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Musica dai Saloni

suoni e memorie dei barbieri di Sicilia


Compagnia di canto e musica popolare

musiche raccolte e rielaborate da Giuseppe Calabrese


e Domenico Pontillo

a cura di Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio Piscopo


prologo di Andrea Camilleri
con una nota di Sergio Bonanzinga

contributi di: Nino Agnello, Enzo Alessi, Gaetano Basile,


Marco Betta, Daniele Billitteri, Francesco Buzzurro,
Giorgio Chinnici, Carmelo Ciringione, Matteo Collura,
Nino De Vita, Salvatore Ferlita, Melo Freni, Girolamo Garofalo,
Mario Gaziano, Giuseppe Giudice, Pasquale Hamel,
Alfonso Lentini, Antonio Liotta, Giovanni Moscato,
Giovanni Lo Brutto, Salvatore Giovanni Loforte,
Giancarlo Macaluso, Antonio Patti, Giacomo Pilati, Mario Pintagro,
Paolo Polizzotto, Vincenzo Prestigiacomo, Otello Profazio,
Giuseppe Quatriglio, Alessandro Russo, Nonò Salamone,
Gaetano Savatteri, Mario Scamardo, Angelo Scandurra,
Salvatore Sciortino, Nuccio Vara, Angelo Vecchio, Carmelo Vetro,
Stefano Vilardo, Calogero Zarcone

fotografie di Antonio Giordano, Giuseppe Leone,


Melo Minella, Carlo Puleo

CASA MUSEO
ANTONINO UCCELLO
Questo volume, stampato su autorizzazione dell’Assessorato dei
Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione della Regione
Siciliana, è la seconda edizione, ampliata e riveduta del volume
Musiche dai Saloni, a cura di Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio
Piscopo, Casa museo Antonino Uccello, Palermo 2008.

© testi, musiche e fotografie: riservato agli Autori/Compositori,


a eccezione del testo di G. Basile tratto, per gentile concessione,
da Palermo felicissima (o quasi...), Dario Flaccovio Editore, Palermo

sound engineer: Roberto Terranova, studio U sciauru du suonu,


Polizzi Generosa (Palermo)

compact disc cdipsa 07 allegato

progetto grafico di Ugo Sepi, selezioni iconografiche di Guido Mapelli

2009, Nuova Ipsa Editore srl, via G. Crispi, 50, 90145 Palermo
www.nuovaipsa.it - e-mail: info@nuovaipsa.it

Musica dai saloni : suoni e memorie dei barbieri di Sicilia : compagnia di


canto e musica popolare / musiche raccolte e rielaborate da Giuseppe Calabrese
e Domenico Pontillo ; a cura di Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio Piscopo ;
prologo di Andrea Camilleri ; con una nota di Sergio Bonanzinga ; contributi
di Nino Agnello … [et al.] ; fotografie di Antonio Giordano … [et al.]. -
Palermo : Nuova Ipsa, 2009.
(Mnemosine ; 13)
ISBN 978-88-7676-398-4
1. Musica popolare siciliana. I. Calabrese, Giuseppe. II. Pontillo, Domenico.
781.62009458 CDD-21 SBN Pal029816

CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”


Indice

PROLOGO
9 Il salone di don Nonò
di Andrea Camilleri

13 Introduzione
di Gaetano Pennino

RETABLO
25 Barbieri che ciarlano, che epurano, che cantano e che piangono.
Che ammazzano e che radono gli altri e forse anche se stessi
di Salvatore Ferlita
30 A Licata
di Angelo Vecchio
32 Barbieri a…
di Carmelo Vetro
36 Il barbiere Felice
di Antonio Patti
44 Il barbiere del principe irrequieto
di Vincenzo Prestigiacomo
46 Barbieri del passato
di Giorgio Chinnici
51 Antichi barbieri
di Melo Freni
52 Concertini da barbiere
di Matteo Collura
53 Il naso tranciato
di Giovanni Lo Brutto
54 Il mio barbiere
di Giuseppe Quatriglio
55 Il fascino di un tempo
di Girolamo Garofalo
58 Barbieri di Sicilia
di Gaetano Basile
60 Gli specchi del barbiere
di Alfonso Lentini
64 Il barbiere
di Angelo Scandurra

–5–
68 Il barbiere del salasso
di Nino Agnello
71 Il barbiere americano
di Giancarlo Macaluso
73 Lu Saluni
di Stefano Vilardo
77 Don Giacomino Terzo
di Pasquale Hamel
80 Mazurkette e onesteppini
di Otello Profazio
82 Forbici come farfalle
di Daniele Billitteri
85 Paolo
di Alessandro Russo
88 Fammi vedere le mani
di Nonò Salamone
90 Barbieri
di Salvatore Giovanni Loforte
92 Carluzzo u varveri
di Giacomo Pilati
94 Il barbiere di paese
di Calogero Zarcone
97 I bambini e i barbieri
di Giuseppe Maurizio Piscopo
100 Un tuffo nel passato: il salone da barba
di Giuseppe Giudice
102 Il barbiere Mastru Pippinu Curamasi
di Mario Scamardo
106 La storia vera del “barbiere” Caliddu Rusatu
di Antonio Liotta
108 La “prima” poltrona girevole da barbiere
di Mario Gaziano
109 Un barbiere
di Mario Pintagro
110 Papà Saro e il karaoke primordiale
di Nuccio Vara
113 Sale da barba e musica
di Giovanni Moscato

