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Matteo Malafronte

Metodo di lettura pianistica


Introduzione pratica alla lettura della musica
Titolo originale: Metodo di lettura pianistica. Introduzione pratica alla lettura
della musica.

A cura di Rebecca Gentile

Proprietà letteraria riservata. Sono vietate la copia e la duplicazione, anche


solo parziali, dei presenti contenuti.

L'autore è disponibile per collaborazioni e ulteriori informazioni al seguente


indirizzo: matteo.malafronte@consno.it

© Matteo Malafronte 2020


La musica avrà anche compiuto grandi progressi fino ai giorni nostri, ma
quanto più si è andata affinando la sensibilità per i suoi meravigliosi effetti
uditivi, tanto più è andato scemando l'interesse intellettuale per i suoi autentici
principi.

Jean-Philippe Rameau ,
Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels.
INDICE

PREMESSA

Breve introduzione
Curriculum di studio dell’autore

CAPITOLO I

1.1 I punti di fissità dell’occhio


1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto
1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma
1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi
1.5 Terza associazione: praticare le associazioni precedenti
1.6 Introduzione pratica al ritmo musicale
1.7. La messa in pratica: l’origine delle maggiori difficoltà

CAPITOLO II

2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo


2.2 Introduzione pratica alla lettura degli accordi
2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi
2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni
2.5 Metodo per agevolare la lettura di trìadi e settime
2.6 Introduzione alla composizione delle scale
2.7 Introduzione pratica alla melodia
2.8 L’ambiguità della tastiera
2.9 Intervalli consonanti e dissonanti
2.10 Una cattiva abitudine: leggere sempre nota per nota

CAPITOLO III

3.1 Introduzione pratica all’armonia


3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore
3.3 Concatenare trìadi in stato fondamentale

CAPITOLO IV

4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro


4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra

CAPITOLO V

5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori


5.2 Postura fondamentale del tronco e degli arti superiori
5.3 Introduzione pratica al tocco
5.4 I tasti neri: gli unici riferimenti puramente tattili
5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo
5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità
5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte
5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica

CAPITOLO VI

6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio


6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento
6.3 Seconda fase della ripetizione: l’intero
6.4 Introduzione pratica allo studio delle scale
6.5 La posizione fondamentale della mano nelle scale
6.6 Schematizzare le acquisizioni discorsive nelle scale
6.7 Mettere in pratica il circolo delle quinte nelle scale
6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano
6.9 Concepire armonicamente le scale
6.10 Ridurre il margine di errore nelle scale

CAPITOLO VII
7.1 Introduzione pratica allo studio degli intervalli armonici
7.2 Lo studio degli accordi: Czernyana, Volume I
7.3 Introduzione pratica allo studio degli intervalli melodici
7.4 Introduzione pratica allo studio dei rivolti di arpeggio

CAPITOLO VIII

8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza


8.2 Introduzione pratica all’articolazione
8.3 Introduzione pratica all’appoggio
8.4 Introduzione pratica all’uguaglianza
8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte

INDICE DEI CONCETTI


BIBLIOGRAFIA

PREMESSA
Breve introduzione

Questo manuale ha un preciso intento didattico: quello di


rappresentare un compendio d’indicazioni propedeutiche atte a
orientare il lettore nei suoi primi studi musicali. È stato scritto con
passione e umiltà da uno studente di pianoforte che per quattro anni
si è impegnato nel ridurre le sue scoperte e i suoi pensieri a quelle
che reputa le nozioni essenziali da afferrare per iniziare a costruire
su basi solide l'edificio della propria formazione musicale. Questo
per due motivi: in primo luogo, perché in passato avrebbe voluto
poter leggere certe indicazioni da qualche parte, prima di
commettere gravi sviste; in secondo luogo, per permettere di capire
in maniera lampante che lo studio del pianoforte richiede di
predisporsi a un ragionamento che non sia distaccato dall’emotività,
unica componente con la quale si può costruire un percorso di studi
metodico: non c'è bisogno di nascere con uno smisurato talento per
poter iniziare a lavorare sulle proprie conoscenze musicali. Ciò detto,
l'autore sottolinea l'importanza di considerare questo libro alla
stregua di una indicazione propedeutica assolutamente insostituibile
alla scelta di un Maestro, di cui questo volume, al limite, si occuperà
di mostrare l'importanza.

Curriculum di studio dell’autore

Matteo Malafronte, classe 1996, s'iscrive all'età di otto anni presso la scuola di
musica Massimo Isidori. Una volta ricevuti i rudimenti musicali e sostenuto a
nove anni un primo recital di pianoforte presso il Castello Orsini, lascia
l'associazione per tornare in Piemonte e, appassionatosi nel contempo a vari
strumenti tra i quali la chitarra, inizia a dedicarsi interamente allo studio del
pianoforte. Riceve privatamente la sua prima formazione pianistica come
allievo della concertista giapponese Kaori Matsui, vincitrice del trofeo "KAWAI"
come "miglior esecuzione di musica del XX secolo". Successivamente viene
ammesso al Conservatorio Guido Cantelli di Novara come studente di
pianoforte del Maestro Giuseppe Andaloro, premio Busoni. Prosegue gli studi
nello stesso conservatorio con la concertista, musicologa e teologa Chiara
Bertoglio, la più giovane diplomata all'Accademia S. Cecilia di Roma. Nel 2018
entra nel coro da camera del suo conservatorio, partecipando poi come corista
a un "Didone ed Enea" presso il Teatro Civico di Biella, esperienza
incoraggiata dagli scopi formativi di un'attività corale che lo impegnerà nella
incisione di un disco (CENTORIO, Marco Antonio; HEREDIA, Pietro. Mottetti,
Inni e Antifone . Londra: Elegia, 2019) come cantore del Coro dell’Arcidiocesi
di Vercelli, diretto dal Maestro Mons. Denis Silano. Nello stesso anno inizia
una collaborazione con il Teatro Civico di Vercelli per il celebre Festival Viotti.
Tra il 2019 e il 2020 entra nel corso propedeutico di composizione e direzione
corale del suo conservatorio, che tutt'ora frequenta sotto la guida del Maestro
Giulio Monaco. Dal 2018 studia pianoforte sotto la guida del Maestro
Alessandro Marangoni, allievo della leggendaria pianista napoletana Maria
Tipo.

CAPITOLO I
1.1 I punti di fissità dell’occhio

Anche se non si è mai preso in mano uno spartito musicale, bisogna


sapere sin dal principio che, per aumentare confidenza e velocità di
lettura, è necessario ridurre al minimo il tempo in cui il cervello
interpreta e risolve le problematiche che gli vengono proposte dalla
musica scritta. Leggere la musica non significa avere un occhio
veloce, ma saper cogliere ciò che è scritto sulla partitura . È il
cervello che deve essere “allenato” e non i muscoli dell’occhio. Per
lasciare il minor tempo possibile l’occhio fermo su un elemento o su
un gruppo di elementi musicali, si deve iniziare dalla comprensione
di ciò che è scritto sulla carta. Nel fare questo, non bisogna prendere
troppo alla lettera gli insegnamenti di alcune scuole. Talvolta nelle
accademie s’insegna che “è fondamentale abituare l’occhio a
guardare sempre più avanti rispetto a ciò che si sta leggendo”; o
ancora che “l’occhio leggendo non deve mai fissarsi o tornare
indietro”. Ora, è pur sempre il cervello a governare l’occhio , e se
a quello viene chiesto di fermarsi o di tornare indietro non è
abituandolo meccanicamente a guardare solo avanti che si
acquisisce confidenza con la lettura. Anche iniziare a leggere più di
un nome di nota per volta è fondamentale per avere orientamento
nella lettura della musica, esattamente come in queste parole si sta
leggendo più di una lettera per volta trasformando le associazioni
che posizioni e forme delle lettere stabiliscono tra loro in parole
ricche di significato. Questa capacità di sintetizzare a colpo d’occhio
più elementi si ottiene attraverso la concentrazione e la
comprensione, non attraverso soluzioni meccaniche: questo
manuale intende favorire l’acquisizione di tale capacità. Entro certi
limiti, il percorso qui proposto prescinde dall’età di chi lo intraprende.
Questo a patto che si leggano e si chiosino tutti i paragrafi seguenti
nel loro ordine.

1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto


La scala fondamentale è semplicemente quell’insieme di sette nomi
di note che si conosce sin da piccoli, quindi do-re-mi-fa-sol-la-si ;
può essere considerata una scala fondamentale anche re-mi-fa-sol-
la-si-do , fatto dal quale si capisce che questa viene definita
indipendentemente dal punto in cui la si inizi a leggere. L’aspetto
circolare della scala fondamentale , per cui si può proseguire nella
sua lettura partendo da un dato nome di nota fino a rincontrarlo, sarà
chiarito tra poco. Definendo la scala fondamentale si è fatto
riferimento ai nomi delle note: ciò non è un caso, perché non ci si
sta riferendo ancora ai suoni , fatto che in un certo senso al
momento semplifica il lavoro. Al momento ci si soffermerà sui soli
nomi delle note , non sui suoni a cui verranno associati questi nomi .
Prima di proseguire nella lettura di questo manuale, è fondamentale
praticare la pronuncia a voce dei nomi delle note . Si potrebbe
dire per esempio, per il momento senza cantare [1] , solo parlando,
do re mi fa sol la si, concentrandosi e assimilando i nomi delle note
una per una, per poi ripetere la scala fondamentale al contrario,
quindi si la sol fa mi re do, partendo poi una volta dal re , per tornare
al re inferiore e poi a quello superiore, una volta dal mi facendo la
stessa operazione, e così via per ogni nome nella scala
fondamentale , facendo attenzione a non pronunciare più nomi del
dovuto. Nei capitoli successivi si comprenderà perché questo
esercizio sulla sola pronuncia dei nomi delle note sia necessario e
consigliato dai più autorevoli trattati [2] . Nessuno o pochi manuali,
pochissimi tra i più autorevoli, si soffermano così a lungo su questo
aspetto che in realtà rappresenta l’unica base didattica, e non
divulgativa, per costruire solidamente l’edificio dei propri studi sulla
lettura musicale al pianoforte. I sette nomi delle note che
compongono la scala fondamentale sono presupposti a qualsiasi
ambito della nostra musica . Sono presupposti alle composizioni più
semplici, ma anche a quelle più complesse, in altre parole non ci
sono più di sette nomi di note nell’intero ambito dei nostri studi . Con
il termine nostra musica o nostri studi ci si riferirà da questo
momento alle composizioni del periodo tonale , ossia quel periodo
storico che va dal Settecento al Novecento [3] e che rappresenta un
importante punto di partenza per la musica che si ascolta oggi: nel
corso di questi pochi secoli, è stato scritto pressoché ognuno
degli studi pianistici elementari tutt'ora adottati dalla maggior
parte dei Maestri per le prime esercitazioni dei propri allievi [4] . I
nostri sette nomi di nota valgono indipendentemente dalla difficoltà e
dall’articolazione della composizione : stando al loro aspetto
nominale , e come già detto non acustico [5] , i nomi delle note
saranno sempre sette, ai quali si aggiungeranno quando necessario
degli attributi detti accidenti o segni di alterazione [6] (a esempio: sol
diesis ). In questa fase non ci si occuperà degli accidenti, poiché
non fanno parte della scala fondamentale : si approfondirà per il
momento la necessità di effettuare tre importanti associazioni con
questa sequenza di nomi delle note , alla quale si aggiungeranno in
un secondo momento degli attributi . Delle prime due associazioni,
che sono le più importanti se si desidera avere solide basi di lettura
musicale, si tratterà approfonditamente in questo manuale;
s’introdurrà poi il lettore alla terza associazione, da trattarsi con un
Maestro, poiché rappresenta una fase più avanzata di studio. Ecco
riassunte le tre associazioni di cui ci si occuperà nei paragrafi
seguenti:

1) Associazione dei sette nomi delle note (detti scala


fondamentale ) con la loro posizione sul pentagramma.

2) Associazione dei sette nomi delle note (detti scala


fondamentale ) con la loro posizione sui tasti bianchi del
pianoforte.

3) Una volta approfondite queste prime due fasi di


associazione, queste dovranno essere a loro volta associate
tra loro . Si spiegherà in seguito come, anche se questa
terza fase rappresenta l’inizio dello studio vero e proprio allo
strumento, un momento delicato e personale che dovrà
essere seguito da un Maestro.
1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma

La prima delle tre fasi di associazione è quella tra la scala


fondamentale e le posizioni delle righe e degli spazi che
compongono il pentagramma (fig. 1).

Figura 1

Il pentagramma rappresenta ormai simbolicamente, insieme alla


chiave di violino (fig. 3), di cui ci si occuperà a breve, la musica in
tutti i suoi aspetti. Ma se come simbolo rappresenta l’ambito
musicale e la cultura musicale in genere, all’atto pratico, come
segno , rappresenta tecnicamente una schematizzazione della scala
fondamentale . Questo vuol dire che a partire da un qualsiasi punto
del pentagramma è possibile sempre attraversare, salire, percorrere
la scala fondamentale e, a seconda della direzione, anche
scenderla: se si procede verso l’alto, sul pentagramma , si sta
salendo la scala fondamentale , viceversa la si sta scendendo.
Il pentagramma ha cinque righe e quattro spazi (fig. 1): è possibile
associare a una qualsiasi di queste righe un nome della scala
fondamentale (per esempio sol ). Così facendo, a partire dalla riga
che si è associata arbitrariamente al sol , e andando verso l’alto
contando tutte le righe e tutti gli spazi si salirà sulla scala
fondamentale . Quindi se quella riga era il sol , lo spazio
immediatamente più sopra è il la , la riga immediatamente più sopra
sarà il si , poi s’incontrerà do, re, mi, fa, sol … Finché la scala
fondamentale ricomincerà da capo. Attenzione, il fatto che la scala
fondamentale ricominci da capo, non sta a significare che si debba
ricominciare a considerare anche il pentagramma dal punto di
partenza: si vedrà tra poco perché. Da questo si capisce che, in virtù
del fatto che la scala fondamentale si ripete più volte, si troverà su
altezze diverse del pentagramma uno stesso nome di nota associato
a più righe o a più spazi. Esemplificando: se ho stabilito che una riga
è il do , contando righe e spazi del pentagramma posso attraversare
la scala fondamentale fino a rincontrare una riga o uno spazio che si
chiamerà di nuovo do . Le righe e gli spazi del pentagramma infatti
superano il numero dei sette nomi delle note che compongono la
scala fondamentale . Ora, per quanto riguarda il pianoforte, sul
pentagramma la scelta di un nome di nota da associare a una
determinata riga o a un determinato spazio non è casuale come
nell’esempio appena preso in esame. Ogni riga e ogni spazio del
pentagramma hanno, di volta in volta, dei precisi nomi di nota a loro
associati. Questo perché si rifanno tutti a un unico punto di
riferimento, detto chiave musicale .

Il segno mostrato qui di seguito è una chiave musicale, chiamata in


senso generico chiave di sol (fig. 2):

Figura 2

In senso specifico questo stesso segno può prendere, tra gli altri, il
nome di chiave di violino (fig. 3):

Figura 3

Nelle due immagini (fig. 2 e 3) è possibile notare alcune differenze.


La prima immagine rappresenta, in senso generico , la chiave di sol
(fig. 2) in quanto tale segno è rappresentato a prescindere dal
pentagramma (fig. 1). In entrambi i casi, questo segno indica sempre
il nome sol , ma per indicarlo sul pentagramma deve essere scritto a
partire da una determinata riga. La seconda immagine (fig. 3)
rappresenta lo stesso segno che, scritto sulla seconda riga [7] ,
assume un valore in senso specifico e viene detto chiave di violino
. Se fosse stato scritto a partire dalla prima riga del pentagramma si
sarebbe parlato di chiave di violino francese, che è pur sempre una
chiave di sol , dato che indica come punto di riferimento il sol e il suo
segno grafico è lo stesso. Niente paura, nella musica scritta per
pianoforte la chiave di violino francese , antica e caduta in disuso,
non s’incontra. Si è voluto introdurla solo per fare chiarezza sul fatto
che le chiavi rappresentano [8] dei veri e propri punti di partenza per
l’associazione della scala fondamentale al pentagramma , dal
momento che ne determinano la “ inquadratura ”, per usare una
metafora cinematografica.
La scrittura che definisce una partitura strettamente pianistica è
sempre la seguente (fig. 4):

Figura 4

Si tratta di un doppio pentagramma (fig. 4), formato dall’unione,


attraverso una parentesi graffa, di due pentagrammi , sui quali
vengono poste rispettivamente due chiavi : in alto, la chiave di
violino (fig. 3), in basso la chiave di basso (fig. 6) che ha come nome
generico chiave di fa (fig. 5):
Figura 5

La stessa chiave viene poi detta in senso specifico chiave di basso


(fig. 6) poiché indica che quel fa è da associarsi alla quarta riga del
pentagramma .

Figura 6

In altre parole, quando si scrive una chiave di sol (fig. 2) a partire


dalla seconda riga del pentagramma superiore, si dà a quella riga il
nome sol . Nello stesso tempo la chiave di sol, in virtù del fatto che in
questo modo risulta contestualizzata in una precisa posizione -
poiché è scritta sulla seconda riga e non sulla terza o sulla quarta e
così via - prende il nome specifico di chiave di violino ( fig. 3 ) . Lo
stesso discorso vale per la chiave di basso (fig. 6 ) , chiamata in
questo modo perché indica che la quarta riga del pentagramma può
contenere solo dei fa, nonostante il suo segno, chiamato in senso
generico chiave di fa (fig. 5), possa prendere diversi nomi specifici :
oltre a quello di chiave di basso (fig. 6), anche quello di chiave di
baritono qualora dovesse essere scritto nel contesto della terza riga
del pentagramma . Come si è già precisato, non occorre
preoccuparsi: al pianoforte si troverà sempre e solo una chiave di
violino (fig. 3) sul pentagramma superiore e una chiave di basso (fig.
6) su quello inferiore. Non è necessario ricordare i nomi specifici di
tutte le altre chiavi introdotte, perché queste non sono impiegate
nella lettura strettamente pianistica. A esempio, nell’immagine qui di
seguito, a sinistra della chiave di fa baritono , si trova un terzo e
ultimo segno di chiave , quello che identifica in senso generico la
chiave di do e che in questo contesto prende il nome di chiave di do
baritono (fig. 7).
Figura 7

Il fatto che il nome generico della chiave non cambi in base alla riga
sulla quale posta è facilmente deducibile con questo esperimento: si
osservi l’immagine delle due chiavi di do e fa baritono qui in alto [9] .
Partendo dalla riga sulla quale è posta la chiave di fa , e
proseguendo verso l’alto, contando tutte le righe e tutti gli spazi si
finirà per incontrare la chiave di do proprio sulla riga del do . Dato
che la musica non è nata con il pianoforte, e che questo rappresenta
solo uno dei tanti strumenti attraverso i quali è possibile leggere la
musica, quelle che al momento sembrano informazioni superflue
sono in realtà dei “bocconi” che si aiuterà a “digerire” gradualmente
nel corso del manuale: sono fondamentali sul piano didattico,
perché permetteranno di comprendere i motivi che stanno dietro la
scelta di adottare determinate convenzioni di lettura per questo
strumento.
Molti manuali partono con la premessa di una visione rigida delle
due chiavi e del pentagramma : in questo modo molto spesso la
chiave posta in alto viene concepita in senso astratto da quella posta
in basso, oppure ci si concentra esclusivamente sul problema di
associare le due chiavi al pentagramma , problema che in realtà,
come si dimostrerà tra poco, non sussiste. Fatte queste premesse,
forse inizialmente ostiche, sulla “inquadratura” del pentagramma coi
tre segni di chiave esistenti, dei quali i nomi generici sono
rispettivamente di fa do e sol , verrà enormemente semplificato
l’imminente processo di apprendimento della lettura. Fortunatamente
per quanto riguarda le composizioni pianistiche, all’atto pratico, la
questione è molto semplice: si legge su un doppio pentagramma che
presenta in alto una chiave di violino e in basso una chiave di basso
. Si può dire che non ci siano varianti a questa configurazione. Provo
allora a partire da uno di questi due punti di riferimento, dalla chiave
di violino (fig. 3), e a procedere verso l’alto fino a rincontrare una riga
o uno spazio del pentagramma che abbia nuovamente il nome sol
(fig. 8).

Figura 8

Nell’esempio (fig. 8) si procede dalla seconda riga del pentagramma


, sulla quale si trova la chiave di violino , contando ogni riga e ogni
spazio, salendo sulla scala fondamentale e ottenendo sol-la-si-do-re-
mi-fa-sol . Ora che so che il nome di nota più in alto degli altri è sol ,
posso pensare di iniziare a contare da quello per scendere sulla
scala fondamentale fino a rincontrare il sol della chiave, ottenendo
sol-fa-mi-re-do-si-la-sol (fig. 9):
Figura 9

Questi segni che uso per indicare una riga o uno spazio del
pentagramma hanno un preciso nome, ossia figure ritmiche . Se ne
riparlerà dettagliatamente in seguito. Tornando all’esempio:
procedendo come spiegato, si è incontrato di nuovo uno spazio con
nome sol senza dover andare oltre l’estensione del pentagramma .
Tuttavia, l’estensione del pentagramma si può superare: è sufficiente
aggiungere delle righe “in più”; queste permettono di raggiungere
altezze del pentagramma che altrimenti non si potrebbero
considerare. Tali righe addizionali vengono chiamate tagli addizionali
(fig. 10):

Figura 10

Si possono porre, come mostra l’esempio, verso l’alto o verso il


basso rispetto al pentagramma . Naturalmente estendendo le righe
del pentagramma se ne estenderanno anche gli spazi. In altre
parole, potrò scrivere un nome di nota su una riga del taglio
addizionale (fig. 11):

Figura 11

Oppure su un suo spazio (fig. 12):

Figura 12

Si può usare un numero indefinito di tagli addizionali , a seconda


della necessità. Chiaramente, non bisogna mai scrivere più di quelli
necessari a indicare un determinato nome di nota . Quando si inizia
a leggere la musica non se ne incontrano generalmente più di
tre verso l’alto o verso il basso per ciascun pentagramma . La
questione dei tagli addizionali sembra aver complicato ulteriormente
la lettura della musica, e generalmente quando qualcuno sente che il
pentagramma si può estendere a piacimento pensa che non
imparerà mai a leggere la musica. In realtà si esporrà a breve una
tecnica, sistematizzata dall’autore, estremamente valida per non
doversi preoccupare affatto dei tagli addizionali e memorizzare in
pochi minuti le posizioni dei nomi delle note sul pentagramma .
Prima di trattare di questa tecnica, è necessaria un’ulteriore
considerazione. La musica per pianoforte, come si è detto, si legge
su un doppio pentagramma , quindi su due pentagrammi , che
impiegano rispettivamente chiave di violino , nel pentagramma
superiore, e chiave di basso , nel pentagramma inferiore. Deve
essere subito chiaro, quindi, che un pianista potrà incontrare dei tagli
addizionali in chiave di basso così come in chiave di violino (fig. 13).

Figura 13

Ci si sofferma ora su questo ultimo esempio (fig. 13). Partendo dalla


riga del fa indicata dalla chiave di basso , ossia la quarta riga del
pentagramma inferiore, e andando verso l’alto, s’incontra il do sul
primo taglio addizionale (fig. 14):

Figura 14
Si può incontrare lo stesso do anche procedendo verso il basso a
partire dalla riga del sol indicata dalla chiave di violino , ossia dalla
seconda riga del pentagramma superiore (fig. 15):

Figura 15

Si comprende che le due chiavi hanno qualcosa in comune (fig.


16).

Figura 16

Quei due nomi di nota cerchiati (fig. 16) sono lo stesso nome di nota
scritto in modo diverso, ossia, rispettivamente, una volta partendo
dalla chiave di basso e una volta partendo dalla chiave di violino .
Ciò è dimostrato dal fatto che se da quel punto comune, cerchiato
nell’esempio, si continuasse a scendere dalla chiave di violino , si
otterrebbe un si dentro uno spazio esattamente come accadrebbe se
si scendesse in chiave di basso (fig. 17):

Figura 17

Viceversa, se si salisse da quel punto, si troverebbe in chiave di


basso un re dentro uno spazio, esattamente come accadrebbe in
chiave di violino (fig. 18 ) :

Figura 18
E da quel punto in avanti, verso l’alto o verso il basso, tutte le righe e
gli spazi sarebbero sovrapponibili [10] . Questo significa che, potendo
usare un illimitato numero di tagli addizionali , tutti i nomi di note
posti in chiave di basso potrebbero essere scritti in chiave di violino
e viceversa. Per esempio, se volessi scrivere il fa associato dalla
chiave di basso alla quarta riga del pentagramma inferiore
impiegando però la chiave di violino , potrei farlo in questo modo in
virtù della struttura del doppio pentagramma (fig. 19):

Figura 19

Viceversa, impiegando invece la chiave di basso per indicare il sol


associato dalla chiave di violino alla seconda riga del pentagramma
superiore, si otterrebbe questo (fig. 20):
Figura 20

Lo stesso ragionamento si può fare per la chiave di do , a cui si è


fatto riferimento per completezza, dato che rappresenta l’unico altro
segno di chiave riscontrabile nella nostra musica . La chiave di do
indica che tutti i nomi di nota posti in corrispondenza della riga sulla
quale viene scritta sono dei do ; si potrebbe allora idealmente
immaginarla proprio al centro di queste due chiavi . Una volta
ottenuta un’immagine chiara della posizione di questo segno di
chiave , è possibile immaginarlo a piacimento su una riga qualsiasi
del pentagramma singolo: a cambiare sarà solo la differente
inquadratura del pentagramma . Avendo sempre in mente il doppio
pentagramma che si usa per leggere la musica al pianoforte è
possibile in questo modo iniziare a leggere in qualsiasi chiave , dal
momento che, come si è visto, i segni di chiave hanno solo tre nomi
generici che non cambiano a seconda della loro posizione, mentre
acquistano un nome specifico solo in base all'inquadratura che
fanno del doppio pentagramma . Pertanto, la necessità di prendere
una confidenza assoluta con le due chiavi di violino e basso è
palese. Infatti, partendo da queste due, e avendo perciò sempre in
mente il doppio pentagramma , è possibile leggere la scala
fondamentale associata al pentagramma in qualsiasi altra chiave e
in qualsiasi altra partitura che non sia per pianoforte. Considerando
per esempio una chiave di fa baritono , ossia una chiave di fa scritta
sulla terza riga anziché sulla quarta, notiamo come questa si occupi
di inquadrare una porzione diversa di doppio pentagramma . In tale
considerazione, è il pentagramma a spostarsi sul doppio
pentagramma , e non la chiave , che indica sempre lo stesso nome
di nota in virtù del suo segno. Questo concetto, adesso forse non
pienamente “digeribile”, sarà naturalmente chiarito una volta
acquisita familiarità con la lettura. Per padroneggiarla, si esporrà
dunque una tecnica di associazione sistematizzata dall’autore che
risulta essere inedita.
Come si è detto, il pentagramma , che abbia chiave di violino o di
basso , non va comunque oltre i tre tagli addizionali nella maggior
parte dei casi che si incontrano nelle prime fasi di studio. Il motivo
risiede nell’estensione dei tipi vocali , di cui si tratterà nei prossimi
capitoli. Se gli sconfinamenti oltre i tre tagli addizionali sono più rari
in questo primo momento degli studi, va da sé che ci si debba
concentrare su un fatto importante: entro tre tagli addizionali , verso
l’alto o verso il basso, non si incontra più di tre volte lo stesso nome
associato a una riga o a uno spazio del pentagramma . A esempio, il
sol , rimanendo nell’orizzonte dei tre tagli addizionali verso l’alto o
verso il basso, si incontra in questi tre casi (fig. 21):

Figura 21

Questi sono i tre sol che si possono incontrare in chiave di violino ,


rimanendo entro l’estensione dei tre tagli addizionali . Facendo un
semplice calcolo, se i nomi delle note sono sette, va da sé che le
righe e gli spazi del pentagramma risultano essere così tanti per il
semplice motivo che devono contenere su altezze diverse tre volte i
sette nomi di nota della scala fondamentale . Ecco un altro esempio
con il nome di nota si (fig. 22):

Figura 22

Se i nomi delle note si ripetono tre volte, è necessario ragionare su


quanto segue: se si riuscisse a stabilire una sola associazione per
questi gruppi da tre, non si dovrebbero memorizzare più di sette
elementi per ogni chiave . I nomi delle note sono infatti pur sempre
sette, anche se ciascuno di essi si ripete tre volte all’interno di
questa estensione di pentagramma presa in considerazione. Ecco il
metodo proposto: si prendano in considerazione le posizioni del si
(fig. 23).

Figura 23
● In un primo momento, si deve immaginare il si che sta al
centro come un naso, e i si ai lati come le due orecchie del
pentagramma , di cui i tagli addizionali sono la sagoma del
viso dal quale sporge l’orecchio;

● In un secondo momento, si deve immaginare il più


vividamente possibile che questa buffa faccina fatta da un
naso e due orecchie si scuota su e giù come a dire “sì”, così
forte che le sue due orecchie si muovono.

Ecco memorizzate in un attimo le tre posizioni del nome di nota si .


Come questa, è necessario stabilire altre sei associazioni: una per
ogni nome delle note che compongono la scala fondamentale .
Vediamo anche il caso del sol , dato che prima è stato preso in
esempio (fig. 24):

Figura 24

● Riguardo il sol al centro, quello scritto in corrispondenza


della seconda riga del pentagramma , non è necessario
sforzarsi per costruire un’associazione, poiché è indicato
chiaramente dalla chiave ;

● A partire da quello, si può pensare al sol come a un sole al


tramonto, dato che i due termini suonano molto simili ( sol -
sole), e immaginare quello in basso come lo stesso sole
riflesso sull’acqua oltre la quale sta tramontando: i due tagli
addizionali ne rappresentano appunto i riflessi sull’acqua;

● Il sol in alto invece, dato che sta sopra a tutte le righe e tutti
gli spazi del pentagramma , potrebbe essere un bagliore nel
cielo, come quei riflessi che molto spesso si trovano nelle
fotografie.

Naturalmente ognuno deve trovare le proprie associazioni , e


non è necessario immaginare forzatamente ciò che si sta
suggerendo. Quello che bisogna sapere è che, in questa maniera,
sono state memorizzate già due posizioni su sette, in altre parole si
è quasi a metà del lavoro per quanto riguarda il pentagramma sul
quale è scritta la chiave di violino . Non bisogna dimenticare infatti
che le sette associazioni costruite per quanto riguarda la chiave di
violino devono essere stabilite anche per la chiave di basso , per un
totale di quattordici associazioni complessive. Al fine di ottenere
risultati efficaci , bisogna attuare delle differenze tra le
associazioni stabilite per la chiave di basso e quelle stabilite
per la chiave di violino : a esempio si potrebbero prediligere
immagini cupe e scure, e invece associare alla chiave di violino solo
immagini radianti e luminose. In questo modo non si potranno
confondere le associazioni per immagini fatte tra le due chiavi e il
lavoro di memorizzazione di queste posizioni, che sembra per molti
uno scoglio insormontabile, richiederà non più di un pomeriggio. Una
volta effettuato questo lavoro, non sarà più necessario ragionare in
modo macchinoso su quale sia la posizione di un determinato nome
di nota, partendo a contare di volta in volta dal riferimento della
chiave . La prima fase d’associazione sarà in questo modo
completa. Si tratterà poi solo di leggere, leggere e leggere,
rievocando nella propria mente queste immagini fin quando non
sarà più necessario risalire all’associazione per ricavare il nome
della nota (a esempio pensare al sole per risalire al sol ) poiché
questa avverrà immediatamente, senza più passare dalle
immagini . Ecco uno schema utile ad applicare questa tecnica in
entrambe le chiavi pianistiche, con i nomi delle note associati a
precise posizioni sui due pentagrammi , ordinate secondo il metodo
proposto (fig. 25):

Figura 25

1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi

La seconda delle tre fasi di associazione prevede che sulla tastiera


di un pianoforte a ottantotto tasti si debbano far coincidere i tasti
bianchi a quella che si è chiamata scala fondamentale (fig. 26).

Figura 26
Fin dal principio, bisogna comprendere che per stabilire questa
associazione non ci si può basare, come comunemente si pensa,
direttamente sui tasti bianchi. Infatti, occorre prima fare riferimento ai
tasti neri, perché sono disposti lungo la tastiera in due serie
nettamente separate da uno spazio. Queste serie di tasti si ripetono
in sequenza, una da due tasti neri e una da tre tasti neri (fig. 26). I
tasti bianchi invece sono disposti in un’unica serie, anonima sia da
un punto di vista tattile che visivo. Non possono quindi rappresentare
un punto di riferimento efficace per il presente lavoro di
associazione. Pensando ai tasti neri per risalire a quelli bianchi, e
non soltanto ai tasti bianchi, si trova immediatamente la posizione di
ogni componente della scala fondamentale . La capacità di
individuare immediatamente un tasto bianco senza basarsi sui tasti
bianchi che ha vicino è fondamentale, perché durante un'esecuzione
al pianoforte non si suona soltanto su tasti che si susseguono. Al
contrario, potrebbe manifestarsi la necessità di leggere e individuare
sulla tastiera un do immediatamente seguito da un sol che quindi
non gli è adiacente nella scala fondamentale , oppure di dover fare
un grande salto con la mano da un estremo all’altro dello strumento.
Dato che i tasti bianchi sono disposti in un’unica serie, se davvero ci
si volesse basare solo su questi, si dovrebbe partire ogni volta
calcolando macchinosamente da un unico punto di riferimento e non
semplicemente pensando alla relazione che un determinato tasto
bianco ha con i suoi vicini tasti neri. È facile capire che questo non
sia corretto. Invece, avendo come riferimento i tasti neri, è
possibile individuare la posizione di ogni nome delle note
immediatamente e semplicemente pensando alla relazione che
un determinato tasto bianco ha coi tasti neri adiacenti .
Quest’ultima considerazione da sola non basta e lo si dimostrerà con
il seguente esempio: nel caso del sol non è scontato sapere quale
dei suoi due vicini tasti neri si debba effettivamente prendere in
considerazione per risalire al suo relativo tasto bianco, dal momento
che gli sono vicini allo stesso modo. Lo stesso accade con il la e con
il re . Anche in questo caso, si esporrà il metodo di studio
sistematizzato dall’autore per procedere con il presente lavoro di
associazione.
Si metta in pratica quanto scritto di seguito toccando la tastiera a
occhi chiusi, partendo dai rispettivi estremi destro e sinistro
delle due serie dei tasti neri (fig. 27):

Figura 27

Il motivo teorico dietro la scelta di questo punto di partenza si


dedurrà in seguito, nel paragrafo sulla messa in pratica del circolo
delle quinte (par. 6 - Cap. II): non è ancora il momento di introdurre
argomenti così complessi, si invita quindi a proseguire la lettura se lo
si vuole comprendere fino in fondo. Il motivo pratico è invece già
deducibile: il do, preso in considerazione come tasto bianco, ha un
solo tasto nero adiacente; lo stesso accade per gli altri tasti presi in
considerazione (il mi , il fa e il si ). Questo primo insieme di tasti
bianchi appartiene alla zona del pianoforte più semplice da
individuare da un punto di vista tattile, ossia allo spazio che
intercorre tra le due serie dei tasti neri. Non sono tuttavia i tasti più
semplici da abbassare poiché, stando alle considerazioni fatte finora,
presentano delle caratteristiche comuni: infatti i tasti del do e del fa
hanno un tasto nero alla loro destra e i tasti del mi e del si hanno un
tasto nero alla loro sinistra. Oltre a questo, si aggiunge il fatto che gli
stessi tasti possono essere abbassati da una qualsiasi delle dita
d’una mano. Abbassando, a esempio, il do col mignolo ed
estendendo le altre dita a mano ferma verso i tasti neri, non sarà
possibile capire cosa c'è alla sinistra di questo tasto : questo sarà
facilmente confondibile con re , fa , sol e la . La confusione sarà
ancora maggiore se invece di orientarsi con i tasti neri lo si fa con
quelli bianchi, ossia quello spazio che sta tra le due serie di tasti
neri, dato che questo spazio non è da considerarsi come “uno spazio
formato da due tasti bianchi”, ma al contrario come una precisa
distanza tra le due serie di tasti neri o, al limite, come un’assenza
degli stessi dalla quale ricavare i due tasti bianchi. È necessaria
allora una sensibilità diversa, che parte dal modo in cui le serie dei
tasti neri vengono a trovarsi rispetto alla serie dei tasti bianchi. Si
osservi nuovamente a occhi aperti la tastiera , facendo caso stavolta
alle differenti distanze con cui i tasti neri si distribuiscono sugli
adiacenti tasti bianchi nelle due direzioni (fig. 28):

Figura 28

Com’è evidenziato da questo schema (fig. 28), tutte le dieci distanze


sono a volte più piccole, a volte più grandi. Si osservi
scrupolosamente la tastiera : queste distanze non sono tutte uguali.
Dal momento che un dito non può procedere in entrambe le
direzioni della tastiera contemporaneamente , è estremamente
utile evidenziare quanto segue: queste dieci distanze, se divise in
due gruppi (uno ascendente e uno discendente) da cinque, sono
tutte uniche tra loro nei due sensi. Procedendo verso destra,
nessuna distanza tra un tasto bianco e il successivo tasto nero
è uguale; lo stesso accade procedendo nell’altro verso della
tastiera . L’unico riferimento tattile a cui ci si affiderà da questo
momento in avanti sarà, quindi, quello delle distanze dei tasti neri
rispetto ai loro rispettivi due tasti bianchi adiacenti. Sarà necessario
ora sviluppare una sensibilità del tutto particolare per questo
tipo di distanza, praticando, attraverso il solo tatto,
l’individuazione dei tasti bianchi attraverso la sensazione dei
tasti neri: durante questa pratica non si dovrà guardare la tastiera
ma la parte superiore del pianoforte, dove normalmente si
troverebbe lo spartito . Ai fini della lettura, si sconsiglia di eseguire
questo esercizio a occhi chiusi: si dovrà guardare in un primo
momento il punto in cui normalmente si troverebbe lo spartito, e poi
ripetere l’esercizio guardando punti differenti della stanza in cui ci si
trova [11] , in ogni caso mai la tastiera o le proprie mani .
Si inizierà individuando i tasti presi in esame finora, quindi il do , il mi
, il fa e il si proseguendo poi con re , sol e la . In seguito, si potrà
rilevare che le distanze prese in esame sono simmetriche a partire
dai centri delle due serie di tasti neri (fig. 29). Quest’ultima
considerazione sarà ripresa e approfondita in seguito (par. 10 - Cap.
VI) dimostrandone la fondamentale importanza tecnica.
Figura 29

Per capire pienamente le considerazioni fatte fino a questo punto, è


importante riconoscere che c’è un’enorme differenza tra un pianista
e un neofita della lettura. Per un pianista, le considerazioni fatte
finora risultano troppo marginali, mentre per un neofita sarà
necessario seguirle alla lettera. Occorre iniziare a costruire con
umiltà a partire dalle piccole forme, riconoscendo in altre parole che
non si può apprendere soltanto per imitazione . Se così fosse,
basterebbe guardare la ripresa del concerto di un grande pianista
per imparare a suonare come lui. Ma apprendere in questo modo
sarebbe come tentare di correre i cento metri solo guardando un
atleta. Per quanto gli si possa chiedere di correre a rilento per
studiare in dettaglio la struttura dei suoi movimenti, ognuna delle sue
mosse è il frutto di una dura preparazione e di un costante
allenamento. Così come l’allenamento preparatorio a cui l’atleta si
sottopone non può essere chiaro per uno spettatore al momento
della corsa, lo stesso è per un neofita che, guardando un pianista, si
accorge che lui guarda le cose da una differente prospettiva e ha
bisogno d’insistere su altri argomenti che non siano quello della
lettura. Pertanto, se questa ed altre considerazioni successive non
avranno un riscontro diretto del lettore nelle registrazioni dei grandi
pianisti, ciò non sarà a causa del fatto che il presente manuale o i
pianisti in questione sbagliano: sarà così poiché le metodologie qui
proposte sono da contestualizzarsi di volta in volta, in virtù del loro
preciso scopo didattico. La maggior parte di queste metodologie
servono a costruire le fasi di lettura che seguiranno, non già a
essere praticate in un’esibizione concertistica.
Ricapitolando quanto detto finora si ottiene quanto segue: partendo
da un nome di nota e andando verso destra, sui tasti bianchi, si
proseguirà sulla scala fondamentale ; andando verso sinistra si
proseguirà sempre sulla scala fondamentale , ma all’inverso. Si
troveranno quindi, a partire per esempio dal do , do re mi fa sol la si
andando verso destra e do si la sol fa mi re andando verso sinistra.
Da questo momento in poi si consiglia di non dimenticare che,
qualsiasi sia il tasto bianco nominato nel presente manuale, questo
sarà sempre da considerarsi nella sua relazione (destra o sinistra) e
distanza (maggiore o minore, nei due versi) rispetto ai tasti neri. Con
il tempo questo procedimento diverrà naturale e spontaneo.

1.5 Terza associazione: praticare le associazioni precedenti

L’ultima delle tre fasi di associazione (riassunte alla fine del par. 2 -
Cap. I) consiste nel mettere in relazione i nomi delle note associate
alle posizioni sul pentagramma con i nomi delle note associate ai
tasti bianchi, quindi mettere in relazione il pentagramma alla tastiera
.

Figura 30

Questo tipo di associazione può diventare scorrevole soltanto nella


pratica della tecnica allo strumento [12] , ossia nel tempo passato
a leggere, studiare in modo consapevole e ragionato la musica al
pianoforte. S’introdurrà il lettore allo studio approfondito della tecnica
nei capitoli VI, VII e VIII.
Il punto di partenza di questa terza fase d’associazione saranno
sempre le due chiavi musicali del doppio pentagramma . La chiave
di violino, infatti, indica che sulla seconda riga del pentagramma si
trova un preciso sol e nessun altro , ossia quello che sulla tastiera
corrisponde al quarto che s’incontra a partire da sinistra su un
pianoforte a ottantotto tasti (fig. 31):

Figura 31

La chiave di basso , che è situata sulla quarta riga del pentagramma


, indica invece il terzo fa che s’incontra contando da sinistra su un
pianoforte a ottantotto tasti (fig. 32).

Figura 32

È evidente quindi che nonostante le due chiavi si leggano in modo


diverso tra loro, in realtà fanno parte entrambe di un’estensione
comune rappresentata dalla tastiera e dal doppio pentagramma . Lo
si è visto in modo ancora più chiaro quando si è trattato della prima
fase di associazione: tutti i nomi di nota scritti in chiave di violino
possono essere scritti anche in chiave di basso e viceversa,
impiegando dei tagli addizionali . Quel punto in cui il do della chiave
di basso si incontra col do della chiave di violino viene chiamato do
centrale , non per la sua posizione nella tastiera ma perché si trova
al centro dell’estensione delle due chiavi di violino e basso .
Figura 33 [13]

1.6 Introduzione pratica al ritmo musicale

Come si è visto nei paragrafi precedenti, i nomi di nota che


compongono la scala fondamentale si associano solitamente al
pentagramma attraverso dei precisi segni che vengono definiti segni
ritmici . Lo si era già osservato da uno dei primi esempi, riportato di
seguito come promemoria (fig. 34):

Figura 34

Perciò, quella che più avanti nel manuale si chiamerà nota , e non
più soltanto nome di nota , sarà un insieme di tre componenti:
● Una figurazione ritmica , per esempio ;
● Una precisa posizione sul pentagramma , quindi la precisa
associazione con un nome (che eventualmente presenterà
un attributo , di cui si tratterà nel par. 6 del Cap. II);
● Una precisa altezza sonora, ossia un suono , di cui si
tratterà a seguire (par. 6 - Cap. II).

