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Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca C O N S E R V A T O R I O D I M U S I C A

ALTA FORMAZIONE ARTISTICA E MUSICALE “Cesare Pollini” – PADOVA

TESI DI DIPLOMA ACCADEMICO DI 2° LIVELLO


PER L’ABILITAZIONE DEI DOCENTI DI
STRUMENTO MUSICALE
CLASSE DI CONCORSO A077

Un aspetto della didattica pianistica


il tocco e il timbro come parole chiave

Relatore Prof.ssa Stefania Jienescu


Correlatore Prof.ssa Linda Magaraggia
Supervisore Prof.ssa Isabella Longo

Diplomando Murari Maddalena


Matricola 10921

ANNO ACCADEMICO 2008/2009


Indice

Introduzione

Capitolo 1. La didattica pianistica del ’900


1.1 Neuhaus e la Scuola Russa
1.2 Matthay e la Scuola Inglese
1.3 Mugellini, Brugnoli e la Scuola Italiana
1.4 Sandor, the Art of piano playing

Capitolo 2. Didattica del tocco differenziato: “la concertazione”

2.1 Alcune considerazioni sul suono ed il timbro pianistico


2.2 Esempi di utilizzo del tocco differenziato
2.2.1 La Polifonia
2.2.2 Melodia alla voce superiore ed accompagnamento
2.2.3 Melodia che si alterna tra la mano destra e la
mano sinistra
2.2.4 Melodia affidata alla mano sinistra
2.2.5 Il canto della nota superiore in una sequenza di
accordi in piano ed in forte
2.3 Esempi sulle varie forme di tocco
2.4 Alcune considerazioni sulla memoria del musicista

Capitolo 3. Studi fisiologici e neuroscientifici sul tocco

3.1 Studi fisiologici sul rapporto tra il tocco, la meccanica ed il


timbro del pianoforte
3.2 Studi neurologici sulle aree del cervello interessate alla
produzione musicale

Bibliografia
Introduzione

Il Decreto Ministeriale n. 235 del 6 agosto 2009 riassume gli obiettivi fondamentali che i
percorsi didattico-musicali della scuola media devono raggiungere. Al termine del triennio, lo
studente deve saper individuare e far propri gli elementi costitutivi del linguaggio musicale negli
ambiti timbrico-dinamico, melodico, armonico, riproduttivo-motorio, espressivo, analitico-
cognitivo; acquisire la capacità di percepire correttamente il suono prodotto nelle sue
caratteristiche fondamentali; saper scegliere consapevolmente le modalità esecutive musicali;
saper memorizzare razionalmente il rapporto suono/segno; saper organizzare un metodo di studio
autonomo ed organico.
Si tratta di obiettivi fondamentali per lo sviluppo della personalità che possono essere
raggiunti in modi e tempi diversi da ogni studente che si avvicini alla musica con consapevolezza
e con quel giusto grado di curiosità che permette di affrontare anche piccoli sacrifici per ottenere
un risultato. Capire le diverse personalità ed associare percorsi didattici appropriati rappresenta
sicuramente una delle sfide maggiori per l’insegnante, in quanto lo studio di brani che abbiano
un significato particolare per il vissuto degli allievi stimola capacità intellettive che altrimenti
rimarrebbero nascoste. Lo studio di uno strumento musicale richiede una dedizione costante ed
un certo spirito di sacrificio, fattori che devono sempre essere alimentati da una forte
motivazione al conseguimento del successo. L’importanza di creare nello studente una
motivazione intrinseca è stata messa in evidenza dagli studi di Susan Harter, la quale ha spiegato
come nella costruzione della personalità esista una tendenza intrinseca nel bambino alla
competenza che si forma nel tempo attraverso una concezione dinamica dell’intelligenza basata
sull’impegno e la strategia. In quest’ottica, il lavoro dell’insegnante deve essere quello di
facilitare l’apprendimento attraverso una molteplicità di metodi che coinvolgono sia la didattica
costruttivista sia la chiarezza degli obiettivi teorizzata da Bloom nelle sue tassonomie.
Il lavoro svolto in questa tesi intende collocarsi nell’ambito degli obiettivi forniti dalle
direttive Ministeriali, in quanto si ritiene che l’aspetto della differenziazione del tocco sia un
elemento della didattica pianistica funzionale a tutti gli ambiti del linguaggio strumentale.
Che un accordo in un’opera di Chopin abbia un suono diverso rispetto a composizioni di
Schumann o Debussy si può apprendere già ad un secondo o terzo corso eseguendo un Preludio,
un brano tratto dall’Album per la Gioventù o una Arabesque. Il piacere che si può provare
scoprendo nuove armonie o l’effetto di un pianissimo o di un crescendo ben strutturato deve
essere ricercato con un desiderio ed una forza inesauribili per poter essere comunicato con
chiarezza a chi ci ascolterà in concerto. E’ pertanto indispensabile suscitare negli allievi sin dai

1
primi anni di studio la necessità della ricerca del suono appropriato ad ogni situazione musicale.
Le problematiche connesse alla differenziazione del tocco ed alla politimbricità del
pianoforte vengono analizzate dapprima in prospettiva storica attraverso i riferimenti alle opere
di Neuhaus, Matthay, Mugellini, Brugnoli, Busoni e Sandor e, nel secondo capitolo, nel contesto
di un percorso didattico da proporre a studenti di una scuola media. Il terzo capitolo fa invece
riferimento a recenti studi neurologici sulle aree cerebrali interessate alla produzione musicale ed
alle possibilità di approfondimento che questi studi hanno fornito sulle modalità di
apprendimento e di memorizzazione.
Su tutte le angolazioni date alla problematica della produzione del suono domina la grande
importanza attribuita in questa tesi alla necessità di acquisire fin dai primi anni di studio una
differenziazione di tocco tra la mano destra e la mano sinistra e, in alcuni casi, alla creazione di
una molteplicità di livelli sonori all’interno della stessa mano. E’ il principio della concertazione
per cui, come in una partitura d’orchestra, è necessario che le voci principali non siano mai
oscurate da quelle di accompagnamento, un principio che comprende nozioni di tipo analitico,
una raffinata capacità di controllo motorio e un costante allenamento tecnico. Si tratta di requisiti
molto elevati che richiedono allo studente notevole impegno e non è sempre detto che egli
possieda la volontà e la determinazione per cimentarsi in questa prova. Come insegnante ritengo
di avere il dovere di spronare gli allievi a raggiungere i massimi risultati anche perché mi piace
ricordare le parole del Maestro Bruno Bizzarri il quale afferma che l’uomo ogni mattina non si
alza per il possibile, ma per l’impossibile ed in particolare Busoni scrive in una lettera alla
moglie di partire “dal presupposto che sul pianoforte tutto è possibile, anche quel che sembra
impossibile e che lo è realmente”1.
L’obiettivo finale è il raggiungimento quel principio di “libertà nell’ordine” che rappresenta
il fine ultimo dell’esecuzione pianistica: la possibilità di prendersi dei momenti di libertà quali
conseguenza necessaria e non velleitaria di uno studio meticoloso e attento ad ogni aspetto della
partitura.

1
F. BUSONI, Lettere alla moglie. Ricordi, Milano 1955
2
Capitolo 1. La didattica pianistica del ’900

1.5 Neuhaus e la Scuola Russa

Nel panorama delle pubblicazioni utili ad apprendere “l’arte del pianoforte” occupa sicuramente
un posto rilevante il libro di Heinrich Neuhaus (1961), un saggio in cui il grande maestro
raccoglie e struttura il lavoro di una vita spesa ad alimentare il talento di alcuni dei più grandi
pianisti russi del XX secolo quali Richter, Gilels, Sofronickij, Zak, Oborin.
Relativamente alle componenti essenziali dell’arte del pianoforte, Neuhaus parla di triade
dialettica: la tesi è la musica, l’antitesi è lo strumento, la sintesi è l’esecuzione. Solo la completa
padronanza di questi tre elementi può garantire una buona esecuzione artistica. Principio cardine
della sua didattica è che qualsiasi miglioramento tecnico non può essere slegato dalla conoscenza
del contenuto o “specifico artistico”. Ricorda che il significato della parola greca techné è arte,
pertanto qualsiasi perfezionamento della tecnica è arte stessa. Ottenere risultati nel lavoro sullo
specifico artistico è possibile solo se si aiuta continuamente l’allievo nel suo sviluppo musicale,
intellettuale, artistico e di conseguenza anche pianistico.

E questo significa: sviluppare il suo orecchio; fargli conoscere ampiamente la letteratura musicale; obbligarlo per
molto tempo a immedesimarsi in un autore; obbligarlo a sviluppare l’immaginazione e l’orecchio imparando i pezzi
a memoria soltanto sullo spartito senza ricorrere al pianoforte; insegnargli fin dall’infanzia a sbrigarsela con le
forme musicali, con il materiale tematico, con la struttura armonica e polifonica della composizione da eseguire;
sollecitare, se è necessario, cioè se non è innata nell’allievo stesso, la sua ambizione professionale; incitarlo a
raggiungere i migliori; sviluppare la sua fantasia con metafore azzeccate, con immagini poetiche, con analogie
relative ai fenomeni della natura e della vita, particolarmente della vita spirituale e psicologica; colmare e
interpretare il discorso musicale; sviluppare in tutti i modi, in lui, l’amore per le altre arti, in particolare per la
poesia, la pittura e l’architettura, ma soprattutto fargli sentire la dignità etica dell’artista, i suoi doveri, le sue
responsabilità, i suoi diritti. (p. 49)

Il metodo di studio che Neuhaus propone è quello di porsi di fronte alla partitura come un
direttore d’orchestra analizzandola non soltanto per sommi capi, ma nel dettaglio, dividendo la
composizione nelle sue componenti per studiarne la struttura armonica e polifonica e quindi
esaminando a parte la linea melodica principale separata dall’accompagnamento. Con un simile
lavoro, l’allievo comincia a capire che l’opera può essere bellissima non solo nel suo intero, ma
anche nel dettaglio e che ogni particolarità ha un senso, una logica, un’espressività e rappresenta
una parte organica dell’insieme.

3
Nel capitolo dedicato al suono, Neuhaus spiega che uno dei compiti più nobili, ma anche
più difficili per un pianista è la creazione di una molteplicità di livelli sonori. Tale molteplicità si
rende indispensabile non solo nell’esecuzione della polifonia, ma nelle composizioni dei più
diversi stili. Vengono citati i seguenti esempi:
1. Lo studio op. 10 n. 6 di Chopin. In esso il primo livello è la melodia; il secondo livello è al
basso; il terzo livello è il moto delle semicrome nella voce mediana.

2. Chopin, Notturno op. 48 n. 1 in do minore, ripresa del primo tema (doppio movimento).

Si tratta di un passo molto difficile per un’esecuzione chiara, plastica; l’accompagnamento è


molto pieno, armonioso e dalle sonorità molteplici, il basso è in ottave e la melodia, eseguita
con il solo mignolo deve dominare su tutto il resto. Come metodo di studio, Neuhaus
consiglia l’ “esagerazione” e cioè cercare di suonare la melodia molto forte,
l’accompagnamento piano e i bassi mezzo piano.
3. Skrjabin, Sonata n. 4 op. 30, finale del Prestissimo volando. La difficoltà è la stessa del
Notturno di Chopin, nonostante l’enorme forte degli accordi d’accompagnamento armonico a
sette, otto suoni e le ottave al basso, la melodia, eseguita dal solo dito mignolo deve
predominare.