–6–
114 Ron Pinu
di Nino De Vita
117 Li barbera di na vota
di Salvatre Sciortino
118 I mastri Nicolò
di Gaetano Savatteri
120 Musica sotto le stelle
di Paolo Polizzotto
121 Un barbiere della mia infanzia
di Giuseppe Maurizio Piscopo
124 Memoria e tradizione
di Carmelo Ciringione
127 Racconti di barbieri
di Enzo Alessi

NOTA
129 I barbieri maestri di musica
di Sergio Bonanzinga

LE MUSICHE
143 Una musica possibile
di Marco Betta
145 Barbieri e musicanti
di Francesco Buzzurro
146 Sala da barba
di Giuseppe Calabrese
147 Ricordi di barbieri
di Domenico Pontillo
148 La fisarmonica del barbiere siciliano
di Giuseppe Maurizio Piscopo
151 Nota documentaria e guida all’ascolto
di Gaetano Pennino

158 Riferimenti

161 Notizia sugli autori

–7–
NOTA

I barbieri maestri di musica


di Sergio Bonanzinga

Il mio interesse per la ricerca etnomusicologica è nato – come spesso acca-


de – da una forte passione per la “musica pratica” che, a partire dal 1975, si è
orientata verso le forme del folk revival (italiano, “celtico”, anglo-americano)
e della musica “antica” (tra Medioevo e Rinascimento). Lo strumento che in
prevalenza suonavo era la chitarra acustica, senza mai avere tuttavia segui-
to una formazione canonica: si imparava ascoltando i dischi e consultando
i pochi manuali che contenevano trascrizioni musicali su intavolatura per
consentire una più agevole lettura dei brani anche ai principianti. A quel
tempo non avevo una chiara idea di cosa esattamente si dovesse intendere
per “musica tradizionale”: ritenevo che il francese Alan Stivell, artefice del
revival dell’arpa bretone, fosse uno scrupoloso ricercatore e che solo nelle
osterie emiliane cantate da Francesco Guccini si mantenessero vive le belle
tradizioni di una volta. Conoscevo il folklore musicale napoletano attraver-
so il lavoro di Roberto De Simone e della Nuova Compagnia di Canto Popolare,
ma ignoravo chi fossero Orazio Strano e Ciccio Busacca (cantastorie celebri
anche fuori dalla Sicilia), né avevo mai sentito parlare di cantastorie “cie-
chi” (i cosiddetti orbi) o di barbieri “maestri di musica”. L’infanzia trascorsa
a Torino e l’adolescenza passata a Messina hanno certamente contribuito a
determinare questa intensa “miopia” culturale: da piccolo per me la Sicilia
era solo il luogo delle vacanze estive coi parenti e il tipo di vita che ho con-
dotto negli anni delle medie e del liceo – da figlio di librai con bottega in
centro-città – non mi ha certo stimolato a coltivare un rapporto consapevole
con il “mondo popolare”. In compenso nel periodo dell’università (1977-83),
sempre frequentata a Messina, ho iniziato a occuparmi di ballate e danze
di tradizione angloceltica. Imparai tutto sulle child-ballads, ovvero i canti
narrativi che il filologo James Child riteneva appartenenti a una tradizio-
ne orale anteriore all’introduzione della stampa a caratteri mobili, e sulle
broadside-ballads, cioè le canzoni che venivano appositamente composte
per essere commercializzate sui “fogli volanti” in Gran Bretagna e negli
Stati Uniti. Ho trascorso quasi un anno in Inghilterra a raccogliere il ma-

