Sei sulla pagina 1di 386

STORIA DELLA MUSICA

a cura della Societa Italiana di Musicologia

®
LORENZO BIANCONI

IL SEICENTO
--
STORIA DELLA MUSICA
©
L'INIZIO DEL SECOLO
D ......... nel Selceato • Giovan BaUuta Marino e la poesia per mllllca • Le m
a voee sola• Claodlo Mo-.tevenU, lino al 1620 • La "crill" del Seicento• "Coneerto•
• Claudio Monteftl'dl, dppo U 1620
PROB~MI DBL S'.EICENTO MUSICALE
Classiftcazione degli still • Scienza e teoria musicale • Teoria e prassi • Pubblehi
della milSlca • Editoria e collezionismo • Condizione sodale del musldsta • Mlllieà
strumentale e musica da ballo
LA MUSICA DA CHIESA
La mualea nella lftarlia cattolea • Muslebe devodonall cattollche • La mll9ica luteràllll:
Heharleb Selliltz • Musica sacra di Stato: Francia e lngbllterra
IL TEATRO D'OPERA
Storlòpafla del teatro d'open • L'open prima del 1637 • I teatri d'open di Venezia
• La dlffulOlle dell'opera In ltallll • Convenzioni formali e drammabQ1idle. D lamento
• L'opera nel plelli tedeseld: Vienila e AmbllflO • La "tragédle lyrlqae": Jean-..,...
Lally • Muslebe teatraU In lllghllterra e In Spagna

LORENZO BIANCONI è nato a MimlSio (Svizzera) nel 1946. È professore ordina~


rio di Drammaturgia musicale- presso l'Università di Bologna. Medaglia Dent della
Royal Musical Association nel 1983, ba curato l'edizione italiana delle Memorie delf4
vita ds.l}'u G. F. Hiindel di John Mainwaring (EDT, Torino 1985) e ha pubblicato
il volume La drammaturgia musicale (Il Mulino, Bologna 1986). Cura, con Giorgio
Pestelli, là Storia dell'Opera Italiana (EDT, Torino 1987 e sgg.) e con Giusep~
La Pace Bianconi I libretti italiani di G. F. Hiindel e le loro fonti (Olschld, Firenz.c,
1991 e sq.), ed è redattore di «Acta Musicologica».

ISBN 88-7063-099-4

Prezzo di vendita al pubblico


L. 32.- (IVA ùicluaa) 9 788870 630992
PIANO DELL'OPERA

1 • LA MUSICA NELLA CULTURA GRECA E ROMANA


Giovanni Comotti
2 • LA MONODIA NEL MEDIOEVO
Giulio Cattin
3• LA POLIFONIA NEL MEDIOEVO
F. Alberto Gallo
4 • L'ETÀ DELL'UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO
Claudio Gallico
5• IL SEICENTO
Lorenzo Bianconi
6• L'ETÀ DI BACH E DI HAENDEL
Alberto Basso
7 • L'ETÀ DI MOZART E DI BEETHOVEN
Giorgio Pestelli
8 • ROMANTICISMO E SCUOLE NAZIONALI NELL'OTTOCENTO
Renato Di Benedetto
9 • L'OPERA IN ITALIA E IN FRANCIA NELL'OTTOCENTO
Claudio Casini
10 • LA NASCITA DEL NOVECENTO
Guido Salvetti
11 • IL NovEcENTo NELL'EuROPA ORIENTALE E NEGLI STATI UNITI
Gianfranco Vinay
12 • IL SECONDO NOVECENTO
Andrea Lanza

Grafica: Marco Rostagno


Redazione: Maurizio Rebaudengo

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche pania/e e con qualsiasi mezzo,


non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta de/l'editore.

Nuova edizione, ampliata riveduta e corretta


© Copyright 1991 E.D.T. Edizioni di Torino
19, via Al/ieri 10121 Torino
ISBN 88-7063-099-4
STORIA DELLA MUSICA
a cura della Società Italiana di Musicologia

LORENZO BIANCONI

IL SEICENTO
INDICE

VII PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE


XI PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE
XIII NOTA DELL'AUTORE

I• L'INIZIO DEL SECOLO

3 1 • IL MADRIGALE NEL SEICENTO


9 2 • GIOVAN BATTISTA MARINO E LA POESIA PER MUSICA
16 3 • LE MUSICHE A VOCE SOLA
22 4. CLAUDIO MONTEVERDI, FINO AL 1620
29 5 • LA "CRISI" DEL SEICENTO
34 6 • "CONCERTO"
38 7• CLAUDIO MONTEVERDI, DOPO IL 1620

II. PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

51 8 • CLASSIFICAZIONE DEGLI STILI


58 9 • SCIENZA E TEORIA MUSICALE
64 10 • TEORIA E PRASSI
72 11 • PUBBLICITÀ DELLA MUSICA
81 12 • EDITORIA E COLLEZIONISMO
89 13 • CONDIZIONE SOCIALE DEL MUSICISTA
99 14 • MUSICA STRUMENTALE E MUSICA DA BALLO

III. LA MUSICA DA CHIESA

115 15 • LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA


129 16 • MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE
143 17 • LA MUSICA LUTERANA: HEINRICH ScHUTZ
158 18 • MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA
VI INDICE

IV • IL TEATRO D'OPERA

175 19 • STORIOGRAFIA DEL TEATRO D'OPERA


184 20 • L'OPERA PRIMA DEL r637
195 21 • I TEATRI D'OPERA DI VENEZIA
205 22 • LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA
219 23 • CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE.
IL LAMENTO
235 24 • L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO
252 25 • LA "TRAGÉDIE LYRIQUE": }EAN-BAPTISTE LULLY
267 26 • MUSICHE TEATRALI IN ING!-IlLTERRA E IN SPAGNA

LETTURE

283 1 • UN BANCHETTO MUSICALE: FIRENZE r6o8


289 2 • UN BALLETTO DI CORTE: TORINO r620
301 3 • CONDIZIONE SOCIALE E INTELLETTUALE DEL MUSICISTA:
ANTONIO MARIA ABBATINI
309 4 • CONSAPEVOLEZZA STORICA E CONSAPEVOLEZZA STILISTICA:
HEINRICH ScHUTZ
316 5 • MUSICA CELESTIALE E "TOPOI" POETICI: ODE IN MORTE DI
HENRY PURCELL
320 6 • L'ORGANIZZAZIONE IMPRESARIALE DEI TEATRI VENEZIANI:
CRISTOFORO IVANOVICH
329 7 • DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA: BARTHOLD
FEIND

34 7 BIBLIOGRAFIA
359 INDICE DEI NOMI
PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

Messo di fronte a quest'opera, il lettore, come Ercole al bivio,


forse si chiederà: ancora una Storia della Musica? oppure: final-
mente una Storia della Musica? Sull'asse di questo duplice inter-
rogativo ruota il giudizio per l'azione intrapresa dalla Società
Italiana di Musicologia. È un discorso ripetitivo, proposto per incre-
mentare il mercato della carta stampata di altri oggetti inutili e
voluttuari? Oppure è un discorso vivificato dalla presunzione di
dover e poter fare qualcosa per modificare una realtà che talvolta
ci sembra anche mortificante? Non saremo noi a pronunciare l'ul-
tima parola nel dibattito che qui si apre; saranno i lettori, i consu-
matori di questo "bene" a dirci, implicitamente o esplicitamente,
se valeva la pena condurre l'operazione in questi termini, ma si
tenga presente in primo luogo che tale operazione è stata non solo
suggerita ma imposta come mozione d'ordine dall'Assemblea dei
Soci (Bologna 1975), consapevoli che la carenza di adeguati stru-
menti didattici costituisce la causa prima dell'arretratezza mu-
sicale del nostro paese. A noi resta un ultimo dovere (che poi si
identifica col primo, quello stesso che ci ha spinto a realizzare
un'idea per tanto tempo coltivata): spiegare perché si è dato il via
a questa Storia della Musica.
La situazione da lungo tempo precaria in cui si dibatte a tutti
i livelli la scuola italiana; la considerata ignoranza del fenomeno
musicale come portatore di idee; la rinuncia generalizzata ad acco-
starsi al libro di argomento musicale ritenuto strumento inutile o
pleonastico, facilmente sostituibile con la musica stessa (la quale
in tal modo risulta privata del suo naturale supporto culturale); la
mancanza d'una educazione storica adeguata e, per contro, l'insi-
stente proposta d'una storia musicale che non tiene conto dei suoi
legami col mondo circostante, che si esaurisce in elenchi insignifi-
canti di nomi e di cose, che riduce la nozione a barometro della
storia e non si sforza di giustificarne logicamente l'apparizione,
che da troppo tempo organizza pigramente la materia in conteni-
VI!J PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

tori prefabbricati senza concedere spazio né alla varietà né alla dia-


lettica. Ecco alcuni dei perché di questa Storia, che noi abbiamo
voluto condurre secondo un taglio particolare, che si rivelasse utile,
informativo e - naturalmente - formativo e che tenesse conto in
qualche modo di tutte le componenti storiche e ambientali il più
delle volte omesse nelle consuete storie musicali. Una storia per
gli "studenti", dunque, intendendo per studente chiunque voglia
(o debba) accostarsi alla storia musicale per accertarne l'entità e
valutarne il peso nel mondo della cultura e dell'arte.
Confesseremo che grandi preoccupazioni sono sorte in noi
quando, una volta raggiunto l'accordo con l'editore (al quale non
saremo mai sufficientemente grati per il coraggio dimostrato nel-
1' aprire il suo discorso editoriale proprio con la cultura musicale),
si è trattato di suddividere la materia, dare un contenuto ad ognuno
dei volumi, fornire un progetto di metodologia che non ricalcasse
passivamente modelli magari anche illustri, ma fattisi ormai aridi
e inerti. Due fondamentali presupposti avevano in comune coloro
che han posto mano a quest'impresa (e nella fedeltà ad entrambi
va individuato l'elemento unificatore d'un'opera che si presenta,
per altri versi, ricca di tante angolazioni prospettiche quanti sono
i volumi in cui essa si articola). Il primo: abbattere le mura della
cittadella specialistica nella quale la disciplina è rimasta finora arroc-
cata, per cui la storia della musica è stata concepita o, determini-
sticamente, come un'astratta evoluzione di forme generi stili, o,
idealisticamente, come un' altrettanto astratta galleria di "perso-
nalità" in sé concluse. Abbattere quelle mura, rintracciare i nessi
che intimamente collegano i fenomeni musicali con la multiforme
realtà del loro tempo, mostrare come anch'essi tale realtà concor-
rano a formare: questo lo scopo cui ciascun autore ha mirato, pur
con criteri e metodi e quindi con risultati diversi, a seconda non
solo dei personali atteggiamenti e predisposizioni e orientamenti,
ma anche delle particolari, differenti soluzioni che la materia di
volta in volta imponeva.
L'altro presupposto era che la trattazione rimanesse nell'am-
bito cronologico e geografico proprio della storia della musica, intesa
come specifica disciplina: rimanesse perciò limitata alla musica eu-
ropea e a quanto di essa è trasmigrato e ha attecchito al di là
dell'Oceano. Implicito, in questa presa di posizione, il rifiuto del
tradizionale disegno storiografico, che include anche materie - la
PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE JX

musica delle civiltà antiche e orientali - propriamente pertinenti


al campo della cosiddetta musicologia comparata; le include ma al
tempo stesso le relega in una posizione subalterna e marginale, tra-
dendo cosl una concezione eurocentrica (per non dire imperiali-
stica) della cultura, ancor dura a morire. Dobbiamo a questo punto
giustificare un'apparente contraddizione, perché in un quadro cosl
concepito la musica greca non avrebbe dovuto, a rigore, trovar
posto. Ma se veramente si voleva, con l'opera presente, riportare
la storia della musica nel vivo contesto della società e della cultura
europea, non si poteva certamente trascurare il ruolo che nello svi-
luppo di questa società e cultura ha avuto l'eredità greco-romana:
e se è vero che il processo di sempre rinnovata riappropriazione
e rielaborazione di tale eredità è stato, di quello sviluppo, uno degli
assi portanti, è pur vero che ad esso parteciparono spesso in prima
persona proprio i musicisti, in quanto attivi "operatori culturali"
in seno alla società (prova ne sia il ricorrente mito della musica
greca ogni volta che si vollero tentare nuove strade). Di qui la deci-
sione (il compromesso, se si vuole) di premettere alla vera e pro-
pria "Storia della Musica" un volume introduttivo che ridisegnasse,
di quella cultura greco-romana che nella musica riconosceva una
delle proprie nervature essenziali, un'immagine obiettiva, non mitiz-
zata. Un'altra eccezione s'è fatta, stavolta alla fine del nostro iti-
nerario, per il jazz: in questo caso giustificata dalla necessità di
una trattazione organica della cultura musicale americana.
Per dare maggior concretezza all'esposizione dei fatti e per
meglio conoscere la realtà del tempo preso in esame, si è creduto
opportuno ed indispensabile, anzi, proporre a complemento di cia-
scun volume un breve ma significativo apparato di documenti coevi,
non sempre i più importanti, ma quelli che servissero a meglio
ritrarre un determinato momento dell'assunto critico. E, mirando
l'opera a fini eminentemente pratici, e quindi didattici e prope-
deutici, si è voluto che l'esposizione fosse condotta in termini pre-
valentemente semplici, purgandola di note e citazioni bibliografi-
che. Parimenti, solo per non venir meno a quel principio che fa
della bibliografia la reale fonte del processo storico, si è fornita
una conclusiva nota bibliografica essenziale: anche il lettore più
sprovveduto si accorgerà che, in realtà, tali note bibliografiche,
con l'inflazionistica presenza di testi in lingua tedesca, inglese e
francese, sono l'esatta controprova della necessità di avviare in Italia
X PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

un discorso di storia musicale tale da costituire la base per succes-


sive prove di didattica a buon livello.
Spetterà ai lettori la decisione ultima sull'eventualità di realiz-
zare quelle "successive prove"; se un consenso vi sarà e se i tempi
lo consentiranno, ci accingeremo al nuovo lavoro, questa volta guar-
dando agli aspetti più particolari della storia musicale: dall'etnolo-
gia (che avremmo già voluto inserire nel piano "storico", se non
avessimo temuto di bruciare troppo in fretta un patrimonio copio-
sissimo e meritevole d'una attenzione tutta particolare) all'acustica,
dall'estetica alla psicologia, dall'organologia alla notazione, dalla
prassi esecutiva ali' esposizione ragionata delle fonti, dalla liturgia
alla sociologia, dalla grammatica e sintassi del linguaggio musicale
allo studio delle teoriche e dei sistemi musicali anche extraeuro-
pei, dalle cronologie comparate agli "annali" della storia musicale,
su su sino alle monografie specializzate su forme e generi, paesi
e civiltà, musicisti e correnti poetiche, scuole e istituzioni. E nel-
l'illusione del sogno ci pare già di toccare con mano viva qualcosa
di quella prospettiva dal momento che - se non altro - la nostra
Storia della Musica è già una realtà, una realtà che espone al let-
tore dubbioso l'ultimo e più importante dei perché che ci hanno
condotto su questa strada: quello della speranza in un futuro più
consapevole delle virtù del linguaggio musicale.
Alberto Basso
Presidente della Società Italiana di Musicologia
PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

Sono passati ormai sedici anni da quando - nel 1975 - fu con-


cepita l'idea di realizzare una Storia della Musica curata dalla Società
Italiana di Musicologia. Si è trattato senza dubbio di un'opera-
zione culturale, oltre che editoriale, notevolmente coraggiosa, lun-
gimirante ed innovativa per il momento storico nel quale fu con-
cepita. Tuttavia, già nel corso dei sei anni necessari al completa-
mento dell'intera opera (1976-82) era emersa qualche perplessità
- alla luce delle nuove acquisizioni che nel frattempo erano soprav-
venute e delle recenti riflessioni sulla storiografia musicale e più
in generale sui nuovi modi di "fare" la storia - sia riguardo al piano
complessivo dell'opera stessa che alla sua impostazione metodolo-
gica e al suo taglio storico. Tali perplessità sono ancora più evi-
denti oggi, a sedici anni di distanza, tanto da far affermare a qual-
che autore che oggi avrebbe scritto una "storia" del tutto diversa.
Allora, perché non fare una nuova Storia della Musica? La rispo-
sta a questo interrogativo scaturisce da una serie di considerazioni:
in primo luogo, perché l'impostazione complessiva dell'opera ci è
sembrata sostanzialmente ancora valida sia sul piano storico che
su quello metodologico; in secondo luogo, perché la nostra Storia
ha avuto indubbiamente un ruolo cosl importante, specialmente
a livello didattico, nel rinnovamento della cultura musicale e musi-
cologica non solo italiana - come dimostrano anche le edizioni (inte-
grali o parziali) in inglese, francese e spagnolo - da far ben sperare
che ancora per alcuni anni essa potrà continuare ad essere un punto
di riferimento culturale obbligato ed uno strumento di lavoro indi-
spensabile; in terzo luogo, perché non esiste oggi sul nostro mer-
cato editoriale una Storia della Musica di questa portata e con simili
peculiarità scientifiche e metodologiche; infine perché un "ripen-
samento" globale di tutta l'opera su nuove e diverse basi avrebbe
comportato una lunga e complessa riflessione storica e teorica, per
avviare la quale i tempi non ci sono sembrati forse ancora maturi.
Sulla scorta di queste considerazioni abbiamo scelto, quindi, quella
XII PR EMESSA ALLA SECONDA E DIZIONE

che ci è apparsa la strada migliore, vale a dire quella di una seconda


edizione ampliata, riveduta, aggiornata e corretta.
La presente edizione tende principalmente a raccordare meglio
tra loro alcune epoche sforiche - anche tramite l'introduzione di
numerose parti del tutto nuove, spesso molto ampie-, a diminuire
certe difformità esistenti tra alcuni volumi, ed infine ad aggior-
nare l'intera trattazione tenendo conto delle nuove acquisizioni
storico-musicali e della bibliografia critica più recente.
Un'altra importante novità di questa seconda edizione consi-
ste nell'aggiunta programmata di un nuovo volume dedicato alla
storiografia nei suoi aspetti storici, teorici e metodologici anche
in rapporto alla esigenza, accennata, di una approfondita valuta-
zione critica dei vari modi di "fare" la storia, specialmente alla
luce del dibattito più recente.
Agostino Ziino
Presidente della Società Italiana di Musicologia
NOTA DELL'AUTORE

Certo innumerevoli sono i difetti che in questo volume troverà


anche il meno severo dei lettori: su di essi egli vorrà misurare il
grado della propria benevolenza prima ancora che l'inadempienza
dell'autore rispetto all'assunto - solo cronologicamente modesto
- denunziato dal titolo. Tre di quei difetti sono però consapevoli,
e anzi deliberati. Occorre dunque farne senz'altro avvertito l'utente
del libro.
I Innanzitutto: la trattazione della storia musicale del Seicento
data qui pecca di italocentricità. Che, in ~~-esti anni, non-f ~;~
sinonimo di eccentricità: è infatti fuor di dubbio che in Italia,
e non altrove, avvengono alcuni dei fatti capitali dell'epoca;-·basti
citare per tutti il nome di Monteverdi, o l'istituzione del teatro
d'opera, o il concetto stesso di concerto. L'Italia musicale del
Seicento è un centro di importanza europea: lo prova l'interesse
dei nordici - semplici turisti, o compositori altissimi come Schiitz
- per tutte le novità musicali italiane, lo prova il flusso dei musici-
sti e dei manoscritti italiani verso le corti e le capitali d'Europa.
Ma appunto l'Italia musicale del Seicento è un c~n.tro, e n.9.0
più - ~ome invece nel Cinquecerito - il centro musicale d'E.urQW!.
La stessa inversione delle correnti migratorie - !19P sono più gli
oltramontani a trovar lavoro e fama in Italia, bensl è l'Italia,
afflitta da una crescente superproduzione di musici~ti. a ,WQ"-
ciare oltralpe mano d'opera musicale eccedente - è l'indizio di
un rigoglio ma anche di una debolezza, di una perifericità che
(con la sola parziale eccezione del teatro d'opera) il Sette e l'Otto-
cento sanciranno clamorosamente. I sintomi del processo che nel
giro d'un secolo procura un siffatto ribaltamento dei centri di
gravità della vita musicale europea sono sl notificati nel presente
libro, ma appunto da una prospettiva italiana: quel che manca
è invece una visione meno fuggevole e frammentaria, più ravvici-
nata e circostanziata, di quanto, in positivo, si va edificando al
XIV NOTA DELL'AUTORE

Nord delle Alpi. Che, se non sempre è dilettevole all'udito (non


dispiaccia la latitanza da queste pagine di Samuel Friedrich Capri-
cornus e altri come lui), è però a sua volta l'indizio certo di un
riassetto in corso su scala europea. Un'unica attenuante: forse non
sarebbe facile scrivere una storia della musica italiana del Seicento
stando in Germania o in Francia o in Inghilterra, ma sicuramente
è impossibile scriverne una completa della musica europea stando
in Italia, per la buona ragione che, se scarsa notizia della musica
coeva d'oltralpe - prima della sua settecentesca supremazia - prese
l'Italia di allora, parimenti scarso è l'affollamento dei libri e delle
partiture sugli scaffali che le nostre biblioteche musicali riservano
oggidl ai contemporanei di Sweelinck, Dowland, Schiitz, Lully e
Purcell, nonché a loro medesimi. Il lettore è dunque avvisato: durerà
qualche fatica a procurarsi le musiche di costoro (e la bibliografia
sul loro conto), è vero, ma soltanto cosl egli potrà correggere la
visione necessariamente sghemba che del Seicento europeo que-
sto libro gli darà.
Di una seconda, ma più facile, correzione prospettica si lascia
l'onere al lettore. Pochissime sono le pagine dedicate qui all'~
della musica strumentale, che pure correntemente passa per una
delle grandi conquiste del Seicento musicale. L'autore non può
tacere il sospetto che soltanto la preminenza settecentesca e (ancor
più) ottocentesca della musica strumentale sulla vocale abbia sedotto
gli storici della musica a sopravvalutare i precorrimenti seicente-
schi di un repertorio tanto illustre. Pari pari, l'istituzione concer-
tistica moderna - che intorno a quel repertorio sette e ottocente-
sco è nata e cresciuta - garantisce oggidl alla musica strumentale
del Seicento chances di riproducibilità pubblica infinitamente mag-
giori di quelle consentite a tutta l'altra musica di quel secolo. Quel
che è d'importanza veramente capitale, e difficilmente sopravva-
lutabile, nel Seicento è la facoltà, esperita appieno per la px.iwa
volta, di produrre una s.truttura musicale non appoggiata a un testo,
di concepire un'invenzione, un discorso musicale che hanno fu-sé,
e soltanto in sé, le ragioni della propria fraseologia e morfologia
e sintassi (che sono poi, per dirla in breve, le ragioni dell'armonia
tonale e della sua organizzazione ritmica e metrica). Ovvio che la
musica strumentale se ne avvantaggiasse enormemente: ma la que-
stione è di natura radicale, e riguarda non la sola musica strumen-
NOTA DELL'AUTORE XV

tale bensì il complesso dei problemi stilistici del secolo, quelli vocali
(proprio per l'alterità che si insinua tra struttura verbale e strut-
tura musicale) in primis. Resta da constatare la rilevanza tutto som-
mato modesta (anche statisticamente) di una produzione strumen-
tale che - contrariamente all'uso abbondante che ne fanno oggi
i cultori della musica "barocca" - nel Seicento è ancora nettamente
minoritaria.
Infine non si meravigli troppo il lettore se, contro ogni aspet-
tativa e desiderio, troverà scritta la parola "barocco" soltanto in
questa pagina del libro. Vale per essa quel che del termine "classi-
cismo" saggiamente dice Giorgio Pestelli nella prefazione al set-
timo volume di questa serie. E vale a maggior ragione perché, se
il termine "classicismo" ha quantomeno una cittadinanza di lunga
data nella letteratura musicale, "l:,_~occ9" è invece un concetto sti-
listico e storiografico che s'è sedimentato intorno all'architettura
romana di metà Seicento e alle sue derivazioni, e soltanto a quella
e a queste si applica con proprietà: è dubl:Jio che la sua estensione
a tutta l'arte del periodo che va dal 1600 al 1750, o addirittura
la sua dilatazione alla storia della musica, ancorché legittima, sia
criticamente fruttuosa. Può forse darsi che lo sia ove si vogliano
contrapporre, in un grande disegno complessivo, i caratteri domi-
nanti dell'età "barocca" e quelli del rinascimento o del gotico o
di uno dei tanti classicismi. Non lo è affatto se invece si tratta di
cogliere, all'interno di un secolo, il disegno contrastato e frasta-
gliato di tante correnti e tradizioni e fenomeni diversi e magari
antitetici che, pacificamente o conflittualmente, coesistono. La
"forma del tempo" (come spiega l'omonimo, aureo libretto di
George Kubler, trad. it. Einaudi, Torino 1976) non è quella, ret-
tilinea e uniforme e scorrevole, che le categorie storiografiche e
stilistiche come "barocco" sottintendono. La "storia delle cose"
prodotte dall'uomo - e innanzitutto "cose", ossia manufatti, sono
le opere d'arte musicali - è una storia multiforme e discontinua,
come multiforme e discontinua è la storia dell'uso che ne è stato
fatto. Se delle vicende seicentesche di questa storia il presente libro
riuscirà a dare alcuni non insignificanti ragguagli, esso avrà rag-
giunto lo scopo massimo che poteva ragionevolmente prefiggersi.
Suggerimenti preziosi e materiali di ogni specie - dai documenti
di primissima mano al semplice procacciamento di fotocopie - mi
hanno dato molti amici e colleghi. Ringrazio in particolare Paolo
XVI NOTA DELL'AUTORE

Emilio Carapezza, Thomas Walker, Giovanni Morelli, Angelo Pom-


pilio, Mercedes Viale Ferrero, Silke Leopold, Elvidio Surian, Clau-
dio Annibaldi, Iain Fenlon, Oscar Mischiati, Renato Bossa, Paolo
Fabbri.

Palermo, 22 novembre 1981 L. B.

In questa nuova edizione ho eliminato dal testo e dalle letture


le sviste di cui mi sono avveduto, ed ho aggiunto qualche notizia
utile emersa nel frattempo: nulla di più. Copioso è invece I' aggior-
namento della bibliografia: ed è bello constatare come in un decen-
nio scarso, tra saggi nuovi di trinca e traduzioni da altre lingue,
la letteratura di storia della musica seicentesca si sia arricchita di
tanti e tanti titoli italiani. Sta al lettore di giovarsene.
Ma se (almeno virtualmente) il mio lettore è negli anni Novanta
tanto più scaltrito che negli anni Ottanta, ciò si deve soprattutto
all'ampliamento dell'orizzonte estetico dal perdurante culto della
musica detta "barocca": lo documenterebbe ad usura una disco-
grafia, anche selettiva. In particolare, il disco ha ridato voce, ed
alcune avventurate iniziative teatrali e festivaliere hanno ridato
corpo scenico, a drammi per musica come il Giasone o il Xerse di
Cavalli, come I' Orontea di Cesti, come I' Atys di Lully, che, accla-
mati nel Seicento, per l'amatore odierno erano lettera morta. La
nostra percezione dell'opera in musica nella sua fase "archeologica"
se ne avvantaggia: a riscriverlo oggi, il capitolo IV di questo libro
dovrebbe tenere in tanto maggior conto la rinnovata esperienza
della vitalità teatrale di "testi" operistici per troppo tempo consi-
derati nella mera bidimensionalità della pagina musicale scritta;
dovrebbe però anche aprire tanti quesiti tuttora chiusi circa la dram-
maturgia implicita in generi operistici cosl a lungo sottratti alla con-
suetudine vissuta degli spettatori e degli ascoltatori.

I nove anni trascorsi dalla prima sortita del libro hanno ancora
di molto rinsaldato il vincolo della mia gratitudine verso i suoi primi
dedicatarii: mia moglie Giuseppina e il nostro primogenito Carlo.

Bologna, Epifania 1991 L. B.


!•L'INIZIO DEL SECOLO
1 • IL MADRIGALE NEL SEICENTO

Agli occhi di colui che, oggi, osservi globalmente la situazione


della vita musicale in Italia nei primi due decenni del Seicento sal-
tano alcune novità, alcune "invenzioni" destinate (com' egli sa dalla
conoscenza di quel che avvenne poi nel resto di quel secolo) ad
un futuro fecondo: la tecnica compositiva del basso continuo; il
canto a voce sola con accompagnamento strumentale; l'opera in
musica. Come insegna l'esame delle vicende musicali del Cinque-
cento (cfr. voi. IV, §§ 39 e 43), tutte e tre queste "invenzioni"
sono in realtà lo sbocco palese di pratich,e e sperimentazioni che
percorrono, sotterraneamente, una lunga parte del secolo prece-
dente. Se (ai nostri occhi, e a quelli dei contemporanei) tali novità
si profilano con tanta nitidezza intorno agli anni 1600-1602, è per
virtù della stampa musicale, che solo in questi anni incomincia a
disseminarne l'efficacia e l'esemplarità: basti rammentare la pub-
blicazione dei Cento concerti ecclesiastici con il basso continuo
per sonar nell'organo di Ludovico da Viadana (1602), le Nuove mfi_si-
che a voce sola di Giulio Caccini (1602), le du_e differenti M;~iche
sopra l'Euridice del sig. Ottavio Rinuccini (quelle di Jacopo Peri
e quelle del Caccini, ambedue apparse nell'inverno 1600-01), la
Rappresentazione di Anima et di Corpo di Emilio de' Cavalieri (1600),
tutte ediziq_ni corredate di prefazioni ampie e magari polemiche,
documenti espliciti della consapevolezza degli autori di annunziare
novità rilevanti, documenti entrati infatti nel giro di pochi anni,
e stabilmente, nella storiografia musicale.
Ai contemporanei queste novità dovettero sembrare ancor più
straordinarie (e però lì per lì forse meno decisive) che a noi, se si
mette in conto la reale extra-ordinarietà di stampe siffatte nel J,2illQ-
~ dell'editoria musiçaJe di quei primi anni del secofo: un pano-
rama che, per la musica d'arte, continuava ad essere quello, assai
vasto e uniforme, alacremente coltivato, assiduamente ripercorso,
del madrigale polifonico. Da un computo sommario, decennio per
L'INIZIO DEL SECOLO

decennio, delle edizioni tuttora superstiti di libri di madrigali poli-


fonici per sole voci risulta che non vi fu frattura veruna, bensì sol-
tanto un calo del tutto graduale, nella produzione madrigalesca ~~
l'anno 1600:

Prime Edizioni Madrigali Totale


edizioni* Totale
successive•* concertati*/** globale

Dagli inizi al 1550 82 46 128


1551-60 70 61 131
1561-70 139 85 224
1571-80 125 52 177
1581-90 271 96 367
1591-1600 193 68 261
1601-10 157 107 264 11 275
1611-20 118 57 175 46 221
1621-30 24 21 45 69 114
1631-50 4 9 13 56 69

* La più antica edizione a noi pervenuta (non sempre eguale alla prima effettiva!).
* * Le ristampe successive a •

--.
Il totale dei libri di madrigali apparsi nel primo decennio del nuovo
secolo supera di gran lunga quello di ciascuno dei decenni ante-
riori al boom del 1581-90; il calo delle prime edizioni, dal 1591
al 1620, non è certo scosceso; la somma di edizioni nuove e ristampe
nel primo decennio del secolo è pari a quella del decennio prece-
dente (vi figurano beninteso riedizioni frequenti dei madrigalisti
più famosi di prima del 1600, come Luca Marenzio). Il vero "crollo"
del genere madrigalesco avviene invece dopo il 1621, né a quel
punto lo possono mascherare i nuovi libri di madrigali a varie voci
concertati con il basso continuo e con o senza strumenti concer-
tanti, o tantomeno le poche decine (rispettivamente, a partire dal
1602: due, cinque, sei, quattro) di libri di musiche per voce sola.
Una curva ed.itori!!le. ~!l!Ùoga, culminante nel 1591-1600 e pre~i-
pitante solo dopo il 1621, traccia la produzione delle forme subal-
terne del madrigale, composte su testi strofici (canzonette, villa-
nelle). Fuor di dul5bio, il madrigale polifonico conclude il proprio
ciclo vitale ben addentro il secolo nuovo, ~d. esso continua a deli-
neare massicciamente l'orizzonte culturale del musicista (sia egli
compositore o teorico o cantore o ascoltatore) del primo Seicento.
Converrà dunque far iniziare da questo tenace, macroscopico ele-
IL MADRIGALE NEL SEICENTO 5

mento di persistenza, di continuità con il secolo XVI - il madrigale


polifonico italiano - l'esame della vita musicale europea del XVII
secolo, che sulla coesistenza spesso e volentieri contraddittoria di
stili, generi, tradizioni, linguaggi e pratiche musicali diversi si fonda,
non già sul loro avvicendamento armonioso.
Anche all'estero l'irnmagine complessiva della music_a i~alia.na
è consegnata in fortissima misura al madrigale. V'è innanzitutto
la ricca presenza dell'editoria musicale veneziana, con tantissimi
libri di madrigali, sul mercato germanico, alle fiere librarie di Fran-
coforte: v'è, ancor più, l'iniziativa editoriale degli stampatori musi-
cali di Norimberga, di Monaco, di Anversa che, quando non atti-
rano nelle loro "scuderie" musicisti d'Italia di passaggio al Nord
(come il giovane Frescobaldi, che si presenta al mondo nel 1608
con un libro di madrigali stampato dal Phalèse ad Anversa), rac-
colgono dalle novità editoriali italiane antologie di madrigali dai
titoli pittoreschi (Gemma musicalis, Musica divina, Harmonia cele-
ste, Melodia olympica, Paradiso musicale, Il vago alboreto, Ghirlanda
di madrigali, Nervi d'Orfeo, Hortus musicalis, Navi frutti musicali,
Il Parnasso, Il Helicone) oppure ristampano in blocco tutti i madri-
gali a 5 voci del Marenzio (Norimberga, 1601), di Benedetto Pal-
lavicino (Anversa, 1604), di Orazio Vecchi (Norimberga, 1594),
o i Balletti cantati a 5 e a 3 voci di Giovan Giacomo Gastoldi che,
apparsi a Venezia nel 1591 e 1594, contano in tutto una trentina
di ristampe olandesi, tedesche e francesi dal 1596 al 1664. La poli-
fonia madrigalistica italiana diventa in questo giro d'anni una sorta
di linguaggio musicale colto transeuropeo, sovranazionale, che anche
i m!!sicisti non italiani coltivano e le corti e le città d'oltralpe ricer-
cano.
Ilre Cristiano IV di Danimarca (dedicatario, nel 1604, delle Ve-
glie di Siena, vero giuoco di società messo in musica dal Vecchi),
nell'intento di dotare d'una vita musicale à la page la corte di Cope-
naghen, fa stampare nella capitale due antologie lussuose (due Giar-
dini navi bellissimi di vari fiori musicali sceltissimi) di madrigali ita-
liani recenti, nel 1605-06, e nel 1599 e 1602 manda a VenezJa. alla
scuola di Giovanni Gabrieli i migliori musicisti danesi, che si illustra-
no poi con almeno un libro di madrigali ciascuno: con Hans Niel-
sen detto Fonteiio, Magnus Peders0n detto Petreo, Johann Brach-
rogge, troviamo alla scuola del Gabrieli anche dei tedeschi, Johann
Grabbe, Christoph Clemsee e, mandato dal landgravio d'Assia,
6 L'INIZIO DEL SECOLO

Heinrich Schiitz, che nel 1611 pubblica a Venezia la sua prim~


opera a stampa, un libro di madrigali sotto il nome italianizzato
di Enrico Sagittario. Altri musicisti nordici, abbiano essi fatto o
no il loro apprendistato in Italia, mandano fuori (ad Augusta,
Norimberga, Amsterdam, Leida, Anversa) dei madrigali italia.qi:
Hans Leo HaBler e suo fratello Jacob (1596, 1600), Jan Tollius
(1597), Cornelis Schuyt (1600, 1611), Cornelis Verdonck (1603).
Talvolta li frammischiano, è vero, a generi "nazionali" diversi (cosl
le- Rimes /rançaises et italiennes mises en musique da J an Pieterszoon
Sweelinck nel 1612): o, addirittura, ne tentano un'assimilazione
letteraria, come nei Kus;es (Baci) a 3-5 voci dell'olandese Cornelis
Padbrué (1631). È totale, poi, l'assorbimento del modello italiano
nel caso del madrigale inglese, al punto che una pubblicazione col-
lettiva come il Trionfo di Dori, composto nel 1592 alla gloria della
sposa d'un patrizio veneziano, viene imitata pari pari nei Triumphs
o/ Oriana (1601), laddove Oriana (la figlia del re di Gran Breta-
gna amata da Amadigi di Gaula) è allegoria trasparente della sovrana
Elisabetta I Tudor, la virginea dedicataria di questa patriottica
impresa musicale. -...
Il madri.gaie è anche un ottimo strumento di didattica della com-
posizione. È ~onveniente (si sono già citati Schiitz e Frescobaldi) che
un giovane musicista si presenti al mondo con una stampa di madri-
.gali (e infatti, quanti si fermarono lì!). Nel madrigale la scrittura
polifonica, la pratica del contrappunto esercitano nel giovane com-
positore il possesso della dottrina, l'osservanza delle regole, la mae-
stria formale, al pari di qualsiasi altra composizione polifonica (una
messa, un mottetto, un salmo). In più - questo è decisivo - vi fa
spicco la qualità dell'invenzione dei soggetti musicali; l'interesse
artistico si rivolge alla rappresentazione delle immagini poetiche.
La deroga dalle norme del contrappunto osservato è legittima, anzi,
doverosa, se la suggerisce il testo, e però l'audacia va accortamente
calibrata: la deroga (la dissonanza audace, l'intreccio esuberante
delle parti, l'alterazione cromatica dei soggetti, eccetera) va per-
cepita e deve rirpaner spiegabile come tale, non già come puro arbi-
trio; la violazione della norma non ne cancella, semmai ne presup-
pone e ne conferma la validità.
A scopo didattico si ristampano fino a fine secolo alcuni exem-
pla primitivi e classici del genere, in cui procurarsi i rudimenti della
polifonia madrigalesca. Del primo libro di madrigali a 4 voci di
IL MADRIGALE NEL SEICENTO 7

Arcadelt (1539) si conoscono 53 ristampe, di cui 19 apparse tra


il 1601 e il 1654 (una fu curata dallo stesso Monteverdi); i duetti
di Jhan Gero (1541) si stampano 13 volte tra il 1609 e il 1687.
Analoga fortuna ebbero i madrigali a 2 voci (genere didattico per
eccellenza) di Bernardino Lupacchino e Giovan Maria Tasso (ante
1559-1688) e i ricercari a 2 voci di Grammatio Metallo (ante
1591-1685). Per Domenico Mazzocchi i madrigali (di cui egli pub-
blica un libro nel 1638) sono le «opere nella musica più riguarde-
voli», e cita a conforto Marenzio, Macque, Nenna, Luzzaschi,
Gesualdo; nel 1652 e 1678 il cantante papale Domenico Dal Pane
manda in luce i suoi madrigali, esercitazioni effettuate alla scuola
del grande didatta Antonio Maria Abbatini, «unendo insieme con
un perfettissimo studio, una incomparabile vaghezza di melodia
esprimehdosi al vivo i sensi più proprii della poesia a segno di muo-
vere e rimuovere gl'affetti di chi lo ascolta». Non si tratta di retro-
guardie, o di gusto antiquario, o di sopravvivenze malintese del-
1'ortodossia contrappuntistica cinquecentesca: di madrigali polifonici
sono autori aq.che musicisti insospettabilmente "moderni" come
Giovan Maria Bononcini (16 78) o Alessandro Scarlatti.
D'altra parte per tutto il secolo continuano a circolare i madri-
gali di Gesualdo (cfr. vol. IV, § 36), nella partitura approntata da
un editore genovese nel 1613: la partitura li sottrasse all'oblio che
invece presto ricoprì ~ppergiù tutta la rimanente produzione del
Cinque e del primo Seicento, stampata sempre e soltanto in parti
staccate. La partitura del 1613 assunse a sua volta una funzione
didattica: gli artificiosissimi madrigali del principe napoletano diven-
tarono oggetto di studio del contrappunto florido e licenzioso, del
cromatismo pervasivo, e intorno ad essi si cristallizzò l'immagine
del madrigale seicentesco. Anche le sporadiche edizioni di madri-
gali dopo il 1625 (quando edizione ci fu: il mercato era ormai venuto
a mancare, e degli splendidi, cromaticissimi madrigali di Miche-
langelo Rossi sopravvivono soltanto due manoscritti mai stampati,
mentre delle sue non meno bizzarre toccate per cembalo si fecero
quattro edizioni) sono spesso in partitura, non in parti staccate.
Lo stesso Scarlatti (anche i suoi madrigali rimasero manoscritti)
conferma, in una lettera del 1706, di essersi spesso dilettato a can-
tare e studiare i madrigali di Carlo Gesualdo; Schiitz in una let-
tera del 1632 chiedeva che gli si mandassero dall'Italia copie di
madrigali di Gesualdo e dei suoi seguaci napoletani, mentre si suo-
8 L'INIZIO DEL SECOLO

navano sulle viole i madrigali di Gesualdo a Roma all'epoca di Fre-


scobaldi, in casa Barberini. I madrigali del principe di Venosa
entrano dunque a pieno diritto in una storia della musica seicente-
sca, sebbene vi sia motivo di credere che anche quelli apparsi a
stampa solo nel 1611 fossero in realtà già composti allo scader del
secolo precedente. -;,
Basti dunque esaminare qui (in modo sommario) un madrigale
gesualdiano, a titolo di paradigma delle peculiarità compositive che
distinguono il madrigale seicentesco da quello del Cinquecento (pur
nella sostanziale omogeneità del genere). A tal fine importa innan-
zitutto illustrare l'articolazione musicale del testo. Essa si fonda
sulla s~gmentazione delle immagini verbali (poetiche) e sulla loro
individ"u.azione musicale mediante la combinazione sempre diversa
d' alcuni procedimenti polifonici, riducibili ad alcune opposizioni
di base: trattamento omofonico o imitativo delle voci; c;;ondotta
consonante o dissonante delle parti; andamento diatonico o cro-
matico dei soggetti. L'uso estensivo (e non più eccezionale, come
nel Cinquecento) di quest'ultima opposizione (diatonico/croma~~)
potenzia le combinazioni possibili (da 4 a 8) e consente quindi di
assegnare a ciascun segmento del testo un trattamento polifonico
diverso da tutti gli altri. Schematicamente:

Beltà, poiché t'assenti,}


come ne porti il cor omof. conson. crom.
I I
porta i tormenti, imit. conson. crom.
I
ché tormentato cor può ben sentire pseudo- conson. diat.
polif.
(falsobor-
clone)
la doglia del morire, imit. disson. (diat.)
e un'alma senza core omof. conson. d'1at.
I
non può sentir dolore. imit. disson. crom.

Il testo, sei-versi in tutto (settenari e endecasillabi), è suddiviso


in sei segmenti logici, sei immagini verbali. Al musicista basta dun-
que mettere in opera soltanto sei delle otto possibilità combinato-
rie, per ottenere una forte individuazione di ciascuna delle sei imma-
gini poetiche (l'opposizione più completa è quella tra i due versi
GIOVAN BATTISTA MARINO E LA POESIA PER MUSICA 9

finali). A questa serie di polarità si sovrappone ancora la varLa..l;,j-


lità metrica e l'irregolarità ritmica: mentre nel tactus cinquecente-
sco il rapporto tra le unità metriche per la singola sillaba
(breve:lunga) era normalmente di 1:2 (semiminima/minima o
croma/semiminima), per Gesualdo l'unità . . può pas-
metrica sillabica
sare di colpo attraverso rapporti di 1:4 o 1:8, dalla croma alla semi-
~ AI contorcimento lento dei passi cromatici e dissonanti, assa-
porati in valori lunghi ed estenuati, si alterna ex abrupto la decla-
mazione precipitosa in crome dei passi diatonici e consonanti, o
la melismaticità lussureggiante in semicrome.
Il risultato: la co~_pi!ezza, la fluidità, l'eloquio temperato del
madrigale "regolare" si sono vanificati, rimangono lacerti di poli-
fonia immaginosa ed esuberante sì,/ma discontinua. A garantire
il rapporto logico tra i membri eterogenei ed isolati del madrigale
ri~àn~iil ~esto, il" concetto" arguto che collega tra di loro le imma-
gini verbali e musicali, per analogia o per antifrasi, per paralleli-
smo o per negazione. (Se, arbitrariamente, si omettesse di cantare
il testo - come ha fatto Stravinskij strumentando proprio questo
madrigale-, verrebbe meno l'unico legame formale: la musica di
Gesualdo, estraniata, suonerebbe moderna e fossile a un tempo.)

2 • GIOVAN BATTISTA iç{ARINO E LA POESIA PER MUSICA

Non si conosce l'autore del testo di questo madrigale di


Gesualdo. Eccentrico ed aristocratico in tutto, Gesualdo mostra
di disdegnare le scelte poetiche correnti tra i suoi contemporanei:
è anzi possibile che, così come pubblicò in casa propria, nel pro-
prio castello di Gesualdo, le sue ultime opere (facendo venire da
Napoli lo stampatore musicale Giovan Giacomo Carlino), siano
s,.tati poetati in casa sua e per suo uso esclusivo i molti testi tuttora
non identificati dei suoi madrigali. Tuttavia i testi gesualdiani cor-
rispondono bene alla voga poetica dominante tra i madrigalisti degli
anni intorno al 1600. Se è vero, come s'è detto, che proprio il col-
legamento concettuale tra i membri logici del testo fornisce il legame
formale alle immagini musicali distinte ed isolate, occorre vedere
un poco più davvicino la costituzione della nuova poesia madriga-
listica.
10 L'INIZIO DEL SECOLO

L'avvenimento editoriale che ebbe maggior fortuna tra i musi-


cisti fu la pubblicazione, nel 1602 a Venezia, delle Rime di un napg-
ktano.smanioso di farsi avanti e destinato a diventare il poeta più
famoso del secolo: Giovan Battista Marino (1569-1625). Raramente
una pubblicazione poetica ebbe una fortuna musicale tanto rapida:
a parte il napoletano Giovan Domenico Mantella, che vi attinse
in anticipo due testi per i suoi madrigali a cinque voci stampati
nel 1594 e 1596 (segno che a Napoli testi mariniani già circola-
vano da parecchi anni), dei madrigali del Marino fecero sùbito ricca
messe compositori napoletani e non: nel 1602 i fiorentini Marco
da Gagliano e Giovanni del Turco, e il senese Tommaso Pecci; nel
1603 Salomone Rossi e Giovan Bernardo Colombi mantovani, Pom-
ponio Nenna napoletano, Alfonso Fontanelli modenese, Giuseppe
Colaianni barese, Antonio Il Verso siciliano; nel 1604 Ascanio
Maione e Bernardo Bolognini napoletani, Pietro Maria Marsalo
ferrarese, Girolamo Ghisuaglio riminese, Orazio Vecchi modenese,
Orazio Scaletta e Tiburzio Massaino lombardi; nel 1605 Sant-i.
Orlandi fiorentino; nel 1606 Francesco Bianciardi senese, Dome-
nico Brunetti bolognese, Giuseppe De Puente e Giovan Vincenzo
Macedonia napoletani, Bartolomeo Barbarino pesarese; nel 1607
i napoletani Scipione Dentice, Crescenzio Salzilli e Francesco Lam-
bardi, Bernardo Corsi cremonese, Giovanni Priuli veneziano, Gio-
vanni Ceresini romagnolo, Agostino Agazzari senese; nel 1608
Antonio Gualtieri, Dattilo Roccia, Vincenzo Liberti, Amante Fran-
zoni, Girolamo Frescobaldi, Mare' Antonio Negri, Severo Bonini;
nel 1609 Sigismondo d'India, Gabriello Puliti, Domenico Maria
Melli, Giovanni Ghizzolo, Johann Grabbe, Johannes Hieronymus
Kapsberger; nel 1610 Alessandro Scialla, Enrico Radesca, Lodo-
vico Bellanda; nel 1611 Heinrich Schiitz, Giovan Francesco Ane-
rio, e via di séguito. Ma ancor più del numero dei musicisti eh«;_
attinsero al Marino impressiona la frequenza con cui certi suoi
madrigali furono messi in musica: di testi come «Alma afflitta, che
fai?», «Ch'io mora, ohimè, ch'io mora?», «Giunto è pur, Lidia, il
mio»,« O chio;,,e erranti, o chiome», «Pallidetto mio sole», «Pargo-
letta è colei», «Riede la primavera», «Se la doglia e 'l martire», «Sospir
che dal bel petto», « Tornate, o cari baci» esistono decine e decine
di composizioni madrigalesche. Soltanto pochi componimenti del
Petrarca, del Tasso e di Battista Guarini ebbero una fortuna mag-
GIOVAN BATTISTA MARINO E LA POESIA PER MUSICA 11

giore a quella del Marino. Che cosa, nella lirica mariniana, atti-
rava tanto i compositori?
Basti confrontare qui, a titolo d'esempio, due madrigali, uno
del Tasso (musicato da Luca Marenzio e da Sigismondo d'India)
e l'altro del Marino (musicato tra gli altri dallo stesso d'India, da
Pomponio Nenna e da Antonio Il Verso), composti ambedue su
un unico soggetto: la donna nana.
'TASSO MARINO

Là dove sono i pargoletti Amori, Pargoletta è colei


ed altri ha teso l'arco, ch'accende i desir miei,
altri saetta al varco, e pargoletto Amore
;J- altri polisce le quadrella d'oro, che mi saetta il core.
voi parete un di loro Ma ne l'anima io sento
scherzando in verde colle o 'n riva e gran foco e gran piaga
fra la' turba vezzosa; [ombrosa [e gran tormento.
e se voi non avete auree saette, \
le dolci parolette
e i dolci sguardi son facelle e stràli,
e i bei pensieri in voi son piume ed ali.

Comune è il soggetto, comune l'invenzione arguta: la donna amata


pare un piccolo Cupido, idealmente armata (come questi) di strali
e d'arco. Ma la tessitura dei due madrigali è assai diversa. Il Tasso
indugia a descrivere gli amorini e l'ambiente; dichiara la somiglianza
dei soggetti («voi parete»); con una costruzione concessiva («e se
voi non avete ... ») argomenta la paradossale somiglianza oggettiva;
pur nel parallelismo logico di figurante e figurato schiva però la
simmetricità formale, e si diffonde in una successione mista di set-
tenari e endecasillabi, dove il raggruppamento logico dei versi con-
trasta con lo schema binario delle rime. Diversamente, il Marino
organizza la propria arguzia in sei versi rimati e raggruppati a due
a due, con simmetria stretta: al parallelis°'° perfetto dei versi 1-2
e 3-,4 (il verbo principale, in comune, è sottinteso al verso 3)
risponde simmetricamente il distico finale, che però, ad arte, stu-
pefà con l'impreveduta chiusa, eccedente (un endecasillabo trimem-
bre là dove, per simmetria, si aspettava semmai un settenario
bimembre). All'impianto discretamente discorsivo e argomentativo
del Tasso subentra un'epigrammaticità sintetica; il paragone descrit-
tivo dei soggetti (nana/Cupido) viene surrogato dal Marino nella
12 L'INIZIO DEL SECOLO

pura e semplice identità degli effetti (dei "mali d'amore"); l'effi-


cacia dell'arguzia è proporzionale alla schematica laconicità del com-
ponimento; resta, del madrigalismo tassesco, il gioco «aculeato»
di immagini nitide, «tutto sostanza e tutto vivacità».
Ove soccorra «la politezza delle parole e la facilità della sen-
tenza», «non può il concetto non frizzare subitamente e d'improv-
viso»; e quanto maggiore è «la brevità» del componimento, «tanto
migliore egli ne diviene e (per cosl dire) tanto più ghiotto e più
lecco». Sono parole, queste, tratte dall'Arte del verso (1658) di un
sodale (prima amico, poi nemico fierissimo) del Marino, Tommaso
Stigliani: esse illustrano bene la concentrazione sulla sint,eti_cità..d@I
•~oncetto" arguto nel madrigale mariniano, che ai musicisti dd
primo Seicento deve essere parsa la condizione ideale per ridurr,e
tutta la composizione di un madrigale in un giro conciso di imma-
gini verbali-musicali nitide e isolate, da far giuocare per contrasto
e parallelismo. Se si confrontano il madrigale del Marenzio sul testo
tassiano e quello del Nenna (o degli altri) sul testo mariniano, si
vedrà di quanto questi sia più musicalmente "arguto", nel s~o
rapido procedere per ripetizioni e simmetrie di breve respiro, per
voltafaccia ritmici improvvisi, per istantanee lacerazioni armoni-
che istantaneamente suturate. Il tutto, con un effetto un po' bef-
fardo di sproporzione tra la ricchezza, l'intensità dell'eloquio musi-
cale patetico e la fugacità effimera del pretesto poetico. Non tutti
i musicisti che compongono le rime del Marino si comportano però
con la concisione "aculeata" del Nenna e di altri napoletani: il gio-
vane Heinrich Schiitz, per esempio, sfrutta semmai la brevità dei
rn,embri poetici distaccati per dilatarli musicalmente a dismisura,
in una rappresentazione musicale florida ed opulenta di immagini
svincolate ed isolate ma poi prolungate ed allargate e amplificate,
con sonorità fastose e imitazioni polifoniche fantasiose.
Al Marino già il suo secolo attribul un ruolo di caposcuola, di
promotore e massimo artefice della lirica "concettosa", dell'uso
stupefacente e arguto della metafora. In realtà si trattò, per cosl
dire, di un fenomeno retrospettivo di induzione storiografica: tanto
ostentato fu il suo comportamento da protagonista letterario, tanta
la risonanza pubblica del suo strabocche<'ble capolavoro - il poema
in 5123 ottave L'Adone (1623) -, che a conti fatti si conferl al
Marino un rango d'iniziatore e innovatore in tutti i settori della sua
GiOVAN BATTISTA MARINO E LA POESIA PER MUSICA l3

produzione letteraria. Al contrario, per la poesia per musica, ossia


per la lirica raccolta principalmente nelle Rime del 1602 (poi
ampliate nel 1614 con il titolo La lira), il Marino dovette il suo
immenso successo musicale anche proprio alla moderazione, alla
-temperata "mediocrità" delle sue invenzioni concettose e metafo-
riche rispetto a un gruppo di poeti assai più audaci di lui nell'esco-
gitare similitudini erudite e stupefacenti, e tutti attivi ben prima
del 1602: il bolognese Cesare Rinaldi, il meridionale Stigliani, il
veneto Guido Casoni, il genovese Angelo Grillo (abate benedet-
' ebbe un ruolo propulsivo nella moda letteraria e musicale del
tino,
madrigale spirituale, in tutto affine ai madrigali profani fuorché
nei soggetti, devoti). Costoro avevano preso a soggetto dei loro
madrigali temi talvolta affatto stravaganti: non più soltanto i capelli,
@li occhi, il seno, la mano, la voce della donna amata, bensì magari
i di lei nèi, i piedi, i ventagli, le macchie sur vestito, le pecchie,
i cagnolini, la lucciola, la polvere negli occhi, la clessidra ... Per lo
Stigliani la vita di un amante pttò diventare una tempesta:

Una tempesta ria


fatta è la vita mia:
poscia ch'a poco a poco
divenuto mi sento
e di ghiaccio, e di foco,
e di pioggia, e di vento.
Ghiaccio di tema, e foco di desiri,
pioggia di pianto, e vento di sospiri.

Il rapporto tra figurante e figurato è equivoco; l'amante è come


la tempesta, o la tempesta come l'amante? "Concetti" siffatti for-
niscono bensì al musicista gran copia di immagini concrete, musi-
calmente imitabili (pioggia, sospiri, fuoco, ... ), ma esulano dal regi-
siro convenzionale dei soggetti amorosi praticati dai madrigalisti
per quasi un secolo. La snellezza e duttilità della polifonia madri-
' consentono senz'altro un trattamento potenziato del les-
galesca
sico convenzionale di figure verbali-musicali (Pomponio Nenna,
per esempio, non esita ad illustrare le parole «morir di doppia
doglia» con due dissonanze simultanee e distinte): non consente
però la reinvenzione costante, caso per caso, di tutto un codice
di figure sempre rinnovate, di un registro stilistico mutevole, così
14 L'INIZIO DEL SECOLO
;

come l'esigerebbe invece la deliberata stravaganza delle metafore


praticate dagli estremistici contemporanei (o predecessori) del
Marino. Infatti la fortuna musicale di Rinaldi, Casoni, Grillo, Sti-
gliani fu circoscritta a un numero sia pur cospicuo di casi poco più
che singoli, e la selezione che i musicisti operarono all'interno delle
loro produzioni poetiche evitò le invenzioni metaforiche più oltran-
zistiche e si attestò su una ragionevole "mediocrità" tematica con-
corde all'esempio rnariniano: trattazione arguta e spiritosa di meta-
fore e soggetti amorosi tutto sommato convenzionali. I musicisti,
insomma, non si avventurarono al di là della cornice tradizionale
del codice amoroso legato al genere madrigalesco: e nonostante il
notevole raffinamento della tecnica polifonica, la costanza e la còn-
tinuità del genere prevalsero. Quasi totale, poi, la rinunzia ai generi
poetici più complessi (sonetto, ottava rima, canzone, sestina), in
favore dell'epigrammatico madrigale.
Veicolo d'una trasmissione e di un consolidamento duraturo
del repertorio poetico per musica furono soprattutto alcune anto-
logie poetiche di soli madrigali, davvero copiose: i Fiori di madri-
gali di diversi autori illustri (1598), il Giardin di rime nel quak si
leggono i fiori di nobilissimi pensieri (1608), Le muse sacre, scelta
di rime spirituali (1608), la Ghirlanda dell'aurora, scelta di madrigali
de' più famosi autori di questo secolo (1609) sono ordinati per autori,
e convogliano i frutti illustri della lirica tassiana insieme alle acqui-
sizioni più recenti. L'immenso Gàreggiamento poetico (1611) è invece
ordinato per terni: La bella pargoletta, Crin biondo, Crin nero,
Bella fronte, Occhi belli, Bella bocca, Bel seno, Mano armata, Mano
fiorita, Baci dolci, Baci mordaci, Cantatrice, eccetera. (Analoga-
mente, alcuni musicisti compilano raccolte tematiche di madrigali:
Gabriele Fattorini pubblica La rondinella nel 1604, Cornelis Schuyt
I' Hymeneo overo madrigali nuptiali nel 1611, Orazio Brognonico
La bocca e Gli occhi nel 1614-15.) Queste antologie letterarie riflet-
tono da un lato le scelte poetiche dei musicisti di fine Cinque e
inizio Seicento, dall'altro consegnano ai rnadrigalisi "superstiti"
(e fino alla fine del secolo) un repertorio di testi per musica ormai
consolidato: Giovanni Valentini nel 1616, Carlo Milanuzzi nel
1620, Tarquinio Merula nel 1624, Galtazzo Sabbatini nel 1625,
Francesco Vignali nel 1640, Giovan Battista B~nchi nel 1675, Gio-
van Maria Bononcini nel 16 78 attingono ancora a queste stesse
antologie, dove il Marino la fa da primo attore.
GIOVAN BATTISTA MARINO E LA POESIA PER MUSICA 15

Ma il significato del Marino per la storia della musica seicente-


sca non si esaurisce nella ricca imbandigione di poesie madrigale-
sche: imche l'Adone ha un'importanza capitale. Poema mitologico
e antieroico (e come tale deliberatamente "diverso" rispetto a
O~lando furioso e Gerusalemme liberata), abnorme e debordante nelle
dimensioni e nella labirinticità preordinata, esso rappresenta anche
una sedimentazione quanto mai ricca della letteratura mitologica e
lirica antica e moderna, un compendio copioso e luminoso del poe-
tabile: esso diventò quindi (nonostante la condanna all'Indice) il
quadro di riferimento culturale e intellettuale per tutta la poesia
del }imanente Seicento (fonte diretta o mediata, altresl, di tanti
drammi per musica mitologici, a partire dalla Catena d'Adone fatta
a Roma nel 1626). Nella sfera del poetabile, anzi dell'effettivamente
poetato nell'Adone, rientrano testimonianze, sorprendenti per ag-
giornamento e CQ!:_aggio int~~~tm~k, della nuova scienza e della
nuova filosofia fondate sull'esperienza sensibile e la conoscenzasen-
soriale. Già che interessano qui i fatti di natura sonora, basti citare
la descrizione anatomicamente circostanziata dell'organo dell'udito,
che elenca partitamente gli ossicini auricolari («d'osso minuto/ ed
incude e triangolo e martello») e il tensor tympani, il muscolo minu-
scolo che li sottende, scoperto (come il triangolo) allora allora (canto
VII, ott. 16). Nell'universo aperto e multiplo, problematico e scet-
tico dell'Adone «è del poeta il fin» non tanto «la meraviglia» (come
si è sempre voluto riduttivamente intendere, elevando quest'af-
fermazione polemica del Marino al rango di dichiarazione poetica)
quanto semmai l'avida esperienza della conoscenza sensibile, cui
nulla sfugge: nemmeno, beninteso, la musica del proprio tempo.
Basti accennare qui ad Adriana Basile e Virginia Ramponi Andreini
- prima protagonista dell'Arianna di Monteverdi questa, suprema
virtuosa di canto da camera quella - prese a paragone per descri-
vere il personaggio allegorico della Lusinga (VII, 88). Il riferimento
alla Basile divenne poi topico: l'anno dopo l'Adone, nel 1624,
apparve la Venezia edificata di Giulio Strozzi (il letterato amico
di Monteverdi), dove compare «la bellissima Adriana» che, alla
corte della maga Irene «ingannatrice accorta», con il suo canto
«rapisce i cuori, e gli tranquilla e molce», cantando «leggiadre can-
zonette, arie novelle» e l'aria della romanesca («Romana ha l'aria,
e in otto versi è stretta»). Viceversa, la ricca messe di madrigali
16 L'INIZIO DEL SECOLO

in lode di cantatrici virtuose come la Basile fornisce a sua volta


il termine di paragone poetico per descrivere il canto gorgheggia-
to, culminante nell'episodio mariniano dell'usignuolo nell'Adone
(VII, 33):

Udir musico mostro, o meraviglia,


che s'ode sl, ma si discerne appena,
come or tronca la voce, or la ripiglia,
or la ferma, or la torce, or scema, or piena,
or la mormora grave, or l'assottiglia,
or fa di dolci groppi ampia catena,
e sempre, o se la sparge o se l'accoglie,
\
con egual melodia la lega e scioglie.

3• LE MUSICHE A VOCE SOLA

La vocalità esuberante e gorgheggiata dell'usignuolo mariniano


si incontra proprio in otto "ottave passeggiate" tratte dall'Adone
e intonate a due voci acute e basso continuo apparse, otto anni
prima della pubblicazione del poema, nelle Musiche a due voci di
Sigismondo d'India (1615): è il lungo monologo della maga Falsi-
rena còlta d'amore per Adone («Ardo, lassa, o non ardo?»; XII,
198-204, 207) intitolato qui però Pensieri di novella amante. Sigi-
smondo d'India era, dal 1611, capo della musica di camera del duca
di Savoia, dove (dal 1608 al 1615) soggiornò pure il poeta, e poté
dunque attingere alla fonte queste otto stanze del poema, da lungo
tempo in lavorazione. Le otto stanze in ottava rima sono condotte
sopra un basso "strofico", ovverossia uno schema melodico e armo-
nico fisso del basso che si ripete ad ogni strofa del testo (o, come
nel caso dell'ottava rima, ogni due o ogni quattro versi: quest'ul-
tima variante è quella adottata in questi Pensieri). La recitazione
musicale dei 64 versi è lunghissima, per via della vocalizzazione
inesausta delle due voci: certi melismi arrivano a una sessantina
di note per una singola sillaba, e le due voci insieme totalizzano
112 note di melismi sull'ultima e più importante parola del testo,
«amore». Si tenga presente che nei "passaggi" o "passeggi" meli-
smatici le due voci procedono talvolta parallele e simultanee, talaltra
però alternatamente (alla nota tenuta dell'una corrisponde il "pas-
seggio" vocalizzato dell'altra, e viceversa): si avrà così un'idea della
LE MUSICHE A VOCE SOLA 17

dilatazione sonora che subisce il testo del monologo in una siffatta


maniera di canto. L'ambiguo fascino di questa musica consiste nella
opposizione tra lo scheletro armonico assai elementare del basso
e l'effetto ritardante dei "passaggi" melismatici, che dilazionano
quanto più possibile il raggiungimento della cadenza.
Non è questo l'unico stile di canto solistico in voga all'epoca.
La "monodia" dei primi due decenni del Seicento (ma l'impiego
del termine è leggermente improprio e non perfettamente coevo,
giacché risale alle teorizzazioni antiquariamente orientate di Giam-
battista Doni, 1635) condivide con il madrigale polifonico l' inte-
resse primordiale per il testo, ma non già nel senso della artificiosa
rappresentazione o riproduzione musicale delle immagini poetiche,
~ della «pienezza e soavità del concetto», bensì nel senso dell'e-
locuzione, della recitazione, del «bello e grazioso cantare» e del
«far intendere tutti i sentimenti del poeta». Quindi, se la "mono-
di\l" ha una s_tru_ttura compositiva di gran lunga più schematica
ed esile del madrigale polifonico, e'ssa lo batte però nella versati-
lità stilistica, nella adattabilità a modi diversi di discorso canoro:
una versatilità stilistica che (rispetto alla regolarità delle scelte poe-
tiche dei madrigalisti) è innanzitutto versatilità letteraria, come
insegna uno sguardo ai cinque libri (1609-23) delle Musiche «da
cantar solo» o a due voci «nel clavicordo, chitarone, arpa doppia
et altri istromenti simili» dello stesso Sigismondo d'India.
Le prime Musiche a voce sola (1609) sono voluminosissime: 47
testi (talvolta articolati in più parti) organizzati come un canzo-
niere poetico in musica, non già come un libro di madrigali polifo-
nici (21 brani, in media). La sezione iniziale (nn. 1-20) basterebbe
da sola a colmare /un libro monodico: dopo un'invocazione del
cantore-poeta («Cara mia cetra, andiamne»), vi compaiono alter-
nativamente madrigali (testi del Marino, del Guarini, del Rinuc-
cini) e arie (del Chiabrera). La distinzione tra madrigali e arie risale
alla prima raccolta di Nuove musiche del Caccini (1602; cfr. vol.
IV, § 39): i madrigali hanno testi affini (o identici) a quelli del
madrigale polifonico, e struttura musicale discorsiva; le arie hanno
testo strofico, e i versi sono spesso "misurati" (versi dall' accen-
tuazione forte e rigida, come quaternari, quinari, senari, ottonari,
in opposizione ai versi sciolti madrigaleschi, settenari e endecasil-
labi). Al primo gruppo appartengono anche certi brani musicati
su segmenti di monologhi del Pastor fido, il dramma pastorale del
18 L'INIZIO DEL SECOLO

Guarini: il n. 41, per esempio, è una serie di cinque madrigali tratti


dal monologo di Mirtillo (atto III, scena 1); il n. 24, altro madri-
gale monologico, porta l'esplicita intitolazione «madrigale in stile
recitativo». Differenziato è invece il trattamento delle ottave rica-
vate dalla Gerusalemme e dall'Orlando. Alcune sono condotte come
se si assistesse a una ideale recitazione scenica del monologo: cosl
il n. 34, l'imprecazione di Armida, intitolata «ottava in stile reci-
tativo». Altre, invece, più che recitate sono "cantate" in uno stile
florido e vocalizzato, sopra bassi strofici convenzionali e tradizio-
nali: «sopra il basso della romanesca» (n. 25), «sopra il basso del-
l'aria di Genova» (n. 42), «sopra il basso dell'aria di Ruggiero di
Napoli» (n. 43). In quest'ultimo caso, alla formula del basso è rima-
sto impresso, oltre il nome della città d'origine, il nome stesso d'un
personaggio ariostesco. Un'ultima possibilità di intonare narrati-
vamente (e non recitativamente) ottave epiche (o sonetti) consiste
nell'adozione di «arie da cantar ottave» (o «da cantar sonetti»):
la stessa melodia vocale, e non soltanto il basso, si ripete tal quale
sul testo di qualsiasi ottava (il n. 33, sempre Armida) o ,$Onetto
(i nn. 31 e 32, Petrarca e Marino). Altra fonte e_oetica illustre, ma
assai meno frequente, è l'Arcadia di Jacopo Sannazaro, donde sono
tratte le terzine sdrucciole dei brani nn. 39 e 40.
A tutti questi brani musicali, composti su endecasillabi e orga-
nizzati stroficamente (non fosse che nel solo basso) anziché alla
maniera discorsiva e recitativa dei madrigali, converrebbe la deno-
minazione di "arie". Ma quando sono composte su versi misurati,
le "arie", messe alla moda dal Caccini e poi praticate assiduamente
dai monodisti, sono ancora diverse: nel ritmo regolare e accentua-
tivo, nella dizione sillabica, nella durata brevissima, nell'articola-
zione delle frasi musicali a cadenze ravvicinate. Messi in circola-
zione sul finire del Cinquecento, soprattutto ad opera del poeta
savonese Gabriello Chiabrera (1552-1638), con l'intenzione di ripri-
stinare i metri poetici dei lirici greci, questi testi hanno di solito
argomento scherzoso: donde la denominazione di «scherzi», fre-
quente nelle pubblicazioni sia letterarie (come l'antologia di Scherzi
de' sig. academici trasformati edita nel 1605) sia musicali (cosl gli
Scherzi musicali a tre voci, con ritornelli strumentali assai brillanti,
di Claudio Monteverdi, 1607).
Anche Sigismondo d'India, pur prediligendo le forme recita-
tive e narrative lunghe, dà numerosi esempi di siffatte arie e scherzi:
LE MUSICHE A VOCE SOLA 19

talvolta su testi brevissimi, 3-4 versi per strofa. Nel secondo libro,
tutto a due voci (1615), essi contrastano con le lunghissime "ottave
passeggiate" del Marino e del Tasso. Nel terzo libro, a voce sola
(1618), predomina lo stile recitativo: oltre i madrigali (uno dei testi
è ricavato da un madrigale cromatico di Gesualdo, che d'India imitò
anche nel suo terzo libro di madrigali polifonici), vi figurano sonetti
del Petrarca e del Marino, ottave della Gerusalemme liberata, una
«lettera amorosa» del Marino (un monologo lamentoso nella tra-
dizione delle "epistole eroiche" di Ovidio, spesso imitate nel Sei-
cento; cfr. § 23), uno stralcio dell'Amaranta di Giovanni Villifran-
chi, un brano in eco («Ahi, chi fia che consoli il dolor mio? Il io»).
Ilquarto libro (1621) dà l'indicazione esplicita degli autori dei testi:
forse d'India imita qui l'esempio di cantori-compositori-letterati
come Francesco Rasi o come Bartolomeo Barbarino, che nei loro
libri di musiche monodiche usavano segnalare i nomi dei poeti, tra
i quali figurano occasionalmente loro stessi. Infatti anche nel quarto
libro dell'India due "lamenti 1' recitativi (di Orfeo e di Apollo) sono
frutti dichiarati della musa poetica del musicista. Tutto il libro è
impegnativo nella scelta dei testi: l'invocazione iniziale è un sonetto
del Bembo («Piansi e cantai lo strazio e l'aspra guerra»), e poi ven-
gono un altro sonetto, petrarchesco, le tre ottave in stile recita-
tivo del battesimo l morte di Clorinda nella Gerusalemme, un «canto
di rosignolo» tratto da una favola pastorale di Francesco Braccio-
lini, un dialogo a due voci del Marino e, dello stesso poeta predi-
letto, una versione più completa e intieramente rimusicata della
«lettera amorosa» già utilizzata nel terzo libro. Disseminate tra
l'uno e l'altro brano recitativo del libro, le arie strofiche ne alle-
viano il tono letterariamente sostenuto.
Il quinto libro (1623) comprende altri tre lamenti su testi del-
l'autore (di Giasone, di Didone, di Olimpia). Accanto ad essi figu-
rano due brani di musica teatrale eseguiti tre anni prima alla corte
torinese: l'aria della Virtù Eroica «Io che del ciel i sempiterni campi»,
quattr{) quartine di endecasillabi su basso strofico cantate ne Le
accoglienze, balletto fatto il 30 gennaio 1620 per l'arrivo di Crf-
stina di Francia sposa dell'erede al trono Vittorio Amedeo (vedine
la descrizione nella Lettura n. 2), e il madrigale «Questo dardo, que-
st'arco» cantato dalla dea Diana in una festa di balli e apparizioni
allegoriche fatta, sempre in onore di Madama, nello stesso inverno.
L'uso di inserire nelle raccolte di musiche da camera a voce sola
20 L' IN !ZIO DEL SECOLO

anche brani scelti di musiche teatrali risale al capostipite del genere:


nelle Nuove musiche cacciniane del 1602 figura parte del Rapimento
di Cefalo del Chiabrera fatto a Firenze per le nozze Medici-Navarra
del 1600, in quelle del 1614 una "romanesca" cantata nella Masche-
rata di ninfe di Senna di Ottavio Rinuccini danzata a palazzo Pitti
nel 1611; le Musiche di Marco da Gagliano del 1615 contengono
il Ballo di donne turche danzato a Pitti in quell'anno; il quinto libro
di Musiche di Enrico Radesca (1618) include arie cantate in bal-
letti torinesi di dieci anni prima; il settimo libro di madrigali di
Monteverdi (1619) si apre con l'introduzione a ballo «Tempro la
cetra» e si chiude con un dialogo-balletto, Tirsi e Clori (Mantova,
1616); le due sezioni dell'ottavo libro monteverdiano (1638) ter-
minano con un balletto «in genere rappresentativo» completo (il
Ballo dell'ingrate, Mantova, 1608) e un'introduzione a ballo
(?Vienna, ?1637); perfino tra i madrigali postumi di Monteverdi
(1651) compare una canzonetta teatrale (dalla Proserpina rapita di
Giulio Strozzi, Venezia, 1630). Del resto, Sigismondo d'India rac-
colse un intiero libro di musiche sceniche fatte a Torino, quello
di Musiche e balli per i festeggiamenti nuziali del 1619-21.
La presenza di brani teatrali nelle pubblicazioni monodiche non
deve stupire. Intanto, mentre il madrigale polifonico è destinato
ad essere cantato "a tavolino", per il piacere stesso dei cantori (siano
essi professionisti o dilettanti, cortigiani o cittadini), la monodia
ha un atteggiamento "recitativo" intrinseco: l'isolamento della voce
singola consente l'individuazione d'un personaggio recitante, e d'al-
tra parte la tecnica dell'ornamentazione vocale richiede cantanti
professionisti che sappiano "porgere" con efficacia e raffinatezza
il testo e il canto a un pubblico di ascoltatori e spettatori (sono
frequenti gli avvertimenti coevi intorno al contegno e alla tempe-
rata gesticolazione facciale e corporea che dovrà tenere il virtuoso
cantore). Poi, la monodia recitativa rappresenta, all'inizio del secolo,
una prerogativa di poche corti, una novità preziosa e ricercata da
esibire pubblicamente in poche occasioni rappresentative e cele-
brative; i cantanti virtuosi sono contesi dai prlncipi d'Italia; gli
apparati celebrativi e conviviali (cfr. Lettura n. 1) si arricchiscono
dell'intervento di pochi grandi cantanti corteggiati. A Firenze sono
i Caccini (Giulio, le sue mogli, le figlie: una, Francesca, pubblica
un libro di sue Musiche, 1618, e un balletto rappresentativo di sog-
getto ariostesco, La liberazione di Ruggiero dall'isola di Alcina, del
LE MUSICHE A VOCE SOLA 21

1625), e Vittoria Archilei; a Roma spiccano i cantanti intrattenuti


dal melomane cardinal Montalto; a Mantova accorrono Francesco
Rasi aretino (l'interprete dell'O,feo di Monteverdi, fatto poi cava-
liere), e la napoletana Adriana Basile, che con la voce, l'abilità di
accompagnatrice strumentale, la bellezza e la costumatezza con-
quista i favori dei prlncipi e dei poeti d'Italia (testimoniati da un
Teatro delle glorie intessuto di poesie in suo onore e da un volume
di Lettere di diversi principi a lei indirizzate, stampati nel 1623 e
1628): questi stessi onori erediterà poi sua figlia Leonora Baroni,
gran cantante anch'ella (come testimoniano gli Applausi poetici in
sua gloria apparsi nel 1639). L'entusiasmo coevo per queste grandi
virtuose e .per il nuovo stile di canto è iperbolico. « I soavi sospiri,
gli accenti discreti, il gorgheggiar moderato, le portate felici, le
ardite cadute, l'elevate salite, gli interrotti cammini, lo sospingere,
il morir d'una voce, onde usciva il ristoro d'un'altra che andava
alle stelle a fermar quelle sfere, l'erano appunto meraviglie cele-
sti»: questa la descrizione (degna deU'usignuolo mariniano) della
voce di Adriana Basile. La metafora astronomica si ritrova pun-
tualmente nel titolo d'una antologia romana di monodie, del 1629:
Le risonanti sfere da velocissimi ingegni armonicamente raggirate
con il primo mobile del (basso) continuo.
La stessa carriera di un musicista come Sigismondo d'India (1580
ca. -1628/29), che (nonostanffe la pubblicazione di tre libri di mottetti
concertati) si tenne lontanissimo dalla polvere modesta delle cappelle
ecclesiastiche, è indicativa dell'orbita cortigiana del canto a voce
sola. Nobile palermitano, egli dovette frequentare fin dall'inizio del
secolo la corte medicea, nel 1610 compare alla corte di Piacenza, nel
1611 viene assunto stabilmente dai Savoia, verso il 1623 passa a
Roma al servizio del cardinal Maurizio di Savoia ma serve anche i
duchi di Modena per i quali compone nel 1626 l'Isola di Akina tra-
gedia del conte Fulvio Testi, nello stesso anno collabora in Roma alla
favola musicale di soggetto mariniano La catena d'Adone. Cantante
oltreché compositore (come tutti i monodisti), si fece ammirare a
Firenze dai virtuosi della cerchia di Caccini; ma a differenza da tanti
monodisti, compose, oltre le Musiche a voce sola (dedicate ai Far-
nese, ai Savoia, agli Este, agli Absburgo, alla regina di Francia),
anche otto libri di madrigali e due di villanelle, dedicati anch'essi a
potentati e diplomatici. Il rango della sua musica è esso stesso nobi-
liare, se·essa (per sua dichiarazione) schifa gli «ordinarli movimenti»,
22 L'INIZIO DEL SECOLO

la «modulazione ormai ordinaria», «quei passaggi ordinarii ornai


fatti comuni», e ricerca «la vera maniera con intervalli non ordi-
narii, passando con più novità possibili da una consonanza all' al-
tra» (ossia mediante l'impiego ostentatamente anomalo della con-
catenazione di consonanze e dissonanze).
Passeranno ancora alcuni anni prima che il canto a voce sola
diventi genere editoriale di largo consumo. Già il quarto e il quinto
libro dell'India contengono però un sintomo eloquente in tal senso:
come annunziano i titoli, le arie su testo strofico distribuite tra i reci-
tativi portano, oltre la parte del basso continuo, anche le lettere alfa-
betiche che contrassegnano (in un codice cifrato rudimentale) gli
accordi da strappare sulla chitarra alla spagnola. Questo genere leg-
gero di "scherzi" da cantare sulla chitarra si diffonde a partire dagli
anni Venti, soprattutto a Venezia e Roma, dove talunt musicisti si
specializzano nella pubblicazione di siffatti effimeri Scherzi delle
ariose vaghezze commode da cantarsi a voce sola: Carlo Milanuzzi
(nove libri così intitolati, dal 1622 al 1643), Giovan Pietro Berti,
Martino Pesenti «cieco a nativitate». Addirittura hanno grandissimo
favore certe raccolte di Canzonette o di Villanelle che contengono sol-
tanto il testo con le cifre della chitarra alla spagnola: famose quelle di
Remigio Romano e di Pietro Milioni. Con questa nuova produzione
di strofette destinate al consumo spicciolo, all'intrattenimento cit-
tadino e magar{piazzaiolo, le musiche languidamente vocalizzate dei
monodisti illustri non hanno alcunché da spartire: anzi, a partire
dagli anni Venti ne scompaiono i produttori, i cultori, la prassi.

4. CLAUDIO MONTEVERDI, FINO AL 1620

Su tutto il primo Seicento italiano sovrasta la figura di Clau-


dio Monteverdi (Cremona, 1567 Venezia, 1643). Corpo centrale
della sua opera sono gli otto libri di madrigali (fino al sesto com-
preso si tratta di madrigali a 5 voci), secondo la regola d'un'epoca
che nèlla produzione madrigalistica compendiava idealmente tutta
la personalità artistica di un compositore (esempi di rito: Monte
Wert Luzzaschi Marenzio Macque Nenna Gesualdo). La premi-
nenza dei madrigali nella produzione monteverdiana corrisponde del
resto alla posizione professionale del musicista fino al 1612: dal 1590
egli fu suonatore di viola, dal 1602 maestro di cappella alla corte
CLAUDIO MONTEVERDI, FINO AL 1620 23

di ~a!J.t~y_a ossia, in pratica, fornitore di musiche polifoniche su


testi letterari per il nobile intrattenimento privato di una cerchia
cortigiana o accademica. Le dµe__pubblicazioni saçre curate da Mon-
teverdi nel 1610 e nel 1641, la Sanctissimae Virgini missa senis voci-
bus, ac vesperae pluribus decantandae, cum nonnullis sacris concenti-
bus, ad sacella sive principum cubicula accommodata e la Selva morale
e spirituale, hanno, al confronto della produzione regolare di madri-
gali, un carattere di eccezionalità, quasi un doppio monumentale
compendio della sua attività "pubblica" di maestro di cappella a
Mantova e poi a Venezia. In realtà, con l'assunzione del posto pre-
stigiosissimo di maestro di cappe~ della R~pu-bbiica di V~oe:z4
nel 1613 anche per il compositore di madrigali Q!_UtÒ il rl!J)~
con il pubblico: basti dire che nella sua nuov~ condizì_9ne:-ben piu
autorçyole e agiata., Monteverdi poté concedersi if lusso di stam-
pare il sesto_l~bro di madrigali (16Ji) s~!_lza dedica veruna (in altre
parole: S~ilQyvenzioni né patrocinio f_yorché quelli dell'editor~
stesso, che sapeva di poter dar per certo l'ottimo affare eéHtoriale).
E anche lo stile dei suoi madrigali veneziani registra una sttuazione
culturale bffi più "moderna" rispetto a quella mantovana, uno
sbrecciamento della sfera totalizzante della polifonia madrigalesca
e della sua destinazione esoterica. È tanto più singolare che le sue
maggiori pubblicazioni veneziane contengano tuttavia un costante
riferimento, diretto o indiretto, ali' antico patrocinio dei Gon,!;aga,
assai s~H~rto e sentito dal mu_~içista: nel sesto libro una versione
a 5 voci del Lamento d'Arianna fa il paio con una sestina di com-
pianto (Lagrime d'amante al sepokro dell'amata, 1610) per la morte
prematura della protagonista designata dell'Arianna stessa, Cate-
rina Martinelli (Mantova, 1608); a Caterina Medici Gonzaga è dedi-
cato il settimo libro, all'imperatore Ferdinando III l'ottavo libro,
alla di lui matrigna Eleonora Gonzaga la Selva morale e spirituale:
i primi due contengono musiche teatrali fatte a Mantova, quest'ul-
tima un travestimento spirituale latino del Lamento d'Arianna mono-
dico, trasformato in Pianto della Madonna.
Questo atteggiamento retrospettivo è la manifestazione esteriore
di un'ambivalenza profonda che sottende tutta la personalità di
Monteverdi. Se egli fu il disgregatore efficace della totalitaria ~~so-
lutezza del linguaggio madrigalesco, fu anche seguace assai cauto e
tardigrado delle avanguardi«; stilistiche-del giorno, sia nel campo
musicale sia nel letterario. Tardiva, per esempio, la sua adozioqe della
24 L'INIZIO DEL SECOLO

lirica del Marino: per la prima volta nelsesto libro (1614) compare
il Marino, e in maniera peraltro alquanto anomala, giacché Monte-
verdi musica quattro suoi sonetti e una canzone, e trascura invece
affatto gli epigrammatici madrigali tanto favoriti da altri·. Anzi, i
. =
sonetti mariniani vanno di concerto con due sonetti del Petrarca:
l'impiego di forme poetiche.complesse ed artificiose come il soneùo,
ormai da gran tempo disertato dai musicisti (ve n'è in tutto e per
tutto uno solo nei primi cinque libri di Monteverdi stesso), è però il
segnale non già d'una restaurazione letteraria e stilistica, bensl di un
interesse. nuovo per l'articolazione della forma musicale in dimen-
sioni vaste. All'epigrammaticità musicale di Gesualdo e soci, tutta
fondata sulla traslitterazione musicale di un "concetto" chiuso nel
giro di poche immagini poetiche "aculeate", i sonetti pi*archeschi
e mariniani del sesto libro di Monteverdi sostituiscono superfici
sonore distese, grandi contrapposizioni tra episodi a voci piene ed
episodi solistici (dove talvolta le voci sole individuano i personaggi
di un dialogo amoroso). Anziché la forma musicale concisa innestata
sul concetto poetico, v'è qui una concezione della forma musicale
ottenuta per distribuzione preordinata di sezioni, di frasi, di periodi
che si corrispondono e contrappongono l'un l'altro secondo un'arti-
colazione e una disposizione ampie e sintetiche.
In « Ohimè il bel viso, ohimè 'l soave sguardo» (Petrarca), i due
soprani si limitano ad esclamare per 16 volte il loro «ohimè», mentre
le tre altre voci procedono gradatamente nell'enunciazione dei primi
versi del sonetto (anch'essi ampiamente conditi di «ohimè»); sin-
golare il costrutto musicale dei versi 5 e 6, dove, simultaneamente
alle lunghe, languide esclamazioni dei soprani, il tenore, il basso
e l'alto vanno sillabando soffertamente il resto del testo:

5, 5: et ohimè ... T: il dolce riso,


5, 5: et ohimè ... B: il dolce riso ond'usd il dardo,
5, 5: et ohimè ... A: il dolce riso ond'usd il dardo
di che morte altro ben,
di che morte altro ben già mai non spero.

