cielo, comprensione delle differenze che permangono ma vengono
riunite attraverso il loro perpetuamento, infinita ripetizione della
differenza. Ma rimane così del tutto inspiegato il motivo del loro
attrarre. Fossero esse soltanto perfette cantatrici, perché mai, quando
presidiano il confine del mondo che sia lecito percorrere dovrebbero
essere capaci di sedurre e portare all’oblio di ogni cosa, del
proprio medesimo desiderio, languendo fino alla morte nell’ascolto
ipnotizzante e ripetitivo?
Presidio del confine, la Sirena, cattura nel suo luogo il marinaio
perché ciò che emana dalle sue labbra è il desiderio di ciò che non
si concede mai: purezza e totalità della seduzione, annuncio di ciò
che viene mostrato e subito sottratto, mai davvero concesso, sempre
lasciato nell’indecisione. Il marinaio muore d’inedia alla ricerca di ciò
che gli viene annunciato ma non concesso. Tempo della ricerca arrestato
nell’istante eterno in cui si percepisce l’identità di quel dono perfetto e
se ne insegue la possibilità, luogo liminare in cui si comprime l’intera
possibilità del desiderio e, insieme, tutta la sua impossibilità, come nel
viaggio fatale di Ulisse, il quale perde l’identità della sua stessa meta,
mosso dalla sfida del tutto conoscere. Maurice Blanchot contrappone la
perfezione all’insoddisfazione, la prima che accompie nella pienezza
ogni desiderio fino a cancellarlo, la seconda che lo moltiplica senza mai
darne conto. Scrive Blanchot:
123
Stefano Bevacqua
del 23 settembre del 480 a. C., dai due fronti che si combattono, da
centinaia di migliaia di uomini in armi, che si spostano continuamente
sulla superficie di un mare minuscolo, un braccio d’acqua affollato fino
all’inverosimile.
La battaglia fu raccontata per primo da Eschilo, che vi prese parte
a pieno titolo, otto anni dopo, nel 472 a. C., quando fu rappresentata
per la prima volta ad Atene la sua tragedia Persiani. Poi è stata la volta
di Erodoto, nell’ottavo libro delle sue Storie, scritto qualche decennio
dopo. Quindi, a quattro secoli da quel decisivo evento, toccò a Diodoro
Siculo, lo storico di Agyrion, l’attuale Agira, nei pressi di Enna, autore
della Bibliotheca historica. Infine, alla fine del I secolo, fu Plutarco
a riferirne, in una delle sue vite parallele, quella dedicata alla coppia
Temistocle, eroe attico della battaglia, e Camillo. Quattro versioni
somiglianti e divergenti. Dall’unione di queste differenti versioni, tenuto
in debito conto delle traduzioni e delle interpretazioni dei testi antichi,
si riesce a ricostruire quanto accaduto in quel primo giorno d’autunno di
venticinque secoli fa e a definire le dimensioni della vicenda. Perché ad
impressionare, subito, di primo acchito, sono proprio i numeri. In base
alle ricostruzioni condotte dallo storico francese Georges Roux123, le
forze in campo erano le seguenti: i Greci, riuniti sotto il comando dello
spartano Euribiade, con l’ateniese Temistocle nel ruolo di comprimario
e decisivo condottiero, schieravano complessivamente 380 triremi; i
Persiani, guidati da re Serse I, potevano contare su circa 1200 navi,
fornite in buona parte da Fenici ed Egiziani. Le triremi greche, più
pesanti e ingombranti di quelle in dotazione agli avversari, erano lunghe
tra 35 e 40 metri ed erano mosse da un numero di vogatori compreso
tra 160 e 180. Quelle persiane ospitavano, sempre su tre ranghi di voga,
tra 130 e 160 rematori. A questi, in entrambi i casi, andavano sommati
alcuni fanti ed arcieri, timonieri ed ufficiali di bordo. Gli uomini schierati
dall’alleanza dei Greci erano circa 70 mila; quelli al comando di Serse
non meno di 200 mila. Le sole navi greche, messe ipoteticamente in fila
una dietro l’altra, disegnavano un serpente lungo quattordici chilometri.
Trecentomila gli uomini a bordo, ai quali bisognava aggiungere le forze
di terra, ridotte al minimo sul versante dei Greci, che erano stati sconfitti
duramente nelle settimane precedenti, perdendo il possesso di Atene
ed avendo visto mettere a ferro e fuoco la sacra Acropoli, ma enormi
sul lato dei persiani, che occupavano tutta la costa dell’Attica, della
Tracia e dell’Anatolia con non meno di cinquecentomila soldati. Lo
specchio di mare nel quale si affrontarono i due schieramenti non è più
����.G. Roux, Eschyle, Hérodote, Diodore, Plutarque recontent la bataille de Salamine,
in “Bulletin de correspondance hellénique”, vol. 98, 1974, pp. 51-94.
124
Nel confine
Clinia – Tuttavia, caro ospite, noi Cretesi andiamo sostenendo che è stata
proprio la battaglia navale di Salamina condotta dai Greci contro i Barbari a
salvare l’Ellade. Ateniese – Noi diciamo che furono le battaglie campali di
Maratona e di Platea a costituire rispettivamente l’inizio ed il coronamento
della salvezza dei Greci e che [...] alcune di queste battaglie valsero a far
progredire i Greci, altre no. E a tal proposito, a quella di Salamina potrei
anche aggiungere quella di Artemisio.125
127
Stefano Bevacqua
128
Nel confine
dai segnali che indicano il percorso. A Venezia, nelle acque vaste della
laguna che uniscono il labirinto delle isole della città alle ferme terre,
sono le bricole, fasci di due o tre solidi pali di legno, ad indicare le vie
d’acqua, i canali realizzati dragando il fondo melmoso della laguna.
Le imbarcazioni più grandi devono seguire i percorsi segnati dalle
bricole, per non arenarsi sui fondali limacciosi. Le bricole segnano
due margini ai quali corrisponde la maggiore profondità delle acque;
fuori dai margini, oltre quel limite, il fondale è minimo, l’acqua
diviene come una lamina superficiale, semplice ricopertura di un suolo
che rimane come sospeso tra terra e mare, né solida terra, né acqua
completamente libera di muoversi e mutare continuamente forme,
indeterminazione e transizione tra condizioni soltanto apparentemente
opposte ed inconciliabili. Nella Venezia labirintica trova così ragione
anche la possibilità di un luogo sospeso nell’indecisione, in balia
della marea quotidiana e di quella occasionale che tutto inonda e, al
tempo medesimo, del sedimento che dalla ferma terra si ripiega nella
laguna. Le bricole la punteggiano, delimitando un luogo ulteriore,
più simile al mare, ma costretto in una forma lineare, come un fiume
d’acqua salmastra che si insinua in un’acqua più vasta che a sua volta si
confonde con la fanghiglia e lambisce, attraverso il reticolo dei canali,
le mille isole, anch’esse fangose e inferme, sulle quali è stata eretta
la città, fondata su milioni di pali lignei che si puntano nel limaccio
e che la salsedine ha nei secoli corroso, mischiando le fibre al fango,
il vegetale al minerale, l’acqua con il solido, il solido con il liquido,
elemento terzo fatto dell’una e dell’altro, luogo liminare, di transizione,
instabile, transitorio.
Il mare non può essere diviso e nemmeno dominato. Le acque
territoriali di cui si è riferito sono linee ideali, astratte, che nessuno
vede, nemmeno se e quando le si oltrepassa. Per sapere se ci si trova
all’interno o all’esterno di quel limite serve il calcolo – con le stelle o
con il satellite, dal sestante al GPS – ed è lo stesso calcolo che è stato
effettuato una prima volta nell’intenzione di fissare il limite medesimo.
Sono mutate le tecniche e gli strumenti, ma non l’astrattezza geometrica
di una procedura che identica si ripete nel fissare un limite marittimo e
nel verificare se lo si è infranto. Il mare non può avere alcun padrone
ma soltanto guardiani che ne possono solcare o sorvolare la superficie,
la cui posizione relativa alla linea di costa è fissata dall’elaborazione
matematica di informazioni spaziali. Nessun possesso, dunque; soltanto
permane l’intenzione del possesso. Dominio affannoso, faticoso,
difficile da esercitare, che deve essere ripetuto – dal “bip” del GPS –
infinite volte per affermarlo. La colpa è del mare, instabile e fluido,
129
Stefano Bevacqua
131
Stefano Bevacqua
133
TERZA VARIAZIONE
NATANAELE
Pelle e membrane
136
Nel confine
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Stefano Bevacqua
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Nel confine
141
Stefano Bevacqua
Il tatto è più sensi od è un senso solo? Inoltre, qual è il sensorio della qualità
tattile, la carne e ciò che negli altri animali vi è di analogo, oppure questa
142
Nel confine
Che caldi fuochi e gelida brina in modo diverso dentati mordano i sensi
del corpo, il contatto con l’uno e con l’altro ne dà a noi la prova. Perché è
il tatto, il tatto, o santi Dei immortali, è il senso del corpo, sia quando un
oggetto da fuori si insinua, o quando ci danneggia qualcosa ch’è nato nel
nostro corpo o ci dà piacere, sgorgando negli atti fecondi di Venere, o se,
per un urto, turbinano nel corpo medesimo gli atomi, e tra loro eccitandosi
sviano il senso; come se, per esempio, tu stesso con la tua mano ti colpisci
una parte qualunque del corpo, per farne la prova.137
si trasmettono dalle cose che abitano il mondo a tutti gli esseri, i quali
ne hanno così, appunto, la sensazione:
146
Nel confine
Però non era possibile lasciare la testa solo ossea e nuda, a motivo degli
eccessi in senso opposto delle stagioni, né permettere che, ricoprendola
totalmente, diventasse ottusa ed insensibile a motivo della quantità delle
carni. Allora, non essendosi ancora disseccata la natura della carne, se ne
separò una scorza più grande, che avanzava, quella che oggi viene chiamata
pelle. E questa, a motivo dell’umore che sta attorno al cervello, crescendo
intorno e ricollegandosi con sé stessa, coperse tutta quanta la testa. [...]
Ora la divinità punse tutta questa pelle all’intorno con il fuoco, e, come fu
bucata, e ne fuoriusciva l’umore, quello liquido e caldo, nella misura in cui
era puro, se ne andò via, mentre quello che era misto di quelle stesse cose
di cui era costituita la pelle, innalzato dal suo movimento, si distese al di
fuori per lungo tratto. [...] Per tali affezioni crebbero sulla cute i capelli.147
Se voi aveste tracciato sulla mia mano, con un punteruolo, un naso, una
bocca, un uomo, una donna, un albero, certamente non mi sbaglierei;
nemmeno dispererei, se il tratto fosse esatto, di riconoscere la persona di
cui mi avreste tracciato l’immagine: la mia mano diventerebbe per me uno
specchio. [...] Se la pelle della mia mano eguagliasse la delicatezza dei
vostri occhi, io vedrei attraverso la mano come voi vedete attraverso gli
occhi, e potrei immaginare che vi siano degli animali che siano ciechi ma
non per questo meno chiaroveggenti.150
Siamo nella seconda metà del XVIII secolo e la pelle, dopo oltre
ventuno secoli, acquisisce finalmente lo status di organo tattile. Cessa il
disprezzo. Non è più soltanto cute, essa sente e vede. Riabilitazione, dopo
essere stata, la pelle, il ricettacolo del male, quintessenza della negatività,
proprio perché identificabile con il corpo, parte degradata e peccaminosa
dell’individuo, contrapposta all’anima di cui è contenitore. Contenitore
del contenitore, dunque, la pelle, come la prima sfoglia ormai secca ed
inutile di un bulbo, che contiene altro peccato, ma che in superficie,
rinsecchito, sembra concentrarsi. Pelle che suda e supura ed espelle fluidi
ed odori, grassi ed acque contigue all’urina, maleodoranti, fetide. Pelle da
lavare e profumare, come era d’uso per consentire all’anima del defunto di
accedere alla parte migliore dell’al di là. Non ci si presenta al giudizio con
la pelle macchiata, ingrigita, rugosa e cadente, che odora di escrementi e
di prematura putrescenza, serve il balsamo profumato, l’unguento che,
ristabilendo elasticità, ridona forma alla pelle, che la tira e la tende sulle
superfici della carne, carne anch’essa malata e sede del male, ma in una
forma, per così dire: diluita, non sclerica, lucentemente evidente. Pelle
che ha goduto il piacere e si è quindi macchiata per sempre del peccato,
che si rappresenta nella sua caducità, nelle rughe che l’affliggono, ché
la pelle è il solo organo del copro a mostrare invecchiamento, il suo
degradare continuo, ritmato dal tempo, fino alla cessazione dell’esistenza,
momento nel quale la pelle è, paradossalmente, il solo elemento del
corpo ancora vivo, nonostante porti proprio l’immagine dell’esaurirsi del
tempo. Senza pelle, il piacere è allontanato e, al tempo stesso, alcuno è
riconoscibile; senza pelle l’identità di ciascuno si perde insieme alla sua
capacità di provare voluttà, entrambe – volto e godimento – si dileguano
nell’omogeneità di forme, quelle del copro sottostante, che apparirebbero
tutte simili, senza quella traccia unica che riferisce inequivocabilmente
150. Ivi, p. 118.
151
Stefano Bevacqua
E ancora:
Ma se tu dimenticherai
(E tu dimentichi) io voglio ricordare
i nostri celesti patimenti:
le molte ghirlande di viole e rose
che a me vicina, sul grembo
intrecciasti con timo;
i vezzi di leggiadre corolle
che mi chiudesti intorno
al delicato collo;
e l’olio da re, forte di fiori;
che la tua mano lisciava
sulla lucida pelle;
e i molli letti
dove alle tenere fanciulle ioniche
nasceva amore della tua bellezza.152
155
Stefano Bevacqua
157
Stefano Bevacqua
158
Nel confine
159
Stefano Bevacqua
polvere, dal sole e dalla pietra, pelle insufficiente anche sotto il profilo
espressivo, e dunque da caricare di luce e colore, da segnare e ornare,
per renderla portatrice di un messaggio ad essa imposto e non da essa
direttamente generato. La storia della pelle come luogo liminare di
interfaccia tra dentro e fuori si arricchisce dunque di uno straordinario
panorama di elementi aggiuntivi, di orpelli e ornamenti, di difese e
simboli, così che la storia delle armature, dell’abbigliamento, della
cosmesi, e dei tatuaggi e delle altre forme di marcatura della cute, si
mischia per sommatoria a quella della pelle medesima, fino a costruire
una narrazione di estrema complessità, ma sempre fluida ed anche
unitaria, sorprendentemente simile nei suoi sviluppi in ogni cultura e
paese, popolo e nazione. Ed anche le epoche cui riferirsi nel seguire
questa vicenda si intersecano e si sovrappongono quasi annullando
le linee temporali univoche, lineari, evolutive, alle quali ci si abitua
facilmente – diventandone anzi facile preda, all’insegna di un perenne
prima cui succede un dopo nel quale si confondono le cause con le più
innocue premesse e gli esiti con i processi. Dunque nessuna linearità,
facile da scorgere e fissare, nemmeno in questo ambito. Così come il
mutamento intervento nell’ambito della considerazione riservata alla
cute e alla pelle dalla cultura occidentale non è né un salto improvviso
né un flusso mono-direzionale sempre evidente, presentando bensì
continue sovrapposizioni e ingorghi e ritorni all’indietro, analogamente
la vicenda delle coperture attribuite alla pelle – intese nella loro totalità
come pitture, fard, colori, vesti, armature, abiti, cappelli, scudi, elmetti,
elmi, caschi, tatuaggi, scarificazioni, mutilazioni, uniformi, divise, e
via a non finire – presenta poche linearità e mai del tutto continue, ma
piuttosto continue disgiunzioni e ripiegamenti, ritorni e ripetizioni.
L’approfondire l’immane tematica che investe l’abbigliamento e la
cura del copro e la marcatura della pelle, comporterebbe il relegare la
pelle medesima, nella sua fondamentale qualità di luogo di confine,
ad un ruolo secondario, talché appare più opportuno limitarsi ai soli
riferimenti più significativi in quanto più strettamente correlati allo
statuto di una pelle come luogo transizionale. Il primo dei quali è
sicuramente quello della segnatura della pelle al fine di veicolare
informazioni ulteriori riguardo la persona che essa ricopre. La pelle
subisce in questo caso una duplice trasformazione: da un lato, ne viene
esaltata la funzione comunicativa, poiché i segni apposti riferiscono
un significato che la pelle soltanto non potrebbe asserire, dall’altro,
viene sminuita a ruolo di semplice portatrice di messaggi, di lavagna, di
bacheca vivente. È il doppio aspetto tipicamente in gioco nel frangente
dei tatuaggi, delle scarificazioni, delle mutilazioni, tutti interventi
160
Nel confine
163
Stefano Bevacqua
164
Nel confine
Hegel usa il termine bisogno soltanto nel riferirsi alle vesti come
necessarie per difendere il corpo dalle intemperie e poi il termine spinto
in riferimento al pudore. Pesa le parole, Hegel, non vuole dire che il
pudore genera bisogno, ma soltanto che spinge verso un comportamento.
