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Studi

23.

Collana diretta da
Erasmo Silvio Storace

Comitato scientifico

Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese e Como)


Alessandro Carrera (University of Houston, Houston, USA)
Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi dell’Insubria, Varese e Como)
Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele, Milano)
Carlo Sini (Università degli Studi di Milano, Milano)
Questo testo è stato sottoposto con esito favorevole
al processo di valutazione scientifica in peer review.
Se pareba boves, alba pratalia araba,
et albo versorio teneba, negro semen seminaba.
Gratia tibi agimus, potens sempiternus Deus.
Stefano Bevacqua

NEL CONFINE
Indagine sul principio
del terzo escluso
© Proprietà letteraria riservata
Edizioni AlboVersorio, Milano 2014

www.alboversorio.it
mail-to: alboversorio@gmail.com
tel.: (+39)340.9247340

ISBN: 978-88-97553-87-8

Direzione editoriale: Erasmo Silvio Storace


Impaginazione a cura di: Maristella Monti
Indice

Introduzione p. 9

Preludio
Socrate. La cessazione della vita p. 15

Prima variazione
Teseo. Pieghe, ripiegamenti, labirinti p. 35

Intermezzo
Signor Signore. Il mondo incantato p. 63

Seconda variazione
Eracle. Linee d’acqua e confini ideali p. 85

Terza variazione
Natanaele. Pelle e membrane p. 135

Quarta variazione
Romolo. Fondazioni, soglie, edifici p. 169
Quinta variazione
Sandhya. Crepuscoli, aurore, tramonti, sogni p. 207

Sesta variazione
Hermafroditos. Transizioni fase, duplicità, molteplicità p. 239

Settima variazione
Hermes. Ponti, strade, sentieri p. 267

Finale
Dioniso. Maschere, riti, giochi, travestimenti p. 297

Indice dei nomi p. 367


INTRODUZIONE

Nel luogo dei confini si riassume il principio logico comunemente


riferito come Principio del Terzo escluso. Eppure, tra i lembi riunenti
e separanti del confine c’è qualcos’altro, un in mezzo. L’indagine
vuole esplorare questo luogo, nel tentativo di affrontare, ancorché
indirettamente, questa antica ed annosa questione, che attraversa
oltre venti secoli di storia dell’Occidente, da colui che per primo ne
formulò il concetto, Aristotele, ai più recenti tentativi di smontarne
l’inossidabile evidenza. In mezzo, lungo questo immane fiume
di pensiero, innumerevoli sono stati i fraintendimenti, le crociate
partigiane e le sconfitte. Eppure, il senso del precetto aristotelico è di
assoluta evidenza. Anzi: è un’evidenza in sé, senza alcun bisogno di una
dimostrazione. Come ben noto, Aristotele propone e discute la questione
nel IV libro della Metafisica, dopo avere fissato il Principio di non
contraddizione e confutato lungamente e con grande enfasi coloro che
non ne considerano la piena validità in nome di un qualche relativismo.
Il Principio del Terzo escluso appare così quasi come un corollario del
più potente e forse primigenio Principio di non Contraddizione, come
se si trattasse, infine, di una logica conseguenza derivante dalla potenza
assiomatica del Principio primo.1
1. “Ma non è neppure possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari,
bensì di un’unica cosa è necessario affermare o negare un unico predicato, qualunque
esso sia. […] È falso, infatti, dire che l’essere non è o che il non-essere è; è vero dire che
l’essere è e che il non-essere non è, di guisa che anche colui il quale afferma che una cosa
è oppure una cosa non è, dirà la verità oppure errerà. Ma non si può dire che né l’essere
né il non-essere indifferentemente non-siano o siano. […] l’intermedio dovrebbe essere
al di fuori di tutti i termini della contraddizione; e la conseguenza sarebbe che noi non
diciamo né il vero né il falso, e vi sarebbe qualcosa di intermedio al di fuori dell’essere
e del non essere, e quindi dovrebbe verificarsi anche qualche cangiamento senza che si
presuppongano la generazione e la corruzione. […] ad esempio, nei numeri l’intermedio
sarà un numero che non è né dispari né pari. […] si avrebbe il processo all’infinito e le
cose esistenti sarebbero non solo una volta e mezzo se stesse, ma anche di più, giacché
sarebbe ancora una volta possibile negare l’intermedio in relazione alla sua affermazione
e alla sua negazione, e questo nuovo intermedio sarebbe sempre una cosa determinata,
dato che la sua sostanza sarebbe sempre qualcosa di diverso”. [Aristotele, Metafisica, Γ,
Stefano Bevacqua

Il Principio del Terzo escluso appare così in tutta la sua necessità come
garanzia del fondamento di ogni parola. Aristotele sembra quasi nemmeno
porsi il problema di assumere il Principio in maniera critica. Certo, non si
tratta di dimostrarlo, ché la sua natura assiomatica lo rende evidente, ma
piuttosto di evidenziare il fatto che, se esso non fosse vero, non potrebbe
esistere alcun discorso coerente e fondato, nessuna metafisica, nessuna
filosofia e nemmeno pensiero. Forse, ci dice Aristotele poche righe dopo,
criticando con aspra superiorità Eraclito ed Anassimandro, se non vi fosse
quella certezza che decisa e perentoria esclude il Terzo, non potrebbe
esistere nemmeno un mondo, poiché ogni cosa sarebbe tanto vera quanto
falsa, tutte le cose sarebbe dunque mescolate e nulla sarebbe fondato e
possibile. Nulla sarebbe infine reale. Bisogna riconoscere che senza il
Principio del Terzo escluso ogni gesto, pensiero ed esistere umano sarebbe
assai complicato, perché l’indeterminazione, l’incertezza, l’equivoco
si impadronirebbero di ogni cosa e di ognuno. Ma, altrettanto, si deve
riconoscere che quel vuoto beante di equivocità sembra attrarre come il
vortice che rimescola ogni elemento, come una spirale che riavvolgendosi
muta costantemente il segno, la direzione, fino ad assumere tutti i segni
ed ogni direzione. Nessuna meraviglia, dunque, che di fronte al Terzo
escluso per tanti secoli si sia raccolta tanta timorosa reverenza, quella
della necessità di fondare la parola e la vita del mondo nel quale viene
pronunciata, quanta esuberante sfida, quella della ricerca di un’altra parola
capace di dare altre risposte al mondo che la ospita. Non è intenzione di
queste pagine né di ripercorrere la storia di questa infinita disputa (che
finora è stata vinta da Aristotele, con l’aiuto fondamentale della maggior
parte dei pensatori che lo hanno succeduto), né di assumere un partito
e di tentare l’ennesima rifondazione (della) logica. Nessuna metafisica
seconda né visioni del mondo: ciò che si intende qui proporre è soltanto,
e più umilmente, un modello di lettura, uno schema di visione, una lente
per guardare un poco meglio da vicino e insieme con più attenzione da
lontano. Accettando, preliminarmente, l’equivocità di un Terzo che possa
anche essere dato. Insomma: un approccio metodico, prudente, come un
provare a vedere che cosa accade se il Terzo è dato, se mai si possano
aprire degli interstizi tra le ragioni della perentoria opposizione, nei quali
scovare qualche indizio di mondo, anche soltanto un filo arianneo che
possa condurre il qualche luogo – regione, mondo, spazio/tempo – nel
quale il Terzo possa albergare.
Ma che forma potrebbe avere questo Terzo? Quella di un ambito
logico, di una possibilità di negazione sia dell’uno sia dell’altro dei
1011 b, 22-24; 1011 b, 26-30; 1012 a, 7-9, 10, 12-15; Laterza, Roma Bari 1982].

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Introduzione

poli dell’opposizione, come paventa Aristotele nel mentre denuncia la


catastrofe di una completa assenza di senso e dunque di pensiero e di
mondo alla quale si andrebbe incontro se non si desse per necessario ed
acquisito che il Terzo è escluso? Oppure la forma di una sintesi, di un
luogo nel quale si dirime la polarità tra le opposizioni cancellandole in
una unità di livello superiore? Ovvero una forma relazionale, lasciando
gli attori oppositivi al loro posto ed iniziando ad osservare il loro mondo
non da uno di essi e nemmeno da un cielo di un altro mondo, superiore,
ideale, dal quale possano apparire entrambi, bensì dalla relazione
medesima che li unisce dividendoli, che li riavvicina fino a far loro
sfiorare l’identità per poi allontanarli precipitosamente, in una sempre
più evidente differenza, e di nuovo ritornando su passi analoghi, ma
mai gli stessi, mai identici, soltanto simili, in una ripetizione imprecisa,
ma costante, imprevedibile nel dettaglio, ma certa nel suo essere quasi
uguale, e quindi non unica né molteplice, sicuramente e soltanto
multipla e simile?
La prima forma è della logica, di una nuova logica, che permetta e
contempli il Terzo, non più escluso ed anzi ben considerato e custodito.
La via necessaria a costituirla è stata percorsa da molti pensatori, ma
soltanto per brevi tratti e senza né convinzione né reale intenzione. Forse,
più che un’intenzione fu soltanto una tentazione, per subito rinsavire
non appena ci si avvicinava al baratro della perdita del fondamento, del
senso, della parola medesima. Baratro nel quale caddero, infatti, molti
di coloro che abbracciarono teoresi esoteriche, ché soltanto rinunciando
alla verità dell’evidenza e con essa al Divino ed al Certo pareva possibile
superare lo scoglio di quell’incomodo Terzo. Soltanto nel secolo scorso
questo percorso ha infine trovato una mappa sulla quale razionalmente
adagiarsi, ad opera soprattutto di Stéphane Lupasco, Edgar Morin,
Gilbert Durand, Jean-Jacques Wunenburger, dopo le contrastate
perlustrazioni offerte da Gaston Bachelard. Ciascuno di questi autori
è giunto ad avvicinare l’intento finale di un pensiero del Terzo incluso
attraverso vie diverse: Lupasco, per la via della rifondazione - di una -
logica ternaria; Morin, partendo dalla complessità dei fenomeni fisici,
biologici, sociali, psicologici, epistemici, e vedendovi una funzione
generativa di intermedietà effimere ma sostanziali e fissando per
primo l’idea di una circolarità tendenziale dei meccanismi relazionali;
Durand e soprattutto Wunenburger, partendo da tutt’altro versante,
quello dell’individualità immaginativa e di lì ricostruendo un sistema di
relazioni oppositive e ricorsive. Si tratta di percorsi di grande impegno
e di notevole arditezza, ma che tendono, soprattutto nel caso di Lupasco
e di Morin, a sostituire un sistema logico ritenuto inefficace a spiegare

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Stefano Bevacqua

il mondo con un altro sistema, altrettanto logico, cioè rigidamente


matematico, che non permette alcuna conoscenza qualitativamente
diversa da quella offerta dalla tradizione. Probabilmente, il limite
di queste poderose avventure intellettuali consiste nell’essere state
fondate proprio su una logica tradizionale, nel tentativo di sostituire un
sistema inelastico con un altro sistema altrettanto inelastico, formulato
negando il precedente, ma utilizzandone tutti gli strumenti concettuali
e semantici.
La seconda forma, quella dialettica, richiama immediatamente
il nome e l’opera di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Non si intende
qui nemmeno di sfuggita discutere l’immane potenza del pensiero del
maestro tedesco, ma soltanto tentare di sostenere il fatto che in realtà
Hegel non si è mai davvero posto la questione di un superamento del
Terzo escluso. La sua sintesi, infatti, nega tanto la tesi tanto l’antitesi ed
è quindi altra cosa ma non cosa terza, poiché le prime due vengono meno
nella loro consistenza. Soggetto ed oggetto vengono riuniti nell’assoluto
uno, perdendo così la loro identità e facendo altresì perdere qualsiasi
traccia della relazione che li univa dividendoli. Così che anche i diversi
che appaiono all’esperienza sensibile e che mantengono nell’uno la loro
identificabilità, affinché diano vita all’uno medesimo e nell’uno trovino
anche la loro ragione, non trattengono a sé alcun carattere oppositivo,
bensì piuttosto partecipativo. In fondo, Hegel si premura di risolvere le
contraddizioni elevandosi ad un livello ulteriore nel quale, pur rimanendo
in essenza gli attori che partecipavano alla relazione oppositiva, a venire
meno è la relazione medesima. Si potrebbe azzardare che il Terzo non
viene affatto incluso, ma risolto nell’assoluto.
La terza forma è quella che si tenterà qui di proporre. È stata più
sopra definita come forma relazionale del Terzo. Ma non basta. Forma
relazionale è poco e non centra il bersaglio, oppure è troppo e lo lascia
sfumare in uno spazio eccessivo. Si dovrebbe precisare, per dire di
una forma relazionale oppositiva, che è anche generatrice e ricorsiva,
anzi quasi-ricorsiva. Il linguaggio fatica nell’offrire termini adeguati.
Occorre tirare da una parte e dall’altra oppure comprimere il senso
delle parole per trasformarle in indizi, segnali, per alludere piuttosto
che pienamente dire. E, probabilmente, non è affatto un caso. Ché se
per oltre due millenni l’Occidente ha prodotto pensiero sulla base di
alcuni assiomi ineludibili che ancora oggi condizionano il modo di agire
e di pensare, è inevitabile che anche lo strumento della formulazione e
della comunicazione del pensiero, il linguaggio, si formi e si conformi
a quelle regole, a quelle medesime forme del pensiero. È dunque
faticoso ed un poco ridondante questo riferirsi alla ricorsività, ai sistemi

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Introduzione

oppositivi, alle relazioni che uniscono e respingono gli attori. Occorre


fare attenzione ed usare sempre gli stessi termini, al fine di non sviare
la lettura. Cominciando dalla parola attori, che si sostituisce a soggetto-
oggetto, astratto-concreto, sensibile-intelligibile, terreno-ultraterreno,
corpo-anima, fenomeno-noumeno. Ecco che un primo passo per chiarire
questa terza forma del Terzo si può compiere formulando l’ipotesi di un
Terzo equivoco, il quale non è la sola co-presenza di ciascuno degli
attori oppositivi, né soltanto un luogo, un ambito spaziotemporale che
stia tra l’uno e l’altro, bensì è tutto questo ed insieme la relazione che
lega e allontana. È dunque una forma sempre mutevole, questa del Terzo
equivoco, che segue circolarità che la ripropongono sempre simile e mai
identica, che sembra offrire la riunione degli attori ma che mai giungono
alla soluzione assoluta per riallontanarsi nel loro irriducibile polémos.
Come si è già detto, non è una nuova proposta metafisica, nemmeno
una teoria della conoscenza e ancor meno della natura. Neanche vuole
essere una Weltanshauung – tante, troppe ce ne sono a disposizione,
nei santuari del libro, le grandi biblioteche, così come dal rivenditore
di giornali e sulle bancarelle. Vuole essere semplicemente una lente,
oppure un cannocchiale, talvolta un microscopio, talaltra un prisma
diffrattivo. Uno strumento, dunque, attraverso il quale osservare il
mondo e le idee per vedere che cosa si cela ed insiste tra i labbri beanti
che ri-uniscono le cose, per scovare il mondo che gli attori oppositivi
generano nel loro contrasto, rendendo così possibile tutto il resto di
ogni mondo. Non è dunque un progetto teorico, bensì una proposta
di percorso articolato, di riflessione non soltanto filosofica, ma anche
storica, antropologica, psicologica. E si partirà proprio da qui, dalla fine
del discorso, dal mondo che sta di fronte a ciascuno in quanto realtà
contingibile e, insieme, immaginazione e desideri, paure e piaceri. Si
partirà dunque dall’esame dei confini, del luogo che caratterizza ogni
confine. Se, infatti, l’ipotesi di poter scrutare il mondo delle opposizioni
generative ricorsive è valida, possibile e perseguibile, nei confini
naturali o ideali, intesi come quella linea lungo la quale si affacciano i
lembi del differenziato, si dovrebbe trovare uno spazio ed un tempo, un
luogo ed una regione, abitati da fenomeni relazionali, da eventi tipici
di quella condizione equivoca, indeterminata, mutevole. Nelle pagine
che seguono si prenderanno così in esame diversi casi – esempi – di
confini, di aree liminari, di equivocità, di incertezze, di limiti – forse
– invalicabili, e si tenterà di raccontarli e, per così dire: di aprirli per
mostrare il loro incerto contenuto. Il percorso è organizzato intorno ad
un preludio, sette variazioni, un intermezzo ed un finale. Il preludio è
focalizzato sulla cessazione della vita. Le variazioni prendono in esame

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Stefano Bevacqua

le pieghe ed i labirinti; le linee d’acqua; la pelle e le membrane; le soglie


e le fondazioni; i crepuscoli; le transizioni di fase; i ponti e le strade.
L’intermezzo è dedicato a Sylvie and Bruno di Lewis Carroll, il finale ai
travestimenti, ai riti ed al gioco.

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PRELUDIO

SOCRATE
La cessazione della vita

Inversione crono-logica, nel tempo e del senso. Iniziare dalla fine, non
per effettuare un percorso a ritroso, bensì perché la fine si impone come
necessità e, quindi, come passaggio obbligato. E i passaggi obbligati
non stanno mai al termine dei percorsi, ma al loro debutto, come prova il
cui superamento è necessario per accedere al sentiero, al cammino; non,
dunque, ad un percorso, che è un participio passato, già fatto, già corso
e per intero, totalmente, senza lasciare alcun avanzo. Prova iniziatica,
come un primo capitolo. Prova iniziatica perché l’idea di discutere del
luogo dei confini, inteso come quello spazio e quel tempo che separa un
al di qua dal suo necessario al di là, propone mille pericoli e arditezze e
le prime pagine sono quelle che permettono di accedere al contenuto –
porta di accesso, soglia oltre la quale inizia il cammino. Prova iniziatica,
in quanto il confine più difficile da discutere, nel quale la definizione
del luogo in cui esso si giustifica appare impossibile, misterioso perché
definitivo, la cui conoscenza ed esperienza è per definizione non
riferibile, il confine che coincide con la cessazione della vita, che il
senso comune avrebbe suggerito di collocare nelle ultime pagine, si è
imposto in maniera brutale, immediatamente, come dicendo che prima
di discutere degli infiniti possibili confini che costellano il mondo, è
necessario pensare l’ultimo, anche se non riferibile e così arcano e
terribile, oggetto di interminabile angoscia, inevitabile, inrinviabile,
che sgomenta e stordisce. Forse proprio per questo non esiste – perché
forse non può esistere – una filosofia della morte, ma soltanto una
filosofia che in qualche peraltro rara occasione si è limitata a parlare
della morte, prevalentemente liquidata come quell’evento nel quale
l’anima si separa dal corpo, oppure scandagliata meticolosamente, come
nell’affresco tracciato da Vladimir Janckélévitch, il quale ha analizzato
la sua struttura, con un prima, riferibile, un poi, teologizzabile, ed un
durante, temporalmente e materialmente indicibile:

La morte, così come non è pensabile né in termini di cambiamento né


in termini di un più o un meno, cioè in termini posologici, rifiuta altresì
Stefano Bevacqua

ogni cronologia e ogni topografia. Eppure si farà notare che l’ultimo


respiro giunge ad una tale data sul calendario, alla tale ora e al tal minuto
determinati sul cronometro: sebbene non si possa prevedere il momento
della morte con certezza, questo evento sembra risponde in ogni caso alla
domanda: Quando; la morte è un indeterminabile determinato. Ma questo
ultimo momento degli ultimi momenti inaugura un nuovo eone, l’era
intemporale che è l’eternità postuma: a questo titolo la morte è la soglia
del tempo e del non tempo; essa appartiene a due mondi alla volta e tiene
un piede i ciascuno dei due universi.2

Anche Janckélévitc, che pure è stato uno dei pensatori che con
maggiore attenzione ha riflettuto sul fatto della morte, riuscendo a
districarsi dalla presa che conduce sempre a pensare al suo significato
invece che alla sua essenza, sembra non cogliere alcuna possibilità di
ampiezza nella morte, quel luogo in cui essa si dispiega. La difficoltà,
che a prima vista era parsa insormontabile, risiede proprio nella
temporalità indicibile del durante, perché il luogo che si intende qui
cercare all’interno di ogni confine, quello spazio o tempo che permane
tra un al di qua ed il suo al di là, può in questo caso essere soltanto
fantasticato, ma non ipotizzato né, tanto meno, pensato o ancora meno
esperito. Nel confine che separa la vita da ciò che potrebbe esserci
oltre di essa esiste necessariamente un luogo, ma forse è soltanto
una contrazione di tempo, infinitamente piccola, così infinitesima da
ridursi ad un indicibile frazionario, un istante puntuale, un quasi niente,
anzi: un nulla. Il tempo non si presta ad una geometrizzazione di
stampo euclideo, non esiste un punto temporale. Certo, anche il punto
spaziale è un’astrazione – che sfiora il paradosso quando si pensi che
il punto non ha alcuna dimensione e che il suo rapporto con lo spazio
si esaurisce totalmente nella fissazione del suo luogo – ma riesce ad
essere intuibile, maneggiabile, comprensibile. L’istante, il tempo che ha
una durata che tende a zero, questo tempo del momento o momento di
tempo, invece, non si lascia comprendere, perché non ha alcuno spazio
in cui avere un luogo, ma soltanto una linea, quella del tempo, cioè
di sé medesimo, che a sua volta scorre inesorabile. Si può pensare ad
un punto che sia collocato in uno spazio, ma non si può pensare ad un
istante che immediatamente viene sostituito dall’istante successivo e
che si colloca, anzi, no, ormai occorre dire: si collocava, in un luogo
temporale che si allontana continuamente, dunque negandosi, facendosi
schermo con l’infinità di istanti che lo succedono. Dunque non si
riesce a pensare il momento della morte, non soltanto perché la sua
inesorabile ultimatività ed irreversibilità impedisce ogni topografia per
2. V. Janckélévitch, La mort, Flammarion, Paris 1977, pp. 244-245.
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Nel confine

lasciare campo libero alla sola teologia, ma anche perché non è dato di
pensare il momento come tale se non come una estrema compressione
del tempo definibile soltanto con il linguaggio della matematica e che,
quindi, non può contenere alcun luogo. Nessuno spazio e nessun tempo
possono insistere in un momento infinitamente contratto, in questa sorta
di big bang all’inverso, di implosione in cui tutto il tempo precedente
annichilisce.
Nemmeno la discussione di carattere etico-scientifico è riuscita a
circoscrivere e descrivere un qualche cosa che potesse assomigliare ad
un luogo nel quale si possa pensare il confine tra l’al di qua della vita e
ciò che la succede. La stessa definizione di morte è stata oggetto di un
lungo dibattito che in Italia ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta
del secolo scorso coinvolgendo medici, biologi, psicologi, antropologi,
filosofi, teologi. Questione difficile, infatti. Difficile è districarsi tra i
diversi aspetti di natura etico-biologica che continuamente emergono e
riemergono non appena si tenta di cogliere una chiarezza. Perché c’è un
morire di natura biologica ed una morte che può essere cardiopolmonare
oppure cerebrale, e quella cerebrale può riguardare la sola corteccia
cerebrale oppure l’intero encefalo. Per morire si intende il “processo
evolutivo che colpisce gradualmente le cellule dei diversi tessuti e le
relative strutture subcellulari sulla base della loro differente resistenza
alla carenza d’ossigeno”3. Un morire dunque protratto nel tempo, ma
che sembra svolgersi essenzialmente in un luogo che è già oltre la vita,
poiché se anche il corpo stesse già corrompendosi così gravemente
da indicare l’irreversibilità del termine vitale, sempre e comunque si
sarebbe ancora in un quadro prognostico e niente affatto diagnostico e
dunque ben lontani dal luogo del confine ultimo del vitale che si vorrebbe
qui mettere a fuoco. Occorre dunque fare un passo all’indietro, verso
una definizione di morte che possa avvicinarsi maggiormente all’istante
dell’irreversione, al momento nel quale, secondo la concezione più
antica, l’anima ed il corpo si separano, lasciando quest’ultimo ad un più
meschino destino. Occorre allontanarsi dalla corruzione del corpo, che
è già un dopo, un oltre il confine che si cerca di disegnare per indagarlo
e poterlo così riferire, per fermarsi un poco prima, al momento in cui
qualche cosa appare come limite insondato, sottile barriera dalla quale
potersi sporgere, protendere, per cogliere l’opaca idea di ciò che essa
nasconde, non attraverso un celare, come un riporre al di sotto, un non
fare emergere in superficie, schiacciando sotto un peso, bensì attraverso
uno schermare, un velare, come il porsi tra il qua ed un là, come un velo
3. Comitato nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte nell’uomo,
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1991.
17
Stefano Bevacqua

o una tenda che si erge in altezza, verticalmente, senza una profondità


significativa, senza alcun peso. Occorre spostarsi verso il luogo nel
quale il pensiero cessa di agire. Il luogo della cessazione della vita, se
esiste, si trova in quell’interstizio temporale che si è incuneato tra il
vivente e l’oltre il vivente. Un istante. Irripetibile, perché irreversibile è
la cessazione della vita, ma, prima ancora, perché irripetibile è qualsiasi
istante, ogni istante della vita, anche quando si trattiene molto lontano
dal suo termine, quando è molto al di qua di quel momento fatale. Il
luogo che si vuole cercare è dunque racchiuso in una temporalità la cui
estensione tende ad annullarsi. Essa è indefinibile e, insieme, frustrante,
perché incoglibile, troppo sottile per essere misurata e trattenuta. Per
indagare il luogo della cessazione della vita servirebbe uno strumento
capace di aprirlo, ampliarlo, renderlo almeno un poco visibile, leggibile.
Bisognerebbe poter aprire il tempo, riportando un poco del passato ed
un briciolo dell’attesa in un presente più pregnante, più accogliente, nel
quale si possa dimorare per una durata che superi l’istante e meriti di
essere chiamata tempo, facendo appello al primo pensatore che abbia
posto in maniera radicale questa necessità: Agostino d’Ippona. Il santo
di Tagaste, per la verità, non si poneva affatto il problema di indagare
l’istante della separazione dell’anima dal corpo, ma piuttosto, con una
modernità davvero sorprendente per un uomo che visse tra il quarto
ed il quinto secolo, della percezione e della misura del tempo in senso
generale, ma perfetta appare la congruità della sua descrizione con
l’enunciato che pretenderebbe una maggiore solidità e indagabilità del
momento della cessazione della vita.

Chi nega che il presente è privo di estensione, poiché il suo trascorrere è un


punto? L’attenzione, tuttavia, perdura, ché si avvia perciò ad essere assente
ciò che sarà presente. Non può il futuro che non esiste, essere lungo, ma un
futuro lungo è una lunga attesa del futuro. Né il passato, che più non esiste,
è lungo; ma un lungo passato è un lungo ricordo del passato. Voglio cantare
una canzone che conosco. La mia attesa, prima che io cominci, è rivolta verso
tutto il canto; quando poi avrò cominciato a cantare, quanto di essa ne avrò
staccata e trasferita al passato, tende alla mia memoria; in tal modo l’esistenza
di questa mia azione si distende verso la memoria per quello che ho cantato;
verso l’attesa per quello che canterò. La mia attenzione, tuttavia, è presente
e per mezzo di essa ciò che era futuro passa e diventa passato. E quanto più
procedo nel canto, tanto più si abbrevia l’aspettativa; si prolunga la memoria,
fino a che non sia terminata tutta l’attesa , quando cioè, terminata quell’azione,
passerà nella memoria.4

4. Agostino, Le confessioni, Edizioni Paoline, Roma 1956, p. 500.


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Nel confine

Il presente sembra ora aver perduto la sua puntualità, così attenuandosi


la fatica che è suggerita dal suo continuamente scorrere verso il passato
permanendo soltanto come avvenuto e, al tempo – appunto: tempo
– stesso, dal suo essere sempre permeato da un’attesa che, rifluendo
immediatamente nel passato, sempre si nega come oggetto. L’idea di
questa proiezione di un prima che, pur riversandosi costantemente in
un poi, lascia una traccia più grande di un punto temporale, non risolve
ogni domanda, ma almeno conduce in un luogo ove il punto di vista
sembra allargarsi. Il tempo non sembra più apparire come un filo, ma
come una superficie; il suo è un trascorrere, non più un fluire lineare. Lo
si può anche immaginare come un movimento nella tridimensionalità,
come quello di una superficie motile che si distende e si ripiega con
il ritmo e le parole del canto di Agostino, che tutta la ricorda e la
attende, all’inizio, e tutta la rammemora, al termine. Come una piega
barocca, quel dispiegarsi e ripiegarsi all’infinito su se stesso di un limite
temporale altrimenti non riferibile, come la piega di Leibniz, così come
è stata riferita da Deleuze5 con una straordinaria immagine, qui riservata
alla descrizione della materia, ma che il filosofo francese riprende in
innumerevoli successive occasioni a proposito del tempo e della vita.

Dividendosi senza tregua, le parti della materia formano dei piccoli


vortici in un vortice, e da questi altri ancora più piccoli, e altri ancora
negli intervalli concavi dei vortici che si toccano. La materia presenta
dunque una tessitura infinitamente porosa, spugnosa o cavernosa senza
vuoto, sempre una caverna in una caverna: ogni corpo, per piccolo che
sia, contiene un mondo, in quanto è forato da passaggi irregolari, avvolto
e penetrato da un fluido sempre più sottile, l’insieme dell’universo era
simile – come scriveva Leibniz a Des Billettes nel 1696 – “a uno stagno
di materia nel quale ci sono differenti fiotti ed onde”. [...] L’unità della
materia, il più piccolo elemento del labirinto, è la piega, e non il punto, che
non è mai una parte, ma la semplice estremità della linea.6

C’è un’inquietante analogia tra questa piega che si forma e si


riformula senza lasciare mai nulla all’ovvia comprensibilità del
rettilineo e delle superfici piane, e le circonvoluzioni cerebrali, tra la
figurazione del luogo di massima complessità ove si fissa il passaggio
tra l’al di qua e l’inconosciuto al di là e la forma materiale di quella
parte del corpo in cui dimora la possibilità della vita e, con essa,
5. Sarebbe legittimo chiedersi come mai Deleuze, sempre così attento a cogliere le
similitudini ed i sensi reconditi che affollano la storia del pensiero occidentale, non abbia
colto l’ ideale analogia che si impone tra la temporalità agostiniana ed una certa parte del
pensiero leibniziano.
6. G. Deleuze, Le pli, Les Éditions de minuit, Paris 1988, pp. 8-9.
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Stefano Bevacqua

l’irreversibilità del decesso. Ecco che la morte cerebrale diviene, con


duplice buon motivo, il luogo fisico della morte medesima. Si muore
lì, nell’encefalo, per colpa dell’encefalo. La morte cardiorespiratoria,
infatti, è soltanto prognostica della morte cerebrale: il cuore si arresta
oppure i polmoni non sono più in condizioni di generare il necessario
ricambio di ossigeno, e, se non interviene un sistema di rianimazione
e di assistenza meccanica che garantisca respirazione e circolazione,
l’encefalo inizia a subire danni irreversibili, ai quali, giunta una
condizione di completa anossia, segue l’arresto di ogni attività
cerebrale. Ma, non basta, perché la stessa morte cerebrale può essere,
a sua volta, prognostica o diagnostica. Nel caso di un completo arresto
della funzionalità del tronco encefalico, infatti, si arriva al decesso,
certo, ma soltanto perché vengono meno quelle funzioni vitali che
permettono il funzionamento della corteccia cerebrale. Si avrebbe un
corpo corrotto che porta nell’abisso una mente ancora viva. Invero,
se smette di funzionare soltanto la corteccia cerebrale non è detto che
intervenga il decesso, poiché il tronco encefalico potrebbe permanere
funzionante. Si avrebbe una mente compromessa in un corpo sano. In
entrambi i casi esiste una difficoltà definitoria maggiore. La questione
è stata spiegata con invidiabile chiarezza da Angel Rodríguez Luño:

James Bernat e i suoi collaboratori, nello studio On the definition and


criterion of death, ritengono che la morte sia un fatto che non deve essere
confuso né con l’agonia che la precede, né con il conseguente processo
di disintegrazione di cellule e tessuti (la morte biologica). Questi autori
definiscono la morte come la cessazione permanente del funzionamento
dell’organismo umano come un tutto. Questo non significa che la morte
sia la cessazione della somma delle funzioni di tutti gli organi. La morte
è l’interruzione permanente delle complesse relazioni funzionali tra i
diversi organi. Non è necessario che l’organismo umano sia completo —
infatti può mancare una gamba, un braccio, un rene, ecc. — per continuare
a funzionare spontaneamente come un tutto. […] Il problema di fondo
consiste nel fatto che la “morte cerebrale” è intesa in tre modi diversi: 1)
Prima tesi: la cessazione irreversibile del funzionamento del solo cervello
o corteccia cerebrale (funzioni superiori) equivale alla morte dell’essere
umano. [...] 2) Seconda tesi: l’essere umano è morto solo quando si è avuta
la cessazione irreversibile del funzionamento dell’intero encefalo. […]
3) Terza tesi: l’essere umano è morto quando si è prodotta la cessazione
irreversibile del funzionamento del tronco encefalico (altri autori parlano
di tronco cerebrale). Sembra che questa tesi potrebbe essere anch’essa in
accordo con la concezione della morte di Bernat e dei suoi collaboratori,
perché i suoi sostenitori considerano che il funzionamento dell’organismo
nel suo insieme cessa definitivamente una volta che è cessata l’attività

20
Nel confine

coordinatrice del tronco encefalico. In ogni caso, queste ultime due tesi sono
abbastanza diverse dal punto di vista della diagnosi della morte clinica.7

Concetto ribadito anche dal Comitato nazionale per la Bioetica,


quando afferma che “il parlare di morte clinica, morte biologica, morte
cardiaca, morte cerebrale, morte tronco-encefalica, morte corticale
potrebbe generare notevole confusione e disorientamento: è come se
esistessero molte morti e modi diversi di morire”.8
Si torna al punto di partenza: la difficoltà di definire questo primo,
fondamentale e necessario confine, quello tra la vita e ciò che la
segue, appare in tutta la sua grandezza. Non si riesce infine a dire
nemmeno che cosa esattamente sia la morte, quando essa in effetti
accada e come essa si manifesti e si imponga come incontrovertibile e
irreversibilmente data. Ottundendosi il confine, quello tra la vita e ciò
che le succede – è preferibile non utilizzare il termine morte, perché
con morte si intende la negazione di ogni cosa, non soltanto della vita
che ne è l’impossibilità, e quindi non potrebbe, in essa, apparire alcun
luogo, cui sarebbe, infatti, inibita l’esistenza – non potendo dunque
cogliere questo ambito, non rimane che idealizzarlo, non nel senso di
crearne una sorta di interfaccia concettuale, ma piuttosto per ricercare
negli eventi del mondo e della storia che lo ha attraversato delle
occasioni capaci di illustrare il luogo del termine della vita – non si
deve rinunciare a questa peraltro modesta impresa, di calarsi nel luogo
dei confini a cominciare proprio da questo, il più arduo e discriminante,
quello che spinge verso un sorta di indagine a ritroso, a cominciare
dal confine tra vita e oltre la vita, perché significherebbe rinunciare
a tutta l’impresa che da questo passaggio iniziatico potrebbe avere
inizio. Occorre dunque insistere, cercando di incunearsi tra concetti ed
ipotesi, interstizi sempre più sottili e difficilmente agibili, nel tentativo
di mettere in chiaro che esiste un luogo anche di questo confine, perché
ogni confine, quale esso sia, genera un luogo, proprio in ragione del
fatto che anche quello, tra i confini, davvero estremo e indicibile,
l’unico che ognuno deve per necessità valicare senza mai poterne dire,
propone anch’esso un luogo. Se si supera questo scoglio, se si ottiene
di possedere l’idea di un luogo di questo confine dei confini possibili,
ci si potrà mettere al riparo dalla tempesta ed evitare il naufragio. Ci
si potrà così avvinghiare alla fine della vita per generare un senso che
si moltiplichi verso ogni forma di vita, ogni idea, ogni possibilità che

7. A. R. Luño, Rapporti tra il concetto filosofico e il concetto clinico di morte, in “Acta


Philosophica” I/1, 1991, pp. 54-68.
8. Comitato nazionale per la Bioetica, cit.
21
Stefano Bevacqua

l’uomo ha praticato o auspicato. Di fronte alla grande indeterminazione


che domina la stessa definizione scientifica ed etica della morte, una
soluzione potrebbe essere costituita dall’allargare il lasso temporale
al quale riferirsi, superando così la strettoia dell’inconsistenza di
quell’attimo nel quale si compie la fatalità irreversibile ed irriferibile.
Si tratterebbe di procedere come spalmando quel momento in un tempo
ulteriore, per dargli la consistenza necessaria a trasformarlo in un
luogo descrivibile, durante il quale possano accadere eventi, nel quale
poter constatare un’evoluzione, un mutamento, una trasformazione.
L’approccio di Agostino, infatti, non è più sufficiente. Esso riesce a
risolvere l’aspetto della definizione del concetto di tempo durante il
quale cessa l’esistenza, ma non permette di circoscrivere un luogo.
È dunque necessario allargare quel tempo dall’istante ad una durata
misurabile. Ciò appare possibile attraverso due procedimenti – tutti
rigorosamente arbitrari e strettamente intellettuali. Il primo consiste
nell’allungare l’esperienza della cessazione della vita oltre il suo limite
formale. Il secondo risolve la necessità attraverso la costruzione di
un tempo che precede la cessazione dell’esistenza ma che già ne sia
partecipe, non quindi come attesa, ma come preparazione.
Il primo percorso è certamente cosa per nulla estranea all’umano
istinto, se i riti diffusi tra molte popolazioni dell’Oceano Indiano
prevedevano, in un passato niente affatto remoto, di considerare non del
tutto morta ogni persona per un periodo anche assai lungo, perfino per
alcuni anni. Robert Hertz, un etnologo francese, morto ancora giovane
durante la prima guerra mondiale, scriveva, nel 1907:

L’opinione generalmente ammessa nella nostra società è che la morte si


compia in un istante. Lo spazio di due o tre giorni che scorre tra il decesso
e l’inumazione non serve ad altro che a permettere i preparativi materiali e
la convocazione di amici e parenti. Nessun intervallo separa la vita a venire
da quella che si è appena spenta [...] Ma ciò che viene offerto da numerose
società meno avanzate della nostra non rientra nello stesso quadro. Tra la
maggior parte delle popolazioni selvagge i corpi dei morti vengono sepolti
solo provvisoriamente, per poi concludere le esequie in un secondo tempo,
con un rito ulteriore.9

Hertz esamina le tradizioni rituali che nell’Ottocento erano ancora


ben diffuse e radicate in Indonesia, in Malesia e nel Borneo prendendo
in esame tre aspetti: il corpo del defunto, la sua anima e i viventi.

9. R. Hertz, Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort, in


Sociologie religieuse et folklore, Les Presses Universitaires de France, Paris 1970, p. 15.
22
Nel confine

I corpi dei defunti vengono depositati provvisoriamente in attesa delle seconde


esequie in un luogo distinto dalla sepoltura definitiva e quasi sempre isolato.
[...] I morti vengono posti al riparo, deponendo il feretro, dopo un’esposizione
di qualche giorno, vuoi in una casa di legno in miniatura installata su dei pali,
vuoi su una specie di pedana con una copertura. [...] Questo periodo di attesa
ha una durata variabile, in certi casi di sette – otto mesi, in altri anche di alcuni
anni. [...] Le esequie definitive non possono avere luogo immediatamente
dopo la morte perché occorre attendere che la decomposizione del cadavere
sia terminata e che non restino più che le sole ossa.10

Nelle tradizioni, ormai del tutto abbandonate, di questi popoli, il


luogo della morte non si riduce però alla semplice corruzione del corpo,
al suo decomporsi e infine svanire per lasciare soltanto la rigidità delle
ossa. Il luogo della morte è pienamente abitato anche dall’anima.

Così come il corpo non è subito condotto alla sua ultima dimora, l’anima
non arriva alla sua destinazione definitiva immediatamente dopo la morte.
Bisogna che prima si compia una sorta di tirocinio, durante il quale essa
rimane sulla terra, nei dintorni del cadavere, errando nella foresta oppure
frequentando i luoghi che abitava quando era nel corpo vivente: soltanto al
termine di questo periodo, durante le seconde esequie, essa potrà, grazie ad
una speciale cerimonia, entrare nel paese dei morti. [...] L’anima non rompe
mai d’un colpo i legami che la collegano al suo corpo e la trattengono sulla
terra. Per tutto il tempo che dura la sepoltura temporanea del cadavere, il
morto continua ad appartenere esclusivamente al mondo che ha appena
lasciato. [...] Durante tutto questo periodo, il morto è considerato come se
non avesse ancora terminato completamente la sua vita terrestre.11

A riferire analogamente, peraltro, sono stati numerosi etnologi e non


il solo Hertz quanto alle popolazioni dell’Oceano Indiano orientale. Per
tutti valga Arnold Van Gennep che riferisce di numerose altre realtà
nelle quali venivano seguite analoghe procedure di sospensione della
ritualità funebre, dall’Africa ai Caraibi, fino al Madagascar ed alle
Americhe.

Il lutto [...] mi appariva [ormai] come un fenomeno più complesso. Per


i sopravvissuti è uno stato di margine, e in esso entrano attraverso riti
di separazione e ne escono mediante riti di reintegrazione nella società
generale. [...] Per la durata del lutto, i parenti del defunto costituiscono una
società speciale situata tra il mondo dei vivi da una parte e il mondo dei
morti dall’altra; da questa società essi escono più o meno velocemente a
seconda che il legame di parentela con il morto sia più o meno stretto. [...]
10. Ivi pp. 17-19.
11. Ivi pp. 21-23.
23
Stefano Bevacqua

Durante il lutto, per tutti coloro che ne sono colpiti, la vita sociale subisce
un’interruzione la cui durata dipende: 1) dal legame naturale più o meno
stretto con il defunto; 2) dalla condizione sociale più o meno elevata del
morto. Se il defunto era un capo, questa sospensione colpisce la società
intera. [...] Sono convinti che i morti vadano nel regno delle anime soltanto
se spogliati della carne.12

Questo permanere nella vita terrestre, nella quotidianità della


comunità che la persona deceduta aveva abitato durante la sua esistenza,
assume una carattere di contagiosità, la quale richiede che tutti coloro
che a vario titolo avevano avuto un legame di parentela o di amicizia
con il deceduto debbano adottare precauzioni o ritualità atte ad evitare
la propagazione di qualche cosa. Le ricerche condotte dagli etnologi
sulle credenze che fino all’inizio del Novecento erano radicate tra le
popolazioni del sud Est dell’Oceano Indiano non riescono a chiarire di
che cosa esattamente si tratti, se del processo di putrefazione del copro
del deceduto, che potrebbe trasmettersi ai vivi o alle cose, alle piante o
agli animali del villaggio, oppure se sia cosa di natura più essenziale,
come una sorta di elemento immateriale che promana dal cadavere e
possa da esso corrompere altri organismi. Dai dettagliati racconti offerti
da Robert Hertz sembra emergere una diffusa condizione di pericolo,
direttamente proporzionale all’intensità del legame che parenti od amici
avevano con il defunto, per cui il vedovo o la vedova, i figli o i genitori,
i fratelli e le sorelle erano costretti ad un lungo purgatorio, messi al
bando dalla comunità e marginalizzati in genere fino alle esequie finali
e definitive del feretro. Da un lato, sembra essere la fisicità stessa del
corpo che abita questo suo spazio mortale successivo all’evento della
transizione irreversibile ad emanare questa condizione di pericolo. Scrive
Hertz: “La morte, colpendo l’individuo ha impresso in lui un carattere
nuovo; il suo corpo, che prima risiedeva nel dominio della normalità, ne
esce come di colpo: non può più essere toccato senza pericolo, diviene
oggetto di orrore e di terrore”.13 Ed ecco apparire immediatamente
un’inattesa analogia tra le tradizioni rituali di popoli così lontani e la
cultura occidentale. Il rapporto con il corpo di una persona deceduta
è completamente diverso da quello che si può intrattenere con colui
che anche se soltanto per uno spiraglio, un filo, un’ultima tensione,
apparisse ancora vivente. In questo, gli occidentali non sono diversi
da quegli uomini che popolavano l’Indonesia ed il Borneo nei secoli
passati; anch’essi vivono il trapasso dalla vita a ciò che la segue come
un mutamento di natura radicale, cardinale, estremo, irreversibile. Ma è
���.A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 128-130.
13. R. Ertz, Contribution, cit. p. 25..
24
Nel confine

proprio questa irreversibilità ad imporre una così mutata considerazione?


È il fatto che quel corpo non contenga più l’anima che lo abitava a
spaventare, a rendere ciascuno improvvisamente distante e prudente?
Sono le esalazioni dell’imminente decomposizione a porre questa sorta
di barriera? Oppure si prova questa sorta di imbarazzato timore misto
a orrore perché quel corpo è stato risucchiato dal luogo della morte,
luogo che non appartiene – ancora – ai viventi e al quale mai si vorrebbe
appartenere? Del resto, non è proprio l’assenza della persona venuta a
mancare a provocare la disperazione del congiunto che gli sopravvive?
E questa assenza non è generata proprio dal passaggio verso l’inanità
del corpo, dal suo essere traccia materiale della generazione di un luogo
terzo, che non è più vita ma non è nemmeno quella cosa che usualmente
di chiama morte?
La difficoltà nel dire che cosa sia la morte deriva dal fatto che nessuno
ne può fare l’esperienza in vita e, quindi, la questione si riduce nel
definire morte ciò che non è più vita, quindi per negazione, sottrazione,
eliminazione, come ciò che lascia il vuoto terrificante rappresentato dal
corpo inanimato, spento, che ha già iniziato a degenerarsi e corrompersi.
Non si può vedere oltre, non è dato di conoscere il luogo della scomparsa
della vita, rimane soltanto il corpo come testimonianza di uno stato
precedente, destinato anch’esso a degradarsi fino alla polvere nominata
da Qoèlet, figlio di Davide, che risolve l’incomprensibilità del termine
della vita nella considerazione della sua vanità. Nessun luogo possibile,
dice Qoèlet, solo la polvere nella quale inesorabilmente deve ritornare il
corpo ormai privato dell’anima, il “soffio vitale” che torna “a Dio che ce
lo ha dato”. La tradizione occidentale, dunque, esclude perentoriamente
la possibilità di un luogo della morte, ma per sostenerlo elenca soltanto
sottrazioni, cose che più non saranno, dipingendo un’involuzione
dalla vita alla non vita, in cui le mole rallenteranno e il cinguettio
degli uccelli si affievolirà, quando il filo d’argento si spezzerà e la
lucerna d’oro si infrangerà. Si indica il termine della vita, ma non il
passaggio, la soglia, che la divide e per ciò stesso la unisce da e a ciò
che la segue. Eppure, proprio dai comportamenti dei credenti, sembra
emergere l’intenzione di cogliere un qualche luogo. Non ha, infatti,
completamente ragione, Hertz, quando scrive che nella tradizione
occidentale non si attende a inumare il feretro che il tempo necessario
all’organizzazione dei riti funebri. C’è la tradizione della vestizione del
defunto, la veglia durante la quale il corpo del defunto viene accudito,
ci sono i rituali dell’offerta del cibo ai visitatori, l’accoglienza rivolta
a tutti i conoscenti ed i parenti. Nei piccoli paesi, il decesso di una
persona, soprattutto se anziana, riguarda gran parte della popolazione,

25
Stefano Bevacqua

che nel recarsi presso l’abitazione del defunto sembra comportarsi a


mezza via tra il tentativo di trattenere verso l’al di qua l’estinto e il
protendersi idealmente nell’oltre la vita, immaginandone un luogo;
anche la sepoltura appare quasi come un porgersi verso quel limite, oltre
la soglia, quasi nel tentativo di cogliere quel luogo altro. Certamente,
si è qui assai lontani dalla partecipazione perfino fisica e materiale che
tra le antiche popolazioni descritte da Hertz vedeva coinvolte le persone
più vicine al defunto, ma un senso di coinvolgimento nel viaggio ideale,
in una permanenza in un luogo ulteriore sembra trasparire anche dalla
tradizione occidentale, in particolare da quella cattolica. In comune,
tra le tradizioni del sud Est dell’Oceano Indiano e quelle occidentali,
appare, infatti, un comportamento che sembra riferirsi non tanto ad
una istantaneità della morte, a quel concetto di momento nel quale
la vita ha termine e che tanto angustia medici e biologi e che appare
piuttosto come un’astrazione condizionata dal non conoscere, dal non
poter esperire, quanto ad una intima convinzione che la morte sia un
processo, un viaggio, un passaggio, e, quindi, che essa abbia un luogo
nel quale avvenire e compiersi.
Si è detto che la difficoltà, anzi: l’impossibilità, di conoscere
e decidere il luogo della cessazione della vita dipende della sua
irripetibilità ed irreversibilità. Luogo della cessazione della vita come
cosa impensata e che può attenere soltanto alla credenza e non alla
conoscenza. Dunque, credenza nell’ulteriorità, in un dopo che frange
il limite del conoscibile e avanza al di là della soglia, per salvarsi dal
rischio immane dell’orrore dell’ignoto, delle sue profondità inaudite. Il
luogo della cessazione della vita appare sempre come un oltre, un dopo,
un luogo che si situa in uno spazio ed un tempo per definizione ignoti,
inconoscibili. A meno di costruire un luogo che non sia successivo alla
cessazione della vita ma che la celebri nell’al di qua, prima dell’evento
irreversibile. Così come nelle credenze delle popolazioni dell’Oceano
Indiano e, in una certa anche se limitata misura anche negli atteggiamenti
rituali ancora oggi abitualmente assunti dalle popolazioni occidentali,
si attribuisce una qualche temporalità all’evento terminale della vita,
rifiutandone una lettura tutta raccolta nell’istantaneità e proponendo
che esso occupi un lasso temporale che non si contragga all’istante di
tempo non più misurabile, ammettendo così un luogo della cessazione
della vita, analogamente si potrebbe immaginare una condizione nella
quale il termine irreversibile si manifesti come processo e non come
evento unitario – che occupa un tempo pari a zero – attraverso una sua
preparazione e sospensione. Un luogo della cessazione della vita che si
situa tra il momento della sua evidenza e quello in cui materialmente

26
Nel confine

avviene. Non ci si vuole qui riferire alla situazione nella quale una
persona decida deliberatamente di porre fine alla propria esistenza, né
a quella di colui che fosse condannato a pagare con la propria vita per
i crimini commessi. Il luogo della cessazione della vita, in entrambi i
casi, sarebbe infatti penetrato dalla disperazione che muove verso la
soluzione drastica e irreversibile del proprio dolore oppure dall’attesa
dell’inevitabile. In entrambi i casi un velo di speranza troverebbe sempre
una sua possibilità: nel primo caso, sotto forma di quel messaggio che
il porre fine alla propria esistenza sempre implica; nel secondo caso,
sotto forma di un ravvedimento, di un intervento estremo. Ancor meno
ci si potrebbe riferire a colui che fosse condannato a perire per una
malattia sicuramente letale, nel qual caso la speranza sarebbe la vera,
magari inconfessata, protagonista dello spazio della cessazione della
vita. Per potersi porre in un simile spazio, al fine di indagarlo e trarne
conoscenza – e non più soltanto credenza – servirebbe un caso nel quale
non vi sia alcuna speranza, ma nemmeno rassegnazione, nel quale la
cessazione della vita fosse una certezza imminente e soltanto sospesa
nel tempo in funzione di un preciso evento, il quale, nel suo accadere
determinerà il termine dell’attesa, nel quale vi fosse anche un elemento
di deliberazione propria, ma non un desiderare la cessazione della
propria vita – come nel caso di colui che intende arrestare la propria
esistenza – ma piuttosto l’agire affinché ciò avvenga per mano di altri.
È il luogo della morte di Socrate.
Platone impiega quattro distinti dialoghi per disegnare e riferire
questo luogo: Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone. Questi
scritti costituiscono la prima delle nove tetralogie nelle quali Trasillo
suddivise l’insieme degli scritti platonici.14 Si ritiene che, con tutta
probabilità, il Fedone appartenga all’età più matura di Platone. Giovanni
Reale lo colloca, infatti, intorno alla metà degli anni Settanta del IV
secolo avanti Cristo, quando Platone aveva ormai quasi sessant’anni
(era nato nel 427 a. C.), mentre i primi tre dialoghi che riferiscono
direttamente del processo celebrato contro Socrate e della sua condanna
a morte si ritiene siano stati redatti tra il 399 ed il 388 a. C.15 La cosa
non sorprende affatto, nella misura in cui il Fedone è dedicato ad uno
dei temi di più ardua discussione che mai la filosofia antica – ed invero
anche quella successiva – abbia affrontato, il tema dell’anima, ma dice
anche che in quelle pagine pesano i trent’anni che separano ormai
Platone dalla scomparsa del suo maestro, avvenuta nel 399 a. C., anni

���. G. Reale, introduzione e commento a Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano
2000, p. LXII.
15. Ivi p. LXV.
27
Stefano Bevacqua

accompagnati dai viaggi in Italia, dalla fondazione dell’Accademia, da


un graduale strutturarsi del suo pensiero che sfocia nella monumentale
costruzione della Repubblica, alla quale si affiancano alcuni scritti di
mole, ma non certo di importanza, minore, quali il Cratilo, il Simposio
e, appunto, il Fedone.16 Il primo passo del testo di Platone che permette
di introdurre la descrizione di questo luogo della cessazione della vita,
facendo subito leggere la straordinaria densità di un pensiero che fonda
tutta la cultura occidentale, viene dall’Apologia di Socrate, quando
Platone riferisce intorno al posto che il dio aveva assegnato a Socrate
medesimo, quello di vivere filosofando.

Avere paura della morte, o cittadini, non significa altro che credere di
essere un sapiente, mentre in realtà non lo si è: infatti, è un credere di
sapere cose che non si sanno. In effetti, nessuno sa che cosa sia la morte
e se essa non si trovi ad essere per l’uomo il maggiore di tutti i beni; e
invece gli uomini ne hanno paura, come se sapessero bene che essa è il più
grande dei mali. E questa non è forse ignoranza, e anzi la più riprovevole,
l’essere convinti di sapere le cose che invece non si sanno? Io, o cittadini,
appunto per questo e in questo sono forse diverso da molti degli uomini. E
se potessi dire di essere più sapiente di qualcuno in qualche cosa sarebbe
proprio in questo, ossia che, non sapendo a sufficienza per quanto concerne
le cose dell’Ade, sono anche convinto di non saperle.17

Per voce di Platone, Socrate fa anzitutto sapere che non teme la


cessazione della propria esistenza e ne da una ragione di stringente
umiltà: il non conoscere. Mentre l’uomo selvaggio dell’Oceano
Indiano e l’occidentale di tradizione cristiana devono abbandonarsi in
una credenza che surroghi la mancanza di conoscenza, più di duemila
e quattrocento anni fa, colui che ha partecipato insieme al Buddha,
al Cristo e a Confucio18 a fondare il pensiero dell’intera umanità,
impartiva una colossale lezione di ritegno, stabilendo un principio di
tale disarmante semplicità da apparire oggi quasi semplicistico. Ma è
soltanto nelle ultime pagine dell’Apologia che Platone mette in scena
un riferimento diretto a ciò che Socrate riteneva fosse la cessazione
della vita.

Ora, se la morte è il non aver più alcuna sensazione, ma è come un sonno


che si ha quando nel dormire non si vede più nulla neppure in sogno, allora
16. Ibidem.
���.Platone, Apologia di Socrate, 29A-B, in Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, p.
35.
. Vedere, a tal proposito: K. Jaspers, Le personalità decisive: Socrate, Buddha,
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Confucio, Gesù, in I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973.
28
Nel confine

la morte sarebbe un guadagno meraviglioso. [...] Infatti, tutto quanto il


tempo della morte non sembra essere altro che un’unica notte. Invece, se
la morte è come un partire di qui per andare in un altro luogo, e sono vere
le cose che si raccontano, ossia che il quel luogo ci sono tutti i morti, quale
bene, o giudici, ci potrebbe essere più grande di questo?19

Il luogo del termine verso il quale Socrate si dirige nella sicurezza


che soltanto l’assenza della conoscenza, unita all’inutilità di un credere,
poteva concedergli – salvo l’evidenza con la quale, nella pagina
successiva, riferisce della positività che certamente incontrerà potendo
ricongiungersi spiritualmente a tutti i defunti, per discutere, speculare,
comprendere e dire – ha una sua perfetta temporalità in ragione del
fatto che la condanna è necessariamente sospesa. La nave che porta gli
ateniesi in pellegrinaggio a Delo, per ricordare il viaggio di Teseo verso
Creta, ove sconfisse il Minotauro ponendo così termine al supplizio che
ogni anno costringeva Atene a sacrificare sette fanciulli e sette fanciulle
per darle in pasto all’orrendo mostro, era partita il giorno precedente
a quello fissato per il processo contro Socrate. La legge vietava che
durante l’assenza del bastimento si eseguissero condanne capitali di
sorta e, quindi, soltanto al suo ritorno la sentenza contro Socrate sarebbe
stata eseguita. Trenta giorni di sospensione della pena: il luogo della
cessazione della vita di Socrate. Un tempo brevissimo, se paragonato
ai 70 anni che gravavano ormai sulle spalle del filosofo, lunghissimo se
visto come prolungamento di quell’istante tendente ad un niente di tempo
durante il quale si conclude l’esistenza dell’uomo. Luogo – tempo – che
Socrate popola di un’ultima riflessione, quella più necessaria in vista del
compimento della propria vita materiale, la riflessione sull’anima, sulla
sua immortalità e sulla sua vita successiva al distacco dal corpo. Ma
prima di intrattenere i suoi discepoli in questo ultimo dialogo, il maestro
riferisce un fatto che sembra quasi non avere alcuna pertinenza con i
temi di cui il narratore, Platone, intende dare conto. Cebete riferisce a
Socrate che Eveno, un modesto poeta proveniente da Paro, gli aveva
domandato per quale motivo il maestro si fosse in quei giorni tanto
impegnato nel comporre poemi, riportando in versi i racconti di Esopo
e l’inno di Apollo. Socrate risponde affinché Cebete possa rassicurare
il poeta di Paro, poiché non era sua intenzione alcuna di gareggiare con
lui, bensì soltanto di rispondere così ad una domanda che insistente si
affacciava nei suoi sogni come messaggio del dio.

Nella mia vita passata, mi capitò, spesso, di sognare il medesimo sogno,


ora sotto una forma ora sotto un’altra, che mi ripeteva sempre la medesima
���.Platone, Apologia, 40D, cit., p. 45.
29
Stefano Bevacqua

cosa: “Socrate, componi e pratica musica!”. E io, per il passato, ritenni che
il sogno mi stimolasse e mi spronasse a fare quello che già stavo facendo.
E come coloro che incoraggiano quelli che corrono, così io credevo che il
sogno mi volesse incoraggiare a fare quello che facevo, cioè a fare quella
musica che già facevo, in quanto la filosofia è la musica più grande. Ma
dopo che il processo ha avuto luogo e la festa del dio ha differito la mia
morte, mi parve opportuno, nel caso che il sogno mi comandasse di fare
proprio questa musica nel senso comune del termine, di non disubbidirgli
e di farla, perché era più sicuro non andarmene prima di essermi liberato
dallo scrupolo, facendo poesie e ubbidendo a quel sogno.20

Socrate sente dunque il bisogno di regolare i suoi conti con il dio,


dando seguito all’esortazione che attraverso il sogno gli era stata
proposta. Egli non ha paura di affrontare la cessazione della vita, è
sereno di fronte a ciò che lo attende e, anzi, se ne rallegra, nell’idea
che il futuro gli riserbi la possibilità di continuare a filosofare immerso
tra tutte le più grandi personalità che avevano abitato la storia di Atene
fino a quel giorno. Eppure sente il bisogno di garantirsi che ciò cui va
incontro sia privo di negatività. Quasi un ingraziarsi il dio, un preparare
il terreno del suo ormai prossimo viaggio occupando in modo del tutto
insolito questo suo luogo della cessazione della vita, facendo cose mai
prima esperite e nemmeno tentate. Una preoccupazione che sembra
contrastare con quanto viene affermato poi lungo tutto il dialogo che
segue, laddove Socrate ribadisce che “la purificazione [...] sta nel
separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a raccogliersi
e a restare sola in sé medesima, sciolta dai vincoli del corpo”, che “questo
che chiamiamo morte è lo scioglimento e la separazione dell’anima dal
corpo” e, infine, che “è precisamente questo il compito dei filosofi: di
sciogliere e separare l’anima dal corpo”21. Aggiungendo, infine, che
“perché ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda
e fissa l’anima nel corpo, la fa diventare quasi corporea e le fa credere
che sia vero ciò che il corpo dice essere vero”.22 Socrate desidera che
la sua vita abbia termine, ma fatica a convincere i suoi discepoli che il
dolore è assente dal suo animo. Deve così ricorrere alla metafora dei
cigni, riprendendo il mito dei grandi uccelli che, cari ad Apollo, proprio
nel morire creano il canto più bello, per dimostrare la loro gioia per
l’imminenza di avvicinarsi al dio.
E si vede che io, in fatto di divinazione, vi sembro molto da meno dei cigni,
i quali, quando sentono che devono morire, pur cantando anche prima, in
���.Platone, Fedone, 60E-61B, cit. p. 73.
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. Ivi, 67C-D, p. 79.
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. Ivi, 83D, p. 93.
30
Nel confine

quel momento cantano tuttavia i loro canti più lunghi e più belli, pieni di
gioia, perché stanno per andare presso quel dio del quale sono ministri.
[...] Ma a me pare che i cigni non cantino per sfogare il loro dolore. E,
anzi, credo, i cigni, poiché sono sacri ad Apollo, sono indovini; e, avendo
la visione dei beni dell’Ade, nel giorno della loro morte cantano e si
rallegrano, più che nel tempo passato. Ora, anch’io mi ritengo compagno
dei cigni nel loro servizio, e sacro al medesimo dio, e ritengo di avere
avuto da dio il dono della divinazione non meno di essi, e, quindi, di dover
andarmene da questa vita non più tristemente di loro.23

Il comporre musica, intesa come carmi e versi riprendendo Esopo


e, appunto, l’inno di Apollo, è dunque il modo che Socrate sceglie per
rispondere alla chiamata del suo dio, utilizzando così una parte di quel
luogo temporale che la sorte gli ha concesso per attraversare la soglia
che si pone al termine dell’esistenza. Egli predica con convinzione la
necessità di aderire senza timori ad un destino fecondo, ma sembra
non potersi fidare fino in fondo, sembra dover comunque dire anche al
dio di questa sua adesione senza alcuna titubanza, deve confermare ad
Apollo che non soffre, che non ha timore alcuno, che non prova dolore.
Socrate si tradisce proprio nel ripetere infinite volte questa sua forza e
convinzione. Frase dopo frase del lungo dialogo del Fedone, cerca di
convincere i suoi discepoli. Ma non ci riesce. Tra essi permane, oltre il
loro personale sgomento, anche il dubbio che in verità il loro maestro
non sia affatto sereno, che un dubbio sottile, l’incertezza del non
conosciuto che non trova la medicina del creduto, ancora lo attraversi.
Ed è ciò che emerge nelle ultime righe del racconto di Platone.

E già le parti del suo corpo attorno al ventre erano pressoché fredde,
quando, scoprendosi, perché prima si era coperto, disse queste parole, e
furono le ultime sue: “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo,
non dimenticatevene!”. “Sarà fatto – disse Critone – ma vedi se hai qualche
altra cosa da dire”. E a questa domanda egli non rispose più nulla. Dopo un
poco ebbe come un sussulto, e l’uomo lo coprì. Gli occhi gli erano rimasti
aperti, e Critone, vedendo questo, gli chiuse la bocca e gli occhi.24

La tradizione dell’antica Grecia voleva che ogni volta che i medici


riuscivano a guarire un malato, questi dovesse offrire un gallo ad
Asclepio, il dio della medicina, figlio di Apollo (l’Esculapio romano).
Dunque, Socrate riteneva che il quel momento la malattia cui era
affetto, intesa come vita corporale, materiale, terrena, fosse finalmente
sul punto di essere efficacemente contrastata e finalmente risolta
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. Ivi, 85B, p. 95.
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. Ivi, 118A, p. 122.
31
Stefano Bevacqua

attraverso la scissione tra il corpo, con tutto il suo immane bagaglio


di debolezze, e l’anima, la quale poteva così assurgere all’Ade, ove
dedicarsi pienamente e senza più alcun vincolo al dovere del filosofare.
Anche nelle sue ultime parole, il maestro asserisce dunque la sua
volontà di abbandonare la vita terrena, ma non si riesce a credergli del
tutto. C’è una sorta di eccesso di insistenza, che percorre tutto lo scritto
di Platone – il quale, peraltro, come riferiscono altre fonti, non assistette
alla morte del suo maestro, che vide invece come sicuri testimoni alcuni
altri discepoli. Perché questo bisogno di rassicurare continuamente
il lettore? Perché ripercorrere tutte possibili dimostrazioni relative
all’immortalità dell’anima correlandole sempre al problema del rapporto
che intercorre tra l’identità delle cose e le idee che rendono possibile
il pensarle? Perché, infine, Platone sente la necessità di redigere il
Fedone trent’anni dopo la morte di Socrate, come per riassumere molti
dei disegni tracciati nella Repubblica e nelle altre opere della maturità
riportandone le linee sulla figura del maestro? Forse, una risposta, la offre
lo stesso Platone, nella penultima frase del Fedone, quando riferisce di
quel lieve sussulto che attraversa il corpo di Socrate nel momento in
cui va spegnendosi. Forse Platone voleva rappresentare in questo modo
il distacco dell’anima dal corpo, come un piccolo artificio letterario
per rendere in modo figurato qualche cosa che sarebbe altrimenti non
riferibile. Oppure, il più fedele dei discepoli non è riuscito a trattenersi
dal seminare comunque una pur lievissima ombra, insinuando, sia pure
indirettamente, il dubbio che la convinzione di Socrate non fosse infine
così completa, totale ed assoluta come vantato, che rimanesse un’alea,
minima, quasi un soffio impercettibile, ma pur sempre consistente. Così
che si spiegherebbe quell’insistenza nel costruire un intero apparato
teoretico volto a sciogliere qualsiasi dubbio sul fatto che l’anima
sopravviva al corpo, così da dare fondamento logico all’aspettativa di
Socrate, arrivando anche a chiamare in aiuto di queste dimostrazioni tutti
i necessari riferimenti alla percezione del vero ed al suo riconoscimento
– che in effetti appaiono quasi come una ridondanza sulla ridondanza
e forse non giovano molto all’efficacia del testo, cosa alla quale, in
altri frangenti, come ad esempio nel Timeo, dialogo coevo al Fedone,
Platone ha invece saputo dare pienamente risposta.
Per aprire a un significato diverso, per scorgere quanto il luogo
della cessazione della vita di Socrate fosse intensamente popolato
dall’emozione, è sufficiente tornare all’Apologia, là dove Socrate
dice che “nessuno sa che cosa sia la morte e se essa non si trovi ad
essere per l’uomo il maggiore di tutti i beni”, si scorge forse un indizio:
Socrate non sa che cosa lo attenda, il che sembra contraddire largamente

32
Nel confine

il testo del Fedone. Tra i due scritti corrono forse più di 25 anni, un
tempo sufficiente per lasciar emergere lo sforzo di Platone volto a non
attribuire quasi alcuna concretezza terrena al luogo della cessazione
della vita di Socrate, come fosse soltanto luogo di attesa di una vita
ulteriore. Ma sembra emergere anche l’insopprimibile dubbio che il
maestro, in realtà, abbia vissuto questo suo luogo della fine con tutta
l’ansia dovuta da qualsiasi mortale, attraversata dalla reverenza verso
il dio, dall’attenzione nel comportarsi come dovuto – il comporre i
versi dell’inno di Apollo – e dalla speranza che questo canto sia come
quello del cigno, l’ultimo e il più bello proprio perché detto un istante
prima di avvicinarsi all’Ade. Socrate non ebbe timore nel veder cessare
la propria esistenza, ma riempì il luogo dell’evento che attendeva da
trenta giorni attraverso la sua ultima riflessione, tutta dedicata alla
chiarezza su quello che poteva attenderlo, ma senza alcuna certezza,
senza conoscenza, soltanto con la credenza. Credenza fondata sulla
dimostrazione filosofica, certo, ma poiché essa proviene da un uomo, lo
stesso Socrate, che è mortale e, soprattutto, che ammette di non sapere
ciò che non può sapere, questa dimostrazione risulta insufficiente, così
come lo è la vita materiale di chi la proferisce. La dimostrazione si
trasforma in credenza, la quale, in quanto tale, è incerta ed apre la porta
al dubbio, al sottile velo che ricorda la possibilità che ciò che appare
come esistente non sia, che il momento tanto atteso dal maestro che si
avvia a bere il veleno fatale sia diverso dal creduto. Robert Musil, forse,
pensava a Socrate quando, nel 1916, lungo la valle del Brenta, udendo
il brontolio lontano dei cannoneggiamenti che tentavano di disfare le
trincee italiane, scriveva:

Si crede sempre che quando si è faccia a faccia con la morte si goda più
follemente la vita, la si beva più pienamente. Non è così. Si è semplicemente
liberi da un impedimento, come da un ginocchio rigido o da uno zaino
pesante. Dall’impedimento del voler essere vivi, dall’orrore della morte.
Non si è più in ceppi. Si è liberi. Si è meravigliosamente padroni.25

Il luogo della cessazione della vita è dunque il luogo della massima


libertà, della massima densità. Una sorta di big bang al contrario.

���.R. Musil, Diari, Einaudi, Torino 1980, pp. 525-526.


33
PRIMA VARIAZIONE

TESEO
Pieghe, ripiegamenti, labirinti

Nelle viscere dell’Etna, Efesto batte e ribatte i metalli, lo stagno e


il rame puro, l’oro prezioso e l’argento; con la mano destra armeggia
con disinvoltura il grande martello, con la sinistra afferra le pinze per
tenere l’ancora informe materia ferma sull’incudine, per forgiarla e
dare la forma del monile o dell’arma. È attento al suo lavoro, Efesto,
vuole sempre il meglio da ogni grumo di metalli che egli soltanto sa
trasformare in opera di meraviglia e di sorpresa. Aveva sorpreso tutti,
con quei gioielli che Teti, la ninfa del mare che lo aveva salvato dalla
sventura, indossò al banchetto dell’Olimpo, per presentarsi a Zeus
ancora più bella e adornata di Hera, la regina; proprio lei, madre di
Efesto, che rigettò nell’oceano il frutto del suo unirsi a Zeus perché
orribile e storpio. Ora lo storpio ha rinnegato questi dei malsani e
curvo e potente batte il ferro e l’oro per Achille, per donargli nuove
armi capaci di battere i troiani guidati da Ettore. Omero lo chiama
“sciancato abilissimo”, oppure “storpio glorioso”, e non cela la propria
ammirazione per la sua arte. Efesto è il solo che potrà ridare all’eroe la
potenza necessaria, simbolicamente racchiusa nello scudo formato dai
cinque strati concentrici sui quali sono sbalzate le immagini del mondo.

Erano cinque gli strati di questo scudo; e su di esso | tracciava molte figure
con arte sapiente. | Vi scolpì la terra ed il cielo ed il mare, | il sole che mai
non si smorza, la luna nel pieno splendore, | e tutte le costellazioni, di cui
s’incorona il cielo, | le Pleiadi, le Iadi, la forza d’Orione.26

Nel secondo cerchio vi scolpì la città, le nozze ed il tribunale, a simbolo


della città in pace, e gli uomini in armi e l’assedio per descrivere la città
in guerra. Nel terzo, l’incisione riferiva dell’aratura e della vendemmia,
delle greggi e delle mandrie. Dunque, Omero volle rappresentare, con
ricorrente e puntuale dualismo, anzitutto il tondo universo, la perfezione
d’equilibrio che insiste tra la Terra, da una parte, ed il Cielo ed il Mare,
dall’altra. Poi la città, divisa tra pace e guerra, a loro volta descritte come

���.Omero, Iliade, XVIII, 481-486, Rizzoli, Milano 1996, p. 983.


Stefano Bevacqua

il vivere intimo dei cittadini nelle nozze in opposizione al il loro essere


anche uomini pubblici nel tribunale, e nell’aggressione valorosa dei
guerrieri che attaccano il nemico sortendo dalle mura in opposizione alla
strenua difesa dell’urbe contro l’assedio. Ancora duplice opposizione
nel terzo cerchio, che racconta il mondo della produzione diviso tra
allevamento e agricoltura, il primo a sua volta separato tra le mandrie
dei bovini e le greggi degli ovini, ed il secondo che vede l’alternanza
del grano e della vite, per avere il pane ed il vino. La logica dualistica si
chiude con il quinto cerchio, nel quale Efesto rappresenta il solo oceano,
confine ultimo ed irraggiungibile ove ha termine ogni cosa, ma prima di
questo limite invalicabile e forse nemmeno conoscibile, Omero inserisce
il quarto cerchio, abitato dalla danza e dall’acrobata. Nessuna apparente
opposizione, qui, soltanto un vago bipolarismo, quello dei cerchi dei
danzatori e il gioco di due acrobati.

Poi disegnò una pista di danza, lo sciancato abilissimo, | simile a quella che
nella grande città di Cnosso | Dedalo fece per Arianna dalla bella chioma.
| Vi danzavano giovani e fanciulle desiderabili, | al polso gli uni alle altre
tenendo la mano. | Queste avevano vesti sottili di lino, quelli indossavano |
chitoni ben lavorati, ancora brillanti d’olio; | le une portavano belle corone,
gli altri avevano | spade d’oro appese a cinturoni d’argento. | Talvolta con
piede esperto giravano su se stessi | agilmente, come quando la ruota
girevole tra le sue mani | il vasai prova seduto, per vedere se scorre; | altre
volte in fila si venivano incontro tra loro. | Molta folla era intorno al bel
coro | e ne godeva; tra loro due acrobati, | aprendo la danza, piroettavano
al centro.27

Tra un cerchio e l’altro si inserisce il sistema di opposizioni e di


affinità, per cui al primo, che rappresenta l’universo, si ricollega il
terzo, che narra della natura dell’uomo, e questa si pone in opposizione
alla città, nella quale si svolge la vita quotidiana o l’eccezionalità della
guerra, per cui il quarto cerchio, quello della danza e del gioco, si
ricollega proprio a questo e forma come una sorta di baluardo prima
dell’immensità dell’oceano, una difesa ultima, da non frangere, pena
il cadere nel caos. Tutto quello che è contenuto dal primo al quarto
cerchio è il cosmo e, dal secondo al quarto cerchio, la vita dell’uomo
che lo abita; il quinto cerchio è il caos, l’indifferenziato, l’oblio nella
moltitudine nella quale non è possibile alcuna vita perché vi è negata
ogni individualità.
Il tema della danza, del resto, non è esclusivo del quarto cerchio,
affatto. Esso compare anche nel secondo e nel terzo:
27. Ivi, 590-606, p. 993.
36
Nel confine

Vi scolpì due belle città di uomini mortali. | Nella prima si celebravano


nozze e banchetti, | portavano le spose dalle loro stanze alla rocca | con
le torce accese, dappertutto echeggiava l’imeneo; | giovani danzatori
volteggiavano, ed in mezzo a loro | suonavano flauti e cetre; le donne
ammiravano, | stando ciascuna sulla porta della sua casa.28

E più avanti, descrivendo come Efesto avesse adornato il terzo dei


cerchi di cui era fatto lo scudo destinato dall’eroe:

Poi ci metteva una vigna stracarica di grappoli, | bella, fatta in oro; ma i


grappoli erano neri | e s’appoggiava tutta a pali d’argento. | Intorno tirò
uno scuro fossato, ed anche un recinto | di stagno; l’attraversava solo un
sentiero, | per cui passavano i portatori, allorché vendemmiavano. | Ragazze
e ragazzi dall’animo lieto | portavano il dolce frutto in canestri di vimini. |
In mezzo a loro un fanciullo suonava dolcemente | con la cetra melodiosa, e
intonava il bel canto di Lino | con voce sottile; quelli danzavano all’unisono
| con il battito dei piedi seguivano il canto ed il grido.29

Ben noto è quanto pregnante fosse nella cultura greca arcaica, così
come in ogni popolazione del passato, la funzione della danza rituale,
e soltanto questa considerazione permette di intuire per quale motivo
Omero dedichi tanta attenzione e dettaglio nella descrizione di questi
minuti particolari dell’ornamento dello scudo di Achille. Verrebbe da
immaginare che la sua funzione materiale, di difesa contro l’offesa,
derivasse più dal perfetto equilibrio tra gli elementi rappresentati
che dalla sua effettiva capacità di raccogliere e neutralizzare il filo
della spada nemica. E, di fatti, è proprio così, perché, altrimenti, non
si spiegherebbe il rispetto rigoroso del dualismo che porta il poeta a
individuare anche nella danza finale, quella rappresentata nel quarto
cerchio, un riferimento che permetta di leggere un’alternativa, quella
tra un acrobata e l’altro e tra gli acrobati e i danzatori e quella tra i due
gruppi di danzatori e gli stessi acrobati, in perfetta analogia agli eventi
che attraversano le due città e alle quattro attività dedicate alla terra ed
agli animali. Ecco che il primo ed il quarto cerchio quasi si riflettono,
laddove la danza in cerchio e poi gli uni di fronte agli altri sembra
mimare quella degli astri nel cielo. I conti tornano, perfetta armonia: il
labirinto che Minosse fece costruire da Dedalo a Cnosso per rinchiudervi
il Minotauro era disegnato dal lieve danzare delle sette fanciulle e dei
sette ragazzi che ripercorrevano il disegno tracciato in cielo dai pianeti
e dalle stelle. Non è dato sapere se Dedalo costruì il labirinto di Cnosso

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. Ivi, 490-496, p. 985.
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. Ivi, 561-572, p. 991
37
Stefano Bevacqua

ripetendo le forme che idealmente si tracciano danzando secondo la


successione che Omero aveva ben presente componendo i suoi versi
e che Plutarco riconferma nella Vita di Teseo, oppure se, esattamente
al contrario, sia stato Teseo che, salvata la vita alle sette fanciulle
ed ai sette ragazzi, abbia intrecciato quella danza e quei passi come
ripercorrendo le circonvoluzioni dalle quali si era potuto districare
grazie al filo offerto dalla sorellastra dello stesso Minotauro, Arianna.
E poco cambia, per lo scopo che ci si è qui fissato, che è soltanto quello
di mettere a fuoco il disegno del labirinto in quanto luogo del limite,
nel quale lo spazio si srotola fino alla sua dismisura e il tempo perde
la possibilità di essere cognito, che si colloca già al di là di un limite
senza pienamente attraversarlo, come sul bordo dell’oceano del quinto
cerchio dello scudo di Achille, ma già oltre il secondo ed il terzo cerchio,
luoghi dell’al di qua, ove vige la quotidiana vita degli umani, dediti alla
pastorizia e all’allevamento, alla coltura del grano ed alla vendemmia,
alla guerra di difesa ed a quella d’aggressione, alla giustizia ed alle feste
nuziali, spesso attraversando questi momenti con quella danza che nel
quarto cerchio, l’ultimo prima dell’abisso, divengono il modo stesso
di esistere in questo mondo. Il quarto cerchio è costituito dalla danza
dei giovani e dalle mosse dei due acrobati. Null’altro. Luogo in cui
perdersi, nell’infinità dei cerchi che si ricongiungono e si ripiegano,
nell’indeterminazione di un tempo ottuso dall’ebrezza. Si gira in tondo
e gira la testa, la testa gira e si perde la direzione, l’equilibrio, si cade
vittime del labirinto, rinchiusi e dimenticati nelle sue circonvoluzioni.
Solo il filo permette a Teseo di uscirne vivo e vittorioso, dopo aver
giustiziato il mostro mezzo uomo e mezzo toro, riportando a casa le
fanciulle ed i giovani. Evento che ogni anno simbolicamente si ripete
con il pellegrinaggio che commemora l’avventura di Teseo, durante
il quale ad Atene, che finalmente è libera dall’orrenda incombenza di
sacrificare quattordici giovani del suo popolo, non deve essere versata
alcuna goccia di sangue, nessuna esecuzione, nessuna morte procurata.
Nemmeno quella di Socrate, la cui morte viene sospesa per trenta giorni,
generando così l’interminabile profondità dell’ultimo pensiero.
La danza disegna un labirinto particolare, quello cosiddetto cretese,
generato da una croce avvolta da otto circonvoluzioni. I danzatori partono
dalla croce: la disegnano muovendosi l’uno verso l’altro e scambiandosi
il posto, fino a disegnarla sul suolo. In alto c’è il danzatore numero 1,
a destra il numero 2, a sinistra il numero 3 e in basso il numero 4. Il
numero 1 si sposta a fianco del 2 disegnando un’ansa e poi verso il
numero 3, muovendosi in senso antiorario; il 2, come per sfuggirgli,
lo avvolge in movimento circolare e si pone vicino al 3; il numero 1

38
Nel confine

lo insegue, ma rimane chiuso dal suoi movimento; il 2 crea una traccia


che si insinua all’interno di quella disegnata dal numero 1; il 3, a sua
volta circonda in senso orario l’intero sistema di tracce finora disegnato
e si fissa vicino al numero 4 per poi riprendere un moto antiorario e
riportarsi in basso a sinistra; il 4 lo segue richiudendo l’intero sistema
di tracce. Il labirinto è fatto.30
La forma del labirinto cretese, così detto perché raffigurato in
alcune antiche monete, nasce dalla croce che esso stesso riavvolge.31
Sarebbe impossibile disegnarlo partendo dall’esterno. La croce è
il luogo di formazione del sistema delle circonvoluzioni ed è anche
l’approdo del percorso. Percorso chiuso che riporta a sé medesimo.
Nel labirinto si entra ma non si esce. È luogo al limite perché non offre
soluzioni, se non quella di tornare indietro, di ripetere tutto il percorso
– percorso già compiuto, dunque, corso, appunto, nella sa interezza,
senza avanzi. Labirinto come luogo non più al di qua ma non ancora
al di là, luogo nel confine, non nelle vicinanze, ma dentro i lembi
del qui e del là, del prima e del dopo. Il quarto cerchio dello scudo
di Achille, prima dell’oceano, che forse vi si affaccia, che permette
di sporgersi verso il caos rimanendo ancora al di qua, ma non saldi:
l’ebrezza potrebbe vincere, si è in balia del percorrere il percorso. La
via d’uscita è soltanto quella indicata da Dedalo. L’aveva costruito lui,
il labirinto, lui provetto architetto, abile in ogni edificazione. Sapeva
che non avrebbe mai potuto uscirne se non lungo la via verticale.
Dedalo, dice Jacques Hébert32, ha inventato la visione ortogonale, la
pianta dell’architetto, perché l’ha vista volando insieme a suo figlio
Icaro sopra la sua opera, ha visto com’era fatto il suo capolavoro,
che altrimenti conosceva soltanto attraverso il percorso, nell’ebrezza
dell’insuccesso e dell’avvicinarsi al caos dell’oceano. Dedalo vola via
dal suo labirinto tenendosi alla giusta altezza sopra al mare, né troppo
in basso, ché le acque potrebbero inumidire e appesantire le ali; né
troppo in alto, ché il sole potrebbe bruciare le piume. Icaro, come si sa,
non gli dà ascolto. Ma le sue ali non arrivano a bruciarsi: è la cera, che
si scioglie per il troppo calore.

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. La spiegazione dettagliata del meccanismo attraverso il quale questa danza disegna il
labirinto può essere colta con precisione nel lavoro di J. Hébert, Le labyrinthe médiéval,
www.labyreims.com. Nel sito è disponibile anche un’animazione virtuale che spiega in
dettaglio la logica dei movimenti di ripiegamento e avvolgimento dei danzatori.
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. La discussione sull’origine del labirinto è interminabile e terribilmente poco
importante. Interessa il suo essere un elemento che appartiene da forse più di trenta secoli
alla tradizione e alla cultura occidentale e non soltanto occidentale.
���.J. Hébert, Le labyrinthe, cit.
39
Stefano Bevacqua

“Ti raccomando, Icaro, di tenerti ad un’altezza media, perché l’acqua del


mare non ti appesantisca le penne, se ti abbassi troppo, o il sole te le bruci
se troppo ti alzi”. [...] la vicinanza dei raggi del sole ammorbidisce la cera
profumata che saldava le penne ed essa ben presto si scioglie: il ragazzo
sbatte le braccia nude e, mancando delle ali, non può più captare l’aria e
va a cadere in un mare azzurro che lo sommerge, soffocando il suo grido
di invocazione al padre.33

Errore di previsione di Dedalo che non aveva considerato ogni


variabile; errore ingegneristico, errore d’architettura, per Dedalo
architetto; bastava molto meno che il bruciarsi, bastava un tepore
capace di allentare quel debole legame della cera, per precipitare nel
caos dell’oceano, nell’indifferenziato, in quell’oltre che il labirinto
ancora delimitava, grazie alle sue forme stordenti e ripetitive, alle sue
circonvoluzioni che non portano in alcun luogo, che, con ostinazione,
rinviano sempre alla croce dalla quale si è generato.
Sempre identico a se stesso, il labirinto è più un concetto che un
oggetto, più un’idea, con quel bagaglio di disorientamento e di ansia,
di luogo che sporge verso il precipizio dell’indicibile, che una cosa
reale e materiale, semplice percorso ludico, gioco infantile che adorna
il giardino di ville barocche. È un segno capace di cogliere le emozioni
più intime, la sua genesi coincide con quella della storia della cultura
occidentale. Il labirinto più antico che si conosca in suolo europeo
è quello che adorna l’ingresso della Domus de Jana, a Luzzanas
(Benetutti), Sardegna; risale al 4 mila avanti cristo, pieno neolitico: il
suo disegno è identico a quello del cosiddetto labirinto cretese, muta
soltanto il numero delle circonvoluzioni, soltanto sette invece di otto,
poiché manca quella più esterna, che muove dal danzatore numero 4
e richiude ed avvolge l’intero percorso. È simile a quelli di poco più
recenti ritrovati in Cornovaglia, in Scandinavia, in Spagna. Circuito
ripetitivo ed eterno, pensato per non lasciare scampo, per non essere
superabile, pena la soluzione estrema, quella di uscirne dall’alto,
sorvolando l’oceano, come fece Dedalo, ma con il rischio di esserne
risucchiato, come fu per Icaro, sconfitto e sacrificato non dalla propria
curiosità, come tramanda superficialmente la leggenda, ma da un ben
più grave errore, di natura tecnica, ingegneristica, compiuto proprio
dall’infallibile suo padre Dedalo. Circuito così ermetico da richiedere
l’ausilio della scienza matematica, attraverso la quale srotolarne i
meandri e metterne a nudo la verità, quasi il labirinto fosse un gomitolo
di senso nel quale solo la potenza delle equazioni potesse permettere
una lettura positiva e risolutiva di curve e di circonvoluzioni, fino ad
���.Ovidio, Metamorfosi, Libro VIII, 203-207 e 225-230, Rizzoli, Milano 1997.
40
Nel confine

astrarre la sua mappa, il sentiero che porta al di fuori, come quello


finalmente letto da Dedalo durante il suo volo, ma senza il rischio della
traversata aerea dell’oceano, piuttosto seguendo la rocciosa evidenza e
l’inequivocabile presunzione di verità della matematica.
Il matematico francese Édouard Lucas pubblicò nel 1882 la prima
parte delle sue Récréations Mathématiques, dedicando la terza sezione
del volume ai labirinti, proponendo una complessa procedura tale da
dimostrare che non esiste alcun labirinto inestricabile.

Prima regola. Partendo da un incrocio iniziale, si imbocca una via qualsiasi


fino a che si arriva ad un vicolo cieco o ad un nuovo incrocio: 1°, se il
cammino che si è seguito porta ad un vicolo cieco, si ritorna sui propri passi,
e si può considerare il cammino fino quel punto seguito come soppresso,
poiché è stata ormai percorso due volte; 2°, se il cammino porta ad un
incrocio, si imbocca una via qualsiasi, a caso, avendo cura di marcare con
un tratto trasversale la via d’arrivo con una freccia e la via di partenza con
un’altra freccia. Si continua ad applicare questa regola, ogni volta che si
giunge ad un incrocio inesplorato; alla fine di un certo percorso, si arriverà
necessariamente ad un incrocio già esplorato; ma questa situazione può
presentarsi in due differenti maniere, a seconda che il cammino d’arrivo
sia già stato percorso una prima volta oppure non contenga alcuna traccia
di passaggio. Allora si applica una delle due regole seguenti. Seconda
regola. Arrivando all’incrocio già esplorato, per una nuova via, occorre
tornare indietro, marcando con due segni l’arrivo all’incrocio e la partenza.
Terza regola. Quando si arriva ad un incrocio già esplorato attraverso una
via già seguita in precedenza, si prenderà anzitutto una via che non sia
stata percorsa, se ne esiste almeno una, oppure, in caso opposto, una via
che non sia stata percorsa che una volta soltanto.34

Ma funziona, questo sistema? Oppure è soltanto illusione, quella di


poter dominare con un approccio razionale una sfida che rinvia a qualche
cosa che sembra proporsi oltre l’uomo e la sua misera esistenza, come un
mito che si colloca oltre la linea dell’al di qua, anche se mai sprofonda
nel caos dell’al di là? Si percepisce una doppia lezione, da questo
voler rendere ogni labirinto leggibile e frequentabile ed estricabile.
La prima è di un eccesso di presunzione, che verrebbe dall’approccio
razionalistico fondato sulla predefinizione delle variabili in gioco,
che sembra quasi descrivere il labirinto attraverso formule logiche
generabili essenzialmente dalla conoscenza del labirinto medesimo
– o almeno dalla presupposizione di come esso sia stato concepito,
dalle logiche in base alle quali esso è stato costruito, logiche che, a
. É. Lucas, Récréations mathématiques, Tome 1, Albert Blanchard, Paris 1992,
���
pp. 47-49.
41
Stefano Bevacqua

loro volta, mantengono pienamente un’assoluta terraneità, materialità,


conoscibilità. La seconda, opposta alla prima, ci dice che il labirinto è uno
stato, una condizione dell’essere, un modo di essere nel mondo, non un
semplice gioco di occlusioni e aperture, di meandri e di circonvoluzioni
– un labirinto, pensato dall’uomo o da qualche dio poco importa, in ogni
frangente espressione di una condizione spirituale, emotiva, interiore,
mitica, divina, che non si misura con righelli e compassi, goniometri
e sestanti; labirinto dal quale non ci si può liberare se non attraverso il
volo, il porsi al di sopra, in via ascendente, come Dedalo e lo sfortunato
Icaro; labirinto che riconduce a sé medesimo e nel quale l’eroe o il
viandante possono incontrare sé medesimi. Nemmeno Guglielmo da
Baskerville, il protagonista de Il nome della rosa, era molto convinto
dell’efficacia offerta dalla matematica. Il labirinto che si trova di fronte
all’inquisitore francescano giunto in visita al monastero benedettino
dove il giovane Adso da Melk conduce il suo noviziato, è davvero
inestricabile, diciamo pure: insormontabile, perché è tridimensionale.
La biblioteca del monastero srotola e riavvolge i suoi infiniti spazi e
pieghe su se stessa nelle tre dimensioni dello spazio, fuori da qualsiasi
cartografia usuale, talché nessuna bussola potrebbe essere di aiuto senza
un ausilio che dicesse anche l’altezza alla quale ci si trova rispetto ad
un punto di riferimento certo, costringendo i suoi frequentatori alla più
grande prudenza, rendendo infatti inaccessibile la maggior parte di ciò
che in essa è custodito.

“Per trovare la via d’uscita da un labirinto”, recitò infatti Guglielmo,


“non vi è che un mezzo. A ogni nodo nuovo, ossia mai visitato prima, il
percorso d’arrivo sarà contraddistinto con tre segni. Se, a causa di segni
precedenti su qualcuno dei cammini del nodo, si vedrà che quel nodo è già
stato visitato, si porrà un solo segno sul percorso di arrivo. Se tutti i varchi
sono già stati segnati allora bisognerà rifare la strada, tornando indietro.
Ma se uno o due varchi del nodo sono ancora senza segni, se ne sceglierà
uno qualsiasi, apponendovi due segni. Incamminandosi per un varco che
porta un solo segno, ve ne apporremo altri due, in modo che ora quel varco
ne porti tre. Tutte le parti del labirinto dovrebbero essere state percorse se,
arrivando a un nodo, non si prenderà mai il varco con tre segni, a meno
che nessuno degli altri varchi sia ormai privo di segni”. “Come lo sapete?
Siete un esperto di labirinti?”. “No, recito da un testo antico che una volta
ho letto”. “E secondo questa regola, si esce?”. “Quasi mai, che io sappia.
Ma tenteremo lo stesso. E poi nei prossimi giorni avrò delle lenti e avrò
tempo a soffermarmi meglio sui libri. Può darsi che là dove il percorso dei
cartigli ci confonde, quello dei libri ci dia una regola”.35

���.U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, p. 139.


42
Nel confine

Se la frequenza con la quale un evento si presenta fosse sempre e


rigorosamente correlata alla capacità dell’uomo di affrontarlo, gestirlo e
risolverlo, i labirinti sarebbero quanto di più corrente e banale si possa
presentare ad una persona nel corso della sua esistenza, dai primi attimi
del suo crescere, fino ai suoi ultimi minuti, passando per una vita intera.
I labirinti, materiali o immaginari, metaforici o emozionali, sono infatti
estremamente comuni, costituiscono una condizione assai diffusa e
addirittura ripetitiva del vivere quotidiano. Basta pensare al dubbio, quella
posizione mentale, e anche spirituale ed emotiva, nella quale ogni persona
ricade con frequenza più che quotidiana. Ebbene, il dubbio non è altro che
la porta del labirinto, inteso, questo, come lo spazio di una proposizione
da asseverare o di una decisione da cogliere, posizione ad alto contenuto
di pericolo, dunque assai rischiosa, perché fa sporgere oltre l’ovvietà e
la – presunta – sicurezza che si colloca nell’al di qua; il labirinto, infatti,
fa scorgere un al di là, non metafisico, nei molti casi della quotidianità,
ma più semplicemente emotivo e, in tutti i casi, capace di intimorire, di
mettere in difficoltà nel decidere, generando, appunto, il dubbio; forse
perché è un semplice scorgere, uno sbirciare oltre, senza certezza, perché
la certezza non è di nessun vivente e ancor meno di un essere umano che
guarda al proprio futuro. Il dubbio si genera insieme all’errore, quello
che allontana dalla soluzione, che distoglie e produce a sua volta nuovi
dubbi, ancora più densi, difficili da contenere e metabolizzare, faticosi,
stordenti; errori che si compiono con assoluta continuità, in una normalità
dello scivolare quasi senza coscienza, in misura spesso impercettibile, a
fianco, a latere, oltre, oppure troppo in qua o perfino verso il contrario
di ciò che era desiderato, atteso, dovuto, prospettato, incitato, obbligato.
Per cadere in errore non è necessario avventurarsi in luoghi o pensieri o
intenzioni o azioni inconsuete, straniere, diverse da ciò che è frequente e
solito. Si commette l’errore anche compiendo il tragitto che riporta nella
consuetudine della propria casa, attraversando luoghi ben noti e abituali.
Si dice cadere in errore, oppure anche essere colti dall’errore, ovvero
commettere un errore. Non è dato sapere che volto dare a questo errore,
che sembra un estraneo pronto a tendere trabocchetti, nel primo caso,
quando vi si cade; oppure come un demone che insegue e perseguita, per
afferrare e fermare, arrestando il cammino, deviarlo, per portare ciascuno
lontano da dove dovrebbe – e vorrebbe – andare; infine, atto personale,
che deriva dal proprio essere e fare, deliberato, talvolta, involontario,
talaltra, ma comunque che si genera in ciascuno e che ciascuno compie,
senza scuse, senza spiegazioni che rinviino ad una responsabilità altra
che la propria. Si commette l’errore nel modo più semplice, innocente,
involontario. E si cade nell’angoscia del labirinto, ci si perde.

43
Stefano Bevacqua

Da quando avevo abbandonato il teatro un Leitmotiv risonava nella mia


mente con leggera e ineffabile insistenza: l’Irr Motiv (il tema dell’Errore).
M’affascinava quel seducente percorso cromatico legato e discendente dei
violoncelli, che si contrapponeva a un ascendere difficoltoso, frammentato
e sincopato dei primi violini; era come se il “fondo” fosse facile da
raggiungere, ammantato di lusingante voluttà; la vetta, per contro, ardua
da possedere e irta di errori e deviazioni.36

Il maestro Sinopoli, veneziano di nascita, musicista per vocazione,


medico per mestiere e archeologo per passione, aveva appena terminato
le prove del Parsifal wagneriano in un Fenice non ancora punita
dall’incendio del 1996. Mormorava l’Irr Motiv, avviandosi a piedi – a
Venezia ci si sposta soltanto a piedi o per le vie d’acqua, ma soprattutto
a piedi: non sarebbe mai accaduto se Sinopoli fosse uscito dalla Scala
per raggiungere un qualsiasi luogo milanese più lontano di quattro
isolati – verso la casa del fratello, in calle della Passion, percorrendo
ponti, fondamenta, rii, salizade, marzerie, campi e calli a lui ben note
dall’infanzia.

Attraversai ponte dei Ferali e per la marzeria San Zulian giunsi nel
campo attiguo. Ero in ritardo, ma sapevo di essere vicinissimo alla calle
della Passion. La volta precedente l’avevo raggiunta venendo da San
Marco e passando per il ponte de l’Anzolo. Questa volta avrei dovuto
pervenirvi attraverso il ponte de la Guerra, che sapevo adiacente alla
chiesa di San Zulian; ma invece di imboccare il piccolo ramo, quella
sera a me invisibile, che congiunge il campiello con la calle San Zulian,
proseguii per un breve tratto lungo la piscina San Zulian e girai a destra
nella calle. Tutto pareva irrevocabile. Per attraversare velocemente
il rio entrai nella prima via a sinistra, percorsi il sottoportego, la calle
e il ponte Balbi e giunsi nella calle Sant’Antonio. Svoltai a sinistra e
finii nella calle e quindi nella corte dei Boteri: un vicolo cieco. Non ero
mai stato in quei luoghi; intuii che dovevo andare a destra; entrai nel
sottoportego, poi nel ramo e finii nella corte Sant’Antonio, chiusa su
tutti i lati, senza uscita. Avevo compiuto due errori consecutivi. Decisi
di proseguire seguendo una linea retta; superata la salizada San Lio mi
infilai nel sottoportego Veniera e giunsi nella corte; anch’essa vicolo
cieco. Oramai non commettevo che errori. Tornai indietro; non sapevo
più riconoscere quale fosse la destra, quale la sinistra. Ogni calle finiva
in un bivio e la scelta, non riuscendo a divenire cosciente, era sempre
più automatica. Il Leitmotiv dell’Errore non risonava più; era svanito
lasciandomi in un silenzio totale che evocava sensazioni di vuoto.37

���.G. Sinopoli, Parsifal a Venezia, Consorzio Venezia Nuova, Venezia 1991, p. 13.
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. Ivi, pp. 17-18.
44
Nel confine

Il Maestro si perde a Venezia, perde Venezia, la città gli scivola via,


come fosse ignota e a lui dunque estranea; non riesce a percorrerla,
trasformata in labirinto popolato di vicoli ciechi, ostruzioni,
circonvoluzioni, ripiegamenti e dispiegamenti, ritorni all’indietro e
scarti di lato, incroci, ponti, corti opache. Era aprile; fosse stato l’inverno
nebbioso e gelidamente umido delle notti veneziane il suo percorso
sarebbe stato ancora più difficile a angoscioso. Il Maestro giunge a casa
all’alba, dopo aver scoperto innumerevoli segni che raccontano una città
a lui ancora ignota, misteriosa e inquietante, fatta di simboli numerici
che si ripetono negli scalini di chiese e ponti, di colori di apertura –
iniziazione, pietra bianca – e di chiusura – ripiegamento, pietra nera
–, di segni altrimenti indecifrabili. Ha percorso, in una nottata, un
grande cerchio sinistrorso, attraversando quasi a scatti, con continui
ripensamenti, l’intera ansa disegnata dalla doppia esse del Canal Grande.
È uscito dal labirinto, ha superato la prova. Una mappa non lo avrebbe
aiutato. A Venezia le mappe non servono, e non servono nemmeno gli
indirizzi. Quelli postali li capisce soltanto il portalettere, che sa che
differenza possa esservi tra un San Marco 100 e qualche cosa ed un
San Marco 2.000 e passa. Venezia non ha una mappa di carta, è fatta da
itinerari, i luoghi si definiscono per il percorso con il quale raggiungerli,
che cambia a seconda del luogo dal quale si prendono le mosse. È questo
che ha tradito il Maestro, assorto nelle melodie della prima parte del
terzo atto del Parsifal: non aveva tenuto conto che l’ultima volta che si
era recato dal fratello era partito da San Marco, non dalla Fenice. Errore
che lo ha portato nel cuore del labirinto. Il Maestro esce dal labirinto
perché si ritrova – ri-trova sé medesimo nei segni del suo luogo, della
città/isola, disegnata labirinticamente ogni giorno dalle correnti e dalle
maree, che l’uomo rincorre e addomestica. Non dunque perché abbia
seguito qualche logica matematica, né perché sia stato salvato da una
mappa, come quella che Dedalo ricostruì idealmente rivedendo dall’alto
la sua stessa opera come mai prima aveva potuto. La mappa è inutile,
fa sbagliare, perché è sbagliata, perché, diceva Foucault, “diventa
nient’altro che la fotografia aerea del posto, l’individuazione esterna
dei siti attraverso i loro connotati fisici rimpiccioliti e ridotti alle due
dimensioni, la mappa che un aereo da guerra può consultare utilmente
per un bombardamento”.38
Nel labirinto ci si perde per due possibili motivi. Il primo attiene
all’errore, in cui si cade, che coglie o che si commette, e, dunque,
all’errare, inteso come commettere un errore e come vagare nello spazio.
38. M. Foucault, Questions a M. Michel Foucault sul la géographie, in “Hérodote”, n. 1,
1976, citato in: F. La Cecla, Perdersi, Editori Laterza, Roma – Bari 200, p. 73.
45
Stefano Bevacqua

Nel labirinto, dunque si erra nel doppio significato del termine, quello
dello sbaglio, che si compie nel tentativo di districarsi tra i meandri e le
circonvoluzioni, le pieghe e le riaperture, e quello del muoversi senza
conoscere il proprio futuro, essendo il passo successivo lasciato al caso.
Il Maestro lo riferisce in piena consapevolezza: quel momento in cui ha
smesso di sapere dove andava, nel quale ogni decisione è stata guidata
dall’istinto o dal caso – forse solo dal caso, alla fine, prima che gli si
rivelasse finalmente l’uscita dal labirinto, definita come una nascita o
una ri-nascita, corroborata dall’emergere del giorno.

Il silenzio era assoluto, anche i gabbiani parevano dileguati. Attraversai


l’altro campo San Trovaso che s’affaccia sul rio omonimo, muto di
simboli, come per antinomia. Continuai per le fondamenta Toffetti, voltai
a sinistra nella calle de la Toletta, proseguii per le fondamenta, superai il
ponte Lombardo. Cominciava un leggero chiarore da Est, una luce incerta
ma toccante e misteriosa, come ogni nascita, ogni rinascita. Percorsi il
breve tratto di calle San Barnaba e giunsi nel sottoportego; aprii la porta,
entrai ancora assorto e frastornato dalle vicende di quella notte.39

Il secondo possibile motivo a causa del quale ci si perde nel labirinto


attiene non più all’errore, all’Irr Motiv del Parsifal che affolla la
mente del Maestro, bensì al suo potenziale complemento: l’uniformità.
Guglielmo da Baskerville immagina di dover marcare ogni diramazione
di ogni incrocio con più segni, così come il matematico Édouard Lucas
propone il suo sistema di doppi segni a freccia, perché si trova in un
luogo in cui ogni ipotetica unità spaziale è sempre identica a quella
successiva, a quella precedente e a qualsiasi altra – unità spaziale che,
peraltro, potrebbe avere dimensioni sempre più piccole senza permettere
alcuna sua migliore identificazione ed arrivando così ad un infinito di
unità puntuali, tutte anch’esse identiche. Nei meandri veneziani si erra
perché non si riconosce il luogo, come ammette lo stesso Maestro nel
suo raccontare quella strana nottata del 1991, ma ogni edificio, rio,
ponte, passaggio, angolo, pietra, di quella città è sempre diverso da
ogni altro. A indurre all’errore e ad errare è, in quel caso, una carenza
di conoscenza, non una irriconoscibilità dei luoghi e delle cose. Nel
labirinto che apparisse completamente omogeneo, ove ciascun luogo e
ciascun oggetto risultasse irriconoscibile da qualsiasi altro, ad indurre
all’errore sarebbe una impossibilità di discernere che prescinderebbe
da qualsiasi possibile conoscenza. È il labirinto dei grandi quartieri
periferici costruiti pensando ad uno spazio da consumare – o nel quale
consumare e consumarsi – piuttosto che da abitare – o da vivere –, nei
���.G. Sinopoli, Parsifal, cit. p. 113.
46
Nel confine

quali perdersi è naturale, è contemplato, previsto, voluto, necessario. Ne


da una definizione adeguata Franco La Cecla, criticando, con asprezza
mista ad un che di triste ironia, l’approccio con il quale si sono mossi
intere schiere di architetti, urbanisti e pianificatori.

Il funzionalismo dell’edilizia moderna si basa sull’assunto che il cittadino


non deve perdere tempo con una relazione troppo complessa con il suo
ambiente. Basta che il suo ambiente funzioni, soprattutto dal punto di vista
igienico, ed egli potrà agevolmente trasferirsi da una periferia all’altra
seguendo le esigenze del lavoro. Questo motiva, anzi implica, l’anonimità
delle periferie, pensata come bene necessario per formare un nuovo tipo
di cittadino, quello che possa appunto facilmente perdersi nella sua stessa
periferia se non sta attento ai segnali e ai cartelli.40

Perdersi non è dunque un caso, un fato, un’avventura imprevista.


Perdersi è del labirinto, è connaturato a questo luogo che si affaccia sul
caos dell’oceano nel quale è inibito ogni discernere, indipendentemente
dal fatto che ciò avvenga in relazione ad un errore, dovuto ad una
carenza di conoscenza, oppure dall’assenza primaria di riconoscibilità,
dal nostro non riconoscere, oppure dall’omogeneità dei luoghi. Ci si
muove sul limite, un poco al di qua di ciò che, in funzione dei casi,
è l’indifferenziato, oppure l’ignoto o l’inconoscibile, ma già al di là
dell’ovvia certezza, del noto e vissuto, del praticato e familiare. Si abita
il quarto cerchio dello scudo di Achille e quello che si credeva essere
una linea, una semplice astrazione geometrica monodimensionale, si è
rivelata come un luogo, un’entità che si vorrebbe definire come spaziale
e temporale, ma che sfugge a qualsiasi definizione corrente, perché più
complessa del vocabolario e più critica della geometria: niente metro
né cronometro, solo la percezione soggettiva, l’angoscia di essere in un
luogo, il labirinto, posto sul margine, di cui non si conosce l’estensione
né l’esito. La condizione del Maestro negli istanti più difficili della sua
avventura notturna e quella del cittadino, magari trapiantato da chissà
quale lontano paese, condannato a consumare il suo spazio nell’uniforme
periferia, sono dunque molto simili, ma non identici, poiché ogni
labirinto è diverso dall’altro, dalla massima complessità della città
senza mappa all’assoluta omogeneità della periferia dell’anonimato. Il
primo caso, oltre quello di Venezia, è quello di Tokyo, che per Roland
Barthes costituiva un elemento di particolare eccentricità.

Le vie di questa città non hanno nome. [...] Questa obliterazione domiciliare
sembra scomodo a coloro (come noi) abituati a decretare che ciò che è più
���.F. La Cecla, Perdersi, cit. p. 91.
47
Stefano Bevacqua

pratico è anche sempre più razionale (principio in virtù del quale il miglior
toponimo urbano sarebbe quello delle strade numerate, come negli Stati
Uniti o a Kyoto, città cinese). Tokyo ci ricorda peraltro che la razionalità
non è altro che un sistema tra gli altri. Per dominare una realtà (in questo
caso, quella degli indirizzi), è sufficiente che ci sia un sistema, fosse anche
apparentemente illogico e complicato [...]. L’anonimato è supplito da
un certo numero di espedienti (o, almeno, è così che ci appaiono), la cui
combinazione forma un sistema.41

La mappa, impossibile senza nomi delle strade, è sostituita da


appunti, indicazioni per rassomiglianza, percorsi figurati, narrazioni che
riferiscono come si arriva in un certo luogo, senza mai dirlo, definirlo,
rinchiuderlo in un nome – in un indirizzo, nel senso di indirizzare come
volgere verso una direzione, con quella radice di diritto che dice, al tempo
stesso, la via retta e la giustizia, il percorso più semplice, o razionale,
come scrive Barthes, e il cammino giusto, quello che conviene all’uomo
e a dio. Tokyo non si lascia rinchiudere nell’indirizzo, nel nome giusto,
nella direzione proba. Tokyo è un labirinto orgoglioso, come Venezia,
del resto, e non ammette mappe: solo narrazioni. Il contrario di altre
città che si sono lasciate violare, prima con l’imposizione di nomi a vie
e quartieri, poi attraverso le ferite delle grandi piazze, dei boulevard
(il termine italiano corrispondente, corsi, non rende il senso del taglio,
della cesura, dell’imposizione del confine). È accaduto a Parigi all’inizio
del Settecento, quando vennero create le prime maglie urbane, fatte
per censire e controllare, per esigere le imposte e imporre il controllo
sociale, impresa culminata con l’urbanistica hausmanniana del secondo
impero, fatta da tagli secchi, non rimarginabili, e proseguita poi fino
ad oggi, per cui ai meandri odoranti dei giganteschi padiglioni delle
Halles, torridi l’estate e gelidi l’inverno, dove ogni catasta di cassette o
banchetto di vendita costituiva il nodo divaricante del labirinto, si sono
sostituite le gelide forme omogenee dell’attuale Forum, inferno bianco,
di marmo e cristallo, nel quale la sola possibilità di orientamento è data
dalle insegne dei negozi. Ma è accaduto anche a Roma, dove al reticolo
di vicoli dei Borghi che facevano apparire San Pietro all’improvviso,
come una sorpresa, un imprevisto, un aprirsi delle pieghe barocche
e, insieme, un loro moltiplicarsi infinito nelle forme della basilica,
gli urbanisti hanno preferito la rigidità rettilinea dell’attuale via della
Conciliazione. Esiste, dunque, o, almeno, è esistito in passato e tenta
oggi di sopravvivere, un labirinto della differenza, dell’irripetibilità di
ogni suo singolo componente – ammesso che esso si lasci scomporre
in unità discrete, e si è già detto che probabilmente è impossibile –
���.R. Barthes, L’empire des signes, Flammarion, Paris 1970, pp. 47-48.
48
Nel confine

che si legge in contrapposizione al labirinto di una modernità fatta


di superfici omogenee, di percorsi tutti identici. Entrambi rifiutano di
essere riprodotti nella mappa, di essere visti dall’alto e riportati in scala.
Ma mentre il primo labirinto si lascia abitare, il secondo può essere
soltanto consumato; mentre il primo lascia fuggire dopo aver consentito
il proprio riconoscersi nelle sue circonvoluzioni, il secondo inghiotte e
soffoca nel sonno; mentre il primo è opera di molti uomini per il loro
stesso vivere, il secondo è opera di pochi per la detenzione di molti.
Stranamente, sembra generare più ansia il primo del secondo: perdersi
a Venezia o a Mumbai sembra suscitare angoscia maggiore che perdersi
a Manhattan o in un centro commerciale. Forse dipende dalle pieghe
e dall’omogeneo: da quella trama di continui infiniti ripiegamenti
delle linee su se stesse, cui seguono srotolamenti e distensioni
imprevedibili, che, pur familiari, inducono una sorta di fatica, fatta dal
dover percorrere per capire e ripercorrere per conoscere e reiterare per
ricordare, come versi passati a memoria, parole d’ordine da ripetere
all’infinito per trovare il centro del labirinto e per uscirne dopo aver
ucciso il Minotauro; trama della complessità che vede in opposizione
l’omogeneità rassicurante e facile, sulla quale si scivola senza indugi,
senza le ruvidità delle pieghe più intime che si percepiscono nell’oscurità
dei meandri più profondi, piuttosto in una luce soffusa e costante, che
tutto mostra e propone, ordinatamente, senza sussulti e sorprese, in un
tutto uguale a se medesimo, efficace, funzionale, militare.
Lo si è già notato a proposito del confine oltre il quale ci si sporge
nell’atto della cessazione della vita: le circonvoluzioni del cervello,
che decide quale sia quell’attimo, coincidono topologicamente con
quelle dell’infinita piega barocca, dalla cui osservazione traspare la
logica infinitesimale della riflessione leibniziana, ma anche il labirinto
tridimensionale che padre Guglielmo cerca di comprendere insieme al
giovane Adso, il novizio, così come gli infiniti meandri della Venezia
attraversata in tutte le dimensioni – la terza, in altezza è data dalle scale
dei ponti, che uniscono, asserendo, ad ogni passaggio, la diversità delle
rive, così come per il labirinto di Cnosso è dettata dalla finale elevazione
in volo del suo creatore, Dedalo. La piega come rappresentazione del
luogo al limite, sul limite, dentro il limite, in quanto interminabile
sistema che si avvolge e si riavvolge su se medesimo, nel quale le due
facce della superficie appartengono a due distinte entità, una che guarda
al di qua e l’altra che si colloca al di là, ma in una tale complessità di
relazioni mutue, generate dall’infinito ripiegamento, da non permettere
più di sapere con precisione se il lembo di superficie nel quale si giace
in quel momento appartiene all’al di qua oppure risiede al di là. Inoltre,

49
Stefano Bevacqua

mentre si percorre questo luogo sinuoso esso stesso muta continuamente,


in un movimento inarrestabile di scivolamento, per il quale ciò che era
convesso ora è concavo, ciò che stava aprendosi e distendendosi adesso si
ricongiunge a sé medesimo, moltiplicandosi in una nuova efflorescenza
di pieghe più minute, ciò che era davanti ora sembra sporgersi indietro e
ciò che era sicuramente al di là sembra proposi di terga mentre raggiunge
sé stesso nella sua continua circonvoluzione. Labirinto di senso, in cui
tutte le posizioni possibili occupate da ogni elemento, che siano le cose
che lo abitano o le persone che lo vivono, rinunciano ad essere fissate
come in un quadro di coordinate cartesiane, ma soltanto possono essere
definite come ciò che in quel dato momento si colloca ad una certa
distanza da altre cose o altre persone, al punto di non consentire alcun
riconoscimento di ciò che occupa un posto nello spazio e nel tempo,
ma soltanto come insieme di elementi che mutualmente si definiscono
l’uno rispetto all’altro. È la calle veneziana alla quale si giunge con un
percorso sempre diverso in funzione del luogo dal quale ci si è mossi,
al contrario di quanto accade nell’omogenea geometria di una periferia
nella quale la terza strada è sempre tra la quarta e la seconda, che si
arrivi dalla parte della prima o da quella dell’ultima. La piega sembra
essere l’espediente immaginifico capace di descrivere la differenza tra
ciascun elemento ed ogni altro. Come scrive Gilles Deleuze, la piega
racchiude in sé la stessa condizione della differenziazione, ciò anche
nell’ambito della biologia e a prescindere dal fatto che ci si riferisca ad
una teoria preformatistica, così come l’aveva sposata Leibniz, oppure
ad una visione epigenetica.

Lo sviluppo non va dal piccolo al grande per crescita o incrementi, ma dal


generale allo speciale, per differenziazione di un campo precedentemente
indifferenziato, sia sotto l’azione dell’ambiente esterno, sia sotto
l’influenza di forze interne, che sono direttrici, direzionali e non costituenti
o preformanti. [...] L’essenziale è che le due concezioni, hanno in comune
di concepire l’organismo come una piega, piegatura o piegamento originali
(e mai la biologia rinuncerà a questa determinazione del vivente, come
testimonia oggi il ripiegamento fondamentale della proteina globulare).
Non sorprende, di conseguenza, che si incontrino gli stessi problema
sul lato dell’epigenesi e su quello della preformazione: tutti i modi del
ripiegamento sono modificazioni o gradi di sviluppo di uno stesso animale
in sé, oppure esistono tipologie di piega irriducibili, come lo crede Leibniz
in una prospettiva preformista? Certo, esiste una grande opposizione
tra i due punti di vista: per l’epigenesi, la piega organica si produce, si
scava o emerge a partire da una superficie relativamente piatta o unita
(come potrebbero prefigurarsi uno sdoppiamento, un’invaginazione,
una tubercolazione?). Mentre per il preformismo una piega organica

50
Nel confine

deriva sempre da un’altra piega, almeno all’interno dei uno stesso tipo di
organizzazione: ogni piega viene da una piega, plica ex plica.42

Deleuze riassume così la questione: in un caso, si sarebbe di fronte


alla differenziazione di un indifferenziato, nell’altro, ad una differenza
che si differenzia. In entrambi i frangenti l’immagine della piega resiste
allo sforzo di trasporla oltre ogni sua usuale referenza e si impone come
adeguata descrizione della stessa complessità, sia essa quella di un
organismo vivente o di materia inanimata (si pensi alla struttura intima di
un fluido), l’articolazione del pensiero o del linguaggio oppure un luogo
che non riesca a tacere la sua duplicità, l’essere davanti e dietro, senza mai
rinchiudersi nella stabilità di un al di qua, né lascarsi perdere nell’ignoto
di un al di là. Perché ad essere determinante non è tanto come la piega
si sia formata, se essa si produca per l’intercessione di qualche cosa di
esterno – un dio o Dio creatore – sull’inanimata superficie entropica di
un mondo che assomiglia troppo a quello che la scienza propone come
futuro remoto, oppure se la piega provenga sempre da un’altra piega,
per cui dovrebbe esistere una piega primigenia – per così dire: laica, o
forse atea, come quel bagno primordiale di carbonio, ossigeno ed energia.
Ad essere determinante è piuttosto la successione delle pieghe, il loro
estendersi nello spazio e mutare nel tempo, per forma e configurazione,
per sembianza e sostanza, avvolgendo e restituendo continuamente
ogni parte di sé medesime. La potenza dell’immagine della piega
emerge pienamente se si considera come essa risponda efficacemente
anche alla domanda di descrivere la molteplicità possibile dei punti di
vista che possono essere dedicati al luogo descritto. Si può immaginare
il punto di vista come un cono visuale che abbia come apice l’occhio
dell’osservatore. Proiettandosi sul luogo, questo cono visuale delimiterà
una sua parte, come una sorta di sezione del cono del tutto irregolare,
geometricamente non descrivibile, ma pregna di informazioni su quel
luogo. Una fotografia del luogo, dunque, decretata dallo sguardo diretto
dal punto di vista – sguardo che non guarda, ma sguarda, nel senso forte
del guardare: fare proprio separando dal resto. Ma non unica fotografia,
soltanto una delle infinite fotografie possibili, perché altrettanti possono
essere i punti di vista che il muovere dello sguardo può generare e che si
moltiplicano nel tempo. La differenza tra ciascun punto di vista ed ogni
altro corrisponde a quella tra ciascuna piega ed ogni altra, ovvero tra
ciascuna successione di pieghe ed ogni altra. I punti di vista di Guglielmo
da Baskerville nel suo tentare di mettere a fuoco – è rimasto senza lenti
– la complessità dello spazio della biblioteca del monastero benedettino,
���.G. Deleuze, Le pli, Les Éditions de minuit, Paris 1988, pp. 15-16.
51
Stefano Bevacqua

riflettono puntualmente le circonvoluzioni, i meandri, gli scarti ad angolo


retto laterali e verticali, le ripidità e gli orridi, in una parola: le pieghe
e la loro successione movente nel tempo, che riempiono il luogo. Ogni
elemento di questo luogo riflette una piega, ogni suo dettaglio una piega
successiva, ogni molecola che lo costituisce l’infinitesima piega – non
l’ultima piega, le pieghe sono infinite in quanto infinitamente piccole. Non
si contano le pieghe e non si misurano; si possono soltanto confrontare tra
loro, per ciascuna o per serie o per panorami di pieghe. Il confronto dice
la differenza, anch’essa non misurabile in sé – non si applica la geometria
analitica, il calcolo differenziale può aiutare ed ispirare, ma non offre
applicabilità né computazione possibile. La differenza può essere cercata
e quindi considerata ed infine ammessa. La differenza risiede nelle
pieghe, è anch’essa una piega, la piega della piega, il ripiegamento. Non
serve conoscere se questa differenza si generi da un indifferenziato o da
un’altra differenza, importa che la differenza prende forma e si istituisce
attraverso una separazione: la piega ulteriore introduce una separazione
nella piega precedente; il dispiegamento riporta unità tra le differenze; il
ripiegamento le moltiplica nuovamente. La differenza è ciò che indica
un qua ed un oltre, un prima ed un dopo, entrambe le cose – lo spazio ed
il tempo. La differenza non è il confine tra qualche cosa e qualche cosa
d’altro, ma coincide con esso. Il confine è nella superficie della piega, che
si aggroviglia, ma mantiene sempre due distinte facce, che fa perdere la
cognizione del davanti e del dietro, che confonde i ruoli, ma mantenendoli
sempre distinti ancorché non riconoscibili, generando così un luogo che si
apre tra qua e là, sovrastando e inghiottendo la differenza. La piega, anzi:
un sistema costituito da una moltitudine di pieghe in costante evoluzione,
è la descrizione possibile della configurazione del mondo nel momento
in cui la piega, ovvero: il sistema delle pieghe, definisce la differenza non
istituendo un confine lineare e mono o bidimensionale, ma attraverso un
ripiegamento, celandosi, rivoltandosi infinite volte, mostrando entrambe
le facce ma impedendone il riconoscimento, generando una texture.

La texture: la fisica leibniziana comprende due capitoli principali, uno


concernente le forze attive, dette derivate, rapportate alla materia, l’altro
le forze passive ovvero la resistenza del materiale, la texture. È forse al
limite che la texture appare meglio, prima della rottura o della lacerazione,
quando lo stiramento non si oppone più alla piega, semmai la esprime allo
stato puro [...]. In via generale, è la maniera con la quale una materia si
piega che costituisce la sua texture: essa si definisce meno per le sue parti
eterogenee e realmente distinte, che per la maniera in cui queste diventano
inseparabili in virtù di pieghe particolari.43
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. Ivi, p. 51.
52
Nel confine

Ma è un’idea di texture limitativa, questa di Leibniz ripresa da


Deleuze. In effetti si dovrebbe dire che la texture, intesa in un senso
più ampio: come strutturazione delle cose che abitano un luogo e il
luogo stesso come contente le cose, trattiene e custodisce il segno
delle differenze che risiedono nel luogo attraverso le pieghe. La
texture potrebbe così rappresentare l’insieme delle pieghe, per così
dire: primarie, che moltiplicandosi in ulteriori interminabili pieghe,
a loro volta istituendosi in serie di pieghe, mantenendo traccia della
correlazione che si instaura tra pieghe e pieghe e serie di pieghe e
serie di pieghe e della loro necessaria manifestazione come qualità del
luogo e delle cose. L’immagine della piega diviene in tal guisa sistema
descrittivo di ogni mondo che si proponga come luogo di transito tra
qua e là e transitorio tra prima e poi; la piega permette di descrivere
ogni luogo sul limite perché comprende il limite e lo rigenera come
moltitudine di aspetti possibili del limite medesimo. La texture, così
intesa, risolve anche l’idea di compossibilità, enunciata da Leibniz
come possibilità che due enti o eventi si presentino nello stesso luogo o
frangente pur appartenendo a mondi diversi, e quella di incompossibilità,
che appare qualora i due enti o eventi, pur entrambi possibili in un
luogo dato, provengano da mondi tra di loro non compatibili. La texture
è abitata da entrambi, in essa trovano luogo i possibili di mondi diversi
e compatibili, ma anche gli impossibili di mondi incompatibili, perché
la texture è qua e oltre il qua al tempo stesso e può dunque comporre e
contenere cose incompatibili in virtù del suo attraversare e sovrastare
luoghi diversi in tempi distanti. La texture, nella quale si insediano le
serie e le successioni dinamiche delle pieghe, offre ospitalità ad ogni
possibile oggetto perché la sua configurazione diviene qui porosa,
torbida, imprecisa, financo dubbia. Nel mondo di Leibniz le attribuzioni
delle cose sono necessariamente precise e definite, tra di esse non sono
ammesse incompatibilità ed ogni cosa così fissata come esistente non
potrà essere non esistente. Nel luogo del margine, nella texture generata
dalle pieghe che in ogni istante assumono versi e posizioni e numero
differenti, si scivola nell’indefinito, in una condizione in cui è permesso
soltanto di seguire l’evoluzione delle condizioni del luogo medesimo.
Il luogo del confine sembra mostrare affinità con il caos primigenio.
Scrive Deleuze ripercorrendo il pensiero di Leibniz:

Seguendo un’approssimazione cosmologica, il caos sarebbe l’insieme


dei possibili, cioè tutte le essenze individuali in quanto ciascuna tende
all’esistenza per conto proprio; ma il vaglio lascia passare soltanto i
compossibili, et la migliore combinazione di compossibili. Seguendo
un’approssimazione fisica, il caos sarebbero le tenebre senza fondo, ma il
53
Stefano Bevacqua

vaglio estrarrebbe il fondo scuro, il fuscum subnigrum, il quale, per quel


poco che differisce dal nero, pur contiene tutti i colori: il vaglio è come la
macchina allestita all’infinito nella natura. Da un punto di vista psichico,
il caos sarebbe l’universale stordimento, l’insieme di tutte le percezioni
possibili come altrettanti infinitesimali o infinitamente piccoli; ma il vaglio
estrarrebbe i differenziali capaci di integrarsi in percezioni regolate.44

Evidente appare il bisogno – di Leibniz o di Deleuze? – di negare il


caos, di controllarlo di metterlo da parte, in un luogo diverso, non perché
appaia come negatività in sé, quanto perché esso costituisce un pericolo,
quello di perdersi, di non essere più capaci di ri-conoscere luoghi e cose
e sé medesimi. Ecco, allora, il vaglio, il setaccio – mosso dal divino
che guida la mano – attraverso il quale discernere, chiarire il possibile
dall’impossibile, in compossibile dall’incompossibile, per creare un
paesaggio privo di contraddizioni, accettabilmente compromissorio,
dacché la compossibilità è già una concessione alla non completa e
pregna coerenza tra cose che non dovrebbero coesistere. Leibniz fa
questa enorme concessione, questo compromesso, forse perché spinto
dall’evidenza metodologica imposta dal suo calcolo infinitesimale,
come calcolo che perde ogni assolutezza per accontentarsi di misurare
differenze. Ma rimane, pur in questo più aperto quadro di compromesso,
la presenza del vaglio che separa, che definisce confini all’interno del
caos, operando così una moltiplicazione della complessità, invece di
una semplificazione per compossibilità. Perché il vaglio opera nuove
identificazioni e tra ciascuna identità emersa dalla sua azione e ogni
altra si instaura un nuovo confine, un limite, una contiguità che non sarà
mai quella auspicata, di una netta separazione tra cose incompossibili
– anzi, la selezione divina della migliore scelta tra le cose compossibili
– ma sempre un luogo di sovrapposizione, di contatto, di miscelazione,
che genera nuova indistinzione, nuovo caos su scala più piccola. E più
avanza l’opera selezionatoria del vaglio, più minute ed infinitesime
saranno le aree di contiguità e sovrapposizione e più minuscoli saranno i
luoghi in cui si può verificare la differenza. Il vaglio, infatti, è imperfetto,
è per definizione grossolano. Il muratore prepara la malta lanciando con
la pala la sabbia contro il suo vaglio, una rete metallica a maglia fine
tesa tra quattro aste di legno, in modo da selezionare la sabbia più fine
dalla grossa e dai frammenti di pietra rimasti dalla molitura. Ma sotto
il suo vaglio non si accumula la sabbia ideale, tutta uguale, ma ogni
cosa che possa passare attraverso la magliatura della rete metallica,
ogni impurità, ogni cosa che abbia la caratteristica di attraversare quel
passaggio, a prescindere dalla sua compossibilità. Potrebbe utilizzare un
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. Ivi, p. 104.
54
Nel confine

vaglio diverso, non dimensionale ma che separasse per peso specifico,


oppure per riflettometria, o tutti e tre insieme e con altri ancora. Non
otterrà mai la perfezione selezionatoria se non al prezzo di sprofondare
nell’opposto del caos: in una purezza assoluta, ove rimarrebbe soltanto
una materia, inscindibile da sé medesima, irriconoscibile da sé stessa,
in un mondo nel quale ogni differenza, per vagliatura successive e
sempre più accurate, sarebbe annullata, mondo completamente opaco,
indistinguibile: annullamento di ogni potenziale, morte entropica.
Leibniz – e Deleuze? – non può permettere che esista un vaglio
imperfetto perché non può accettare l’incertezza. La certezza risiede
nella finitezza, nella differenza stabilita e consacrata; i confini, come
luogo fisico della differenziazione, delle separazione tra di qua e di
là, sono i garanti della certezza. Ma al loro interno, tra le due facce
delle pieghe che si mischiano e confondono la nostra percezione, nei
meandri del labirinto che si colloca all’interno della separazione, vige
assoluta l’incertezza, perché ogni cosa non è alcunché di prima senza
mai essere un poi. Il labirinto è incerto perché è imprevedibile – ed
è imprevedibile perché non è descrivile: niente mappe. Soltanto la
statistica permette un movimento nel labirinto – non la comprensione
topologica; la comprensione topologica è mappatura; nel labirinto è
lecito soltanto prevedere quale direzione presenta maggiori probabilità
di condurre ad una nuova domanda, opzione, possibilità, incrocio.
Occorre prendere atto dell’irriducibile qualità del luogo del confine
come luogo della differenza, rinunciando ad una sua descrizione ed
assumendolo nella sua complessità, come labirinto senza mappa, sistema
di infiniti ripiegamenti e circonvoluzioni. Ma impelle compiere almeno
qualche passo lungo il difficile percorso della differenza medesima,
per metterne a fuoco almeno alcuni caratteri, pena lasciarla perire
nell’anonimato di una parola priva di pregnanza. Differenza si dice per
sottrazione, come ciò che non è uguale, né, tantomeno, lo stesso. Ma
lo stesso – ciò che afferma l’identità – non è l’uguale. Nell’uguale, la
diversità svanisce, nello stesso appare invece pienamente. Nello stesso
co-appartengono gli elementi attraverso i quali, proprio nell’emergere
della differenza, si riassume la contiguità non traumatica, il passaggio
“da-a”. Nell’uguale, invece, si azzera il confine poroso che unisce fino
all’altro uguale, confondendosi con esso, nessun salto, piatto orizzonte
privo di significati.
Nel confine, nel limite, si consuma la differenza, si esclude l’uguale e si
mantiene la possibilità dello stesso, come necessità della differenza, non
intesa come negazione dello stesso, ma come luogo – del confine – nel quale
trova fondamento quel processo dinamico attraverso il quale elementi

55
Stefano Bevacqua

distinti, indifferentemente se compossibili o contrapposti, ammissibili o


impossibili, si correlano allontanandosi e divergendo, ma, al tempo stesso,
ricollegandosi e riunendosi. Come un movimento circolare, che occupa
lo spazio del confine – impregna il labirinto, nel quale la circolarità è
ragione vitale – coinvolgendo ogni elemento, tutti attraversandoli, per
collegare continuamente ognuno a tutti gli altri, discorsivizzati dalla
loro stessa presenza nel luogo del confine. La differenza si fa dunque
opaca e lo stesso riesce ostinatamente a mantenersi possibile, ancorché
non immediatamente visibile. Nella differenza, ogni elemento si riversa
nell’altro, non mutando natura o posizione, bensì nell’organica e vitale
zona intermedia, nella quale si generano continue possibilità – nuovi
elementi prendono forma come derivati dalle matrici generative dall’al
di qua e dell’al di là, ma sempre distinguendosi da essi. Gli elementi che
abitano il luogo del confine si moltiplicano senza più appartenere ad uno o
all’altro campo di contiguità, come infinite facce parziali della superficie
ripiegata e dispiegata, raccolta e riemersa. Il luogo del confine appare così
come un continuo che, paradossalmente, contiene innumerevoli elementi
costitutivi discreti ed altrettante condizioni di transizione da ciascuna
condizione a tutte le possibili altre. Il continuo è, infatti, il presupposto
necessario del confine, come formalizzazione della differenza, ma è un
luogo indeterminato nello spazio e nel tempo, non ammette di essere
fissato, immobilizzato – quindi non segna con un taglio, una ferita,
ma unisce ponendo a confronto infiniti discreti possibili. La difficoltà
risiede nel fatto che, come spesso accade, il linguaggio formalizzato è
insufficiente – o incapace – di descrivere compiutamente alcuni concetti.
Si dispone più di concetti che di parole e con poche parole si tenta, con
altalenanti insuccessi, di dire innumerevoli concetti. Accade così che il
termine differenza, nonostante lo sforzo fin qui profuso, rimanga detto
soltanto in funzione di ciò che differisce. Jacques Derrida, che insieme a
Gilles Deleuze è stato definito atleta della differenza, ha dovuto coniare
un termine di fantasia per tentare di uscire dai meandri – un inatteso
labirinto – dei tanti e diversi significati possibili del termine differenza:
différance, con la a, invece dell’usuale différence, con la e. Un percorso
obbligato dalla moltitudine di significati che nella lingua francese si
sovrappongono a quelli di radice latina, per cui al differre corrisponde
différence, come differenza, différent, come differente, différand, come
controversia, différer, come rinviare nel tempo. Seguendo questo difficile
percorso, Derrida giunge a mettere a fuoco la sua différance come priva
di sostanzialità, ma capace di imporsi per indicare e sostanziare una
condizione che si instaura tra un qua ed un là riunendoli. Un confine,
forse. Oppure un luogo del confine.

