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Questo volume è stato stampato con il contributo dell’Assessorato Regionale dei Beni Culturali,
Ambientali e della Pubblica Istruzione. Dipartimento Beni Culturali, Ambientali
ed Educazione Permanente.
Infelice ch’io mi sono,
non riesco a sollevare il mio cuore
tanto alto quanto la mia bocca:
amo la maestà vostra per quanto
m’obbliga il mio dovere filiale:
né più, né meno.
[…] epperò vi obbedisco,
vi amo e vi onoro sopra tutti gli altri.
Ai miei Genitori
Indice
Premessa 7
Testi 145
Appendice
A. Le melodie e i canti nella Biblioteca di Giuseppe Pitrè 195
B. Le trascrizioni musicali nel Corpus di Alberto Favara 215
C. Il Viaggiu dulurusu di Binidittu Annuleru 225
Riferimenti 231
Il pittore inglese Arthur John Strutt così descrive i suoni che accom-
pagnavano la processione dell’Immacolata a Palermo nel dicembre del
1841, fornendo attestazione della presenza di un particolare strumento
musicale: una grande zampogna dotata di chiavi a vista, mancanti quin-
di della tipica copertura a barilotto detta “fontanella”. È questa la più anti-
ca testimonianza certa dell’esistenza in questa zona della Sicilia di un
aerofono policalamo a sacca molto simile a quelli tuttora diffusi nell’area
campano-lucana, con due canne melodiche diseguali (canta e trummu-
ni) e due bordoni (maggiore e minore, rispettivamente denominati quait-
ta e fasettu), ma che proprio nell’assenza di fontanella e – come si vedrà
– nell’adozione di un meccanismo a chiave doppia sulla canna melodica
più lunga (il trummuni), trova la sua specifica caratterizzazione.
Alcuni decenni più tardi sarà il demologo Giuseppe Pitrè a segnalare
la “ciannamella”, cioè la zampogna (in Sicilia ciaramedda), quale stru-
mento tipico – sempre insieme a castagnette e cerchietti – della novena
di Natale, rilevando nel contempo preziosi dettagli riguardanti il modo di
operare degli zampognari palermitani:
Premessa
7
Le modalità contestuali e le indicazioni relative al repertorio, con la
tipica articolazione in caddozzi, sono simili a quelle tuttora osservabili.
Questa prestigiosa tradizione musicale perdura difatti a Monreale, dove
sono attive alcune coppie (suonatore-cantore) che continuano a esegui-
re le novene presso abitazioni e botteghe anche ad Altofonte e a Paler-
mo. Nel Capoluogo gli ultimi suonatori sono invece scomparsi negli
anni Settanta del Novecento. Al territorio di Palermo-Monreale resta per-
tanto circoscritta, oggi come nel passato, la presenza di questo impo-
nente strumento (la canna maggiore innestata nel blocco poteva quasi
raggiungere i due metri), mentre nel resto dell’Isola si trova esclusiva-
mente la ciaramedda a pparu: di misura più contenuta, senza chiavi, con
le due canne melodiche di eguale lunghezza e per questo denominata
zampogna “a paro”.
Nonostante suonatori siciliani di zampogna a chiave siano stati ritrat-
ti in disegni e fotografie pubblicate su opuscoli, libri, periodici e cartoli-
ne tra il 1880 e il 1935, nella letteratura specifica non si giunge a distin-
guere con chiarezza la zampogna “a chiave” da quella “a paro”. Giusep-
pe Pitrè riproduce i due modelli senza rilevare differenze (1892, 1893,
1913) e Alberto Favara trascrive brani riferibili a entrambi i tipi di zampo-
gna non fornendo precisazioni a riguardo (cfr. Corpus, 1957). Ottavio
Tiby individua invece sommariamente le due tipologie, riportandone
misure e nomenclatura delle canne (1957: 87-88), ma ribalta l’effettiva
frequenza d’uso dei due strumenti, indicando la varietà “a paro” come
zampogna «meno usata» in Sicilia (1957: 88).
Nell’ambito delle campagne di audiorilevamento condotte nell’Isola a
partire dal 1948, la zampogna a chiave non è mai stata registrata1. Sebbe-
ne agli studiosi ne fosse nota l’esistenza, soprattutto attraverso una foto-
grafia d’epoca pubblicata prima da Emanuel Winternitz (1943) e poi da
Anthony Baines in un classico dell’organologia (1960, ed. riv. 1979)2, sol-
tanto nei primi anni Ottanta del Novecento questa particolare zampogna
sarà infine “ritrovata”, grazie a una singolare circostanza verificatasi nel
corso di una ricerca sulle pive (cornamuse) dell’area alpina condotta da
Roberto Leydi e Febo Guizzi. Nel Bergamasco la piva si era ormai estinta,
ma a Curnasco – poco distante da Bergamo – i due studiosi si imbattero-
no in Sebastiano Davì, un emigrato monrealese allora sessantacinquen-
ne che suonava la grande zampogna a chiave siciliana: «Dalla testimo-
nianza di questo suonatore si è potuto stabilire che la zona oggi di pre-
senza dello strumento è Monreale, dove vivono alcuni suonatori e anche
un costruttore, o meglio, un ex-costruttore, in quanto troppo anziano e in
non buona salute. Lo stesso suonatore “bergamasco” ogni anno torna a
Monreale, dal periodo dell’Immacolata a Capodanno, per le novene, che
esegue (con un cantore) sia a Monreale che a Palermo e in altri paesi della
zona, per lo più nelle case» (Guizzi-Leydi 1983: 87-88; cfr. anche CD brano
1). Con queste parole Febo Guizzi ricorda oggi l’episodio:
Quando “scoprii” Davì a casa sua vicino Bergamo, lui si rifiutò a lungo di
suonare poiché teneva lo strumento smontato in attesa di metterlo a punto,
alla fine di novembre quando tornava a Monreale per suonare; ma a quel
con didascalia «Player with zampogna» – si parla di una «gigantic Italian zampogna still
played in the Abruzzi» (1943: 76), Baines invece indica correttamente «Cornamusa, Sicily»
(1960: tav. XV).
8
punto, quando la zampogna tornava efficiente, lui spariva e sarebbe stato
necessario seguirlo in aereo per poterlo ascoltare e registrare. Per quello che
ne so, non si preoccupò mai di suonare nel periodo in cui era al Nord, alme-
no sino a quando non accettò di entrare nel giro della “ricerca”, che funzio-
nò, nel suo caso, soprattutto attraverso il coinvolgimento in concerti dai
quali poteva trarre anche un discreto guadagno. [Comunicazione personale]
Premessa
9
la dei Davì, di Monreale, cui appartengono due dei tre suonatori oggi atti-
vi. Sebastiano Davì, che oggi vive a Curnasco, presso Bergamo (ma torna
per suonare a Monreale) ha avuto il padre (Benedetto, morto nel 1971), il
nonno (Sebastiano, morto negli anni Trenta) e il bisnonno (Benedetto), tutti
zampognari. Zampognari anche gli zii (Salvatore, morto nel 1981 e Filippo,
nato nel 1886 e tuttora in grado di suonare). Zampognari anche il fratello
Pino (nato nel 1937) e i cugini. Pure il suocero di Salvatore Davì, Pietro
Grandesi [Gaudesi], suonava la ciaramedda. Anche Salvatore Carrozza è
figlio di un suonatore, Bernardo Carrozza, che però era zampognaro di
prima generazione.
Attualmente non vi sono costruttori di zampogna a chiave in Sicilia. A
Monreale vive Gaetano (Tano) Molone che è stato costruttore, ma che
oggi, per l’età e la non buona salute, non è più in grado di lavorare.
La zampogna a chiave viene usata, a Monreale, soltanto per la novena
natalizia. I suonatori non girano per le strade chiedendo l’obolo, ma si
recano nelle case su chiamata, o suonano all’aperto “scritturati” dai
comitati delle feste natalizie. Il repertorio comprende, quindi, quasi
esclusivamente brani religiosi. Ogni novena (durata 10-12 minuti) si
compone di tre caddozzi (brani, parti), che possono essere eseguiti sepa-
rati, uno dopo l’altro, o collegati, in una sola sonata. I brani principali del
repertorio attuale sono: Pastorale, Litania, La matri santa nutricava
(canto che anticipa, nella celebrazione natalizia, la immagine della Pas-
sione), Salve Regina, Il Figliol prodigo, San Giuseppe, Sant’Antonino,
Mira il tuo popolo, La Madonna di Fatima, Tu scendi dalle stelle e qual-
che brano “laico”, come Calabrisella e l’Inno di Garibaldi.
Oggi la zampogna a chiave di Monreale è strumento solista e di accompa-
gnamento al canto. La novena viene normalmente eseguita da una cop-
pia: suonatore e cantore. Non vi è uso di strumenti ritmici. Vi è però l’uso,
saltuario ma non eccezionale, della coppia zampogna-clarinetto. Questo
fatto potrebbe autorizzare l’ipotesi dell’esistenza, in passato, della ciara-
mella, poi perduta. [Guizzi-Leydi 1983: 88-89, 92-94]
10
La trasformazione della zampogna dal tipo “zoppo” a quello “a chiave”
si sarebbe quindi verificata nella prima metà del Settecento, «non solo per
le scarse attestazioni iconografiche che danno certezza assoluta (almeno
per ciò che ora sappiamo) solo per una datazione non precedente il 1739,
ma soprattutto per l’evidente ruolo “modernizzatore” assunto da questo
strumento nelle sue manifestazioni musicali più tipiche (e forse proprio
Palermo e Monreale da una parte, essendo le propaggini più periferiche
ed isolate della sua espansione, e la ristretta zona della Lucania dall’altra,
ove la zampogna a chiave è solista, hanno mantenuto i caratteri più arcai-
ci del suo stile e repertorio, nel primo caso con impronta “urbana” e semi-
culta, nel secondo con modalità dominate da una struttura modulare “da
tarantella”» (Guizzi-Leydi 1985: 108).
Questo lavoro si fonda su una esperienza di ricerca avviata nel 1986 e
tuttora in corso di svolgimento. La nostra indagine si è per un verso rivol-
ta all’ampliamento delle ricognizioni bibliografiche e iconografiche com-
piute da Guizzi e Leydi, mentre per altro verso si è concentrata sulla docu-
mentazione puntuale del complesso dei saperi che attualmente ruotano
intorno a questo tipo di zampogna e sulla ricostruzione della sua vicenda
storica (primi risultati in Bonanzinga vf.2003 e 2005a). Il rinvenimento di
alcune parti di una zampogna ottocentesca, “perduta” nei depositi del
Museo Etnografico Siciliano “Giuseppe Pitrè”, ha inoltre contribuito a ipo-
tizzarne l’originaria struttura scalare e la conseguente diteggiatura. L’os-
servazione di questo strumento, che è stato tra l’altro radiografato per rile-
vare l’esatta cameratura delle canne, ha suggerito di approfondire i lega-
mi della grande zampogna siciliana con l’oboe barocco (argomento speci-
ficamente trattato da Paola Tripisciano). Il riferimento alle pratiche musica-
li di epoca barocca è stato inoltre esteso al repertorio delle Pastorali orga-
nistiche, che sul piano della struttura formale e dei procedimenti compo-
sitivi presentano sorprendenti analogie con quelle tramandate dagli zam-
pognari dell’area palermitano-monrealese (questione esaminata in parti-
colare da Giovan Battista Vaglica).
I dati relativi alla tradizione attuale della zampogna a chiave siciliana si
devono principalmente alle testimonianze di Girolamo Patellaro (zzù
Momu), Benedetto Miceli e Salvatore Modica. La scelta si è orientata su tre
figure che raccordano il passato e il presente dello strumento. Patellaro, il
cui padre Giacinto era suonatore, rappresenta coloro che hanno vissuto
l’ultima fase storica in cui il mestiere di zampognaro era ancora pienamen-
te radicato nel sistema di vita della comunità. Miceli è nipote in linea
materna di Sebastiano Davì (zzù Nenè), ultimo “maestro” riconosciuto tra
gli zampognari monrealesi, dal quale ha ereditato competenze tecniche e
sapere musicale. Modica è zampognaro di prima generazione (il nonno
materno Filippo Madonia, che non ha conosciuto, era però ciaramiddaru),
ma con straordinaria passione ha prima appreso i modi del canto e poi
acquisito competenza nella prassi strumentale e nella costruzione delle
ance. Anzitutto a loro, che con paziente disponibilità hanno accettato di
riferire i particolari della propria arte, va la nostra più affettuosa gratitudi-
ne. La tradizione della zampogna a chiave di Monreale è stata inoltre testi-
moniata dalla signora Marianna Davì e dal marito Francesco Miceli (geni-
tori di Benedetto), dall’ebanista Giuseppe Flores (per gli aspetti legati alla
realizzazione delle parti in legno) e dai suonatori-cantori Salvatore e Ber-
nardo Carrozza (padre e figlio), Gaetano Campanella, Giacinto Davì, Bene-
detto Ferraro e Salvatore Patellaro (fratello minore di Girolamo). A tutti
loro manifestiamo un sincero ringraziamento.
Grazie alle preziose indicazioni fornite da parenti e conoscenti, abbia-
mo potuto anche ricostruire le vicende degli ultimi zampognari palermi-
tani ed esaminare i loro strumenti e accessori. Alle signore Rosalia e Vin-
Premessa
11
cenza Pennino e ai signori Santo Pennino e Vittorio Lo Iacono dobbiamo
le informazioni relative ai suonatori dell’antico rione marinaro della
Kalsa: Angelo e Girolamo Pennino (padre e fratello di Rosalia, Vincenza
e Santo) e Santo Lo Iacono (padre di Vittorio e nipote in linea materna di
Angelo Pennino), discendenti diretti di quel Santu Pinninu incontrato da
Favara alla fine dell’Ottocento. Alla signora Giuseppa Ferrante Amato e
ai signori Giuseppe Ferrante, Carmelo Di Salvo e Giuseppe Saglibene
siamo invece grati per le notizie relative ai tre fratelli Ferante, zampogna-
ri della “borgata” Guadagna. Le notizie riguardanti gli zampognari del
paese di Cinisi si devono alla cortesia delle signore Caterina e Giovanna
Puleo e del suonatore Vincenzo Briguglio, che ha per qualche tempo uti-
lizzato una zampogna a chiave di provenienza laziale. La tradizione tutto-
ra vitale delle pìffare (oboi popolari) nel centro madonita di Petralia
Soprana è stata documentata grazie ai suonatori Giuseppe Federico,
Antonino La Placa, Antonio Li Puma e Michele Cerami.
Per avere concesso la riproduzione di immagini, oggetti e documenti
sonori si ringraziano inoltre: la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana
(Palermo, Assessorato regionale Beni Culturali, Ambientali e della P.I.); il
Laboratorio Antropologico Universitario (Dipartimento di Beni Culturali
dell’Ateneo palermitano); il Museo Etnografico Siciliano “Giuseppe
Pitrè”; l’editore Enzo Sellerio; il “Giornale di Sicilia”; l’Associazione Fol-
kstudio; il Club Alpino Siciliano; i fotografi Vincenzo Brai, Piergiorgio
Della Mora, Raffaele Ferraro, Francesco La Bruna, Cristiano Mattina, Enzo
Lo Verso e Gaetano Pagano; gli studiosi Mauro Gioielli e Rosario La Duca;
il collezionista Giuseppe La Bruna; l’antropologo Girolamo Cusimano.
Ringraziamenti particolarmente sentiti si esprimono a: Antonio Lo
Casto (docente presso la Sezione di Scienze Radiologiche del Dipartimen-
to di Biotecnologie Mediche e Medicina Legale dell’Università di Paler-
mo), per avere effettuato le radiografie della zampogna conservata al
Museo Pitrè di Palermo, e a Eliana Calandra e Antonio Di Lorenzo (rispet-
tivamente Direttore e Conservatore dello stesso Museo), per avere per-
messo e seguito la conduzione di questi rilievi; Patrizia D’Amico, per le
ricerche condotte presso il Museo Pitrè; Emanuele Buttitta, Rosario Ferra-
ra, Maria Concetta e Enzo Sapienza, per le preziose informazioni su flau-
ti di canna, pifferi e zampogne in alcuni paesi delle Madonie (rispettiva-
mente Polizzi Generosa, Petralia Soprana e Isnello); Giancarlo Parisi, per
i suggerimenti relativi alla diteggiatura dello strumento; Febo Guizzi, per
avere fornito alcune preziose immagini e segnalato i dati relativi alle
ricerche condotte insieme a Roberto Leydi; Nico Staiti, per i sempre inten-
si scambi di idee e materiali, non solo in materia di zampogne; Vincenzo
Ciminello, Mario Crispi, Giuseppe Giacobello, Girolamo Garofalo, Ange-
lo Maggio, Rosario Perricone e Mario Sarica, per la felice condivisione di
alcuni momenti di questa ricerca, entro cui hanno attivamente prodotto
contributi documentari di svariata natura (audioregistrazioni, videoripre-
se, fotografie); Matteo Meschiari e Ingrid Pustianac, per la puntuale revi-
sione del volume; Giovanni Ruffino, per avere suggerito i criteri di trascri-
zione e rivisto i testi in siciliano; Fatima Giallombardo, per il sempre affet-
tuoso e competente sostegno e la generosa sorveglianza sulla redazione
del testo; Elsa Guggino, per il costante incoraggiamento alle nostre inda-
gini che, grazie al suo insegnamento, si sono spesso orientate verso le
forme della tradizione musicale urbana di Palermo; Giuseppe (“Pino”)
Aiello, Alessandro Giordano, Bice Mazzara, Monica Modica, Santina
Tomasello, Paola Tripisciano e Giovan Battista Vaglica, per i diversi contri-
buti offerti alla realizzazione del volume. Si rigrazia infine la Fondazione
Ignazio Buttitta – e in particolare Antonino Buttitta e Ignazio Emanuele
Buttitta – per avere creduto nella realizzazione di quest’opera, seguendo-
ne con rassegnata pazienza la faticosa gestazione.
12
1 Tracce iconografiche e testimonianze etnogra-
fiche (1785-1935)
13
mazioni contenute nel testo del 1878: pressoché letteralmente nel
volume dedicato a Spettacoli e feste popolari siciliane (1881: 435-
436); con lievi varianti nell’opuscolo La festa del Natale in Sicilia
(pubblicato nel 1893 sotto lo pseudonimo di Hernandez De Moreno),
dove però compare un paragrafo specificamente intitolato «Il Sona-
tore di cornamusa», corredato da disegni. Uno tra questi raffigura
l’ambiente della novena: lo zampognaro suona davanti a una edico-
la votiva, addobbata secondo consuetudine, attorniato da donne e
bambini (1893: 5, IM. 3). Lo strumento è certamente una zampogna
a chiave e nella stessa pagina (sulla colonna di sinistra) vediamo
anche riprodotta una coppia di castagnette (IM. 4):
14
strumento, ritenuti più significativi di una “differenza” che noi oggi
percepiamo come sostanziale ma che all’epoca forse rientrava in
una dimensione di più “normale” quotidianità: dai paesi dell’entro-
terra arrivavano nel Capoluogo anche suonatori di ciaramedda a
pparu, come diversi tipi di zampogna a chiave erano usati dagli
ambulanti, soprattutto abruzzesi, campani e calabresi, che usavano
spingersi fino al territorio del Palermitano in occasione delle festi-
vità natalizie. A Cinisi tuttora si ricorda la presenza di due suonato-
ri calabresi, con zampogna e piffero, che eseguivano la novena di
Natale fino agli anni Quaranta del Novecento (cfr. nel cap. 4 la testi-
monianza del suonatore Vincenzo Briguglio).
La presenza in Sicilia fino ai primi decenni del Novecento di
varietà diverse di zampogna, anche in coppia col piffero (pìffara,
bbìfara, bbìfira, bbifaredda)1 è d’altra parte testimoniata da
dipinti e fotografie. Consideriamo alcune attestazioni a titolo
esemplificativo. Anzitutto due tempere su carta risalenti alla
prima metà dell’Ottocento: una coppia di suonatori con grande
zampogna a quattro canne asimmetriche (un adulto) e piffero
(un ragazzo), con sottoposta didascalia «Costume de Villani di
Sicilia / Suonatori di cornamusa e di piffero» (da una serie di 20
stampe firmate C. De Bernardinis, IM. 6); un suonatore di zampo-
gna a cinque canne asimmetriche, intento ad accordare lo stru-
mento regolando con punteruolo l’apertura di un foro della
6. Suonatori di piffero e zampogna.
Stampa C. De Bernardinis,
prima metà sec. XIX (coll. Museo Pitrè).
15
7. «Zampognaro siciliano». Stampa di produzione
inglese, prima metà sec. XIX (coll. R. La Duca).
16
Certamente siciliani sono invece i suonatori che offrono un
«Ammirevole concerto di zampogna e di flauto», come recita la
didascalia di una immagine edita da Benedetto Rubino nel 1933
(IM. 10). Il “concerto” è in realtà prodotto da una zampogna “a
paro” e da una bbìfira, rispondente al tipo documentato in alcuni
centri dei Nebrodi. L’immagine è stata con probabilità ripresa
nelle campagne tra San Marco D’Alunzio e San Fratello, dove
Rubino – tra l’altro valente fotografo – era solito operare, e dove
fino agli anni Cinquanta del Novecento ancora si suonava questo
tipo di oboe popolare (cfr. Sarica 1994: 123-133 e Guizzi-Staiti
1995). L’attestazione visiva non assicura che i due strumenti fosse-
ro utilizzati insieme per consuetudine: potrebbe difatti trattarsi di
un’associazione sporadica o di un accostamento finalizzato all’in-
quadratura fotografica. La questione verrà comunque ripresa più
avanti (cfr. cap. 4), in relazione a testimonianze raccolte di recen-
te a Petralia Soprana (PA).
A partire dal 1880 si avvia un’ampia produzione di fotografie
8. Suonatori di piffero e zampogna. Cartolina dedicate ai “costumi popolari siciliani”, principalmente destinata
postale, fine sec. XIX (coll. S. Bonanzinga).
al mercato delle cartoline postali. Grazie alla pubblicazione del
catalogo della Mostra Gli Interguglielmi. Una dinastia di foto-
grafi (edito da Enzo Sellerio nel 2003), integrata dalla cortese
testimonianza di Cristiano Mattina, attuale erede e titolare dello
Studio Interguglielmi (fondato a Palermo nel 1863), è stato pos-
sibile accertare la paternità di quattro immagini di zampognari
palermitani che, oltre a circolare in forma di cartolina, furono
anche riprodotte in svariate pubblicazioni. È stato difatti Eugenio
Interguglielmi a realizzare, tra il 1880 e il 1885, le seguenti foto-
grafie: a) zampognaro seduto presso un altare ricostruito in stu-
dio (IM. 11) – foto riprodotta da Luigi Sorrento in una nota sillo-
ge relativa al folklore siciliano (1925: 71; ried. in AA.VV. 2003); b)
lo stesso soggetto ritratto in piedi con la zampogna appoggiata
sulla spalla (IM. 12); c) zampognaro in piedi, con strumento e
sfondo identici a quelli delle immagini precedenti (IM. 13; ne esi-
ste anche una versione cromatizzata e ritoccata a mano, IM. 14)
– si tratta della stessa foto in seguito pubblicata da Emanuel
Winternitz (1943) e da Anthony Baines (1960)2. La foto di uno
zampognaro seduto su un “muretto”, con sfondo raffigurante un
ambiente rurale – steccato, alberi, paniere con uova – ricono-
9. Suonatori di zampogna e triangolo. sciuto da Cristiano Mattina come appartenente allo Studio Inte-
Cartolina postale, serie Dr. Trenkler Co.
di Lipsia, fine sec. XIX (coll. S. Bonanzinga). guglielmi (IM. 15), si trova inoltre riprodotta nella sezione dedi-
cata alle tradizioni popolari di una nota guida turistica di Paler-
mo (cfr. Salomone Marino 1911: 383).
Un’altra cartolina, con didascalia «Tipi siciliani – Suonatore di
cornamusa» e indicazione dell’editore (Dr. Trenkler Co. di Lipsia),
ritrae uno zampognaro seduto, con sfondo floreale (riedita in
Pugliatti 1982: 197; IM. 16): è di certo antecedente al 1887, poiché in
quell’anno venne pubblicato da Girolamo Ragusa Moleti, sul
periodico “Le cento città d’Italia”, un disegno ricavato dalla stessa
fotografia (IM. 17).
2 Il fatto che la zampogna sia la medesima potrebbe suggerire che le due persone
17
11. Zampognaro presso un altare ricostruito in studio.
Palermo 1880-85 (foto Interguglielmi in Sorrento 1925).
18
15. Zampognaro con sfondo raffigurante un ambiente
rurale ricostruito in studio. Palermo fine sec. XIX (foto
Interguglielmi, in Salomone Marino 1911).
19
19. Zampognaro presso lo "chalet a mare", lungo la
Passeggiata della Marina di Palermo, ca. 1890.
Fotografia cromatizzata a mano (in AA.VV. 1991).
20
Tracce iconografiche e testimonianze etnografiche (1785-1935)
21
22. Stesso zampognaro ritratto nel medesimo luogo delle due immagini precedenti. Cartolina postale, serie Randazzo, Palermo 1925-30 (coll. R. La Duca).
22
Il Corpus di Favara, i Canti di Pitrè e lo Studio
2 di Tiby
23
di Gaetano, mentre lo zampognaro Santo Pennino (1852-1928) era
figlio di Filippo, tutti residenti nel rione della Kalsa. Grande interes-
se riveste inoltre il ricordo che il marinaio Pennino offre del nonno,
il «famoso ciramiddaru» Ciccu Pinninu: sia per il riferimento alla
massiccia partecipazione degli zampognari alla processione del-
l’Immacolata, del tutto congruente con la testimonianza di Strutt,
sia per avere segnalato la consuetudine di tenere gare di abilità tra
zampognari, come pure usavano fare i cantori “a braccio” e i suo-
natori di tamburo (cfr. Favara 1957/I: 119-120).