Ma questo comportamento deve essere capace di evitare che sia ciò che
non deve essere. La necessità, il bisogno, non è dunque nel pudore
166
Nel confine
167
Stefano Bevacqua
Non c’è nulla di casuale nel fatto che Barthes non ritenga di fare
alcun riferimento a ciò che si trova al di sotto dell’indumento di cui
discute. La pelle, l’indumento primario, è data per acquisita come
sottostante nella negazione. Barthes riassume il passaggio dalla
funzione iniziale del sagum come semplice protezione dalle intemperie
ad uniforme codificata, ma contiene e comprime un salto semantico
di portata non secondaria: la protezione è cosa che riguarda la pelle,
anzi: la cute, riguarda dunque il corpo; l’uniforme riguarda la persona,
il suo compito e il suo status. Nel testo di Barthes non c’è traccia di
questa non piccola differenza, non viene colto il fatto che in realtà si
tratta di due indumenti completamente diversi: il primo è il sagum che
viene indossato per proteggersi; il secondo è la paenula che identifica
il soldato della romanità e ne sottolinea ruolo e potenza. Non si discute
affatto di pelle, nel testo barthiano; niente pelle: scivolamento di senso,
lungo il crinale dell’indeterminazione che la pelle sempre riafferma,
luogo equivoco, mutevole, nel quale la faccia interna e quella esterna
si scambiano continuamente ruolo e posizione, luogo di ripiegamenti
e distensioni, di margini riflessi dalle percezioni e di limiti affermati
dalle espressioni; pelle che coglie il calore ed è a sua volta generatrice
di calore, pelle tattile che sente ogni presenza ed è essa stessa presenza;
pelle che trova il suo piacere e lo infonde all’intera persona e che si
lascia attraversare da ogni dolore per farlo proprio. Pelle spudorata che
imbarazza il sempre troppo pudico Barthes.
ROMOLO
Fondazioni, soglie, edifici
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. “Verrà un’età con il procedere dei lustri che la casa di Assaraco calcherà in schiavitù
Ftia e la gloriosa Micene e dominerà sulla vinta Argo”. [Virgilio, Eneide, 1 283-285, cit.
pp. 280-282.]
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solchi per offrire piede a nuove mura e nuovi palazzi, nuove case che
si aggiungevano alla prima casa, quella fissata da Romolo. Nuovi
solchi che miscelarono terre diverse. Roma trova una nuova vita e si
rifonda attraverso l’instabile creazione di un isola, l’Isola Tiberina, una
nuova terra destinata a sostenere archi e palazzi, nuove mura e nuove
case. Michel Serres riprende la leggenda della formazione dell’Isola
Tiberina per discutere proprio dell’indeterminazione che si annida in
ogni fondazione, riportando ogni elemento alla sua mutevolezza nel
tempo, al punto di scorgere i contorni di un orologio della fondazione, la
quale si fonda certo più sull’in-certa complessità di un continuo mutare,
piuttosto che su un sostegno stabile, rassicurante e duro. Scrive Serres:
Venne scavata una fossa circolare intorno all’attuale Comizio, nella quale
furono deposte offerte votive di tutto ciò che risultava adatto secondo
le consuetudini e necessario secondo natura. Infine ogni abitante portò
una piccola porzione della propria terra d’origine e la gettò nella fossa,
mescolandola insieme con le altre. Chiamano questa fossa con lo stesso
nome con cui indicano il cielo: mundus. Poi circoscrissero la città,
descrivendo un cerchio tutto attorno a questo punto centrale. L’ecista
collega all’aratro un vomere di bronzo, a cui ha soggiogato un bue e una
vacca, e li guida personalmente, tracciando un solco lungo i confini; è
compito di quanti lo seguono rivoltare le zolle all’esterno, sollevare
l’aratro e controllare che nessuna di esse rimanga fuori dal tracciato. Con
questa linea segnano dunque i confini del muro urbico, e lo chiamano in
forma sincopata pomerium, cioè sito collocato dietro il muro o prima del
muro. Nel punto in cui pensano di collocare le porte, rimuovono il vomere
e sollevano l’aratro, lasciando un intervallo di spazio.164
181
Stefano Bevacqua
Fondando la prima casa, e con essa dando piede alla città, Romolo
mette ordine al disordine primitivo, ma lo fa senza sezionare ed
isolare elementi omogenei, che sarebbero stati entropicamente privi di
possibilità vitali, bensì conservando ciascuna identità, preservando ogni
grano di farro ed ogni stelo, ogni manciata di terra portata dai cittadini
così come tutte le particelle di sabbia e di limo che il Tevere rimescola per
dar piede all’Isola. Dal caos dell’indistinto si genera il cosmo regolato,
dalla casualità con la quale durante i millenni si erano giustapposte
le pietre e la terra, la roccia e la sabbia, prende forma un ordine che
conserva l’identità fluida, l’equivocità porosa data dalla presenza di ogni
suo elemento nel fuoco medesimo della sua fondazione. Si ripete, così,
il gesto primigenio, si mutua dalla prima fondazione, quella operata dal
Creatore, ogni ulteriore gesto volto a costituire una nuova forma del
mondo. Abissale è la distanza tra creazione e fondazione, ché la prima si
fece dal nulla e la seconda soltanto dal riordino dell’esistente – riordino
inteso non come separazione degli uguali, bensì come ricongiunzione
del differenziato secondo un procedere che ne conservi l’identità. Eppure
le due hanno una radice comune, un’intenzione che si ripete, quella
del Creatore che diede vita al mondo, che appare simile a quella del
fondatore che vuole dare forma a ciò che prima di lui ancora non vigeva.
Ma non potrebbe essere diversamente: si è detto che la fondazione inizia
dalla prima casa, il mundus, intorno alla quale si stratificano nel tempo
gli innumerevoli successivi ed eterogenei elementi che gradualmente
ingigantiscono la città. Si inizia da un centro che riverbera la sua potenza
agglomerando il mondo circostante, così come il primo pugno di grani
di farro si impasta con il limo e funziona da catalizzatore dell’accumulo
che dà piede all’Isola. Il mondo fu creato dal Demiurgo a partire da un
tutto indistinto oppure da un nocciolo primario? La vita è stata messa
in moto attraverso differenziazioni successive occorse in un orizzonte
di omogenea indistinzione oppure da un corpuscolo di infinita massa
ed energia? È sorprendente come una questione di così antica e vasta
portata si ripresenti in questo ambito. Nel libro della Genesi oppure
nel Timeo è la divisione dell’indistinto che appare primaria; in molte
altre tradizioni antiche è invece il nocciolo primario ad apparire come
fuoco agglomerante dal quale tutto deriva. Scrive Mircea Eliade: “In
verità, se ogni atto di presa di possesso o di costruzione è imitazione
dell’archetipo cosmico della Creazione del Mondo, allora questo atto
deve aver luogo nel centro del mondo, poiché secondo molte tradizioni
la Creazione è iniziata da un centro”.165 Eliade sembra quasi invertire
����. M. Eliade, I riti del costruire. Commenti alla leggenda di Mastro Manole, Jaca
Book, Milano 1990, p. 59.
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Nel confine
ove ogni passo è sempre almeno in parte già annunciato, se non del
tutto previsto e, quindi, addirittura contenuto, dalla sua premessa, dal
passo precedente. Uscire dagli schemi, dunque, tentando una strada più
accidentata, come quella che cerca non tanto qualche cosa in comune
tra creazione per separazione e fondazione da un nucleo, ma piuttosto
un indizio, come quello che subito appare non appena ci si ponga ad
esaminare il luogo della fondazione – la prima casa, il mundus – e,
parallelamente, il luogo della Creazione – la totalità indistinta. Il luogo
della fondazione e quello della Creazione sono, forse, lo sesso luogo:
l’uno e l’altro, infatti, contengono ogni elemento costitutivo di ogni
successivo mondo possibile. L’uno contiene tutte le terre, nella forma
delle zolle che ciascun cittadino riversa nella fossa al fine che essa sia
tutti i mondi possibili e possa dunque tutti generarli; l’altro contiene tutti
i possibili atomi che, combinati in modi infiniti, danno vita al sole ed al
giorno e alle lontane stelle e alla tenebra, al cielo e alla terra, all’acqua e
all’asciutto. Fondazione e creazione, agli infinitamente diversi e distanti
livelli dell’uomo e della divinità, sono dunque luoghi di transizione,
i quali delineano un mutamento materiale e temporale del mondo, un
prima ed un dopo, ma che nella loro attualità non sono mai ancora
il dopo pur non essendo più appartenenti ad un prima. Sono i giorni
del lavoro di Romolo che, sotto questo profilo, ripercorrono quanto
il Creatore aveva già operato. E né Romolo né il Creatore fondano e
creano una volta per tutte, bensì generano continuamente, fonda e ri-
fonda, il primo, crea e ri-crea, il secondo; il primo per dare continuità
alla città che aggiunge sempre nuove terre e nuovi cittadini, il secondo
per garantire la vita del mondo, che si vuole inarrestabile proprio per
questa eterna ri-creazione. Fondazione e creazione ritrovano dunque
unità, non identità, affatto, prescindendo da percorsi e somiglianze, ma
per essenza e per contento.
Avendo chiarito l’origine sacrale dei gesti di Romolo – e quindi anche
la fine inflitta a Remo, reo di non aver rispettato questa stessa sacralità,
ché attraversando il solco tracciato dal fratello si macchiò di sacrilegio
– si deve riportare il percorso ad un punto cruciale, quando il fondatore
solleva l’aratro per lasciare beante il varco, per fissare una soglia. Accade
così che i luoghi dell’indefinizione si moltiplicano: all’eterogeneo del
solco, ferita nel suolo dai lembi sempre ancora aperti, ed alla complessità
assoluta del grumo di farro e fango che dà piede all’Isola Tiberina, si
aggiunge ora la soglia, luogo di confine e transito, poro aperto nella
porosità della prima casa e della città, spazio che non è più un dentro
senza essere ancora un fuori, luogo anch’esso sacro, ma in modi
radicalmente diversi ed assolutamente specifici in quanto non è più al
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Nel confine
fuori, disegnata dai lembi sfrangiati della ferita inferta al suolo: nel luogo
della soglia il suolo sembra rimanere indistinto, comune denominatore
del dentro e del fuori, luogo di transito che non è ancora un dentro e che
non è più del tutto un fuori. Oppure, si potrebbe – o si dovrebbe – asserire
l’esatto contrario: che è nell’atto di sollevare l’aratro per fissare la soglia
che Romolo davvero fonda la prima casa, ché soltanto la presenza della
soglia garantisce alla casa la sua necessaria respirazione; altrimenti,
se non avesse fissato la soglia con quel semplice gesto dell’alzare la
lama dell’aratro, Romolo sarebbe rimasto per sempre rinchiuso nel suo
recinto, il mundus sarebbe diventato sepolcro, nessun sacrificio sarebbe
stato né possibile né necessario per avvertire le divinità di quel gesto
poiché egli stesso, Romolo, avrebbe rappresentato, insieme al bue e alla
vacca che trainavano l’aratro, l’offerta sacrificale. Sacrificio inutile,
sarebbe stato, quello di un fondatore che si immola sulla sua stessa
fondazione: senza la soglia, senza uno stabilire in anticipo dove quel
segno inferto nel suolo, nella sua implicita equivocità, doveva essere
sospeso introducendo una ulteriore equivocità, per così dire: ortogonale
alla prima, senza quella definizione preliminare della porta, del luogo
di transizione che non è ancora un fuori né più un dentro, la fondazione
sarebbe fallita rovinando su sé medesima. Niente prima casa, niente
mundus, niente città, soltanto un tempio, forse, ma nemmeno: soltanto
un monumento, il monumento funebre di Romolo.
È la porta che istituisce la casa, definendone il contorno e la fruibilità;
è la soglia che permette e regola il passaggio delle informazioni, delle
cose, delle persone dal mondo esterno all’interno della casa e della città;
è la soglia a rendere la casa fruibile, poiché, se è vero che non si può
distinguere alcun dentro in assenza di un muro che lo differenzi dal
fuori, è altrettanto sicuro che soltanto la soglia aperta lungo il muro
permette di accedere al dentro e, analogamente, di liberarsi nel fuori. La
differenza tra dentro e fuori si cristallizza lungo il muro ed è la porta, la
soglia, il passaggio, l’apertura a sintetizzare la compresenza dell’uno e
dell’altro, a rendere a ciascuno il proprio pieno statuto. Paradossalmente,
se è impossibile una casa priva di porta o soglia o apertura ché sarebbe
trasformata subito in mausoleo, monumento funebre, è invece del
tutto ammissibile l’esatto contrario, quello di una casa priva di mura
ma solidamente dotata di una porta, un varco. È il caso dei torii
giapponesi, porte di templi lasciati incostruiti, realizzate in spazi aperti,
verso distese che lo sguardo non riesce ad abbracciare, perché troppo
grande è l’anima di questi dei per poterla rinchiudere nello spazio pur
grande di un luogo circoscritto e dedicato al culto, così che del tempio
soltanto la porta rimane visibile ed il resto della costruzione è lasciata
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Spazialmente, egli è sulla soglia delle case, è alle porte, ianitor, presiede
ai due inizi, l’entrata e l’uscita, ed agli altri due, l’apertura e la chiusura
della porta. [...] A Giano è affidato il tempo dell’inizio dell’anno, che ha
mantenuto questa qualità fino ai giorni nostri, ed è proprio in quanto dio
del “primo mese” dell’anno riformato che tanti autori dell’antichità lo
hanno celebrato. [...] Si finì così con il dire che Giano “era il più vecchio
dio indigeno dell’Italia” (Erodiano), “il primo degli dei antichi, che i
romani chiamavano Penati” (Procopio). È a partire da testi come questi
che numerosi autori hanno costruito la singolare teoria che fa di Giano,
realmente, un dio più vecchio di Giove, il “dio principale” della più antica
religione, che una “riforma” avrebbe poi degradato a profitto di Giove.
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. Ivi, pp. 336-338.
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velo fatto da particelle del dentro, le quali sono certamente sempre più
rade all’allontanarsi dalla casa, ma ancora si mostrano anche dopo molti
passi, ostinate testimoni della compresenza dell’uno e dell’altro – il
dentro ed il fuori. Lo stesso è l’inverso, il fuori che infetta il dentro. La
soglia viene varcata anche per entrare nella casa. La varca il dominus
nell’intenzione invertita a quella che lo ha spinto ad allargare la sua
potestà oltre la soglia medesima: si ritorna al cuore del possesso, dove
la familiarità diviene così intensa da costituirsi in identità; è il ritorno
verso la protezione che la casa soltanto è indicata ad offrire, ritorno al
calore, all’intimità, alla nudità della sola pelle, possibile soltanto entro
la soglia; è un riversare il fuori nel dentro, portando il nutrimento, il
necessario, il superfluo, il bello, l’altro, il desiderio che si può compiere,
il piacere che si può liberare. Oppure è l’ostilità che assedia e irrompe
attraverso la soglia, il nemico, la violenza, la rottura dell’intimità, la
pelle nuda esposta al ferro; allora, è il dolore, la ferita, la fine della
soglia, dell’indeterminazione, è l’alluvione del fuori che nella sua
totalità si abbatte nel dentro cancellando ogni differenza, così che le
ondate del fuori occupano tutto il luogo. La soglia è scomparsa, fine
di ogni identità ed intimità, la casa è inghiottita dal fuori, è essa stessa
parte di un fuori ormai monolitico, privo di differenze, entropicamente
esausto, omogeneo, letale.
Il permanere della casa è necessario alla configurazione della città,
la quale non è la semplice agglutinazione di una molteplicità di case.
Appare in evidenza come la respirazione ed il metabolismo di ogni
città derivi dall’interazione tra elementi disparati, quali le case, gli altri
edifici, i palazzi ed i castelli, gli individui, i flussi di energia, i cataboliti,
i sistemi di comunicazione, il tempo, e non certo dalla semplice
giustapposizione di un numero anche molto elevato di case. Perfino la
grande città che a tutt’oggi sembra essere formata essenzialmente da
case e soltanto da queste, si pensi a Città del Messico, con le sue strade
infinitamente ortogonali, prive di qualsiasi linea curva, l’omogeneità
dei fabbricati, la perfetta simmetria di ogni direzione verso ogni altra,
perfino l’antica Tenochtitlán, la capitale dell’impero azteco rasa al suolo
nel 1521 da Hernán Cortés, sulle cui rovine fu poi costruita l’attuale
capitale messicana rispettando la geometria dell’antico disegno
urbanistico, non è soltanto un grumo sia pure ordinatissimo di case ma
qualche cosa di molto più. Interessa essenzialmente il sistema delle
soglie, dei passaggi, dei pori aperti che permettono alla città di respirare,
di assumere le quotidiane e necessarie dosi di energia e di espellere i
residui catabolici, delle porte che consentono l’ingresso e l’uscita degli
individui, delle linee lungo le quali si possono oltrepassare, realmente
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di un punto più alto dal quale il castello possa dominare, non c’è un
solo castello, ovvero non c’è nessun castello, il Signore domina dai suoi
palazzi unitamente ad altri signori, con i quali condivide almeno una
parte della propria potenza, e questi, a loro volta, dispongono di propri
palazzi, diversi dalle case dei cittadini. L’urbe si apparenta alla figura
di una monarchia articolata in diversi livelli di potere e di dominio, con
una gerarchia di ceti più complessa del sistema tripartitico medievale,
clero, soldati e contadini, ma non per questo forzatamente più recente.