56
Nel confine

La différance è ciò che fa sì che il movimento della significazione sia


possibile soltanto se ogni elemento, detto “presente”, che appare sulla
scena della presenza, si rapporta ad altro che sé medesimo, mantenendo
in sé il segno dell’elemento passato e lasciandosi già scavare dal segno
del suo rapporto all’elemento futuro, essendo la traccia meno in rapporto a
ciò che chiamiamo futuro che a ciò che chiamiamo presente, e costituendo
ciò che chiamiamo presente per questo suo stesso rapporto a ciò che non è
lui: assolutamente non lui, nemmeno un passato o un futuro come presenti
modificati. Perché sia lui stesso, bisogna che un intervallo lo separi da ciò
che non è lui, ma questo intervallo che lo costituisce in presente deve anche
e al tempo stesso dividere il presente in esso medesimo, distribuendo, così,
con il presente, tutto ciò che può essere pensato a partire da lui, cioè, nel
nostro linguaggio metafisico, ogni essente singolarmente la sostanza o il
soggetto. Siccome questo intervallo si costituisce e si divide dinamicamente,
diviene ciò che possiamo chiamare espacement, divenire-spazio del tempo
o divenire-tempo dello spazio (temporisation). Ed è questa costituzione
del presente come sintesi “originaria” ed irriducibilmente non-semplice,
dunque, stricto sensu, non-originari, di segni, tracce di ritenzione e di
protensione [...] che propongo di chiamare archi-scrittura, archi-traccia o
différance. Questa (è) (al tempo tesso) spaziatura (e) temporizzazione.45

La differenza non esiste come tale e non è nemmeno attributo di una


qualche ente che sia. Essa compare soltanto tra qua e là. Anzi: essa
nemmeno compare, soltanto è indicata da ciò che differisce, dai due
attori della differenza nel loro confrontarsi. La differenza è uno degli
innumerevoli modi di esistenza di enti, appunto, differenti. In questo
modo, l’identità si riduce alla differenza, poiché se si può porre l’identità
tra due o più elementi è sempre e soltanto attraverso uno stesso oppure
tra due o più cose distinte ma identiche. Nel secondo caso, la distinzione
produce la differenza e, quindi, la differenza comprende l’identità. Nel
primo caso, la differenza emerge nell’intimità dello stesso, nella quale
si colloca il fatto stesso del riconoscimento dello stesso, così che se
c’è un movimento temporale che attraversa questo riconoscimento e
l’intera intimità dello stesso – e non potrebbe essere diversamente,
poiché altrimenti esso stesso non potrebbe essere – c’è anche un prima
e un dopo che rende lo stesso molteplice e quindi differente nel dominio
del tempo. Si può allora descrivere la differenza come luogo nel quale
non si è ancora e non si è più, non ancora oltre ma nemmeno più al di
qua. Come nel luogo di un confine. Si risolve qui anche la difficoltà
etimologica sorta intorno al verbo differire nel senso di procrastinare nel
tempo: differire, nell’etimo specificamente italiano, avviene attraverso
45. J. Derrida, La différance, in Marges – de la philosophie, Les Éditions de Minuit, Paris
1972, pp. 40-41.
57
Stefano Bevacqua

la separazione dell’elemento che sarà oggetto di un evento che avverrà;


nella separazione può permanere l’identità tra gli elementi perché essa
precede il confronto tra ciò che accade e ciò che accadrà. La differenza,
infatti, presuppone il confronto, per cui si differisce con l’intenzione di
separare per confrontare lo stesso nel suo essere sé stesso. Differenza,
dunque, che comporta, per essere istruita, separazione nello spazio e nel
tempo. Differenza come differenziazione. Ma Derrida lo esclude:

Questo movimento (attivo) della (produzione della) différance senza


origine, non avrebbe potuto chiamarsi, più semplicemente e senza
neografismi, differenziazione? A parte le tante possibili confusioni, una tale
parola avrebbe lasciato pensare a una qualche unità organica, originaria ed
omogenea, che andrebbe eventualmente a dividersi, a ricevere la differenza
come un evento. Soprattutto, formandosi sul verbo differenziare, quella
parola annullerebbe la significazione economica dell’obliquità, del rinvio
temporizzatore, del “differire”.46

Eppure permane il sapore di una forzatura linguistica – sicuramente


meno necessaria nella lingua italiana, che fa a meno dell’equivoco
introdotto dal termine différand come controversia – che fa perdere
qualche cosa, proprio quel senso della possibile generazione che
Derrida lascia cadere nello svolgimento della frase, in un angolo,
nemmeno considerata, data per esclusa, ma che pure si era imposta
al suo pensiero, come inevitabile riferimento, concetto che non
poteva non emergere nella foga del discorso47, ma che il filosofo
francese ricaccia all’indietro. Eppure, l’idea della differenziazione che
genera il molteplice dall’unico, mantenendo l’identità attraverso una
moltiplicazione dello stesso, avrebbe potuto essere assai fertile. Perché,
nella fretta di liberarsi di un concetto insinuante, Derrida attribuisce
alla differenziazione la necessità di una preesistente “unità organica,
originaria ed omogenea”. Ma potrebbe trattarsi, in alternativa, di una
condizione superficiale non unitaria, di una continuità che ammette
la molteplicità del discreto, niente affatto omogenea, ma sicuramente
originaria, capace di generare innumerevoli nuovi aspetti di sé medesima
attraverso un differenziarsi non per separazione e moltiplicazione del
simile, ma per replicazione approssimata della forma: la piega, dunque,
con le sue circonvoluzione e le sue infinite possibilità. Derrida è forse
rimasto, in quel passaggio del suo testo, prigioniero di una visione
per la quale la differenza, che non è un concetto, ma il semplice frutto
���.Ibidem.
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. Il testo è la trascrizione di una conferenza pronunciata il 27 gennaio 1968 alla Société
française de philosophie.
58
Nel confine

del confronto tra elementi distinti, è la condizione necessaria della


possibilità dei concetti e, con essi, del linguaggio che li enuncia. La
differenza appare così come una condizione, uno stato, una caratteristica
di elementi o eventi stabili, immutabili. Se la differenza viene meno è
perché mutano gli elementi sui quali essa si verifica in quanto essi non
sono più non uguali. Se si pensa a concetti e segni e cose che siano
in evoluzione, che possono riunirsi e separarsi nel tempo, suscettibili
di mutare continuamente il loro segno di differenza e di identità,
ciascuno in relazione ad ogni altro, allora si può intuire un luogo nel
quale si genera continuamente un mutamento per differenziazione. Lo
spazio del confine, quale un labirinto che senza sosta evolve e muta
le sue forme, nel quale il Minotauro appare e scompare lasciando a
Teseo soltanto la possibilità di affidarsi alla fantasia del mutare di ogni
cosa nel tempo, è sempre popolato da dinamiche di questa natura, dal
continuo mutare dell’orizzonte e, dunque, delle condizioni dalle quali
ogni osservatore può considerare le differenze. Ma non è l’osservatore
esterno di un metodo scientifico che già conosce tutti i risultati possibili
– ed esclude, gioco forza, quelli che non è in grado di prevedere, a
meno di ammettere la possibilità dell’impossibilità. È piuttosto come
un giocatore immerso nella partita, la cui presenza è assolutamente
necessaria, poiché la differenza tra due elementi sussiste soltanto se
viene osservata, considerata, valutata, e non diversamente accade alla
différance, che pretende di essere vissuta nella mutevolezza spazio-
temporale in cui si genera e che essa stessa ri-genera continuamente.
Non potrebbe sussistere alcun labirinto senza Teseo o senza Guglielmo
da Baskerville, nessun luogo di confine sarebbe possibile nell’assenza
di un soggetto che ne sia abitatore. Perché lo spazio del confine non
è l’arido e monotono luogo sul quale – nel quale – si costituisce una
differenza per separazione, ma, al contrario, è il luogo in cui si genera
il confronto e l’unione, nel quale ogni elemento perde di sé e acquisisce
dell’altro senza perdere la sua integrità ed identità, senza cessare di
essere stesso, ma assumendo una condizione ulteriore, terza, destinata
a mutare perpetuamente – o, almeno fino a che qualche cosa non
interviene a ricongelare e re-incasellare ogni elemento in un orizzonte
rassicurante e monotono. Indagare in questo luogo comporta una vivida
consapevolezza di sé, che necessariamente si fissa in un tempo dato,
l’istante del presente. In ogni momento, si deve quindi prendere atto
dello stato della differenza che giace nel confine, consapevoli che il
proprio punto di osservazione è dentro il luogo del confine – Teseo è
dentro il confine e ne esce grazie al filo che la sorellastra del Minotauro
gli ha messo a disposizione, non con le ali di Dedalo, che paga questa

59
Stefano Bevacqua

sua imprudenza son il sacrificio di Icaro – e che ne è tanto condizionato


da esserne in qualche modo e misura una parte. Ad ogni istante, il luogo
del confine muta il suo aspetto, si generano nuove pieghe ed altre si
ripianano, il labirinto si complica e si semplifica, il Minotauro si cela e
ricompare; il luogo del confine muta il suo aspetto spaziale, materiale,
essenziale, direzionale, destinale, muta in ciò di cui farà parte.
L’inarrestabile movimento che agita il luogo del confine, che rende
sempre mutevole l’aspetto del labirinto, è generato dalla stessa differenza
che lo abita. Ogni differenza comporta il confronto tra due stati che
esprimono potenze ineguali. Se al di qua del luogo del confine vi fosse
una condizione identica a quella che caratterizza l’al di là, cesserebbe il
confine e con esso il luogo che lo abita. L’al di qua e l’al di là del confine,
il prima ed il dopo la separazione, sono il risultato della correlazione tra
diversi livelli di potenziale. Il luogo del confine racchiude la differenza
come differenza di potenziale, non dissimilmente da quanto accade tra
due punti immersi in un campo vettoriale conservativo, come nel caso
dei due conduttori elettrici applicati alla pila ingegnata da Alessandro
Volta nel 1800 giustapponendo elettrodi di zinco e di rame immersi in
un ambiente salino. Identicamente al caso dell’energia elettrica, accade
in quello di un fluido, ove la differenza di potenziale è una differenza di
pressione; in un sistema termico, ove la differenza di potenziale è una
differenza di temperatura; in un sistema meccanico, ove la differenza
di potenziale è la differenza del potenziale gravitazionale. Si potrebbe
dire che la differenza di potenziale è ciò che permette l’avvenire di un
mutamento in un sistema altrimenti continuo ed uniforme. Oppure,
si dovrebbe asserire che ogni manifestazione della vita presuppone
una differenza di potenziale, tale che la morte dell’universo si deve
diagnosticare come assenza totale di differenze di potenziale – anche
la morte cerebrale di un essere vivente è diagnosticata in quanto non si
registra più alcuna attività neurologica, la quale si manifesta, appunto,
come differenze di potenziale elettrico. Per loro stessa dinamica, le
differenze generano relazione; esse aprono così un luogo dimorabile tra
i lembi – soltanto apparenti – del confine, il quale assume dimensioni
e consistenze sempre mutevoli, accettando per questo e grazie a
questo la presenza di elementi che sarebbero altrimenti incompatibili –
incompossibili. Nello spazio del confine è dunque impossibile dimorare
immobili. Chi si arresta tra i meandri del labirinto è destinato ad esserne
inghiottito; chi non si adatta all’evoluzione del sistema sempre mutevole
delle pieghe, ne viene espulso, ricondotto al di qua, oppure rilanciato
oltre. Occorre adattarsi a questo continuo cangiare delle condizioni del
luogo del confine che le molteplici differenze – impossibili a censirsi

60
Nel confine

per la loro repentina mutevolezza – generano senza sosta. Adattamento


che non può certo venire dall’istruzione di un processo cognitivo che
permetta di descrivere con compiutezza ogni evento, perché ad ogni
piega finalizzata e descritta, sempre ne succederà un’altra o una serie
intera tutta da comprendere, misurare e ricordare. Inutile inchiesta,
dunque, che porterebbe inesorabilmente all’espulsione dal cuore del
labirinto – il viaggio di Teseo nel labirinto è finalizzato a raggiungere
il suo centro per uccidere il Minotauro, ovvero a scovare il libro
dell’apostolo che Guglielmo da Baskerville deve consultare, e soltanto
dopo questo sacrificio rituale il visitatore tenterà di uscirne, con il filo
o con la scienza. Il luogo del confine non è attraversabile con i consueti
e logori strumenti dell’indagine, della conoscenza fenomenica e dalla
sua successiva razionalizzazione; soltanto è possibile frequentarlo ed
abitarlo, adattandosi alle sue pareti, alle sue forze e alle sue dinamiche, ai
suoi movimenti, accettando di esserne pienamente coinvolti, seguendo
un agire nomadico. Non era un luogo omogeneo quello ove si sono
formate le pieghe del labirinto, ché già il tempo e lo spazio erano abitati
da innumerevoli ripiegamenti e distensioni. Il labirinto si forma come
per una contrazione generata da una parziale separazione locale della
superficie di una piega, che genera una piega ulteriore e, riverberando,
una serie di pieghe ulteriori. Ciò è il frutto dalla differenziazione
generatrice, la quale afferma così la differenza come complicazione
della superficie. Era, prima, una superficie occupata da un modificarsi
nel tempo di elementi che si riunivano e si separavano, come il giorno
che scivola nella notte, l’acqua del mare che compenetra la duna, il
solido che si fa liquido, e che, ora, si presenta come una complessità
motile, somigliante forse ad una traccia, più che ad una entità o ad un
evento strutturati, definibili con esattezza e riferibili con completezza.
Dice Derrida, discutendo della differenza ontologica fondamentale tra
ente ed essere, così come indicata da Martin Heidegger:

Non essendo la traccia una presenza, ma il simulacro di una presenza


che si disloca, si sposta, si rinvia, essa non ha propriamente luogo, la sua
cancellazione appartiene alla sua struttura. Non è soltanto la cancellazione
che deve sempre poterla sorprendere, senza la quale essa non sarebbe traccia
ma indistruttibile e monumentale sostanza, ma anche la cancellazione che
la costituisce come traccia fin dalla prima istanza, che la installa in quanto
mutamento di luogo e la fa sparire nella sua apparizione, uscire da sé stessa
nella sua posizione. La cancellazione della traccia precoce della differenza
(tra ente ed essere, nda) è dunque “lo stesso” del suo essere tracciata nel
testo metafisico. [...] ... il presente diventa il segno del segno, la traccia
della traccia. Non è più ciò a cui, in ultima istanza, rinvia ogni rinvio.

61
Stefano Bevacqua

Diventa una funzione in una struttura di rinvio generalizzato. È traccia e


traccia della cancellazione della traccia.48

Anche in questo caso, la lucida intuizione di Derrida permette di fare,


al tempo stesso, un passo avanti ed una precisazione. Il passo avanti è
nell’ulteriore analogia che si riesce a scorgere tra luogo del confine e
differenza e traccia della differenza e traccia del confine come differenza;
la precisazione risiede nella possibilità, che Derrida esclude e che qui
si vorrebbe invece far emergere con decisione, che la traccia non sia
affatto completamente delebile. Il filosofo della parola è prigioniero del
significato, anche in questo frangente egli sembra non potersi astrarre
da una necessità semiologica che relaziona senso e significato e rinuncia
così a lasciare che la traccia indichi una possibilità ulteriore e diversa da
quella cui è costretta dalla sua parola. La traccia permane sempre come
indicazione di ritorno; è proprio la traccia della cancellazione della
traccia che Derrida definisce paradossale in una lettura metafisica, ma
che deve essere colta con cura e soddisfazione, perché garantisce una
possibilità di permanenza all’interno del labirinto, ove ancora si deve
completare il sacrificio-pellegrinaggio, per cancellare l’errore – quello
della generazione del mostro mezzo uomo e mezzo toro e quello della
fede che non trova la sua direzione.

48. Ivi, p.52.


62
INTERMEZZO

SIGNOR SIGNORE
Il mondo incantato

In un celebre articolo pubblicato nel 1930, Economic Possibilities


for our Grandchildren, John Maynard Keynes sosteneva che per godere
di un mondo che non fosse più abitato dall’avidità, dall’avarizia,
dall’usura, sarebbe stato necessario attendere non meno di cento anni.
Scriveva Keynes:

Non vedo dunque nulla che ci impedisca di arrivare un giorno ai più sicuri
e solidi princìpi della religione, a queste virtù tradizionali che vogliono
che l’avarizia sia un vizio, la pratica dell’usura un delitto, e l’amore per il
denaro disprezzabile. [...] Ma diffidate! Quel tempo non è ancora venuto.
Almeno cento anni dovremo ancora trascorrere guardando in volto noi
stessi e tra noi tutti perché, come dicono le streghe di Macbeth, ciò che è
brutto è bello, poiché ciò che brutto è utile e ciò che è bello non lo è affatto.
L’avarizia, l’usura e la sfiducia sono dei che dovremo conservare ancora
un momento. Poiché essi soli possono guidarci attraverso il tunnel delle
necessità economiche, verso la luce.49

Un mondo probo, degli onesti e dei morigerati. Un mondo fatato,


dunque, in quanto buono, lontano dalla crudeltà; in quanto giusto, nel
quale ognuno abbia il meritato; in quanto mondo ove il bene riesce sempre
a trovare il suo luogo, la sua forza, ove il male, per necessario contrasto,
sembra senza radici e chi lo compie si redime con la semplice forza dello
sguardo del giusto. Un mondo di favola, dunque, posto al di là di un al
di qua nel quale si abita comunemente. E, forse, è proprio per questo
che Keynes, per dare un’immagine pregnante di un comportamento
economico che mira solamente alla moltiplicazione formale del denaro,
prescindendo dalla ricchezza che dovrebbe rappresentare in termini di
lavoro e di produzione, scelse di citare un passo di Sylvie e Bruno, il terzo
romanzo scritto da Charles Lutwidge Dodgson, matematico di Oxford
che firmava le sue fiabe come Lewiss Carroll, là dove il Professore
risponde al proprio sarto venuto a riscuotere la fattura. Il dialogo si
���.J. M. Keynes, Economic Possibilities for our Grandchildren, in Essays in Persuasion,
Harcourt Brace, New York 1932, p. 372.
Stefano Bevacqua

svolge, appunto, nella metà fatata del mondo attraversato dal racconto,
che appare speculare all’altra metà, quella reale, ma senza essere in
reale contraddizione: le stesse regole sembrano infatti valere sia di qua
sia di là, rendendo estraniante anche l’al di qua, irreale quanto basta
per consentire una costante inversione di ruoli, persone e situazioni che
non si manifesti mai con un salto, una rottura. Non c’è un vero confine,
tra mondo reale e mondo fatato, piuttosto un luogo, assai vasto nello
spazio e nel tempo, nel quale le due possibilità che Carroll presenta
si congiungono mischiandosi. Un luogo nel quale il senso assume un
carattere del tutto particolare, quasi una caricatura, ironica riflessione
di quel che ci si potrebbe attendere e che non accade. Racconta Carroll:

“È soltanto il sarto, Signore, con il suo conticino,” disse una voce flebile
fuori dalla porta. “Ah, bene, se aspettate un minuto sistemerò subito questa
faccenda,” disse il professore ai bambini. “Quanto devo, quest’anno,
buonuomo?”. Il sarto era entrato, mentre lui parlava. “Vede, si è andato
raddoppiando per tanti anni, capisce,” replicò il sarto un po’ bruscamente,
“che vorrei il denaro subito. Sono duemila sterline, proprio così!”. “Ho,
ma non è nulla!”, replicò con noncuranza il Professore tastandosi le tasche
come se si portasse sempre dietro, come minimo, quella somma. “Ma non
vorrebbe aspettare un altro anno e farle diventare quattromila? Immagini
quanto diventerebbe ricco! Potrebbe essere un Re, se lo volesse!”. “Non
sono sicuro che mi piacerebbe essere un Re,” replicò l’uomo con aria
pensosa. “Ma, certo, sarebbe una gran bella somma di denaro! Sì, credo
che aspetterò...”. “Ma certo che lo farà,” disse il Professore. “Vedo che è
una persona di buon senso. E buona giornata a lei, brav’uomo!”. “Gliele
dovrà pagare mai, quelle quattromila sterline?”, chiese Sylvie mentre
la porta si chiudeva alle spalle del creditore che usciva. “Mai! ragazza
mia!”, replicò con enfasi il Professore. “Continuerà a raddoppiarle fino
alla morte. Vedi, vale sempre la pena aspettare un altro anno per avere il
doppio della somma!”.50

Crudeltà del Professore o ironia di un matematico con la passione


per le fiabe. Verrebbe, infatti, da domandarsi perché in questo mondo
fatato, dove persino il più malvagio, il sotto-Governatore, ormai auto
nominatosi Imperatore, spegne ogni sua crudeltà al semplice apparire del
fratello maggiore spodestato, il Governatore e padre di Sylvie e Bruno,
vestito come un mendicante, che gli si para davanti imponendogli il
proprio perdono “mentre tutti notavano con stupore che si era operato
un cambiamento [...] quelli che soltanto un istante prima erano sembrati
miseri stracci schizzati di fango adesso erano inequivocabilmente

. L. Carroll, Sylvie e Bruno, Garzanti, Milano 1978, pp. 76-77.


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Nel confine

vesti regali, ricamate in oro e luccicanti di gemme”.51 Fatato due volte,


quel mondo, come un incantesimo dentro l’altro. Il primo è quello del
Palazzo in cui si sta svolgendo il banchetto, differente perché separato
dal mondo reale; il secondo è quello che fa apparire il Governatore
spodestato nelle vesti di un vero sovrano. Cascata – labirinto – di eventi
che si connettono senza mai opporsi realmente. Il mondo reale appare
così irreale e quello irreale, perché fatato, si moltiplica in innumerevoli
elementi che talvolta riportano al reale, talaltra se ne allontanano in
modi che appaiono definitivi, drastici, ma che subito dopo sembrano
ricondurre al mondo “normale”. Keynes scelse questo luogo per
cogliere, nel dialogo tra il Professore ed il suo sarto, un esempio di
sistema economico che si riproduce senza produrre, ma commise
almeno due leggerezze. La prima riguarda le previsioni sull’evoluzione
dei meccanismi di regolazione del mercato. La seconda concerne la
situazione scelta come esempio, quella del dialogo citato, che dovrebbe
apparire come esemplare di un sistema nefando ma inevitabile, almeno
per i prossimi cent’anni, e che, invece, è soltanto l’ironia di Dodgson
il matematico che può permettersi quell’assurdo comportamento grazie
al fatto che in quel mondo fatato non vi sono vere leggi, ma piuttosto
semplici intenzioni, e poi eventi, e poi nuovi eventi che non derivano
dai primi ma nascono come per una gemmazione, una fortuità.
Il mondo fatato è oltre un certo limite, trascina con sé l’immagine
del mondo reale, il quale, a sua volta, sembra come – ma non si
comprende come – essere influenzato dal suo omologo fatato.
Sull’onda di un margine, di una differenza, di un qua e di un là che
non si accontentano di dirsi, piuttosto imponendosi. Nessuna vera
legge comanda oltre quel confuso e poroso limite, confine instabile,
continuamente messo in forse dalla narrazione, anzi, dal Narratore, il
Signor Signore.
La fiaba di Carroll, inspiegabilmente sottovalutata, per non dire
dimenticata, a tutto ed unico beneficio di Alice nel paese delle
meraviglie e di Attraverso lo specchio, costituisce un esercizio narrativo
di straordinaria difficoltà – forse anche di audacia: Carroll scrisse quelle
pagine nell’ultimo spiraglio di Diciannovesimo secolo, molto prima che
i sistemi narrativi della tradizione romantica iniziassero a sgretolarsi
per lasciare spazio a quei nuovi ritmi sincopati, sempre più rivolti
all’equivoco del senso, o al senso dell’equivoco, dai quali dovette poi
germogliare la stessa destrutturazione del linguaggio. Sylvie e Bruno fu
scritto in due distinte fasi. La prima parte fu pubblicata nel 1889 e la
seconda quattro anni dopo, nel 1993, quando il matematico di Oxford
51. Ivi, p. 391.
65
Stefano Bevacqua

aveva appena superato la soglia dei sessant’anni. Libro doppio, dunque,


perché deliberatamente differenziato – per separazione – nelle due unità
narrative, le quali si conseguono, certamente, ma non necessariamente,
nel senso che la prima comporta il suo esito nella seconda, ma che questa
seconda non presuppone necessariamente la prima. Una duplicità che
si moltiplica poi ulteriormente nei due mondi, quello fatato e quello
reale, portando così ad almeno quattro le condizioni di possibilità della
narrazione, le quali, a loro volta, contengono personaggi duplici o
che almeno si rispecchiano o illudono il lettore di un loro replicarsi.
È la piccola Sylvie, impalpabile e sublime bimbetta, che si riflette in
Muriel, la lady del mondo reale, figlia del Conte che risiede nel Palazzo
di Elveston, immaginaria cittadina a ridosso di un animato borgo di
pescatori; il piccolo Bruno, fratellino goffo e geniale di Sylvie, che
si trasmuta in Arthur, il futuro sposo di Muriel; il Palazzo del Conte
ed il Palazzo del mondo fatato, abitato dal Governatore e frequentato
dal Professore e dall’Altro Professore. Duplicità così attentamente
progettata – matematicamente prestabilita – da generare una
molteplicità di doppi fino ad un infinito di possibilità, come se i tasselli
del rompicapo narrativo fossero tutti uguali e perfettamente sostituibili
l’uno con l’altro, e soltanto mutassero i colori e le forme dei disegni
che portano, perfino sui due loro lati, in un sistema di compossibilità
inesauribile e sempre valido. In tal guisa, ogni istante del racconto è
intercambiabile con gran parte degli altri; molti capitoli possono così
essere letti prima di altri o in successione, perché rari appaiono i casi
in cui il dopo appare necessariamente succedere al prima e semmai
prevalgono gli eventi che non necessitano di storia, perché si pongono
esattamente – e pericolosamente – nell’esatto luogo che differenzia per
separazione l’al di qua e l’al di là, nello spazio della narrazione e nel
tempo del narratore.
Per questo, non appaino appropriate le così forti sottolineature
che Antonin Artaud, primo traduttore in francese del difficile testo
di Carroll, e Gilles Deleuze, nella sua Logique du sens, hanno voluto
attribuire alla fiaba di Sylvie e Bruno. Il primo, in una chiave tutta
psicoanalitica, ancorché del tutto implicita e data soltanto dal modello
seguito nella traduzione degli – apparenti – non sense di cui il libro
sarebbe addirittura imbottito – come imbottito di sensi molteplici è un
mot valise, orribilmente tradotto in italiano con parola baule. Il secondo,
costruendo nell’esempio della narrazione di Carroll una rappresentazione
di una logica del senso – o, forse, sarebbe meglio azzardare: un senso del
senso. Certo, la duplicità molteplice e che virtualmente sembra ripetersi
all’infinito, fino ad un fondo impossibile a destinarsi come possibile

66
Nel confine

del racconto del matematico di Oxford produce, come del resto anche
le sue altre e precedenti opere, un senso quasi di disagio, per questa
indecidibilità di ogni cosa la quale, sdoppiandosi, propone al lettore
una sempre ulteriore possibilità, allontanandolo ogni volta da ciò che
aveva creduto ormai sapere, come sfilandogli dalla tasca il portafoglio
delle certezze. Ma da questo a compiere il passo per cui il meccanismo
narrativo di Carroll sarebbe quasi una sorta di affresco della schizofrenia
corre troppa distanza, facendo confondere tra l’astuzia, l’ironia, il gioco
e la pervicacia di un disegno discorsivo volto a generare quello stesso
disagio. Scrive Deleuze:

Nulla di più fragile della superficie. L’organizzazione secondaria non


è forse essa stessa minacciata da un mostro tanto potente quanto il
Jabberwork52 – per un non senso informe e senza fondo, ben differente da
quelli che abbiamo visto precedentemente come due figure ancora inerenti
al senso? La minaccia, all’inizio, è impercettibile; ma bastano pochi passi
per accorgersi di una faglia che si ingrandisce, e che tutta l’organizzazione
della superficie è già scomparsa, basculata in un ordine primario terribile.
Il non senso non dà più senso, ha divorato ogni cosa. All’inizio credevamo
di rimanere nello stesso elemento, o in un elemento vicino. Ci si accorge
di avere cambiato elemento, che si è entrati in una tempesta. Credevamo
di essere ancora tra fanciulle e bambini, mentre si è già in una follia
irreversibile.53

È ciò che sembra accadere ad Artaud, nell’interpretazione che


Deleuze trae dall’esame delle lettere del poeta e drammaturgo,
nell’affrontare l’impresa della traduzione del Jabberwork, dopo essere
rimasto esausto e svuotato dal lungo lavorio che gli fu necessario per
restituire altre pagine di Carroll nella rigidità sintattica della lingua
francese. Nella lunga lettera che scrive a Henri Parisot dalla sua stanza
nel manicomio del dottor Gaston Ferdière, Artaud, ormai massacrato
da quasi dieci anni di elettroshock, sfoga la sua immensa rabbia contro
il matematico di Oxford, al mostro intraducibile che è la sua opera,
per ridurla così a burla, schernendola. Il compito di tradurre Carroll
è paradossale: Artaud non conosce quasi per nulla la sua opera e
nemmeno ha grande dimestichezza con la lingua inglese. Ad aiutarlo
in questo compito – compito nel senso scolastico del termine, in
quanto proposto dal dottor Ferdière nel quadro della sua Art-thérapie
– è Henri Julien, cappellano del manicomio di Rodez, ove Artaud è

. Il mostro protagonista dell’omonimo poemetto non sense composto da Lewis Carroll


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nel 1871.
53. G. Deleuze, Logique du sens, Les Éditions de minuit, Paris 1969, p. 101.
67
Stefano Bevacqua

rinchiuso. Il compito che Ferdière assegna ad Artaud è la traduzione


di Alice attraverso lo specchio, in particolare il sesto capitolo, quello
dell’uomo-uovo, Humpty Dumpty, scritto in gran parte utilizzando il
sistema delle parola-valigia, formate dalla contrazione riassuntiva di
due o più termini. Ma non è questo il problema di Artaud, il quale, anzi, si
lancia in una scorribanda linguistica senza freni, reinventando un intero
dizionario di parole (im)possibili. Nel paradossale dialogo con Alice,
Humpty Dumpty afferma che “quando uso una parola, quella significa
ciò che voglio che significhi – né più e né meno”. Alice obietta che “la
questione è se lei può costringere le parole a significare così tante cose
diverse”, ma Humpty Dumpty taglia corto: “La questione è chi è che
comanda – ecco tutto”.54 La teoria linguistica – e la pratica, a giudicare
dal suo dire – di Humpty Dumpty assomiglia in maniera sorprendente
al linguaggio teatrale teorizzato da Artaud.55 In Le théâtre et son double,
infatti, Artaud teorizza l’allontanamento della rappresentazione dal suo
prodromo tradizionale, il testo – l’opera teatrale, può essere “spettata”
dallo spettatore, ma anche più semplicemente “letta” dal lettore, senza la
mediazione della “azione” dell’atto – per lasciare il campo allo spazio,
alla luce, ai movimenti, ai corpi, alla loro coniugata realtà suscettibile
di generare la magia di una presenza oltre il testo.

Qualsiasi pubblico popolare è ghiotto di espressioni dirette e di immagini;


e la parola articolata, le espressioni esplicite interverranno in tutte le parti
chiare e nettamente intellegibili dell’azione [...] ma, a fianco a questo
senso logico, le parole saranno prese in un senso incantatorio, veramente
magico, per la loro forma, le loro emanazioni sensibili, e non più soltanto
per il loro senso. [...] Non si tratta di sopprimere la parola articolata, ma di
dare alle parole l’importanza che hanno, più o meno, nei segni. Per il resto,
bisogna trovare dei nuovi mezzi di notazione di questo linguaggio, sia che
questi mezzi si apparentino alla trascrizione musicale, sia che si faccia uso
di un linguaggio cifrato.56

Ma è soltanto una somiglianza, forse un sotterfugio o una speranza,


un appiglio che permetta di attraversare il linguaggio del matematico
di Oxford, che potrebbe, invece, rivelarsi liscio, impenetrabile,
inattraversabile, che Artaud non potrebbe infine fare mai suo, sempre
soffrendo della provocazione che esso arma ad ogni riga, arrogante,
insinuante. Somiglianza, appunto: nient’altro. Perché il luogo dal quale

���.L. Carroll, Attraverso lo specchio, Garzanti, Milano 2001, p. 219.


. Vedere, a tal proposito, l’articolo di Livia Bidoli in Linguaggi a confronto: Alice
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tradotta da Artaud, in “Progetto Babele”, www.progettobabele.it.
���.A. Artaud, Le théâtre et sono double, Gallimard, Paris, 1964, pp. 193, 145.
68
Nel confine

si dipana l’intenzione di Artaud è quello di una destrutturazione del


linguaggio e della stessa parola che lo abita e lo giustifica formandolo,
mentre in Carroll è il semplice gioco, l’ironia e l’allegria, unite ad
una spesso malcelata funzione che si deve definire come desiderante.
Per questa sostanziale distanza, incommensurabile scissura tra due
presupposti lontani e incompatibili, accade così che, ritornando alla fine
del primo capitolo di Alice attraverso lo specchio, Artaud si scontri con
la (il)logica di Jabberwocky e arrivi a vomitare tutto il suo orrore ed
astio, non tanto contro la scrittura di Carroll, quanto contro il fatto che
non può penetrarla, capirla, forse nemmeno leggerla, perché è liscia – è
forse come la superficie delle pieghe barocche che generano il labirinto,
priva di appigli.

Non ho tradotto Jabberwocky. Ho provato a tradurne un frammento,


ma la cosa mi ha annoiato. Questo poema non mi è mai piaciuto, mi è
sempre parso di un infantilismo affettato. Non amo i poemi o i linguaggi
di superficie e che respirano di felici divertimenti e di riuscite intellettuali,
che ti si appoggiano al culo, ma senza metterci né anima né cuore.
[...] Jabberwocky è l’opera di un approfittatore che ha voluto pascersi
intellettualmente, lui, pasciuto da un pasto ben servito, pascersi dell’altrui
dolore... Quando si scava nella cacca dell’essere e del suo linguaggio,
occorre che il poema puzzi, e Jabberwocky è un poemetto che l’autore si è
ben guardato di conservare nell’essere uterino della sofferenza, dove ogni
grande poeta ha inzuppato e dove, partorendo, sente la puzza.57

Astio patologico, quello del poeta del Théâtre de la cruauté, che


quasi fa trasalire, per l’evidenza di un odio che non può languire, che
deve esplodere, generarsi come insulto e oltraggio, non lesinando quelle
volgarità che possano insistere, sottolineare, focalizzare il sentimento
d’odio verso Dodgson ed i suoi travestimenti, linguistici, letterari,
sintattici. Il tutto reso paradossale dal fatto di conoscere assai poco la
lingua inglese. Ed ecco che tutto diviene come una folle corsa, contro
il muro dell’incomprensibilità, contro l’impossibilità di superare la
sfericità glabra di parole che si contraddicono prima di essere poste
sintatticamente nelle frasi e che, paradossalmente, proprio nella frase
trovano il loro senso – che non è lettura, ma soltanto possibilità. È orrore
per la superficie, quella liscia, sulla quale nulla si applica. Si scivola,
sulla superficie, fino al rischio estremo, quello di oltrepassare il margine
che separa il qua ed il là senza nemmeno averne l’esatta percezione,
confine oltre il quale si impone il vortice dell’abisso che tutto abbraccia.
���.A. Artaud, Lettres de Rodez, in Oeuvres complètes, Tome VIII, Gallimard, Paris 1971,
p. 121
69
Stefano Bevacqua

Niente passeggiate sui bordi, per Artaud, niente luogo ai margini, nei
pressi, né di qua né di là, niente agibilità terza. Artaud eredita, nella
sua malattia amplificata da una psichiatria da macello, l’idea che non
possa esistere alcuna terzietà in cui dimorare: sani o folli, e basta, per
Artaud, e tanto vale infatti anche per il linguaggio, che non può e non
deve essere allusivo, perché se la parola smette di avere anche un senso
è per perderlo, non per acquisirne una molteplicità nell’equivocità
dell’allusione. Artaud non può tradurre Jabberwocky perché non può
leggere l’equivocità della superficie. Scrive Deleuze:

In Sylvie e Bruno, la tecnica del passaggio dal reale al sogno, e dal corpo
all’incorporeo, è moltiplicata, completamente rinnovata, portata alla
perfezione. Ma è sempre costeggiando la superficie, il confine, che si
passa dall’altra parte, attraverso ed in virtù di una spira. La continuità del
rovescio e del diritto sostituisce ogni riferimento della profondità; e gli
effetti di superficie in un solo e medesimo Evento, che vale per tutti gli
eventi fanno emergere nel linguaggio tutto il divenire e i suoi paradossi.
Come dice Lewis Carroll in un articolo intitolato The dynamics of parti-
cle, “Superficie piana è il carattere di un discorso...”.58

Superficie piana del discorso, dice Deleuze, dimenticando –


volutamente? – di sottolineare l’elemento temporale che entra
prepotentemente in gioco, perché quel rivoltarsi delle cose e dei
personaggi e della narrazione, nella sua complessità ed articolazione,
pretende imperativamente di svolgersi nel tempo che le è proprio. Non
esiste alcuno spazio narrativo che possa prescindere dal tempo necessario
alla lettura – ed alla scrittura che ne è controparte e presupposto – nel
senso che è il tempo nel quale avvengono gli avvenimenti che si leggono
dalla scrittura che costituisce lo sfondo di ogni narrazione. Si dice: c’era
una volta, non perché sia una banale fiaba, ma per collocare nel tempo
un evento o una successione di eventi. Si dovrebbe sempre dire: c’era
una volta, sarebbe del tutto educato e prevedibilmente adeguato. Ma
il matematico di Oxford non lo fa e mette in difficoltà anche Deleuze,
prima di avere chiuso nell’angolo dell’angoscia più profonda Artaud,
negandogli ogni possibilità di appiglio, ogni possibilità di comprensione
attraverso il superamento e la negazione del – di un – senso, offrendogli
invece la liscia superficie, priva di possibilità di comprensione, costruita
dalla moltiplicazione degli indizi di senso in una stordente tempesta di
significati. Ed è proprio la sospensione del tempo che rende fatato il
meccanismo narrativo di Sylvie e Bruno – come fatato è il mondo nel
quale esso si applica. Un tempo dunque indecidibile, compreso tra i due
���.G. Deleuze, Logique du sens, cit., p. 21.
70
Nel confine

viaggi che Signor Signore compie a Elveston, in ciascuna delle due parti
in cui si separa la fiaba di Carroll.
Nulla o quasi viene svelato sul narratore, eppure senza di lui non
esisterebbe alcuna narrazione. Non è noto il suo nome: nessuno degli
altri personaggi mai lo nomina, come se fosse risaputo anche al lettore,
oppure non fosse necessario, perché egli è ognuno, è l’autore medesimo,
il matematico di Oxford. Soltanto il piccolo Bruno, il fratellino adorato
di Sylvie, lo chiama, appunto, Signor Signore.

“Giatinti?59”, disse Bruno. “Oh, ma quelli sono così carini! E le pietre non
lo sono per niente. Ti piacerebbero dei giatinti, Signor Signore?”. “Bruno!”,
mormorò Sylvie in tono di rimprovero. “Non devi dire Signore e Signore
insieme. Ricordati quello che ti ho detto!”. “Mi hai diciato che dovevo
dire quel Signore quando parlavo di lui, e Signore quando gli parlavo!”.
“Non stai facendo nessuna delle due cose”. “Ma sì che le sto facendo tutte
e due, Signorina Pignola!”, spiegò Bruno trionfante. “Vo-evo parlare del
Signore... e vo-evo parlare al Signore, per cui ho detto Signor Signore!”.
“Va bene così, Bruno”, dissi.60

Pochissime sono le altre informazioni che Carroll centellina tra


le pagine della fiaba. Afferma, il narratore, di essere in là negli anni,
ma si intuisce che non ha ancora raggiunto l’età del Conte, padre di
Muriel, né quella dell’omologo fatato Governatore, che si può ritenere
assai anziano – salvo avere due figli giovanissimi, Sylvie, che potrebbe
avere ragionevolmente otto o nove anni, ed il piccolo Bruno, il quale,
a giudicare dal linguaggio, non dovrebbe arrivare ai cinque anni. È
avvocato, un celebre avvocato londinese, il narratore; ma ciò viene
ammesso dopo moltissime pagine. Ha una lieve patologia cardiaca e si
reca a Elveston, presso l’amico Arthur, medico, proprio per chiedergli
consiglio ed un indirizzo sulle cure più opportune da seguire, ma di
questo malanno non si parla più lungo tutta la fiaba, rimane come àncora
realistica necessaria al dipanarsi delle prime mosse del Signor Signore,
su quel treno che da Londra lo sta portando verso l’amico dottore,
nel villaggio ove conoscerà il mondo incantato, prima attraverso la
semplicità del sogno, poi nell’enorme complicazione dell’impossibile
separazione tra il qua ed il là, tra la fantasticheria onirica e le durezze
della quotidiana realtà – afflitta anche dall’epidemia che uccide gran
parte dei pescatori del borgo. Ha un’età sicuramente più avanzata di
Arthur, l’amico fraterno che porterà Muriel all’altare in modo quasi
rocambolesco, che sarà poi dato per morto e che riemergerà nell’ultimo
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. Da intendere come giacinti.
���.L. Carroll, Sylvie, p.161.
71
Stefano Bevacqua

capitolo come miracolato dal destino – le fiabe devono avere sempre


un lieto fine; ma perché Carroll lo ha fatto morire cinquanta pagine
prima della fine della fiaba? per non dover più muovere i fili di un
Arthur troppo grigio, timido, perfino noioso, lasciando pieno spazio
all’esuberante figura omologa di Bruno? Senza età definita, il narratore,
che non è né vecchio né non ancora vecchio; senza un luogo che lo
collochi inequivocabilmente, ché il narratore è londinese, ma soltanto
in un capitolo, il primo della seconda parte, la città appare, ma quasi di
sfuggita, laconicamente, nella forma dei giardini di Kensington, ove fa
un incontro niente affatto straordinario: ritrova il piccolo Bruno – ma
nessuna meraviglia, il mondo fatato è totale e doppio, è sempre presente
anche nella sua assenza perché attiene alla possibilità; senza un vero
passato ed ancora meno un futuro immaginabile. Proprio a Londra,
recandosi presso il suo Club incontra Eric, il terzo incomodo che per
poche pagine allontana Muriel da Arthur, ma che si fa poi da parte in
ragione di una visione troppo atea del mondo per appagare il misticismo
di Muriel – donna fatata in un mondo reale. Era, quella dell’incontro
al Club, l’occasione perfetta per insinuare, senza impegno, un nome.
Invece, nulla. Il dialogo tra i due amici non promuove il narratore al rango
di personaggio completamente reale, in – ipotetiche – carne ed ossa, con
una vita ed una storia. Nessun nome, come ci si aspetterebbe soltanto
in una fiaba scritta in un paese lontano ed in un tempo che sia del tutto
revoluto, in uno luogo antico nel quale il nome delle cose e, soprattutto,
delle persone fosse un pericoloso segreto ed un geloso patrimonio.
Quasi il nome del narratore, se pronunciato, potesse divenire oggetto
di magia, come credevano molte popolazioni dell’antichità, convinte
che, così come si poteva modificare il destino di ogni persona agendo
su un qualsiasi oggetto di sua proprietà o pertinenza, da un sandalo ad
una freccia, da una coppa alla sua stessa casa, altrettanto fosse possibile
introducendo il nome di quella persona in adeguate recitazioni e ritualità
magiche. E non si è trattata di una tradizione locale o riservata soltanto a
popolazioni primitive: come ha ben mostrato Frazer, simile consuetudini
hanno attraversato il mondo dall’America settentrionale precolombiana
al Madagascar, dall’Oceano indiano all’Egitto, ed in epoche anche assai
lontane tra loro. Scrive Frazer: “Ogni egiziano aveva due nomi, il nome
vero e quello buono, o il nome grande e quello piccolo; e, mentre il
nome buono, o piccolo, era di pubblico domino, quello vero, o grande,
sembra fosse tenuto accuratamente nascosto”.61
La mitologia egizia raccoglie e riflette questa credenza, rendendola
financo elemento fondativo non soltanto della civiltà del Nilo, ma del
���.J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Editori, Roma 2006, p. 287.
72
Nel confine

mondo in quanto creato. Nel papiro 1993, conservato presso il Museo


Egizio di Torino, si narra di come la maga Iside, che mirava a ad
assegnare a suo figlio Horus il primato nel pantheon egizio, raccolse
un giorno la saliva che Ra, il potente dio che venne all’esistenza per
sé stesso, usava lasciar cadere dalla bocca per irrigare la terra dei
suoi sudditi. Mischiando saliva e terra Iside diede così forma ad un
serpente, il quale, subito animato, morse la carne del dio. Ra convoca
allora l’Enneade e lamenta gli atroci dolori che lo affliggono e la fine
che gli appare ormai vicina. Tra i parenti convenuti c’è anche Iside che
promette a Ra di guarirlo, a condizione che il dio le riveli il proprio
nome segreto. Ka tenta di resistere, ricorda ad Iside di essere il creatore
del cielo e della terra, il costruttore delle montagne, il controllore delle
inondazioni, Khepri al mattino, Ra a mezzogiorno, Atum alla sera. Ma
la maga non ha pietà e lo piega estorcendogli quella verità, il nome vero,
quello che da quel momento entrerà nel suo corpo facendo di lei una
nuova dea62.
Potenza inesauribile del nome che, superbamente, l’autore nasconde,
proprio lui, il matematico Charles Lutwidge Dodgson, che a sua volta
si dice Lewis Carroll, nome nascondiglio, come nascondiglio è quello
in cui sempre si rifugiano Sylvie e Bruno non appena il narratore,
lui, il Signor Signore, riprende il suo posto nel mondo reale. Gioco
di ammiccamenti e di negazioni, di detto e non detto ma mai negato,
di allusione mai confermata né mai smentita. Perfetto equilibrio nei
mutevoli spazio e tempo del luogo del confine tra i due mondi, luogo
abitato dal Signor Signore che non soltanto è il solo a disporre dello
straordinario potere di poter vedere, parlare, ascoltare ed essere visto
o non visto in entrambi i mondi, ma che è perfino capace di unirli,
mischiarli ed equivocarli, facendo così perdere le tracce del senso
non attraverso una sua degenerazione ma piuttosto per proliferazione
– proprio ciò che spingeva Artaud al più radicale rifiuto della pagine
del dotto matematico di Oxford. Carroll non è Ra. In cambio della
propria salvezza, il dio egizio deve cedere l’immane potere contenuto
nel proprio nome all’avida Iside, che vuole così porre su un piedistallo
Horus, il figlio prediletto, e, insieme, vendicare l’uccisione di Osiride,
suo fratello e suo sposo poi rinato. Ra genera una dea – che poi avrà
molta fortuna, dea delle messi e del pane, della fertilità e della nascita –
e rinuncia alla sua supremazia nell’Enneade. Il matematico di Oxford,
invece, non cede: il suo nome è celato dallo pseudonimo ed il suo
essere narratore scompare nell’anonimia del Signor Signore, lasciando
aperto l’equivoco, tra una indefinita appartenenza a questo ben concreto
62. Cfr. J.G. Frazer, cit. cap. XXII.
73
Stefano Bevacqua

mondo fatto dalla carta sul quale è stata stampata ogni copia di Sylvie e
Bruno e quell’altro mondo, quello fatato. Sempre in bilico tra la veglia
ed il sogno, tra una veglia continuamente imbevuta di magia ed un
sogno che sfida la realtà a farsi riconoscere differente. Accade così al
Signor Signore di attraversare il bosco e di incontrare nuovamente i due
Bambini Fatati per ripetere poi la stessa esperienza con Muriel e gli
altri ospiti del Conte. È il percorso a descrivere gli eventi, a risvegliare
ricordi e ad indurre nuovi eventi.

“Questa radura”, mi dissi, “sembra risvegliare dei ricordi che non riesco a
rammentare distintamente... ma certo! È proprio il punto dove incontrai i
Bambini Fatati!”. “Speriamo che non ci siano in giro serpenti!”, pensai ad
alta voce, sedendomi su un tronco caduto. “I serpenti non mi piacciono di
certo... e credo che non piacciano neanche a Bruno”. “No, non gli piacciono
affatto”, disse una timida vocina al mio fianco. “Non ha paura di loro, sa,
ma non gli piacciono. Dice che sono troppo dinoccolati”. [...] “Troppo
dinoccolati?”, fu tutto quello che riuscii a dire in un momento simile. “Non
sono un pignolo”, disse Bruno con noncuranza, “ma preferisco gli animali
dritti”.63

Il serpentello ricompare nel capitolo successivo, anche in quel caso


come semplice evocazione, ma tra persone niente affatto fatate.

“Non gli piacciono i serpenti!”, disse [Muriel riferendosi al padre, nda] con
un bisbiglio teatrale. “Non vi sembra un’avversione ingiustificata? Come
si fa a non amare delle creature così care, affezionate, che ti costringono,
ti si aggrappano, come i serpenti?”. “Non amare i serpenti!”, esclamai io.
“Ma come è possibile?”. “No, lui non li ama”, ripeté con una graziosa
finta serietà. “Non che abbia paura di loro, ma non gli piacciono. Dice che
sono troppo dinoccolati!”. Rimasi più sorpreso di quanto dessi a vedere.
C’era qualcosa di così soprannaturale in questa eco delle parole udite tanto
recentemente dalla bocca di quello spiritello della foresta.64

Il sentiero porta nel bosco ove dimorano i Bambini Fatati, ma porta


anche al Palazzo, abitato dal Conte e da Muriel. È il sentiero a condurre
il Signor Signore e, insieme, a condurre il gioco degli sbalzi tra il mondo
reale e quello fatato, lasciandolo sempre troppo oltre il limite perché sia
un modo davvero reale e mai troppo oltre da farlo sprofondare nell’oblio
di un sogno troppo profondo. Solo alla fine della fiaba la cesura appare
e si instaura, ma non è un troppo in là, bensì un deciso e definitivo tutto
al di qua. Ma è la fine, l’ultimo tratto del percorso. Prima di giungervi,
���.L. Carroll, Sylvie, cit., pp. 122-123.
64. Ivi, p. 132.
74
Nel confine

il Signor Signore guida il lettore lungo innumerevoli sentieri, corse


laterali che poi si ricongiungono, ripide discese che si concludono in
un riemergere al mondo, impervi poemetti che sciolgono il senso in
ulteriori infinite possibilità – ci si scioglie nel labirinto. Prima, occorre
esplorare il mondo fatato, scoprire i suoi loghi ed i personaggi che li
abitano; soprattutto occorre potersi dondolare da un mondo all’altro,
sovrapponendoli e mischiandoli, avvistando qualche elemento dell’uno
dimorare nell’altro, ovvero un personaggio di questi che ricompare nel
primo. Per ben cinque volte i Bambini Fatati fanno la loro comparsa nel
mono reale. La prima occasione è data dal fortuito incontro di Sylvie e
di Bruno con Eric Lindon, il terzo incomodo, lontano cugino di Muriel.

“Potrei disturbarla, Signore, per chiederle qual è la strada più breve per
l’Ultra-Paese?”. Nonostante la bizzarria delle apparenze, in virtù di quella
natura essenziale che nessun travestimento esterno può celare, il Professore
era un vero gentiluomo. E come tale, Eric Lindon lo accettò all’istante. Si
tolse il sigaro di bocca e delicatamente scrollò la cenere, meditabondo: “Il
nome mi rimane nuovo”, disse. “Dubito di potervi aiutare”. [...] Ormai ero
convinto che Eric Lindon non fosse cosciente della mia presenza. Anche
il Professore e i bambini sembrava mi avessero perso di vista; così rimasi
in mezzo al gruppo insospettato, come uno spettro, vedendo senza essere
veduto. [...] Lasciato a me stesso, sentii la solita sensazione “magica”
scorrermi nelle vene e vidi, davanti alla porta Numero Venti, le tre note
figure. “Allora è sbagliata la casa?”, diceva Bruno. “No no; la casa è
giusta”, replicò allegramente il Professore. “Ma è la strada che è sbagliata.
È questo lo sbaglio che abbiamo fatto! Il piano migliore, adesso, è di...”.
Finito. La strada era vuota. La banale vita mi circondava di nuovo, e la
sensazione “magica” era fuggita via.65

Il Signor Signore impara così a lasciarsi cullare da questo strano


e duplice mondo; impara a conoscere i Flizz, piccole magie che i
Bambini Fatati si divertono a confezionare per allestire le loro scenette,
come quella della governante che accompagna fuori dalla stazione la
piccola bimba claudicante. È quando il Signor Signore impara che
cosa significa agire prima di pensare di agire e di dover agire, così che
prende in braccio la piccola sfortunata bambina per fargli percorrere
più comodamente la scala che porta al di fuori della stazione: come in
uno stato di semi-incoscienza, il Signor Signore si vede agire, come se
si spiasse da dietro le sue proprie spalle, e poi continuare a trattenere
tra le braccia la bimba, che gli si stringe al collo con un tocco soltanto
più lieve in risposta alla governante che, ringraziandolo, lo avverte che
ora la piccola può camminare da sola, che la scala è terminata, ma lui la
65. Ivi, pp. 142-143.
75
Stefano Bevacqua

trattiene e gradualmente la scopre, scopre che è Sylvie, mentre il piccolo


Bruno, gli salta intorno travestito da mendicantello e offrendogli un
mazzo di fiori splendidi. Gli stessi che il Signor Signore offre al Conte
ed alla sua figliola presentandosi, in compagnia dei Bambini Fatati al
canonico tè delle cinque. Fiori esotici, che il Conte subito apprezza,
lui che è un esperto di botanica. Vengono dalle Indie e da altri luoghi
lontani, rilucenti, perfetti, come appena colti; e appartengono ad una
specie che subito appassisce, impossibile che possano resistere ad un
così lungo viaggio, per quelle interminabili settimane necessarie a
riunire le colone alla Gran Bretagna. Non se ne capacità, il Conte, non
comprende come ciò sia stato possibile.

“Così non va bene neanche pe niente!”, disse Bruno che ci aspettava in


giardino. “Perché?”, dissi io. “Lo sai che ho dovuto dare quei fiori per farlo
smettere con le domande”. “Sì, non era possibile fare altrimenti”, disse
Sylvie. “Ma rimarranno delusi, quando scopriranno che sono spariti”. “E
come faranno a sparire?”. “Come, non so. Ma spariranno. Quel mazzetto
era soltanto un Flizz, capisci? Lo aveva fatto Bruno”.66

Un Flizz è cosa che è e al tempo stesso non è; rompicapo che nessuna


metafisica potrebbe mai risolvere, a meno di raccogliere quel brandello
di possibilità che risiede in quel necessario “al tempo stesso”. Il tempo
offre la possibilità di accomodarsi subito alle spalle del principio di
non contraddizione, senza per questo dover imboccare la strada di
Artaud, quella del distacco da ogni possibilità materiale per rifugiarsi
in un altro mondo – che si rivela sempre identico al primo, generando
così l’orrore dell’angoscia. È possibile accomodarsi in una condizione
che appare impossibile grazie non tanto all’irrazionalità dell’onirica
vicenda riferita dal Signor Signore, quanto perché egli stesso si colloca
in un luogo anomalo, non definibile con le categorie della continuità
e della differenza, perché è dentro la differenza, non oltre, bensì nelle
sue viscere, come nel labirinto che porta in sé tutte le sue necessità – il
centro da raggiungere, il fuori da cui si proviene, l’altro fuori, verso il
quale si deve andare per non essere inghiottiti dal (Minotauro) centro.
La posizione del luogo muta nel tempo e si ridefinisce in ogni istante.
Il tempo di dire che ciò che si è detto che è non è e subito appare
necessario aggiungere “più”. Perché qualche cosa induce ad ammettere
la permanenza delle cose soltanto nella parentesi temporale della loro
cognizione e si fatica non poco ad inoltrarsi verso la considerazione di
un essere che travalichi il dato empirico, il percepito, oppure lo stesso
immaginato – a condizione della sua immaginabilità, che pretende
66. Ivi, p. 154.
76
Nel confine

sempre anche una certa conoscenza preliminare o, quanto meno, la sua


possibilità. E non appena si tenti di compiere qualche passo in avanti
in una simile direzione subito si viene proiettati verso un ritorno o
un’avanzata: ritorno a Parmenide, alla fondazione della certezza che
ciò che è non è possibile che non sia e che ciò che non è è necessario
che non sia; avanzata lungo un percorso nel quale sia azzerata ogni
presupposizione e ogni condizione, per lasciare campo libero alla sola
esperienza della concezione dell’essere a prescindere dall’ente che
ne dimostra la necessità. In entrambi i casi, almeno a prima vista, si
direbbe che ci si stia allontanando vertiginosamente dalla fiaba del
matematico di Oxford, come in un salto improvviso, attraverso il quale
si entra in una dimensione di pensiero radicalmente diversa. Oppure,
è proprio nella riflessione sulle ironie e i giochi di parole di Carroll
che si riescono a intravedere risposte diverse a interrogativi millenari.
Risposte, non soluzioni. Le soluzioni sono degli enigmi e dei problemi,
i quali, nella loro medesima formulazione già pretendono e prevedono
il percorso della soluzione stessa: la soluzione risiede nel problema e,
come tale, è soltanto l’apertura alla leggibilità di un elemento che già si
pone alla percezione, ma che non è dato di conoscere immediatamente.
Questione di conoscenza e del tempo ad essa necessario, dunque. Altra
cosa sono le risposte. Esse non sono già contenute negli interrogativi.
Esse sono il tentativo di bilanciare il peso opprimente dell’interrogativo
generandone altri. Le risposte, in ultima istanza, sono a loro volta
interrogativi, che si impongono in termini ed in una scala diversa da
quella in cui si colloca l’interrogativo precedente, ma che in questo
replicamento – ancora pieghe che si moltiplicano a partire da una
medesima superficie – si aprono ad ulteriori ed infinite risposte.
Il Signor Signore abita il luogo che abbraccia entrambi i lembi della
differenza, del confine, spingendosi al di qua e al di là in maniera e
misura variabile nel tempo, in modo incostante, imprevedibile,
indecidibile, riferibile soltanto a posteriori, quando è tutto già accaduto,
quando si esce dalle pieghe e si richiude il libro, ricordando i Flizz di
Bruno e gli imbarazzi che essi creano nel mondo normale. Il quinto ed
ultimo incontro che i Bambini Fatati hanno con l’al di qua, avviene al
Palazzo, che non è affatto l’analogo del Palazzo del Governatore, così
come questi non è l’analogo del Conte. Nessun analogos, che suona
come ciò che appare uguale al computo, alla verifica, all’osservazione,
ma piuttosto un symbolon, inteso come il riconoscimento racchiuso nel
pezzo del vaso di terracotta al quale può corrispondere soltanto un altro
pezzo, anello che permette di ricongiungere ciò che temporaneamente
deve separarsi, come tessera hospitalitatis, segno di possibile riunione.

77
Stefano Bevacqua

Riunione che avviene anche per i Bambini Fatati proprio con i loro
omologhi, Muriel e Arthur, nei salotti del Palazzo, quando Sylvie fa
comparire tra gli spartiti pronti per essere suonati da Muriel una pagina
vergata di una musica anch’essa fatata. Muriel scivola dalla panchetta
per far posto a Sylvie; la piccola si schernisce, ha gli occhi gonfi di
lacrime per l’emozione, non vorrebbe, ma prende il sopravvento “la
grande dolcezza del suo carattere: capii che era decisa a dimenticare
sé stessa e a fare del suo meglio per compiacere Lady Muriel”67. Le
minuscole dita della piccola volano sui tasti con una leggerezza che
nessuno poteva aver mai conosciuto.

Il Conte Francese attraversò eccitatissimo la stanza esclamando: “Non


riesco a ricordare moi-même il nome di quest’aria così charmante. È
certamente da un’opera, eppure neanche l’opera mi ricorderà il nome.
Come l’appelli, bambina mia?”. Sylvie lo guardò con viso estatico. Aveva
smesso di suonare, ma le dita vagavano ancora frementi sui tasti. Ormai
paura e timidezza erano sparite e restava solo la pura gioia della musica
che aveva fatto vibrare i nostri cuori. “Il titolo!”, ripeté impaziente il Conte
Francese. “Come appelli tu l’opera?”. “Non lo so che cos’è un’opera”,
bisbigliò a mezza voce Sylvie. “Allora, come appelli tu l’aria?”. “Non ne
conosco il nome!”, rispose Sylvie alzandosi dallo strumento.68

Sylvie si allontana, Bruno si eclissa. Rimane Mein Herr, tra gli altri
convitati; lui, oscuro personaggio omologo del Professore che abita nel
mondo incantato, era assorto in un interminabile dialogo con Bruno, a
proposito dello straordinario paese ove egli ha viaggiato. Mein Herr,
Mio Signore senza il nome che dica quale Signore egli sia, come un
nome e cognome cancellati dal duplice esortativo-appellativo che si
conclude in sé stesso, viene dal paese in cui ha viaggiato, che potrebbe
essere vicino o lontano; le cose fantastiche di cui racconta non sono
accadute in un luogo che si possa ritrovare e riconoscere, sono cose
che avvengono nel paese che egli viaggia, che si situa al di là di questo
luogo che è già abitato tanto da un di qua, quanto da un al di là; è
un ulteriore luogo, misterioso, come una propaggine di differenza che
si propaga nel mondo reale. Mein Herr, dotato di una grande chioma
bianca che si chiude su una barba fluente e che circonda due enormi
occhi fiammeggianti, non potrebbe dunque che riferire eventi e cose
differenti da quelle che si possono anche soltanto immaginare; eventi
di un altro mondo, che qui aleggiano tra le distinte dame e gentiluomini
convenuti a Palazzo con la più assoluta naturalezza. Come se un
67. Ivi, p. 294.
68. Ivi, p. 295.
78
Nel confine

anziano Professore che chiede ove possa mai essere l’Ultra-Paese


dovesse per forza essere considerato, come dice Eric, “un po’ suonato”,
mentre questo suo omologo, soltanto per il fatto di essere cittadino di
questo mondo – presunto – reale, avesse, altrettanto per forza, la piena
concessione di descrivere mappe catastali in scala uno a uno, perfette,
ma difficili da consultare e detestate dai contadini perché coprono i
loro campi rendendoli infertili, piuttosto che bastoni da passeggio tanto
perfetti che ormai passeggiano da soli, oppure di pianeti così piccoli che
quando si era combattuta una grande battaglia, l’esercito sconfitto corse
volgendo le spalle al nemico, ma, a sua volta, se lo ritrovò subito di
terga e così il vincitore, convinto di essere preso tra due fuochi, subito si
arrese, per cui il vincitore divenne vinto ed il vinto vincitore. Mein Herr
non cessa di raccontare, lasciando ammirati i suoi ascoltatori, e non si
avvede che ha perso il più curioso ed attento di essi, il piccolo Bruno, il
quale può essere e non essere – presente – a suo personale gradimento
in funzione dell’ora o del domani, del tempo che scorre con le lancette
dello speciale orologio che si addice al mondo fatato, perché Mein Herr
è di qua, non di là, non occupa il luogo che congiunge le possibilità;
egli, nonostante gli eventi paradossali che riferisce di aver conosciuto
nel mondo che ha viaggiato, non può seguire Bruno nelle peripezie che
compie in compagnia della sorella, nel loro giocare su due mondi. “Non
ho capito bene che cosa ha detto”, borbotta Mein Herr, constatando che
il piccolo Bruno non è più al suo fianco, a polemizzare su ogni cosa.
Spariti: li cercano ovunque, nel giardino e nelle stanze del Palazzo.
Muriel chiede aiuto alla governante, che porta nel salotto i graziosi abiti
dei piccoli, ma loro ancora si negano e così vengono lasciati in buon
ordine su un divano, pronti ad essere indossati dai Bambini Fatati non
appena fossero ricomparsi. Anche i vestiti scompaiono nel nulla. Stessa
sorte alla partitura misteriosa e fatata, mai prima udita da alcuno, sulla
quale Sylvie aveva potuto librare la sua melodia.
Un epilogo, questo del quinto ed ultimo incontro tra il mondo reale
ed il mondo fatato, non dissimile da quelli delle altre occasioni nelle
quali Sylvie e Bruno appaiono agli occhi delle persone che popolano
il mondo normale come una splendida coppia di bimbi, affettuosi e
simpatici, educati ed allegri. Dopo il primo incontro, quello con Eric
Lindon, ve ne sono altri, nei quali i Bambini Fatati compaiono quasi
dal nulla per poi sparire misteriosamente, lasciando dietro loro sempre
un’ombra di dubbio, come di qualche cosa di non esattamente percepito,
forse perché collocato di scarto, non direttamente di fronte alla capacità
di comprendere, ma come di lato, un poco oltre senza essere dopo,
come se i due piccoli universi, quello di Elveston e quello dell’Ultra-

79
Stefano Bevacqua

Paese, riuniti, fossero alloggiati su una superficie ondulata, dispiegata


e ripiegata, come nelle pieghe raccontate da Deleuze. Non è forse un
caso che sia Leibniz sia Dodgson fossero matematici prima che filosofo,
Leibniz, e scrittore, il secondo, con in comune una sorta di teorema della
superficie complessa delle cose, che Dodgson arriva a presentare come
simpatica forma di diletto fanciullesco. È Mein Herr a darne esperienza,
proponendo a Muriel il gioco della borsa di Fortunatus.

“Per prima cosa”, disse Mein Herr, impossessandosi di due fazzoletti che
mise uno sull’altro, dispiegati, sollevandoli poi per i due pizzi, “per prima
cosa bisogna unire questi angoli superiori, il destro con il destro, il sinistro
con il sinistro, e l’apertura in mezzo sarà la bocca del borsellino”. [...]
“Ne rovesci uno, e ne unisca l’angolo inferiore destro con quello inferiore
sinistro dell’altro, e cucia insieme i lati inferiori in quella che si potrebbe
chiamare la maniera sbagliata”. [...] “Il contorno dell’apertura è formato
dai quattro bordi dei fazzoletti e può seguire ininterrottamente il tracciato
tutt’intorno all’apertura, giù per il lato destro di un fazzoletto, su per il
lato sinistro dell’altro, e poi giù per il lato sinistro dell’uno e su per il lato
destro dell’altro!”. [...] “Ho capito”, interruppe con foga Lady Muriel, “la
sua superficie esterna sarà in continuità con quella interna!”. [...] “Ogni
cosa [dice Mein Herr, nda] che è dentro la borsa è anche fuori, e tutto ciò
che è fuori è dentro. Così in quella piccola borsa avrà tutta la ricchezza del
mondo!”.69

Anche il tempo, e non soltanto lo spazio dei fazzoletti dispiegati


e ripiegati, in questo Ultra-Paese, è suscettibile, a sua volta, di
subire un analoga elaborazione, di ripiegamento e dispiegamento, di
differenziazione, per separazione, e di ripetizione. L’idea leibniziana
ripresa e amplificata da Deleuze di un mondo barocco e di forma, per
così dire: frattale, il mondo delle pieghe, contempla, infatti, la differenza,
intesa come luogo che insiste tra una piega e l’altra. Differenza il cui
statuto deriva soltanto dal rapporto tra le pieghe medesime e che in
quanto tale, in quanto, appunto, differenza non sembra avere diritto di
cittadinanza alcuno, perché generata dalla sola giustapposizione di due
elementi contigui. Eppure, proprio la differenza riesce ad assumere uno
statuto proprio che costituisce un livello ulteriore, per il fatto che le
pieghe medesime, a loro volta, sono tali in quanto è la differenza che le
mette in evidenza. Si instaura così un meccanismo di tipo circolare: le
pieghe della superficie altrimenti monotona – nel senso di monocromatica
e monodirezionale al tempo stesso – generano la differenza, ma esse
stesse pieghe possono essere percepite e quindi istituite soltanto

69. Ivi, pp. 260-261.


80
Nel confine

attraverso la differenza che hanno generato. D’altra parte, pur avendo


ogni piega un’identità propria, esse sono tutte simili e la loro unicità
viene ripetuta il numero interminabile di volte necessario a generare una
serie che sia significativa di un luogo differente da quello adiacente. Si
è dunque di fronte ad una serie di circolarità: singole pieghe ripetono
il loro piegarsi rendendo percepibile la differenza tra ciascuna di esse
e quella contigua e rendendo quindi percepibile e per questo reale la
loro correlazione. Serie ripetute di pieghe ripetute generano differenze
di grado ulteriore, che a loro volta si instaurano come reali perché
percepibili. La differenza appare dunque necessariamente correlata alla
ripetizione, l’una necessita dell’altra ed entrambe si generano attraverso
il movimento delle pieghe, le quali non sarebbero che una semplice
superficie nemmeno percepibile, tanto è omogenea e monocorde, senza
l’emergere delle ripetitive differenze – oppure: differenziate ripetizioni
– che esse stesse generano. L’idea leibniziana e deleuziana si ferma qui,
alla superficie ed alla sue declinazioni spaziali, fino alla generazione di
luoghi che certamente mutano nel tempo, ma senza avere essi medesimi
una natura temporale. Ci vuole Dodgson, il matematico di Oxford, per
colmare questa lacuna, per compiere il passo decisivo ed allargare alla
pura temporalità l’idea di ripiegamento che nella ripetizione genera
la differenza. Il professore che dimora nell’Ultra-Paese dispone dello
strumento necessario al compimento di questo prodigio.

“Questo”, cominciò, “è un orologio Ultrista...”. “Non stento a crederlo”.


“...ha la peculiare caratteristica che, invece di andare col tempo, è il
tempo che va con lui. Mi comprende adesso?”. “Non proprio”, dissi.
“Mi permetta di spiegarle. Finché lo si lascia fare, segue il suo corso. Il
tempo non ha nessun effetto su di lui”. “Li conosco questi orologi”, dissi.
“Cammina, naturalmente, nel modo solito. Soltanto che il tempo cammina
con lui. Per cui, se muovo le lancette, cambio l’ora. Muoverle in avanti, nel
tempo, è impossibile, ma posso muoverle indietro quanto voglio... questa
è la sua limitazione. E così si possono ripetere gli eventi”. [...] “Davvero
straordinario!”, esclamai. “Ha un’altra proprietà ancora più straordinaria”,
disse il Professore. “Vede questo piccolo piolo? Questo è chiamato il Piolo
di Inversione. Se lo si spinge dentro, gli avvenimenti dell’ora successiva
accadono in ordine inverso”.70

Il Signor Signore fa qualche esperimento. Sposta indietro le lancette


di un quarto d’ora, e rivede Bruno accanto a lui, con le lacrime agli
occhi, tra le braccia di Sylvie, a lamentarsi perché l’ape lo ha punto su
un dito ed è pure cascato, colpa di quel piede che “si è messo in testa di

70. Ivi, pp. 162-163.


81
Stefano Bevacqua

scivolare. Ho scilolato giù per la sponda e ho inciapichiato sulla pietra


e la pietra mi ha fatto male al piede!”.71 Il Signor Signore fa quindi un
esperimento più complesso, ripetendo i quindici minuti che avevano
preceduto l’incidente in cui un ragazzo in bicicletta prende in pieno una
cassa posata imprudentemente sul ciglio della strada da un garzone che
stava scaricando un carro. Aggiusta l’orologio: la scena riprende, il Signor
Signore si precipita a spostare la cassa prima che il ragazzo in bicicletta
gli voli addosso, ed ora è salvo, fila via senza cadere, tutto a posto,
apparentemente, ma quando scade il quarto d’ora, ricompare la scena
reale: il ragazzo è in un bagno di sangue e viene caricato su un calesse
per correre dal medico. La scena può essere modificata nella ripetizione,
ma in una finzione; il tempo si ripete poi come era prima dell’intervento
dell’orologio, la differenza tra prima e dopo, generata dal ripiegamento
del tempo, permane intatta. Il ripiegamento temporale rende necessaria
la ripetizione che annulla la differenza soltanto per il tempo necessario
all’ulteriore ripetizione dell’originale che istituisce la nuova piega.
Tutto torna come prima, ma il tempo si è ripetuto nella differenza. Lo
stesso avviene quando il Signor Signore decide di sperimentare il Piolo
di Inversione. Si intrufola in un’abitazione abitata da persone mai viste
prima e vede ogni evento scorrere all’indietro, fino al momento assurdo
nel quale egli stesso esce dalla casa nella quale è come se non fosse
mai entrato. Ripetizione come in uno specchio, dunque, e differenza
generata dal ripiegamento temporale, ritorno al punto di partenza
attraverso un percorso mai effettivamente corso, per ritrovarsi dove si
era nel momento in cui la piega stava per essere generata dalla bizzarria
del Perno dell’orologio del Professore dell’Ultra-Mondo. Ripetizioni
temporali che si affiancano a quelle che continuamente riemergono
lungo tutta la fiaba di Carroll, come ripetizioni di luoghi e persone, di
eventi e di attese. E che si concludono con la soltanto apparente caduta
del velo che separa il mondo incantato dal mondo reale. Passeggiando
con Muriel lungo il sentiero che dal Palazzo taglia attraverso il bosco
in direzione del proprio alloggio, il Signor Signore si confida e racconta
di quella sua lunga e straordinaria avventura nel mondo fatato. Muriel
ammette: anche lei crede nelle fate. Ripetizione della domanda che in
precedenza lei aveva fatto a lui, ottenendo l’evasiva risposta di una
considerazione legata alla possibilità di esistenza di tutto ciò che non
sia dato necessariamente come non esistente. Ora è lei a rispondere con
la concretezza dell’udire la voce di Sylvie che canta tra i fili d’erba ed i
fuori. Insieme, li vedono, Sylvie e Bruno cantare e saltellare nel bosco.
Li seguono per qualche passo. Essi non si avvedono di essere osservati
71. Ivi, p. 160.
82
Nel confine

da Muriel e dal suo accompagnatore, vanno avanti nelle loro allegre


strofe. Muriel ed il Signor Signore si rendono conto che Sylvie e Bruno
non possono più vederli.

“Inutile tentare di fermarli”, dissi, mentre entravamo in una zona d’ombra.


“Non possono neanche vederci”. “Inutile”, fece eco Lady Muriel con un
sospiro. “Mi piacerebbe rivederli nelle loro sembianze umane! Ma sento
che questo non accadrà più. Sono scivolati fuori dalla nostra vita”.72

Il gioco delle sovrapposizioni tra mondo fatato e mondo reale, tra


Sylvie e Muriel, Bruno e Arthur, il Professore e l’Altro Professore e
Mein Herr, tra due padri, l’uno di Sylvie, il Governatore, e l’altro di
Muriel, il Conte, che vivono nei due Palazzi, ha termine; il moltiplicarsi
delle pieghe del senso si arresta.

72. Ivi, p. 358.


83
SECONDA VARIAZIONE

ERACLE
Linee d’acqua e confini ideali

Il mare Adriatico è un mare chiuso in un mare chiuso, ché chiuso è


anche il Mediterraneo. Quasi, non sono due mari, se non fosse per un
canale, quello d’Otranto, una manciata di miglia, quaranta soltanto, nel
punto più tenue, per il primo, e per lo stretto di Gibilterra, ancora più
sottile, meno di otto miglia, che sembra l’imbocco attraverso il quale
l’Oceano soffia la sua acqua per tenere in vita questa sua propaggine, per
il secondo. L’Adriatico, poi, si moltiplica in golfi, lagune, canali e baie,
successione di spazi che tendono a farsi sempre più minuti e così sempre
meno determinati. Perché è chiaro che cosa sia e dove sia l’Adriatico, e
meno evidente forse appare quale sia materialmente il golfo di Venezia,
dove inizi e finisca. L’Adriatico, un confine lo possiede. Gliene basta
uno soltanto, per delimitarsi, per descriversi, proprio perché è quasi un
mare chiuso. Il canale d’Otranto, s’è detto, è questo il confine. Per la
migliore precisione, il confine che separa l’Adriatico dall’unico altro
mare cui sia correlato, lo Ionio, è costituito da una linea ideale che
congiunge Punta Palascìa, in Puglia, con Kepi i Gjuhezes, in italiano:
Capo Linguetta, in Albania. Punta Palascìa, detta anche Capo d’Otranto,
ha la particolarità di essere il punto più orientale d’Italia, nel territorio
comunale di Otranto, a 40°7’ di latitudine Nord e 18°31’ di longitudine
Est. Capo Linguetta è a 40°25’N e 19°17’E. Ad unirli è la linea più corta
che si possa tracciare su una mappa ideale, che metta in piano la Terra,
riproiettandola in sole due dimensioni, rinunciando alla terza, quella
che la rende un solido e non quella distorta fantasia di mammelloni che
si offrono alla vista di qualsiasi mappa planetaria che tenti di rispettare
le reali proporzioni tra i continenti. Linea di confine sicura, dunque,
ineccepibilmente fissata e assolutamente monodimensionale, per colpa
della mappa, che scaccia il ronzio della percezione errata di una sfera
schiacciata in un piano, e per volontà della precisione del geografo, che
eredita da Euclide la perfezione di un concetto, la linea, e la mette in
pratica, sulla mappa. Nessuno spessore, nessuna terra di nessuno, niente
tra qua e là. Linea secca, perfettamente definita. Ma inconoscibile, se
non attraverso la matita che la traccia sulla mappa, la fantasia che la
Stefano Bevacqua

proietta sul mare diritto davanti a sé, ritti in piedi a contemplare le acque
di Otranto, dal punto di massima visibilità, dal Faro della Palascìa,
cercando la vista della costa albanese, vista impossibile, ché la Terra è
tonda e quelle 40 miglia sono troppe perché l’altro lato del mare possa
lasciare qualche segno nello sguardo. Quel confine può essere soltanto
immaginato: nessuna imbarcazione che attraversi quel braccio di mare,
come accade centinaia di volte ogni giorno, si accorgerebbe mai di
averlo valicato, di avere cambiato mare, di essere passati dallo Ionio
su per l’Adriatico, ovvero di essere scesi giù, verso un avanzo d’Italia
e l’improvviso pullulare delle isole e delle propaggini crostose della
Grecia, al di là del margine, in un mondo che si allontana dalla penisola
italica e si allarga in un mare più aperto, tanto aperto da confondersi con
il più vasto contenitore del Mediterraneo.
Lo Ionio è meno definito, si fatica ad assumerne la posizione, a
individuarlo con precisione. Verso il Nord, si è appena visto, il confine
è netto: la linea da Capo Palascìa a Kepi i Gjuhezes, 40 miglia tonde
in direzione Nord-Est, con un orientamento di circa 61° rispetto alla
latitudine. Ma verso Sud lo Ionio sembra rinunciare ad avere un bordo,
un limite che ne assicuri l’identità, che permetta di dire al navigante
ove si trovi e al mare di imporre la sua volontà. Una linea, c’è, ma
è più difficile da immaginare. Essa congiunge, sempre idealmente,
si intende, oppure sulla solita mappa che schiaccia la sfera in una
lamina bidimensionale, Capo Passero, in Sicilia, ad Elafonisi, a
Creta, 416 miglia lontano, verso Oriente, secondo una direzione quasi
perfettamente ortogonale alla latitudine. Una retta che taglia un arco
di mare Mediterraneo ampio più di un quinto dell’intero suo sviluppo
dall’Ovest all’Est. Un taglio netto nel cuore del grande mare, quasi
nel suo baricentro, e che divide l’indivisibile; pura astrazione che
vede soltanto la superficie delle acque dimenticando che sotto quella
linea c’è la terza dimensione, quella che rende la Terra sferica, che in
qualche punto della linea può valere anche oltre cinque mila metri, per
una massa d’acqua enorme, che nessuna linea tracciata con righelli e
compassi potrebbe contenere – e nemmeno dire. Un mare, lo Ionio, che
sembra ribellarsi ad una sua descrizione, perché se al Nord dispone di
un rassicurante confine che quasi si potrebbe tracciare con lo sguardo,
al Sud sembra sciogliersi nella più grande madre che l’ha generato,
mentre sui lati deve ammettere altre due ferite, quella dello stretto di
Messina, nemmeno due miglia che lo collegano al Tirreno senza dover
aggirare la Sicilia, e quella di un’altra linea, anch’essa mal definita,
inquietante perché effimera, che unisce Capo Maléas, all’estremità
della più orientale delle propaggini del Peloponneso, con Gramvousa,

86
Nel confine

la penisola nell’estremo Nord-Occidente di Creta, per oltre 50 miglia di


mare. Linea difficile da leggere, questa, che non si piega all’evidenza
di essere la più breve che unisce il sovrastante Peloponneso con Creta,
ma che ingelosisce il vicino Egeo, che si vede così privato di Kythira
e Antikythira, due isole che sembrano domandare di appartenere alla
grande famiglia delle Cicladi, per non restare al di qua, occidentalizzate
nella vaghezza di uno Ionio ribelle a qualsiasi forma – senza contare la
ferita artificiale, quella del Canale di Corinto, taglio netto nella roccia
per unire i due mari.
Confini immaginari, come immaginarie sono le linee che occorre
disegnare per poterli finalmente vedere sulla mappa. Eppure anche
confini sui quali non trovare consenso, discutere ed affermare impossibili
proprietà e competenze. Questione spinosa: la Toscana settentrionale,
dal Magra a Piombino, affaccia sul mar Ligure o sul Tirreno? Non è
cosa di poco conto ed essa, anzi, vale una querelle tutt’ora non sanata
tra lo Stato italiano, nella figura dell’Istituto Idrografico della Marina
Militare, e l’Organizzazione Idrografica Internazionale. Per l’Italia, il
confine orientale del mar Ligure prende avvio da Punta di Ravellata a
Ovest di Calvi, in Corsica, e si protende fino a Cap Ferrat, nei pressi
di Nizza, mentre per l’organismo internazionale la più sicura linea di
confine è quella che congiunge Capo Corso, all’estremo Nord dell’isola
con il punto di confine tra Francia e Italia. Ben poca differenza, se la
si paragona a quella verso Oriente, ove per l’Italia il confine parte da
Capo Corso per puntare a Sud-Est fino all’Elba e, da qui, risalire il breve
tratto di mare che la separa dalla costa toscana, fino a Piombino, mentre
per l’Organizzazione Idrografica Internazionale si deve sì prendere le
mosse da Capo Corso, ma per dirigersi risolutamente verso Punta San
Pietro, ai limiti del Golfo della Spezia, ma passando per le due piccole
isole Tinetto e Tino, che coronano quella di Palmaria, che si erge a
tutore del più orientale dei porti liguri, per cui la stessa Spezia non
sarebbe più tale perché affacciata sul Tirreno. La disputa si trascina dal
1953 e non se ne vede soluzione.
È facile cadere in errore, dimenticare in che mare ci si trovi, ove
si stia navigando e, nello stesso modo, ove ci si stia affacciando, se
su un mare od un altro, verso quale altra terra che dietro di esso si
protenda, nonostante tutta l’attenzione che si voglia attribuire a queste
linee immaginarie, calcate nella forma sempre mutevole della superficie
del mare, ma che possono talvolta divenire concrete linee di confine
nel senso giuridico del termine. Serve dunque una precisazione ed
un approfondimento che permetta di discernere tra confini marittimi
geografici e giuridici. I primi parlano la storia degli uomini – e possono

87
Stefano Bevacqua

trasformare in liguri i toscani – delle loro imprese ed ambizioni e degli


errori che si possono volentieri compiere nel dirsi affacciati verso un
mare od un altro. In quell’affacciarsi c’è già il germoglio di un senso
che la linea immaginaria di confine e demarcazione non permetterebbe;
ecco annidarsi il germe del luogo del confine, che vede in ciò che è oltre
il segnale della differenza tra un mare ed un altro, che non si distinguono
per una diversa posizione sulla mappa, ma per ciò cui si riferiscono e che
riferiscono, l’altra terra o un altra Terra; ecco che il confine marittimo
si traduce nella definizione della linea approssimativamente – molto,
terribilmente approssimativamente – collocata nella zona baricentrale
di un’area più vasta, luogo che comprende la linea di confine e una
parte, o forse la gran parte, di ciò che la linea mette a fronte, intendendo
così le due masse dei due mari che si miscelano continuamente; le
acque non conoscono nazionalità geografica e tanto meno giuridica;
si uniscono e si separano continuamente, eternamente mischiate, fino
ad essere un’unica immensità d’acqua che avvolge la gran parte della
Terra, indistinguibile e perennemente riemergente, facentisi nube e poi
ricadendo altrove e rifluendo in un altro mare di un altro luogo; ecco che
la linea di confine marittimo si obliqua, perde l’orientamento che unisce
i punti più prossimi con la linea più breve, per mutarsi in un luogo dalla
dimensione mutevole nella larghezza e nella lunghezza, come un canale
nel mare che si vuole differenziare per separazione, che non rispetta la
pretesa della geometria piana ma vuole abbracciare l’intenzione di un
mutare nel tempo per assumere il senso dell’affacciarsi.
In questo modo, idealmente, il confine tra Adriatico e Ionio
diventerebbe l’intero canale di Otranto e si prolungherebbe come
diffondendosi verso Nord per aderire laminarmente alla costa dalmata e
spingendosi verso Sud abbracciando invece il Salento per sfumare giunti
a Leuca, nella punto più acuminato della crosta pugliese, seguendo
così un percorso sinuoso e sfumato – che, curiosamente, corrisponde
abbastanza esattamente all’andamento della superficie sottomarina che
vede proprio lungo quelle linee una lieve increspatura oltre la quale si
aprono due aree di maggiore profondità, una innanzi a Dubrovnik, fino
a 1200 metri, e l’altra di fronte a Corfù, fino a 800 metri. Un confine
fluido, non una linea ma un luogo; luogo mutevole nel tempo ed anche
soggettivamente adattabile, fondato sull’affacciare e sull’affacciarsi, su
ciò da cui ci si sporge protendendosi e ciò che si pone in vista oltre il
margine. Facile sbagliare, quando ci si protende e ci si avventura in
questi luoghi e si tenta di abitarli, facendo quel passo necessario per
non essere più soltanto qua, ma senza davvero osare il passaggio al di
là; facile cambiare e scambiare mare, trasformando un luogo in un altro

88
Nel confine

appena un poco diverso, magari appartenenti l’uno all’altro, per avere


così in affaccio non questo mondo ma un altro, quello che si vorrebbe
avere come ulteriore sfondo, verso il quale protendersi; oppure come
per allontanarsi da un al di qua che produce dolore. Come la madre di
Suzanne, ne Una diga sul Pacifico, di Marguerite Duras:

Difatti, ciò di cui morivano i bambini nella piana acquitrinosa di Kam,


circondata da un lato dal mare di Cina – che la madre però si ostinava a
chiamare Pacifico, un po’ perché “mare di Cina” le sembrava un tantino
provinciale, e un po’ perché nei sogni della sua giovinezza era all’Oceano
Pacifico ch’ella aveva guardato e non a uno dei piccoli mari che complicano
inutilmente le cose – e murata verso l’Est da una lunghissima catena che
venendo da molto in alto nel continente asiatico scendeva in curva lungo
la costa fino al golfo del Siam, dove affondava per riapparire ancora in
uno sciame di isolette sempre più piccole ma tutte egualmente gonfie della
medesima scura foresta tropicale, ciò di cui morivano non erano le tigri,
era la fame, erano le malattie della fame e le avventure della fame.73

Per la Madre di Suzanne solo il Pacifico meritava di essere


affacciato, non il mare di Cina, che la condannava ad una permanenza
che comportava lotta ed orgoglio, come fatica e tormento, mentre lei,
la Madre di Suzanne, avrebbe soltanto voluto lasciarsi scivolare verso
un nulla – forse proprio dentro quell’Oceano dal quale non seppe mai
difendersi. Nessun confine tracciabile, dunque, nemmeno immaginario,
tra quel mare di Cina e un Vietnam che la Madre di Suzanne forse non
aveva più sopportato dopo la morte del marito, con due figli piccoli
da crescere, suonando il pianoforte ogni giorno ed ogni serata per
accumulare la sconcia ricchezza necessaria per fare il salto, acquistare i
diritti su un lotto del Demanio e costruirci sopra un bungalow, la casa,
la loro casa. Nessun confine possibile, perché l’Oceano, quel lotto di
terra lo divorava ogni anno. Ma è un’altra storia, è quella della terra
e del mare, che viene molto dopo aver tentato di capire come possa
essere fatto un confine dentro il mare. Lo stacco, il confine, che dice
del mare di Cina che soltanto in quel punto diventa Oceano Pacifico,
ovvero che dice dell’Adriatico che in quel luogo soltanto diventa Ionio,
oppure, ancora, la confusa identità del mar Ligure, questi margini sono
un disegno traballante di una separazione che genera una differenza.
Materialmente, non c’è nessuna differenza tra il mare di Cina ed il
Pacifico oppure tra l’Adriatico e lo Ionio. Quel margine è un tratto
di matita sulla mappa, un tratto di matita che divide due mari per il
bisogno di tutto descrivere e catalogare che giace nel fare scientifico
���.M. Duras, Un barrage contre le Pacifique, Gallimard, Paris 1950, pp. 26-27.
89
Stefano Bevacqua

– geografico e cartografico, in questo caso – quella linea immaginaria


serve a decidere una differenza, a separare un di qua ed un di là, che può
appunto essere il mare di Cina isolandolo dal gigantesco Pacifico, ma
anche, e attraverso analoga procedura – il tratto di penna sulla mappa
– può essere la definizione del possesso di un territorio, inteso come
propagazione nel mare del suolo sul quale si esercita il diritto di uno
stato. Accade così che tanto vaghe appaiono le linee che il geografo ha
arbitrariamente tracciato tra Capo Palascìa e Kepi i Gjuhezes, quanto
lo sono quelle che delimitano le zone economiche esclusive e poi le
acque territoriali e infine le acque interne di ogni paese che affacci
sul mare, così come quelle che definiscono le rispettive competenze
di diritto tra stati contigui. Come quelli puramente geografici, anche
questi sono confini di carta, ideali, fatti con la matita sulla mappa,
dimenticando la terza necessaria dimensione, sono linee immaginarie,
ma lungo le quali scorrono le armi. Mare intriso di sangue e di potere,
mare spezzato da una diga invisibile, mare che separa. Il contrario
del mar Rosso attraversato dal popolo degli Ebrei in fuga dall’Egitto,
che si aprì per volere di Dio. Quel mar Rosso univa la differenza, la
riportava a ragione, quella della distanza incolmabile, dell’ognuno per
sé, nemici per sempre; quel mar Rosso rendeva possibile il ritorno e
l’allontanamento attraverso la precedente congiunzione. I due popoli
non avrebbero mai potuto separarsi se non vi fosse stato il legame
costituito dal mar Rosso e quell’apertura dei flutti voluta da Dio e
che salva il popolo ebreo a scapito delle armate egiziane che restano
inghiottite – un sovrappiù, questo, un avanzo di senso che la tradizione
ha voluto imprimere alla memoria, per affermare che solo uno dei due
popoli era eletto, per dare più forza all’affrontamento, all’essere l’uno
di fronte all’altro attraverso quel mare. Il mar Rosso unisce perché
rende possibile la differenziazione per separazione. Le linee tracciate
dagli stati, quelle delle acque territoriali e dei confini marittimi, non
uniscono, invece, ma soltanto dividono, perché sono segnate sul mare
– sulle mappe del mare. Il mare unisce per permettere l’evidenza della
differenza, il segno sulla mappa divide, di qua o di là; nessun luogo del
confine si disegna sulla carta in cui il mondo viene schiacciato, soltanto
il mare offre quest’apertura, in quanto le sue acque sono uniche, sono
un’acqua sola, la sola che tutto ridispiega.
In tempo di pace, questi tratti di matita sulla mappa indicano limiti
precisi e oggi dettati da un trattato internazionale, l’United Nations
Convention of the Law of the Sea (UNCLOS). Quasi tutti i paesi del
mondo lo hanno firmato a Montego Bay, in Giamaica, il 10 dicembre
1982, ponendo fine alla tradizionale ed effimera visione di una libertà

90
Nel confine

dei mari fondata sulla gittata dei cannoni; le tre miglia dalla costa sopra
le quali si esercitavano i diritti nazionali e che situavano il confine
marittimo ben al di là della capacità di tiro delle armi da fuoco di cui
si poteva disporre fino al XIX secolo. L’inferno delle guerre suggerì di
stabilire regole comuni e condivise, capaci di prevenire dissidi, in base
alle quali è oggi stabilito che la zona economica esclusiva è profonda
200 miglia, comprese le acque territoriali, costituite dalla prima fascia
di 12 miglia a ridosso della terra ferma74.
Ha così termine la lunga vicenda che per secoli ha visto i mari, del
Mediterraneo, prima, dell’Occidente, poi, e del mondo intero, infine,
al tempo stesso liberi e divisi, praticabili e praticati senza sottostare a
norme e, insieme, disegnati in sfere di influenza e di potere. Sempre un
segno vergato sulla mappa stabiliva il diritto ed il possesso, così che la
storia della libertà dei mari è sovrapponibile e a quella della cartografia
marittima e se non gli coincide è soltanto per l’imprecisione decrescente
di quest’ultima. Disegni stentati, appaiono oggi quelli che nell’antichità
tentavano di dar conto del mare attraverso l’indicazione dei lembi di
terra ferma che lo racchiudevano o delimitavano. Il concetto stesso di
carta nautica segue la storia della navigazione di molti secoli. La carta
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. La zona economica esclusiva è un’area esterna e adiacente alle acque territoriali in
cui lo Stato costiero ha la titolarità di diritti sovrani (UNCLOS 56, 1, (a)) sulla massa
d’acqua sovrastante il fondo marino ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione
e gestione delle risorse naturali, viventi o non viventi, compresa la produzione di energia
dalle acque, dalle correnti o dai venti e la giurisdizione (UNCLOS 56, 1, (b)) in materia
di installazione ed uso di isole artificiali o strutture fisse, ricerca scientifica in mare e
di protezione e conservazione dell’ambiente marino. La zona economica esclusiva può
estendersi sino a 200 miglia dalle linee di base dalle quali è misurata l’ampiezza delle
acque territoriali (UNCLOS 57). La sovranità dello Stato costiero strettamente intesa,
invece, si estende, al di là della terraferma e delle acque interne e, nel caso di uno Stato
arcipelagico, nelle sue acque arcipelagiche su una zona di mare adiacente denominata
acque territoriali (Ginevra, I,1,1, UNCLOS 2,1). Questa sovranità si estende anche
allo spazio aereo sovrastante le stesse e al loro fondo e sottofondo marino. L’ampiezza
massima delle acque territoriali è attualmente stabilita in 12 miglia misurate a partire
dalle linee di base (UNCLOS 3). In precedenza, pur non essendo prefissata una loro
ampiezza, era previsto che quella delle 12 miglia fosse la misura massima dell’ampiezza
complessiva di acque territoriali e zona contigua (Ginevra, 1, 24). Quando la distanza tra
due stati costieri sia inferiore alle 400 miglia diviene necessaria l’adozione di specifici
trattati che disegnino il confine delle rispettive zone economiche esclusive; se la distanza
è inferiore alle 24 miglia si ricorre ad analoghe convenzioni per fissare il limite delle acque
territoriali. Nel caso di Grecia e Turchia, che hanno entrambe assunto acque territoriali di
sole 6 miglia, quando le coste arcipelaghe rispettive si trovano a distanza inferiore alle 12
miglia si ricorre alla mediana geografica tra le coste. L’Italia ha definitivamente ratificato
la convenzione UNICLOS con la legge 2 dicembre 1994 n. 689. [Riferimenti tratti da
Glossario di Diritto del Mare, a cura del Ministero della Difesa, Marina Militare, in www.
marina.difesa.it.]
91
Stefano Bevacqua

nautica di oggi contiene tante informazioni sulle condizioni del mare


che descrive quante quelle che riferiscono della costa circostante e
permette di attraversare il mare da un punto della costa ad un altro punto
della stessa o di un’altra costa. Il mare si attraversa, è luogo situato tra
qualche cosa e qualche cosa d’altro. È esso stesso luogo del confine
verso il quale ci si affaccia e la sua descrizione grafica, oggi giunta a
livelli di precisione e sofisticazione elevatissimi, coincide con quella di
un percorso. Non ha alcun senso stare nel mare; il mare si percorre. Sulle
carte nautiche si tracciano le linee del percorso, che attraverseranno
quelle notate dal geografo che si preoccupa di informare intorno a quale
sia il mare sottoposto a questo esame sezionatorio e quelle dettate dal
potere che ha fissato il diritto di sfruttare ciò che il mare contiene ed il
possesso materiale della sua superficie e del suo volume.75 La mappa va
tenuta rivolta verso il Nord soltanto perché verso il Nord si fissa l’ago
della bussola, altrimenti ogni mappa andrebbe ruotata al fine di avere di
fronte allo sguardo il luogo verso cui si è diretti. E gli antichi, prima di
disporre della bussola, così facevano. I documenti romani che tentano
di descrivere le forme della costa del Nord Africa ponevano spesso la
riva dell’attuale Algeria nella parte alta del disegno, lasciando nella
parte inferiore la vacuità dei mari e indicando soltanto un riferimento a
significare il punto di partenza di un percorso. Fino a tutto il Medioevo,
il mondo, inteso come il Mediterraneo e le propaggini terrestri che si
dipartivano dalle coste che lo racchiudevano, veniva rappresentato
spesso con l’Est all’in su, posto nell’alto della mappa, e, quindi, con
l’Europa a sinistra e l’Africa a destra. In altri casi, come in quello
di alcune mappe arabe della fine del primo millennio, l’orientazione
è inversa, per cui lo sbocco verso l’Atlantico è a destra della mappa,
con le coste del Maghreb in alto e l’Europa in basso. Sempre, il mare
appariva vuoto, come il luogo del vasto confine che separa due terre,
ancora indiviso, senza ripartizioni o domini, che potevano apparire
soltanto là dove fosse necessario difendere il proprio suolo da un
nemico che scegliesse di attraversare il mare per raggiungerlo oppure
per contrastare i pirati che attaccavano le imbarcazioni mercantili.
Per molti secoli, i mari furono lasciati privi di segni. Le prime vere
carte nautiche risalgono al Medioevo e disegnano i percorsi come raggi
che congiungono più punti, raggiere di linee che indicano tracciati
retti che scavalcano terre emerse e mari in assoluta indifferenza,
oppure vedono riportato un reticolo di riferimento che permette
un’approssimata valutazione delle distanze, espressa in altrettanto
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. Il riferimento è alle zone economiche esclusive, da un lato, ed alle acque territoriali,
dall’altro.
92
Nel confine

approssimate giornate di navigazione. Il traffico marittimo, del resto,


era eminentemente costiero, in ragione della relativamente scarsa
autonomia di cui le piccole imbarcazioni dell’epoca potevano disporre
e della maggior pericolosità del mare aperto, vissuto da tutte le civiltà
mediterranee più antiche come luogo enigmatico e pericoloso, da evitare
in misura massima. Il Mediterraneo era popolato soprattutto da genti di
terra che quasi timidamente si affacciavano al mare, considerato fonte
di ogni rischio. Lo conferma Fernand Braudel, quando scrive che “il
Mediterraneo sembra una patria d’elezione per i popoli del mare. Lo
si è detto e ridetto. Come se bastasse che una costa sia frastagliata per
essere anche popolata, e da marinai! In realtà, il Mediterraneo non ha
la profusione di razze marine dei mari del Nord e dell’Atlantico”.76
Mare nemico, ostile, dal quale tenersi lontani, che non invita affatto ad
essere attraversato, che respinge, soffocante, ululante, terrificante. Jules
Michelet ne era visibilmente affascinato, ma nel suo testo interamente
dedicato proprio al mare, alle sue forme ed alla sua natura, il grande
storico francese sentì il bisogno di esordire, nelle prime righe del suo
scritto, con un balenio di terrore.

Un buon marinaio olandese, solido e freddo osservatore, che passa la sua


vita sul mare, dice con franchezza che la prima impressione che se ne
riceve, è il timore. L’acqua, per ogni essere terrestre, è l’elemento non
respirabile, l’elemento dell’asfissia. Barriera fatale, eterna, che separa
irrimediabilmente i due mondi. Non meravigliamoci se l’enorme massa
d’acqua che chiamiamo mare, sconosciuta e tenebrosa nel suo profondo
spessore, è apparsa sempre temibile all’umana immaginazione.77

Braudel e Michelet avevano probabilmente ben presente quel che


sostiene Platone, che sempre ripete come il mare sia impuro e pericoloso
e che la città ideale mai debba trovarsi affacciata al mare, ma si debba
tenere ad una giusta distanza, per poter approfittare di un porto che
raccolga ciò di cui la città da sola non disponga e raduni le necessità
della difesa del proprio territorio da minacce che venissero dal mare.

Allora, vogliamo progettare come dovrà essere questo Stato? Non mi


interessa il suo nome [...] Mi interessa invece sapere se lo vogliamo sul
mare o nell’entroterra. [...] Avere il mare a portata di mano può essere utile
nella vita di tutti i giorni, però, a lungo andare, rischia di rivelarsi come una
vicinanza veramente “salata” e aspra, perché riempiendo lo Stato di traffici
e negozi dovuti al commercio, suscita nelle anime abitudini improntate
���. F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II,
Armand Colin, Paris 1966, p. 133.
���.J. Michelet, La mer, Michel Lévy Fréres, Paris 1875, p. 3.
93
Stefano Bevacqua

alla slealtà e alla incostanza, con il risultato di rendere ogni Stato infido e
conflittuale. [...] Minosse, giocando sulla sua superiorità nella guerra per
mare, una volta impose un grave carico di tributi agli abitanti dell’Attica
che ancora non possedevano come ora navi da battaglia e neppure
avevano un territorio ricco di alberi per fare imbarcazioni, in modo da
poter costituire senza difficoltà una forza navale. E fu così che allora non
riuscirono a trasformarsi in uomini di mare per imitazione dell’arte navale,
e, improvvisatisi marinai, a difendersi in quelle circostanze dai nemici.
Eppure, per loro sarebbe stato più vantaggioso perdere molte volte sette
giovinetti, piuttosto che lasciare le abitudini dei fanti.78

Nessun bisogno, dunque, almeno per quell’epoca ormai lontana,


ma nella quale ha potuto prendere radice ogni pensiero di oggi, di
fissare confini per dividere un mare da un altro, il mare degli ateniesi
da quello dei corinzi, quello che inviluppa le isole greche, l’Egeo, da
quello che dava le spalle a Patrasso, lo Ionio; ancora meno necessario
stabilire linee di confine per allontanare l’estraneo, stabilendo acque
territoriali o limiti di esclusività. Il mare era ed è rimasto per molti
secoli qualche cosa di terzo rispetto al mondo vero, al mondo terreno,
platonicamente ben difeso dalla nefasta influenza delle acque salmastre.
È rimasto a lungo un mare senza dominatori, ma soltanto navigato da
uomini che comprano e rivendono le merci di cui ha bisogno la città,
da soldati chiamati a combattere altri soldati, da pirati in cerca di
bottini. Luogo di un percorso e, per questo, luogo di un confine vasto
forse come tutto il mare che avvolge la Terra. Nella Roma antica, il
mare era res communes omnium, un bene comune a tutta l’umanità, al
pari di ogni acqua terrestre, dell’aria, dei monti, delle foreste. Scrisse
Virgilio: “Portati da quell’alluvione attraverso tanto deserto di flutti,
supplichiamo un’angusta dimora per gli dèi patrii, e un approdo che non
sia pregiudizio a nessuno e l’acqua e l’aria a tutti concessa”.79 E Ovidio:

La figlia del Titano si avvicinò e si inginocchiò in terra per bere l’acqua


fresca e dissetarsi; ma il gruppo dei contadini glielo proibì. La Dea allora
chiese loro: Perché mi impedite di bere? L’acqua è a disposizione di tutti.
La natura non ha dato in possesso esclusivo a nessuno né il sole né l’aria
né l’acqua.80

Occorre domandarsi, qui giunti, come nell’antichità il mare sia


rimasto indiviso, per poi – e, anche qui, come – dal Medioevo sia stato
gradualmente inciso da linee e rotture, segmentato e ridefinito. Il mare
���.Platone, Leggi, IV 704-706, cit., p. 1525-1527.
���.Virgilio, Eneide, VII 228-230, Rizzoli, Milano 2002, p. 701.
���.Ovidio, Le metamorfosi, VI 346-349, Rizzoli, Milano 1997, p. 355.
94
Nel confine

ha così perduto almeno una grande parte di quel suo essere luogo che
riunisce le differenze, per assumere il ruolo di superficie sulla quale
operare nette cesure, definendo innumerevoli linee monodimensionali
– confini, margini, bordi – che separano altrettanto innumerevoli al
di qua dai loro necessari al di là. Eppure, almeno fino a tutto il XVII
secolo, l’idea di indivisibilità del mare, di uniformità necessaria delle
sue acque, era data per assodata ed incontrovertibile, ed essa stessa idea
era posta a fondamento della res communes omnium. La risposta che
Latona, la figlia di Ceo che vegliava sui fabbri e per Zeus generò Apollo,
riserva ai contadini implica l’indivisibilità della sostanza, delle acque
così come dell’aria e della luce. Il possesso comune presuppone infatti
che il suo oggetto non sia divisibile, che sia di ciascuno e di tutti, nel
senso di possibilità di fruirne da parte di ognuno e di possesso comune
ed indivisibile da parte della totalità degli individui. L’impossibilità di
differenziare per separazione, di definire un’acqua differente da un’altra
o un cielo o una luce che sia separata da quella vicina rende necessaria
questa fruizione collettiva che non può escludere alcuno e che nessun
individuo può proporre di far sua nella totalità o in una parte. Un’idea
di totalità generata dall’impossibilità di separare ben presente e radicata
nei secoli successivi al Medioevo. È il caso, tra i tanti, di Hobbes, il
quale, per spiegare come a suo avviso ogni ambito della ricerca non
potesse che rifluire nella più vasta area della filosofia, prende ad esempio
proprio il mare:

Quanti sono i generi delle cose in cui può trovare luogo la ragione umana,
tanti sono i rami in cui si divide la filosofia, prendendo un nome diverso
a seconda della diversa materia trattata. Quella che tratta delle figure è
detta Geometra; del moto, Fisica; del diritto naturale, Filosofia Morale; ma
tutta è filosofia, come il mare, che qui è Britannico, là Atlantico, e altrove
Indiano, a seconda dei diversi litorali; ma è tutto Oceano.81

Ed è anche il caso di Spinoza, il quale, per spiegare il concetto di


distinzione modale rispetto alla distinzione reale, assume l’esempio
dell’acqua:

Questo sarà abbastanza chiaro per tutti coloro che sanno distinguere tra
immaginazione e intelletto: soprattutto se si considera che la materia è
dovunque la stessa e in essa non si distinguono parti se non in quanto la
concepiamo affetta in diversi modi, dal che consegue che le sue parti sono
distinte solo modalmente e non realmente. Per esempio, noi pensiamo che
l’acqua sia divisibile e che le sue parti siano separabili le une dalle altre, in

���.T. Hobbes, De Cive, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 65.


95
Stefano Bevacqua

quanto è acqua, ma non in quanto è sostanza corporea; infatti in quanto tale


non si divide né si separa. Inoltre, l’acqua, in quanto acqua, si genera e si
corrompe; ma in quanto sostanza non si genera né si corrompe.82

Ecco la differenza avanzare e impadronirsi del mondo proliferando.


Nell’antichità la pluralità delle differenze è relativamente circoscritta,
limitata ad alcuni elementi fondamentali; lungo i secoli essa si moltiplica,
gradualmente, ma incessantemente, fino ad una organizzazione del mondo
interamente parcellizzata. Si genera un chiasma, ad un punto focale del
procedere del pensiero occidentale, un passaggio stretto e impervio
attraverso il quale si rimane spogliati del globalismo antico per accedere
alla complessità della differenziazione. Il chiasma è racchiuso in meno
di un secolo, quello che intercorre tra il De Cive di Hobbes, pubblicato
a Parigi nel 1641, e la Monadologia di Leibniz, terminata nel 1714 e
pubblicata postuma soltanto nel 1720, passando per l’Etica di Spinoza,
del 1677. Leibniz introduce, con la Monadologia in forma compiuta, ma
già da prima, nelle Nouveaux Essais sur l’entendement humain, quell’idea
di moltiplicazione degli aspetti del reale e dell’essere che, fondandosi
sulla fondamentale operazione matematica del calcolo differenziale, apre
la strada alla segmentazione fino all’infinitamente piccolo. Processo di
scivolamento da un quadro nel quale ancora ci si poteva aggrappare ad
un panorama che offrisse almeno alcune fondamentali referenze globali,
omogenee, rassicuranti, solide, ben formate e definibili, ad un nuovo
mondo – non a caso, questo, il nuovo mondo, era stato scoperto da appena
due secoli e il completamento del viaggio al termine del mondo con
l’esplorazione delle coste dell’Oceania risale alla fine del XVII secolo
– nel quale si moltiplicano differenze e separazioni, che offrono sempre
una risposta ulteriore alla superficie data, un’alternativa ad ogni elemento
in precedenza assunto, in cui sfugge la certezza dell’omogeneità per
l’affermarsi dell’inquietudine del ripiegamento e dell’incerto procedere.83
L’occidente passa dunque dalla porosità della credenza, nella quale
non si faceva distinzione tra ciò che era certo e quel che si credeva
necessariamente dato – nessuno dubitava dell’esistenza di Dio – alla
���.B. Spinoza, Etica, UTET, Torino 1997, p. 101.
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. Risiede forse in questo meccanismo chiasmatico il fascino che da alcuni decenni è
suscitato dall’epoca barocca, erroneamente considerata in passato come sostanzialmente
povera, in raffronto alla precedente esuberanza rinascimentale ed alla successiva
acuità intellettuale illuministica. Il merito di questa ri-scoperta dell’epoca barocca va
sicuramente a due filosofi francesi, a Michel Serres, di cui l’autore di queste pagine è stato
modesto allievo, con il monumentale Le Système de Leibniz et ses modèles mthématiques,
del 1968, e a Gilles Deleuze, con Le pli, già più volte qui citato e, soprattutto, con gli
straordinari seminari tenuti a Vincennes e a St. Denis tra il 1978 e il 1987 dedicati a
Spinoza e a Leibniz.
96
Nel confine

complessità della ricerca di ogni causa, all’esplorazione di ogni recondito


angolo della Terra, alla proterva pretesa della conoscenza universale
fondata sulla moltiplicazione dei saperi e non più sull’assunzione di
un sapere che tutto comprenda – come le onde, che ritornano ad essere
sempre mare, invece dell’infinitesima differenza calcolabile tra un qua ed
un oltre quel punto mobile che fissa il là.
Tra gli ultimi gemiti del Medioevo, sovrapposti alla vampata del
Rinascimento, e i primi lampi illuministici, sovrapposti a quest’era di
transizione costituita dal barocco, si iniziano a tracciare i primi veri
confini marittimi e, per conseguenza, a trasformare ciò che in precedenza
era esso stesso una vasto luogo del confine, in una superficie idealizzata
ormai come piana – spianata a forza, privata di volume – sulla quale
produrre incisioni per rette e separazioni, ricami costieri e saettate di
palle di cannone, disegni – progetti – di dominio e disegni – mappe –
del potere. L’idea di un chiasma barocco aiuta a proseguire su questa
strada il cui percorso non richiede di essere fondato a priori, ma semmai
di essere esperito. Del resto, quel passaggio, il chiasma barocco, è il
prodotto di uno slittamento concettuale che occupa trasversalmente
la storia del pensiero occidentale e che, abitualmente, ma non
necessariamente con la precisione che sarebbe auspicabile, viene fatto
coincidere con la rivoluzione scientifica avviata in quel secolo. Tra
la scoperta dell’America e il XVIII secolo si è in effetti instaurato un
mondo nuovo, capace di ospitare nuovi modelli di conoscenza, ed è
del tutto ragionevole che anche il solcare mari e tracciare confini sia
risultato trasformato e che trasformati siano anche i luoghi di questi
confini, intesi come spazio terzo capace di albergare l’indeterminazione.
Nessuno meglio di Carl Schmitt avrebbe potuto puntualizzare questo
mutamento: “I primi tentativi di suddividere la Terra secondo il diritto
internazionale e sulla base di una nuova visione geografica complessiva
iniziarono subito dopo il 1492. Furono contemporaneamente i primi
adattamenti alla nuova immagine planetaria del mondo”84. D’altra parte,
e a ben vedere, questo processo, che appare così graduale, ancorché
epocale, sembra coincidere più con l’essere sopraggiunte le nuove
capacità di navigare e di descrivere il navigato – le mappe – piuttosto
che con un cambio di mentalità o di cultura. Ché, bene al contrario, le
intenzioni degli antichi non appaiono affatto incoerenti con quelle dei
più moderni: l’idea di dominio è la stessa dall’Attica a Washington; a
mutare, passando attraverso il chiasma barocco, è la tecnica del dominio,
intesa come innovata capacità di applicarsi al suo esercizio attraverso
���. C. Schmitt, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum
Europœum, Adelphi, Milano 1991, p. 83.
97
Stefano Bevacqua

la disponibilità di navigli, armi, strumenti di misura, materiali, prima


inesistenti. Ancora Schmitt lo conferma, in più parti della sua opera:

Le definiremo occupazioni di mare. Gli Assiri, i Cretesi, i Cartaginesi


e i Romani nel Mediterraneo, gli Anseatici nel Mar Baltico, gli Inglesi
su tutti i mari, hanno occupato il mare. [...] Ma le occupazioni di mare
diventeranno possibili solo in uno stadio successivo dello sviluppo dei
mezzi di potere a disposizione dell’uomo e della coscienza umana dello
spazio. [...] L’opposizione di terra ferma e mare come opposizione di
diversi ordinamenti è un fenomeno dell’epoca moderna. Essa domina la
struttura del diritto internazionale europeo solo a partire dai secoli XVII e
XVIII, cioè solo dopo che gli oceani si erano spalancati e si era formata la
prima immagine globale della Terra.85

Allo scudo di Achille si sostituisce il cannone d’acciaio, all’ingegno


dell’eroe quasi solitario che guida il manipolo si impone la strategia
di guerra, ma non sembra mutare la politica di controllo dello spazio
marittimo. Eppure, nell’antichità essa è fondata su una indivisibilità
dell’unità del mare e nella modernità risulta invece ben dettagliatamente
differenziata attraverso la definizione di precisi limiti e confini. Perché,
se è vero che deve necessariamente essere considerato di tutti ciò che
non può essere separato, è altrettanto vero che, per lo stesso motivo,
l’inseparabilità, l’unico, può assumere il controllo del tutto in nome di
tutti, soprattutto se esso ritiene, a torto o a ragione, ben poco importa, di
essere portatore di un valore – di una superiorità – tale da autorizzarlo
ad erigersi a portatore del bene. Emerge così una imprevedibile analogia
tra il comportamento degli ateniesi e quello degli americani, i primi,
dal sesto al quarto secolo prima di Cristo, impegnati ad acculturare i
“barbari”, i secondi, già nei primi decenni dalla costituzione degli Stati
Uniti, pronti a “evangelizzare” l’emisfero occidentale. Scrive Colette
Jourdain-Annequin:

Nel mito di Eracle appare bene evidente il simbolo dell’acculturazione


dei barbari; più precisamente, in Eracle emerge il modello paradigmatico
della guerra condotta per i Greci contro i Barbari, modello che si trova già
nella poesia lirica dell’epoca arcaica di Stesicore, di Pisandro da Rodi e di
Pindaro, modello che troviamo ancora in Isocrate, quando, nel Panatenaico,
associa la guerra portata contro i barbari a quella che gli uomini hanno
condotto per liberarsi degli animali selvaggi in quanto la più giusta e la
più necessaria. Questa guerra contro i Barbari, questa violenza alla quale
sono sottoposti durante il processo di acculturazione, è proprio quella del
“più giusto tra gli omicidi”, è quella che Pindaro giustifica in un celebre
85. Ivi, pp. 22, 36 e 84.
98
Nel confine

e molto discusso frammento: il volo delle mandrie di Gerione gli appare


infatti come l’esempio stesso di questo nomos che, tra gli immortali così
come tra i mortali “porta il mondo con il suo braccio sovrano e giustifica
la violenza estrema”.86

L’unità stessa dell’indivisibile, quel mare solcato dalle navi che portano
la conoscenza ai popoli che ne sono privi, è garantita proprio dal dominio
dell’unicità ateniese. Il mare è garantito nella disponibilità di ciascuno
perché il suo possesso è a tutti, ma questi tutti si riassumono nell’unico
capace di portare la sua parola come universale. Le prove di Eracle
sono simboliche di come forza e astuzia, derivate dall’illuminazione
offerta dagli dèi e dalla sapienza che grazie a loro l’uomo dell’Attica
è capace di produrre ed ammannire, abbiano per destino di portare il
beneficio di tutti e non il dominio di un unico. Non dissimile appare,
adottando procedimenti che permettano di cogliere, tra le innumerevoli
possibili letture, quella che serve a mettere in luce un’intenzione
ideale, più che politica o economica o militare, il comportamento
degli Stati Uniti riassunto nella cosiddetta Dottrina Monroe, dal nome
di James Monroe, quinto presidente americano tra il 1817 ed il 1825.
Il messaggio che il presidente inviò al Congresso il 2 dicembre 1823
aveva la finalità di stabilire in via definitiva l’indipendenza degli Stati
Uniti dal vecchio continente, ma, nello stesso tempo, poneva le basi per
una politica di egemonia in tutto l’emisfero occidentale. Certamente,
il primo elemento prevaleva, ma non è affatto un caso se la dottrina
è stata definita all’indomani di un accresciuta tensione con i lontani
dirimpettai dell’oceano Pacifico. Nel 1821 gli Stati Uniti avevano ormai
aperto una finestra anche su quell’oceano, portando la loro presenza
fino all’estremo occidente del continente, nei cosiddetti territori non
organizzati, gestiti unitamente alla Corona britannica. Ciò provocò la
reazione della Russia, che in quell’epoca dominava l’attuale Alaska,
allora denominata America Russa. Con decreto dello Zar Alessandro I,
fu vietato il commercio alle imbarcazioni straniere nelle acque distanti
meno di cento miglia dalla costa che andava dall’Alaska fino al 51°
parallelo, che corrisponde all’attuale baia di Vancouver. Un confine
marittimo, dunque, fissato per rinchiudere il nuovo stato americano in
un recinto, proprio mentre dal lato opposto, quello europeo, permaneva
aperta la ferita di un indipendentismo considerato offensivo e pericoloso
per la stessa indipendenza delle monarchie storiche del Continente,
appena ristabilitesi dalla violenta bufera scatenata dalla rivoluzione

���. C. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir, Les Belles Lettres, Paris 1989,
p. 312.
99
Stefano Bevacqua

francese e dalla successiva epoca napoleonica. Ed ecco la Dottrina


Monroe, che difensiva, certamente, è, ma, al tempo stesso, predica una
visione del dominio che appare addirittura sproporzionata alle effettive
capacità politiche, economiche e militari degli Stati Uniti dell’epoca, i
quali tanta strada ancora avrebbero dovuto percorrere per assumere un
ruolo di potenza mondiale, prima, e di unica superpotenza, infine. Così
Mario Del Pero riassume il messaggio di Monroe al Congresso:

Il primo principio era rappresentato dalla non colonizzazione, più volte


affermata nei mesi precedenti: “D’ora innanzi, i continenti americani,
in virtù delle condizioni di libertà e di indipendenza che hanno assunto
e mantenuto, non sono da considerarsi soggetti di future colonizzazioni
da parte delle potenze europee”. Il secondo principio era quello del non
intervento: Washington si impegnava a non interferire nelle questioni
europee, ma sottolineava altresì di considerare “qualsiasi tentativo”
da parte dell’Europa di “estendere il suo sistema su una parte di questo
emisfero” come “pericoloso per la pace e la sicurezza” degli Stati Uniti. Il
terzo principio, che seguiva logicamente i primi due, era rappresentato dalla
politica delle due sfere, che divideva Europa e Americhe e le impegnava
alla non ingerenza reciproca.87

Due elementi appaiono rilevanti ai fini della navigazione tra i luoghi


dei confini che il mare ospita. In prima istanza, il fatto di stabilire
come per decreto la propria egemonia su un intero emisfero terracqueo,
racchiusa nella diffida a chiunque altri ad osare di estendere il “proprio
sistema” in questo lato del mondo. Ciò comporta la considerazione
che il proprio sistema sia universalmente adeguato e che quello di
altri non possa essere in nessun caso altrettanto adatto. Il secondo
elemento attiene alle “potenze europee”, tra le quali deve essere
annoverata anche la Russia, che mai avrebbero più potuto avere alcuno
atteggiamento di colonizzazione, riferendosi apertamente al decreto
dello Zar Alessandro I, che aveva osato istituire un confine in un
oceano che apparteneva ormai completamente alla sfera di influenza
degli Stati Uniti.88 A dare la misura di quanto questo atteggiamento
fosse fondato su una volontà di dominio a sua volta eretta tutta intorno
alla convinzione di essere i soli portatori di valori assoluti e supremi,
quali la libertà e la democrazia – cosa, in quel tempo, peraltro vera – e
���. M. Del Pero, Libertà e impero - Gli Stati Uniti e il mondo, Laterza, Roma – Bari
2008, p. 112.
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. L’Alaska diventerà americana 44 anni dopo, sotto la presidenza di Andrew Johnson,
quando il segretario di Stato William Seward riuscì a definire l’accordo d’acquisto con i
russi – cinque dollari per chilometro quadrato, senza ancora conoscere le riserve minerali
di quell’angolo di mondo, generoso di oro, petrolio, gas naturale, carbone.
100
Nel confine

non certo sulla semplice considerazione della propria potenza militare,


basti considerare quali fossero all’epoca le effettive capacità della
marina americana, che “per dimensioni e capacità di fuoco era più o
meno equivalente a quella del Cile”89.
Forse proprio in questo coagula sia l’affinità, tra l’Attica e gli Stati
Uniti, sia la più profonda differenza, nel fatto che con la definizione di
un mondo sferico e totale, che tutto racchiude, le delimitazioni tra le
sue parti diventano ideali, immateriali, tratti di matita su una mappa,
anch’essa idealizzazione della Terra, mentre per gli antichi i limiti
marittimi non erano definizione di un possesso, quanto piuttosto veri
ostacoli, insormontabili, sacri. Soltanto l’eroe poteva superarli, ma solo
occasionalmente ed in condizioni particolari, se non estreme. Affinità,
dunque, che trova in Atene e Washington il modello – forse l’archetipo,
ma non è affatto certo che l’America del Presidente Monroe possa
costituire un archetipo parallelo a quello di Pericle – di un propagare il
dominio sul mondo, non tanto nella logica del possesso di risorse e di
beni, come sicuramente accadde per Roma e poi, per molti secoli, alla
gran parte delle signorie, dei sovrani, degli stati moderni, quanto per
portare il proprio sistema, la propria cultura, la propria idea del mondo
– e il proprio linguaggio che la supporta e la giustifica – nel mondo.
Si può obiettare asserendo che la Dottrina Monroe non è stata, nella
storia moderna e contemporanea, né la prima né l’unica definizione
unilaterale di influenza totalizzante, perché c’è il caso della Cina e del
Giappone, quello della Spagna rinascimentale e dell’Inghilterra potenza
navale planetaria. È Schmitt a mettere a fuoco il mutamento intervenuto
definendolo nella sua unicità: “Con essa [la Dottrina Monroe, nda] il
nuovo mondo si contrappose come entità autonoma all’ordinamento
spaziale tramandato dal diritto internazionale europeo ed eurocentrico,
ponendolo in discussione fin nei suoi fondamenti”.90 Differenza, si è
detto, perché radicalmente diversi sono i confini che appaiono tracciati
da Atene e da Washington. Per la Grecia di Pericle i confini marittimi
neppure davvero esistono, ché è il mare il solo vero confine, ciò che
unisce le differenze, ciò che si pone tra una terra e l’altra, tra sé ed
il resto del mondo che si intende “civilizzare”. I Greci portarono la
loro vicenda – vicenda: cultura, lingua, tradizione, credenza religiosa,
leggi, regole sociali – in Italia, in Spagna, nel Nord Africa, da un
lato all’altro del Mediterraneo senza stabilire in verità alcun limite
marittimo, ma semmai soltanto limiti territoriali – sulla terra ferma,
poiché territoriale viene da terra e suona davvero assai male la dizione
89. Ibidem.
���.Schmitt, Il nomos, cit., p. 102.
101
Stefano Bevacqua

di acque territoriali, come un non rispettare la specificità del mare,


così trasformandolo in una sorta di terra instabile e incoerente. Per gli
antichi, il limite era uno soltanto, pressoché invalicabile e tale da far
coincidere il Mediterraneo con il mondo: le Colonne d’Ercole. Da qui
occorre cogliere il filo e dipanare ordinatamente la matassa per ottenere
un più maneggevole gomitolo, a cominciare dal nome. Quale Ercole?
Subito si incappa nel luogo marginale abitato dall’incertezza, da un
ancora non definito oltre che illumina una altrettanto poco descrivibile
identità. Le figure che si richiamano al fondatore delle Colonne sono
infatti molteplici, sono Eracle il greco e, sicuramente, Ercole il romano,
ma è anche, e forse prima ancora e prima di tutti, Melqart il fenicio.
Personaggi sovrapponibili, ma mai davvero identici, che ebbero tutti la
più intensa considerazione da parte dei popoli antichi che ne seguivano
le gesta. Eroe umano, al suo esordio, anche se di generazione divina,
e dio, infine, quando deve sacrificare la sua fisicità proprio per essere
assunto nella cerchia di Zeus. Figlio di Zeus e di Alcmena, la bellissima
figlia di Elettrione, re di Micene e discendente di Perseo. Andò sposa ad
Anfitrione, giovane re di Tirinto. Mentre questi era lontano a condurre la
guerra contro i Tafii, Zeus, invaghito dalla bellezza di Alcmena, assunse
i tratti di Anfitrione e giacque con ella. Ne nacque Eracle, che bevve il
latte di Era, divenendo un invincibile eroe. Inizia così la sua tormentata
vicenda, fatta di eccessi e di prodezze, di mandibole digrignanti e
di innocenti uccisi per sbadataggine, di prove inumane superate con
eroismo e di macabri errori. Era pretese vendetta per il tradimento di
Zeus e per questo cospirò contro Eracle fino a condurlo, con l’aiuto di
Lissa, alla follia: incapace di dominare i suoi sensi e l’enorme possenza
delle sue membra, Eracle uccise la giovane moglie, Megara, e gli otto
figli. Ritornato in sé, il gigante si risolse al suicidio, ma Tespio riuscì a
fermarlo e ad indurlo a recarsi a Delfi, per conoscere dall’oracolo come
fosse possibile cancellare quel sangue versato. L’oracolo gli ordinò di
porsi al servizio di Euristeo, re di Tirinto, il quale impose all’eroe le
dodici fatiche, nella certezza che mai avrebbe potuto superare simili
inaudite difficoltà. La decima di queste fatiche assunse un carattere
molto particolare: quello di fondazione del limite ultimo del mondo.
Il mito vuole che Eracle dovesse esercitare la sua forza sovrumana e la
sua perizia per sottrarre a Gerione, orrendo e gigantesco mostro con tre
busti, tre teste e tre paia di braccia, le preziose mandrie di buoi. Gerione
dimora in una terra lontana, al limite di ogni conoscenza, sul finire del
mondo e all’inizio dell’Oceano, un luogo difficilmente descrivibile
perché nebbioso e, al tempo stesso, ricco di verdi e fecondi pascoli,
“dove ogni sorta di frutti spuntano senza essere coltivati ed in quantità

102
Nel confine

tale che ovunque è corrisposto ogni desiderio”91. Il giardino di Gerione


è il diaframma che separa il mondo conosciuto dal non mondo: Erythia,
luogo di transizione, oltre il limite ed al di qua di ciò che è altro, luogo del
confine ultimo del conosciuto, confine estremo, riservato al sovrumano,
a quell’Eracle capace di aprirsi il varco necessario per raggiungere le
mandrie di Gerione, creando la fenditura che schiude il Mediterraneo
all’Oceano e fissandone il margine con due colonne:

Nel punto di congiunzione del mare di Roum e dell’Oceano si trovano


i fari di rame e di pietra costruiti da Ercole, l’eroe. Essi sono coperti di
scritture e sormontati da due statue il cui gesti sembrano dire: “Non c’è né
strada né via dietro di noi per coloro i quali, dal mare di Roum, vorranno
entrare nell’Oceano”.92

Così Eracle separa i due monti di Abila e Capile e si lancia nella folle
navigazione verso le mandrie custodite dal mostro tricefalo cavalcando le
onde sul battello d’oro che Helios gli concede, nel suo rosso tramontare,
oltre quello stesso confine ultimo, nell’immensità dell’Oceano. E fissa
la memoria del suo passaggio con le colonne che portano il suo nome
– i due grandi fari che illuminano ed indicano la strada, secondo la
tradizione araba. Colonne che prima di Eracle erano state di Melqart,
l’eroe fenicio cui Eracle si sovrappone; Melqart che ha lasciato questi
suoi segni presso tutti i lidi che ha toccato, a Cipro come in Sicilia, in
Sardegna e nella stessa Roma, ove, secondo l’interpretazione di alcuni
studiosi, il mito di Ercole precede la fondazione tradizionale di tanti
anni quanti ne parrebbero necessari per poter affermare che è Melqart
il primo ed unico fondatore, colui che, nel IX secolo, ha posto la prima
pietra di un luogo che diverrà il Foro Boario, il cuore della città arcaica,
ove la via del Tevere incrociava l’asse che portava dall’Etruria alla
Campania attraverso il guado dell’attuale isola Tiberina, esso stesso
luogo di fondazione. Eracle-Melqart disegna così il chiuso mare del
Mediterraneo, fino a quella che Esiodo definisce come frontiera della
notte, poiché è nel suo luogo che il sole ogni giorno lascia posto alla
tenebra, partendo dalla sponda opposta, quella più orientale, passando,
come in una navigazione che volesse cucire i lembi di un suolo comune,
attraverso tutte le terre che lambiscono il mare. Erythia è luogo di
massimo pericolo, che richiede, per essere vissuto, di sporgersi anche
di molto al di fuori della tranquillizzante certezza del conosciuto; e,
al tempo stesso, è luogo sublime, ricco e pregno di ricchezza, di una
natura abbondante e generosa e dei suoi più preziosi frutti, di una
���.Plinio il Vecchio, Historia naturalis, V 6.
���.Jourdain-Annequin, Héraclès, cit., p. 91.
103
Stefano Bevacqua

bellezza assoluta, quella che soltanto il tenore del cielo al tramonto


può generare, luogo altresì necessario per portare a compimento il
destino dell’eroe. Pericolo e sfida, bellezza e forza, perizia e destino:
condizioni necessarie del mito e del suo epilogo e, al tempo stesso,
elementi che appaiono con grande frequenza nei luoghi del confine, che
a riferirne sia il racconto dell’ultimo giorno del filosofo, il labirinto di
Cnosso, oppure il narratore in bilico tra mondo reale e mondo incantato.
Elementi che partecipano al gioco della storia raccontata, che non è
mai piena realtà, ma sempre soltanto verità soggettiva perché riferita,
indecidibile in quanto non sottomessa alle pedanti regole della prova,
ma che attraversa l’esperienza e la cultura – la storia, appunto – di ogni
popolo, ad iniziare, naturalmente, da quelli che hanno animato con la
loro fervida immaginazione e con la grazia della loro lettera gli albori
dell’Occidente. Occidente, il quale proprio in quella lettera, in quella
storia propiziatoria, degli inizi e dell’albore, trova il suo tramonto, a
Ovest, dove il sole ogni giorno cede le armi nel rossore che disegna i
contorni di Erythia, oltre la quale il mondo appare avvolto da un Oceano
tanto indescritto quanto indefinito ed interminabile. Fiume circolare ed
immenso, che tutto avvolge, involucro mobile del mondo e che non deve
essere sfidato né offeso. È esso stesso margine del margine, inteso come
lembo esterno dell’estrema propaggine del luogo ancora abitato del
confine, di Erythia, l’isola magica e magnifica, luogo ove, per apparente
paradosso, si concentra il meglio dell’Occidente: fertilità, brumosa
perfezione del clima, luce calda e avvolgente, tepore della sera iberica,
pomi della ricchezza, fanciulle che danzano, mandrie divine. L’Oceano
è oltre ogni luogo, non è dunque alcun luogo perché flutto perenne che
tutto travolge e centripetamente rinchiude e oblitera, rinchiudendosi su
se stesso, in un immenso ripiegamento, come quello inciso da Efesto
nel più esterno dei cerchi concentrici dello scudo di Achille. Al di qua
dell’Oceano rimane tutto il mondo conosciuto e quell’angolo d’incanto,
a mezza via tra il conosciuto e lo sconosciuto, tra Mediterraneo e Oceano,
Erythia, luogo incantato, Paradiso Terrestre, perché forse, come scriveva
Erodoto, “le regioni estreme, che circondano il restante territorio e lo
racchiudono, sembra che possiedano le cose che consideriamo più belle
e più rare”.93 Convinzione, questa, davvero diffusa nell’antichità, se si
considera che Erodoto era tanto scettico intorno all’esistenza stessa di
un Oceano che cingesse il mondo al pari di un fiume in piena da riferire
di viaggi fenici che avrebbero violato il passaggio di Eracle-Melqart
prima di ogni memoria:

���.Erodoto, Storie, III 116, Rizzoli, Milano 1997, p. 667.