Passiamo ora a esaminare il versante specificamente musicale
dei quattro brani, trascritti da Favara secondo criteri adeguati al
repertorio tonale e relativamente moderno dello strumento. Diver-
samente dal consueto, il musicologo segnala difatti in chiave sia la
tonalità (RE) sia il metro (2/4 e 6/8), impiegando anche la regolare
suddivisione in barre di misura (a eccezione della Scala, che è a
ritmo libero). Solo le prime dieci battute del brano intitolato Lu vid-
danu (n. 750) presentano tuttavia la complessiva struttura armoni-
ca della zampogna, con l’indicazione dei due bordoni intonati sulla
dominante a distanza di ottava (la3-la2). Nella trascrizione della
Pasturali (n. 752) – limitata alla sola linea melodica – compare una
nota fuori scala (la#), un semitono oltre la massima altezza raggiun-
gibile dallo strumento (per un’analisi più dettagliata cfr. par. 7.3). I
brani Viddanu, Pizzaloru e Pasturali (nn. 750-752) si fondano inoltre
su sezioni chiaramente distinte, marcate dall’alternanza di modo
nella medesima tonalità di impianto (RE magg. / RE min.).
Le trascrizioni di Favara si riferiscono quindi a strumenti che,
diversamente da quelli attualmente in uso, consentono il passag-
gio di tonalità: è infatti presente una nota in più per ogni canna
melodica rispetto a quanto rilevabile sulle zampogne attuali. Que-
sta nota è la terza maggiore della tonalità d’impianto (il fa# in que-
sto caso), collegabile alla presenza di una seconda chiave “chiusa”
(foro aperto a meccanismo attivato) sulla canna melodica d’ac-
compagnamento (la più lunga). La nota aggiunta estende di con-
seguenza le risorse melodico-armoniche di questa particolare
zampogna, che può così alternare i modi maggiore e minore,
restando ovviamente obbligata la tonalità (RE). Riportiamo la scala
dello strumento, con i suoni disposti in ordine discendente come
ancora oggi si rileva nei “preludi” che sempre introducono sia i
canti sia i brani strumentali:
24
ne «Canti religiosi», n. 638). Questa trascrizione – che di nuovo pre-
senta una nota fuori scala (il fa, un semitono sopra il suono più
acuto raggiungibile dallo strumento) – è difatti in tonalità di LA
(non vi è divisione in misure, anche se il ritmo è chiaramente in
6/8, e non sono segnate le alterazioni in chiave nelle sezioni in
maggiore). Mentre il testo del canto non si riscontra nell’attuale
repertorio degli zampognari1, la prima frase della parte strumenta-
le si ritrova identica, fatta eccezione per l’innalzamento del terzo
grado, nella Pasturali tuttora eseguita (sezione B), e viene utilizza-
ta anche come interludio in alcuni brani vocali (cfr. par. 7.3). Se
questa melodia per ciaramedda è stata effettivamente raccolta a
Cefalù, si deve pensare a un raggio d’influenza della zampogna a
chiave più ampio rispetto al circondario palermitano o, più proba-
bilmente, all’attività di qualche zampognaro ambulante che da
Palermo usava spostarsi nei centri della Provincia.
Sul piano stilistico-esecutivo si rilevano anche altri elementi di
continuità con la tradizione odierna: a) la contrapposizione tra la
struttura ritmicamente libera del preludio (o scala, come dicono i
suonatori) e l’andamento regolare della melodia (giocata tra 2/4 e
6/8); b) l’alternanza, nell’azione della canna d’accompagnamento,
tra fasi di mero sostegno armonico-ritmico e momenti più spicca-
tamente contrappuntistici; c) l’articolazione formale delle sonate in
sezioni ben definite ma fondate su formule melodico-ritmiche
variamente combinate e iterate (cfr. cap. 7).
Nel Corpus di musiche popolari siciliane (sezione «Canti reli-
giosi») sono pure inclusi tre canti a tema devozionale che si ese-
guivano con accompagnamento di zampogna: Canzuna di Natali
(n. 636); Li tri Re (n. 637); Santa Genuveffa (n. 692, melodia priva
di versi). Favara indica, oltre alla località (Palermo), anche il nome
del cantore, tale Giovanni (Vanni) Favaloru, che così riferiva: «Si
canta cu la ciaramedda» (Si canta con la zampogna); «Cantu cu la
ciaramedda» (Canto con la zampogna). Più consistente è però la
testimonianza fornita in relazione al documento 637 (di cui vengo-
no trascritte anche due varianti): «È la stessa tunazioni di la ciara-
medda. A li voti c’era li scattagnetti ed era un piaciri: la vuci s’ac-
curdava cu li scattagnetti. Pareva un triunfu» (È la stessa intona-
zione della zampogna. Alle volte c’erano le castagnette ed era un
piacere: la voce si accordava con le castagnette. Pareva un “trion-
fo”). Favara riporta quindi anche il ritmo delle castagnette (una for-
mula iterativa in 12/8), molto probabilmente simulato a voce dal
medesimo cantore: resta comunque questa l’unica attestazione
musicale di un idiofono che da Strutt a Pitrè risulta costantemente
associato alla zampogna palermitana.
Questi tre canti cu la ciaramedda non presentano significative
analogie né sul piano melodico né riguardo al contenuto poetico
con quelli rilevati nel repertorio degli ultimi zampognari-cantori di
Monreale, ma il riferimento di Vanni Favaloru al triunfu suggeri-
sce una ulteriore possibilità di confronto. L’informatore di Favara
non usa certo questo termine in modo casuale, dato che a Paler-
mo con triunfu si intendeva un preciso rito musicale da celebrar-
si nelle abitazioni dei devoti che avevano ricevuto una grazia. Gli
1 Si segnala che questo canto di Natività dall’incipit Chidda notti disiata è rimasto
vivo nella tradizione musicale di Isnello, centro delle Madonie poco distante da Cefa-
lù, dove si esegue in chiesa con l’accompagnamento dell’organo (una esecuzione, a
iniziare dalla seconda strofa, è inclusa in Garofalo d.1990: disco 2, brano A/5b).
25
officianti di questo rito gratulatorio appartenevano a una catego-
ria di cantastorie specializzati nel repertorio sacro: gli orbi, così
denominati poiché erano in prevalenza ciechi quanti intraprende-
vano questa singolare professione. Il loro organico era di norma
formato dalla coppia: un suonatore di violino e uno di citarruni (o
chitarruni, bassetto a tre corde o violoncello, talvolta anche con-
trabbasso) oppure di chitarra (in passato di liuto o colascione). A
questi potevano aggiungersi, limitatamente al periodo del Natale,
altri suonatori di vari strumenti (mandolino, flauto di canna, cer-
chietto, triangolo, castagnette, ecc.)2. Tra alcuni orbi palermitani –
un suonatore non identificato e il «violinista cieco Sottile» – Fava-
ra raccoglie rispettivamente la “orazione” di Sant’Antuninu (n.
698) e la “storia” del Figliol prodigo (n. 754, melodia priva di
versi): nel primo caso è il testo a essere tuttora presente, come
Sant’Antuninu e u cavaleri (Sant’Antonino e il cavaliere), nel
repertorio dei suonatori monrealesi3; nel secondo caso si riscon-
tra una chiara affinità con il motivo tuttora impiegato per intona-
re U fìgghiu pròricu (appunto “Il figliol prodigo”).
Altre testimonianze musicali relative ai canti sacri di Palermo
– eseguiti dagli orbi, ripetuti dai devoti e tramandati fino agli
attuali zampognari-cantori di Monreale – si rinvengono tra le
Melodie popolari siciliane poste da Pitrè in appendice al secondo
volume dei Canti (1870-71, nuova edizione 1891). Si tratta di tre
“storie devote” e di un canto di Natività (quest’ultimo incluso
soltanto nell’edizione del 1891), di cui il Demologo fornisce
anche i testi poetici: La Baronessa di sant’Antonino (equivalente
al Sant’Antuninu e u cavaleri, 1891: 211-214, melodia 28), Il figliol
prodigo (1891: 327-329, melodia 30), La Passione di Gesù Cristo
(nel repertorio monrealese noto attraverso l’incipit Quannu la
santa Matri caminava, 1891: 345-348, melodia 31), A la notti di
Natali (1891: 443, melodia 17). Pur essendo noti i limiti “tecnici”
delle trascrizioni fornite a Pitrè da Carlo Graffeo e Giovanni Mag-
gio (cfr. Carpitella 1968: 112-114 e Bonanzinga 1995: 11-12), que-
ste permettono tuttavia di apprezzare la notevole affinità dei
motivi melodici – specialmente per Il figliol prodigo (vedi canto
754 del Corpus di Favara) e per l’interludio strumentale di A la
notti di Natali (quasi uguale alle sezioni A e C delle melodie 638
e 752 del Corpus) – con quelli persistenti nell’odierna tradizione
orale. Così come va rilevata la sostanziale identità dei canti con
quelli tuttora eseguiti, e ai testi sopra ricordati se ne possono
aggiungere altri due, di cui Pitrè fornisce soltanto i versi poetici:
Santa Rosalia (1891: 308-312) e Il Natale (ovvero Ninunè lu picu-
raru, 1891: 442-443).
Favara non accenna nei suoi scritti (riuniti in volume nel 1959)
alla tradizione dei ciramiddara palermitani, né pone in evidenza
differenze tipologiche con le zampogne “a paro”, di cui trascrive, se
pure sommariamente, alcune melodie (nn. 644, 651, 758-762). Sarà
invece Tiby a dedicare un breve paragrafo alla Ciaramedda nel XV
capitolo («Gli strumenti musicali popolari») del suo Studio intro-
duttivo al Corpus di musiche popolari siciliane (1957: 87-88), ope-
2 Riguardo all’attività degli orbi, si vedano: Buttitta 1960; Guggino 1980, 1981, 1988,
2003; Bonanzinga 2006b.
3 La melodia raccolta da Favara si è però conservata identica nella tradizione orale
palermitana, come risulta dalle ricerche di Elsa Guggino (cfr. in particolare A storia
ri sant’Antuninu inclusa in Guggino d.1980: brano A/1).
26
rando per la prima volta una generica distinzione. Tiby riporta
anche la nomenclatura in siciliano delle canne e ne esprime le
dimensioni in “palmi”, indicando fra parentesi il corrispettivo in
metri, qui tradotto in millimetri per uniformare i criteri di misura-
zione (un parmu corrisponde a circa 258 mm. secondo il sistema
adottato precedentemente a quello metrico decimale e tuttora dif-
fuso nel gergo degli zampognari di area italiana).
Di questi tubi, soltanto i primi due sono forniti di fori, mentre gli
altri non ne posseggono e si limitano a fornire un quadruplo peda-
le di tonica e dominante.
27
norma montati su questo genere di strumento)4. Accertata l’esi-
stenza in Sicilia di due diversi tipi di zampogna, Tiby ne inverte
inoltre l’effetiva frequenza d’uso: la zampogna “a paro” era scar-
samente presente nel Palermitano ma molto diffusa in quasi
tutto il resto della Sicilia, dove viceversa la zampogna a chiave
appariva di rado e grazie soprattutto a suonatori ambulanti pro-
venienti da altre Regioni. La perplessità maggiore è tuttavia
suscitata dalle indicazioni riguardanti le note prodotte dai bordo-
ni. In tutti i casi documentati, le zampogne siciliane appartenenti
a entrambe le tipologie hanno sempre i bordoni intonati sulla
dominante della relativa tonalità d’impianto. Esistono anche
esempi di zampogna a chiave, come quella dell’area calabrese
delle Serre, che presentano il doppio pedale di tonica e domina-
te, ma non è affatto il caso del grande strumento palermitano:
non solo tutte le zampogne a chiave registrate in Sicilia, come
pure quelle simili dell’area campano-lucana, hanno i bordoni
accordati sulla dominante (in rapporto di ottava), ma anche l’uni-
ca trascrizione completa delle quattro voci effettuata da Favara
(n. 750) presenta questo assetto armonico5. Del tutto errata è
dunque anche l’idea che la denominazione del bordone maggio-
re – quaitta, ovvero “quarta” – sia da riferirsi a un rapporto con
la tonica espressa dal bordone più acuto, nel senso che la domi-
nante si situa a distanza di una quarta sotto la tonica superiore:
un ragionamento da teorici di cui parrebbe in ogni caso impro-
babile la mutuazione in ambito popolare.
4 Tiby non fornisce indicazioni riguardo alla provenienza di questa grande zampo-
gna “a paro”. È tuttavia probabile che si trattasse di uno strumento agrigentino,
dato che soltanto a Palma di Montechiaro, dove sono ancora attivi un costruttore e
alcuni anziani suonatori, è stato possibile individuare una zampogna dotata di
quattro bordoni diseguali, anche se più piccola di quella considerata da Tiby. Si trat-
ta di un modello “grande” (ranni), intonato in LAb, tuttora utilizzato per Natale dal-
l’ex-pastore Gerlando Lombino (nato a Palma nel 1924), di cui forniamo le misure:
canne melodiche (destra, canta ritta, e sinistra, canta manca), mm 575; bordone
maggiore (bbassu), mm 570; bordone medio (quatta), mm 465; bordoni minori
(fanzetti), mm 207 e 105 (quest’ultimo non attivo). I bordoni sono come di norma
intonati sulla dominante (mib). Sulla zampogna “a paro” siciliana si vedano: Guiz-
zi-Leydi 1983: 55-86; Staiti 1986, 1989; Corsaro 1992; Sarica 1994: 61-105. Tra le anto-
logie discografiche che contengono brani di questo tipo di zampogna si segnalano:
Garofalo d.1990/II: A, brani 1, 3; Sarica cd.1992: brani 1-10; Lo Castro-Sarica cd.1993:
brani 1, 23, 31; Leydi cd.1995: brani 20 e 21; Bonanzinga cd.1995: brano 31; Bonan-
zinga cd.1996a: brano 3, cd.1996b: brano 5, cd.2004: brani 7, 11, 22.
5 Per un quadro generale sulle zampogne di area italiana si vedano: Guizzi-Leydi
1985; Guizzi 2002: 224-252; Sparagna 2004; Gioielli 2005. Per la documentazione
sonora si vedano in particolare: Leydi-Pianta d.1973; Guizzi-Leydi d.1980 e
d.1981; Leydi cd.1995.
28
Storia di una zampogna perduta
3
29
ti (pezzi in ceramica, parti di finimenti per animali, statuine da pre-
sepe sbrecciate, ecc.). Si trattava forse di antichi fucili, dicevano i
custodi più anziani del Museo, ma non ve n’era traccia nell’inven-
tario e quindi restavano ignorati tra gli scarti. La signora Patrizia
D’Amico, che collaborava alla realizzazione del catalogo musicale,
acquisendo crescente familiarità con friscaletti e marranzani, ram-
mentò un giorno l’esistenza di quei legni usurati, ritenendo oppor-
tuno verificarne l’eventuale “funzione sonora” ai fini della scheda-
tura che si andava ultimando. Così avvenne il ritrovamento del
reperto musicale più importante conservato nel Museo Pitrè: un
esemplare incompleto di zampogna a chiave ottocentesca, di pro-
venienza sconosciuta, grazie al quale è stato possibile illuminare
appieno le notazioni musicali di Favara, seguendo con precisione
le trasformazioni subite da questo tipo di aerofono tra la fine del-
l’Ottocento e i primi decenni del Novecento.
Le parti superstiti dello strumento sono le seguenti: 1) canna
melodica destra, completa di ancia, non funzionante perché man-
cante della parte terminale; 2) canna melodica sinistra, mancante
del segmento superiore e della chiave inferiore; 3) bordone mino-
re, completo di ancia, non funzionante perché mancante della
parte terminale; 4) blocco per l’innesto del canneggio. Tutti gli ele- FIG. 1. Parti esistenti della zampogna a chiave
conservata presso il Museo Pitrè.
menti sono ornati da cerchi di tornitura e da anelli in rilievo, con
bombature nei punti di raccordo, secondo una tipica maniera
barocca che connota la fattura dell’intero strumento (FIG. 1, TAV. 1).
Queste le misure e i dettagli relativi a ogni pezzo:
FIG. 2, TAV. 2 – CANNA MELODICA DESTRA (mm. 860), divisa in fuso (565)
e padiglione (295). Il fuso presenta cinque fori digitali anteriori
(quattro normali, mm. 5-6, più un “mezzo-foro”, mm. 4), uno poste-
riore (mm. 6) e cinque fori di intonazione nella parte inferiore, due
dei quali diametralmente opposti (mm. 4-6). Il padiglione presenta
due fori diametralmente opposti nella parte centrale (mm. 5). I due
elementi della canna sono uniti mediante un particolare segmento
di raccordo (mm. 137): mentre la connessione di testa (mm. 51) è a
tenone, quella inferiore è invece a vite (mm. 18). Questo raccordo,
con la parte che risulta visibile a canna montata decorata da cerchi
in rilievo (mm. 69), presenta due fori diametralmente opposti nella FIG. 2. Zampogna del Museo Pitrè:
parte che si innesta nel fuso (alcuni giri di spago assicurano la tenu- canna melodica destra.
ta), in modo da coincidere con i fori esterni di risonanza. Nell’estre-
mità superore del padiglione è ricavata l’impanatura per l’avvita-
mento del raccordo.
FIG. 4, TAV. 4 – BORDONE MINORE (mm. 265), diviso in due elementi: seg-
mento superiore (138) e padiglione (127). I due elementi della canna
sono uniti mediante raccordo “a tenone”. Il segmento superiore termi-
30
na in un cursore (lungh. 48, diam. 16) destinato a innestarsi nel padi-
glione (sempre con spago è assicurata la tenuta del raccordo).
31
tipico dei flauti a becco di epoca barocca (comune anche negli cha-
lumeaux, precursori dei moderni clarinetti), dove il mignolo copre
insieme la coppia di fori per ottenere il suono più grave, mentre
lasciando libero il mezzo foro, con lieve spostamento laterale del
dito, si ottiene l’innalzamento di un semitono (FIG. 8).
In base all’impianto scalare deducibile dalle trascrizioni di Fava-
ra, è considerando il funzionamento del doppio foro analogo a
quanto si osserva sugli strumenti barocchi appena ricordati, si può
ipotizzare una diteggiatura che presenta il vantaggio di produrre i
suoni nel modo più lineare, senza ricorso a posizioni “a forchetta”
(FIG. 9), ma pone nel contempo un problema di compatibilità con la
diteggiatura tuttora in uso sulla canna melodica principale (cfr. cap.
7), poiché si verificherebbe uno scalamento delle posizioni per otte-
nere il la, il si e il do difficile da comprendere in una tradizione
essenzialmente fondata sulla trasmissione di schemi motori asso-
ciati alla produzione dei suoni (cfr. cap. 5). Appare inoltre molto
improbabile che proprio la tonica della scala (la) si ottenesse con FIG. 5. Zampogna del Museo Pitrè: blocco.
l’ausilio del mezzo foro. Va per questo considerata anche un’altra
ipotesi: il doppio foro sulla canna destra della zampogna conserva-
ta al Museo Pitrè potrebbe non avere una funzione attiva nella
diteggiatura, ma essere stato aperto per correggere l’intonazione
dello strumento o diminuire la distanza con il foro precedente
(Sebastiano Davì, che aveva la mano piuttosto piccola, aveva adot-
tato un analogo accorgimento per agevolare l’azione del mignolo,
come si può vedere sulla zampogna oggi utilizzata da Benedetto
Miceli). Nell’uso pratico dello strumento uno dei due fori corrispon-
dente alla posizione del mignolo avrebbe dovuto quindi essere
occluso con la cera. La struttura della zampogna “ritrovata” risulte-
rebbe così conforme a quella attuale, variando solo per la presenza
della seconda chiave sul trummuni. La soppressione della chiave
piccola implica infatti soltanto una lieve variazione nella diteggiatu-
ra oggi utilizzata (cfr. cap.7, ES. 1): il do non è più prodotto median-
te l’apertura della chiave ma si ottiene coprendo i primi due fori,
secondo la posizione che in passato dava la terza maggiore (do#),
realizzata invece sulla canta per mezzo di una posizione “a forchet-
ta” (pollice-medio o pollice-medio-anulare).
FIG. 6. Il sistema a chiave doppia sull'oboe barocco
e sulla canna melodica sinistra della zampogna a
chiave siciliana.
32
FIG. 8. Funzionalità del doppio foro
sul flauto a becco barocco.
33
FIG. 10. Zampogna del Museo Pitrè: radiografia.
34
TAV. 1. Parti esistenti della zampogna a chiave conservata al Museo Pitrè.
35
TAV. 2. Canna melodica destra.
36
TAV. 3. Canna melodica sinistra.
37
TAV. 4. Bordone minore.
TAV. 5. Blocco.
38
23-24. Zampognaro esegue la Novena di Natale. Palermo 1951 (Archivio Pubblifoto di V. Brai).
39
La zampogna a chiave in Sicilia
40
La tradizione fino al 1980: immagini,
4 racconti e zampogne ritrovate
41
27. Santo Lo Iacono. Palermo ca. 1940
(coll. V. Lo Iacono).
42
FIG. 11. Zampogna di Santo Lo Iacono
corredata da vari pezzi di riserva.
43
Facoltà di Lettere, insieme a Fatima Giallombardo decidiamo di
verificare l’informazione. Veniamo accolti da una gentilissima cop-
pia, marito e moglie: lui era Santo Pennino (n. 1938) e, dopo un ini-
ziale momento di esitazione, si mostra lieto di rievocare le vicende
di famiglia, legate a quei suoni che tanto consueti erano stati al
tempo della sua infanzia e adolescenza. Ma è quasi ora di pranzo e
si fissa un incontro per la domenica successiva, quando sarebbe
stata presente anche la sorella Vincenza (n. 1945), che avrebbe por-
tato qualche fotografia del padre e del fratello Girolamo.
Il racconto dei fratelli Pennino (IM. 29) offre la più ampia e com-
pleta testimonianza disponibile riguardo alla tradizione degli zam-
pognari palermitani della Kalsa: un fondamentale raccordo orale
non solo con quanto attestato in passato attraverso varie forme di
scrittura (dalle trascrizioni musicali alle fotografie), ma anche con
il complesso delle testimonianze raccolte fra gli ultimi zampogna-
ri del Palermitano. Proprio il riconoscimento delle fotografie del
nonno – una delle quali da loro stessi posseduta (uguale a quella
conservata da Vittorio Lo Iacono e in pressoché analoghe condizio-
ni di usura) – apre la testimonianza (cfr. Rilevamento 22). Santo e
Vincenza non lo hanno conosciuto personalmente, ma ne hanno
appreso le vicende attraverso il padre e gli zii:
44
Maria di Schubert quand’era in chiesa e c’era la nascita di Gesù
Bambino, I tri Re, Il Piave mormorò: a ciaramedda a faciva cantari
me patri [mio padre la faceva cantare la zampogna], veramente! Poi
andavamo a vedere la nascita di Gesù Bambino e mio padre girava
tutta la chiesa. [Santo] Io suonavo i scattagnetti, Santu Nascazza
sunava scattagnetti e un certo Tarantino, u Rrussu cosiddetto, suo-
nava il cerchietto e cantava [si tratta di Santo Tarantino, n. 1943, il cui
padre Gaetano era stato cantore]. Per l’Epifania, quando usciva
Gesù Bambino dalla chiesa della Gancia, lui suonava sempre
appresso alla processione e faceva tutte ste varie sunati.
45
C’era la canta, poi c’era il “trombone”, poi c’era la “quarta”, che era
senza buchi, e il “fasetto”, quello piccolino senza buchi, e a pipita:
era una canna che lui, prima di cominciare a lavorarla, la stringeva
con i denti per vedere se era resistente; se si rompeva con i denti
veniva scartata. Si pigliava quella solida, chidda fuoitti… Poi veniva
tagliata a metà e ne venivano due pipiti. Poi con il coltello, che
tagliava che era un rasoru [rasoio], e con i ferri che erano così [indi-
ca una forma a uncino], la cavava finché diventava come un’ostia,
come una sfoglia di cipolla. E sunava! C’erano due tipi: c’era quel-
la per la canta e quella per il trombone. La differenza qual era tra la
canta e il trombone: infine c’è un pezzettino di lamiera attorcigliata,
a cannedda fuossi [il cannello forse], si faceva tutto lui, ed era cchiù
nica [più piccola], chidda pû trummuni [quella per il trombone] era
più lunga, ma di circonferenza era uguale. La canna gliela procura-
vano gli amici monrealesi: i Carrozza.
Mio padre accordava prima la canta e il trombone, con la bocca,
sî minteva senza esseri muntati [le poggiava senza che fossero
montate]: la canta appoggiata alla sedia e u trummuni n-tierra
picchì iera cchiù lluongu [il trombone a terra perché era più
lungo], e le suonava tutt’e due e le accordava. Poi faceva u trum-
muni câ quaitta [il trombone con la quarta], cioè le accoppiava
[…]. Prima a canta sula, quando la canta andava bene cci minte-
va u trummuni e le accordava tutt’e due, quando per il suo orec-
chio andavano bene tutt’e quattro le montava. Ma non andavano
mai bene subito: cci cummattìa a vvoti nuttati nteri! [ci lavorava
a volte notti intere]. Perché la pipita, secondo come doveva anda-
re, l’accorciava, o lisciava, aveva una pietra pomice: gli passava-
no giornate intere per accordare! Tutte le volte che doveva anda-
re a suonare fuori, prima di uscire l’accordava. Se andava bene,
andava a suonare. Quando non andava bene, per esempio qua
deve “aprire”: secondo quanto doveva aprire lui usava u spuntu-
ni [punteruolo] per allargare il buco. Se doveva “chiudere” qual-
che altro buco u chiurieva e cci minteva a cira [lo restringeva
aggiungendo la cera].