Molti dei più autorevoli manuali d’introduzione alla teoria musicale


non attuano una distinzione tra i costituenti di ciò che viene
chiamato nota , ma iniziano a trattare direttamente delle note stesse
e della loro componente sonora o ritmica. In questo libro invece
verranno gradualmente distinti i singoli aspetti che definiscono ciò
che nella nostra musica viene chiamato nota , così che il lettore
possa assicurarsi di star prestando la stessa attenzione a ognuno
di essi. [14] Nei paragrafi precedenti si è trattato della scala
fondamentale e dei nomi delle note di cui è composta: in questo
paragrafo si tratterà invece del ritmo . Di tale componente si può
trattare approfonditamente con un Maestro di Teoria e Solfeggio, al
momento tuttavia non si tratterà di questa materia : se ne
vorrebbe far comprendere piuttosto, rispettando i fini di questo
manuale, l’enorme importanza, così da introdurre la trattazione dei
capitoli seguenti. S'indicheranno precisamente solo alcuni importanti
suggerimenti per intraprendere il percorso sul significato ritmico della
nostra musica , ma non si vorranno formulare né considerazioni
complete sulla teoria musicale né sul Solfeggio, anche perché
esistono già molti manuali che trattano in modo esaustivo di queste
materie. Nelle considerazioni a seguire saranno introdotti molti
termini tecnici: il loro unico scopo sarà quello di fornire i mezzi
per comprendere che lo studio sul ritmo è imprescindibile,
essendo una delle componenti più importanti della scrittura
musicale . Per non complicarne l’apprendimento, ci si limiterà ora
agli elementi ritmici di base, preponderanti nelle prime letture.
Per scrivere le indicazioni ritmiche nella nostra musica si usano dei
segni chiamati segni ritmici , distinti in due categorie: le figure
ritmiche e le pause ritmiche . A queste due categorie si posso
accompagnare dei segni di prolungamento ritmico , come il punto di
valore o la legatura di valore , di cui si tratterà in seguito [15] .
Le figure ritmiche più usate nella nostra musica sono le sette
seguenti (fig. 35):

Figura 35

Queste figure ritmiche indicano nel solfeggio parlato la durata della


pronuncia del nome di nota alla quale sono associate, e nella pratica
pianistica quella del suono associato al nome . Scritte in questo
modo, tuttavia, non sono associate a nulla, dato che al
pentagramma manca la chiave . Quest’ultima è l’unico riferimento
per i nomi della scala fondamentale e anche per la precisa altezza
dei suoni , poiché a partire dalla chiave si possono far
corrispondere le righe e gli spazi del pentagramma ai tasti del
pianoforte (fig. 33). Nell’esempio a seguire (fig. 35), le figure ritmiche
sono state scritte tutte sul primo spazio del pentagramma . Tuttavia,
può accadere di trovarle scritte su qualsiasi posizione (riga o spazio)
del medesimo, dal momento che indicano, oltre al ritmo , anche il
nome di nota che di volta in volta si associa alla loro posizione.
In molti casi, quando le figure ritmiche provviste di un gambo - quella
linea verticale che parte dalla loro testa e termina talvolta con una o
più code - vengono scritte al di sopra della riga centrale del
pentagramma , hanno il gambo rivolto in giù; viceversa, se vengono
scritte al di sotto della riga centrale del pentagramma, lo hanno
rivolto in su. Si è voluto presentarle in quest’ordine per rispettare gli
scopi del presente manuale, ossia quelli di effettuare una trattazione
graduale: all’inizio degli studi, vi saranno infatti maggiori occasioni di
incontrare le figure ritmiche dai valori più grandi, ossia le prime
nell’esempio (fig. 35). Queste figure hanno un valore assoluto , e
non - come a volte si dice - “relativo” [16] . Non valgono “un tot di
secondi” o “un tot di minuti”, ma conservano indipendentemente dal
contesto in cui si trovano un valore matematico ben preciso:
rispettivamente, da sinistra a destra dell'immagine qui in alto, 4/4,
2/4, 1/4, 1/8, 1/16, 1/32, 1/64. Pertanto, la durata di queste figure
non ha valore cronometrico, ma soltanto musicale e
matematico. Si è detto che ognuna di queste figure vale la metà
della figura ritmica che si trova alla sua sinistra. Lo stesso principio
matematico vale per i segni ritmici che indicano la durata del
silenzio, chiamati pause ritmiche (fig. 36):

Figura 36

A differenza delle sette figure ritmiche , le sette pause ritmiche sono


generalmente scritte in una posizione fissa del pentagramma - quella
mostrata qui sopra - indipendentemente dalla chiave scritta sul
medesimo, proprio perché non si riferiscono direttamente a un suono
ma al silenzio . L’unico altro modo in cui è possibile trovare scritta
una pausa ritmica in una posizione differente rispetto a quella
mostrata è indicato nell’esempio successivo (fig. 37). In un paragrafo
a seguire sui differenti tipi vocali (par. 4 - Cap. II), si vedrà che - in
un contesto particolare - la pausa ritmica può occupare una
qualsiasi posizione del pentagramma , non solo quella mostrata nel
prossimo esempio. Questo contesto è momentaneamente
trascurabile: solo per completezza, se ne mostra anticipatamente
uno dei possibili casi nell’immagine qui di seguito:
Figura 37

Un’altra differenza tra le figure ritmiche e le pause ritmiche è che le


prime hanno dei nomi propri, a partire da sinistra dello schema
riportato in precedenza (fig. 35): semibreve , minima , semiminima ,
croma , semicroma , biscroma , semibiscroma . Le pause ritmiche
(fig. 36) invece, dato che condividono il valore matematico delle
figure ritmiche , prendono il nome in riferimento a queste ultime (per
esempio: pausa di semibreve , pausa di minima eccetera.). Tutti i
segni ritmici mostrati finora fanno capo di volta in volta non soltanto
a questo insieme generale che ne rappresenta i quattordici più
usati, ma anche a insiemi più specifici, detti misure . Per esempio,
sul pentagramma di una qualsiasi composizione si potrebbe trovare
subito dopo la chiave questo insieme di due numeri (fig. 38):

Figura 38
Questa è la cosiddetta indicazione di misura e si legge “quattro
quarti”. Ha valore, salvo indicazioni, lungo tutto il pentagramma che
la contiene, motivo per cui è stata scritta sia sul pentagramma
superiore che su quello inferiore. L’ indicazione di misura serve a
conoscere anticipatamente la struttura ritmica di ciò che la segue.
Molto spesso nei primi esercizi per pianoforte tale indicazione non
cambia lungo l’intero brano: si capisce quindi che è fondamentale
saperla interpretare per avere a mente, prima ancora di iniziare a
leggere ciò che la segue, una struttura ritmica da seguire. Per
poterlo fare, è necessaria la massima concentrazione nella
comprensione di quanto segue.
Nel caso dell’esempio (fig. 38), la misura sarà costituita da quattro
figure ritmiche dal valore di un quarto ciascuna (si veda il prossimo
esempio).

Figura 39

In questo caso - come si vedrà accade solo in casi specifici che


saranno distinti tra breve - che le figure ritmiche della misura siano
quattro lo dice il numero superiore, mentre che non possano valere
più di 1/ 4 ciascuna lo dice il numero inferiore.
Misura è sinonimo di un altro termine che potrebbe suonare
familiare, ossia battuta : il primo termine si riferisce più spesso a
considerazioni di natura teorica, mentre il secondo alla
rappresentazione grafica della misura stessa sul pentagramma . Tale
rappresentazione grafica corrisponde, nella maggior parte dei casi
pianistici, a ciò che è scritto entro le due barre verticali che
delimitano la battuta stessa. Si osservi l’esempio (fig. 39): queste
barre verticali che identificano le battute si chiamano stanghette [17] .
La prima stanghetta , che segna l’inizio della battuta , è quella che si
trova prima delle chiavi , immediatamente accanto alla parentesi
graffa che lega i due pentagrammi tra loro; la seconda, che segna la
fine della battuta , è quella posta dopo le quattro figure ritmiche dal
valore di un quarto ciascuna. Dopo una prima battuta se ne trovano
generalmente molte altre, poiché il concetto di misura si ripete
lungo il corso del brano.
Il valore della misura potrebbe subire ulteriori variazioni, sempre
indicate preventivamente da una nuova indicazione di misura che va
a sostituire la precedente, a partire dal punto del brano dalla quale
viene scritta. Il termine misura non è da confondere con il
termine tempo , che rappresenta invece le unità nelle quali la
misura stessa viene divisa . La misura è infatti composta da tempi .
Una misura in 3 /4 è composta da tre tempi poiché per definirla si
deve contare con regolarità fino a tre. Ecco il caso in esempio (fig.
40):

Figura 40

Contando con regolarità fino a tre , come indicato dal numero in alto
nella indicazione di misura , si sarà scandito il numero di tempi della
misura , ossia tre .
A seconda del numero dei tempi di cui una misura è costituita,
questa può essere classificata come:

● Binaria , due tempi ;


● Ternaria , tre tempi ;
● Quaternaria , quattro tempi .

Ci sarebbero altre classificazioni basate sul numero dei tempi , ma


non è necessario trattarle per i fini di questo manuale [18] . Ognuno di
questi tempi ha poi delle precise caratteristiche: nel caso
dell’esempio (fig. 40), il primo tempo sarà più incisivo degli altri, il
secondo più debole del primo, il terzo più debole di tutti. Ecco perché
si distingue tra tempo e misura : i tempi stabiliscono il carattere
vero e proprio della misura che li contiene. Per esempio, in uno
spartito recante come indicazione di misura 4/4, il primo tempo è più
forte degli altri, il secondo tempo è più debole del primo, il terzo
tempo è più forte del secondo ma più debole del primo e il quarto
tempo è il più debole di tutti. Questa convenzione ha delle ragioni
molto semplici: si prenda un qualsiasi valzer e s’immagini l’ultimo
tempo di ogni sua misura come il tempo più incisivo. O peggio
ancora, si tolga l’incisività dal primo dei suoi tempi . Il valzer non è
più un valzer, perde completamente il suo carattere . È
sufficiente quindi sapere che, convenzionalmente:

1) Le misure binarie prevedono teoricamente il primo tempo


come più forte e il secondo come più debole;
2) Le misure ternarie prevedono teoricamente il primo tempo
come il più forte, mentre il secondo tempo più debole del
primo e il terzo tempo più debole degli altri due;
3) Le misure quaternarie prevedono teoricamente il primo
tempo come il più forte, il secondo tempo come più debole
del primo, il terzo tempo come più forte del secondo e il
quarto tempo come il più debole di tutti.
I tempi non cambiano, nel numero o nella quantità, a seconda dei
segni ritmici che vengono disposti all’interno della misura . Si osservi
questo esempio (fig. 41):

Figura 41

Il numero di tempi che compongono la misura non è cambiato. Sono


pur sempre sottintesi quattro tempi dal valore di 1/4 ciascuno
all’interno della battuta . Dato che il primo tempo è considerato il più
forte, le prime due figure ritmiche da 1/8 che vi rientrano saranno più
incisive delle altre. La figura da 1/4 sarà più debole delle due da 1/8,
mentre la figura da 1/2, trovandosi a cavallo tra il terzo e il quarto
tempo, manterrà il carattere del terzo tempo nel momento in cui
viene suonata, fino a diventare più debole avvicinandosi al quarto
tempo .
La “forza” dei tempi è determinata dalla loro intensità dinamica [19] ,
ossia dall’intensità con la quale vengono resi in termini di volume. È
questo che s’intende con accento metrico , nettamente distinto dall’
accento di articolazione, di cui si tratterà prossimamente (par. 5 -
Cap. VIII). Nel pianoforte, l’espressività è limitata dal fatto che, una
volta abbassato un tasto , questo non può più modificare l’intensità
di volume prodotto dalla corda , volume che inesorabilmente va
affievolendosi. Ciò non avviene per il violino, poiché si può far
crescere e diminuire una nota mentre la si sta suonando,
esattamente come accade nella voce umana e in molti altri
strumenti. Nel caso preso in esempio non vi è alcun problema di
resa pianistica dal momento che il suono , affievolendosi
naturalmente nel nostro strumento in seguito alla percussione della
corda, può restituire senza problemi l’effetto richiesto.
I tempi di cui una misura è costituita sono suddivisibili in ulteriori
segni ritmici . Per esempio: in 3/4, se il valore di ogni tempo è
rispettivamente 1/4, è possibile suddividere ulteriormente quella
unità di tempo dando luogo a una suddivisione . Ricapitolando
quindi:

1) Dividendo una misura in tempi, se ne ottiene la scansione


( binaria , ternaria o quaternaria ).

2) Sud dividendo un tempo appartenente a una misura, se


ne ottiene la suddivisione .

A seconda del risultato che si ottiene suddividendo un tempo ,


l’intera misura dalla quale era tratto prende il nome di semplice o
composta. Se la suddivisione avviene in due segni ritmici , la misura
si definisce semplice ; se invece la suddivisione avviene in tre segni
ritmici , questa viene definita composta . Con un esempio sarà tutto
più chiaro:

Figura 42

Figura 43
La suddivisione del tempo può avvenire in due segni ritmici : la
misura viene definita semplice (fig. 42 - fig. 43).

Figura 44

Figura 45

La suddivisione del tempo non può avvenire impiegando due


soli segni ritmici : ne servono tre. La misura viene definita
composta (fig. 44 - fig. 45).

Per quanto riguarda le misure composte, le indicazioni di misura


sono scritte in modo che il numero di tempi in cui si articola la misura
non si possa immediatamente ricavare dal numero più alto della
indicazione stessa: si deve infatti dividere quel numero per tre. Il
motivo è semplice: se non si fosse usata una convenzione diversa
da quella delle misure semplici , non si sarebbe evidenziata la
differenza tra i due tipi di misura e si sarebbero dovuti introdurre dei
confusionari numeri decimali al denominatore. Ecco un esempio di
misura composta (fig. 46):
Figura 46

La misura è in 6/8. In questo caso il tempo vale 1/4 più un punto di


valore .
Il punto di valore , che è quel puntino che si trova a destra della
figura ritmica , prolunga la durata del segno ritmico accanto alla
quale viene posto della metà del valore del segno ritmico
stesso . Il punto di valore è caratteristico dei tempi che costituiscono
le misure composte , ma si può trovare anche all’interno di una
misura semplice su un qualsiasi livello di suddivisione del tempo .
Nel caso preso in esame (fig. 46) la metà del valore di 1/4 è 1/8. La
suddivisione del tempo sarà realizzabile solo usando tre segni ritmici
, in particolare da 1/8 ciascuno. Infatti, per utilizzarne solo due
occorrerebbe un immaginario segno ritmico del valore di 3/16, che
nell’ambito della nostra musica non esiste.
Dividendo per tre il numero sei che si trova in alto nell’ indicazione di
misura , si ottiene due. Da questo si ricava che la misura è composta
di due tempi : si tratta quindi di una misura binaria . Anche il numero
che sta più in basso non ha un significato immediato, questo si
riferisce alla suddivisione che si può attuare del tempo . Ecco perché
queste misure si dicono composte : a differenza delle misure
semplici , hanno dei tempi che si possono suddividere in tre segni
ritmici, fatto impossibile nelle misure semplici. Dovendo impiegare
per la suddivisione solo i sette valori dei quattordici segni ritmici
indicati più sopra, i tempi di queste ultime misure potranno essere
suddivisi ciascuno solo in due. Ecco un esempio (fig. 47 - fig. 48):

Figura 47

Figura 48

Si è detto finora che i tempi di una misura prevedono una precisa


organizzazione dei loro accenti metrici , che sono a volte più forti, a
volte più deboli. Anche i tempi , tuttavia, hanno una gerarchia
metrica interna: ogni tempo ha infatti una tesi e un’ arsi , ossia un
battere e un levare, sul primo e sul secondo segno ritmico della loro
rispettiva suddivisione. Si potrebbe riassumere e integrare quanto
detto finora nel seguente schema, completo di alcune essenziali
aggiunte:

1) Gli accenti metrici più forti sono chiamati battere (o tesi ),


gli accenti metrici più deboli sono chiamati levare (o arsi ).
Quello che generalmente viene definito il battere o il levare
di una misura corrisponde rispettivamente al tempo
metricamente più forte o più debole di quella misura , ma è
possibile trovare battere e levare , ossia tipi diversi di
accento metrico , anche all’interno delle suddivisioni dei
tempi .

2) Il ritmo di una composizione o di un frammento di essa può


essere definito tetico , anacrusico o acefalo. Tetico , da tesi ,
se inizia sul primo tempo della misura , che in tutte le
misure è metricamente il più forte . Anacrusico , quando
al contrario inizia su di un levare . Il ritmo acefalo è simile a
quello tetico perché inizia allo stesso modo su un battere ,
ma con una pausa ritmica .

3) Il ritmo di una composizione o di un frammento di essa può


poi terminare su una tesi ( tronco ) , o su un’arsi ( piano ) .

Quanto detto finora ha il solo scopo di introdurre le considerazioni a


seguire; benché inizialmente possa risultare difficile, la
comprensione delle nozioni presentate viene ampliata e resa
naturale dalla pratica costante del Solfeggio, col quale si può anche
sviluppare l’orecchio e imprimere nella propria mente i suoni .
Ecco dunque alcuni importanti suggerimenti per intraprendere lo
studio di questa materia. Prima di tutto, osservando lo schema dei
valori dei segni ritmici mostrato in questo paragrafo (fig. 35 - fig. 36),
si capisce che essendo le misure prevalentemente binarie , ternarie
o quaternarie , il tempo avrà nella maggior parte dei casi un valore
tra queste intermedio. In altre parole, il segno ritmico che
rappresenta il tempo sarà nella maggior parte dei casi legati ai primi
studi 1/2, 1/4 o 1/8, segno al quale si aggiungerà il punto di valore
nel caso delle misure composte, per determinare a livello ritmico la
corretta quantità del tempo . Impiegando queste figure ritmiche
associate al tempo , è possibile contare regolarmente fino a tre per
determinare la quantità di una misura ternaria semplice , ma anche
contare fino a sei e stabilire le suddivisioni dei tre tempi di tale
misura (fig. 49):

Figura 49

Applicando infatti l’esempio a una misura da tre quarti, si conterà “ u-


no, du-e, tre-e ” suddividendo in due ogni tempo , con la stessa
regolarità con la quale si contava fino a tre senza suddivisione ;
questo procedimento dà luogo a sei segni ritmici dal valore di 1/8
ciascuno. Se ne può avere riscontro pratico anche nell’esempio qui
in alto: questi segni ritmici sono a loro volta suddivisibili in dodici
segni ritmici dal valore di 1/16 ciascuno, a loro volta suddivisibili in
ventiquattro segni ritmici da 1/32 ciascuno, a loro volta suddivisibili
in quarantotto segni ritmici da 1/64 ciascuno. Oltre questo punto
quasi sempre non si va, poiché la convenzione vuole che il valore
più piccolo comunemente impiegato per un segno ritmico sia quello
da 1/64.
Ciò che può sembrare un freddo calcolo matematico, in realtà fa
capire una questione di fondamentale importanza: ogni tempo delle
misure nelle quali è scritta la nostra musica generalmente non
sarà suddiviso all’interno di un brano più di tre o quattro volte .
Se quindi si studierà il ritmo partendo da questa assunzione, il lavoro
sarà infinitamente più chiaro. Ecco perché: s’immagini di prendere
una misura e di dividerla in tre tempi , stavolta senza pronunciare i
tre numeri con cui la si scandisce. Muovendo la mano lentamente,
ma con regolarità, in tre punti diversi dello spazio e poi pronunciando
un “ ta ” in corrispondenza di ognuno di questi movimenti, si
pronunceranno tre “ ta ”. Pronunciando invece alla stessa frequenza
due “ ta ” per ciascuno di questi movimenti, che devono avvenire con
lentezza e regolarità, si pronunceranno sei “ ta ”. In questo modo si
sarà attuata la suddivisione dei tempi . Adesso si dica quattro volte “
ta ” per ogni movimento della mano, e infine lo si dica otto volte per
ogni movimento della mano, il tutto senza mai mutare la velocità e
regolarità della scansione dei tre movimenti nello spazio. Questo
procedimento è applicabile a tutte le misure [20] e rappresenta la
solida base ritmica da cui partire per intraprendere i nostri studi : il
lettore dovrà sempre confrontare queste variazioni sulla misura , di
volta in volta proposte nelle composizioni , con l’ unità di tempo e
con il numero di suddivisioni che in quest’ultima si riconosce essere
stato operato. Quanto si è appena detto sarà ancora più chiaro con
un esempio: volendo studiare ritmicamente una misura in tre quarti ,
si dovranno sempre avere in mente il numero di figure ritmiche
associate ai tempi e il loro valore. In questo caso quindi, si
considereranno tre figure ritmiche dal valore di 1/4 ciascuna,
cercando di volta in volta di capire come il tempo sia stato
modificato, a quale livello di suddivisione ci si trovi, eccetera, ma
sempre rapportando ciò che si legge al numero e al valore dei tempi
che compongono la misura . Esemplificando (fig. 50):
Figura 50

Si dovrà subito avere in mente tre tempi dal valore di 1/4, ciascuno,
che in questo modo sono a un secondo livello di suddivisione ,
poiché si trovano quattro figure ritmiche per ogni tempo, e non
soltanto due, come avviene a un primo livello di suddivisione (fig.
43). In questo l’editoria musicale aiuta, poiché la maggior parte dei
brani editi per la stampa presenta le figure ritmiche sempre
raggruppate per unità di tempo . Le figure scritte qui sopra, infatti,
potrebbero essere scritte anche in questo modo (fig. 51):

Figura 51

Queste figure generalmente vengono raggruppate dall’editoria (fig.


50) per facilitarne la lettura e l’interpretazione, a partire dalle unità di
tempo della misura , che si dovranno sempre tenere a mente nel loro
numero e nel loro valore. Raggruppando le figure ritmiche si vanno
chiaramente di conseguenza a ordinare in punti precisi della misura
anche eventuali pause ritmiche .

1.7. La messa in pratica: l’origine delle maggiori difficoltà

Da questo momento in avanti ci si dovrà necessariamente esercitare


a toccare, senza ancora suonare , i tasti del pianoforte in
corrispondenza di ciò che si legge sui primissimi esercizi riportati da
manuali di esercizi pianistici elementari, come a esempio il Beyer [21]
. Il nome di nota e la sua posizione sul pentagramma ricondurranno
alla posizione di un unico preciso tasto sul pianoforte. In questa fase
ci si dovrà esercitare molto a toccare i tasti senza guardare la
tastiera , con gli occhi sulla partitura . Certo, il primo riferimento per
avere idea di dove ci si trovi si può prendere anche guardando la
tastiera , ma proseguendo a leggere si dovrebbe cercare di
orientarsi con i tasti neri e solo in un secondo momento, una volta
toccato il tasto che pensiamo essere quello giusto, verificare con gli
occhi se si è sul punto esatto della tastiera . Niente paura, col tempo
avverrà esattamente ciò che avviene per la tastiera di un computer
[22] , sulla quale ormai molti sono abituati a scrivere in velocità. Lì

non ci si concentra su questo o quel tasto dicendone ogni volta il


nome per premerlo, ma piuttosto sull’immagine mentale della parola
che si deve scrivere, nel suo insieme. Se si ha confidenza con la
tastiera di un computer, per scrivere in velocità “musica” non si
premono i tasti con le dita dicendo, guardando o pensando sempre
singolarmente a ogni tasto , a ogni lettera di questa parola, ma si
risale direttamente alla posizione delle lettere sulla tastiera : in modo
simile deve accadere al pianoforte, ma come ho già detto il
procedimento non è meccanico. È necessaria molta sensibilità e
concentrazione per lavorare su questa prima fase. In seguito
s’inizieranno a riunire più nomi di note in gruppi di significato, cosa
che in questo momento degli studi non è ancora possibile e di cui ci
si occuperà in capitoli più avanzati di questo manuale. In questo
momento si è come qualcuno che sta imparando a scrivere le lettere
dell’alfabeto, e che certamente non può ancora comprendere come
queste, legandosi tra loro, determinino il fascino di un romanzo.
Stando così le cose, si possono iniziare ad attuare, con umiltà e
senza fretta, dei piccoli accorgimenti per approfondire e sveltire il
processo di apprendimento: piuttosto che al nome della nota potrò
iniziare a pensare al tasto cui avrò associato una determinata
altezza nel pentagramma , alla sua posizione all’interno del
pianoforte. Sul pianoforte infatti manca qualsiasi indicazione relativa
alla funzione di un tasto . A differenza di una tastiera da computer
che presenta lettere scritte sui propri tasti, la tastiera di un pianoforte
non presenta nomi di note scritti sui propri tasti , perciò inizialmente
bisognerà aggirare questa mancanza associando mentalmente un
preciso do a un unico preciso tasto bianco [23] . I nomi delle note
infatti si ripetono ad altezze diverse sul pentagramma , ma
corrispondono tutti a una frequenza del suono diversa, associata a
un preciso tasto del pianoforte . Quando si parlerà di suono ci
si riferirà da qui in avanti sempre a un fenomeno acustico
associato a uno solo degli ottantotto tasti del pianoforte:
all’unico tasto che, se abbassato, sia in grado di produrre il
preciso suono attraverso la meccanica (di cui si tratterà nel
paragrafo 7 del capitolo V) dello strumento stesso. È evidente
quindi che enorme differenza ci sia tra un nome di nota e un suono :
il primo si trova associato a più ottave dei tasti bianchi, per esempio
il do s’incontra in più punti della tastiera; il secondo corrisponde a un
solo, unico, insostituibile tasto , che come si vedrà non è
necessariamente un tasto bianco.
Per iniziare a esercitarsi in questa prima fase, come regola
estremamente generale si deve iniziare a leggere dal basso verso
l’alto. Solitamente si scelgono esercizi ritmicamente semplici, ossia
comprensibili alla luce di quanto detto finora: questa fase di studio è
importante solo per prendere confidenza con la tastiera e con le
posizioni dei nomi delle note presi singolarmente, senza suonare.
Non bisogna fermarsi troppo su questo punto: una volta presa
un’ottima confidenza con i nomi delle note e le loro posizioni
sul pentagramma e sulla tastiera si dovrebbe proseguire nella
lettura del presente manuale, poiché leggere i nomi delle note
presi singolarmente può rivelarsi pericolosamente
controproducente se preso come un’abitudine. Potrebbe
impedire per sempre lo sviluppo di una lettura scorrevole. Nei
paragrafi successivi sarà chiarito in che rapporto sta la lettura dei
nomi delle note presi singolarmente con il presente studio, e quando
è doveroso evitarla.

CAPITOLO II

2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo

S’inizia a uscire dall’orizzonte dei nomi delle note presi


singolarmente con l’introduzione degli intervalli , che sono per così
dire “le sillabe” della musica. Questi rappresentano delle precise
distanze: in primo luogo quelle che intercorrono numericamente tra i
nomi di nota che si trovano sul pentagramma . Sul manuale Armonia
di Walter Piston si trova la seguente definizione per la classificazione
di qualsiasi intervallo :

Il nome di un intervallo è diviso in due parti [...]. La prima parte del


nome (potremmo dire il “nome generico”) di un intervallo si
trova contando le linee e gli spazi che separano le due [i due
nomi di [24] ] note sul rigo. [25]

Ecco un esempio di quanto detto fino a questo momento:

Figura 52

Ci si soffermerà ora proprio su questa prima parte del nome di un


intervallo , la più importante per un primo approccio alla lettura: per
sapere se l’ intervallo che sto leggendo sia di “terza” oppure di
“quinta” è sufficiente contare le righe e gli spazi che separano la
componente più bassa di tale intervallo da quella che sta più in alto
[26] . Ciò significa che per il momento anche la conoscenza, la

presenza o l’assenza degli accidenti - diesis bemolli o doppi - è un


fatto secondario, che perciò sarà trattato in seguito, quando si
parlerà della seconda parte del nome di un intervallo (par.6 - Cap. II).
Pertanto, lo scopo primario della lettura sarà quello di rendere il
calcolo di questa distanza tra i punti del pentagramma il più rapido
possibile, per poi stabilire un’associazione tra determinate
combinazioni di distanze. Si elencano di seguito alcune tecniche
ritenute valide dall’autore per sveltire questo processo. Negli esempi
che seguono (fig. 53 e 54) si trovano, accanto alle figure ritmiche ,
dei segni per il momento incomprensibili. Sono stati scritti
appositamente per questo motivo: non per confondere, ma per
dimostrare che qualsiasi altro elemento si aggiunga al pentagramma
, anche se nuovo o incomprensibile, non cambia la validità di queste
tecniche.

Primo suggerimento : se il componente inferiore dell’ intervallo si


trova su uno spazio, e quello superiore su una riga o viceversa, l’
intervallo sarà espresso da un ordinale pari, in altre parole: seconda,
quarta, sesta, ottava (fig. 53).

Figura 53

Secondo suggerimento : se sia il componente inferiore dell’


intervallo che quello superiore si trovano su righe o su spazi, il nome
generico del medesimo sarà espresso da un ordinale dispari: oltre
all’unisono, terza, quinta, settima e nona (fig. 54).
Figura 54

Per applicare queste due regole alla lettura, si proceda in questo


modo:

1. In primo luogo, si legga la posizione (riga o spazio) della


componente inferiore ;
2. In secondo luogo, la si confronti con quella della
componente superiore (riga o spazio).

Si anticipa che quei segni al momento incomprensibili posti prima


delle figure ritmiche sono segni di alterazione , altrimenti detti
accidenti . Al momento non è necessario sapere cosa siano, sono
stati posti in questi esempi al solo fine di dimostrare che la
numerazione degli intervalli rimane costante. Sarà un prezioso
suggerimento, e questo esempio verrà ripreso una volta compresa
l’enorme importanza dei segni di alterazione , dei quali si tratterà in
seguito (par. 6 - Cap. II). In ogni caso, sovente non è necessario
considerare intervalli più ampi di quelli mostrati. Qualora invece lo
sia, per ottenere il nome generico di un intervallo che superi l’ottava
è sufficiente, a partire dai due nomi di nota di cui è composto,
applicare le due regole indicate qui sopra basandosi sui casi indicati
dal seguente modello [27] :

Se l’ampiezza di un intervallo non supera l’ottava, esso viene definito


“ intervallo semplice ”, se tale ampiezza è maggiore di un’ottava si
tratta di un “ intervallo composto ”. In genere quando si parla di
un intervallo composto ci si riferisce ad esso come se fosse
semplice . Per ottenere questa riduzione si deve sottrarre l’ottava
dall’intervallo composto, sottraendo dal numero dell’intervallo la cifra
7 (così per esempio, una dodicesima diventa una quinta) [28] .
Alcuni intervalli composti come a esempio la nona, sono
comunque caratteristici della struttura di certi accordi e di
solito vengono definiti con il numero più grande. [29]

In questo ultimo modello si è nominato l’ accordo : esso corrisponde


musicalmente a ciò che in morfologia è una parola. Dal momento
che è formato da note, presenta un preciso nome , dei precisi valori
ritmici e un preciso suono . Si anticipa fin da subito che, esattamente
come di questo testo si leggono prima le parole e in seguito si
stabilisce un’associazione mentale per determinarne il significato,
così accadrà nella musica per quanto riguarda gli accordi . Nella
nostra musica, tutti i nomi delle note presi singolarmente dovranno
essere ricondotti, nel modo in cui si sta per mostrare, ai tipi di
accordo che le contengono. Così come in questo testo si stanno
distinguendo le parole in virtù dell’assoluta confidenza con la lettura
delle singole lettere e delle sillabe, lo stesso dovrà accadere in
musica. Inizialmente si dovrà prendere un’assoluta confidenza con la
scala fondamentale e coi nomi generici degli intervalli , ossia con i
nomi delle “lettere” e con il ruolo numerico che rivestono i medesimi
nel comporre le varie “sillabe” della nostra musica ; solo in un
secondo momento si potrà iniziare a distinguerne le “parole”, ossia
gli accordi . Per il momento è bene occuparsi dei “tipi di parola”, così
come nella grammatica si distingue un aggettivo da un sostantivo .
Da un punto di vista intervallare il tipo di accordo più importante e
più piccolo che si possa trovare nella nostra musica è la trìade . La
sovrapposizione di due intervalli di terza, detti anche più brevemente
“terze”, dà luogo a un accordo di trìade (fig. 55).
Figura 55

Gli esempi precedenti (fig. 53 - 54) riportano solo intervalli armonici


: essendo composti da elementi ritmicamente simultanei, questi sono
scritti verticalmente uno sopra l’altro; la lettura di questi intervalli sarà
quindi verticale (dal basso verso l’alto) . Gli intervalli melodici sono
invece composti da elementi che si susseguono e che pertanto sono
scritti l’uno accanto all’altro: la lettura di questi intervalli sarà dunque
orizzontale (da sinistra verso destra). È fondamentale capire che la
lettura verticale e quella orizzontale sono un tutt’uno nella musica [30]
, ma soprattutto che , nella maggior parte dei casi, ciò che è scritto
orizzontalmente può essere letto verticalmente . Si prenda per
esempio un arpeggio , che è strutturalmente un accordo le cui note
sono eseguite in modo non simultaneo , quindi una dopo l’altra (fig.
56):

Figura 56
Da questo esempio si può comprendere la ragione per cui, nel primo
capitolo di questo manuale si è precisato che l’alfabeto di lettura
nella nostra musica , ossia i nomi della scala fondamentale, deve
essere raggruppato nei “tipi di parole della musica”. In questo caso
infatti (fig. 56), leggere le note prese singolarmente non serve a
nulla, leggerle orizzontalmente ancor meno. Per individuare a colpo
d’occhio che le sei note scritte qui sopra sono una trìade ripetuta
due volte si deve, oltre ad aver compreso quanto detto finora, saper
guardare l’aspetto numerico del pentagramma , ossia i nomi generici
degli intervalli . I tre nomi di nota che compongono il primo arpeggio
sono infatti tutti scritti sulle righe. La distanza che intercorre tra un
nome di nota e l’altro non è comunque grande come quella di una
quinta, né piccola come quella di una seconda, anche perché in
quest’ultimo caso, trattandosi di un intervallo pari, i nomi di nota non
sarebbero scritti tutti sulle righe, ma in modo diverso: alcuni sulle
righe e alcuni sugli spazi. Da ciò si evince che, se non si fosse
saputo distinguere questo “tipo di parola” della musica, ossia l’
accordo e quindi l’ arpeggio , non si sarebbe potuta cogliere la
metodologia più consona per leggere il passaggio in esempio. Per
riassumere, i tre intervalli melodici così trovati possono essere
ricondotti proprio alla trìade di partenza (fig. 57):

Figura 57

Nello sperimentare le tecniche via via proposte in questo manuale, si


consiglia di non consultare partiture troppo complesse, o si finirà
solo per scoraggiarsi inutilmente. Quando non si conosce nessuna
lingua, per imparare a leggere si comincia da frasi semplici. Lo
stesso deve avvenire in musica. Un’altra questione fondamentale è
quella dell’immaginazione di elementi astratti. Infatti, per ricostruire
nella mente un determinato intervallo preso singolarmente tra due
nomi di nota , conviene sempre scegliere un punto di riferimento sul
pentagramma , che potrebbe essere il do centrale se ci si trova
scomodi sui tagli addizionali , quindi il primo taglio addizionale in
chiave di violino , oppure il do sul secondo spazio in chiave di basso
, in modo da non costruire formule teoriche a partire da un punto
casuale del pentagramma . Per esempio, se si deve capire quale sia
il nome della nota che forma una quinta con il do , si può immaginare
il do centrale e spostarsi mentalmente sulla seconda riga del
pentagramma in chiave di violino. Applicando le tecniche di lettura
indicate finora si otterrà che i due nomi di nota sono stati associati
entrambi a delle righe, ciò dovrebbe suggerire immediatamente un
intervallo dispari - precisamente a una distanza di quinta - dal
momento che tra loro, oltre agli spazi, si trova solo un’altra riga (fig.
58).

Figura 58

Lo stesso vale per gli altri nomi di nota che fanno parte della scala
fondamentale : questi saranno desunti sempre a partire da quel do
centrale di riferimento, scelto in questo caso anche per rispettare la
convenzione, presente nelle armature di chiave, di non sconfinare
nei tagli addizionali . Che cosa sia un’ armatura di chiave sarà presto
chiarito (par. 6 - Cap. II).

2.2 Introduzione pratica alla lettura degli accordi


Nel repertorio del periodo tonale , le forme accordali più utilizzate
sono trìadi , settime e none : queste ultime andranno affrontate in un
secondo tempo, dal momento che tra i tipi di accordo nominati sono
le più rare da incontrare all’inizio degli studi. Queste tre forme
accordali si definiscono dal numero di sovrapposizioni che gli
intervalli di terza, o terze, determinano tra loro . Sovrapponendo
due terze si ottiene una trìade ; sovrapponendo tre terze, una
settima [31] ; sovrapponendo quattro terze, una nona . In un primo
momento non è fondamentale saper distinguere cosa sia un accordo
maggiore , minore , eccedente o diminuito : ai fini della lettura, è
importante saper distinguere a livello numerico e intervallare le
tipologie di accordo , ossia il loro nome generico . Occorre in altre
parole saper distinguere una trìade da una settima e queste due, per
esclusione, da una nona . Una volta effettuato questo primo
riconoscimento, sarà possibile distinguere immediatamente il punto
sul quale si struttura l’ accordo e stabilirne infine il nome specifico
introducendo nuove forme con cui è possibile scrivere lo stesso tipo
di accordo . Finora infatti gli intervalli sono stati trattati solo da un
punto di vista numerico - come “sillabe” della musica - non
prendendo in esame quali siano effettivamente le “lettere”, ossia le
note , di cui tali intervalli sono composti: se ne è contato solamente il
numero. Si consideri quanto segue: se non si sapessero distinguere
numericamente le due lettere che compongono la sillaba “ca”, allora
non si riuscirebbe neppure a comprendere di quali lettere
dell’alfabeto singolarmente si tratti . Per capire che sono due
lettere, occorre comprendere in che modo si formano le spaziature
che le separano, motivo per cui generalmente s’inizia a far leggere i
bambini in stampatello e non in corsivo. Lo stesso accade
metaforicamente in musica: l’aspetto numerico degli intervalli
definisce le distanze tra i nomi di nota associati al pentagramma
attraverso la chiave . Passata questa prima fase, s’inizierà a
distinguere le varie “lettere della musica”, e quindi a “ pronunciarle ”
foneticamente . Si ricordi che per il momento se ne è pronunciato
solo il nome . La differenza tra la pronuncia letterale e quella fonetica
è la stessa che c’è tra la descrizione di un oggetto e l’oggetto stesso.
Si prenda un esempio riguardante i nomi delle note della scala
fondamentale : il fatto che vogliano degli attributi ( do diesis , do
bemolle ecc.) non indica che debbano essere accomunati anche da
un punto di vista fonetico, ossia acustico , alla scala fondamentale
stessa. Si è detto infatti più volte che questa è composta dai soli
nomi delle note, non dai suoni associati alle medesime. Ciò
nonostante, la musica non è fatta soltanto di nomi delle note , ma
anche di suoni associati a quei nomi e di ritmi associati a quei suoni .
Si può essere bravissimi a distinguere le varie posizioni dei nomi
delle note sul pentagramma , ma se non li si saprà associare al
loro corrispondente suono , e quest’ultimo al corrispondente
ritmo , non si riuscirà a comprenderne il significato . Non sono
dunque i suoni a volere gli attributi di cui si è parlato, bensì i
nomi associati ai medesimi. Come si chiarirà più avanti (par. 6 -
Cap. II), do diesis sarà quindi il nome che verrà dato a un suono ben
preciso, esattamente come si descrive una natura viva riferendosi a
qualcosa di ben preciso e una natura morta riferendosi a qualcosa
di completamente diverso. Se li si considera per il loro suono, do e
do diesis , o do bemolle, o do doppio diesis eccetera non sono
neppure parenti alla lontana . Si può quindi riassumere il discorso
fatto finora usando la seguente metafora:

● Scala fondamentale : contiene i nomi delle “lettere


dell’alfabeto scritto musicale” (e non il modo in cui suonano).
● Nomi generici degli intervalli : contengono le quantità
delle “sillabe musicali” (e non il modo in cui suonano).
● Nomi dei tipi di accordo : contengono i “ tipi di parole
della nostra musica ” (e non il modo in cui suonano).
● Nomi degli accidenti : contengono gli “ attributi ai nomi
delle lettere dell’alfabeto musicale” (e non il modo in cui
suonano).

2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi

Le trìadi , in quanto sovrapposizioni di due intervalli di terza, sono


accordi formati da tre nomi di note ; le settime invece, essendo il
frutto della sovrapposizione di tre intervalli di terza - o di tre terze,
che dir si voglia - hanno una struttura formata da quattro nomi di
note ( quadrìade ). Nella materia musicale dell’ Armonia [32] , si può
distinguere i tipi di accordi numerando gli intervalli di cui sono
composti a partire dal basso . Nei paragrafi a seguire, si spiegherà
approfonditamente come operare questa distinzione. Per esempio,
leggendo a partire dal basso do - mi - sol , si numererà l’ accordo
con un 3 e un 5, riducendo eventuali intervalli composti a intervalli
semplici ; in seguito quel 3 verrà sottinteso, dal momento che senza
un’altra terza è impossibile formare un qualsiasi accordo : quel tipo
di accordo sarà quindi definito esclusivamente da un 5. Tuttavia, può
capitare di trovare i nomi delle note dell’ accordo disposte
diversamente (per esempio, trovando il mi come nome di nota più
basso); di queste variabili, molto semplici da distinguere, si tratterà
nel paragrafo successivo.

2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni

Dal momento che una trìade, formata dai nomi di nota do - mi - sol,
può essere scritta, e quindi letta, anche come mi - do - sol
(cambiamento di stato , o rivolto ), o ancora do - sol - mi
(cambiamento di posizione ), i nomi di nota di un accordo sono stati
associati a dei numeri ordinali ( terza, quinta ecc. [33] ); questi numeri
si riferiscono tra le altre cose al nome generico dell’ intervallo che i
nomi delle note formano con la fondamentale dell’accordo (fig. 59),
in modo da poter essere distinti nella loro collocazione in tutti gli stati
e posizioni .

Figura 59
Si capisce quindi che il nome della fondamentale è il nome della
nota sul quale si fonda l’accordo ( fondamentale ), ossia quello dal
quale si parte numericamente per costruirlo, disponendo un
intervallo di terza e poi sovrapponendone un secondo. Tale nome di
nota dà anche in parte o in tutto un nome generico all’accordo [34] .
Pertanto, un accordo detto in stato fondamentale avrà come nome
di nota più basso quello associato alla sua nota fondamentale .
Per ciò che concerne la trìade , questa si può trovare in altri due stati
oltre a quello fondamentale : in stato di primo rivolto e in stato di
secondo rivolto . Un accordo in stato di primo rivolto (fig. 60) avrà
come nome di nota più basso quello assegnato alla terza , mentre
un accordo in stato di secondo rivolto (fig. 61) avrà come nota più
basso quello assegnato alla quinta .

Figura 60

Figura 61

Da questi esempi s’intuisce che terza, quinta e settima vengono


attribuite a partire dallo stato fondamentale , ma mantengono il loro
ruolo indipendentemente dal posto che occupano nell’ accordo .
Questa distinzione è essenziale, perché nella numerazione dei
rivolti ci si potrebbe facilmente confondere . A esempio, l’unico
altro modo di chiamare il secondo rivolto è quello di nominarlo in
base agli intervalli di cui si compone a partire dal nome di nota più
basso, che non è quello associato alla fondamentale (si guardi
l’esempio qui in alto): si chiamerà quindi trìade in quarta e sesta . In
questo preciso rivolto, l’ intervallo di quarta sarà quindi quello che si
forma con il nome di nota più basso dell’ accordo , e non con la
fondamentale : lo stesso discorso vale per l’ intervallo di sesta. in
questi due intervalli , i nomi di nota scritti più in alto, con i loro
eventuali attributi (par. 6 - Cap. II), saranno poi associati alla quarta
e alla sesta dell’ accordo .
Ora, limitandosi alle trìadi e alle settime , che sono gli accordi da cui
generalmente inizia il percorso di lettura, i rivolti sono facilmente
riconoscibili perché sono contraddistinti da numeri ordinali ( primo
rivolto , secondo rivolto e, per quanto riguarda gli accordi di settima
, terzo rivolto …): inoltre, come si è già detto, sono caratterizzati dal
fatto di avere rispettivamente come nome di nota più basso la terza ,
la quinta o la settima . Da ciò si evince l’importanza di leggere dal
basso verso l’alto ( lettura verticale ). Si guardi nuovamente gli
esempi proposti, stavolta facendo caso a quale sia la componente
più bassa dell’ accordo .
Inoltre, si osservi che i nomi di nota disposti negli esempi appena
proposti nascondono una invisibile ripartizione (fi. 63) in precisi
ambiti del pentagramma : quando si dice “il nome di nota più basso”
dell’ accordo , molto spesso ci si sta riferendo a quello assegnato al
basso , che è un preciso tipo vocale . All’interno del pentagramma
infatti , è convenzionalmente stabilito un intervallo di nomi di note
entro cui le differenti categorie di voci ( basso , tenore , contralto e
soprano ) si muovono; questo intervallo corrisponde a una data
estensione numerica del tipo vocale. L’intervallo entro il quale un
nome di nota viene definito come “assegnato” al basso è
generalmente il seguente (fig. 62):

Figura 62

Alla luce delle considerazioni precedenti, si riporta di seguito lo


schema numerico-intervallare dei quattro tipi vocali (fig. 63) [35] :
Figura 63

Da questa invisibile ripartizione attuata nella nostra musica tra i


quattro tipi vocali prende il nome lo spartito . Attenzione, c’è una
differenza tra una persona che fa la professione di cantante e
viene definita soprano e il tipo vocale del soprano . In questo
manuale voce e tipo vocale sono usati in alcuni contesti come
sinonimi, benché il tipo vocale indichi, come precedentemente
evidenziato, solamente un intervallo numerico all’interno del
pentagramma entro il quale si trovano i più frequenti [36] nomi di nota
che un cantante appartenente a quella determinata categoria
(basso, tenore, contralto, soprano, ecc.) dovrà prendere in
considerazione (mentre con il termine voce ci si riferisce di solito già
alla nota assegnata a un determinato tipo vocale ). Si tenga presente
che l’estensione vocale di un cantante non coincide con l’estensione
numerico-intervallare dei tipi vocali . Si prenda in esame, per
esempio, l’estensione vocale del leggendario soprano Maria Callas,
desunta dalle sue sole registrazioni in studio (fig. 64):
Figura 64

Ecco come procedere per esaminarla:

1) Per leggere tale intervallo (fig. 64) non ci si può basare


soltanto sulle righe e sugli spazi del pentagramma (par. 1 -
Cap II). Tale metodo di lettura dovrebbe essere riservato in
un primo momento a distanze che non eccedono quella di
un intervallo numerico di nona.