104
Nel confine

Per parte mia non so affatto che ci sia un qualche fiume Oceano, ma credo
che Omero o qualcuno dei poeti vissuti prima di lui abbia inventato il
nome e lo abbia introdotto nella poesia.94 [...] È chiaro infatti che la Libia
è cinta tutta intorno da acque, tranne dove confina con l’Asia, avendolo
dimostrato, primo fra quelli che conosciamo, Neco re d’Egitto, il quale,
dopo che ebbe fatto interrompere lo scavo che portava dal Nilo al Golfo
Arabico, mandò dei fenici su navi, dando loro ordine che al ritorno
passando attraverso le colonne d’Eracle navigassero fino al mare boreale e
per questa via ritornassero in Egitto.95

Ma il fatto che le colonne non siano affatto inviolabili non pregiudica


l’esistenza di Erythia e, anzi, la conferma, al punto che numerosi autori,
citati da Colette Jouradain-Annequin, la identificano con l’attuale
Cadiz, città di origine fenicia così come Lixus, in Marocco. Cadiz e
Lixus appaiono situate ad eguale distanza dallo stretto, come se Eracle-
Melqart, avesse voluto fissare tra questi due punti di riferimento il limite
ideale e non ulteriormente violabile di un mondo conosciuto o della cui
esistenza si poteva comunque andare certi. Ed ecco che Erythia trova la
sua necessaria dimensione, assurgendo al rango di elemento fondante e
fondato della vicenda occidentale – vicenda come storia della ragione e
non come prova del reale. Scrive Colette Jouradain-Annequin:

Che Esiodo situi l’episodio di Gerione al di là del fiume Oceano non


significa affatto che ne voglia dare una localizzazione precisa. Che egli
immagini questi buoi dall’andatura dondolante ed il loro mostruoso
guardiano in una Erythia che circonda i flutti, non autorizza che il poeta
ritrovi qui il ricordo antico, conservato nella memoria collettiva, di un
isola conosciuta in altri tempi da questi egei, che sappiamo perfettamente
quanto, fin dall’età del bronzo, bazzicarono il Mediterraneo occidentale.
Probabilmente, in effetti, di queste praterie brumose Esiodo non conosce
che la loro localizzazione nell’isola rossa, isola del tramonto, vicino alle
rive dell’Oceano. Potrebbe così essere Stesicoro, nella sua Gerioneide,
ad apportare la prima menzione propriamente geografica di una terra
del litorale iberico situata di fronte alla foce del fiume Tartessos, il
Gudalquivir. Questa tradizione dovrà così fissare definitivamente il mito
e, all’inizio del V secolo, Ferecide di Leros potrà affermare che l’Erythia
di Esiodo non era altro che Gadeira (Cadiz); altri autori preciseranno che
– secondo Strabone – si trattava di un isolotto distante uno stadio circa
dalla città e dove l’erba possedeva l’invidiabile proprietà di ingrassare i
greggi con sorprendente rapidità.96

94. Ivi, II 23, p. 345.


95. Ivi, IV 42, p. 753.
���.Jourdain-Annequin, Héraclès, cit. p. 222.
105
Stefano Bevacqua

Localizzazione precisa, confermata anche da Erodoto: “I Greci dicono


che Gerione abitasse l’isola Erythia, quella posta di fronte a Gadeira,
sull’Oceano, fuori dalle colonne d’Eracle”.97 Le colonne, poste nei pressi
del confine occidentale del mondo conosciuto, erano dunque valicabili, non
rappresentavano il termine, ma un affacciarsi ulteriore, su un altro mare
o fiume immenso, sull’Oceano. Okeanos frutto dell’unione di Ouranos
e di Gaia, del Cielo e della Terra, benevolo padre che dà la vita perché
padrone di ogni acqua, fiume, mare, pioggia. È il fiume da cui discende
ogni cosa, che offre protezione – basti pensare ad Efesto, scagliato nelle
acque dalla madre Hera, indemoniata nel vederlo sciancato, che per nove
anni viene allevato nelle acque che non hanno un termine tra le cure di
Teti, la più bella delle Nereidi – e che accoglie le divinità quando cala la
notte. Okeanos come totalità quasi bonaria, che mai si schiera sui fronti
degli umani affrontamenti, che sempre usa il metro dell’equilibrio e della
tolleranza. Oppure, l’Oceano inteso come eschatiai, luogo ulteriore,
esterno ed estraneo, non davvero domato e conosciuto, luogo che cinge il
mondo interno e lo separa da ciò che è più esterno, lontano, ignoto, che
proprio Eracle-Melqart definisce e descrive nelle spirali che il destino
gli fa compiere all’interno e ai limiti del Mediterraneo. Colette Jourdain-
Annequin chiarisce con precisione il senso di eschatiai ed illuminante
appare la relazione che si riesce agilmente a costruire da questo luogo
indefinito ed Erythia. Eschatiai come mondo esterno alla conoscenza,
luogo barbaro perché non greco, prima, e nemmeno romano, in seguito,
luogo dal quale non è mai certo il ritorno. Eschatiai come okeanos, i cui
flutti avvolgono il mondo e ne segnano il confine, proprio in quel lembo
ultimo di terra, della Terra, Erythia.

Il mito di Eracle, rivisitato dai Greci della colonizzazione, estende in


qualche misura ai limiti del mondo conosciuto l’opposizione, così spesso
sottolineata e senza dubbio ben percepita, tra la chora e l’eschatiai.
Eschatiai, questo spazio indeciso delle zone di frontiera, questo margine
che l’agricoltura e le manifestazioni della vita civica non hanno occupato,
queste solitudini estranee ed ostili dell’agros. L’eschatiai, in questa
prospettiva, si estende a tutto ciò che non è il mondo greco-romano.
[...] Questo paese del tramonto, ove molto presto Eracle-Melqart uccide
Gerione per meglio rubare le sue mandrie, ove più tardi andrà a raccogliere
i famosi pomi d’oro, è, sotto ogni profilo, lo spazio della congiunzione
degli estremi: del conosciuto e dello sconosciuto, del Giorno e della Notte,
della vita e della morte. Passato questa soglia è zòfos, termine utilizzato
da Pindaro per definire l’al di là di Gadés e che, carico di senso, connota al
tempo stesso le tenebre e gli inferi, ma anche l’Occidente.98
���.Erodoto, Storie, IV 8, p. 723.
���.Jourdain-Annequin, Héracles, cit., p. 313 e 657.
106
Nel confine

Oltre Erythia è la tenebra, l’ignoto, l’eschatiai, l’indeterminato,


l’indicibile, l’indecidibile. Non è dunque Okeanos, possente e
benevolo, ma qualche cosa di terrificante perché ignoto, che tutto
avvolge ma per niente affatto con paterna accondiscendenza, bensì con
l’oscurità profonda dei flutti che soffocano ed accecano. In profondità;
l’Oceano è oscuro, quasi completamente buio, riservato ad esseri i
quali, mano a mano che si sprofonda, sempre più manifestano la loro
parentela con i mostri ai quali l’uomo preassiale aveva sempre creduto.
In superficie, l’Oceano è l’altalena imprevedibile della bonaccia e
della bufera, che sembra bonariamente accogliere per poi strappare
via, come lanciando l’intruso sempre più lontano, risucchiandolo
in una sorta di cinico gioco. L’uomo ha sempre temuto il mare e
quando, nella più lontana profondità della memoria dell’Occidente,
ha preso a navigarlo, lo ha fatto per necessità o per bramosia di
ricchezza, per raggiungere altre terre dalle quali far nascere ciò con
cui rispondere alla sua necessità, ovvero per commerciare, ovvero
per dare guerra e conquistare il suolo di colui che era stato chiamato
nemico. Questo timore è tanto saldo che la figura dell’Oceano cui si
riferisce Platone appare diversa da quella della precedente mitologia.
L’Oceano è, per il Socrate del Fedone, il primo dei quattro principali
fiumi che escono e si riversano partendo dal centro della terra; esso
cinge il mondo e non partecipa direttamente alla vita ulteriore delle
anime dei defunti. Mentre l’Acheronte, che, nella cosmologia che
Socrate descrive, sfocia nella palude Acherusiade, è il luogo lungo
il quale defluiscono le anime “che risultano essere vissute né bene,
né male”99, il Tartaro accoglie per mai più risputare “coloro che
risultano essere insanabili per la gravità delle loro colpe”100, il Cocito
alberga gli omicidi che si siano pentiti dei loro gesti lungo tutta la
vita terrena ed il Piriflegetonte dà asilo a coloro che abbiano usato
violenza contro il padre o la madre e che da ciò siano stati assolti.
L’Oceano, dunque, non prende parte a questa classificazione delle
anime, perché è il fiume massimo, immenso e definitivo, è il luogo
che avvolge il mondo intero, mondo che, nel racconto di Socrate,
è infinitamente più grande di quello conosciuto, ciò che comporta
la visione dell’Oceano come inimmaginabilmente grande, immensità
sola capace di accogliere l’immensità medesima. Perché quel mondo
che Socrate dipinge poche ore prima di oltrepassare la soglia della
cessazione della vita, coincide, in verità, con l’universo medesimo.

���.Platone, Fedone, 113, cit., p. 119.


100. Ibidem.
107
Stefano Bevacqua

La terra è qualche cosa di straordinariamente grande, e noi abitiamo in


una piccola parte che va dal fiume Fasi alle Colonne di Eracle, stando
intorno alle rive del mare come rane o formiche intorno a uno stagno. E ci
sono molti altri uomini che abitano altrove, in molte altre regioni simili a
questa. Infatti, intorno alla terra ci sono numerose cavità di ogni forma e
di ogni grandezza, entro le quali si sono riversate insieme l’acqua, l’aria
e la nebbia. Ma la terra, in sé stessa, è pura e si trova nel cielo puro, dove
si trovano anche gli astri; e questo cielo, la maggior parte di coloro che
sogliono trattare di queste cose chiamano etere. E l’aria, la nebbia e l’acqua
sono sedimenti dell’etere e sempre si riversano insieme nelle cavità della
terra. Pur abitando nelle cavità della terra, noi non ce ne accorgiamo e
siamo convinti di abitare sulla superficie della terra, come se uno, abitando
nel mezzo della profondità del mare, credesse di abitare sopra la superficie
del mare, e, vedendo attraverso l’acqua il sole e gli altri astri, credesse che
il mare fosse cielo.101

La Terra coincide con l’Universo e quel che se ne può vedere nella


vita quotidiana è soltanto un tubercolo, un infimo dettaglio nel quale le
cose più immonde sono proprio concentrate nel mare:

Nel mare non cresce niente di buono e, in generale, in esso nulla è perfetto,
ma vi sono rocce e arene e immense distese di melme e pantani in tutti quei
luoghi in cui vi sia anche terra: cose che, per nessuna ragione, sono degne
di venir comparate con le bellezze che ci sono quassù.102

Una cosmologia quasi inversa rispetto a quella di Okeanos,


cosmologia talassofobica, che pone un mare immenso, l’Oceano,
intorno all’universo e, al tempo stesso, descrive il mare come la massima
negatività, la melma e il pantano, l’immondo che si cela nella profondità
della terra. Il luogo del confine che segna gli elementi di questa visione
è così costituito dalla terrificante vastità impenetrabile e inconoscibile
delle acque, le stesse che nascendo e riversandosi in un tumulto infinito
da e verso il centro della terra si prendono carico di trasportare le anime
dei morti nelle destinazioni stabilite. Nessun Okeanos, nessuna bonaria
protezione; soltanto flutti e morte, pericolo e colpa, che sembrano
quasi minare la perfezione di un cielo bellissimo e puro e che, certo
non casualmente, inghiottiranno un giorno la mitica Atlantide, luogo di
perfezione e di ricchezza, di fertilità ineguagliabile e di vita paradisiaca.
Atlantide speculare ad un’Atene ormai scomparsa e caduta in rovina,
creata dagli dei per mettere la perfezione sulla Terra; Atlantide paradiso
terrestre; come Erythia, terra di confine, luogo ultimo prima del
����.Platone, Fedone, 109, cit., p.116.
102. Ibidem.
108
Nel confine

divenire inconosciuto ma già oltre la comune e mortale normalità. Il


mito di Atlantide si origina in Platone. Non esiste traccia precedente
del racconto dell’isola che si ergeva nell’Oceano, oltre le Colonne di
Eracle. Nessuna traccia solida, né minima allusione; nulla negli autori
della Grecia arcaica, né in più antiche narrazioni mediterranee. Forse
proprio per questo Platone volle che a riferire di Atlantide non fosse
Socrate, il maestro e, insieme, il personaggio dominante di quasi tutti
i suoi scritti, ma Crizia, prima, nel Timeo, che a sua volta si rifà ai
racconti di Solone, e poi, lo stesso Socrate, certo, nel Crizia, dialogo
che appare come continuazione del Timeo, ma ancora per sentito dire da
coloro che conobbero i discendenti del medesimo Solone. Platone mette
le mani avanti: da una parte, costruisce attentamente una macchina
significante complessa e capace di coerenza interna, per affrescare la
sua visione della città ideale, qui forse più pregnante che nelle opere
di più grande respiro, come la Repubblica; dall’altra parte, si premura
di negare preventivamente la paternità del racconto, ricorrendo ad
un personaggio a sua volta lontano, vissuto quasi due secoli prima,
in questo modo affogando ogni responsabilità intorno alla veridicità
della narrazione – della quale, peraltro, poco gli importa, se non ad
evitare che anche il progetto di città ideale ne venga in qualche misura
screditato. Avrebbe potuto non fare riferimento alcuno, affermare come
sua legittima convinzione e fondata conoscenza il racconto dell’isola
e della città atlantiche, come aveva fatto nel caso dei miti escatologici
del Fedone; invece qui vuole agganciarsi in una sia pur limitata misura
ad un riferimento esterno e storico, che dia un valore più saldo al suo
parlare, perché nel Fedone, Platone riferisce l’irriferibile, come ciò
che avviene una volta oltrepassata la soglia della cessazione della vita,
luogo dal quale nessuno ha mai potuto fare ritorno in maniera cosciente,
mentre nel Timeo, e poi e soprattutto nel Crizia, riferisce quella che
deve essere storia accaduta, anche al punto di lamentarsi della perdita
della memoria storica delle antiche imprese103. Ecco una Atlantide
realistica – reale – resa coerente per il suo bisogno di esemplificare la
città ideale, ma anche utile per collocare un nuovo luogo di margine
ultimo, a ridosso del limite, del confine del mondo, lembo della Terra
che si affaccia nell’Oceano oltre ogni altro, fino a sporgersi al di fuori
del conosciuto, luogo a mezza via tra mondo reale e mondo immaginato
– fatato. E così non desti alcuna meraviglia il fatto che Platone abbia

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. “Così in essa [l’Attica, nda] Efesto ed Atena fecero nascere uomini virtuosi e
ispirarono nelle loro menti l’ordine politico. I nomi di costoro sono giunti fino a noi; non
così la memoria della loro opere a causa dell’estinzione di chi doveva tramandarla e della
distanza di tempo”. [Platone, Crizia, 109, cit. p. 1422.]
109
Stefano Bevacqua

dedicato tante pagine ad una tanto minuziosa descrizione dell’origine e,


soprattutto, dell’evoluzione e della conformazione finalmente assunta
dall’isola della perfezione, perché aveva la necessità di disegnare la
mappa della sua città ideale attingendo alla più coerente delle narrazioni,
che nulla potesse lasciare indeterminato ed incerto, perché altrimenti
quella stessa immagine ne avrebbe patito.
Eppure, nel racconto platonico Atlantide mantiene comunque qualche
cosa di sovrannaturale, unitamente, peraltro, a tutti i luoghi della terra, poiché
nasce da una sorta di lottizzazione avvenuta tra i membri dell’Olimpo, a
ciascuno dei quali fu data in dote un’area di mondo. Ad Efesto ed Atena
toccò l’Attica, a Poseidone l’isola di Atlantide. Era novanta secoli prima
dell’Atene di Platone. Fu guerra, condotta dagli ateniesi pressoché soli nella
difesa del mondo intero che Atlantide voleva colonizzare e vittoriosi, ma al
prezzo del declino della loro città e dell’Attica, che dopo quell’epoca fu
destinata ad elemosinare ciò di cui bisognava ad altri lidi, per via dell’arsura
di una terra divenuta sempre meno fertile – ancora la dipendenza dal mare,
che Platone considera come una delle peggiori condizioni nelle quali
costruire lo stato in giustizia.

Poseidone, preso da passione, giacque con Clito. Così scavò tutt’intorno


a quell’altura in cui la fanciulla abitava, formando come dei cerchi
concentrici, alternativamente di mare e di terra ora più larghi ora meno
larghi: due di terra e tre di mare quasi fossero circonferenze con centro
nell’isola, e da essa perfettamente equidistanti. In tal modo quel luogo
risultava inaccessibile agli uomini, tenuto conto del fatto che allora non
c’erano ancora né le navi né l’arte della navigazione. Lo stesso Poseidone,
poi, in quanto dio, non ebbe difficoltà a rendere splendida l’isola che stava
al centro, suscitando due fonti dalla terra – l’un che scorreva dalla sorgente
in un rivo d’acqua calda, l’altra d’acqua fredda – e facendo spuntare dal
suolo ogni genere di pianta commestibile in grande quantità. [...] Coprirono
i bracci di mare che circondavano l’antica metropoli con dei ponti, allo
scopo di creare una via di comunicazione tra l’esterno e la sede dei re,
la quale fin dall’inizio era stata costruita nel luogo in cui aveva abitato il
dio. [...] L’isola che ospitava il palazzo reale aveva il diametro di cinque
stadi.104 Tutto l’insieme – ovvero, l’isola, le cinte e i ponti della larghezza
di un pletro – fu circondato completamente con mura di pietra su cui si
ergevano torri di avvistamento e portali in corrispondenza dei ponti e di
ogni accesso al mare. La pietra da costruzione, che era bianca, nera e rossa,
la cavarono dalle sponde dell’isola centrale e dagli anelli esterni.105
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. Le più comuni unità di misura lineari della Grecia antica erano le seguenti: il dito, pari
a circa 9 millimetri; il piede, pari a circa 26,6 centimetri; il cubito reale, che corrisponde
a due spanne aperte, pari a circa 52,5 centimetri; il pletro, pari a 100 piedi, ovvero a 29,6
metri; lo stadio, pari a 600 piedi, ovvero 177,6 metri.
����.Platone, Crizia, 113 e 115, cit. p. 1425 e 1427.
110
Nel confine

Pierre Vidal-Naquet106 vede in questa tricromia l’indizio di un


riferimento all’oriente. Platone colloca Atlantide dentro il limite
stesso che separa l’ultima propaggine occidentale del mondo da tutto
il rimanente spazio ignoto, ma sembra in effetti voler riferirsi a luoghi
speculari, situati sul lato opposto del mondo allora conosciuto, piuttosto
verso Babilonia oppure Ecbatana, che a occidente. Alcuni indizi in
questo senso vengono da Erodoto:

Deioce fece costruire mura ampie e possenti, quelle che hanno ora il nome
di Ecbatana, con cinte di mura poste l’una dentro l’altra. Questa fortezza
è fabbricata in modo tale che una cinta è più alta dell’altra soltanto dei
propugnacoli. [...] Le cinte sono in tutto sette, e dentro l’ultima c’è la reggia
e i tesori. [...] La prima cinta ha propugnacoli bianchi, la seconda neri, la
terza purpurei, la quarta azzurri, la quinta rossicci. Così i propugnacoli di
tutte le cinte sono colorati: le due ultime poi li hanno l’una argentati, l’altra
dorati. [...] Il perimetro della città è in totale 480 stadi. Questa dunque
è l’estensione di Babilonia, e inoltre essa è adorna quanto nessun’altra
città a noi nota. Prima di tutto la circonda un fossato profondo e largo e
pieno d’acqua, quindi un muro che ha una larghezza di 50 cubiti regi ed
un’altezza di 200 cubiti.107

Un’opulenza che sembra contrastare duramente con il piccolo mondo


delle città greche, nonostante – forse per giustificare una vittoria ateniese
che altrimenti mal si spiegherebbe – Platone si sforzi di ricordare come
Atene, in quel tempo lontano, fosse ben più ricca e circondata da fertili
campagne, successivamente rovinosamente cancellate da un’alluvione.
E riferisce di enormi lavori di irrigazione che i dieci re di Atlantide,
del loro dominare tutto il mondo che si trovava oltre le Colonne di
Eracle e così anche la Tirrenia e l’Egitto; riferisce dettagliatamente
della costruzione della città, che con l’andare delle generazioni si fece
sempre più splendida e scintillante di marmi e di pietre e di colori
rilucenti, di acque calde e fredde disponibili in quantità per ogni dove
di un’isola che, nella narrazione, sembra come crescere in misure
tanto quanto si arricchisce di opere e mura, di terme e di fontane, di
porti e di canali. Ricchezza e potenza dispiegata secolo dopo secolo,
pagina dopo pagina del Crizia, fino all’epilogo necessario: il diluirsi
della saggezza, della conoscenza e del potere del dio originario, di
Poseidone, in un rivolo sempre più sottile in ciascuno degli abitanti
della sempre più potente isola-città-stato-impero, comportò la graduale
����. P. Vidal-Naquet, Athènes et l’Atlantide. Structure et signification d’un mythe
platonicien, in La Grèce ancienne, con Jean-Pierre Vernant, vol. 1, Éditions du Seuil,
Paris 1990.
����.Erodoto, Storie, I, cit., p. 195 e 273.
111
Stefano Bevacqua

perdita della capacità di bene amministrare quelle immense ricchezze,


“in una parola, degenerarono. Zeus decise allora di punirli nel giusto
modo. A tale scopo convocò tutti gli dei nella sala più solenne – quella
che si trova proprio al centro dell’intero cosmo e da cui si può vedere
ogni accadimento del mondo del divenire – e raccoltili insieme, prese
a dire...”108. Il Crizia finisce con questi tre punti di sospensione, quasi
un luogo di stacco tra la narrazione fin qui cresciuta ed un ulteriore
vicenda che rimane confinata oltre la memoria. Probabilmente, Platone,
in quegli anni impegnato nella stesura dell’imponente libro delle Leggi,
non ebbe più il tempo, o il desiderio, di concludere il dialogo, pensando
forse anche che l’essenza del suo progetto di uomo e di società
umana fosse ben condensato nel Timeo, di cui il Crizia appare come
un corollario interminato, monco, spezzato, proprio nel punto in cui
riferire nel dettaglio e con coerenza di quale fosse stata la natura degli
eventi che trasformarono un luogo di confine in un nulla di Oceano,
facendolo sprofondare verso la limaccia e il pantano che abita i fondali
dell’immondo mare che si insinua nell’oscuro cunicolo che si crede
sia il mondo. Platone, nel Timeo, per voce di Crizia che dice di averlo
saputo da coloro i quali ebbero in racconto le parole di Solone, che
raccontava di ciò che gli fu narrato da un Sacerdote, dice soltanto che
Atlantide sprofondò:

In tempi successivi, però, essendosi verificati terribili terremoti e diluvi,


nel corso di un giorno e di una brutta notte, tutto il complesso dei
guerrieri di colpo sprofondò sotto terra, l’isola Atlantide, allo stesso modo
sommersa dal mare, scomparve. Per questo anche ora quel mare è diventato
impercorribile ed inesplorabile, essendo di notevole impedimento il fango
profondo che produsse l’isola, sprofondando.109

Ecco il divieto, il pericolo; ecco il mare come ostacolo insormontabile,


confine del mondo, spazio verso il quale è possibile sporgersi, ma soltanto
prendendo piede ben saldo da un punto fermo, da un luogo che affermi
la reversibilità dello sguardo, che garantisca sempre aperta l’opzione del
tornare sui propri passi. L’Oceano è oltre il margine, pur bene in vista,
ammirabile nella sua grandezza e maestosa potenza, esso è situato al di
là di quel lembo che lo unisce al mondo, oltre il luogo del limite, Erythia
oppure Eschatiai. L’Oceano che è innanzi intoccabile è dunque ciò che
qualifica, in questo specifico caso, Erythia come luogo di confine, in
quanto essa già si situa al di fuori del margine, come punto dal quale
protendersi verso l’ulteriore dominio essendo da questi avvolta, ma non
����.Platone, Crizia, 121, cit., p. 1432.
����.Platone, Timeo, 25, cit., p. 1359.
112
Nel confine

sommersa come Atlantide. L’Oceano si situa ulteriormente, domina ma


non invade, si impone allo sguardo e impregna l’aria con la sua densa
salinità, ma non cancella l’identità di Erythia, niente affatto, anzi, è
Erythia medesima ad identificarsi in funzione dell’Oceano, perché il
suo essere luogo quasi limbico, enigmatico perché non perfettamente
delineato e circoscrivibile deriva proprio dall’Oceano che essa unisce
al mondo conosciuto. L’Erythia visitata da Eracle-Melqart per rubare le
mandrie di Gerione, è brumosa; è terra ferma dalla quale sporgersi con
piede ben saldo verso l’Oceano, ma si colloca oltre un possibile limite e
per questo presenta già un relativo carattere di indeterminatezza, quella
lieve nebbia, come anche ad Atlantide, figlia di un Oceano che trasmette
una lieve parte di sé verso questo luogo terzo, affermando anche così
la propria presenza, imponendosi come elemento totale ma che ancora
è trattenuto.
Soltanto Odisseo poté violare l’Oceano e cavalcarne i flutti. Ma,
nella narrazione di Omero, lo fece non per addentrarsi oltre il limite
del mondo, bensì per raggiungerlo. È facile, leggendo il libro XI
dell’Odissea, immaginare quasi che l’eroe di Itaca abbia in realtà
costeggiato il bordo del mondo per raggiungere il suo apice, la città
dei Cimmeri, e che non abbia piuttosto attraversato l’Oceano, fiume
immenso, ma ne abbia semmai seguito il corso, anzi, una parte, una
frazione di quel corso, che altrimenti sarebbe impossibile, nella sua
vastità, tutto ripercorrere. Nessuna traversata, soltanto una navigazione
sicura, sotto la guida attenta della dea:

Dopo aver disposto, uno per uno, gli attrezzi sulla nave, noi stavamo
seduti: la guidavano il vento e il nocchiero. Per un giorno intero, a vele
spiegate, correva sul mare. Tramontò il sole, si velarono d’ombra le strade,
ed essa giungeva ai confini di Oceano dalle acque profonde. Là c’è il
popolo e la città dei Cimmeri, avvolti di nuvole e nebbie; il Sole fulgente
non li illumina mai coi suoi raggi né quando sale verso il cielo stellato
né quando dal cielo ridiscende verso la terra: una cupa notte incombe su
quella gente infelice.110

La città dei Cimmeri come Erythia, luogo al limite, nel limite, ma non
oltre il limite, nel quale Odisseo, compiuto il complesso cerimoniale
sacrificale, vede aprirsi la soglia che conduce nel mondo dei non più
viventi, per interrogare l’indovino tebano Tiresia e conoscere quale
potrà essere il suo destino. La città dei Cimmeri, lido di un continente
lontano ma ancora situato in questo mondo, forse isola o lembo di
terra proteso verso l’Oceano, bagnato dall’immenso fiume e da esso
. Omero, Odissea, XI, Rizzoli, Milano 2008, p. 361.
����
113
Stefano Bevacqua

risparmiato, è luogo in cui l’eroe può sporgersi verso il mondo abitato


dai non più viventi. La città dei Cimmeri ospita la porta che congiunge
il mondo con l’altro mondo ed è posta al limite di Oceano che avvolge
il mondo. Erythia è luogo ove tener saldo piede per sporgersi tentando
una vista attraverso le brume generate dall’Oceano al fine di scorgere
questo medesimo, di coglierne l’immane grandezza; la città dei Cimmeri
è luogo ove spingere il vedere oltre la cessazione della vita, al di là
del tempo, avanti nel tempo riferito ad Odisseo dall’indovino tebano
e, insieme, indietro nel tempo che mostra all’eroe i suoi sventurati
compagni e sua madre e quanto accaduto ieri e più indietro in ogni
tempo. Luogo di confine temporale, dunque, che mantiene spazialità
soltanto nella profondità della buca larga un cubito che Odisseo scava
con la lucida lama della sua spada per porvi l’offerta sacrificale che
apre la soglia custodita da Erebo. Non c’è altro spazio che quello del
varco che apre la vista verso il tumulto delle anime dei trapassati; non
c’è spazio nell’istante temporale della cessazione della vita, ma soltanto
un tempo che si dilata verso il prima e verso un dopo, occupato dai
racconti che Odisseo raccoglie, che si spingono nel passato e, insieme,
si avventurano nel futuro disegnato da Tiresia. Tempo che l’eroe
comprime come conoscenza che lo dovrà accompagnare nel viaggio
ulteriore ed ennesimo che lo attende: “Rapido feci ritorno alla nave
e ai compagni ordinai di imbarcarsi e levare gli ormeggi. Subito essi
salirono e si sedettero ai banchi. Sull’onda del fiume Oceano correva la
nave, prima a forza di remi, poi con il vento propizio”.111
Omero nulla riferisce intorno alle Colonne d’Eracle: non dice
apertamente se Odisseo le abbia varcate, afferma soltanto che l’eroe,
con i suoi compagni, ha percorso un vasto tratto di Oceano, anzi, la
nave “correva sul mare”, per un giorno intero, fino al tramonto. Ma non
è dato di sapere di quale tramonto si tratti. Potrebbe essere quello che
si afferma innanzi al navigatore che lo fissa come meta, indirizzando la
nave sempre a occidente, puntando la prua esattamente sul disco dorato
ed inseguendolo, tentando, miglio dopo miglio, di prevenirne la caduta
al di là del mondo, verso quella tenebra cui si dirige concludendo ogni
giorno. Ma potrebbe anche essere il normale tramonto che scandisce
il tempo e definisce la lunghezza della giornata trascorsa a navigare,
soltanto per dire, come Omero sembra lasciare intendere, che, appunto,
il viaggio di Odisseo e del manipolo di amici che ancora lo segue, è
durato l’intero giorno. Infine, potrebbe essere il tramonto che accelera
risalendo verso le terre buie ed inospitali in cui vivono i Cimmeri, popolo
del Nord, ove il sole rimane così basso da nemmeno superare la linea
111. Ivi, p. 399.
114
Nel confine

dell’orizzonte, un tramonto che non riferisce più di alcun tempo, ma


soltanto di un luogo, ove si affaccia la soglia che permette di sporgersi
verso l’altro mondo. Omero lascia il lettore nell’incertezza, e questo gli
permette di non porsi la questione della legittimità del gesto di Odisseo:
l’eroe ha violato l’Oceano, questo è indubbio; ha necessariamente
varcato le Colonne d’Eracle, ma ciò non viene apertamente riferito,
quasi ad attenuare la gravità del fatto; ma non ha attraversato l’Oceano,
lo ha forse costeggiato, non dissimilmente da Eracle-Melqart quando
si portò fino a Cadice per porre la prima pietra del suo monumento.
Se Odisseo avesse mai osato la traversata, questa non sarebbe infatti
stata questione di un giorno soltanto. Nessun oltraggio, dunque; e se
oltraggio vi è stato, da parte di Odisseo, Omero lo dissimula abilmente,
perché ha scelto di seguire, qui come del resto in tutta l’Odissea, una
rotta mai lineare bensì sempre labirintica, fatta da infiniti ripiegamenti e
distensioni, come nel costeggiare con la più pedante minuzia i contorni
frastagliati di una costa, che in questo modo di procedere diviene
interminabile, impossibile da decifrare fino al singolo e più minuscolo
tratto, meno di un segmento, semplice punto adimensionale in cui si
riassume il percorso come successione infinita di punti privi di uno
spazio proprio, semplice idealizzazione descrivibile attraverso il calcolo
e non per via di un osservare.
Non così per Dante, il cui Ulisse compie il misfatto, puntando diritto
la prua della nave verso il sole, senza mai volgere il suo sguardo,
lasciando ogni lido dietro le spalle, lontano dalle Colonne d’Eracle,
verso l’occidente in cui il sole si riversa. Ulisse ne sarà punito nel
modo estremo, con la morte, data dallo stesso Oceano, che in un gorgo
inghiottirà l’eroe e il suo equipaggio. Ulisse è reo di aver troppo voluto,
arrivando a sfidare i divini precetti. Dante lo incontra nell’ottava
bolgia, condannato ad esistere avvolto tra le fiamme circondato dagli
altri consiglieri fraudolenti, pena dal poeta scelta per l’assonanza
tra calliditas, astuzia, e caliditas, calore, per cui coloro i quali hanno
ecceduto nel proferire suggerimenti volti ad un tornaconto devono ora
pagare questa colpa ardendo di dolore. Il delitto di Ulisse non è però
soltanto quello di avere ecceduto in presunzione ed astuzia, fino a violare
il comandamento di mai oltrepassare quel limite che Ercole aveva fissato
con così tanta precisione. Sono Penelope, il vecchio padre e il giovane
figliolo abbandonati, quasi dimenticati nell’estasi di una Circe che lo
ha sottratto al dovere per oltre un anno, a costituire ulteriore motivo di
condanna. Pena drastica, perché l’Ulisse di Dante non approda nemmeno
all’isola che tentava di guadagnare esortando i suoi compagni a dar di
remi fino all’ultimo braccio di mare, perché il loro destino è quello di

115
Stefano Bevacqua

grandi uomini, che mirano alla virtù ed alla conoscenza e non certo a
vivere come bruti. Cinque mesi, dura questo ultimo viaggio dell’eroe;
viaggio definitivo. Al termine dei quali Ulisse viene inghiottito dal
confine che tanto cercava e che, forse, nemmeno sapeva di avere, non
fosse che in quell’istante speso a rincuorarsi inutilmente della terra
promessa ritrovata, finalmente conosciuto. Il monte che appare dopo la
quinta rivoluzione della luna nel cielo che avvolge l’altro emisfero è il
Purgatorio, luogo che Dio ha interdetto ad ogni vivente. Ulisse vedeva
la sua possibilità come senza confini, illimitata, tale da permettergli ogni
attesa ed ogni percorso, ed è proprio nel confine che divide il mondo
da ciò che non gli appartiene che egli cade risucchiato. Il gorgo si apre
davanti alla nave e prima gli fa battere la prora e infine alza la poppa al
cielo, per richiudere il mare sopra l’eroe ed i reduci che ancora ebbero
la sventura di accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Gorgo come luogo
di delimitazione non dissimile dalla terra dei Cimmeri: lassù nel buio
del Nord si apriva il varco che metteva in comunicazione il mondo
e l’altro mondo; qui è il gorgo che risucchia la vita e la fa cessare
nell’oblio, rinchiudendola nell’eterna fiamma della punizione. Gorgo
che conduce al Tartaro; soglia di passaggio, luogo del tempo in cui si
comprime l’intera esistenza dell’eroe di Itaca e si condensa la sua eterna
dannazione. Gorgo labirintico, con una sola uscita possibile ma letale.
L’Ulisse di Dante sceglie la rotta diritta nel disco dorato del sole e infine,
dopo centoquaranta giorni e notti a colpi di remi, incontra il labirinto che
aveva voluto evitare rinnegando le orme dell’Odisseo di Omero, il quale,
con ben altra prudenza, scelse la via più lunga, sotto costa, e, soprattutto,
una meta meno ambiziosa, quella della conoscenza del passato, piuttosto
della vana pretesa di dominare ogni futuro.
Odisseo sapeva che il suo interminabile viaggio era costellato di pericoli
e intrighi e ben conosceva quali fossero le regole alle quali avrebbe dovuto
di volta in volta attenersi. Non sempre lo fece, come con la maga Circe,
presso la quale a lungo soggiornò e giacque dimenticando Itaca e Penelope e
Telemaco. Nessun dubbio, invece, lo attraversò di fronte al rischio di essere
risucchiato e distratto dalle Sirene. Omero, qui, diede a Odisseo istruzioni ben
precise, complesse, un piccolo sistema coerente di prevenzione e condotta,
dotato anche dei necessari correttivi qualora in alcuni suoi elementi esso
avesse dovuto mostrare qualche falla. È la divina Circe a premonirlo ed
istruirlo. Odisseo aveva appena lasciato le acque di Oceano ed era rinvenuto
dalla visita all’indovino Tiresia, puntando la prua della nave verso l’isola
Eea e la casa di Aurora, dove sorge il sole. Dopo il succinto rito funebre
dovuto ad Elpenore, caduto dal tetto della casa di Circe ove ebbro si era
addormentato, la divina maga trattiene Odisseo per la mano e lo premonisce:

116
Nel confine

Giungerai per prima cosa dalle Sirene che incantano tutti gli uomini che
passano loro vicino. Chi senza saperlo si accosta e ode la voce delle Sirene,
non torna più a casa, i figli e la sposa non gli si stringono intorno, festosi: le
Sirene lo stregano con il loro canto soave, sedute sul prato; intorno hanno
cumuli d’ossa di uomini imputriditi, dalla carne disfatta. Va oltre, dunque,
e chiudi le orecchie dei tuoi compagni con della morbida cera, perché
nessuno di loro le oda; tu ascolta, se vuoi, ma fatti legare coi piedi e le
mani alla base dell’albero, sulla nave veloce – all’albero siano attaccate
le funi – perché possa godere ascoltando la voce delle Sirene. E se preghi
i compagni, se comandi loro di scioglierti, con funi ancor più numerose ti
stringano.112

Rischio mortale, dunque, peggiore di quelli fin a quel giorno corsi


dall’eroe in ragione dell’impossibilità di combattere e di fare della
propria forza ed abilità arma vincente. Se Odisseo non seguirà il
consiglio di Circe non potrà mai più fare ritorno a Itaca. La stessa lunga
unione con la divina maga permetteva, e stava in effetti permettendo,
una reversione – o conversione – nulla era perduto. Ma le Sirene
costituivano un rischio fatale e senza remissione possibile. Odisseo
aveva già compiuto il viaggio alle sorgenti del tempo, aveva già aperto
la porta dell’Ade e visto ciò che era scorso; ora la sua necessità era
il ritorno e il compimento della vendetta che ormai sapeva necessaria
contro chi lo stava tradendo. Il piacere del canto delle Sirene è però
troppo intenso per potervi rinunciare del tutto. È Circe a offrire all’eroe
la possibilità di godere di questa meraviglia senza correre rischi. Ecco
l’idea che egli possa rimanere in ascolto estasiato ma ben legato dai
suoi compagni all’albero della nave, mentre questi remano di gran foga
con le orecchie sigillate dalla cera, ben pronti a raddoppiare le funi che
lo cingono non appena egli con lo sguardo chiedesse di essere slegato.
Metà donna e metà uccello, le Sirene canteranno, ma tutto andrà come
predisposto da Circe:

Così cantavano con voce bellissima. E il mio cuore voleva ascoltare,


ordinavo ai compagni di sciogliermi, accennando loro con gli occhi. Ma
sui remi si curvarono essi, ed Euricolo e Perimede si alzarono e con altre
funi mi legarono e ancor più mi strinsero. Ma quando le oltrepassammo e
più non sentivamo la loro voce né il canto, subito i miei fedeli compagni si
tolsero la cera che sulle loro orecchie spalmai, e sciolsero me dalle funi.113

Odisseo ha potuto udire il fatato canto delle Sirene ma, con i suoi
compagni, è in salvo, pronto ad affrontare la furia di Scilla e di Cariddi,
. Omero, Odissea, XII, cit., p.403.
����
113. Ivi, p. 413.
117
Stefano Bevacqua

che li attendono al varco, per riprendere il lungo cammino. Sirene come


le Colonne d’Eracle, segno di passaggio, come Scilla e Cariddi, come
la sessa Eea ove dimora la divina Circe. Nell’avventura di Odisseo i
confini si moltiplicano, ciascuno abitato dal passaggio dell’eroe. Solo
luoghi dell’estremo, luoghi al limite e sul limite, nei quali il tempo non
scorre più con la sua abituale e necessaria regolarità, ma offre sussulti
ed arresti, improvvise aperture sul passato, come sulla porta dell’Ade,
ovvero insinuanti visioni di un possibile futuro: presente dilatato nelle
due dimensioni dell’accaduto e del previsto. Omero vuole però che
queste soglie, questi luoghi liminari, non siano mai definitivi bensì
offrano sempre un’alternativa, una reversione, come se quel tempo che
in essi si raggruma portando una quantità di passato ed una possibilità di
successione, sempre avesse con sé una possibilità, come la biforcazione
offerta da Circe che, dando ad Odisseo indicazione su come superare il
pericolo costituito dalle Sirene – pur garantendogli il godimento di un
ascolto reso innocuo dalle complicate precauzioni adottate – si risolve ad
indicare all’eroe le due strade che successivamente egli potrà imboccare
– peraltro entrambe abitate dall’estremo pericolo. Odisseo farà ritorno a
casa: la sua è l’avventura di un cerchio che si chiude, non quella di una
linea che con il passare del tempo si fa sempre più diritta e mira ormai
indisturbabile verso la fine. Quest’ultima è la rotta segnata da Dante,
che porta al gigantesco gorgo che ogni cosa richiude su se stesso. Rotta
definitiva e fatale, che Ulisse sceglie nell’accesso di superbia che lo
induce a scuotere i suoi compagni “fatti non foste a viver come bruti”,
muovendo da un errore primigenio, da un dirottamento del quale non
è data notizia nell’Inferno, ma più oltre, nel Purgatorio, e nemmeno,
come d’abitudine, attraverso la testimonianza di uno dei suoi ospiti che
Dante interroga nel condurre il suo viaggio, bensì in un sogno di Dante
medesimo, durante il quale gli appare una donna misera, ma dalla voce
straordinaria e incantante, la Sirena, che confessa di essere stata lei a
distogliere Ulisse dal meandro delle pieghe, delle andate e dei ritorni
che alla fine lo avrebbero riportato a casa, per indirizzarlo invece verso
la rotta fatale, quella che punta diritto nel disco dorato del sole.
Ulisse, al contrario di Odisseo, non ha dunque saputo resistere alla
tentazione e ha dato ascolto al canto delle Sirene, ma non per essere da
queste ammaliato fino al punto di perdere la ragione e lasciarsi morire di
fame e di sete instupidito dal canto fatale, bensì per esserne semplicemente
dirottato oltre i confini. Ulisse ascolta le Sirene e ne rimane soggiogato al
punto di dimenticare ogni sua intenzione e dovere e nemmeno accorgersi
di chi in effetti egli abbia innanzi – come Dante che dimentica subito la
mostruosa fattezza della Sirena che gli appare in sogno non appena ella

118
Nel confine

inizia il suo canto – ma non rimane a perire sul lido ove ha attraccato e
riprende, invece, il viaggio – ma non il suo viaggio; Ulisse ormai segue
il percorso che le Sirene gli indicano, oltre il confine terminale, quello
che unisce questo mondo all’altro mondo, troppo lontano e troppo diritto
verso il sole per poterne mai fare ritorno. Canto fatale, ma non perché
leghi ad un suolo inanimi uomini inebetiti; piuttosto canto che svia e
induce nell’errore perché suadente ed armonico, capace di riassumere
ogni giustezza fino a rispecchiare il moto perfetto degli astri e lo scandire
preciso del tempo, oppure il canto insufficiente, insoddisfacente, che pone
in errore perché se ne coglie soltanto un lembo, se ne vuole conoscere
l’interezza e si è così spinti a cercarlo e ricercarlo, oltre il confine.
Il primo è il canto delle Sirene di Platone, che generano la perfetta
armonia che si fa d’intorno ad Ananke, la divina ed ineluttabile necessità.
È la storia di Er, il guerriero venuto dalla Panfilia, il quale può narrare ciò
che accade nell’altro mondo, oltre la soglia della cessazione della vita.
Platone, nella Repubblica, riferisce come Er, giunto di fronte ai giudici,
sia stato a da questi posto in attesa: essi sapevano che egli sarebbe
tornato tra i vivi e gli ordinarono, quindi, di osservare ed ascoltare tutto
ciò che stava accadendo affinché ne riferisse in Terra. Il guerriero, una
volta tornato in vita, racconterà dunque di come le anime che affollano
inverosimilmente quest’altro mondo siano divise tra coloro che hanno
generato dei torti e compiuto delitti e le altre che ne siano emendate. I
migliori, nettati dal peccato o che non lo avessero per nulla compiuto,
attendevano la purificazione per alcuni giorni per giungere infine al
cospetto di una “luce diritta, a forma di colonna, che si protendeva
dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra”.114 Continua Platone:

Si potevano scorgere, in mezzo alla luce, le estremità dei legami protendersi


dal cielo; in effetti tale luce è il legame del cielo, la forza che tiene unita
la volta celeste, come fanno le fasce della chiglia delle triremi. Fra queste
estremità era teso il fuso della Necessità, da cui dipendono tutti i moti di
rivoluzione. [...] Dobbiamo immaginare che si trattasse suppergiù di un
grande fusaiolo cavo e completamente svuotato all’interno, in cui trovava
posto un altro più piccolo [...] nel secondo fusaiolo si inseriva poi un terzo,
un quarto e poi altri quattro. Pertanto, i fusaioli che si inserivano l’uno
nell’altro erano in totale otto, e i loro bordi superiori avevano l’aspetto
di cerchi. [...] Il fuso girava sulle ginocchia della Necessità. In alto, su
ognuno dei suoi cerchi, si muoveva una Sirena, anch’essa trascinata dal
moto circolare. Ciascuna emetteva una sola voce, di un solo tono, cosicché
da tutte otto quant’erano risultava un’unica armonia.115

. Platone, Repubblica, X – 616 B, cit., p. 1324.


����
115. Ivi, p. 1325.
119
Stefano Bevacqua

Una sola voce ed un tono solo: una nota, esatta, cantata con la
medesima intensità da ciascuna delle Sirene, a comporre l’armonia
che riassume tutta la possibile articolazione della musica, sorta di
ripiegamento monotòno del molteplice. Otto note perfette e pure, che
corrispondono agli otto riferimenti che il destino fa roteare sempre
ed ineluttabilmente: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere,
Mercurio, Luna, ai quali le Sirene danno voce. Sono Sirene celesti,
chiamate a porre la perfezione del loro canto al servizio di Necessità,
la quale guida il coro perfetto dell’armonia del mondo. Platone le
arruola dall’oltretomba, ove le colloca quasi con fastidio e disgusto116,
oppure dal mondo quotidiano ove esse tentano di ammaliare i saggi
per fuorviarne l’intelletto117. Sirene perfette nel loro cantare, che
garantiscono perfino a Necessità, assoluta regina di ogni mondo,
l’ordine delle cose, in guisa di guardiane dell’armonia perché capaci
sempre di quella nota perfetta e monocorde, affinché il canto ne venga
come un unisono simile al necessario ed immutabile equilibrio del
cielo, comprensione delle differenze che permangono ma vengono
riunite attraverso il loro perpetuamento, infinita ripetizione della
differenza. Ma rimane così del tutto inspiegato il motivo del loro
attrarre. Fossero esse soltanto perfette cantatrici, perché mai, quando
presidiano il confine del mondo che sia lecito percorrere dovrebbero
essere capaci di sedurre e portare all’oblio di ogni cosa, del
proprio medesimo desiderio, languendo fino alla morte nell’ascolto
ipnotizzante e ripetitivo?
Presidio del confine, la Sirena, cattura nel suo luogo il marinaio
perché ciò che emana dalle sue labbra è il desiderio di ciò che non
si concede mai: purezza e totalità della seduzione, annuncio di ciò
che viene mostrato e subito sottratto, mai davvero concesso, sempre
lasciato nell’indecisione. Il marinaio muore d’inedia alla ricerca di ciò
che gli viene annunciato ma non concesso. Tempo della ricerca arrestato
nell’istante eterno in cui si percepisce l’identità di quel dono perfetto e
se ne insegue la possibilità, luogo liminare in cui si comprime l’intera
possibilità del desiderio e, insieme, tutta la sua impossibilità, come nel
viaggio fatale di Ulisse, il quale perde l’identità della sua stessa meta,
mosso dalla sfida del tutto conoscere. Maurice Blanchot contrappone la
perfezione all’insoddisfazione, la prima che accompie nella pienezza
ogni desiderio fino a cancellarlo, la seconda che lo moltiplica senza mai
darne conto. Scrive Blanchot:

. Platone, Cratilo, 403 D, cit., p. 151.


����
. Platone, Fedro, 259 A, cit., p. 566.
����
120
Nel confine

Le Sirene: sembra in effetti che cantino, ma in una maniera che non


soddisfa, che lascia soltanto capire in quale direzione si aprono le vere
sorgenti e la vera gioia del canto. Tuttavia, grazie al loro imperfetto canto,
canto in divenire, esse conducono il navigatore verso quello spazio ove
il cantare comincia veramente. Esse non lo ingannano, lo conducono
realmente all’obiettivo. Ma, una volta giunti alla meta che cosa accade?
Che cos’era questo luogo? Quello in cui non rimane altro che scomparire,
perché la musica, in tale regione di nascita e di originazione, era essa
stessa scomparsa con maggiore completezza che in qualsiasi altra parte
del mondo: mare ove, con le orecchie tappate, i viventi si inabissavano e
dove le Sirene, a prova della loro buona volontà, dovettero, anch’esse un
giorno scomparire. [...] Questo canto, non bisogna sottovalutare la cosa,
era indirizzato a dei naviganti, uomini del rischio e delle azioni ardite,
ed era esso stesso un navigare: era una distanza, e ciò che rivelava era la
possibilità di percorrere questa distanza, di fare del canto il movimento
verso il canto e di questo movimento l’espressione più alta del desiderio.
Strana navigazione, ma verso quale destinazione?118

Nella lettura di Blanchot il canto sublime delle Sirene assume la


funzione e, in un certo senso, anche l’aspetto, di un indicatore, ma non
soltanto in quanto la percezione manchevole induca a meglio conoscere
al fine di pienamente godere di quel canto, bensì come movimento
stesso del navigare. Dopo essere stati catturati dalle Sirene i naviganti
seguono i volteggi e le forme del loro canto come un percorso obbligato.
Blanchot si chiede quale sia la destinazione. Forse la risposta a questo
interrogativo sta proprio nel senso che assume il percorso del canto: a
dare la rotta sono le Sirene, la rotta è sconosciuta e soltanto nel momento
in cui essa viene percorsa appare, come in un disegno tracciato con un
inchiostro magico che faccia apparire quanto descritto soltanto dopo
un certo tempo, irregolarmente, secondo i capricci delle Sirene che
governano le sorti dei naviganti. Il canto diviene percorso esso stesso,
le Sirene lanciano soltanto le note esatte, quelle che sanno conquistare
il desiderio di altre note secondo una progressione da loro soltanto
conosciuta. I naviganti pongono la barra nella direzione indicata dal
canto; la loro meta è il canto esso stesso, ovvero la sua perpetuazione,
la sua ripetizione nella quale si riassume ogni nota, ogni modulazione,
ogni differenza, attraverso il ripiegamento e l’estensione della melodia.
Luogo liminare estraneo alla volontà dei naviganti ma ancora terreno,
sul bordo che conduce, come accade a Ulisse, nell’altro mondo, ma
ancora al di qua, nel mondo, oppure in un mondo immaginabile, come
quello sognato da Dante nel Purgatorio, come quello di cui parla Jules
Michelet, il quale, forse volendosi liberare dal tedio dei ventisei tomi
. M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 9 e 10.
����
121
Stefano Bevacqua

redatti sulla storia di Francia, volle dedicare un volumetto al mare,


raccontato con le parole della poesia mischiate a quelle della storia
naturale, della geologia, della chimica, della zoologia. Una pagina è
dedicata alle Sirene, alle quali egli, erudito professore del Collège de
France119, non poteva sorprendentemente fare a meno di credere. Scrive
Michelet:

Se si seguono certe tradizioni [...] gli anfibi più sviluppati, avvicinandosi


alla forma umana, sarebbero diventati mezzo-uomini, uomini del mare,
tritoni o sirene. Soltanto, all’inverso delle melodiose sirene della fiaba,
queste sarebbero rimaste mute, impotenti nel darsi un linguaggio, di
comunicare con l’uomo, di ottenere la sua pietà. Queste razze sarebbero
così perite, così come noi vediamo perire lo sfortunato castoro, che non
può parlare, ma che piange. È stato detto con grande leggerezza, che
queste strane figure erano delle foche. Ma ci si poteva sbagliare di più ?
La foca, in tutte le loro specie, è conosciuta fin dall’antichità. Dal settimo
secolo, ai tempi di San Colombano120, veniva pescata e se ne mangiavano
le carni. Gli uomini e le donne del mare [tritoni e sirene, nda] di cui si parla
nel sedicesimo secolo, non sono stati visti giusto un momento sulle acque,
ma portati a terra, messi in mostra, nutriti nei grandi centri di Anversa
e di Amsterdam, all’epoca di Carlo V e di Filippo II, dunque sotto gli
occhi di Vésale121 e dei primi sapienti. Si fa menzione di una femmina
marina che visse lunghi anni in abito religioso, in un convento in cui tutti
potevano vederla. Ella non parlava, ma lavorava: filava. Soltanto, ella non
poteva evitare di amare l’acqua e di fare ogni sforzo per ritornarvi. Si dirà:
se questi esseri sono esistiti veramente, perché furono così rari? Ahinoi,
la risposta non va cercata troppo lontano. È che generalmente venivano
uccisi. Era peccato lasciarli in vita, “perché erano dei mostri”. È quanto
dicono espressamente i vecchi racconti.122

Sorprendente convinzione; sogno ad occhi aperti. Michelet riferisce


di leggende, ma non sembra affatto critico, anzi, sembra credere
a quello che scrive. Le Sirene lo hanno ammaliato senza bisogno di
proferire alcuna nota, senza canto, soltanto con la fascinazione del loro
mito e della loro passata esistenza. Sirene mute, quelle di Michelet, che
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. Michelet fu nominato al Collège de France, la più autorevole istituzione accademica
europea dell’epoca, nel 1838, quand’era ancora assai giovane, soltanto quarantenne.
Ma venne sollevato dall’incarico nel 1851 per volere di Napoleone III che lo ritenne
eccessivamente liberale.
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. Il riferimento è a San Colombano, monaco e missionario irlandese, nato a Navan nel
542 e morto a Bobbio nel 615, al quale la chiesa deve l’evangelizzazione di gran parte
della Francia.
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. Andreas Vesalius, medico, anatomista, nato a Brabant, in Belgio, nel 1514 e morto
nel 1564 a Zante, in Grecia.
����.J. Michelet, La mer, Librairie Nouvelle, Paris 1875, p.64.
122
Nel confine

non possono indicare apertamente un percorso, ma forse lo lasciano


immaginare, in una rêverie fantastica alla quale lo storico della
Francia non sa – o non vuole affatto – sottrarsi. Sirene immaginarie
che dispongono i contorni di un mondo non possibile, tanto meno
probabile, ma immaginabile, nel quale esse dimorino in un mare diverso
da quello reale, oltre il limite, dalla parte del mondo fatato, ma che non
è ancora l’altro mondo. Luogo poetico, mare senza rotte conosciute,
senza alcun confine, forse senza nemmeno una terra che, intorno al
mare, ne decida i limiti fisici. Il contrario del mare reale, quello in cui
si sono combattute guerre sanguinarie per più di trenta secoli, campo
aperto e campo di battaglia, da conquistare per dominare la terra che
esso bagna; mare senza alcun valore proprio, soltanto spazio dal quale
muovere per aggredire altre genti, spazio da solcare per commerciare
e accumulare ricchezze, spazio da segmentare per stabilire chi è il più
potente. Platone insiste innumerevoli volte: il mare è negatività, luogo
ove la salsedine corrompe. Le vere battaglie, quelle decisive, che hanno
fatto la storia dell’Attica e, insieme a questa, i fondamenti della storia
dell’Occidente, si sono combattute, dice Platone, sulla terra ferma, tra
eroi in armi, sfruttando astuzie e fortune, cavalli come quello di Troia
ed armi fatte da mani divine come quelle di Achille, ma sempre a terra,
sulla terra, sulla rassicurante solidità del suolo. Eppure, c’è almeno
una battaglia combattuta sul mare che assume il carattere dell’evento
decisivo, di svolta epocale, di snodo sul quale i destini della Grecia
e quindi della cultura occidentale sono stati giocati fino in fondo: la
battaglia di Salamina.
Non è importante stabilire se, in effetti, quella vicenda abbia davvero
condizionato il futuro del Mediterraneo. Se i Persiani non fossero stati
fermati, sostengono taluni, la civiltà greca non avrebbe avuto modo di
crescere e consolidarsi, contagiando, come è stato, l’intero versante
meridionale dell’Europa. Se i Persiani avessero potuto dominare il
Mediterraneo, non ci sarebbe forse stato nessun impero romano e tutte
le vicende successive avrebbero probabilmente avuto un corso del tutto
diverso da quello che si conosce. Ma non è tanto questo che rende la
battaglia di Salamina così particolare, quanto il fatto che sia stato un
evento tale da incidere in misura decisiva la memoria collettiva di
un popolo e, con essa, la storia di un continente. Battaglia decisiva,
dunque, più per il suo ruolo simbolico che per le conseguenze che
ha oggettivamente comportato; prima gigantesca battaglia sul mare,
attraverso la quale spostare un confine, quello destinato a separare
l’occidente dall’oriente, la Grecia dai Barbari; mare che diviene esso
stesso, attraverso la battaglia, luogo di confine, abitato, in quella giornata

123
Stefano Bevacqua

del 23 settembre del 480 a. C., dai due fronti che si combattono, da
centinaia di migliaia di uomini in armi, che si spostano continuamente
sulla superficie di un mare minuscolo, un braccio d’acqua affollato fino
all’inverosimile.
La battaglia fu raccontata per primo da Eschilo, che vi prese parte
a pieno titolo, otto anni dopo, nel 472 a. C., quando fu rappresentata
per la prima volta ad Atene la sua tragedia Persiani. Poi è stata la volta
di Erodoto, nell’ottavo libro delle sue Storie, scritto qualche decennio
dopo. Quindi, a quattro secoli da quel decisivo evento, toccò a Diodoro
Siculo, lo storico di Agyrion, l’attuale Agira, nei pressi di Enna, autore
della Bibliotheca historica. Infine, alla fine del I secolo, fu Plutarco
a riferirne, in una delle sue vite parallele, quella dedicata alla coppia
Temistocle, eroe attico della battaglia, e Camillo. Quattro versioni
somiglianti e divergenti. Dall’unione di queste differenti versioni, tenuto
in debito conto delle traduzioni e delle interpretazioni dei testi antichi,
si riesce a ricostruire quanto accaduto in quel primo giorno d’autunno di
venticinque secoli fa e a definire le dimensioni della vicenda. Perché ad
impressionare, subito, di primo acchito, sono proprio i numeri. In base
alle ricostruzioni condotte dallo storico francese Georges Roux123, le
forze in campo erano le seguenti: i Greci, riuniti sotto il comando dello
spartano Euribiade, con l’ateniese Temistocle nel ruolo di comprimario
e decisivo condottiero, schieravano complessivamente 380 triremi; i
Persiani, guidati da re Serse I, potevano contare su circa 1200 navi,
fornite in buona parte da Fenici ed Egiziani. Le triremi greche, più
pesanti e ingombranti di quelle in dotazione agli avversari, erano lunghe
tra 35 e 40 metri ed erano mosse da un numero di vogatori compreso
tra 160 e 180. Quelle persiane ospitavano, sempre su tre ranghi di voga,
tra 130 e 160 rematori. A questi, in entrambi i casi, andavano sommati
alcuni fanti ed arcieri, timonieri ed ufficiali di bordo. Gli uomini schierati
dall’alleanza dei Greci erano circa 70 mila; quelli al comando di Serse
non meno di 200 mila. Le sole navi greche, messe ipoteticamente in fila
una dietro l’altra, disegnavano un serpente lungo quattordici chilometri.
Trecentomila gli uomini a bordo, ai quali bisognava aggiungere le forze
di terra, ridotte al minimo sul versante dei Greci, che erano stati sconfitti
duramente nelle settimane precedenti, perdendo il possesso di Atene
ed avendo visto mettere a ferro e fuoco la sacra Acropoli, ma enormi
sul lato dei persiani, che occupavano tutta la costa dell’Attica, della
Tracia e dell’Anatolia con non meno di cinquecentomila soldati. Lo
specchio di mare nel quale si affrontarono i due schieramenti non è più
����.G. Roux, Eschyle, Hérodote, Diodore, Plutarque recontent la bataille de Salamine,
in “Bulletin de correspondance hellénique”, vol. 98, 1974, pp. 51-94.
124
Nel confine

lungo di cinque chilometri né largo più di due; proprio l’impossibilità


di schierare tutte insieme le loro navi decretò la sconfitta dei persiani.
Decisiva fu l’astuzia di Temistocle, che costrinse gli avversari a battersi
nell’angusto specchio d’acqua che separa la terra ferma dall’isola di
Salamina, costellato di insenature ed isolotti, passaggi impossibili
da percorrere con una flotta, dai quali soltanto una nave alla volta
può emergere, divenendo così facile bersaglio. I Persiani avrebbero
voluto snidare i Greci per affrontarli e di sicuro batterli in mare aperto;
Temistocle fu di avviso opposto e tenne le navi greche rintanate nella baia
di Ambelaki, al riparo del lungo promontorio di Kinosoura124. Gli alleati
degli Ateniesi erano dell’avviso di salpare al più presto per ripiegare su
Corinto e porre l’istmo a baluardo difensivo del Peloponneso, anche
a costo di dover affrontare i Persiani nel golfo di Saronicco. Ma ecco
Temistocle prendere in pugno la situazione, inviando un messaggero
presso Serse per informarlo che le navi greche stavano per darsi alla
fuga. Il re persiano decise così di cingere d’assedio l’isola di Salamina
su tutto il suo versante meridionale; i Greci rimanevano così confinati
nella parte chiusa del golfo. All’alba – o verso mezzogiorno, a seconda
delle ricostruzioni – le navi fenicie per prime tentarono il loro ingresso
nella trappola tesa da Temistocle; la mattanza ebbe inizio. Inesorabili, le
navi ateniesi iniziarono lo speronamento di ogni imbarcazione nemica
che si affacciava dai due stretti che separano Salamina dal piccolo
isolotto di Psyttaleia e questo con l’attuale porto del Pireo.
Serse osservava la disfatta dall’alto della collina di Perama, assiso
su un trono che apposito era stato eretto nel punto più alto della costa,
proprio innanzi allo stretto percorso nel quale le sue navi si erano
insinuate per diventare bersaglio di un tiro a segno. Il bilancio fu di
oltre trecento navi affondate e di cinquantamila morti per i persiani;
meno di trenta navi e poche migliaia di uomini uccisi sul lato della
coalizione greca. Costretto a riprendere terra nella baia di Falero, il re
persiano decise di fare un passo indietro per recuperare uomini e nuove
imbarcazioni, decidendo di proseguire via terra la sanguinosa conquista
del mondo ellenico, lasciando il comando al generale Mardonio; l’anno
successivo l’esercito persiano verrà battuto dai Greci nella battaglia
di Platea. Nel mare, nello stretto braccio d’acqua che separa il Pireo
dall’isola di Salamina, galleggiava il ricordo della battaglia, aleggiava
il suo fragore e l’odore della morte. Nessun segno per delimitare. Via
libera, il golfo di Saronicco tornava ai Greci, il luogo della battaglia,
instabile confine tra le parti in guerra, diventava simbolo di una svolta, la
storia avrebbe avuto il sapore del greco e mai assunto quello dell’oriente.
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. La strada che oggi costeggia quell’insenatura è l’Akti Themistokleous.
125
Stefano Bevacqua

Il confine nel mare, confine idealmente tracciato da uno sguardo, ché le


mappe ancora non potevano schiacciare la profondità in un disegno,
aveva reso possibile la definizione di nuovi confini terrestri, ben più
concreti, questi, fatti con le pietre ed i pali, le torri e le mura. Ma aveva
torto Platone, quando sosteneva che le battaglie navali di Artemisio e
di Salamina avevano addirittura sporcato la trasparenza della vittoria
greca. Scrive Platone nelle Leggi:

Clinia – Tuttavia, caro ospite, noi Cretesi andiamo sostenendo che è stata
proprio la battaglia navale di Salamina condotta dai Greci contro i Barbari a
salvare l’Ellade. Ateniese – Noi diciamo che furono le battaglie campali di
Maratona e di Platea a costituire rispettivamente l’inizio ed il coronamento
della salvezza dei Greci e che [...] alcune di queste battaglie valsero a far
progredire i Greci, altre no. E a tal proposito, a quella di Salamina potrei
anche aggiungere quella di Artemisio.125

È l’inconsistenza materiale di un confine tracciato sull’acqua a


rendere vago anche l’esito di una battaglia. I popoli vivevano e vivono
sulla terra e quelle linee tracciate sulla superficie di mari ed oceani, linee
vaghe, invisibili dall’occhio e pensabili soltanto grazie allo sguardo che
separa e definisce uno spazio ideale, linee fissate dalle battaglie, che
servivano per fissare altri limiti, quelli terrestri, che delimitano il qua ed
il là, il possesso e l’alterità. Linee che sembrano allargarsi ed assumere
una dimensione grande quanto lo spazio occupato da una battaglia e
poi ancora perdere nel tempo la loro definizione, fino a confondersi
con l’intero mare sul quale sono state idealmente tracciate; linee che
nulla possono segnare se non la transizione, attraverso ripiegamenti e
rivolgimenti, da uno stato ad un altro, divenendo luoghi adimensionali
perché mutevoli e sempre mobili nel tempo, quindi multidimensionali
ovvero omnidimensionali, capaci di ricondurre a unità per concentrazione
ogni posizione possibile, ogni qua ed ogni là.
Bisognerebbe chiedersi quanto fosse larga la raya che Alessandro VI,
Papa Borgia, fissò nel maggio 1493 per stabilire quale parte del mondo
fosse di pertinenza della corona di Castiglia e quale andasse attribuita
ai regnanti lusitani. Nemmeno due mesi erano trascorsi dal 15 marzo,
quando Cristoforo Colombo fece ritorno in Europa dopo il suo primo
viaggio alla scoperta delle nuove rotte per le Indie e dirompente si
pose la questione della spartizione del Nuovo Mondo almeno tra le due
principali potenze marinare di quell’epoca, la Spagna e il Portogallo.
Soltanto il Papa, in quel ruolo di grande mediatore degli interessi delle
corone che gli giuravano fedeltà, aveva il potere di dirimere simili
����.Platone, Leggi, IV 707 C, cit., p. 1527.
126
Nel confine

controversie e così avvenne. Il 3 maggio 1493, Alessandro VI emanò


una prima bolla con la quale concedeva, donava ed assegnava il Nuovo
Mondo ai re Cattolici. Una seconda bolla, datata dello stesso giorno,
precisava le prerogative attribuite al sovrano spagnolo, mentre un terzo
ed un quarto documento, emanati il giorno successivo, ripartivano le
zone di espansione di pertinenza di Madrid e di Lisbona. Con questi atti,
che rimasero segreti fino all’anno successivo, venne disegnata una linea
ideale che congiungeva il Polo Nord con il Polo Sud, passando cento
miglia ad Ovest del meridiano che attraversa le Azzorre e Capo Verde.
Il 7 giugno del 1494 si giunse alla stipula del trattato di Tordesillas che
fissava una nuova raya, situata a 370 miglia ad Ovest di Capo Verde.
Tutto ciò che si trovava a Ponente della raya era di pertinenza spagnola,
tutto quel che si trovava a Levante spettava ai Lusitani. Mondo tagliato
in due: l’America centrale, tutte le terre che affacciavano il mar dei
Caraibi e l’intero versante del Pacifico in mano spagnola; il Brasile e
le terre d’Africa assegnate al Portogallo. La raya, la linea, riga, segno,
non era tracciata nemmeno con la matita, soltanto con la matematica,
con l’osservazione astronomica ed il ricorso alla trigonometria; ancor
prima di Descartes e della geometria analitica, Papa Borgia disegnò un
confine che tagliava il Nuovo Mondo, fissando un di qua e un di là. Raya
larga un niente, perché separazione ideale, riga monodimensionale,
ventimila chilometri quasi esatti, poco meno di undicimila miglia,
che alla fine del XV secolo valevano più di 200 giorni di navigazione.
Niente spessore, solo lunghezza, taglio netto che sega in due parti
l’Oceano Atlantico comprendendo una parte del continente americano;
taglio arbitrario, formale, militare. Nella bolla del 4 maggio il Papa
stabiliva anche l’assoluto divieto di varcare quel limite a chiunque non
avesse espressa licenza da parte del re. Il Nuovo Mondo non soltanto
era diviso a metà, tra il sovrano di Castiglia e il Re del Portogallo, era
anche vietato a chiunque lo volesse raggiungere per farvi commercio o
qualsiasi altra cosa. Raya come confine invalicabile, assoluto, ma del
tutto ideale, matematicamente generato, ma indifendibile proprio per
la sua astrazione. Nel 1496, tre anni dopo le bolle di Alessandro VI,
Enrico VII, re d’Inghilterra violò la raya: nessun valore aveva per lui il
trattato di Tordesillas, niente limiti ai suoi vascelli che partiti da Bristol
giunsero in Labrador e in Terranova guidati da Giovanni Caboto.
Diversamente, le amity lines, tracciate per la prima volta da Francia
ed Inghilterra con il trattato di Cateau-Cambrésis del 1559 per fissare
le rispettive sfere di influenza marittima e militare, fino al Tropico
del Cancro o all’Equatore, verso Sud, e tra Azzorre e Canarie, verso
Occidente, non indicavano, come le rayas, i rispettivi possessi, ma

127
Stefano Bevacqua

circoscrivevano aree ove era lecito affrontarsi in libera competizione.


Al di qua del limite era la pace ed un certo ordine, peraltro sempre assai
relativi; al di là delle lines ognuno agiva come riteneva più opportuno
per conquistare nuove terre e risorse, anche mettendo mano alle armi.
Uno strumento per allontanare dall’Europa il rischio di una condizione
di guerra permanente, senza per questo rinunciare al confronto militare
anche più aspro per il possesso del Nuovo Mondo, che trasformava
lo spazio fissato dalle lines come luogo indefinito ed indefinibile,
suscettibile di vedere, in momenti diversi, differenti possessori, destinati
a mutare in funzione del volgere della competizione – gigantesco campo
sul quale giocare l’interminabile partita per il dominio, che vede il
continuo spostarsi ed avanzare e retrocedere e obliquare di tutti i diversi
attori, come le navi greche e persiane nella battaglia di Salamina, che
si rincorrevano e avanzavano, retrocedevano e scartavano di lato per
evitare l’aggressore, occupando sempre tutto lo spazio a disposizione
per poi ritrovandosi schiacciate verso i bordi, i limiti, l’amity line, la
terra ferma, la ripida scogliera dalla cui sommità Serse contemplava il
proprio fallimento.
Linee di demarcazione puramente ideali e geometriche, astrattamente
euclidee, che sfidano ogni concretezza della geografia fisica, questi
confini sul mare, dentro l’acqua, mobili come mai immutabile è la
superficie che fendono. Confini impossibili, rayas che dureranno il
tempo di un dominio, quello ispanico-lusitano, che faranno naufragio
con le amity lines franco-inglesi, che non delimitano, anzi, aprono,
dischiudono e ufficializzano un luogo mobile e in continuo mutamento,
perché in mutamento costante è il fronte che vede l’affrontamento delle
due potenze. Mare come luogo di confine in costante modificazione,
ripiegamento ed estensione, nel quale si gioca la partita del dominio
delle terre; supremazia strategica del mare sulla terra ferma, mare in
perenne mobilità e terra immobile, mare che incute – anche a Platone
– l’angoscia dell’indeterminato, terra che, rassicurante, permane solida
sotto i piedi. Si disegna il mare per conquistare la terra, per raggiungere
l’altra terra, quella che il mare separa dalla prima. Percorso abitato dal
pericolo e denso di rischi, come quello compiuto da Ercole-Melqart
e ripetuto da Odisseo-Ulisse. Oppure percorso che quotidianamente
occorre seguire per unire una terra ad un’altra, un’isola al resto della
città, un’isola ad un altra isola, ciascuna separata da ogni altra dall’acqua,
la stessa acqua mobile che tutte le avvolge e che insieme lambisce la
ferma terra, come nelle isole di Venezia, capitale dell’insularità, dove
l’acqua scorre nel dedalo dei canali, percorrendo pieghe e ripiegamenti
e ghirigori – imitando il gorgo che conquista Ulisse. Acqua punteggiata

128
Nel confine

dai segnali che indicano il percorso. A Venezia, nelle acque vaste della
laguna che uniscono il labirinto delle isole della città alle ferme terre,
sono le bricole, fasci di due o tre solidi pali di legno, ad indicare le vie
d’acqua, i canali realizzati dragando il fondo melmoso della laguna.
Le imbarcazioni più grandi devono seguire i percorsi segnati dalle
bricole, per non arenarsi sui fondali limacciosi. Le bricole segnano
due margini ai quali corrisponde la maggiore profondità delle acque;
fuori dai margini, oltre quel limite, il fondale è minimo, l’acqua
diviene come una lamina superficiale, semplice ricopertura di un suolo
che rimane come sospeso tra terra e mare, né solida terra, né acqua
completamente libera di muoversi e mutare continuamente forme,
indeterminazione e transizione tra condizioni soltanto apparentemente
opposte ed inconciliabili. Nella Venezia labirintica trova così ragione
anche la possibilità di un luogo sospeso nell’indecisione, in balia
della marea quotidiana e di quella occasionale che tutto inonda e, al
tempo medesimo, del sedimento che dalla ferma terra si ripiega nella
laguna. Le bricole la punteggiano, delimitando un luogo ulteriore,
più simile al mare, ma costretto in una forma lineare, come un fiume
d’acqua salmastra che si insinua in un’acqua più vasta che a sua volta si
confonde con la fanghiglia e lambisce, attraverso il reticolo dei canali,
le mille isole, anch’esse fangose e inferme, sulle quali è stata eretta
la città, fondata su milioni di pali lignei che si puntano nel limaccio
e che la salsedine ha nei secoli corroso, mischiando le fibre al fango,
il vegetale al minerale, l’acqua con il solido, il solido con il liquido,
elemento terzo fatto dell’una e dell’altro, luogo liminare, di transizione,
instabile, transitorio.
Il mare non può essere diviso e nemmeno dominato. Le acque
territoriali di cui si è riferito sono linee ideali, astratte, che nessuno
vede, nemmeno se e quando le si oltrepassa. Per sapere se ci si trova
all’interno o all’esterno di quel limite serve il calcolo – con le stelle o
con il satellite, dal sestante al GPS – ed è lo stesso calcolo che è stato
effettuato una prima volta nell’intenzione di fissare il limite medesimo.
Sono mutate le tecniche e gli strumenti, ma non l’astrattezza geometrica
di una procedura che identica si ripete nel fissare un limite marittimo e
nel verificare se lo si è infranto. Il mare non può avere alcun padrone
ma soltanto guardiani che ne possono solcare o sorvolare la superficie,
la cui posizione relativa alla linea di costa è fissata dall’elaborazione
matematica di informazioni spaziali. Nessun possesso, dunque; soltanto
permane l’intenzione del possesso. Dominio affannoso, faticoso,
difficile da esercitare, che deve essere ripetuto – dal “bip” del GPS –
infinite volte per affermarlo. La colpa è del mare, instabile e fluido,

129
Stefano Bevacqua

furioso e immobile, sempre diverso da se medesimo. Si consideri che


i mari del mondo hanno un volume complessivo che sfiora la cifra
di 1,4 miliardi di chilometri cubi, ciò che equivale a 1,4 x 1021 litri.
Alla temperatura di 25° Celsius, un litro d’acqua contiene circa 3,34 x
1025 molecole. I mari del mondo contengono circa 4,7 x 1046 molecole
d’acqua. Virtualmente, ognuna di queste molecole potrebbe assumere,
nel tempo, la posizione di qualsiasi altra: indeterminazione assoluta,
nessun riferimento possibile, mobilità inafferrabile, soltanto l’astrazione
geometrica viene in soccorso, ma anch’essa soltanto per immaginare un
disegno sull’imprecisa e sempre mutevole superficie del mare, non certo
per tracciarlo, ché ogni fenditura aperta nell’acqua perenne si richiude e
si risolve, immediata. Nessun segno. Il mare non ha dominatori, soltanto
geometri della dominazione. E non può essere fissato in alcun punto,
non ha un inizio né una fine determinate e puntualmente osservabili.
Ma non sono soltanto i confini dentro il mare ad essere fluidi ed
indeterminati, tanto da fare dell’intero mare il luogo dell’indeterminata
transizione da un di qua ed un di là; sono anche i confini tra il mare e ciò
che non è il mare ad essere, in ultima istanza, fluidi e aperti, anch’essi
luogo liminare, la cui ampiezza, sempre mutevole nel tempo, è fissata
dal mare medesimo attraverso la sua incessante mobilità. Stabilire dove
finisce e dove inizia il mare è cosa ardua. Ne sa qualche cosa il professore
Ismael A. Ismael Bartleboom, uno dei personaggi che popolano i luoghi
di Oceano mare di Alessandro Baricco, intento nelle ricerche necessarie
alla redazione della sua Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura
con un supplemento dedicato ai limiti delle umane facoltà.

Solo, in mezzo alla spiaggia, Bartleboom guardava. A piedi nudi, i pantaloni


arrotolati in su per non bagnarli, un quadernone sotto il braccio e un cappello
di lana in testa. Leggermente chinato in avanti, guardava: per terra. Studiava
l’esatto punto in cui l’onda, dopo essersi rotta una decina di metri più indietro,
si allungava – diventa lago, e specchio e macchia d’olio – risalendo la delicata
china della spiaggia e finalmente si arrestava – l’estremo bordo orlato da un
delicato perlage – per esitare un attimo e alfine, sconfitta, tentare una elegante
ritirata lasciandosi scivolare indietro, lungo la via di un ritorno apparentemente
facile ma, in realtà, preda destinata alla spugnosa avidità di quella sabbia che,
fin lì imbelle, improvvisamente si svegliava e, la breve corsa dell’acqua in
rotta, nel nulla svaporava. [...] Dove inizia la fine del mare? O addirittura:
cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di
divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua
che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere?
Diciamo tutto in una parola sola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto
qui, a un passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è.126
����.A. Baricco, Oceano mare, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 31 e 37.
130
Nel confine

L’impresa del professor Bartleboom è destinata all’insuccesso,


perché ciò che egli si ostina a cercare, il luogo dove “inizia la fine
del mare”, sfugge ad ogni considerazione. Esso, al più, è frutto di una
convenzione, di quel consueto giudizio in base al quale si identifica
la terra ferma ed il mare che la lambisce. Abitudine, dunque, quella
che induce a indicare un limite, per così dire: sommario, indefinibile
con una precisione maggiore delle molte decine di metri che separano
il versante di terra di una duna costiera e la parte sottomarina della
spiaggia che si colloca innanzi al suo fronte. Il fatto soltanto che si
definisca abitualmente “fondo marino” tutto ciò che è coperto dalle
acque permette di intuire la vastità dell’indeterminazione la quale il
mare produce nel suo proporsi alla terra ferma. Quando la terra ferma
sembra infilarsi sotto la coltre del mare, muta denominazione, diviene
attributo del mare – fondo marino – ma non cambia natura o sostanza
e alcuno appare tentato dal chiamarla “terra sommersa”. Sulla terra,
contro la terra, vince il mare. Il mare copre la terra – per la precisione ne
copre il 70 per cento – eppure si definisce terra come ciò che emerge dal
mare e non mare come ciò che copre la terra. Mare nemico, come sempre
per Platone, ostile negatività, eterno pericolo che l’uomo è chiamato a
sfidare e che questi in effetti sempre sfida anche senza motivi apparenti,
perché è la sfida più grande, quella contro l’immensità della distesa e la
profondità di un abisso. È peraltro vero che sono più profonde le fosse
oceaniche che il mare nasconde, con i quasi undicimila metri di quella
delle Marianne, piuttosto che le vette dei monti che si elevano sulla terra
ferma, con i quasi novemila metri dell’Everest, ma questo certamente
non basta a spiegare l’inversione operata nella definizione del luogo del
mare e della terra, quasi quest’ultima fosse ciò che avanza dal mare,
risparmiato dalla divinità possente, enorme ed orribile che governa i
flutti in eterno mutamento. Il professor Bartleboom fallirà nella sua
ricerca del punto ove “inizia la fine del mare” perché esso è indefinibile,
perché non è un punto bensì un luogo, una superficie, anzi: un volume
tridimensionale mutevole nel quale le acque del mare si ripiegano e
si dispiegano continuamente, con movimenti ora brevi e ordinati, ora
lunghi e convulsi, talvolta trattenendosi nella bassa marea, talaltra
spingendosi fino a minacciare l’intero fronte della duna, ora sbattendo
con violenza distruttrice su rocce sempre più erose e sfinite dalle onde,
ora limitandosi a disegnare un incerto bordo sulla roccia verticale, tra
bagnato e asciutto. È l’incessante movimento del mare a decidere la
forma della terra, davvero in-ferma, quando così la si consideri, nella
sua sottomessa vulnerabilità. Sono le onde e la marea a descrivere la
spiaggia, a stabilire la forma e la storia della duna, a conformare la

131
Stefano Bevacqua

scogliera smussandone il disegno, rimodellandolo continuamente.


Non esiste la fine del mare perché essa si protende nella terra, sotto di
essa, impregnandone la trama, insinuando la sua salinità in profondità.
L’insuccesso del professor Bartleboom è anche quello della madre di
Suzanne, nel racconto di Marguerite Duras:

Allora ella dovette arrendersi alla realtà: la sua concessione era


incoltivabile. Ogni anno era invasa dal mare. È vero che il mare non saliva
alla stessa altezza ogni anno. Ma montava sempre tanto da bruciare tutto,
direttamente o per infiltrazione. A parte i cinque ettari che davano sulla
pista, e nel mezzo dei quali aveva fatto costruire il suo bungalow, ella
aveva gettato i suoi risparmi di dieci anni nelle onde del Pacifico. [...]
Gli uomini avevano trasportato carri di pali dalla pista fin al mare e si
erano messi al lavoro. La madre scendeva con loro all’alba e ritornava la
sera con loro. [...] Due mesi erano passati. La madre scendeva sovente per
veder crescere le piantine, che diventavano via via più verdi e grandi fino
alla grande marea di luglio. Poi, in luglio, il mare era salito come sempre
all’assalto della piana. Gli sbarramenti non erano abbastanza potenti, erano
stati corrosi dai granchi nani delle risaie. In una notte, sprofondarono. [...]
L’anno seguente, la piccola parte degli sbarramenti che aveva resistito era
crollata a sua volta.127

Eraclito lo sapeva: “Il mare: acqua purissima e insozzatissima; per i


pesci certo bevibile e salutare, ma per gli uomini imbevibile e letale”128.
Nemmeno il limite tra acqua dolce ed acqua salata riesce a giungere
definito e chiaro, sfrangiandosi in rivoli di differenza. È soltanto quando
il mare cede le molecole della sua acqua al cielo – evaporazione – che il
sale si cristallizza e si distingue finalmente dal fluido, riservandosi soltanto
il ruolo di catalizzatore della ricondensazione, punto di aggregazione
delle molecole gassose in minutissime goccioline destinate a ricadere.
Ciclo perfetto, che Jules Michelet paragona a quello che permette
l’ossigenazione del corpo degli animali superiori nell’alternanza
diastolica e sistolica del sangue. Cicli di natura perfetti, che riferiscono
con precisione altrimenti impossibile, l’ampiezza del luogo che unisce
uno stato – il dolce ed il salato come l’arterioso ed il venoso, il mare e la
terra ferma – all’altro contiguo. Luoghi di miscelazione ed indeterminata
posizione, sempre mutevoli, inafferrabili. Non si può descrivere alcun
confine netto, alcun limite preciso, sicuro nella sua identità; soltanto
ci si può attendere ad un ondeggiare tra ciò che non è quasi più pur
non essendo ancora altra cosa, semplice salinità diluita ma in maniera
non uniforme, lamine di acqua dolce che, come alla foce dei fiumi, si
����.M. Duras, Una diga sul pacifico, cit., pp. 19-20, 47-49.
����.Eraclito 14[A 39], in G. Colli, La sapienza greca, III, Adelphi, Milano 1980, p.53.
132
Nel confine

miscela all’enorme e preminente massa dell’acqua marina inquinandola


– riducendo localmente la salinità – in modo differenziato in funzione
del flusso del fiume e delle sue portate, e del moto ondoso e delle correnti
del mare che lo accoglie. Correnti, anch’esse come lamine sovrapposte,
con temperature e salinità differenti in funzione del loro moto, simili,
per immagine, al fiume, il quale soltanto in apparenza mantiene una
sua complessiva, ancorché del tutto relativa, omogeneità: fiume della
terra ferma e corrente nel mare, piuttosto che moto complesso e non
descrivile da alcuna modellistica, fluttuazione imprevedibile nella
sua meccanica locale, movimento eterno che si ripetete e si ripresenta
nell’interminabilità di un ciclo sempre riacceso. Corrente del mare
come luogo della differenza, nel quale flussi laminari del fluido si
intersecano e si sovrappongono generando lamine indeterminabili,
ripiegamenti infiniti, sempre più piccoli, come quelli che affollano la
gola più profonda ed abissale del gorgo in cui precipita Ulisse.

133
TERZA VARIAZIONE

NATANAELE
Pelle e membrane

Eberhard Frömter, direttore dell’istituto di Fisiologia applicata del


Policlinico di Francoforte, la definisce come ciò che rende “possibile uno
scambio selettivo di materiale con l’ambiente esterno”, provvedendo
così a “mantenere costante nel tempo la composizione interna”129.
Membrana, membrana cellulare, in questo caso, ma anche qualche cosa
di più generale, di meno tecnicamente circoscritto alla fisiologia ed alla
biologia; membrana come pelle, abito, copertura, interfaccia, luogo di
scambio, fase di passaggio, separazione che riunisce, confine biologico
e materiale, psicologico e ideale. Scrive ancora Frömter:

Il trasporto di sostanze attraverso le membrane è un fenomeno fondamentale


per i viventi. [...] Tutti i fenomeni biologici sono strettamente connessi ai
processi di membrana. Le membrane svolgono infatti un ruolo di primaria
importanza sia nella trasformazione dell’energia chimica in lavoro
meccanico, ovvero in potenziale osmotico o elettrico, sia nell’acquisizione
e utilizzazione dell’informazione, sia nella riproduzione, anche se in misura
più limitata. [...] Le membrane epiteliali, costituite da una molteplicità di
cellule, [...] separano il corpo dall’ambiente, come nel caso della pelle,
oppure rivestono cavità interne del corpo.130

Motore essenziale della vita, a tutti i suoi possibili livelli dimensionali,


dall’essenzialità di un virus, fatto soltanto da una copertura proteica,
una capside, e da uno o due filamenti di RNA o di DNA, come cellule
dimezzate, parassiti obbligati che per esistere hanno bisogno del lavoro
di una cellula completa di tutte le strutture biochimiche necessarie
alla replicazione, dalla semplicità del virus all’assoluta ed indicibile
complessità dell’organismo umano, la membrana è l’onnipresente sistema
di contenimento e protezione e di scambio con il mondo esterno. La

����. E. Frömter, Stofftransport durch biologische Membranen, in Biophysik – ein


Lehrbuch, Springer Verlag, Heidelberg 1977, p. 328, riportato in traduzione italiana alla
voce Trasporto attraverso membrane biologiche nella “Enciclopedia del Novecento”,
Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VII, Roma 1984, pp. 823-851.
130. Ibidem.
Stefano Bevacqua

membrana permette di distinguere il dentro dal fuori; è confine puntuale


ed irrevocabile tra le due estensioni e, insieme, è luogo di permeabilità
selettiva. In più, seguendo l’insegnamento di Frömter, ci si avvede che
l’incessante lavoro che avviene nella membrana è ciò che garantisce un
equilibrio tra dentro e fuori. Dunque, separazione, difesa, contenimento,
ed anche trasfusione, passaggio, accettazione e respingimento, selezione
del necessario e allontanamento del dannoso, finché qualche cosa non
segue più la regola di natura, ovvero è la natura che infrange la regola che
essa stessa si è data, generando la malattia, la differenza dall’equilibrio.
Oppure è la cultura occidentale ad aver deciso di attribuire alla natura
un carattere di giustezza che prescinde dall’errore, come se la natura
non potesse mai compiere ciò che la scienza dell’uomo ha previsto – o
presupposto nel suo prevedere e per prevedere – per cui questa natura,
mai empia, non potrebbe essere causa dell’errore, della malattia, della
differenza, mai potrebbe ripiegarsi su sé medesima, in una qualche
circonvoluzione. La natura è immaginata da questa cultura dell’Occidente
sempre lineare, priva di scarti dal tragitto per lei minuziosamente indicato
dal Creatore, il quale anche prescrive che cosa possa o non possa essere
attraversato dalla membrana che avvolge ogni cellula. Eppure di errori
ne capitano infiniti ed infinite volte, ché, infatti, quella stessa umanità
che genera quella stessa cultura mai avrebbe potuto esistere senza
quegli errori, quelli che fanno la differenza nella ripetizione e che hanno
permesso ciò che, in costante abuso terminologico – del termine e del
suo significato – si suole chiamare evoluzione. Ne deriva che forse quel
lavoro così minuzioso ed insieme importante, anzi: vitale, che avviene
nel luogo che separa l’interno di ogni cellula dall’esterno, dal mondo che
la circonda, mondo fatto da infinite altre cellule o sostanze o materiali e
condizioni ambientali, quelle adatte alla vita ed alla replicazione della
cellula – le cellule sono votate a replicarsi, vivono per questo e di questo,
non sono organismi ma soltanto l’indispensabile presupposto degli organi
che formano ogni organismo – oppure quelle ostili, fatte essenzialmente
da temperature troppo elevate o troppo basse, quel lavoro, insomma, è
probabilmente assai più complesso di quanto è oggi possibile descrivere.
Eppure quel poco che si conosce o si presumere di conoscere a tal
proposito è già un universo di eventi e di condizioni che li generano o
che li rendono possibili ovvero probabili se non necessari. Microcosmo,
quello della membrana cellulare, che riassume in sé la totalità di una
complessità che appare molto più vasta soltanto per un difetto di visione,
perché non ci si capacita di come nella microscopicità di quel luogo possa
accadere non soltanto simbolicamente quanto avviene per un organismo
complesso, anzi: il più complesso, l’uomo.

136
Nel confine

Luogo soltanto apparentemente semplice, dallo spessore infinitesimo


di pochi milionesimi di millimetro, una decina al massimo, la membrana
cellulare è fatta da un doppio strato di materiale lipidico (per la
precisione: fosfolipidi) nel quale si incuneano altre molecole, proteine,
zuccheri, colesterolo, che regolano il suo funzionamento – o talvolta
lo inibiscono. Le catene di acidi grassi si fronteggiano l’un l’altra,
lasciando verso l’esterno e verso l’interno i gruppi polari, differenziati
in funzione della natura e della funzione assolta dalla cellula, come un
tappeto di materiale più compatto, immaginabile come una superficie
più difficile da penetrare, al di sotto della quale le catene lipidiche
appaiono né solide né liquide, comunque fluide; così la membrana si
costituisce come luogo liminare anzitutto per la sua stessa natura e
conformazione, perché, nel porsi come argine tra il di qua ed il resto
del mondo, è essa stessa mutevole, in funzione della temperatura e delle
altre condizioni ambientali e proprio per questo capace di discernere,
riconoscendo quel che deve essere lasciato passare e ciò che deve
essere espulso dall’interno, quel che invece deve rimanere confinato
ovvero sedotto ed utilizzato. Intelligenza microcosmica, foriera di
errori come ogni intelligenza; nulla di perfetto, soltanto la meraviglia
di una macchina apparentemente semplice che genera le condizioni
della respirazione e della replicazione, essenza della vita. Intelligenza
metodica, che sfrutta ogni possibilità per compiere il metodico lavoro
di selezione, trasporto, ingestione, espulsione. Se ne enumerano non
meno di quattro, di questi diversi metodi con i quali la membrana
garantisce alla cellula il necessario per il suo metabolismo. Un metodo,
il più semplice, è di natura diffusionale: membrana porosa, che
risente della diversa concentrazione che una sostanza può presentare
all’interno o all’esterno della cellula; quando si presenta una differenza,
per concentrazione o natura elettrochimica, la membrana interviene a
colmarla lasciando passare la quantità necessaria di quell’elemento sia
verso l’interno sia all’esterno. Vale per gli zuccheri, vale per l’acqua,
per gli elettroliti e per gli ioni minerali, materiali e sostanze che
scivolano negli interstizi che si aprono e si richiudono infinite volte
in tempi brevissimi tra le catene fosfolipidiche. Oppure, la membrana
trasporta le sue merci approfittando della possibilità che queste si
leghino ad altre, come facendole salire su un carretto – il carretto
giusto, o quasi sempre il carretto giusto, ché talvolta la membrana
cade nell’errore: veleno – carretto come quello costituito da acqua
nella quale siano disciolti altri elementi, oppure una combinazione di
elementi che, presi per ciascuno, non troverebbero agevole accesso
alla cellula ovvero possibile allontanamento verso l’esterno o le cellule

137
Stefano Bevacqua

contigue, per trasmettere condizioni di esistenza ed informazioni. Se


non si verificano differenze di potenziale elettrochimico tra l’interno e
l’esterno della cellula, la membrana è anche capace di trasportare ciò
che è reclamato attraverso meccanismi attivi, volontari e deliberati,
come quelli che si attendono da una condizione di intelligenza, la quale
interviene propositivamente per risolvere una condizione che si giudica
inadeguata. La membrana è come se vedesse e leggesse la situazione
che si costituisce alle sue spalle, all’interno, e potesse considerare
quello che le sta davanti, all’esterno, nello spazio occupato da altre
cellule, non necessariamente uguali, né appartenenti allo stesso organo
o allo stesso organismo, ovvero da sostanze ed elementi di cui la cellula
può essere bisognosa o suscettibili di inquinarla, financo di avvelenarla.
Sistemi di trasporto attivi basati su reazioni elettrochimiche come quella
tra ioni di sodio e di potassio permettono alla cellula di inghiottire
sostanze che altrimenti non potrebbero superare la permea superficie
delle catene di acidi grassi, scivolose soltanto per certi elementi ed in
determinate circostanze. Ma tutto questo non basterebbe lo stesso alla
necessità di trasferire all’interno della cellula, oppure di espellere dal
suo ventre molecole pesanti e complesse, come le proteine. In questo
caso la membrana sembra animarsi: stimolata dalla presenza di ciò di
cui la cellula necessita, essa inizia a flettersi per dar forma a vescicole,
pieghe della superficie cellulare, capaci di avvolgere la molecola da
conquistare e trattenerla, portandola e spingendola verso l’interno della
cellula. O il contrario, per cui materiali preziosi, come enzimi o ormoni
generati all’interno della cellula, vengono avvolti dai ripiegamenti della
membrana e sospinti verso altre cellule: trasmissione di informazioni
e ordini che di membrana in membrana, fino a confondersi nel sangue,
con enorme velocità suscitano comportamenti fisiologici di enorme
complessità e capaci di modificare le condizioni vitali di organismi
complessi – le pieghe sussultanti ed improvvise della membrana di una
cellula di un tessuto ghiandolare arrivano, nell’arco di una frazione di
tempo, quasi un infinitesimo, a trasformare un evento inatteso in un
batticuore improvviso. Linguaggio del corpo che si effonde e diffonde
nella sua integralità e giunge così ad apparire e mostrarsi anche ad un
altro individuo, con quel rossore incontrollato del volto di una persona
in imbarazzo e sorpresa, il cui muscolo cardiaco rimane a lungo
sollecitato dall’emozione, dalla vista, dal piacere o dal dolore, gioco
ritmico e rapidissimo di membrane al lavoro, che pompano sostanze e le
rilasciano, che assorbono vitalità e la restituiscono. Gioco di complessità
estrema, che può essere colto soltanto nella sua interezza oppure descritto
tassonomicamente per singola tipologia, ma mai compiutamente

138
Nel confine

analizzato nel suo svolgersi temporale; impossibile fissare con esatta e


circostanziata descrizione ciò che accade nell’organismo umano in un
dato lasso temporale, foss’anche assai breve, un poco più di un istante,
e certo ancor meno nel tempo della sua esistenza. Soltanto è possibile
percepire come un’unità che racchiude una molteplicità che rasenta
l’infinito – per l’uomo essa corrisponde all’infinito dell’incomprensione
del sé intesa come impossibilità di controllare deliberatamente ciò che
si è nel momento dato: vittime in balia delle membrane, delle loro
pieghe, della ripetizione continua e quasi sempre esatta delle funzioni
che generano differenze per poterle attenuare e poi farle riemergere,
come una pompa a flusso alternato – unità che si è soliti chiamare vita
ed il cui governo primario risiede in quelle minuscole pareti, membrane,
pelle delle cellule, così come gli epiteli avvolgono e conformano gli
organi e la cute ricopre e racchiude l’organismo umano.
Cute o pelle, doppia denominazione che la lingua italiana ha
mantenuto dal latino cutis e forse dal greco kytos, da intendersi come
pelle dell’animale vivente, e quindi anche dell’uomo, in quanto è ciò che
copre, e, insieme, da pellis, come l’elemento visibile, esterno – ma non
estraneo – dell’uomo. Differenza sottile ma densa di possibilità, che non
deve essere lasciata in balia dell’uso comune dei termini, per cui pelle
è quello più corrente e cute è parola dotta, per uomini di scienza. La
distinzione non è nemmeno quella della pelle degli animali e della cute
dell’uomo, come preteso da taluni131, anche perché soltanto l’italiano
e lo spagnolo132 hanno mantenuto questa doppia denominazione:
in francese è soltanto peau, in inglese skin133, in tedesco Haut134. È
semmai la tipologia di pelle a proporre una denominazione specifica,
come cuoio, che è cuir, leather, Leder, oppure come pelliccia, che è
fourrure, fur, Pelz. Duplicità terminologica che consente di mantenere
aperti due piani, attribuendo, in via assolutamente arbitraria e per l’uso
che se ne può fare in queste sole pagine, alla parola cute il significato
. A questo proposito, vedere A. Grondeux, Cutis ou pellis: les dénominations
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médiolatines de la peau humaine, in «Micrologus. Natura, scienze e società medievali»,
n. XIII, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Tavarnuzze (Fi) 2005, pp. 113-130, ove l’autrice,
con articolato ed erudito percorso, smentisce un’attribuzione univoca di significato ai due
termini latini.
132. Piel oppure cutis, similmente all’italiano.
. Esiste anche il termine hide, ma esso si riferisce esclusivamente ed inequivocabilmente
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alla sola pelle di animali utilizzabile per la produzione di manufatti, sia già conciata e
pronta per l’uso, sia ancora da conciare ma comunque destinata ad una sua utilizzazione
successiva.
. In parziale analogia alla lingua inglese, il tedesco offre anche il termine Fell, che
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si riferisce però alla pelle ricoperta da peli, quindi dell’animale, ma mai confondibile o
equivocabile con quella umana.
139
Stefano Bevacqua

dell’epidermide, intesa in senso materiale, fisico e fisiologico, come


contenitore dell’organismo umano, e alla parola pelle quello di idea
della pelle, come contenitore dell’uomo e della sua umanità, come luogo
di correlazione ed interfaccia con l’esterno e gli altri uomini, pelle come
strumento espressivo e comprensivo, luogo di comunicazione percettiva
di ciò che si colloca al di fuori e di comunicazione espressiva in quanto
è con la pelle, la sua motilità ed il suo colore che il volto esprime
sensazioni ed opinioni.
È cute quella membrana vasta e imponente, massimo organo sensoriale
dell’uomo, con i suoi due metri quadrati di superficie per il diciotto
per cento del peso corporeo135, che costituisce l’involucro protettivo
indispensabile alla vita, attraverso il quale l’organismo traspira e respira
ed essuda, che assorbe sostanze solide, liquide o gassose e che rilascia
altri fluidi, acquosi così come grassi, similmente alla membrana delle
cellule che appartengono all’organismo che la stessa cute trattiene. Cute
difensiva e respirante, con il suo spessore e la sua costituzione stratificata
(l’apparato tegumentario, nella terminologia anatomica), fatta dallo strato
esterno, l’epidermide, a sua volta formato da un foglio spesso e più rigido,
corneo, dove le cellule sono appiattite e quasi rigide, seguito da due livelli
intermedi, assai sottili, detti granuloso e spinoso, ed uno strato basale,
che nei testi di anatomia meno aggiornati veniva significativamente
denominato come strato germinativo, dal quale, dunque, prende forma,
per successiva evoluzione, la pelle così come la si osserva dall’esterno.
Al di sotto dell’epidermide, il derma, che ospita le terminazioni nervose,
i vasi sanguigni e linfatici, i follicoli dei peli e le ghiandole sebacee e
sudoripare; derma votato dunque al ruolo di contenitore di piccoli apparati e
di nutritore dell’epidermide. Cute in costante evoluzione, che dall’interno
all’esterno si rinnova continuamente, ma con ritmi sempre decrescenti,
fino raccoglie il segno del tempo screpolandosi e irrigidendosi. Cute che
diviene così pelle, perché significante del tempo trascorso, degli eventi
accaduti, della vita compiuta. Ma anche cute come macchina complessa,
capace di svolgere funzioni basilari, prima tra tutte quella di difendere i
tessuti più interni, essenzialmente quelli muscolari ed ossei, dagli agenti
esterni, anzitutto dai microrganismi patogeni, ma non come un guscio
rigido e immobile, bensì offrendo la più grande duttilità e plasticità,
dunque coprendo e separando ma senza occludere, anzi, attraverso la
propria porosità, offrendo piena respirazione, inglobando ed espellendo,
assorbendo ed escremando.
Pelle, invece, come apparenza formale del corpo e, di qui, traccia
dell’identità della persona. Pelle che trattiene e nasconde il corpo e,
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. Valore medio per un soggetto adulto del peso di 70 chilogrammi.
140
Nel confine

al tempo stesso, ne fa mostra e si mette in mostra. Pelle come luogo


liminare che separa l’interno, l’interiorità, la profondità insondabile di
ciascuno, dall’esterno, popolato da altri esseri, con i loro corpi avvolti
ciascuno nella propria pelle. Pelle come luogo sensibile che percepisce,
attraverso il tatto, presenze e assenze, calore e distacco, qualità delle
superfici – il liscio ed il ruvido – e forme delle cose – il cavo e l’aperto,
il dentro ed il fuori, le pieghe che si formano e si distendono; oppure:
le asperità, spigoli vivi, acuti e taglienti lame, aculei e sottili filamenti;
ancora: rigidità e mollezza, grandezza e sottigliezza, larghezza e misura,
posizione nello spazio e perfino lo spazio, come quando camminando
nel vuoto del buio completo ci si fa strada a tentoni, appunto: tentoni, per
tentativi, guidati dal tatto, dalla mano che sfiora e riconosce. Tatto che
non si riduce ai polpastrelli, niente affatto, ché ogni parte del corpo, ogni
centimetro di pelle, pur con livelli di sensibilità differenziati – in funzione
della densità delle terminazioni nervose a questo scopo deputate – è
capace di fornire informazioni, di dire ciò che è all’intorno, descrivere e
formare come un disegno ideale. Ecco che il tatto investe l’intero corpo,
tutta la pelle che lo ricopre, identificandosi e confondendosi con la
corporalità medesima, per cui è tatto e fondato sul tatto lo stesso essere
nel mondo e parte del mondo. Si dice ai bambini di “guardare e non
toccare” perché lo sguardo appropria soltanto idealmente, segmentando
il volume di spazio che è capace di ritagliare e fare proprio, ma nel
solo istante della visione, di ogni singola visione che per quanto possa
ripetersi è sempre difforme dalla precedente e dalla successiva, mentre
il tatto appropria, direttamente: esso è un accedere alla forma ed alla
materia di quello che è fuori, all’esterno, accesso mediato dalla pelle,
dalla sua sensibilità, dal suo riconoscere e considerare ciò cui altrimenti
non si potrebbe attribuire alcun peso, sostanza, consistenza. Non si
può riconoscere il liscio dal ruvido, il caldo dal freddo, il pungente
dal morbido, l’aperto dal chiuso senza la tattile percezione che la pelle
soltanto può offrire. La vista, in questo frangente, è succube del tatto ed
è essa che riconosce ciò che con il tatto è stato percepito e classificato
e reso memoria. Forse, il problema di Molyneux andava ripensato al
contrario, non pretendendo che con lo sguardo si riconosca la forma
assimilata per via tattile, ma che con la pelle si possano riclassificare
le percezioni visive. Discussione senza fine, iniziata con la lettera che
William Molyneux, astronomo irlandese, scrisse all’amico John Locke
nel 1693. Si chiedeva, l’autorevole membro del Trinity College di
Dublino, se un uomo, nato cieco, che abbia appreso grazie al tatto a
distinguere una sfera da un cubo, una volta acquistata la vista potesse,
con il solo sguardo, riconoscere la prima dal secondo. In oltre tre secoli,

141
Stefano Bevacqua

l’interrogativo proposto da Molyneux e i suoi innumerevoli corollari non


hanno trovato una risposta convincente, nonostante in questa impresa si
siano impegnati tanti grandi pensatori, dallo stesso Locke fino a Kant,
passando per Voltaire e Berkeley e finendo nel secolo scorso con molti
altri. Questione irrisolta, perché gli esperimenti compiuti su soggetti
che presentavano le necessarie caratteristiche (cieco dalla nascita che
acquisisce la vista in età adulta) non sono mai stati sufficientemente
numerosi e soprattutto omogenei nella misura necessaria a costituire
un campione attendibile. Ma, soprattutto, perché mal posta. Lo stesso
Molyneux cadde nell’equivoco, asserendo che il cieco che acquisisse la
vista non riconoscerebbe la sfera dal cubo perché non avrebbe ancora
sperimentato l’impressione visiva che le due forme imprimono nella
memoria, per cui mancherebbe la connessione tra esperienza tattile ed
esperienza visiva. Invertendo il senso del quesito e proponendo che vi
sia qualcuno che non abbia mai toccato nulla per tutta la sua esistenza
ma soltanto abbia osservato e che infine possa, nel buio più assoluto,
finalmente percepire con la propria pelle la forma di cose fino a quel
momento aveva soltanto viste ci si ritroverebbe in una situazione
sostanzialmente identica. Per quanto ci si sforzi, non è infatti questa la
via per stabilire se vi sia una preminenza della vista sul tatto o del tatto
sulla vista, se uno dei cinque sensi presenti una qualche superiorità e
meriti dunque una considerazione più elevata, come fosse il Senso per
eccellenza, il più vero e, al tempo stesso, il più spirituale. Perché questa
stessa discussione è accecata dalla necessità di trovare una risposta e
ciò accade proprio perché si formula la domanda, la quale, per natura,
pretende una risposta: tatto o vista, uno dei due, mai nessuno dei due
e nemmeno mai entrambi insieme, in momenti diversi della vita, in
situazioni diverse, oppure nello stesso momento, nel processo medesimo
di relazione di ognuno con il mondo e con le cose e coloro i quali lo
abitano. Questione irrisolta, si è detto, anche perché assai complicata
dall’indeterminazione del tatto. La collocazione degli altri quattro sensi
è di tutta evidenza: è l’occhio a vedere, l’orecchio ad udire, il naso
ad annusare e la bocca a degustare, mentre il tatto è diffuso, tanto da
confondere chi ne cerca l’evidenza locale e confondersi con il corpo
medesimo. È cosa oggi assodata che le terminazioni nervose alle quali
spetta il compito di trasmettere la percezione tattile sono collocate nel
derma, ma per Aristotele la questione non era affatto chiarita, tanto da
chiedersi ove e quale sia in effetti l’organo del tatto:

Il tatto è più sensi od è un senso solo? Inoltre, qual è il sensorio della qualità
tattile, la carne e ciò che negli altri animali vi è di analogo, oppure questa

142
Nel confine

è il mezzo, mentre il sensorio primo è qualcos’altro situato all’interno. In


effetti ogni senso sembra riferirsi ad un’unica opposizione: la vista termina
al bianco e al nero, l’udito all’acuto e al grave, il gusto all’amaro e al
dolce. Nel tangibile sono incluse invece molte opposizioni: caldo-freddo,
secco-umido, duro-molle, ed altre quantità simili. Una qualche soluzione
di questo problema sta nel fatto che anche a proposito degli altri sensi
ci sono molte opposizioni. Per esempio alla voce appartengono non solo
l’acutezza e la gravità, ma anche la grandezza e la piccolezza di volume,
la levità e l’asprezza, ed altre simili caratteristiche. Pure il colore presenta
altre varietà di questo tipo. Tuttavia non è chiaro che sia quell’unica cosa
che funge da oggetto del tatto, come il suono lo è dell’udito.136

Una possibile risposta al quesito di Aristotele può essere immaginata


partendo dalla considerazione dell’integralità della funzione tattile. È
tutta la pelle a percepire questo “tangibile” e con essa è dunque tutto
il corpo nella sua esteriorità ed interiorità. Se si ingerisce un liquido
bollente la percezione del calore investe pienamente ed evidentemente
anche gli epiteli della bocca, dell’esofago, dello stomaco. Analogamente
e molto spesso, è l’epitelio che ricopre gli organi interni (in modi e
con caratteristiche certo differenziate ma riassumibili in una percezione
analoga a quella offerta dalla pelle) ad offrire residenza alla sensazione
del dolore. Ecco perché la disputa sorta intorno al problema di Molyneux
è rimasta insoluta: il tatto, il “tangibile”, appartiene all’intera superficie
del corpo, a quella delle cavità che lo abitano ed a quella degli involucri
di buona parte degli organi interni; il “tangibile” appartiene dunque al
corpo e da questo alla corporeità, alla presenza di ciascuno nel mondo.
Il tatto, allora, non viene né prima né dopo la vita, perché è tutta un’altra
cosa, tutto un altro senso. Lucrezio ne era profondamente convinto:

Che caldi fuochi e gelida brina in modo diverso dentati mordano i sensi
del corpo, il contatto con l’uno e con l’altro ne dà a noi la prova. Perché è
il tatto, il tatto, o santi Dei immortali, è il senso del corpo, sia quando un
oggetto da fuori si insinua, o quando ci danneggia qualcosa ch’è nato nel
nostro corpo o ci dà piacere, sgorgando negli atti fecondi di Venere, o se,
per un urto, turbinano nel corpo medesimo gli atomi, e tra loro eccitandosi
sviano il senso; come se, per esempio, tu stesso con la tua mano ti colpisci
una parte qualunque del corpo, per farne la prova.137

Una concezione che il poeta-scienziato romano riprende anche


discutendo della sensazione e del pensiero, a proposito della percezione
che l’uomo ha dei “simulacri”, quelle invisibili pellicole superficiali che
����.Aristotele, L’anima [422b], Bompiani, Milano 2001, p. 175.
. Lucrezio, De rerum natura, Libro II 431-443, Mondadori, Milano 1992, pp. 115-117.
����
143
Stefano Bevacqua

si trasmettono dalle cose che abitano il mondo a tutti gli esseri, i quali
ne hanno così, appunto, la sensazione:

E così da tutte le cose come un flusso si stacca ogni cosa, e in tutte le


parti intorno si diffonde, e né pausa né mai riposo è mai concessa al
fluire, perché continuamente abbiamo sensazione, e sempre tutte le cose
noi possiamo vedere odorare e sentire suonare. Inoltre, poiché una forma
qualunque, saggiata con le mani nel buio, si riconosce esser la stessa che
si vede nella luce e nel chiaro splendore, è necessario che da assimilabile
causa siano mossi il tatto e la vista. Ora, se saggiamo un corpo quadrato, e
questo ci tocca i sensi nel buio, quale cosa potrà nella luce pervenire come
quadrata alla nostra vista, se non la sua immagine?138

Tatto come senso dell’interezza del corpo e come senso primario,


anzi: primordiale, ancora prima di nascere, quando nel ventre materno
l’intero corpo del feto percepisce il calore e l’umidità. Percezione
originale, primaria, ovvero prima percezione assoluta, che coinvolge la
totalità di ciò che sta iniziando ad esistere e che si trascina lungo tutta
la vita successiva, in ogni gesto e momenti che la attraverserà. Molti
studiosi del comportamento e, in particolare numerosi psicanalisti,
hanno sottolineato il ruolo cruciale che la pelle, intesa come involucro
espressivo e percettivo, svolge nello sviluppo della personalità. A uno
di essi, Didier Anzieu, freudiano ortodosso e fondatore dell’Association
psychoanalytique de France in polemica con Jacques Lacan, si deve la
formulazione dell’idea di Moi-peau139, metafora e figurazione, prima
che concetto, che serve a designare l’esperienza psichica che si colloca
a mezza strada tra la fisiologia della cute, organo che contiene, limita
e protegge, e la percezione di sé come unità differenziata ed autonoma
che si interfaccia con il mondo e gli altri Moi-peau che lo abitano, i
quali, a loro volta, si interfacciano con ciascuno. Scrive Anzieu:

Ogni attività psichica si fonda su una funzione biologica. Il Moi-peau trova


il suo punto d’appoggio sulle diverse funzioni della pelle. Ne segnalo qui
brevemente tre. La pelle, ed è la prima funzione, è il sacco che contiene
e trattiene al suo interno il buono ed il pieno che l’allattamento, le cure,
il bagno di parole vi hanno accumulato. La pelle, seconda funzione, è
l’interfaccia che segna il limite con il di fuori e lo mantiene all’esterno,
è la barriera che protegge dalla penetrazione da parte delle avidità e delle
aggressioni provenienti dagli altri, siano esseri o oggetti. La pelle, infine,
terza funzione, nello stesso modo della bocca ed almeno tanto quanto

138. Ivi, Libro IV 225-236, pp. 253-255.


. La traduzione varrebbe come Sé-pelle, ma sarà qui mantenuta la dizione francese
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originale.
144
Nel confine

questa, è un luogo ed un mezzo primario di comunicazione con l’alterità,


di fondazione di relazioni significanti; essa è, inoltre, una superficie di
inscrizione delle tracce da queste lasciate.140

Anche Otto Fenichel, allievo di Freud e grande animatore della


corrente marxista della psicanalisi ortodossa, ha sottolineato, sotto un
profilo, per così dire: più classico, il ruolo della pelle nella molteplicità
delle intenzioni alle quali essa partecipa e risponde. Scrive Fenichel,
riferendosi al ponte, che appare a suo avviso evidente, tra le percezioni
tattili vissute dal feto e successivamente dal neonato e dal bambino e le
funzioni desideranti dell’adulto:

L’intera superficie della pelle, come le membrane mucose, funziona


da zona erogena. Ogni stimolazione della pelle, per esempio il tatto, o
la temperatura e le sensazioni penose, sono potenziali sorgenti erogene,
che, se incontrano un’opposizione interna, possono dare luogo a conflitti.
L’erotismo della temperatura, in particolare, è spesso unito al primo
erotismo orale ed è parte essenziale della primitiva sessualità ricettiva.
Avere un contatto cutaneo con il compagno e sentire il calore del suo corpo
è una componente essenziale di ogni relazione amorosa.141

La pelle che esprime e percepisce si identifica con le carni che essa


avvolge e al corpo che la sostiene, diventando essa stessa corporalità.
L’apparire del corpo è infatti un apparire della pelle in quanto interfaccia
tra dentro, le carni, e fuori, il mondo. Il mondo è popolato di cose e
di esseri, i quali, a loro vola, percepiscono altri corpi, attraverso la
vista, che avvolge la manifestazione primaria della corporalità, la pelle
medesima, ed il tatto, che appartiene alla pelle, a quella del percipiente
così come a quella del percepito, e l’odorato, che coglie l’individualità
di ciascuno, proprietario del proprio odore, a sua volta generato dalla
pelle e proposto al mondo attraverso la pelle. Nella pelle si riassume ogni
individuale, e perciò differente, appartenenza al mondo e relazione con
il mondo; pelle come specchio vivente, palpabile e che palpa. La pelle
ed il corpo, fatto dalla stessa chair del mondo – Merleau-Ponty: “Poiché
le cose ed il mio corpo sono fatti della stessa stoffa, occorre che il suo
essere veduto si faccia in qualche misura attraverso esse, ovvero che la
loro visibilità manifesta in esso si sdoppi in una visibilità segreta”142 –
sono sovrapponibili al punto di attribuire alla prima le potenzialità del
secondo? Può la pelle assumere l’interezza del corpo rappresentandolo

����.D. Anzieu, Le Moi-peau, Dunod, Paris 1985, p. 39.