Il racconto nostalgico di un episodio amoroso del passato in «Qui


rise Tirsi, e qui verme rivolse», sonetto del Marino concertato con
il basso continuo, è imbastito su una serie di episodi solistici inter-
calati dall'esclamazione a tutte voci del verso-chiave, il verso finale
«O memoria felice, o lieto giorno»:
CLAUDIO MONTEVERDI, FINO AL 1620 25

vv. 1-2: duetto (5,5)


vv. 3-4: duetto (A,TI
V. 14: « O memoria felice ... » a 5 voci
vv. 5-6: a solo (5)
V. 7: terzetto (5,5,A)
V. 8: duetto (5 ,5)
V. 14: « O memoria felice ... » a 5 voci
vv. 9-11: duetto (5,A)
vv. 12-13: terzetto (A, T,B)
v. 14: «O memoria felice ... » a 5 voci

Risorsa fondamentale all'ottenimento di siffatte articolazioni


formali, letterariamente motivate ma determinate in primis musi-
calmente, è l'~qozione, fin dal quinto libro di madrigali (1605),
del basso~ontinuo, prentessa indispensabile all'impiego della voce
solista nell~ompagine di un madrigale polifonico. Per definizione,
le parti musicali d'una polifonia non potranno essere meno di due,
ma soltanto il canto d'una voce sola dà l'individuazione piena con
un personaggio (vero o fittizio): quindi soltanto il basso continuo
(seconda "voce") consente a Monteverdi di prendere alla lettera
il motto, cantato dal soprano solo, di un madrigale di Battista Gua-
rini, «T'amo, mia vita» (nel quinto libro):

soprano e b. c. alto, tenore, basso t

T'amo, mia vita


la mia cara vita
dolcemente mi dice,
T'amo, mia vita
e in questa sola
sl soave parola
par che trasformi lietamente il core
per farmene signore.
T'amo, mia vita
O voce,
T'amo, mia vita
voce di dolcezza e di diletto,
prendila tosto, Amore,
stampala nel mio petto,
spiri solo per lei l'anima mia:

a 5 voci
«T'amo, mia vita» la mia vita sia!
26 L'INIZIO DEL SECOLO

L'esigenza di un'articolazione musicale estensiva anziché inten-


siva, di un assetto formale di nàtura declamatoria, la ricerca
insomma di un'oratoria mu?icale che non si limiti a illustrare mt1si-
calmente le immagini verbali ma sappia graduare il discorso, è però
già riscontrabile nei madrigali polifonici senza basso continuo del
q_uarto e del quinto libro, editi nel 1603 e 1605 ma composti in
parte già prima del 1597. Non è casuale, intanto, la frequenza in
questi Ìibri di testi teatrali stralciati dai monologhi lamentosi del
Pastor fido (ma questa potrebbe, di per sé, essere null'altro che un'a-
desione alla moda musicale corrente, o all'interesse vivissimo delle
corti di Mantova e Ferrara per il dramma pastorale del Guarini).
La struttura stessa della musica madrigalesca monteverdiana è l'in-
dizio più sicuro che alla prassi combinatoria di un Gesualdo (illu-
strata qui al § 1) si aggiunge una dimensione costruttiva. In «Sì
ch'io vorrei morire» (quarto libro) si alternano gli episodi accordali,
cadenzanti, tonalmente fissi, agli episodi imitativi, concatenati di
dissonanze esclamative, e disposti in progressioni armoniche per
gradi (fino a 11 fasi!): quest'ultime si rispondono tra loro a spec-
chio, per moto ascensionale o discensionale, mentre gli episodi
accordali si rispondono circolarmente, il verso di chiusura essendo
l'esatta ripetizione poetica e musicale del verso d'apertura:
omofonia/cadenza imitazione/progressione
Sì ch'io vorrei morire,
ora ch'io bacio, Amore,
la bella bocca del mio amato core.
Ahi, cara e dolce lingua, /'
datemi tant'umore,
che di dolcezza in questo sen
[m'estingua! \i
Ahi, vita mia, a questo bianco seno
deh stringetemi fin ch'io
[vengo meno \i
a questo bianco seno
deh stringetemi fin ch'io
[vengo meno /'
a questo bianco seno
deh stringetemi fin ch'io
[vengo meno! \i
Ahi bocca, ahi baci, ahi
[lingua, torno .a dire: /'
sì ch'io \rorrei morire!
CLAUDIO MONTEVERDI, FIN O AL I 62o 27

In questo, nella articolazione declamatoria del discorso musi-


cale, nella concezione della forma basata sui procedimenti della cor-
rispondenza, dell'antifrasi, della ripetizione, dell'alternanza, della
ricapitolazione di sezioni musicalmente individuate, e non già nel-
1' audacia contrappuntistica o armonica consiste la novità prorom-
pente dei madrigali monteverdiani, almeno fin dal quarto libro.
Quando l!.Il teorico bolognese, il canonico Giovan Maria ~.~tusi1
tutore del comune senso della decenza polifonica, attaccò con pole-
mica violenta e tenace i. madrigali del quarto e quinto libro (L 'Ar-
tusi, overo Delle imperfezioni della moderna musica è del 1600, la
seconda parte del 1603, il Discorso secondo di Antonio Braccino
da Todi - pseudonimo dell' Artusi?·- del 1608), lo fece sul terreno
della liceità contrappuntistica di determinati procedimenti disso-
nanti che (isolati dal testo e dal cont66to) gli parvero orrendi sole-
cismi. Monteverdi replicò con una dichiarazione apparsa nella
stampa del 1605 (e glossata da suo fratello Giulio Cesare nell'edi-
zione, da lui curata, degli Scherzi musicali del 1607), in cui afferma
l'avvento di una «seconda pratica» compositiva che (a differen-
za dalla «prima», quella codificata dallo Zarlino) «per signora
dell'armonia [della musica] pone l'orazione [il testo]» e non più
viceversa. Ma giustificare la licenza contrappuntistièa mediante le
esigenze lliustrative del testo è argomentazione teorica e prassi com-
positiva antica quanto il madrigale, sicché a Monteverdi non rie-
sce difficile istituire, della propria eresia, una genealogia illustre
che risale fino a Cipriano de Rore (spicca, tra i testimoni della
«seconda pratica» menzionati dai Monteverdi, un folto gruppo di
ffil.liicisti di sangue nobile, contrapposto polemicamente alla "mec-
canica" dottrinarietà del canonico bolognese: il principe Gesualdo,
Emilio de' Cavalieri, il conte Fontanelli, il conte Girolamo Bran-
ciforte, il cavalier Del Turco, il gent'iluomo Pecci).
In realtà, la vera novità della «seconda pratica» monteverdiana,
che nessuno degli scrittori polemici poté ancora esplicitare (ancora
nel 1633 Monteverdi vagheggiava di scrivere un trattato musicale
che non vide però mai la luce), risiede semmai nella scoperta gra-
duale di nessi formali e nessi tonali che trascendono l'orizzonte
modale della polifonia madrigalesca e ne incrinano irrimediabil-
mente il valore totalizzante. Beninteso, quei nessi formali erano
(e non potevano non essere) mutuati dal testo letterario, ma da
una lettura del testo letterario e del suo assetto retorico che sco-
28 L'INIZIO DEL SECOLO

pre, oltre la dimensione dell'immagine poetica saliente e del con-


cetto arguto, la dimensione declamatoria, oratoria, eloquente. Un
esempio "di transizione" lo dà, anche sul piano della tecnica con-
trappuntistica, il singolare abito tonale della sestina Lagrime
d'amante nel sesto libro: esso si distingue per la ripercussione silla-
bica persistente di pochi accordi ripetuti a lungo, che si avvicen-
dano lentamente, in un periodare disteso che spesso trabocca da
un endecasillabo nel successivo e costituisce nella sua sintassi di
relazioni armoniche una forma musicale orientata tonalmente e lon-
tanissima dall'isolatezza delle immagini poetico-musicali d'un madri-
gale gesualdiano.
Se Monteverdi è dei primi ad adottare il basso continuo e l'im-
piego solistico delle voci nei madrigali polifonici, singolarmente
tardivo appare il suo accostamento alla monodia da camera: tanto
più sorprende questo ritardo in un autore precoce di musiche tea-
trali_ in stile recitativo (il suo Orfeo fu fatto a Mantov~__rii;L.!&Q],
l'Arianna nel 1608). Nel 1619, nel settimo libro di madrigali, inti-
tolato Concerto, finalmente compare anche la monodia. Il brano
d'esordio è un'invocazione poetica, «Tempro la cetra, e per cantar
gli onori» (sonetto d'apertura della Lira mariniana del 1614): le
quattro sezioni del testo sono declamate a voce sola sopra un basso
strofico e intercalate da un ritornello strumentale che, alla fine,
sfocia in un ballo. Un secondo sonetto del Marino, ma di soggetto
pastorale («A quest'olmo, a quest'ombre»), è trattato inr11odo quanto
mai diverso: sei voci, due violini, due «flauti o fifara», si alter-
nano in episodi descrittivi in combinaziopi sonore sempre variate.
Dopo questo duplice esordio, monodico e corale, il grosso del set-
timo libro è costituito di duetti (13), terzetti (4) e quartetti (2)
con basso continuo. I testi - del Guarini, del Chiabrera, del Marino,
del Tasso - sono indifferentemente madrigali e sonetti: Monte-
verdi ha disgregato il madrigale,.polifonico, ed ha però riconqui-
stato la sovranità del musicista nelle sue scelte poetiche anche dal
punto di vista formale. Allo stadio del settimo libro, ogni forma
poetica è passibile di essere messa in musica, in una musica capace,
in ogni istante, di rendere giustizia a qualsiasi configurazione let-
teraria.
La sezione conclusiva del libro illustra come meglio non si
potrebbe la versatilità degli stili. Basti elencarne il contenuto: un
madrigale del Guarini («Con che soavità, labbra odorate»), cantato
LA "CRISI" DEL SEICENTO 25

come un monologo appassionato a voce sola con l'accompagnamento


alterno di tre diversi gruppi strumentali (due chitarroni, clavicem-
balo, spinetta; tre parti di viola e basso continuo; tre parti di viola
da gamba e basso continuo) che suonano insieme soltanto nei punti
culminanti; una romanesca a due soprani su un'ottava rima di Ber-
nardo Tasso, nello stile florido di Sigismondo d'India; due «let-
tere amorose a voce sola in genere rappresentativo», ossia recita-
tivi di tipo teatrale (il testo della prima «lettera», L'amorosa amba-
sciatrice, è un idillio in versi sciolti di Claudio Achillini, del 1612;
l'altro è un idillio di autore non identificato - forse Ottavio Rinuc-
cini -, in settenari a rima baciata); due canzonette su versi misu-
rati (quaternari; settenari tronchi e quinari) concertate con due vio-
lini e basso e organizzate in una serie di variazioni strofiche (un
solo basso ripetuto identico di strofa in str0fa) intercalate da ritor-
nelli anch'essi variati secondo lo stesso principio; infine il ballo
Tirsi e Clori (Mantova, 1616), imbastito su tutte le varianti ritmi-
che possibili del senario, sia nel dialogo introduttivo fatto di reci-
t?,tivi e arie (l'invito al ballo) sia nel ballo vero e proprio (a 5 voci).
Per la molteplicità degli stili musicali e dei generi letterari messi
in opera, il mirabile Concerto del 1619 non è più un libro di madri-
gali nel senso corrente del termine. A volergli attribuire un signi-
ficato globale, complessivo, esso pare piuttosto un'antologia del
modernamente "musicabile", una campionatura delle risorse enormi
che l'avvento di una concezione oratoria della musica ha rivelato.

5 • LA "CRISI" DEL SEICENTO


~

Un'opera come il Concerto monteverdiano del 1619 contribui-


-i:ce in positivo a superare l'orizzonte luminoso ma uniforme del
madrigalismo polifonico, a disgregarne la circolarità centripeta. Non
meno decisiva dovette però essere, in negativo, l'incidenza sulla
vita musicale di eventi politici e sociali ed economici calamitosi
che, 1ntorno al 1620, assestano l'Europa del Seicento in una situa-
zione non effimera di crisi. Non è il caso di esaminare qui le cause
- talune remote, talaltre attuali - della crisi seicentesca: bastino
alcune considerazioni sui suoi effetti.
La crisi economica e finanziaria poté parere congiunturale, ma
si rivelò presto profonda. Negli anni 1619-22 l'economia subisce
30 L'INIZIO DEL SECOLO

un collasso di proporzioni europee (anzi, mondiali), che travolse


l'ind~stria manifatturiera e il commercio agricolo, il mercato mone-
tario e lo sviluppo demografico in forme gravi. La crisi e_ç_~nomica
coinvolge direttamente la produzione musicale a stampa: il tracoll_g
dell'editoria musicale italiana coincide con la scomparsa del madri-
gale polifonico, ed ambedue cadono nel terzo decennio del secolo
(cfr. §§ 1 e 12). Ma il tracollo non è certo soltanto commerciale:
nel collasso del madrigale si ripercuote anche la crisi politica.-e
sociale. Non si producono e non si stampano più madrigali perché
essi hanno cessato di servire, hanno perduto di senso. Crolla l'im-
magine cinquecentesca di un'armonia sociale da evocare musical-
mente, riflesso mondano dell'armonia delle sfere riproducibile nel
canto a tavolino di quattro, cinque voci concordi e ben intonate,
di quattro, cinque gentiluomini colti e in armonia con sé mede-
simi, che cantino con bell' artificio madrigali d'amore, concetti arguti
e invenzioni musicali ingegnose. Più concretamente, s'incrina l'as-
setto cinquecentesco della società civile incentrato sulla presa di
coscienza elitaria dell'aristocrazia, sulla vita di corte e d'accade-
mia, sull'esercizio di cultura e cavalleria come forme simboliche
di esercizio del potere e dell'autorità: e con questo assetto scom-
pare il terreno fertile del madrigale, l'ideale d'urbanità e di cortesia
che esso incarna. Nella conflittualità sociale e politica scatenata
dalla crisi economica del 1620, l'esercizio del potere e de~auto-
rità deve essere palese, immediato, di una simbolicità aggressiva,
lontanissima dall'esotericità cortese del madrigale.
Il livello della vita civile, già deterioratosi alla fine del secolo
precedente per una serie di carestie gravi, si degrada vieppiù: cre-
scc..tarbitrio dei piccoli funzionari perift;rici, l'inefficienza fiscale
dei governi, la rapacità del feudalesimo meridionale risorgente (di
cui il principe Gesualdo è un rappresentante! fulgido). Allo scon-
quasso politico (le lotte tra Savoia e Mantova per il possesso del
Monferrato - nonostante la rete fitta di matrimoni intrecciati che
dà adito a spettacoli musicali di rango, come l'Arianna e la Dafne
mantovane del 1608 - finiscono nel 1630 con l'invasione delle
truppe imperiali di Mantova) succede la calamità delle pestilenze
(disastrqsa quella ~imzoniana del 1630 nel -~ord d'Italia; catastro-
fica quella del Centro-Sud del 1656), la povertà endemica (che le
grandi istituzioni assistenziali religiose e civili organizzano ma certo
non eliminano). La Chiesa, mediante i propri organi inquisitoriali
LA "CRISI" DEL SEICENTO 31

e gli ordini religiosi, censura la scienza e la filosofia.,_ e produce cul-


tura di consumo per mezz'Italia. La cattolicità della Controriforma
appare zelante ed espansiva, ma vive in condizione d'assedio: la
guerra dei Trent'anni scoppia al Nord delle Alpi nel 1618, e al Nord
essi;i svolge, ma la partita è tra l'Europa cattolica (la Spagna, l' Au-
stria) e la protestante (la Germania, l'Inghilterra, la Scandin~Yi.a);
le ripercussioni culturali ed ideali della guerra sull'Italia sono forti,
amara la consapevolezza del declino della cattolicità. Venezia crolla
dal punto di vista industriale e commerciale ma continua però a
coltivare alacremente il proprio mito repubblicano, la propria altèra
opposizione a Roma, la propria libertà di stampa, d'opinione, di
pensiero, che ne fa una città di cultura di rango tuuora europeo:
ma prima ancora della fine della guerra dei Trent'anni, emarginata
irrimediabilmente dalla competizione mercantile, battuta dalla gio-
vane industria tessile e manifatturiera olandese, dagli armatori bri-
tannici, ridotta a centro più turistico che politico, Venezia ricade
in guerra con il Turco..J e il sentimento angoscioso dell'accerchia-
mento dura per il resto del secolo (fino alla pace di Carlowitz, 1699),
privo addirittura (almeno fino alla lega santa del 1683 con il papato,
l'impero, la Polonia) di quegli ideali di crociata anti-ottomana che
avevano fatto della battaglia di Lepanto (1571) un episodio eroico
e memorabile della cattolicità. Se questa è la condizione di Vene-
zia - che resta, a vario titolo, la città più straordinaria d'Italia per
la vita intellettuale e musicale e teatrale -, peggiore è quella del
resto d'Italia.
La crisi.profonda e traumatica del Seicento, che per alcune
nazioni giovani (come la Gran Bretag~) assume il significato di
crisi risolutiva e propulsiva verso l'economia capitalistica e la poli-
tica parlamentare, e per altre nazioni (come la Francia) porta allo
sbocco per ~tri versi ll?-oclerno dell'assolutismo regio e dell' econo-
mia di Stato, per l'Italia (e per la Spagna, l'impero, l'Est europeo)
assume 1a·-connotazfone negativa della stasi, del ristagno, della
depressione, e ne sancisce l'emarginazione - o quantomeno la mar-
ginalità 0 politica ed economica ed intellettuale. Tra il 1640 e il
1660, la rivoluzione inglese e la repubblica di Cromwell travolgono
l'assetto feudale d'Inghilterra e ne fanno una nazione moderna,
con cui la restaurazione monarchica dovrà fare i conti; dalla Fronda
nobiliare e borghese contro il potere centrale, Mazarino esce con
il consolidamento assoluto della sovranità regale e nazionale. In
32 L'INIZIO DEL SECOLO

ambedue i casi, l'organizzazione della vita civile e politica in una


grande capitale nazionale (dal 1660 Londra e Parigi sono le città
più popolose d'Europa) si porta appresso la creazione di una vita
culturale di società e di un'opinione pubblica in senso moderno~
Certo, anche il mondo spagnolo è scosso da rivolte e rivoluzioni:
ma per una insurrezione nazionale vittoriosa, quella portoghese
- il primo re del Portogallo moderno sarà Giovanni IV di Braganza,
collezionista di musica e musicista egli stesso-, quante falliscono!
La rivolta di Catalogna dura dal 1640 al 1652, le sollevazioni di
Palermo e Napoli del 1647 si consumano in pochi giorni, ma l'esito
fallimentare è lo stesso (nonostante il tempestivo intervento anti-
spagnolo della Francia). Eppure la stessa rivolta di Masaniello e
l'effimera repubblica napoletana che le tenne dietro non passarono
indarno: dopo la restaurazione spagnola, autoritaria e per forza di
cose populistica, l'assetto della vita sociale di Napoli (massima città
d'Europa prima, d'Italia dopo la peste del 1656, che la dimezzò)
si fa più "moderno", il giuoco delle classi vi è serrato, esplicito,
il conflitto tra il potere vicereale e l'aristocrazia (cittadina e feu-
dale) è mediato da un ceto "civile" di intellettuali e funzionari aperti
alle novità filosofiche di Francia e d'Inghilterra. Non è un caso
che il teatro d'opera, nato a Venezia in forme imprenditoriali vir-
tualmente capitalistiche, proprio a Napoli dopo il 165ò' si assesta
su un modello misto di patrocinio sovrano e impresa pubblica appog-
giata alle organizzazioni assistenziali (l'ospedale degli Incurabili pro-
prietario del teatro pubblico) che diventa poi esemplare per tanti
teatri d'opera d'Italia e d'Europa.
Dal punto di vista economico e sociale e politico decollano le
nazioni come l'Olanda e l'Inghilterra dove un'a&'icoltura fortf sor-
regge un'industria giovane e mercantile, noh corporativa e obs9-
leta come quella dei paesi mediterranei dedita alla produzione di
merce di lusso (di un lusso tanto più ostentato quanto più il mer-
cato voluttuario di fatto si restringe). Dal punto di vista culturale
e intellettuale le cose non vanno troppo diversamente: lo studio
tecnologicamente finalizzato e non più esclusivamente speculativo
delle scienze naturali, promosso da Bacone fin dall' Advancement
o/ learning (1605), nell'Inghilterra della Restaurazione si istituzio-
nalizza nella Royal Society; in Italia, nel paese dove neppure un
papa umanista come Urbano VIII sa evitare di mandare al pro-
cesso Galileo per il suo Dialogo sui massimi sistemi (1632), le uni-
LA "CRISI" DEL SEICENTO 33

che accademie scientifiche di rilievo, quella romana dei Lincei


(1603) e quella fiorentina del Cimento (1657), si sciolgono l'una
dopo 27, l'altra dopo 10 anni. Alla libertà di pensiero dei paesi
nordici e scandinavi (dal 1628 alla.morte, 1650, Descartes lavora
e pubblica a Amsterdam e poi a Stoccolma, anziché a Parigi), cor-
risponde nei paesi cattolici il libertinismo, la polemica (spesso segreta
e cifrata, sempre rigorosamente elitaria) degli intellettuali contro
la Chiesa e la religione (che i libertini, antimonarchici ma anche
antipopolari, giustificano però come utile impostura, come efficace
strumento per governare la plebe tumultuaria e superstiziosa). Sono
proprio dei letterati libertini, gli accademici Incogniti di Venezia,
i primi "zelatori" (se non i veri patrocinatori) del teatro d'opera
venezian~ negli anni Quaranta (cfr. § 21). Dall'Inghilterra, dalle
tradizioni magiche ed ermetiche coltivate nell'età aurea di Elisa-
betta I, giungono in Germania con le nozze della figlia di Giacomo
I e dell'elettore palatino (1613) le speranze di poter fondare sullo
studio delle scienze e della magia naturale l'avvento di un'età di
pace, di armonia religiosa e intellettuale (svincolata dalla conflit-
tualità "politica" del papato, dal fanatismo rapace dei gesuiti, dallo
zelo moralistico dei protestanti). La musica vi avrebbe manifestato
appieno il proprio potere magico di mediatrice tra il macro e il
microcosmo, l'armonia del mondo e l'armonia degli uomini: l' Utrius-
que cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque tech-
nica historia dell'inglese Robert Fludd, stampata nel Palatinato nel
1617, ne è la chiave erudita, volutamente enciclopedica (il fronti-
spizio dell'opera materializza l'armonia universale nell'immagine
di un uomo iscritto nel duplice giro concentrico degli umori cor-
porei e dei corpi celesti; un frontispizio interno illustra invece il
Templum musicae, edificio mirabile e fantastico che contiene in
sé tutti gli attributi della «musica practica»). La guerra dei Tren-
t'anni travolge l'elettore palatino, protestante, e ricaccia quell'i-
deologia illuministica e mistica di provenienza inglese nella clan-
destinità del movimento dei Rosa-Croce: la proclamazione pub-
blica della magia naturale si esilia nelle profezie iniziatiche, nella
filantrqiia settaria propagandata sotterraneamente. Il movimento
religioso e intellettuale rosacrociano di Fludd e soci contagia la vita
intellettuale di tutta la Germania: ma nella clandestinità la mu-
sica, strumento inefficace di un'armonia universale patentemente
latitante, è un geroglifico ermetico, inerte, come negli emblemi
34 L' I NJZJO DEL SECOLO

alchemico-musicali dell'Atalanta fugiens del rosacrociano Michael


Maier (1617), impenetrabili.
La crisi del Seicento, apertasi tragicamente con la gru:rra-.de.i
Trent'anni e la depressione economica del 1619-22, si ritnargina
nella seconda metà del secolo. Più che dal libertinismo palese degli
Incogniti o dal magismo occulto dei Rosa-Croce, l'arte musicale
(come la figurativa e l'architettonica) trae vantaggio dalla forte
richiesta di "autorità" che la crisi politica e sociale suscita dapper-
tutto in Europa. La ritrattistica regale di Rubens e Velazquez o
quella patrizia di Frans Hals e Rembrandt, la classicità didascalica
di Poussin o quella allegorica di Pietro da Cortona, l'architettura
edificante e gesticolante di Bernini e Borromini o quella solenne
e maestosa di Hardouin-Mansart e Christopher Wren sono, sotto
il profilo politico e sociale, altrettante proclamazioni pubbliche di
autorità - intellettuale o morale o economica o politica. A mag-
gior ragione la musica, esercizio artistico socialmente prodotto e
consumato quant'altri mai, diventa un'arte pubblica, strumento
dimostrativo favorito della dimensione autorevole (o autoritaria)
che l'esercizio politico o religioso del potere invoca. Nell'assetto
conflittuale del Seicento europeo, al principe musicista, al nobile
dilettante, al letterato melomane che privatamente cantano (o si
fanno cantare) madrigali di fattura artificiosa subentra l'impiego
esplicitamente ideologico della musica (cfr. § 11), lo sfruttamento
attivo di quella predisposizione oratoria che già il settimo libro dei
madrigali di Monteverdi le aveva scoperto. Al mercato omogeneo
e autogeno della polifonia cinquecentesca subentra la committenza
concorrenziale e dimostrativa delle grandi organizzazioni statali
e religiose di rappresentanza e propaganda (le corti, le corporazioni,
i municipi, le basiliche, le cattedrali, gli ordini). La crisi, insomma,
nella sfera delle attività musicali equivale a una vera e propria rivo-
luzione: disgregazione di un ordine vecchio e invenzione di pro-
cessi sociali nuovi.

6• "CONCERTO"

Un altro ordine di considerazioni, affatto diverso, impone il


titolo stesso del settimo libro di madrigali di Monteverdi: Concerto.
Qui il nome "concerto" è utilizzato con assolutezza categorica: q~asi
"CONCERTO" 35

provocatoria, se si pensa che il sostantivo e le forme verbali e par-


ticipiali da esso derivate ("concertare", "concertato", "concer-
tante") è di quelli che più frequentemente ricorrono nella termi-
nologia musicale seicentesca.
Per la verità, non si tratta, in origine, di un termine tecnico
(come invece la storia settecentesca della parola tenderebbe a farci
credere). "Concerto" deriva dal latino con°certare, ossia "lottare
insieme", "gareggiare insieme": ma nell'uso volgare corrente, all'i-
dea di "collaborazione militante" si è sostituita quella di "concor-
dare", "mettere d'accordo". Beninteso, tanto "concertare" quanto
"concordare" fanno risuonare una forte allusione musicale macro-
cosmica: il riferimento alla accordatura, alla esatta intonazione delle
"corde" di due "cuori", altro non è che il riflesso microcosmico
dell'idea dell'armonia universale, con la quale è necessario cercare
di tenersi in accordo, idea comunque implicita nella famiglia ver-
bale (con )-certare.
"Concerto", in musica, sta ad indicare, fin dal secolo XVI, una
aggregazione armoniosa, un gruppo purchessia numeroso e ben
accordato di esecutori e di parti musicali (voci e strumenti), ed è sup-
pergiù sinonimo di «concento» (come dichiara Ercole Bottrigari nel
dialogo Il Desiderio overo De' concerti di varii strumenti musicali,
1594). Si dirà «un concerto di voci in musica», «un concerto di
viole», «sanare in concerto», «strumento da concerto» (e sarà spesso
uno strumento d'accompagnamento ad accordatura determinata,
(embalo o organo o chitarrone o liuto), eccetera; nelle edizioni musi-
cali si leggono diciture del tipo Vespro della Beata Vergine, da con-
certo, composto sopra canti fermi, sex vocibus, et sex instrumentis
(Monteverdi, 1610); nella partitura dell'Oefeo lo stesso Monteverdi
dice: «Questo canto fu concertato al suono de tutti gli stromenti».
La parola ha dunque un senso primario riferito alla prassi del-
1' esecuzione d'insieme, perlopiù con partecipazione strumentale.
Più specificamente, potrà indicare talvolta un corpo di strumenti
all'interno di una formazione mista vocale e strumentale: e in tal
caso "concerto" si contrappone a "cappella" (esclusivamente
vocale), come nelle Litanie e motetti da concerto e da capella del
bolognese Girolamo Giacobbi (1618). Alla fine del Seicento, "con-
certo grosso", più che un genere musicale definito, indica un gruppo
orchestrale numericamente nutrito, al quale si oppone un "con-
certino" numericamente scarso (di pochi solisti). Si tratta comun-
36 L'INIZIO DEL SECOLO

que sempre, in primo luogo, di un significato genericamente rife-


rito alla compagine sonora, alla distribuzione delle parti, e dun-
que non d'una denominazione morfologica. Basti rammentare che
proprio la coppia di termini "concerto grosso / concertino" fa la
sua frequente apparizione soprattutto nelle cantate e ~egli orato-
rii riccamente strumentati di compositori romani degli anni Set-
tanta, come Alessandro Stradella, e non in brani strumentali o
orchestrali.
Per un'ovvia estensione, però, la parola "concetto" serve ben
presto, oltre che a designare la distribuzione vocale-strumentale
d'un'esecuzione musicale, a denominare un brano di musica d'in-
sieme in quanto tale (e indipendentemente dalla sua costituzione,
struttura, forma, eccetera). Cosl, i Concerti di Andrea e di Gio.
Gabrieli a 6-16 voci (1587) contengono in effetti «musica di chiesa,
madrigali, et altro, per voci e strumenti musicali»: musica d'in-
sieme di vario genere e varia natura. Non in Italia bensl in Ger-
mania avvengono però i primi tentativi di definire sistematicamente
il termine "concerto" E di questi tentativi furono parzialmente
corresponsabili i davvero capitali tre libri di Concerti ecclesiastici
a 1-4 voci e basso continuo del Viadana, che ebbero in Germania
una fortuna non meno ragguardevole che in Italia (almeno 8 edi-
zioni italiane del solo primo libro dal 1602 al 1612; quattro edi-
zioni tedesche dei tre libri dal 1609 al 1626, e un quarto libro
apparso a Francoforte nel 1615: tanto quanto bastava per riem-
pire anche le più periferiche ed esigue Kantoreien, cattoliche e no,
della provincia germanica). Nell'intento di dedurre dalle denomi-
nazioni correnti un'attendibile nomenclatura dei generi musicali,
Michael Praetorius (nel vol. III del suo Syntagma musicum, Wol-
fenbiittel, 1619) deve fare i conti con i concerti viadanesi: cosl,
nella classificazione del Praetorius (adottata poi dai suoi succes-
sori tedeschi) il termine "concerto" finisce per significare supper-
giù «mottetto latino per poche voci solistiche e basso continuo,
con o senza strumenti», come nel caso appunto dei Concerti del
Viadana. Ma il Praetorius conosce anche le musiche nella tradi-
zione policorale dei Gabrieli, e prevede dunque anche una signifi-
cazione alternativa di "concerto" come «mottetto latino a più cori».
Lo stesso Praetorius, consapevole della flagrante contraddizione,
tenta di piegare a coerenza terminologica e nomenclatoria una parola
italiana affatto generica (e dai musicisti genericamente impiegata)
"CONCERTO" 37

come "concerto", e a questo scopo attinge al significato etimolo-


gico originario di con-certare, invero assai remoto. Sicché dall'im-
presa (concettualmente vana) di mediare lo scompenso fra un'ac-
cezione del tutto prammatica (quella italiana) e una del tutto nor-
mativa (quella germanica) dei termini musicali in uso nasce la fin
troppo abusata definizione musicologica del "principio concertante"
come "combattimento", "certame" tra voci musicali antagonisti-
che, "gareggiamento" tra uno o più solisti e uno o più complessi
(vocali o strumentali), "competizione" di elementi formali e stili-
stici concorrenti. Certo, l'etimologia classica di con-certare a Prae-
torius serve bene per spiegare la denominazione di "concerto" data
tanto ai mottetti a due o più cori quanto a quelli per poche voci
solistiche: ma essa imprime alla significazione corrente di "con-
certare" ("concordare", "metter di concerto") una connotazione
combattiva e agonistica che le manca del tutto nell'uso italiano della
parola, e nella realtà delle pagine di musica "concertata" (Stori-
camente e linguisticamente insostenibile è poi una proposta recente
di etimologia, da conserere, che continua tuttavia a circolare qua
e là; dr. vol. VI, § 12.)
Chiarito l'equivoco etimologico-terminologico in cui il Praeto-
rius coinvolse il concetto di "concerto", resta pur sempre vero che,
sebbene senza connotazioni agonistiche, "concertare" (nell' acce-
zione corrente, non terminologica, di "concordare", "metter d' ac-
cordo") presuppone una condizione iniziale di eterogeneità, di dif-
formità, di estraneità delle cose che occorre "concertare" tra di
loro. In altre parole, si fanno "concertare", si coordinano, si armo-
nizzano vicendevolmente elementi che non si coordinerebbero né
armonizzerebbero spontaneamente o naturalmente: voci con stru-
menti, solisti con ripienisti, un coro con un altro, una compagine
strumentale nutrita con un gruppo di solisti, ma anche uno stile
di canto con un altro, uno stile strumentale danzereccio con un
segmento di recitativo o con un episodio madrigalesco, eccetera.
L'unione, la concordia, la collaborazione militante di cose musi-
cali diverse e disparate ma tra di loro "concertate" rappresenta
una procurata convergenza di propensioni naturalmente divergenti,
un concordato contemperamento d'una iniziale disparità di predi-
sposizioni. Il concetto di "çppç~rto ", pertanto, presuppone la plu-
ralità, la molteplicità, la diversitàdelle componenti d'un'esecuzione,
o d'una composizione musicale. In questo senso l'impiego del.nome
38 L'INIZIO DEL SECOLO

"concerto" nell'intitolazione del settimo libro di madrigali di Mon-


teverdi è altamente sintomatico della varietà, della mesticanza, . deMa
pluralità di ingredienti musicali che Monteverdi fa, a proprio arbi-
trio, vicendevolmente "concertare". Per dirla negativamente: l'im-
piego del concetto di "concerto" trovava legittimazione scarsis-
sima in uno stile vocale e compositivo come quello della pervasiva
polifonia vocale cinquecentesca, intenzionalmente omogeneo, com-
patto, equilibrato (nonostante l'alto grado di articolazione che esso
raggiunge nelle più sottili manifestazioni seicentesche del madri-
gale polifonico). La trova invece, quella legittimazione, nell'orga-
nismo composito, scisso, discontinuo della musica seicentesca, nella
sua pluralità stilistica, nella sua costituzione aperta e centrifuga
(cfr. § 8). Del resto, la stessa ambiguità d'una parola sospesa tra
una siffatta significazione generica ma profonda e la definizione
terrninologicamente specifica ma riduttiva di uno o più generi musi-
cali è emblematica della condizione critica di tutto il secolo.

7. CLAUDIO MONTEVERDI, DOPO IL 1620

Dopo il Concerto del 1619, per quasi vent'anni, Monteverdi


non pubblicò più nessun libro di "madrigali" ··Nel 1620-22 riap-
parve in stampa per l'ultima volta la serie completa dei suoi madri-
gali a 5 voci (libro I-VI}: dopo quella data, a poco a poco, per que-
sto genere di musica vennero a mancare, con la crisi economica
e culturale, il mercato editoriale e il pubblico. E comunque, dcp.o
il 1620, gli interessi compositivi di Monteverdi prendono indirizzi
disparati, molteplici.
La distanza che separa il settimo dall'ottavo libro (1638) è però
una distanza colma di attività. Maestro di cappella a San Marco,
Monteverdi dirige spesso gli intrattenimenti musicali nelle case
patI,!Zie di Venezia, o presso gli ambasciatori stranieri. Compone
~ sacra e profana in abbondanza: solo una parte va a sedi-
mentarsi nelle due ultime grandi raccolte autentiche, l'ottavo libro
dei madrigali e la Selva morale (1641); di altri brani si imposses-
,çann gli editori veneziani, per metterli in pubblicazioni miscel-
l~ee, o per farne dei "libri" monteverdiani di comodo (gli Scherzi
mum:alì cioè arie e madrigali a 1 e 2 voci, del 1632; la Messa a
4 voci e salmi a 1-8 voci concertati, e parte da cappella, apparsi nel
CLAUDIO MONTEV EROI, DOPO IL I 62O 39

1650 a cura di Francesco Cavalli, che di Monteverdi era stato disce-


polo; i Madrigali e canzonette a 2 e 3 voci, del 1651). Delle musiche
qui raccolte, gli unici madrigali a 5 voci ancor remotamente assimi-
labili alla forma standard del genere sono tre madrigali spirituali
posti ad apertura della Selva morale e spirituale: di questi tre testi, sol-
tanto il terzo è un madrigale vero e proprio (di argomento sacro), di
Angelo Grillo; gli altri sono del Petrarca (il sonetto d'esordio del
Canzoniere,« Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono», e una serie di
terzine del Trionfo della morte), e testimoniano una volta ancora il
grado di arbitrio raggiunto da Monteverdi nelle proprie scelte poe-
tiche, svincolate intieramente da consuetudini formali e stilistiche.
In questi anni, oltre che per le chiese e i palazzi di Venezia,
MÒnteverdi compone molta musica scenica per la corte di Man-
tova e anche per Parma e Piacenza. Di questa produzione non resta
pressoché nulla, all'infuori della testimonianza delle sue lettere
(inviate in gran parte al segretario gonzaghesco Alessandro Strig-
gio jr, il librettista dell'Oefeo). Spesso le lettere trattano non già
di questioni musicali, bensl di questioni amministrative, della len-
tezza e renitenza della tesoreria mantovana ad erogare gli arretra-
tissimi arretrati della pensione dovuta a Monteverdi. Capitale è
la lettera del 13 marzo 1620, con la quale Monteverdi rifiuta argo-
mentatamente le pressanti sollecitazioni ducali ad accettare di tor-
nare a Mantova per assumervi il posto di maestro di cappella di
corte. Monteverdi si rivela pienamente conscio del cambiamento
di qualità che (oltre il cospicuo miglioramento di retribuzione) ha
comportato per lui il passaggio al servizio della Repubblica veneta:
sa che lo Stato veneto lo onora e retribuisce più di qualunque suo
predecessore (Willaert, Rore, Zarlino), ma coglie anche la diffe-
renza che corre tra la professionalità del sistema di assunzioni con-
corsuali per l'accesso alla cappella marciana (vincolato all'assenso
del maestro di cappella) e l'arbitrario, insindacabile patrocinio d'un
sovrano; quella che corre fra la sua posizione di funzionario sta-
tale sicuro della propria carica altamente rappresentativa e la inaf-
fidabilità dei favori d'una corte soggetta alle imprevedibili vicende
della dinastia non meno che agli abusi della tesoreria; quella che
corre tra una città ricca di stampatori musicali e di istituzioni reli-
giose e laiche e diplomatiche potenti, tutte buone compratrici di
servigi musicali, e una città tutta incentrata nello stretto circolo
d'una corte ducale. La consapevolezza di siffatte differenze è tanto
40 L' IN !ZIO DEL SECOLO

più degna di nota se la si paragona a quella, altrettanto disincantata


e non meno vera, di un Galileo Galilei che, dopotutto, abbandona
l'insegnamento universitario veneto per ricoverarsi nella tranquilla,
piena dedizione alle ricerche che solo l'autorità e la protezione di
un principe illuminato (il granduca di Toscana), non già la pub-
blica professione accademica in una repubblica, gli può generosa-
mente garantire. Quel che per il musicista è una conquista gravida
di conseguenze (è diventato il fornitore di un servizio destinato
al pubblico: la rappresentazione sonora d'un'autorità, d'una cul-
tura dominanti), è per il filosofo, per lo scienziato sperimentale,
assoggettamento alla legge non scritta ma vincolante che « per cavar
utile dal publico bisogna satisfare al publico », mentre la comodità
dell' «ozio» studioso non si può « sperar da altri che da un principe
assoluto».
Ma le lettere monteverdiane sono preziose anche perché con-
sentono di penetrare, all'occasione, alcuni principii di poetica che
Monteverdi segue nella composizione. In mancanza del trattato
che Monteverdi disse di voler scrivere per replicare all' Artusi, let-
tere come quella del 9 dicembre 1616 a proposito di un testo di
intermedi scenici che il musicista non si sentiva di musicare assu-
mono il valore di dichiarazioni poetiche impegnative. Lo preoc-
cupa, nel soggetto impostogli (una «favola maritima delle nozze
di Tetide»), l'eccessiva «bassezza» dell'elemento acqueo, che richie-
derebbe (per essere verosimile) sonorità «basse», di scarsa effica-
cia fonica:
dirò dunque ... prima in genere, che la musica vuol essere padrona del-
1' aria e non solamente dell'acqua: voglio dire, in mio linguaggio, che li
concerti descritti in tal favola sono tutti bassi e vicini alla terra, manca-
mento grandissimo alle belle armonie, poiché le armonie saranno poste
ne' fiati più grossi dell'aria della scena, faticose da essere da tutti udite
e, dentro alla scena, da essere concertate, ... ché, per tal difetto, in loco
d'un chitarrone ce ne vorrà tre, in loco d'un'arpa ce ne vorrebbe tre,
e va discorrendo, et in loco d'una voce delicata del cantore ce ne vor-
rebbe una sforzata; oltre di ciò la imitazione propria del parlare dovrebbe,
a mio giudizio, essere appoggiata sopra ad istrumenti da fiato piuttosto
che sopra ad istrumenti da corde e delicati, poiché le armonie de' tritoni
et altri dèi marini crederò che siano sopra a tromboni e cornetti, e non
sopra a cetere o clavicembani et arpe, poiché, questa operazione essendo
maritima, per conseguenza è fuori della città, e Platone insegna che cithara
debet esse in civitate, et thibia in agris, sicché o che le delicate saranno
improprie, o le proprie non delicate.
CLAUDIO MONTEVERDI, DOPO IL 1620 41

L'impiego di strumenti a fiato come attributo sonoro delle divi-


nità marittime è del tutto tradizionale, fa parte di una "iconogra-
fia sonora" di ascendenza cinquecentesca tuttora vincolante per
il compositore (cfr. § 20). Peggiori sono i problemi che procura
l'imitazione del canto dei venti:
Oltre di ciò ho visto gli interlocutori essere venti, amoretti, zeffi-
retti e sirene, e per conseguenza molti soprani faranno di bisogno; e s'ag-
giunge di più che li venti hanno a cantare, cioè li zeffiri e li boreali. Come
potrò io imitare il parlar de' venti, se non parlano? E come potrò io
con il mezzo loro movere li affetti? Mosse l'Arianna per essere donna,
e mosse parimente Orfeo per essere omo, e non vento. Le armonie imi-
tano, loro medesime e non con l'orazione, e li strepiti de' venti, et il belar
delle pecore, il nitrire de' cavalli e va discorrendo, ma non imitano il
parlar de' venti, che non si trova.

L'assetto metrico e prosodico dei balli è poco adeguato, ma soprat-


tutto il drammetto non commuove il musicista, che di riflesso non
sa come commuoverà a sua volta gli uditori:
Li balli poi che per entro a tal favola sono sparsi non hanno piedi
da ballo. La favola tutta poi, quanto alla mia non poca ignoranza, non
sento che punto mi mova, e con difficoltà anco la intendo, né sento che
lei mi porta con ordine naturale ad un fine che mi mova. L'Arianna mi
porta ad un giusto lamento, e l'Orfeo ad una giusta preghiera, ma questa
non so a qual fine; sicché che vuole Vostra Signoria Illustrissima che la
musica possa in questa?

Tuttavia, a stemperare la solennità di queste dichiarazioni prese


sempre molto alla lettera dai musicologi moderni, sarà bene met-
ter in conto un pizzico di ironia, se è vero che per finire Monte-
verdi consiglia al suo corrispondente mantovano di far comporre
a ciascun cantante (l'Adriana Basile, Francesco Rasi, eccetera) la
musica della propria parte di sirena o deità: «ché, se fosse cosa
questa che tendesse ad un sol fine, come l'Arianna e l'Orfeo, ben
sì ci vorrebbe anco una sol mano, cioè che tendesse al parlar can-
tando, e non come questa al cantar parlando». Anche il calembour
finale, vezzo arguto, sembra ben più giocoso che non programma-
tico, come il commento sull'opportunità di una canzone da ballo
conclusiva (6 gennaio 1617):
qui manca una canzonetta in lode de' Serenissimi Prencipi sposi, l'ar-
monia della quale possa essere udita in cielo et in terra de la scena, et
42 L'INIZIO DEL SECOLO

alla quale possano nobili ballarini far nobil danza, ché cosi nobil chiusa
mi par convenire a cosi nobile vista.

Testimonianza più significativa della poetica monteverdiana la


dà la lettera del 7 maggio 1627 a proposito di un soggetto dram-
matico di bizzarra invenzione, La finta pazza Licori di Giulio Strozzi.
Proprio nella figura della protagonista, negli accessi di (finta) paz-
zia, si manifesta - per difetto - la distinzione capitale tra l'imita-
zione della parola singola e la configurazione oratoria del discorso
musicale.

La parte di Licori, per essere molto varia, non doverà cadere in mano
di donna che or non si facci omo et or donna con vivi gesti e separate
passioni, perché, la imitazione di tal finta pazzia dovendo aver la consi-
derazione solo che nel presente, e non nel passato e nel futuro (per con-
seguenza la imitazione dovendo aver il suo appoggiamento sopra alla parola
e non sopra al senso della clausola), quando dunque parlerà di guerra,
bisognerà imitar di guerra, quando di pace, pace, quando di morte, morte,
e va seguitando; e perché le transformazioni si faranno in brevissimo spa-
zio e le imitazioni, chi dunque averà da dire tal principalissima parte,
che move al riso et alla compassione, sarà necessario che tal donna lasci
da parte ogni altra imitazione che la presentanea che gli somministrerà
la parola che averà da dire.

In altre parole: proprio la vivida imitazione musicale della parola


disciolta dal contesto (ossia considerata «solo che nel presente e
non nel passato e nel futuro») sarà il sintomo d'una pazzia che obli-
tera i nessi sintattici e retorici dell'elocuzione verbale e musicale,
quei nessi che soli darebbero alle parole senso verbale e musicale
compiuto (è, appunto, una pazzia che si appoggia «sopra alla parola
e non sopra al senso della clausola», della frase). Per converso, certi
intermedi scenici di Claudio Achillini, fatti a Parma nel 1628, a
Monteverdi riescono «con facilità perché sono quasi tutti solilo-
qui»: di tutte le forme di recitazione cantata quella del monologo
è la più ovvia e collaudata, e rappresenta per cosl dire una condi-
zione di "normalità" oratoria e musicale, già ampiamente speri-
mentata nell'Arianna e nell'Oifeo e, inoltre, in tantissimi madri-
gali che sono appunto intessuti come minuscoli monologhi. Non
per nulla, il primo dei tre capitoli del trattato concepito da Mon-
teverdi e mai scritto avrebbe dovuto vertere «intorno all'orazione»
(gli altri due intorno all' «armonia» e alla «ritmica»), vera base della
CLAUDIO MONTEVERDI, DOPO IL 1620 43

nuova musica seicentesca, teatrale ed oratoria (di fatto o in potenza)


sempre.
Più che mai nella prefazione all'ottavo libro, i Madrigali guer-
rieri et amorosi, il quadro di riferimento concettuale è quello del-
1' arte oratoria più che non dell'arte musicale. Monteverdi muove
dalla constatazione che ai tre registri stilistici identificabili nell' af-
fetto dell'Ira, della Temperanza e dell'Umiltà (o Supplicazione) cor-
rispondono in musica solo il genere «temperato» e il genere «molle»,
mancando invece un genere «concitato» che sia capace di rappre-
sentare musicalmente gli affetti iracondi e guerreschi. I Madrigali
guerrieri contengono quindi la manifestazione di questo nuovo
«genere concitato»; alla sua definizione oratoria corrisponde l'in-
venzione ritmica di suddividere la semibreve in 16 semicrome ribat-
tute che, affidate a un corpo di strumenti, suscitano l'effetto ter-
ribile e fremente d'una concitazione battagliera. L'applicazione di
questa novità ritmico-rappresentativa al testo del Combattimento
di Tancredi e Clorinda, tenebroso e romantico (16 ottave dalla Geru-
salemme liberata del Tasso), è davvero impressionante: mentre il
tenore recita il Testo, quattro viole e il cembalo imitano con la
ripercussione ritmata di pochi accordi perfetti prima il «moto del
cavallo», poi la battaglia sanguinosa, l'impeto rovinoso dei due not-
turni guerrieri (ricorrendo occasionalmente anche al pizzicato). In
scena, Tancredi e Clorinda mimano gli eventi narrati dal Testo,
e cantano le poche interlocuzioni in prima persona, in ispecie il
lamento della guerriera morente, dalla declamazione lacerata e
affranta: «Amico, ... hai vinto: ... io ti perdon ... perdona / tu
ancora, ... al corpo no, ... che nulla pave, ... » (si noti la frantuma-
zione ansimante dei due endecasillabi). Il Combattimento fu rap-
presentato nel 1624 in casa di un patrizio veneziano, «in tempo
di carnevale per passatempo di veglia, alla presenza di tutta la
nobiltà, la quale restò mossa dall'affetto di compassione in maniera
che quasi fu per gettar lacrime: e ne diede applauso per essere stato
canto di genere non più visto né udito». L'effetto novissimo, ecci-
tante del "genere concitato", e in particolare del suo ritmo di semi-
crome ripercosse, dovette parere enorme quando il Combattimento
usd in stampa: Heinrich Schiitz - uno che il Combattimento doveva
conoscerlo bene: glien'è addirittura stata attribuita una traduzione
in tedesco - fa risuonare il "genere concitato", col fremito dei violini
e la sillabazione esagitata delle voci, proprio alle parole « Singet
44 L'INIZIO DEL SECOLO

dem Herrn ein neues Lied, macht es gut auf Saitenspiel mit Schalle»
(«cantate a1 Signore un cantico nuovo; fatelo risuonare possente
ai vostri archi»), nell'ultima delle Symphoniae sacrae del 1647. Al
terrore e alla commozione dei due cavalieri tasseschi corrisponde
l'esaltazione formidabile, la biblica terribilità del salmo tedesco.
Intorno al Combattimento Monteverdi organizzò la prima metà
dell'ottavo libro, i Madrigali guerrieri: parallelamente sono disposti
i Madrigali amorosi. Nella tabella di pagina 45 le due serie sono
appaiate. Il giuoco delle corrispondenze speculari è intrecciato: all'e-
sordio delle Rime del Marino («Altri canti di Marte lo canto
Amor») è contrapposto un sonetto d'esordio di significato omologo
ed opposto; duetti e terzetti si corrispondono (ma forme poetiche e
trattamento musicale sono assai eterogenei); brani in genere rappre-
sentativo, da camera e da corte, si affrontano. Alcuni testi com-
paiono tra i madrigali "guerrieri" solo per l'uso occasionale di imma-
gini belliche e del "genere concitato" (cosl la similitudine «guerra è
il mio stato» nel sonetto petrarchesco «Or che 'l ciel», rappresenta-
zione musicale invero concitata della sofferenza amorosa); talvolta
la metafora dell'Amore guerriero è presa allegramente in giro, come
nel terzetto di Giulio Strozzi, pieno di beffarde incitazioni marziali
e cavalleresche («vuol degli occhi attaccar il baluardo ... Sù presto ...
Tutti a cavallo», oppure «a gambe, a salvo, chi si può salvare»),
oppure offre il pretesto al virtuosismo corale e alla ricerca di effetti
fonetici peculiari (come, in «Ardo, ardo, avvampo», la ripetizione
ciangottante e rapida del grido «acqua, acqua, acqua, ... »).
In generale, in ambedue le metà del libro, è assoluta la libertà
(il libero arbitrio, si vorrebbe dire) con cui Monteverdi ricorre a
tutte le risorse formali e inventive a sua disposizione, la disatten-
zione per l'eloquio «temperato», la contrapposizione sconcertante
e commovente del genere «molle» al «concitato», perfino il loro
impiego simultaneo (come in «Or che 'l ciel», là dove i due tenori
cantano in tono supplichevole il verso 6, «e chi mi sface sempre
m'è innanzi...», mentre gli altri urlano in quinte e ottave parallele
il verso 5, «veglio, penso, ardo, piango»). I legami di genere e stile
delle forme poetiche, vincolanti nel madrigale polifonico, sono sva-
lutati: un'arietta strofica di settenari e ottonari come «Non avea
Febo ancora», del Rinuccini, può anche diventare un'ideale aria
d'opera, un monologo che ignora del tutto la propria costituzione
strofica originaria (cfr. § 23).
MADRIGALI GUERRIERI MADRIGALI AMOROSI

«Altri canti d'Amor tenero arciero» « Altri canti di Marte e di sua schiera»
sonetto [6 voci e str.J sonetto; MARINo [6 voci e str.]
«Or che '! ciel e la terra e 'I vento tace» « Vago auge/letto che cantando vai»
sonetto; PETRARCA [6 voci e str .] sonetto; PETRARCA [6-7 voci e str.]
«Gira il nemico insidioso Amore» «Mentre vaga angioletta»
canzonetta; STROZZI [3 voci e b.c.] madrigale; GuARINI [2 voci e b.c.]
«Se vittorie sì belle» «Ardo, e scoprir, ahi lasso, io non ardisco»
madrigale; TESTI [2 voci e b.c.] ottave [2 voci e b.c.]
«Armato il cor d'adamantina fede» «O sia tranquillo il mar, o pien d'orgoglio»
madrigale [2 voci e b.c.] sonetto [2 voci e b.c.]
«Ogni amante è guerrier; nel suo gran regno» «Ninfa che scalza il piede e sciolta il crine»
elegia; RiNl.JCCINI (da Ovidio) [2, l, 3 voci e b.c.] canzonetta [1, 2, 3 voci e b.c.] Cì
,...
«Dolcissimo uscignolo >
e::
«Ardo, ardo, avvampo, mi struggo, accorrete» madrigale; GuARINI [5 voci, cantato alla francese] o
sonetto [8 voci e str.J o
{ «Chi vuol aver felice e lieto il core»
madrigale; GUARINI [5 voci, cantato alla francese] ~
o
Combattimento di Tancredi e Clorinda «Non avea Febo ancora» (Lamento della ninfa) z
>-l
ottave; T Asso [in genere rappresentativo] canzonetta; RrnuccINI [in genere rappresentativo] "'<
«Perché ten fuggi, o Fi//ide» "'
canzonetta [3 voci e b.c.] "o
«Non partir, ritrosetta» o
canzonetta [3 voci e b.c.] o
"Cl
« Sù, sù, pastore/li vezzosi» o
canzonetta [3 voci e b.c.] ;::
Introduzione al ballo e Ballo Ballo dell'ingrate
sonetti; RrnuccINI [in genere rappresentativo] balletto; RrnuccINI [in genere rappresentativo] °'o...

~
VI
46 L'INIZIO DEL SECOLO

I principii costitutivi della forma musicale sono eterogenei, e


sempre palesi, percepibili (non impliciti, come nel madrigale poli-
fonico). «Mentre vaga angioletta», un madrigale scritto dal Guarini
nel 1581 in lode di una cantatrice di nome Laura, illustra i mira-
bili effetti del canto virtuoso: i due tenori li imitano parola per
parola, garriscono vocalizzando («garrula armonia»), si piegano cro-
maticamente («pieghevol voce»), si spingono più in alto («e la
spinge»), si rompono sospirosamente («con rot--ti ac--centi»), si
rigirano («e con ritorti giri»), indugiano o precipitano («qui tarda
- e là veloce») e via di séguito, secondo uno schema formale aschi-
dionata (un'infilzata di episodi in successione libera) che solo l'esor-
dio a voce sola senza accompagnamento e la conclusione cantabile
in ritmo ternario («cosl cantando e ricantando») tengono insieme.
I testi strofici sono trattati talora come vere canzonette (stessa
musica per tutte le strofe), talaltra come ciclo musicale fatto di
membri musicali diversi ma omologhi (musica diversa ma di fat-
tura simile per ogni strofa), talora come ciclo libero (tante sezioni
quante sono le strofe, ciascuna di fattura diversa), talaltra infine
come un monologo a voci multiple, senza alcun residuo di strofi-
cità (cosl la canzonetta sdrucciola «Perché ten fug,gi», trasformata
in lamento caricatamente patetico). Il canto "alla francese", nei
madrigali amorosi, si riconosce per due caratteristiche formali: l' as-
setto responsoriale (le frasi, cantate prima da una voce sola con
il basso continuo, vengono ripetute poi con il ripieno delle altre
voci), e la sillabazione melodiosamente regolare (due crome legate
per ogni sillaba). A questo andamento discorsivo omogeneo e leg-
giadro si oppone la spettacolare gesticolazione sonora dei grandi
sonetti.
L'ottavo libro di Monteverdi è il paradigma della pluralità e
molteplicità seicentesca degli stili musicali: fruibili tutti, da quello
dimesso della canzonetta a quello emozionante del grande mono-
logo, convivono senza rispetti di gerarchia. La loro promiscuità
non è però indecorosa: le leggi del decoro stilistico che presiedono
alla loro corretta distribuzione vengono semmai riformulate di volta
in volta, di caso in caso, commisurate sulla diversa pretesa e la
diversa intenzione di ciascun testo. In tutti i casi, la scelta è quella
del linguaggio più efficace (non necessariamente il più ovvio) per
ottenere - magari sfruttando le risorse ancora vergini della mera-
viglia e dell'enfasi - la rappresentazione musicale vivida degli affetti,
CLAUDIO MONTEVERDI, DOPO IL I 620 47

e quindi la commozione degli affetti dell'ascoltatore (cfr. §§ 8 e


9). La determinazione della forma musicale, infine, è sempre otte-
nuta mediante un giuoco di corrispondenze, di simmetrie, di ripe-
tizioni, mediante una distribuzione sintattica di periodi e frasi musi-
cali che con l'articolazione sintattica del testo poetico si confronta,
la potenzia, la esalta, o la contesta, senza però mai delegarle le fun-
zioni di costituire o sostituire essa i propri nessi formali. Due arti-
colazioni formali, due sintassi - una poetica, l'altra musicale - si
affrontano e si concertano: alla molteplicità fungibile degli stili cor-
risponde la piena maturità di un periodare musicale capace di darsi
da sé la propria configurazione.
II•PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE
8• CLASSIFICAZIÒNE DEGLI STILI

La molteplicità degli stili musicali - che nell'ottavo libro di


madrigali monteverdiano esemplarmente si manifesta - è un ~
blema estetico e poetico di cui il Seicento, italiano e no, e b b ~
coscienza. La consapevolezza era, innanzitutto, empirica: l' espe-
rienza musicale d.i un uomo che avesse partedpato alla vita musi-
cale tra gli ultimi decenni del Cinque e i primi del Seicento, che
avesse assistito alla dlsgregazione del predominio della polifonia
voc\ie, poneva da sola la questione della proliferazione di §!ili
diversi. In modo superficiale, si trattava di prendere posizione ~
o contro la musica "moderha" Cosl fa Pietro Della Valle nel 1640
nel suo discorso Della musica dell'età nostra, che non è punto infe-
riore, anzi è migliore di quella dell'età passata, scritto in polemica
rnntro un difensore di quest'ultima. La distinzione capitale sta,
per il Della Valle, nel passaggio da una cQP~~zione__i:heiqentifica
musica e contrappunto tout court a una che contempla separata-
mente le tre parti diverse (tre componenti, tre requisiti) che assieme
costiJuiscono la musica: «contrappunto», «suono», e «can,to». In
altre" parole, ~ent~o la cornice teorica e pratica dell';g:_t~__ contrap-
puntistica, tram~ndata dafsecolo precedente, maniere diverse di
suonare e di cantare danno alla musica moderna qualità diverse,
distinte. E si tratta beninteso di maniere compositive diverse, non
soltanto di maniere esecutive diverse: a ciascun genere di musica,
infatti, si addicono qualità di «suono» e di «canto» specifiche, varia-
bili. Ne risulta innegabilmente un progresso, un arricchimento della
rnusica seicentesca rispetto alla cinquecentesca.
Il patrizio romano Pietro Della Valle (1586-1652), ingegno ver-
satile e sperimentatore, letterato, antiquario, viaggiatore dell'O-
riente, era musicista egli stesso (compositore, tra l'altro, di un Dia-
logo per la festa della Purificazione - che, nel 1640, è uno dei primi
oratorii in musica in senso stretto, sebbene mai eseguito in pub-
blico-, dove, grazie a un certo suo cembalo «triarmonico», tenta
l'operazione avanguardistica di imitare i modi greci mediante un' ac-
52 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

cardatura "all'antica"): parlava di musica, per cosl dire, dal di den-


tro. Un dilettante colto come il marchese '5nc_~nzQ _Giustiniani
(1564-1638), finanziere pontificio e gran collezionista d'arte - fu
tra i primi a patrocinare la pittura assai controversa del Caravag;
gioe dei caravaggeschi -, nel 1628 classifica invece empiricamente
e un po' alla buona i generi e gli stili musicali da lui conosciuti:
(1) i madrigali di Arcadelt Lasso Striggio Rare Monte, e le villane-
sche in uso ai giorni della sua infanzia; (2) il gran progresso, rispetto
a costoro, di polifonisti «dilettasi» come Marenzio e Giovanelli
e il Palestrina; (3) la voga dei cantanti virtuosi, attecchita a Roma
dopo il 1575 e poi alle corti di Ferrara e Mantova; (4) i madrigali
«pieni di molto artificio» praticati nella cerchia napoletana del prin-
cipe Gesualdo; (5) il favore del cardinale Ferdinando de' Medici
(poi granduca di Toscana) a Firenze e del cardinal Montalto a Roma
per i grandi cantanti monodici, Caccini e compagnia; (6) la musica
sacra policorale, molto gradita anche in Spagna dal re Filippo IV
Cosicché - conclude non senza le sue ragioni il Giustiniani - sono
«li varii gusti de' Signori e Prencipi grandi che se ne dilettano'»
a far sl che muti «di tanto in tanto il modo e maniera di can-
tare»: proprio come succede «nel modo di vestire, che si vanno
sempre rinnovando le fogge, secondo che vengono introdotte nelle
corti de' grandi». Tanto suggestiva è la mutevolezza della moda
musicale che financo nella musica sacra romana - la più legata alla
tradizione - si bada ormai più «alla grande varietà e alla diver-
sità» che «alla sodezza et artificio del contraponto»; e siccome que-
sta è cosa che vuole «gran prattica più tosto e vivacità d'ingegno»
che non «gran maturità e scienza di contraponto esquisita», l'età
media dei maestri di cappella delle basiliche di Roma si abbassa
al punto che il più anziano tra quei «giovenotti», Vincenzo Ugo-
lini, è già ex-maestro della cappella di San Pietro a quarant'anni ...
Il quadro vivace e vissuto della coesistenza e dell'avvicenda-
mento di stili diversi (diversi per provenienza, antichità, destina-
zione, struttura, efficacia) schizzato dal Giustiniani costituisce il
terreno propizio all'ip.sorgere, nella musicologia seicentesca, della
nozione stessa di stile. Certo, il concetto di stile era ben noto alla
letteratura del Ci~quecento e, per suo tramite, al genere musicale
più lei:terato, il madrigale (Marenzio nel 1587 scrive dei madrigali
«con maniera assai differente dalla passata, avendo per la pro-
prietà dello stile atteso a una mesta gravità»; pari pari, sceglie
CLASSIFICAZIONE DEGLI STILI 53

testi petrarcheschi e sannazariani intessuti sull'idea di un cambia-


mento di stile: «Ov'è condotto il mio amoroso stile/ a parlar d'ira,
a ragionar di morte»,« ... e tu Fortuna muta il crudo stile»): ma~
trattava, per il musicista, d'una metafora letteraria, appunto, e.J!Q!l
di un concetto terminologico definito. Dalla pratica letteraria pro-
viene anche la nozione della distinzione degli stili e del loro ~<deco-
ro», della appropriatezz_ij_ e adeguatezza di ciascuno stile a una sfera
delimitata di argomenti: basti menzionare il capitolo Che si debbono
usar vari stili, sì come varia è la materia del discorso, nel trattato di pre-
cettistica letteraria forse più letto del Seicento, l'Uomo di lettere
difeso ed emendato del gesuita Daniello Bartoli (1645). Per i musici-
sti, non a caso, la questione degliJ,tili si accende nel settore della
musica sacra cattolica, ovverossia in un settore fortemente vincola_to
al rispetto di un canone stilistico tradizionale,-cti un uso sancit~ e
con,acrato (quello della polifonia romana di ascendenza controrifor-
mis'tica, cfr. § 15), e pertanto tendenzialmente ~çfrattario all'ap-
plicazione di innovazioni compositive che vengono sentite come
incongruenze stilistiche e rottura del "decoro"
Nel 1643 il maestro della cappella reale di Polonia, Marco Scac-
chi (romano di provenienza e formazione), pubblica un Cribrum
musicum ad triticum syferticum, un "setaccio" musicale per sceve-
rare il "frumento" dalla "crusca" di certi salmi di Paul Siefert,
musicista di Danzica (il quale replicò con un altro libello, imba-
stito però su un titolo tutto in A e I anziché in I e U come quello
dellq Scacchi: Anticribratio musica ad avenam scacchianam). Lo Scac-
chi-tritica nei salmi del Siefert certe licenze moderne come l'im-
piego del basso continuo o di figurazioni cromatiche, incompati-
bili con lo stile tradizionalmente assegnato alla composizione dei
salmi polifonici: lo stile a cappella. Lo Scacchi, compositore versa-
tile, autore di madrigali concertati e delle prime musiche teatrali
eseguite in Polonia, non è affatto un misoneista: il presupposto
della sua critica è semmai la distinzione netta tra stylus antiquus
e modernus - riconducibili ambedue all'esempio dei classici aucto-
res rispettivamente antichi e moderni -, non già il rifiuto di que-
st'ultimo; l'oggetto della controversia è la «differentia styli in arte
rnusica diversi» (per dirla con una frase di Schiitz che allude alla
stessa questione). I due stili, l'antico e il moderno, hanno pari
dignità ma funzioni diverse: ciascuno di essi ha leggi proprie e pro-
pria costituzione, la loro commistione ne comprometterebbe l'ef-
54 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

ficacia e, prima ancora, la correttezza grammaticale. Il "classici-


smo" dello Scacchi, insomma, consolida lo stile dei "classici" antichi
(la polifonia sacra romana del Cinquecento) in una normativa sopra-
storica della polifonia a cappella, ne fa uno stile definito e codifi-
cato, fungibile accanto (ma non insieme) ad altri stili - moderni
- ogniqualvolta lo richiedano l'occasione, il testo, la destinazione
d'una composizione musicale.
Infatti, alla bipartizione formale e strutturale di stylus antiquus
e modernus (che lo Scacchi chiama anche «prima» e «seconda pra-
tica», memore della controversia Artusi-Monteverdi, cfr. § 4) si
sovrappone una tripartizione funzionale e sociologica degli stili:
stylus ecclesiasticus (da chiesa), cubicularis (da camera) e theatralis
(da teatro). Il sistema stilistico scacchiano, argomentato nel Cri-
brum e nel Breve discorso sopra la musica moderna (1649), e ripreso
poi dal di lui allievo Angelo Berardi nei Ragionamenti musicali e
nella Miscellanea musicale (1681 e 1689), si articola cosl (gli autori
citati tra parentesi quadre sono quelli addotti a mo' d'esempio dal
Berardi, e rappresentano quindi l'orizzonte stilistico degli armi-
Ottanta, non degli anni Quaranta):
(1) messe, mottetti, eccetera a 4-8 voci senza
organo
[Morales, Josquin, Willaert, Palestrina]
(2) idem con organo, o a vari cori con,.. organo
[B. Nanino, P. Agostinì, F. Foggia, Graziani, ... ]

stylus ecclesiasticus (3) idem in concerto con vari strumenti


[G. V. Sarti, Scacchi, Cossoni]
(4) mottetti e "concerti'' in stile moderno (lo Scac-
chi lo chiama "stile imbaua_rdito ", cioè mi-
sto di recitativi e arie)
[Carissimi, Bicilli, Aless. Melani, G. Corsi
Celano]

(1) madrigali "da tavolino" (a cappella)


[Marenzio, Nenna, Abbatini]
(2) musica vocale con basso continuo
stylus cubicularis [Monteverdi, D. Mazzocchi, Scac5hi, Savioni]
(3) musica vocale con strumenti solisti
[Caprioli, Carissimi, Tenaglia, L. Rossi, ... ]
CLASSIFICAZIONE DEGLI STILI 55

(1) stile «semplice rappresentativo» (recitativo


semplice, l'unico che lo Scacchi conosca per
la musica teatrale - cita ad esempio Caccini
e Gagliano -, riserbando Io stile misto di reci-
stylus theatralis
tativi e arie alla quarta specie dello stile eccle-
siastico)
[Peri, Monteverdi, Cesti, Pasquini, CavaW.J
P.S. Agostini]

Il modello scacchiano della classificazione degli stili - sorto dalla


disputa intorno alla scarsa "decorosità" di talune licenze rispetto
allo stile "antico" di musica sacra, ma anche dal pieno riconosci-
mento delle funzioni molteplici che la composizione musicale aveva
assunto a metà secolo - ebbe fortuna e si irradiò in Europa. Oltre
il Berardi in Italia, lo adottò al nord Christoph Bernhard
(1628-1692), collega di Schi.itz alla corte di Dresda, nel suo Trac-
tatus compositionis augmentatus, donde a sua volta lo assunseJohann
Mattheson (Der vollkommene Capellmeister, 1739). Insieme allo
schema della classificazione si tramandò però anche la eterogeneità
dei due criteri di classificazione - uno formale-strutturale, secondo
le caratteristiche compositive o espressive (antiquus/modernus; a cap-
pella/ concertato; gravis/luxurians); l'altro funzionale e sociologico,
secondo l'applicazione e la destinazione (da chiesa / da camera /
da teatro) -, che ogni autore interpretò diversamente senza I
poterla
peraltro mai intieramente comporre. (V al la pena di notare che le
stesse denominazioni correnti nel Seicento per lo stile "grave",
o " a cype . ", o "osservato ", o "all
.,i._ 11a ", o " antico . a Palestrma
. " , b en-
ché sinonimiche nella sostanza, sono eterogenee tra loro; esse fanno
infatti riferimento a caratteristi~he paradigmatiche di volta in volta
diverse dello stile stesso: la condotta grave e severa delle parti, il
mezzo esecutivo, la vetustà della tradizione, il canone composi-
tivo rigoroso, l'autorità illustre da imitare.)
L'impossibilità di far combaciare senza residui la defi~i_zione
formale-strutturale di uno stile con la sua funzione sociale traspare
ancor più evidente nella classificaziçme tentata dal~u_i_ta Atha-
nasius Kircher nella Musurgia universalis (Roma, 1650). Il Kircher
invero procede (qui come altrove nel suo immenso, labirintico trat-
tato musicologico) con scarsa sistematicità: la sua classificazione
è però aperta verso altri aspetti rilevanti della fenomenologia stili-
stica seicentesca, che meritano considerazione. Innanzitutto la
56 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

distinzione del Kircher tra lo stylus impressus e lo stylus expressus


rende giustizia alla duplice determinazione, antropologica e poe-
tica, degli stili e della loro efficacia. Una stessa composizione, uno
stesso stile, non ottengono lo stesso effetto su individui diversi,
su popolazioni diverse: la complessione affettiva dell'individuo (con-
stitutio temperamenti) e i condizionamenti climatico-etnici delle
nazioni (constitutio regionis) predeterminano l'efficacia di ogni
musica, ne definiscono lo stylus impressus, implicito, dato (al melan-
conico piace la musica severa, al sanguigno la marziale, eccetera;
al tedesco - clima freddo - la musica grave, lenta, elaborata; all'i-
taliano - clima temperato - la musica florida, melodiosa, festosa,
eccetera). Nello stylus expressus, invece, si manifestano le caratte- ~

ristiche strutturali intenzionali («certa quaedam ratio et metho-


dus») della composizione musicale, le sue ragioni di poetica. Gli
stili expressi elencati dal Kircher nella Musurgia universalis sono ~
ciascuno corredato di esemplificazioni musicali o almeno della men-
zione dei compositori in esso specializzati (perlopiù musicisti di
Roma, ben noti all'autore):

stylus ecclesiasticus (da chiesa), ligatus o solutus (con o senza cantusfirmus


obbligato):
«pieno di maestà, trasporta mirabilmente l'animo verso le cose gravi
e serie, imprimendogli il proprio moto»; esempi: il Palestrina, il Lasso,
Gregorio Allegri, eccetera; lo stylus motecticus ne rappresenta una
variante «per maggior varietà e floridezza»;
stylus canonicus (in canone):
«vi si manifesta la massima destrezza dell'ingegno musicale»; esempi
ne sono i romani Romano Micheli e Pier Francesco Valentini, artefici
di canoni artificiosissimi [p. es. a 36 voci in 9 cori; ma il Kircher
potrebbe citare sé medesimo e la propria soluzione di un canone enig-
matico del Valentini, il Nodus Salomonis a 96 voci reali in 24 cori -
o a 512 in 128 cori, o a 128000 in 32000 cori, o a 256000 in 64000
cori, o a 12 800 000 in 3 200 000 cori (tanto che non basterebbero 232
giorni filati a cantarlo tutto), qualcosa di affine insomma alle 144000
voci delle anime beate che nell'Apocalisse intonano «canticum novum»
- che cantino incessantemente in canone le note sol-si-re ... ];
stylus phantasticus (condotto su soggetti musicali di libera iqvenzione):
«metodo di composizione strumentale liberissimo e scioltissimo, adatto
agli strumenti», in qua~emancipato dal testo; esempi le ricercate,
fantasie, toccate e sonate per tastiera (Kircher cita l'allievo germanico
di Frescobaldi, Johann }Qcob Froberger);
CLASSIFICAZIONE DEGLI STILI 57

stylus madrigalescus:
«stile italico per eccellenza, ilare, alacre, ripieno di grazia e soavità,
indulgente alle _çlirpinuzioni vocali, e rifuggente (quando non lo richieda
il testo) dalla lentezza», atto a rappresentare affetti amorosi e dolo,
rosi; esempi illustri: Lasso, Monteverdi, Marenzio, Gesualdo;
stylus melysmaticus (misurato):
«adattissimo ai versi e ai metri misurati», ai testi strofici, alle ariette
e villanelle, solistiche o polifoniche, cantate con dolce concordia, senza
concitazione né dissonanze artificiose; cita G. B. Ferrini della Spinetta
(noto oggidl tutt'al più come autore di musiche da tastiera);
stylus hyporchematicus (da feste e festini) o choraicus (da balletto):
il suo effetto è di «e~citare riell'anim·o letizia, tripudio, l~~civia, dis-
soluzione»; esempi ne sono da un lato le gagliarde, le sarabande, le
correnti, i passamezzi, le allemande (come ne scrisse il cavalier Johan-
nes Hieronymus Kapsberger, liutista pontificio), dall'altro le musiche
s~;lliche per balletti e festini;
stylus symphoniacus (strumentale d'assieme):
il suo carattere (esemplificato di nuovo sulle composizioni del Kaps-
berger) è determinato dalle combinazioni strumentali;
stylus dramaticus o recitativus (recitativo ~~itrale):
adatto, per sua natura, a rappresentare qualsivoglia affetto (o anche
il mutare immediato degli affetti, mediante il cambiamento brusco di
tonalità: il cosiddetto stylus metal;,olicus), come si vede nell'Euridice
di Caccini o nell'Arianna di Monteverdi o nel Sant'Alessio del Landi.

1 Ancor più che nella classificazione dello Scacchi, i criteri kir-


cheriani di definizione e delimitazione degli otto stili sono paten-
temente eterogenei: vi si alternano disordinatamente i punti ~ t a
delle funzioni sociali, della struttura compositiva, delle modalità
d'esecuzione, eccetera. Ma un criterio omogeneo di categorizza-
zione degli stili c'è: essi - dichiara il Kircher - si distinguono pre-
cipuamente per le loro diverse facoltà di rappresentare differen-
ziatamente affetti diversi, per le loro diverse propensioni e predi-
sposizioni a imprimere nell'ascoltatore moti di diversa specie e
natura, a rapire gli animi in modi e a scopi diversi con la forza
e l'efficacia della musica pathetica. In altre parole, sono le qualità
"espressive" a costituire gli styli expressi cosl come, di converso,
la-differente "impressionabilità" degli individui e dei popoli costi-
tuisce gli styli impressi. (Resta tuttavia insoluta la contraddizione
flagrante di uno stile, il dramaticus, che per definizione è capace
di rappresentare e suscitare tutti gli affetti, sfuggendo quindi alla
58 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

specificità espressiva degli altri stili; in esso il Kircher ripristina


implicitamente un criterio di distinzione sociologico - lo stile pecu-
liare del teatro musicale - che la sua descrizione puramente psico-
logica dello stylus ecclesiasticus o puramente pratico-esecutiva dello
stylus symphoniacus eccetera pareva sconfessare.)

9 • SCIENZA E TEORIA MUSICALE

Dietro la teoria kircheriana degli stili v'è la teoria psicologica


degli affetti. Della teoria degli affetti - un'eredità della magia natu-
rale cinquecentesca, della musicae vis mirifica (potenza meravigliosa
della musica) fondata sulle relazioni armoniche e simpatiche tra
le proporzioni numeriche musicali e le passioni dell'animo umano
- il Seicento tenta una sistemazione razionale. Il trattato di Descar-
tes su Les passions de l'ame (1649) distingue sei affetti fondamen-
~i, sei stati d'animo elementari e semplici: ammirazione (meravi-
glia), amore, odio, desiderio, gioia, tristezza. Nel 1732;la Psycho-
logia empirica di Christian W olff li suddividerà in due categorie
globali, affecti jucundi e molesti. Comunque, gli affetti sono deter-
minati, secondo la fisiologia antica, dalle differenti combinazioni
ctei quattro umori vitali del corpo (sangue, flemma, bile gialla, bile
nera), corrispondenti ai quattro temperamenti estremi (sanguigno,
flemmatico, collerico, melanconico), ai quattro elementi (aria, acqua,
fuoco, terra), alle quattro qualità elementari (umido-caldo, umido-
freddo, secco-caldo, secco-freddo), e via dicendo di corrispondenza
in corrispondenza. Un rapporto equilibrato tra i quat~ro umori nel
corpo umano tende verso una condizione di salubre armonia, il loro
squilibrio conduce verso una disarmonia patologica. Attraverso gli
pprits animaux diffusi nel corpo umano, le qualità melodiche, rit-
_miche, armoniche specifiche d'una composizione musicale influi-
scono, t_ramite l'udito, sull'equilibrio umorale dell'individuo, e vi
provocano delle "perturbazioni" (passeggere e gratificanti) dell' a-
nimo: affezioni, sensazioni di passioni determinate.
Compito precipuo della teoria musicale seicentesca impegnata
a dare un supporto scientifico e ~ionale all'efficacia affettiva della
musica pathetica - efficacia che il Cinquecento percepiva in ter-
mini di analogia e simpatia - è dunque la determinazione del rap-
porto differenziato e specifico tra singoli eledienti musicali tecnico-
SCIENZA E TEORIA MUSICALE 59

formali e singoli affetti. Il Kircher, nel capitolo VI del libro VII


(<<quale organizzazione razionale debba darsi a una melodia per muo-
vere un affetto dato»), al solito corrobora la scarsa sistematicità
dell'argomentazione con le abbondanti esemplificazioni di musi-
che coeve. Otto sono gli affetti che si possono esprimere musical-
mente: amore, dolore/pianto, letizia/esultanza, furore/indignazione,
compassione/lacrime, timore/afflizione, presunzione/audacia, ammi-
razione/stupore (altrove il Kircher li raggruppa però in tre soli affetti
fondamentali musicalmente rappresentabili: letizia, quiete, tri-
stezza). Nell'illustrazione degli esempi musicali addotti a paradigma
di ciascun affetto, il Kircher dà vere e proprie descrizioni analiti-
che (rudimentali quanto si voglia) delle virtù efficaci di quei brani.
Cosl, in un madrigale gesualdiano (paradigma affectus amoris) si vede
«come languono gli intervalli, come soavemente le voci vadano sin-
copando, quasi ad esprimere la sincope dell'animo languente»;
famosa, anche se non meno generica, è la descrizione del pianto
commoventissimo (in virtù di un repentino cambio di tono) della
figlia di Jephte nell'oratorio omonimo di Giacomo Carissimi (para-
digma affectus dolorosi):
... dopo avere ingegnosamente e argutamente esp]J:sso in stile recitativo
l'accoglienza festante che la Figlia riserba a suo padre Jephte, tripudiando
al suono di strumenti d'ogni genere per le sue vittorie e i suoi trionfi,
1
Carissimi rappresenta mediante una mutazione improvvisa di tono lo sbi-
gottimento diJephte che per l'incontro inopinato con la figlia sua unige-
/ nita precipita in affetti affatto opposti - dal gaudio nel dolore e nel
lamento -, a causa dell'irrevocabilità del proprio voto rivòltosi contro
la sua stessa prole, e disperando di poterla più salvare; vi fa poi seguire
il pianto a sei voci delle vergini compagne della figlia, composto con tanta
abilità che giureresti di sentire i loro singulti e gemiti. Infatti, avendo
egli iniziato con un dialogo festoso e in un tono danzereccio come l'ot-
tavo, pose poi questo suo pianto in un tono differentissimo, nella fatti-
specie il quarto commisto al terzo. Dovendo- raffigurare una storia tra-
gica, dove il dolore veemente e l'angustia dell'animo scacciano la gioia,
molto opportunamente egli prese quel pianto da un tono che dista dal-
]' ottavo quanto distano tra loro gli estremi del cielo, per meglio espri-
mere con la sua natura opposta la differenza degli affetti; e nulla più di
questo è atto a rappresentare siffatti tristi eventi, siffatte vicende tragi-
che intessute di affetti alterni.

In maniera spesso meno suggestiva e più razionale del padre


Kircher, con l'efficacia espressiva di intervalli e tonalità, conso-
nanze e dissonanze si confronta il lavorio soeculativo di altri musi-
60 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

cologi, matematici e scienziati seicenteschi. Ma il quadro di riferi-


mento va esteso. Il problema di fondo non è tanto la teoria degli
affetti, quanto semmai l'indagine scientifica (speculativa e empi-
rica) sulla esatta determinazione fisica delle consonanze e disso-
nanze, dei rapporti intervallari, del temperamento dell'ottava. Le
soluzioni che il Seicento tenta per queste questioni testimoniano
quanto l'investigazione sistematica e sperimentale si vada emanci-
pando in senso moderno, anche in musica, dal rispetto ripetitivo
e aprioristico per gli antichi. Ne discapitano i miti e i topoi lette-
rari intorno agli effetti mirabili e imperscrutabili della musica,
intorno all'ethos implicito nei modi greci, intorno all'armonia delle
sfere e alle di lei ripercussioni sull'animo umano. Certo, quel cor-
redo tradizionale di schemi concettuali analogici era tuttavia ben
diffuso nella cultura del secolo, e bastano tre esempi a documen-
tarlo: la seconda delle Dicerie sacre del Marino - tre prediche fitti-
zie, tre «spirituali ragionamenti» composti nel 1614 - è intitolata
La musica e intesse una lunga analogia tra le sette parole di Cristo
in croce, i sette dolori della Vergine, le sette canne della siringa
di Pan, Cristo/Orfeo, la musica humana/mundana/instrumentalis.,
e via dicendo, senza neppure un solo riferimento alla musica dei
tempi suoi; tra le Muse napolitane (1635) di Giovan Battista Basile
- il fratello della famosa Adriana -, quella dedicata alla Museca
allude ironicamente alla stessa tradizione là dove dice: «M'alle-
cordo 'na vota avere 'ntiso / da certe studiante ... / ca chisto munno
è museca, / museca è I' ommo e museca ogne cosa, / ca se vota lo
cielo cola museca, /cala bellezza è museca e !'affette [gli effetti]
/ museche so' chiammate, / e museca è la bona sanetate»; nel 1647
Nicolas Poussin si propone di adottare in pittura un sistema di
"modi" pittorici analoghi ai modi musicali dei greci e dotati di qua-
lità etiche determinate, adeguate ai vari soggetti pittorici (ma alla
fine del secolo, quando il sopravvento delle tonalità moderne è ormai
consacrato, le Règles de composition di Marc-Antoine Charpentier
codificano per davvero il carattere specifico di 17 tonalità diverse
- do maggiore gaio e marziale, do minore oscuro e triste, eccete-
ra-: e in questa variante tonale il topos delle qualità affettive dei
modi e dei toni avrà ancora unvua volgarizzazione duratura).
Anziché divinare e interpretare ra-i:iporti di analogia e dl,sim-
patia diffusi, il pensiero seicentesco ricerca rapporti misurabili di
identità e di differenza. In musicologia questa ".modernità" assume,
SCIENZA E TEORIA MUSICALE 61

invero, forme che a noi talvolta possono apparire curiose: ma la


contiguità di spec~lazione musicale e speculazione scientifica è
feconda, e i suoi frutti vanno decisamente in direzione razionale
e sistematica. Cosl, Keplero nel suo tentativo di spiegare la strut-
tura dell'universo (negli Harmonices mundi libri V, 1619) fa ricorso
alla musica moderna: le armonie celestiali sono non già metafori-
che bensl reali, benché _prive di suono (Tommaso Campanella cre-
deva invece che, come il cannocchiale aveva rivelato all'occhio
mondi prima invisibili, cosl un apparecchio acustico avrebbe un
giorno consentito di percepire l'armonia delle sfere). L'afferma-
zione dell'as~onomo imperiale, apparentemente assurda, è invece
concettualmente ardimentosa: per Keplero le armonie celesti sono
polifoniche (non mere scale), intessute di consonanze moderne (le
terze e seste che la tradizione pitagorica considerava invece imper-
fette), determinate geometricamente (condizione necessaria per giu-
stificare le terze e seste temperate, devianti rispetto agli intervalli
pitagorici, determinati aritmeticamente), centrate e udibili nel Sole
(anziché sulla Terra). In altre parole (e per quel che riguarda il pen-
siero musicale): per Keplero la musica moéferna (polifonica) "svela"
la struttura archetipica dei cieli (non è una loro imitazione), cosa
che la musica antica (monodica) non avrebbe mai potuto fare. Essa
è dunque più "bella" in quanto più affine alla musica celestiale,
ed è dunque, anche senza l'ausilio concettu;ùe del testo, portatrice
di un significato proprio. (L'atteggiamento di un teorico orientato
id' senso antiquario e retrospettivo come Giovan Battista Doni è
- e ciò non sorprende - quello inverso: i suoi scritti puntano a
dimostrare la polifonicità della musica greca, presupposto neces-
sario per legittimare e dignificare con l' auctoritas dell'antichità la
moderna musica e intraprendere su tale base l'ideale ripristino degli
e//ectus musicae.)
1
Nella spefulazione e sperimentazione psr determinare scienti-
ficamente i i:_apporti esatti che producono gli intervalli consonanti
assume un ruolo preponderante proprio la considerazione delle terze
e seste maggiori e minori. Sia gli "aritmetici" (da Zarlino a Padre
Mattini: consonanze determinate dai rapporti numerici elemen-
tari, 1/1, 1/2, 1/3, 1/4, ... ) sia i "geometrici" (da Keplero a Tar-
tini: rapporti di superficie dei poligoni iscritti in un cerchio) sia
i "fisici" (Galileo Galilei e Christian Huygens - due fisici figli di
musicisti! -: coincidenza delle vibrazioni di due onde sonore) non
62 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

possono disconoscere la realtà quotidianamente esperita dalla musica


polifonica intessuta sul ruolo preponderante degli intervalli teori-
camente e matematicamente più delicati e precari, appunto le terze
e le seste di ambo le specie. Temperata la gamma in maniera tale
da ottenere il maggior numero possibile di terze e seste giuste (le
soluzioni tentate sono molteplici, univoca la tendenza), la specu-
lazione sul valore etico di ciascun modo antico perde di signifi-
cato e cede il posto alla considerazione della valenza espressiva spe-
cifica dei singoli intervalli (melodici e armonici) indipendentemente
dalla tonalità di riferimento, della funzione delle dissonanze come
strumenti efficaci di mozione degli affetti (in quanto portatori di
perturbazioni passeggere e sùbito ricomposte dell'ordine conso-
nante), infine della forza espressiva delle modulazioni.
A~torno alla funzione espressiva della terza maggiore e minore
si decide la bipartizione tra la diversa qualità affettiva delle tona-
lità maggiori e delle minori (paradigmatico il duetto di Carissimi
che contrappone l'ilarità di Democrito, in maggiore, al pianto di
Eraclito, in minore, citato dal solito Kircher). La bipartizione, effet-
tiva già nella musica polifonica di fine Cinquecento, durerà poi
fino all'Ottocento, ma con alcune modifiche significative nella
distribuzione degli affetti, riassumibili per brevità cosl:

terza maggiore terza minore

~fa~~:·} XVID-X,X = ~~::::. } XVIIl-XIX sec.

XVI-XVIl sec.
{:!~~:~za
amarezza
ira
XVI-XVII sec. { dttr;~:1:::a
enerezza
dolcezza

Nella congiunzione di teoria degli affetti e teoria degli inter-


valli e delle tonalità si può scorgere un inizio, un rudimento d'una
possibile teoria poetica ed analitica della composizione musicale
moderna. Rarissima e casuale è però la considerazione che, al di'
là della costituzione di un intervallo, è il contesto (armonico, tonale,
ritmico) a determinarne o quantomeno a condizionarne l'efficacia
espressiva. Un raro esempio in tal senso lo dà una lettera di Descar-
tes a Mersenne, del 4 marzo 1630:
SCIENZA E TEORIA MUSICALE 63

... altro è dire che una consonanza è più dolce d'un'altra, altro è dire
che essa è più piacevole. Tutti sanno che il miele è più dolce delle olive,
eppure molti preferirebbero mangiare olive, non miele. Cosl, tutti sanno
che la quinta è più dolce della quarta, questa più della terza maggiore,
questa a sua volta più della minore; eppure vi sono dei punti dove la terza
minore piace più della quinta, altri dove addirittura una dissonanza piace
più d'una consonanza.