4
1.6 Matthay e la Scuola Inglese

In area inglese il primo a cercare nuove prospettive nella didattica pianistica è Tobias Augustus
Matthay, per il quale ogni singolo suono deve essere prodotto da una volontà musicale unita ad
una muscolare. La preoccupazione del didatta inglese è quella di comprendere le leggi del
funzionamento dell’esecuzione, e per fare ciò parte dalla meccanica del pianoforte. Le sue teorie
non costituiscono un metodo per suonare, sono piuttosto dimostrazioni e spiegazioni tecniche
che, se acquisite, conducono a padroneggiare lo strumento. Nel suo lavoro cardine, L’arte del
tocco nel suonare il pianoforte2, l’autore propone un sistema razionale d’educazione che consiste
nell’analisi dell’oggetto da insegnare, nella deduzione delle regole e leggi che presiedono alla
riuscita dell’esercizio; e finalmente, nella comunicazione diretta ed immediata di tali leggi al
discepolo.
Secondo Matthay l’Arte del Tocco consiste nella padronanza dei mezzi di espressione cui
si giunge attraverso la razionalizzazione del tocco che organizza in tre grandi famiglie suddivise,
a loro volta, in altre quarantadue specie classificate in base all’azione muscolare e non alla
reazione acustica.

Tavola riassuntiva dei tocchi e delle azioni possibili secondo Matthay

Specie di PRIMA SECONDA TERZA SPECIE


tocco SPECIE SPECIE
Azione Prodotta dalle Prodotta Iniziata con il peso Iniziata
sole dita con dall’azione della muscolarmente
mano rilasciata e mano dietro a Prodotta dall’abbandono del peso
braccio sostenuto quella delle dita, dietro le azioni del dito e della mano
dai suoi muscoli con il braccio
sostenuto
Movimenti Tocco di sole Tocco di dita e di Tocco di dita, di mano e di braccio
permessi dita mano (o di polso)

2
T. MATTHAY, L’arte del tocco nel suonare il pianoforte, trad. Maria Bonetti, Torino, Fratelli Bocca 1911.

5
1.7 Mugellini, Brugnoli, Busoni

Le nuove sistemazioni della tecnica pianistica sono diffuse in Italia grazie a Bruno Mugellini, il
quale dichiara in un suo articolo pubblicato nel primo numero della Rivista Musicale Italiana del
1908, che la tecnica pianistica “non ha più fatto dei progressi in Italia da oltre un ventennio”3.
Osserva che i principali difetti della scuola italiana sono “la monotonia del tocco, la
pochezza del suono […], l’affaticamento […] ed infine la deficienza […] d’un repertorio di pezzi
pronti ad essere suonati ad ogni richiesta”. Afferma poi che “da poco più di un ventennio si è
andata sviluppando in Europa una scuola nuova: maestri d’ingegno hanno cercato nuove sorgenti
di progressi alla tecnica pianistica. Servendosi delle cognizioni anatomiche e fisiologiche, essi
hanno ragionato acutamente sulle varie manifestazioni che all’una e all’altra cosa si
connettevano […]. L’applicazione del ragionamento scientifico è per certi maestri assolutamente
oziosa in cose che hanno un fine d’arte; essi disdegnano far risalire a dei ragionamenti positivi
tutto ciò che all’arte si connette”.
Mugellini analizza quindi tutte le teorie degli scientisti europei e le applica nella sua
scuola, che si fonda essenzialmente sul concetto di “libera caduta”, dal tedesco “frei Fall” e
sull’atto di rotazione dell’avambraccio. Sull’esempio di Matthay mette in relazione un’azione
motoria con una formula tecnica, individuando otto tipi di tocco:
1. martellato: si percuote il tasto con le dita completamente inerti, sulle quali gravita il peso
dell’intero braccio; si usa per sonorità molto potenti;
2. martellato lieve: si percuote il tasto con le dita completamente inerti, su cui gravita il peso
della sola mano;
3. non legato: il punto di riposo delle dita è sul fondo del tasto; questo tocco è prodotto
dall’articolazione delle dita cui si aggiunge il peso del braccio;
4. staccato per mezzo delle vibrazioni del braccio a dita inerti; il riposo avviene sulla
superficie della tastiera;
5. staccato tramite una lieve articolazione delle dita sulle quali gravita il peso della mano; il
riposo avviene sulla superficie del tasto;
6. staccato per mezzo della sola articolazione delle dita senza alcun aiuto di peso; consiglia
questo tocco per produrre dei suoni leggerissimi;
7. legato assoluto: tocco cantabile con le dita aderenti ai tasti su cui agisce il peso del braccio;

3
B. MUGELLINI. Lezioni teorico-pratiche sui nuovi sistemi fondamentali nella tecnica pianistica, Milano, Carish
& Jänichen 1938.

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8. cantabile: in questo tocco l’effetto del legato è ottenuto tramite il pedale di risonanza, mentre
ad ogni percussione il dito abbandona il tasto.
Secondo Mugellini gli esecutori d’alto livello devono saper variare il suono, anche
tramite l’impiego del peso del braccio.
Un altro esponente di spicco nella storia della didattica strumentale del Novecento è
Attilio Brugnoli, il primo a presentare una teoria ed una relativa applicazione su basi storiche e
scientifiche. Il suo “insegnamento razionale”, esposto nella Dinamica pianistica4 pubblicata nel
1926, è basato sull’indagine ragionata dei mezzi atti a raggiungere, con il minimo sforzo, lo
scopo che ci si prefigge. Secondo Brugnoli “la bontà della scuola dei grandi esecutori passati non
ha corrisposto a quanto era lecito aspettarsi dalle loro celeberrime esecuzioni”, e questo è dipeso
dai metodi d’insegnamento. L’utilizzo di metodi empirici e non razionali è, a suo avviso, causa
di questo insuccesso pedagogico, mentre l’atto pianistico deve essere razionalmente prodotto con
il mezzo più adatto allo scopo sia per la struttura anatomica, sia per la sua funzione.
Brugnoli definisce “tocco pianistico” “la gradevolezza o la sgradevolezza, l’espressività o
l’inespressività del suono”. Sostiene che la bellezza di un suono dipende dalla qualità e dalla
quantità di armonici. Brugnoli individua due distinte qualità di tocco; la prima ottenuta con il
peso del braccio inerte; la seconda realizzata dai muscoli del braccio insieme ai tendini delle dita,
in varie combinazioni. In entrambi i casi, le dita agiscono come leve sotto la mano facendo punto
fisso alla loro estremità distale.
Parlando di Scuola Italiana, non può mancare un accenno a Ferruccio Busoni, il pianista
nato nel 1866, che, in seguito allo studio delle opere di Liszt, trovò un’impostazione tecnica
nuova. Busoni scopre in Liszt i principi della tecnica moderna, la tecnica ormai posseduta
intuitivamente da molti pianisti, ma da nessuno ancora studiata analiticamente. Nasce così, in
anni e anni di lavoro la tecnica di Busoni, la tecnica perfetta favolosa. Non è possibile stabilire se
la tecnica di Busoni coscientemente dedotta dalle opere di Liszt fosse più ricca della tecnica
Lisztiana; certo è che Busoni seppe annodare tutti i possibili legami tra tecnica delle dita e
tecnica del pedale con una perfezione che nessun allievo di Liszt raggiunse.
Per quanto si riesce a capire nel paragone fra le trascrizioni da Bach di Liszt e di Busoni,
sembra che Busoni sviluppasse la caduta del peso delle braccia in termini fortemente innovativi.
Un’altra particolarità, forse la più interessante della tecnica busoniana, la fliegende Technik
(tecnica volante), assunse in Busoni un’ampiezza di applicazioni che Liszt quasi certamente non
conobbe.

4
A. BRUGNOLI, Dinamica pianistica. Trattato sull’insegnamento razionale del Pianoforte e sulla motilità
muscolare nei suoi aspetti psico-fisiologici, Milano, Ricordi 1926, p. 19.

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Per capire che cosa sia la fliegende technik, bisogna anzitutto conoscere il modo di
studiare di Busoni. Dice Paul Roës:

Divideva dapprima i passaggi in incisi che lavorava nel modo seguente. Dopo qualche ripetizione lentissima, li
eseguiva due o tre volte di seguito, bruscamente, ultra rapidi in tratti folgoranti, sia piano che forte, poi lentamente,
poi di nuovo molto velocemente. Quindi riuniva i frammenti e continuava l’esercizio per l’intero passaggio.

Dalla osservazioni sul modo di studiare di Busoni, il Roës trae conseguenze che forse vanno
oltre i concetti elaborati da Busoni stesso, ma che comunque trovano una precisa conferma nelle
superstiti incisioni Busoniane di musiche di Liszt. Lo studio e l’esecuzione di un passaggio
diviso in incisi secondo la fliegende Technik, provoca una leggera modificazione dei valori
proporzionali segnati sul pentagramma; una modificazione pressoché inavvertibile dall’orecchio,
ma avvertibile dalla muscolatura dell’esecutore che può permettersi di procedere per scatti e
distensioni continue. La modificazione dei valori proporzionali consiste il più delle volte in
un’esecuzione anticipata della o delle figure immediatamente precedenti o immediatamente
seguenti l’accento ritmico, ed agevola grandemente l’esecutore in tratti a velocità molto elevata.
In Busoni, però, il ricorso alla fliegende Technik non è il punto di partenza ma il punto di arrivo:
l’esecuzione in tratti volanti non è un mezzo indiscriminato per superare una difficoltà, ma un
mezzo usato per realizzare, in determinate circostanze, un fraseggio non certamente
convenzionale.

1.5 Sandor, The Art of Piano Playing

Il libro di Sandor, The Art of Piano Playing, pubblicato nel 1981 costituisce un metodo completo
ed interessante che fa della coordinazione e dell’assenza di affaticamento i principi fondamentali
della tecnica pianistica. L’illimitata varietà di movimenti e gesti utilizzati per suonare il
pianoforte vengono esaminati alla luce delle più moderne conoscenze fisiologiche e ricondotti a
cinque formule tecniche fondamentali e alle loro varie combinazioni.
Relativamente alle possibilità espressive del pianoforte, Sandor afferma che si tratta di
uno strumento in grado di parlare, cantare, se necessario gridare e anche sussurrare:

Nessuno dubita che il pianoforte sia perfettamente in grado di graduare ogni elemento dinamico, tuttavia può
capitarci di sentir negare la sua capacità di variare la qualità del suono. E’ in grado il pianoforte di reagire ai
mutamenti di tocco, e se la risposta è sì, come possiamo ottenerlo? […] Il suono di ogni pianista è il risultato diretto

8
della sua tecnica, ovvero dei movimenti che egli esegue: uno strumento sensibile non riflette soltanto il suo modo di
suonare, ma anche la sua personalità. Un ottimo pianoforte si comporta come è lecito attendersi da uno strumento
musicale; esso funge da veicolo grazie al quale l’esecutore esprime se stesso attraverso la propria personale
interpretazione della musica.