����.O. Fenichel, Trattato di psicoanalisi, Astrolabio, Roma 1951, p. 84.
����.M. Merleau-Ponty, L’Œil et l’Esprit, Gallimard, Paris 1964, p.16.
145
Stefano Bevacqua

nella relazione con il mondo? In fondo, la pelle è soltanto un involucro,


capace, certo, di esprimere e di percepire, ma non possiede il corpo,
nemmeno lo anima, ed il corpo, di par suo, è invece ciò in cui si infonde
il pensiero – l’anima – per cui questa pelle è funzionale e funzione del
corpo ma non è il corpo. Oppure si può percorrere un passo tanto decisivo
quanto, per così dire: laterale, non diretto in avanti, come di norma si
è soliti fare nel procedere delle idee, assumendo che l’essenza di quel
corpo fatto dalla stessa chair del mondo, risiede nella sua possibilità
e capacità di interfacciarsi con il mondo – faits de la même étoffe –
per cui è nel luogo deputato a questo interfacciarsi che si avvera la
relazione capace di definire la differenza di ciascuno proprio nell’essere
nel mondo ed essere fatto della stessa chair del mondo. Ed è la pelle che
si assume questo ruolo, pelle che non è indossata dal corpo, ché senza
cute il corpo non potrebbe sopravvivere nemmeno un giorno, immediata
preda di ogni infezione, ma pelle che racchiude e ricopre e arrossisce
e si ripiega seguendo le forme che i muscoli le dettano, per sorridere
e provare paura, per gridare e sussurrare, per leccare e baciare, per
tremare e sudare. In quel luogo, sottile ma spesso – in pochi millimetri
si concentrano milioni di organelli e terminazioni e vasi – e pesante e
vasto come nessun’altra parte del corpo, in quel margine si racchiude
la possibilità del toccare e riconoscere e percepire il mondo in quanto
condizione avvolgente, mondo come presenza attorno al corpo e che
partecipa del corpo attraverso la pelle, mondo che riconosce ciascuno
per il tramite della pelle in quanto avvolge la totalità del corpo, pelle
corporale, piena corporalità, pelle-immagine-del-sé, pelle-fotografia-
totale-del-corpo, scansione meticolosa di ogni forma, di ciascuna piega,
nel suo estendersi e richiudersi, pelle-specchio-del-sé che si riproietta
sul mondo, attraverso l’étoffe, la chair, diventando essa stessa mondo.
Pelle che nella sua relazione al mondo perde la caratteristica formale di
superficie dotata di un lato interno ed un lato esterno, e che, attraverso
il sistema dei ripiegamenti e delle estensioni, in un continuo mutare e
coniugare i due fogli, il dentro ed il fuori, ne supera la dicotomia. Ciò,
bene inteso, non certo materialmente, bensì nel momento transazionale
attraverso il quale ciascun sé si interfaccia al mondo, e ne viene così
partecipato, diventando ad ogni istante differentemente esso stesso
mondo – la même étoffe. Sistema di appropriazione, individuazione,
separazione e differenziazione al tempo stesso, al quale partecipa
l’integralità del corpo nella sua rappresentazione garantita dalla pelle
e, dunque, necessariamente comprensiva del suo interno ed esterno,
perché non è cute che difende dalle minacce esterne ricoprendo
adattativamente il corpo, ma pelle espressiva e percettiva, luogo

146
Nel confine

liminare di transazione e informazione, in cui i due versanti, l’interno e


l’esterno, paiono agire come la membrana di una cellula, per espulsione
ed inglobamento, assorbimento diffusionale ed eiezione, come se la
faccia interna della pelle fosse deputata ad esprimere ed esprimendo si
portasse continuamente al di fuori, apparendo così come lato esterno,
mentre il lato che si dice esterno, nel percepire invagina informazioni che
riporta verso la profondità del corpo, apparendo così, simmetricamente,
come lato interno. Nastro di Möbius, intercambiabilità e simmetria
continuamente ridiscussa di dentro e fuori, circolarità instancabile di
sensibilità ed espressività, di percezione ed affermazione, di dire ed
udire, di essere toccato e toccare. La scrittrice francese Régine Detambel
mette a fuoco con precisione questo effetto di simmetria e scambiabilità
delle superfici:

Questo organo non è un individuo, ma piuttosto una materia volante,


un’ambienza carnea, una pellicola di atmosfera umana. Non la si attacca,
non ci si entra, né perforazione, né deflorazione. La pelle è un organo che
non ha altra consistenza che quella, evasiva e flottante, dell’entre-deux.
Perché la pelle non è una e indivisibile. Essa è sempre l’interpenetrazione
di diverse pelli concomitanti. Indecisa, sfogliettata, essa costituisce
uno stadio, interminabile transizione tra due metamorfosi. È essa stessa
vaporosa frontiera dell’essere, insomma: la fine lama di un foglio di carta
che non avrebbe né un diritto né un rovescio ma un solo bordo ed una
infinità di profili, che non finirebbero mai di perdersi nell’anello infernale
del nastro di Möbius. Così come, nella lingua, non si saprebbe isolare la
sonorità dal sordo pensiero che la doppia, né il pensiero dal suo inverso
orpello, la pelle non distingue il suo recto dal suo verso.143

Fine di Ianus: le due facce si alternano e possono porgersi verso


lo stesso spazio mutuando sguardi e percezioni, il visto ed il vedente.
Piega infinita che muta nel tempo, modificando ed alternando senza
sosta le sue facce, elemento attraversato il quale si modulano percezioni
ed espressioni, chair, come la portante di un sistema di trasmissione a
radiofrequenza sul quale si modula – ondula – la consapevolezza del
proprio corpo nella percezione che esso ha del mondo al quale appartiene.
Merleau-Ponty: “Il mio corpo [attraverso la – sua, mia – pelle, si
potrebbe qui aggiungere senza stravolgere le intenzioni della frase] è la
texture comune di tutti gli oggetti ed è, almeno nei confronti del mondo
percepito, lo strumento generale della mia compréhension“144. Così la
pelle diventa diaframma e luogo di passaggio, membrana che lascia
����.R. Detambel, Le chemin sous la peau, in “Actes du colloque international Projection:
des organes hors du corp”, http://www.epistemocritique.org
����.M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 272.
147
Stefano Bevacqua

circolare l’interiorità verso l’esterno e l’esteriorità verso l’interno, per


cui attraverso la pelle si può vedere ciò che si cela al suo interno, la vita,
il movimento implicito del corpo. È l’esperienza espressiva di Maria
Donata d’Urso, danzatrice catanese trapiantata a Parigi, la quale, per
presentare il pezzo 0 (due), parte del Triptique de la Peau:

Mi piace considerare la superficie della pelle come lo spazio scenico. La


pelle è il luogo frontiera, limite e punto zero. Zero come cerniera tra più
e meno, il prima e il dopo. Dove la destra diventa la sinistra e la sinistra
la destra. Zero come vuoto, assenza e presenza. La luce concepita da Yves
Godin [per lo spettacolo, nda] è disposta a 360° attorno al corpo, segue
manualmente il corpo e rivela le sue diverse organizzazioni. Il tempo dello
spettacolo prova ad avvicinarsi ad un presente. Lo spazio tende verso
l’invisibile.145

Julie Perrin, dell’Université Paris 8 Saint-Denis, commenta il lavoro


di Maria Donata d’Urso parlando di pelle e soltanto di pelle ma senza
nominarla mai direttamente, ché pelle e corpo assumo piena identità in
ragione del continuo movimento di alternanza tra interno ed esterno che
porta ad un’equivalenza totale:

Il convesso ed il concavo si rigirano e si invertono. Tutto può allora


ribaltarsi, tutto è equivalente, in questa fiction di un corpo democratico
o de-gerarchizzato. [...] Maria Donata d’Urso propone una corporeità di
intensità, dove le forme subiscono variazioni permanenti e sottili, che danno
alla figura umana l’apparenza inedita di un paesaggio gonfio, displanare,
sinuoso, in tensione dinamica. [...] Non si distingue più un’anatomia
identificabile, ma delle continuità in movimento, delle reti di forze.146

Ma permane una difficoltà, quasi un senso di disagio: da chiedersi


nuovamente se questo attribuire alla pelle una così pregnante capacità
relazionale – non in alternativa o prima della vista o di altri sensi, sia
chiaro, ma accanto a tutti e divenendo così comprensiva di essi in
una relazione complessa che polisemizza il percepito e l’espresso –
sia giustificabile. Perfino Merleau-Ponty, che forse più di ogni altro è
stato il filosofo del corpo, della piena relazione percettiva tra la totalità
del corpo e la complessità del mondo, ha ben raramente fatto diretto
riferimento alla pelle, preferendo riferirsi sempre al corpo nella sua
interezza percettiva, semmai considerando la pelle essenzialmente,
ma nemmeno completamente, coinvolta nella percezione tattile,
����������������������������������������������������������������
. Tratto da: http://www.yquasar.org/imgs/yquasar-presskit2.pdf
����. J. Perrin, Les corporéités dispersives du champ chorégraphique, in «Actes du
colloque...», cit.
148
Nel confine

relegandola forse ad un ruolo di superficie contenente, invece che di


spessore agente. Sono stati, e soltanto in parte, Didier Anzieu e gli
psicanalisti, insieme a Jean-Luc Nancy e ad altri filosofi e sociologi
francesi, da Michel Serres (pelle avamposto della personalità) a Pierre
Bourdieu (pelle identificativa della persona), e tedeschi, a collocare la
pelle in un ruolo che non fosse quello del contenitore – che è, semmai,
questione della cute, così come qui è stata distinta dalla pelle. Nella
storia del pensiero occidentale, del resto, appare un vuoto bi-millenario
che separa Platone da Denis Diderot, oltre venti secoli durante i quali la
pelle non è quasi nemmeno stata nominata ed al suo luogo sempre ci si
è riferiti soltanto alla percezione tattile, senza mai ammettere che fosse
proprio della pelle, questo senso così primario, e non certo affogato in
qualche profondità della carne. Aristotele, s’è detto, non ammette alcun
ruolo alla pelle come tale e si domanda dove possa essere nascosto lo
strumento del tatto. Platone, prima di lui, la giudicava come un semplice
sacco contenitore, vagamente irrobustito da qualche processo naturale,
che il Demiurgo aveva concepito per risolvere al meglio il progetto
conformativo dell’uomo:

Però non era possibile lasciare la testa solo ossea e nuda, a motivo degli
eccessi in senso opposto delle stagioni, né permettere che, ricoprendola
totalmente, diventasse ottusa ed insensibile a motivo della quantità delle
carni. Allora, non essendosi ancora disseccata la natura della carne, se ne
separò una scorza più grande, che avanzava, quella che oggi viene chiamata
pelle. E questa, a motivo dell’umore che sta attorno al cervello, crescendo
intorno e ricollegandosi con sé stessa, coperse tutta quanta la testa. [...]
Ora la divinità punse tutta questa pelle all’intorno con il fuoco, e, come fu
bucata, e ne fuoriusciva l’umore, quello liquido e caldo, nella misura in cui
era puro, se ne andò via, mentre quello che era misto di quelle stesse cose
di cui era costituita la pelle, innalzato dal suo movimento, si distese al di
fuori per lungo tratto. [...] Per tali affezioni crebbero sulla cute i capelli.147

Ecco, dunque, la pelle come cute, come organo non di senso o,


ancora meno, del senso, cioè non partecipe in primo luogo e, per
così dire: in prima istanza, della percezione, così come è andata
conquistando reputazione nel Ventesimo secolo, ma semplice involucro,
biologicamente e fisiologicamente anche raffinatissimo e complesso, ma
sempre cute e non pelle, laddove il privilegio del sentire era attribuito al
mistero del tatto, privo, come Aristotele sottolineava, di un ben preciso
luogo nel quale agire. Per cui, sempre di tatto, in definitiva si parlava,
attribuendovi anche una importanza rilevante, come per Lucrezio, ma mai
����.Platone, Timeo 75E-76C, cit., pp. 1397-1398.
149
Stefano Bevacqua

chiaramente ammettendo che fosse quella porosa e sensibile membrana


che ricopre ciascuno, la pelle, appunto, ad esserne sede e governo. Vale,
naturalmente, anche per Descartes, il quale, nell’attribuire alla visione la
supremazia pressoché assoluta tra i sensi, ammette quasi malvolentieri
che anche il tatto, ma si badi bene: non la pelle, mai la pelle, soltanto
un più generico percepire tattile, possa contribuire in condizioni date ad
informare intorno alla natura ed alla costituzione del mondo:

Vi è senza dubbio capitato, qualche volta, camminando nell’oscurità senza


lume, attraverso luoghi un poco difficili, che vi fosse bisogno di aiutarsi
con un bastone per avanzare, ed avete così potuto notare che voi sentivate,
per il tramite di questo bastone, i diversi oggetti che si trovavano intorno
a voi, ed anche che potevate distinguere se si trattasse di un albero o delle
pietre, o della sabbia, o dell’acqua, o dell’erba, o del fango o qualche altra
cosa simile. È vero che questa sorta di sentire è un poco confusa e oscura,
in coloro che non ne abbiano fatto lungo uso; ma consideratela in coloro
che, essendo nati ciechi, se ne sono serviti per tutta la vita, e voi troverete
ciò così perfetto ed esatto, che si potrebbe quasi dire che essi vedono con le
mani, o che il loro bastone è l’organo di un qualche sesto senso.148

Niente pelle, dunque, per niente. L’idea del bastone sovrasta il


concetto di pelle come organo percettivo. Anche in sua assenza, la vista
permane regina dei sensi, soltanto surrogata dal tatto, il quale nemmeno
ha diritto ad essere nominato come quella cosa che permette alla mano
di percepire le vibrazioni del bastone. Niente tatto, né pelle, piuttosto
una generica capacità di intendere, cogliere, percepire, forse anche di
misurare e valutare, in luogo della vista. Serve Diderot per cominciare
ad usare quella parola quasi oscena, pelle, non soltanto per rappresentare
l’involucro difensivo, il tegumento, la cute, ma qualche cosa capace
di sentire. Così, infatti, scrive, nella Lettre sur les aveugles, riferendo
di come Nicolas Saunderson, matematico inglese condannato alla
completa cecità dal vaiolo, sapesse incantare i suoi allievi discettando
di luce e di ombre, di arcobaleni e di diffrazioni:

Saunderson vedeva dunque attraverso la pelle; questo sacco era dunque


in lui di una sensibilità così attenta che si potrebbe andar certi che egli,
con un poco di abitudine, sarebbe riuscito a riconoscere ciascuno dei
suoi amici di cui un disegnatore gli avesse tracciato il ritratto sul palmo
della mano, e che, seguendo la successione delle sensazioni eccitate dalla
matita, avrebbe potuto dire: È il signor tale. C’è dunque anche una pittura
per i ciechi, quella alla quale la loro stessa pelle servirebbe come tela.149
����.R. Descartes, La dioptrique, in Œvres et lettres, Gallimard, Paris 1953, pp. 181-182.
����.D. Diderot, Lettre sur les aveugles, Hachette, Paris 1999, pp. 72-73.
150
Nel confine

E poi, nell’Addition alla Lettre, citando, non senza emozione, una


conversazione avuta con Mademoiselle Mélanie de Salignac, fanciulla
cieca dalla nascita e morta nel 1765, Diderot riferisce:

Se voi aveste tracciato sulla mia mano, con un punteruolo, un naso, una
bocca, un uomo, una donna, un albero, certamente non mi sbaglierei;
nemmeno dispererei, se il tratto fosse esatto, di riconoscere la persona di
cui mi avreste tracciato l’immagine: la mia mano diventerebbe per me uno
specchio. [...] Se la pelle della mia mano eguagliasse la delicatezza dei
vostri occhi, io vedrei attraverso la mano come voi vedete attraverso gli
occhi, e potrei immaginare che vi siano degli animali che siano ciechi ma
non per questo meno chiaroveggenti.150

Siamo nella seconda metà del XVIII secolo e la pelle, dopo oltre
ventuno secoli, acquisisce finalmente lo status di organo tattile. Cessa il
disprezzo. Non è più soltanto cute, essa sente e vede. Riabilitazione, dopo
essere stata, la pelle, il ricettacolo del male, quintessenza della negatività,
proprio perché identificabile con il corpo, parte degradata e peccaminosa
dell’individuo, contrapposta all’anima di cui è contenitore. Contenitore
del contenitore, dunque, la pelle, come la prima sfoglia ormai secca ed
inutile di un bulbo, che contiene altro peccato, ma che in superficie,
rinsecchito, sembra concentrarsi. Pelle che suda e supura ed espelle fluidi
ed odori, grassi ed acque contigue all’urina, maleodoranti, fetide. Pelle da
lavare e profumare, come era d’uso per consentire all’anima del defunto di
accedere alla parte migliore dell’al di là. Non ci si presenta al giudizio con
la pelle macchiata, ingrigita, rugosa e cadente, che odora di escrementi e
di prematura putrescenza, serve il balsamo profumato, l’unguento che,
ristabilendo elasticità, ridona forma alla pelle, che la tira e la tende sulle
superfici della carne, carne anch’essa malata e sede del male, ma in una
forma, per così dire: diluita, non sclerica, lucentemente evidente. Pelle
che ha goduto il piacere e si è quindi macchiata per sempre del peccato,
che si rappresenta nella sua caducità, nelle rughe che l’affliggono, ché
la pelle è il solo organo del copro a mostrare invecchiamento, il suo
degradare continuo, ritmato dal tempo, fino alla cessazione dell’esistenza,
momento nel quale la pelle è, paradossalmente, il solo elemento del
corpo ancora vivo, nonostante porti proprio l’immagine dell’esaurirsi del
tempo. Senza pelle, il piacere è allontanato e, al tempo stesso, alcuno è
riconoscibile; senza pelle l’identità di ciascuno si perde insieme alla sua
capacità di provare voluttà, entrambe – volto e godimento – si dileguano
nell’omogeneità di forme, quelle del copro sottostante, che apparirebbero
tutte simili, senza quella traccia unica che riferisce inequivocabilmente
150. Ivi, p. 118.
151
Stefano Bevacqua

di ognuno e del suo piacere. Senza pelle, nessuna fotografia segnaletica


sarebbe possibile, nessun ritratto, nessuna appartenenza, né espressione,
né percezione, nessun desiderio, né diretto, né traslato attraverso
l’immagine, nessun ricordo, né libido. Senza pelle, niente chair, nemmeno
mondo, nel quale riconoscersi e collocarsi, nessuna singolarità possibile.
Rimarrebbe, senza pelle, soltanto l’estrema intimità dei muscoli, delle
vene, delle ossa, degli organi, di tutto ciò che non è altrimenti in vista. È
proprio per questo che essa è stata tenuta da parte, cacciata in quella parte
ove alloggia il male, per millenni, perché la pelle non soltanto è la sede
del piacere, e così guadagna la prima fondamentale accusa di ricettacolo
del male in opposizione alla purezza dell’anima e dei buoni sentimenti,
la pelle è anche ciò che nasconde ricoprendo, ché se una pur sottile vena
di purezza nel corpo può annidarsi, essa è certamente nel più profondo
delle carni, sotto la pelle, molto al di sotto di essa, tanto profondamente
da essere vicina all’anima, inscatolata in fondo, lontana. Per cogliere quel
briciolo di comunione del bene che dall’anima può essersi beneficamente
insinuato nel corpo, occorre allora svelarlo, metterlo in luce, a nudo.
Occorre scorticare, per far perdere i limiti identitari, per tutto confondere
nella presunta purezza dell’aperto e del visibile, così che non vi sia più
nulla da nascondere, nessun fremito sotto pelle, alcun desiderio residuale
contro cui combattere e da inquisire, per dare all’anima la levità di una
purezza che permette di accedere alla parte migliore di quel che ci si
deve attendere al termine della vita terrena. Condanna senza appello del
desiderio, del fremere della pelle, di Saffo, che nei secoli venuti dopo
i suoi versi, soprattutto dalla tarda antichità in poi, mai avrebbe potuto
scrivere queste parole:

A me pare uguale agli dèi


chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.151
����. Saffo, A me pare uguale agli dèi, in Frammenti lirici, traduzione di Salvatore
Quasimodo, SE, Milano 2002, p. 17.
152
Nel confine

E ancora:

Ma se tu dimenticherai
(E tu dimentichi) io voglio ricordare
i nostri celesti patimenti:
le molte ghirlande di viole e rose
che a me vicina, sul grembo
intrecciasti con timo;
i vezzi di leggiadre corolle
che mi chiudesti intorno
al delicato collo;
e l’olio da re, forte di fiori;
che la tua mano lisciava
sulla lucida pelle;
e i molli letti
dove alle tenere fanciulle ioniche
nasceva amore della tua bellezza.152

Inno all’amore e al desiderio. E inno alla pelle. In questi versi si


parla quasi essenzialmente della pelle: luogo di fremiti, superficie
lucida, forme delicate, vicinanze e sensuali presenze, fuoco che vi
scorre sotterraneo, unico strumento di percezione del mondo a rimanere
a maggiore ragione vigile ed attivo in una sensibilizzazione estrema là
dove la vista si annulla e l’udito si fa rombo, sudore e tremore, colore del
prato. Nelle parole della poetessa di Lesbo, la pelle appare assolutamente
pura, anzi: quasi simbolo di purezza sulla quale si disegna la passione
ed il desiderio, i quali, pertanto, assumono a loro volta questo segno di
levità e trasparenza. Ecco allora la risposta al ridondante interrogativo
intorno alla liceità di una contrazione alla pelle di tutto il senso che il
corpo interno può contenere in quanto luogo di interfaccia tra dentro e
fuori, intimità – intesa come desiderio e piacere oppure terrore e dolore
– ed esteriorità percepita – a sua volta dicibile come rappresentazione
del desiderabile o del repellente. I versi di Saffo rispondono dicendo che
quella contrazione è possibile e che non è niente affatto una riduzione
ma una essenzializzazione, un cogliere la massima espressione di
un senso in uno spazio emotivo sempre più profondo e che soltanto
apparentemente risulta costretto o circoscritto. Appare così, almeno
implicitamente, anche la risposta all’interrogativo che immediatamente
viene a costituirsi intorno alle ragioni del tragico scivolamento che
trasporta dall’ebrezza della pelle all’orrore del martirio, da Saffo a
Natanàele, il San Bartolomeo Apostolo.

����.Saffo, Vorrei veramente essere morta, ivi, p. 35.


153
Stefano Bevacqua

I poeti, dopo Saffo, hanno dimenticato la pelle, divenuta ricettacolo


del male. Scrive Victor Segalen, uno dei primi narratori europei a
riscoprire, verso la fine del romanticismo, la pelle come luogo di
interfaccia:

La pelle è un ammirevole organo, esteso, fine, sottile, e il solo che possa,


per così dire, godere del suo organo gemello: altre pelli, con una grana
uguale o differente, con una tattilità, con un liscio sensibile... Soltanto lo
sguardo ha questa immediatezza nella risposta, ma vedere è così diverso
da essere visti; mentre toccare è lo stesso gesto di essere toccati... Eppure
i poeti e i grandi pittori, così fecondi nello scambiare anime attraverso
le pupille, attraverso le parole e la voce, attraverso gesti spasmodici così
grossolanamente regolati dalla fisiologia – i poeti hanno cantato assai poco
l’immediatezza e il fascino e il piacere della pelle.153

Dopo Saffo, e quindi all’origine del pensiero dell’Occidente, sembra


che la pelle subito si trasformi da eterea figura sulla quale aleggia
passione e desiderio in effige di supplizio e morte; diviene la pelle
che lo stesso San Bartolomeo tiene con la mano sinistra, nel Giudizio
della Cappella Sistina, così come Michelangelo lo ha voluto fissare,
figura doppia, dell’apostolo, perfettamente integro, che ostenta la sua
medesima pelle, sulla quale aleggia confusa l’immagine di un volto,
forse lo stesso Michelangelo; diviene la nudità di muscoli, ossa e vene
e nervi che Marco d’Agrate, allievo di Leonardo, ha scolpito nel marmo
per dar conto di un corpo sì completo, ma sottratto da ogni margine,
limite, che gli darebbe una forma compiuta e significante, nell’idea che
la statua conservata nel Duomo di Milano offre di una sorta di essere
mondato da ogni possibile macchia, puro in una nudità che travalica
qualsiasi oscenità per racchiudersi in semplice anatomia. Bivalenza
dello scorticamento, tra esigenza di pulizia definitiva, totale, assoluta ed
irreversibile, che lascia avvolta nella pelle ogni nefandezza mondana –
compreso il volto dell’autore, di Michelangelo medesimo – e, al tempo
stesso, sottrazione dell’identità di cui la pelle soltanto è piena garanzia –
ma che lo stesso Michelangelo recupera in un gesto quasi disperato, che
si impone ricordando che quell’uomo, l’abitatore di quella pelle, poco
importa se San Bartolomeo o lui medesimo, il pittore, ha ancora un volto
proprio, unico e capace di definirlo nella sua individualità. “Mi strappi
fuori da me”, dice Marsia nel racconto di Ovidio; Marsia condannato al
supplizio perché capace di incantare con il suono del suo piccolo flauto,
quello che Atena aveva sdegnosamente gettato sulla Terra, perché per
soffiarvi assumeva un aspetto orribile, con quelle gote gonfie e gli occhi
����.V. Segalen, Equipée, Gallimard, Paris 1983, p. 61.
154
Nel confine

che sporgevano. Ma Marsia, ne estraeva una musica leggera, capace


di rapire ognuno, soave e nitida, e senza fare nessun apparente sforzo;
Marsia meglio di Apollo, che volle sfidarlo nella gara, egli con la lira e
l’altro con il flauto: parità, sentenziarono le muse, e allora il dio pretese
che la sfida si ripetesse con gli strumenti all’incontrario, il sopra per il
sotto e l’avanti per il dietro. Apollo vinse la sfida, ché la lira suonava
ugualmente; Marsia perse, poiché al contrario il flauto non emette
alcuna melodia. Sentenza di morte per il presuntuoso figlio di Latona,
che aveva osato sfidare il dio: legato ad un albero e scorticato.
La superbia era peccato così denso e talmente capace di penetrare
dentro il corpo, come un sentimento che non appartenesse all’anima
soltanto, ma anche alle membra che ne facessero la posa e l’esultanza, da
richiedere, per essere mondato, l’atto della purificazione estrema. Marsia
paga come pagherà Natanàele, il dodicesimo apostolo, nato a Cana, in
Galilea e condotto a cospetto di Gesù da Filippo. Divenne predicatore
e miracolatore in Oriente. Guariva gli ossessi, Natanàele, ricordato
dalla cristianità come San Bartolomeo, e per questo, come riferito
all’inizio del VII secolo da Isidoro di Siviglia nel suo Martirologio,
venne giudicato immondo dai Persiani, perché con la sua preghiera
– o magia – sapeva tacitare il dolore che attraversava le viscere e la
testa dei pazzi. Solo strappandogli la pelle gli si sarebbe potuto togliere
di dosso il maligno che aveva assorbito dagli ossessi; la sua pelle
era pregna di quel male e doveva essere separata dal corpo e da ogni
altro corpo, perché immonda. Nel Duomo milanese, Natanàele appare
come purificato, ormai privo di pelle: semplice anatomia del contenuto
reso esplorabile dalla dissezione del contenitore. Anatomia proviene
da anatomé, come dissezione, ovvero da anatémneim, dissezionare,
composto da anà, prefisso di valore distributivo che significa ripetizione
o allontanamento, e témnein, tagliare: tagliare per sollevare, dividere,
differenziare. Natanàele è così anatomizzato, il suo corpo interiore
è purificato perché differenziato per separazione dalla pelle che lo
conteneva e nella quale sia era impresso il male – la superbia di Marsia.
Michelangelo lo raffigura completamente vestito dalla propria pelle, ma
con la pelle medesima presa verso le spalle, stretta nella mano sinistra,
con quel volto appena accennato, e così penzolante subito al di sopra
del gruppo degli angeli che tengono aperti i libri con iscritti i nomi
dei salvati e dei dannati, mentre con la destra afferra il coltello con il
quale si direbbe che egli stesso Natanàele abbia sezionato la propria
pelle e non che il martirio sia stata opera dei Persiani. Egli si è redento
anatomizzando il male dal suo corpo, tagliandolo e separandolo dal
resto, ora purificato e sostenibile al cospetto del Creatore che occupa il

155
Stefano Bevacqua

fuoco centrale dell’affresco. Rappresentazione complessa, quella scelta


da Michelangelo, e sulla quale si è sorprendentemente poco dibattuto,
affidando gran parte dell’acume critico al piccolo mistero del volto
raffigurato nella pelle dell’apostolo, se sia l’autoritratto del pittore154,
invece che all’equivocità rappresentata da quel coltello che Natanàele
serra ben fermo e che, paradossalmente, sembra quasi essere rivolto
verso il corpo del Cristo, e sull’uso passato o intenzionale di quel
medesimo coltello.
Pelle sollevata, ritagliata, sezionata e quindi tolta, separata, al fine
di introdurre permanente la differenza tra purezza dell’anima e abisso
del male. Pelle maltrattata e inraffigurabile, ammessa per pura necessità
fisiologica, perché non si vive senza una pelle, perché nessun animale
può permettersi di rinunciare a ciò che protegge la debole intimità della
propria carne; dunque pelle nascosta, ricoperta da disegni e colori,
da segni e vestiti, ovvero semplicemente ignorata, come una lucida
superficie che si modella neutrale sulle forme delle carni, come cute,
insomma, non come pelle, e, in particolare ed essenzialmente, come
cute da raffigurare come liscia ed uniforme, priva di una forma propria
o di una rugosità, priva perfino di materia. Un semplice colore, quello sì
incancellabile e necessario, ma anch’esso come depurato dalla pelle, reso
carattere somatico generale di un corpo, come si dice alto o basso, grasso
o magro, e allora si dice chiaro o scuro, bianco o nero o giallo, come
si dice dei popoli. Niente rughe, allora, nemmeno un segno distintivo,
una possibilità di riconoscimento che attraverso la pelle possa informare,
perché la pelle, il male della pelle, non deve emergere liberamente;
niente piacere, per necessaria conseguenza, che nella pelle si costituisce
attraverso forme, sensibilità, colori, toni che sono di essa propri; niente
pelle di Saffo, solo cute, necessaria, anonima, insensibile, utile ma muta.
Fino al medioevo, per indicare in un dipinto l’età presumibile di un
personaggio si ricorreva alla barba, all’abbigliamento, alla postura. La
pelle era cute contenente, priva di alcuna espressività, liscia, inutile sotto
il profilo dell’informazione. Per secoli, la pelle è rimasta priva di forma
propria, salvo che in funzione del colore: chiara, chiarissima, la pelle dei
santi, della Vergine, scura, financo nera quella dei dannati e dei demoni.
L’esempio forse più tardo di raffigurazione nella quale compare un primo
timido segno che muove la superficie della pelle, che la rende espressiva,
che ammette un suo ruolo relazionale, è forse costituito dal Cimabue.
Nelle sue prime opere, la pelle permane liscia e quasi monocroma, se
non per sottolineare con ombre mai troppo nette e acute, le forme delle
. Vedere F. La Cava, Il volto di Michelangelo, scoperto nel Giudizio finale, Zanichelli,
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Bologna 1925.
156
Nel confine

carni sottostanti. Vale per la Maestà del 1280, conservata al Louvre, ed


anche per il celebre Crocifisso, di eguale epoca, del quale si conservano
innumerevoli riproduzioni che ci informano delle sue sembianze precedenti
al disastro del 1966, quando le acque dell’Arno esondato distrussero
gran parte del capolavoro: volti lisci, luminosi, ove l’atto espressivo è
riservato agli occhi e alla bocca, niente pieghe o rugosità, la Vergine
appare levigata, nessun segno che appartenga alla pelle, nemmeno sul
corpo del Cristo crocifisso. Il cambiamento, quasi insensibile, interviene
negli anni della maturità del Cimabue, verso il 1295, in particolare con
una nuova Maestà, conservata agli Uffizi. La Madonna, il Bimbo Gesù
e gli otto santi che li contornano presentano ancora un volto liscio e
omogeneamente luminoso, ma non i quattro profeti che Cimabue alloggia
al di sotto della scena principale, sotto tre volte simmetriche. Geremia
e Abramo, soprattutto, mostrano la loro grande vecchiezza non soltanto
per il tramite di una lunga e candida barba unita ad una quasi completa
calvizie, ma soprattutto attraverso il pronunciamento delle sopracciglia
e le forti rughe espressive che attraversano la fronte di entrambi. Una
serie di rughe produce così un dettaglio informativo al quale il Cimabue
non voleva evidentemente rinunciare e, al tempo medesimo, attribuisce
alla pelle dei due profeti la nuova condizione di strumento – organo –
espressivo, alla quale corrisponde necessariamente anche quella di
tegumento capace di sensibilità, di piacere e di dolore, dunque luogo
di integrazione di flussi informativi, interfaccia. A partire dalla fine del
XIII secolo, la pittura, quasi sempre di natura sacra, inizia ad offrire alla
pelle un ruolo proprio, a riconoscerla come elemento costitutivo degli
esseri che vengono rappresentati. È il caso, ma non assai frequente, delle
opere dell’allievo del Cimabue, Giotto, poi di Duccio di Buoninsegna,
di Simone Martini. È un processo lento e graduale: la pelle viene messa
in scena essenzialmente attraverso le rughe della fronte dei personaggi,
mai o quasi mai o semmai soltanto in parte sulla superficie dei corpi, che
rimangono lisci e chiari ancora per molti anni. Sui corpi di Venere e Marte
dipinti dal Botticelli verso il 1484, non c’è traccia di rughe o pieghe o
forme proprie della pelle; Marte è quasi completamente ignudo e presenta
un linea più netta che segna la cute soltanto a metà della fronte, mentre
i tre satiri sono levigati come madreperla e le mani e il piede di Venere
paiono di cera, quasi biancastre. Qualche decennio prima, intorno al 1424,
il Masaccio, aveva rotto un’altra regola, quella che voleva riservare quelle
prime evidenze di pelle, di rughe, di segni, ai personaggi maschili più
anziani e nella tempera su tavola che raffigura Sant’Anna con la Madonna
il Bambino e cinque angeli strizza il volto della santa fino a cavarne
un’espressione quasi arcigna. Ma per ammettere pienamente la pelle in

157
Stefano Bevacqua

quanto protagonista della raffigurazione pittorica al pari, se non anzi


avanti all’espressione data dallo sguardo ed a quella offerta dalla bocca,
bisogna allontanarsi da Firenze, scavalcare le Alpi e risalire l’Europa fino
alle Fiandre, per incontrare Jan van Eyck. Nel suo monumentale Polittico
della chiesa di San Bavone a Gand, nelle Fiandre oggi belghe, dipinto tra
il 1426 ed il 1432, la pelle fa la sua trionfale apparizione: i corpi ignudi
di Adamo ed Eva non sono più lisci ed omogeneamente luminosi, ma
mostrano interamente la loro pelle come entità propria e non semplice
cute ricoprente. Il tacito, ma sempre fedelmente rispettato divieto che
voleva la pelle come immonda viene così superato. Piero della Francesca,
nel 1460, dipinge la Resurrezione di Cristo, conservata nel Museo Civico
di San Sepolcro: il corpo del Redentore appare come pelle che si dispiega
e si ripiega, che si frappone come struttura significante tra la profondità
del corpo e il mondo che lo circonda; Andrea Mantegna, nel 1478, termina
il suo celebre e violento Cristo morto, nel quale la Vergine appare ormai
anziana, con la pelle del volto segnata dal tempo e dal dolore, così come
le rughe del supplizio incidono la superficie della pelle della fronte del
Cristo e il dorso delle mani e la pianta dei piedi, feriti dai chiodi della
crocifissione, con la piena evidenza dei lembi di pelle che contornano i
fori che attraversano le carni.
Non è un percorso lineare, facile da scorgere e fissare. È come se la
rappresentazione della pelle in tutta la sua sostanza e nella pienezza
del suo ruolo di interfaccia fosse cosa tanto insidiosa – rischiosa – da
indurre gli artisti a non farvi ricorso con costanza, magari indugiando
su scelte pittoriche più tradizionali, diciamo: levigate, rivedendo
così atteggiamenti stilistici già percorsi oppure limitando il segno
rappresentativo ad alcuni aspetti soltanto della pelle, quale il colore e
la luce. È forse questo il caso di Michelangelo, il quale, con il Giudizio
affrescato tra il 1535 ed il 1541 sulla parete di fondo della cappella
Sistina in Vaticano, porta la pelle ad un evidente protagonismo, ma
interamente giocato sul tema del colore e della luminosità. Centinaia
di personaggi affollano l’opera e sono in massima parte quasi del tutto
privi di indumenti, trasudano corporeità che si informa nelle superfici,
nella luce e nel colore della loro pelle. Il massimo chiarore riporta al
cielo, agli angeli e alla gran parte dei santi; per i dannati è riservata una
carnagione assai più tenebrosa che diviene quasi un nero per l’immagine
di un Caronte, dalle dita dei piedi animaleschi e le orecchie appuntite
di un demonio, che ammassa gli infelici sulla barca che li conduce alla
pena eterna. Tumulto di corpi che paiono in inarrestabile movimento,
sguardi, espressioni, gesti, domande, nascondimenti, abbracci,
lacrime, sorrisi, posture infinite, fino alla pelle di San Bartolomeo, al

158
Nel confine

centro dell’affresco, a pochissima distanza dal Cristo. Michelangelo


non riproduce rughe o segni, svolge il suo tema affidando alla pelle
la forza luminosa dei volumi che riferisce; la pelle medesima diviene
superficie dipinta all’interno dell’affresco e per questo tramite luogo
di significazione, ma non in forza della sua grana, della sua texture, ma
piuttosto in relazione alla luce che riflette ed al tono che emana. Si è detto
che non è un percorso lineare e ben lo si considera osservando l’opera
dei pittori romantici, tra i quali le rughe, le pieghe ed i dispiegamenti
della pelle tornano ad essere in grande misura celati al di sotto di una
più levigata superficie. I corpi dei morenti e dei morti che popolano
Le Radeau de la Méduse di Théodore Gericault, dipinto nel 1819,
presentano le torsioni del supplizio cui sono sottoposti ed emanano la
luce riflessa dalla tempesta che si accanisce contro la malferma zattera
attraverso un contrasto esasperato che tinge di candore i due marinai in
primo piano e di tenebra quelli posti verso l’albero della vela ed il solo
che di vedetta cerca salvezza, ma la pelle di questi corpi, essa, rimane
liscia, imperturbata dagli eventi terrificanti che pure non possono non
averla ferita. Diversamente, ne La Liberté guidant le peuple di Eugène
Delacroix, dipinto nel 1830, ben si osserva come la protagonista, con
il seno scoperto e la mano sinistra che sventola il vessillo tricolore,
mentre la sinistra impugna il fucile, presenti una pelle ideale – di dea
– liscia e intoccata e intoccabile, mentre i soldati uccisi ai suoi piedi
ed i rivoltosi che l’accompagnano mostrano la pelle del viso ben più
segnata e vissuta. Nel Massacre de Scio, del 1824, Delacroix propone
volti profondamente segnati, pelle che trasuda tempo e vicende, dolore e
piacere e, infine, morte, mentre se si ritorna a molti dei ritratti realizzati
da Gericault, come Le monomane du jeu oppure La monomane de
l’envie, la descrizione dei volti si tramuta in piena e radicale definizione
della pelle come portatrice di un flusso informativo denso ed impossibile
a porre nell’opera ricorrendo alla sola luce o alle espressioni ed i toni di
colore. È un passo decisivo, oltre il quale si spalanca una pittura sempre
più contratta nei suoi gesti e nella quale la pelle diviene protagonista
primario della rappresentazione dell’umanità.
Lo statuto della pelle muta: da ricettacolo del male, essa diviene
strumento, supporto, organo; da cute, il cui compito ammesso sotto
il profilo morale, religioso, sociale, era soltanto quello di ricoprire e
proteggere, diviene pelle, capace di raccogliere l’esperienza del piacere
e di opporsi a quella del dolore; pelle chiara o scura, luminosa o opaca,
liscia o rugosa, densa o impalpabile. Ma anche: pelle insufficiente, e
non soltanto, come era stato per secoli e millenni, come cute inadeguata
a proteggere il corpo dal freddo e dalle minacce, dal vento e dalla

159
Stefano Bevacqua

polvere, dal sole e dalla pietra, pelle insufficiente anche sotto il profilo
espressivo, e dunque da caricare di luce e colore, da segnare e ornare,
per renderla portatrice di un messaggio ad essa imposto e non da essa
direttamente generato. La storia della pelle come luogo liminare di
interfaccia tra dentro e fuori si arricchisce dunque di uno straordinario
panorama di elementi aggiuntivi, di orpelli e ornamenti, di difese e
simboli, così che la storia delle armature, dell’abbigliamento, della
cosmesi, e dei tatuaggi e delle altre forme di marcatura della cute, si
mischia per sommatoria a quella della pelle medesima, fino a costruire
una narrazione di estrema complessità, ma sempre fluida ed anche
unitaria, sorprendentemente simile nei suoi sviluppi in ogni cultura e
paese, popolo e nazione. Ed anche le epoche cui riferirsi nel seguire
questa vicenda si intersecano e si sovrappongono quasi annullando
le linee temporali univoche, lineari, evolutive, alle quali ci si abitua
facilmente – diventandone anzi facile preda, all’insegna di un perenne
prima cui succede un dopo nel quale si confondono le cause con le più
innocue premesse e gli esiti con i processi. Dunque nessuna linearità,
facile da scorgere e fissare, nemmeno in questo ambito. Così come il
mutamento intervento nell’ambito della considerazione riservata alla
cute e alla pelle dalla cultura occidentale non è né un salto improvviso
né un flusso mono-direzionale sempre evidente, presentando bensì
continue sovrapposizioni e ingorghi e ritorni all’indietro, analogamente
la vicenda delle coperture attribuite alla pelle – intese nella loro totalità
come pitture, fard, colori, vesti, armature, abiti, cappelli, scudi, elmetti,
elmi, caschi, tatuaggi, scarificazioni, mutilazioni, uniformi, divise, e
via a non finire – presenta poche linearità e mai del tutto continue, ma
piuttosto continue disgiunzioni e ripiegamenti, ritorni e ripetizioni.
L’approfondire l’immane tematica che investe l’abbigliamento e la
cura del copro e la marcatura della pelle, comporterebbe il relegare la
pelle medesima, nella sua fondamentale qualità di luogo di confine,
ad un ruolo secondario, talché appare più opportuno limitarsi ai soli
riferimenti più significativi in quanto più strettamente correlati allo
statuto di una pelle come luogo transizionale. Il primo dei quali è
sicuramente quello della segnatura della pelle al fine di veicolare
informazioni ulteriori riguardo la persona che essa ricopre. La pelle
subisce in questo caso una duplice trasformazione: da un lato, ne viene
esaltata la funzione comunicativa, poiché i segni apposti riferiscono
un significato che la pelle soltanto non potrebbe asserire, dall’altro,
viene sminuita a ruolo di semplice portatrice di messaggi, di lavagna, di
bacheca vivente. È il doppio aspetto tipicamente in gioco nel frangente
dei tatuaggi, delle scarificazioni, delle mutilazioni, tutti interventi

160
Nel confine

caratterizzati, al contrario della “pitturazione” – oggi la si chiamerebbe


fard – dall’irreversibilità e che su questa fondano la loro ragion d’essere
ed il loro uso e significato. E va subito qui fatta una prima chiarificazione,
tra tatuaggi di natura utilitaristica e tatuaggi ornamentali, sapendo che
le gradazioni intermedie sono probabilmente infinite. Perché, senza
alcuna soluzione di continuità, si passa dal tatuaggio impresso sulla
pelle del detenuto, del condannato, dell’ebreo, dello schiavo (così come
si tatuano gli animali) al fine di identificare e, con questo stesso gesto,
sottrarre identità propria, annientare ed annullare, obliterare come si fa
con il biglietto ferroviario che punzonato perde il suo valore – giusto
una ricevuta, la prova del pagamento effettuato, fine della corsa, de-
possessione di sé, morte sociale, perché la pelle, come scrive Didier
Anzieu, “è ben prima dell’anima, il doppio dell’individuo; e prendere
la pelle dell’altro è peggio che rubargli l’anima, spogliandolo del suo
doppio, senza il quale non è più nulla”155 – si passa dal tatuare per poter
contare e discernere al tatuare per attribuire una condizione nuova
oppure per dirsi appartenenti a un gruppo, per ri-conoscersi e farsi
ri-conoscere. In mezzo, tra i due estremi della marcatura sul braccio
all’arrivo al campo di concentramento e la decorazione che tanti
giovani decidono di esibire sulla loro pelle come segno di appartenenza
a sé medesimi garantita dall’unicità di quel disegno – due funzioni
diverse ma speculari, in quanto la prima è volta alla depossessione
e all’annullamento e la seconda all’affermazione – in mezzo c’è la
marcatura dei prigionieri, il giglio che per secoli ha contraddistinto i
condannati, magari con l’aggiunta della lettera che indicava la natura
del reato commesso, ovvero i tatuaggi che volontariamente gli stessi
prigionieri si facevano disegnare sul corpo a perenne ricordo del
tempo trascorso in quell’universo chiuso e quelli che, analogamente,
distinguono coloro i quali hanno fatto parte di alcuni corpi militari o
hanno partecipato a particolari eventi bellici (dalla Legione straniera ai
Marines americani, dalla guerra d’Indocina a quella del Golfo). Tatuaggi,
ma anche scarificazioni o cauterizzazioni, come iniziazione sociale,
segno di riconoscimento e di appartenenza, marcatura che dimostra di
essere membri di un gruppo, di quel gruppo. La pelle segnata, incisa,
marcata, afferma l’appartenenza, indelebilmente e perentoriamente,
senza peraltro significative differenze dalla più lontana antichità ad
oggi. Era un segno sulla pelle, la circoncisione in molti casi, a suggellare
l’appartenenza al gruppo sociale oppure, in altri frangenti, ad affermare
l’ingresso nella società adulta. Un uso che, per la verità, non ha mai
����. D. Anzieu, La peau de l’autre, marque du destin, in «Nouvelle Revue de
Psychanalise», n. 30, 1984, p. 61.
161
Stefano Bevacqua

riguardato la cultura greca e romana, ma ben radicatamente quelle del


vicino oriente, dagli Sciti ai Traci alle popolazioni germaniche e celtiche.
Tradizione millenaria, che trae origine da intenzioni terapeutiche, come
nel caso dell’uomo di Similaun, rinvenuto nel 1991 in Alto Adige e
risalente al 3300 a. C., che porta ben 14 piccoli gruppi di tatuaggi,
attribuiti a rituali magico-terapeutici in considerazione del fatto che
sono collocati in punti ove gli esami tomografici hanno evidenziato
duraturi processi flogistici artritici; oppure da intenzioni scaramantiche,
come si potrebbe immaginare nel caso dell’attore americano Brad Pitt
che sull’avambraccio sinistro sfoggia un tatuaggio che raffigura proprio
i contorni della mummia di Similaun. La pelle viene così modificata
per portare irreversibilmente l’informazione, come nelle pratiche di
mutilazione delle popolazioni arcaiche. Van Gennep né da conto in
modo efficace e sintetico discutendo sui moventi che spingono alla
circoncisione così come ad innumerevoli altre pratiche che comportano
visibili modificazioni dell’aspetto delle persone:

A buon diritto si è avvicinata la circoncisione al primo taglio dei capelli


e alle cerimonie della prima dentizione e alle altre mutilazioni del corpo.
[...] Tagliare il prepuzio equivale esattamente a far saltare un dente, a
recidere l’ultima falange del dito mignolo, a tagliare il lobo dell’orecchio
o a perforare il lobo, il setto nasale, o a praticare dei tatuaggi o delle
scarificazioni, o a tagliare i capelli in un certo modo: ne viene fuori un
individuo mutilato dell’umanità comune attraverso un rito di separazione
(di qui l’idea del tagliare, del perforare, ecc.) che, automaticamente, lo
aggrega a un gruppo determinato e in modo tale che, poiché l’operazione
lascia segni indelebili, l’aggregazione risulti definitiva. [...] Le mutilazioni
sono un mezzo di differenziazione definitiva: altri mezzi, quali l’indossare
un costume particolare o una maschera, o anche le pitture corporali
(eseguite soprattutto con terre coloranti), imprimono una differenziazione
soltanto temporanea. E sono questi che svolgono un ruolo importante nei
riti di passaggio, perché si ripetono ad ogni cambiamento della vita sociale
dell’individuo.156

Ed è lo stesso senso di appartenenza ad un gruppo, inteso in senso


ampio, quindi anche come un essere come, un identificarsi in quanto
connesso a, che sembra guidare il comportamento di chi utilizza la
propria pelle come lavagna sulla quale incidere informazioni altrimenti
non evidenti. Non è soltanto il caso del tatuaggio, quello in uso tra
soldati e prigionieri, bande di motociclisti e adepti di sette religiose,
tifoserie calcistiche e giovani vittime di un’emulazione reciproca, bensì
bene anche quello di innumerevoli altre azioni volte a sottolineare il
����.A. Van Gennep, I riti, cit., pp. 63-64.
162
Nel confine

significare della propria pelle, attraverso il fard, le cure farmacologiche


(botulino) e chirurgiche (plastiche), l’esercizio fisico (body building),
l’abbronzatura (raggi UV), la colorazione e decolorazione (Michael
Jackson). Infiniti sono infatti i modi e le procedure attraverso le quali
le persone cercano, con ineguale successo e non sempre in maniera
irreversibile, di far dire alla propria pelle cose diverse da quelle che
afferma nella sua quotidianità, al fine di ritrovare forse maggiore
sicurezza del proprio apparire, mostrandosi talora molto uguali ad
ogni altro, talaltra il più possibile diversi, affermando in entrambi i
casi il proprio auto-riconoscimento, per appartenenza, nel primo
caso, per differenza, nel secondo. Tatuaggio, fard, acconciature dei
capelli, body piercing, abbigliamento, come corazza simbolica,
modello di appartenenza e di differenziazione, strumento di protezione
dall’estraneità di sguardi che violano la pelle e mettono a repentaglio
l’integrità del proprio dentro, tessuto di significazioni con il quale
esplicitare il proprio aderire ad una o ad un’altra tra le possibilità di
adeguamento sociale che vengono offerte, invitando quindi gli sguardi
dell’estraneità a bene osservare per attribuire la giusta e necessaria
appartenenza. Salto funzionale della pelle, da cute protettiva a pelle
significante ed ora a supporto per un ulteriore livello informativo,
espressivo, capace di dire ciò che la pelle, da sola, non è capace di
affermare. Insufficienza della pelle, nuovamente, dovuta ad un
eccesso di attribuzione alla quale viene sottoposta, chiedendole di
esprimere più di ogni voce e di proteggere più di ogni corazza; oppure
ancestrale pulsione a nasconderla, coprirla, a coprire la copertura,
per mettere ancora più al sicuro la propria intimità. Percorrendo
i luoghi storici, letterari, figurativi nei quali, nel corso dei secoli,
la pelle è stata rappresentata o celata, appare evidente come le due
possibilità tendano sempre a coesistere. Ché, se la pelle è il primo e
fondamentale segnalatore di senso dall’individuo verso l’esterno e dal
mondo verso l’intimità, il frapporre un ulteriore involucro, sia esso
puramente significante, come il tatuaggio o il fard, piuttosto che vero
e proprio spessore nascondente, come l’abbigliamento, introduce una
modificazione del meccanismo di espressione e di percezione. La pelle
di un individuo coperta di segni, tatuata o pitturata, ovvero nascosta da
una tunica o chiusa in un’armatura, dispone di percorsi di significazione
e, in ultima analisi, significa cose diverse ed in maniera diversa da
come sarebbe per la pelle nuda, priva di segni, disadorna o indifesa.
E in queste tre funzioni – segnare, ornare, difendere – si condensa
l’intero meccanismo di moltiplicazione dei segni e delle correlazioni
che investono la pelle o di cui la pelle è protagonista.

163
Stefano Bevacqua

Ma la pelle non basta a coprire perché nonostante questa sia la sua


missione primaria, perché mostra le forme del corpo, anzi: le accentua,
le sottolinea, le mette in evidenza e dona loro anche una tenue tinta,
differenziandone l’uso e così anche il livello di intimità e di fragilità,
dal più scuro dorso della mano al roseo delle mucose delle cavità che
si aprono nel corpo e che la pelle tutte ricopre con crescente tenuità.
Dunque, pelle in condizioni di eccesso di significazione: insufficiente
per offrire un’informazione totale ed inequivoca intorno a colui che essa
racchiude ed insufficiente a proteggerne efficacemente l’intimità. Da
una parte, attraverso la pelle, percepente ed esprimente, non si giunge
mai alla vera apertura di sé né si può davvero conoscere l’altro; dall’altra
parte, essa già troppo mostra, non racchiude abbastanza, non nega con
sufficiente perentorietà la corporeità della persona, troppo offre allo
sguardo e al tatto e all’olfatto. Lamina relazionale in costante rapporto
con il dentro e con il mondo esterno, la pelle, al tempo stesso, troppo
esprime e resta muta, nulla raccoglie e troppo percepisce. In questo
impreciso bilanciamento sempre rimesso in discussione dalle emozioni
di ciascuno, ogni volta mutevole in funzione del proprio percepirsi e
del percepire il mondo e gli stessi atti percettivi degli altri individui che
lo abitano – sguardi rivolti alla propria pelle e che dal sé si dirigono
verso la pelle di altri, sguardi desideranti e di disgusto, di avidità e di
conquista – in questo confuso e mutevole stato di relazione con il mondo
si insinua l’idea – il concetto o il dovere o la necessità – del pudore.
Sulla pelle si racconta la storia del pudore, del dovere di circoscrivere
la possibilità di mostrarsi, limitando l’entità del mostrato e restringendo
la cerchia di coloro verso i quali ci si può mostrare. In questo percorso
si colloca anche la vicenda, riferita da Erodoto, di Jole, moglie di
Candaule, re dei Lidi. Egli andava così fiero della bellezza della donna
da proporne la vista a Gige, capo della guardia reale. Jole seppe di
essere stata vista – violata con lo sguardo – e ne provò tale vergogna
da costringere Gige a scegliere tra la morte oppure uccidere Candaule e
prendere il suo posto, di re e di marito. La storia riferita da Erodoto altro
non è che la vicenda della pelle nel suo equivoco porsi in costante bilico
tra oggetto di percezione e soggetto percepente, tra oggettivazione e
soggettivazione, tra il sé e il mondo abitato da tanti altri sé che mai si
congiungono al primo, perché quella pelle è già troppo per conoscere
l’intimità dell’altro, e troppo poco per difenderla compiutamente dallo
sguardo – dal desiderio. Hegel risolve questa instabile collocazione
della pelle tra il vissuto ed il visto con la considerazione che l’uomo,
nella sua qualità di essere spirituale, non può “non considerare come
inadeguato quel che è solo animalesco”, ma subito dopo deve anche

164
Nel confine

ammettere che “Adamo ed Eva, prima che avessero gustato il pomo


della sapienza, si aggiravano per il Paradiso in ingenua nudità, ma
appena si svegliò in loro la coscienza spirituale si accorsero di essere
nudi e si vergognarono della loro nudità”157. Il pomo del peccato diviene
qui fuoco del conoscere, la dannazione che ne consegue non differisce
da quella che deve subire Prometeo, lo spirito che alberga nell’uomo lo
allontana dalla nudità, dalla propria e medesima pelle, quasi lo spirito,
crescendo in volume – coscienza – non potesse più essere contenuto in
tal misero involucro e meritasse di necessità ben altro albergo, eterno
e soprannaturale. Stesso disprezzo, venato da insopprimibile pulsione
desiderante, attraversa Platone e Hegel, a oltre duemila anni di distanza,
per il corpo, per quel tegumento che lo contiene e troppo ne mostra
senza abbastanza riferire, per il piacere che attraverso di esso è reso
possibile, per la carnalità degli odori e degli sguardi che generano
desiderio senza mai placarlo. Carne coperta dalla pelle e pelle che deve
a sua volta essere coperta dalle vesti. Ri-copertura necessaria a duplice
titolo, perché, si è detto, duplice è l’insufficienza della pelle: da una
parte, non difende abbastanza dalle intemperie e dalle offese; dall’altra
parte, fin troppo lascia vedere senza tutto mostrare. Ecco che le vesti si
impongono come risolutive di entrambi i bisogni. Scrive ancora Hegel:

Il vestire in generale, fatta astrazione dai fini artistici, trova la sua


giustificazione da un lato nel bisogno di difendersi dagli effetti delle
intemperie, giacché la natura non ha tolto all’uomo questa cura, anzi a
lui l’ha lasciata completamente, a differenza dell’animale, la cui pelle è
coperta di piume, di peli, di scaglie, ecc. D’altro lato l’uomo è spinto a
coprirsi di vestiti dal pudore. Il pudore, considerato nel modo più generale,
è l’inizio dell’ira contro qualcosa che non deve essere. L’uomo, che
diviene cosciente della sua destinazione superiore di essere spirito, [...]
non può non sforzarsi di nascondere [...] soprattutto quelle parti del suo
corpo, tronco, petto, dorso, gambe, che servono soltanto a funzioni animali
oppure indicano solo l’estremo come tale e non hanno né una diretta
determinazione spirituale, né una espressione spirituale.158

Hegel usa il termine bisogno soltanto nel riferirsi alle vesti come
necessarie per difendere il corpo dalle intemperie e poi il termine spinto
in riferimento al pudore. Pesa le parole, Hegel, non vuole dire che il
pudore genera bisogno, ma soltanto che spinge verso un comportamento.
Ma questo comportamento deve essere capace di evitare che sia ciò che
non deve essere. La necessità, il bisogno, non è dunque nel pudore

����.G.W.F. Hegel, Estetica, Feltrinelli, Milano 1963, p. 978.


158. Ibidem.
165
Stefano Bevacqua

in sé, ma in ciò che lo rende necessario: bisogna evitare sempre e


radicalmente che sia ciò che non deve essere e per questo si ricorre al
pudore, “inizio dell’ira”, che spinge l’uomo a coprire la propria pelle
con una sorta di seconda pelle, le vesti. Vesti come pelle della pelle le
quali sono chiamate ad assolvere l’enormità dei compiti che la pelle, da
sola, si è ben visto quanto incapace sia di pienamente assolvere. Vesti
per coprire la pelle, la quale sottolinea l’animalità negativa di un corpo
che non è coperto da piume o peli o scaglie e che per questo soffre
del freddo e del caldo, del vento e del sole e delle asperità delle cose
sulle quali poggia, corpo insufficientemente protetto e troppo scoperto.
Vesti capaci di dire ciò che la pelle non potrebbe mai affermare, se non
ricorrendo all’ornamento, alla pitturazione, al tatuaggio, alla marcatura.
Vesti come la corazza del combattente che protegge dal filo della lama
avversaria; come l’uniforme del soldato, che permette di riconoscere il
compagno dal nemico; come la tuta da lavoro dell’operaio o il camice
del tecnico o del medico che, al tempo stesso, rendono più agevole lo
svolgimento delle mansioni affidate e indicano un ruolo, un mestiere,
un sapere fare, un potere; come la toga del magistrato, che indica
chi possiede la forza della legge; come i vestiti dell’adolescente che
indicano il suo appartenere ad un gruppo sociale o ad un altro o a
nessuno di essi; come l’abito grigio e la camicia bianca e la cravatta
blu con la quale ci si scioglie nell’uniformità di un andare e venire nel
ventre della città; come il candido abito della sposa che insegna della
sua purezza e indìce la festa che anticipa il suo passaggio nel novero
delle madri; come la tonaca del religioso che vorrebbe garantire la sua
estraneità dai mali della Terra; come il clamide che copriva le spalle del
cavaliere di Tessaglia e che veniva dato a ciascun soldato nel giorno in
cui accedeva al mondo delle armi. Ecco che le vesti non hanno nulla
del luogo di confine, come se non possedessero alcuno spessore, perché
sulla loro faccia esterna lo sguardo viene fermato nella sola offerta di
un simbolo di appartenenza – ceto sociale, mestiere, ruolo, potenza,
potere – così come la faccia interna arresta l’espressività che la pelle
non può più donare. Rimane soltanto la pelle dei volti – ma non per tutti
i popoli e le tradizioni e non per tutti i sessi – a dire ciò che il corpo
attraverso la loquacità della sensibile pelle potrebbe e vorrebbe ancora
significare verso il mondo in cui è immerso. E rimangono le vesti, nella
loro significazione, nel dire in luogo della pelle. Vesti che si ripiegano
e si distendono in funzione del copro che custodiscono al di sopra
della pelle. Ripetizione delle pieghe interiori che si mutuano in quelle
della pelle e si rinnovano, come diluite, meno numerose e, insieme,
meno aspre, nella superficie delle vesti. Pieghe, le quali, a minore

166
Nel confine

che si fa la distanza che le vesti mantengono verso la pelle, alludono


in misura crescente a ciò che esse stesse nascondono, fino a porsi
come seconda pelle, come guanto del corpo intero, nuova superficie
espressiva che tutela dallo sguardo, ma lascia intuire fino al dettaglio
ciò che non deve essere visto. Vesti come ornamento, che dice ciò che
si intende apparire e per questo celano ciò che si è, lasciando sempre
inconosciuta una parte di sé, ma, altrettanto, intuibile ed immaginabile,
in modo che ciascuno assomigli tanto a sé medesimo quanto a ciò che
vorrebbe essere. Vesti equivoche, che dicono l’appartenenza al censo,
al ruolo, al potere, ma altrettanto confermano l’individualità di colui
che le indossa: anche l’uniforme di un prigioniero, di un militare, di
un sacerdote, è sempre e soltanto l’uniforme di quel prigioniero, di
quel militare, di quel sacerdote. Certamente, quelle vesti sono tutte
uguali, appunto: uniformi, ma esse significano ciò che devono soltanto
nel momento in cui sono indossate da colui che è quell’individuo,
sia esso il prigioniero, il militare o il sacerdote. L’uniforme, privata
del suo contenuto, è soltanto l’uniforme del prigioniero, ma non
denota nessun prigioniero, bensì la sola idea di prigioniero; quando è
indossata, l’uniforme in-forma che quell’individuo, con il suo copro e
la pelle che lo tutela e ricopre – che dà la forma e percepisce la forma
– è un prigioniero, anzi: quel prigioniero, il quale potrà certamente
essere confuso con mille altri suoi simili, ma senza perdere la sua
identità, poiché egli è esattamente quello, pur non potendo distinguersi
nella moltitudine dell’eguale. Nessuna veste è capace di cancellare
completamente la possibilità di distinguere ciascuno dal mondo in cui
è immerso. Vano è il tentativo esperito innumerevoli volte di annullare
l’unico nell’eguale, ché sotto la veste, la più identica delle vesti, rimane
sempre una pelle. Ma anche vesti, al contrario dell’uniforme, attraverso
le quali apparire unici e distinguibili, come il re o il dio, là dove la
pelle, la semplice e nuda pelle, mai avrebbe potuto rappresentare quella
potenza – potere – che la veste invece è capace di attribuire, grazie al
suo sontuoso ricamo, al filo d’oro intessuto sulla porpora, al colore
acceso delle gemme che la ornano, allo sfavillare di luce che l’abito
reale produce. Ancora, dunque, un gioco di equivoci equilibri, tra la
pena o il desiderio di uniformità – il prigioniero avvolto nell’uniforme
decisa dal potere come l’adolescente che si veste di ciò che il potere
dell’immagine commerciale ha stabilito – tra l’affermazione, attraverso
le vesti, della propria appartenenza e l’impossibilità di celare la propria
identità. Equilibrio sempre difficile che Roland Barthes, agli albori
della sua ricerca semiologica, nel 1957, così riassumeva:

167
Stefano Bevacqua

Ciò che deve interessare il ricercatore, storico o sociologo, non è il


passaggio dalla protezione all’ornamento (passaggio illusorio), ma la
tendenza di ogni copertura corporea ad inserirsi in un sistema formale
organizzato, normativo, consacrato dalla società. I primi soldati romani
che si buttarono sulle spalle una coperta di lana per proteggersi dalla
pioggia, compirono un atto di pura protezione; ma non appena la materia,
la forma e l’uso sono stati, niente affatto abbelliti, ma semplicemente
regolamentati da un gruppo sociale definito (per esempio, gli schiavi nella
società gallo-romana intorno al II secolo), quell’oggetto è diventato parte
del sistema, l’indumento è diventato costume senza che si possa trovare in
questo passaggio traccia di una finalità estetica.159

Non c’è nulla di casuale nel fatto che Barthes non ritenga di fare
alcun riferimento a ciò che si trova al di sotto dell’indumento di cui
discute. La pelle, l’indumento primario, è data per acquisita come
sottostante nella negazione. Barthes riassume il passaggio dalla
funzione iniziale del sagum come semplice protezione dalle intemperie
ad uniforme codificata, ma contiene e comprime un salto semantico
di portata non secondaria: la protezione è cosa che riguarda la pelle,
anzi: la cute, riguarda dunque il corpo; l’uniforme riguarda la persona,
il suo compito e il suo status. Nel testo di Barthes non c’è traccia di
questa non piccola differenza, non viene colto il fatto che in realtà si
tratta di due indumenti completamente diversi: il primo è il sagum che
viene indossato per proteggersi; il secondo è la paenula che identifica
il soldato della romanità e ne sottolinea ruolo e potenza. Non si discute
affatto di pelle, nel testo barthiano; niente pelle: scivolamento di senso,
lungo il crinale dell’indeterminazione che la pelle sempre riafferma,
luogo equivoco, mutevole, nel quale la faccia interna e quella esterna
si scambiano continuamente ruolo e posizione, luogo di ripiegamenti
e distensioni, di margini riflessi dalle percezioni e di limiti affermati
dalle espressioni; pelle che coglie il calore ed è a sua volta generatrice
di calore, pelle tattile che sente ogni presenza ed è essa stessa presenza;
pelle che trova il suo piacere e lo infonde all’intera persona e che si
lascia attraversare da ogni dolore per farlo proprio. Pelle spudorata che
imbarazza il sempre troppo pudico Barthes.

����.R. Barthes, Histoire et Sociologie du Vêtement, in: «Annales. Économies, Sociétés,


Civilisation», 12e année, N. 3, 1957, pp. 433-434.
168
QUARTA VARIAZIONE

ROMOLO
Fondazioni, soglie, edifici

Dalle pagine precedenti, rimane aperto un interrogativo: gli


indumenti costituiscono, al pari della pelle, un luogo di confine, inteso
come spazio ed evento non definibile in termini di un qua ed un là, ma
soltanto intuibile, immaginabile, esperibile, figurabile nell’accogliere
e trasformare e restituire, sempre attribuendo qualità inattese e mai
cristallizzandosi in un essere duplice superficie priva di spessore – priva
di un luogo, appunto, non riconducibile al più semplice spazio e sempre
mutevole? Si potrebbe rispondere con facilità in maniera affermativa,
ammettendo che le vesti, in quanto elemento significante, costituiscano
a loro volta un margine di indeterminazione e di equivocità. Ma sarebbe
confondere la pelle con ciò che la ricopre. Gli indumenti in effetti
significano soltanto sopra quel corpo, esattamente come l’uniforme è
tale anche appesa all’attaccapanni, ma diventa quella uniforme quando
è indossata da quella persona perfino quando essa risulti irriconoscibile
nella moltitudine di coloro che si identificano – volontariamente o
supini – proprio con quell’uniforme. Nemmeno i più uguali degli
indumenti possono sfuggire alla differenza che essi stessi contengono
e che porta la propria identità primaria e inequivocabile nella – sulla –
pelle. L’impronta digitale, che nella sua unicità riconosce ciascuno nella
moltitudine, è cosa della pelle ed ogni individuo la porta riconoscibile
e assoluta come nessun indumento potrebbe mai essere. Le vesti,
infatti, costituiscono un sistema di comunicazione, esse dicono della
persona che le indossa, ma non presentano alcuna funzione percipiente,
non sentono nulla, nemmeno quello che dicono. Non possono essere
luogo liminare per il fatto medesimo di ricoprire un luogo a sua volta
liminare. Attraverso le vesti le persone si affermano e dichiarano la loro
appartenenza, si propongono allo sguardo degli altri individui partecipi
del mondo; le vesti possono indurre – sottolineando ciò che ricoprono –
desiderio o repulsione, oppure – mostrando ciò che ricoprono – possono
trasmettere a loro volta una funzione desiderante; vesti per esibirsi e
per sentirsi a proprio agio, per non essere confusi con gli altri o per non
apparire diversi dagli altri, per proteggere la pelle e per salvarla; vesti
Stefano Bevacqua

atte a svolgere funzioni e ruoli solo apparentemente incoerenti e forse


incompatibili, come gli ornamenti che ricamavano magnificamente la
superficie dell’armatura di un cavaliere, destinata, certo, a proteggerlo
nel combattimento, ma anche a dire quella sua preminenza di uomo
d’armi, di eroe destinato alla vittoria; oppure come l’oro, i preziosi, le
sete e i damaschi che abbellivano le spoglie dell’imperatore, del sovrano,
del papa, per sottolinearne la passata ricchezza e potenza, quasi, nel
proporsi al Giudizio, fosse necessario ben distinguersi nella comunità
delle anime dei morti ché l’Onnipotente non avrebbe potuto notare,
altrimenti, la grandezza di quel suo delegato terreno. Nella loro enorme
potenza espressiva, quasi costituissero da esse stesse un linguaggio
articolato in segni e regole significanti perfettamente ripetibili, le
vesti, dunque, non percepiscono e, soprattutto, non trasformano,
elaborandole e metabolizzandole, le informazione che giungono dal
mondo esterno; appare dunque lecita l’affermazione per cui esiste una
linguaggio dell’abbigliamento, ma escludendo ogni possibilità ad un
ruolo di interfaccia tra mondi che si ritrovino in qualche modo e misura
miscelati ed indistinti in un luogo liminare. Le vesti appaiono così
come un edificio: destinato a proteggere e ad accogliere, esso significa
ancor più dell’indumento, poiché le sue due facce, il lato interno ed
il lato esterno delle sue pareti, possono assumere funzioni espressive
anche molto diverse e perfino insospettabilmente confliggenti, ma sono,
queste, superfici incapaci di raccogliere e metabolizzare informazioni.
Nulla penetra attraverso le pareti di un edificio, esso può soltanto dire
in funzione del suo aspetto, e, questo, nonostante la piena duplicità di
significazione di cui un edificio può essere portatore, come nel caso di
costruzioni esternamente prive di ogni decorazione – decoro – ma che al
loro interno possono essere adorne di ogni cesello. Duplicità che sembra
mancare all’indumento, poiché quest’ultimo è un presentarsi ed un
mostrare, ma senza offrire a ciò che contiene – il corpo e la pelle che lo
ricopre – alcuna possibilità di essere diversamente dal suo stato comune,
mentre le pareti dell’edificio permettono mutamenti di condizione anche
totalitari. Sotto le vesti, ciascuno è ciò che è e non diviene mai altro da
questo essere che in quel momento dato si definisce: sotto l’indumento
si può essere emaciati o abbronzati, gracili o forzuti, rugosi o lisci, ma
tutto ciò, la veste può soltanto nasconderlo per significare attraverso il
suo aspetto esteriore. Dentro l’indumento non ci si può muovere se non
muovendosi con l’indumento; non si cammina dentro una veste, ma con
una veste, indossando una veste; al contrario, si cammina dentro un
edificio, ci si muove nel suo ventre, lo si percorre e lo si vive, si nasce e
si muore, si costruisce il piacere e si soffre il dolore, si versano lacrime e

170
Nel confine

si fa sgorgare il sangue, ci si innalza nell’esaltazione mistica ed in quella


del piacere estremo, si riposa e si sogna, si anela e si auspica. All’interno
di un edificio, di una costruzione, per meglio dire: in una casa, nella casa,
si nasce e si vive e si muore. Tutta la vita di un individuo ed ogni suo
evento potrebbe accadere integralmente all’interno di un edificio, di una
singola ed unica casa, valida, quindi, come mondo di quell’individuo,
saltuariamente abitata – penetrata – anche da altri individui, ma dalla
quale il primo potrebbe non mai uscire, come in un universo chiuso,
guscio d’uovo, struttura ossea invalicabile della propria esistenza. Non
membrana, ma carapace invalicabile; protezione assoluta e definitiva,
soffocante e mortifera.
Si dice “rimanere chiusi in casa” con il senso negativo dell’opprimente
protezione, dimenticando che quello è il solo luogo – forse – nel quale
le persone godono di gradi di libertà altrimenti impossibili quando si
trovano nella parte restante del mondo. Nella casa si può dimorare senza
alcun indumento, ed essere, così, come avvolti da una veste enorme,
che in alcun punto è in contatto con la pelle e lascia a questa la piena
ed assoluta capacità di tutto percepire ed esprimere, e, diversamente da
quanto accade nello spazio vasto del mondo, si rimane oscuri e protetti
da qualsiasi altra presenza che non sia predeterminata, oltreché protetti
dal sole e dal vento, dalla pioggia e dal freddo. Complicità ed intimità
con sé medesimi e con ogni altra persona ammessa a questa ritualità
del corpo, come nelle quotidiane funzioni dello spogliarsi e del lavarsi
e del vestirsi: nudità completamente tutelata dall’intimità; intimità
perfettamente liberata dalla complicità. Condizione, questa, che appare
in completa opposizione alla banalizzazione della promiscuità di una
nudità condivisa nello spazio libero – campo di naturisti, laddove il
solo fatto che si dica campo lascia intendere segregazione e fredda
contiguità. Casa proteggente e isolante, chiusa da mura che non lasciano
passare nulla, né dall’interno verso l’esterno, né al contrario; mura
riflettenti, atone e amorfe, ma, al tempo stesso, significanti per le loro
forme, colori, ornamenti, tanto sul loro versante esterno, nell’apparenza
che l’edificio offre al mondo ulteriore, quanto su quello intimo, quando
la parete viene abitata, percorsa, dipinta, utilizzata come supporto e
sostegno; parete come silenziosa testimone dell’intimità e proteggente
scudo da ogni infiltrazione; mura solide e dense, rassicuranti e potenti,
che fanno della casa il luogo interno in cui scorre una parte enorme
dell’esistenza di ciascuno; mura che sostengono il tetto, coperchio
ultimo che ripara dal cielo e da ciò che il cielo può promettere,
coperchio che separa ciò che si erge dal suolo, la casa, dall’universo
vasto che la sovrasta, da quell’incommensurabile altezza che da nulla

171
Stefano Bevacqua

è interrotta fino all’angoscia di percepire il peso del lato infinito dello


spazio individuale, quella vastità assoluta della dimensione verticale
che sovrasta ogni individuo e nella quale l’identità di questi sembra
venir meno, atterrita dall’altezza, stordita dalla differenza che intercorre
tra il prossimo visibile, o comunque esplorabile, e l’estremo di uno
spazio che non ha termine, alcun termine; tetto che raccoglie il calore
generato tra le mura, impedendone la dissipazione, trattenendone la
vitalità – energia – che le persone medesime generano, attraverso la
loro pelle; tetto che significa la casa e che non soltanto la completa,
ma, ben più, la definisce e la giustifica, la rende capace di assolvere
la propria funzione e quindi la istituisce. Casa capace di assumere
mille volti e ruoli, tanti quante sono le immagini e le azioni possibili
di ogni individuo in ogni mutevole istante del suo esistere; casa che si
qualifica per come le persone la abitano e per quello che esse compiono
al suo interno, sotto la sua protezione e nella sua difesa; casa la quale,
in funzione ed in relazione a ciò a cui è votata, diviene palazzo o
stamberga, capanna o dimora, castello o residenza, ufficio o scuola,
fabbrica o carcere, ospedale o tempio, luogo di potere o di svago, luogo
di lunga permanenza o di rapida intrusione, luogo di vita o di morte;
casa la quale, in relazione alla funzione che assolve, assume apparenze
differenti e significazioni inequivoche ovvero volutamente equivoche,
per informare della propria funzione e di chi la abita, del dominus
che la governa o della persona che vi narra la propria esistenza, nella
serenità o nell’angoscia, in povertà o ricchezza; casa del governo, come
si dice ancora in America Latina ad indicare le prefetture ed i palazzi
del potere, ovvero: casa di correzione, come si definiva in passato il
carcere minorile, casa di pena, per intendere il penitenziario, casa di
cura, casa del Signore, casa di contenzione, casa chiusa, casa matta,
ultima casa, l’ultima casa del villaggio – ché in ogni paese o città c’è
l’ultima casa, quella che affaccia sull’oltre, il fuori, il resto, la zona
indifferente ed indifferenziata che unisce l’insieme delle case – che
non ancora si chiama città – con l’alterità del mondo esterno; casa che
riferisce di chi la possiede, abita, governa, occupa, e che, altrettanto,
dice ciò che in essa avviene, che sia la preghiera o il lavoro, la cura o la
contenzione, la vita nascente o la sua fine; casa sempre diversa ciascuna
da ogni altra, ché non basta mai dire che l’una è per l’abitare e l’altra per
curare, oppure che la prima è residenza del signore e la seconda è luogo
di lavoro, la terza per il culto e la quarta per il commercio, non basta
alcuna delle definizioni date in quanto ogni casa è unica e perfettamente
riconoscibile, anche quando fosse costruita come l’esagono anonimo
dell’alveare, perché non si può cancellare l’impronta digitale che la

172
Nel confine

pelle di chi vi dimora possiede come traccia incancellabile ed unica


della sua identità; casa, dunque, sempre unica, nella sua storia passata
ed in quella che segnerà per il futuro; perché casa che sembra quasi
respirare del e nel tempo nel quale essa viene vissuta, abitata, usata;
casa testimone del mondo al quale ha partecipato, di ciò che è avvenuto
al suo interno e di ciò che è accaduto di fronte ad essa, delle altre case
che sono state edificate e distrutte, abbattute e rinate e sostituite, nella
mutazione continua del tessuto che lega ogni casa ad ogni altra; casa
fondata, come primo elemento – nucleo – di una rete di case, che sarà
città, ma che prima, molto prima, ancora prima di poter pensare la città
e la sua possibilità, è soltanto una casa, quella casa, la prima casa.
Occorre qui chiedersi quale sia, questa prima casa: se sia domus o
aedes, se luogo o edificio. La lingua latina manteneva ben distinte le
parole ed i loro significati, con domus che riferiva del luogo in cui si
dimora, della famiglia, del suo dominus, della vita che vi trascorreva,
dell’accadere entro quelle pareti. Nell’Eneide, Virgilio parla di domus
come di stirpe e di dominio: “Veniet lustris labentibus aetas, cum
domus Assaraci Phtiam clarasque Mycenas seruitio premet ac uictis
dominabitur Argis”160. Domus che ritrova la sua radice nel sanscrito dam
o damas, scivolando attorno al greco dòmos, riferito a casa, palazzo,
costruzione. Termini sempre oscillanti tra la definizione dell’oggetto
fisico, l’edificio, e ciò che esso contiene e ciò che in esso avviene ed
è passato ed accadrà per azione – per volontà o per supina attesa, per
caso o per necessità – dell’uomo che vive quel luogo. Instabile è la
distinzione tra luogo di esistenza e luogo fisico, che la parola italiana
casa sembra quasi dimenticare, ma forse non del tutto, ché per casa si
intende insieme luogo materiale e luogo di esistenza, mentre l’oggetto
fisico è più strettamente riferito dalla parola edificio, come l’aedes
latino, dal quale deriva. Differenza rimasta ben più chiara nella duplicità
dei termini tedeschi di Heim ed Haus ed in quelli inglesi di home ed
house, e che sembra richiamarsi alle due distinte parole utilizzate dai
Greci, anche se attraverso un equilibrio dei significati che appare quasi
a ruoli invertiti, con oikos, che riferiva al tempo stesso della famiglia e
della casa nella quale essa viveva, mentre, s’è ben visto, dòmos diceva
soltanto della fattezza materiale dell’edificio, come l’aedes latino;
equivoco moltiplicato dall’ulteriore riferimento di aedes inteso come
tempio, per cui aedilis era il magistrato cui competevano gli edifici
pubblici, aedificatio era la costruzione in senso lato e, infine, aedes, che,

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. “Verrà un’età con il procedere dei lustri che la casa di Assaraco calcherà in schiavitù
Ftia e la gloriosa Micene e dominerà sulla vinta Argo”. [Virgilio, Eneide, 1 283-285, cit.
pp. 280-282.]
173
Stefano Bevacqua

al singolare, stava per casa degli dei, e al plurale, peraltro invariante:


aedes, indicava la categoria degli edifici. Equivocità che si moltiplica
nella lingua moderna, con la parola italiana casa che riunifica tutti i
significati. Casa che si rifà al termine latino di identica grafia e fonetica:
casa, da intendersi come capanna, come baracca di legno che offre
precario rifugio, che non dà realmente protezione, ma piuttosto ricopre,
trattiene nell’ombra, come la skia dei Greci, che vale come ombra, e la
croa, che vale come pelle, poiché in greco pelle non era detta soltanto
come derma, forse riferita più all’elemento fisico e fisiologico, alla cute,
al tegumento, ma anche croa, da intendersi come superficie, come quel
luogo esterno – esteriore – che ricopre ed offre ombra, skia. Sembra
apparire così un filo di significazione che ricollega la casa della lingua
italiana moderna ad un sistema che richiama la pelle, ma non nella sua
accezione fisiologica e materiale, quella di cute, bensì in termini di
ricoprimento capace di percezione e di espressione, luogo di piacere e
dolore e di significazione verso il mondo circostante. Anche senza doversi
affidare ad un’ingenua forzatura dell’etimo, si può dunque scorgere un
legame tra i concetti di riparo e di protezione, la pelle e la casa, sempre
mantenendo vigile l’intenzione di sollevare ogni riferimento alla cute
e all’edificio (aedes, house, Haus), inteso come elemento materiale
distinto dall’esistenza che in esso alberga ovvero dalla sua esistenza
stessa in quanto elemento simbolico (aedes al singolare, come tempio,
invece di aedes al plurale, gli edifici che appaiono fisicamente costituiti).
È però anche chiaro che alcuna casa, o domus, o Heim o home, potrebbe
esistere senza l’azione costruttrice volta a realizzarla. Anche la pietosa
capanna di una remota esistenza alla quale si riferisce la parola casa,
richiede di essere costruita e, nel tempo medesimo, quella stessa casa
richiama alla copertura e alla protezione. Si potrebbe dire che ciò che
ricopre e protegge viene costruito dall’uomo per offrire attenzione,
nel senso dell’offerta, non in quello della pretesa – a se stesso o ad
altri uomini o agli dei. E questo rivolgersi agli dei, questo mettere in
potenziale unione il sé dell’uomo con ciò che lo sovrasta, non è niente
affatto estraneo al tetto, alla copertura, pelle superiore ed estrema della
casa, come una volta che racchiude e protegge l’uomo e, insieme, ciò
che la casa contiene, le cose dell’uomo, il prodotto quotidiano e banale
della sua stessa esistenza. Ma non appare, il tetto, la pelle superiore,
come una difesa, come sarebbe il caso se lo spazio che lo sovrasta
fosse un’estraneità ostile dalla quale guardarsi. È bensì la possibilità
di confronto con ciò che sovrasta, l’immane distanza dello spazio che
si innalza, verso la quale la reverenza sfocia subito in timore per infine
trasformarsi in culto, che il tetto-pelle riesce a proporre all’abitante

174
Nel confine

della casa, che può così avvenire ad un contatto, al com-porre, inteso


come sym-balléin, riunione che significa la partecipazione all’evento
originario. Ecco dunque un dedalo di legami che sembrano moltiplicarsi
tra la casa, la pelle, il tetto, l’attenzione, il culto, lo spazio che sovrasta
l’uomo – anche quando egli si ricopre con il tetto-pelle della casa –
spazio nel quale l’uomo si afferma nel confronto con l’immensità.
Si può essere rigorosamente atei, ma non ci si può sottrarre al peso
dell’incommensurabilità dello spazio che sovrasta ogni singolarità e che
nessun tetto cancella, ma soltanto trattiene fuori dalla casa, senza per
questo smettere di pesare su di essa e così facendo dialogando con lo
spazio che la sovrasta. Intreccio di timori e di reverenza, di desiderio
di protezione – attenzione per sé – e di intimità necessaria – attenzione
per la domus – e di azione edificatrice e di complicità tra gli individui.
L’essenza della casa e del suo abitarvi richiama alla necessità
primaria e precedente del fondare. Costruire è preliminarmente atto di
fondazione. E fondazione è atto di delimitazione, di definizione di uno
spazio circondato da un bordo, un limite, un confine, un solco. Questo
solco è ciò che definisce che cosa sia al di qua e tiene all’esterno tutto
ciò che si colloca al di là. Si direbbe come un limite perentorio, privo
di sfrangiamenti, lineare, monodimensionale, linea così sottile da non
poter essere descritta se non attraverso la definizione del suo inizio e
della sua fine, ché priva di una seconda dimensione. E se di linea che
richiude si tratta, come accade quando si fissa il perimetro che stabilisce
ciò che deve rimanere escluso, ad una superficie si dovrà far menzione,
il cui bordo appare come un limite lucidamente afferrabile, senza
tentennamenti né indecisioni. Niente luogo intermedio ed equivoco.
Tutto chiaro: di qua è dentro e di là è fuori. Il limite è l’ideale per
chiarire questa separazione. Ma è un limite soltanto ideale – concettuale,
astratto, addirittura: ideologico. Perché è un solco, non un linea euclidea
e, analogamente, accade che il dentro non possa poggiare su una
superficie, anch’essa astrattamente euclidea, ma debba accontentarsi di
essere un riferimento più vago; ché per quanto Romolo si sforzasse di
essere preciso, nel condurre l’aratro che fissava il primo contorno della
prima domus di Roma, facendo bene attenzione che le zolle rivoltate
si riportassero sempre all’interno del recinto che stava tracciando, non
sempre gli riusciva, poiché il bove scartava di fianco e muoveva la lama
nel solco oppure era la pietra che quasi galleggiava sotto la superficie
della terra a produrre quel repentino mutamento nell’angolazione
del vomere che spostava zolle di fertile terra anche fuori dal rango,
anche oltre il limite, ed era terra di un dentro che ora si riversava
fuori, contaminandosi dell’alterità dell’esterno; oppure era la manciata

175
Stefano Bevacqua

di terra del fuori che rischiava di avvelenare un dentro per il quale si


richiedeva la massima purezza, anzi: la purezza in quanto tale, ché puro
non prevede né permette alcuna possibile mediazione ed una cosa è pura
o non lo è, niente mezze misure, niente luoghi di confine indeterminati,
soltanto la chiarezza assoluta di qua e là, ben definiti; anche se quelle
zolle, quelle del fuori, che si riversano dentro, e quelle del dentro, che
scappano fuori, smentiscono ogni chiarezza e purezza e dicono che
quel solco è un luogo, un sistema all’interno del quale si confronta
l’interno e l’esterno; un solco che rimane sempre aperto e che non ha
esso stesso un bordo, un limite, così ben definito e certo, né verso il lato
dell’interno, né verso quello opposto, che tenta di arginare la pressione
dell’esterno, per cui sarebbe più opportuno discutere di lembi del solco,
piuttosto che di bordi, quando bordo fa pensare ad un limite più tagliato
e preciso ed invece un lembo è sempre sfrangiato, come nella ferita che
separa due parti della pelle; i lembi del solco o della ferita portano con
loro anche una parte di ciò che si trova sotto la pelle oppure sotto la
superficie della terra, come le zolle che il vomere sposta senza attenersi
alla guida che gli è imposta da Romolo, che si sforza di andare diritto
per il percorso che si è dato e di incidere la terra, la pelle della terra,
con la precisione del chirurgo, ma che fallisce. Anzitutto, perché il suo
vomere è un bisturi troppo grossolano, ma soprattutto perché nemmeno
il più scrupoloso dei chirurghi riesce a separare nella perfezione di
una linea senza frange, senza pieghe, né distensioni, senza alcuna di
quelle imprecisioni che portano con sé un poco di esterno all’interno
e lasciano un sapore di interno anche fuori dal lembo del solco, ma né
fuori né dentro il confine, piuttosto nel suo luogo, nell’indeterminatezza
di un ambito che non è ancora di là senza essere più completamente e
fattualmente di qua. Il solco della fondazione è l’indefinito equivoco
del dentro e del fuori che anima nella sua incerta proposta la stessa casa
sul quale viene edificata. La casa eredita l’incertezza della liminarità in
perenne mutamento del solco tracciato per dire dove essa deve sorgere;
la casa si anima di quell’indeterminazione e proprio per questo permette
l’attenzione verso l’uomo, la terra, il cielo e il divino, perché questo
riunire nell’attenzione si nutre di un incerto disegno e mondo e modo
di esistere dell’uomo e della casa, la sua casa, la prima casa, quella che
egli ha fondato per sé, per gli altri, per la terra – per il mondo degli altri
uomini – per il divino: il tempio.
È così chiarito che la prima e vera soglia della casa è lo stesso
solco scavato per fondarla: la fondazione è della soglia prima che
della casa, poiché fissando un dentro ed un fuori nell’incertezza che
deriva dalla maldestra azione del vomere e lasciando quindi i lembi

176
Nel confine

del solco beanti e sfrangiati, creando così un luogo che non è né un


dentro, né un fuori, la fondazione fissa nell’indeterminazione medesima
l’edificazione, così costruendo un luogo di interrelazione tra dentro e
fuori molto prima di fissare in maniera riconoscibile lo stesso dentro
e lo stesso fuori. La fondazione appare come atto primario nel quale
il costruire non è ancora disgiunto dall’abitare – l’edificio dalla casa,
l’aedes dalla domus – in quanto essa accade in un movimento che
pur essendo volto a discriminare, separare, dividere, genera altresì
l’indeterminazione, quell’impossibile a definirsi attraverso attribuzioni
e classificazioni perché equivoco, genera un non ancora e non più, un
ancora pur essendo già altro. L’azione del fondare consiste nel tracciare
un solco i cui lembi portano l’indecisione di un’appartenenza, quasi un
rivoltarsi alla violenza del segno. Il fondatore vorrebbe realizzare il suo
progetto attraverso una differenziazione per separazione, fissando un
qua ed un là, ma non ottiene altro risultato che quello di creare un luogo
tanto indeterminabile tra un dentro ed un fuori quanto lo era il terreno
vergine che il vomere ha iniziato a dissezionare. Sotto questo profilo,
il fondare accende un confronto tra elementi che, prima del passaggio
dell’aratro di Romolo, erano del tutto indistinti – la terra superficiale,
con le sue pietre, le erbe che la ricoprono, i massi appena nascosti, il
piccolo acquitrino semisepolto che informa sulla presenza recondita
di una fonte, le radici nascoste dell’antica quercia ormai infuocata
dal fulmine, ma che raccontano il lungo passato dei luoghi. Prima che
Romolo armasse i buoi per incidere la terra, questa era ricongiunta in
sé medesima e nei suoi elementi costitutivi, nessuno dei quali poteva
essere considerato al di fuori del piccolo mondo cui apparteneva; dopo
il passaggio del vomere, pietre, terra, radici, erba e sassi si rimescolano
generando un indistinto diverso dalla terra ancora vergine.
Appare dunque come il fondare attenga all’indeterminato,
all’equivoco, all’incerto. Paradossalmente, emerge come il fondare
non sia affatto fondato. Fondare, seguendo l’etimo della lingua italiana
consolidata, significa “scavare fino al sodo, per riempir la fossa di
muratura; e quindi porre i fondamenti, gettar le basi”161. Il riferimento
è il solido ed il certo, l’incorruttibile e l’omogeneo, come la roccia che
si afferma al di sotto della coltre di terra e pietre ed erba, roccia ferma,
solida ed immutabile. Roccia di fondazione, oppure: fondamenta,
come si dice di quelle del palazzo, dell’edificio, della casa che non
può essere mai messa in dubbio e nemmeno inquinata da altro che
non sia essa stessa, nella sua solida identità: certezza dell’uniforme
e uniformità della certezza. Impossibile che si possa aedificare senza
����.O. Pianigiani, Vocabolario Etimologico, Albrighi & Segati, Roma 1907.
177
Stefano Bevacqua

fundare ed ogni fundare richiede un fundus, lo stabile riferimento di


omogenea certezza. L’equivocità dell’indeterminato che si genera
attraverso l’azione di Romolo – scavare il solco – esclude il fondare
perché manca la certezza alla quale affidare l’edificio. Oppure ci si
rassegna ad ammettere una soluzione diversa, che racconta di una in-
certa fondazione, che si giustifica non nella solida certezza, ma proprio
nella fluida indeterminazione; ci si rassegna di fronte all’evidenza di
una molteplicità di elementi, i quali partecipano in mutevoli condizioni
reciproche a costituire un luogo dinamicamente aperto, sempre in
procinto di trasformarsi in una piccola o in una grande sua parte,
repentinamente o attraverso lente e quasi impercettibili evoluzioni; ci
si rassegna a constatare come il mondo al quale si guarda non è tutto
minuziosamente classificabile, che le appartenenze possono mutare,
costringendo a ridiscutere ogni certezza, a rimettere ogni volta ordine
fin dal principio – per poi ritrovarsi sempre ad una fine che richiede
necessariamente di ricomporre a ritroso il percorso effettuato; ci si
rassegna innanzi alla caducità di certezze ed evidenze che dicano di ogni
appartenenza, schema, causalità meccanicamente predeterminabile,
univoco riscontro. La leggenda vuole che l’isola Tiberina sia nata dal
mischiarsi del limo e della paglia e del farro e dell’argilla e dell’acqua
del Tevere, quando il popolo dei Romani, cacciato Tarquinio il Superbo,
si chiese che cosa poter fare delle messi che l’ultimo re di Roma aveva
raccolte vicino al suo palazzo in onore di Marte. Quel grano non poteva
essere mangiato perché sacro al dio della guerra, né poteva essere
lasciato marcire sugli steli. Non rimaneva che falciarlo e gettarlo nel
fiume, ma senza altrimenti considerarlo, senza separare i grani dalla pula
e dalla paglia, in deliberato disordine, gettando nel fiume alla rinfusa
ogni cosa raccolta dal sacro campo del re maledetto. La leggenda dice
che correva l’anno 509 avanti Cristo; Tarquinio, l’efferato re etrusco,
regnava da ben ventisei anni; la città, Roma, era stata fondata da quasi
due secoli e mezzo, da Romolo, nell’ormai lontano 21 aprile 753 avanti
Cristo. Straordinaria longevità: sette re per 244 anni, quasi trentacinque
anni di regno ciascuno, con Servio Tullio re per quarantatré anni e
Numa Pompilio per quarantadue. Quando finalmente il Superbo venne
allontanato dalla città, il solco di Romolo, il segno fondatore e primigenio,
era ormai cosa di un passato lontano, leggenda nella leggenda. Erano
cresciuti templi e palazzi, nuove mura più alte e forti, il villaggio dei
primi romani era diventato la città che stava per conoscere l’avventura
della Repubblica. Ad ogni re Roma era stata come rifondata: stretta si
manteneva la memoria della storia trascorsa, ma sempre si rinnovava
l’immagine dell’urbe, che ingrandiva i suoi confini, ritracciando nuovi

178
Nel confine

solchi per offrire piede a nuove mura e nuovi palazzi, nuove case che
si aggiungevano alla prima casa, quella fissata da Romolo. Nuovi
solchi che miscelarono terre diverse. Roma trova una nuova vita e si
rifonda attraverso l’instabile creazione di un isola, l’Isola Tiberina, una
nuova terra destinata a sostenere archi e palazzi, nuove mura e nuove
case. Michel Serres riprende la leggenda della formazione dell’Isola
Tiberina per discutere proprio dell’indeterminazione che si annida in
ogni fondazione, riportando ogni elemento alla sua mutevolezza nel
tempo, al punto di scorgere i contorni di un orologio della fondazione, la
quale si fonda certo più sull’in-certa complessità di un continuo mutare,
piuttosto che su un sostegno stabile, rassicurante e duro. Scrive Serres:

Il Tevere, dalle basse acque, ricopre i depositi con le sue turbolenze. I


banchi di sabbia sono immobili vortici, appena fissati in un tempo più
lungo. La sabbia, come vischiosa, frena il tempo che scorre. Fiume e
turbolenze, liquidi e sabbie. Ogni lamella laminare dell’acqua raccoglie un
chicco, un atomo di sabbia con sé. Scorre il tempo, scorre l’acqua, scorre la
sabbia, cadono gli atomi. [...] Fate scivolare dell’acqua, fate scivolare della
sabbia, fate scivolare dei grani di farro, ne verrà un orologio. Il Tevere è
una clessidra, il fiume un orologio a sabbia, la folla dei Romani che versa
il farro sulla riva del Tevere è un orologio, anch’esso. Lasciate scorrere
della sabbia nell’acqua, versate dei grani di farro in quest’acqua fangosa,
e tutto cambia, per la mescolanza. L’orologio, la clessidra non contano
soltanto il tempo. L’acqua è fermata dalla sabbia, e la sabbia è fermata
dall’acqua, il grano ferma l’acqua che rallenta il grano e la paglia. Tutto il
tempo si trasforma, non scorre più come prima. Troveremo, in fondo alle
acque di magra, come un deposito di tempo. [...] La paglia resta unita al
grano, il grano resta nella paglia, sotto-insieme nel sotto-insieme, la folla
indistinta si sparpaglia nel raccolto, il raccolto disperso nel campo è sparso
dalla folla nella sabbia, dove limo e sabbia si mischiano, sotto-insieme nel
sotto-insieme, tra gli acquitrini e le acque stagnanti. E l’acqua, lungi dallo
scorrere, è abbastanza bassa da mischiarsi alla sabbia. Gli insiemi, qui,
sono dei flussi. Mescolati. [...] La buona fondazione si fa sul cedevole. La
folla fonda l’isola sul liquido, sul vischioso, sul sabbioso, su dei banchi
di limo. La folla fonda l’isola, essa la fonde162, come nel crogiolo, in quel
giorno di gran caldo. Non si fonda che su ciò che scorre, cola, non si fonda
che su del tempo.163

Cedevolezza, fluidità, porosità, miscela di elementi diversi proposti


disordinatamente ma che ritrovano un ordine proprio nell’azione mutua
. Gioco di parole intraducibile: il fonde come egli fonda, di fondare, e il fond come
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esso fonde, di fondere, ad esempio, come i metalli. Fonde e fond si pronunciano in
maniera identica.
����.M. Serres, Rome. Le livre des fondations, Grasset, Paris 1983, pp. 267-272.
179
Stefano Bevacqua

di dinamico assestamento, azione che stabilisce ma mai fissa ad ogni


singolo elemento una posizione certa, bensì muove nell’in-certo ogni
particella, sia essa un atomo del limo del fiume o il possente nodo di
radici che la quercia ha lasciato a sua testimonianza sotto la coltre di
terra e che costringe Romolo, ignaro, a deviare in misura minima ma
significativa dal percorso che si era dato. Roma quadrata, quella che
disegna il fondatore secondo alcune fonti; Roma circolare, secondo altre.
Si rimanga con Plutarco, perché non è importante né il luogo né la forma,
ma ciò che si cela nella profondità dell’atto di fondazione. Che sia dove
poi sorse il Comizio nel Foro oppure sull’altura del Palatino, che sia il
solco tracciato dal primo re di Roma un quadrato ben regolare piuttosto
che un cerchio, è la formazione della fossa che interessa, per come
Plutarco la narra, rinviando ancora all’idea di un fondare non sul solido
ma sul molteplice, non sul certo ma sull’indistinto. Scrive Plutarco:

Venne scavata una fossa circolare intorno all’attuale Comizio, nella quale
furono deposte offerte votive di tutto ciò che risultava adatto secondo
le consuetudini e necessario secondo natura. Infine ogni abitante portò
una piccola porzione della propria terra d’origine e la gettò nella fossa,
mescolandola insieme con le altre. Chiamano questa fossa con lo stesso
nome con cui indicano il cielo: mundus. Poi circoscrissero la città,
descrivendo un cerchio tutto attorno a questo punto centrale. L’ecista
collega all’aratro un vomere di bronzo, a cui ha soggiogato un bue e una
vacca, e li guida personalmente, tracciando un solco lungo i confini; è
compito di quanti lo seguono rivoltare le zolle all’esterno, sollevare
l’aratro e controllare che nessuna di esse rimanga fuori dal tracciato. Con
questa linea segnano dunque i confini del muro urbico, e lo chiamano in
forma sincopata pomerium, cioè sito collocato dietro il muro o prima del
muro. Nel punto in cui pensano di collocare le porte, rimuovono il vomere
e sollevano l’aratro, lasciando un intervallo di spazio.164

Mentre Romolo dispone tutta la sua meticolosa attenzione affinché


all’interno del solco non si insinui alcuna zolla di terra insana e nefasta,
così da garantire la purezza del suolo di fondazione, il punto focale
del territorio così fissato diviene partecipe di ogni abitante della nuova
città, attraverso quella zolla di terra che viene sepolta insieme a quella
di ogni altro. Il mundus si rivela così come luogo cruciale nel quale si
raccoglie la molteplicità di tutte le terre, che simbolizzano le più diverse
appartenenze alle quali ogni cittadino della nuova città può richiamarsi.
Mundus eterogeneo, al tempo straniero e in patria, nel quale rimangono
fissate le tracce più lontane. La città si edifica come irraggiando da un

����.Plutarco, Romolo, 11, Rizzoli, Milano 2003, pp. 297-299.


180
Nel confine

fuoco centrale il quale, a sua volta, trattiene in sé la differenziazione


estrema, un tutto rappresentato non attraverso quella che molti secoli
dopo sarebbe stata chiamata dialettica e nemmeno ricorrendo ad un
riunificare attorno ad un elemento comune – la latinità, per esempio
– ed ancor meno ad un dio capace di essere il punto di riunione, ma
attraverso la stessa molteplicità degli elementi che lo compongono,
rigorosamente mantenuti nella loro differenza, polarità, intenzione,
origine. La nuova città, Roma, anzi: la prima casa che dà origine alla
nuova città, il mundus, affonda le sue fondamenta nel molteplice e
nell’indefinito – indefinibile – non per qualche caso fortuito, ma per
la consapevole scelta dei fondatori uniti nell’intenzione di marcare
ciascuno la propria individualità e differenza da ogni altro, pur essendo
raccolti nella comune intenzione – di porre il piede della costruzione
nella fluidità di un’origine la quale, per questa sua natura, sarà destinata
a mutare nel tempo. Da questo nocciolo centrale, sorta di granulo che
già contiene una molteplicità di possibilità dinamicamente in confronto,
si svilupperà, come per strati successivamente deposti, il gigantesco
impero. Intorno al mundus viene posta – fondata – una cerchia
propriamente muraria, un involucro difensivo chiuso, che non appare
affatto definitivo, ché la città è destinata, fin dal primo giorno della
sua esistenza, quando è stato gettato il mundus, a crescere ed assorbire
– metabolizzare – una moltitudine di nuove terre e di uomini. Mura
destinate quindi ad essere continuamente riposizionate, per far salvo
il crescere della città; mura che saranno innumerevoli volte demolite e
ricostruite e che sempre vedranno al suo immediato riparo un solco, il
pomerium, luogo di interfaccia ma non di transito tra il dentro ed il fuori,
luogo di confine respirante e fisiologicamente attivo, luogo indefinibile
di percolazione, sacro, come tramanda la leggenda, invalicabile agli
umani, che consiste in sé medesimo in quanto luogo indeterminato,
poiché i due lembi della terra ferita dal vomere sono sfrangiati, imperfetti,
dentellatura di un qua, alternato, fin delle più minuscole particelle che
lo costituiscono, ad un di là. Molteplice appartenenza, di interno ed
esterno, che si afferma nella sacralità del solco che cinge la città senza
fissarla mai definitivamente, senza cristallizzarsi, piuttosto apparendo
sempre in un divenire fluido, difficilmente prevedibile, come difficile è
prevedere il come e attraverso quali minuti meccanismi di deposizione e
ricomposizione viene a formarsi il primo piede meno insaldo dell’Isola
Tiberina, anch’essa punto di fondazione, dell’interminabile e sempre
rinnovata ri-fondazione della nuova città, a partire dalla prima casa,
quella gettata nel Comizio, e dalla prima isola, che si nomina dal fiume
in cui si genera, Isola Tiberina.

181
Stefano Bevacqua

Fondando la prima casa, e con essa dando piede alla città, Romolo
mette ordine al disordine primitivo, ma lo fa senza sezionare ed
isolare elementi omogenei, che sarebbero stati entropicamente privi di
possibilità vitali, bensì conservando ciascuna identità, preservando ogni
grano di farro ed ogni stelo, ogni manciata di terra portata dai cittadini
così come tutte le particelle di sabbia e di limo che il Tevere rimescola per
dar piede all’Isola. Dal caos dell’indistinto si genera il cosmo regolato,
dalla casualità con la quale durante i millenni si erano giustapposte
le pietre e la terra, la roccia e la sabbia, prende forma un ordine che
conserva l’identità fluida, l’equivocità porosa data dalla presenza di ogni
suo elemento nel fuoco medesimo della sua fondazione. Si ripete, così,
il gesto primigenio, si mutua dalla prima fondazione, quella operata dal
Creatore, ogni ulteriore gesto volto a costituire una nuova forma del
mondo. Abissale è la distanza tra creazione e fondazione, ché la prima si
fece dal nulla e la seconda soltanto dal riordino dell’esistente – riordino
inteso non come separazione degli uguali, bensì come ricongiunzione
del differenziato secondo un procedere che ne conservi l’identità. Eppure
le due hanno una radice comune, un’intenzione che si ripete, quella
del Creatore che diede vita al mondo, che appare simile a quella del
fondatore che vuole dare forma a ciò che prima di lui ancora non vigeva.
Ma non potrebbe essere diversamente: si è detto che la fondazione inizia
dalla prima casa, il mundus, intorno alla quale si stratificano nel tempo
gli innumerevoli successivi ed eterogenei elementi che gradualmente
ingigantiscono la città. Si inizia da un centro che riverbera la sua potenza
agglomerando il mondo circostante, così come il primo pugno di grani
di farro si impasta con il limo e funziona da catalizzatore dell’accumulo
che dà piede all’Isola. Il mondo fu creato dal Demiurgo a partire da un
tutto indistinto oppure da un nocciolo primario? La vita è stata messa
in moto attraverso differenziazioni successive occorse in un orizzonte
di omogenea indistinzione oppure da un corpuscolo di infinita massa
ed energia? È sorprendente come una questione di così antica e vasta
portata si ripresenti in questo ambito. Nel libro della Genesi oppure
nel Timeo è la divisione dell’indistinto che appare primaria; in molte
altre tradizioni antiche è invece il nocciolo primario ad apparire come
fuoco agglomerante dal quale tutto deriva. Scrive Mircea Eliade: “In
verità, se ogni atto di presa di possesso o di costruzione è imitazione
dell’archetipo cosmico della Creazione del Mondo, allora questo atto
deve aver luogo nel centro del mondo, poiché secondo molte tradizioni
la Creazione è iniziata da un centro”.165 Eliade sembra quasi invertire
����. M. Eliade, I riti del costruire. Commenti alla leggenda di Mastro Manole, Jaca
Book, Milano 1990, p. 59.
182
Nel confine

i termini della questione, assumendo come un dato di fatto che la


creazione venga sempre immaginata come procedente da un centro
verso la periferia e fino all’interezza del mondo, ciò che non risulta
affatto nelle tradizioni del Mediterraneo. Nella Bibbia così come nella
Grecia arcaica, nella Roma imperiale ed infine anche nella successiva
tradizione cristiana, l’idea di creazione sembra semmai riferirsi ad una
funzione di ordinamento dell’omogeneo indistinto attraverso azioni di
successiva differenziazione per separazione. Il Genesi è, a tal proposito,
inequivocabile:

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le


tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio
disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e
separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E
fu sera e fu mattina: primo giorno. Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo
alle acque per separare le acque dalle acque”. Dio fece il firmamento e
separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra
il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera
e fu mattina: secondo giorno. Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo,
si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio
chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era
cosa buona.166

Alla luce di queste osservazioni si sarebbe addirittura tentati dal


lasciar cadere la pur fascinosa tesi che ogni fondazione comprenderebbe
in sé una sorta di ripetizione dell’atto della creazione, il che avrebbe
l’innegabile vantaggio di risolvere la contraddizione testé considerata,
ma al prezzo di non trovare più alcun filo logico capace di spiegare
perché sull’atto della fondazione medesimo si sia sempre accumulata
un’enorme tensione sacrale, al punto che la scelta del luogo ove
edificare la prima casa e lo stesso disegno del solco perimetrale sono
sempre stati sottoposti, dall’età arcaica fino alla modernità, a complessi
rituali. Si viene così quasi naturalmente spinti ad interrogarsi in maniera
differente, prendendo in esame un aspetto che possa correlare un’idea
di divina creazione che si sviluppa per separazioni dall’indistinto ed
un atto di umana fondazione che avviene invece per riverberazione
da un centro originario – nucleo primigenio, come la minuscola sfera
nella quale si concentrava tutta la materia e tutta l’energia fino ad una
infinitesima frazione temporale antecedente al big-bang. Forse, si tratta
di fare un passo indietro oppure di muoversi lateralmente, di scartare
l’ostacolo e porsi fuori da una logica lineare, che avanza per successioni,
����.Genesi 1,1 – 1,11, Cei, Roma 2008.
183
Stefano Bevacqua

ove ogni passo è sempre almeno in parte già annunciato, se non del
tutto previsto e, quindi, addirittura contenuto, dalla sua premessa, dal
passo precedente. Uscire dagli schemi, dunque, tentando una strada più
accidentata, come quella che cerca non tanto qualche cosa in comune
tra creazione per separazione e fondazione da un nucleo, ma piuttosto
un indizio, come quello che subito appare non appena ci si ponga ad
esaminare il luogo della fondazione – la prima casa, il mundus – e,
parallelamente, il luogo della Creazione – la totalità indistinta. Il luogo
della fondazione e quello della Creazione sono, forse, lo sesso luogo:
l’uno e l’altro, infatti, contengono ogni elemento costitutivo di ogni
successivo mondo possibile. L’uno contiene tutte le terre, nella forma
delle zolle che ciascun cittadino riversa nella fossa al fine che essa sia
tutti i mondi possibili e possa dunque tutti generarli; l’altro contiene tutti
i possibili atomi che, combinati in modi infiniti, danno vita al sole ed al
giorno e alle lontane stelle e alla tenebra, al cielo e alla terra, all’acqua e
all’asciutto. Fondazione e creazione, agli infinitamente diversi e distanti
livelli dell’uomo e della divinità, sono dunque luoghi di transizione,
i quali delineano un mutamento materiale e temporale del mondo, un
prima ed un dopo, ma che nella loro attualità non sono mai ancora
il dopo pur non essendo più appartenenti ad un prima. Sono i giorni
del lavoro di Romolo che, sotto questo profilo, ripercorrono quanto
il Creatore aveva già operato. E né Romolo né il Creatore fondano e
creano una volta per tutte, bensì generano continuamente, fonda e ri-
fonda, il primo, crea e ri-crea, il secondo; il primo per dare continuità
alla città che aggiunge sempre nuove terre e nuovi cittadini, il secondo
per garantire la vita del mondo, che si vuole inarrestabile proprio per
questa eterna ri-creazione. Fondazione e creazione ritrovano dunque
unità, non identità, affatto, prescindendo da percorsi e somiglianze, ma
per essenza e per contento.
Avendo chiarito l’origine sacrale dei gesti di Romolo – e quindi anche
la fine inflitta a Remo, reo di non aver rispettato questa stessa sacralità,
ché attraversando il solco tracciato dal fratello si macchiò di sacrilegio
– si deve riportare il percorso ad un punto cruciale, quando il fondatore
solleva l’aratro per lasciare beante il varco, per fissare una soglia. Accade
così che i luoghi dell’indefinizione si moltiplicano: all’eterogeneo del
solco, ferita nel suolo dai lembi sempre ancora aperti, ed alla complessità
assoluta del grumo di farro e fango che dà piede all’Isola Tiberina, si
aggiunge ora la soglia, luogo di confine e transito, poro aperto nella
porosità della prima casa e della città, spazio che non è più un dentro
senza essere ancora un fuori, luogo anch’esso sacro, ma in modi
radicalmente diversi ed assolutamente specifici in quanto non è più al

184
Nel confine

Creatore che si lancia il richiamo, quanto alla necessità di proteggere la


casa ed evitare che attraverso la soglia possa presentarsi il male. Ed è
proprio la soglia a delimitare lo spazio proprio della casa – della città – in
maniera e misura addirittura più potente delle pareti e delle mura. Essa è
infatti oltrepassabile, anzi: è per definizione il luogo di attraversamento,
di comunicazione fisica tra il dentro ed il fuori; essa esiste in funzione del
passaggio degli individui e delle cose, degli amici e dei nemici, dei parenti
e dei soldati, dei cittadini e dei religiosi, del cibo e delle merci; soprattutto,
la soglia può essere aperta o chiusa, resa penetrabile allo sguardo che può
così violare il dentro o imporsi come limite a qualsiasi intrusione, essa può
essere aperta o chiusa dal dominus che governa la casa – la città – oppure
essere abbattuta dal nemico che pretende di spingere il proprio potere
anche oltre quel limite. Soglia come poro aperto nella parete della casa,
luogo di transito simile alla pelle. E ciò non meravigli affatto, poiché la
casa arcaica, la prima casa, quella dalla quale nasce la città, era costruita
come una ripetizione della pelle, contenitore proteggente e, al tempo
stesso, capace di respirare, di accogliere dall’esterno calore e sensazione
e di esporre significati ed intenzioni, involucro suscettibile di accogliere
ciò che si colloca al di fuori ed anche di essere permeato dal divino,
attraverso aperture diverse da quelle che si possono oggi comunemente
varcare, soglie rivolte verso il cielo e riservate al divino. Scrive Eliade, a
sua volta risolvendo l’apparente contraddizione emersa a proposito di una
creazione dall’indistinto o da un centro propulsore:

La casa dell’uomo arcaico non era una “macchina da abitare”, ma come


tutto ciò che lui immaginava e faceva, era un punto di intersezione tra
più livelli cosmici. Riparandosi in una casa, l’uomo arcaico non si isolava
dal Cosmo ma, al contrario andava ad abitare proprio nel suo centro. La
casa infatti era essa stessa una imago mundi, una icona dell’intero cosmo.
L’apertura che ogni casa arcaica aveva al di sopra dell’altare, corrispondeva
all’occhio del centro della volta cosmica. Il tempio – come anche la casa –
rappresentava al tempo stesso tanto il Cosmo quanto anche il corpo umano.
[...] La costruzione è, così, identificata al corpo umano, mentre la volta
rappresenta il cranio. Questa tradizione si è conservata anche nel mondo
greco-latino. [...] Concepita in termini antropocosmologici, l’architettura
arcaica non era solo una scienza e un’arte sacra, ma anche uno strumento
di salvezza dell’uomo. [...] L’architettura dei tempi vedici ineriva l’uomo
nel reale collocandolo nel “centro del mondo”, oppure offrendogli come
riparo una casa che era allo stesso tempo una icona del Cosmo e dell’uomo
primordiale. L’architettura greco-latina si preoccupava delle “proporzioni
divine” o della “armonia delle sfere” - ma perseguiva lo stesso scopo:
porre l’uomo faccia a faccia con il Logos.167
����.M. Eliade, I riti, cit., pp. 93-94.
185
Stefano Bevacqua

Casa come imago mundi e casa ad immagine dell’uomo, uomo al


centro del cosmo, al posto del dio, derivante dal dio creatore; casa
costruita ad immagine dell’uomo e posta nel punto focale soltanto dal
quale il mondo può assumere il suo più vero significato. Eliade ricorda a
questo proposito due elementi che solo apparentemente sfuggono ad un
accostamento: da una parte, l’apertura verso il cielo, l’incommensurabile
altezza abitata dal divino, e, dall’altra, l’armonia di questo stesso cielo,
la quale si tenta di riportare anche nella forma della casa. Il varco nel
tetto della casa sembra contraddire la necessità del tetto, ma solo in
apparenza: il tetto, infatti, non cancella il peso dell’immensità dello
spazio che lo sovrasta, esso protegge dal sole e dalla pioggia, dal vento
e dal freddo, ma non può essere efficace schermo verso la massima
altezza. E l’apertura, infatti, serve a permettere all’anima dell’uomo che
abita la casa di uscire e raggiungere il cielo e non costituisce affatto una
menomazione della funzione protettiva del tetto. L’apertura può così
assumere un ulteriore significato, di natura non tanto religiosa quanto
piuttosto esistenziale: esso diviene luogo di transizione tra l’interno – la
soggettività – e l’immensità di un esterno ove soltanto può riconoscersi
l’esserci di quella stessa soggettività. Scrive Heidegger:

Il guardare in alto misura tutto il “frammezzo” (das Zwischen) che sta


tra cielo e terra. Questo “frammezzo” è assegnato come sua porzione
all’abitare dell’uomo. Questa misura diametrale così assegnata, e in virtù
della quale il “frammezzo” di cielo e terra è aperto, la chiameremo ora la
“dimensione” (Dimension). Essa non è originata dal fatto che la terra e il
cielo sono volti l’una verso l’altro. Anzi, il loro essere rivolti l’una verso
l’altro si fonda a sua volta sulla dimensione. [...] L’essenza della dimensione
è la aperta-illuminata, e perciò diametralmente misurabile, assegnazione
(Zumessung) del “frammezzo”: il verso-l’altro del cielo e il verso-il-
basso della terra. [...] L’abitare dell’uomo sta in questo misurare-disporre
la dimensione guardando verso l’alto; nella dimensione il cielo e la terra
hanno parimenti il loro posto. [...] Il misurare-disporre della dimensione è
l’elemento in cui l’abitare umano trova la sua garanzia (Gewähr), in base
alla quale dura (währt). Il misurare-disporre è la poeticità dell’abitare.
Poetare è un misurare.168

Guardare in alto attraverso l’apertura mantenuta sgombra nel tetto


della casa al fine di ricadere poeticamente nella misura dell’armonia
che il cielo mostra; misurare come ricerca di armonia e armonia come
offerta del cielo alla terra. Ritornano le sirene, i cerchi armonici dei
mondi che si concatenano l’uno per l’altro attorno al fusaiolo; cerchi
����. M. Heidegger, “Poeticamente abita l’uomo”, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano
1976, pp. 130-131.
186
Nel confine

che si rappresentano perfetti nell’unisono della voce che ciascuna sirena


sa cantare monocorde; sette cerchi e sette pianeti come sette sono le note
della scala armonica. È ancora Eliade a soffermarsi su questa possibile
sovrapposizione, sottolineando come “ogni canto era una ascensione
astrale, una purificazione attraverso la solidarietà con gli astri e con
il loro ritmo”, perché “se una casa rappresenta una imago mundi ed è
costruita secondo il modello cosmico – l’anima che viene ad abitarla, a
renderla viva e durevole, si può dire che si inserisca nella stessa icona
del mondo”169. Lungi dal voler attribuire ad Heidegger un pensiero
che si rifaccia direttamente alle credenze religiose arcaiche, alle quali
soltanto si riferisce da parte sua Eliade, piace sottolineare come le due
visioni, quella, appunto, delle sfere celesti, che dal più lontano arcaismo
si è riflessa fino ad almeno una parte della cultura moderna, passando
attraverso i fondamenti del pensiero occidentale – Platone anzitutto – e
la visione di un misurare poetico non la distanza, bensì la reciprocità di
un confrontarsi con il divino – ovvero della soggettiva disponibilità a
misurare quella immensità di spazio – queste due visioni, non soltanto
non appaiono contraddirsi, ma appaiono coerenti nel riferire la natura
del luogo di transizione nel quale l’uomo si misura nei confronti di
ciò che egli percepisce come sovrastante – e non necessariamente
opprimente, piuttosto così vasto e temporalmente esteso da non poter
essere compiutamente considerato. Anche quell’apertura, in un certo
modo, appare dunque come soglia, come poro aperto attraverso il
quale l’uomo cerca di protendersi, di sporgersi, per poetare e misurare,
diceva Heidegger, ovvero per raggiungere la visione di un’armonia
che giustifichi la misura, si potrebbe riassumere riferendosi al racconto
dell’arcaismo sapientemente offerto da Eliade.
Apertura sacra, si è detto, quella che permette all’uomo di proporre
una misura verso l’immensità, così come sacrale è sempre la stessa
definizione della soglia, al pari della fondazione della prima casa e di
ogni momento o luogo nel quale avvenga una transizione. La fondazione
della prima casa, il mundus, pretende il rispetto di precise regole sacre
che sono state diversamente dettate in tutte le società del passato, regole
sempre uniche, ma che si ricongiungono comunque ad un pensiero
con tratti comuni; analogamente, la soglia pretendeva protezione e
specifiche cure. La fondazione, del resto, comprende in sé medesima
anche la definizione della soglia, del varco, del passaggio, il quale, come
si è sottolineato, è dato dal gesto di sollevare il vomere. Non c’è quindi
solco là dove si fissa la soglia. Questo comporta che in quel luogo non si
avveri quella promiscuità inesorabile tra la terra del dentro e quella del
����.M. Eliade, I riti, cit., pp. 96-97.
187
Stefano Bevacqua

fuori, disegnata dai lembi sfrangiati della ferita inferta al suolo: nel luogo
della soglia il suolo sembra rimanere indistinto, comune denominatore
del dentro e del fuori, luogo di transito che non è ancora un dentro e che
non è più del tutto un fuori. Oppure, si potrebbe – o si dovrebbe – asserire
l’esatto contrario: che è nell’atto di sollevare l’aratro per fissare la soglia
che Romolo davvero fonda la prima casa, ché soltanto la presenza della
soglia garantisce alla casa la sua necessaria respirazione; altrimenti,
se non avesse fissato la soglia con quel semplice gesto dell’alzare la
lama dell’aratro, Romolo sarebbe rimasto per sempre rinchiuso nel suo
recinto, il mundus sarebbe diventato sepolcro, nessun sacrificio sarebbe
stato né possibile né necessario per avvertire le divinità di quel gesto
poiché egli stesso, Romolo, avrebbe rappresentato, insieme al bue e alla
vacca che trainavano l’aratro, l’offerta sacrificale. Sacrificio inutile,
sarebbe stato, quello di un fondatore che si immola sulla sua stessa
fondazione: senza la soglia, senza uno stabilire in anticipo dove quel
segno inferto nel suolo, nella sua implicita equivocità, doveva essere
sospeso introducendo una ulteriore equivocità, per così dire: ortogonale
alla prima, senza quella definizione preliminare della porta, del luogo
di transizione che non è ancora un fuori né più un dentro, la fondazione
sarebbe fallita rovinando su sé medesima. Niente prima casa, niente
mundus, niente città, soltanto un tempio, forse, ma nemmeno: soltanto
un monumento, il monumento funebre di Romolo.
È la porta che istituisce la casa, definendone il contorno e la fruibilità;
è la soglia che permette e regola il passaggio delle informazioni, delle
cose, delle persone dal mondo esterno all’interno della casa e della città;
è la soglia a rendere la casa fruibile, poiché, se è vero che non si può
distinguere alcun dentro in assenza di un muro che lo differenzi dal
fuori, è altrettanto sicuro che soltanto la soglia aperta lungo il muro
permette di accedere al dentro e, analogamente, di liberarsi nel fuori. La
differenza tra dentro e fuori si cristallizza lungo il muro ed è la porta, la
soglia, il passaggio, l’apertura a sintetizzare la compresenza dell’uno e
dell’altro, a rendere a ciascuno il proprio pieno statuto. Paradossalmente,
se è impossibile una casa priva di porta o soglia o apertura ché sarebbe
trasformata subito in mausoleo, monumento funebre, è invece del
tutto ammissibile l’esatto contrario, quello di una casa priva di mura
ma solidamente dotata di una porta, un varco. È il caso dei torii
giapponesi, porte di templi lasciati incostruiti, realizzate in spazi aperti,
verso distese che lo sguardo non riesce ad abbracciare, perché troppo
grande è l’anima di questi dei per poterla rinchiudere nello spazio pur
grande di un luogo circoscritto e dedicato al culto, così che del tempio
soltanto la porta rimane visibile ed il resto della costruzione è lasciata

188
Nel confine

all’immaginazione. Queste soglie sono capaci di unire ogni spazio nulla


dividendo: senza le mura, la sola porta dice dell’edificio, ma non si
propone più alcuna separazione fisica dello spazio in dentro e fuori;
rimane soltanto l’idea di uno spazio tutto occupato indistintamente
dalla divinità – o dalle anime dei defunti – e la porta esalta così la sua
funzione simbolica di luogo di transizione non tra spazi differenziati,
ma tra condizioni diverse; non separazione tra un dentro ed un fuori, ma
simbolizzazione di una cesura tra un prima e un dopo. Quelle degli archi
votivi o rituali privi del contorno edificato – che la modernità fatica
a considerare come elemento compiuto e tende a ritenere come cosa
incompiuta e monca – sono tradizioni antiche, che hanno attraversato
la gran parte dei popoli del mondo e delle loro religioni. Il torii più
conosciuto è sicuramente quello del santuario shintoista di Itsukushima,
sull’isola di Miyajima, non lontano da Hiroshima: una grande struttura
lignea, datata del VI secolo, laccata di porpora, posata nel mare, a poca
distanza dalla costa: due colonne principali, attorniate ciascuna da altre
due più basse che dicono della saldezza della struttura così conficcata
nel fondo melmoso delle acque dello stretto canale che separa l’isola dal
grande promontorio che racchiude la baia di Hiroshima, congiunte da un
trave orizzontale a sua volta coperto da un elemento più largo, dotato di
uno spiovente ricoperto di rame dalla forma arcuata, che sembra imitare
quella di una barca, come ad offrire alle divinità un punto d’appoggio
rivolto verso il cielo sconfinato. La sua origine non è del tutto chiarita,
ma per secoli, i viandanti che intendevano attraccare sull’isola doveva
passare con la loro barca al di sotto dell’arco al fine di purificarsi. L’arco,
il torii, era dunque l’accesso al luogo sacro dell’isola, la porta dell’isola
che univa il fuori al dentro, luogo di transizione e passaggio che non
aveva alcun bisogno, per fissare la casa – l’intera isola, in questo caso
– di alcun muro o parete, né bastioni o solchi. Nessun fossato divide
il mondo dall’isola di Miyajima, perché una porta – essa da sola – è
sufficiente a delimitare lo spazio e a fissare il tempo, quello necessario
al pellegrino per passare sotto di essa. La purificazione avviene dunque
attraverso il passaggio del varco che separa e riunisce un al di qua ad
un oltre.
Non diversamente accadeva anche nella Roma arcaica, quando
l’Orazio superstite fu costretto a passare sotto un portale di legno,
costituito da una trave disposta su due sostegni, per spogliarsi del furor
bellicus e perdere così la veste del soldato per assumere quella del
cittadino. L’Orazio vittorioso raccolse le spoglie dei tre Curiazi, gemelli
di Alba Longa, e le riportò in città. Qui, trovò la sorella che alla vista
del Curiazio di cui era amante scoppiò in lacrime. L’Orazio estrasse la

189
Stefano Bevacqua

spada e la trafisse. Fu processato per avere usurpato un potere che non


gli apparteneva, fece appello al popolo che lo assolse. L’Orazio si era
comunque macchiato di sangue al di fuori della battaglia e per questo
doveva mondarsi, passando al di sotto di un giogo che simboleggiasse
il passaggio da una condizione, quella del furor bellicus, a quella ora
mondata di cittadino e di eroe. L’uccisione della sorella doveva infatti
essere perdonata perché essa prendeva parte ad un atto di separazione
necessario ed ormai consumato. I gemelli Orazi e quelli Curiazi erano
figli di due sorelle, erano nati tutti nello stesso giorno, erano cresciuti
insieme con il latte di entrambe le madri, erano un corpo solo, una
quasi identità. La fondazione richiedeva, per essere tale, di operare la
separazione. Come la leggenda narra di Remo, il quale, rappresentando
il caos dell’indistinto che domina il mondo all’esterno del sacro solco
di demarcazione, non poteva che sfidare gli dei e scavalcare il confine
primigenio, e di Romolo che per questo lo uccise, separando così
drasticamente i loro destini e i loro spazi - a Romolo, vivente, la città
di cui divenne re; a Remo, soccombente, lo spazio esterno e lontano
che attende il peccatore dopo la morte – così, un’altra leggenda, forse
soltanto apparentemente posteriore, porta con sé la necessità della
separazione, della generazione della differenza, la dissezione del corpo
quasi unico dei sei cugini confusi nelle loro nascite e dal latte delle
madri, con la sorella che cadendo innamorata del Curiazio a questi
ormai appartiene, istituendo così un nuovo ponte e legame che deve
essere reciso, con la spada, con la morte.
Atti di separazione totale e senza appello. La differenza si genera
con la lama della spada. Ma colui che afferra la spada ed afferma la
differenza deve successivamente mondarsi, smettere le vesti del
fondatore e assumere quelle del re. Deve passare attraverso un luogo
che a questo scopo sia deputato con l’intervento dei divini, attraverso
la soglia della città, sotto quell’arco che divenne in seguito il Tigillum
Sororium, collocato all’aperto in maniera tale da collegare idealmente i
due templi che si trovavano nei pressi, quello dedicato a Iunus Sororia
e quello votato a Ianus Curiatius. La prima, Iunus, Giunone, divinità
del passaggio delle fanciulle all’età sessualmente matura; il secondo,
Ianus, Giano, dio ancestrale, il primo divino della tradizione romana,
non certo il più potente, ché questi era naturalmente Jupiter, Giove, ma
sicuramente il più antico ed anche il più vicino alle intenzioni sacrali
dei cittadini romani. Ianus che presiedeva all’ingresso dei giovani
nelle leve militari e nella piena cittadinanza, Ianus bifronte, divinità
che sorveglia le porte della casa e della città, i varchi e le soglie, le
aperture ed i passaggi, luoghi adimensionali di transizione, pori aperti

190
Nel confine

tra un mondo ed un altro mondo, un dentro ed un fuori. Il Tigillum,


le cui vestigia si troverebbero nell’area prospiciente l’attuale viale dei
Fori Imperiali, in corrispondenza del Clivio di Acilio, riporta dunque
a Giano, a colui al quale si deve la possibilità medesima della porta e
dunque della casa e della città che da questa deriva nel tempo. Senza
porta non può esistere una casa ma soltanto un sepolcro, ma la porta
è per sua natura e costituzione un poro aperto, dal quale può uscire
la necessità ma anche entrare il nefasto. La funzione respirante della
porta, della soglia, dell’arco, comporta dunque un pericolo estremo:
l’invasione del male, del nemico, della malattia, della morte. Senza
porta non v’è casa o città: occorre che la porta sia e che le si offra
solida difesa. Serve dunque un dio che protegga la porta e se questa
porta coincide con l’atto primordiale di fondazione, ché la soglia viene
segnata nel tracciare il pomerium con l’aratro nell’atto di alzarlo per
delimitare il luogo della transizione, e se questa stessa porta richiama la
benevolenza di una divinità proteggente, allora questa divinità, Giano
medesimo, partecipa di necessità alla fondazione, all’incisione del
solco, alla fissazione del primo varco, della prima soglia della prima
casa. Giano, che con i suoi due volti assiste al dentro e vigila sul fuori,
è l’artefice divino della fondazione: senza la cura di Giano, Romolo
non avrebbe potuto osare quel gesto del sollevare l’aratro per fissare
il luogo del passaggio; senza Giano non sarebbe stata indicata alcuna
soglia e Romolo sarebbe perito all’interno del suo sepolcro trascinando
con sé la storia del suo mondo. Giano sorveglia la soglia ed impersona
la soglia. Il suo nome, come spiega nel dettaglio George Dumézil, si
riferisce al passaggio, in quanto “formato sulla base *y-ā-, allargamento
di *ei- che, nelle altre lingue indo-europee occidentali ove produce un
derivato, segna ancora un passaggio: l’irlandese áth, che viene da *yā-
tu-, significa guado”170. Aggiunge Dumézil:

Spazialmente, egli è sulla soglia delle case, è alle porte, ianitor, presiede
ai due inizi, l’entrata e l’uscita, ed agli altri due, l’apertura e la chiusura
della porta. [...] A Giano è affidato il tempo dell’inizio dell’anno, che ha
mantenuto questa qualità fino ai giorni nostri, ed è proprio in quanto dio
del “primo mese” dell’anno riformato che tanti autori dell’antichità lo
hanno celebrato. [...] Si finì così con il dire che Giano “era il più vecchio
dio indigeno dell’Italia” (Erodiano), “il primo degli dei antichi, che i
romani chiamavano Penati” (Procopio). È a partire da testi come questi
che numerosi autori hanno costruito la singolare teoria che fa di Giano,
realmente, un dio più vecchio di Giove, il “dio principale” della più antica
religione, che una “riforma” avrebbe poi degradato a profitto di Giove.

����.G. Dumézil, La religion romaine archaîque, Payot, Paris 1974, p. 334.