Ma intanto Marin Mersenne - autore dell'enciclopedica Harmonie


universelle (Parigi, 1636-37), vero compendio di musicologia siste-
matica, e promotore d'una rete fittissima di corrispondenza epi-
stolare tra scienziati e musicologi di tutt'Europa - indke compe-
tizioni compositive (tra il francese Antoine Boesset e l'olandese
Joan Albert Ban) che gli offrono il pretesto per speculare compa-
rativamente sulle qualità espressive della composizione musicale
di un testo dato. Anche in questo caso - virtù del metodo razio-
nale? -, l'abbozzo d'analisi più accorto lo dà Descartes, attento
- a differenza dagli altri corrispondenti e amici del Mersenne -
a giudicare anche la configurazione metrica e ritmica di testo e
musica, sempre trascurata da tutti gli altri teorici occupati soltanto
di intonazione, armonia e melodia, consonanze e dissonanze. (In
generale, la teoria del metro e del ritmo nel Seicento - come nei
secoli a venire - è assai tardigrada: il trattato della Battuta della
musica di Agostino Pisa, 1611, si limita a riassumere mischiata-
mente topoi e nozioni cinquecentesche; le osservazioni sulla costi-
tuzione temporale della musica contenute nel Musicae compendium
di Descartes - scritto nel 1618, ma stampato nel 1650 - non sono
affatto, come taluno reputa, un'anticipazione delle teorie tardo-
settecentesche sulla periodicità della frase musicale, bensl uno
schizzo di teoria razionale della percezione delle strutture tempo-
rali; più importante - ma per i musicologi del primo Settecento,
non tanto per i coevi - è il trattato De poematum cantu et viribus
rhythmi di Isaac Voss, 1673, che classifica le qualità espressive e
rappresentative dei metri poetici greci e le applica ai ritmi musi-
cali: sintomo erudito del fatto davvero capitale che a una conce-
zione del ritmo basata sul principio della suddivisione di unità date,
come nella musica mensurale, ne è subentrata una fondata sulle
categorie, radicalmente diverse, dell'accentuazione e del movimento
temporalmente orientato.)
64 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

10 • TEORIA E PRASSI

Ritmo e metro non sono gli unici settori della prassi composi-
tiva a restar "scoperti" nella teoria coeva. In generale, se - da un
lato - delle speculazioni e delle sperimentazioni dei grandi teorici
poco arriva ai compositori, dall'altro lato la teoria musicale seicen-
tesca poco si cura di aggiornare la propria precettistica composi-
tiva ai portati della moderna musica. Non è questione di ritardi
più o meno gravi: la scissione è di natura radicale. È sintomatico
della divergenza profonda di prospettiva che il Padre minimo Mer-
senne, nella sua strenua opera di conciliatore delle ragioni della
scienza moderna con quelle della teologia, riserbi 27 pagine alla
trattazione di tutte le dissonanze, ma ne dedichi ben 30 alla trat-
tazione del solo unisono: nell'unità, infatti, in ogni specie di unità
(che l'imperfezione umana, relegata nel mondo limitato e finito
della diversità e della varietà, del plurale e del molteplice, non può
mai raggiungere) si manifesta il principio divino di ogni cosa. Pari
pari, la polifonia (ossia la musica moderna) sembra a Mersenne un
pregevole ma dopotutto imperfetto rispecchiamento della musica
a una voce sola (ossia la musica vera e pura).
I compositori invece (ai quali poco importa dell'unisono) sono
ben consapevoli dello scarto tra teoria e prassi. Marco Scacchi, nel
Breve discorso sopra la musica moderna, parla di una «seconda pra-
tica» e nega però espressamente l'esistenza di una corrispondente
«seconda teorica». Infatti cambiano sl gli stili, ma la teoria della
composizione continua a rimanere unica, valida per la prima come
per la seconda «pratica», per lo stylus antiquus come per il moder-
nus: cambiano le applicazioni, non i principii.
Il fatto è che per il Seicento la teoria della composizione si
riduce, sostanzialmente, alla teoria del contrappunto vocale: in que-
sto, totale è la continuità con il Cinquecento, con i grandi com-
pendi teorico-pratici di Gioseffo Zarlino (Istituzioni armoniche,
Venezia, 1558; cfr. vol. IV, § 27), Lodovico Zacconi (Prattica di
musica, Venezia, 1592 e 1622), Pedro Cerone (El melopea y mae-
stro, Napoli, 1613), alacremente volgarizzati poi nei troppo nume-
rosi e scontati Specchi di musica, Arcani musicali, Primi albori musi-
cali, Regole del contrapunto e Regole di musica compilati per tutto
il secolo da modesti ecclesiastici ad uso di ancor più modesti musi-
TEORIA E PRASSI 65

cisti di chiesa. Quel che i trattati migliori recepiscono delle inno-


vazioni formali e stilistiche del secolo è tutt'al più la classificazione
dei generi e degli stili (cfr. § 8), oppure la nomenclatura organolo-
gica e l'illustrazione delle prassi esecutive strumentali (a diverso
titolo, eccellono qui il Syntagma musicum di Michael Praetorius,
Wittenberg-Wolfenbilttel, 1615-20, e Il Transilvano di Girolamo
Diruta, Venézia, 1593-1610). Ma l'insegnamento sistematico della
composizione è e resta l'insegnamento del contrappunto: con la
sola grave novità che esso non rende certo giustizia a quella tripli-
cità 'di «contrappunto», «suono» e «canto» della musica moderna
che rilevava il Della Valle (cfr. § 8).
La teoria del contrappunto - la codificazione sistematica degli
intervalli (melodici e armonici) e delle loro concatenazioni possi-
bili - costituisce, a giusto titolo, il quadro di riferimento costante
per ogni tipo di composizione musicale sei e settecentesca. Si potrà
prescindere, man mano, da talune regole obsolete, non già dal com-
plesso del sistema contrappuntistico in quanto tale. Viceversa però,
si potrà sl estendere (a seconda dei generi musicali, più o meno
"osservati") il margine consentito di licenza, non già il dominio
del sistema sopra quegli aspetti della prassi musicale e composi-
tiva che gli sono costituzionalmente estranei. La trattatistica sei-
centesca del contrappunto, per esempio, è sostanzialmente inca-
pace di formulare una teoria della modulazione: il suo orizzonte
è, per costituzione, quello della modalità, non quello della tona-
lità (a metà secolo per spiegare le alterazi~ni cromatiche dei modi
si fa ricorso a metafore di varia specie: il Kircher parla di «meta-
bolismo» modale, Giovanni d' Avella di «eclissi» transitorie del
modo). Il contrappunto non dà ragione della fraseologia musicale
di corto respiro tipica della musica strumentale, sempre propensa
(in mancanza del supporto concettuale e discorsivo di un testo) a
una vera e propria frenesia cadenzale (magari una cadenza ogni
due battute, per decine o per centinaia di battute), laddove il pre-
cetto aureo del contrappunto vocale sarebbe semmai quello del « fug-
gir la cadenza» (dilazionare ad arte la conclusione del periodo); peg-
gio, anche la stessa musica vocale (tanti "madrigali" del settimo
e ottavo libro monteverdiano, per esempio) indulge volentieri a
questo comportamento e concatena allegramente cadenze su
cadenze, progressioni su progressioni, ripetizioni su ripetizioni. Non
si tratta di eresie nei confronti del contrappunto, che non viene
66 PROBLEMI DEL SE I CENTO MUSICAL E

violato: ma certamente le maglie del sistema sono troppo larghe


e lasse per poter cogliere tante peculiarità della prassi compositiva
ed esecutiva, sono troppo uniformi per poter dar ragione della pro-
liferazione di stili e generi. Il trattato di contrappunto nei con-
fronti della monodia di un Sigismondo d'India non perde di vali-
dità, ma perde d'autorità siccome è impotente a spiegare le ragioni
di quelle efflorescenze canore esuberanti sopra uno scheletro di
polifonia a due parti così elementare e povero. Il contrappunto,
infine, non dà neppure ragione sufficiente della configurazione
ciclica o ripetitiva d'uno scherzo, d'un' aria strofica (con o senza
il daccapo), d'una ciaccona o d'un passacaglia, d'una corrente o
d'una giga; non dà ragione delle oscillazioni o degli scarti bruschi
di "affetti" in una toccata frescobaldiana, delle scalette e delle pro-
gressioni bizzarre d'una fantasia di Sweelinck, del comportamento
contrappuntisticamente inerte d'un recitativo teatrale o da camera.
C'è, insomma, un'area sempre più vasta della prassi compositiva
che, senza peraltro contraddirla, sfugge al dominio della teoria del
contrappunto, e che resta "scoperta" nella trattatistica coeva.
A questo deficit sopperisce, in certa qual misura, la manuali-
stica per il basso continuo. Il basso continuo (cfr. vol. IV, § 39),
infatti, più che una prassi esecutiva, è una vera e propria tecnica
di composizione, con leggi proprie. Tali leggi non sono incompati-
bili, beninteso, con quelle del contrappunto: hanno anzi proprio
lo scopo di garantire la conformità contrappuntistica di quelle parti,
di quelle "voci" interne della composizione che non vengono scritte,
"composte", dal compositore bensì tutt'al più cifrate e lasèiate alla
realizzazione estemporanea del suonatore. L'adozione del basso con-
tinuo non è uniformemente rapida e generalizzata dovunque in
Europa (in Francia, per esempio, le prime stampe con il basso con-
tinuo compaiono mezzo secolo dopo che in Italia: la Pathodia sacra
et profana dell'olandese Constantijn Huygens è del 1647, i Can-
tica sacra di Henry Du Mont del 1652). Ma fin dal primo decen-
nio circolano in Italia i trattatelli che ne spiegano i principii e i
rudimenti. Certo, ristampando il suo manuale Del sanare sopra 'l
basso con tutti li stromenti e dell'uso loro nel conserta (Siena, 1607)
nella parte di basso continuo d'una sua raccolta di mottetti nel 1609,
Agostino Agazzari rivela di indirizzarsi agli esecutori, non ai com-
positori: lo stesso dicasi della Breve regola per imparar a sanare sopra
TEORIA E PRASSI 67

il basso di Francesco Bianciardi, stampata su un foglio volante (sem-


pre a Siena, sempre nel 1607). Ma via via nel corso del secolo la
trattatistica del basso continuo assume sempre più il ruolo d'una
precettistica compositiva elementare, fino a giungere - indizio elo-
quente - a un titolo come Der General-Bass in der Composition (Il
basso continuo nella composizione, diJohann David Heinichen, Dre-
sda, 1728). Questo però non potrà far dimenticare il dislivello, lo
scarto che corre tra l'impalcatura concettuale di un sistema teo-
rico complesso e globale come quello del contrappunto zarliniano
- vero e proprio canone - e la rudimentalità dei trattatelli di basso
continuo, modesti sussidi all'apprendimento d'una tecnica di cui
essi svelano sl la cifra, ma non argomentano le ragioni.
In queste condizioni, l'addestramento di un musicista alla com-
posizione s'affida sempre più al ruolo decisivo dell'imitazione:
accanto allo studio formale del contrappunto, all'esercizio del basso
continuo, sarà l'imitazione non codificata dei vari generi e stili della
musica moderna a decidere della formazione di un compositore.
Beninteso l'imitazione dei grandi autori, degli esempi classici, è
da sempre un cardine dell'apprendimento artistico, e a maggior
ragioneilo era stata nell'educazione musicale umanisticamente orien-
tata del musicista cinquecentesco. La peculiarità della situazione
seicentesca sta semmai nel fatto che vi sono zone cospicue della
prassi musicale corrente (tutto quello che non è "stile antico" o
polifonia "osservata") che non hanno il supporto di un canone poe-
tico e teorico, di un corpus di esempi classici riconosciuti: nel fatto
che soltanto l'imitazione diretta della prassi, del "far musica", con-
sente di apprenderne la riproduzione. In altre parole: se Zarlino
fornisce gli strumenti compositivi necessari e sufficienti per com-
porre un mottetto, un madrigale, quegli stessi strumenti sono neces-
sari ma insufficienti a comporre una cantata, una toccata, una ciac-
cona, un'aria, un oratorio, ... La differenza è coperta, intieramente,
dalla prassi quotidiana dell'imitazione diretta. Essa comporta, in
termini istituzionali, un potenziamento del concetto di scuola, per
via del maggior ruolo diretto del maestro in mancanza di un canone
teorico ampio ed esauriente; in termini di poetica, un adeguamento
mimetico alla moda, al "gusto" musicale del momento.
Tra questi due poli - tra le grandi scuole musicali orgogliose
della propria genealogia illustre da un lato e il mercato pubblico
68 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

dei cantanti e dei musicisti soggetto alla mutevolezza del gusto dal-
1' altro - si giocano nell'Italia del Seicento le sorti d' «una profes-
sione ch'è mera opinione, e di cui non si dà certezza alcuna ... ,
stante che questa prattica di musica con le diversità delle scale
anch'ella è diversa» («sempre quoad praxim, e non quoad scientiam»,
specifica significativamente Antimo Liberati, polifonista romano
di ascendenza palestriniana diretta, quando nel 1684 fu richiesto
d'un giudizio sulle composizioni dei concorrenti - tutti non
"romani" - al posto di maestro di cappella del duomo di Milano).
Un'idea pittoresca della mistura di apprendimento formalizzato e
canonico e di apprendimento mimetico la dà un testimone della
grande scuola romana degli anni Quaranta, il castrato Giovanni
Andrea Angelini Bontempi, che dall'alto di una carriera europea
di mezzo secolo così ne parla nella sua Historia musica (Perugia,
1695):

Le scole di Roma obligavano i discepoli ad impiegare ogni giorno


un'ora nel cantar cose difficili e malagevoli, per l'acquisto della esperienza;
un'altra, nell'esercizio del trillo, un'altra in quello de' passaggi [melismi];
un'altra negli studi delle lettere; ed un'altra negli ammaestramenti ed eser-
cizi del canto, e sotto l'udito del maestro, e davanti ad uno specchio,
per assuefarsi a non far moto alcuno inconveniente, né di vita né di fronte
né di ciglia né di bocca. E tutti questi erano gl'impieghi della mattina.
Dopo il mezzodl s'impiegava meza ora negli ammaestramenti apparte-
nenti alla teorica; un'altra meza ora nel con trapunto sopra il canto fermo;
un'ora nel ricevere e mettere in opera i documenti [gl'insegnamenti] del
contrapunto sopra la cartella [partitura]; un'altra negli studi delle lettere;
ed il rimanente del giorno nell'esercitarsi nel suono del clavicembalo, nella
composizione di qualche salmo o motetto o canzonetta o altra sorte di
cantilena, secondo il proprio genio. E questi erano gli esercizi ordinari
di quel giorno nel quale i discepoli non uscivano di casa. Gli esercizi poi
fuori di casa erano l'andar spesse volte a cantare e sentire la risposta da
un'eco fuori della Porta Angelica, verso Monte Mario, per farsi giudice
da sé stesso de' propri accenti; l'andare a cantar quasi in tutte le musi-
che che si facevano nelle chiese di Roma; e l'osservare le maniere del
canto di tanti cantori insigni che fiorivano nel pontificato di Urbano VIII,
l'esercitarsi sopra quelle ed il renderne le ragioni al maestro, quando si
ritornava a casa: il quale poi per maggiormente imprimerle nella mente
de' discepoli vi faceva sopra i necessari discorsi e ne dava i necessari avver-
timenti. Questi sono stati gli esercizi, questa la scola che noi sopra la
musica armonica [la musica d'arte] abbiamo avuto in Roma da Virgilio
Mazzocchi professore insigne e maestro di cappella di S. Pietro in Vati-
cano
TEORIA E PRASSI 69

Perché è importante interrogarsi sul rapporto di scissione, di


estraneità che nel Seicento si insinua radicalmente tra la teoria musi-
cale e la composizione (e che, quantomeno per l'Italia, ebbe con-
seguenze secolari)? Perché esso comporta una "perdita di compe-
tenza" musicale diffusa, ingenera una sensibile incommensurabi-
lità tra riflessione critica ed esperienza musicale. In tutto il secolo
(e fino a Mattheson o a Rameau) manca patentemente il giudizio
competente sulla musica contemporanea. « La musica fu buonis-
sima», «veramente è musica miracolosa», «fummo partecipi d'una
musica in ogni squisitezza perfetta»: sono frasi di contemporanei
colti, càntanti musicisti poeti. Prolifera il topos dell'ineffabilità («il
piacere e lo stupore che partorl negli animi degli uditori questo
nuovo spettacolo non si può esprimere»): il Seicento, letteralmente,
non ha parole per descrivere le qualità specifiche d'una composi-
zione; di certo gli mancano quegli strumenti critici ed analitici che
la teoria cinquecentesca del contrappunto metteva in mano a Zar-
lino o Zacconi o Artusi o Ponzio per descrivere un madrigale, un
mottetto, una messa (strumenti che del resto legittimamente adottò
anche nel Sei e nel Settecento chi volle esaminare opere di polifo-
nia vocale, come Padre G. B. Martini nel suo Esemplare o sia Sag-
gio fondamertale pratico di contrappunto, Bologna, 1774-76). All'a-
scolto, alla lettura analitica e competente del cantore, del maestro
di cappclla, del dilettante di madrigali, subentra nel Seicento l'am-
mirazione estatica, l'ascolto plaudente o sensuale, il giudizio enfa-
tico e generico. Dall'artificio compositivo - che non dev'essere
«conosciuto se non da persone esperte del mestiere e che vi fac-
ciano riflessione particolare», come dice il Giustiniani - I' atten-
zione si sposta tutta sui mirabili effetti evocativi o allegorici o affet-
tivi o rappresentativi d'una composizione (sempre che questa non
decada a mero ingrediente cerimoniale, a sonorizzazione d'un
evento d'altra specie, o a intrattenimento sociale consuetudinario:
nel qual caso l'ascolto si fa atmosferico, o distratto).
Del resto, la perdita di competenza nella produzione e nel con-
sumo della musica si ripercuote sulla figura del compositore, che
la paga con una perdita di consapevolezza culturale e musicale spe-
cifica, alla lunga con una perdita di autonomia intellettuale e di
Prestigio sociale (cfr. § 13). Di converso, "competentissima" diventa
- tra produzione e consumo - la riproduzione della musica: aumenta
70 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

l'abilità esecutiva dei cantanti e dei virtuosi, e con essa la loro fama,
stima, reputazione, condizione sociale.
(Taluno obietterà che proprio nel Seicento si sviluppò un'ora-
toria specificamente musicale, un codice lessicale ed ermeneutico
di figurae retoriche musicali, con il quale decifrare l'assetto reto-
rico che la musica vocale desume dal testo. Fatte salve le affinità
tradizionali - ma generiche e superficiali - di musica e retorica,
il fenomeno specifico fu in realtà assai limitato. Più che un pro-
getto organico di poetica musicale, esso rappresentò un tentativo
- sostanzialmente circoscritto a pochi teorici tedeschi come Joa-
chim Burmeister autore d'una Musica poetica apparsa nel 1606, o
l'allievo di Schiitz, Christoph Bernhard, autore di un Tractatus com-
positionis augmentatus rimasto manoscritto - di razionalizzare con
gli strumenti concettuali della tradizione retorica classica, e con
il sussidio d'una terminologia retorica d'imprestito, quelle licenze
compositive della moderna musica espressiva - di provenienza ita-
liana - di cui la teoria del contrappunto non poteva dar ragione.
In questo senso il fenomeno, seppur effimero, fu davvero signifi-
cativo: nel senso, appunto, d'un ampliamento della teoria del con-
trappunto fino a comprendere e giustificare - e, quindi, a neutra-
lizzare ed esorcizzare - licenze altrimenti irrazionali. La retorica,
insomma, funse qui come legittimazione di irregolarità lessicali e
sintattiche, non già come promotrice di un'oratoria affettivamente
efficace, né si consolidò mai in un codice poetico o ermeneutico
coerente. «Chiamo figura un certo modo piacevole e artificioso di
impiegare le dissonanze», dice il Bernhard; e siccome egli consi-
dera dissonante financo una linea cromatica ascendente o discen-
dente - che egli vedeva frequentemente adibita a rappresentare
affetti di estremo dolore o di estrema delizia, e che però il con-
trappunto paradossalmente può spiegare soltanto come una serie
di false relazioni consecutive in una sola voce -, coniò il termine
"retorico" di passus duriusculus. Sfuggiva invece fatalmente ai "reto-
rici" tedeschi la natura armonicamente e non contrappuntistica-
mente determinata di molte figurae in uso nella musica moderna.)
Si potrà discutere intorno al grado e alla gravità della scissione
di teoria e prassi nel Seicento, del prevalere dell'apprendimento
mimetico sopra quello formale, dell'incidenza dell'ascolto non "com-
petente" e non "analitico": il fenomeno è comunque massiccio e
problematico, e condiziona la nostra comprensione di quella musica
TEORIA E PRASSI 71

cosl come dovette condizionare i modi di produzione e di consumo


musicale dell'epoca. Dietro questo fenomeno c'è una realtà da inda-
gare: nel Seicento, l'istruzione del musicista è sempre meno uma-
nistica e individuale, sempre più massificata e finalizzata alla pre-
stazione d'un servizio. Certo, come nel secolo precedente i mae-
stri di cappella tengono a scuola, in casa propria, alcuni ragazzi
di cantoria (e nel loro salario è compreso un indennizzo per il vitto
e alloggio di costoro): essi garantiscono cosl, su basi minime, il ricam-
bio costante del personale musicale dell'istituzione e la continuità
della scuola. Ma il Seicento assiste anche all'organizzazione del-
l'insegnamento musicale dei grandi ospizi-conservatorii metropo-
litani. Gli istituti assistenziali, gli orfanotrofi e brefotrofi di Venezia
(!'Ospedaletto, la Pietà, i Mendicanti), di Napoli (S. Maria di
Loreto, S. Onofrio, S. Maria della Pietà dei Turchini, i Poveri di
Gesù Cristo), di Palermo (la Casa degli Spersi), fondati durante
il Cinquecento, introducono nel corso del Seicento l'insegnamento
regolare della musica. Le esibizioni e le prestazioni musicali orga-
nizzate o concesse dagli ospedali ridondano a vantaggio economico
dell'istituzione assistenziale: a Venezia le collette per il canto apprez-
zatissimo delle "putte" alle funzioni religiose consentono di far
loro la dote. Mentre però a Venezia l'attività musicale degli ospe-
dali è esclusivamente interna (una volta maritate le "putte" dove-
vano rinunciare a qualsiasi attività musicale professionale, e le con-
vittrici patrizie entrate apposta alla Pietà per apprendervi l'arte
musicale ne avrebbero poi comunque fatto un uso domestico e non
pubblico), a Napoli gli ospedali prima della fine del secolo già sfor-
nano in abbondanza quella mano d'opera musicale - cantanti, vir-
tuosi, maestri di musica, maestri di cappella - che nel Settecento
li renderà famosi in Europa. L'ammissione di studenti esterni
- convittori che accedono all'ospedale allo scopo preciso di acqui-
starvi un'istruzione musicale - è incoraggiata dal fatto che le loro
tasse d'iscrizione garantiscono una base economica alle funzioni
più propriamente assistenziali dell'istituzione. La massificazione
è palese nel numero degli studenti (nell'ordine del centinaio), ma
anche nel tipo di istruzione, efficiente ma sommaria, affidata magari
a tre maestri in tutto (uno per il canto, il cembalo, il contrappunto,
uno per gli strumenti ad arco, uno per i fiati).
I conservatorii napoletani forniscono, appunto, manovalanza
rnusicale di prim'ordine a un fabbisogno musicale pubblico ben più
72 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

massiccio che non nel secolo precedente. Il Collegio germanico-


ungarico di Roma, dei gesuiti, crea da parte sua una élite musicale
destinata, oltre che alle corti d'Italia, alla propagazione della cat-
tolicità nei paesi riformati: esso rifornisce quindi un'area vastis-
sima, una richiesta prestigiosa, e vanta un livello pedagogico alto
ma anche una struttura didattica di grandi proporzioni. Chi vi
accede senza entrare nella carriera ecclesiastica è lautamente patro-
cinato da potentati ben disposti a molto investire nella formazione
romana dei cantanti e musicisti al loro servizio. In Italia l' organiz-
zazione dell'educazione musicale è dunque affidata in misura sempre
più preponderante e su scala sempre più larga alla Chiesa, che sa
farne strumento di propaganda confessionale e di intervento cul-
turale. Entro la fine del Seicento, peraltro, perfino l'educazione
dei nobili e della classe dirigente - che contempla sempre, oltre
le lettere, la danza, la scherma, anche lo studio dei rudimenti della
musica - passa dalla gestione patrizia delle accademie letterarie
a quella gesuitica, più efficiente, dei Collegi dei nobili.

11 • PUBBLICITÀ DELLA MUSICA

Attributo sonoro dell'autorità, requisito pedagogico delle classi


egemoni, strumento di propaganda e di persuasione: sono questi
i poli che sottendono il campo della "pubblicità" in cui si muove
la musica nel Seicento. Al nostro orecchio il termine "pubblicità"
- un termine che proprio a metà Seicento, nelle polemiche gesui-
tiche intorno alla liceità morale del teatro, fa la sua prima com-
parsa nel lessico italiano - assume una pluralità di significati diversi.
"Pubblico" è per un verso l'abbondante impiego dimostrativo che,
come mai prima di allora, della musica viene fatto nelle città e corti
europee del Seicento (feste, tornei, cortei, balletti, eccetera). Non
meno "pubblico", ma in modi affatto diversi, è il mercato edito-
riale - in espansione soprattutto nelle metropoli del Nord, Loq-
dra Parigi Amsterdam - della musica strumentale da camera a fine
secolo, musica privatamente consumata, sl, ma sorretta da un gusto
collettivo socialmente condizionato. Nell'uso linguistico coevo il
concetto di "pubblico" (aggettivo sostantivato o no) si applica a
cose diverse. Esso si applica innanzitutto alla qualità, intrinseca
e rappresentabile, di un patrimonio che appartiene all'intiero corpo
PUBBLICITÀ DELLA MUSICA 73

sociale, alla collettività: i pubblici poteri, il bene pubblico, le pub-


bliche istituzioni, la classe o i magistrati che ne son fatti garanti,
eccetera. Esso si riferisce però anche alla fruizione effettivamente
o virtualmente collettiva d'una produzione artistica, d'un evento
destinato a un pubblico in senso stretto (un'assemblea di spetta-
tori e uditori) o in senso lato (il ceto degli amatori di musica). Esso
allude infine - in senso modernamente e volgarmente "pubblici-
tario" - alla funzione propagandistica che rivestono richiami, sti-
moli, messaggi culturali e ideologici indirizzati alla collettività a
scopo di persuasione. Queste diverse forme della pubblicità pos-
sono bensl coesistere, e di fatto coesistono spesso nel Seicento:
la liturgia d'una messa solenne ornata di musica in una basilica
romana è, al tempo stesso, pubblica rappresentazione d'un corpo
sociale (un corpo che abbraccia idealmente le gerarchie celesti e
le terrene) e occasione allettante per uno spettacolo cerimoniale
collettivo, il quale a sua volta non andrà privo d'una valenza mera-
mente pubblicitaria, tant'è vero che Pietro Della Valle confessa
di buon grado di andare « molte volte di più alle chiese dove bene
si canta», chiese dove più facilmente egli sente eccitarsi nell'animo
« spiriti di devozione e di compunzione e fino desiderio dell'altra
vita e delle cose celesti». Ma non combaciano certo, queste diffe-
renti accezioni del termine, e occorre distinguere di caso in caso.
La nozione di pubblico e di pubblicità varia quanto variano le
forme di governo, le strutture delle società, i modi della produ-
zione e del consumo artistico. Pari pari mutevole è l'estensione
quantitativa e qualitativa del concetto. Certo, non mancarono nel
Seicento eventi musicali pubblici cui parteciparono città intiere
(un caso per tutti: il pubblico rendimento di grazie per la cessa-
zione della peste nel 1631 a Venezia, con la posa della prima pie-
tra del santuario votivo della Salute, e il canto d'una messa solenne
composta all'uopo da Monteverdi). Più spesso, un evento si rivolge
a un numero limitato di persone, a un àmbito sociale circoscritto:
sarà legittimo considerarlo pubblico a patto che questo uditorio
limitatoje circoscritto sia rappresentativo d'una comunità, e che
quell'e~nto intenda esso stesso manifestare il potere dei suoi pro-
motori. Cosl, gran parte della vita cerimoniale (e quindi anche musi-
cale) d'una corte avrà - in quanto azione di Stato - carattere pub-
blico, anche quando vi partecipino soltanto i sovrani e i cortigiani,
e del popolo tutt'al più i rappresentanti politici: è il caso, in pri-
74 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

mis, di tanti balletti, ballets de cour, masques, tutte forme di cele-


brazione cerimoniale del potere sovrano (cfr. Lettura n. 2). Non
stupisce che questa, di fatto, sia la concezione della "pubblicità"
dominante nel Seicento europeo: una pubblicità che promana da
un pubblico socialmente assai selezionato e però convenzionalmente
delegato a rappresentare la collettività, e ad esso, anziché a tutta
la collettività, rivolta. Ma dalla dinamica sociale complessa delle
grandi città, Venezia Napoli Parigi Londra Amsterdam, sorgono
anche forme più diffuse e avvolgenti di pubblicità.
Tanto per indugiare ancora nel settore della didattica musicale
(che all'impiego sociale della musica è direttamente funzionale) e
in quello dell'organizzazione professionale dei musicisti, uno
sguardo alla situazione fuori d'Italia - là dove il massimo organiz-
zatore e promotore di cultura non è la Chiesa - consente di cogliere
alcune variabili significative nella nozione di pubblicità della musica.
A Parigi, per esempio, l'istruzione musicale professionale si svolge
su scala individuale (non dentro organismi scolastici di tipo ita-
liano), ma la patente che dà diritto all'esercizio dell'insegnameqto
è regolata da un monopolio regio concesso alla corporazione ~ei
musicisti, la confraternita di Saint-Julien-des-Ménétriers. Il mono-
polio passa indi, sotto Luigi XIV, all' Académie royale de musi-
que, che si dedica tuttavia soprattutto alle iniziative spettacolari
e provvede alle funzioni didattiche quel tanto che basta ad assicu-
rare il ricambio professionale fisiologico (cfr. § 25). La gestione
corporativa dell'istruzione musicale, garantita da un privilegio di
Stato, è un incentivo alla trasmissione ereditaria del mestiere: intiere
dinastie di musicisti dominano il mercato musicale della città per
decenni e decenni. Pari pari, il monopolio di Stato ha un effetto
accentratore: l'attività dei musicisti ruota intorno alla capitale, alla
corte, al sovrano. Il monopolio, se non favorisce la diffusione del-
1' esercizio della musica, garantisce al "pubblico" (allo Stato e alle
sue pubbliche forme di rappresentazione) la disponibilità di una
schiera sempre efficiente di operatori musicali.
Il fabbisogno musicale pubblico è infatti assai forte. Sotto il
Re Sole la musica del sovrano - organizzata nei tre corpi musicali
della Chapelle, dell'Écurie e della Chambre (come dire musica sacra,
musica militare o di parata, e musica da camera: di quest'ultima
fa parte il gruppo dei 24 violons du roi, vera e propria orchestra
stabile istituzionalizzata fin dall'epoca di Luigi XIII) - dà lavoro
PUBBLICITÀ DELLA MUSICA 75

a 150-200 musicisti, per metà stabilmente iscritti nei ruoli della


corte (i musiciens officiers) e per metà assunti a tempo indetermi-
nato (i musiciens ordinaires). Le occasioni che in varia misura richie-
dono l'addobbo sonoro della musica cerimoniale vanno dai grandi
eventi storici della nazione, come i Te Deum trionfali di ringra-
ziamento per le vittorie belliche, alle consuetudini dell'etichetta
quotidiana, come lo spettacolare petit lever du roi o il souper du roi
(che per la verità vengono celebrati in musica soltanto un paio di
volte al mese). Il favore che il sovrano ostenta per la tragédie lyri-
que e l'intraprendenza manageriale del suo artefice Lully conferi-
scono all'attivissima Académie il tono e il carattere d'una istanza
normativa del gusto e del costume teatrale e musicale nella vita
pubblica parigina (cfr. § 25). Uno spiegamento così assiduo e fer-
vido di musiche regali ha un significato propagandistico palese, di
manifestazione sonora del buon governo e delle splendide sorti
d'una nazione florida e gloriosa: e presuppone pertanto istituzioni
musicali altrettanto rigogliose, la creazione di un ben organizzato
sistema di funzionari e professionisti musicali. Sotto il potere asso-
luto di Luigi XIV si consolida dunque in Francia la funzione ceri-
moniale e, ancor più, dimostrativa della musica (come delle altre
arti e scienze, organizzate dal ministro Colbert in un sistema di
accademie destinate a garantirne il prospero sviluppo a maggior
beneficio della nazione e del bene pubblico, dell'economia e del-
1' arte militare, della tecnica e dell'industria); si consolida una sua
condizione intrinsecamente pubblica e addirittura, alla lettera, pla-
teale. La città, la corte assistono ammirate a esibizioni musicali
che sono rivolte alla nazione intiera, anzi le appartengono. (La dif-
ferenza, rispetto ai programmi esoterici ed enciclopedici dell'effi-
mera Académie de poésie et de musique fondata nel 1570 sotto
la protezione di Carlo IX - cfr. voi. IV,§ 38 -, non potrebbe essere
più flagrante: tale accademia coltivava nel chiuso delle proprie riser-
vatissime riunioni domenicali le scienze naturali, le lingue, la geo-
grafia, le matematiche, l'arte militare e perseguiva inoltre l' adde-
s~ramen,to di un numero selezionato di musici e poeti nell'eserci-
zio dell~ musica "misurata" ali' antica, nell'intento di procurare nei
Propri soci quegli effetti di rigenerazione morale che gli antichi
attribuivano alle virtù della musica. Finl che l' Académie fu osteg-
giata dal parlamento e dalla Sorbona, gelosi dei privilegi e dell'in-
76 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

clinazione che il sovrano concedeva a quel club esclusivo di intel-


lettuali segregati da ogni pubblicità.)
A Londra - dove il trono degli Stuart è tanto meno saldo di
quello francese dei Borboni - la contesa tra i musici della città e
i musici del re per arrogarsi il monopolio dell'insegnamento e del-
l'esercizio pubblico della musica è accanita e cronica. I tentativi
di istituire un insegnamento pubblico di musica teorica, come quello
tenuto daJohn Bull dal 1596 al 1606, presto falliscono (le Univer-
sità di Oxford e Cambridge rilasciano invece fin dal primo Cin-
quecento un dottorato in musica, di cui si fregia per esempio il
liutistaJohn Dowland, poco apprezzato a corte ma acclamatissimo
dai nobili amatori di musica per l'intensa, pervadente melanconia
- il più privato, il meno pubblico degli affetti - che ispira i suoi
quattro libri di Airs, 1597-1612, e le sette dolenti pavane per con-
sort di viole intitolate Lachrimae, 1604). Né, per tutto il secolo,
si istituisce in Inghilterra alcunché di simile all'accademia reale di
musica di Parigi. La profondità della differenza della situazione
britannica rispetto alla francese la denotano sintomaticamente anche
due fortunati manuali di didattica musicale, la Plaine and easie intro-
duction to practicall musicke (Facile introduzione alla musica pra-
tica) di Thomas Morley, del 1597, e l'Introduction to the skill o/
musick {Introduzione alla perizia musicale) di John Playford, del
1654 (alla dodicesima edizione, 1694, collaborò Purcell). Questi
manuali di apprendimento veloce e autodidattico sono l'opera di
due stampatori musicali, ben consapevoli che facilitare la diffu-
sione rapida dei rudimenti musicali equivaleva a incoraggiare il con-
sumo domestico di musica, quindi ad ampliare il raggio della pro-
pria clientela virtuale. All'iniziativa editoriale di Morley tenne dietro
il successo della scuola madrigalistica inglese, effimera ma fiorente
(un migliaio di madrigali apparsi in una cinquantina di edizioni
tra il 1588 e il 1627). L'impresa editoriale del Playford pose invece
(dopo la rivoluzione) le basi della moderna editoria musicale bri-
tannica, mezzo potente di diffusione del repertorio strumentale
e vocale da camera. Significativa resta in ambo i casi l'espansione
d'un vivace mercato privato della musica.
Ma "privato" è la parola giusta? Nella seconda metà del secolo,
quel mercato di consumo musicale domestico, quella propagazione
borghese del dilettantismo, dà luogo a forme imprenditoriali e occa-
sioni sociali che prefigurano forme moderne di consumo pubblico
PUBBLICITÀ DELLA MUSICA 77

della musica. È del 16 72 l'apertura dei primi concerti pubblici rego-


lari a pagamento, proprio a Londra: organizzati dapprincipio in
taverne, essi si radicano nella vita cittadina insieme al radicarsi
dell'uso di bevande da consumare socievolmente (il caffè, il tè).
Nel 1683 Henry Purcell bandisce sulla stampa periodica (la «Lon-
don Gazette») una sottoscrizione per l'edizione, da lui stesso curata
e distribuita, delle sue Sonate a tre (nel «Gentleman's Journal»
invece, negli anni Novanta, appaiono di quando in quando ariette
teatrali di Purcell). Il compositore si confronta direttamente con
il proprio pubblico cittadino e borghese, senza necessariamente pas-
sare attraverso la mediazione del patrocinio aristocratico o del mono-
polio regio, come accade invece in Italia, in Francia. Concerto pub-
blico e consumo domestico sono le due facce complementari d'una
vita musicale metropolitana che fa capo a una nozione borghese
di "pubblicità", una nozione che sorge proprio nel Seicento inglese
e olandese. È una pubblicità dinamica: il suo veicolo è un'opinione
pubblica che nella stampa e nei circoli culturali d'élite trova i pro-
pri strumenti, il proprio centro di gravità. È una pubblicità che
collide, o quantomeno non congruisce, con le forme di rappresen-
tazione pubblica del potere regio: negli stessi decenni, la stessa corte
britannica della restaurazione imita ed adotta l'assetto organizza-
tivo musicale più vistosamente pubblicitario (in senso assolutistico)
del continente, quello della corte del Re Sole: e lo stesso Purcell,
l'arbitro del gusto musicale cittadino, è anche il funzionario emi-
nente della musica del re.
Nella stessa Francia di Luigi XIV, però, la musica pubblica del
re, a corte e nella capitale, emargina ma non soffoca il consumo
domestico di musica. La scuola di liuto, gloriosa (un titolo come
La rhétorique des dieux - apposto al manoscritto miniato che rac-
coglie le opere del massimo liutista francese, Denis Gaultier - la
dice lunga), decade con il decadere dell'autonomia politica e cul-
turale dell'aristocrazia (sua destinataria naturale) proprio sotto il
Re Sole: il quale, per parte sua, si diletta di chitarra, strumento
assai meno nobile del liuto. L'esiguo ed eminentemente privato
repertorio delle suites cembalistiche (le prime collezioni importanti
sono quelle di Jacques Champion de Chambonnières, del 1670,
cui poche altre - di Jean-Henri D' Anglebert e Nicolas-Antoine
Lebègue - tennero dietro prima del 1700) evoca però taluni carat-
teri salienti della musica per liuto, in primis Io style luthé (o briseJ,
78 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

l'imitazione al cembalo della tipica rifrazione liutistica degli accordi


in arpeggi sgranati. Sul principio della stilizzazione sommessa e
artificiosa delle musiche di società si fonda tutto il repertorio cem-
balistico francese. Ogni homme de qualité - come Monsieur Jour-
dain, il borghese gentiluomo dell'omonima comédie-balletdi Molière
e Lully - mantiene un maestro di musica e un maestro di ballo.
In una società centripeta e conformistica come quella della capi-
tale francese, dilaga la moda dei concerti da camera promossa nei
palazzi della nobiltà parigina. Concerti "privati", certo, ma d'una
privatezza ben ostentata, se se ne dà notizia sul «Mercure galant»,
il corriere delle vicende politiche e sociali e culturali della corte
e della capitale; concerti privati che formulano e consolidano un
gout selettivo e normativo, cui conviene che tutti si adeguino; con-
certi privati che alimentano l'importazione della musica strumen-
tale e vocale dall'Italia e il dibattito pubblicistico assai animoso
pro e contro la musica italiana e la francese, in un ambiente di intel-
lettuali che, nel campo della letteratura e del teatro e della musica,
"fanno" opinione pubblica (e sia pure, talvolta, in contrapposi-
zione polemica, ma perfettamente funzionale, alla cultura ufficiale
della corte).
Non soltanto Parigi, con i suoi modelli sociali e culturali forte-
mente accentrati, e Londra, con il suo fervore mercantile e parla-
mentare, assistono a un coinvolgimento cosl totale della musica
nella vita pubblica. Anche le città italiane fanno un consumo di
musica sempre più pubblico. Le guide monumentali di Ferrara
Genova Venezia Roma segnalano ai turisti quei conventi e quelle
chiese che hanno i cori, gli organisti, le monache canterine migliori.
Là dove la gestione del potere è spartita tra istituzioni diverse,
l'apparato musicale funge da divisa sonora individuante. Possono
insorgere conflitti: la competizione tra cappella del viceré e cap-
pella del Tesoro di S. Gennaro a Napoli sfocia talvolta in aperta
polemica (non mancano invero le occasioni festive in cui conver-
gono potere politico ed ecclesiastico, collidono musica della corte
e musica della città). A sua volta, la cappella vicereale fa ostruzio-
nismo contro l'assunzione, nel suo organico, di cantanti teatrali
(forestieri), propiziata dal giovane Alessandro Scarlatti ma avver-
tita come un'intrusione indebita: portatori di una forma nuova e
accattivante (e perfino un po' malfamata) di "pubblicità", i divi
della scena contaminerebbero la sacralità tradizionale della musica
PUBBLICITÀ DELLA MUSICA 79

di cappella. Anche quando i musicisti al servizio delle varie istitu-


zioni siano per avventura i medesimi - a Bologna la circolazione
tra il Concerto Palatino, la cappella basilicale di S. Petronio, le
iniziative oratoriane dei Filippini e l'assise accademica dei Filar-
monici è intensa -, restano ben distinte le funzioni. Ma là dove
potere civile, politico ed ecclesiastico sono tutt'uno, come a Venezia,
Stato e privati concorrÒno alla pubblicità delle attività musicali:
accanto ai luoghi istituzionali (la basilica ducale di S. Marco) e semi-
istituzionali (le "scuole" di S. Rocco, S. Spirito eccetera, gli "ospe-
dali"), gli episodi extraistituzionali in cui prospera la condizione
pubblica della musica acquistano uno spessore massiccio (i teatri
d'opera! dr. § 21). Durante la stagione operistica - per le feste
natalizie - i grandi castrati teatrali di fine secolo (Francesco Antonio
Pistocchi o Domenico Cecchi o Matteo Sassano eccetera), scrittu-
rati dai teatri veneziani, si producono cantando mottetti solistici
durante le liturgie marciane, senza che l'osmosi occasionale di canto
sacro e canto teatrale venga percepita come disdicevole contami-
nazione.
E a Roma, nella capitale del mondo cattolico? Secondo il Con-
trasto musico del giureconsulto Grazioso Uberti, del 1630, sette
sono i luoghi propri alle produzioni musicali romane: «scuole», «case
de' privati dove si fanno concerti di musica», «palaggi dei pren-
cipi», «chiese», «oratorio», «all'aria», «case de' compositori»
(avesse l'Uberti scritto pochi anni dopo, avrebbe potuto aggiun-
gere l'ottavo luogo, il teatro, che a Roma ebbe asilo in case pri-
vate, è vero, ma con pretese pubbliche e pubblicitarie ovvie: non
può davvero considerarsi "privato" il palazzo della famiglia del
pontefice, i Barberini, e il loro teatro capace di migliaia di spetta-
tori! cfr. § 20). Nei collegi dove si forma la classe dirigente civile
e religiosa l'esercizio della musica culmina nelle accademie di fine
d'anno o nelle cantate di carnevale; i concerti si tengono in quelle
case e in quei palazzi che danno il tono alla vita artistica della città,
quelle delle famiglie papali e cardinalizie, degli ambasciatori stra-
nieri, dei letterati alla moda; oltre a ricoprire l'anno liturgico a suon
di musica, le chiese celebrano al cospetto della divina maestà e del
Popolo di Roma quarant' ore, adorazioni, trionfi, esequie, canoniz-
zazioni e ricorrenze; in tempo di quaresima e di avvento gli orato-
rii fomentano musicalmente la devozione e la pietà; "ali' aria" si
fanno spettacoli d'ogni specie, tornei cortei giostre mascherate lumi-
80 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICA LE

narie serenate carri di carnevale, sempre con musica. Si dovranno


dunque considerare propriamente "private", nella classificazione
dell'Uberti, le sole case dei compositori (come quella dell'Abba-
tini che in casa propria tiene accademia, cfr. Lettura n. 3).
Insomma: i contorni d'una categoria dinamica come quella di
"pubblico" sono per natura loro concettualmente fluidi (non vige
infatti per il concetto di "pubblicità" - un concetto culturale e
sociale e non già giuridico - la stessa rigorosa dicotomia che, nel
campo del diritto, delimita tassativamente il "pubblico" dal "pri-
vato" e subordina questo a quello), e non consentono di esaurire
in una o due formule la gran moltitudine di forme di consumo musi-
cale collettivo praticate nel Seicento. E però il ruolo propulsore
della "pubblicità" traspare da tutte le manifestazioni musicali del
secolo, in misure e modi che il Cinquecento - raccolto com'era
nella sfera totalizzante della polifonia vocale - ignorò, e che toc-
cherà al Settecento di delimitare razionalmente e di organizzare
istituzionalmente. Correlata (se non addirittura subordinata) al pre-
ponderante ruolo pubblico assunto dall'esibizione musicale nel Sei-
cento, la scissione verticale tra le funzioni distinte dell'esecuzione
e dell'ascolto risale anch'essa a questa stessa epoca: ed è scissione
densa di quante conseguenze. È nel Seicento che va perduta quella
circolarità tra produzione e consumo musicale, quella partecipe con-
sapevolezza dell'ascolto ai processi compositivi che, almeno ideal-
mente, è implicita nella poetica e nella teoria della polifonia vocale
cinquecentesca; è vero però che nel tardo Seicento insorgono forme
diffuse di dilettantismo strumentale domestico che diventeranno
poi il nucleo vitale della cultura musicale borghese settecentesca.
Sorgente di fasto e prestigio, divisa sonora d'un'istituzione, intratte-
nimento collettivo d'una città, addobbo acustico d'una cerimonia,
strumento di culto, allegoria dimostrativa del potere: tutte queste
funzioni, (o'rtatrici d'ideologia, sovrastano l'orizzonte del consumo
musicale e, se non soverchiano del tutto su quelle dell'ascolto con-
sapevole e competente, senz'altro le segregano in una riservatezza
elitaria. Pari pari, la musica esce sempre più dall'enciclopedia delle
scienze tradizionali e assume spesso i caratteri dell'attività servile,
della prestazione d'un servizio, della produzione d'un bene d'uso
(Mersenne ha un bel desiderare che si ricrei l'assetto enciclo-
pedico dell' Académie de poésie et de musique di fine Cinque-
cento: la realtà si muove in senso opposto). Tra l'esercizio privato
EDITORIA E COLLEZIONISMO 81

e la pubblica esibizione, tra l'autonoma coltivazione e le finalità


eteronome della musica insorge nel Seicento una contrapposizione
problematica e feconda che consegna definitivamente l'arte musi-
cale ai processi e ai conflitti d'una dinamica sociale moderna.

12 • EDITORIA E COLL~IONISMO

Se è vero che nel Seicento europeo la vita musicale si apre sempre


più verso la "pubblicità", è facile immaginare le ripercussioni sul-
!' editoria musicale. Essa, fatalmente, tende a restringersi: baste-
ranno infatti poche, buone copie manoscritte in mano ai musicisti
giusti per ,raggiungere il pubblico di uditori che si intende raggiun-
gere. Al tempo stesso, la circolazione manoscritta della musica con-
sente quel che la stampa musicale non consente in egual misura:
predeterminare, preselezionare i destinatari.
Certo, la stampa musicale funge anche da veicolo ufficiale per
le opere musicali cui si vuole assicurare un'adeguata circolazione:
cosl, l'edizione degli inni a 4 voci del Palestrina in un lussuoso librq
corale in-folio sancisce per il mondo cattolico la riforma dell'inna-
rio voluti d8: Urbano VIII (Anversa, 1644), ma in questo gesto
si manifestll. l'autorità della Santa Romana Chiesa in quanto tale,
tant'è vero che sulla stampa non figurano affatto il nome del com-
positore (né dei revisori musicali). Su un piano assai più dimesso,
l'attività di alcuni curatori editoriali romani che selezionano e pub-
blicano antologie di mottetti e salmi a poche voci e basso conti-
nuo di musicisti romani coevi è uno strumento efficace di diffu-
sione di un genere di musica ecclesiastica sufficientemente moderna
e sufficientemente accessibile da garantire un repertorio musicale
decoroso e morigerato a tutte le cappelle musicali, anche le meno
cospicue (Fabio Costantini maestro di cappella a Orvieto pubblica
11 antologie siffatte tra il 1614 e il 1639; don Florido de Silve-
stris da Barbarano, canonico a Santo Spirito, 16 antologie tra il
1643 e il 1672; l'editore G. B. Caifabri, 4 antologie tra il 1665
e il 1683). In Francia, la concessione regale del monopolio e privi-
legio di stampa musicale alla ditta Ballarci garantisce il massimo
Prestigio alle edizioni ufficiali delle musiche patrocinate dal re (per
esempio le tragédies lyriques-di Lully, o i 50 grands motets regi del
1684-86), e sottrae a qualsiasi concorrenza di mercato - eliminan-
82 PROBLEMI DEL SEICENTO M U S !CA LE

dola - le edizioni di questi "documenti" e "monumenti" della cul-


tura di Stato destinad all'ammirazione della nazione più ancora
~he al pratico consumo. All'inizio del secolo, si stampa talvolta in
Italia la musica integrale di taluni spettacoli musicali principeschi
(per esempio le due Euridici fiorentine del 1600, l'Orfeo e la Dafne
mantovani del 1607-08, la Catena d'Adone e il Sant'Alessio romani
del 1626 e 1631): sono stampe destinate non tanto all'esecuzione,
alla riproduzione sonora d'uno spettacolo irripetibile, quanto alla
testimonianza futura dello splendore d'un evento politicamente e
artisticamente rilevante, alla autoglorificazione d'una corte agli
occhi delle altre corti italiane ed europee tramite la rete fitta di
ambasciatori, legati, residenti, oratori principeschi (può accadere,
però, che l'intraprendenza di impresari e cantanti di provincia
ricorra alle partiture a stampa anziché pagarsi la composizione
d'un'opera nuova: così la Catena e il Sant'Alessio ebbero alcune
imprevedute riprese emiliane negli anni Quaranta, e quest'ultimo
fu imitato perfino in Polonia). Del resto, i potentati si accorgono
ben presto che costa meno e fa più impressione l'edizione delle
favolose scenografie d'uno spettacolo che non la pubblicazione delle
sue musiche, documento ermetico agli occhi dei destinatari (che
sono pffii.éipi e cortigiani e letterati, non già musicisti). Di parti-
ture teatrali, dopo gli anni Trenta, non se ne stampano quasi più,
e il teatro d'opera vivrà d'una tradizione totalmente manoscritta.
Musiche di cerimonia destinate a un uso ripetitivo ma esclu-
sivo, come le Symphonies pour le souper du Roi di de La Lande,
restano in uso lungamente ma soltanto in manoscritto. Le cappelle
musicali delle grandi basiliche e delle congregazioni conservano
manoscritto ad uso proprio il proprio repertorio, spesso legato a
prassi esecutive peculiari e quindi poco trasferibile (le musiche poli-
corali di Virgilio Mazzocchi e Orazio Benevoli alla Cappella Giu-
lia in San Pietro; ~musiche strumentali e i mottetti con trombe
soliste a San Petronio di Bologna; le messe e i requiem di Statt
a San Marco di Venezia; messe, mottetti e salmi a due cori e due
organi a Santa Maria Maggiore di Bergamo; le lezioni delle Tenebre,
le Passioni, le pastorali natalizie all'Oratorio filippino di Napoli).
Altre volte, considerazioni svaria te possono "congelare" in una
chiesa un repertorio manoscritto di musica sacra. Pare che Ales-
sandro VII si opponesse alla pubblicazione dei mottetti e dialoghi
latini di Giacomo Carissimi, per la non rigorosa liturgicità dei loro
EDITORIA E COLLEZIONISMO 83

testi (infatti, tanto per dire, un suo mottetto natalizio termina con
una <<Piva (si placet)»: testo metrico latino in endecasillabi, ma
musica da "rispetto" popolare): l'interdizione valeva però per Roma,
e qualcosa del Carissimi fu invece stampato, non a caso, in Ger-
mania (egli era maestro di musica del Collegio Germanico gesui-
tico, destinato alla difesa e propagazione missionarie della fede cat-
tolica nei paesi tedeschi). Dopo la morte di Carissimi, disposizioni
testamentarie e un breve di papa Clemente X tutelarono l'inte-
grità e inaliènabilità di quel repertorio manoscritto, proprietà del
Collegio (il che non impedl peraltro al Caifabri di pubblicare
postuma, per l'anno santo 16 75, una scelta di Sacri concerti del
Carissimi): l'esito del congelamento condusse però - in questo e
in tanti altri casi - alla dilapidazione del repertorio, una volta pas-
sato l'interesse e l'attualità.
La libera circolazione delle copie manoscritte comporta invece
un forte tasso di dispersione e di selezione precoce, determinata
dal "gusto" (categoria di giudizio, questa, che proprio nel Seicento
fa la sua comparsa). Del corpus delle historiae latine composte da
Carissimi per l'oratorio del SS. Crocifisso e per il Collegio Ger-
manico sopravvivono copie accurate e autorevoli: esse sono però
a Parigi, dove ne portò la fama il di lui allievo Marc-Antoine Char-
pentier, che le aveva copiate in Roma. Le corti delle famiglie papali
e dell'aristocrazia ~omana (Ottoboni Pamphili Chigi Barberini
Ruspali Colonna) costituiscono collezioni di manoscritti di cantate
e d'arie d'opera prodotte a loro spese e per il loro consumo da équi-
pcs di copisti; altre copie circolano nel bagaglio di singoli cantanti,
altre si producono volta per volta su richieste occasionali di "turi-
sti" nordici, giovani signori inglesi, tedeschi e francesi che fanno
il grand tour del continente. Delle musiche per tastiera che Swee-
linck componeva ed eseguiva durante i servizi religiosi riformati
di Amsterdam, a spese della municipalità (di cui era al servizio,
le chiese calviniste non potendo di per sé assumere alcun musici-
sta né coltivare alcuna musica d'arte), non sopravvive un solo mano-
sc~itto olandese, e no{ ne conosceremmo una sola nota se i suoi
allievi germanici (Heinnch Scheidemann, Samuel Scheidt, Paul Sie-
fert, Andreas Diiben, eccetera) non ne avessero fatto circolare copie
manoscritte. Del repertorio virginalistico inglese non possederemmo
la fonte più cospicua, il colossale Fitzwilliam Virginal Book, se il
suo copista, il perseguitato cattolico Francis Tregian, non fosse stato
84 PROBLEMI DEL $ EIC EN TO MUSICA LE

messo in condizione di dover ammazzare il tempo (copiando musica)


nelle carceri londinesi del Fleet, dove passò gli ultimi anni di vita
(1609-19).
Certo, l'attività editoriale si restringe dappertutto (e in maniera
catastrofica in Italia) dopo il 1620 anche per fattori esterni, con-
nessi alla grave crisi economica del 1619-22. Il costo del legno cre-
sce di molto, con esso quello della carta (e a metà secolo gli editori
veneziani usano carta fatta di stracci, grossolana e fragile); crescono
i costi di produzione, quindi i prezzi al dettaglio, quindi si restringe
un mercato comunque già in fase calante. La crisi è evidentissima
nel settore delle antologie, che sono le pubblicazioni di più spic-
cato carattere editoriale (in cui l'editore investe maggiormente il
proprio capitale e la fiacchezza del mercato si ripercuote più diret-
tamente); la crisi è più lenta nel settore delle pubblicazioni indivi-
duali (di solito è il compositore stesso, o il dedicatario, a coprire
una parte notevole dei costi di stampa, o ad acquistare grossi quan-
titativi di esemplari): ma un sondaggio condotto su un campione
limitato - la produzione a stampa dei musicisti che iniziano con
B e con G - dà risultati davvero eloquenti per l'editoria veneziana.
Mettiamoli a confronto con i dati per le edizioni antologiche nelle
principali città italiane (Venezia, Milano, Bologna, Roma, Napoli),
la Germania, i Paesi Bassi, riassunti nella tabella qui di fronte. La
scomparsa dell'editoria napoletana (moderatamente rigogliosa all'e-
poca di un Gesualdo, di un Mantella) e di quella milanese (la più
forte dopo Venezia fino al 1620) è meno impressionante del crollo
dell'editoria veneziana, che per tutto il secolo precedente e parte
del Seicento attirava a sé la stragrande maggioranza dei musicisti
italiani, e li diffondeva regolarmente anche oltralpe. La concor-
renza dell'editoria germanica (che, all'infuori dei grandi editori-
distributori di Norimberga, Francoforte, Colonia, è frantumata in
una angusta dimensione provinciale) consiste in buona parte nella
produzione di antologie profane e sacre e in ristampe tratte dal
mercato veneziano, e fatalmente scema quando declina il flusso
editoriale alla fonte. La ripresa, comunque effimera, dell'editoria
germanica dopo la depressione (che coincide oltretutto con la guerra
dei Trent'anni) si fonda invece proprio sulla distribuzione, a livello
provinciale, di musica sacra protestante di consumo locale. Qual-
cosa di analogo avviene negli stati vaticani, a Roma e Bologna. Nella
capitale, oltre le antologie già menzionate, si pubblicano serie
1591-1600 1601-10 1611-20 1621-30 1631-40 1641-50 1651-60 1661-70 1671-80 1681-90 1691-1700

Venezia (antologie) 95 90 52 41 9 14 6 4 1 3
Venezia (autori) 220 162 151 117 39 15 10 9 8 6 15

Milano (antologie) 10 16 13 6 1 4 2 - 1 1 1

Bologna (antologie) - - 3 - - 1 - 4 2 2 4
Bologna (autori) - - 2 - - 2 2 8 26 29 34

Roma (antologie) 12 3 13 18 8 16 9 11 4 2

Napoli (antologie) 3 8 15 9 - 2 2
l:T1
o
Germania (antologie) 24 56 47 34 10 23 25 11 6 4 4 M
>-I
Germania (autori) 33 50 61 33 9 7 43 44 38 13 15 ,,o
>
t1l
Paesi B. (antologie) 25 19 16 17 5 13 6 4 1 1 17
n
o
t"'
t"'
t1l
N
o
z
--
N.B.: I dati (tanto per le antologie che per gli autori delle lellere Be G) sono ricdvati dal Répertoire intemational des sources musica/es, che notifica soltanto le
edizioni superstiti (e non quelle documentabili benché perdute), e che non distingue tra vere e proprie antologie e pubblicazioni di un singolo autore contenenti
u,
i:
una o poche composizioni altrui: tali dati hanno dunque un valore approssimativo, meramente indicativo. o

00
VI
86 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

"esemplari" di musiche sacre da consumo, come le 25 "opere" di


salmi, inni, litanie, messe e soprattutto mottetti (o "sacri concerti")
del maestro di cappella del Gesù e del Seminario romano (ossia
del massimo istituto italiano di formazione del clero cattolico) Boni-
facio Graziani (t1664), stampate (in gran parte postume) tra il 1650
e il 1678, o le 18 (1645-81) di Francesco Foggia, maestro di cap-
pella di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore. A Bolo-
gna, praticamente dal nulla, i librai Antonio Pisarri, Marino Sil-
vani e Giacomo Monti iniziano verso il 1660 un'attività editoriale
fiorente ma sostanzialmente circoscritta a una "scuderia" di mae-
stri di cappella locali, di cui essa stimola la produzione davvero
strabocchevole (preponderantemente sacra): essi sono Maurizio Caz-
zati, maestro di cappella in San Petronio (più di 40 "opere" dal
1659 al 1677), Gio. Paolo Colonna suo successore (12 opere dal
1681 al 1694), Carlo Donato Cassoni organista della basilica (11
opere dal 1667 al 1675), G. B. Bassani organista e maestro di cap-
pella a Ferrara (22 opere dal 1677 al 1710). Più interessante di
questa editoria cattolica militante è l'incremento della musica stru-
mentale nei cataloghi degli editori bolognesi di fine secolo (dal 1666
al 1669 cinque "opere" strumentali di G. B. Vitali suonatore a
San Petronio e poi vicemaestro alla corte modenese, dal 1668 al
1689 cinque di Giuseppe Colombi capo degli strumenti del duca
di Modena, dal 1669 al 16 78 sei di Gio. Maria Bononcini maestro
di cappella del duomo di Modena). Né Roma né Bologna, comun-
que, riscattano la depressione dell'editoria musicale italiana.
Una causa principale del riflusso editoriale è di natura intrin-
seca: il consumo musicale va identificandosi sempre più con
l'ascolto, sempre meno con l'esecuzione. La musica "concertata"
soppianta la predominanza totalizzante e universale della polifo-
nia vocale cinquecentesca? Ebbene, la stampa musicale è un mezzo
troppo poco duttile per tener dietro alla proliferazione di stili,
forme, funzioni diverse. Un libro di madrigali regolari a 5 voci con-
tiene di norma 21 madrigali: un madrigale per pagina in ogni parte
staccata (in ogni "voce"), con 3 pagine accessorie (frontispizio e
dedica all'inizio, indice alla fine), fanno cinque fascicoletti di 24
pagine ciascuno, ossia sei fogli. L'ottavo libro di Monteverdi con-
sta invece di 8 parti vocali di piccolo formato, di 35, 43, 28, 91,
51, 28, 44 e 28 pagine ciascuna, e di una partitura in-folio per il
basso continuo, di 81 pagine. Le dimensioni si alterano, ogni libro
EDITORIA E COLLEZIONISMO 87

nuovo è un problema nuovo di impaginazione, di tecnica tipogra-


fica ed editoriale da risolvere. E un unico settore del mercato "tira"
bene anche in Italia: quello della musica strumentale, solistica e
d'assieme, destinata (come a suo tempo il madrigale) al consumo
privato. Si passa da meno di 40 edizioni nel quarto decennio del
secolo a quasi 70 nell'ottavo a più di 110 nell'ultimo.
Vince la gara su questo mercato strumentale in espansione chi
si procura le tecniche più moderne, la perde chi persiste nelle tec-
niche obsolete. La stampa italiana è tutta in caratteri mobili: un
pezzettino di piombo per ogni singola nota. È costosa e poco ele-
gante (i pentagrammi appaiono trinciati in tanti segmenti quante
sono le note, i segni); non consente di legare tra di loro le gambe
di crome e semicrome (che, moltiplicandosi via via nel corso del
secolo, diventano quindi poco leggibili coi caratteri mobili): pre-
sto essa non è più all'altezza dei problemi che le si pongono. Nel
1700, per riprodurre le doppie corde di certi passaggi nelle sonate
per violino solo di Corelli, lo stampatore bolognese è costretto a
inserire tra i caratteri mobili (che danno sempre soltanto una nota
per volta) alcuni pezzetti di incisione musicale. Il procedimento
dell'incisione musicale viene però intanto praticato su larga scala
da qualche decennio in Olanda e in Inghilterra: due "piazze" che,
con l'intraprendenza capitalistica e la libertà di commercio che le
contraddistinguono, conquistano ben presto il mercato europeo e
in pochi anni attirano a sé la produzione di musica strumentale
dell'Europa intiera, Italia compresa. Eppure il procedimento del-
l'incisione non era sconosciuto in Italia. Lo aveva praticato a Roma
alla fine del Cinquecento un fiammingo, Simone Verovio, per inci-
dere partiture e musiche intavolate per cembalo o liuto. Nel 1615
e nel 1627, sempre a Roma, appaiono due capolavori del genere,
i due libri di toccate di Girolamo Frescobaldi: l'articolazione semio-
grafica vi raggiunge un grado di finezza insuperato, che suggeri-
sce all'esecutore il fraseggio appropriato e organizza secondo una
logica musicale e manuale sottile l'intrico delle quattro "voci" che
si intersecano. Ma sono edizioni di lusso: il mancato decollo indu-
striale di una siffatta tecnica artigianalmente raffinatissima e con-
dannata a restar tale conferma la marginalità che l'Italia musicale
va assumendo nell'Europa del Seicento. D'altra parte è scarsamente
rilevante il consumo "povero" o "popolare" di stampe musicali:
"cantorini" di uso liturgico o devoto corrente, libri di canzonette
88 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

spesso privi di note e corredati delle sole cifre della chitarra spa-
gnola (la melodia si dà per conosciuta). In Francia, invece, le rac-
colte (in gran parte anonime) di chansons e airs à boire assumono
ritmo annuale a partire dal 1658, mensile dal 1694, e costituiscono
un cespite notevole per lo stampatore Ballard.
Cosa significa per l'arte musicale il riflusso, la depressione del-
1' editoria musicale seicentesca? Principalmente, la perdita dell'" oriz-
zonte storico" della musica. Ogni musicista del Seicento conosce
grazie alla stampa i capolavori estremi del madrigale cinquecente-
sco, Arcadelt e Gesualdo (cfr. § 1), conosce le edizioni monumen-
tali del Palestrina (cfr. § 15), conosce Frescobaldi (lo conoscerà
perfino Bach). Ma lo stesso musicista ignora però la produzione
corrente di musica vocale da camera della generazione precedente,
la produzione di musica sacra delle città lontane e vicine. Finita
la validità universale dell'idioma polifonico, cosl assiduamente pro-
pagato dalle stampe del secolo precedente, l'orizzonte del musici-
sta del Seicento si restringe a quello dei suoi maestri personali, al
giro spicciolo dei colleghi della sua città, dei cantanti e musicisti
di passaggio, dei procacciatori di copie manoscritte.
A questa situazione non può certo - né vuole - porre rimedio
l'istituzione, frequente nel Seicento, di collezioni musicali. Si tratta
perlopiù di collezionismo colto ed erudito: si creano "gabinetti"
di musica come se ne creano di scienze naturali, o di disegni e
stampe. Si tratta, nella più vera accezione del collezionismo, di
massicce sottrazioni di beni di consumo al mercato; l'importanza
e il valore monetizzabile della collezione sono legati alla non-
funzionalità, alla rappresentatività astratta della merce alienata al
commercio. Cosl, la collezione di strumenti, di musiche stampate
e manoscritte, di ritratti di musicisti raccolta dal musicista ferra-
rese Antonio Goretti, decantata dalle guide monumentali di Fer-
rara ai primi del secolo, finisce poi alla corte di Innsbruck, dove
è però segregata dall'uso corrente della cappella. Il re Giovanni
IV del Portogallo raccoglie una biblioteca musicale aggiornatissima,
della quale pubblica anche il catalogo a stampa del 1649 (è tutto
quel che ne resta, dopo la distruzione di Lisbona nel terremoto
del 1755): ma nella sua Difesa della musica moderna (1649, edizione
italiana 1666) il sovrano si occupa, in realtà, della polemica cin-
quecentesca - ormai tutt'altro che moderna - sulla liceità litur-
gica del contrappunto figurato! I duchi di Modena, che di tutti
CONDIZIONE SOCIA LE DEL MUSICISTA 89

i potentati italiani sono (con i Medici) quelli che perseguono la più


coerente e impegnata politica culturale di livello nazionale e euro-
peo, fanno raccogliere verso il 1662 una cospicua collezione di can-
tate di musicisti romani: più sorprendentemente, verso il 1688 fanno
collezionare decine e decine di manoscritti di arie delle opere rap-
presentate dappertutto nell'Italia del Nord, e manoscritti di drammi
per musica romani sicuramente mai rappresentati a Modena, quasi
nell'intento di costituire un'astratta antologia della vita teatrale
coeva (si procurano tra l'altro l'opera suppergiù completa, e
postuma, di Alessandro Stradella). Il patrizio veneto Marco Con-
tarini nel 16 79 inaugura a Piazzola sul Brenta un suntuoso teatro
di corte: quasi a mo' di legittimazione storica della propria inizia-
tiva, fa raccogliere in una biblioteca le partiture d'opera veneziane
e no che riesce a recuperare. Tra di esse c'è l'Incoronazione di Pop-
pea attribuita a Monteverdi che, "fuori uso" ormai da trent'anni,
nessuno guarderà mai fino ai tempi nostri (i codici Contarini tor-
narono nell'Ottocento a Venezia, alla Biblioteca Marciana).
L'incidenza di siffatte collezioni sulla vita musicale e sulla con-
sapevolezza storica della musica è esigua, quasi nulla. Esse preser-
vano dal deperimento fisico dei prodotti musicali sottraendoli al
loro naturale consumo, che nel Seicento si è fatto rapido, vorace,
ineguale: non li preservano, in mancanza di un interesse critico
per il passato recente, dall'oblio.

13 • CONDIZIONE SOCIALE DEL MUSICISTA

Il procuratore Marco Contarini poté mettere in piedi, intorno


al 1680, la sua biblioteca di partiture teatrali veneziane anche gra-
zie a un gesto significativo di Francesco Cavalli (1602-1676), che
nel suo testamento predispose la conservazione dei propri mano-
scritti di drammi per musica, divenuti poi il nucleo centrale della
raccolta Contarini. Il Cavalli era stato il primo produttore di musica
operistica su base imprenditoriale: dal 1639 al 1666, e quasi senza
interruzioni, egli produsse, stagione per stagione, la musica di uno
o due drammi musicali all'anno rappresentati nei teatri d'opera
veneziani. Il suo è il caso esemplare dell'artista prodotto dall'isti-
tuzione (e non viceversa). All'epoca dell'apertura del primo teatro
d'opera pubblico a Venezia, il Cavalli, trentacinquenne, è salda-
90 PRO s L EMI o EL SE I e E N TO M u s I e AL E

mente avviato nella tranquilla e un po' burocratica trafila della car-


~a di ·cappella: cantore e poi organista in San Marco sotto Monte-
verdi, attivo anche all'organo di altre chiese veneziane, finirà infatti
per diventare, da vecchio, il successore del successore di M._onteverdi
alla testa della cappella ducale. Soltanto a 3 7 anni, nella piena matu-
rità, inizia per Cavalli la carriera, ben altrimenti logorante e compe:
titiva e gloriosa, di autore teatrale: carriera che fino a pochi anni
prima nessuno gli avrebbe saputo pronosticare, carriera che ne fece
invece il primo "operista" a pieno titolo, il primo esemplare, dun-
que, d'una specie di musicista destinata a una lunga discendenza. Il
Cavalli, arrivato tardi e quasi per accidente alla musica teatrale, alla
quale dedicò tutta la seconda metà della sua lunga vita, deve aver
avvertito la novità della propria condizione di operista rispetto alla
routine del musicista di cappella. La sua determinazione a conservare
per la posterità le proprie opere teatrali (ben sapendo egli tuttavia
che il mercato operistico non opere da riciclare bensl opere sempre
nuove richiedeva) è l'indizio d'una consapevolezza di sé medesimo
che invano ricercheremmo nella generazione successiva di autori di
musiche teatrali, in Italia: autori pei quali la posizione che ad essi
spettava dentro l'istituzione operistica, con i suoi modi di produ-
zione e di consumo, era cosa ovvia, "naturale"
Certo è che proprio soprattutto il teatro d'opera crèa un tipo
di musicista nuovo. Per il compositore, partecipare all'impresa tea-
trale - un'impresa artistica che è di tipo capitalistico, e sia pure
in forme ancora ambigue e rudimentali (cfr., 21) - vuol ~e esporsi
al rischio economico e agli azzardi del successo, alla competizione
con la concorrenza e alle volubilità del gusto, in una misura che
egli non aveva mai sperimentato in precedenza. Vero è però anche
che ben di rado il musicista è compartecipe diretto (finanziaria-
mente coinvolto) nell'impresa teatral~: solitamente, egli vi lavora
a contratto, allo stesso titolo dei cantanti o del costumista. Il musi-
cista d'opera è un fornitore, non un promotore, dell'impresa, con-
finato spesso nell'anonimato (libretti e partiture ne tacciono sovente
il nome). Addirittura il compositore viene pagato meno dei can-
tanti di grido, protagonisti delle sue opere: e la sua subalternità
è aggravata dal fatto che, onorato il contratto, egli cede al teatro
(all'impresario o al proprietario) la propria partitura e non rice-
verà perciò più una lira per le rappresèntazioni successive della sua
opera in altre città, in altri teatri, mentre i cantanti che cantino
CONDIZIONE SOCIALE DEL MUSICISTA 91

opere di repertorio in giro per l'Italia (cfr. § 22) saranno comun-


que sempre, e lautamente, remunerati a stagione e su base forfet-
taria per le loro prestazioni, indip'tndentemente, anche, del numero
delle repliche di un allestimento (indipendentemente, quindi, dal
successo effettivo dello spettacolo). Il compositore, espropriato del
proprio prodotto, paga dunque con una forte perdita di prestigio
sociale e artistico il passaggio verso forme di produzione moderne
come quelle del teatro d'opera impresariale. (È comunque vero che,
in generale, e anche prima dell'istituzione dei teatri pubblici, sono
proprio i cantanti - e non tanto i compositori di professione - a
raggiungere gloria e ricchezze nell'Italia seicentesca, a piena con-
ferma della preminenza che, nell'esperienza musicale del secolo,
la perizia esecutiva conquista sopra la prassi compositiva. Non sol-
tanto: i cantanti saranno assai più dei compositori idolatrati dai
poeti - nei teatri pubblici insorge l'uso di stampar sonetti d'enco-
mio e d'applauso da spargere in sala all'indirizzo dei virtuosi -,
o saranno essi stessi poeti: così il castrato cavalier Loreto Vittori,
autore di commedie e d'un poema giocoso. Un segno di distinzione
in più: fuori dei teatri impresariali, le prestazioni canore dei mag-
giori cantanti vengono remunerate non in moneta bensì con regali
e preziosi; nei contratti teatrali veneziani, invece, oltre l'onorario
è pattuito l'alloggio gratuito delle cantanti, per l'intiera stagione,
nei palazzi patrizi.)
Diversa è la condizione del compositore teatrale nei teatri di
corte. Uno come Antonio Cesti (1623-1669), oscuro frate france-
scano maestro di cappella a Volterra, venuto occasionalmente in
contatto con le i.n,iziative teatrali dei prìncipi di casa Medici, viene
"lanciato" come compositore e cantante d'opera. L'arciduca del
Tirolo, cognato dei Medici, lo assume a corte con la carica, creata
apposta per lui, di maestro di cappella della camera: in pratica, capo
dei mqsici di camera del sovrano (quasi tutti cantanti italiani), autore
di musiche d'intrattenimento (cantate da camera), e infine mae-
stro di cappella del teatro d'opera di corte. Il frate commisura la
novità della propria insperata vocazione teatrale sugli ostacoli che
gli frappone l'ordine religioso, poco propenso a tollerare siffatte
compromissioni con la secolarità delle scene e la frequentazione
delle cantatrici. Soltanto l'intervento del papa, del cardinal nipote,
dell'arciduca del Tirolo, del granduca di Toscana e infine dell'im-
Peratore riescono a procurargli lo sfratamento senza condizioni,
92 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

unica risorsa per poter procedere nel programma di allestimenti


operistici intrapreso dalla corte di Innsbruck. Passato a Vienna alla
corte imperiale, l'ex-frate e ora cavaliere Cesti diventa cappellano
d'onore e intendente delle musiche teatrali: stessa carica onorifica,
dunque esterna all'organico istituzionale della cappella musicale
di corte, avrà a Firenze quando, quarantaseienne, vi fa ritorno
(l'anno stesso della morte, 1669). Vezzeggiato e ambìto dalle corti
come animatore di spettacoli musicali che ne alimentano l'imma-
gine fastosa, il musicista vive a contatto di sovrani e potentatj da
un lato, di cantanti e librettisti dall'altro. Le sue partiture soprav-
vivono nelle biblioteche dei suoi protettori, i Chigi a Roma e l'im-
peratore a Vienna. Ma soltanto quelle che entrarono nel giro spesso
anonimo e routinier dei teatri impresariali italiani ebbero (come
quelle di Cavalli) larga diffusione e profonda efficacia nella costi-
tuzione di un gusto musicale "medio" seicentesco (cfr. § 22). Le
grandi prestazioni spettacolari della corte viennese, come l'immenso,
suntuoso Pomo d'oro rappresentato nel 1668 per le nozze impe-
riali, di cui parlò tutt'Europa, furono viste e sentite una volta sola
e restarono poi lettera morta, vanto - memorabile sl, ma non più
godibile - d'una dinastia (cfr. § 24). /'fi.J
Già da questi due casi paralleli e però tanto diversi - Cavalli
e Cesti - appare chiaro che non tanto i musicisti stessi quanto sem-
mai le istituzioni artistiche e la struttura sociale forgiano le loro
biografie. Jean-Baptiste Lully (1632-1687), fiorentino di famiglia
umile emigrato giovanissimo a Parigi, diventò il musicista e balle-
.tino favorito del giovane Re Sole, e assurse al rango d'un funzio-
nario di Stato, d'un vero e proprio ministro plenipotenziario degli
affari musicali. Via via Lully acquista la cfica di sovrintendente
e compositore della musica da camera del re, la naturalizzazione
francese, l'officio di maestro di musica della famiglia reale, infine
'ia qualifica di segretario reale (in pratica: sottoscrittore del debito
del trono). Autore, organizzatore, beneficiario degli utili di rap-
presentazione e di stampa di tutte le tragédies lyriques rappresen-
tate a Parigi e Versailles dal 1673 in poi in virtù d'un monopolio
teatrale e d'un privilegio di stampa acquistati dal sovrano, Lully
compie un'operazione radicale di propaganda e istituzionalizzazione
di un gusto scenico-musicale nazionale che f \Piazza pulita di ogni
eventuale influsso straniero (o autoctono ma ~articolaristico) e sta,-
J?jlisce d'autorità le forme e lo stile del teatro d'opera francese
CONDIZIONE SOCIALE DEL MUSICISTA 93

per un secolo abbondante (cfr. § 25). L'operazione, che non ha


l'eguale nel Seicento, è condotta con un'alacrità pari alla testi-
moniata vanità e ambizione del personaggio, e gli frutta onori,
reputazione, ricchezze, rango nobiliare e proprietà immobiliari (non-
ché l'invidiosa ammirazione dei contemporanei: un'apoteosi poe-
tica composta in morte di Lully immagina, tra il reverente e il faceto,
che Giove stesso lo nomini nei campi elisi sovrintendente della
musica degli dèi). È però anche un'operazione funzionale al pro-
g!lamma assolutistico e alla politica espansiva di Luigi XIV, fun-
zionale al progetto accademico globale del primo ministro Colbert,
impensabile al di fuori dell'aspirazione centralizzatrice a fare di
parigi e della Francia tutta l'arbitro dell'Europa. E, va da sé, v'è
posto per un solo Lully, a Parigi e in Francia: molti altri musicisti
vivacchian~ alla ricerca di un patrocinatore privato che resista nel
suo train de vie feudale alla centralizzazione dell'arte di Stato, o
di un posto purchessia alla corte (alcuni ruoli di corte ~ano, addi-
rittura, a rotazione trimestrale).
Assai diversa è la condizione dei musicisti in una capitale mul-
tiforme come Roma, dove la vita pubblica e politica è atomizzata
in mille piccoli centri di potere e d'iniziativa: il sistema d'una monar-
chia ~ettiva e non dinastica (e per di più gerontocratica) come il
papato fa proliferare 1 corti, ogni cardinale è in potenza un ered~
1
al trono e tiene un ménage adeguato alle sue pretese (se non alle
sue risorse). Pochi ~l!sicisti, è vero, possono vivere d'un solo
mestie~_l'o_.!.ganista d'una cappella sarà anche cantore in una basi-
lica, maestro di musica dei figliuoli d'un principe. Secondo un giu-
rista core l'Uberti, il massimo rango cui può aspirare un «virtuoso»
(ossia un cantante di professione) nella corte d'un principe o d'un
cardinale è quello di «aiutante di camera», con tutti gli oneri che
ne conseguono; il compositore sarà «al più» gentiluomo: ma non
se ne saprebbero citare molti esempi per il Seicento inoltrato. La
corsa al beneficio ecclesiastico (una rendita spesso minima, ma
garantita) si generalizza; procacciarsi i soldi per una stampa musi-
cale, procurare a un discepolo un posto in una cappella b~ilicale,
cofl\Porta una competizione tacita e accanita tra colleghi di condi-
zion~ociale ed economica mediocre per l'ottenimento dei favori
d'un nobile o d'un prelato, che (a titolo occasionale, o in maniera
continuativa ma in misura esigua) li concedono ai musicisti come
ad altre categorie della loro clientela. La concorrenza professio-
94 p ROB LEM I DEL $ El CENTO M US IC AL E

nale è forte: la congregazione di S. Cecilia, istituita nel 1585, conta


una cinquantina di aggregati effettivi nel 1664, ma vent'anni doe_p
- al momento dell'approvazione papale del nuovo statuto sociale,
che viene imposto all'osservanza di tutti i musicisti attivi in Roma
fuorché dei cantori pontifici - i membri aggregati sono suppergiù
250. Che, su un totale di abitanti in Roma che oscilla intorno ai
100000, non sono davvero pochi: fatte le l?roporzioni, è come se
oggidì a Roma 8 000 musicisti esercitassero professionalmente la
p·rcipria attività e si congregassero in un sindacato unico (negli stessi
anni del Seicento a Venezia - città una volta e mezza più popo-
losa di Roma - il «sovvegno dei musici di S. Cecilia» è limitato
a un massimo di 100 membri effettivi tra strumentisti, cantanti
e compositori, e il numero dei « sonadori » di ogni tipo e specie e
livello attivi a Venezia è comunque sempre inferiore alle due cen-
tinaia). Le chiese che intrattengono in pianta stabile una cappella
musicale di una qualche entità sono però una dozzina in tutto (S.
Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore, SS. Lorenzo
e Damaso, S. Maria in Trastevere, S. Luigi dei Francesi, S. Giovan-
ni dei Fiorentini, S. Spirito in Saxia, SS. Apostoli, Gesù e Seminario
romano, S. Apollinare, Chiesa Nuova), molte altre stipendiano un
maestro di cappella, un organista, e ricorrono poi alle prestazioni
occasionali di quattro o cinque cantori avventizi. Se dunque non
manca la domanda di prestazioni musicali, essa non soddisfa
tuttavia per entità e per stabilità l'offerta. Uno come Antonio Maria
Abbatini, membro eminente della congregazione di S. Cecilia,
maestro di cappella nelle maggiori chiese di Roma e maestro di
musica di varie generazioni, autore di partiture teatrali per i drammi
del Rospigliosi, musicista colto che indìce in casa propria un'ac-
cademia musicale per dibattere questioni teoriche e pratiche, traccia
un consuntivo tutto sommato deprimente della propria vicenda,
in un "capitolo" autobiografico in terza rima indirizzato a un
letterato ben introdotto presso la famiglia papale (cfr. Lettura
n. 3).
Ma Roma offre pure grandi vantaggi: le scuole musicali dei
gesuiti e le scuole di singoli didatti come Virgilio Mazzocchi o I' Ab-
batini o Carissimi sono la fonte dei migliori cantanti d'Italia e d'Eu-
ropa; a Roma, al servizio degli ambasciatori e dei cardinali stra-
nieri, possono incominciare carriere musicali che portano lontano;
sovrani in esilio volontario come Cristina di Svezia (a Roma dal
CONDIZIONE SOCIALE DEL MUSICISTA 95

1656 alla morte, 1689) o Maria Casimira di Polonia (dal 1699 al


1714) surrogano nelle intraprese culturali e teatrali l'autorità poli-
tica cui hanno abdicato. Quando occorra, lo spiegamento di forze
musicali della romanità cattolica è impressionante (se vogliamo pre-
stare intiera fede alle entusiastiche relazioni coeve): per l'ordina-
zione sacerdotale del castrato pontificio Loreto Vittori (1643)150
cantori.in sei cori cantarono nella Chiesa Nuova musiche dei migliori
~aestri di cappella; nel febbraio 1687 Cristina di Svezia celebra
con una Accademia per musica l'incoronazione di Giacomo II, il
re cattolico d'Inghilterra: la musica di Pasquini, per 5 solisti e un
coro di 100 cantori, è accompagnata da un concerto di 150 stru-
menti posti sotto la direzione di Arcangelo Corelli; in agosto di
quell'anno stesso l'ambasciatore spagnolo allestisce in Piazza di Spa-
gna una serenata (sempre di Pasquini) per 5 voci e 80 strumenti
per l'onomastico della regina; era un modo di rispondere alla pub-
blica festa che, a due passi da lì, i francesi avevano dato nell'aprile
precedente per festeggiare la guarigione del loro re, una luminaria
e fuoco d'artificio a Trinità dei Monti che comprendeva anche una
« superba serenata accompagnata da timpani, trombe e cornette»,
e una «bellissima sinfonia d'istromenti composta dal famoso Arcan-
gelo [Corelli] che aveva uniti tutti i migliori violoni [ossia strumenti
ad arco] di Roma».
Nella quotidianità, le dimensioni necessariamente minuscole
delle corti private cardinalizie e principesche di Roma favoriscono
il commercio - fattosi altrimenti raro nel Seicento - dei _musici.sti
con i letterati e gli intellettuali. Il corrispettivo musicale, peculiar-
mente romano, di questa frequentazione è la cantata da camera,
composizione poetica e musicale di dimensioni esigue (poche arie
intercalate da recitativi monologici, una o due voci, il basso conti-
nuo, talvolta due violini) ma di ingegnosa, spiritosa invenzione com-
positiva, destinata com'è a un pubblico di pochi~e competenti ascol-
tatofi. E infatti sono romani, di nascita o d'adozione, i maggiori
com),ositori di cantate, Giacomo Carissimi, Mario Savioni, Luigi
Rossi, Antonio Cesti, Alessandro Stradella, Pier Simone Agostini,
Alessandro Melani, Marco Marazzoli e Alessandro Scarlatti. Si
spiega anche cosl - con la contiguità di musici e intellettuali nelle
corti private romane - la presenza di tre musicisti della corte di
Cristina di Svezia, Arcangelo Corelli, Bernardo Pasquini e Ales-
sandro Scarlatti, tra i primissimi membri dell'Arcadia, l'accade-
96 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

mialetteraria (fondata nel 1690) che rappresenta il tentativo più


organico di ristrutturare la cultura italiana su scala nazionale all'in-
segna d'un restaurato primato culturale di Roma. Ma la presenzi!
dei tre grandissimi musicisti tra i Pastori Arcadi - una presenza
forse più onoraria che effettiva - non ebbe séguito: si contano su
poche dita i musicisti che entrarono poi in Arcadia, a conferma
della perdurante subalternità intellettuale che pesa sul mestiere èlI
musicista.
Nella società italiana seicentesca la condizione corrente dei musi-
cisti è quella di fornitori di servizi artigianalmente qualificati, noi:i
di jlrtisti nell'accezione moderna del termine. Cavalli a Venezia,
Corelli Pasquini Scarlatti a Roma, sono l'eccezione piuttosto che
la regola: una regola che in àmbito cortese colloca il musicista pro-
fessionista al rango dei cuochi o dei coppieri (alla tavola del prin-
cipe, suonando o cantando, egli del resto assiste), in àmbito eccle-
siastico al rango del clero minore. Altre soluzioni ~sistenziali
appaiono tutt'al più romanzesche e pittoresche: Alessandro Stra-
della è il caso esemplare del tipo &musicista dalla vita turbolenta,
scapestrato e avventuroso, intrigante e donnaiolo, che partecipa
ai passatempi erotici oltreché musicali dell'élite ma finisce per dover
riparare da Roma a Venezia a Torino a Genova, sempre in fuga,•
o in carcere, o in pericolo di vita (finisce morto ammazzato, tren-
tasettenne, per gelosie patrizie, a Genova nel 1682; da morto, ali-
menterà ben presto le facili mitologie degli effectus musicae: ai suoi
sicari sarebbero caduti di mano i pugnali quando, in chiesa, lo sen-
tono cantare con voce angelica ... ). Ma non per questo esiste nel
Seicento un tipo di musicista veracemente ribelle o contwatore
o anche soltanto "cinico": nelle cantate e nelle opere teatrali dello
Stradella - composizioni del tutto "regolari" - nulla v'è di tra-
sgressivo o di estremistico o di stoicamente rivoltato (tutti atteg-
giamenti che invece più d'un letterato e perfin qualche pittore coevo
- come, in ambedue le arti, Salvator Rosa - seppe talvolta appas-
sionatamente assumere e orgogliosamente propugnare nelle pro-
prie opere).
Socialmente organizzata e nominalmente tutelata, seppur non
brillante, è la posizione dei corpi musicali di rappresentanza. Lo
stesso Abbatini (cfr. Lettura n. 3) invidia la regolarità del duplice
impiego dei pifferi romani a Castel Sant' Angelo e al Campidoglio.
Vi sono sopravvivenze feudali: i trombettieri continuano a essere
CONDIZIONE SOCIALE DEL MUSICISTA 97

pagati molto meglio di tutti gli altri suonatori in virtù del presti-
gio marziale (e sia pur soltanto simbolico) del loro strumento. Per
gli altri, però, i salari sono bassi, non di rado integrati in natura:
soltanto grazie alla concessione di razioni di cereali e vino il mae-
stro di cappella di S. Maria Maggiore di Bergamo, Alessandro
Grandi, riesce a campare decorosamente; a Bologna i suonatori del
C;ncerto Palatino (cornetti e tromboni assunti dalla magistratura
cittadina) acquisiscono talvolta, per merito o anzianità, il diritto
a una pagnotta quotidiana (di pane nero) gratuita. Dalla fin~_g_el
Cinquecento si vanno costituendo confraternite, compagnie, con-
gregazioni di musicisti: altro non sono che società di mutuo soc-
corso, che regolamentano anche il diritto di esibirsi in pubblico
e di insegnar musica in città; i9. pratica, esse esercitano un con-
trollo sulla distribuzione della (scarsa) offerta di occasioni di lavoro
e un monopolio corporativo contro la concorrenza dei musicisti
girovaghi o non riconosciuti. RjunitL di preferenza sotto l'egida
di santa Cecilia, i musici d'una città provvedono all'assistenza sani-
t~ria e alla sepoltura comune dei propri membri poveri (un esem-
pio illustre è invece la tomba comune dei cantori pontifici della
Sistina istituita nel 1639 nella Chiesa Nuova, la chiesa degli ora-
toriani di Roma); in mancanza di eredi, ne incamerano talvolta l'ere-
dità. La mancanza di eredi, del resto, è tanto meno rara quanto
più frequentemente i musicisti prendono i voti ecclesiastici (unica
via che consente alle classi inferiori di accedere a una formazione
culturale elevata e di usufruire di rendite e benefici) -, e quanto più
numerosi sono i cantanti castrati. La società seicentesca, rigida,
concede infatti l'avanzamento sociale e l'arricchimento individuale
ai musicisti delle classi subalterne a condizione che essi non met-
tano sù famiglia: o matrimonio o patrimonio, non ambedue insieme.
Il caso eccezionale del campanaio pistoiese Domenico Melani
conferma la regola: sette figli maschi, tutti avviati alla carriera musi-
cale e perciò tutti o castrati o preti o frati tranne uno solo desti-
nato a continuare la famiglia, che infatti nel giro di due genera-
zioni grazie ai successi musicali degli zii cantanti e compositori
s' arricchl e assunse titoli di nobiltà.
Un altro indizio eloquente dei rapporti che i musicisti intrat-
tengono con la società del loro tempo e coi loro patrocinatori lo
dà, infine, la celebrazione della loro morte e della loro memoria.
A Corelli viene eretto un monumento nel Pantheon, a Pasquini
98 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

una fastosa lapide con il busto in altorilievo a San Lorenzo in


Lucina, ma delle tombe di Monteverdi e Cayalli, maestri di cap-
pella "repubblicani" e detentori del massimo rango sociale. con-
sentito a un musicista nella Serenissima, s'è perduta perfin la traccia.
Cavalli, morto benestante, vedovo e senza figli, lascia disposizioni
testamentarie affinché i musici di S. Marco cantino due volte l'anno
in perpetuo un requiem solenne in sua memoria. I castrati - i più
ricchi tra i musicisti - istituiscono talvolta fondazioni benefiche
a scopo pedagogico o assistenziale (così Loreto Vittori a Roma, o
il fiorentino Domenico Melani, già cantante e diplomatico dei duca
di Sassonia, nella città natale). Lully è forse l'unico musicista de1
secolo che si può permettere di erigere per sé e per i propri fami-
gliari non solo varie case bensì anche un sepolcro di famiglia. Gesti
musicali e tributi poetici significativi onorano la memoria di Schiitz
e di Purcell (cfr. § 17 e Lettura n. 5): in tali gesti e tributi si mani-
festa la reverenza intellettuale di cui godeva la loro riconosciuta
supremazia artistica, ma si manifesta anche il ruolo ideologicamente
più integrato che tiene la musica nella cultura protestante.
Di certo, il Seicento non conosce geni incompresi, non perpe-
tra ingiustizie contro singoli artisti musicali in vita, e non ricorre
a riparazioni postume: ma non è neppure propenso a divinizzare:
i propri musicisti (come accade invece di taluni piÙori e a~chitetti'
e letterati, Rubens Bernini Marino). È di m~moria corta. La col~
lettività e il potere, anche nei casi in cui (secondo le consuetudin~
di volta in volta diverse del luogo e delle strutture sociali) tribu:i
tana al musicista onori funebri superiori al comune, lo conside-
rano un degno rappresentante di un"' arte" importante sì, e di pub-
blica utilità, ma per sua natura effimera, fuggevole, e quindi desti-
nata a corrompersi precocemente nella memoria (quanto più lunga
e. tenace è la memoria di cui godono i polifonisti del Cinquecento!).
Divenuto fornitore di servizi musicali pubblicamente consumati,
il musicista cade in una condizione di relativa subalternità sociale;
il suo rapporto con la società e il potere è però funzionale, orga·
nico, e in potenza la portata sociale della sua operosità e produtti·
vità s'è fatta enormemente più vasta, e più articolata e molteplice:
tanto quanto articolata e molteplice, dietro la facciata fallace di
un'omogeneità ideologica apparentemente compatta, è la struttura
della vita civile seicentesca, dappertutto in Europa.
M u s I e A s T R u M E N T A LE E M u s I e A o A e A L Lo 99

(,

14 • MUSICA STRUMENTALE E MUSICA DA BALLO

Ambivalente e problematica più di qualsiasi altra è la figura sei-


centesca del musicista strumentale. Un percorso tortuoso congiunge
l'emancipazione cinquecentesca della musica strumentale dalla
vocale (cf.r. vol. IV, cap. IV, dove il lettore troverà peraltro lumi
sufficienti intorno alle denominazioni di forme e generi strumen-
tali, valide suppergiù ancora per tutto il Seicento) con la <lignifi-
cazione classicistica della composizione strumentale intrapresa nel-
!' Europa del primissimo Settecento precipuamente intorno al
modello, divenuto normativo, dei sei opera corelliani (cfr. il § 16
e in genere tutto il cap. II del vol. VI). Ma fluttuante è la natura
stessa del musicista strumentale: suonatore - sempre - egli stesso,
predomina in lui talvolta l'esecutore virtuoso, talaltra il composi-
tore ingegnoso. Tra questi due ruoli si apre un campo di media-
zione vasto, poco accessibile allo sguardo dello storico: il campo
dell'improvvisazione, oella produzione di musica che, non com-
pÒsta, si consuma nell'atto stesso dell'esecuzione. Pari pari fh!t-
tuanfe è la determinazione della composizione strumentale, della
stessa pagina musicale scritta, che delle pratiche improvvisative
ali' !:>Ccasione (soprattutto nei manoscritti) reca le tracce oppure
(soprattutto nelle stampe) sconta un certo margine di indeterm.,i-
natezza e indefinitezza notazionale. Coesistono forme di notazione
astratta come la partitura e forme di notazione prescrittive come
l'intavolatura (per cembalo o per organo o per liuto o per chitarra,
in tutte le varianti nazionali, cifrate o non cifrate). Se la partitura
è, per definizione, "composizione" di due, tre, quattro e più parti
melodiche concepite in modo virtualmente autonomo, l'intavola-
tuta si limita a prescrivere al suonatore come e quando e quali suoni
estrarre dal suo strumento. Nell'un_caso, l'esecutore legge, ricom-
pone una composizione, un testo che come tale esiste anche indi-
pendentemente dall'esecuzione, e lo riproduce; nell'altro, il suo-
natore esegue una serie di indicazioni operative, di cui il brano
musicale è il risultato finale, sonoro sl, ma transeunte.
Il "compositore" strumentale è dunque sospeso tra la produ-
zione d'un opus e l'esercizio di un'attività (un'attività, nella fatti-
specie, che equivale letteralmente a un passatempo: la musica come
«rnachine à supprimer le temps»). Le Ricercate (ossia ricercari) del-
100 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

l'organista napoletano Gio. Maria Trabaci (1603 e 1615) sono con-


segnate a una partitura a quattro voci che, nell'intreccio talvolta
assai stretto delle parti, sembra disdegnare ogni considerazione di
manuale eseguibilità; ma Sweelinck, musicista non meno ardente-
mente dedito agli effetti arcani del contrappunto severo, passa un
pomeriggio intiero fino a mezzanotte a dilettare gli amici con varia-
zioni estemporanee su melodie popolari (secondo la testimonianza
di uno di loro). I due comportamenti - apparentemente antitetici,
ma non incompatibili - delimitano il campo d'espressione del musi-
cista strumentale seicentesco. Ne risentono beninteso anche le forme
strumentali in uso. C'è chi ha ragionevolmente illustrato come, nei
primi decenni del Seicento, la distinzione tra canzone (strumen-
tale) e sonata - due denominazioni che designano brani di musica
d'insieme dai caratteri formali e stilistici ed esecutivi in larga misura
omogenei - sia soprattutto una distinzione sociologica: gli autori
di canzoni sono perlopiù organisti (e come tali dotati di una for-
mazione teorica completa, oltre che di esperienza manuale), gli
autori di sonate perlopiù suonatori (nella maggioranza di violino,
lo strumento monofonico emergente). Più spiccata in questi ultimi.
è la ricerca dell'effetto sonoro idiomatico, lo sfruttamento delle
risorse tecniche specifiche dello strumento, l'invenzione timbri-
camente più definita. L'organista-compositore eccelle invece nella
complessità e nitidezza dell'ordito contrappuntistico, che nell'o-
rizzonte del violinista autore di sonate occupa una posizione arre-
trata. Beninteso, nel corso del secolo va preponderando la P.t.<?ÈP·
;;ione di sonate sovra quella di canzoni, la pubblicazione di musi-
che strumentali con caratteri idiomaticamente definiti e destinate
a strumenti determinati sovra quella di composizioni consegnate
al supporto neutro e analitico della partitura, all'indeterminatezza
timbrica e sonora. Pari pari si sviluppa e diffonde il dilettantismo
strumentale, che dell'espansione editoriale del settore sonatistico
è l'alimento necessario. Una pubblicazione come questa di Gasparo
Zanetti è eloquente in tal senso fin dal titolo: Il scolaro ... per imparar
a suonare di violino et altri stromenti ove si contengono gli veri
principii dell'arie, passi e mezzi, saltarelli, gagliarde, zoppe, balletti,
alemane et correnti, con una nuova aggiunta d'intavolatura de numeri
dalla quale intavolatura qual si voglia persona da sé stesso potrà
imparare di musica con facilità (Milano, 1645; l'intavolatura esco-
gitata dallo Zanetti è un sistema numerico e alfabetico elementare
MUSICA STRUMENTALE E MUSICA DA BALLO 101

che lndica al violinista inesperto quale dito sopra quale corda pigiare,
e da che parte tirare l'arco: il repertorio che lo Zanetti schiude
a un siffatto principiante è fatto di brevi musiche da ballo, di pronto
consumo).
Sospeso tra composizione ed esecuzione, il musicista strumen-
tale incontra ostacoli e problemi diversi da quelli che affronta il
compositore per eccellenza, ossia il compositore di musica vocale.
Mancando il testo, manca alla musica strumentale un supporto for-
male preesistente alla composizione (che in buona misura ne pre-
determina l'assetto stilistico; cfr. § 8), e manca anche un pretesto
espressivo o rappresentativo definito. (La moda delle composizioni
strumentali su soggetti figurativi o con assunti imitativi o affet-
dvi determinati - le molte toccate o capricci sul canto del cucù
da f rescobaldi in poi, e i «lamenti» flebilmente filigranati di Fro-
berger, cfr. voi. VI,§ 10 - supplisce a quest'ultima mancanza, ma
incontra un severo limite nel carattere necessariamente eccezio-
nale, singolare di siffatti pretesti.) Più che in ogni altra forma di
produzione musicale coeva, nella musica strumentale la configura-
zione formale d'un brano è concepita dinamicamente: la forma musi-
cale -' d'una fantasia, d'una toccata, d'un capriccio, eccetera - si
costruisce e consuma man mano che essa procede. Sulla ricerca di
simmetrie e corrispondenze, equivalenze ed equilibri tra le varie
sezioni che compongono una composizione (tutte cose che all'a-
scolto o all'esecuzione risultano assai spesso meno percepibili che
non alla lettura) prevale il procedimento discorsivo, l'organizza-
zione dello scorrimento del tempo in stadi di variabile densità e
tensione, l'orientazione del moto che percorre un brano attraverso
fasi di accelerazione, rallentamento, stabilità, inerzia. A questa
costruzione della forma del tempo nella dimensione stessa della tem-
poralità concorrono risorse disparate. La frequenza, rapidità, com-
plessità, direzione delle figurazioni "ornamentali" - aggettivo, que-
sto, che sarà non improprio usare soltanto a patto di riconoscere
all'ornamento della musica strumentale una funzione strutturale
decisiva - produce forme diverse di organizzazione del tempo: le
scale o le ghirlande di semicrome per gradi contigui nelle fanta-
sie diJan Pieterszoon Sweelinck (1562-1621) hanno una scioltezza
fantastica che la rifrazione degli accordi in arpeggi a scroscio, pur
sempre in semicrome, può d'un sùbito tramutare in sonorità agglo-
merate o scoscese. Anche I' aumentazione o la diminuzione dei
102 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

valori di un soggetto dato, più che essere un artificio imitativo di


natura proporzionale (e quindi statica), tende ad assumere funzioni
di deviazione, accelerazione, intensificazione della struttura tem-
porale. Nella Fantasia cromatica di Sweelinck - famosa fin dai suoi
giorni - il soggetto cromatico discendente si muove all'inizio per
minime regolari (re-re-re-do#-do~-si-si~-la), il controsoggetto dia-
tonico per semiminime: ambedue subiscono gradatamente processi
di accelerazione o di rallentamento, assoluti o relativi, sicché le
combinazioni possibili tra le velocità parziali passano attraverso
rapporti sempre mutevoli:

soggetto cromatico controsoggetti e figurazioni


minime semiminime
minime crome
semibrevi minime/semicrome
semibrevi minime
semibrevi semicrome
.semiminime semicrome
sem1mm1me crome/semicrome
semiminime sestine di semicrome
semiminime crome
crome semiminime

(Si osservi che l'effetto di accelerazione complessiva che pervade il


brano comporta anche alcune decelerazioni e contempla anche !'.ef-
fetto di accelerazione composito, ottenuto rallentando l'andamento
del soggetto e accelerando l'andamento del controsoggetto, ossia
divaricando il rapporto unitario tra i due; la conclusione è invece
contrassegnata dal rovesciamento del rapporto dei valori unitari: per
la prima volta nelle ultime battute il soggetto procede ad un'anda-
tura più spedita delle altre voci.) Nelle fantasie "in eco" Sweelinck
introduce nella struttura temporale della sua musica una complica-
zione spaziale: l'effetto di vicinanza/lontananza procurato dalla ripe-
tizione forte/piano (o alto/basso) delle stesse note. La sensazione di
staticità, di momentanea attonita sospensione suscitata dall'eco è
una perturbazione deliberata del moto rettilineo del tempo (si tratta
comunque d'un'eco anomala e artificiosa: aspetta la fine della fra-
se prima di rispondere, riverbera velocemente le frasi brevi, lenta-
mente le frasi più lunghe; alla lunga, se ne ottiene la percezione
d'uno scorrimento a intermittenza su due piani paralleli). La ricerca
MUSICA STRUMENTALE E MUSICA DA BALLO 103

della varietas - un principio poetico valido per ogni produzione arti-


stica dell'epoca, e nella musica strumentale non certo limitato ai
cicli di variazioni veri e propri bensì applicato universalmente ad
ogni forma compositiva - è insomma realizzata nella mobilità e
nella sua svariata, estrosa, momentanea organizzazione strutturale.
Ma, oltre che verso l'estro inventivo e la struttura temporale
mutevole, la natura discorsiva della musica strumentale seicente-
sca - un discorso che il musicista va pronunciando lì per lì, che
ha in sé e soltanto in sé (e non in un testo poetico o in un pretesto
immaginoso) le ragioni della propria organizzazione retorica - è
aperta anche verso la rappresentazione degli affetti. La musica stru-
mentale "parla" e "canta" al pari della musica vocale. Certo, gli
affetti che essa agita sono generici, senza la determinazione d'un
testo: ma non perciò meno intensi. È eloquente l'avvertimento al
lettore che Girolamo Frescobaldi (1583-1643) appone ai suoi due
monumentali libri di Toccate, apparsi nel 1615 e nel 1627 e varia-
mente ristampati fino al 163 7. Frescobaldi illustra partitamente
la «maniera di sanare con affetti cantabili e con diversità di passi»,
commisurando cioè l'esecuzione a un'implicita elocuzione del testo
musicale. I requisiti:
1. [ ... ] non dee questo modo di sonare stare soggetto a battuta, come
veggiamo usarsi nei madrigali moderni, i quali quantunque difficili si age-
volano per mezzo della battuta portandola or languida or veloce, e soste-
nendola eziandio in aria secondo i loro affetti o senso delle parole.
2. Nelle toccate ho avuta considerazione non solo che siano copiose
di passi diversi e di affetti, ma che anche si possa ciascuno di essi passi
sonar separato l'uno dall'altro, onde il sonatore senza obligo di finirle
tutte potrà terminarle ovunque più li sarà gusto.
3. Li cominciamenti delle toccate sieno fatte adagio et arpeggiando;
e cosl nelle ligature, o vero durezze, come anche nel mezzo dell'opera
si batteranno insieme, per non lasciar vòto l'istromento; il qual batti-
mento ripiglierassi a beneplacito di chi suona [Frescobaldi è preoccupato
di evitare che il suono d'un accordo o d'una dissonanza si smorzi troppo
presto, e invita ad arpeggiarne o a ribatterne ripetutamente le note].
4. Nell'ultima nota, cosl de' trilli come di passaggi di salto o di grado,
si dee fermare ancorché detta nota sia croma o biscroma, o dissimile alla
seguente: perché tal posamento schiverà il confonder l'un passaggio con
l'altro [fisionomia nettamente delimitata di ogni passaggio].
5. Le cadenze benché sieno scritte veloce conviene sostenerle [ossia
rallentarle] assai; e nello accostarsi il concluder de' passaggi o cadenze
si anderà sostenendo il tempo più adagio. Il separare e concluder de' passi
sarà quando troverassi la consonanza insieme d'ambedue le mani scritta
di minime.
104 PROBLEMI DEL SEICENTO M U S !CA LE

6. Quando si troverà un trillo della man destra o vero sinistra, e che


nello stesso tempo passeggerà l'altra mano, non Oi] si deve compartire
a nota per nota, ma solo cercar che il trillo sia veloce, et il passaggio sia
portato men velocemente et affettuoso: altrimenti farebbe confusione
[i trilli sono notati sl per esteso, in semicrome, ma sono semicrome con-
venzionalmente "veloci", prive di quel valore strutturale che hanno invece
le semicrome d'un passaggio melodico dipanato nell'altra mano].
7. Trovandosi alcun passo di crome e di semicrome insieme a tutte
due le mani, portar si dee non troppo veloce; e quella che farà le semi-
crome dovrà farle alquanto puntate [una breve e l'altra lunga].
8. Avanti che si facciano li passi doppi con amendue le mani di semi-
crome doverassi fermar alla nota precedente, ancorché sia nera [cioè di
valore breve]: poi risolutamente si farà il passaggio, per tanto più fare
apparire l'agilità della mano [un sospiro, un "due punti" prima del passo
virtuosistico ed affettuoso].
9. Nelle partite [ossia serie di variazioni] quando si troveranno pas-
saggi et affetti sarà bene di pigliare il tempo largo: il che osservarassi
anche nelle toccate. L'altre non passeggiate si potranno sanare alquanto
allegre di battuta, rimettendosi al buon gusto e fino giudizio del sona-
tore il guidar il tempo, nel qual consiste lo spirito e la perfezione di que-
sta maniera e stile di sanare.

