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Michael Tomasello

Diventare umani

Parte prima

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ALLA RICERCA DELL’UNICITA’ UMANA
Gli esseri umani, oltre ad essere una specie capace di raggiungere traguardi cognitivi e sociali senza precedenti,
esprimono una diversità che si crea socialmente. La cultura umana è la risposta primaria a sfide adattive specifiche; la
sua caratteristica più peculiare è la cooperazione. La dimensione coordinatrice della cultura passa attraverso
convenzioni linguistiche, norme, istituzioni, fiducia, impegno ed equità. I membri di un gruppo culturale trasmettono
informazioni tramite l’apprendimento culturale, come l’istruzione attiva e l’apprendimento conformista. La dimensione
entro la quale i prodotti culturali si evolvono e trasmettono nel tempo la chiamiamo dimensione trasmissiva della cultura.
Per approfondire la questione, bisogna indagare come la psicologia umana sia in grado di differire da quella di tutti gli
altri primati. Si è dimostrato che i parenti più prossimi dell’uomo – le grandi scimmie – possiedono capacità cognitive e
sociali molto simili alle nostre: acquisiscono comportamenti mediante l’apprendimento sociale, fanno uso di strumenti e
comunicano “linguisticamente”. Le comparazioni – tra le scimmie e l’uomo – sperimentali e controllate permettono di
rilevare delle sottili differenze. L’individuo umano di oggi è stato soggetto all’evoluzione naturale per rispondere a sfide
ecologiche e socio ecologiche esclusive della specie, che l’ha costretto, in origine, a collaborare con altri gruppi, ad
esempio, per procurarsi del cibo. Il processo preso in esame non è tanto la selezione naturale, quanto piuttosto la
variazione ereditaria. Quest’ultima scaturisce dalla ricombinazione genetica che, tramite processi ontogenetici, produce
nuovi tratti. L’analisi si occupa di chiarire come l’ontogenesi nelle grandi scimmie si sia trasformata nell’ontogenesi
umana. Un punto finale di quest’indagine sono i bambini dai sei ai sette anni di età. Secondo le società tradizionali
questa è l’età un bambino è considerato cognitivamente e socialmente ragionevole, in grado quindi di imparare a
leggere, scrivere e fare di conto. L’obbiettivo sarà inquadrare l’attività socioculturale umana nella moderna teoria
evoluzionistica. I cuccioli umani ereditano, oltre un ‘bagaglio’ di geni, anche un ambiente socioculturale ricco di artefatti,
simboli e istituzioni che permettono sia la maturazione cognitiva dell’individuo, sia l’esperienza individuale in relazione
all’interazione comunicativa con l’’altro’’. Gli individui sanno creare reciprocamente un agente ‘noi’ condiviso, che opera
con intenzioni condivise e valori etico-morali condivisi. Attraversiamo una serie di processi di transizioni fondamentali
della sequenza filogenetica; intorno ai nove mesi di età, compare l’intenzionalità congiunta; intorno ai tre anni d’età,
compare l’intenzionalità collettiva che inaugura il “mondo sociale dell’infanzia. Svolgendo tale autoregolazione sociale e
culturale, il bambino, dai tre ai sei anni d’età, crea le prime forme di pensiero e azione autoriflessivo. L’obbiettivo
dell’indagine sarà fornire una spiegazione del processo, dei primi sei anni di vita, che ci fa diventare umani. Unicamente
umani.

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FONDAMENTI EVOLUTIVI
I due passi fondamentali dell’ontogenesi cognitiva e sociale unicamente umana sono: gli adattamenti che hanno
condotto alla cooperazione degli individui e il più grande risultato di questa cooperazione, la cultura. Un aspetto
importante è che gli adulti, provvedendo ai bambini con il cibo e con l’informazione fino all’adolescenza inoltrata, hanno,
evolutivamente parlando, rallentato la loro ontogenesi; permettendo ai bambini di appropriarsi con maggiore efficienza
delle informazioni culturali necessarie per diventare ‘umani esperti’.
EVOLUZIONE UMANA – Intenzionalità individuale nelle grandi
scimmie
La nostra storia comincia circa sei milioni di anni fa con l’ultimo
antenato comune, molto simile agli attuali scimpanzè e bonobi. Si tratta
della più recente popolazione di organismi di cui tutti gli organismi che
ora vivono sulla Terra hanno una discendenza comune, il più recente
antenato comune di tutta la vita attuale sulla Terra. Nel nostro studio
scimpanzè e bonobi verranno spesso comparati ai bambini con la
finalità di approfondire le origini della cognizione e della socialità
umana. Gli scimpanzè hanno evoluto delle abilità cognitive per
comprendere il funzionamento del mondo fisico: conoscono l’ambiente per trovare cibo; identificano concettualmente il
cibo e la quantità adatta per la sua assunzione; soprattutto sono in grado di usare strumenti e utensili adatti alla struttura
causale del problema. Oltre a ciò, possiedono la comprensione dell’agentività intenzionale, in quanto funzionale per
prevedere l’atteggiamento altrui in caso di competizione. Le relazioni sociali tra le grandi scimmie si basano, oltre che
sulla parentela, su competizione e dominanza, cooperazione e amicizia. La loro socialità è però di tipo individualistica in
senso strumentale. Oltre a ciò, l’LCA (last common ancestors) aveva abilità di automonitoraggio cognitivo e di
autoregolazione motivazionale. Quello che non fanno, ma che invece i bambini fanno, è monitorare le proprie azioni in
vista delle valutazioni altrui.
Prima collaborazione umana e intenzionalità congiunta
Gli esseri umani si sono separati dalle grandi scimmie circa sei milioni di anni fa. Per i successivi quattro milioni di anni,
furono grandi scimmie bipedi con un cervello da grande scimmia. Poi, circa due milioni di anni fa, è comparso il genere
Homo, con un cervello più grande e con l’abilità di manovrare utensili in pietra. Poco tempo dopo, un raffreddamento
globale e un periodo di siccità causarono una diffusione delle scimmie terricole (babbuini) che prevalsero per un breve
periodo sul genere Homo. Alcuni individui, per sopravvivere, dovettero collaborare attivamente tra di loro costruendo il
terreno comune della rappresentazione dell’agentività condivisa, che diede vita a nuove forme di cognizione e di
socialità. Le forme di rappresentazione cognitiva sono alla base della notevole flessibilità e della potenza dell’attività
concettuale umana. Queste abilità furono manifeste in gesti come il mimare, l’indicare, in una parola “un’inferenza
socialmente ricorsiva”. Nella scelta dei partner per un impegno collaborativo, gli individui umani primitivi volevano
qualcuno all’altezza e che al contempo dividesse equamente il bottino. L’esito sociale di questi adattamenti fu un senso
di equità basato su una valutazione di sé e dell’altro come partner meritevole dell’impresa collaborativa.
Ultimo antenato comune (LCA) Primi umani ( Homo) Esseri umani moderni (Homo sapiens sapiens)
Intenzionalità congiunta
Intenzionalità individuale Intenzionalità collettiva
- rappresentazioni prospettiche
- rappresentazioni astratte - rappresentazioni oggettive
- inferenze discorsive
- inferenze semplici - ragionevolezza
Prosocialità Moralità in seconda persona Moralità di gruppo
- aiuto - impegno congiunto - norme sociali
- condivisione - equità - responsabilità
Autoregolazione personale Autoregolazione sociale Autogoverno normativo
Cultura umana moderna e intenzionalità collettiva

L’era degli umani moderni, o Homo sapiens sapiens, fu inaugurata circa 150.000 anni fa dall’aumento demografico di
altri gruppi umani. Ogni gruppo doveva difendersi, collaborando, da potenziali invasori. Ciò implicò la necessità di
distinguere gli altri dal proprio gruppo culturale, in quanto era essenziale essere riconosciuti nel proprio gruppo culturale.
Si originò un senso d’identità e di lealtà al gruppo: insegnare ai propri figli a fare cose nel modo convenzionalmente
stabilito dal gruppo culturale di appartenenza fu imperativo per la loro sopravvivenza. Insegnamento e conformità
generarono l’aspetto di ‘’irreversibilità’’ della cultura al quale ogni individuo, che nasceva entro determinate strutture
sociali sovraindividuali, doveva conformarsi. Ad ognuno venivano riconosciuto, nel terreno culturale comune, il proprio
specifico status. Le convenzioni più importanti sono, per molti aspetti, quelle linguistiche, con le quali si rappresenta un
fatto ‘’oggettivo’’ sul mondo. Così, gli umani moderno hanno interiorizzato, oltre alle azioni morali, le giustificazioni morali
inserite entro i criteri normativi del gruppo. L’ipotesi ontogenetica è che questi tre insiemi di adattamenti – intenzionalità
individuali nelle grandi scimmie, intenzionalità congiunta nei primi umani e intenzionalità collettiva nell’Homo sapiens
sapiens o essere umano moderno – forniscono le basi per lo sviluppo della psicologia unicamente umana (vedi tabella).
Le abilità e le motivazioni dell’intenzionalità congiunta compaiono per la prima volta intorno ai nove mesi d’età. Dopo
un’ulteriore fase di maturazione e con l’esperienza, le motivazioni d’intenzionalità collettiva compaiono invece intorno ai
tre anni d’età.
ONTOGENESI UMANA
L’ontogenesi costruisce gli individui, vale a dire costruisce strategie di storia della vita. Nel tempo evolutivo, una via
ontogenetica potrebbe cambiare nel suo contenuto, per esempio la presenza o l’assenza di una determinata
competenza psicologica, nelle tempistiche con cui tale competenza emerge e nella plasticità, ossia il grado in cui tale
competenza è aperta agli influssi ambientali. Le interazioni tra le vie di sviluppo ontogenetico possono generare delle
novità evolutive. Tali variazioni, nella tempistica in special modo, possono avere degli effetti, anche a cascata, sui
fenotipi. Nella moderna biologia evolutiva dello sviluppo – Evo-Devo, ossia evolutionary developmental biology – il
bersaglio della selezione naturale non sono i ‘’tratti’’ dell’adulto ma le vie ontogenetiche. L’obbiettivo è sul
comportamento e sulla psicologia in continuità con la recente “teoria dei sistemi di sviluppo” o con la “psicologia
evolutiva dello sviluppo”.
La nicchia ontogenetica umana
In questa nicchia ontogenetica cooperativa, i bambini dipendono da molti più adulti e per molto tempo in più, rispetto alle
grandi scimmie. I bambini delle moderne società industriali, in genere, non si procurano il cibo autonomamente ad un
livello sufficiente per la sopravvivenza fino alla media adolescenza. In contrasto con ciò, nelle grandi scimmie le madri
svezzano i propri cuccioli fino a circa quattro o cinque anni, da allora se la caveranno da soli, quanto al cibo. In realtà,
affinché i bambini apprendano le abilità della cultura locale, l’istruzione degli adulti è essenziale. Un altro aspetto è
relativo alle differenze nell’allevamento: nelle scimmie, il 100% delle cure della prole è a carico della madre; nelle società
umane di ogni tipo, dopo la prima infanzia, solo il 50% della cura della prole è a carico della madre, in quanto l’altra metà
è prestata dai padri, dalle nonne e amici. E’ certo che la maggiore attenzione da parte di una schiera di adulti differenti
presenta delle sfide cognitive uniche per l’infante contribuendo allo sviluppo precoce di alcune sue abilità. Che il cervello
umano sia tre volte più grande di quello dello scimpanzè suggerisce un funzionamento cognitivo più complesso
nell’adulto, e il suo tasso di sviluppo più lento suggerisce che i bambini richiedano più tempo per sviluppare abilità in un
ambiente culturale così variegato come quello attuale.
Storia della vita psicologica umana
È ormai assodato che i bambini in via
di sviluppo debbano imparare molte
abilità prima di diventare membri
competenti del proprio gruppo
culturale. Gli individui umani primitivi,
allo stesso modo, non avrebbero
potuto sopravvivere a lungo senza
essere esperti in delle pratiche di sostentamento trasmesse culturalmente e di convenzioni sociali, incluso l’uso di
artefatti, utensili e simboli linguistici. Prove a favore di questa tesi sono giunte da Herrmann e collaboratori (2007).
Hanno somministrato una batteria di test cognitivi a numerosi scimpanzè, oranghi e bambini di due anni e mezzo. Si è
scoperto che i bambini e le grandi scimmie avevano abilità cognitive simili per affrontare il mondo fisico; tuttavia, i
bambini in grado di utilizzare il linguaggio avevano già abilità cognitive più sofisticate rispetto alle altre due specie prese
in esame per affrontare il mondo sociale. È emerso che gli esseri umani impiegano già adattamenti unici per la
cognizione sociale, e che questo permette loro di avere la padronanza delle abilità culturali di comunicazione,
cooperazione e apprendimento sociale. Quella formulata da Herrmann e collaboratori è la teoria dell’intelligenza
culturale; ossia l’abilità socio cognitiva che permette ai bambini di imparare dagli altri autoalimentando la propria
comprensione del mondo fisico tramite linguaggio, istruzione e altre interazioni culturali. Nel periodo dai due ai tre anni,
le abilità di cognizione sociale dei bambini continuano notevolmente a svilupparsi, mentre quelle delle grandi scimmie
non si sviluppano oltre. Molti studi di psicologia sociale dimostrano che allineare gli stati psicologici – e il comportamento
nell’imitazione – favorisce il legame sociale.
LA SPIEGAZIONE DELLA PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO
Cercheremo di spiegare, facendo ricorso alla psicologia dello sviluppo, come gli esseri umani abbiano deviato dalla
traiettoria delle grandi scimmie.
Maturazione ed esperienza
Parleremo di “componente maturazionale” di una via di sviluppo – vale a dire quegli aspetti della vita vagliati dalla
selezione naturale al livello di specie. Un buon esempio, a livello dello sviluppo sensomotorio, è la deambulazione. Per
camminare bipedalmente il corpo umano si è evoluto in modi unici: dalla struttura dello scheletro, alla struttura dei
muscoli ai meccanismi per l’equilibrio. Tutti i bambini cominciano a camminare in posizione eretta già a partire dai nove
fino ai diciotto mesi. Seguendo l’impostazione di Vygotskij (1978), distingueremo tra abilità sviluppate “naturalmente”
attraverso l’apprendimento individuale soprattutto con la maturazione, e abilità che si sviluppano “culturalmente” tramite
l’apprendimento imitativo e l’istruzione. Il risultato è una classificazione di quattro tipi di apprendimento nell’ontogenesi
cognitiva e sociale umana: (1) apprendimento individuale, (2) apprendimento imitativo o per osservazione, (3)
apprendimento pedagogico o per istruzione, e (4) co-costruzione sociale specialmente nella collaborazione tra pari. Dai
tre anni in poi i bambini entrano nei cosiddetti due mondi sociali dell’infanzia: gli adulti e i propri coetanei. Gli adulti
vengono percepiti come autorità da rispettare in quanto stabiliscono loro cosa e come fare. Con i coetanei, invece, i
bambini sviluppano il senso del pensiero dialogico e la reciprocità alla pari. Ciò che i bambini sperimentano durante
questi ‘scambi strutturati’ nella maturazione dà un impulso non indifferente all’ontogenesi.
Regolazione esecutiva
Il terzo fattore causale dello sviluppo psicologico umano, affiancato da maturazione ed esperienza, è la capacità di
autoregolazione esecutiva. I bambini autoregolano il proprio comportamento e le proprie azioni tramite inibizione,
spostamento di attenzione, presa di decisione, consapevolezza dei rischi, controllo volontario e ritardo della
gratificazione. Diversi studiosi hanno però ampliato l’ambito di applicazione dell’autoregolazione esecutiva: Piaget (1977)
ha spiegato molti successi dello sviluppo umano con l’equilibrazione; un insieme di processi autoregolativi diffusi nel
mondo biologico. Un esempio potrebbe essere una riorganizzazione cognitiva relativa ai concetti linguistici in cui gli
elementi percezione-azione-cognizione sono coordinati. Si tratta dei tentativi in cui i bambini tentano di trovare
conformità e coerenze nel funzionamento delle cose, ri-descrivendole a livelli via via più astratti e articolati. In definita, lo
sviluppo psicologico fa ‘un passo avanti’ quando gli elementi psicologici esistenti vengono riorganizzati. Un secondo tipo
di autoregolazione esecutiva è l’autoregolazione sociale; l’individuo fa proprie le prospettive altrui per usarle come
criterio per l’autoregolazione. In un’analisi ontogenetica, noi dobbiamo considerare i processi percettivi, cognitivi ed
emozionali nel proprio contesto, come elementi in una via di sviluppo il cui telos evolutivo è l’azione adattativa.