Anzi, il prototipo dell’urbe è forse la stessa Roma antica, con le sue
molteplici porte, ciascuna dedicata ad un direzione segnata da una
strada. I traffici degli uomini e delle cose possono attraversare le diverse
porte in funzione delle necessità, per congiungere il cuore dell’urbe
alla campagna ove si generano le messi necessarie al sostentamento
dei cittadini, per offrire passaggio ai mercanti e ai soldati che tornano
dalla loro fatica. I defunti vengono cremati e le ceneri deposte in urne
conservate nel colombarium oppure vengono sepolti fuori dalle mura
della città ed il passaggio del feretro avviene attraverso la porte più
prossima al luogo dell’inumazione. Rifiuti ed avanzi vengono espulsi
dall’urbe attraverso le numerose porte e soltanto ragioni di opportunità
inducono ad utilizzare l’una o l’altra. La Roma delle mura Aureliane,
costruite tra il 270 ed il 273, è dotata sedici porte nessuna delle quali
prevede un utilizzo esclusivo e nemmeno prevalente. Certamente,
alcune di esse hanno maggior gloria di altre, ma soltanto perché
attraversate dall’imperatore che torna da un successo d’armi, ovvero
perché di consueto varcate da genti patrizie che si compiacciano
di risiedere oltre le mura medesime. Le porte diventano ciascuna un
potenziale luogo di transizione: il dio Giano le protegge tutte in eguale
maniera, vigilando verso l’esterno con volto arcigno e cupo e verso
l’interno con il più solare aspetto di un giovine. La respirazione della
città avviene su canali ormai interagenti: alle porte si aggiungono gli
acquedotti e il varco dell’immondo viene sostituito in gran parte delle
sue funzioni dalla cloaca. L’urbe non è né più antica né più recente
del borgo. L’urbe è la Roma imperiale così come innumerevoli altre
città occidentali del passato anche recente; il borgo è la manciata di
case della fondazione della medesima Roma così come migliaia di
villaggi medievali piuttosto che di era moderna, di pianura o collinari
o marini. La differenza tra urbe e borgo consiste nel fatto che la prima
presenta un differente livello di organizzazione dei flussi liminari ed
un’organizzazione metabolica più complessa, nella quale ogni luogo di
transizione offre innumerevoli possibilità di utilizzo. Da ciò deriva che
le tracce del dentro che si disperdono a raggiera nel fuori e le infinite
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Nel confine
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loro dominio sul controllo di una parte dei meccanismi pulsionali, non
su un possesso materiale; ma non interessa qui il potere, bensì soltanto
il luogo di transizione tra l’interno e l’esterno e i flussi che lo occupano
disseminando, infettando sia il fuori sia il dentro. Nel borgo, le case dei
cittadini si aprono verso le vie e le strade, l’intimità è garantita da un
tenue velo, magari quello teso sulla porta che rimane aperta per l’intera
giornata e soltanto all’imbrunire viene chiusa per il riposo. La difesa
del cittadino appartiene alla porta del borgo molto prima che a quella
della casa. Nell’urbe, il cittadino è chiamato a maggiore prudenza:
strade e vicoli sono frequentate da individui sconosciuti e la porta
della casa può rimanere aperta soltanto se vigilata. Le porte dell’urbe
non garantiscono alcuna efficace tutela agli individui, ma semmai
soltanto alla collettività dei cittadini. Nella metropoli, priva di mura e
di porte, priva di un sistema di gerarchizzazione dei flussi respiratori,
nella metropoli pulsante e ingovernata, le sole porte alle quali ciascuno
può affidare la propria sicurezza sono quelle della casa, della singola
abitazione, edificio, palazzo. Porte chiuse, mantenute rigorosamente
sbarrate. In assenza di un efficace sistema di soglie – di luoghi di
transizione tra il dentro ed il fuori – l’interno della metropoli tende a
diventare omogeneo e ad espandersi al di fuori con altrettanta entropica
assenza di significative differenze di potenziale. Il luogo di transizione
non appare più identificabile ai limiti della città, ma molto al di fuori
di essa, mentre ciò che appartiene all’esterno, al mondo che si colloca
certamente fuori dalla città, a sua volta la compenetra tutta, infettandola
inesorabilmente. La sola soglia che permane intatta è la porta della casa.
Varcata questa soglia, l’individuo è perso in un mondo relativamente
indifferente e inconosciuto; nessuna familiarità, salvo quella residuale
che si fonda sul consueto, il noto, il percepito, ma che non costituisce
alcun elemento di appartenenza. Le pareti della casa si trasformano in
mura; la metropoli ripropone la casa come primo ed ultimo baluardo
della complicità, del dentro e, insieme, riduce drasticamente la figura
del luogo di transizione tra il dentro ed il fuori, fin quasi ad annullarlo.
Ne Le città invisibili, Italo Calvino si imbatte prima in Trude, la città
sempre uguale a se stessa, e poi in Pentesilea, la metropoli nella quale
mai si entra e forse mai si esce.
Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a
grandi lettere, avrei creduto di essere arrivato allo stesso aeroporto da cui
ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da
quegli altri, con le stesse case gialle e verdoline. Seguendo le stesse frecce
si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano
in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla.
202
Nel confine
Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui
mi capitò di scendere. […] Per parlarti di Pentesilea dovrei cominciare a
descriverti l’ingresso della città. Tu certo immagini di vedere levarsi dalla
pianura polverosa una cinta di mura, d’avvicinarti passo a passo alla porta,
sorvegliata da gabellieri che già guatano storto ai tuoi fagotti. Fino a che
non l’hai raggiunta ne sei fuori; passi sotto un archivolto e ti ritrovi dentro
la città; il suo spessore compatto ti circonda; intagliato nella sua pietra c’è
un disegno che si rivelerà se ne segui il tracciato tutto spigoli. Se credi
questo, sbagli: a Pentesilea è diverso. Sono ore che avanzi e non ti è chiaro
se sei già in mezzo alla città o ancora fuori. Come un lago dalle rive basse
che si perde in acquitrini, così Pentesilea si spande per miglia intorno in
una zuppa di città diluita nella pianura: casamenti pallidi che si danno
le spalle in prati ispidi, tra steccati di tavole e tettoie di lamiera. [...] Se
nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbrato circondario esista una
Pentesilea riconoscibile e ricordabile da chi c’è stato, oppure se Pentesilea
è solo periferia di sé stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hai rinunciato
a capirlo.172
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che è città e ciò che è oltre, fuori la città, senza ancora essere radicalmente
altro, in altri termini: il periurbano, ciò che si colloca al di fuori della
città senza più dunque farne parte ma che ancora non partecipa ad altro
spazio che sia altrettanto ben definibile, questo luogo terzo di ormai
drammatica pervadenza, rende gli sforzi definitori dei geografi quasi
del tutto vani. Non bastano i complessi sistemi di analisi multicriteria,
che tentano di unire in un unico processo di definizione una molteplicità
di eventi e situazioni, così da fissare finalmente un confine, anzi: due
confini, quello tra città e periurbano e quello ulteriore tra periurbano e
rimanenza di mondo, non bastano le alchimie che vedono riunirsi intorno
al capezzale della metropoli geografi, sociologi, filosofi, economisti,
urbanisti. Non bastano i loro sforzi perché sfugge l’elemento cruciale:
il fatto che la città che si tenta di analizzare e di rianimare è metropoli
e non urbe e la metropoli non ha né mura né porte, nessun confine la
divide dai luoghi ulteriori che essa pervade e compenetra, addensa e
coagula, omogenizza e differenzia, comprime ed espande. La metropoli
è strutturata per pieghe, per ripiegamenti e distensioni, si protende
come un tessuto vischioso che segue le forme delle superfici, come
deponendosi sopra ogni altro mondo possibile, ripiegandosi in ogni
anfratto, insinuandosi nelle cavità della terra immaginate da Platone
e riavvolgendosi nelle strutture più dense, quelle che danno forma a
ciò che abitualmente si intende per città. Lo stesso periurbano cessa di
avere un’identità, è inghiottito nel metabolismo della metropoli, fa parte
della metropoli; l’eschatiai è assorbita dal sistema, non è più la terra
che separa la città dalla natura, metà contadina e metà selvaggia, terra
di fauni, terra di nessuno oscillante da un polo d’attrazione all’altro;
il luogo liminare, il luogo di transizione è ormai un enorme spazio
pulsante, in continuo divenire, che il visitatore attraversa e sfugge
con immensa fatica, percorrendo spazi indeterminati, sfrangiati, pezzi
di un mondo indefinibile con la precisione che si vorrebbe, territori
flou, luoghi di percolazione tra un dentro così lontano da non essere
ormai più indicabile ed un fuori altrettanto complesso e rimescolato.
Ancora pieghe, ripiegamenti e dispiegamenti, come quelli della pelle
o del labirinto, quelli che sembrano disegnare la superficie del mare o
l’immagine di un mondo fatato.
205
QUINTA VARIAZIONE
SANDHYA
Crepuscoli, aurore, tramonti, sogni
divergere Erebo ed il resto di ogni esistenza che non potrà mai essere
tanto profondamente tenebrosa, oppure che ponga Etere sopra il cielo
stesso, dove soltanto le divinità possono posare il loro trasparente
sguardo – quello dei terrestri potrebbe adombrare quella luce assoluta
e verginale. Notte ammette questo alternarsi con Emera, il giorno, non
esclude affatto che vi sia un momento in cui lascia il campo libero
a ciò che ha generato, giusto per il tempo necessario a riproporsi, di
nuovo gradualmente, all’imbrunire, quando Emera si fa a sua volta da
parte senza mai imporsi o ritardare il succedersi di questo gioco, fino
a prendere posto, lentamente, dando così libero sfogo all’agire di un
altro dei suoi generati, Hypnos, il Sonno, fratello di Tanate, la Morte.
Da Hypnos nasce anche Morpheus, colui che rende possibile il sognare,
Phobetor, che presiede alle presenze mostruose che possono affollare il
sogno, e, infine, Phantasos, al quale si devono le immagini materiali che
si susseguono nella mente di coloro le cui palpebre sono state lambite
dai petali di papavero che Morpheus porta sempre con sé per indurre
il sogno. E, ancora, da Notte vengono anche le Esperidi, le tre ninfe
chiamate a custodire il giardino dei pomi di Era, sorella e poi moglie di
Zeus, figlia di Kronos e di Rea, la quale era stata a sua volta generata da
Gaia e da Urano. Scrive Esiodo:
Notte poi partorì l’odioso Morso e Ker nera e Morte, generò Sonno, generò
la stirpe dei Sogni; per secondo poi Biasimo e Sventura dolorosa non
giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura; e le Esperidi che, al di
là dell’inclito Oceano, dei pomi aurei e belli hanno cura, e dell’albero che
il frutto ne portano; e le Moire e le Kere generò, spietate nel dare le pene.
[...] E generò anche Nemesi, sciagura degli uomini mortali, Notte funesta;
e dopo di essa Inganno e Amore e Vecchiaia rovinosa, e Contesa dal cuore
violento.174
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Nel confine
175. La luce, onda elettromagnetica non diversa dalle onde radio, da quelle dei radar, ed
anche dai raggi X e dalle radiazioni gamma, viene osservata normalmente come bianca.
Tale appare dalla sommatoria delle sue diverse componenti, che vanno dal rosso, che
presenta frequenza minore e, per converso, maggiore lunghezza d’onda, fino a 750 nm,
che vale 0,75 millesimi di millimetro – oltre questo valore si esce dal visibile e si entra
nell’infrarosso – fino al violetto, la cui lunghezza d’onda minima è pari a 380 nm, pari a
0,38 millesimi di millimetro – al di sotto di questo valore si esce nuovamente dal visibile
e si sconfina nell’ultravioletto.
176. Per la precisione: azoto, sotto forma di N2, per il 78,08 per cento; ossigeno, sotto
forma di O2, per 20,95 per cento.
211
Stefano Bevacqua
212
Nel confine
durata; egli è tanto più lungo quanto più obliquo è il circolo descritto dal
Sole, o quanto più ci avviciniamo ai poli, il che è la stessa cosa.177
Come l’aria si deve far più chiara quanto più la fai finire bassa. Perché
quest’aria è grossa presso alla Terra, e quanto più si leva più s’assottiglia,
quando il Sole è per levante riguarderai il ponente, partecipante di mezzodì
e tramontana, e vedrai quell’aria grossa ricevere più lume dal Sole che la
sottile, perché i raggi trovano più resistenza. E se il cielo alla vista tua
terminerà con la bassa pianura quella parte ultima del cielo sarà veduta
per quell’aria più grossa e più bianca, la quale corromperà la verità del
colore che si vedrà per suo mezzo, e parrà lì il cielo più bianco che sopra
te, perché la linea visuale passa per meno quantità d’aria corrotta da grossi
umori. E se riguarderai inverso levante, l’aria ti parrà più scura quanto più
s’abbassa, perché in dett’aria bassa i raggi luminosi meno passano.180
179. Il riferimento è ai testi ugaritici e cananei citati da Mircea Eliade in Storia delle
credenze e delle idee religiose, Rizzoli, Milano 1996, p. 170.
����.Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, Brancato, Catania 1990, pp. 79-80.
215
Stefano Bevacqua
La legge del giorno mette ordine nel nostro esserci, esige chiarezza,
consequenzialità e fedeltà, lega alla ragione e all’idea, all’Uno e a noi
stessi. Essa vuole la realizzazione nel mondo, la costruzione nel tempo,
il compimento dell’esserci lungo una via che va all’infinito. Ma ai confini
del giorno ci parla qualcos’altro. L’averlo respinto non ci lascia quieti. La
passione per la notte sconvolge ogni ordine, per precipitare nell’abisso
atemporale del nulla che tutto trascina nel suo vortice. Per essa, ogni
costruzione che si manifesta storicamente nel tempo è soltanto qualche
cosa di illusorio. Siccome la chiarezza non le consente di penetrare nulla
di essenziale, essa la trascura per rivolgersi a tutto ciò che non è chiaro,
perché è l’oscurità atemporale dell’autentico. Per una sorta di necessità
incomprensibile e ingiustificabile, diventa incredula e infedele di fronte
al giorno. Non ci sono per essa né compiti, né fini, perché essa è quella
forza impetuosa che precipita nel mondo per raggiungere, nell’abisso del
suo annientamento, la propria compiutezza. [
] Il tentativo di descrivere in
termini più concreti il fenomeno della passione per la notte fallisce perché
ogni espressione precisa e determinata entra nella luce del giorno e quindi
vi appartiene e soggiace alla sua legge. Nel campo della riflessione il
����.J.P. Vernant, L’Univers, les dieux. les hommes, Éditions du Seuil, Paris 1999, p. 23.
217
Stefano Bevacqua
quindi nella traduzione finale in italiano diviene: “Per coloro che son
desti c’è un mondo unico e dunque comune, mentre coloro che dormono
si volgono ciascuno a un proprio mondo”. Aggiunge Heidegger:
220
Nel confine
E ancora:
Appena Iride entrò in quella sacra dimora, scostando con le mani i sogni che
le si paravano dinnanzi, questa si illuminò tutta del fulgore della sua veste.
Il dio tentò di sollevare le palpebre pesantemente abbassate, ma il capo gli
ricadde più volte, sfiorando con l’oscillare del mento il petto; infine riuscì
a scrollarsi se stesso di dosso, e appoggiandosi al gomito chiese all’ospite,
che ben conosceva, quale fosse il motivo della sua venuta. Ella gli rispose:
“O Sonno, signore della quiete, o Sonno, il più placido degli dei, che sei
pace per il cuore e non conosci affanni, che ristori i copri stanchi delle
loro pesanti occupazioni e li rendi atti alla nuova fatica, devi ordinare a
uno dei sogni che riproducono le immagini del reale di recarsi da Alcione,
nell’Erculea Trachine, assumendo l’aspetto del re in veste di naufrago.
Questo è il volere di Giunone”. Compiuto il suo incarico, Iride se ne andò,
perché non poteva resistere più a lungo all’impulso di addormentarsi: non
appena sentì il sonno insinuarsi nelle sue membra, fuggì via sulla scia di
quell’arco per il quale era appena venuta.192
al Die Traumdeutung freudiano, datato del 1899, quanto ciò che per
necessità precede il sonno ed il sogno che lo abita, l’addormentamento,
è stato poco analizzato, forse proprio in ragione del suo essere
difficilmente descrivibile e definibile, luogo di transizione del quale non
si possono fissare i margini.