I due libri di Toccate sono gli unici di Frescobaldi pubblicati


in intavolatura e non in partitura, e più d'ogni altra sua opera stru-
mentale (le dodici Fantasie a 4 del 1608, i dieci Recercari et [cin-
que] canzoni franzese del 1615, i dodici Capricci fatti sopra diversi
soggetti et arie del 1624, i Fiori musicali di diverse composizioni per
l'uso ecclesiastico, del 163 5, le undici Canzoni alla francese apparse
postume nel 1645, nonché l'unico libro destinato espressamente
«per ogni sorte de stromenti» anziché alla tastiera: le canzoni a
1-4 voci del 1628) realizzano, fin nella notazione, quella sottile
ricerca di elocuzione "affettuosa" nella linea melodica, nella distri-
buzione delle dissonanze, nel profilo frastagliato ed elastico dei
vezzi e "passaggi" (trilli, figurazioni arpeggiate, ghirigori, ecce-
tera). Soprattutto le due dozzine di toccate che danno il titolo ai
due libri emergono per la loro facoltà elocutiva: le loro varie sezioni
- in realtà assai meno nitidamente separabili l'una dall'altra di
quanto non vorrebbe far credere l'avvertimento 2 succitato - spa-
ziano dalla sonorità fastosa e solenne degli esordi al moto danze-
reccio di taluni episodi in tempo ternario, dal divincolamento gesual-
dianamente tormentato delle «durezze e legature» (dissonanze e
ritardi, che possono anche straripare su una toccata intiera come
MUSICA STRUMENTALE E MUSICA OA BALLO 105

l'ottava del libro II) alle figurazioni melismatiche giubilanti o esta-


tiche, dal recitativo enfatico all'imitazione alacre dei soggetti. (Il
confronto con la musica vocale, poniamo di Gesualdo o Monte-
verdi o Sigismondo d'India eccetera, è pertinente, e coerente con
l'enunciato dell'avvertimento 1, che paradossalmente prende a
modello dell'esecuzione strumentale il cantar madrigali «secondo
il senso delle parole •>.)
Le toccate frescobaldiane sono destinate indifferentemente al
cembalo o all'organo (obbligatorio, quest'ultimo, soltanto per quat-
tro del libro II): il carattere incoativo della toccata, la sua origina-
ria funzione preludiante e introduttiva, ne consente comunque l'uso
organistico nel contesto liturgico (cfr. § 15). La stessa ambivalenza
di funzione vige per le sei canzoni del libro II, mentre per forza
di cose organistici (nella destinazione e nella struttura sonora piana
e sobria) sono gli inni e i Magnificat da alternare con il canto gre-
goriano (libro II). Decisamente cembalistica e da camera è invece
l'ultima parte di ciascuno dei due libri di toccate. Nel primo, le
partite (variazioni di un'aria, di una melodia data, perlopiù di ori-
gine vocale come l'aria della romanesca, della Monica, del Rug-
giero) hanno caratteri di invenzione melodica estenuata e vocaliz-
zata affini alle musiche coeve per voce sola (cfr. § 3), con in più
il vantaggio dell'esenzione dal vincolo del testo (esenzione che con-
sente al musicista strumentale una varietà di congegni metrici e
ritmici virtualmente inesauribile, là dove il compositore vocale deve
invece pur sempre contemperare con un numero dato di sillabe e
di accenti, con una sintassi e una fraseologia prefigurata l'assetto
metrico della sua composizione). Ciascuno dei due libri contiene
infine una ricca manciata di musiche da ballo, sciolte (cinque
gagliarde, dieci correnti) o raggruppate in suites rudimentali: «bal-
letto, corrente e passacagli», o «corrente e ciaccona», o una
gagliarda e una corrente inframmezzate alle altre tre parti (senza
titolo) delle variazioni sopra l'«aria detta la Frescobalda» (un nome,
questo, che denota la fama antonomastica del brano ma lascia altresl
implicitamente intendere quanto vasto - più del dimostrabile -
debba essere il ricorso tacito a materiali altrui o di pubblico domi-
nio, soprattutto nelle musiche di carattere coreico).
L'importanza storica che assume la musica da ballo negli svi-
luppi della musica strumentale seicentesca è enorme, decisamente
rnaggiore dell'eventuale rilevanza artistica che sogliono avere i brani
106 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

di carattere danzereccio nelle edizioni di musica strumentale (per


cembalo o per violini o per altri strumenti fa lo stesso). È ovvio
sl che nei due grandi libri frescobaldiani il prestigio maggiore spetta
all'eloquio sublime delle toccate, non alla vitalità ritmica delle
gagliarde e correnti: ma la musica da ballo insinua anche in loro
(e nella costituzione di ogni musica strumentale coeva) i principii
d'un'organizzazione periodica e accentuativa della frase musicale
che schiude facoltà compositive e inventive inesplorate. Al flusso
idealmente incessante della polifonia imitativa nei ricercari o nelle
fantasie (che tende a camuffare le giunture e i sezionamenti, a dila-
zionare la terminazione del periodo), all'industriosità dell'elabo-
razione contrappuntistica e figurativa nei capricci sopra soggetti
dati o nelle canzoni, alla recitazione ispirata o bizzarra delle toc-
cate, la musica di danza contrappone un tessuto grossolano e di
passo corto (una cadenza ogni otto o sei o quattro o addirittura
due battute) ma dotato di una tanto maggiore concisione ed ener-
gia tonale. La corporea fisicità dei movimenti coreografici genera
per assimilazione una periodicità di movenze e gesti melodici, rit-
mici, armonici: quella forza di gravitazione che istituisce nessi tonali
rudimentali ma tenaci tra i gradi basilari del tono (primo, quarto,
quinto grado) ha una valenza accentuativa irresistibile, che si ri-
percuote sulla fraseologia melodica. L'atteggiamento consueto del
virtuoso strumentale che adibisce i modelli metrici, armonici e
melodici delle musiche da ballo ad un uso esclusivamente sonoro
e cameristico (e non coreico) inclina volentieri, è vero, verso l'ela-
borazione artificiosa, la dissimulazione sottile del modello, la sua
sublimazione nel giuoco delle figure e dei passaggi idiomatici: il
musicista si impossessa della musica da ballo e, riproducendola sul
suo strumento, tende a denaturarla, a farne il mero oggetto d'un
trattamento esecutivo e compositivo al quale consegna l'interesse
artistico del brano; complicandola o raffinandola, egli ne attutisce
la fisionomia originaria. Il processo è spinto all'estremo nelle sui-
tes di danze dei cembalisti francesi di fine secolo, ma a metà secolo
le suites d'un allievo di Frescobaldi, Johann Jacob Froberger, ne
prefigurano l'ordito dipanato in arpeggi diffusi: il movimento di
danza è stilizzato in un gesto melodico e sonoro soffuso ed evoca-
tivo, immagine remota della corporea mobilità di danze come l'al-
lemanda, la corrente, la sarabanda, la giga, che a metà Seicento
MUSICA STRUMENTALE E MUSICA DA BALLO 107

hanno dimesso ormai da almeno un paio di generazioni ogni com-


portamento danzereccio. E tuttavia, anche in siffatte circostanze,
il processo di appropriazione della musica di danza da parte della
musica strumentale da camera non si esaurisce nella mera defun-
zionalizzazione e sublimazione del materiale preso a modello: il
modello stesso, con la sua costituzione accentuativa e binaria, la
sua periodicità propulsiva, la sua articolazione tonale semplice e
nitida, stinge sui procedimenti compositivi ed esecutivi della musica
per strumenti, ne contamina la struttura stessa. Il fenomeno del-
1' osmosi tra danza e musica strumentale - come gli altri fenomeni
sommariamente accennati qui per il dominiù della musica strumen-
tale - non è certo limitato al solo Seicento: ma nel Seicento esso
alimenta e promuove un generale riassetto dei principii composi-
tivi, dell'organizzazione stessa dello spazio sonoro (sempre più orbi-
tante su cardini tonali definiti) e del tempo musicale (sempre più
orientato dinamicamente e accentuativamente).
L'ampia area di coincidenza tra musica strumentale e musica
da ballo è altresl la sede degli scambi più appariscenti tra musica
colta e musica popolare, scambi che però anche in altri dominii
della musica seicentesca dovettero essere più intensi di quanto riesca
a percepire oggidì la musicologia storica, miope per comodità e per
consuetudine verso le tradizioni musicali popolari. Lo scambio
avvenne in ambo i sensi, dall'alto verso il basso e viceversa. Un
caso esemplare della divulgazione alta, media ed infima d'una danza
e
aristocratica - anzi, d'un vero proprio balletto rappresentativo
cerimoniale - è la fortuna goduta nel Seicento dal ballo epitala-
mico posto a conclusione degli intermedi fiorentini del 1589 (cfr.
voi. IV, § 41), denominato correntemente « ballo del granduca»
o anche «aria di Firenze». Si tratta in origine d'un ballo scenico
corale composto da Emilio de' Cavalieri su un testo di forte carat-
terizzazione metrica, sei settenari sdruccioli che danno luogo a sei
frasi musicali di quattro battute l'una, dall'assetto nitidamente
cadenzale («Oh che nuovo miracolo,/ ecco ch'io terra scendono,
I celeste alto spettacolo,/ gli dèi ch'il mondo accendono ... »). Edito
nel 1591 insieme alle altre musiche degli intermedi, e accolto nel
1600 tra i balli del fortunatissimo trattato di danza di Fabrizio
Caroso, la Nobiltà di dame, il "ballo del granduca" diventò il
rnodello e fornl il materiale melodico-armonico di infinite compo-
108 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

sizioni d'ogni genere e specie. Esso compare in intavolature di chi-


tarrone o liuto (Santino Garsi ante 1603, J. H. Kapsberger 1604,
Pier Paolo Melli 1614, J.-B. Besard 1617), in raccolte di musiche
clavicembalistiche (Floriano Canale 1600 ca., Sweelinck e Fresco-
baldi, Scipione Giovanni 1652, G. B. Ferrini 1661 ca.), in musi-
che strumentali d'insieme, didattiche e no (L. Viadana 1610, Peter
Philips ante 1619, Adriano Banchieri 1620, G. B. Buonamente
1626, G. Zanetti 1645, Gioseffo Giamberti 1657), in musiche
vocali da camera (Banchieri 1626) e financo in messe e mottetti
(Banchieri 1613 e 1620, Frescobaldi 1630 ca.): e la lista è incom-
pleta. Ma esso compare anche in quel veicolo potentissimo di dif-
fusione musicale popolare che furono le intavolature di chitarra
alla spagnola, uno strumento e una prassi esecutiva che quasi sop-
piantarono il liuto nell'accompagnamento del canto e nella musica
da ballo in virtù d'una facilità d'esecuzione proporzionale tanto
alla limitatezza delle sue risorse melodiche quanto alla pienezza
sonora degli accordi strappati con un sol gesto della mano su tutte
e cinque le sue corde (nove con le corde di raddoppio). Girolamo
Montesardo (1606), Foriano Pico (1608), Gio. Ambrogio Colonna
(1620), Benedetto Sanseverino (1620), Carlo Milanuzzi (1622), Pie-
tro Milioni (1627), G. B. Abbatessa (1627), Fabrizio Costanzo
(1627), Gio. Paolo Foscarini (1629), Francesco Corbetta (1639),
Agostino Trombetti (1639), Antonio Carbonchi (1643), G. B. Gra-
nata (1646), Stefano Pesori (1648), Tommaso Marchetti (1648),
Antonino Di Micheli (1680) sono alcuni degli autori che includono
il "ballo del granduca" nelle loro edizioni di danze e di modelli
strumentali di accompagnamento per la chitarra spagnola.
Il "ballo del granduca", o "aria di Firenze", circola cosl per
tutto il Seicento, e frequenta gli ambienti più disparati. A Napoli,
esso serve - insieme ad altre arie d'uso napoletano corrente - a
divertire il principe del Pentamerone di Giovan Battista Basile:

lo Prencepe, ch'era sfastediato de tante iuoche, ordenaie che venesse quar-


che strommiento, e se cantasse fra tanto, e subeto na mano de serveture
che se delettavano vennero leste co colasciune, tammorielle, cetole, arpe,
chiuchiere, vottafuoche, crò-crò, cacapenziere e zuche-zuche, e fatto na
bella sofronia [ = sinfonia], e sonato lo tenore de I' Abbate, Zefero, Cuc·
cara Giammartino, e lo ballo de. Shiorenza [ = Firenze], se cantattero na
maniata de canzune de chillo tiempo buono, che se pò chiù priesto trivo·
liare che trovare.
M u s I e A s T R u M E N T A LE E M u s I e A o A B A L Lo 109

A Bologna, esso fa numero, con una dozzina di altre danze d'ogni


specie e provenienza, in un sonetto burlesco di Zan Muzzina, inti-
tolato La sua donna per cavargli denari fa tutti i balli usati in Bologna:

Fa la mia cruda ognor la Bergamasca,


e nel susiego un Spagnoletta imita,
forma Chiacone in dimenar la vita,
ma con inchini in Pavaniglia casca.
Si move a la Gagliarda, e benché frasca,
e di Tor di Leon [ = tordiglione] forse più ardita,
meco finge la Zoppa, e poi scaltrita,
a un Passo e mezzo mi ha la mano in tasca.
Ma da Ruggiero appassionato pesca,
e perché il Bal del duca in me non trova,
con un sonaglio sol fa la Moresca,
sl che adirata il bel Pianton rinova,
la Corrente ribatte, e mi rinfresca
la vecchia frenesia con fuga nova.

Sono invero pochissimi i balli dotati, come quello "del gran-


duca", di requisiti anagrafici tanto circostanziati: paternità, luogo
e data di nascita. In generale, è più frequente il percorso inverso:
non dal ballo nobile alla musica strumentale di volgare consumo,
bensì dal ballo popolare di origine incerte a forme " alte" di musica
strumentale con intenti artistici. È questo il caso del terzo dei balli
ballati dalla donna di Zan Muzzina, la ciaccona. La parola è attestata
in un contesto contadinesco fin dal Quattrocento; in un manoscritto
di polifonie volgari redatto a Napoli negli anni Ottanta una «vil-
lana» dichiara: « So ballar e so cantar, / e so far ciaconcelle ». Ma la
storia moderna della ciaccona ha origini ibero-americane, e reca una
forte connotazione etnica ed erotica (come, prima di essa, la sara-
banda); fa la sua prima comparsa letteraria in una satira del 1598
sulla vita peruviana coeva, e l'anno dopo compare in un intermezzo
burlesco scritto per le nozze di Filippo III: una banda di ladri balla
la chacona, ballo nuovissimo e sfrenato, per rubare di soppiatto l'ar-
genteria a un indio ingenuo. Nello stesso 1599, l'allarmatissimo
frate Juan de la Cerda mette in guardia le donne dabbene dai movi-
menti corporei osceni di balli come la sarabanda e la ciaccona. Nel
1615 la ciaccona viene bandita dalle rappresentazioni teatrali per la
sua irredimibile, contagiosa lascivia. Nella novella esemplare La ilus-
110 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

tre /regona di Cervantes il ballo della ciaccona - un ballo collettivo


«vasto più del mare» - è cantato con parole di tal fatta:

[... ] Alle nacchere pongan mano


e s'abbassino sino a toccar
colle mani queste arene,
anzi terra da concimar.
Tutti l'han bene eseguito,
non c'è nulla da ridire.
Ora segnatevi, e al diavolo offrite
le fiche della sua ficaia.
Sputate al figlio di troia
perché non ci dia fastidio,
giacché è sempre presente
quando si balla la ciaccona. [. .. ]
Nel ballo della ciaccona
sta il segreto della vita bona.
[... ] Quante volte non s'è provata,
questa nobile signora,
con l'allegra sarabanda,
col pésame, con la pe"a mora [altri balli popolari],
di entrar per le fessure
dentro le case delle religiose
per turbare l'onestà
che in quelle celle sempre dimora! [... ]
Nel ballo della ciaccona
sta il segreto della vita bona.

(Alla fine, la noble sefiora si rivela per quel che è, una sacrilega
indiana amulatada che alletta tutti a lasciarsi possedere dalla fre-
nesia del ballo.) Anche nelle commedie di Lope de Vega, nel secondo
decennio, risuona l'inno della ciaccona, vecchia dissoluta e sen-
suale: « Vida bona, vida bona,/ esta vieja es la chacona! •>. In tante
altre opere letterarie spagnole dei primi decennii il canto e il ritmo
sfrenato della ciaccona trovano un'eco pittoresca, in tanti trattati
di moralità sollevano riprovazioni indignate. Che la fama della ciac-
cona - come, poco prima, quella della sarabanda - fosse la fama
turpe d'un ballo disdicevole (mai regisfrato, infatti, nei trattati di
ballo alla moda), di origini oscuramente transoceaniche, è confer-
mato anche dalle testimonianze dei poeti italiani, pur tanto meno
propensi dei loro colleghi spagnoli a raffigurare realisticamente la
vita delle classi subalterne urbane e rurali. Nell'ultimo canto del-
l'Adone (XX, 84) - un canto tutto intessuto delle danze che Venere
MusrcA STRUMENTALE E MUSICA DA BALLO 111

inqlce per onorare la memoria di Adone, fiorite moresche contrap-


passi gagliarde nizzarde riddoni eccetera-, il Marino ha parole di
(ironica? finta?) indignazione:
Compito il primo ballo, ecco s'appresta
la coppia lieta a variar mutanza,
e prende ad agitar, poco modesta,
con mili' atti difformi oscena danza.
Pera il sozzo inventor che tra noi questa
introdusse primier barbara usanza.
Chiama questo suo giuoco empio e profano
saravanda e ciaccona il novo ispano [i.e. l'americano].

(Ai due danzatori eccitati ed esausti Venere concede indi in pre-


mio di «dar fine al gioco» nel letto stesso che aveva ospitato gli
amori di Cupido e Psiche). L'accademico Incognito Angelico Apro-
sia (1645) denuncia la ciaccona, che corrompe le giovinette: nes-
sun carattere sarà mai temprato abbastanza per potersi sottrarre
alla seduzione di questo ballo occhieggiante ed ancheggiante. Nel
1643 il Tacito abburattato di Anton Giulio Brignole Sale accenna
anche a rappresentazioni sceniche indecenti svolte al suono della
ciaccona.
In Italia la musica della ciaccona arriva, pochi anni dopo la sua
nascita d'oltremare, tramite quelle stesse intavolature di chitarra
alla spagnola che furono il canale collettore di tanta musica da ballo
di varia provenienza. La prima testimonianza nota è del 1606, la
Nuova invenzione d'intavolatura per sanare li balletti sopra la chi-
tan-a spagniuola di Girolamo Montesardo, musicista salentino attivo
a Napoli, la capitale spagnola d'Italia. Accanto al ballo della ciac-
cona, nelle intavolature di chitarra spagnola compaiono sempre
anche i ritornelli denominati passacagli, brevi formule strumen-
tali d'origine iberica che servivano per introdurre qualsiasi genere
di canzone, o per intercalarne le strofe. A differenza dalla sara-
banda - che, dimesso ben presto l'abito originario di danza lasciva
e irruente, sublima la propria natura etnica nel contegno ritmico
tnisurato e severo d'una danza strumentale lenta, e diventa cosl
!ngrediente stabile di ogni suite strumentale sei-settecentesca -,
il ballo della ciaccona e il ritornello del passacaglia non depo-
sero mai intieramente nel corso del secolo una loro rudimentale,
schietta tipicità popolare: nelle intavolature chitarristiche, ballo
e ritornello si riducono a mere formule armonico-ritmiche, figure
112 PROBLEMI DEL SEICENTO MUSICALE

sonoramente cadenzali, dal forte profilo accentuativo (due formule


frequenti di ciaccona e di passacaglio sono quelle usate per esempio
anche da Monteverdi, rispettivamente sol-re-mi-si-do-re[-sol] e la~
sol-fa-mi[-la]). Concatenate a decine e decine, le formule della ciac-
cona e del passacaglio possono essere ripetute a volontà, per accom-
pagnare a beneplacito canzoni e balli. L'applicazione più estrosa, più
inventiva, più tripudiante del principio variativo perenne implicito
nella ripetizione ossessiva dei moduli della ciaccona e del passacaglia
la danno le Cento partite sopra passacagli (comprendenti in verità
anche molte ciaccone) nell'edizione 1637 delle Toccate di Fresco,
baldi, un ciclo di variazioni che trascorrono bizzarramente da un
gesto sonoro all'altro, da un atteggiamento affettivo all'altro, senza
però mai esorbitare dal vortice ipnotico delle formule cadenzali di
base, ripetute incessantemente ogni due battute. (La serie frescobal-
diana, davvero inimitabile, fu spesso imitata nel Seicento: ma la fis-
sità armonica dei moduli fatalmente tende a ingenerare una unifor-
mità di movenze musicali che condanna a un'aurea monotonia gli
alacri passacagli di clavicembalisti pur pregevoli come il messinese
Bernardo Storace, 1664, o il napoletano Gregorio Strozzi, 1687, e
che soltanto nelle sue applicazioni teatrali oltramontane di fine
secolo - le vaste chaconnes e passacailles di Lully e P.urcell, cfr. §§ 25
e 26 - troverà una funzione pertinente come grande danza corale e
cerimoniale, funzione peraltro assai remota tanto dalla connotazione
erotica del ballo ibero-americano quanto dalle prime applicazioni
sceniche del passacaglio e della ciaccona in Italia, che dovettero
essere di carattere decisamente "basso", come risulta da quella vera
e propria scena di commedia dell'arte messa in musica che è il dia-
logo sboccato e burlescamente lamentoso di Madama Lucia e Cola
Napoletano composto da Francesco Manelli - soprannominato an-
che Il Fasolo - sopra la «ciaccona»: in verità il beffardo «lamento»
di Madama Lucia è accompagnato non da una ciaccona bensì da un
passacaglia suonato sulla chitarra spagnola - la frequente confusione
tra i nomi del ballo e del ritornello, ambo iberici, è sintomatica della
forte affinità strutturale e funzionale che con la loro riduzione
modulare nelle intavolature chita{ristiche italiane essi vennero ad
assumere -, un tetracordo discendente minore sol-fa-mi~-re nella
prima versione, 1628, un tetracordo maggiore fa-mi-re-do nella vert
sione del 1636; sempre sullo stesso basso ostinato è intonato il
rustico balletto amoroso conclusivo.)
III• LA MUSICA DA CHIESA
15 • LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA

Se la storiografia della musica si applicherà un giorno a rico-


struire, oltreché la storia della composizione musicale, anche la storia
ddl' ascolto musicale, essa potrà legittimamente chiedersi se il musi-
cista sacro più importante del Seicento italiano non sia per avven-
tura Giovanni Pierluigi da Palestrina, morto nel 1594 (cfr. voi.
IV, § 26). Non è agevole rispondere a un siffatto paradosso. La
fortuna editoriale del Palestrina cessa suppergiù nel secondo decen-
nio del nuovo secolo (le ristampe seicentesche più tardive tocca-
rono ai suoi inni, riediti nel 1625 e ancora nel '44 dopo la riforma
Jei testi voluta da Urbano VIII, cfr. § 12; le più frequenti - sei
edizioni tra il 1601 e il 1613 -, ai suoi mottetti più appassionati
e meno severi, quelli composti sopra il Cantico di Salomone e desti-
na ti ad un uso forse non liturgico bensl devoto): ma le stampe cin-
quecentesche delle sue messe erano ben presenti in tutte le cap-
pelle musicali d'Italia, dove costituivano un corpus che non richie-
deva sostituzione (e gli esemplari superstiti portano infatti i segni
d'un uso assiduo e logorante). È nel Seicento che sorge il mito del
Palestrina princeps musicae, del pJ~strina «ristauratore e benefat-
tore della musica»; è il Seicento ad accreditare la leggenda (cfr.
'-' 0 1. IV, § 24) che la prenestina Missa Papae Marcelli (pubblicata

nel 156 7) avrebbe CQ!)yinto in extremis il Concilio di Trento a desi-


stere dal proposito di bandire dall'impiego liturgico la musica poli-
fonica (Agostino Agazzari è il primo a riferirla, quella leggenda,
nel suo manuale di basso continuo del 1607, ma lo fa per contrap-
Purre polemicamente la messa del Palestrina a q1.{_ello stile « pieno
di lughe e contrapunti» che «per la confusione e zuppa delle parole»
non piaceva più né agli «uomini intendenti e giudiziosi» né tam-
P~co ai padri conciliari; in verità era proprio questo lo stile prene-
st'110 per eccellenza, talvolta temperato come nella Missa Papae Mar-
Cel!i, talaltra condotto invece a vertici insuperati di complessità
artificiosa).
116 LA MUSICA DA CHIESA

E la Missa Papae Marce/li non è presente soltanto di nome nel.


l'esperienza musicale seicentesca: Francesco Soriano ne pubblicò
nel 1609 una versione arricchita di due voci (a 8 anziché a 6), Gio.
Francesco Anerio nel 1619 una versione semplificata a 4 voci che
ebbe una vastissima fortuna (fu ristampata fino al 1662). Soriano
e Anerio erano musicisti romani, continuatori diretti della tradi-
zione prenestina, che proprio in Roma aveva la sede eminente. Anzi,
v'era un organismo istituzionalmente preposto alla coltivazione del
repertorio sacro prenestino e alla preservazione di quello stile poli-
fonico "a cappella" (ossia cantato senza strumenti, a sole voci
maschili, soprani castrati e contralti falsettisti) che - con una sino-
nimia un po' obliqua ma eloquente (cfr. § 8) - si denominò anche
"alla Palestrina": la Cappella Sistina, ossia la cappella personale
del pontefice. Nell'anno 1616 (uno dei rarissimi di cui è possibile
ricostruire attendibilmente il repertorio) la Cappella Sistina con-
decorò con il canto polifonico 33 messe festive o solenni nel palazzo
apostolico, in S. Pietro, a S. Maria Maggiore, in altre chiese di
Roma: ebbene, per 29 volte la messa cantata fu del Palestrina (gli
altri: Animuccia Victoria Soriano Crivelli), per 24 volte il mottetto
all'offertorio fu del Palestrina.
Bisogna dunque concludere che il Palestrina predominasse incon-
trastato nella musica sacra italiana o romana del Seicento? Non
è' detto. Certo, si trattava di un modello autorevole, ed autorevol:
mente sancito dal capo della cattolicità. Ma sarà giusto osservare:
che fuori di Roma la presenza (cantata e sentita) del Palestrina fu
certo più esigua, tantopiù che - nonostante Trento - la spinta della
Chiesa controriformistica alla regolamentazione unitaria del rito,
della liturgia e del cerimoniale deve tuttavia sempre venire a patti
con la molteplicità delle tradizioni liturgiche e delle prerogative
locali; che non a tutti, neppure a Roma, la Missa Papae Marce/li
pareva più godibile (il solito Pietro Della Valle dichiara sì di ammi·
rarla, ma aggiunge che «queste cose si hanno ora in pregio non
per servirsene, ma per conservarle e tenerle riposte in un museo
come bellissime anticaglie •>); che la teoria musicale venera il Pale·
strina come un ideale liturgico-musicale sommo, non tanto come
un ideale stilistico tassativo (un ideale stilistico che essa colloce.
bensl in alto, in quella classificazione degli stili di cui s'è parlato
al § 8, riconoscendone però esplicitamente la circoscritta validità
LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA 117

[onzionale e prevedendone l'impiego per la composizione dell' or-


dinarium missae; sarà semmai il Settecento - Fux, Martini: cfr. val.
VI,§§ 8 e 37 - a erigerlo a canone compositivo); che il culto pale-
striniano esclusivo della Cappella Sistina fa parte di un sistema di
competenze istituzionali nel quale alla Cappella Giulia (la cappella
di S. Pietro) e alle altre cappelle basilicali di Roma spetta la colti-
\'azione di forme più moderne e più monumentali di polifonia sacra,
forme che proprio nell'immensa architettura del tempio vaticano
(finito dI costruire soltanto nel Seicento) conducono al potenzia-
mento fonico e spaziale dello stile prenestino mediante l'aumento
del numero delle voci e la distribuzione in più cori (famoso - è
sempre il Della Valle a riferire - «quel gran musicane» di Virgilio
Mazzocchi, maestro della Cappella Giulia, «non so se a dodici o
a sedici cori, con un coro di eco fino in cima alla cupola»); che
infine i margini di elasticità o di tolleranza o addirittura di indefi-
nitezza del rito nei confronti della musica sacra sono cospicui, e
penetrano fin nella prassi della stessa Cappella Sistina. Basti dire
che, curiosamente, proprio il giorno di Natale, proprio nella mas-
sima chiesa della cristianità romana, i cantori pontifici vanno a can-
tare, in quel 1616, una di quelle messe del Palestrina scritte su
commissione di Guglielmo Gonzaga per conformarsi al rito e ai
canti fermi in uso a Mantova, diversi da quelli di Roma. E poi:
quando cantano i vespri in cappella, i cantori pontifici depongono
il Palestrina, ed eseguono musiche assai varie, mischiano salmi a
quattro cori, Magnificat a 12 voci e antifone a voci sole « benis-
simo concertate», composizioni fresche fresche di singoli membri
<lella Sistina, ma anche di musicisti alla moda non vaticani né apo-
stolici.
Il Palestrina, insomma, è sl per eccellenza il musicista della cat-
tolicità, la sua musica un paradigma dello stile più veracemente
ecclesiastico, un canone esemplare della musica liturgica cattolica
riconosciuto dal papato: ma nell'impiego della polifonia prenestina
non si esaurisce certo la totalità della musica da chiesa italiana,
né si possono c~n essa risolvere tutti i problemi e i conflitti che
- Prima e dopo il Concilio tridentino - intercorrono tra esigenze
artistiche ed esigenze liturgiche. Di quale natura fossero questi pro-
blemi e conflitti è documentato eloquentemente dall'Editto sopra
le musiche del 1665, un editto promulgato dalla congregazione della
118 LA MUSICA DA CHIESA

Sacra Visita Apostolica (competente in materia di disciplina eccle-


siastica) in attuazione d'una bolla di Alessandro VII (1657) e ispi-
rato proprio dalla cerchia dei cantori della Sistina:
La Sacra Visita Apostolica, acciò che la Constituzione della Santità
di Nostro Sig. sopra le musiche abbia totalmente la dovuta esecuzione,
con l'oracolo della viva voce della Santità Sua ordina e comanda che nelle
musiche concertate con organo, che per l'avvenire si faranno nelle chiese
ed oratorii di Roma mentre si celebrano i divini offizii o sta esposto il
Santissimo Sacramento, si osservino puntualmente le cose seguenti.
Primo, che lo stile delle musiche da osservarsi nelle messe, salmi, anti-
fone;·motètti, inni, cantici, eccetera, come anche delle sinfonie, sia eccle-
siastico, grave e devoto.
Secondo, che nelle messe non si cantino se non le parole prescritte
Jal Messale Romano negli offizii correnti nella festa di ciascun giorno
e nelle solennità del santo, e specialmente che dopo l'Epistola non si canti
se non il graduale o tratto, e dopo il Credo non altre parole.çhe dell'of..
fertorio, e dopo il Sanctus si canterà il Benedictus ovvero un motetto,
ma con le sole parole che pone la Chiesa nel Breviario o Messale in onore
del Santissimo Sacramento.
Terzo, che nei vesperi oltre ai salmi e l'inno non si cantino se non
l'antifòne correnti secondo il prescritto del Breviario, ed il medesimo si
faccia nelle compiete.
Quarto, che quando sta esposto il Santissimo non sia lecito di cantar
altre parole che quelle che son poste nel Breviario o Messale Romano
in onore del Santissimo Sacramento, e volendosi cantare le parole della
Scrittura Sacra o di qualche santo Padre debba prima prendersi l'appro-
vazione speciale della Sacra Congregazione de' Riti al prescritto della Con-
stituzione, dichiarando che in questo caso sia necessaria la detta appro-
vazione, ma non quando le parole sono le prescritte dal Breviario o Mes-
sale, e che le parole de' santi Padri debbano esser d'un solo, e non di
molti santi Padri uniti insieme.
Quinto, che non si canti a voce sola tanto grave quanto acuta tutto
o parte notabile d'un salmo, inno o moretto: ma, non cantandosi a pieno
coro, si canti alternativamente variando sempre il canto ora con voci pari,
ora con gravi ed ora con acute.
Sesto, che le parole cosl del Breviario e Messale come della Scrittura
Sacra e de' santi Padri si mettano in musica ut iacent, in maniera che
non s'invertano né vi si frappongano parole diverse né si faccia altera·
zione alcuna.
Settimo, che in tempo di Passione si canti senz'organo, conforme la
rubrica e la Chiesa prescrive.
Ottavo, che fra il termine di venti giorni dalla pubblicazione del pre:
sente editto da' superiori ed altri a' quali si appartiene si mettano nel
cori tanto stabili quanto amovibili le gelosie o grate strette, e di tal alrezz~
che non si vedano i cantori, sotto pena della privazione dell'offizio eu
altre ad arbitrio della S. Visita.
LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA 119

Nono, che ciaschedun maestro di cappella, ed ogn'altra persona che


regolerà la musica o farà la battuta, contravvenendo alle cose dette di
sopra, o alcuna di esse, incorra la pena della privazione dell'offizio e resti
in perpetuo inabile ad esercitarlo e far musiche per l'avvenire, e nondi-
mencnia punito in cento scudi da applicarsi per la quarta parte al denun-
ziante (che sarà tenuto segreto) e per !'altre tre a' luoghi pii ad arbitrio
della Sacra Visita, e con altre pene anche corporali ad arbitrio della
medesima.
Decimo, che niun maestro di cappella o altra persona particolare per
l'avvenire possa far musica nelle chiese ed oratorii come sopra, se prima
non averà giurato in mano del sig. Cardinal Vicario di Roma o suo vice-
gerente di osservar tutte le cose contenute nel presente editto, altrimenti
incorra nelle pene dette sopra, e dopo aver prestato il giuramento (che
dovrà darsi una sol volta con tenerne registro), se contravverrà in alcuna
cosa delle prescritte, sia anche punito come spergiuro in conformità della
Constituzione di Sua Santità. Dato in Roma a' 30 di luglio 1665.

(Si sarà notato come, a ben vedere, poco importi la intelligibilità


e la percepibilità del testo: in un rito affidato a una lingua non-
parlata come il latino, conta l'integrità del testo sacro, non la sua
comprensione nell'assemblea dei fedeli.) L'editto, invero, non
dovette sortire gli effetti desiderati, se Innocenzo XI e Innocenzo
~II furono costretti a riconfermare nel 1678 e nel '92 la bolla papale
del '57: del resto proprio l'assidua produzione editoriale romana
di mottetti solistici con basso continuo (cfr. § 12) spiega le ragioni
~ nel contempo illustra l'inanità di siffatti provvedimenti autorevoli.
La realtà cui tali provvedi~~!'.!ti cercavano di porre freno era
duplice. Dal punto di vista morale, preoccupava lo sfruttamento
di tutte quelle risorse compos-itive, c·anore e strumentali che il gusto
moderno (di musicisti e fedeli, ma anche dei prelati) ricercava, e
che però rappresentavano un allettamento sensoriale sospettato di
contravvenire al decoro, alla sobrietà, alla compunzione ufficial-
mente desiderati dalla Chiesa. (Il sospetto è quello d'una perva-
dente secolarizzazi,;me della musica sacra: ma, in realtà, la secola-
rizzazione della liturgia non è che il segno manifesto d'una secolariz-
zazione strisciante della Chiesa stessa - e alla fin fine del mondo-,
che si percepisce perfino dietro le forme più vistose di pietà. È co-
munque sintomatico d'un processo diffuso di secolarizzazione il fat-
to che il termine stesso "musica sacra" sorge soltanto intorno al 1600:
Prima d'allora, o quantomeno prima del Concilio tridentino, non
avrebbe avuto molto senso una delimitazione terminologica reci-
120 LA MUSICA DA CHIESA

proca di "sacro" e "profano" in musica, aree contigue e magari


ambigue, determinate però dall'uso più che non da caratteristi-
che strutturali distintive. Nella delimitazione accurata di "sacro"
e "profano" intrapresa dalla Chiesa della Controriforma sta il
presupposto per quelle occasionali contaminazioni - deliberate o
casuali - dell'uno con l'altro settore, contaminazioni che proprio
nell'impiego liturgico delle arti risultano fortemente problemati-
che.) Dal punto di vista liturgico, preoccupava la prassi (invalsa
fin dai primissimi del Seicento) di utilizzare testi di comodo - tratti
non solo dalle Sacre Scritture bensì anche dalla letteratura devo-
zionale moderna, e quindi non sempre teologicamente inappunta-
bili - per sostituire i testi specifici del proprium della messa (come
il graduale e l'offertorio) e dei vespri (come le antifone e gli inni),
una prassi dettata peraltro dall'ovvia impossibilità di poter conti-
nuamente aggiornare un repertorio mottettistico moderno che,
quand'avesse inteso coprire i_l proprium di tutte le messe e tutti
i vespri dell'anno, avrebbe dovuto contare qualche migliaio di testi
diversi destinati peraltro a un uso assai infrequente. (La contrad-
dizione è ovviamente ineliminabile, una volta accettata la premessa
- non ovvia - che la musica liturgica debba tenere il passo con
gli avvicendamenti del gusto musicale.) Cosl, nel Seicento, scom-
paiono quasi del tutto le grandi raccolte sistematiche di offertorii
(come quella del Palestrina, del 1593) o di antifone (come quella
di Gio. Francesco Anerio, del 1613), eccetera, raccolte di centi-
naia di brani che riuscivano a coprire quantomeno il fabbisogno
corrente del calendario liturgico. I musicisti continuano a produrre
musiche di ogni specie e formazione per I' ordinarium missae (Kyrie,
Gloria, Credo, Sanctus, Agnus) e per quella dozzina di salmi di
uso più frequente (il « Dixit Dominus », il « Beatus vir », il « Lau-
date pueri», il «Nisi Dominus», eccetera): per il resto pubblicano
raccolte liturgicamente inorganiche di mottetti di vario argomento,
da cui le cappelle musicali attingono a seconda delle circostanze
testi genericamente mariani o cristologici o eucaristici o agiogra-
fici per sostituire i testi del proprium.
Dubbia, per la Chiesa, è l'efficacia edificante di questi proce-
dimenti nei confronti dell'assemblea dei fedeli. La validità del rito
- di fronte a Dio - è invece salvaguardata in ogni caso: la lettura
dei testi sacri è comunque prerogativa esclusiva del celebrante e
dei suoi ministri, che infatti leggono sottovoce il proprium mentre
LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA 121

la cappella canta il mottetto sostitutivo. Il canto non surroga la


celebrazione del rito, si limita a condecorarla e magnificarla: tra
il canto e la liturgia intercorre un rapporto non già di identità, bensì
di simultaneità. Analogamente si legittima la disponibilità della
Chiesa a tollerare di buon grado, anzi a prescrivere l'impiego della
musica organistica, sia in alternanza con il canto gregoriano sia in
"sostituzione" delle parti del proprium. L'uso è regolato nel Cae-
remoniale episcoporum, del 1600 (è del 1662 il suo equivalente fran-
cese, il Caeremoniale parisiense, cui difatti tenne dietro quasi sùbito,
significativa~nte, la fioritura editoriale improvvisa e duratura
d'una produzione organistica liturgica che fino allora era prospe-
mta nella semiclandestinità delle tradizioni locali e che rivelò invece
moduli idiomatici e caratteristiche organologiche peculiarmente
nazionali e notevolmente tenaci): l'applicazione pratica del Caere-
moniale è illustrata per tempo in manuali come L'arte organica (Bre-
scia, 1608) di Costanzo Antegnati, membro dell'illustre famiglia
di organari bresciani, o L'organo suonarino di Adriano Banchieri
(Venezia, 1605, ristampato con aggiornamenti fino al 1638). Rien-
trano in questo repertorio organistico d'uso liturgico pubblicazioni
di varia natura: raccolte factotum come l'Annuale che contiene tutto
zuello che deve far un organista per risponder al coro tutto l'anno,
cioè tutti gl'inni delli vesperi, tutte le messe, cioè doppia, che serve
ad ambe le classi, della Domenica, e della Beatissima Vergine Madre
di Dio; sono regolate sotto l'ordine de' toni ecclesiastici; otto magni-
ficat, otto ricercate, otto canzoni francese, quattro fughe ... , la Salve
regina ed il Te Deum laudamus del frate monrealese Gio. Battista
Fasolo, del 1645, o il Livre d'argue contenant cent pièces de tous
lcs tons de l'Église di Guilla.ume-Gabriel Nivers, del 1665; ma anche
raccolte di soli ricercari e canzoni e capricci e toccate strumentali
da cui l'organista trae i brani da suonare durante il graduale o l' of-
fertorio o le antifone, e financo nel momento culminante della
messa: l'elevazione. (È sintomatica in tal senso la frequenza di can-
zoni e ricercari strumentali pubblicati nelle raccolte di musica eccle-
siastica: l'esecuzione, magari, può essere affidata ad libitum a stru-
menti vari anziché al solo organo, se l'uso locale lo consente. Nella
seconda metà del secolo, prevalentemente nell'Italia settentrionale,
l'organo cederà volentieri il posto alla sonata da chiesa in trio
: due violini e basso è la formazione standard -, adibita proprio alla
sostituzione" strumentale del proprium.) Artisticamente più sofi-
122 LA MUSICA DA CHIESA

sticate e liturgicamente più integrate di siffatti prontuari sono poi


quelle messe per organo che assolvono almeno parzialmente ad ambo
le funzioni: l'alternanza con il canto gregoriano nell' ordinarium,
e la" sostituzione" del proprium. Esempi illustri sono le Pièces d'ar-
gue, consistant en deux messes «per l'uso corrente delle parrocchie
e per i conventi e monasteri» di François Couperin (del 1690, ma
mai stampate) e, molto prima, le tre messe (della Domenica, degli
Apostoli, della Madonna) contenute nei Fiori musicali dell'organi-
sta di S. Pietro, Girolamo Frescobaldi (Venezia, 1635). Basti descri-
vere qui (cfr. la tabella di p. 123) una delle distribuzioni possibili
dei brani offerti (con leggera sovrabbondanza e quindi con un mar-
gine di opzione ad libitum dell'esecutore) da una delle tre messe
frescobaldiane, la terza, notando che le parti organistiche dell' or-
dinarium sono composte - e, dal Gloria in poi, improvvisate oppure
desunte da altri prontuari organistici - sopra il canto fermo grego-
riano specifico (cantato alternatim dal coro).
Il problema formulato drasticamente nella città papale dall'e-
ditto del 1665 è ben presente anche sotto giurisdizioni e in tradi-
zioni liturgiche remote da Roma. Per esempio il patriarcato di Vene-
zia (geloso da sempre d'una sua autonomia da Roma anche musi-
calmente manifesta, cfr. voi. IV, § 27) lamenta nel 1639 gli «abusi
non solo negli abiti de' musici medesimi, ma eziandio negli instru-
menti musicali, e nelle parole che si cantano si vede anzi riguar-
darsi il diletto degli ascoltanti che la divozione». I procuratori decre-
tano che

nelle solennità di musiche non [si deve] permettere che siano usati instru-
menti se non gli ordinari usati nelle chiese, astenendosi particolarmente
dall'uso di instrumenti bellici, come sono trombe, tamburi ed altri simili
più accomodati ad usarsi negli eserciti che nella casa del Signore Iddio,
e che li musici tutti, cosi ecclesiastici come secolari, nell'atto del ser·
vire alla musica vadino vestiti con la cotta, abito proprio di usare nelle
chiese, e finalmente [che non si deve] permettere in esse musiche traspo·
sizione di parole ovvero cantare parole inventate da novo e non descritte
sopra i libri sacri, salvo che all'offertorio, all'elevazione, dopo l' Agnus
Dei, e così alli vespri tra li salmi si possono cantar moteti di parole però
devote e che siano cavate da libri sacri ed autori ecclesiastici, sopra il
qual particolare potranno e doveranno quelli che non avessero cognizione
bastevole ricevere la instruzione da reverendi parroci, da sacerdoti delle
chiese ed altre persone intelligenti sotto pena per cadauna volta contra\/·
venendo di ducati 25 ed altre pene.
LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA 123

PROPRIUM ORDINARIUM ORGANO CANTO


GREGORIANO
Toccata avanti
!JJ messa
introito
Kyrie Kyrie [I]
[Kyrie Il]
Kyrie [III]
[Christe I]
Christe [II]
[Christe III]
Kyrie [Il
[Kyrie II]
Kyrie [III]
Gloria [altematim]
graduale Canzon dopo
l'Episto!JJ
Credo [alternatim]
offertorio Recercar dopo
il Credo
orazioni dopo Toccata avanti
l'offertorio il ricercar
Recercar
Sanctus [altematim]
(elevazione) Toccata per
l'Elevazione
Agnus [altematim]
communio Bergamasca
(Deo gratias) Capriccio sopra
!JJ Giro/meta

Laddove si vede che tuttavia a Venezia i margini di tolleranza e


di arbitrio erano pur piuttosto larghi. Alla luce di documenti come
questo, che testimoniano la consistenza di usi liturgici locali in varia
misura più permissivi che non a Roma, meglio si spiegano le scelte
testuali e stilistiche a prima vista arbitrarie di quei mottetti da cantar
«tra li salmi» che Monteverdi (tre anni prima di accedere alla cap-
pella di S. Marco in Venezia) pubblicò nel suo Vespro della Beata
Vergine del 1610: un monologo («Nigra sum») e un duetto («Pul-
chra es») di puro stile recitativo su testi del Cantico di Salomone,
testi amorosi che solo per allegoria si riferiscono al culto della Ver-
124 LA MUSICA DA CHIESA

gine; un testo di soggetto trinitario (e perciò a tre voci) organiz-


zato come una competizione di virtuosismo canoro tra angeli («Duo
Seraphim clamabant alter ad alterum»); un tropo devoto del Salve
regina, anch'esso risuonante con effetti d'eco nei cieli («Audi coe-
lum verba mea piena desiderio et perfusa gaudio Il audio»); infine
una vera e propria sonata strumentale con viole, cornetti, trom-
boni, intrecciata su un canto fermo cantato undici volte dal soprano
solo, « Sancta Maria ora pro nobis ».
Tutto sommato, però, nel vespro monteverdiano del 1610 -
una volta spiegata l'apparente anomalia liturgica dei testi dei mot-
tetti e riconosciuta l'applicazione senza remore di uno stile di canto
recitativo di provenienza nient' affatto ecclesiastica e peculiare sem-
mai delle sale principesche (cfr. § 3) - merita maggior attenzione
la musica dei cinque salmi e dei due Magnificat concertati (uno,
a 6 voci, più dimesso, per il servizio della vigilia; l'altro, affatto
simile nell'invenzione musicale ma più sonoro e fastoso, a 7 voci
con strumenti, per la solennità vera e propria). È nei salmi e nei
Magnificat infatti - ossia nelle sezioni portanti del rito vespertino,
omologhe all' ordinarium della messa - che diventa più problema-
tico conciliare l'attitudine monteverdiana alla elocuzione oratoria
ed affettiva (illustrata qui nei § § 4 e 7) con la veste sonora deco-
rosa e formalizzata che la liturgia richiede. La soluzione del 1610
è complessa: salmi e Magnificat sono composti a 5, a 6, a 7 voci
o a doppio coro sopra i cantus firmi propri, cantati in valori lunghi
da una delle voci. La ripetizione del cantus firmus di versetto in
versetto procura automaticamente l'articolazione musicale del testo
in tante sezioni quanti sono i versetti, e ne garantisce altresì l'uni-
tarietà complessiva: su questa intelaiatura fortemente segmentata
e però coerente, il contrappunto corale e solistico delle altre voci
e degli strumenti intesse episodi fortemente differenziati di poli-
fonia florida. Sono frequenti gli effetti di jubilus, la pura estasi
canora dei vocalizzi estenuatamente lunghi e divaricati che - spesso
con risposte in eco - percorrono orbite sonore celestiali ma gra-
vitanti intorno alla fissità del canto fermo; nel Magnificat mag-
giore, accanto alla voci giubilano anche violini e cornetti. All'e-
stremo opposto, Monteverdi ricorre talora al falso bordone, quella
pseudopolifonia di uso feriale che consiste nella recitazione corale
dei versetti salmodici su un solo accordo, punteggiata da una
cadenza a metà e a fine versetto. L'intermittenza programmata e
LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA 125

reiterata di pratiche compositive eterogenee produce sonorità diver-


genti e provoca un ascolto eccitato e "aperto", condizionato tut-
tavia da una percepibilissima organizzazione formale a procedimenti
alterni: così nel primo salmo della serie:

[v I
Dixit dominus ... a 6 voci
sul canto fermo
Donec ponam inimicos ... falso bordone

cadenza finale del falso bordone


ripetuta instrumentaliter

Virgam virtutis tuae ... duetto di soprani


[V 2 c.f. al basso
V. 3 Tecum principium ... falso bordone

cadenza finale del falso bordone


ripetuta instrumentaliter

Juravit Dominus ... duetto di tenori


[V 4 c.f. al basso
V. 5 Dominus a dextris ... falso bordone

cadenza finale del falso bordone


ripetuta instrumentaliter

V. 6 Judicabat in nationibus ... quintetto vocale


c.f. al basso
V. 7 De torrente in via ... falso bordone

[segue la dossologia, Gloria Patri, a sei voci, sempre sul canto


fermo, ma in altro tono]

Soffermarsi sul Vespro monteverdiano del 1610 vuol dire anche


meditare sulla sua eccezionalità. Come le messe, sono assai rari nel
resto del secolo i vespri concertati condotti sul canto fermo: le solu-
zioni correnti sono tre (e dopo il 1610 Monteverdi stesso le adotta
tutte). O uno stile corale sillabico senza pretese artistiche, a voci
Piene, magari a due cori, che recita i versetti l'uno dietro l'altro
senza soffermarsi su nessuno di essi. Oppure uno stile apertamente
"madrigalesco", poche voci e basso continuo come in un madri-
126 LA MUSICA DA CHIESA

gale patetico del settimo o dell'ottavo libro di Monteverdi: ma i


salmi non son monologhi. O infine lo stile concertato - coro, soli-
sti, strumenti - concentrato singolarmente su ciascun versetto, sl
da farne tante piccole ariette diverse, una concatenazione di epi-
sodi solistici e corali che a furia d'esser distinti suscitano l'effetto
sazievole d'una non motivata congerie. È - nonostante la bellezza
sonora e la maestria melodica - l'effetto che fanno i salmi di Cavalli,
erede probo ma modesto del Monteverdi sacro, e degli altri musi-
cisti marciani che, rinunciando all'elemento liturgicamente orto-
dosso ma compositivamente desueto ed "ingombrante" del cantus
/irmus, consegnano la composizione dei salmi e Magnificat alla più
giuliva e scontata concatenazione multisezionale. Lo stesso Mon-
teverdi nelle sue composizioni salmodiche veneziane, prive di cantus
/irmus, ovvia talora all'insidia con espedienti formali che potreb-
bero parere ibride contaminazioni profane: e sono invece altret-
tante garanzie di quella "tenuta" stilistica che il rito - alieno dalle
espressioni effettivamente determinate e discontinue - esige. Due
casi per tutti.
Nel Beatus vir per 6 voci, strumenti e basso continuo (1641),
la collana dei versetti è tenuta insieme mediante un duplice ele-
mento ricorrente: il motto iniziale («Beatus, beatus vir»), cantato
dal primo soprano e poi da tutto il coro su un andamento feste-
vole di canzonetta, viene intercalato (intiero o spezzato, ma sem-
pre identico) cinque volte nella serie dei primi quattro versetti e
- dopo un episodio in modo minore e tempo ternario - ricompare
trionfante alla fine del nono e del decimo versetto, prima della dos-
sologia; a questo motto canoro della beatitudine dei giusti è corre-
lato - proprio come nelle canzonette strofiche del settimo libro
- un ritornello danzereccio a due violini, intercalato anch'esso (iso-
lato o collegato con il motto vocale) una mezza dozzina di volte.
Cosl, mentre il salmo procede, risuona ogni verso o semiverso una
almeno delle due sigle musicali della letizia dei timorati di Dio,
con un effetto ciclico di attese-sorprese che sostiene la "durata"
interiore della composizione.
Oltre la concatenazione dei singoli versetti, un altro problema
formale assilla il compositore di salmi: l'integrazione di quel corpo
estraneo che è la dossologia aggiunta alla fine. Una soluzione radi-
cale ad ambo i problemi la dà il Laetatus sum monteverdiano a 6
voci, strumenti e basso continuo, pubblicato postumo (1650). lntes-
LA MUSICA NELLA LITURGIA CATTOLICA 127

suto su una serie di duetti vocali e strumentali (due soprani e due


violini; due tenori e due tromboni; due bassi e un fagotto), il canto
dei versetti è appeso al traliccio rudimentale e continuo di un basso
ostinato perpetuo di quattro note (sol-sol-do-re), ripetuto di bat-
tuta in battuta 138 volte fino al completo esaurimento del testo
salmodico. L'effetto incantatorio di circolarità è incardinato sulla
fissità tonale (sol) di quelle quattro note del basso ostinato: tanto
maggiore è l'esaltazione del «Gloria» finale, proclamato a piena
voce dal coro in toni indirizzati centrifugamente verso angoli opposti
dell'orizzonte tonale (mi la re ... ). Il basso ostinato perpetuo rie-
merge però infine intatto sulle parole «semper, sempet •>, e opera
così retroattivamente una saldatura - formale, ma anche concet-
tuale - con il canto del salmo: non fosse per !'«amen» conclusivo,
esso continuerebbe davvero «in saecula saeculorum».
Procedimenti formali siffatti - efficaci in quanto vistosi (e perciò
:lescrivibili a parole) - mal si addicono a imitazioni frequenti. E
invero le musiche sacre di Monteverdi (mai ristampate) sono per
loro natura solenni, eccezionali, destinate a cappelle musicali d'alto
rango, in templi e città che come Venezia tollerassero l'uso litur-
gico estensivo degli strumenti e degli stili extra-ecclesiastici. Altre
tradizioni liturgiche cittadine specifiche coltivano le grandi chiese
e basiliche di Bologna, di Napoli, di Roma, eccetera (se n'è accen-
nato al § 12), e ciò costituisce un impedimento alla circolazione
:lel repertorio. Statisticamente molto più rilevante e diffuso è invece
il livello medio e basso delle cappelle musicali di provincia, o delle
:hiese minori delle grandi città: alle risorse vocali limitate corri-
,ponde un repertorio di consumo di larga circolazione e di medio-
:re virtuosità, collegato spesso alle peregrinazioni di maestri di cap-
pella religiosi esperti e routiniers. (Una biografia esemplare: Ste-
fano Filippini detto l'Argentina, monaco agostiniano riminese,
autore di 12 libri di musica da cappella, maestro di cappella nel
1620 a S. Stefano in Venezia, sotto Urbano VIII a S. Agostino
in Roma, dal '48 in poi a S. Giovanni Evangelista in Rimini - dove
tnorl nel 1690 -, e nel frattempo anche a Forll, al duomo di
Ravenna, al Gesù di Genova, a Montefiascone, nella repubblica
:H San Marmo · ... )
Rappresentante egregio di questa categoria di musicisti da chiesa,
Alessandro Grandi è un esempio da contrapporre utilmente alla
,ublirnità di Monteverdi. Nato intorno al 1585, musico e poi maestro
128 LA MUSICA DA CHIESA

delle accademie religiose della Morte e dello Spirito Santo nonché


del duomo di Ferrara fino al 1617, è poi vicemaestro di S. Marco
accanto allo stesso Monteverdi, e infine dal 1627 maestro di cap-
pella a S. Maria Maggiore di Bergamo, dove muore nel pestifero
1630. Probabilmente settentrionale, un lessicografo settecentesco
lo suppone per errore siciliano in base alla ristampa palermitana
(1620) dei suoi primi cinque libri di mottetti a 2, 3 e 4 voci
(1610-19): la svista è rivelatrice, la fortuna editoriale nel remotis-
simo Sud (musiche sue si trovano fin nella cattedrale di Malta) è
una testimonianza inequivoca della funzionalità di quei mottetti,
frequentemente ristampati in Venezia e favoritissimi peraltro anche
oltralpe (compaiono a dozzine in antologie germaniche fino negli
anni Settanta). Sono, quei mottetti, composti su testi in parte litur-
gici e in parte no: collezioni da cui è facile attingere testi propri
o omologabili per cantare nel proprium. Ali' opposto del Monteverdi
sacro, lo stile è intermedio, rifugge tanto dall'affettuosità recita-
tiva o madrigalesca quanto dal virtuosismo canoro o compositivo,
tanto dalla severità dello stile osservato e imitativo a cappella quanto
dalle grandi impalcature sonore sopra cantus firmi: un contrappunto
semplice di voci spesso solistiche e talvolta dialogiche dà risalto
opportuno alle sole immagini cruciali del testo sacro mediante con-
figurazioni melodiche o armoniche o ritmiche singolari. Come dice
la dedica dei suoi mottetti a 5 voci del 1614,

qui la chiarezza delle parole non fugge con le fughe del musico, né l'arte
del parlare perde i suoi pregi nell'arte del canto, ma questa s'innalza con
quella, s'umilia con lei, corre con lei, posa con lei, piange con lei, ed in
qualunque altra maniera quella si disponga, questa più efficacemente pro-
muove gli affetti di lei: onde insomma vedrà Vostra Altezza l'arte di que-
sto autore servire d'una giudiziosa luce, d'una spiritosa forza e d'un vivis-
simo spirito all'orazione, e fatto quasi scalpello d'armonico scultore ren-
der le parole di rilievo agli uditori; ufficio che tanto è proprio del canto,
quanto è poco inteso da molti professori di esso, i quali con gl'intempe-
stivi e troppo spessi rompimenti delle note turbano ed oscurano i sereni
corsi dell'orazione, e coi troppi ingordi raggiramenti sbranano le parole,
divorano la loro chiarezza e con varie code d'inanimati passaggi rappre-
sentano mostri e chimere a chi li ascolta. Vuolsi da valoroso compositore
rompere sì col canto la corrente dell'orazione, ma in quella guisa che pia-
cevole ruscelletto fra pietrucce minute frange il passaggio dell'acqua, che
certo un rompimento tale non solo non rende oscuro il suo tributo, ma
piuttosto in virtù di quei piccioli ripercotimenti raddoppia la chiarezza
dell'onde e cagiona nell'orecchie altrui un dolcissimo mormorio.
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 129

Il topos cinquecentesco della musica serva dell'orazione (cfr. § 4)


è addomesticato: più che giustificare licenze e ardimenti, suggeri-
sce e stimola una dizione attenta e nitida.
Stesse virtù il Grandi applica, passato a Venezia, a un genere
affatto diverso: il mottetto devoto a voce sola (con o senza violini).
Vice di Monteverdi, non gli compete la produzione di musiche litur-
giche per la basilica: ma con i mottetti a voce sola egli alimenta pre-
cocemente un genere moderno destinato poi a durevole fortuna, un
genere che, se gratificava l'esibizionismo canoro dei migliori soli-
sti di S. Marco, trovava una sede ricettiva negli oratorii privati, nelle
cappelle dei monasteri e dei conventi alla moda, nelle "scuole" delle
confraternite (una cantilena strofica musicata dal Grandi è esplicita
in tal senso: « Defende Virga confraternitatem istam et Vene-
tos populos tibi devotos»). È sintomatico dell'uso extra-ecclesiastico
che tali mottetti siano scritti « per cantar e sonar col chitarrone»,
non già con l'organo! Composti sopra testi non liturgici - veri passe-
partout genericamente agiografici o mariani-, assumono uno stile
contiguo a quello dei madrigali concertati, ma se ne distinguono per
un contegno affettivamente più smorzato, generalmente alieno dal-
!' estasi e dall'esaltazione (mai raggiungono la fisicità gemente pal-
pitante e sofferente del Salve regina a due voci di Monteverdi del
1641, testimonianza d'un patos spirituale superbamente indeco-
roso). Tutt'al più, se il testo compila prosa scritturale e strofe metri-
.che, l'esito sarà formalmente affine a quello delle cantate profane
di cui il Grandi fu uno dei primi produttori veneziani: recitativi
ariette strofe ritornelli. A Bergamo, finalmente a capo d'una cap-
pella illustre, Grandi - senza cessare la produzione di mottetti - si
rivolge alle grandi composizioni dell' ordinarium liturgico: in tre anni
pubblica tre messe, tre Magnificat, 34 salmi. E anche all' ordinarium
applica quel criterio di una interpretazione musicale sobriamente
"oratoria" del testo sacro, soglia massima della musica liturgica ita-
liana d'uso corrente in quel secolo.

16 • MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE

Non si esaurisce nella liturgia l'impiego che della musica fa la


Chiesa cattolica, cosl come non si esauriscono nella celebrazione
del rito le manifestazioni della religiosità collettiva. Da sempre,
130 LA MUSICA DA CHIESA

accanto ai riti sacri la Chiesa ha promosso forme collaterali cli devo-


zione comunitaria, laica o religiosa, che ben spesso la musica è stata
chiamata a stimolare ed inanimire. Un esempio: nel Quattro e nel
Cinquecento - prima a Firenze, poi nei circoli romani che raccolse
intorno a sé il fiorentino Filippo Neri, fondatore nel 1575 della
congregazione dell'Oratorio (cfr. vol. IV, § 24) - il canto comunita-
rio delle laudi (ossia "lodi") devote è stato uno strumento poderoso
di edificazione religiosa laicale. Il fenomeno delle laudi polifoni-
che è particolarmente cospicuo nella storia della musica italiana
per essersi costituito in un repertorio assai ricco, e per l'irradia-
zione collettiva che tale repertorio ebbe tramite i conventi degli
oratoriani (fondati a Napoli nel 1586, a Bologna nel 1616, a Firenze
nel '32, via via fino a coprire nel Seicento tutta la penisola) egra-
zie a una dozzina di edizioni musicali di laudi oratoriane apparse
tra il 1563 e il 1600 a cura di musicisti che del fondatore dell'Ora-
torio furono sodali (come l' Animuccia) o di padri filippini dediti
anche all'esercizio della musica (come il padre Giovenale Ancina,
l'edificatore d'un monumentale Tempio armonico della Beatissima
Vergine antologico, del 1599), grazie a numerose edizioni cinque
e seicentesche di laudi devote non oratoriane (ancora nel Seicento
Firenze ne fu il centro di produzione maggiore), e grazie infine
a numerosissime edizioni dei soli testi, che danno per note le melodie
delle laudi, spesso eguali a quelle di canti popolari profani cli dominio
comune.
Ma questo procedimento del "cantasi come", ossia della paro-
dia spirituale di canti popolari urbani di soggetto erotico o gno-
mico, praticata su larga scala e in ogni epoca per le laudi, non è
che il caso musicalmente più vistoso cli un generale processo cli sfrut-
tamento e addomesticamento della cultura popolare - portatrice
insidiosa di significati magici, sl, ma anche efficace strumento di
penetrazione missionaria - intrapreso con zelo propagandistico dalla
Chiesa (ma anche dalla società civile) in epoca moderna, processo
di appropriazione-espropriazione che si compie principalmente tra
il Cinque e il Settecento. La defunzionalizzazione della musica popo-
lare, adibita a scopi allogeni di ricreazione devota ed edificazione
religiosa, vi ebbe parte determinante. Il fenomeno appare in tutta
la sua nitidezza in terra di missione. Due casi esemplari. In occa-
sione dell'arrivo delle reliquie inviate da Roma a Città del Mes-
sico nel 1578 i gesuiti - oltre la musica liturgica polifonica all'eu-
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 131

ropea - organizzarono prima danze indigene di «indios niiios» ornati


di piume, «con canto de organo» (ossia polifonico) «concertado
al modo espafiol» ma accompagnato con strumenti indigeni come
il teponaztli (tamburo "sacro" a due suoni), poi un cantico in onore
di sant'Ippolito, patrono della città, cantato in lingua nahuatl e
su musica rituale indigena. Alla fine del Seicento il gesuita mila-
nese Gio. Maria Salvaterra, di famiglia nobile, educato alla danza
e alla musica, dopo aver richiesto di esser mandato in Cina («Imparai
per quattro anni - mentre ero nel Collegio de' Nobili di Parma -
a suonare di liuto, alla qual arte m'applicai molto più quando intesi
che con questa arte si era uno della Compagnia molto avanzato
nella grazia di que' re chinesi»), finl missionario nella desolata peni-
sola messicana della Bassa California, dove sperimentò di persona
i balli rituali degli indios (ne notificò più di 30) e vi propagò la
dottrina cristiana cantandola e facendola cantare ai bambini
indigeni.
La Chiesa di Roma combatté con ogni mezzo il paganesimo
latente nelle credenze religiose delle classi subalterne e quello
patente delle terre di missione, la diffusione strisciante dell'eresia
cristiana e le seduzioni peccaminose del secolo: il combattimento
si svolse principalmente fuori del territorio proprio della teologia
e della liturgia, sul campo della mobilitazione laicale e religiosa degli
individui e delle masse. Gli strumenti: la fondazione di ordini reli-
.giosi militanti dediti al proselitismo e all'istruzione (come i gesuiti,
i filippini, i cappuccini, i barnabiti, che risalgono al Cinquecento
ma ebbero nel Seicento la loro espansione massima); il risanamento
pastorale, che - dalle missioni parrocchiali di Carlo Borromeo a
dorso di mula, alla riorganizzazione dei seminari, all'istituzione di
centri di alta cultura come l'apertura al pubblico della Biblioteca
Ambrosiana di Milano voluta nel 1609 dal cardinal Federico Bor-
romeo - attraversa tutti gli strati della società; l'effetto propagan-
distico e dimostrativo delle canonizzazioni di santi moderni (cla-
morosa, dopo quella di san Carlo nel 1610, fu la quintuplice cano-
nizzazione del 1622: sant'Ignazio di Loyola fondatore dei Gesuiti,
san Francesco Saverio promotore delle missioni gesuitiche nell'E-
stremo Oriente, l'umile contadino sant'Isidoro di Madrid, san
Filippo Neri, e santa Teresa d'Avila mistica carmelitana); il rilan-
cio d'una devozionalità ispirata e mistica che proprio nella figura
di santa Teresa - di cui Gian Lorenzo Bernini eternò nel marmo
132 LA MUSICA DA CHIESA

la spasmodica estasi beata - trova la propria epitome; la promo-


zione di un'agiografia spettacolare che culmina operisticamente in
drammi per musica come la Regina sant'Orsola di Andrea Salvado-
ri o il Sant'Alessio, il San Bonifacio, la Santa Genoinda di monsignor
Giulio Rospigliosi (cfr. § 20); l'istituzione - sempre nel 1622 -
d'un organismo centralizzato preposto alle missioni, la congrega-
zione de propaganda fide (che trovò sede in uno splendido edificio
progettato dal Borromini); la celebrazione sempre più solenne e
spettacolare dei giubilei, ogni quarto di secolo, e la trasformazione
urbanistica che della modesta città papale cinquecentesca fece lo
scenario sensazionale di un pellegrinaggio continuo; la propagazione
di forme devozionali collettive coinvolgenti, come l'adorazione del
Sacramento durante le quarant' ore.
Quanta secolarità e quanta seduzione sensoriale in realtà con-
vogliassero a buon fine siffatte pratiche devozionali è testimoniato,
non senza garbo, da questa lettera d'un architetto fiorentino alla
corte di Spagna, Baccio del Bianco, che riferisce a un principe
Medici la celebrazione delle quarant'ore per la nascita dell'Infanta
nel 1651:

Il Santissimo sta esposto con ricchezza di lumi e argenteria vera-


mente con somma maestà e decoro, a' piedi dell'altare vi è una chiusa
di panche in quadro dove stannovi a seder tutti i musici della cappella
reale, arpa trombone cornetto e regale, con qualche tenore di cornamusa,
e continuamente cantano inni e laude ma in lingua spagnola, per esser
la maggior lingua che sia al mondo; di queste ariette io ne aspetto e l'ho
già domandate, e sùbito avute le voglio inviare al signor Atto [Melani],
che in compagnia delli suoi le faccia sentir a Vostra Altezza: però con
lo spirito che le cantano qua tengo sia impossibile il poterle sentire.
Insomma l'andar qua alle quarantore è come entrar in scola [di musica]
di Gio. Battista da Gagliano [a Firenze], e più concorso tengono quando
vi concorre maggior quantità di mozze [ossia ragazze], le quali acciac-
cate in terra, con l'occhiolino fuori del manto, fanno il più bel cicaliccio
e col confessore e co' frati, e ancora con i mozzi, che sentir si possa ...