– 129 –
teriale per la mia tesi di laurea in Scienze Politiche, dedicata ai canti che
riflettevano il contrasto tra liberali e conservatori in relazione agli ideali
promossi dalla Rivoluzione Francese. Un tema che fece sorridere due
fra i più noti studiosi e ripropositori del canto popolare britannico come
Ewan MacColl e Peggy Seeger: non perché fosse poco pertinente, ma
per la singolarità della mia provenienza. Per loro la Sicilia continuava
infatti a essere una specie di eldorado del folklore: erano amici di Alan
Lomax che insieme a Diego Carpitella vi aveva registrato nel 1954 docu-
menti musicali di eccezionale valore, e conoscevano dell’Isola cose a me
del tutto ignote! Durante gli ultimi due anni di università, concentrati
quasi esclusivamente sulla preparazione della tesi, proseguii i miei di-
sordinati studi musicali e continuai a esercitarmi con la chitarra, apren-
do infine uno spiraglio anche sul contesto che mi circondava. È stato
Diego Carpitella – docente di etnomusicologia all’Università di Roma
“La Sapienza” che curava da correlatore esterno il mio lavoro di tesi –
a suggerirmi di volgere lo sguardo alla Sicilia, che riteneva ancora un
fertile terreno per la ricerca etnomusicologica. Tra l’ascolto delle poche
antologie discografiche all’epoca disponibili (in particolare quelle curate
da Antonino Uccello e da Elsa Guggino), la lettura di alcuni testi basilari
(da Pitrè a Favara), la consultazione dei cataloghi delle due maggiori
istituzioni nazionali che avevano promosso la documentazione sonora
del folklore musicale in Italia (il Centro Nazionale Studi di Musica Popolare
dell’Accademia di Santa Cecilia e l’Archivio Etnico Linguistico-musicale
della Discoteca di Stato) e i primi approcci diretti con suonatori e cantori
popolari, iniziai quindi a inoltrarmi in questo “nuovo” territorio, senza
prevedere che avrei passato i successivi decenni a esplorarlo con costan-
te dedizione.
In continuità con la passione musicale che mi ha spinto verso l’etnomu-
sicologia come “mestiere”, ho in seguito rivolto ai repertori tradizionali che
includevano la chitarra una particolare attenzione, rilevandone la più attiva
e significativa persistenza proprio in relazione alla categoria professionale
dei barbieri. Accolgo allora con gratitudine l’invito di Gaetano Pennino e
Giuseppe Maurizio Piscopo a offrire una testimonianza nell’ambito di que-
sto volume che racconta le “musiche dei saloni” in modo tanto originale,
ricordando le figure di alcuni barbieri-musici conosciuti nel corso delle mie
ormai venticinquennali indagini tra gli scaffali delle biblioteche e le genti
della Sicilia.

– 130 –
A Malvagna, un piccolo centro nella parte alta della valle dell’Alcanta-
ra in provincia di Messina, incontro nel giugno del 1984 il barbiere Nino
Trapanotto. Resto molto sorpreso nell’osservare un suonatore “popolare”
siciliano utilizzare la chitarra con una tecnica pizzicata con le dita, non
molto diversa da quella che io avevo appreso attraverso le intavolature
delle fiddle-tunes angloceltiche o dei blues afroamericani (il cosiddetto fin-
ger-picking). Diverse volte, negli anni seguenti, torno a incontrare il barbie-
re di Malvagna, documentandone ampiamente il repertorio, sia solista sia
insieme a mandolino e scacciapensieri (alcuni di questi brani strumentali
sono editi in un’antologia discografica da me curata: cd.2004). L’apprendi-
stato musicale di Nino, come lui stesso narra in due interviste raccolte tra il
1985 e il 1986, si è svolto secondo tradizione presso vari saloni da barba:

Io sono andato a scuola qui a Malvagna frequentando fino alla


quinta elementare e nello stesso tempo, all’età di otto o nove an-
ni, mia madre cominciò a mandarmi da un barbiere – il signor
Vincenzo Calcagno – che aveva la bottega in piazza. Siccome que-
sto Calcagno era fornito di chitarra e mandolino ed era un bravo
suonatore, io oltre a imparare qualcosa sulla barba e sui capelli
mi divertivo a strimpellare a orecchio. Guardavo le posizioni del-
le dita sulla chitarra e poi le riprovavo per conto mio, mentre il
mandolino lo studiavo trovando da solo le note dei pezzi che mi
piacevano. Successivamente, quando avevo quattordici anni, mia
madre mi mandò a lavorare a Giardini – vicino Taormina – nel
salone di un certo Lombardo, dove ho incontrato un ragazzo di
nome Pippo Lo Cascio che lavorava lì e allo stesso tempo pren-
deva lezioni di musica da un bravo maestro. Così man mano che
lui prendeva lezioni suonavamo spesso insieme. Quello è stato il
periodo in cui sono migliorato a suonare, solo che Pippo ha avuto
la possibilità di continuare a studiare musica e infatti ha smesso
di fare il barbiere e ora dirige un’orchestrina con cui ha suonato
in Sudamerica e in tutta Europa, mentre io non ho avuto la stessa
possibilità e sono rimasto suonando musica popolare. Ho comin-
ciato suonando contemporaneamente sia la chitarra che il man-
dolino e non ho preferenze, mi piace suonarli tutt’e due, dipende
dai casi. Se c’è un bravo suonatore di mandolino mi diverto ad
accompagnarlo con la chitarra e viceversa. Suonando la chitarra
con le dita per me il suono è più melodioso, perciò se una sonata
è dolce mi piace accompagnarla con le dita ma se bisogna suonare
più forte allora uso la penna. Comunque se uno è solo conviene
sempre suonare con le dita.