Qualità essenziale di un suono “cantabile” è l’intensità, e questo vale sia per i suoni forti che per
quelli deboli. Il suono deve essere portato; deve essere corposo, espressivo, deve sostenersi e
durare. Il meccanismo impiegato pertanto non deve essere né troppo rigido né troppo molle; le
articolazioni delle dita, del polso, della mano devono essere flessibili, rispondenti, elastiche.
Devono fungere da ammortizzatori durante la discesa delle dita sulla tastiera, onde eliminarne la
bruschezza dell’impatto e devono esse ridurre la velocità con la quale le punte delle dita calano
sui tasti. Se tutte le articolazioni (comprese quelle tra le varie falangi delle dita) sono elastiche, la
qualità del suono avrà quella cantabilità che desideriamo.
Al contrario, un’articolazione flaccida produce non un suono dolce e piano, ma un suono
anemico, perché l’energia diretta verso i tasti non viene trasferita sufficientemente ai tasti stessi.
Il grado di durezza e di rigidità (ovvero il grado di resistenza) delle nostre articolazioni è
naturalmente soggetto a controllo da parte nostra. Per un estremo pianissimo la resistenza delle
nostre articolazioni deve essere minima. Il grado di resistenza può essere, inoltre, diverso da
articolazione ad articolazione, ed anche questa varietà ha un’influenza sulla qualità del suono.
Per esempio, possiamo mantenere molto sciolte le articolazioni delle dita e piuttosto fermo il
polso, o viceversa; la resistenza può insomma variare infinitamente. L’uso dell’intero braccio ed
una grande flessibilità in tutte le giunture possono produrre un suono estremamente leggero e
delicato. Del pari, si può impiegare soltanto l’avambraccio o solo le mani o le dita sole.
Quando si suona una melodia molto “cantabile” si osservi il movimento ascendente e
discendente del braccio: è un movimento lento, calmo, privo di ogni sforzo. Il carattere di questo
movimento deve corrispondere al carattere del suono prodotto: è questa l’essenza del pianismo.
Movimenti, suono e tecnica sono inscindibili tra loro: esercitano fra di loro un’influenza,
un’azione, una creazione reciproca.
La cantabilità melodica si ottiene quando l’attività di assorbimento e di ammortizzamento
delle articolazioni rallenta la velocità del braccio in discesa rendendo così possibile che solo una
porzione di questa velocità e del peso del braccio si trasferisca sui tasti. I muscoli delle spalle, e
non le punte delle dita, debbono sempre reggere la maggior parte del peso del braccio. Questo
parziale pesare del braccio sui tasti produce un suono cantabile, caldo e intenso, senza
un’eccessiva e dannosa pressione sulle falangi.

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Capitolo 2. Didattica del tocco differenziato: “la concertazione”

2.1 Alcune considerazioni sul suono e sul timbro pianistico

La padronanza del suono è uno degli obiettivi più importanti nello studio della tecnica.
Nell’introdurre il discorso sul suono è indispensabile dedicare particolare cura all'educazione
dell'orecchio. Ogni pianista deve essere in grado di cogliere le infinite gradazioni che un suono
può avere. L'orecchio deve percepire le innumerevoli sfumature prodotte dalla dinamica del
pianoforte, deve poter “riconoscere” i diversi livelli sonori. A proposito di dinamica, è necessario
considerare che anche il pianoforte, al pari di qualsiasi strumento musicale, ha dei precisi limiti
nella quantità di suono che può produrre e nella reattività della sua meccanica. La forza
eccessiva non fa che rovinare il suono in quanto la maggiore sonorità del pianoforte si ottiene
non quando viene impiegato un massimo di energia, ma quando i limiti di elasticità della sua
meccanica vengono raggiunti senza però che vengano superati.
Due elementi sono alla base per la produzione di un buon suono: l'assoluta elasticità di
tutto l'apparato motorio e saper dosare il peso naturale e “libero” del braccio. Il suono deve
sempre essere considerato come un mezzo di espressione: il mezzo per eccellenza attraverso il
quale l'interprete raggiunge le vette altissime dell'espressione musicale. Non esiste il suono bello
in assoluto, esiste, semmai, il suono bello, curato e in stile con la composizione che si sta
eseguendo. Ciò che è accettabile e “bello” in Prokofiev può non esserlo, per esempio, in Chopin.
Il lavoro sul suono, quindi, non deve mirare al raggiungimento di una bellezza puramente
estetica, deve essere un lavoro costante, preciso, meticoloso e deve “educare” alla massima
duttilità.
Le modalità più efficaci per influire sulla qualità del suono riguardano principalmente la
dinamica, la sincronizzazione, la pedalizzazione.
Il timbro cambia notevolmente quando si varia il rapporto dinamico tra le varie note: sia
in senso orizzontale (considerando il rapporto di una nota con le note precedenti e con quelle
successive), sia in senso verticale (dando un peso diverso ad ogni singolo suono che compone un
accordo). In questo caso, evidentemente, per timbro pianistico non si intende la qualità sonora di
una singola nota, ma il risultato della sovrapposizione o della successione di diversi suoni, che
danno luogo ad un accordo o ad una linea melodica. Ogni grande pianista ha il suo proprio modo
di dosare e combinare le dinamiche dei suoni per ottenere un determinato timbro, così come i
pittori fanno con i colori. È molto difficile spiegare i principi che regolano la combinazione delle

11
dinamiche in un accordo o in una linea, ma senza dubbio è indispensabile una notevole varietà di
intensità sonore per ottenere una maggiore ricchezza timbrica. Ad esempio, se in un accordo tutti
i suoni avranno la stessa dinamica, il risultato timbrico sarà alquanto opaco e spento. Anche in
una linea melodica è fondamentale variare la dinamica di ogni singola nota, altrimenti il
fraseggio sarà statico e privo di inflessioni.
Il timbro varia notevolmente anche in base alla sincronizzazione dei suoni sovrapposti:
spesso, anticipando o posticipando il basso rispetto alla melodia, è possibile arricchire il suono
del cantabile, poiché con l’abbassamento dei tasti non perfettamente sincrono si sviluppa un
maggior numero di armonici. Il cosiddetto “scampanío”, ossia l'anticipazione del basso rispetto
alla melodia, è un procedimento noto a tutti i pianisti e, a volte, abusato. In realtà, se utilizzato in
modo opportuno, esso consente di ottenere una migliore proiezione del suono, poiché si attutisce
l'effetto di percussione dei martelli, e si percepisce meglio l'indipendenza delle varie linee. Non a
caso quasi tutti i più grandi pianisti hanno fatto largo uso di questo espediente: tra i più assidui
utilizzatori dello “scampanío”, ricordiamo Benedetti Michelangeli, Cortot, Friedmann,
Rachmaninoff. Molto efficace è anche l'effetto contrario, ossia l'anticipazione della melodia sul
basso. L’arrivo ritardato del basso consente di sviluppare un ulteriore quantità di armonici nelle
corde che sono già in vibrazione, ottenendo una sorta di prolungamento della curva dinamica.
Con il pedale di sinistra, detto “una corda”, non solo si è in grado di ottenere un
assottigliamento dinamico: si può anche variare la ricchezza del timbro in varie gradazioni,
abbassandolo tutto o solo in parte. L’azione del pedale “una corda”, infatti, consiste nello
spostamento laterale della martelliera, così che le corde siano percosse da una zona diversa del
martello. Quando questo pedale è abbassato completamente, solo due corde su tre sono toccate
dal martello, con un conseguente assottigliamento dinamico e timbrico. Ma anche quando il
pedale è premuto solo parzialmente si determina un cambiamento del suono, poiché varia il
punto di contatto del martello con le corde. Se il pedale “una corda” non è abbassato affatto, le
corde sono colpite da una zona del martello di notevole durezza e compattezza, dovute al “solco”
formatosi per la frequente percussione. Con il pedale “una corda” abbassato, il martello,
spostandosi lateralmente, toccherà le corde con una parte meno “battuta” (priva del solco), e
caratterizzata da una maggiore elasticità, così da sviluppare un suono meno percussivo e più
morbido. L'efficacia del pedale "una corda" è molto più evidente nel registro acuto dello
strumento, ma risulta di grande utilità anche negli altri registri.
Il pedale centrale del pianoforte a coda, detto pedale tonale, consente di mantenere alzati
gli smorzatori dei soli tasti che sono premuti al momento del suo azionamento, così da lasciare in
vibrazione alcune corde, e contemporaneamente ottenere suoni corti o staccati con altre corde.

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Una potenzialità interessante di questo pedale riguarda lo sviluppo dei suoni armonici: infatti,
alzando gli smorzatori di alcune corde, queste saranno poste in vibrazione per simpatia (senza
essere percosse dal martello) da altre corde corrispondenti ad uno dei suoni armonici più vicini.
A proposito del pedale di destra, detto “di risonanza”, esso si rivela molto utile non
soltanto per produrre un suono legato e più ricco, ma anche per ottenere effetti di Forte-Piano e
di diminuendo su una stessa nota tenuta (alzando parzialmente il pedale e riabbassandolo),
nonché particolari tipi di staccato (suonando staccato con il pedale parzialmente abbassato) e di
“superlegato” (cambiando il pedale parzialmente, o in ritardo).
Relativamente alle variazioni timbriche che si possono attuare sul pianoforte, vorrei citare
l’esempio fornitomi dalla Prof.ssa Jienescu, la quale ha sperimentato come un gruppo di
ascoltatori dall’orecchio “allenato” fosse in grado di riscontrare differenze timbriche in un
accordo suonato dapprima con contrazione della mano e poi lasciando “ammorbidire” il suono
rilassando il braccio. Quando il processo di rilassamento del braccio non veniva attuato, il suono
non cambiava.
Mi rendo conto che gli aspetti del timbro pianistico sin qui descritti appartengono
soprattutto al bagaglio di un esecutore che conosce profondamente tutte le caratteristiche del suo
strumento e sa gestirle in contesti e situazioni diverse. Per un esecutore alle prime armi, ritengo
possa essere comunque utile una conoscenza teorica delle possibilità timbriche del pianoforte in
modo da stimolare di desiderio di giungere al dominio di queste tecniche anche se avverrà dopo
numerosi anni di pratica. Vorrei sottolineare l’importanza di educare l’orecchio ad un uso
corretto del pedale in relazione alla pulizia e bellezza del suono. Il Maestro Ciccolini,
impareggiabile esecutore di Debussy e Ravel, afferma che esistono più di cento modi di usare il
pedale di risonanza; ad un bambino di scuola media credo si possa chiedere di imparare a
ricorrere alla tecnica del “mezzo pedale” nel momento in cui risulta evidente che il pedale
premuto fino in fondo produce una sonorità esagerata e confusa per il contesto musicale che sta
eseguendo.
Sull’uso del pedale “una corda” esistono pareri discordanti. Il Maestro De Rosa usava
definire il pedale di sinistra “il pedale della paura”; la sonorità ovattata che esso produce
costituisce una sorta di rifugio per i pianisti più timidi che, nel timore di creare sonorità
esageratamente forti, lo usano indiscriminatamente anche in passaggi nei quali non sarebbe
richiesto. Didatticamente penso possa rivelarsi utile limitare l’uso del pedale “una corda” ai
passaggi pp e sforzarsi il più possibile di realizzare le intensità desiderate con le nostre dita.