2) Per leggere il rapporto numerico che intercorre tra due


nomi di nota che superano la nona, molto spesso è più
conveniente considerare che la struttura numerica del
pentagramma è stata associata alla scala fondamentale
(par. 3 - Cap. I). Per questo motivo, è sufficiente leggere che
il nome di nota più basso è fa , mentre quello più alto è mi ,
per avere ben chiaro che la distanza tra i nomi di nota fa e
mi è sempre, riducendo l’ intervallo alla sua forma semplice ,
una settima. Gli intervalli composti , come si è già visto (par.
1 - Cap. II), sono da prendere in considerazione solo se la
musica suggerisce un particolare tipo di accordo ( none , o
undicesime e tredicesime di cui al momento non ci si deve
occupare), fatto assolutamente inconsueto nel corso dei
primi studi. Da questo calcolo si può poi notare a occhio che
tra un nome di nota e l’altro intercorrono circa tre ottave.
Moltiplicando quindi il numero 7 per tre, si ottiene che
numericamente questo è un intervallo di ventunesima.

Si comprenda adesso che questa estensione vocale ha due


caratteristiche:

3) È numericamente molto più ampia di quella presa in


considerazione per il tipo vocale del soprano . Da ciò si
evince che le estensioni dei tipi vocali hanno natura e
rapporto puramente compositivi con l’estensione vocale e
quindi sonora di un cantante soprano.
4) Presenta un segno di alterazione , chiaro indice di una
componente acustica e di un attributo al nome di nota, che
nel presente paragrafo non è ancora preso in
considerazione (se ne tratterà nel par. 6 - Cap. II).

Naturalmente, essendo presenti quattro tipi vocali all’interno della


partitura - che indicano gli intervalli numerici entro i quali si
trovano i nomi di nota comunemente presi in considerazione
dai rispettivi cantanti di cui tali tipi vocali condividono il nome -
nulla vieta di far leggere a quattro diversi cantanti ciò che è scritto
nei loro rispettivi intervalli vocali . È quel che accade nella musica
corale. Si potrebbe anche pensare di far leggere a più di un soprano
la parte di spartito che comprende i nomi di nota assegnati al tipo
vocale del soprano : ciò in effetti può accadere all’interno di un
grande coro. Da questo si può facilmente capire, riprendendo
l'esempio precedente, che alcuni di questi cantanti potrebbero
trovare una pausa ritmica riservata soltanto a loro. Per questa
ragione, le pause ritmiche possono trovarsi secondo la disposizione,
già precedentemente mostrata, che figura nell’esempio a seguire
(fig. 65):

Figura 65

Una pausa scritta come in esempio si riferisce a un solo e


determinato tipo vocale . Per un neofita che non abbia nozioni di
lettura, è molto difficile arrivare a dedurlo, poiché i quattro tipi vocali
sono sottintesi allo spartito nella nostra musica , e anche al tipo di
scrittura di molti altri ambiti musicali che a quest’ultima si sono
ispirati. Anche la posizione delle chiavi tiene conto di questi quattro
tipi vocali . A esempio, la chiave antica di do soprano è scritta sulla
riga del pentagramma proprio per lasciare spazio verso l’alto al tipo
vocale del soprano , in virtù della sua estensione numerico-
intervallare (fig. 66):

Figura 66

La stessa chiave di basso pianistica rispetta questo principio, poiché


viene scritta in modo da far impiegare il minor numero di tagli
addizionali possibili al tipo vocale del basso (fig. 67):

Figura 67

In questa estensione, per indicare il suono associato alla nota che


sta più in basso si impiegherebbero sette tagli addizionali utilizzando
una chiave di violino . Pertanto, in virtù della struttura sottintesa alla
partitura , dal momento che la trìade è formata da tre nomi di nota
ma rappresenta la base armonica della nostra musica che è scritta
per quattro tipi vocali , si aggiunge convenzionalmente un quarto
nome di nota (il cosiddetto raddoppio ), che rappresenta tra le altre
cose anche la ripetizione su un’ottava differente di un nome di nota
dell’ accordo [37] (fig. 68). Nel caso delle settime invece, che sono
già formate da quattro nomi di nota , questo problema non sussiste.
Per gli accordi formati da cinque o più nomi di nota , come le none ,
si cerca in genere di omettere alcune componenti dell’ accordo per
tornare alla configurazione dei quattro tipi vocali . Si veda di seguito
uno schema che riassume tutte le possibili forme, rivolti compresi, di
trìadi e settime con la loro relativa numerazione armonica
intervallare. Si noti anche a questo punto che quello che inizialmente
si era considerato semplicemente il “il nome di nota più basso dell’
accordo ”, adesso corrisponde al nome di nota assegnato al tipo
vocale del basso . In altre parole, il rivolto di una trìade si distingue
più tecnicamente da quale sia il nome di nota assegnato al tipo
vocale del basso . Se la terza è assegnata al basso , si tratta di un
primo rivolto ; se la quinta è assegnata al basso si tratta di un
secondo rivolto ; invece, nel caso degli accordi di settima , se la
settima è assegnata al basso si tratta di un terzo rivolto . Nel
paragrafo successivo, si tratterà sinteticamente del metodo per
distinguere velocemente le forme tra poco mostrate. Questo
schema (fig. 68 - fig. 69), dal momento che riguarda
esclusivamente il nome generico degli intervalli di cui gli
accordi sono composti , avrà valore in qualsiasi ambito del nostro
studio . Nella prima battuta si trovano le trìadi e i loro rivolti ; la
stessa schematizzazione è proposta in una battuta differente per le
settime . Si ricordi che il nome della nota fondamentale di un
qualsiasi accordo in rivolto è quello più alto dell’ intervallo pari più
piccolo che si viene a formare con il basso . Per esempio: mi-sol-
do , tra mi e do c’è una sesta, quindi la fondamentale dell’accordo è
do . Questo è utile per individuare sul pentagramma le posizioni più
solite del nome della nota fondamentale , dato che si dovrebbe
iniziare a interpretare armonicamente l’ accordo proprio a partire da
quel nome di nota . Questo può essere utile per individuare
graficamente, sul pentagramma , le posizioni più solite del nome
della nota fondamentale , dato che per avere una rapida capacità di
analisi estemporanea bisogna imparare a leggere partendo da quel
nome di nota [38] .

Figura 68
Figura 69

Alcuni numeri associati a determinati intervalli non vengono scritti


(per esempio il tre e il cinque nello stato fondamentale di una settima
) e sono dati come sottintesi perché non rappresentano una
peculiarità nella struttura accordale rispetto alle altre forme qui
mostrate. Inoltre si noti che questo schema è scritto a parti strette [39]
, ossia rispettando la distanza di un’ottava tra le tre voci superiori
rispetto al basso [40] , che da quest’ultimo, verso l’alto, prendono il
nome di tenore , contralto e soprano . Come si può facilmente
notare, in questo tipo di scrittura - molto frequente al pianoforte in
virtù delle possibilità offerte dalla struttura della tastiera - è facile che
tutti gli intervalli caratteristici dell’ accordo siano presenti nei nomi di
nota assegnati ai tre tipi vocali superiori.
Proseguendo il discorso sulle forme degli accordi : una trattazione a
parte meritano invece le posizioni , da distinguere sin da subito
dai rivolti o stati degli accordi . Ecco le tre posizioni in cui è
possibile trovare una trìade in stato fondamentale (fig. 70).
Figura 70

A partire da sinistra, le posizioni mostrate nell’esempio vengono


definite posizione di terza , posizione di quinta e posizione di ottava.
Il termine posizione verrà poi sottinteso, motivo per cui alla fine tali
posizioni verranno definite soltanto di terza , di quinta e di ottava .
Vengono chiamate così per un motivo simile a quello dei rivolti : se al
soprano si trova la terza, si tratta di una posizione di terza ; se vi si
trova la quinta, si tratta di una posizione di quinta ; se vi si trova
l’ottava, si tratta di una posizione di ottava . Il tipo vocale del soprano
si distingue perché le note assegnategli vengono generalmente
scritte all’interno dell’ intervallo mostrato nello schema dei quattro tipi
vocali qui in alto. Il basso nell’esempio (fig. 70) infatti resta fermo:
questo suggerisce che si tratta in tutti e tre i tempi di un accordo in
stato fondamentale .

2.5 Metodo per agevolare la lettura di trìadi e settime

Lo schema visto in precedenza (fig. 71) riassume i tipi accordali e le


loro posizioni : per le prime letture bisognerebbe scegliere esercizi la
cui complessità non vada oltre quello schema. Lo si ripropone di
seguito:
Figura 71

Figura 72

Rimanendo nell'orizzonte di trìadi e settime , per analizzare gli


accordi e distinguerne la tipologia, è sufficiente trovare il modo di
applicare lo schema mostrato precedentemente (fig. 71 e 72).
Questo può essere utile, per esempio, nei primi volumi di esercizi
elementari per pianoforte Czernyana [41] . Ecco come fare: si inizi
numerando come nell’esempio (fig. 71 e 72) gli intervalli che il nome
di nota più basso dell’ accordo - il quale non è necessariamente
associato alla nota fondamentale - forma, rispettivamente, con
ciascuna di quelli che ha più in alto. Per numerare questi intervalli ,
non bisogna di volta in volta contare righe e spazi, e neppure
utilizzare il metodo sulla numerazione mostrato nei paragrafi
precedenti. Ora che si è compresa la struttura numerica del
pentagramma , sarà sufficiente leggere i nomi delle note che
compongono un accordo : come si è visto, questi presuppongono
una struttura intervallare ben precisa, data dalla scala
fondamentale come successione universale di intervalli di
seconda . Si consideri perciò quanto segue: una trìade è formata
dalla sovrapposizione di due terze; queste ultime, sul pentagramma ,
corrispondono a precise posizioni sulla scala fondamentale , quindi a
precisi valori numerici. Per questa ragione le trìadi origineranno
sempre, a partire dalla loro rispettiva nota fondamentale , soltanto le
sette combinazioni di nomi di nota a seguire:

DO-MI-SOL
RE-FA-LA
MI-SOL-SI
FA-LA-DO
SOL-SI-RE
LA-DO-MI
SI-RE-FA

Imparando queste sette combinazioni per i nomi delle note si


comprenderà la struttura nominale e numerico-intervallare su cui si
basano gli stati fondamentali e i rivolti di tutte le trìadi della nostra
musica. Per esempio, trovando un accordo scritto a partire dal basso
mi - do - sol , sarà facile ricondurlo a do - mi - sol (stato
fondamentale) semplicemente riordinandone i nomi di nota a mente:
così facendo, si comprende che tale accordo ha la terza al basso; si
tratta quindi di un primo rivolto di trìade .
In relazione alle sette combinazioni viste in precedenza, si noti che
gli accordi di settima mantengono la prima parte della struttura
invariata, con l’ulteriore aggiunta di un intervallo di terza:

RE-FA-LA- DO
MI-SOL-SI- RE
FA-LA-DO- MI
SOL-SI-RE- FA
LA-DO-MI- SOL
SI-RE-FA- LA
DO-MI-SOL- SI

Quindi, trovando nei primi studi un accordo scritto come si - do - mi ,


non si penserà a una trìade , bensì, per esclusione, a un accordo di
settima , in quanto si e do formano un intervallo di seconda sulla
scala fondamentale . L’ intervallo di seconda è una peculiarità dell’
accordo di settima e sarà quasi sempre presente in tutti i suoi rivolti ,
essendo formato dalla settima dell’ accordo e dalla sua
fondamentale , i due componenti più caratteristici di questo tipo
accordale [42] . Sul pentagramma , un intervallo riga-riga identificherà
sempre una terza, a prescindere dalla chiave . Lo stesso vale per
spazio-spazio, e così via per tutti i principi già enunciati. Ciò significa
che, nella sovrapposizione di due o più terze, a variare potrà essere
esclusivamente il nome della nota fondamentale dell’ accordo , non i
rapporti che intercorrono tra le note superiori rispetto alla scala
fondamentale : per ciò che concerne tutte le possibilità di tale
variazione nell’ambito delle trìadi , le si può riassumere nello schema
a seguire (fig. 71.1):

Figura 71.1
Questo specchietto considera tutti i rapporti che due intervalli di
terza, sovrapponendosi, possono instaurare con i vari nomi di note
della scala fondamentale : rappresenta dunque lo scheletro
numerico delle trìadi . Lo schema si limita alla porzione di
pentagramma già presa in esame (fig. 25). Come esercizio di lettura,
si nominino tutti i nomi di nota a partire dal basso e procedendo da
sinistra verso destra scegliendo tra chiave di violino o chiave di
basso , che sono le due impiegate per la scrittura pianistica. In
chiave di violino , si direbbe così: fa-la-do , sol-si-re , la-do-mi ,
eccetera. La stessa operazione va effettuata al contrario e poi
partendo da un punto sempre diverso dell’esercizio. Questo metodo
serve a comprendere che la scala fondamentale è presupposta alla
struttura sequenziale del pentagramma , che guadagna un orizzonte
all’interno della porzione udibile dei suoni esclusivamente attraverso
la chiave . Nonostante questo, una terza ascendente con il do come
nome della nota fondamentale dell’ intervallo sarà sempre do-mi ,
non sono la chiave o altri elementi a conferire questa struttura
numerica al pentagramma, bensì soltanto la scala fondamentale
. Per tale ragione, da questo momento si dovrebbe cercare di
instaurare una stretta relazione tra i nomi delle note e i numeri legati
al loro intervallo , come esemplifica molto chiaramente Jean-Philippe
Rameau nel suo Trattato di Armonia [43] : per praticare la lettura della
scala fondamentale è infatti essenziale una disposizione per trìadi ,
poiché la trìade è l’elemento fondamentale dell’ Armonia (e non
solo), ossia dei canoni ai quali ci si rifà, trasgredendoli o meno, per
scrivere - e leggere - la maggior parte della musica.
È possibile praticare questo esercizio con l’aggiunta del nome di
nota che si trova a un intervallo di settima da quello sul quale si
fonda l’ accordo . Vi è un motivo fondamentale per cui bisogna
praticare fin dall’inizio anche su una sequenza di quattro nomi
di nota : Jean-Philippe Rameau ne tratta nel primo paragrafo del
suo Trattato di Armonia [44] . Il motivo è che gli intervalli di settima
rientrano tra gli intervalli più importanti della nostra musica : questi
sono infatti terze, quinte e settime. Gli intervalli appena nominati
andrebbero conosciuti alla perfezione: a partire da un nome di nota
qualunque si dovrebbe subito capire quale sia la terza, la quinta o la
settima a esso associata; gli intervalli rimanenti (quelli di seconda,
quarta e sesta) sono derivati per rivolto dai tre intervalli fondamentali
di terza, quinta e settima. Nel suo trattato, Jean-Philippe Rameau
propone una tabella in cui gli intervalli sono schematizzati come una
serie di sequenze numeriche ; l’autore ritiene tuttavia che sia più
funzionale apprenderli associando già ogni intervallo a una precisa
sequenza di quattro nomi di note , sebbene queste non abbiano
ancora un significato acustico , ma solo nominale . La seconda
fase dell’esercizio sopra proposto consiste nel cercare di desumere
, e non più leggere direttamente , i nomi delle note superiori
leggendo soltanto quello posto più in basso : quest’ultimo è un
esercizio d’immaginazione imprescindibile per la lettura. Molto utile
in questo senso è anche leggere al contrario, ossia partire dal nome
di nota più alto verso quello più basso, o da destra verso sinistra.
Successivamente si dovrà eseguire l’esercizio a occhi chiusi,
immaginando a memoria ogni intervallo , fin quando lo si saprà
portare a termine mentalmente in brevissimo tempo. Questo
esercizio e quello sulla pronuncia della scala fondamentale sono
essenziali per proseguire nella lettura di questo manuale, si devono
perciò obbligatoriamente studiare: si leggerà spesso, dopo aver
preso grande confidenza coi principi esposti, solo il nome di nota più
basso dell’ accordo ricavando il rapporto che esso costituisce con la
scala fondamentale . Per il momento occorre soltanto avere chiaro lo
scopo dei prossimi paragrafi: quello di avere in mente, a partire dalla
lettura del solo nome di nota più basso di un accordo in stato
fondamentale , un’idea sulla possibile struttura di tale accordo . Per
fare questo non ci si servirà solo di elementi strettamente legati alla
scrittura del brano, ma anche di elementi relativi ad altri contesti: per
esempio, la sua periodizzazione storica. In una ballata
rinascimentale, una volta compresi i paradigmi dell’epoca,
generalmente non ci si aspetterà una sovrapposizione di più di tre
terze: sarà più comodo quindi, leggendo do come nome di nota più
basso, avere automaticamente nella mente do-mi-sol , al limite con
l’aggiunta della settima ; infine si confronterà l’esito di questo
tentativo di previsione con ciò che effettivamente è scritto sopra il
nome di nota più basso.
Con molta pratica non sarà necessario controllare sempre i tentativi
di previsione fatti per ciascun nomi di nota , uno per uno: dato che
si partirà con un’ipotesi nella mente, per confermarla o
smentirla basterà, leggendo prima attentamente il solo nome di
nota più basso, un eventuale colpo d’occhio al rapporto
numerico che i nomi di nota superiori instaurano con
quest’ultimo . Si tratterà approfonditamente di questo argomento in
un paragrafo successivo, una volta introdotte una serie di nozioni
fondamentali per la sua comprensione, come il concetto di tonalità o
quello di armonia pratica . S’invita pertanto a leggere questo
manuale in ordine, secondo la disposizione che l’autore ha scelto
per i suoi paragrafi.

2.6 Introduzione alla composizione delle scale

In questo paragrafo saranno inizialmente introdotte e definite le


scale della nostra musica ; in un secondo momento si spiegherà
come contestualizzare l’ intervallo nell’ambito sonoro, soprattutto in
quanto componente accordale, ossia come elemento costitutivo
degli accordi e dei loro suoni . Finora, infatti, gli intervalli sono stati
trattati solo per il loro aspetto nominale e numerico, quindi per
il loro nome generico , che sarà comunque sempre valido e
applicabile a tutti gli ambiti della nostra musica : in questo paragrafo,
tuttavia, se ne introdurrà il nome specifico e quindi una precisa
relazione con l’ambito sonoro.
Le scale sono composte dalla successione di sette suoni [45] , e non
più soltanto da nomi o numeri : tali suoni sono disposti per
intervalli melodici [46] di seconda, come avveniva per la scala
fondamentale . Quest’ultima, tuttavia, non rientra direttamente tra le
nostre scale, perché di queste costituisce solo il fondamento
numerico . Infatti, le nostre scale rappresentano in questo manuale
il primo momento in cui l’aspetto numerico della scrittura musicale si
associa indissolubilmente all’ambito dei suoni . I “mattoni” teorici con
cui si distinguono le varie strutture delle scale sono toni e i semitoni,
due tipi di intervallo la cui definizione può essere compresa solo
studiando l’uso che ne farà nei paragrafi seguenti [47] . Toni e
semitoni non si distinguono solo da distanze numeriche, ma anche
da precise qualità acustiche , che si vedranno in seguito. Attraverso
l’introduzione delle scale proposta in questo paragrafo, si avrà un
primo confronto con le associazioni di nomi di nota e segni ritmici a
un suono : si inizierà quindi a parlare delle note e non più soltanto
dei nomi di nota . Il suono , nei primi studi, potrebbe essere emesso
dal pianoforte, ma anche dalla propria voce (solfeggio cantato [48] ) o
da strumenti differenti dal pianoforte.
Come si è detto, se per determinare il nome generico di un intervallo
- la prima parte del suo nome che ne indica il valore numerico - è
sufficiente contare le righe e gli spazi che separano i due punti del
pentagramma sui quali si struttura quell’ intervallo , si comprende
che per formare qualsiasi scala , dato che questa è una
successione di intervalli di seconda , occorre procedere nel modo
seguente:

1. In un primo momento, si concatenerà sul pentagramma una


sequenza di sei intervalli di seconda a partire da un nome di
nota tratto dalla scala fondamentale . A questa sequenza,
che rappresenta lo scheletro di qualsiasi scala , si
aggiungerà un settimo [49] intervallo di seconda che servirà a
comprendere più facilmente le considerazioni successive. Si
ricaverà così, tra le altre cose, la prima parte del nome della
scala che si sta costruendo (di quest’ultimo si tratterà più
avanti).

2. In un secondo momento, si applicheranno alla scala


fondamentale le formule teoriche atte a determinare la
struttura della scala che si intende costruire.

Le nostre scale infatti, chiamate diatoniche , vengono costruite tutte


a partire da quella definita scala fondamentale [50] . Da questa
differiscono perché gli intervalli componenti le scale diatoniche
hanno anche un nome specifico , e non solo uno generico o
numerico come nella scala fondamentale . Stavolta, a differenza di
quanto accadeva per la chiave musicale (par. 3 - Cap. I), non è la
posizione di un intervallo , sul pentagramma in sé, a definirne il
nome specifico .
È necessaria allora qualche premessa per capire quale contesto
effettivamente definisca il nome di un intervallo . Si provi nel
frattempo, prendendo un foglio pentagrammato e una penna, a
mettere per iscritto quanto detto finora. Procedendo a scrivere i nomi
di nota attraverso precise figure ritmiche su righe e spazi del
pentagramma (fig. 73) si termini la sequenza aggiungendo il nome di
nota dalla quale si è iniziato a costruire la scala . Questo nome di
nota , ripetuto un’ottava più in alto, fa da promemoria per la
circolarità della scala fondamentale e darà un senso musicalmente
conclusivo alla scala che si sta costruendo (per motivi che saranno
trattati nel par. 7 - Cap. II). L’importante è ricordarsi che tale nome
di nota non è indispensabile per la struttura della scala (fig. 73).

Figura 73

È necessario ricordare che, in questo momento, si è ancora solo a


metà dell’opera nella composizione di una scala diatonica
poiché, rimanendo al solo aspetto numerico, non si sta componendo
nulla di diverso da una scala fondamentale .
Questa prima fase del procedimento di composizione, che consiste
semplicemente nello scrivere la scala fondamentale , può essere
attuata anche in senso discendente, oltre che in senso ascendente:
infatti, per determinare il nome generico di un intervallo melodico o
armonico (il suo aspetto numerico) si inizia a contare dal nome di
nota che sta più in basso, indipendentemente dalla direzione
ascendente o discendente.
Per la costruzione di una scala si potrà sempre partire da un punto
qualsiasi del pentagramma in chiave . Questo punto-cardine può
essere rappresentato in ogni chiave e da qualsiasi riga o spazio .
La nostra musica, detta musica tonale, si chiama in questo modo - e
dà il nome al periodo tonale di cui si è già trattato - perché i suoi
suoni si organizzano secondo una gerarchia chiamata tonalità : vi è
infatti un suono centrale, chiamato tonica , attorno al quale orbitano
tutti gli altri suoni della determinata nostra scala che è costruita a
partire da quel suono . Tuttavia, il suono fondamentale di una scala
prende questo nome solo quando viene trattato dal punto di vista
della tonalità : in questo ambito, tutti i suoni della scala prendono il
nome della loro rispettiva funzione tonale . Ogni suono della scala,
infatti, ne possiede una precisa: essendo la tonica la nota
fondamentale della scala (corrispondente al I grado ), i nomi delle
altre funzioni tonali saranno indicate a seguire, in senso ascendente:
sopratonica (corrispondente al II grado ), mediante (detta anche
caratteristica o modale , corrispondente al III grado ), sottodominante
(corrispondente al IV grado ), dominante (corrispondente al V grado
), sopradominante (corrispondente al VI grado ) e in ultimo sensibile
o sottotonica (corrispondente al VII grado ) [51] . Niente paura:
basterà al momento sapere che la tonica rappresenta la funzione
armonica fondamentale per leggere sulla partitura le altre note della
scala , che si potranno facilmente individuare a partire dalla loro
relazione numerico-intervallare con la tonica stessa. Questo sarà
chiarito tra poco.
La tonalità si basa sulle scale e su queste si costruisce. Per tale
ragione, le scale non sono ancora delle tonalità fin quando non le si
guarda dal punto di vista della tonalità stessa. Ciò si comprende
anche dal fatto che le scale possiedono una classificazione propria:
si distinguono infatti in due categorie, chiamate modi (un modo
maggiore e uno minore ). Questi due modi non sono distinguibili
tramite il solo nome generico di un intervallo , perché il loro aspetto
numerico è il medesimo, dal momento che, essendo insiemi di scale
, si strutturano come mostrato (fig. 73) entrambi sulla scala
fondamentale (formata numericamente da un’implicita successione
intervallare di seconde). Quello che distingue modo maggiore e
modo minore è il nome specifico degli intervalli di cui sono
composti. Cosa significa allora dire che un brano è, per esempio, in
do diesis maggiore ? Numericamente, la posizione del nome di nota
do sul pentagramma non è cambiata, è pur sempre un do . Ma si è
aggiunto un aggettivo (o attributo ), ossia quel diesis , che ha una
profonda valenza acustica . Do e do diesis da un punto di vista
acustico non sono simili, non sono parenti, neppure cugini alla
lontana. Sono due suoni completamente diversi. Tuttavia, da un
punto di vista numerico, la distanza che intercorre sul pentagramma
- ossia sulla scala fondamentale - tra do diesis e mi è la stessa che
intercorre tra do e mi , poiché sono i nomi di nota della scala
fondamentale ad associarsi al pentagramma , non gli attributi di tali
nomi di nota ( diesis , bemolle ecc.), che si associano solo ai nomi di
nota stessi [52] . Per rinfrescare la memoria, si riporta l’esempio già
preso in esame nel paragrafo sugli intervalli (fig. 74 - fig. 75):

Figura 74

Figura 75
Questi due schemi (fig. 74 - fig. 75) vanno studiati attentamente,
memorizzando le distanze che intercorrono tra tali intervalli secondo
il metodo mostrato (par. 1 - Cap. II). I segni che si trovano a sinistra
delle teste delle figure ritmiche si chiamano accidenti e servono a
modificare l’altezza (sonora) dei suoni a cui le rispettive figure
ritmiche sono associate. Da un punto di vista nominale , e non
acustico, rappresentano l’attributo o aggettivo legato a un nome di
nota (per esempio: la bemolle ). Si riportano di seguito i loro precisi
nomi, a partire da sinistra: diesis , doppio diesis , bemolle , doppio
bemolle e bequadro ( fig. 76).

Figura 76

Diesis e doppio diesis (il primo e il secondo segno in figura) sono


accidenti ascendenti, perché modificano l’altezza del suono a cui si
riferiscono di un semitono , rendendola più acuta ; bemolle e doppio
bemolle (il terzo e quarto segno in figura) sono invece accidenti
discendenti, perché modificano l’altezza del suono di un semitono ,
rendendola più grave . Il bequadro (il quinto segno in figura) invece,
nonostante sia anch'esso un segno di alterazione , non rientra in
queste due categorie perché ha il ruolo di annullare l'effetto degli altri
accidenti , sia ascendenti che discendenti.
È facile ascoltare l'effetto degli accidenti ascendenti e discendenti
perché, all'atto pratico, i tasti bianchi del pianoforte che ricevono tali
segni di alterazione fanno corrispondere il proprio nome di nota a
uno dei loro tasti adiacenti. Si considerino i seguenti esempi: do
diesis corrisponde al tasto nero immediatamente a destra del tasto
bianco do . Fa bemolle corrisponde al tasto bianco immediatamente
a sinistra del tasto bianco fa . A quei tasti adiacenti corrisponderanno
suoni diversi rispetto a quello del tasto bianco a cui è stato
assegnato in partenza l’ accidente . Per la precisione, andando
verso la destra della tastiera si otterranno suoni più acuti e andando
verso la sua sinistra suoni più gravi. In altre parole, dove non c'è un
tasto nero che sia adiacente al tasto di partenza rispetto alla
direzione di alterazione [53] (ascendente= verso destra ;
discendente= verso sinistra ) si dovrà procedere sul tasto bianco;
se invece il tasto nero è presente, si procederà su quel tasto . A
esempio: mi diesis corrisponde al tasto bianco immediatamente alla
destra del mi , mentre fa diesis corrisponde al tasto nero
immediatamente alla destra del fa . Stessa cosa per il do bemolle ,
che corrisponde al tasto bianco immediatamente alla sinistra del do
, e per il sol bemolle , che corrisponde al tasto nero immediatamente
alla sinistra del sol . Si ricordi che, sostituendo un diesis , doppio
diesis , bemolle o doppio bemolle con un bequadro , segno che
annulla l’effetto degli accidenti ascendenti e discendenti, si tornerà
sempre a un tasto bianco.
Leggendo un segno di alterazione , chi studia il pianoforte non terrà
per sempre nella mente, mentre suona , il pensiero che un
determinato tasto bianco sia il riferimento dal quale applicare l’
accidente . Questo pensiero è certamente un valido punto di
partenza per attuare le prime associazioni tra i segni di alterazione
che accompagnano i nomi delle note e la tastiera : tuttavia molti
manuali che trattano dei nostri studi , per tradurlo in pratica,
forniscono al lettore uno schema con sopra indicati i nomi di nota
subito associati ai loro possibili attributi ( accidenti ) e a tutte le loro
possibili posizioni su pentagramma e tastiera . In questo modo non
si fa chiarezza sul fatto che la comprensione del processo di
alterazione espresso dagli accidenti non può avvenire se prima di
presentare tale schema non si introduce almeno il concetto di
tonalità . Pertanto, è vero che il processo di associazione tra gli
accidenti e la tastiera avrà luogo soltanto quando si riuscirà a trovare
immediatamente, senza cioè prima pensare alla teoria, la posizione
di un determinato tasto sul pianoforte anche se il nome di nota a cui
questo si associa è accompagnato da un attributo : tuttavia, il lettore
deve poter sapere sin da subito che in questo caso l’associazione tra
teoria e pratica, in virtù dell’ ambiguità della tastiera (par. 8 - Cap. II)
non avviene con diretti esercizi tattili o visivi come quelli
proposti nel primo capitolo [54] , ma deve essere gradualmente
attuata attraverso precisi studi sulla tecnica pianistica che verranno
introdotti nel capitolo VI [55] .
Da un punto di vista teorico, gli accidenti hanno una funzione
strettamente legata a tutto ciò che viene costruito a partire dalla
scala fondamentale . Pertanto, la loro funzione appartiene
all’ambito delle scale e a quello delle loro associate tonalità:
anteposti a una determinata nota , gli accidenti ne modificano
l'altezza sonora determinando l’attributo del nome della stessa ,
ossia l’aggettivo diesis , bemolle , bequadro , doppio diesis o doppio
bemolle , rendendo tale nome definito e inequivocabile. Nell’ambito
dei nostri studi gli accidenti non sono mai posti senza criterio, ma
seguono schemi ben precisi che bisogna conoscere, poiché si
possono trovare come:

1. Accidenti d’impianto o costanti , di cui si tratterà a breve


introducendo il concetto di armatura di chiave. Questi
accidenti vengono posti immediatamente dopo la chiave e
hanno valore, su tutte le ottave, per l’intera durata della
composizione (o comunque fino a un cambio di tonalità [56] ).

2. Accidenti transitori [57] , di cui si tratterà a breve in


relazione alle scale minori .

Come detto in precedenza, durante la prima fase di lettura di uno


spartito che sia per esempio in do maggiore (nella tonalità di do
maggiore ), si avranno come punti di riferimento proprio i do che si
trovano sul pentagramma ; in seguito, da quelli si ricaverà la
posizione degli altri elementi della scala, nel modo numerico-
intervallare già esposto. Questo, per quanto utile, non basta a saper
leggere e suonare le note scritte sul pentagramma , in quanto i
possibili accidenti posti su questo o quel nome di nota non sono
ancora stati considerati. Al fine di rassicurare il lettore, si ricordi che
gli accidenti sono sempre posti con criterio: questi infatti vengono
disposti nei due modi , maggiore e minore, quindi all’interno di tutte
le scale , secondo uno schema ben preciso, chiamato circolo delle
quinte [58] . Quest’ultimo riassume le alterazioni presenti in tutte le
nostre scale , quelle chiamate diatoniche , ordinate per intervalli di
quinta o quarta (fig. 77):

Figura 77

In questo schema i nomi delle note (e i loro attributi: diesis, bemolle,


ecc.) che si trovano esternamente o internamente al cerchio
rappresentano le fondamentali di ogni scala a esse associate.
Quindi, anche se nel circolo c’è scritto semplicemente fa , si sta
intendendo scala di fa .
I nomi delle note si trovano all’interno e all’esterno del circolo : quelli
scritti fuori dal cerchio rappresentano le scale maggiori (se si trova
un fa si leggerà scala di fa maggiore ); quelli scritti all’interno del
cerchio rappresentano le scale minori (se si trova un fa si leggerà
scala di fa minore ). Le alterazioni indicate su questo circolo si
riferiscono all’ armatura di chiave , ossia quell’insieme di accidenti
posto subito dopo la chiave (fig. 78 - 79):

Figura 78

Figura 79

È importante ora capire a cosa serve e come si scrive un’ armatura


di chiave , visto che il circolo delle quinte rappresenta una
schematizzazione di tutte le armature di chiave usate nella
nostra musica . L’ armatura di chiave non è composta da più di
sette elementi, quanti sono i componenti della scala fondamentale .
Quest’ultima considerazione è essenziale per capire che non si
incontreranno più di sette accidenti nell' armatura di chiave . Questo
accade perché gli accidenti che costituiscono l’armatura di chiave
devono essere applicati alle sette componenti della scala
fondamentale ( do re mi fa sol la si) . Il fatto che questi accidenti
siano posti immediatamente dopo la chiave , indica che avranno
valore per tutta la durata del brano, salvo successive indicazioni. La
loro disposizione non è casuale: esattamente come le chiavi musicali
, gli accidenti dell’ armatura di chiave si collocano su una
determinata riga o un determinato spazio del pentagramma ,
modificando l’altezza del suono che a quella riga o a quello spazio
era stato associato attraverso la chiave che sul quel pentagramma
era stata posta [59] . Quest’ultima infatti assegna un nome a ogni riga
del pentagramma , permettendo in questo modo la distinzione di tutti
gli altri nomi di nota assegnati alle altre righe o agli altri spazi del
medesimo. La chiave assegna inoltre una precisa altezza acustica
alla riga sulla quale è stata scritta: come si è visto nel paragrafo
sull’associazione della scala fondamentale ai tasti bianchi (par. 4 -
Cap. I), il sol indicato a esempio dalla chiave di violino è un preciso
sol , ossia il quarto che si incontra procedendo da sinistra su un
pianoforte a ottantotto tasti . Quel preciso sol ha un’ altezza (del
suono ) dalla quale è possibile ricavare, proseguendo verso destra o
sinistra sulla tastiera del pianoforte, le altezze sonore di tutte le altre
note associate al pentagramma .
L’armatura di chiave ha quindi una funzione ben precisa: quella di
definire quali siano gli accidenti che differenziano le scale tra
loro . Una scala di re maggiore (due diesis in armatura di chiave)
differisce da una di fa maggiore (un bemolle in armatura di chiave )
così come una scala di do minore (tre bemolli in armatura di chiave )
da una di la maggiore (tre diesis in armatura di chiave ). In sintesi, l’
armatura di chiave permette di comprendere la struttura di tutte le
nostre scale . Si confronti quanto si sta per dire con l’immagine del
circolo delle quinte (fig. 77): all’interno del circolo, procedendo verso
destra rispetto al do che rappresenta la scala di do maggiore, si
aggiungerà di volta in volta un diesis all’ armatura di chiave di ogni
scala incontrata. Questi diesis andranno disposti sul pentagramma
sempre seguendo il circolo delle quinte, in senso orario, a partire dal
fa e senza impiegare tagli addizionali . Eccone la disposizione
completa: fa , do , sol , re , la , mi e si (fig. 80).

Figura 80

Invece, procedendo verso sinistra rispetto al do che rappresenta la


scala di do maggiore , si aggiungerà di volta in volta un bemolle in
armatura di chiave. Questo accidente andrà sempre disposto sul
pentagramma secondo il circolo delle quinte , seguendolo in senso
antiorario, a partire dal si . Eccone la disposizione completa: si , mi ,
la , re , sol , do e fa (fig. 81).
Figura 81

Riassumendo, l’utilità del circolo delle quinte può essere compresa


mediante un esempio pratico: s’immagini di voler conoscere la
struttura della scala di re maggiore . La ricerca partirà rimanendo
nella parte esterna del circolo , perché è lì che si trovano le scale
appartenenti al modo maggiore . Lì si vedrà che il re presenta due
diesis , indicati nella parte interna dello schema, accanto alla relativa
scala nel modo minore , che viene detta così perché ha la stessa
armatura di chiave (si veda fig. 82).

Figura 82
Dallo schema risulta quindi evidente che il tipo e la quantità degli
accidenti appartenenti alla scala di re maggiore sono comodamente
indicati (fig. 82), ma questi si potrebbero ricavare anche senza
andare a cercare direttamente il re , semplicemente partendo dalla
scala di do maggiore (fig. 83):

Figura 83

Procedendo infatti in senso orario, per arrivare al re , e aggiungendo


un diesis di volta in volta, si otterrà che re maggiore presenta due
accidenti in chiave . A questo punto è sufficiente chiedersi quali
siano le note della scala fondamentale sulle quali sono stati posti
questi accidenti che determinano la struttura peculiare della scala
diatonica di re maggiore . La risposta è: sul fa e sul do . L’ armatura
di chiave sarà pertanto la seguente (fig. 84):
Figura 84

È importante tenere a mente che, nei primi momenti di pratica della


lettura, al fine di considerare facilmente gli accidenti delle armature
di chiave associate alle varie scale, non si dovranno tenere a
mente più di tre accidenti per ogni scala . Per esempio: nel caso
della scala di si maggiore , bisognerà tenere a mente che il mi non è
alterato , ossia non ha accidenti anteposti (il si naturale , ossia
senza accidenti , che dà il nome alla scala è sottinteso), e non
viceversa tenere a mente che fa , do , sol , re e la sono alterate ;
occorre fare lo stesso per quanto concerne la scala maggiore
costruita sul mi naturale , in cui sarà meglio tenere a mente che si ,
mi (sottinteso) e la non sono alterate .

Per praticare questa esclusione , quanto detto finora si può


riassumere in tal modo:

● Per le scale con più di tre diesis in armatura di chiave, si


dovranno escludere le note a cui si associano i primi tre
accidenti delle scale con bemolli (tutte o solo alcune tra si ,
mi e la );
● Per le scale con più di tre bemolli si dovranno invece
escludere le note a cui si associano i primi tre accidenti delle
scale con i diesis (tutte o solo alcune tra fa , do e sol ).
In tal senso, vi è un ulteriore elemento fondamentale per la
preparazione della lettura pianistica: leggendo una scala costruita su
un grado già alterato , per rispettare la struttura intervallare relativa
al tipo di scala presa in esame, bisogna porre automaticamente la
stessa alterazione, ossia gli stessi accidenti, su tutti gli altri suoi
gradi .
Ci si potrebbe chiedere perché le scale necessitino degli accidenti
per essere determinate nella loro struttura: per comprendere questo,
bisogna saper analizzare gli intervalli di cui sono composte da un
punto di vista specifico . Infatti, nel contesto di questo paragrafo gli
intervalli non sono più considerati esclusivamente per il loro aspetto
numerico, ma anche per quello acustico. Si precisa che le regole e le
tecniche sulla lettura dell’aspetto numerico degli intervalli non
cambiano neppure a questo punto, e non cambieranno mai nel corso
dei nostri studi . Per comprendere a fondo l’uso degli accidenti e la
ragione per cui questi definiscano le differenze tra le varie scale e
siano scritti in determinate posizioni - schematizzabili nel circolo
delle quinte - bisogna sapere che i modi , a loro volta (in particolare il
modo minore ), prevedono una ulteriore distinzione in sottocategorie.
Anche se potrebbe non risultare immediatamente chiaro, lo schema
seguente (fig. 85) serve a concepire teoricamente qualsiasi scala .
Questo schema andrà integrato in un secondo momento con il
successivo schema sulla distinzione di un nome specifico dell’
intervallo : solo in tal modo, ricostruendo le scale , confrontandole e
comprendendone la struttura, si arriverà a capire la definizione di
tono e semitono , che non si può concepire prescindendo dalle scale
stesse. Non ci si spaventi quindi se nelle due pagine successive non
si comprenderà ogni concetto in maniera chiara: ciò accadrà perché
queste ultime dovranno essere confrontate con quelle
immediatamente successive, relative alla trattazione del nome
specifico di un intervallo . Una volta colta la differenza tra i
“mattoni” [60] teorici che ne permettono una precisa definizione, ossia
toni e semitoni , tutte le scale diatoniche non saranno più un segreto.
Al fine di rassicurare il lettore, si precisa che queste articolate
acquisizioni troveranno una successiva schematizzazione in un
paragrafo loro dedicato (par. 6 - Cap. VI), che ne permetterà la
messa in pratica senza sforzo.

a. Come già accennato, gli intervalli non hanno solo un nome


generico , ma anche uno specifico . Se ogni intervallo di
seconda maggiore è definito tono ( T ) e ogni intervallo di
seconda minore è definito semitono ( s ), tutte le scale
maggiori si possono inscrivere in questa sequenza: T-T-s-T-
T-T-s (fig. 85). Va da sé che tutte le scale maggiori naturali
[61] presentino una terza maggiore , una sesta maggiore e

una sensibile (ci si riferirà d’ora in poi all’ intervallo che parte
dalla nota fondamentale della scala ).

Figura 85

b. Tutte le scale minori presentano una terza minore , ma non


tutte una sesta minore o una sottotonica . Perciò quello che
autenticamente fa distinguere su un piano teorico una
scala maggiore da una minore è solo la terza minore . Più
avanti si dimostrerà che, dal punto di vista pratico, si
possono trovare altri modi per distinguere le scale maggiori
da quelle minori e viceversa. Ciò avverrà a seconda del
contesto, che nella pratica si arricchirà di particolari variegati
senza andare contro quest’acquisizione teorica di fondo
relativa alla terza della scala , che resterà sempre valida.
c. Una scala minore armonica (o moderna ) differisce dalla
scala maggiore perché ha la sesta minore e la sensibile
(oltre che la sottintesa terza minore ).

d. Una scala minore melodica (o antica ) ascendente


differisce dalla scala minore armonica perché ha la sesta
maggiore.

e. Una scala minore melodica (o antica ) discendente


differisce dalla scala minore armonica perché presenta la
sottotonica . Data la struttura della scala (sopra citata), gli
intervalli della scala minore melodica discendente sono
ovviamente da considerarsi allo stesso modo di quelli della
ascendente, ossia a partire dalla nota più bassa: a
esempio, un intervallo melodico di seconda maggiore
discendente ( tono discendente) tra sol e fa è da considerarsi
a partire dal fa , nonostante seguendo l’ordine di lettura il sol
sia scritto per primo. Infatti, considerando in modo errato lo
stesso intervallo dal sol , si otterrebbe, sbagliando , un
intervallo minore . È pertanto forse più semplice e chiaro
costruire una scala melodica discendente disponendola
dapprima in senso ascendente e poi, una volta che ne si è
determinata la struttura attraverso gli accidenti , invertire la
direzione delle sue note .

Per mantenere lo stesso nome di nota fondamentale della scala ma


cambiare l’esempio, la scala di do minore armonica (o moderna )
avrà questa configurazione (fig. 86):

Figura 86
La scala di sol diesis minore melodica ascendente avrà invece
quest’altra configurazione: la terza minore , la sesta maggiore e la
sensibile (fig. 87).