Parte seconda
ONTOGENESI DELLA COGNIZIONE UNICAMENTE UMANA
Alla radice della cognizione umana ci sono processi ontogenetici mediante i quali i bambini si coordinano in atti
d’intenzionalità condivisa. La conoscenza della struttura spazio-temporale-causale-quantitativa del mondo fisico delle
grandi scimmie, pur essendo fondamentali per la cognizione umana, non sono sufficienti. Abbiamo bisogno, in aggiunta,
di processi cognitivi evoluti per la coordinazione sociale e mentale con i partner sociali. C’è un elemento di ricorsività
nella cognizione umana: “io intendo che tu sai che io penso”. Sono le abilità socio cognitive dell’intenzionalità condivisa
che permettono agli esseri umani, ma non alle scimmie, di collaborare per creare, per esempio, motori a vapore, poesie
e istituzioni politiche.

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COGNIZIONE SOCIALE
Il pensiero umano maturo è strutturato dalla distinzione essenziale, che già riconobbero i Greci antichi, tra soggettivo e
oggettivo, credenza e verità, opinione e fatto, apparenza e realtà. Le grandi scimmie e altre specie animali non
suddividono così l’esperienza; la loro comprensione del mondo non è integrata in tal modo perché non è un’intuizione a
cui possano pervenire da soli. Inizialmente, gli infanti intorno ai nove mesi, coinvolgono gli adulti nell’attenzione
congiunta, entro la quale conoscono le loro prospettive individuali. Nel comunicare, il bambino fino a tre anni e l’adulto,
cercano di allineare le proprie prospettive nel discorso mediato dal linguaggio. Nel periodo dai tre ai sei anni i bambini
usano le proprie abilità emergenti d’intenzionalità collettiva e costituiscono, così facendo, un mondo ‘obbiettivo’
indipendente dal loro modo di costruirlo. Queste abilità preparano la scena alla capacità dei bambini di coordinare anche
prospettive in conflitto a livello esecutivo e quindi di costruire nuove comprensioni del mondo.
LE GRANDI SCIMMIE: IMMAGINARE COSA GLI ALTRI PERCEPISCONO
La cognizione sociale nelle grandi scimmie
Le grandi scimmie possono immaginare il contenuto effettivo di ciò che gli altri percepiscono e sanno. Inoltre, le grandi
scimmie cercano talvolta di manipolare ciò che gli altri vedono. Si tratta delle indagini svolte da Hare e collaboratori
(2006) e da Melis e collaboratori (2006), che hanno fatto competere degli scimpanzè con un essere umano per due
pezzi di cibo. In questi studi sulle grandi scimmie – come nei corrispondenti studi sugli infanti - ,gli individui anticipano ciò
che gli altri faranno basandosi su cosa gli altri vedono o hanno visto, e la conoscenza della situazione propria
dell’individuo non è saliente per loro. Si potrebbe chiamarla comprensione “implicita” della falsa credenza, nel senso che
le grandi scimmie possono predire che cosa un altro farà basandosi su ciò che esse hanno visto. Ciò significa che gli
scimpanzè possono immaginare il contenuto psicologico reale di ciò che gli altri stanno vedendo, udendo o inferendo, e
che cosa questo implica per le proprie azioni imminenti. Intorno ai sei mesi, gli infanti umani iniziano seguendo la
direzione dello sguardo altrui verso bersagli ravvicinati, entro la visione periferica. La capacità di seguire la direzione
dello sguardo su bersagli più distanti compare intorno ai dodici-tredici mesi d’età. In ciascuno di questi modi,
l’inseguimento dello sguardo degli infanti umani è simile a quello delle grandi scimmie ma compare con almeno un anno
di anticipo rispetto agli scimpanzè. Un ipotesi avanzata da Tomasello e collaboratori (2007) è che lo sguardo umano che
segue gli occhi si sia evoluto in modo specifico in ambito sociale cooperativo in cui altre specie non tendevano a
sfruttarlo. L’uso degli occhi negli infanti per l’inseguimento dello sguardo deriva forse da questo adattamento. L’età più
giovane in cui le grandi scimmie hanno dimostrato una competenza simile – in ambiti competitivi – è intorno ai quattro
anni d’età.
Variazione individuale e culturale
È verosimile che, in tutte queste abilità, vi sia stato uno spostamento della tempistica ontogenetica dalle grandi scimmie
agli esseri umani. E’ probabile che gli infanti umani seguano la direzione dello sguardo e immaginino ciò che gli altri
percepiscono almeno due anni prima delle grandi scimmie.
L’ATTENZIONE CONGIUNTA
Le grandi scimmie, come pure gli umani, seguono la direzione dello sguardo altrui e immaginano ciò che gli altri vedono.
Ma nel tempo in cui si sviluppano queste abilità, gli umani sviluppano anche abilità intersoggettive di attenzione
congiunta in coincidenza con la rivoluzione del nono mese. Ma, in realtà, persino gli infanti più giovani interagiscono con
gli altri in modi unici, basati su un tipo di condivisione delle emozioni.
Condivisione delle emozioni nelle proto conversazioni
Nell’ambito della cura infantile cooperativa, gli infanti umani hanno sviluppato dei modi per sollecitare l’attenzione degli
adulti intorno a loro, stabilendo emozioni positive con loro attraverso, ad esempio, il sorriso. Si tratta di una sorta di
“sintonizzazione emotiva” nella quale gli infanti e le madri rispecchiano l’intensità emotiva e il legame reciproco. Poiché
queste interazioni sono comunicative, e basate su una sintonia psicologica a distanza, Trevarthen e collaboratori (1979)
le hanno chiamate proto-conversazioni. I piccoli delle grandi scimmie non partecipano, né interagiscono, in queste proto-
conversazioni.
La comparsa dell’attenzione congiunta
Intorno ai nove mesi, gli infanti umani attraverso una rivoluzione nella cognizione sociale. A nove mesi gli infanti
comprendono gli altri come agenti intenzionali determinando la nascita dell’intenzionalità condivisa, ossia sanno di
condividere un’esperienza con il proprio adulto. Negli studi sugli scimpanzè di Carpenter e collaboratori (1995) non è
stato registrato alcun tentativo attivo di stabilire l’attenzione congiunta in modo comunicativo.
Terreno comune e terreno comune culturale
Intorno ai tre anni, quando le proprie abilità d’intenzionalità collettiva stanno maturando, i bambini cominciano a
sintonizzarsi sul terreno culturale comune, ossia sul terreno delle esperienze condivise con gli adulti. Un terreno
culturale comune di questo tipo è quasi per definizione sinonimo di cultura, poiché la cultura si costituisce di pratiche,
norme e istituzioni che tutti noi conosciamo insieme collettivamente. Una conseguenza della partecipazione dei bambini
ad un terreno culturale comune è la capacità di assumere un punto di vista ‘oggettivo’ indipendente dall’agente.
L’attenzione congiunta e il terreno comune consentono agli individui di coordinare le proprie attività e di avere una
comunicazione efficacie. Si tratta di coinvolgimenti intersoggettivi alla base per la preparazione dei bambini alla
coordinazione con le prospettive altrui. Le abilità di proto conversazione dei più piccoli sono comuni e simili in tutte le
culture.
LA COORDINAZIONE DI PROSPETTIVE
Un presupposto fondamentale, è assodato, è che le abilità dei bambini di assumere una prospettiva nascono da
interazioni sociali strutturate dall’attenzione congiunta. L’attenzione congiunta implica quindi prestare attenzione alla
medesima cosa, ognuno dal proprio angolo visivo, per cui si avrà una prospettiva condivisa. L’assunzione di prospettiva
implica che il soggetto immagini più modi di percepire una data situazione. Il soggetto immagina l’esperienza dell’altro,
ma questa non fa parte della sua elaborazione mentale. Nel caso delle grandi scimmie che competono per il cibo con un
avversario, queste vedono “attraverso” la loro esperienza, non “come se fosse l’esperienza dell’altro. In definitiva un
soggetto privo di un’assunzione di prospettiva non può esaminare, né comparare l’esperienza dell’altro con la sua.
Semplicemente ha la sua esperienza di ‘competizione con l’avversario per ottenere il cibo. Un bambino che cresce in
isolamento sociale non potrà avere molteplici prospettive non avendo sperimentato l’attenzione congiunta. Esistono tre
tipi di interazione attenzionale congiunta: (1) tentativi di allineare le prospettive nelle primissime interazioni comunicative,
per lo più gestuali, (2) scambi di prospettive durante la conversazione a più turni in lingua convenzionale su un
argomento comune, (3) coordinare le prospettive conflittuali, contrapposte ad una prospettiva percepita come
“oggettiva”, che scaturiscono dalla conversazione, attraverso qualche tipo di regolazione esecutiva.
Allineare le prospettive
L’attenzione congiunta è una trattativa botta-risposta in cui i due partner hanno, oltre che obbiettivi e interessi comuni,
obbiettivi e interessi individuali. I singoli agenti prestano attenzione a cose rilevanti per i propri obbietti e,
inconsapevolmente, per i propri successi cognitivi. Nel caso della comunicazione cooperativa, situazione protipica, tra
infante e adulto: la trattativa interpersonale è caratterizzata dallo spostamento sequenziale dall’attenzione individuale
all’attenzione congiunta con il partner. “Ciò richiede un livello esecutivo di funzionamento in cui le due prospettive
potrebbero essere comparate in formato rappresentazionale per vedere se vi è, o meno, un allineamento.”
Scambi di prospettive
La comunicazione linguistica convenzionale è prospettica in ogni suo aspetto; le stesse costruzioni linguistiche sono
prospettiche: di un singolo evento posso dire, usando le stesse parole di base, un infinita sequenza di frasi da porre ad
un interlocutore. Il primissimo linguaggio infantile è fatto di poche e singolari espressioni e/o espressioni consecutive
sullo stesso referente. Questo permette la prima attenzione congiunta dei contenuti mentali. Lo scambio di prospettive –
tra infante e adulto – è essenziale al discorso linguistico affinché il bambino distingua la cosa, o la situazione, per come
è “oggettivamente”.
Coordinare prospettive in conflitto
Situazioni di conflitto su posizioni espresse linguisticamente tra partner in psicologia dello sviluppo si chiamano
“problemi di prospettiva”; Si presentano originariamente nei bambini a partire circa dai tre anni e mezzo. Si tratta della
coordinazione di tre prospettive – la tua, la mia e quella “oggettiva” - che rende possibile il riconoscimento di un
atteggiamento proposizionale del tipo “Io penso..” e che alcune prospettive sono ‘vere’ e altre ‘erronee’. E’ stato
analizzato che coordinare prospettive in conflitto con un parlante può causare difficolta in bambini fino a quattro o cinque
anni. Esperimenti sul successo dello sguardo anticipatorio in test sulla falsa credenza dimostrano che bambini di due
anni comparati alle grandi scimmie stabiliscono entrambi come si comporterà l’agente, e lo fa, sulla base delle sue
esperienze passate. Non vi è un conflitto da risolvere. Diverso è il caso nei bambini di cinque anni, dove il conflitto si
crea e si snocciola nei loro tentativi di distinguere l’esperienza soggettiva (apparenza, opinione, credenza) dalla
situazione oggettiva (la realtà, fatto, verità).
Assunzione della prospettiva visiva
Il test classico è la prova delle tre montagne di Piaget, ma più recentemente Moll e Meltzoff (2011) hanno proposto a
bambini di tre un’esperienza con un filtro cromatico ‘cambia colore’. Uno degli oggetti proposti era,
contemporaneamente, visto dall’altro lato da un adulto. I bambini possono comprendere come, da un’altra prospettiva, le
cose non appaiano come loro le vedono. Un altro testo classico: apparenza- realtà. Prevede che i bambini vedano
qualcosa che in realtà è qualcos’altro. Di nuovo, i bambini possono incontrare difficoltà fino a quattro anni e mezzo
all’interno di questa sorta di test o tracciamento simulato. Moll e Tomasello (2012) hanno modificato il test classico
apparenza-realtà; venivano comparati un oggetto ingannevole e un oggetto non ingannevole. I risultati sull’assunzione di
prospettiva: nei test classici, i bambini si limitano a scoprire un oggetto per volta, mentre nell’ultimo caso dovevano
scoprirlo simultaneamente, generando il conflitto con la situazione “oggettiva”.
I problemi di prospettiva nei test classici della cognizione sociale prescolare presentano prospettive in conflitto in
proposizioni con condizioni di verità. Vale a dire, i test prevedono il riconoscimento di una situazione oggettiva che
potrebbe simultaneamente apparire in modi diversi.
Di nuovo, la soluzione è riconoscere che ci sono due prospettive possibili sulla stessa cosa, ma in fondo, persino i
bambini piccoli di due anni sono motivati a correggere qualcuno che chiama un animale con il nome sbagliato, per cui
motivati a risolvere i conflitti di prospettive.
Costruire una prospettiva “oggettiva” è possibile soltanto al secondo passo dell’intenzionalità condivisa: l’intenzionalità
collettiva. Ciò richiede di postulare un tipo di oggettività invariante. E’ possibile perché il livello esecutivo del
funzionamento cognitivo rifugge il conflitto. Vedremo che i tre anni sono una sorta di spartiacque nel funzionamento
sociale orientandosi al ‘gruppo’.
Variazione individuale e culturale
I bambini con un deficit biologico come l’autismo incontrano enormi difficoltà nei test della falsa credenza e in altri
problemi di prospettiva. La teoria della mente di Baron e Cohen (1990-1997) si basa sulla nozione di cecità mentale.
Quest’ultima consisterebbe nell’incapacità di concepire, non solo le false credenze, ma anche
gli stati mentali altrui.