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2.2 Esempi di utilizzo del tocco differenziato

2.2.1 La Polifonia

Lo studio del dosaggio dei diversi piani sonori parte già da livelli di difficoltà inferiori come la
semplice melodia con accompagnamento presenti nel repertorio per principianti e non solo. Di
fondamentale importanza è, inoltre, l’approccio con le composizioni polifoniche le quali
presentano un livello superiore di attenzione in quanto presuppongono una preventiva analisi
dell’andamento delle voci ed una particolare attenzione alla differenziazione dei piani sonori che
spesso si trovano ad altezze simili.
In una composizione a due voci, può rivelarsi molto utile uno studio molto lento
effettuato esagerando le dinamiche.

Bach: Invenzione a 2 voci n. 1

Prendendo, ad esempio, l’inizio dell’Invenzione a due voci n. 1 di Bach, potrà succedere molto
spesso che l’allievo non riesca subito a rendere con la stessa forza ed intenzione l’entrata del
tema alla mano destra e alla mano sinistra. L’esecuzione risulterà pertanto priva di respiro e
sembrerà un continuum di note più che un dialogo. In questi casi è necessario soffermarsi con
particolare attenzione sulle prime battute, eseguirle così lentamente al punto che sia possibile per
l’allievo controllare che la mano sinistra per esagerazione a metà della battuta 1 suoni fortissimo
e la mano destra pianissimo. Solo una volta acquisito il controllo mentale e manuale su questa
tecnica sarà possibile aumentare la velocità fino a raggiungere quella scorrevolezza e fluidità
necessarie per una esecuzione. E’ bene consigliare l’allievo di acquistare sempre edizioni Urtext
delle musiche bachiane, poiché attraverso il contatto con gli originali egli può fare una prima
esperienza dell’infinita varietà di tocco che essi presuppongono. Probabilmente nessun pianista
come Glenn Gould si è dedicato a sottolineare quanti diversi tipi di staccato, legato, semi-legato,
portato si possano rendere al pianoforte e, similmente, credo molto utile stimolare l’allievo a
sperimentare quale tocco e quale carattere egli trovi più congeniale alle composizioni che sta
affrontando in quanto una tale esperienza gli permette di migliorare le proprie doti di interprete.

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Una volta familiarizzato con le composizioni bachiane, l’allievo potrà affrontare con maggiore
facilità i momenti polifonici presenti nelle Sonate di Scarlatti, Haydn, Mozart e Clementi che
potranno essere affrontate attorno al terzo anno di corso.

Scarlatti, Sonata K 87 in si minore

Haydn, Sonata in mi minore Hob. 16 n. 34 bb. 30-35

Clementi, Adagio dalla Sonata op. 39 n. 2

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Prendendo come riferimento le combinazioni evidenziate da Breithaupt nel suo trattato sulla
tecnica pianistica, elenco di seguito alcuni esempi tratti da Bach e altri autori che evidenziano
alcune possibili combinazioni di tocco tra la mano destra e la mano sinistra.

Mano sinistra Mano destra


1. Non legato Non legato
2. Legato Legato
3. Staccato Staccato
4. Legato Non legato
5. Non legato Legato
6. Staccato Non legato
7. Non legato Staccato
8. Staccato Legato
9. Legato Staccato

n. 1 Mano sinistra non legato mano destra non legato


Bach, Giga dalla Suite Francese n. 5

In questo esempio si nota come la mano destra e la mano sinistra debbano produrre la stessa
qualità di tocco non legato. L’obiettivo può non essere subito raggiunto dall’allievo anche perché
non sempre la mano sinistra possiede la stessa scioltezza della mano destra. Per un’esecuzione
soddisfacente, è bene considerare la velocità raggiunta dalla mano sinistra come “tempo guida”
da riprodurre all’inizio del brano.

n. 2 Mano sinistra legato mano destra legato


Bach, Polonaise

Questo passaggio richiede una sonorità dolce e legata in entrambe le mani, possibilmente con la
mano sinistra in secondo piano; particolare attenzione deve essere dedicata alla qualità del legato
che deve permettere una fluidità ed omogeneità del discorso melodico senza accenti o perdite di
suono.

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n. 3 Mano sinistra staccato mano destra staccato
Bach, Marcia dal Quaderno di Anna Magdalena

Anche in questo terzo esempio mano destra e mano sinistra devono produrre uno stesso tipo di
tocco staccato anche se il compito della mano destra è complicato dagli interventi della voce
superiore che può essere differenziata con un tocco meno staccato.

n. 4 Mano sinistra legato mano destra non legato


Schumann, Il contadino allegro

Le difficoltà di “Il contadino allegro” di Schumann risiedono nel raggiungimento della capacità
di produrre un suono forte e cantabile alla mano sinistra e degli accordi sciolti e leggeri alla
mano destra. La maggior parte degli allievi tenderà invece ad eseguire gli accordi della mano
destra forte ed anche con un fastidioso accento sul secondo ottavo. Tali scorrettezze vanno
eliminate con uno studio a mani separate e con la memorizzazione delle corrette posizioni degli
accordi al fine di rendere istruire le dite alla massima precisione nell’esecuzione delle varie
altezze.

n. 5 Mano sinistra non legato mano destra legato


Bach, Allemanda dalla Suite Francese n. 6

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L’Allemanda della sesta Suite Francese presenta un disegno molto articolato alla mano destra
che deve essere eseguito fluidamente accompagnando con piccoli crescendi e diminuendi
l’andamento della melodia e sottolineando con differenziazioni di peso le note melodiche da
quelle di fioritura. Nel contempo la mano sinistra deve mantenere un ritmo costante ed un tocco
non legato.
n. 6 Mano sinistra staccato mano destra non legato
Prokofieff, Tarantella

La Tarantella di Prokofieff è un brano particolarmente grintoso in cui è necessaria


un’articolazione nervosa ed incisiva da parte di entrambe le mani. In particolare, è necessario
prestare attenzione ai piccoli accenti di battuta 1 e di battuta 4 e curare la precisione dello
staccato della mano sinistra.
n. 7 Mano sinistra non legato mano destra staccato
Bartok, Danza Rumena n. 1

In questa pagina di Bartok si richiede all’allievo una grande varietà di fraseggio: portato, legato,
strappato. E’ necessario, inoltre, che la mano destra rispetti fedelmente le legature e gli staccati
senza che la linea melodica perda di tensione e direzione; la scelta di una diteggiatura comoda e
funzionale può rivelarsi molto utile.

n. 8 Mano sinistra staccato mano destra legato


Granados, Danza Spagnola n. 4 Villanesca

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La melodia della Danza Spagnola di Granados è contrappuntata da un accompagnamento che
richiede il superamento della difficoltà della tecnica del salto e del controllo del tocco del re
acuto che deve imitare il suono di una campanella. Nel contempo, la mano destra deve eseguire
la melodia in modo sciolto e fluido.

n. 9 Mano sinistra legato mano destra staccato


Bartok, For Children, n. 15

Questo esempio riprende il genere di difficoltà incontrato nel “Contadino allegro” di Schumann
complicate dalla varietà di fraseggio della mano destra che deve suonare ora staccato ora portato.

2.2.2 Melodia alla voce superiore ed accompagnamento

La differenziazione dell’intensità sonora tra la mano destra e la mano sinistra è il presupposto


fondamentale della maggior parte delle composizioni per pianoforte. Esempi di melodia affidata
alla mano destra e accompagnamento affidato alla mano sinistra si trovano già dai primi numeri
del Beyer e, in generale, nelle più semplici composizioni didattiche. Le difficoltà possono essere
progressivamente aumentate attraverso una complicazione della struttura dell’accompagnamento
e la presenza di note in registri vicini a quelli della melodia che, se non eseguite con il suono
giusto, possono disturbarla. Prendiamo ad esempio l’inizio delle Kinderszenen op.15 di
Schumann; in questa composizione si possono notare tre piani sonori differenti:

Sebbene la melodia si sviluppi sempre nella parte superiore, il pollice della mano destra deve
suonare una nota del disegno a terzine che accompagna. Bisogna quindi prestare molta

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attenzione per far sì che il pollice non generi brusche “intrusioni” nel dispiegarsi della melodia,
che deve essere libera, cantabile, “isolata”. A volte può accadere di ascoltare complete
distorsioni dell’intento del compositore come nell’esempio seguente:

E’ evidente che l'intensità del suono prodotto dal pollice dovrà essere regolata in conseguenza
della dinamica delle altre due note della terzina (eseguite dalla sinistra), appoggiando di più il
peso sulla melodia per poi ridurlo quando suona il pollice. Anche in questo caso può essere utile
esagerare con le dinamiche suonando forte la melodia e molto leggero il resto.
La riduzione della sonorità del pollice non deve, d’altra parte, produrre il mancato
completamento dell’accompagnamento. Talvolta, infatti, il desiderio di ridurre l’intensità delle
voci secondarie porta l’allievo ad eseguirle con un suono “senza peso” che porta inevitabilmente
alla mancata produzione di suono generando una sensazione di incertezza e di incompletezza.
Tali problematiche vanno risolte, a mio avviso, con un attento studio a mani separate, inteso
soprattutto nel prestare attenzione che le note pianissimo siano generate dal contatto strettissimo
delle dita con il tasto con un dosaggio del peso studiato nei minimi dettagli.

Heller, Studio n. 12 op. 46

Nei primi anni di studio può essere utile affiancare agli Studi di Czerny, Pozzoli e Berens alcuni
brani tratti dall’ op. 45, 46 e 47 di Heller. In essi l’apprendimento di formule tecniche è associato
ad una certa attenzione alla musicalità, concetto che si trova espresso ai massimi livelli negli
Studi di Chopin. Ritengo importante che fin dai primi anni di studio sia chiaro che il
superamento delle difficoltà tecniche non debba mai essere dissociato dalla giusta qualità del

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suono ed uno degli obiettivi primari deve essere il conseguimento di una sonorità decisa nel forte
ed un suono morbido e profondo nel piano.