(Le «ariette» che Baccio del Bianco sentl cantare e di cui voleva
inviare agli amici fiorentini le musiche furono probabilmente dei
villancicos, ossia quei canti strofici volgari di vario argomento ma
spesso e volentieri rivestiti di parole devote - insomma: I' equiva-
lente iberico delle laudi italiane - che, ampiamente coltivati in Spa·
gna e in Portogallo, a partire dal Cinquecento assunsero le carat·
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 133

reristiche di un genere "sacro" autonomo, genere passibile di un


notevole grado di complicazione artistica purché ne fosse salva-
guardata la suggestiva "popolarità" di cui - nel metro, nel ritmo,
nell'abito melodico cantilenante e danzereccio - andavano amman-
tati, una "popolarità" che ne feée il veicolo prediletto della devo-
zione natalizia. Ne fu proibito il canto nelle chiese soltanto nel
1765. Ma intanto il villancico era diventato il genere musicale
"sacro" favorito delle chiese nelle colonie ibero-americane, che ne
promossero con ogni mezzo la produzione ad opera dei maestri di
cappella provenienti dalla Spagna: la cattedrale di Città del Mes-
sico, dal 1591, concedeva annualmente al proprio maestro di cap-
pella 80 giorni di congedo perché si procurasse testi poetici sem-
pre nuovi pei villancicos da cantare al Corpus Christi e a Natale;
la massima gloria letteraria del Messico seicentesco è suor Juana
Inés de la Cruz, autrice di numerosissimi villancicos; non del tutto
immaginario - seppur nei limiti del verosimile poetico - è l' appa-
rato strumentale eterogeneo e fracassoso che il testo d'un suo vil-
lancico suggerisce, affatto congruo ai frequenti intercalari onoma-
topeici dei testi e alla foga coreutica documentata nelle musiche
che ci sono pervenute: clarino tromba trombone cornetto organo
f àgotto violino ciaramella trombamarina ci tara violone viella ribe-
chino bandora arpa ... )
Se l'intiero campo della musica liturgica è percorso da una dia-
l~ttica nitidamente percepibile tra la tendenza all'uniformazione
canonica da un lato e l'applicazione di risorse artistiche molteplici
dall'altro (cfr. § 15), l'area assai meno definita delle pratiche devo-
zionali dà luogo a produzioni musicali che difficilmente potranno
riassumersi in pochi caratteri costanti. Anzi, in un'epoca di grande
mobilità e attività propagandistica della Chiesa - una mobilità e
attività che tenta di abbracciare con un gesto poderosamente uni-
ficante una realtà sociale e geografica sempre più frammentaria e
centrifuga -, l'impiego devozionale della musica tende semmai a
Proliferare in forme e in occ~sioni sempre varie, che raramente si
costituiscono in un'autonoma tradizione artistica. Semmai, pre-
Ponderano le tradizioni locali, peculiari d'una città o d'un'istitu-
zione che le coltivano assiduamente, ma poco passibili di diffu-
sione extracittadina o extraistituzionale. Esemplare è il caso dei
"sepolcri" praticati a Vienna dal settimo decennio in poi per il Gio-
vedì e Venerdì Santo, cantati in italiano e rappresentati come immo-
134 LA MUSICA DA CHIESA

bili quadri viventi contemplativi su un "teatro" scenico allestito


nella cappella privata dell'imperatrice madre o nella cappella della
Hofburg: genere illustre rimasto però prerogativa esclusiva della
corte imperiale.
Fortemente eteronome sono anche le vicende dell'oratorio, il
"genere" di musica devozionale statisticamente più rilevante nel
Seicento, del quale è però assai labile e incerta perfin la defini-
zione, multiforme e discontinua la tradizione artistica, eterogenea
la cornice istituzionale. (La ricca storiografia musicologica sull'o-
ratorio seicentesco è stata spesso viziata da una prospettiva teleo-
logica: interessata a ricercare i prodromi e i precursori delle glo-
riose vicende settecentesche dell'oratorio, ossia di Handel e Bach,
essa è stata proclive a vedere una continuità nella coltivazione del
genere musicale dell'oratorio - una continuità che ne collegasse
le "origini" remote e cattoliche ai grandi capolavori dei due musi-
cisti protestanti - anche là dove non vi fu continuità bensl solo
moltitudine di pratiche devozionali e musicali diverse.) Il nome
stesso di "oratorio" ha scarsissima consistenza terminologica nel
Seicento: più e prima che designare un genere musicale, esso desi-
gna un tipo di edificio sacro e la sua funzione di luogo destinato
alla preghiera. Le denominazioni coeve degli oratorii in musica pos-
sono invece essere diversissime e generiche: historia, melodrama,
cantata, dialogo, drama rhythmometrum eccetera sono denomina-
zioni equivalenti che soltanto a fine secolo il termine "oratorio"
soppianta. Basterà esaminare sommariamente tre episodi della pre-
sunta "storia" seicentesca deil' oratorio in musica (ai primi del secolo
presso l'Oratorio di Roma; a metà Seicento nell'Oratorio del SS.
Crocifisso; a fine secolo in tutt'Italia) per constatare quanto ete-
rogenee ne siano le determinazioni, quanto arbitrario sia l'uso esten-
sivo e cumulativo che del termine "oratorio" si suole fare.
Senz'altro preminente fu l'attività edificante degli oratoriani
in Roma: le prime generazioni dei seguaci di san Filippo continua-
rono l'uso degli esercizi spirituali e devozionali festivi, frequenta-
tissimi, tenuti all'aperto d'estate e nell'Oratorio della Chiesa Nuova
d'inverno (l'edificio attuale è quello, umile nei materiali edili
- il cotto e lo stucco - ma splendido nella configurazione architet-
tonica, eretto dal Borromini nel 1640). In queste devozioni la musica
ebbe sempre larga parte: con il canto comunitario delle laudi, ma
anche con esibizioni di musicisti assoldati dalla congregazione (v'è
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 135

una durevole tradizione di simpatia dei cantori papali per l'Orato-


rio filippino, che risale all'epoca del fondatore e culmina nell'ere-
zione della tomba privilegiata dei cantori della Cappella Sistina pro-
prio nella chiesa degli oratoriani, nel 1639). Del tutto anomala,
rispetto a questa prassi di canti devoti e di musiche sacre, dovette
invece essere la Rappresentazione di Anima e di Corpo di Emilio
de' Cavalieri, composta «per recitar cantando» e messa in scena
ad opera dei padri filippini nel febbraio dell'anno santo 1600: si
trattò infatti d'un grande evento mondano, condecorato dalla pre-
senza di decine di cardinali tra gli spettatori. Il dramma allegorico
- ai due antagonisti eponimi si affiancano altre personificazioni:
il Tempo, l'Intelletto, il Mondo, il Consiglio, il Piacere, le Anime
dannate, eccetera - è tutto intessuto di recitativi in versi assai facili,
a rima baciata, intercalati a sezioni strofiche di vario metro (corri-
spondenti ai cori o ai dialoghi). Una di queste sezioni strofiche -
il primo contrasto tra Corpo e Anima, nella scena quarta dell' at-
to I: «Anima mia, che pensi?/ Perché dogliosa stai, / sempre traendo
guai?// Vorrei riposo e pace,/ vorrei diletto e gioia,/ e trovo affanno
e noia ... » - ha lo stesso testo di una delle Laudi spirituali polifoni-
che apparse nel 1577: e probabilmente molte altre delle strofe gene-
ricamente devote cantate dai cori della Rappresentazione sono
desunte da laudi in uso presso i filippini. Questa circostanza ha
indotto taluno a vedere nelle laudi degli oratoriani il germe origi-
nario del genere drammatico-musicale dell'oratorio, nella Rappre-
sentazione del Cavalieri la sua prima piena realizzazione. Sarà più
prudente, invece, prendere la Rappresentazione per quello che essa
fu, un evento teatrale artisticamente eccezionale (una ecceziona-
lità testimoniata dalla lussuosa edizione musicale) che, nell'occa-
sione edificante, fece ricorso a quel tipo di poesia devota - le laudi
oratoriane - di cui promotori e destinatari dello spettacolo condi-
videvano la consuetudine: insomma, nulla più che l'occasionale ado-
zione di testi spirituali a fini artistici (cosl, già il Palestrina aveva
adottato testi laudistici per i suoi madrigali spirituali del 1581, o
viceversa nel 1613 Giovanni de Macque impiegò il testo d'un coro
della Rappresentazione per farne due madrigali spirituali). Vero è
semmai che l'inserimento di laudi devote in un contesto rituale-
rappresentativo è pratica diffusa anche fuori di Roma e già prima
del Seicento. Per esempio: in un Trionfo della verginità stampato
a Cremona nel 1595 (un' «operina nella quale brevemente si tratta
136 LA MUSICA DA CHIESA

dell'eccellenza dello stato verginale, fatta per le Vergini della Com-


pagnia di sant'Orsola ») si assiste alla rappresentazione della vesti-
zione d'una monaca, con la comparsa di angeli e sante vergini che
tra un atto e l'altro del rito della vestizione cantano ottave e laudi
devote. Canto di laudi e rappresentazioni di soggetti sacri coltiva-
vano a Firenze prima e dopo il 1600, nella confraternita laica del-
1' Arcangelo Raffaello, gli antagonisti fiorentini del Cavalieri, Bardi
Peri Rinuccini Caccini Gagliano ... Non dalle laudi stesse, bensl
dalle pratiche devozionali di cui tutt'al più esse furono un ingre-
diente favorito si generò dunque il genere dialogico-musicale del-
1' oratorio.
Una pubblicazione musicale che - molto più dell'irripetibile Rap-
presentazione del 1600 - dà un'idea del contributo degli oratoriani
di Roma allo sviluppo della forma dialogico-musicale dell'oratorio
è invece il Teatro armonico spirituale di Gio. Francesco Anerio
(1619). I madrigali spirituali e i dialoghi in stile recitativo di que-
sta raccolta costituiscono un «teatro iemale» (ossia invernale) «degli
evangeli ed istorie della Sacra Scrittura e delle lodi di tutti i santi»
(come si legge nella dedica indirizzata idealmente a Filippo Neri
e a san Girolamo, patrono della prima chiesa filippina in Roma,
S. Girolamo della Carità). È palese il rapporto tra i madrigali e
dialoghi del Teatro e le feste del calendario liturgico invernale: alla
lettura latina delle Scritture di ciascuna festività corrispondeva
nell'oratorio vespertino dei padri oratoriani il canto di una sua para-
frasi poetica italiana, che ne costituiva una forma di seducente
volgarizzazione così come il sermone ne costituiva il commento ese-
getico.
Le fonti dei dialoghi italiani del Teatro armonico sono le Scrit-
ture (e, per le feste dei santi, l'agiografia). La natura devota ed
edificante di queste musiche sta dunque nella loro funzione - una
funzione di mediazione tra il testo liturgico nella sua veste latina,
inaccessibile ai più, e la folla dei devoti-, non nei testi stessi (come
è invece vero per il canto comunitario extraliturgico delle laudi
o per le rappresentazioni sacre ed allegoriche). Un pretesto sugge-
stivo all'invenzione dei vari tipi di oratorio in musica lo fornl infatti
la stessa natura intrinsecamente narrativa e dialogica di molti dei
passi vetero- e neotestamentari del proprium missae. Ma un incen-
tivo potente alla coltivazione del genere dovette altresl darlo la
diffidente cautela con cui la Chiesa di Roma ha sempre ammini-
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 137

strato l'accesso diretto dei fedeli al testo della Bibbia. L'oratorio,


la recitazione canora affascinante di scene bibliche ed evangeliche
accortamente parafrasate, fu il veicolo ma anche il filtro efficace
di una volgarizzazione e divulgazione controllata delle Scritture,
sicuramente più attrattiva e al tempo stesso più innocua che non
la lettura dei testi sacri originali abbandonata all'iniziativa indivi-
duale. Bibbia e vite dei santi costituiscono infatti le due grandi
fonti testuali che alimentano la stragrande parte degli oratorii in
musica seicenteschi: i soggetti contemplativi ed allegorici sono
invece una categoria nettamente minoritaria.
La diffidenza verso le Scritture è acuita, nella Chiesa della Con-
troriforma, dalla polemica antievangelica: delle Sacre Scritture
- che per i protestanti sono la fonte esclusiva della Rivelazione -
la confessione cattolica (una confessione che da sempre esalta la
preponderanza della propria tradizione teologica ed ecclesiale) dà
di preferenza un'interpretazione non storica o morale, bensl "figu-
rale" L'Antico Testamento va letto come una prefigurazione del
Nuovo Testamento, la storia del popolo eletto va interpretata come
simbolo della vicenda della Redenzione. Nell'interpretazione cat-
tolica il sacrificio di Isacco - che nel suo contesto originario era
una favola ebraica proposta come esempio storico (degno di imita-
zione) di una obbedienza e dedizione assoluta alla divinità - è la
prefigurazione, la" figura" del sacrificio del Figlio di Dio: la Cro-
cifissione spiega per simbolo la favola veterotestamentaria di
Abramo e Isacco cosl come a sua volta l'agnello sacrificale di quella
favola è simbolo dell'Agnello mistico neotestamentario. Il Nuovo
Testamento è il compimento, la realizzazione di quanto l'Antico
aveva preannunciato esplicitamente per bocca dei profeti o impli-
citamente per mezzo di tali "figure" La realtà storica delle vicende
di ambo i Testamenti non viene smentita da una siffatta interpre-
tazione figurale, essa viene semplicemente trascurata in favore della
relazione simbolica che le lega come immagini speculari nel dise-
gno imperscrutabile della Provvidenza, in favore della univocità
di significato che esse acquistano nella prospettiva della storia della
redenzione per opera di Cristo. Di questa interpretazione figurale
delle storie bibliche l'oratorio in musica fu nel Seicento cattolico
un veicolo potente ed efficace: lo rivelano esplicitamente titoli di
oratorii in volgare come Il sacrificio del Verbo umanato figurato in
quello della figlia di ]e/te o Abel figura dell'Agnello mistico eucari-
138 LA MUSICA DA CHIESA

stico o Giona simbolo della sacrosanta Eucaristia. Ma anche le histo-


riae, gli oratorii latini - per forza di cose fondati sulla prosa sto-
rica della narrazione biblica anziché su parafrasi poetiche italiane
tendenzialmente interpretative-, venivano collocati in un conte-
sto devozionale che ne suggeriva una interpretazione figurale. Lo
illustra bene la descrizione (data nel 1639 da un musicista fran-
cese, André Maugars) delle adunanze che, ogni venerdl di quare-
sima, l'aristocratica Arciconfraternita del SS. Crocifisso teneva a
proprie spese nell'omonimo Oratorio di Roma: in apertura si can-
tava un salmo o mottetto, seguiva una sinfonia strumentale, poi
una storia dell'Antico Testamento cantata in musica recitativa «in
forma d'una commedia spirituale» (ossia: una voce per ogni sin-
golo personaggio); dopo la predica, la musica "recitava" allo stesso
modo il vangelo del giorno.
All'autore di questa descrizione sommaria stava a cuore la qualità
straordinaria della musica recitativa italiana, sconosciuta ai suoi
lettori francesi, non certo la compilazione scritturale dei testi reci-
tati: che però non dovette essere casuale, se tra gli esempi vetero-
testamentari egli cita l'episodio di Susanna al bagno, tra quelli neo-
testamentari l'episodio della Samaritana al pozzo. I due episodi
figurano nel proprium missae rispettivamente del terzo sabato e del
terzo venerdl di quaresima: sarebbe toccato al predicatore di isti-
tuire nel sermone intermedio tra questi due testi (contigui nel calen-
dario liturgico) un rapporto figurale a fini esegetici. In verità, ora-
torio musicale e oratoria sacra sono generi diversi ma strettamente
concorrenti e convergenti nel loro intento di edificare i fedeli sedu-
cendoli e commovendoli: è simultaneo a quello dell'oratorio musi-
cale il trionfo dell'oratoria sacra come genere letterario, grazie a
predicatori eccelsi come il cappuccino Emanuele Orchi (il suo Qua-
resimale apparve postumo nel 1650) o il gesuita Paolo Segneri (il
suo Quaresimale è del 1679). L'oratorio latino, composto di prefe-
renza su passi biblici della liturgia, è di solito in una parte: due
di essi possono dunque combinarsi figuralmente, a specchio, attorno
alla predica, come nelle sedute paraliturgiche quaresimali del SS.
Crocifisso descritte testé. L'oratorio italiano, invece, che delle Scrit-
ture fa un uso poeticamente parafrasante e nettamente extralitur-
gico, è solitamente articolato come un testo drammatico dialogato
in due parti: tra la prima e la seconda si colloca il sermone. In ambo
i casi, la contiguità con la predica è significativa.
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 139

Le dissimilarità dell'oratorio latino e dell'oratorio volgare non


consistono però tanto nella loro diversa conformazione o nel diverso
grado di aderenza alle fonti bibliche: sono le differenze di funzione
e di fruizione a farne quasi due generi difformi. Enormemente cir-
coscritta fu la pratica dell'oratorio latino. Con regolarità e siste-
maticità esso fu coltivato soltanto dalla menzionata Arciconfrater-
nita del SS. Crocifisso in Roma: i cinque oratorii latini dei venerdl
di quaresima cantati in quel club di nobili romani costituirono fino
ai primi del Settecento un uso duraturo, quasi un' antistagione ora-
toriale contrapposta alla stagione teatrale carnevalesca. Principal-
mente all'Oratorio del Crocifisso erano destinate le historiae bibliche
di Giacomo Carissimi (1605-1674), lodatissime dai viaggiatori stra-
nieri di passaggio a Roma. Poderosa - e ancor oggi nitidamente
percepibile a primo ascolto - è la forza rappresentativa della musica
di Carissimi, che trae ampio vantaggio dalla struttura particolare
dei propri testi. Essi sono ricavati bensl dalle Scritture, ma non
senza un tanto di parafrasi ed amplificazione che potenzia l'icasti-
cità della prosa biblica e offre larghe risorse all'illustrazione musi-
cale imitativa (la tempesta marina della vicenda di Giona, che la
Bibbia liquida in tre righe, è lungamente descritta in tutta la sua
meteorologica formidabilità dalle 'parole e dal canto della historia
carissimiana corrispondente). Inoltre abbondano le interpolazioni
metriche (poetiche, dunque, e non in prosa), che danno luogo agli
episodi musicalmente più pittoreschi o emozionanti. Cosl, nella
Historia divitis - il vangelo del secondo giovedì di quaresima, la
parabola del ricco e di Lazzaro - la narrazione della vicenda para-
frasa sobriamente il testo di san Luca in un recitativo affidato allo
Historicus e (per le parti in discorso diretto) alle voci del Ricco e
di Abramo; ma è poi farcita di scene suggestive interpolate di sana
pianta, le scene orride e pandemoniali dei diavoli che rapiscono
l'anima del Ricco malvagio («Iam satis edisti, / iam satis bibisti, / iam
satis plausisti, / iam satis lusisti, ... ») e del contrasto tra i diavoli e
l'anima («Quas gustabo epulas? // Serpentes et viperas. // Quae
bibam vina?// Picem et sulphura. // Quali recubam lectulo? // Ferreo
et candenti. // Quibus f ruar spectaculis? // T eterrimorum daemo-
num ... »). Le scene commoventi che consacrarono l'immensa fama
della historia di ]ephte sono quelle che, interpolate nella prosa biblica
del Libro dei Giudici, rappresentano l'esultanza («lncipite in tym-
Panis, / et psallite in cymbalis, / hymnum cantemus Domino, / et
140 LA MUSICA DA CHIESA

modulemur canticum ... ») e poi la disperazione della Figlia e delle


Vergini («Plorate, colles; dolete, montes; et in afflictione cordis
mei ululate»).
Ma va anche detto che la fama di Jephte è una fama di musico-
logi (cfr. al § 9 il commento del Kircher) e di collezionisti (dr.
al § 12 le vicissitudini dei manoscritti carissimiani), non una fama
propriamente oratoriale: gli oratorii latini - opere riservate all'e-
secuzione davanti a un pubblico selezionatissimo come quello del
SS. Crocifisso o del Collegio Germanico (dove Carissimi era mae-
stro di musica) - non ebbero circolazione alcuna fuori delle loro
sedi originarie, né la loro musica fu mai stampata. (L'edizione di
una mezza dozzina abbondante di dialoghi latini a doppio coro di
Domenico Mazzocchi nelle sue Sacrae concertationes pro orato-
riis del 1664 è anomala ed ha carattere retrospettivo, non finaliz-
zato all'uso pratico: si tratta infatti di opere - composte presumi-
bilmente per il SS. Crocifisso - che risalgono agli anni Trenta.)
Carissimi, noto ai tedeschi per la propagazione gesuitica delle sue
musiche sacre oltralpe, noto per i suoi oratorii ai turisti melomani
in Roma, fu celebrato nel resto d'Italia per le sue cantate profane,
non certo per le sue storie bibliche, di uso esclusivamente romano.
Un isolamento del tutto analogo - acuito dal generale disinteresse
della corte francese per la musica devozionale - toccò alle histo-
riae e ai cantiéa latini di Marc-Antoine Charpentier, allievo di Caris-
simi a Roma e autore a Parigi di una trentina di "oratorii" che,
cantati nelle chiese gesuitiche o negli hòtels particuliers della capi-
tale tra la fine del Sei e i primi del Settecento, non vi produssero
però nessuna consuetudine duratura (i soggetti sono perlopiù biblici,
di tipo carissimiano - un Judicium Salomonis fu cantato molto
a proposito nella seduta inaugurale del parlamento francese del
1702 -: singolare è invece il ricorso all'agiografia moderna, con
la suggestiva rappresentazione della peste milanese del 1576 in un
oratorio in onore di san Carlo, Pestis mediolanensis).
Radicalmente diversa è la condizione dell'oratorio in volgare,
che da Roma letteralmente dilagò per ogni dove in Italia nella
seconda metà del secolo, innestandosi su tradizioni e istituzioni
locali preesistenti, o creandone di affatto nuove, con un'efficacia
propagandistica che l'oratorio latino non possedette mai. Insieme col
teatro d'opera - e forse in misura ancora maggiore - (cfr. § 22),
l'oratorio volgare procurò l'unificazione del gusto musicale medio,
MUSICHE DEVOZIONALI CATTOLICHE 141

il livellamento dell'orizzonte d'ascolto dell'intiera nazione. Veicolo


di questa proliferazione e diffusione dell'oratorio in musica furono
le confraternite laicali (nobili e patrizie) e gli ordini religiosi. (Nella
seconda metà del secolo i gesuiti - inizialmente poco dediti, in
Roma, alla produzione oratoriale pubblica, e zelanti coltivatori sem-
mai del dramma scolastico latino, dove esiguo è lo spazio even-
tualmente concesso alla musica - competono con gli stessi orato-
riani filippini; la loro attività di promotori musicali si manifestò
precocemente soprattutto al Sud, a Messina e a Palermo: ma il feno-
meno attende di essere adeguatamente indagato.) Gravante per
intiero sulle finanze dei promotori, redditizio tutt'al più in ter-
mini di edificazione spirituale e consenso civile, l'oratorio assunse
tuttavia la forza incoercibile d'una consuetudine cittadina perio-
dica: basterà citare qui qualche caso, che testimonii l'entità d'un
fenomeno che investe più o meno tutte le città d'Italia.
A Roma, nell'ultimo decennio del secolo, un vero e proprio
calendario oratoriale scorre parallelo al calendario liturgico. Accanto
alle musiche degli esercizi domenicali d'inverno presso l'Oratorio
filippino (non documentate da testi a stampa), i libretti d'oratorio
stampati danno un quadro certamente incompleto ma pur sempre
rappresentativo degli oratorii di maggior pretesa. Ogni anno, nei
venerdl di quaresima i cinque oratorii latini del SS. Crocifisso;
simultaneamente almeno un oratorio filippino a S. Girolamo della
Carità; uno o più oratorii alla Cancelleria; oratorii occasionali alla
Chiesa Nuova, a S. Giacomo degli Spagnoli; a carnevale, oratorii
o drammi sacri ai collegi Nazareno e Clementino; per santa Teresa,
in ottobre, un oratorio nell'Oratorio omonimo, a S. Maria della
Scala; un oratorio natalizio la notte del 24 dicembre nel palazzo
apostolico; infine nell'anno santo 1700 (come già nel 1675) una
serie speciale di oratorii quaresimali all'Oratorio dei Fiorentini;
e poi gli oratorii privati, patrocinati dalle famiglie dell' aristocra-
zia cardinalizia ... A Ferrara - una capitale della musica decaduta
nel Seicento a sede d'una modesta legazione pontificia - i musici-
sti locali, organizzati in due accademie, quella della Morte e quella
dello Spirito Santo, producono mezza dozzina di oratorii italiani
nell'anno santo 1675 (due altri, importati da Roma, vengono dati
dal cardinal legato in castello), una decina nel 1677, una dozzina
nel 1678, una quindicina nel 1679 ... Tra i nomi dei compositori
compaiono di quando in quando - oltre i ferraresi Bassani, Maz-
142 LA MUSICA DA CHIESA

zaferrata, Cherici, Legrenzi - musicisti romani, Alessandro Melani,


Giuseppe Peranda, Bernardo Pasquini. Quest'ultimo, davvero ubi-
quo - negli anni Ottanta oratorii suoi vengono dati in prima ese-
cuzione a Messina, a Modena, a Palermo, a Firenze ... -, è l'esem-
pio illustre di quel circuito oratoriale nazionale, di quella rete di
scambio e di circolazione dei musicisti e delle partiture che è feno-
meno del tutto parallelo al circuito operistico coevo, ma proma-
nante da Roma anziché da Venezia (cfr. § 22). Intanto a Perugia,
dagli anni Ottanta in poi, insorge l'uso di celebrare il 22 novem-
bre santa Cecilia - la patrona dei musici - con un oratorio nella
chiesa filippina (altri ne promuovono i gesuiti). A Firenze nel 1693
appaiono a stampa ben 35 libretti d'oratorii dati dai filippini, punta
emergente di una tradizione oratoriale comunque ricca (un orato-
rio per ogni domenica della stagione invernale era la norma cor-
rente): vi predominano gli oratorii di provenienza romana, taluni
recenti (di Alessandro Scarlatti, del Pasquini, ... ), altri di dieci, venti
anni prima (dello Stradella, del Melani, ... ). A Modena, negli anni
Ottanta, Francesco II d'Este coltiva una consuetudine di oratorii
(una decina scarsa l'anno), basata su commissioni ducali ai migliori
musicisti d'Italia e sul drenaggio di composizioni romane, che si
sedimentò nella copiosa raccolta di oratorii manoscritti dell'archi-
vio estense: un centinaio di partiture che, se costituiscono oggi la
raccolta forse più rappresentativa d'Europa, sono ben poca cosa
rispetto ai quasi 400 oratorii, in gran parte provenienti da Roma,
che possedevano nel 1682 i filippini di Bologna. Eccetera.
In questa fase della produzione oratoriale i testi - sempre di
soggetto biblico o agiografico, e poetati da letterati dilettanti (spesso
ecclesiastici di rango, come i cardinali Pietro Ottoboni e Benedetto
Pamphili) o da librettisti di teatro - hanno le fattezze di piccoli
drammi per musica: un'azione drammatica, spesso esile o mera-
mente contemplativa, intessuta di monologhi e dialoghi, recitativi
e arie (che talvolta sono prese di sana pianta da opere teatrali di
successo). Scompare quasi sempre, scomparendo l'impiego diretto
della prosa scritturale, la parte del Testo, dello Historicus, del nar-
ratore che (nelle historiae latine, ma anche negli oratorii volgari
di metà Seicento) recitava epicamente la vicenda tra l'uno e l'al-
tro intervento diretto dei personaggi. La teorizzazione dell' orato-
rio intieramente dialogato, del «perfetto melodramma spirituale»,
che Arcangelo Spagna, autore in proprio di testi oratoriali, fa nel
LA MUSICA LUTERANA: HEINRICH ScHUTZ 143

1706 (cfr. val. VI, Lettura n. 6) è la codificazione retrospettiva d'un


tipo d'oratorio di cui la prassi aveva sancito la supremazia fin da
30, 40 anni prima, la sua avversione per lo Storico una polemica
combattuta contro un avversario fittizio e comunque perento. A
ben vedere, anzi, una vera e propria tradizione continuativa e isti-
tuzionalmente consolidata dell'oratorio si dà soltanto a partire da
questo tipo tardoseicentesco di oratorio drammatico - questo sur-
rogato spirituale e senza scene del teatro d'opera - che invade tut-
t'Italia e prospererà ben addentro il Settecento. (Non a caso è di
questi stessi anni, 1695, la pubblicazione della prima sommaria pre-
cettistica intorno alla stesura poetica d'un libretto d'oratorio, dovuta
al cantante e compositore teatrale Gio. Andrea Angelini Bontempi:
anche se nella fattispecie il suo oratorio prevede ancora il ruolo
del Testo.)
In altre parole: il "genere" letterario-musicale dell'oratorio si
costituisce non tanto come manifestazione della devozionalità espan-
si va e multiforme del primo Seicento,- quanto piuttosto come
veicolo musicale istituzionalmente delegato (e relegato) a rappre-
sentare la devozionalità pervasivamente secolarizzata del Seicento
declinante. E in questo spazio - geograficamente diffuso ma cul-
turalmente esiguo - si manterrà e si esaurirà poi nel Settecento.

17 • LA MusrcA LUTERANA: HEINRICH ScHuTz

La distinzione tra musiç_a_ liturgica e musica devozionale, indi-


spensabile in area cattolica, lo è assai meno nell'area luterana.
Sostanzialmente diverso - rgtn_Qr_e - ~ innanzitutto il valore rela-
tivo della liturgia stessa in una confessione che rifiuta il dogma
d!ila transustanziazione, ossia il nucleo essenziale della messa cat-
tolica: del pari minore - in assenza di un rito sacramentale forma-
lizzato - è il grado di definitezza del servizio divino luterano, affi-
dato al volgare (in molte traduzioni diverse) e soggetto a molte
varianti locali. Radicalmente diverso è pure il ruolo del celebrante
e deifedeli: il luteranesimo non riconosce il magistero ecclesiastico
né la distinzione tra clero e laicato; tutti i cristiani sono sacerdoti,
il pastore (privo dell'ordinazione sac~amentale) è designato dalla
comunità stessa dei fedeli ad illustrare e commentare la parola di
144 LA MUSICA DA CHIESA

Dio, le Sacre Scritture, ossia l'unico vero canone di fede. Ma alla


comprensione della Bibbia ogni credente accede per diretta assi-
stenza dello Spirito Santo. Un'attitudine profonda alla devozione
individuale e comunitaria è perciò insita nel senso stesso del servi-
zio divino, che è soprattutto esegesi teologica e spirituale del Verbo:
ortodossia dottrinaria e pietà mistica sono dunque collegate ine-
stricabilmente. Analogo a quello cattolico è tuttavia l'ordinamento
formale della messa, ed an~ogo è pure il calendario liturgico, ampu-
_tato beninteso del culto dei santi (che tante occasioni liturgiche
e devozionali offre invece alla Chiesa di Roma) e intessuto tutto
sulle Scritture.
Mancando il vincolo della sacralità liturgica - sacro è il Verbo,
non il rito -, si comprende come sia ru@Cata.inizialmente (all'i~-
fuori del canto corale comunitario) una musica liturgica specifica-
mente luterana. Data la compatibilità formale e testuale con ampi
settori della liturgia cattolica, la Chiesa luterana si alimenta anzi
abbondantemente del repertorio mottettistico latino: il cosmopo-
Ilìismo stilistico e la fama europea di musicisti come Orlando di
Lasso (cfr. voi. IV, § 28) favoriscono questo processo osmotico.
Intorno al 1600 le scuole teologiche germaniche (dove all'insegna-
mento della retorica e delle lingue si accompagna sempre lo studio
della musica) coltivano un'ampia area interconfessionale di musica
latina, testimoniata in piccolo dalla vasta diffusione germanica dei
comodi Concerti ecclesiastici del Viadana (cfr. § 6), in grande da
alcune antologie mottettistiche copiosissime e longeve che - soprav-
vissute tenacemente agli avvicendamenti rapidi del gusto musicale
moderno - fino ai tempi di Bach costituirono l'orizzonte polifo-
nico normativo d'ogni buon musicista di chiesa tedesco: il Florile-
gium Portense (1603, 1618, 1621) a cura di Erhard Bodenschatz,
cantore del ginnasio di Schulpforta - donde il titolo -, e il Prom-
ptuarium musicum (1611, 1612, 1613, 1617) di Abraham Schadaeus,
rettore a Spira, prediligono i mottetti a 8 voci in due cori; l' ana-
logo Promptuarium del cattolico Johannes Donfried (1622, 1623,
1627) raccoglie invece mottetti a 2-4 voci e basso continuo; tutte
queste raccolte condividono la predilezione per i mottetti di scuola
veneta e il disinteresse verso il Palestrina e i romani (una demar-
cazione di natura più stilistica e ideologica che non confessionale,
dunque).
LA MUSICA LUTERANA: HEINRICH ScHUTZ 145

In un punto cruciale tuttavia la musica luterana si differenzia,


anche in quest'epoca propensa all'interconfessionalità, dal reper-
torio catto&:o: nella presenza - variabilmente intensa, ma comunque
problematica - del canto corale comunitario, di quel patrimonio
poetico-musicale di melodie e testi strofici di soggetto spirituale
che fu promosso dallo stesso Lutero e che ha alimentato potente-
mente le forme comunitarie della pietà evangelica (cfr. voi. IV,
§ 23). (Questo patrimonio poetico-musicale fu a sua volta rifiu-
tato dalle confessioni riformate di più stretta osservanza - calvi-
nisti e zwingliani, in Svizzera, in Olanda, nelle comunità nord-
americane -, che nel servizio divino proibivano ogni musica d'arte
e autorizzavano unicamente il canto monodico dei salmi. Per dirla
con una formula: il cattolico in chiesa non canta, ascolta; il calvi-
nista canta senza ascoltare; il luterano, invece, cantando ascolta
ed ascoltando canta. Tuttavia le melodie corali luterane perven-
nero anche nell'area calvinista: delle 13 variazioni organistiche
autentiche diJan Pieterszoon Sweelinck sopra melodie corali - che,
eseguite prima o dopo il sermone o all'inizio e alla fine del servi-
zio, lo interrompono sì come corpi estranei senza però farne parte -
soltanto quattro sono condotte su melodie del salterio ginevrino,
otto su corali luterani. D'altra parte non è casuale che la tradizione
organistica sweelinckiana, più che nell'area riformata olandese,
abbia avuto vigorosa continuazione nella Germania luterana, là dove
l'applicazione del principio dell'elaborazione organistica delle melo-
die corali - in versetti sciolti, da suonare altematim strofa per strofa
con il canto dei fedeli, oppure in catene autonome di variazioni,
o infine in fantasie su cantus firmus - trovava utilizzazione legit-
tima nel servizio divino e dava adito a pubblicazioni d'organo com-
pendiose come i tre volumi della Tabulatura nova di Samuel Scheidt,
allievo di Sweelinck, apparsi ad Amburgo nel 1624.)
I procedimenti d'utilizzazione artistica del corale sono diversi.
V'è, innanzitutto, la semplice armonizzazione a 4 voci della melo-
dia, il Kantionalsatz che, praticato fin dalla fine del Cinquecento,
a poco a poco nel canto comunitario finì per sostituire del tutto
l'esecuzione monodica del corale. V'è poi la sua adozione come
cantus /irmus da elaborare per imitazione polifonica, alla stregua
d'un canto fermo gregoriano o profano in un mottetto latirili cin-
quecentesco: una messe di mottetti condotti in tal modo produsse
Michael Praetorius (1571 ca.-1621), maestro di cappella della corte
146 LA MUSICA DA CHIESA

di Wolfenbiittel (la sua produzione musicale immensa va sotto titoli


latini eruditi: i nove volumi delle sole Musae Sioniae, 1605-10, con-
tengono più di 1200 composizioni liturgiche di ogni specie e tipo,
latine e tedesche, su corale e no, per molte e per poche voci, e testi-
moniano una voracità stilistica universale).
Il corale sperimentò poi presto un'applicazione ingegnosa alle
tecniche del mottetto concertato di poche voci, ad opera princi-
palmente di un musicista aperto verso gli stili italiani dell'ultim'ora:
Johann Hermann Schein (1586-1630), cantore di S. Tommaso a
Lipsia. Nei due volumi degli Opella nova (concerti spirituali «di
invenzione italiana» a 2-5 voci con basso continuo, 1618 e 1626),
egli si richiama espressamente al modello dei Concerti ecclesiastici
del Viadana: ma i suoi mottetti utilizzano la melodia e il testo della
prima strofa di vari corali. Maniere melodiche (luterane) e compo-
sitive (italiane) diverse vengono cosl a confronto nell'adeguamento
contrappuntistico e ritmico che il corale - comunque sempre rico-
noscibile - subisce per poter essere trattato in duetti imitativi affi-
dati alle voci acute: la diffrazione è attraente soprattutto là dove,
verso per verso, il duetto delle voci parafrasanti viene interrotto
,/
dall'enunciazione tenorile del corale nudo e crudo. (Ma i concerti
vocali su corale degli Opella nova - genere poi usato ed abusato
da Scheidt - sono soltanto uno dei tanti generi musicali coltivati
da Schein su ispirazione di modelli italiani. All'estremo opposto,
sul versante profano, stanno le sue raccolte di componimenti con-
viviali ed erotici «auf Madrigal-Manier» e «auf Italian-Villanellische
Invention», dai titoli spiritosi: il Venus Kriintzlein, ossia" ghirlanda
di Venere", nel 1609; la Musica boscareccia nel 1621-28; i Diletti
pastorali nel 1624; lo Studentenschmaus, «scorpacciata studentesca
di una lodevole compagnia della Vino-biera», nel 1626. Non occorre
neppure la traduzione italiana per cogliere, nella reiterazione dei
vezzeggiativi, la sonora giocosità dei testi metrici di siffatte can-
zonette all'italiana, poetati dallo stesso Schein: per esempio «O
Sternen A.ugelein! / O Seiden Harelein! / O Rosen Wangelein! /
Corallen Lippelein! / O Honig Ziingelein! / O Perlemutter Òhre-
lein! / O Elffenbeinen Halselein! / O Pomerantzen Briistelein! /
Bisher an euch ist alles fein: / abr o du steinern Hertzelein, / wie
daB du todst das Leben mein?».)
Il caso estremo di utilizzazione del corale nella musica d'arte,
infine, è l'impiego dei testi dei corali senza le loro melodie, carne
LA MUSICA LUTERANA: HEINRICH SCHUTZ 147

fonte testuale parallela alle Sacre Scritture: ed è procedimento sta-


tisticamente rilevante, tantopiù che dopo il 1620 circa l'adozione
del corale (testo e musica) si dirada di molto nella composizione
vocale, e che il Seicento luterano, se non assiste come la Chiesa
cattolica a un processo di secolarizzazione della musica sacra (un
concetto privo di senso ove si creda, con le parole stesse di Lutero,
che «la musica - tutta la musica, anche la profana! - è al servizio
di Colui che ce l'ha data e l'ha creata>>), sperimenta tuttavia una
scissione profonda tra il canto comunitario tradizionale e una musica
d'arte fatta per la prima volta consapevole del proprio progresso.
È illusorio credere in una continuità storica della musica luterana,
di cui il canto comunitario del corale e le sue applicazioni artisti-
che sarebbero il veicolo: la dedizione di Bach al corale è, seppur
diversissima, magari analoga alla dedizione di Praetorius e Schein,
ma tra di loro non v'è rapporto alcuno di discendenza diretta o
mediata. Non soltanto l'op,_era, davvero monumentale, del supremo
musicista luterano del secolo, Heinrich Schiitz (Kostritz in Turin-
gia, 1585 - Dresda, 1672), è vistosamente remota dal corale: è per-
fin dubbio che Bach abbia conosciuto una nota della musica di
Schiitz o Schein. L'interruzione non potrebbe essere più radicale,
e impone di estrarre Schiitz da quella prospettiva teleologicamente
orientata verso Bach attraverso la quale si suole guardare alla sua
personalità e alla sua musica, ma che proprio non gli compete.
Certo, anche nell'opera di Schiitz (latinamente: Sagittarius) v'è
un caso appariscente di impiego del corale: ma esso è tanto ano-
malo, e artisticamente tanto eccezionale, da confermare appieno
la regola dell'estraneità sagittariana al canto corale comunitario,
e da meritare attenzione. Si tratta delle Musicalische Exequien, le
"esequie musicali" concertate prima e dopo l'orazione funebre per
i funerali solenni di Heinrich Posthumus conte di Reuss, celebrati
a Gera il 4 febbraio 1636. Le "esequie musicali" constano di tre
composizioni distinte, un cerimoniale funebre minuziosamente
Preordinato in vita dal defunto, che (secondo un uso germanico
dell'epoca) prescrisse pure i testi sacri e il tema dell'orazione funebre
nonché il giorno della cerimonia (il giorno della morte di san
Simeone). Sul tema della predica (il versetto del salmista «Signore,
chi ho io in cielo all'infuori di te?»), e per essere eseguito dopo
di essa, è composto il secondo dei tre brani, un mottetto a doppio
coro; sul Cantico di Simeone, il concerto conclusivo a 5 voci prima
148 LA MUSICA DA CHIESA

dell'inumazione (Schiitz, con invenzione geniale, vi ha aggiunto


di suo le parole dell'Apocalisse «Beati coloro che muoiono nel
Signore», cantate da lontano a 3 voci - due serafini e l'anima bea-
ta-, quasi uno squarcio luminoso che apre la gravità del compianto
musicale verso l'infinito nella beatitudine celeste). Prima dell'ora-
zione risuona invece un ampio concerto vocale «ovvero messa da
requiem tedesca» (Kyrie e Gloria) a 6 voci e basso continuo. Ma
il testo in realtà è compilato intieramente con i versetti biblici e
con le strofe corali che il defunto aveva fatto istoriare sulla pro-
pria bara. Come sul coperchio e sulle pareti del sarcofago ad ogni
versetto biblico (di argomento penitenziale o soteriologico) è cor-
relata una strofa di corale di argomento affine, così lo pseudo-Gloria
della "messa" sagittariana intercala il canto solistico dei versetti
biblici con il canto a pieno coro dei testi e delle melodie dei corali
rispettivi. (A ben vedere, la distribuzione binaria della composi-
zione - Bibbia/corale - non è che la manifestazione sonora del
sistema di corrispondenze figurali tra Scrittura e canto devozio-
nale che presiede a tutta la cerimonia funebre, e che è oltretutto
permeato di un sentimento profondo della corruttibile, inerme crea-
turalità umana: sul sarcofago i testi che alludono alla punizione
divina e alla peccaminosità terrena sono collocati dalla parte delle
gambe; quelli che promettono clemenza e redenzione, dalla parte
- della testa della salma. Di una costituzione figurale e creaturale
non intieramente dissimile sono le sette" meditazioni" latine della
Passione, i Membra ]esu nostri composti nel 1680 da Dietrich Bux-
tehude per la corte di Svezia: ogni cantata si sofferma contempla-
tivamente su una parte del corpo del Crocifisso - piedi ginocchia
mani costato petto cuore faccia-, compilando un passo veterote-
stamentario in cui tale parte compare - cantato dal coro dopo una
sonata strumentale introduttiva - con tre semistrofe - tre arie soli-
stiche - dell'inno attribuito a san Bernardo Rhythmica oratio ad
unum quodlibet membrorum Christi patientis. Va notato che tutta
la musica liturgico-devozionale protestante del Seicento - anche
quando essa soggiace a forme di spiritualità contemplativa tenden-
zialmente pietistiche, com'è il caso di questi Membra buxtehudiani
- si procura i propri testi mediante compilazione, senza quelle
aggiunte di lirica religiosa moderna di cui è intessuta invece la can-
tata bachiana.)
LA MUSICA LUTERANA: HEINRICH SCHUTZ 149

All'infuori delle straordinarie Musicalische Exequien (che furono


stampate: ma poterono mai essere rieseguite fuori del loro conte-
sto cerimoniale originario?), l'impiego delle melodie corali in Schiitz
è del tutto raro: poco meno lo è l'utilizzazione dei testi tratti dalle
strofe dei canti corali. Attraverso la sua musica - la musica d'una
cappella di corte, non d'una cappella ecclesiastica - non si mani-
festa una devozione comunitaria: Schiitz, luteranamente, è liturgo
soltanto in quanto esegeta individuale del verbo divino, predica-
tore in musica. La base testuale delle musiche sagittariane è perlo-
più la Bibbia: ma all'ideale unitarietà di questo nucleo scritturale
Schiitz dà vesti musicali enormemente differenziate, come illustra
una rapida scorsa al complesso delle sue opere, quantomeno di quelle
stampate. (Non metterebbe conto accennare alla sua opera prima,
i madrigali italiani del 1611 - cfr. §§ 1 e 2 -, se non in quanto
essi dovettero costituire il modello generatore di un capolavoro irri-
petuto della musica luterana: l' Israelsbriinnlein di Joh. Hermann
Schein, del 1623, composto a 5 voci «in una maniera madrigale-
sca italiana bizzarra e leggiadra» su testi tedeschi edificanti tratti
dai Proverbi di Salomone, dai Profeti, dall'Ecclesiaste, dall' Apo-
calisse. Dedicati ai borgomastri e al consiglio cittadino di Lipsia
e destinati probabilmente più alla devozione civile che non al ser-
vizio divino, i madrigali di Schein condividono con quelli di Schiitz
la dilatazione lunghissima degli episodi e la spavalderia degli ardi-
menti polifonici a fine espressivo: ma in questa «fontana d'Israel»,
in una prosa biblica metaforicamente e affettivamente densa, il
linguaggio stramaturo del madrigale all'italiana si corrobora di imma-
gini inusitate, e il risultato è affascinante.)
Maestro della cappella di corte di Dresda per più di mezzo secolo
(dal 1617 alla morte), Schiitz dedica nel 1619 all'elettore di Sas-
sonia, suo padrone, l'opera II, i Psàlmen Davids, «salmi tedeschi
alla maniera italiana» per 8 e più voci in 2-4 cori con strumenti.
Essi testimoniano la sua provenienza stilistica veneziana (era stato
allievo di Gabrieli) per il fulgore sonoro e la declamazione conci-
tata del testo davidico, una concitazione che la ricchezza conso-
nantica del testo tedesco esalta. Nella prefazione (che ricalca dav-
vicino le istruzioni del Viadana per l'esecuzione policorale, cfr. val.
IV, Lettura n. 19) Schiitz dice di aver prescelto lo stylus recitativus
- intende dire: una recitazione spedita - come quello che meglio
si addice ai salmi giacché esso « senza grandi ripetizioni va reci-
150 LA MUSICA DA CHIESA

tando di lungo la gran quantità delle parole»: ma mette poi in guar-


dia gli esecutori dall'assumere un tempo troppo sostenuto, affin-
ché si percepiscano distintamente le parole e non ne risulti invece
una «battaglia di mosche». Nel 1623 appare l'opera III, la Histo-
ria der Auferstehung, il vangelo pasquale della Resurrezione
secondo una compilazione testuale già precedentemente in uso a
Dresda: l'Evangelista, un tenore, recita il testo in falso bordone
con 4 viole da gamba, ma parti significative come quelle della Mad-
dalena e del Cristo sono cantate a due voci, con basso continuo.
Schiitz denomina « opus ecclesiasticum primum » le Cantiones
sacrae latine dell'opera IV, apparse nel 1625: ma resta problema-
tica la destinazione liturgica (sia cattolica che protestante) di que-
sti mottetti composti prevalentemente su testi mistici attribuiti a
sant' Agostino (Meditationes e Manuale) e san Bernardo. La polifo-
nia florida di tipo madrigalesco (non dissimile dall' Israelsbriinnlein
di Schein) ne realizza tutto il pathos penitenziale e contemplativo:
si senta con che foga autoaccusatrice vocalizzi e dissonanze sta-
gliano il pronome personale («Ego sum tui plaga doloris ... Ego enim
inique egi ... ») o calcano sulle immagini verbali di sofferenza, con-
trizione, supplica. L'opera V è un salterio tedesco in Kantionalsatz
a 4 voci, 150 salmi apparsi nel 1628 e ristampati nel 1661: ma le
melodie corali inventate da Schiitz non entrarono mai nell'uso cor-
rente del canto comunitario, talché proprio il suo contributo più
luteranamente
i
"ortodosso" finl per essere storicamente trascura-
bile.
Le Symphoniae sacrae opera VI (seconda delle opere «ecclesia-
stiche», ossia latine), apparvero a Venezia in occasione del secondo
soggiorno italiano di Schiitz nel 1629. Anche se passarono proba-
bilmente inosservati al Sud delle Alpi (non ne resta esemplare alcuno
in Italia, né v'è autore italiano che vi alluda), questi mottetti con-
certati a 1-3 voci con 2-4 strumenti obbligati e basso continuo su
testi salmodici, evangelici e salomonici procedono da un orizzonte
tutto sommato ancor gabrieliano (Schiitz cita il nome di Gabrieli
nella dedica, e ne evoca l'abbondanza timbrica nell'apparato stru-
mentale: violini flauti pifferi cornetti trombetta tromboni fagotti).
Il canto indugia però con fare predicatorio sulle immagini salienti
della prosa biblica, la forma complessiva dei singoli mottetti (assai
lunghi ma articolati ritmicamente e melodicamente in una molti-
tudine di segmenti differenziati) è mutuata dall'andamento discor·
LA MUSICA LUTERANA: l-IEINRICH ScHUTZ 151

sivo del testo. Fatale, dato un tal atteggiamento, l'accostamento


a Monteverdi e alla sua oratoria musicale: che dovette avvenire
- di persona o no - proprio a Venezia in quel 1629, e di cui le
opere successive portano i segni palesi. Esse sono (dopo l'opera
VII, le Musicalische Exequien) i due libri di Piccoli concerti spiri-
tuali (opere VIII e IX, 1636 e 1639) e i due volumi di Symphoniae
sacrae tedesche (opere X e XII, 1647 e 1650). I 55 concerti vocali
per 1-5 voci e basso continuo prediligono i testi veterotestamen-
tari tedeschi per il graduale (collocati in prossimità delle letture
neotestamentarie nel servizio divino, ne fornirebbero idealmente
il commento figurale), ma non mancano passi evangelici e paolini,
testi mistici di Agostino e Bernardo (che, tradotti o no, danno luogo
ai recitativi più appassionati), inni vespertini, financo qualche corale
luterano con la melodia propria: uno di essi è composto per intiero,
18 strofe funebri trattate come un"' aria" variata a 5 voci su basso
strofico (era già apparso nel 1625 con il titolo De vitae fugacitate).
Coi suoi Piccoli concerti senza strumenti obbligati Schiitz inten-
deva raggiungere i musici di tutta la nazione, giacché la loro «pic-
colezza» (dice nelle dediche) è commisurata alla condizione dram-
maticamente indigente delle cappelle musicali germaniche durante
la guerra dei Trent'anni (Schiitz ne sapeva qualcosa: i suoi acco-
rati memoriali all'elettore di Sassonia documentano la decadenza
paurosa della cappella di quella gran corte; proprio in questi anni
Trenta e Quaranta Schiitz assume infatti ad interim l'incarico di
maestro della cappella ben più florida della corte reale di Copena-
ghen). Ma, dimensioni a parte, la configurazione musicale e reto-
rica dei Piccoli concerti è affatto uguale a quella delle più sonore
Symphoniae sacrae, e italianeggia al pari di esse. Nelle Symphoniae
per 1-3 voci e 2 violini dedicate al re danese nel 1647 (che conten-
gono però anche composizioni degli anni Trenta) la presenza di
Monteverdi è incombente. Non soltanto Schiitz ne adotta il "genere
concitato" (cfr. § 7) e nella propria prefazione allude a quella dei
Madrigali guerrieri del 1638 e alla scarsa dimestichezza dei tede-
schi con le peculiarità ritmiche e violinistiche della moderna musica
italiana: addirittura adotta di sana pianta la musica monteverdiana
di un duetto dei Madrigali guerrieri e di una ciaccona amorosa a
due tenori e la riveste con il testo tedesco d'un salmo di trionfo.
«Armato il cor d'adamantina fede,/ nell'amoroso regno/ a militar
ne vegno» diventa cosl l'immagine di un Dio bellicoso in guerra
152 LA MUSICA DA CHIESA

contro i propri nemici; gli fa eco la danza esultante dei giusti,


«Zefiro torna e di soavi accenti/ l'aer fa grato e fa danzar
Fillide e Clori». La sostituzione del figurato - le immagini del
testo - ritempra ed esalta, senza alterarlo, il figurante, ossia le imma-
gini musicali monteverdiane: la parola biblica dal canto suo ne acqui-
sta un'evidenza gestuale letteralmente inaudita, caratteristica domi-
nante di tutti questi "concerti" sagittariani degli anni Trenta e
Quaranta. Nelle Symphoniae a 3-6 voci soliste, con cori di com-
plemento ad libitum e 2 violini, pubblicate nel 1650 (ma risalenti
in parte perfino a 30 anni prima), più che la parafrasi tedesca d'un
mottetto mariano di Alessandro Grandi impressionano i grandi con-
certi evangelici a molte voci: l'intreccio delle similitudini scrittu-
rali si interseca e rispecchia nel giuoco delle similitudini musicali,
in uno spettacolare teatro dell'udito. (Nella lunga parabola del semi-
natore, raccontata da 4 voci soliste, l'ammonimento di Cristo «Chi
ha orecchie per intendere intenda» è estrapolato dal contesto evan-
gelico e proclamato a doppio coro come un ritornello intercalato
insistentemente nel racconto: procedimento epico che deturpa sì
l'integrità della Scrittura, ma ne traduce in musica tutta la provo-
cazione verbale.)
Affatto diversa da questi "concerti" è l'opera XI, Musicalia ad
chorum sacrum ovvero Geistliche Chor-Music (musica corale spiri-
tuale), apparsa nel 1648 (ma contiene anche un mottetto funera-
rio per la morte di Schein, 1630) e dedicata come l'Israelsbriinn-
lein di Schein - di cui condivide alcune caratteristiche - alla città
di Lipsia. Si tratta infatti di mottetti vetero- e neotestamentari
per 5-7 voci a cappella (il basso continuo è facoltativo; soltanto
per alcuni pochi brani è prevista la partecipazione obbligata degli
strumenti). Qui meglio che altrove si coglie la vastità dell'orizzonte
stilisti~o sagittariano: Schiitz, il propugnatore della moderna musica
italiana in Germania, vi celebra la inalterata validità ed efficacia
dello stile a cappella (non a caso la lunga prefazione - riprodotta
qui nella Lettura n. 4 - allude alla classificazione scacchiana degli
stili; cfr. § 8); l'uso enfatico delle dissonanze richiama alla mente
la ricca serie di madrigali e mottetti napoletani che Schiitz si fece
spedire da Napoli nel 1632; uno dei pochi mottetti su testo di corale
tratta la melodia luterana in imitazione alla maniera d'un cantus
firmus; infine un mottetto è tratto pari pari dai Concerti postumi
di Andrea Gabrieli (1587) e tradotto in tedesco, inalterato. Unica
LA MUSICA LUTERANA HEINRICH ScHUTZ 153

collezione sagittariana dichiaratamente destinata all'uso liturgico


luterano, i Zwolf geistliche Gesiinge opera XIII («dodici canti spi-
rituali a 4 voci per piccole cantorie», tra cui messa e vespro tede-
schi) furono però editi da un allievo (1657): lo stile antico vi trova
l'applicazione più rigorosa e sobria, del tutto esente dall' affettuo-
sità madrigalesca dell'opera XI e dell'opera IV (dalla quale tutta-
via le preghiere "per la tavola" desumono in parte il materiale musi-
cale); ma la litania tedesca è tutta a note nere, per ovviare - dice
Schiitz - alla lentezza e alla noia del canto delle litanie nel costume
germanico.
Della Historia der Geburt ... Christi, il vangelo della natività
e della fuga in Egitto, Schiitz fece stampare nel 1664 la sola parte
dell'Evangelista, un tenore che canta in stile recitativo con il basso
continuo (una novità assoluta in Germania, dice l'autore): gli inter-
venti in discorso diretto sono invece altrettanti piccoli "concerti",
con attributi timbrici e strumentali adeguati ai ruoli (due violette
e violone per l'Angelo, flauti e fagotto per i pastori, tromboni per
i sacerdoti, clarini o cornetti per il re Erode). Un'ultima opera
Schiitz predispose idealmente per la stampa, un anno prima di
morire: il salmo 119 (118 della Bibbia cattolica: Divinae legis enco-
mium) suddiviso in undici mottetti a doppio coro, con il Magnifi-
cat tedesco. Il salmo contiene quel versetto - «i tuoi statuti sono
i miei cantici nella casa del mio pellegrinaggio terreno» - che Schiitz
dettò come tema della propria orazione funebre. Sullo stesso ver-
setto, e sempre per volontà del maestro, il suo allievo diletto Chri-
stoph Bernhard avrebbe composto - secondo una testimonianza
tardiva - il mottetto funebre «in stile prenestino» cantato nei fune-
rali di Schiitz. L'elezione d'un versetto scritturale siffatto riassume
emblematicamente una vicenda artistica lunghissima ed operosis-
sima, dedicata con stupefacente varietà di forme e stili ma con inten-
sità costante a un solo fine artistico: l'esegesi musicale della parola
biblica.
Di Christoph Bernhard, giovane collaboratore di Schiitz nella
cappella di Dresda, s'è già fatta menzione (cfr. § 10) come del codi-
ficatore di una nomenclatura retorico-musicale che procede in effetti
dall'esperienza musicale sagittariana. S'è rilevato che le sue /igu-
rae designano perlopiù licenze o anomalie contrappuntistiche messe
in opera intenzionalmente: esse arricchiscono il contrappunto musi-
cale alla stessa stregua dell' ornatus (gli abbellimenti e gli strania-
154 LA MUSICA DA CHIESA

menti verbali) di cui l'oratore riveste il proprio discorso - solle-


vandolo sopra il livello della mera referenzialità - al fine di delec-
tare e movere gli ascoltatori per poterli cosl meglio docere. In un
senso molto più vasto, la struttura discorsiva della musica com-
porta naturali affinità con l'arte retorica, ed è verissimo per il Sei-
cento (anche fuori di Germania) che proprio «in siffatte gradevoli
licenze consiste ogni segreto dell'arte musicale, avendo essa alla
pari della retorica le proprie /igurae, che tendono ad affascinare
e sedurre insensibilmente l'ascoltatore» (sono parole dette da un
francese, André Maugars, a proposito della musica italiana, nel
1639). Ora, un'intenzione oratoria vigorosa sottende percepibil-
mente la musica sagittariana, in tutti gli stili diversissimi coltivati
da Schiitz (nei Concerti spirituali del 1639 la voce del Signore dav-
vero «fa ballonzolare i cedri del Libano come vitelli di latte» e dav-
vero <<guizza in fiamme di fuoco»; nella Musica corale del 1648
gli ebrei espulsi dal regno veramente «piangono e stridono i denti»,
veramente la voce del Battista urla nel deserto, veramente i semi-
natori irrorano le lagrime il seminato; nelle Symphoniae del 1650
il trave della parabola evangelica assume in musica dimensioni
immani, e inesorabile è la caduta del cieco guidato dal cieco, ecce-
tera). La composizione (dice Schiitz) è infatti l'arte di « tradurre
in musica il testo>>. E il testo - la prosa biblica - è per Schiitz testo
parlato, testo recitato, non testo scritto: una base testuale ogget-
tiva (parola di Dio) affidata però alla declamazione fervidamente
individuale d'una accentuazione melodica, ritmica, armonica fla-
grante e suggestiva. (Vi si confà peraltro benissimo la natura stessa
dell'accentuazione tedesca, che non è tonica e grammaticale come
l'italiana o la latina - «arare, oro, orationis» - bensl semantica-
mente determinata e legata alla radice etimologica della parola -
«béten, ich béte, des Gebéts» -; la struttura prosastica, metrica-
mente indistinta, dei testi biblici concede inoltre al musicista-oratore
Schiitz un margine di scelta interpretativo nella recitazione mag-
giore di quello che la versificazione italiana consente a un Mon-
teverdi.)
Ma sarebbe però riduttivo voler decifrare la forza predicatoria
ed esegetica della musica biblica di Schiitz mediante le sole figurae
contrappuntistiche descritte da Bernhard. Esse infatti consentono
sl di denominare le licenze (superjectio, anticipatio, subsumtio, varia-
tio, multiplicatio, syncopatio catachrestica, inchoatio impe,fecta, elli-
LA MUSICA LUTERANA: I-IEINRICH SCHUTZ 155

psis, abruptio, heterolepsis, eccetera), non però di percepire le ragioni


della loro applicazione espressiva efficace. Che saranno almeno due,
una particolare e una generale. La ragione particolare è la profon-
dità della "memoria storica", la vastità dell'esperienza artistica per-
sonale da cui Schiitz attinge: egli dispone a proprio beneplacito
di una moltitudine di stili - di epoche e culture diverse, dai due
Gabrieli al Palestrina a Monteverdi, da Marenzio al Viadana a
Gesualdo, da Lutero a Praetorius_a Schein, dal teatro al madrigale
alla chiesa -, ne possiede le ragioni e le leggi costitutive, sa met-
terli in opera; ogni eventuale contaminazione tra di essi è promossa
a ragion veduta, per dare evidenza sonora alla particolarità d'un
testo, d'una immagine. La ragione generale sta invece nel conte-
sto tonalmente orientato e tonalmente determinato in cui sono col-
locate le figure retoriche sagittariane. La licenza contrappuntistica
- che nel contesto della modalità polifonica si limita a una pertur-
bazione grammaticale passeggera e sùbito riassorbita d'un sistema
normativo delle concatenazioni intervallari - si ripercuote con forza
magnificata su un'intiera frase musicale, esaltandola, quando essa
viene ad assumere una funzione tonale determinata. La musica sagit-
tariana (come quella del Monteverdi veneziano) mette a frutto a
fini espressivi e rappresentativi l'ambivalenza tra determinazione
contrappuntistica degli intervalli e funzione tonale della sonorità:
e trasforma in gesticolazione oratoria (appoggiandolo al testo) un
linguaggio musicale che, senza cessare di soggiacere alla norma con-
trappuntistica, sa darsi la forma sintattica e sintetica d'un discorso
tonalmente organizzato. La funzione poetica della tonalità è net-
tamente preponderante rispetto a quella delle figurae retorico-
musicali (delle quali può anche magari fare a meno), nella sua facoltà
di dare un assetto formale significativo non al dettaglio minuto
dell'elocuzione bensì al discorso nella sua articolata estensione: di
darsi insomma un assetto retorico per forza propria. Bastino alcuni
pochi esempi, diversi per epoca e per stile (per semplicità, si citano
in italiano i tesd, tutti - ovviamente - tedeschi in Schiitz).
Il salmo 136 (135) - un salmo di lode e giubilo - ha una strut-
tura poetica sghemba: i suoi 26 versetti enumerano le gesta di Dio,
ma ciascuno di essi termina con le parole «perché la Sua benignità
dura in eterno». A questa disposizione binaria (AxBxCxDx ... ) con-
viene il procedimento antifonale prescelto da Schiitz nei Psalmen
Davids del 1619: di tre cori vocali diversi, uno va sciorinando i
156 LA MUSICA DA CHIESA

versetti, mentre gli altri due (sostenuti da un quarto coro marziale


di sole trombe e timpani) gli rispondono proclamando incessante-
mente l'eterna bontà del Signore. Ma mentre il canto dei versetti
va modulando per ogni dove, il clangore militaresco del ritornello
corale è ancorato a un do maggiore davvero eterno: cosl, nello spazio
tonale percorso dal canto salmodico, esso ritornello diventa l'im-
magine sensibile dell'inamovibile bontà del sovrano celeste. Tanto
più strepitosa è, alla fine, la sua occasionale, transitoria apparizione
in re maggiore; senza verun preavviso modulante, essa sorprende:
l'ascoltatore è sconcertato dalla percezione nitida che virtualmente
quel cardine tonale fisso può però collocarsi, alla lettera, «in ogni
luogo».
Il lamento di Davide sulla morte di Assalonne, «Fili mi, Absa-
lon!», nelle Symphoniae sacrae del 1629, è un lungo monologo dolo-
roso. L'invocazione iniziale della voce di basso, secondata da quattro
tromboni, percorre per triadi ascendenti e discendenti i gradi prin-
cipali del tono di sol minore. Gli intervalli eccedenti (in salita) e
diminuiti (in discesa) che risultano da quella concatenazione equi-
valgono - secondo la terminologia del Bernhard - a tanti saltus
duriusculi, e come tali (come intervalli inconsueti) hanno effetto
patetico. Ma è il contesto tonalmente determinato (il riferimento
alle note fondamentali dell'armonia) a tener insieme e pertanto a
rendere significante una figurazione melodica che, letta solo con-
trappuntisticamente, si ridurrebbe ad un'accumulazione di soleci-
smi senza senso.
Nel centro stesso dello pseudo-Gloria delle Musicalische Exe-
quien è collocato il versetto della Sapienza che come una cintura
circonda tutto il bordo della bara di Heinrich Posthumus: «Le anime
dei giusti sono nelle mani del Signore, e non le tocca il tormento
della morte. Agli insipienti pare che essi muoiano, e la loro dipar-
tita viene stimata un'afflizione: ma essi stanno in pace». L'anti-
tesi tra l'errore degli insipienti e la beatitudine delle anime dei giusti
è tradotta nella contrapposizione simultanea di un basso e di due
soprani. Il basso canta di morte e di afflizione con una lenta pro-
gressione che sale cromaticamente di grado; dall'alto, i soprani evo-
cano stabilmente, senza mutar tono, la «pace». In termini di con-
trappunto ciò comporta che l'accento della parola «pace» cade la
prima volta su una dissonanza (quinta diminuita), la seconda, spo-
statosi il basso, su una consonanza (terza minore). Ma è l'ambiva-
LA MUSICA LUTERANA: HEINRICH SCHUTZ 15i

lenza tonalità/contrappunto a dare senso a questa che è la clausola


concettuale somma dell'intiero canto funebre: solo mutando il con-
testo tonale (la fallace «afflizione» del basso) muta, muovendo verso
la «pace» d'una consonanza, il significato tonale della frase dei due
soprani, ma esso muta proprio soltanto in quanto essa frase non
muta affatto, «sta in pace».
Infine, un ultimo brano famoso di Schiitz: «Saulo, perché mi
perséguiti? ti sarà duro recalcitrare contro la mia sferza» (Sympho-
niae sacrae, 1650). Schiitz seleziona dagli Atti degli apostoli il solo
discorso diretto, la sola voce di Dio, di cui la sua musica vuol dun-
que essere l'immagine sonora. Tre coppie di voci soliste (prima i
bassi, poi i tenori, poi i soprani; infine i violini) replicano - per-
correndo all'insù lo spazio di tre ottave e mezza - la frase iniziale
per quattro volte: ogni volta la quadruplice apostrofe del nome
risuona sull'arco di un'ottava, la domanda del dio indignato forma
ogni volta una cadenza. Lo schema è rudimentale (cosl come terri-
bilmente concisa è la domanda), ma versatile: la frase ricompare
in varie tonalità, accerchia e perseguita il persecutore Saulo da ogni
lato; il doppio coro la raccoglie e si palleggia ferocemente il nome
«Saul» (sette volte in una battuta e mezza, sempre lo stesso accor-
do); la domanda - cadenza massiccia: tonica-dominante-tonica -
risuona tre volte, in eco: forte-mezzopiano-pianissimo. Il colmo
della terribilità musicale si raggiunge là dove dalle 14 voci che ripe-
tono incessantemente «perché mi perséguiti?» si stacca il tenore
secondo, che simultaneamente urla in note lunghe e tenute il nome
di Saulo: per tre volte, mentre la domanda corale echeggia nel
duplice eco del mezzopiano e del pianissimo, il nome di Saulo
risuona sempre più forte, ogni volta su un tono più alto. Non è
niente di più e niente di meno che la messinscena sonora, retori-
camente motivata, di una semplice progressione (la ripetizione della
stessa musica su tre tonalità contigue per grado): ma il risultato,
affettivamente, è la raffigurazione dello sgomento che incute una
divinità formidabile. Con la stessa luce abbagliante che acceca Saulo
si manifesta qui, all'orecchio dell'ascoltatore, all'occhio dello sto-
rico, la forza organizzatrice della tonalità: essa articola coi suoi nessi
sintattici percepibili un discorso musicale che sa essere disconti-
nuo - a volta a volta magniloquente o allusivo, commosso o dolo-
roso, atterrito o gaudioso -, eppur coerente.
158 LA MUSICA DA CHIESA

18 • MusicA SACRA or STATO: FRANCIA E INGHILTERRA

Heinrich Schiitz intendeva sé medesimo come funzionario musi-


cale di corte, non come musicista di chiesa. Quale potesse essere
l'utilizzazione pratica delle sue musiche alla corte sassone, risulta
indirettamente ma eloquentemente da un progetto di classificazione
archivistica che su richiesta egli redasse per la corte di Zeitz intorno
al 1670:
1. Grandi salmi, grandi concerti spirituali, Te Deum e altre cose simili
a piene voci, con le loro parti vocali e strumentali, da poter usare in ogni
momento secondo l'occorrenza.
2. Salmi e concerti a poche voci, da utilizzare all'inizio d'un servizio
di tavola principesco.
3. Concerti per le otto feste principali di natale, pasqua e pentecoste.
4. Concerti per le feste minori: capodanno, Epifania, Purificazione,
Ascensione, Trinità, eccetera.
5. Concerti per i vangeli domenicali.
6. Canti profani e morali per la tavola principesca.

Dove (ai punti 2 e 6) si vede che della musica su testo sacro e morale
si faceva volentieri uso anche extraecclesiastico, coerentemente a
una tradizione istituzionale che risale a prima della scissione tra
musica "sacra" e non (scissione che comunque, come s'è visto, in
àmbito luterano non avrebbe avuto molto senso).
In Germania più che in qualsiasi altro paese d'Europa, nel Sei-
cento più che in ogni altro secolo, vige il principio cuius regio, eius
religio. Il caso di Dresda illustra bene la promiscuità e disconti-
nuità confessionale delle corti germaniche. Fin dall'epoca di Schiitz,
e in parallelo alla cappella di corte diretta da Schiitz, il principe
ereditario istituisce una propria cappella musicale, d'importazione
italiana, virtualmente cattolica. Salito al soglio il principe eredita-
rio, il contrasto con la cappella "tedesca" di corte si fa acuto. Fin
da prima della morte di Schiitz la preminenza della cappella "ita-
liana", con i suoi virtuosi castrati, è netta: ma al prossimo cambio
di sovrano gli italiani vengono licenziati in tronco. Nel 1697 infine
il duca Federico Augusto diventa re di Polonia e si converte per-
ciò al cattolicesimo: egli istituisce formalmente una cappella regia
cattolica parallela alla cappella protestante della corte ducale (per
il suo successore il protestante Bach compose la propria messa
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 159

solenne cattolica, cfr. val. VI, § 42). Alterne vicende di tal fatta
non giovano alla conservazione duratura d'un repertorio musicale:
la tradizione sagittariana si dissolve a Dresda ancor più spedita-
mente che altrove in Germania.
Assai diversa è la condizione della musica sacra di corte nei paesi
fortemente accentrati attorno a un'autorità regia stabile e assoluta:
è, a diverso titolo, il caso della Francia e della Gran Bretagna. Le
differenze di culto e confessione - preponderanza cattolica nel-
l'uno, protestante nell'altro paese - sono irrilevanti rispetto alle
affinità di struttura sociale e politica, che coinvolgono peraltro il
ruolo delle chiese rispettive. L'affinità è palese anche dal punto
di vista dottrinale e giuridico: alla Chiesa anglicana, sorta nel XVI
secolo come variante britannica della riforma e sottoposta al governo
diretto della corona, corrisponde la Chiesa gallicana, che vanta una
relativa autonomia dal papato e attribuisce al "re cristianissimo"
prerogative assai vaste in materia di giurisdizione ecclesiastica nel
regno. Dal punto di vista mus"icale l'affinità è evidente (e sia pure
in diversa misura) sotto almeno tre aspetti: nella notevole imper-
meabilità della musica sacra francese e inglese agli stili allogeni
(mentre s'è visto il processo d'osmosi che intercorre tra la musica
luterana e l'Italia); nella dissociazione stilistica ed istituzionale tra
la musica sacra della corte (forgiata autoritariamente dal gusto del
sovrano e dalle esigenze del cerimoniale, e - ali' esatto opposto della
corte papale di Roma - irriguardosa dello stile polifonico "antico"
sancito dalle rispettive tradizioni confessionali) e la musica sacra
delle grandi cattedrali urbane (depositarie gelose e tenaci della tra-
dizione polifonica di lunga durata); nell'atteggiamento declama-
torio, enfatico, eloquente che la musica sacra di corte - una musica
sacra che apostrofa il sovrano dei cieli a tu per tu, con un'alterigia
concessa soltanto a un monarca-pontefice - assume nelle mani dei
massimi musicisti della nazione, Lully in Francia e Purcell in
Inghilterra.
La Dichiarazione del clero gallicano sul potere nella Chiesa, del
1682, è uno dei tanti gesti d'autorità che la sovranità assoluta di
Luigi XIV indirizza al mondo (l'autorità degenera in intolleranza
con la revoca dell'editto di Nantes nel 1685). Non è affatto casuale
che proprio in questi anni, nel 1684 e nel 1686, il re patrocina
la stampa di tre collezioni esemplari di grands motets «per la cap-
pella reale», stampa destinata non tanto a divulgare il consumo
160 LA MUSICA DA CHIESA

d'una musica sacra che era in primis prerogativa della corte, quanto
a sancire anche in campo ecclesiastico uno stile musicale peculiare
della nazione francese e la supremazia della Chiesa gallicana. Que-
st'intenzione dimostrativa va intesa anche in senso stretto: pub-
blicare nel 1684 o nel 1686 i grands motets regi di Pierre Robert
e Henry Du Mont, maestri benemeriti della cappella reale ritira-
tisi in pensione nel 1683, significava imporre ai loro successori la
perpetuazione d'un modello e d'uno stile di musica sacra graditi
al sovrano. Lo stesso concorso del 1683 per la successione di Robert
e Du Mont fu una dimostrazione di potenza politico-culturale: Luigi
XIV esortò i vescovi di Francia a farvi partecipare i loro maestri
di cappella, dai quali - 35 in tutto - furono selezionati i quattro
che, a rotazione trimestrale, avrebbero poi retto e fornito la musica
della cappella reale. Il più eminente dei vincitori dell'83 fu Michel-
Richard de La Lande (1657-1726). Il più eminente dei perdenti
- malato all'epoca delle ultime prove di concorso - fu Marc-Antoine
Charpentier (tl 704), idealmente risarcito però dal favore diretto
o indiretto della corte, di cui godé nella sua molteplice attività pari-
gina: maestro di cappella dei gesuiti a Saint-Louis e della Sainte-
Chapelle, Charpentier fu, più che l'antagonista sfortunato di de
La Lande, il suo corrispettivo metropolitano, e più che le pur sen-
sibili differenze di stile personale tra i due predomina, all'ascolto
dei loro grands motets, la sostanziale unitarietà d'uno stile nazio-
nale di musica sacra che, "inventato" nei primi decenni del lungo
regno di Luigi XIV, ebbe validità plurigenerazionale. Basti citare
il caso di de La Lande stesso: tutti postumi, nel 1729, apparvero
i venti volumi dei suoi grands motets, risalenti in parte ai primi anni
del suo magistero reale, e poi via via dall'autore stesso ritoccati,
"aggiornati" nel colorito armonico o nell'apparato strumentale;
entrati nella tradizione dei concerti pubblici parigini - quei Con-
certs spirituels (cfr. val. VI, § 5) di musica vocale e strumentale
che con l'esecuzione d'un grand motet solevano aprirsi-, rimasero
in uso per il resto del secolo, e dal repertorio scomparvero del tutto
soltanto con la scomparsa di quell' ancien régime all'anzianità del
quale essi - come le tragédies lyriques di tradizione lullista (cfr. §
25) - tanto durevole fasto apportarono.
L'impiego extraliturgico dei grands motets non è una anomalia
o una depravazione settecentesca. I grands motets, composti di norma
sul testo d'un salmo (per esempio il Miserere) o d'una sequenza (come
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 161

il Dies irae) o d'un cantico (come il Magnificat) o d'un inno (come


il Te Deum), possono tuttavia anche avere testi poetici latini d'in-
venzione, come quelli che l'intraprendente Abbé Perrin - lette-
rato noto per essere poi stato coinvolto anche nelle prime imprese
operistiche parigine - pubblicò nel 1665 sotto il titolo di Cantica
pro cape/la regis latine composita. La liturgicità non era dunque
affatto un requisito proprio del grand motet, che comunque con
il proprio apparato sonoro opulentemente strumentale era in deroga
flagrante rispetto alle norme conciliari: a tal uopo il sovrano dovette
anzi procurare a Du Mont una licenza espressa dell'arcivescovo
di Parigi (che, per parte sua, a Notre-Dame osservò il dettato con-
ciliare tridentino con rigore fino agli anni Novanta, in un'epoca
cioè in cui le cattedrali di provincia s'erano adeguate già da un pezzo
alla moda musicale corrente, permissiva sia per lo stile che per l'im-
piego degli strumenti). Liturgicamente impropria era, soprattutto,
la sede naturale del grand motet nell'uso della corte: cantato ad aper-
tura della "messa bassa solenne" del re, esso durava magari dal-
l'Introito all'Elevazione; gli succedeva un petit motet solistico di
carattere contemplativo e devoto per l'Elevazione (spesso si trat-
tava di "concerti sacri" italiani, di Carissimi o di Francesco Fog-
gia), indi il mottetto conclusivo sul testo salmodico «Domine, sal-
vum fac regem », di rito per le messe reali. "Basso" era dunque l' as-
setto liturgico della messa (celebrata a bassa voce), "solenne" - ed
eteronomo rispetto alla liturgia - il suo assetto sonoro e cerimo-
niale: la glorificazione del monarca celeste da parte del monarca
terreno sovrasta la celebrazione del rito sacro e sconfina nella degu-
stazione estetica della potenza regia. Il grand motet è insomma un
genere sacro privo di giustificazione liturgica, il suo stile è codifi-
cato in funzione del cerimoniale più che del culto.
Questa defunzionalizzazione della musica sacra di corte - o,
meglio, la sua funzionalizzazione a una liturgia aliena, la liturgia
del potere del re - conduce a una dissociazione della musica sacra
di tradizione, e crea una tradizione nuova, parallela. Luigi XIV
non amò mai la messa polifonica cantata, fors'anche per via dello
stile musicale grave ed osservato che le competeva. Non sorprende
dunque che, di tutti i compositori orbitanti dentro o fuori la corte,
soltanto il "parigino" Charpentier abbia prodotto - sebbene mai
pubblicato - una dozzina di messe, di ogni tipo in uso in Francia
Prima e dopo l'avvento di Luigi XIV: dalla messa per i conventi
162 LA MUSICA DA CHIESA

a una sola parte vocale con basso continuo alla messa in stile da
cappella o policorale, dalla messa concertata di voci e strumenti
alla messa solo strumentale da eseguire alternatim (ma con «vari
strumenti in vece del solo organo»), dalla messa su canto fermo
alla messa per la notte di Natale intessuta di noé'ls popolari. Intanto
però, altrove in Francia, continua incessante la routine polifonica
delle maitrises, delle cappelle musicali delle cattedrali, vividamente
descritta nel 1643 da Annibal Gantez - maestro di scholae canto-
rum via via a Aigues-Mortes, Aix-en-Provence, Annecy, Arles,
Aurillac, Auxerre, Avignon, Carpentras, Grenoble, La Chàtre, Le
Havre, Marseille, Montauban, Nancy, Nevers, Rouen, Toulouse,
Valence, e in varie chiese di Parigi ... - nel suo Entretien des musi-
ciens, un «trattenimento dei musicisti» intessuto di gioviali consi-
derazioni sulla condizione quotidiana dei musici di cappella, dediti
più al boccale e - potendo - alla buona tavola che non alle muse.
Gantez lamenta, tra I' altre cose, il monopolio di stampa dei Bal-
lard, che mortifica la produzione corrente di musica sacra. In effetti
ancora ai primi del Settecento il catalogo di vendita degli stampa-
tori parigini elenca un buon numero di messe polifoniche di Or-
lando di Lasso: fondi di magazzino, forse, ma anche modelli intra-
montati per la produzione sacra provinciale francese del Seicento.
Per i monarchi di Francia, invece, la polifonia osservata venne ad
assumere una valenza cerimoniale specifica: in stile decisamente
"antico" (tutt'al più rinvigorito da inserti e raddoppi strumentali
nella prassi esecutiva) sono i requiem cantati alle esequie reali. La
Missa pro defunctis di Eustache Du Caurroy - un musicista (t1609)
che, alludendo allo stile datato delle proprie musiche, ammise «di
aver dormito per 40 anni» - fu cantata, postuma, per le esequie
di Enrico IV: edita nel 1636, divenne un vero e proprio requiem
di Stato, in uso fin nel Settecento. Il severo requiem a 4 voci di
Charles d'Helfer, del 1656, fu cantato per i funerali di de La Lande
- che non compose mai una messa in vita sua -, e poi nel 1774
per il riposo dell'anima di Luigi XV, il quale era però stato inu-
mato (come, prima di lui, Rameau) al canto meno austero e scarno
della Messe des morts del meridionaleJean Gilles (tl 705), un requiem
concertato che, riesumato dal Concert spirituel nel 1750, venne
ad arricchire stabilmente (fino ad oggi) il repertorio delle glorie
vetuste e imperiture della cultura nazionale "classica" offerte alla
compiaciuta ammirazione dei posteri.
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 163

Nella elaborazione dello stile di musica sacra coltivato a par-


tire dagli anni Sessanta dai titolari della cappella reale, Robert e
il versatile Du Mont, spicca il gesto energico di Lully, musicista
estraneo alle istituzioni sacre ma interprete musicale assoluto del-
l'immagine reale. Suo è il Miserere del 1664, suo il Te Deum del
16 77 che, insieme con altri pochi mottetti lulliani, costituirono
- prima ancora della loro pubblicazione nel 1684 - il modello domi-
nante del genere del grand motet (nella incerta cronologia delle opere
di Du Mont pare quantomeno certo che i suoi magistrali grands
motets non siano anteriori bensl coevi a quelli lulliani). Si tratta
di mottetti a doppio coro, laddove però questa dizione nell'uso del
Seicento francese (fin dall'epoca di Luigi XIII) aveva un senso
affatto diverso da quello corrente in Italia e Germania: non due
cori bilanciati, di pari entità e distribuzione vocale, che cantano
a vicenda o insieme, bensl un grand chreur numeroso (solitamente
a cinque parti) e un petit cha!Ur di (cinque) voci solistiche, più l' or-
chestra (cinque parti di archi, e i fiati). Per dire in termini spaziali
l'effetto fonico: non la simmetria o specularità del doppio coro di
tradizione italiana, bensl una prospettiva sonora di lontananza/vici-
nanza, moltitudine/individualità. Grand chreur, petit chreur, soli-
sti singoli o a gruppi si alternano, contrastano, isolano, fondono
non secondo uno schema formale bensl secondo le esigenze della
declamazione del testo del mottetto, e danno origine a una multi-
forme concatenazione di sezioni assai diverse e numerose (tante
quanti sono i versetti, salva la possibilità di spezzettarli o coagu-
larli a beneplacito). Né le sezioni hanno costituzione formalmente
definita: i versetti solistici sono trattati come récits, declamazioni
musicali che oscillano dalla recitazione dimessa alla perorazione enfa-
tica, dall'orazione supplichevole alla proclamazione tripudiante (se
de La Lande ne fa all'occasione vere e proprie arie - airs con o
senza strumenti solistici concertati -, si tratta d'una mera esten-
sione delle facoltà declamatorie del canto verso la melodiosità for-
malizzata, non già dell'adozione d'un principio strutturale ete-
rogeneo).
L'atteggiamento declamatorio pervade tutta la composizione:
non sarebbe conforme denominare duetti e terzetti i récits a due
0 più voci, giacché l'assetto accentuativo e ritmico di ogni voce,

assai differenziato, ne salvaguarda volutamente l'individualità. I


grandi cori - talvolta fugati, ma più spesso dediti a declamazioni
164 LA MUSICA DA CHIESA

concitatamente ritmate - sono i canti d'una moltitudine, non d'una


massa anonima. L'accentuazione delle linee vocali - ottenuta
mediante vezzi melodici ed armonici: ritardi, appoggiature, por-
tamenti di voce, mordenti...- soggiace a un regime oratorio, non
all'assetto metrico della battuta (piuttosto amorfa e fluttuante).
La ritmicità marziale e il clangore militaresco dei Te Deum che glo-
rificano la politica di espansione o la prosperità della dinastia in
occasione di vittorie belliche e figli maschi - la sinfonia introdut-
tiva di quello di Charpentier è divenuta a buon titolo famosa nella
sigla delle trasmissioni televisive in Eurovisione - è esemplare d'una
concezione figurativa e non formale, vissuta e non astratta, del ritmo
e del suono. Il canto gregoriano ha posto nei grands motets tutt'al
più come requisito evocativo della mess'in scena sonora: motto tre-
mendo all'inizio del Dies irae lulliano, canto fermo vero e proprio
- che per qualche battuta suggerisce un effetto polifonico "sacra-
mentale" - nell'inno Sacris solemniis di de La Lande.
Stupendo, nei grands motets di Lully, Du Mont, de La Lande
e Charpentier, è il raggio amplissimo dell'escursione emozionale,
che trascorre subitaneamente dalla contrizione al giubilo, dalla
aggressività alla tenerezza, dall'estasi contemplativa al fervore mili-
tante. Stucchevole riesce invece, alla lunga, la coazione ininter-
mittente all'eloquio sostenuto, all'enfasi incitativa. Esaltante è I' apo-
strofe esortativa e supplichevole degli imperativi nel Miserere di
Lully: «Miserere dele lava me munda me asperge me
averte faciem crea innova redde confirma ... libera
benigne fac, Domine, ... »; monotona la fissità tonale allucinata
(sempre do minore). La retorica della musica sacra di corte fran-
cese è in presa diretta, bada al tono del discorso, non alle imma-
gini verbali: disdegna le figure musicali rappresentative di Monte-
verdi e Schiitz, e declama invece con ogni pathos il testo latino sacro
come fosse un'orazione o un sermone di Bossuet (l'estensore della
citata Dichiarazione gallicana). Il musicista evidenzia i pronomi per-
sonali, le forme verbali, le congiunzioni, non i sostantivi e gli agget-
tivi; in frasi come «tu ... non horruisti virginis uterum», « ... non con-
fundar in aeternum ... », sono quelle in corsivo le parole investite
dall'enfasi canora maggiore (laddove il compositore italiano indu-
gerebbe semmai su «virginis», su «aeternum», con melismi esor-
nativi o con lunghe note tenute, oppure su «horruisti» e «confun-
dar», con dissonanze o cromatismi). Il grand motet corrobora infine
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 165

tanta enfasi sfruttando più a fondo di ogni altro genere musicale le


risorse armoniche peculiari della musica francese: ne risulta perciò
accentuato quell'effetto di estraneità che la musica francese suole
suscitare nell'ascoltatore straniero. Per il lettore competente, basti
citare un solo esempio topico, il pungente accavallamento transitorio
di ritardi e anticipazioni dissonanti in funzione enfatica: talvolta, in
prossimità d'una cadenza in modo minore, esso si configura come
sovrapposizione apparentemente irregolare di una quinta eccedente,
una settima maggiore e una nona al terzo grado del tono (in do
minore: mi~-sol-si-re-fa); sarebbe però incongruo denominarlo
"accordo di nona sulla mediante", giacché esso non ne assume la fun-
zione armonica (in termini funzionali esso è semmai l'anticipazione
della terza minore della tonica sotto un accordo di settima di domi-
nante regolarmente preparato e risolto, anticipazione tanto più signi-
ficativa in quanto l'accordo conclusivo della cadenza suole cancellare
proprio l'effetto" minore" mediante inserzione della terza maggiore).
Come la francese, anche la musica sacra della corte inglese subl
negli anni Sessanta - con la restaurazione della monarchia dopo
la repubblica cromwelliana - una riforma istituzionale e al tempo
stesso stilistica. Il modello verso il quale si orientò Carlo II Stuart
(1660-85) nel ristabilimento della corte londinese fu proprio quello
della corte francese (che egli, cugino di Luigi XIV, conosceva per
avervi trascorso l'esilio dopo la decapitazione di Carlo I nel 1649):
significativa in tal senso fu l'istituzione, immediata, di un com-
plesso di 24 «violini» (in realtà una vera e propria orchestra d'ar-
chi) che ricalcava la «grande bande des vingt-quatre violons de la
Chambre du roi» e che instaurò a corte uno stile orchestrale
moderno, totalmente alieno rispetto alla tradizione indigena della
polifonia strumentale per consort di viole (una tradizione che, glo-
riosamente coltivata fin dai tempi di Elisabetta I, s'era perpetuata
nelle elaboratissime fantasie violistiche di tre generazioni di musi-
cisti inglesi - cfr. vol. IV,§ 32 -: dell'ultimo di costoro, JohnJen-
kins, morto ottantaseienne nel 1678, fu forse ancora allievo lo stesso
Purcell adolescente, autore per parte sua di una dozzina di fanta-
sie per viole, dall'invenzione melodica e contrappuntistica esube-
rante - una di esse, a 5 parti, è costruita in alacre imitazione intorno
a una nota perpetua, un fa tenuto dall'inizio alla fine dalla viola
tenore - ma mai stampate; lo stesso Purcell diventò nel 1677 capo
dei 24 violini, quasi a sancire la rottura d'una tradizione violistica
166 LA MUSICA DA CHIESA

vetusta che sotto Carlo II si estingue definitivamente, nonostante


il Musick 's monument che a quel repertorio eresse con addolorata
nostalgia Thomas Mace nel 1676, un trattato che volle essere un
retrospettivo «ammonimento circa la miglior musica pratica sacra
e civile che sia mai stata al mondo»).
Anche nel settore sacro Carlo II impose un genere nuovo, l' an-
them concertato per voci soliste con basso continuo e (sovente) stru-
menti concertati: vero omologo britannico del grand motel fran-
cese coevo. (Anthem sta per mottetto: come il mottetto continen-
tale, l' anthem poteva essere polifonico e a cappella - e così sono
gli anthems della tradizione illustre dell'epoca Tudor e Stuart di
prima della rivoluzione, cfr. val. IV, § 31 -, ma poteva anche assu-
mere la foggia dei mottetti solistici e concertati del Seicento ita-
liano. Va però notato che l'impiego terminologico della parola
anthem per designare una composizione musicale liturgica è tar-
divo, e risale proprio alla restaurazione, al Prayer book emanato
da Carlo II nel 1662.) Ma, diversamente dal caso francese, la situa-
zione inglese è - tanto in politica quanto in musica - complicata
da conflitti e antagonismi che ingenerano cronica instabilità: la pur
copiosissima produzione di anthems concertati fiorita sotto gli
Stuart, interrotta con l'accessione di Guglielmo III d'Orange al
trono reale nel 1689, non poté infatti mai acquisire una durevo-
lezza, una normatività, una canonicità pari a quelle che il grand
motel ebbe sotto la monarchia assoluta di Francia. Non a caso quasi
soltanto manoscritta è la tradizione degli anthems della restau-
razione.
La rivoluzione puritana aveva - oltre che incentivato l' eserci-
zio domestico, borghese, della musica strumentale e vocale - ban-
dito radicalmente dalle chiese ogni musica d'arte (vi si tollerava
unicamente il canto comunitario dei salmi): il repertorio polifo-
nico sacro della tradizione elisabettiana e giacobita, gli anthems e
i services di William Byrd, Orlando Gibbons, Thomas Tomkins,
Thomas Tallis (un repertorio coltivato, è vero, sempre soltanto in
pochi luoghi eletti - i piccoli cori delle grandi cattedrali-, e però
venerato con un fervore pari a quello cattolico per lo stile prene-
stino), era stato drasticamente interrotto. La restaurazione, benin-
teso, lo ripristinò a pieno titolo; i cori delle cattedrali di St. Paul
a Londra, di Salisbury, York, Lincoln, Chichester, Wells, Canter-
bury, Durham, Winchester, Gloucester, Oxford eccetera ripresero
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 167

a cantar mottetti e "servizi" sacri del tempo di Elisabetta I e Gia-


como I, e del pari fece la cappella reale. Una raccolta degli anthems
di uso corrente a corte e nelle cattedrali, stampata nel 1663, ripro-
duce il testo di decine di anthems polifonici di Byrd, Gibbons, Tallis,
Tomkins: tutta roba che risale ai primi tre decenni del secolo cor-
rente, o al precedente. La stessa raccolta, nella riedizione ampliata
del 1664, annovera però già i testi degli anthems solistici di nuova
fattura, prodotti per la corte di Carlo II da Matthew Locke, Pel-
ham Humfrey, Henry Lawes, John Blow: quella generazione di
musicisti cresciuta tra repubblica e monarchia, e dedita al genere
di musica che il giovane sovrano retour de Paris mostrava di predi-
ligere. Nella simultaneità, la dissociazione tra la restaurata voca-
zione sacrale del glorioso repertorio polifonico "anglicano" e l'in-
troduzione per volontà regia d'uno stile musicale sacro moderno
ed alieno, acquista i caratteri d'un conflitto. Musicisti e teologi
avvertono la contraddizione; il dissidio intorno alla presunta "pro-
fanità" della nuova musica (e in particolare dell'uso ecclesiastico
degli strumenti concertati) nasconde il problema della legittima-
zione storica del culto e della monarchia. Anche prima della repub-
blica cromwelliana vi furono occasionalmente composizioni di
anthems solistici in stile concertato: soltanto dopo la restaurazione,
però, la divaricazione dei due stili fu sentita come il simbolo sonoro
di posizioni anche politicamente antagonistiche. (Paradossalmente
sono i whigs - i parlamentaristi, confessionalmente propensi al puri-
tanesimo - i massimi sostenitori della tradizione anglicana, men-
tre i tories - i realisti conservatori, fedeli della Chiesa d'Inghil-
terra - si identificano semmai con tutto quel che promana dal
sovrano: anche nelle mode musicali.)
All'interpretazione politicamente e ideologicamente tendenziosa
della musica sacra di corte l' anthem concertato della restaurazione
- un genere "pubblico", un attributo regale, cantato di norma sol-
tanto in quelle occasioni (le domeniche e le solennità) in cui il re
assisteva di persona al servizio divino nella cappella reale, senza
pregiudizio quindi dell'impiego del repertorio polifonico traman-
dato per l'uso corrente di cappella - si presta anche per via di quel
certo margine di intervento "redazionale" nella selezione dei ver-
setti salmodici che l'uso liturgico anglicano tollera, e che dà spa-
zio all'uso allusivo (a fini di propaganda o di polemica) del testo
biblico. Un esempio dell'impiego non ingenuo né neutrale dei salmi:
168 LA MUSICA DA CHIESA

dallo stesso salmo 18 (17 della Bibbia cattolica) sono ricavate la


figura di un re Davide dolente, supplichevole, perseguitato dai
nemici illustrata musicalmente in un anthem di Purcell («I will love
Thee, o Lord») cantato - pare - nel 1679 in un momento di grave
crisi politico-dinastica, e la figura quantomai diversa di un Davide
pugnace, trionfante, protetto da Dio che campeggia in un anthem
purcelliano cantato nel 1694 per celebrare una delle battaglie vit-
toriose di Guglielmo III contro la Francia.
Di Henry Purcell (1659-1695) rimangono una settantina di
anthems, quasi tutti concertati per voci e strumenti: i quattro quinti
risalgono all'epoca di Carlo II. L'atteggiamento declamatorio è ana-
logo a quello del grand motet francese: nei versetti salmodici, affi-
dati di volta in volta al coro o al gruppo dei solisti (tre voci maschili,
solitamente: contratenore, tenore, basso), la recitazione del testo
ha un andamento melodico via via accorato o acclamante, che i
vezzi vocali e armonici (appoggiature, ritardi, dissonanze transi-
torie) provvedono a caricare di pathos oratorio. Come il grand motet,
l' anthem concertato consiste di tante sezioni distinte ma concate-
nate quanti sono i versetti del testo, senza però mai assumere una
disposizione formale "chiusa" Il rifiuto pressoché assoluto delle
forme cicliche o periodiche - arie variate o col da capo, ritornelli,
bassi ostinati, movimenti di danza, eccetera - è coerente alla natura
prosastica (non poetica, non metrica, non strofica) del testo, che
la musica declama da capo a fondo come un'orazione. È sintoma-
tico che nei suoi anthems Purcell eviti rigorosamente di applicare
alla composizione vocale del testo biblico il principio formale che
egli predilige invece in tutta l'altra sua produzione: il basso osti-
nato, un procedimento (condotto da Purcell a vertici altissimi di
complicatezza e forza rappresentativa, soprattutto nelle sue musi-
che teatrali, cfr. § 26) che inevitabilmente dà luogo a una forma
"chiusa" Se tuttavia talvolta compare negli anthems il ricco
addobbo sonoro dei bassi ostinati purcelliani, sarà sempre e sol-
tanto negli episodi esclusivamente strumentali, come le sinfonie
introduttive di «Rejoice in the Lord alway » o «In Thee, o Lord,
do I put my trust» (costruite su moduli quinari - su bassi ostinati
di 2 ½ o di 5 battute -, la loro asimmetria congenita sbilancia ad
arte la fissità periodica e tonale implicita nella natura del basso
ostinato).
Come il grand motet, cosl gli anthems purcelliani sono pervasi
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 169

(fino alla saturazione) dall'esigenza di dare veste sonora sempre


eloquente e patetica al testo scritturale: in siffatta eloquenza e pate-
ticità infatti si manifesta la regalità d'una musica sacra che, depo-
sto il contegno reverenziale, la compunzione stilisticamente codi-
ficata della musica da chiesa di tradizione, si rivolge idealmente
al sovrano dei cieli, senza veruna mediazione. Come nel grand motet,
cosl negli anthems purcelliani soccorrono a tal fine risorse armoni-
che peculiari, di cui Purcell è manipolatore estroso e ingegnoso.
Le singolarità dell'armonia purcelliana - ricca di sonorità, succu-
lenta, sgargiante di dissonanze - sono spesso riconducibili allo sfrut-
tamento di taluni residui della modalità polifonica cinquecentesca
(caricati di un colore decisamente arcaico) dentro un'organizzazione
periodica e sintattica delle frasi musicali ch'è ormai tonale. Fre-
quente ed esemplare in tal senso è, in prossimità d'una cadenza
conclusiva e in una stessa battuta, la compresenza del settimo grado
sensibile e del settimo grado abbassato affidati a due diverse voci:
ma si tratta di effetto coloristico, non strutturale (cosl, nell'ultima
pagina del già citato «Rejoice in the Lord», l'arcaismo modale del
si~ sùbito prima d'una cadenza in do maggiore - vera e propria
velatura cromatica pittoresca - è aggiunto soltanto nella ripetizione
in eco, quasi a potenziarne l'effetto asseverativo ed evocativo). Un
monumentale frammento di anthem, il coro a 8 voci «Hear my
prayer, o Lord», accumula in 34 battute un centinaio suppergiù di
dissonanze (talune simultanee): ma tali dissonanze - che sono della
più varia specie, ritardi, appoggiature, note di volta, di passaggio,
intervalli eccedenti o diminuiti - non insidiano, anzi esaltano la
compattezza tonale del brano (do minore). La disseminazione di
dissonanze ha scopo rappresentativo - è l'immagine sonora del-
l'invocazione disperata del salmo 102 (101) -, ma è radicata nella
struttura stessa dei due soggetti musicali su cui è imbastito il brano:

Hear my pray er, o Lord,


do do do do mib do

and !et my cry ing come un to Thee.


sol sol la sib-do-siQ siQ do re mib do

(Nell'elaborazione polifonica, il mi~ del primo soggetto finisce per


cadere solitamente in posizione cadenzale, là dove normalmente
"occorrerebbe" il re: in termini funzionali, l'anomalia armonica
170 LA MUSICA DA CHIESA

aumenta la tensione cadenzale e potenzia quindi la tonalità; in ter-


mini espressivi, essa accentua l'enfasi vocativa della particella «o».
L'inflessione cromatica sinuosa sulla prima sillaba di «crying»
- «grido» - sfrutta invece intensivamente l'ambiguità modale/tonale
del settimo grado, ma anche la confricazione dissonante che la nota
mediana di volta inevitabilmente produce con le altre voci: nel con-
testo armonico, invece, l'oscillazione continua della terza maggiore
e minore - si~/si~ e omologhi - non crea disorientamento tonale,
bensl viene percepita come ripercussione costante, ossessiva - e
quindi affermativa-, d'una perturbazione cromatica retoricamente
motivata.)
Poco degli anthems concertati (che peraltro non sono il settore
artisticamente più ragguardevole dell'opera purcelliana) sopravvisse
nella coscienza storica della nazione alla loro perdita di funzione.
Nella monarchia costituzionale sorta dalla "rivoluzione" incruenta
del 1688, l' anthem perdura unicamente come genere celebrativo,
genere di rappresentanza: riserbato a rare occasioni eccezionali,
esso compensò tutt'al più con lo sfarzo sonoro la perdita di fre-
quenza. Ebbero invece favore e fama immediati e duraturi il Te
deum del 1694 e talune odi extraecclesiastiche scritte, come lo stesso
Te deum, per festeggiare il giorno di santa Cecilia, patrona dei musi-
cisti (un'usanza della Musical Society londinese, dagli anni Ottanta
in poi). Fra tutte le odi ceciliane di Purcell - che produsse pure
numerose odi genetliache e odi funebri per la corte, mentre il suo
collega Blow soleva produrre l'ode di capodanno - spicca la più
vasta e pretenziosa, «Hai!, bright Cecilia», del 1692. La lunga can-
tata (13 brani per coro, 14 solisti e un'orchestra arricchita di trombe,
timpani, flauti, oboi) celebra entusiasticamente la potenza della
musica, ricorrendo ai topoi un po' consunti degli effectus musices
e all'elogio delle virtù specifiche di ciascuno strumento. I momenti
più esaltanti dell'ode del 1692 sono i cori (uno di essi raffigura
in maniera visionaria l'armonia instaurata nel macrocosmo e nel
microcosmo, nelle sfere celesti e negli atomi, dalle virtù della
musica). Ma il brano più famoso è il recitativo del contratenore
« 'Tis Nature's voice»: trascorrendo dal canto declamato al canto
gorgheggiato, dal languido sospiro al gaudio erotico, dalla disso-
nanza voluttuosa alla modulazione sofferente, questo brano straor-
dinario - che Purcell addobbò «with incredible graces», con fiori-
ture vocali inaudite - proclama il magico dominio dell'armonia sopra
MUSICA SACRA DI STATO: FRANCIA E INGHILTERRA 171

gli affetti e gli "spiriti animali" (cfr. § 9). Il brano è emblematico


del culto intenso - civile e sociale se non liturgico e sacrale - che
la nuova società inglese di fine Seicento (una società civile emersa
da due rivoluzioni che l'avevano proiettata all'avanguardia sociale
e politica d'Europa) tributava all'arte musicale, strumento eletto
di edificazione collettiva e individuale:
È la voce stessa della Natura, intesa da tutta
la foresta folta e brulicante delle creature,
lingua universale non ignota
ad alcuna delle sue mille specie!
Dalla Natura essa ha appreso l'arte possente
di corteggiare l'udito e sedurre il cuore,
di esprimere e, insieme, suscitare le passioni.
L'ascoltiamo, e sùbito ci coglie
l'afflizione o l'odio, la gioia o l'amore:
con catene invisibili essa lega la fantasia,
e insieme affascina i sensi, accattiva la mente.
IV• IL TEATRO D, OPERA
19 • STORIOGRAFIA DEL TEATRO D'OPERA