Figura 87

Dalla struttura di queste scale diatoniche si ricava che il IV e il V


grado delle medesime rappresentano sempre la nota più alta di una
quarta o quinta giusta [62] (considerando il I come nota più bassa
dell’ intervallo ). Questa considerazione sarà fondamentale per i
capitoli successivi: se si deve pensare a quale sia la quinta nota
della scala di do maggiore (associata alla funzione armonica di
dominante o meno) non si conterà do (I) , re (II) , mi (III) e fa (IV), ma
si penserà sul pentagramma a una distanza di tre righe o tre spazi (a
seconda dell’altezza o della chiave in cui si sta leggendo), partendo
da quella della nota precedente: su quella riga o su quello spazio si
trova il sol . Dal momento che tale principio vale anche per quanto
riguarda le scale che hanno la tonica alterata rispetto alla scala
fondamentale (per esempio mi bemolle maggiore ), sarà sufficiente
pensare al quarto o al quinto grado con la stessa alterazione del
primo grado che ha come nota più bassa.

A coronamento di quanto si è detto, le precise definizioni del


manuale di Armonia di W. Piston [63] permetteranno di comprendere
quali differenze ci siano tra i nomi specifici degli intervalli :

La seconda parte del nome [di un intervallo [64] ], ossia il nome specifico
(quale tipo di terza, settima ecc .), può essere determinata mediante un
confronto con la scala maggiore formata a partire dalla più grave delle
due note . Se la nota superiore coincide con una nota della scala, l’intervallo è
maggiore (oppure giusto se si tratta di ottave, quinte, quarte o unisoni). Se la
nota superiore non coincide con una nota della scala, si devono applicare i
seguenti criteri:

a. La differenza [il termine è inteso in senso matematico [65] ] tra un intervallo


maggiore e l’intervallo minore con lo stesso nome generico è di un semitono.
b. Ampliando di un semitono un intervallo maggiore o giusto, questo diventa
eccedente.
c. Riducendo di un semitono un intervallo minore o giusto questo diventa
diminuito.

[…] Nel caso in cui la nota inferiore sia alterata conviene forse considerare
l’intervallo dapprima come se tale nota fosse naturale e solo in un secondo
tempo derivare il nome dell’intervallo confrontando l’effetto dell’alterazione con
le regole precedenti.

Le scale utili per il riconoscimento di qualsiasi nome specifico


di un intervallo sono quindi soltanto sette, quelle maggiori
naturali costruite sui sette nomi della scala fondamentale (tutte
su tasti bianchi), che non presenta accidenti : do, re, mi, fa, sol, la e
si , oppure, volendo seguire il circolo delle quinte : fa, do, sol, re, la,
mi e si . È fondamentale, prima di proseguire con la lettura di questo
capitolo, avere confidenza con queste sette scale maggiori naturali ,
conoscerle a memoria e successivamente saper dire correttamente
quale siano la prima e seconda parte del nome di qualsiasi intervallo
attraverso queste scale servendosi delle regole succitate.
Per imparare queste sette scale occorre lavorare prima di tutto sulla
loro lettura scomponendole, per esempio, in intervalli di seconda,
una volta in chiave di basso e una volta in chiave di violino :
dapprima pronunciando attentamente più volte righe e spazi a gruppi
di due (per esempio sol - la , la - si , si-do , ecc.); in seguito
pronunciando righe e spazi a gruppi di tre ( do-re-mi , mi-fa-sol , sol-
la-si eccetera); poi pronunciando a gruppi di quattro, poi a gruppi di
cinque e di sei fino ad arrivare a un unico gruppo da sette note ,
scegliendo la velocità di ripetizione in base alla propria confidenza.
Per questo studio bisogna tenere sempre bene a mente
un’immagine di quelle note ed evitarne la ripetizione meccanica .
Si parta sempre da un punto diverso della scala fondamentale,
aggiungendo di volta in volta gli accidenti delle armature di chiave di
ognuna delle sette scale (sia in senso ascendente che discendente).
Il motivo per cui le scale sono fatte in un determinato modo , il
perché si impieghino determinati accidenti in precise posizioni -
ossia su precise note delle medesime - è quindi finalmente
deducibile : tuttavia questo motivo, per essere afferrato, richiede un
ragionamento. Tutte le scale si costruiscono, come si è mostrato,
partendo da un punto della scala fondamentale e sovrapponendo un
preciso numero di intervalli melodici di seconda; questo punto si
sceglie nella prima delle due fasi di composizione di una scala (fig.
73) e si può decidere solo attraverso la chiave che, stabilendo un
orientamento per i nomi delle note sul pentagramma , permette di
riconoscere anche i punti sui quali la scala fondamentale inizia,
termina e si ripete. Se due scale sono costruite a partire dallo stesso
punto della scala fondamentale , gli accidenti hanno un preciso ruolo
distintivo : a esempio, una scala di do diesis minore sarà costruita a
partire da un punto comune della scala fondamentale , ossia dal do ,
ma avrà ovviamente un’ armatura di chiave differente rispetto a una
scala di do minore o do diesis minore . Dato che la scala
fondamentale è associata fermamente al pentagramma attraverso la
chiave - perché le sue righe e i suoi spazi hanno sempre la stessa
relazione numerica, a prescindere dalle scale che sopra vi si
costruiscono - ci si accorgerà di quanto segue: se lo si potesse
guardare da un punto di vista diatonico , il pentagramma associato ai
nomi della scala fondamentale avrebbe sempre due semitoni , ossia
due intervalli di seconda minore , rispettivamente tra mi e fa e tra si e
do : dato che non lo si può guardare in tal modo, perché come si è
detto rimane un semplice insieme di nomi di note e non di suoni , si
devono considerare le scale che prevedono una disposizione di toni
e semitoni che non necessita di accidenti in armatura di chiave per
essere espressa sul pentagramma (fig. 83), e da quelle ricavare la
posizione di toni e semitoni sul pentagramma privo di armatura di
chiave : quello che si ricava è l’ armatura di chiave fondamentale . Si
noterà altresì che, nonostante questa struttura intervallare si ripeta
rimanendo valida per tutte le scale maggiori , queste ultime vengono
costruite sempre da un punto diverso della scala fondamentale ,
perciò il pentagramma in armatura di chiave fondamentale
prevederà un semitono tra il mi e il fa e tra il si e il do che si troverà
sempre su un punto diverso di tali scale . Proprio per questo diventa
essenziale porre degli accidenti su determinate note , al fine di
adattare la nuova posizione dei semitoni richiesta dalla struttura
delle scale alla armatura di chiave fondamentale associata al
pentagramma (come si è detto precedentemente, la configurazione
di tutte le scale maggiori è sempre, indipendentemente dalla riga o
dallo spazio in cui esse prendono origine , la seguente: T-T-s-T-
T-T-s ), dal momento che non tutte le scale , nella loro struttura,
possono avere un semitono tra il mi e il fa e tra il si e il do . Si prenda
un esempio: il settimo grado di re maggiore è do diesis ; se fosse
naturale , quindi senza accidenti , sarebbe distante un tono intero, e
non un semitono , dal re ; da qui l’esigenza, procedendo a partire dal
re sulla scala fondamentale ( re mi fa sol la si do ), di porre un diesis
sulla settima nota incontrata, ossia il do , detto appunto per questo
settimo grado della scala . Quando la distanza tra il settimo e il primo
grado d’una scala è pari a un semitono , il settimo grado prende la
funzione tonale di sensibile ; se la distanza è invece quella di un
tono intero, come capita in un caso cui si parlerà a breve, il settimo
grado prende la funzione tonale di sottotonica . Ora che si è
compreso perché le scale siano distinte tra loro, si può facilmente
comprendere l’importanza, a fini analitici, di divenire agili nella
determinazione nel nome specifico di un intervallo , che oltre a
determinare le differenze nella struttura delle scale determina anche
il nome specifico delle trìadi . A riguardo di queste ultime, Walter
Piston scrive nel suo manuale di Armonia [66] :

A partire da una fondamentale data, notiamo che:

● Una terza minore su una terza maggiore dà origine a una


trìade maggiore;
● Una terza maggiore su una terza minore dà origine a una
trìade minore;
● Due terze maggiori sovrapposte formano una trìade
eccedente;
● Due terze minori sovrapposte formano una trìade diminuita.

Nelle trìadi maggiori e minori, l’intervallo tra la fondamentale e la


quinta è una quinta giusta; nelle trìadi eccedenti, tale intervallo è una
quinta eccedente; nelle trìadi diminuite, una quinta diminuita.

Figura 68-2

Per quanto riguarda la pratica allo strumento, di grande aiuto per la


memorizzazione, si incontrerà più avanti un capitolo interamente
riservato allo studio pratico delle scale e alla messa in pratica del
circolo delle quinte (Cap. V), che faciliterà l’acquisizione e la messa
in pratica e di tutti i princìpi enunciati in questo paragrafo.

2.7 Introduzione pratica alla melodia

In un paragrafo precedente (par. 6 - Cap. I) si è chiarito che nel


processo di lettura di una nota è necessario decodificare:

1) Una figura ritmica ;


2) Una posizione del pentagramma (al quale è associata la
scala fondamentale attraverso la chiave , da cui si ricava il
nome della nota che può presentare o meno un attributo );
3) Un’ altezza sonora, ossia un suono .
Nello scorso paragrafo (par. 6 - Cap. II) si è poi introdotto il concetto
di funzione armonica : questa non fa parte dell’elenco appena citato
poiché non è una caratteristica costitutiva di ciò che viene chiamato
nota . Tuttavia a questa si associa . L’autore propone di seguito
uno schema logico sul quale è necessario soffermarsi per capire
perché al concetto di nota si associ quello di funzione armonica :

1) Qualsiasi nota della nostra musica può essere messa in


relazione a una scala dalla quale è tratta;

2) Le scale a loro volta contengono i suoni che compongono


gli intervalli ;

3) Gli intervalli , a loro volta, sono i componenti degli accordi


;

4) Gli accordi , a loro volta, si costruiscono su una nota


fondamentale ;

5) Una nota si definisce solo se sono presenti tutti i suoi


elementi costitutivi, tra i quali i suoni adoperati per la nostra
musica ;

6) I suoni della scala sono gerarchizzati secondo il concetto


di tonalità , per il quale uno di essi è considerato il suono
centrale, ossia la tonica, attorno al quale orbitano su livelli
diversi gli altri suoni della scala a cui il concetto di tonalità si
applica;

7) Il ruolo che riveste un accordo all’interno della tonalità


viene definito dalla nota della scala sulla quale viene
costruito ( nota fondamentale della scala ), che dal punto di
vista della tonalità prende il nome di funzione armonica .

Ripercorrendo questo elenco a ritroso si potrà notare in quale


relazione diretta si trovino note e funzioni armoniche . Questo elenco
evidenzia anche che ogni nota , seppur presa singolarmente, potrà
sempre essere considerata in relazione a un preciso accordo e alla
sua relativa armonia , ossia con l’effetto prodotto dalla simultaneità
delle sue componenti (che sono le voci [67] , di cui si è trattato in
precedenza nel par. 6 del Cap. II). Con il termine melodia s’intende
un qualsiasi gruppo di note avvertito come una successione
coerente [68] .
Dal punto di vista della tonalità, le note di cui le scale sono composte
possono essere viste come funzioni armoniche associate alle note
della scala : tonica , sopratonica , mediante , sottodominante ,
dominante , sopradominante , sensibile o sottotonica . Si parla di
funzione armonica proprio perché su ognuno dei gradi della scala
può essere costruito un accordo , ossia un’ armonia [69] . Quando le
note delle scale vengono considerate dal punto di vista dell’ Armonia
e della tonalità alla quale sono associate, vengono schematizzate
con dei numeri romani. Per esempio, in do maggiore il mi
rappresenta il terzo grado oppure semplicemente III .

Sovrapponendo su tutti i gradi delle scale maggiori due intervalli di


terza si ottengono le seguenti trìadi :

Figura 71-1

Di queste trìadi che si ottengono, quelle costruite a partire dal I, IV e


V grado definiscono il modo più caratteristicamente rispetto alle
altre poiché contengono da sole tutti i gradi del modo maggiore
. Infatti, riordinandone le note scritte qui di seguito in grassetto, si
capisce che sono quelle della scala di do maggiore (do-re-mi-fa-sol-
la-si):

I: DO - MI - SOL
IV: FA - LA -DO
V: SOL- SI - RE

Per questo motivo I, IV e V grado prendono il nome di gradi


caratteristici (o forti ). Si provi a fare lo stesso sui gradi forti della
scala di re maggiore aiutandosi per il momento con lo schema sul
circolo delle quinte (fig. 77):

I: RE - FA(♯) - LA
IV: SOL - SI -RE
V: LA- DO(♯) - MI

Si sono ottenute anche in questo caso, logicamente, tutte le note


della scala di re maggiore (re-mi-fa ♯ -sol-la-si-do ♯ ). Due note non
sono state scritte in grassetto perché si ripetono: ce ne si occuperà a
breve e si riveleranno particolarmente utili. Gli accordi precedenti
possono anche essere scritti in questo modo:

Figura 71-2
In questo esempio, volutamente antimusicale e puramente
didattico , il soprano getta le basi di una linea melodica ben chiara,
composta da note che fanno parte degli accordi. Le note del
soprano sono quindi armonizzate , ossia l’ armonia a cui si
riferiscono è stata esplicitata . L’esempio ha il solo scopo di far
capire che melodia e armonia procedono di pari passo nella nostra
musica e non sono mai da concepirsi in modo separato: dell’arte di
combinare melodia e armonia si occupa soprattutto la materia
chiamata contrappunto . In questo paragrafo non ci si occuperà di
questa materia, ma di capire che per armonizzare una melodia è
necessario in primo luogo trovare accordi che contengano le note di
quella melodia . Ci si soffermi infatti sulle sole trìadi : questo stesso
abbozzo di melodia (fig. 71-2) si sarebbe potuto armonizzare
impiegando i soli gradi forti , poiché questi da soli contengono tutte
le note della scala e, conseguentemente, di qualsiasi melodia venga
costruita sulla scala stessa. Si aggiunga allora una nota dal senso
conclusivo [70] alla fine dell’esempio precedente (fig. 71-2) e si
osservi la seguente dimostrazione didattica:

Figura 71-3

Nonostante in questo modo (fig. 71-3) sia stata definita con


successo una melodia per il soprano e la si sia armonizzata
impiegando i soli gradi forti , il risultato di questa operazione è
ancora antimusicale. Questo non dipende dal fatto che l’operazione
di armonizzare le sette note della scala con i soli gradi forti sia
sbagliata, ma dal fatto che questi gradi forti siano stati impiegati
esclusivamente in stato fondamentale . Se invece si fossero
impiegati dei rivolti , la stessa armonizzazione sarebbe potuta
avvenire in questo modo:

Figura 71-4

L’esempio qui sopra (fig. 71-4) mostra un efficace, anche se non


particolarmente musicale, esercizio di armonizzazione [71] . Questo
esercizio permetterà di connettere in breve la melodia all’ armonia ,
e di prendere una prima confidenza con la successione delle trìadi
costruite sui gradi forti (i più frequenti da incontrare nelle prime
letture). Si proceda nel modo seguente:

1) Si scelga una tonalità maggiore ( do maggiore , re


maggiore, eccetera. L’autore consiglia di seguire l’ordine del
circolo delle quinte );

2) Si suoni la trìade in stato fondamentale costruita sul primo


grado per armonizzare la prima nota della scala ;

3) Tenendo una nota ferma nei vari accordi , si ricostruiscano


mentalmente le strutture delle trìadi costruite sui gradi forti (I,
IV o V) di quella scala e si suoni quella che contiene la nota
della melodia (che è rappresentata dalla scala che si è
scelta). Per esempio: se si è scelta la tonalità di do maggiore
, e si legge nella melodia il sol della scala , si può pensare a
do -mi-sol oppure a sol -si-re e suonare uno di questi due
accordi per armonizzare la nota della melodia .
Infine si rifletta, sperimentando, su quanto segue: le uniche due note
della melodia sulle quali si possono avere due scelte per l’
armonizzazione , rimanendo al solo utilizzo delle trìadi costruite sui
gradi forti , sono la prima nota della scala e la quinta nota della scala
. In questi due casi infatti l’ armonizzazione può essere scelta come
nell’esempio seguente:

Figura 71-5

La scelta tra queste due opzioni di armonizzazione avverrà secondo


il gusto personale. L’autore consiglia di eseguire questo
esercizio in tutte le scale maggiori seguendo l’ordine proposto
dal circolo delle quinte (fig. 77) : se ne trarrà enorme
giovamento per la capacità di lettura. In seguito (par. 5 - Cap. VII)
si affronterà lo stesso esercizio per le trìadi costruite sui gradi forti
del modo minore , di cui fino a quel punto non ci si dovrà occupare.
Nei capitoli VI e VII si troverà una guida pratica per studiare senza
sforzo i componenti di questo esercizio, evitandone in tal modo la
ripetizione meccanica.
All’interno di una melodia possono succedersi anche note che non
fanno parte dell’ armonia dell’ accordo . Le prime due battute
dell’esercizio proposto in precedenza (fig. 71-4) possono essere
scritte in questo modo:
In questo caso, alcune note della melodia (per esempio il fa ) non
fanno strettamente parte dell’ accordo ( armonia ) a cui ritmicamente
si associano. È facile riconoscerle, poiché hanno carattere
dissonante rispetto all’ armonia stessa, ossia sviluppano tensione
armonica verso una consonanza . L’ Armonia infatti si può dividere in
due grandi famiglie:

1) Armonia consonante;

2) Armonia dissonante.

Limitandosi alla considerazione dei tipi di accordo finora menzionati,


all’ armonia consonante appartengono le trìadi , mentre all’ armonia
dissonante le settime e le none [72] . Da questo si capisce che molto
spesso una nota della melodia può essere analizzata come un
elemento di armonia dissonante , ma non bisogna dimenticare che
l’analisi melodica è un procedimento differente rispetto a quello
dell’analisi armonica nonostante questi due aspetti, armonia e
melodia , siano inseparabili nella nostra musica. Ci si può chiedere
da una parte che valore abbia una nota all’interno del contesto
armonico , e dall’altra che valore abbia la medesima nel contesto
melodico , per poi integrare le due prospettive tra loro. Un elemento
della melodia molto importante da conoscere nel corso dei primi
studi è la nota di passaggio : questa viene considerata una nota
estranea all’armonia e s’interpone tra due note reali , ossia
appartenenti all’ armonia . Solitamente questa interposizione avviene
per grado congiunto , sia in senso ascendente che discendente.
Spesso queste note hanno valore breve, anche se si potrebbero
trovare esempi illustri in cui la nota di passaggio occupa una lunga
durata. Nelle scale della nostra musica , l’orecchio non percepisce
come note reali che quelle di partenza e quelle di arrivo [73] . Oltre
alla nota di passaggio esistono molti altri tipi di note estranee
all’armonia . Dato che questi altri tipi saranno più rari nel corso delle
prime letture, se ne riporta in seguito solo una possibile
categorizzazione in due grandi famiglie [74] :

Prima famiglia di note estranee all’armonia:

1) Note di passaggio;
2) Fioriture.

Seconda famiglia di note estranee all’armonia:

1) Anticipazioni;
2) Appoggiature;
3) Note sfuggite.

2.8 L’ambiguità della tastiera

Nelle prime fasi di studio, è importante capire che in molti casi è


sbagliato pensare prima alla tastiera , ossia alla pratica, e poi allo
spartito , ossia alla teoria. Uno di questi casi è quello già introdotto in
un capitolo precedente del manuale (par. 6 - Cap. II), secondo il
quale i tasti del pianoforte possono avere molteplici significati: a
esempio, il tasto nero del re bemolle è anche quello del do diesis ,
del si doppio diesis, eccetera. Tuttavia vi è un caso che ha una
particolare rilevanza: esattamente come quando, pensando alle
parole che si scrivono, non ci si riferisce mentalmente ai gesti che la
mano deve compiere per tramutarle in segni grafici, ma piuttosto a
concetti astratti, allo stesso modo quando si concepisce
mentalmente una semplice scala vi è sempre un pensiero musicale
alla sua base. Se fosse il contrario, sarebbe come se per parlare non
si pensasse a cosa si deve dire ma ai movimenti che l’apparato
fonatorio deve compiere per emettere una determinata parola. Il
lavoro sulla pratica presuppone e integra una concezione teorica,
che deve essere sempre ben chiara, esattamente quanto quella
pratica.

2.9 Intervalli consonanti e dissonanti

Si aggiunge per completezza che in alcuni casi è possibile


riconoscere se un intervallo sia consonante o dissonante dal solo
nome delle note di cui è composto.
Gli intervalli di terza e sesta sono definiti consonanti in entrambi i
modi . Quelli di seconda , settima e nona sono definiti dissonanti .
Gli intervalli di seconda e settima sono stati evidenziati in grassetto
perché nel paragone tra i due tipi accordali di trìade e settima erano
risultati identificativi per questo secondo tipo di accordo . L’ intervallo
di seconda comprende in realtà sia quello di settima che quello di
nona, in quanto questi due ne rappresentano i rivolti in senso
ascendente e discendente.
Si scriva infatti una settima tra do e si : rivoltando il do, ossia
mettendo il si in basso, si ottiene una seconda. Lo stesso accade per
una nona tra do e re : il motivo è da ricercarsi nel già citato schema
di Walter Piston relativo all’interpretazione degli intervalli composti
(par. 3 - Cap. II). Questa caratteristica degli intervalli è fondamentale
per la capacità di previsione nella lettura, poiché può aiutare
l’orecchio. A riguardo, Walter Piston nel suo manuale di Armonia
scrive quanto segue:

Un intervallo è consonante quando la sua sonorità risulta stabile e


in sé compiuta. Un intervallo dissonante risuona invece come
instabile e tende a risolvere su un intervallo consonante. Senza
dubbio questa distinzione può essere influenzata da interpretazioni
personali e soggettive; è comunque indubbio che, nella pratica della
composizione, è valida la seguente classificazione:

- Consonanti : gli intervalli giusti [unisono, quarta quando


sotto alla sua nota più grave si trova una terza o una quinta
giusta, quinta e ottava]; quelli di terza e sesta (maggiori e
minori);
- Dissonanti : gli intervalli eccedenti e diminuiti; quelli di
seconda , [e di quarta quando sotto alla loro nota più grave
non si trova un intervallo di terza o una quinta giusta] gli
intervalli di settima e di nona (maggiori e minori). [75]

2.10 Una cattiva abitudine: leggere sempre nota per nota

Leggere una composizione soltanto nota per nota è come tentare di


leggere questo manuale lettera per lettera: il senso sparisce e il
tempo necessario per arrivare all’ultima pagina aumenta
esponenzialmente. Quando si legge un testo letterario compiuto
conoscendone la lingua, si tende solitamente a connettere gli
elementi tra loro facendo riferimento dentro di sé a quanto
riconosciuto perché già integrato e noto, almeno a una prima lettura.
Questi modelli interiori sono forme che si riconoscono come corrette
o consolidate, utili a non dover leggere ogni volta lettera per lettera o
sillaba per sillaba parole che già si conoscono. Infatti, per leggere
con una certa velocità è sufficiente riconoscere pochi elementi: la
lunghezza della parola, la lettera con cui inizia, quella con cui finisce
[76] e l’associazione che le forme e le posizioni delle lettere

stabiliscono tra loro. In tal modo, nella maggior parte dei casi,
eventuali errori o elementi insoliti saltano all’occhio spontaneamente,
senza che sia sempre necessario svolgere un ruolo attivo nel
compitare ognuna delle lettere che compongono quella parola.
Viceversa, quando si legge un testo letterario compiuto non
conoscendone la lingua, solitamente si parte dalle singole lettere,
ossia dall’alfabeto e dai fonemi a esso associati. Non è un caso se
questi rappresentano alcuni dei primi rudimenti insegnati durante
l’apprendimento del linguaggio: la lettura e la pronuncia delle lettere
prese singolarmente è fondamentale, perché senza conoscere ogni
singola lettera non si potrebbero conoscere le parole scritte di cui
non si possiede ancora un’immagine di riferimento da integrare nel
proprio vocabolario.
Attribuendo la stessa importanza a specificazione e
generalizzazione, si comprende che in alcuni casi leggere per
scomposizioni può non essere sbagliato, bensì rappresentare una
prospettiva obbligata. Lo stesso vale per quanto riguarda il leggere
per sintesi: tutto sta nel non escludere una di queste due prospettive,
ma nell’integrarle in una prassi che dia loro pari importanza. Per
farlo, bisogna seguire queste fasi [77] :

1. Fase di lettura per scomposizione;


2. Fase di lettura per sintesi.

Nella prima fase rientra la lettura degli elementi presi singolarmente.


Questo tipo di lettura è da riservare alla tecnica , ossia ai singoli
elementi che compongono l’ armonia , o che costituiscono cellule
“grammaticali” del discorso musicale come le note , o addirittura solo
le figure ritmiche che compongono delle scale , degli arpeggi , degli
accordi , eccetera. In questo caso è fondamentale leggere intervallo
per intervallo , in un primissimo momento persino nota per nota , per
essere sicuri di non commettere gravi sviste, oltre che individuare e
memorizzare eventuali schemi che si ripetono [78] . Tuttavia, dopo
aver associato una determinata forma accordale a un concetto
armonico , per esempio alla trìade , le note do-mi-sol non dovranno
più saltare all’occhio come tre elementi presi singolarmente, ma
come un solo elemento chiamato, a esempio, trìade di tonica in stato
fondamentale . Questo momento in cui dal particolare si risale al
generale, in cui i singoli elementi diventano parte di un disegno più
articolato, rientra nella seconda fase di lettura . Questa prepara
l’esecuzione ed è il momento in cui gli elementi ricavati dalla prima
fase di lettura devono essere connessi tra loro attraverso uno
sguardo che stia più in alto . Da ciò si può facilmente capire che la
prima fase di lettura non sarà sempre necessaria, e sarà sempre
meno necessaria man mano che la si metterà al servizio della
seconda . Per riassumere, nella prima fase si dovrà creare
un’immagine chiara di quanto scomposto e letto per elementi singoli
e slegati tra loro; infine si dovranno mettere in relazione immagini
appartenenti a uno stesso insieme per formare una nuova cellula
elementare più complessa . Del modo in cui si pratichino le
capacità di scomposizione e sintesi si tratterà nei capitoli successivi
di questo manuale (par 2 e 3 - Cap. VI). Per ora è sufficiente che sia
chiaro lo scopo di questa fase di studio: associare immagini
semplici a un’immagine più complessa , esattamente come fa il
pittore dentro la sua tela incorniciata, quando inizia col disegnare
una mela, poi un vaso che la contiene, e così via. Nel comporre la
sua opera, anche lui segue precisi criteri disegnando prima ciò che
va dipinto per primo, in seguito ciò che va dipinto per ultimo, pena
errori gravi. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri elementi che non
siano il nome delle note , come le figure ritmiche o gli accidenti : se
si sta preparando un brano da eseguire, occorre evitare di
concentrarsi su un elemento tecnico per volta, al fine di ricercare
attivamente un preciso senso che leghi uno o più elementi al
successivo o ai successivi, senza procedere un elemento per volta.
[79] Scomposizioni simili, del tipo “nota-per-nota”, sono riservate al

solo studio di elementi che appaiono nuovi perché devono essere


ancora integrati in un determinato orizzonte e compresi come
elementi unitari, per quanto articolati siano [80] . Fondamentale sarà
nei prossimi paragrafi introdurre il discorso sull’ Armonia pratica
intesa come materia di studio, che rappresenta per un musicista il
mezzo sintetico per eccellenza attraverso il quale è possibile uscire
dai particolarismi di una lettura per così dire nota per nota . Si può
leggere infatti sul Piston e su molti altri manuali di Armonia :

Lo studio dell’armonia parte dal presupposto che durante il


periodo tonale i compositori fossero così legati mentalmente
all’accordo da scrivere soltanto melodie strettamente collegate
all’armonia. Questo non significa che ogni nota melodica faccia
parte di un accordo; possiamo determinare con facilità quali note
siano parte dell’armonia e quali siano estranee. La comprensione
della melodia in termini armonici è il punto di vista che
raccomandiamo a chi intraprende lo studio di questo libro, lasciando
gli aspetti più lineari allo studio del contrappunto e dell’analisi
melodica. Questo consiglio pedagogico, tuttavia, è nello stesso
tempo un avvertimento. Né l’armonia né il contrappunto possono da
soli descrivere o spiegare le realizzazioni dei compositori. [81]

CAPITOLO III

3.1 Introduzione pratica all’armonia

Le basi della teoria dei rivolti e dei gradi armonici di cui si è trattato
finora furono poste dal compositore e teorico francese Jean-Philippe
Rameau [82] , la cui concezione si scontrava tuttavia con quella
empirista della scuola del basso continuo [83] . Occorre sottolineare
l’importanza di entrambe le scuole al fine di integrarle in un unico
orizzonte di studio:

- la prima rappresenta il mezzo essenziale per conferire


significato e intenzione alla musica che si esegue: ne
rappresenta il fondamento interpretativo , con tutti i
vantaggi che la propria capacità di lettura trae dalla
possibilità d’interpretare il significato di ciò che è scritto;

- la seconda rappresenta una prassi che avvicina le mani


del musicista alla tastiera vera e propria, e in seconda
istanza alla penna e alla pratica dello scrivere adottando
determinate formule sul pentagramma : conferisce velocità
di lettura nell’ambito del repertorio tonale , esattamente
come, in qualsiasi lingua che sia scritta e parlata, scrivere
aiuta a saper leggere meglio e molto spesso a individuare le
formule più ricorrenti attraverso le quali gli elementi della
scrittura vengono disposti sulla carta.
Dal momento che le regole della prassi del basso continuo si
integrano oggi con i principi dell’ Armonia , questi due argomenti
saranno trattati in seguito da un punto di vista pratico.

3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore

Il periodo che va dal 1700 al 1900 circa viene definito storicamente


periodo tonale [84] . Rimanendo in questo ambito, che è quello dei
nostri studi , si osserverà quanto segue: nella maggior parte dei casi,
la musica composta per strumenti a tastiera (come il pianoforte)
allude alla scrittura a quattro parti , ossia quella che impiega i quattro
tipi vocali di cui si è trattato in precedenza (fig. 88). Anche la musica
composta per gli ensembles cameristici (definita musica da camera )
allude a questo tipo di scrittura, nonostante la sua specifica scrittura
possa presentare un numero variabile di parti: per esempio, quella
per un trio violino viola e violoncello è generalmente a tre parti ;
quella per una formazione arpa-fagotto è solitamente a due parti e
così via. Il numero di parti varia quindi anche in funzione dell’
organico strumentale, ossia il numero degli strumenti che suonano
una determinata musica.

Figura 88

In partiture più ampie, che presentano quindi un organico


strumentale rilevante (a esempio le partiture per orchestra in cui,
dato il gran numero di strumenti, l’organico viene definito orchestrale
) tolti i raddoppi (par. 4 - Cap. II), risulta evidente come, anche in
questo caso, la partitura sia concepita essenzialmente per quattro
tipi vocali . I raddoppi vengono impiegati infatti perché l’ accordo
basilare dell’ Armonia tonale è formato da tre voci ( trìade ); a
queste se ne deve aggiungere una quarta, che viene appunto
ottenuta per raddoppio , ossia generalmente, per quanto
riguarda le trìadi in stato fondamentale , attraverso la ripetizione
della nota fondamentale dell’ accordo all’ottava superiore . Il
raddoppio della fondamentale non è tuttavia l’unico possibile: si
tratterà approfonditamente di questo, a partire da esempi pratici (fig.
93); per ciò che concerne i raddoppi , specialmente per quanto
riguarda i rivolti , esistono infatti importanti eccezioni. Questa
concezione è fondamentale per la realizzazione dei primi bassi
numerati in stile severo [85] , chiamato così perché segue
pedissequamente determinate regole. Queste potranno essere
trasgredite dopo aver acquisito una certa maestria. Ci si servirà ora
delle prescrizioni indicate dal Trattato di Armonia teorica e pratica di
Théodore Dubois [86] per la realizzazione del seguente basso dato
[87] , tratto dalla Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia di Paolo

Delachi. Ci si procuri un foglio pentagrammato, una matita, una


gomma e una penna. Quello di seguito è un primo esercizio sul
basso dato . Questo esercizio serve a comprendere le ragioni per cui
i primi esercizi di lettura siano stati composti in un determinato
modo. Si uscirà per un momento dalla prospettiva dell’esecutore per
entrare in quella del compositore. Ecco come procedere:

Figura
89 [88]

- S’identifichi la tonalità di questo esercizio (fig. 89): l’


armatura di chiave è priva di accidenti . Ciò indica che si
tratta, secondo il circolo delle quinte , della tonalità di do
maggiore o di la minore . Si deve sapere che la scala
armonica minore , così come quella minore melodica
ascendente, presenta sensibile : perciò se si trattasse di una
tonalità di la minore armonica o melodica ascendente si
troverebbe un diesis sul sol , che tuttavia qui non è presente.
Si può inoltre notare che, nel caso della scala minore
melodica discendente , che è l’unica alternativa rimasta al
do maggiore per quanto concerne le nostre scale , la tonica
è un la ; tuttavia qui il la viene toccato in un solo punto e per
di più su un tempo debole della primissima battuta . Invece il
brano inizia con un do e termina con un altro do , tra l’altro
passando da un quinto grado ( sol ), ciò che determina una
inequivocabile cadenza perfetta , ossia il concatenamento di
V e I grado nelle ultime battute. Ciò conferma con sicurezza
che ci si trova in do maggiore .

- Una volta determinata la tonalità del brano, che si può


spesso ricavare anche senza sapere come quel determinato
brano suoni [89] , è possibile iniziare ad analizzarlo
armonicamente . Per eseguire l’ analisi armonica di un
basso dato che preveda il solo uso di accordi in stato
fondamentale , come quello dell’esempio (fig. 89), è
sufficiente scrivere sotto alle sue note il grado della scala
associata alla tonalità a cui esse appartengono, con un
numero romano. Per esempio: se trovo un do , e mi trovo in
do maggiore , scriverò sotto a tale nota I, se trovo fa scriverò
IV, e così via. Questo perché la nota più bassa in uno stato
fondamentale sarà sempre anche la fondamentale dell’
accordo , ma com’è facile intuire non sarà sempre così. In
un rivolto la nota più bassa dell’ accordo non corrisponde
mai al grado della scala dal quale si è partiti per costruire l’
accordo stesso.

- Per scrivere rapidamente il numero ordinale associato alla


funzione armonica di una determinata nota al basso ci si può
servire delle tecniche di lettura proposte nei capitoli
precedenti di questo manuale. Proseguendo l’esempio, in do
maggiore si saprà che a partire dal do , ossia dalla tonica I
della tonalità (il secondo spazio del pentagramma in chiave
di basso ), formando un intervallo di terza (spazio superiore)
si otterrà il terzo grado ; con un intervallo di quinta (due
spazi superiori) si otterrà il quinto grado , eccetera.

- Una volta effettuata quest’analisi, si noterà - soprattutto


per quanto riguarda quegli esercizi che non richiedono una
disposizione per stati fondamentali - che non sempre il
grado armonico del basso rispetto alla tonalità corrisponde a
quello della fondamentale dell’ accordo vero e proprio. Di
questo si tratterà in seguito.

- L’unica notazione insolita che compare in questo basso


dato è il numero 8 posto tra parentesi al di sopra del do sul
battere della prima battuta : questo sta ad indicare
semplicemente che, come già accennato, si dovranno
impiegare dei raddoppi dello stato fondamentale di una
trìade . I numeri arabi indicheranno infatti l’ intervallo che il
basso dovrà effettuare con le note nei tipi vocali superiori.
Come introdotto nel capitolo sulla loro lettura, gli intervalli
che indicano una trìade in stato fondamentale a partire dalla
sua nota più bassa sono terza e quinta , a prescindere dalla
disposizione nelle ottave superiori delle due note più alte (si
considera sempre l’ intervallo nella sua forma semplice ).

- Il compito è quindi ora quello di disporre un accordo sulla


partitura , rispettando questi intervalli a partire da una nota
più bassa che non sempre sarà la fondamentale dell’
accordo , anche se in questo caso, trattandosi di soli accordi
in stato fondamentale, lo sarà necessariamente. Questa
nota più bassa viene già indicata sulla partitura come
assegnata al tipo vocale del basso . All’atto pratico, sarà
bene copiare in penna su una partitura vuota l’intero basso
dato indicato, analizzarlo e completarlo poi a matita.

- Per una maggiore precisione nei primi esercizi di scrittura,


si consiglia di non disegnare subito la testa della figura
ritmica per intero, ma di dividerla in due archi, che partiranno
sempre da una riga del pentagramma . Per ciò che concerne
le note poste su una riga, conviene sempre che il punto più
alto della testa non vada oltre la metà dello spazio, per
evitare sovrapposizioni. Tutto questo è esemplificabile nel
seguente modo (fig. 90):

Figura 90

- Dopo aver copiato il basso dato a parte, ed aver trascritto


su di esso l’analisi armonica , è il momento di analizzarne le
cadenze [90] . Quelle da indicare al momento sono tre:
perfetta , imperfetta e inganno . Per ciò che concerne la
cadenza imperfetta , questa è rappresentata dalla
successione V-III. La cadenza d’inganno è invece
identificabile come una qualsiasi successione V-VI. È
preferibile quindi in questo contesto, per evitare errori,
segnare il V in grande o in modo che si possa notare rispetto
agli altri gradi armonici , poiché questi tre tipi di cadenza (V-
I, V-III e V-VI) si identificano tutti a partire dal quinto grado
(fig. 91).
Figura 91

- Per quanto riguarda le note che rimangono, esistono


come si è già visto nei paragrafi precedenti due modi di
scriverle per assegnarle: a parti strette o a parti late . Si
ricordi inoltre la differenza tra i due tipi di scrittura: a parti
strette, la distanza tra le tre parti superiori è sempre
compresa nell’ottava; a parti late, la distanza tra le stesse
parti [91] supera l’ottava [92] . I gambi delle figure ritmiche
associate alle note del basso sono stati trascritti tutti all’ingiù
perché, per la realizzazione di questi esercizi, ci si servirà di
una scrittura a parti strette strumentale. Questa forma
prevede la scrittura delle tre parti superiori sul pentagramma
superiore e col gambo all’insù. Si completi ora il primo
accordo a matita (fig. 92):
Figura 92

- Per ciò che concerne il primo accordo non si incontrano


particolari problematiche, dal momento che si tratta solo di
disporre le note che mancano rispetto al basso in modo
coerente con quanto indicato dal numero arabo e senza
superare l’estensione di un’ottava per i tipi vocali superiori. A
partire dal secondo accordo però, si deve seguire un metodo
ben preciso. Prima di tutto, si devono considerare le note
comuni che il nuovo accordo ha col precedente: nel primo
caso si aveva do - mi - sol , nel secondo la - do - mi , quindi
due note comuni . Solitamente s’inizia a ragionare proprio
da queste note comuni, poiché andranno spesso legate di
valore allo stesso tipo vocale nel nuovo accordo , così (fig.
93):
Figura 93

- A questa scrittura (fig. 93) manca tuttavia il raddoppio


prescritto dal numero arabo 8 scritto tra parentesi. Del
raddoppio si occupa dettagliatamente Walter Piston nel suo
manuale di Armonia:

Se si vuole ottenere una quarta nota per una scrittura a quattro parti,
nelle trìadi in stato fondamentale si raddoppia solitamente la
fondamentale. Questa utile regola non viene però applicata sempre
[a esempio [93] ] per le trìadi in primo rivolto. [...] Nella maggior parte
dei casi la scelta si basa sulla posizione della nota raddoppiata
nell’ambito della tonalità. In altre parole si raddoppiano le note
importanti per la solidità tonale [i gradi forti o talvolta il II] [94] . [95]

- Si consideri ora che, trattandosi di un esercizio riservato


alle trìadi in stato fondamentale , l’unica nota che si può
effettivamente raddoppiare in questo caso è il la , poiché
raddoppiando il mi o il do non si rispetterebbero i principi
della scrittura a parti strette , sconfinando l’estensione di
un’ottava per le voci superiori . Prima di assegnare una nota
a un determinato tipo vocale , anche se in questo caso è
inevitabile che il la debba essere assegnato al contralto ,
occorre accertarsi mentalmente che quel tipo vocale non si
muova in modo errato rispetto alla nota assegnata nell’
accordo precedente. Le regole per il movimento sono
molteplici e complesse: per fare in modo che non
diventino un peso per la memoria, vanno trattate
gradualmente con un Maestro. Per i fini propedeutici del
presente manuale, basterà sapere che posizionare quel la
sul secondo spazio del pentagramma non dà luogo a
nessun errore di movimento delle parti .

- Si prosegua a completare il resto degli accordi come


esposto, cercando sempre di assegnare il raddoppio alle tre
voci superiori, in modo da rimanere nella stessa ottava delle
altre due voci e senza effettuare scavalcamenti tra le parti .

Per verificare che non si stia effettuando uno scavalcamento tra le


parti , basta conoscere due semplici principi:

1. Per verificare se si è effettuato uno scavalcamento di voci


bisogna considerare la voce superiore se si sta salendo ,
viceversa quella inferiore.

2. È consentito scendere alla stessa altezza della nota


assegnata alla voce inferiore e viceversa.

Ciò che si è detto finora è sintetizzato nelle due regole pratiche che
riporta il manuale Armonia di W. Piston per effettuare un
collegamento lineare nel moto delle parti tra gli accordi e rispettare la
massima economia nel movimento delle voci :

• Prima regola pratica


Se due trìadi hanno una o più note in comune, queste note comuni saranno
ripetute dalle stesse voci: le altre voci andranno alle note rimanenti
dell’accordo, compiendo il minore spostamento possibile .
• Eccezione alla prima regola pratica
Nella successione II-V, quando la terza del II (ossia il quarto grado) è data
al soprano , generalmente non si ripete la nota comune, ma si fanno
scendere le tre voci superiori fino alla prima posizione disponibile (questo
movimento discendente è possibile, ma non necessario, quando il quarto
grado è dato al contralto o al tenore).
• Seconda regola pratica
Se due trìadi non hanno note in comune, le tre voci superiori si muovono nella
direzione opposta a quella del basso , sempre compiendo il minimo
spostamento possibile.
• Eccezione alla seconda regola pratica
Nella successione V-VI [N.d.A: in alcuni casi la successione V-VI è una
cadenza d’inganno, vedi paragrafo sulle cadenze] la sensibile sale alla
tonica, mentre le altre due voci scendono alla posizione più vicina
dell’accordo. Nella trìade di VI si raddoppia la terza invece della
fondamentale . Questa eccezione è sempre applicata quando nella trìade di
V la sensibile è data al soprano; se la sensibile è in una parte interna, si
possono applicare sia la seconda regola pratica sia la sua eccezione. [96]

Nell’applicazione di queste due regole pratiche, si devono tuttavia


considerare altre precise prescrizioni che vengono trattate nelle
prime pagine di molti manuali di Armonia, come quello di Théodore
Dubois [97] . Ai fini del presente manuale sarà più importante
evidenziare che esiste uno schema ricorrente nella successione di
stati fondamentali e rivolti , a seconda del grado armonico associato
alla nota del basso .
Il manuale di Paolo Delachi [98] riporta uno schema che, sebbene
possa apparire rigido in un basso continuo “su carta”, risulta invece
molto semplice e valido per un approccio pianistico che dovrà
necessariamente essere, almeno inizialmente, il più possibile
schematico. Tale schema può essere ampliato a seconda delle
proprie acquisizioni, attraverso la pratica costante. Lo si riporta di
seguito, e va integrato con i principi trattati nel secondo capitolo (par.
4 - Cap II). I gradi che l’elenco a seguire prende in esame si
riferiscono al grado che la sola nota del basso assume rispetto alla
tonalità di cui fa parte. In altre parole, i gradi indicati nello schema
non si riferiscono agli accordi di cui le note del basso fanno parte,
ma alla sola nota del basso, a prescindere dalle altre note che
compongono la trìade . A esempio: se si è in do maggiore e si trova
al basso un re , secondo lo schema seguente lo si numererà II,
anche se quel re farà parte di un accordo di dominante (V grado
) in secondo rivolto . Il grado del basso viene considerato in
relazione a un ipotetico accordo precedente o seguente.
Questo schema riassume pertanto le forme più frequenti di
successioni tra trìadi in stato fondamentale e rivolto :

PER L’ARMONIA SENZA NUMERI


I: La tonica essendo un punto di riposo prende l’accordo perfetto:
può prendere anche quello di “quarta e sesta” se preceduto e
seguito dall’accordo perfetto sul medesimo grado.
II: Il secondo grado se procede per moto congiunto prende
“l’accordo di sesta” o quello di “quarta e sesta”: se procede per moto
disgiunto prende preferibilmente l’accordo perfetto se nel modo
maggiore, diminuito se nel modo minore.
III: Il terzo grado prende più spesso l’accordo di sesta.
IV: Il quarto grado prende l’accordo perfetto o quello di sesta:
preferibilmente quello perfetto se procede per moto disgiunto.
V: La dominante prende l’accordo perfetto: può prendere anche
quello di “quarta e sesta” se seguito da quello perfetto sul medesimo
grado.
VI: Il sesto grado prende l’accordo perfetto o quello di sesta:
preferibilmente quello perfetto se procede per moto disgiunto.
VII: La sensibile prende l’accordo di sesta: raramente quello di
quinta diminuita.
N.B. Si darà la preferenza, se si avrà la scelta fra diversi accordi, a
quelli che avranno fra loro delle note in comune. [99]

[100]
3.3 Concatenare trìadi in stato fondamentale
Si enunceranno ora altre regole pratiche riguardanti il periodo tonale
, iniziando da quelle più generali e frequenti. Si inizierà dunque da
un pratico schema indispensabile per poter concatenare, e quindi
anche leggere e interpretare al pianoforte, le trìadi in stato
fondamentale . Questo schema si basa sull’osservazione della nota
posta al basso , la più grave, indipendentemente dallo stato o dalla
posizione in cui si trova l’ accordo : rappresenta il fondamento della
prassi del cosiddetto basso continuo . Oggi tutti sanno quanta
importanza abbia la nota posta al basso , anche chi compone
musica di tutt’altro genere non può prescindere da questo elemento
per ragioni non solo armoniche ma anche acustiche [101] .