Heller, Studio n. 14 op. 46

L’esempio musicale tratto dallo studio n. 14 di Heller è caratterizzato da una scrittura frequente
nella letteratura romantica: la melodia si trova in una voce centrale e non deve essere disturbata
dal disegno di semicrome legate della mano destra e dalle crome staccate della mano sinistra.
Riuscire ad eseguire un esercizio del genere significa aver raggiunto un buon grado di
indipendenza delle dita e di capacità di eseguire fraseggi diversi tra le due mani.
Vorrei, inoltre, sottolineare l'importante ruolo dell'insegnante nello stimolare nell'allievo
lo sviluppo dell'immaginazione, confrontando ed evocando, al pianoforte, suoni e immagini che
esulano dallo strumento stesso. Suonare un determinato passo immaginandolo “trasportato” in
un'orchestra, oppure “cantare” al pianoforte una melodia e “respirare” in una frase come farebbe
un cantante, ci aiuta a sviluppare e a sperimentare tutte le innumerevoli possibilità espressive di
questo strumento. Il compositore in cui questa “natura orchestrale” del pianoforte è stata esaltata
ai massimi livelli è Beethoven; basti pensare al rullo di timpani all'inizio del primo tema della
Patetica, dopo l'introduzione, al 3° tempo della Sonata in La bemolle magg. op.26 (Marcia
Funebre), in cui gli accordi scuri alternati ad arpeggi ascendenti del basso fanno ricordare gli
archi nel registro medio, con i contrabbassi che disegnano l'arpeggio, al 3° tempo della Sonata
op. 31 n. 3, Minuetto, concepito con una scrittura tipicamente quartettistica.
Anche il paragone con le voci di un coro aiuta già dai primi passi la comprensione dei
vari piani sonori e la loro continuità.

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2.2.3 Melodia che si alterna tra la mano destra e la mano sinistra

L’esempio forse più celebre di composizione in cui le note della melodia sono suonate
alternativamente dalla mano destra e dalla mano sinistra è il terzo Liebestraum di Liszt.
L’alternanza tra le due mani può produrre un effetto negativo sullo sviluppo musicale della
melodia in quanto può succedere che il pollice della mano destra sia troppo forte o addirittura
produca un suono sgraziato cadendo dall’alto senza alcun controllo. In questo caso è a mio
avviso molto utile isolare la melodia studiando questa particolarissima diteggiatura allo scopo di
combattere la mancanza di controllo sonoro e di far prevalere la resa di quei piccoli crescendi e
diminuendi indicati da Liszt. Il brano può porre alcuni problemi anche dal punto di vista della
memorizzazione visiva e motoria in quanto è necessario controllare i salti della mano sinistra, la
delicatezza dell’accompagnamento della mano destra e l’accuratezza della pedalizzazione. In
questo caso può essere utile anche uno studio a mani separate durante il quale mentre si suona la
mano destra si avrà cura di immaginare il suono delle note della melodia presenti nella mano
sinistra e viceversa.
Esistono inoltre esempi molto semplici di melodie alternate tra le due mani:
Metodo Bastien: Battiamo le mani (livello 2)

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Pozzoli, Pattinando

I due brani sono stati oggetto di studio da parte di due alunni della Scuola Media Ruzante nella
quale ho effettuato il tirocinio. Nel primo caso la ragazza che eseguiva “battiamo le mani” non
prestava particolare attenzione a differenziare le note staccate da quelle accentate, mentre nel
secondo caso il passaggio tra mano destra e mano sinistra non era eseguito con precisione
talvolta con la produzione di accelerandi all’interno della battuta in corrispondenza degli ottavi e
dei rallentandi in corrispondenza dei sedicesimi.

2.2.4 Melodia affidata alla mano sinistra

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Un esempio di melodia affidata alla mano sinistra è rappresentato dal Preludio op. 28 n. 6 di
Chopin. L’accompagnamento della mano destra non presenta particolari difficoltà in quanto si
ripete con ritmo simile fino ai cambiamenti armonici delle battute 6 e 7. L’allievo ha così la
possibilità di concentrarsi sulla melodia che per la qualità del legato deve ricordare il suono di un
violoncello. La stessa caratteristica si trova nel primo brano della Suite Spagnola di Albeniz:
Albeniz, Granada n. 1 dalla Suite Spagnola

E’ un brano molto dolce e sognante che riesce a rendere con semplici mezzi il carattere e
l’idioma del folklore spagnolo. Grazie ad esso l’allievo può fare una prima esperienza della
stretta connessione tra le sonorità della chitarra e del pianoforte nella musica spagnola
(rappresentate in questo caso dagli accordi arpeggiati) unite al tipico stilema vocale della terzina
(vedi battuta n. 3) che deve essere eseguita con un senso di dolcezza e malinconia e quindi non
strettamente in tempo.

2.2.5 Il canto della nota superiore in una sequenza di accordi


Spesso, in una successione di accordi è presente, oltre all'armonia, anche la melodia nella parte
superiore, generalmente suonata con il 5° dito. Occorre quindi dedicare molta importanza a
questo dito perché suoni in modo chiaro e sempre “al di sopra” degli altri. Anche in questo caso
saper sbilanciare il peso verso la nota che deve emergere è fondamentale. Avere questa
particolare sensibilità nel 5° dito è importantissimo per rendere comprensibile e “cantabile”
l’esecuzione di accordi melodici. Esistono infiniti esempi di questa particolare difficoltà
musicale e tecnica che richiede non soltanto un orecchio ed una sensibilità particolari per essere
dominata, ma anche un notevole esercizio, basato principalmente sulla scomposizione
dell’accordo ed il progressivo dominio della sonorità e giusta presa delle note interne attraverso
un gesto di contrazione.
Il Preludio op. 28 n. 20 di Chopin è un brano dalla semplicità apparente; esso richiede
non solo la capacità di eseguire accordi composti da sei note in un registro grave, ma anche un
controllo così fine da saper riproporre la medesima sequenza di accordi prima in piano e poi in
pianissimo. Il rischio è di suonare la prima riga con un forte sgraziato e la sequenza
piano/pianissimo con un suono incerto, senza peso con il rischio di non far suonare alcune note

24
centrali. E’ bene intraprendere una dura lotta affinché lo studio degli accordi può portare ad un
irrigidimento della mano e quindi deve essere affrontato solo quando si è raggiunta una notevole
scioltezza e capacità di rilassare il braccio. Un altro rischio molto insidioso nella realizzazione di
linee melodiche composte da accordi è quello di non riuscire a creare un legato soddisfacente
nella parte superiore. La preoccupazione di suonare tutte le note causa spessissimo una perdita di
direzione della melodia che viene spezzettata e imbruttita con inutili movimenti del braccio che
rompono ogni continuità. Per ovviare a questi gravi inconvenienti è bene affidarsi ad un uso
sapiente della pedalizzazione, cercando di legare il suono che risulta dalla risonanza dell’accordo
ed evitando il più possibile di fare movimenti inutili.

Chopin, Preludio op. 28 n. 20

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2.3 Esempi sulle varie forme di tocco

Come è stato detto in precedenza è necessario che il pianista, dall’inizio degli studi, non cessi un
istante di concentrare il proprio sforzo mentale sulla qualità del suono e sulla varietà a seconda
delle esigenze espressive della musica eseguita. Afferma Leimer: “L’esecuzione dipende in gran
parte dalla scelta del tocco giusto. Molti passi riescono in modo perfetto soltanto con l’impiego
di un determinato tocco. Altri passi, apparentemente molto difficili o pressoché ineseguibili,
divengono talvolta facili ove si riesca a trovare mediante riflessione la corrispondente qualità di
tocco”5. Seguendo la distinzione operata da Casella verranno ora suggeriti alcuni esempi tratti
dal repertorio più semplice per pianoforte al fine di illustrare le diverse specie di tocco in un
percorso didattico-musicale rivolto ad allievi della scuola media.

1. Tocco normale
2. Tocco duro e metallico
3. Tocco brillante
4. Tocco cantabile
5. Tocco impressionista
6. Tocco “celestiale”

Il tocco normale risulta dalla posizione normale e naturale della mano e che serve per il legato
ordinario, al mezzo cantabile, ai passi veloci non brillanti. Risulta da uno sforzo medio del dito,
adoperato senza violenza, ma anche con fermezza. Si ricorda pertanto uno dei principi cardine
dell’esecuzione pianistica e cioè la necessità che il tasto, sia nel pp che nel ff sia sempre spinto
sino in fondo con un atto di volontà e di decisione, dalla cui maggiore o minore rapidità
dipenderà la qualità del suono prodotto.
Kuhlau, Sonatina op. 55 n. 1

5
LEIMER, K., GIESEKING, W. Piano Technique Dover Publications (June 1, 1972)

26
Beethoven, Sonatina in sol

Un tocco duro e metallico caratterizza le composizioni di Kabalevski, Bartok, Prokofieff. In


questo tipo di tocco il tasto viene abbassato con estrema violenza producendo un contatto
rapidissimo del martelletto con la corda, enfatizzando la dimensione percussiva del pianoforte. Si
potrebbe osservare che questo è precisamente il tipo di suono meno gradevole che si possa
riprodurre, ma riprendendo il discorso sulla fedeltà stilistica al brano che stiamo interpretando, si
comprende come l’apprendimento di questa modalità di tocco si renda necessaria per esprimere
la tensione e il senso di rabbia e grinta presente in molte composizioni moderne.

Kabalevsky, I Pagliacci

Bartok, For Children

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Il tocco brillante è quello che si conviene a passi di particolare agilità; in questo genere di tocco
il tasto viene abbassato con un movimento rapido delle dita congiunto ad una articolazione che
risiede unicamente nella forza nervosa del dito e nella sua energia di scatto. Se nello studio lento
si privilegia notevolmente l’articolazione, al fine di fissare mentalmente i vari movimenti che
dovremo compiere in velocità e curando che tutte le note siano “dette” con la stessa intensità,
nell’esecuzione veloce, nella resa di quello che i francesi chiamano jeu perlé, l’articolazione
deve essere ridotta ai minimi termini e la perfetta uguaglianza di forza tra le cinque dita deve
essere raggiunta attraverso uno scatto rapido e nervoso.

Schubert, Improvviso op. 90 n. 2

Mendelssohn, Spinnerlied

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A conferma di questa affermazione basta osservare attentamente la differenza di jeu perlé tra un
buon pianista ed uno mediocre. Nell’esecuzione di un grande virtuoso le dita sembrano quasi
immobili, mentre quando suona un cattivo pianista esse compiono sulla tastiera una grande
quantità di movimenti inutili.
L’arte del cantabile rappresenta la vetta suprema del virtuosismo pianistico, poiché il
vero artista non è colui che possiede una tecnica trascendentale, ma chi riesce a far emozionare il
proprio auditorio attraverso la magia del suono, per cui è possibile in certi momenti abolire
l’esistenza delle categorie dello spazio e del tempo e creare un momento di contatto con il
pubblico in cui il respiro del pianista coincide con quello di chi lo ascolta.
Affinché il suono possieda questa caratteristica di contabilità è necessario che il
movimento di attacco del tasto sia completamente rilassato, preferibilmente ottenuto a dita
distese, ma soprattutto che produca una sorta di vibrazione della corda che non muoia subito, ma
che si propaghi nell’aria. Come è stato detto in precedenza, poiché il pianoforte non possiede la
capacità di produrre un suono legato e continuo come nel violino, è necessario che per vincere
questa lotta immanente “con il diminuendo” si faccia in modo che ogni nota del cantabile abbia
un’intensità ed un colore diverso. Solo così è possibile rendere l’andamento di qualsiasi frase
melodica ed avvicinarsi all’idea del legato perfetto.