Per ritrovare il senso di un arretramento della luce ovvero della
condizione di veglia che generi la percezione di un luogo a sé stante
ed indipendente dalle sue contiguità, occorre piuttosto rivolgere
attenzione alla poesia, dove con maggiore frequenza si incontrano
passaggi direttamente dedicati ovvero nei quali la presenza di questa
liminarità emerge come necessaria, quasi il poeta non possa trattenerne
l’evidenza in ragione del fatto che esso stesso la sta percorrendo, al
limite della consapevolezza e mai nella direzione della freccia che
si produce nel salto di livello tra un prima e un dopo, ma sempre
trasversalmente, financo adagiandosi in essa, come in un confortevole
giaciglio. Crepuscolo abitato dalle emozioni, dai dolori, dai desideri e
dalle pulsioni del poeta, che qui ritrova una parte di sé stesso altrimenti
dimenticata oppure che non trova motivo di porsi e presentarsi. Oppure,
crepuscolo abitato dal mondo nel quale lasciar riflettere tutt’altre
passioni e impulsioni, perché crepuscolo che nel suo attenuare la luce
permette l’illecito, trasformando il male in ammissibile, levigandone
le asperità più evidenti nel rossore di una luce più bassa, che attenua
i contrasti fino a rendere quasi lecito ciò che di giorno è peccato, così
inghiottendo nella liminarità tutto ciò che vi proietta in questa instabile
transizione, temporalmente circoscritta e destinata a sciogliersi in una
notte che richiamerà nuova luce. Innumerevoli sono le occasioni che
hanno visto i poeti giocare con il crepuscolo, penetrandolo con il loro
pensiero oppure abitandolo con le loro impulsioni.195
. Viene alla memoria Hölderlin, con alcuni passaggi dei versi raccolti in Diotima, per
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lo più scritti tra il 1797 e il 1800: (Fantasia della sera) “Nel cielo del tramonto è primavera
| e le rose fioriscono infinite | e il mondo splende in una pace d’oro. | Prendetemi lassù
con voi, o nubi || di porpora! potessero dissolversi | là, in luce e aria, amore e dolore! ! - Il
prodigio, spaurito dalla folle | preghiera, si dilegua. Viene l’ombra.” (Mattino) “Brillano
i prati di rugiada, è desta | la sorgente che va più frettolosa, | il faggio china il capo
incerto, lustra | e mormora il fogliame. Rosse fiamme || listano intorno il grigio della nube,
| annunciatrici, ondeggiano in silenzio, | come flutti che battono la riva, | alte, sempre
più alte, trasmutando. || Vieni, sali, ma non troppo veloce | o giorno d’oro, al vertice del
cielo!” (Sole tramonta) “Sole, tramonta: poco ti hanno notato. | Non ti hanno conosciuto,
sacro sol, | perché sul loro affanno sei trascorso | senza pena e in silenzio. || Per me sorgi
e tramonti in amicizia | o Luce, ti salutano i miei occhi | o glorioso; perché so venerare
in silenzio | da che Diotima mi sanò dal male.” [Estratti da F. Hölderlin, Diotima, in
Le liriche, Adelphi, Milano 1977, pp. 277, 279 e 301.]. Insieme a Hölderlin, animato
dal timore e dall’esaltazione unite di fronte allo spettacolo illanguidente del morire e
225
Stefano Bevacqua
La bellezza della stanza di una casa giapponese, costruita soltanto dal gioco
del grado di opacità dell’ombra, è tale da poter fare a meno di qualsiasi
accessorio. [...] La pittura, qui, non è che una superficie modestamente
deputata a raccogliere una luce debole ed indecisa, la cui funzione è
assolutamente la stessa di quella di un muro sabbiato. E risiede proprio
qui la ragione per cui, nel scegliere una pittura, attribuiamo la massima
importanza all’età ed alla patina, perché una pittura recente, anche se
realizzata con inchiostri diluiti o con colori pallidi, rischia, se si presta
attenzione, di distruggere l’ombra. [...] Adesso, provate a spingervi fino alla
stanza più lontana; i tramezzi mobili e i paraventi dorati, sistemati in una
oscurità che mai alcuna luce esterna penetra, captano la punta estrema del
chiarore del lontano giardino, dal quale non so nemmeno quante stanze ci
separino: non avete mai scorto quei riflessi come un sogno. Questi riflessi,
simili alla linea dell’orizzonte al crepuscolo, diffondono nella penombra
circostante un pallido barlume dorato, e dubito che in qualche altro luogo
si possa incontrare una bellezza altrettanto pregnante.196
spalle al Sole non sia certo una luce violenta e multicroma quella che
sarà dedicata a quelle stanze e quei corridoi, dietro quell’ultima tenda,
ma un barlume dorato, generato con la più intima attenzione che sia
necessaria a preservare l’ombra, essenza magistrale della casa. Si può
immaginare quell’ambiente come attraversato da una fioca luminosità
che sarà identica il giorno come la notte, l’estate come l’inverno, nella
veglia di chi la abita e nel suo sonno; come nel paese dei Cimmeri,
dove non è mai del tutto notte senza riuscire ad essere nemmeno del
tutto giorno, in un crepuscolo transitivo costante, che la rotazione
terrestre si limita a ad accentuare verso un segno o verso l’altro, ma in
maniera sempre parziale e indecisa. Luogo boreale, visitato da Odisseo
e frequentato idealmente anche da Giorgio De Chirico, che dice di come
siano proprio le ombre, le ombre che si allungano smisuratamente nel
crepuscolo a spingersi fino a quei luoghi liminari, posti al limite di ogni
confine, ma che quel confine mai mostrano:
I raggi del Sole si allungavano ora quasi orizzontalmente sulla strada di cui
imporporavano la polvere e l’ombra dei pastori e dei vincastri si allungava
essa pure; si allungava smisuratamente, mostruosamente, incredibilmente;
traversava le città, le contrade ed i mari; arrivava assai lontano, fino al
paese dei Cimieri, laggiù, ove i venti freddissimi conservavano a lungo la
neve sulle montagne; l’ombra dei pastori e dei vincastri toccava ora quei
paesi i cui abitanti sono tutto l’anno vestiti con spesse pellicce e hanno una
mitologia erotica e complicata. Poi il Sole spariva completamente dietro la
linea delle colline basse, all’orizzonte; allora le ombre salivano nel cielo e
si stendevano sulla Terra.197
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Stefano Bevacqua
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����.H. Bergson, L’évolution créatrice, Les Presses universitaire de France, Paris 1959,
pp. 14 e 17.
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Nel confine
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. Da numerose ricerche condotte in ambito neurofisiologico, emerge che le condizioni
di massima produttività fisica e intellettuale delle persone si verificano quando il sonno
è distribuito in tre-cinque segmenti della durata di una o due ore soltanto, per un totale
233
Stefano Bevacqua
simbolico della reiterazione del gesto vitale, così che per millenni
l’avvento della primavera è stato designato come atto d’inizio del ciclo
vitale dell’anno, fino a coagulare in quelle giornate tutto il senso della
fecondità e della vitalità. È il mito di una Diana-Artemide che James
George Frazer ha saputo poeticamente ridisegnare, al fine di dare a
quella dea il contorno di simbolo della prosperità estiva, della fertilità
di terra e cose, piante ed animali, uomini e divini:
Diana non era però solo patrona degli animali selvatici, signora di boschi
e colline, di radure solitarie e risonanti fiumi; come personificazione
della luna, specialmente, pare, della gialla luna d’agosto, essa colmava le
fattorie di frutti divini e ascoltava le preghiere delle partorienti. Nel suo
sacro bosco di Nemi, era particolarmente venerata come dea del parto,
che concedeva prole alla famiglia. Diana, quindi, come la greca Artemide,
con cui era sempre identificata, si potrebbe definire dea della natura in
genere e della fecondità in particolare. Non c’è da stupirsi, quindi, se,
nel suo santuario sull’Aventino fosse raffigurata da un’effige riportata
dall’Artemide Efesina dalle molte mammelle, con tutti i suoi emblemi di
esuberante fertilità.200
precipitando poi in una serie di cascate nelle paurose gole della valle. [...]
Il tempio di Afrodite, di cui massicci blocchi squadrati e una bella colonna
di granito di Siene sono rimasti a indicare l’ubicazione, si ergeva su una
spianata dirimpetto alla sorgente del fiume, dominando un paesaggio
stupendo. [...] Fu qui, secondo la leggenda, che Adone incontrò Afrodite
per la prima, o l’ultima, volta, e qui che fu sepolto il suo corpo straziato.
Difficilmente si potrebbe immaginare scenario più adatto ad una tragica
storia d’amore e di morte. [...] In un monumento che sorge a Ghineh, su
una parete di roccia, al di sopra di una nicchia grossolanamente scavata
nella pietra, sono scolpite le figure di Adone e Afrodite. Il giovane, con la
lancia in resta, pronto a fronteggiare l’attacco di un toro; la dea, seduta in
atteggiamento dolente. [...] I fedeli credevano che ogni anno Adone fosse
ferito a morte sulle montagne e che ogni anno il volto stesso della natura
si tingesse del suo sacro sangue. Così, anno dopo anno, le fanciulle siriane
ne piangevano la crudele e prematura sorte, mentre il suo fiore, l’anemone
scarlatto, sbocciava tra i cedri del Libano e il fiume scorreva rosseggiante
verso il mare.201
����.P. Calabrese, La vertigine del tramonto, in “Sette – Corriere della Sera”, 29 luglio
2010. Il 12 settembre 2010 Pietro Calabrese ha lasciato questo mondo. Questa citazione
è anche un omaggio all’uomo, al giornalista e al Direttore dell’autore di queste pagine.
203. M. Eliade, Storia delle credenze, cit., pp. 161-162.
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SESTA VARIAZIONE
HERMAFRODITOS
Transizioni fase, duplicità, molteplicità
schematicità del fare scientifico, non incontrò alcuna fortuna nel mondo
accademico e in quello industriale. Colpa di quel nome sfortunato,
cristalli liquidi, scrisse poi, alcuni anni dopo, il fisico e mineralogista
francese Georges Friedel, al quale si deve il conio del termine di “stato
mesomorfico”:
che richiede, per esistere, ciò che lo precede, il cristallo, e ciò che ne
segue, il fluido, ma che presenta, nelle adatte condizioni ambientali,
una condizione di stabilità niente affatto diversa da quella tipica del
solido o del liquido. A mutare radicalmente è l’organizzazione di questi
composti, capaci ora di aderire a superfici differenti in funzione delle
caratteristiche che possono assumere modificando la disposizione
delle molecole che li costituiscono, ora di assumere conformazioni
diverse in funzione dell’angolazione con la quale vengono colpiti da
un irraggiamento (elettromagnetico: dalle onde radio, alla luce, alle
radiazioni ad elevata energia). Un comportamento dunque non dissimile
da quello delle membrane cellulari, le quali, in effetti, presentano
anch’esse tutti i caratteri dello stato mesomorfico: non materia solida
fissamente reticolata e nemmeno liquido libero capace di occupare ogni
anfratto; piuttosto, un semifluido altamente organizzato, flessibile e
mobile, capace di mutare aspetto e condizione e di ospitare molecole
estranee; stesso disegno e natura, stessa logica di funzionamento fondata
su elementi molecolari strutturanti e parti flessibili che garantiscono
mobilità e adattamento, con analoghe alternanze tra sequenze idrofobe
ed idrofile, identica capacità di mutare forma e dimensione senza
perdere il proprio carattere strutturale. Affermare che le membrane
cellulari sono costituite da cristalli liquidi è inesatto, ma soltanto in
ragione della stessa inesattezza del termine di cristallo liquido, come
Friedel mai si stancava di ricordare, poiché, effettivamente, essi non
sono più un cristallo e nemmeno realmente sono un liquido. Le une
e gli altri, le membrane e i corpuscoli che si agitano sugli schermi di
innumerevoli apparati elettronici, sono null’altro che luoghi liminari
dotati di proprie dimensioni e temporalità, nell’ambito dei quali si
svolgono eventi di natura chimico-fisica, capaci di ospitare per brevi
istanti o per lunghi tempi elementi estranei alla loro struttura originaria
e, per questo, di fornire informazioni a ciò che racchiudono ed a ciò
che li circonda. È un cristallo liquido, ovvero: un materiale in uno stato
mesomorfico, anche la soluzione di acqua e sapone con la quale ci si
lava, la quale si organizza in un sistema lamellare con un volto idrofilo
ed uno idrofobo, ciò che permette di eliminare i grassi in eccesso che
si trovano sulla pelle una volta che, riducendo la concentrazione del
sapone nella miscela (ciò che avviene risciacquando le mani), viene
meno la conformazione mesomorfica. Così come servono 145,5°C
perché il benzoato di colesterile entri nello stato mesomorfico, così
al sapone pare necessario essere disciolto in una determinata quantità
d’acqua, al di sotto della quale il cambiamento di fase non avviene;
analogamente, il composto studiato da Reinitzer cessa di essere
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Nel confine
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. Può trattarsi di eccitazione termica, elettrica, magnetica, meccanica. In ogni caso si
tratta di energia, che si presenta in diverse forme ultime ma perfettamente equivalenti tra
loro.
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Innanzi tutto, i generi degli uomini erano tre, e non due come ora,
ossia maschio e femmina, ma c’era anche un terzo che accomunava i
due precedenti, di cui ora è rimasto il nome, mentre esso è scomparso.
L’androgino era, allora, una unità per figura e per nome costituito dalla
natura maschile e da quella femminile accomunate insieme, e nella forma
e nel nome, mentre ora non ne resta che il nome, usato in senso spregiativo.
Inoltre, la figura di ciascun uomo era tutta intera rotonda, con il dorso e
i fianchi a forma di cerchio; aveva quattro mani e tante gambe quanto
mani, e due volti su un collo arrotondato del tutto uguali. E aveva un’unica
testa per ambedue i visi rivolti in senso opposto, e quattro orecchie e due
organi genitali. […] Perciò i generi erano tre e di queste nature, in quanto
il maschio aveva tratto la sua origine dal sole, la femmina dalla terra e
il terzo sesso, che partecipa della natura maschile e di quella femminile,
dalla luna, la quale partecipa della natura del sole e della terra.210
In termini generali, si può dire che tutti questi miti, riti e credenze hanno
lo scopo di ricordare agli umani che la realtà ultima, il sacro, la divinità,
superano la loro possibilità di comprensione razionale, che il Grund è
coglibile unicamente in quanto mistero e paradosso, che la perfezione
divina non deve essere concepita come una somma di qualità e virtù,
ma come una libertà assoluta, al di la del Bene e del Male; che il divino,
l’assoluto, il trascendente si distinguono qualitativamente dall’umano, dal
relativo, dall’immediato perché non costituiscono né particolari modalità
dell’essere, né situazioni contingenti. In una parola, questi miti, riti e teorie,
implicando la coincidentia oppositorum, insegnano agli uomini che la via
migliore per essere timorati di Dio o della realtà ultima è di rinunciare,
non fosse che per qualche istante, a pensare e a immaginare la divinità in
termini di esperienza immediata.212
Di necessità, dunque, ciò che sembra far apparire la riunione di ciò che
da tempo immemore è stato differenziato e posto quindi in opposizione
secondo l’universale schema binario, apparirà come sospetto e sinistro,
a meno che non venga proposto all’interno di un rito o di una preghiera,
comunque in un ambito che, per così dire: permetta di sollevarsi
dalla terrenità per levitare almeno un poco sopra di essa. E ciò non
per rendere materiale quella possibilità di riunione, bensì, e proprio
all’opposto, per scongiurare la sua reale possibilità, rifugiandola in un
limbo costruito con la potenza dell’immaginazione unita all’emozione
. M. Eliade, Méphistophélès et l’androgyne, Gallimard, Paris 1962, p. 164.
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. Ivi, p. 117.
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Nel confine
cristiana sia superiore ad altre e per ciò giusta in relazione ad una sua
presunta capacità di svelamento, ma soltanto che l’atteggiamento ideale
sotteso a questa credenza appartiene in maniera esemplare ad un modo
di concepire il mondo come non interamente e semplicemente inscritto
nella constatazione percettiva delle evidenze. Constatazione alla quale
consegue la necessaria scissione tra soggetto ed oggetto e la successiva,
e altrettanto necessaria, classificazione degli oggetti del mondo secondo
criteri stabiliti a priori, prima della percezione medesima, in base ad
un procedere che già contiene i risultati nelle proprie premesse. Un
procedere, questo, che di fronte all’equivoco di un cristallo che assume
le qualità di un fluido, ad un fluido che si irrigidisce fino a divenire
solido, ad un essere che riassume la differenziazione fatale del maschile
e del femminile, non può che rimanere afono, come se il mondo avesse
tradito le sue giuste aspettative proponendo la diversità invece del
previsto ordine, l’equivocità di ciò che non può essere classificato
invece della tranquillizzante sistemazione di ogni tessera del mosaico
nel posto ad essa preliminarmente destinato. Si è già constatato, del
resto, come la riunione nell’uno sia cosa del divino soltanto, che
l’uomo può certamente onorare e perfino imitare, come nelle cerimonie
religiose e nei riti – la stessa eucarestia può essere considerata come
un atto di riunione simulata, quella tra il corpo di Cristo, inteso come
materiale umanità del divino in terra, e il credente. Soltanto un dio,
infatti, può riassumere in sé ciò che egli stesso ha diviso, risalendo, per
ricongiungimenti successivi, dalla riunione del maschile e del femminile
per finire con quella cosmologica della terra e del cielo fino al chaos
primitivo. Nessuna meraviglia, dunque, che l’essere che per eccellenza
simboleggia la riunione di maschile e di femminile, Hermafroditos,
fosse egli stesso un divino, in quanto figlio di Hermes e di Afrodite e
che il suo divenire uomo e donna insieme avvenga attraverso una sorta
di perfusione tra il suo corpo – e la sua anima – e quella di un’altra
divinità, la Naiade Salmacide, come in un amplesso eterno, dal quale
nessuno potrà più riprendere la propria identità. Soltanto un dio poteva
sfidare la differenza ponendosi come equivocità, soltanto una dea poteva
attribuirgli quella metà di essere che la divisione primigenia gli aveva
sottratto. Eppure Hermafroditos non è affatto felice: è cantato da Ovidio
come vittima del desiderio della Naiade ed il suo nuovo stato, il suo
cadere o assurgere all’equivocità che lo riporta alle origini dell’uomo,
non sembra affatto costituire motivo di piacere o di orgoglio.215
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. “Dentro le grotte dell’Ida le Naiadi allevarono un fanciullo nato a Mercurio dalla dea
di Citera. Il suo aspetto era tale, che vi si ravvisavano sia la madre che il padre; e anche
il suo nome era formato con i loro nomi. Non appena compì tre volte cinque anni, lasciò
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Nel confine
i monti natii [...] vide un laghetto, limpido e rilucente fino al fondo. […] Vi abita una
Naiade, ma non una brava a cacciare o avvezza a curvare l’arco o a fare gare di corsa: è
l’unica Naiade che la veloce Diana non conosca. […] Spesso raccoglie fiori e anche quella
volta per caso ne raccoglieva, quando vide il fanciullo e, vistolo, desiderò di averlo. […]
“O fanciullo degnissimo di essere preso per un dio, se sei un dio puoi essere Cupido, e
se sei mortale, beati coloro che ti hanno generato, felice tuo fratello e fortunata davvero
tua sorella, se ne hai una, e la nutrice che ti offrì le mammelle, ma infinitamente beata più
di tutti colei che è tua fidanzata, se hai una fidanzata, se a qualcuna concederai l’onore
di sposarla! Se ce l’hai sia questa un’avventura furtiva, ma se non ce l’hai, scegli me ed
andiamo ad unirci nello stesso letto”. […] “La smetti? – disse il giovane – Altrimenti
scappo e lascio te e questo posto!”. La Naiade Salmacide si spaventò e rispose: “Questo
posto te lo lascio libero, straniero”, e voltate le spalle, finse di andarsene, sempre però
girandosi indietro a guardarlo, e inoltratasi in una macchia si appiattò tra gli arbusti,
inginocchiata. […] “Evviva, è mio!”, esclama la Naiade, e gettatasi via tutte le vesti si
slancia in mezzo all’acqua e afferra l’adolescente che si ribella, gli strappa forza dei baci,
gli infila sotto le mani e gli palpa il petto. […] “Dibattiti pure, cattivo, ma tanto non
sfuggirai. O dei, fate che mai venga il giorno che lui si stacchi da me e io da lui!”. La
preghiera trova degli dei che acconsentono: e infatti i corpi dei due si mescolano e si
fondono, si amalgamano in una sola figura. Come quando si rivestono due rami con un
pezzo di corteccia, col tempo li vedi saldarsi e crescere insieme, allo stesso modo, una
volta unitesi le membra in un intreccio tenace, non sono più due ma una forma duplice,
e non puoi più dire se sia femmina o maschio fanciullo, non sembrano nessuno dei due
e sembra tutt’e due”. [Ovidio, Metamorfosi, IV, 288-379, Einaudi, Torino 1979, pp. 147-
151].