191
Stefano Bevacqua

[...] La concezione bifronte di Giano è senza dubbio antica e risultante


della sua stessa definizione: ogni passaggio comporta due luoghi, due stati,
quello che si lascia, quello che si penetra.171

Proteggendo la porta, Giano protegge la città, e con essa il popolo


intero. Indirettamente, si può dire che Giano vigili e si faccia garante
della sicurezza di tutti, dei soldati che difendono le mura e dei cittadini
che animano il borgo, dei re che vi comandano e dei contadini che vi
portano i nutrimenti, di tutti i beni conservati nelle case che formano
la città – case a loro volta protette da innumerevoli altri Giano posti
a vigilare sulle porte e sugli accessi di ciascuna di esse – e di ognuno
che vi abita, che sia il nascituro o l’anziano, l’uomo o la donna. La
centralità di Giano ha dunque un carattere, per così dire: indiretto;
non è affatto il primo tra gli dei, ruolo che Giove pretende e conserva
con evidente convinzione, e non è nemmeno il dio più antico, poiché
semmai, è Ercole colui che ebbe per primo un altare forse ancor
prima che Romolo tracciasse il suo disegno regale nella terra della
Roma futura. La centralità di Giano deriva da ciò che egli sorveglia
e custodisce: il passaggio, la soglia, la porta, il varco. Essendo la
soglia condizione di esistenza della casa e della città, ed essendo, a
sua volta, la sua sicurezza condizione di sopravvivenza, il divino cui si
deve questa sicurezza assume un ruolo del tutto particolare. Alla luce di
questa evidenza, l’uso arcaico di effettuare sacrifici in occasione della
fondazione della prima casa, e in particolare in coincidenza dei varchi
e dei passaggi, assume una qualità diversa da quella che emergerebbe
dalla considerazione di carattere meramente antropologico: la cattura
dell’attenzione e della benevolenza delle divinità avviene in un luogo
adimensionale, quale la soglia, appunto, e non in uno spazio fisicamente
determinato e specificato. Paradossalmente, la definizione della soglia
non assicura nulla, perché anzi introduce equivocità all’indefinizione di
un mondo che si vorrebbe separare e differenziare, per fissare contorni
ed estrarre omogeneità e certezze. Il solco che Romolo scava non porta
alcuna certezza, anzi: lasciando beanti i lembi della terra dissezionata,
non potendo raggiungere in alcun modo la completa purezza di una
separazione totale di un dentro e di un fuori, soprattutto: introducendo
quei salti nello scavo, ad indicare ove sorgeranno le porte, aggiunge
ulteriore indeterminazione alla complessità del mondo. A caratterizzare
la soglia non è tanto la necessità di varcarla per transitare da uno spazio
ad un altro, quanto la sua natura terza, il suo non essere ancora un fuori,
ma nemmeno più propriamente un dentro, il fatto di permettere uno

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. Ivi, pp. 336-338.
192
Nel confine

sporgersi attraverso il quale indirizzare lo sguardo verso un dentro se


si viene da un fuori o verso un fuori se ci si muove da dentro, ma nei
due casi ponendosi esattamente nello stesso luogo. A cambiare è il
punto di vista, l’angolo visuale dal quale si diparte lo sguardo; muta
il volto di Giano che osserva, ma non certo Giano medesimo, il quale,
nella sua duplicità di osservazione, rimane unico ed unitario; cambia il
quadro, la cornice attraverso la quale si guarda quella parte di mondo
verso cui ci si protende senza invaderla, mantenendosi pienamente nella
terzietà del luogo dell’indefinito dal quale si dipana la successione di
differenziazioni e ripiegamenti e distensioni che appartengono alla
complessità del mondo medesimo.
All’equivocità del luogo di transizione – all’equivoco della soglia, che
non deriva il proprio statuto dal passaggio, ma dalla miscelazione degli
elementi che in essa si congiungono e si sovrappongono – corrisponde
l’equivocità dello sguardo che attraverso la soglia viene steso sui due
mondi possibili, l’interno e l’esterno, e l’equivocità che si genera dal
passaggio materiale dall’uno all’altro. Lo sguardo è, infatti, un separare
e circoscrivere, è uno sguardare, se si tiene a conservare la radice più
antica della parola, che riferisce di un osservare con particolare attenzione
ed intenzione, come per far proprio. E sguardare da un luogo intermedio
ed indefinito, quale la soglia, comporta l’apporre un ulteriore elemento
di incerta sovrapposizione: si sguarda da un luogo verso un altro e ciò
che in questo modo viene appropriato contiene in sé ed inevitabilmente
la radice del luogo dal quale si sguarda, ché quell’orizzonte di mondo
così sezionato e fatto proprio è tale quando viene, appunto, sguardato
da quel determinato punto di visione. È un orizzonte virtuale, è soltanto
un’immagine, fatta da due elementi che così si compongono: il ciò che
viene sguardato nel mondo verso cui ci si affaccia e quell’unico ed
irripetibile punto di vista dal quale lo sguardo viene teso. L’uno deriva
dall’altro, l’uno presuppone l’altro, l’equivocità implicita nel luogo di
transizione si riverbera nell’immagine che viene colta e in tal guisa come
moltiplicata e riverberata all’esterno. Come se il mondo visto da un
punto che vi partecipa, avesse una sembianza e, soprattutto, una natura
ed una costituzione diverse da quelle di quello stesso mondo che fosse
visto da un punto che ne sia estraneo pur partecipandolo equivocamente
perché unitamente a testimonianze di un altro mondo. Diverso, infatti,
è ciò che lo sguardo può dissezionare generandosi dall’interno di ciò
che viene sguardato rispetto a quello che può essere selezionato da uno
sguardo che si genera in un punto che non è più dentro ma nemmeno è
fuori. D’altronde, è probabilmente impossibile un’osservazione che si
generi in un punto del tutto al di fuori del mondo che viene osservato, ché

193
Stefano Bevacqua

peraltro è impossibile non interagire in una sia pur limitata e secondaria


misura con ciò che si osserva. Di necessità, ne deriva che l’immagine
che si viene così a formare risente pienamente della natura del luogo dal
quale viene fissata; si genera così una sorta di infezione verso il mondo
osservato, guardato, quasi allargando il carattere di indeterminabilità del
luogo del punto di vista ad almeno una parte di ciò che viene sguardato,
come fa la macchia d’inchiostro che si insinua tra le fibre del tessuto,
imbevendolo. Si potrebbe dire che la funzione di appropriazione che è
permessa dallo sguardo comporti un allargamento del luogo liminare
della soglia, fino a comprendere una parte anche importante dei due
mondi circostanti che essa riunisce, e questo senza ulteriori rotture ma
come per sfumature, tanto più dense quanto più intenso è l’osservare
e più complessa è l’articolazione delle compresenze che abitano il
luogo di transizione medesimo. L’indeterminazione del luogo terzo che
è la soglia è, in una certa misura, infettiva, e questo trasporto avviene
attraverso la soggettività che si colloca in quel luogo e si sporge verso
l’uno dei due mondi. È, sotto un certo profilo, tanto quanto accade nel
caso del materiale passaggio attraverso la soglia, laddove un uscire
significa portare sempre qualche particella di un dentro per disseminarla
in un fuori e l’entrare, all’inverso, comporta sempre un disseminare
qualche grano del fuori nel dentro. Non si vedono mura invalicabili,
niente cesure nette, alcuna rottura verticale ed insanabile; piuttosto uno
sfumare del tono, colore, sostanza, materia, da uno stato ad un altro,
tanto poco determinati, l’uno rispetto all’altro, da far talvolta dubitare
di dove in effetti si collochi la soglia, di quale sia e, soprattutto, se vi sia
un limite materiale tra il qua ed il là.
La soglia fonda la casa e la rende possibile perché è per il suo tramite
che avviene la transizione che permette alla casa e a chi l’abita di
esistere. E se ci si spinge a memorare le funzioni che la soglia rende
possibili oppure i motivi per i quali la soglia viene oltrepassata, subito
emerge come essa non soltanto costituisca quell’elemento fondante
senza il quale la casa non sarebbe, ma sia, inoltre, luogo testimone di
innumerevoli eventi, ognuno dei quali si conferma fondante e necessario.
Si oltrepassa la soglia – dal dentro al fuori – anzitutto per allargare il
proprio spazio, per fare la casa più grande, non tanto in senso materiale,
che pure è il caso proprio della Roma le cui mura inghiottivano secolo
dopo secolo sempre nuove terre e cittadini, quanto per far più grande lo
spazio sul quale si domina. Dominare e dominio, da domus e dominus,
per confermare che è dalla casa che si diffonde la potestà di colui che
ne è il principe e che questa potestà – dominio del dominus – è sempre
necessaria alla perpetuità della casa medesima. È lo stesso del pomerium,

194
Nel confine

di quello spazio ulteriore, poco importa se si collocava prima od oltre le


mura oppure in entrambi i luoghi, come elemento terzo, indistintamente
partecipato dal dentro e dal fuori, che segna un limite poroso diverso
dalle solide mura, anzi: nemmeno un vero limite, per il senso che si
dà usualmente a questa parola, ma piuttosto un ambito di transizione
tanto poco determinato quanto necessario. Come se la soglia, nel suo
essere a sua volta poro aperto, luogo di inquinamento del fuori verso
il dentro e del dentro verso il fuori, allargasse la sua influenza e le sue
modalità ad un ambito ulteriore in maniera non dissimile da quanto
avviene attraverso lo sguardo della soggettività che si colloca sulla
soglia medesima. Questo allargamento della potestà oltre la soglia della
casa serve a garantire alla fondazione un margine ulteriore: ci si allarga
per spostare un poco più in là la visuale del limite, si allunga la soglia,
la si rende più profonda, si stempera il suo ipotetico margine oltre un
luogo ulteriore. Potestà che passo dopo passo, allontanandosi dalla
soglia, si fa sempre più sfrangiata e labile e che garantisce la familiarità
necessaria ad evitare un altrimenti brusco passaggio da dentro a fuori,
ché le porte, le soglie, pretendono sempre un ulteriore porosità verso
l’esterno – è il marciapiede davanti all’uscio, ed anche quel tratto della
strada e fino alla strada tutta, fino a quell’altra strada, al quartiere,
l’altro, che si conosce, che si frequenta, che non è più casa, no, è lontano
dalla casa, in effetti, ma porta ancora quella particella di familiarità che
dice di quella città, conosciuta e vissuta, e anche oltre la città, per cerchi
ulteriori che spostano il margine sempre più in avanti.
Si varca la soglia per spostarne il limite ideale, fino all’incontro con
l’altro. La casa esiste soltanto se ha una porta e il dominus di quella
casa si afferma tale soltanto se può percepirsi in relazione ad altro, se
può vedersi uguale o diverso, amico od ostile, desiderante o desiderato,
possibile od estraneo. Si varca la soglia della casa per conoscere e
conoscersi e riconoscersi, per provare timore e piacere, per nutrirsi e
dissetarsi, per giocare e mettersi in gioco. Si esce dalla casa per vivere,
si esce perché la soglia lo consente e, superando la soglia, si trascina
fuori della casa un poco di essa disperdendolo tra altre case, fino ad altre
soglie e poi dentro altre case, e le scie di questi trascinamenti smussano
gli angoli e ricoprono le differenze nella ripetizione del loro continuo
ritracciamento, come l’acqua del mare che attenua ogni impronta sulla
sabbia fino a farla sparire per sempre, rendendo impossibile a Bartleboom
di fissare il punto ove inizia la fine del mare. La casa, la prima casa,
rimane ben distinta, così come la via e la città, ma l’infezione è grande
e si insinua sottile in ogni fessura e così quel che si ritiene davvero
dentro contiene un molto di fuori ed il fuori è come ricoperto da un

195
Stefano Bevacqua

velo fatto da particelle del dentro, le quali sono certamente sempre più
rade all’allontanarsi dalla casa, ma ancora si mostrano anche dopo molti
passi, ostinate testimoni della compresenza dell’uno e dell’altro – il
dentro ed il fuori. Lo stesso è l’inverso, il fuori che infetta il dentro. La
soglia viene varcata anche per entrare nella casa. La varca il dominus
nell’intenzione invertita a quella che lo ha spinto ad allargare la sua
potestà oltre la soglia medesima: si ritorna al cuore del possesso, dove
la familiarità diviene così intensa da costituirsi in identità; è il ritorno
verso la protezione che la casa soltanto è indicata ad offrire, ritorno al
calore, all’intimità, alla nudità della sola pelle, possibile soltanto entro
la soglia; è un riversare il fuori nel dentro, portando il nutrimento, il
necessario, il superfluo, il bello, l’altro, il desiderio che si può compiere,
il piacere che si può liberare. Oppure è l’ostilità che assedia e irrompe
attraverso la soglia, il nemico, la violenza, la rottura dell’intimità, la
pelle nuda esposta al ferro; allora, è il dolore, la ferita, la fine della
soglia, dell’indeterminazione, è l’alluvione del fuori che nella sua
totalità si abbatte nel dentro cancellando ogni differenza, così che le
ondate del fuori occupano tutto il luogo. La soglia è scomparsa, fine
di ogni identità ed intimità, la casa è inghiottita dal fuori, è essa stessa
parte di un fuori ormai monolitico, privo di differenze, entropicamente
esausto, omogeneo, letale.
Il permanere della casa è necessario alla configurazione della città,
la quale non è la semplice agglutinazione di una molteplicità di case.
Appare in evidenza come la respirazione ed il metabolismo di ogni
città derivi dall’interazione tra elementi disparati, quali le case, gli altri
edifici, i palazzi ed i castelli, gli individui, i flussi di energia, i cataboliti,
i sistemi di comunicazione, il tempo, e non certo dalla semplice
giustapposizione di un numero anche molto elevato di case. Perfino la
grande città che a tutt’oggi sembra essere formata essenzialmente da
case e soltanto da queste, si pensi a Città del Messico, con le sue strade
infinitamente ortogonali, prive di qualsiasi linea curva, l’omogeneità
dei fabbricati, la perfetta simmetria di ogni direzione verso ogni altra,
perfino l’antica Tenochtitlán, la capitale dell’impero azteco rasa al suolo
nel 1521 da Hernán Cortés, sulle cui rovine fu poi costruita l’attuale
capitale messicana rispettando la geometria dell’antico disegno
urbanistico, non è soltanto un grumo sia pure ordinatissimo di case ma
qualche cosa di molto più. Interessa essenzialmente il sistema delle
soglie, dei passaggi, dei pori aperti che permettono alla città di respirare,
di assumere le quotidiane e necessarie dosi di energia e di espellere i
residui catabolici, delle porte che consentono l’ingresso e l’uscita degli
individui, delle linee lungo le quali si possono oltrepassare, realmente

196
Nel confine

o figuratamente, i limiti della città, linee di trasporto oppure linee di


comunicazione. Se si esamina la città sotto questo profilo, il ruolo delle
case che la compongono può assumere un carattere diverso dal semplice
substrato sul quale si organizza la vita degli individui: l’idea di una città
porosa richiede, infatti, che le case che la costituiscono anche la abitino,
come soggetto molteplice ed attivo la cui dinamica è conformante
del complesso meccanismo di input e di output, di intromissioni ed
espulsioni, di travasi e trasporti. La città porosa si descrive attraverso le
sue porte e soglie e linee e passaggi, ognuno dei quali appartiene anche
alla casa o alle case che contornano o racchiudono o disegnano quel
medesimo poro. E non interessa qui analizzare ogni possibile soglia o
varco, quanto mettere in evidenza alcune tipologie di città, caratterizzate
da differenti meccanismi di aggregazione dei flussi piuttosto che da
analogie storiche o geografiche; in altre parole: non si intende discutere
dei luoghi di confine caratteristici delle città nelle diverse epoche storiche,
bensì soltanto focalizzare l’attenzione su alcune idee di porosità della
città abitata dagli individui e dalle case, senza alcun rigido riferimento
temporale. Tre modelli di città si possono così immaginare: il borgo,
l’urbe, la metropoli, distinti attraverso la mutevole natura della porosità
che li caratterizza. Nessuna classificazione, ancor meno esaustiva, si
intende tratteggiare; soltanto tre casi, tra i molti possibili, utili per
descrivere almeno alcuni differenti modelli di respirazione della città e
di conformazione dei suoi involucri.
Il borgo presenta una sola porta e, in via secondaria, un ulteriore
varco, come una sorta di valvola di sfogo. La porta è quella ornata
dall’insegna del Signore, che attribuisce una podestà indivisa: essa si
apre verso la campagna, verso altri colli spesso sovrastati da altri borghi;
oppure, nelle vaste pianure, essa guarda la strada rettilinea e segnata dal
doppio filare di alberi. In entrambi i casi, sempre permane la seconda
uscita: così va denominata, infatti, come uscita, poiché di norma essa
serve alla ritirata finale di fronte all’assalto definitivo degli assedianti
oppure, con ben più frequente cadenza, al trasporto del corpo del
defunto. Il varco ulteriore è infatti situato nella direzione del cimitero,
serve a estromettere il catabolito. Il varco è seminascosto, ombroso,
mai o malamente decorato, non porta insegne e nemmeno il simbolo di
qualche dio che come Giano lo protegga. La porta è bene in vista, si fa
riconoscere come luogo che afferma il dominio del Signore, esibisce il
suo stemma e visibile è il segno del divino che ne garantisce l’integrità.
Il nemico che volesse minacciare il borgo lo farebbe sempre dalla porta,
mai dal varco, pur sapendo che questi è forse di più facile aggressione,
più vulnerabile, rivolto all’ombra, verso i morti. Il luogo di confine tra

197
Stefano Bevacqua

l’interno e l’esterno del borgo è determinato dalla giustapposizione delle


case e delle mura che le racchiudono. Il duplice punto di sollevamento
dell’aratro ha fissato le due soglie, la porta ed il varco, l’ingresso e
l’uscita. La transizione attraverso le due soglie non avviene infatti né in
modo identico né in modo simmetrico. La porta si apre al Signore ed ai
suoi soldati, ai cittadini che abitano il borgo e che se ne allontanano per
far mercato nei pressi oppure per raccogliere le messi dei campi e che
all’imbrunire ritornano. È una porta destinata a permanere aperta nel
giorno e nella pace, chiusa nella notte e nella guerra. Il varco serve alla
fuga nel caso in cui la porta fosse sventrata dalle armi, a raggiungere il
Camposanto dove seppellire le spoglie dei morti, a concedere eventuale
accesso ai miserabili e ai disperati, ai poveri e agli storpi. Il lebbroso
non passa dalla porta, egli è condannato ad insinuarsi attraverso il
varco e se additato ed espulso, nuovamente dal varco ombroso sarà
indotto a sfuggire. Varco della vergogna, del male e della morte. Porta
del solare dominio del Signore, del ricco mercante, dei cavalieri e dei
soldati sferraglianti di armi. Il sistema del borgo sembra quasi ripetere
quello della casa, sempre dotata di un varco di spurgo, di un decesso
alternativo all’accesso, verso il quale veicolare vergogna e impurità.
Non è ammessa contiguità, coloro i quali sono destinati ad attraversare
la porta, a sporgersi verso l’interno del borgo fino alla propria casa,
oppure a protendersi al di fuori per le necessità di un giorno o di una
guerra, tutti costoro percorreranno il varco alle spalle del borgo soltanto
dopo la cessazione della loro esistenza; ciò che è previsto acceda al
borgo dalla porta, come il grano delle campagne ed il tessuto o le spezie
del mercante oppure le pietre del mastro che deve costruire il tempio
o aggiungere nuove difese al castello, tutto ciò non verrà mai inoltrato
attraverso il sordido varco. All’opposto, nessun morto passerà mai la
porta, né il mendicante o lo sciancato, nessun rifiuto potrà mai insinuarsi
sotto l’arco difeso dal divino e insignito dal Signore, nessun liquame né
avanzo. L’utile passa attraverso la porta, l’inutile si rassegna al varco.
I corpi del Signore o del Vescovo – o del vescovo signore – saranno
inumati nella chiesa o nel castello; quelli del cittadino o del soldato
scivoleranno attraverso il varco per finire nel cimitero a loro riservato.
La divisione dei compiti tra le due soglie di accesso e di decesso del
borgo è perfettamente stabilita e non può essere equivocata.
Diversamente, l’urbe offre un sistema di passaggi più complesso e
meno specializzato: le porte sono numerose, esse guardano verso le
diverse strade che dalla città si diramano in direzione delle campagne
e delle altre città. L’urbe si colloca di preferenza nella pianura o
comunque non sulla cima di un’unica elevazione; non è dunque dotata

198
Nel confine

di un punto più alto dal quale il castello possa dominare, non c’è un
solo castello, ovvero non c’è nessun castello, il Signore domina dai suoi
palazzi unitamente ad altri signori, con i quali condivide almeno una
parte della propria potenza, e questi, a loro volta, dispongono di propri
palazzi, diversi dalle case dei cittadini. L’urbe si apparenta alla figura
di una monarchia articolata in diversi livelli di potere e di dominio, con
una gerarchia di ceti più complessa del sistema tripartitico medievale,
clero, soldati e contadini, ma non per questo forzatamente più recente.
Anzi, il prototipo dell’urbe è forse la stessa Roma antica, con le sue
molteplici porte, ciascuna dedicata ad un direzione segnata da una
strada. I traffici degli uomini e delle cose possono attraversare le diverse
porte in funzione delle necessità, per congiungere il cuore dell’urbe
alla campagna ove si generano le messi necessarie al sostentamento
dei cittadini, per offrire passaggio ai mercanti e ai soldati che tornano
dalla loro fatica. I defunti vengono cremati e le ceneri deposte in urne
conservate nel colombarium oppure vengono sepolti fuori dalle mura
della città ed il passaggio del feretro avviene attraverso la porte più
prossima al luogo dell’inumazione. Rifiuti ed avanzi vengono espulsi
dall’urbe attraverso le numerose porte e soltanto ragioni di opportunità
inducono ad utilizzare l’una o l’altra. La Roma delle mura Aureliane,
costruite tra il 270 ed il 273, è dotata sedici porte nessuna delle quali
prevede un utilizzo esclusivo e nemmeno prevalente. Certamente,
alcune di esse hanno maggior gloria di altre, ma soltanto perché
attraversate dall’imperatore che torna da un successo d’armi, ovvero
perché di consueto varcate da genti patrizie che si compiacciano
di risiedere oltre le mura medesime. Le porte diventano ciascuna un
potenziale luogo di transizione: il dio Giano le protegge tutte in eguale
maniera, vigilando verso l’esterno con volto arcigno e cupo e verso
l’interno con il più solare aspetto di un giovine. La respirazione della
città avviene su canali ormai interagenti: alle porte si aggiungono gli
acquedotti e il varco dell’immondo viene sostituito in gran parte delle
sue funzioni dalla cloaca. L’urbe non è né più antica né più recente
del borgo. L’urbe è la Roma imperiale così come innumerevoli altre
città occidentali del passato anche recente; il borgo è la manciata di
case della fondazione della medesima Roma così come migliaia di
villaggi medievali piuttosto che di era moderna, di pianura o collinari
o marini. La differenza tra urbe e borgo consiste nel fatto che la prima
presenta un differente livello di organizzazione dei flussi liminari ed
un’organizzazione metabolica più complessa, nella quale ogni luogo di
transizione offre innumerevoli possibilità di utilizzo. Da ciò deriva che
le tracce del dentro che si disperdono a raggiera nel fuori e le infinite

199
Stefano Bevacqua

particelle del fuori che si insinuano entro le mura assumono il carattere di


un’infezione diffusa e vasta, che allarga il luogo della porta molto al di là
della sua apparente consistenza, luogo liminare a sua volta moltiplicato
per il gran numero delle porte medesime. Rispetto al borgo, nel cui
caso il luogo di transizione, la porta, è fissata dalla giustapposizione
delle case che la contornano e che spesso la difendono – forti di guardia
– l’urbe presenta un disegno maggiormente articolato: a disegnare le
tante porte dell’urbe sono certamente quei sollevamenti dell’aratro,
gli spazi beanti tra gli elementi delle mura, le torri che le sovrastano
ed ospitano i soldati chiamati a difenderle, ma non soltanto questo,
non solo le case che le circoscrivono; le porte dell’urbe sono definite
anzitutto da altro: dalle strade, da quelle che dalla porta si dirigono
verso il cuore della città e quelle che dalla stessa porta si protendono
come le zampe di un immenso aracnide verso il mondo circostante;
ed insieme alle strade dai flussi di intrusione ed esclusione che su di
esse si generano – oggi si chiama traffico. Le case che partecipano
alla costituzione dell’urbe sembrano anzitutto disegnare proprio le
strade, spazio libero, preferibilmente retto o comunque moderatamene
curvilineo, che permette il movimento degli individui, delle merci, dei
soldati, delle genti che seguono il santo, delle folle che inseguono il
tiranno deposto, dei cittadini che onorano il comandante vittorioso.
Tutto, o quasi tutto, passa attraverso le strade. Soltanto l’acqua ed i
reflui seguono un percorso proprio, talvolta sovrastando le strade, come
negli acquedotti della Roma imperiale, talaltra scivolando al di sotto di
esse, come nelle cloache. Il sistema delle porte e delle strade costituisce
dunque l’elemento respiratorio dell’urbe, luogo liminare diffuso, che
coinvolge – infetta – la città, forse tutta la invade e la condiziona, ed
altrettanto, all’esterno, segna il territorio circostante caratterizzandolo,
come allargando a dismisura il pomerium a partire dal mundus nodale,
dal cuore della città, che dilaga attraverso strade e porte e si riversa
all’esterno, segnando il mondo circostante. Non più la semplice
contaminazione in ed out che si genera al limite del borgo; è molto di
più, è una penetrazione del mondo circostante alle mura e, di converso,
una profonda infezione che dal mondo esterno penetra a fondo il tessuto
dell’urbe, ne condiziona la natura e ne stabilisce l’esistenza. Senza il
fuori, inteso come ciò che può provenire dal fuori, come il nutrimento o
l’acqua, il borgo rischia di soffocare lentamente – la storia antica degli
assedi lo narra con grande enfasi. Mentre l’urbe ha ancora maggiore
bisogno del fuori, perché ha minori riserve nei granai e dipende dalla
campagna per tutto il nutrimento, dai fiumi e dai laghi per tutta l’acqua,
dai mercanti per tutte le spezie alle quali fatica a rinunciare. L’urbe non

200
Nel confine

viene assediata, piuttosto è conquistata e saccheggiata; le sue porte sono


pori indifendibili, facilmente apribili. Così è stato per Roma molte volte,
dal 390, l’anno del primo sacco ad opera dei Galli, fino allo sfregio del
1527, quando i Lanzichenecchi di Carlo V passarono quasi un anno
intero a rubare e stuprare ed uccidere, fin che la città eterna si ridusse
alla miseria di meno di ventimila anime.
Se questo è dell’urbe, poco o per nulla difendibile perché aperta
all’influenza del fuori e disseminatrice dei segni del dentro fino a
costituire un luogo di transizione che si allarga molto al di là del
pomerium – ovvero facendo del pomerium un eschatiai, un luogo
vasto e non riconducibile al ridosso delle mura, ma che si istituisce
fino alla foresta, fino al mondo selvaggio popolato da rischi fatali –
se questo è dell’urbe, ancor più intensa sarà l’infezione che attacca la
metropoli. Essa infatti non ha alcuna porta: sono le strade, che ormai
si chiamano arterie, perché la loro funzione di irrorazione energetica
è insostituibile, a sostituire completamente il sistema dei varchi e
delle soglie. La metropoli è aperta, indifendibile da qualsiasi agente
esterno. Essa dipende dal fuori per qualsiasi necessità, dal nutrimento
alle merci, dall’acqua all’energia, dai manufatti ai servizi. Se si potesse
materialmente isolare e racchiudere una metropoli essa soccomberebbe
quasi istantaneamente per asfissia. Si è detto che la soglia genera la
casa e che senza porta non può esservi alcuna casa – città – ma soltanto
il monumento funerario di un fondatore imprevidente, che non ha
ricordato di alzare l’aratro nel punto fatale. Nel caso della metropoli
la necessità della soglia viene meno perché non sussiste più la chiusura
delle pareti o delle mura. La metropoli è pervasa dal fuori in ogni sua
funzione e struttura ed essa stessa pervade il suo intorno con crescente
densità quanto maggiore è la sua grandezza. Se nell’urbe si può vedere
un sistema di relazioni e flussi articolato tra le case, le strade e le porte,
nella metropoli questo meccanismo giunge ad una sorta di liquidità
assoluta data da una funzione di reti sovrapposte senza alcun nodo
integrato e di riferimento, ma soltanto nodi modali relativi a ciascuna
singola rete, in tal guisa che i nodi di ciascuna rete sono costituiti
dai gangli di diramazione dei diversi sistemi. Per questo la metropoli
respira per pulsazioni e non dispone di un cuore che trae e spinge, bensì
di un sistema di arterie – strade, linee elettriche, acquedotti, sistemi
di trasporto, fognature, linee telefoniche, portanti a radiofrequenza
– ciascuna attiva e pulsionale, che creano un meccanismo privo di
governo. Il borgo è del Signore, l’urbe è della casta, la metropoli è di
sé medesima, sorta di anarchia alla quale si aggrappano i potenti – che
non sono né signori né padroni in senso proprio, poiché essi forgiano il

201
Stefano Bevacqua

loro dominio sul controllo di una parte dei meccanismi pulsionali, non
su un possesso materiale; ma non interessa qui il potere, bensì soltanto
il luogo di transizione tra l’interno e l’esterno e i flussi che lo occupano
disseminando, infettando sia il fuori sia il dentro. Nel borgo, le case dei
cittadini si aprono verso le vie e le strade, l’intimità è garantita da un
tenue velo, magari quello teso sulla porta che rimane aperta per l’intera
giornata e soltanto all’imbrunire viene chiusa per il riposo. La difesa
del cittadino appartiene alla porta del borgo molto prima che a quella
della casa. Nell’urbe, il cittadino è chiamato a maggiore prudenza:
strade e vicoli sono frequentate da individui sconosciuti e la porta
della casa può rimanere aperta soltanto se vigilata. Le porte dell’urbe
non garantiscono alcuna efficace tutela agli individui, ma semmai
soltanto alla collettività dei cittadini. Nella metropoli, priva di mura e
di porte, priva di un sistema di gerarchizzazione dei flussi respiratori,
nella metropoli pulsante e ingovernata, le sole porte alle quali ciascuno
può affidare la propria sicurezza sono quelle della casa, della singola
abitazione, edificio, palazzo. Porte chiuse, mantenute rigorosamente
sbarrate. In assenza di un efficace sistema di soglie – di luoghi di
transizione tra il dentro ed il fuori – l’interno della metropoli tende a
diventare omogeneo e ad espandersi al di fuori con altrettanta entropica
assenza di significative differenze di potenziale. Il luogo di transizione
non appare più identificabile ai limiti della città, ma molto al di fuori
di essa, mentre ciò che appartiene all’esterno, al mondo che si colloca
certamente fuori dalla città, a sua volta la compenetra tutta, infettandola
inesorabilmente. La sola soglia che permane intatta è la porta della casa.
Varcata questa soglia, l’individuo è perso in un mondo relativamente
indifferente e inconosciuto; nessuna familiarità, salvo quella residuale
che si fonda sul consueto, il noto, il percepito, ma che non costituisce
alcun elemento di appartenenza. Le pareti della casa si trasformano in
mura; la metropoli ripropone la casa come primo ed ultimo baluardo
della complicità, del dentro e, insieme, riduce drasticamente la figura
del luogo di transizione tra il dentro ed il fuori, fin quasi ad annullarlo.
Ne Le città invisibili, Italo Calvino si imbatte prima in Trude, la città
sempre uguale a se stessa, e poi in Pentesilea, la metropoli nella quale
mai si entra e forse mai si esce.

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a
grandi lettere, avrei creduto di essere arrivato allo stesso aeroporto da cui
ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da
quegli altri, con le stesse case gialle e verdoline. Seguendo le stesse frecce
si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano
in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla.

202
Nel confine

Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui
mi capitò di scendere. […] Per parlarti di Pentesilea dovrei cominciare a
descriverti l’ingresso della città. Tu certo immagini di vedere levarsi dalla
pianura polverosa una cinta di mura, d’avvicinarti passo a passo alla porta,
sorvegliata da gabellieri che già guatano storto ai tuoi fagotti. Fino a che
non l’hai raggiunta ne sei fuori; passi sotto un archivolto e ti ritrovi dentro
la città; il suo spessore compatto ti circonda; intagliato nella sua pietra c’è
un disegno che si rivelerà se ne segui il tracciato tutto spigoli. Se credi
questo, sbagli: a Pentesilea è diverso. Sono ore che avanzi e non ti è chiaro
se sei già in mezzo alla città o ancora fuori. Come un lago dalle rive basse
che si perde in acquitrini, così Pentesilea si spande per miglia intorno in
una zuppa di città diluita nella pianura: casamenti pallidi che si danno
le spalle in prati ispidi, tra steccati di tavole e tettoie di lamiera. [...] Se
nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbrato circondario esista una
Pentesilea riconoscibile e ricordabile da chi c’è stato, oppure se Pentesilea
è solo periferia di sé stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hai rinunciato
a capirlo.172

Calvino disegna una metropoli nella quale il circondario, “slabbrato”,


fa parte della città e si estende interminabile verso un fuori che perde il
suo stesso contorno. La metropoli assorbe l’eschatiai fino al limite del
visitabile e del vivibile. Nell’antichità e fino all’epoca moderna, quel
limite si situava all’inizio della foresta, la quale, a sua volta, costituiva
l’ignoto, l’inesplorato, oppure, quando fosse stata attraversata,
permaneva estranea e inospitale al punto da rappresentare, insieme
al mare aperto, il luogo verso il quale doveva situarsi la fine di ogni
cosa. Jacques Le Goff scrive delle gesta di re Marco nel racconto di un
troviero che riferiva di foreste e praterie:

È la realtà fisica dell’Occidente medievale. Un grande manto di foreste


e di lande attraversato da radure coltivate, più o meno fertili: questo è il
volto della Cristianità, simile ad una negativa dell’Oriente musulmano,
mondo di oasi in mezzo ai deserti. [...] La foresta è anche piena di
minacce, di pericoli immaginari o reali. È l’orizzonte inquietante del
mondo medievale. Essa lo accerchia, lo isola, lo stringe. Fra le signorie,
fra i paesi, rappresenta una frontiera, il no man’s land per eccellenza;
dalla sua “opacità” temibile sorgono d’improvviso lupi affamati, briganti,
cavalieri, predoni.173

Il borgo e l’urbe conservano questa distanza, questo margine ulteriore,


disposto molto al di fuori di essi, come margine ultimo, ove ha inizio il
mistero, l’inconosciuto che è probabilmente inconoscibile. È la foresta,
����.I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, pp. 129 e 156-157.
����.J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino, 1981, pp. 147-149.
203
Stefano Bevacqua

ma anche il deserto o il mare aperto o la distesa di ghiaccio. La metropoli,


invece, ha completamente pervaso anche la parte di mondo che si
estende lontano, rendendola sempre aperta e praticabile. Non è soltanto
una questione di tecnologia: l’uomo invade foreste e deserti non perché
dispone degli strumenti tecnici adeguati a questa impresa, ma perché il
modello dominante nel quale trascorre la sua esistenza, la metropoli,
si è effuso fino a imbibire l’intera superficie del mondo, trasformando
ogni luogo inabitato in luogo comunque percorribile, conoscibile e
virtualmente abitabile. Questo comporta che la frontiera della foresta
è ormai abbattuta, che quel luogo che un tempo era abitato e protetto
dai fauni, gli imprevedibili demoni dalle fattezze di giovincelli cornuti
e con le zampe di capra, non è più tale, è spazio aperto, adimensionale,
quindi non più luogo di transizione, ma semplice entità fisica, non più
attraversata, ma semmai semplicemente popolata. Il non ancora al di
là di un non essere più in qua si diluisce e appiattisce nella semplicità
dell’omogeneo. Al posto dei luoghi di confine caratteristici del borgo
e dell’urbe, la metropoli ne propone uno tanto incerto ed aperto da
apparire comprendente di gran parte della metropoli medesima e del
mondo circostante. Oggi viene definito come spazio periurbano;
è lo “slabbrato circondario” di Calvino, nel quale alla semplicità ed
all’evidenza del varcare, dell’oltrepassare, che sempre lascia traccia di
sé attraverso la contaminazione del fuori con il dentro e del dentro con
il fuori – le zolle di terra faticosamente riposte dai compagni di Romolo
mentre egli ferisce la terra con la lama dell’aratro – si sostituisce la
grande complessità del permeare, dell’infondere, del percolare. Il luogo
di transizione si espande materialmente e temporalmente, assorbe e
compenetra la maggior parte della metropoli e sicuramente per intero i
suoi brandelli esterni e, al tempo medesimo, si allunga fin verso la foresta
incontaminata e il deserto. Non più corpuscoli, ma una fitta polvere
ben visibile e riconoscibile si espande dalla metropoli verso il mare, le
alture, i ghiacci lontani, mentre, come a compensazione, enormi risorse
che provengono da quei mari e ghiacci e deserti e montagne vengono
assorbite dalla metropoli, divoratrice di ogni bisogno, straordinaria
macchina assorbente e metabolizzante. Giganteschi flussi anabolici
di assorbimento comportano altrettanto immani flussi catabolici in un
gioco di scambi sempre impari, perché l’assorbito presenta una valore di
complessità enormemente superiore al materiale catabolizzato, privo di
differenziazioni capaci di nascondere ancora qualche residuo di vitalità
– di energia. Si cerca il centro, un centro, e, come accade al visitatore di
Pentesilea, si viene continuamente respinti verso un bordo che sembra
avvolgere ogni faccia del mondo; tutti gli sforzi volti ad individuare ciò

204
Nel confine

che è città e ciò che è oltre, fuori la città, senza ancora essere radicalmente
altro, in altri termini: il periurbano, ciò che si colloca al di fuori della
città senza più dunque farne parte ma che ancora non partecipa ad altro
spazio che sia altrettanto ben definibile, questo luogo terzo di ormai
drammatica pervadenza, rende gli sforzi definitori dei geografi quasi
del tutto vani. Non bastano i complessi sistemi di analisi multicriteria,
che tentano di unire in un unico processo di definizione una molteplicità
di eventi e situazioni, così da fissare finalmente un confine, anzi: due
confini, quello tra città e periurbano e quello ulteriore tra periurbano e
rimanenza di mondo, non bastano le alchimie che vedono riunirsi intorno
al capezzale della metropoli geografi, sociologi, filosofi, economisti,
urbanisti. Non bastano i loro sforzi perché sfugge l’elemento cruciale:
il fatto che la città che si tenta di analizzare e di rianimare è metropoli
e non urbe e la metropoli non ha né mura né porte, nessun confine la
divide dai luoghi ulteriori che essa pervade e compenetra, addensa e
coagula, omogenizza e differenzia, comprime ed espande. La metropoli
è strutturata per pieghe, per ripiegamenti e distensioni, si protende
come un tessuto vischioso che segue le forme delle superfici, come
deponendosi sopra ogni altro mondo possibile, ripiegandosi in ogni
anfratto, insinuandosi nelle cavità della terra immaginate da Platone
e riavvolgendosi nelle strutture più dense, quelle che danno forma a
ciò che abitualmente si intende per città. Lo stesso periurbano cessa di
avere un’identità, è inghiottito nel metabolismo della metropoli, fa parte
della metropoli; l’eschatiai è assorbita dal sistema, non è più la terra
che separa la città dalla natura, metà contadina e metà selvaggia, terra
di fauni, terra di nessuno oscillante da un polo d’attrazione all’altro;
il luogo liminare, il luogo di transizione è ormai un enorme spazio
pulsante, in continuo divenire, che il visitatore attraversa e sfugge
con immensa fatica, percorrendo spazi indeterminati, sfrangiati, pezzi
di un mondo indefinibile con la precisione che si vorrebbe, territori
flou, luoghi di percolazione tra un dentro così lontano da non essere
ormai più indicabile ed un fuori altrettanto complesso e rimescolato.
Ancora pieghe, ripiegamenti e dispiegamenti, come quelli della pelle
o del labirinto, quelli che sembrano disegnare la superficie del mare o
l’immagine di un mondo fatato.

205
QUINTA VARIAZIONE

SANDHYA
Crepuscoli, aurore, tramonti, sogni

Nyx, la Notte, è generata dal ventre di Chaos, così come Gaia, la


Terra, ed Erebo. Questi è il prolungamento del disordine primigenio,
che dall’infinito di uno spazio pregno di ogni oscurità permette la
generazione di un mondo identificabile e coerente, ordinato. Erebo è
la tenebra, l’oscurità assoluta, la purezza di un nero che non si lascia
inquinare da nessuna forza di luce; Erebo è la totalità di un’assenza.
Chaos, del resto, non indica il maschile, è neutra totalità indifferenziata;
il suo generare è, appunto, un differenziare, mantenendo al contempo
l’essenza fondante dell’origine. Non avviene alcuna generazione
formale, non c’è né femmina procreatrice né maschio inseminatore; c’è,
all’origine della storia che narrarono i Greci, la semplice differenziazione
di un universo assoluto, dal quale prese così forma una massa terracquea
che venne chiamata Gaia, e poi Erebo, sua assoluta differenza, intesa
come tenebra totale, e la notte, Nyx, capace, al contrario del fratello
di ammettere l’equivoco, un raggio solitario di soffusa luminosità, il
quale, certo, la inquina, ma mai la offende. Nyx, la Notte, è capace di
procreare senza bisogno di unirsi con un maschio. Ugualmente è Gaia,
che darà vita a Urano, il cielo, dal quale dovrà a sua volta liberarsi,
ché a lei si unirà come una membrana che tutto ricopre perfettamente;
per poter respirare essa deve allontanarlo da sé con quel gesto fatale
dell’evirazione, eseguita da Crono, figlio della coppia di Terra e Cielo.
Ed è ancora così che Notte darà vita ad Etere, luce eterea ed assoluta, e
ad Emera, la luce del giorno. Ecco chiarita la differenza cardinale tra
Notte ed Erebo: questi è il nero assoluto, non ha bisogno di altro che di
sé medesimo, non chiede di essere contrapposto a nulla, arroccato nel
suo essere una parte di Chaos, quella parte più buia e profonda, antica
più della storia di ogni mondo; mentre Notte deve mettere in campo la
sua discendenza, con Etere, luce assoluta e mai contaminata da ombra
alcuna, esatto antipode di Erebo, e con Emera, la luce del giorno, che
con la genitrice non si affronta e non si cancella, ma piuttosto scivola
al suo posto e altrettanto fa la prima, che scambia continuamente di
ruolo con l’altra. Nessuna cesura, non c’è alcun taglio netto che faccia
Stefano Bevacqua

divergere Erebo ed il resto di ogni esistenza che non potrà mai essere
tanto profondamente tenebrosa, oppure che ponga Etere sopra il cielo
stesso, dove soltanto le divinità possono posare il loro trasparente
sguardo – quello dei terrestri potrebbe adombrare quella luce assoluta
e verginale. Notte ammette questo alternarsi con Emera, il giorno, non
esclude affatto che vi sia un momento in cui lascia il campo libero
a ciò che ha generato, giusto per il tempo necessario a riproporsi, di
nuovo gradualmente, all’imbrunire, quando Emera si fa a sua volta da
parte senza mai imporsi o ritardare il succedersi di questo gioco, fino
a prendere posto, lentamente, dando così libero sfogo all’agire di un
altro dei suoi generati, Hypnos, il Sonno, fratello di Tanate, la Morte.
Da Hypnos nasce anche Morpheus, colui che rende possibile il sognare,
Phobetor, che presiede alle presenze mostruose che possono affollare il
sogno, e, infine, Phantasos, al quale si devono le immagini materiali che
si susseguono nella mente di coloro le cui palpebre sono state lambite
dai petali di papavero che Morpheus porta sempre con sé per indurre
il sogno. E, ancora, da Notte vengono anche le Esperidi, le tre ninfe
chiamate a custodire il giardino dei pomi di Era, sorella e poi moglie di
Zeus, figlia di Kronos e di Rea, la quale era stata a sua volta generata da
Gaia e da Urano. Scrive Esiodo:

Notte poi partorì l’odioso Morso e Ker nera e Morte, generò Sonno, generò
la stirpe dei Sogni; per secondo poi Biasimo e Sventura dolorosa non
giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura; e le Esperidi che, al di
là dell’inclito Oceano, dei pomi aurei e belli hanno cura, e dell’albero che
il frutto ne portano; e le Moire e le Kere generò, spietate nel dare le pene.
[...] E generò anche Nemesi, sciagura degli uomini mortali, Notte funesta;
e dopo di essa Inganno e Amore e Vecchiaia rovinosa, e Contesa dal cuore
violento.174

Circolarità costante del mito che i Greci hanno costruito e lasciato


in custodia all’Occidente; circolarità che in questo stesso Occidente
trova il suo punto di riunione. Le Esperidi custodiscono il loro prezioso
tesoro nella più lontana propaggine dell’Occidente, in un isola che sarà
chiamata Erythia, quello stesso luogo dove Eracle-Melqart sarà chiamato
a raccogliere proprio i pomi d’oro, beffandosi di Atlante, condannato
per sempre a sostenere la volta del cielo, dove Odisseo giungerà per
scoperchiare la fossa dell’Ade e percorrere così il suo viaggio al termine
del tempo, dove Ulisse perirà per pagare la sua sfrontata pretesa di
tutto conoscere. Circolarità che sembra riportare in un punto di questa
indagine già frequentato, che sembra imporre un passo indietro, un
174. Esiodo, Teogonia, 211-225, Rizzoli, Milano 1984, pp. 77-79.
208
Nel confine

riprendere il discorso soltanto apparentemente concluso, ora che appare


la luce incerta di quell’alternarsi di Notte e di Emera, mutamento che
si ripete costante e che impone una sua propria durata, senza sussulti,
bensì nella gradualità di un trapassare che mette in evidenza, anzi: mette
in luce, nella sua propria incerta luce, la convergenza di uno sguardo
volto ad un inraggiunto limite ultimo di un mare che si ribella ad essere
segmentato, di un alternarsi di chiarore e di imbrunire, di veglia e di
sonno. L’imbrunire delle Esperidi, le sorelle che colgono il loro nome
da Espero, la stella vespertina, cara ad Afrodite; Esperidi della sera, del
tramonto del Sole, dell’ingresso della Notte, che cela nel suo languore
i frutti d’oro, i Pomi che Eracle-Melqart deve raccogliere; Esperidi dai
tanti nomi, come Lipara, la morbida luce, o Crisotremi, l’ordine del
cielo, o Asterope, la folgorante, o Egle, la luce, ma anche come Eritia,
la rossastra. Il chiarore di Fetonte, il figlio di Elio, il dio del Sole, e di
Climene, a sua volta generata da Teti e da Oceano; Fetonte che, ancora
fanciullo salì sul carro del padre e prese a salire sempre più in alto,
troppo in alto, fino a caderne, come una stella del mattino, capace di
luccicare per pochi lunghi minuti, come Eosforo, baluginante idea di
astro che subito cela la sua presenza all’avanzare di Elio sul suo carro –
lo stesso carro, a forma di coppa, fatto di oro luminoso battuto con arte
da Efesto e che fu prestato ad Eracle per il suo viaggio verso l’estremità
dell’Occidente, verso Erythia, per sottrarre a Gerione i sacri buoi. Si
potrebbe così ripetere che il cerchio si richiude a Occidente, verso
il tramonto e che questo tramonto appare come luogo di transizione
dal chiarore all’oscurità – ma non da Etere alla tenebra di Erebo, che
rimangono incompatibili: dualità totalizzante, senza zone d’ombra,
senza intermedietà, priva di alcuna possibilità di coesistenza, sintomo
estremo della complessità di Chaos – e con essi, chiarore ed oscurità,
facendosi luogo nel quale avviene il transito dalla veglia al sonno, a
Hypnos, al suo mondo estraneo verso il quale si accede attraverso un
percorso popolato di eventi. Cogliere questa convergenza significa
vedere il costituirsi di un nuovo e duplice luogo liminare, di transizione,
di passaggio, che occupa ed anima il crepuscolo e l’addormentamento,
l’alba ed il tramonto così come l’ipnagogia e l’ipnopompia.
L’analogia tra questi fenomeni è di tutta evidenza; analogia così
forte da permettere un uso metaforico degli uni inverso agli altri, fino
alle assonanze meno evidenti, come quella che vuole Hermès, l’Apollo
dei Romani, fregiato del duplice titolo di psicagogo e psicopompo,
dal greco psyche (anima) e pompós (colui che trae) e àgo (colui che
conduce), quindi accompagnatore di anime verso l’al di là, nel primo
termine, e resuscitatore di quelle che gli dei hanno deciso di restituire

209
Stefano Bevacqua

alla vita terrena, nel secondo termine. Intersecazione di significati che


sempre rinviano alla liminarità, alla transizione, che si tratti delle anime
dei viventi che cessano questa loro terrena esperienza, oppure l’anima
del vivente che si apparta per il tempo di un riposo denso di eventi,
nel sonno, catturata da Hypnos, fratello di Tanatos e delle Esperidi,
le ninfe dell’Occidente dove il Sole tramonta, in un cerchio che non
sembra trovare mai un punto di forza dal quale avviare il percorso
verso una coerente descrizione, perché continuamente, nel pensare
questa possibilità, nel tentativo di fissarne il contorno, si è rapiti e
portati verso la sua circolarità, fatta di eterni rinvii, di ripiegamenti e
distensioni, linee spezzate e cerchi che riuniscono – come i flutti del
mare che si estendono fino al limite dell’ammissibile, fino al gorgo che
risucchia Ulisse; come le pieghe della massa del cervello che sembrano
inseguire le forme dell’anima che contiene; come i cerchi di sirene che
custodiscono l’armonia del mondo; come l’eterno andirivieni di Signor
Signore da una realtà immaginabile all’immagine di un mondo fatato.
Indagine difficile perché i luoghi di confine che si vedono qui quasi
sovrapposti, i crepuscoli e la transizione veglia sonno e l’inverso,
presentano margini frastagliati che la stessa scienza fatica a definire.
E, appunto, è dalla loro descrizione scientifica che è necessario
iniziare, per mettersi al sicuro e poter affermare che questi luoghi
effettivamente esistono, almeno sulla Terra e per gli esseri umani che la
abitano. Ché, basterebbe considerare quanto accade sul satellite della
Terra, la Luna, per rassegnarsi immediatamente ad una evidenza: sulla
Luna il crepuscolo del mattino, l’alba, e quello della sera, il tramonto,
non esistono. In quanto privo di atmosfera, il satellite della Terra vive
quotidianamente un repentino e drastico passaggio dalla luce alla
tenebra, da Etere a Erebo, senza alcuna continuità. È l’atmosfera che
avvolge la Terra a determinare la gradualità con la quale il Sole si
nasconde all’orizzonte di Occidente, che trasforma Etere nel disegno
rosso e arancione del tramonto e a donare all’uomo la percezione di
Erebo nella sua veste di blu acceso ed intenso. Quando un raggio di
luce incontra un corpo opaco, esso può essere riflesso o assorbito,
quando incontra un corpo trasparente, viene trasmesso. Ma non tutti
i corpi riflettono la luce in eguale maniera e misura: si può dire che
tra il caso del tutto teorico del “corpo nero” che assorbe la totalità
dello spettro visibile della luce e l’altrettanto puramente teorico caso di
una superficie riflettente assoluta, si colloca una infinità di gradazioni
intermedie. Si passa così da corpi che tendono a riflettere, quale uno
specchio, la maggior parte della luce che li colpiscono, a quelli che ne
assorbono la maggior parte, passando per la vasta gamma dei corpi

210
Nel confine

che riflettono in maniera diffusa, assorbendo una parte dell’energia


luminosa e restituendone l’altra sotto forma di chiarore, appunto,
diffuso – come accade ad un foglio di carta o ad una parete imbiancata
o alla superficie della Luna. Accade che se il corpo che viene colpito dal
raggio di luce presenta una dimensione sia pur minima, ma comunque
superiore alla lunghezza d’onda della luce medesima175, tenderà a
rifletterlo e, in varia misura, a diffonderlo, nella sua totalità, quindi
sotto forma di luce bianca. Ecco che le goccioline di vapor d’acqua
sospese nell’atmosfera, le nubi, appaiono dunque bianche, perché,
appunto, diffondono la gran parte dello spettro della luce solare che le
ha investite in maniera indifferenziata. Diversamente accade, invece,
nel caso di particelle sospese nell’atmosfera terrestre che presentino una
dimensione inferiore alla lunghezza d’onda della luce nel suo complesso,
particelle, quindi, grandi meno di 0,38 millesimi di millimetro. In tal
frangente, che è quello che attiene alla quasi totalità delle molecole
libere presenti in atmosfera, costituita per il 99 per cento da azoto e
da ossigeno176, le cui molecole presentano dimensioni assai inferiori
alla minima lunghezza d’onda dello spettro visibile, accade che queste
diffondano la luce con crescente intensità in funzione del reciproco
della quarta potenza della loro lunghezza d’onda. Il che, comporta
che la zona dello spettro che va dall’azzurro al violetto incontrerà una
diffusione da parte delle molecole che costituiscono l’atmosfera da
dieci fino a 150 volte maggiore di quella degli altri colori visibili. Ecco
che il cielo che appare ad un visitatore della Luna sarà completamente
nero. Ed ecco che quando i raggi solari, in funzione del ruotare della
Terra su se stessa, devono attraversare la parte più bassa della coltre
atmosferica, dove si concentra la maggior parte del vapor d’acqua e
del pulviscolo, l’azzurro del cielo vira gradualmente all’arancione e
poi al rosso, quello del tramonto che si staglia ad Occidente, che si
disegna nel cielo lasciando apparire l’icona di un Sole che è ormai
nascosto, al quale la Terra ha voltato le spalle nel finire del suo giorno,
ma che ostinatamente continua ad apparire. Il Sole si presenta ancora

175. La luce, onda elettromagnetica non diversa dalle onde radio, da quelle dei radar, ed
anche dai raggi X e dalle radiazioni gamma, viene osservata normalmente come bianca.
Tale appare dalla sommatoria delle sue diverse componenti, che vanno dal rosso, che
presenta frequenza minore e, per converso, maggiore lunghezza d’onda, fino a 750 nm,
che vale 0,75 millesimi di millimetro – oltre questo valore si esce dal visibile e si entra
nell’infrarosso – fino al violetto, la cui lunghezza d’onda minima è pari a 380 nm, pari a
0,38 millesimi di millimetro – al di sotto di questo valore si esce nuovamente dal visibile
e si sconfina nell’ultravioletto.
176. Per la precisione: azoto, sotto forma di N2, per il 78,08 per cento; ossigeno, sotto
forma di O2, per 20,95 per cento.
211
Stefano Bevacqua

relativamente luminoso all’estremo del tramonto quando in realtà è già


scomparso, ma un gioco di rifrazione attraverso gli elementi più gravi
dell’atmosfera offre ancora un disegno. Così come effimero sarebbe, se
non fosse per lo sguardo dell’uomo che si volge ostinato al tramonto
nella convinzione della sua realtà, quel chiarore che si scorge lontano
e che perdura a lungo nell’inizio della sera, durante la calda estate
soprattutto, e a crescere andando verso il Nord, ché il Sole è ormai alle
spalle e quel che illumina è soltanto il diffondere ancora un brandello di
luce da parte delle molecole di atmosfera che alloggiano nei suoi strati
più alti. Crepuscoli effimeri, offerti dalla Terra e dalla sua atmosfera
ad un osservatore ingenuo. Crepuscoli diversi ad ogni latitudine e
per ciascuna stagione, che ai poli estremi del globo sembrano non
riuscire mai a risolversi, durante l’estate, e nemmeno mai a nascere
nella costane cecità dell’inverno; crepuscoli identici in ogni stagione,
i più brevi che si possono osservare sulla Terra, che durano meno di
un’ora soltanto, all’altezza dell’Equatore, confine ideale tra un sopra
ed un sotto, indecidibile se non attraverso le astrazioni della geografia.
Scriveva Melchiorre Gioia, nello studiare le condizioni oggettive,
intese come avversità o opportunità, nelle quali ogni popolazione è
chiamata a costruire il suo futuro:

Rifrazione solare. È noto che, in forza della rifrazione, il Sole al mattino


comparisce all’orizzonte pria che realmente vi esista, ed è ancora visibile
alla sera, quando è già di sotto: il tempo della presenza del Sole è dunque
allungato per beneficio della natura. Ora la rifrazione variabile ne’ diversi
paesi, è causa per cui il Sole apparisce e sparisce in momenti che non
coincidono coi gradi della latitudine; quindi, per esempio, a Torneo
(latitudine 65° 45’) la rifrazione è minuti 59 primi e 8 secondi, mentre
a Parigi (latitudine 58° 40’ 14’’) ella non oltrepassa i 33 minuti primi.
Crepuscoli. La stessa causa producendo i crepuscoli del mattino e della
sera, accresce la durata della luce. I raggi solari piegati dall’atmosfera
passano sulla nostra testa prima di giungere al nostro occhio; riflessi dalle
particole più grosse dell’aria, formano dapprima una luce debole che va
continuamente crescendo, annuncia il giorno, e chiamasi aurora. La luce
scomposta pinge le nubi a più colori e forma quel brillante corteggio che
precede la levata del Sole. Il crepuscolo non comincia se non quando il Sole
trovasi al di sotto dell’orizzonte 18 gradi misurati sul circolo verticale, che
si suppone passare pel zenit del luogo in cui esiste l’osservatore. E siccome
ne’ i paesi sotto una latitudine maggiore di gradi 48½ il Sole, verso il
solstizio d’estate, è meno di 18 gradi sotto l’orizzonte a mezza notte,
perciò il crepuscolo vi è continuo: quando quello della sera finisce, quello
del mattino comincia. Quantunque questo limite dei 18 gradi sia generale,
per tutti i paesi della Terra, il crepuscolo non ha realmente per tutti la stessa

212
Nel confine

durata; egli è tanto più lungo quanto più obliquo è il circolo descritto dal
Sole, o quanto più ci avviciniamo ai poli, il che è la stessa cosa.177

Crepuscoli effimeri, frutto di un effetto ottico, come il raggio


verde che il Sole offre in certi tramonti estivi sul filo dell’orizzonte
marino, effetto ottico all’interno di un altro effetto ottico, come una
rifrazione selettiva di una sottile componente delle spettro visibile.
Crepuscoli senza dimensioni, che certo l’uomo scorge e che spesso in
lui inducono emozioni diversamente difficili da abitare, ma che non
possono essere misurati se non nella freddezza del dato astronomico:
crepuscolo civile, termine con il quale ci si riferisce al lasso temporale
che intercorre tra l’effettivo tramonto del Sole ed il momento in
cui esso raggiunge la posizione che equivale a 6° al di sotto della
linea dell’orizzonte, condizione nella quale l’illuminazione residua
offerta dalla diffusione dei raggi di luce da parte dell’atmosfera è
ancora tale da permettere all’uomo una visione completa; crepuscolo
nautico, che si spinge fino al punto nel quale il Sole è per 12° al di
sotto dell’orizzonte, condizione nella quale si percepisce ancora la
linea dell’orizzonte ed insieme si possono ben vedere le prime stelle,
ciò che in passato permetteva il più preciso utilizzo del sestante;
crepuscolo astronomico, che si conclude quando il Sole si pone a 18°
gradi al di sotto dell’orizzonte, condizione nella quale i raggi di luce
dell’astro assumono un’angolazione tale da non incontrare più alcuna
riflessione da parte dell’atmosfera terrestre. Crepuscoli mutevoli e
che nessuna rigorosa definizione scientifica permette di identificare
con umana certezza e che, proprio per questo, divengono oggetto di
un perenne flusso di metafore, allusioni e visioni. Intermedietà tra
giorno e notte che impone all’uomo una soluzione dall’origine dei
suoi giorni, come atto creatore tra i primari, necessità imprescindibile
di una giustificazione, di una risposta.

La Terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell’abisso


e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Dio disse: “Sia
luce!”. E luce fu. Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle
177. M. Gioia, Filosofia della Statistica, Editori degli Annali Universali delle Scienze
e dell’Industria, Milano 1829, p. 48. Il termine utilizzato da Gioia di Filosofia della
statistica può sorprendere, ma l’autore ne dà una giustificazione a suo modo impeccabile:
“Fermandoci sopra quest’idea generalissima, io non so vedere nella parola statistica che
l’arte di descrivere tutti gli oggetti in ragione delle loro qualità; ella è in tutto il rigor
del termine una logica descrittiva. La parola stato nel linguaggio comune subisce una
ristrizione particolare, e significa l’unione d’uomini viventi sotto lo stesso vincolo sociale.
In questo senso la parola statistica si limita a significare la descrizione delle qualità che
caratterizzano e degli elementi che compongono uno stato”.
213
Stefano Bevacqua

tenebre. Dio chiamò la luce “giorno” e le tenebre “notte”. Fu sera, poi fu


mattina: primo giorno.178

La narrazione biblica procede contando i giorni della creazione,


inserendo ad ogni tappa la sera e la mattina, il crepuscolo della
transizione verso la notte e quello che dall’albore porta gradualmente
alla luce del giorno. Quasi la più antica descrizione dell’inizio di ogni
cosa già dovesse di necessità comprendere quella stessa fase transitoria,
quel non ancora notte che non è più giorno e quell’ancora notte che
non appare ancora realmente giorno, la sera e la mattina, tramonto ed
aurora, prive di opacità, ché il crepuscolo non è un mondo in sé, non
ha contorni, ma appartiene ad entrambi i mondi, quello del giorno e
quello della notte, nella transizione che si ripete eterna scandendo il
tempo di ogni esistenza, in una metamorfosi – metafora – di colore.
Crepuscolo che appartiene alla radice dell’uomo ma che stenta ad
imporsi come evidenza; crepuscolo tralasciato quasi con imbarazzo,
forse per quella sua leggerezza ed equivocità, perché l’Occidente non
tollera indefinizioni, incertezze, luoghi vacui che richiedono di essere
esplorati nei loro ripiegamenti e sfrangiamenti e che per questo non si
chinano alla perentoria legge delle procedure dimostrative che faticano,
in questo scivoloso terreno dei luoghi di confine, a definire con il
necessario anticipo ciò che si cerca per poi confermarlo o smentirlo.
Nel crepuscolo l’incertezza è sovrana e non si presta a descrizioni
matematicamente coerenti. Non è probabilmente casuale il fatto che le
sole culture che abbiamo preso nella dovuta considerazione i crepuscoli
come fasi di transizione a pieno diritto annoverabili come parte del
tempo siano la più antica tradizione egizia, la civiltà ugaritica e quella
induista, allorquando per spiegare la natura blu del cielo si sia dovuto
attendere Einstein. Nel calendario egizio la giornata era suddivisa in
24 ore, delle quali 12 erano fissate nella notte, 10 nel giorno e le due
rimanenti nei crepuscoli, quello dell’alba e quello del tramonto. Questo,
naturalmente, comportava evidenti difficoltà, poiché la durata effettiva
di ciascuna delle ore notturne e diurne oscillava in tal guisa dai 75 minuti
del solstizio d’estate ai soli 45 di quello invernale, ma ciò non pose alcun
rilevante problema dal momento che la misura oraria si effettuava con una
meridiana verticale, con la quale si poteva tenere conto della differente
lunghezza delle ore nelle diverse stagioni. Soltanto con l’avvento
degli orologi a clessidra, ai tempi di Amenhotep I, regnante intorno al
sedicesimo secolo a. C., per maggiore praticità si rinunciò al conteggio
delle ore crepuscolari, considerato che la loro durata variava in maniera
����.Genesi 1,1 – 1,5, Cei, Roma 2008.
214
Nel confine

disomogenea rispetto alle 24 ore in cui si era suddivisa la giornata. La


cosmogonia fissata nei testi rinvenuti a Ugarit, nell’attuale Siria, e che
risalgono al XIV secolo avanti Cristo, si fa menzione del Padre degli
dei e degli uomini, El, che ingravidò le sue due mogli, Asherat e ‘Anat,
dalle quali si generarono rispettivamente la Stella del Mattino e la Stella
della Sera179. Quanto alla tradizione induista, la presenza dell’alba e
del tramonto, sotto la dizione generale di sandhya, appartiene a tutti
i computi temporali: quale che sia la scala massima alla quale essi si
applicano, che varia dai complessivi 4 milioni 320 mila anni di ciascuna
era Mahayuga, all’unità discreta della singola giornata, la tradizione
induista prevede il computo di alba e tramonto, due fasi intermedie
sandhya, di una precisa durata che sempre equivale ad un sesto del lasso
temporale complessivo considerato. Questo, mentre, come accennato,
sono stati necessari secoli di riflessione e di sperimentazione per dare
una risposta che esaurisse il mistero dell’azzurro del cielo. Il primo,
forse, ad intuirne le ragioni fu Leonardo, anzitutto nel considerare la
differenza di tonalità che deve assumere l’aria quando la si dipinga alta
o bassa nell’immagine:

Come l’aria si deve far più chiara quanto più la fai finire bassa. Perché
quest’aria è grossa presso alla Terra, e quanto più si leva più s’assottiglia,
quando il Sole è per levante riguarderai il ponente, partecipante di mezzodì
e tramontana, e vedrai quell’aria grossa ricevere più lume dal Sole che la
sottile, perché i raggi trovano più resistenza. E se il cielo alla vista tua
terminerà con la bassa pianura quella parte ultima del cielo sarà veduta
per quell’aria più grossa e più bianca, la quale corromperà la verità del
colore che si vedrà per suo mezzo, e parrà lì il cielo più bianco che sopra
te, perché la linea visuale passa per meno quantità d’aria corrotta da grossi
umori. E se riguarderai inverso levante, l’aria ti parrà più scura quanto più
s’abbassa, perché in dett’aria bassa i raggi luminosi meno passano.180

E, quindi, nel porsi direttamente le ragioni di quell’azzurro:

L’azzurro dell’aria nasce dalla grossezza del corpo de l’aria aluminata,


interposta infra le tenebre superiori e la Terra. L’aria per sé non ha qualità
d’odore, o di sapore, o di colore, ma in sé piglia le similitudini delle cose
che dopo lei son collocate, e tanto sarà di più bello azzurro quanto dirietro
ad essa sarà maggiore tenebre, non essendo lei di troppo spazio, né di
troppa grossezza d’umidità. [...] Dico, l’azzurro in che si mostra l’aria,
non essere suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in

179. Il riferimento è ai testi ugaritici e cananei citati da Mircea Eliade in Storia delle
credenze e delle idee religiose, Rizzoli, Milano 1996, p. 170.
����.Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, Brancato, Catania 1990, pp. 79-80.
215
Stefano Bevacqua

minutissimi e insensibili attimi, la quale piglia dopo sé la percussion de’


razzi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della
regione del fuoco che di sopra le fa coperchio; e questo vedrà, come vid’io,
chi andrà sopra mon Boso (Il Monte Rosa, nda) [...] Vidi l’aria sopra di me
tenebrosa, e ’l Sole che percotea la montagna, essere più luminoso quivi
assai che nelle basse pianure, perché minor grossezza d’aria s’interpionea
infra la cima d’esso monte e ’l Sole. [...] E ’l simile fa l’aria, che la troppa
umidità la rende bianca, e la poca infusa col caldo la rende oscura, di color
di scuro azzurro.181

Nemmeno Newton, che pure seppe molto ben descrivere le


complesse regole che sovrintendono al moto dei pianeti e degli astri,
seppe rispondere meglio alla questione. Soltanto nel 1910, dopo
il primo tentativo avanzato da Lord John William Rayleigh, che si
avvicinò di molto alla spiegazione finale, si venne a capo del mistero,
con l’intuizione di Albert Einstein che osservò come soltanto un mezzo
nel quale siano presenti continue, ancorché minime, fluttuazioni di
densità è capace di diffondere la radiazione luminosa che lo colpisce.
L’atmosfera terrestre è, infatti, un mezzo assai instabile, fluttuante,
dalla composizione mai costante, che presenta variabilità significative
nello spazio e nel tempo, è una calotta fluida che ricopre un corpo
che ruota su se stesso e si muove multidirezionalmente nello spazio
(rotazione intorno al Sole, movimento rotatorio del sistema solare,
movimenti della galassia). Sistema complesso che offre alla Terra
innumerevoli possibilità climatiche; tavolozza di colori, riassunta
nell’arcobaleno, fissata nell’azzurro che si vede di un cielo, nel porpora
che tinge l’Occidente nel suo tramonto; atmosfera capace di ospitare il
continuamente mutevole apparire di ogni crepuscolo, sempre differente
ciascuno da ogni altro, fase transitiva di faticosa figurazione, tale da
imporre una sorta di sua rimozione. Nella stessa mitologia greca il
crepuscolo è riferito soltanto di sfuggita, come implicazione necessaria,
più che come elemento in sé costituito – come, del resto, si rassegna a
fare lo stesso libro della Genesi, in quel dire di una sera e di un mattino,
che implicano entrambi il crepuscolo, ma senza dire il crepuscolo.
Così Jean-Pierre Vernant, nel suo ammirevole raccontare l’universo di
dèi ed uomini dell’arcaismo, descrive il passaggio crepuscolare, dopo
aver fissato Erebo come tenebra allo stato puro ed Etere in quanto luce
assoluta e riservata alle divinità soltanto:

Da quando lo spazio si è aperto, Notte e Giorno si succedono in maniera


regolare. All’ingresso del Tartaro si trovano le porte della Notte, che
181. Leonardo da Vinci, Scritti artistici e tecnici, Rizzoli, Milano 2002, pp. 76, 79 e 80.
216
Nel confine

aprono sulla sua dimora. È là che Notte e Giorno si presentano l’uno di


seguito all’altra, si scambiano un cenno, si incrociano, senza mai unirsi né
toccarsi. Quando c’è la notte non c’è il giorno, quando c’è il giorno non c’è
la notte, eppure non c’è notte senza giorno.182

Crepuscolo ridotto a transizione istantanea, dalla durata minima, che


sembra quasi generare fastidio, come se fosse un così arduo problema
frequentarlo ed indagarlo da preferirne una sorta di azzeramento,
riduzione alla necessità, semplice evidenza alla quale sfuggire quasi
scivolando intorno. Luogo dunque rischioso, il crepuscolo, dal quale
affrettare un distacco, avanzando rassegnati verso il destino della notte,
oppure fremendo per essere colti dalla luminosità del giorno, sempre
idealmente diluendo il tempo del tramonto, per trattenere più luce
possibile, e restringendo quello di un alba che sembra faticare nell’offrirla.
Crepuscolo che rimane inghiottito in ogni metafora che ricorra al giorno
ed alla notte per descrivere un’alternativa irriducibile. Appunto: come
se non esistesse alcuna transitorietà, luogo liminare non ancora notte e
non più del tutto giorno o all’inverso ancora plumbea oscurità ma ormai
screziata da una luce che avanza. Ovvero: crepuscolarità implicitamente
ammessa, come necessità ineludibile, perché i mondi del giorno e della
notte sono il medesimo ed unico mondo dell’individuo chiamato a
percorrerli, come nella grandiosa metafora fissata da Karl Jaspers nelle
ultime pagine della sua Metafisica:

La legge del giorno mette ordine nel nostro esserci, esige chiarezza,
consequenzialità e fedeltà, lega alla ragione e all’idea, all’Uno e a noi
stessi. Essa vuole la realizzazione nel mondo, la costruzione nel tempo,
il compimento dell’esserci lungo una via che va all’infinito. Ma ai confini
del giorno ci parla qualcos’altro. L’averlo respinto non ci lascia quieti. La
passione per la notte sconvolge ogni ordine, per precipitare nell’abisso
atemporale del nulla che tutto trascina nel suo vortice. Per essa, ogni
costruzione che si manifesta storicamente nel tempo è soltanto qualche
cosa di illusorio. Siccome la chiarezza non le consente di penetrare nulla
di essenziale, essa la trascura per rivolgersi a tutto ciò che non è chiaro,
perché è l’oscurità atemporale dell’autentico. Per una sorta di necessità
incomprensibile e ingiustificabile, diventa incredula e infedele di fronte
al giorno. Non ci sono per essa né compiti, né fini, perché essa è quella
forza impetuosa che precipita nel mondo per raggiungere, nell’abisso del
suo annientamento, la propria compiutezza. […] Il tentativo di descrivere in
termini più concreti il fenomeno della passione per la notte fallisce perché
ogni espressione precisa e determinata entra nella luce del giorno e quindi
vi appartiene e soggiace alla sua legge. Nel campo della riflessione il

����.J.P. Vernant, L’Univers, les dieux. les hommes, Éditions du Seuil, Paris 1999, p. 23.
217
Stefano Bevacqua

primato spetta al giorno. Chiarire l’oscurità, che ha in sé la propria origine,


significa eliminarla. Pertanto, ogni concreta manifestazione della passione
per la notte, quando è descritta, diventa artificiosa e banale, se poi se ne
cerca una possibile giustificazione, la si smentisce e la si distrugge.183

Jaspers parla di “confini del giorno” oltre i quali si situa “l’abisso


atemporale del nulla” ovvero “l’oscurità atemporale dell’autentico”.
Jaspers non lo dice, ma in effetti tutta la criticità che attraversa
l’esistenza ed il suo pensiero – il pensare l’esistenza – nella dicotomia
tra il bisogno di una rassicurante evidenza e la passione per la scoperta
di una intimità – identità – altrimenti inavvertibile, tutta questa criticità
risiede nella transizione molto più che nei due mondi del giorno e della
notte; criticità che abita dunque e per intero la fase del passaggio, quel
limbo di indefinito che riunisce i lembi del mondo del giorno e del mondo
della notte, nei quali essa stessa in realtà si risolve. L’impossibilità di
descrivere la passione per la notte con un linguaggio che è soltanto
del giorno, e che quindi ne appiattirebbe ogni intuizione, assume la
sua drammaticità proprio nella mancata considerazione del luogo di
transizione, nel non ammettere la possibilità che proprio nel crepuscolo
si possa leggere la passione per la notte senza essere costretti ad utilizzare
il linguaggio che fa capo alla legge del giorno. Il crepuscolo non ha
né legge né passione, è estraneo ad entrambe e, insieme, entrambe le
comprende e le fa proprie; non permette di leggere e descrivere, ma
consente di mirare e di cogliere, lontano dalla – presunta – razionalità di
un fare denominativo e non ancora avvolta nell’oscurità di una passione
che nella sua profondità intera respinge ogni linguaggio.
Luogo intermedio e terzo, non linea di separazione ma spazio
di riunione, il crepuscolo appare pienamente simile alla fase
dell’addormentamento e del risveglio, fase ipnagogica la prima e
ipnopompica la seconda, termini che riportano subito all’idea già
frequentata di accompagnamento e trasporto dell’anima – Hermès.
Ed è Eraclito che, per primo, solca la differenza e scorge, forse senza
avvedersene pienamente, come i due mondi della veglia e del sonno – o
del giorno e della notte – richiedano, per essere denotati e attraversati,
una funzione di graduale transizione che sola permette quella coesistenza
altrimenti inammissibile. Nel frammento 89 secondo Diels-Kranz,
ripreso da Colli come 14[A99]184, Eraclito afferma: “I desti hanno un
mondo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo
proprio”, che nella traslazione dal greco al tedesco di Heidegger185 e
����.K. Jaspers, Filosofia, UTET, Torino 1978, pp. 1041-1043.
����.G. Colli, La sapienza greca, cit., p. 95.
����. M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987,
218
Nel confine

quindi nella traduzione finale in italiano diviene: “Per coloro che son
desti c’è un mondo unico e dunque comune, mentre coloro che dormono
si volgono ciascuno a un proprio mondo”. Aggiunge Heidegger:

Nello stato di veglia l’ente si manifesta in un “come” costante, concorde e


accessibile più o meno a chiunque. Nel sonno, invece, il mondo dell’ente
è individuato in modo esclusivo per ogni singolo esserci. Da queste
indicazioni sommarie è già possibile constatare più cose: 1. Il mondo
designa un “come” dell’essere dell’ente piuttosto che questo ente stesso.
2. Questo “come” determina l’ente nella sua totalità. In fondo esso è la
possibilità di ogni “come” in generale in quanto limite e misura. 3. Questo
“come” nel suo insieme è in un certo modo preliminare. 4. Questo “come”
preliminare nel suo insieme è a sua volta relativo all’esserci umano.186

Se il mondo definisce preliminarmente le modalità – le condizioni –


nelle quali ogni individuo si colloca in quanto esistente e se questo è il
mondo della veglia, comune “più o meno a chiunque”, diviene necessario
domandarsi che cosa accada di questo “come”, inteso come modalità
– condizione dell’esistere quando quello stesso individuo si accinge a
scivolare nella situazione di un mondo individuale, proprio ed esclusivo.
Occorre chiedersi se questo mondo individuale sia capace di produrre
un proprio valido “come”, cosa che, pur nella scissione dicotomica
tra giorno e notte, viene ben colta da Jaspers. Questi mondi isolati
ed individuali non presentano affatto minori qualità condizionanti di
quell’altro mondo “comune”, proprio perché capaci di giungere a quella
profondità di intima autenticità che nessuna condizione esistenziale del
mondo comune può dal suo lasciare apparire. Così come la descrizione
rigorosa del fascino della notte attraverso il linguaggio che appartiene
alla legge del giorno ne mina la sostanza e la verità, trasformandola
in banalità, analogamente alcun tentativo di dire l’intimità del mondo
individuale del sonno potrà evitare tale sorte – come appare di tutta
evidenza negli asfittici esiti registrati da tutti i tentativi avanzati nel
corso degli ultimi due millenni di interpretare i sogni. Ché, in definitiva,
è l’unità profonda di questi due mondi ad essere in gioco. Nel sonno,
come nella notte, non si erge un mondo diverso da quello della veglia,
o del giorno. Sono semmai due visioni differenti che si offrono
all’attenzione – alla memoria, al pensiero, alla parola – di ognuno, visioni
che riflettono nella notte molte parti del giorno e nel giorno trascinano
brandelli di reminiscenze della notte trascorsa; è nel luogo di massima
relazione tra veglia-giorno e sonno-notte che si può forse rintracciare il
p. 99.
����.Ibidem.
219
Stefano Bevacqua

senso unitario di un sé capace di pensare l’uno e l’altro, se soltanto si


affaccia la consapevole rinuncia alla descrizione metodica, all’analisi
causale, alla previsione evolutiva, e, piuttosto, ci si abbandona ad un
più intimo percepire, come in un’apertura-disponibilità ad accogliere
che prenda il posto dell’inchiesta; come un lasciarsi accedere dalla
complessità di un mondo che ci si presenta al tempo stesso come
comune ed unico e che, in definitiva, può essere soltanto intuito, più che
compreso e non certo descritto, soffermandosi in quel frastagliato luogo
transitivo, prima del sonno e dopo la veglia, crepuscolo della coscienza
vigile in attesa che la mente si liberi nel sogno. I crepuscoli del mattino
e della sera, insieme agli stati ipnopompici ed ipnagogici, sono infatti
refrattari a qualsiasi intrusione descrittiva che utilizzi i criteri selettivi,
le modalità e, in definitiva, il linguaggio della veglia, della razionalità,
del procedere per tesi e presupposti che attribuiscono a ciò che viene
percepito nella sua interezza e consistenza il rango di unico oggetto
meritevole di attenzione. Se si tenta di pensare e di dire i crepuscoli con
questo approccio si cade nell’esatta condizione descritta da Jaspers, si
banalizza ogni passione ed emozione, cancellando così quella visione-
apertura che resterebbe invece in evidenza seguendo un atteggiamento
scevro dai condizionamenti di un procedere logico. Occorre sporgersi
oltre il limite apparentemente netto e deciso delle cose ed avanzare nel
luogo di confine, lasciando che in un terreno che non è più totalmente dato
senza essere ancora altro possa apparire la sia pur fugace illuminazione
di altri “come”. I crepuscoli sono luoghi dai quali lo sporgersi si afferma
come praticabile, come istante nel quale avviene la percezione di altri
“come”, di ulteriori temporalità che trascinano avanti verso la necessaria
successione senza cancellare nulla del suo essere già stato, facendo così
dello sporgersi una sorta di punto di vista, dilatandolo fino ad offrire un
orizzonte. Per cogliere la densità di questa possibilità ci si può rivolgere
a due passaggi riferiti alla maturità di Heidegger, quelli degli scritti poi
raccolti in Tempo ed Essere, pubblicato nel 1969:

L’essere presente di un singolo ente-presente riguarda sempre l’uomo,


anche quando egli non vi presta espressamente attenzione. Ma altrettanto
spesso, cioè continuamente, ci riguarda anche l’essere assente. In primo
luogo, qualcosa non è più presente nel modo in cui noi lo conosciamo
a partire dall’essere presente nel senso dell’attuale presente. E tuttavia
anche questo qualcosa di non-più-attualmente-presente è immediatamente
presente proprio nel suo essere assente, ovverosia è presente alla maniera
del passato che essenzialmente ancora è in quanto ci riguarda: alla maniera
dell’esser-stato che ci riguarda. Questo esser-stato non svanisce con
l’“ora” appena trascorso, come si trattasse del passato nel senso del mero

220
Nel confine

trapassare. Al contrario: l’esser-stato è presente, benché in un modo che è


suo proprio. Nell’esser-stato si offre un essere presente. L’essere assente
ci riguarda però anche nel senso di qualcosa di non ancora attualmente
presente alla maniera dell’essere presente, nel senso del venire-verso-di-
noi dell’av-venire.187

E ancora:

Noi chiamiamo questa apertura che rende possibile un lasciar apparire


e un mostrare: Lichtung (radura). [...] Il sostantivo Lichtung deriva dal
verbo lichten (diradare). L’aggettivo licht (rado) è lo stesso che leicht
(lieve, leggero). Etwas lichten (diradare qualche cosa) significa: rendere
qualche cosa rado, cioè renderlo libero e aperto, per esempio rendere il
bosco in un posto libero dagli alberi. Lo spazio libero e aperto che ne
risulta è la Lichtung (radura). Il rado nel senso di ciò che è libero e aperto
non ha nulla in comune – né dal punto di vista linguistico, né quanto alla
cosa cui si riferisce – con l’aggettivo licht nel significato di chiaro. Ciò
va tenuto presente per la diversità tra Lichtung (radura) e Licht (luce).
Nondimeno sussiste la possibilità di un nesso oggettivo tra le due parole,
cioè basato sulla cosa a cui entrambe si riferiscono. La luce può infatti
entrare nella radura, nel suo spazio aperto, e lasciarvi giocare il chiarore
con l’oscurità. Ma giammai la luce crea prima la radura, bensì quella, cioè
la luce, presuppone questa, cioè la radura. Tuttavia, la radura, l’aperto,
è libera non solo per il chiarore e l’oscurità, ma anche per l’eco e il suo
perdersi, per il risonare e il suo smorzare. La radura è l’aperto per tutto ciò
che è presente o assente.188

Se si legge il presente come transizione temporale da una condizione


ad un’altra, tale per cui esso non si riduce ad istante puntuale ma raccoglie
il senso del tempo passato a anticipa il suo avvenire, e se si considera
Lichtung come luogo anch’esso intermedio, in quanto costituito da un
aprirsi alla luce nella foresta, il quale luogo non cessa di essere parte
della foresta e nemmeno diviene per questo soltanto luce – la seconda,
dice Heidegger, presuppone la prima – se si accetta di avventurarsi in
una simile direzione, si legge allora chiaramente che cosa i crepuscoli,
le albe ed i risvegli, i tramonti e l’addormentarsi, possono far scorgere:
il mondo di un “come” individuale che emerge dalla sua estraneità
avvenendo alla coscienza. Si deve insistere sul termine “sporgersi”,
perché proprio nella fase ipnagogica, nel cosiddetto addormentamento,
quando ancora non si è reclusi nell’isolamento di un mondo non
correlato, bensì permane evidente la relazione alla coscienza, quando
����.M. Heidegger, Tempo e essere, Longanesi, Milano 2007, pp. 17-18.
����. M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo e essere,
Longanesi, Milano 2007, p. 85.
221
Stefano Bevacqua

il controllo volontario sul corso dei pensieri viene certamente ormai


meno ma non per questo scompare quel barlume di coscienza – quasi
un vedersi in procinto di sognare – in questa fase transitiva, che può
peraltro durare molte ore e in certi casi ricoprire gran parte del riposo
notturno189, la mente viene pervasa da immagini, situazioni, percezioni
incontrollate, in una fase che taluni hanno definito come pre-onirica,
ma che in effetti è ben difficilmente fissabile secondo rigidi criteri
neurofisiologici. La gran parte dei lavori scientifici volti a descrivere
lo stato ipnagogico hanno fatto ricorso a segmentazioni temporali che
si fissavano intorno ad un facile riferimento iniziale, l’atto fisico del
coricarsi e disporsi al dormire, e ad un ben difficilmente definibile
riferimento finale, quello costituito dall’inizio del sonno. L’analisi
della fase dell’addormentamento è stata quindi sviluppata ricalcando lo
schema delle fasi del sonno di Rechtschaffen e Kales190, fino a contare
nove diversi stadi dell’addormentamento, ciascuno dei quali presenta
chiare differenziazioni elettro-encefaliche. Ricerche successive191, pur
mai rinunciando ad un’indagine di natura omni-descrittiva, hanno però
mostrato come il declino della vigilanza che accompagna l’ingresso
nel sonno strettamente inteso non avvenga in maniera continua, ma
piuttosto per fluttuazioni tra uno stato di quasi completo risveglio
e scivolamenti verso il sonno. Nessun bordo netto, niente scissioni
ripidamente attraversate: il crepuscolo tra giorno e notte ed il suo identico
soggettivo dell’addormentamento sono costituti da un fluire continuo e
comprensivo di vigilanza e ottundimento, di chiarore e fili di tenebra,
di oscuramenti e ritorni di coscienza, come in un tramonto che lasci una
ripresa di luce maggiore proprio al di sotto di quelle nubi che appaiono
più prossime alla notte. Ed anche quando questa transizione è compiuta,
quando si cede al sonno e con esso al sogno, non sempre la coscienza,
intesa come condizione di vigile attenzione, viene meno: esiste il caso,
ritenuto assai raro, ma che in alcuni soggetti si presenta con assiduità,
del cosiddetto sogno lucido, durante il quale l’individuo “si vede”
sognare. È la rottura di ogni schematismo; irruzione della coscienza
dentro il sonno e dentro il sogno, che rimette in gioco molta parte degli
apparati descrittivi dedicati al sonno: riapertura improvvisa della porta
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. Quello che comunemente si avverte come un non aver preso pienamente sonno, un
essersi trattenuto sul suo limite estremo senza mai averlo pienamente valicato.
����. A. Rechtschaffen, A. Kales, A manual of standardized terminology techniques
and scoring system for sleep stages of human subjects, National Institues of Health,
Publication no. 204, Bethesda, Maryland, 1968.
����.M. Casagrande, L’addormentamento: descrizione del processo di transizione dalla
veglia al sonno, in “Bollettino di Informazione” dell’Associazione Italiana di Medicina
del Sonno – AIMS, n° 3, 1998.
222
Nel confine

che divide sonno e veglia, porta rimasta in verità sempre socchiusa,


nell’incerto luogo di uno stato di non ancora vero sonno eppure già
dentro il sogno e nel quale si incunea la percezione riflessiva di sé, come
un vedersi da sopra la propria spalla, nella precisa cognizione che ci si
abbandona al sogno pur restando vigili.
Non dissimilmente accadde ad Iride, la messaggera prediletta da
Giunone quando si reca, per ordine della dea, nel paese dei Cimmeri,
proprio là, al limite dell’Oceano, lungo il fiume che tutto riunisce a
raccoglie, presso Sonno, al fine di indurlo a intervenire nei sogni di
Alcione, ché finalmente veda così che Ceice suo sposo non è più dei
viventi:

Appena Iride entrò in quella sacra dimora, scostando con le mani i sogni che
le si paravano dinnanzi, questa si illuminò tutta del fulgore della sua veste.
Il dio tentò di sollevare le palpebre pesantemente abbassate, ma il capo gli
ricadde più volte, sfiorando con l’oscillare del mento il petto; infine riuscì
a scrollarsi se stesso di dosso, e appoggiandosi al gomito chiese all’ospite,
che ben conosceva, quale fosse il motivo della sua venuta. Ella gli rispose:
“O Sonno, signore della quiete, o Sonno, il più placido degli dei, che sei
pace per il cuore e non conosci affanni, che ristori i copri stanchi delle
loro pesanti occupazioni e li rendi atti alla nuova fatica, devi ordinare a
uno dei sogni che riproducono le immagini del reale di recarsi da Alcione,
nell’Erculea Trachine, assumendo l’aspetto del re in veste di naufrago.
Questo è il volere di Giunone”. Compiuto il suo incarico, Iride se ne andò,
perché non poteva resistere più a lungo all’impulso di addormentarsi: non
appena sentì il sonno insinuarsi nelle sue membra, fuggì via sulla scia di
quell’arco per il quale era appena venuta.192

Quale distanza separa questa navigazione interiore – navigazione


che appare in qualche sorta trasversale al segno abitualmente
attribuibile al processo veglia-sonno, segno come di una freccia, di
un passaggio lineare, che qui viene smentito dalla possibilità di un
tragitto liminare, come un rimanere equivocamente in sospeso tra
una condizione e l’altra, attraverso incursioni nel sonno e nel sogno
e repentini ritorni nei pressi della vigile coscienza – quale distanza
separa questa navigazione dalle idee che dell’addormentamento si
erano costruiti gli antichi? Per Platone, il sonno guadagnava la mente
attraverso il venir meno di una sincronia tra la luce che illumina il
mondo e la luce interna degli occhi, sincronia che permette di unire
il simile al simile, l’oggetto e alla sua immagine che nella mente si
ricostruisce per il tramite della vista:

����.Ovidio, Le metamorfosi, XI, 616-632, Rizzoli, Milano 1997, pp. 674-676.


223
Stefano Bevacqua

Ma quando il fuoco puro si ritira nella notte, l’altro affine ne rimane


separato. Infatti, uscendo fuori e imbattendosi in ciò che non gli è simile,
esso si trasforma e si spegne, non essendo più della stessa natura dell’aria
che sta intorno, perché questa non ha più fuoco. Cessa allora di vedere, e
diventa, inoltre, apportatore di sonno. Infatti, quella garanzia di sicurezza
che gli dèi escogitarono per la vista, ossia la natura delle palpebre,
quando si chiudono imprigionano dentro la potenza del fuoco. E questa
discioglie e rende uguali i movimenti interni, e, una volta che questi siano
uniformati, nasce la tranquillità. E quando questa tranquillità è molta,
allora sopravviene il sonno dai sogni leggeri. Ma se rimangono alcuni
movimenti più forti, a seconda della loro qualità e delle parti del corpo
dove sono rimasti, producono tali e tanti fantasmi somiglianti, che poi,
quando ci siamo ridestati, ritornano di fuori alla memoria.193

Aristotele, invece, attribuiva l’avvento del sonno ad un intervento


sul sensorio tattile oppure come risultato di un’azione indotta dallo
stomaco:

Il sonno sopraggiunge quando l’impossibilità di usare i sensi colpisce


non un sensorio qualunque, né per un motivo qualunque, ma, come s’è
detto adesso, l’organo primario (il tatto) mediante il quale uno sente tutte
le cose. [...] In realtà si produce il sonno quando l’elemento corporeo
viene trascinato in alto dal calore attraverso le vene fino alla testa. [...]
L’animale si sveglia quando la digestione è terminata, quando cioè il
calore che in grande quantità era stato concentrato dalle regioni vicine
entro un piccolo spazio prevale e il sangue più corposo è separato da quello
più puro. [...] Si è detto, dunque, qual è la causa del sonno: esso consiste
nella recessione in massa compatta dell’elemento corporeo trascinato in
alto dal calore naturale verso l’organo sensoriale primario, il sonno è la
paralisi dell’organo sensoriale primario che lo rende incapace di agire e
che si produce necessariamente in vista della conservazione dell’animale
(perché non può esistere l’animale se non si realizzano le condizioni che lo
rendono tale): ora il riposo lo conserva.194

Da queste suggestive ipotesi alle più attuali considerazioni


offerte dalle neuroscienze, corrono soltanto rari riferimenti alla fase
dell’addormentamento come transizione ipnagogica, così come
sempre occasionali appaiono, lungo l’insieme del percorso del sapere
occidentale, i riferimenti ai crepuscoli come luogo proprio e non
soltanto come semplici avventi della notte o del giorno. Tanto allo studio
e all’interpretazione dei sogni sono state dedicate innumerevoli opere,
dall’Onirocritica di Artemidoro, scritto forse sul finire del II secolo,
193. Platone, Timeo 45D-E 46, cit., p. 1373.
����.Aristotele, Parva naturalia, Bompiani, Milano 2002.
224
Nel confine

al Die Traumdeutung freudiano, datato del 1899, quanto ciò che per
necessità precede il sonno ed il sogno che lo abita, l’addormentamento,
è stato poco analizzato, forse proprio in ragione del suo essere
difficilmente descrivibile e definibile, luogo di transizione del quale non
si possono fissare i margini.
Per ritrovare il senso di un arretramento della luce ovvero della
condizione di veglia che generi la percezione di un luogo a sé stante
ed indipendente dalle sue contiguità, occorre piuttosto rivolgere
attenzione alla poesia, dove con maggiore frequenza si incontrano
passaggi direttamente dedicati ovvero nei quali la presenza di questa
liminarità emerge come necessaria, quasi il poeta non possa trattenerne
l’evidenza in ragione del fatto che esso stesso la sta percorrendo, al
limite della consapevolezza e mai nella direzione della freccia che
si produce nel salto di livello tra un prima e un dopo, ma sempre
trasversalmente, financo adagiandosi in essa, come in un confortevole
giaciglio. Crepuscolo abitato dalle emozioni, dai dolori, dai desideri e
dalle pulsioni del poeta, che qui ritrova una parte di sé stesso altrimenti
dimenticata oppure che non trova motivo di porsi e presentarsi. Oppure,
crepuscolo abitato dal mondo nel quale lasciar riflettere tutt’altre
passioni e impulsioni, perché crepuscolo che nel suo attenuare la luce
permette l’illecito, trasformando il male in ammissibile, levigandone
le asperità più evidenti nel rossore di una luce più bassa, che attenua
i contrasti fino a rendere quasi lecito ciò che di giorno è peccato, così
inghiottendo nella liminarità tutto ciò che vi proietta in questa instabile
transizione, temporalmente circoscritta e destinata a sciogliersi in una
notte che richiamerà nuova luce. Innumerevoli sono le occasioni che
hanno visto i poeti giocare con il crepuscolo, penetrandolo con il loro
pensiero oppure abitandolo con le loro impulsioni.195
. Viene alla memoria Hölderlin, con alcuni passaggi dei versi raccolti in Diotima, per
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lo più scritti tra il 1797 e il 1800: (Fantasia della sera) “Nel cielo del tramonto è primavera
| e le rose fioriscono infinite | e il mondo splende in una pace d’oro. | Prendetemi lassù
con voi, o nubi || di porpora! potessero dissolversi | là, in luce e aria, amore e dolore! ! - Il
prodigio, spaurito dalla folle | preghiera, si dilegua. Viene l’ombra.” (Mattino) “Brillano
i prati di rugiada, è desta | la sorgente che va più frettolosa, | il faggio china il capo
incerto, lustra | e mormora il fogliame. Rosse fiamme || listano intorno il grigio della nube,
| annunciatrici, ondeggiano in silenzio, | come flutti che battono la riva, | alte, sempre
più alte, trasmutando. || Vieni, sali, ma non troppo veloce | o giorno d’oro, al vertice del
cielo!” (Sole tramonta) “Sole, tramonta: poco ti hanno notato. | Non ti hanno conosciuto,
sacro sol, | perché sul loro affanno sei trascorso | senza pena e in silenzio. || Per me sorgi
e tramonti in amicizia | o Luce, ti salutano i miei occhi | o glorioso; perché so venerare
in silenzio | da che Diotima mi sanò dal male.” [Estratti da F. Hölderlin, Diotima, in
Le liriche, Adelphi, Milano 1977, pp. 277, 279 e 301.]. Insieme a Hölderlin, animato
dal timore e dall’esaltazione unite di fronte allo spettacolo illanguidente del morire e
225
Stefano Bevacqua

Crepuscoli transitati, abitati, occupati da passioni e desideri che


vengono dal giorno e si dileguano nella notte, fino a rimanere occulti
e indurre Hölderlin a supplicare un più lento ritorno del Sole, che
sappia così imporsi senza ferire, lasciando che il languore notturno si
ritiri divenendo sempre più tenue ma senza strappi, rotture e ferite. I
crepuscoli divengono così rifugi segreti, pareti in ombra del mondo
abitate da anfrattuosità, ombre nelle ombre, come quelle che separano la
luce del giorno dall’oscurità che gradualmente si afferma scendendo nel
profondo del mare oppure avanzando lungo il corridoio che si infigge
nel disegno di una grande casa, come la caverna che penetra nella
montagna. Crepuscoli artificiali, nel senso che sono indipendenti dalla
rotazione della Terra sul suo asse, ma che, piuttosto, debbono o possono
essere ricercati o ricreati, insinuandosi nella semioscurità di quelle parti
di mondo ove la luce del giorno non riesce pienamente a giungere, che
siano le profondità marine, che rifrangono e filtrano i raggi del Sole fin
quasi ad ottunderli, oppure le oscurità che la natura offre sotto coltri di
rami e foglie della foresta, ovvero l’ombra generata dall’uomo nelle sue
del rinascere del giorno e del tempo, e su un versante mistico affatto diverso, ma che
non manca di permettere almeno un’analogia in termini di potenza espressiva, si deve
ricordare Tagore: “È finito il giorno e sulla Terra | scendono le ombre della notte: | È
tempo che io vada al fiume | a riempire l’anfora. | Il gorgoglio delle acque | rattrista i
colori del tramonto. | Sulla strada | una voce mi chiama: | è tempo ch’io vada al fiume |a
riempire l’anfora.” [R. Tagore, Ghitangioli, Guanda, Milano 1976, p. 32]. Allora che, a
popolare il crepuscolo di uomini e persone, di donne e di peccato, sono stati sicuramente
Baudelaire ed in Italia, nonché in epoca più recente, Dino Campana. Dicono i versi del
poeta francese: (Il crepuscolo della sera) “Ecco la sera affascinante, amica del criminale;
| viene come un complice, a passi felpati; il cielo | si chiude lentamente come una grande
alcova | e l’uomo impaziente si muta in belva feroce.” (Il crepuscolo del mattino) “La
diana squillava nei cortili delle caserme | e soffiava sui lampioni il vento del mattino. ||
Era l’ora in cui lo sciame dei sogni malefici | torce sui guanciali i bruni adolescenti; | la
lampada fa sul giorno una macchia rossa | come un occhio sanguinante che palpita e si
agita, | e l’anima imita le lotte della lampada e del giorno | sotto il peso del corpo greve
e ruvido. | Come un volto in lacrime che asciugano le brezze, | l’aria è piena del fremito
di cose che fuggono; | l’uomo è stanco di scrivere e la donna di amare.” [Estratti da C.
Baudelaire, Quadri parigini, in I fiori del male, Newton Compton, Roma 1998, pp. 237 e
255.]. E, quasi, gli fanno eco le righe – non strofe, secche righe che non chiedono metrica
alcuna – vergate da Campana più di mezzo secolo dopo, nel 1913: “Era intanto calato il
tramonto ed avvolgeva del suo oro il luogo commosso dai ricordi e pareva consacrarlo.
La voce della Ruffiana si era fatta man mano più dolce, e la sua testa di sacerdotessa
orientale compiaceva a pose languenti. La magia della sera, languida amica del criminale,
era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno
misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si
guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la
sera scendeva messaggio d’oro dei brividi freschi della notte.” [D. Campana, La notte, in
Canti Orfici, Vallecchi, Firenze 1985, pp. 25-26.].
226
Nel confine

costruzioni, sottrazione al labile bagliore che attraversa la multicolore


vetrata di una cattedrale o all’accecante luce diurna che si trattiene al di
fuori della casa mediterranea, edificata nella lotta al Sole e all’arsura,
con la ricerca di un fresco immobile disegnato dalle pesanti tende
damascate. Si avventura dunque un crepuscolo anche nell’accedere nel
grande tempio cristiano così come nell’insinuarsi sotto il portone della
casa e poi appartandosi lungo le scale ed i corridoi; crepuscoli generati
dallo spostamento di chi li ricerca e poi li osserva e li gode; crepuscoli
costruiti insieme all’edificio che li genera e dipinti attraverso le ombre.
Tanizaki Jiunichiro, poeta giapponese dell’ombra, scriveva:

La bellezza della stanza di una casa giapponese, costruita soltanto dal gioco
del grado di opacità dell’ombra, è tale da poter fare a meno di qualsiasi
accessorio. [...] La pittura, qui, non è che una superficie modestamente
deputata a raccogliere una luce debole ed indecisa, la cui funzione è
assolutamente la stessa di quella di un muro sabbiato. E risiede proprio
qui la ragione per cui, nel scegliere una pittura, attribuiamo la massima
importanza all’età ed alla patina, perché una pittura recente, anche se
realizzata con inchiostri diluiti o con colori pallidi, rischia, se si presta
attenzione, di distruggere l’ombra. [...] Adesso, provate a spingervi fino alla
stanza più lontana; i tramezzi mobili e i paraventi dorati, sistemati in una
oscurità che mai alcuna luce esterna penetra, captano la punta estrema del
chiarore del lontano giardino, dal quale non so nemmeno quante stanze ci
separino: non avete mai scorto quei riflessi come un sogno. Questi riflessi,
simili alla linea dell’orizzonte al crepuscolo, diffondono nella penombra
circostante un pallido barlume dorato, e dubito che in qualche altro luogo
si possa incontrare una bellezza altrettanto pregnante.196

Crepuscolo edificato con l’edificio, come rinchiuso all’interno della


casa giapponese, come se mattone dopo mattone, fino alla chiusura del
colmo del tetto, si separasse una parte di mondo riponendola al riparo
dall’invadenza della luce, attraverso una segmentazione che crea in tal
guisa una sorta di luogo intermedio tra la luce del fuori, il giorno, la
veglia, e la tenebra dell’anfratto più recondito della casa, ove la luce
non può mai insinuarsi, come una notte, come il sonno; dunque, ombra
e rifugio che si colloca all’unione di giorno e notte, luogo transitivo
definito dal fare dell’uomo e non più dalla naturale rotazione della
Terra. Nella casa giapponese si stempera ogni separazione tra giorno
e notte, in una sorta di continuità serale o aurorale, che si espande
fino al colmo del mezzodì e sprofonda nelle tenebre, perché è facile
immaginare, dal racconto di Tanizaki, che quando la Terra volge le
����.Tanizaki J., Éloge de l’ombre, Publications Orientalistes de France, Paris 1977, pp.
51, 55 e 60.
227
Stefano Bevacqua

spalle al Sole non sia certo una luce violenta e multicroma quella che
sarà dedicata a quelle stanze e quei corridoi, dietro quell’ultima tenda,
ma un barlume dorato, generato con la più intima attenzione che sia
necessaria a preservare l’ombra, essenza magistrale della casa. Si può
immaginare quell’ambiente come attraversato da una fioca luminosità
che sarà identica il giorno come la notte, l’estate come l’inverno, nella
veglia di chi la abita e nel suo sonno; come nel paese dei Cimmeri,
dove non è mai del tutto notte senza riuscire ad essere nemmeno del
tutto giorno, in un crepuscolo transitivo costante, che la rotazione
terrestre si limita a ad accentuare verso un segno o verso l’altro, ma in
maniera sempre parziale e indecisa. Luogo boreale, visitato da Odisseo
e frequentato idealmente anche da Giorgio De Chirico, che dice di come
siano proprio le ombre, le ombre che si allungano smisuratamente nel
crepuscolo a spingersi fino a quei luoghi liminari, posti al limite di ogni
confine, ma che quel confine mai mostrano:

I raggi del Sole si allungavano ora quasi orizzontalmente sulla strada di cui
imporporavano la polvere e l’ombra dei pastori e dei vincastri si allungava
essa pure; si allungava smisuratamente, mostruosamente, incredibilmente;
traversava le città, le contrade ed i mari; arrivava assai lontano, fino al
paese dei Cimieri, laggiù, ove i venti freddissimi conservavano a lungo la
neve sulle montagne; l’ombra dei pastori e dei vincastri toccava ora quei
paesi i cui abitanti sono tutto l’anno vestiti con spesse pellicce e hanno una
mitologia erotica e complicata. Poi il Sole spariva completamente dietro la
linea delle colline basse, all’orizzonte; allora le ombre salivano nel cielo e
si stendevano sulla Terra.197

Sembra, in queste visioni di crepuscoli, che il tempo si fermi, che non


si tratti di una fase di transizione tra prima e dopo, tra giorno e notte, tra
veglia e sonno, ma che quell’avviare attraverso senza ancora raggiungere
duri tutto il tempo che comprende anche il prima e l’atteso dopo, come
se sempre – come peraltro capita in alcune condizioni di disturbo del
sonno – la fase ipnagogica comprendesse la totalità del tempo dedicato al
riposo ed al sonno, dall’istante in cui ci si corica a quello in cui ci si alza.
Eppure, questi crepuscoli sono al tempo stesso segnali dell’avveniente
o avvenuto passaggio, sono la colorata coreografia della fine del giorno
e dell’inizio della notte, la quale, nel suo finire, consente il suo stesso
ritorno, sono lo scenario di immagini folgoranti e inattese che disegna
l’avvio del sonno ed il suo terminare nella veglia come condizioni
del potersi ripresentare. I crepuscoli, visti sotto questo aspetto – sotto
questa luce – trattengono in bilico il passaggio tra una condizione e
����.G. De Chirico, Ebdòmero, SE, Milano 1999, p. 48.
228
Nel confine

quella che necessariamente le deve succedere. Ciò, anche se inesorabile


permane il dato oggettivo del fluire del tempo, del suo essere scandito
anzitutto e propriamente dall’alternarsi del giorno e della notte. L’unità
di misura del tempo che l’uomo conosce da tanti millenni è il giorno,
il suo giorno, quello che si separa analogicamente in veglia e sonno.
Giorno diviso in ore e minuti e secondi e frazioni di secondo, ma che
mantiene la sua unità necessaria nell’eterno ripetersi. Giorno inteso
dunque come tempo misurato, scandito, contabile e contabilizzato,
che appare contemporaneamente nella sua accezione, per così dire:
oggettiva, come tempo misurato attraverso la conta delle oscillazioni
ripetitive di un moto – come quello della Terra su sé stessa e quello della
Terra attorno al Sole: una rotazione al giorno, una rotazione all’anno –
ovvero, in una accezione, per così dire: soggettiva, oppure esistenziale,
come tempo vissuto, la cui entità dissimilmente dal primo caso non è
affatto determinata da oscillazioni omogenee e per questo referenziali,
bensì dalla percezione individuale, quella che induce a dilatare il tempo
della brama e comprimere quello del compimento – tempo elastico,
che appare interminabile nell’attesa di ciò che è desiderato e che si
riduce ad un quasi niente di tempo nella consumazione fisica di ciò
che è bramato. Non si può dunque indagare sui crepuscoli in quanto
segnavia del tempo che viene ritmicamente cadenzato se non si scinde
preliminarmente tale possibile percorso nei suoi due rami, paralleli, ma
del tutto indipendenti, di tempo oggettivo e di percezione temporale. Si è
soliti affermare che quella della misurazione del tempo sia una pulsione
umana insopprimibile, sorta di bisogno fisiologico ed ancestrale al
tempo stesso, per cui l’uomo, fin dagli albori del suo avanzare, forse
già prima di iniziare a credere nelle prime divinità, prima di sentire il
bisogno di dare una risposta all’enormità di mondo che lo circondava
e che ne metteva ogni giorno – ed ogni notte – a repentaglio la stessa
esistenza, insomma: che l’uomo, fin dai suoi primi passi consapevoli
sulla Terra abbia cercato come per una necessità insondabile di misurare
il tempo. Per questo, dunque, l’uomo avrebbe selezionato tra i tanti
fenomeni ripetitivi che la natura offriva alla sua osservazione, quelli
più adatti allo scopo di una efficace misura del tempo. E così, verificata
l’incostanza della durata dei giorni e delle notti e considerata la fallacia
dell’indicazione temporale che poteva essere astratta dal succedersi
delle stagioni, soltanto all’uomo ancestrale poteva rimanere la rotazione
della volta celeste, il veder ripetersi ad ogni anno – sidereo – quella ben
definita configurazione del panorama delle stelle, il quale, è, in realtà,
mutevole e mai perfettamente ripetibile, ma su una scala temporale
talmente lontana da quella della vita umana a non poter destare alcun

229
Stefano Bevacqua

dubbio sulla propria affidabilità. Gli antichi popoli che abitarono il


Medio-Oriente e la Mesopotamia, così come gli Egizi ed altre genti
dell’Oriente, seppero descrivere con un’attenzione oggi sorprendente
i movimenti di quella volta del cielo facendone sicuramente il primo
sistema di misurazione del tempo, tanto esatto da poter fissare in 23h
56’ 4’’ la durata del giorno sidereo, necessariamente sfalsato rispetto
a quello solare poiché diversa è la distanza dei punti di riferimento
prescelti rispetto all’asse della Terra nel suo moto su sé stessa. Da quei
primi ruvidi calcoli nacque una messe di successive speculazioni ed
affinamenti, che permisero di redigere dei veri calendari, di crescente
precisione ed attendibilità, di volta in volta corretti in base ai successivi
affinamenti della misura temporale, fino all’estrema, quasi assoluta
esattezza su cui si può fare oggi affidamento. Storia di esattezze e di
immutabili certezze, questa del tempo misurato, che percorre, grosso
modo, gli ultimi seimila anni dell’umanità. Che tende però a perdere
questa sua sicurezza intrinseca, quella fondata sul calcolo e la procedura
di sua minuziosa verifica, nel considerare i crepuscoli, ché, si è ben
detto, essi sono effimeri, sono soltanto un effetto ottico provocato dalla
diffusione dell’ultimo lembo – o del primo lembo – di luce solare da
parte delle molecole presenti ai diversi strati dell’atmosfera. Così,
certo, si dispone della perfetta misura di un giorno e di un anno, fatto
da 366,2422 giorni, se anno sidereo, oppure di 365,2422 giorni, se
anno solare; siamo così in grado di sezionare per ventiquattresimi e per
sessantesimi e per sessantesimi di sessantesimi il giorno, fino a fissare
le più minute sue parti, che corrispondono con precisione geometrica
ad altrettante frazioni – sessagesimali – nelle quali si può dividere il
cerchio idealmente tracciato dalla Terra nel suo ruotare su sé medesima.
Ma rimane, insieme, quell’indecisione, che appare quasi clamorosa nel
suo impedire che si dica quando esattamente si sia nel giorno o nella
notte – nella veglia o nel sonno.
Si potrebbe – dovrebbe – forse ripercorrere questa storia della
misurazione del tempo prendendo piede non dal tempo, ma dal
misuratore, dall’uomo che il tempo vive e attraversa e che è esso stesso
qualche cosa di tempo. Si potrebbe – dovrebbe – così vedere una volta
celeste che domanda all’uomo chi esso sia e che cosa essa sia e si
scoprirebbe quell’uomo non tanto cercare l’immutevole, il rassicurante
ripetitivo, nella volta del cielo, ma ostinarsi a dire come essa sia
generata e come, forse soprattutto, essa si sia staccata dalla Terra, perché
esistano queste due distinte entità di Terra e di Cielo, di Gaia e di Urano
separati da Crono per quel gesto definitivo dell’evirazione del padre
generatore. L’uomo si pone la domanda e costruisce la risposta di quel

230
Nel confine

cielo attraverso le divinità che tutto giustificano: in tutte le narrazioni


mitologiche ricompaiono questi passi di separazione come necessari,
unitamente all’origine del giorno e della notte, della luce e della tenebra,
della veglia e del sonno, non è il percorso tipico dei Greci o di altri,
ma piuttosto un comune bisogno ancestrale che attraversa la storia di
ogni popolo. Storia che viene prima del tempo misurato, al di fuori del
tempo assoluto definito da Isaac Newton e della categoria a priori del
tempo fissata da Immanuel Kant, piuttosto in quello che Henri Bergson
chiama durata, concreto svolgimento del tempo, come cosa ben distinta
dal tempo astratto e misurato con le macchine. Scrive Bergson:

Il mio stato d’animo, nell’avanzare sulla strada del tempo, si gonfia


continuamente della durata che raccoglie. [...] Se la nostra esistenza si
componesse di stati separati di cui un “io” impassibile dovrebbe fare la
sintesi, non ci sarebbe per noi alcuna durata. Perché un io che non cambia
non dura, ed uno stato psicologico che rimane identico a sé medesimo fino
a che non sia rimpiazzato da uno stato successivo, nemmeno dura. Ci si
potrà sforzare, da quel momento, ad allineare questi stati gli uni a fianco
agli altri sull’“io” che li sostiene, ma mai questi solidi infilati sopra del
solido riusciranno a costituire una durata che scorre. La verità è che così si
ottiene una imitazione artificiale della vita interiore, un equivalente statico
che si presterà più che altro alle esigenze della logica e del linguaggio,
proprio perché ne avremo eliminato il tempo reale. [...] La durata è
il progresso continuo del passato che erode l’avvenire e che si gonfia
avanzando. [...] Dalla sopravvivenza del passato risulta l’impossibilità,
per una coscienza, di attraversare due volte lo stesso stato. Le circostanze
possono anche essere le stesse, ma non è più sulla stessa persona che esse
agiscono, poiché esse si presentano in un nuovo momento della sua storia.
La nostra personalità, che si edifica in ogni istante attraverso l’accumulo
di esperienze, cambia continuamente. Cambiando, essa impedisce che una
condizione, anche fosse superficialmente identica a sé medesima, possa mai
ripetersi in profondità. È per questo che la nostra durata è irreversibile.198

Non soltanto, dunque, l’entità, la durata, l’inizio e la fine di ciascun


crepuscolo non è definibile, e per questo appare che ogni crepuscolo sia
intimamente diverso da qualsiasi altro, ma anche il crepuscolo in quanto
percepito – vissuto e raccolto nella memoria, nella durata trascorsa –
sarà per ciascuno diverso da quello colto da chiunque altro ed insieme
irripetibile per sé medesimi. E, in stretta analogia, tutta la durata di
ciascuno, così ben definita all’interno del tempo misurato, presenta
per ogni suo istante una propria forma irripetibile – quella cosa che

����.H. Bergson, L’évolution créatrice, Les Presses universitaire de France, Paris 1959,
pp. 14 e 17.
231
Stefano Bevacqua

si chiama comunemente memoria o coscienza o anima a seconda di


ciò che si vuole intendere. Il tempo misurato – sidereo – appare così
come una sorta di contenitore di infinite durate individuali, infiniti
crepuscoli, tramonti, albe, addormentamenti, risvegli. Contenitore privo
di qualsiasi forma, che non richiede adattamenti al contenuto né, d’altra
parte, si lascia in alcun modo informare dal contenuto medesimo, in
una indifferenza di ruoli così evidente da insinuare il dubbio che tempo
e durata siano cose che non attengono per nulla l’una all’altra, ma
piuttosto sia un errore quello di averli confusi, imponendo alla durata le
ritmicità di ciò che è astrazione temporale ed anche al tempo misurato
quella connessione intima che lo propone su un piano di interiorità che
gli è in effetti del tutto estraneo. L’arcana dicotomia potrebbe forse
essere risolta nella considerazione del fatto che oltre alla durata intima
ed al tempo misurato esiste anche una sorta di terzo elemento, di natura
più esattamente ciclica, per questo somigliante al tempo misurato, ma al
tempo stesso distante perché indipendente dai ritmi siderei, dal giorno e
dalla notte. Sono i cicli circadiani, questa specie di invasione del tempo
astratto e misurato nell’intimo della durata individuale, in base ai quali
l’organismo muta condizioni fisiologiche attraverso ritmi abbastanza
comuni e ripetuti anche in condizioni di assenza di riferimenti temporali
quali il giorno e la notte, il caldo ed il freddo. È come se dentro il
corpo di ciascuno si celasse un orologio pronto ad intervenire con
maggiore se non totale libertà quando manchi il riferimento al tempo
esterno – tempo contenitore – e grazie al quale l’organismo segue
proprie strategie di adattamento, di riposo e di veglia, di attività e di
sonnolenza, in funzione di motori che sembrano essere relativamente
estranei alle comuni condizioni di stimolo quali la fame, la sete, la
stanchezza. Un orologio interno che sembra funzionare a prescindere
da stimoli abituali, ma piuttosto in relazione ad un ciclo anteriore allo
stesso metabolismo e che forse anche questo governa in via preliminare,
come se la grande macchina delle cellule e dei tessuti conoscesse un
tempo proprio, distinto dalla durata dell’intimità dell’anima e dal tempo
sidereo ed assoluto. Tempo genetico, in quanto programmato a livello
del nucleo cellulare dalla stessa serie di informazioni che conforma
tutte le successive gerarchie anatomico-funzionali. Tempo, questo dei
cicli circadiani, che appare insensibile al ritmo del giorno e della notte
e che pertanto non dovrebbe conoscere alcun crepuscolo, poiché il
suo ritmare esula dalle alternanze fissate con rigida periodicità dalla
rotazione terrestre; ma che genera crepuscoli nella stessa alternanza di
stati – condizioni – che suscita nell’organismo che lo abita. I crepuscoli
si annidano nel passaggio dalla veglia al sonno e dal sonno alla veglia,

232
Nel confine

nelle instabili condizioni intermedie nelle quali la coscienza sembra


resistere oltre ogni previsione mentre le immagini oniriche si fanno
impetuosamente avanti, fino a popolare tutto lo scenario immaginativo,
mentre ancora la cognizione di sé e della propria condizione di
deliberazione potenziale si mantiene, sia pur sempre più debole, come
un filo teso, fino al momento in cui anche quest’ultimo lembo di veglia
viene assorbito dal sovrastare immaginativo, dalla cavalcata di pensieri
e forme e colori che paiono riempire l’intera mente. Clessidre biologiche
che fissano i cicli circadiani, che sanno governare non soltanto sonno
e veglia introducendo crepuscoli ipnagogici ed ipnopompici, bensì
anche innumerevoli altre funzioni quali la fame e la sete, il bisogno di
espettorare piuttosto che quello di evacuare e, insieme a questi, i ritmi
del respiro e del cuore, condizionando e regolando, dunque, le stesse
funzioni vitali dell’organismo, così da occupare tutto lo spazio compreso
tra il tempo esterno, misurabile, infinito, perfettamente ritmato, liquido
e continuo, e la durata interiore, tempo vissuto e puntiforme, fatto dalla
successione di temporalità sempre inegualmente accese nella memoria,
elasticamente protese in avanti e schiacciate all’indietro, nel quale
vive tutto il passato e si comprime l’annuncio del futuro – rotolamento
incostante ed impreciso dell’esistere.
Tre temporalità si sovrappongono dunque nell’esistenza di ognuno:
il tempo assoluto, la durata individuale, il ritmo vitale. Temporalità
interdipendenti, poiché ciascuna condiziona le altre come spingendo
ciascuna a voler rappresentare essa sola l’intera trinità, a comandarne
gli esiti, per cui il tempo assoluto, con quel suo preciso e prevedibile e
inesorabile fluire sempre con la medesima cadenza, si arroga il diritto
di dire i giorni, le stagioni e gli anni, che si susseguono sempre con
la stessa frequenza su una Terra che obbedisce al suo duplice moto di
rotazione sul proprio asse e di rivoluzione intorno al Sole, mentre la
durata individuale, con quel suo amplificare e comprimere il tempo
percepito – il tempo vissuto nell’avanzo di futuro che sempre prefigura
– sembra padrona nell’imporre il ritmo alla vita dell’uomo che in quella
durata esiste, il quale si ritiene anche padrone del tempo e si permette
così l’insostenibile vanto di non tenere conto del tempo assoluto, di
dimenticarlo e scavalcarlo, anche volando nello spazio, violentando il
proprio corpo nel sottostare a ritmi in verità innaturali, come quello
stesso della veglia e del sonno, fissato secondo un ciclo quotidiano
che forse non corrisponde alle reali necessità dell’organismo199, fino

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. Da numerose ricerche condotte in ambito neurofisiologico, emerge che le condizioni
di massima produttività fisica e intellettuale delle persone si verificano quando il sonno
è distribuito in tre-cinque segmenti della durata di una o due ore soltanto, per un totale
233
Stefano Bevacqua

a quando quello stesso tempo circadiano mette in rivolta il corpo e


la mente dell’uomo in cui abita, imponendosi drasticamente, come
necessità di un sonno assoluto, vitale, oppure e all’opposto come
frenesia d’azione di fronte al piacere, rimodellando così ogni ritmo, dal
cuore al respiro, e stabilendo imperativamente ogni funzione vitale in
base al proprio regime temporale. Temporalità confliggenti, che tentano
ciascuna di imporre, insieme al proprio tempo essenziale, anche i propri
crepuscoli, con il tempo assoluto che scandisce giorno e notte attraverso
di essi, la durata individuale che ne sposta il significato nell’orbita della
dualità veglia-sonno ed il tempo circadiano che imprime la propria
ondulazione al ritmo della quotidiana esistenza. Ma, al tempo stesso,
temporalità convergenti nel focalizzare un crepuscolo aurorale: il tempo
assoluto, nel suo offrire con metodica costanza il ritorno del giorno;
la durata individuale, nella compressione del futuro che si annuncia;
il tempo circadiano, nell’atto del risveglio. Crepuscolo aurorale che si
fissa nella nascita e nella ri-nascita: nascita della luce dalla tenebra della
notte; nascita del tepore dal freddo invernale. Ogni giorno ed ogni anno,
così come scanditi dall’impassibile movimento delle Terra sul proprio
asse e intorno al Sole, impongono l’emergenza di una nuova esistenza,
nuova vita, luce, calore, che nuovi non sono per nulla, che sono invece
ripetizione, anzi: reiterazione, intesa come il ri-percorrere, quando già
il per-correre intende dire di un attraversare per intero. Reiterazione,
ripercorrimento, quindi cosa del tutto attesa, nota, senza sorprese
possibili, ché il desiderio del ri-nascimento si spinge fino ad un livello
di definizione estremo, che esclude qualsiasi forma di indeterminazione,
piuttosto risolvendosi in una adeguata precognizione, che permette la
necessaria prefigurazione. Ognuno sa perfettamente che cosa accade in
quel crepuscolo aurorale nel quale si desta, nel quale ha luogo il futuro
immediato che comprime in anticipo per presentarlo a sé come per-
corso in quel crepuscolo nel quale la vita d’intorno si ripropone identica.
Ogni aurora contiene dunque la sua stessa attesa e la sua possibilità,
come se fosse già data e descritta, fissata e immutabilmente ripetuta.
Ed è forse proprio questa ripetizione prevista e percorsa a indurre alla
contemplazione mistica della ri-nascita della vita – della luce, del
calore – che ogni giorno, ma soprattutto: ogni anno, si ripete necessaria
e identica – necessariamente uguale a sé medesima. Ri-nascita che
coincide e si applica con perfetta aderenza ad ogni ri-fondazione e,
attraverso questa, ad ogni ri-creazione. Il crepuscolo aurorale diviene

di cinque, al massimo sei ore di sonno quotidiane, valore considerato normalmente


insufficiente a garantire minimi livelli di efficienza quando effettuate in un unica soluzione
e durante la notte.
234
Nel confine

simbolico della reiterazione del gesto vitale, così che per millenni
l’avvento della primavera è stato designato come atto d’inizio del ciclo
vitale dell’anno, fino a coagulare in quelle giornate tutto il senso della
fecondità e della vitalità. È il mito di una Diana-Artemide che James
George Frazer ha saputo poeticamente ridisegnare, al fine di dare a
quella dea il contorno di simbolo della prosperità estiva, della fertilità
di terra e cose, piante ed animali, uomini e divini:

Diana non era però solo patrona degli animali selvatici, signora di boschi
e colline, di radure solitarie e risonanti fiumi; come personificazione
della luna, specialmente, pare, della gialla luna d’agosto, essa colmava le
fattorie di frutti divini e ascoltava le preghiere delle partorienti. Nel suo
sacro bosco di Nemi, era particolarmente venerata come dea del parto,
che concedeva prole alla famiglia. Diana, quindi, come la greca Artemide,
con cui era sempre identificata, si potrebbe definire dea della natura in
genere e della fecondità in particolare. Non c’è da stupirsi, quindi, se,
nel suo santuario sull’Aventino fosse raffigurata da un’effige riportata
dall’Artemide Efesina dalle molte mammelle, con tutti i suoi emblemi di
esuberante fertilità.200

Diana aurorale ed augurale che abita il crepuscolo del mattino, il


risveglio, il tepore illanguidente dell’estate. Ma alla Diana della
fertilità che rinnova e si rinnova deve necessariamente corrispondere
anche un Adone, simbolo anch’esso del rinnovamento delle messi,
della ri-nascita e della ri-fondazione, ma dal punto di vista, per così
dire: della fine che necessariamente annuncia e rende possibile
l’inizio. Se circolo immutabile e impassibile è quello fissato dal tempo
assoluto, nonostante le cavalcate avverse che la durata individuale e
il tempo circadiano tentano, quasi sempre inutilmente, di sferrare
per impadronirsene, inevitabile sarà che ogni ri-nascita derivi da una
precedente cancellazione, oscurità, notte, tenebra, morte, crepuscolo
serale, tramonto. Così Adone, oppure Osiride o Attis, divinità che ha
conosciuto la morte e che ha potuto con la forza soltanto di un dio più
grande, con la forza di Rê, di un Sole, di Chaos, riprendere il suo posto
nell’Ade, deve confrontarsi alla rinascita per renderla possibile. Ancora
Frazer:

Si narra che Cinira, padre di Adone avesse fondato un santuario di Afrodite


in una località del monte Libano. [...] In epoca moderna fu scoperto il
luogo dove sorgeva il tempio, in fondo alla selvaggia, romantica e boscosa
gola del fiume Adone. [...] Poco lontano il fiume sgorga impetuoso da
una grotta, ai piedi di un imponente anfiteatro di picchi torreggianti,
����.J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton, Roma 1992, pp. 173-174.
235
Stefano Bevacqua

precipitando poi in una serie di cascate nelle paurose gole della valle. [...]
Il tempio di Afrodite, di cui massicci blocchi squadrati e una bella colonna
di granito di Siene sono rimasti a indicare l’ubicazione, si ergeva su una
spianata dirimpetto alla sorgente del fiume, dominando un paesaggio
stupendo. [...] Fu qui, secondo la leggenda, che Adone incontrò Afrodite
per la prima, o l’ultima, volta, e qui che fu sepolto il suo corpo straziato.
Difficilmente si potrebbe immaginare scenario più adatto ad una tragica
storia d’amore e di morte. [...] In un monumento che sorge a Ghineh, su
una parete di roccia, al di sopra di una nicchia grossolanamente scavata
nella pietra, sono scolpite le figure di Adone e Afrodite. Il giovane, con la
lancia in resta, pronto a fronteggiare l’attacco di un toro; la dea, seduta in
atteggiamento dolente. [...] I fedeli credevano che ogni anno Adone fosse
ferito a morte sulle montagne e che ogni anno il volto stesso della natura
si tingesse del suo sacro sangue. Così, anno dopo anno, le fanciulle siriane
ne piangevano la crudele e prematura sorte, mentre il suo fiore, l’anemone
scarlatto, sbocciava tra i cedri del Libano e il fiume scorreva rosseggiante
verso il mare.201

Soltanto la morte di Adone consente il ritorno della vita, soltanto


l’inverno giustifica la rinascita della primavera; ciclo inesorabile, simile
a quello della Notte che incontra il Giorno senza mai soffermarsi,
scivolamento crepuscolare tra stadi contigui, assenza che giustifica
l’opposta presenza. Tramonto, dunque, come epilogo e cessazione,
luogo liminare che si interpone tra esistenza – giorno, luce, estate,
veglia – e la sua negazione – notte, tenebra, sonno. Ogni aurora deriva
da un tramonto e rende necessario un tramonto, ma non ogni tramonto
si risolve in una successiva aurora. Anche se il computo tecnico
dettato dal tempo assoluto fa iniziare la giornata nel cuore della notte,
a Mezzanotte, la durata individuale, suggerisce che essa si avvii al
risveglio, al mattino, al far del giorno. Ogni inizio di giornata fonda la
sua possibilità sul trascorso, sulla notte, sul sonno. Non diversamente,
ogni tramonto, nel terminare la giornata, suppone e prende piede sul
giorno trascorso, sulla luce che ora si affievolisce, che si protende oltre
lo stesso calar del Sole all’orizzonte, quasi tentando un’ultima resistenza
alle necessità del meccanismo dei moti terrestri. Mentre ogni aurora si
risolverà in tramonto, nulla è dato sul fatto che al tramonto, cui succede
la notte, debba poi necessariamente seguire un giorno. Senza Adone,
Diana non poteva esistere; la sua permanenza deriva dalla precedente
negazione che si risolve nella ri-nascita. Senza Diana, Adone muore,
una volta per tutte, sena ritorni, senza ri-per-correre alcun luogo,
soltanto attraversando in una sola direzione l’evento liminare della
cessazione della sua esistenza. Tramonto come luce terminale, tratto
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. Ivi, pp. 375-376.
236
Nel confine

intermedio tra un giorno e l’assenza. Ha scritto Pietro Calabrese in uno


dei suoi Moleskine, dal nome dei quaderni neri chiusi con l’elastico cari
a Hemingway, appunti di viaggio nella vita di ogni giorno:

Da sempre l’uomo sospetta che il tramonto è il momento in cui i due mondi


che ci assediano possono incagliarsi e perderci. Il mondo della realtà,
che sperimentiamo tutti i giorni, e quello ignoto che ci sta accanto di cui
conosciamo assai poco. Ne abbiamo percezione ma non conoscenza, e
questo lo fa apparire pericoloso, infido, scivoloso, oscuro. Una cosa turpe
e magnifica. [...] Nel momento in cui il sole scompare, proprio in quel
momento, in mezzo a bagliori di luce esaltanti, tra i due mondi si apre uno
squarcio. È quello l’unico istante in cui c’è una comunicazione sensoriale
tra i due universi. A qualcuno potrebbe accadere, in una vertigine di spazio
e tempo, di passare dall’uno all’altro e scomparire.202

Crepuscolo della sera come luogo di transizione verso un duplice


scenario, quello della flemmatica ripetitività imposta dai motori che
generano il tempo assoluto, oppure quello dell’imprevisto, del baratro.
Oppure la trasversalità radicale che non si applica ad alcuna rinascita
rituale, nessun eterno ritorno né circolarità: terzietà ed assoluta stabilità
nella distruzione del creato, come nel mito hittita di Telipinu, il dio che
scompare. Riferisce Mircea Eliade:

Non sappiamo per quale motivo Telepinu decida di scomparire. Forse


perché irritato dalla condotta degli uomini. Subito però si fanno sentire le
conseguenze della sua scomparsa: il fuoco si spegne nei focolari, gli dèi e gli
uomini si sentono prostrati; la pecora abbandona il suo agnello e la mucca il
suo vitello; l’orzo e il frumento non maturano più; gli animali e gli uomini
più non si accoppiano; i pascoli si seccano e le sorgenti inaridiscono. [...]
Il dio Sole allora invia alcuni messaggeri [...] ma senza successo. Alla fine
la dea Madre manda l’ape, che trova il dio addormentato in un boschetto
e lo risveglia con il suo pungiglione. Furente, Telipinu provoca tali e tante
calamità che gli dei ricorrono alla magia per calmarlo. [...] Telipinu [...]
non appartiene alla categoria delle divinità della vegetazione, che muoiono
e resuscitano periodicamente. Nonostante ciò, la sua scomparsa esime
conseguenze disastrose a tutti i livelli della vita cosmica. [...] Questo mito
si riferisce a un dramma più complesso di quello della vegetazione; esso
illustra, in realtà, il mistero incomprensibile dell’annientamento della
Creazione ad opera dei suoi stessi creatori.203

����.P. Calabrese, La vertigine del tramonto, in “Sette – Corriere della Sera”, 29 luglio
2010. Il 12 settembre 2010 Pietro Calabrese ha lasciato questo mondo. Questa citazione
è anche un omaggio all’uomo, al giornalista e al Direttore dell’autore di queste pagine.
203. M. Eliade, Storia delle credenze, cit., pp. 161-162.
237
Stefano Bevacqua

Decentramento dall’asse delle sfere dell’eterno ritorno, niente Sirene


e nemmeno pieghe e distensioni che permettono di tracciare un’armonia
o una direzione: Telipinu scarta di lato, sorprende lo stesso mondo degli
dèi di cui fa parte, scompare per arroganza e perfidia, per ingiustificata
violenza, irascibile e rissoso; Telipinu spariglia il gioco dei cerchi
del giorno e della notte, della veglia e del sonno, abolisce aurore e
tramonti perché ferma ogni durata nell’immotivato gesto vandalico
della distruzione; nichilismo precedente ad ogni sua stessa possibilità,
prima di qualsiasi pensiero la cui sottrazione apra all’abisso di un nihil;
Telipinu dice che oltre le circolarità può celarsi un luogo ulteriore,
ennesimo luogo informe e anarchico, nel quale nessuna o tutte le leggi
delle circolarità valgono o si annientano, luogo di disordine assoluto ed
insieme creativo, luogo di abissali differenze di potenziale.