Chopin, Walzer op. 69 n. 2

Schumann, Träumerei

29
Casella definisce “tocco impressionista” un tipo di sonorità indispensabile per eseguire le
composizioni di Debussy e Ravel. L’imprecisione della musica Debussiana, la sua estrema
raffinatezza, la sua vaporosità, impongono al pianista nuovi problemi. L’importanza del timbro
acquista in questa musica una preponderanza nuova dovuta al fatto che, come nella pittura
impressionistica, la vibrazione del colore diventa nel quadro l’elemento principale, così nell’arte
debussiana il timbro diventa l’elemento essenziale, costruttivo del pezzo.
In questa speciale tecnica del tocco occorre imparare a produrre il suono con una
lievissima pressione del tasto tenendo le dita costantemente in contatto con la tastiera. Solo così
sarà possibile dosare ogni nota con sicurezza e giungere alle più lievi gradazioni di timbro. Ci
informa Casella che “Debussy suonava i suoi Preludi con una delicatezza di tocco tale da creare
l’illusione che egli suonasse direttamente sulle corde senza l’interposizione di una meccanica di
pianoforte” (Casella, p. 110).
Debussy, Serenade for the doll

Satie, Gymnopedie n. 1

30
Casella conclude la descrizione delle cinque varietà principali di tocco con una sesta che
definisce “tocco celestiale” con l’intenzione di dare un nome ad una varietà di tocco che
appartiene alla tecnica trascendentale e di cui si può trovare applicazione in brani quali la
Berceuse di Chopin, il trio della Marcia Funebre dalla Sonata n. 2 op. 35, l’Adagio della Sonata
op. 110 di Beethoven, El Amor y la Muerte dalle Goyescas di Granados, il cantabile della Sonata
di Liszt e molti altri brani in cui per rendere l’idea della trascendenza è necessario acquisire un
tocco che evochi “la dolcissima percussione del martelletto della celeste sulla lama metallica”
(Casella, p. 111). Ovviamente questo tipo di tocco appartiene al vissuto di ogni pianista e non
può essere certamente raggiunto nei primi anni di studio, poiché, come affermava Busoni “Colui
per la cui anima non è passata una vita non dominerà mai il linguaggio dell’arte”.

2.4 Alcune considerazioni sulla memoria del musicista

La musica rappresenta, come afferma Howard Gardner (1983, p. 126), “un reame intellettuale
autonomo” particolarmente arduo da investigare. Il discorso sulla memoria musicale è reso
difficile non solo dalla natura stessa del pensiero musicale, ma anche dalla sua complessa
multidimensionalità, oltre che dalle differenze che intercorrono fra musicisti e non musicisti. Il
moderno sviluppo dell’imagerie cerebrale ha infatti consentito di scoprire che le informazioni
musicali vengono elaborate utilizzando parti diverse del cervello secondo il grado di
alfabetizzazione dell’individuo. I non musicisti paiono filtrarle in prevalenza attraverso
l’emisfero destro, mentre i musicisti adoperano entrambi gli emisferi, in quanto la loro
attivazione corticale si estende ampiamente anche all’emisfero sinistro (quello
analitico/digitale/deduttivo).
Afferma Jourdain: “I musicisti professionisti sono lateralizzati diversamente rispetto ai
normali ascoltatori poiché acquisiscono ulteriori e differenti capacità di analisi melodica. Invece
di recepire una melodia soltanto come linea unitaria (contour), essi la scompongono anche in
sequenze di frammenti legati fra loro da rapporti astratti. Molto probabilmente l’emisfero destro
dei professionisti non è meno attivo quando ascoltano una melodia; accade però che l’attività di
quello sinistro venga sospinta al punto di predominare [...] La corteccia uditiva non coadiuvata
conserva una fugace immagine dei suoni percepiti che dura tutt’al più pochi secondi. La
memorizzazione e l’apprendimento a lungo termine richiedono i processi di riduzione astratta
operati dal cervello sinistro. Quando si parla di “profonda” comprensione della musica ci si
riferisce appunto a tali profonde gerarchie riduzionistiche strutturate su più livelli (Jourdain,
1997, pp. 84-85).

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Come suggerisce Sloboda (1985, p. 3), “il modo in cui le persone si rappresentano
internamente la musica determina il livello di efficienza con cui se la ricordano e l’eseguono”.
La principale caratteristica che distingue la memoria di un musicista da quella di un non
musicista è la cooperante coesistenza di molteplici sistemi di codificazione che consentono di
immagazzinare i dati musicali su vari livelli, con la susseguente integrazione di informazioni
uditive, visive e tattili/cinestesiche. La memoria uditiva, situata nel lobo temporale della
corteccia, concerne l’immagine sonora di un dato musicale nelle sue varie componenti ritmico-
melodico-armoniche nonché timbrico-dinamico-agogiche e si basa su un processo di continua
anticipazione e contemporanea valutazione aggiustamento (feedback). La memoria visiva,
localizzata nel lobo occipitale, si riferisce invece a immagini collegate alla pagina scritta ed alla
struttura dello strumento, cioè alla visualizzazione sia della notazione che di posizioni e
movimenti specifici. Il terzo tipo di memoria, spesso definito muscolare o digitale, è quello che
consente di eseguire sequenze motorie anche di estrema complessità in modo automatico. Esso
coinvolge aree assai ampie della corteccia cerebrale e include sia una componente strettamente
tattile, ovvero legata a sensazioni esterocettive, sia una componente cinestesica, costituita dalle
sensazioni di posizionamento e movimento corporeo risultanti dalla stimolazione delle
terminazione nervose di muscoli, tendini, legamenti, ossa e articolazioni.
Risulta evidente che un musicista non fa affidamento soltanto sulla memoria ecoica o
soltanto su una memoria codificata a livello uditivo; egli possiede un complesso di codici
paralleli, altamente integrati e determinati in modo multiforme. Questo tipo di memorizzazione è
divenuto per certi aspetti involontario grazie ad abilità conseguite da lungo tempo, sebbene aldilà
di tali capacità il musicista affidi consciamente alla memoria le codifiche nel processo di sovra-
apprendimento (overlearning) necessario per un’efficace esecuzione concertistica. (Spender, p.
142).
Fra le prime pubblicazioni di didattica strumentale in cui si affronta il discorso sulla
memoria esecutiva e sulle strategie di memorizzazione vanno citati i lavori di Hughes (1915),
Matthay (1926), Leimer-Gieseking (1931). Tutti questi testi sono accomunati sia dalla
focalizzazione sul pianoforte come ideale strumento di indagine, sia dalla consueta tripartizione
della memoria esecutiva in uditiva, visiva e muscolare.
Nel suo saggio sulla memorizzazione, Matthay usa significativamente l’aggettivo
musicale al posto di uditivo, intendendo l’insieme dei vari parametri musicali quali ritmo,
melodia, armonia, timbro ecc. Attraverso un’ulteriore suddivisione dei tre principali canali
mnestici, l’autore perviene all’identificazione di otto fondamentali tipi di memoria esecutiva:

32
Memoria musicale (uditiva)
1. memoria melodica;
2. memoria armonica;
3. memoria ritmica;
4. memoria del carattere espressivo (comprendente sonorità, tempo e agogica)

Memoria visiva:
5. memoria della pagina scritta;
6. memoria delle posizioni e delle combinazioni di tasti.

Memoria muscolare (cinestesica):


7. memoria per posizioni e movimenti sulla tastiera;
8. memoria per movimento dei tasti e per l resistenza d’attacco.

Secondo Matthay (pp. 8-9) “una connessione o concatenazione mentale può verificarsi in
ciascuno dei suddetti otto modi distinti […] In ogni caso essa implica una analisi”. Numerosi
pianisti, celebri anche come didatti, sono concordi nel rimarcare l’importanza d’un approccio
analitico; fra questi, Alfred Cortot (1960, p. 18) “per lo studio a memoria, la cui utilità è
considerata da un punto di vista puramente musicale si deve abituare l’allievo a sostituire la
pratica dei mezzi empirici della ripetizione a oltranza del medesimo passaggio, che conduce solo
alla memoria delle dita, con quella dei mezzi mnemotecnici fondati sull’analisi dell’armonia e
della forma”.
Il ruolo dell’intuizione e dell’analisi in rapporto all’esecuzione è discusso
approfonditamente da Wallace Berry (1989) ed è centro di svariati esperimenti condotti negli
ultimi anni. I risultati di tali studi attesterebbero che l’analisi strutturale della partitura
rappresenta il mezzo più efficace per memorizzare una composizione.
Come afferma il neuroscienziato Antonio Damasco (1994, p. 107): “le immagini sono
probabilmente il principale contenuto dei nostri pensieri indipendentemente dalla modalità
sensoriale in cui sono generate”. Reinhard Kopiez (1990) ha provato in un suo esperimento che
la tendenza della mente umana a pensare in termini di immagini può influenzare anche
l’apprendimento musicale. Un altro esperimento di Joseph Murphy (1990) ha dimostrato come
della immagini visive possono essere utilizzate per aiutare gli studenti a visualizzare i suoni e a
sviluppare immagini sonore. “Ascoltare musica analiticamente significa ascoltarla come
connessa ad un certo tipo di struttura immaginaria spesso visiva: da questo dipende il fatto che
spesso si parla di “vedere” una relazione strutturale e che carta e penna siano così necessari per
l’ascolto analitico. Oppure è anche possibile usare la partitura come un rozzo modello visivo
della musica, un modello che si muove a scatti avanti e indietro per le pagine quando un tema o
un accordo ne fa venire in mente un altro. In entrambi i casi l’esperienza della musica è analitica
precisamente nel senso che è diversa dall’ascolto ordinario” (Cook, p. 272).