����.G. Colli, La sapienza greca, cit., 14[A 6].
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. Ed in perfetta analogia anche la versione di Simone Weil, che traduce dal tedesco in
francese, ma riprendendo dall’origine il testo greco.
221. G. Colli, La sapienza greca, cit., 14[A 12], 14[A 13], 14[A 14].
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SETTIMA VARIAZIONE
HERMES
Ponti, strade, sentieri
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congiungere due parti del paesaggio, lo stesso rapporto che offre al corpo
nel soddisfare la realtà della sua concretezza. [...] Poiché l’uomo è l’essere
di congiunzione che deve separare, e che non può congiungere senza aver
separato – occorre anzitutto concepire idealmente come una separazione
l’esistenza delle due sponde, per riunirle attraverso il ponte.229
Gli uomini che tracciano per primi un cammino tra due luoghi hanno così
compiuto una delle più grandi imprese umane. Anche se soventemente
essi hanno circolato da un luogo all’altro, collegandoli, per così dire,
soggettivamente, è stato inoltre necessario che essi segnassero visibilmente
il cammino sulla superficie della terra affinché i luoghi in questione
fossero obiettivamente collegati; la volontà di congiunzione si trasforma
così in una messa in forma delle cose offerte a questa stessa volontà ad
ogni passaggio, senza che essa dipenda più dalla frequenza o dalla rarità
dei tragitti percorsi. La costruzione delle strade è in una qualche misura
una prestazione specificamente umana; anche l’animale non cessa mai di
sormontare le distane e spesso nella maniera più abile e complessa, ma
mai riunisce l’inizio e la fine di un percorso, mai opera il miracolo del
cammino: ossia, coagulare il movimento attraverso una struttura solida,
che esce da lui.230
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Im Lauf der Zeit234. Bruno abita nel suo autocarro, non ha più una casa;
vive nella strada, ha deciso di non andare fino in fondo al cammino, si
sofferma per sempre lungo il percorso, tra qui e là, facendo della strada
medesima il suo qui che esclude ormai il raggiungimento di qualsiasi
là. L’autocarro è una dimora senza soglia, senza elementi liminari di
transizione tra esterno ed interno. Non costituisce limite nemmeno
il parabrezza ove si riflette il mondo che circonda la casa di Bruno e
Bruno medesimo: immagini sovrapposte che dunque si confondo l’una
nell’altra, al punto che diviene impossibile stabilire con esattezza a
quale mondo appartengano, se a quello abitato dall’autocarro, ovvero
la strada – interminabile perché non ha mai fine il viaggio di chi abita
nella strada – o a quello abitato da Bruno. Quando si rinchiude nel suo
autocarro, Bruno accosta il portellone posteriore e così, dalla riunione
dei due battenti, si ricompone la scritta Hermes, il ladro messaggero, il
dio della strada e di chiunque la abiti. Soltanto nell’intimità della casa
viaggiante, sollevata dal suolo, che occupa la strada senza quasi toccarla
– la superficie d’appoggio dei pneumatici è minima rispetto al volume
dell’autocarro – Bruno si pone sotto tutela del dio, ché, altrimenti, con
i battenti aperti e rivolti sui fianchi del vano di carico, soltanto si può
leggere Her, sul fianco destro, e mes su quello sinistro. Nella penombra,
invece, il dio si propone al personaggio di Wenders, auto-condannato ad
un eterno mutare di luogo. Sorta di Ulisse, ma che non fa mai ritorno,
che sceglie deliberatamente di lasciare la normalità del qui senza mia
giungere ad un là, sempre rimanendo sospeso nell’atto di un con-
giungimento che non trova alcun epilogo.
Kàroly Kerényi, nelle intense pagine che ha dedicato al mito di
Hermes, coglie con profondità la differenza che corre tra il viandante ed
il viaggiatore, laddove il primo tiene ben saldi i piedi per terra e parte
da un luogo per giungere ad un altro, mentre il secondo come levita sul
suolo senza mai compiere il suo tragitto. Il primo effettua un per-corso,
il secondo rimane nel corso – nel corso del tempo. Scrive Kerényi:
����.K. Kerényi, Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino 1979, pp. 58-59.
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La maggior parte dei passaggi sono stati costruiti a Parigi nei quindici anni
successivi al 1822. La prima condizione per il loro sviluppo è l’apogeo
del commercio dei tessuti. Fanno la loro apparizione i negozi delle novità,
primi insediamenti commerciali ad avere costantemente presso i magazzini
merci in quantità considerevole. Sono i precursori dei grandi magazzini.
È a quest’epoca cui fa allusione Balzac quando scriveva: “Il grande
poema del mettere in mostra canta le sue strofe colorate dalla Madeleine
fino alla Porte Saint-Denis”. I passaggi sono i nodi del commercio delle
merci di lusso. In vista della loro sistemazione, l’arte entra al servizio dei
commercianti. I contemporanei non si stancano mai di ammirarli. Per molto
tempo, i passaggi rimarranno un’attrazione turistica. Una Guide illustré de
Paris dice: “Questi passaggi, recente invenzione del lusso industriale, sono
dei corridoi dal soffitto vetrato, con i cornicioni di marmo, che scorrono
attraverso interi blocchi di immobili i cui proprietari si sono riuniti per
questo genere di realizzazioni. Sui due lati del passaggio, che riceve la luce
dall’alto, si allineano i negozi più eleganti, in modo che ognuno di questi
passaggi diviene una città, un mondo in miniatura”. È nei passaggi che
viene per la prima volta sperimentata l’illuminazione a gas. La seconda
condizione richiesta per lo sviluppo dei passaggi è costituita dagli inizi
delle costruzioni metalliche. [...] Per la prima volta dai Romani, un nuovo
materiale da costruzione artificiale, il ferro, fa la sua apparizione. [...] Si
evita l’impiego del ferro per gli immobili, e lo si incoraggia per i passaggi,
le halles d’esposizione, le stazioni – tutte costruzioni che mirano a scopi
transitori.243
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che non nella loro materialità, la quale, anzi, appare come soltanto
presunta: strade sopra le quali si marcia, certamente, ma senza scalfirne
la superficie, come soltanto un gregge che transuma oppure delle genti
che mutano il loro luogo possono garantire. Sono strade anche i tratturi
che dalle creste appenniniche centrali si dipanano fino al Tavoliere
pugliese per congiungere i pascoli estivi dei monti abruzzesi con il
tiepido pianoro che si spinge fino all’arsura salentina. Strade in qualche
misura estreme, che non si piegano ad alcuna classificazione né
formalizzazione in quanto la loro esistenza deriva dalla loro continua
rigenerazione, dal loro stesso utilizzo nel congiungimento. Le strade
dell’antichità, piuttosto che quelle ben meno solide e mantenute del
medioevo, e poi ancora le strade della modernità, fino alle odierne
grandi vie di comunicazione – strade paradossalmente trasformate in
fiumi, ché accolgono un flusso continuo e complesso di elementi in
continuo movimento relativo, come sarebbe per un fluido del quale non
si riesca a cogliere le unità discrete –, le strade alle quali si è comunemente
portati a pensare nel denominarle, appaiono come ben materiali,
constatabili oppure immaginabili come oggetti della realtà presente o di
quella passata. L’idea di strada pensa una superficie solida, compatta,
capace di reggere il peso dei viandanti e la leggerezza dei viaggiatori, le
ruvide ruote dei carri trainati dai bovi e i possenti pneumatici intagliati
degli autoarticolati. Strada con un bordo ben definito, con un ciglio di
pietre che la delimita quasi a proteggerla dal resto del mondo, che ne
potrebbe invadere la superficie, oppure con un ben visibile e rigoroso
margine che segna anche uno sbalzo di livello, per cui in basso scorrono
i veicoli e leggermente più in alto, in una peraltro incerta protezione,
muovono le persone private dei veicoli – che li si chiama pedoni, come
se la loro essenza derivasse dalle protuberanze piatte sulle quali si
possono reggere eretti; appunto: in piedi. Quando poi non è l’invalicabile
protezione di un’autostrada, racchiusa in un luogo nel quale è impossibile
accedere e dal quale è altrettanto impossibile uscire se non attraverso
specifici percorsi – svincoli e rampe – riservati ai soli veicoli, ciò che
accomuna questo sistema viario a quello ferroviario, in quanto entrambi
vietati all’uomo nella sua semplicità, quella riferita dai suoi piedi con i
quali si regge in piedi e con i quali per molti millenni si è spostato da un
luogo all’altro, percorrendo sentieri e strade, per congiungere un punto
di partenza ed un punto di arrivo. Dunque strade dotate di una materialità
e di una forma ben definite e riconoscibili, ché nessuno potrebbe mai
sbagliarsi nel riconoscere una strada da un campo coltivato o un sentiero
dal bosco che questi vìola insinuandosi nei suoi più intimi spazi. È che
anche il sentiero è materiale, è concreto, perché la sua esistenza è data
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Stefano Bevacqua
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e poi ricompattato dal poco peso di uomini e animali, e poi erbe nascenti,
che si mutano in paglia sottile: il tratturo è la via della vita transumante,
ma non è un sentiero. Il sentiero, infatti, sussiste per chiunque lo
percorre. Esso viene tracciato e segnato, in certi casi anche mantenuto e
ripulito dalle pietre che le piogge possono accatastarvi e dalla
vegetazione che tentasse di cancellarlo. Il sentiero rimane così fissato
dalla volontà dell’uomo che lo ha segnato e reso percorribile; il sentiero
deriva dunque totalmente da un intervento deliberato ed artificiale, a
prescindere dall’uso che esso potrà offrire. Al contrario, il tratturo, pur
disegnato dalle generazioni di pastori che lo hanno successivamente
percorso, è fissato dall’uso che ne viene fatto, da quei soli due viaggi
annuali, l’andata ed il necessario ritorno, da quel lieve calpestio; il
tratturo non è tanto segnato e intrattenuto, quanto naturalmente
sottolineato. È il percorrimento bi-annuale che ne garantisce la presenza
e la permanenza, è quel passare e ripassare che ne difende l’esistenza
dalla vegetazione circostante che vorrebbe invaderlo, dalle acque che ne
potrebbero distruggere la forma. Antichità del tratturo, che forse nasce
prima di ogni strada, di ogni sentiero. In Abruzzo, se ne trovano tracce
risalenti forse al V millennio a. C., ché di quelle epoche risulterebbero
anche le rovine di alcuni recinti fortificati, forse serviti a custodire gli
armenti durante le soste. I documenti, dicono che i tratturi più antichi
già disegnassero le pendici appenniniche dal centro al Mezzogiorno e
ritorno fin dal VI secolo prima di Cristo, così’ come riferisce un’iscrizione
rinvenuta vicino a Termoli. Oggi, degli antichi tratturi che solcavano la
Penisola rimangono molte tracce e desta sorpresa la considerazione di
come lungo quei percorsi, che appaiono sempre delicati, in un instabile
equilibrio tra il solido della roccia e l’effimero della sabbia, tra il
mutevole dell’erba e il fluido delle acque, potessero accogliere tanto
traffico. Il fascio dei maggiori tratturi appenninici prendeva origine in
Abruzzo e si dipanava fino al Tavoliere ed alle Murge: cinque percorsi
quasi paralleli, sui quali si spostavano due volte l’anno alcuni milioni di
capi di bestiame. Anche la moltiplicazione dei tratturi, che potrebbe
apparire insensata, visto il loro scorrere quasi perfettamente parallelo, si
spiega forse con la necessità di evitare un eccessivo ricalco dei suoli, un
troppo pesarvi, asportando del tutto quella coltre sottile che garantisce
la ripresa stagionale delle erbe, capaci, con le loro radici, di trattenere il
suolo dal dilavamento delle piogge. E si spiega così anche la vastità dei
tratturi, sempre larghi 111 metri, che equivalevano a 60 passi napoletani,
ciò che permetteva ad un gregge di qualche migliaio di capi di scorrere
lungo il tratturo senza disperdersi lateralmente e senza diventare così
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296
FINALE
DIONISO
Maschere, riti, giochi, travestimenti
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Nel confine
299
Stefano Bevacqua
defunta dalla dea e poi ridandole vita, come nel suo divino potere. Dice
Omero: “E Fedra e Proci io vidi e Arianna la bella, figlia di Minosse
funesto, lei che un giorno Teseo da Creta portò sul colle sacro di Atene,
ma non poté averla, Artemide prima l’uccise per le accuse di Dioniso,
a Dia cinta dal mare”248. Omero la vede già sull’Acropoli, Arianna, la
immagina unita a Teseo, il nobile eroe privo di macchia, che mai avrebbe
abbandonato la splendida fanciulla, che gli si era prostrata d’amore e
desiderio salvandolo dal Minotauro, ché lei soltanto poteva salvarlo,
poiché unica a possedere quel filo rosso, il segreto dell’uscita, la via per
fuggire indenni dopo il massacro di quella mostruosa metà di fratello,
metà uomo e metà toro. Il padre di Odisseo deve tutto riferire ma non
transige sulla quella materialità incresciosa di un abbandono necessario,
di un tradimento, quello di Arianna, cui ne segue un altro, quello di
Teseo che dimentica la vela nera issata sull’albero mastro a segnalare la
sua morte e così a farsi strada sul trono di Atene. Troppo umane queste
gesta, inconfrontabili a quelle di Odisseo, che cade nelle trappole di Circe
ma sempre è capace di rispondere all’eroico imperativo del fare ritorno
e ritorno infine farà, cancellando con il sangue tutte le vergogne dei
Proci – ci vuole Dante, per rimettere le cose a posto e mandare Odisseo
all’inferno, ad espiare la sua immensa presunzione. Dunque, quattro
versi gettati quasi in un angolo dell’immane poema, che se Omero non li
avesse vergati minore sarebbe stato lo scherno verso Dioniso e la povera
Arianna, alla quale, in quelle poche parole, si dedica soltanto un vago
ricordo, come quello di una brutta storia passata, finita male, ma, altresì,
storia di un superamento, di un passaggio in uno spazio ed in un tempo
ulteriore anche se incerto, indeterminato, indicibile – oltre il margine
che vagamente ed in modo oscillante tenta di indicare il luogo di confine
che unisce la vita alla sua ulteriorità. Arianna non è più di questo mondo
e giace in un altro luogo che non è né la morte, né il divino: non diviene
divina, ma partecipa del mondo degli dei; non è più mortale, ma non
è eterna; non possiede i poteri del sovrannaturale, ma non è nemmeno
soltanto naturale. Omero, nella sua dispotica presunzione, la mette da
parte, ma non può fare a meno di fissarla in un luogo diverso dal mondo
che non è un altro Mondo. E lo stesso dice Esiodo, nella Teogonia,
quando evoca le unioni divine: “Dioniso dalle chiome d’oro la fulva
Arianna, figlia di Minos, la fece sua sposa fiorente, lei che il dio figlio
di Crono fece immortale e ognor giovane”249.
Dunque le nozze, finalmente Esiodo le svela, ne riferisce, ma non le
narra, è reticente, non dice di Nasso né di dove Arianna sia stata portata
����.Omero, Odissea, XI 322-325, cit., p. 381.
. Esiodo, Teogonia, 947-950, Rizzoli, Milano 1984, p. 123.
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300
Nel confine
il dio sta posando sul capo di una Arianna vestita di un bianco virginale
chinata e quasi in ginocchio, che sembra supplice ed estatica, con
quella mano sinistra sollevata nel vuoto, come per dire di un’emozione.