238
SESTA VARIAZIONE

HERMAFRODITOS
Transizioni fase, duplicità, molteplicità

Serve un passo indietro, un ritorno alla membrana che racchiude


le cellule animali e vegetali, a quel luogo di transizione che è stato
ricordato per introdurre la pelle e discuterne caratteristiche e qualità.
La membrana cellulare presenta, infatti, caratteristiche tali da renderla
una sorta di luogo di confine esemplare, quasi capace di riassumere
tutte le declinazioni che la liminarità è in condizione di proporre.
Questo, perché essa, come si è già ricordato, è capace di trasportare ed
alloggiare elementi estranei attraverso diverse compatibili funzionalità,
che spaziano dall’adsorbimento alla veicolazione, dall’inglobamento
per invaginazione al discioglimento. Le sostanze, le molecole, dalle
più semplici ed elementari alle più complesse, come le proteine,
nell’attraversare la membrana ne vengono così, sia pur per un limitato
lasso temporale, a far parte. La membrana, nello svolgere la sua funzione,
si modifica essa stessa, perché non appare più soltanto come una struttura
fosfolipidica a doppia lamina costruita sul gioco dell’alternanza di
idrofilia ed idrofobia, ma come un oggetto assai più complesso, perché
inquinato, drogato, dalle molecole che sta trasportando all’interno
della cellula e che provengono dal mondo che la circonda, fatto da
un’infinità di altre cellule, simili o differenti, ovvero dalle molecole che
sta espellendo, per assolvere alle necessità cataboliche della cellula,
oppure per cedere le sostanze che l’organismo, di cui essa cellula
fa parte, ha richiesto per assolvere alle sue funzioni. La capacità di
albergare sostanze diverse da quelle che ne costituiscono la struttura fa
della membrana il luogo transitivo per eccellenza, capace di contenere e
delimitare, di differenziare e trasportare, di mutare aspetto e condizione
in ogni sua parte ed in ogni istante, assumendo innumerevoli possibili
differenti aspetti in funzione della sua stessa attività, mostrandosi
sempre equivoca, mai ben definita né stabilmente organizzata. Basti
ricordare le raffigurazioni schematiche che della membrana cellulare
si davano nei testi di cultura medica del passato, nelle quali ben si
distinguono i due lembi interno ed esterno della sua struttura e poi,
come sparse al di sopra o al di sotto, le molecole che la attraversano,
Stefano Bevacqua

invaginate, incuneate, legate chimicamente e come pompate all’interno


o espulse all’esterno; così disseminate, e numerose, queste molecole,
da diventare anch’esse partecipi del paesaggio che si viene a disegnare,
ingredienti a pieno titolo di un microcosmo in perenne evoluzione, al
punto di indurre modificazioni anche profonde, addirittura strutturali
della membrana stessa, che perde la semplicità di una conformazione
bi-laminare per assumere la complessità di un organismo in costante e
tumultuosa attività. Membrana cellulare che in momenti e condizioni
date può assumere caratteristiche divergenti, anomale, intermedie,
determinandosi così uno stato analogo a quello definito in chimica
come mesomorfico, a mezza strada tra lo stato liquido e lo stato solido,
come nel caso dei cosiddetti cristalli liquidi. C’è anche una schietta
somiglianza materiale, tra la struttura della membrana cellulare e quella
dei cristalli liquidi, somiglianza fondata sulla configurazione ordinata
per strati contrapposti che propongo in alternanza una faccia idrofoba e
una idrofila. A scoprirli, è stato, nel 1888, Friedrich Reinitzer, giovane
ricercatore presso l’Università di Praga. Dovendo verificare l’esatta
costituzione di un composto che stava preparando204, lo riscaldò per
verificarne la temperatura di fusione: a 145,5°C il materiale diventava
liquido, ma assumendo un aspetto opaco e vischioso, mentre a 178,5°C
si trasformava in un liquido trasparente e incolore. Reinitzer chiese
aiuto a Otto Lehmann, professore di fisica all’Università di Dresda, il
quale, constatato che ci si trovava di fronte ad un nuovo stato della
materia, coniò il termine di cristallo liquido, apparente contraddizione
terminologica, poiché l’idea che si ha di un cristallo è proprio l’opposto
della liquidità, è semmai quella di una struttura rigida, fissata nelle sue
forme e nella sua organizzazione una volta per sempre. Contraddizione
però soltanto apparente: ad una temperatura compresa tra 145,5°C e
178,5°C quel materiale assumeva un aspetto ed un comportamento
intermedio, né liquido, né solido, ma, paradossalmente, entrambi
assieme, come se dalla solidità cristallina iniziale avesse ereditato la
struttura organizzativa delle molecole e da quella quasi liquida, che
stava per guadagnare, avanzasse una fluidità inattesa, che lo rendeva
ormai soffice, modificabile nella sua forma senza intaccare la struttura
nella quale era organizzato. Le ricerche di Lehmann proseguirono
negli anni successivi, fino a individuare un’intera famiglia di composti
che presentavano caratteristiche simili a quello preparato dal giovane
Reinitzer, alcuni dei quali presentavano la caratteristica fluidità anche
a temperatura ambiente. E, come ogni intuizione scientifica che non
riesca a trovare adeguata spiegazione nella talvolta anche assai rozza
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. Il benzoato di colesterile, derivato dal colesterolo (C34H50O2).
240
Nel confine

schematicità del fare scientifico, non incontrò alcuna fortuna nel mondo
accademico e in quello industriale. Colpa di quel nome sfortunato,
cristalli liquidi, scrisse poi, alcuni anni dopo, il fisico e mineralogista
francese Georges Friedel, al quale si deve il conio del termine di “stato
mesomorfico”:

Indico, con il termine mesomorfico, proprio quei particolari stati della


materia segnalati da Lehmann a partire dal 1889 sotto il nome di cristalli
liquidi o fluidi cristallini. Sulla base di queste denominazioni, molto
sfortunate ma ripetute continuamente da oltre trent’anni, molte persone
immaginano che questi così curiosi materiali, sui quali Lehmann ha avuto
il grande merito di attirare l’attenzione, ma che ha avuto il torto di mal
denominare, non siano altro che sostanze cristallizzate, che differiscono
da ciò che erano precedentemente soltanto per il loro più o meno elevato
grado di fluidità. In effetti, si tratta di tutt’altra cosa e di qualche cosa
di infinitamente più interessante di un semplice cristallo più o meno
fluido. [...] Ciò che caratterizza i materiali di Lehmann non è il loro stato
più o meno fluido. Sono semmai le loro strutture, sempre le medesime,
estremamente particolari e non molto numerose. I materiali di Lehmann
costituiscono forme completamente nuove della materia, separate dalla
forma cristallina e dalla forma amorfa di liquido isotropo da discontinuità,
analogamente alla stessa forma cristallina e alla forma amorfa che sono
anch’esse tra loro separate da una discontinuità.205

Non è questo il luogo per approfondire gli enormi sviluppi che le


scoperte di Lehmann e Friedel hanno successivamente permesso;
interessa, piuttosto, sottolineare due elementi: che si tratta di uno stato
della materia diverso e fino a quei giorni ignoto, e, in secondo luogo,
che esso non è affatto un intermedio, non è una via di mezzo tra la
condizione solida e quella liquida, perché definito da una discontinuità,
da una rottura nella conformazione della materia, che avviene ad
una temperatura data e si mantiene, al crescere di questa, fino ad un
ulteriore preciso livello. Certamente, lo stato mesomorfico della materia
contiene in sé un qualche cosa dello stato solido e di quello liquido,
come se, abbandonando la solidità, ne conservasse una sorta di gene e,
analogamente, presentasse con anticipo quello della liquidità. Ma non è
una transizione tra solido e liquido; la transizione è definita dalla duplice
discontinuità che si osserva, a quelle determinate temperature e soltanto
ad esse, tra stato cristallino e stato mesomorfico e, successivamente,
tra stato mesomorfico e stato liquido, mentre lo stato mesomorfico in
quanto tale è semmai una fase, uno spazio intermedio ed autonomo,
����.G. Friedel, Les états mésomorphes de la matière, in “Annales de Physique”, vol. 18,
anno 1922, pp. 273-474.
241
Stefano Bevacqua

che richiede, per esistere, ciò che lo precede, il cristallo, e ciò che ne
segue, il fluido, ma che presenta, nelle adatte condizioni ambientali,
una condizione di stabilità niente affatto diversa da quella tipica del
solido o del liquido. A mutare radicalmente è l’organizzazione di questi
composti, capaci ora di aderire a superfici differenti in funzione delle
caratteristiche che possono assumere modificando la disposizione
delle molecole che li costituiscono, ora di assumere conformazioni
diverse in funzione dell’angolazione con la quale vengono colpiti da
un irraggiamento (elettromagnetico: dalle onde radio, alla luce, alle
radiazioni ad elevata energia). Un comportamento dunque non dissimile
da quello delle membrane cellulari, le quali, in effetti, presentano
anch’esse tutti i caratteri dello stato mesomorfico: non materia solida
fissamente reticolata e nemmeno liquido libero capace di occupare ogni
anfratto; piuttosto, un semifluido altamente organizzato, flessibile e
mobile, capace di mutare aspetto e condizione e di ospitare molecole
estranee; stesso disegno e natura, stessa logica di funzionamento fondata
su elementi molecolari strutturanti e parti flessibili che garantiscono
mobilità e adattamento, con analoghe alternanze tra sequenze idrofobe
ed idrofile, identica capacità di mutare forma e dimensione senza
perdere il proprio carattere strutturale. Affermare che le membrane
cellulari sono costituite da cristalli liquidi è inesatto, ma soltanto in
ragione della stessa inesattezza del termine di cristallo liquido, come
Friedel mai si stancava di ricordare, poiché, effettivamente, essi non
sono più un cristallo e nemmeno realmente sono un liquido. Le une
e gli altri, le membrane e i corpuscoli che si agitano sugli schermi di
innumerevoli apparati elettronici, sono null’altro che luoghi liminari
dotati di proprie dimensioni e temporalità, nell’ambito dei quali si
svolgono eventi di natura chimico-fisica, capaci di ospitare per brevi
istanti o per lunghi tempi elementi estranei alla loro struttura originaria
e, per questo, di fornire informazioni a ciò che racchiudono ed a ciò
che li circonda. È un cristallo liquido, ovvero: un materiale in uno stato
mesomorfico, anche la soluzione di acqua e sapone con la quale ci si
lava, la quale si organizza in un sistema lamellare con un volto idrofilo
ed uno idrofobo, ciò che permette di eliminare i grassi in eccesso che
si trovano sulla pelle una volta che, riducendo la concentrazione del
sapone nella miscela (ciò che avviene risciacquando le mani), viene
meno la conformazione mesomorfica. Così come servono 145,5°C
perché il benzoato di colesterile entri nello stato mesomorfico, così
al sapone pare necessario essere disciolto in una determinata quantità
d’acqua, al di sotto della quale il cambiamento di fase non avviene;
analogamente, il composto studiato da Reinitzer cessa di essere

242
Nel confine

mesomorfico ad una ulteriore e determinata temperatura, oltre la quale


avviene il passaggio alla fase liquida, così come la miscela mesomorfica
di acqua e sapone si trasforma in semplice liquido confuso quando la
quantità d’acqua supera un determinata soglia. Certamente, non tutti i
composti presentano simili caratteristiche. Anzi, la maggior parte tende
ad accontentarsi dei tre stati classici della materia: solido, liquido e
gassoso, ma è rilevante il fatto che il meccanismo primario che permette
la vita delle cellule e quindi della vita biologica in senso assoluto, sia
fondato proprio su questa anomalia, l’equivoco sistema mesomorfico, in
costante mutamento di aspetto e di dimensione. Come osservava Friedel,
alla situazione mesomorfica non è infatti attribuibile la definizione di
transizione di fase206, come accade quando un elemento passa dallo stato
solido a quello liquido o viceversa oppure da quello liquido a quello
gassoso e, ancora, viceversa, od anche da quello solido a quello gassoso
direttamente, ed ancora viceversa; alla situazione mesomorfica occorre
attribuire la definizione di fase, di stato, che attraverso ambiti transitivi
si congiunge a quello solido e a quello liquido. Tra l’acqua ed il ghiaccio
ed il vapor d’acqua non c’è una condizione liminare larga abbastanza
per contenere altro che le molecole dell’acqua medesima, ed anche se si
osserva come piccole particelle in sospensione, tipicamente: molecole
di cloruro di sodio, siano luogo di attrazione delle molecole di vapor
d’acqua, si tratta di un di un meccanismo di innesco della transizione
dalla fase gassosa alla fase liquida ma non di uno stato terzo, certamente
intermedio, ma discreto rispetto a quelli contigui perché differenziato
dalla discontinuità.
Al limitare tra liquido e gassoso, così come tra mesomorfico e liquido,
e in tutte le transizioni di stato che si possono discutere207, si impone
dunque una ripida discontinuità, un atto di separazione e di rottura,
una frattura, e non un’area intermedia, liminare, che riunisce ciò che
separa. Nella transizione da una fase a quella contigua non vi sarebbe
dunque alcuno spazio intermedio, nessun luogo liminare come quelli
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. Nel mondo scientifico si asserisce che gli stati della materia sono e rimangono
soltanto tre: solido, liquido e gassoso, oltre al plasma che è una condizione particolare
dello stato gassoso, nel quale tutte le molecole sono ionizzate e la carica complessiva del
sistema risulta nulla. In queste pagine si preferisce però seguire la forzatura fatta a suo
tempo da Friedel e considerare la condizione mesomorfica come una fase ulteriore che,
pur essendo apparentata a quella solida e a quella liquida, presenta caratteristiche proprie
e non osservabili in nessun’altra delle condizioni abituali.
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. Schematicamente, le transizioni di stato possono essere le seguenti: da solido a
liquido: fusione; da liquido a solido: solidificazione; da solido a gas: sublimazione; da
gas a solido: brinamento; da liquido a gas: evaporazione; da gas a liquido: condensazione.
Per i motivi indicati nella nota precedente, non esiste invece alcuna denominazione per
definire la transizione tra solido e mesomorfico e tra mesomorfico e liquido.
243
Stefano Bevacqua

che si stanno indagando in queste pagine. Soltanto le fasi mesomorfiche


avrebbero il privilegio di poter essere percorse e indagate, mentre sulla
delimitazione tra fasi non potrebbe esservi alcuno spazio misurabile, o
tempo percorribile, o esistenza fissabile. Eppure, se si scruta con più
attenzione queste delimitazioni si scorge quanto meno un sintomo di
transitività e ci si deve subito rassegnare alla considerazione che non
è tanto la natura del limite a renderlo luogo indagabile, quanto la sua
capacità di trasferire informazione. I luoghi di confine, così come li si
immagina in queste pagine, non sono necessariamente larghi abbastanza
da contenere qualche cosa o qualcuno, né devono permanere nel tempo
per un lasso sufficiente alla loro perlustrazione; essi soltanto devono
permettere il passaggio, l’inoltro piuttosto che la riflessione o la
modificazione dell’informazione.
È dunque la natura e la qualità di quest’azione di trasporto informativo
a permettere l’indagine e, con essa, la descrizione e perfino l’abitabilità
stessa di tali incomodi ed instabili ambienti. Ridefinito l’ambito entro il
quale si collocano i luoghi di confine così come li si vuole qui intendere,
subito appare come a rendere questi stessi confini capaci di suscitare
e poi fissare l’interesse dell’indagatore non sarà tanto lo spessore del
confine medesimo, ma le facce che esso riunisce e la natura dello
spazio al quale dà vita. Sotto questo profilo, tutte le transizioni, tutti i
confini, tutti gli ambiti nei quali appare un passaggio od un mutamento
dovrebbero essere considerati luoghi indagabili e descrivibili. Ciò
è vero, ma accade anche che una moltitudine di questi ambiti non
presenti qualità tali da renderli abitabili. Non basta l’evidenza della
discontinuità per aprire il confronto tra i lembi di mondo che essa
stessa identifica come differenziati; serve che si generi uno spazio ed
un tempo nel quale questo confronto possa dinamicamente apparire,
costruendo così un’informazione che non sarà la semplice replica di
quella contenuta nei due lembi di mondo in questione, ma piuttosto
diventerà informazione originale, generata dalla riunione di ciò che
è differenziato – ripiegamenti continui che confondono la volta e la
bianca del foglio, per aprire uno spazio intermedio, virtualmente capace
di contenere ciascuna informazione e di mutarla con ogni altra per
generare e subito occupare ed abitare il luogo di confine.
La ripida discontinuità che separa fase solida e fase liquida non è
ortogonale al piano del mondo; in altri termini: la discontinuità non è
una linea unidimensionale – euclidea. Essa contiene una parte di mondo
solido ed una parte di mondo liquido; un cubetto di ghiaccio non si
scioglie in un istante e la sua superficie presenta un variegato panorama
di molecole ancora legate dal reticolo cristallino mischiate ad altre

244
Nel confine

ormai libere ed in fase liquida. Esiste dunque un’area intermedia nella


quale si svolge la transizione e che vede la compresenza delle due fasi e
ciò accade in tutte le transizioni di stato. Eppure, questi, non assumono
la qualità di luoghi: la transizione è infatti già scritta, essa segue le
leggi della fisica e qualora la si indaghi apparirà ogni volta identica –
sempre che identiche siano le condizioni ambientali di contorno. Un
luogo di confine è invece sempre mutevole, non ripete mai sé stesso
in un altrove, ma pretende ad ogni occasione di essere ri-visitato, ri-
compreso, re-indagato, re-immaginato. Ogni stato mesomorfico è
pienamente luogo perché il comportamento delle molecole che lo
caratterizzano è sempre mutevole ed anche quando si ripetessero
identiche le condizioni ambientali non si potrebbe mai ripetere identica
quell’esatta configurazione spaziale, quel disegno casuale tracciato dal
movimento delle particelle di un cristallo che si fluidifica e finge di
essere un liquido. Nello stato mesomorfico, il caso entra in gioco con
una evidenza differente da quella che appare nelle volute di vapore che
si sprigionano da un liquido in ebollizione: in quest’ultimo frangente,
la distribuzione delle molecole è casuale ed irripetibile, ma la freccia
della trasformazione è indicata e produce necessariamente un passaggio
di stato; nel primo caso, quello della fase mesomorfica, si è in realtà
lontani dalla transizione, si è in un luogo complessivamente stabile,
ma suscettibile di orientarsi verso qualsiasi altra condizione – nessuna
freccia necessaria, le configurazioni possibili divengono infinite e tutte
reversibili senza mai essere ripetibili: se sullo schermo a cristalli liquidi
appaiono le lettere dell’alfabeto che vengono prescelte premendo i
corrispondenti tasti, è perché l’apparecchio gestisce opportunamente un
complesso sistema di cariche elettriche che orientano alcuni cristalli, ma
basta premere con un dito lo schermo per vedere colori e toni svanire e
riemergere sotto il governo del caso sotteso alla complessità molecolare
dell’apparente semplice gesto del premere sullo schermo con un dito.
Fluidi equivoci e caotici, che, sottoposti ad un’eccitazione, mal
volentieri si piegano alle regole fissate da un reticolo cristallino ormai
troppo lasco e fattosi sempre più debole, come nel caso dei cristalli
liquidi, quando ricompongono le loro geometrie secondo il senso di un
segnale elettrico o di una pressione meccanica, oppure come nel caso
di un liquido che stia per raggiungere la soglia dell’ebollizione, che
si vedrà cosparso di molecole della sua stessa materia ma evaporate
apparentemente anzitempo – le “bollicine” – che iniziano a disegnare
la loro danza irregolare destinata a sfociare in un caotico crescendo di
rivolgimenti. Fluidi che in quiete assumono la forma di ciò che li contiene
e li trattiene, ma che, ben si è visto, possono assumere innumerevoli

245
Stefano Bevacqua

ulteriori condizioni in funzione della natura e dell’intensità della


stimolazione cui possono essere sottoposti208. Fluidi che, in condizioni
non necessariamente lontane dalla normalità, possono assumere
comportamenti del tutto anomali. È il caso, che si è visto, dei cristalli
liquidi, ai quali si deve aggiungere la grande famiglia di quella che è
stata battezzata come “materia molle”, ma anche quello dei cosiddetti
superfluidi e dei fluidi non newtoniani. Per materia molle si intende il
grande gruppo di materiali che si trovano in una fase intermedia tra
solido e liquido e che appartengono alla classe dei colloidi, caratteristici
del fatto di vedere una sostanza finemente dispera all’interno di una
fase continua. In alcuni casi, si tratta di finissime particelle di un
liquido o di un solido che si disperdono omogeneamente in un gas,
dando così forma alla nebbia, all’aerosol, al fumo, alla polvere sospesa.
In altri casi, la fase continua è invece costituita da un solido o da un
liquido, e si generano così le schiume, le emulsioni, quali il latte o il
sangue, i sol, come le paste, i gel e le sospensioni solide, tra le quali
il vetro. In tutti questi casi le due fasi sono distinte ed evidenti e non
c’è intermedietà, almeno apparentemente, poiché le molecole finemente
disperse mantengono la loro qualità di solido o di liquido o di gas, ed
egualmente accade alla fase continua che le accoglie. Ma, in effetti, le
proprietà che questi materiali assumono perdono le caratteristiche degli
elementi miscelati. Le particelle solide disperse in un fluido non hanno
dunque più alcuna delle proprietà del solido di partenza e nemmeno
del liquido, ma semmai presentano le caratteristiche che derivano dalla
natura dei contatti che si instaurano tra le particelle medesime e tra
queste e il liquido, così come le proprietà di una schiuma non sono
quelle del liquido che forma le pareti delle celle, né quelle del gas che
le riempie, ma piuttosto quelle generate dalle interfacce che separano
il liquido ed il gas. A fare la differenza tra una schiuma e l’altra, come
quella destinata alla rasatura o la panna montana o il polistirene espanso,
è dunque il comportamento della sottile area di separazione – di confine
– che si presenta tra i due componenti del colloide. Modificando le
condizioni di fluidità di un ingrediente e quelle di coesione dell’altro, si
arriva così a generare materiali con le caratteristiche desiderate, le quali
non hanno più nulla del liquido e del solido da cui il materiale proviene,
ma assumono una condizione ulteriore – equivoca – e sempre mutevole
in ragione degli ulteriori interventi – energia – che su di essi è sempre
possibile effettuare, fino a far basculare il sistema da uno stato fluido

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. Può trattarsi di eccitazione termica, elettrica, magnetica, meccanica. In ogni caso si
tratta di energia, che si presenta in diverse forme ultime ma perfettamente equivalenti tra
loro.
246
Nel confine

ed incerto verso una nuova condizione, coesiva, più definita, ancorché


architettata in maniera spesso caotica – sistemi porosi irregolari –
perché le forze che si concentrano nelle interfacce tra i due elementi di
partenza impediscono al sistema di raggiungere uno stato di equilibrio
– quiete – nel quale le due fasi costitutive si separerebbero. Ecco che i
due costituenti sono condannati all’unione, all’intimità, all’equivocità
della composizione e del comportamento materiale, perché gli elementi
che ne risultano rimangono imprecisamente definibili – chimica e fisica
del sapone, del cemento, del vetro, della ceramica che non ammettono
di essere banalizzate da rassicuranti schematismi.
Si è detto: spesso l’addizione di energia fa basculare un elemento
o un composto da uno stato omogeneo, e chiaramente definibile, ad
una fase equivoca e critica. È l’incremento della temperatura a portare
il benzoato di colesterile dalla fase solida a quella mesomorfica. Ed
è ancora un’aggiunta di energia, di calore, che lo confina finalmente
nello stato liquido. Ma il percorso dell’anomalia potrebbe anche essere
inverso: è il caso dei superfluidi, sostanze che a bassissime temperature
perdono qualsiasi viscosità e divengono perfettamente percolanti. Ogni
fluido, liquido o gassoso, dall’acqua all’idrogeno, all’olio da tavola, al
calcestruzzo prima della presa, tende ad opporre una certa resistenza
nello scorrere attraverso pareti rigide. Questa resistenza, che si
definisce come viscosità e che è l’intuitivo reciproco della fluidità, varia
enormemente da una sostanza all’altra. Fatta pari ad uno la viscosità
dell’aria a 18°C, quella dell’acqua, alla stessa temperatura, è pari a
circa 50, quella del sangue a quasi 220, e quella di un olio lubrificante
per macchine agricole raggiunge un valore vicino a 90.000. Un fluido
ideale sarebbe del tutto privo di viscosità, ma in condizioni naturali ciò
non appare mai. A meno di ridurre drammaticamente la temperatura:
scendendo verso lo zero assoluto, a circa 2,7°K, che corrisponde
alla temperatura di -271°C, alcuni fluidi subiscono un mutamento
nell’organizzazione delle loro molecole, le quali abbandonano l’abituale
condizione di caoticità per assumere una posizione di ordine perfetto. È
il caso dell’elio liquido, che in quelle precise condizioni vede azzerata
qualsiasi resistenza allo scorrimento tra pareti rigide. La spiegazione
del fenomeno è assai complessa e si deve anzitutto ad Albert Einstein
che previde il fatto che al di sotto di determinate temperature critiche,
che dipendono dalle caratteristiche del gas, tutte le molecole tendono
ad occupare lo stesso stato quantico. Ad intervenire non è dunque
un cambiamento di densità, bensì il passaggio da un comportamento
molecolare individuale e disordinato ad un comportamento ora ordinato
perché collettivo. La diversa organizzazione del fluido, annullando ogni

247
Stefano Bevacqua

forma di resistenza allo scorrimento, permette dunque una percolazione


completa: per quanto minuscole siano le anfrattuosità, per quanto
contorti e sottilissimi siano i canali, per quanto finemente rugose siano
le superfici dei materiali che contengono questo superfluido, ogni spazio
disponibile verrà così completamente e repentinamente occupato. La
compenetrazione tra i due elementi, il fluido ed il solido che lo contiene,
apparirà dunque come un vincolo totale; nessuna parte del solido sarà
libera dal contatto del fluido: percolazione assoluta e, per conseguenza,
istituzione di una condizione equivoca, poiché si forma così una sorta
di ibrido altrimenti impossibile. Non si tratta infatti di una semplice
contiguità di fluido e di solido, ma di un’unione che coinvolge ogni
particella, ogni molecola, in tal guisa che le proprietà dell’insieme,
poiché determinate dall’interfaccia tra i due elementi, appariranno
uniche ed originali; il sistema di elementi così generato riesce ad
apparire come un nuovo materiale altrimenti inesistente.
Analogamente, non è una semplice transizione di fase quella che si
verifica nel caso di alcuni fluidi caratterizzati da una viscosità incostante
e modulata dalla velocità con la quale il fluido medesimo scorre su una
superficie solida. Sono definiti “fluidi non newtoniani” e sono privi di
una ben definita viscosità. La loro capacità di resistere allo scivolamento
può aumentare anche drammaticamente a fronte di una crescente velocità
di spostamento, oppure diminuire altrettanto drasticamente. Nel primo
caso, si è di fronte a liquidi viscosi che percossi con violenza assumono
un aspetto solido o quasi solido; nel secondo caso, accade l’inverso, e
si vedono così materiali semi-solidi liquefarsi al crescere della forza
con la quale vengono spinti su una superficie oppure all’interno di un
copro cavo. La maggior parte dei fluidi vede mutare la propria viscosità
soltanto al variare della temperatura, mentre i fluidi non newtoniani
vedono mutare la propria viscosità in relazione allo sforzo tangenziale
al quale possono essere sottoposti, in maniera tale da assumere una
conformazione anche molto diversa da quella che hanno in condizioni
di quiete. E questo mutamento di stato, ad esempio: da pastoso a liquido
oppure da liquido a quasi-solido, può non essere affatto proporzionale
alla velocità, al punto che esistono fluidi che solidificano non appena si
supera una certa soglia dinamica senza più mutare all’aumento ulteriore
della velocità tangenziale ed altri, invece, che ritornano alla fase
liquida quando si acceleri ulteriormente il loro movimento. All’inverso,
alcuni fluidi vedono una riduzione drastica della loro viscosità soltanto
a velocità crescenti. Si tratta dunque di materiali privi di una sicura
collocazione nelle tre fasi di stato della fisica classica. Fluidi equivoci,
che non rispondono soltanto ai doveri inflitti dalle condizioni termiche,

248
Nel confine

per cui la diminuzione della temperatura porta inesorabilmente alla


condensazione o al brinamento o alla solidificazione, ed il suo aumento
all’evaporazione o alla liquefazione o alla sublimazione. I fluidi di questo
genere, detti dilatanti, quando mostrano un aumento della resistenza allo
scorrimento al crescere della forza con la quale vengono spinti, oppure
pseudoplastici, quando si comportano in modo opposto, sono refrattari
a qualsiasi schematismo classificatorio, non si piegano alla semplicità
di un’osservazione superficiale. Il loro comportamento è imprevedibile:
come quando si sciogliesse nell’acqua una certa quantità di amido,
finché non risultasse piuttosto denso: si può allora inserire facilmente
un cucchiaio di legno sul composto, ma se lo si percuote bruscamente,
anche lanciandolo per terra con forza, diventa solido; oppure quando si
tenta di far colare una salsa da una bottiglietta e soltanto dando qualche
colpo veloce e intenso essa prende finalmente a scivolare; e ancora:
quando si stende una vernice, che diviene più fluida sotto l’azione del
pennello, per poi divenire molto più densa quando torna in condizioni
di quiete.
C’è qualche cosa di animato, in questi fluidi equivoci; qualche
cosa che rimanda al biologico, alla complessità di una vita, come se
questi materiali anomali, nel loro vagare tra una fase ed un altra fino
a costituirsi in una fase autonoma, che non è né il solido né il liquido,
ma insieme l’uno e l’altro, lasciassero la traccia di un inizio ed una
fine, di un avvento e di una scomparsa. Descrivendoli, diviene facile
intenderli come appartenenti più al mondo della vita che a quello dei
composti inanimati: la manciata di sospensione di fecola di patate in
acqua che, densa ma ancora liquida, sembra pietrificarsi quando la si
scaglia su un tavolo, appare misteriosamente collegarsi ad una duplice
evenienza: in prima istanza, quella di una condizione vitale di cose le
quali, in certe condizioni, assumono una conformazione ed uno stato
drammaticamente più caotico e generano così un’immagine si sé tanto
complessa da far pensare ad un dono vitale che si sia intromesso tra
quella molecole altrimenti immobili; in seconda istanza, il sovrapporsi di
questa apparente vitalità con la tendenza a riunire la diversità nell’unico
o, comunque, a permettere la convivenza nello stesso materiale di
condizioni e comportamenti altrimenti e normalmente riservati a stati
strutturalmente diversi e distinti. I fluidi equivoci, nel loro essere e non
essere solidi eppure liquidi, riuniscono queste possibilità in una sorta di
ermafroditismo materiale. Essi, nella loro incertezza, nella caoticità che
generano assumendo posizioni intermedie rispetto allo schema classico
degli stati della materia, paiono compiere un sacrilegio, smentendo la
rassicurante descrizione di un mondo costituito da elementi univoci, da

249
Stefano Bevacqua

stati riconoscibili, da dinamiche sempre prevedibili, da evoluzioni tutte


riconoscibili. Non è affatto un caso che sia stato possibile dare spiegazione
ai fenomeni della superfluidità, della materia molle, dei fluidi non
newtoniani, soltanto con l’avvento della meccanica quantistica, capace
di descrivere i fenomeni rinunciando al determinismo classico. Soltanto
accettando come ineludibile l’incertezza di ogni misura e quindi anche
di ogni considerazione e classificazione, è infatti possibile ammettere
l’equivocità di condizioni nelle quali, senza mai uscire completamente
da un luogo o da uno stato, nemmeno si approda in un altro luogo o stato
del tutto differente e si giunge così a riunire il differenziato. Ecco perché
il paragone tra i fluidi equivoci e l’ermafroditismo non è tanto ardito
quanto potrebbe sembrare. È l’elemento riunente a suggerire questa
contiguità: i fluidi equivoci non sono tali perché non sono né liquidi né
solidi, ma perché sono tanto liquidi quanto solidi, perché assumono una
condizione terza, che si colloca oltre la differenziazione e nella quale ciò
che appariva separato ed incompatibile diviene unitario. Questo accade
senza che sia cancellato o per così dire: diluito, il carattere di liquidità
così come quello di solidità. Il fluido equivoco ammette la presenza di
entrambi questi caratteri, che si possono finalmente considerare come
soltanto apparentemente antitetici. La loro compossibilità inquieta,
mette a disagio, perché il pensiero trova pace e sicurezza soltanto
nella determinazione di universi ben separati, nei quali classificare con
meticolosa attenzione ogni appartenenza, in tal guisa d’essere sempre
ben certo che ciò che appare sia sempre classificabile e, grazie a questo,
sia anche nominabile, producibile, maneggiabile, usabile, consumabile,
mentre ciò che non si lascia classificare con facilità, che non si riesce
a travasare interamente in alcuno dei contenitori nei quali è stato
suddiviso il mondo percepito ed il mondo pensato – immaginato – non
viene, per questo fatto stesso, pienamente compreso e rimane quindi
estraneo, non pienamente utilizzabile, esattamente come quella miscela
di limo, fango, paglia e sabbia sulla quale si era fondata l’isola Tiberina
nel racconto di Michel Serres. Nulla può essere fondato sull’equivocità,
nulla può essere solidamente costruito sulla base di un’incertezza
così profonda da non ammettere nemmeno di essere indicata con un
nome univoco e convincente. Si dice di “cristalli liquidi” oppure di
“materia molle”, di “superfluidi” o di “fluidi non newtoniani”: per
nominare le condizioni della materia che sfuggono alle classificazioni
si deve ricorrere alla contraddizione in termini, ad aggettivazioni
contrastanti, per generare delle piccole aporie che non trovano un
nome perché private della possibilità di avere anche un luogo, se non
quello marginale e di confine, dove si ammette, controvoglia, che

250
Nel confine

vi sia qualche cosa che raccoglie in sé le differenze sulla base delle


quali è stato costruito lo stesso sistema classificatorio. Ecco il disagio,
l’incerto denominare, ché anche le parole sono quelle di un pensare
che compartimenta rigorosamente in isole che possono essere percorse
attraverso passaggi continui – pur sapendo che è più facile navigare dal
solido, al liquido, al gassoso, piuttosto che mutare di sesso – ma che
non possono essere abitate contemporaneamente. Ecco che o è cristallo
o è liquido, o è maschile o è femminile, mai l’uno e l’altro uniti. Sorte
strana, questa, se ben ci si riflette, poiché l’origine di ogni storia, e di
ogni pensiero che tenti di ricondurla, inizia proprio dall’unità, dall’unico
assoluto che tutto deriva, dalla totalità che racchiude in potenza ogni
possibilità. Quasi la vicenda del pensiero occidentale, almeno da un
punto in poi, abbia in realtà tradito quell’idea di unicità originaria nella
quale ciascun elemento trovava fondamento e causa e che quindi tutti
li riassumeva in potenza, per adagiarsi in una più confortevole visione
schematizzata, nella quale, dopo aver operato la distinzione primaria tra
soggetto e percepito, si è proceduto a suddividere il mondo attraverso
rigorose qualità. L’unico si è quindi sciolto nel diverso, ove ciascuna
entità si definisce per differenza da ogni altra, tanto da porre questa, la
differenza, come la sola qualità identificante, che permette quindi anche
di nominare – e conoscere, usare e consumare.
Non è questa la sede – né del resto simile sforzo sarebbe forse molto
proficuo – per fissare il punto preciso, nell’evoluzione del pensiero
occidentale, nel quale si sarebbe verificato questo basculamento del
pensiero, da una visione unitaria, nella quale l’essere ha piena cittadinanza
come tale, ad un quadro di completa segmentazione, nel quale l’identità
di ogni elemento, in quanto definito per differenziazione, si fonda
soltanto sulla sua percepibilità o adeguata e corretta immaginabilità
– se si vuole ricorrere alla terminologia heideggeriana nella sua più
corrente traduzione italiana: si fonda esclusivamente sull’ente. E
proprio Heidegger sembra per primo rinunciare a indicare il punto di
svolta, lasciando così intendere che la costruzione dello schematismo
delle appartenenze è forse il frutto di un lungo evolvere del pensiero
occidentale a partire da Platone. Scrive Heidegger:

Ma allora il “mito della caverna” non tratta propriamente dell’alètheia?


Certamente no. E tuttavia non c’è dubbio che questo “mito” contiene la
“dottrina” platonica della verità. Infatti esso si fonda sul processo non detto
attraverso cui l’idèa diviene padrona dell’alètheia. [...] L’alètheia cade
sotto il giogo dell’idèa. Quando Platone dice, a proposito dell’idèa, che
essa è la sovrana che consente lo svelamento, egli rinvia a qualche cosa di
non detto, e cioè che d’ora in poi l’essenza della verità non si dispiega più

251
Stefano Bevacqua

come essenza della svelatezza a partire da una propria pienezza essenziale,


ma si trasferisce nell’essenza dell’idèa. L’essenza della verità abbandona
il tratto fondamentale della svelatezza. [...] Così dirigendosi, l’apprensione
si conforma a ciò che deve essere veduto. Questa è l’”e-videnza” dell’ente.
Per effetto di questo adeguarsi all’apprensione in quanto idèin all’idèa,
si costituisce una omoìosis, una concordanza del conoscere con la cosa
stessa. In questo modo, dal primato dell’idèa e dell’idèin sull’alètheia
nasce un mutamento dell’essenza della verità. La verità diventa orthotes,
correttezza dell’apprensione e dell’asserzione.209

La strada che mena dall’unico al differenziato, che viene colto


attraverso asserzioni ed apprensioni fondate su un’organizzazione
che garantisce sempre la corrispondenza – l’appartenenza alla classe
generata dalla differenziazione –, questa strada, dunque, dura più di
due millenni. Essa appare soltanto relativamente omogenea, perché
costellata da eresie continue ancorché insufficienti a proporre un bivio
– un’altra strada percorribile. Ed il suo esito è quello conosciuto, di
un mondo ordinatamente incasellato, nel quale si deve attribuire
il nome esatto ad ogni cosa, mondo che non apprezza le anomalie e
nel quale l’equivoco, l’incerto, soprattutto: ciò che riunisce elementi
ormai talmente differenziati da apparire incompatibili e dunque separati
da una netta cesura, genera turbamento ed ansia che si traducono
nell’iniziale discredito gettato sull’emergente anomalia, cui segue, di
norma, una faticosa accettazione, fino all’inglobamento dell’anomalia
medesima in una nuova categoria del mondo, faticosamente costruita,
spesso usando terminologie contraddittorie – cristalli liquidi – che mal
celano il malessere generato da equivocità che non si prestano alla
schematizzazione. L’ansia che queste equivocità sono capaci di generare
non deriva tanto dal loro collocarsi ai margini, nei luoghi di confine, sul
crinale della differenziazione, quanto dal loro riunire equivocamente
ciò che era stato separato chiaramente. Ogni condizione che possa
indicare un ricomporre l’incompatibile, fosse anche soltanto come
tendenza oppure come semplice occasionalità, significa proporsi in un
luogo che non è abitualmente e, soprattutto, legittimamente praticato.
Frequentare il luoghi di confine potrebbe non essere lecito, potrebbe
costituire sacrilegio. Solo ad un dio è permesso di riunire ciò che esso
stesso ha separato. Nel libro della Genesi, Dio crea il mondo separando
la luce dalla tenebra, la terra dalle acque e dal cielo, e soltanto al termine
della sua immane fatica crea l’uomo, e lo plasma a propria immagine
e somiglianza, quindi come unico, come entità che riassume ogni
possibilità, compresa, naturalmente, la donna, che sembra sorgere come
����.M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Segnavia, cit., pp. 184-185.
252
Nel confine

differenziazione dell’unità. Il maschile ed il femminile hanno dunque


un passato unitario, indifferenziato, nel quale si riunivano entrambi
gli elementi. Ed era questione di un mondo che precedeva la caduta: il
Paradiso, nella tradizione biblica, l’Età dell’Oro, in quella greca, luoghi,
entrambi, nei quali l’uomo e il suo dio o i suoi dei avevano familiarità
e comunanza, ché albergavano nello stesso spazio. Un mondo che,
sotto un certo profilo, assomiglia forse più al chaos che al kosmos, non
tanto per un carattere di disordine e di indeterminatezza, quanto per
una differenziazione dell’unico che sembra avere compiuto soltanto
i primi passi, quelli che generano Gaia e da questa – senza unirsi a
nessuno, come fosse essa stessa unità del maschile e del femminile –
Urano, con il quale vennero alla luce i Titani e poi Crono che armato del
falcetto luccicante fissò una volta per tutte la differenza. Dal momento
in cui Crono riuscì a staccare Urano da Gaia, la differenza tra maschile
e femminile si afferma, ma come necessità – quella di permettere
agli innumerevoli figli che la dea generava di uscire dal suo grembo,
completamente avvolto da Urano, in una sorta di penetrazione totale e
perenne – e non certo, invece, come imposizione divina. Nel Paradiso
e nell’Età dell’Oro, l’uomo è contiguo agli dei e questo gli consente di
avvicinarsi all’unico e, almeno in parte, di farlo proprio, di “indossarlo”.
Il mito ci dice, addirittura, che l’uomo era l’un sesso e l’altro e che
la sua caduta avviene in conseguenza del dissennato gesto di Pandora,
la prima donna, creata da Zeus per punire l’uomo che aveva osato
impadronirsi della conoscenza – il fuoco di Prometeo. Pandora aprì il
vaso e tutti i mali del mondo si riversarono sull’umanità. Fine dell’Età
dell’Oro, inizio della sofferenza, del dolore, degli stenti, della fame e
della sete. Soprattutto: inizio della mortalità e termine dell’unicità di
maschile e femminile. Nella narrazione biblica i passaggi sono simili:
il frutto proibito, la donna che induce l’uomo al sacrilegio, la cacciata
– ormai per sempre in coppia – dal Paradiso giù verso la terra ove la
vita ha sempre una cessazione. Età dell’Oro e Paradiso erano luoghi
a-temporali, nei quali l’immortalità era data soltanto agli dei, mentre
all’uomo rimaneva da godersi un eterno presente, nel quale era ancora
ammesso di appartenere ad un ordine unitario, precedente alla seconda
separazione (essendo la prima l’atto stesso della creazione dell’uomo),
quella tra maschile e femminile, foriera di ogni sventura e soprattutto
dell’avvento della temporalità e con essa della nascita e della morte.
Nel Simposio, Platone fa descrivere ad Aristofane l’arcana situazione
per cui la differenziazione tra il maschile ed il femminile era avvenuta
soltanto in parte:

253
Stefano Bevacqua

Innanzi tutto, i generi degli uomini erano tre, e non due come ora,
ossia maschio e femmina, ma c’era anche un terzo che accomunava i
due precedenti, di cui ora è rimasto il nome, mentre esso è scomparso.
L’androgino era, allora, una unità per figura e per nome costituito dalla
natura maschile e da quella femminile accomunate insieme, e nella forma
e nel nome, mentre ora non ne resta che il nome, usato in senso spregiativo.
Inoltre, la figura di ciascun uomo era tutta intera rotonda, con il dorso e
i fianchi a forma di cerchio; aveva quattro mani e tante gambe quanto
mani, e due volti su un collo arrotondato del tutto uguali. E aveva un’unica
testa per ambedue i visi rivolti in senso opposto, e quattro orecchie e due
organi genitali. […] Perciò i generi erano tre e di queste nature, in quanto
il maschio aveva tratto la sua origine dal sole, la femmina dalla terra e
il terzo sesso, che partecipa della natura maschile e di quella femminile,
dalla luna, la quale partecipa della natura del sole e della terra.210

Bizzarra descrizione, di esseri bisessuati e dalla forma sferica, che


ricordano assai l’uovo primigenio, che in potenza contiene entrambi
i generi di maschile e di femminile i quali non sono ancora giunti a
differenziarsi per far emergere infine l’uno o l’altro come dominante.
Uovo cosmogonico nel quale molte tradizioni religiose arcaiche del
Mediterraneo orientale fissavano l’origine di ogni cosa, prima degli dei
medesimi o, almeno, di quegli dei con i quali è stata dipinta la mitologia.
L’essere sferico ed indistinto di Platone coincide con l’uovo dei Fenici e
con il chaos. La vita e, con essa, la realtà, ovvero ciò che l’uomo antico si
premurava di asserire come tale, come kosmos, in contrapposizione alla
precedente organizzazione del mondo – ché comunque di organizzazione
si trattava, anche nel caso dell’uovo o del chaos – dunque questa realtà
percepita è resa possibile proprio dall’azione segregante, separante,
differenziante, alla quale fa necessariamente seguito la definizione delle
appartenenze e quindi la loro denominazione – cristallo o liquido, solido
o fluido. Da una parte, dunque, l’esistenza stessa in quanto percepibile
pretende la separazione, la differenziazione dall’unità originaria –
divina; dall’altra parte, ogni riunificazione successiva assume in sé
il rischio del sacrilegio e il suo eventuale compimento deve essere
circoscritto nell’ambito della sacralità. Mircea Eliade vede in gran parte
dei riti della mitologia e delle comunità arcaiche il segno evidente della
ricerca di una totalità, di una regressione all’indistinto:

Morfologicamente, i travestimenti intersessuali e l’androginia simbolica


sono omologabili ad orge cerimoniali. In ciascuno di questi casi si deve
constatare una “totalizzazione” rituale, una reintegrazione dei contrari,
una regressione all’indistinto primordiale. Insomma, si tratta di una
����.Platone, Simposio, 189 E – 190 B, cit., p. 500.
254
Nel confine

restaurazione simbolica del chaos, dell’unità non differenziata che


precedeva la creazione, e questo ritorno all’indistinto si traduce in una
suprema rigenerazione, in una crescita prodigiosa di potenza.211

La “reintegrazione dei contrari” può dunque avvenire soltanto nella


sacralità: al di fuori del campo divino e sacerdotale, essa è sacrilega,
oppure appare come cosa incomprensibile, perché fuori dai rigori della
differenziazione, e come tale inaccettabile. Da una parte, evidente
appare la pulsione verso l’unità più antica, che trova ragione nel dio e
pratica nella sacralità; dall’altra, tutto ciò che appare equivoco e capace
quindi di riunire in sé elementi inconciliabili genera ansia perché si
presenta fuori dal canone della sacralità – quasi fosse una inattesa e
quindi inaccettabile manifestazione del divino. È ancora Mircea Eliade
a indicare come il seme comune di innumerevoli comportamenti
religiosi risieda proprio nella coincidentia oppositorum, nell’unitarietà
precedente alla differenziazione, alla quale l’uomo può soltanto aspirare
in termini religiosi, mai concreti:

In termini generali, si può dire che tutti questi miti, riti e credenze hanno
lo scopo di ricordare agli umani che la realtà ultima, il sacro, la divinità,
superano la loro possibilità di comprensione razionale, che il Grund è
coglibile unicamente in quanto mistero e paradosso, che la perfezione
divina non deve essere concepita come una somma di qualità e virtù,
ma come una libertà assoluta, al di la del Bene e del Male; che il divino,
l’assoluto, il trascendente si distinguono qualitativamente dall’umano, dal
relativo, dall’immediato perché non costituiscono né particolari modalità
dell’essere, né situazioni contingenti. In una parola, questi miti, riti e teorie,
implicando la coincidentia oppositorum, insegnano agli uomini che la via
migliore per essere timorati di Dio o della realtà ultima è di rinunciare,
non fosse che per qualche istante, a pensare e a immaginare la divinità in
termini di esperienza immediata.212

Di necessità, dunque, ciò che sembra far apparire la riunione di ciò che
da tempo immemore è stato differenziato e posto quindi in opposizione
secondo l’universale schema binario, apparirà come sospetto e sinistro,
a meno che non venga proposto all’interno di un rito o di una preghiera,
comunque in un ambito che, per così dire: permetta di sollevarsi
dalla terrenità per levitare almeno un poco sopra di essa. E ciò non
per rendere materiale quella possibilità di riunione, bensì, e proprio
all’opposto, per scongiurare la sua reale possibilità, rifugiandola in un
limbo costruito con la potenza dell’immaginazione unita all’emozione
. M. Eliade, Méphistophélès et l’androgyne, Gallimard, Paris 1962, p. 164.
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. Ivi, p. 117.
255
Stefano Bevacqua

– limbo il quale, in questo ambito, meriterebbe esso stesso un’indagine


di dettaglio. La stessa differenziazione, infatti, riesce ad assumere un
carattere di sacralità, in quanto a volerla e a definirla è la stessa divinità.
Così che l’uomo, nella sua caduta terrena, porta con sé proprio quella
differenziazione che ha coinciso con la separazione dal divino. Adamo
scende sulla terra del dolore, della paura e della fatica scacciato dal
Paradiso terrestre in compagnia di Eva. Il male si è generato con la
differenziazione, ma Dio si è ben guardato di perdonare, rimettendo
al suo posto la costola dispari che aveva sfilato dal costato del primo
uomo; anzi, lo sanziona con la massima delle punizioni, quella che sarà
subita dall’umanità intera per l’intera sua esistenza e fino al Giudizio
Universale: l’introduzione della temporalità, la fine dell’eterno presente
che diviene un presente sempre sfuggente, destinato ad essere infine
inghiottito nel gorgo della cessazione della vita, la quale diviene essa
stessa tempo. I miti e le credenze riferiscono, anche se in modi spesso
molto diversi, questo comune elemento del peccato e della successiva
eterna punizione. Il peccato assume innumerevoli forme, dal piacere
simbolizzato dal frutto e dal serpente tentatore che lo offre alla
conoscenza rappresentata dal fuoco prometeico, ma comunque rinviano
ad un tentativo di emancipazione dell’uomo dal divino: il sacrilegio sta
proprio nel fatto di rifiutare l’unitarietà che solo la divinità presenta
a garantisce e la punizione consiste nella differenziazione definitiva.
Così Zeus, per punire l’umanità da lui creata e che osava pretendere
la propria emancipazione dallo strapotere divino, la divide in due, nel
maschile e nel femminile. Platone:

“Mi pare – disse Zeus – di avere a disposizione un mezzo che permetterebbe


che gli uomini possano continuare ad esistere e, divenuti più deboli,
cessino di essere così sfrenati. Infatti, ora, io li taglierò ciascuno in due,
cosicché da un canto, essi saranno più deboli, e, dall’altro canto, saranno
più utili a noi, perché diventeranno maggiori di numero”. […] Dopo aver
detto questo, tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe
per farle essiccare, o come quelli che tagliano le uova con un crine. E
per ciascuno di quelli che tagliava, dava incarico ad Apollo di rivoltare la
faccia e la metà del collo verso la parte del taglio, in modo che l’uomo,
vedendo questo suo taglio, diventasse più mansueto, e gli dava anche
ordine di risanare tutte le altre parti. E Apollo rivoltava la faccia, e, tirando
da ogni parte la pelle su quello che oggi viene chiamato ventre, come si fa
con le borse che si contraggono, le legava nel mezzo del ventre, facendo
una specie di bocca, il che ora si chiama ombelico. […] Allora, dopo che
l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando
fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla. E gettandosi
attorno le braccia stringendosi forte l’una all’altra, desiderando fortemente

256
Nel confine

di fondersi insieme, morivano di fame e di inattività, perché ciascuna delle


parti non voleva fare nulla separata dall’altra.213

Punizione orribile, che avrebbe potuto mettere a repentaglio la


stessa capacità di questi esseri ormai smembrati di adorare e sacrificare
adeguatamente gli dei. Zeus ebbe dunque compassione e spostò sul
davanti gli organi sessuali. Ebbe così inizio la riproduzione della stirpe
umana, ché – spiega ancora Platone – “prima deponevano il concepito
come le cicale”214.
È bene ricapitolare: la separazione del maschile e del femminile
non è la prima separazione, niente affatto. Semmai è l’ultima, quella
che precede – o coincide – con la caduta. Dio – gli dei – ha per prima
cosa diviso terra e cielo e acque, giorno e notte, e soltanto infine ha
creato l’uomo e dividendolo lo ha condannato alla sofferenza, al
tempo che scorre. Nella lettura dei testi e della loro critica sembra
emergere un’incertezza: se la caduta sia causata dalla differenziazione
oppure se essa sia la conseguenza della prima, a sua volta causata da
un ulteriore ragione. Sembra così nel racconto di Platone, ché Zeus si
diletta a dividere gli uomini, così torturandoli, per punirli della loro
presunzione ed arroganza. Ma non è così nel Genesi, quando la caduta
è evidentemente provocata dalla metà che deriva dalla differenziazione.
Ciò non è senza importanza, perché nel primo caso la differenziazione
è causa immediata della sofferenza, mentre nel secondo essa è causa
della punizione che a sua volta genera sofferenza. Nel primo caso, non
c’è salvezza possibile, poiché la divisione è ormai operata e nessun
ripensamento benevolo potrebbe risolverla, tanto che Zeus, divenuto
compassionevole, si limita a spostare sul davanti gli organi sessuali,
per incontri più fruttuosi e capaci di dare stirpe all’umanità. Nel
secondo caso, invece, la salvezza è nelle mani di Dio, ed essa, se del
caso, si manifesterà verso ciascuno il giorno del Giudizio, quando tutta
l’umanità uscirà dal tempo che trascorre per essere divisa – ancora una
differenziazione – tra chi meriterà un eterno presente avvolto nella
gaiezza e chi un altrettanto eterno presente nel dolore. Nel primo caso,
l’uomo risulta condannato alla sua quotidiana immanenza e precluso
sarà ogni accesso alla verità – intesa come svelamento che permette di
intuire ciò che si propone oltre la materialità dell’ente percepito o di
quello immaginato. Nel secondo caso, rimane aperta una speranza, uno
spiraglio, attraverso il quale tentare di sporgersi oltre, per cogliere almeno
alcuni indizi di verità. Con ciò non si vuole intendere che la credenza

����.Platone, Simposio, cit., 191 A – 191 C


����.Ibidem.
257
Stefano Bevacqua

cristiana sia superiore ad altre e per ciò giusta in relazione ad una sua
presunta capacità di svelamento, ma soltanto che l’atteggiamento ideale
sotteso a questa credenza appartiene in maniera esemplare ad un modo
di concepire il mondo come non interamente e semplicemente inscritto
nella constatazione percettiva delle evidenze. Constatazione alla quale
consegue la necessaria scissione tra soggetto ed oggetto e la successiva,
e altrettanto necessaria, classificazione degli oggetti del mondo secondo
criteri stabiliti a priori, prima della percezione medesima, in base ad
un procedere che già contiene i risultati nelle proprie premesse. Un
procedere, questo, che di fronte all’equivoco di un cristallo che assume
le qualità di un fluido, ad un fluido che si irrigidisce fino a divenire
solido, ad un essere che riassume la differenziazione fatale del maschile
e del femminile, non può che rimanere afono, come se il mondo avesse
tradito le sue giuste aspettative proponendo la diversità invece del
previsto ordine, l’equivocità di ciò che non può essere classificato
invece della tranquillizzante sistemazione di ogni tessera del mosaico
nel posto ad essa preliminarmente destinato. Si è già constatato, del
resto, come la riunione nell’uno sia cosa del divino soltanto, che
l’uomo può certamente onorare e perfino imitare, come nelle cerimonie
religiose e nei riti – la stessa eucarestia può essere considerata come
un atto di riunione simulata, quella tra il corpo di Cristo, inteso come
materiale umanità del divino in terra, e il credente. Soltanto un dio,
infatti, può riassumere in sé ciò che egli stesso ha diviso, risalendo, per
ricongiungimenti successivi, dalla riunione del maschile e del femminile
per finire con quella cosmologica della terra e del cielo fino al chaos
primitivo. Nessuna meraviglia, dunque, che l’essere che per eccellenza
simboleggia la riunione di maschile e di femminile, Hermafroditos,
fosse egli stesso un divino, in quanto figlio di Hermes e di Afrodite e
che il suo divenire uomo e donna insieme avvenga attraverso una sorta
di perfusione tra il suo corpo – e la sua anima – e quella di un’altra
divinità, la Naiade Salmacide, come in un amplesso eterno, dal quale
nessuno potrà più riprendere la propria identità. Soltanto un dio poteva
sfidare la differenza ponendosi come equivocità, soltanto una dea poteva
attribuirgli quella metà di essere che la divisione primigenia gli aveva
sottratto. Eppure Hermafroditos non è affatto felice: è cantato da Ovidio
come vittima del desiderio della Naiade ed il suo nuovo stato, il suo
cadere o assurgere all’equivocità che lo riporta alle origini dell’uomo,
non sembra affatto costituire motivo di piacere o di orgoglio.215

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. “Dentro le grotte dell’Ida le Naiadi allevarono un fanciullo nato a Mercurio dalla dea
di Citera. Il suo aspetto era tale, che vi si ravvisavano sia la madre che il padre; e anche
il suo nome era formato con i loro nomi. Non appena compì tre volte cinque anni, lasciò
258
Nel confine

Gioco tra dei, divine cattiverie, ché è Zeus che accondiscende


e accontenta la Naiade Salmacide, che spende così il giovinetto
quindicenne per il vezzo di una ninfa accecata dal desiderio. È il ritorno
all’uno, ma quasi per scherzo, certamente non per un qualche destino.
Ecco, forse è soltanto un errore, nel senso di un gesto superficiale, quello
della Naiade che chiede aiuto al cielo, e ancor più superficiale quello
di Zeus che la accontenta, senza alcun reale motivo. Riunione dunque
casuale, inutile, che si narra con un imbarazzo che mal cela il disagio
e insieme la pulsione emotiva, il turbamento ed il desiderio. Desiderio,
forse, di superare gli steccati delle classificazioni, di sporgersi oltre il
limite delle quotidiane evidenze per sperimentare l’equivocità, come
quella racchiusa da una miscela che possa continuamente mutare la sua
fase da solido a liquido, passando per indeterminabili condizioni nelle
quali non sia nell’uno né l’altro e tutti e due al tempo stesso, appare
magistralmente racchiusa in un frammento di Eraclito. Si tratta del
frammento 125 nella classificazione Diels-Kranz, ripreso da Giorgio
Colli con differente identificazione: “Anche il ciceone si disgrega, se
non è agitato”216. Nel ciceone è contenuta una miscela difficilmente
immaginabile come fluido omogeneo e nemmeno come sospensione,

i monti natii [...] vide un laghetto, limpido e rilucente fino al fondo. […] Vi abita una
Naiade, ma non una brava a cacciare o avvezza a curvare l’arco o a fare gare di corsa: è
l’unica Naiade che la veloce Diana non conosca. […] Spesso raccoglie fiori e anche quella
volta per caso ne raccoglieva, quando vide il fanciullo e, vistolo, desiderò di averlo. […]
“O fanciullo degnissimo di essere preso per un dio, se sei un dio puoi essere Cupido, e
se sei mortale, beati coloro che ti hanno generato, felice tuo fratello e fortunata davvero
tua sorella, se ne hai una, e la nutrice che ti offrì le mammelle, ma infinitamente beata più
di tutti colei che è tua fidanzata, se hai una fidanzata, se a qualcuna concederai l’onore
di sposarla! Se ce l’hai sia questa un’avventura furtiva, ma se non ce l’hai, scegli me ed
andiamo ad unirci nello stesso letto”. […] “La smetti? – disse il giovane – Altrimenti
scappo e lascio te e questo posto!”. La Naiade Salmacide si spaventò e rispose: “Questo
posto te lo lascio libero, straniero”, e voltate le spalle, finse di andarsene, sempre però
girandosi indietro a guardarlo, e inoltratasi in una macchia si appiattò tra gli arbusti,
inginocchiata. […] “Evviva, è mio!”, esclama la Naiade, e gettatasi via tutte le vesti si
slancia in mezzo all’acqua e afferra l’adolescente che si ribella, gli strappa forza dei baci,
gli infila sotto le mani e gli palpa il petto. […] “Dibattiti pure, cattivo, ma tanto non
sfuggirai. O dei, fate che mai venga il giorno che lui si stacchi da me e io da lui!”. La
preghiera trova degli dei che acconsentono: e infatti i corpi dei due si mescolano e si
fondono, si amalgamano in una sola figura. Come quando si rivestono due rami con un
pezzo di corteccia, col tempo li vedi saldarsi e crescere insieme, allo stesso modo, una
volta unitesi le membra in un intreccio tenace, non sono più due ma una forma duplice,
e non puoi più dire se sia femmina o maschio fanciullo, non sembrano nessuno dei due
e sembra tutt’e due”. [Ovidio, Metamorfosi, IV, 288-379, Einaudi, Torino 1979, pp. 147-
151].
����.G. Colli, La sapienza greca, cit., 14[A 6].
259
Stefano Bevacqua

perché costituita da elementi assolutamente eterogenei, per il loro stato


di liquidi e di solidi, per la loro reciproca permeabilità, per la loro
consistenza. Si dice che il ciceone raccogliesse numerosi ingredienti,
quali orzo, miele, vino, acqua, formaggio, segale cornuta217, menta, più
altre erbe, sicuramente sale ed essenze piccanti. Per quanto si possa
spremere l’orzo e la segale, si possa schiacciare e passare il formaggio
tentando di scioglierne la materialità fino a renderlo fluido o, piuttosto,
semi-fluido, per quanto si tenti ridurre delle foglie in un materiale
che nella miscela miele-acqua-vino possa porsi in sospensione – che
poi è ancora un ostinato rifiuto ad assumere la fase dell’elemento
dominante e ricevente, la miscela fluida, appunto – per quanto si tenti di
frullare il tutto, sempre si avrà davanti allo sguardo una scompaginata
compresenza di elementi irriducibilmente antagonisti, i quali, però,
agitati intensamente e continuamente, possono essere così fittamente
mischiarsi nei loro elementi più minuti da lasciar pensare ad un
composto univoco e stabile. Il ciceone, assume una duplice forma: da
un lato permane come sommatoria di materiali ed ingredienti tra loro
permeabili e antagonisti – solido versus fluido –, dall’altro lato diviene
un elemento relativamente e temporaneamente omogeneo. Questo grazie
all’agitazione, la quale consiste in una aggiunta di energia che riesce a
modificare, per il tempo della sua aggiunta e per pochi istanti una volta
che l’aggiunta ha fine – fino al depositarsi dei diversi ingredienti solidi
l’uno per proprio conto nel recipiente. Determinante è dunque l’aggiunta
della funzione agitatoria, ma importante è anche il fatto che essa non
produce affatto risultati stabili, bensì soltanto temporanei e strettamente
proporzionali all’intensità con la quale viene introdotta – applicata.
Eppure, quando il cicerone è agitato assume una configurazione
omogenea. È una condizione effimera, ma ripetibile infinite volte. Se
si costruisse una macchina che agita perennemente i suoi ingredienti si
avrebbe dunque un ciceone perennemente omogeneo, fluido miracoloso,
fruibile e bevibile. E quando la macchina che lo agita si fermasse, la
condizione del ciceone di nuovo muterebbe, per tornare allo stato di
confuso miscuglio. Ma sarebbe un errore limitare l’osservazione a
queste due condizioni, diciamo così: estreme, quella del ciceone che
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. Per segale cornuta si intende il comune cereale quando sia infestato da un fungo
ascomiceta denominato Claviceps purpurea. Il fungo genera numerosi alcaloidi velenosi,
dotati di una forte azione vasocostrittrice e capaci di interferire con il sistema nervoso
centrale. Alcuni di questi alcaloidi, genericamente designati come ergot, sono simili,
per composizione, all’acido lisergico, ingrediente principale dell’LSD, l’allucinogeno
sintetizzato negli anni Sessanta nei laboratori della Hofmann - La Roche. L’assunzione
di bevande contenenti ergot viene fatto risalire all’antichità, quando venivano utilizzate
durante riti dionisiaci.
260
Nel confine

appare come soluzione omogenea e quella del medesimo intruglio


che si manifesta per essere la semplice giustapposizione di ingredienti
tra loro incompatibili ed antagonisti. Perché esiste, infatti, anche una
gamma virtualmente infinita di possibili condizioni intermedie, che,
dalla mistura nella quale ogni elemento appare ben differenziato da ogni
altro, porta, attraverso gradi intermedi, fino alla soluzione omogenea.
Ad intervenire lungo questa oscillazione tra i due stadi estremi e,
quindi, a fissare le singole condizioni di intermedietà, sono due distinti
fattori, tra di loro antagonisti e che, pure in questo stesso antagonismo
ed anzi proprio in ragione di esso, convergono nel fissare ogni specifico
stato del ciceone: l’agitazione e la calma, dove la prima è il movimento
impresso al contenitore al fine di miscelarne nel più intimo dettaglio gli
ingredienti del contenuto, mentre la seconda, che si manifesta quando
le particelle della miscela rallentano il loro moto vorticoso per assumere
gradualmente infinite possibili posizioni intermedie, le quali, a loro
volta, richiamano ad altrettanti stati intermedi della miscela, non è altro
che la forza gravitazionale che tende ad arrestare il moto vorticoso
impresso con l’agitazione. L’azione congiunta di questi due elementi
antagonisti comporta una successione continua di condizioni in funzione
del tempo. Il crescere ovvero il decrescere del movimento vorticoso
del materiale contenuto nella miscela, che si verifica all’aumentare
dell’agitazione ovvero al predominare dell’attrazione gravitazionale,
determina stati che devono essere osservati – e misurati – secondo due
parametri essenziali e sempre entrambi necessari: il livello – ascendente
o decrescente – di omogeneità del composto e il tempo nel quale questo
livello viene considerato. Ad ogni frazione temporale precedente o
successiva si osserva, infatti, un diverso livello di omogeneità, stabilito
dalle due tendenze antagoniste della forza di agitazione e di ritorno
gravitazionale alla quiete. Si può dunque bene raffigurare come i due
elementi antagonisti producano una convergenza che fissa nell’istante
temporale dato un determinato valore di omogeneità del miscuglio.
Nulla di aporetico in questo antagonismo convergente, niente affatto;
anzi, è esattamente la collaborazione, apparentemente paradossale
e impossibile dei due elementi in azione contrapposta a proporre il
risultato. Ciò consente di leggere un secondo frammento di Eraclito con
una massima libertà ed apertura: “Ciò che si oppone converge, e la più
bella delle trame si forma dai divergenti; e tutte le cose sorgono secondo
la contesa”.218
La contrapposizione, l’antagonismo genera la convergenza. Non è un
ritmato ritorno circolare, per il quale ogni elemento genererebbe sempre
����.G. Colli, La sapienza greca, cit., 14[A 5].
261
Stefano Bevacqua

il suo necessario contrario, cui cedere poi il passo e riconquistando infine


la posizione precedente. Non è un circolo, nessun ritorno alla sintesi
primaria, bensì un convergere generativo di elementi contrapposti, come
una sorta di vortice, il quale, collocato in una parte dell’universo che nella
sua interezza tenderebbe verso l’appiattimento di ogni differenziazione
– e con essa di ogni informazione –, diviene capace di un’inattesa qualità
poietica. La più bella delle trame non si genera in un tessuto nel quale
non vi fosse un divergente ordito; la duplicità, anzi: la molteplicità degli
elementi in opposizione – opposizione in realtà soltanto logica – è la
condizione necessaria del mutamento; il mutamento è il germe della
continuazione nel tempo, da intendersi non come prosecuzione pre-
vista di un processo di cui già si conosce l’esito, bensì come indeciso
procedere lungo una delle innumerevoli strade che si affacciano in ogni
momento ad ogni fenomeno, a ciascun soggetto – ad ogni attimo micro-
fisico così come a ciascun essere umano. Ed è in questo procedere
soltanto apparentemente disordinato che si fissano tutte le successive
identità che attengono ad ogni fenomeno ed a ciascun soggetto. Ancora,
è Eraclito a dirlo, nel frammento che precede i due fino a qui riportati:
“Non comprendono come, disgiungendosi, con se stesso si accordi: una
trama di rovesciamenti, come quella appunto dell’arco e della lira”.219
A permettere il generarsi del nuovo è la trama dei rovesciamenti che si
sviluppo su un ordito di riferimenti, ciò che rende creatrice la funzione
del disgiungersi che genera a sua volta l’accordo. Nulla, dunque, è
meccanicamente prevedibile, ma soltanto può e deve essere seguito nel
suo mutevole evolversi, che confermerà i suoi esiti in un mutamento che
non contraddice alcuno dei presupposti perché, anzi, ne fa uso complesso
e generativo. In altri termini: il ciceone, una volta cessata l’agitazione,
torna ad assumere il suo aspetto primario, quello di un disomogeneo
composto nel quale i diversi ingredienti non si miscelano e rimangono
ben distinti; ma nell’evoluzione che l’agitazione induce ed in quella
che si avvera quando, cessata l’agitazione, il ciceone torna lentamente
al suo stato iniziale, si attualizzano infiniti stadi ulteriori, ciascuno
diverso dagli altri, nel quale l’interazione tra gli elementi estranei e
contrapposti – solido versus fluido, idrofilo versus idrofobo, permeabile
versus impermeabile, solubile versus insolubile, lipidico versus idrico –
genera altrettanti stati tutti possibili e da ciascuno dei quali si possono
dipanare ulteriori infinite combinazioni, fino a generare una classe di
infiniti possibili ciceoni. Nessuna pre-visione, dunque, soltanto una
valutazione statistica sulla probabilità che si vengano a determinare
talune configurazioni piuttosto che altre, soltanto l’evidenza di una
�������
. Ivi, 14[A 4].
262
Nel confine

freccia temporale forse curvilinea, sinuosa, ripiegante – sicuramente


non un segmento di retta – freccia che esclude il ritorno nel medesimo,
ma piuttosto indica stati e condizioni che potranno apparire, per poi,
e a loro volta, scomparire nella generazione di condizioni ulteriori,
meccanicamente e deterministicamente non pre-vedibili. Meccanismo
a spirale, ove la reiterazione del processo si mantiene soltanto nella sua
generalità tendenziale, in quanto aumento dell’omogeneità del ciceone
– riduzione della differenziazione e quindi tendenza, almeno apparente,
all’aumento dell’entropia – ovvero in quanto riduzione della stessa
omogeneità – aumento della differenziazione e quindi tendenza, sempre
apparente, ad una riduzione dell’entropia.
La spiralità di questa reiterazione, moto pendolare dal differente
all’omogeneo, assume particolare importanza sotto due profili. Il primo
attiene al fatto che lo stato del ciceone non si ripete mai esattamente
identico ad uno qualsiasi che si sia verificato in precedenza e bene
informa su questo punto la nozione medesima di spirale, che soltanto in
una sua proiezione ortogonale – e quindi inesatta perché bidimensionale
e atemporale – permette di vedere un ritorno del processo in un punto
già trascorso. Il secondo aspetto rilevante riguarda, invece, le direzioni
verso le quali la spirale si protende: esse costituiscono il preludio al
nuovo stato verso il quale il gioco ricorsivo degli elementi antagonisti
sta portando il ciceone – simbolo di ogni fenomeno fisico, biologico,
antropologico, emotivo. Stato che risulta necessariamente legato e
derivato da quello precedente, il quale è tale in termini sia temporali
– è accaduto prima –, sia costitutivi – presenta la conformazione dalla
quale è derivata quella attuale. Così accadrà, naturalmente, anche allo
stato attuale che si prepara a divenire il precedente di quello successivo,
separandosi da quest’ultimo anche soltanto per un mutamento
assolutamente minuscolo della conformazione interagente tra i diversi
ingredienti del ciceone. La concatenazione temporale e costituiva degli
stati generati dall’azione ricorsiva e spiraliforme di elementi antagonisti
appare in tutta la sua pregnanza. Per proporre questa complessa figura
si può, ancora una volta, fare felicemente ricorso alla parola di Eraclito,
in particolare ad alcuni frammenti che Giorgio Colli ha voluto riunire,
per l’assonanza tematica che sembra raccoglierli. Si tratta di frammenti
che nella versione classica dell’opera eraclitea redatta da Diels-Kranz
non risultavano affatto collegati, oltreché tradotti in maniera assai
divergente da quanto proposto da Colli. Si è scelta qui la versione
dello studioso italiano, perché permette una estrapolazione, ancorché
arbitraria, di grande efficacia, in relazione all’equivocità che Colli offre
nell’utilizzo del termine concatenamento, volutamente ripetuto in tutti

263
Stefano Bevacqua

e tre i frammenti, laddove nel primo di essi la versione classica Diels-


Kranz220 riferisce di un “riunirsi di origine e compimento”, nel secondo
si dice di un “comune” cui si deve fare riferimento in quanto “lògos che
è comune agli esseri viventi” e nel terzo si riduce la questione ad un –
troppo – semplice “la ragione è comune a tutti”. Inoltre, nel secondo dei
frammenti, la versione classica Diels-Kranz contrappone quel “lògos
comune” alla considerazione che ciascuno ha del proprio pensiero come
indipendente, personale ed originale, mentre nella versione di Colli
si lascia bene aperto il varco per una lettura ampia, che consideri il
concatenamento come un sistema nel quale si collocano le singolarità
percettive. Ecco dunque i tre frammenti come proposti da Colli: “Ciò
che si concatena, invero, è principio e fine del cerchio. | Perciò bisogna
seguire ciò che si concatena. E sebbene l’espressione si concateni, i più
vivono come se ciascuno avesse un’esperienza separata. | Il sentire è ciò
in cui si concatenano tutte le cose”.221
Il secondo frammento impone un’ulteriore riflessione: Eraclito
dice che qualsiasi percezione è sempre parte – frammento – di un
susseguirsi di altre percezioni possibili, ciascuna riflettendo elementi
che si sanno mutevoli nel tempo e nella loro stessa costituzione, ma
altresì interdipendenti ciascuno dal precedente e condizionanti il
successivo. Eppure, aggiunge il pensatore di Efeso, la maggior parte
delle persone pensa di percepire singolarità, perdendo, in questo modo,
la coscienza dell’integralità complessa degli elementi che appaiono.
Eraclito non dice che la percezione di un elemento – ad esempio: uno
specifico stato nel quale si possa trovare il ciceone, agitato per un tempo
determinato – sia falsa, che non risponda ad un qualche criterio di verità,
di fondatezza. Egli dice soltanto che ad essere errata è la percezione
della singolarità di quell’elemento, in quanto estraniato dal sistema
complesso dei concatenamenti nell’ambito dei quali esso ha preso
forma. Ma quell’elemento dato, quello stato ben definito del ciceone,
esiste ed è percepibile e percepito non in quanto possieda una propria
autonomia rispetto al contorno di stati precedenti e successivi, contigui
o più lontani, e nemmeno in ragione di un suo partecipare al sistema di
concatenazioni che lo lega ai precedenti ed ai successivi ed ai contigui,
bensì in quanto generato nell’ambito della concatenazione medesima.
Occorre chiedersi se la concatenazione possieda come tale una qualche
capacità generativa e la risposta è ragionevolmente negativa: non è
la concatenazione a generare gli elementi che possono essere oggetto

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. Ed in perfetta analogia anche la versione di Simone Weil, che traduce dal tedesco in
francese, ma riprendendo dall’origine il testo greco.
221. G. Colli, La sapienza greca, cit., 14[A 12], 14[A 13], 14[A 14].
264
Nel confine

di percezione ovvero che possono essere immaginati o proiettati o


progettati dall’uomo. Essa costituisce soltanto l’ordine di un momento
evolutivo, per così dire: un quadro di riferimento che mette in luce i
legami di ciascun elemento con ogni altro, è dunque la regola di stato,
un modo di porsi degli elementi in un momento dato, destinato a mutare
in ogni momento successivo. A generare gli elementi suscettibili di
divenire in una qualsiasi forma e misura oggetto del pensiero è qualche
cosa che si pone prima dello stesso concatenamento e che, anzi, genera
quella medesima regola di stato, quel modo di porsi: la spirale ricorsiva
mossa da forze antagoniste, le quali si risolvono non in una sintesi a
posteriori, bensì una nuova ed ulteriore condizione posta ad un livello
diverso da quello precedente, spostata assialmente, generativa di stati
altrimenti non ricostruibili, e per questo non pre-vedibili e, quindi, in
nessun modo pre-figurabili, così che il sempre mutevole processo che
porta alla definizione di sempre nuovi elementi che occupano sempre
nuovi stati non sarà descrivibile per una sua meccanica ripetizione, ma
soltanto comprensibile per una possibile emulazione.

265
SETTIMA VARIAZIONE

HERMES
Ponti, strade, sentieri

È ponte quella costruzione, di qualunque materiale sia essa costituita,


che congiunge due territori altrimenti separati, tipicamente, da un
corso d’acqua, oppure da una ferrovia, da una strada altrimenti non
attraversabile, in qualche non comune caso, da un braccio di mare
anche relativamente esteso, da una vallata. Evidente è il simbolismo del
ponte come elemento riunente, tanto da rendere il termine medesimo
di ponte metaforico di ogni riunione, come quando si asserisce che, ad
esempio “serve costruire un ponte tra gli uni e gli altri”, oppure si parla
di “pontieri” nel gergo involuto della politica per riferirsi a persone che
tentano di riallacciare alleanze tra formazioni o personaggi altrimenti
distanti. Essenzialmente, il ponte accorcia le distanze, riduce il tempo
necessario a passare da un luogo ad un altro, rende la strada meno sinuosa
e defatigante. Si potrebbe affermare che i ponti, tutti i ponti, sono molto
utili al lato pratico, ma che nessuno di essi è invero indispensabile, in
quanto per andare da un luogo ad un altro che fossero separati da un
fiume o dalla ferrovia è, o dovrebbe essere, sempre possibile effettuare
un periplo, un aggiramento, tale da permettere comunque di raggiungere
la meta, anche se a costo di seguire un percorso assai più lungo,
impiegando così molto più tempo e forse correndo rischi anche enormi.
A ben vedere la geografia del mondo odierno, ed anche ripensando a
come essa doveva essere nel passato storico, risulta facile constatare
come per muoversi da un punto A in direzione di un punto B, che siano
separati, a titolo di esempio, da un fiume, è sempre possibile trovare
un’alternativa al ponte, anche se nella maggior parte dei casi soltanto
la navigazione permette effettivamente di superare l’ostacolo costituito
dal fiume medesimo, pena risalirne le sponde fino alla sorgente, oppure
trovare un luogo acconcio per guadarlo. Ecco che, senza ponte non
rimane che la barca, il traghetto, magari non mosso dalle eliche, ma
trascinato con le funi da una sponda all’altra e così trattenuto dall’impeto
della corrente, oppure si ricorre all’escavazione di un tunnel sotterraneo,
che scivoli tra le viscere della terra al di sotto del fiume o del mare. I
ponti sono costosi e di non sempre facile realizzazione e accade così che
Stefano Bevacqua

le alternative apparentemente più grossolane che si sono qui indicate


siano in effetti assai più diffuse di quanto si possa usualmente ritenere.
In molti frangenti in cui il traffico dei veicoli risulterebbe inadeguato a
giustificare l’investimento economico necessario per la costruzione di
un ponte si ricorre infatti ancor oggi alla navigazione222.
In definitiva, i ponti non sono altro che strade, caratterizzate dal fatto
di essere sollevate dal suolo. È questo l’elemento che distingue il ponte
dalla più comune ed usuale strada. Null’altro che la sua elevazione. Per
quanto complessa possa risultare la sua costruzione, in ragione, appunto
del suo protendersi nello spazio in una terza dimensione, l’altezza,
contrariamente alla strada, abitualmente bidimensionale, per quanto i
piloni che lo sostengano possano costituire un arditezza architettonica
esemplare ovvero ricorrano all’astuzia di tiranti e di contrappesi per
garantire una stabilità altrimenti impossibile, per quanto le arcate che li
congiungono siano grandiose per la loro elevazione, fino al loro acuto
colmo, ovvero così basse da negare l’evidenza della gravità e sfidarla in
una distribuzione delle forze così larga da lasciare increduli, per quanto
straordinario possa essere questo ponte o quell’altro, unici ciascuno
nelle loro forme, occorrerebbe rassegnarsi nel dire che, in fondo, non
è altro che una comunissima strada, posta soltanto in una posizione
particolare, in una sua terza dimensione. Oppure, e diversamente, si
dovrebbe considerare proprio questa differenza come fondamentale,
diciamo così: qualificante, intendendo con questo termine non tanto
un aspetto appellativo, che qualifica denominando e distinguendo,
ma come sostanziale unicità, che attribuisce al ponte non dunque una
semplice conformazione – quella tridimensionale avverso alla più
semplice bidimensionalità della strada –, ma una funzione, la funzione
di congiungere ciò che è separato ovvero di ricongiungere ciò che è
stato separato. Con-giungere, che si fa risalire al conjungere latino,
che Leopardi223 nota essere lo sviluppo di un più semplice ed antico
jungere, che riferisce l’azione di unire, di legare. Il suffisso con- di
conjungere parla dei soggetti che vengono uniti, legati; ribadisce che
l’azione dell’unione è relativa a due elementi altrimenti separati e che
ora si toccano. Jungere ha la stessa radice di jugum, il giogo che univa
la coppia di animali per il traino dell’aratro o del carro. Radice che si
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. Accade in Francia, sul Rodano, nei pressi della sua foce, al Bac du Barcarin,
dove una coppia di traghetti carichi di autotreni ed autovetture permette
l’attraversamento del Grand Rhône al ritmo di dieci viaggi l’ora; accade in
Germania, in numerosi casi di piccoli attraversamenti secondari, soprattutto nel
Brandeburgo e nelle regioni del Nord; lo stesso in Finlandia, così come in molti
paesi dell’Est europeo.
����.G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2814.
268
Nel confine

risolve altrimenti in ulteriori significati che rinviano sempre alla coppia


ed all’unione fisica, materiale, dei due soggetti ora con-giunti, con-iugi.
Il ponte unisce fisicamente una coppia di elementi: le due sponde del
fiume, le due coste separate dal braccio di mare, i due fianchi della vallata,
i due lembi della strada che incrocia l’altrimenti inattraversabile strada
ferrata. Non esistono ponti che congiungono più di due elementi, ché
sarebbero almeno due ponti combinati alla maniera di un triangolo o tre
ponti posti come in una stella a tre punte. Il ponte riferisce una genetica
binaria, una scelta rigidamente ed inequivocabilmente limitata a due
specifici elementi, i quali, grazie al ponte, sono fisicamente congiunti. Il
ponte unisce e lega le due sponde; il ponte è un nodo serrato che tende le
due corde indissolubilmente allacciate alle sponde; molto prima di essere
una semplice strada che si slancia nella terza dimensione dell’altezza,
dunque prima di essere un legame, il ponte è un nodo. Il legame avviene
attraverso la con-giunzione della coppia e la giunzione si chiarisce nel
nodo. Il nodo è la porta, la soglia, che unisce e lega. Al centro del ponte
accade l’unione, il miscelamento del differenziato, l’annodamento del
distinto. Ogni ponte è dunque una strada ed una porta, sulla cui soglia si
celebra il superamento dell’estraneità e si fondano nuovi elementi; ogni
ponte è luogo di frontiera nel quale si focalizza l’innovazione che si
illumina oltre la differenza, in uno stato transitivo non riconducibile alla
somma degli elementi che vi partecipano. Ivo Andrić descrive questo
carattere inatteso del ponte con esemplare precisione poetica:

Questo grande ponte di pietra, preziosa costruzione di singolare bellezza,


quale non possiedono neppure cittadine assi più ricche e frequentate (“Come
questo in tutto l’impero ce ne sono soltanto altri due”, si diceva nei tempi
antichi), è infatti l’unico mezzo di comunicazione stabile e sicuro in tutto il
medio ed alto corso della Drina e costituisce un anello indispensabile sulla
strada che congiunge la Bosnia con la Serbia e, oltre la Serbia, più in là,
con le rimanenti contrade dell’impero turco, fino a Istanbul. [...] Il ponte
è lungo circa duecentocinquanta passi e largo una decina, tranne che al
centro, dove è ampliato mediante due terrazzi perfettamente identici, uno
su ciascun lato della carreggiata, che gli fanno raggiungere una larghezza
doppia. È questa la parte che si chiama “porta”, e qui, sul pilastro centrale,
che in alto si allarga, su entrambi i lati si trovano delle sporgenze, sì che,
a sinistra e a destra della carreggiata, poggiano sulla base due terrazzi,
i quali, con linea ardita e armonica, si protendono nello spazio oltre la
struttura principale del ponte, al di sopra dell’acqua rumorosa e verde che
scorre in basso. Sono lunghi quasi cinque passi e alti altrettanto, recinti da
un parapetto di pietra, così come lo è il ponte in tutta la sua lunghezza, ma
altrimenti aperti e non riparati. Il terrazzo di destra, venendo dalla città, si
chiama “sofà”. Vi si accede salendo due gradini, ed è orlato di sedili cui il

269
Stefano Bevacqua

parapetto funge da spalliera, e sia i gradini che i sedili ed il parapetto sono


tutti della medesima pietra chiara. Il terrazzo di sinistra, dinanzi al sofà, è
identico, ma è vuoto, senza sedili. [...] La porta è il punto più importante
del ponte, così come il ponte è la parte più importante della cittadina, o,
come scrisse nel suo diario un viaggiatore turco che venne ottimamente
ospitato dai višegradesi, “la porta è il cuore del ponte, che è il cuore di
questa cittadina, che a ognuno deve restare nel cuore”.224

Forse le parole di Andrić ancora non bastano. Ché il ponte non è


soltanto strada che riunisce due luoghi avventurandosi in una terza
direzione e non è soltanto porta sulla cui soglia si annoda il differenziato
che ora può proiettare il simulacro di un ritorno all’unico. Il ponte è
anche un incrocio, dove il flusso dei differenziati riuniti nel nodo della
porta appare sovrapporsi a quello del traffico sottostante e che si scavalca
percorrendo questa strada avventurosamente tridimensionale. Il ponte
è il luogo della riunione che sovrasta il flusso dell’indistinto: sotto di
esso scorrono il flutti delle acque, sfilano i convogli della ferrovia,
si agglutinano e si rilassano nel loro peristaltico movimento i veicoli
inghiottiti dal traffico. Sotto il ponte permane il fluido nel quale non
è possibile effettuare alcuna ripartizione discreta – liquidità continua
e ricorsiva. Il ponte congiunge ciò che è altrimenti separato da un
elemento che appartiene ad una fase sempre assimilabile al liquido e mai
confondibile con la solidità del ponte né con quella della sponde che il
liquido bagna. È il caso, sempre, del ponte che supera un corso d’acqua
o un braccio di mare, ma anche quello del ponte che sovrasta la ferrovia
o l’autostrada. Sempre il flusso ospitato dal ponte è sostanzialmente e
strutturalmente diverso da quello sottostante. Sostanzialmente diverso
perché può esserci certamente contaminazione, tra il flusso ospitato dal
ponte e quello della via che da questo è superata, ma ciò al prezzo di
un radicale mutamento di statuto dell’elemento che passa da un flusso
all’altro. L’acqua del fiume in piena che bagna la superficie del ponte
perde il suo carattere di fluido indistinto e non scindibile in unità
discrete, per assumere quello di una specifica e delimitata entità d’acqua
che ora si trova sulla superficie del ponte, separata ormai dal fiume,
entità d’acqua eliminabile, raccoglibile, asciugabile. E se la piena fosse
così intensa da invadere con i suoi flutti il ponte intero, a mutare statuto
non sarà certo l’acqua, bensì il ponte, che tale cessa di essere, almeno
per il tempo in cui dura la piena e sempre che esso sappia resistere
all’urto delle acque e possa, cessato l’impeto, riprendere saldamente il
suo ruolo. Inoltre, i due flussi, quello superiore e quello inferiore, sono
anche strutturalmente diversi, perché il flusso ospitato dal ponte conosce
224. I. Andrić, Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano 1967, pp. 4-5 e 12.
270
Nel confine

la soglia e si sofferma sotto la porta nell’attimo della con-giunzione tra


due elementi altrimenti differenziati, mentre il flusso sottostante non
conosce alcuna riunificazione, perché permane nell’indistinto. Il flusso
che attraversa la soglia del congiungimento presenta due direzioni;
entrambe sono non soltanto possibili, ma necessarie. Il ponte con-giunge
le due sponde ed avvera il protendersi di ciò che alberga su ciascuna di
esse nel luogo focale della soglia – ove si forma il nodo che tende le
corde riunenti. Il flusso che abita al di sotto del ponte presenta, invece,
una sola, necessariamente unica, direzione, nel caso delle acque, ovvero
due possibili direzioni, negli altri frangenti, ma mai miscelate, che mai
si incontrano, né mai potrebbero incontrarsi – ché sarebbe scontro, nel
senso materiale del termine, tra due o più veicoli o convogli. Paolo
Portoghesi ha ben descritto questa molteplicità ed indipendenza dei
movimenti che il ponte suggerisce e rende possibili:

Il ponte, uno degli archetipi più antichi dell’architettura, suggerisce


due direzioni di movimento: quello del fiume che scorre sotto e quello
della strada che scorre sopra: due movimenti che formano una croce,
due movimenti che diventano entrambi possibili (ancorché uno sembra
impedire l’altro) in virtù del sollevarsi del nastro stradale sottraendosi
alla condizione vincolante dell’incrocio, il ponte sostituisce il guado, una
vittoria parziale ed effimera dell’uomo rispetto all’ostacolo dell’acqua.
Quando la vittoria diventa stabile è perché la strada si è fatta ponte: ha
saltato l’ostacolo, ha unito le due “rive” opposte facendone una stessa cosa;
una continuità visiva che supera e fa dimenticare la frattura. [...] Attraverso
il ponte il fiume si rivela nella sua natura mobile, nel suo scorrere in una
direzione costante. Quando un uomo si affaccia e vede la corrente il suo
vedere è come trascinato, la sua immaginazione suppone nella lontananza
la presenza di una sorgente e di una foce. Così egli si sente fermo al centro,
nel cuore di ciò che si muove, di ciò che muta continuamente. L’acqua che
i suoi occhi raggiungono, dopo un istante non è più la stessa.225

L’arcata dei romani, primi grandi costruttori di ponti capaci di


fissare i luoghi che riuniscono, rimane l’esempio più lucido di questa
capacità riunente. Assiri, Egizi, Persiani e Greci non hanno lasciato
alcuna rilevante costruzione di questo genere e non ebbero mai inteso
attribuire alcuna importanza ai ponti che non fosse quella del loro uso
pratico, specie nell’ambito delle opere destinate a fini militari e quindi
temporanei – per il tempo strettamente necessario a far defluire le truppe
ed i carri; e, questo compiuto, il ponte non aveva alcuna vera utilità,
financo ad essere deliberatamente distrutto per evitare che il nemico se
ne servisse a sua volta. Fu proprio Serse, il sovrano persiano che subì
����.P. Portoghesi, Il ponte, in “Archinfo”, http://www.archinfo.it
271
Stefano Bevacqua

infine la cocente sconfitta di Salamina per mano dell’astuto Temistocle,


a volere a tutti i costi sfidare la pochezza ingegneristica di quei tempi
nella costruzione del ponte di barche che avrebbe dovuto dare prestigio
e svelta vittoria alla sua seconda spedizione contro i Greci. Il racconto
di Erodoto226 dice di centinaia di navi poste l’una fianco all’altra, a
formare due bracci obliqui. Le imbarcazioni, tenute unite da gomene
di lino bianco, potevano dunque assecondare la corrente che scorre tra i
Dardanelli ed offrire così solido piede alle truppe persiane che poterono
invadere l’Attica e sottometterla. Le navi, dice Erodoto di 674 scafi
tra triremi e pentecontere, furono disposte in maniera da lasciare tra
ciascuna e la precedente e la seguente soltanto lo spazio che potesse
essere coperto da tronchi d’albero, sui quali vennero poi deposte fascine
di arbusti e terra pressata, per farne una vera strada galleggiante, con
tanto di alti parapetti ad evitare che gli animali che traevano i carri
potessero impaurirsi per la vicinanza delle acque. Quello di Serse
fu il primo ponte di grandi dimensioni di cui si abbia memoria nella
storia dell’Occidente. Ma fu ponte effimero, destinato a durare per i
sette giorni e le sette notti durante i quali gli eserciti persiani poterono
riversarsi in Boezia ed in Attica. Il 23 settembre di quell’anno, pochi
mesi dopo la traversata dei Dardanelli da parte dei Persiani, i Greci
riuniti da Temistocle vinsero il confronto navale di Salamina; Serse
si ritirò e del ponte non rimase alcuna traccia. Niente pietre né archi
poterono testimoniare l’ardita opera del re persiano, ché essa stessa era
destinata non a concedere il passo, al di sopra dei flutti, ad un futuro
di genti, ma soltanto alle sue truppe per il tempo necessario all’azione
militare. Sotto un certo profilo, si potrebbe dire che quello di Serse sui
Dardanelli non fu nemmeno un ponte, nemmeno un ponte galleggiante,
soltanto un uso diverso dei traghetti, i quali, invece di fare la spola tra
una sponda e l’altra, vennero moltiplicati nel numero fino a riempire
quasi tutto lo spazio che divide le due sponde. Ma niente spalle né
pile, niente fondamenti, soltanto le funi di lino bianco a tenere unite
le imbarcazioni, ma non per questo ad unire effettivamente le sponde.
Per incontrare i primi ponti capaci di solidamente unire e con-
giungere, occorre guardare a Roma, al ponte Sublicio, costruito da Anco
Marzio, quarto re di Roma, per unire le sponde del Tevere nella zona
del porto fluviale della città227. Tito Livio narra che fosse il primo ponte
della Roma più antica, necessario per far transitare più agilmente le
persone e le cose che dal Nord intendevano giungere al Mezzogiorno

����.Erodoto, Storie, VII, 8 – 10.


227. All’altezza dell’attuale via del Porto, a ridosso del San Michele, a valle dell’isola
Tiberina.
272
Nel confine

– il sale, soprattutto – e viceversa – il grano e i manufatti della Magna


Grecia. Fu costruito nel punto ove, almeno nelle stagioni di magra, era
possibile guadare il Tevere, a una manciata di metri dall’isola Tiberina;
prevedeva quattro pile intermedie e due spalle sulle sponde del fiume ed
era costruito interamente in legno perché fosse facilmente smontabile
nel caso di un pericolo di invasioni straniere. Anche il ponte Sublicio
aveva dunque un carattere effimero, non fosse che per il materiale con
il quale venne costruito – e ricostruito ad ogni necessità di difendersi
dalle avanzate delle genti del Mezzogiorno. Ma mentre il ponte voluto
da Serse sui Dardanelli non aveva altro fondamento che le labili funi
di lino bianco e nessun appoggio che sostenesse il peso dei traffici che
non fosse quello del galleggiare delle navi, il ponte Sublicio era invece
dotato di solidi pilastri conficcati nel limo del letto del fiume, incuneati
nella stessa miscela di paglia e grani e fango che aveva dato vita alla
vicina isola Tiberina. Non un ponte transitorio, dunque, piuttosto un
ponte smontabile al fine di meglio difendersi dai nemici. Ché, quando
Roma ebbe ben maggiore forza e la gran parte delle popolazioni italiche
erano ormai sottomesse, un ponte per unire le due sponde del Tevere
venne certo edificato, a poca distanza dal primo, ma di pietra tagliata
a grandi blocchi, per resistere al tempo e ad ogni gravame. È il ponte
Emilio, costruito nel terzo secolo a. C., primo ponte perenne di Roma,
del quale ancora oggi si conserva un’arcata228. Poi fu il ponte Milvio,
finito nel 207 a. C. e i ponti Fabricio e Cestio. Ponti duraturi, costruiti
ad arcate, destinati ad unire le sponde del fiume e, dando asilo alla porta,
ad offrire quel nodo che garantisce il congiungimento.
Georg Simmel è stato, fra i molti, colui che con maggiore enfasi ha
sottolineato non tanto la simbolicità del ponte, come esso fosse preso
a pretesto per dire altro da ciò che è esso medesimo, quanto la portata,
per così dire: oggettiva, che il ponte comporta e sostiene prima ancora
di esistere, quando esso è soltanto nell’intenzione degli uomini. Scrive
Simmel:

Sormontando l’ostacolo, il ponte simbolizza l’estensione della nostra sfera


volitiva nello spazio. Per noi, e soltanto per noi, le rive del fiume non solo
semplicemente estranee l’una all’altra, ma, giustamente, “separate”; e la
nozione di separazione sarebbe priva di senso se noi non avessimo iniziato
a ricongiungerle, nei nostri pensieri finalizzati, nei nostri bisogni, nella
nostra immaginazione. [...] Il ponte, ora, diviene un valore estetico, non
solamente quando stabilisce, nei fatti e per il compimento dei suoi scopi
pratici, una giunzione tra termini dissociati, ma anche per il fatto di rendere
quel valore come immediatamente sensibile. Esso fornisce all’occhio, per
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. Il cosiddetto ponte Rotto, immediatamente a valle dell’isola Tiberina.
273
Stefano Bevacqua

congiungere due parti del paesaggio, lo stesso rapporto che offre al corpo
nel soddisfare la realtà della sua concretezza. [...] Poiché l’uomo è l’essere
di congiunzione che deve separare, e che non può congiungere senza aver
separato – occorre anzitutto concepire idealmente come una separazione
l’esistenza delle due sponde, per riunirle attraverso il ponte.229

Simmel figura dunque il ponte come deliberato atto riunente,


attribuendogli una carica simbolica di grande portata, ma al tempo
stesso, ratificandone la funzione ed il valore estetico. Simmel non dice
se la potenza simbolica sia direttamente connessa alla qualità estetica
dell’opera, se la forza e la pregnanza del riunire venga sottolineata dalla
validità artistica o se non sia semmai il contrario, a dire che è la capacità
di riunire a sottolineare l’aspetto estetico. Sarebbe qui necessario porsi
l’interrogativo se ogni ponte sia di per sé, in quanto gettata riunente
delle due sponde, assimilabile esteticamente alla categoria dell’arte. La
risposta non può che essere negativa: non basta certo la funzione del
riunire a porre l’arte in quell’opera. Occorre che il suo disegno, il suo
slancio nella terza dimensione, le linee delle sue spalle e delle arcate,
che l’insieme delle sue geometrie siano capaci di mettere in luce, di
far emergere dal nascondimento l’essere di quella che diviene opera
d’arte. Ma non per questo, quel ponte che apparisse come tale, come
opera d’arte – qualche esempio concreto: alcune opere di Calatrava, il
Rialto e quello dei Sospiri a Venezia, il Pont du Gard, ma anche alcune
opere autostradali e ferroviarie progettate con particolare intelligente
attenzione – non per questo quel ponte smetterebbe di essere tale, di
svolgere la sua materiale e ben concreta funzione e, soprattutto, di essere
quello slancio riunente che bene Simmel descrive come intenzione
necessaria di un uomo che sempre riunisce ciò che esso stesso separa.
E, d’altra parte, come appare evidente dalle parole di Paolo Portoghesi,
nemmeno si potrebbe sottrarre al ponte, a qualsiasi ponte, il fascino del
riunire che lo rende diverso dalla bidimensionale strada, che permette di
fissare uno sguardo nel divenire, nello scorrere, ponte che si pone come
luogo liminare sopraelevato, porta che sovrasta una soglia ideale nella
quale si stringe il nodo del congiungere.
Appare così che se il ponte assume una pregnanza speciale, quella
che gli viene dal possedere una terza dimensione, l’altezza, esso rimane
comunque tributario della strada. Senza ponte, la strada è interrotta e la
sua funzione riunente viene meno rispetto alla completezza dell’arco
che essa era destinata a compiere, ma permane comunque, in aggiunta
alla sua materialità, la funzione di congiungere dall’origine fino al ponte
229. G. Simmel, Brüke und Tür, in Das Individuum und die Freiheit, Wagenbach, Berlin
1984, pp. 8 e 11.
274
Nel confine

– distrutto o mancante – e poi di nuovo dal ponte alla destinazione finale;


mentre senza strada il ponte vedrebbe la sua funzione congiungente
ridotta alle due sponde, all’immediatezza di ciò che le circonda; senza
ponte, la strada è dimezzata, spezzata; senza strada, il ponte permane
in quanto nodo che lega le rive, anche se perde la porta che sovrasta la
soglia riunente. Il ponte è il punto focale della strada, ma è la strada che
ne porta il significato. È ancora Simmel a dare luce su questo elemento,
nella pagina che precede quella dedicata al ponte, il quale diviene così
una sorta di caso estremo e straordinario della funzione della strada.

Gli uomini che tracciano per primi un cammino tra due luoghi hanno così
compiuto una delle più grandi imprese umane. Anche se soventemente
essi hanno circolato da un luogo all’altro, collegandoli, per così dire,
soggettivamente, è stato inoltre necessario che essi segnassero visibilmente
il cammino sulla superficie della terra affinché i luoghi in questione
fossero obiettivamente collegati; la volontà di congiunzione si trasforma
così in una messa in forma delle cose offerte a questa stessa volontà ad
ogni passaggio, senza che essa dipenda più dalla frequenza o dalla rarità
dei tragitti percorsi. La costruzione delle strade è in una qualche misura
una prestazione specificamente umana; anche l’animale non cessa mai di
sormontare le distane e spesso nella maniera più abile e complessa, ma
mai riunisce l’inizio e la fine di un percorso, mai opera il miracolo del
cammino: ossia, coagulare il movimento attraverso una struttura solida,
che esce da lui.230

Simmel trova una sinonimia nella strada e nel cammino, giocando


sulla molteplicità semantica che entrambi i termini possono assumere.
Ché è strada quella “striscia di terreno, più o meno lunga e di sezione
sensibilmente costante, attrezzata per il transito di persone e di veicoli,
sia nei centri abitati sia nelle campagne. [...] Ha valore generico che
può indicare sia passaggi lunghi pochi metri, sia vie di comunicazione
lunghe decine e addirittura centinaia di chilometri”231. Ma è strada
anche il “cammino percorso, o da percorrere, per andare da luogo a
luogo, spesso attraversando anche più strade e anche viottoli, sentieri, o
addirittura terreni non tracciati”232. E sempre strada è quel più generico
“passaggio attraverso un terreno, con senso ancor più ampio di varco,
spazio attraverso cui passare”233. Si scivola così dall’oggettività della
strada intesa come striscia di terreno, al suo uso da parte dell’uomo, in
��������������
. Ivi, p. 7.
. Dal Lessico universale italiano, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, vol.
��������
XXII, p. 106.
232. Ibidem.
233. Ivi, p. 107.
275
Stefano Bevacqua

quanto essa congiunge due luoghi altrimenti separati, all’uomo che ne


impersona il significato, nel suo farsi strada ovvero nel suo aprirsi un
varco. Immane è il numero delle locuzioni nelle quali si può fare uso
dei termini strada o cammino o via o sentiero, da quelle più concrete
all’infinito gioco dei simbolismi che li utilizzano in senso figurato. Ma,
nella enorme maggioranza dei casi, a prevalere è un segno comune,
quello di percorso riunente, tragitto necessario per andare da un qui ad
un là, cammino compiuto o da compiere per raggiungere un risultato
dato. Nella strada è dunque compreso anche il senso di un mutamento
che non attiene soltanto al luogo, allo spazio, da un qui ad un là, bensì
anche al tempo, da un prima ad un dopo attraverso un cammino che può
anche essere di natura strettamente esistenziale ovvero interiore. Ciò
rende la strada un luogo di confine, nonostante la sua conformazione
quasi monodimensionale ne tardi l’emergenza. Il ponte ne è elemento
focale: sul ponte c’è il nodo, l’elemento di coagulazione che riunisce il
differenziato generando un’istanza di terzietà, in un non essere più su
una sponda senza essere giunto sull’altra, né mussulmano né cristiano,
soltanto uomo che siede sul sofà e guarda scorrere le acque della
Drina. Ma se il ponte possiede la sua pienezza grazie alla strada che
lo raggiunge verso entrambe le sue spalle, allora è la strada a compiere
nella sua interezza l’azione riunente, assumendo così pienamente la
funzione di luogo nel quale, lungo la sua longitudinalità, si materializza
il trasporto e con esso accade il mutamento.
Si è portati a immaginare i confini come linee sottilissime – quindi
assai poco adatte ad essere esplorate ed abitate – mentre essi sono
sempre molto più grandi, come una sorta di terzo incluso che appartiene
sempre in grande misura tanto all’al di qua quanto all’al di là. Non
esiste misura del confine nel suo spessore ed anche la più lunga delle
strade assume questa funzione di congiungimento, ché i confini, invero,
uniscono, e quando separano è nella sola azione della differenziazione,
la quale a sua volta si fonda e si giustifica nella tensione alla riunione.
Ed una strada è ciò che, pur separando il territorio nel quale scorre
– esistono strade del tutto isolate dal territorio che le ospita, quali le
autostrade o le strade ferrate, il cui superamento richiede, appunto,
l’inserimento di un ponte, di un altro ponte –, permette di andare
da un luogo ad un altro, di passare da una condizione ad un’altra,
attraversando per questo i luoghi e la memoria, riunendo infine il qua
ed il là, il prima ed il dopo. Talvolta, nemmeno è necessario il ponte,
con il suo annodare le corde che tengono congiunte le rive; talvolta
le sole corde possono essere sufficienti. In Germania, oltre il confine
ormai cancellato che separava – quel confine, la cosiddetta cortina

276
Nel confine

di ferro, separava, senza unire – la Repubblica Federale dalla DDR,


tra i piccoli villaggi di Heidenau e Brachwitz, nei pressi di Halle, nel
Saxen Anhalt, scorre il fiume Saale. Le sue acque provengono dal
Mezzogiorno e sono destinate ad ingrossare quelle dell’Elba prima di
Magdeburg. È una strada sottile, quella che congiunge i due villaggi,
che segue la sinuosità dei colli; non è asfaltata, bensì ricoperta con
pietre di porfido quasi nerastro; la sua sezione è assai arcuata: ad ogni
istante si potrebbe temere di scivolare giù, di uscire dal suo tracciato.
Lasciata Heidenau, la strada si insinua nel bosco, con quattro curve più
strette. Dopo l’ultima, si apre all’improvviso il panorama del Saale: un
braccio d’acqua di un centinaio di metri che sembra aver inghiottito
la strada. I blocchetti di porfido nero scivolano nell’acqua e sembrano
riemergere sull’altra sponda, come se proseguissero il loro cammino
sotto lo scorrere del fiume. Due pesanti funi, una per sponda, vengono
fatte scorrere in un senso e nell’altro agganciando un piccolo traghetto
privo di motore, come una zattera che viene tirata avanti e indietro
per trasportare qualche vettura alla volta. Le corde ci sono e sono ben
legate al traghetto-zattera. Il congiungimento è garantito, come se fosse
un ponte. Il ponte è il ponte del traghetto-zattera, non appoggia sulle
spalle fondate in riva al fiume, ma scivola sulla sua superficie; non ha
pile tra le arcate per appoggiarsi più sicuro; è l’acqua a sostenerlo. La
strada non è interrotta, essa prosegue introducendo soltanto una pausa
temporale, quella del ritmo dell’avanti e indietro del traghetto-zattera,
specie di movimento respiratorio che accoglie i viandanti su una sponda
per riversarli sull’altra e viceversa, di continuo. Persino questa piccola
strada, quasi dimenticata dalle carte geografiche, che deve farsi aiutare
dal traghetto-zattera per mantenere la sua promessa, quella di riunire
Heidenau e Brachwitz, è un luogo di confine. Si potrebbe, infatti, dire
che Heidenau e Brachwitz sono separati da quel tratto di strada – del
resto, la funzione riunente esige necessariamente la differenziazione, la
separazione: la prima è vera in quanto la seconda è accaduta; la seconda
è possibile nel movimento ricorsivo della prima. Anche la piccola
strada della campagna del Saxen Anhalt è dunque un luogo indagabile,
conoscibile ed abitabile. Abitabile come, proprio nei pressi di quella
stradella, ma più a Occidente, anzi: in Occidente, in quella che era la
Germania Ovest, abitato era il lungo e complicato percorso – strada
vissuta come universo totale – che da Lüneburg, nel Nieder Saxen, non
lontano da Hamburg, porta fino ad Hof, nel lembo più settentrionale del
Bayern. È la lunga e tortuosa strada che percorre Bruno, il riparatore
ambulante di proiettori cinematografici, raccontato da Wim Wenders in

277
Stefano Bevacqua

Im Lauf der Zeit234. Bruno abita nel suo autocarro, non ha più una casa;
vive nella strada, ha deciso di non andare fino in fondo al cammino, si
sofferma per sempre lungo il percorso, tra qui e là, facendo della strada
medesima il suo qui che esclude ormai il raggiungimento di qualsiasi
là. L’autocarro è una dimora senza soglia, senza elementi liminari di
transizione tra esterno ed interno. Non costituisce limite nemmeno
il parabrezza ove si riflette il mondo che circonda la casa di Bruno e
Bruno medesimo: immagini sovrapposte che dunque si confondo l’una
nell’altra, al punto che diviene impossibile stabilire con esattezza a
quale mondo appartengano, se a quello abitato dall’autocarro, ovvero
la strada – interminabile perché non ha mai fine il viaggio di chi abita
nella strada – o a quello abitato da Bruno. Quando si rinchiude nel suo
autocarro, Bruno accosta il portellone posteriore e così, dalla riunione
dei due battenti, si ricompone la scritta Hermes, il ladro messaggero, il
dio della strada e di chiunque la abiti. Soltanto nell’intimità della casa
viaggiante, sollevata dal suolo, che occupa la strada senza quasi toccarla
– la superficie d’appoggio dei pneumatici è minima rispetto al volume
dell’autocarro – Bruno si pone sotto tutela del dio, ché, altrimenti, con
i battenti aperti e rivolti sui fianchi del vano di carico, soltanto si può
leggere Her, sul fianco destro, e mes su quello sinistro. Nella penombra,
invece, il dio si propone al personaggio di Wenders, auto-condannato ad
un eterno mutare di luogo. Sorta di Ulisse, ma che non fa mai ritorno,
che sceglie deliberatamente di lasciare la normalità del qui senza mia
giungere ad un là, sempre rimanendo sospeso nell’atto di un con-
giungimento che non trova alcun epilogo.
Kàroly Kerényi, nelle intense pagine che ha dedicato al mito di
Hermes, coglie con profondità la differenza che corre tra il viandante ed
il viaggiatore, laddove il primo tiene ben saldi i piedi per terra e parte
da un luogo per giungere ad un altro, mentre il secondo come levita sul
suolo senza mai compiere il suo tragitto. Il primo effettua un per-corso,
il secondo rimane nel corso – nel corso del tempo. Scrive Kerényi:

Ulisse non è un viandante. Egli è piuttosto un viaggiatore (anche se


viaggiatore malgré lui), non solo per il fatto che egli viaggia, ma anche
per la sua stessa situazione esistenziale. Il viandante, malgrado il suo
movimento continuo, è attaccato al suolo [...] Con ogni passo egli prende
possesso di un nuovo pezzo di terra [anche se] è vero che questa presa
di possesso è soltanto psichica. In quanto con ogni nuovo orizzonte
egli amplia se stesso, egli amplia continuamente anche il possesso della
terra. Ma egli rimane incessantemente in contatto col solido suolo sotto
i piedi e cerca perfino la compagnia umana. Egli si arroga una specie
. Nella versione italiana: Nel corso del tempo, 1975
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278
Nel confine

di diritto di cittadinanza a ogni focolare presso cui si reca. Per i Greci,


egli è l’arrivante per eccellenza, lo ichétes. Il protettore non è Hermes,
bensì il dio dell’orizzonte più ampio e del fondamento più solido: Zeus.
La condizione del viaggiatore è invece quella dell’essere sospeso. Negli
altri, in coloro che hanno profonde radici, e perfino nel viandante stesso,
egli desta l’impressione di uno che fugge incessantemente. Effettivamente,
egli si volatilizza per tutti, anche per se stesso. Intorno a lui tutto diventa
spettralmente inverosimile, a sé stesso egli appare quasi uno spirito. Egli
si risolve quasi nel suo movimento continuo, ma non si unisce ad alcuna
compagnia umana che lo legherebbe. […] Durante il viaggio, il viaggiatore
è come a casa sua: a casa sua anche per strada, intesa, questa, non come un
collegamento tra due punti determinati della terra, bensì come un mondo
particolare. È il primordiale mondo del sentiero – anche dell’”umido
sentiero” del mare, ma soprattutto dei veri sentieri della terra, che non
tagliano spietatamente i paesi in linea retta, bensì, descrivendo curve
irragionevoli come tanti serpenti, si piegano, oscillano e tuttavia fanno
arrivare dovunque. L’essere aperti verso ogni parte è nella loro essenza
stessa. E tuttavia essi formano un mondo, un regno a sé in mezzo agli altri
regni del mondo, un regno di mezzo, in cui [...] si ha accesso a ogni cosa.
Se uno si sente a casa sua in questo mondo di strade, il suo dio è Hermes.235

Due gli interrogativi. Il primo riguarda questa definizione di strada


come mondo particolare, dal quale il viaggiatore, che pure ne è ospite,
quasi si distacca, come levitando al di sopra della sua superficie. C’è
un richiamo ad una possibile terza dimensione, simile a quella che
ben si rappresenta nel ponte – che corrisponde a quel vago scivolare
sull’acqua del traghetto-zattera legato alle sponde –, c’è, ancora più
evidente, una piena coerenza con la scelta di Bruno di sempre rimanere
non soltanto a mezza strada tra qui e là, ma perfino di limitare allo stretto
indispensabile qualsiasi contatto con il suolo, che egli si limita così a
sfiorare ed osservare dall’alto del suo autocarro. Terza dimensione che
si propone come emblematica di una ricerca che sfugge alla logica, che
tenta una terza via per non inabissarsi nella troppa semplicità di un A e
non A che muove verso una nicchia dalla quale sia possibile sporgersi
per scorgere orizzonti altrimenti non praticabili. Un tenersi, dunque,
nella sospensione di un luogo altro rispetto al percepito e che pure non
è semplicemente immaginato, ma, all’opposto, è ben possibile, e che
sembra al tempo stesso negarsi come evidenza, svelandosi soltanto
intuitivamente, quasi magicamente. Kerényi offre una risposta:

Esiste certamente un’esperienza del mondo fondata sul presupposto che


l’uomo nel mondo è solo, dotato soltanto di una coscienza capace di ricettare

����.K. Kerényi, Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino 1979, pp. 58-59.
279
Stefano Bevacqua

esclusivamente le impressioni dei sensi che si possono valorizzare coi


metodi della scienza naturale. Ma per quell’altra esperienza del mondo, cui
corrispondono gli antichi dati su Hermes, un simile presupposto non esiste.
La sua maniera di esperienza è aperta alla possibilità di una guida o di un
compagno soprasensibile, che possa procurare alla coscienza impressioni
di un genere diverso: impressioni coerenti che non contraddicono affatto
alle osservazioni e constatazioni delle scienze naturali, ma che tuttavia
oltrepassano i limiti dell’esperienza del mondo sopra illustrata: quella
abituale dei nostri tempi. Con Hermes, quale guida nella vita – insegna la
tradizione classica – il mondo assume un aspetto particolare: precisamente
quell’aspetto “ermetico” che abbiamo conosciuto or ora. Tale aspetto è
assolutamente reale e rimane tra i limiti di un’esperienza naturale del
mondo. Le strade come campo d’azione ermetico; ciò che capita, come
materia ermetica; la sua trasformazione per mezzo di un trovare e rubare
– procedimento ermetico – in opera d’arte ermetica che è sempre un po’
illusoria: in ricchezza, amore, poesia e ogni sorta di via d’uscita dalle
limitazioni delle leggi, delle condizioni, del destino: come sarebbero tutte
queste cose realtà meramente psichiche? Esse sono il mondo e sono un
mondo: quello, precisamente, che Hermes ci apre.236

La strada sfiorata, sulla quale si levita e non si marcia, è la strada che


pur congiungendo – e separando – non viene abitata per raggiungere
una meta, per colmare un percorso, ma per essa stessa, come luogo o
esistenza, come fosse fatta di tempo invece che di materia. E Kerényi,
nel suo appassionarsi ai grandi protagonisti della mitologia greca, nel
suo non nascondere l’enorme fascino che dichiaratamente subisce nei
confronti di Hermes, riesce a tratteggiare in maniera perfetta questo
mondo terzo, irregolare, ostinatamente estraneo alle classificazioni,
molle e ruvido al tempo medesimo, dai contorni assolutamente non
definibili e che mutano nel tempo, mondo che si pone da luogo
a luogo comprendendoli necessariamente ma senza esserne mai
inquinato o condizionato, mondo di Hermes, mondo dei viaggiatori.
Occorre dunque comprendere, ed è il secondo quesito, chi siano,
esattamente, i primi e chi i secondi, chi viaggia e chi “vianda”. Un
abbozzo di risposta è già contenuto nel brano di Kerényi: il primo è
Ulisse, che sempre rimane – in – sospeso; il secondo è l’arrivante.
Il primo è colui che vive, abita, occupa la strada, spazio-tempo del
suo muoversi; il secondo è colui che utilizza la via per andare in un
luogo diverso da quello in cui era in precedenza. Il primo ritorna
sempre al punto di partenza: Ulisse torna ad Itaca, incontra e ritorna
da Circe, in ogni tratto di strada che percorre si rievoca la partenza
che si sovrappone all’arrivo – soltanto il tempo fa la differenza. Il
236. Ivi, pp. 85-86.
280
Nel confine

secondo può indifferentemente ritornare al suo punto di partenza, ma


ciò non influisce affatto sul “viandare”, che rimane sempre ancorato
ai luoghi e non contempla mai un esistere nella via per essa stessa.
La vita di Ulisse è il suo viaggio e con esso le strade percorse; la
vita di un viandante che si reca da un luogo ad un altro prescinde
dal luogo indefinito nel quale accade il suo “viandare”. Appartennero
forse a Hermes i saltimbanchi ed i circensi di strada, quell’enorme
popolo di contadini senza terra, di credenti, di straccioni, di nobili
senza castello e soldati senza padrone che nel Medioevo vagavano
sulle strade, in un continuo fermarsi e ripartire, senza dimora né terra.
Contrariamente a quanto comunemente ritenuto, l’alto Medioevo non
era affatto popolato da signori ben fermi nei loro castelli, contadini
chini sulla terra d’ogni giorno e religiosi riuniti nei monasteri. Come
molto ben descrive Jacques Le Goff, la realtà dell’Europa occidentale
era assai diversa: “Non bisogna immaginare la società medievale come
un mondo si sedentari, di immobili, di votati al proprio angolo di terra
circondato dai boschi. La mobilità degli uomini del Medioevo è stata
estrema, sconcertante”237.
Almeno fino al XIV secolo, quando il popolo degli erranti sarà
costituito in prevalenza da vagabondi, disperati, assassini, ladri e
coscritti, e il più delle genti prende terra fissamente, le strade ereditate
dall’impero Romano, malandate, per nulla mantenute e semmai utilizzate
spesso come cave di selci, erano fittamente abitate. Le Goff dice che
in quell’epoca, finita la rassicurante cura amministrativa dell’impero e
non arrivata ancora a formularsi né una qualche affidabile monarchia,
né le città stato del successivo Rinascimento, il legame tra i luoghi e
le persone era straordinariamente indefinito, incerto, sfuggente. Ogni
signore aveva sempre sopra di sé un altro signore più potente che poteva
disporre della sua stessa vita e ancor più dei suoi beni e delle cose; ogni
contadino lavorava la terra di un padrone che poteva cambiare oppure
che egli seguiva, e così era per i militari e per i religiosi che ruotavano
da un convento all’altro. Il Medioevo è stata forse l’epoca nella quale
più intense sono state le migrazioni, non tanto di intere popolazioni,
come era accaduto nei secoli precedenti con i grandi flussi che dall’Asia
premettero così intensamente sulle genti che affacciavano sull’Impero
da indurli a cercarvi qui rifugio e sicurezza, prima, ed a sottometterlo,
in seguito; non dunque spostamenti di masse, ma un fluire ed un rifluire
di genti alla ricerca di luoghi migliori, di chiese più sante, di terre più
libere. Scrive Le Goff:

����.Le Goff, cit. p. 149.


281
Stefano Bevacqua

Tutti espatriano facilmente, poiché hanno a mala pena una patria. Il


contadino, i cui campi non sono altro che una concessione più o meno
revocabile da parte del signore e sono spesso ridistribuiti dalla comunità
paesana secondo la rotazione delle colture e dei campi, è legato alla sua
terra solo dal volere del padrone al quale si sottrae volentieri con la fuga.
[...] L’emigrazione del contadino, individuale o collettiva, è uno dei
grandi fenomeni della demografia e della società medievali. Sulle strade,
cavalieri e contadini incontrano chierici in viaggio regolare o in rotta con
il convento [...] studenti in cammino verso scuole o università celebri [...]
vagabondi di ogni genere. La maggior parte non solo non è trattenuta da
alcun interesse materiale in casa propria, ma è spinta sulle strade dallo
spirito stesso delle religione cristiana. Su questa terra di esilio l’uomo non
è altro che un pellegrino perpetuo.238

Si tratta di quella che l’antropologo tedesco Stephan Sting definisce


come “moltitudine di non-integrati”239, e che, nella citazione di Paul
Virilio divengono “forze fisiche in movimento senza meta; movimento
tollerato dei pellegrinaggi perigliosi, delle crociate dei bambini, di
poveri e di vagabondi senza mestiere”240. Sting, riferendosi alle ricerche
di Norbert Elias, definisce come “eccedenti” quella parte del popolo
del Medioevo europeo non stanzializzata o non ancora sedentarizzata;
un mondo che abitava la strada, “uno spazio intermedio indefinito, che
circondava minacciosamente i centri e l’ordine della società”241. Ed è
sovrapponendosi a questo popolo in movimento ed anzi infiltrandolo
fino a non poterne riconoscere più i contorni, che si sviluppa, a partire
dal IX secolo e poi in misura sempre crescente, il grande movimento dei
pellegrini. Dal Nord all’Est per giungere a Roma o a Cluny o a Santiago
di Compostela, ogni anno queste carovane umane si prolungavano
lungo le malandate strade ereditate dalla romanità che collegavano
in qualche stentato modo le diverse regioni dell’Impero d’Occidente,
quello confusamente raffazzonato da Carlo Magno e poi spentosi
nell’arco di mezzo secolo nelle gicobinerie carolingie. Scrive ancora
Sting, riferendosi alle ricerche di Georges Duby:

La chiesa cristiana moltiplicò la popolazione della strada attraverso


pellegrini, crociati e missionari che associavano l’aspirazione alla
salvezza nell’aldilà con l’aldilà sociale della strada. Allo stesso tempo
essa tentò di trasformare la mobilità sociale in un ordine della strada.