SECONDA ( TONO O SEMITONO )


Quando il basso si muove per tono o semitono (ascendente o
discendente), le trìadi perfette [102] non avranno note comuni e si
realizzeranno con moto contrario rispetto al basso .

TERZA
Quando il basso si muove per intervalli di terza ( minore o maggiore
, ascendente o discendente) gli accordi avranno due note comuni
nelle stesse parti.

QUARTA
Quando il basso si muove per intervalli di quarta (ascendente o
discendente) gli accordi avranno una nota comune nello stesso
tipo vocale altrimenti detto parte .

QUINTA
Quando il basso si muove per intervalli di quinta (ascendente o
discendente) gli accordi avranno una nota comune nella stessa
parte .

SESTA
Quando il basso si muove per intervalli di sesta (minore o maggiore,
ascendente o discendente) gli accordi avranno due note comuni
nelle stesse parti .

A seguire le uniche due eccezioni a questo schema:

MOVIMENTO DEL BASSO DAL QUINTO GRADO DI UNA


TONALITÀ AL SESTO GRADO DELLA STESSA TONALITÀ
(QUESTO MOVIMENTO SI CHIAMA “ CADENZA D’INGANNO ”)
Nel caso della cosiddetta “ cadenza d’inganno ” (V-VI [103] ), non si
può procedere con il movimento contrario di tutte le parti , come da
regola generale, poiché la sensibile posta sul V grado deve
necessariamente risolvere alla tonica . Dunque, in presenza del
movimento del basso V-VI, la sensibile sale, le altre parti
scendono.

MOVIMENTO DEL BASSO NEL MODO MINORE DAL SECONDO


GRADO DI UNA TONALITÀ AL QUINTO GRADO DELLA STESSA
TONALITÀ
Quando il basso si sposta dal II al V grado nel modo minore , l’
accordo sul V grado verrà realizzato con il moto contrario delle
parti, senza alcuna nota comune.

Walter Piston riporta sul proprio manuale la seguente tavola delle


successioni armoniche abituali dei compositori per il modo maggiore
. Questa tavola riguarda il grado della nota sulla quale si fonda
l’accordo (che non è in tutti i casi quella posta al basso ):

Tavola delle successioni armoniche abituali [104]

I principi che seguono sono basati sullo studio delle abitudini dei
compositori durante il periodo tonale. Essi non devono quindi essere
considerati come un insieme di regole da osservare rigorosamente.
Il I è seguito dal IV o dal V , a volte dal VI, meno sovente dal II o
dal III.
Il II è seguito dal V , a volte dal IV o dal VI, meno sovente dal I o dal
III.
Il III è seguito dal VI , a volte dal IV, meno sovente dal I, dal II o dal
V.
Il IV è seguito dal V , a volte dal I o dal II, meno sovente dal III o dal
VI.
Il V è seguito dal I , a volte dal IV o dal VI, meno sovente dal II o dal
III.
Il VI è seguito dal II o dal V , a volte dal III o dal IV, meno sovente
dal I.
Il VII è seguito dal I o dal III , a volte dal VI meno sovente dal II, dal
IV o dal V.

Si deve iniziare a prendere confidenza con gli effetti sonori di


queste successioni. In questo può aiutare molto lo studio della
materia del solfeggio cantato , dell’ Armonia e del basso continuo
[105] , e in generale l’attenzione sull’ascolto attivo del proprio

strumento. Non si dimentichi che lo scopo di un musicista è anche


quello di produrre suoni , e che questi ultimi sono molto spesso
oggetti importanti del nostro studio.
La seguente [106] tavola è invece riservata al modo minore e
completa la precedente:

La tavola delle successioni armoniche abituali […] vale anche per il


modo minore, con queste differenze:

il [107] I può anche essere seguito dalla trìade maggiore del VII;
la trìade maggiore del III può anche essere seguita dalla trìade
maggiore del VII;
la trìade maggiore del VII è seguita dal III, a volte dal VI, più
raramente dal IV;
la trìade diminuita del VII è seguita dal I.

Queste due tavole danno una prospettiva sommaria sul modo in cui
le funzioni armoniche si succedono abitualmente. Ciò significa che
servono a sapere, per esempio, quanto segue: all’interno di un
qualsiasi modo maggiore, a un accordo costruito sul V grado nella
maggior parte dei casi seguirà uno costruito sul I grado dello stesso
modo .
È chiaro come sia impossibile prevedere l’intera struttura delle
successioni armoniche in un brano, ma avere un’idea della direzione
di una funzione armonica è uno degli elementi che contribuiscono a
sviluppare una buona lettura in tal senso. Per esempio, leggere un
settimo grado in una tonalità maggiore e aspettarsi che vada al terzo
certamente sarà, nella maggior parte dei casi, una scelta sbagliata.

CAPITOLO IV

4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro

Il leggendario pianista di origine russa Vladimir Horowitz rilasciò


un’intervista [108] dove parlò del suo modo di ascoltare il suono del
pianoforte. La si riporta a seguire:
In searching for tone-quality—the second of the most difficult factors
in playing—it is helpful to think of the instruments of the orchestra.
Some people say, "A piano is only a piano." But I do not feel it so. I
think forte, and think "orchestra." I think of many instruments when I
play. I do not mean that one should try to imitate, for the timbre of the
piano is not the timbre of the violin nor the bassoon nor the flute. But
if one thinks of the quality or the sonority of the various instruments,
one is helped to play more beautifully. We have, in the piano, all
registers—flute, oboe, violin, viola, clarinet, 'cello, bassoon, double
bass. If, when I play from Beethoven Sonata Op. 10 No. 3...
Figura 94 [109]

… I think "double bass," then the color is better. This idea was often
dwelt upon by Rubinstein—so my teacher, Blumenfeld told me. "Do
not try to imitate, but think of color.
Traduzione:

Per cercare la qualità del suono, il fattore secondo per importanza


quando si suona, è utile pensare agli strumenti dell'orchestra. Alcuni
dicono che "un pianoforte è poi solo un pianoforte". Ma io non sono
d'accordo. Penso "pianoforte" e mi viene in mente "orchestra". Tengo
presente tanti strumenti ogni volta che suono. Non voglio dire che
bisogna imitarli, perché il timbro del pianoforte non è quello del
violino, e neppure quello del fagotto e neanche del flauto. Ma se
s'immagina la qualità o la sonorità dei vari strumenti, ci si aiuta a
suonare con un bel suono. Nel pianoforte troviamo tutti i registri - il
flauto, l'oboe, il violino, la viola, il clarinetto, il violoncello, il fagotto, il
contrabbasso. Se quando suono la sonata di Beethoven op. 10
numero 3 immagino il "contrabbasso", allora il colore risulta migliore.
Questa idea è stata espressa più volte da Rubinstein, così mi ha
detto il mio maestro Blumenfeld. "Non cercare di imitare, ma pensa
alle dinamiche". [110]

Tutto questo ha dato all’autore un prezioso suggerimento. Il


pianoforte non avrà mai il timbro [111] degli altri strumenti dell’
orchestra , potrà solo alludervi, ma sicuramente contiene
l’estensione di tutti loro. Quando si parla di estensione vocale, o di
estensione del tipo vocale, o di estensione dello strumento, si può
parlare più tecnicamente di registro . In altre parole, il pianoforte
contiene una “rappresentazione” degli strumenti dell’orchestra, dal
momento che può toccare il loro registro ma non il loro timbro .
Questo è tutto ciò che è possibile ottenere su un pianoforte
moderno, come disse il leggendario pianista Josef Hofmann, “ senza
fare a gara con l’orchestra [112] ” . Occorre sempre sapere quindi
quale strumento si vuole rappresentare (e non imitare). In tal senso,
la tabella a seguire (fig. 95), che mostra quale porzione della tastiera
comprenda il registro dei principali strumenti dell’orchestra [113] , sarà
di grande aiuto:
Figura 95
4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra

La legatura di portamento è un segno di articolazione (par. 5 - Cap.


VIII) arcuato che unisce più note di diversa altezza, per indicarne
l'esecuzione senza far avvertire quanto più è possibile lo stacco fra
l'una e l'altra (fig. 96). [114]

Figura 96

Questo segno non riguarda solo la nota di inizio e quella di arrivo,


ma anche tutto ciò che sta tra quelle due note . Su un piano pratico,
questo solitamente corrisponde a un’unica emissione di fiato: gli
strumenti ad arco per esempio possono effettuare una legatura in
modo molto simile a quello degli strumenti a fiato e della voce
umana , ma soprattutto nella musica tonale (sulla quale s’insiste per
i motivi esposti nel par. 2 - Cap. I) è spesso evidente come i primi
s’ispirino in realtà a quest’ultima. In media, l'arco di un violino può
continuare a farne vibrare le corde per un tempo nettamente
superiore rispetto a quello in cui molti strumenti a fiato suonano con
una singola espirazione. Questo non spiega tuttavia la ragione per
cui la maggior parte delle frasi musicali (par. 2 - Cap. VI) legate non
sfruttino questa possibilità del violino. Ciò non avviene
semplicemente perché quelle stesse frasi , suonate troppo a lungo,
risulterebbero innaturali rispetto alla voce umana . Lo stesso
discorso vale sul pianoforte e sugli altri strumenti in cui ciò che viene
chiamato legato può essere prolungato per un tempo enormemente
superiore rispetto a quello che, per esempio, sul flauto corrisponde a
una singola emissione di fiato; ma dal momento che ogni legatura
sottostà generalmente ad un determinato tipo di fraseggio (par. 2 -
Cap. VI) , questo principio viene sfruttato solo quando si vuole
ottenere un effetto particolare. Può anzi essere un riferimento
indiretto sulla partitura alla ricerca di un timbro che non sia quello
della voce umana - in cui fare una legatura per esempio da tre minuti
potrebbe risultare innaturale - oppure un chiaro suggerimento per la
scelta della velocità d'esecuzione. Infatti, se in un canto scritto
esplicitamente per la voce umana si incontra una legatura che deve
protrarsi per un lasso di tempo esagerato, si può pensare di star
sbagliando la propria concezione della velocità di quel brano e di
dover quindi accelerare un po' l’andamento con cui si è stabilito di
eseguirlo, per far “bastare il fiato”. A tal proposito, nonostante la
capacità di emissione di fiato possa essere allenata e portata a livelli
estremi, in questo primo momento degli studi ci si può fidare della
propria voce e cantare una legatura quando lo si ritiene necessario,
per capire se la velocità scelta sia adatta; o se lo strumento in
questione non sia per esempio un timpano , in cui l’effetto del rullato
potrebbe protrarsi per dieci minuti: in quel caso non si potrebbe fare
riferimento alla voce umana . In media questa possiede precisi limiti
di registro : non si potrebbe pensare al do posto sulla seconda
ottava incontrato sconfinando verso il basso l’estensione tradizionale
del tipo vocale del basso come un concreto riferimento alla voce
umana , dal momento che probabilmente nessuno riesce a cantare
quella nota .
Come si vedrà più avanti (par. 5 - Cap. VIII), i segni di articolazione
non si limitano alla legatura di portamento . Il lettore dovrà perciò
avere chiaro sin da questo momento che ognuno di questi segni
dovrà trovare il tipo di corrispondenza mostrato in ogni strumento
dell’orchestra e nella voce umana. Questo tipo di esercizio è
necessario al fine di comprendere nella propria mente, prima ancora
di suonare, quale timbro si sta cercando di rappresentare attraverso
il pianoforte.

CAPITOLO V

5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori

La postura di un pianista non è regolata solo dalla ricerca di una


comodità, che seppur necessaria è un fattore del tutto personale, ma
anche dal modo in cui le leve del corpo umano devono essere
fisicamente sfruttate nello scarico del peso (par. 7 - Cap. V). Ogni
anatomia è soggettiva, ma i corretti angoli geometrici formati dalle
articolazioni ossee in una corretta postura rimangono gli stessi
indipendentemente dalle proporzioni anatomiche di chi si siede al
pianoforte, perché seguono principi fisici. Lo sgabello del
pianoforte è quasi sempre regolabile proprio perché ognuno ha
una proporzione diversa per i propri elementi anatomici : se si
considera questo, si comprende che la regolazione stessa della
seduta segue precisi principi geometrici, atti ad avvicinare il più
possibile, sebbene con una eventuale approssimazione, l’anatomia
del pianista alla corretta postura determinata dalla angolazione delle
sue articolazioni ossee. Questo primi due paragrafi del capitolo V
avranno carattere marcatamente scientifico, poiché si occuperanno
dello studio, teorico e pratico, degli angoli geometrici delle
articolazioni ossee, in relazione alla corretta postura pianistica.
In una corretta postura degli arti inferiori, la pianta del piede poggia
nella scarpa (ben allacciata o comunque ben aderente alla struttura
del piede) su tutta la superficie interna della suola anteriore e del
tacco: quest'ultimo poggia esternamente a terra e fa da perno in quel
punto per il movimento semi-circolatorio verso destra e verso sinistra
dell'intero asse longitudinale del piede, in modo che la superficie
della suola anteriore esterna si trovi saldamente poggiata talvolta sui
pedali , talvolta a terra, a seconda delle esigenze. L'articolazione del
ginocchio è al vertice di un angolo α che misura indicativamente tra i
90 e i 110°; tale angolo ha come lati l'asse longitudinale della gamba
e quello della coscia (fig. 97-1).
Figura 97-1

Oltre i limiti di ampiezza appena indicati, α assume una


configurazione geometricamente scorretta, che sul piano pratico
determina i seguenti svantaggi:

1) Con α > 110°, la distanza dell'articolazione della spalla


(geometricamente il vertice di un angolo avente come lati
l'asse longitudinale del braccio e quello del tronco, quindi sul
piano pratico il punto di attaccatura al tronco del braccio)
dall'asse perpendicolare a quella longitudinale della
superficie della tastiera diventa eccessiva: gli arti inferiori
sono infatti notoriamente più lunghi di quelli superiori, sicché
per mantenere l'angolazione fondamentale delle parti negli
arti superiori e nel busto in questa posizione si è costretti a
un allontanamento immotivato dello sgabello dall'asse
perpendicolare alla tastiera .

2) Con α < 90°, sull'asse longitudinale del tronco non agisce


perpendicolarmente una forza di valore - sia esso positivo o
negativo - tale da sostenere efficientemente sul piano pratico
l'asse longitudinale del tronco a formare un angolo nullo con
l'asse perpendicolare alla sua base d'appoggio.

5.2 Postura fondamentale del tronco e degli arti superiori

La postura del tronco dev'essere tale da permettere a entrambi gli


elevatori delle scapole di rilassarsi senza determinare, per quanto
possibile, la contrazione di altri gruppi muscolari. Il braccio deve
essere sollevato dal deltoide allo scopo di sostenere a mezz'aria il
gomito (il che aiuterà in un momento successivo il sostegno del peso
dell'arto e/o del tronco da parte delle dita): questo a patto che l'asse
longitudinale del tronco e quello perpendicolare alla sua base di
appoggio siano in modo rispettivo i lati di un angolo α
indicativamente nullo. Se così non fosse, la somma delle misure di
questo angolo e dell'altro di 30° (di cui i lati sono rispettivamente
l'asse longitudinale del braccio e quello del tronco) determinerebbe
una configurazione geometrica tale da obbligare concretamente i
bicipiti e/o altri gruppi muscolari del dorso, del torace e/o
dell'addome al sostegno forzato dell'avambraccio, quindi del polso e
della mano. Ciò avverrebbe nel tentativo di aggiustare l’inclinazione
sbagliata dell'asse longitudinale del tronco, agendo su quella degli
assi longitudinali (rispettivamente del braccio e dell'avambraccio) al
fine di trovare uno scomodissimo compromesso che porti il palmo
della mano il più possibile parallelo alla superficie della tastiera ,
come dovrebbe essere. Pertanto, si riassume di seguito il corretto
approccio posturale allo strumento:

● Il tronco deve trovarsi in posizione eretta, il suo asse


longitudinale e quello perpendicolare alla sua base
d'appoggio sono in modo rispettivo i lati di un angolo
indicativamente nullo;

● L'asse longitudinale del braccio e quello del tronco sono i


lati di un angolo che indicativamente misura 30° e ha come
vertice l'articolazione della spalla;
● L'asse longitudinale del braccio e quello dell'avambraccio
sono i lati di un angolo che indicativamente misura 100° e ha
come vertice l'articolazione del gomito;

● L'asse longitudinale dell'avambraccio e quello della mano


(a esclusione delle dita, il cui ruolo nella postura
fondamentale sarà definito nel par. 3 - Cap. V) sono i lati di
un angolo che indicativamente misura 160° e ha come
vertice l'articolazione del polso.

Figura 97-2

Questi valori sono indicativi perché variano col variare delle


caratteristiche anatomiche di ciascuno studente. Tale variazione
deve avvenire nei rispetti di questa regola: l'asse longitudinale della
mano dev'essere il più possibile perpendicolare all'asse longitudinale
della superficie della tastiera .

Sulla base di tutte queste premesse si stabilisce come debba essere


regolata l’altezza dello sgabello.

5.3 Introduzione pratica al tocco

Ecco cosa dice Vladimir Horowitz a riguardo del tocco [115] :


The early classics were not written for the grand piano, but for a
piano with a much lighter action. Therefore the technic of the fingers
was all-important. The contrapuntal devices in which the middle
voices were so prominent required the sensitive, active finger. There
is always an intimate connection between brain and finger tip!
Traduzione:

I primi grandi classici non sono stati scritti per il pianoforte a gran
coda, ma per uno strumento più "leggero", perciò la tecnica della
diteggiatura era di fondamentale importanza. Le tecniche di
contrappunto, dove le voci di mezzo erano così importanti,
richiedevano dita sensibilissime, attive. C'è sempre un collegamento
molto stretto tra il cervello e la punta delle dita. [116]

Lo stesso Josef Hofmann, nel suo libro-intervista [117] sulla tecnica


pianistica, ricorda che il mignolo dovrebbe suonare sempre con la
sua punta e mai di lato. Tutto ciò ha persuaso l’autore a pensare che
sia importante prestare attenzione al modo in cui il polpastrello di
ogni dito tocca il tasto per abbassarlo. Per ciò che concerne la punta
di ogni dito, la parte del polpastrello più vicina all’unghia tocca e
abbassa il tasto a partire dal suo centro. La seguente fotografia (fig.
97), scattata a un clavicembalo Urbano Petroselli del Conservatorio
Guido Cantelli di Novara, riporta delle curiose decorazioni a bande
bianche proprio nel punto di cui si sta parlando:
[118]
Figura 97-3

Bisogna cercare di toccare il meno possibile i tasti con le unghie


delle dita, e ciò vale anche per il pollice, che si deve mantenere più o
meno ricurvo verso l’interno della mano. Quest’ultimo abbassa i tasti
con la parte destra o sinistra, a seconda della mano, della parte di
polpastrello più vicina alla sua unghia. Occorre far somigliare il più
possibile il tocco di questo dito a quello delle altre quattro dita.
I tasti vanno abbassati fino in fondo, qualsiasi sia la dinamica ( forte ,
piano, ecc.) che si desidera ottenere. Sentire in questo modo il
centro di ogni tasto significa quanto segue:

- Nel caso di un tasto nero, si avrà la sensazione dal centro


del polpastrello (indipendentemente dal suo angolo) di
un’equidistanza dai margini estremi di tale tasto , oltre i quali
il dito precipiterebbe;

- Nel caso del tasto bianco, si avrà la sensazione di non


avvertire in nessun modo sul polpastrello la presenza dei
tasti adiacenti o delle fessure tra i tasti .

Laddove questo tipo di approccio non sia effettuabile, si tenti di


avvicinarvisi il più possibile : per esempio, in una progressione di
note legate che distano molto l'una dall'altra, non sarà possibile
toccare il preciso centro di ogni tasto , ma si dovrà ugualmente
mirare a quello e avvicinarvisi il più possibile. La chiarezza che
hanno una scala o un accordo sulla carta stampata, la loro precisa
scansione tra le righe e gli spazi del pentagramma , deve essere
simulata nella sensibilità delle proprie dita. È fondamentale che ogni
dito tocchi il tasto e lo abbassi a partire dal suo centro perfetto,
poiché questo è il punto in cui è concessa l’area maggiore di “errore”
(si veda par. 10 - Cap. VI), e soprattutto è il punto in cui la leva è più
vantaggiosa, fatto che non sussisterebbe se il tasto venisse
abbassato da uno dei suoi bordi, poiché la spinta verso il basso
avrebbe vettore trasversale e non perpendicolare alla superficie
del tasto . Sui tasti neri è più facile capire se si sta abbassando un
tasto dal suo centro, poiché i suoi estremi sono percepibili; a essi
l’area del polpastrello infatti si avvicina molto, e in alcuni casi li tocca
entrambi (in base alla conformazione della mano del pianista).
Si aggiunge che abbassare il tasto in questo modo garantisce due
ulteriori vantaggi. Il primo è quello di evitare qualsiasi sbavatura
dovuta al sollevamento involontario di martelletti o smorzatori . Di
questi due componenti si tratterà a breve (par. 7 - Cap. V), in un
paragrafo dedicato alla struttura generale del pianoforte e della sua
meccanica . Il secondo è che in tal modo la precisione del tocco
aumenta esponenzialmente, poiché gli si conferisce uguaglianza
nello sfruttare la leva di ogni tasto sempre dalla stessa angolazione.

5.4 I tasti neri: gli unici riferimenti puramente tattili

Bisognerà da qui in avanti immaginare e ricostruire mentalmente,


senza guardare direttamente, la struttura tattile di porzioni di tastiera
più ampie possibili, soprattutto per quanto riguarda i tasti neri, che
sono disposti in due serie distinte, a differenza dei tasti bianchi.
Questo è da tenere a mente soprattutto quando si sta suonando un
tasto bianco: è sempre meglio metterlo in relazione ai tasti neri che
ha vicino piuttosto che pensarlo nell’insieme dei vicini tasti bianchi
(par. 4 - Cap. I); ciò è fondamentale, specialmente nello studio di un
passaggio che prevede un salto . Con questo termine, scritto in
corsivo e distinto per questo da un intervallo che sia più grande di un
grado congiunto , ossia di una seconda, ci si riferisce da questo
momento in poi all’esecuzione di un qualsiasi passaggio che
preveda uno spostamento della mano dalla posizione fondamentale
della medesima . Di cosa sia una posizione fondamentale della
mano si tratterà nel paragrafo a seguire.

5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo

Quanto detto finora potrebbe far erroneamente pensare ai tasti


ciascuno come il bersaglio preciso e isolato di un nostro singolo dito,
che mira al loro centro per farli abbassare: questo è vero solo in casi
specifici [119] , perché non bisogna dimenticare che, oltre a un ruolo
attivo , le dita di una stessa mano possono rivestire un ruolo
passivo . Quelle che rivestono un ruolo attivo sono quelle che
effettivamente abbassano uno o più tasti , Viceversa, quelle con
ruolo passivo non abbassano alcun tasto . Tuttavia, le dita aventi un
ruolo passivo sono pur sempre parte della stessa mano e si
muovono insieme al polso, all’avambraccio e al resto dell’apparato,
esattamente come fanno le dita che rivestono ruolo attivo . Molto
spesso, quando alcune dita della mano rivestono un ruolo passivo ,
queste traggono dalla loro sensibilità delle precise coordinate in
senso verticale e orizzontale sulla tastiera . A partire dagli estremi
destro e sinistro della mano, le dita passive [120] dovrebbero infatti
mirare quando possibile ai tasti , senza abbassarli, ma solo
posizionandosi al centro di questi ultimi. Ciò è fondamentale all’inizio
degli studi, ma si rivelerà utile anche in seguito. Per esempio, se si
mira con il quarto dito attivo a un si bemolle , dai due estremi destro
e sinistro della mano le dita passive dovranno posizionarsi al centro
dei tasti più adatti: questo darà maggiore stabilità e precisione al dito
attivo sul si bemolle , perché gli conferirà coordinate ulteriori in
senso verticale e orizzontale. Esattamente come un tavolo a quattro
gambe risulta più stabile di uno con tre, due o addirittura una sola
gamba. Per fare un esempio pratico riguardante il si bemolle sopra
citato: se ci si trova in fa maggiore e si deve abbassare quel si
bemolle col quarto dito attivo , occorre posizionare prima il pollice
passivo al centro del fa e il mignolo passivo al centro del do senza
abbassarli; e una frazione di secondo dopo si posizionerà il quarto
dito attivo al centro del si bemolle per abbassarlo in tutta sicurezza;
questo principio vale anche e soprattutto per le esecuzioni che
prevedono un salto , giacché questo è uno spostamento in senso
orizzontale (molto spesso anche verticale) sulla tastiera , e in quanto
tale va preparato su precise coordinate. Si applichi quanto detto sin
ora agli esercizi proposti nella raccolta di pubblico dominio del
pianista e pedagogo Alberto Jonás Master school of modern piano
playing & virtuosity . In questa raccolta, e precisamente nel secondo
dei suoi volumi, si trova una graduale sezione riservata alla
accuratezza , e quindi anche alle coordinate necessarie a poter
abbassare senza fare errori un tasto [121] .
Nell’ambito degli studi sulle cinque dita , il posizionamento di queste
ultime su altrettanti tasti , senza necessariamente abbassarli, viene a
volte definito “posizione fondamentale” della mano, anche se molto
spesso non se ne evidenzia l’importanza. Raramente si chiarisce il
ruolo passivo che potrebbero rivestire alcune dita, e soprattutto non
si insiste sul fatto che queste debbano posizionarsi all’esatto centro
dei tasti corrispondenti. In questo manuale, con la locuzione
posizione fondamentale della mano - sempre in corsivo a seguire - ci
si riferirà a qualcosa di radicalmente diverso e ben più preciso, ossia
il posizionamento delle dita attive e passive al centro di quei tasti che
conviene di volta in volta prendere in considerazione per ottenere il
maggior numero di coordinate possibili, in senso verticale e
orizzontale. La maggior parte del repertorio della musica tonale
consiste in uno spostamento tra posizioni fondamentali della mano :
le stesse scale , come si vedrà in un apposito paragrafo (par. 8 -
cap. VI), sono costituite dall’alternarsi di due tra queste posizioni.
Molti dei primi esercizi tecnici per pianoforte, definiti appunto cinque
dita , si studiano a partire da una prestabilita posizione fondamentale
della mano , che in tal modo può essere interiorizzata e
memorizzata. L’importanza di questi esercizi è quindi evidente. Dal
momento che per suonare una successione melodica molto spesso
si può pensare a una sola posizione fondamentale della mano per
due, tre, quattro o persino cinque note consecutive, l'autore
annovera tra i fondamenti della tecnica pianistica l’esercizio
sull’abbassamento del tasto da parte delle singole dita in
posizione fondamentale della mano , così concepito ed esposto.

5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità

Un pulsante è un dispositivo con una sola posizione di riposo che,


attraverso uno scatto, ossia un meccanismo destinato a funzionare
attraverso lo scarico di una molla [122] , torna alla posizione di
partenza quando viene rilasciato. I tasti del pianoforte non sono
pulsanti ma aste di leve , perciò vanno abbassati e non premuti [123]
. Soprattutto, non hanno un solo punto di riposo e per questa ragione
possono essere abbassati in diversi modi: a metà, rilasciati a due
terzi della loro corsa e poi subito riabbassati, eccetera. Questo è uno
dei motivi principali per cui il pianoforte non è così meccanico e
rigido nella sua risposta come potrebbe sembrare a un esame
superficiale . Lo strumento restituisce infatti un suono di volta in
volta diverso a seconda della fonte di abbassamento dei suoi tasti :
un pianista, un oggetto, un gatto che cammina sui tasti , eccetera.
Proprio perché sono leve, i tasti del pianoforte sono inclinati verso
l’interno del pianoforte rispetto all’asse longitudinale
dell’avambraccio con la quale un pianista seduto in postura
fondamentale si trova a suonare. Ciò è facilmente osservabile
impiegando una livella o semplicemente poggiando la testa sul
bordo esterno della tastiera e osservando l’inclinazione dei tasti [124]
: da questo si può intendere l’importanza del ruolo della prensilità
della mano [125] . Questo termine, che si riferisce alla capacità dei
polpastrelli di aderire ai tasti deve essere ricondotto anche
all’inclinazione di questi ultimi. Constatando quanto detto si
comprende quanto sia importante per un pianista conoscere la
struttura del pianoforte. Pertanto, di seguito verrà presentata la
classificazione delle componenti meccaniche di un pianoforte a
coda: lo schema che segue (fig. 98) avrà fondamentale importanza
nella comprensione dei paragrafi successivi.
Figura 98

1. Tasto 7. Cucchiaio
2. Pilota 8. Smorzatore
3. Spingitore 9. Corda
4. Rullino 10. Bottone dello
scappamento
5. Martello (o 11. Leva di
martelletto) ripetizione
6. Paramartello 12. Cavalletto
5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte
La meccanica , in un pianoforte, rappresenta la serie di congegni
che trasmettono al corpo vibrante l'impulso dato [126] dall'esecutore .
Questo sistema, che si trova nel cuore dello strumento, inizia ad
agire quando i tasti vengono abbassati dal pianista attraverso una
forza che può essere quella muscolare o quella di gravità [127] . In un
pianoforte a coda, il tasto è un’asta di legno che poggia come una
leva [128] attorno a un fulcro metallico, [129] che si trova all’interno
dello strumento (fig. 99).

Figura 99

A partire da questo fulcro, la leva si articola in:


● Un segmento esterno dell’asta, quello a partire dal fulcro
indicato nell’immagine (fig. 99) verso la tastiera ;

● Un segmento interno dell’asta, quello a partire dallo


stesso fulcro verso il cuore del pianoforte.

Quando questa leva è a riposo, il suo segmento esterno è sollevato


e pronto a essere abbassato; viceversa, quando la leva non è a
riposo - e quindi si dice che il tasto è abbassato o, impropriamente,
“premuto” - il segmento interno della leva è quello che sta più in alto.
Ecco cosa succede quando si abbassa un tasto :
1. All’incirca [130] nel primo terzo della corsa del tasto , il cavalletto
viene sollevato come una catapulta di cui lo spingitore è la cucchiaia
e il rullino il proiettile [131] : lanciando verso l’alto il rullino attraverso
lo spingitore , verrà contemporaneamente lanciata verso l’alto tutta
la meccanica relativa al martello (o martelletto ). In questa prima
fase il rullino non è stato ancora propriamente lanciato. Il fatto che il
rullino , e quindi il martello , debba essere lanciato e non spinto
fino all’ultimo pone al primo posto l’importanza della velocità nel
movimento del martello , motivo per cui non importa quanto
massiccio sia l’oggetto che si pone sulla tastiera : se non avrà
l’accelerazione necessaria, non riuscirà a lanciare il martello così in
alto da fargli suonare la corda .
2. All’incirca nel secondo terzo della corsa del tasto , la punta del
suo segmento interno - prima che il rullino possa abbandonare lo
spingitore per essere lanciato verso l’alto con la meccanica del
martelletto - solleva lo smorzatore toccando e spingendo una parte
(in legno o in metallo) [132] della meccanica di quest’ultimo, che viene
chiamata cucchiaio . In altre parole, si sta sollevando dalla corda
quella componente che le impedisce, in parte o in tutto, di vibrare e
quindi suonare, che è appunto lo smorzatore .
3. All’incirca nell’ultimo terzo della corsa del tasto , il rullino viene
lanciato e lo spingitore deve spostarsi dalla traiettoria della sua
ricaduta imminente [133] per permettere al martello , che è stato
lanciato contro la corda insieme a tutto il suo meccanismo (a partire
dal rullino ), di non rimanere schiacciato dallo spingitore verso la
corda stessa, impedendole di vibrare. Perché il martello possa
scappare dalla corda, ogni pianoforte è dotato di uno scappamento ,
che ha appunto la funzione di permettere al rullino di ricadere, a
causa della forza elastica e di quella di gravità, più in basso rispetto
alla posizione dello spingitore . Questo fa quindi “scappare” tutta la
meccanica relativa al martello in direzione contraria alla corda, ossia
verso il basso: in questo modo il rullino non rimane schiacciato verso
la corda dallo spingitore , che si sposta verso la tastiera e lascia
libera la traiettoria di caduta al rullino verso la leva di ripetizione ,
sulla quale infine poggerà quest’ultimo.
La leva di ripetizione viene chiamata in tal modo perché permette la
ripetizione della spinta a partire da una posizione intermedia del
tasto , senza che ci sia il bisogno di rilasciarlo del tutto. Questo non
soltanto perché lo spingitore torna in posizione sul rullino , pronto a
lanciare nuovamente il martelletto verso la corda - molto prima che il
tasto venga rilasciato del tutto [134] - ma anche grazie alla particolare
posizione del bottone dello scappamento , un piccolo cilindro di
legno protetto da un feltro, contro il quale va a fare leva il lato più
corto della “L” formata dalla leva dello spingitore e quella dello
scappamento . Infatti, anche se il martelletto non è ricaduto
completamente verso la sua posizione iniziale [135] e lo spingitore
non è di nuovo allineato con il rullino pronto a lanciarlo, la sola leva
di ripetizione è in grado di lanciare nuovamente il martello verso le
corde : questo meccanismo è chiamato doppio scappamento . Sui
pianoforti che non sono dotati di questo meccanismo, per lanciare
nuovamente il rullino e quindi il martello verso la corda , bisogna
rilasciare il tasto finché lo spingitore non torna in una posizione tale
da permettere un nuovo lancio del rullino . Naturalmente quando si
usa il doppio scappamento il lancio richiederà una forza maggiore,
poiché la leva di ripetizione nel lancio non ha la stessa efficacia dello
spingitore : per questo è importante saper distinguere al tatto
rispettivamente quando si sta lanciando il rullino a partire dalla leva
di ripetizione e quando lo si sta lanciando a partire dallo spingitore .
Il termine doppio scappamento potrebbe confondere le idee. In
realtà il ruolo dello scappamento , come si è detto, è quello di far
scappare il martello dalla corda , impedendogli di rimanere attaccato
a essa: [136] gli permette di scappare, ma non ha ruolo attivo nella
sua fuga dalla corda . Gli libera, per così dire, solo la strada per il
ritorno verso il paramartello , che sarebbe altrimenti preclusa dallo
spingitore rimasto in posizione. Dal momento che, quando un tasto
non è ancora del tutto stato rilasciato, lo scappamento è nella sua
posizione di azione (ossia tocca il bottone dello scappamento
spostando lo spingitore dalla traiettoria del rullino ), si può dire che in
questo modo lo scappamento sia sempre attivo , e non soltanto
“due volte”, come potrebbe erroneamente suggerire il nome di
doppio scappamento . Questo perché non importa quante volte si
sfrutti questo meccanismo, lanciando il rullino verso l’alto,
nonostante il lancio sia meno efficiente rispetto a quello effettuato
dallo spingitore : la strada di ritorno del martello è sempre libera,
poiché lo scappamento è già entrato in azione e sta mantenendo lo
spingitore verso il tasto .
Quando il tasto viene rilasciato, accadono tre fatti importanti:

1) Lo smorzatore torna sulla corda , rallentandone


bruscamente l’eventuale vibrazione fino a fermarla;

2) Lo spingitore torna in posizione, pronto a lanciare il rullino,


perché la leva del doppio scappamento non tocca più il
bottone di scappamento, e il paramartello , che
generalmente è attaccato al segmento interno del tasto ,
torna alla sua inclinazione di partenza consentendo la
discesa del martello ;

3) Il rullino si riposiziona sulla leva di ripetizione , pronto per


essere lanciato dallo spingitore.
Un tasto può essere rilasciato rapidamente o lentamente, in due
modi: in modo secco, sfruttando la forza elastica della meccanica;
con dolcezza, accompagnandolo verso la sua posizione iniziale.
Inoltre, un tasto può essere rilasciato del tutto, o in parte: dietro al
rilascio del tasto c’è una vera e propria arte che si incentra sulla
componente dello smorzatore , la cui discesa sulle corde produce
un’ampia gamma di sonorità essenziali. Ciò che propriamente
abbassa lo smorzatore sulle corde, nel caso di un pianoforte a coda,
è soltanto la forza di gravità: tuttavia il meccanismo di sollevamento
dello smorzatore è veicolato non soltanto dal tasto , ma anche dal
pedale di risonanza e dal pedale di Rendano , che prende il nome
del suo inventore, il pianista e compositore Alfonso Rendano. Ecco
di seguito una classificazione dei pedali presenti nella maggioranza
dei pianoforti a coda:

Pedale di risonanza
Questo pedale è quello situato più a destra nei pianoforti a coda .
Una volta abbassato, solleva contemporaneamente tutti gli
smorzatori dalle corde . Azionare questo pedale permette alle corde
di vibrare liberamente, ossia senza che al rilascio di un tasto lo
smorzatore ricada. Oltre ad essere essenziale in molti casi per
effettuare una legatura , può modificare il timbro e il volume del
suono emesso poiché permette alle corde simpatiche [137] di
risuonare.
Sullo spartito , il segno che si riferisce a questo pedale è:
Tale segno indica il momento in cui il pedale deve essere abbassato.
Lo si manterrà abbassato fino a incontrare quest’altro segno: ,
che ne prescrive il rilascio. Il pedale di risonanza, essendo legato
alla meccanica dello smorzatore , ha su quest’ultimo la stessa
funzione del rilascio di un tasto . Un altro segno che generalmente
indica i punti di abbassamento e rilascio del pedale , coincidenti nella
maggior parte dei casi con i cambi di armonia negli accordi , è il
seguente:

Movimento deciso
Il pedale va abbassato e
rilasciato in
corrispondenza
rispettivamente della
prima e della seconda
barra verticale, in modo
secco e deciso.
Movimento dolce
Il pedale va abbassato e
rilasciato in
corrispondenza
rispettivamente della
prima e della seconda
barra obliqua, in modo
dolce e graduale.

Movimento combinato
Rappresentato
dall’alternarsi di un
movimento deciso a uno
dolce o viceversa.

Movimento a scomparsa
Il pedale va rilasciato
nel modo più graduale
possibile fino a
sollevarsi del tutto.
Cambio spezzato
L’alternarsi di due segni
di movimento
graficamente separati
determina che il piede si
sollevi del tutto dal
pedale.

Cambio sincopato
Questa grafia determina
che il cambio avvenga
senza far perdere al
piede il suo contatto col
pedale.
Il cambio di pedale sincopato è il più frequente nel repertorio
pianistico, e determina che il pedale di risonanza venga
generalmente sollevato una frazione di secondo dopo il cambio di
armonia degli accordi .
È importante anche considerare che, a partire dal sesto tasto bianco
fa che si incontra contando dalla sinistra della tastiera , non sono
presenti smorzatori , dal momento che quelle corde per ragioni
armoniche e acustiche possono risuonare liberamente senza
“sporcare” l’esecuzione con marcate cacofonie, cosa che invece
accade per le corde della regione bassa del pianoforte, essendo
queste ultime molto lunghe e spesse.

Pedale di Rendano
Questo pedale non è impiegato nei primi studi elementari e si trova
raramente indicato in partitura poiché è stato brevettato dal suo
inventore solo nel 1919. La sua funzione è però decisamente
interessante: è simile a quella del pedale di risonanza , ma ha
efficacia solo se il pedale viene azionato a seguito
dell’abbassamento del tasto interessato (e mentre quest’ultimo è
ancora abbassato). In altre parole, attraverso questo pedale , situato
solitamente al centro della pedaliera , si può “scegliere” quali note
debbano effettivamente rimanere libere dagli smorzatori .
Pedale “una corda”
Questo pedale sposta la martelliera [138] verso la destra
dell'esecutore [139] : dato che, come si è visto, la parte di meccanica
legata ai martelli poggia attraverso il pilota sull’asse dei tasti , questo
pedale determina anche lo spostamento dell'intera tastiera . Per
comprendere l'effetto di questo pedale è importante distinguere tre
porzioni della tastiera , partendo dalla sinistra di quest’ultima:

1) Corde singole: Fino al primo tasto bianco sol , non


compreso, sul pianoforte vi è una corda per ogni tasto ;

2) Corde doppie: A partire dal primo tasto bianco sol


(compreso) fino al terzo tasto bianco do (compreso) ci sono
due corde accordate con lo stesso suono ( unisono ) per
ogni tasto ;

3) Corde triple: A partire dal terzo tasto bianco do , si trovano


tre corde accordate con lo stesso suono ( unisono ) per ogni
tasto .

Spostando la martelliera leggermente verso destra, si ottengono


effetti diversi a seconda del numero delle corde coinvolte nella
percussione del martello :

1) Corde singole: il martello agisce percuotendo una sola


corda , ma da un’angolazione diversa. Essendo questo
ricoperto da feltro, ciò determinerà un timbro diverso nel
suono . Il motivo è semplice: nel tempo, martellando la corda
sempre nello stesso punto, la porzione di feltro del martello
interessata nella percussione si comprime (e usura). Questa
compressione determina che la superficie percossa dalla
corda sia sempre più dura e che il suono risulti sempre più
secco. Una leggera compressione del feltro è normale, ed
anzi può determinare un bel timbro sonoro. Una
compressione pronunciata necessita generalmente di un’
intonazione [140] dello strumento. Un’esagerata
compressione del feltro ne determina la definitiva usura e
può portare la martelliera a dover essere sottoposta a
rasatura [141] . Abbassando il pedale “una corda” si agisce
sul timbro prodotto dalla percussione del martello sulla corda
, poiché la testa del martello percuoterà la corda in un punto
diverso e soprattutto con un punto diverso del proprio
feltro , la cui consistenza in questo punto è differente dalla
precedente. Da queste considerazioni si deduce anche che
l’effetto di questo pedale può essere regolato, dal momento
che, man mano che lo si abbassa, la martelliera si sposta
gradualmente verso destra (fino a tornare in posizione al
rilascio del pedale stesso).

2) Corde doppie e triple: a tutte le considerazioni precedenti


bisogna aggiungere che, nel caso delle corde doppie e
triple, il pedale permette di percuotere solamente una o due
corde delle tre che sono associate a ogni tasto . Questo
determina, oltre a un’ulteriore variazione timbrica, una
diminuzione del volume sonoro.

Talvolta questo pedale è indicato sulla partitura con la dicitura una


corda . In alcuni casi può essere indicato con delle abbreviazioni,
come 1 c. per il suo abbassamento e 3 c. per il suo rilascio.