Per l'Italia e per l'Europa intiera la novità più vistosa del Seic~nw
musicale fu, fuor d'ogni dubbio, l'introduzione del teatro d'opera. La
sua vistosità è commisurata alla complessità delle risorse che vi con-
corrono: nessun'altra forma di produzione artistica moderna fa
ricorso a forze produttive e organizzative tanto costose, numerose e
differenziate. Pari pari radicatissima nelle vicende storiche e soci.~
è tutta la storia e la fortuna del teatro d'opera: condizionato dalle
situazioni politiche ed economiche dominanti, il teatro d'opera è
stato (ed è) di volta in volta strumento non indifferente di persua-
sione o mobilitazione ideologica, pubblica dimostrazione di un'au-
torità sovrana, divertimento collettivo, comunitaria celebrazione di
vita civile, oltre che forma d'arte vigorosa e rigogliosa.
L'introduzione del teatro d'opera ebbe ripercussioni secolari:
in Italia, in Francia, in Inghilterra, nei paesi tedeschi la vita ope-
ristica odierna è la continuazione d'una tradizione istituzionale che,
pur con mille cambiamenti (non ultimo l'emergere di capitali tea-
trali extraeuropee nell'ultimo secolo: New York, San Francisco,
Buenos Aires, Sydney, ... ), si può legittimamente far risalire senza
interruzioni al Seicento. L'entità stessa del fenomeno e la persi-
stenza della sua tradizione - una persistenza che è proporzionale
alla dinamica capacità del sistema operistico di mutare, evolvere,
assumere funzioni sociali e culturali nuove senza però mai rinne-
gare la propria costituzione - spiegano l'interesse vivissimo che
la storiografia musicale e letteraria e teatrale ha sempre dimostrato
per le origini del melodramma (o per i suoi "albori", secondo il
titolo dell'edizione più copiosa che dei primissimi testi dramma-
tici per musica sia stata fatta a tutt'oggi). Interessava conoscere
come, quando, dove, perché e ad opera di chi fosse nata una forma
d'arte apparentemente abnorme e però ricca di un fascino tanto
durevole. Più del tragitto che essa ha percorso (un tragitto pieno
di zone depresse e passi insidiosi), interessava il punto di partenza,
176 IL TEATRO D'OPERA

remotissimo, sul quale commisurare sia gli ardui e gloriosi progressi


compiuti, sia le pretese e le ambizioni disattese o deluse.
Per chiarezza - e a rischio di parere schematici - converrà anti-
cipare sùbito le due risposte distinte che la questione delle origini
ammette: o si dirà che l'opera in musica nasce a Firenze nel 1600;
o si dirà che il teatro d'opera nasce a Venezia nel 1637. Optare
per l'una o per l'altra risposta -· ambedue a modo loro legittime
- avrà conseguenze critiche decisive. Anche a volerle sottoscrivere
atnbedue - le due risposte, formulate in termini significativamente
diversificati, non sono reciprocamente incompatibili -, occorrerà
tenerne accuratamente distinti gli àmbiti concettuali, se non si vorrà
incorrere in equivoci critici rovinosi. È infatti vero che a Firenze
nel 1600 fu messa in scena l' EuriçUce di Ott~yi0-.Rinuccini, ossia
il P.!Ìmo dramma intierament~ ·cantato di cui sia stata tramandata
ai posteri la par~i~~ (anzi, le partiture, giacché ciascuno dei du~
musicisti che ebbero parte nella rappresentazione, Jacopo Peri e
Giulio Caccini, mandò in stampa in quello stesso anno 1600-01
1~ propria partitura integrale dell'opera; cfr. voi. IV,§§ 41-43, anche
per i precedenti immediati di quello spettacolo destinato a far
epoca). Ed è pure vero che a qu~lla prima opera in musica ne ten-
nero dietro altre, un paio di dozzin~ ~appresentate nei primi quat-
tro decenni del secolo nelle corti di Firenze, di Mantova, di Roma.
Ma è vero, d'altra parte, che ~-~!tanto l'istituzione di teatri pub-
blici su base imprenditoriale - avvenuta a Venezia a partire dal
163 7 - procurò al nuovo genere quella stabilità, quella continuità,
quella regolarità e frequenza, insomma quella solidità economica
ed artistica che ne fece lo spettacolo dominante d'Italia e d'Eu-
ropa per i secoli a venire. Per paradosso si potrebbe affermare che
s9ltanto l'apertura dei teatri pubblici ha trasformato in tradizione
~colar~ e storicamente rilevante un genere teatrale come l'opera
in musica che, ove fosse mancata quell'istituzionalizzazione,si
;arebbe limitato ad un episodio effimero e curioso della vita di poche
corti italiane del primo Seicento. (Ma è vero. anche l'opposto: se~
lo stimolo a riprodurre in una città repubblicana come Venezia--lo
ipettacolo in voga nelle corti principesche d'Italia, quella ist!.!9,:"
zionalizzazione non avrebbe avuto modo di essere.)
!!processo di istituzionalizzazione del teatro d'opera avviatosi
a Venezia nel quarto decennio - un processo che vent'anni dopo
aveva già definitivamente pervaso l'Italia quant'è lunga, da Milano
\
STORIOGRAFIA DEL TEATRO D'OPERA 177

a Palermo, e debordava oltr' Alpi - non mancò di influire in maniera


radicale sulla struttura artistica dello spettacolo d'opera: sicché la
data del 163 7 è il discrimine non tanto di due forme organizzative
del teatro d'opera - l'opera di corte e l'opera impresariale -, quanto
di due modi radicalmente diversi di intendere, fare, percepire il
teatro musicale. Al punto che tra un'opera del 1640 e una del 1700
(o del 1750 o del 1800) correrà una differenza categoriale minore
di quella che corre, poniamo, tra l'O,feo (1607) e il Ritorno di Ulisse
(1640), due opere musicate da un sol compositore, Claudio Mon-
teverdi, eppure sideralmente lontane l'una dall'altra.
L'opera di corte è per sua natura evento celebrativo unico, irri-
petibile, destinato com'è a condecorare una circostanza dinastica
o diplomatica di cui conta vantare - agli occhi della corte e del
mondo intiero - la straordinarietà; l'opera di corte_ viene offerta
(o imposta) a un pubblico vasto e selezionato di invitati come dimo-
strazione suntuosa della munificenza del sovrano, della bravura
impareggiabile degli artisti al suo servizio; è costosissima (e vuole
che lo si veda), ma frutta ammirazione, stupefatta invidia, con-
senso; ~-e ne stampano Ie -musiche, le descrizioni, le scenografie,
affinché anche a chi non vi ha assistito ne giunga una seducente
documentazione. L'op~ra impresariale è per sua natura un evento
numeroso, ripetibile (i cosffvanno ammortizzati), la meraviglia vi
si fa consuetudine; rappresenta soltanto sé stessa e celebra tutt'al
più il mito del buongoverno cittadino o del vivere civile che s~g-
giamente contempera otia sollazzevoli e profittevoli negotia, è desti-
nata a coloro che vi assistono (e soltanto a loro); è un investimento
finanziario incerto e ambiguo, ma chiunque vi acceda concor~e al
suo sostentamento pagando di tasca propria il biglietto e il palco
o la sedia, e acquista un divertimento socialmente consumato e con-
di viso da vari ceti cittadini; lussuosa ma ripro~ucibile in serie,
l'opera dei teatri impresariali lascia traccia di sé soltanto nei minu-
scoli libretti d'opera in-12° veodut(~ll-'entrata del teatro, di cui
solq i letterati collezionisti e gli habitués intenditori c~nservano
gli esemplari; la memoria dello spettacolo impresariale si sèdimenta
nell'abitudine degli spettatori assidui: andare all'opera è un costume
sociale consuetudinario, non un evento memòiabile. È vero che
il modello scat-e~inte dell'opera impresariale è l'opera principesca,
di cui essa riproduce e mercifica le fattezze e le pretese: ma lo fa
contaminando quel modello con i sistemi organizzativi della com-
178 !L TEATRO D'OPERA

media dell'arte (cfr. § 21), e la sua commercializzazione non è un


processo superficiale che lo lasci indenne, anzi ne àltera la costitu-
zione nel momento stesso in cui àltera i motivi della sua produ-
zione, i modi del suo consumo, le forme della suà trasmissione e
tradizione. Alla fine del Seicento, l'opera impresariale ha soppian-
tato, anzi consumato il modello originario dell'opera di corte al
punto che molte grandi e piccole corti d'Italia e d'Europa assu-
mono a loro volta il tipo dell'opera impresariale: sotto la tutela finan-
ziaria e politica del patrocinio sovrano, essa brilla di una luce magari
pìù fulgida ma non sostanzialmente diversa che nei teatri cittadini,
e il repertorio è in larghissima misura lo stesso.
Ora, quella differenza radicale tra opera di corte e opera impre-
sariale non sarà certo sfuggita, nel momento stesso del trapasso,
agli osservatori più accorti della vita pubblica seicentesca. Basti
citare il gesuita Giovan Domenico Ottonelli, che nel 1652, nel suo
trattato Della cristiana moderazione del teatro, distingue secondo
i promotori e i sistemi organizzativi tre specie di «comedie can-
tate •> (ossia di opere): la prima, più vistosa e stimabile, è quella
delle opere «fatte ne' palazzi de' principi grandi, e d'altri gran
signori secolari o ecclesiastici» (per esempio l'Euridice del 1600,
data a Palazzo Pitti a spese di nobili fiorentini per le nozze regie);
la seconda è quella, del tutto affine, delle opere «che rappresen-
tano talvolta alcuni gentiluomini o cittadini virtuosi o accademici
eruditi» (così l'O,feo monteverdiano, patrocinato dall'accademia
mantovana degli Invaghiti, posta a sua volta sotto la protezione
della famiglia regnante); la terza è quella delle «mercenarie e dra-
matiche rappresentazioni musicali» messe in scena da cantanti e
musici organizzati in compagnia teatrale per eseguire «opere com-
poste da valenti autori e disposte diligentemente in musica di atto
in atto, di scena in scena, di parola in parola, da principio fino
al fine». È questa terza specie di opere in musica a suscitare le
più corrucciate inquietudini morali del gesuita: mentre le opere di
corte e le opere accademiche sono iniziative virtuose o addirittura
benefiche di politici avveduti e di cittadini liberali, le opere impre-
sariali, promovibili da chiunque e a chiunque accessibili, sono desti-
nate al lucro ed allettano il pubblico con le lusinghe più insidiose
(come l'ostentata esibizione pubblica di donne canterine). Tren-
t'anni dopo - il dominio dell'opera impresariale è ormai totale e
pacificamente riconosciuto-, il primo trattatello intieramente dedi-
STORIOGRAFIA DEL TEATRO D'OPERA 179

cato all'opera, le Memorie teatrali di Venezia del canonico Cristo-


foro Ivanovich (cfr. Lettura n. 6), fa la storia dei teatri veneziani
senza curarsi dei precedenti extraveneziani dell'opera in musica:
si limita a sottolineare che pompa e splendore dei teatri veneziani
non sono punto inferiori «a quanto si pratica in diversi luoghi dalla
magnificenza de' principi, con questo solo divario che, dove que-
sti lo fanno godere con generosità», ossia a spese loro, «in Vene-
zia è fatto negozio», ossia affare ed impresa. Quando nel 1708 il
librettista am~urghese Barthold Feind pubblica le sue Idee intorno
all'opera (cfr. Lettura n. 7), è ovviamente all'opera moderna, impre-
sariale, che si riferisce. Sembra dunque di capire che il Seicento
abbia avvertito il valore discriminante di quell'istituzionalizzazione
del teatro d'opera che nella data "Venezia 163-7" emblematica-
mente si riassume. Le opere di corte erano eventi memorabili, con-
segnati come tali alle cronache; del teatro d'opera di tutti i giorni
- quello impresariale - metteva invece conto di scrivere la storia,
meditare il significato e analizzare la struttura, se appena appena
ci si rendeva conto del posto enorme che esso teneva nella vita
contemporanea.
A partire dal Settecento, invece, la storiografia e la critica ope-
ristica hanno sempre optato unilateralmente per la prima delle due
risposte possibili intorno alle origini dell'opera, "Firenze 1600",
senza neppure valutare - o, peggio, valutando soltanto in nega-
tivo - il peso dei cambiamenti intervenuti con l'apertura dei tea-
tri d'opera impresariali. La conseguenza di questa scelta è presto
detta. La pretesa umanistica e restauratrice - dichiarata, non senza
mille cautele, dai protagonisti stessi della prima ora, Rinuccini Peri
Caccini - di far rivivere la musica teatrale della tragedia antica,
o quantomeno di emularne gli effetti, venne ipso facto eretta a metro
di giudizio di un teatro d'opera che nel frattempo, con il passag-
gio alla struttura impresariale e alla fruizione cittadina regolare,
s'era bellamente dimenticato di qualsiasi speculazione accademica
into,rno al ~uolo che la musica ebbe a tenere nel teatro greco e
romano. Che i primi albori del melodramma si confondessero agli
ultimi bagliori dell'umanesimo, e perdipiù di un umanesimo cl.o.e.
come quello fiorentino, è circostanza che fin dal primo Seicento
- fin dagli scritti di un musicologo antiquario come il fiorentino
G. B. Doni che, scrivendo un Trattato della musica scenica negli
anni Trenta, certo non sospettava che il progresso del teatro musi-
180 IL TEATRO D'OPERA

cale avrebbe preso tutt'altro indirizzo - non poteva dispiacere.


Tanto meno quel riverbero umanistico degli inizi è dispiaciuto alla
storiografia operistica moderna, che per varie ragioni è stata pro-
pensa a prestare ampio credito più. a quella immantenuta promessa
di classicità che non alle seduzioni efficaci del teatro d'opera di
routine. Per convincersene, basta rendersi conto di quali siano le
due fonti principali, ancorché inconfessate, della storiografia ope-
ristica moderna: da un lato gli storici e teorici settecenteschi della
letteratura italiana; e dall'altro Richard Wagner.
Sono i letterati italiani del Settecento - Gio. Mario Crescim-
beni nell'Istoria e Bellezza della volgar poesia (1698 e 1700), Ludo-
vico Antonio Muratori nella Perfetta poesia italiana (1706; cfr. vol.
VI, Lettura n. J), Pier Jacopo Martello nel dialogo Della tragedia
antica e moderna (1714-15), Francesco Saverio Quadrio nella Sto-
ria e ragione d'ogni poesia (1744), Girolamo Tiraboschi nella Storia
della letteratura italiana (1772-93), e altri ancora - i primi che, scri-
vendo la storia della letteratura e perciò anche la storia del teatro
nazionale, riflettono sulle vicende storiche ed artistiche del teatro
musicale. Esterrefatti, essi assistono però quotidianamente al suc-
cesso imperante di una forma di spettacolo ibrida, letteralmente
abnorme, e non se ne capacitano. Nulla infatti potrà riscattare este-
ticamente la miscela di sublimità e scurrilità, l'ignoranza o il dispre-
gio delle regole drammatiche, la disinvoltura nell'applicazione delle
leggi della verosimiglianza, l'arbitrio di musicisti e cantanti ai danni
della poesia, la suntuosità scenografica intrecciata al disimpegno
etico del teatro d'opera degli anni intorno al 1700, agli occhi di
chi, come i letterati e gli intellettuali italiani militanti per la primJ
~lta in un'organizzazione nazionale della cultura (l'Accademia
d'Arcadia, ramificata in ogni città e provincia italiana), è intento
a laboriosamente erigere il castello concettuale e morale della sto-
r.i!l. letteraria della nazione. Sgomenti dell'attualità, costoro guar-
9ano ai testi e ai testimoni degli albori del melodramma per com-
Qli.surare su quegli incunabuli la degradazione che il cattivo gusto
di un secolo da loro deprecatissimo - il Seicento - ha inflitto alla let-
teratura drammatica. Alla musica delle opere seicentesche essi non
badano affatto, e poco, o anzi con fastidio, badano alla musica delle
opere dei giorni loro, giacché proprio al di lei fascino irrazionale
attribuiscono buona parte delle perversità che affliggono il teatro
italiano. (Acutissimo più di ogni altro, Pier Jacopo Martello affida
STORIOGRAFIA DEL TEATRO D'OPERA 181

a un finto Aristotele la difesa, per metà imposturale e per metà


sincera, della musica teatrale: «La sola musica ... contiene il segreto
importantissimo del separar l'anima da ogni umana cura per quello
spazio almeno di tempo in cui le note possono trattenerla, maneg-
giando artificiosamente la consonanza, sia delle voci o degli stru-
menti. Quest'arte dunque ridotta ad una perfezione cosl esqui-
sita in Italia, merita che l'Italia ne faccia il suo più caro e pom-
poso spettacolo, a cui si assidano anche i sovracigli più austeri con
lodevole giovialità; e merita altresì che le forestiere nazioni con-
sentano al dilettarsi di ciò che diletta sì giustamente l'Italia».) La
richiesta d'una rigenerazione del teatro italiano è impellente: i mas-
simalisti, come il Muratori, vorrebbero addirittura che il reperto-
rio si riducesse a poche «nobili e purgate tragedie e commedie, le
quali ogni anno potrebbonsi le stesse rappresentare sul teatro con
onesta e profittevole ricreazione de' cittadini» (preferibilmente
senza musica), e guardano con invidia al grande teatro letterario
francese del Seicento. Altri, più accomodanti, si accontentano dello
stile più purgato che nel dramma per musica introducono Apgsml9
Zeno e poi il Metastasio. Francesco Algarotti, nel Saf!,f,io sopra l'opera
in muslca del 1755, tornerà a cogliere il nodo della questione: la
(classicistica) rigenerazione del teatro in musica è possibile nelle
corti, dove l'autorità del principe non soggiace ai condizionamenti
economici, non nel teatro impresariale corrivo al pessimo gusto
dominante. Algarotti preannunzia il classicismo viennese e pari-
gino dell'epoca gluckiana.
Un secolo dopo, Richard Wagner - il Wagner pubblicista e pro-
pagandista ~i sé medesimo, il Wagner propugnatore di teorie este-
tiche che dissodino il terreno della propagazione europea dei suoi
drammi musicali, il Wagner di Opera e dramma (1851) - alimenta
la storiografia operistica con un concetto polemico seducentissimo
che diventa ben presto in mani altrui un preconcetto storiografico
tenace: «nell'opera moderna il mezzo espressivo, ossia la musica,
è impropriamente eretto a fine, mentre il fine espressivo, ossia il
dramma, è degradato a mero mezzo». Nella prospettiva wagne-
riana (sviluppata dai seguaci), la storia dell'opera in musica è la
storia dei tentativi, sempre ostacolati e mai intieramente riusciti,
di integrare vicendevolmente la musica e il dramma. Il disegno
implicito nella storia dell'opera è la creazione di un teatro che, come
quello greco, sia profondamente radicato nella vita e nella cultura
182 lL TEATRO D'OPERA

del proprio popolo, della propria nazione. _Qi_q\!ella,_~t.<?~i.a e di questo


disegno il Musikdrama ~agneriano è o pare l'ovvio compimento
e coronamento; di tutto ciò che lo precede, si salveranno quegli
episodi che verso una intenzionale integrazione di dramma e musica
erano o parevano orientati (Monteverdi, Gluck, Weber), e si con-
cl~_nnerà il resto (un resto che comprende Lully, Scarlatti, Handel,
il Metastasio, Mozart, Rossini, l'opera romantica italiana, il grand-
opéra, .. .). La mediazione tra le ragioni formali della musica e le
ragioni poetiche del dramma è una mediazione sempre complessa
e problematica: ma di quella mediazione la discontin~ità musi-
cale e drammatica congenita nella struttura dell'opera sei e sette-
centesca, sottoposta al doppio regime del recitativo e dell'aria
(recitativo= azione, aria= rappresentazione dell'affetto),.è la nega-
zione totale. (Anche i letterati italiani del Settecento deplorano
la scissione di recitativo ed aria, ma per ragioni assai diverse, in
primis letterarie: le arie, infatti, con la loro struttura metrica biz-
zarra e mutevole che non trova riscontro in nessun esempio illu-
stre della letteratura italiana precedente ed è perciò stesso sospetta,
sono - complice la musica - la sede dei peggiori eccessi del cattivo
gusto poetico. Basterà l'intervento regolarizzatore e omogeneiz-
zatore del Metastasio - arie d'un solo metro, con preponderanza
statistica netta del settenario, verso lirico ampiamente legittimato
dalla tradizione petrarchistica - per purgare bastevolmente il
dramma per musica. Invece, nella visione wagneriana della que-
stione, l'interruzione purchessia della continuità drammatico-
~ugçalç__~__ sacrileg~, e sotto la sua condanna ricade qualunque aria
drammaticamente non motivata, qualunque recitativo musicalmente
irrilevante. Sovrapporre i principii della storiografia operistica di
ascendenza wagneriana - ossia i principii tuttora tacitamente, incon-
sciamente riconosciuti dalla musicologia storica - ai criteri della
storiografia letteraria italiana di ascendenza settecentesca conduce
inevitabilmente ad aporie critiche tanto più paralizzanti quanto
meno consapevole sarà l'origine storicamente definita degli stru-
menti critici adottati. E il fatto che la contraddizione insanabile
tra le due istanze, quella dei letterati settecenteschi e quella dei
musicologi wagneristi, appaia flagrante proprio nel caso dell'opera
metastasiana - di cui essi non possono non dare valutazioni dia-
metralmente opposte - consente di percepire che esse sono incon-
ciliabili comunque, anche laddove il verdetto sia, come nel caso
STORIOGRAFIA DEL TEATRO D'OPERA 183

dell'opera seicentesca, uniformemente negativo: uniformemente


sì, ma per l'appunto non unanimemente.)
Un'ulteriore consuetudine storiografica - mutuata dalla storia
dell'arte - appanna spesso la visione nitida delle vicende del tea-
tro d'opera nel Seicento, e va brevemente menzionata: la suddivi-
sione in "scuole" diverse, ciascuna dominante in un diverso periodo.
Ali' opera "fiorentina" degli albori subentrerebbe l'opera "romana"
intorno al 1630-40, poi l'opera "veneziana", infine (nel Settecento)
l'opera "napoletana" Il concetto stesso di scuola - che implica
una trasmissione diretta di competenza da maestro ad allievo -
è senz'altro valido per la pittura o, in musica, per la polifonia vocale
o per il canto solistico (cfr. § 10), ma si rivela inadeguato e fuor-
viante di fronte a produzioni artistiche economicamente assai più
complesse e basate sulla divisione del lavoro, come l'architettura
o, -a maggior ragione, l'opera in musica. Non l'apprendimento
dell'arte, e quindi degli strumenti stilistici e formali, all'interno
di una scuola bensl l'adeguamento alle esigenze del mercato e
l'inserimento in un organismo produttivo sarà determinante per
la formazione del musicista di teatro. D'altra parte v'è un'ampia
circolazione di mano d'opera musicale tra teatri di varie città, e
la diffusione del repertorio si svolge su scala nazionale. Quindi legit-
timo, anzi necessario, sarà parlare di centri di produzione operi-
stici diversi, ozioso o ingannevole parlare di "scuole" operistiche
diverse e riconoscer loro caratteristiche stilistiche distinte, corri-
spondenti, oltretutto, a fasi successive (e non simultanee) dello
sviluppo del genere. (Ne consegue la "necessità" di ricorrere ad
espedienti critici d'emergenza come quello di escogitare una "se-
conda scuola operistica romana" per dar conto del fervore produt-
tivo d'un centro teatrale in un periodo diverso da quello che la
categorizzazione per "scuole" gli aveva assegnato.)
La questione fondamentale che va posta all'inizio di qualsiasi
indagine storiografica è: di quali fonti disponiamo? perché di que-
ste e non di altre? chi le ha prodotte, per chi e a qual fine? che
senso ebbero per chi le produsse e che senso assumono per noi?
a quali domande possono esse dare risposte attendibili e a quali
no? Era necessario chiarire preventivamente gli equivoci procu-
rati alla storiografia operistica moderna dall'adozione inconsape-
vole e irriflessa di due "fonti" illustri ma indirette e non disinte-
ressate - i letterati italiani del Settecento da un lato, la musicologia
184 lL TEATRO D'OPERA

di impronta wagneriana dall'altro - prima di procedere all'esame


sommario delle vicende del teatro d'opera italiano ed europeo
del Seicento e delle fonti dirette che consentono di tracciarne la
storia.

20 • L'OPERA PRIMA DEL 1637

Il percorso che va da "Firenze 1600" a "Venezia 1637" non


è un percorso rettilineo. Il quadro complessivo è eterogeneo, ed
è giusto che sia così: ogni spettacolo di corte ha per sua stessa natura
e funzione la pretesa di essere valutato come evento singolare, e
non come anello di una catena. Ma, nella gran varietà, alcune
costanti si percepiscono.
Le fonti, innanzitutto. Di buona parte degli spettacoli musi-
cali di quest'epoca possediamo la musica a stampa, di pochissimi
il manoscritto. È una circostanza che nella storia dell'opera ita-
liana - una storia che per quasi due secoli passa attraverso le bot-
teghe di copisteria su commissione - non si verificherà più prima
dell'Ottocento. Si sa che esemplari di queste partiture a stampa
circolarono: essi servirono alla propagazione di uno stile, di un sog-
getto, dell'idea stessa dello spettacolo operistico; non servirono
invece quasi mai, da soli, alla riproduzione altrove di quegli spet-
tacoli. (Il caso della Galatea di Loreto Vittori, pubblicata a Roma
nel 1639 senza mai esservi stata rappresentata e inscenata poi pri-
vatamente a Napoli nel 1644, è anomalo.) Sono raristlmi comun-
que i casi di ripresa: e in quei rari casi l'emulazione principesca
impone quantomeno un aggiornamento sostanziale, come avvenne
per la Dafne mantovana del 1608 (testo di Ottavio Rinuccini e
musica di Marco da Gagliano), che rappresenta una versione miglio-
rata della pionieristica Dafne rappresentata a Firenze nel 1598 con
musiche di Jacopo Peri (cfr. vol. IV, § 43). Ogni ripresa autoriz-
zata richiede il concorso di un personale tecnico ed artistico com-
petente - cantanti, musicisti, scenografi, ingegneri teatrali, non-
ché il vero inventore dello spettacolo, che in quest'epoca è ancora
il poeta -, personale che di preferenza sarà quello stesso che pro-
curò la prima mess'in scena (così l'Euridice poté essere data nel
1616 a Bologna soltanto in virtù dell'intervento personale di Rinuc-
cini e Peri).
L'OPERA PRIMA DEL 1637 185

Non di tutte le opere in musica di questi decenni si conserva


però la musica; e pressoché totalmente scomparse (dopo quelle
famose del 1589; cfr. voi. IV, § 41) sono le musiche degli inter-
medi, ossia di quelle brevi ma spettacolosissime azioni sceniche can-
tate e danzate che, inserite tra gli atti d'un dramma vero e proprio
(recitato o, più raramente, cantato), fin dal Cinquecento e per tutta
la prima metà del Seicento furono il genere spettacolare di mag-
gior spicco nelle corti (la toscana in primis), nelle città e nelle acca-
demie d'Italia. Agli intermedi in musica manca l'azione dramma-
tica continuata dell'opera in musica propriamente detta: ma nella
prassi teatrale i due generi convivono in variopinta promiscuità,
e sarebbe talvolta arbitrario voler stabilire il dare e l'avere in ter-
mini di acquisizioni scenotecniche, letterarie e musicali.
Fonti importanti per intendere rettamente il significato delle
prime opere in musica (e degli intermedi) sono - oltre le partiture
e i libretti - le descrizioni che degli spettacoli diedero i contempo-
ranei: descrizioni ufficiali, scritte e pubblièate per incarico dei pro-
motori, e relazioni epistolari o diaristiche date dagli spettatori. Tali
descrizioni - generalmente assai laconiche sul merito specifico della
musica e della mess'in scena, cui tributano perlopiù lodi entusia-
stiche ma vaghe - si riferiscono di solito non tanto al singolo spet-
tacolo quanto al complesso degli eventi celebrativi allestiti per le
grandi occasioni della vita di corte - matrimoni, nascite, trionfi,
visite di sovrani -, di cui la rappresentazione d'un dramma can-
tato è soltanto uno degli ingredienti. In questo senso, la funzione
contestuale delle prime opere in musica - come celebrazione alle-
gorica del sovrano, o ostentazione scenica del suo splendore, all'in-
terno di una serie di altre azioni collettive, cortei, banchetti, riti
religiosi, tornei, balletti, eccetera - assume una valenza cerimo-
niale che i soggetti mitologici, sempre passibili di interpretazioni
allegoriche ed encomiastiche, confermano, e che non è radicalmente
dissimile dal significato cerimoniale delle feste teatrali e coreogra-
fi che (pur così diverse) di cui dà un esempio la Lettura n. 2.
Non di rado, oltre le fonti musicali e le descrizioni, ci sono
pervenute le incisioni delle scenografie. È alle meraviglie della sce-
notecnica e alle illusioni seducenti della prospettiva teatrale che
i committenti affidano gran parte della memorabilità delle prime
opere in musica e degli intermedi. Dei congegni e degli espedienti
tecnici che simulano incendi, allagamenti, voli celesti, magie, appari-
186 !L TEATRO D'OPERA

zioni di mostri e di divinità, mutazioni di scene repentine e stupe-


facenti, inventori e promotori vanno gelosissimi. Ma, di corte in
corte, quei segreti circolano (alcuni trattati, come la Pratica di fabri-
car scene e machine ne' teatri di Nicola Sabbatini, del 1637-38, li
codificano) ed entrano nel repertorio fisso degli inventori teatrali,
quindi nel corredo di convenzioni sceniche che ogni drammaturgo
predisporrà per i propri testi destinati ad essere rappresentati in
musica.
Il luogo teatrale è un luogo ancora indefinito e fluttuante, tal-
volta casuale (una sala adibita a teatro per l'occasione, come nel
caso dell' Oifeo mantovano del 1607, di Alessandro Striggio jr e
Monteverdi), talaltra stabile (come il teatro mediceo degli Uffizi
utilizzato a partire dagli intermedi del 1586), talaltra ancora iper=
determinato (come l'immenso e meraviglioso Teatro Farnese di
Parma, costruito nel 1618 per uno spettacolo che non ebbe luogo
e utilizzato poi una sola volta nel 1628 per uno spettacolo affatto
diverso e però forzatamente concepito in modo tale da sfruttare
gli apparati scenici predisposti dieci anni prima). Se variabile e in-
stabile è la configurazione dei palcoscenici e delle cavee teatrali,
mutevole è anche la collocazione degli strumenti rispetto alla scena.
Le soluzion_i prop9ste sono m9lteplici. Agli occhi dei primi autori
(come Emilio de' Cavalieri), la èoll~cazione ideale degli strumenti
sarebbe dietro il fondale della scena: ma da Il il suono perviene_
JU!µtito agli spettatori, e i cantanti non possono vedere in faccia
i suonatori. Meglio allora porli dentro le quinte, ai lati della scena.
A .Parml! nel 1628 si collocano gli strumenti davanti la scena, ma
I; soluzione viene accolta con riluttanza: pareva che intravedere
le teste dei suonatori all'altezza dei piedi dei personaggi in scena
co~promettesse l'illusione scenica. Soltanto nei teatri d'opera...s.ta-
J;ili~ che al pubblico imporranno di tollerare ben altri compromessi
tra convenzione e verosimiglianza, questa soluzione si imporrà uni-
~--
formemente........ ·-
Della irrisolta necessità di collocare i suonatori vicÌ-
nissimo alla scena ma in luogo occulto agli spettatori il grande spet-
tacolo di corte cerca semmai di fare scenografica virtù: cosl, nelle
Nozze degli dèi rappresentate a Firenze nel 163 7 (il colossale spetta-
colo operistico che, celebrando le nozze del granduca Ferdinando II,
poco propenso al teatro, con la bigotta Vittoria della Rovere, cele-
brava anche la fine irrimediabile della supremazia fiorentina in que-
ste cose), gli strumenti erano collocati - pare - in due gruppi die-
L'OPERA PRIMA DEL 1637 187

tro due paratie posticce ai lati della scena (che era poi il cortile
di Palazzo Pitti); nel finale coreografico dell'opera le due paratie
cadevano, in modo tale che sulle popolosissime nubi di una « scena
di tutto cielo» comparissero, oltre le divinità canore, anche due
celestiali concenti di strumenti. '
In realtà, l'apparizione scenica degli stru.menti nell'apoteosi
finale delle Nozze degli dèi è soltanto la conseguenza estrema ma
non impropria di una concezione delle sonorità· strumentali che è
spettacolare e non orchestrale, una concezione che discende dagli
intermedi del Cinquecento (e di cui danno testimonianza verbale
le descrizioni coeve, altrimenti sempre cosl laconiche intorno ai
particolari dell'allestimento musicale). Gli strumenti - i colori stru-
mentali - vi vengono utilizzati come attributi sonori di determi-
nati personaggi, di determinate situazioni; lo stesso sostegno "neu-
tro" del basso continuo può assumere abiti sonori cangianti,
mediapte una accorta selezione degli strumenti (violoni cembali
liuti organi arpe chitarroni eccetera; già il Cavalieri consiglia di
«mutare stromenti conforme all'affetto del recitante», senza però
specificare come, cfr. voi. IV, Lettura n. 17). Il caso più eloquente
è quello della partitura dell'O,feo monteverdiano, che specHi~a
mediante didascalie la distribuzione strumentale adottata nel 1607:
le scene pastorali sono connotate dalle sonorità giulive dei flauti
e flautini, le scene infernali dai timbri cupi dei tromboni e del regale,
i balli dai violini piccoli alla francese, e via dicendo; la grande invo-
cazione in terza rima del citaredo Orfeo (atto III) è intramezzata
di virtuosistici ritornelli di violini, cornetti, arpe. Un impiego,
insomma, "naturalistico" delle sonorità e delle tecniche strumen-
tali, associate in presa diretta a quel che lo spettatore vede fi per
lì sul palcoscenico. ·
I soggetti drammatici predominanti sono mitologici, ricavati
perlopiù da Ovidio: il mito di Dafne (Firenze, 1598, e Mantova,
1608), il mito di Orfeo (l'Euridice fiorentina del 1600, poi Man-
tova, 1607, l'O,feo dolente di G. Chiabrera e D. Belli a Firenze
nel 1616, la Morte d'O,feo musicata da S. Landi nel 1619), quello
di Cefalo e Aurora (il Rapimento di Cefalo del Chiabrera e del Cac-
cini a Firenze nel 1600, l'Aurora ingannata di R. Campeggi e G.
Giacobbi a Bologna nel 1608), quello di Narciso (il dramma omo-
nimo di O. Rinuccini non fu però mai rappresentato), di Andro-
meda (Bologna, 1610: R. Campeggi - G. Giacobbi; Firenze, 1618:
188 IL TEATRO D'OPERA

J. Cicognini - D. Belli; Mantova 1620: E. Marigliani - C. Monte-


verdi), del ratto di Proserpina (Casale, 1611: E. Marigliani
G. C. Monteverdi; Bologna, 1613: R. Campeggi - G. Giacobbi;
Venezia, 1630: G. Strozzi C. Monteverdi; Roma, 1645: P.
Colonna - V. Mazzocchi?), di Aci e Galatea (Mantova, 1617: G.
Chiabrera - S. Orlandi), di Aretusa (Roma, 1620: O. Corsini - F.
Vitali), di Adone (Roma, 1626: O. Tronsarelli D. Mazzocchi;
l'Adone di J. Cicognini e J. Peri, già composto nel 1611, non fu
mai rappresentato), di Flora (Firenze, 1628: A. Salvadori - Marco da
Gagliano), di Diana (Roma, 1629: G. F. Parisani- G. Cornacchioli),
di Fetonte (Roma, 1630: O. Tronsarelli- J. H. Kapsberger), coprono
la quasi totalità del repertorio. Per la verità, flagrante è la con-
traddizione tra la predominanza di questi miti naturali e metamor-
fici, di provenienza ovidiana, e la dichiarata pretesa di ripristinare
in musica il teatro tragico dell'antichità. Mancano del tutto i miti
eroici del teatro greco di Eschilo, Sofocle ed Euripide, del teatro
latino di Seneca, mancano Edipo Elettra Oreste Alcesti Antigone
Ifigenia Medea Ercole ... La contraddizione è palese nel prologp
stesso dell'Euridice rinucciniana, cantato paradossalmente proprio
dalla Tragedia in persona, che dichiara però di abdicare alle «meste
e lagrimose scene» e si propone di destare «nei cor più dolci affetti»
(infatti l'Euridice, in deroga ai modelli classici, instaura la consue-
tudine del lieto fine, una convenzione che in tutto il Seicento ita-
liano tollererà scarsissime eccezioni). Il titolo di gran lunga Jilii.
comune per tutte queste prime opere è quello di «favola», «favola
pastorale», <<favola boschereccia»: ma "favola" e "mito" sono, all'e.-
poca, perfetti.sinonimi. È come se nell'atto di rigenerare le facoltà
patopoietiche della musica, nel momento stesso della creazione di
un linguaggio musicale capace di rappresentare e muovere gli affetti,
la fondazione del nuovo genere musicale e teatrale venisse collo-
cata non sotto la tutela della catarsi tragica dei miti eroici e sacri-
ficali (di fronte allo sgomento dei quali s' atterrisce la lingua non-
ché il canto), bensl nel territorio incantato e propiziatorio di una
mitologia metamorfica e originaria. La frequenza stessa del mito
di Orfeo - che con la potenza del canto ammansisce le belve __ç
vince la morte-, l'importanza originaria del mito apollineo di Dafne
- legato alla nascita dell'alloro, attributo .wegetale della gioria politica
ma anche della gloria artistica - è indicativa in tal senso. Più spe-
cificamente, l'adozione dei miti ovidiani di trasformazione e della
L'OPERA PRIMA DEL 1637 189

loro ambientazione pastorale ottempera a requisiti estetici che a


chi si accingeva per la prima volta a sostenere con il canto un'in-
tiera azione drammatica parvero vincolanti.
A questo proposito, pochi testimoni coevi sono più eloquenti
dell'anonimo ma provetto estensore d'un trattato manoscritto di
mess'in scena teatrale, Il Corago (ossia colui che «sa prescrivere
tutti quei mezzi e modi che sono necessarii acciò che una azione
drammatica già composta dal poeta sia portata in scena» con ogni
perfezione). Come il Trattato della musica scenica del Doni, il Corago
- scritto poco dopo il 1630 probabilmente da un fiorentino - com-
pendia le esperienze dei primi tre decenni del Seicento e all'opera
in musica dedica molte osservazioni pertinenti. Basti menzionare
qui qualcuno dei problemi artistici che il Corago (diversamente dal
Doni) affronta con piglio prammatico ed esperto.
Massimo difetto nel teatro - in qualunque dei suoi ingredienti
- è il «mancamento di naturalezza», «somma dote del poeta» è
invece «l'invenzione di avenimenti disposti et intrecciati con ricamo
verisimile sul fondo di qualche verità». Logico dunque che siano
i soggetti pastorali (che, come confessa il Doni, «rappresentano
deità, ninfe e pastori di quell'antichissimo secolo nel quale la musica
era naturale e la favella quasi poetica») i più acconci ad essere can-
tati per intiero: a Dafne, Orfeo, Flora, Aretusa, alle divinità d'una
mitica età dell'oro è consentito di dialogare cantando, senza con
ciò soverchiamente strapazzare le leggi della verosimiglianza. «Più
si conforma con il concetto che si ha dei personaggi sopraumani
il parlar in musica che con il concetto e manifesta notizia delli
uomini dozzinali, perché essendo il ragionare armonico più alto,
più maestrevole, più dolce e nobile dell'ordinario parlare, si attri-
buisce per un certo connaturale sentimento ai personaggi che hanno
più del sublime e divino»: lo stesso precetto vale per le personifi-
cazioni e le allegorie (le Virtù, i Vizi), i «patriarchi antichi», gli
angeli e gli abitanti del paradiso, le divinità fluviali e astrali. La
lontananza, spaziale o temporale o ideale, tempera insomma l'in-
verosimiglianza del recitare cantando, anzi conferisce all'eloquenza
di codesti personaggi una tanto maggior nobiltà e magnificenza.
Applicato alle persone storiche e contemporanee, lo stesso princi-
pio appare disdicevole e suscita il riso: che si può però sfruttare
a buon fine. Infatti tutte le suddette limitazioni si riferiscono alle
« azioni gravi», ma « nelle ridicole», dove « sono a proposito le per-
190 lL TE A T R O D ' O PER A

sone più sciocche e che abbino notabile modo di ragionare con


inflessioni plebee», «l'imitazione dei loro modi quanto più si accosta
cantanto al [loro] parlare tanto più riesce giocondo et ammira-
bile»: il canto come caricatura, dunque. Il Corago è perfin dispo-
sto ad ammettere che, con l'andar del tempo, ove si continuino
a coltivare «le rappresentazioni armoniche», il pubblico «s'avez-
~rebbe a gustar ogni cosa rappresentata in musica»: insomma,j
bell'e previsto che la convenzione estetica fondamentale del tea-
tro d'opera - il canto sostituto della recitazione - è destinata a
radicarsi nella coscienza collettiva, e che quel che nel 1600 o nel
1620 sarebbe apparso incongruente (un personaggio storico che si
esprime cantando) di lì a qualche decennio sarebbe apparso paci-
fico. (In lontananza si intravedono i ferrovieri di Offenbach che
nella Vie parisienne cantano in coro l'elenco delle stazioni della
«Ligne de l'Ouest» ... )
Conviene che il poeta tenga presenti certi accorgimenti nell'or-
ditura del dramma destinato ad essere cantato. L'argomento del
dramma « bisogna che ricerchi o ammetta qualche macchina [sce-
nica] di quando in quando se non sempre, o almeno qualche appa-
renza di spelonche, giardini, o altre varietà, [cosl] come di cori,
balli, moresche, abbattimenti» (ossia combattimenti danzati); il che
;i fa per interrompere il «soliloquio musicale», onde non venga
~}wia, e perché ai personaggi sublimi delle opere in musica si addi-
cono le « straordinarie comparenze ». Bisognerà evitare le lunghe
narrazioni, che costringono il musicista a un'eccessiva uniformità:
e, non potendone fare a meno, le si intercalino con interrogazioni
ed esclamazioni del coro, o quantomeno le si variino «di affetti
diversi e di figure [retoriche] varie e tra di loro opposte». Alla stessa
stregua si proceda nei lamenti monologici (cfr. § 23). Tanto meglio
se nel monologo si inserirà «un'aria, ma molto bella», magari di
due o più strofe. Un'aria strofica, in particolare, si addice al pro-
logo che, «dovendosi nel principio cattivare l'animo dello spetta-
tore», vorrà essere particolarmente attraente (nella consuetudine
dei primi decenni, il prologo è un'aria strofica cantata da perso-
naggi ideali - la Musica, Apollo, Ovidio, ... -, composta su quar-.
tine di endecasillabi rimati ABBA). Nell'uso del coro, che è «una
prerogativa particolare» del recitare in musica, è opportuno abb2n·
dare .. Per dare poi all'estro del compositore e alla bravura virtuo-
sistica del cantore l'occasione «di fare quei passaggi e vaghezze
L'OPERA PRIMA DEL 1637 191

dei quali è privo il corrente stile recitativo», sarà opportuno met-


tere in scena «uomini che cantino e non mostrino di recitare»: brani
cantati, canzonette e ariette e scherzi, inseriti come tali nel dia-
logo, brani insomma che anche in un dramma recitato sarebbero
stati cantati. (La convenzione fu tenacissima, come comprovano
la canzonetta di Cherubino e la «Donna è mobile».) «L'elocuzione
nelle materie gravi ... deve essere grande» e sostenuta, ma in musica
conviene « avvertire che i versi siano facili e chiari»: si evitino i
periodi lunghi e circonvoluti, si abbondi nelle rime.
Quanto al metro poetico, esso sarà innanzitutto quello consueto
al teatro tragico e tragicomico cinquecentesco: versi sciolti, ossia
endecasillabi e settenari liberamente concatenati e senza schema
fisso di rime. (I modelli letterari diretti furono da un lato - lo con-
ferma il Doni - la Canace di Sperone Speroni, tragedia mitologica
significativamente ricavata da Ovidio, e come i drammi per musica
ricchissima di settenari e di rime frequenti; dall'altro, le favole pasto-
rali d'invenzione del Tasso e del Guarini, Aminta e Pastor fido,
con i loro intrecci amorosi incrociati e la tessitura discorsiva fatta
per «madrigaletti» molto espressivi e facilmente isolabili dal con-
testo.) Il recitativo dell'opera italiana restò poi per sempre conse-
gnato alla versificazione sciolta. Oltre alla tradizione letteraria
vincolante, fu decisivo il fatto che, di tutti i versi italiani, l' ende-
casillabo e il settenario sono i soli ad avere un'accentuazione
relativamente libera (soltanto l'ultimo accento è fisso sulla decima
e rispettivamente la sesta sillaba), sono cioè i soli a garantire un
tanto di propinquità alla declamazione prosastica. Ma già all'epoca
del Corago è «ragionevolmente permesso e lodevole ... usare varietà
e stravaganze» di metro poetico nei drammi per musica, «per dare
occasione al musico di uscire dall'uniformità». A tal uopo servono
le « canzonette di diverse arie», ossia quelle arie ed ariette strofi-
che su versi misurati (quaternari, quinari, ottonari con le loro
varianti tronche e sdrucciole; il senario compare stabilmente negli
anni Trenta - merito soprattutto del Rospigliosi -; il decasillabo
inaugura verso il 16 70 una cartiera librettistica gloriosa) o su forme
letterarie canoniche (l'ottava rima, la terza rima piana,sdrucciola,
la quartina, la canzone, perfino - eccezionalmente - il sonetto:
tutte forme che però dai drammi per musica scompaiono affatto
dopo il 1650 circa) che avevano gran voga tra i compositori di mono-
die (cfr. § 3). «Gran copia e legiadria di questi metri ha scoperto
192 IL TEATRO D'OPERA

e rinnovato ai nostri tempi il signor Gabriello Chiabrera». È dif-


ficile sopravvalutare l'importanza delle innovazioni metriche del
Chiabrera per l'introduzione dell'aria nel dramma per musica (e,
più in generale, per l'acquisizione di una concezione accentuativa
e dinamica del ritmo musicale), anche se è un'importanza indiretta.
Nei suoi testi teatrali per musica il Chiabrera stesso, infatti, è note-
volmente parco nell'uso di ariette, più di quanto non sia invece
il Rinuccini, ossia il capostipite dei librettisti, che fin dalla Dafne
applica regolarmente i cori in ottonari e quaternari e affida ai per-
sonaggi maggiori ottave e terze rime.
L'integrazione motivata dell'aria - ossia di un corpo anche for-
malmente estraneo ed eterogeneo - nel contesto dialogico e reci-
tativo del dramma è il problema drammaturgico ed estetico che
le norme convenzionali poste dal Corago a tutela della verosimi-
glianza, e con varie modificazioni perpetuate poi dalla consuetu-
dine operistica, cercano di risolvere. Ma d'altra parte proprio l'aria
- ossia la soluzione di volta in volta caratteristica e rappresenhrti-
vamente efficace di un problema formale e drammaturgico pecu-
liare - apre a musicisti e poeti il territorio più propizio all'inven-
zione (a tutto vantaggio dell'uditorio). Certo, l'aria ha dei limiti
congeniti, e il Corago lo sa: mentre lo stile recitativo «verso per
verso, anzi parola per parola asseconda in tutto e per tutto il signi-
ficato della poesia», l'aria «è priva della perfetta imitazione delli
affetti», «perché sebbene un'aria allegra significa l'affetto allegro,
tuttavia non esprime nel particolare ciascun verso e parola nel modo
che si dovrebbe». Assunto un certo tono, un certo andamento, un
certo carattere ritmico e melodico, l'aria (pena la perdita dell'i-
dentità) lo deve mantenere da cima a fondo. (Da un punto di vista
stilistico, il potenziamento e l'affinamento delle facoltà mimeti-
che dell'aria è la questione estetica centrale di cui la storia dell' o-
pera sei-settecentesca è la risposta.) È chiaro che il Corago - come
i poeti e i musicisti e gli spettatori - è fin troppo disposto a tolle-
rare le incongruenze estetiche delle arie, forti di una «grazia e leg-
giadria» che manca invece allo stile recitativo, il quale «genera
tedio», «ha del languido anzichenò» ed è «manchevole di quelli
ornamenti e vaghezze che abbelliscono tanto il cantare» (passaggi,
trilli, gorgheggiamenti). La...promiscuità di uno stile come il recita-
tivo, che si canta senza battuta (onde «mostr-are et imitare il modo
naturale di ragionare»), e di uno stile come quello dell'aria, che
L'OPERA PRIMA DEL 1637 193

è accentuativo, periodico, strofico, melodicamente formalizzato,


- in altre parole, la problematica convivenza di una "prosa" e di
una "poesia" musicali - viene avvertita non già come un ostacolo,
bensì come una risorsa. Il teatro d'opera sei e settecentesco si inca-
richerà di trarne il massimo vantaggio.
Taluni episodi teatrali di questi decenni rivelano che, ove la
funzione di mero intrattenimento dell'opera di corte prevalga su
quella allegorica e celebrativa, il dramma per musica rinunzia di
buon grado all'aura pastorale e mitologica che delle prime opere
di corte era un requisito necessario, e tollera l'estensione verso temi
e soggetti assai vari, dove magari la giustificazione estetica de[recì-
tare cantando è meno stringente, e tanto più disinvolto il ricorso
alle arie. Il più significativo di questi episodi - anche dal punto
di vista istituzionale - è quello che risale all'iniziativa di due grandi
intellettuali toscani in Roma, il pontefice regnante Urbano VIII
(Maffeo Barberini) e il prelato Giulio Rospigliosi (futuro papa çie-
mente IX). I nipoti del papa, insediati nei punti nevralgici della
vita pubblicar.omana, patrocinano a partire dai primi anrii Trenta
una serie di spettacoli operistici di cui il Rospigliosi fornisce i testi
e cura personalmente gli allestimenti. All'origine della serie dovette
esserci il favore enorme incontrato dal Sant'Alessio, prima inizia-
tiva teatrale rospigliosiana (la musica di Stefano Landi fu edita nel
1634). La vicenda edificante di Alessio (che, abbandonati gli agi
e la famiglia il giorno stesso delle nozze per dedicarsi alla preghiera,
ritorna in Roma sotto le spoglie d'un mendicante, assiste al cordo-
glio dei parenti e all'incrollabile fede della Sposa di ritrovare un
giorno l'amato consorte, e, sottoposto alle contrarie esortazioni del
Demonio e d'un Angelo, oscilla angustiato tra l'amore di Dio e
l'amore coniugale ma persevera tuttavia nella determinazione asce-
tica e spira infine beato, tra il compianto dei parenti che lo rico-
noscono soltanto dopo morto) muove con abile economia dram-
matica tutti i registri del patetico nella rappresentazione degli affetti
alterni dei personaggi; il dialogo in canto recitativo (un recitativo
asciutto ma nei punti salienti retoricamente eccitato) è squarciato
dai cori pittorescamente elaborati dei demonii, deg)i angeli, dei
domestici, e dalle buffonerie dei personaggi comici (i paggi, lo stesso
Demonio). Rappresentato nel 1631 e replicato per tre anni, il San-
t'Alessio - vero e proprio «dramma musicale», e non più "favola",
giusta la dicitura rospigliosiana - poté contare sulla vasta fortuna
194 IL TEATRO D'OPERA

che la vita del santo godeva da sempre nella letteratura popolare


e devota. Gli spettacoli prodotti da Barberini e Rospigliosi nel car-
nevale degli anni successivi sono di varia natura, ma anch'essi ricor-
rono a fonti letterarie arcinote o all'agiografia: l'Erminia sul Gior-
dano del 163 3 (la musica di Michelangelo Rossi fu edita nel 163 7)
è ricavata dalla Gerusalemme liberata; nel 1635 e nel 1636 fu alle-
stita la vita dei SS. Didimo e Teodora (musica di autore ignoto);
nel 1637 la «comedia musicale» Chi soffre speri, tratta dal Boccac-
cio (musicata da Virgilio Mazzocchi e Marco Marazzoli, fu ripresa
nel 1639 in un allestimento memorabile che comprendeva un inter-
medio progettato dal Bernini, la Fiera di Far/a, vera e propria mes-
s'in scena di una fiera campagnola); nel 1638 e 1639 fu dato il San
Bonifacio, cantato da ragazzini (Virgilio Mazzocchi); nel 1641 la
Santa Genoinda, ovvero L'innocenza difesa (Virgilio Mazzocchi); nel
1642 Lealtà con valore ossia Il palazzo d'Atlante (Luigi Rossi), rica-
vato dall'Ariosto; nel 164 3 infine un ultimo spettacolo agiogra-
fico (il Santo Eustachio musicato da Virgilio Mazzocchi) prima della
partenza del Rospigliosi per la nunziatura di Spagna (l'anno dopo,
la morte di Urbano VIII sancisce ufficialmente la fine delle atti-
vità teatrali barberiniane).
Nella eterogeneità dei soggetti drammatici di questa prima serie
continua di spettacoli d'opera su base stagionale pare di ricono-
scere una ricerca deliberata di varietà. Le opere barberiniane sono
prive del contesto celebrativo occasionale, dello stimolo allegorico,
della predisposizione cerimoniale delle opere di corte fiorentine
e mantovane: ogni anno a carnevale l'aristocrazia romana e fore-
stiera è invitata ad ammirare gli spettacoli prodotti dal team col-
laudatissimo del Rospigliosi in vari luoghi della città (di preferenza
si utilizzò una specie di hangar adiacente al palazzo Barberini alle
Quattro Fontane, capace di 3500 posti: le panche per gli spetta-
tori vi venivano trasportate di volta in volta da varie chiese di
Roma). Nella regolarità periodica di questo che divenne uno degli
eventi di spicco nella vita pubblica romana sotto Urbano VIII, la
scelta di soggetti disparati preserva allo spettacolo di corte una par-
venza di singolarità che la costanza stessa della consuetudine car-
nevalesca invece smentiva. L'uso che il Rospigliosi fa delle arie nei
suoi drammi è, nella sostanza, coerente con le convenzioni notifi-
cate nel Corago. Ma va da sé che lo stile recitativo, applicato a
un soggetto romanzesco o comico o storico, scende di tono, perde
! TEATRI D'OPERA DI VENEZIA 195

in sublimità. Tanto più risaltano i momenti consegnati al canto


arioso, i lamenti dei protagonisti, le ariette comiche dei personaggi
servili. Prevale la canzonetta cantata come tale: e in questa specie
i musicisti barberiniani danno prova di gran disinvoltura, con l' ado-
zione di formule strumentali e canore danzerecce, anche di estra-
zione bassa e popolare. Bandita l'aura pastorale che tutto e tutti
avvolgeva nel canto, si dà piena licenza a ciascun personaggio di
cantare secondo il rango che gli compete, in tono affettuoso ed
espressivo o scherzoso e disinvolto, purché assuma - per così dire
- la piena responsabilità del proprio canto.

21 • I TEATRI D'OPERA DI VENEZIA

Le spese - ingentissime - per allestire le opere in musica del


Rospigliosi andavano a gravare integralmente sul bilancio della fami-
glia Barberini. Oltre a dare una pubblica dimostrazione di splen-
dore e liberalità, mettere in scena un'opera voleva dire dar lavoro
a una schiera sterminata di artigiani e fornitori di mercanzie (car-
pentieri, pittori, apparatori, sarti, parrucchieri, rigattieri, cerai, copi-
sti, eccetera) che del lusso della classe dominante romana vivevano
(sarà un caso che nella Fiera di Faifa, l'intermedio berniniano del
Chi soffre speri del 1639, le sole parole cantate in coro da tutti i
venditori siano grida come «venga qua co' suoi quattrini», «sù,
signori, moneta, moneta», «bon mercato e non credenza»?). Agli
artisti - che tutti, cantanti o compositori o scenografi, erano dipen-
de~ti di famiglie o istituzioni romane - spettavano invece doni in
natura: guanti, monili, argenterie.
A Venezia nel carnevale del 1637 una compagnia di musicisti -
- mista di cantanti romani (che nel 1636 a Padova avevano rap-
presentato in musica un torneo scenico, l' Ermiona, ideato dal nobile
Pio Enea degli Obizzi) e di cantanti presi a prestito dalla cappella
di S. Marco - affitta il Teatro di S. Cassiano (un teatro per la com-
media dell'arte) e vi rappresenta l'Andromeda, dramma di Bene-
detto Ferrati e musica di Francesco Manelli, i due capi della com-
pagnia. Il libretto contiene un tributo «a gloria de' signori musici
ch'al numero di sei (coll'autore collegati) hanno con gran magnifi-
cenza ed esquisitezza a tutte loro spese, e di qualche considera-
zione, rappres~ntata l'Andromeda». L'anno dopo, gli stessi danno
196 IL TE A T R O D ' O PER A

la Maga fulminata: l'autore «ha potuto del suo e con quello di cin-
que soli musici compagni, con spesa non più di duemila scudi, rapir
gli animi agli ascoltanti»; «operazioni simili a' principi costano infi-
nito danaro». I musicisti - anche il librettista Ferrari, composi-
tore e virtuoso di tiorba, lo era - si consorziano e producono in
proprio lo spettacolo. Nel 1639 Ferrari e Manelli passano al Tea-
tro SS. Giovanni e Paolo, una vecchia sala di commedie riattata
in fretta e furia dalla famiglia Grimani per destinarla all'opera in
musica. In concorrenza, nel S. Cassiano subentra una compagnia
nuova, in buona parte indigena, costituitasi intorno a Francesco
Cavalli: dal punto di vista economico la rappresentazione delle sue
Nozze di Teti e di Peleo è un vero disastro, ma paradossalmente
è anche il debutto di una carriera folgorante di operista che durerà
praticamente senza interruzioni fino al 1666. Fin dalle prime sta-
gioni la storia economica del teatro d'opera è una storia di banca-
rotte e di processi per insolvenza, la sua storia artistica una storia
di successi incessanti.
Alla base di questo vitale, fruttuoso paradosso c'è una strut-
tura produttiva singolare, che con una certa approssimazione si può
riassumere in tre livelli d'operazione, tre categorie di operatori.
Innanzitutto ci sono i padroni del teatro: sono le grandi famiglie
patrizie veneziane - Tron Grimani Capello Giustinian eccetera -
che, alla ricerca di un investimento immobiliare sicuro, acquistano
o rimaneggiano gli edifici teatrali senza però intervenire diretta-
mente nella produzione degli spettacoli (gli interventi occulti sono
in realtà frequenti, la concorrenza e la "politica" teatrale riflet-
tono talvolta contrasti e alleanze mutevoli di gruppi ideologico-
economici in seno al patriziato). La gestione dell'impresa teatrale
è affidata poi per un'intiera stagione (da santo Stefano al martedl
g~asso) ~ per una serie di stagioni alla figura di un impresario (che
può anche essere una società di impresari): costui investe il pro-
prio danaro in alcune spese certe, talune fisse per l'intiera stagione
(l'affitto della sala; l'allestimento delle scene; l'arruolamento degli
artisti), talaltre variabili a seconda del numero di rappresentazioni
(l'illuminazione del teatro; i suonatori dell'orchestra; gli operai
addetti alle scene), per ricavarne degli utili preventivabili (l'affitto,
su base annuale, dei palchi) e degli utili impreventivabili, legati
al successo dei singoli spettacoli (i biglietti d'ingresso, che tutti
- anche gli affittuari dei palchi - devono pagare; l'affitto degli scanni
J TEATRI D'OPERA DI VENEZIA 197

per chi sta in platea). Il terzo livello di operatori è quello degli artisti,
compositori cantanti scenografi ballerini costumisti: talvolta essi
intervengono anche finanziariamente nell'impresa, ma ben pr_e~to
si riducono di preferenza al ruolo di professionisti pagati su base
contrattuale per le proprie prestazioni (le quali en.trano a far parte
delle passività del bilancio impresariale). Di uno status a parte gode
il librettista, ossia colui che viene considerato il vero e proprio autore
del dramma per musica: a lui spettano le spese di stampa e gli utili
di vendita del libretto. Quest'economia separata in realtà equivale
a un tànto maggioré cointeressamento al buon andamento dell'im-
presa: né è infrequente il caso di librettisti direttamente coinvolti
nella gestione dei teatri, mentre assai raro (dopo i tentativi dei primi
anni, regolarmente finiti in situazioni debitorie pesanti) è il caso
dei musicisti-impresari. (In questa disparità si riflette anche il
diverso rango sociale di musicisti e librettisti: mentre costoro appar-
tengono al ceto avvocatizio o addirittura al patriziato, il grado mas-
simo detenuto dai compositori d'opera è quello di organista o vice-
)Tiaestro di S. Marco, quando non si tratti di maestri di cappella
assunti da fuori Venezia. Una specie di tacita incompatibilità vieta
invece al massimo funzionario musicale dello Stato, il maestro di
~appella della basilica, di comporre per le scene: le eccezioni - per
esempio Monteverdi - sono pochissime.)
Dei tre livelli di questa struttura economica quello critico è,
ovviamente, quello dell'impresario. Nonostante la copertura occulta
o palese dei proprietari, nonostante l'interesse professionale degli
artisti, il rischio finanziario è suo. Un fattore di relativa stabilità
tutela in condizioni normali i suoi investimenti: la consuetudine
sociale dell'andare a teatro. Il teatro d'opera si radica fermissima-
mente nella vita cittadina e diventa sùbito l'ingrediente dominante
di quell'industria del divertimento collettivo che è il carnevale vene-
ziano. Ma eventi imprevedibili (come la chiusura dei teatri per
ordine q_ello Stato in tempo di guerra, nel 1645) possono causare
la perdita completa dell'investimento; e uno o più insuccessi arti-
stici possono discreditare l'impresa, disincentivare le entrate e com-
promettere quindi a lungo andare la copertura finanziaria. Un ele-
mento di compensazione è dato dall'economia dei palchi (che della
consuetudine sociale sono il requisito essenziale): l'affitto preven-
tivo dei palchi per tutta la stagione serve a procurare una parte
cospicua del capitale liquido da investire nell'allestimento degli spet-
198 lL TEATRO D'OPERA

tacoli. L'economia di quei teatri che, privi di palchi (come fu, a


quanto pare, il Teatro Novissimo, sede delle più mirabolanti inven-
zioni scenotecniche nei primi anni Quaranta), dovessero far conto
soltanto sugli ingressi, soccomberebbe ineluttabilmente anche a un
solo insuccesso artistico (forse anche questo elemento concorse al
fallimento precoce del Novissimo, chiuso dopo cinque sole stagioni).
Dai palchi, ossia dai frequentatori abituali del teatro - e cioè, alla
fin fine, dal patriziato e dai "cittadini" facoltosi, ovverossia dallo
stesso ceto dei proprietari dei teatri-, dipende dunque in misura
decisiva la sopravvivenza dell'impresa: falliscono i singoli impre-
sari, ma non fallisce mai la proprietà, e la perpetuazione del sistema
è assicurata. In realtà il teatro alla veneziana - una platea, con affitto
serale dei posti a sedere; due, tre, quattro e più ranghi di palchetti
affittati a stagione; un biglietto d'ingresso al teatro per tutti - costi-
tuisce un vero e proprio tipo economico-architettonico che, pro-
pagatosi poi per ogni dove in Italia e all'estero, diventa il" teatro
all'italiana" tout court e sopravvive - con mille aggiustamenti ma
senza trasformazioni radicali - fino ad oggi. (Teatri all'italiana gi_
matrice veneziana sono, sebbene settecenteschi, i massimi teatri
t~ttora attivi in Italia: la Scala, il çomunale di Bologna, la Fenice,
il San Carlo, eccetera.) -
Il teatro di tipo veneziano non fu in realtà inventato per l'opera:
gran parte dei teatri d'opera veneziani sono il risultato dell'adat-
tamento di preesistenti teatri dediti alla commedia dell'arte, come
dire alla prima forma moderna di teatro professionale. È significa-
tivo che, giunta a Venezia - ossia in uno Stato repubblicano dove
non v'è corte del monarca e il potere è ramificato in una ammini-
strazione statale che si identifica nel ceto aristocratico-, l'opera
di corte si coniuga con un sistema organizzativo "basso" come quello
dei comici di professione e ne assume tutta la precarietà finanzia-
ria ma anche la mercantile agilità, evidente soprattutto nella con-
correnza tra teatri diversi. La precarietà finanziaria è certamente
maggiore con i costi enormi del teatro d'opera che non nel teatro
povero dei comici dell'arte: ma d'altra parte di molto maggiore è
la sua seduzione, il suo carattere di divertimento di lusso. Un viag-
giatore francese osserva nel 1683 che «i grandi teatri pubblici vene-
ziani sono destinati alle opere che i nobili fanno comporre a loro
spese più per il proprio divertimento che non per trarne un pro-
fitto, giacché il guadagno difficilmente supera la metà dei costi».
I TE A T R I D ' OP E R A DI VENEZIA 199

(L'idea, assai diffusa, che il teatro d'opera veneziano sia un teatro


"popolare" contrapposto all'opera "aristocratica" delle corti, è falsa.
La documentazione disponibile sulla composizione del pubblico è
scarsa, ma inequivoca su un punto: le frange di frequentatori delle
classi inferiori sono, per la struttura economica dell'impresa tea-
trale, irrilevanti.) La concorrenza è serrata: tanto è facile fallire
quanto è facile speculare sul buon successo d'una nuova impresa
in un altro teatro. Non tutti i teatri d'opera aperti a Venezia nel
Seicento (ne fa un elenco l'Ivanovich, cfr. Lettura n. 6) durano più
di qualche stagione. Ma càpita che impresari abili passino da un
teatro piccolo a uno più grande per risanare con i frutti di questo
i debiti contratti in quello. Con contratti pluriennali, essi si assi-
curano nell'interesse dell'impresa le prestazioni dei musicisti, dei
librettisti e degli scenografi più ricercati. Francesco Cavalli lavora
ininterrottamente per il S. Cassiano dal 1639 al 1650 (nel '42 è
coinvolto momentaneamente anche nel S. Moisè), dal 1642 il suo
librettista fisso è l'avvocato Giovanni Faustini; quando questi apre
in proprio il S. Apollinare, Cavalli lo segue e vi produce quattro
opere, ma (morto il Faustini nel 1651) passa poi al SS. Giovanni
e Paolo nel 1653, ritorna al S. Cassiano nel 1659 con l'impresario
Marco Faustini (fratello del defunto librettista), che si è assicu-
rato nel frattempo la collaborazione del librettista Nicolò Minato,
con quest'ultimo passa al S. Salvatore per due opere dopo una sta-
gione al SS. Giovanni e Paolo sempre sotto l'egida del Faustini,
e qui riapproda infine nel 1668 con un'ultima opera che però
- forse per motivi ideologici, connessi al soggetto e al finale tra-
gico - non fu messa in scena e contribul così indirettamente al col-
lasso finanziario dell'impresario Faustini.
Cavalli, per l'entità, la regolarità e la qualità della sua produ-
zione operistica, è la personalità artistica dominante del teatro
d'opera veneziano nei primi 30 anni. A diverso titolo decisiv~-è
il ruolo sostenuto dall'architetto Giacomo Torelli, animatore del-
1' équipe del Novissimo e vero mago della scenografia. Sua è l'in-
venzione di un sistema di quinte scorrevoli che, appaiate e inse-
rite su "canali" (binari) ai lati dello spazio scenico e collegate
mediante dei tiranti a un argano centrale posto sotto il palcosce-
nico, potevano venir sostituite con un solo giro dell'argano. Il cam-
biamento istantaneo della prospettiva scenica operato a vista - fonte
di uno stupore ottico che neppure le meraviglie della scenotecnica
200 IL TEATRO D'OPERA

moderna hanno offuscato - è una risorsa capitale dell'opera impre-


sariale (esso ne riproduce in piccolo il principio produttivo: il mas-
simo dell'effetto e dello sfarzo con il minimo della spesa e dello
sforzo). L'orditura del dramma e della musica (basta un brevissimo
ritornello strumentale per staccare e collegare due sequenze di scene
consecutive, mentre si effettua la mutazione scenica) trae gio-
vamento dalla concatenazione agile delle prospettive consentita
dal sistema torelliano, ben più funzionale e versatile dei palcosce-
nici macchinosi ed effimeri dell'opera di corte. Le scene di un'o-
pera, una volta utilizzate, entrano a far parte della dotazione fissa
del teatro, o diventano proprietà dell'impresario: con gli oppor-
tuni adeguamenti le si riutilizzerà per altre opere nelle stagioni suc-
cessive.
Nel suo complesso, dunque, la struttura produttiva dei teatri
veneziani, apparentemente fragile, si rivela tenace ed espansiva.
Essa provoca cambiamenti radicali nelle aspettative del pubblico
e nelle convenzioni artistiche. La continuità e regolarità stagionale
è non solo un costume sociale, un bisogno collettivo, ma anche un
coefficiente economico vitale per ammortare le ingenti spese ini-
ziali. I contratti pluriennali con musicisti e librettisti assicurano
uno standard qualitativo abbastanza costante. Sul mercato dei can-
tanti ~ige invece la regola del cont~~tto stagionale, e i teatri lot-
tano acçanitamente per mettere insieme il cast più prestigioso, pro-
curando virtuosi e primedonne da tutt'ltalia e perfin da oltralpe.
Proprio nel settore dei cantanti l'inflazione dei costi provocata dal
libero mercato crea gravi difficoltà. Il 50% del budget d'un dramma
per musica veneziano negli anni CÙ-1quanta è assorbito dalle sole
spese musicali, e una primadonna prende il doppio di quanto riceve
Cavalli, che è a sua volta il compositore meglio pagato sulla piazza.
Con l'andare del secolo, la proporzione aumenta a ulteriore van-
taggio dei divi della scena. D'altra parte, una volta sostenute le
spese contrattuali e di allestimento, minimi sono i costi di gestione
- minimo anche l'apparato orchestrale, meno di dieci suonatori-,
e ogni rappresentazione successiva dello spettacolo, anche a sala
semivuota, comporta un beneficio di bilancio. Quindi, se un'opera
di corte suole rappresentarsi una o due o tre volte in tutto e per
tutto, a Venezia un dramma per musica tiene cartellone per 10,
20, 30 sere (e ci sono spettatori che assistono una quindicina di
volte allo stesso spettacolo). Se avrà grande successo (come il Gia·
I TEATRI D'OPERA DI VENEZIA 201

_sone diCavalli o la Dori di Cesti), un dramma per musica potrà


magari venir riallestito in una delle stagioni successive, per rial-
zare !~_sorti d'un'impresa traballante. Ma è l'eccezione. Di norma,
l'offerta è sempre rinnovata: due drammi nuovi per ciascuna sta-
gione e ciascun teatro, prodotti dallo stesso cast, sono la consuetu-
dine. In certi anni, le opere nuove in una sola stagione di ca_roe-
vale sono una dozzina. Inevitabile la saturazione del mercato, il
livellamento dell'offerta per superproduzione, la spirale di una con-
correnza sempre più sofisticata e fatalmente sempre meno diffe-
renziata.
Gli ayyicendamenti del gusto sono veloci (nessuna e>p..e.ta.lleC-
chia può venir riallestita senza adattamenti notevoli nel testo e nella
musica), la" durata" delle opere nella memoria collettiva è esigua.
La tradizione del teatro d'opera, in un mercato cosl dovizioso, è
una tradizione fatta per sostituzione e rotazione, non per accumu-
lazione: nella coscienza del pubblico i drammi per musica di una
stagione vengono letteralmente rimpiazzati dai drammi per musica
nuovi della stagione seguente, che hanno caratteristiche del tutto
affini a quelle dei precedenti e che verranno a loro volta "cancel-
lati" dai drammi per musica della stagione successiva. In una serie
di prodotti sostanzialmente omologhi, il tasso di innovazione e di
obsolescenza - nella forma delle arie, nell'orditura dell'intreccio,
nella singolarità dei soggetti, eccetera - non àltera la sostanziale
vischiosità dell'orizzonte di esperienza e di attesa: la saturazione
è neutralizzata dall'assuefazione. Si richiede insomma sempre qual-
che cosa di nuovo, che però soddisfi nel contempo le stesse aspet-
tative che il vecchio aveva soddisfatto. (Il parallelo con l'industda
cinematografica è scontato, ma calzante.flf grado di conveni"io-
nalità di un teatro soggetto a leggi produttive siffatte è evidente-
mente ~~ai alto (cfr. § 23), ma altissimo è anche il margine di arbi-
trio nell'applkazione di quelle convenzioni. (Significativamente,
per il dramma per musica veneziano non fu mai scritto un trattato
analogo al Corago.) Molto dipende dalla scelta dei soggetti dram-
matici, settore sensibilissimo ai mutamenti del gusto e alle con-
giunture della vita pubblica veneziana. Grosso modo, le tendenze
Più notevoli sono le seguenti.
All'inizio, persevera lo sfruttamento dei temi mitologici colti-
vati anche nelle corti: Andromeda (1637, B. Ferrari - F. Manelli),
Delia (1639, G. Strozzi - F. Manelli), Nozze di Teti e di Peleo (1639,
202 IL TE A T R O D ' O P ERA

O. Persiani - F. Cavalli), Adone (1639, P. Vendramin - F. Manelli),


Amori d'Apollo e di Dafne (1640, G. F. Busenello - F. Cavalli),
Amore innamorato (1642, P. Michiel/ G. B. Fusconi - F. Cavalli),
Virtù de' strali d'Amore (1642, G. Faustini - F. Cavalli), Bellero-
/onte (1642, V. Nolfi - F. Sacrati), Narciso ed Eco immortalati (1642,
O. Persiani - F. Vitali/ M. Marazzoli), Venere gelosa (1643, N. E.
Bartolini - F. Sacrati) sono titoli che parlano da sé. Ma a Venezia
ancor più che a Roma (da dove proviene una parte del pel'.sonale
artistico) la tradizione ovidiana non è più vincolante. Andrebbe
comunque verificato quanto dell'interesse mitologico dei dramma-
turghi veneziani sia in realtà mediato attraverso il poema del
Marino. Del resto anche il mondo romanzesco e cavalleresco di
Tasso e Ariosto fornisce altrettante occasioni alla rappresentazione
di quelle «mutazioni di affetti» di cui vanno ghiotti i compositori,
di quelle mirabilie scenotecniche che incantano il pubblico: basti
citare Armida (1639, B. Ferrari - B. Ferrari), Bradamante (1650,
P. P. Bissari - ?), Medoro (1658, A. Aureli - F. Lucio). Una novità
locale sono invece i soggetti tratti da Omero, da Virgilio, dalla mito-
logia troiana e dal complesso di storie e leggende attinenti alle ori-
gini di Roma. Anche a questa scelta concorsero motivi scenogra-
fici: un Ulisse errante (G. Badoaro - F. Sacrati) come quello alle-
stito da Giacomo Torelli al SS. Giovanni e Paolo nel 1644 dà per
definizione il soggetto più propizio allo sfoggio di vedute sceniche
diversissime, in deroga totale al precetto aristotelico dell'unità di
luogo e di tempo. (I librettisti italiani potevano appellarsi su que-
sto punto all'autorità di Lope de Vega che - in una lettera indiriz-
zata al drammaturgo fiorentino Jacopo Cicognini e pubblicata nel
1633 - raccomandava di ordire «azioni che passino lo spazio non
solo di un giorno, ma anca di molti mesi et anni, acciò si goda degli
accidenti dell'istoria non con la narrativa dell'antefatto, ma con
il dimostrare l'istesse azioni in vari tempi seguite»: la drammatur-
gia del teatro d'opera si fonda sulla rappresentazione attuale, diretta,
immediata degli eventi, non sulla loro evocazione discorsiva come
nel dramma classico.) Ma ad alimentare l'interesse "troiano" con-
corse soprattutto l'ideologia repubblicana: Venezia sarebbe la
reincarnazione moderna della repubblica romana, a sua volta di-
scendente da Troia. Fin dalle Nozze di Teti - dove è inserito un
«giudizio di Paride» apparentemente incongruo - abbondano i rife-
rimenti troiani: del 1640 è il Ritorno di Ulisse in patria (G. Badoa-
I TEATRI D'OPERA DI VENEZIA 203

ro - C. Monteverdi); del 1641 sono le Nozze d'Enea con Lavinia


(? - C. Monteverdi) e la Didone (G. F. Busenello - F. Cavalli), che
dedica l'intero atto primo alla caduta di Troia e soltanto nel secon-
d'atto (che idealmente si svolge anni e anni dopo) raggiunge la pro-
tagonista sulle sponde cartaginesi; nello stesso anno, nella Finta
pazza (G. Strozzi - F. Sacrati) si dichiara espressamente che «Deve
il veneto e 'l roman / non d'Achille greco uscir,/ ma dal buon san-
gue troian» (la vicenda, intessuta di mille ammiccanti gesti ironici,
è quella di Achille in Sciro, uno degli antefatti alla guerra di Troia).
La strada è aperta all'uso arbitrario e inventivo dell'intiero reper-
torio mitologico e storico classico, sempre sull'orlo della trasfigu-
razione carnevalesca, del divertimento sagace e scettico: poco del
Giasone, dell' Alcesti, dell'Ercole greci e latini si nasconde· dietro
il Giasone (1649, G. A. Cicognini - F. Cavalli), l'Antigona delusa
da Alceste (1660, A. Aureli - P. A. Ziani), le Fatiche d'Ercole per
Deianira (1662, idem - idem), che delle fonti sfruttano tutt'al più
l'aura romanzesca, a legittimazione dei più inverosimili tra gli « acci-
denti verisimili» introdotti ad arte dal poeta per arricchir l'intrec-
cio. (Una quarantina d'anni dopo l'Euridice rinucciniana, rron la
Tragedia, bensl la personificazione del Capriccio canta un prologo
significativo: « Il Capriccio son io, di me vedrete / opra su questa
scena/ d'accidenti ripiena/ e d'azioni pria meste e poscia liete».)
Anche l'uso disinvolto del patrimonio classico ha una spie-
gazione ideologica. I librettisti più brillanti degli anni Qua;a~ta
- Giulio Strozzi (padre adottivo di una donna compositrice e
cantante di gran fama, Barbara Strozzi), G. B. Fusconi, Maialino
Bisaccioni, Scipione Errico, Giacomo Badoaro, Giacinto Andrea
Cicognini - sono membri o frequentatori dell'Accademia degli Inco-
gniti, un club di intellettuali libertini che dissimulano sotto l' elo-
gio dell'impostura un acre scetticismo filosofico insofferente di
qualsiasi autorità precostituita (sia essa politica, religiosa, mqrale,
razionale; letterariamente essi si professano seguaci del Marino).
Sembra anzi di capire che siano proprio gli Incogniti a cogliere
meglio di tutti, in Venezia, la portata intellettuale di quella nuova,
attualissima, irregolare forma di intrattenimento che è il dramma per
musica. Incognito è anche il Busenell9, autore del libretto dell' Inco-
ronazione di Poppea, che secondo testimonianze tardive (le fonti
coeve non fanno il nome del musicista) fu messo in musica da Clau-
204 lL TE A T R O D ' OPERA

dio Monteverdi (1643). Solo lo scetticismo pessimistico e l'immo-


r"Jfsmo arguto degli Incogniti può dar conto di certe scene piene
di fantasiosa ma disincantata irrisione: le imprecazioni dei due sol-
dati di guardia sul conto di Nerone e delle sue notturne conquiste
(messi Il subito dopo il monologo iniziale del deuteragonista Ottone,
essi illuminano con sinistro realismo una vicenda che sulla corru-
zione e la scostumatezza si regge: ma hanno anche la funzione di
informare en passant Io spettatore ignaro di circostanze importanti
per la comprensione della vicenda); il diverbio tra Seneca e Nerone
che si rinfacciano in rapida sticomitia e con sillabazione concitata
precetti d'una ragion politica fin troppo degradata; la solennità
vacua di Seneca morente, ridicolizzata dagli stessi discepoli del filo-
sofo in un balletto funebre grottesco e gaudioso; la rappresenta-
zione poco lusinghiera dell'imperatrice Ottavia che ricorre all'a-
buso di potere e al ricatto per indurre Ottone all'uccisione di Pop-
pea; il secondo dialogo d'amore dei protagonisti, dove i «fervori
dell'anima infiammata / trasumanata in estasi amorosa» - "estasi
amorosa" che la musica incarna con flagrante veridicità sensuale -
si rivelano strumenti d'una persuasione omicida; e cosl via.
I'.'-1.~1:1 dura tuttavia a lungo - nella vita intellettuale di Venezia
e nel teatro d'opera - la stagione fervorosa e caustica degli I!!co-
gniti. Per tutta la seconda metà del secolo Venezia è in guerra co~o
il Turco: una estenuante guerra difensiva. L'obiettiva comunanza
di interessi strategici con l'impero si ripercuote fin dai primi anni
Cinquanta sui temi eroici ed imperiali dei drammi per musica. Ales-
sandro vincitor di se stesso (1651, F. Sbarra - A. Cesti), Gli amori
di Alessandro Magno e di Rossane (1651, G. A. Cicognini - F. Lucio),
Scipione Africano (1664), Muzio Scevola (1665), Pompeo Magno
(1666: tutti e tre di N. Minato e F. Cavalli) sono esempi precoci
di un filone di storie antiche e di eroi bellicosi che praticamente
per il resto del secolo non si estingue più. Fermo restando un largo
margine di libertà romanzesca, l'aura della romanità augusta, della
gloria militare persiana e babilonese, della nobiltà d'animo dei con-
dottieri barbarici, della domabile ferocia dei tiranni è d'ora in poi
l'aura dominante nei teatri veneziani (non senza ampie escursioni
nei territori lusinghevoli del «vizio di Venere», almeno in quei
periodi in cui la poli tic a della « briglia sciolta in quelle cose che
direttamente non offendono lo Stato» lo tollera).
LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 205

22 • LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA

La struttura economica ed artistica del teatro d'opera veneziano


si diffonde e si innesta nel giro di pochi anni su tutto il territorio
italiano, e impone durevolmente alla nazione il melodramma come
forma dominante di intrattenimento, anzi come la sola,J.qrma di
produzione culturale di tipo letterario che sia a un tempo stesso
consumata su scala nazionale e accessibile a un pubblico .oan esclu-
sivamente intellettuale. (Non si tratta di riconoscere pari pari al
dramma per musica seicentesco le caratteristiche nazionali-popolari
che Antonio Gramsci, in una nota dei suoi Quaderni del carcere,
attribuisce al melodramma ottocentesco, vero omologo italiano -
per il consumo che se ne fa - del romanzo popolare francese ed
inglese. Basterebbe da sola ad impedirlo la comprovata composi-
zione elitaria del pubblico teatrale. E tuttavia l'origine remota ma
necessaria del fenomeno osservato da Gramsci sta proprio nell'im-
piantazione del teatro d'opera nelle città d'Italia intorno alla metà
del Seicento.) La struttura del teatro d'opera impresariale è sl fun-
zionale alla natura della classe dominante veneziana, ma - a diffe-
renza da qualsiasi altra forma produttiva di musica teatrale coeva
- essa porta in sé la facoltà di adattarsi a condizioni sociali e poli-
tiche anche radicalmente diverse (tutti di tipo impresariale sono
i teatri d'opera di corte alla fine del secolo, con la sola variante
che per essi c'è un sovrano disposto ad assumersi il deficit dell'im-
presa), e tollera, anzi ricerca, la partecipazione delle classi medie
(tanto più di buon grado in quanto tale partecipazione è comun-
que relegata in un ruolo economicamente minoritario). A ben
vedere, una volta bandito l'equivoco di una sua presunta ma dav-
vero improbabile "popolarità", al teatro d'opera nel Seicento va
riconosciuta una condizione di "pubblicità" che ne costituisce la
caratteristica sociale e ideologica saliente (cfr. § 11): pubblicità
attiva, dinamica, nel duplice senso di propaganda (manifestazione
del potere o dell'autorità) e di appartenenza alla sfera della vita
e della cosa pubblica. Varierà di caso in caso, in più o in meno,
il raggio di codesta "pubblicità", non però la natura dell'opera-
zione "pubblicitaria"
Il fenomeno stesso di una forma di produzione e di consumo
culturale pubblica, valevole - in senso geografico e almeno virtual-
206 lL TE A T R O D ' O P E RA

mente anche in senso sociale - per la nazione tutta intiera, può


parere pacifico a cose fatte, entrato com'è nel corpo stesso della
storia culturale dell'Italia moderna. Ma tale fenomeno non cessa
di stupire se appena si pan mente alle condizioni politiche dell'I-
talia di metà Seicento, alle disparità di struttura sociale negli stati
che la componevano. Basta l'elenco dei soli Stati che in un modo
o nell'altro sono toccati dal fenomeno operistico per darsi un'idea
di quanto poco propizie fossero le premesse socio-politiche all'in-
sorgere di una rete teatrale propriamente nazionale come quella
dell'opera in musica. Dal Nord al Sud, essi Stati sono (con le rispet-
tive capitali amministrative e culturali) il ducato di Savoia (Torino),
il governatorato spagnolo di Milano, la repubblica di Genova, la
repubblica di Venezia (che si estende da Bergamo alla Dalmazia),
i ducati di Mantova, di Parma e Piacenza, di Modena e Reggio,
il granducato di Toscana (Firenze, Pisa, Livorno, Siena), il princi-
pato di Massa, la repubblica di Lucca, lo Stato della Chiesa (Roma,
Bologna, Ancona, Ferrara, Ravenna, Pesaro, Macerata), infine i
regni di Napoli e di Sicilia (Palermo, Messina) governati da due
viceré spagnoli.
Chiedere in che modi avvenga la creazione di un "sistema" ope-
ristico su scala nazionale equivale a chiedere quali compromessi
attui l'opera di tipo veneziano con le tradizioni locali preesistenti
- che essa cancella e sostituisce in misura larghissima ma non uni-
formemente: ci sono capitali (come Parma e Modena e Torino) dove
la resistenza della tradizione spettacolare di corte dura tenacemente
fin verso il 16 70 e oltre -; ma ancora di più equivale a chiedere
a quanti usi diversi essi si presti. Non è detto che l'unificazione
del mercato operistico comporti ipso facto un'unificazione dei signi-
ficati che lo spettacolo operistico assume. La stessa opera - poniamo
il Giustino (1683, N. Beregan - G. Legrenzi), la storia del conta-
dino che diventa guerriero, prefetto e infine imperatore di Bisan-
zio-, rappresentata senza cambiare una nota e una virgola prima
a Venezia e poi a Napoli, può anche avere significati assai diversi:
esaltazione degli ideali eroici della difesa della patria nel primo,
glorificazione dell'istituto della monarchia nel secondo caso (il pro-
logo aggiunto per la rappresentazione napoletana in onore del
regnante Carlo II è peraltro di tal fatta da indurre anche il più
refrattario degli spettatori a interpretare in senso filomonarchico
il dramma di Giustino: tale prologo mette infatti in scena una con-
LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 207

tesa tra Nino re d'Assiria, Ciro re di Persia, Alessandro re di Mace-


donia e Cesare Augusto che si contendono il primato della rega-
lità ma si prostrano infine di fronte all'apparizione del sovrano delle
Spagne assiso sopra Europa, Asia, Africa e America e sorvolato
dalla personificazione della Monarchia). È legittimo sospettare inol-
tre che l'unificazione del mercato sia talvolta agevolata da un certo
grado di "indifferenza" nella recezione dello spettacolo d'opera,
da un'appercezione selettiva che bada più alle seduzioni canore e
sceniche e meno ai significati culturali ed ideologici di cui è latore
il dramma: sicché alla fin fine - appiattito su questa linea mini-
mizzante l'orizzonte medio delle aspettative - poco importerebbe
ai fini della diffusione del teatro d'opera la eterogeneità politica
e sociale dell'Italia seicentesca.
Date premesse siffatte, è difficile stabilire il senso preciso che
di volta in volta spetta ai rifacimenti, alle alterazioni, agli aggior-
namenti inflitti al testo e alla musica di taluni drammi per musica
durante le loro peregrinazioni attraverso l'Italia, spesso giustifi-
cati nelle prefazioni dei libretti come necessari adeguamenti « al
costume delle nostre scene» o «all'uso corrente» o all'uso di que-
sta o quella città. Talvolta queste dichiarazioni sono meri pretesti
per nascondere le modifiche determinate da circostanze acciden-
tali (sostituzione di un cantante con un altro, riduzione o amplia-
mento di un ruolo, inserzione o abolizione di scene comiche, sospen-
sione o aggiunta di scene per esigenze o impedimenti scenotecnici,
eccetera); talaltra sono invece l'indizio certo di consuetudini tea-
trali locali che davvero si cristallizzano in un "gusto" condiviso
dal pubblico d'un'intiera città. (È questo il caso verificabile degli
allestimenti veneziani di opere concepite e prodotte fuor di Vene-
zia, un caso che può arrivare anche alla completa riscrittura dello
stesso dramma. Paradigmatico l'Ercole in Tebe, «festa teatrale»
- vera e propria opera di corte vecchia maniera - data a Firenze
nel 1661 per le nozze medicee e ridotta nel 16 71 a Venezia a
dramma per musica regolare, previa riduzione da 5 a 3 atti, soppres-
sione degli intermedi, eliminazione delle macchine sceniche e dei
personaggi celesti, alleggerimento dei recitativi, incremento del nu-
mero delle arie, addomesticamento della vicenda mitologica a un
"realismo civile" approssimativamente più affine alla consuetudine
veneziana, sebbene in alcuni punti fatalmente incompatibile con il
Plot originale.) Certo è che la storia artistica della diffusione del tea-
208 lL T E A T R O D ' O P ERA

tro d'opera in Italia è una storia di drammi per musica che - intatti
o rimaneggiati - dimostrano una singolare versatilità, una forte
predisposizione al soddisfacimento di aspettative molteplici. Di que-
sta storia suppergiù tre sono le fasi: quella iniziale delle compa-
gnie d'opera itineranti; quella centrale dell'istituzione di teatri cit-
tadini stabili e regolari; quella dominata dalla circolazione, a fine
secolo, dei grandi cantanti.
Il sistema stagionale in vigore a Venezia lascia liberi gli artisti
per circa 9 mesi all'anno. Nei due mesi del carnevale, Venezia è
però più che mai una città cosmopolita: nell'afflusso dei forestieri
di ogni specie che a Venezia inseguono affari e piaceri, non man-
cano i potentati, promotori potenziali di iniziative teatrali paral-
lele fuori di Venezia. Il fratello del granduca di Toscana, Mattias
de' Medici, per esempio, nel 1641 assiste a «tutte queste comedie
cantate, che sono al numero di cinque» (sente musiche di Cavalli,
Ferrari, Monteverdi, Sacrati): cinque anni dopo promuove un ten-
tativo di teatro d'opera in Siena (di cui era il governatore), dieci
anni dopo avvia un succoso commercio di cantanti e canterine e
compositori tra Firenze e Venezia. Anche la rete dei letterati affi-
liati all'Accademia degli Incogniti è estesa fuori Venezia e disse-
mina dappertutto la nozione e l'interesse per la drammaturgia dei
librettisti veneziani degli anni Quaranta. (Il dramma per musica
ha beninteso piena cittadinanza, nel 1666, nella prima bibliografia
sistematica del teatro italiano, la Drammaturgia del bibliotecario
vaticano Leone Allacci, anch'egli Incognito.) Ci sono tutte le con-
dizioni perché da Venezia partano, fuori di stagione, gruppi di can-
_tanti chiamati a riprodurre nelle città del Nord d'Italia gli stessi
spettacoli dati a Venezia. A Bologna il gruppo Manelli-Ferrari dà
nel 1640 la Delia e il Ritorno di Ulisse; l'anno dopo, la Maga fulmi-
nata e il Pastor regio (sempre di Ferrari). Sempre Ferrari - pare -
è responsabile dei primi spettacoli genovesi di cui si ha notizia
certa (1645), la solita Delia e l'Egisto di Faustini e Cavalli; idem
a Milano nel 1646 (Pastor regio e Delia). La composizione delle~-
pagnie è variabile, stabile però il repertorio. Oltre le opere citate,
vi compare di frequente La finta pazza di Strozzi e Sacrati. A Pia-
cenza nel 1644 essa viene allestita dagli Accademici Febiarmonici,
a Bologna nel 1647 dagli Accademici Discordati. Di queste stesse
curiose denominazioni si fregiano vari gruppi che danno spet-
tacoli un po' dappertutto in Italia negli anni successivi: sotto
LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 209

l'uno o l'altro nome, ne ritroviamo i componenti a Genova nel 1644,


a Firenze (Finta pazza) e Lucca nel 1645, a Genova, Milano e
Firenze nel 1646 (Egisto), a Genova (Finta pazza), Bologna (Egi-
sto, Finta pazza, Amori d'Apollo e di Dafne) e Milano nel 1647,
ancora a Bologna nel 1648 (La virtù de' strali d'Amore), a Torino
(Finta pazza), Reggio Emilia (Finta pazza), Ferrara (Egisto) e Rimini
(Egisto) nello stesso anno, a Milano nel 1649 (Giasone), a Lucca
nel 1650 (Giasone e altre opere), a Napoli nel 1650 (Didone), 1651
(Egisto, Giasone e l'Incoronazione di Poppea sotto il titolo alterna-
tivo di Nerone) e 1652 (Finta pazza), a Genova nel 1652 (Didone).
L'elenco è certamente lacunoso; intanto Manelli è stato assunto
stabilmente alla corte di Parma, e vi produce opere celebrative di
corte; Ferrari persevera invece, e allestisce qua e là - a Piacenza,
Bologna, Vienna, Modena, dove infine si stabilisce - le sue opere
vecchie e nuove. L'entità del fenomeno Febiarmonici - vero e pro-
prio ricalco operistico del sistema delle troupes itineranti di comici
dell'arte - è ragguardevole. È sintomatico dell'effetto profondo
dei loro spettacoli che in certe città - Napoli Genova Torino Milano
- il nome stesso di Febiarmonici resterà a lungo nell'uso locale per
designare i cantanti d'opera, anche dopo l'istituzione di un teatro
regolare.
Le conseguenze della circolazione dei drammi per musica vene-
ziani nelle vali~ie dei cantanti e degli architetti teatrali girovaghi
sono notevoli. E nell'uso e riuso corrente, nel confronto con la pol-
vere dei palcoscenici e con gli umori delle platee, che l'opera in
musica, con tutte le sue convenzioni rappresentative, cresce e si
perfeziona. Basti citare il caso, davvero istruttivo, dell'Incorona-
zione di Poppea. Di quest'opera sopravvivono due partiture (una
a Venezia, l'altra a Napoli): esse si discostano però dal testo della
rappresentazione originale (Venezia, 1643) e concordano assai
meglio con quello della rappresentazione che i Febiarmonici ne die-
dero a Napoli nel 1651. Uno dei due manoscritti proviene dalla
biblioteca personale di Cavalli e porta i segni palesi dei suoi inter-
venti: è ipotizzabile un suo ruolo di rimaneggiatore della musica
originale per conto dell'una o dell'altra compagnia girovaga di can-
tanti. Viceversa, la partitura superstite della Finta pazza di Sacrati
(nella sua versione "feboarmonica" del 1644 e seguenti) si apre
con due sinfonie che ricompaiono identiche nel finale dell' Incoro-
nazione. Sono tutte circostanze che complicano la matassa inestri-
210 lL TEATRO D'OPERA

cabile dei problemi attributivi, che peraltro culminano nella scena


forse più singolare (e oggidì giustamente famosa) dell'opera: il duetto
d'amore di Nerone e Poppea che conclude le due partiture. Di tale
duetto non fa cenno lo" scenario" a stampa, ch'è l'unica fonte nota
riferibile alla "prima" veneziana del 1643: «Nerone solennemente
assiste alla coronazione di Poppea, la quale a nome del popol~ e
del senato romano vien indiademata da consoli e tribuni; Amor
parimenti cala dal cielo con Venere, Grazie ed Amori, e medesi-
mamente incorona Poppea come dea delle bellezze in terra, e fini-
sce l'opera». Una duplice incoronazione della protagonista, terrena
e celeste. Al posto del coro degli amorini e dell'incoronazione celeste
di Poppea le partiture pongono invece la pura, contagiosa, sensua-
lissima estasi erotica del duetto d'amore: «Pur ti miro. Il Pur ti
godo. Il Pur ti stringo. Il Pur t'annodo. Il ... ». Ebbene, di questo
esplicito, inquietante, accattivante trionfo dell'amor sensuale - un
amor sensuale che per tutto il corso del dramma ha vittoriosamente
bruciato le convenienze politiche e morali, e che nel duetto finale
trova una sigla musicale incandescente - almeno tre diversi musi-
cisti si contendono la paternità. Infatti quel duetto era già stato
cantato prima d'allora a conclusione del Pastor regio di Benedetto
Ferrari, ma non nella versione veneziana del 1640 bensì in quella
bolognese del 1641 (e in altre successive). Lo stesso ubiquo duetto
fu poi cantato nel carnevale del 1647 a Roma, sopra un «carro musi-
cale», Il trionfo della fatica, musicato da Filiberto Laurenzi. Roma-
gnolo di nascita ma romano di formazione, il Laurenzi aveva portato
seco da Roma a Venezia nel 1640 la star più osannata dell'epoca,
quella Anna Renzi - sua allieva di canto - che nell'Incoronazione di
Poppea del 1643 aveva cantato il ruolo della deuteragonista Ottavia.
A Venezia il Laurenzi aveva pure prodotto musiche teatrali, rappre-
sentate nello stesso teatro e nella stessa stagione della Poppea. Avrà
forse avuto mano, il Laurenzi, nell'allestimento veneziano dell' Inco-
ronazione? Avrà frequentato Benedetto Ferrari, o i cantanti (vene-
ziani) del Pastor regio di Bologna? Fu lui, furono loro ad innestare
quel duetto sull'Incoronazione? e quando? a Venezia oppure dopo,
all'epoca della rappresentazione napoletana del 1651 (forse a cura di
Cavalli?), o in occasione di qualche altra rappresentazione interme:
dia dei Febiarmonici di cui abbiam perduto le tracce? E insomma: di
chi sarà la musica dell'incantevole, seducente, misterioso duetto
LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 211

d'amore? Di Monteverdi, l'autore probabile della Poppea del 1643?