33
La preponderanza di un codice mnemonico specifico varia da esecutore a esecutore e le abitudini
di studio acquisite vi giocano un ruolo non marginale. Un musicista esperto ha solitamente
coscienza del tipo di memoria predominante nell’ambito della propria rappresentazione olistica
di un brano musicale sempre che sia possibile riscontrare una qualche predominanza. Citiamo ad
esempio il caso di Glenn Gould: “il livello tattico assume un interesse per me terziario; presumo
che il secondo livello sia quello uditivo e il primario quello puramente mentale o “ideale” – la
consapevolezza da parte del pianista della musica stessa. Se qualcosa non funziona al secondo o
al terzo livello e quel livello non è in grado di riportare la situazione alla normalità allora il
livello successivo si fa carico del problema” (Payzant, 1984, pp. 94-95).
L’avvento in epoca romantica del recital solistico ha fatto sì che la riproduzione a
memoria di una composizione diventasse parte integrante del rituale concertistico parallelamente
alla graduale scissione della figura del compositore da quella dell’esecutore, quest’ultimo sempre
meno improvvisatore e sempre più filologo. Da allora in poi la didattica strumentale soprattutto
pianistica ha cercato di teorizzare delle strategie di studio ottimali valide per chiunque aspirasse
alla carriera del virtuoso. Mentre la maggior parte degli approcci pedagogici affida il ruolo
primario alla componente uditiva, alcuni didatti, primo fra tutti Carl Leimer, asseriscono che la
maniera più sicura di memorizzare un brano comincia dalla visualizzazione e dall’analisi della
pagina scritta. Occorre sottolineare, tuttavia, come ciascun individuo appartenga a una specifica
tipologia legata alla modalità sensoriale dominante nel suo rapporto percettivo con la realtà e di
conseguenza delle sue rappresentazioni mentali.
“L’emergere di una particolare modalità di pensiero è impressa nella storia individuale
nei primi sforzi di riflessione sviluppati durante l’infanzia. Tra questi vi sono le attività a cui un
bambino sceglie di partecipare e i processi interiorizzati di rappresentazione che derivano da tale
partecipazione. La preferenza ad apprendere per contatto, vista o attraverso il linguaggio viene
sviluppata da bambini e adolescenti nel corso di continue indagini mediante le quali essi si
abituano ad affidarsi ad una particolare modalità di apprendimento. Ciò contribuisce allo
stabilizzarsi di un sistema gerarchico interiore relativo ai processi simbolici” (Steiner, 1997, p.
11).
La maggior parte dell’immaginario riproduttivo impiegato da uno strumentista,
indipendentemente dalla preponderanza di sistemi di codifica uditivi o visivi è all’origine
cinestesica. Non sorprende che la didattica strumentale si sia tradizionalmente occupata
soprattutto della sfera motoria, enfatizzando il lato meccanico del suonare (mera cinestesi)
spesso a scapito di quello tecnico (sintesi equilibrata di componenti uditivi e cinestesiche). E’
evidente, inoltre, come l’insegnamento accademico abbia privilegiato quelle abilità esecutive

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fondate su rappresentazioni grafico-iconiche ossia l’esecuzione con/senza spartito e la lettura a
prima vista, mentre le abilità dipendenti soltanto da rappresentazioni di tipo uditivo ovvero la
riproduzione a orecchio e l’improvvisazione sono tuttora generalmente trascurate. L’opportunità
di accostarsi anche a queste forme di esecuzione creativa comporta indubbi vantaggi fra i quali
un potenziamento dell’orecchio interno ovvero dell’attività endomusicale.
Come si può facilmente dedurre e come testimoniano sia testi pedagogici che interviste a
concertisti e didatti, la memoria cinestesica è la meno affidabile al momento di un’esecuzione
pubblica nonostante sia la più immediata nonché la più resistente all’oblio. I musicisti esperti vi
fanno solitamente ricorso laddove non siano possibili altri tipi di codifica, oppure durante i
cosiddetti “vuoti di memoria”.
Secondo Harold Fiske (1990) l’educazione musicale tende a dare per scontata la capacità di
ascolto dell’allievo, mentre si concentra in gran parte su come manipolare uno strumento. Non
raro, infatti, imbattersi in esecutori convinti di ascoltarsi mentre in realtà sperimentano la musica
quasi esclusivamente a livello cinestesico. E’ di estrema importanza che fin dall’inizio degli
studi musicali la connessione tra i vari tipi di memoria stabilizzi nel seguente ordine: visivo-
uditivo-motorio e non come accade di solito visivo-motorio. La risposta motoria non deve
rappresentare la reazione diretta a una stimolazione visiva. Quest’ultima bisogna passi prima
attraverso i centri uditivi; solo allora potrà provocare la risposta motoria” (Kochevitsky, 1967, p.
23).
Dal punto di vista prettamente cognitivo, l’abilità mnemonica di un esecutore è determinata:
- dalla quantità di informazioni precedentemente fissate nella memoria a lungo termine su
cui si strutturano gli schemi mentali e i modelli di raggruppamento;
- dalla velocità e affidabilità con cui tali informazioni vengono riutilizzate e applicate nel
corso di un nuovo apprendimento o di un’esecuzione;
- dall’integrazione costante dei vari tipi di memoria.
L’enfasi data alla memorizzazione di un brano musicale varia a seconda degli approcci
pedagogici, similmente a quanto accade per la lettura a prima vista. Raramente nel corso degli
studi accademici queste due fondamentali abilità psicomotorie vengono affrontate in maniera
metodica rimanendo affidate al caso e al talento innato dello studente. Uno studio condotto da
Dorothy Bryant (1985) ha dimostrato che giovani strumentisti sottoposti a letture specifiche sulla
memoria musicale e a compiti guidati imperniati sulla memorizzazione tendono a sviluppare
notevolmente l’aspetto analitico e ad apprendere in modo più efficiente.
Come evidenzia Matthay (p. 1) “la questione della memorizzazione costituisce l’alfa e
l’omega di ogni insegnamento, di ogni apprendimento, di ogni studio. Solo comprendendo la

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natura dei processi mnemonici è possibile imparare le note di un pezzo nel modo più veloce ed
efficace. Di fatto l’acquisizione di qualunque conoscenza implica sempre una
“memorizzazione”, una metacognizione che ci permette maggiore libertà di esprimere la nostra
personale interpretazione.

36
Capitolo 3. Studi fisiologici e neuroscientifici sul tocco

3.1 Studi fisiologici sul rapporto tra il tocco, la meccanica ed il timbro del pianoforte

Per definizione, il suono viene considerato come “fenomeno fisico-acustico consistente nelle
vibrazioni di un corpo sonoro elastico trasmesse nell’ambiente”. La propagazione all’elemento
circostante avviene mediante condensazioni molecolari generate dalla pressione acustica.
L’effetto conseguente è la generazione di un andamento periodico comunemente definito onda.
Nel caso del suono di parla di onda periodica, dal momento che si muove ad intervalli di tempo
regolari e con le stesse caratteristiche.
Dal momento che il suono si propaga tramite vibrazioni, bisogna introdurre il concetto di
frequenza. Essa rappresenta il numero di oscillazioni che un elemento vibrante compie in 1 s e
viene espressa in periodi (o cicli) al secondo; l’unità di misura è l’Hertz (Hz). La frequenza è
legata al movimento nel tempo; per seguire, invece, il movimento dell’onda nello spazio si
introduce il concetto di lunghezza d’onda, indicata con la lettera greca λ. Essa è la distanza che
in un dato istante intercorre fra due punti vibranti nella posizione di massima ampiezza. Tra
lunghezza d’onda, frequenza e velocità di propagazione si ha la relazione: v = λf dove v è
espressa in m/s, f in Hz e λ in metri. Lunghezza d’onda e frequenza, quindi, sono strettamente
correlate tra di loro ed è possibile affermare che in base alla frequenza si possono avere
lunghezze d’onda variabili, secondo una relazione inversamente proporzionale: λ = v/f , ossia
maggiore è f minore è λ.
Nel pianoforte la generazione di un’onda sonora si realizza tramite la percussione della
corda da parte del martelletto. Ogni corda ha una propria tensione ed una propria massa. La
massa è un dato molto importante che, diversamente dalla tensione e dalla lunghezza, non può
essere modificato. Per esempio, nel pianoforte, le corde sono in acciaio, nei bassi sono ricoperte
di rame per aumentarne la massa e sono più lunghe di quelle degli acuti; data la massa elevata,
un’onda viaggia su queste corde molto lentamente e, data la loro lunghezza, deve percorrere una
distanza maggiore. Esse producono, dunque, un suono più grave.
I caratteri fisici distintivi del suono sono l’altezza, l’intensità e il timbro.
L’altezza del suono permette la distinzione dei suoni acuti da quelli gravi. Essa dipende dalla
frequenza delle vibrazioni (anche se, nella percezione, è influenzata dall’intensità e dal timbro).
L’intensità di un suono dipende dall’ampiezza delle vibrazioni e viene definita come l’energia
sonora trasmessa nell’unità di tempo in una determinata direzione attraverso l’unità di superficie

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perpendicolare a quella di direzione. Il timbro è la qualità che permette di distinguere due suoni
di uguale altezza, ma che producono una diversa sensazione uditiva. In un suono periodico, esso
è caratterizzato dall’ampiezza dei successivi armonici e, quindi, può essere specificato da un
unico parametro. Differenze di timbro si ottengono non solo da strumenti diversi, che emettono
note all’unisono, ma anche da uno stesso strumento suonato con modalità diverse.
Uno degli aspetti più interessanti dell’acustica del pianoforte riguarda il “tocco”, ossia il
modo di ottenere suoni timbricamente differenziati agendo con intenzione musicale sui tasti
dello strumento.
La percussione della corda non deve essere considerata come puro esito di un fatto meccanico
comandato da un gioco di leve che dal tasto trasmettono il movimento al martelletto; l’azione di
abbassamento del tasto non è solo un evento dinamico corrispondente a un determinato peso. A
parità di peso, invece, possono esserci differenziazioni anche notevoli riguardanti la qualità e la
durata del contatto fra il martelletto e la corda.
Le varianti delle quali il pianista dispone per esprimere con il tocco la sua intenzione
musicale non riguardano solo la forza, o il peso, che fa gravare sul tasto, ma anche la velocità
con quale compie questa azione. Il gioco di leve che muovono il martelletto non parte dal tasto
ma dalle articolazioni del braccio, del polso e quindi delle dita del pianista secondo un modello
attivo coordinato e comandato dal cervello. I modi di “toccare” la tastiera sono estremamente
numerosi, tanti quante sono le intenzioni musicali dell’esecutore.
L’azione del percussore può essere analizzata in base a quattro stadi:
1) arrivo del martelletto e inizio del suo contatto con la corda;
2) compressione del feltro che copre la testa del percussore;
3) reazione elastica, o espansione, del feltro;
4) fine del contatto e ritorno del martelletto.
Più violento e breve è il contatto, più il suono tende ad un timbro metallico. Se, invece, il
contatto è morbido, la presenza delle armoniche elevate diminuisce di numero e di ampiezza e il
suono risulta dolce e vellutato. Fra un estremo e l’altro le sfumature sono innumerevoli.
Per quanto riguarda il corpo dello strumento, esso è acusticamente un sistema risonante
molto complesso, dove ogni componente influisce sul risultato, comprese le corde non percosse.
Prima che il suono si propaghi all’ambiente, le vibrazioni percorrono le strutture solide dello
strumento con velocità diverse, in relazione alla disposizione delle fibre delle parti legnose.
Analizzando questi dati attraverso la registrazione mediante videocamera, la differenza di
comportamento del tasto a seconda se esso venga percosso o sospinto appare evidente. Nel primo
caso, appena il dito entra in contatto con il tasto, quest’ultimo si mette in movimento per

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pochissimi millimetri per poi arrestarsi improvvisamente e solo dopo sette, otto millisecondi,
riprende la sua corsa verso il fondo tasto. Nel secondo, invece, quando il dito accompagna il
tasto nella sua corsa non assistiamo a nessuna interruzione nella discesa. È interessante notare
che questo comportamento in seguito all’azione del solo dito, si mantiene ripetibile anche se
interviene l’avambraccio con percussioni ben più potenti.
Il martello, essendo staccato dalla meccanica, appena riceve una sollecitazione, parte
nella sua corsa verso le corde. Nel caso in cui il tasto venga percosso da lontano, il martello
riceve un impulso, di circa 2 millesimi di secondo, che gli fornisce la forza e la velocità per
raggiungere le corde e quindi produrre il suono. Al contrario quando il dito sospinge il tasto, il
martello partecipa del suo movimento, ricevendo un input molto più prolungato, nell’ordine di
20 o più millesimi di secondo; ne consegue che è possibile controllare la discesa del tasto anche
dopo l’avviamento del processo.