5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica

Per ciò che concerne un’esecuzione musicale, si definisce dinamica


il complesso dei rapporti d'intensità sonora che si produce all'interno
del discorso musicale (par. 2 - Cap. VI) . [142] Sulla partitura, i segni
relativi alla dinamica hanno un valore relativo, non si indica quindi
con precisione matematica quanto volume debba essere
emesso dallo strumento, ma soltanto una prescrizione relativa
alla gestione dell’intensità sonora . Per esempio, su una partitura
si potrebbero incontrare questi due segni, che prescrivono una
dinamica piano e una forte [143] :

Tali lettere, e , prese in astratto, stabiliscono un’indicazione


molto spesso ispirata dalla voce umana. L’indicazione
corrisponderebbe a un canto sussurrato, mentre l’indicazione a
un canto ad alta voce: questa similitudine va applicata al volume
sonoro del pianoforte. Tuttavia, non esistono solo questi due segni di
espressione. La ripetizione dei segni succitati corrisponde alla
variazione dell’intensità di questi ultimi. Infatti, due ( )
indicano il pianissimo , che non corrisponde più al sussurro, ma a un
bisbiglio vero e proprio. Due ( ) indicano il fortissimo e
corrispondono all’atto di cantare con grande volume. Tuttavia, tali
indicazioni, come si è detto, hanno una valenza relativa all’ambito in
cui sono inserite. Per capire perché si considera la loro indicazione
relativa, si prenda in considerazione il seguente esempio: il primo
segmento di una composizione (o di periodo, frase, semifrase ecc.)
richiede di essere suonato con una determinata dinamica , il
secondo segmento di quella composizione richiede di essere
suonato più piano e il terzo ancora più piano del secondo. Il
compositore potrebbe scegliere di prescrivere questa necessità
attraverso la successione di tali segni:

Primo Secondo Terzo


segmento segmento segmento

La stessa necessità potrebbe però essere prescritta anche nel


modo seguente:

Primo Secondo Terzo


segmento segmento segmento

Questi sono solo due fra gli innumerevoli esempi plausibili. Il


compositore potrebbe inoltre desiderare di non passare direttamente
da una dinamica forte a una piano , ma di passare gradualmente tra
le due indicazioni. Al fine di ottenere una variazione modulare della
dinamica, impiegherà i segni o , che indicano
rispettivamente il moderatamente forte e il moderatamente piano,
corrispondenti alle sfumature di un volume intermedio, come quello
di una tranquilla conversazione:
Primo Secondo Terzo
segmento segmento segmento

Tra le tre parti della composizione avverrà quindi una modulare


diminuzione della espressività dinamica . Questo fenomeno può
essere improvviso e spezzato: nel primo caso, si parla di
cambiamento di dinamica improvviso (o sùbito ); nell’altro, si
definisce progressivo, allorché rappresenta un cambiamento di
dinamica graduale (che prende il nome di crescendo o diminuendo ,
a seconda che la dinamica cresca o diminuisca gradualmente). Il
modo in cui si passa da una dinamica all’altra può quindi essere
indicato da precisi segni sulla partitura . I compositori indicano più
spesso i segni relativi a un cambiamento di dinamica
progressivo , sottintendendo il cambiamento improvviso del
carattere dinamico quando tali segni dinamici progressivi non sono
indicati. Talvolta invece il compositore indica con precisione la sigla “
sub .” a indicare il sùbito di una prescrizione dinamica (per esempio,
sub. ). I segni dinamici progressivi sono indicati sulla partitura
per iscritto, per esempio “ crescendo ” o “ diminuendo ” (talvolta
abbreviati in cresc . e dim .), ma possono trovarsi anche come
forcelle :

Crescendo Diminuendo

Tali forcelle molto spesso sottintendono una dinamica di partenza e


una di arrivo [144] .
Ciò detto, si consideri che una delle caratteristiche più importanti del
pianoforte moderno è la sua impressionante capacità sonora in
termini di volume: occorre chiarire fin dall’inizio che questa capacità
non dipende solo dalla elevata tensione a cui le corde sono
sottoposte, o da altre novità costruttive rispetto al suo antenato
fortepiano , ma anche e soprattutto dalla bravura di chi suona. Nel
paragrafo sulla meccanica del pianoforte si è osservato che non
basta mettere una massa di mille chilogrammi sulla tastiera per far
uscire dal pianoforte un suono forte : è necessario che questa
massa abbia anche una precisa ed elevata accelerazione . In
questo paragrafo verranno illustrate ulteriori nozioni tecniche al fine
di ottenere il massimo e il minimo volume dal pianoforte: questo
poiché, comprese le tecniche per toccare questi due estremi, si potrà
lavorare in autonomia sulle loro sfumature intermedie.
Se si deve suonare al massimo volume possibile [145] una nota non
ribattuta, quest’accelerazione deve essere conferita nel momento in
cui lo spingitore [146] lancia il martello verso la corda , e non nel
momento finale della corsa del tasto , quando il martello è ormai già
sul paramartello , privo di contatto con le corde . Pertanto è
fondamentale che l’accelerazione conferita al tasto nei primi
momenti della sua corsa sia sostenuta dalla massa (della mano, del
braccio, ecc.) di chi suona [147] . Quando si impiega molto peso
mentre si suona a una velocità esigua, si stanno sprecando energie
preziose; la massa del corpo andrebbe sostenuta verso l’alto dalla
muscolatura (e non più scaricata verso il basso) nel preciso
momento in cui il tasto termina la sua corsa verso il basso, e non
scaricata fino alla fine e oltre, qualsiasi sia la dinamica richiesta. A
coloro che iniziano a suonare il pianoforte senza conoscerne la
struttura meccanica , sovente potrebbe accadere che, malgrado la
forza conferita sul tasto sia quasi al limite della propria capacità di
sostegno muscolare, il suono risulti disomogeneo, talvolta debole,
talvolta forte. Può accadere altresì di non riuscire a ottenere lo
stesso volume sonoro in due momenti diversi di un’esecuzione,
benché si stia suonando al massimo della propria capacità
muscolare. In questi casi, forse si sta trascurando proprio
l’importanza dell’accelerazione, così come il punto della corsa del
tasto in cui quest’accelerazione diventa concretamente rilevante.
Probabilmente a volte la propria forza muscolare non è sfruttata
in modo propriamente esplosivo , e, nonostante la fatica sia la
stessa, il suono risulta differente. Altre volte invece ci si concentra
più sulla parte finale della corsa del tasto , motivo per cui si può
credere di aver suonato forte e velocemente quando in realtà nella
prima fase della corsa, quella dove l’accelerazione e il sostegno
contano davvero, si suona piuttosto lentamente, senza restituire una
giusta forza al tasto .
Ecco perché non conta la statura del pianista quando si deve
suonare al massimo volume: occorre solamente conferire sufficiente
accelerazione alla massa di cui ci si serve per controbilanciare la
resistenza del tasto nel momento giusto della sua corsa. Tale
resistenza è considerevole solo quando è richiesta una grande
velocità in breve tempo [148] , altrimenti ammonta a pochi grammi.
Alcune automobili vengono progettate adeguatamente per
raggiungere velocità di centinaia di chilometri orari in pochi secondi;
altre sono progettate per viaggiare lentamente ma avere una grande
forza di traino. Lo stesso si può dire sul pianoforte: se lo scopo è
quello di far abbassare un tasto fermo a velocità vertiginosa nel
lasso di una frazione di secondo, non si può procedere come
quando si sta suonando piano o pianissimo .

A questo punto, è bene menzionare l’esistenza di una tradizione,


molto spesso errata, sulle cosiddette cadute . La caduta è un
movimento del corpo che consente al pianista di sfruttare la forza di
gravità oltre che la propria forza muscolare. Questo movimento si
articola in tre fasi [149] :

1) Prima fase : la prima fase consiste nel sollevamento delle


dita, della mano e dell’avambraccio (che si dispone verso
l’alto sollevato dai muscoli bicipiti), che a loro volta vengono
leggermente sollevati dai deltoidi e dai dorsali. Il tutto non
avviene simultaneamente ma in modo sequenziale: dalla
parte superiore del braccio verso le dita, che si solleveranno
per ultime.
2) Seconda fase : la seconda fase consiste in una caduta
vera e propria di tutto l’apparato che si è sollevato, che si
rilassa simultaneamente.

3) Terza fase : la terza fase è rappresentata dall’impatto con


la tastiera , per il quale diventa necessario un momentaneo
sostegno da parte della muscolatura nel coadiuvare le
articolazioni ossee a sostenere, solo per il tempo
necessario, il peso (si ricordi quanto detto riguardo l’ultima
fase della corsa del tasto nel par. 7 - Cap. V).

Questa tradizione non tiene conto, nella maggior parte dei casi,
del fatto che è inutile ed anzi dannoso far precipitare le dita
sulla tastiera fino alla fine della corsa del tasto , come a farle
schiantare. I tendini dell’avambraccio non sono fatti per sopportare
questo sforzo di sostegno nelle dita, ed è inutile scaricare quella
energia nel punto in cui la corsa del tasto termina, dal momento che
non è lì che viene effettuata la spinta del martello , come
approfondito in precedenza (par. 7 - Cap. V). In quel momento il
martello è invece distanziato e privo di contatto rispetto alla corda .
Senza mettersi a criticare le scuole superate da un pezzo , come
molti le apostrofano ingiustamente, è meglio forse in questo caso
integrare le scoperte del passato con quelle che rappresentano
importanti riflessioni sulla meccanica , senza pretendere di dire
qualcosa di nuovo o di non superato .
La prima importante riflessione è che quando il braccio cade sulla
tastiera deve comportarsi come quello di un pugile, che non ha il
solo scopo di scaricare una massa sul corpo dell’avversario, ma
anche quello di conferirgli la più alta accelerazione possibile per
guadagnare una forza elastica in grado di permettere una rapida
ripresa del colpo da parte della muscolatura, fino alla posizione in cui
si può tornare alla guardia o a sferrare un nuovo colpo. Per fare
questo sul pianoforte non basta l’azione dei muscoli della mano, né
quella del braccio, ma occorre quella dell’intero apparato che, a
partire dalle spalle, deve funzionare come una molla avente come
punto di contatto e scarico della forza la sensibilità delle dita [150] .
Il punto esatto in cui chi suona può capire attraverso la sensibilità
delle dita se il peso sia stato scaricato efficacemente è il fondo del
tasto , che rappresenta un punto di comunicazione importante - su
cui non si deve indugiare con il peso [151] del corpo - per ricavare le
informazioni tattili sulle risposte della meccanica dello strumento.
Quando si suona il pianoforte e si sente una pesantezza sulle dita,
come se fossero queste ultime a sostenere il peso , è soprattutto
perché non si sta usando la muscolatura delle spalle , che
dovrebbe sostenere le braccia e le mani senza irrigidirsi . Tale
pesantezza non si avverte in una corretta postura poiché le mani si
occupano solo dei movimenti necessari ad agire con sensibilità sui
componenti della tastiera . Inoltre si deve osservare che,
anatomicamente, la forza esplosiva dei muscoli delle spalle e di
quelli del petto non è paragonabile neppure lontanamente a quella
che hanno i tendini che muovono le braccia e dita, che non sono fatti
assolutamente per questo scopo. Per questa ragione, quando si
ricerca volume, bisogna sempre preferire i primi - esattamente come
fanno i pugili - agli ultimi, che hanno esclusivo ruolo di sostegno.
Quando si ricerca un grande volume, dovendo impiegare una
velocità considerevole per raggiungere il termine della corsa del
tasto , può capitare di dover scivolare leggermente verso l’esterno
della tastiera , in direzione del proprio corpo, per evitare di indugiare
troppo sul fondo del tasto : questo è uno dei principi della prensilità .
Il braccio e la mano durante la discesa sui tasti devono essere
rilassati, la forma di quest’ultima già pronta a suonare quando è
ancora in aria, per irrigidirsi solo al momento del contatto coi tasti :
così facendo la massa dell’intero apparato potrà essere scagliata
alla massima velocità. Un’altra componente essenziale per ottenere
volume è il pedale di risonanza , quello più a destra: in termini di
volume, esso permette di aggiungere al suono della corda percossa
tutto l’aiuto derivante dalla vibrazione simpatica ; ciò risulta ancor di
più se le corde armoniche a quella percossa sono state già percosse
precedentemente, o messe in vibrazione dal sollevamento degli
smorzatori . Da queste considerazioni si ricava ancora un’importante
regola: se si cerca volume, bisogna mettersi in condizione, quando
la musica lo permette, di lasciare le corde armoniche libere dagli
smorzatori . Per ciò che concerne invece una nota ribattuta, ossia
suonata più volte in un breve lasso di tempo, la faccenda è più
complessa. Ciò che verrà descritto a breve è un modo attraverso cui
è possibile ottenere il massimo volume dalle corde del pianoforte ed
è la principale causa di rottura delle medesime, anche se non
l’unica.
Come esposto in precedenza (par. 7 - Cap. V), esistono due fonti di
spinta del martelletto verso le corde : lo spingitore e la barra di
ripetizione , che è posta più o meno allo stesso livello, rispetto al
rullino , dello spingitore a riposo. Si è detto altresì che lo spingitore
lancia il martelletto verso le corde tramite il rullino , fatto che
permette al martelletto stesso di percuotere la corda anche senza
che il tasto dalla parte di chi suona sia stato abbassato del tutto. Se
non si abbassa del tutto il tasto , è possibile mantenere lo spingitore
in posizione di massima estensione verso l’alto e non far partecipare
al lancio la leva dello scappamento . In questo modo il rullino si trova
a ricadere non sulla leva di ripetizione o sul paramartello , ma di
nuovo sullo spingitore o sulla leva di ripetizione . Se si riesce a
coordinare questo movimento (sono necessari un po’ di velocità e un
po’ di tempismo, in altre parole coordinazione) con un rapido e
leggero ritrarsi dello spingitore prima che il martelletto finisca sul
paramartello o con il suo rullino sulla leva di ripetizione - senza però
far interrompere del tutto la vibrazione della corda dallo smorzatore -
è possibile in un secondo momento rilanciare con forza elastica il
martello verso la corda , a una forza quindi esponenzialmente
maggiore rispetto a quella del primo lancio, e verso una corda che
ha già superato la sua soglia di inerzia [152] . Quest’ultima
considerazione sullo smorzatore fa capire che realizzare questa
tecnica con lo smorzatore tenuto alzato da un pedale è più semplice.
Tradurre questo apparentemente complesso ragionamento in termini
tecnici, ossia pianistici, non è semplice: una volta abbassato il tasto
e fatta suonare una corda , lo si deve, a una breve distanza
temporale dalla percussione precedente, riabbassare alla massima
velocità possibile; se non si sta impiegando il pedale , la corsa del
tasto non deve superare i tre quarti della sua lunghezza (almeno non
per troppo tempo, a seconda del timbro che si vuole ottenere). In
caso contrario la corda smetterebbe in parte o in tutto di vibrare - e
se smettesse del tutto la tecnica sarebbe errata - in quanto rilasciare
il tasto completamente significherebbe far abbassare lo smorzatore
sulla corda . In entrambi i casi, se si cerca un volume molto
importante - anche se si sta impiegando il pedale - è sempre buona
regola non rilasciare del tutto il tasto (dalla prima percussione alla
seconda dovrebbe passare il minor tempo possibile, una frazione di
secondo). Il mero timbro , quindi non il volume , caratteristico di
questa tecnica, ossia il “brillare” della corda , è ottenibile anche
semplicemente ripercuotendo una corda già percossa
precedentemente e ancora in vibrazione. Riassumendo, combinare
questa tecnica con le possibilità dei suoni armonici e delle relative
corde simpatiche significa ottenere il massimo volume dal pianoforte.
Al contrario, per ottenere il minimo volume dal pianoforte, bisogna
studiare la soglia entro la quale la velocità di discesa del tasto
permette l'emissione del suono attraverso la meccanica (in altre
parole, la velocità minima alla quale avviene la percussione della
corda da parte del martello ). La massa posta sul tasto che sopra vi
si scarica - che sia il dito, l’intera mano o l’intero braccio attraverso
quel dito, eccetera - non ha nessun valore in questo procedimento
se non la si mette in relazione alla sua velocità di movimento verso il
basso. Per attuare lo studio di tale velocità, bisogna considerare che
l’unica risposta proveniente dal tasto è quella data dal suo fondo. In
quel punto, la mano riceve una risposta tattile concreta dalla quale il
pianista può determinare:

1) La velocità alla quale il tasto è stato abbassato;


2) La quantità di massa che è stata scaricata su quel tasto ;
3) La natura della forza impiegata per imprimere
l’accelerazione al tasto (se si è impiegata la forza della
gravità o quella dei muscoli).
Queste informazioni si ricavano dal tocco . Per suonare più piano
possibile bisogna quindi iniziare a capire che i tasti vanno sempre
abbassati fino in fondo, e che ciò che determina il mutamento
dinamico è soltanto la velocità di corsa del tasto .
Il termine dinamica , di cui si è trattato finora sia da un punto di vista
teorico che tecnico, potrebbe erroneamente suggerire un’idea di
movimento. In questo senso, non va confuso con il termine agogica .
La distinzione tra i due termini che opera l’enciclopedia Treccani è
inequivocabile, la si riporta in seguito [153] :

“Si dicono indicazioni agogiche i diversi andamenti, dal Grave al


Presto la cui velocità, da Ludwig van Beethoven in poi è indicata da
battiti del metronomo , ma che in realtà può essere diversamente
interpretata a seconda delle epoche (la velocità di un Adagio di una
composizione barocca è molto diversa da quella di un Adagio
romantico). Queste indicazioni sono spesso modificate attraverso
l’aggiunta di comparativi di maggioranza o minoranza (per esempio
Poco Allegro ), di superlativi e diminutivi (per esempio Prest issimo
) o con ulteriori espressioni che chiariscano meglio il carattere del
brano in questione (per esempio energico , appassionato ).
Appartengono a questa categoria anche indicazioni di carattere
espressivo come Affettuoso , Appassionato , Cantabile , Dolce
eccetera [...]. Si dicono modificazioni agogiche le varie sfumature di
andamento scritte (per esempio accelerando , trattenendo , ad
libitum ) o improvvisate. Di solito per entrambi i tipi di indicazione
l’italiano era la lingua internazionalmente riconosciuta, ma alcuni
compositori (Ludwig van Beethoven, Richard Strauss e gli autori
contemporanei) le hanno espresse anche nella propria lingua. L’
agogica musicale va, quindi, distinta dalla dinamica , che consiste
nelle variazioni di intensità sonora”.

CAPITOLO VI

6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio


Ogni volta che si deve portare a termine un esercizio o migliorarlo,
sia esso di lettura o pratico, accade di doverlo ripetere al fine di
osservarlo nelle sue infinite prospettive. Ripetendolo dieci volte in
modo scorretto, quell’esercizio non migliora e al contrario peggiora.
Questo è uno dei tanti esempi che dimostra come la ripetizione
passiva o meccanica, in uno qualsiasi degli orizzonti di studio di
questo manuale, è da evitarsi. Esattamente come la lettura, anche
la ripetizione procede dal particolare al generale. Di seguito verranno
illustrate le due fasi che la compongono. Queste sono da concepire
in ordine e in successione: non si dovrebbe considerare la seconda
senza aver sufficientemente approfondito la prima.

In linea generale, per ciò che concerne entrambe le fasi della


ripetizione:

1. Si prosegue nella lettura o nella sua messa in pratica solo


dopo aver compreso ciò che si è letto, e non per tentativi;
per tale ragione, l’occhio dovrebbe leggere sempre più
avanti rispetto a ciò che ha di fronte (par. 1 - Cap. I).

2. Quando si ripete un esercizio, occorre scegliere una


velocità coerente con l’ indicazione di andamento [154] scelta
per lo studio, che deve essere unica : non si deve studiare
lentamente un passaggio che risulta difficile e a grande
velocità quello che risulta facile. Questo anche allo scopo di
distribuire equamente le proprie energie nello studio. Se
infatti dopo un tempo limitato di studio si saprà leggere o
eseguire bene l’incipit di un brano e non la sua fine, si avrà
solo perso tempo. Il primo obiettivo, che ha priorità assoluta,
è quello di arrivare a saper suonare fino alla fine un brano in
coerenza con una determinata indicazione di andamento
scelta per lo studio - anche se molto lenta - in modo che
tutte le parti dello studio siano più o meno sullo stesso
livello.
3. Si usi il metronomo solo come indicazione, non è sempre
necessario tenerlo acceso durante ogni ripetizione; in alcuni
casi, farlo può essere dannoso per la implicita concezione
agogica di molte frasi musicali.

4. Non è necessario studiare sempre partendo dall’inizio. Al


contrario, lo studio intelligente parte dalla considerazione dei
punti in cui si ha maggiore difficoltà, che andrebbero
evidenziati e trattati con attenzione. Studiando in questo
modo, ossia senza seguire la direzione di lettura, si parta
possibilmente dall’inizio di un passaggio che risulta più
difficile per correlarlo poi a ciò che lo precede e lo segue.

5. Si usi un qualsiasi contatore per tenere memoria delle


ripetizioni eseguite, che non dovranno mai essere passive
o meccaniche . Se nel contesto di una data ripetizione si è
riusciti a evitare un approccio passivo, si definisca tale
ripetizione corretta [155] e si aggiunga un punto al proprio
contatore. Questa operazione va fatta fisicamente, perché
può essere un gesto utile al fine di rilassare mente e corpo
tra una ripetizione e l’altra. Al contrario, se non si è riusciti
ad evitare un approccio puramente meccanico, si definisca
la ripetizione sbagliata e si azzeri il proprio contatore.
Durante la prima lettura di un brano, si passerà al
successivo lavoro di ripetizione quando il contatore
raggiunge la soglia che di volta in volta, facendo una media
dei propri miglioramenti e del numero di ripetizioni
necessarie per conseguirli, si sceglie.

6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento

La prima fase della ripetizione è un procedimento basato sul


presupposto che nella partitura sia avvenuta un’opera di costruzione:
da due frammenti si è composto un intero , da due interi un nuovo
intero più grande, di cui quei due interi di partenza sono diventati i
frammenti costitutivi, e così via. Si può immaginare questa prima
fase come l’attenta analisi di un oggetto sconosciuto: esaminandolo
attraverso prospettive differenti (capovolgendolo, avvicinandolo agli
occhi, sollevandolo, ecc.), se ne svelano caratteristiche che
altrimenti sarebbero state analizzate superficialmente o addirittura
dimenticate. Tutte queste caratteristiche, la cui unione compone
l’oggetto, ossia l’ intero più grande, prese una per una sono ciò che
è stato definito frammento ; sommando invece tutte queste
caratteristiche tra loro, e relazionandole, si otterrà un intero fatto di
caratteristiche comuni. In musica, le scomposizioni di ciò che si
legge avvengono secondo criteri ben precisi. Come accade per un
testo in prosa, che presenta una struttura coerente e coesa, formata
da periodi organizzati secondo una specifica punteggiatura, così
accade per il linguaggio musicale: ogni partitura, dalla più semplice
alla più complessa, rispetta una struttura prestabilita. Queste
strutture, e le forme retoriche [156] in esse riscontrabili, vengono
studiate mediante l’ analisi delle forme. La conoscenza delle
strutture sopracitate è indispensabile per studiare un brano ed
eseguirlo in modo corretto. Di seguito si introdurranno brevemente
alcuni concetti basilari relativi alla struttura formale di una partitura.
L’ inciso è la particella più piccola del periodo musicale . Non supera
la lunghezza di una battuta , ma può trovarsi a cavallo di due battute
. L’unione di due incisi dà luogo alla semifrase . Due semifrasi
danno luogo a una frase , che è composta mediamente da 2+2 (4)
battute ed esprime un concetto melodico che viene solitamente,
almeno in parte, ribadito o variato nella frase a seguire. Due frasi
determinano il periodo musicale , della durata di 4+4 (8) battute .
L’insieme dei periodi musicali darà poi luogo alla composizione . Da
queste considerazioni si può trarre una considerazione a margine:
quella che nel paragrafo 2 del capitolo IV si è chiamata legatura non
corrisponde a una frase . Non è detto quindi che una legatura abbia
lo stesso inizio e la stessa fine della frase di cui fa parte: una
legatura di portamento potrebbe, per esempio, comprendere
solamente una semifrase o persino un solo inciso.
Ecco un esempio di periodo musicale, desunto analizzando
l’esercizio sulle cinque dita numero 11 dell’opus 599 [157] , un
insieme di composizioni didattiche per pianoforte composte dal
maestro di Franz Liszt, nonché allievo di Ludwig van Beethoven,
Carl Czerny (fig. 100):
Figura 100
Una volta compreso quale sia il livello di scomposizione più adatto
allo studio, ripetendo in modo corretto , ossia confrontando tale
frammento con l’ intero di riferimento, si scopriranno le sue diverse
caratteristiche e il modo corretto di ripeterlo nel suo complesso sarà
chiaro quando i suoi elementi si sommeranno in una visione più
ampia che li comprende tutti.

6.3 Seconda fase della ripetizione: l’intero

Il pianista non è condannato alla ripetizione in eterno: dentro di sé,


passando dallo studio del frammento più piccolo a quello dell’ intero
più grande di una composizione , riempie metaforicamente dei
cassetti con tutti gli utensili che “fabbrica” attraverso il proprio studio,
per cui molto spesso non è necessario doverli “rifabbricare” da zero.
Per fare un esempio, ripetendo dieci volte ciascuno due frammenti di
una composizione e ritrovando caratteristiche di questi in altri brani,
si avrà probabilmente bisogno di ripetere entrambi non più dieci volte
ma, a titolo esemplificativo, cinque volte. È importante dire che se si
ripetono meccanicamente dieci volte tali frammenti, senza vederli in
prospettiva né cercando di capire se questi possano essere ridotti a
frammenti ancora più piccoli (e se quindi siano essi stessi anche
degli interi dell’ intero più grande ) non si progredirà affatto e non si
preparerà alcun “utensile”. In questa seconda fase della ripetizione si
devono stabilire tutte le connessioni possibili tra le scomposizioni
fatte precedentemente, al fine di “disegnare” la sagoma definitiva
dell’ intero più grande . A differenza della fase di ripetizione
precedente, questa consiste nel “posizionare” tutti i frammenti in
modo da poter lavorare sull’ intero compiuto. In altre parole,
rappresenta il lavoro che un pianista deve fare per preparare
l’esecuzione vera e propria di ciò che sta studiando. Si riporta di
seguito uno dei possibili [158] esempi pratici di studio, tratto da un
segmento della prima sonata dell’opus 118 di Robert Schumann (fig.
101) [159] :
Figura 101

● FASE 1: ripetizione (errata) del frammento


Se non si conoscessero le convenzioni della retorica
musicale mostrate precedentemente (fig. 100), si potrebbe
tentare di frammentare questa prima battuta, all’atto pratico,
capendo quali note debbano essere suonate con la mano
destra e quali con la mano sinistra, per poi studiare “una
mano per volta” ( frammento ).

● Confronto con la ripetizione dell’ intero


Tuttavia, al momento di unire le mani ( intero ) sarebbe
controproducente leggere singolarmente tutte le volte la
progressione della mano sinistra, mentre la destra fa
qualcos’altro, o viceversa, concependo la composizione
come divisa tra le due mani. Nel presente caso (fig. 101), la
frammentazione attuata nella prima fase non è
particolarmente utile, poiché è molto difficile mantenere la
concentrazione su tutte queste note se vengono studiate
esclusivamente a mani separate. Prima o poi infatti -
precisamente nella seconda fase della ripetizione - sarà
necessario unire i due frammenti in un intero : tenendo conto
di questo (mettendo cioè in relazione il frammento con l’
intero ), si comprende che la prima fase di ripetizione ,
impostata in tal modo, non sarà particolarmente efficace per
l’esecuzione. Questo non sarebbe stato evidente se
frammento e intero non fossero stati distinti e messi in
relazione. Si provi ora ad attuare una frammentazione
secondo la convenzione della retorica musicale, si otterrà
quanto segue:

● Correzione sulla ripetizione del frammento


Si può notare che, a partire dal re nel basso, la mano destra
sale insieme alla sinistra fino al mi ( frammento 1 e 2, ossia
di mano destra e sinistra), per poi riscendere sul do (
frammento 3 e 4); a partire dal re successivo, le voci si
muovono in direzioni contrarie (si parla in questo caso di
moto contrario , frammento 4 e 5), per finire di nuovo con le
due mani che salgono contemporaneamente ( frammento 6
e 7). Nonostante queste quattro coppie di frammenti prese
singolarmente non abbiano un significato musicale
compiuto, occorre metterle in relazione per costruire un
intero , il che risulterebbe assai difficile ragionando
esclusivamente in termini di “mani separate”.

● FASE 2: ripetizione dell’ intero


È in questa fase che si deve cercare di connettere tra loro i
frammenti ottenuti cercando il più possibile di relazionarli
musicalmente e ridurre al minimo la quantità di
scomposizioni che si sono attuate nella corretta ripetizione
del frammento . Ridurre al minimo le scomposizioni non
significa ripetere senza prestare attenzione ai dettagli della
partitura , bensì allenare l’occhio a coglierne un numero
sempre maggiore, sussumendo i medesimi in dettagli “più
grandi”. Durante la ripetizione, l’occhio non dovrebbe
rimanere “pigro” mentre le mani suonano meccanicamente,
o peggio ancora si affidano alla memoria muscolare, ma al
contrario dovrebbe leggere con fermezza i punti che
possono essere presi come riferimento della lettura negli
interi ricomposti. A esempio, frammento 1 e 2 si potranno
suonare con entrambe le mani, in modo che diventino un
solo frammento . Lo stesso vale per i frammenti successivi.
In questa seconda fase di ripetizione , oltre a connettere tra
loro i vari frammenti , esplorandoli stavolta dall’alto, come
elementi costitutivi di un intero più grande, si opera il
consolidamento dei frammenti stessi. Un errore assai diffuso
è quello di ripetere gli interi quando sono chiari in tutti i loro
frammenti , per poi fermarsi. In realtà, è proprio in questo
momento che la ripetizione deve farsi serrata, perché la
corretta forma di studio, dedotta attraverso questo lungo
procedimento, deve consolidarsi.

La ricerca del miglior modo in cui analizzare una partitura , al fine di


studiarne ogni dettaglio, dovrà diventare una semplice operazione di
spostamento della propria concentrazione sui frammenti e sull’ intero
che compongono. L’ultima caratteristica menzionata del metodo di
ripetizione esposto permette di risparmiare energie preziose nello
studi o . Per esempio, si prendano in esame elementi come gli
abbellimenti , che rappresentano l’inserzione in un brano musicale di
note ausiliarie con funzione esornativa, dette note ornamentali ,
come nella fioritura o nel melisma . [160] La principale difficoltà
incontrata nello studio è quella di capire in che momento e per
quanto tempo gli abbellimenti vadano effettivamente eseguiti. Si
suonerà prima quindi la nota reale dell’ abbellimento, come se
quest’ultimo non fosse scritto. Si veda il seguente esempio (fig. 102),
dove la notazione tr seguita da una serpentina indica l’ abbellimento
del trillo [161] :
Figura 102

Si suonerà quindi un ottavo di re ; in seguito, a questa base ritmica si


aggiungerà l’ abbellimento .

6.4 Introduzione pratica allo studio delle scale

La scala è una successione di intervalli melodici per grado


congiunto, disciplinati a livello pratico da un particolare tipo di
diteggiatura , ossia precise indicazioni su quale dito debba
abbassare un determinato tasto . Queste sono riportate in forma
numerica (numeri arabi) al di sopra o al di sotto della notazione. I
numeri relativi alla diteggiatura fanno dunque riferimento alla
progressione ordinata delle dita, a partire dal pollice ( 1 =pollice; 2
=indice; 3 =medio; 4 =anulare; 5 =mignolo). La numerazione vale
allo stesso modo per entrambe le mani. Per esempio, il quarto dito
della mano, indicato con 4 , sarà l’anulare sia nel caso della
diteggiatura per mano sinistra che di quella della mano destra. I
numeri arabi della diteggiatura non si devono confondere con quelli
del basso continuo , che indicano la struttura degli accordi : sono
due indicazioni completamente diverse, che risultano facilmente
distinguibili in base al contesto. Un ottimo testo per lo studio delle
scale è il manuale Il pianista virtuoso del compositore francese
Charles-Louis Hanon, [162] che riporta le scale in tutte le tonalità e su
quattro ottave , come richieste dai primi esami di conservatorio, già
diteggiate dalle edizioni più moderne: è su queste che ora si
dovrebbe concentrare il proprio studio.
Una volta padroneggiate le scale , queste si possono usare per
leggere qualsiasi successione di intervalli melodici per grado
congiunto : è evidente quindi la loro importanza nello studio del
pianoforte. Le scale rappresentano uno strumento essenziale per la
lettura della maggior parte del repertorio tonale : averne padronanza
è fondamentale anche per lo studio della diteggiatura , dal momento
che possono essere il modello di molte diteggiature di successioni
melodiche . Se si deve scrivere una diteggiatura , ossia scegliere
quali dita debbano abbassare i tasti , si può considerare come regola
generale per qualsiasi melodia che procede per grado congiunto
quella di partire sempre dal riferimento della diteggiatura impiegata
per le scale . Lo studio approfondito delle scale rappresenta inoltre la
prima possibilità di ampliamento dei propri orizzonti di comprensione
musicale, migliorando le proprie capacità di sintesi, metaforicamente
intesa come l’acquisizione di “nuovi lemmi per il proprio vocabolario
musicale”. I paragrafi seguenti, disposti in ordine di studio ,
tratteranno di un metodo elaborato dall’autore per la pratica delle
scale al pianoforte: poiché sono disposti secondo un ordine ben
preciso, i paragrafi a seguire andranno inizialmente messi in pratica
dal primo all’ultimo. Nessuno di questi andrà pertanto praticato
singolarmente (l’ultimo senza il primo, o il terzo senza il
secondo, ecc.) . In un secondo momento, dopo aver approfondito
ed integrato ogni fase descritta nei paragrafi, l’uso di un singolo
paragrafo potrà essere considerato ammissibile, al fine di superare
una data difficoltà esecutiva.

6.5 La posizione fondamentale della mano nelle scale

Dopo aver effettuato uno studio delle dita in modo simultaneo (par. 5
- Cap. V), bisogna studiare il succedersi delle note della scala a
partire da una data posizione fondamentale della mano , applicando
a quest’ultima lo studio sulle cinque dita . Nell’effettuare questa
applicazione, occorre comprendere se effettivamente tutte le dita
stiano abbassando i tasti fino in fondo, attraverso il peso (par. 7 -
Cap. V). La posizione fondamentale della mano non prevederà
necessariamente l’uso simultaneo di tutte le dita. Nell’attuare
qualsiasi studio che alterni due posizioni fondamentali della mano ,
la posizione fondamentale della mano deve essere preparata
mentalmente e in anticipo rispetto al momento in cui si giunge sui
tasti a essa relativi. È infatti controproducente preparare la mano nel
momento in cui le dita arrivano ai tasti , effettuando solo in seguito
gli aggiustamenti necessari (movimenti orizzontali delle dita, ecc.).
Un efficace esercizio per praticare l’immaginazione dei tasti e
anticipare nella mente le varie posizioni fondamentali che la mano
dovrà assumere sui medesimi è quello di pensare a due posizioni
fondamentali della mano in forma di note “scritte” sul pentagramma.
Nei paragrafi successivi verranno forniti esempi melodici e accordali
per attuare questo esercizio in differenti contesti. Successivamente,
si dovranno immaginare tali posizioni sulla tastiera del pianoforte,
ossia pensare a quali tasti siano riferite le due posizioni fondamentali
della mano , facendo corrispondere le note “scritte” ai tasti. Ciò
permetterà di aprire la mano anticipatamente, prima di toccare la
tastiera , in corrispondenza dei tasti che si sono immaginati. Soltanto
alla fine sarà possibile porre la propria mano sulla tastiera del
pianoforte, per verificare se la posizione fondamentale della mano
immaginata mentalmente corrisponda nei fatti alla forma richiesta
dalla tastiera . Nel fare questo, occorre mantenere un alto livello di
attenzione tanto durante l’apertura delle dita quanto durante la loro
chiusura. Per esempio, in una scala melodica di do maggiore
naturale si alternano due posizioni fondamentali della mano : in
questo caso, bisogna anticipare mentalmente la disposizione della
mano sulla serie da quattro tasti bianchi mentre ci si trova ancora
sulla serie da tre, pensando a come la propria mano dovrà cadere su
di essi prima che vi giunga sopra.

6.6 Schematizzare le acquisizioni discorsive nelle scale

Per uno studio pratico di quanto si è detto, si dovrà procedere in due


distinte fasi. In un primo momento, occorre schematizzare la
struttura teorica e discorsiva della scala , al fine di avere un rapido
riferimento quando si sta suonando; la schematizzazione delle
acquisizioni teorico-discorsive è fondamentale durante la pratica
della tecnica. Ecco come attuarla:

● Nel paragrafo sul circolo delle quinte si è detto che per ogni
tonalità non si devono tenere a mente più di tre alterazioni
per ogni armatura di chiave . Lo stesso principio vale anche
per le note che, rispetto alla scala maggiore, devono essere
ricordate al fine di costruire le relative minori armonica e
melodica ascendente o discendente ; sono infatti tre anche
queste note , e procedono per grado congiunto : sesto,
settimo e primo grado della scala. Conviene quindi
concepirle da subito in ordine decrescente (per esempio: la -
sol - fa ) ponendo di volta in volta gli accidenti necessari (
diesis o bequadri ), senza tenere a mente tutte le note della
scala minore . In linea generale, tutte le scale minori devono
essere considerate in relazione alle scale maggiori , dal
momento che la loro armatura di chiave è la stessa;

● La scala minore armonica ha il settimo grado alterato


per dare luogo alla sensibile sia nell’ascendere che nel
discendere, perché gli intervalli melodici si considerano
sempre a partire dalla nota più grave, indipendentemente
dalla loro direzione ascendente o discendente. La scala
minore melodica ascendente ha settimo e sesto grado
alterati , per dare luogo alla sesta maggiore , mentre ha un
bequadro rispettivamente sul sesto e settimo grado in fase
discendente , oppure, se non si sta arrivando da una scala
melodica ascendente, nessun nuovo accidente rispetto
all’ armatura di chiave della relativa scala maggiore , per
dare luogo di conseguenza alle necessarie sesta minore e
sottotonica ;

● A questo punto, occorre memorizzare e ripetere a mente,


immaginando la partitura e non la tastiera , quali note sono
effettivamente alterate per non considerare mentalmente i
tasti che non fanno parte della scala . Sarà difficile
confondersi se si seguiranno i suggerimenti di cui sopra, ma
è bene non dimenticare che, per fare un esempio tra tutti, il
sol diesis associato a un preciso tasto nella scala di la
minore armonica non dovrà essere confuso con un la
bemolle (par. 8 - Cap. II).

Una volta schematizzate le acquisizioni discorsive si può procedere


alla seconda fase, quella applicativa:

● Per la pratica delle scale si scelga inizialmente un


andamento il più possibile lento: questo per impedire alle
mani di acquisire prematuramente automatismi di
esecuzione che dovranno essere integrati solo dopo aver
chiarito i componenti musicali della scala ;

● Si studi in un primo momento con gli occhi sulla partitura ,


sempre leggendo e ragionando sullo schema di cui sopra
prima di suonare, senza mai procedere per tentativi casuali.
Così com’è possibile rivolgere il proprio grado di
concentrazione verso gli occhi e le loro sensazioni per
concentrarsi sulla lettura, allo stesso modo si può prestare il
massimo grado di attenzione al modo in cui le proprie mani
mettono in pratica quanto si è letto mentalmente o sulla
carta.

6.7 Mettere in pratica il circolo delle quinte nelle scale

Dal momento che ogni scala minore è da considerarsi in relazione


alla sua relativa maggiore , è fondamentale conoscere alla
perfezione il complesso delle armature di chiave : per farlo, è
necessaria una schematizzazione pratica del circolo delle quinte .
Sul pianoforte è facile vedere quali caratteristiche comuni abbiano le
due direzioni rispettivamente oraria e antioraria del circolo delle
quinte :
- In senso orario si ottiene che gli accidenti in chiave (a
partire dal fa verso il mi ) iniziano da due tasti bianchi che
vengono sostituiti da due tasti neri (seguendo l’ordine: il
fa naturale che viene sostituito dal tasto nero fa diesis, e il
do naturale che viene sostituito dal tasto nero do diesis ); le
ultime alterazioni si incontrano invece rispettivamente su
due tasti bianchi che vengono sostituiti da altrettanti tasti
bianchi (sul mi naturale, che viene sostituito dal tasto bianco
mi diesis, e sul si naturale, che viene sostituito dal tasto
bianco si diesis ). Bisognerà quindi considerare prima di
tutto la porzione sinistra dei tasti bianchi sulle due serie
distinte di due e tre tasti neri. Negli esempi a seguire sono
state rispettivamente evidenziate le prime e barrate le ultime
due note alterate dall’ armatura di chiave che si ottiene
procedendo in senso orario sul circolo delle quinte (fig. 103).

Figura 103

- In senso antiorario invece, si ottiene che gli accidenti in


armatura di chiave (a partire dal si verso il do ) iniziano da
due tasti bianchi che vengono sostituiti da due tasti neri
, (in ordine: il si naturale, che viene sostituito dal tasto nero
si bemolle , e il mi naturale , che viene sostituito dal tasto
nero mi bemolle ); le ultime alterazioni si incontrano invece
rispettivamente su due tasti bianchi che vengono sostituiti da
altrettanti tasti bianchi (sul do , che viene sostituito dal tasto
bianco do bemolle , e sul fa , che viene sostituito dal tasto
bianco fa bemolle ). Bisognerà quindi considerare prima di
tutto la porzione destra dei tasti bianchi sulle due serie
distinte di due e tre tasti neri (fig. 104).

Figura 104

Da questi due esempi è facile notare come il fulcro dell’ armatura di


chiave parta sempre dagli estremi destro o sinistro della serie da tre
tasti neri.

6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano

Dopo aver approfondito lo studio sulle cinque dita applicato alle


scale , si deve prestare particolare attenzione al passaggio del
pollice, ossia allo studio della correlazione tra due posizioni
fondamentali della mano . Per agevolarlo, è fondamentale che la
mano si muova lateralmente da sinistra verso destra, o da destra
verso sinistra, tirando leggermente verso se stessa [163] il polso [164] ,
così da preparare il pollice sul tasto da suonare con il medesimo.
Questo movimento del polso va praticato soffermandosi sul dito che
suona prima del pollice e contemporaneamente preparando
quest’ultimo sul tasto che dovrà suonare. Gli esercizi seguenti,
trascritti in forma sintetica dal manuale tecnico di C. L. Hanon [165] ,
sono particolarmente efficaci per lo studio del passaggio del pollice
sotto il secondo, terzo, quarto o quinto dito (fig. 105, fig. 106, fig.
107, fig. 108):
Figura 105
Figura 106
g

Figura 107
Figura 107

Figura 108
Figura 108

6.9 Concepire armonicamente le scale

Una volta chiariti gli elementi delle scale , è necessario ridurre in


“segmenti” le quattro ottave di ogni scala , a partire dallo
spostamento che la mano deve compiere in due posizioni
fondamentali della mano (per fare passare il pollice o per passare
sopra al pollice), in modo da operare un cambio di prospettiva:
passare dal particolare ( nota per nota ) al generale ( Armonia ). La
segmentazione, da un punto di vista armonico , viene effettuata
mediante due cluster , gli accordi mostrati nell’esempio a seguire
(fig. 109), che in questo caso rappresentano le note della scala
suonate simultaneamente. È chiaro quindi che l’ Armonia sia
fondamentale anche per comprendere elementi apparentemente
lontani da essa (par. 7 - Cap. II), dal momento che le composizioni
del periodo tonale sono state concepite come un insieme di elementi
armonici , gli accordi, fulcri del significato melodico . Nell’operare tale
segmentazione durante la fase di studio, è fondamentale preparare
anticipatamente la posizione della mano e studiarne il collegamento,
a fini pratici e mnemonici. Si osservi l’esempio a seguire (fig. 109):

Figura 109

In alcuni casi, per attuare questa scomposizione, le prime note della


scala sono da considerarsi come note di arrivo, ossia come se si
fosse già suonata un’ottava prima di arrivare a loro. A esempio, nella
scala di si bemolle maggiore la diteggiatura prevede generalmente
2-1-2-3 per la mano destra: in questo caso il 2 (sul si bemolle ) non
si prenderà in considerazione, poiché suonare il primo cluster
comprendendo il si bemolle significherebbe cambiare la diteggiatura
prevista per la scala ; i cluster assegnati alle due posizioni
fondamentali della mano saranno rispettivamente composti da do =
1 - re = 2 - mi ( bemolle )= 3 e fa = 1 - sol = 2 - la = 3 - si(bemolle)
=4 . Si ricordi inoltre che l’esempio in figura (fig. 109) ha natura
accordale: per essere studiato devono quindi essere applicati i
principi dello studio sul passaggio tra posizioni fondamentali della
mano visti nel relativo paragrafo (par. 8 - Cap. VI) e soprattutto quelli
sullo studio degli accordi che saranno trattati a breve (par. 1 - Cap.
VII).