Davanti al carro, due satiri metà caprini; dietro, un sileno che porta con
fatica una grande cesta carica d’uva. Sullo sfondo: una spiaggia, forse
quella di Nasso, il mare, lontane isole ed un chiarore boreale. Tutto il
contrario della Arianna offerta dal Carracci, che guarda fissa e sorniona
negli occhi di chi osserva la grande tela conservata a Palazzo Farnese
a Roma, che fu dipinta nell’ultimo scorcio di XVI secolo. Arianna
corpulenta, a spalle nude, vestita di un chitone azzurro; il suo carro è
tratto da due caproni, mentre quello di Dioniso, che giace nudo e coglie
grappoli d’uva, è portato dalle inseparabili tigri. Una Arianna, questa
del Carracci, che sfida gli sguardi e la sua stessa storia, che sa quello
che desidera, che ha manifestamente ottenuto il suo scopo, quel dio, che
la farà immortale – anche se non eterna. Diversa ancora è la Arianna
del Reni, minuta e ignuda, commossa e lasciva insieme, che protende la
mano verso un Dioniso anch’esso discinto, ma senza guardarlo, come
in attesa di un miracolo desiderato ma che non si osa domandare. Così
come ancora diversa è quella del Tiziano, che sembra quasi fuggire dalla
bolgia creata da un Dioniso che si lancia dal suo carro, trainato da due
giaguari, soprattutto dal suo seguito di capriformi satiri e barbuti sileni
e baccanti indiavolate che agitano i loro chiassosi cembali. Ultima, la
Arianna del Tintoretto. Giace seduta ignuda, le spalle ad un albero e
guarda complice un Dioniso quasi supplice, che a lei si avvicina con una
vago timore d’essere respinto, il capo inclinato a segno di una qualche
debolezza. E Arianna, nella tela conservata a Palazzo Ducale a Venezia,
pur senza dare alcun disegno di protervia, come nell’immaginazione
del Carracci, appare colei che concede e che si concede, anche grazie
all’aiuto di una Venere che, volteggiando al di sopra dei due amanti, è
in procinto di porre sul capo della giovane il diadema d’oro forgiato da
Efesto e che, al salire di Arianna verso l’Olimpo, diverrà costellazione.
Arianna matrona senza volto; Arianna pregante e timorosa;
Arianna sfrontata e orgogliosa; Arianna commossa e lasciva; Arianna
accondiscendente e benevola. Innumerevoli sono le Arianna possibili,
perché la compagna di Dioniso non può che essere imprendibile,
indefinibile, indicibile. Chissà se davvero è un puro caso se proprio
soltanto il volto di Arianna è andato perduto dell’imponente frescatura
della Villa dei Misteri o se l’artista che l’aveva ritratta, accortosi di
avere immaginato qualche cosa di troppo vicino a Dioniso per essere
fissato in un volto, una posa, un mondo, si è dopo pentito e ha scalfito
il suo lavoro per lasciare per sempre aperto quel dubbio. Arianna ormai
303
Stefano Bevacqua
Egli è messo in scena dal poeta come il dio che mette esso stesso in scena
a teatro la sua epifania, dio che si rivela tanto ai protagonisti del dramma,
quanto agli spettatori sulle gradinate, manifestando la sua divina presenza
attraverso lo svolgimento del gioco tragico – proprio quel gioco che è
precisamente collocato sotto il suo patronato religioso. Come se, lungo
tutto lo spettacolo, nel momento stesso in cui egli appare a fianco degli
altri personaggi del dramma, Dioniso agisse su un altro piano, dietro le
quinte, per muovere i fili dell’intrigo e orchestrarne lo svolgimento.253
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Nel confine
Niente può essere più contrastante con la nostra tecnica scenica di quanto
lo sia il prologo nel dramma di Euripide. Che un singolo personaggio si
presenti all’inizio del dramma e racconti chi è, cosa precede l’azione, che
cosa finora è accaduto, e anche cosa accadrà nel corso del dramma, è un
modo di procedere che un poeta drammatico moderno designerebbe come
una petulante e imperdonabile rinuncia all’effetto della tensione. Si sa già
tutto quello che accadrà; chi vorrà attendere che questo realmente accada,
dato che qui in nessun modo si presenta lo stimolante rapporto tra un sogno
profetico e una realtà che si verificherà più tardi?258
Ho lasciato le terre ricche d’oro dei Lidi e dei Frigi, ho raggiunto poi le
assolate piane della Persia e le cittadelle della Battriana e l’inclemente
terra dei Medi e l’Arabia meravigliosa e l’Asia tutta che si stende lungo il
salso mare, con le sue città dalle belle torri in cui si addensano – commisti
insieme – Greci e barbari; e poi subito in questa città greca io sono giunto,
dopo che anche lì avevo istituito i miei corsi e stabilito i miei riti, per
rivelarmi, dio, ai mortali; e Tebe, qui, è la prima città di terra greca che io
ho eccitato al grido rituale, e di pelle di cerbiatto ho fatto il loro addobbo e
il tirso, strale di edera, ho affidato alle loro mani.259
Figlio di Zeus, dio dall’aspetto di Toro: alcuni dicono che a Dracano Semele
ti concepì e ti partorì a Zeus signore del fulmine, altri a Icaro battuta dai
venti, altri a Nasso, altri lungo il fiume Alfeo dai gorghi profondi; altri
affermano che tu sei nato a Tebe, signore. Mentono tutti: il padre degli
uomini e degli dei ti generò lontano dalla gente, nascondendosi a Etra dalle
bianche braccia. C’è un altissimo monte chiamato Nisa, fiorente di boschi,
al di là della Fenicia, vicino alle correnti dell’Egitto. [...] Così ti saluto,
Dioniso dall’aspetto di Toro, e saluto tua madre Semele, che è chiamata
Thyone.268 [...] Comincio a cantare il fremente Dioniso, coronato di edera,
splendido figlio di Zeus e della gloriosa Semele; le ninfe dai bei capelli lo
accolsero in seno, ricevendolo dalle mani del padre divino, e lo allevarono
con cura nelle valli di Nisa.269
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. Là dove questa è, in senso stretto, l’ultima tragedia attica, andata peraltro in scena
postuma nel 403 a. C., tre anni dopo la morte di Euripide.
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. Dio dai molti nomi, | vanto di una sposa tebana, | prole di Zeus cupotonante, | tu che
proteggi l’Italia famosa | e regni nella vallata ospitale | di Deò eleusina, | o Bacco, | tu
che nella città madre delle baccanti | hai sede, lungo l’acqua sinuosa | dell’Isemno | fra la
semente del drago feroce.| Te contempla | la vampa scintillante | sulla duplice roccia, ove
| accorrono devote le ninfe coricie; | te contemplan le acque castalie | e te a noi mandano
| dei colli nisei i declivi | d’edera ammantati | e la costa verdeggiante | di grappoli fitti
| quando al canto divino degli evoè | tu visiti le contrade tebane. || Tebe tu onori | più
che tutte le città, | e tua madre la onora, | folgorata dal fulmine. | Anche ora, | che d’un
morbo violento | tutto il popolo è vittima, | varca col piede risanatore | il pendio parnaso
| e lo stretto che geme. || Tu che guidi la danza | degli astri fiammanti, | testimone ai canti
notturni, | prole di Zeus, | dio possente, | a noi mostrati | con le Tiadi seguaci, | che per tutta
la notte | attorno a te delirano alla danza, | Iacco dispensatore. [Sofocle, Antigone, 1115-
1154, Rizzoli, Milano 2006, pp. 791-793.].
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����.F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, Adelphi, Milano 1991, pp. 61-62.
319
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. Ivi, p. 69.
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Si può affermare che fino ad Euripide, Dioniso non cessò mai di essere
l’eroe tragico, e che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo,
Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell’eroe originario. [...]
L’unico Dioniso veramente reale appare in una molteplicità di figure, nella
maschera di un eroe in lotta, ed è per così dire preso nella rete della volontà
individuale. [...] Ma in verità quell’eroe è il Dioniso sofferente dei misteri,
quel dio che sperimenta in sé i dolori dell’individuazione, e di cui mirabili
miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi
in questo stato venisse venerato come Zagreus. Con ciò si significa che
questo smembramento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, è come
una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che quindi dobbiamo
considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni
sofferenza, come qualcosa in sé detestabile. Dal sorriso di questo Dioniso
sono nati gli dei olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell’esistenza
in quanto dio smembrato Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele
e selvaggio e di un dominatore mite e dolce.279
e mare, proprio come quella così ben descritta da Maria Daraki, nella
quale la coesistenza dei due elementi è resa possibile da tre evidenze:
la prima è costituita dall’area di incerta definizione che delimita un
mondo rispetto all’altro, quella zona marginale e confinaria in cui si
colloca l’inizio della fine del mare e la fine dell’inizio della terra; la
seconda evidenza attiene all’immaginazione di ciascuno – dell’uomo
– che sempre permette di raffigurare l’astrazione di un tralcio di vite
carico di grappoli che si inerpica sull’albero maestro di una nave;
la terza è costituita dal medesimo dionisiaco nel suo ricongiungere
circolarmente i due poli della dicotomia in un continuo e dinamico
riallacciare e disgiungere, differenziare e congiungere. Questa coppia
di terra e di mare uniti e separati potrebbe dirsi come un bipolarismo
innocente perché rappresentabile e, soprattutto, esperibile, senza cadere
nell’angoscia dell’inspiegabile e dell’inconciliabile. Il secondo caso,
quello di una esplosiva incompossibilità, assai spesso si presenta nel
dionisiaco e potrebbe essere agevolmente fissato, al suo livello estremo
di antiteticità, nella coppia vita versus morte, letta ed intesa come
vitalità che deflagra nella sua stessa capitale e radicale negazione. È
questa, la dicotomia estrema, ultima ed irripetibile; dicotomia fatale,
inesperibile se non al prezzo della irriferibilità, semmai percorribile
soltanto come esperienza intima del massimo pericolo. Da una parte,
occorre considerare come questo dualismo fatale in quanto si colloca
sul crinale che unisce l’esistenza e la cessazione dell’esistenza e può
essere soltanto immaginato e celebrato nei riti religiosi; dall’altra parte,
occorre ricordare che Dioniso è il dio immortale che muore ed è dunque
attraverso il suo accedere all’Ade, come un continuo bilanciarsi tra vita
e morte, che si avvera la sua continua metamorfosi, perenne ricambio,
indifferibile rinascita cui sempre e necessariamente deve seguire una
negazione – una morte. Ed è proprio qui, nell’estrema dicotomia che
si mira tutta l’enorme distanza che lo separa da Apollo. Non si deve
immaginare un apollineo sempre felicemente adagiato sul versante
della vita: Apollo, come tutte le divinità greche, è anche micidiale, ma
sempre alla dovuta distanza. Apollo soggioga e seduce senza mai venire
in contatto con il mondo reale; divinità distaccata e lontana, niente
affatto casualmente privilegiata da Socrate, che vi leggeva la certezza
dell’ordine e della misura e il giudizioso ben separare ogni cosa perché
sempre evidente fosse la causa e l’effetto di ciascuna; divinità della
lira, che si ascolta a debita distanza, e della freccia, che uccide a
debita distanza, così che il dio rimanga distaccato tanto da colui che,
soggiogato dalle note apollinee delle corde, a lui si rivolge reverente,
quanto dalla sua vittima, che è colpita in un luogo ed in un tempo distinti
326
Nel confine
Proprietà e classi sono le vive sorgenti del buon senso. [...] I caratteri
sistematici del buon senso sono dunque: l’affermazione di una sola
direzione; la determinazione di questa direzione come quella che va
dal più differenziato al meno differenziato, dal singolare al regolare,
dal rimarchevole all’ordinario; l’orientazione, in conseguenza di questa
determinazione, della freccia del tempo; dal passato al futuro; il ruolo
direttore del presente in questa stessa orientazione; la funzione di
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Nel confine
non attiene tanto alla sua origine, al fatto che egli non è greco ma forse
minoico, o egiziano, o tracio, o frigio, quanto all’incertezza medesima
intorno alla sua origine. A produrre questa prevenzione negativa nei suoi
confronti è il sospetto generato dalla dubbia provenienza, moltiplicato
per l’incerta origine di divinità generata da una mortale e da Zeus e poi
partorito nuovamente dalle carni di Zeus stesso, ancora moltiplicato per
il suo aspetto molteplice, di adulto e giovinetto, di barbuto ed imberbe.
In ultima analisi: è Dioniso come tale che produce questa prevenzione
e prudenza, è il suo essere indefinito a generare diffidenza. In questo
e per questo egli è assimilato al barbaro288: in quanto entità estranea,
marginale, che viene da oltre un confine e sembra nemmeno mai averlo
davvero del tutto superato. Ecco che l’opposizione barbaro versus greco
si risolve nell’irruzione di Dioniso medesimo, attraverso il suo paradosso
e nel paradosso in cui è uno dei due poli dell’opposizione a generare la
soluzione. Dioniso è il polo barbaro e insieme la terza voce che ancora
non si mostrava; egli irrompe sulla scena del dramma in quanto alterità,
ma nello stesso modo rappresenta la soluzione dell’antagonismo; egli
vince contro Penteo che non voleva credere in quel dio meticcio, e da
quel momento diviene il dio, quasi offuscando le altre figure olimpiche
– sicuramente il fratello Apollo, ma anche lo stesso re degli dei, Zeus,
appare quasi accantonato nello sfavillare di vittoria che Dioniso ostenta
con l’arroganza di chi conosceva fin dall’inizio l’esito del contrasto.
Dioniso cambia le carte del gioco, le mischia e le ricompone, ma senza
imporre nuove regole, bensì lasciando aperta la completa incertezza:
il dio giunge a Tebe, distrugge il regale palazzo e non ne costruisce
alcun altro, sovverte ogni sistema senza offrirne altri, propone una
logica che faccia a meno della logica, una conoscenza senza categorie
né schemi, senza cause ma solo con la tempesta degli effetti. Penteo
voleva difendere la purezza greca, voleva mantenere separato ciò che il
dio voleva mischiare. Vince il dio, vince l’incerto mondo dei paradossi.
Ecco la terza opposizione: uomo versus donna, maschile versus
femminile. Il Dioniso euripideo si presenta come un giovane effeminato
che si unisce alle donne nelle frenesie della danza e del canto guidato
dai flauti e dai tamburi. Non è certo il maschio rude e autorevole dei
dipinti arcaici, no, è un Dioniso che sfiora il femmineo, che lascia aperto
l’equivoco e che evoca sessualità eterogenee. Ma alla fine delle Baccanti
è lo stesso Penteo a travestirsi da donna, a mutare il suo aspetto. Lo
Straniero – Dioniso – lo convince ad assumere le sembianze femminili
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. Per i Greci barbaro equivaleva a straniero, ancorché con una decisa assonanza
negativa, ma che derivava più dalla presunta superiorità greca che da una inciviltà degli
altri, intesa come assenza di modelli e riferimenti culturali.
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Nel confine
contano, sono esattamente quelle che so, io”. Nel dialogo prende forma
la soluzione dell’antagonismo ed emerge la circolarità di una senso che
abbandona le radici di una conoscenza tutta rigorosamente definita e
si libera verso luoghi sempre più lontani dal buon senso e dal senso
comune.
La rappresentazione della follia bacchica, delle menadi scatenate
e dei fauni pronti a impossessarsene come bottino di una selvaggia
scorribanda sessuale, dei danzatori e del pifferaio che ipnotizzano le
donne che si lasciano andare a sfrenata lussuria di vino, di carne in
brani che cruda si strappa ad animali ancora agonizzanti, di latte che
sgorga da turgidi seni e nutre piccole fiere, questo quadro, così come
emerge dal racconto delle Baccanti, in effetti può stupire, non tanto per
la violenza degli eventi, che culminano con lo sbranamento a mani nude
di Penteo, quanto per la sostanzialmente scarsa attinenza che sembra
emergere tra la narrazione euripidea e le descrizioni storiche sia delle
feste dionisiache pubbliche, peraltro ben documentate, sia di quelle
private o comunque riservate ad una stretta cerchia di eletti. Di queste
ultime, e dei misteri eleusini ad esse associati – associati fino ad una
possibile identità –, non è, naturalmente, dato di conoscere gran cosa,
ma possono essere tratte comunque alcune riflessioni atte a descrivere,
almeno parzialmente, se non i riti almeno il loro contenuto sostanziale,
inteso non come il ciò che materialmente avveniva, bensì quello che
poteva ragionevolmente accadere alle persone che vi prendevano parte.
Ed è questo il tema che ha tanto soggiogato ed affascinato: l’estasi, la
possessione, la manìa289. A tal proposito molto si è discusso e non sarebbe
questa la sede di alcun degno approfondimento, ma almeno quattro punti
salienti vanno raccolti, poiché di grande utilità nell’individuare nella
straniazione estatica e maniacale un’apertura verso luoghi – dell’anima
– che si pongono al di fuori dei limiti del mondo usuale, inglobandone i
confini medesimi in una diffusa terzietà.
Il primo di questi elementi è costituito dal contagio. Per contagio
si intende quel fenomeno che permette al divino di avvicinarsi e
compenetrare il mortale. Contagio è un movimento discendente, comune
a tutte le religioni nelle quali si assume la divinità come collocata in
uno spazio ed un tempo superiori e successivi a quelli terreni ed usuali.
Il contagio si presenta come un incontro dell’umano che nell’estasi
ascende verso un luogo altrimenti non esperibile e del divino che si
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. Per estasi si intende qui un “uscire di sé”, come un innalzarsi al di sopra della
normalità, del mondo usuale, in ragione di un’emozione particolarmente intensa.