Per fare una canna nuova si va dal torniere. Uno era in via Calderai
e ce n’era un altro vicino piazza Garraffello. La canta per esempio,
non è che suona, non ha tonalità: la tonalità la dà il ferro. Pigghia-
vanu na canta bbona, chi ssunava [Prendevano una canta buona,
che suonava], mettevano per esempio il primo ferro, prima in quel- 31-32. Angelo Pennino esegue la novena di Natale
in Piazza Garraffello alla Vuccirìa.
la buona, e ci facevano un segnale con la cera e poi cavavano quel- Palermo ca.1960 (coll. Famiglia Pennino).
la nuova fino al segnale. Poi si metteva un altro ferro fino a che arri-
vava… I buchi pure delle stesse dimensioni di quella, alla stessa
distanza. Era una fotocopia praticamente di quella buona. U turne-
ri fa u bbucu rittu [Il torniere fa il buco dritto], ma poi la tonalità la
dà il ferro! C’erano i ferri rû trummuni e i ferri râ canta […] Ce li
aveva tutti belli selezionati!
L’utru succedeva ca si spunnava e cci mintèvanu i bbuttuni [Acca-
deva che l’otre si bucava e lo riparavano con i “bottoni”]. Erano di
legno questi bbuttuni, come quelli di una carrucola ma con questa
forma [indica con le mani un cuneo]… Ce n’erano di varie dimen-
sioni, secondo la misura del buco. Si metteva nel buco e con lo
spago passato di cera si legava forte e non perdeva più.
46
I ricordi di Santo pongono tra l’altro in evidenza come già negli
anni Cinquanta del Novecento la costruzione di queste zampogne
fosse il risultato dell’interazione fra artigiani del legno e suonato-
ri: gli zampognari palermitani provvedevano da sé a realizzare la
cameratura delle canne, come tuttoggi fanno alcuni monrealesi
(cfr. cap. 6), utilizzando appositi “ferri” e prendendo a modello
strumenti di già provata efficienza. È assai improbabile che questo
metodo fosse impiegato anche nell’Ottocento, come dimostra la
raffinata manifattura della zampogna ritrovata al Museo Pitrè
(dalla cameratura alle chiavi), prodotto di una lavorazione ancora
saldamente radicata. Devono quindi essere progressivamente
scomparsi gli artigiani specializzati nella costruzione delle grandi
zampogne siciliane, forse in rapporto a una generale diminuizione
del numero dei suonatori nel periodo fra le due Guerre Mondiali,
fino a determinare la divisione delle competenze costruttive fra
“ebanisti” e zampognari. Possiamo ipotizzare che sia stato proprio
questo il momento in cui si è verificata la semplificazione dello
strumento che, obliando alcuni dettagli costruttivi, ha comportato
la contrazione della pratica musicale. La questione gira tutta intor-
no alla funzione della seconda chiave del trummuni. Le parole di
Santo Pennino possono contribuire a chiarire alcuni aspetti:
La canta era più fragile, perché era più fine e più lunga. U trummu-
ni si divide in tre pezzi. U chiavettu [il pezzo centrale dotato di chia-
vi]: andavano negli strumenti dei musicisti, per esempio sassofoni,
e chiedevano strumenti vecchi, messi da parte: «Mi serve questo»
[riferito alle chiavi]. C’erano due ferretti nni chidda longa, unu
ncapu e unu sutta, e unu nta chidda fissa [in quella lunga, uno
sopra e uno sotto, e uno in quella fissa]. Quella lunga, schiaccian-
do il mignolo chiudeva, quella più corta, schiacciando, apriva.
Poche volte! [riferito alla frequenza con cui il padre utilizzava la
chiave piccola] Per esempio, mi ricordo benissimo chidda ri San-
t’Antuninu [quella di Sant’Antonino], che prima chiudeva la canta,
tutt’e cinque dita, e cominciava con la chiavetta… apriva la chiavet-
ta, e poi continuava. E a me chissa ri Sant’Antuninu mi piaceva
assai! Per esempio i Ferrante: ce n’era uno che la usava molto spes-
so a chiavetta. Siccome lui, il Ferrante, aveva il “trombone” che gli
intonava che era una meraviglia, e quello con la tonalità che gli
dava quel “trombone” usava troppo spesso a chiavetta. Cu chiddu
chi bbaffi [con quello con i baffi] s’incontravano di più: tante volte
veniva a casa mia.
Il figlio del Tappuni esclude che sulla canta montata sulla zam-
pogna del padre fosse presente il mezzo-foro, il quale è assente –
come si è detto – anche sulla zampogna del cugino Santo Lo Iaco-
no. Nessuno dei suonatori viventi ricorda inoltre di avere mai visto
una canta con l’aggiunta del mezzo-foro da azionare con il migno-
lo. La testimonianza di Santo Pennino consente di stabilire una
cosa con certezza: il progressivo abbandono della seconda chiave
deve essersi neccessariamente verificato nel passaggio generazio-
nale tra il nonno e il padre, che già la usava poco. Va nel contem-
po osservata la propensione dei suonatori ad assemblare pezzi in
buone condizioni di zampogne già sperimentate, più che richiede-
re la costruzione di strumenti completamenti nuovi. In questa otti-
ca il chiavettu, ovvero il segmento del trummuni dove sono appli-
cate entrambe le chiavi, si presenta come il pezzo più solido in
assoluto: è più corto, più spesso e si trova incastrato al centro della
canna, meno esposto agli urti rispetto alle parti innestate alle
47
estremità. Se i chiavetti potevano resistere meglio all’usura grazie FIG.14. Tutti i pezzi di zampogna a chiave
appartenuti ad Angelo Pennino, corredati dalla sua
alla loro struttura più robusta e alla posizione mediana, si può ipo- attrezzatura riprodotta nelle figure seguenti (15-17).
tizzare – come tra l’altro afferma Santo – che le cante fossero inve-
ce più soggette a rotture e quindi rimpiazzate con maggiore fre-
quenza. A partire da un dato momento (presumibilmente dopo il
1910), gli artigiani devono avere iniziato a costruire le cante in
modo meno accurato, evitando la divisione in tre parti del tubo,
che assicurava una conicità molto precisa della cameratura (tutti
gli esemplari rilevati presentano cante in due soli pezzi).
Ma che fine avevano fatto la zampogna, il cerchietto, le casta-
gnette, i ferri e gli altri attrezzi di Angelo Pennino? Le vicende narra-
te dai figli dello zampognaro erano talmente pregnanti che quasi si
trascurava di porre la questione. Strumenti e accessori esistevano
ancora, ma a casa di un’altra sorella che da oltre trent’anni aveva
lasciato Palermo. Rosalia Pennino (n. 1947) vive con la famiglia in un
piccolo centro delle Marche (Castel Raimondo in provincia di Mace-
rata), la chiameranno per avere notizie e mi faranno sapere. Dopo
qualche giorno abbiamo l’occasione di intrattenere un lungo e cor-
diale colloquio telefonico con la signora, la quale è lieta di collabo-
rare a un volume dove si parla di tutti i suoi parenti suonatori. Ricor-
da perfino il bisnonno Filippo. Parla con commozione del fratello
deceduto anzitempo e del padre, che aveva assistito quando stava
male negli ultimi anni di vita. Non prevede di venire in tempi brevi
a Palermo perché ha problemi di salute, ma dato che il padre della
fidanzata del figlio è fotografo, farà fare una documentazione com-
pleta di tutto ciò che tiene gelosamente custodito in un baule.
Le fotografie puntualmente arrivano, “masterizzate” – come si
usa oggi – su un disco da computer. Nonostante la buona qualità
della documentazione eseguita dal signor Piergiorgio Della Mora
(titolare dell’omonimo studio fotografico), diversi aspetti sfuggo-
no inevitabilmente all’osservazione, anche perché tutti i pezzi
custoditi dalla signora Pennino appaiono raggruppati per tipolo-
gia (i fusi, le campane, i blocchi, i chiavetti, ecc.) e non vi sono
immagini delle canne e degli strumenti montati. Dopo la ricompo-
FIG. 15. Attrezzatura per il ritocco delle parti in legno
sizione del puzzle appuriamo anzitutto, non senza sorpresa, che e la lavorazione delle ance: succhielli, punteruoli,
Angelo Pennino possedeva due strumenti differenti: una zampo- lame dritte e curve, sgorbia, trincetto, morsetto.
gna a chiave – con in più un trummuni, un fasettu, tre blocchi, FIG. 16. Ance in lavorazione e già definite.
sette chiavetti, due fusi di canta e un segmento di testa di trum-
muni (FIG. 14) – e una zampogna “a paro” (mancante dei segmen-
ti di testa dei bordoni ma corredata da due blocchi, realizzati in
modo da ospitare rispettivamente tre e quattro canne di bordo-
ne). In realtà, spiega la signora Rosalia, le zampogne “grandi”
dovevano essere due complete e anche quella “piccola” la ricor-
dava intera. Secondo quanto le raccontava il padre, quest’ultima
risaliva addirittura al bisnonno Filippo, ed era considerata un
“ricordo di famiglia” , mentre una delle zampogne grandi era
appartenuta al nonno Santo.
La zampogna “a paro” presenta accurata fattura e notevoli
dimensioni (canne melodiche intorno ai 60 cm.). Non sappiamo
che tipo di ancia montasse lo strumento e i figli del Tappuni non
ricordano che questi l’abbia mai accordata e suonata realmente.
La presenza di due blocchi suggerisce inoltre la possibilità di
impiegare tre o perfino quattro bordoni, come nel caso dello stru-
mento descritto da Ottavio Tiby (cfr. cap. 2). Un ultimo dettaglio
FIG. 17. Dischetti per riparare le forature dell'otre.
degno di nota riguarda la disposizione dei fori digitali sulla canna
melodica destra: qui è stato difatti ricavato un foro in più, paralle- FIG. 18. Castagnette di A. Pennino.
48
La tradizione fino al 1980: immagini, racconti e zampogne ritrovate
49
lo all’ultimo ma spostato lateralmente, come se si fosse inteso
riprodurre la diteggiatura della zampogna a chiave (FIG. 20).
Il dato più significativo emerge tuttavia dalle foto dei vari ele-
menti di zampogna a chiave. Uno dei fusi della canta presenta un
evidente ritocco in corrispondenza della posizione del mignolo
(FIG. 14a), che parrebbe risultato di uno spostamento dovuto a
problemi di intonazione o finalizzato ad agevolare la digitazione
dell’ultimo foro (è tuttavia impossibile stabilire se vi sia stato in
origine un doppio foro con eventuale funzione attiva). Su quattro
chiavetti posseduti dallo zampognaro risulta inoltre aperto il foro
corrispondente alla seconda chiave, mentre uno dispone di chia-
ve singola (FIG. 14c). Queste modifiche operate nei punti cruciali
dello strumento, dove si trovano i fori da azionare con dita o
chiavi, si possono considerare segni di una “transizione”: del
tentativo di semplificare l’assetto dello strumento in una fase di
declino della tradizione.
Non è agevole il confronto tra i pezzi delle zampogne a chiave
appartenute ad Angelo Pennino (FIG. 14, IMM. 25-26, 31-32) e lo
strumento imbracciato dal padre Santo, considerata la non ottima-
le definizione dell’immagine nelle fotografie che lo ritraggono
(IMM. 20-22). I padiglioni delle canne melodiche (canta e trummu-
ni) sono però certamente i medesimi, come risulta dal particolare
decoro nel punto di raccordo ai segmenti superiori (fuso e “chia-
vetto”), proprio sotto la bombatura: una modanatura con doppio
cerchio in rilievo anziché singolo (FIG. 14b). La necessità di riscon-
trare l’eventuale occorrenza di questo dettaglio sugli altri strumen-
ti documentati attraverso fotografie ha consentito di individuare
un dato sorprendente, inizialmente sfuggito all’attenzione: su nes-
suno strumento si presenta in quel punto questo tipo di modana-
tura, fatta eccezione per la zampogna che compare nella fotogra-
fia realizzata presso lo “chalet a mare”, lungo la Passeggiata della
Marina di Palermo (IM. 19). Osservando con attenzione appare
chiaro che si tratta dello stesso strumento, con inoltre identici il
blocco e il sistema di chiavi a testa circolare. L’esame non poteva
quindi che spostarsi sulla fisionomia del suonatore: un uomo di
FIG.19. Alesatori conici di vario calibro per la cavatura
circa cinquant’anni dal volto allungato con guance scavate, incor- delle canne appartenuti ad Angelo Pennino.
niciato da barba brizzolata e con il capo coperto da una mantella.
È soprattutto la forma del naso e il rapporto tra questo e la distan-
za tra gli occhi a non lasciare dubbi: lo zampognaro è proprio
Santo Pennino, ritratto circa venti anni prima rispetto all’immagi-
ne di uomo anziano sbarbato fissata nelle altre tre fotografie.
L’estesa competenza artigianale di Angelo Pennino, già segnala-
ta dai figli, è attestata dall’attrezzatura per la lavorazione delle parti
in legno e delle ance: succhielli, punteruoli, lame dritte e curve,
sgorbia, trincetto, morsetto (FIG. 15) e una serie di alesatori conici
di vario calibro destinati alla cavatura delle canne (FIG. 19). Vi sono
inoltre: cinque ance (pipiti), tra cui una spezzata e tre in fase di rifi-
nitura, con le lamelle da assottigliare ancora annodate (FIG. 16); una
coppia di castagnette (scattagnetti) cordiformi incomplete (manca-
no i fori per lo scorrimento del cordoncino) e altre due di forma
usuale (FIG. 17); quattro dischetti in legno (bbuttuni) di diverso dia-
metro per la riparazione dell’otre (FIG. 18).
I fratelli Pennino hanno menzionato diversi zampognari con
cui il padre intratteneva rapporti di frequentazione: oltre ai mon-
realesi Carrozza, c’era Giovanni Alagna di Pallavicino (zzù Van-
nuzzu) e i fratelli Ferrante della Guadagna, un’antica borgata
50
situata lungo la sponda destra del fiume Oreto (nella zona sud-
orientale di Palermo). I Ferrante erano zampognari ben noti
anche ai suonatori monrealesi, che difatti ne avevano segnalato
l’esistenza al tempo dell’indagine condotta da Roberto Leydi e
Febo Guizzi (cfr. Premessa). Il ricordo di Santo Pennino, con quel
riferimento alla “meravigliosa intonazione” del trummuni di uno
dei Ferrante che «usava troppo spesso a chiavetta», ha però inne-
scato una speranza: magari viveva ancora qualche discendente
che poteva fornire notizie su questi suonatori, di cui non erano
noti neppure i nomi di battesimo.
Nel 1998 eravamo stati alla Guadagna per documentare le
novene dell’Immacolata e del Natale eseguite da Benedetto Mice-
li e Girolamo Patellaro (cfr. Rilevamenti 13-15). In una circostanza
avevamo raccolto la testimonianza del signor Cristoforo Sparacio,
gestore di una taverna in piazza Guadagna (IM. 104), che ricordava
i Ferrante, ormai deceduti e con i figli «emigrati in Settentrione».
La rapidità con cui si svolgono abitualmente le novene non permi-
se allora di approfondire la questione, ma anche Patellaro aveva
collocato l’attività dei Ferrante, conosciuti personalmente, in un
passato non ben definito ma comunque lontano (cfr. Rilevamento
8). Proprio dalla taverna visitata otto anni prima abbiamo quindi
riavviato l’indagine.
Il locale era stato rinnovato e il vecchio taverniere era defunto,
ma la clientela del primo pomeriggio si mostrò subito disponibile
nell’indicare qualcuno in grado di fornire le notizie richieste. Il “Pre-
sidente” era la persona giusta: un anziano appassionato di storia e
tradizioni della borgata, così soprannomminato perché guidava il
locale club di sostenitori della squadra di calcio del Palermo. Se dei
Ferrante non sapeva niente lui, non c’erano altri a cui rivolgersi.
Il Presidente, al secolo Carmelo Di Salvo (n. 1928), della sua
borgata conosce a perfezione persone e vicende, e naturalmente
ricorda bene quei suonatori da tempo scomparsi, che di mestiere
facevano gli stazzunara (fabbricanti di laterizi). La figlia di Giusep-
pe Ferrante abita ancora di fronte allo spazio che anticamente
FIG.20. Canne melodiche e blocchi ospitava lo stazzuni e si può subito andare a trovarla. La signora
di zampogna “a paro” appartenuti ad A. Pennino.
Giuseppa (n. 1939) resta molto sorpresa dell’interesse che manife-
stiamo per l’attività musicale del padre: non ne ricorda i dettagli
ma fornisce notizie anagrafiche precise e, soprattutto, recupera
una fotografia che lo ritrare, già anziano, mentre suona la zampo-
gna (IM. 33). Giuseppe (zzù Piddu) era nato nel 1906 e morto ottan-
tenne nel 1986. Nel 1960 era stato addirittura chiamato a suonare
alla Cattedrale di Palermo per la messa di Natale. Dei due zii, Seba-
stiano (zzù Bbastianu) e Salvatore (zzù Turi), ricorda solo che erano
anch’essi zampognari ed entrambi più grandi del padre: gli zii non
erano però capaci – a differenza del padre – di costruire le ance,
accordare la zampogna e all’occorenza ripararla. Anche il nonno
Rosario e il bisnonno Giuseppe erano stati zampognari. Le memo-
rie di famiglia non si spingono più indietro, ma la dinastia di suo-
natori conta già così tre generazioni. Purtroppo, spiega la signora
Giuseppa, da circa un anno era venuto a mancare anche il fratello
Rosario (1932-2005). Lui sì che avrebbe potuto offrire una testimo-
nianza completa sul mestiere di zampognaro: aveva imparato a
suonare da piccolo, ma la perdita di tre dita della mano destra
intorno ai vent’anni, a causa di un incidente di lavoro, gli aveva
impedito di continuare, sicché dovette limitarsi a cantare nelle
novene insieme al padre. La signora non sa bene che fine abbia
51
33-35. Giuseppe Ferrante (a sinistra) e i fratelli
Sebastiano e Salvatore (sotto).
Palermo ca. 1980 (coll. Famiglia Ferrante).
52
quanto affermato da Santo Pennino, faceva ampio uso della secon-
da chiave, giacché il foro corrispondente è qui otturato, come in
tutte le altre zampogne attualmente utilizzate (FIG. 21b). Lo strumen-
to appare assemblato con pezzi realizzati da mani differenti e in
tempi diversi. Oltre alle parti che compongono l’intera zampogna, vi
sono altri tre chiavetti e una campana di trummuni. Il pezzo di testa
del trummuni è parzialmente avvolto con un foglio di ottone salda-
to a stagno per rinforzare il legno evidentemente danneggiato. La
53
campana montata sul trummuni è riparata all’estremità che si rac-
corda al chiavettu con pece, cera vergine, spago e fil di ferro (FIG.
22b). L’altra campana è riparata con un foglio d’ottone sagomato a
freddo per essere adattato alla modanatura (FIG. 22a). Uno dei chia-
vetti in soprannumero è interamente foderato in rame bianco con
rinforzi in filo di rame rosso: qui il foro corrispondente alla seconda
chiave è però aperto, anche se il meccanismo è assente (FIG. 23a).
Un altro chiavettu presenta fori su entrambi i lati: su un lato sono
però in parte otturati, come se si fosse avviato un tentativo di rifun-
zionalizzazione poi abbandonato (FIG. 23c). Le chiavi presenti sul
trummuni, entrambe in posizione sebbene quella piccola non fosse
attiva (FIG. 21a), riflettono una lavorazione artigianale specifica: sono
infatti, come per la zampogna del Museo Pitrè, a testa piatta di
forma quandrangolare (è questa l’unica circostanza in cui si è rileva-
ta la presenza di chiavi non ricavate adattando quelle montate su
strumenti di produzione industriale). La disposizione dei fori digita-
li sulla canta pare infine esito di un riposizionamento effettuato stuc-
cando i buchi preesistenti (FIG. 21c).
Oltre che ingegnoso riparatore di strumenti, Giuseppe Ferrante FIG. 24. Testo dattiloscritto del canto del
sapeva ovviamente costruire le ance, come dimostrano l’affilata Figliol prodigo autografato da Rosario Ferrante.
lama e il listello di canna pronto all’uso conservati dal nipote (FIG.
25a-b). Vi sono inoltre un punteruolo e un succhiello mancante
della parte terminale (FIG. 25c-d), mentre non vi è traccia dei ferri
per realizzare la cameratura dei tubi che, secondo quanto riferito
dai discendenti, nessuno dei Ferrante ha mai posseduto. Da qui
forse la particolare destrezza maturata da zzù Piddu nel riparare le
canne danneggiate, condivisa – come si è visto – da Angelo Penni-
no (che possedeva anche i ferri per cavare le canne) e, in certa
misura, da Santo Lo Iacono: segno comunque evidente del defini-
tivo tramonto delle specifiche competenze legate alla costruzione
di questo tipo di zampogna.
Gli ultimi zampognari di Palermo devono pertanto anche
improvvisarsi artigiani, ma sono rimasti in pochissimi e sempre
più anziani. Gli eredi delle due maggiori dinastie cittadine, Girola-
mo Pennino della Kalsa e Rosario Ferrante della Guadagna, che
avrebbero potuto tramandare il sapere dei padri fino al Terzo Mil-
lennio, sono accomunati da un destino non certo fortunato: nel
primo caso segnato dalla morte precoce, nell’altro da una mutila-
zione che basta a decretare l’estinguersi della tradizione.
Diversamente sono andate le cose a Monreale, un antico cen-
tro distante solo qualche chilometro dal Capoluogo, ma caratteriz-
zato da una storia socioculturale del tutto autonoma e peculiare.
Qui la tradizione non si è mai interrotta e proprio dall’incontro con FIG. 25. Attrezzi per la realizzazione delle ance
e per il ritocco dei fori appartenuti a G. Ferrante.
un suonatore monrealese – come ricordato in Premessa – si è
avviata la riscoperta scientifica della zampogna a chiave siciliana.
Grazie a una consistente serie di immagini appartenenti agli archi-
vi del Club Alpino Siciliano e dell’agenzia Pubblifoto abbiamo
potuto indagare più ampiamente l’ambiente di questi suonatori,
ricostruendo identità e vicende che hanno caratterizzato l’ultima
fase pienamente vitale della loro tradizione.
Le prime fotografie reperite sono della Pubblifoto e ritraggono
gli zampognari in costume nell’ambito di un contesto desueto: un
“concorso musicale” organizzato dal Club Alpino Siciliano negli
anni 1961 e 1962 presso il Rifugio “Luigi Orestano” a Piano Zucchi,
località delle Madonie in territorio di Isnello. Questi riferimenti logi-
stici e cronologici emergevano direttamente dalle immagini, ma in
54
tanti anni di assidua frequentazione gli zampognari monrealesi
non avevano mai menzionato questa particolare esperienza, che
poteva offrire svariati motivi di interesse ove se ne fosse rilevato
più ampio riscontro, a partire dall’individuazione di coloro che vi
presero parte: queste foto rappresentavano difatti un prezioso cen-
simento dei suonatori attivi all’epoca.
Grazie ad amici di Isnello – i fratelli Maria Concetta ed Enzo
Sapienza – apprendiamo che i signori Mogavero, attuali gestori del
Rifugio Orestano, suggeriscono di rivolgersi direttamente alla
sede del Club Alpino Siciliano a Palermo. La nostra richiesta di
informazioni è accolta dalla segretaria del CAS con perplessità:
sono eventi troppo remoti perché possa averne cognizione, ma
l’indomani ci sarebbe stato il Presidente, Mario Crispi, che avreb-
be potuto essere di aiuto. Questo nome suonava noto: anzi suona-
va proprio! Perché Mario non è soltanto un affermato musicista ed
esperto conoscitore degli strumenti a fiato di mezzo mondo, ma
anche un vecchio amico e compagno di ricerche. La coincidenza
appare ancora più sorprendente se si considera che è stato proprio
lui a curare nel 1993 la prima documentazione sulla costruzione
dell’ancia tra gli zampognari monrealesi (cfr. Inventario dei docu-
menti sonori e audiovisuali, Sezione B, Rilevamento 3). Mario
aveva sentito parlare di una “gara fra zampognari” a Piano Zucchi
dal padre, che per svariati decenni era stato a sua volta Presiden-
te del CAS, ma non aveva mai approfondito la questione e mi invi-
ta a controllare insieme i documenti dell’archivio. La ricerca dura
pochi minuti e i risultati vanno ben oltre le aspettative. Nel primo
schedario esaminato troviamo infatti tre carpette che contengono
dossier esaustivi: locandine, regolamenti, elenchi dei concorrenti
(con indicazione dei brani eseguiti e dei voti espressi dalla giuria),
verbali, “diplomi” e perfino rassegna stampa. In un grande album
fotografico, custodito insieme ad altri in un armadio, individuiamo
inoltre una serie di immagini che ritraggono suonatori di zampo-
gna a chiave, in abiti ordinari e all’aperto. In seguito accerteremo
trattarsi dei sei zampognari monrealesi che presero parte alla
prima edizione della gara, quando ancora non si era adottata la
decisione di fare indossare costumi “tradizionali” ai concorrenti.
L’edizione del 1960, intitolata 1° Concorso folkloristico tra gli
Zampognari siciliani, si svolge il giorno dell’Epifania tra otto con-
correnti (tutti monrealesi eccetto uno, IMM. 36-37), che si esibisco-
no nell’ordine seguente: 1. Girolamo Patellaro, San Giuseppe; 2.