6.10 Ridurre il margine di errore nelle scale

Nello studiare le scale bisogna tenere a mente che i tasti neri


lasciano al dito un margine d’errore, talvolta spostato verso destra,
talvolta verso sinistra, in virtù della loro disposizione. Questa
prevede, suonando in senso ascendente o discendente, una
distanza variabile dal centro del tasto nero a quello del tasto bianco
adiacente (par. 4 - Cap. I). Tuttavia, da un punto di vista pratico si
potrebbe dire quanto segue: in generale, rispetto al centro dei gruppi
da due e tre tasti neri reperibili sul pianoforte, questi sono disposti a
“ventaglio”; i tasti neri disposti esternamente rispetto a questo centro
ideale danno un margine di errore variabile a seconda della loro
collocazione. In altre parole, il tasto nero più a sinistra di questo
centro ideale avrà sempre una maggior superficie verso sinistra
rispetto al centro del tasto bianco che lo precede o che lo segue; al
contrario, il tasto collocato più a destra di questo centro ideale avrà
una maggior superficie verso destra. Nel caso della serie da due
tasti neri (par. 4 - Cap. I), si può dire che il centro ideale di questo
“ventaglio” coincida con un punto dell’asse immaginario che divide in
due longitudinalmente il tasto bianco re . Ne si ripropone di seguito
lo schema riassuntivo (par. 4 - Cap. I), così che sia integrato con
queste ultime considerazioni di natura pratica (fig. 110):

Figura 110

CAPITOLO VII

7.1 Introduzione pratica allo studio degli intervalli armonici

Per quanto concerne lo studio degli accordi , prima di passare a


indicazioni pratiche ben precise, è bene fare delle premesse sul
metodo di studio da adottarsi.
Riguardo allo studio pratico [166] di intervalli armonici e accordi , vale
la pena di concentrarsi sulle singole note , anche su quelle che non
hanno particolare significato armonico . Per esempio, se mignolo e
pollice devono suonare due note che due accordi o due intervalli
armonici non hanno in comune, bisogna prendere quelle singole
note e studiarne lo spostamento tra mignolo e mignolo, o tra pollice
e pollice, o tra medio e medio e così via. Questo fortifica la sicurezza
per lo spostamento di ogni dito, e aiuta a comprendere quali siano le
note perno dello spostamento tra i due accordi . In un primo
momento lo studio di tale spostamento non deve avvenire in modo
pendolare , ma il movimento deve essere spezzato in due: il dito
deve scattare sul tasto ed essere pronto anticipatamente per
abbassarlo, senza tuttavia farlo, se non al momento richiesto dalla
musica [167] . Occorre prestare attenzione al fatto che questa
divisione del movimento in due fasi non influenzi il momento ritmico
entro il quale si deve sentire il suono della nota , che deve essere
sempre rispettato: l’intera mano deve essere in posizione per
suonare l’intero accordo , anche quando si suona effettivamente una
sola nota di questo. In tal senso è solo la preparazione del dito sul
tasto che deve essere anticipata, non il momento in cui esso viene
abbassato. Non bisogna pensare che sia una forzatura studiare
dapprima come singole note i passaggi di accordi e intervalli che non
si conoscono. Perciò, in molti casi, non c’è differenza tra studio
melodico o armonico , fatto che suggerisce la possibilità di applicare
anche in questi casi gli studi che riguardano l’ uguaglianza , di cui si
tratterà in seguito (Cap. VIII). La differenza tra studio melodico e
armonico risiede nella fase successiva. Nella maggioranza dei casi
riguardanti gli accordi , si dovranno studiare dapprima gli intervalli
esterni (quelli che la nota più grave forma con la nota più acuta)
suonando in contemporanea le due note , per passare poi agli
intervalli interni. Per lo studio degli accordi si userà una piccola
spinta del polso, per non sforzare la muscolatura dell’avambraccio.
Negli accordi , è bene ricordare che vi saranno sempre una nota o
un gruppo di note da evidenziare durante l’esecuzione per conferire
chiarezza armonica : solitamente, per far emergere una nota
all’interno di un accordo, è sufficiente inclinare lievemente il polso
verso destra o verso sinistra, in direzione di tale nota , e conferire
una leggera spinta a partire dalle dita interessate. Quando due
accordi in rapida successione prevedono una mano molto interna
alla tastiera , con dita che abbassano i tasti bianchi a partire dal lato
dei tasti neri, in molti casi (per esempio in un fortissimo ) è meglio
non sfruttare il peso e, al contrario, chiudere la mano a ragno per
abbassare quei tasti . Se infatti si alzasse la mano per guadagnare
un po’ di rincorsa e di forza peso, questa, cadendo, rischierà
facilmente di perdere la mira e abbassare il tasto nero adiacente al
tasto bianco, fatto evitabile se non le si fa guadagnare rincorsa.
Fatte proprie queste dovute premesse sul metodo di studio pratico,
bisognerà applicarle allo studio degli accordi in tutte le posizioni e in
tutti i rivolti : non bisogna spaventarsi, non è necessario ed anzi è
sbagliato studiarli tutti come le tabelline della matematica. Nei
paragrafi a seguire verrà esposto il metodo per uno studio efficace di
essi. Si inizierà dalla tonalità di do maggiore e poi, seguendo il
circolo delle quinte, si esploreranno tutti gli accordi possibili
all’interno delle tonalità maggiori e minori : solo in queste ultime ci si
curerà di esplorare anche la possibilità del sesto e settimo grado
della scala alterati. Ecco infatti tutte le possibilità offerte dai gradi
delle scale minori per ciò che concerne le trìadi (fig. 111):

Figura 111

Il primo grado , dal momento che non contiene né il sesto né il


settimo grado della scala , è il più semplice da studiare. Per quanto
riguarda gli altri gradi , ci si soffermi inizialmente su quelli forti e li si
pratichi secondo l’esercizio proposto nella figura 85-5. Questo lavoro
sembra inizialmente insormontabile e spaventoso: in realtà bisogna
considerare che molte trìadi , in virtù dell’ambiguità della tastiera di
cui si è trattato in un paragrafo precedente (par. 8 - Cap. II), sono
trìadi enarmoniche di altre, ossia corrispondono, nell’accordatura del
pianoforte (quella del temperamento equabile [168] ), agli stessi suoni
scritti in maniera diversa. Esse, in determinati casi, corrispondono a
posture delle dita identiche: a esempio, la trìade di tonica in sol
bemolle maggiore scritta come sol ♭ -si ♭ -re ♭ prevede una identica
postura della mano e delle dita rispetto a una trìade di sopratonica in
do diesis minore, con il la diesis caratteristico della scala minore
melodica ascendente e scritta come re ♯ - fa ♯ - la ♯ . Molte trìadi
costruite sulle varie tonalità si ritrovano poi identiche, anche se la
loro funzione armonica è differente, in altre tonalità : si trasporti [169]
l’esempio fatto in precedenza della trìade di sol bemolle maggiore
nella tonalità enarmonica di fa diesis maggiore e si capirà che in
questa tonalità l’ accordo costruito sul secondo grado di do diesis
minore con il la diesis alterato è lo stesso, da un punto di vista della
postura delle dita e della mano, rispetto al primo.

7.2 Lo studio degli accordi: Czernyana, Volume I

Leggendo le premesse precedenti si potrebbe pensare che, per


studiare la postura assunta dalla mano sui vari accordi, sia possibile
partire anche da qualcosa di poco musicale, ossia dallo studio di una
tabella di accordi . In realtà, la maggior parte dei Maestri non fa
iniziare da una fredda tabella di accordi , ma consiglia lo studio dei
dieci fascicoli di Alessandro Longo, chiamati Czernyana [170] . Il
motivo è che, a parere dell’autore, risulta assolutamente alienante
iniziare con uno studio decontestualizzato delle cellule grammaticali
della musica. Lo studio di tutti gli accordi può essere integrato allo
studio di questi testi, facendo due progressi in una volta: quello sulla
musicalità e quello sulla capacità di lettura ed esecuzione, questioni
che dovrebbero sempre procedere di pari passo. Per ciò che
concerne il primo volume della raccolta presa in esame, leggendo gli
accordi che sono scritti per lo più a parti strette , e tralasciandone i
raddoppi , si deve tenere sempre presente che, nella scrittura di un
primo rivolto di trìade adottata in questo volume, la nota in alto
rispetto alla sesta è quella che dà il nome all’ accordo . Per rendere
proficua questa prima fase di studio, tra le altre cose, in un secondo
rivolto bisogna guardare la nota che sta più in alto nella quarta ,
ossia quella al centro nella trìade quando questa, come capita
spesso in questo volume, è scritta in forma completa, senza note
omesse . Se si terrà a mente questo, si sapranno facilmente
riconoscere le altre note che compongono l’ accordo in virtù degli
esercizi di lettura, e associare rapidamente una certa posizione della
mano all’aspetto della trìade . In alcuni casi sarà più difficile
riconoscere la fondamentale dell’ accordo , ma questo lavoro di
analisi andrà sempre allenato, fin dal principio. In seguito, si potrà
appuntare una sorta di propria tabella empirica, in cui si ordineranno
le idee per ciò che concerne i vari rivolti e posizioni che si
incontreranno nei brani: questo svilupperà anche la capacità
analitica. Non bisogna assolutamente sottostimare l’importanza e la
portata di uno studio condotto in questo modo: la lettura deve
passare prima o poi su un piano pratico, e da un punto di vista
pratico conta molto l’abilità delle dita, la capacità della mano di
prendere istantaneamente la forma dell’ accordo . Nella pratica, non
si suona un accordo nominandone le note una per una: quell’
accordo deve essere già “nel vocabolario” di chi suona come una
precisa postura della mano. Solo in questo modo si potrà progredire
nella lettura pratica, atta a suonare, non soltanto ad analizzare, e
quindi anche nella lettura a prima vista . Non solo: i benefici delle
acquisizioni pratiche si rifletteranno nelle acquisizioni teoriche,
rendendo l’immaginazione più vivida, e viceversa per quanto
concerne le acquisizioni teoriche. I due aspetti si integreranno con il
tempo, ma solo in alcuni punti. Molti aspetti di queste due facce della
stessa medaglia devono restare ben distinti. Per esempio: per
suonare, non è sufficiente sapere che “una trìade di tonica in do
maggiore e in posizione di ottava abbia come note do - mi - sol col
raddoppio del do al soprano ”: bisogna anche banalmente saper
usare le proprie mani e suonarla, per averla nel bagaglio pratico;
altrimenti, rimarrà sempre e solo in quello teorico.
Nel primo volume della raccolta Czernyana [171] succitata, ogni tanto
vengono impiegati degli accordi di settima di dominante : li si
riconosca pensando, al momento, che si presentano come una
trìade di dominante con l’aggiunta di un intervallo di settima
maggiore a partire dalla fondamentale , ossia di una ulteriore terza,
che risolve nella maggior parte dei casi in modo alquanto obbligato,
scendendo di grado e conferendo in questo modo un aspetto ancora
più tensivo verso la tonica rispetto alla trìade costruita sulla
dominante senza la settima . L’ accordo di settima s’incontrerà più
spesso sul V delle scale maggiori e minori (che risolverà
marcatamente sul I in entrambi i modi ) e sul II grado delle scale
maggiori o IV delle minori : quest’ultimo tipo risolve generalmente sul
V o sul VII grado per quanto riguarda la scala maggiore e sul V
grado per quanto riguarda quella minore . L’approfondimento degli
accordi di settima come tipi accordali avrà luogo in fasi più avanzate
dello studio, dal momento che non esistono soltanto queste due
applicazioni di tale tipo di accordo [172] .

7.3 Introduzione pratica allo studio degli intervalli melodici

Le premesse teoriche dei primi paragrafi di questo capitolo e i primi


cenni di natura pratica sono fondamentali per lo studio della tecnica
e della letteratura pianistica: rappresentano una premessa
indispensabile per i paragrafi che seguiranno, nei quali si tratterà
dello studio di queste forme da un punto di vista tecnico. Si ricordi
che la tecnica è definita come l’applicazione di rigorosi procedimenti,
ma che la Musica non rappresenta solo una fredda applicazione di
formule matematiche. La Musica è tale quando non è soltanto
matematica : questo principio vale soprattutto per gli studi sulla
tecnica che seguiranno, coi quali si può perfezionare forme già
consolidate, ricercandovi il proprio gusto.
Per studiare un arpeggio è necessario esplicitarne l’ armonia . Con
armonia non s’intende qui solo la componente verticale dell’intero
brano , ma anche e soprattutto quella di un determinato segmento
del brano stesso. Nel caso di un arpeggio, s’intende l’ accordo preso
in esame per lo studio dell’ arpeggio . Lo si precisa al fine di non
confondere il termine armonia con il termine Armonia , che si
riferisce tradizionalmente alla concezione e alla disciplina
fondamentale della teoria della Composizione [173] .
L’ arpeggio non è tuttavia sempre scritto in forma esplicita . Per
esempio: una trìade di tonica in do maggiore arpeggiata non è
sempre scritta do - mi - sol . Potrebbe essere scritta in quest’altro
modo: do -( re )- mi -( fa )- sol ; alcune di queste note sono tra
parentesi perché non fanno effettivamente parte dell’ accordo
che si sta arpeggiando . Quelle note sono definite estranee
all’armonia , in quanto non fanno parte dell’ accordo stesso. La
ragione per cui queste note sono impiegate verrà chiarita in seguito.
Walter Piston, nel suo manuale Armonia , precisa che, in senso
letterale, non esistono note estranee all’ armonia, in quanto questa
viene creata da tutte le note che sono emesse simultaneamente.
Tuttavia, non tutte le note sono essenziali per la definizione di un
elemento dell’ Armonia , vale a dire che esistono “impalcature” di
accordi, essenzialmente armonici, sopra alle quali “si poggia”
qualcosa di più strettamente melodico, che non può stare a
fondamento di una teoria dell’ Armonia . “L’intelaiatura” di fondo può
essere data, a esempio, da una trìade senza note estranee
all’armonia, poiché questa sarebbe un elemento armonicamente
valido in sé; il contrario non è possibile. In altre parole, durante il
periodo tonale i compositori erano così legati mentalmente
all’accordo da scrivere soltanto melodie strettamente collegate
all’ armonia , ma questo non significa che ogni nota melodica
faccia parte di un accordo .

7.4 Introduzione pratica allo studio dei rivolti di arpeggio

Lo studio dei rivolti di arpeggio rappresenta la chiave per uscire


definitivamente dai particolarismi di una lettura “nota-per-nota”. Nello
studio di questo tipo di arpeggio si dovranno suonare singolarmente
e in successione tutte le note che compongono un arpeggio nei suoi
rivolti , ma leggendo queste ultime in modo verticale (par. 1 – Cap.
II), cioè come un unico accordo : in questo modo ne sarà chiarita
inequivocabilmente la struttura (par. 5 – Cap. II). I rivolti di arpeggio
si trovano in molti manuali di tecnica pianistica, per esempio nelle
ultime pagine de Il pianista virtuoso di Charles-Louis Hanon [174] .
Dato che il problema più grande di questo studio sta nella
diteggiatura che viene impiegata per ogni singolo rivolto di arpeggio ,
se ne espone a seguire uno schema pratico, valido in tutte le tonalità
Nell’arpeggio in stato di rivolto, la diteggiatura 1, 2 e 5 può essere
sempre applicata a tre delle quattro note della trìade raddoppiata . A
variare è la scelta per la nota rimanente, in cui si sceglierà,
rispettivamente, la diteggiatura 3 o 4 nel caso in cui la nota in
questione si trovi a un intervallo di quarta o di terza con la nota che
la segue o che la precede, a seconda che si consideri la mano
destra o quella sinistra. Con una nota corrispondente a un tasto
nero, la mano destra avrà diteggiatura 1 sulla nota che segue quella
corrispondente al tasto nero (per esempio, in primo rivolto la mano
destra inizierà l’ arpeggio con il dito 2 sulla nota corrispondente al
tasto nero, e con il dito 1 sulla nota seguente); la mano sinistra avrà
la stessa diteggiatura per la nota che precede il tasto nero. Con due
note corrispondenti ad altrettanti tasti neri, la diteggiatura è
comunque obbligata a queste regole dalla funzione del pollice.

CAPITOLO VIII

8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza

Articolazione , appoggio e uguaglianza sono i tre più importanti


elementi che concorrono alla corretta tecnica di studio. Con
articolazione , da non confondere con quella riguardante l’anatomia
(l’articolazione ossea), si definisce l’azione necessaria dei muscoli
per disporre l’articolazione ossea a farsi carico del peso che occorre
al fine di compiere determinati movimenti (l’abbassamento di un
tasto in qualsiasi dinamica, il sollevamento delle dita dalla tastiera o
la loro distensione per suonare un accordo , ecc.): questo al fine di
evitare il sovraccarico della muscolatura. Con appoggio ci si riferirà
all’efficacia con la quale il peso viene scaricato in senso verticale
sulla tastiera, coadiuvando il più possibile l’azione sufficiente dei
muscoli al fine di abbassare il tasto fino in fondo, ricordando che
spesso non è una buona idea indugiare troppo tempo con il peso sul
fondo estremo del tasto (si veda in merito par. 7 - Cap. V). Con
uguaglianza s’intende la capacità di distribuire il peso in senso
orizzontale sulla tastiera passando attraverso ogni dito, in modo da
ottenere un suono il più possibile controllato, ciò che corrisponde alla
emissione costante di fiato in alcuni strumenti: questa qualità è
fondamentale per ottenere una legatura in qualsiasi dinamica .

Negli strumenti a fiato o nella stessa voce umana , per legare


bisogna emettere in modo continuativo del fiato, che fa da base e da
appoggio per la vibrazione delle corde vocali, per l’innalzamento o
l’abbassamento della glottide, per il ritrarsi o il protrarsi della lingua,
eccetera. In questo senso, per legare al pianoforte è utile
immaginare un flauto o una voce umana (si veda par. 2 - Cap. IV).

8.2 Introduzione pratica all’articolazione

Lo studio dell’ articolazione è da praticarsi in un primo momento a


scatto : con questo termine s’intende lo sfruttamento dell’azione del
muscolo antagonista e che si possa rilasciare a grande velocità,
appunto a scatto , rilassando il muscolo agonista. Ciò permette di
creare un’energia “potenziale” maggiore di quella che avrebbe un
muscolo agonista a riposo. Questo deve essere effettuato sempre
tenendo il dito in posizione arcuata (a uncino) mentre si immagina, a
partire dall’articolazione ossea della nocca, il movimento necessario
a al rilascio del tasto da parte del dito, così velocemente da rendere
appena visibile il suo spostamento verso l’alto. Si tratta di un
esercizio di coordinazione, quindi assolutamente non
culturistico , nonostante per far agire contemporaneamente
muscolo agonista e antagonista sia necessario un momentaneo
lieve irrigidimento del dito. Tale coordinazione deve essere
perfezionata studiando i due momenti dell’ articolazione
fondamentale :

1) Dopo aver abbassato un tasto attraverso il corretto appoggio del


peso… (fig. 112)
Figura 112

… l’ articolazione porterà le falangi a formare il seguente angolo con


l’articolazione ossea della nocca (fig. 112):

Figura 113

Per formare questo preciso angolo, si agisca nel modo seguente:


mentre il dito si solleva a partire dall’articolazione ossea della nocca,
la prima falange si avvicinerà alla mano (le altre falangi devono
rimanere rilassate), senza sforzarne l’ articolazione . Lo scopo di
questo movimento è quello di sfruttare una leva corta, per quanto
possibile. Se il dito venisse sollevato in modo disteso, o non del tutto
incurvato, la leva lunga farebbe gravare un peso eccessivo sui
piccoli muscoli deputati al sollevamento, che in questo modo non
agirebbero a scatto . Per questo motivo non è corretto studiare o
praticare lo scatto con le dita distese, che risultano lente e inadatte a
passaggi che richiedono una rapidità fulminea: non si ricorderà mai
abbastanza che i muscoli necessari a suonare il pianoforte vanno
coordinati e non allenati in modo culturistico .

2) Contemporaneamente ai movimenti precedenti, l’ultima falange


del dito, quella più lontana dalla mano, si avvicinerà leggermente a
questa nell’ultimo momento della salita. Dal momento che il dito,
dopo una certa altezza, sporgerà inevitabilmente un poco in fuori, in
virtù della sua anatomia, si dovrebbe evitare che lo faccia, il più
possibile, come mostra l’immagine (fig. 114):

Figura 114

La punta delle dita deve essere sempre il più possibile rivolta verso
la superficie dei tasti , pronta ad abbassarli. Lo stesso vale per l’
articolazione del pollice, che è tuttavia dotata di due sole falangi: il
dito si solleverà prima dalla tastiera , poi si piegherà leggermente in
dentro, a partire dalla seconda falange, se dovrà effettuare un
passaggio del pollice, aiutato in tutto dal movimento orizzontale del
polso che lancia l’intera mano. L’utilizzo della muscolatura si potrà
avvertire soprattutto a partire dai gomiti, che dovranno essere
quanto più possibile pendenti . Da tutto ciò è evidente che la forza
del muscolo ha un ruolo marginale nella determinazione della
velocità con la quale si solleva il dito dal tasto : bisogna
piuttosto insistere sulla perfetta coordinazione di questi
momenti [175] . L’esercizio dei due momenti dell’ articolazione
fondamentale è da praticarsi come segue:

- Prima, sollevando contemporaneamente tutte le dita a


scatto e alla maggior velocità possibile, con un’azione
muscolare di tipo esplosivo;

- Poi sollevando solo alcune dita fino a ottenere l’effetto


desiderato sul sollevamento di un singolo dito.

Anche lo staccato dipende dalla velocità con la quale si sollevano le


dita dalla tastiera . Si è definito articolazione fondamentale il
complesso di movimenti che bisogna impiegare per il sollevamento
delle dita dalla tastiera . Il momento finale di questi tre movimenti, in
cui il dito è in posizione pronto ad abbassare il tasto , è quello a cui
si deve prestare maggiore attenzione per l’esecuzione di uno
staccato . Non è tuttavia l’unico modo possibile di sollevare le dita
dalla tastiera . Per esempio, osservando molte registrazioni di
Vladimir Horowitz si può notare che questo leggendario pianista
suona in queste con una mano quasi completamente distesa, il cui
sollevamento delle dita sfrutta in questo modo una leva più lunga.
Tuttavia, al fatto che come già detto le registrazioni dei “giganti” del
pianoforte non possono rappresentare un riferimento assoluto per il
proprio studio tecnico (par. 4 – Cap. I) si aggiunge che i casi in cui
la musica richiede una espressività così particolare da dover
suonare a dita distese sono rari nel repertorio tonale più
elementare . Per questo motivo varrebbe la pena di studiarli
solo dopo aver approfondito lo studio sull’ articolazione
fondamentale , ben più frequente . Molte delle altre possibili
articolazioni , che sono per il pianista come i vari tipi di pennello per
un pittore, hanno come principio proprio l’ultimo momento dell’
articolazione fondamentale (fig. 114). Per esempio, l’ articolazione
da impiegarsi per un veloce staccato di dita [176] prevede il
ripiegamento interno del dito a partire dalla prima falange, quella più
vicina alla mano, ciò che causa il ripiegamento interno delle altre due
falangi. Il resto opera come nell’ articolazione fondamentale: l’ultima
falange si ripiega leggermente in dentro per permettere al dito di
risollevarsi direttamente in articolazione fondamentale , con le altre
due falangi già in posizione. Naturalmente, in uno staccato a grande
velocità, le dita devono piegarsi in dentro impiegando quest’
articolazione su una sola posizione fondamentale della mano,
sollevandosi tutte insieme soltanto una volta terminata la
successione di note staccate , impiegando per questo sollevamento
il primo momento dell’ articolazione fondamentale . Può capitare,
soprattutto nel repertorio concepito per fortepiano e clavicembalo, di
dover suonare frequentemente staccato , talvolta per tutta la durata
del brano. La tecnica atta a risparmiare aperture e chiusure delle dita
e spostamenti della mano superflui (par. 1 - Cap. VII) preparerà
correttamente anche allo studio dello staccato . Nel frammento
mostrato nel prossimo esempio (fig. 115) è evidente che alcune delle
note melodiche nella mano destra possano essere preparate
posizionando la mano per una trìade in primo rivolto di fa maggiore .
Ridotto lo spostamento della mano e ridotte altresì l’apertura e
chiusura delle dita - che dovranno disporsi pronte a suonare l’
accordo - in posizione fondamentale della mano, si avrà restituito
precisione allo staccato melodico , che sarà effettuato nella maggior
parte dei casi coadiuvando l’ articolazione del polso: anche se non è
l’unico tipo di staccato possibile, questo è certamente è il più
frequente. Per dare una generalissima indicazione, si possono
isolare determinate componenti muscolari in particolari esigenze: per
esempio, si potrà eseguire uno staccato che preveda la sola
articolazione delle dita in un passaggio estremamente veloce. I
diversi approcci possono comunque essere coordinati tra loro per
funzioni ed effetti ancora differenti. Bisognerà comunque in tutti i casi
ridurre al minimo se non evitare la rigidità muscolare, e sfruttare i
muscoli solo per coadiuvare il sostegno delle articolazioni ossee
(par. 7 - Cap. V). Arrivati a questo punto non resta che studiare ciò
che sta tra un’ armonia e la successiva, esattamente come
succedeva per le scale , curandosi di coordinare ogni spostamento,
concependolo in senso melodico .
Nello studio legato , la sensibilità della “nota precedente” può dare
precise informazioni tattili sulla posizione della “nota successiva” o
viceversa. Nello staccato invece, il dito molto spesso deve “staccarsi
dalla tastiera ”, e perdere questi riferimenti. Per questo è
fondamentale avere, ove possibile, una concezione armonica di
fondo per preparare la posizione che avranno le dita; ciò avverrà con
minore approssimazione di quanto accadrebbe senza la conoscenza
di basi armoniche .

8.3 Introduzione pratica all’appoggio

Tutte le dita devono poter spingere il resto della mano e del braccio,
anche solo leggermente o quando non è necessario, verso una
direzione voluta. Quest’ultima può essere:

- Verso la parte alta della tastiera , dove ci sono i tasti neri;


- Verso il lato destro della tastiera , per esempio in una
scala ascendente legata ;
- Verso il lato sinistro, per esempio in un arpeggio
discendente;
- Verso l’esterno della tastiera , dove ci sono i tasti bianchi.

Naturalmente, in questo le dita devono sempre essere coadiuvate


dal braccio, che non deve lasciarsi trascinare dalle medesime a peso
morto, ma deve accompagnarsi a loro, acconsentendo per così dire
al movimento. Quest’ultimo deve tuttavia sempre partire dalla punta
delle dita stesse: per questo motivo, oltre al passaggio del pollice, è
fondamentale praticare lo scambio del peso tra le dita, in modo da
sviluppare la coordinazione muscolare in senso orizzontale, e non
solo verticale. Ciò non solo aumenterà esponenzialmente la velocità
di esecuzione, ma soprattutto conferirà precisione al tocco . Perché
questo avvenga, il tasto deve essere abbassato fino in fondo ,
anche se la dinamica è piano, e indipendentemente dalla velocità di
esecuzione, in modo che il dito possa farvi presa, senza scivolare.
Questo avviene scaricando opportunamente il peso, o il movimento
diventerà confusionario e finirà col togliere precisione, piuttosto che
conferirne. Se infatti il peso è scaricato per metà, o per un quarto,
rispetto al necessario, il dito, dovendo chiamare a sé l’avambraccio
(senza trascinarlo a peso morto), tenderà a scivolare o a fare questa
operazione rimanendo sospeso a mezz’aria o a mezzo tasto
abbassato; ciò sarà causa di un irrigidimento generale atto a
sostenere l’inutile movimento prodotto: questa è la causa più
frequente di un cattivo appoggio . Ecco un esempio metaforico
che mostra l’importanza di questa concezione: quando si cammina,
nonostante sia la gamba a portare avanti il piede, è sempre il piede il
mezzo attraverso il quale si verifica bene l’appoggio al suolo per
compiere il passo successivo, non certamente la gamba. Lo stesso
avviene sulla tastiera : se il braccio o la mano si muovono prima che
la punta del dito abbia “tastato il terreno” e convalidato che si possa
proseguire, si rischierà sempre di fare un passo falso. Quanto detto
finora deve essere letto alla luce delle considerazioni fatte in
precedenza, nel par. 7 - Cap. V: in quel paragrafo, si è spiegato che
indugiare con tutto il peso a fondo tasto è sempre una scelta
sbagliata. L’ appoggio , quindi, si attua correttamente
rispondendo alla sensazione del termine della corsa del dito sul
fondo del tasto . Una volta attuata questa risposta, che consiste nel
sentire attivamente quale sia il punto in cui la corsa del tasto termina
verso il basso e la quantità di velocità con la quale lo si è raggiunto,
diventa possibile comprendere il fondamentale ruolo di quest’ultima
nel determinare la dinamica del suono. La dinamica sonora potrebbe
valere anche zero: in questo caso il tasto è stato abbassato molto
lentamente. Da ciò si evince l’importanza cruciale dell’ appoggio
nell’evitare gli errori dovuti alle cosiddette, in gergo, note fantasma .
Un pianista che, tentando un pianissimo estremo non ottiene nessun
volume dal proprio strumento sbaglia soltanto a quantificare la
velocità con la quale far giungere il tasto al suo fondo.

8.4 Introduzione pratica all’uguaglianza


Tutti i passaggi che prevedono velocità di esecuzione, in una
successione di singole note legate , prevedono anche e sempre
l’alternarsi di uno o più gruppi da due tasti all’interno di una o più
posizioni fondamentali della mano , dei quali uno viene rilasciato
mentre l’altro viene abbassato. Naturalmente, nei casi in cui si
alternino due posizioni fondamentale della mano , si dovrà studiare il
passaggio tra quelle posizioni (per il corretto studio di questo
passaggio si consulti par. 5 - Cap. V). Questa considerazione fa
capire che la velocità di esecuzione non dipende dal movimento
di caduta del dito, né in senso muscolare, né in senso di forza
peso: dipende al contrario dal movimento di sollevamento di
questo ultimo . Ciò è facilmente dimostrabile: la massima velocità
che si può raggiungere tra due tasti che vengono abbassati in legato
è ovviamente il momento in cui questi vengono abbassati
contemporaneamente ; in questo modo la distanza temporale tra
l’evento fisico A (in cui viene abbassato il primo tasto ) e l’evento B
(in cui viene abbassato il secondo) è minima, persino azzerata in
casi di rara precisione fisica e matematica. Siccome a questo punto
degli studi chiunque saprebbe abbassare due tasti
contemporaneamente e con due dita differenti, la velocità massima è
già raggiunta: la difficoltà di “aumentare la velocità” sta quindi nella
maggior parte dei casi nel ridurre l’intervallo tra i due eventi . In
altre parole: a partire dalla conoscenza dell’evento C corrispondente
al momento in cui i due tasti sono stati appena abbassati del tutto e
contemporaneamente, ossia il momento di maggior velocità
raggiungibile, occorre ridurre il più possibile la distanza acustica tra
l’evento A e l’evento B , in modo da rendere questi ultimi due
acusticamente distinguibili dall’evento C . Gli eventi A e B i possono
essere distanziati in due modi:

1) Se vengono distanziati di poco, l’esecuzione che se ne


avrà risulterà quasi essere un mordente ;

2) Se vengono distanziati molto, la loro esecuzione risulterà


“avere un maggior respiro” .
Questo processo sarà agevolato, in un primo momento, dalla
rotazione dell’avambraccio; secondariamente, dal leggero
abbassarsi e sollevarsi del polso; in seguito dalla quasi
impercettibile rotazione dell’articolazione ossea della spalla, e così
via. Tutto deve concorrere, seppur in piccoli movimenti, alla
distinzione dei due eventi A e B .
A questo punto non resta che studiare la connessione tra le varie
note , raggruppandole sempre (per due, poi per tre, ecc.) fino a
raggiungere un gesto che le comprenda tutte. Dato che, al fine di
distanziare gli eventi A e B impiegando la sola rotazione
dell’avambraccio, le dita acquistano una certa, seppur minima,
rigidità, è evidente che queste abbiano un ruolo attivo nell’
articolazione . Il loro sollevarsi è ciò che realizza il lavoro di
articolazione vera e propria, sfruttando questo meccanismo di
rotazione dell’avambraccio per distribuire il peso sulle singole note,
rilasciandone altre per realizzare una legatura . Una volta iniziato a
suonare un passaggio legato, le dita non devono assolutamente
sollevarsi dai tasti più di pochi millimetri, quelli necessari ad ottenere
alcuni effetti (per esempio, nel caso di un forte ). In un pianissimo ai
limiti della delicatezza, con molta probabilità le dita non perderanno
contatto con il tasto , sollevandosi solo il necessario. Ciò detto,
risulta evidente che non è necessario dedicare troppo tempo allo
studio di questa tecnica, eseguendo, a esempio, le scale in modo
legato centinaia di volte a gran velocità: integrate queste nuove
conoscenze, ci si può pienamente concentrare sui collegamenti tra
le varie posizioni fondamentali della mano (par. 8 - Cap. VI) richieste
dalle scale stesse.

8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte

La tecnica pianistica è un insieme di cui le tre componenti di


articolazione , appoggio e uguaglianza rappresentano gli elementi
più importanti: se non si è letto questo manuale nella sua
interezza, non si può comprendere quante premesse, pratiche e
teoriche, siano necessarie prima di affermare questa precisa
distinzione , e quanto la tecnica pianistica sia qualcosa di
assolutamente non meccanico . Al contrario, questa prevede una
esatta concezione teorica, una diretta connessione con il proprio
strumento, un ragionamento che non può partire dalla sola pratica,
esattamente come la sola concezione teorica non può definire la
tecnica pianistica. Nulla di quanto si è detto finora è trascurabile
nella lettura di questo paragrafo. I tre componenti della tecnica
pianistica devono essere sempre ben distinti nel loro ruolo, perché,
nel momento in cui si suona, questi si ritrovano persino nei più
piccoli gesti. Per imparare a distinguerli, bisogna iniziare a lavorare
con due fondamentali strumenti di studio:

1) Le variazioni ritmiche;
2) Le variazioni sui segni di articolazione.

Ognuno di questi due ambiti tecnici andrà trattato musicalmente, e


non meccanicamente: per esempio, dando un senso unitario a ogni
frase , oppure dinamicamente crescendo o diminuendo nei punti in
cui la musicalità lo richiede.
Le più comuni variazioni sul ritmo sono le seguenti (fig. 116):
Figura 116

In queste variazioni, l’ articolazione è stata lasciata alla libera


interpretazione. Effettivamente può capitare in diverse partiture,
specialmente nel repertorio barocco , che la lettura non sia chiara
per via della mancanza di segni di articolazione . Con questo termine
s’intendono dei precisi segni semiografici, da non confondersi con l’
articolazione pratica, scritta in corsivo e trattata precedentemente
(par. 1 e 2 - Cap. VIII). Dato che, all’atto pratico, tutto ciò che si
suona al pianoforte prevede un’ articolazione , è sempre bene
inserire con criterio le indicazioni a essa relative, in matita leggera
all’interno della partitura, soprattutto laddove non fossero
esplicitamente indicate. La precisazione per quanto riguarda l’uso
della matita è fondamentale, perché la scelta dell’ articolazione , così
come quella della diteggiatura - se non indicata dal compositore - è
molto spesso una questione di gusto e d’interpretazione. Questa
potrebbe perciò dover essere ritoccata e modificata nel tempo, a
seconda della propria prospettiva interpretativa. I segni di
articolazione più usati nella tecnica pianistica sono i seguenti:

Accento
Di questo segno di articolazione si è già parlato indirettamente (par.
6 - Cap. I) . L’ accento (fig. 117) serve a far capire che la nota sulla
quale è posto dev’essere evidenziata. Questo non significa
necessariamente che quel suono debba essere suonato più forte
degli altri; per esempio, si può mettere in evidenza un suono anche
facendo una impercettibile pausa prima del suono stesso. Questo
secondo tipo di resa è tuttavia riservato a una mano esperta, in
quanto molto spesso necessita, oltre che di una variazione sull’
articolazione, anche di un intervento sulla durata dei segni ritmici e
sull’ andamento , ossia sull’ agogica musicale.
Figura 117

Tenuto
Il tenuto (fig. 117-1) è molto simile a un accento , ma differisce da
quest’ultimo perché la nota sulla quale è posto riceve un’enfasi che
può prolungarsi modificando l’effettivo ruolo ritmico della nota
(questo procedimento, in agogica , si chiama rubato ).

Figura 117-1

Legatura
Anche se si è già parlato della legatura in un paragrafo precedente
(par. 2 - Cap. IV) , bisogna all’atto pratico distinguere tra due tipi ben
diversi di legatura :

● Legatura di espressione (fig. 118), già trattata, che prevede


un’esecuzione che faccia percepire il meno possibile il
distacco tra due o più note , in base all’indicazione data dal
suo segno [177] .

Figura 118
● Legatura di valore (fig. 119), che come segno serve a
sommare la durata di due segni ritmici posti sulla stessa
altezza .

Figura 119

Staccato
Lo staccato (fig. 120) serve a distinguere nettamente una o più note
dalle altre; a differenza dell’ accento però, non ha nulla a che vedere
con la dinamica . Suonare una nota in modo più forte delle altre non
la rende staccata . Suonare una nota staccata può aiutare a
prepararne una accentata , in quanto lo staccato prevede una pausa
ritmica che accorci drasticamente la durata della nota , pur non
modificandone il ruolo ritmico . A esempio, l’esecuzione di un
passaggio simile potrebbe essere quella a seguire:
Figura 120

Figura 121

Non-legato
Esiste una forma più tenue dello staccato , chiamata non-legato (fig.
122) , o portato. In questa forma l’esecuzione vista per lo staccato
sarebbe più simile alla seguente:

Figura 122
Disponendo questi segni di articolazione in modo da formare delle
variazioni, esattamente com’è successo per quanto riguarda le
variazioni ritmiche , si potrebbero ottenere dei risultati simili (fig.
123):

Figura 123

Entrambi i tipi di variazione mostrati finora sono da studiarsi


prestando attenzione in particolar modo al fatto che le note abbiano
tra loro un’intensità dinamica coerente. Le indicazioni ritmiche di
terzina, sestina, eccetera non devono spaventare: in questo contesto
hanno il solo scopo di consentire a uno studente di applicare con
rapidità determinate variazioni ritmiche a determinati gruppi di
coerenza che si ritroveranno in composizioni scritte impiegando
cellule ritmiche simili. Terzine e sestine appartengono ai gruppi
ritmici irregolari , un argomento avanzato del Solfeggio che va
trattato con un Maestro [178] . Le variazioni ritmiche vere e proprie
hanno un senso astratto che prescinde dalle figurazioni ritmiche di
partenza. Le possibilità di variazione ritmica sono molte, ma nello
stilarne uno schema riassuntivo che possa avere utilità strettamente
pianistica bisogna comprendere la funzione e l’utilità di ciascuna di
queste singole variazioni . Se così non si facesse, si sarebbe
obbligati ogni volta ad applicarle tutte al proprio studio, da capo a
fondo. Individuando invece il problema di un determinato passaggio
al quale si sente l’esigenza di applicare una determinata variazione ,
e conoscendo l’utilità pratica della gamma di variazioni ritmiche che
si hanno a disposizione, è possibile lavorare più rapidamente
applicando solo le variazioni necessarie a un determinato caso.
Metaforicamente, il vantaggio è lo stesso che ne ricava chi, avendo
una corda del pianoforte rotta, si prodigasse nel sostituire solo
quella, piuttosto che nel ricostruire l’intero strumento. A esempio, si
potrebbe trovare sulla partitura una figurazione ritmica simile a una
di queste due (fig. 124):

Figura 124

Queste figure sono state scritte sul “rigo” degli strumenti a


percussione. Molti di questi strumenti, avendo un’intonazione
invariabile - ossia potendo riprodurre una sola nota in virtù della loro
propria struttura - prevedono questo tipo di scrittura. Sarebbe inutile
impiegare un pentagramma, proprio perché si indicherebbe sempre
la stessa nota , sottintesa all’uso dello strumento. In questo “rigo”
sono comunque concesse piccole variazioni sull’altezza, di cui però
ora non ci si occupa. Basti sapere che le figure qui in alto, nel
contesto di questo esempio, non rappresentano una particolare nota
ma soltanto una precisa indicazione ritmica.
Si potrebbe pensare di modificare questa cellula ritmica, che si trova
spesso come componente di molte melodie , per insistere di volta in
volta su aspetti diversi del proprio studio. Ecco un primo esempio di
variazione ritmica (fig. 125):

Figura 125
Di per sé, questa variazione ritmica ha il solo scopo di indicare
una distinzione per l’alternarsi di un singolo dito a quello che
dovrà suonare immediatamente dopo . Questo perché alla
variazione ritmica non è stata accompagnata l’indicazione sull’
articolazione . Ciò non è un errore, la scelta è stata semplicemente
affidata all’esecutore. Occorre ora comprendere che esistono molti
altri segni di articolazione oltre quelli mostrati, e che la conoscenza
di quelli trattati sarà sufficiente ai fini del presente capitolo.
Come si è detto, una legatura di espressione differisce fortemente
come segno da una legatura di valore, dal momento che riguarda
note disposte su altezze diverse. Si torni allora al pentagramma e si
provi a sperimentare con questo segno di articolazione , cercando di
capire di volta in volta quale funzione di studio possa avere
all’interno della variazione ritmica presa prima in esame.
Per usare una metafora concreta, i segni di articolazione
rappresentano per uno studente di musica ciò che rappresenta il
martello per un fabbro, la chiave inglese per un idraulico: sono gli
strumenti attraverso i quali studiare e affinare, da un punto di vista
tecnico, tutto ciò che si è trattato nel corso del presente manuale.
Eccone una prova pratica: si aggiunga una legatura di espressione
tra una cellula e l’altra della variazione presa prima in esempio. Dato
che questa prevede altezze diverse, si immagini per un momento
che la melodia originale sulla quale si è impiegata la variazione
ritmica sia la seguente (fig. 126):

Figura 126

Vi si applichi ora la seguente variazione (fig. 127) :


Figura 127

Si otterrà questo (fig. 128):

Figura 128

Si aggiunga ora la legatura di espressione (fig. 129):

Figura 129

In questo modo, la variazione ritmica acquista una precisa efficacia


nel lavoro sull’ uguaglianza, perché può essere usata per scomporre
singolarmente i movimenti di distribuzione del peso tra tutte le dita.
Infatti, la configurazione ritmica aiuta a “respirare” con il polso, oltre
che ad articolare bene le dita a coppie di due , ossia prendendo in
considerazione il passaggio di ogni dito verso il successivo. La
legatura di espressione coinvolge invece un dito e quello
successivo , due dita per volta: la distribuzione del peso, data la
posizione nella misura , viene convogliata verso la croma che ha il
punto di valore ; una volta raggiunta, questa rappresenterà il
momento di riposo della mano. In altre parole, la funzione della
variazione sul segno di articolazione è quella di mettere in
pratica l’indicazione della variazione ritmica . Si potrebbe infatti
tornare ritmicamente al frammento originale, suonandolo, per
esempio, solo in modo accentato (fig. 130):

Figura 130

Musicalmente, l’ accento presuppone una concentrazione sul suono


che deve avvertirsi in modo pulito e distinto. Questo uso dell’
accento , dato che presuppone un gran controllo dell’ articolazione
delle dita, serve anche a impostare la coordinazione muscolare per l’
appoggio , ossia per sostenere in posizione le articolazioni ossee
delle dita, del polso, del gomito, eccetera. Questo può essere utile,
laddove un dito abbassi scorrettamente un tasto : per esempio, nel
caso in cui la terza falange del quarto dito si pieghi in fuori in un
fortissimo o in un rapido abbellimento , o qualora il polso fosse
rigido. È fondamentale per l’ articolazione delle dita. Sulle note della
melodia riportata in precedenza (fig. 130) si possono esercitare i
cinque aggiustamenti sulla postura proposti dall’allievo del
leggendario pianista Béla Bartók, György Sándor, nel suo manuale
dal titolo Come si suona il pianoforte [179] .
Lo studio accentato va sempre effettuato con il peso (par. 7 - Cap.
V), mai attraverso l’esclusivo sforzo muscolare, avvicinandosi quanto
più possibile alla musicalità del tratto di brano originale sul quale lo si
sta applicando. Una melodia della quale tutte le note sono state
accentate può essere eseguita in modo legato o sciolto , dal
momento che accento , staccato e legatura sono tre tipi di
articolazione ben differenti tra loro. Il primo caso è semplice da
spiegare: suonare tutto accentato e legato significa dover rendere
ogni suono ben distinto, ossia indugiare sul tasto perché il suono
decada introducendo l’accento successivo, e preparare nel
frattempo l’articolazione del polso a uno scarico del peso dall’alto
verso il basso. Nella tecnica della sintesi vocale , quella impiegata
per esempio durante la lettura delle partenze e degli arrivi nelle
stazioni dei treni, l’ accento nel tentativo d’imitare la voce umana è
determinato da una breve, quasi impercettibile pausa che si effettua
prima della sillaba accentata, e non tanto da un mutamento di
velocità o d’intensità: questa prerogativa è fondamentale per
ottenere un accento che sia musicale e non meccanico. Nel caso
dello staccato e accentato invece, il polso si troverà a dover operare
come una molla muscolare, per imprimere il peso sulla tastiera:
dapprima ancora dall’alto verso il basso; in seguito, per trasformarlo
in resistenza e spinta contraria, dal basso verso l’alto, in modo da far
abbassare il più efficacemente possibile lo smorzatore della corda
lasciando il tasto : tuttavia il polso non dovrà mai essere il solo a
partecipare al movimento.
Si può dire quindi che la differenza tra un’ articolazione accentata e
legata e una accentata e staccata è la seguente: nella prima è
maggiormente interessata l’ articolazione dei muscoli estensori
dell’avambraccio, oltre che ovviamente della spalla e dei pettorali;
nella seconda, quella dei muscoli flessori e dei bicipiti, fin quando
l’intero apparato viene sollevato simultaneamente per forza elastica.
Lo scopo è sempre il minor dispendio di energia possibile, e non il
rilassamento assoluto.
I tasti hanno una loro elasticità, che un movimento rapido può
sfruttare, ossia conferiscono alla mano un contraccolpo che deve
essere impiegato per non dover sollevare la medesima sempre a
partire dai muscoli estensori. Il modo in cui questo tipo di
articolazione funziona si può comprendere solo leggendo questo
manuale per intero, ma è importante tenere a mente che nel
repertorio pianistico questi due elementi dell’ articolazione
coinvolgono nella maggior parte dei casi la flessibilità del polso, in
senso perpendicolare rispetto al tasto . Nell’esempio a seguire non
vengono introdotti segni ritmici , variazioni ritmiche o combinazioni di
questi differenti rispetto alla precedente (fig. 131).