Per manìa si intende qui il termine greco, che vale come l’essere furioso, incapace di
controllarsi, pazzo.
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Stefano Bevacqua
distacco tra “il mondo della realtà quotidiana ed il mondo della realtà
dionisiaca”. Ma ecco che i due mondi, quello reale e quello dionisiaco,
vengono posti esattamente sullo stesso piano in quanto entrambi reali,
a significare che nello stato dionisiaco non vi sarebbe alcun distacco
dal reale medesimo, bensì, e soltanto, dai modi con i quali il quotidiano
appare e alle funzioni grazie alle quali al quotidiano l’uomo si relaziona
e appartiene. Ciò che, a sua volta, sembra contraddire con il “letargico”,
nel quale il mondo reale sembra sprofondare in ragione dello stato
estatico proposto da Dioniso e ancor più con “l’abisso dell’oblio” che
genera il distacco tra i due mondi. La spiegazione viene lasciata ad
intendere poche righe dopo, quando Nietzsche dice in che cosa consista
quella nausea: in un rifiuto, dovuto al riapparire di un mondo materiale
inaccettabile, mondo ormai “uscito fuori dai cardini”, mondo che non
può essere in alcun modo mutato, così che ogni tentativo in questa
direzione suonerebbe come “ridicolo ed infame”. Ma, allora, non c’è
alcuna reale rottura, non c’è quel distacco che sembra emergere da
una lettura superficiale del riferimento nietzschiano, c’è semmai una
presa di conoscenza, simile a quella di Amleto, di chi, avendo avuto
l’arditezza di gettare “uno sguardo vero nell’essenza delle cose”, ha
finalmente “conosciuto” ed ora non può che sentire il mondo usuale
come inadeguato e, soprattutto, troppo angusto. Quello di Nietzsche
appare più un’aristocratica superiorità rispetto ad un mondo del banale
e del tedioso, che una constatazione di irreversibile allontanamento.
L’Amleto nietzschiano continua a vivere in Terra e rinuncia ad avere
cura di essa – rinuncia a tentare di cambiare il mondo – soltanto perché
sa di non esserne capace; Nietzsche, quasi smentendosi, ammette che
non c’è alcuna forza, che sarebbe necessariamente sovrannaturale, un
dio capace di attribuirgli quel potere. Questo Amleto vive della terra,
non vola in cielo e non diventa folle – almeno non ancora.
Del resto, anche dai riferimenti storici di cui si dispone sembra
apparire un’analoga indicazione, sia pure con sfumature assai diverse.
Jean-Pierre Vernant, storico di scuola strutturalista che si colloca,
per formazione, ad una considerevole distanza da Nietzsche, esclude
qualsiasi radicale rottura che il dionisiaco decreterebbe verso il mondo
terrestre e usuale:
Nel dionisismo dell’Atene del V secolo non c’è alcun documento che
dia concretezza ad un fenomeno allo stato secondo, cioè utilizzato per
invertire sistematicamente i valori del sacro e le orientazioni fondamentali
del culto: nessuna tendenza ascetica291, nessun rifiuto dei valori positivi
. Nietzsche e Vernant utilizzano l’aggettivo ascetico con due intenzioni diverse: per
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Nietzsche come di un disinteresse per il brutto, il malvagio ed il deludente; per Vernant
335
Stefano Bevacqua
La visione di Dioniso consiste nel far scoppiare dal di dentro, nel ridurre
in briciole questa visione “positiva” che si pretende sia la sola valida
e dove ogni essere ha la sua forma precisa, il suo posto definito, la sua
particolare essenza in un mondo fisso che assicura a ciascuno la propria
identità all’interno della quale ciascuno dimora rinchiuso e sempre uguale
a sé stesso. Per vedere Dioniso bisogna penetrare in un universo differente,
dove regna l’Altro, non il Medesimo.294
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sempre soltanto alluso, dio di terra ma che viene dal mare, dio nato
due volte, dio vivente e morto, eterno eppure mortale. Apertura degli
orci che stava a simboleggiare anche l’apertura dell’Ade, la riemersione
temporanea dei morti. Così’ che mentre il dio veniva portato al cospetto
della Basilissa alla quale congiungersi in un connubio rituale – che
simboleggiava la fertilità, l’avvento della rinascita primaverile, oppure
l’unione del sacro, il dio, con il profano, il potere del Basileus, il re
della città, marito della Basilissa, oppure l’apporto di una divina vitalità
trasfuso nella generazione della stirpe reale –, così che mentre il dio
giungeva al palazzo regale i partecipanti alla festa, complice la gara
di bevuta, potevano idealmente riunirsi ai congiunti deceduti, sentirli
presenti e vicini per quelle poche ore durante le quali gli orci restavano
aperti attingibili, offerti e bevuti per concludere la festa in orgiastica
liberazione. Ecco riemergere l’equivocità: fertilità, fecondità, primavera
rinascente, festività dei morti, tutte simbolicità contraddittorie, ché
nessuna sembra imporsi come evidente e tutte reclamano una evidenza.
Non è questione di stabilire quale fosse la genuina intenzione simbolica,
quale il ruolo del dio e degli altri elementi che entravano nel gioco
dell’Antesteria. Piuttosto si tratta di ammettere che applicare metodi
e schemi logici a queste ritualità non permette di risolvere le domande
con le quali ci si affaccia. Queste ritualità, così come quelle di gran parte
delle religioni e delle credenze più antiche, affondano la loro radici in
un tempo che precede anche di molti secoli la fissazione socratica delle
regole, l’evenienza di una misura, la teorizzazione di un conoscere
secondo un metodo e di un sapere secondo una logica. Tentare di
spiegare le percezioni, le emozioni e le intenzioni mistiche, religiose e
psicologiche che attraversavano la mente e condizionavano la coscienza
di quegli uomini utilizzando metodi e strutture che appartengono ad un
mondo successivo – successivo anche di millenni – non può assicurare
che risultati parziali, sicuramente validi sotto il profilo storiografico ed
antropologico, ma incoerenti laddove si tenti di intuire quel mondo e le
sue idee – più dell’intuizione non può essere data, poiché non è altresì
dato di assumere la cultura e l’intelligenza di quelle genti come in un
prestito temporaneo. Karl Kerényi è, tra coloro che si sono dedicati allo
studio della Grecia antica, colui che forse più di ogni altro ha compiuto
lo sforzo di “mettersi nei panni” oppure di “indossare l’abitus” di quelle
genti e di quelle epoche lontane. Ecco alcuni passaggi chiave della sua
riflessione: “Non viene mai detto esplicitamente che i mesi invernali,
ad Atene come a Delfi, appartenevano a Dioniso. Eppure si tratta di
un fatto evidente, chiaramente rilevabile dal calendario attico e dalle
tradizioni relative al culto, purché si anteponga ciò che è ricavabile
343
Stefano Bevacqua
dalle concrete realtà naturali alle discussioni fra gli studiosi”296. Kerényi
insinua qui un dubbio: le feste dionisiache non sarebbero in verità
legate alla fertilità ed alla rinascita primaverile, ma ad altro elemento.
Ciò assume a maggior ragione importanza quando si consideri che la
successione delle tre primarie feste dionisiache – tralasciando le Grandi
Dionisie che si svolgevano a marzo – è regolata secondo la gestazione
del dio, per cui con le Dionisie Rurali si celebrerebbe la prima nascita
prematura di Dioniso, con le Lenee la sua permanenza gestatoria nella
coscia di Zeus e con le Antesterie la seconda ed ultima venuta al mondo.
Scrive ancora Kerényi: “In Grecia il mese delle Lenee è il più freddo
dell’anno. Il vino aveva bisogno del freddo per l’ultimo processo di
chiarificazione: e questo è un motivo per cui la nascita del dio veniva
dilazionata fino al nostro mese di Gennaio”297. Dioniso ri-nasce ogni
anno, ma non nell’esuberanza primaverile, bensì nella chiarificazione
del vino, nel suo maturare. Dioniso è il dio del vino e ri-nasce con
esso. Dioniso è il dio dell’estasi che permette di cogliere l’esperienza
emotiva del superamento degli antagonismi. Per accompagnare i mortali
oltre il confine usuale, al di là del quale si estende il luogo di confine
dove le differenze si riassumono in una terza possibilità, dove trova
soluzione l’antagonismo tra l’uomo ed il mondo, Dioniso utilizza la
festa, il vino, l’orgiasmo. Dioniso è, in definitiva, il dio del superamento
dell’antagonismo tra vita e morte, tra uomo che soffre ed il dolore del
mondo, tra sotterraneo e comune, tra giorno e notte. Dioniso è il dio del
vino che affaccia alla vita.
Viene qui naturale domandarsi se gli elementi che caratterizzano i riti
dionisiaci possano essere generalizzati ad altre feste di natura religiosa,
ovverosia, quali siano gli elementi comuni che potrebbero permettere
di affiancare idealmente le feste dedicate a Dioniso a quelle successive
della tradizione romana e poi cristiana e medievale e moderna. In altre
parole: è da chiedersi se nell’evoluzione che le feste ed i riti ad esse
connessi hanno subìto dalla Grecia del VI secolo ad oggi si possa
sempre rintracciare qualche elemento del dionisiaco che a quell’epoca
compenetrava interamente gli eventi rituali. Questione, questa, di non
secondaria importanza, perché foriera di far rinvenire anche nella
modernità uno o più segni di quella riunione – di quella soluzione –
dell’antagonismo tra uomo e mondo e dei suoi innumerevoli correlati
e riflessi.
Il primo elemento comune alle feste rituali dionisiache e a tutti gli
eventi religiosi collettivi che attraversano la storia dell’Occidente è
����.K. Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 1992, p. 270.
����������������
. Ivi, p. 277.
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Nel confine
costituito dalla temporalità della festa-rito. Nella festa e nel rito che
la informa, accade la sostituzione del tempo del “mondo della realtà
quotidiana” con il tempo proprio dell’evento rituale. Il rito ha, infatti,
ritmi e successioni propri; nel rito si mettono in scena eventi del passato
e del futuro che nel mondo usuale non possono che essere ricordati o
prefigurati, ma mai ri-vissuti o pre-vissuti. Non è un tempo irreale, quello
del rito: esso è assolutamente reale, totalmente concreto, assolutamente
materiale. Il rito avviene in un lasso temporale ben definito, esso ha
un inizio ed una fine ed un percorso misurabile. E il tempo dentro il
quale si svolge il rito non è un tempo preso a prestito da un mondo
diverso da quello quotidiano; il tempo di chiunque e di qualsiasi giorno
e momento. È una sorta di utilizzazione imprevista, e forse anche
impropria, di una materialità, quella del tempo del “mondo della realtà
quotidiana”, che non si dovrebbe addire a quest’uso estraniante che
sembra porre quel tempo in un luogo diverso e comunque altro da quello
nel quale dovrebbe scorrere. Nella festa-rito, il tempo, preso in prestito
dal “mondo della realtà quotidiana” e opportunamente manipolato ai
fini della festa-rito medesima, smette di scorrere e, piuttosto, viene
fissato, proiettato, materializzato come tela di fondo sulla quale il rito
dipinge la forma della festa e la festa si esprime come forma del rito.
Fissato è come per fisso, come non soggetto a variazione, quindi come
invariabile e costante, ché, rispetto al tempo usuale, è il rito a produrre
la variazione e la festa a presentarla. E festa e rito, appropriatisi del
tempo di ciascuno dei partecipanti, lo ridisegnano per mostrare passato
e futuro, per mettere in scena ciò che è avvenuto in un passato che non
può più essere misurato ed in un futuro verso il quale non sussiste più
attesa. Il tempo fissato dalla festa-rito è un presente totale, che raccoglie
in sé ogni passato ed ogni evento in esso contenuto e proietta come
attuale tutto il futuro che si possa attendere. Ed è la festa-rito a costruire
le figure del passato e del futuro che vengono proiettate nella coscienza
dei partecipanti, nella loro percezione e presenza emotiva. Non, dunque,
osservatori esterni, quali il pubblico di un cinematografo, ma come se
essi stessi fossero attori della rappresentazione, tale è intenso il loro
coinvolgimento. Per il tempo della festa-rito, accade che si affermi un
presente eternalizzato, come nell’Età dell’oro, nell’Eden, nel Paradiso
terrestre. La festa-rito è fatta di tempo, tempo acquisito dal mondo
usuale e trasformato in tempo rituale, mitico, mistico. La festa-rito ruota
e muove attorno alla rappresentazione di passato e futuro, riunendoli in
un paradossale presente, il quale, per questa stessa funzione, comporta
il distacco totale dal presente del tempo usuale, per così dire: del tempo
vero. L’estasi, come innalzamento, come l’uscir fuori da sé ed elevarsi
345
Stefano Bevacqua
346
Nel confine
nella sua parte finale, possono essere compiuti. Entrano qui in gioco
tre distinti aspetti. Il primo attiene all’attesa, il secondo alla possibilità
ed il terzo alla ripetizione. Come già indicato, l’attesa non è affatto in
contraddizione con la ripetizione e ciò trova ulteriore giustificazione
nella trasgressione, in quanto occasione per compiere quei gesti
altrimenti interdetti e che sono suscettibili di generare piacere.
Ma quest’attesa viene appagata soltanto grazie alla possibilità: la
trasgressione è infatti ammessa soltanto nel corso della festa-rito ed in
tempi e modi ben definiti e codificati. Il che rende la trasgressione una
norma e quindi una non trasgressione. Ed è la ripetizione, che fonda
l’attesa, a generare la trasgressione che si smentisce nel suo essere
praticata soltanto quando ed in quanto ammessa. La vera trasgressione,
priva di autorizzazione alcuna, è quella che muove contro il divino
e le regole che gli uomini hanno fissato in terra ispirandosi al divino
– e dunque a sé stessi in quanto creatori della credenza. La regola
infranta conduce alla punizione; ogni punizione arresta il tempo del
punito senza generare alcun presente, senza raccogliere in alcun
modo l’avvenuto né anticipando l’atteso. La sospensione del tempo
determinata dalla punizione – che può assumere un carattere totalitario
nel caso la punizione consista nella messa a morte – è antitetica a
quella generata dalla festa-rito: la seconda fissa un presente amplificato
fino a comprendere tutto il tempo del mondo; la prima lo arresta in
un istante di infinita assenza di tempo. Freud collega la trasgressione
alla consumazione del totem, al pasto sacrificale e, in questo ambito,
introduce il concetto di festa come “eccesso permesso, anzi imposto,
un’infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli
eccessi non perché siano felici per un qualche comando che hanno
ricevuto. Piuttosto, l’eccesso è nella natura stessa di ogni festa;
l’umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che altrimenti è
proibito”298. La solennità rituale dell’infrazione è tale, secondo Freud,
in relazione alla coralità con la quale la trasgressione ha luogo: “C’è
la consapevolezza che si sta eseguendo un’azione proibita ad ogni
individuo singolarmente preso, un’azione che può essere giustificata
soltanto dalla partecipazione di tutti”299. Si deve dunque ammettere che
la festa è il luogo collettivo nel quale il percorso rituale si realizza a
beneficio non degli individui ma della collettività nella sua interezza.
In altri termini: il raggiungimento dell’estasi che permette di risolvere,
sia pure temporaneamente, l’antagonismo tra uomo e mondo, non è
dunque appannaggio di ciascuno, del singolo partecipante alla festa-
����.S. Freud, Totem e tabù, Boringhieri, Torino 1969, p. 192.
����������������
. Ivi, p. 191.
347
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rito, bensì soltanto alla collettività dei partecipanti. Ciascuno gode del
piacere generato nella festa in quanto singolarità, ma i suoi gesti, atti,
procedure, emozioni, licenze, trasgressioni, hanno un radicale carattere
di collettività.
Se si ripercorre a ritroso il sentiero fin qui compiuto nel tentativo di
delineare il senso della festa-rito, ci si imbatte ben presto nell’evidenza
di una ben stretta connessione tra collettività e condizione estatica.
Per quanto sia del tutto ragionevole immaginare che la condizione
emotiva che permette di esperire la soluzione del dualismo antagonista
uomo-mondo, che vale come temporanea sospensione di ogni suo
dolore, affanno, angoscia, timore, colpa, sia cosa individuale e che si
realizza nell’intimo di ciascuno, rimane che il raggiungimento di questa
condizione non possa avvenire che collettivamente. Ciò perché la festa
è per sua natura un gesto collettivo e fuori di essa la condizione estatica
può darsi soltanto in un contesto probabilmente estraneo alla cultura
occidentale – come nel caso delle esperienze mistiche offerte dalle
scuole religiose orientali. Ma anche per un secondo e radicale motivo:
la condizione estatica richiede la riunione degli uomini in un virtuale
ritorno alla primigenia condizione precedente alla differenziazione e alla
caduta; l’orgia, intesa, va ben ricordato, non come promiscuità sessuale,
ma come eccitazione e concitazione che accomuna più persone, può
ben essere letta anche come ri-unione, ritorno all’Età dell’oro, a prima
della differenziazione, al paradiso, a prima della caduta e dell’avvento
del dolore nel mondo. Anche in questo senso si è detto che la festa, nel
suo acme estatico, riunisce e fissa in un presente astratto dal “mondo
della realtà quotidiana” ogni tempo passato: anche, e forse soprattutto
il passato più antico trova così albergo in questo presente. Scrive Roger
Caillois:
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. Ivi, p. 151.