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Quando avevo sedici anni sono andato a lavorare a Roma e per tre
anni ho lavorato in un salone in piazza Bologna. In quel periodo
quasi smisi di suonare perché era tempo di guerra e bisognava
pensare piuttosto a mangiare. Poi, durante il servizio militare, ho
ricominciato a suonare in un’orchestrina con fisarmonica, tromba,
violino e due clarini. Eravamo un gruppetto di Calabresi, Abruz-
zesi e Siciliani tutti sotto le armi, così ci divertivamo a suonare
specialmente canzoni napoletane come la famosa Na sera e maggio.
Al ritorno dal servizio militare ho aperto un salone da barba qui a
Malvagna, avevo una buona clientela e spesso mi passavo il tem-
po a suonare. La sera chiudevo il salone e mi ritiravo a casa alle
quattro del mattino perché si andava in giro per i paesi a portare
le serenate. Dopo qualche anno mi sono sposato e ho avuto una
bambina, così sono dovuto andare a lavorare all’estero. Andai in
Svizzera, a Baden, dove facevo sia il barbiere che il parrucchiere
per donna. Sono rimasto in Svizzera per oltre dieci anni e in quel
periodo sono capitato in un’orchestrina che suonava musica na-
poletana e ballabili (valzer, tango ecc.) nei ristoranti e nelle baite;
una volta siamo andati a suonare pure a Saint Moritz. Poi sono
rientrato a Malvagna dove ho ripreso la mia attività di barbiere
e ho aperto un negozio di generi alimentari per mia moglie. Tor-
nato al paese mi sono rimesso a suonare per passatempo con il
mio vecchio principale, il signor Calcagno. Insieme ad altri due
signori di Roccella, padre e figlio che suonavano il clarino, e ad un
altro amico di Moio che suonava la fisarmonica, si andava in giro
per portare qualche serenata oppure, se ci capitava, suonavamo
nelle feste in famiglia e nei matrimoni per far ballare gli invitati.
Quando portavamo le serenate si suonava sempre Speranze perdute
[CD: 1] e tanti altri valzer di cui non ricordo più il titolo. In Sviz-
zera, con quell’orchestrina, suonavamo nei ristoranti e nelle baite
e ci pagavano bene, ci davano ottanta franchi per sera. Invece nel
paese abbiamo sempre suonato per amicizia tutte le volte che c’era
da divertirsi.
Raccontava mia madre che qui a Malvagna c’era una volta una fa-
miglia, chiamata la famiglia dei Pantani, questi suonavano tutti a
orecchio ma erano così bravi perché era gente che sentiva veramen-
te la musica. Se si chiede nel paese a gente antica ancora ricordano
di questi Pantani che suonavano: avevano la chitarra, il contrabbas-
so, il violino, avevano tutti gli strumenti. Io però non ricordo nem-
meno quando loro suonavano, era un racconto di mia madre e di
tutti i paesani. Poi c’era uno che si chiamava Nino Restuccia che fa-
ceva il pastore e non sapeva niente di musica, ma era un fenomeno
per quanto riguardava il suonare la ciaramedda [zampogna]. Si era
costruito un marchingegno che gli permetteva di suonare, contem-

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poraneamente alla ciaramedda, la cassa con il piede e i piatti sopra
la testa. Aveva fatto la cassa con un crivello di quelli che si usavano
per cernere il grano e una pelle che solo lui sa dove l’aveva trovata.
Era veramente un fenomeno. Specialmente nei giorni di Natale a
Malvagna c’erano molti che suonavano la ciaramedda ma questo
Restuccia era il più bravo di tutti. Diverse volte mi è capitato di
accompagnarlo con la chitarra: suonavamo qualche valzer o bal-
letto e una tarantella siciliana che lui faceva con la ciaramedda. Ora
è rimasto un solo ciaramiddaru anziano che è di Malvagna anche
se abita a Moio, si chiama Nunzio Ponticello. Mi ricordo di un altro
che si chiamava Panebianco, suonava il mandolino, la chitarra, e
anche il violino, era più grandetto di me e adesso è morto. C’erano
altri due con cui ho suonato spesso, di nome Bongiovanni e Pagano,
erano bravissimi e sapevano suonare parecchi strumenti ma ora si
sono trasferiti a Roma e non c’è più occasione di stare insieme. Qua
si è sempre andato molto d’accordo e ci sono sempre stati bravi suo-
natori. Questo è stato sempre un paese di musica e difatti c’è una
diceria su come si è formata la banda di Malvagna. Una volta c’era-
no due fratelli, i Greco, e uno dei due era maestro della banda di
Francavilla. L’altro allora pensò di venire a Malvagna a fondare una
banda e dopo un po’ di tempo questi Malvagnoti scesero a suonare
a Francavilla. Tutti si stupirono di quanto erano intonati i Malva-
gnoti e allora il maestro chiese al fratello di Francavilla: «Che te ne
pare della musica di Malvagna?» E quello gli rispose: «Non è barba
tua, è proprio u chiappareddu che è intonato!» Questo per dire che la
gente di Malvagna la musica ce l’ha sempre avuta nel sangue.
Molte delle sonate che faccio adesso le ho imparate fin da ragazzo
quando andavo da Calcagno. Per esempio quella polca tutta varia-
ta l’ho imparata allora insieme ad altri ballabili (mazurche, taran-
telle, ecc.), ma altre sonate che faccio con la chitarra non me le ha
insegnate nessuno, le ho fatte io di mia iniziativa. Sono cose che
mi sono venute all’orecchio e le ho suonate: sono un misto di tutta
la musica che ho sempre ascoltato. Mi piacciono soprattutto quelle
canzonette che sono più melodiche, ma poi tutta la musica per me
è bella, anche se preferisco il genere melodico. Io sono contrario al
“rumorismo” che c’è di questi tempi, non sono un appassionato di
questo genere di cose. Capisco che c’è musica difficile, il jazz per
esempio: ma a me non quadra, a me piacevano quelle serenate che
si portavano una volta, quelle canzoni napoletane, per me erano
tutto! Comunque a me la musica continua a piacermi, come l’altra
sera quando alla televisione c’è stato il grande tenore Pavarotti che
ha cantato Chitarra romana e Mamma, ed è stato bellissimo!