Figura 131

L’ accento tuttavia acquisisce un significato più strettamente ritmico:


posto in questo modo, il segno concentra il lavoro dell’ accento sul
battere di tutti i tempi ; assume quindi lo scopo, tra le altre cose, di
evidenziare i fondamenti ritmici del brano, tanto dal punto di vista
tecnico che da quello sonoro, e non meramente teorico, giacché non
bisogna dimenticare che queste variazioni prevedono
un’applicazione a casi musicali concreti.

Figura 132
Il respiro (fig. 132) tra due legature distinte è un tipo di variazione sui
segni di articolazione riguardante il polso: per eseguirlo, quest’ultimo
dovrà necessariamente sollevarsi, portando con sé la mano per
lasciar respirare la musica, esattamente come fa un cantante o un
flautista tra una frase e un’altra. Quanto agli altri elementi, una
legatura così lunga, dal levare , e note così ritmicamente piccole
concorrono a dilatare i tempi di scarico del peso in senso
orizzontale: la muscolatura viene coinvolta per una maggiore durata
perché non ha tempo di rilassarsi. Nell’altro caso, il periodo in cui il
dito indugia sul tasto abbassato consente di rilassare
completamente la muscolatura che si è coordinata per abbassarlo,
prima di passare al tasto successivo. Allo stesso tempo, questo
procedimento avvicina il significato della variazione il più possibile al
frammento di partenza (quello al quale si è applicata tale variazione),
costituito in questo caso da una battuta in due tempi suddivisi due
volte (secondo livello di suddivisione ) e raggruppati rispettivamente
in quattro semicrome ciascuno.

Figura 133

L’uso dell’ accento sul battere e del punto di staccato sul levare di
ogni tempo servono a studiare l’ articolazione del polso in senso
rotatorio. Si può dire che questo tipo di scrittura riguardi
l’avambraccio, in cui avviene la sovrapposizione di ulna e radio: il
polso in sé, infatti, non può ruotare su sé stesso senza l’ausilio
dell’avambraccio.
Accento e punto di staccato sono entrambi segni di articolazione
che, alternandosi, prevedono uno scambio di peso: nel primo,
questo viene impiegato per far scendere il tasto , quindi a partire
dall’alto; nel secondo, questo viene combinato a una leggera azione
muscolare al fine di creare una molla che attraverso l’ articolazione
del polso faccia sollevare le dita dal tasto , quindi a partire dal basso.
In questo caso il peso del polso e in parte dell’avambraccio cade
sulla prima nota per determinare l’ accento e si distribuisce
gradualmente, venendo recuperato leggermente dalla muscolatura,
verso il punto di staccato che prevede necessariamente un distacco
della mano a partire dalla tastiera . Uno staccato eseguito solo con
le dita sarebbe inefficace in questo caso, perché non preparerebbe
la mano a servirsi nuovamente del peso per accentare la nota : lo
staccato è proprio il punto di slancio, il respiro che prepara la caduta
, e influenza in quanto tale l’ampiezza e la durata della caduta stessa
[180] .

La tendenza più sbagliata dopo aver suonato un accento è quella di


precipitare sulla nota successiva: l’ accento dovrebbe essere in
realtà suonato con un ampio respiro o, dove non sia possibile,
mediante un abbassamento dinamico musicale, e non meccanico,
prima e dopo la nota sulla quale è posto. Come si sarà capito,
comunque, le possibilità di combinazione tra le due tipologie di
variazione proposte sono numerosissime.
Bisogna tuttavia sperimentare con queste variazioni per capire
concretamente che ruolo abbia ciascuna di loro all’interno del nostro
studio , aggiungendo o togliendo, a seconda del contesto. Per
concludere, si cerchi ora di applicare quanto detto a un caso tecnico
concreto. In una scala , i principali motivi per un accento fuori posto
che genera disuguaglianza nel suono sono due: il primo è un
passaggio del pollice eseguito troppo tardi (il pollice deve trovarsi
sempre pronto sul tasto da abbassare prima che sia il momento di
farlo); il secondo è lo spostamento in ritardo della mano sopra il
pollice, dal momento che quest’ultimo fa da perno in entrambi i casi
presi in esame.
Questi accenti indesiderati si possono rimuovere lavorando sul dito
in senso verticale , ossia su come il medesimo agisce
verticalmente sul tasto per abbassarlo, oppure in senso orizzontale
, ossia su come il dito - coadiuvato da polso, braccio eccetera - si
muova verso la parte acuta o grave della tastiera. In entrambi i casi,
come si è visto precedentemente (par. 7 - Cap. V) la velocità alla
quale il corpo si muove ha un ruolo decisivo per il suono che ne
deriva. La muscolatura che muove il dito dovrà avere un ruolo attivo
nel sollevarlo , e un ruolo il più possibile passivo nel coordinare
l’articolazione ossea per permetterle il momentaneo (par. 7 - Cap.
V) sostegno del peso.
Da un punto di vista pratico, la riduzione dello studio musicale alla
mera lettura e rilettura di ciò che è scritto risulta presto
controproducente, perché equivale a limitare il proprio studio alla
ripetizione meccanica, di cui il presente manuale si è occupato di
mostrare i profondi limiti.

INDICE DEI CONCETTI

CAPITOLO I

1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto


Scala fondamentale
Nome di nota
Nostra musica
Nostri studi
Periodo tonale

1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma


Pentagramma
Chiave musicale
Chiave di sol
Chiave di violino
Doppio pentagramma
Nome specifico della chiave
Nome generico della chiave
Chiave di basso
Chiave di fa
Chiave di do
Taglio addizionale

1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi


Tastiera
1.6. Introduzione pratica al ritmo musicale
Segno ritmico
Nota
Figura ritmica
Pausa ritmica
Gambo
Coda
Silenzio
Semibreve
Minima
Semiminima
Croma
Semicroma
Biscroma
Semibiscroma
Misura
Battuta
Stanghetta
Tempo
Accento metrico
Suddivisione
Divisione
Ritmo

CAPITOLO II

2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo


Intervallo
Nome generico di un intervallo
Accordo
Trìade
Arpeggio
2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi
Quadrìade

2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni


Cambiamento di stato di un accordo
Cambiamento di posizione di un accordo
Nome della fondamentale dell’accordo
Nota fondamentale dell’accordo
Nome generico di un accordo
Tipo vocale
Parte
Voce
Basso
Tenore
Contralto
Soprano
Spartito

2.6 Introduzione alla composizione delle scale


Scala
Suono
Intervallo melodico
Nome generico di un accordo
Tono
Semitono
Tonalità
Funzione armonica
Grado
Tonica
Sopratonica
Mediante
Sottodominante
Dominante
Sopradominante
Sottotonica
Sensibile
Accidenti (o segni di alterazione)
Diesis
Doppio diesis
Bemolle
Doppio bemolle
Bequadro
Modo
Armatura di chiave
Circolo delle quinte

2.7 Introduzione pratica alla melodia


Melodia

CAPITOLO III

3.1 Introduzione pratica all’armonia


Armonia
Basso continuo

3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore


Basso dato
Stile severo
Stile libero
Organico strumentale
Orchestra
Raddoppio

CAPITOLO IV

4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro


Timbro
Registro

4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra


Legatura di espressione
Fraseggio

CAPITOLO V

5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori


Postura

5.3 Introduzione pratica al tocco


Tocco

5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo
Ruolo attivo
Ruolo passivo
Cinque dita
Posizione fondamentale della mano

5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità


Tasto
Prensilità
Pilota
Spingitore
Rullino
Martello
Paramartello
Cucchiaio
Smorzatore
Corda
Bottone dello scappamento
Leva di ripetizione

5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte


Pedale

5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica


Dinamica
Piano
Forte
Moderatamente piano
Moderatamente forte
Pianissimo
Fortissimo
Sùbito
Crescendo
Diminuendo
Forcella

CAPITOLO VI

6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio


Indicazione di andamento
Metronomo
Contatore
Ripetizione

6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento


Frammento
Intero
Inciso
Semifrase
Frase
Periodo
Composizione

6.4. Introduzione pratica allo studio delle scale


Diteggiatura

6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano


Passaggio del pollice

6.9 Concepire armonicamente le scale


Cluster
CAPITOLO VIII

8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza


Articolazione
Appoggio
Uguaglianza

8.2 Introduzione pratica all’articolazione


Articolazione fondamentale
8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte
Legatura di valore
Variazione ritmica
Variazione di articolazione

BIBLIOGRAFIA

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(rivista da Giuseppe Piccoli in BEYER, Ferdinand. Scuola preparatoria allo
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JONÁS, Alberto. Master school of modern piano playing & virtuosity . New
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SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York:
Schirmer Books, 1981.

SCHUMANN, Robert. Drei Klaviersonaten fur die Jugend , Opus 118.


Amburgo: Schuberth & Co., 1853.

[1] [Dei suoni si tratterà in seguito (par. 6 - Cap. II), una volta introdotto il

concetto di tonalità .]
[2] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes

naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro


Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi
principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019).
[3] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941
(edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay
in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[4] [ Per questo motivo, rispettando i fini propedeutici del presente manuale,

nei prossimi capitoli si tratterà a più riprese della musica tonale .]


[5] “Tradizionalmente considerata come la scienza che studia il suono, le sue
proprietà, il suo meccanismo di formazione, propagazione e ricezione, estende
oggi il suo campo di interesse a tutti i fenomeni vibratori della materia e a tutte
le frequenze.” Acustica. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma:
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su:
http://www.treccani.it/enciclopedia/acustica/.
[6] [Nel presente manuale, il primo termine è riferito ai segni grafici , mentre il

secondo all’effetto acustico prodotto sul suono da tali segni . Per questo i
due termini saranno impiegati come sinonimi solo in precisi contesti.]
[7] [ Le righe e gli spazi del pentagramma si contano dal basso verso l’alto.]
[8]
[9] [Per rispettare gli scopi del presente manuale, cioè quelli di introdurre il
lettore ai rudimenti più importanti della lettura pianistica senza rendere la
trattazione confusa e dispersiva, non vengono trattate singolarmente tutte le
posizioni del pentagramma in cui potrebbe trovarsi il segno di chiave do :
queste diverse posizioni concorrono, insieme a quelle già mostrate, a
determinare il setticlavio , cioè l’insieme delle posizioni di chiave più diffuse
nell’ambito della nostra musica . Le si enuncia per completezza in una nota a
parte: tenore , contralto , mezzosoprano , soprano .]
[10] [ Attenzione, non speculari.]
[11] HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered .
Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920.
[12] [S’introdurrà in seguito a questo tipo di associazione (par. 6 - Cap. II).]
[13] [Dato che le chiavi impiegate per la scrittura pianistica sono due e

indicano due punti differenti della tastiera , può nascere l’errata concezione
che la mano destra sia riservata alla chiave di violino mentre la mano sinistra
a quella di basso . Molto presto si capirà quanto questa concezione sia errata.]
[14] [In tal modo si potrà anche comprendere, qualora necessario, in quale
ambito la propria capacità di lettura sia carente.]
[15] [A questi due segni viene talvolta aggiunta erroneamente la corona ,

segno che indica un “ segno ritmico lungo a piacimento”. Tuttavia quest’ultima


rappresenta una prescrizione agogica (par. 8 - Cap V), poiché non indica una
precisa durata ritmica e la sua esecuzione può essere valutata solo dal
contesto del brano in cui si trova.]
[16] [ Fatta eccezione per i casi dei gruppi ritmici irregolari , di cui si può
trattare con un Maestro e che saranno introdotti nel capitolo VII.]
[17] [Le stanghette di battuta più frequenti sono singole , doppie , di fine , di

ritornello . Quelle singole indicano, come già detto, l’inizio e la fine di una
battuta . Quelle doppie possono indicare la fine di un discorso musicale
compiuto (par. 2 - Cap. VI). Quelle di ritornello , accompagnate prima o dopo
da due punti, indicano che una determinata sezione di brano deve ripetersi (se
non sono presenti ulteriori specificazioni, si sottintende che quella sezione
inclusa tra due stanghette di ripetizione deve essere ripetuta una volta). Al
termine della ripetizione, salvo indicazioni, si deve proseguire suonando
normalmente quello che è scritto oltre la stanghetta di ritornello .]
[18] [ A esempio le misure miste , composte generalmente dall'unione di una

misura semplice e una misura composta , o un tempo di misura semplice e un


tempo di misura composta (si parla prevalentemente di misure quinarie e
settenarie , per esempio 5/4 o 7/2). L’autore invita a non preoccuparsi, in un
primo momento, di questo tipo di misura , poiché non s’incontrerà durante gli
studi elementari.]
[19] [Della dinamica si tratterà nel par. 8 del Cap. V. Basti ora conoscere la
definizione che segue:
“Complesso dei rapporti d'intensità sonora che si produce all'interno del
discorso musicale [...] ”. Dinamica musicale. In: TRECCANI. Enciclopedia
Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937.
Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/dinamica-musicale/.]
[20] [Nell’esempio ci si è riferiti a una misura semplice , ma si può fare lo

stesso esperimento suddividendo per tre i movimenti della mano associati ai


tempi .]
[21] BEYER, Ferdinand. Vorschule im Klavierspiel . Op.101 . Mainz: Schott,

1850 (rivista da Giuseppe Piccoli in BEYER, Ferdinand. Scuola preparatoria


allo studio del pianoforte. Milano: Edizione CURCI, 1975).
[22] [Si tratterà nel par. 7 - Cap. 5 della differenza tra la tastiera di un
pianoforte e quella di computer.]
[23] [ Si ricordi in questo senso la considerazione sui tasti neri come unico
riferimento tattile fatta nel par. 4 - Cap. I.]
[24] [N.d. A .]
[25] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[26] [Matematicamente è indifferente da quale punto dell’ intervallo si consideri
questo calcolo, ma qui si parte dalla componente più grave perché la lettura
del pentagramma procede, come regola generale, dal basso verso l’alto.]
[27] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[28] [ Naturalmente questa sottrazione non deve avvenire matematicamente,

ma solo immaginando il nome di nota superiore o inferiore come posto sulla


stessa ottava dell’altro. Per esempio leggendo un intervallo di nona tra do e re
, non si deve individuare prima l’ intervallo di nona e poi sottrarvi il numero 7,
ma prendere la il nome di nota posto in alto (il re ) e considerarlo nella stessa
ottava del do . In questo modo, dato che gli intervalli composti sono da
considerarsi nei casi indicati dal modello come semplici , si ottiene un
intervallo di seconda.]
[29] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[30] [Tutto ciò che sulla partitura è concepito verticalmente (un elemento sopra
l’altro) accade simultaneamente; tutto ciò che è concepito orizzontalmente,
accade in successione.]
[31] [Si noti che lo scheletro di tutti i tipi accordali più comuni è l’ intervallo di
terza.]
[32] [“L a pratica e la teoria della formazione e concatenazione degli accordi e
l'organizzazione dei suoni, per rapporti di altezza, in funzione dell'ordine
unitario della tonalità ”. Armonia. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il
dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000.
Dell’importanza del concetto di tonalità si tratterà in seguito, basti al momento
intuirla dal fatto che la nostra musica è interamente quella del periodo storico
che da essa prende il nome, ossia il periodo tonale .]
[33] [Scritte in corsivo all’interno di questo manuale per essere distinte da un

intervallo generico.]
[34] [Se una trìade è costruita su un nome di nota privo di attributo ( diesis ,

bemolle ecc.), tale nome di nota rappresenterà il nome generico dell’ accordo
. Se invece è costruita su un nome di nota accompagnato da un attributo , tale
attributo dovrà essere incluso nel nome generico dell’ accordo (per esempio:
trìade di do diesis ). Della seconda parte del nome di un accordo , ossia del
suo nome specifico , si tratterà in seguito (par. 6 - Cap. II).]
[35] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).PISTON, Walter.
Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e
traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON,
Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[36] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[37] [E dei suoi eventuali attributi . Per comprendere più approfonditamente il

processo del raddoppio si consulti anche par. 2 - Cap. III.]


[38] [Si ricorda che il nome di nota posto in chiave di basso fa parte della

verticalità dell’ accordo e va perciò considerato come parte dell’ accordo


stesso. ]
[39] [ L’alternativa sarebbe stata quella di scrivere lo schema a parti late , con

una distanza tra tenore e soprano maggiore di un’ottava. In termini di ottave, a


cambiare è solo la distanza delle voci , non la loro disposizione.]
[40] [Il nome di nota assegnato al basso può trovarsi a una qualsiasi distanza,

in termini di ottave, dai tre tipi vocali superiori (a patto che non sconfini
l’estensione assegnatagli).]
[41] LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951.
[42] [In teoria, come si è visto (fig. 72), l’ intervallo di seconda è sempre

presente negli accordi di settima . Ma nella pratica, alcune note di un accordo


possono essere omesse , ossia non scritte e quindi non suonate. Nel caso in
esempio, l’omissione di una di queste due note è rara per le ragioni esposte.]
[43] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes

naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro


Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi
principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019).
[44] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes

naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro


Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi
principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019).
[45] [Il suono è uno dei componenti che concorrono a definire il concetto di

nota (di tali componenti si è trattato nel paragrafo 6 del capitolo I)].
[46] [Gli elementi che compongono un intervallo melodico si succedono, a

differenza di quelli che compongono un intervallo armonico . Agli intervalli


melodici si applicano tuttavia le stesse regole e tecniche viste per gli intervalli
armonici .]
[47] [Per far comprendere l’importanza di questi elementi, si anticipa, per

quanto riguarda la struttura della tastiera del pianoforte, articolata in ottave,


quanto segue: “[...] a partire dalla fine del secolo XVII, l’ottava è stata divisa in
dodici semitoni uguali che danno luogo alla scala cromatica .” Semitono. In:
TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1929-1937.]
[48] [Al solfeggio cantato , che presuppone il solfeggio parlato , vengono di

solito affiancati il dettato ritmico e quello melodico , che sviluppano l’orecchio


musicale, indispensabile per un pianista.]
[49] [Questo determina che il nome di nota sul quale si è iniziato a costruire la

scala sia ripetuto all’ottava superiore. Quell’elemento non fa ovviamente parte


della struttura della scala , ma sarà utile per le considerazioni a seguire.]
[50] [ Ossia da un “alfabeto” che presuppone un aspetto numerico nella sua

implicita concatenazione di intervalli melodici di seconda.]


[51] [Fatta questa considerazione, si può comprendere perché non sia

necessario terminare la costruzione dello “scheletro” di una scala con il nome


di nota dal quale si è iniziato a costruire tale “intelaiatura”: se i gradi della
scala sono sette, e la scala fondamentale ha un aspetto circolare, qualsiasi
considerazione numerica fatta tra il primo e il settimo grado (o viceversa) non
richiede l’aggiunta di un “ottavo grado ”.]
[52] [A loro volta indicati con precisione dalla chiave e associati a suoni la cui

durata è espressa dalla loro figura ritmica (par. 6 - Cap. I).]


[53] [Con il termine accidenti (o segni di alterazione) ci si riferisce ai segni che

vengono convenzionalmente impiegati per prescrivere un’ alterazione , che è


invece il preciso esito acustico o sonoro di tale prescrizione.]
[54] [Per tale motivo questo processo di associazione è stato distinto dai
precedenti (Cap. I).]
[55] [Purché questi vengano integrati e messi in relazione con l’ambito della

armonia pratica , introdotto a partire dal capitolo III.]


[56] [Un cambio di tonalità avviene all’interno di un brano attraverso il processo

di modulazione . La modulazione non è da confondersi con la tonicizzazione ,


in quest’ultimo caso non c’è un vero e proprio cambio di tonalità . Di questi
argomenti, decisamente avanzati, si può trattare con un Maestro di Armonia .]
[57] [Per completezza, si definisce qui, in una nota a parte, che le alterazioni

transitorie valgono dal punto in cui vengono poste (compreso) fino alla fine
della battuta in cui sono contenute e non, come accadeva per le alterazioni
costanti , fino a indicazione contraria per tutta la durata della composizione .
Le alterazioni transitorie valgono per tutte le note poste sulla medesima ottava
( non su tutte le ottave). Nel caso in cui l'ultima nota della battuta venga
alterata e legata di valore alla prima nota della battuta seguente - tramite un
apposito segno che indica all’esecutore che il valore ritmico della prima nota
debba essere sommato a quello della seconda - l’effetto dell’ alterazione
transitoria vale ancora per quella nota e smette di valere subito dopo la
medesima. Si ricorda inoltre che talvolta un’ alterazione può essere indicata
ripetutamente nella partitura solo per facilitarne il riconoscimento: in generale
questo tipo di indicazione avviene tra parentesi e ha il solo scopo di facilitare il
riconoscimento di quell’ alterazione da parte dell’esecutore, che potrebbe
trovarsi a dover leggere frequenti cambi di tonalità con rischio di confusione.]
[58] [Nella nostra musica , l‘alternativa è che un accidente debba essere

ricondotto alla scala cromatica , di cui si tratterà in seguito. Si parla a esempio


di semitono diatonico o semitono cromatico .]
[59] [Aggiungendo un attributo al nome di nota , non modificano tuttavia tale

nome di nota . A esempio: mettendo un diesis sul nome di nota do questo non
diventa un altro nome di nota ma resta do con attributo diesis .]
[60] [Questo termine è da legare strettamente al significato della parola che lo

segue; si tratta di “ mattoni-teorici”: toni e semitoni nella teoria della nostra


musica non esisterebbero senza le scale dalle quali sono tratti i suoni che li
compongono.]
[61] [Ossia quelle a cui si riferisce il circolo delle quinte .]
[62] [Unisoni, quarte, quinte e ottave vengono definiti intervalli giusti, poiché

non hanno alternativa di maggiore o minore . L'alternativa di maggiore o


minore per un intervallo si ottiene, quando possibile, rivoltandolo : per
esempio, il rivolto di una terza maggiore è una sesta minore , il rivolto di una
seconda minore , è una settima maggiore… e così via. Il rivolto di una quarta
giusta , invece, a esempio, è una quinta che non ha mutato il proprio nome
specifico (quinta giusta ). Lo stesso vale per unisoni che si rivoltano in ottave,
e per quinte che si rivoltano in quarte.]
[63] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[64] [ N.d.A.]
[65] [N.d.A.]
[66] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[67] [ Si noti che in questo contesto il termine voci ha un significato differente

rispetto a tipi vocali , poiché si riferisce già a una nota ascritta a un


determinato tipo vocale .]
[68] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[69] [Attenzione a non confondere questo termine, scritto in minuscolo, con

quello scritto in maiuscolo ( Armonia ) che si riferisce non alla consonanza


delle voci in relazione a un accordo ma alla materia di studio.]
[70] [La nota che è stata aggiunta, e che corrisponde quella associata al I

grado della tonalità , ha senso conclusivo poiché la sensibile , che nelle scale
maggiori corrisponde al VII grado , ha carattere di forte tensione verso la
tonica sulla quale quasi sempre risolve questa propria tensione armonica .]
[71] LONGO, Achille. T rentadue lezioni pratiche sull'armonizzazione del canto

dato . Milano: RICORDI, 1938.


[72] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[73] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[74] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[75] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[76] [ L’esercizio sulla pronuncia della scala fondamentale (par. 2 - Cap. I)
rappresenta un primo passo in tal senso, poiché permette di non leggere
singolarmente tutti i componenti di una melodia per grado congiunto : se ne
leggerà solo il punto più alto o quello più basso, a seconda della
direzione , applicando le scale che si sono studiate alle note rimanenti, senza
doverle leggerle una per una. Gli accidenti forniranno tutte le informazioni
necessarie a procedere in tal senso.]
[77] [Queste due fasi vanno viste in ordine. La seconda presuppone la prima,
che ne è prerogativa necessaria.]
[78] [Come quelli dei diesis e dei bequadri nelle scale minori armoniche o

melodiche , che riguardano sempre il VI o il VII grado : di questo si tratterà


dettagliatamente più avanti (par. 6 - Cap VI).]
[79] [Per farlo, è bene non sfociare in un approccio troppo personale, ma

basarsi piuttosto sulle regole dell’ Armonia e del basso continuo , senza le
quali verranno a mancare gli strumenti interpretativi per comprendere il
significato delle scelte di un compositore.]
[80] [La sintesi consente infatti uno sguardo dall’alto. Se prima la trìade di

tonica in do maggiore era do-mi-sol , dopo la sintesi diventa un singolo


elemento con un preciso nome.]
[81] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[82] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes

naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro


Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi
principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019).
[83] Parte strumentale, formata dai bassi delle varie armonie succedentisi
lungo il discorso musicale, che specialmente nella pratica dei sec. XVII e XVIII
si notava sotto le parti costitutive della composizione quale guida utile a colui
che doveva improvvisare un elaborato accompagnamento. Il basso continuo si
chiama basso numerato quando sulle note (tutte o meno) della parte di
basso d’armonia sono indicati in cifre gli intervalli caratteristici degli
accordi previsti per accompagnare una monodìa o una polifonia.
Basso. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su:
http://www.treccani.it/enciclopedia/basso/.
[84] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[85] [Che è lo stile preponderante nella scuola rinascimentale , anche se non
rappresenta l’unico stile esistente. È generalmente considerato l’opposto dello
stile libero , più diffuso dal XIX secolo in avanti, dove molte prescrizioni dello
stile severo non vengono adottate.]
[86] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[87] [Con basso dato ci si riferisce a una linea del basso che viene per
l’appunto “data” già pronta (fig. 89) per essere impiegata nelle prime
esercitazioni propedeutiche di cui si tratterà nel presente paragrafo]
[88] DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano:
Carisch, S.A., 1946.
[89] [Nonostante sia fondamentale associare sempre le proprie esperienze di
studio all’ascolto.]
[90] [Queste si trovano, molto spesso, al termine di una frase o della stessa

composizione (per la definizione di questi due termini, si veda: par. 2 - Cap. VI)
e rappresentano la “punteggiatura” del discorso musicale.]
[91] [Quindi tra tenore e soprano , poiché una scrittura che prevede uno

scavalcamento delle parti è riservata solo a particolari eccezioni. Da questo si


trae un importante suggerimento: quello che viene considerato il nome di nota
(o la pausa ritmica associata a un preciso tipo vocale ) scritto più in basso
nella partitura coincide, nella maggior parte dei casi, con quella assegnata al
tipo vocale del basso , poiché quest’ultimo dei quattro tipi vocali occupa la
posizione più bassa del doppio pentagramma .]
[92] [A parti late , la lettura dello spartito dovrà basarsi ancora più

marcatamente sui nomi di nota , in quanto questi, nel definire numericamente


un tipo accordale, restano gli stessi a prescindere dalla loro distanza. I tasti
del pianoforte sono infatti disposti su più ottave, che sebbene si associno a
esiti acustici diversi, vanno considerate da un punto di vista tattile come
segmenti di tastiera ben precisi entro i quali i sette nomi di nota possono di
volta in volta ascriversi. Per esempio: trovando sulla partitura i nomi di nota do
e sol , ma su due ottave molto distanti della tastiera , ottave che si definiscono
soprattutto attraverso la tonalità di ciò che si sta suonando, li si dovrà
ricondurre al riferimento di un unico schema di ottava, immaginando il do
come se appartenesse alla stessa ottava del sol .]
[93] [N.d.A.]
[94] [N.d.A.]
[95] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[96] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[97] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[98] DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano:
Carisch, S.A., 1946.
[99] DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano:
Carisch, S.A., 1946.
[100] RUGGERI, Marco. Manuale di Armonia pratica. Milano: RICORDI, 2012.
[101] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B.
C. Ballard, 1722.
[102] “L’accordo formato da una nota con la sua terza e la sua quinta” Perfètto.

In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia


Italiana, 1929-1937. Disponibile su:
http://www.treccani.it/vocabolario/perfetto/.]
[103] [Nella prassi del basso continuo , i gradi della scala ai quali è associata

la nota al basso sono indicati con dei numeri romani (I, II, III, IV, V, VI o VII.]
[104] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).

[105] [Si consulti il seguente manuale d’introduzione allo studio dell’ armonia

pratica e del basso continuo :


RUGGERI, Marco. Manuale di Armonia pratica. Milano: RICORDI, 2012.]
[106] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,
1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco
Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).
[107] [Le proposizioni hanno iniziale minuscola probabilmente per differenziare

il modo minore da quello maggiore .]


[108] HOROWITZ, Vladimir. Technic the Outgrowth of Musical Thought ,
Florence Leonard. Philadelphia: T. Presser Co. ©1922-1948, Marzo 1932, pp.
163-164, disponibile su: http://nettheim.com/horowitz/horowitz32.html
(versione web revisionata il 22 maggio 2001). Lingua originale della
conferenza: Tedesco.
[109] [L’esempio riportato qui fedelmente dall’articolo in questione è
ritmicamente incompleto poiché rappresenta un frammento di brano, non ci si
spaventi quindi se si legge 6/8 come indicazione di misura e si trova che le
battute sono incomplete e addirittura diverse tra loro: il frammento rappresenta
un dettaglio che contiene ciò che originariamente occupa il secondo tempo
della prima battuta e parte del primo tempo della seconda. Nel frammento è
inoltre presente una indicazione di dinamica (la doppia lettera “ f ”), di cui si
tratterà nel par. 8 - Cap. VII.]
[110] [Traduzione gentilmente offerta dalla professoressa Ornella Gangi.]
[111] [ Il timbro è rappresentato dalla qualità del suono , determinata dagli

armonici che accompagnano un suono fondamentale . La teoria acustica dei


suoni armonici andrebbe approfondita sin da questo momento con un
Maestro, poiché aiuta a comprendere, tra le altre cose, la grande ricchezza
timbrica del pianoforte.]
[112] HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered .
Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920.
[113] Da questa immagine non si deve tuttavia ricavare che il pianoforte

comprende tutti i suoni possibili , poiché ne comprende soltanto una


porzione di quelli udibili all’orecchio umano, accuratamente selezionata
secondo rapporti acustici che risalgono ai primi studi del matematico e filosofo
Pitagora, nato nella prima metà del VI secolo a.C. a Samo, un’isola della
Grecia.
[114] Legatura. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della

lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000.

[115] HOROWITZ, Vladimir. Technic the Outgrowth of Musical Thought ,


Florence Leonard. Philadelphia: T. Presser Co. ©1922-1948, Marzo 1932, pp.
163-164, disponibile su: http://nettheim.com/horowitz/horowitz32.html
(versione web revisionata il 22 maggio 2001). Lingua originale della
conferenza: Tedesco.
[116] [Traduzione gentilmente offerta dalla professoressa Ornella Gangi].
[117] HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered .
Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920.
[118] [Fotografia scattata dall’autore alla tastiera di un clavicembalo Urbano

Petroselli , con questo curioso aspetto.]


[119] [Se s’intendesse la mano come il mero e rigido sostegno delle dita, ciò
non sarebbe vero in nessun caso: questa visione robotica della posizione della
mano, in cui sarebbero solo le dita a lavorare, è assolutamente inadatta a
suonare un pianoforte moderno.]
[120] [Si definirà attivo un dito che abbassa o abbasserà un tasto , e passivo

un dito che non abbassa o non abbasserà un tasto .]


[121] JONÁS, Alberto. Master school of modern piano playing & virtuosity .
New York: C. Fischer, 1922-1929.
[122] Scatto. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua

italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000.


[123] [Si tratterà dettagliatamente di quanta importanza abbia questa
distinzione, apparentemente superflua, nel paragrafo successivo (par. 7 - Cap.
V), quando sarà mostrato il ruolo della velocità nella meccanica del
pianoforte.]
[124] [Ecco perché si parla di prensilità : la mano dovrà sempre leggermente
chiudersi.]
[125] NYEGAUZ Genrich. Ob iskusstvo fortep'yannoy igry . Mosca: VAAP,

1982 (traduzione di Annelise Alleva in NEUHAUS, Heinrich. L’arte del


pianoforte . Milano: RUSCONI, 1985).
[126] Meccanica . In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della

lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000.


[127] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York:
Schirmer Books, 1981.
[128] [Questa leva, con il tasto a riposo, non è in condizione di equilibrio.]
[129] [Il tasto , in corrispondenza del fulcro metallico, è rivestito sui lati destro e

sinistro del foro di incastro da un feltro colorato - solitamente rosso o verde -


che riduce l’attrito del tasto di legno con il perno in metallo. Questo feltro si
usura facilmente e va periodicamente sostituito. Muovere troppo i tasti verso
destra e sinistra, come fanno alcuni pianisti che simulano un movimento che
ricorda quello impiegato per effettuare un vibrato sugli strumenti a corda ,
potrebbe portare a un’usura precoce di questa componente. I feltri sono
facilmente visibili rimuovendo il coperchio anteriore del pianoforte e seguendo
l’asta del tasto fino a trovare il piccolo fulcro in metallo, operazione che
tuttavia va effettuata con estrema cautela e inizialmente sotto la supervisione
di un esperto, onde evitare possibili danni allo strumento.]
[130] [Non è possibile inquadrare con precisione matematica queste frazioni
perché possono variare a seconda del pianoforte, dell’umidità esterna, della
sensibilità di chi suona, eccetera.]
[131] [Questo sollevamento viene sostenuto interamente dal pilota , un perno
in metallo.]
[132] [In una meccanica Renner può essere in metallo, mentre in una Steinway

può essere in legno, come semplice prolungamento dalla leva dello smorzo .
A volte il materiale varia anche semplicemente da un modello all’altro della
stessa casa di costruzione, o in base all’anno di produzione di un determinato
pianoforte eccetera.]
[133] [Il rullino è destinato a ricadere per forza elastica e per forza di gravità,
dal momento che il lancio non avviene con un proiettile libero ma con una
componente attaccata a un fulcro e obbligata nel suo movimento.]
[134] [Su questo c’è un’importante considerazione da fare: lo spingitore rimane

sospeso fino a quando il tasto non viene parzialmente rilasciato, e se


quest’ultimo non torna in posizione pronto a lanciare nuovamente il rullino , il
tasto viene abbassato a vuoto. Motivo per cui nei moderni pianoforti si è
introdotto agli inizi del XIX secolo il doppio scappamento . Nei pianoforti che
non sono dotati di doppio scappamento , bisogna prestare particolare
attenzione al momento in cui si rilascia un tasto , lasciando un margine ampio
allo spingitore per tornare alla sua posizione di lancio.]
[135] [A tasto abbassato il martello si muove liberamente a partire dal

paramartello e non dalla sua posizione iniziale].


[136] [Più precisamente, impedisce allo spingitore di rimanere attaccato al

rullino , il che di conseguenza si risolve in una caduta del martello dalla corda
, dal momento che il rullino è attaccato all’asta del martello .]
[137] [Le corde simpatiche sono quelle associate a suoni che si producono per

risonanza di altri suoni . Per comprendere questa definizione, si provi a


effettuare questo esperimento: si abbassi un tasto lentamente e fino in fondo,
senza farlo suonare. In seguito, si abbassi il tasto che si trova un’ottava più in
alto rispetto a questo, stavolta facendolo suonare. Rilasciando quest’ultimo, ci
si accorgerà che, in corrispondenza del primo, quello che non viene rilasciato
lungo tutto l’esperimento, si è prodotto un suono ben distinto. La base della
teoria sulle corde simpatiche si può approfondire studiando i rapporti acustici
dei cosiddetti suoni armonici .]
[138] [La martelliera è l’insieme dei martelli e la loro relativa parte di meccanica

. Della martelliera non fanno parte le corde .]


[139] [E attenzione, solo la martelliera . Le corde rimangono ferme.]
[140] [Questa operazione è effettuata da un tecnico, che varia tra le altre cose
la distribuzione e l'apertura delle fibre del feltro, definendo come quest'ultimo
percuoterà le corde . In questo modo, il timbro sonoro del pianoforte viene
modificato.]
[141] [Questa operazione è effettuata da un tecnico e consiste nella levigatura
della porzione di feltro usurata. Questo procedimento non può essere
effettuato all’infinito, poiché rimuovere lo strato di feltro interessato significa
assottigliare il rivestimento del martello : dopo qualche rasatura , la martelliera
andrà sostituita.]
[142] Dinamica musicale. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani.
Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su:
http://www.treccani.it/enciclopedia/dinamica-musicale/.
[143] [Questi due segni, tra l’altro, danno il nome al pianoforte .]
[144] [Per completezza, l’autore indica in una nota a parte che esistono altri

segni di prescrizione dinamica , tra i quali lo sforzando , il rinforzando , il sotto


voce , il mezza voce , il poco forte , oltre a segni che impiegano più di due p o
due f , per esempio il più piano possibile indicato da tre p . Tali segni tuttavia,
nell’orizzonte dei primi studi, non sono da considerarsi.]
[145] [Fatto comunque molto spesso privo di gusto, che viene citato solo per
fare chiarezza su quali siano i fondamenti tecnici da considerare in vista del
raggiungimento del massimo volume.]
[146] [Il ragionamento si potrebbe fare anche per la leva di ripetizione , quando

agisce attraverso lo scappamento come una sorta di spingitore ; tuttavia


risulta essere la leva più svantaggiosa.]
[147] [Ecco perché molto spesso il pianista che ricerca volume suona
sfruttando anche il peso del proprio corpo.]
[148] [In altre parole, senza una elevata velocità è controproducente

sfruttare eccessivamente la massa del proprio corpo .]


[149] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York:
Schirmer Books, 1981.
[150] [Non bisogna dimenticare che suonare con il massimo volume non deve
significare suonare male né tantomeno ricercare un brutto suono.]
[151] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York:
Schirmer Books, 1981.
[152] [Per un semplice motivo fisico, se una corda è in movimento significa che
ha già ricevuto l’energia necessaria al superamento della soglia di resistenza
fisica legata alla sua inerzia. Alcune corde potrebbero mettersi in moto già per
il semplice sollevamento degli smorzatori , anche se questo dipende molto da
come è stata regolata la parte di meccanica relativa allo smorzatore stesso,
motivo per cui se si abbassa il pedale di risonanza rapidamente e fino in fondo
si sente quel suono caratteristico. In questo caso la corda è messa già
ampiamente in moto dal martello .]
[153] Agogica. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su:
http://www.treccani.it/enciclopedia/agogica/.
[154] [Ecco alcuni esempi di indicazioni di andamento : adagio , moderato ,

andante , allegro , vivace , presto , prestissimo eccetera. Di queste si può


trattare con un Maestro di Solfeggio.]
[155] [Il termine corretto , scritto in corsivo, si riferisce alla ripetizione e ha
questo preciso significato all’interno del presente manuale.]
[156] “[...] secondo una logica affermatasi verso la metà del Settecento ed

esemplata sul modello oratorio o retorico [...].” Musica. In: TRECCANI.


Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-
1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/musica/.
[157] CZERNY, Carl. Erster Wiener Lehrmeister im Pianoforte-Spiel . Parigi:

Schlesinger, 1839 (a cura di Ettore Pozzoli in CZERNY, Carl. Il primo maestro


di pianoforte , opus 599. Milano: RICORDI, 1949).
[158] [Non è possibile dare un esempio pratico assoluto poiché l’esperienza di
studio è intimamente soggettiva.]
[159] SCHUMANN, Robert. Drei Klaviersonaten fur die Jugend , Opus 118.
Amburgo: Schuberth & Co., 1853.
[160] Abbellimento. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della

lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000.


[161] In musica, abbellimento formato dal rapido alternarsi della nota reale con
la nota a distanza di seconda superiore o inferiore (maggiore o minore), che
nella scrittura musicale ha come simbolo le lettere tr (sole o seguite da una
serpentina orizzontale) sovrapposte alla nota reale. Trillo. In: TRECCANI.
Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-
1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/vocabolario/trillo/.

[162] HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer:


L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis.
The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900).
[163] [Riguardo questa “spinta” si tratterà nel paragrafo riservato all’ appoggio
(par. 3 - Cap. VIII).]
[164] [ Mai in senso rotatorio o ondulatorio alto-basso.]
[165] HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer:
L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis.
The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900).

[166] [Ossia non più teorico-compositivo, ma pianistico.]


[167] [Attenzione, questo non si traduce in un movimento spasmodico della
muscolatura: il punto in cui lo spostamento terminerà, cioè quello in cui
avviene la preparazione vera e propria sul tasto , deve essere sempre ben
chiaro nella propria mente prima ancora di compiere tale spostamento.]
[168] “ Nella terminologia musicale, la sistematica accordatura degli strumenti a
suono determinato (organo, pianoforte ecc.), praticata suddividendo l’ottava in
12 semitoni posti a uguale rapporto di frequenza l’uno dall’altro e ottenendo
così, per es., l’identificazione di do diesis con re bemolle. Storicamente il t. si
rese necessario per una serie di ragioni: dalla necessità di non moltiplicare il
numero di tasti corrispondenti ai suoni dell’ottava (che dovrebbero essere in
teoria 35, seguendo l’accordatura naturale) all’esigenza di sfruttare
completamente i processi modulanti eccetera. Praticato in maniera empirica
nel corso del 16° e 17° sec., si impose grazie agli studi di A. Werckmeister che
nel trattato Temperamento musicale (1691) ne propose una forma rigorosa (t.
equabile) dividendo l’ottava in 12 intervalli di semitoni. Tra i primi musicisti a
intuire la portata rivoluzionaria del nuovo tipo di accordatura fu J.S. Bach che
contribuì a diffonderla con la raccolta di 24 preludi e fughe in tutte le tonalità,
intitolata, significativamente, Clavicembalo ben temperato (1722-44) ”
Temperamento. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su:
http://www.treccani.it/enciclopedia/temperamento/.
[169] “ In musica, la notazione o l'esecuzione di un brano in una tonalità
diversa dall'originaria, per lo più effettuata nella musica vocale allo scopo di
adattare il brano alla reale estensione della voce di un esecutore; detto anche
trasposizione.” Trasporto. In: DEVOTO, Giacomo; OLI, Gian Carlo. Il
dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000.
[170] LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951.
[171] LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951.
[172] [A seconda del grado da cui si parte per costruirli o del modo che si

impiega per farlo, gli accordi di settima vengono classificati in sette specie .
Più precisamente, sono le relazioni intervallari che si vengono a formare
disponendo le terze a partire da un grado sempre diverso delle scale a
determinare questa classificazione. Di questo argomento si può trattare con un
Maestro di Armonia .]
[173] [ Per completezza, il termine armonico , come attributo, può riferirsi sia

all’ Armonia che all’ armonia , e non c’è in questo contesto differenza tra l’uno
o l’altro perché significa “ Rispondente alle leggi o concernente le leggi
dell'armonia ” Armonico. In: DEVOTO, Giacomo; OLI, Gian Carlo. Il dizionario
della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000 .
Questo poiché tutto quello che viene scritto per la nostra musica risponde,
salvo eccezioni, a queste leggi.]
[174] HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer:
L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis.
The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900).
[175] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York:
Schirmer Books, 1981.
[176] [Lo staccato di dita è impiegato principalmente per passaggi veloci. Ne
esistono altri tipi, che si chiamano in base a quale sia la parte del corpo
maggiormente coinvolta nell’ articolazione : staccato di polso , staccato di
avambraccio eccetera.]
[177] [Dal momento che sul pianoforte, come si è visto, il suono decade

naturalmente a seguito della percussione della corda da parte del martelletto


(par. 8 - Cap. V), la legatura di espressione più efficace da eseguire in questo
strumento è quella in diminuendo .]

[178] [ Un gruppo ritmico irregolare è un gruppo di segni ritmici il cui tipo di

suddivisione non corrisponde a quello dell' unità di tempo associata alla


misura in cui si trovano. In altre parole, è un gruppo di segni ritmici di natura
composta all’interno di un contesto ritmico semplice, o viceversa. I gruppi
ritmici irregolari si distinguono infatti in due categorie: i gruppi ritmici irregolari
per eccesso e quelli irregolari per diminuzione . Entrambi vengono
rappresentati da una parentesi quadra (talvolta sottintesa) che unisce i segni
ritmici che ne fanno parte, divisa in due parti o accompagnata da un numero
che ne indica il raggruppamento (2= duina , 3=terzina, ecc.). Questo
argomento richiede una conoscenza avanzata del Solfeggio e andrebbe
trattato con un Maestro.]
[179] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York:
Schirmer Books, 1981.
[180] [Di come concepire correttamente la caduta si è trattato nel paragrafo 8
del capitolo V.]

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