Sebastiano Davì di Benedetto, Tu scendi dalle stelle; 3. Giuseppe
Davì di Benedetto, Pastorale; 4. Antonino Ferraro, Sant’Antonino;
5. Salvatore Davì fu Sebastiano, Calabrisella; 6. Pietro Davì di Sal-
vatore, Figliol prodigo; 7. Natale Paticella (da Polizzi Generosa),
IM. 36. Da sinistra: Pietro Davì di Salvatore, Giuseppe Ninna Nanna. Il regolamento si articola in sei punti:
Davì di Benedetto, Antonino Ferraro, Salvatore Davì
di Sebastiano. Piano Zucchi 1960
(Archivio del Club Alpino Siciliano). 1) Il concorso folkloristico è aperto agli zampognari delle Madonie,
residenti in uno dei 14 paesi che circondano quelle montagne,
secondo le indicazioni dei sindaci o di altre autorità del luogo, alle
seguenti condizioni:
2) Lo Zampognaro dovrà trovarsi con mezzi propri martedì 5 gen-
naio alle ore 16 circa nel paese di Isnello, presso il Bar Mogavero,
tranne nel caso che voglia recarsi la stessa data al Rifugio con
mezzi propri. Da Isnello sarà trasferito la stessa sera con mezzi
approntati dal C.A.S. al Rifugio “L. Orestano” dove pernotterà.
3) Il concorso si inizierà mercoledì 6 gennaio alle ore 10 nel grande
salone del Rifugio. Ogni concorrente eseguirà due mottetti musicali
sia a solo con la zampogna, sia accompagnati da strumenti a fiato.
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4) La Giuria del Concorso, nominata dal C.A.S., potrà chiedere
prove suppletive, e proclamerà il vincitore con un premio consi-
stente in una Coppa ed una somma di £. 25.000.
5) Tutti i partecipanti al concorso riceveranno un Diploma con il
risultato della Gara.
6) Ciascun concorrente riceverà dalla Direzione del C.A.S. la somma
di £. 5000 quale indennità di trasferta per sé e £. 3000 per l’accom-
pagnatore se provvisto di strumento musicale.
L’iniziativa del CAS – che deve molto dei suoi significativi successi
all’impegno intelligente ed appassionato di Fausto Orestano, un
medico che attraverso questa sua attività ricreativa ha dato alla citta-
dinanza, in lustri di fatica, contributi di sapere turistico, indubitabil-
mente partecipando alla valorizzazione ed alla scoperta di tutta la
zona delle Madonie – non poteva riuscire in modo più incoraggiante.
Uno scelto pubblico ha fatto da interessata e plaudente cornice, e gli
zampognari provenienti dai paesi delle Madonie e dal Monrealese,
hanno suonato vecchi tradizionali motivi natalizi come «Tu scendi
dalle stelle», «San Giuseppe», «Pastorale», «Figliol prodigo», o moti-
vi di fresche acquisizioni popolari, come il napoletano «Calabrisella».
[…] È apparso subito evidente come il monrealese Salvatore Davì
riuscisse ad esprimere con la favolosa zampogna motivi zampillan-
ti come da una fresca sorgente, da un’antica abitudine allo stru-
mento, da una fervida fantasia musicale. Il Davì suona la zampogna
da quarantanni: «Calabrisella» è stata da lui interpretata in manie-
ra tecnicamente perfetta.
Più ardua la scelta tra gli altri concorrenti, tutti bravi e tutti giovani:
contadini del Madoniese che dedicano alla zampogna le ore libere,
magari per cantare nelle ore di malinconia o nei momenti di estro.
Giuseppe Davì, Antonino Ferraro, Girolamo Patellaro, Natale Pati-
cella si sono distinti.
56
Il giorno seguente (8 gennaio), una breve cronaca non firmata
della gara viene pubblicata con titolo identico anche sul “Giornale
di Sicilia”. Qui però abbiamo una precisa illustrazione della “gra-
duatoria” e, soprattutto, un chiarimento riguardo allo strumento
impiegato dall’unico suonatore di area madonita Natale Paticella,
una «piccola zampogna», ovvero una zampogna “a paro”:
57
39. Giacinto Davì e Girolamo Patellaro.
58
La tradizione fino al 1980: immagini, racconti e zampogne ritrovate
59
ovviamente la diffusione che ha in Scozia, erano molte le famiglie di
pastori e contadini che avevano in casa il caratteristico e rustico
strumento musicale.
Ora le famiglie di zampognari nelle Madonie sono molte di meno,
ma ce ne sono ancora. I dodici che hanno gareggiato nella vasta
sala del rifugio del CAS erano tutti imparentati tra loro. Costituiva-
no i diversi rami di un’antica famiglia di zampognari, che ha tra-
mandato nei discendenti l’abilità nel trarre note e melodie da uno
strumento apparentemente negato per la buona musica.
Schierati con le grosse zampogne a tracolla facevano un bell’effet-
to scenografico, anche perché con l’occasione avevano indossato i
costumi tradizionali. Il legame di parentela che li univa quasi tutti
non ha fatto scemare la carica agonistica che, ci assicurano, è sem-
pre elevatissima. Ognuno ha fatto quanto era nelle sue possibilità
per abbandonarsi a virtuosismi e sfoggi di bravura. Del resto, gli
zampognari suonano il loro strumento, più che per professione,
per passione e tradizione. Durante l’anno lavorano in campagna o
fanno qualche altro mestiere, per diventare zampognari solo nel
periodo natalizio. Allora si mettono a tracolla gli strumenti e calano
in città e nei paesi per suonare le “novene”.
Dopo la presentazione dei dodici zampognari ha preso la parola il
prof. Orestano, Presidente del Club Alpino Siciliano, il quale ha
ricordato che il programma della valorizzazione turistica delle
Madonie è stato perseguito dal CAS sin dalla sua fondazione. […]
Ricordando tra i fini statutari del CAS lo studio delle tradizioni e
delle caratteristiche etnografiche, mette in rilievo la rievocazione
degli zampognari, questi oscuri siciliani che nella modestia dei loro
mezzi custodiscono gelosamente gli strumenti di una tradizione
così ricca di armonie e di poesia. Il discorso del prof. Orestano è
stato lungamente applaudito.
Hanno inizio quindi le prove singole, nelle quali ciascun concor-
rente esegue un mottetto dalle ispirazioni più varie e poi un con-
certo generale. La lunga consuetudine con la zampogna, e la rela-
tiva ristrettezza del repertorio, li ha resi dei virtuosi e non è stato
facile per la giuria […] scegliere il vincitore. […] Il vincitore del
primo premio è lo stesso dello scorso anno, decisamente il più in
gamba di tutti.
43. Locandina pubblicitaria della gara tra
La terza e ultima edizione della Gara degli Zampognari delle zampognari tenuta a Piano Zucchi nell’aprile del
Madonie si svolge, sempre nello stesso luogo e secondo identi- 1962 (Archivio del Club Alpino Siciliano).
60
annunzianti la gara [IM. 45]. Arrivati al Rifugio i zampognari hanno
controllato e provato il funzionamento delle loro cornamuse. Alle ore
11 la giuria della gara […] ha fatto l’appello dei concorrenti, i quali
vengono fotografati.
Hanno quindi inizio le prove venendo chiamati al podio i singoli can-
didati per ordine alfabetico. Dopo ogni prova la giuria assegna al
concorrente un voto che servirà per la valutazione e la designazione
dei vincitori. Alle ore 12, esaurite le singole prove, tutti i concorrenti
eseguono un concerto generale fra gli applausi degli intervenuti.
Quindi la giuria procede al computo dei voti singoli ed emette il suo
verdetto proclamando vincitore del primo premio lo zampognaro
Gaudesi Francesco e dei due secondi premi ex aequo i zampognari
Davì Salvatore fu Sebastiano e Davì Pietro di Benedetto.
61
46. In prima fila da sinistra:
Leonardo Carrozza, Salvatore Carrozza, Antonino
Gaudesi, Salvatore Davì di Sebastiano, Pietro Davì di
Salvatore, Pietro Davì di Benedetto, Antonino Ferraro.
In seconda fila da sinistra:
Giuseppe Davì di Salvatore, Giacinto Davì,
Francesco Gaudesi, Pietro Gaudesi, Girolamo Patellaro.
Piano Zucchi 1962 (Archivio Pubblifoto di V. Brai).
62
48-50. Salvatore Davì di Sebastiano, na di Fatima (1962).
Pietro Davì di Benedetto, Giacinto Davì.
Leonardo Carrozza di Bernardo: Madonna di Fatima (1961), Litania
Piano Zucchi 1962 (Archivio Pubblifoto di V. Brai).
(1962).
Salvatore Carrozza di Bernardo: Nascita del Bambino (1961), San
Giuseppe 1962).
Stefano Carrozza di Bernardo: San Giuseppe (1961).
63
era «come quando si parlava», riferisce il signor Francesco (la que- 51-53. Giuseppe Davì di Salvatore,
Pietro Davì di Salvatore, Antonino Ferraro.
stione sarà più precisamente esaminata nel cap. 7). L’anziano can- Piano Zucchi 1961 (Archivio Pubblifoto di V. Brai).
tore ricorda anche la straordinaria abilità di un altro zio della
moglie, Giuseppe Davì (fratello di Benedetto, Salvatore e Filippo),
deceduto negli anni Cinquanta dopo essere stato a lungo ricovera-
to per problemi psichici: «chistu sunava a ciaramedda a mmusica»
(questo suonava la zampogna “a musica”). Benedetto osserva poi
la particolare sagoma interna “aperta” della campana della canta
appartenente alla zampogna del nonno (IM. 47): un dettaglio
costruttivo non riscontrabile su strumenti “moderni” ma che inve-
ce caratterizza l’esemplare del Museo Pitrè. Riguardo alla chiave
piccola aggiunge: «Mio zio Nenè mi diceva che si usava anticamen-
te nella Litanìa per fare un suono “cupo”, una nota “fuori tono”».
Il sistema a chiave doppia pare quindi essere divenuto desueto
a Monreale prima che a Palermo, come conferma d’altronde anche
lo zampognaro Salvatore Carrozza (n. 1932): «Me patri â usava a
chiavuzza. Quannu si mittìa u ìritu u puittusu ghiapriva: unn’era
comu u bbassu chi u puittusu u chiurìa. Ma poi vinìa difficili e stu
puittusu fu attuppatu, però a chiavuzza cciâ lassammu u stissu pi
bbillizza» (Mio padre la usava la chiave piccola. Quando si mette-
va il dito il foro si apriva: non era come il “basso” [chiave grande]
che il foro lo chiudeva. Ma poi veniva difficile e questo foro è stato
otturato, però la chiave piccola gliel’abbiamo lasciata lo stesso per
bellezza). Salvatore fa parte di un’altra importante famiglia di suo-
natori monrealesi: il padre, Bernardo Carrozza (1883-1958, IM. 57),
di professione contadino, era zampognaro di prima generazione,
ma assai apprezzato, anche dai palermitani, per l’abilità nel
costruire le ance, cavare le canne e accordare lo strumento. Suo-
natori valenti sono stati anche i fratelli di Salvatore, Leonardo
(1911-1987) e Stefano (n. 1929), che insieme a lui hanno partecipa-
to alle sfide di Piano Zucchi (IMM. 58-60). Le competenze di Bernar-
do Carrozza, ereditate dal figlio minore, costituivano un prezioso
elemento di attrazione per altri zampognari, che ne ripagavano
debitamente le prestazioni. Tra i suonatori dei rioni popolari di
Palermo che frequentavano casa Carrozza, oltre ai Ferrante e ai
Pennino, Salvatore segnala in particolare: Angelo Prestigiacomo
(Uditore), Filippo Spuches e il cognato Filippo Fofò Caruso (Cruil-
las), Salvatore Catalano e il figlio (Villaggio Santa Rosalia, ô Chia-
nu i purceddi), un tale di Pallavicino detto u Cipuddaru (il Cipolla-
io) e un “apprendista” di Passo di Rigano, detto l’Oibbu (l’Orbo).
Tra i suonatori monrealesi ricorda inoltre Pietro Renda, zzù Petru
Renna (potatore, morto intorno al 1992 più che settantenne) e Giu-
seppe Romanotto, zzù Pippinu (vaccaro e contadino, morto intor-
no al 1997 quasi novantenne). Romanotto faceva spesso coppia
con il clarinettista Carmelo Giangrande, detto u Vastiddaru (sarto,
appartenente al locale complesso bandistico), proponendo la rie-
dizione della coppia zampogna-piffero, intensamente diffusa in
gran parte dell’Italia centromeridionale. Questa soluzione stru-
mentale, che non risulta attestata nella tradizione palermitana, era
in passato abbastanza diffusa tra gli zampognari Monrealesi. Fran-
cesco Miceli addirittura afferma: «U cantanti u mìsiru a puittari
ruoppu, ma prima i ciaramiddara puittàvunu u clarinista dappres-
su, quasi tutti! T’annu cc’era puru u zzù Luciano Ranisi chi ssuna-
va a ciaramedda, e so fìgghiu Stefano, prima dû Quaranta!» (Il
cantante hanno iniziato a prenderlo dopo, ma prima gli zampogna-
ri si portavano appresso il clarinettista, quasi tutti! Allora c’erano
64
54-56. Francesco Gaudesi, Pietro pure zzù Luciano Ranisi e suo figlio Stefano che suonavano la zam-
Gaudesi, Antonino Gaudesi.
Piano Zucchi 1961 (Archivio Pubblifoto di V. Brai). pogna, prima del 1940!).
L’unico suonatore tuttora attivo fra quelli che parteciparono alle
gare organizzate dal CAS è Girolamo Patellaro, zzù Momu (n. 1932,
IMM. 39 e 61). Anche questi appartiene a una famiglia di estrazione
contadina, con il padre zampognaro di prima generazione: Giacin-
to (1903-1955), che aveva acquistato lo strumento da un altro suo-
natore monrealese, tale Vito Di Gesù. Insieme a Giacinto cantava il
suocero: Girolamo La Corte, morto ultranovatenne intorno al 1960.
Suona la zampogna anche il fratello minore di Momu Salvatore (n.
1940), rientrato a Monreale dopo una lunga permanenza in Setten-
trione per motivi di lavoro. Girolamo Patellaro – che ha fatto cop-
pia con zzù Nené finché questi nel 1991 dovette smettere di suona-
re perché colpito da ictus – è anche l’unico suonatore monrealese
a essere stato presente sia ai tre concorsi tenuti a Piano Zucchi sia
ad alcune edizioni della Zampogna d’Oro di Erice, dove è risultato
vincitore nel 1992.
Altre fotografie di varia provenienza attestano l’attività dei suo-
natori di zampogna a chiave nel ventennio 1950-70. Due immagi-
ni, appartenenti all’archivio del “Giornale di Sicilia” di Palermo,
restituiscono efficacemente il contesto della novena: lo zampogna-
ro, di cui non è stato possibile stabilire l’identità, è ritratto mentre
suona davanti a una bottega di prodotti ortofrutticoli e poi si allon-
tana alla guida di una motocicletta, ospitando sul retro della sella
un compagno – quasi certamente il cantore – che regge lo stru-
mento (IMM. 62-63, di queste foto non si conosce né l’autore né la
data esatta).
Alcune foto ritraggono zampognari monrealesi già incontrati a
Piano Zucchi. La prima, reperita da Patrizia D’Amico negli album
del Museo Pitrè, risale al Natale del 1963 e immortala Pietro Davì
(IM. 64), il fratello di zzù Nenè, accanto all’antropologo Giuseppe
Cocchiara (1904-1965), docente presso la Facoltà di Lettere e Filo-
sofia dell’Ateneo palermitano, di cui è anche stato a lungo il Presi-
de (cfr. Bonomo-Buttitta 1974). Cocchiara, Direttore tra l’altro del
Museo dal 1934 al 1965, aveva fortemente sostenuto le ragioni del-
l’etnomusicologia promuovendo la stampa del Corpus di musiche
popolari siciliane di Alberto Favara (1957) e scrivendone la Pre-
messa: non è quindi casuale l’esibizione di suonatori tradizionali
fra le mura di una Istituzione che negli anni della sua direzione ha
goduto un momento di particolare splendore (cfr. D’Agostino
2002). Il 27 dicembre del 1970, un altro zampognaro monrealese
viene invitato a esibirsi al Museo Pitrè per festeggiare il “ripristi-
no” della cappella di pertinenza della Palazzina Cinese, come si
legge sul retro della fotografia reperita da Patrizia D’Amico in un
«Album Direzione, colore bordò»: si tratta di Leonardo Carrozza,
accompagnato dal cantore Raffaele Naimmi, un contadino e ven-
ditore di verdura tuttora vivente (IM. 65).
Una serie di immagini, realizzate nel 1961 dall’agenzia Pubblifoto,
ritraggono Pietro Gaudesi nel contesto di una rappresentazione nata-
lizia, di cui è però difficile identificare la natura (potrebbe anche trat-
tarsi di uno spettacolo di marionette). Una di queste riprende lo zam-
pognaro accanto a un uomo mascherato da Babbo Natale (IM. 66).
Nell’ambito di una rappresentazione del Natale, quasi certa-
mente un “presepe vivente”, si colloca anche una fotografia pubbli-
cata da Paolo Toschi nel 1967, con la seguente didascalia: «I ciara-
middari siciliani, con cornamusa e piffero, portano tra le case e
65
davanti ai presepi la “novena” e le nenie di Natale (fot. Braccian- 57. Bernardo Carrozza insieme alla moglie
Maria Cristina e al figlio Salvatore.
te)» (foto 80, dopo p. 64; IM. 67). Strumento e postura del suonato- Monreale ca. 1955 (coll. Famiglia Carrozza).
re rinviano senza dubbio alla tradizione della grande zampogna
palermitana, ma non è stato possibile chiarire l’identità dello zam-
pognaro né individuare la provenienza del fotografo. La singolari-
tà di questa immagine viene così valutata da Febo Guizzi:
66
59-61. Stefano Carrozza, Salvatore c’erano i fratelli Calogero e Pietro Messineo, Calogero Lo Dico e
Carrozza, Girolamo Patellaro.
Calogero Sabatino [1876-1955]. Prima c’era pure Leonardo Cerami
Piano Zucchi 1961 (Archivio Pubblifoto di V. Brai).
[1862-1947], il suocero di mio nonno Luciano: suonava sia la ciara-
mella che la pìffara e dicono che era un vero maestro. Tutti questi io
non li ho conosciuti, ma Pietro Sabatino [1911-1995], figlio di Caloge-
ro, era pure zampognaro e suonava con noi.
Le ance ultimamente le faceva un mio cugino, un certo Giuseppe Di
Prima che stava a Raffo, una frazione di Soprana, ed è morto pochi
giorni fa. Aveva il tornio e faceva pure qualche pìffara e la regalava
a noi che suonavamo. Per le ance prendeva la canna migliore, chia-
mata masculina. Usava un coltellino molto tagliente per scavare la
canna e poi la legava con lo spago e la cera a un tubicino fatto di
lamierino, detto cannizzola [cannuccia], perché anticamente si face-
va pure con la canna. Quando si deve suonare, l’ancia si mette prima
a mmuoddu nnô vinu: â facimu mbriacari, cussì nn’imbriacamu
puru nuatri e ssunamu ancora mègghiu! [a mollo nel vino: la faccia-
mo ubriacare, così ci ubriachiamo pure noi e suoniamo ancora
meglio!]. Ora le ance ce le facciamo mandare da suonatori del-
l’Abruzzo e della Campania.
2 Nel documentario Passione a Isnello di Ugo Fasano (durata 12’, b.n., prod. Phoe-
nix Film, Roma 1950) è contenuta una breve sequenza in cui si vede un giovanissi-
mo pastore che suona il piffero. Sfortunatamente alle immagini non corrisponde il
sonoro originale.
3 Il signor Giosafat Lo Sciuto (n. 1943), suonatore di tamburo e cantore specializ-
67
a girare per le case dei fedeli suonando i tipici brani, talora di diffi-
cile esecuzione, la cui tecnica viene tramandata di padre in figlio.
Per nove giorni si celebra la festività natalizia e nei giorni in cui
“tutti ci sentiamo buoni” al suono di ciaramella si attende la
nascita di Gesù. Finita la novena, il suonatore di ciaramella se ne
torna nella pagina ingiallita del suo antico libro di povertà. Ades-
so si ricomincia a vivere la realtà, ognuno smette gli abiti natali-
zi, smette di essere personaggio da presepe e torna a vivere e a
misurare le ingiustizie di ogni giorno.
Ed ecco il suonatore di ciaramella visto come è nella realtà. Abbiamo
parlato con un vero maestro della ciaramella, che abbiamo “pescato”
nella sua sua povera ma dignitosa abitazione di Monreale.
Si chiama Giacinto Davì, ha 46 anni. Durante tutto l’anno lavora in
campagna, dicono che è molto bravo nel potare le piante, nell’in-
nestarle e in altri lavori. Suona la ciaramella da quando aveva dodi-
ci anni. Alcuni pezzi li costruisce personalmente, altri li compra da
un vecchio e bravo “mastro d’ascia”, pure di Monreale. 62. Zampognaro esegue la novena presso una bottega
Maestri della ciaramella sono stati il nonno, poi il padre che anco- di frutta e verdura. Palermo, anni Cinquanta
del sec. XX (Archivio del “Giornale di Sicilia”).
ra oggi a 73 anni si cimenta con bravura. Fino a otto anni addietro
nella famiglia Davì erano in due a suonare questo strumento: Gia-
cinto e il fratello Sebastiano che adesso ha 48 anni [n. 1922]. Pure
Sebastiano cominciò a dodici anni, sulla scia del padre Filippo. Per-
ché suonatori di ciaramella? Un po’ per fede un po’ per bisogno.
Filippo Davì nella sua vita ha cambiato parecchi mestieri. Ha lavo-
rato i campagna ma anche fatto il portuale per parecchi anni. Ha
lavorato per anni nella vetreria di via Pitrè ma anche, per ultimo,
come operaio nella ditta Cassina. Con ogni mestiere Filippo Davì,
invalido di guerra, ha sempre avuto la necessità di arrotondare il
salario suonando benissimo la ciaramella, procurandosi in tal
modo la tanto famosa “tredicesima”.
Ma essere ciaramiddaru è anche dimostare talento, una vera arte,
specie per quanto riguarda la costruzione dello strumento e il suo
accordo. Così in famiglia, come la tradizione vuole, ci sono stati
altri suonatori di ciaramelle. Sebastiano e Giacinto cominciano a
dodici anni, girano insieme al padre, poi da adulti, prendono le
novene in proprio. Ma è molto faticoso, bisogna stare tutto il gior-
no fuori, per strada, piova oppure no e non sempre si trova la forza,
dato che non ci si arricchisce di certo.
Così otto anni addietro Sebastiano, come tanti altri siciliani, ha
abbandonato la sua terra bruciata. È andato a Bologna a lavorare
in un cantiere edile ma ha potuto lavorare e vivere senza dover
troppo penare e questo ha fatto sì che non tornasse più. Della fami-
glia Davì è rimasto solo Giacinto, che ogni anno indossa i panni del
“personaggio” da presepe.
A Giacinto abbiamo chiesto se anch’egli pensa ad emigrare. Conti-
nuando ad accordare il suo piccolo capolavoro di pazienza, la cia-
ramella, ha risposto: «No, qui sono nato e qui voglio morire. Voglio
lavorare e stare nella mia terra».
68
63. Zampognaro si allontana in motocicletta dopo
una novena. Palermo, anni Cinquanta del sec. XX
(Archivio del “Giornale di Sicilia”).
69
65. Leonardo Carrozza (zampogna) e Raffaele
Naimmi all’ingresso del Museo Pitrè,
davanti alla cappella della Palazzina Cinese.
Palermo 1970 (Biblioteca del Museo Pitrè).
70
insieme al cugino Damiano Puleo (cantore) e a Salvatore Iacopelli
(suonatore di violino, detto Turi Scrozza). Damiano e Salvatore si
alternavano al canto, mentre Gaetano intercalava brani strumen-
tali. Zzù Tanu Bbammineddu impiegava però una zampogna “a
paro” con tre bordoni, come è stato possibile osservare grazie alla
cortese disponibilità della nipote Caterina Puleo che tuttora con-
serva lo strumento.
La presenza a Cinisi della zampogna a chiave si ricollega inve-
ce all’iniziativa personale di un altro suonatore, Vincenzo Brigu-
glio, nato nel 1912. Egli operò a partire dagli anni Trenta in un grup-
po di novenanti professionali riconducibile alla tradizione degli
orbi: Giuseppe Malta (voce e tamburello), Stefano Biondo (chitar-
ra) e Nunzio Biondo (citarruni). Briguglio, che allora suonava il cla-
rinetto nel locale complesso bandistico, fu chiamato a sostituire il
violinista deceduto Antonino Zirilli (mastru Antuninu). Come affer-
ma lo stesso Briguglio, fino agli anni Quaranta a Cinisi, nel perio-
do di Natale, giungeva talvolta anche una coppia di suonatori cala-
bresi (zampogna a chiave e piffero), i quali integravano i guadagni
67. «Ciaramiddaru siciliano» (in Toschi 1967). raccolti nelle novene con la vendita di foglietti a stampa per predi-
re la sorte (a vintura). Scomparsi i “Calabresi” e deceduti via via i
suoi compagni, egli continuò a eseguire la novena di Natale pro-
curandosi, intorno al 1955, una zampogna a chiave acquistata per
corrispondenza dal costruttore Giuseppe D’Agostino di Villa Latina
in provincia di Frosinone (riguardo a questa famiglia di costruttori
lazialisi veda in particolare Sparagna-Tucci 1990: 90-99). Lo stru-
mento non è tuttavia più in possesso di Briguglio che, divenuto
troppo anziano per eseguire la novena (verso il 1980), ne ha fatto
68. Il suonatore di pìffara Giuseppe Federico.
Petralia Soprana 2006 (foto S. Bonanzinga).
dono al figlio residente negli Stati Uniti.
71
69. Giacinto Davì. Monreale 1969 (Biblioteca Centrale della Regione Siciliana).
72
Zampognari del Terzo Millennio
5
73
a Palermo, i Davì e i Carrozza a Monreale. Figli e nipoti assisteva-
no fin da piccoli alle esibizioni degli adulti nel periodo del Natale.