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Così Nino riassume il proprio iter di suonatore, ponendo in rilievo le
dinamiche sottese alla trasmissione del repertorio e delle tecniche d’esecu-
zione in un ambiente artigiano-paesano parecchio esposto a contatti e in-
terferenze con la musica di circolazione commerciale. Nonostante le varie
esperienze in Italia e all’Estero, il barbiere di Malvagna mantiene un saldo
legame con le proprie radici, enfatizzando il versante individuale della
propria competenza musicale, come di frequente accade tra i suonatori
più abili. In modo sintetico ma efficace il suonatore esprime anche il pro-
prio parere riguardo all’opportunità di usare le dita oppure il plettro, ri-
spettivamente per le sonate soliste o per l’accompagnamento di strumenti
melodici (mandolino, violino, flauto di canna, ecc.). Utilizzando il pollice
e l’indice della mano destra, rispettivamente per bassi e linea melodica,
Nino suona infatti diversi brani: due pasturali (pastorali), due tarantelle,
una canzonetta (Amor di pastorella) e una ciaramiddara (“zampognara”).
Trapanotto esegue quest’ultimo brano combinando l’uso delle due
mani sulla tastiera per ottenere un effetto “legato”. Si tratta di una rudi-
mentale forma di tapping esplicitamente intesa a imitare il suono “conti-
nuo” tipico della zampogna. La medesima tecnica è stata documentata
tra suonatori popolari anche in altre occasioni e non soltanto in Sicilia.
In particolare ricordo a sunata cû pèttini (la sonata col pettine) registrata
nell’agosto del 2001 grazie all’esecuzione di Michele Rifici – macellaio a
Sant’Angelo di Brolo (Messina) – con la collaborazione di Mauro Geraci,
antropologo-cantastorie che era presente all’incontro insieme ad altri cari
amici e colleghi (Andrea Carpi, Laura Faranda e Fatima Giallombardo). Si
tratta di un tipico “divertimento” da sala da barba, dove lo strumento da
lavoro – appunto il pettine – si impiega per marcare il ritmo percuotendo
le tre corde più acute, mentre il chitarrista esegue con il tapping la parte
melodico-armonica del brano (in questa circostanza una tarantella).
Il 25 ottobre del 1987 approdo a Lipari, la principale delle Isole
Eolie (provincia di Messina), dove incontro Bartolo Ruggiero, detto
Bartuluzzu, che fino al 1984 teneva un salone da barba in paese. Come
Nino Trapanotto, anche Bartuluzzu è suonatore “di mano” (sunaturi i
manu), mentre chi invece usa il plettro è suonatore “di penna” (suna-
turi i pinna). Oggi gestisce un negozio e suona quasi esclusivamente
il mandolino in un gruppo folkloristico. Compone anche canzoni dia-
lettali su temi locali (storie di santi, terremoti, pirati, ecc.) e vende le
audiocassette da lui stesso prodotte. Fino agli anni Sessanta, quando

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le Eolie stavano solo iniziando a entrare nei grandi circuiti turistici,
partecipava però ancora alle cadenze della vita tradizionale, accompa-
gnando i balli nelle occasioni festive (battesimi, matrimoni, Carneva-
le) e “portando” le serenate per le contrade dell’Isola. Bartuluzzu rac-
conta che riusciva a far ballare la gente solo con la chitarra, eseguendo
valzer, polche e mazurche, insieme ai bballitti (balletti) siciliani appresi dai
suonatori più anziani, non a caso pure barbieri:

Sono autodidatta. Ho imparato soltanto guardando altri: barbieri,


calzolai… e i miei fratelli che suonavano pure. La prima chitarra me
l’ha comprata mio padre che faceva il macellaio. Ho iniziato a suo-
nare quando ero apprendista da barbiere: cercavo di guardare gli
accordi che facevano quelli più grandi di me. Il salone era un “con-
centramento” di suonatori: anche se non erano barbieri venivano ap-
posta per suonare. Perlopiù suonavano mandolino e chitarra, qual-
cuno, raramente, il violino, e qualche altro il contrabbasso. Qualcuno
si divertiva anche ad accompagnare con i cucchiari, i cucchiai. C’era
un cieco che suonava l’organetto: u zzù Vanni Giardina. Si suona-
vano mazurche, tanghi, valzer, polche, tarantelle, qualche canzone
che era “di moda” e contradanze. Poi ho imparato pure a leggere un
poco la musica, con grandi sacrifici: alla scuola di musica ho appreso
qualcosa di solfeggio.
Si facevano le serate nelle case private, dove si offrivano dolci e
vino: si spizzicava, si suonava e la gente ballava. La contradanza
si usava molto: si “comandava” in dialetto, mettendo pure qualche
parola in francese. Noi suonatori, se eravamo quattro, facevamo un
turno di due e due. Poi si portavano le serenate. Le serenate che si
facevano a Lipari consistevano in questo: se si faceva a una ragazza
si suonavano tre pezzi; se erano fatte a degli amici si suonavano
due pezzi; se era una serenata di “disprezzo”, per la famiglia, si
faceva un solo pezzo. Nelle serenate per gli amici dopo che si suo-
nava il padrone di casa ci faceva entrare. Quando era per “amore”
non sempre si entrava, perché allora l’amore era sempre difficile…
Quindi, se c’era il consenso della famiglia si entrava, se no rimaneva
la serenata “anonima” e ce ne andavamo, perché c’era anche il peri-
colo di bastonate. Nelle serenate “a complimento” si suonavano le
canzoni d’amore più in voga, ma solo con gli strumenti, senza can-
tare. Nelle serenate “a dispetto” si suonava una tarantella, magari
friscannu e stonannu [fischiando e stonando]. Io poi, nel tempo, ho
inventato una serenata da cantare: Anciulinedda mia.
Fino a venticinque-trent’anni fa mi dedicavo di più alla chitarra.
Facevo tanti pezzi. Addirittura facevo ballare le coppie solo io con

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la chitarra: valzer, mazurche, tarantelle… facevo di armonia e di
canto con le dita, con il pollice e l’indice. Così suonavano due vec-
chi barbieri: Nanai Costa e Felice Famularo. Questi avevano almeno
venticinque anni più di me, che sono del 1924. Vedere un vecchio
che suonava in quella maniera per noi era una cosa grande: a quei
tempi erano dei veri capolavori! Da loro ho appreso pure la famosa
Spagnola e un’altra sunata senza titolo, ma la chitarra si deve accor-
dare in un’altra maniera: il mi si deve accordare a re e il la con il sol.
Io poi, con la stessa accordatura, usando però anche un bicchiere,
ho fatto un pezzo che ho chiamato Fiordaliso: questo non l’ho visto
fare a nessuno dei vecchi, questo l’ho fatto io.
A me piace la musica di ogni genere, meno quella “moderna”: mi
fa sentire male di salute! Specialmente quella della discoteca, mi fa
sentire male a tutto il corpo!

L’impiego dell’accordatura in SOL “aperto” (a partire dal basso: re/sol/


re/sol/si/re), nei brani Spagnola (edito nell’antologia discografica sopra cita-
ta) e Sunata, il ricorso a un bicchiere per realizzare effetti slide (nel brano
intitolato Fiordaliso) e la raffinata tecnica solistica esibita in una serie di
melodie da ballo alla chitarra (tarantella arcudara, cioè “di Alicudi”, val-
zer, mazurca e polca) e al mandolino qualificano Bartuluzzu come il più
straordinario barbiere-musico da me incontrato: erede di una tradizione
antica e prestigiosa, come qualche tempo dopo arrivai più precisamente
a comprendere.
Accingendomi a curare l’edizione italiana di una raccolta di musiche
popolari siciliane effettuata all’inizio dell’Ottocento dal compositore te-
desco Jakob Meyerbeer (pubblicata per i tipi di Sellerio nel 1993, cfr. Bose
1993), mi sono difatti imbattuto – come ha già ricordato Gaetano Penni-
no nell’introduzione a questa pubblicazione – in un documento notarile
messinese del 1491 individuato e trascritto da Gaetano La Corte Cailler
(1907: 150). Attraverso questo atto il barbiere Gregorius de Berto si impe-
gnava a insegnare al suo allievo Giovanni Speciale alcune composizioni
vocali con accompagnamento strumentale (fra cui due siciliane), alcuni
brani strumentali (la baxa francesa et dui mutanczi, cioè una bassa danza e
due variazioni) e altre cantilenas ad discretionem dicti magistri gregorii. Inol-
tre, il de Berto rimetteva a un altro magister (presumibilmente anch’egli
“mastro” barbiere) il giudizio sulla bontà dell’insegnamento, allo scopo
di acquisire in via definitiva il compenso anticipatamente versato dal suo
allievo. Il documento non solo mette direttamente in relazione all’ambien-