Nel compito degli occhi, le fotografie erano accoppiate con due parole che descrivevano uno
stato mentale. Una delle parole era lo
stato mentale corretto mostrato nella
fotografia e l'altra era un contraccolpo.
Ad esempio "felice" e "triste". Le
fotografie sono state tutte valutate da
una giuria di giudici indipendenti per
ottenere una parola Figura 1: "Eyes Task"di Baron e Cohen precisa e affidabile per ogni fotografia.
Come prima cosa, l’età i cui i bambini padroneggiano tali test della falsa credenza è, in un’ampia gamma di culture,
largamente simile. Come seconda cosa, nella cultura occidentale di classe media i bambini con uno sviluppo mentale
normale iniziano a comprendere le false credenze in una fascia d’età ristretta, tra i quattro e i cinque anni (Wellman,
2001). In definitiva, per ottenere uno sviluppo mentale normale occorre un ambiente in cui i bambini sperimentano la
comunicazione linguistica. Quest’analisi fa ricorso ad un sostegno; lo studio sull’addestramento di Lohmann e
Tomasello. Il coinvolgimento di atteggiamenti proposizionali e fatti potenziali oggettivi nei test e nella fase di
addestramento comporta, probabilmente, maggiori possibilità di successo. Forse questo discorso è più efficace se
avviene tra pari, non a caso, prove indicative derivano dal fatto che bambini con fratelli riescono meglio nei test di falsa
credenza rispetto a quelli senza. Nelle metanalisi di Devine e Hughes (2014) sono centrali i test di “flessibilità cognitiva”:
coordinare prospettive differenti implica una capacità di regolazione esecutiva del formato rappresentazionale. Anche
Diaz e Farrar (2017) e infine Fizke e collaboratori (2014) hanno scoperto che le relazioni, tra funzione esecutiva e
comprensione della falsa credenza, sono più forti quando l’agente è l’attributore stesso. Lo scontro di prospettive di
questi discorsi è propedeutico allo sviluppo dei processi di autoregolazione esecutiva. Questi processi esecutivi saranno
la struttura di nuove forme di comprensione.
DIVENTARE “OBBIETTIVI”
Stiamo sostenendo che ciò che trasforma la sub-mentalizzazione dell’infante in mentalizzazione del bambino di quattro
anni sono precisamente l’attenzione congiunta e la coordinazione delle prospettive. All’estremo opposto di questo
continuum teorico ci sono soluzioni che sottolineano il ruolo della cultura nell’ontogenesi e nella comprensione della
falsa credenza. Studiosi come Bruner (1983) e Kaye (1982) hanno sostenuto l’importanza di trattare gli infanti come
agenti intenzionali in quanto abili partner comunicativi; ‘ripetendo’ comportamenti nelle interazioni vis-a-vis con l’infante
si ‘agevola’ l’attenzione congiunta. Quanto alla falsa credenza, gli antropologi culturali insistono sul fatto che non tutte le
culture concepiscono i meccanismi di sviluppo della mente alla stessa maniera. Tutto ciò rappresenta però solo un
rivestimento del processo infantile più universale. Altre concezioni si collocano in due estremi tematici – i moduli innati e
l’istruzione da parte degli adulti – evidenziando l’apprendimento individuale e la costruzione cognitiva. Il primo passo è la
condivisione delle emozioni nelle proto-conversazioni – negli infanti intorno ai due mesi – che si evolve come modalità di
interagire con i propri adulti di riferimento. Anche i neonati delle grandi scimmie – seppur non avendo delle proto-
conversazioni – manifestano a loro volta verso i propri tutori delle espressioni emozionali dirette. L’ontogenesi viene a
caratterizzarsi, così facendo, come una trasformazione dello schema di base delle grandi scimmie.

Intenzionalità congiunta Intenzionalità collettiva


Motivazione affiliativa Cognizione di Autoregolazione Cognizione obbiettività Autoregolazione
duplice livello esecutiva esecutiva normativa
Attaccamento Inseguimento con lo
sguardo Coordinazione delle
Immaginazione stati prospettive
mentali
Condivisione emozioni Attenzione Allineamento/scambio Attenzione congiunta al
congiunta di prospettive contenuto mentale
Comunicazione Comunicazione
cooperativa linguistica convenzionale
0 anni 1 anno 2 anni 3 anni 4 anni

I bambini costruiscono, o co-costruiscono, dalle proprie esperienze socioculturali, e la natura generale di queste
costruzioni è stabilita dal livello di sviluppo delle abilità e dalle motivazioni della loro intenzionalità condivisa. E’
interessante guardare l’elemento di maturazione dal punto di vista dei deficit biologici caratteristici dei bambini con un
disturbo dello spettro dell’autismo. Questi bambini sembra avere la capacità di immaginare ciò che gli altri percepiscono.
Manifestano tuttavia una forma di sviluppo atipica lungo la via strutturata dall’intenzionalità condivisa, la cui gravità varia
ampiamente lungo lo spettro.
Implicazioni cognitive
La cornice strutturale più essenziale alla cognizione unicamente umana è: la realtà socialmente condivisa e le capacità
di manipolare e coordinare flessibilmente prospettive differenti. La costruzione di questa cornice concettuale da parte dei
singoli bambini avviene entro le loro interazioni d’intenzionalità condivisa con gli altri. Il mezzo attraverso il quale ciò
accade è il più delle volte cooperativo, e include la comunicazione linguistica.
4

LA COMUNICAZIONE
La struttura intenzionale- referenziale della comunicazione origina una serie di tipi di potenti coordinazione mentale e di
assunzione di prospettiva. Nell’ontogenesi il processo inizia precocemente nella rivoluzione del nono mese d’età. Con le
abilità di base dell’attenzione congiunta già in essere, tra gli undici e i dodici mesi gli infanti iniziano a produrre i gesti
indicatori, con l’obbiettivo immediato di stabilire l’attenzione congiunta verso una situazione referenziale. Determinare
l’attenzione corretta richiede un terreno culturale comune tra l’infante che indica e il suo destinatario. Questa di
comunicazione gestuale coincide con le abilità e le motivazioni di intenzionalità congiunta: attenzione congiunta, terreno
comune, motivazioni cooperative, inferenze ricorsiva (“tu intendi ciò che io penso”) e scambi di prospettive. La gestualità
iconica o mimica evoca il referente simbolicamente resi così convenzionali. Nell’ontogenesi i bambini non hanno bisogno
di rendere realmente convenzionali i simboli che adottano ma semplicemente vi si conformano. L’uso di queste abilità
linguistiche facilità, o permette, l’autoregolazione esecutiva attuale e futura del bambino. Ovviamente, ritornando alle
grandi scimmie, queste non comunicano con un linguaggio convenzionale come gli umani. Quando interagiscono con gli
umani possono imparare e apprendere un gesto indicatore, ma sempre in una versione più debole.
LE GRANDI SCIMMIE: LA COMUNICAZIONE INTENZIONALE
Benché la comunicazione vocale dei primati condivida ovviamente con la comunicazione linguistica umana il canale
vocale-uditivo, la comunicazione gestuale delle grandi scimmie condivide con la comunicazione linguistica umana
aspetti fondativi del suo modo di funzionare, vale a dire l’uso intenzionale e flessibile dei segnali comunicativi appresi.
La comunicazione gestuale nelle grandi scimmie
Le grandi scimmie impiegano due tipi di gesti intenzionali: i movimenti d’intenzione e i richiami d’attenzione. I movimenti
d’intenzione sono ad esempio, sollevare il braccio per iniziare un gioco e toccare la schiena della mamma per richiedere
di essere presi in braccio. Si tratta, in sostanza, di stenografie di azioni sociali vere e proprie, nel senso che il
comunicatore cerca di influenzare il comportamento del destinatario, interagendo. Il richiamo d’attenzione, invece,
potrebbe essere unico nei primati, o addirittura nelle grandi scimmie. Esempi sono lo sbattere le mani a terra, lanciare
oggetti, per attirare l’attenzione del destinatario verso il comunicatore. La funzione dell’atto comunicativo, in questi casi,
risiede nell’esibizione involontaria. Le grandi scimmie, interagendo con gli umani, possono apprendere dei gesti
indicatori per delle cose che vogliono avere o per luoghi a cui vogliono accedere. Come vedremo, questi due tipi di gesto
sono il fondamento evolutivo, rispettivamente, della mimica e dei gesti indicatori dei bambini.
I bambini
Analogamente alle grandi scimmie, anche gli infanti, intorno ai sei mesi di vita, producono gesti o movimento del corpo
ritualizzati: sollevare le braccia per essere verso l’adulto per essere presi in braccio. Liszkowski e Tomasello (2011)
hanno scoperto che questo gesto ha un intento esclusivamente (1) imperativo e non-informativo, (2) mirano a regolare
l’attenzione in un’interazione diadica tra l’autore del gesto e il destinatario, quindi non verso una terza entità. In generale,
i gesti ritualizzati degli infanti umani compaiono più o meno nello stesso periodo di sviluppo dei gesti ritualizzati delle
grandi scimmie. In entrambi i casi, tali gesti derivano da particolari interazioni sociali. Così, gli infanti ereditano
filogeneticamente una capacità di ritualizzare gesti e comportamenti, benché si tratti chiaramente di una ritualizzazione
appresa individualmente.
LA COMUNICAZIONE COOPERATIVA – Il gesto indicatore
A cominciare dal primo anno di vita gli infanti umani usano indicare con il dito per tre motivazioni fondamentali: (1)
chiedere aiuto al destinatario, (2) offrire informazioni utili al destinatario (3) esprimere un atteggiamento che, si
augurano, il destinatario condividerà.
Il gesto indicatore espressivo
Dalle ricerche di Werner e Kaplan (1963), e in seguito con Bates (1976) e Bruner (1974), è unanime il riconoscimento
della finalità del gesto indicatore come semplice condivisione di un interesse. Si tratta del processo di base di
condivisione delle emozioni che si estende referenzialmente. Il referente può non essere solo l’oggetto ma l’intera
situazione. Quando l’adulto ricambia l’emozione dell’infante, reagendo al gesto indicatore, gli infanti tendono di più a
ripetere e ritualizzare il gesto indicatore.
Il gesto indicatore richiestivo
Molti atti linguistici umani sono rivolti ad un obbiettivo imperativo; ossia l’infante vuole che il destinatario faccia qualcosa.
Ciò è possibile solo se si ritiene vicendevolmente che gli interagenti presumano che l’altro sia un essere cooperativo.
Grosse e collaboratori (2010) hanno effettuato uno studio sulle richieste imperative degli infanti che si esprimono tramite
il pianto oppure tramite il gesto indicatore. Quando l’adulto rispondeva correttamente alla richiesta, ad esempio
porgendo all’infante l’oggetto desiderato e interpretando correttamente la richiesta verbale, il bambino non ripeteva né
rettificava la richiesta. Bensì quando l’adulto fraintendeva o interpretava male, i bambini erano maggiormente propensi a
rettificare e riesaminare la loro richiesta. Ciò implica che i bambini confidano nel fatto che gli adulti stanno cercando di
essere accondiscendenti con loro e che vogliano aiutarli.
Il gesto indicatore informativo
Gli esseri umani indicano situazioni agli altri in modo altruistico semplicemente per offrire loro delle informazioni utili, non
per sé, ma per loro. Liszkowski e collaboratori (2006) hanno simulato, con dei bambini di dodici mesi, una situazione
tipica: un genitore inizia a cercare un oggetto smarrito. In queste situazioni, gli infanti indicavano, seppur erroneamente,
luoghi o oggetti dove pensavano di vedere l’oggetto in questione. Bullinger e collaboratori (2011) hanno simulato la
medesima situazione con gli scimpanzè, e hanno riscontrato che essi indicavano soltanto per richiedere qualcosa per sé
e non per aiutare l’altro. C’è da dire che le grandi scimmie non sanno fare inferenze sul comportamento altrui ma sono in
grado di fare inferenze competitive sul cibo. In questi compiti di scelta le grandi scimmie sono in netto contrasto con il
comportamento umano.
I fondamenti cognitivi
Il punto essenziale, per quanto riguarda l’inferenza, è che siano usate nella comunicazione cooperativa e che siano
socialmente ricorsive. Per comprendere un gesto informativo, così com’è inteso, occorre uno scambio di informazioni tra
individui che fanno inferenze sulle intenzioni del partner verso i miei stati intenzionali. Queste indagini si svolgono
prevalentemente nei test di scelta dell’oggetto. Le inferenze nella comunicazione cooperativa, indagate da Liebal e
collaboratori (2011), sono socialmente ricorsive che, a quanto pare, le grandi scimmie non fanno. Queste inferenze
richiedono un salto abduttivo: il gesto indicatore dell’adulto verso l’oggetto da scegliere ha senso solo se è vero che egli
prevede che il bambino sa dov’è l’oggetto. Per fare ‘intendere’ il bambino il comunicatore deve effettuare una
simulazione per indurlo a immaginare nella maniera stabilita. Nella stessa direzione abbiamo poi il fenomeno della
“marcatezza” che si riferisce al linguaggio ma anche alla comunicazione non linguistica. In questi casi il bambino pensa
al pensiero dell’adulto su ciò che il bambino stesso pensa. Altro tipo importante di inferenza nella comunicazione degli
infanti è l’inferenza per esclusione. Moll e collaboratori (2006) hanno simulato un gioco tra infanti dai quattordici ai
diciotto mesi con un adulto e una batteria giocattolo. Quando l’adulto con cui avevano appena giocata indicava la
batteria gli infanti non presumevano si riferisse a quest’ultima ma piuttosto a qualcosa di nuovo. Viceversa, se entrava
nella stanza un nuovo adulto e questo indicava la medesima batteria i bambini la indicavano con entusiasmo nello
stesso modo. In definitiva, gli infanti facevano inferenza che l’adulto, poiché desiderava essere informativo, non indicava
con entusiasmo qualcosa di già condiviso, bensì qualcosa di nuovo.
Gesti iconici e finzione
I gesti iconici e la mimica sono un’altra modalità con cui il bambino segnala, con le sue azioni corporee, di voler
condividere l’attenzione verso qualcosa. Le grandi scimmie non effettuano gesti iconici di questo tipo, perché non
capiscono la comunicazione marcata ostensivamente come “per te” (cooperativamente). Gli infanti iniziano ad usare
questi gesti già intorno al primo anno di vita. Iverson e collaboratori (1994) hanno sperimentato che, gesti come scuotere
la testa per dire “no”, questi ‘segni infantili’ sono semplicemente imitati dagli adulti e creati spontaneamente, ma non per
questo privi d’interesse. Per produrre questi gesti simbolici gli infanti hanno bisogno di alcune abilità d’imitazione,
rappresentazione e simulazione o finzione, prodotti per scopi di comunicazione interpersonale. Nella normale ontogenesi
la predisposizione biologica degli esseri umani a rappresentare iconicamente entità o azioni assenti per scopi
comunicativi tramite la modalità gestuale è rimpiazzata progressivamente dall’acquisizione del linguaggio. Nella teoria
della doppia rappresentazione di DeLoache (2000), i bambini hanno forse difficoltà a rappresentare un oggetto come
oggetto e come simbolo al contempo. In generale però, quando un individuo usa un gesto di martellamento per
richiedere un martello, tutto questo sarebbe molto simile a usare il sostantivo “martello”.
Variazione individuale e culturale
Lo studio di Baron e Cohen del 1989 ha riscontrato che, quando si guarda a ritroso il processo di sviluppo di un bambino
autistico, quasi tutti i bambini con questo deficit non sapevano indicare espressivamente quando erano infanti. In un
secondo studio, Lieven e Stoll (2013) hanno comparato il comportamento indicatore d’infanti dagli otto ai quindici mesi di
cultura occidentale industrializzata e di cultura rurale su piccola scala in Nepal, e hanno riscontrato un’età d’insorgenza
simile in entrambe le culture. In altri esperimenti, gli infanti venivano addestramenti a seguire visivamente il gesto
indicatore della madre. L’addestramento influenza una migliore comprensione della relazione finzione-realtà. Nonostante
il fenomeno si manifesti spontaneamente nello sviluppo normale, la frequenza con cui partecipano a queste attività può
incidere negativamente. In questo ambito, è importante la continuità funzionale tra i gesti e l’acquisizione delle parole.
Kachel e collaboratori hanno riscontrato che, a diciotto mesi, se il partner adulto, piuttosto che un suo pari, regge
l’interazione tra i gesti e le parole la comunicazione sarà più efficace.
LA COMUNICAZIONE CONVENZIONALE
La comunicazione linguistica è un’estensione dei gesti naturali. Sono entrambi un invito a partecipare ad una situazione
esterna cooperando. Come differenza vi è il fatto che la comunicazione linguistica realizza funzioni mediante le
convenzioni sociali. Il bambino, per apprendere un linguaggio, necessita di due abilità: (1) la lettura dell’intenzionalità, si
riferisce al significato e implica attenzione congiunta, terreno comune e un’inferenza socialmente ricorsiva; (2) la
scoperta dello schema, si riferisce alla struttura o grammatica del processo e include la categorizzazione corretta,
l’apprendimento in sequenza e l’analogia.
Acquisire parole
I bambini occidentali più precoci producono le prime parole intorno ai dodici-quattordici mesi. A quest’età i bambini
hanno già acquisito le seguenti abilità: (1) attenzione congiunta su un referente esterno espresso non linguisticamente,
(2) una solida comprensione delle intenzioni comunicative altrui e (3) la capacità di esprimersi attraverso i gesti. Questa
possibilità, di sviluppare e acquisire nuove parole, sarebbe rinforzata qualora la madre esprimesse entusiasmo, o
usasse un gesto per evidenziare la nuova parola. Si tratta della teoria socio pragmatica dell’apprendimento di nuove
parole di Bruner 1983) e Tomasello (1992, 2003). Inoltre, i bambini apprendono più facilmente nuove parole in casi di
interazione attenzionale congiunta. Anche in contesti di contiguità spazio-temporale con la presenza di ‘oggetti
distrattori’, ossia non sono gli oggetti da ‘scoprire’, l’oggetto ‘bersaglio’ viene ugualmente a rientrare nel focus di
attenzione del bambino. L’apprendimento delle parole non consiste semplicemente nell’opposizione entusiasmante di
etichette sulle cose, ma piuttosto si tratta più spesso di apprendere segni convenzionali all’interno di un flusso sociale
complesso. Acquisire le parole di una lingua convenzionale può incidere sulla abilità cognitive future e sulle capacità
d’inferenza del bambino.
Transizioni nel linguaggio intorno ai tre anni
Il dispiegarsi di nuove abilità linguistiche dopo i tre anni riflette le capacità emergenti d’intenzionalità collettiva del
bambino. Un presupposto sarebbe che i bambini generalizzano molte cose, ma molte altre no. Innanzitutto, la
convenzionalità implica anche un grado di normatività: esistono modi corretti e non per usare una lingua. Rakoczy e
Tomasello (2009) hanno scoperto che i bambini di tre fanno selettivamente appello al ‘vero’ quando qualcuno pronuncia
erroneamente una parola. Sebbene non ne siano consapevoli, già a due anni adoperano questa convenzionalità, ma la
comprendono pienamente solo a tre anni. Da un punto di vista cognitivo le rappresentazioni astratte danno ai bambini
un nuovo tipo di formato convenzionale, sintagmaticamente organizzato per la rappresentazione cognitiva.
Inevitabilmente servono dei marcatori per permettere di stabilire analogie tra gli enunciati e formare costruzioni astratte. I
comunicatori indicano, mediante vari dispositivi linguistici, il loro “atteggiamento” modale o epistemico verso un
contenuto proposizionale in un enunciato verbale. L’indipendenza del contenuto proposizionale incoraggia la
concettualizzazione dello stesso