Non vi erano “lezioni” appositamente impartite, come a esempio
accade tra i suonatori di launeddas in Sardegna (cfr. Giannattasio
1992: 145-160 e Weis Benton 2002), ma era l’attento ascolto di
parole e melodie, insieme all’osservazione dei gesti, a esercitare
una diretta funzione didattica. Quando un ragazzo imbracciava per
la prima volta lo strumento, che date le dimensione necessitava di
un adeguato sviluppo fisico (undici-dodici anni è l’età normal-
mente indicata), già conosceva le parole dei canti e tutte le “sona-
te”, mentre la memoria visiva aiutava ad associare ai suoni i movi-
menti delle dita. Queste modalità di trasmissione del sapere musi-
cale, interamente affidate alla metabolizzazione di schemi motori
appresi per imitazione diretta, rendevano di fatto superflua l’elabo-
razione di un sistema “teorico” di riferimento: la tradizione zampo-
gnara non prevede infatti l’identificazione di note e abbellimenti 73. Sebastiano Davì (zampogna) e Benedetto Miceli.
mediante una nomenclatura codificata, come invece accade per le Monreale 1990 (foto E. Lo Verso, part.).
74
costruiva le pipiti ma a ciaramedda sâ sapìa accurdari [la zampogna
la sapeva accordare]. Nel 1992 anche zzù Momu vinse la “Zampogna
d’Oro” [IM. 76] e nel 1996 a Erice vinsi io, dopo otto anni che avevo
iniziato a suonare [IM. 77].
75
quartieri popolari di Palermo sono inoltre i triunfi: “feste musica-
li” celebrate in onore di un santo con valore di offerta votiva
(prummisioni) per grazia ricevuta o da ottenersi, caratterizzate
dall’abbondante consumo di cibi e bevande da parte di invitati e
suonatori. Novene, ottave e tridui si celebrano dalla mattina (a
partire dalle sette) alla sera (fino all’ora di cena), all’interno delle
abitazioni o delle botteghe dei committenti (davanti al presepe o
a immagini sacre), oppure all’esterno se vi si trova collocata
un’edicola votiva (cappilluzza, cupulìcchia, ancora talvolta deco-
rata secondo consuetudine con fronde d’agrumi cariche di frutti,
come rilevato ad Altofonte, Pioppo e Monreale). Le botteghe
sono, oggi come in passato, in prevalenza di generi alimentari
(pasticcerie, panifici, macellerie, botteghe di prodotti ortofrutti-
coli, moderni mini-market). Non mancano inoltre le “focaccerie”
dove si vende il tradizionale pane con la milza (pani câ meusa), i
bar e le sempre più rare taverne. Ogni nuvena si articola in due
o tre cadduozza (pezzi), di norma un brano strumentale e uno o
due canti, che possono variare in funzione dei desideri dei devo- 78. Salvatore Carrozza (zampogna) con il figlio
ti. Di maggiore durata, e quindi più articolate, sono le esibizioni Bernardo. Monreale 2001 (foto F. La Bruna).
che si tengono per l’uttava, oggi richiesta però soltanto da pochi
parrucciani monrealesi. Molto più impegnativa – e conseguente-
mente costosa – è l’ormai sporadica partecipazione ai triunfi,
dove si suona a piacimento dei committenti2.
1998 è stato di 150-200.000 lire (con sconti variabili per le famiglie disagiate), men-
tre per l’ultimo triunfu, celebrato in onore di san Giuseppe il 19 marzo 1994 nel
rione palermitano dell’Arenella, Patellaro e Miceli hanno ricevuto una retribuzione
di 500.000 lire. La coppia formata da Patellaro e Ferraro nel 2006 ha effettuato le
novene presso 30 parrucciani per l’Immacolata (a Pioppo, Guadagna e Arenella) e
50 per Natale (ad Altofonte, Villaciambra, Villagrazia, Guadagna e Arenella), richie-
dendo compensi oscillanti tra 80-100 euro. Nello stesso anno la coppia costituita da
Miceli e Modica ha celebrato 20 novene per l’Immacolata e 21 per Natale (nei rioni
Cuba-Calatafimi, Noce e Uditore), oltre a 5 ottave per l’Epifania (solo a Monreale).
Sempre nel 2006, Bernardo Carrozza e il figlio Salvatore hanno effettuato circa 30
novene di Natale a Palermo (nei rioni Cuba-Calatafimi, Passo di Rigano, Uditore,
Cruillas, Borgo Nuovo e Sant’Isidoro). Tutti gli zampognari registrano negli ultimi
anni un forte decremento degli impegni e lamentano il disinteresse delle nuove
76
Le parti della zampogna: costruzione e termi-
6 nologia
77
di cui è composta una zampogna si impiegano di norma tre setti-
mane. Le poche zampogne interamente costruite da Flores non
sono mai state comunque utilizzate dai suonatori in attività, che
preferiscono impiegare gli strumenti già in loro possesso e ricor-
rono all’artigiano solo per ripararne o sostituirne pezzi danneg-
giati (cfr. Rilevamento 10).
La cameratura conica delle canne (cavatina) viene effettuata a
mano dagli stessi suonatori, per mezzo di una serie di alesatori
molto affilati: i ferri i sonu (ferri da suono). Questi sono di diame-
tro e lunghezza diversi a seconda dei vari segmenti da forare (FIG.
26). Si inizia introducendo il ferro più lungo e stretto nell’apertura
inferiore di ogni pezzo. L’operazione si compie interamente a
FIG. 26. Alesatori conici di vario calibro per la
mano, ruotando il ferro all’interno del pezzo opportunamente fis- cavatura delle canne appartenenti a Benedetto Miceli.
sato in una morsa. Per stabilire con esattezza il punto in cui cam-
biare il ferro, Miceli usa introdurlo prima all’interno di un pezzo già
correttamente cavato, tracciandovi quindi un segno in coincidenza
con il punto d’arrivo. Man mano che si procede nella foratura, si
impiegano ferri sempre più corti e larghi in punta. L’impiego di
simili “ferri” è comune nella costruzione delle zampogne italiane e
varie sono le strategie per graduarne l’uso nella foratura delle
canne. Tra i metodi per fissare le misure delle varie “quote” della
foratura, ricordiamo quello utilizzato da Molone (IMM. 83-84), che
usava effettuare personalmente la delicata operazione:
83-84. Gaetano Molone presso il proprio
Molone di Monreale usa una denominazione numerica, che appar- laboratorio e mentre lavora al tornio.
tiene al campo tecnologico, poiché non è usata dai suonatori, per
designare le misure delle canne, o meglio quelle che egli chiama le
“partite”, e che corrispondono alle quote; ad esempio: 68 - 52 - 48 -
13». Lo stesso Molone comunque riferisce di aver sempre adottato,
come criterio base per la progressiva alesatura dei chanters, la
regola di cambiare ferro ogni 10 centimetri di scavo da allargare.
[Guizzi-Leydi 1985: 142-143]
78
1) Strumento conservato al Museo Pitrè
– CMS (mancante del segmento di testa) 745, CMD 860, BMIN 265, B 236
6.1. Canneggio
79
Il segmento superiore di ogni canna è dotato di un cursore
all’estremità da innestarsi nel blocco. Poiché nei fori d’imbocco dei
cursori vanno inserite le ance, questi vengono detti sampugnari
(lett. “zampognari”). I raccordi fuso-padiglione nella canta e fuso-
segmento mediano e segmento mediano-padiglione nel trummuni
sono realizzati a vite, mentre in entrambi i bordoni il raccordo con
il padiglione è “a tenone”. Le filettature vengono realizzate a mano
con l’ausilio di una madrevite (matriviti) per il “maschio” e di una
limetta per la “femmina”. Ogni parte destinata a penetrare in una
cavità di alloggiamento – sia a vite che a innesto – viene detta mèc-
cia (lett. “pene”, tecnicamente “maschio”). I punti di raccordo ven-
gono sempre avvolti con filo di cotone, in modo da creare lo spes-
sore necessario ad assicurare un assetto ottimale del canneggio.
6.2. Blocco
6.3. Insufflatore
1 Per raffronti relativi alla tipologia degli insufflatori applicati alle zampogne dell’Ita-
lia centro-meridionale, cfr. Guizzi-Leydi 1985: 152-155 e Gioielli 2005: passim.
80
6.4. Ance
81
denominazione di “ramello” (cfr. cap. 9), mentre oggi si ottiene più
semplicemente arrotolando su un chiodo da mm. 80 (diametro
mm. 4) dei rettangolini di lamiera liscia (lanna) ricavati da scatola-
me per alimenti (Miceli usa in preferenza scatole di sardine). Per
condurre l’operazione, Miceli utilizza una piccola incudine su cui
ha creato un incavo che funge da contro-stampo: entro questo
forza il lamierino e – con l’ausilio del gambo del chiodo – ne ottie-
ne la piegatura, fino ad accostare perfettamente i lembi senza
necessità di saldatura (IM. 92). L’estremità del rameddu che andrà
infissa tra le lamelle viene schiacciata leggermente, mentre il
corpo si fascia con spago incerato, per evitare dispersione d’aria e
adattarlo all’imboccatura della canna. Si fascia quindi il raccordo
tra lamelle e rameddu, annodando la fasciatura e spalmando la
cera in eccesso per assicurare la tenuta d’aria (se ne ottiene verifi-
ca soffiando nel rameddu tenendo bloccate le lamelle). Di nuovo
l’ancia viene posta nell’acqua, dove si lascia per una decina di
minuti. Si possono quindi eliminare le due legature con cui si
erano inizialmente appaiate le lamelle e si procede ad assottigliar-
le utilizzando il coltello da innesto. Raggiunto lo spessore deside-
rato si finisce l’ancia mediante molatura (mmulari a pipita). Que-
88-89. Sgrossatura e assottigliamento del listello di
sta operazione deve essere compiuta inumidendo costantemente canna. Monreale 1998 (foto S. Bonanzinga).
sia l’ancia che la mola (petra mola) ed eliminando via via i residui
di sfregamento (IM. 93). Il coltello si usa per tranciare l’estremità
dell’ancia al fine di pareggiare le lamelle determinandone nel con-
tempo la lunghezza. Si riprende pertanto a levigare e ad affilare
sulla mola l’estremità dell’ancia, soffiandovi dentro di tanto in
tanto fino a ottenere l’esatta produzione sonora. Solo a questo
punto si potrà vagliare la qualità della pipita, inserendola nella
canna della zampogna per farla prima ssistari (assestare) e poi
sunari (suonare). Il procedimento descritto dura circa due ore e,
stando alle testimonianze raccolte, la percentuale di ance che
superano la “prova del suono” è molto bassa (può addirittura
90. Divisione del listello di canna in due parti di
capitare che fra dieci o venti non ne riesca neppure una). La dura- eguale misura. Monreale 1998 (foto. S. Bonanzinga).
ta di una pipita, tenuta umida e in continuo esercizio, non supera
di norma i due mesi (che poi è il tempo della “stagione” per gli
zampognari monrealesi). Le dimensioni possono variare entro un
certo margine, sicché a ogni canna corrisponde un’ancia di misu-
ra diversa: più corte quelle di canta e fasettu, più lunghe per trum-
muni e quàitta (FIGG. 31-32, ma si vedano anche FIGG. 12 e 16).
6.5. Otre
82
eccettuata quella corrispondente a una delle zampe posteriori da
cui si immette aria nella pelle soffiando attraverso una canna (o
ricorrendo a un piccolo compressore). La pelle, così gonfiata con
il pelo all’esterno, potrà ora essere agevolmente tosata. Dopo la
tosatura si sciolgono i nodi provvisori, si elimina il pelo residuo
dalle aperture, si sciacqua la pelle, la si rivolta con il pelo all’inter-
no, si rimuovono le scorie e infine si risciacqua. L’otre prende
forma grazie a tre legature realizzate con spagu i zotta (sferza di
canapo usata dai carrettieri per incitare gli animali) nell’ordine
seguente: 1) la zampa posteriore sinistra con i fori anale e genita-
91. Inceratura dello spago utilizzato per sigillare il le; 2) la zampa posteriore destra (u piruzzu) da sola, ma in modo
“ramello” e fissarlo alle lamelle dell’ancia.
Monreale 1998 (foto S. Bonanzinga). da potere all’occorrenza utilizzare l’apertura come sfiatatoio; 3) la
zampa anteriore destra da sola. La prima e la terza legatura si effet-
tuano con nodi “a strangolare” (affucacavaddu), la seconda con
nodo semplice (scocca). La prima legatura, relativa all’apertura più
ampia, viene rinforzata mediante un chiodo da otto cm. infisso
nella pelle raccolta a fisarmonica (la punta del chiodo viene poi
tranciata per evitare danni all’otre). Le due aperture corrisponden-
ti al collo e alla zampa anteriore sinistra dell’animale sono rispet-
tivamente destinate all’inserzione del blocco e dell’insufflatore
(cfr. supra). Mentre l’insufflatore si innesta già a questo punto
della lavorazione, in luogo del blocco si pone una legatura tempo-
ranea (se il collo dell’animale è corto), oppure si inserisce una bot-
92. Sagomatura del “ramello’ sull’incudine. tiglia o un pezzo di legno appositamente modellato (se il collo è
Monreale 1998 (foto S. Bonanzinga).
lungo). A questo punto l’otre si gonfia (si ùscia), si strofina con
sale e luma (galla, sostanza conciaria di origine vegetale) e si
appende per il collo in luogo chiuso ma ventilato. Alla parte infe-
riore, nel punto corrispondente alla prima legatura, si applica per
un paio di giorni un contappeso (càrrica) – variabile da venti a tren-
ta chili secondo le esigenze (più il collo è corto maggiore dovrà
83
essere il peso e viceversa) – in maniera che l’otre stia ben disteso
e possa acquistare la giusta conformazione oblunga (funzionale
alla postura dei suonatori). Eliminata la zavorra, si lascia l’otre
appeso fino al momento dell’uso (IMM. 94-97). Basterà allora
ammorbidire con abbondante acqua la pelle del collo per potervi
agevolmente innestare il blocco della zampogna.
Di norma l’otre si rimpiazza annualmente e non dura comun-
que più di due o tre anni. In caso di piccole lacerazioni, si usa
ripararlo utilizzando appositi dischetti “tappi” di legno, detti a
Palermo bbuttuni (FIG. 18) e a Monreale virticchi (lett. “fusaioli”,
piastrelle di scorrimento infilate al vertice del fuso). Questi con-
sistono in dischetti cilindrici di diametro variabile (mm. 25-75)
con scalanatura laterale (i più piccoli vengono realizzati con il
coltello dagli stessi suonatori, gli altri vengono fatti al tornio). La
riparazione si esegue fissando con spago incerato i bordi dello
strappo attorno alla scanalatura del dischetto. La legatura si
effettua dall’interno dell’otre, utilizzando per operare l’apertura
corrispondente al blocco, sicché gli effetti dell’intervento risulta-
no quasi invisibili.
84
TAV. 6. Tutte le parti in legno della zampogna di Girolamo Patellaro.
85
TAV. 7. Canna melodica destra: a) fuso; b) padiglione.
86
TAV. 8. Canna melodica sinistra: a) fuso; b) segmento mediano dotato di chiave; c) padiglione.
87
TAV. 9. Bordone minore: a) fuso; b) padiglione.
88
TAV. 11. Blocco.
89
TAV. 13. Zampogna di Girolamo Patellaro (disegno di M. Modica).
90
Il repertorio e lo stile esecutivo
7
te da Vigo (1870-74) e da Pitrè (1870-71). Per l’indicazione dei canti religiosi diffusi
in stampe popolari vedi in particolare Salomone Marino 1896-1901. Sulla poesia
popolare religiosa in Sicilia si veda l’utile sintesi di Maria Tedeschi (1928-39) e per
un quadro più ampio, relativo al territorio italiano, cfr. Toschi 1935.
91
sato poteva essere cantata sul testo latino delle Litanie lauretane).
Vengono inoltre eseguiti adattamenti strumentali di celebri canti
religiosi (Tu scendi dalle stelle, Inno eucaristico, La Madonna di
Fatima), di canzonette “folkloristiche” (Turidduzzu, Lazzarella, Na
picciuttedda c’avìa sta matina), della marcia detta Bersagliera e di
vari ritmi di danza (valzer, tarantella), nonostante questo tipo di
zampogna non svolga funzione di accompagnamento al ballo. Tu
scendi dalle stelle viene anche cantato, con insolita sovrapposizio-
ne tra melodia vocale in maggiore e accompagnamento in mino-
re. Si tratta di una evidente reminescenza dell’originario assetto
armonico dello strumento, che in misura più attenuata si rileva
anche nel canto del Figliol prodigo (cfr. infra).
Per definire lo “stile” dell’esecuzione, soprattutto valutato in
FIG. 33. Punteruolo (a) e tappi (b)
rapporto alla capacità di ornare con destrezza la melodia senza impiegati per l’accordatura.
pregiudicare la fisionomia dei diversi passaggi, i suonatori usano
il termine galateu (galateo), riferito tanto al singolo individuo (a es.
«il galateo dello zio Nenè») quanto ai gruppi familiari (a es. «i Davì
e i Carrozza non hanno lo stesso galateo»).
3Si osservi che qui perdura l’antica terminologia musicale in cui gli aggettivi
haut/bas (in Francia) o alto/basso (in Italia), non si riferivano a questioni di altezza
ma di potenza sonora (cfr. Sachs 1980: 453).
92
movimento in rapida alternanza chiamato trillu i testa) e indice-
pollice-medio. Mediante opportuni interventi sull’ancia e sul
rameddu si procede finché il suono “arriva” ai fori più distanti,
digitati dall’anulare e dal mignolo. L’accordatura procede analoga-
mente – sempre in senso discendente – sulla canna melodica sini-
stra. Il giusto rapporto sonoro tra le canne viene costantemente
verificato mediante l’iterazione del tipico preludio che introduce le
sonate monrealesi. Appena ottenuta una apprezzabile corrispon-
denza tra le canne melodiche (quannu u sonu è pparu), si intervie-
ne sui fori con cera e spuntuni. Da tale operazione sono esclusi i
fori della canta azionati da indice e anulare, mentre di rado risulta
necessario ritoccare i fori di intonazione. Successivamente si cor-
regge l’altezza dei bordoni che vengono liberati dal tappo uno alla
volta a iniziare dal maggiore (si dice che a mèccia acchiana o scin-
ni per significare rispettivamente l’accorciamento o il prolunga-
mento dei bordoni ottenuto agendo sul punto di raccordo tra fuso
e campana). Una volta intonate insieme le quattro canne (quannu
100. Girolamo Patellaro esegue un passaggio i canni sunnu appattati), la zampogna deve essere suonata per
del “preludio”. Monreale 1998 (foto R. Perricone).
circa un’ora per stabilizzarsi (a ciaramedda s’av’â rassignari). Si
dice allora che i puittusa vonnu ràpriri (i fori “vogliono aprire”) o
che vonnu chiùriri (“vogliono chiudere”), in rapporto alla necessi-
tà di togliere o aggiungere cera per correggere l’intonazione (un
grumo di questa viene tenuto sul ponticello di separazione tra le
canne per essere sempre disponibile all’occorrenza). Il complesso
delle operazioni necessarie a mettere lo strumento nelle condizio-
ni di suonare (dalla sistemazione dell’otre alla rifinitura delle ance,
fino all’adeguata intonazione delle canne) viene detto cunzari a
ciaramedda (preparare la zampogna) (cfr. Rilevamenti 16 e 19).
Riportiamo la scala che si ottiene dallo strumento con indica-
zione della diteggiatura impiegata dagli attuali suonatori (ES. 1).
L’altezza dei suoni può variare lievemente in funzione dell’accor-
datura, che si presenta in tutti i casi rilevati oscillante tra il sol e il
la (per comodità di lettura si conviene di trascrivere tutti gli esem-
pi musicali in tonalità di LA minore). Si osservi la posizione alter-
nativa del mi sulla canna melodica sinistra, impiegata esclusiva-
mente per ottenere il salto di quinta, sollevando solo l’indice anzi-
ché tutte le dita nel passaggio dalla nota più grave (la, a fori tutti
chiusi) a quella più acuta (mi, di norma a canna aperta).
ES. 1 - Scala e diteggiatura
secondo la tradizione odierna.
7.2. Canti
93
I diversi toni vengono modificati in funzione del canto da ese-
guire e secondo lo stile del singolo cantore, che ne utilizza gli sche-
mi in modo plastico, adattandoli al metro e al senso del testo attra-
verso pause, prese di fiato, vibrati, glissati, portamenti, abbelli-
menti (acciaccature, appoggiature, gruppetti, mordenti) e trasfor-
mazioni melodico-ritmiche talvolta consistenti. Una più spiccata
tendenza all’ornamentazione e una maggiore libertà ritmica si
riscontra nelle melodie corrispondenti a testi in endecasillabi (toni
II e III) e nello stile di canto a vuci stisa. Mutuando la terminologia
formulata da Bernard Lortat-Jacob per descrivere i processi
improvvisativi nelle musiche di tradizione orale, si può dire che
questi toni costituiscono dei modelli “densi”, dove «gli elementi
variati mantengono la traccia tangibile del modello che fa da rife-
rimento» (2006: 723).
Sotto il profilo armonico ricorre sempre la medesima struttura,
fondata sull’alternanza fra tonica e dominante (LA min. / MI
magg.), con cadenza conclusiva sulla tonica, raggiunta quasi sem-
pre passando per la sensibile (sol#). Nell’accompagnamento stru-
mentale, alla canta è affidata la parte melodica e ornamentale,
mentre il trummuni svolge soprattutto funzione di sostegno ritmi-
co-armonico. Quando una delle due canne melodiche produce la
stessa nota del bordone (a fori tutti aperti), si avverte una momen-
tanea interruzione del suono che simula un effetto di “staccato”.
L’emissione vocale presenta il prevalente impiego del registro
di testa, con propensione ad assestarsi sulla particolare timbrica
dello strumento, rendendo talvolta difficile la comprensione delle
parole. L’ambitus vocale riflette tra l’altro quello della canta (sesta
minore, sol#-mi): di rado vengono raggiunte note più alte (il fa con
maggiore frequenza e il sol occasionalmente) e non si scende mai
al di sotto della sensibile.
Nel corso delle nostre indagini abbiamo registrato sedici testi
poetici, rappresentativi di un repertorio che in passato doveva
essere certamente più ampio. Come riferiscono gli zampognari, a
Monreale erano spesso gli stessi devoti a cantare durante le nove- 101. Benedetto Miceli (zampogna) e Girolamo
Patellaro eseguono la novena dell’Immacolata.
ne (IM. 70), partecipando in modo diretto a una tradizione affidata Palermo, fraz. Villagrazia, 1998 (foto S. Bonanzinga).
all’oralità, nonostante la maggior parte dei testi tramandati sia
riferibile a componimenti di origine semiculta (soprattutto eccle-
siastica) messi a stampa su fogli volanti o libretti divulgati princi-
palmente dai cantastorie orbi. Nelle attuali esecuzioni abbiamo
rilevato una tendenza a “condensare” i testi più lunghi (a esempio
U viàggiu o le “storie” di sant’Antonino e della Madonna), selezio-
nandone le parti più significative, meglio radicate nella memoria
dei cantori. Spostamenti di strofe o di blocchi di strofe, oltre alle
consuete varianti testuali, intervengono quindi a modificare i testi
anche sensibilmente da una esecuzione all’altra. Talvolta delle sil-
labe con valore eufonico (e, o, er, ier) vengono anteposte o infram-
mezzate ai versi per “aggiustarne” la misura rispetto alla melodia
o per enfatizzare certi passaggi del testo.
Ai canti in quartine di ottonari (a rima alternata o baciata) è
associata una melodia bipartita (AB, 4+4 misure) che si estende
entro un intervallo di sesta minore (sol#-mi), con ritmo tendente al
6/8. Le semifrasi (abcd) – corrispondenti ai versi della quartina
poetica – attaccano sempre sul V grado (mi) e chiudono con profi-
lo discendente sui gradi II-I-IV-I. Fa eccezione la variante indicata
con a’ – che a volte compare nelle strofe pari come una sorta di
complemento melodico dello schema-base (cfr. a esempio trascri-
94
zione 2) – caratterizzata da incipit ascendente per gradi congiunti
(la-si-do) e salto di terza minore in chiusura (sol#-si). La struttura
poetico-melodica può anche essere prolungata dai cantori attra-
verso l’iterazione del secondo distico della strofa (la forma diviene
in questo caso ABB). Alcuni tra i possibili percorsi di variazione, a
partire dalla melodia semplificata (sulla base delle trascrizioni 1-3),
sono schematizzati nell’esempio che segue:
95
le. Oggi questa prassi esecutiva non viene più rispettata, ma le
strofe del Viàggiu si continuano a cantare estrapolando le parti che
narrano gli eventi fondamentali della storia: l’emanazione del-
l’editto imperiale sul censimento, che rende necessario il “viag-
gio” di Giuseppe e Maria; i preparativi e la partenza dei due sposi;
l’arrivo a Betlemme e l’infruttuosa ricerca di alloggio; l’arrivo alla
grotta e la nascita del Bambino. Il testo ricalca quello di un celebre
componimento dato alle stampe intorno alla metà del Settecento
proprio da un sacerdote di Monreale, il canonico Antonino Diliber-
to, meglio noto come Binidittu Annuleru:
Fu […] uno dei valenti alunni del Seminario arcivescovile nel tempo
che questo prosperava sotto il rettorato di Giacomo Gaudesi (1707- 102-103. Benedetto Miceli e Girolamo Patellaro
1733). Autore del famoso Viaggiu dulurusu, che si canta nella nove- eseguono la novena dell’Immacolata
na del Natale, e che dalla metà del secolo XVIII a noi si è stampato all’interno di un’osteria. Palermo,
rione Guadagna, 1998 (foto G. Giacobello).
e ristampa annualmente a migliaja di copie. In questo libretto,
come nell’altro della Duttrina Cristiana, l’A. assunse il pseudonimo
di Benedetto Annuleru, col quale è conosciuto. [Salomone Marino
1896-1901: 251]
4 La melodia su cui si intonava il canto a Mezzojuso (PA) venne raccolta nel 1907 da
Favara (1957/II: n. 642). Il testo del Viàggiu è stato ristampato con traduzione italia-
na e saggi critici (cfr. Conigliaro-Lipari-Scordato 1987). Per uno studio relativo alla
tradizione orale recente e per la relativa documentazione sonora, si veda in parti-
96
Anche questi componimenti rispecchiano una produzione di origi-
ne semiculta, circolante attraverso stampe popolari, che affonda le
radici nei testi degli Officia pastorum medievali e delle Pastorali
rinascimentali e barocche (cfr. in particolare Buttitta 1985: 37-51).