oppure - più verosimilmente - di Ferrari, o di Laurenzi, o di
Cavalli? o infine di Sacrati, autore, nella Finta pazza, di un terzet-
tino costruito sopra lo stesso basso? Impossibile deciderlo, allo stato
degli atti: l'ascoltatore moderno si dovrà contentare di subirne tutta
la pervasiva delizia canora ed erotica. Ma farà pure bene a riflet-
tere sulla rilevanza davvero modesta delle questioni attributive nel
campo del teatro d'opera di quest'epoca, nel contesto d'una forma
di produzione che è per natura sua collettiva. E sarà pure giusto
notare che un conto è porre un tal duetto d'amore a suggello d'una
vicenda di pastori innamorati come il Pastor regio, o d'una allego-
ria morale carnevalesca come il Trionfo della fatica, un conto assai
diverso è invece farne l'apoteosi canora d'una vicenda che, come
quella di Poppea e Nerone, è tutta intessuta sull'adulterio, l'infe-
deltà, il suicidio comminato, il travestimento, il tentato omicidio,
il ripudio e l'esilio ai danni degli antagonisti. Poco importa sapere
chi lo ha scritto: averlo collocato fi, in quel punto di questo dramma,
fu un colpo di teatro geniale (dovuto, magari, a qualche anonimo
Feboarmonico).
Alla fortuna dei Febiarmonici fa séguito dopo la metà del secolo
l'istituzione, nelle maggiori città d'Italia, di teatri d'opera impre-
sariali stabili. Un'immagine eloquente dell'entità del fenomeno la
dà, meglio di qualunque altro indizio, la fortuna teatrale di un'o-
pera straordinariamente longeva come il Giasone (Venezia, 1649)
di Cicognini e Cavalli, cosl come essa si lascia documentare prin-
cipalmente sulla base dei libretti. In molti casi la rappresentazione
del Giasone coincide con l'apertura o con i primissimi anni d'un'at-
tività teatrale regolare e duratura; eccone l'elenco: Milano 1649,
Firenze 1650, Lucca 1650, Napoli 1651 (con riprese nel 1652 e
1653), Bologna 1651, Milano ?1652, Piacenza 1655, Palermo 1655,
Livorno 1656-57, Vicenza 1658, Ferrara 1659, Genova 1661,
Ancona 1665, Venezia 1666, ?Siena 1666, ?Brescia 1667, Reggio
nell'Emilia 1668, Roma 1671, Napoli 1672, Bologna 1673, Ber-
gamo ante 1676, Roma 1678 (rappresentazione privata con burat-
tini), Genova 1681 (col titolo Il trionfo d'Amor nelle vendette),
?Genova 1685, Brescia 1690 (Medea in Colco). Trent'anni dopo,
la situazione è analoga: il Vespesiano, dramma inaugurale del Tea-
~~o S. Giovanni Grisostomo (1678) e primo di una serie notevole
1
opere composte da Carlo Pallavicino per lo stesso teatro, fu
212 IL TEATRO D'OPERA

poi dato a Genova (1680 e 1692), di nuovo a Venezia (1680), a


Ferrara (1682 e 1687), Milano (1685), Modena (1685), Parma
(1689), Fabriano (1692 in un allestimento parzialmente importato
da Parma), Livorno (1693), Roma (1693), Crema (1694), Bologna
(1695) e Napoli (1707).
Alla data del Vespesiano l'organizzazione rigorosamente bina-
ria del dramma per musica in recitativi ed arie consente sempre
la sostituzione ad libitum delle arie (testo e musica) senza mano-
missioni per i recitativi, sicché in certi casi l'abito musicale di uno
stesso dramma può anche risultarne profondamente mutato, senza
pregiudizio dell'azione. Nelle opere di metà secolo (come il Gia-
sone) Io stesso principio è già ben presente, ma non in maniera esclu-
siva: non mancano le scene vincolate ad un rapporto aria/recita-
tivo molto più sottile e fluido, e perciò poco manipolabili (così la
celeberrima - nel Seicento - scena dell'incantesimo di Medea, vero
clou del Giasone, spesso imitata e parodiata nelle scene comiche
di altre opere), e destinate a persistere tanto quanto dura in reper-
torio l'opera. Comunque sia: è esagerato immaginare che opere come
queste abbiano poderosamente contribuito a creare un gusto, un
livello d'ascolto musicale medio valevole per tutt'Italia?
Nel panorama complessivo emergono però anche le caratteri-
stiche specifiche di alcuni centri. A Napoli, per esempio, l'istitu-
zione del teatro d'opera ha un significato politico percepibile. È
il conte d'Onate, il viceré della restaurazione dopo la rivolta del
1647-48, a introdurre i Febiarmonici in un teatro attiguo al palazzo
reale ma aperto al pubblico; sua è l'iniziativa di celebrare in Napoli
la repressione della rivolta antispagnola di Barcellona (1652) con
un dramma veneziano nuovo, Veremonda l'amazzone d'Aragona
(G. Strozzi- F. Cavalli), che è un'allegoria scherzosa sl ma fin troppo
trasparente della supremazia della corona spagnola sulle proprie
province. In ogni caso, fin dagli inizi, l'opera a Napoli è una pub-
blica dimostrazione dell'autorità vicereale indirizzata consapevol-
mente a un duplice destinatario: la corte da un lato, la città dal-
1' altro, ossia ai due ceti sui quali, in antagonismo con l' aristocra-
zia feudale, si regge (fin che si regge) il potere del viceré spagnolo.
La situazione è anche più evidente dopo l'apertura all'opera del
teatro pubblico di S. Bartolomeo (1654):- spesso di un'unica opera
si dà un duplice allestimento, a corte per il viceré e nel teatro pub-
blico per la città; a fine secolo l'interessamento costante del potere
) LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 213

per il buon andamento del teatro pubblico arriva al punto che un


viceré (il Medinaceli) assume personalmente la gestione del S. Bar-
tolomeo e chiama da Parma l'architetto teatrale Ferdinando Galli
Bibiena per dare al vecchio teatro un assetto scenico modernis-
simo. Sotto il Medinaceli si producono in Napoli opere destinate
ad un'enorme fortuna, come Il trionfo di Camilla regina de' Volsci
(1696, S. Stampiglia - G. Bononcini), La caduta de' decemviri (1697,
Stampiglia - A. Scarlatti), La Partenope (1699, Stampiglia - L. Man-
cia): prima d'allora, invece, in un repertorio larghissimamente domi-
nato dalle importazioni veneziane, pochi e decisamente poco for-
tunati fuor di Napoli sono i drammi prodotti in loco. Neanche l'ar-
rivo in Napoli (1683), al seguito d'un viceré già ambasciatore di
Spagna a Roma, di un giovanotto come Alessandro Scarlatti
(1660-1725), che da Roma porta seco una fama precoce di operi-
sta brillante, si ripercuote sensibilmente su una programmazione
teatrale saldamente orientata su Venezia (più che altro a Scarlatti,
prima dell'epoca del Medinaceli, competeva la cura dell'allestimento
musicale delle opere di importazione, compresa la composizione
di arie nuove e scene buffe).
A Firenze il cardinale Gio. Carlo de' Medici, fratello del gran-
duca, cura le iniziative spettacolari della corte. È lui a promuo-
vere l'effimera, lussuosa, fallimentare esperienza del Teatro della
Pergola (1657-61), un teatro di tipo misto tra l'accademico e l'im-
presariale (lo gestisce l'accademia nobiliare degli Immobili) che dà
in tutto e per tutto due grandi opere mitologiche con macchine
(l' Ipermestra, commissionata a Cavalli per l'inaugurazione nel 1654,
e sempre rinviata per difficoltà tecniche fino al 1658; e l'Ercole
in Tebe musicato da Jacopo Melani nel 1661) e una breve serie di
«drammi civili rusticali» che fanno largo, pittoresco uso del ver-
nacolo toscano per i personaggi comici (come il Potestà di Colo-
gno/e di Jacopo Melani): librettista di tutti gli spettacoli della Per-
gola è l'accademico Gio. Andrea Moniglia. Significativamente, però,
accanto a questo tentativo suggestivo ma inane di creare in casa
un teatro d'opera capace di misurarsi con le opere di Venezia, i
Medici patrocinano la più modesta ed efficiente impresa del tea-
tro dell'accademia borghese dei Sorgenti, un teatro a pagamento
che con un certo successo economico dà spettacoli "veneziani" dei
soliti Cavalli, Cesti, Ziani.
A Milano il repertorio del teatro ducale è del tutto veneziano
214 lL TEATRO D'OPERA

(nel 1653 un'opera in prima esecuzione, l'Orione, è in realtà un vec-


chio inedito dramma veneziano di Cavalli). Il tentativo del conte
Vitaliano Borromeo di promuovere un teatrino di villeggiatura sul-
l'Isola Bella, dove dare le opere in musica del segretario del senato
milanese Carlo Maria Maggi - che lavora anche per il Teatro Ducale
come rimaneggiatore dei drammi per musica d'importazione-, non
dura più di qualche anno (1668-73 ca.), ma frutta alcuni dei libretti
più divertiti e sottili dell'intiero secolo. Intessute come sono di
ammiccamenti e allusioni a fatti veridici della vita civile milanese e
della biografia del loro autore, le opere del Maggi non ebbero né
avrebbero potuto avere, fuori di Milano, circolazione alcuna, come
non ne poterono avere le commedie in dialetto (senza musica) che il
Maggi produsse negli anni Novanta per il Collegio dei Nobili. (Il dia-
letto milanese non figura nei suoi drammi musicali, ma compare in
bocca ad alcuni personaggi comici della Farsa musicale scritta nel
1664 da Carlo Righenzi, un cantante comico reduce dalla Pergola e
dai drammi "civili rusticali" del Maniglia, suoi modelli dichiarati.)
Oltre siffatte differenze e specificità tra l'una e l'altra città del
circuito "veneziano", vanno però notificati anche i casi "anomali":
i casi di città che più tardivamente vi aderiscono (sono soprattutto
le capitali ducali come Torino, Parma, Modena, le città universi-
tarie come Padova, Pisa, Pavia, Catania); i casi dove il teatro rego-
lare non attecchisce stabilmente (oltre a molte cittadine di provin-
cia, come Fabriano, Viterbo, Foligno, eccetera, è quanto succede
a Mantova, capitale d'un ducato in grave crisi e tuttavia, parados-
salmente, ricchissimo di grandi virtuosi e virtuose posti sotto la
protezione del duca e attivi nei maggiori teatri italiani); il caso,
infine, di Roma, dove il condizionamento della politica culturale
papale - una politica che cambia ad ogni cambiar di papa, e spesso
cambia in senso antiteatrale - impedisce a lungo l'installazione di
una forma di produzione che, come quella del teatro impresariale,
sopravvive soltanto ove ne sia garantita la continuità. Il tentativo,
artisticamente felice, del Teatro Tordinona - un teatro pubblico
di tipo veneziano patrocinato da Cristina di Svezia e affidato a
un team brillante (l'estroso avventuriero Filippo Acciaiuoli come
impresario, il vecchio Gio. Filippo Apolloni come librettista addetto
a risarcire i drammi d'importazione, i giovani Bernardo Pasquini
e Alessandro Stradella come curatori dell'allestimento musicale) -
regge dal 1671 al 1674, chiude (come tutti i teatri) per l'anno
LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 215

santo, ma nel 1676 non può riaprire per la fiera opposizione di


Innocenzo XI al teatro in genere. Al di fuori di questo episodio,
a Roma ci si interessa poco o nulla del dramma per musica vene-
ziano prima del 1683: in quell'anno la stipulazione della lega santa
antiottomana con l'impero, la Polonia e Venezia colloca tuttavia
Roma e Ven 7zia - due città per tradizione diffidenti l'una, dell'al-
tra - in una bggettiva comunanza di interessi ideologici. E a par-
tire dal 1683 che si allestiscono in Roma opere "veneziane" di pro-
duzione veneziana o viennese, non appena viene a taglio l'ideolo-
gia marziale ed imperiale sottesa ai drammi per musica veneziani
di fine secolo, la loro predisposizione ad essere utilizzati come mani-
festazioni di sovranità ed autorità.
I tipi di opere musicali che, con forzata saltuarietà, vengono
coltivati a Roma fino allora (e, del resto, anche dopo il 1683) sono
assai svariati: ma due categorie - quella dei drammi desunti da com-
medie spagnole coeve e quella delle operine arcadiche - sono pre-
dilette. Contrariamente a quanto taluni affermano, l'influsso diretto
del teatro spagnolo sul dramma per musica italiano (al di là di talune
generiche affinità, come l'uso assai irregolare delle unità di tempo,
spazio e azione, o gli elementi moralistici e pittoreschi, o la mistura
di personaggi "alti" e "bassi") è del tutto trascurabile. Tanto più
spiccano alcune opere romane del secondo Seicento ricavate da ori-
ginali spagnoli. Motore iniziale fu probabilmente - ancora una volta
- Giulio Rospigliosi, che al ritorno dalla nunziatura di Spagna alle-
stisce per i Barberini due commedie musicali (Dal male il bene e
L'armi e gli amori, 1654 e 1656) ricalcate pari pari su due comme-
die spagnole di cappa e spada di Antonio Sigler de Huerta e Juan
Pérez de Montalban. Dopo l'elezione al soglio pontificio - il breve
papato di Clemente IX, 1667-69, fu un enorme incentivo all'atti-
vità teatrale romana-, Rospigliosi fece rappresentare un'altra sua
commedia "spagnola", ma stavolta di argomento edificante: La
comica del cielo, tratta dalla Gran comedia de la Baltasara di Luis
Vélez de Guevara, mette in scena la conversione alla vita pia e
devota di una famosa attrice teatrale spagnola realmente vissuta
(nelle prime scene, sulla scena si vede rappresentata la scena d'un
teatro di comici in procinto di andare in scena, ma la scena sulla
scena resta chiusa per l'improvvisa crisi mistica della protagoni-
sta). Quanto all'assetto musicale di queste commedie (musicate da
Marco Marazzoli e Antonio Maria Abbatini), poche canzonette
216 lL TEATRO D'OPERA

dalla configurazione ritmica pittoresca interrompono lunghissimi


dialoghi recitativi, stesi in uno stile molto "corsivo", che si imma-
ginano recitati (piu che cantati) con una speditezza quasi prosa-
stica. I modelli spagnoli non sono tuttavia limitati alle sole com-
medie. Drammi allegorici e mitologici - come Ni Amor se libra de
amor di Calder6n, recitato in spagnolo (con musiche di scena) all' am-
basciata spagnola di Roma nel 1682 e divenuto poi La Psiche dei
romani Giuseppe De Totis e Alessandro Scarlatti (Napoli, 1683),
o come La caduta del regno dell'Amazzoni dello stesso De Totis e
di Bernardo Pasquini, colossale «festa teatrale» allestita dall'am-
basciatore spagnolo nel teatro del conestabile Filippo Colonna nel
1690, notevole anche per la partecipazione (solitamente vietata in
Roma) di donne canterine e per l'assetto scenografico splendido,
ricavata da Las Amazonas de Scitia di Antonio de Solis y Ribade-
neira - forniscono agli ambienti politicamente ispanofili di Roma
(l'ambasciata, i Colonna) materia per spettacoli musicali memorabili.
Le operine che soltanto per comodità possiamo denominare
"arcadiche" - per via del soggetto preferibilmente pastorale, e per
via della affiliazione (ideale o effettiva) dei loro autori all'Accademia
d'Arcadia (fondata nel 1690) - sono invece opere di pochi perso-
naggi (quattro, cinque, sei), di scarsissime pretese scenografiche (rap-
presentabili anche in un giardino, in un salone), di intreccio avven-
turoso e romanzesco, di ambiente spesso agreste, che i cardinali e i
prìncipi romani allestiscono con modesta spesa nelle sere di carne-
vale, o per la villeggiatura autunnale nei loro dominii suburbani.
Intessute come veri e propri drammi per musica, tali operine respi-
rano un'"aura" pastorale che non ha attinenza veruna con le favole
pastorali dei primordi (dr. § 20), e che è semmai funzionale a quel
processo di "feudalizzazione" delle famiglie pontificali che, trasfe-
ritesi in Roma in virtù della carriera dei loro membri ecclesiastici
nella gerarchia statale, vi prendono materialmente piede mediante
operazioni di espansione fondiaria. (Cospicuo il caso dei Chigi, ban-
chieri senesi che sotto il papato di Alessandro VII acquistano a man
bassa territori suburbani come l' Ariccia: in capo a pochi anni, affi-
data all'architetto papale Bernini la sistemazione dell'intiero borgo,
all' Ariccia si rappresentano opere in musica che fanno esplicito
richiamo al genius loci.) Delle operine carnevalesche di pochi perso-
naggi meritano menzione soprattutto drammetti come Gli equivoci
nel sembiante o L'onestà negli amori, musicati (1679 e 1680) dal gio-
LA DIFFUSIONE DELL'OPERA IN ITALIA 217

vane Scarlatti e destinati ad un'enorme fortuna italiana nei teatri


minori e privati, dal feudo di Mazarino nel Sud della Sicilia (punta
estrema dell'espansione meridionale dell'opera seicentesca) al giar-
dino di casa Altieri a Venezia (unica, e per di più privata, rappre-
sentazione veneziana nel Seicento di un'opera di Scarlatti), in virtù
della loro semplicità di allestimento e del sicuro effetto artistico.
(Cad~cconcia una digressione per sfatare una leggenda che
affiora qua e là nella storiografia operistica: non esiste un"' opera
comica" del Seicento. Esistono opere di soggetto comico, ossia opere
intessute come commedie anziché come drammi. Ma per tutto il
secolo esse non costituiscono una tradizione unitaria, come invece
avverrà nel Settecento. Il Seicento conosce un'unica tradizione ope-
ristica continuata: quella del dramma per musica di tipo veneziano.
Le opere "comiche" sono, rispetto a questa tradizione nazionale e
pubblica, mere varianti cittadine o private del teatro d'opera, varian-
ti volutamente e accentuatamente autoctone in opposizione al co-
smopolitismo delle opere veneziane d'esportazione. Tra di esse non
v'è rapporto alcuno, né esse hanno molto senso rappresentate fuori
della città d'origine. È questo il caso dei drammi toscani del Maniglia
a Firenze, delle commedie di cappa e spada del Rospigliosi a Roma,
dei libretti romanzeschi del Maggi a Milano, della gran parte delle
operine "feudali" dell'aristocrazia romana, delle opere di soggetto
avventuroso prodotte dal maestro di cappella della città di Napoli,
Francesco Provenzale, per essere rappresentate non nel teatro dell'o-
pera ufficiale bensl in allestimenti occasionali promossi dall' aristocra-
zia napoletana. Del resto Napoli, in questioni d'opera comica, inse-
gna: la stessa origine dell'opera comica napoletana nel primo decen-
nio del Settecento - ossia uno degli episodi decisivi per la creazione
di una tradizione di opere comiche che percorre l'intiero Settecen-
to - nasce come iniziativa particolaristica dell'aristocrazia cittadina
in contrapposizione all'opera eroica patrocinata dalla corte.)
Negli ultimi due decenni del secolo la rete dei teatri d'opera,
estesa uniformemente su tutt'Italia, consente e provoca un'ulte-
riore omogeneizzazione del repertorio. Il fenomeno saliente è la
sovranità assoluta dell'aria e, di conseguenza, il ruolo preponde-
rante assunto dai cantanti. Due sintomi eloquenti nella struttura
stessa delle fonti: sempre più spesso i libretti d'opera elencano i
nomi dei cantanti (e dei loro augusti protettori), che prima di allora
raramente venivano menzionati; sempre più spesso la musica d'un
218 !L TEATRO D'OPERA

dramma viene consegnata a manoscritti che non danno la parti-


tura completa bensì le sole arie dell'opera (spesso ridotte alle sole
parti della voce e del basso continuo). Non soltanto l'addobbo musi-
cale d'un dramma si identifica sempre più con la semplice somma
delle sue arie: i manoscritti di questo tipo sono destinati alla ripro-
duzione domestica della musica teatrale, al canto privato delle arie
famose, e in tal modo il loro consumo coincide con il consumo che
si fa delle cantate da camera, ossia quel genere musicale di piccole
dimensioni (a una o poche voci con basso continuo e, talvolta, qual-
che strumento concertato) che, come l'opera, si fonda sull'alter-
nanza di recitativi ed arie e su testi poetici volgari d'invenzione
(monologici o dialogici). Questo non significa già che non inter-
corrano differenze stilistiche anche notevoli tra la musica da tea-
tro e quella delle cantate da camera: per essere destinata a una cer-
chia ristretta, selezionata, raffinata di intenditori, la cantata da
camera punta più sulle sottigliezze compositive che non, come le
arie d'opera, sul grande effetto patetico. Su un palcoscenico tea-
trale, anche le cantate da camera di operisti come Cesti, Maraz-
zoli, Stradella, Scarlatti vanificherebbero nella vastità dell'ambiente
e del pubblico le loro ricercatezze d'invenzione poetica e melodica
e armonica. Ma questo non esclude una sostanziale affinità for-
male e contiguità funzionale tra l'aria d'opera e l'aria di cantata:
né tra i due generi mancano gradi intermedi. Non stupisca, per
esempio, di ritrovare in un dramma per musica di soggetto eroico
come il Trionfo di Camilla del Bononcini una dozzina di arie rica-
vate da una «serenata» bononciniana per quattro personaggi, di
argomento arcadico, cantata a Roma nel 1696.
Veicolo dell'aria d'opera e massima attrazione dello spettacolo
sono i cantanti. (Anche lo splendore architettonico procurato da
scenografi geniali come Ferdinando Galli Bibiena mediante l'in-
troduzione della prospettiva « per angolo», o a fuochi multipli,
potenzia alla fin fine la concentrazione visiva sul personaggio canoro
- che canta stando sul proscenio, al centro del boccascena - e ne
fa l'oggetto d'una visione abbagliata ed abbagliante.) La carriera
teatrale dei più fortunati tra di loro è vorticosa. Un tenore come
Giovanni Buzzoleni - ossia un ruolo vocale che nel Seicento non
è mai protagonistico - canta a Mantova (1682), Milano (1683, 1684,
1686, 1687), Reggio (1684, 1686), Modena (1685, 1690), Crema
(1689), Piacenza (1690, 1700), Venezia (1690, 1691, 1693, 1703),
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. IL LAMENTO 219

Napoli (1697, 1698), Genova (1701): e l'elenco è sicuramente lacu-


noso. Il soprano Margherita Salicola - famosissima tra le cantanti
d'una scuola, quella di Bologna, che è di gran lunga la più prolifica
dell'epoca - canta a Modena (1677), Bologna (1679), Reggio (1679),
Venezia (1680), Mantova (1682), Venezia (1682, 1683), Reggio
(1683), Venezia (1684, 1685); qui la sentì e la vide l'elettore di Sas-
sonia che, sottrattala abusivamente alla protezione del duca di Man-
tova, la assunse stabilmente alla corte di Dresda; si sa che canta a
M.onaco nel 1688; tornata in Italia sotto la protezione dei duchi di
Parma e poi di Modena, canta a Milano (1696), Reggio (1697-99,
1701), Modena (1697, 1698), Torino (1699), Vienna (1699), Pia-
cenza (1700), Venezia (1703-05), Firenze (1710). La fama europea
di una diva come la Salicola è tale che - insieme ad altre due stars
come il castrato Francesco Pistacchi e il compositore Carlo France-
sco Pollarolo - essa viene citata nel testo del Carnaval von Venedig,
opera in musica di Reinhard Keiser (Amburgo, 1707). Si trattava di
una fama non priva di risvolti mondani. Non soltanto il suo "rapi-
mento" a Dresda l'aveva consolidata: un viaggiatore tedesco (Adam
Ebert), che la conobbe nel 1680, dice che «per un ducato di moneta
la si poteva avere, e tanto, insieme a una guantierina di confetture,
bastava anche a far contenti madre, padre e fratellino». Ma è, que-
sto, uno soltanto di dieci, cento casi documentabili d'una condizione
mondana della cantante che preesisteva al teatro d'opera, se già nel
1633 Fulvio Testi poteva scrivere a Roma al duca di Modena: «Se
Vostra Altezza ricerca una perfetta onestà nelle sue cantatrici, non
si volti a questo cielo. Qui le cantatrici si prendono qualche piace-
vole licenza, e moltissime dell'altre donne ancora, che non sanno
cantare, diventano cantatrici in questa parte». Attorno al teatro
d'opera anche questo lato della vita sociale dell'epoca, indubbia-
mente, prospera, e ne alimenta la seduzione.

23 • CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. IL LAMENTO

I cantanti e l'aria, vettori e sede delle peggiori nefandezze este-


tiche agli occhi dei letterati settecenteschi, sono gli artefici e la
fonte della maggior delizia all'orecchio degli spettatori. Di certo,
a partire al più tardi dagli anni Settanta del Sei e suppergiù per
tutto il Settecento, l'aria, isolata e isolabile dal contesto dialogico
220 IL TE A T R O D ' O P ERA

e recitativo, è quel che potremmo chiamare !'"unità semantica"


minima su cui si concentra l'attenzione musicale di autori e pub-
blico. Non soltanto il testo dell'aria - un discorso poetico com-
piuto nel giro di poche immagini verbali, una decina di versi all'in-
circa - comunica un concetto o un affetto unitario: ciascuna aria
ha pure un suo carattere musicale definito e individuale. Impossi-
bile sezionare un'aria nelle sue singole componenti senza ampu-
tarne il significato, senza ridurla a materiale verbale e musicale
inerte, irriconoscibile (in altre parole: alla larga da chi crede di
"descrivere" le arie anatomizzandole in schemi formali del tipo
ABA o ABB', alla larga da una presunta storia dell'opera che si
riduce a mera morfologia della musica d'opera). Vano, dall'altro
lato, ricercare una intenzione deliberata, un carattere percepibile
di unità o unitarietà musicale sul piano del singolo dramma per
musica, sul piano dell'entità composita costituita dalla somma di
tutte le arie e tutti i recitativi d'un'unica opera. Al di là della minore
o maggiore, intenzionale o preterintenzionale persistenza di caratteri
personali nella scrittura, nello stile di ciascun compositore operi-
stico (persistenza che però allora varrà non per una sola bensl per
molte delle sue opere), l'addobbo musicale complessivo di un
dramma per musica segue piuttosto il principio della massima
varietà. Sarà cura del librettista predisporre una successione quanto
più possibile varia e mutevole e multiforme di arie, alle quali il
musicista conferirà una fisionomia melodica e ritmica e composi-
tiva quanto più possibile specifica e differenziata. S'è già detto,
d'altra parte, che ogni aria d'ogni dramma per musica è virtual-
mente sostituibile con un'aria diversa che non sia, per contenuto
e significato, incompatibile con il testo del dramma. L"'unità seman-
tica" complessiva sarà dunque data, in musica, non tanto dalla par-
titura del compositore - che è tutt'al più un'entità bibliografica-
mente rilevante -, quanto semmai dal singolo allestimento di un
dramma per musica, con tutto il corredo delle varianti, delle inter-
polazioni, delle modifiche. Unità dell'aria e unità del dramma per
musica coesistono insomma come categorie indipendenti e incotn·
mensurabili: l'unità della singola aria è l'unità oggettiva di un testo
(poetico e musicale), l'unità del dramma per musica è l'unità empi-
rica di un evento (scenico e drammatico).
Alla successione variata e discontinua delle arie sovrintende un'e-
sigenza distributiva sottile, fatta più per contrasti che per analo-
CONVENZIONI FORMA LI E DRAMMA TU R G IC HE. IL LA MENTO 221

~ie: tocca all'intreccio drammatico giustificarla in maniera convin-


cente. Nella gerarchia dei ruoli, a ogni personaggio di pari rango
spetta infatti di norma un pari numero di arie e un pari grado di
diversità nel loro carattere e affetto (dal punto di vista dello spet-
tatore vale ovviamente il criterio reciproco: numerosità e diver-
sità delle arie d'un ruolo sono l'indice dell'importanza relativa del
personaggio). La" tipologia" delle arie ricavabile dal cumulo delle
testimonianze di molti commentatori settecenteschi (cfr. voi. VI,
t28) - una "tipologia" che insospettisce per la irriducibile etero-
geneità dei suoi criteri, indifferentemente tecnici («aria presta»)
o vocali («di bravura») o affettivi («patetica», «di sdegno») osti-
listici («parlante») o generici («d'espressione») - non rispecchia
certo un sistema drammaturgico o poetico o musicale autentico e
normativo. Ma, prese per quel che esse sono - tentativi empirici
di descrivere il dosaggio, personaggio per personaggio, di arie di
diverso carattere-, quelle testimonianze settecentesche sono vale-
voli pari pari per il dramma per musica del tardo Seicento.
Per la caratterizzazione compositiva dell'aria, più ancora del-
1' assetto melodico conta l'assetto ritmico e metrico, come dire la
sede propria del coniugio tra elocuzione del testo e struttura musi-
cale. Le risorse sono virtualmente illimitate, da un massimo di rego-
larità a un massimo di irregolarità ritmica e metrica. Un'aria come
quella di Giasone che, emerso allora allora dalle molli piume del
letto di Medea, si presenta al pubblico (nell'atto I dell'opera di
Cicognini e Cavalli) stracolmo d'un lascivo torpore sfrutta ad arte
la ipnotica regolarità accentuativa dei senari, cui in musica corri-
sponde un cullante ritmo ternario (e d'una perversa ninna-nanna,
cantata da chi non vorrebbe mai cessare sl dolce sonno, per l' ap-
punto si tratta):
X X X X

De li zie, con- ten - ti,


che !'al - ma be a te,
fer - ma te, fer ma te!
Su que sto mio CO re
deh più non stil la te
le gio ie d'a mo re!
De li zie mie ca re,
fer - ma te - vi qui!
Non so più bra ma re,
mi ba sta CO sl!
222 JL TEATRO D'OPERA

(segue una seconda strofa, schema metrico e musica identici). Nella


perfetta regolarità ritmica (sono accentuate la seconda e la quinta
sillaba di ogni verso, ossia una sillaba ogni tre, mentre la prima
nota/sillaba di ciascuna frase musicale, di ciascun verso, è ,sempre
"in levare"), la voce che letteralmente si ferma in una lunga nota
tenuta sulle parole «fermate, fermate» - gli strumenti tacciono di
colpo per una battuta - è un gesto musicale di semplice ma grande
suggestione. (Questo non significa che al senario competa sempre
e soltanto lo stesso carattere cullante: per il Metastasio la forte
cesura tra la terza e quarta sillaba ne fa talvolta il verso privilegia-
to degli affetti affannosi, come nell'aria dell'Olimpiade «Se cerca, se
. / "L' atn1co
d ice: . d ov "er'-. " , / "L' amico
. m . felice " , / r1spon
. d"1: " morl" »;
per Da Ponte può essere un verso idilliaco o giocoso, «Soave sia
il vento» o «Se a caso madama». In generale: a ciascun tipo di verso
corrisponde sl un numero relativamente limitato di soluzioni rit-
miche tipiche, ma non per questo la loro applicazione affettiva è
rigidamente predeterminabile.) All'estremo opposto, la polimetria
di un'aria come la seguente, che in sei righe mischia cinque metri
diversi (ternario, quinario, settenario tronco; decasillabo, quater-
nario, decasillabo tronco), provoca il compositore - nella fattispe-
cie Domenico Gabrielli, 1688 (Flavio Cuniberto) - a una elocuzione
eccitata, nervosa, palpitante come l'affetto di trepidazione erotica
che possiede in quell'istante il personaggio:

Vedrai
ne' suoi bei rai
diviso il sol scherzar.
In quel seno, in quel labbro, in quel volto,
sta raccolto
tu tt' il bello per farsi adorar.
Vedrai ecc.

La virata ritmica del quarto verso, che introduce la sonorità mar-


tellante di decasillabi e quaternari (accenti fissi su terza, sesta e
nona sillaba, e doppio "levare"), è risarcita dal "da capo" dell'in-
tiera sezione iniziale. L'espediente formale del "da capo" suggella
l'unitarietà dell'aria ed è tanto più funzionale là dove, come qui,
l'atteggiamento antitetico di prima e seconda strofa è immagine
sonora d'un affetto intrinsecamente composito ed ambivalente, con-
fuso. (Per darsi pienamente conto delle implicazioni affettive d'un'a-
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. lL LAMENTO 223

ria occorre tenere sempre presente il contesto dell'intreccio dram-


matico. Nel caso in specie, è con quest'aria che la regina esplicita-
mente esorta l'augusto consorte ad ammirare le bellezze di una vir-
tuosa nobildonna di cui ella stessa è però segretamente invaghita:
l'aria è dunque nel contempo un'implicita dichiarazione - a sé stessa,
e al pubblico - del suo inconfessabile innamoramento. Solo que-
sto giuoco sottile di ammiccamenti spiega la mutevolezza affettiva
i;isita nella struttura metrica d'un testo poetico che, letto ingenua-
f{lente, sembrerebbe contenere un unico, univoco affetto. Col che
si prova che il nesso tra azione drammatica ed aria, lungi dall'es-
sere necessariamente pretestuoso o fragile, è funzionale a una com-
prensione vicendevole corretta.)
Non tutto il teatro d'opera italiano del Seicento è regolato dalla
rigida specializzazione di recitativo e aria, di dialogo musicalmente
consumato e di rappresentazione musicalmente organizzata dell'af-
fetto momentaneo. Anzi, questo regime binario, dominante in
maniera pressoché esclusiva dall'ottavo decennio in là, è a sua volta
l'applicazione estremistica di convenzioni rappresentative e dram-
maturgiche di più lunga data. La convenzione, istituto che repelle
ad ogni estetica retta dagli ideali dell'originalità e dell'autenticità
espressiva, è invece una condizione necessaria e vitale della comu-
nicazione teatrale: in senso proprio, convenzione viene a dire, né
più né meno, tacito accordo stipulato - in questo caso - tra autore
e spettatore, tra scena e platea, un accordo che dà per accettati
e condivisi da ambo i contraenti segni e codici rappresentativi. Per
cogliere il ruolo attivo, dinamico delle convenzioni teatrali occorre
riconoscere i quadri di riferimento culturali, gli "orizzonti d' at-
tesa", le aspettative che il pubblico teatrale porta con sé. (Che il
teatro d'opera producesse un orizzonte d'esperienze e di aspetta-
tive fortemente consuetudinario e ripetitivo, è già stato illustrato
al § 21.)
Prima del sopravvento completo dell'aria, l"' unità semantica"
minima, il segmento significativo minimo su cui si accentra l' at-
tenzione dello spettatore può essere di varia specie. Può essere sl
la singola aria: di arie isolabili sono fornite anche le primissime
opere in musica, e i teorici (come il Corago, cfr. § 20) ne racco-
mandano, a certe condizioni, l'uso. Da sempre si pone all'autore
del dramma il compito di giustificare, di motivare in qualche modo
l'inserzione nel discorso dialogico di quel corpo musicalmente spor-
224 IL TEATRO D'OPERA

gente, quella momentanea sospensione degli eventi scenici che è


l'aria. Ma nel dramma per musica di metà secolo anche il singolo
personaggio, il singolo ruolo può costituire un'entità autonoma-
mente significante. È questo il caso soprattutto dei personaggi
comici. Svincolati dagli accadimenti decisivi dell'azione, subalterni
nella gerarchia degli interlocutori, i personaggi buffi vivono una
vita propria e godono di una buffonesca extraterritorialità. Affi-
dati a cantanti specializzati, sono ubiqui: fu forse il talento istrio-
nico di un unico cantante a far proliferare i gobbi balbuzienti nelle
opere veneziane degli anni 1648-52, Giasone compreso; dall'Ar-
nalta della Poppea fino a fine secolo il personaggio obbligato della
"vecchia" sagace e lasciva fu cantato da tenori esperti nel travesti
caricaturale; un teatro d'alto rango come il S. Giovanni Grisostomo
non rinunziò per questo all'attrazione di un comico di routine
(Tomaso Bovi, attivo ininterrottamente dal 16 78 al 1700) per i
ruoli comici, standardizzati perfin nei nomi (Bleso Lesbo Zelto
Gildo Leno ... ). Il repertorio convenzionale delle gags comiche, la
spicciola moralità delle ariette gnomiche, lo spazio presumibilmente
lasciato all'improvvisazione clownesca collocano questi ruoli in un
orizzonte che è quello, familiare a ogni spettatore d'opera, dei
comici dell'arte, del loro professionismo istrionico risaputo eppure
sempre esilarante. (Furono la specializzazione professionistica dei
ruoli e la fungibilità delle scene buffe, trasferibili a beneplacito
da uno spettacolo all'altro, a provocare, intorno al 1700, lo sgan-
ciamento degli episodi comici dal corpo del dramma per musica,
e non già ragioni di purgazione classicistica, dai letterati settecen-
teschi attribuite invece, per spirito di corpo o per comodo critico,
all'iniziativa deliberata di uno di loro, lo Zeno; cfr. voi. VI, § 27 .)
Anche una sequenza di scene contraddistinta da un'unica sce-
nografia può costituire talvolta un'entità significante. Una carat-
terizzazione scenica suggestiva può prevalere sopra le unità for-
mali musicali e letterarie che la compongono: all'apparizione di un
determinato tipo di scena si scatenano nel pubblico aspettative
drammatiche e musicali convenzionali, lo spettatore già pregusta
i balli di diavoli che popoleranno una scena "infernale", le blandi-
zie vocali di una scena "deliziosa", i monologhi lamentosi di una
"orrida prigione", e così via. Infine, vi sono situazioni drammati-
che convenzionali che costituiscono da sé sole unità significanti
sufficientemente consolidate per essere percepite come entità uni-
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. lL LAMENTO 225

tarie ed autonome: il lamento del (o, più spesso, della) protagoni-


sta, l'invocazione di uno spirito d'oltretomba, la scena d'amore
con duetto, la ninnananna e l'assopimento (con o senza sogno visua-
lizzato), eccetera. Basti esaminare qui un caso solo, quello del
lamento, che (se è lecito ricorrere per un momento a un lessico
teatrale più ottocentesco che seicentesco) è la vera "scena madre"
di tanti drammi per musica. Si vedrà come nella definizione d'una
~ena convenzionale si intersechino e sovrappongano quadri di rife-
·!limento letterari e culturali eterogenei, forme eteroclite di perce-
zione musicale e drammatica.
Conviene partire dall'esame di due composizioni monteverdiane,
simili e dissimili al tempo stesso: il Lamento d'Arianna e il Lamento
della Ninfa. Nell'un caso si tratta di una scena operistica (il vero
clou dell'Arianna data a Mantova nel 1608) che godette però
d'un'immensa fortuna come cantata da camera. Nell'altro caso si
tratta d'una cantata, di un'aria da camera pubblicata in un libro
di madrigali (l'ottavo, 1638), ma «in genere rappresentativo», ossia
in stile teatrale (significativa la prescrizione dell'autore: il pianto
della Ninfa «va cantato a tempo dell'affetto dell'animo, e non a
quello della mano>>). Ambedue, ma a diverso titolo, sono proto-
tipi di una folla di lamenti teatrali seicenteschi. Ambedue sono com-
posti su un testo di Ottavio Rinuccini, ma radicalmente diversa
è la loro origine, la loro configurazione letteraria, la loro struttura
musicale: diverse anche le tradizioni cui appartengono, e le tradi-
zioni che a loro volta creano.
Il successo del lamento d'Arianna fu commovente («non fu pur
una dama che non versasse qualche lagrimetta al suo pianto», dice
il cronista della première) e durevole (ancora a metà Seicento si dice
che «non è stata casa la quale, avendo cimbali o tiorbe in casa,
non avesse il lamento» d'Arianna). Le fonti musicali superstiti ne
raccontano la fortuna. Pubblicato dapprima in una versione madri-
galesca a 5 voci nel sesto libro monteverdiano (1614), nella ver-
sione monodica il lamento apparve a stampa soltanto nel 1623, in
un'edizione che riproduce anche le due «lettere amorose in genere
rappresentativo» del settimo libro. Ma la versione monodica dovette
circolare precocemente in copie manoscritte, tant'è vero che lo
stesso anno 1623 un oscuro organista orvietano ne pubblicava
adespota la musica in una sua antologia di monodie. E infatti molti
tnanoscritti di musiche a voce sola contengono il lamento d'Arianna,
226 IL TE A T R O D ' OPERA

spesso in compagnia di altri lamenti da camera affini. Di data pre-


coce sono: un manoscritto romano (oggi a Venezia), 1614 ca., che
contiene anche un lamento d'Erminia sulle ottave del Tasso; un
manoscritto modenese, 1623 ca.; un manoscritto fiorentino che
contiene anche la musica per alcuni dei versi immediatamente suc-
cessivi al lamento nel libretto della tragedia rinucciniana, e che è
dunque più degli altri prossimo all'originale operistico; un mano-
scritto posseduto da Luigi Rossi (oggi a Londra) e contenente anche
un lamento d'Olimpia (imitazione in versi sciolti di un episodio
ariostesco) incautamente attribuito a Monteverdi da una mano
coeva. Fonti tardive sono: la parafrasi sacra latina pubblicata da
Monteverdi stesso nella Selva morale del 1641 (Pianto della Madonna
sopra il lamento d'Arianna); un Lamento della Maddalena, altra paro-
dia sacra dell'originale, ma in italiano, in un manoscritto di musi-
che per la Settimana santa compilato a Roma negli anni Quaranta
(oggi a Bologna; potrebbe ben trattarsi di quella «querimonia» della
Maddalena di cui Loreto Vittori aveva dato una commovente ese-
cuzione vantata da un cronista romano nel 1645: di sicuro Vittori
incluse un'altra parafrasi poetica del lamento monteverdiano nei
suoi Dialoghi sacri e morali del 1652); infine un diverso Lamento
della Maddalena sopra quel d'Arianna contenuto in un manoscritto
napoletano (oggi a Bologna) posteriore al 1646. (Quest'ultima data
si ricava da un altro lamento contenuto nella stessa raccolta, il
Lamento del re di Tunisi: esso si riferisce a un fatto storico, la con-
versione - pomposamente celebrata dai gesuiti in Palermo nel 1646
- di un principe musulmano al cristianesimo, conversione cui si
riferisce anche un altro e simile Lamento della prencipessa di Tunisi,
parole e musica di Loreto Vittori, edito nel 1649. La tradizione
del lamento da camera di argomento politico prospera a metà secolo:
Luigi Rossi compone prima del 1641 un Lamento della regina di
Svezia per la morte di Gustavo Adolfo, evento cruciale della guerra
dei Trent'anni; di Giacomo Carissimi è un Lamento della regina
Maria di Scozia su parole di Gio. Filippo Apolloni, scritto dopo
il '50, in un'epoca in cui gli eventi cruenti della rivoluzione inglese
riproponevano il tema del regicidio evocato anche nel coevo
Lamento della regina d'Inghilterra; un lamento di Barbara Strozzi
si riferisce all'esecuzione capitale, voluta da Luigi XIII nel 1642,
di un nobile frondista; un anonimo Lamento di Marinetta per la morte
di Masaniello suo marito si riferisce con toni vivacemente caricato-
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. IL I.AMENTO 227

rali alle vicende della rivolta napoletana. Questa lista, incompleta,


basta a documentare la voga mondana del lamento da camera come
modello di poesia per musica su temi d'attualità.)
Che cosa ci dice quest'elencazione delle fonti del lamento
d'Arianna? Due cose: che tale lamento, monologo operistico, cir-
colò come cantata da camera; e che esso ha una forte propensione
a familiarizzare con altri, analoghi lamenti da camera, di cui costi-
µ.iisce l'esempio. Il monologo lamentoso dilaga tra letterati e musi-
-~sti. S'è già visto che l'India componeva lamenti su testi suoi (cfr.
§ 3); Lamento s'intitola una Proserpina gelosa di Gio. Felice San-
ces (1636); lo stesso testo del Rinuccini viene messo in musica da
un Francesco Costa nel 1626; G. B. Marino lo parafrasa in sette-
nari sciolti nel suo idillio Arianna, music~to anch'esso (da Pelle-
grino Possenti nel 1623). Che comunque l'Arianna fosse il proto-
tipo di tutta questa proliferazione lamentosa, risulta dal confronto
stesso con il testo di uno qualunque di essi. Un caso patente è quello
del Lamento d'Olimpia, troppo flagrantemente ricalcato sull'Arianna
(anche nella musica) per poter tollerare l'attribuzione a Monteverdi:

Arianna (RINUCCINI-MONTEVERDI) Olimpia (?-?)

Lasciatemi morire, Voglio, voglio morir, voglio morire!


lasciatemi morire! Vano è il conforto tuo, vana ogni aita,
E che volete voi che mi conforte il martir con la vita
in cosl dura sorte, vedrai cosl finire.
in cosl gran martire? Voglio, voglio morir, voglio morire!
Lasciatemi morire!

O Teseo, o Teseo mio, O Bireno, o Bireno, ahi non poss'io


sì che mio ti vo' dir, che mio pur sei, dirti Bireno mio,
benché t'involi, ahi crudo, agli occhi se per non esser mio le vele sciogli
[. •.] [miei [... ]

Ahi, che non pur risponde! Ma perché, o ciel, invendicato lassi


Ahi, che più d'aspe è sordo a' miei il tradimento indegno,
[lamenti! e tu, del vasto e procelloso regno
O nembi, o turbi, o venti, superbo domator, ché noi sommergi?
sommergetelo voi dentr'a quell'onde! Eolo, ché non commovi i venti alteri,
Correte, orche e balene, perché non li sprigioni,
e de le membra immonde sl che s'affondi entr'al vorace seno
empiete le voragini profonde! il disleale a me crudo Bireno?
Che parlo, ahi! che vaneggio? Ma troppo, ohimè, dure querele
Misera, ohimè, che chieggio? [spargo,
228 IL TEATRO D'OPERA

O Teseo, o Teseo mio, deh ritornate a me, voci serene!


non son, non son quell'io, Bireno, o mio Bireno,
non son quell'io che i feri detti in virtute d'amor, se non il duolo,
[sciolse: le mie giust'ire affreno;
parlò l'affanno mio, parlò il dolore, perdona, ohimè perdona,
parlò la lingua sl, ma non già 'l core. perché altro il cor, altro la lingua
[suona!

Tutti i lamenti citati fin qui sono monologhi recitativi multise-


zionali. Il lamento d'Arianna, capostipite, consta di quattro sezioni,
nelle quali si avvicendano violentemente affetti contrastanti: dispe-
razione mortale, autocommiserazione, supplica all'amante fedifrago,
evocazione nostalgica delle gioie passate, rinfacciamento delle
immantenute promesse, imprecazione di vendetta all'indirizzo del
fuggiasco e - sùbito dopo, con un moto abrupto dell'animo - ester-
refatta costernazione per l'empietà delle proprie parole, pronun-
ziate letteralmente "fuori di sé" («Non son, non son quell'io,
parlò la lingua sì, ma non già 'l core»). Questa stessa successione,
o un'analoga miscela delle stesse passioni, fornisce il materiale let-
terario e compositivo dei lamenti successivi. Ma nell'Arianna ori-
ginale, in teatro, quelle quattro sezioni erano inframezzate, a mo'
di tragedia classica, dagli interventi del coro di pescatori dolenti
che, sulla spiaggia di Nassa, assistono alla disperazione della bella
regina: della musica di questi cori non è rimasta traccia alcuna,
nessuna delle fonti, tutte evidentemente adibite ad uso cameristico,
ne preserva una nota. (Paradossalmente, l'unica musica superstite
per i cori dei pescatori è quella composta, sulle stesse parole del
Rinuccini, da Severo Bonini per un suo Lamento d'Arianna pub-
blicato nel 1613, e dunque prima della primissima edizione del
lamento monteverdiano che, edito senza i cori, ne cancellò perfin
la memoria dall'orizzonte dei contemporanei.)
Tutt'altra è la storia del Lamento della Ninfa. Sempre su testo
del Rinuccini, esso non fu però come l'Arianna frutto della colla-
borazione diretta di poeta e musicista. Tale testo compare (senza
titolo) nell'edizione postuma delle Poesie rinucciniane (1622), un'e-
dizione che Monteverdi sfruttò anche per altri componimenti del-
l'ottavo libro. Ma Monteverdi avrebbe anche potuto desumerlo
da una delle Canzonette a voce sola di G. B. Piazza (1633), o addirit-
tura dagli Scherzi a voce sola di Antonio Brunelli del 1614 o dalle
Villanelle a 1, 2 e 3 voci di Johannes Hieronymus Kapsberger del
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. lL LAMENTO 229

1619. Di una innocente, giocosa canzonetta strofica infatti si tratta


(quattro settenari rimati ABAB e un ritornello, sempre eguale, di
due ottonari a rima baciata): e come tale l'avevano trattata, con
sillabica scioltezza, Brunelli e Piazza. A mo' d'esempio, una strofa:

"Amor", diceva e 'l piè,


mirando il ciel, fermò,
"dove, dov'è la fé
che 'l traditor giurò?"
Miserella, ahi più, no no,
tanto gel soffrir non può.

Di questa banale canzonetta Monteverdi fece una scena canora di


respiro tragico. L'idea, geniale, fu quella di estrapolare dal testo
strofico rinucciniano il discorso diretto (in prima persona) della
Ninfa dal discorso indiretto (in terza persona), e di trattare l'uno
come un lungo, lamentoso monologo (che ignora le cesure strofi-
che) affidato al soprano, l'altro come un "coro" di tre voci maschili
che, sullo sfondo di un ideale palcoscenico sonoro, commiserano
con interiezioni compassionevoli la disperazione della Ninfa abban-
donata. (L'operazione non sarebbe stata possibile senza l'ambiva-
lenza dei settenari, versi adatti sia al testo strofico di un'aria come
quella rinucciniana, sia al testo d'un recitativo in versi sciolti.) La
struttura musicale fu quella d'un'aria formalmente organizzata, non
quella libera di un recitativo: ma d'un'aria sui generis. Un basso
ostinato, un passacaglio (schema melodico-armonico fisso, quat-
tro note discendenti, la-sol-fa-mi), si ripete impassibile per 34 volte:
contro questo sfondo rigido, spoglio, rudimentale, il canto sinuoso,
erratico, smarrito della Ninfa urta, collide, confrica, provoca dis-
sonanze e durezze. Anche musicalmente, dunque, un'opera note-
vole: ma non senza precedenti, se già nel 1633 una Cantada a voce
sola sopra il passacaglia di Gio. Felice Sances (bellissima!) ha proprio
lo stesso basso ostinato, la-sol-fa-mi, proprio lo stesso rapporto di
contraddizione tra rigidità del basso e mobilità della voce, proprio
la stessa ambivalenza metrica nel testo (strofe ariose di settenari
e endecasillabi alternati, ossia di versi omologabili a una declama-
zione "recitativa"; e infatti, poco prima della fine, il basso ostinato
s'interrompe per un momento e lascia posto ad alcune battute
di vero e proprio recitativo, donde la denominazione di "can-
230 IL TEATRO D'OPERA

tata" anziché quella di "aria", che compete soltanto alle composi-


zioni tutte d'un pezzo). A Monteverdi va dunque il merito non
tanto dell'invenzione d'un tipo cosl suggestivo di aria su basso osti-
nato, quanto della sua applicazione a un "lamento" anomalo: un
lamento-aria, diremo per distinguerlo dal lamento-scena dell'Arianna
del 1608, dal lamento-cantata dell'Arianna nell'uso cameristico che
ne fu fatto.
L'efficacia del Lamento della Ninfa fu enorme e immediata. Pub-
blicato un anno dopo l'apertura dei primi teatri d'opera a Vene-
zia, un anno prima del debutto di Cavalli, esso fu la sorgente di
decine di arie-lamento teatrali su basso ostinato. Il prototipo mon-
teverdiano - tetracordo ostinato diatonico in proporzione terna-
ria - si presta a varianti e contaminazioni diverse. L'aria-lamento
di Cassandra nella Didone di Cavalli, per esempio, è in tempo bina-
rio, il basso è cromatico (re-do--do~-si-si~-la), quadruplicato (quat-
tro tetracordi contigui per quattro settenari su un'estensione com-
plessiva di due ottave: re-+ la, sol-+ re, re-+ la, sol-+ re), pro-
lungato (due endecasillabi in recitativo su un tetracordo croma-
tico discendente la-+ mi): ogni nota nell'aria di Cassandra è diversa
dal prototipo monteverdiano, non però il principio costruttivo, non
l'affetto doloroso. Nella stessa opera, Ecuba letteralmente evoca
fuori di sé medesima il proprio stesso spirito:

X X X X

Tre - mu lo spi ri - to,


fle - bi le e lan gui - do,
e- sci ffil su bi - to

Il basso ostinato (tetracordo cromatico discendente, ternario) si


coniuga qui con il ritmo dattilico ostinato dei quinari (anzi, dei
vocaboli) tutti sdruccioli, ritmo che per convenzione si suole appli-
care alle scene di deprecazione oltretombale e di invocazione del-
1' aldilà (famosi gli sdruccioli dell'incantesimo di Medea nel Gia-
sone: «Dell'antro magico/ stridenti cardini/ il varco apritemi...»).
(Il tetracordo discendente, diatonico o cromatico, ostinato o no,
semplice o composito, diventa poi un generico emblema sonoro
di affetti lamentosi: la sua tradizione si ramifica e si diluisce in
brani altissimi come il Cruci/ixus della messa solenne di Bach, come
una ventina di Lieder schubertiani che ne fanno uso, come l'ini-
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. IL LAMENTO 231

zio del Quartetto in re minore K. 421 di Mozart, che non a caso


Momigny nel suo Cours complet d'harmonie - per illustrare le radici
declamatorie della fraseologia musicale - rivestl con le parole di
un suo «lamento di Didone» ... )
Va tuttavia tenuto presente che nelle partiture d'opera di Cavalli
e compagni nessuna delle arie con basso ostinato porta la denomi-
nazione "lamento": si tratta di arie, lamentose sl, ma arie tout court,
e non di "lamenti" La denominazione stessa di "lamento" com-
pare solo in qualche raro caso. In una delle copie manoscritte del
Giasone, per esempio, il grande lamento di Isifile nel III atto (un
lamento tanto efficace da commuovere, oltreché gli spettatori, lo
stesso Giasone, provocandone il ravvedimento e procurando quindi
lo scioglimento del dramma) è designato come tale: ma si tratta
di un monologo multisezionale del tipo del lamento d'Arianna, non
d'una singola aria su basso ostinato. Questo non significa che sarà
scorretto chiamare "lamenti" le arie d'affetto doloroso su basso
ostinato (basterebbe il Lamento della Ninfa ad autorizzarcene): sol-
tanto, sarà indispensabile distinguere sempre tra "lamento" come
scena, come monologo, e "lamento" come aria. La distinzione
risiede nell'eterogeneità dei referenti culturali del termine
"lamento": nell'un caso ci si riferisce a un campo semantico che
è drammaturgico, letterario; nell'altro, a uno che è morfologico-
musicale.
Còlta questa differenza di fondo, occorre rendersi conto che
una scena-lamento (un lamento come quello di Arianna e delle sue
discendenti) viene percepita e riconosciuta come tale per le sue carat-
teristiche drammatiche e letterarie prima ancora che per le sue carat-
teristiche musicali. La scena-lamento è la scena della disperazione,
imprecazione, autocommiserazione dell'eroina; è un monologo riso-
lutivo cantato nel momento di crisi delle vicissitudini del dramma:
è, nell'animo della protagonista, il punto culminante dei conflitti
che la vicenda ha scatenato. Una delle caratteristiche costitutive
- già illustrata qui per il lamento d'Arianna - è l'alternanza rovi-
nosa ed abrupta di stati d'animo opposti, la rappresentazione ecces-
siva della disperazione mediante sfruttamento di stati di coscienza
ed incoscienza estremistici («non amant sed insaniunt mulieres»).
Come Arianna, cosl Ottavia nella Poppea impreca e sùbito si pente
delle proprie imprecazioni:
232 IL TEATRO D'OPERA

Destin, se stai là sù,


Giove, ascoltami tu:
se per punir Nerone
fulmini tu non hai,
d'impotenza t'accuso,
d'ingiustizia t'incolpo!
Ahi, trapasso tropp'oltre, e me ne pento,

(e la musica passa di colpo, senza modulare, in una tonalità remota).


Come Arianna, smarrite e fuor di sé sono Ottavia («che fo, ove
son, che penso?»), Isifile (« oh dio,/ che vaneggio, a chi parlo,
ove mi trovo?») e tutto il folto popolo lamentoso delle eroine sfor-
tunate sui palcoscenici di Venezia e d'Italia. (Come loro, ancora
Eboli, nel Don Carlos verdiano, si congederà dal mondo con un' a-
ria esaltata che oscilla tra bestemmia e fiducia, tra contrizione e
disperazione.) La congerie di invettive, imprecazioni, recrimina-
zioni, compatimenti funge spesso anche da esposizione drammati-
camente necessaria di antefatti utili alla comprensione dell'azione
e altrimenti ignoti allo spettatore: ma soprattutto essa si cristal-
lizza in un comportamento scenico e vocale individuato proprio
nella sua debordanza, nelle sue mutazioni affettive scoscese. (È
forse anomalo ma non illegittimo definire letterariamente e com-
positivamente una forma drammatico-musicale più per le sue arti-
colazioni, anzi per le sue deliberate disarticolazioni, che per la con-
formazione verbale e musicale del suo testo.) Può però accadere,
e difatti accade nelle opere di Cavalli e dei suoi contemporanei,
che una (e una soltanto) delle molte sezioni di cui consiste una scena-
lamento venga composta come un'aria-lamento, con o senza basso
ostinato. Anzi, con il crescere dell'importanza dell'aria d'opera la
tendenza è al predominio della sezione ariosa sopra le sezioni reci-
tative del lamento-scena (il processo è palese nelle varianti inflitte
ai lamenti di Isifile nel Giasone tra il 1649 e il 1681: sempre più
aggiunte ariose, sempre maggiori tagli ai recitativi), fino all'estin-
zione di questo tipo letterario-musicale di scena, intieramente sur-
rogato nelle varie specie di arie. Eppure qualcosa dell'alternanza
brusca e dissociata di affetti contradditorii, tipica del lamento-scena,
sopravvive in talune arie col "da capo" che contrappongono una
prima sezione lamentosa a una sezione mediana furiosa (per esem-
pio, ancora nel Giulio Cesare di Handel, Cleopatra canterà «Pian-
gerò la sorte mia/ sì crudele e tanto ria» sopra un tetracordo discen-
CONVENZIONI FORMALI E DRAMMATURGICHE. IL LAMENTO 233

dente semiostinato, per poi scatenarsi subitamente in un'invettiva


furibonda e strepitosa, «Ma poi, morta, d'ogni intorno/ il tiranno
e notte e giorno/ fatta spettro agiterò»; il "da capo" suggella deso-
latamente l'inanità dell'imprecazione). Il lamento come aria e il
lamento come scena discendono dunque da due diverse e consi-
stenti tradizioni musicali che convivono e coesistono nell'orizzonte
culturale del pubblico teatrale, e financo sulla pagina musicale, senza
con ciò mai perdere la loro identità, la loro riconoscibile specificità.
Ma il lamento d'Arianna, con la sua progenie cameristica e tea-
trale, consente di accostarci anche per un altro verso all'orizzonte
delle aspettative che lo spettatore seicentesco porta seco a teatro.
Come per le altre opere dei primordi (cfr. § 20), fonte dell'Arianna
furono le Metamo,fosi d'Ovidio. In verità, le Metamorfosi dedicano
pochi versi all'eroina, trasformata da Bacco in costellazione (VIII,
169-182): è nella volgarizzazione italiana in ottava rima di Gio.
Andrea dell' Anguillara (un best seller: almeno 35 edizioni dal 1561
al 16 77) che si legge un lamento d'Arianna di ben 36 stanze, inter-
polato di sana pianta (VIII, 106-141). Fonte dichiarata dell' An-
guillara fu a sua volta il lamento d'Olimpia nell'Orlando furioso
(X, 20-34): il commento all'Anguillara ne mette in luce le «con-
trapposte digressioni», le «conversioni efficaci», insomma quegli
scarti bruschi di opposti stati d'animo che agitano anche i lamenti
musicali di Arianna e compagne. A sua volta l'Ariosto desunse da
Ovidio il modello del pianto d'Olimpia: non dalle Metamo,fosi, però,
bensl dalle Heroides, dalle "lettere" in metro elegiaco di eroine
antiche ai loro amanti infedeli. L' Anguillara, volgarizzando Ovi-
dio per il lettore italiano nel metro "popolare" dell'ottava rima,
vi innesta un modello ariosteo (a sua volta ricavato da Ovidio) di
sperimentata popolarità. Del resto non soltanto Olimpia, ma anche
altri eroi ed eroine nell'Orlando e nella Gerusalemme liberata sono
gratificati di grandi scene di disperazione "ovidiane" Basti citare
Armida ed Erminia che, come Olimpia e con le stesse «contrap-
poste digressioni» e «conversioni efficaci», alimentarono da parte
loro una nutrita serie di madrigali epici ariosteschi e tasseschi.
L'Arianna rinucciniana fa dunque appello nel suo lamento - scena
culminante dell'opera - a una conoscenza diffusa di una serie con-
catenata di modelli letterari di vasto consumo, e abilmente ne ricalca
le immagini poetiche caratterizzanti. Che le cose stessero proprio
così, che al lamento d'Arianna e alla sua prosapia fosse facile asso-
234 IL TEATRO D'OPERA

dare mentalmente la sua fonte ovidiana volgare, che insomma vi


sia un nesso tra la letteratura di consumo e l'orizzonte culturale
dello spettatore d'opera, è suggestivamente testimoniato da un pic-
colo, effimero documento, una stampa popolare di pochi fogli e
pochi soldi, un Lamento d'Ariana abandonata da Teseo (Bologna,
1640) che riproduce le 36 stanze dell' Anguillara: il tipografo, restà-
togli un poco di spazio, aggiunse a mo' di appendice il testo di un'A-
riana tradita, null'altro che il testo del lamento del Rinuccini, a tutti
arcinoto nella sua versione monteverdiana.
Non va taciuto neppure che le stesse Heroides ovidiane ebbero
un vasto successo volgare nella versione in versi sciolti di Remigio
Fiorentino (una ventina di edizioni dal 1555 al 1630). Le "lettere"
di Penelope ad Ulisse, Didone ad Enea, Isifile a Giasone, lperme-
stra a Linceo, Elena a Paride eccetera sono, nella sostanza poetica
e retorica, altrettanti "lamenti": e nel lamento teatrale di costoro
sta il nucleo vitale di tante opere seicentesche a loro intitolate. Non
soltanto: la "lettera eroica" di stampo ovidiano fu un genere let-
terario alla moda nel Seicento italiano (si ricordino le «lettere amo-
rose» monteverdiane pubblicate insieme al lamento d'Arianna nel
1623!). Le Epistole eroiche di Antonio Bruni (sempre ristampate
dal 1627 al 1678) sono "lamenti" in terza rima e in versi sciolti
ricavati dall'Orlando, dalla Gerusalemme, dall'Adone e dalla storia
antica; gli Scherzi geniali in prosa di Gio. Francesco Loredano, prin-
cipe degli Incogniti (una trentina di edizioni dal 1632 al 16 76),
sono altrettante invettive di eroi ed eroine. I soggetti - Radami-
sto e Zenobia, Sofonisba e Massinissa, Seneca e Nerone, Semi-
rarnide e Nino, Achille furibondo, Poppea supplichevole, Seiano di-
sfavorito, Annibale invitto, Elena piangente, Germanico tra-
dito, Rossane modesta, eccetera - sono di quelli che i librettisti
veneziani sfruttarono a piene mani a partire dagli anni Quaranta.
È difficile bandire il sospetto che vi sia qualche rapporto tra que-
sto tipo di produzione letteraria di successo e la propensione
di tanti librettisti e musicisti a costruire un dramma per musica
intorno al grande lamento del protagonista, la predisposizione del
pubblico a riconoscere nella invettiva, nella "lettera d'accusa" d'un
personaggio mitico o storico la scena culminante d'uno spettacolo
musicale. L'indagine, dalla storia della musica, deborderebbe a que-
sto punto nella sociologia storica della cultura: basti aver illustrato
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 235

nel caso del lamento la complessità e la fecondità di talune delle


convenzioni rappresentative che del teatro d'opera seicentesco
furono il motore efficace.

24 • L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO

Pure nell'àmbito della storia della cultura e dei suoi problemi


ricade un fenomeno eminente della vita europea nella seconda metà
del Seicento: la diffusione dell'opera italiana al di là delle Alpi,
e l'impianto di tradizioni operistiche locali e nazionali più o metio
autonome. Le forme che il fenomeno assume sono assai varie, dal-
l'importazione all'imitazione al rifiuto, ma comune a tutte è il refe-
rente: il teatro d'opera italiano. Quel che per l'Italia fu lo sviluppo,
rapidissimo ma organico, di un'istituzione teatrale e sociale bensl
nuova eppure fortemente radicata nella realtà culturale della
nazione, fu per il resto d'Europa il trapianto, comunque proble-
matico, di un modello artistico e organizzativo alieno. Non si può
dar conto qui di tutte le situazioni significative (e significativi sono
anche quegli episodi - magari precocissimi, come la serie di spet-
tacoli musicali dati alla corte polacca tra il 1635 e il 1648 per merito
di un letterato italiano, Virgilio Puccitelli, segretario reale - che,
magari soltanto per ragioni di natura dinastica, non sortirono una
tradizione teatrale continuativa; significativi sono anche i tenta-
tivi fallimentari - come le poche rappresentazioni di opere italiane
e francesi a Amsterdam negli anni Ottanta -, sintomatici di un
atteggiamento culturale repulsivo verso una novità percepita come
estranea). Basti se qui si esaminano succintamente cinque casi assai
diversi ma tutti rappresentativi: alla corte imperiale di Vienna si
danno in italiano opere virtualmente identiche a quelle dei teatri
di Venezia, ma prodotte in loco da una struttura teatrale diversa
da quella veneziana (imitazione e riproduzione del modello arti-
stico, ma difformità nei modi di produzione e di consumo); il tèa-
tro di Amburgo produce in modi é per un pubblico affini a quelli
veneziani opere tedesche che hanno a loro volta caratteri affini
a quelli dei drammi per musica veneziani (riproduzione di forme
di consumo analoghe mediante l'adozione, mutatis mutandis, del
modello artistico e del sistema produttivo); a Parigi e alla corte
di Francia spettacoli deliberatamente diversi da quelli italiani, pro-
236 lL TEATRO D'OPERA

dotti da un sistema organizzativo parimenti diverso, fungono in


realtà come un equivalente autoctono, culturalmente e ideologica-
mente specifico, del teatro d'opera italiano (rifiuto del modello arti-
stico, e produzione di un modello artistico sostitutivo, diverso ma
omologo); il teatro inglese della restaurazione assume nelle sue musi-
che sceniche molte fattezze della musica operistica italiana - ma
aQche francese - senza tuttavia creare una tradizione operistica
propria né per importazione diretta, come invece accadrà ali' epoca
di Bononcini e Handel, né per imitazione o sostituzione (adozione
selettiva di caratteri peculiari del modello artistico, adibiti ad un
uso teatrale alieno); il teatro spagnolo, infine, tollera con riluttanza
e applica soltanto a determinate condizioni i principii stessi del
teatro d'opera, di cui rifiuta comunque la fattispecie italiana (refrat-
tarietà al modello artistico, accettazione limitata dei suoi presup-
posti, e sua surrogazione autoctona).
Beninteso, a variare di caso in caso non è soltanto la costitu-
zione artistica o istituzionale del teatro d'opera: diverse sono, di
paese in paese, le forme del potere, la struttura sodale, le condi-
zioni culturali, le tradizioni letterarie e teatrali e musicali. Fun-
zione di queste diversità sono le mutazioni, superficiali o profonde,
che il modello italiano vi subisce, le reazioni che esso suscita. Che,
comunque, di tutte queste situazioni il teatro d'opera italiano sia
la pietra di paragone, è un fatto di portata tale da pregiudicare
severamente ogni tentativo di spiegare e giustificare, paese per
paese, l'impianto del teatro d'opera come frutto d'una continuità
con forme e tradizioni teatrali locali o nazionali preesistenti. Il ten-
tativo, molte volte tentato, di ravvisare per esempio nell'opera di
Amburgo le "origini" dell'opera nazionale tedesca, ossia di qual-
cosa di cui soltanto il tardo Settecento formulò la nozione e che
soltanto nell'Ottocento prenderà una qualsivoglia forma, travisa
la vera natura di un episodio che ebbe dimensioni locali e tempo-
rali dopotutto circoscritte, e che fu orientato verso l'estero più che
non proiettato verso il resto della Germania. (Semmai quell' episo-
dio amburghese, e le dispute ideologiche e morali ed estetiche che
esso scatenò, ebbero conseguenze notevoli per la costituzione di
una tradizione germanica di polemica teatrale, di una coscienza
critica e drammaturgica che nel corso del Settecento portò ad esiti
altissimi: la Lettura n. 7 ne riproduce uno degli incunaboli.) D'al-
tra parte, ove tralasci di distinguere tra opera in musica e teatro
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 237

d'opera (dr. § 19), la ricerca dei "primordi", dei "precedenti",


degli "albori", può anche risalire a beneplacito d'un decennio o
d'un secolo sù sù a ritroso per la storia musicale d'un solo paese:
ma anziché cogliere il punto critico (l'istituzionalizzazione del teatro
d'opera), investirà di significati storici soverchianti ~pisodi che sol-
tanto al senno di poi son potuti parere "decisivi" Due di questi
episodi, due "opere tedesche" che decisive non furono affatto, meri-
tano menzione per il loro valore indiziario: più che uno stadio pre-
coce dell'opera tedesca, esse testimoniano infatti il fascino esem-
plare che le primissime opere in musica italiane esercitarono sui
letterati (più che sui musicisti) tedeschi.
L'uno dei due episodi è la Seelewig, spesso contrabbandata come
la prima "opera" tedesca (1644) di cui ci sia pervenuta la musica
(di Sigmund Gottlieb Staden). In realtà la Seelewig, una «favola
boschereccia spirituale da cantare alla maniera italiana», è sl un
drammetto intieramente musicato in stile recitativo: ma la stessa
sua fonte smentisce che si sia trattato d'uno spettacolo teatrale pro-
priamente detto. Esso è soltanto uno dei tanti" giuochi di conver-
sazione", dei virtuosi passatempi accademici contenuti nei Frauen-
zimmergespriichspiele di Georg Philipp Harsdorffer (Norimberga,
1641-49), una raccolta di giuochi di società che ricalca modelli ita-
liani (come i Trattenimenti dell'accademia senese degli Intronati,
che Harsdorffer mostra di conoscere) e che è fatta d'una eclettica
mesticanza di generi letterari e temi filosofici della più svariata
provenienza (italiana francese spagnola inglese). In questa conge-
rie di invenzioni conversevoli, Seelewig rappresenta nulla più che
l'accademica imitazione di drammi musicali italiani ormai remoti
di cui, nel suo viaggio italiano del 1629, Harsdorffer vide tutt'al
più le edizioni a stampa: modelli riconoscibili della Seelewig sono
infatti le pubblicazioni di musiche del Cavalieri per la Rappresen-
tazione del 1600 e di Agostino Agazzari per l' Eumelio, un dramma
pastorale recitato in musica nel Seminario romano nel carnevale
del 1606. Anche Seelewig è un' alleg~ria morale ed edificante (il
nome della protagonista viene a dire «anima immortale», e gli
altri personaggi portano nomi non meno gravi, come Hertzi-
= = =
gild Cuore, Gwissulda Coscienza, Triigewalt Frode, ecce-
tera). L'esito dell'imitazione è curiosamente ibrido, come là dove
la ninfa Sinnigunda (Sensualità) alletta Seelewig al carpe diem e
alla spensieratezza con una seducente imitazione canora dell'usi-
238 JL TEATRO D'OPERA

gnuolo, letterariamente non immemore dell'omologo episodio nel-


l'Adone del Marino (cfr. § 2), e Seelewig le risponde con un memento
mori affidato alla morigerata melodia d'un corale luterano. Fare
di questo bizzarro esercizio accademico un precursore del teatro
d'opera tedesco non rende dunque giustizia né alla realtà storica
delle circostanze in cui Seelewig fu composta, né all'intento didat-
tico ed educativo del versatile suo autore. (Nei Frauenzimmerge-
spriichspiele compare anche, inserita nella traduzione d'una com-
media allegorica inglese, la minuta descrizione e la musica di un
masque immaginario: intitolato Tugendsterne, ossia «astri di Virtù»,
esso si basa sui topoi neoplatonici della musica mundana e su un
reticolato di corrispondenze emblematiche tra divinità planetarie,
virtù cristiane, colori araldici, modi musicali, carri trionfali e tim-
bri strumentali - per esempio Saturno == Temperanza== nero ==
ipereolio == tigri == pifferi e arpa - che, come la Seelewig, volga-
rizza temi e concetti preesistenti, nell'intento non già di introdurre
in Germania un nuovo genere spettacolare, bensl di alimentare un
programma pedagogico complesso intorno alle arti logiche e alle
arti sensibili.)
Che i primi accostamenti tedeschi all'opera italiana fossero di
natura letteraria prima ancora che musicale risulta anche dall' al-
tro episodio spesso assunto a capostipite d'una fittizia tradizione
operistica nazionale: la Dafne tedesca che Martin Opitz ricavò dal-
1' omonima favola rinucciniana e che, con la musica perduta di Hein-
rich Schiltz, fu rappresentata per nozze alla corte di Sassonia nel
1627. Le fonti di cui Opitz e Schiltz avrebbero potuto material-
mente disporre erano da un lato il libretto a stampa della Dafne
fiorentina (la musica di Jacopo Peri non fu mai pubblicata), dal-
l'altro la partitura a stampa della musica di Marco da Gagliano per
la versione mantovana del 1608 (della quale invece non fu stam-
pato il libretto, nonostante le aggiunte apportate al testo da Rinuc-
cini stesso). Ebbene, la Dafne tedesca del 1627 altro non è che la
mera traduzione del testo fiorentino: la fonte dell'iniziativa spet-
tacolare di Opitz e Schiltz fu dunque, in primis, la testimonianza
letteraria - e non la musicale - d'uno spettacolo operistico italiano.
(L'unica variante degna di nota tra Rinuccini e Opitz sta nell'e-
vento cruciale della favola: la metamorfosi di Dafne in alloro. Nella
versione italiana, rispettosa dei canoni drammaturgici classici, essa
avviene fuori scena e viene riferita da un Nunzio al Coro sbigot-
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 239

tito: nella versione tedesca, eliminato il Nunzio, la metamorfosi è


rappresentata sulla scena, a vista. La differenza è indicativa di una
propensione al teatro della visione, all'ostensione diretta e flagrante
degli eventi, che la tragedia letteraria tedesca coltivò nel Seicento
senza indietreggiare neppure davanti alla cruenza e alla violenza. Per
il teorico letterario Sigmund von Birken, 16 79, il terrore e la pietà
della tragedia giustificano ampiamente la messa in scena dell'impic-
cagione, della fucilazione o dell'assassinio d'un reprobo; solo delle
decapitazioni non sarà invece consentita la rappresentazione bensl
soltanto il resoconto, che andrà tuttavia opportunamente corrobo-
rato mediante l'esibizione della testa decollata su un vassoio ... È
dunque coerente che, in presenza d'una duplice redazione di un
dramma per musica italiano come l'Ercole in Tebe veneziano del
16 71, l'una con la morte del tiranno a scena aperta e l'altra con il
lieto fine alternativo, i teatri tedeschi optassero senz'altro per quella
tragica: e rincarassero semmai la dose delle atrocità.)
Opitz non dette dunque l'avvio a nessuna tradizione operistica
nazionale. Ma il suo nome è ad altro titolo importante per la musica
tedesca, e merita una digressione extrateatrale. L'orizzonte lette-
rario della Germania seicentesca - ossia di un paese politicamente
frantumato, teatro e vittima d'una guerra trentennale che fu a sua
volta l'esito e la sorgente di lacerazioni religiose e sociali secolari
- è un orizzonte fortemente eclettico. In Germania (e non in Fran-
cia, non in Italia, non in Spagna) circolano alacremente le troupes
teatrali che rappresentano Shakespeare e i drammi elisabettiani (il
Doctor Faustus di Marlowe!), mentre i letterati si alimentano alla
poesia marinistica da un lato (larga udienza ebbero tra l'altro, anche
per le loro implicazioni ideologiche e politiche, le pubblicazioni
degli Incogniti), al preziosismo parigino dall'altro: nell'area catto-
lica, inoltre, il teatro latino dei gesuiti svolge un'azione didattica
importante nella promozione delle classi dirigenti. È l'eclettismo
d'un paese privo d'una letteratura nazionale consistente, un paese
di recentissima unificazione linguistica. Con il suo trattato di poe-
tica (il Buch von der deutschen Poeterei del 1624) Martin Opitz è
il vero legislatore della futura poesia e letteratura tedesca. Nella
sua classificazione dei generi poetici non manca la poesia per musica:
la poesia lirica, genere adattissimo alla musica, richiede innanzitutto un
animo libero e contento e, contrariamente agli altri generi, vuol essere
ornata di molti bei motti e precetti ... Per quel che concerne i suoi temi,
240 IL TEATRO D'OPERA

essa può descrivere tutto quanto sia compendiabile in un breve compo-


nimento: galanterie, balli, banchetti, belle donne, giardini, vigneti, elogi
della modestia, vanità della vita e via dicendo, ma soprattutto esorta-
zione alla contentezza.