Autoregolazione esecutiva del discorso


All’inizio il processo è una sorta di ‘negoziato dialogico’ in cui il bambino si esprime, l’adulto fraintende e chiede
chiarimenti e poi il bambino apporta qualche ‘riparazione’. Il bambino sta effettuando un automonitoraggio sulla base del
feedback dell’ascoltatore. L’analisi vygotskijana dichiara che questo processo inizia a livello interpersonale per diventare
intrapersonale in uno stadio successivo dello sviluppo. La regolazione esecutiva del discorso ‘costringe’ e li predispone a
costruire strategie di discorso sensibili verso l’ascoltatore. Questo automonitoraggio è propedeutico alla comprensione
futura della comunicazione razionale, vale a dire in conformità con le norme di razionalità della cultura.
[…] BREVE DIGRESSIONE: Il linguaggio di Kanzi e altri (pag. 139)

Variazione individuale e culturale


I deficit biologici che riguardano i processi di maturazione dell’acquisizione del linguaggio sono svariati: per esempio i
deficit cognitivi generali come la sindrome di Down che è un disturbo dello sviluppo pervasivo. Altri deficit specifici del
linguaggio, come nel caso dell’autismo, sono il risultato, o l’effetto-domino, della mancata capacità di stabilire
l’attenzione congiunta e di scambiare prospettive. Mannle e collaboratori (1992) hanno scoperto inoltre che, d nuovo,
poco prima dei tre anni i bambini sono adatta molto di più a interagire linguisticamente con gli adulti, piuttosto che con i
loro pari. Comunicare e coordinarsi mentalmente con i propri pari richiede un apprendimento ulteriore.
DIVENTARE SIMBOLICI
Qualunque infante umano che si sviluppa in modo normale in qualsiasi cultura umana che funziona normalmente può
acquisire le sue convenzioni linguistiche. Questo apprendimento del linguaggio si basa su capacità cognitive e sociali
con abilità di apprendimento evolute biologicamente. Chomsky e i suoi seguaci hanno sostenuto un modello ‘innatista’ a
guida dell’acquisizione del linguaggio. In sostanza, l’idea è che l’apprendimento della cosiddetta ‘grammatica universale’
sia innata. Quest’ipotesi sarà poi contraddetta da indagini cross-linguistiche ed empiriche che non hanno riscontrato
alcun tipo di struttura universale del linguaggio. La prospettiva ‘comportamentista’, invece, sostiene che l’apprendimento
è contestuale all’acquisizione del linguaggio. In una ‘terra di mezzo’ tra le due teorie si colloca invece la teoria socio
pragmatica del linguaggio – ad esempio la teoria dell’intenzionalità condivisa – che sostiene l’importanza dei processi di
maturazione (indicazione e imitazione basate su motivazioni d’intenzionalità condivisa). Nella terza fase dell’ontogenesi,
che subentra con i tre-quattro anni, i bambini comprendono molte pratiche culturali e le rispettano come accordi tra
individui. Durante questo processo sono sensibili al feedback del comunicatore e, potremmo dire, coinvolge il bambino
nella sua interezza. Le dimensioni essenziali dal punto di vista cognitivo, ripetiamolo: abilità e motivazioni d’intenzionalità
condivisa. Si tratta di una capacità volutasi con la specie umana. Va da sé che un bambino cresciuto su un’isola deserta
non sarebbe evolutivamente attrezzato sotto tutti i punti di vista: lato biologico e lato culturale. Cresciuto in isolamento
sociale, probabilmente il bambino, avrebbe solo la componente genetica che non verrebbe sviluppata. Le lingue
convenzionali sono il prodotto vygotskijano per eccellenza: sollecitano una conformità alle loro convenzioni e danno
simultaneamente all’individuo la forza per superarle.
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APPRENDIMENTO CULTURALE
All’interno di un gruppo culturale ciascun membro trae vantaggio dalle idee e dalle risorse altrui. Le grandi scimmie
hanno abilità di apprendimento sociale, e alcuni di questi primati stabilisco delle ‘tradizioni’ comportamentali. I bambini,
invece, non si limitano all’apprendimento culturale per compiti strumentali ma si conformano completamente ad essi,
nelle modalità con cui si strutturano nel gruppo. I bambini imparano “attraverso” l’altra prospettiva che assumono.
Quando interiorizzano il processo di istruzione, i bambini imparano a normativizzare gli standard del gruppo. Allo stesso
modo le persone si copiano a vicenda, si conformano per adattarsi ad un gruppo.
LE GRANDI SCIMMIE: APPRENDIMENTO SOCIALE
Buona parte dei mammiferi e dei primati acquisiscono informazioni individualmente; in molti casi imparano seguendo il
branco dove trovare l’acqua, ma tra di loro non si stanno insegnando alcunché. L’individuo sfrutta le conoscenze degli
altri, ma non coopera con loro. Alcune differenze nel comportamento dipendono dalla specie, oppure da differenze
ecologiche. Il problema di etichettare questi processi come ‘cultura’ sta nel fatto che potrebbero esserci delle sottili
differenze ecologiche tra popolazioni. In diversi casi Whiten e collaboratori (2005) hanno scoperto, in merito al cosiddetto
apprendimento per emulazione, che gli scimpanzè prestano più attenzione alle azioni altrui quando l’attore è un altro
membro del loro gruppo. Si tratta di una forma di apprendimento sociale, seppure debolmente sociale. Tomasello e
collaboratori (1997) hanno ottenuto una svolta interessante con scimpanzè allevati dall’uomo (scimpanzè acculturati).
Questi manifestavano una tendenza leggermente maggiore ad emulare il comportamento altrui. In definitiva queste
creature hanno appreso e acquisito questi segni gestuali di tipo umano non per imitazione, ma piuttosto per modellaggio
e per rinforzo. Una possibile spiegazione sarebbe che osservando le azioni strumentali, le grandi scimmie e gli esseri
umani, tendono a concentrarsi sull’esito, piuttosto che sull’azione in sé. Certamente i bambini partecipano a tali analisi
più abilmente e naturalmente degli scimpanzè.
I bambini
Secondo il cosiddetto “paradigma dei tentativi falliti” gli infanti già a dodici mesi riproducono le azioni reali e ciò che
intendono tali azioni. I test di Tomasello e Carpenter (2005) verificavano, su un campione di scimpanzè allevati
dall’uomo: (1) imitazione diretta, tramite la quale imparavano una nuova azione, (2) imitazione di azioni intenzionali
versus azioni accidentali, (3) la riproduzione di azioni intese in un paradigma di tentativi falliti, (4) la riproduzione dello
stile di un’azione e (5) l’imitazione razionale. Innanzitutto, un fatto distintivo è il modo marcato con cui tali capacità sono
influenzate dall’interazione umana, ma, nonostante ciò, si registra nuovamente uno slittamento dell’età di sviluppo di
queste abilità tra scimmie e umani. Nel caso dell’infante umano, lo sviluppo dell’imitazione coincide con i dodici mesi di
vita. Invece nel caso delle grandi scimmie l’apprendimento imitativo non si manifesta prima dei due anni e mezzo.
IMITAZIONE E CONFORMITA’
Poco dopo il primo anno gli infanti iniziano a partecipare a forme di apprendimento culturale con scambi di prospettiva. Il
fenomeno si chiama “imitazione con inversione dei ruoli”; Carpenter e collaboratori (2005) hanno scoperto che i bambini
rispondevano molto spesso per imitazione ad un adulto che agiva sul loro corpo. La questione è in realtà più generale.
Quando si coinvolgono a vicenda in un’attività, i membri di un gruppo culturale imparano l’attività da entrambe le parti,
imparano entrambi i ruoli, in un modo che le grandi scimmie non fanno. L’imitazione con inversione dei ruoli permetterà,
a ciascuno di noi in futuro, di svolgere entrambi i ruoli.
Imitazione sociale
Uno dei modi principali in cui gli infanti si affiliano ad un gruppo, con gli altri – a cominciare dalla sintonizzazione emotiva
e dall’attenzione congiunta – è allineando a loro gli stati psicologici. Kinzler e collaboratori (2011) hanno scoperto che i
bambini sono più propensi ad imitare le azioni di un membro del proprio gruppo di appartenenza. L’obbiettivo del
bambino sarà sempre imparare qualcosa di utile e scopriranno progressivamente che allineare azioni, emozioni e
attenzione facilita il legame sociale.
Conformità agli altri o al gruppo
Talvolta i bambini per conformarsi al gruppo possono completamente ignorare la conoscenza acquisita in precedenza.
Gli studi sulla cosiddetta super-imitazione sociale dimostrano anche una forte componente sociale nell’apprendimento
imitativo dei bambini. Horner e Whiten (2005) hanno dimostrato che gli scimpanzè tendevano a ignorare azioni reputate
causalmente irrilevanti, mentre i bambini tendevano a riprodurle a prescindere dalla loro efficacia. Questi risultati
potrebbero accordarsi con l’ipotesi che le dimensioni trasmissive della cultura pervengano ai bambini dagli adulti in
modo del tutto naturale.
Variazione individuale e culturale
Callaghan e collaboratori (2011) hanno somministrato un test d’imitazione a infanti in tre ambiti culturali differenti. Ne
hanno tratto la conclusione che l’apprendimento imitativo sia presente in tutte le culture. Potrebbero esserci sottili
differenze culturali ma il modo si impara per imitazione è universale umano. I bambini con autismo, come dimostrano
Hobson e Lee (1999), sono meno abili nell’imitazione rispetto al modo tipico della specie.
APPRENDIMENTO ISTRUITO
L’istruzione è insegnamento attivo da parte di un adulto, estremamente raro nel mondo animale. Per esempio, le
mamme leonesse “insegnano” ai cuccioli a cacciare ma tra i primati solo l’essere umano insegna ai propri giovani.
Naturalmente molti animali posso essere educati, addestrati a fare cose di ogni genere tramite premi e rinforzi positivi,
ma in tal caso non si tratterebbe di apprendimento istruito. Quest’ultimo richiede che l’allievo abbia fiducia
nell’insegnamento e che generalizzi le informazioni in modo appropriato alla società. Gli adulti usano, nell’ambito di
nostro interesse, gli stessi tipi di segnali ostensivi (come il contatto visivo o la pronuncia del nome del bambino) usati in
altre forme di comunicazione cooperativa.
Testimonianza e fiducia
Haux e collaboratori (2017) hanno sperimentato la predisposizione infantile a dare fiducia alle informazioni provenienti
dagli adulti di riferimento, aderendo a quell’insegnamento in modo quasi esclusivo. Ciò non accade invece per le grandi
scimmie o per gli scimpanzè che sembrano non comprendere l’intenzione comunicativa. I bambini, ad un certo punto,
devono addirittura sviluppare una sorta di “vigilanza epistemica” per testare l’attendibilità della fonte dell’informazione.
Pedagogia e apprendimento istruito
Esistono diverse forme elementari d’istruzione e un recente progresso teorico è avvenuto nell’ambito della teoria della
pedagogia naturale. L’idea è che i bambini siano evolutivamente predisposti ad essere istruiti tramite comunicazione
cooperativa. Come dimostrato da Csibra e Gergely (2009, 2011), gli infanti umani sono estremamente sensibili anche ai
segni di comunicazione ostensiva. Si tratta di una sorta di sensibilità all’atteggiamento pedagogico. Il risultato è che
dopo un apprendimento istruito i bambini hanno maggiore probabilità di generalizzare quell’apprendimento in altri
contesti differenti da quello originario. Naturalmente i bambini avvertono che l’insegnamento proviene da una sorta di
rappresentante autorevole all’interno del gruppo, e questo ha una funzione generalizzante ma soprattutto segna i
contenuti come culturalmente attendibili.
Apprendimento autoregolato
Alcune prove hanno reso evidente che i bambini prescolari possono imparare qualcosa e, per trasmissione, insegnarlo
ad un altro bambino. Una volta che si è interiorizzata la norma del gruppo culturale, la si può trasmettere ai propri pari,
ma soprattutto questa può dirigere l’attenzione verso le cose e autoregolare le proprie attività di problem solving
istruendo sé stessi. In uno studio recente, Herrmann e collaboratori (2015) hanno somministrato una batteria di test di
autoregolazione a scimpanzè e bambini dai tre ai sei anni. I risultati dimostrarono che i bambini di tre anni e gli
scimpanzè si autoregolavano allo stesso modo, mentre i bambini di sei anni si comportavano in modo totalmente
diverso. Alcuni studiosi sostengono che l’interiorizzazione sia un processo misteriosi in quando non vi è un meccanismo
concreto che la causa. Mentre Tomasello (1993) sostiene che l’imitazione per inversioni di ruoli coincide con
l’interiorizzazione. Si tratta di un processo cruciale per l’intenzionalità condivisa che permetterà di rispondere in modo
funzionale alla cultura circostante.