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indietro, e ciò è reso possibile dal fatto che non c’è rottura, né negazione
nell’eccesso della festa – non c’è trasgressione –, bensì è un andare ed
un rivenire ed un abitare il vasto luogo che si fa abitualmente coincidere
con il confine tra il mondo usuale ed un altro, diverso, possibile, ma
non necessariamente auspicato. Non c’è salto, non c’è un qua ed un là,
c’è un vasto intermedio luogo nel quale ogni alternativa si risolve nella
comune presenza dei suoi termini.
Rimane da dare una più completa risposta all’interrogativo con il
quale si è aperto questo capitolo conclusivo, intorno alla generalizzabilità
delle caratteristiche delle feste dionisiache all’insieme delle feste di
indole religiosa. Certamente, questo procedere è ammissibile, almeno
quando si faccia riferimento ai fasti romani, ed ancora più qualora si
volga l’attenzione alle celebrazioni religiose delle più antiche civiltà –
almeno per quel che è dato di sapere – e delle popolazioni “primitive”,
che, piuttosto, meglio sarebbe definire come più vicine all’arcaismo, ed
oggetto di imponenti studi antropologici. Ma un elemento di manifesta
e radicale contraddittorietà subito emerge qualora si volga lo sguardo
alla tradizione cristiana. Riassumere in un unico corpus l’insieme
bimillenario di eventi che caratterizza la complessità del pensiero, della
credenza e della pratica religiosa cristiana, costituirebbe un’inaccettabile
forzatura; tuttavia, un elemento comune può essere con relativa facilità
individuato come costante, almeno dall’alto Medioevo in poi: la colpa.
Dalle sue origini, il cristianesimo considera fondamentale – fondante –
la cognizione del peccato e la sua conseguente e necessaria redenzione.
Le feste religiose cristiane, fin dall’antichità, contengono sempre questo
elemento, il peccato da mondare, la colpa da espiare, la negatività
dell’uomo che richiede la vittoria di una positività che può venire
soltanto dal divino. Con sfumature anche molto diverse, questo elemento
accomuna la pratica religiosa dei cristiani dai primi secoli fino all’era
contemporanea, passando naturalmente anche attraverso la Riforma, e
pone in evidenza una radicale estraneità della festa cristiana rispetto alla
tradizione dionisiaca e post-dionisiaca o comunque pagana. La colpa
dell’uomo, fissata nella caduta e nella differenziazione che allontana
dal divino, è tale da non permettere alcuna estasi; la condizione mistica
che si propone nella più assoluta devozione e preghiera, che è riservata
soltanto al religioso che nulla più si concede della vita terrena se non
l’indispensabile nutrimento e che segua meticolosamente ogni possibile
rito di espiazione, non conduce ad alcuna estasi; l’estasi è concepita
soltanto come unione con Dio e può quindi essere esperita esclusivamente
nella vita ulteriore, attesa dall’anima che soltanto transitoriamente abita
il corpo terrestre in quanto luogo in cui viene messa alla prova. L’estasi
353
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Se esiste dunque questa sorta di appartenenza del gioco alla sfera del
sacro, in qualche parte del gioco, in qual che suo momento o sviluppo
dovrebbe ben presentarsi l’occasione di uno straniamento, di una
elevazione che distacchi dal dolore del mondo. Huizinga, in proposito,
non ha dubbi:
Non poche, in effetti, sono le somiglianze che emergono tra il rito che
regola le feste sacre, i culti, e le norme che organizzano il gioco. Culto e
gioco si sviluppano ed avvengono in uno spazio ed in un tempo del tutto
propri, che prendono in prestito spazio e tempo dal “mondo della realtà
quotidiana” modificandone le apparenze e la natura. Nella festa sacra il
tempo si espande trasformando il presente in una totalità di tempo che
raccoglie tutto quanto è già accaduto, ripresentandolo così come attuale,
e tutto ciò che è atteso, mostrandolo come imminenza che già si affaccia
nel vissuto. Analogamente, accade con il gioco, che ferma ogni orologio
in un presente gravido di eventi, che si danno tutti per conosciuti ed
ancora in essere. Lo spazio del culto è definito dagli eventi che il culto
mette in scena: è, dunque, la scena del culto; lo spazio del gioco è, in
totale analogia, anch’esso una scena sulla quale si proiettano gli eventi
che il gioco simula. Ed emerge così un’ulteriore analogia, ancora più
gravida di conseguenze: quella relativa alla simulazione. Nel culto, i
partecipanti, devoti e sacerdoti, mettono in scena l’evento e interpretano
i ruoli che esso necessita; nel gioco, ciascun giocatore interpreta il ruolo
che gli è stato assegnato facendo finta di essere quel personaggio ovvero
di rappresentare quel dato evento. Nel culto come nel gioco, si “fa come
se”.
Il gioco e la festa possono suscitare imbarazzo. Perché sono fatui,
non sono seri, sono improduttivi; soprattutto: perché non hanno senso
e non hanno scopo. Peggio ancora: la festa religiosa, quella cristiana in
particolare, prevede ed anzi richiede una credenza, un approccio mistico,
che suscita il rispetto anche di coloro che non credono, che è per questo
ammesso come comportamento accettabile, ancorché improduttivo e
mai risolutivo delle esigenze poste dalla realtà quotidiana, in quanto
propone uno scopo più lontano, in un’altra esistenza, in un futuro
dedicato all’anima soltanto; il gioco, invece, appare del tutto inutile,
privo di qualsiasi scopo, terreno così come ultraterreno, immediato così
come nel più lontano futuro. Imbarazzo, di fronte all’inutilità del gioco,
così forte da far dimenticare, anche a chi al gioco ha dedicato profonde
riflessioni, quale possa essere la sua nascosta potenza. È il caso di Roger
Caillois, autore di una delle più complete ed articolate analisi del gioco
e dei giocatori, quel Les jeux et les hommes, pubblicato vent’anni dopo
Homo ludens, il quale critica Huizinga proprio in relazione al punto
nodale dell’appartenenza del gioco alla sfera del sacro. Mentre di ben
diverso tenore – e spessore – è l’imbarazzo di Eugen Fink, il quale
giunge a smentire radicalmente l’opinione per la quale il gioco sia privo
di scopo:
357
Stefano Bevacqua
Si profila, agli occhi di Fink, una specie di schizofrenia del gioco (e del
giocatore). Ed è questo doppio, questo sdoppiamento che secondo lui ci
dice qualcosa della sua speciale apparenza. Quando si parla di fantasia
si prende di solito una scorciatoia che pregiudica la questione (come se
avessimo già deciso negativamente, osserva Fink). Invece, lo stare dentro
e fuori dal ruolo, il tenere i piedi – per così dire – tanto nell’irrealtà quanto
nella realtà, senza cancellare né l’una né l’altra, apre un problema che la
filosofia stessa non ha ancora esplorato e che è una vera provocazione per
il nostro intelletto.305
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. Ivi, pp. 28-29.
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. A tal proposito, si deve osservare una curiosità: la critica di Caillois, che respinge
radicalmente un sostanziale collegamento tra gioco e sacro, si fonda su qualche cosa che,
in realtà, Huizinga non ha mai scritto. Lo storico olandese, infatti, nel suo scritto non
identifica il gioco con il sacro, ma attribuisce al gioco la categoria del sacro ed al sacro
quella del gioco. Il che non consiste in una identità, ma in una reciproca appartenenza e
condizionamento.
359
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iniziare dalla più evidente, quella relativa al fatto che il sacro richiede la
credenza e non si accontenta del semplice “fare come se” dei partecipanti
alla festa-rito, cosa, invece, del tutto sufficiente al gioco. La questione
va dunque affrontata non facendo, come si suol dire: un passo indietro,
ma effettuando proprio un salto che permetta di porsi in una posizione
terza rispetto alla questione medesima. Anche soltanto per tentare di
tratteggiare un concetto che proponga il superamento di un dualismo
antagonista occorre porsi in una posizione dalla quale la vista possa
accedere, grazie ad una diversa angolazione, ad un orizzonte capace di
riunire i due elementi dell’antagonismo. La questione non è, dunque,
risolvibile attraverso l’inventario delle ragioni che uniscono gioco e
sacro e quelle che li dividono, ma riferendosi al vissuto che l’uomo
può esperire nel sacro e nel gioco. È questo vissuto, con la sua carica
estatica, con quella comune capacità di es-porre l’uomo al di fuori delle
contraddizioni che lo lacerano, ad essere cosa comune al sacro ed al
gioco. Gli elementi comuni che si possono inventariare nell’analizzare il
sacro ed il gioco sono dunque la conseguenza di questa analoga funzione
e non il presupposto. Sacro e gioco hanno dunque in comune il fatto
di proporre all’uomo un luogo equivoco, un luogo s-confinato, la cui
descrizione appare difficile e laboriosa perché, come dice Fink, si tratta
di un concetto oscuro, che “non si lascia chiarire da nessun modello di
relazione tra spazio e tempo che già conosciamo”. Ecco perché serve un
salto che permetta di abbracciare una prospettiva differente e non basta
il banale passo indietro, che, semplicemente, permette di collocare ciò
che si osserva in un contesto più vasto. Con il passo indietro di possono
cogliere connessioni e causalità di più ampia portata, si può, come si suole
dire: meglio contestualizzare l’oggetto dell’analisi, ma non si accede
affatto ad un altro orizzonte, il quale, anzi, viene celato dal paesaggio
e che appare quindi fissato come immutabile riferimento. Con il passo
indietro nulla può essere svelato, portato all’emersione. Occorre mutare
punto di visione, porsi al di sopra del dualismo, dell’antagonismo,
dell’irrisolto conflitto, occorre es-porsi. Accade così che la difficoltà che
si incontra nell’analizzare un fenomeno – la festa, il gioco – in quanto
tale, appare superabile attraverso gli strumenti che il fenomeno stesso
offre. In altri termini: la strada che conduce verso una chiara e completa
elucidazione del gioco comporta l’assunzione di un punto di vista che
è lo stesso gioco a fornire, attraverso il distacco dal reale consueto,
dal “mondo della realtà quotidiana” e l’accesso ad un luogo di irrealtà
equivocata dalla permanenza del reale come suo stesso fondamento. E
questo potrebbe, in ultima analisi, valere anche per la festa, per il culto,
per la religione, per la credenza, per qualsivoglia realtà che l’uomo
360
Nel confine
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Stefano Bevacqua
è jouer. L’attore teatrale, colui che, per eccellenza e nel contatto diretto
con lo spettatore, fa “finta di essere”, gioca il gioco e lo fa giocare allo
spettatore che diviene a sua volta partecipe dello spettacolo. Colui che
mette in scena, che interpreta, che fa “come se”, gioca insieme allo
spettatore, il quale, dunque, non è più colui che si pone al di fuori e dal
di fuori osserva, ma entra a pieno titolo nel gioco. Il teatro, scriveva
Gadamer, non è un cubo cui manca una parete e nel quale si mostra
verso un al di fuori una messa in scena: lo spettatore gioca anch’esso,
a pieno titolo, egli è all’interno del cubo ed il cubo è chiuso; è il gioco
che si apre soltanto a sé stesso e che si comprende soltanto nell’estasi
del gioco medesimo, che si fonda da sé. Scrive Gadamer:
Questo mutamento, nel quale il gioco umano giunge alla sua perfezione,
che consiste nel farsi arte, è ciò che chiamo la trasfigurazione in forma.
Solo attraverso questo mutamento il gioco raggiunge la sua idealità, in
modo da poter essere inteso e compreso in una sua individualità definita.
Ora soltanto esso si manifesta come qualcosa di indipendente dall’azione
rappresentativa dei giocatori e viene a consistere nel puro apparire di ciò
a cui essi giocano. In quanto tale, il gioco – anche quello non preordinato
����.H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 243.
364
Nel confine
����������������
. Ivi, p. 245.
365
Stefano Bevacqua
per nulla lieve, nel senso, appunto, di giocoso, nel senso abituale che si
attribuisce a questa parola. Non v’è alcuna antitesi tra gioco e serietà.
Ciò che istituisce il gioco non è una possibile sua capacità di proporre
allegrezza, e nemmeno il fatto che, siccome a giocare sono in massima
misura i bambini, piuttosto che gli adulti, e assunto che i bambini non
siano seri quanto gli adulti, ne deriverebbe una prevalenza di lievità
del gioco, che sarebbe così intrinsecamente faceto, gaio, scherzoso.
In realtà, nel loro giocare, bambini ed adulti sono serissimi, in quanto
attenti a rispettare le regole che il gioco pretende, e che essi stessi hanno
convenzionalmente attribuito al gioco medesimo, ed a conseguire
il risultato di vincere la competizione, e per questo di attingere ad
una condizione estatica, nel caso dell’agon, ovvero di straniarsi dal
“mondo della realtà quotidiana” fino ad accedere al “mondo della realtà
dionisiaca”, nel caso dell’ilinx315. Il gioco non è dunque necessariamente
non serio ovvero gaio o spensierato, ma nemmeno il contrario, ovvero,
ed appunto, serio, contegnoso, ponderato. Tutti questi sono aggettivi che
ben si adattano al descrivere modalità del comportamento umano, molto
meno a qualificarne le funzioni. Il procedere giocoso non è, infatti, una
tra tante possibili modalità con le quali l’uomo può agire nel corso della
sua esistenza, bensì una fondamentale funzione del suo esistere. Ogni
uomo gioca, poiché ciascuno, anche se inconsapevole di ciò a cui, in
effetti, mira, percepisce la necessità di risolvere l’antagonismo che
oppone sé medesimo al mondo, di allontanare il dolore del mondo, di
sporgersi verso un orizzonte nel quale si avveri una terza possibilità,
quello stare al di sopra, nel distacco, verso un paradiso, inteso come
“rifugio segreto, dove si è liberi dal peso delle responsabilità e dal
dovere di prendere delle decisioni e di cui il seno materno è insuperabile
simbolo”316.
. Roger Caillois classifica il gioco come agon, quando in gioco è la vittoria in una
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competizione; alea, quando a stabilire il vincitore del gioco è il caso; mimicry, quando il
gioco consiste nel fare finta di essere qualcuno o qualcosa; ilinx, quando il gioco consiste
nel lasciarsi andare verso una condizione estatica. Per i fini di questo lavoro si è ritenuto
sufficiente fare riferimento soltanto alla prima ed all’ultima delle categorie indicate da
Caillois, in quanto la seconda è una fattispecie della prima e la terza della quarta - ilinx in
greco significa gorgo, e fa derivare ilingos, vertigine: condizione alla quale si può accedere
attraverso la messa in scena della mimicry oppure attraverso la festa o la fruizione artistica
����. J. Jacobi, Archétype et symbole dans la psychologie de Jung, citato in G. Durand,
L’imagination symbolique, Presses Universitaires de France, Paris 1962, p. 67.
366
INDICE DEI NOMI
Campana D. 226n
Carlo Magno 282
Carlo V 122, 201
Carroll L. 14, 63-74, 77, 82
Carracci A. 302-303
Casagrande M. 222n
Cima di Conegliano 302
Cimabue 156-157
Colli G. 218, 259, 263n, 328, 362n
Colombo C. 126
Confucio 28
Cortès H. 196
Dante Alighieri 115-116, 118, 121, 300
Daraki M. 324-326
De Chirico G. 228
de Salignac M. 151
Del Pero M. 100
Delacroix E. 159
Deleuze G. 19n, 19, 50-51, 53-56, 66-67, 70, 80, 96n, 327-328
Derrida J. 56, 58, 61-62
Des Billettes F. 19
Descartes R. 127, 150
Detambel R. 147
Diderot D. 149-151
Diels H. - Kranz W. 218, 259, 263-264
Diodoro Siculo 124
Dodgson C. L. 63, 65, 69, 73, 80-81
Duby G. 282
Dumézil G. 191
Durand G. 11, 366n
Duras M. 89, 132
d’Urso M. D. 148
Eco U. 42
Edoardo III 284
Einstein A. 214, 216, 247
Eliade M. 182, 185-187, 215n, 237, 254-255, 323-324
Elias N. 282
Enrico VII 127
Epimenide 301
Eraclito 10, 132, 218, 259, 261-264, 311-362, 362n
368
Indice dei nomi
369
Stefano Bevacqua
370
Indice dei nomi
Pisistrato 342
Pitt B. 162
Platone 27-33, 93-94, 107-112, 119-120, 123. 126, 128, 131, 187,
205, 223-224, 251, 253-254, 256-257, 318-319, 329, 356
Plinio il Vecchio 103
Plutarco 38, 124, 180, 301-302
Portoghesi P. 271, 274
Procopio 191
Rayleigh J. W. 216
Reale G. 27
Rechtschaffen A. 222
Reinitzer F. 240, 242
Reni G. 302
Rilke R. M. 361n
Roux G. 124
Rovatti P. A. 358
Saffo 152-154, 156
Saunderson N. 150
Schmitt C. 97-98, 101
Segalen V. 154
Serres M. 96n, 149, 179, 250
Simmel G. 273-275
Sinopoli G. 44-46
Socrate 27-33, 38, 107, 109, 318, 321, 323, 326
Sofocle 315
Spinoza B. 95-96
Sting S. 282
Strabone 105
Tagore 226n
Tanizaki J. 227
Tarquinio il Superbo 178
Tintoretto 303
Tiziano Vecellio 302-303
Trasillo 27
van Gennep A. 23-24, 162
Vesalius 122n
Vidal-Naquet P. 111
Virgilio 94, 173
Virilio P. 282
Volta A. 60
371
Stefano Bevacqua
Voltaire 142
Vernant J. P. 216-217, 305-306, 329, 335-339
Weil S. 264n
Wenders W. 277-278
Wunenburger J. J. 11.
372
Catalogo e piano delle prossime uscite
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