La visione delle registrazioni effettuate con la videocamera mostra in maniera inequivocabile che
il martello reagisce in maniera differenziata ai diversi stimoli del dito sul tasto. Se il tasto viene
percosso da lontano all’interno della meccanica si scatena una reazione a catena che fa
rimbalzare il martello verso le corde con una velocità costante. Al contrario se il dito
accompagna il movimento del tasto verso il suo sfondo il martello modifica la sua velocità
durante tutta la traiettoria.
La differente capacità di graduare la pressione del dito sul tasto determina una reazione
egualmente diversa del movimento del martello verso le corde. A livello percettivo rileviamo
senza difficoltà evidenti differenze di qualità sonora, specialmente quando si ascolta un suono
cantabile. La domanda che ci si pone è se questo comportamento del martello, determinato
dall’esecutore sia la causa di un cambiamento di timbro del singolo suono.
Un suono prodotto con un tocco da vicino è timbricamente diverso da un suono prodotto
con un tocco da lontano? Ponendo a confronto diversi pianisti, il suono realizzato da un
interprete è timbricamente diverso dal suono prodotto da un altro?
L’ipotesi su cui si fonda questo studio è in contrasto con le affermazioni dei maggiori
trattatisti dell’Otto e Novecento: mentre essi sostengono che il pianista può intervenire e
modificare il suono solo attraverso il parametro della velocità del martello (intensità) e
dell’agogica (il rapporto temporale tra diversi suoni), qui si vuole, invece, dimostrare la
politimbricità del pianoforte, dove ciò che l’esecutore va a modificare non è solo l’intensità o
l’agogica, bensì il timbro del suono, ossia la differente relazione tra gli armonici che lo
costituiscono.

39
E’ possibile affermare che l’esecutore può influire direttamente sul comportamento della
meccanica e può determinare suoni di medesima intensità attraverso tocchi differenti.
Nel tocco da lontano il dito e la meccanica entrano in contatto per 2 millesimi di secondo,
mentre nel tocco da vicino il dito, il tasto e il martello rimangono in contatto per circa 20
millesimi di secondo, ed è quindi possibile controllare la discesa del tasto anche dopo
l’avviamento del processo, andando a variare l’accelerazione del martello.
Considerati due suoni di pari intensità, prodotti uno con il tocco da vicino e uno con
quello da lontano, si osserva: nel tocco da vicino il martello si inizia a muovere dopo circa 2 ms
dopo l’inizio del movimento del tasto e percuote le corde dopo circa 40 ms; nel tocco da lontano
con il dito steso il martello si inizia a muovere dopo circa 4 ms, al 5° ms il tasto si ferma per poi
riprendere la sua discesa al 13° ms e il martello raggiunge le corde al 23° ms, quindi in metà
tempo rispetto al tocco da vicino.
Il differente movimento del martello verso le corde è la causa del cambiamento di
timbro? Per verificare se un suono di pressione è timbricamente diverso rispetto al suono di
attacco, così come differente è il comportamento del martello è necessario effettuare un’analisi
di tipo acustico.
L’analisi acustica si basa sul seguente assunto: alla ripetibilità del movimento del
martello in relazione al tocco utilizzato corrisponde una ripetibilità sonora. Analizzando il suono
esaminando la relazione tra la fondamentale e la seconda armonica di cui è costituito, in
riferimento ai picchi d’intensità e al loro rapporto d’intensità, si può concludere che riguardo al
picco di intensità, nel tocco da vicino si verifica una sincronia tra il picco d’intensità della
fondamentale e il picco della seconda armonica, creando un suono particolarmente ricco tipico
del cantabile; nel tocco da lontano la seconda armonica raggiunge il suo picco in ritardo rispetto
alla fondamentale creando una controfase che determina il suono brillante.
Si confermano quindi i risultati per cui al movimento del martello, ripetibilmente diverso
a seconda del tocco pianistico, corrisponde una reazione acustica che varia ripetibilmente in
maniera differente a seconda del tocco.
Il fine ultimo di questi studi deve essere interpretato nella direzione della didattica: è
importante comunicare agli allievi la relazione tra il tocco pianistico, la reazione della meccanica
e la produzione sonora ai fini di un’esecuzione il più possibile ricca timbricamente. Tali
conoscenze permettono sicuramente un alto grado di libertà che potrà essere utilizzato per
rendere più personali ed espressive le loro interpretazioni alla ricerca di uno stile quanto più
personale e approfondito tramite le più moderne teorie di fisiologia del suono e di acustica.

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3.2 Studi neurologici sulle aree del cervello interessate alla produzione musicale

In un recente studio, Petersen (1998) ha investigato l’effetto della pratica sull’anatomia


funzionale delle aree corticali impegnate in uno specifico movimento. La pratica produce uno
spostamento dell’impegno della corteccia cerebrale dalle aree premotorie frontali destre e dal
cervelletto per stabilizzarsi in una maggiore attivazione della corteccia frontale mediale. Una
possibile interpretazione di questo studio è che per esecuzioni non abili viene utilizzato un set di
regioni cerebrali che viene dedicato momentaneamente alla nuova prova motoria. In seguito
all’esercizio, un differente set di regioni viene utilizzato e quest’ultimo rappresenta
probabilmente l’immagazzinamento di particolari associazioni motorie che permettono
un’esecuzione ben fatta.
Applicando questo concetto alla pratica dello studio di uno strumento, è evidente come
possa essere scarsamente utile, dovendo apprendere una sequenza di movimenti complessa quale
può essere l’esecuzione di una frase musicale, ripetere più volte e separatamente i singoli
elementi. Partendo dal dominio delle singole parti, l’obiettivo deve essere quello di sviluppare
prima possibile la sequenza intera, affinché nell’area motoria supplementare si organizzi e si
depositi il programma di associazioni che permettono l’esecuzione di quella specifica sequenza.
Similmente Shadmher e Holcomb (1997) hanno mostrato che l’acquisizione di un’abilità
motoria complessa comporta l’apprendimento del modello dinamico che permette al cervello di
anticipare o compensare il comportamento meccanico. Durante le ore che seguono all’esercizio,
la rappresentazione del modello interno cambia gradualmente e diviene meno fragile nei
confronti delle interferenze. Nel loro studio è stato possibile osservare che nelle sei ore
successive all’esercizio, mentre l’abilità nell’esecuzione rimane immutata, il cervello impiega
nuove aree per effettuare la prova motoria. Ne consegue che la rappresentazione di un’abilità
motoria complessa subisca una riorganizzazione nell’encefalo nelle ore successive
all’apprendimento. Sebbene questa riorganizzazione non interferisca con l’abilità motoria stessa,
può contribuire ad aumentare la stabilità della rappresentazione di quella specifica prova
motoria.
Studi successivi hanno mostrato che l’apprendimento di una abilità motoria richiede tempo e
coinvolge almeno due fasi distinte: una fase iniziale di apprendimento veloce seguita da una
lenta modificazione post-training. E’ stato ipotizzato che la fase rapida coinvolga processi che
selezionano e definiscono il programma ottimale per l’esecuzione della prova motoria
complessa. L’apprendimento lento riflette probabilmente le modificazioni a lunga durata e forse

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strutturali dei modelli motori basilari e può essere implementato attraverso rafforzamenti
dell’attività dei neuroni motori e selettività del loro meccanismo di azione.
Krings e colleghi (2000) hanno inoltre recentemente mostrato che nei pianisti il
raggiungimento di questa seconda fase a lungo termine comporta anche una significativa
riduzione dei neuroni reclutati.
Fig. 1. Aree attivate nella fase iniziale dello studio

Fig. 2. Aree attivate nell’esecuzione dopo lo studio

Non pianista

Pianista

42
Questi studi, a mio avviso, confermano l’insegnamento teorico secondo cui il superamento di
una difficoltà tecnica si attua soprattutto attraverso una controllata economia dei movimenti che
permette di raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo. La modificazione delle aree
cerebrali a seguito dell’esercizio musicale conferma, invece, il fatto che l’apprendimento di un
brano musicale può definirsi di buon livello non nel momento in cui si è in grado di eseguire
tutte le note senza sbagliare, ma nel momento in cui l’essenza musicale è stata interiorizzata, e
questo traguardo si raggiunge attraverso un complesso processo di maturazione in cui migliora
sensibilmente la nostra capacità di produrre un suono adeguato e il nostro senso di sicurezza e di
dominio dell’opera che dobbiamo eseguire.
Molta ricerca è stata condotta negli ultimi anni per cercare di capire come viene raggiunta
l’abilità nell’effettuare un’esecuzione espressivamente eccellente. Repp (1992) ha pubblicato
interessanti studi in cui ha analizzato le caratteristiche fisiche e percettive delle esecuzioni di
pianisti professionisti, alcuni dei quali di grande notorietà. Nella maggioranza dei casi gli
esecutori più importanti producono esecuzioni significativamente differenti dagli altri e dalla
media statistica. Seashore (1938) ha mostrato che questa variazione non è casuale, ma è
altamente significativa per ciascun pianista; ogni esecutore effettua per uno specifico brano delle
variazioni alla notazione musicale estremamente personalizzate. Rispetto a una meccanica
regolarità data da una lettura rigidamente metronomica, le variazioni per ciascuna nota possono
essere dell’ordine dei millisecondi. Queste variazioni vengono ripetute con incredibile precisione
dallo stesso pianista in esecuzioni anche a distanza di mesi.
Il nostro cervello può essere, quindi, in grado di sviluppare, memorizzare e rievocare un
modello motorio che permette eccellenti abilità tecniche-espressive. Lo studio del contributo
delle differenti variazioni (in velocità, durata, intensità) sembra suggerire che il codice
emozionale che viene utilizzato sia strettamente correlato con il codice prosodico che comunica
l’emozione nel linguaggio umano verbale. L’esecuzione musicale si arricchisce quindi di
un’ulteriore complessità: oltre alle variazioni nella rappresentazione motoria e sensoriale e alle
modificazioni plastiche del sistema nervoso, alla memorizzazione e rievocazione delle differenza
più o meno consapevolmente stabilite per l’esecuzione, il nostro cervello utilizza modelli
espressivi propri di altri linguaggi e sistemi motori, quali in particolare quelli assai specifici del
linguaggio verbale. Questa stretta relazione tra musica e linguaggio ci spiega come il grande
interprete è colui che riesce a produrre quelle impercettibili fluttuazioni all’interno della frase
melodica in grado di mettere in luce il contenuto emozionale della musica. Ai fini
dell’insegnamento è bene fare capire all’allievo che la sua bravura non si misurerà nella capacità
di eseguire meccanicamente il brano assegnato, ma nell’abilità di condurre per mano

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l’ascoltatore durante la sua esecuzione illustrando il fraseggio melodico con una fedeltà quasi
religiosa al testo musicale.

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