Al repertorio agiografico appartiene il canto Santa Rusulìa,
dedicato alla patrona di Palermo. La tradizione narra che nell’esta-
te del 1624 i Palermitani furono “liberati” da una grave pestilenza
grazie al rinvenimento delle spoglie di Rosalia Sinibaldi, una gio-
vane nobile di origine normanna ritiratasi in eremitaggio sul
Monte Pellegrino che domina la città. Nei decenni successivi il
principale obiettivo dei Gesuiti, che avevano frattanto assunto un
ruolo di primissimo piano nella direzione del culto, era stato quel-
104-105. Offerta di vino ai suonatori Miceli e Patellaro lo di canonizzare la storia della Santa. Al vertice di questa produ-
a conclusione della novena in un’osteria. zione documentaria si pongono le opere del sacerdote Giordano
Palermo, rione Guadagna, 1998 (foto G. Giacobello).
Cascini (in particolare il libro Di Santa Rosalia Vergine Palermita-
na, Palermo 1651), mentre la diffusione popolare del culto fu affi-
data al poeta dialettale Pietro Fullone, che compose alcuni poe-
metti in “ottave siciliane” stampati a Palermo tra il 1651 e il 1657
(cfr. Petrarca 1988 e Conigliaro-Lipari-Scordato-Stabile 1991). Furo-
no quindi gli orbi a tramandare fino ad anni recenti la vicenda di
santa Rosalia nei termini fissati da Cascini e divulgati da Fullone
(cfr. Guggino 1980, 1981, 1988 e Bonanzinga 1991). Il testo tuttora
eseguito dagli zampognari di Monreale riguarda l’episodio delle
“tentazioni diaboliche”, un nucleo tematico già definito da Cascini
che si poteva presentare sia all’interno di componimenti più ampi
(cfr. testo 2 dell’Appendice A) sia come canto autonomo:
97
ripetizione dell’ultima parte di un verso all’inizio del successivo.
Ai canti in endecasillabi è associata una melodia monostica arti-
colata in tre semifrasi (abc, 12 misure), corrispondenti a una terzina
del testo poetico (di frequente la terzina si realizza però mediante
l’iterazione del secondo verso). La melodia si estende entro un
intervallo di settima diminuita (sol#-fa) e tende ritmicamente al 6/8
(si rilevano tuttavia notevoli oscillazioni ritmiche a seconda del
canto eseguito). Le prime due semifrasi attaccano sul V grado (mi)
e chiudono con profilo discendente sui gradi III e II, ma mentre in ‘a’
ricorre più volte il salto di terza (anche in chiusura), ‘b’ si caratteriz-
za per il V grado ribattuto e la chiusura per gradi congiunti. La semi-
frase ‘c’ è costituita da due membri ben distinti, marcati dal passag-
gio sulla sensibile. Il ritorno conclusivo alla tonica avviene median-
te discesa per gradi congiunti a partire dal mi. La struttura melodi-
98
è in modo maggiore, mentre la parte conclusiva (presente solo
nella trascrizione di Favara), passa in minore, mantenendo inalte-
rata la tonalità d’impianto (in entrambi i casi SOL). Questo modulo
melodico, specificamente associato al canto che narra la toccante
vicenda del Figliol prodigo, pare persistere tenacemente nella tra-
dizione degli zampognari-cantori di Monreale, a dispetto del muta-
to assetto armonico dello strumento oggi utilizzato. Nella prima
frase i gradi terzo e sesto sono difatti alterati: il do# intonato senza
esitazione e il fa# calante. A eccezione dell’incipit caratterizzato dal
V grado ribattuto, le altre semifrasi presentano spiccato profilo “ad
arco” (cfr. Adams 1976), con frequenti salti di terza e consueta
99
te è la frase conclusiva, con salto di quarta (mi-si) e cadenza fina-
le sulla tonica (senza toccare la sensibile). Questa la schematizza-
zione della melodia (cfr. trascrizione 6):
La Salve Regina intitolata alla Madonna del Buon Consiglio
(detta semplicemente “di Natale”), identica per forma poetica
alla Salve Regina dell’Immacolata, è l’unico canto che è stato
documentato nella modalità “a voce stesa” (a vuci stisa):
secondo le esecuzioni di Sebastiano Davì (registrazione del
1982 effettuata da Nico Staiti) e di Salvatore Modica (nostra
registrazione del 2006: rilevamento 21, trascrizione 7, CD brano
13). I tratti caratterizzanti di questo particolare stile vocale
sono costituiti da: a) “estensione” del materiale melodico
rispetto al tonu usuale del canto; b) dilatazione delle durate
(50,5” dura la prima strofa rispetto ai 20,7” della esecuzione
secondo il IV tonu); c) costante impiego del vibrato sui suoni
tenuti; d) ricorso a elaborati melismi soprattutto in chiusura di
frase; e) ritmo libero (per renderne l’idea nella trascrizione
abbiamo fornito la durata cronometrica dei suoni tenuti). La
melodia è sempre bipartita, ma ogni semifrase ha un senso di
maggiore compiutezza, dovuto al prolungamento dei suoni di
chiusura. Le prime due semifrasi presentano profilo ad arco e
terminano sul II grado. La frase ‘c’ è caratterizzata da melismi
sia in apertura che in chiusura. La frase conclusiva presenta il
consueto andamento discendente, con cadenza finale sulla
tonica attraverso la sensibile. Diversamente dalla norma, nel-
100
7.3. Musiche strumentali
101
Sul piano melodico l’interludio sfrutta tutte le variazioni del
tema vocale (cfr. ES. 2), ornando i gradi fondamentali con acciac-
cature e soprattutto gruppetti. Il ritmo in 6/8 è tendenzialmente
regolare (la misura ipermetra di un ottavo segnata in a-3 si può
108. Benedetto Miceli e Salvatore Modica
ritenere un’eccezione), scandito al basso da figurazioni variabili si spostano tra le botteghe di piazza
( ). Mentre nella semifrase ‘a’ si riscontra una evidente Noce per la novena di Natale.
Palermo 2006 (foto A. Maggio).
divergenza fra la linearità dell’accompagnamento strumentale (nn.
1-2) e la più spiccata articolazione melodica di interludi (nn. 3-5) e
versione solista (n. 6), nella semifrase ‘d’, che con andamento dis-
cendente porta alla cadenza finale sulla tonica, la parte di accom-
pagnamento al canto (nn. 1-2) si muove in modo sostanzialmente
analogo alle corrispettive iterazioni strumentali (nn. 3-6).
In associazione ai canti intonati sulla melodia detta San Giusep-
pi e alle Sarvi Riggina, viene inoltre impiegata come interludio una
tipica formula “pastorale” di quattro misure in 6/8. La stessa frase
si ritrova nella Pasturali (trascrizione 11, sezione C), dove acquista
valore strumentale autonomo. Due varianti di questa formula ven-
gono riportate, in tonalità di SOL maggiore, da Giuseppe Pitrè e
Alberto Favara (cfr. cap. 2 e Appendice A e B). La stabilità della
102
melodia, indipendentemente dalle consuete microvarianti estem-
poranee e dall’attuale impossibilità di effettuare il passaggio in
maggiore, emerge con chiarezza nell’esempio che segue (le
melodie tratte da Pitrè e Favara sono state trasposte in LA per facil-
itare la comparazione). La mutazione più consistente è costituita
dall’allungamento variato del primo inciso della sezione B della
Pasturali, che conta così cinque misure. Questa variante non va
tuttavia considerata come elaborazione specificamente caratteriz-
zante l’esecuzione solistica, poiché in forma identica la frase funge
ES. 8 - Interludio “pastorale”.
103
pio precedente con funzione di “interludio” (ES. 8, n. 2). A questa
Pasturali si può aggiungere la parte per zampogna che Favara colle-
ga a un canto di Natale raccolto a Cefalù (n. 638 del Corpus). La
struttura di questo brano è infatti costituita da tre frasi che sono lievi
varianti di quelle della Pasturali presentate però in ordine invertito,
con in chiusura una formula di passaggio (D), utilizzabile sia per
introdurre una nuova sezione melodica sia per preparare la caden-
za finale (nell’esempio che segue la prima trascrizione di Favara è
stata trasposta in LA e sono state espunte le note fuori scala): ES. 9 - Pasturali trascritte da Favara.
104
Favara trascrive inoltre la parte strumentale introduttiva come
brano a se stante (n. 749 del Corpus), annotando due varianti
delle sue tipiche formule ad andamento discendente in ritmo
libero e rilevando un tratto esecutivo che anche in seguito resterà
invariato: «La scala precede tutte le sonate di ciaramedda, come
un preludio» (1957/II: 447).
Nel confronto tra i brani strumentali trascritti da Favara e quel-
li documentati su nastro magnetico, al di là delle somiglianze te-
matiche, vanno soprattutto poste in evidenza le procedure di
costruzione ed elaborazione del materiale melodico. A questo
riguardo valgano le considerazioni di Nico Staiti (1997: 154-158),
intese a rilevare il nesso fra la tradizione della zampogna a chiave
siciliana e la musica di ambiente colto dei secoli XVII e XVIII:
105
Calabrisella, una sunata di supposta “origine napoletana” tenuta
in gran conto dai suonatori della vecchia generazione: non a caso
Totò Acquapersa (cioè Salvatore Davì, zio di Sebastiano) aveva
dominato le gare di Piano Zucchi suonandola in tutt’e tre le occa-
sioni (cfr. cap. 4). Lo stesso brano, sempre egregiamente eseguito
da Sebastiano Davì, si trova d’altronde incluso con il titolo corret-
to in una audiocassetta registrata dagli stessi suonatori (cfr. Inven-
tario dei documenti sonori e audiovisuali: sez. C, ac. 2, br. 9) e
viene tuttora suonato da suo nipote Benedetto Miceli.
La confusione può essere stata determinata dal fatto che la Ca-
labrisella sotto il profilo tipologico appartiene pienamente al 109-110. Benedetto Miceli (zampogna) e Salvatore
Modica eseguono la novena di Natale in una
genere della “pastorale”, di cui rispecchia andamento ritmico (in rivendita di tabacchi e in un laboratorio dolciario.
6/8) e stereotipie formulari. Si tratta perciò di un brano che rientra Palermo, rione Noce, 2006 (foto A. Maggio).
nel repertorio sacro, nonostante l’intitolazione si presenti
ambiguamente analoga a quella di una canzonetta folkloristica a
tema amoroso dal ritornello notissimo: Calabrisella mia, ca-
labrisella mia, / calabrisella mia, ciuri d’amuri (Calabrisella mia,
fiore d’amore). La donna menzionata nel titolo della melodia per
zampogna non ha invece nulla a che vedere con vicende galanti.
Sappiamo infatti, grazie a una raccolta di musiche popolari realiz-
zata in Sicilia nel 1816 da Giacomo Meyerbeer (cfr. Bose 1993), che
tra i suonatori ambulanti era diffuso un canto di Natale intitolato
La calabresa. Il musicista tedesco trascrisse soltanto la prima stro-
fa del testo, dove non si menzionano “donne calabresi” ma si fa
riferimento alla nascita del Cristo: Ssennu natu Diu suprennu / s’al-
legrau tuttu lu munnu (Quando nacque Dio supremo / si rallegrò
tutto il mondo). Meyerbeer non fornisce indicazioni riguardo alla
provenienza del canto, ma potrebbe essere stato rilevato a Paler-
mo come altri brani presenti nella sua raccolta (uno dei quali ese-
guito da un orbo di nome Orazio). Un canto con questo incipit non
compare nelle fonti a stampa relative alla poesia popolare siciliana
ma è stato tramandato oralmente a Messina fino all’ultima gene-
razione dei cantastorie orbi, specializzati nel repertorio sacro (cfr.
Bonanzinga 1993: 52-55 e cd.1996b: brano 7). Il testo riprende lo
stereotipo dell’offerta dei doni al Bambino: cioè il motivo dram-
matico della “pastorale”, rappresentato nella tradizione mon-
realese dal canto U picuraru (cfr. supra). La motivazione del titolo
si palesa tuttavia esclusivamente nella seconda strofa: «Sugnu na
povira calabrisella, / su vvinuta di li muntagni, / ti puttai na
ggistricedda, / puma, mmènnuli e ccastagni, / fica pàssuli e nnu-
ciddi / cosa su pi picciriddi.» («Sono una povera calabrisella, / sono
venuta dalle montagne, / ti ho portato un canestrino, / di mele,
mandorle e castagne, / fichi secchi e nocciole / sono cose per i
bimbi»). La calabrisella (o calabresa) è quindi uno dei personaggi
accorsi alla grotta per l’adorazione del Messia e acquista valore
emblematico come accade per il picuraru nel canto omonimo ese-
guito a Monreale. Il nesso fra il documento trascritto da Meyerbeer
e la tradizione della zampogna a chiave è inoltre rafforzato dall’in-
terludio strumentale del violino: questo non solo ricalca quasi let-
teralmente le formule presenti nelle frasi A e C delle Pasturali
trascritte da Favara ma, attraverso l’iterazione della dominante in
funzione di bordone, evoca esplicitamente il suono della zam-
pogna, secondo una modalità esecutiva attestata dallo stesso
Meyerbeer in un altro canto di Natale (n. 15 dell’edizione Bose
1993), da Favara alla fine dell’Ottocento tra gli orbi di Castellam-
mare (prov. di Trapani, n. 643 del Corpus) e da Elsa Guggino tra gli
106
ultimi orbi palermitani ancora negli anni Settanta del Novecento
(cfr. cap. 10 e Garofalo 1997: 27). La tonalità segnata da Meyerbeer
è SOL maggiore, ma per semplificare la comparazione la melodia
è stata trasposta in LA:
ES. 11 - Interludio al violino del canto La calabresa
trascritto nel 1816 da Giacomo Meyerbeer.
107
ante un riposo sul secondo grado (si), mentre il passaggio B’’-E è
costituito dal prolungamento del si che implica una dilatazione a 9/8
dell’ultima misura di B’’. Nella seconda sezione, la frase F, di sole tre
misure, è un esempio di passàggiu puramente esornativo, destinato
a conferire maggiore eleganza alla sutura fra E’ e B’ nella
preparazione del finale, in questo caso realizzato attraverso l’in-
serzione di una formula ornamentale per ritardare la cadenza conclu-
siva (la frase C aumenta così di una misura). Le frasi D ed E sono vari-
azioni per diminuzione dei nuclei melodici che costituiscono A e C.
Molto simile a quello della Calabrisella è il materiale melodico
che costituisce la Scala, così come analoghe si presentano le proce-
dure stilistico-formali su cui sono fondati i due brani. Conosciamo la 112. Benedetto Miceli (zampogna) e Salvatore Modica
Scala soltanto grazie a due esecuzioni di Benedetto Miceli (Rileva- eseguono la novena di Natale in una pasticceria.
mento 19, brani 14 e 17), che riferisce di averlo appreso da suo zio Palermo, rione Noce, 2006 (foto A. Maggio).
A / B / A’ / B’ / A’ / B / A’ / A’’ / B’ / A’ / FINALE
108
La formula-base di tre misure è costituita da due membri
sviluppati armonicamente nella sequenza tonica-dominante-toni-
ca. Nella frase A troviamo una quintina in apertura (nota reale do)
e una fioritura in ritmo puntato che chiude sulla tonica (terza
minore discendente, do-la). Questa cadenza – che ritorna di fre-
quente anche negli altri brani dello stesso tipo – è comune alle due
varianti: sia in A’ che in A’’ viene però rispettivamente ripresa nella
prima e nella seconda misura, anticipando così la regione della toni-
ca. In A’ (5 miss.) i gradi II e IV (si e re) si presentano ornati da terzine,
acciaccature e note di volta. In A’’ (6 miss.) viene aggiunta una ulteri-
ore fioritura del do in apertura, segue la fioritura che riempie la terza
minore discendente presente in A e poi si ripete la formula iniziale.
L’iterazione della formula-base in chiusura di frase è però sempre
marcata dal passaggio sulla sensibile (sol#) in precedenza evitata.
Questa formula, che nella Scala viene ripetuta con variazioni
per ben otto volte, si ritrova identica nella Calabrisella, dove però
compare nella frase B. Si osservi pertanto come lo stesso schema
melodico si concretizzi nella Scala eseguita da Benedetto Miceli e
nella Calabrisella suonata da suo zio Sebastiano Davì:
ES. 13 - Confronto tra le formule-base della frase A
della Scala e della frase B della Calabrisella.
109
direttamente documentare (Rilevamenti 13, 14 e 19). La struttura
formale dell’esecuzione più articolata (trascrizione 11, CD brano
20) risulta essere la seguente:
AA’ / BB / CC / D / AA / EE’ / AA / BB / A
110
La Litanìa deriva da moduli ritmico-melodici originariamente
legati al canto, come spiega Girolamo Patellaro: «La Litania è “a
parole”, ma io non la so. A suonare la so! [canticchia il motivo e
accenna i versi]» (Rilevamento 8, br. 4; CD brano 6). La melodia è
in ritmo binario (2/4) e si articola in tre sezioni che vengono iterate
con microvariazioni (trascrizione 11): A (8 misure) / B (8 miss.) / C
(16 miss.). Anche in questo caso appaiono evidenti i referenti
“extra-popolari” del brano che presenta i tipici tratti stilistici e for-
mali della produzione musicale di origine ecclesiastica.
Il discorso sulle musiche strumentali – qui inquadrato nelle linee
generali e che andrebbe approfondito mediante una estesa
indagine comparativa fra le esecuzioni attestate nel complesso delle
registrazioni disponibili – si può chiudere con una testimonianza di
Patellaro sulle melodie di carattere “laico”, trattate con diffidenza da
certi anziani suonatori che non le ritenevano pertinenti ai contesti
devozionali in cui erano soliti operare (Rilevamento 8, br. 4):
111
115-116. Salvatore Modica e Benedetto Miceli eseguono la novena di Natale in due macellerie.
Palermo, rione Altarello, 2006 (foto A. Maggio).
112
Pratica organistica e tradizione
8 “zampognara”
di Giovan Battista Vaglica
113
da: Antonio e Giuseppe De Simone e Francesco Romano nel 1665
per il Monastero di Sant’Andrea a Trapani (cfr. Dispensa 1998);
Basilio La Marca Alfano nel 1776 per la Chiesa della Consolazione
a Scicli (cfr. Buono 1998); Agatino Santuccio nel 1783 per la Chie-
sa San Giacomo a Caltagirone (cfr. Buono-Nicoletti 1987); Giovan-
ni Platania e Rocca nel 1827 per la Cattedrale di Monreale (cfr.
Dispensa 1998). Ma l’effetto cornamusa può anche risultare dal
registro Cornetto (che ha già in sé l’armonico di quinta), ampia-
mente utilizzato dai principali organari siciliani. Ricordiamo alcu-
ni strumenti realizzati nel corso del Settecento (cfr. Dispensa
1998): Stefano Andronico nel 1702 per il Convento di Sant’Agosti-
no a Palermo; Michele Andronico nel 1721 per il Monastero di
Montevergini a Palermo; Antonino La Manna nel 1750 per la Chie-
sa di Sant’Orsola a Palermo; Baldassare di Paola nel 1761 per la
Badia Nuova a Trapani; Donato del Piano nel 1769 per il Convento
di San Domenico a Palermo; Giorgio Giunta nel 1770 per il Con-
vento di San Rocco a Trapani; Giacomo Andronico nel 1779 per la
Chiesa Madre di Petralia Soprana.
In seguito viene direttamente introdotto il registro ad ancia
Cornamusa. L’organaro palermitano Giuseppe Lugaro Androni-
co lo progetta nel 1841 per uno strumento destinato alla Catte-
drale di Monreale, come risulta dalla relazione stilata al fine di
ottenere l’incarico esecutivo: «Adorneremo questa macchina
della vera voce della Cornamusa pastorale, che si potrà suonare
in unico, e separato registro quante volte all’uopo si vorrà»
(Vaglica 2004: 54). La medesima relazione fa inoltre riferimento
alla presenza di un «Flauto piffero ossia flauto cornetta, che
serve tanto per alcune combinazioni strumentali quanto ancora
per formare l’accompagnamento della Cornamusa» (ibidem).
Altri due importanti organari palermitani, Francesco La Grassa e
Schifani, elaborano un progetto nel 1845 per l’organo della Cat-
tedrale di Monreale, avendo cura di inserire tra i registri una
particolare Cornamusa: «dappiù verrà un altro puttino nel cen-
tro, che porta in bocca la Cornamusa e detta sarà eseguita di
marmo, come li puttini e le canne della suddetta verranno di
rame, che suoneranno, che detto suono si trasporterà in mezzo
ai pastori nelle valli» (ibidem). Questi due organi non furono
purtroppo mai realizzati, ma è significativo che proprio a Mon-
reale, e da parte di organari palermitani, si sia prestata una tale
attenzione alla suggestione “pastorale” della zampogna, fino a
immaginarne un riflesso figurativo negli elementi decorativi: un
“puttino zampognaro”. La Grassa riesce in compenso a realizza-
re nel 1856, per la Basilica Abbaziale di San Martino delle Scale
(non distante da Monreale), uno strumento che prevedeva la
Cornamusa tra i registri dell’organo grande. Il registro, soprav-
vissuto ai numerosi rimaneggiamenti subiti nel tempo da que-
sto imponente strumento, consta di sette canne di legno, delle
quali sei ad ancia libera e una ad anima: l’accordo che riprodu-
ce è quello di re maggiore (cfr. Vaglica 2005).
La presenza stessa di uno strumento di esplicita connotazione
popolare tra le sonorità organistiche canoniche riflette itinerari
compositivi che affondano le radici nel patrimonio musicale di tra-
117. “Cornamusa” dell’organo Francesco La Grassa della
dizione orale. La rielaborazione delle melodie popolari all’organo Basilica Abbaziale San Martino delle Scale (Monreale):
era infatti una pratica molto diffusa e comune. Tra queste le più uti- sei canne ad ancia libera e una canna labiale;
lizzate erano a esempio la Girometta, la Bergamasca, la Spagno- visione laterale delle canne;
particolare della sesta canna e dell’ancia
letta: musiche “profane” che si usava anche riadattare come mate- (foto G. B. Vaglica).
114
riale tematico per brani liturgici1. Diverso è il caso della Pastorale,
che si caratterizza già in epoca rinascimentale come “offerta” dei
pastori al neonato Messia. Non c’è dubbio che questo particolare
genere musicale sia risultato da una contaminazione fra stilemi
popolari, certamente legati agli aerofoni policalami (flauti e clari-
netti di canna, zampogne, cornamuse), e rielaborazioni culte, ma è
difficile ipotizzare intensità e modalità di queste dinamiche in
assenza di testimonianze specifiche (cfr. a esempio Castriota 1985,
Bernardoni-Guidobaldi 1990 e Staiti 1997).
Come ha puntualmente osservato Nico Staiti (1997: 126), il
118. Prospetto dell’organo della Chiesa di Capriccio pastorale di Girolamo Frescobaldi (in Primo libro di
Sant’Antonio (anononimo 1700) a Monreale
(foto G. B. Vaglica). Toccate d’intavolatura di cimbalo et organo, Roma 1637, ed. mod.
Pierre Pidoux, Bärenreiter, Kassel 1949) si può considerare il pro-
totipo delle successive Pastorali all’organo. Dopo di lui altri auto-
ri si sono cimentati in questo genere di composizione strumenta-
le: Bernardo Storace (in Selva di Varie composizioni… per cimba-
lo ed organo, Venezia 1664, ed. mod. Barton Hudson, American
Institute of Musicology, Middleton WI 1965, ed. riv. 2005); Dome-
nico Scarlatti (in Sonate per clavicembalo, prima metà del sec.
XVIII, ed. mod. Emilia Fadini, Ricordi, Milano 1989, vol. 7); Paolo
Altieri (Pastorali per organo, Noto 1806, ed. mod. in Paradiso-
Rossi 1997). Se la Pastorale di Storace si caratterizza per una scrit-
tura armonica tendenzialmente lineare, le Pastorali di Scarlatti e
di Altieri si presentano sotto questo aspetto più elaborate. Oltre
ovviamente all’impiego del tempo composto come “ritmo pasto-
rale”, i tre autori fanno uso di ulteriori elementi che si possono
ritenere stereotipi di questa forma strumentale: una macro-strut-
tura divisa in tante sezioni senza soluzione di continuità, con la
ripetizione dei vari frammenti tra le voci e in diverse altezze (ess.
1-2); formule ritmiche che ritornano sia nella linea melodica sia
nell’accompagnamento (ess. 3-8).
115
4. G. Frescobaldi, Capriccio pastorale,
misure 1-4 (seconda voce).
5. B. Storace, Pastorale,
misure 25-26 (seconda voce).
6. B. Storace, Pastorale,
misure 14-16 (seconda voce).
9. B. Storace, Pastorale,
misure 26-28 (prima voce).