238. Ivi, p. 150.


����. S. Sting, Strada, in Le idee dell’antropologia, Bruno Mondadori, Milano 2002, p.
198.
����.Ibidem.
241. Ibidem.
282
Nel confine

A partire dalle visioni di Sant’Agostino che, lo sguardo rivolto al


Cielo e alla Sacra Scrittura, scorse una grande processione celeste, una
migrazione ordinata dell’umanità verso la salvezza in una sfera puramente
spirituale, indipendentemente dall’andamento dei doveri quotidiani.
[...] Il pellegrinaggio costituì la strada come spazio di vita specifico che
consentiva un’esperienza extra-quotidiana del sacro. Esso attraversava lo
spazio quotidiano; tracciava linee di connessione tra “luoghi alti” e “luoghi
sacri” ed era pervaso da sacre scritture e da fantasie che facevano avvenire
l’esperienza della strada in “topografie cristiane”, in cui mescolavano
informazioni geografiche e motivi biblici.242

Ecco il miscelarsi di viandanti e di viaggiatori. I pellegrini avevano


una meta ben precisa: il santuario, San Pietro. Certamente, nel loro
lungo cammino, essi non sempre seguivano la via più breve né quella più
rapida a percorrersi; essi si fermavano, anche per periodi relativamente
lunghi, facevano tappe presso i principali monasteri, seguivano un
itinerario complesso, spesso per presenziare ad una festività locale nel
mentre miravano a Santiago o a Roma. Ma rimane che, nell’essenziale,
i tragitti dei pellegrinaggi avevano una loro coerenza e poco del resto
mutavano di anno in anno e perfino di secolo in secolo. Tanto da generare
un coagularsi di carattere sociale ed economico proprio lungo questi
itinerari, con la costruzione di ponti, di chiese, di ricoveri, ospedali
e – infrastrutturazione di un potere ancora confuso, orizzontale –
alloggiamenti militari, prigioni. Popolo di viandanti, dunque, non certo
di viaggiatori, ma che si mescola sia a quello che risiede nei villaggi e
nelle città o intorno ad esse, sia a quello che nella strada abitava in un
continuo muoversi da una campagna ad un’altra, da una guarnigione alla
successiva, da un convento a quello più lontano. La strada diviene dunque
luogo di salvezza, per gli uni e per gli altri, per i pellegrini viandanti
che grazie alla strada, percorrendola, calpestandola, possono ambire al
riconoscimento divino che si avvera nella sacra meta del santuario, della
Roma capitale della Cristianità, e per i viaggiatori che reiterano infinite
volte il medesimo luogo, la medesima strada, e che in questo modo si
salvano dall’oppressione di un vescovo, di un signore, di un padrone.
Nel primo frangente, quello dei pellegrini, è la sacralità della meta a
riflettersi sul percorso necessario a raggiungerla fino a rendere sacra
anche la strada; nel secondo, quello del popolo medievale della via, la
sacralità parte dalla salvezza che si ritrova nel perenne mutare di luogo,
in un nomadismo che racchiude a spirale nel sempre medesimo luogo: la
strada, e si espande ad ogni punto di partenza e di arrivo, ad ogni luogo
attraversato, che la strada così interessa e dunque sacralizza.
242. Ivi, p. 199.
283
Stefano Bevacqua

Si è detto di come nel XIV e soprattutto nel XV secolo prenda sempre


più conferma un vivere stanziale, nelle case, nei castelli, nei monasteri,
nelle stamberghe dei contadini così come nei palazzi dei signori. Il
popolo della strada viene gradualmente riassorbito – riassunto – nelle
mura della città, e questo fenomeno sembra coincidere, almeno sotto il
profilo temporale, con l’affermarsi della città medesima come elemento
cardinale dell’organizzazione sociale ed economica. Si formano e si
rafforzano, in quei due secoli, i primi regni moderni. Ma, pur nell’enorme
diversità che subito colpisce chi confrontasse la verticalità dei regni di
Filippo di Valois e di Edoardo III – i cugini che scatenarono la Guerra
dei Cent’anni per il reciproco dominio – con la costellazione delle
signorie germaniche e delle città-stato italiane, immediato emerge come
le città avessero assunto ormai un ruolo dominante, non soltanto come
crocevia degli affari economici e culturali, ma anche come punto focale
del potere politico e militare. Il che, non soltanto nulla toglie
all’importanza delle strade e delle vie di comunicazione capaci di unire
tra loro le città medesime, ma, anzi, la sottolinea enormemente.
Fintantoché un parte così grande del popolo medievale aveva risieduto
nella strada, questa stessa era servita più ad accogliere che ad unire
luoghi diversi; con la ripresa dell’accentramento urbano, seguito ad
almeno otto secoli di tendenza alla dispersione, viene così a mutare
anche il ruolo della strada, che assume in misura sempre più necessaria
una funzione di comunicazione, soprattutto militare, indispensabile per
esercitare il dominio su tutte le provincie del regno. La strada viene
dunque affidata ai viandanti; i viaggiatori si fanno sempre meno
numerosi, Ulisse fa ritorno a Itaca. Si costruiscono nuove strade; il
regno di Francia viene occupato da una fitta rete di collegamenti terrestri
che si doppia in un altrettanto efficace sistema di trasporti fluviali;
nell’Italia settentrionale si riaccomodano molte strade romane; in
Germania vengono aperti nuovi tracciati che reticolano tutte la maggiori
città. La strada diviene sempre meno luogo abitato e sempre più
percorso, come se perdesse la sua seconda dimensione, quella
latitudinale, per conservare soltanto, ma in misura enormemente
sottolineata, la prima e ad essa essenziale, quella longitudinale; la strada
torna a ricoprire il ruolo che le veniva attribuito nella Roma imperiale
di superficie organizzata di territorio necessaria per spostarsi da un
luogo ad un altro, e viene chiamata ad accogliere – e ad assorbire – non
più un indistinto popolo, privo di direzione, che si sedentarizza nella
strada medesima o che la utilizza sì, in senso longitudinale, ma senza un
ordine né una organizzazione coerenti, senza un indirizzo almeno
prevalente – quali una partenza ed un luogo di arrivo almeno di massima

284
Nel confine

conosciuti – bensì un flusso sempre più prevedibile e regolare di uomini,


spesso di soldati, ovvero di pellegrini, ma ormai bene ordinati e
incolonnati, che dalle diverse possibili origini si indirizza verso mete
prestabilite, avamposti dove si armano le battaglie piuttosto che santuari
più frequentati ovvero Roma, che non cessa, fino ad almeno la fine del
XVII secolo, di essere il caput mundi della cristianità, piuttosto che, in
misura sempre crescente, le grandi città dell’Europa centrale e
settentrionale. Si forma così una rete a maglie sempre più fitte che
dall’Italia si inerpica attraverso le Alpi e che al di là di queste sfocia in
un sistema stradale che si diffonde in tutta la Francia e la Germania fino
ai Paesi Bassi ed al Mare del Nord. Ciò, mentre la sedentarizzazione si
risolve in un aumento delle dimensioni di tutti i centri urbani: Parigi,
intra moenia, passa dai circa 100 mila abitanti degli inizi del XV secolo
al mezzo milione della fine del XVII per arrivare ad oltre 600 mila allo
scoppio delle Rivoluzione, per poi regredire negli anni successivi, e
quindi riprendere per toccare 1 milione 800 mila cittadini negli anni
della Comune, stabilizzandosi poi poco oltre i 2 milioni dalla fine del
XIX secolo fino ad oggi, mentre nel contempo viene a coagularsi un’area
urbana circostante che già alla fine del XVIII secolo conta una
popolazione complessiva di oltre un milione di anime, che saranno più
di tre milioni un secolo dopo ed 11 milioni alla fine del XX secolo. La
strada cessa così di essere essenzialmente cosa della campagna, di ciò
che è situato al di fuori della città, cessa di disperdersi nel contado,
come se in una mappa il suo segno apparisse sempre meno nitido ed
evidente in ragione del suo allontanarsi dalla città per poi ricomparire
più deciso quando si avvicina ad un altro centro abitato, per assumere
un tratto più omogeneo e marcato lungo l’intero suo percorrere e,
insieme, divenendo nuovamente luogo di vita comune di una parte non
irrilevante della popolazione, ma, ora, all’interno della città. La strada,
ormai non più abitata, è essenzialmente luogo di congiunzione fisica
delle città, oppure è la via interna alle città, che accogliere il popolo
inquieto che nel Medioevo dilagava fuori dalle mura, nelle campagne,
tra piccoli villaggi e fino al bordo delle foreste. Vie e lungofiumi, strade
di attraversamento e piazze, passaggi e sottopassaggi, vicoli e banchine
portuali, mercati e pensiline, tutte le aree interne alla città pubbliche e
fruibili collettivamente assumono la funzione che in precedenza era
della strada che si dipanava al di fuori delle mura – funzione oggi svolta
dalle vie commerciali o, meglio ancora, dalle aree di transito dei centri
commerciali, nei quali si riversa una popolazione altrimenti rinchiusa
nei propri abitacoli. E se nel Medioevo la strada abitata e popolosa era
a cielo libero, era spazio libero che, diversamente dalla campagna

285
Stefano Bevacqua

circostante, presentava un sia pur minimo livello di organizzazione,


fatta da terra battuta, di pietre romane metà divelte, di un simulacro di
ciglio, insomma: da qualche indizio che ne dicesse il fatto di appartenere
ad una categoria di luoghi che si assimila alla strada, ora, con il crescere
dell’urbanizzazione, quegli stessi spazi sono assolutamente organizzati,
perfettamente delimitati, molto spesso addirittura coperti, insinuati
all’interno degli edifici, e il popolo che li abita deve ora assoggettarsi
alle regole dell’organizzazione urbana, della decenza comune, per cui la
notte quello spazio deve rimanere, almeno di principio, sgombro e
silenzioso, ché, in effetti, il popolo della strada dell’era moderna non la
utilizza più come proprio albergo, ma piuttosto come sfogo ludico, in
quanto, ormai, quel popolo è del tutto o quasi del tutto sedentarizzato,
incasellato, racchiuso nell’oscillazione quotidiana tra luogo di
produzione e luogo di riposo. Non si dice più di vivere in un luogo, in
una città, in una via; si dice che si abita, rassegnandosi, con questo dire,
all’abitudine che consiste nel semplice occupare un certo spazio in
determinati momenti della propria esistenza. Abitare ed abito hanno la
stessa radice latina di habère, riferente un continuare ad avere, non nel
senso del possesso, bensì di quello di una consuetudine. Abitare è il
vivere in un luogo consueto, abituale. Ecco, dunque, comparire la forma
del riversarsi moderno nelle strade del commercio, come a moltiplicare
gli spazi abitativi – senza che nessuno divenga mai spazio vitale. Le vie
e le piazze, i bordo fiume e i pontili ed i mercati che dal XVII secolo
erano ormai abitati dal popolo dei sedentarizzati, a partire dal XIX
secolo, a fare inizio soprattutto da Parigi, ma, poscia, per la maggior
parte delle maggiori città europee, vengono così riorganizzate e
riordinate: la vita fuori dall’uscio viene sottoposta a crescenti regole,
talvolta, come nella Russia zarista, attraverso rigorose norme di polizia
che impedivano ogni sorta di circolazione nelle ore notturne, talaltra, in
modo meno radicale, come nella Roma papalina e nella Parigi della
restaurazione, mantenendo comunque uno stretto controllo delle
superfici pubbliche della città. Salvo lasciare naturalmente pieno e
libero accesso venuto il giorno, quando le attività commerciali potevano
fiorire grazie alla moltitudine di persone che erano libere di spostarsi
nel reticolo delle vie. Ecco fiorire, soprattutto nelle città del Nord
Europa, assai meno in Italia, salvo forse Torino e Milano,
un’organizzazione degli spazi pubblici urbani sempre più rigorosa ed
efficiente, che doveva favorire il commercio e garantire l’ordine. Si
tende così a canalizzare i flussi di persone che escono dalle proprie case
verso il più fruttuoso degli svaghi, il commercio. Vengono costruiti a
Parigi i primi passages, embrione dei futuri grandi magazzini e degli

286
Nel confine

attuali centri commerciali, che presentavano i due innegabili vantaggi,


rispetto alla strada, di essere coperti e al riparo dalle intemperie e di
essere sbarrabili con solidi cancelli una volta fatta notte. Walter
Benjamin parla a lungo dei passages ed intitola il suo ultimo e
incompiuto lavoro di notazioni e riflessioni proprio Das Passagenwerk.
Vi si possono leggere alcune pagine dedicate a questi luoghi di transito,
in parte aperti ed in parte chiusi, volti ad ospitare merci e pubblico, ad
essere percorsi e a trovarvi rifugio dalla pioggia. Luoghi liminari fissati
nel cuore della città. Sono, queste di Benjamin, note redatte in francese:

La maggior parte dei passaggi sono stati costruiti a Parigi nei quindici anni
successivi al 1822. La prima condizione per il loro sviluppo è l’apogeo
del commercio dei tessuti. Fanno la loro apparizione i negozi delle novità,
primi insediamenti commerciali ad avere costantemente presso i magazzini
merci in quantità considerevole. Sono i precursori dei grandi magazzini.
È a quest’epoca cui fa allusione Balzac quando scriveva: “Il grande
poema del mettere in mostra canta le sue strofe colorate dalla Madeleine
fino alla Porte Saint-Denis”. I passaggi sono i nodi del commercio delle
merci di lusso. In vista della loro sistemazione, l’arte entra al servizio dei
commercianti. I contemporanei non si stancano mai di ammirarli. Per molto
tempo, i passaggi rimarranno un’attrazione turistica. Una Guide illustré de
Paris dice: “Questi passaggi, recente invenzione del lusso industriale, sono
dei corridoi dal soffitto vetrato, con i cornicioni di marmo, che scorrono
attraverso interi blocchi di immobili i cui proprietari si sono riuniti per
questo genere di realizzazioni. Sui due lati del passaggio, che riceve la luce
dall’alto, si allineano i negozi più eleganti, in modo che ognuno di questi
passaggi diviene una città, un mondo in miniatura”. È nei passaggi che
viene per la prima volta sperimentata l’illuminazione a gas. La seconda
condizione richiesta per lo sviluppo dei passaggi è costituita dagli inizi
delle costruzioni metalliche. [...] Per la prima volta dai Romani, un nuovo
materiale da costruzione artificiale, il ferro, fa la sua apparizione. [...] Si
evita l’impiego del ferro per gli immobili, e lo si incoraggia per i passaggi,
le halles d’esposizione, le stazioni – tutte costruzioni che mirano a scopi
transitori.243

Equivocità del termine transitoires. Benjamin voleva forse intendere


transitaires? Il primo, qui lasciato nella traduzione dal francese, significa
transitori, destinati a non perdurare nel tempo; il secondo significa
relativo al passaggio, al transito244. Differenza non secondaria. Ma che
����. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main
1982, pp. 60-61.
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. Nella traduzione italiana della monumentale opera di Benjamin si è scelto di
assumere l’errore di redazione dell’autore – ovvero si è compiuto un manifesto errore
di traduzione – e si è dunque tradotto transitaire come “a scopi di transito” (cfr. Walter
287
Stefano Bevacqua

forse conviene lasciare insoluta assumendo entrambe le significazioni


che Benjamin ha forse volontariamente lasciato aperte in un ricorso
imperfetto alla lingua del paese che lo ospitava da alcuni anni. Ché
transitoires lascia forte il senso della temporalità che un edificio in
ferro suggerisce in quanto, almeno all’apparenza, più solidi sarebbero le
costruzioni in muratura o in cemento armato; mentre transitaires offre
pieno il riferimento al passaggio. Il primo è dell’effimero che sottende
una non continuità; il secondo è del fluido che sottende anch’esso una
non continuità. Nel primo, si passa perché l’edificio ha un termine,
una durata oltre la quale è destinato a scomparire, nel secondo perché
è questa la sua funzione. Equivocità che indica un indirizzo unitario,
quello del luogo terzo, in cui le persone, che pure lo abitano, non si
fissano – non possono fissarsi – ché equivoca non è soltanto la parola
usata da Benjamin: equivoca è la strada, il passaggio, la galleria, la via,
la piazza, il sentiero.
Certamente, ognuno di questi luoghi, tutti chiamati a congiungere
altri luoghi, ha caratteri ed usi peculiari, ma ciascuno è altresì sempre
capace di racchiudere l’intera differenza di ciò che congiunge senza
mai assorbire soltanto il suo inizio oppure la sua meta. Strada o sentiero
sono fatti necessariamente anche dal loro punto di partenza e da
quello di arrivo, essi comprendono questi due luoghi in quanto termini
del percorso, ma sono al tempo stesso luoghi a loro volta, transitivi,
transitori, transitaires, luoghi a pieno titolo, anche indipendentemente
dalla funzione – di congiunzione – che assolvono; proprio assolvendola
assumono un carattere di indeterminatezza, quel non essere riassumibili
nella funzione medesima in quanto inquinati dal punto di partenza e dal
punto di arrivo, e tanto meno riassumibili in questi ultimi per causa di
quella funzione congiungente. Ancora Benjamin:

Per comprendere il termine “strada”, occorre distinguerlo da quello


più antico di “sentiero”. Essi sono assolutamente differenti per quanto
riguarda la natura mitologica. Il sentiero porta con sé la paura e l’erranza.
L’ombra di questa paura si deve essere posata sui capi dei popoli nomadi.
Tuttora, chiunque si avventura in solitudine per un sentiero, dinanzi alle
sue svolte e alle decisioni imprevedibili, percepisce il potere che gli
antichi indizi avevano sulle orde nomadi. Chi percorre una strada, invece,
apparentemente non ha bisogno di alcuna indicazione e guida. Sulla strada,
l’uomo non è in preda all’erranza, ma soggiace al fascino della striscia
d’asfalto che si svolge monotona. Il labirinto, tuttavia, rappresenta la
sintesi di queste due paure: una monotona erranza.245

Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p. 6).


����.W. Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pp. 581-582.
288
Nel confine

Benjamin scrive questi appunti a Parigi intorno al 1938. Sono frasi


scarne. Egli parte da una differenza, quella tra strada e sentiero, e ne
coglie infine l’atto unitario, che ben si rappresenta nel labirinto, sia
quello che si genera nelle incertezze del sentiero che si insinua nella
foresta, sia quello che viene a formarsi osservando le strade di una città
da un’ideale punto di vista aereo ed alla giusta distanza, per cui si possa
cogliere la perdita di direzionalità del sistema viario, che sembra così
essere fine a se stesso, all’estremo: inutile, esattamente come accade al
sentiero nella foresta, il quale, in definitiva, non porta da nessuna parte,
pur con tutte le sue, appunto: inutili, evoluzioni tra le anfrattuosità del
territorio sul quale si disegna. Benjamin pensa alla strada rettilinea,
quella che si percorre in automobile, strada sicura, dunque, che dà bene
a vedere dove essa mena, ma, subito, egli riflette sulla complessità del
sistema delle strade, alle vie che si srotolano nella città, e trova il punto
di sintesi tra strada e sentiero in questo concetto di monotona erranza,
ove monotona sta per omogenea, non certo per noiosa, ed erranza risale
ad un muoversi non tanto senza meta, quanto nella consapevolezza
degli errori di direzione che si compiono; come in un labirinto, appunto.
In poche righe, Benjamin, che cercava la differenza, trova il coagulo
del senso in una terzietà e, al tempo stesso, sfiora il nodo del reale
dualismo che nel labirinto finalmente si riconduce, quello tra sacro e
profano – dualismo destinato anch’esso a risolversi nel terzo luogo
costituito dalle stesse strade e dagli stessi sentieri. Il sacro deve qui
essere inteso come sfera del timore, della convinzione della potenza
estrema ed esterna all’uomo e che lo trascende. Il profano deve essere
pensato niente affatto come sfrontata materialità del soggetto che
si propone immemore della divinità e che percepisce i limiti della
propria potenza – la sua non-onnipotenza – soltanto per la materialità
circoscritta del suo corpo – ci penserà la scienza e la tecnica ad illuderlo
sul superamento di questi limiti –, bensì come intelligenza consapevole
della propria dimensione e che in ragione di questa tende a superarsi.
Il sacro ed il profano, che peraltro si definiscono soltanto nella mutua
affermazione per la quale ciascuno esiste soltanto in riferimento
all’altro – la sottrazione del primo rende incomprensibile l’essenza del
secondo, e viceversa –, devono essere qui assunti non come credenza
e religiosità in opposizione ad un procedere materialistico, bensì come
condotta: riflessiva e timorata, la prima, quella che si volge al sacro;
pragmatica e prudente, la seconda, che si riferisce al profano. La strada
è percorsa dal viandante, il profano, il quale mira a con-giungere il
luogo dal quale è partito con la sua meta e guarda al sacro come destino
ultimo della propria individualità cosciente. Il sentiero è percorso dal

289
Stefano Bevacqua

viaggiatore che mira a con-giungere la sua condizione presente con


quella futura attraverso un itinerario che appartiene già esso stesso alla
sfera del sacro. Egli si muove come sollevato da terra, dice Kerényi, e
questa condizione sembra già suggerire come il suo agire sia volto ad
una sacralità che già si fa presente nel medesimo percorrere: egli guarda
ad Hermès, dio della strada, mentre il viandante, con i piedi ben per
terra, vede il sacro al termine e non durante il suo percorrere, e guarda
alla divinità totale, a Zeus. Questi, il viandante, è il pellegrino; quello, il
viaggiatore, è l’abitante della strada, Odisseo o saltimbanco, soldato di
ventura o predicatore incompreso.
Ricapitolando: le strade, in qualità di segmenti di territorio capaci di
ricongiungere, e, quindi, come luoghi che permettono la riunione del
differenziato attraverso una forma particolare del loro abitarle, quello
del percorrerle, ovvero percorrere nuovamente ciò che viene attraversato
per intero ed in tutta la propria lunghezza, le strade presentano la rara
caratteristica di assumere una funzione di natura sacrale a prescindere
dalle funzioni simboliche che gli possono essere attribuite, ché la
sacralità si trasferisce alla strada medesima in relazione alle intenzioni
di chi la percorre e della meta che è teso a raggiungere; una strada
diventa la Strada Sacra quando essa sia percorsa dal viandante-pellegrino
nell’intenzione di raggiungere il santuario, il tempio, la montagna sacra;
un sentiero diviene sacro, e, dunque, non è più soltanto quel vago
itinerario dalle incerte destinazioni che il boscaiolo segue per incettare
il contenuto del bosco, quando l’eroe, il viaggiatore, se ne distacca pur
perseguendone le forme iteranti nella sua ascesa verso il luogo della
sfida che lo potrebbe avvicinare al divino – verso la montagna sacra che
può essere raggiunta e salita soltanto percorrendo tutti i ghirigori del
sentiero; il ponte, è la tridimensionalizzazione della strada, che ne
moltiplica la potenza attraverso il suo superare la corrente – il flusso –
che impedisce il congiungimento, divenendo esso stesso luogo di
riunione, sotto l’arco di una porta ideale che vigila su una soglia ampia
a sufficienza da contenere quella parte di mondo che attende la riunione
medesima – sedendosi sul sofà del ponte che rende la Drina familiare a
tutte le genti; strade, sentieri, ponti, luoghi nei quali si avvera una
ricongiunzione del duplice, ma non nella semplicità di una connessione,
di un collegamento, bensì attraverso il loro costituirsi in elemento terzo,
capace di accogliere la partenza e l’arrivo, una sponda e l’altra sponda,
il sacro ed il profano, il terreno ed il divino, senza mai risolverli, e così
banalizzarli e diminuirli, in una loro somma, bensì accogliendoli. Strade
quasi impercettibili, appena segnate sul suolo del mondo, che paiono
essere più nella memoria e nella conoscenza di coloro che le percorrono

290
Nel confine

che non nella loro materialità, la quale, anzi, appare come soltanto
presunta: strade sopra le quali si marcia, certamente, ma senza scalfirne
la superficie, come soltanto un gregge che transuma oppure delle genti
che mutano il loro luogo possono garantire. Sono strade anche i tratturi
che dalle creste appenniniche centrali si dipanano fino al Tavoliere
pugliese per congiungere i pascoli estivi dei monti abruzzesi con il
tiepido pianoro che si spinge fino all’arsura salentina. Strade in qualche
misura estreme, che non si piegano ad alcuna classificazione né
formalizzazione in quanto la loro esistenza deriva dalla loro continua
rigenerazione, dal loro stesso utilizzo nel congiungimento. Le strade
dell’antichità, piuttosto che quelle ben meno solide e mantenute del
medioevo, e poi ancora le strade della modernità, fino alle odierne
grandi vie di comunicazione – strade paradossalmente trasformate in
fiumi, ché accolgono un flusso continuo e complesso di elementi in
continuo movimento relativo, come sarebbe per un fluido del quale non
si riesca a cogliere le unità discrete –, le strade alle quali si è comunemente
portati a pensare nel denominarle, appaiono come ben materiali,
constatabili oppure immaginabili come oggetti della realtà presente o di
quella passata. L’idea di strada pensa una superficie solida, compatta,
capace di reggere il peso dei viandanti e la leggerezza dei viaggiatori, le
ruvide ruote dei carri trainati dai bovi e i possenti pneumatici intagliati
degli autoarticolati. Strada con un bordo ben definito, con un ciglio di
pietre che la delimita quasi a proteggerla dal resto del mondo, che ne
potrebbe invadere la superficie, oppure con un ben visibile e rigoroso
margine che segna anche uno sbalzo di livello, per cui in basso scorrono
i veicoli e leggermente più in alto, in una peraltro incerta protezione,
muovono le persone private dei veicoli – che li si chiama pedoni, come
se la loro essenza derivasse dalle protuberanze piatte sulle quali si
possono reggere eretti; appunto: in piedi. Quando poi non è l’invalicabile
protezione di un’autostrada, racchiusa in un luogo nel quale è impossibile
accedere e dal quale è altrettanto impossibile uscire se non attraverso
specifici percorsi – svincoli e rampe – riservati ai soli veicoli, ciò che
accomuna questo sistema viario a quello ferroviario, in quanto entrambi
vietati all’uomo nella sua semplicità, quella riferita dai suoi piedi con i
quali si regge in piedi e con i quali per molti millenni si è spostato da un
luogo all’altro, percorrendo sentieri e strade, per congiungere un punto
di partenza ed un punto di arrivo. Dunque strade dotate di una materialità
e di una forma ben definite e riconoscibili, ché nessuno potrebbe mai
sbagliarsi nel riconoscere una strada da un campo coltivato o un sentiero
dal bosco che questi vìola insinuandosi nei suoi più intimi spazi. È che
anche il sentiero è materiale, è concreto, perché la sua esistenza è data

291
Stefano Bevacqua

dalla sua stessa consistenza e riconoscibilità. Anche il più labirintico dei


sentieri, difficile da seguire perché la sua traccia è stata quasi cancellata
dalla pioggia o nascosta dalla vegetazione, permane come tale, come
sentiero congiungente perché è materialmente evidente, è calpestabile,
è perfino modificabile, cancellabile, distruttibile, proprio perché
concreto, segnato, dato, di-segnato. C’è sempre una mappa per ogni
strada ed ogni sentiero, c’è la traccia che ri-materializza sul foglio la
materialità del percorso congiungente, che si tratti del percorso alpino,
segnato con poche pennellate di colore sui tronchi degli alberi più
grandi o sulle rocce che galleggiano dal suolo, o che sia la grande
autostrada vietata ai piedi del pedone; c’è sempre un cartello, una
indicazione, una freccia, che propone un senso, un sistema di segni,
anche scarno, il quale, nel suo insieme, si comporta e, dunque, si
propone come una mappatura o una sorta di sistema di indirizzi, non
necessariamente cartaceo, ma che efficacemente si disegna sullo stesso
territorio ove si srotola il percorso congiungente. Il tratturo della
transumanza, al contrario è meno segnato, indirizzato, mappato,
piuttosto che ricordato, risaputo, esperimentato. Nessuna mappa indica
il tratturo e quella che lo descrive è venuta molto tempo dopo di esso, è
tracciata a posteriori. Sono i pastori a conoscere, essi soltanto, il
percorso da seguire per portare i greggi dall’asprezza abruzzese alla
piatta linea d’orizzonte che lascia emergere le ondulazioni garganiche.
Il rilevamento catastale, quello delle mappe conservate ancora oggi
negli archivi che furono del regno borbonico, sul cui territorio insisteva
la quasi totalità dei tratturi centro-meridionali italiani, è venuto forse
più di mille anni dopo il tracciamento mnemonico di quelle vie. È l’uso,
l’abitudine, il percorrere, l’andare verso il sole quando l’autunno incalza
ed il ritornare ai monti quando si inoltra la primavera, il seguire una
direzione che è tracciata nel racconto, nella tradizione, tramandata per
generazioni, il muovere con quel passo lento, quello che possono le
gambe di un uomo e le zampe degli animali che egli conduce, è tutto
questo che disegna il tratturo. Ogni strada è materiale, è fatta di sostanza
dura, ogni strada ha un ciglio rigido e concreto, dice il suo spazio con la
sua precisa forma. Il tratturo è fragile, la sua superficie è appena battuta
dai piedi del pastore e dai piccoli zoccoli degli animali, che, con la loro
forma, ne sollevano qualche particella e la ricompongono poi per
pressione, formando una sorta di strato superficiale di terriccio più
mobile, dal quale, passate le greggi, rinverdisce l’erba primaverile,
destinata all’ingiallire dell’estate, fin quando, con l’autunno, è il nuovo
calpestio a rigenerare lo strato superficiale del terreno. Niente pietre
basaltiche, niente miscele bitumate, solo terriccio scalfito dalla superficie

292
Nel confine

e poi ricompattato dal poco peso di uomini e animali, e poi erbe nascenti,
che si mutano in paglia sottile: il tratturo è la via della vita transumante,
ma non è un sentiero. Il sentiero, infatti, sussiste per chiunque lo
percorre. Esso viene tracciato e segnato, in certi casi anche mantenuto e
ripulito dalle pietre che le piogge possono accatastarvi e dalla
vegetazione che tentasse di cancellarlo. Il sentiero rimane così fissato
dalla volontà dell’uomo che lo ha segnato e reso percorribile; il sentiero
deriva dunque totalmente da un intervento deliberato ed artificiale, a
prescindere dall’uso che esso potrà offrire. Al contrario, il tratturo, pur
disegnato dalle generazioni di pastori che lo hanno successivamente
percorso, è fissato dall’uso che ne viene fatto, da quei soli due viaggi
annuali, l’andata ed il necessario ritorno, da quel lieve calpestio; il
tratturo non è tanto segnato e intrattenuto, quanto naturalmente
sottolineato. È il percorrimento bi-annuale che ne garantisce la presenza
e la permanenza, è quel passare e ripassare che ne difende l’esistenza
dalla vegetazione circostante che vorrebbe invaderlo, dalle acque che ne
potrebbero distruggere la forma. Antichità del tratturo, che forse nasce
prima di ogni strada, di ogni sentiero. In Abruzzo, se ne trovano tracce
risalenti forse al V millennio a. C., ché di quelle epoche risulterebbero
anche le rovine di alcuni recinti fortificati, forse serviti a custodire gli
armenti durante le soste. I documenti, dicono che i tratturi più antichi
già disegnassero le pendici appenniniche dal centro al Mezzogiorno e
ritorno fin dal VI secolo prima di Cristo, così’ come riferisce un’iscrizione
rinvenuta vicino a Termoli. Oggi, degli antichi tratturi che solcavano la
Penisola rimangono molte tracce e desta sorpresa la considerazione di
come lungo quei percorsi, che appaiono sempre delicati, in un instabile
equilibrio tra il solido della roccia e l’effimero della sabbia, tra il
mutevole dell’erba e il fluido delle acque, potessero accogliere tanto
traffico. Il fascio dei maggiori tratturi appenninici prendeva origine in
Abruzzo e si dipanava fino al Tavoliere ed alle Murge: cinque percorsi
quasi paralleli, sui quali si spostavano due volte l’anno alcuni milioni di
capi di bestiame. Anche la moltiplicazione dei tratturi, che potrebbe
apparire insensata, visto il loro scorrere quasi perfettamente parallelo, si
spiega forse con la necessità di evitare un eccessivo ricalco dei suoli, un
troppo pesarvi, asportando del tutto quella coltre sottile che garantisce
la ripresa stagionale delle erbe, capaci, con le loro radici, di trattenere il
suolo dal dilavamento delle piogge. E si spiega così anche la vastità dei
tratturi, sempre larghi 111 metri, che equivalevano a 60 passi napoletani,
ciò che permetteva ad un gregge di qualche migliaio di capi di scorrere
lungo il tratturo senza disperdersi lateralmente e senza diventare così

293
Stefano Bevacqua

lungo da sgranarsi fino a perdersi246. E, quasi paradossalmente, appaiono


meglio conservati i tratturi medesimi, piuttosto delle innumerevoli
costruzioni, quelle sì, ben solide e materiali, che nel corso dei secoli
sono state realizzate lungo i loro percorsi. È, in primo luogo, il caso
delle strade romane che seguivano la via appenninica, dalla via Salaria
alla Tiburtina Valeria, che scorrevano parallele ai tratturi e delle quali
si trovano oggi soltanto vaghe vestigia, ed anche quello di numerosi
ricoveri fortificati e villaggi che erano sorti lungo quei percorsi e dei
quali rimane oggi soltanto qualche traccia, mentre i tratturi, utilizzati
fino agli anni Sessanta del secolo scorso247, sia pure ormai in buona
parte avvolti dalla vegetazione, permangono ben riconoscibili e distinti,
nonostante negli anni Trenta la loro larghezza sia stata dimezzata a 30
passi napoletani, pari a circa 55 metri, autorizzando gli agricoltori
stanziali a mettere a coltura le strisce di terreno rese così disponibili. È
la leggerezza, il suo essere quasi immateriale, più memorato che
tracciato, meno solido che praticabile, a rendere il tratturo tanto
resistente: esso si impone nella sua equivocità, nel congiungere senza
bisogno di mappe, nell’accogliere senza mai imporre un ciglio, una
soglia, una separazione.
E ancora, simile a quella del tratturo, leggera, libera dalla materialità
dei cigli e delle fondazioni, appare la superficie del deserto, tracciata
dall’orientamento nomade. Per il nomadismo sahariano, la strada che
congiunge il luogo dal quale si muove con il suo necessario destino, è
il vuoto. Il luogo del nomadismo tuareg è privo di riferimenti: la pista
carovaniera è sia pur timidamente fissata per congiungere i punti dove
l’acqua è disponibile, ma il nomade si muove in una direzione non
indicata, verso un congiungimento che emerge dalla conoscenza, dalla
memoria, dall’istinto. Lo spazio sedentario, che pure circonda sempre
le aree presso le quali periodicamente sostano le strutture nomadi dei
popoli sahariani, è fissato, è materiale, è costruito ed è riferito dalle
mappe. Lo spazio nomadico, invece, è scevro d’ogni materialità, esso
non può essere in nessun modo fissato né riferito. Questo vuoto viene
così colmato dal movimento. L’aridità dei luoghi non è la condizione
del nomadismo sahariano, è soltanto uno degli ingredienti, è l’elemento
forse più appariscente, ma non è la scarsezza dell’acqua a generare il
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. A proposito della quantità di animali che venivano condotti stagionalmente lungo
i tratturi sull’asse Abruzzo-Puglia, si tenga conto che, a fine Ottocento, la dogana di
Foggia, vedeva, in base ai registri, il passaggio di oltre 20 milioni di capi ovini ogni anno.
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. Dagli anni Settanta lo spostamento biannuale degli ovini avviene ormai con
autocarri che utilizzano la comune rete autostradale e stradale. Si consideri, inoltre,
che la popolazione ovina italiana è passata dagli oltre 40 milioni di capi dell’inizio del
Novecento agli attuali 7 milioni, concentrati per quasi la metà in Sardegna.
294
Nel confine

nomadismo come necessità. È il vuoto a renderlo possibile, a motivare


ed a muovere questo perenne inquieto movimento, occupato da un
altrettanto perenne e drammatico affrontamento con altri nomadi e
con altri popoli, in una sorta di guerra eterna. Non c’è alcuna fortezza
da difendere, non vi sono mura da abbattere, porte da sfondare, città
di liberare o da conquistare: c’è il vuoto di una strada che occupa la
totalità dello spazio disponibile, pista-tratturo-sentiero immane e totale,
che muta in ogni istante, ridisegnata continuamente dal vento. Luogo
del vuoto che riassume in sé ogni possibile limite e tutte le frontiere,
così come tutti i luoghi dai quali si abbia origine e tutti quelli che,
attraverso questo stesso vuoto, si possono congiungere. Il vuoto chiama
il movimento e lo trasforma in corsa, quella necessaria ad occupare il
posto più avanti, prima che altri giungano in quello spazio – che sarà
poi nuovamente ceduto, in questo paradossale giro in tondo. Per correre
– percorrere – occorre la leggerezza, che si sostanzia in un sistema
nomadico che fa della semplicità la sua necessità. La razzia non è un
modello di acquisizione di beni da contrapporre alla produzione, essa è
una necessità: il nomade si spoglia di ogni pesantezza e corre e raccoglie
quello che trova dove lo trova quando gli è necessario e conferma così
la sua sussistenza unitamente al suo potere attraverso la violenza di un
cogliere che non può mai fermarsi. Il nomade sahariano si comporta come
Hermès: egli si muove nello spazio, sfiorando il suolo, raccogliendo
quel che trova e che gli è utile. Se si arresta, il nomade soccombe. Per
questo non esiste uno spazio nomadico strettamente inteso, ma è tutto il
vuoto che rimane aperto ad essere mutato in superficie di spostamento,
strada con 360 direzioni possibili, spazio puro, ancorché costellato di
innumerevoli piccole riserve di tutto ciò che al nomade è necessario:
acqua, animali da sella e da trasporto, ferro e armi, cibo e tessuti.
Lo spazio nomadico non è dunque un luogo di erranza, una periferia
dimenticata del mondo, ma, piuttosto, il territorio dove si esercita
pienamente l’imperio di un potere che si fonda sull’annullamento dei
margini così come li si intende in un modo sedentarizzato, come cigli,
porte, soglie, luoghi di passaggio. Nello spazio nomadico il passaggio
è pervasivo e totalizzante e accade in ogni possibile direzione. Niente
mappa, nessun segno che indichi la direzione, soltanto la memoria
guida il tuareg. Il suo viaggiare – che non è mai un vagare e nemmeno
un viandare – interseca e attraversa le piste che congiungono l’Africa
profonda al Mediterraneo e sono proprio queste piste utilizzate dai
carovanieri, che distribuiscono beni e merci presso la costellazione
degli insediamenti sedentari, e dai pastori, che devono seguire il circuito
del rinnovamento delle acque, a costituire il solo simulacro di frontiera

295
Stefano Bevacqua

all’interno della superficie vuota sahariana. Da una parte, infatti, le


piste segnano, sia pur in maniera assai labile, il suolo e separano lo
spazio vuoto in un al di qua ed un al di là, perfettamente distinguibili
soltanto per l’azione della pista medesima. Dall’altra parte, proprio
per la loro funzione di luogo di trasporto, le piste sono anche luogo di
congiunzione, non soltanto in via longitudinale, in quanto uniscono –
comprendendoli – due villaggi o due oasi, bensì anche latitudinalmente,
nella misura in cui ricompongono i due lembi di vuoto che peraltro
separano. Azione di natura orizzontale, che vede lo spazio nomadico
del vuoto trovare una sorta di scheletro al quale appoggiarsi e per suo
tramite ricomporsi – trovare una forma. La frontiera del mondo nomade,
in verità non è tale: non soltanto essa è porosa, aperta, suscettibile di
congiungere interessi ed esigenze più che di porli in affrontamento, ma,
soprattutto, essa è mobile e negoziabile in funzione delle necessità e
delle evenienze. Ci pensa il vento a decidere dove si situa il qua ed il
là; ci pensa l’apparizione dell’acqua e del verde in un punto diverso
e lontano a modificare il percorso della pista e con esso a mutare la
geografia del vuoto superficiale del deserto che su quello schema di
sottili ed effimere vie trova la sua dimensione concepibile; ci pensa
la volubilità di un capo tuareg a cambiare direzione alle carovane e a
spostarne il valore su un versante nuovo e diverso. Ma questo è soltanto
un ricordo. Tutto ciò non esiste ormai più: la fissazione dei confini degli
stati sahariani – Algeria, Libia, Tchad, Niger, Nigeria, Burkina Faso,
Mali, Mauritania – ha spezzato le stesse etnie Touareg, Toubou, Maures,
in mille rivoli; le piste sono passate sotto l’amministrazione militare
dei diversi paesi, spesso in tragica contesa l’uno contro l’altro; i posti
di frontiera fortificati hanno sostituito le povere costruzioni di fango
e pietre dei sedentari. Il vuoto si è riempito di materia, di edifici, di
autocarri, di mezzi militari, di povertà.

296
FINALE

DIONISO
Maschere, riti, giochi, travestimenti

Di nuovo, serve un passo indietro, alle seconde pagine di questa


indagine, quelle dedicate al labirinto. È Arianna a risolvere l’avventura
di Teseo, a fornirgli quel filo che tenuto ben saldo nelle mani gli consente
di ritrovare l’uscita dagli infiniti meandri del palazzo di Cnosso. Egli ha
soppresso il Minotauro, fratello di Arianna, figlio inumano di comune
madre, Pasifae, che si era unita al meraviglioso toro bianco donato
da Poseidone e che ad egli era destinato in sacrificio. Minosse non
seppe non farne lucro e lo dedicò alla fecondazione delle sue vacche,
scatenando l’ira del dio, che condannò Pasifae ad un amore impossibile
e violento, fino a concepire l’ibrida mostruosità. Teseo ha vinto il
confronto e scongiurato l’arrogante pretesa di Minosse di sacrificare
sette fanciulle e sette fanciulli ateniesi perché fossero ridotti in brani
dalla bestialità del mostro mezzo toro e mezzo uomo. Teseo, l’eroe della
fondazione, ha vinto. Arianna ha perso, ha perso tutto: ha tradito suo
padre; ha permesso che suo fratello – mezzo fratello, così come mezzo
uomo, mezzo mostro: ibrido assoluto – venisse ucciso; ha rinnegato la
sua terra, Creta; ha bestemmiato sua madre Pasifae, che quel mostro
aveva generato senza propria colpa perché mercé di un desiderio che
veniva dalla vendetta del dio. Arianna esule, senza terra. Creta non gli
appartiene più. Arianna, che salva Teseo con quel filo rosso da tenere
ben saldo tra le mani, perde il filo che la congiunge al suo mondo ed
alla sua terra. Il filo era uno soltanto ed è Teseo ad usarlo per intero.
Nessuna seconda possibilità di servirsene, per rimanere legata al proprio
mondo. L’atto di Arianna è molto più del gesto di una giovane che cade
innamorata di fronte all’eroe ateniese venuto a vendicare le sue genti:
Arianna si dona interamente ad un destino diverso ed estraneo; non cede
sé stessa a Teseo, molto di più: gli dona la salvezza e così facendo si
affida ad egli interamente, perde ogni legame, ogni filo; Arianna perde
l’immagine di sé, è come se non esistesse più, come se fosse stata
cancellata da ogni sua vicenda passata. Non le rimane che il futuro,
incerto futuro. Dal momento in cui sale sulla nave di Teseo e con le vele
prende il vento verso Nord, Arianna abbandona un mondo ed entra in un
Stefano Bevacqua

luogo vago ed equivoco, oltre il limite della consuetudine e della ritenuta


giustizia per accedere ad uno stato intermedio, dal quale non mai uscirà.
Arianna è così testimone di una liminarità non risolta, abitante di un
luogo le cui vastità coincidono con il mondo al quale ora appartiene,
sospeso tra divino e mortale, tra cielo, dove la sua corona si trasformerà
in costellazione, e terra, dove giace singhiozzando. Arianna che Teseo
abbandona sulla spiaggia dell’isola di Nasso. Impossibile ricostruire il
perché di questo gesto, non tanto perché le spiegazioni che la tradizione
e la mitologia possono offrire appaiano confuse e contraddittorie, quanto
per il motivo per il quale queste stesse spiegazioni non potrebbero che
essere, appunto, confuse e contraddittorie. È che ciò che accade sulla
spiaggia di Nasso è tanto inevitabile quanto necessario e fortunato. Non
è un viaggio trionfante, quello che Teseo conduce verso Atene, con le
sette fanciulle e i sette fanciulli ben guardati in salvo, con l’orgoglio
di avere spezzato una volta per tutte la dominazione minoica, di avere
vendicato la superbia di Minosse e cancellato l’orrore del mostro metà
uomo e metà toro. C’è in quel viaggio, il senso di una tragedia che
accompagna di lega in lega il navigare di Teseo verso Atene. Egli ha
vinto, è l’eroe fondatore cui era stato imposta una nuova ed ardua
prova. Ma il senso della tragedia dice che ogni vittoria ha un prezzo,
che ogni stretto passaggio non soltanto apre alla vastità di un futuro
irrisolto, ma insieme costringe e asporta, toglie e sfinisce. Teseo non
torna ad Atene più forte di quando era salpato, così come Eracle, al
termine delle immani fatiche non era più lo stesso. Loro, gli eroi della
mitologia, sono divini a metà e soffrono come gli uomini e semmai
nella volta celeste degli immortali vi giungono soltanto alla fine del loro
ciclo, sfiniti, impoveriti, più testimoni di una potenza esauritasi che fieri
messaggeri di forza. Teseo non poteva portare Arianna ad Atene perché
ciò che lo attende è l’errore, l’equivoco, l’incertezza che si trasforma in
destino, la piccola superficiale dimenticanza che fa basculare il futuro.
Teseo si dimentica di cambiare le vele, di spiegare quelle bianche e
sciogliere quelle nere, ché era questo il segno previsto: se Egeo, suo
padre, avesse visto all’orizzonte vele nere avrebbe significato la morte
di Teseo di fronte al Minotauro e la fine delle fanciulle e dei fanciulli
datigli in pasto; vele bianche gonfie di vento vittorioso avrebbero detto
alla città che Teseo stava tornando. Egeo scorge vele nere e non resiste
al dolore: si getta dalla rupe e muore tra i flutti del suo mare. Teseo
torna per divenire re di Atene. Facile sarebbe la malignità che egli abbia
volutamente tenute issate le vele nere per indurre il padre a lasciargli
il posto di regnante, ora che aveva superato anche l’ultima e più ardua
prova. Rimane che il re di Atene non poteva unirsi alla figlia scellerata

298
Nel confine

del nemico di un tempo, di quel Minosse che aveva sottomesso l’Attica;


il re di Atene non poteva portare sul talamo colei che aveva tradito il
padre e partecipato all’uccisione del fratello. Arianna doveva essere
dimenticata, lasciata da una parte, abbandonata a Nasso, così come
doveva essere dimenticata quella vela bianca che lo avrebbe reso re. E
per Arianna, la singhiozzante Arianna, delusa e ferita nell’amor proprio
e nel sentimento, straziata da questo tradimento vigliacco, fatto di un
abbandono notturno, senza sfida né parole, si fissa così un avvenire che
perpetua l’equivocità di un luogo che non ha più le sembianze dal mondo
conosciuto, delle isole Egee, né quelle della Creta natale o dell’Attica
mai raggiunta, e che nemmeno si dilegua nelle parvenze di un mondo
futuro ed etereo, divino, apollineo. Niente di apollineo, di rarefatto, di
immaginifico: Arianna rimane su una terra ma che non è la Terra, si
divinizza senza tramutarsi in dea, si eleva senza ascendere, perché il suo
mondo diviene quello di Dioniso.
Esistono almeno nove diverse versioni dell’incontro e dell’unione
di Arianna e di Dioniso. Non potrebbe essere diversamente: il loro
incontro non avviene in un mondo dove valgono regole note – non
necessariamente coerenti e lineari, come quelle della fisica intermedia,
“umana”, compresa tra microfisica e macrofisica, per le quali linearità
e coerenza formale fanno spazio a circolarità e salti di livello –, regole
le quali siano comunque annotabili e quindi, una volta conosciute,
prevedibili. Arianna e Dioniso si incontrano generando essi stessi un
mondo, asintoticamente collaterale, che non può mai fissarsi nei suoi
limiti e confini perché equivocamente collocato in un tempo, per l’oggi
remoto, e per la mitologia comunque espanso e non computabile –
nella mitologia non ci sono giorni e notti, né ore o minuti, ma soltanto
tramonti quasi eterni ed aurore interminabili, oppure notti infinite e
accecanti giorni solari che non hanno mai un inizio ma soltanto fissità.
Che Arianna rimanga uccisa su quella fatale spiaggia di Nasso o che
viva per perpetuare il suo pianto, nulla muta, perché ella ormai abita
l’etereo ed indefinibile mondo che si pone oltre al Mondo e prima del
Cielo. Omero riferisce dell’incontro tra Arianna e Dioniso, attraverso il
racconto di Odisseo, quando questi scorge Arianna attraverso la porta
dell’Ade che gli si schiude per sapere del proprio futuro e del mondo che
ha lasciato ad Itaca. Per Omero, Arianna muore uccisa da una freccia
di Artemide; l’aristocratico Omero non scende a patti con la materialità
beffarda e insondabile di Dioniso, quasi nemmeno lo nomina, e gioca
sull’equivoco, lasciando intendere che ad indurre Artemide al sacrificio
di Arianna sarebbe stato proprio lui, il negletto Dioniso, che in tal modo
poté farla propria senza alcuno sforzo né ingegno, come ricomprandola

299
Stefano Bevacqua

defunta dalla dea e poi ridandole vita, come nel suo divino potere. Dice
Omero: “E Fedra e Proci io vidi e Arianna la bella, figlia di Minosse
funesto, lei che un giorno Teseo da Creta portò sul colle sacro di Atene,
ma non poté averla, Artemide prima l’uccise per le accuse di Dioniso,
a Dia cinta dal mare”248. Omero la vede già sull’Acropoli, Arianna, la
immagina unita a Teseo, il nobile eroe privo di macchia, che mai avrebbe
abbandonato la splendida fanciulla, che gli si era prostrata d’amore e
desiderio salvandolo dal Minotauro, ché lei soltanto poteva salvarlo,
poiché unica a possedere quel filo rosso, il segreto dell’uscita, la via per
fuggire indenni dopo il massacro di quella mostruosa metà di fratello,
metà uomo e metà toro. Il padre di Odisseo deve tutto riferire ma non
transige sulla quella materialità incresciosa di un abbandono necessario,
di un tradimento, quello di Arianna, cui ne segue un altro, quello di
Teseo che dimentica la vela nera issata sull’albero mastro a segnalare la
sua morte e così a farsi strada sul trono di Atene. Troppo umane queste
gesta, inconfrontabili a quelle di Odisseo, che cade nelle trappole di Circe
ma sempre è capace di rispondere all’eroico imperativo del fare ritorno
e ritorno infine farà, cancellando con il sangue tutte le vergogne dei
Proci – ci vuole Dante, per rimettere le cose a posto e mandare Odisseo
all’inferno, ad espiare la sua immensa presunzione. Dunque, quattro
versi gettati quasi in un angolo dell’immane poema, che se Omero non li
avesse vergati minore sarebbe stato lo scherno verso Dioniso e la povera
Arianna, alla quale, in quelle poche parole, si dedica soltanto un vago
ricordo, come quello di una brutta storia passata, finita male, ma, altresì,
storia di un superamento, di un passaggio in uno spazio ed in un tempo
ulteriore anche se incerto, indeterminato, indicibile – oltre il margine
che vagamente ed in modo oscillante tenta di indicare il luogo di confine
che unisce la vita alla sua ulteriorità. Arianna non è più di questo mondo
e giace in un altro luogo che non è né la morte, né il divino: non diviene
divina, ma partecipa del mondo degli dei; non è più mortale, ma non
è eterna; non possiede i poteri del sovrannaturale, ma non è nemmeno
soltanto naturale. Omero, nella sua dispotica presunzione, la mette da
parte, ma non può fare a meno di fissarla in un luogo diverso dal mondo
che non è un altro Mondo. E lo stesso dice Esiodo, nella Teogonia,
quando evoca le unioni divine: “Dioniso dalle chiome d’oro la fulva
Arianna, figlia di Minos, la fece sua sposa fiorente, lei che il dio figlio
di Crono fece immortale e ognor giovane”249.
Dunque le nozze, finalmente Esiodo le svela, ne riferisce, ma non le
narra, è reticente, non dice di Nasso né di dove Arianna sia stata portata
����.Omero, Odissea, XI 322-325, cit., p. 381.
. Esiodo, Teogonia, 947-950, Rizzoli, Milano 1984, p. 123.
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300
Nel confine

sul talamo, né quale talamo, né quando. Esiodo conferma che Arianna


diviene immortale, ma non dice se ella sia divenuta divina, se Teseo
abbia tradito o se Artemide abbia scoccato la sua freccia fatale, non
racconta null’altro, anzi: non racconta, almeno non nel senso proprio di
questa parola, si limita a informare intorno ad un evento nominandolo,
senza contestualizzarlo né narrarlo. Della stessa natura sono le altre
testimonianze antiche, come quelle di Fericide d’Atene o di Teolito di
Metimna, oppure le sibilline allusioni di Epimenide, il mago cretese
che forse più di tutti avrebbe potuto lasciare maggior lucide tracce degli
eventi che trassero Arianna da Minosse e la consegnarono a Dioniso per
il tramite – involontario o consapevole – di Teseo. Occorre la pazienza
catalogatrice di Plutarco, per rimettere le tessere al loro posto e, senza
disegnare un’univoca immagine, almeno elencare le diverse versioni
possibili. Nella vita di Teseo, che egli redige in parallelo a quella di
Romolo, poiché entrambi fondatori, Plutarco scrive:

Su questi fatti e su Arianna circolano molte altre versioni che non


concordano affatto tra loro. Alcuni dicono che Arianna, abbandonata da
Teseo, si impiccò, altri che, accompagnata a Nasso da marinai, si sposò con
Onaro, sacerdote di Dioniso, abbandonata da Teseo che si era innamorato
di un’altra. [...] Secondo alcuni Arianna ebbe da Teseo Enopione e Stafilo.
[...] Queste sono le versioni più famose della leggenda, che del resto tutti
conoscono bene. Una versione particolare, invece, ci è fornita da Paion di
Amatunte250. Egli racconta che Teseo fu spinto verso le coste di Cipro da
una tempesta proprio mentre Arianna, che era con lui, era incinta; poiché
ella non riusciva a sopportare le sofferenze causatele dal mal di mare, la
fece scendere a terra, mentre egli tornò indietro dalla terra al mare per
portare aiuto alla nave. Le donne locali accolsero Arianna e la curarono
per la tristezza di essere sola, consegnandole lettere false, come se gliele
avesse inviate Teseo; quando iniziò a soffrire per le doglie, la aiutarono,
ma morì prima di partorire e fu sepolta. Quando Teseo fece ritorno, soffrì
profondamente per l’accaduto e diede denaro agli abitanti del luogo,
ordinando di fare sacrifici per Arianna e di innalzare due piccole statue,
una in argento, l’altra in bronzo. Durante il sacrificio, nel secondo giorno
di Gorpiaios, uno dei giovani, sdraiato, urla e imita le donne durante il
parto; gli Amatusi chiamano il bosco sacro, in cui si trova la sua tomba, di
Arianna Afrodite. Alcuni scrittori di Nasso raccontano, con una versione
originale, che vi sono stati due Minosse e due Arianne, delle quali una
dicono abbia sposato Dioniso a Nasso e abbia generato Stafilo e suo
fratello; la seconda, più giovane, rapita e abbandonata da Teseo, sarebbe
giunta a Nasso, accompagnata dalla sua nutrice di nome Corcina, di cui
si può vedere la tomba. Questa Arianna sarebbe morta lì e avrebbe onori
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. Poeta di età ellenistica vissuto tra il secondo ed il primo secolo a. C., del quale si
conosce soltanto quanto riferito dallo stesso Plutarco.
301
Stefano Bevacqua

differenti dalla prima: infatti festeggiano la prima nell’allegria, con gran


divertimento, mentre per l’altra i sacrifici si celebrano nella sofferenza e
nella tristezza.251

Ogni tentativo di definire Arianna, di fissarne un’origine ed una


vicenda, di riferire del suo divenire, sembra destinato all’insuccesso.
Viene data per viva così come per morta, per divina e per sepolta, per
venerata e per dimenticata, perfino: per una e per duplice. Nemmeno
aiuta l’iconografia. Quella antica, vascolare, è generalmente monocorde
e vi si raffigura una Arianna che si congiunge ad un Dioniso: ella
compare vestita di un semplice chitone che tutta la ricopre, Dioniso
appare avvolto in un himation che ne lascia scoperti soltanto i calzari;
ignudi sono i satiri, che sempre lo accompagnano e che si pongono alla
destra dell’una ed alla sinistra dell’altro, come una cornice animata. Più
recente, ma estranea alla Grecità, è la rappresentazione che di quell’unione
controversa e oscura ne diedero gli affrescatori della Villa dei Misteri
di Pompei. Dioniso è seminudo e mollemente appoggiato al ventre di
Arianna che lo cinge dalle spalle. Ella è sontuosamente abbigliata, come
una regina, in contrasto apparente ed inatteso al discinto portamento del
dio. A destra della coppia, compare un satiro goffo e grasso, che brinda
da un boccale di vino, a torso nudo e con il capo inghirlandato di edera;
a sinistra, una coppia di giovani è in procinto di svelare il simbolo
magico della potestà divina di Dioniso, il fallo scolpito nel legno di
fico. Il volto di Arianna è abraso, assente, mozzato dalla malevolenza
del tempo. Tutta la scena riferisce di una cerimonia dionisiaca, di una
festa orgiastica e la femmina che abbraccia lascivamente il dio non può
che essere Arianna, ma non è dato di conoscerne i lineamenti. La sua,
a Pompei, è una presenza alla quale non corrisponde alcuna identità
specifica, alcun volto. Certamente, ciò è del tutto casuale, ma comporta
che per concepire il volto di Arianna occorra attendere altri quindici
secoli, fino alle pitture barocche di Guido Reni, di Annibale Carracci,
di Tiziano, precedute soltanto dalla più inquietante e forse storicamente
prima ed ancora perfettamente conservata immagine di Arianna, quella
di Cima di Conegliano. Si tratta di una piccola tavola ad olio dipinta
intorno al 1504 ed oggi esposta al Poldi Pezzoli di Milano. Dioniso
è raffigurato seduto sulla panca nobile di un carro di legno intarsiato
trainato da una coppia di grandi felini neri. Il suo abbigliamento
appare un confuso miscuglio di reminiscenze antico romane e di spunti
medievali: stivali, calze rosse, vestito con svolazzi e spalle a sbuffo,
cappa rosa. Intorno alla testa, una corona d’edera, identica a quella che

����.Plutarco, Teseo, 20, Rizzoli, Milano 2003, pp. 181-183.


302
Nel confine

il dio sta posando sul capo di una Arianna vestita di un bianco virginale
chinata e quasi in ginocchio, che sembra supplice ed estatica, con
quella mano sinistra sollevata nel vuoto, come per dire di un’emozione.
Davanti al carro, due satiri metà caprini; dietro, un sileno che porta con
fatica una grande cesta carica d’uva. Sullo sfondo: una spiaggia, forse
quella di Nasso, il mare, lontane isole ed un chiarore boreale. Tutto il
contrario della Arianna offerta dal Carracci, che guarda fissa e sorniona
negli occhi di chi osserva la grande tela conservata a Palazzo Farnese
a Roma, che fu dipinta nell’ultimo scorcio di XVI secolo. Arianna
corpulenta, a spalle nude, vestita di un chitone azzurro; il suo carro è
tratto da due caproni, mentre quello di Dioniso, che giace nudo e coglie
grappoli d’uva, è portato dalle inseparabili tigri. Una Arianna, questa
del Carracci, che sfida gli sguardi e la sua stessa storia, che sa quello
che desidera, che ha manifestamente ottenuto il suo scopo, quel dio, che
la farà immortale – anche se non eterna. Diversa ancora è la Arianna
del Reni, minuta e ignuda, commossa e lasciva insieme, che protende la
mano verso un Dioniso anch’esso discinto, ma senza guardarlo, come
in attesa di un miracolo desiderato ma che non si osa domandare. Così
come ancora diversa è quella del Tiziano, che sembra quasi fuggire dalla
bolgia creata da un Dioniso che si lancia dal suo carro, trainato da due
giaguari, soprattutto dal suo seguito di capriformi satiri e barbuti sileni
e baccanti indiavolate che agitano i loro chiassosi cembali. Ultima, la
Arianna del Tintoretto. Giace seduta ignuda, le spalle ad un albero e
guarda complice un Dioniso quasi supplice, che a lei si avvicina con una
vago timore d’essere respinto, il capo inclinato a segno di una qualche
debolezza. E Arianna, nella tela conservata a Palazzo Ducale a Venezia,
pur senza dare alcun disegno di protervia, come nell’immaginazione
del Carracci, appare colei che concede e che si concede, anche grazie
all’aiuto di una Venere che, volteggiando al di sopra dei due amanti, è
in procinto di porre sul capo della giovane il diadema d’oro forgiato da
Efesto e che, al salire di Arianna verso l’Olimpo, diverrà costellazione.
Arianna matrona senza volto; Arianna pregante e timorosa;
Arianna sfrontata e orgogliosa; Arianna commossa e lasciva; Arianna
accondiscendente e benevola. Innumerevoli sono le Arianna possibili,
perché la compagna di Dioniso non può che essere imprendibile,
indefinibile, indicibile. Chissà se davvero è un puro caso se proprio
soltanto il volto di Arianna è andato perduto dell’imponente frescatura
della Villa dei Misteri o se l’artista che l’aveva ritratta, accortosi di
avere immaginato qualche cosa di troppo vicino a Dioniso per essere
fissato in un volto, una posa, un mondo, si è dopo pentito e ha scalfito
il suo lavoro per lasciare per sempre aperto quel dubbio. Arianna ormai

303
Stefano Bevacqua

è posseduta da Dioniso e ne ricalca i contorni come molteplicità ed


equivoco. Arianna e Dioniso abitano quel mondo intermedio e mutevole
che si pone oltre il conosciuto senza mai emanciparsene del tutto, in
una circolarità tra il qui ed il là – oscillazione, ricorsività, opposizioni
che si risolvono nella spirale dell’indeterminazione. Dioniso ambiguo,
indefinibile, che appare scompare continuamente, che mai si presenta
egli stesso, per come egli effettivamente è, ma semplice apparenza
di sé medesimo, riflesso continuo di quello che si afferma egli sia e
che egli decide di mostrare. Dioniso mascherato, che sempre, ad ogni
apparire, assume un connotato diverso, un volto, una sembianza, mai
vera, nemmeno soltanto possibile, tanto meno probabile. Nelle più
antiche immagini egli appare come uomo maturo e barbuto, dal fisico
possente e decisamente virile; altrove, viene descritto come un giovane
quasi effeminato, imberbe, con lunghi capelli riccioluti e biondi che gli
cascano mollemente sulle spalle, la pelle chiara e luminosa, quasi un
amorino afroditeo, sicuramente, ma sempre equivocamente attraente.
Spesso appare come dio mascherato, che cela dietro una sembianza
posticcia una verità che non deve essere mai ravvisata. Egli, Dioniso,
il dio del vino e della festa, dello svago e della baldanza e, insieme,
dio delle più feroci vendette e di cruenti rituali, di carne cruda fatta in
brani e di orribili misfatti, sempre si pone dietro un velo, uno schermo,
un riparo. Nelle Baccanti di Euripide, l’arrogante e, insieme, ingenuo
Penteo, destinato a morire per mano della sua stessa madre presa dal
furore iniettatogli da Dioniso, chiede al dio che cosa esattamente siano
i misteri ai quali ci si avvicina quando si viene ad esso iniziati: “E
codesti rituali, che aspetto hanno, per te?”. Dioniso risponde: “Ai
non iniziati è preclusa l’informazione, è preclusa la conoscenza”.
Penteo insiste, tentando di estorcere al proprio interlocutore almeno
qualche informazione indiretta: “E per coloro che li praticano, utilità
ne hanno e quale?”. E il dio ancora si schernisce: “Non è lecito per te
sentirne parola, ma merita averne conoscenza252”. Dioniso allude e non
conferma, lascia intendere e non afferma, fa intravedere e nasconde.
Egli accende il mistero e si nega due volte: perché non riferisce alcun
segreto – tanto segreto da essere impossibile a sapersi –, e perché Penteo
non sa nemmeno di parlare con Dioniso, crede bensì di avere in fronte
a sé un sacerdote di Dioniso – Dioniso è travestito da Dioniso: volto
glabro, riccioli biondi, pelle chiara, movenze fanciullesche, sguardo
denso e acuto. Nelle Baccanti, è Dioniso medesimo a mostrarsi e
negarsi, a presentarsi e celarsi nell’equivoco di una presenza diffusa
e impossibile a circoscrivere nel personaggio, lo straniero, il quale
����.Euripide, Baccanti, 470-474, Rizzoli, Milano 2006, p. 1171.
304
Nel confine

sembra declamare le parole di Dioniso senza essere esso stesso Dioniso.


Scrive Jean-Pierre Vernant:

Egli è messo in scena dal poeta come il dio che mette esso stesso in scena
a teatro la sua epifania, dio che si rivela tanto ai protagonisti del dramma,
quanto agli spettatori sulle gradinate, manifestando la sua divina presenza
attraverso lo svolgimento del gioco tragico – proprio quel gioco che è
precisamente collocato sotto il suo patronato religioso. Come se, lungo
tutto lo spettacolo, nel momento stesso in cui egli appare a fianco degli
altri personaggi del dramma, Dioniso agisse su un altro piano, dietro le
quinte, per muovere i fili dell’intrigo e orchestrarne lo svolgimento.253

Tra la scena e le quinte delle Baccanti agiscono molteplici Dioniso,


che si scambiano continuamente ruolo, volto e sembianze, mentre il
dio che appare sotto mentite spoglie agli spettatori e agli altri recitanti
è un Dioniso coperto da una maschera: il dio è l’attore e insieme il
regista che mette in scena un altro attore che interpreta il ruolo del
dio sotto le sembianze dello straniero. Infinito gioco di riflessioni
che trova il suo punto nodale nella maschera-travestimento, in quella
finzione della finzione. Vernant viene in aiuto a chiarire l’apparente
contraddizione:

La maschera che il dio porta e l’umano straniero – che è anche il dio –


è la maschera tragica dell’attore; la sua funzione è di far riconoscere i
personaggi per quelli che essi sono, di designarli chiaramente agli occhi
dello spettatore. Ma nel caso di Dioniso, la maschera, che certo lo annuncia,
lo dissimula, lo “maschera” nel senso proprio del termine, altrettanto ne
prepara, attraverso il nascondimento e il segreto, il suo trionfo e la sua
rivelazione autentica. [...] Sottolineando le affinità ed il contrasto tra la
maschera tragica che suggella la presenza di un carattere, che attribuisce
stabile identità ad un personaggio, e la maschera cultuale, dove la
fascinazione dello sguardo impone una presenza imperiosa, ossessiva,
invadente, e, al tempo stesso, quella di un essere che non è là dove appare,
che è anche altrove, in voi e in nessun luogo: la presenza di un assente –
questo gioco si esprime nell’ambiguità della maschera indossata dal dio
e dallo straniero. È una maschera “sorridente”, come indica Euripide ai
versi 434 e 1021, contrariamente alla norma della maschera tragica; una
maschera dunque diversa dalle altre, fuori posto, sconcertante, che, sulla
scena teatrale, echeggia, evoca la figura enigmatica di certe maschere
cultuali del dio della religione civica.254

����. J.P. Vernant, Le Dionysos masqué des «Bacchantes», in La Grèce ancienne,


cit., p. 254.
����.Ibidem.
305
Stefano Bevacqua

Dioniso si annuncia attraverso il suo travestimento, attraverso il


volto della finzione e bene si intuisce come egli non possa mostrarsi
diversamente, come la maschera non sia un vezzo, bensì una necessità,
ovvero che egli, il dio, Dioniso, sia in ultima istanza una maschera, la
maschera di sé medesimo, il riflesso del riflesso, come quello che lo
stesso Dioniso teneva tra le mani fanciullo, così osservando sé stesso,
fino a straniarsi di quest’immagine riflessa al punto di non scorgere i
Titani che stavano per aggredirlo. Maschera e specchio: così emerge
il collegamento tra le diverse narrazioni che riferiscono di Dioniso e
trovano posto anche quelle più recenti, di Filodemo di Gadara, risalenti
al I secolo a. C., fino a quelle di Nonno di Panopoli, il poeta bizantino
autore delle immense Dionisiache, composte nel V secolo. Lo specchio
è il giocattolo di un Dioniso infante, che in quella superficie riflettente
conosce sé medesimo in un’immagine perfetta ma effimera. Nel suo
conoscersi il dio percepisce l’espressione di un mondo al quale permane
estraneo, distaccato. Egli non vede sé stesso nel mondo, con i piedi
per terra che camminano sul suolo, con la mani pronte ad afferrare e
modificare elementi di mondo, con il corpo che si raggomitola infreddito
di fronte ad un vento invernale oppure ansima di fatica e sudore sotto un
sole cocente. Dioniso, nello specchio e attraverso lo specchio, strappa
dal mondo la propria immagine e la consegna ad un mondo ulteriore,
divino o fatato, estraneo, equivoco, prossimo al mondo comune, ma
da esso separato per una differenza non riducibile – mondi che si
intersecano continuamente, nel gioco degli specchi, in quello delle
maschere, nelle identità riflesse, in un dio, Dioniso, che interpreta un
personaggio, lo straniero, che è sé medesimo, travestito da sacerdote
del suo proprio culto. I Titani si avventano sul fanciullo, lo sbranano,
lo cuociono e lo divorano: rito che si ripete con gli animali sacrificali
nei riti dionisiaci e che sembrano confermare ulteriormente l’anomalia
di un dio al quale sembra appartenere una categoria del tutto particolare
di immortalità: Dioniso è il dio che muore e risorge continuamente, che
compare e scompare, che assume le sembianze di ogni sé medesimo
sempre diverso, che cambia in ogni luogo maschera.
Serve, ora, chiedersi di quale maschera si stia parlando, se di quella
dell’attore tragico o quella del dio-attore-di-sé, se quella che Vernant
dice essere drammatica, per la scena, o quella sorridente, di un sorriso
di burla, di spregio, di ironico sprezzo, o di sincero divertimento, di
leggerezza. Sempre, un sorriso che riporta oltre il margine ideale che
dovrebbe comprendere il mondo della norma, anche se nel teatro si
è già al di fuori di qualsiasi normalità, ché vi si recita, facendo finta
di essere altri da sé – salvo il dio, che fa finta di essere esattamente

306
Nel confine

sé medesimo. La stessa etimologia della parola maschera è equivoca,


confusa, di difficile comprensione, davvero vaga, così da ammettere
radici nell’antico alto tedesco e, al tempo stesso, nell’arabo antico.
Maschera che starebbe, nel primo caso, per masca o mascra, ad indicare
la strega o lo stregone e, dunque, anche il fantasma, quindi, come
camuffamento per incutere paura. Oppure, all’inverso, e rovesciando
la geografia dell’Europa e del Mediterraneo, maschera come masharat,
la parola con la quale nell’arabo dell’alto medioevo si designava la
burla, la buffonata, dal verbo sachira, che significa deridere. Ecco le
due maschere. La prima è quella tragica, che incute timore e rispetto,
che indica senza dubbio chi si intenda rappresentare, quale personaggio
e carattere, che in tal guisa si fissa nello spazio teatrale al di fuori di
ogni dubbio ed equivoco – sia pur scontando l’equivocità intrinseca al
teatro: quell’uomo, quell’attore, fa finta di essere quel personaggio, quel
carattere, attraverso la maschera che ne fissa un’identità che si sovrappone
a quella dell’attore medesimo, il quale, facendo finta di essere altro da
sé, si pone e propone in un luogo che non è nella norma, che si affianca
alla norma e coesiste con essa, ma che si proietta più in là, oltre qualche
indefinito ed illusorio margine. La seconda è quella sorridente che viene
indossata da Dioniso, la quale non ha alcuna funzione rappresentativa,
ma piuttosto costitutiva, poiché Dioniso è grazie alla maschera, è la
sua maschera, con quel sorriso ironico, dal sapore di burla e di distacco
insieme, che lo rende irraggiungibile ancorché presente nel suo porsi
per il tramite dell’interprete di sé medesimo, come sacerdote-straniero-
dio. La sorridente maschera di Dioniso è la condizione necessaria della
sua presenza, non è un carattere, non un personaggio, non una persona.
Essa è la altrimenti indicibile equivocità di una presenza che di continuo
si nega, che sempre si pone al di là senza mai divenire piena alterità,
ché Dioniso, mortale e immortale, divino e terreno, gioioso e furioso,
amoroso e assassino, occupa propriamente e completamente lo spazio
che si allarga – il contrario di si insinua o si incunea – tra il qui ed
il là di mondo che si possa immaginare e progettare. La maschera di
Dioniso non è un personaggio, non è persona, nel senso etimologico
di questa parola, la quale, in latino, riprendendo forse una dizione
etrusca, si riferisce proprio alla maschera lignea che veniva utilizzata
nel teatro romano. La maschera di Dioniso nasconde e mostra. Essa ha
lo scopo di celare una identità, ma non quella dell’attore che interpreta
il personaggio dello straniero, ovvero il sacerdote che celebra il culto
di Dioniso e che, insieme, è Dioniso medesimo, bensì quella del dio
stesso e, così facendo, dando al dio il volto sorridente della maschera.
Circolarità della funzione di celare e rappresentare, di negare e di

307
Stefano Bevacqua

affermare, che si scioglie nell’enigma di Dioniso, il quale, infatti ed


analogamente, compare e scompare, nasce come un mortale e muore
come un immortale. La maschera di Dioniso, il sorridente orgiastico
e letale, si apparenta meno a quella dell’eroe tragico, piuttosto che a
quella indossata dal rapinatore; essa non indica la persona – perché non
è persona; invece, suggerisce la burla e, insieme, la ferocia che quel
sorriso lascia immaginare. E, anche qualora si superasse lo schematico
dualismo tra maschera che indica e maschera che suggerisce, per tentare
una definizione della maschera non relativamente a ciò che rappresenta,
ma alla funzione che attraverso di essa si tenta di produrre tra coloro
che la osservano, si avrebbe sempre la medesima scissione. Infatti, se
anche si badasse al solo aspetto finalistico della maschera, si dovrebbe
dire che ne esistono alcune il cui uso è volto al mimetico, ed altre che
mirano, invece, al timore. Le prime sono le maschere che rendono tutti
uguali, omogenei, indistinguibili, sono le uniformi che sottolineano una
appartenenza collettiva. Le seconde sono le maschere volte a suscitare
rispetto, timore, anche paura, terrore; esse hanno lo scopo di sottolineare
una differenza, indicando il ruolo o la persona che si pongono al di sopra
degli altri, per potenza e forza. La maschera del Dioniso sorridente
non appartiene né alla prima, né alla seconda logica; essa è, semmai,
maschera divinatoria come quella che il sacerdote – Dioniso medesimo
– indossa per mettersi in contatto con il divino – con sé medesimo –
ovvero per permettere al divino di scendere in terra. Maschera che è
specchio, riflesso del medesimo, straniazione dal mondo per fondare un
luogo contiguo, dinamicamente contrapposto alla fissità del conosciuto
e dell’abitato.
Walter Otto, che ha dedicato significativi approfondimenti intorno
alla figura di Dioniso, sottolinea come sia la stessa epifania del dio ad
avverarsi attraverso la maschera. Riferendo delle antiche raffigurazioni
vascolari delle feste della vendemmia, Otto così considera:

In quella maschera compare il dio stesso; non si tratta di un’erma, o di


una figura scolpita che stesse a testimoniare la sacra presenza di lui, ma
soltanto il tratto esteriore e superficiale d’un volto, che evidentemente ad
altro non poteva prestarsi se non al travisamento di un volto vivente, e che
pure sta qui a rappresentare di per sé stesso la figura del dio. [...] Soltanto
delle maschere dionisiache sappiamo che di per se stesse rappresentavano
il dio nella sua epifania: erano costruite in grandi dimensioni e in materiale
durevole. [...] In ragione delle loro misure, talvolta colossali, queste
maschere o eventualmente i loro modelli, realizzati in materiale più
leggero, non poterono mai essere portate da volti umani, ma, per quanto
strano possa sembrarci, erano concepite come le immagini stesse del dio:

308
Nel confine

ed è proprio questa singolarità che può aprirci la via per comprendere il


mistero di Dioniso.255

La rappresentazione del dio è la maschera del dio. Non esiste


dunque alcuna immagine del dio medesimo, ma soltanto l’immagine
che raffigura la maschera che il dio porta per mostrarsi celandosi. Ciò
che appartiene al mondo della norma è dunque l’immagine traslata,
mascherata, del dio; la maschera rinvia a Dioniso assumendo la funzione
di soglia attraverso la quale si accede al mondo contiguo, parallelo, che
congiunge la normalità al divino.
Il volto di Dioniso non è dato a conoscersi; la sua stessa immagine
è immagine della maschera del dio. Ci si deve dunque domandare, a
buon diritto, da dove questa divinità provenga, se essa sia stata generata
dalla fantasia religiosa dei Greci oppure se sia stata generata da altri
popoli. Così come necessario sarebbe chiedersi anche in quale epoca
il mito dionisiaco abbia preso forma e si sia diffuso in quell’angolo
di Mediterraneo. Ebbene, entrambi questi tentativi risulteranno vani:
l’equivocità della figura di Dioniso, infatti, risale alle sue stesse origini,
che appaiono sfumate ed indefinibili, collocate in luoghi e tempi tanto
lontani l’uno dall’altro da rendere impossibile il fissare la benché
minima certezza. Ma non basta: tentando di avanzare lungo questa
ricerca, ci si imbatte in uno straordinario paradosso, per il quale la
ricerca antropologica e storica sembra come sciogliersi nella credenza
e nel racconto mitico. In altre parole: accade che il mito riesca in una
qualche – ma certa – misura ad impossessarsi della moderna ricerca che
si pretende oggettiva ed esatta, condizionandone gli esiti a tal punto che
diviene difficile stabilire quali siano le informazioni che provengono dal
mito, quali dalla storiografia più antica, quali dalla ricerca antropologica
moderna. Dioniso, l’equivoco dio e dio dell’equivoco, infonde il suo
equivocare anche in ogni gesto che sia volto a schiarirlo, ad elucidare
le sue forme e le sue origini, a dire chi egli sia e come egli appaia,
donde provenga e quando sia apparso nel mondo. Incertezza che genera
incertezza, poiché, ed è questa la sola plausibile spiegazione, Dioniso
non si colloca nel mondo della normalità, intendendo con normalità
tutto ciò che è percepibile, pensabile ed immaginabile nel comune
procedere dell’umana coscienza, ciò che comprende tutte le esperienze
sensibili e tutte le capacità immaginative del pensiero. Forse, Dioniso
si colloca oltre questo spazio di soggettività razionale, nella quale
ben salda è la distinzione tra reale ed immaginato: egli non è reale,
certamente, ché non appartiene alla sfera dell’umano, ma non è nemmeno
����.W.F. Otto, Dioniso, Il Melangolo, Genova 1997, pp. 93-94.
309
Stefano Bevacqua

immaginato, poiché l’immaginato è sempre qualche cosa che si produce


nel pensiero e questo pensiero accade attraverso, grazie e per necessità
di un elemento di straordinaria concretezza: il cervello – ed il corpo
che lo ospita – dell’essere umano il quale immagina. Inevitabilmente,
per quanto irrazionale, assurdo, irrealistico sia un immaginato – un
pensiero che astrattamente produce un’immaginazione – per quanto sia
etereo e nemmeno riferibile, poiché il linguaggio non riesce a coglierne
i disegni ed ancor meno le sfumature, rimane che ogni immaginato
contiene sempre e necessariamente un riferimento al reale, al percepito,
al razionale, al possibile, al verosimile. Questo, salvo il caso in cui lo
stesso immaginato superi l’argine che lo contiene nell’immaginazione
per diventare pura intuizione come svelamento, anzitutto interiore
e che comunque tale si manifesta anche alla percezione estranea. Si
dice, spesso, che estatico sia il momento nel quale questa intuizione,
sia pur fuggevole ed istantanea, riesce ad apparire come aletheia.
Ecco perché Dioniso risulta refrattario ad una regola, una sembianza,
un’origine, un tempo: perché egli appartiene ad un luogo che si colloca
oltre ed è altro rispetto a quello della comune immaginabilità, luogo più
affine alla sfera dello svelamento ad opera dell’arte, che a quello del
comune e quotidiano pensare. Dioniso abita il luogo del margine che
si espande oltre la norma e che, pervadendola senza darne a vedere,
dall’altra parte si spinge fino a qualsiasi concepibile limite. Appare così
del tutto inevitabile che non si riesca a definire donde quel dio sia giunto
e quando e che non vi sia nemmeno un riferimento temporale sul quale
fondare una comprensione. Dioniso si intuisce, non si comprende, vi si
allude, non si descrive, si tratteggia, non si rappresenta, tanto che, come
si è detto, la sua immagine come tale non esiste: soltanto esiste la sua
maschera, il suo camuffamento, il suo travestimento. Così che anche il
più antico degli storici che abbia narrato degli inizi della Grecità – e con
essi di quelli del pensiero occidentale –, Erodoto, si deve rassegnare a
lasciare nel vago le origini ed il tempo di Dioniso:

Ma mi dissero che prima di questi uomini, quelli che dominavano in Egitto


erano dei, abitavano insieme agli uomini, e di essi sempre uno solo aveva
il potere. Per ultimo, dopo aver rovesciato Tifone256, regnò sull’Egitto Oro
figlio di Osiride, che i Greci chiamano Apollo. Osiris poi in lingua greca
è Dioniso. [...] In Grecia si crede che i più recenti degli dei siano Eracle,
Dioniso e Pan, in Egitto invece si crede che Pan sia assai antico e sia uno
degli otto detti i primi dei, Eracle invece uno dei secondi, che si dice siano
dodici, e Dioniso dei terzi, che nacquero dai dodici dei. Quanti anni poi
gli egiziani stessi dicono esserci da Eracle al re Amasi, l’ho già spiegato;
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. Da intendere qui come Seth, colui che uccise Osiride.
310
Nel confine

da Pan si dice che ce ne siano ancor di più, da Dioniso invece di meno,


e precisamente calcolano che ci siano 15000 anni da lui fino al re Amasi.
Gli Egiziani affermano di conoscere con esattezza queste notizie, perché
calcolano e registrano sempre gli anni. Da Dioniso invece, quello che si
dice sia nato da Semele figlia di Cadmo, gli anni sono circa 1000 fino ai
nostri giorni, e da Eracle figlio di Alcmena circa 900, e da Pan figlio di
Penelope – infatti da costei e da Hermes dicono i Greci sia nato Pan –
ci sono meno anni che dalla guerra di Troia, approssimativamente circa
800. [...] Fra queste due versioni ciascuno è libero di attenersi a quella
che troverà più convincente; io per parte mia ho esposto il mio parere: le
divinità greche derivano da quelle egiziane. Ora invece, di Dioniso i Greci
narrano che subito appena nato Zeus se lo cucì sulla coscia e lo portò a
Nisa, che sta oltre l’Egitto in Etiopia.257

Secondo Erodoto, Dioniso avrebbe dunque un’origine egiziana. Egli


non sarebbe altro che la copia di Osiride, con il quale condividerebbe
anche quell’oscura rinascita da una altrettanto incerta morte. Del
tutto diversamente da quanto asserito da Euripide, il quale nei primi
versi delle Baccanti propone un Dioniso che si presenta e si racconta,
spezzando così fin dalla prima pagina ogni possibile mistero, quasi
dicendo la fine della narrazione prima ancora che abbia inizio. Una
scelta teatrale, questa, senza alcun precedente nella tragedia greca e che
portò Nietzsche a catalogare Euripide come il primo profondo traditore
dello spirito tragico che, secondo il filosofo tedesco, si racchiudeva nel
coro come funzione primigenia e fondante di una rappresentazione che
in origine era più cultuale che teatrale. Scrive Nietzsche:

Niente può essere più contrastante con la nostra tecnica scenica di quanto
lo sia il prologo nel dramma di Euripide. Che un singolo personaggio si
presenti all’inizio del dramma e racconti chi è, cosa precede l’azione, che
cosa finora è accaduto, e anche cosa accadrà nel corso del dramma, è un
modo di procedere che un poeta drammatico moderno designerebbe come
una petulante e imperdonabile rinuncia all’effetto della tensione. Si sa già
tutto quello che accadrà; chi vorrà attendere che questo realmente accada,
dato che qui in nessun modo si presenta lo stimolante rapporto tra un sogno
profetico e una realtà che si verificherà più tardi?258

Nietzsche considera l’opera di Euripide e soprattutto le Baccanti,


come il punto di snodo tra un passato, per così dire: dionisiaco, di una
cultura greca che vede forse in Eraclito la sua massima espressione, ed
un futuro socratico-euripideo, ove il pensiero logico e razionale prevale

����.Erodoto, Storie, II 145-146, cit. p. 491.


����.F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, p. 86.
311
Stefano Bevacqua

fino a monopolizzare non soltanto la riflessione ideale, ma anche la


creazione artistica. E si è fortemente tentati di non dar torto al pensatore
tedesco, quando si leggano le prime battute delle Baccanti, con un
Dioniso che si racconta dalle origini, che si fisserebbero in Lidia ed
in Frigia, in questo caso, e non egizie, fino all’annuncio della vendetta
contro l’empio Penteo. Ecco come il dio racconta le sue origini:

Ho lasciato le terre ricche d’oro dei Lidi e dei Frigi, ho raggiunto poi le
assolate piane della Persia e le cittadelle della Battriana e l’inclemente
terra dei Medi e l’Arabia meravigliosa e l’Asia tutta che si stende lungo il
salso mare, con le sue città dalle belle torri in cui si addensano – commisti
insieme – Greci e barbari; e poi subito in questa città greca io sono giunto,
dopo che anche lì avevo istituito i miei corsi e stabilito i miei riti, per
rivelarmi, dio, ai mortali; e Tebe, qui, è la prima città di terra greca che io
ho eccitato al grido rituale, e di pelle di cerbiatto ho fatto il loro addobbo e
il tirso, strale di edera, ho affidato alle loro mani.259

Ecco che l’origine di Dioniso, che si presenta sempre più oscura, si


intreccia con il significato della sua medesima figura. Non è un semplice
dettaglio, non una indifferente questione, se Dioniso sia nato dalla coscia
di Zeus in un luogo “oltre la Fenicia” oppure a Tebe stessa o tra i monti
dell’Asia Minore od anche in India. È elemento portante della figura di
Dioniso il suo stesso non avere una patria ben certa né un origine data,
ma piuttosto di essere sempre nell’equivoco, dio dei Greci o degli Egizi,
dei Frigi o dei Persiani, ovvero di ciascuno che ne raccolga lo spirito. Ed
è forse proprio questa la considerazione che si può tracciare nella lettura
del giovanile testo di Nietzsche, il quale costruisce una complessa
macchina interpretativa dell’evoluzione della tragedia greca il cui scopo
è di assumere una rigorosa posizione critica nei confronti della musica
a lui contemporanea. Al di là dell’intenzione formale, Nietzsche coglie
infatti un nodo – o uno snodo – di capitale importanza, quello della
terzietà di Dioniso, il suo non collocarsi comodamente nella razionalità
moderna, il suo confliggere con il pragmatismo e la logica che deve
sempre attribuire un volto, un’origine, un destino, uno spazio, una causa
ed un fine ed un tempo ad ogni cosa. Dioniso si ribella a questa prigione;
egli è per necessità estraneo al prevedibile ed al previsto, senza terra
né tempo perché il suo è quel luogo terzo, indicibile con i sistemi
logici con i quali si riesce con discreta efficacia a descrivere il mondo
quotidiano, quello della mesa-fisica, ma non quello di una micro-fisica
quantistica e quello di una macro-fisica cosmologica. Ciò spiega anche
la latente e perenne ostilità con la quale fin dall’ellenismo si è teso ad
����.Eurpidie, Baccanti, 13-24, cit. pp. 1137-1139.
312
Nel confine

allontanare o quantomeno marginalizzare il culto di Dioniso: è la sua


ostentata terzietà, il suo non ammettere facili ricostruzioni anagrafiche
e, al contempo, prognosi di sorta, a renderlo inviso perché inspiegabile
e quindi irriducibile ad una qualche linearità logica. Così che molte
delle presunzioni che vogliono Dioniso indiano o persiano o comunque
barbaro – nel senso di non greco – potrebbero attingere proprio da questa
ostilità. Lo stesso Erodoto ne sarebbe stato vittima, poiché se nelle
pagine delle Storie dedicate al dio si limita, come già indicato, a riferire
delle diverse ipotesi all’epoca260 in maggior voga, in molti altri passaggi
della sua monumentale opera Dioniso ricompare e scompare, spesso
sotto mentite spoglie. Si può dire che Erodoto veda Dioniso dappertutto,
in Grecia, certo, ma soprattutto tra i popoli barbari. Lo vede presso gli
arabi sotto le spoglie di Orotalt: “Gli Arabi ritengono che Dioniso e
Urania siano le sole divinità. [...] Dioniso lo chiamano Orotalt , Urania
Alitat”261; lo vede in Etiopia: “Si dice che Meroe sia la metropoli degli
Etiopi. Gli abitanti di questa città venerano fra gli dei soltanto Zeus
e Dioniso, e li onorano grandemente e c’è presso di loro un oracolo
di Zeus”262; lo vede tra gli Etiopi settentrionali che “sottomessi da
Cambise, abitano intorno alla sacra Nisa e celebrano le feste in onore di
Dioniso”263 e raccolgono il cinnamomo “che taluni dicono nasca negli
stessi luoghi in cui fu allevato Dioniso”264; lo vede anche tra i popoli
nordici, come tra i Budini, abitanti della Scizia, “che in onore di Dioniso
celebrano feste ogni due anni e riti misterici”265; lo vede in Tracia, le cui
genti “venerano soltanto i seguenti dei: Ares, Dioniso e Artemide”266;
lo vede tra i Satri, “che possiedono il famoso oracolo di Dioniso, posto
sui monti più alti”267; lo vede nel Peloponneso, a Sicione, a Bisanzio,
in Attica, dove diviene Iacco, da cui deriverà il Bacchus romano.
Dioniso ubiquo e, per questo, sempre straniero – straniero anche in
patria. Dioniso degli entusiastici consensi, che affascina e trascina, ma
che, per questo, induce diffidenza e distacco. Dioniso amato e temuto,
che porta lontano, troppo lontano e che, per questo, richiede di essere
attribuito ad altri, come un dio che troppo piacendo deve dirsi estraneo,
per non compromettersi, per rimanere ancora al di qua, per non lasciarsi
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. L’epoca di Erodoto è il V secolo a. C. e coincide con quella di Euripide e di Socrate.
����.Erodoto, Storie, III 8, cit., p. 545.
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. Ivi, II 29, p. 351. Zeus e Dioniso assumono in Etiopia le denominazioni egizie di
Amon e Osiride.
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. Ivi, III 97, p.651.
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. Ivi, III 111, p. 663.
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. Ivi, IV 108, p.813.
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. Ivi, V 7, p. 909.
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. Ivi, VII 111, p. 1265.
313
Stefano Bevacqua

trascinare in quel suo al di là dell’apparente confine della ragione, del


rassicurante mondo razionale, logico, prevedibile, previsto. Anche chi
lo ha cantato sembra come mettere le mani avanti nel celebrarlo come
divinità estranea, equivoca. Così gli Inni omerici lo lodano:

Figlio di Zeus, dio dall’aspetto di Toro: alcuni dicono che a Dracano Semele
ti concepì e ti partorì a Zeus signore del fulmine, altri a Icaro battuta dai
venti, altri a Nasso, altri lungo il fiume Alfeo dai gorghi profondi; altri
affermano che tu sei nato a Tebe, signore. Mentono tutti: il padre degli
uomini e degli dei ti generò lontano dalla gente, nascondendosi a Etra dalle
bianche braccia. C’è un altissimo monte chiamato Nisa, fiorente di boschi,
al di là della Fenicia, vicino alle correnti dell’Egitto. [...] Così ti saluto,
Dioniso dall’aspetto di Toro, e saluto tua madre Semele, che è chiamata
Thyone.268 [...] Comincio a cantare il fremente Dioniso, coronato di edera,
splendido figlio di Zeus e della gloriosa Semele; le ninfe dai bei capelli lo
accolsero in seno, ricevendolo dalle mani del padre divino, e lo allevarono
con cura nelle valli di Nisa.269

Dioniso, dio senza terra né radice, in ogni luogo egli è straniero;


Dioniso dall’aspetto indicibile, barbuto o cornuto, toro a capro, fanciullo
o asessuato, di una attrattività sempre diversa, inquietante, morbosa,
fascinante. Si è detto che fissare l’origine di Dioniso è impossibile, sia
che si tenti di cogliere quel bandolo che potrebbe portare fino al luogo
d’origine del mito, attraverso lo studio della letteratura che ne ha riferito,
sia che ci si accontenti di considerare il solo contenuto della tradizione
mitologica. Si è anche detto che il negativo esito di questa ricerca
non dipende dalla mancanza di testimonianze, di rappresentazioni,
di tradizioni, quanto dalla natura medesima di Dioniso – dall’idea di
Dioniso che necessariamente è venuta costruendosi a partire dalla fine
del secondo millennio a. C. in quella vasta area che congiunge il mondo
ellenico, l’Asia Minore, la Fenicia, l’Egitto, le coste africane, la penisola
italica, e che si potrebbe forse disegnare con un comodo compasso che
puntasse il suo ago su Cnosso. Dio mutevole ed equivoco per sua stessa
costituzione e, quindi, dio dai mille volti, non tanto perché sia mutata,
nel corso dei secoli, l’immaginazione degli uomini applicata alla sua
rappresentazione, quanto perché quel mito – quell’idea di divino – non
ammette di essere carcerata all’interno di una sembianza, così come non
accetta di vedersi attribuire un luogo ed una data di nascita. Dioniso
esiste perché è e insieme non è, perché appare e scompare, perché viene
da un luogo e da ogni luogo, perché, infine, assume ogni possibile

����.Inni Omerici, I, Rizzoli, Milano 1996, p. 67


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. Ivi, XXVI, cit. p. 201.
314
Nel confine

volto e corporatura ed età, perché indossa infinite maschere ovvero


perché non ne indossa alcuna ed il suo volto appare allora come un
vuoto che richiede per necessità una maschera, che sia quella cornuta
immaginata negli Inni Omerici o quella barbuta delle rappresentazioni
vascolari più antiche. Così che in tutti le tragedie attiche che precedono
le Baccanti di Euripide270, Dioniso non ha alcun volto: egli, prima di
Euripide, non appare mai sulla scena, ed è bensì presente in quanto
invocato dal coro. È il caso dell’Antigone di Sofocle, là dove il coro
interviene quando Creonte si convince, finalmente, a liberare Antigone
e a dare degna sepoltura al fratello Polinice – entrambi figli di Edipo
e Giocasta. Creonte si avvia a liberare la figlia ingiustamente reclusa;
ancora non sa che è ormai troppo tardi, che Antigone si è uccisa. Il coro,
diversamente da quanto si è letto negli Inni omerici, invoca Dioniso,
“dio dai molti volti”, senza mai attribuirgli alcun aspetto, né una precisa
origine, soltanto un luogo, per così dire: di residenza: Tebe e le acque
dell’Ismeno.271
Eppure, nelle più antiche rappresentazioni vascolari, che risalgono
fino al VII secolo a. C., l’aspetto di Dioniso appare generalmente ben
definito, come quello di un uomo adulto, barbuto, che indossa il chitone
ed il mantello, sempre lunghi e composti, senza sfarzo e, anzi, con un
certo austero procedere. Appare, dunque, come un dio adulto, nel senso
di divinità ormai ben consolidata e riconosciuta, quasi un altro Zeus,
invece che suo figlio, ed, anzi, il più scapestrato tra i suoi figli che
siano assunti al pieno rango divino. Ciò che contrasta nettamente con
i pochi riferimenti letterari di cui si dispone, tra i quali, oltre agli Inni
Omerici, va annoverato anche un frammento del V secolo, attribuito
a Ione di Chio, che parla di un “ragazzo dal volto taurino, giovane

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. Là dove questa è, in senso stretto, l’ultima tragedia attica, andata peraltro in scena
postuma nel 403 a. C., tre anni dopo la morte di Euripide.
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. Dio dai molti nomi, | vanto di una sposa tebana, | prole di Zeus cupotonante, | tu che
proteggi l’Italia famosa | e regni nella vallata ospitale | di Deò eleusina, | o Bacco, | tu
che nella città madre delle baccanti | hai sede, lungo l’acqua sinuosa | dell’Isemno | fra la
semente del drago feroce.| Te contempla | la vampa scintillante | sulla duplice roccia, ove
| accorrono devote le ninfe coricie; | te contemplan le acque castalie | e te a noi mandano
| dei colli nisei i declivi | d’edera ammantati | e la costa verdeggiante | di grappoli fitti
| quando al canto divino degli evoè | tu visiti le contrade tebane. || Tebe tu onori | più
che tutte le città, | e tua madre la onora, | folgorata dal fulmine. | Anche ora, | che d’un
morbo violento | tutto il popolo è vittima, | varca col piede risanatore | il pendio parnaso
| e lo stretto che geme. || Tu che guidi la danza | degli astri fiammanti, | testimone ai canti
notturni, | prole di Zeus, | dio possente, | a noi mostrati | con le Tiadi seguaci, | che per tutta
la notte | attorno a te delirano alla danza, | Iacco dispensatore. [Sofocle, Antigone, 1115-
1154, Rizzoli, Milano 2006, pp. 791-793.].
315
Stefano Bevacqua

non giovane”272. Ma ecco un altro Dioniso, dipinto sulle ceramiche


del VI secolo, che sembra ben più giovane, ancora barbuto, ma con
il chitone corto, pronto a lottare e combattere. Ed un altro ancora,
giovane e sbarbato, semisdraiato e nudo tra satiri e fanciulle, e, ancora,
che impugna l’ormai immancabile tirso e volge uno sguardo quasi
effeminato, da un volto incorniciato da boccoli che si potrebbero
intendere biondi, ovvero il contrario, ancora nudo e circondato da
donne che gli presentano cesti di frutta e l’immancabile uva, ma
ben robusto e virile, con soltanto due giri di riccioli che gli cadono
da una fronte a profilo marziale retta da un collo vigoroso portato da
una petto segnato da muscoli potenti. È la fine del V secolo e sembra
riemergere un Dioniso tutto forza e virilità, taurino, che convive con il
fanciullo rapito dai pirati dell’inno omerico e con il fanciullo glabro e
femmineo che riferisce Euripide, il quale non lesina nel puntualizzare
questo apparire del dio, riferendone in molteplici passi delle Baccanti.
Accade quando Penteo interroga Tirsia a proposito del comportamento
delle donne tebane: “Inoltre, a quanto mi dicono, è dentro ai confini di
questa terra un tizio, uno straniero venuto dalla Lidia, un ciarlatano che
fa incantesimi e sortilegi: dai riccioli biondi della sua chioma emana
un buon profumo, il suo colorito è del colore del vino, negli occhi ha le
grazie di Afrodite, è uno che i giorni e le notti col pretesto dei misteri
di Bacco si ritrova insieme con le giovinette”273. E, ancora, quando
Penteo ordina ai soldati di arrestare lo straniero: “E voi altri, avviatevi
per tutta la nostra terra, seguite tutte le piste che portino allo straniero
dall’aspetto femmineo, lui che introduce tra le donne il nuovo morbo e
oltraggia i loro letti”274. Ovvero quando Penteo interroga lo straniero –
Dioniso – ormai catturato: “Eppure, per l’aspetto esteriore, o straniero,
non sei privo di una tua piacevolezza formale, per chi voglia usare
criteri femminili: e questo è – del resto – l’obiettivo del tuo arriva qui a
Tebe. Sì, è vero. I tuoi riccioli sono ben lunghi, e non perché tu pratichi
la lotta libera; arrivano fin sopra la guancia, sono roridi di desiderio; e
se la tua pelle è lucida, c’è un fine ben preciso: non ti esponi ai dardi
del sole, ti ripari sotto l’ombra, e con la tua bellezza cerchi di far tua
Afrodite”275.
Se Dioniso avesse un aspetto ben definito, soprattutto: riconoscibile,
la sua sarebbe una presenza dell’immagine, di ciò che si manifesta
attraverso le forme e nelle forme; ma Dioniso è la divinità dell’interiorità
. Citato da Cornelia Isler-Kerényi, in La metamorfosi di Dioniso e l’inno omerico VII,
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in “Dionysus ex machina”, I, 2010, p. 258.
����.Euripide, Baccanti, cit. 233-241 p. 1155
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. Ivi, 352-354, p. 1163.
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. Ivi, 453-460, p. 1169.
316
Nel confine

e della conoscenza estatica e profonda di un luogo che si colloca ai


margini del mondo usuale – non fuori da quel mondo, ché in tal guisa
sarebbe altro mondo, bensì ai margini, sul confine, occupandolo ed
amplificandolo a dismisura. Quella dell’aspetto di Dioniso è dunque una
equivocità necessaria: essa non cela una qualche verità, non è maschera
che copra un’immutabile identità, essa è l’inevitabile conseguenza
di un senso, quello del dio che abita lungo ed attraverso i margini
del percepibile, che non può essere descritto e fissato in una forma.
L’immagine coerente, ricorrente, che serve a riconoscere – a conoscere
identicamente ed ogni volta – attiene ad un altro dio, ad Apollo, alla
divinità della razionalità, del mondo coerentemente percepito e nel
quale si pone per ogni effetto constatabile una causa. Quella di Dioniso
non è la conoscenza del mondo nel suo manifestarsi, ma piuttosto quella
interiore ed intuitiva, che emerge nel frastuono della festa di baccani
e satiri, che può essere colta nell’estasi di un sentimento profondo e
sconvolgente, che più facilmente si incontra nell’esplosione emotiva
e ben meno nella pragmatica didattica di un sapere che è già sempre
tutto conosciuto. Sul contrasto e sull’opposizione tra Apollo e Dioniso
non è possibile non ricorrere a Nietzsche, che su questa bipolarità ha
costruito la sua prima filosofia e, insieme, anche l’ultima, partendo
da uno dei suoi più impegnativi scritti, La nascita della tragedia, del
1872, e giungendo ai frammenti del 1888, dove ancora ritorna sul
sentimento tragico come quella pulsione la quale, lungi dal rattrappire
l’anima in un cupo pessimismo, costituisce l’elemento di slancio verso
il superamento dell’angoscia e della compassione. Comune, alle due
letture nietzschiane della tragedia, quella degli esordi e quella della
vigilia della follia, permane l’idea forte di una distinzione radicale tra
forma e conoscenza, che non deve essere assolutamente intesa come
banale distinzione tra forma e contenuto, bensì come identificazione
di un mondo della misura e della coerenza logica, della pre-visione e
della procedura, in opposizione ad un mondo dell’intuizione circolare
che riassume la molteplicità degli elementi di antagonismo raccolti
non in una sintesi ma in una intima presa di coscienza che riporta ogni
dettaglio come interrelato ad ogni altro. In altri termini: il tragico-
dionisiaco appare in opposizione alla misura-apollinea in quanto sistema
che comprende ogni proprio elemento costitutivo senza dividerli né
segregarli bensì correlandoli, in alternativa radicale ad un quadro di
misurata coerenza nel quale ogni elemento è sempre causato e a sua
volta è causa ulteriore, per cui mai può essere ammessa una terzietà che
contraddica la rassicurante forma classificatoria con la quale si decide e
si descrive il mondo.

317
Stefano Bevacqua

Questa rilettura di Nietzsche permette, se si accetta il radicale riassunto


per il quale il dionisiaco costituisce l’elemento primario, l’origine,
l’essenzialità istintuale e intuizionale della vita, mentre l’apollineo è la
forma ed i fenomeni che danno oggettività e rendono così percepibile e
constatabile e producibile il dionisiaco medesimo, di vedere in questo
stesso antagonismo il rinvio ad un sistema di conoscenza fondato sulla
presa in conto di un mondo attraversato da continue interrelazioni e
costanti ricorsività che permettono di accedere – accettare – e descrivere
una complessità abitata da innumerevoli alterità tutte degne di luogo
liminare in antagonismo ad una visione di lineare causalità che sempre
esclude tutto ciò che non rientra nelle categorie di un conoscere che
si muove per linee sempre predittibili. Tutto questo, ben sapendo
che, come del resto Nietzsche aveva teorizzato, Dioniso ed Apollo
hanno sempre bisogno l’uno dell’altro e che proprio dall’interazione
creatrice di questi due elementi confliggenti si genera la possibilità di
una comprensione capace di accogliere nel suo grembo quegli infiniti
brandelli da secoli tralasciati per vizio di incoerenza con il disegno pre-
fissato dalla logica della differenziazione. La tragedia, dice Nietzsche,
nasce proprio dalla fruttuosa dinamica offerta dall’interazione tra questi
elementi antagonisti di essenza e di fenomeno ed è proprio quando uno
dei due poli prende il sopravvento, quando la tragedia viene rinchiusa
nella razionalità della forma apollinea, quando Euripide, nelle Baccanti,
giunge a trasformare, per la prima e non a caso per l’ultima volta
nella storia della tragedia attica medesima, un dio in un personaggio,
ancorché il più fatale dei personaggi, che la tragedia ha fine e si apre
la lunga ed imperitura stagione della commedia. Così che, mentre le
pitture vascolari più tarde, come quella della fine del V secolo a. C.
conservata a San Pietroburgo276, mostrano Dioniso ed Apollo insieme,
riuniti, che si stringono la mano nel nome del comune padre Zeus, il
primo di nuovo adulto e barbuto ed il secondo, invece, quasi al posto
del primo, giovinetto e dai capelli ricciuti, mentre questa riunione degli
antagonismi creativi trova suggello nell’opera del Pittore di Kadmos, è
Socrate a far sparire come d’incanto le carte di Dioniso e a proseguire
il gioco con soltanto la metà mazzo nelle mani di Apollo, escludendo
con un taglio drastico e finale ogni riferimento all’interiorità ed al
mistico, all’essenza in favore esclusivo del percepibile e dell’oggettivo.
Salto brusco e fatale, che Platone tenta parzialmente di ricomporre,
ma senza pienamente riuscirvi; una rottura ancora irrisolta e inverso
alla quale, a suo modo e nel suo travagliato pensiero, anche Nietzsche
cerca una diagnosi suscettibile di proporre anche una risposta. La
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. Descritta da Cornelia Isler-Kerényi, in cit. p. 266.
318
Nel confine

questione presenta un duplice aspetto. Da una parte, con l’avvento


di un razionalismo egemonico viene reso sempre meno comune e
probabile il manifestarsi dell’effetto di svelamento che la circolarità
antagonistica tra il dionisiaco e l’apollinea permetteva, ciò che comporta
un’inevitabile impoverimento – rinsecchimento – della fertilità artistica,
fino a relegarla nell’ambito dell’incomprensione da parte dei più – arte
come misteriosa e quasi religiosa condizione riservata a pochi eletti
invece che comune e condivisa esperienza estetica e, insieme, emotiva
e politica, come nella tragedia attica, ove bellezza e verità potevano
essere felicemente coniugate. Dall’altra parte, la rovinosa entrata in
scena di una visione che, da Platone in poi, si dipana avendo sempre più
evidente la necessità di un perpetuo concatenarsi di cause note ed effetti
pre-visti, comporta la graduale, ma inesorabile, obliterazione di tutto
ciò che non si possa ridurre alla constatazione sensibile, al fenomeno,
all’evidenza, attraverso il calcolo e la pianificazione del risultato atteso e
conseguibile. Non è difficile leggere nelle primissime pagine vergate da
Nietzsche la massima preoccupazione di fronte a questo meccanismo di
socratico annientamento del dionisiaco, che lascerebbe il solo apollineo
in perfetta ed egemonica evidenza. Ne La visione dionisiaca del mondo,
un Nietzsche venticinquenne così dipinge la cruciale questione:

Il culto figurativo della civiltà apollinea, sia che questa si manifestasse


in un tempio, in una statua oppure nell’epos omerico, trovò uno scopo
sublime nell’esigenza etica della misura, che corre parallela all’esigenza
estetica della bellezza. La misura stabilita come esigenza è possibile
soltanto nel caso in cui la misura, il limite siano considerati conoscibili.
Per mantenere i propri limiti, li si deve conoscere. [...] La misura, sotto il
cui giogo si muoveva il nuovo mondo di dei (di fronte al mondo abbattuto
dei Titani), era quella della bellezza: il limite, che il Greco doveva
mantenere era quello della bella illusione. Il fine più intimo di una cultura
rivolta all’illusione, alla misura può certo essere soltanto quello di velare
la verità. [...] Con Prometeo viene mostrato alla Grecità un esempio di
come un eccessivo avanzamento della conoscenza umana agisca in modo
ugualmente rovinoso per chi promuove tale avanzamento e per chi ne
usufruisce.277

La misura coincide con il limite, ne è, appunto, la misura. E Dioniso


si colloca oltre quel limite, occupando tutto lo spazio che a dismisura
esso stesso genera nella terzietà di un oltre che è sul limite e che lo
comprende ed ingloba. E solo nella sinergica e insieme contrastata
comunione con Apollo, con la forma, si genera il senso:

����.F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, Adelphi, Milano 1991, pp. 61-62.
319
Stefano Bevacqua

La verità ora viene simboleggiata, si serve dell’illusione, può e quindi deve


usare le arti dell’illusione. Già qui si rivela tuttavia una grande differenza
rispetto all’arte precedente: ora i mezzi artistici dell’illusione sono chiamati
in aiuto tutti assieme. [...] L’illusione non viene più goduta come illusione,
bensì come simbolo, come segno della verità.278

Ma togliere l’anima alla forma trasforma il senso in vuota apparenza,


illusoria conoscenza, fatua percezione, ed ogni sforzo volto alla
comprensione si risolve nella descrizione funeraria di una evidenza
privata del suo essere.
Questa sua straordinaria qualità di produrre senso non pone il
dionisiaco in una condizione di equità nel rapporto con l’apollineo.
L’uno, si è detto, ha bisogno dell’altro: il dionisiaco cerca la propria
stessa forma nell’apollineo, anche a costo di doversi adattare alla
misura di quest’ultimo – è il prezzo da pagare per essere ri-conosciuti;
l’apollineo, invece, può fare a meno del dionisiaco ed apparire così nella
sua pura immanenza, fenomeno percepibile, conseguibile e producibile,
pur perdendo così quella forza implicita, perdendo verità. Questo
squilibrio è però soltanto apparente: senza l’apollineo, il dionisiaco
permane nell’ombra dell’emozione, nelle viscere dell’anima, nelle
pieghe infinite e che sempre si ripropongono uguali ed antitetiche al
tempo stesso, pieghe del cervello e del labirinto, nella feroce attesa
che quel celato demone di potenza possa liberarsi, possa essere svelato
e così intuito, fatto proprio. Senza l’apollineo l’arte si fa oscura, ma
proprio per questo si fa immensa e totale e dilaga oltre qualsiasi dei
suoi abituali limiti che la collocano nella musica, nelle lettere, nelle
figurazioni. Senza l’apollineo l’arte si fa pensiero e conoscenza in
qualche misura pura e, insieme, completa, perché supera tutti gli steccati
che l’apollineo medesimo impone, nel suo bisogno di classificazione,
nella razionalità della misura, del limite che ogni cosa, per essere
bella, deve garantire istituendosi entro il limite pre-fissato – e quindi
pre-visto e razionalmente calcolato. L’arte come essenza del dionisiaco
ed arte senza limitazioni e schemi e che quindi si impossessa, come
capacità di intuizione che travalica la logica del mondo usuale, di tutto
il pensabile per diventare essa stessa conoscenza ultima. Questo, mentre
l’apollineo, privato del dionisiaco appare come rinsecchimento delle
idee alla loro semplice e razionale prevedibilità, come pensiero che si
appaga del poco che offre la breve visione dell’intorno, dell’immediato,
di quello che si può catalogare per semplificazioni e differenziazioni
continue ovvero per moltiplicazioni e riunioni successive. Fino ad

���������������
. Ivi, p. 69.
320
Nel confine

imbattersi in un che di troppo piccolo per essere descritto con la logica


classica, ciò che costringe ad ammettere che un elemento che partecipa
alla vita del mondo è al tempo stesso corpuscolare e ondulatorio,
materiale e semplice correlato di altri fenomeni, ovvero in un che di
troppo grande, che implica la considerazione di fenomeni caotici
indescrivibili con le parole di sempre, ma soltanto arrotondabili per
successive approssimazioni statistiche, fino alla rassegnazione di fronte
all’indecidibilità di una cosmologia troppo complessa per essere oggetto
di un inadeguato linguaggio. Ecco che lo squilibrio tra dionisiaco ed
apollineo si conferma, ma a posizioni rovesciate, a favore del primo e a
detrimento del secondo – anche se il secondo, l’apollineo, ha permesso
all’umanità di progredire, almeno sotto il profilo materiale, in maniera
assai decente per oltre ventiquattro secoli.
L’apollineo, per il dionisiaco, è il veicolo del ri-conoscimento. Per
essere conosciuto e vissuto il dionisiaco ha bisogno di essere in qualche
sorta tradotto in un linguaggio comprensibile dal mondo del consueto,
ché altrimenti la sua incomprimibile potenza rimarrebbe inattuata. La
forza di Dioniso risiede nella ricorsività antagonistica alla quale egli
medesimo concede albergo, la quale, per essere detta, richiede di essere
traslata in un linguaggio ed una forma lineari, razionali, comuni, anche
se in questo e per questo stesso motivo, saranno sempre un linguaggio ed
una forma del tutto inadeguati allo scopo per il quale vengono proposti.
Da una parte, infatti, si assiste all’emergere di una conoscenza totale,
che supera ogni steccato e logica per proporsi come sapere universale,
trasversale ad ogni disciplina ed ogni tecnica; dall’altra parte, questo
sapere universale, per potersi dire, abbisogna comunque di una veste,
di un linguaggio e di un modo di essere nel mondo, elementi, questi,
che appartengono allo schema generato dalla razionalità che opera
segmentando il mondo in unità discrete alle quali necessariamente
tutto deve afferire – e quand’anche emergesse un qualche elemento non
classificabile, subito sarà creata una nuova unità, una nuova categoria,
al fine di garantire che non possa esistere nulla che non appartenga, al
tempo stesso, né all’una né ad un altra, ponendosi in tal guisa come
elemento terzo, equivoco e, per questo, intollerabile. Questo antagonismo
circolare tra dionisiaco ed apollineo, che per Nietzsche fu il motore della
tragedia attica fino alla sua condanna a morte, sentenziata ed eseguita
da Euripide e Socrate, ne nasconde un altro, più intimo e più profondo,
interno allo stesso Dioniso, nel quale si contrappongono innumerevoli
sé, in molteplici volti ed aspetti, e che costituisce il motore primario –
indispensabile – della sua stessa potenza. Se la capacità di Dioniso di
generare senso deriva dalla sua stessa ed intima ricorsività antagonistica,

321
Stefano Bevacqua

il paradosso della sua molteplicità ed equivocità finalmente si svela:


Dioniso non è uno e molteplice, indicibile e irriconoscibile, Dioniso
non è equivoco nel senso dell’indeterminato e del mutevole; Dioniso è
in sé medesimo ricorsivo, poiché accoglie entrambi i poli di ogni dualità
antagonistica che si possa determinare, ma mai li ripropone in una sintesi
che ne sia il superamento – obliterazione – bensì rendendoli compatibili
nella circolarità di un processo evolutivo complesso, nell’essere l’uno e
l’altro polo, sui quali si avvita la ricorsività, il medesimo ed il distinto
nello stesso tempo – elemento terzo che non risulta classificabile
in alcuna categoria prefigurabile. È forse proprio questo il nodo che
sembra sfuggire a Nietzsche, il quale legge nello smembramento di
Dioniso una molteplicità di individuazioni contraddittorie e generative
della sofferenza alla quale il dio è sottoposto nel suo poter emergere
solo all’interno di una misura apollinea, la quale dunque lo seziona
e lo differenzia in unità di senso comune che feriscono l’unità della
conoscenza primaria ed universale. Sofferenza che Dioniso, nel quale si
riassumono tutte le maschere del tragico, cede all’umanità, sotto forma
di traumatica impossibilità di rispondere al perché di ogni necessità,
in quanto a venire meno è lo stesso fine che questa necessità fonda e
giustifica. Scrive Nietzsche:

Si può affermare che fino ad Euripide, Dioniso non cessò mai di essere
l’eroe tragico, e che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo,
Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell’eroe originario. [...]
L’unico Dioniso veramente reale appare in una molteplicità di figure, nella
maschera di un eroe in lotta, ed è per così dire preso nella rete della volontà
individuale. [...] Ma in verità quell’eroe è il Dioniso sofferente dei misteri,
quel dio che sperimenta in sé i dolori dell’individuazione, e di cui mirabili
miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi
in questo stato venisse venerato come Zagreus. Con ciò si significa che
questo smembramento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, è come
una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che quindi dobbiamo
considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni
sofferenza, come qualcosa in sé detestabile. Dal sorriso di questo Dioniso
sono nati gli dei olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell’esistenza
in quanto dio smembrato Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele
e selvaggio e di un dominatore mite e dolce.279

Nietzsche vede un Dioniso molteplice, salvo alludere, in maniera


probabilmente involontaria, ad una sua unità in quanto momento
primario che può assumere il volto dell’aria, dell’acqua, della terra e del
fuoco. I quattro elementi producono la sofferenza dell’incomprensibilità
����.F. Nietzsche, La Nascita della tragedia, cit. pp. 71-72.
322
Nel confine

e si producono dallo smembramento dell’unità originaria – il chaos.


Dioniso tutti li raccoglie poiché capace di contenere ogni contraddizione,
ogni equivoca ed intollerabile terzietà. Con le sue lacrime, Dioniso cede
all’umanità la sofferenza dell’individuazione – di un mondo percorribile
soltanto attraverso schemi differenzianti e logiche intolleranti –, ma
conserva il proprio imperturbabile sorriso che dimostra come egli sia
in sé immune all’individuazione – ne perirebbe immantinente, poiché
la ricorsività tra gli elementi antagonisti costituisce la sua stessa
costituzione, la sua essenza ed il suo fondamento. Ciò appare più chiaro
quando si consideri come il procedere del pensiero cui si è oggi usi non
è certo mutuabile con quelli della Grecia arcaica e nemmeno con quelli
successivi, almeno fino a Socrate. E, infatti, ciò che premeva ai Greci
era sempre di considerare la natura di Dioniso come esterna al mondo
comune – divina – ma non per questo del tutto avulsa dal quotidiano.
E ciò si rendeva possibile nel fatto, niente affatto casuale, che questa
divinità del complesso e del contraddittorio, fosse stata generata da
un dio, Zeus, e da una donna mortale, Semele. È una aspetto, questo,
soltanto apparentemente secondario e che ben aiuta a comprendere il
conflitto che venne poi a generarsi tra una visione dinamica del mondo e
la riduzione alla logica causale. Eliade lo ha colto con poche ma precise
considerazioni:

Le più antiche tradizioni mitologiche insistono sul fatto che Semele,


mortale, abbia generato un dio. Era proprio questa dualità paradossale di
Dioniso ad interessare i Greci, perché essa sola poteva spiegare il paradosso
della sua natura. Nato da una mortale, Dioniso non apparteneva di diritto
al pantheon degli dei olimpici; ma egli riuscì, nonostante questo, a farvisi
accettare e alla fine ad introdurvi anche sua madre Semele.280

Dioniso può sorridere e piangere, seminare gioia e festa e tragedia


e sofferenza perché è mortale e divino, immortale e terreno. È vittima
di Titani che lo fanno in brani e siede nell’Olimpo vicino a suo padre,
che ne ebbe così cura da farlo crescere nelle sue carni, nella sua coscia
cucito dopo che il fulmine aveva cancellato il corpo di Semele. Deve
così sorgere almeno il dubbio che Dioniso non sia affatto una cosa
ed al tempo stesso un’altra cosa, ma che sia abitato dalla sinergia
che due cose in opposizione possono generare nella loro evoluzione
temporale. Nel primo caso si entra in una contraddizione insanabile;
nel secondo si apre uno spiraglio alla considerazione di un meccanismo
evolutivo complesso nel quale possono convivere elementi altrimenti
incompatibili. È l’elemento temporale a definire meglio questa
����.M. Eliade, Storia delle credenze, cit., pp. 387-388
323
Stefano Bevacqua

biforcazione, con la dizione: al tempo stesso, che appare radicalmente


diversa da evoluzione temporale. La prima implica una differenziazione,
in quanto questa soltanto può sottendere la contemporaneità, mentre
la seconda prescinde da ogni differenziazione in quanto si riferisce
al mutevole rapporto tra le due cose, le quali ne generano una terza –
inclusa. Ecco che l’affascinante visione di Dioniso vivo e insieme morto
trova una soluzione nello svelamento di una posizione diversa da quella
predicata da un procedere dei pensieri secondo misura. Ancora Eliade
aiuta a disegnare questo evento:

Le sue comparse e scomparse inattese riflettono in un certo qual modo


l’apparizione e l’occultamento della vita, vale a dire l’alternarsi della vita e
della morte e, in ultima analisi, la loro unità. [...] Attraverso le sue epifanie
e le sue occultazioni, Dioniso rivela il mistero e la sacralità dell’unione
tra la vita e la morte. [...] Scomparsa e occultamento sono espressioni
mitologiche della discesa agli Inferi, dunque della morte. In effetti a Delfi
si mostrava la tomba di Dioniso ed anche ad Argo si parlava della sua
morte. D’altronde, quando nel rituale argolico Dioniso è richiamato dal
fondo del mare, riemerge proprio dal paese dei morti.281

Non è dunque duplicità di vita e di morte, quella dionisiaca, ma


piuttosto sono entrambe le cose in quanto partecipi l’una dell’altra in
reciproca connessione. Così come non è duplicità di barbuto o giovinetto,
di terra o di mare. Dioniso ricongiunge nella circolarità riunente. Maria
Daraki ha colto questo elemento con chiarezza:

Dioniso in quanto signore delle ricongiunzioni: più che riunire in sé due


autorità giustapposte, quella del dio della terra, da una parte, e dall’altra
parte quella del dio marino, Dioniso traccia una via di circolazione che
permette il passaggio costante da un dominio all’altro. Così come i delfini
saltano nella vigna dipinta da Exékias, Dioniso trasporta la terra sul mare e
il mare sulla terra. Egli fa spuntare i giardini nel bel mezzo dei flutti marini
e trasforma in rotte marittime le strade delle città dove si compiace di
muovere a bordo di navi con le ruote. [...] Il grappolo e il delfino; la vigna,
simbolo di abbondanza, e i flutti del mare, “mai vendemmiato”; Dioniso-di-
ogni-frutto e Dioniso-dell’alto-mare. Opposizione che piuttosto di separare
drasticamente gli opposti, ne organizza, al contrario, la congiunzione. Navi
in piena città, giardini in mezzo al mare. Questo mare “color del vino”,
scuro, anticamera dell’al di là di cui Dioniso imbocca le vie per tuffarsi
nell’Ade e per risorgerne, analogamente alle anime dei morti che sorgono
dalle giare di vino con il favore delle feste dionisiache e si mischiano per
qualche momento ai viventi per poi ritrovare la via del loro ritorno.282
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. Ivi, p. 390
����.M. Daraki, La mer dionysiaque, in “Revue de l’histoire des religions”, vol. 199, n.
324
Nel confine

Maria Daraki vede un passaggio continuo, incessante, da un polo


all’altro della dicotomia antagonista. Si può fare un passo avanti per
tentare di considerare non tanto questa oscillazione, circolazione,
quanto l’emersione di senso che viene fatta derivare dalla duplicità
interagente. Ciò che emerge non è, infatti, la somma o il prodotto dei
due poli in gioco, bensì un nuovo elemento che si colloca al di fuori dei
due medesimi poli, in una posizione terza e luminosa. Non si tratta di
una cosa, di un oggetto, di un significato, piuttosto di un’allusione, così
densa e pregnante da proporsi come verità, come conoscenza collocata
oltre la semplice possibilità, piuttosto nella necessità e nella totalità.
Quel movimento circolare, quella ricorsività che si rende manifesta
soltanto a condizione che l’apollineo si limiti allo svolgere il più umile
compito di vettore-cornice – quasi un palmo di mano sul quale si posa
ciò che si intende offrire alla vista dell’ospite – quella molteplicità
di elementi antagonisti in dinamico affrontamento propongono lo
svelamento di un mondo o di un segmento di mondo che può dunque
offrirsi all’intuizione, ma non ad una comprensione, che richiederebbe
la misura apollinea, il trarsi indietro, il lasciare ampio spazio e distacco
tra sé e ciò che si mostra. Quello offerto dalla ricorsività antagonista è un
elemento straniero, che si colloca in espansione per fondare e pregnare
del proprio senso un luogo ulteriore, sul confine, oltre e al tempo stesso
all’interno dei margini, elemento che pretende il superamento di ogni
distacco e di essere compenetrato ed integralmente fatto proprio, al fine
di offrire l’intuizione di un orizzonte altrimenti non percepito.
Il bipolarismo di Dioniso, in verità, è piuttosto un multipolarismo,
dal quale di volta in volta emergono coppie antagoniste capaci di
generare senso ed aprire allo sporgersi in avanti della conoscenza luoghi
altrimenti sconosciuti – luoghi di confine dai quali scorgere ed intuire ciò
che si offre ad essere disvelato. Nel gioco delle coppie antagoniste che
in Dioniso sembrano come ribollire in un congiungersi e disgiungersi
e ricombinarsi continuo, accade che si formino bipolarismi con gradi
diversi di incompatibilità tra gli elementi della coppia. Constatato e,
a questo punto della riflessione, acquisito che le manifestazioni del
dionisiaco sempre si costituiscono ed appaiono come multipolarismo
antagonistico, possono così presentarsi coppie ove la dinamica
dell’incompatibilità tra i due elementi è risolvibile in una sostanziale co-
esistenza – co-abitazione: nel senso dell’abitudine che si instaura come
carattere fondante della coppia medesima – ovvero coppie nelle quali
evidente appare un’esplosiva incompossibilità. Il primo caso potrebbe
essere ben rappresentato dalla classica dicotomia dionisiaca tra terra
1, 1982, pp.7-21.
325
Stefano Bevacqua

e mare, proprio come quella così ben descritta da Maria Daraki, nella
quale la coesistenza dei due elementi è resa possibile da tre evidenze:
la prima è costituita dall’area di incerta definizione che delimita un
mondo rispetto all’altro, quella zona marginale e confinaria in cui si
colloca l’inizio della fine del mare e la fine dell’inizio della terra; la
seconda evidenza attiene all’immaginazione di ciascuno – dell’uomo
– che sempre permette di raffigurare l’astrazione di un tralcio di vite
carico di grappoli che si inerpica sull’albero maestro di una nave;
la terza è costituita dal medesimo dionisiaco nel suo ricongiungere
circolarmente i due poli della dicotomia in un continuo e dinamico
riallacciare e disgiungere, differenziare e congiungere. Questa coppia
di terra e di mare uniti e separati potrebbe dirsi come un bipolarismo
innocente perché rappresentabile e, soprattutto, esperibile, senza cadere
nell’angoscia dell’inspiegabile e dell’inconciliabile. Il secondo caso,
quello di una esplosiva incompossibilità, assai spesso si presenta nel
dionisiaco e potrebbe essere agevolmente fissato, al suo livello estremo
di antiteticità, nella coppia vita versus morte, letta ed intesa come
vitalità che deflagra nella sua stessa capitale e radicale negazione. È
questa, la dicotomia estrema, ultima ed irripetibile; dicotomia fatale,
inesperibile se non al prezzo della irriferibilità, semmai percorribile
soltanto come esperienza intima del massimo pericolo. Da una parte,
occorre considerare come questo dualismo fatale in quanto si colloca
sul crinale che unisce l’esistenza e la cessazione dell’esistenza e può
essere soltanto immaginato e celebrato nei riti religiosi; dall’altra parte,
occorre ricordare che Dioniso è il dio immortale che muore ed è dunque
attraverso il suo accedere all’Ade, come un continuo bilanciarsi tra vita
e morte, che si avvera la sua continua metamorfosi, perenne ricambio,
indifferibile rinascita cui sempre e necessariamente deve seguire una
negazione – una morte. Ed è proprio qui, nell’estrema dicotomia che
si mira tutta l’enorme distanza che lo separa da Apollo. Non si deve
immaginare un apollineo sempre felicemente adagiato sul versante
della vita: Apollo, come tutte le divinità greche, è anche micidiale, ma
sempre alla dovuta distanza. Apollo soggioga e seduce senza mai venire
in contatto con il mondo reale; divinità distaccata e lontana, niente
affatto casualmente privilegiata da Socrate, che vi leggeva la certezza
dell’ordine e della misura e il giudizioso ben separare ogni cosa perché
sempre evidente fosse la causa e l’effetto di ciascuna; divinità della
lira, che si ascolta a debita distanza, e della freccia, che uccide a
debita distanza, così che il dio rimanga distaccato tanto da colui che,
soggiogato dalle note apollinee delle corde, a lui si rivolge reverente,
quanto dalla sua vittima, che è colpita in un luogo ed in un tempo distinti

326
Nel confine

da quelli divini – la freccia vola e giunge nello spazio e nel tempo


dell’umano, del mortale, in un al di qua. Diversamente è Dioniso: egli
trascina con le danze ditirambiche, conquista con l’incanto del flauto e
del ritmo, uccide di sua propria mano, divora le carni crude, ingerisce
le vittime, le assume come parte di sé. Dioniso cancella la distanza,
la differenza, la separazione, la distinzione tra sé, soggetto, e l’altro,
oggetto; egli riassume questa estrema dicotomia in un sistema dotato di
un senso proprio, non riducibile alla coesistenza dei due poli o alla loro
somma; Dioniso fonda la possibilità che esistano cose che si collocano
al di fuori di ogni classificazione causalistica e che riassumono i poli
della differenza senza mai negarla, ma piuttosto accogliendola come
fondamento di un luogo terzo. Apollo distingue e distanzia; Dioniso
riunisce e confonde. Il primo permane sempre ben distinto e si offre
come chiarito; il secondo abita il luogo dell’intuibile, dello svelamento,
del confine.
Il percorso dionisiaco svela dunque la possibilità di incontrare un
quadro di conoscenza diverso da quello abituale, che non sarà affatto
fondato sul buon senso e sul senso comune, ma semmai sull’intuizione
del verosimile che si propaga oltre i limiti consueti di un conoscere
categorizzato e generato dalle sempre arbitrarie differenziazioni.
L’esperimento del dionisiaco consiste proprio nel proporre senso al di
fuori delle abituali dicotomie ma facendo sempre propri i due poli che
le costituiscono. In altri termini: in luogo di generare senso attraverso
la logica binaria del vero versus falso, dell’unico versus comune,
del verticale versus orizzontale – meccanismo che si è propagato
dalla filosofia antica fino allo strutturalismo del significante versus
significato, del sintagma versus paradigma – l’esperimento dionisiaco
tenta una diversa strada, la quale, attraverso il paradosso, conduce ad
una terzietà che niente affatto cancella il dualismo originario ma ne
proietta i componenti in una inesperita dimensione. Ciò, attraverso il
superamento della univocità del buon senso in una duplicità di direzioni
e della fissità del senso comune in una molteplicità di identità. Così
Gilles Deleuze traccia un quadro sintetico del buon senso e del senso
comune:

Proprietà e classi sono le vive sorgenti del buon senso. [...] I caratteri
sistematici del buon senso sono dunque: l’affermazione di una sola
direzione; la determinazione di questa direzione come quella che va
dal più differenziato al meno differenziato, dal singolare al regolare,
dal rimarchevole all’ordinario; l’orientazione, in conseguenza di questa
determinazione, della freccia del tempo; dal passato al futuro; il ruolo
direttore del presente in questa stessa orientazione; la funzione di

327
Stefano Bevacqua

previsione resa così possibile; il tipo di distribuzione sedentaria, nella quale


tutti i caratteri precedenti si riuniscono. [...] Il senso comune identifica,
riconosce, analogamente a come il buon senso prevede. [...] Ben si vede
la complementarietà delle due forze del buon senso e del senso comune.
Il buon senso non potrebbe assegnare alcun inizio ed alcuna fine, alcuna
direzione, non potrebbe distribuire alcuna diversità, se non si superasse
verso un’istanza capace di rapportare queste diversità alla forma d’identità
di un soggetto, alla forma di permanenza di un oggetto o di un mondo, che
si suppone sia presente dall’inizio alla fine. Inversamente, questa forma di
identità data dal senso comune resterebbe vuota se non si superasse verso
un’istanza capace di determinarla per questa o per quell’altra diversità, che
comincia qui e finisce là, e che si suppone duri tutto il tempo necessario ad
equalizzare le sue parti.283

Il superamento di buon senso e senso comune comporta il disegno


di una terza possibilità – direzione, intenzione – attraverso la quale
proporre una diversità di direzioni, una cognizione del tempo più
vasta della sua freccia, una individualità che non possa essere sempre
ridotta a categorie. Deleuze chiama questa terza strada paradosso.
Paradosso deriva dal greco paràdoxos, formato da para-, nel significato
di “contro”, e doxa, “opinione”. Il paradosso di Deleuze è ciò che si
propone in antagonismo alla comune credenza, al buon senso ed al
senso comune; è l’altro senso, che supera la logica usuale, rassicurante,
ben fondata, la quale, fissando sempre una causa adeguata ad ogni
evento, permette di tutto prevedere. Per Deleuze, i paradossi sono
“anzitutto ciò che distrugge il buon senso come senso unico, ma poi
ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità
fisse”284. La loro forza, chiarisce Deleuze, sta nel fatto che essi “non
sono contraddittori, ma fanno assistere alla genesi della contraddizione.
Il principio di contraddizione si applica al reale e al possibile, ma non
all’impossibile da cui deriva, cioè ai paradossi o piuttosto a ciò che i
paradossi rappresentano”285. Il paradosso è l’impossibile che genera il
principio di contraddizione; il paradosso è il dionisiaco; il dionisiaco è
l’impossibile che si rende presente. Scrive Giorgio Colli nell’introdurre
alla raccolta dei testi antichi a Dioniso dedicati:

Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza.


Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e
crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e
distacco, gioco e violenza, ma tutto ciò nell’immediatezza, nell’interiorità
����.G. Deleuze, Logique du sens, cit. pp. 94-96.
���������������
. Ivi, p. 12.
���������������
. Ivi, p. 92.
328
Nel confine

di un cacciatore che si slancia spietato e di una preda che sanguina e


muore, tutto ciò vissuto assieme, senza prima né dopo, e con pienezza
sconvolgente in ogni estremo.286

È, questo, un Dioniso senza tempo, ché la sua apparizione avviene


al di fuori di tutte le usuali regole attraverso le quali si è soliti acquisire
le informazioni relative al mondo circostante – percezioni – per poi
elaborarle fino alla formulazione dei giudizi ed all’organizzazione del
pensato in concetti. Dioniso si propone al di fuori di questa successione,
come apparenza immediata, totale e sorprendente, perché egli si colloca
oltre il margine che la successione del pensiero erige per giustificarsi in
quanto coerente e finalizzata ai compiti che si è preliminarmente data. Il
dionisiaco frantuma le rassicuranti certezze e propone di sporgersi oltre
il limite della razionalità per indagare luoghi diversi ed inconsueti. Ecco
come Jean-Pierre Vernant traccia il quadro del dionisiaco:

Superamento di ogni forma, gioco delle apparenze, confusione dell’illusorio


e del reale: l’alterità di Dioniso attiene anche al fatto che attraverso la sua
epifania, tutte le categorie rigidamente fissate, tutte le opposizioni nette,
che danno coerenza alla nostra visione del mondo, invece di rimanere
distinte ed esclusive, si richiamano, si fondono, passano le une nelle
altre.287

L’osservazione di Vernant è riferita al Dioniso presentato e raccontato


da Euripide nelle Baccanti. Disponendo di un testo integrale della
tragedia, mentre sempre frammentarie sono tutti gli altri riferimenti
che al dio sono stati riservati, dagli Inni Omerici fino a i presocratici
ed a Platone, è dunque possibile tentare una puntuale ricerca di come,
nel racconto euripideo, queste opposizioni, così nette nel mondo
abituale, si frastagliano e si miscelano fino a sfumare in una equivocità
inafferrabile che sembra trascinare ogni cosa oltre i margini del mondo,
fino a confondere anche questi – e a confondersi con essi. Dalla lettura
delle Baccanti emergono infatti una serie di bipolarità antagonistiche
che sempre appaiono risolversi in paradosso. Se ne scelgono qui quattro
– anche se ne potrebbero scovare ben altre, nelle pieghe della narrazione
e nei gesti e nelle parole dei personaggi della tragedia. La prima
bipolarità che appare subito in massima evidenza è quella tra la città e
la montagna. La città, Tebe, è lo spazio comune che si colloca innanzi
al regale palazzo abitato da Penteo. La montagna, il Citerone, è il luogo
nel quale la tragedia si consuma, dove Agave mette a morte suo figlio
����.G. Colli, La sapienza greca, cit. p. 15.
����.J.P. Vernant, Le Dionysos, cit. p. 272.
329
Stefano Bevacqua

Penteo. La città, la piazza antistante il palazzo, è il luogo fisico della


narrazione, ove i personaggi del dramma prendono la parola. Tra questi
va annoverato anche il Messo, colui che trafelato giunge dal Citerone e
riferisce al coro quanto accaduto: le baccanti, guidate da Agave, dopo
aver fatto spillare latte e vino dalle rocce e dal suolo, ora cantano e
danzano, fino a quando sbuca Penteo, abbarbicato – inverosimilmente
– alla cima di un pino che lo stesso possente Dioniso aveva piegato fino
a terra per farvi salire l’impertinente sovrano; ora le donne in preda alla
follia lo possono vedere e vi si avventano sbranandolo a mani nude e
Agave infilza la sua testa sulla cima del Tirso e danza come un’ossessa
convinta di avere ucciso e fatto a pezzi un leone. La montagna, il
Citerone, è dunque soltanto riferita: ciò che avviene sul monte è narrato
ma non rappresentato. Analogamente, il palazzo regale, che Dioniso fa
metà crollare per dimostrare all’empio Penteo che gli dei godono di
una potenza che al mortale deve essere sempre di monito, non viene
mai mostrato: i personaggi del dramma vi entrano e ne escono, ma mai
le sue stanze sono proposte. Tutta la tragedia avviene nell’indefinito
spazio denominato Tebe, ma che non ha forma alcuna, che non ha un
inizio, un luogo dal quale si accede, ed una fine, dalla quale si recede.
Il monte Citerone, in effetti, non esiste davvero; il palazzo è anch’esso
incerto ed è più per la scossa di terremoto che ne mette in pericolo le
fondamenta che per l’andirivieni dei personaggi che vi entrano e ne
escono che assume una qualche materialità, la quale, al tempo stesso, è
frantumata dal sisma; la città di Tebe non ha margini, è l’indefinito luogo
della narrazione, che Penteo vorrebbe chiudere al pericolo. Ma non gli
è possibile, perché non ha vere porte né mura, perché è soltanto luogo
di rappresentazione ove non si rappresenta alcun luogo. La montagna,
il palazzo, la città sono enunciati, ma non mostrati. Essi sono un fuori
dell’estremo, della follia e della frenesia delle menadi, in opposizione
ad un dentro oscuro e ormai pericolante e ad uno spazio indefinito che
ospita i narranti. La dicotomia montagna versus città si risolve nella
rarefazione di ogni luogo, nel loro sfumare in ambiti indefiniti, nebbiosi,
dove i netti contrasti lasciano il passo all’indeterminazione.
La seconda opposizione è quella tra barbari e Greci. Penteo è la
Grecità; Dioniso, venuto da Oriente, è la penetrazione barbarica che
mette a repentaglio la purezza del sistema olimpico. Dioniso è rifiutato
da Penteo non perché lo consideri un dio minore, ma perché è straniero
– e Straniero è anche l’epiteto che Dioniso assume nelle Baccanti. La
tragedia ruota esattamente intorno a questo diniego, che il dio intende
vendicare nel modo più crudele e totale. Importante è allora ben
delucidare quale sia il carattere di questa estraneità di Dioniso. Essa

330
Nel confine

non attiene tanto alla sua origine, al fatto che egli non è greco ma forse
minoico, o egiziano, o tracio, o frigio, quanto all’incertezza medesima
intorno alla sua origine. A produrre questa prevenzione negativa nei suoi
confronti è il sospetto generato dalla dubbia provenienza, moltiplicato
per l’incerta origine di divinità generata da una mortale e da Zeus e poi
partorito nuovamente dalle carni di Zeus stesso, ancora moltiplicato per
il suo aspetto molteplice, di adulto e giovinetto, di barbuto ed imberbe.
In ultima analisi: è Dioniso come tale che produce questa prevenzione
e prudenza, è il suo essere indefinito a generare diffidenza. In questo
e per questo egli è assimilato al barbaro288: in quanto entità estranea,
marginale, che viene da oltre un confine e sembra nemmeno mai averlo
davvero del tutto superato. Ecco che l’opposizione barbaro versus greco
si risolve nell’irruzione di Dioniso medesimo, attraverso il suo paradosso
e nel paradosso in cui è uno dei due poli dell’opposizione a generare la
soluzione. Dioniso è il polo barbaro e insieme la terza voce che ancora
non si mostrava; egli irrompe sulla scena del dramma in quanto alterità,
ma nello stesso modo rappresenta la soluzione dell’antagonismo; egli
vince contro Penteo che non voleva credere in quel dio meticcio, e da
quel momento diviene il dio, quasi offuscando le altre figure olimpiche
– sicuramente il fratello Apollo, ma anche lo stesso re degli dei, Zeus,
appare quasi accantonato nello sfavillare di vittoria che Dioniso ostenta
con l’arroganza di chi conosceva fin dall’inizio l’esito del contrasto.
Dioniso cambia le carte del gioco, le mischia e le ricompone, ma senza
imporre nuove regole, bensì lasciando aperta la completa incertezza:
il dio giunge a Tebe, distrugge il regale palazzo e non ne costruisce
alcun altro, sovverte ogni sistema senza offrirne altri, propone una
logica che faccia a meno della logica, una conoscenza senza categorie
né schemi, senza cause ma solo con la tempesta degli effetti. Penteo
voleva difendere la purezza greca, voleva mantenere separato ciò che il
dio voleva mischiare. Vince il dio, vince l’incerto mondo dei paradossi.
Ecco la terza opposizione: uomo versus donna, maschile versus
femminile. Il Dioniso euripideo si presenta come un giovane effeminato
che si unisce alle donne nelle frenesie della danza e del canto guidato
dai flauti e dai tamburi. Non è certo il maschio rude e autorevole dei
dipinti arcaici, no, è un Dioniso che sfiora il femmineo, che lascia aperto
l’equivoco e che evoca sessualità eterogenee. Ma alla fine delle Baccanti
è lo stesso Penteo a travestirsi da donna, a mutare il suo aspetto. Lo
Straniero – Dioniso – lo convince ad assumere le sembianze femminili

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. Per i Greci barbaro equivaleva a straniero, ancorché con una decisa assonanza
negativa, ma che derivava più dalla presunta superiorità greca che da una inciviltà degli
altri, intesa come assenza di modelli e riferimenti culturali.
331
Stefano Bevacqua

per poter più facilmente raggiungere il Citerone e spiare così le baccanti


in festa. In questo modo Penteo perde la sua identità ed il suo potere.
Assumendo le sembianze di donna compie un radicale mutamento ed
un tragico errore: il mutamento consiste nel deporre le armi regali, nel
rinunciare al suo potere ed alla sua virilità, nell’accettare il dionisiaco
come totalità equivocante; l’errore sta nel pensare che in tal guisa egli
non venga visto dalle donne in festa pronte a sacrificarlo. Penteo è la
razionalità greca, che non può ammettere il superamento della dicotomia
sessuale, pena perdere sé stesso e il corredo di identità e di potere che
gli è proprio; Dioniso è quello stesso superamento nell’accesso ad un
orizzonte che recede da una classificazione causalistica per porsi su un
piano di ulteriorità.
Quarta opposizione: saggezza versus follia – sophrosynè versus
mania. I due poli sono nettamente delineati. Da una parte, una vita greca
intrisa di razionalità e certezze, che trova in Penteo la sua immagine
rassicurante, con quel suo decidere di ogni cosa mostrando sempre
assoluta certezza e pretesa di coerenza con il pensiero, ché ogni suo
atto è manifestamente frutto di un percorso logico ed è quindi assunto
come necessariamente coerente, cioè esatto e giusto. Dall’altra parte, un
modello di trasgressione e di ricerca dell’irrazionale come apertura verso
un mondo non classificabile, rappresentato dalle donne in preda all’estasi
bacchica, nel loro menadico lasciarsi trascinare da ogni pulsione emotiva,
così che esse diventano forti come tori – inversione netta di significato
da un toro, maschile per eccellenza, ad un toro impersonato dall’estremo
del femminile – e bramose come linci. In questo caso non è Dioniso, che
pure è il nume delle donne in festa e l’ispiratore della follia bacchica,
a risolvere l’opposizione. Il dilemma antagonistico si supera attraverso
un’inversione radicale, per la quale, lungo la narrazione delle Baccanti,
il dio appare sempre più serio, coerente, razionalmente determinato, ed
è Penteo a scivolare gradualmente nella follia, nell’incoerenza, fino a
quel gesto fatale e paradossale di finire dilaniato dalle donne proprio
quando anche lui ne assume le sembianze. Il confronto tra razionalità e
mania non è mai frontale, ma sempre circolare: l’una cosa insegue l’altra
in una ricorso che percorre tutta la tragedia di Euripide fino a consumare
i ruoli e le figure che li sostengono. È Penteo, come esausto da questo
tentativo inefficace di rincorrere la propria medesima razionalità che
Dioniso sembra spostare in ogni istante un poco più avanti, fino a farlo
annaspare in una sorte di frenesia, ad offrire allo Straniero-Dioniso una
prima parziale ammissione, subito bilanciata da una negazione. Dice
Penteo: “Tante cose tu sai, tante: eccettuate quelle che dovresti sapere”.
Dioniso, prontamente e serafico, replica: “E invece proprio le cose che

332
Nel confine

contano, sono esattamente quelle che so, io”. Nel dialogo prende forma
la soluzione dell’antagonismo ed emerge la circolarità di una senso che
abbandona le radici di una conoscenza tutta rigorosamente definita e
si libera verso luoghi sempre più lontani dal buon senso e dal senso
comune.
La rappresentazione della follia bacchica, delle menadi scatenate
e dei fauni pronti a impossessarsene come bottino di una selvaggia
scorribanda sessuale, dei danzatori e del pifferaio che ipnotizzano le
donne che si lasciano andare a sfrenata lussuria di vino, di carne in
brani che cruda si strappa ad animali ancora agonizzanti, di latte che
sgorga da turgidi seni e nutre piccole fiere, questo quadro, così come
emerge dal racconto delle Baccanti, in effetti può stupire, non tanto per
la violenza degli eventi, che culminano con lo sbranamento a mani nude
di Penteo, quanto per la sostanzialmente scarsa attinenza che sembra
emergere tra la narrazione euripidea e le descrizioni storiche sia delle
feste dionisiache pubbliche, peraltro ben documentate, sia di quelle
private o comunque riservate ad una stretta cerchia di eletti. Di queste
ultime, e dei misteri eleusini ad esse associati – associati fino ad una
possibile identità –, non è, naturalmente, dato di conoscere gran cosa,
ma possono essere tratte comunque alcune riflessioni atte a descrivere,
almeno parzialmente, se non i riti almeno il loro contenuto sostanziale,
inteso non come il ciò che materialmente avveniva, bensì quello che
poteva ragionevolmente accadere alle persone che vi prendevano parte.
Ed è questo il tema che ha tanto soggiogato ed affascinato: l’estasi, la
possessione, la manìa289. A tal proposito molto si è discusso e non sarebbe
questa la sede di alcun degno approfondimento, ma almeno quattro punti
salienti vanno raccolti, poiché di grande utilità nell’individuare nella
straniazione estatica e maniacale un’apertura verso luoghi – dell’anima
– che si pongono al di fuori dei limiti del mondo usuale, inglobandone i
confini medesimi in una diffusa terzietà.
Il primo di questi elementi è costituito dal contagio. Per contagio
si intende quel fenomeno che permette al divino di avvicinarsi e
compenetrare il mortale. Contagio è un movimento discendente, comune
a tutte le religioni nelle quali si assume la divinità come collocata in
uno spazio ed un tempo superiori e successivi a quelli terreni ed usuali.
Il contagio si presenta come un incontro dell’umano che nell’estasi
ascende verso un luogo altrimenti non esperibile e del divino che si

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. Per estasi si intende qui un “uscire di sé”, come un innalzarsi al di sopra della
normalità, del mondo usuale, in ragione di un’emozione particolarmente intensa.
Per manìa si intende qui il termine greco, che vale come l’essere furioso, incapace di
controllarsi, pazzo.
333
Stefano Bevacqua

protende verso la meschinità del mondo terreno. Questo protendersi è


reso possibile proprio dalla manifestazione di intenzione che l’estasi
presenta a garantisce, come se, così facendo, l’umano si mondasse di
almeno una parte della terrena meschinità e rendesse quindi possibile
quel gesto di benevolenza che il divino gli concede. Contagio è dunque
un reciproco sporgersi, del divino, che acconsente a dare ascolto
all’umano, e dell’umano, che, grazie alla condizione estatica, riesce a
risolvere almeno alcuni dei lacci che lo legano al mondo terreno. Non è
un incontro, questo, tra divino e umano, almeno non ancora; è una sorta
di avvicinamento, un primo superamento dei limiti da parte dell’uomo
che percepisce il divino come distinto da sé, ancora distante, ma
comunque possibile e disponibile ad un – futuro – incontro. Ma occorre
chiedersi se questo passo verso l’alterità comporti o meno un radicale
rifiuto ed un allontanamento dalla materialità terrena, se nell’ascesa
verso quella mano tesa dal divino il mortale stia proferendo un giudizio
di esecrazione per la vita materiale, quotidiana, usuale, gravida di dolori
e se questo giudizio si confermi in un abbandono di questo mondo.
Nietzsche, in proposito, non aveva alcun dubbio:

L’estasi dello stato dionisiaco, con il suo annientamento delle barriere e


dei limiti abituali dell’esistenza contiene infatti, mentre dura, un elemento
letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel
passato. Così, per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana
e quello della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà
quotidiana rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale;
una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli
stati. In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi
hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno
conosciuto, e provato nausea di fronte all’agire.290

La proposta di Nietzsche appare assai problematica. Egli si mostra


perentorio e sicuro. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che, a suo
avviso, l’estasi dionisiaca produca un distacco tale da accreditare una
successiva insoddisfazione per il mondo usuale, insoddisfazione tanto
intensa da generare nausea. Ma, come sempre, Nietzsche richiede un
più attento esame di quello che è permesso da una soltanto rapida
lettura. Occorre essere prudenti e metodici e leggere con attenzione,
nella consapevolezza dell’ambiguità che tanto spesso caratterizza il suo
pensiero. Dice anzitutto Nietzsche che l’estasi dionisiaca “annienta le
abituali barriere e confini dell’esistenza”. Non parla di superamento,
ma di annientamento, il quale dovrebbe dunque generare un radicale
����.F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit. p. 55.
334
Nel confine

distacco tra “il mondo della realtà quotidiana ed il mondo della realtà
dionisiaca”. Ma ecco che i due mondi, quello reale e quello dionisiaco,
vengono posti esattamente sullo stesso piano in quanto entrambi reali,
a significare che nello stato dionisiaco non vi sarebbe alcun distacco
dal reale medesimo, bensì, e soltanto, dai modi con i quali il quotidiano
appare e alle funzioni grazie alle quali al quotidiano l’uomo si relaziona
e appartiene. Ciò che, a sua volta, sembra contraddire con il “letargico”,
nel quale il mondo reale sembra sprofondare in ragione dello stato
estatico proposto da Dioniso e ancor più con “l’abisso dell’oblio” che
genera il distacco tra i due mondi. La spiegazione viene lasciata ad
intendere poche righe dopo, quando Nietzsche dice in che cosa consista
quella nausea: in un rifiuto, dovuto al riapparire di un mondo materiale
inaccettabile, mondo ormai “uscito fuori dai cardini”, mondo che non
può essere in alcun modo mutato, così che ogni tentativo in questa
direzione suonerebbe come “ridicolo ed infame”. Ma, allora, non c’è
alcuna reale rottura, non c’è quel distacco che sembra emergere da
una lettura superficiale del riferimento nietzschiano, c’è semmai una
presa di conoscenza, simile a quella di Amleto, di chi, avendo avuto
l’arditezza di gettare “uno sguardo vero nell’essenza delle cose”, ha
finalmente “conosciuto” ed ora non può che sentire il mondo usuale
come inadeguato e, soprattutto, troppo angusto. Quello di Nietzsche
appare più un’aristocratica superiorità rispetto ad un mondo del banale
e del tedioso, che una constatazione di irreversibile allontanamento.
L’Amleto nietzschiano continua a vivere in Terra e rinuncia ad avere
cura di essa – rinuncia a tentare di cambiare il mondo – soltanto perché
sa di non esserne capace; Nietzsche, quasi smentendosi, ammette che
non c’è alcuna forza, che sarebbe necessariamente sovrannaturale, un
dio capace di attribuirgli quel potere. Questo Amleto vive della terra,
non vola in cielo e non diventa folle – almeno non ancora.
Del resto, anche dai riferimenti storici di cui si dispone sembra
apparire un’analoga indicazione, sia pure con sfumature assai diverse.
Jean-Pierre Vernant, storico di scuola strutturalista che si colloca,
per formazione, ad una considerevole distanza da Nietzsche, esclude
qualsiasi radicale rottura che il dionisiaco decreterebbe verso il mondo
terrestre e usuale:

Nel dionisismo dell’Atene del V secolo non c’è alcun documento che
dia concretezza ad un fenomeno allo stato secondo, cioè utilizzato per
invertire sistematicamente i valori del sacro e le orientazioni fondamentali
del culto: nessuna tendenza ascetica291, nessun rifiuto dei valori positivi
. Nietzsche e Vernant utilizzano l’aggettivo ascetico con due intenzioni diverse: per
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Nietzsche come di un disinteresse per il brutto, il malvagio ed il deludente; per Vernant
335
Stefano Bevacqua

della vita terrena, nemmeno la minima velleità della rinuncia, nessuna


preoccupazione per l’anima, per la sua separazione dal corpo, nessuna
prospettiva escatologica. Né nei rituali, né nelle immagini, né nelle Baccanti
si può scorgere l’ombra di una preoccupazione di salute o di immortalità.
Tutto qui si gioca nell’esistenza presente. Il desiderio incontestabile di una
liberazione, di una evasione in un’alterità non si esprime nella forma della
speranza in un’altra vita, più felice, dopo la morte, ma nell’esperienza,
in seno alla vita, di una dimensione altra, di un’apertura della condizione
umana ad una beata alterità.292

Il contagio del divino verso l’umano avviene dunque sulla terra,


nella vita, e non in una condizione di estraneità che si proietta verso
un altro mondo, quello che succede alla morte. Nessun paradiso: la
funzione del contagio si mantiene all’interno del reale, sia pure in
quel reale dionisiaco che Nietzsche pone come possibile alla pari del
reale quotidiano. È dunque l’eccezionalità, cioè la non quotidianità,
a rendere possibile il contagio, l’avvicinamento momentaneo al
divino attraverso l’estasi; e questo anche se il ritorno al quotidiano
può presentarsi come insopportabile. Tutto questo a meno che non si
determini la condizione di una identificazione tra l’uomo ed il dio, tra il
mortale e l’immortale. L’identità è il secondo elemento emergente dalla
ritualità dionisiaca ad apparire meritevole di particolare attenzione.
Si tratta dell’identità che viene a determinarsi tra l’umano che entra
in uno stato di estasi particolarmente profonda e nelle quale viene ad
essere superato quel limite che permane e si può osservare nell’ambito
del contagio. Con l’identità avviene dunque un salto qualitativo e,
con esso, sembra scomparire quel riferimento alla realtà quotidiana,
al mondo usuale, al quale l’uomo riferisce la propria medesima
partecipazione al dionisiaco. Un salto deciso, che proietta verso una
condizione fondamentalmente diversa, nella quale si rinnega ogni
congiunzione al materiale, in quell’estasi bacchica che Euripide ha
lasciato come descrizione di un altro mondo diverso da quello abituale,
ove avvengono sortilegi e miracoli, ove l’impossibile è normalità ed
il normale non ha più identità rintracciabile. Oppure, potrebbe essere
soltanto un’illusione prospettica, come una lente che mostra come
lontane e irraggiungibili cose assai usuali e vicine; illusione generata
dall’esteriorità dei comportamenti estatici, per la quale si scambierebbe
un modo di partecipazione al dionisiaco con un modo di esistenza, per
cui la follia o la morte o entrambe in successione fisserebbero una
come di un distacco da ogni realtà e di un proiettarsi in un mondo dal quale rinnegare ogni
legame con la mondanità.
. J.P. Vernant, Le Dionysos masqué, cit. pp. 260-261.
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336
Nel confine

condizione dionisiaca ultima e irripetibile. A questo proposito Vernant


offre una descrizione di grande precisione:

Nella transe l’uomo interpreta il ruolo del dio e, analogamente,


il dio interpreta quello dell’uomo; dall’uno all’altro, le frontiere,
momentaneamente, si cancellano, annebbiate dall’intensità di una presenza
divina che, per profilarsi nella sua evidenza di fronte a voi, deve anzitutto
aver certa la sua potestà sui vostri occhi, deve essersi impossessato del
vostro sguardo dal di dentro, deve avere trasformato il vostro stesso
modo di vedere. Quando Penteo interroga lo straniero su quel dio di cui
il giovane si proclama missionario, la sua domanda traccia una netta
linea di demarcazione tra due opposte forme di visione: quella illusoria,
irreale, del dormiente sognante; quella, autentica, irrecusabile dell’uomo
sveglio, lucido, con gli occhi aperti. “E te – chiede Penteo –, quand’è che
quel dio ti ha costretto, di notte o in piena vista?”. “Lui vedeva me ed
io lui”, risponde lo straniero. Risposta à coté, che sposta la questione e
sottolinea che l’epifania del dio si situa al di fuori della dicotomia che
serve da quadro alle certezze di Penteo: da una parte il sogno, i fantasmi,
le illusioni; dall’altra le visioni ben reali, il constatare irrefutabilmente.293

La soluzione risiede interamente nel modello di giudizio di Penteo, nel


suo ostinarsi a classificare ciò che abita il mondo secondo appartenenze
prefissate ed inconciliabilità radicali. Si oscilla quindi nell’indecisione
tra un dionisiaco che permane connesso al reale e che, anzi, fa del reale
il luogo proprio e necessario dal quale muovere verso la propria sfera, ed
un dionisiaco che travalica ogni ponte e si pone non sul margine ma ben
oltre, in un altro mondo, quello della follia, della morte. Perfino Agave
rinsavisce dopo aver sbranato il figlio Penteo ed averne brandito la testa
infilata sul tirso come trofeo; anche l’uomo che ha conosciuto, e che
per questo entra nella depressa condizione di Amleto, va oltre il limite
del “mondo della realtà quotidiana” per praticare quello della “realtà
dionisiaca”, ma fa poi ritorno al quotidiano. Se rottura vi fosse, se si
trattasse di inconciliabilità, questo andirivieni dal comune all’estremo
non sarebbe possibile, ché in verità l’estremo non è in un altro mondo, ma
soltanto si situa oltre il margine che abitualmente si intende attribuire a
questo mondo – appunto – abituale, come dell’abitudine, del conosciuto
e che per questo non sorprende. È dunque il margine attribuito al mondo
ad essere fittizio; è la funzione causale e predittiva ad essere troppo
angusta per accogliere l’immenso luogo di confine, nel quale non si è
più al di qua senza per questo essere in alcun al di là. La dicotomia tra
dionisiaco e quotidiano si sfalda di fronte all’evidenza che ad essere
inadeguati sono i criteri della logica che pretende di dividere in due un
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. Ivi, pp. 265-266.
337
Stefano Bevacqua

mondo che è uno soltanto, come mondo dell’uomo, che comprende le


sue credenze e i suoi miti, la sua infelicità e i suoi dei. Cosa che appare a
maggior ragione come un’ipotesi ragionevole quando si consideri che è
il dionisiaco medesimo e per primo a far saltare ogni logica causalistica
rassicurante e ben confezionata. Scrive ancora Vernant:

La visione di Dioniso consiste nel far scoppiare dal di dentro, nel ridurre
in briciole questa visione “positiva” che si pretende sia la sola valida
e dove ogni essere ha la sua forma precisa, il suo posto definito, la sua
particolare essenza in un mondo fisso che assicura a ciascuno la propria
identità all’interno della quale ciascuno dimora rinchiuso e sempre uguale
a sé stesso. Per vedere Dioniso bisogna penetrare in un universo differente,
dove regna l’Altro, non il Medesimo.294

Qui si inserisce il terzo elemento rilevante: la reversibilità. Se


l’accesso al “mondo della realtà dionisiaca” non costituisce affatto un
salto verso un mondo indefinito e radicalmente distaccato da quello della
“realtà quotidiana”, se si tratta dunque di uno straniarsi, di un avanzare
nell’alterità senza mai cadere in un ulteriorità abissale, se permane
dunque il riferimento a questo mondo consueto, abituale pur nell’estasi
di una proiezione fuori di sé, la quale però avviene nell’ambito della
veglia, quella abitata da un dio che può essere visto nel mentre egli
vede colui che lo vede, e non in un sogno, ecco che la reversibilità è
garantita oltre che necessaria. Non si è in presenza di un salto abissale,
ma semmai di una visita in un mondo contiguo, occorre che sia sempre
aperta la via di un ritorno al consueto, all’abituale. Ma se ben si riflette
su questi aspetti, viene ad emergere una ulteriore considerazione, capace
di invertire completamente i termini della questione e di rendere la
reversibilità non tanto necessaria per garantire il passaggio dal “mondo
della realtà quotidiana” a quello della “realtà dionisiaca”, quanto
connaturata allo stesso “mondo della realtà dionisiaca”. Nel primo
caso si tratta di una condizione che riguarda l’uomo che si avventura
nell’estasi e perfino nella transe del rito; nel secondo caso si tratta di
un attributo intrinseco al dionisiaco. Il “mondo della realtà dionisiaca”,
infatti, non soltanto non deve essere considerato come radicalmente
estraneo al “mondo della realtà quotidiana”, bensì deve in aggiunta
essere visto come un luogo che si allarga nel suo essere abitato fino
a comprendere anche larga parte del mondo nel quale viene ad essere
generato. Il dionisiaco è un luogo di confine, non è più un al di qua, ma
non è propriamente un al di là. Con ciò esso non è però riducibile e,
con questo, banalizzabile alla sola area di frontiera che separa – unendo
����������������
. Ivi, p. 267.
338
Nel confine

– un mondo abituale da un mondo ulteriore. Non c’è nessun mondo


ulteriore, in effetti, ma soltanto uno stato diverso del mondo quotidiano,
che non è percepibile se non inoltrandosi oltre il confine dell’abitudine
e che si genera proprio nella apparentemente insanabile contraddizione
tra poli antagonisti: uomo versus donna, dio versus uomo, veglia versus
sogno. La reversibilità è dunque contenuta come carattere intrinseco del
dionisiaco perché lo stesso dionisiaco non ha un confine attraversabile
a piacere – reversibilità della condizione dell’uomo – bensì comprende
anche i suoi stessi confini nella loro mutevolezza temporale e nel loro
disperdersi e riunirsi spazialmente. Ad essere reversibile è il dionisiaco,
non l’uomo che lo visita. Ancora Jean-Pierre Vernant:

Se la funzione di Dioniso fosse “mistica”, egli strapperebbe l’uomo


all’universo del divenire, del sensibile, della molteplicità, per fargli
attraversare la soglia oltre la quale si penetra nella sfera dell’immutabile,
del permanente, dell’uno, del sempre medesimo. Il ruolo di Dioniso non
è questo. Egli non vi distacca dalla vita terrestre attraverso tecniche di
ascesi e di rinuncia. Egli scompagina le frontiere tra il divino e l’umano,
tra l’umano e il bestiale, tra il qui e l’al di là. Egli fa comunicare ciò che
era isolato, separato.295

Il “confondere le frontiere” indicato da Vernant può essere qui


fatto coincidere con l’idea di un superamento dei confini fissati da una
immobile ed irrisolvibile dicotomia tra il qui e l’al di là, attraverso
un sistema che proietta gli antagonismi in una terza condizione nella
quale essi divengono pienamente compatibili – co-essenti. In tale
processo i confini medesimi vengono riassorbiti in quanto, come scrive
Vernant, scompaginati, aperti longitudinalmente fino ad espandere i
loro rispettivi bordi nella totalità del “mondo della realtà quotidiana”,
il quale, proprio attraverso questo allargamento del confine che da linea
si trasforma in luogo di eccezionale dinamica e dimensione, si traduce
in un “mondo della realtà dionisiaca”. In questo processo, l’orgiasmo,
la transe, l’estasi sono finalizzate all’apertura del mondo dionisiaco e
niente affatto un fine in sé – un fine a sé stesso. E così si identifica anche
il quarto elemento saliente del dionisiaco: la strumentalità. A generare il
“mondo della realtà dionisiaca” è il rito e i fenomeni che esso comprende
e comporta, quali la transe, l’estasi, lo straniamento, i quali non sono
per nulla conseguenza del dionisiaco, ma suo presupposto necessario.
Il dionisiaco è il luogo nel quale si realizza l’esperienza emotiva del
superamento dell’antagonismo; questa esperienza avviene attraverso la
transe, l’estasi, lo straniamento.
����������������
. Ivi, p. 263.
339
Stefano Bevacqua

Il sistema nell’ambito del quale il luogo dionisiaco si sviluppa è la


festa, durante la quale si celebra il rito dionisiaco. Festa e rito appaiono
così intimamente connessi: la festa ospita necessariamente il rito, il quale
ne costituisce – appunto – il contenuto. Il rito non potrebbe celebrarsi se
non vi fosse l’ambito della festa; la festa sarebbe vuota gestualità se non
fosse pregnata dal rito. Questa considerazione di reciproca necessità tra
i due aspetti del sistema dionisiaco potrebbe però non essere sufficiente
per una più compiuta considerazione. Da una parte, infatti, il rito può
anche essere adattato ad ambiti diversi da quello delle festa. È quanto
accade quando esso viene celebrato nel tempio, nel luogo di culto; è
quanto accade quando a Delfi si interroga l’oracolo apollineo e si onora
Dioniso, che abita anch’egli quel luogo. Similmente si può inferire
anche a proposito della festa, quando essa venga privata del rito: essa
perde in tal guisa un fine, ma, a ben vedere, guadagna in libertà, perché
il rito la obbliga ad un preciso percorso, mentre de-ritualizzata essa può
svilupparsi secondo le intenzioni dei partecipanti, rendendo questi non
più succubi della procedura, bensì protagonisti della festa medesima.
Ecco che non riesce possibile il considerare la festa a prescindere dal
rito e questi senza considerare la prima, mentre, con ostinata analogia,
non si giunge ad alcuna comprensione quando ci si limiti a considerare
il rito come contenuto della festa e questa come contenitore del primo.
Occorre rassegnarsi a considerare i due elementi in gioco in maniera
non schematica, non consequenziale, soprattutto: non causale, bensì
in maniera dinamica, come due elementi concorrenti, ciascuno per
le proprie caratteristiche, al conseguimento del risultato: generare la
condizione estatica che consente di far apparire il superamento della
dicotomia antagonista. La festa ed il rito costituiscono così la procedura
per conseguire l’estasi. La festa, da parte sua, richiede e permette
una partecipazione collettiva, capace di sfociare nel superamento del
confine che la delimita come tale per dilagare nell’imprevisto derivato
dall’interazione tra i comportamenti individuali dei partecipanti fino al
loro raccoglimento in un flusso di intenzione collettiva. Il rito definisce
la successione dei gesti e degli eventi che dal profano indirizza verso
il sacro: all’inizio della festa i partecipanti si collocano in un mondo
usuale, nel “mondo della realtà quotidiana”; con lo sviluppo del rito,
delle sue proprie direzioni ed intenzioni, viene ad aprirsi gradualmente
un mondo intermedio, ancora legato all’usuale, all’abitudine che è
dell’abitare quotidiano, ma che, via via che il percorso si dipana,
assume gradualmente i caratteri di una diversità; l’esito del rito, il suo
culminare, offre il presentarsi di un mondo diverso, il “mondo della
realtà dionisiaca”, che è materialmente costituito dallo stesso mondo

340
Nel confine

abituale, ma che può essere ora percepito e vissuto in un’atmosfera


ed una logica del tutto differente, estranea al consueto. Il confine che
separava i due mondi si è così allargato fino a comprenderli entrambi,
fino a diventare un luogo indefinibile, equivoco, instabile, incerto nel
divenire del tempo. È il luogo dell’estasi, della straniazione, nel quale
il rito si arresta e lascia il campo libero alle intenzioni dei partecipanti.
La festa, anch’essa, ha così termine: il fine è stato raggiunto, il luogo
di confine, amplificato dalla festa ordinata dal rito e qualificato dal rito
spinto dalla festa, è stato percorso ed abitato.
Si usa dire, che le feste dionisiache e le molte altre che le hanno seguite
lungo i secoli, avessero un effetto, una funzione di tipo liberatorio.
Questo, in base alla considerazione che all’apice del coinvolgimento
emotivo generatosi nel corso della festa medesima i partecipanti
raggiungevano una condizione estatica. Ciò è esatto, ma soltanto per un
verso formale ed esteriore. Si è detto, infatti, che i due poli del sistema,
la festa ed il rito, sono indissolubilmente necessari l’una all’altro e che
la loro sinergia rappresenta la procedura per il raggiungimento dello
stato estatico, il quale, a sua volta, consente di accedere – di sporgersi
– oltre il confine per abitarne, sia pur temporaneamente, l’incerto ed
equivoco ambito. Dunque, non è la festa a generare la liberazione, bensì
il prodotto della festa medesima, l’estasi, la quale offre quel diverso
orizzonte nel quale al riunirsi delle opposizioni antagoniste corrisponde
la percezione emotiva della liberazione. Ciò è reso possibile dalla natura
medesima del dionisiaco, la quale impregna tanto la festa quanto il rito
di equivocità, di incerti esiti, di aperture insospettate e di impreviste
opportunità. L’efficacia della festa-rito dionisiaca risiede nella sua
intrinseca equivocità, nel non seguire un percorso lineare e prevedibile,
di non generare nel suo sviluppo eventi concatenati e causalmente
proposti. La festa-rito dionisiaca, pur prevedendo gesti ed atti ben noti
i partecipanti, è incoerente ed incongrua essa stessa. La letteratura
in proposito è assai vasta ed è in larga misura popolata da continue
interrogazioni ed ipotesi sul significato recondito di ogni passaggio
della festa-rito, della connessione logica – consequenziale – che lega
ciascuno di questi passaggi a quelli precedenti ed a quelli successivi
e delle simbologie che sembrano qualificare questi stessi passaggi. A
queste interrogazioni seguono innumerevoli risposte, tutte plausibili e
documentate, ma in effetti sempre incomplete, tali da lasciare sempre
viva la percezione di un’incertezza e di una incompletezza. Ciò, fatte
salve le naturali difficoltà che si incontrano nel leggere ed interpretare
le testimonianze delle epoche più antiche, deriva forse dalla natura
stessa della festa-rito dionisiaca, nella quale appaiono sovrapporsi ed

341
Stefano Bevacqua

imbricarsi temi e simboli effettivamente diversi e, assai spesso, del


tutto incongrui. Non si intende qui effettuare una disamina dettagliata
di questi aspetti, ma soltanto sottolineare alcuni aspetti.
Si è soliti identificare quattro distinte feste dionisiache: le Dionisie
Rurali, le Lenee, le Antesterie e, da ultimo, le Grandi Dionisie, che
saranno qui tralasciate poiché tarda riedizione delle Rurali istituita
da Pisistrato nella seconda metà del VI secolo. Secondo buona parte
della letteratura, le Dionisie Rurali, la cui tradizione affonderebbe nel
neolitico, si tenevano all’inizio del mese di Poseideòn, che corrisponde
alla metà di dicembre e sono le più antiche e presentano un carattere
sicuramente agricolo, in quanto feste dedicate alla fertilità. Le Rurali
precederebbero dunque la stessa epifania di Dioniso e il riferimento
al dio sarebbe dunque emerso successivamente, per sovrapposizione
ovvero per omogeneità tra l’intenzione, quella di assicurarsi una
stagione di raccolti e di prolificità, e i poteri attribuiti a Dioniso, tra
i quali taluni indicano con risoluta certezza anche la fertilità. Non si
conosce molto di quelle feste e ancor meno si è potuto risalire alla
loro origine, se non che esse prevedano come elemento catalizzante la
falloforia. Le Lenee si tenevano all’inizio del mese di Gameliòn, che
corrisponde alla metà di Gennaio. Le informazioni pervenute intorno
alle Lenee sono ancora più scarne di quelle relative alle Dionisie Rurali:
sembrano assenti riferimenti fallici, mentre pare accertato il sacrificio di
un toro e l’incoronazione di un sacerdote facente le funzioni del dio. Ma
quale dio non è in effetti dato di sapere con precisione: il riferimento a
Dioniso è sfuggente, mai chiarito, fondato più su presunte somiglianze
desumibili da pitture vascolari che su testi accertabili. Si sarebbe tentati
di considerare le Lenee estranee a Dioniso, ma proprio questa equivocità
del loro svolgersi induce, al contrario, a considerarle come legate a quella
divinità. Le Lenee potrebbero dunque aver svolto una sorta di ruolo di
congiunzione tra le feste agricole e le Antesterie, che si celebravano tra
l’undicesimo ed il tredicesimo giorno del mese di Antesteriòn, ovvero
alla fine di Febbraio, senza avere un carattere proprio e ben definito, ma
come in un gesto che voglia mantenere aperto un procedere verso una
tappa successiva. E sono così le Antesterie a rappresentare il momento
culminante dell’intero sistema di celebrazioni dionisiache. Durante la
prima delle tre giornate delle Antesterie venivano aperti gli orci che
contenevano il vino ormai fermentato. Una levata dei divieti – prima
di quell’epoca il vino emanava gas pericolosi – alla quale seguiva una
gara di bevuta e, quindi, l’ingresso del dio: la sua effige-maschera
entrava nel centro della città su una nave munita di ruote, a conferma
della perenne equivocità del dio, il cui aspetto non è mai fissato, ma

342
Nel confine

sempre soltanto alluso, dio di terra ma che viene dal mare, dio nato
due volte, dio vivente e morto, eterno eppure mortale. Apertura degli
orci che stava a simboleggiare anche l’apertura dell’Ade, la riemersione
temporanea dei morti. Così’ che mentre il dio veniva portato al cospetto
della Basilissa alla quale congiungersi in un connubio rituale – che
simboleggiava la fertilità, l’avvento della rinascita primaverile, oppure
l’unione del sacro, il dio, con il profano, il potere del Basileus, il re
della città, marito della Basilissa, oppure l’apporto di una divina vitalità
trasfuso nella generazione della stirpe reale –, così che mentre il dio
giungeva al palazzo regale i partecipanti alla festa, complice la gara
di bevuta, potevano idealmente riunirsi ai congiunti deceduti, sentirli
presenti e vicini per quelle poche ore durante le quali gli orci restavano
aperti attingibili, offerti e bevuti per concludere la festa in orgiastica
liberazione. Ecco riemergere l’equivocità: fertilità, fecondità, primavera
rinascente, festività dei morti, tutte simbolicità contraddittorie, ché
nessuna sembra imporsi come evidente e tutte reclamano una evidenza.
Non è questione di stabilire quale fosse la genuina intenzione simbolica,
quale il ruolo del dio e degli altri elementi che entravano nel gioco
dell’Antesteria. Piuttosto si tratta di ammettere che applicare metodi
e schemi logici a queste ritualità non permette di risolvere le domande
con le quali ci si affaccia. Queste ritualità, così come quelle di gran parte
delle religioni e delle credenze più antiche, affondano la loro radici in
un tempo che precede anche di molti secoli la fissazione socratica delle
regole, l’evenienza di una misura, la teorizzazione di un conoscere
secondo un metodo e di un sapere secondo una logica. Tentare di
spiegare le percezioni, le emozioni e le intenzioni mistiche, religiose e
psicologiche che attraversavano la mente e condizionavano la coscienza
di quegli uomini utilizzando metodi e strutture che appartengono ad un
mondo successivo – successivo anche di millenni – non può assicurare
che risultati parziali, sicuramente validi sotto il profilo storiografico ed
antropologico, ma incoerenti laddove si tenti di intuire quel mondo e le
sue idee – più dell’intuizione non può essere data, poiché non è altresì
dato di assumere la cultura e l’intelligenza di quelle genti come in un
prestito temporaneo. Karl Kerényi è, tra coloro che si sono dedicati allo
studio della Grecia antica, colui che forse più di ogni altro ha compiuto
lo sforzo di “mettersi nei panni” oppure di “indossare l’abitus” di quelle
genti e di quelle epoche lontane. Ecco alcuni passaggi chiave della sua
riflessione: “Non viene mai detto esplicitamente che i mesi invernali,
ad Atene come a Delfi, appartenevano a Dioniso. Eppure si tratta di
un fatto evidente, chiaramente rilevabile dal calendario attico e dalle
tradizioni relative al culto, purché si anteponga ciò che è ricavabile

343
Stefano Bevacqua

dalle concrete realtà naturali alle discussioni fra gli studiosi”296. Kerényi
insinua qui un dubbio: le feste dionisiache non sarebbero in verità
legate alla fertilità ed alla rinascita primaverile, ma ad altro elemento.
Ciò assume a maggior ragione importanza quando si consideri che la
successione delle tre primarie feste dionisiache – tralasciando le Grandi
Dionisie che si svolgevano a marzo – è regolata secondo la gestazione
del dio, per cui con le Dionisie Rurali si celebrerebbe la prima nascita
prematura di Dioniso, con le Lenee la sua permanenza gestatoria nella
coscia di Zeus e con le Antesterie la seconda ed ultima venuta al mondo.
Scrive ancora Kerényi: “In Grecia il mese delle Lenee è il più freddo
dell’anno. Il vino aveva bisogno del freddo per l’ultimo processo di
chiarificazione: e questo è un motivo per cui la nascita del dio veniva
dilazionata fino al nostro mese di Gennaio”297. Dioniso ri-nasce ogni
anno, ma non nell’esuberanza primaverile, bensì nella chiarificazione
del vino, nel suo maturare. Dioniso è il dio del vino e ri-nasce con
esso. Dioniso è il dio dell’estasi che permette di cogliere l’esperienza
emotiva del superamento degli antagonismi. Per accompagnare i mortali
oltre il confine usuale, al di là del quale si estende il luogo di confine
dove le differenze si riassumono in una terza possibilità, dove trova
soluzione l’antagonismo tra l’uomo ed il mondo, Dioniso utilizza la
festa, il vino, l’orgiasmo. Dioniso è, in definitiva, il dio del superamento
dell’antagonismo tra vita e morte, tra uomo che soffre ed il dolore del
mondo, tra sotterraneo e comune, tra giorno e notte. Dioniso è il dio del
vino che affaccia alla vita.
Viene qui naturale domandarsi se gli elementi che caratterizzano i riti
dionisiaci possano essere generalizzati ad altre feste di natura religiosa,
ovverosia, quali siano gli elementi comuni che potrebbero permettere
di affiancare idealmente le feste dedicate a Dioniso a quelle successive
della tradizione romana e poi cristiana e medievale e moderna. In altre
parole: è da chiedersi se nell’evoluzione che le feste ed i riti ad esse
connessi hanno subìto dalla Grecia del VI secolo ad oggi si possa
sempre rintracciare qualche elemento del dionisiaco che a quell’epoca
compenetrava interamente gli eventi rituali. Questione, questa, di non
secondaria importanza, perché foriera di far rinvenire anche nella
modernità uno o più segni di quella riunione – di quella soluzione –
dell’antagonismo tra uomo e mondo e dei suoi innumerevoli correlati
e riflessi.
Il primo elemento comune alle feste rituali dionisiache e a tutti gli
eventi religiosi collettivi che attraversano la storia dell’Occidente è
����.K. Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 1992, p. 270.
����������������
. Ivi, p. 277.
344
Nel confine

costituito dalla temporalità della festa-rito. Nella festa e nel rito che
la informa, accade la sostituzione del tempo del “mondo della realtà
quotidiana” con il tempo proprio dell’evento rituale. Il rito ha, infatti,
ritmi e successioni propri; nel rito si mettono in scena eventi del passato
e del futuro che nel mondo usuale non possono che essere ricordati o
prefigurati, ma mai ri-vissuti o pre-vissuti. Non è un tempo irreale, quello
del rito: esso è assolutamente reale, totalmente concreto, assolutamente
materiale. Il rito avviene in un lasso temporale ben definito, esso ha
un inizio ed una fine ed un percorso misurabile. E il tempo dentro il
quale si svolge il rito non è un tempo preso a prestito da un mondo
diverso da quello quotidiano; il tempo di chiunque e di qualsiasi giorno
e momento. È una sorta di utilizzazione imprevista, e forse anche
impropria, di una materialità, quella del tempo del “mondo della realtà
quotidiana”, che non si dovrebbe addire a quest’uso estraniante che
sembra porre quel tempo in un luogo diverso e comunque altro da quello
nel quale dovrebbe scorrere. Nella festa-rito, il tempo, preso in prestito
dal “mondo della realtà quotidiana” e opportunamente manipolato ai
fini della festa-rito medesima, smette di scorrere e, piuttosto, viene
fissato, proiettato, materializzato come tela di fondo sulla quale il rito
dipinge la forma della festa e la festa si esprime come forma del rito.
Fissato è come per fisso, come non soggetto a variazione, quindi come
invariabile e costante, ché, rispetto al tempo usuale, è il rito a produrre
la variazione e la festa a presentarla. E festa e rito, appropriatisi del
tempo di ciascuno dei partecipanti, lo ridisegnano per mostrare passato
e futuro, per mettere in scena ciò che è avvenuto in un passato che non
può più essere misurato ed in un futuro verso il quale non sussiste più
attesa. Il tempo fissato dalla festa-rito è un presente totale, che raccoglie
in sé ogni passato ed ogni evento in esso contenuto e proietta come
attuale tutto il futuro che si possa attendere. Ed è la festa-rito a costruire
le figure del passato e del futuro che vengono proiettate nella coscienza
dei partecipanti, nella loro percezione e presenza emotiva. Non, dunque,
osservatori esterni, quali il pubblico di un cinematografo, ma come se
essi stessi fossero attori della rappresentazione, tale è intenso il loro
coinvolgimento. Per il tempo della festa-rito, accade che si affermi un
presente eternalizzato, come nell’Età dell’oro, nell’Eden, nel Paradiso
terrestre. La festa-rito è fatta di tempo, tempo acquisito dal mondo
usuale e trasformato in tempo rituale, mitico, mistico. La festa-rito ruota
e muove attorno alla rappresentazione di passato e futuro, riunendoli in
un paradossale presente, il quale, per questa stessa funzione, comporta
il distacco totale dal presente del tempo usuale, per così dire: del tempo
vero. L’estasi, come innalzamento, come l’uscir fuori da sé ed elevarsi

345
Stefano Bevacqua

sopra di sé, comporta la necessaria cristallizzazione del tempo presente,


arrestato nel riunire l’avvenuto e l’atteso. Soltanto questo coniugarsi
di estaticità e di tempo fissato nella festa-rito spiegano e giustificano
la sua ripetizione. La festa-rito è un ritorno ad ogni sua celebrazione; i
tre giorni delle Antesterie sono ogni anno i medesimi; la festa si ripete
sempre somigliante a sé stessa, di anno in anno, e l’estasi sempre si
rigenera tra i partecipanti nonostante essi ben conoscano le tappe della
festa ed i passaggi del rito. Ciò accade perché la riunione del passato
e del futuro, che si singolarizzano in un presente artificiale, ancorché
estratto materialmente dal presente oggettivo del “mondo della realtà
quotidiana”, quella fissazione di un tempo che permette l’uscita fuori
da sé – dalla “realtà quotidiana” per attingere alla “realtà dionisiaca” o
a quella di qualsiasi altra divinità che sia similmente potente – si rende
paradossalmente sempre nuova, rin-novata ad ogni celebrazione. Di
anno in anno, si ripete la festa-rito, ma in essa si genera un sempre
nuovo tempo presente artificiale e fissato. Anzi, e per un apparente
paradosso ulteriore, è la ripetizione medesima a garantire questo rin-
novarsi del tempo della festa-rito, perché è anche nella sua attesa che
si generano le condizioni dell’estasi, poiché se non vi fosse questo
desiderio dell’avvenimento, minore sarebbe la disponibilità emotiva
che, in un crescendo di coinvolgimento, permette di giungere al pieno
godimento di quel tempo presente riunente. Se la festa-rito non si
ripetesse sempre somigliante, l’attesa dell’emozione non avrebbe luogo
e soltanto si attenderebbe ad una possibilità di emozione che, attraverso
la ripetizione, si dà invece per certa. Ecco che la festa-rito, nel suo essere
fatta di tempo e ripetendosi come aspettativa e conquista, si rifonda di
anno in anno, si giustifica sempre rin-novata e, così, si perpetua, fino
al disegnare una sorta di archetipo della festa-rito che, in essenza, si
riflette in ogni successiva festa o rito o messa o culto.
La ripetizione è dunque fondativa della festa-rito, è condizione
necessaria e sembra lasciare una sorta di traccia indelebile, ad
accompagnare la genesi di ogni festa-rito, dall’Attica ad oggi. Ed è,
ancora, la ripetizione a giustificare e spiegare l’ennesimo paradosso della
festa-rito dell’antichità, quello relativo alla trasgressione che, all’apice
delle frenesia, vede i partecipanti, in preda all’estasi, abbandonarsi a
gesti e comportamenti altrimenti non praticabili. È l’aspetto orgiastico
delle feste dionisiache che si trova riflesso in numerose altre celebrazioni
periodiche dell’antichità, ad essere qui posto in primo piano, avendo
cura di considerare come orgiastico non tanto un comportamento
sessualmente licenzioso, quanto, e più in generale, quell’insieme di
atti e di gesti che soltanto durante la festa-rito, anzi: tendenzialmente

346
Nel confine

nella sua parte finale, possono essere compiuti. Entrano qui in gioco
tre distinti aspetti. Il primo attiene all’attesa, il secondo alla possibilità
ed il terzo alla ripetizione. Come già indicato, l’attesa non è affatto in
contraddizione con la ripetizione e ciò trova ulteriore giustificazione
nella trasgressione, in quanto occasione per compiere quei gesti
altrimenti interdetti e che sono suscettibili di generare piacere.
Ma quest’attesa viene appagata soltanto grazie alla possibilità: la
trasgressione è infatti ammessa soltanto nel corso della festa-rito ed in
tempi e modi ben definiti e codificati. Il che rende la trasgressione una
norma e quindi una non trasgressione. Ed è la ripetizione, che fonda
l’attesa, a generare la trasgressione che si smentisce nel suo essere
praticata soltanto quando ed in quanto ammessa. La vera trasgressione,
priva di autorizzazione alcuna, è quella che muove contro il divino
e le regole che gli uomini hanno fissato in terra ispirandosi al divino
– e dunque a sé stessi in quanto creatori della credenza. La regola
infranta conduce alla punizione; ogni punizione arresta il tempo del
punito senza generare alcun presente, senza raccogliere in alcun
modo l’avvenuto né anticipando l’atteso. La sospensione del tempo
determinata dalla punizione – che può assumere un carattere totalitario
nel caso la punizione consista nella messa a morte – è antitetica a
quella generata dalla festa-rito: la seconda fissa un presente amplificato
fino a comprendere tutto il tempo del mondo; la prima lo arresta in
un istante di infinita assenza di tempo. Freud collega la trasgressione
alla consumazione del totem, al pasto sacrificale e, in questo ambito,
introduce il concetto di festa come “eccesso permesso, anzi imposto,
un’infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli
eccessi non perché siano felici per un qualche comando che hanno
ricevuto. Piuttosto, l’eccesso è nella natura stessa di ogni festa;
l’umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che altrimenti è
proibito”298. La solennità rituale dell’infrazione è tale, secondo Freud,
in relazione alla coralità con la quale la trasgressione ha luogo: “C’è
la consapevolezza che si sta eseguendo un’azione proibita ad ogni
individuo singolarmente preso, un’azione che può essere giustificata
soltanto dalla partecipazione di tutti”299. Si deve dunque ammettere che
la festa è il luogo collettivo nel quale il percorso rituale si realizza a
beneficio non degli individui ma della collettività nella sua interezza.
In altri termini: il raggiungimento dell’estasi che permette di risolvere,
sia pure temporaneamente, l’antagonismo tra uomo e mondo, non è
dunque appannaggio di ciascuno, del singolo partecipante alla festa-
����.S. Freud, Totem e tabù, Boringhieri, Torino 1969, p. 192.
����������������
. Ivi, p. 191.
347
Stefano Bevacqua

rito, bensì soltanto alla collettività dei partecipanti. Ciascuno gode del
piacere generato nella festa in quanto singolarità, ma i suoi gesti, atti,
procedure, emozioni, licenze, trasgressioni, hanno un radicale carattere
di collettività.
Se si ripercorre a ritroso il sentiero fin qui compiuto nel tentativo di
delineare il senso della festa-rito, ci si imbatte ben presto nell’evidenza
di una ben stretta connessione tra collettività e condizione estatica.
Per quanto sia del tutto ragionevole immaginare che la condizione
emotiva che permette di esperire la soluzione del dualismo antagonista
uomo-mondo, che vale come temporanea sospensione di ogni suo
dolore, affanno, angoscia, timore, colpa, sia cosa individuale e che si
realizza nell’intimo di ciascuno, rimane che il raggiungimento di questa
condizione non possa avvenire che collettivamente. Ciò perché la festa
è per sua natura un gesto collettivo e fuori di essa la condizione estatica
può darsi soltanto in un contesto probabilmente estraneo alla cultura
occidentale – come nel caso delle esperienze mistiche offerte dalle
scuole religiose orientali. Ma anche per un secondo e radicale motivo:
la condizione estatica richiede la riunione degli uomini in un virtuale
ritorno alla primigenia condizione precedente alla differenziazione e alla
caduta; l’orgia, intesa, va ben ricordato, non come promiscuità sessuale,
ma come eccitazione e concitazione che accomuna più persone, può
ben essere letta anche come ri-unione, ritorno all’Età dell’oro, a prima
della differenziazione, al paradiso, a prima della caduta e dell’avvento
del dolore nel mondo. Anche in questo senso si è detto che la festa, nel
suo acme estatico, riunisce e fissa in un presente astratto dal “mondo
della realtà quotidiana” ogni tempo passato: anche, e forse soprattutto
il passato più antico trova così albergo in questo presente. Scrive Roger
Caillois:

La festa si presenta in effetti come una attualizzazione dei primi tempi


dell’universo, dell’Urzeit, dell’era originale eminentemente creatrice che
ha visto tutte le cose, tutti gli esseri tutti gli istituti fissarsi nella loro forma
tradizionale e definitiva. Questa epoca non è altra che quella ove vivevano
e agivano gli avi divini la cui storia è riferita nei miti. [...] L’uomo guarda
con nostalgia verso un mondo dove bastava tendere la mano per raccogliere
i frutti saporiti e sempre maturi, dove raccolti compiacenti si generavano
senza fatica. [...] L’Età dell’Oro, l’infanzia del mondo come l’infanzia
dell’uomo, risponde a questa concezione di un paradiso terrestre ove tutto
è donato in anticipo e usciti dal quale divenne necessario guadagnare il
pane con il sudore della fronte.300

����.R. Caillois, L’homme et le sacré, Gallimard, Paris 1950, pp. 136-139.


348
Nel confine

Il luogo dell’estasi, situato oltre il margine convenzionalmente


attribuito al mondo usuale senza per questo costituire un ”altro mondo”
o ancor meno un “mondo dell’altro”, si propone come luogo di libertà.
Nell’estasi riunente si annulla il dolore, l’angoscia, la paura, la fatica;
soprattutto, si cancella la colpa. Da una parte, si consegue la condizione
estatica attraverso il superamento del limite che recinge il lecito, così
ponendosi al di là della colpa; dall’altra parte, l’assenza temporanea –
giusto il tempo della festa – di colpa genera il diritto ad accedere a ciò
che in precedenza, nel mondo usuale era inibito. Il contadino si fa re,
il maschio diventa femmina, la donna ora comanda i soldati, il povero
diventa ricco, il ricco serve il povero. In molte delle feste censite nella
Grecia antica, nella Roma repubblicana ed anche imperiale, ma anche
quelle emerse dalle tradizioni appartenute alle popolazioni più lontane
dal Mediterraneo, appare così l’inversione dei ruoli, come trasgressione
ammessa nel tempo festivo, come una sospensione delle regole e del
tempo nel quale queste regole hanno diritto ed effetto. Non si tratta della
semplice inversione ludica di ruoli, in base alla quale per quel giorno
speciale il padrone gioca a fare il servo ed il servo siede finalmente al
tavolo che per un anno intero si è preoccupato di servire. C’è qualche
cosa di ulteriore, c’è, come scrive Caillois, la completa sospensione
dell’intero ordine del mondo in quanto si accede temporaneamente alla
riunione originaria:

Questo intervallo di universale confusione costituito dalla festa, appare


così realmente come durata della sospensione dell’ordine del mondo. È
per questo che gli eccessi sono allora permessi. Diviene importante agire
contro le regole. Tutto deve accadere all’inverso. All’epoca mitica, il
corso del tempo era invertito: si nasceva vecchi, si moriva infanti. Due
ragioni concorrono a rendere raccomandabile in queste circostanze la
dissolutezza e la follia. Per essere più sicuri di ritrovare le condizioni di
esistenza del passato mitico, ci si ingegna nel fare il contrario di quello che
si fa abitualmente. D’altra parte, ogni esuberanza manifesta un incremento
di vigore che non può che portare abbondanza e prosperità all’atteso
rinnovamento. L’una e l’altra causa conducono a trasgredire le proibizioni
e a oltrepassare la misura, ad approfittare della sospensione dell’ordine
cosmico per prendere in contropiede le regole quando queste vietano, e per
abusarne senza ritegno quando permettono.301

L’eccesso, non la trasgressione, è dunque l’elemento focale, ché la


trasgressione autorizzata, che avvenga per benevolenza o per rispetto
della regola della festa, rende la trasgressione legge, obbligo. Non

����������������
. Ivi, p. 151.
349
Stefano Bevacqua

è dunque la trasgressione a permettere il superamento del limite e


l’incontro con il luogo dell’estasi e della riunione delle origini che
questa permette, bensì l’eccesso, che non è l’eccesso oltre la regola,
in quanto l’eccesso medesimo non è superamento di una norma,
quanto di un modo d’essere. Ecco che la trasgressione, la quale, infatti,
perde la sua caratteristica per mutarsi in regola dal momento in cui
è consentita, prevede come propria necessità la regola medesima,
mentre l’eccesso è tale a prescindere dalla regola posta esternamente
all’uomo, l’ex-cesso è un oltrepassare l’ordinario, l’usuale, il consueto,
per ac-cedere ad un luogo intermedio nel quale ancora non si compie
il sacrilegio, ma nemmeno ci si attiene all’uso, all’abitudine – alla
regola, alla misura apollinea, che governa il mondo in cui si abita. È
forse in questa sottile differenza, che potrà anche apparire meramente
speculativa, ma che assume qui un senso necessario e rilevante, che
può trapelare una qualche ingenuità interpretativa, da parte tanto della
ricerca antropologica, quando della riflessione filosofica. Trasgressione
ed eccesso, infatti, non soltanto non generano effetti uguali, ma aprono
percorsi del tutto diversi: la trasgressione produce l’emozione del
divieto infranto, l’eccesso libera l’energia compressa dall’abitudine; la
trasgressione comporta l’accusa e la punizione, l’eccesso produce senso
di colpa; la trasgressione, se ammessa, cessa di essere tale e diviene
regola temporanea, l’eccesso non è mai ammesso perché non esiste
regola che altrimenti lo vieti, ma piuttosto è tollerato; la trasgressione
implica un confine lineare e rigoroso tra il mondo della regola ed il
mondo in cui la regola è negata, l’eccesso è come un uscire dal mondo
dell’abitudine – dove si abita abitualmente – senza di fatto abbandonarlo,
come effettuando un’incursione oltre il margine usuale ed occupare così
un luogo nel quale non si è più nel lecito eppure nemmeno nell’illecito;
la trasgressione è dettata dalla regola e conferma la regola, l’eccesso
non è fissato da regole e non conferma alcuna legge. Del resto, si è
assodato che il “mondo della realtà dionisiaca” è fatto dalle le cose
del “mondo della realtà quotidiana”. Ciò conferma come non sia
trasgressione, quella in atto nella festa che grazie all’estasi conduce alla
soluzione degli antagonismi ed alla remissione del dolore terreno, bensì
eccesso. La trasgressione conduce verso uno stato che non consente
alcun trasalimento, alcun superamento del confine dell’ordinario;
la trasgressione rinchiude nel buio della punizione; essa non offre
alcuna esperienza estatica ma soltanto una perdita. L’eccesso permette
di sporgersi verso ciò che è ancora inconosciuto, al superamento dei
dualismi; esso comporta sempre un rischio, certamente, ma mai un
esito già designato. Nell’eccesso è insita la possibilità della caduta,

350
Nel confine

ma questa può essere reversibile, perché l’eccesso è un andare e venire


attraversando ed occupando il luogo liminare che, prima dell’eccesso,
appariva come confine, ed ora, nell’eccesso, prende la forma di un mondo
proprio ed in-abituale, che smentisce incompatibilità ed antagonismi
irrisolvibili in una circolarità riassumente-risolvente.
Diviene così di più semplice abbordaggio anche la questione della
temporalità implicita nella festa e della sua ripetibilità. Si è fatto cenno
alla qualità della festa nella quale si riassume il tempo: il passato, anche
quello più remoto, anzi: soprattutto il tempo più antico, quello dell’Età
dell’oro, dell’origine che precede la differenziazione, la caduta, il
dolore, si trova focalizzato in un presente astratto, ma materialmente
costituito dal tempo del “mondo della realtà quotidiana”, unitamente
ad un futuro, imbevuto delle aspettative del partecipante, delle sue
attese, dei suoi sogni e desideri. Se si considerasse la festa come
luogo di trasgressione, ben si vedrebbe questo tempo riunito andare
alla deriva dell’impossibile, ché verrebbe annullato dalla stessa norma
che attraverso la trasgressione si vorrebbe trasgredire, in quanto la
punizione interromperebbe il sogno che si genera nel presente astratto.
Serve l’eccesso, invece, come condizione emotiva capace di generare
il paradosso di un tempo che si riassume in un presente allorché quello
stesso presente è presente reale e materiale. I partecipanti alla festa che
giungono alla condizione estatica, così come i luoghi nei quali la festa
viene celebrata e le cose tutte che abitano quei luoghi, dalla natura agli
edifici, dalle vesti indossate dai partecipanti ai simulacri divini, tutti
questi elementi, nessuno escluso, sono perfettamente concreti, reali,
tangibili. È attraverso la combinazione di questi elementi ed un loro
reimpiego simbolico che si genera l’atto della festa, dell’estasi, della
riunione degli antagonismi, ma tutto ciò senza mai sottrarre alcunché
di reale agli elementi che alla festa partecipano. Analogamente, appare
come la ripetizione periodica della festa sia del tutto ammissibile: il fatto
che tutto sia previsto, che nulla possa apparire come sorprendente, in
altre parole: il fatto che rito sia ben definito e metodicamente applicato,
non impedisce al partecipante di accedere alla condizione estatica
poiché egli rimane padrone del suo eccesso, lo percepisce come tale e
lo governa avendo in vista il migliore risultato, senza per questo cadere
nell’annichilimento promesso dalla punizione della trasgressione. In
ultima analisi: l’eccesso permette l’accesso dell’uomo al luogo liminare
ove poter cogliere la possibilità del superamento del dolore – eccesso
come porsi oltre; accesso come adire ad un luogo. Ma se l’eccesso
appartiene alla festa e la trasgressione appartiene alla norma, forse
anche il rito è parte della norma. Si ritorna dunque alla questione della

351
Stefano Bevacqua

festa-rito – e della festa e del rito – in quanto connubio insolubile e al


tempo stesso necessario. L’antropologia distingue il rito dalla festa in
funzione di una presunta intimità del rito ed una necessaria collettività
della festa. La questione si risolve forse ricordando come la festa intesa
come processo volto al raggiungimento di una condizione estatica
richiede di necessità un agire collettivo – ciò che però appare vero
soltanto nella cultura occidentale – alla quale fa altrettanto necessario
riscontro un vissuto emotivo estatico del tutto individuale, ancorché
rafforzato nella sua efficacia da fenomeni di condivisione accesi dalla
coralità dell’azione. Il rito è dunque procedura, regola, legge; il rito
prescrive come la festa debba svolgersi, costituisce l’insieme delle
regole alle quali attenersi e nessun partecipante le trasgredisce, pena
l’espulsione dalla festa; grazie al rito la festa è ripetibile ed è il rito
medesimo a stabilire quando questa ripetizione debba avere luogo. In
questa luce, appare fuorviante il tentativo classificatorio che vede in
ogni festa un rito ed i ogni rito un passaggio, sicché ogni festa sarebbe in
una qualche misura festa-rito di un passaggio. Che di passaggio si tratti
nella fattispecie di innumerevoli riti cultuali non c’è alcun possibile
dubbio – dal battesimo cristiano ai riti di accesso all’età adulta in tutte le
tradizioni occidentali così come orientali, arcaiche o storiche –, ma che
per questo ogni festa-rito contenga un elemento che si riconduce come
essenza pregnante e fondante al passaggio da una condizione ad una
nuova condizione, appare come una limitante riduzione. Il passaggio
che viene cultualizzato nel rito ha, salvo casi rari ed estremi, come suo
elemento caratteristico la non reversibilità: nessun uomo può tornare
alla pubertà; nessuna donna torna nubile e nessun uomo torna celibe,
ma semmai vedova o vedovo, divorziata o divorziato; nessun cristiano
può rinunciare al proprio battesimo e per la cristianità rimarrà sempre
un membro della chiesa, pur nel sacrilegio; nessun giovane oplìtes che
indossi la sua panoplìa può smetterla, pena essere condannato. Gli unici
casi di reversibilità del passaggio attengono o a procedure particolari,
come quella del sacerdote che rimane nella chiesa, ma perde gli ordini,
ovvero sono completamente laicizzati, de-cultualizzati, de-ritualizzati,
come accade al soldato che va in congedo o al lavoratore che va in
pensione – ancorché né l’uno né l’altro ritornino ad essere i giovani
in attesa della leva ovvero del primo impiego, ma piuttosto appaiano
come uomini che hanno compiuto un percorso, il quale è esso stesso
irreversibile. Tutto questo, avendo ben presente come, invece, la festa
e l’eccesso che la caratterizza e l’accompagna siano non soltanto
sempre ripetibili, ma ancor più reversibili. Dallo stato estatico, che la
festa procura nel suo acme, si torna, anche se malvolentieri, sempre

352
Nel confine

indietro, e ciò è reso possibile dal fatto che non c’è rottura, né negazione
nell’eccesso della festa – non c’è trasgressione –, bensì è un andare ed
un rivenire ed un abitare il vasto luogo che si fa abitualmente coincidere
con il confine tra il mondo usuale ed un altro, diverso, possibile, ma
non necessariamente auspicato. Non c’è salto, non c’è un qua ed un là,
c’è un vasto intermedio luogo nel quale ogni alternativa si risolve nella
comune presenza dei suoi termini.
Rimane da dare una più completa risposta all’interrogativo con il
quale si è aperto questo capitolo conclusivo, intorno alla generalizzabilità
delle caratteristiche delle feste dionisiache all’insieme delle feste di
indole religiosa. Certamente, questo procedere è ammissibile, almeno
quando si faccia riferimento ai fasti romani, ed ancora più qualora si
volga l’attenzione alle celebrazioni religiose delle più antiche civiltà –
almeno per quel che è dato di sapere – e delle popolazioni “primitive”,
che, piuttosto, meglio sarebbe definire come più vicine all’arcaismo, ed
oggetto di imponenti studi antropologici. Ma un elemento di manifesta
e radicale contraddittorietà subito emerge qualora si volga lo sguardo
alla tradizione cristiana. Riassumere in un unico corpus l’insieme
bimillenario di eventi che caratterizza la complessità del pensiero, della
credenza e della pratica religiosa cristiana, costituirebbe un’inaccettabile
forzatura; tuttavia, un elemento comune può essere con relativa facilità
individuato come costante, almeno dall’alto Medioevo in poi: la colpa.
Dalle sue origini, il cristianesimo considera fondamentale – fondante –
la cognizione del peccato e la sua conseguente e necessaria redenzione.
Le feste religiose cristiane, fin dall’antichità, contengono sempre questo
elemento, il peccato da mondare, la colpa da espiare, la negatività
dell’uomo che richiede la vittoria di una positività che può venire
soltanto dal divino. Con sfumature anche molto diverse, questo elemento
accomuna la pratica religiosa dei cristiani dai primi secoli fino all’era
contemporanea, passando naturalmente anche attraverso la Riforma, e
pone in evidenza una radicale estraneità della festa cristiana rispetto alla
tradizione dionisiaca e post-dionisiaca o comunque pagana. La colpa
dell’uomo, fissata nella caduta e nella differenziazione che allontana
dal divino, è tale da non permettere alcuna estasi; la condizione mistica
che si propone nella più assoluta devozione e preghiera, che è riservata
soltanto al religioso che nulla più si concede della vita terrena se non
l’indispensabile nutrimento e che segua meticolosamente ogni possibile
rito di espiazione, non conduce ad alcuna estasi; l’estasi è concepita
soltanto come unione con Dio e può quindi essere esperita esclusivamente
nella vita ulteriore, attesa dall’anima che soltanto transitoriamente abita
il corpo terrestre in quanto luogo in cui viene messa alla prova. L’estasi

353
Stefano Bevacqua

cristiana non appartiene dunque in alcun modo ed in nessun caso al


“mondo della realtà quotidiana”; essa, non essendo costituita da alcuna
materialità mondana, non può apparire che nell’al di là, nell’altro
mondo che attende l’anima e che è radicalmente separato dal mondo
usuale, inteso come vita terrena, non da un confine, un margine, un sia
pur sottile ed anche unidimensionale limite, perché si tratta di un altro
universo, immensamente lontano e per questo immensamente diverso,
imperscrutabile finché si è rinchiusi nella vita terrena. Soltanto Dio
può riunire gli antagonismi, soltanto in Dio è possibile la riunione del
differenziato. Ne consegue che ad una parte enorme della tradizione
occidentale sia stata sottratta la condizione estatica come possibilità
di sperimentazione di un superamento del dolore del vivere terreno.
Nietzsche vive questa carenza in modo tanto radicale da fondarvi non
pochi elementi portanti dell’impalcatura del suo pensiero. Le persone,
gli abitanti di questo mondo, che vivono ad un’enorme distanza dalle
loro stesse radici, quelle piantate dai filosofi Greci più antichi con così
grande cura da costituire ancora oggi un àncora dalla quale non si può
distaccarsi, si accontentano, o devono accontentarsi, di ricercare qualche
brandello di condizione estatica nelle più laiche feste tra amici, condite
da qualche eccesso che permetta di accedere ad un surrogato della
condizione estatica, in qualche appartenenza collettiva che possa darsi
una forma rituale, come nella politica e nello sport, nelle esperienze
religiose che si richiamano all’Oriente, oppure in una visione del
cristianesimo sufficientemente eterodossa da lasciare qualche margine
ad una esperienza emotiva più coinvolgente e gratificante.
Tanto forte è la pulsione che spinge l’uomo ad allontanarsi dal suo
dolore, a dimenticarne, anche soltanto per un breve tratto della sua
esistenza quel peso fatto di fatica, di malattie, di fame, di freddo, in
definitiva: di umanità, da averlo indotto a ricercare quanti più strumenti
possibili per riuscirvi. Religione, sacralità, festa, intrecciandosi l’una
con l’altra, hanno così offerto appigli ed occasioni per distaccarsi
dalla plumbea pesantezza di un faticoso vivere, spesso fornendo anche
strumenti suscettibili non certo di risolvere l’angoscia più acuta,
quella proposta dall’inevitabile termine che si pone alla vita umana,
termine imperioso e che prescinde dalla facilità con la quale viene
avvicinato, nella ricchezza o nella povertà, nel più tetro dolore o nella
gaiezza più leggera, ma almeno di attenuarne l’orrore, proponendo un
futuro popolato di sole anime ed inducendo così ad un bene in terra
per assicurarsi di evitare un peggio ulteriore, di dannazione, per giunta
eterna. Anche l’eccesso della festa dionisiaca, che potrebbe apparire
assai lontano, se non in antitesi, da ogni teleologia che assicuri un futuro

354
Nel confine

all’anima, appare in effetti compatibile con le credenze di un mondo


ulteriore popolato dagli dei o compenetrato dal Dio. D’altronde, è a
Dioniso, al dio Dioniso, che si offre in sacrificio il capro o il toro, per
poi, nel crescendo orgiastico, accedere all’estasi che offre un distacco
dal mondo. La festa è, per sua essenza ed origine, un fatto religioso,
ed è nelle molteplici declinazioni che l’hanno vista trasformarsi lungo
i secoli che ha infine assunto il carattere di laicità che gli può in una
certa misura oggi attribuire, laicità che permane comunque abbinata
all’aspetto religioso, a tal punto che la festa assume spesso un duplice
aspetto, ovvero si sviluppa in momenti e con modalità ben distinte, a
seconda che prevalga la valenza religiosa oppure quella laica – messa
di Natale e successivi festeggiamenti natalizi. È così accaduto che,
nel corso dei secoli, le feste religiose abbiano incorporato importanti
elementi di ritualità precedenti, mentre la sacralità ha lasciato sempre
più ampio spazio alla laicità. Le feste hanno così perduto quel carattere
unitario che nell’antichità le rendeva capaci di condurre all’agognato
assaggio di oltre-mondanità, di temporaneo distacco dal dolore. Festa,
rito, sacralità, credenza, pur sempre intrecciandosi, sembrano oggi
produrre effetti distanti e diversi, con picchi di pura laicità, nei quali
ogni residuo di sacro è stato completamente espulso – come nelle
feste di compleanno o nel capodanno, che un tempo costituivano sacri
riti di passaggio – ovvero con momenti di religiosità tanto intensa da
avvicinarsi, per i credenti, a condizioni mistiche e quasi-estatiche – come,
per i cristiani, nelle celebrazioni del Venerdì Santo. Gli “ingredienti” del
festivo, del sacro, del rituale, del mistico, dell’estatico, che interagivano
in un unico contenitore, come il ciceone nella coppa, sempre mantenuto
in agitazione per prevenire la separazione degli ingredienti, appaiono
oggi distinti in misura talvolta così grande da farli apparire come del
tutto originali, scevri da qualsiasi relazione con altri costituenti.
In questo orizzonte, è dunque opportuno domandarsi se non vi
siano, oggi, elementi apparentemente estranei al sistema del sacro e
della festa, che possano assumere un analogo ruolo in direzione di un
efficace, ancorché temporaneo, distacco dal mondo. E, ancora, è del
tutto opportuno chiedersi se il gioco possa presentare proprio queste
caratteristiche. Va subito premesso che non è questa la sede per ricostruire
alcuna ontologia del gioco e, tanto meno, per ripercorrere i diversi filoni
di riflessione antropologica e filosofica che sulla natura ed essenza del
gioco sono andati dipanandosi nel corso del secolo scorso. Questo però
non toglie l’opportunità di fare comunque riferimento ad almeno alcuni
degli autori che hanno dedicato maggiore attenzione alla questione, ma
per trarne non altro che immediati strumenti utili alla chiarificazione

355
Stefano Bevacqua

che si è qui tentato di percorrere, intorno all’insopprimibile domanda di


estasi – distacco dal mondo – che l’uomo non cessa di proporre nel suo
agire e, soprattutto, nel suo ideare, credere, immaginare, sognare. Subito,
sorge così il necessario riferimento a Johan Huizinga ed al suo Homo
ludens, che costituisce il primo tentativo di sistematica analisi del gioco
in quanto tale ed in almeno gran parte dei suoi aspetti. Il presupposto
dal quale muove Huizinga è quello di una sostanziale appartenenza del
gioco alla sfera del sacro, il che, già di per sé, comporterebbe che il
gioco sia suscettibile quanto meno di coadiuvare nella ricerca di una
condizione estatica nella quale risolvere l’antagonismo tra uomo e
mondo. Scrive Huizinga:

Dunque nella nostra nozione del gioco va perduta la distinzione tra il


creduto ed il simulato. Tale nozione di gioco si congiunge senza sforzo al
concetto di consacrazione e di sacralità. [...] Gioco sacro indispensabile
alla salute della collettività, pregno di visione cosmica e di sviluppo
sociale, e nondimeno un gioco, un’azione che si compie (come lo vide
Platone) fuori e sopra la sfera della vita seria dei bisogni e delle cose gravi.
Questa sfera del gioco sacro è quella dove si trovano il bimbo e il poeta,
insieme col selvaggio primitivo.302

Se esiste dunque questa sorta di appartenenza del gioco alla sfera del
sacro, in qualche parte del gioco, in qual che suo momento o sviluppo
dovrebbe ben presentarsi l’occasione di uno straniamento, di una
elevazione che distacchi dal dolore del mondo. Huizinga, in proposito,
non ha dubbi:

La gioia unita in modo inseparabile al gioco si converte non solo in tensione


ma anche in elevazione. La forma con cui l’animo si dispone nel gioco ha
per due poli l’esaltazione e l’estasi. Non è un mero caso che queste parole
riflettano ambedue uno stato di “ex”, cioè di: fuori, al di là.303

Non poche, in effetti, sono le somiglianze che emergono tra il rito che
regola le feste sacre, i culti, e le norme che organizzano il gioco. Culto e
gioco si sviluppano ed avvengono in uno spazio ed in un tempo del tutto
propri, che prendono in prestito spazio e tempo dal “mondo della realtà
quotidiana” modificandone le apparenze e la natura. Nella festa sacra il
tempo si espande trasformando il presente in una totalità di tempo che
raccoglie tutto quanto è già accaduto, ripresentandolo così come attuale,
e tutto ciò che è atteso, mostrandolo come imminenza che già si affaccia

����.J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1973, p. 33.


���������������
. Ivi, p. 27.
356
Nel confine

nel vissuto. Analogamente, accade con il gioco, che ferma ogni orologio
in un presente gravido di eventi, che si danno tutti per conosciuti ed
ancora in essere. Lo spazio del culto è definito dagli eventi che il culto
mette in scena: è, dunque, la scena del culto; lo spazio del gioco è, in
totale analogia, anch’esso una scena sulla quale si proiettano gli eventi
che il gioco simula. Ed emerge così un’ulteriore analogia, ancora più
gravida di conseguenze: quella relativa alla simulazione. Nel culto, i
partecipanti, devoti e sacerdoti, mettono in scena l’evento e interpretano
i ruoli che esso necessita; nel gioco, ciascun giocatore interpreta il ruolo
che gli è stato assegnato facendo finta di essere quel personaggio ovvero
di rappresentare quel dato evento. Nel culto come nel gioco, si “fa come
se”.
Il gioco e la festa possono suscitare imbarazzo. Perché sono fatui,
non sono seri, sono improduttivi; soprattutto: perché non hanno senso
e non hanno scopo. Peggio ancora: la festa religiosa, quella cristiana in
particolare, prevede ed anzi richiede una credenza, un approccio mistico,
che suscita il rispetto anche di coloro che non credono, che è per questo
ammesso come comportamento accettabile, ancorché improduttivo e
mai risolutivo delle esigenze poste dalla realtà quotidiana, in quanto
propone uno scopo più lontano, in un’altra esistenza, in un futuro
dedicato all’anima soltanto; il gioco, invece, appare del tutto inutile,
privo di qualsiasi scopo, terreno così come ultraterreno, immediato così
come nel più lontano futuro. Imbarazzo, di fronte all’inutilità del gioco,
così forte da far dimenticare, anche a chi al gioco ha dedicato profonde
riflessioni, quale possa essere la sua nascosta potenza. È il caso di Roger
Caillois, autore di una delle più complete ed articolate analisi del gioco
e dei giocatori, quel Les jeux et les hommes, pubblicato vent’anni dopo
Homo ludens, il quale critica Huizinga proprio in relazione al punto
nodale dell’appartenenza del gioco alla sfera del sacro. Mentre di ben
diverso tenore – e spessore – è l’imbarazzo di Eugen Fink, il quale
giunge a smentire radicalmente l’opinione per la quale il gioco sia privo
di scopo:

Si dice spesso che giocare è un fare ed un agire “privo di scopo”, “libero


da ogni scopo”. Ciò non è vero. Preso nella sua interezza è un’azione
determinata da uno scopo, e anche i singoli momenti nel corso del gioco
hanno i loro scopi particolari, che armonizzano gli uni con gli altri. Ma lo
scopo immanente del gioco non è rimandato progettualmente al supremo
scopo finale, come invece gli scopi delle altre azioni umane. L’azione
del gioco ha solo degli scopi interni a sé, che non rimandano ad altro. E
quando giochiamo “con lo scopo” di rinvigorire il corpo, di addestrare alla
guerra, o per raggiungere la buona salute, il gioco viene subito falsato e

357
Stefano Bevacqua

trasformato in un esercizio per qualcos’altro. In queste pratiche il gioco


viene condotto da fini esteriori, chiaramente non da una sua determinazione
interna. Proprio la pura autosufficienza, il senso conchiuso e circolare
dell’azione di gioco fa emergere una possibilità del soggiornare dell’uomo
nel tempo, che non è quella che ci trascina via incessantemente e ci spinge
avanti, questa piuttosto realizza un trattenersi, per così dire un istante, un
lampo di eternità.304

In poche righe, Fink riassume la gran parte delle caratteristiche del


gioco con chiarezza, ma poi fatica non poco a resistere all’imbarazzo
proposto dall’ambiguità che il gioco sempre fa emergere non appena si
tenti di dargli una forma compiuta, una caratterizzazione, insomma: un
senso. Pulsione inesorabile, questa di dover dare compiuto quadro alle
cose, senza ammettere che non tutto si possa sempre descrivere con
la desiderata esattezza. Spesso, mancano i concetti, e quando si riesce
a metterli a fuoco mancano le parole adeguate a descriverli. Forse, il
gioco appartiene proprio a questo ambito di materie refrattarie ad una
definizione univoca e certa, così come le feste cultuali del passato,
che ci si sforza di descrivere come strutture aventi uno scopo, anche
qui rinunciando ad attribuire uno scopo interno alla festa medesima,
per ricercarne uno legato in via definitiva al destino di chi alla festa
partecipava. Pier Aldo Rovatti, nella prefazione all’edizione italiana del
testo di Fink dà conto di questa difficoltà:

Si profila, agli occhi di Fink, una specie di schizofrenia del gioco (e del
giocatore). Ed è questo doppio, questo sdoppiamento che secondo lui ci
dice qualcosa della sua speciale apparenza. Quando si parla di fantasia
si prende di solito una scorciatoia che pregiudica la questione (come se
avessimo già deciso negativamente, osserva Fink). Invece, lo stare dentro
e fuori dal ruolo, il tenere i piedi – per così dire – tanto nell’irrealtà quanto
nella realtà, senza cancellare né l’una né l’altra, apre un problema che la
filosofia stessa non ha ancora esplorato e che è una vera provocazione per
il nostro intelletto.305

Festa e gioco, unitamente ai riti della prima e alle regole del


secondo, senza cui né festa né gioco possono accadere, sembrano
dunque appartenere ad un luogo indeciso ed indecidibile, a mezza via
tra il vero e l’immaginato, ma l’immaginato, a sua volta, appare fatto
di cose vere, così come il vero è, in fondo, soltanto ciò che appare e
che, nell’apparire, si riesce a scorgere e nominare. Il tentativo, come
scrive Rovatti riflettendo sulle parole di Fink, dovrebbe dunque
����.E. Fink, Oasi del gioco, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pp. 18-19.
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. Ivi, p. XIII.
358
Nel confine

essere di portare la filosofia verso questo terreno sconosciuto e forse


impervio. Terreno che l’uomo, paradossalmente, non ha mai cessato di
frequentare, almeno da una trentina di secoli a questa parte, attraverso
la credenza, il culto, la religione, la festa, il gioco. Ed è in quest’ultimo
che sembrano annidarsi le maggiori e più imbarazzanti difficoltà. Fink
descrive la condizione della riflessione sul gioco come essa stessa
in precario equilibrio tra elementi ed appartenenze apparentemente
incompatibili perché antagoniste – o antagoniste perché ritenute a priori
incompatibili. Scrive Fink:

Ogni giocare è la magica produzione di un mondo del gioco. In esso si


trovano il ruolo del giocatore, i ruoli reciproci della comunità di giocatori,
l’obbligatorietà della regola del gioco, il significato degli strumenti di
gioco. Il mondo del gioco è una dimensione immaginaria, e individuare
il suo senso d’essere rappresenta un problema oscuro e difficile. Noi
giochiamo nel cosiddetto mondo reale, ma in questo modo guadagniamo
un ambito, un campo misterioso, che è qualche cosa e tuttavia non è niente
di reale. [...] Ciò che ci lascia perplessi è che queste cose del mondo del
gioco noi le pensiamo e immaginiamo come “cose reali”, così che perfino
il confine tra realtà e apparenza può essere spostato più volte. [...] Lo
strano andirivieni tra realtà e mondo del gioco non si lascia chiarire da
nessun modello di relazione tra spazio e tempo che già conosciamo. Il
modello del gioco non è sospeso in un semplice regno del pensiero, ha
sempre un palcoscenico reale, ma non è mai una cosa reale tra altre cose
reali. E tuttavia questo mondo del gioco ha bisogno necessariamente di
cose reali cui appoggiarsi.306

C’è forse un’analogia tra le parole utilizzate da Nietzsche per


descrivere l’estasi dionisiaca, quando si riferisce al “mondo della realtà
quotidiana” e al “mondo della realtà dionisiaca”, che si distaccano pur
permanendo il secondo costituito dalle cose del primo, e l’idea che Fink
deve proporre nel tentativo di concettualizzare il luogo del gioco. Il
luogo del dionisiaco non coincide con quello del gioco, ma, certamente,
presentano tanti caratteri comuni da far dire ad Huizinga che il gioco fa
parte del sacro307, ciò che anche Fink sembra sostanzialmente proporre.
Eppure sono anche molte le differenze che separano gioco e sacro, ad

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. Ivi, pp. 28-29.
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. A tal proposito, si deve osservare una curiosità: la critica di Caillois, che respinge
radicalmente un sostanziale collegamento tra gioco e sacro, si fonda su qualche cosa che,
in realtà, Huizinga non ha mai scritto. Lo storico olandese, infatti, nel suo scritto non
identifica il gioco con il sacro, ma attribuisce al gioco la categoria del sacro ed al sacro
quella del gioco. Il che non consiste in una identità, ma in una reciproca appartenenza e
condizionamento.
359
Stefano Bevacqua

iniziare dalla più evidente, quella relativa al fatto che il sacro richiede la
credenza e non si accontenta del semplice “fare come se” dei partecipanti
alla festa-rito, cosa, invece, del tutto sufficiente al gioco. La questione
va dunque affrontata non facendo, come si suol dire: un passo indietro,
ma effettuando proprio un salto che permetta di porsi in una posizione
terza rispetto alla questione medesima. Anche soltanto per tentare di
tratteggiare un concetto che proponga il superamento di un dualismo
antagonista occorre porsi in una posizione dalla quale la vista possa
accedere, grazie ad una diversa angolazione, ad un orizzonte capace di
riunire i due elementi dell’antagonismo. La questione non è, dunque,
risolvibile attraverso l’inventario delle ragioni che uniscono gioco e
sacro e quelle che li dividono, ma riferendosi al vissuto che l’uomo
può esperire nel sacro e nel gioco. È questo vissuto, con la sua carica
estatica, con quella comune capacità di es-porre l’uomo al di fuori delle
contraddizioni che lo lacerano, ad essere cosa comune al sacro ed al
gioco. Gli elementi comuni che si possono inventariare nell’analizzare il
sacro ed il gioco sono dunque la conseguenza di questa analoga funzione
e non il presupposto. Sacro e gioco hanno dunque in comune il fatto
di proporre all’uomo un luogo equivoco, un luogo s-confinato, la cui
descrizione appare difficile e laboriosa perché, come dice Fink, si tratta
di un concetto oscuro, che “non si lascia chiarire da nessun modello di
relazione tra spazio e tempo che già conosciamo”. Ecco perché serve un
salto che permetta di abbracciare una prospettiva differente e non basta
il banale passo indietro, che, semplicemente, permette di collocare ciò
che si osserva in un contesto più vasto. Con il passo indietro di possono
cogliere connessioni e causalità di più ampia portata, si può, come si suole
dire: meglio contestualizzare l’oggetto dell’analisi, ma non si accede
affatto ad un altro orizzonte, il quale, anzi, viene celato dal paesaggio
e che appare quindi fissato come immutabile riferimento. Con il passo
indietro nulla può essere svelato, portato all’emersione. Occorre mutare
punto di visione, porsi al di sopra del dualismo, dell’antagonismo,
dell’irrisolto conflitto, occorre es-porsi. Accade così che la difficoltà che
si incontra nell’analizzare un fenomeno – la festa, il gioco – in quanto
tale, appare superabile attraverso gli strumenti che il fenomeno stesso
offre. In altri termini: la strada che conduce verso una chiara e completa
elucidazione del gioco comporta l’assunzione di un punto di vista che
è lo stesso gioco a fornire, attraverso il distacco dal reale consueto,
dal “mondo della realtà quotidiana” e l’accesso ad un luogo di irrealtà
equivocata dalla permanenza del reale come suo stesso fondamento. E
questo potrebbe, in ultima analisi, valere anche per la festa, per il culto,
per la religione, per la credenza, per qualsivoglia realtà che l’uomo

360
Nel confine

abbia esso stesso costruito con lo scopo, ancorché non manifesto né


dichiarato, di accedere proprio a quella dimensione ulteriore e terza,
equivoca e forse anche stravagante, come un orizzonte nel quale le cose
del mondo appaiono diversamente disposte e gli antagonismi divengono
generativi di ulteriorità invece che insuperabili contraddizioni. Nulla di
sintetico, nel senso di una sintesi di sapore dialettico, in tutto questo,
ma semmai un’idea di circolarità che permette di es-porre gli elementi
che la costituiscono in una diversa dimensione. Circolarità come quella
insita nel gioco, nella festa, nel culto, che sempre si ripetono e che
nella ripetizione si fondano. Se ogni gioco non avesse una regola non
sarebbe ripetibile, se non venisse continuamente ripetuto esso verrebbe
dimenticato, come accadde alla danza labirintica che descriveva il
percorso per evitare le fauci del Minotauro. Ma, anche, circolarità
implicita nel gioco come tale, all’interno della festa e del culto, dove
perpetuamente si oscilla tra “realtà quotidiana” e condizione di distacco,
estasi, e questo distacco permane costruito con gli ingredienti del reale.
L’aveva ben visto Fink, scrivendo di uno “strano andirivieni tra realtà e
mondo del gioco”, proprio quello che “non si lascia chiarire da nessun
modello di relazione tra spazio e tempo che già conosciamo”.308
Se la circolarità è essenziale nel gioco così come nella festa e nel
culto, se ne dovrebbe rinvenire traccia anche nell’estasi che nel gioco
e nella festa e nel culto prende forma. E questa è cosa ora assodata
dal fatto che circolare è l’andirivieni del reale che offre i suoi elementi
all’irreale che così si fonda. Il mondo che si può scorgere offrendosi
ad una condizione estatica non è per nulla statico, non è una sorta
di paradiso nel quale la soluzione degli antagonismi genera un altro
mondo. Il mondo è sempre lo stesso, a mutare è l’orizzonte che si può
scorgere modificando il punto di vista. E, così come la vera spiegazione
del gioco, della festa e del culto può essere intuita essenzialmente e
soltanto al loro interno, attraverso la visione dell’equivoco mondo
che gioco, festa e culto permettono, a tratti, nell’andirivieni tra reale
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. Tanto da concludere il suo saggio con la citazione di un poema di Rilke: “Finché
riprendi la palla che ha lanciato la tua mano, | non è che abilità e conquista facile; | solo
all’improvviso devi prendere | la palla che un’eterna tua compagna | di gioco scaglio al
centro del tuo corpo | con ben mirato slancio, in uno di quegli archi | di pone del grande
architetto Iddio: | solo allora è virtù il saper prendere, | virtù non tua, di un mondo. E se
tu addirittura | forza e coraggio avessi a rilanciare, | anzi prodigio: se coraggio e forza |
dimenticando avessi già lanciato (come l’anno | lancia gli uccelli, stormi migranti che il
calore | di una vecchia cova all’altra giovane | scaglia oltre i mari) solo a questo rischio |
è valido il tuo gioco. Ormai non rendi | il tuo lancio più facile né più | difficile. Dalle tue
mani sfugge | la meteora e sfreccia nei tuoi spazi...”. [Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-
1926, Einaudi, Torino 2000, pp. 487-489.] Fink cita soltanto alcuni versi; qui si è preferito
riportare il poema per intero.
361
Stefano Bevacqua

ed irreale, di svelare, altrettanto dovrebbe essere possibile disegnare


questo mondo come gioco, festa o culto. È il passo decisivo proposto
da Fink:

Il fenomeno del gioco è dunque un’apparenza che in quanto tale è già


determinata dal tratto fondamentale della rappresentanza simbolica. Il
gioco diventa allora forse la rappresentazione allegorica del tutto, una
metafora chiarificatrice e speculativa del mondo? Questo pensiero audace
e azzardato è stato realmente pensato. Alle origini aurorali del pensiero
europeo, Eraclito afferma: “Il tempo è un fanciullo che gioca spostando
i dadi: il regno di un fanciullo”309. E dopo venticinque secoli di storia del
pensiero, in Nietzsche troviamo: “Un nascere e un perire, un costruire e
un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano
in un’innocenza eternamente uguale – si ritrovano in questo mondo solo
attraverso il gioco dell’artista e del fanciullo. [...] Il mondo è il gioco di
Zeus”.310

Circolarità, ricorsività che allargano la possibile veduta estatica


anche all’arte, al gioco, ricorsivo anch’esso, dell’artista, simile al
fanciullo che si balocca con la palla, laddove il gioco potrebbe non
essere affatto “una cosa innocua, secondaria, da bambini”311, perché “noi
uomini mortali, proprio nella nostra forza creatrice e nella grandiosità
della nostra produzione magica siamo messi in gioco in un senso
abissale”312. Il gioco dell’uomo mette in gioco l’uomo: la circolarità
che raccoglie gli antagonismi ed è apparsa risolverli nell’ambito di
una condizione estatica, generatasi nel gioco, nella festa, nel culto,
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. Eraclito, frammento 52 DK. La traduzione riportata nell’edizione italiana del testo
di Fink è quella apparsa ne I Presocratici, Tomo primo, Laterza, Roma-Bari 1999.
Esistono numerose altre traduzioni. Alcune divergono essenzialmente dal testo qui
riportato, mentre altre, almeno in parte, riportano, in definitiva, allo stesso significato
fondamentale. Tra queste, si segnala quella proposta da Giorgio Colli: “La vita è un
fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo” [G.
Colli, La sapienza greca, cit., p. 35]. Il fanciullo di Colli-Eraclito è Dioniso; il gioco è
l’indicibilità e l’equivoca incertezza; il reggimento è la schiera degli elementi del gioco
che condizionano arbitrariamente il mondo. Un senso che riverbera quello di un’altra
traduzione da sottolineare, quella di Miroslav Marcovich, ripresa in italiano da Rodolfo
Mondolfo, ove appare: “L’età (umana) è un gioco di fanciulli, che giocano a dama; un
fanciullo ha potere regale” [M. Marcovich, R. Mondolfo, L. Tarán - a cura di, Eraclito.
Testimonianze, imitazioni e frammenti, Bompiani, Milano 2007, p. 718]. Qui, l’arbitrio è
detto del potere regale, il quale, come tale, non è sottoposto ad alcuna regola previsionale,
ad alcun procedimento già dato e già noto; il gioco della dama è l’equivoca incertezza
dell’esito; il soggetto, come in Colli, è la vita.
����.E. Fink, Oasi del gioco, cit. pp. 40-41.
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. Ivi, p. 41.
����.Ibidem.
362
Nel confine

diviene riflessività, non da intendersi come azione verso di sé, come


un cogito me cogitare, bensì come percezione di sé medesimi in quanto
luogo nel quale si riuniscono le differenziazioni – in un temporaneo
ritorno a ciò che precede la caduta e il dolore. Se Fink ha ragione, il
gioco, la festa, il culto, la religione, ognuna delle magie di cui l’uomo è
capace, divengono metafore del mondo, e, siccome in quel mondo esiste
l’uomo che produce quelle stesse magie, ne deriva che l’uomo riflette
su di sé la propria percezione di ogni mondo, tanto quello della “realtà
quotidiana”, quanto quello della “realtà dionisiaca”. Arte, gioco, festa,
culto, appaiono così come luoghi oltre-liminari nei quali può avvenire
una luce altrimenti non percepibile, capace di offrire all’intuizione ciò
che sarebbe altrimenti celato ad una comprensione razionale. Ciò che
l’arte, il gioco e la festa offrono non appartiene alla razionalità, alla
capacità di previsione di un cogito che soltanto dopo essersi distinto dal
mondo cui partecipa può vederlo e considerarlo, bensì ad un diverso
orizzonte, dove la circolarità prende il posto del procedere spedito da
una causa ad un effetto, da un passato ad un futuro, da un inizio ad
una fine. Paradossalmente, arte, gioco e festa sono enormemente più
complicati delle scienze; soprattutto, non si spiegano e non si aprono
con le scienze, ché arte, gioco e festa possono essere intesi solo da
e attraverso essi medesimi, attraverso quel salto che solo può offrire
un punto di vista diverso, perché è giocando che si apre il gioco –
mettendosi in gioco si abita e si comprende il gioco. Ed è in questo che
il gioco assume un carattere riassumente di potenza tale da integrare
anche arte e festa e culto. Non si intende più, qui, il gioco in quanto tale,
naturalmente, bensì la funzione di gioco, quello che si esperisce nel
salto di prospettiva capace di offrire un diverso orizzonte. In effetti, se
è vero che giocando – e soltanto giocando – si può aprire il gioco, non
si può dire che soltanto nel produrre arte si possa considerare l’arte o
che soltanto nel partecipare alla festa e al culto si giunga ad attraversarli
compiutamente. L’arte si fruisce, la festa si partecipa, il culto si assiste:
per comprendere, nel senso di un cogliere ciascuno di essi nella propria
offerta estatica, sembra imporsi la necessità di un percorso particolare
e diverso dal più semplice fruire, partecipare, assistere. Se permane
vero il fatto che soltanto esperendo l’estasi si può accedere alla
considerazione di ciò che ha permesso di accedere all’estasi medesima,
è allora forse possibile che vi sia un elemento, una sorta di sistema di
intenzioni – sicuramente non un linguaggio – valido per aprire al tempo
stesso il gioco, l’arte, la festa, il culto. Un indizio è offerto dalle lingue
anglosassoni, le quali, in questo, hanno contaminato anche il francese:
in inglese, recitare in teatro è to play; in tedesco, è spielen; in francese

363
Stefano Bevacqua

è jouer. L’attore teatrale, colui che, per eccellenza e nel contatto diretto
con lo spettatore, fa “finta di essere”, gioca il gioco e lo fa giocare allo
spettatore che diviene a sua volta partecipe dello spettacolo. Colui che
mette in scena, che interpreta, che fa “come se”, gioca insieme allo
spettatore, il quale, dunque, non è più colui che si pone al di fuori e dal
di fuori osserva, ma entra a pieno titolo nel gioco. Il teatro, scriveva
Gadamer, non è un cubo cui manca una parete e nel quale si mostra
verso un al di fuori una messa in scena: lo spettatore gioca anch’esso,
a pieno titolo, egli è all’interno del cubo ed il cubo è chiuso; è il gioco
che si apre soltanto a sé stesso e che si comprende soltanto nell’estasi
del gioco medesimo, che si fonda da sé. Scrive Gadamer:

Anche lo spettacolo teatrale resta un gioco, cioè ha la struttura propria del


gioco, di essere un mondo in sé conchiuso. Ma il gioco cultuale o profano,
scenico, per quanto sia un mondo in sé totalmente conchiuso (quel mondo
che esso rappresenta) è come aperto dal lato dello spettatore. [...] È un
mutamento totale quello che accade quando un gioco diventa spettacolo.
Lo spettatore si pone al posto del giocatore. È lo spettatore, e non il
giocatore, quello in cui e per cui il gioco gioca. [...] In fondo viene qui
soppressa la differenza tra giocatore e spettatore. La necessità di intendere
il gioco stesso nel suo proprio significato è la stessa per entrambi.313

Nel caso della tragedia è dunque evidente come il gioco – sempre


inteso come procedere e non come cosa in sé – permetta l’apertura
dell’opera, il suo svelarsi, attraverso il gioco del giocatore e dello
spettatore che a sua volta gioca. Ma è forse possibile che questo
procedere sia insito anche in tutti i casi di fruizione di opera, o almeno
in tutti i casi nei quali l’arte si mette in opera, intendendo, con questo
dire, l’arte come produzione materiale che viene ad assumere la qualità
di proporre essa stessa un’esperienza di carattere estatico attraverso lo
svelamento di un orizzonte equivoco perché, pur costituito dal reale, ne
risulta come distante e, per questo, irriconoscibile e, apparentemente,
mai riconducibile ad esso. È ancora Gadamer a proporre questa
possibilità:

Questo mutamento, nel quale il gioco umano giunge alla sua perfezione,
che consiste nel farsi arte, è ciò che chiamo la trasfigurazione in forma.
Solo attraverso questo mutamento il gioco raggiunge la sua idealità, in
modo da poter essere inteso e compreso in una sua individualità definita.
Ora soltanto esso si manifesta come qualcosa di indipendente dall’azione
rappresentativa dei giocatori e viene a consistere nel puro apparire di ciò
a cui essi giocano. In quanto tale, il gioco – anche quello non preordinato
����.H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 243.
364
Nel confine

dell’improvvisazione – è essenzialmente ripetibile e in questo senso è


qualcosa di permanente. Ha il carattere dell’ergon, dell’opera, e non
soltanto dell’energheia. In questo senso lo chiamo una forma.314

Gadamer prende spunto dal teatro, dalla tragedia e allarga questa


visione a tutta l’arte in opera, a tutte le immaginabili forme del
procedere giocoso che abbiano “il carattere dell’ergon, dell’opera” e
che, come tali, Gadamer chiama forme. Così che il procedere giocoso
diviene il modo di fruizione, di intenzione e di comprensione di ogni
opera, in quanto essa sia “essenzialmente ripetibile” e “qualcosa di
permanente”. L’arte è, per sua essenza necessaria, sempre ripetibile: si
ripete l’osservare ed il fruire di un’opera figurativa, si ripete il leggere e
l’intima comprensione di un poema, si ripete l’assistere ed il partecipare
ad una rappresentazione, teatrale, cinematografica, musicale. L’arte
contiene in sé quella ripetizione che è anche della festa e del culto, e se
l’arte viene fruita nel procedere giocoso, lo stesso accade per la festa
ed il culto, così che il gioco, come procedere, diviene ciò attraverso cui
può essere esperita l’estasi offerta non soltanto dall’arte, ma anche dalla
festa e dal culto. Arte e festa vengono, insomma, giocate, nel senso di
intese, comprese ed infine abitate attraverso un procedere che è quello
del gioco. L’estasi che, al culmine dell’intensità della fruizione artistica
o del coinvolgimento festoso, offre la visione di un diverso orizzonte è,
dunque, prodotta dal procedere giocoso, in quanto modo di essere e di
agire nel mondo che permette all’arte in opera ed alla festa in essere di
giungere al proprio rispettivo senso. Il procedere giocoso offre all’uomo
la possibilità di conoscere il senso che dà un senso al mondo in cui esso
stesso dimora e di cui fa imprescindibilmente parte. Il procedere gioioso
non è donato dal alcuna divinità, non è l’eredità di una precedente Età
dell’oro, non è offerto in un paradiso da raggiungere, ma è essenzialmente
prodotto dall’uomo, è il percorso attraverso il quale l’uomo accede, se
e quando lo ritiene e, soprattutto, se ne è consapevole e capace, alla
conoscenza del divino, all’estasi dell’estremo coinvolgimento ideale,
alla più profonda libertà emotiva. Il procedere giocoso è l’esperienza
che ogni uomo compie nel corso della sua singolare esistenza, ma che
in effetti può essere intrapresa soltanto nella relazione di ogni uomo
con gli altri uomini. Non è una faccenda personale, che si esperisce nel
chiuso della coscienza di ciascuno; è una faccenda di tutti, che riguarda
tutti e il rapporto di ciascuno con ogni altro, che riguarda anche coloro
che non lo sanno, che giocano alla vita senza rendersene conto. Il
procedere giocoso è, infatti, qualche cosa di affatto serio e, per questo,

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. Ivi, p. 245.
365
Stefano Bevacqua

per nulla lieve, nel senso, appunto, di giocoso, nel senso abituale che si
attribuisce a questa parola. Non v’è alcuna antitesi tra gioco e serietà.
Ciò che istituisce il gioco non è una possibile sua capacità di proporre
allegrezza, e nemmeno il fatto che, siccome a giocare sono in massima
misura i bambini, piuttosto che gli adulti, e assunto che i bambini non
siano seri quanto gli adulti, ne deriverebbe una prevalenza di lievità
del gioco, che sarebbe così intrinsecamente faceto, gaio, scherzoso.
In realtà, nel loro giocare, bambini ed adulti sono serissimi, in quanto
attenti a rispettare le regole che il gioco pretende, e che essi stessi hanno
convenzionalmente attribuito al gioco medesimo, ed a conseguire
il risultato di vincere la competizione, e per questo di attingere ad
una condizione estatica, nel caso dell’agon, ovvero di straniarsi dal
“mondo della realtà quotidiana” fino ad accedere al “mondo della realtà
dionisiaca”, nel caso dell’ilinx315. Il gioco non è dunque necessariamente
non serio ovvero gaio o spensierato, ma nemmeno il contrario, ovvero,
ed appunto, serio, contegnoso, ponderato. Tutti questi sono aggettivi che
ben si adattano al descrivere modalità del comportamento umano, molto
meno a qualificarne le funzioni. Il procedere giocoso non è, infatti, una
tra tante possibili modalità con le quali l’uomo può agire nel corso della
sua esistenza, bensì una fondamentale funzione del suo esistere. Ogni
uomo gioca, poiché ciascuno, anche se inconsapevole di ciò a cui, in
effetti, mira, percepisce la necessità di risolvere l’antagonismo che
oppone sé medesimo al mondo, di allontanare il dolore del mondo, di
sporgersi verso un orizzonte nel quale si avveri una terza possibilità,
quello stare al di sopra, nel distacco, verso un paradiso, inteso come
“rifugio segreto, dove si è liberi dal peso delle responsabilità e dal
dovere di prendere delle decisioni e di cui il seno materno è insuperabile
simbolo”316.

. Roger Caillois classifica il gioco come agon, quando in gioco è la vittoria in una
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competizione; alea, quando a stabilire il vincitore del gioco è il caso; mimicry, quando il
gioco consiste nel fare finta di essere qualcuno o qualcosa; ilinx, quando il gioco consiste
nel lasciarsi andare verso una condizione estatica. Per i fini di questo lavoro si è ritenuto
sufficiente fare riferimento soltanto alla prima ed all’ultima delle categorie indicate da
Caillois, in quanto la seconda è una fattispecie della prima e la terza della quarta - ilinx in
greco significa gorgo, e fa derivare ilingos, vertigine: condizione alla quale si può accedere
attraverso la messa in scena della mimicry oppure attraverso la festa o la fruizione artistica
����. J. Jacobi, Archétype et symbole dans la psychologie de Jung, citato in G. Durand,
L’imagination symbolique, Presses Universitaires de France, Paris 1962, p. 67.
366
INDICE DEI NOMI

Agostino d’Ippona 18-19, 22, 283


Alessandro I di Russia 99-100
Alessandro VI Papa 126-127
Anassimandro 10
Anco Marzio 272
Andrić I. 269, 270
Anzieu D. 144-145, 149, 161
Aristofane 253
Aristotele 9-11, 142, 149, 224
Artaud A. 66-70, 73, 76
Artemidoro 224
Bachelard G. 11
Balzac H. 287
Baricco A. 130
Barthes R. 47-48, 167-168
Baudelaire C. 226n
Benjamin W. 287n, 287-289
Bergson H. 231
Berkeley G. 142
Bernat J. 20
Bidoli L. 68n
Blanchot M. 120-121
Botticelli S. 157
Bourdieu P.149
Braudel F. 93
Buoninsegna D. 157
Caboto S. 127
Caillois R. 348-349, 357, 359n, 366n
Calabrese P. 237
Calatrava S. 274
Calvino I. 202-204
Stefano Bevacqua

Campana D. 226n
Carlo Magno 282
Carlo V 122, 201
Carroll L. 14, 63-74, 77, 82
Carracci A. 302-303
Casagrande M. 222n
Cima di Conegliano 302
Cimabue 156-157
Colli G. 218, 259, 263n, 328, 362n
Colombo C. 126
Confucio 28
Cortès H. 196
Dante Alighieri 115-116, 118, 121, 300
Daraki M. 324-326
De Chirico G. 228
de Salignac M. 151
Del Pero M. 100
Delacroix E. 159
Deleuze G. 19n, 19, 50-51, 53-56, 66-67, 70, 80, 96n, 327-328
Derrida J. 56, 58, 61-62
Des Billettes F. 19
Descartes R. 127, 150
Detambel R. 147
Diderot D. 149-151
Diels H. - Kranz W. 218, 259, 263-264
Diodoro Siculo 124
Dodgson C. L. 63, 65, 69, 73, 80-81
Duby G. 282
Dumézil G. 191
Durand G. 11, 366n
Duras M. 89, 132
d’Urso M. D. 148
Eco U. 42
Edoardo III 284
Einstein A. 214, 216, 247
Eliade M. 182, 185-187, 215n, 237, 254-255, 323-324
Elias N. 282
Enrico VII 127
Epimenide 301
Eraclito 10, 132, 218, 259, 261-264, 311-362, 362n

368
Indice dei nomi

Erodoto 104-105, 111, 124, 164, 218, 272, 310-311, 313


Eschilo 124
Esiodo 103, 105, 208, 300-301
Esopo 29, 31
Euripide 304-305, 311, 313n, 315-316, 318, 321-322, 329, 331-
333, 336
Fenichel O. 145
Ferdière G. 67-68
Fericide d’Atene 301
Filippo di Valois 284
Filippo II 122
Filodemo di Gadara 306
Fink E. 357-363
Foucault M. 45
Frazer J. 72-73, 235
Freud S. 347
Friedel G. 241-243
Frömter E. 135-136
Gadamer H. G. 364-365
Géricault T. 159
Gioia M. 212-213
Giotto 157
Grondeux A. 139n
Hébert J. 39
Hegel G. W. F. 12, 164-165
Heidegger M. 61, 186-187, 218-221, 251
Hertz R. 22-26
Hobbes T. 95-96
Hölderlin F. 225n, 226
Huizinga J. 356-357, 359
Isler-Kerényi C. 316n, 318n
Isocrate 98
Jackson M. 163
Jacobi J. 366n
Janckélévitch V. 15-16
Jaspers K. 28n, 217-220
Jourdain-Annequin C. 98-99, 103, 105-106
Julien H. 67
Kales A. 222
Kant I. 142, 231

369
Stefano Bevacqua

Kerényi K. 278-280, 290, 343-344


Keynes J. M. 63, 65
La Cecla F. 45n, 47
Le Goff J. 203, 281, 302
Lehmann O. 240-241
Leibniz G. W. 19, 50, 53-55, 80, 96
Leonardo da Vinci 154, 215-216
Leopardi G. 268
Lesbo 153
Livio 272
Locke J. 141-142
Lucas E. 41, 46
Lucrezio 143, 149
Lupasco S. 11
Mantegna A. 158
Marco d’Agrate 154
Marcovich M. 362n
Martini S. 157
Masaccio 157
Merleau-Ponty M. 145, 147-148
Michelangelo Buonarroti 154-156, 158-159
Michelet J. 93, 121-122, 132
Molyneux W. 141-143
Mondolfo R. 362n
Monroe J. 99-101
Morin E. 11
Musil R. 33
Nancy J. L. 149
Newton I. 216, 231
Nietzsche F. 311-312, 317-319, 321-322, 334-336, 354, 359, 363
Nonno di Panopoli 306
Numa Pompilio 178
Omero 35-38, 113-118, 299-300
Otto W. 308
Ovidio 40, 94, 154, 223, 258-259
Parisot H. 67
Parmenide 77
Perrin J. 148
Pianigiani O. 177n
Piero della Francesca 158

370
Indice dei nomi

Pisistrato 342
Pitt B. 162
Platone 27-33, 93-94, 107-112, 119-120, 123. 126, 128, 131, 187,
205, 223-224, 251, 253-254, 256-257, 318-319, 329, 356
Plinio il Vecchio 103
Plutarco 38, 124, 180, 301-302
Portoghesi P. 271, 274
Procopio 191
Rayleigh J. W. 216
Reale G. 27
Rechtschaffen A. 222
Reinitzer F. 240, 242
Reni G. 302
Rilke R. M. 361n
Roux G. 124
Rovatti P. A. 358
Saffo 152-154, 156
Saunderson N. 150
Schmitt C. 97-98, 101
Segalen V. 154
Serres M. 96n, 149, 179, 250
Simmel G. 273-275
Sinopoli G. 44-46
Socrate 27-33, 38, 107, 109, 318, 321, 323, 326
Sofocle 315
Spinoza B. 95-96
Sting S. 282
Strabone 105
Tagore 226n
Tanizaki J. 227
Tarquinio il Superbo 178
Tintoretto 303
Tiziano Vecellio 302-303
Trasillo 27
van Gennep A. 23-24, 162
Vesalius 122n
Vidal-Naquet P. 111
Virgilio 94, 173
Virilio P. 282
Volta A. 60

371
Stefano Bevacqua

Voltaire 142
Vernant J. P. 216-217, 305-306, 329, 335-339
Weil S. 264n
Wenders W. 277-278
Wunenburger J. J. 11.

372
Catalogo e piano delle prossime uscite

Collana Studi (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1. AA.VV., DIALOGO SU ESSERE E TEMPO, c/di C. BONALDI ed E. S.


STORACE.
2. K. O. APEL, P. BECCHI, P. RICOEUR, HANS JONAS, c/di C. BONALDI
3. AA.VV., PLATONE E L’ONTOLOGIA. c/di M. BIANCHETTI e E.S.
STORACE.
4. AA.VV., LA STORIA DELL’ONTOLOGIA, c/di E. S. STORACE
5. AA.VV., CARLO MICHELSTAEDTER. c/di L. PEREGO, E. S. STORACE e
R. VISONE
6. H. JONAS, CONOSCERE DIO, c/di C. BONALDI
7. AA.VV., PLOTINO E L’ONTOLOGIA, c/di M. BIANCHETTI
8. AA.VV., ARISTOTELE E L’ONTOLOGIA, c/di M. BIANCHETTI
9. AA.VV., VITA, CONCETTUALIZZAZIONE, LIBERTÀ, c/di R. LAZZARI,
M. MEZZANZANICA ed E.S. STORACE
10. AA.VV.,, CARLO MICHELSTAEDTER. c/di E.S. STORACE
11. AA. VV. PROMETEO E LA DEMOCRAZIA,c/di R. LISSONI
12. AA.VV.,, FIGURE D’OCCIDENTE. c/di E.S. STORACE
13. G. CARRUBBA, APOLLINEO E DIONISIACO
14. AA.VV., TRADURSI IN HEIDEGGER, c/di E.S. STORACE
15. L. TADDIO, ESTETICA E ARCHITETTURA.
16. D. CANTONE, ESTETICA DIFFUSA.
17. AA.VV., L’ETERNO RITORNO DELL’ESTETICA. c/di P.A. DALLA
VIGNA ed E.S. STORACE
18. G. PRISINZANO, IL DETTAGLIO DELLA TRAMA.
19. F. CODATO, THOMAS SZASZ.
20. E. MARCHETTA, ELOGIO DELLA PROSTITUZIONE.
21. M. VENEZIANI, CARLO MICHELSTAEDTER E LA METAFISICA
DELLA GIOVENTÙ
22. F. CAMBRIA, LA SAPIENZA DEL TEATRO
23. S. BEVACQUA, NEL CONFINE
24. F. GIAMPIETRI, LE CURE DEL MONDO
Collana Netica (diretta da Massimiliano CAPPUCCIO)

1. AA.VV., DENTRO LA MATRICE, c/di M. CAPPUCCIO.


2. AA.VV., L’EREDITÀ DI ALAN TURING, c/di M. CAPPUCCIO
3. AA.VV., L’ISLAM E LA FILOSOFIA, c/di M. BIANCHETTI
4. M. MALDONATO, SFERE DELLA DECISIONE

Collana Figure dell’estetica (diretta da Giuseppe DI GIACOMO)

1. AA.VV., BECKETT, ULTIMO ATTO, c/di R. COLOMBO e G. DI GIACOMO


2. C. ROZZONI, I SEGNI DEL GIOVANE PROUST.
3. L. MARCHETTI, OGGETTI SEMI- OPACHI.
4. A. VALENTINI, ALLE ORIGINI DELLA RAPPRESENTAZIONE.
5. AA.VV., ASTRAZIONE E ASTRAZIONI, c/di G. DI GIACOMO
6. E. S. STORACE, INTRODUZIONE ALL’ESTETICA DI JEAN PAUL
RICHTER
7. L. DISTASO, DA DIONISO AL SINAI.
8. M. LATINI, IL MUSEO DEGLI ERRORI.
9. A. OTTOBRE, ARTE, ESPERIENZA E NATURA.
10. F. BASSAN, I SALONS DI ANTONIN ARTAUD.
11. L. TALARICO, L’ISTANTE E IL FRAMMENTO.
12. A. ALFIERI, CINEMA, MASS MEDIA E LA SCOMPARSA DELLA REALTÀ

Collana Laboratorio di Ontologia (diretta da Maurizio FERRARIS)

1. T. ANDINA, IL PROBLEMA DELLA PERCEZIONE NELLA FILOSOFIA DI


NIETZSCHE
2. C. BARBERO, MADAME BOVARY: SOMETHING LIKE A MELODY
3. P. KOBAU, ONTOLOGIE ANALITICHE DELL’ARTE
4. S. CAPUTO, FATTORI DI VERITÀ
5. F. MARTINELLO, L’IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI IN LEIBNIZ
6. L. MORENA, WORD OR OBJECT?
7. M. FERRARIS, DIFFERENZE

Collana In principio (diretta da Massimo DONÀ e Giuseppe GIRGENTI)

1. AA.VV., L’INFINITO INTORNO.


2. M. SCURATI, IDENTITÀ E PRINCIPIO.
3. A. GATTO, L’UTOPIA DELL’ISTANTE.
Collana Lo spazio della politica (diretta da Alessandro ARESU, M. GASPARRI,
M. SCURATI e S. TASSONE)

1. M. CACCIARI, M. TRONTI, TEOLOGIA E POLITICA.


2. B. DE GIOVANNI, APPUNTI SULL’EUROPA

Collana Libri da ascoltare (diretta da Massimo DONÀ)

1. AA.VV., L’INCREDULITÀ DEL CREDENTE


2. AA.VV., IL VOLTO DI DIO, LA CARNE DELL’UOMO,
IL DECALOGO
3. E. SEVERINO, V. VITIELLO, RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE
4. G. MANDEL, G. GIORELLO, NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO
5. P. ROVATTI, G. ISRAEL, NON TI FARAI IMMAGINE DI DIO
6. C. SINI, A. COLASANTI, NON DESIDERARE LA DONNA D’ALTRI
7. E. GHEZZI, M. DONA’, NON UCCIDERE
8. U. GALIMBERTI, E. BORGNA, NON COMMETTERE ATTI IMPURI
9. F. VOLPI, A. GNOLI, ONORA IL PADRE E LA MADRE
10. N. BARBATO, E. GALLI DELLA LOGGIA, NON RUBARE
11. V. VITIELLO, A. TAGLIAPIETRA, NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA
12. M. DONÀ, K. FOUAD ALLAM, NON AVRAI ALTRO DIO AL DI FUORI
DI ME

Collana Pragmata (diretta da Carlo SINI)

1. M. CAPPUCCIO, L’UOMO, LA MACCHINA, L’ENIGMA.


2. F. VIMERCATI, LA SCRITTURA DEL PENSIERO.
3. G. FASOLO, TEMPO E DURATA.
4. C. SINI, IL SEGRETO DI ALICE.
5. AA.VV., I PRAGMATISTI ITALIANI.
6. M. DANIEL, PRAGMATISMO E RELIGIONE.
7. B. ARONICA, LA GENELOGIA COME DINAMITE.

Collana Asia Edizioni (diretta da Franco BERTOSSA)

1. AA.VV., LO SGUARDO SENZA OCCHIO


2. P. BASILE, FIGLI DEL NULLA
Collana Paradossi (diretta da Marco RAVERA)

1. P. BURZIO, IL PARADOSSO DEL SACRO.


2. D. SISTO, LO SPECCHIO E IL TALISMANO
3. A. SERRA, LA DIALOGICA ORFICA DI GABRIEL MARCEL
4. A. MARIOTTI GEUNA, L’ATTUALITÀ DEL TRAGICO
5. F. FONTANETO, IL SUICIDIO E LA FILOSOFIA
6. F. VOLPE, DOSTOEVSKIJ IN ITALIA
7. C. TARDITI, ABITARE LA SOGLIA
8. A. AMATO, MORTE E IMMORTALITÀ
9. M. BRIGNONE, LA DUPLICITÀ DELL’UOMO
10. G. CAVARERO, AGOSTINO E PASCAL NEL PENSIERO DI PAUL
LUDWIG LANDSBERG 11. S. RACCA, SCHELLING CONTRA HEGEL
12 .L. ALOI, ONTOLOGIA E DRAMMA
13. F. VITILLO, ARTHUR SCHOPENHAUER: LEGGI DEL CIELO E LEGGI
DEL PENSIERO

Collana Filosofia e teologia (diretta da Vincenzo VITIELLO)

1. M. DONÀ, L’ESSERE DI DIO


2. V. VITIELLO, E POSE LA TENDA IN MEZZO A NOI...
3. F. DUQUE, LA RADURA DEL SACRO
4. B. FORTE, S. NONO, V. VITIELLO, DIPINGERE DIO
5. D. DI CESARE, GRAMMATICA DEI TEMPI MESSIANICI
6. A. FABRIS, FILOSOFIA DEL PECCATO ORIGINALE
7. AA. VV., IL DIO DELLA RAGIONE E LA RAGIONE DI DIO. Vol. I.
8. AA. VV., IL DIO DELLA RAGIONE E LA RAGIONE DI DIO. Vol. II.

Collana I mille volti di Eros (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1 . M. DONÀ, EROS E TRAGEDIA


2. C. SINI, L’EROS DIONISIACO
3. A. COLASANTI, IL SOGNO DI GIUSEPPE
4. C. BONVECCHIO, EROS COME SIMBOLO
5. S. NATOLI, EROS E PHILIA
6. C. SINI, LA NASCITA DI EROS
7. U. GALIMBERTI, EROS E PSICHE

Collana I mille volti della Verità (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1. U. GALIMBERTI, L’UOMO NELL’ETÀ DELLA TECNICA


2. M. DONÀ, LE VERITÀ DELLA NATURA
3. E.S. STORACE, FORME DI VERITÀ
4. U. CURI, LE VERITÀ DEL CINEMA
5. S. NATOLI, LE VERITÀ DEL CORPO

Collana Abitatori del tempo (diretta da Rosanna LISSONI)

1. E. SEVERINO, L’ETICA DEL CAPITALISMO


2. U. GALIMBERTI, LA MORTE DELL’AGIRE E IL PRIMATO DEL FARE
3. E. SEVERINO, LA RAGIONE, LA FEDE

Collana Estetica e filosofia dell’arte (diretta da Sergio GIVONE, Giampiero


MORETTI e Stefano ZECCHI)

1. AA.VV., ESTETICA E FILOSOFIA DELL’ARTE, a/c di A. DI BARTOLO e


F. FORCIGNANÒ

Collana di Filosofia politica (diretta da Virginio MARZOCCHI)

1. R. BADII, IL RISCHIO DEL POLITICO


2. E. ACUTI, I LIMITI DEL NEOREALISMO

Collana Anime in dettaglio (diretta da Massimo DONÀ)

1. M. C. PIGNATELLI IMPERIALI, ALL’OMBRA DELLE QUERCE


2. M. DONÀ, C. SINI, A. TAGLIAPIETRA, ANIME
3. A. FESTA, IL POZZO

Collana Ikebana (diretta da Claudio BONVECCHIO)

1. AA.VV., L’OROLOGIO DELL’APOCALISSE. a/c di C. BONVECCHIO ed


E. S. Storace
2. M. RIZZARDINI, DRACULA
3. AA.VV., LA FILOSOFIA DI BARACK OBAMA.
4. D. GULINO, IDENTITÀ CYBORG
5. E. S. STORACE, PER UN’ESTETICA DEL CADAVERE
Collana di perle di saggezza (diretta da Giuseppe GIRGENTI, Erasmo Silvio
STORACE, Elisa VIRGILI)

1. PARMENIDE, DELL’ESSERE E DEL NULLA, a cura di M. DONÀ


2. PLATONE, IL MITO DELLA CAVERNA, a cura di C. SINI
3. PLATONE, IL MITO DEGLI ANDROGINI, a cura di M. VENEZIANI
4. GORGIA, L’ENCOMIO DI ELENA, a cura di G. GIRGENTI
5. K. MARX, LA SCIENZA E LE MACCHINE, a cura di M. DONÀ
6. ANASSIMANDRO, IL FRAMMENTO ORIGINARIO, a cura di E. S.
STORACE
7. AGOSTINO, SUL TEMPO, a cura di R. DE MONTICELLI
8. GIORDANO BRUNO, IL MITO DI ATTEONE, a cura di G. GIORELLO
9. CARTESIO, COGITO ERGO SUM, con un’introduzione di S. ŽIŽEK
10. ARISTOTELE, SULL’ESSERE, a cura di E. BERTI
11. EPICURO, IL PIACERE DI VIVERE, a cura di D. FUSARO
12. F. NIETZSCHE, DIO È MORTO, con un’introduzione di P. KLOSSOWSKI
13. IPPOCRATE, IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE, a cura di G. COSMACINI
14. G. W. F. HEGEL, ANTIGONE, a cura di E. VIRGILI
15. A. SCHOPENHAUER, SULLA MUSICA, a cura di F. NICOLACI
16. I. KANT, LO SPAZIO E IL TEMPO, a cura di M. MARASSI
17. G. W. F. HEGEL, LA MORTE DELL’ARTE a cura di F. NICOLACI
18. M. DONÀ ERRANZE, a cura di A. GATTO
19. G. W. GOETHE, URPFLANZE: LA PIANTA ORIGINARIA a cura di M.
DONÀ
20. G. W. F. HEGEL, SUL WALLENSTEIN: TRAGEDIA SENZA DIALETTICA
a cura di F. VALAGUSSA
21. PLATONE, IL MITO DEL DEMIURGO a cura di C. SINI
22. B. SPINOZA, L’ESSERE-ESPRESSIONE, a cura di R. DIODATO
23. F. NIETZSCHE, IO SONO CORPO E NIENT’ALTRO, a cura di M.
LONGHINI
24. C. SINI, REALE, PIÙ-CHE-REALE, VIRTUALE, a cura di F. CAMBRIA

Collana Scriptiunculae (diretta da E. S. STORACE)

1 E. S. STORACE, LETTERA AI MIEI GENITORI


1 E. S. STORACE, FILOSOFIA DEL PRESEPE

Collana Filosofia Sociale (diretta da Elena PULCINI)

1. M. ALAGNA, SAZI DA MORIRE


2. A. ERIZI, LA NOTTE DI EDOM
3. AA.VV., SOGGETTI ITINERANTI
Collana Filofavole (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1. D. MARINARO, GIACOMO LIOPARDO NELLA CAVERNA DI PLATONE

Collana Epoche (diretta da Massimo MARASSI)

1. C. CIMMARUSTI, DALLA LIBERTÀ


2. C. NEGRI, HOMO TANTUM
3. F. DUQUE, M. SGARBI, LA TRACCIA DEL SACRO E IL TERRIBILE
DELLA BELLEZZA

Collana Pensare il cibo (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1. S. NATOLI, IL CIBO DELL’ANIMA


2. E. S. STORACE, BREVE METAFISICA METABOLICA

Collana Pensare il pianeta (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1. P. DAVERIO, PENSARE L’ARTE


2. U. GALIMBERTI, PENSARE IL PIANETA

Collana tota nostra (diretta da Erasmo Silvio STORACE)

1. D. CAMPANA, CANTI ORFICI e IL PIÙ LUNGO GIORNO, a/c di D.


MANDELLI
2. L. PIRANDELLO, FUORI DI CHIAVE, a/c di A. SERRAO
3. M. A. SCALERA STELLINI, LI DIVERTIMENTI POETICI, a/c di P. GUIDA

www.alboversorio.it

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