DIVENTARE CONSAPEVOLI
Chiaramente l’imitazione neonatale non è sufficiente per le forme più complesse di apprendimento culturale. Occorre
aggiungere l’intenzionalità condivisa, l’assunzione di prospettiva e la capacità di vedere “oggettivamente”. L’istruzione
rappresenta per l’umano un evoluzione culturale cumulativi ed irreversibile, cosa che invece non accade per le grandi
scimmie. Le abilità sociocognitive uniche degli umani creano la possibilità dell’imitazione con inversione dei ruoli che,
come abbiamo detto, è cruciale per la creazione di convenzioni sociali. Gli esseri umani partecipano all’imitazione
sociale per affiliarsi entro un gruppo; la pedagogia degli adulti garantisce che i bambini imparino il necessario per
sopravvivere e per prosperare. Questi processi spiegano perché, mentre gli scimpanzè hanno tradizioni
comportamentali che durano da generazioni, gli esseri umani vivono al centro di processi di evoluzione culturale
cumulativa ma che cambiano inesorabilmente. L’interiorizzazione permette di comprendere se le proprie azioni sono
buone o meno tramite l’autoregolazione. Le nuove conoscenze vengono continuamente costruite, non semplicemente
trasmesse, anzi, co-costruite socialmente.

IL PENSIERO COOPERATIVO
La partecipazione congiunta e il coordinamento delle credenze che subentra nei bambini dai cinque ai sei anni dà
l’impulso ad una nuova attività cognitiva: il reason giving, il fornire le buone ragioni. Per giustificare le proprie credenze a
fronte di possibili critiche, le ragioni vengono valutate normativamente come valide, o come non valide. In età scolare i
bambini imparano a collaborare per la risoluzione dei problemi. Da ciò deriva il fenomeno della presa di decisioni
coordinate allo scopo. Si tratta di un’analisi delle capacità dei bambini di costruire argomentazioni da più prospettive. La
capacità di co-operare in questo modo che convince gli adulti che essi sono entrati nell’”età della ragione” e quindi sono
pronti per l’istruzione formale.
Il pensiero individuale nelle grandi scimmie
A fronte di un problema a cui non sono attrezzate le grandi scimmie sanno pensare. Categorizzano la loro esperienza in
rappresentazioni iconiche astratte di entità o situazioni. Sanno manipolare queste rappresentazioni tramite delle
inferenze: causali, intenzionali e logiche. Le loro inferenze sono organizzate in paradigmi logico-strutturati dal proto-
condizionale (del tipo “se...allora”). Il compito più studiato di problem solving applicato alle scimmie è quello della
permanenza dell’oggetto. Abbiamo assodato quindi che le grandi scimmie attraversano i medesimi cinque stadi dello
sviluppo dei bambini. Emblematico, a tal proposito, è il test socio cognitivo di problem solving somministrato da Wobber
e collaboratori (2013) a scimpanzè e bambini dai due ai quattro anni.
I bambini
Nel comunicare con gli altri, i bambini piccoli devono fare inferenze ricorsive: “Intende che io so dov’è il giocattolo”.
Quando gli infanti auto monitorano i tentativi di comunicazione affinché siano comprensibili all’ascoltatore. Questo tipo di
auto monitoraggio sociale è un’attività cognitiva unicamente umana e non di altri primati. Affinché nei bambini prescolari
si completi la costruzione di una razionalità basata sull’intenzionalità condivisa occorrono altri elementi cognitivi. Le
interazioni con i pari sono fondamentali. Piaget (1965-77) sosteneva che durante l’interazione tra pari i bambini non
provano deferenza o rispetto, non essendo un adulto l’interlocutore, perciò, questo status di equivalenza, permette loro
di costruire un vero dialogo.
IL RAGIONAMENTO COLLABORATIVO
L’attività collaborativa più frequente nei mammiferi, come le grandi scimmie, è la coalizione o l’alleanza per scontri con
altri membri del gruppo. Il gruppo di caccia degli scimpanzè è sostanzialmente opportunistico. Per loro una
collaborazione come un ‘noi’ è complessa. Brownell e Carriger (1990) hanno osservato coppie di infanti di diciotto mesi
collaborare in un compito per ottenere un premio. A ventiquattro mesi i bambini erano nettamente più abili. E’ emerso
che i bambini più grandi collaboravano più ‘attivamente’ per l’obbiettivo del gioco. Cognitivamente, il ruolo del partner
aumenta d’importanza con l’età. Quale interpretazione trarre da questi risultati? Innanzitutto, tutti i giochi competitivi
prevedono delle regole cooperative e ciascun partner gioca per vincere. I bambini di tre anni sono ancora privi dell’abilità
di coordinazione esecutiva delle regole con il partner. Secondo l’ipotesi di Piaget, il problem solving collaborativo
coinvolge i pari in una forma di assunzione di prospettiva che prevede un’interazione attenzionale congiunta più
complessa, basata anche sulla comunicazione verbale. Kuhn (2015) è giunto alle seguenti conclusioni: (1) la
collaborazione produttiva tra pari in età scolare favorisce lo sviluppo cognitivo meglio dell’istruzione degli adulti, (2) sono
produttive solo le collaborazioni in cui i soggetti partecipano attivamente coinvolti, (3) è fondamentale che la coppia
produca una rappresentazione condivisa del problema e (4) il discorso argomentativo tra pari – aventi status di
equivalenza – finisce per incorporare un meta-discorso ugualmente funzionale rispetto al discorso con gli adulti. Una
conclusione sarebbe che i giovani prescolari ragionano su un problema più in parallelo che collaborativamente. La
questione si modifica progressivamente dopo i cinque-sei anni; a quest’età il coinvolgimento della prospettiva altrui
diventa fondamentale.
Fornire le ragioni e la giustificazione
Mercier e Sperber (2011) hanno proposta una nuova teoria della giustificazione della conoscenza fondata
sull’evoluzione umana. L’ipotesi è che, con il crescere delle popolazioni umane, i problemi di fiducia epistemica
diventano più frequenti. Valutare l’attendibilità delle informazioni, o della conoscenza del nostro interlocutore sconosciuto
comporta una maggiore “vigilanza epistemica”. A tal proposito Mercier e collaboratori (2016) hanno scoperto che i
bambini di tre, cinque e otto anni identificavano correttamente quando qualcuno cercava di fornire loro una ragione
inadeguata per credere a qualcosa. I bambini credevano di più ad una proposta sostenuta da un ragionamento debole e
circolare piuttosto che da nessuna ragione. Koymen e Tomasello (2018) hanno poi riscontrato che, bambini di cinque
anni, di fronte a fonti di attendibilità differenti riuscivano ugualmente a trarre, argomentando con meta-discorsi, la
conclusione corretta. Il dialogo razionale ha una natura cooperativa nell’essere umano; essere ragionevoli significa
essere cooperativi nelle proprie interazioni epistemiche. Alcuni studi sulla variazione individuale o culturale nel problem
solving cooperativi tra bambini piccoli con i pari riguardano la comparazione tra un retroterra Maya ed uno occidentale.
Le uniche differenze nel comportamento consistono nel fatto che i bambini Maya sono abituati a stare tra coetanei e
tendono ad agire di gruppo, mentre i bambini occidentali si approcciano ai problemi in modo più diadico o individuale
(Mejia & Araux, 2007).
PRESA DI DECISIONE COORDINATA
L’esempio classico di presa di decisione coordinata sono i problemi di coordinamento, nell’accezione della teoria dei
giochi di Schelling (1960). In questo caso i partner svolgono in “incontro di menti”. Un gioco di coordinamento prevede:
(1) gli individui devono collaborare con gli altri per ricavare un vantaggio comune, (2) i vantaggi sono maggiori di quelli di
qualsiasi alternativa solitaria, (3) ogni alternativa solitaria deve essere abbandonata al fine della collaborazione. Un
gioco di coordinamento tipico degli scimpanzè è la caccia al cervo. Duguid e collaboratori hanno presentato a coppie di
scimpanzè e a coppie di bambini di quattro anni il gioco di coordinazione molto semplice: aprire una scatola dopo aver
scoperto la presenza di due pulsanti che, toccati più o meno simultaneamente, aprivano la scatola. Tutto avveniva alla
luce del sole ed era possibile, per i bambini, comunicare. Questo fece la differenza nei risultati della comparazione.
Secondo Schelling si tratta di un ‘fattore di rilevanza reciproca che permette il ‘puro coordinamento’. Infine, Gruneisen e
collaboratori (2015) hanno scoperto che, in tali situazioni di coordinamento, i bambi piccoli partecipavano ad una lettura
ricorsiva della mente: “Non solo lui sa che x è rilevante ma sa che x è rilevante anche per me”. Molto probabilmente, la
stretta relazione tra coordinamento, comunicazione e lettura ricorsiva della mente ha una spiegazione evolutiva. La
ricerca collaborativa del cibo è stata la sfida adattativa da cui sono scaturite le forme di comunicazione e i tentativi di
allineamento delle prospettive all’interno del gruppo. Dai quattro ai sei anni, i bambini padroneggiano già molte
costruzioni linguistiche. Per esempio, la proposizione “penso che sia nella scatola” è una simbolizzazione della
comprensione fattuale di cose di cui persino lo scimpanzè è capace. Poi però il bambino simbolizza anche
l’atteggiamento proposizione ‘io penso’ che evidenza la sua incertezza. Infatti, quando evidenziamo che qualcosa
sembra vero o appare vero, stiamo evidenziano la possibilità che questo non sia vero da una prospettiva oggettiva.
Quando si danno a giovani scimpanzè blocchi di colore e di forme differenti da sistemare, loro spontaneamente li
classificano in modo molto simile all’umano. Un altro concetto importante è il concetto di numero. Le grandi scimmie
dispongono di molte abilità per giudicare la quantità. Ma i bambini fanno qualcosa in più; comprendono il concetto di
numero nell’ambito di un sistema numerico. Classico è il test piagetiano della conservazione del numero in cui i bambini
capiscono spontaneamente il numero di elementi di un insieme a prescindere dalla loro organizzazione spaziale. I
migliori risultati in questi test sono ottenuti da bambini di almeno cinque o sei anni, perché richiedono di coordinare
simultaneamente gli aspetti cardinali (tutti gli insiemi di n cose) e ordinali (n è più piccolo di n+1). Comunque sia, persino
le valutazioni non verbali delle abilità di autoregolazione cognitiva nei bambini, che implicano, ad esempio, la persistenza
attraverso i fallimenti, la resistenza alle distrazioni e l’inibizione di strategie inefficacie, aumentano significativamente fra i
tre e i sei anni. Quando acquisiscono una padronanza del materiale concettuale fornito loro dalla cultura, i bambini
diventano più bravi a coordinare questo materiale e valutarlo da prospettive differenti.
DIVENTARE RAGIONEVOLI
I bambini in età scolare acquisiscono un’immensa quantità di conoscenze e abilità specifiche della loro cultura. Queste
abilità, però, avrebbero scarsa efficacia qualora i bambini non fossero già capaci di ordinare prospettive sulle cose,
fornire ragioni basate sulle norme delle proprie decisioni, e di pensare in modo cooperativo con i pari nel problem solving
e nel decision making. Nella scienza cognitiva, la metafora dominante del processo di pensiero è la computazione. Una
macchina computazione è capace di eseguire le attività cognitive proprie dell’uomo? Lo stesso discorso vale per
l’ontogenesi: come il programma genetico umano è diventano differente sistematicamente da quello di altre grandi
scimmie? La spiegazione ha implicato una cognizione sociale unicamente umana nella forma di abilità d’intenzionalità
congiunta e collettiva. Queste abilità sono costruite dai bambini sulla base di una maturazione delle proprie capacità
biologicamente evolute, esercitate e regolare esecutivamente nell’interazione sociale. In questo ambito “coordinati
mentalmente” può significare molte cose. In un problema di coordinamento, significa incorporare le prospettive
ricorsivamente l’una nell’altra. In un test sulla falsa credenza significherebbe eliminare la discrepanza tra dove l’oggetto
sembra che sia e dove realmente è. I bambini di cinque anni hanno interiorizzato ormai molte norme di autoregolazione
sociale ed esecutiva. La prospettiva ‘oggettiva’ del gruppo viene incorporata nelle norme di razionalità, per cui si può
parlare di autogoverno normativo. Secondo Vygotskij, viene per primo un processo sociale interindividuale, che prevede
l’intenzionalità condivisa; questo processo viene poi interiorizzato in attività cognitive interindividuali che prevedono
concetti multi prospettici. Dai sei ai sette anni, i bambini entrano nell’”età della ragione” e sono ora nella condizione,
perlomeno in modo embrionale, di entrare nel processo della creazione collaborativa di nuovi prodotti e pratiche culturali.
Questo nuovo livello di competenza cognitiva è il culmine di molti filoni ontogenetici. Quando i filoni ontogenetici si
aggregano il pensiero dei bambini diventa da individuale, socializzato. Tutto questo sfocia in una trama di credenze
interconnesse, di interazioni dialogiche, di mutamenti di prospettiva implicati nella presa di decisioni coordinata.

Parte terza

ONTOGENESI DELLA SOCIALITA’ UNICAMENTE UMANA

“Il rispetto reciproco nasce dallo scambio fra individui che si considerano uguali [..]. L’obbligo così
prodotto è fondamentalmente diverso dalla sottomissione intellettuale all’autorità dell’adulto o alle
credenze coercitive.”

Jean Piaget, “Problemi della psicosociologia dell’infanzia”, 1960, pp. 368-369


Nell’evoluzione umana, il passaggio ad uno stile di vita ultra-cooperativa ha trasformato la natura delle relazioni sociali
umane. Se le grandi scimmie hanno relazioni sociali basate sulla dominanza e la competizione, l’essere umano si è
aperto alla formazione di un partner cooperativo, un agente congiunto ‘noi’ con cui affrontare i problemi. Ciò comporta un
nuovo significato d’identità morale, un nuovo senso d’appartenenza che autoregola normativamente ogni presa di
decisione sociale. Tutti i bambini tendono a trattare ‘l’altro’ con simpatia, con rispetto e fiducia. Si sentono obbligati a
trattare gli altri come meritano di essere trattati, ossia equamente. Quando non sono trattati equamente o con rispetto i
bambini protestano e considerano il partner un responsabile. A sei anni i bambini fondano le loro credenze su
giustificazioni che, se condotte in modo inappropriato, li fanno sentire colpevoli nei confronti del gruppo.