116
Un altro tratto stilistico-formale che accomuna la prassi organi-
stica alla tradizione zampognara monrealese si individua nel “prelu-
dio” con cui si aprono tutti i brani eseguiti da questi suonatori. Il pre-
ludio, significativamente detto scala, si fonda difatti sui medesimi
procedimenti improvvisativi-compositivi adottati in epoca barocca
non solo dagli organisti e anche al di fuori del genere della Pastora-
le. Intendiamo riferirci in particolare a quello stile “a fantasia”, che a
esempio Frescobaldi raccomandava nelle Toccate mediante il primo
avvertimento «Primieramente: che non dee questo modo di sonar
stare soggetto à battuta» (Toccate, Canzone, Versi d’Hinni, Magnifi-
cat, Gagliarde, Correnti et altre partite d’intavolatura di Cimbalo et
Organo, Venezia 1627, ed. mod. Pierre Pidoux, Bärenreiter, Kassel
1949), e alla tipologia delle ornamentazioni ricorrenti nella prassi
esecutiva sia vocale che strumentale (acciaccature, appoggiature,
trilli, gruppetti, “tirate”, “diminuzioni”)2. Il parallelismo emerge evi-
dente ove si consideri la struttura di un preludio eseguito da Miceli.
Questo si può dividere in tre parti: A) enunciazione della dominante
119. Prospetto dell’organo Alessandro Giudici (mi) da parte di tutte le canne / movimento del “basso” (canna melo-
(seconda metà 1800) della Chiesa dell’Immacolata
in San Francesco. Monreale 2007 (foto G. B. Vaglica). dica sinistra) per gradi congiunti sulla tonica / movimento del
“canto” (canna melodica destra) che segue in rapporto di ottava
quello del basso, spostandosi brevemente sul secondo e sul primo
grado e ornando il movimento con trilli, tirate e gruppetti; B) ripre-
sa del basso ancora sulla dominante e, toccando due volte il secon-
do grado (si), ritorno alla tonica (la) / il canto segue ancora con grup-
petti, tirate e trilli; C) preparazione della cadenza intermedia sul terzo
grado (do), attraverso il quarto e quinto, e chiusura con la cadenza
perfetta attraverso il secondo grado (si) / il canto segue infine con un
trillo, alcuni gruppetti e una tirata finale dalla dominante alla tonica
che dà il senso della chiusura perfetta:
117
Se la tradizione della zampogna a chiave di Monreale è ancora
viva, alcuni pregevoli organi barocchi sono tuttora presenti nelle
chiese del centro storico: a Sant’Antonio Abate, a San Vito e nella
chiesa dell’Immacolata in San Francesco, dove è ubicato uno stru-
mento della prima metà dell’Ottocento. È qui che i musicisti del-
l’epoca hanno esercitato la propria arte: quando le Pastorali di
organisti e zampognari ancora riecheggiavano sia all’interno dei
templi che lungo i chiassi di questo antico Paese.
118
Intersezioni fra oboe e zampogna a chiave
9 di Paola Tripisciano
1 Questo contributo sviluppa aspetti in parte affrontati nella mia tesi di Laurea:
Saperi costruttivi dell’ancia doppia. Tre casi emblematici (Facoltà di Lettere e Filo-
sofia dell’Università degli Studi di Palermo, relatore prof. Paolo Emilio Carapezza,
a. acc. 2004-2005). Desidero ringraziare i professori Giovanni Giuriati e Girolamo
Garofalo per avermi indirizzato su questo tema e avere successivamente orientato
la mia indagine.
119
pollice della mano situata più in basso (FIG. 37). Dalla metà del Cin-
quecento la bombarda soprano, priva di chiavi, assunse la deno-
minazione di hautbois. Questo termine, «significava originaria-
mente “legno fragoroso”, secondo l’antica distinzione francese tra
instruments hauts et bas» (Sachs 1980: 453). L’aggettivo francese
haut, come anche l’italiano alto, non riguardava pertanto l’intona-
zione più o meno acuta degli strumenti, ma la loro intensità sono-
ra. Le bombarde, come i tromboni, le trombe e i cornetti, erano
FIG. 37. Musette in una tavola del Syntagma
strumenti “alti”, adatti agli spazi aperti, contrapposti agli strumen- Musicum di Praetorius (1619).
ti a corda e ai flauti, considerati strumenti “bassi”, da usarsi in
ambienti chiusi, specialmente di piccole dimensioni.
Anche su un particolare tipo di zampogna, denominata sordel-
lina, si usava applicare chiavi metalliche. Questo strumento, il cui
impiego era esclusivamente circoscritto agli ambienti aristocratici,
nasce nel Cinquecento e si perfeziona nel secolo successivo, arri-
vando a presentare un sistema di chiavi estremamente articolato:
chiavi aperte, come sulle bombarde, ma anche “chiuse”, per into-
nare intervalli cromatici e potersi adattare a un più ampio reperto-
rio musicale (cfr. Guizzi-Leydi 1985: 83-95 e AA.VV. 1995). L’interes-
se risiede anche nel fatto che la sordellina pare essersi sviluppata
a Napoli: luogo che si ipotizza come centro di irradiazione delle
zampogne a chiave meridionali (cfr. supra). Dotata di numerose
chiavi era inoltre la musette francese (FIG. 38), anch’essa destinata
tuttavia a raffinati contesti aristocratici (cfr. Baines 1979, FIG. 37).
Poco dopo la metà del Seicento viene “inventato” l’oboe grazie
alle sperimentazioni di musicisti attivi presso la corte di Francia,
con il contributo determinante di Jean Hotteterre e Michel Philidor
(cfr. Marx 1951). Il nuovo strumento, risultato dalla elaborazione
della bombarda soprano, presentava quali tratti caratterizzanti la FIG. 38. Esemplare di oboe barocco
divisione in tre segmenti del corpo dello strumento, la cameratu- (Francia 1700 ca.).
120
della lingua. Era il periodo in cui la piccola zampogna francese, la
musette, godeva di grande favore negli ambienti dell’aristocrazia:
la suonavano sia i nobili dilettanti che i professionisti della cerchia
di Hotteterre e Philidor; non c’è dubbio che fu dalla grande perizia
sviluppata nella costruzione di questi piccoli strumenti di eccellen-
te fattura e dalle decorazioni stupende che derivò in gran parte
l’arte degli artigiani che crearono il nuovo oboe. La costruzione
della bombarda, invece, rimase fino in fondo all’interno di una tra-
dizione manifatturiera che risaliva ai faiseurs de flutes del tredice-
simo secolo, che facevano parte della corporazione dei fabbrican-
ti di gambe di sedie. [1983: 254-255]
121
Gli utensili di cui ci si serve, e che sono quelli che si vedono nella
tavola, sono cinque: il primo, chiamato scalpello (A), è d’acciaio
della lunghezza di un pollice, e curvato in forma di cornetto in tutta
la sua larghezza che è di qualche “linea”; come si vede qui di profi-
lo, la sua curvatura è proporzionata a quella di un pezzo di canna,
ed è tagliente dai due lati della lama per tutta la sua lunghezza. Esso
[…] serve ad asportare la parte legnosa dall’interno della canna.
Il secondo attrezzo (B) è una lamella d’acciaio piatta, che ha due
estremità tonde e taglienti che servono a grattare e a levigare l’in-
terno della canna.
La figura C riproduce un coltello a due lame di cui l’una serve a pre-
parare e a tagliare la canna, e l’altra serve a rifinire l’ancia.
L’attrezzo della figura D è una lima d’acciaio che serve a pulire e a
eliminare tutte le asperità dell’ancia.
La figura E riproduce un punteruolo [nella tavola indicato con il ter-
mine mandrin], ovvero un pezzo d’acciaio di forma conica, di cui ci
si serve per modellare il ramello dell’ancia, esso serve ancora a
tenere l’ancia quando la si lega e si fissano le due lamelle sul
ramello con del filo forte e cerato: quest’utensile impedisce allora
FIGG. 41-42. Frontespizio Brod 1826-35 e tavola degli
che si appiattisca l’ancia. [Garnier 1798: 6, ns. trad.]
attrezzi per la costruzione delle ance dell’oboe.
La canna di buona qualità è molto rara nel centro della Francia: quel-
la di Frejus, quella di Marsiglia e quella di Perpignan è ritenuta
migliore. La canna deve essere raccolta al tempo della maturazione
dei frutti, ci si può servire di essa non prima di due o tre anni da
quando viene raccolta, la linfa dovrà essere seccata; le ance che si
faranno, avranno un suono migliore rispetto a quelle costruite con
una canna più giovane. […] bisogna ancora che la canna abbia uno
spessore conforme alla sua qualità, alla sua elasticità e alla sua
durezza. Se essa è molle o spugnosa, occorre maggiore spessore
rispetto quello necessario a una canna più dura. Infine, bisogna
acquisire una certa sensibilità, un tatto particolare per comprendere
il grado di forza da impiegare nella manipolazione; il modo migliore
per acquisire questa capacità consiste nel prendere le estremità
della canna tra le dita e imprimere a entrambe una torsione uguale
e contraria. Se la torsione non trova resistenza, vuol dire che la
canna è troppo fragile; se non si riesce a torcerla per 1/4 di giro, la
canna sarà allora troppo rigida ma, per mezzo del raschietto, si può
assottigliarla fino a uno spessore in grado di sopportare un mezzo
giro con la giusta resistenza. [Brod 1826: 111-113, ns. trad.]
122
facilmente. Ponete la canna lungo il “cavalletto” mostrato alla figu-
ra 5, recidete le due estremità come nella figura 6, e levigate leg-
germente la canna nella parte centrale. [Barret 1850: 1-2, ns. trad.]
123
diffuso tra gli zampognari dell’Italia centro-meridionale che mon-
tano ance doppie sui propri strumenti, è stato puntualmente
descritto da Febo Guizzi:
Palermitano.
Una testimonianza sulla perizia necessaria a realizzare la pipita
per la bbìfira è stata raccolta a San Marco D’Alunzio – centro dei
Monti Nebrodi, in provincia di Messina – dalla voce di Marco Pro-
venzale, figlio dell’ultimo suonatore del paese, attivo fino agli anni
Quaranta del Novecento:
124
Le ance doppie sono oggi quasi completamente in disuso e anche
in passato, secondo le testimonianze raccolte, se pur erano più di
oggi usate (per le canne dei chanters), non prevalevano su quelle
semplici. Costruttivamente le ance doppie della zampogna a paro
siciliana non differiscono da quelle delle altre zampogne meridio-
nali se non per un particolare, tuttavia interessante e, a nostra
conoscenza, senza altro riscontro.
Nelle ance doppie per zampogna a paro siciliana in ciascuno dei
due lati è posta, parzialmente infilata nella legatura, una piccola e
sottile zeppa di canna. Spingendola in basso (“dentro” la legatura)
determina un aumento della pressione e, di conseguenza, un avvi-
cinamento ulteriore delle lamelle. Tirandola verso l’alto, invece, si
determina il risultato contrario (diminuzione della pressione e
allontanamento delle lamelle). Si tratta, ovviamente, di variazioni
piccolissime, e il sistema appare estremamente utile e ingegnoso.
[Guizzi-Leydi 1983: 60-61]
125
Il confronto relativo alla costruzione delle ance può essere pro-
ficuamente esteso alle pratiche costruttive maturate nell’ambito
della tradizione dell’oboe moderno e strumenti affini (fagotto, con-
trofagotto, oboe d’amore, corno inglese, ecc.). Le ance di questi
strumenti vengono difatti realizzate attraverso tecniche molto simi-
li a quelle applicate in epoca barocca e tuttora in ambito popolare.
Gli attrezzi utilizzati sono sostanzialmente i medesimi: coltelli, pun-
teruolo (o “spina”), sgorbia (equivalente per funzione allo “scalpel-
lo” dei trattati antichi e al cavaturi degli zampognari siciliani), filo 124. La tavola (cippu) con gli attrezzi impiegati da
Benedetto Miceli per la costruzione delle ance.
robusto (ora di nailon), cera, lima (sostituibile con pietra pomice o Monreale 2006 (foto S. Bonanzinga).
carta vetrata). Questo corredo è oggi integrato da una forma metal-
lica di produzione industriale (detta forma-ancia), funzionale a
sagomare con la massima precisione il pezzo di canna. Le fasi della
costruzione si articolano dunque come segue: a) assottigliamento
della canna; b) piegatura e sagomatura del pezzo di canna; c) lega-
tura delle palette sul cannello; d) tempera della punta dell’ancia e
apertura di questa. I cannelli attualmente in uso, rivestiti da un sot-
tile strato di sughero per assicurare una migliore stabilità dell’an-
cia, sono invece ormai prodotti industrialmente (IMM. 124-125).
La costruzione dell’ancia resta l’unica pratica di ordine preci-
puamente artigianale che permane nei percorsi formativi previsti
dalla musica accademica. Nei Conservatori è infatti questa l’ultima
“sopravvivenza” di una competenza materiale associata alla prati-
ca artistica. Non diversamente da quanto accadeva in passato, e
ancora accade in ambito popolare, questo sapere si trasmette
attraverso l’attenta osservazione e imitazione dei gesti esperti del
maestro. Un bravo maestro è in grado di verificare e valutare i
progressi dell’allievo, offrendo una competenza del tutto persona-
le e “unica”.Talora è sufficiente un “colpo di coltello” per realizza-
re un’ancia di qualità straordinaria o, al contrario, vanificare lun-
ghe ore di lavoro. Ogni minimo particolare, ogni “segreto” costrut-
tivo, con i suoi “trucchi” e le sue “alchimie”, andrà così a marcare
la personalità artigianale del singolo costruttore. Questo sapere si
trasmette però in termini “riservati”, quasi velato allo sguardo
attento e avido dell’allievo, come si è visto tra gli zampognari di
Monreale e come pone in evidenza Andreas F. Weis Bentzon con
riferimento all’ambiente dei suonatori sardi di launeddas:
126
intorno alle polarità di “autonomia” e “dipendenza”, comunque
destinate a risolversi nell’apprendimento di quanto è necessario al
perpetuarsi e rinnovarsi della tradizione: «L’apprendimento quindi
è importante non soltanto per il fatto che il comportamento musi-
cale, considerato nel suo complesso, è un comportamento acqui-
sito ma anche perché costituisce un elemento di dinamismo e
novità nel processo creativo» (Merriam 1983: 153).
L’insieme delle considerazioni qui esposte può essere riassunto
attraverso due schemi basati su tre circonferenze che si interseca-
no in modo da condividere l’area centrale. Questi tre cerchi, grafi-
camente diversificati ricorrendo ai colori primari, corrispondono
agli strumenti presi in esame: per la zampogna a chiave il giallo,
per l’oboe barocco il rosso e per l’oboe moderno il blu. Il rapporto
cronologico intrattenuto vicendevolmente dai tre strumenti (simul-
taneità nel passato, successione diacronica, simultaneità nel pre-
sente) è stato rappresentato con i colori derivati dalla sovrapposi-
zione di quelli primari. L’area comune, lasciata in bianco, è stata
suddivisa in tre sezioni, contrassegnate ognuna da una lettera. Nel
primo schema (FIG. 46), le lettere pongono in evidenza le analogie
costruttive rilevate fra i tre strumenti: A = articolazione in tre parti,
C = cameratura conica, SC = sistemi di chiavi (limitando però la
comparazione alla sola canna melodica sinistra della zampogna,
che si presenta strutturata come un “oboe gigante”). Nel secondo
schema (FIG. 47), le lettere si riferiscono invece ai saperi specifica-
mente implicati nella realizzazione delle ance: A = attrezzatura, M =
materiali di costruzione, S = sistema di apprendimento.
FIG. 46 Schematizzazione delle analogie costruttive FIG. 47. Schematizzazione dei saperi implicati
fra oboe e zampogna a chiave. nella costruzione delle ance fra oboe e zampogna a chiave.
127
127-28. Benedetto Miceli (zampogna) e Salvatore Modica eseguono la novena di Natale
in due negozi di generi alimentari. Palermo, rione Altarello, 2006 (foto A. Maggio).
128
Una zampogna barocca in Sicilia
10
129
Palermo – viene tuttoggi suonata secondo procedure stilistiche che
rinviano con assoluta evidenza a certa letteratura organistica di
genere sacro prodotta tra i secoli XVII e XVIII. Questa è inoltre la
sola zampogna di area italiana il cui impiego risulta esclusivamen-
te connesso a una specifica occasione devozionale: i suonatori
sono degli “specialisti” ma, oggi come in passato, devono svolge-
re altri mestieri (pescatori, venditori ambulanti, contadini, artigia-
ni, ecc.), poiché le loro prestazioni “musicali” sono circoscritte al
ciclo festivo del Natale. Tutti i canti eseguiti sono infine componi-
menti di tema religioso in larga prevalenza riconducibili a stampe
popolari diffuse tra i secoli XVIII e XIX.
Nei primi decenni del Settecento, quando con probabilità si è
avviata la tradizione della zampogna a chiave siciliana, esisteva
già una categoria di suonatori ambulanti specializzati nel reperto-
rio sacro: gli orbi (cfr. cap. 2). La loro vicenda è ufficialmente docu-
mentata a Palermo dal 1661, anno in cui si stabilisce il patronato
dei Gesuiti sulla preesistente Congregazione dell’Immacolata Con-
cezione dei Ciechi. La più completa testimonianza riguardante l’at-
130. Coppia di orbi durante una novena.
tività di questa singolare congregazione di cantastorie (sede, orga- Palermo 1950 ca. (Archivio Pubblifoto di V. Brai).
nigramma, obblighi, proibizioni, finalità) è stata fornita da Lionar-
do Vigo (1870-74: 59-60). I dati segnalati dal demologo congruisco-
no pienamente con quanto si ricava dal più antico statuto che è
stato finora possibile reperire: i Capitoli della Venerabile Congre-
gazione delli Ciechi sotto titolo della Sempre Immacolata Conce-
zione di Maria Vergine, existente nelli claustri di Casa Professa
delli Reverendi Padri dell’Inclita Compagnia di Gesù di questa
Città, renovati nell’anno 1755 (fondo dei Memoriali della Visita
conservati presso l’Archivio Storico Diocesano di Palermo; per la
trascrizione completa del documento si rinvia a G. Travagliato in
Bonanzinga 2006b). Questa la Tavola degli undici Capitoli:
130
sione di un mestiere che doveva essere dominio esclusivo e perma-
nente dei “non vedenti”, con esclusione perfino dei «propri figli con
la vista» (Cap. X), fino alla riaffermazione del divieto di cantare «isto-
rie profane, burlesche e scandalose» e di suonare «in case scando-
lose di pubbliche meretrici» (Cap. XI). Quest’ultimo Capitolo auspi-
ca tra l’altro che «per il profitto spirituale […] ognuno dei ciechi abi-
tanti in questa Città dovesse arrollarsi in detta Congregazione», e
richiede esplicitamente che qualora dei «ciechi forasteri […] voles-
sero esercitare l’officio di andar cantando orazioni spirituali in que-
sta Città, dovessero pagare alla detta Congregazione rotolo uno di
cera l’anno, e se cantassero istorie profane di star sogetti, oltre delle
sopracennate pene, ad’anni due di esilio».
Il complesso delle testimonianze relative all’attività degli orbi
fra Settecento e Ottocento offre un quadro dettagliato sia del loro
repertorio – costituito in prevalenza da canti sacri ma anche da sto-
rie, canzuni, canzonette e musiche da ballo – sia delle occasioni in
cui essi si esibivano: celebrazioni a carattere religioso, ma anche
feste nuziali e conviviali, serenate e spettacoli dell’opera dei pupi.
Nonostante la varietà delle prestazioni offerte, la specializzazione
di questi musici ambulanti restò soprattutto legata alla esecuzione
di canti religiosi: se la trasmissione del repertorio sacro (orazioni e
storie agiografiche, litanie, canzonette devote, ecc.) garantiva ai
cantastorie un guadagno certo e continuativo, la Chiesa poteva nel
contempo avvalersi del loro servizio per operare una forma di cate-
chesi particolarmente efficace, diffondendo in un linguaggio di
immediata ricezione popolare temi e motivi religiosi secondo i
canoni ufficiali. Oltre ai «fratelli poeti» appartenenti alla Congrega-
zione dei Ciechi, gli autori che posero mano alla stesura dei com-
ponimenti – di norma stampati in libretti o fogli volanti – furono sia
laici, come Pietro Fullone (Palermo, XVII secolo) o Antonio La Fata
(Catania, prima metà del XVIII secolo), sia ecclesiastici, come il
canonico Antonio Diliberto (Monreale, XVIII secolo, autore del cele-
bre Viàggiu dulurusu, cfr. par. 7.2.) o, nella fase appena seguente il
definitivo scioglimento della Congregazione nel 1860, il sacerdote
Giovanni Carollo (Carini, seconda metà del XIX secolo).
Si tratta a questo punto di rispondere a due quesiti incrociati
FIG. 48. Frontespizio di una edizione ottocentesca che avviano utilmente alle conclusioni: come mai nei vari docu-
del Viàggiu dulurusu (coll. Museo Pitrè). menti relativi all’attività degli orbi non si fa menzione degli zampo-
gnari ambulanti, che potevano costituire una concorrenza non
meno agguerrita dei suonatori “vedenti” o di quelli “forestieri”? E
perché la zampogna a chiave resta geograficamente circoscritta in
Sicilia all’area di Palermo e Monreale? La risposta si fonda su due
constatazioni: la prima di ordine socio-politico, la seconda intrin-
seca alla tipologia specifica dello strumento.
Attraverso il patronato sulla Confraternita, la Chiesa garantiva il
monopolio di un mestiere che permetteva di sostenere «la povera
vita e famiglia d’ognuno» (Cap. 11 dello statuto) e gli orbi si impe-
gnavano a moralizzare la musica di strada, contribuendo a trasfor-
mare l’ambiente popolare in “comunità di devoti” (cfr. Châtellier
1988). Considerato che gli zampognari cittadini non furono oggetto
di prescrizioni entro questo rigido quadro disciplinare, si può pen-
sare che la loro attività risultasse funzionale al medesimo progetto
catechetico, con una differenza sostanziale: mentre il mestiere
“devozionale” degli orbi era esteso a comprendere l’intero ciclo
annuale, l’attività degli zampognari era invece circoscritta al perio-
do natalizio, quando tra l’altro la richiesta di novene domiciliari rag-
131
giungeva la massima intensità, tanto che in numerosi centri del-
l’entroterra si usava ingaggiare perfino “orchestrine” formate da
suonatori di banda: «in certi paesi [la novena] è fatta con cinque,
otto, dieci sonatori della banda paesana; si suonano quattro pezzi;
due dei quali quelli propri della novena imitanti la cornamusa; il
terzo quello della litania; un quarto a scelta dei de’ sonatori o de’
padroni di casa» (Pitrè 1881: 436). Non privo di significato è il fatto
che gli stessi orbi considerassero la ciaramedda connotativa del
Natale, come dimostra una testimonianza raccolta nel 1974 da Elsa
Guggino: «Angelo [Cangelosi] aveva con sè il violino e non la chi-
tarra, suo abituale strumento, poiché, mi disse, serviva meglio ad
imitare il suono della zampogna nei canti natalizi» (1980: 34).
Da un lato, pertanto, le professioni di orbi-cantastorie e ciara-
middari-cantori, entrambe tipicamente urbane, tendevano a
sovrapporsi, condividendo un repertorio poetico-musicale in parte
analogo. Per altro verso, la zampogna a chiave, con le sue ascen-
denze barocche e culte, affatto distanti dall’aggressività sonora
della zampogna “a paro”, di tradizione schiettamente pastorale e
legata più alle danze rurali che all’ordine della civitas, sembra 132-133. Angelo Cangelosi esegue la novena di
Natale. Palermo 1976 (foto G. Pagano).
armonizzarsi agli interessi pedagogici della Chiesa. Va infatti osser-
vato che ancora in pieno Settecento, dopo secoli di tentativi finaliz-
zati ad attenuare le forme più estreme della religiosità popolare, in
certi contesti le autorità ecclesiastiche continuavano a “patire” gli
eccessi dei suonatori di estrazione pastorale nelle celebrazioni
della Natività. Ne è un esempio la testimonianza di padre Andrea
Gurciullo, parroco a Sortino (in provincia di Siracusa) dal 1749 al
1803, che giunge a definirne diaboliche le pratiche musicali:
Con quella proprietà e gravità che si deve alle funzioni sagre era
celebrata la sollenità del Natale del Signore sebbene non così la
Notte Sacra. / Conciosiache in vece di passar quella Notte in tene-
rezze ed in devozzione, la passava il popolo in crapole, e in altri
disordini. / Il numero dei pecoraj che in quel tempo fiorivano era
eccedente, or ognun di loro nella chiesa portava il suo stromento
da sonare, che tutti formavano una musica diabbolica. / Detto
disordine di così sconcertati suoni à perdurato fin a dì nostri, ben-
ché il Rev. beneficiale Tieso mio antecessore col suo zelo pastorale
avesse occorso colla sua autorità a detto disordine, cacciando dalla
Chiesa Madre detta sorta di suonatori; facendo altresì in detta
Santa Notte di Natale un breve sermone come si costuma, e si pro-
siegue colla grazia del Signore. Eglino non pertanto cacciati via
dalla Chiesa Madre, se ne andavano all’altre chiese, ove punto non
incontravano oppositione. / Finalmente nell’anno scorso 1752 per
ordine del Reverendissimo Signor Vicario Generale, par si che
fosse dell’intutto dato fine a detti disordini, avendo sortito quella
Santa Notte in pace, senza stromenti sconcertati, ma con propij, e
coll’organo; e si spera dalla pietà del Signore così dover avvenire,
e succedere ne futuri anni, se si compiace Iddio benedetto lasciar-
ci in vita. [ms. Notizie della Chiesa di Sortino, vol. 1, p. 144]
132
condato da monti che hanno sempre offerto terreno fecondo alle
attività pastorali, era molto radicata la tradizione della ciara-
medda a pparu, e ancora oggi vi sono parecchie famiglie che
richiedono la tradizionale novena domiciliare. Un tipo lievemente
diverso di zampogna era tuttavia ammesso anche all’interno delle
chiese cittadine, dove duettava con l’organo nelle celebrazioni
liturgiche e paraliturgiche del Natale:
La zampogna destinata a ciò era più piccola di quella usata dai con-
tadini, che per le feste di Natale scendevano in Messina e si vede-
134. Felice Pagano (violino) e Domenico Santapaola vano per la città andare suonando dove fossero cone, presepii o
(chitarra). Messina 1997 (foto S. Bonanzinga).
altarini preparati per la celeste e sentimentale novena. I zampognai
da chiesa erano però quasi tutti artigiani, tra i quali il più famoso ed
abile era a tempi miei un bottajo; eseguivano varii pezzi, che ricor-
do benissimo ed ò trascritti tutti in apposita raccolta; suonavano
soltanto in chiesa, non adoperando mai lo strumento loro per bac-
cannali, come usavan fare i contadini. Estasiante era il pezzo chia-
mato scordino, che si eseguiva in mi; sicché il suonatore impediva,
prima di attaccarlo, che suonasse il bordone mi (suono continuo
negli altri pezzi, tutti in la). Uno di questi era la Contradanza di Pla-
tone [musicista campano, attivo a Messina tra il 1777 e il 1827], con
che qualche volta si chiudeva la serie delle suonate fatteci sentire in
una cerimonia ecclesiastica, e che era d’un effetto assai giulivo, ma
non triviale. [Nicotra 1920: 4-5]
133
136-137. Benedetto Miceli (zampogna) e Salvatore Modica eseguono la novena di Natale
in una macelleria e davanti a una bottega di frutta e verdura. Palermo, rione Altarello, 2006 (foto A. Maggio).