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te popolare un repertorio musicale di origine culta, ma ne inquadra anche
la trasmissione all’interno della classe professionale dei barbieri. Si tratta
della più antica attestazione di un sapere musicale che, sebbene innovato
e trasformato attraverso i secoli, ha continuato a mantenere le coordinate
tuttora rilevabili. Nel corso del tempo sono cambiati gli strumenti (una
volta liuti e fidule, più tardi chitarre, violini, mandolini, ecc.), così come
si sono avvicendate le forme vocali (dalle siciliane alle canzonette, dalle ro-
manze alle canzoni moderne) e le forme strumentali (dalla bassa danza alla
gagliarda o al cinque passi, dalle tarantelle e fasole al repertorio del liscio), ma
il “senso” complessivo di questa tradizione musicale è rimasto immutato,
nonostante l’abbandono di modalità d’apprendimento rigidamente for-
malizzate: i barbieri “maestri di musica” che ho conosciuto hanno appre-
so imitando i più anziani e non retribuendone appositamente le lezioni.
Le barberie non erano tuttavia soltanto delle “accademie musicali” ante
litteram, poiché vi si svolgevano comunemente anche svariate pratiche te-
rapeutiche, come ho potuto apprendere scorrendo le pagine dedicate da
Giuseppe Pitrè alla Medicina popolare siciliana (1896: 16-17):

Il medico, a dire del volgo, dev’esser vecchio, il chirurgo giovane,


il farmacista ricco: Medicu vecchiu, varveri picciottu e spiziali riccu. Il
proverbio parla di barbiere e non di chirurgo, perché la bassa chi-
rurgia era esercitata in Sicilia dai barbieri; né l’uso è cessato, giacché
in Sicilia il salasso è sempre operato dal barbiere e non mai dal chi-
rurgo o dal medico. Dice il proverbio: Ogni varveri sagna; ed il bar-
biere è cercato e consultato non solo, come abbiam visto, pei salassi,
non solo per le medicature più comuni, ma anche per lo innesto
del vaiuolo, pel cauterio, per l’apertura di qualche accesso, per le
lussazioni, per le fratture, per le ferite e soprattutto per le malattie
veneree o, più propriamente dette, sifilitiche (malatii di fimmini, mali
francisi). […] Né ciò è tutto. Il barbiere fa anche il medico, e per lo più
di quelle malattie che il medico è spesso impotente a guarire: p. e.,
della difterite. È incredibile la fiducia che il barbiere gode anche nel-
le grandi città, e la posa che piglia nel tastare il polso, nel toccare la
lingua degli infermi, nell’ordinare medicine. Egli sapendo appena
scrivere, o non sapendo scrivere affatto, detta la sua prescrizione,
che è una formula delle più comuni, e la manda al farmacista del
rione o del vicinato, il quale senz’altro la spedisce.

I barbieri erano quindi apprezzati nell’arte medica ancora di più che


nella pratica musicale: una duplice competenza che determinò la loro na-

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turale assunzione entro una singolare forma di terapia attuata per sanare
le conseguenze dei morsi delle “tarantole”. Come nella Puglia salentina,
dove il fenomeno del tarantismo è stato più a lungo e intensamente atte-
stato (cfr. De Martino 1961), anche in Sicilia ragni più o meno venefici
mordevano soprattutto i contadini durante il periodo della mietitura, tra
la fine della primavera e l’inizio dell’estate (ne venivano ancora registrati
casi sporadici fino all’inizio del Novecento). Attraverso l’esecuzione di
speciali canti e melodie si “diagnosticava” il tipo di tarantola responsabile
del morso, finché la vittima, attraverso una estenuante danza frenetica,
non desse segno di avere espulso il male. Senza volere qui richiamare la
questione del tarantismo nella sua complessa articolazione storica e sim-
bolica, è significativo segnalare che nell’unica canzone a ballo siciliana
ispirata al “morso della tarantola” si invoca proprio l’intervento musico-
terapeutico del barbiere: Mi pizzica, mi pizzica, mi pizzica lu peri. / Chiamàti-
mi, chiamàtimi, chiamàtimi u vàrveri (cfr. Favara 1957/II, 433-435). A questo
proposito non è superfluo ricordare come proprio un barbiere-musico sia
stato il più importante esponente dell’ultima fase del tarantismo pugliese
(cfr. Stifani 2000).
La varietà delle tecniche impiegate dai barbieri-chitarristi (finger-
picking, tapping, slide, impiego di accordature “aperte”), che tanto mi
avevano colpito via via che procedevo nelle mie indagini, si andava
così coniugando a una più avvertita collocazione culturale di questi
straordinari protagonisti della musica popolare. Altri ne ho conosciuti
e ne continuo a incontrare durante le ricerche che svolgo in ogni parte
della Sicilia: da Messina a Sortino, da Buccheri a Mezzojuso. Questa nota si
può chiudere con la rievocazione della strana circostanza che da un salone
da barba di Roma mi ha portato nel centro della Sicilia, sulle tracce di un
altro barbiere maestro di musica.
Durante un soggiorno romano nella primavera del 1989, chiedo a
Francesco Giannattasio – allievo anche lui di Carpitella e all’epoca già
docente di etnomusicologia all’Università di Potenza – di indicarmi un
salone per farmi sistemare la barba. Dato che anche lui necessitava di
una sbarbatina, si va insieme da Filippo: un giovane siciliano che tiene
bottega alla Balduina. Chiacchierando, tra colpi di forbici e fruscio di
rasoi, viene fuori che anche io vengo dalla Sicilia e che, come l’altro suo
abituale cliente, mi interesso di musica popolare. Mi dice allora che il
suo vecchio principale a Mazzarino, un piccolo centro della provincia