COLLABORAZIONE
Stabiliamo, così, una rete di relazioni normative in cui ciascun partner collaborativo rende conto all’altro di trattarlo con il
rispetto appropriato seguendo responsabilmente criteri normativi compresi reciprocamente. Allora, seguendo la guida
dei filosofi morali costruttivisti, la nostra ipotesi di lavoro è che le radici evolutive e ontogenetiche della moralità umana
risiedano in attività cooperative reciprocamente vantaggiose. La partecipazione in attività intenzionali congiunta genera
individui che trattano i partner alla pari e con rispetto reciproco. “Io” e “tu” costituiscono consapevolmente un “noi”.
Questo tipo di relazioni i filosofi morali le hanno denominate ‘relazioni in seconda persona’ basate sul rispetto,
l’affidabilità, la responsabilità e l’equità dell’agente.
LE GRANDI SCIMMIE: Agire in parallelo o con gli altri
Le vite sociali delle grandi scimmie sono strutturate per la competizione per il cibo che genera una gerarchia di
dominanza nel gruppo. Talvolta tra di loro formano delle coalizioni per lottare per il cibo e sconfiggere gli ‘invasori’.
Cercano costantemente di prevalere sugli altri, di essere più furbi o conquistare più amici. Nella caccia di gruppo, ad
esempio, gli scimpanzè cacciano insieme in piccoli gruppi. Formando un piano d’azione individuale per ciascun membro
in base alle sua potenzialità; ad esempio la scimmia più grande catturerà per prima la preda per valutarne il successo
collaborativo. La caccia in natura è per lo più opportunistica e basato su un’azione in parallelo tra agenti che hanno uno
scopo comune. Nel complesso potremmo affermare che gli scimpanzè considerano l’altro in modo strumentale: come
ostacoli sociali nella competizione, o come strumenti sociali nella collaborazione.

COLLABORAZIONE A DUPLICE LIVELLO


Il gruppo è una totalità dinamica basata sull’interdipendenza invece che sulla somiglianza. E’ un insieme di persone che
interagiscono influenzandosi tra di loro. Quando gli scimpanzè accerchiano e catturano una scimmia, gli individui stanno
operando in quello che, seguendo Tuomela (2007), abbiamo chiamato ‘comportamento di gruppo nel modo-io’: si usano
a vicenda come strumenti sociali. Quando gli infanti interagiscono fanno qualcosa di differente: operano insieme con un
agente congiunto per un obbiettivo comune. L’io si correla al tu e, questa relazione, è la base delle relazioni sociali
cosiddette ‘in seconda persona’. In un esperimento collaborativo, Rekers e collaboratori (2011) hanno proposta a
scimpanzè e a bambini l’opzione di ottenere del cibo per sé tirando una corda da soli oppure ottenere cibo per sé e per
un pari tirando la corda insieme a lui. I bambini preferivano più spesso l’opzione collaborativa mentre gli scimpanzè
erano quasi del tutto indifferenti a queste opzioni. Warneken e collaboratori (2006) hanno approfondito la questione;
scoprendo che bambini di diciotto mesi che collaboravano con un adulto, al termine del gioco, tentavano di ri-coinvolgere
il partner. Viceversa, gli scimpanzè non cercavano mai di ri-coinvolgere il partner, piuttosto si adoperavano da soli per
risolvere il problema. Attenzione al fatto che collaborazione non significa svolgere lo stesso lavoro, ma piuttosto significa
lavorare insieme. Sono tre gli aspetti dello sviluppo delle interazioni collaborative nei bambini che favoriscono una
comprensione dell’equivalenza sé-altro: (1) entrambi i partner sono forze agentive necessarie per produrre l’esito, (2) la
consapevolezza del bambino che in un’attività intenzionale congiunta i ruoli sono reversibili e intercambiabili. La base
cognitiva di questa inversione dei ruoli è la capacità di simulare il ruolo o le prospettive altrui durante la collaborazione. E
(3) la costruzione di un terreno culturale comune nel quale raggiungere e collocare i propri successi individuali e di
gruppo. L’imparzialità nell’applicazione di ideali di ruolo presume dei partner il cui status sia equivalente. E’ plausibile
che gli ideali di ruolo siano i precursori dei criteri normativi più generali del gruppo culturale, che struttureranno la vita
adulta. “Tu e io” rappresenta la relazione di due partner paritetici. Così, la ragione per la quale le grandi scimmie non
trattano ‘’equamente’’ gli altri sta nel fatto che non partecipano alla collaborazione intenzionale congiunta, né formano un
‘’noi’’ comprendente ‘io’ e ‘tu’ e non scambiano tra di loro i ruoli nel gruppo. Il riconoscimento dell’equivalenza sé-altro è
una componente cognitiva decisiva che struttura le forme di interazione socio-morale con gli altri nei bambini, forme che
sono uniche nella nostra specie. Gli agenti in seconda persona si riconoscono come competenti per un determinato
ruolo e, non si limitano a questo, gli accordano anche il rispetto come riconoscimento: lo riconoscono come individuo
avente un certo ‘status’. Per quanto riguarda le variazioni individuali, vi sono ragioni per supporre che l’autismo abbia un
effetto sulle abilità e le motivazioni collaborative, suggerendo una significativa componente di maturazione.
IMPEGNO CONGIUNTO
Per gli studiosi di teoria sociale interessati alla normatività, gli impegni congiunti rappresentano gli “atomi sociali”
dell’interazione sociale unicamente umana. Gli impegni congiunti sono basilari ed essenziali perché riconoscono
esplicitamente la nostra interdipendenza reciproca nell’attività collaborativa. I bambini, differentemente dagli scimpanzè,
esaudiscono quella che Tuomela (2007) ha definito la “condizione d’impegno”: i partner impegnati persistono fino a
quando hanno ricevuto entrambi il loro giusto compenso. Con la maturazione della loro capacità d’intenzionalità
collettiva, verso i tre anni i bambini sanno concepire l’alleanza creata da un impegno comune come un’agentività
condivisa, capace, oltre che a collaborare, di autoregolare la collaborazione. L’essenza degli impegni congiunti è che
‘noi siamo d’accordo’ ,oltre che per agire insieme, anche per sanzionare chiunque di noi non esaudisca il suo ideale
specifico di ruolo. Tale ‘protesta’ in seconda persona deriva direttamente da una forza socialmente normativa che deriva
dal ‘noi’ e dal nostro impegno congiunto. Esperimenti di Kachel e collaboratori (2017) hanno dimostrato che l’incapacità
di mantenere fede all’impegno dimostra che il trasgressore considera i propri interessi più importanti di quelli del partner.
Soprattutto Adam Smith (1759) ha dimostrato che lo scopo della protesta in seconda persona serve a “fargli capire che
la persona da lui offesa non meritava di essere trattata in quel modo”. La protesta in seconda persona non punisce il
trasgressore dell’accordo ma si limita a informarlo dei danni e del suo risentimento. Gli impegni congiunti creano un
senso di responsabilità verso un partner in seconda persona. “Noi” collaboriamo per autoregolare ciascuno di noi come
partner individuale. Viceversa, le promesse sono impegni verso gli individui, è più un atto pubblico in cui si mette in gioco
la propria identità cooperativa con il gruppo. Verso la fine del periodo prescolastico i bambini piccoli sentono un obbligo
normativo a mantenere le promesse e si aspettano che anche gli altri le mantengano. Le poche ricerche con bambini di
culture non occidentali, ad esempio, hanno riscontrato anche una comprensione della promessa nel tardo periodo
prescolare.
DIVENTARE IN SECONDA PERSONA

Intenzionalità Intenzionalità
congiunta collettiva
Cognizione di primo Cognizione di Cognizione Autoregolazione Cognizione
livello duplice livello equivalenza sé-altro esecutiva normativa oggettività
Condivisione delle Collaborazione a <--------------------------- Azione in parallelo
emozioni duplice livello
Attenzione congiunta Agentività in seconda Impegno congiunto Promessa
persona e mutuo con protesta in
rispetto seconda persona
0 anni 1 anno 2 anni 3 anni 4 anni 5 anni
Gli individui, crescendo, si relazionano a tu per tu, autorizzandosi a sfidare l’altro per la non-cooperazione. Se lo
compariamo con le grandi scimmie, con le loro relazioni sociali basate sulla dominanza; le relazioni sociali umane hanno
compiuto una vera trasformazione epocale. A tre anni i bambini apprendono un senso normativo di impegno congiunto
con i partner collaborativi diventando gradualmente creature morali. Lo sviluppo della collaborazione comincia con la
condivisione delle emozioni negli infanti per arrivare al riconoscimento della normatività della promessa. La tabella
sottostante illustra la comparsa ontogenetica della collaborazione unicamente umana nei bambini da 0 a 5 anni.
Questa “cooperativizzazione dell’autoregolazione” è essenziale per la socialità normativa e per la moralità degli esseri
umani. Data la maturazione delle capacità d’intenzionalità collettiva, è chiaro il ruolo cruciale dell’esperienza sociale. Un
bambino deve partecipare, cooperare e sperimentare la protesta, per interiorizzarla. Quanto al ruolo di differenti tipi di
esperienza nello sviluppo della collaborazione e delle sue conseguenti motivazioni e degli atteggiamenti socio morali, si
possono formulare tre ipotesi: (1) l’insegnamento e il sostegno sono fondamentali in questo processo; quest’ultimo è più
di tipo naturale, ossia dovuto all’apprendimento guidato dalla maturazione, piuttosto che all’istruzione dell’adulto. (2)
L’interazione con i partner è fondamentale affinché il bambino diventi agente morale autonomo in grado di definire da sé
le modalità cooperative Infine (3) la terza ipotesi potrebbe essere una pretesa che la predisposizione, legata alla
maturazione, alla collaborazione strutturi le prime interazioni precoci con gli adulti. L’ipotesi generale è che si tratti di un
processo di costruzione e di co-costruzione al contempo. Dalla capacità di stabilire un impegno congiunto nascono
ulteriori atteggiamenti socio morali: il senso d’impegno e responsabilità, e il risentimento verso chi non soddisfa le
proprie aspettative di partner. A tre anni i bambini cominciano a diventare autentici esseri morali.

PROSOCIALITA’

L’origine evolutiva della simpatia e del sacrificio nel regno animale è indubbiamente la relazione genitore-prole. Gli
esseri umani non si limitano a cooperare ma addirittura si sacrificano reciprocamente. Quando, nel foraggiamento,
gruppi di altri primati incontrano il cibo, il primo che lo tocca e sempre chi per primo lo mangia. Nei mammiferi l’ormone
del legame sociale è l’ossitocina che si evoluto con le madri che praticano l’accudimento, la protezione e la cura della
prole. In alcune specie questo legame si generalizza alla cerchia del proprio gruppo di appartenenza oppure secondo
una relazione di parentela. La prosocialità è il legame sociale instaurato con individui senza legame di parentela. Il tema
che stiamo per analizzare riguarda la via di sviluppo che costituisce le tendenze prosociali dei bambini: dall’aiuto e dalla
condivisione con gli altri basati su un senso di solidarietà, rispetto, equità, basato su un senso d’obbligo.
LE GRANDI SCIMMIE: Simpatia essenziale “Se è reciproco l’aiuto diventa più evolutivamente stabile.”
Come abbiamo osservato le grandi scimmie instaurano relazioni sociali sulla base della dominanza, dove il vincitore è
chi arriva per primo o chi vince la lotta per la conquista di uno spazio o di una porzione di cibo. Le singole scimmie si
alleano spesso con alcuni membri per vincere queste lotte. Un esempio di questi ‘comportamenti affiliativi’ è il grooming
e la condivisione di cibo. Il grooming negli scimpanzè si rivolge di preferenza ai partner della coalizione da cui
scaturiscono tutta una serie di relazioni specifiche con i loro usi e costumi. Schmelz e collaboratori (2017) hanno
scoperto che, quando osservavano un conspecifico assumersi il rischio per fornire loro accesso al cibo, gli scimpanzè
riconoscevano l’impegno del partner ricompensandolo in seguito in modo prosociale. Comunque sia, le grandi scimmie
non sono eccelse nel condividere il cibo. Un’altra situazione interessante è la condivisione del cibo tra madre e i propri
cuccioli. Quando una madre di scimpanzè ha del cibo, raramente lo offre alla propria prole. Perlopiù lei cede la parte più
scarna del cibo. Questo atteggiamento è stato osservato sperimentalmente da Matsuzawa (2004) e da Volter e
collaboratori (2015). Questo comportamento, in ogni caso, è in netto contrasto con quello dei genitori umani che, in tutte
le società e culture, forniscono attivamente cibo alla prole fino all’adolescenza. Durante l’evoluzione umana, la simpatia
delle grandi scimmie per i parenti e gli amici si è evoluta nell’uomo nella simpatia per un’ampia varietà di altri individui.
Gli infanti moderni hanno ereditato entrambe le versioni: simpatia verso i partner collaborativi e simpatia verso chiunque
del gruppo sociale.
AIUTO E CONDIVISIONE  Prestare aiuto
Gli infanti cominciano ad aiutare attivamente gli altri con i loro problemi strumentali almeno dai quattordici mesi.
Distinguono, anche precocemente, chi li aiuta (helper) e chi li ostacola (hinderer). Nell’ambito dell’aiuto strumentale c’è
un’importante somiglianza generale con le grandi scimmie. Ma ci sono delle ovvie differenze quantitative e qualitative.
Gli infanti, innanzitutto, già a dodici mesi forniscono informazioni per realizzare i loro obbiettivi con il gesto indicatore,
cooperando in attività collaborative. Oltre a ciò, l’atto di aiuto per i bambini ha una motivazione intrinseca; ossia muove
da un desiderio di aiuto spontaneo. L’approvazione sociale, da parte degli adulti tramite premi e rinforzi positivi, aumenta
la motivazione dei bambini a compiere atti d’aiuto. Un altro fenomeno importante è l’aiuto paternalistico. Gli adulti sono
sempre motivati ad aiutare i propri figli quando questi si trovano in difficoltà fisiche. Hepach e collaboratori (2013) hanno
inoltre dimostrato che i bambini non aiutavano un adulto quando il suo disagio era immotivato in base alle circostanze,
ma piuttosto preferivano aiutarlo quando vi era una causa evidente. Nell’ambito di una ‘sfumatura’ di questo tema,
Roughley (2015) chiama ‘empatia smithiana’ l’emozione negativa che proviamo quando stiamo male per una persona
morta. E’ basato sulla prospettiva che si manifesta nei bambini e non nelle grandi scimmie. Ciò riflette presumibilmente
un’interazione ontogenetica tra il senso di simpatia del bambino verso chi ha bisogno e le sue emergenti capacità di
assunzione di prospettiva. In definitiva, da un lato, l’aiuto strumentale dei bambini ha molti elementi in comune con le
grandi scimmie, dall’altro ha alcune caratteristiche unicamente umane. Un’altra scoperta interessante è quella di
Brownell e collaboratori (2013): le differenze individuali nel comportamento di condivisione dei bambini sono correlate a
differenze individuali nella loro idea di possesso. Non si può realmente condividere qualcosa che si ritiene di possedere.
Brownell (2009) ha somministrato un test in cui un bambino doveva scegliere tra una risorsa solo per sé oppure una per
il partner. Hanno scoperto che i bambini di diciotto mesi, come gli scimpanzè, sceglievano indiscriminatamente. Come
per l’aiuto, lo sviluppo successivo del comportamento di condivisione nei bambini dopo i tre anni diventa molto più
selettivo e multidimensionale. Dopo i tre anni i bambini sono sensibili alle norme sociali della loro cultura specifica.
Tomasello e House (2018) nel somministrare un test prosociale a bambini occidentali, hanno scoperto che i bambini
d’età scolare sono più sensibili alle norme sociali, rispetto a bambini d’età prescolare.
- Variazione individuale e culturale
I bambini affetti da disturbo dello spettro dell’autismo aiutano gli altri nei loro problemi strumentali. L’unico studio al
riguardo è di Hobson e collaboratori (2009) dove i bambini con autismo erano meno bravi dei bambini di controllo disabili
nell’apprendimento di prospettiva affettiva’’ nei confronti di un bisognoso.
EQUITA’
Il giudizio di equità si basa su un giudizio di uguaglianza – risorse uguali per persona o per unità di bisogno o per unità
d’impegno lavorativo – dove il sé viene trattato come equivalente agli altri. Le grandi scimmie non conoscono il senso di
equità. Presumibilmente le scimmie accettano l’aiuto di qualcun altro, non perché concentrati sull’equità dell’offerta, ma
perché avrebbe portato loro del cibo. In verità è probabile che manchino prove attendibili che le grandi scimmie svolgano
una comparazione sociale nel valutare come sono suddivise le risorse. Se sono offerte ai bambini delle risorse, e si
spiega loro che possono condividerle con gli altri come vogliono ( gioco del dittatore), essi lo fanno in maniera equa
soltanto in un’età scolare avanzata. L’adulto sta autorizzando, implicitamente, l’egoismo. McAuliffe e collaboratori (2017)
hanno indagato nei bambini piccoli il senso di equità nella condivisione delle risorse. Nell’esperimento, il bambino
semplicemente accetta o rifiuta la ripartizione stabilita dall’adulto. La scoperta essenziale è che i bambini accettano per
norma ripartizioni disuguali – specialmente se ricevono più del partner – fino a un’età scolare avanzata. Numerosi test
somministrati (Melis,2006 e Werneken, 2011) hanno dimostrato che in un’attività intenzionale congiunta, i bambini piccoli
sentono ugualmente che loro e il loro partner meritano entrambi una quota equivalente di bottino. Si potrebbe anche
sostenere, in realtà, che questi bambini stessere seguendo, emulando una regola di condivisione appresa dagli adulti. In
aggiunta a ciò, quando lo stesso esperimento veniva svolto con gli scimpanzè, quasi mai condividevano le risorse. Il
senso di equità dei bambini riguarda, invece, non già la quantità assoluta di risorse ricevute, ma il fatto che ognuno,
incluso il soggetto, sia trattato con il rispetto che merita (Honneth, 1995). Nel complesso, potremmo dire che per i
bambini di tre anni e oltre, l’equità è il modo rispettoso con cui gli agenti in seconda persona trattano i loro potenziali
partner collaboratori. Questo fattore rende i bambini di tre anni molto differenti da altre grandi scimmie. Nel passaggio
all’età scolare i bambini sentono che, a parità di condizioni, ognuno nel gruppo merita una distribuzione uguale di
risorse. Grocke e collaboratori (2018) hanno posto dei bambini piccoli in una situazione dall’esito iniquo. Come risultato,
a prescindere dalla quantità di risorse ricevute, se fossero stati in grado di partecipare alla presa di decisioni, lo
avrebbero giudicato un processo equo. Diversi studi sperimentali hanno riscontrato differenze culturali nel modo in cui i
bambini scelgono di distribuire le risorse. Rochat e collaboratori (2009) e House (2013), insieme a McAuliffe e Blake
(2011) hanno riscontrato che i bambini di culture industrializzate occidentali, ma non i bambini di altre culture, rifiutavano
persino suddivisioni svantaggiose che favorivano l’altro bambino. Ma è solo un dato sperimentato in mezzo ad un’infinità
quantità di dati. È certo intanto che il punto di partenza per interpretare le differenze culturali è lo schema ontogenetico. I
bambini prescolari più piccoli di culture differenti differiscono poco tra di loro quanto a senso di equità. Ma più avanti,
specialmente in età scolare, i bambini cominciano a sottoscrivere le norme sociali che la loro cultura ha elaborato.