134
Inventario dei documenti sonori
e audiovisuali
135
Valzer [Speranze perdute] (z. Patellaro, v. Ferraro). – 3. U fìgghiu
pruòricu (z. Miceli). – 4. Sant’Antuninu la missa dicìa (z. Ferraro, vv.
alt. Miceli e Modica). – 5. U viàggiu [inizio] (z. Modica, vv. alt. Mice-
li e Patellaro). – 6. Santa Rusulìa [mancante del finale] (z. Patellaro,
vv. alt. Ferraro, Miceli e Modica). – 7. U viàggiu [inizio] (z. Miceli, vv.
alt. Ferraro, Modica e Patellaro). – 8. U viàggiu [dal distico E alli-
grizza piccaturi, già ch’è natu lu Missia, con rit. corale Nunné
nunné, lu picurarè] (z. Modica, vv. alt., Ferraro, Miceli e Patellaro)
– 9. Quannu sant’Antuninu era malatu / Bersagliera (z. Patellaro,
vv. alt. Miceli e Modica). – 10. Santa Rusulìa (z. Miceli, vv. alt. Fer-
raro, Modica e Patellaro). – 11. Sant’Antuninu la missa ricìa (z.
Modica, vv. alt. Miceli, Ferraro e Patellaro). – 12. U viàggiu [dal
distico E alligrizza piccaturi, già ch’è natu lu Missia, con rit. corale
Nunné nunné, lu picurarè] (z. Miceli, vv. Patellaro, Ferraro e Modi-
ca). – 13. Li tri Re (z. Miceli, v. Patellaro). – 14. U fìgghiu pròricu /
Tarantella / Bersagliera (z. Patellaro, vv. Ferraro, Miceli e Modica,
tamb.llo Miceli). – 15. Sarvi Riggina râ Mmaculata (z. Patellaro). –
16. Tu scendi dalle stelle (z. Patellaro, coro di bambini). – 17. Suna-
ta [Litania / Pasturali / Tarantella / Bersagliera] (z. Patellaro). Docu-
menti audiovisuali: Le videoriprese seguono l’audioregistrazione e
presentano inoltre interviste a tutti i suonatori.
136
ri del Natale a cura di S. Bonanzinga e Mario Sarica. Esecuzione:
Benedetto Miceli, Girolamo Patellaro e Salvatore Modica. Audiori-
presa: S. Bonanzinga. Supporto: 1 AC AN. Documenti sonori: 1. U
viàggiu [inizio] (z. Miceli, v. Patellaro). 2. A la notti ri Natali (z. Mice-
li, v. Patellaro) – 3. U picuraru (z. Patellaro, v. Miceli). – 4. U fìgghiu
pruòricu (z. Patellaro, v. Miceli).
137
varie parti, tornitura e verniciatura). – 2. Effettua la lavorazione
esemplificativa di un pezzo al tornio.
138
Gisieppi (z. Miceli) – 10. Litania – 11. U viàggiu [inizio] (z. Miceli, v.
Patellaro). – 12. Pasturali (z. Miceli). – 13. U viàggiu [inizio](z. Mice-
li, v. Patellaro). – 14. San Gisieppi (z. Patellaro). – 15. Santa Rusulìa
(z. Patellaro, v. Miceli).
139
quann’era malatu (z. Patellaro, v. Benedetto Miceli). – 11. U viàggiu
[inizio] (z. Miceli, v. G. Patellaro). – 12. A la notti di Natali (z. Miceli, v.
G. Patellaro). 13. U picuraru (z. Miceli, v. G. Patellaro). – 14. Scala (z.
Miceli). – 15. Litania (z. Patellaro). – 16. Quannu la santa Matri cami-
nava (z. Patellaro, v. Miceli). – 17. Scala (z. Miceli).
140
B) RILEVAMENTI CONDOTTI DA ALTRI RICERCATORI
141
C) AUDIOREGISTRAZIONI REPERITE NEL CORSO DELLE RICERCHE
142
D) DOCUMENTI EDITI IN ANTOLOGIE DISCOGRAFICHE E
VIDEOFILMATI
GAROFALO, GIROLAMO
d.1990 (a cura di), Il Natale in Sicilia, Albatros ALB 23, 2
dischi, con libretto allegato e presentazione di Elsa Guggino.
– Disco 2, lato A: Novena di Natale (E nunnè lu picuraru)
[7:42]. Nel libretto è riportata la trascrizione del testo poeti-
co, con sottoposta traduzione in italiano. Esecuzione: z. Giro-
lamo Patellaro, v. Sebastiano Davì. Rilevamento: Monreale,
16/12/1987. Ricerca: Nico Staiti.
LEYDI, ROBERTO
cd.1995 (a cura di), Zampogne en Italie, Silex Y225111, con
libretto allegato.
– Brano 13: Novena [2:17]. Si tratta dalla versione strumen-
tale della melodia su cui si intonano i canti che narrano i
miracoli di Sant’Antuninu e altre storie sacre. Esecuzione:
Sebastiano Davì. Rilevamento: Monreale, 13/07/1982. Ricer-
ca: R. Leydi.
BONANZINGA, SERGIO
cd.1996 (a cura di), Documenti sonori dell’Archivio Etno-
musicale Siciliano. Il ciclo dell’anno, collaborazione di R.
Perricone, con libretto allegato, Centro per le Iniziative Musi-
cali in Sicilia, Palermo.
– Brano 3: Novena dell’Immacolata (Sarvi Riggina râ Mma-
culata) [4:05]. Esecuzione: z. Benedetto Miceli, vv. alt. Bene-
detto Ferraro, Salvatore Modica e Girolamo Patellaro (Rile-
vamento 3). – Brano 4: Novena di Natale (U caminu i san
Giuseppi) [2:59]. Esecuzione: z. B. Miceli, vv. alt. B. Ferraro,
S. Modica e G. Patellaro (Rilevamento 3). Nel libretto sono
riportate le trascrizioni dei due testi, con sottoposta traduzio-
ne in italiano.
143
Novena dell’Immacolata (Sarvi Riggina râ Mmaculata, z.
Miceli, v. Modica; San Gisippuzzu ri fora vinìa, z. S. Carrozza,
v. B. Carrozza; Quannu la santa Matri caminava, z. S. Patella-
ro, vv. alt. Miceli e G. Patellaro; Rilevamenti 13 e 17) / 3.
Novena di Natale (Sarvi Riggina ri Natali, “a vuci stisa”, z.
Miceli, v. Modica; U fìgghiu pruòricu, z. Patellaro, vv. alt.
Modica e Patellaro; Litania, z. B. Carrozza; Lu picuraru, z.
Patellaro, v. Miceli; Santa Rusulìa, z. Miceli, v. Patellaro; San-
t’Antuninu, z. Miceli; Rilevamenti 15 e 19) / 4. Ottava dell’Epi-
fania (Santa Rusulia, z. Miceli, v. Patellaro; San Gisippuzzu ri
fora vinìa, z. S. Carrozza, v. B. Carrozza; Inno eucaristico, z. S.
Carrozza; Tu scendi dalle stelle, z. G. Davì; Rilevamenti 4 e 6)
/ 5. La “Pastorale” (testimonianza ed esecuzione di B. Mice-
li; Rilevamento 18).
144
Testi
Nella trascrizione dei testi si sono utilizzati i seguenti criteri: si è sempre resa la geminazio-
ne consonantica; si è sempre indicato l’accento tranne che nelle parole piane; si è indicato
l’accento anche quando la sillaba finale abbia -ia/-iu (fìgghiu, finìu); si sono accentati i mono-
sillabi secondo la prosodia (me fìgghiu, fìgghiu mè); si è segnato l’accento circonflesso sulle
vocali atone in cui siano incorporati elementi vocalici con valore morfologico proprio (ô=a lu,
‘al, allo’; dû/dô=di lu, ‘del, dello’; t’ê=ti àiu, costrutto aviri a + infinito); si è usato il trattino per
segnalare il nesso in sintagmi che si pronunciano saldati insieme (n-cumpagnìa, ‘in compa-
gnia’; m-pedi, ‘in piedi’). Le sillabe eufoniche talvolta interpolate dai cantori nel testo base
sono state poste tra parentesi tonde. Tra parentesi quadre sono riportate le più significative
varianti testuali. Nelle traduzioni in italiano – realizzate con la collaborazione di Fatima Gial-
lombardo – non si è riprodotta l’iterazione di versi presente nei testi originali.
Testi
145
A l’affritta di Maria All’afflitta Maria
san Giuseppi ralligratu, san Giuseppe rallegrato,
cci dicìa: «Signura mia, diceva: «Signora mia,
vui m’aviti cunsulatu». voi mi avete consolato».
146
li cacciaru francamenti li cacciarono francamente
san Giuseppi e la so spusa. san Giuseppe e la sua sposa.
Testi
147
2 . A LA NOTTI DI NATALI NELLA NOTTE DI NATALE
148
3. U PICURARU IL PECORAIO
Testi
149
4. I TRI RE I TRE RE
150
5. SANTA RUSULÌA SANTA ROSALIA
Testi
151
6. DINGHI DINGHI A CAMPANEDDA DIN DON LA CAMPANELLA
152
7. SANT’ANTUNINU E U CAVALERI SANT’ANTONINO E IL CAVALIERE
Cci dissi: «Cavaleri, tu chi ài?» Gli disse: «Cavaliere, che cos’hai?».
«Ca sugnu ciuncu ri mani e ddi peri, «Sono storpio di mani e di piedi».
ca sugnu ciuncu ri mani e ddi peri».
Cci dissi: «Cavaleri, chi mmi runi Gli disse: «Cavaliere, che mi dai?
si la saluti ti fazzu tuinnari? se in salute ti faccio tornare?»
Si la saluti ti fazzu tuinnari?»
Testi
153
8. SANT’ANTUNINU LA MISSA RICÌA SANT’ANTONINO LA MESSA DICEVA
154
9. QUANNU LA SANTA MATRI CAMINAVA QUANDO LA SANTA MADRE CAMMINAVA
«E cchi aviri fìgghiu miu Giuvanni, «Che devo avere, figlio mio Giovanni,
ca iò persi a me fìgghiu Nazzarenu, ho perso mio figlio il Nazareno».
ca iò persi a me fìgghiu Nazzarenu».
Tuppi, tuppi: «Cu è nta stu puittuni?» Bussa bussa: «Chi è al portone?»
«Rapri ca sugnu la to ffritta matri, «Apri che sono la tua afflitta madre».
rapri ca sugnu la to ffritta matri».
«E ccomu matri mia pozzu rapriri, «E come posso aprire madre mia,
ca li iudei mi tennu ncatinatu, che i Giudei mi tengono incatenato?
ca li iudei mi tennu ncatinatu.
Quannu Maria senti ddù parrari, Quando Maria sentì queste parole,
fici trimari u cielu, terra e mmari, fece tremare cielo, terra e mare!
fici trimari u cielu, terra e mmari!
Testi
155
10. SANT’ANTUNINU QUANN’ERA MALATU QUANDO SANT’ANTONINO ERA MALATO
(e) m-Paradisu cc’è nna lunga scala In Paradiso c’è una lunga scala
ch’è firriata di suli e ddi luna, ornata di sole e di luna.
ch’è firriata di suli e ddi luna.
«In soitti – dissì a so matri Maria – «Per destino – disse a sua madre Maria –
Cussì àv’a spirari l’aimma mia, così deve spirare l’anima mia».
cussì àv’a spirari l’aimma mia».
156
12. SAN GISIPPUZZU I FORA VINÌA SAN GIUSEPPE VENIVA DA FUORI
Testi
157
14. U FÌGGHIU PRUÒRICU IL FIGLIOL PRODIGO
Scinni ddà scala cu pprèscia e pprimura Scese la scala con fretta e premura
l’amici allura lu trovanu ddà. gli amici allora lo trovarono là.
«Amici mei manciamu cuntenti «Amici miei mangiamo contenti
c’allegramenti ddinari ci nn’è». che allegramente denari ce n’è».
«Si vvàiu nni me patri, iddu mi vastunìa «Se vado da mio padre, lui mi bastona
poi mi castìa comu mmerritu cchiù». poi mi castiga come merito di più».
Lu pilligrinu si metti n-caminu, Il pellegrino si mette in cammino,
lu pilligrinu nni so patri va. il pellegrino da suo padre và.
Affaccia so patri cu l’uocchi piangenti, Compare suo padre con gli occhi piangenti,
spiannu a la ggenti: «Me fìgghiu dunn’è?» chiedendo alla gente: «Mio figlio dov’è?».
(e) Lu so patri ffacciat’u baiccuni Suo padre affacciato al balcone
vidi viniri un omu pintutu. vede venire un uomo pentito.
158
15. SARVI RIGGINA RÂ MMACULATA SALVE REGINA DELL’IMMACOLATA
Testi
159
16. SARVI RIGGINA RI NATALI SALVE REGINA DI NATALE
160
Trascrizioni musicali
Trascrizioni musicali
161
1. Santa Rusulìa
Esecuzione: Sebastiano Davì (voce), Girolamo Patellaro (zampogna).
Rilevamento: Scala Torregrotta (ME), 28/02/1987.
162
Trascrizioni musicali
163
2. A la notti di Natali
Esecuzione: Benedetto Miceli (zampogna), Girolamo Patellaro (voce).
Rilevamento: Monreale, 29/12/2002.
164
I Interludio 11,3"
Trascrizioni musicali
165
La zampogna a chiave in Sicilia
166
Trascrizioni musicali
167
3. U picuraru
Esecuzione: Benedetto Miceli (voce), Girolamo Patellaro (zampogna).
Rilevamento: Gesso (fraz. di Messina), 27/12/1997.
168
Trascrizioni musicali
169
4. Sant’Antuninu e u cavaleri [CD/19]
Esecuzione: Benedetto Miceli (zampogna), Girolamo Patellaro (voce).
Rilevamento: Palermo, 05/12/1998.
170
Trascrizioni musicali
171
5. U fìgghiu pruòricu
Esecuzione: Benedetto Miceli (voce), Girolamo Patellaro (zampogna).
Rilevamento: Gesso (fraz. di Messina), 27/12/1997.
172
Trascrizioni musicali
173
6. Sarvi Riggina râ Mmaculata (a muttettu)
Esecuzione: Sebastiano Davì (voce), Girolamo Patellaro (zampogna).
Rilevamento: Scala Torregrotta (ME), 28/02/1987.
174
Trascrizioni musicali
175
7. Sarvi Riggina ri Natali (a vuci stisa) [CD/13]
Esecuzione: Benedetto Miceli (zampogna), Salvatore Modica (voce).
Rilevamento: Monreale, 02/01/2006
176
Trascrizioni musicali
177
8. Calabrisella [CD/5]
Esecuzione: Sebastiano Davì (zampogna).
Rilevamento: Monreale, ante 1984.
178
Trascrizioni musicali
179
La zampogna a chiave in Sicilia
180
9. Scala [CD/18]
Esecuzione: Benedetto Miceli (zampogna).
Rilevamento: Monreale, 29/12/2002.
Trascrizioni musicali
181
La zampogna a chiave in Sicilia
182
Trascrizioni musicali
183
10. Pasturali [CD/20]
Esecuzione: Benedetto Miceli (zampogna).
Rilevamento: Girolamo Patellaro (zampogna).
184
Trascrizioni musicali
185
La zampogna a chiave in Sicilia
186
11. Litania
Esecuzione: Girolamo Patellaro (zampogna).
Rilevamento: Scala Torregrotta (ME), 28/02/1987.
Trascrizioni musicali
187
La zampogna a chiave in Sicilia
188
12. Sunata [CD/3]
(Fìgghiu pruòricu / San Giuseppi / Inno eucaristico)
Esecuzione: Sebastiano Davì (zampogna).
Rilevamento: Palermo, 18/12/1986.
Trascrizioni musicali
189
La zampogna a chiave in Sicilia
190
Trascrizioni musicali
191
Appendice
A. LE MELODIE E I CANTI NELLA BIBLIOTECA DI GIUSEPPE PITRÈ
Appendice
195
La zampogna a chiave in Sicilia
196
Appendice
197
La zampogna a chiave in Sicilia
198
Appendice
199
La zampogna a chiave in Sicilia
200
Appendice
201
La zampogna a chiave in Sicilia
202
Appendice
203
La zampogna a chiave in Sicilia
204
Appendice
205
La zampogna a chiave in Sicilia
206
Appendice
207
La zampogna a chiave in Sicilia
208
Appendice
209
La zampogna a chiave in Sicilia
210
Appendice
211
La zampogna a chiave in Sicilia
212
Appendice
213
La zampogna a chiave in Sicilia
214
B. LE TRASCRIZIONI MUSICALI NEL CORPUS DI ALBERTO FAVARA
Appendice
215
La zampogna a chiave in Sicilia
216
Appendice
217
La zampogna a chiave in Sicilia
218
Appendice
219
La zampogna a chiave in Sicilia
220
Appendice
221
La zampogna a chiave in Sicilia
222
Appendice
223
C. IL VIAGGIU DULURUSU DI BINIDITTU ANNULERU
(coll. Museo Pitrè)
Appendice
225
La zampogna a chiave in Sicilia
226
Appendice
227
La zampogna a chiave in Sicilia
228
Appendice
229
La zampogna a chiave in Sicilia
230
Riferimenti
Riferimenti
231
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AA.VV., Il potere delle cose. Magia e religio- 1985 Le zampogne dell’Italia Meridionale nella
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Ignazio E. Buttitta, Eidos, Palermo: 83-98. cale Italiana”, XIX/1: 94-111.
2006b Tradizioni musicali per l’Immacolata in Sici-
lia, con una Appendice a cura di G. Trava- CHÂTELLIER, LOUIS
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150 anni, a cura di D. Ciccarelli e M. D. ti, Milano.
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Studi Medievali, Palermo 2006: 69-154. COCCHIARA, GIUSEPPE
1954-56 Il Corpus di Musiche Popolari Siciliane di
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1974 L’opera di Giuseppe Cocchiara, in AA.VV., VII: 54-62; ris. come Premessa a FAVARA 1957.
Demologia e folklore. Studi in memoria di 1957 Il folklore siciliano, 2 voll., Flaccovio, Palermo.
Giuseppe Cocchiara, Flaccovio, Palermo: 9-29.
CONIGLIARO, F. - LIPARI, A. - SCORDATO, C.
BORNSTEIN, ANDREA 1987 Narrazione teologia spiritualità del Natale.
1987 Gli strumenti musicali dei Rinascimento, Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu
Muzzio, Padova. Patriarca S. Giuseppi in Betlemmi, L.I.S.,
Palermo.
BOSE, FRITZ
1993 Musiche popolari siciliane raccolte da Gia- CONIGLIARO, F. - LIPARI, A. - SCORDATO, C. - STABILE, F. M.
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CORSARO, ORAZIO
BROD, HENRI 1992 La zampogna “messinese”. Riflessioni su
1826-35 Grande Methode de hautbois, Schonen- uno strumento popolare, Forni, Sala Bolo-
berger, Paris. gnese (BO), con prefazione di P. E. Carapez-
za e contributi di V. Biella, D. Marusic, G.
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(si noti sullo sfondo il testo manoscritto del Viàggiu i san Giuseppi). Monreale 1977 (coll. G. Garofalo).
Guida all’ascolto del CD
I brani inclusi in questa antologia sono il frutto e della Sardegna, viene introdotto da Roberto
di una selezione operata su materiali registrati Leydi, che presentando gli zampognari monreale-
tra il 1984 e il 2006. Si è cercato di offrire un si Sebastiano Davì (zzù Nenè) e Girolamo Patel-
campionario significativo del repertorio, dei pro- laro, ricorda sinteticamente le circostanze della
tagonisti e delle occasioni (spettacoli, incontri “riscoperta” della zampogna a chiave. L’etnomu-
appositamente predisposti con i suonatori, sicologo rivolge inoltre alcune domande a zzù
tradizionali esibizioni del periodo del Natale), Nenè riguardo alle occasioni in cui ancora si
tenendo conto della qualità tecnica delle audior- suona e al repertorio dello strumento, con riferi-
iprese e del pregio delle esecuzioni. Le trascrizioni mento anche alla già “estinta” tradizione paler-
musicali corrispondono ai documenti sonori pro- mitana (CD/1). Ascoltiamo quindi lo stesso Davì
posti soltanto nei casi segnalati. I testi dei canti cantare, con Patellaro alla zampogna, le strofe
presentano varianti sia nei versi sia nell’avvicen- che narrano le vicende della Santa protettrice di
darsi delle strofe rispetto a quelli riportati nel vol- Palermo (CD/2, Santa Rusulìa), ed eseguire due
ume, che – come si è detto – sono il risultato di brani strumentali: Sunata, dove vengono
una ricostruzione comparativa fra le diverse ese- giustapposte tre diverse melodie (Figliol prodi-
cuzioni disponibili. La disposizione dei brani non go, San Giuseppe e Inno eucaristico; CD/3,
segue l’ordine cronologico dei rilevamenti e trascrizione 12) e Pasturali (CD/4). L’audioripresa
soltanto i canti e le melodie più strettamente è stata effettuata con registratore a cassette
legati al tema della Natività sono stati raggrup- Marantz CP430 e microfoni Sennheiser MD441.
pati in sequenza (CD/7-13).
MONREALE 1993: BRANI 10 E 14
I due brani strumentali – Tu scendi dalle stelle
MONREALE ANTE 1984: BRANO 5 (CD/10) e Inno eucaristico (CD/14), rispettiva-
La Calabrisella eseguita da Sebastiano Davì mente eseguiti da Giacinto Davì e Salvatore Car-
(trascrizione 8) è l’unico documento non diretta- rozza – sono stati registrati in occasione dell’ot-
mente rilevato da noi ma ricavato da una audio- tava dell’Epifania (29 dicembre) davanti a una
cassetta posseduta da Girolamo Patellaro e edicola votiva presso la piazza principale di
reperita da Ignazio Macchiarella nel corso di una Monreale. L’audioripresa è stata effettuata con
ricerca effettuata nel 1984 (la copia qui utilizzata registratore a cassette Marantz CP430 e micro-
è depositata presso l’Archivio del Folkstudio di foni Sennheiser MD441.
Palermo, racc. 20, na. 580). Non è noto da chi,
quando e con quale apparecchiatura sia stata PALERMO 1998: BRANI 8 E 19
realizzata l’audioripresa. Nel 1998 si concentra una fase particolarmente
intensa dalla nostra indagine sulla zampogna
PALERMO 1986: BRANI 1-4 monrealese (rilevamenti 8-15). Partecipiamo tra
Questi quattro documenti sono stati registrati in l’altro ad alcune giornate di novene (dell’Immaco-
occasione di un concerto tenuto a Palermo nella lata e del Natale), seguendo i suonatori Benedet-
Chiesa del SS. Salvatore il 18 dicembre del 1986, to Miceli e Girolamo Patellaro lungo tutto il loro
nell’ambito del Convegno “Mediterranea ’86. usuale itinerario fra i clienti. La registrazione del
Modalità e forme della musica etnica”, organizza- canto Sant’Antuninu e u cavaleri (voce G. Patel-
to dal Centro per le Iniziative Musicali in Sicilia laro e zampogna B. Miceli, CD/19, trascrizione 4)
con il coordinamento di Gaetano Pennino. Il con- viene effettuata durante la novena dell’Immacola-
certo, intitolato Repertori tradizionali della Sicilia ta (5 dicembre) alla Guadagna, davanti a una edi-
237
cola votiva situata in una strada secondaria. Il MONREALE 2004: BRANI 9 E 12
richiamo di un venditore ambulante di frutta e Il 23 dicembre registriamo una lunga esibizione
verdura precede l’esecuzione: Vruòcculi! Accat- degli zampognari monrealesi richiesta da una
tati bboni, frischi e meiccati! (Broccoli! Li com- famiglia rientrata a Monreale dopo un lungo
prate buoni, freschi e a buon prezzo!). La parte periodo di permanenza in Italia settentrionale.
iniziale del Viàggiu i san Giuseppi (esecuzione In questa circostanza Patellaro e Miceli (rispet-
come sopra, CD/8) è stata registrata due giorni tivamente canto e zampogna) eseguono tra
dopo (7 dicembre) presso un’edicola votiva di l’altro A la notti di Natali (CD/9) e Li tri Re
piazza Guadagna. Le audioriprese sono state (CD/12). L’audioripresa è stata effettuata con
effettuate con registratore a cassette Marantz registratore DAT Sony TCD-D8 e microfono
CP430 e microfoni Sennheiser MD441. stereo Sennheiser MKE44P.
238
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2006
presso le Officine Tipografiche Aiello & Provenzano
Bagheria (Palermo)