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di Caltanissetta, è gran suonatore di chitarra e mandolino e che dove-
vo assolutamente andare a trovarlo per registrare le sue belle sunati. Il
barbiere-musico di Mazzarino si chiama Luigino Petralia, nome che scru-
polosamente annoto sull’agendina.
Qualche mese dopo mi trasferisco a Palermo per iniziare il mio dottorato
in discipline demoetnoantropologiche, sotto la guida di Antonino Buttitta, e le
mie energie sono del tutto assorbite nel dare assetto a questa nuova fase della
mia vita. È solo verso il 1995 che, seguendo per la tesi di laurea una studen-
tessa originaria di Mazzarino, mi torna alla mente il nome del barbiere di
cui chiedo subito notizie. Appreso felicemente che ancora campa, riesco
ad avere il suo numero di telefono e lo chiamo. Luigino è ormai anzia-
no e non esercita più la professione di barbiere, ma ancora si diletta a
suonare. Si ricorda addirittura che il giovane collega emigrato a Roma
gli aveva anni prima annunciato la visita di un “professore” da Palermo
e con entusiasmo mi invita ad andare a trovarlo. Per la seconda vol-
ta manco l’impegno, e sarà solo nel maggio del 1999, esattamente dieci
anni dopo la barba romana, che insieme a Fatima Giallombardo arrivo
infine a Mazzarino. Il tempo di Luigino Petralia era putroppo ormai sca-
duto, ma incontro due dei suoi antichi compagni: Umberto Guttadauro
e Pompeo Coniglio. Umberto è nato nel 1931 e fino al 1967 ha fatto il
barbiere. Da lui apprendo diversi particolari sulle occasioni musicali e
sugli organici strumentali del luogo:

Nelle “entrate” del fidanzamento, nei matrimoni, nei battesimi, nel-


le cresime e anche nelle festicciole in piazza ci chiamano a suona-
re. A Carnevale si facevano le serate dentro, nelle case, perché non
c’erano tutte le sale che ci sono oggi. Si faceva la contradanza: c’era
il “bastoniere” che comandava, c’era il contrabbasso, il violoncello,
il violino di prima e di seconda, banjo e mandolino, la batteria…
tanti strumenti c’erano. Il contrabbasso era suonato con l’arco, e
lo suonava un certo Luigi Corinto, che era un famoso suonatore.
Suonava pure il violoncello, però con le dita: certe sere portava il
contrabbasso, altre sere portava il violoncello (lui diceva a viola). E
suonava pure il violino!
Facevamo anche le serenate e infatti una sera è successo quello che è
successo: c’era il fidanzato che voleva una ragazza, però era “fidan-
zato” nella sua mente! Allora dice che dobbiamo fare una serenata
e andiamo… Messi dietro la porta a suonare, fatte due-tre sonate, il
padre ha aperto la porta ed è uscito con un bastone. Allora io: «Che

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cosa vuoi? A me mi hanno portato qua! Io che ne so se tua figlia è o
non è fidanzata?» Al “fidanzato”, che si era nascosto sotto un car-
retto: «Vieni qua! Ti vai a nascondere e mi fai ammazzare a me?» In-
somma: l’hanno preso, l’hanno messo dentro, l’hanno bastonato…
dopo otto giorni si è aperto il matrimonio! Si sono fatti fidanzati
ufficialmente e siamo entrati a suonare!

Oltre a confermare dati ormai acquisiti riguardo a circostanze e moda-


lità della vita musicale in ambito popolare, questa testimonianza pone in
evidenza l’assunzione nelle “orchestrine paesane” di alcuni strumenti di
matrice culta (violoncello e contrabbasso) e perfino d’importazione (ban-
jo). La cosa non è d’altronde così eccezionale: tra i suonatori ambulanti di
Catania con sonu grossu (suono grosso) si intendeva proprio un organico
strumentale ampliato che, oltre a chitarra e violino, prevedeva anche vio-
loncello e contrabbasso, mentre in tutta la Sicilia un violoncello o basset-
to a tre corde (citarruni) faceva coppia col violino nella tradizione degli
“orbi”, cioè dei cantastorie specializzati nel repertorio sacro. Guttadauro
(mandolino) e Coniglio (chitarra) eseguono con notevole perizia numero-
se sunati tipiche dei “barbieri”: cuntradanza, scotics (scottish), valzer, pol-
che, mazurche, tanghi e ben sette diverse tarantelle.
Ai due suonatori si aggiunge a un certo punto il figlio di Guttadauro,
Gaspare, pressoché mio coetaneo (classe 1956). Questi suona il mandoli-
no, sicché il padre può mostrare la propria abilità anche come chitarrista.
Gaspare ha appreso alla perfezione il repertorio degli anziani, anche se
gli piace strimpellare il jazz con chitarra elettrica e tastiera. Prima di salu-
tarci prende la chitarra e suona una tarantella. Con il plettro – a stecchetta
come dice lui – fa melodia e accompagnamento. Era la tecnica che man-
cava all’appello: avevo incontrato un “figlio di barbiere” che suonava in
flat-picking!

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