DIVENTARE COOPERATIVI
“Benvenuti nel mondo sociale umano, che non è certamente quello delle grandi scimmie.”
La questione teorica centrale nello studio del comportamento prosociale dei bambini è il ruolo della socializzazione e
dell’insegnamento dell’adulto. Warneken e Tomasello (2009) sostengono in l’età prescolare la socializzazione svolga un
ruolo minore durante questo periodo precoce: i bambini stanno imparando a diventare piuttosto prosociali naturalmente.
In questa sede si sostiene che il precoce senso di equità dei bambini deriva dalla maturazione della loro capacità
d’intenzionalità congiunta, esercitata in attività collaborative con gli altri. Più concretamente potremmo dire che gli infanti
vogliono spontaneamente le cose per sé stessi, ma vogliono anche essere generosi con gli altri. Tutto ciò si sviluppa in
modo perlopiù naturale.
La simpatia per gli altri è la conditio sine qua non della moralità umana. Gli individui che non si
curano degli altri e interagiscono con loro solo strategicamente si chiamano sociopatici. Centrale
in qualsiasi senso di moralità è anche un senso di equità. Nella vita adulta, l’equità fondata sul
rispetto reciproco è essenziale per buona parte degli aspetti di una società aperta. In effetti,
l’influente teoria normativa della società ideale di John Rawls (1971) è detta “giustizia come
equità”. In linea con le nostre conoscenze sullo sviluppo, nei bambini il primo senso di equità
scaturisce proprio dalle attività collaborative. Rawls definisce la società come “impresa
cooperativa per il vantaggio reciproco”.

NORME SOCIALI
Le norme sociali sono le aspettative collettive di un gruppo. I primi esseri umani moderni hanno favorito i membri dell’ in-
group, appartenenti allo stesso gruppo, piuttosto che quelli dell’out-group. Per mantenere la cooperazione entro i propri
gruppi culturali, gli esseri umano hanno evoluti questa forma unica di controllo sociale. L’applicazione delle norme è
basata sulla percezione, del gruppo, di come il gruppo funziona. La normatività deriva dall’impegno collettivo degli
individui verso il gruppo. Queste norme sociali esistono già prima della nascita dell’individuo, pertanto in circostanze
normali l’individuo non può sceglierle, né cambiarle. Quando un adulto impone una norma all’infante, questo lo interpreta
come un ordine. La prima prova solida della comprensione di tale norma si colloca intorno ai tre-cinque anni. Così
facendo i bambini sviluppano un senso di giustizia e un senso del ‘noi’.
- I bambini da tre a cinque anni:

solidarietà nei sentimenti con un partner solidarietà con i membri del gruppo di
collaborativo interdipendente appartenenza o gruppo culturale – “noi”.
Durkheim (1893) la distinzione della moderna psicologia sociale sulla formazione dei gruppi:
solidarietà organica, basata solidarietà meccanica, basata sulla
sull’interdipendenza collaborativa somiglianza

LE GRANDI SCIMMIE: Vita di gruppo


Molti mammiferi e quasi tutti i primati vivono in gruppi social, molti dei quali sono territoriali. E’ un processo di base della
vita sociale per gli individui di tale specie sociale. Scimpanzè e bonobo vivono in gruppi sociali complessi; ‘pattugliano’
costantemente i confini del proprio territorio e sono ostili con eventuali invasori. E’ chiaro che hanno un senso di chi
appartiene, e di chi non appartiene, al proprio gruppo. Nel caso della vita dell’uomo si parla di psicologia in group/out-
group. Il favoritismo dell’in-group che accompagna il pregiudizio dell’out-group è un fenomeno analizzato dalla psicologia
sociale contemporanea. Nel paradigma dei gruppi minimi, i bambini piccoli sono costantemente assegnati in modo
causale a dei gruppi. E’ più probabile che comprendano il gruppo solo dopo i tre-cinque anni. A quest’età mostrano una
maggiore solidarietà nei confronti degli individui etichettati come in-group, piuttosto che degli individui estranei o
sconosciuti. Rimane il fatto che i bambini interiorizzano solo determinate norme, queste si tramutano in direttive
espresse dagli adulti di riferimento.
NORME SOCIALI – Farle rispettare
La questione è la seguente: i bambini capiscono queste direttive come una singola persona che esprime i suoi desideri,
o invece come rappresentante del gruppo che esprime accordi collettivi del gruppo sul comportamento atteso? Secondo
Piaget la ragione per cui i bambini seguono le norme sociali è evidente: perché rispettano gli adulti da cui provengono.
Far rispettare le norme si può considerare un tipo di protesta in seconda persona generalizzata: l’esecutore (enforcer),
come rappresentante del gruppo, richiama all’ordine il trasgressore per avere violato una norma sociale. L’enforcer non
sta semplicemente agendo come individuo che esprime un’opinione personale, ma piuttosto, come nel caso
dell’educazione intenzionale, come rappresentante del gruppo culturale che trasmette un sapere imparziale e oggettivo.
L’impostazione delle norme è orientata al gruppo. Schmidt e collaboratori (2012) hanno usato il paradigma del rispetto
delle regole, ma con una manipolazione in group-out group. Hanno riscontrato che i bambini di tre anni facevano
rispettare le norme sociali e morali convenzionalmente valide nell’in-group. La domanda diventa: a quale punto i bambini
capiscono che le norme sociali riflettono accordi collettivi permanenti? Piaget (1932-65) aveva riconosciuto l’importanza
di regole create dal bambino, anzi, le regole auto create sono autorevoli come qualsiasi altra regola. Esperimenti di
Hardecker e collaboratori (2017) dimostrano che anche posti di fronte alla più completa libertà di scelta delle modalità di
gioco, i bambini inventano ugualmente delle regole per giocare, e le consideravano normative e vincolanti per chiunque
volesse giocarvi. I bambini in fase di sviluppo subiscono una forte pressione per conformarsi agevolmente nel gruppo. In
uno studio recente, Kanngiesser e collaboratori (in stampa) hanno scoperto che i bambini di tre differenti ambiti culturali
imponevano le norme sociali ad altri che le ignoravano, sotto forma di regole di gioco apprese.
GIUSTIZIA
Intorno ai tre anni i bambini iniziano a sviluppare il ‘senso di giustizia’. Anch’essa, come l’equità, implica un senso di
uguaglianza. Gli studiosi di ricerca sociale distinguono due tipologie di giustizia: (1) giustizia retributiva; o commutativa,
riguarda i modi in cui i trasgressori dovrebbero essere puniti per atti antisociali e come le vittime dovrebbero essere
risarcite, tenendo conto dei bisogni dei gruppi sociali anche in futuro. E (2) la giustizia distributiva; riguarda le risorse
come il cibo, il denaro e molto altro. I bambini piccoli sviluppano un senso di giustizia retributiva e distributiva solo nel
tardo periodo prescolare. Come abbiamo già osservato, le grandi scimmie si vendicano contro chi le ha danneggiate, ma
non puniscono chi provoca danni a terzi. Punire e far rispettare le norme sociali sono chiaramente processi simili. Diversi
studi sulla punizione di terze parti dimostrano che bambini in età prescolare sono disposti persino a pagare un prezzo
per punire terze parti: presumibilmente per un senso di giustizia verso il gruppo nel suo insieme. Spesso però le
condizioni non sono uguali. Benché manifestino una chiara tendenza all’uguaglianza per i membri in-group, i bambini
piccoli tendono spesso a considerare altri fattori, specialmente il bisogno e il merito. Per esempio, Engelmann e
collaboratori (2016) hanno riscontrato che i bambini di cinque anni riconoscevano il bisogno di un altro bambino. Lo
schema dello sviluppo del senso di equità e di giustizia nella divisione delle risorse dei bambini suggerisce che la
collaborazione sia l’ambito naturale di un desiderio di uguaglianza. Tuttavia, con il loro emergente senso di
appartenenza al gruppo culturale, sono convinti che ognuno nei gruppi meriti risorse uguali. Per fare un esempio, la
proprietà privata è un accordo cooperativo, un diritto importantissimo per le culture umane. Molte specie animali hanno
un senso del possesso. L’individuo possessore non cederà mai le risorse senza una lotta. Il possesso differisce dalla
proprietà, essendo quest’ultima un accordo cooperativo, prevede che tutti gli individui di una società rispettino la
proprietà altrui. Come tale, si tratta di un accordo unicamente delle società umane. Diversi studi hanno esaminato il
senso e la comprensione della proprietà nei bambini piccoli. In età prescolare i bambini sanno stabilire chi è il
proprietario di un oggetto sulla base del primo possesso, anche quando l’informazione è ricavata dalla testimonianza
verbale altrui. Studi di Rossano e collaboratori (in stampa), che coinvolgevano sia bambini che scimpanzè, hanno
riscontrato che i bambini evitavano di manipolare il cibo altrui. Gli scimpanzè invece, prendevano gli oggetti e il cibo
indiscriminatamente, a prescindere da chi fosse il proprietario. Avvicinandosi all’età scolare i bambini iniziano a capire i
principi di base di giustizia in azione in una società cooperativa. Di particolare interesse è lo studio di Schafer e
collaboratori (2015). Hanno riscontrato che in alcune culture il senso di proprietà privata è molto più limitato rispetto alle
culture capitalistiche moderne. I dati di Kanngiesser e collaboratori (2015) dimostrano la tendenza dei bambini, da
cinque a nove anni, di due ambiti culturali differenti, a inferire la proprietà del primo possesso. Si è riscontrato che vi era
un ritardo significativo nella cultura su piccola scala a usare il primo possesso come segnale di proprietà. La differenza
era attribuibile al ruolo differente della proprietà privata nella vita dei bambini.
ACQUISIRE LA MENTE DI GRUPPO
Essere un membro di un gruppo culturale significa che ciascuno deve favorire la valutazione delle norme sociali del
gruppo come regolatrici del funzionamento del gruppo stesso. Quando vi è un conflitto d’interessi, occorre trovare una
soluzione che tenga insieme gli interessi dei due contraenti. Così facendo, i bambini si trasformano da consumatori
passivi di cultura in collaboratori attivi con mente di gruppo per il suo funzionamento regolare; la mente di gruppo è una
trasformazione fondamentale nelle relazioni sociali anche tra le grandi scimmie. A tre anni i bambini cominciano a capire
i gruppi cooperativi sulla base delle loro abilità d’intenzionalità condivisa. Ma non riconoscono gli estranei come membri
dell’in-group fino a circa cinque anni. In ogni caso, è difficile immaginare che la loro attitudine alla mente di gruppo sia
insegnata o socializzata. Considerando la mente di gruppo come una capacità motivazionale che matura come
dimensione d’intenzionalità collettiva a tre anni. Lo schema sottostante rappresenta la comparsa ontogenetica della
comprensione delle norme sociali nei bambini piccoli:

Intenzionalità congiunta Intenzionalità collettiva


Motivazione Autoregolazione esecutiva Cognizione
mente di normativa oggettività
gruppo
Seguire le Far VITA DI GRUPPO Creazione
richieste degli applicare le norme sociali
adulti norme
sociali
VITA DI GRUPPO -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Conformità Protesta in Giustizia
seconda distributiva e
persona retributiva
0 anni 1 anno 2 anni 3 anni 4 anni 5 anni

Quando arriva l’età scolare i bambini stanno già creando le loro norme sociali con i pari. Certo, questo avviene perlopiù
in ambiti di gioco: nella realtà le loro vite sono ancora dirette dagli adulti e dalle loro norme. Nel gioco, dai cinque anni in
poi i bambini mostrano la capacità di creare le proprie convinzioni sulle norme sia per aiutare il loro successo
strumentale collettivo sia per contribuire a rendere il gioco più divertente. A sette anni non vi è già più differenza tra le
norme create da loro e le norme degli adulti. E’ interagendo con gli altri in ambiti di gruppo che i bambini costruiscono, e
co-costruiscono, nuovi modi di relazionarsi come membri del gruppo, nonché mitigati dal senso di giustizia di gruppo.
Questo processo spesso richiede che i bambini forniscano le ragioni agli altri sulle proprie azioni non normative, e
queste ragioni giustificanti diventano parte essenziale della loro identità morale.

10
IDENTITA’ MORALE
Diverse centinaia di migliaia di anni fa, quando l’uomo assunse uno stile di vita più cooperativo e interdipendente, il
processo di valutazione del partner sociale si trasformò. Divenne importante che gli individui imparassero a gestire la
propria impressione sugli altri, che proiettassero sugli altri un senso d’identità. E’ poiché l’individuo svolgeva il ruolo di
giudice e giudicato – con i ‘nostri’ criteri condivisi – arrivarono a valutare se stessi nello stesso modo in cui valutavano gli
altri. Ciò comportò l’interiorizzazione dell’identità morale del gruppo. Interiorizzare il processo di motivazione delle ragioni
trasforma l’autoregolazione sociale in autogoverno normativo tramite la propria identità cooperativa. Anche nella vita di
molte specie sociali sono importanti diverse forme elementari di valutazione sociale. Nelle grandi scimmie, ai fini della
coalizione per la competizione per la dominanza, la scelta del partner avviene secondo una selezione sociale. Gli
scimpanzè, invece, nella caccia di gruppo non scelgono attivamente il partner sociale per la cooperazione. Schmelz e
collaboratori (2017) hanno riscontrato che gli scimpanzè agivano in modo prosociale verso gli individui che si erano
assunti un rischio al fine di cooperare con loro, vale a dire individui che valorizzavano la loro cooperazione, piuttosto che
inibirla. I bambini, già a dodici mesi, preferiscono interagire con qualcuno che sia loro d’’aiuto’ piuttosto che
d’impedimento al loro successo strumentale. Chiaramente i giudizi morali dei bambini piccoli vanno oltre qualunque
possibilità per le grandi scimmie.
PRESENTAZIONI DI SÉ ED EMOZIONI AUTOCONSAPEVOLI
Le esibizioni di dominanza delle grandi scimmie sono dirette a influenzare gli altri. Ma è un processo di minaccia e
intimidazione volto a manipolare le reazioni immediate degli altri, e non ad influenzare i loro giudizi. I bambini, invece, si
preoccupano molto di essere percepiti come partner collaborativi. A tre anni i bambini nascondono ai genitori le azioni
proibite compiute, come anche le grandi scimmie fanno. Un esempio è la reazione, analoga nei bambini e nelle scimmie,
del mostrarsi o guardarsi allo specchio. In entrambi i casi avviene un riconoscimento fisico e ne segue una sensazione di
timidezza. L’interpretazione maggiore è che gli infanti umani che si guardano allo specchio provano un naturale
sentimento di timidezza nell’essere valutati esternamente. Le grandi scimmie, invece, si guardano allo specchio per
indagare il proprio corso, senza implicazioni valutative. Haun e Tomasello (2011) hanno scoperto che i bambini quando
agivano in privato giudicavano in un modo le loro azioni, mentre quando agivano ‘pubblicamente’ conformavano i loro
personali giudizi alle valutazioni del gruppo. I bambini di cinque anni, inoltre, condividono più generosamente le risorse
se sanno che i loro contributi possono essere pubblicizzati. Sono più motivati a creare un’impressione positiva sugli altri
che a evitarne una negativa. Quando erano osservati, i bambini competevano tra loro per essere generosi e utili, così
che l’osservatore gli scegliesse come partner collaborativi. Questo fenomeno è stato definito da Herrmann e
collaboratori (in stampa), “altruismo competitivo”. I bambini di cinque anni si curano, oltre che della propria reputazione,
anche della reputazione del proprio gruppo. Le grandi scimmie sono state definite, così facendo, ‘machiavelliche’: per il
loro perseguire interessi egoistici in modo intelligente e strategico tramite la manipolazione gli altri.
Colpa e vergogna
La gestione strategica dell’impressione nei bambini è chiaramente non morale: riguarda principalmente il vantaggio
personale. Tuttavia, vedere sé stessi in terza persona è il fondamento cognitivo affinché le capacità morali abbiano una
coscienza per, ad esempio, sentirsi colpevoli di una trasgressione. Come avviene la gestione strategica dell’impressione
alla coscienza morale innervata di sensi di colpa? Le risposte sono due: (1) la valutazione per inversione dei ruoli; a
causa dell’equivalenza sé-altro, non posso fare a meno di giudicare me stesso allo stesso modo in cui giudico gli altri.
(2) Questi giudizi morali derivano da qualcosa che è più grande di me; l’impegno collettivo verso le norme sociali
costituisce il nostro ‘noi’ collettivo intenzionale a nome del quale io esprimo il giudizio. Studi osservativi di Zahn-Waxler e
Kochanska (1990) hanno stabilito che i bambini prescolari mostrano spesso simpatia verso una vittima, dopo avere
commesso un atto antisociale nei suoi confronti. La colpa è una funzione congiunta di simpatia per la persona
danneggiata e di rammarico per essere stati la causa. Così, i bambini di tre anni, come dimostrato da Vaish e
collaboratori (2016), oltre ad essere solidali con la vittima, si sentivano colpevoli per avere causato il danno e volevano a
tutti i costi, a loro modo, rimediare. Gli esseri umani, inclusi i bambini piccoli, capiscono in una certa misura questo
processo, e quindi riflettono su possibili azioni e sulle loro conseguenze, prima di compierle. Il filosofo Korsgaard (1996)
ha definito questo processo “approvazione riflessiva”, ed è il processo essenziale di presa di decisioni di una persona
socialmente responsabile. L’approvazione riflessiva è prospettica: aiuta l’individuo a decidere cosa fare, negativamente,
per evitare il biasimo o la colpa e, positivamente, per meritare l’elogio. Colpa e approvazione riflessiva sono i due
elementi costituenti un nuovo tipo di autoregolazione sociale. La colpa è retrospettiva, nel senso che mi sento colpevole
per qualcosa che ho già fatto e così giudico il giudizio avuto in precedenza come fallace. Il senso di colpa si contrappone
alla vergogna, in cui la questione principale è se un atto influenza la reputazione che i miei concittadini hanno di me.
Altro ambito interessante è il senso di colpa collettivo; ossia quando qualcuno del proprio gruppo fa qualcosa di dannoso
oppure lodevole. Questo fenomeno, anche definito orgoglio collettivo, evidenzia il ruolo vitale dell’identificazione dei
bambini con un gruppo culturale. Fessler (2004) ha sostenuto che il senso di vergogna, ma non il senso di colpa, è un
universale umano. E’ risaputo, inoltre, che stili genitoriali e di socializzazione differenti influenzano significativamente il
processo di interiorizzazione nei bambini.
GIUSTIFICAZIONE MORALE E IDENTITA’
I bambini creano e conservano la propria identità morale sulla base della propria capacità di fornire agli altri, della stessa
comunità morale, ragioni e giustificazioni reciprocamente accettabili per i propri atti moralmente rilevanti. Non si tratta
solo di un atto dalle buone conseguenze, ma è un atto compiuto con le giuste ragioni. La base razionale della moralità,
ritiene Scanlon (1998), risiede nelle strutture giustificative condivise da una comunità morale perché fondata sulla scala
di valori condivisi dalla comunità. Il bambino giudica le proprie ragioni, proprio come giudica i propri atti, con i giudizi
interiorizzati del ‘noi’: la comunità morale. Poco dopo i cinque anni, i bambini hanno costruito una gerarchia di valori nel
loro terreno culturale collettivo in cui sanno quali tipi di ragioni giustificano le deviazioni delle norme del gruppo. Il dialogo
tra pari, come sostiene Piaget (1932-65), è costituito da libertà e indipendenza nel processo di ragionamento,
rendendolo cruciale per lo sviluppo morale del bambino. Ciò significa che il problema è che gli adulti conoscono la
risposta ‘giusta’ prima del tempo. Pertanto, i bambini piccoli non possono realmente ragionare su questioni morali con gli
adulti. Il lato positivo del processo d’identità è stato colto dall’affermazione di Adam Smith (1759) che noi agiamo
prosocialmente, non per essere elogiati, ma per essere persone lodevoli agli occhi della comunità. L’identità morale si
fonda, nei bambini, su quattro insiemi di valori: (1) l’interesse ‘per me’; ossia le mie motivazioni egoistiche dirette ad
aiutarmi a sopravvivere, (2) l’interesse ‘per te’ ; espresso dalla simpatia o dall’aiuto verso gli altri del gruppo, (3)
l’interesse di uguaglianza; gli altri e l’io sono visti come individui che meritano in modo equivalente di essere trattati
equamente e infine (3) l’interesse per noi; che scaturisce da un ‘noi’ diadico formato nell’interazione faccia a faccia con
un agente in seconda persona; scaturisce anche dal bisogno di conformarsi alle norme sociali del gruppo. Le decisioni
morali sono quelle che considerano, come minimo, una delle preoccupazioni diverse dall’interesse per me, persino se, si
decide che esso debba prevalere.
Figura 10.1: Un modello d’identità morale per la presa di decisioni morali umane (Tomasello, 2016):

Interesse per me
IDENTITA’
Interesse per te MORALE Interesse
CENTRALE uguaglianza

Interesse per noi

Cintura protettiva giustificativo-interpretativa


Le decisioni morali sono quelle che considerano, come minimo, una delle preoccupazioni diverse dall’interesse per me,
persino se, alla fine, si decide che essa dovrebbe prevalere. Così, esiste sempre un certo grado di complessità nella
presa di decisioni morali umana. La pretesa è che gli individui umani siano molto motivati a preservare il nucleo della
propria identità morale come stabilito dai giudizi morali passati dell’individuo. Si può interpretare l’atto d’indossare un
cappotto a quadri ad un funerale come una mera violazione di etichetta oppure come una mancanza di rispetto verso le
persone in lutto. Ciò significa che ogni situazione è in una certa misura molto particolare. La proprietà morale, in ogni
caso, si costruisce socialmente. Infatti si deve sempre essere pronti a giustificare le proprie azioni e perché si è scelta
una certa linea di azione invece di un’altra. Giustificazione significa mostrare che le proprie azioni sono scaturite da
valori per ‘noi’ da tutti condivisi. Si arriva così a circondare la propria identità con una cintura protettiva d’interpretazioni e
di giustificazioni, per così dire. Infine, un aspetto decisivo per l’autogoverno morale è il riconoscimento che l’individuo è
sempre libero di andare oltre le norme sociali della cultura, se necessario. Questa libertà rende efficace la forza
dell’obbligo perché si è padroni delle proprie decisioni. Prendere decisioni morali prevede – a livello esecutivo – un
bilanciamento personale dei valori. Basandosi su etnografie di popoli provenienti da contesti culturali differenti, è quasi
certo che ciascun membro giustifichi le proprie azioni verso gli altri in modi differenti.
DIVENTARE CONSAPEVOLI
Sotto molti aspetti, potremmo dire che la costruzione di un’identità morale nei bambini costituisce il coronamento del loro
sviluppo sociale nel periodo prescolare. Stanno per diventare persone responsabili. Sin dalle prime fasi del loro sviluppo,
i bambini sanno di essere osservati e valutati. Quest’aspetto diventa un importante modellatore del loro comportamento
nella vita sociale. Intorno ai quattro o cinque anni, imparano a simulare la prospettica e le valutazioni potenziali degli altri
e a adeguare le loro azioni di conseguenza. Questi atti di auto-presentazione, e di gestione dell’impressione, potrebbero
essere totalmente finalizzati ad un vantaggio personale. Per conservare le proprie identità cooperative e morali, i
bambini devono anche costruire un insieme ordinato di valori in comun con altri. Secondo il filosofo Korsgaard (1996) il
sentimento che io dovrei fare qualcosa per gli altri è la percezione che se non lo facessi smetterei di essere chi sono –
vale a dire per ‘noi’ nella comunità culturale. Viceversa, fare quella cosa mi aiuta a riaffermare chi io sono per ‘noi’ nella
comunità. Devo adempiere l’obbligo al fine di restare chi sono. La spiegazione della comparsa del senso d’identità
morale nei bambini è l’unione di tutte le loro capacità sociali e morali mentre cercano di diventare persone responsabili
nella comunità. Negli stili di vita tradizionali, tre anni è l’età che precede lo svezzamento dalla madre. Cominciano, a
quest’età, a avere relazioni con gli altri e amicizie con i pari. Loro stessi giudicano gli altri per la loro cooperatività nei loro
confronti, e per garantirsi dagli altri questo atteggiamento, s’impegno ad essere cooperativi per loro. Intorno a sei-sette
anni autoregolano quasi completamente tutte le interazioni sociali con le persone di cui condividono i valori.
Parte quarta

CONCLUSIONE

“L’interiorizzazione delle attività radicate socialmente e sviluppate storicamente è il tratto


distintivo della psicologia umana, la base del salto qualitativo dalla psicologia animale a quella
umana. E per ora, conosciamo soltanto lo scarno profilo di questo processo.”
Lev Vygotskij, Mind in Society, 1978
11
UNA TEORIA NEO-VYGOTSKIJANA

Sin dagli inizi della tradizione occidentale del pensiero, gli studiosi si sono chiesti in che modo l’essere umano differisse
da altre specie animale. Da Darwin in poi la domanda è stata: come sono diventati differenti? Se le principali differenze
comportamentali e psicologiche le ritroviamo nella cooperazione e nella cultura, nessuna risposta potrebbe scaturire se
non fossero state proposte teorie adeguata alla comprensione del ruolo centrale dell’ontogenesi nel processo evolutivo.
Si tratta di progressi empirici e teorici che hanno determinato una teoria evolutivamente consapevole del processo
ontogenetico da cui scaturisce la psicologia umana. Ora il nostro obbiettivo è guardare oltre la classica via di sviluppo
ontogenetico costituita da: (1) adattamenti ad uno stile di vita cooperativo o ipercooperativo e (2) abilità e motivazioni
d’intenzionalità condivisa.
TEORIE GLOBALI DELL’ONTOGENESI UMANA
L’analisi condotta fino ad ora, si concentra su un insieme di fenomeni che si limita alla distinzione tra la psicologia
umana e la psicologia delle grandi scimmie. Il problema delle teorie globali nella psicologia dello sviluppo
contemporanea è che non sono focalizzate sulla questione dell’unicità umana. Solo la teoria classica di Vygotskj, per
certi versi, non è globale. Buona parte degli studi si concentrano sul singolo bambino con le sue potenzialità individuali.
Questo approccio allo sviluppo umano è tipico di Piaget (1970). Egli sviluppa un resoconto individualistico
dell’ontogenesi della conoscenza logico-matematica. Si concentra sulle azioni palesi degli infanti strutturate e veicolate
da un tipo di logica pratica o di razionalità. Quello che Piaget chiama “conoscenza figurativa” riguarda i fatti specifici sul
mondo che i bambini imparano, simbolizzano e, di conseguenza, interiorizzano. Piaget si richiama regolarmente anche
al concetto di autoregolazione o equilibrazione; ossia una fora che coordina la conoscenza in modo endogeno. La teoria
riconosce il ruolo dell’ambiente spaziale nel plasmare lo sviluppo individuale: il bambino come uno scienziato esplora il
suo ambiente, lo sperimenta, e impara dai risultati a capire come funzionano le cose. Piaget, però, non offre spiegazioni
del perché gli esseri umani siano andati oltre le grandi scimmie. Una linea di studi alternativa è rappresentata da Spelke
(2009), secondo il quale umani e scimmie condividono una ‘conoscenza nucleare’ di base del mondo: in termini di
spazio, causalità, agentività e quantità; ma poi, durante lo sviluppo, l’essere umano acquisisce il linguaggio. Il linguaggio
arricchisce l’uomo di un mezzo rappresentazionale comune e di un insieme di meccanismi computazionali-combinatori
per manipolare mentalmente quelle rappresentazioni.

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