Se una tal poesia per musica di indirizzo anacreontica poté avere


copioso rigoglio (poetico e musicale) al séguito dello stesso Opitz,
fu però soprattutto grazie ai principii normativi introdotti da Opitz
per la versificazione tedesca, che egli ridusse alla sua moderna, dure-
vole costituzione accentuativa. La faccia stessa della musica vocale
su testi volgari (bruciato ogni residuo polifonico, dimesso l' anda-
mento prosastico o innodico dei testi biblici e dei corali) ne risultò
rigenerata, la voga delle ariette strofiche da camera con basso con-
tinuo (con o senza strumenti concertati) alimentata. La metrica tede-
sca si fonda di preferenza sull'alternanza regolare e rigorosa di sil-
labe forti e deboli, accentuate e no, in analogia ai piedi giambici
(debole/forte) e trocaici classici (f/d), più raramente al dattilo (f/d/d)
e all'anapesto (d/d/f). Mentre il verso epico, eroico, tragico è per
eccellenza il trimetro giambico (che, con la sua cesura obbligata
dopo la sesta sillaba, equivale ad ogni effetto all'alessandrino fran-
cese, e poco si presta alla composizione melodiosa), la poesia lirica
predilige i dimetri giambici e trocaici. Un testo di dimetri trocaici
come il seguente (la maliziosa illustrazione delle tecniche d'un bacio
esemplare, dovuta a Paul Fleming, seguace di Opitz), affidato alla
sillabicità rigorosamente isocrona (una semiminima per una sillaba)
della musica di Andreas Hammerschmidt (Weltliche Oden a una
voce e basso continuo, 1642), assume ipso facto la spiritosa ripeti-
tività d'una canzoncina leziosetta (non dissimile da tante arie ita-
liane a voce sola su strofe di ottonari):

X X X

[. .. ] Nicht zu har- te, nicht zu weich,


bald ZU - gleich, bald nicht zu - gleich,
nicht ZU lang- sam, nicht zu schnel- le,
nicht ohn' Un- ter - scheid der Stel - le. [ ... ]

Più affine alla scioltezza del settenario, il dimetro giambico ne


assume anche i temi e lo stile, urbano e colloquiale: esemplare è
l'elogio dell'amicizia fraterna (un tema dominante nella letteratura
del Seicento germanico, pari pari con il rigoglio delle accademie
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 241

universitarie e civili e dei collegia musica, committenti ideali e


destinatari designati della fioritura di arie da camera tedesche)
intessuto da un altro imitatore di Opitz, Simon Dach, e cantato
da Heinrich Albert (Arien oder Melodeyen, 1640):

X X X X

Der Mensch hat nichts so ei gen,


so wohl steht ihm nichts an,
als daE er Treu er - zei gen
und Freund-schaft hal ten kann. [. .. ]

Comune a tutto questo repertorio canoro da camera di metà se-


colo (di cui Adam Krieger, morto trentaduenne nel 1666, fu il com-
positore più apprezzato, Johann Rist - teologo, poeta e musicista
dilettante - l'esponente più rappresentativo per l'ideologia acca-
demica e fraternalistica che pervade questa produzione, e Gabriel
Voigtlander - trombettiere nelle città e corti del Baltico - il vol-
garizzatore più singolare per aver raccolto nel 1642 una antologia
di canzoni italiane, francesi e inglesi da lui stesso fornite di testi
tedeschi) è comunque una sillabicità quasi programmatica, inge-
nuamente preoccupata - parrebbe - di lasciare ben trasparire tutto
l'inusitato nitore metrico della nuova poesia tedesca riformata da
Opitz. Indirettamente, di questa riforma beneficiarono poi gran-
demente anche coloro che, più tardi, si accinsero a comporre in
lingua tedesca intieri drammi per musica.
Se dall'aura civile che circonda poeti e musicisti tedeschi di metà
secolo si passa ad osservare le vicende, molto più crudamente poli-
tiche, dell'istituzione dei teatri d'opera nei paesi germanici, il qua-
dro cambia tinte. I due poli estremi del fenomeno sono Vienna
e Amburgo. Non erano mancate alla corte imperiale, nella prima
metà del secolo, le rappresentazioni teatrali (con o senza musica)
consuete alle corti italiane: italiani sono del resto i maestri di cap-
pella, e molti dei cantanti a corte. Ma nel 1651 vengono chiamati
a Vienna due uomini di teatro "veneziani", il solito Benedetto Fer-
rar i e lo scenografo Giovanni Burnacini, invero per produrvi non
già dei drammi per musica all'italiana, bensì tornei e balletti con
musica: spettacoli cerimoniali, momenti salienti del protocollo di
corte. Un'opera in piena regola (ma pur sempre intesa come osten-
tazione del potere imperiale agli occhi del mondo) verrà data per
242 IL TEATRO D'OPERA

la prima volta, dal personale della corte (testo del Ferrari e musica
del maestro della cappella imperiale Antonio Bertali), alla dieta di
Ratisbona nel 1653, di fronte ai prlncipi elettorali dell'impero. Sarà
difficile sopravvalutare il valore esemplare di un gesto siffatto:
l'opera in musica si diffonde nelle corti tedesche appunto come
lo spettacolo emblematico dell'autorità sovrana. Lo stesso anno
1653 la corte di Baviera festeggia la visita dell'imperatore e resti-
tuisce il favore con la rappresentazione della prima "opera" in
musica prodotta a Monaco (L'arpa festante di G. B. Maccioni è in
realtà una breve azione drammatica d'encomio: della partitura
manoscritta, oggi a Vienna, fu fatto omaggio all'augusto ospite).
Nella stessa estate, l'arciduca del Tirolo - reduce da un viaggio
nelle corti italiane che fu densissimo di musiche e spettacoli - alle-
stisce a Innsbruck un teatro d'opera vero e proprio, per il quale
s'è assicurata la collaborazione stabile di un team italiano di rango:
il maestro di musica frat' Antonio Cesti, il librettista Gio. Filippo
Apolloni, vari castrati italiani, e la primadonna Anna Renzi. (È
grazie a costoro e alla loro Argia che proprio a Innsbruck - dove
nel 1655, in viaggio verso Roma, celebra la propria conversione
al cattolicesimo - Cristina di Svezia, abdicato al trono svedese,
assiste per la prima volta a quella meravigliosa novità del mondo
cattolico che è l'opera in musica, di cui si farà ella stessa patroci-
natrice in Roma.) Sempre in quello stesso 1653 è in viaggio in Ger-
mania Atto Melani, il celebratissimo castrato al servizio dei Medici:
canta al cospetto dell'imperatore, ma svolge anche missioni diplo-
matiche clandestine e attività spionistiche (attività che, di scan-
dalo in scandalo, coltiverà su scala europea per un altro mezzo
secolo) ...
L'immagine di sovranità, la pretesa imperiale che in Germania
resta indelebilmente associata agli spettacoli d'opera («le opere sono
cose più per re e prlncipi che per commercianti e negozianti», sen-
tenzia acido Johann Mattheson nel 1728 a proposito della deca-
denza dell'opera amburghese), è un elemento di forza e di debo-
lezza: ne garantisce la disseminazione rapida anche nelle corti minu-
scole, ma più fortemente che in Italia ne vincola la continuità isti-
tuzionale al favore o al disfavore di un sovrano, alle alterne e non
prevedibili congiunture dinastiche. Sintomatico è proprio il caso
di Innsbruck: estinto il ramo dei prìncipi del Tirolo nel 1665, l'arci-
ducato passa sotto l'amministrazione imperiale diretta, e l'efficiente
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 243

staff teatrale tirolese si trasferisce, armi (canore) e bagagli (pieni


di partiture), a Vienna. A Vienna la continuità è invece doppia-
mente assicurata: dal regno lunghissimo di Leopoldo I (1657-1705),
e dal sistema produttivo graniticamente stabile introdotto dal
sovrano.
Leopoldo I è, oltreché compositore di qualche merito e versato
in ogni stile ecclesiastico, cameristico e teatrale, anche pienamente
consapevole della funzione cerimoniale e dimostrativa che assu-
mono gli spettacoli di corte, momenti di forte coesione sociale e
politica intorno alla figura e all'istituzione imperiale. La manife-
stazione più clamorosa della sua politica teatrale espansiva e sun-
tuosa - debitamente propagandata per ogni dove dalle relazioni
del Theatrum Europaeum e di altre simili gazzette e fogli di "avvisi"
- Leopoldo la dà con i festeggiamenti per le nozze con l'infanta
di Spagna, Margherita, festeggiamenti che durano due anni. Il pro-
gramma spettacolare parla da sé: prima ancora dell'arrivo della sposa
(dicembre 1666), in luglio viene celebrato il suo compleanno con
un"'operetta" allegorica di Francesco Sbarra e Antonio Cesti, Net-
tuno e Flora festeggianti, introduzione a un balletto composto, come
tutti i balli e balletti di corte, dal maestro di musica dei balli, Johann
Heinrich Schmelzer. In novembre un altro ballo celebra il Con-
corso dell'allegrezza universale (nello stesso mese cade il compleanno
dell'imperatrice madre Eleonora Gonzaga, regolarmente celebrato
con un dramma per musica prodotto dalla sua cappella musicale
privata, diretta dal veneziano Pietro Andrea Ziani). Lo spettacolo
nuziale pubblico più sensazionale è la «festa a cavallo» La contesa
dell'aria e dell'acqua, una cosmica glorificazione del mito cesareo
intessuta di simboli araldici, cerimonie marziali, motivi cavallere-
schi: la festa si tiene nel cortile d'onore del palazzo imperiale nel
gennaio 166 7, testi di Sbarra, musiche di Bertali, balli di Schmel-
zer, coreografie del fiorentino Alessandro Carducci, un centinaio di
strumenti ad arco e dozzine di strumenti a fiato, un migliaio di
figuranti a piedi e a cavallo, nonché l'augusta partecipazione del-
l'imperatore in persona. Per carnevale, nuovi balletti, commedie,
una favola pastorale (la Galatea, testo di Antonio Draghi e musica
dello Ziani), e il dramma giocoso-morale Le disgrazie d'Amore di
Sbarra e Cesti, con musiche ballabili di Schmelzer e Leopoldo I.
Per il genetliaco del sovrano in giugno si dà La Semirami (un'o-
pera composta da Cesti a Innsbruck, ma rimasta nel suo cassetto),
244 JL TEATRO D'OPERA

per quello dell'imperatrice in luglio un altro balletto a cavallo del


solito Schmelzer con introduzione musicale di Sbarra e Cesti, in
novembre e dicembre opere per l'imperatrice madre e balletti nata-
lizi. Ma l'evento supremo, l'opera-monstre, lo spettacolo memora-
bilissimo fu Il pomo d'oro, un'immane «festa teatrale •> rappresen-
tata soltanto nel luglio 1668, dopo due anni di preparativi. Testo
e musica, di Sbarra e Cesti, erano pronti nell'inverno 1666-6 7, non
però il teatro ligneo e il palcoscenico mirabolante allestito da Ludo-
vico Ottavio Burnacini appositamente per la mess'in scena del Pomo
d'oro. L'augusta sposa - ossia la destinataria (per espresso decreto,
nel finale dell'opera, del sommo Giove e in barba alla mitologia
classica) di quello stesso aureo pomo che, aspramente conteso da
Giunone, Minerva e Venere, tante vicissitudini e peripezie e ten-
zoni provoca tra le divinità celesti e gli eroi terrestri che popolano
l'opera, onusta di episodi secondari e di azioni parallele - fece in
tempo a partorire un erede al trono (e Cesti a predisporre un'ag-
giunta "natalizia" al prologo), il quale erede fece a sua volta in
tempo a decedere (e Cesti a ripristinare il prologo "nuziale" della
prim'ora), prima che l'opera venisse finalmente messa in scena per
il compleanno dell'imperatrice, nuovamente gravida. Ma lo spet-
tacolo - un prologo, cinque atti, sei balletti incorporati nell'azione,
23 mutazioni sceniche, 38 personaggi cantanti, un numero impre-
cisato di comparse e ballerini - riuscl tanto lungo che lo si dovette
rappresentare in due diverse giornate. Alla composizione della
musica aveva messo mano anche l'imperatore; tutti i loci commu-
nes dell'opera italiana vi sono passati in rassegna (lamenti, invoca-
zioni oltretombali, aura pastorale, scene infernali, eroismo belli-
coso, ninne nanne, eccetera); l'assetto orchestrale, lungi dalla sono-
rità dimessa consueta all'opera veneziana (due violini, due viole
e alcuni strumenti per il basso continuo), è memore della strumen-
tazione "figurativa" delle opere di corte italiane dei primi del secolo
(cfr. § 20): trombe per le scene marziali, cornetti e tromboni e
fagotti e regali per l'aldilà, viole da gamba e «graviorgano •> per
i lamenti. Tutto lo sfarzo profuso nel Pomo d'oro - Io spettacolo
di certo più laborioso del secolo, e concepito apposta (si direbbe)
per stravincere il confronto con altre grandi opere «nuziali •>come
gli Ercoli allestiti a Firenze nel 1661 (cfr. § 22) e a Parigi nel 1662
(cfr. § 25) - si consumò in quell'unica rappresentazione: lo stesso
teatro, eretto ad hoc, rimase dipoi pressoché inutilizzato. La vita
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 245

teatrale di corte, dopo quella splendida follia, si sviluppò nelle sale


stesse del palazzo imperiale, ma su basi istituzionali più solide,
necessariamente più routinières.
Queste basi sono due: un team funzionariale preposto alla pro-
duzione del fabbisogno spettacolare di corte, e un calendario tea-
trale strettamente connesso alle ricorrenze celebrative della vita
cortese. Burnacini, l'artefice delle meraviglie sceniche del Pomo
d'oro, è responsabile della mess'in scena, Joh. Heinrich e Andreas
Anton Schmelzer delle musiche da ballo, Santo e Domenico Ven-
tura delle coreografie; morto Sbarra e partito Cesti nel 1668, gli
subentrano Nicolò Minato nel 1669 - proveniente da Venezia e
dal sodalizio con Cavalli - e Antonio Draghi, dal 1658 a Vienna,
attivo prima come librettista, poi come compositore, infine (dal
'74) come "intendente" delle musiche teatrali: in trent'anni, i due
producono insieme qualcosa come dieci dozzine di opere in musica.
Quanto al calendario, basti riferire il repertorio di un anno qual-
siasi, il 16 70: cambiati i titoli, esso vale per un qualsiasi altro anno.
Per carnevale, su un palcoscenico «segreto» (ossia per la cerchia
ristretta della corte), Le risa di Democrito, «trattenimento per
musica» di Minato-Draghi-Schmelzer-Burnacini-Ventura; per la Set-
timana santa, una «azione sepolcrale» e una «rappresentazione
sacra», Li sette dolori, di Giberto Ferri e Draghi, e Le sette conso-
lazioni a Maria Vergine, di Minato-Sances; in giugno, per il gene-
tliaco dell'imperatore, nella residenza estiva di Laxenburg, Leo-
nida in Tegea, dramma per musica di Minato-Draghi-Leopoldo I
Schmelzer; in luglio per il genetliaco dell'imperatrice, !fide greca,
dramma per musica di Minato-Draghi-Leopoldo I -Schmelzer-
Burnacini-Ventura; a metà novembre per l'onomastico dell'impe-
ratore La prosperità di Elio Seiano, dramma per musica di Minato-
Draghi, e per l'onomastico dell'imperatrice madre Penelope, dramma
per musica di Minato-Draghi-Schmelzer-Burnacini-Ventura; il 22
dicembre per il compleanno della regina di Spagna, Aristomene Mes-
senia, dramma per musica di Minato-Sances-Leopoldo I -Schmelzer-
Burnacini-Ventura; e così via di anno in anno. Morivano le mogli
di Leopoldo I, cambiavano quindi i giorni genetliaci ed onomastici;
tnoriva il vecchio Sances (1679), il coreografo Santo Ventura (1675);
non morivano mai Minato (t 1698), Draghi (t 1700), Schmelzer
sr (t 1680) e jr (t 1701), Burnacini (t 1707), Domenico Ventura
(t 1695). Costoro sfornano indefessi da sei a dieci spettacoli musi-
246 lL TEATRO D'OPERA

cali all'anno, spettacoli sempre nuovi e sempre eguali, destinati ad


allietare la corte per poche rappresentazioni, partiture che finiscono
sùbito sugli scaffali della biblioteca imperiale. Formalmente, sono
in tutto e per tutto opere italiane, omologabili alle opere di tipo
"veneziano": qualcuna di esse viene pure assorbita nel circuito tea-
trale italiano. Ma il teatro d'opera di Leopoldo I - d'un sovrano
che sulla scena europea alla turbolenza del Re Sole contrappone
la difesa strenua dello status quo - surroga l'idea della continuità
e del progresso (idea implicita nell'iniziativa teatrale veneziana,
cfr. § 21) con i "valori" opposti: massima stabilità, persistente iden-
tità. Invece della struttura economica impresariale (investimento
del capitale, ammortamento dei costi, sfruttamento dei prodotti),
vige il principio, per metà feudale e per metà assolutistico, dell' o-
stentazione della dovizia imperiale mediante una sterminata dila-
pidazione dell'erario pubblico e lo spreco continuativo di risorse
artistiche senza ricambio. Le condizioni stesse d'esistenza dell'o-
pera all'italiana ne riescono profondamente alterate. Le aspetta-
tive sono rigidamente predeterminate dall'etichetta di corte, il pub-
blico è preselezionato in funzione dell'unica variabile nel calenda-
rio dell'opera di corte viennese, ossia l'occasione celebrativa e la
sua configurazione protocollare. Per il trattenimento carnevalesco,
destinato alla cerchia ristretta della corte, si apprezzano i drammi
di soggetto moral-politico-satirico, come La lanterna di Diogene
(1674), una commedia a chiave (Alessandro Magno è Leopoldo,
Dario re di Persia è Luigi XIV, Diogene è il «poeta maldicente»
ossia Minato stesso, eccetera); per le occasioni «pubbliche», ossia
per gli spettacoli ufficiali destinati a tutta la corte e all' aristocra-
zia cittadina, è di rigore, invece, l'eroismo greco-romano, non senza
un tasso comunque alto di allusività politica (il Tullio Osti/io aprendo
il tempio di Giano, rappresentato all'epoca dell'assedio turco, allude
esplicitamente alle iniziative belliche difensive di Leopoldo).
Remotissima dalla catafratta regolamentazione funzionariale e
cerimoniale dell'opera viennese, l'opera di Amburgo rappresenta
il caso estremo di adozione "morbida" del modello veneziano.
Amburgo, con 70000 abitanti nel 1675 (circa la metà di Venezia)
è la seconda metropoli dell'impero, e di gran lunga la più vivace
e aperta verso il resto d'Europa, in virtù d'una prosperosa voca-
zione commerciale e finanziaria e d'una costituzione civile gelosa
della propria autonomia e neutralità. La città-stato di Amburgo,
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 247

porto mercantile e turistico, accoglie rifugiati politici e confessio-


nali, potentati in rovina e sovrani in momentaneo congedo. Gode
dei vantaggi del benessere repubblicano (1000 lampioni stradali
sono un primato europeo nel Seicento) e dei vantaggi del commer-
cio d'oltremare (sono seicentesche le prime sale da tè e caffè), ma
assiste anche alla conflittualità ideologico-economica delle oligar-
chie patrizie e dei gruppi di interesse, che si camuffa volentieri
sotto le specie di diatribe teologico-morali tra luterani ortodossi
e pietisti (il teatro d'opera non ne andò immune). Molte e palesi
sono le affinità con Venezia: l'insediamento d'un teatro d'opera
per più versi affine a quelli veneziani sarà però, più che il frutto
d'un'imitazione deliberata, la conseguenza necessaria d'una strut-
tura del potere difforme da quella delle altre città germaniche. Non
l'iniziativa autorevole d'un sovrano (a spese del budget di corte),
bensl la libera impresa di cittadini facoltosi che, consenziente il
senato cittadino, investono del proprio consente di erigere ed aprire
(1678) un teatro, quello del Gansemarkt (del «mercato delle oche»),
che avrà la struttura architettonico-economica dei teatri italiani,
con affitto annuale dei palchi e serale dei posti in platea, e ingresso
fisso (cfr. § 21). Che ai promotori interessi non tanto di imitare
tal quale l'opera italiana (così come la vedono in Italia i turisti stra-
nieri), quanto semmai di ri-produrre per la propria città l'istitu-
zione degna e piacevole e civile del pubblico teatro, è confermato
dalla circostanza nient' affatto ovvia che ad Amburgo le opere si
danno in tedesco, e non (come a Vienna e in ogni altro teatro
d'opera a tutt'allora aperto in Germania) in italiano. (Dal 1703
in poi, tuttavia, talune arie sono cantate in italiano: si tratta per-
lopiù di arie desunte da drammi per musica originariamente ita-
liani.) Ma le varianti che il modello produttivo veneziano subisce
ad Amburgo, a prima vista modeste, sono ancor più notevoli: basti
riassumerle schematicamente.
La distinzione tra proprietario del teatro e impresario teatrale,
vitale a Venezia, è assai più labile ad Amburgo. Nel club dei pro-
motori che guidano il teatro fino al 1685 spicca un giurista d'alto
rango e facoltoso senatore, Gerhard Schott, che indi, acquisita la
Proprietà del teatro, guida da solo l'impresa teatrale fino al '93,
la appalta (con esiti disastrosi) nel 1694-95, e la riassume poi (con
una breve interruzione nel '99) fino alla morte (1702), quando passa
alla vedova, che la gestisce ancora per un anno. Soltanto dal 1703
248 lL TEATRO D'OPERA

in poi l'appalto del teatro diventa regolare, ma la proprietà si riserba


per contratto notevoli facoltà d'intervento nella programmazione
e gestione. Ma mentre sotto la guida del proprietario Schott (che
si diletta anche di scenotecnica) l'impresa teatrale prospera finan-
ziariamente e artisticamente, tutti gli impresari succedutisi alla sua
testa prima e dopo la morte di Schott falliscono. È difficile stabi-
lire esattamente a quali capitali monetari e appoggi politici e con-
sensi civili potesse ricorrere l'eminente Schott: certo è che il tea-
tro era inteso come cosa sua, tant'è vero che la sua morte fu com-
memorata nel teatro stesso con una composizione (La morte del
grande Pan) di Johann Mattheson, l'astro nascente della musica
amburghese. Invece in mano agli appaltatori - affaristi che tira-
vano ad abbassare i costi della mess'in scena, a lesinare sui con-
tratti con i cantanti, a risparmiare sulla manutenzione delle attrez-
zerie, dei costumi e dell'edificio, e che forse non potevano come
Schott contare sul sostegno e la simpatia del patriziato locale e del-
1' aristocrazia straniera residente - il teatro decade artisticamente
e fisicamente; davanti a platee deserte, l'impresa lentamente si spe-
gne (1738). Non è soltanto questione di talento artistico o abilità
manageriale: neppure la gestione di un musicista di teatro geniale
come Reinhard Keiser (1703-07) diede esiti economici lontanamente
commisurati agli esiti musicali, davvero eccelsi. (Keiser è· musici-
sta di rango europeo: solo la natura discontinua ed eteroclita della
tradizione operistica nel Settecento germanico, e il fatto di essere
stato egli anima e corpo operista, lo hanno relegato agli occhi dei
posteri nella categoria subalterna dei musicisti di importanza locale,
categoria da cui - a ben maggior ragione - non sarebbe mai uscito
un operista come Alessandro Scarlatti, attivo con successo soltanto
a Roma, Napoli e Firenze e fischiato a Venezia, ove alla sua fama
postuma non avesse soccorso la persistente fortuna delle sue can-
tate da camera.) Insomma: solo l'interesse del proprietario al buon
mantenimento dell'impresa garantiva il successo del teatro stabile
amburghese.
Ma non fu questa l'unica congenita diversità tra il teatro d'opera
del Gansemarkt e i teatri italiani. Alla incerta distinzione tra pro-
prietà e impresa corrisponde la mancanza di quell'incentivo eco·
nomico e artistico poderoso che è, a Venezia, la concorrenza tra
imprese diverse. Schott e eredi detengono una specie di privilegio
teatrale, e si adoperano presso il senato perché vengano bandite
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 249

dalla città le compagnie di commedianti, spettacoli che vanno a


detrimento - dicono - dell'afflusso di pubblico all'opera (indica-
tive d'una concezione comunitativa del teatro sono le ragioni
addotte dalla vedova Schott nel 1702: mentre la ricchezza local-
mente prodotta e localmente consumata dell'opera, istituzione sta-
bile, va comunque a beneficio dell'economia cittadina, i ricavi delle
compagnie comiche di passaggio emigrano fuori città ... ). A Vene-
zia la concorrenza teatrale fa lievitare i costi d'ingaggio dei can-
tanti, ma la pluralità dell'offerta e la differenziazione dei cartel-
loni garantiscono un livello competitivo e l'interesse del pubblico.
Ad Amburgo l'unicità del teatro comporta una certa attenuazione
dei costi (comunque vanificata dalla condizione economicamente
concorrenziale dei cantanti assunti nei teatri di corte): ma lo sca-
dimento nella routine e l'assuefazione del pubblico sono un rischio
costante. Ancora più problematica è un'altra differenza rispetto
all'Italia: ad Amburgo il teatro è aperto non su base stagionale (come
in Italia), bensl per tutto l'anno. Tolta la quaresima, l'avvento,
le feste religiose, i mesi estivi, l'opera è attiva ogni lunedl, merco-
ledì e giovedì da gennaio a dicembre, per una media di un centi-
naio di rappresentazioni annue, e di suppergiù cinque (ma anche
dieci!) opere nuove all'anno. È questa una differenza che prefi-
gura quella odierna tra le compagnie operistiche stabili dei teatri
tedeschi e l'effimero cast di divi e comprimari avventizi consueto
nei teatri d'opera italiani, tra le centinaia di repliche d'un allesti-
mento berlinese e la mezza dozzina di repliche d'una mess'in scena
torinese. Ma v'è una difficoltà: la breve stagione veneziana è, come
s'è visto (cfr. § 22), funzionale alla circolazione dei cantanti e delle
partiture per tutt'Italia; invece la produzione continua della com-
pagnia stabile di Amburgo equivale a un blocco del circ~ito. Blocco
che poi è nei fatti. I teatri d'opera che rappresentano in tedesco
sono pochi: il Teatro di Braunschweig (1690-1749), a struttura
impresariale ma voluto e patrocinato dal duca di Braunschweig-
Wolfenbiittel, attivo nelle fiere di carnevale e di san Lorenzo (il
maestro di cappella più eminente: Georg Caspar Schiirmann); il
Teatro di Lipsia (1693-1720), un teatro pubblico attivo durante
le tre fiere annuali e decisamente povero (la dotazione scenica com-
prendeva in tutto e per tutto una «foresta», un «giardino di
cipressi», una «sala», una «sala regia» e un «inferno»), istituito dal
compositore Nikolaus Adam Strungk, che ci rimise ogni sostanza;
250 IL TEATRO D'OPERA

e il teatro di corte di WeiBenfels (1684-1736), retto dal maestro


dei cappellaJohann Philipp Krieger (che aveva frequentato a Vene-
zia il vecchio Cavalli). Per ragioni di geografia e di politica e di
calendario, uno scambio più o meno regolare di personale e reper-
torio può svilupparsi soltanto tra Braunschweig e Amburgo: in ambo
i centri sono attivi librettisti come Friedrich Christian Bressand
eJohann Ulrich Ké:inig, compositori comeJohann Sigismund Kus-
ser e Reinhard Keiser, cantanti di grido come la splendida Mme.
Margaretha Susanna Kayser (una virtuosa che tentò, anch'ella
invano, l'impresariato del Gansemarkt amburghese e che, con la
sua capacità vocale e la sua versatilità espressiva - stupefacente,
a giudicare dalla parte che Keiser le riserbò nella Tomyris, 171 7,
con i suoi re sovracuti picchiettati e furibondi, e gli intenerimenti
improvvisi della melodia -, smentisce da sola la favola secondo
cui i cantanti dell'opera di Amburgo erano borghesi e popolani
dilettanti: una favola coerente soltanto con il mito ottimistico ma
infondato della "popolarità" dell'opera amburghese). Ma Amburgo-
Braunschweig è un giro troppo esiguo per consentire il funziona-
mento a pieno regime di un sistema produttivo che esige un mer-
cato ben più espansivo e agile, un mercato che la Germania (a
differenza dall'Italia) non poté offrire. Tra i poli estremi di Vienna
e di Amburgo, i modi in cui la Germania si appropria dell'opera
in musica sono troppi e troppo diversi. Data la scarsa coesione del
fenomeno, l'autocratico sistema viennese ha chances di sopravvi-
venza ben maggiori, tanto più che, adottato da altre corti che furono
centri operistici importanti (Dresda, Hannover, Monaco), esso sot-
trae spazio al sistema "capitalistico" dell'opera amburghese, e lo
mina costringendolo a un'autarchia insostenibile. Alla lunga, nel
quarto decennio del Settecento, l'opera in tedesco semplicemente
si estingue, sostituita dappertutto dall'opera italiana, prodotta nelle
cappelle musicali {italiane) delle corti tedesche o importata dall'I-
talia e distribuita alacremente dalle compagnie operistiche itine-
ranti. Due anni dopo la chiusura definitiva dell'opera tedesca sta-
bile, nel 1740, il Gansemarkt amburghese apre con successo all'o·
pera italiana ed entra stabilmente nel giro - un giro che va da Graz
a Copenaghen - della compagnia dei fratelli Mingotti.
Eppure, con tutte le sue congenite debolezze economiche ed
istituzionali, l'opera di Amburgo è un episodio straordinario nella
storia teatrale del Seicento. In nessun'altra città d'Europa si sono
L'OPERA NEI PAESI TEDESCHI: VIENNA E AMBURGO 251

sentiti tanti drammi per musica di tante provenienze diverse, si


sono visti spettacoli di tanto diverso indirizzo. Numericamente irri-
levanti (meno di dieci su un totale di due centinaia e mezza) ma
culturalmente significative sono le opere di soggetto veterotesta-
mentario date nei primi anni, quasi una captatio benevolentiae nei
confronti del clero, diffidente verso il teatro: Adam und Eva nel
1678 (C. Richter - J. Theile), Michal und David nel 1679 (H. Elmen-
horst - J. W. Franck), Esthernel 1680 (J. M. Koler- N. A. Strungk),
eccetera. Ma fin dal primo anno si traducono e rivestono di nuova
musica drammi veneziani di soggetto storico, come la Prosperità
e Caduta di Elio Seiano del Minato (musica di Strungk). Se però
complessivamente i libretti di provenienza veneziana predominano,
non è sempre detto che si tratti di importazione diretta: dopo il
1690 saranno spesso opere veneziane allestite in precedenza a
Braunschweig. Né la preponderanza veneziana è soverchiante.
Alcuni soggetti sono tratti da drammi letterari francesi, o diretta-
mente da fonti mitologiche o letterarie (come l'Adonis di Chr. H.
Postel e R. Keiser del 1697, ricavato dal «più amabile poeta del
mondo», il Marino); si sentono anche partiture originali francesi
in francese o in traduzione (come Acis et Galatée di Lully, data
nel 1689 e ripresa in tedesco nel 1695), partiture originali italiane
in italiano.o in traduzione (come la monumentale Gerusalemme libe-
rata di G. C. Corradi e C. Pallavicino, una comproduzione Venezia-
Dresda del carnevale 1687 - quasi un suggello dell'alleanza mili-
tare antiottomana tra i due stati - ripresa ad Amburgo in italiano
nel 1694 e in tedesco nel '95). Gli anni 1695-99 vedono trionfare
in traduzione tedesca le splendide partiture delle opere eroiche di
Agostino Steffani. Troppo poco si sa delle musiche composte dagli
operisti amburghesi prima dell'era di Reinhard Keiser per poter
valutare appieno l'impatto, presumibilmente forte, che dovettero
avere lo stile patetico, la maniera grande, l'eloquenza sublime di
Steffani sul pubblico e sui musicisti di Amburgo. Certo è che l'estro-
sità orchestrale e l'invenzione melodica spavalda e la affettività
acuminata di Keiser sembrano dovere qualcosa alle opere compo-
ste da Steffani - un italiano cresciuto in Germania e destinato ai
:anghi medio-alti della carriera diplomatica ed ecclesiastica - per
il teatro dei duchi di Hannover, un teatro eretto negli anni Ottanta
non soltanto per emulare quelli di Venezia (dove i duchi di Braun-
schweig e di Hannover, fornitori di milizie contro il Turco, sog-
252 IL TEATRO D'OPERA

giornavano spesso per il carnevale patrocinando cantanti e musi-


cisti e librettisti), ma anche per denotare il ruolo che Hannover,
in vista dell'inclusione nel collegio dei prlncipi elettori (1692), si
arroga nella politica imperiale.
Infine, la tradizione letteraria del teatro tedesco di argomento
politico, insieme a una consuetudine drammaturgica propensa alla
mess'in scena della violenza e della crudeltà politiche, favoriscono
la frequente rappresentazione ad Amburgo di drammi per musica
nuovi su soggetti contemporanei, come nel 1686 (pochi anni dopo
l'assedio turco di Vienna) la doppia opera che canta l'ascesa e la
caduta del gran visir Cara Mustafa (L. v. Bostel - J. W. Franck),
o nel 1706 il Masagniello furioso di Feind e Keiser. Né mancano
le opere di soggetto cittadino (un po' come i drammi "civili rusti-
cali" del teatro fiorentino della Pergola), condite di personaggi dia-
lettali e di salaci satire di costume. Sempre Keiser produce nel 1701
Stortebecker und Jodge Michaels (le sanguinosissime avventure di
due corsari giustiziati in Amburgo), e nel 1725 due opere "comi-
che", lo Hamburger Jahnnarkt e la Hamburger Schlachtzeit (la fiera
e la macellazione di Amburgo) che il senato censurò per indecenza.

25 • LA "TRAGÉDIE LYRIQUE": }EAN-BAPTISTE LULLY


'
Se il primo approccio dei tedeschi all'opera italiana (Opitz, Hars-
dorffer) fu un approccio letterario, quello dei francesi fu un approc-
cio autoritario. Autoritario gesto politico fu quello di Mazarino
(il ministro-cardinale succeduto a Richelieu nel governo della
nazione), che introdusse a Parigi l'opera italiana nell'àmbito di un
vasto progetto di italianizzazione della cultura a corte e nella capi-
tale. Italianizzazione significava alleanza con il partito filofrancese
in Italia: non stupisce trovare a Parigi negli anni Quaranta e Cin-
quanta una schiera di musicisti italiani procacciati a Mazarino dai
Medici, dai Farnese, dagli Este, e soprattutto dai Barberini, i nipoti
di Urbano VIII che, caduti in disgrazia sotto il di lui successore
(il filospagnolo Innocenzo X), trascorrono in Francia un esilio
dorato. I Barberini portano seco un'esperienza operistica brillante
(cfr. § 20): praticamente barberiniana è la prima opera composta
appositamente per la corte parigina, l' Oifeo di Francesco Buti e
Luigi Rossi, rappresentato nel 1647. Ma già prima d'allora i soliti
LA "TRAGÉDIE LYRIQUE" ]EAN-BAPTISTE LULLY 253

Febiarmonici (alla stregua di tanti attori comici italiani famosi, come


Tiberio Fiorilli "Scaramuccia") avevano messo piede a Parigi, e
insieme con loro Giacomo Torelli, il mago della scenotecnica vene-
ziana, corresponsabile nel 1645 d'una Finta pazza parigina metà
cantata e metà recitata_ Come al Teatro Novissimo di Venezia nel
prologo del Bellerofonte compariva sullo sfondo della scena la veduta
della Piazzetta di S. Marco, cosl nella Finta pazza parigina Torelli
fece apparire d'improvviso nel panorama del porto di Sciro l'Ìle
de la Cité, con la veduta del Pont-Neuf, del monumento a Enrico
IV e dei campanili di Notre-Dame: un bell'effetto di rispecchia-
mento teatrale, la città che ammira stupefatta se stessa nell'illu-
sione scenica, un effetto fatto apposta per accattivare gli spetta-
tori francesi. Che si lasciarono accattivare fino a un certo punto.
Torelli restò a Parigi per una quindicina d'anni ad allestire teatri
e scene, ma il favore incontrato dall'opera in musica italiana fu
tutto sommato tiepido. Le meravigliose macchine sceniche del costo-
sissimo Orfeo furono sùbito adibite con molto maggior successo
alla rappresentazione di Andromède, tragédie à machines predispo-
sta all'uopo da Pierre Corneille, e assai parsimoniosa nell'uso della
musica, rigidamente bandita comunque dai dialoghi.
Dell'opera italiana ripugnava infatti al gusto francese proprio
soprattutto l'inverosimiglianza del canto dialogico, e con essa ripu-
gnavano l'indulgenza dei musicisti italiani all'espressione melodiosa
che interrompe l'azione, gli episodi secondari e le divagazioni comi-
che, l'inosservanza delle regole aristoteliche (unità di luogo, tempo
e azione), ma anche il canto vocalizzato e la voce artificiale dei
castrati, ferocemente motteggiati dall'opinione pubblica parigina
e comunque assai lontani dagli ideali vocali francesi (che predili-
gono piuttosto la voce di testa dei contralti maschili, le haute-
contres). Neppure quando Mazarino, dimostrando un gran fiuto
per le vicende musicali italiane (suo informatore era tra gli altri,
ubiquo, il solito Atto Melani), si rivolse non più a Roma bensl a
Venezia, ossia a Cavalli, per l'opera in musica da rappresentare
in occasione delle nozze di Luigi XIV con l'infanta di Spagna (sug-
gello nuziale alla pace dei Pirenei, 1659, che di Mazarino fu il capo-
lavoro diplomatico ma della pace europea fu garanzia poco men
che effimera), non fu maggiore la fortuna incontrata dal dramma
Per musica italiano a Parigi. Il Xerse veneziano del 1654 - che è
forse, col Giasone, l'opera più agile e spiritosa delle tante scritte
254 IL TEATRO D'OPERA

da Cavalli, grazie anche a un libretto del Minato tanto felice da


essere poi rimasto in uso fino a Bononcini e Handel (cfr. voi. VI,
§ 46) - fu allestito nel 1660 per ripiego su una scena mobile nel
Louvre, in attesa che fosse pronto l'immenso teatro delle Tuile-
ries, costruito dall'architetto teatrale Gaspare Vigarani (subentrato
al Torelli) per l'opera celebrativa vera e propria. Il Xerse parigino
fece tre concessioni al gusto francese: il ruolo contraltile del pro-
tagonista fu affidato a un baritono; i tre atti dell'originale furono
distribuiti in cinque atti, secondo l'uso vigente nelle tragedie e com-
medie francesi; e tra un atto e l'altro furono inserite delle entrées
(ossia dei numeri) di balletto pittoresche e ridicolose (di baschi fran-
cesi e spagnoli, di paesani iberici, di Scaramuccia e Trivellino, di
schiavi negri e marinai, di mattaccini, di satiri e silvani) composte
daJean-Baptiste Lully, compositore della musica strumentale e da
ballo del re. Ma non per questo l'opera veneziana piacque molto
(la si trovò semplicemente troppo lunga, otto ore e passa senza
capirci una sola parola ... ). Né piacque troppo la musica di Cavalli
per l'Ercole amante del Buti, la « tragedia representata per le nozze
delle maestà cristianissime» nel febbraio 1662. Anche qui, tra l'uno
e l'altro dei cinque atti erano inserite diciotto entrées di balletto
musicate da Lully, e il re vi compariva di persona nei ruoli di Plu-
tone, di Marte e del Sole (un ruolo, questo, che per antonomasia
gli competeva): non a caso agli spettatori - vittime oltretutto della
infelice sonorità del gran teatro - la lunghissima (e di per sé bellis-
sima) opera di Cavalli parve più che altro un « balletto reale misto
a un poema tragico cantato in musica», con un sintomatico rove-
sciamento di prospettiva e d'interesse. L'Ercole amante fu comun-
que per un bel po' (fino al 1805) l'ultima opera seria italiana data
in Francia.
L'imposizione mazariniana dell'opera italiana fallì dunque
(insieme al fallimento della sua politica culturale italianizzante,
insieme al progetto mai eseguito del Bernini per l'ampliamento del
Louvre). O, piuttosto, funse da provocazione, come tale fruttuo-
sissima, a produrre un genere musicale-teatrale orgogliosamente
autoctono: la tragédie lyrique. (Questa denominazione, oggi cor-
rente, risale in realtà al xvm secolo: il Seicento preferì chiamarla
tragédie en musique, perfetto omologo dell'italiano "dramma per
musica".) L' autoritarietà dell'iniziativa mazariniana restò però
impressa nella natura stessa dell'opera in musica francese. Autori·
LA "TRAGÉDIE LYRIQUE" ]EAN-BAPTISTE LULLY 255

rario fu il gesto con cui Luigi XIV la istitul, istituendo l' Académie
royale de musique, organismo stabile preposto in esclusiva alla sua
produzione. Autoritario fu il ruolo che vi ebbe, per investitura regia
e bravura manageriale e talento artistico, un unico musicista, Lully.
Mette conto di leggere per intiero la patente concessa dal Re Sole
a Lully nel 1672 (un precedente tentativo di introdurre le rappre-
sentazioni operistiche in francese, sulla base d'un privilegio regio
concesso a Pierre Perrin e Robert Cambert, era fallito dopo un
paio di spettacoli per intrighi economici e gelosie artistiche):

Le scienze e le arti essendo gli ornamenti più ragguardevoli degli Stati,


nessun divertimento ci è stato più gradito - dopo di aver dato ai nostri
popoli la pace - che di farle rivivere chiamando al nostro fianco tutti
coloro che hanno fama di eccellervi, non soltanto dentro i confini del
nostro regno bensl anche all'estero. E per indurli a perfezionarcisi ulte-
riormente li abbiamo onorati dei segni della nostra stima e benevolenza.
E giacché tra le arti liberali la musica tiene uno dei primissimi ranghi,
allo scopo di farla vantaggiosamente fiorire avevamo concesso (con let-
tera patente del 28 giugno 1669) al signor Perrin il permesso di istituire
nella nostra città di Parigi e in altre città del regno delle accademie di
musica per cantare pubblicamente dei drammi teatrali, come si fa in Ita-
lia, Germania e Inghilterra, per la durata di 12 anni. Ma essendo indi
stati informati che le cure e gli sforzi profusi dal signor Perrin in que-
st'impresa non hanno potuto assecondare appieno la nostra intenzione
'e sollevare la musica al livello che ci eravamo prefissi, abbiamo creduto
che per meglio riuscirci sarebbe stato opportuno affidarne la guida a per-
sona di cui ci siano note l'esperienza e le capacità e che sia all'altezza
di poter formare degli allievi esperti nel canto e nell'azione scenica non-
ché di costituire complessi di violini, flauti e altri strumenti,
A tal fine, ben informati dell'intelligenza e delle grandi conoscenze
che nella musica ha acquisito il nostro caro e beneamato Jean-Baptiste
Lully - che quotidianamente ce ne ha date e dà tanto gradevoli prove
da quando egli è"àl' nostro servizio, e che abbiamo perciò onorato della
carica di sovrintendente e compositore della musica della nostra camera-,
~ gli permettiamo e concediamo con la presente lettera firmata di nostro
pugno di istituire un'accademia reale di musica nella nostra città di Parigi,
che sarà composta del numero e della quantità di persone che egli repu-
terà opportuno, e che sceglieremo e registreremo sulla base delle refe-
renze che egli ce ne darà, per fare delle rappresentazioni al nostPO cospetto
(quando cosl ci piacerà) di drammi in musica composti tanto di versi fran-
cesi che in altre lingue, a somiglianza delle accademie d'Italia, E il signor
Lully potrà goderne per tutta la sua vita, e dopo di lui quello dei suoi
figli che assumerà ereditariamente la suddetta carica di sovrintendente
della nostra musica di camera, con facoltà di associarsi a chiunque gli
sembrerà opportuno per l'istituzione dell'accademia suddetta,
256 IL TEATRO D'OPERA

E per indennizzarlo delle grandi spese che gli converrà sostenere per
le suddette rappresentazioni, tanto a causa del teatro, delle macchine,
delle scene e dei costumi quanto delle altre cose necessarie, gli conce-
diamo di dare in pubblico tutti i drammi che avrà composto, ivi com-
presi quelli che saranno stati rappresentati al nostro cospetto, senza tut-
tavia che per !"esecuzione dei detti drammi egli si serva dei musicisti che
sono alle nostre dipendenze; come pure di richiedere quelle somme che
riterrà opportune e di istituire delle guardie o altri ufficiali agli ingressi
dei luoghi dove si daranno le suddette rappresentazioni, facendo nel con-
tempo espressa proibizione a qualsiasi persona di qualsiasi qualità e con-
dizione (ivi compresi gli ufficiali della nostra corte) di accedervi senza
pagare, come pure proibendo a chicchessia di far cantare qualsiasi dramma
integralmente in musica, tanto in francese quanto in altre lingue, senza
il consenso scritto del signor Lully, a rischio di una multa di 10 000 lire
e della confisca di teatri, macchine, scene, costumi e altre cose a benefi-
cio per un terzo nostro, per un terzo dell'ospizio generale e per un terzo
del signor Lully; il quale potrà anche istituire scuole private di musica
nella nostra città di Parigi e dovunque egli reputi necessario per il bene
e il vantaggio della suddetta accademia reale. E giacché noi la istituiamo
sul modello di quelle d'Italia, dove i gentiluomini cantano pubblicamente
in musica senza derogare alle convenienze nobiliari, vogliamo e dispo-
niamo che qualunque gentiluomo e madamigella possa cantare nei sud-
detti drammi e spettacoli nella nostra accademia reale senza pregiudizio
del titolo di nobiltà e dei loro privilegi, cariche, diritti e immunità.

Quest'ultima clausola non riflette tanto l'uso dei teatri pub-


blici italiani (dove, tolto qualche cantante onorato per meriti canori
del titolo di cavaliere, cantavano dei professionisti e non certo dei
nobili) né prefigura un improbabile accesso di dilettanti aristocra-
tici alle scene dell' Académie: essa tutelava invece benissimo le ambi-
zioni nobiliari di uno come Lully, che, acquisita per donazione reale
la carica ereditaria di sovrintendente (una carica venale su cui l'in-
testatario pagava una tassa annua percentuale al valore nominale
della carica stessa), poteva legittimamente considerarsi membro
recente della noblesse de robe. Per il resto, il privilegio reale confe-
riva a Lully e ai suoi discendenti un'autorità davvero assoluta sul
teatro musicale della nazione intiera. Quando nel 1685 e 1688,
sull'onda del successo parigino delle tragédies lyriques lulliane, Mar-
siglia e Lione vollero aprire dei teatri d'opera per rappresentar·
vele, dovettero acquistarne il diritto da Lully e dagli eredi; alla sua
morte, l' Académie dovette sobbarcarsi il pagamento di pensioni
vitalizie alla vedova e ai figli. A differenza dalle altre accademie
LA "TRAGÉDIE LYRIQUE" ]EAN-BAPTISTE LULLY 257

volute da Richelieu (I' Académie française) e poi dal ministro del


Re Sole Colbert (I' Académie des sciences, I' Académie des inscrip-
tions, médailles et belles-lettres, l' Académie de peinture et sculp-
ture, I' Académie d' architecture), l' Académie de musique non ebbe
statuti e, più che un autorevole foro di artisti e scienziati e lette-
rati stipendiati dal pubblico erario per l'accrescimento morale ed
economico del regno, fu un organismo produttivo affidato alla
gestione plenipotenziaria di un sol uomo: Lully.
La presa di possesso del teatro in musica francese da parte di
Lully si fondava certamente sul favore reale, ma anche su un'espe-
rienza teatrale già sufficientemente prestigiosa. Dal 1663 al 16 71
Lully fu il collaboratore musicale stabile di Molière: frutto della
collaborazione fu una dozzina di comédies-ballets, ossia commedie
farcite di entrées di balletto più o meno integrate nell'azione. L'in-
tegrazione massima è raggiunta nello spassoso Bourgeois gentilhomme
(16 70): ciascuna entrée, ciascun numero di balletto è un'inserzione
ben motivata in quel punto specifico della commedia, e entra a
farne parte costitutiva. Nell'atto I il maestro di musica e il mae-
stro di ballo provano i brani da sottoporre all'attenzione dell'infa-
tuato borghese, in particolare «un piccolo saggio delle varie pas-
sioni che la musica sa esprimere •>, un dialogo pastorale che però
non entusiasma Monsieur Jourdain, arcistufo delle solite pastorel-
lerie messe in voga dal preziosismo letterario coevo (ma obietta
il maestro di ballo: «Quando si debbono far recitare in musica dei
personaggi è giocoforza che, per la verosimiglianza, si vada a finire
nella pastorizia. Il canto è sempre stato appannaggio dei pastori,
e non è punto naturale che dei prlncipi o dei borghesi cantino in
dialogo le loro passioni»); l'atto II si conc4ide con un balletto di
garzoni di sartoria che mettono in prova l'abito alla moda di Mon-
sieur Jourdain; l'atto III, con un balletto di cuochi che imbandi-
scono un banchetto offerto agli ospiti di Monsieur Jourdain; l'atto
IV è tutto incentrato sull'esilarante cerimonia turca di investitura
inflitta a suon di bastonate a Monsieur Jourdain (Lully stesso
sostenne di fronte al re il ruolo buffo del muftl); lo scioglimento
all'ultim'atto si festeggia infine con un vero e proprio balletto, alle-
gramente poliglotta (spagnoli, italiani e francesi ci cantano e bal-
lano a gara, ma la conclusione corale è un inno al teatro di Molière-
Lully: «Quels spectacles charmants, quels plaisirs goutons-nous!
/ Les dieux memes, les dieux n'en ont point de plus doux»). In altri
258 lr. TEATRO D'OPERA

casi gli intermedi cantati e ballati costituiscono altrettanti episodi


di un'unica azione che scorre parallela e autonoma, senza un nesso
evidente o necessario, accanto alla commedia su cui sono innestati.
Si instaura allora un rapporto di alterità o di rispecchiamento tra
intermedi e commedia, come nel Georges Dandin (1668): l'amara
commedia del contadino ricco ma gretto cornificato e beffato dalla
giovane moglie cittadina è inframezzata dalle alterne vicende amo-
rose di una quadriglia di pastori (Climène Cloris Tircis e Philène)
cantate in musica, in un contrasto-analogia tanto più ironico quanto
maggiore è la difformità stilistica.
Ma un conto era fornire intermedi e entrées e pastorellerie per
le commedie di Molière o per i balletti di corte, un conto ben diverso
sostenere in musica una tragedia intiera. Gli ostacoli che si frap-
ponevano in Francia all'impresa erano radicati non tanto nella diver-
sità tra la musica francese e la musica italiana - una diversità che
a metà Seicento è già avvertibile (Lully ne fa l'oggetto d'un umo-
ristico dialogo bilingue nel Ballet de la raillerie, 1659), ma che sol-
tanto con l'opera della maturità lulliana e la sua postuma consa-
crazione assumerà le forme d'un vero e proprio contrasto di stili
nazionali reciprocamente inconciliabili - quanto nei diversi pre-
supposti estetici e nel peso relativo enormemente più alto che il
teatro letterario aveva in Francia, tanto da farne inevitabilmente
l'istanza estetica normativa su cui commisurare la creazione della
nuova tragedia in musica. (In Italia semmai - s'è visto al § 21 -
il dramma per musica fu una sublimazione, una <lignificazione della
forma teatrale prevalente, la commedia dell'arte.) Il teatro tragico
di Corneille e di Racine, nella sua classicistica regolatezza e nel
suo pathos sublime, proietta un'ombra imperiosa sull'iniziativa lul-
liana: che infatti andò incontro a non poche critiche e censure di
parte letteraria.
Di qual fatta fossero tali dispute risulta per esempio dalla Cri-
tique de l'opéra, ou Examen de la tragédie intitulée Alceste (Alceste,
1674, è la seconda tragédie lyrique prodotta all'Académie da Lully
e dal suo librettista stabile Philippe Quinault, che era legato per
contratto a Lully e dal 16 73 al 1686 fornì il testo di 11 delle sue
13 tragédies lyriques). Apparsa anonima, la Critica dell'"Alceste" si
deve a Charles Perrault, il futuro autore dei famosi Racconti di
Mamma l'Oca. Schierato da sempre tra i "moderni" nella querelle des
anciens et des modernes che dilaniò il mondo letterario francese del
LA "TRAGÉDIE L YRIQUE" }EAN-BAPTISTE L ULL Y 259

secondo Seicento - la disputa tra i sostenitori della supremazia ed


esemplarità della letteratura greca e latina (con Boileau e il suo Art
poétique del 1674 in prima fila) e i propugnatori dell'autonoma
dignità della letteratura francese moderna, non vincolabile all' os-
servanza rigida dei canoni classici - e autore del poema Le siècle
de Louis le grand (1687) che, esaltando la prosperità delle arti sotto
il Re Sole, indicò nel secolo XVII il vero grand siècle della nazione,
Perrault è un testimone non sospettabile di repulsione precosti-
tuita verso il teatro in musica: e infatti la sua è una Critica larga-
mente positiva, difensiva. Ma la sua attenzione, come quella di
tutti i detrattori dell'opera (ivi compreso Boileau) è intieramente
rivolta al testo, non all'assetto musicale della tragedia: e questa
unilateralità di approccio critico è di per sé un indizio eloquente
della soverchiante preponderanza del teatro letterario nell'orizzonte
culturale di chi, alla corte o nella capitale, si accostava alla tragédie
lyrique. Peraltro, non è un caso che l'Alceste fosse destinata a restare
l'unica delle tragédies di Quinault e Lully ricavata da un dramma
classico (l' Alcesti di Euripide), che come tale si prestava ad una
comparazione letteraria inevitabilmente "svantaggiosa" per l'ibrida
forma teatrale moderna.
Nella Critica si confrontano il sostenitore Cléon (che, alludendo
all'antagonismo tra i gusti della corte e della capitale, attribuisce
parte delle critiche mosse all'Alceste a Parigi al favore che l'opera
aveva incontrato a Versailles) e il detrattore Aristippe, che si
dichiara preventivamente « assai contento della musica e delle scene»
ma disgustato della poesia. La critica di Aristippe riguarda la ver-
sificazione e l'orditura della tragedia, nonché la presenza di per-
sonaggi comici (di cui però intanto tutta Parigi canterella le ariette,
dice Cléon) e l'eliminazione di alcuni episodi dell'originale euripi-
deo. Cléon giustifica partitamente le divergenze da Euripide: il
dialogo Apollo-Morte è stato eliminato poiché, preannunziando gli
eventi, attenuerebbe l'aspettativa; idem il racconto della tristezza
di Alceste, poiché ad Alceste, donna saggia e matura, non si addi-
cono i lamenti amorosi (avrebbero suscitato il riso); idem il dia-
logo di Admète che convince Alceste a sacrificarsi per lui, poiché
oggi come oggi non si tollererebbe che il marito ingiunga alla moglie
di morire in sua vece; idem il dialogo del re con Phérès, poiché
è sconveniente che Admète maltratti il vecchio padre; idem il
discorso del valletto che si lagna di Alcide (Ercole) motteggian-
260 IL TEATRO D'OPERA

dolo, giacché l'idea che ci si fa modernamente di Ercole non ne


tollera la raffigurazione come ubriacone e caciarone; idem la resti-
tuzione di Alceste velata ad Admète, inganno degno d'una com-
media e non d'una tragedia. Viceversa, l'amore di Alcide per Alces-
te è stato introdotto per legare meglio Ercole alla tragedia e per
«farne risaltare meravigliosamente la gloria» (vincitore della Morte
e delle proprie passioni); idem l'amore di Licomède per Alceste e
la ferita mortale che egli infligge ad Admète, causa più nobile della
morte di questi che non la malattia di cui egli cade vittima in Euri-
pide; idem gli amori volubili di Céphise per Lychas e Straton (per-
sonaggi comici, confidenti dei protagonisti), giacché è perfettamente
tollerabile lo scherzo tra i seguaci degli eroi, ma anche per l'effi-
cace contrasto tra la fedeltà di costoro e l'infedeltà di quelli, e infine
perché la quindicenne Céphise introduce un opportuno polo oppo-
sto al vecchio e nobile Phérès, che come lei rifiuta di morire per
salvare il re Admète; idem l'apparizione celeste di Apollo che fa
erigere un monumento funebre alla memoria di colui che si sacri-
ficherà per Admète, espediente scenicamente efficace per giu-
stificare l'erezione del catafalco su cui morirà poi Alceste e per
eliminare lunghi e fastidiosi resoconti informativi; idem la sorpresa
sgomenta di Admète alla vista della moglie morta, che procura un
passaggio repentino e commovente dal giubilo alla disperazione;
idem, infine, la vittoria di Alcide su sé medesimo, che, aggiungendo
«una specie di nodo episodico, col suo scioglimento, raddoppia l'at-
tenzione e il piacere» (è la già citata duplice vittoria di Ercole, che
da semideo diventa così un eroe sublime, nel quale non sarà impro-
babile ravvisare l'immagine di Luigi XIV). Cléon-Perrault, dichia-
rato opportuno e necessario un certo adeguamento del soggetto
antico agli usi e costumi del secolo corrente, ammette di buon grado
che «gli autori antichi ebbero un genio superiore ai moderni nella
descrizione delle cose della natura, dei sentimenti del cuore umano,
e in tutto quel che concerne l'espressione»: «ma nelle opere dello
spirito vanno osservate anche altre cose, come il decoro, l'ordine,
l'economia, la distribuzione, il collegamento delle parti col tutto •>,
cose che sono un portato dell'esperienza, sicché il drammaturgo
moderno, avvantaggiato sugli antichi, li supera sotto questi aspetti.
Quanto all'intervento delle divinità, la condanna oraziana del deus
ex machina vale sì per la tragedia e la commedia, ma non ha corso
per l'opera in musica, che ai tempi di Orazio non esisteva. E l'os-
LA "TRAGÉDIE LYRIQUE" ]EAN-BAPTISTE LULLY 261

servanza del verosimile e del merveilleux, del" meraviglioso", pre-


scritta da Aristotele, va graduata genere per genere: la commedia
si alimenta del solo verosimile; la tragedia tollera qualche inter-
vento del "meraviglioso"; l'opera invece - terzo genere, simme-
trico alla commedia - si nutre principalmente proprio del "mera-
viglioso" È quindi ottimo nell'opera il mutamento improvviso di
scena, dalla terra al cielo agli inferi. (Il "meraviglioso" infatti, con
i suoi effetti scenici stupefacenti, funge quasi da alibi alle infra-
zioni che musica e mess'in scena inevitabilmente infliggono alle
leggi della verosimiglianza.) La vera categoria di giudizio infine
è, per Perrault, il "buon gusto" degli honnetes hommes, della gente
colta: un criterio che include l'idea del consenso comunitario,
l'istanza normativa di un abito culturale collettivo.
Al dibattito pro e contro l'opera - un dibattito di e da letterati
che assilla e tallona l'opera francese dagli esordi e per più d'un
secolo, e dalla Francia deborda poi nel Settecento verso la Ger-
mania e l'Italia - non sfuggono le irregolarità e le anomalie della
tragédie lyrique, giudicata dal punto di vista dei canoni dramma-
turgici classici. Ma vista dalla parte dell'opera italiana - di quel
modello cioè che il privilegio regio concesso a Lully dichiara di voler
imitare (o sostituire) -, salta all'occhio la propinquità tuttavia note-
vole della tragédie lyrique al teatro tragico del grand siècle: una
propinquità che significa difformità pressoché totale dall'opera
italiana coeva (per la quale - sia detto tra parentesi - un esame
comparativo serrato con le fonti letterarie antiche, come quello
condotto da Perrault sull'Alceste, non sarebbe né possibile né inte-
ressante).
Il precetto della verosimiglianza si ripercuote sulla struttura
stessa della musica. Una distinzione italianamente netta tra reci-
tativo ed aria, tra récit e air, nella tragédie lyrique semplicemente
non si dà (con una logica eccezione: la canzonetta cantata "come
tale" da un personaggio, solitamente inferiore, che decide e dichiara
di cantare, appunto, una canzonetta per passatempo). Il materiale
melodico di cui sono imbastiti i récits e gli airs è omogeneo: tra
gli uni e gli altri v'è una differenza graduale di densità e di spes-
sore nell'organizzazione retorico-musicale. La declamazione è pres-
soché esclusivamente sillabica in ambedue: ma nel récit il ritmo sog-
giace al tempo della dizione, al punto che, all'occorrenza, misure
binarie e ternarie si alternano liberamente (l'alternanza è una mera
262 IL TEATRO D'OPERA

convenzione grafica, impercettibile all'ascolto: unico assetto metrico


percepibile è quello accentuativo ed enfatico del testo declamato,
che la grafia musicale semplicemente asseconda). L' air si distin-
gue dal récit per la ripetizione più o meno frequente di uno o due
versi particolarmente espressivi, dal profilo melodico più risaltato
(sono perlopiù ampie, enfatiche frasi in posizione cadenzale): «Ter-
minez mes tourments, puissant maitre du monde; / sans vous, sans
votre amour, hélas! / je ne souffrirai pas» è la triplice invocazione
di Io nel suo monologo di Isis; nel prologo di Alceste, la domanda
melodiosamente assillante della Ninfa della Senna, «Le héros que
j'attends ne reviendra-t-il pas?» (Luigi XIV era allora impegnato
nella campagna d'Olanda), risuona per ben otto volte in un air di
complessivi 25 versi. La forma musicale dei récits e degli airs è dun-
que retoricamente determinata, e fluida (a Goldoni, che assisteva
per la prima volta a uno spettacolo dell' Académie de musique, parve
curioso che il primo atto terminasse senza una sola aria: aveva preso
anche i sei airs per un recitativo ininterotto ... ).
In effetti il discorso musicale d'una tragédie lyrique si snoda,
per così dire, "in tempo reale" Nell'opera italiana il tempo del-
1' azione scorre a intermittenza e ad arbitrio: va spedito nei recita-
tivi, resta momentaneamente sospeso nell'aria (che effigia lunga-
mente un affetto indifferentemente istantaneo o durevole), si spezza
ad ogni mutazione di scena, e la musica, che ha il suo tempo pro-
prio, poco se ne cura. Nell'opera francese, il tempo dell'azione flui-
sce con un decorso regolare, e tende a combaciare con il tempo
della musica: il tempo impiegato a rappresentar gli eventi e il tempo
idealmente necessario all'accadimento reale degli eventi stanno in
un rapporto di virtuale identità. Il precetto aristotelico dell'unità
di tempo è osservato quantomeno all'interno del singolo atto, e
rigorosamente: la liaison des scènes - la regola che vieta di far uscire
di scena tutti i personaggi al termine di una stessa scena - è appli-
cata puntualmente, e non c'è mai cambiamento di luogo all'interno
di un atto (tranne le apparizioni "meravigliose", le divinità, le
magie). Un indizio rivelatore di questo continuum musicale-
drammaturgico lo danno le note di passaggio che nel basso conti-
nuo collegano morbidamente una scena all'altra: tra due diversi
segmenti del testo drammatico (ogni scena ha una tonalità di base
unitaria) non v'è interruzione bensì concatenazione. L'espansione
melodica, che di necessità comporta un raddensamento e un ral-
LA "TRAGÉDIE LYRIQUE" JEAN-BAPTISTE LULLY 263

lentamento dello scorrere del tempo musicale e drammatico, è assai


temperata, e deve sempre essere motivata dal testo e dal suo assetto
retorico, o dalla flagranza degli eventi drammatici.
Quell'espansione melodica può anche non darsi, e l'espressione
affidarsi intieramente all'enfasi declamatoria del recitativo: la scena
più celebrata dell'Armide (1686), il monologo di Armide che vuole
uccidere nel sonno il nemico Renaud e invece se ne innamora per-
dutamente, ebbe fama di essere il momento più grande, più pode-
roso, più "vero" di tutta la storia della tragédie lyrique (Rameau
stesso ne esaltò la qualità rappresentativa ed espressiva a più riprese
nei suoi scritti teorici precedenti e successivi la sua attività di com-
positore teatrale), ma il conflitto nell'animo di Armide è reso più
per virtù di pause e stacchi laceranti, di esclamazioni affannate e
dissociate, che non per forza di caratterizzazione melodica o armo-
nica. Il recitativo lulliano, in siffatti momenti di grande eccitazione
affettiva, sa farsi possedere da una fisica istrionicità che al recita-
tivo italiano coevo manca affatto (o vien lasciata alla bravura
dell'esecutore). Anche l'air soggiace remissivo ai dettami della decla-
mazione drammatica del testo. La costruzione sintattica della frase
e del periodo musicale nella melodia lulliana è di una grande sciol-
tezza, favorita dalla indeterminatezza accentuativa della metrica
e prosodia francese (nell'alessandrino, che è il verso esclusivo del
teatro letterario e il verso-base del teatro musicale, contano più
le cesure che non gli accenti). Poco prima del monologo esaltato
di Armide, l'aria del sonno di Renaud - che, per un contrasto
drammaturgicamente necessario, è placida, idilliaca, soave - è tutta
intessuta di frasi "irregolari" (11, 6, 11, 8, 7, 7 battute). Ma il
rìsultato non è certo quello di una dizione asimmetrica e sghemba,
bensl di una sostenuta, sonora naturalezza, di una "normale" ade-
renza al testo declamato. L'effetto di pervasiva, cullante regola-
rità è procurato dal disegno orchestrale ondulato e lieve di crome
continue in 3/4, e dalla sonorità soffusa e voluttuosa dei violini
con la sordina.
Da solo, l'uso contenuto delle risorse musicali nel dialogo
drammatico - la classicistica attenuazione dello sfoggio di mezzi
espressivi - priverebbe però la tragédie lyrique della sua ragion d' es-
sere. L'azione, oltreché ai dialoghi, deve essere consegnata ad eventi
visibili, a episodi intrinsecamente spettacolari. Sono tali eventi ed
episodi a salvaguardare, con il ricorso al "meraviglioso", i diritti
264 IL TEATRO D'OPERA

della musica, senza ledere la verosimiglianza. Tra le regole dram-


maturgiche della tragédie lyrique v'è quella che impone di costruire
ciascun atto intorno a un incidente, a un accadimento preminente,
e questo accadimento o incidente (di natura mitologica o magica
o cerimoniale o allegorica) deve fornire adeguato pretesto a uno
spettacolo-nello-spettacolo abbondantemente condito di musica e
danza: sono i cosiddetti divertissements, divertimenti dei sensi e
diversioni momentanee dall'azione al tempo stesso. Prendiamo
ancora l'Alceste. Dopo il prologo (che è un grande divertissement
allegorico), il divertissement dell'atto I è costituito dai canti e balli
della festa nautica in onore degli sposi, Admète e Alceste (pesca-
tori e marinai gomito a gomito con ninfe e tritoni); ma (colpo di
scena) la festa navale, offerta dal geloso Licomède, è un tranello
per rapire Alceste e far cadere a mare Admète e Alcide; l'azione
del dramma è avviata, l'atto si conclude con gli interventi "mera-
vigliosi" di Thétis (che scatena una tempesta di mare) e Éole (che
la placa), pretesto a effetti di musica meteorologicamente evoca-
tiva. L'atto II vede l'assedio, l'assalto e l'espugnazione di Sciro
(regno di Licomède) da parte dei Tessali al seguito di Admète e
Alcide: è un divertissement bellico, un'intiera azione guerresca illu-
strata musicalmente e coreograficamente in cinque densissimi minuti
- nello scorcio d'una prospettiva temporale fortemente accelerata -
mediante cori contrapposti di assediati e assedianti, marce di trombe
e timpani, marziali entrées di balletto; il colpo di scena a fine atto:
Admète è ferito a morte; l'apparizione "meravigliosa" di Apollo
con le Arti, che erigono il catafalco destinato a colui che vorrà sacri-
ficarsi in vece del re, conclude l'atto. L'atto III - vero culmine
della tragédie, e pagina senza eguali nella storia dell'opera seicen-
tesca per vastità e solennità d'invenzione teatrale - ha una strut-
tura cerimoniale di grandi dimensioni: prima il compianto acco-
rato, severo di Alceste per la sorte del moribondo Admète, cui fa
eco il coro dei Tessali con un triplice, doloroso «Hélas! »; poi il
coro di giubilo per la recuperata salute di Admète; indi il repen-
tino svelamento del catafalco, con la salma di Alceste morta per
salvare il consorte, e l'unanime cordoglio corale (la frase «Alceste
est morte» - una lunga, grave, poderosa cadenza in sol minore,
ritualmente proclamata tre volte dal coro - è di quelle che ebbero
vita lunga nella memoria collettiva dei francesi: sessant'anni dopo,
press'a poco identica è la musica di «Hippolyte n'est plus», nel·
LA "TRAGÉDIE LYRIQUE" ]EAN-BAPTISTE LULLY 265

l'Hippolyte et Aricie di Rameau, ma già nel 1718 l'opéra-comique


Les funérailles de la Foire paròdia pari pari Lully cantando « La foire
est morte»); infine la pompa funebre in onore di Alceste, una marcia
lugubre dominata dalla sonorità di due flauti (evocatrice delle tibie
che, nei bassorilievi dei sarcofagi romani, accompagnano i cortei
funebri) e interrotta dal pianto desolato di una prefica; a conclu-
sione dell'atto, l'apparizione "meravigliosa" di Diana e Mercurio
che accompagneranno Alcide nel suo viaggio nell'oltretomba per
recuperare ai vivi Alceste. Nell'atto IV Caronte, traghettatore delle
Ombre ed esattore all'ingresso degli inferi, personaggio subalterno
dell'ade, è caratterizzato burlescamente da un air comico, ma il
rango regale di Plutone e Proserpina è connotato dall'attributo reale
per eccellenza, il "largo" a ritmi fortemente cadenzati dell' ouver-
ture alla francese, che introduce un divertissement infernale in onore
di Alcide. L'atto V infine è un unico, grande trionfo corale per
la salvezza di Alceste e la magnanimità di Alcide, con il concorso
di Apollo e delle Muse che scendono dal cielo tra canti e danze
di pastori e nobili tessali. Le occasioni per intercalare ai récits e
agli airs un frequente, dovizioso sfoggio di musiche e balli non scar-
seggiano dunque. E con la complicità del "meraviglioso" e dei diver-
tissements predisposti ad arte, il verosimile - questa convenzione
primordiale e sacramentale della drammaturgia francese - ne esce
immune da deturpazioni sacrileghe. L'epitome del connubio di
musica e danza sotto gli auspici del "meraviglioso" e del cerimo-
niale sono certe colossali ciaccone e passacaglie suonate e cantate
nell'apoteosi finale di alcune tragédies. Di tutte, la più superba è
la passacaglia del divertissement nell'atto V dell' Armide (i Piaceri,
gli Amanti fortunati e le Amanti felici compaiono per magia di
Armide a intrattenere Renaud durante la sua assenza). Lo schema
di quattro battute (è il solito tetracordo discendente, sol-fa-mi~-re)
è reiterato e variato per un centinaio di volte: un corteo di violini,
flauti, oboi, solisti vocali e cori si snoda in una dimensione tempo-
rale ipnotica e magica, immota e vorticosa insieme.
Il "meraviglioso" della mitologia antica (Cadmus et Hermione,
Alceste, Thésée, Atys, Isis, Psyché, Bellérophon, Proserpine, Persée,
Phaéton) e il mondo fiabesco dell'epica rinascimentale (Amadis,
Roland, Armide) forniscono dunque mille pretesti alla musica lul-
liana, ma questi temi - sottoposti all'approvazione preventiva di
Luigi XIV - sono anche altrettante allegorie favolose di un sovrano
266 IL TE A T R O D ' OP E R A

divinizzato e idolatrato, di un nuovo Apollo che conduce una poli-


tica europea aggressiva ed è acclamato in patria aome il pacifica-
tore del mondo, come un novello Pericle e Augusto. I prologhi sono
espliciti al proposito. Ma decifrare nella trama delle tragédies lyri-
ques di Quinault e Lully le allusioni intenzionali o preterintenzio-
nali alla vita della corte di Versailles diventa un giuoco di società
prediletto dell'aristocrazia e dagli intellettuali di Parigi. Epperò
vi si celebrano sopra ogni altra le virtù dell'amore e della gloria,
ideali cavallereschi ed aristocratici proposti all'imitazione unanime
della nuova e della vecchia nobiltà francese. La tragédie lyrique gode
anche economicamente del favore che il re le dimostra (una let-
tera di Madame de Sevigné nel 1673 riferisce: «Il re diceva qual-
che giorno fa che, se sarà a Parigi quando si rappresenterà l'opera,
ci andrà ogni giorno. Questa parolina varrà 100000 franchi a
Lully»). Di consueto si dà a Versailles la prima rappresentazione
dell'opera, che passa indi all' Académie. Il costo delle produzioni
è proibitivo per rapporto all'esiguità del loro numero: la norma è
di una tragédie all'anno. Ma l' Académie - che ha una compagnia
stabile - è attiva regolarmente ogni martedl, venerdì e domenica,
con una pausa pasquale e qualche altro breve periodo di chiusura
(le premières cadono solitamente sùbito dopo Pasqua, quando la
stagione teatrale è esaurita e non fa più concorrenza all'opera).
Soprattutto, le opere fortunate restano nel repertorio, e vengono
riallestite a spron battuto non appena si affievolisce l'interesse per
la novità dell'anno: la sala dell' Académie, situata nel Palays-Royal,
nel cuore di Parigi, è sempre affollata, l'impresa prospera. Thésée
(1675), per esempio, viene ripreso nel 1677, 1678, 1679, 1688,
1698, 1707, 1708, 1720, 1721, 1722, 1729, 1730, 1731, 1744,
1745, 1754, 1755, 1765, 1767, 1770, 1771 e 1779: 104 anni di
rappresentazioni sono (pur con le modifiche e alterazioni che la
partitura originale subì a Settecento inoltrato) il primato assoluto
di longevità dell'opera europea sei-settecentesca. Pressoché tutte
le tragédies lyriques lulliane (a differenza da quelle dei suoi succes-
sori) sopravvissero fino all'epoca di Rameau; Annide fu data ancora
nel 1764, 13 anni prima che Gluck musicasse lo stesso testo. Il
privilegio di stampa concesso a Lully nel 1672 consolidava dure·
volmente l'immagine delle monumentali partiture lulliane (la prima
opera edita fu Jsis nel 16 77, pubblicata curiosamente in parti stac·
MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA 267

cate: dal 16 79 in poi le partiture apparvero l'anno stesso della pre-


mière, e infine furono stampate le opere anteriori al 1678).
Le opere di Lully - ben diversamente dai drammi per musica
italiani prodotti e consumati a dozzine - costituiscono un canone
memorabile. La loro rappresentazione fa parte integrante, per cosl
dire, del panorama culturale urbano di Parigi per quasi un secolo.
La frequenza delle parodie, verbali e teatrali e musicali, ne com-
prova la perdurante popolarità, ad ogni livello della società citta-
dina. Esse sono ingredienti costitutivi e documenti autorevoli di
un gusto, di uno stile musicale francese che assurge a codice este-
tico normativo e va incontro a una tipizzazione plurigenerazionale.
Trattati polemici come la Comparaison de la musique italienne et
de la musique /rançaise di Jean Le Cerf de la Viéville (1704) sanci-
scono la orgogliosa autonomia (e superiorità) dei progressi dello
stile musicale francese, un'autonomia che è pienamente verifica-
bile sulla pagina musicale scritta, e all'ascolto: nelle formule idio-
matiche della melodia, nei vezzi esecutivi canori e strumentali, nella
condotta delle parti, nel trattamento dell'armonia e delle modula-
zioni, nella struttura stessa della partitura e della compagine orche-
strale (costantemente a cinque~parti di base: due violini, due viole,
basso, con raddoppi e parti supplementari di flauti, oboi, fagotti).
Ma perciò stesso la diffusione delle tragédies lulliane, discreta in
provincia, fu forzatamente esigua all'estero. Il monumento musi-
cale e teatrale eretto al giovane, ambizioso monarca sopravvive
splendido e isolato al suo artefice (Lully muore nell'87) e al lungo
declino del regno del Re Sole (che dopo il 1685 poco s'interessa
più dell'opera in musica).

26 • MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA

Musica e Poesia sono sempre state riconosciute per sorelle che, pro-
cedendo mano in mano, si sostengono a vicenda. Se la poesia è l'armonia
delle parole, la musica è l'armonia delle note; e come la poesia si solleva
sopra la prosa e l'arte oratoria, cosl la musica esalta la poesia. Ciascuna
di esse può eccellere singolarmente: congiunte, esse sono eccellentissime,
poiché soltanto allora non manca nulla alla loro rispettiva perfezione, e
brillano come brillano spirito e bellezza in un'unica persona. Nella nostra
nazione la poesia e la pittura hanno raggiunto la loro maturità: anche
la musica, sebbene si trovi tuttora nella minore età, è una ragazza pre-
268 IL TEATRO D'OPERA

coce e fa ben sperare di ciò che essa potrà diventare in futuro in Inghil-
terra, quando i di lei maestri troveranno maggiore incoraggiamento. Per
ora sta imparando l'italiano, che è il suo miglior precettore, e studia anche
un poco di modi alla francese, per darsi maniere un po' più gaie e aggra-
ziate. Più lontani dal sole, noi siamo d'una maturazione più lenta che
non le nazioni vicine, e ci dobbiamo accontentare di scuoterci di dosso
la barbaricità poco a poco. L'età presente pare già disposta a una certa
raffinatezza, e impara a distinguere tra una fantasia selvaggia e una pro-
porzionata, esatta composizione.

Cosl Henry Purcell, per la penna del poetaJohn Dryden, presenta


al pubblico nel 1691 la partitura delle sue musiche di scena per
The prophetess, or The history o/ Dioclesian. (È normale, in Inghil-
terra come altrove, che le dediche delle edizioni musicali vengano
scritte da letterati di professione su commissione dei musicisti: ma
è peculiare della tradizione poetica inglese la profonda simpatia
tra le ragioni della poesia e quelle della musica, che traspare anche
da queste poche righe di Dryden, autore di varie poesie per la musica
di Purcell e di un'ode alla sua memoria; cfr. Lettura n. 5.) L'in-
flusso della musica italiana e della francese è evidente, a primo
ascolto e a prima lettura, in ogni pagina di Purcell. (È ozioso inter-
rogarsi, come fanno alcuni, su quale dei due influssi predòmini:
lo stile di Purcell, voracemente eterogeneo e versatile, sarebbe
comunque vario e diverso fino alla irriconoscibilità ove non inter-
venisse una potente impronta personale nell'invenzione armonica
e nell'estro melodico.) La musica di Purcell, alimentata direttamente
alle fonti francesi (delle tragédies en musique di Lully - comunque
in parte accessibili nelle partiture stampate -, almeno Cadmus et
Hermione fu rappresentata a Londra, nel 1686) e italiane (una par-
titura manoscritta dell' Erismena di Cavalli, con una traduzione
inglese coeva del testo, è riemersa qualche anno fa, e si sa per certo
di almeno un'opera italiana - non identificata - rappresentata a
Londra nel 16 74), è intimamente predisposta alla evocazione sce-
nica suggestiva, alla fulminea caratterizzazione istrionica, alla gesti-
colazione rappresentativa, assai più di quella di tanti suoi contem-
poranei italiani alacri produttori di drammi per musica. Questa pre-
disposizione, necessaria sl, è però insufficiente a creare da sola una
tradizione operistica di qualche tenuta. In mancanza delle condi-
zioni culturali e istituzionali propizie ad accogliere quella novità
drammatico-musicale aliena che è il teatro d'opera - condizioni
MUSICHE TE A T R A LI I N l N G H I L TE R R A E I N S P AG N A 269

che in Inghilterra si verificarono soltanto nel primo decennio del


Settecento-, la vena teatrale di Purcell si manifestò forzatamente
in forme produttive che, viste dal continente, appaiono anomale
ed episodiche, relegate in una loro effimera specificità autoctona
e (morto trentaseienne Purcell nel 1695) prive di continuità sto-
rica: quello che si chiamerebbe uno "sperpero" della storia,
insomma, se non fosse per definizione priva di senso una conce-
zione teleologica della storia dell'arte musicale.
L'impiego scenico della musica ha una tradizione ricca nel tea-
tro inglese. È appena il caso di rammentare l'uso abbondante che
di inserti canori fa il teatro elisabettiano e fa, soprattutto, Shake-
speare. Sono ballate o canzonette di carattere gnomico o narra-
tivo per i personaggi subalterni, ma anche talvolta canti affidati
a personaggi protagonistici nei momenti cruciali della loro vicenda
drammatica, come la canzone di Ofelia impazzita nell'Amleto o,
nell'Otello, la canzone del salice cantata da Desdemona (se ne con-
serva manoscritta la musica con accompagnamento di liuto); sono
anche vere e proprie rappresentazioni musicali nel dramma,
spettacoli-nello-spettacolo come il balletto di Cerere evocato da
Prospero nella Tempesta (1611), una commedia tutta magicamente
intessuta di effetti sonori e di esoteriche armonie recondite. (Nel
Globe Theater, a cielo aperto, e nel teatro coperto di Blackfriars,
la posizione dei musicisti shakespeariani - che, come il liutista e
compositore Robert Johnson, erano poi i musicisti del re - rispetto
al palcoscenico non è definita: moltissima musica viene "fatta"
direttamente sulla scena, ma essa proviene spesso, invisibile, dal-
!' interno o dall'alto della scena, quasi facesse parte dell'arredo sce-
nico.) Tuttavia nel teatro shakespeariano - quando addirittura non
sia mero contorno sonoro - la musica, più che veicolo canoro del-
!' emozione (come nel teatro d'opera), è un semplice requisito tea-
trale; esso può semmai suscitare nell'animo dei personaggi, e nel
loro discorso, forti emozioni, risonanze poetiche profonde (come
nelle parole di Lorenzo all'inizio dell'atto V nel Mercante di Venezia).
Il connubio - cerimoniale e carnevalesco - di azioni sceniche,
balletto, danza collettiva, musica da ballo e canto declamatorio fu
coltivato assiduamente per tutta la prima metà del secolo nei
niasques, i balletti rappresentativi allestiti a corte e nei palazzi del-
!' aristocrazia, che del balletto di corte francese e italiano (cfr. Let-
tura n. 2) furono un sofisticato potenziamento nel senso dell'in-
270 IL TEATRO D'OPERA

venzione allegorica e spettacolare esuberante e nel senso della com-


plessità formale (grazie soprattutto alla collaborazione trentennale
tra il drammaturgo BenJonson e l'architetto lnigo Jones). La musica
dei masques (per quel poco che se ne sa: del loro assetto musicale
composito e un po' casual restano lacerti, come del resto avviene
per gli omologhi balletti francesi e italiani) accede molto tardi allo
stile recitativo, che della recitazione musicale d'un'azione dram-
matica purchessia è una condizione indispensabile. (Le monodie
da camera affettuose e languide di Caccini ebbero sì in Inghilterra
una fortuna precoce e diffusa, fors'anche in virtù d'una certa pro-
pensione della poesia inglese ad associare la musica agli affetti melan-
conici: ma la prima applicazione artisticamente pretenziosa dello
stile recitativo italiano a un testo dialogico inglese sembra risalire
soltanto agli anni intorno al 1630, al lamento di Ero e Leandro
composto da Nicholas Lanier, cantante liutista e pittore, al ritorno
da un viaggio in Italia.) E comunque tra il masque (e forme affini,
cfr. Lettura n. 2) e il teatro d'opera v'è una differenza di funzione,
radicale e invalicabile: la differenza che passa tra la cerimonia e
la rappresentazione, tra la celebrazione comunitaria d'un rito sociale
simbolico e affermativo e la simulazione scenicamente convenzio-
nata e verosimile di un conflitto o di un processo esemplari ed
ammirevoli. L'eterogenea commistione di azione e danza, balletto
e musica nel masque non rappresenta insomma un prodromo del-
1' opera, e si rivelò anzi nei fatti un ostacolo all'impianto in In-
ghilterra del teatro in musica. Il masque aveva fatto furore sotto
Giacomo I e Carlo I, che dilapidarono somme stravaganti in alle-
stimenti sempre più fantasmagorici. Pari pari, la repubblica crom-
welliana proscrisse il masque (ne furono tuttavia celebrati alcuni
privatamente, in ambienti scolastici, oppure in occasioni diploma-
tiche eccezionali); né Carlo II, il re della restaurazione, volle restau-
rarne l'uso, politicamente discreditato. Ma l'orizzonte culturale
dell'aristocrazia restò tuttavia nostalgicamente legato a quella forma
di spettacolo cerimoniale multiforme come a una prerogativa di
casta inalienabile. Sicché del masque, denaturato e defunzionaliz-
zato, sopravvisse soltanto, ma tanto più tenacemente, la variante
teatrale. Già prima della rivoluzione puritana qualche dramma com·
portava la rappresentazione scenica d'un masque (senza il coinvol-
gimento diretto degli spettatori nel gran ballo finale): dopo l'ac·
cesso di Carlo II al trono, in una vita teatrale pubblica che a Londra
MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA 271

fu rigogliosa come mai prima d'allora (circa mezzo migliaio di


drammi, comici o tragici ma quasi tutti condlti di inserti musicali,
dal 1660 al 1700), il teatro pubblico stesso assunse quel ruolo di
luogo d'incontro dell'aristocrazia, di rito sociale comunitario che
sotto i primi Stuart svolgevano i masques di corte e privati, e con-
globò volentieri nell'azione dei drammi veri e propri masques in
miniatura. Del masque giacobita e carolino questi masques proiet-
tati sulla scena, segregati nello spazio teatrale, accessibili ai perso-
naggi del dramma ma non ai loro "veri" protagonisti, ossia alla
nobiltà, preservano la mera spoglia formale, la mistura di entrées
di balletto, esortazione cantata al ballo, e ballo comunitario. Ma
si trattò, per l'appunto, d'una spoglia formale durevolmente radi-
cata in un'esperienza teatrale collettiva di lunga data.
Per il pubblico inglese della restaurazione l'impiego scenico della
musica si identifica dunque nei modi sanciti dalla tradizione autoc-
tona: sonorizzazione di contorno (la cosiddetta act music, brani stru-
mentali da eseguire prima del prologo e prima di ciascuno dei 5
atti di uno spettacolo) ed effetti sonori particolari (nell'azione);
inserti canori nell'azione, dovunque essi siano motivabili (canzo-
nette cantate per passatempo, per allegria o per melanconia); e azioni
coreografiche cerimoniali, piccoli masques trasferiti nella finzione
scenica. (L'effetto di questi inserti sa anche essere superbo e tea-
tralmente efficace: un'ironia grottesca e feroce pervade per esem-
pio la scena del Massaniello di Thomas Durfey, 1699, in cui la moglie
del pescatore rivoluzionario, !'oscenamente grassa Blowzabella,
degusta le gioie del potere assistendo compiaciuta a un masque che
le nobildonne, sue suddite, rappresentano per lei; Blowzabella
ignora però che nel frattempo Massaniello è stato ucciso, e il masque,
che è un'allegoria trasparente della sua sventurata ascesa al potere,
si conclude con la Ribellione, la Morte e il Boia che di peso costrin-
gono Blowzabella a ballare con loro: «Fa parte dello spettacolo,
Signora, dovete andare con loro!»; poco dopo si vedrà il cadavere
di Blowzabella penzolare dalla forca.) In apparenza, la legge della
verosimiglianza - la riluttanza ad accettare il dialogo drammatico
recitato musicalmente - è sovrana: ma è una sovranità invero illu-
soria e paradossale. La verosimiglianza drammatica "impazzisce"
infatti quando, come avviene in misura massiccia nel teatro inglese
della restaurazione, ogni pretesto, anche il più inverosimile, è buono
Per farcire l'azione di musiche e balli in quantità sufficiente a
272 IL TEATRO D'OPERA

soddisfare l'appetito del pubblico per l'esibizione canora e coreica.


Il paradosso estremo d'una verosimiglianza formale rispettata a
totale discapito della verosimiglianza sostanziale si ebbe proprio
nel momento cruciale del passaggio al teatro d'opera all'italiana.
Nel 1705 il teatro di Drury Lane (in competizione con il teatro
di Haymarket) mise in scena con grande successo per la prima volta
in Inghilterra un'opera in musica vera e propria, cantata da cima
a fondo, l'Arsinoe - un "pasticcio" di arie d'opera italiane di varia
provenienza cucite insieme e voltate in inglese -, ma ne faceva
precedere la rappresentazione da frammenti di drammi inglesi in
prosa, atti staccati di vecchie commedie che venivano selezionati
proprio perché, contenendo un qualche pretesto per la rappresen-
tazione scenica d'un masque o d'un altro intrattenimento musicale,
essi fornivano una "giustificazione" purchessia all'avvio d'una rap-
presentazione recitata intieramente in musica. Cosl agli occhi dei
teatranti inglesi pareva che un frammento teatrale in prosa, in sé
e per sé privo di senso, isolato com'era dal suo contesto proprio,
procurasse un pretesto sufficientemente persuasivo e razionale per
"legittimare" esteticamente la rappresentazione di un'opera, ossia
di qualcosa che a Napoli o ad Amburgo o a Parigi era accettato
pacificamente da tutti, e che di ll a meno di cinque anni gli stessi
londinesi avrebbero accettato tanto incondizionatamente da far
entrare Londra nel novero delle capitali internazionali dell'opera
italiana cantata in italiano.
L'impianto, tardivo ma trionfale, dell'opera italiana a Londra
- estrema e quasi accidentale conseguenza d'una progressiva presa
di possesso della scena drammatica inglese da parte delle esibizioni
canore e coreografiche - provocò lì per lì non poco sconcerto nel
mondo degli attori teatrali, che temevano di vedersi sottratto dalla
concorrenza operistica il pubblico e il guadagno. Ma nel giro di
quattro critici anni si arrivò a una ristrutturazione (davvero razio-
nale, stavolta) del sistema produttivo, in virtù della quale al tea-
tro Drury Lane competé il dramma inglese (con o senza musica),
al teatro Haymarket l'opera in musica italiana. Il beneficio fu rag-
guardevole anche per il teatro in lingua inglese, che a cuor leggero
poté finalmente fare a meno, ogni volta che così gli piacque,
dell'orpello musicale ridondante che nella precedente condizione
di promiscuità era proliferato oltre ogni drammaturgica conve-
nienza. Se nel 1706 un attore del Drury Lane poteva scrivere che
MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA 273

«al presente le nostre scene sono in uno stato scadente, e nel com-
battimento fierissimo tra Drury Lane e Haymarket la Musica e
la Poesia, queste due sorelle, si accapigliano come pescivendole al
mercato», cinque anni dopo il critico teatraleJoseph Addison san-
civa tranquillamente la nuova realtà con queste parole:

Nulla ha allarmato tanto il pubblico inglese quanto il recitativo italiano


alla sua prima comparsa in scena. La gente era meravigliatissima di sen-
tire un generale cantare in musica i suoi ordini, o una damigella riferire
in musica un'ambasceria ... Ma, checché se ne dica a primo ascolto, non
posso fare a meno di considerare questo metodo italiano di sostenere
l'azione col recitativo molto più conveniente di quello che prevaleva nelle
nostre opere inglesi prima di questa innovazione, la transizione da un'a-
ria a un recitativo essendo molto più naturale che il passaggio da una
canzone al parlato nudo e crudo: questo era il metodo vigente nelle opere
di Purcell.

Quando parla delle «opere di Purcell» (o di «nostre opere


inglesi», dramatic operas come le si chiamavano allora, o « semi-
opere » come le chiamano oggidì i britannici), Addison si riferisce
a una manciata di drammi che deliberatamente fanno larghissimo
spazio alle musiche di scena, fornite da Purcell negli ultimi cinque
anni di sua vita. Con la sola eccezione del King Arthur (1691), un
dramma di soggetto eroico e patriottico intorno alle mitiche ori-
gini britanniche (concepito dall'autore,John Dryden, come conti-
nuazione ideale del suo Albion and Albanius che, con la mediocre
musica del francese Louis Grabu, era stato nel 1685 uno dei pochis-
simi, fallimentari tentativi di rappresentare pubblicamente un'o-
pera vera e propria in inglese), si trattò di drammi preesistenti adat-
tati appositamente per essere farciti di episodi musicali e coreici
abbondanti: Dioclesian (1690) è l'adattamento di un dramma gia-
cobita, The fairy queen (1692) una serie di masques spettacolari a
corredo del Sogno d'una notte di mezza estate di Shakespeare, The
lndian queen (1695) un dramma di Dryden. In tutte queste "opere"
vige il precetto (enunciato da Dryden) che soltanto ai personaggi
minori o periferici e ai personaggi sovrannaturali, e non ai prota-
gonisti, compete il canto, e che "musicali" per eccellenza sono i
momenti magici o cerimoniali o spettacolari (in maniera non total-
mente dissimile da quanto avviene con i divertissements dell'opera
francese).
274 lL TEATRO D'OPERA

In tutte queste "opere" sono evidenti gl'imprestiti dalla musica


continentale. La scena del gelo in King Arthur (una scena glaciale
evocata dal mago Osmond per illustrare come il fuoco dell'amore
possa vincere anche il più freddo dei cuori, una scena magica e
allegorica e, a modo suo, comica) comporta i seguenti momenti:
il preludio strumentale per l'apparizione di Cupido nelle lande
deserte del regno del Freddo; il recitativo di Cupido che risveglia
il Genio del Freddo; il canto del Genio del Freddo che, asside-
rato, articola a malapena le sillabe; l'aria danzereccia di Cupido
che deride il Genio del Freddo; il solenne recitativo (accompagnato
dall'orchestra) con cui il Genio del Freddo, riconosciuto Cupido,
lo riverisce; l'esortazione rivolta da Cupido ai Popoli del Freddo
a risvegliarsi e ad amarsi vicendevolmente; la danza dell'entrata
dei Popoli del Freddo; il coro dei Popoli del Freddo che seguono
l'invito di Cupido e, intirizziti, ballano insieme (la musica di que-
sto coro e questa danza è sostanzialmente uguale a quella del canto
iniziale del Genio del Freddo); infine l'aria di Cupido trionfante,
cui fa eco sulla stessa musica il coro giubilante, interrotto per un
momento da un caloroso duetto di Cupido con il Genio del Freddo.
Un vero e proprio episodio di masque, e come tale autenticamente
"inglese" Ma la musica del Genio del Freddo e del coro e della
danza dei popoli del Freddo è imitata di sana pianta da un modello
lulliano. L'atto IV di Isis si apre con una scena che rappresenta
«il luogo più gelato della Scizia»: i Popoli dei Climi Glaciali vi can-
tano un coro letteralmente assiderato, a malapena articolano con
un curioso tremolar di voce le loro parole. È lo stesso effetto appli-
cato da Purcell nel King Arthur, con il tremolo rabbrividito dei vio-
lini. Tanto più flagrante è però la differenza tra Purcell e Lully:
il coro di Isis è irrigidito in una sua algida diatonicità, il coro del
King Arthur è percorso invece da un brivido cromatico devastante
(soltanto l'idea stessa del ghiaccio può tenere insieme, nel Seicento,
la sonorità tonalmente subdola di due accordi consecutivi di quinta
eccedente nel primo rivolto); alla spiritosa freddura lulliana Pur-
cell replica con una glaciazione armonicamente incandescente. Di
fonte italiana è invece l'emozione melodica profusa in un'aria-la-
mento come quella dell'atto V di The /airy queen, su un basso osti-
nato che del consueto tetracordo discendente (cfr. § 23) è una tor-
tuosa, ingegnosa variante (re-do#-re-doQ-si-Ia-sib-sol-la-fa-sol-la[-re]).
Ma va anche detto che questo brano di bravura (e di commovente
MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA 275

bellezza) è messo Il a freddo, soltanto perché in quel punto della


commedia shakespeariana, nell'arrangiamento di fine Seicento,
Oberon - il re delle fate - esprime il desiderio di sentir cantare
un «nobile lamento •> (in realtà l'aria-lamento servì forse anche a
guadagnare tempo per predisporre un mutamento di scena mira-
bile, magicamente procurato da Oberon sùbito dopo il lamento:
appare infatti sulla scena un giardino cinese incantato, in cui si
svolge il fantasmagorico masque conclusivo dello spettacolo).
Nel mondo incantato e stupefatto di cotali apparizioni magi-
che, oppure nel mondo soffertamente umano d'un drammetto ecce-
zionale come Dido and Aeneas (una vera e propria opera in minia-
tura - tre atti recitati in musica da cima a fondo in uno spettacolo
concepito nel 1689 per una scuola di giovani aristocratiche, ma
ridotti poi al solito a episodi d'un masque scenico quando nel 1700
essi furono allestiti insieme alla commedia shakespeariana Misura
per misura in un teatro pubblico -, un'opera che nonostante le
dimensioni proibitivamente minuscole è uno dei pochi capolavori
del teatro musicale seicentesco europeo tuttora ampiamente godi-
bili), Purcell sfrutta con inventività inesausta le risorse d'un pro-
cedimento compositivo in cui eccelle sopra ogni altro musicista del
suo secolo: il basso ostinato. Oltre le grandi passacaglie e ciaccone
festive (come quella del King Arthur, memore dell' Armide lulliana),
oltre le arie-lamento (Didone nel Dido and Aeneas si presenta ed
accommiata dal pubblico - e dal mondo - con due dolorosi lamenti
su basso ostinato, due arie di sublimità tragica insuperata), il basso
ostinato purcelliano in tutte le sue varianti - lento o veloce, ter-
nario o binario, diatonico o cromatico, maggiore o minore, sim-
metrico o asimmetrico, figurato o scheletrico, variato o immuta-
bile - si presta alla rappresentazione di qualsiasi affetto (dal giu-
bilo alla disperazione), all'elocuzione di qualsiasi discorso poetico,
allo svolgimento di qualsiasi evento. La staticità strutturalmente
connaturata al basso ostinato (che fissa e blocca lo svolgimento del-
1' azione nell'effigie di un unico affetto e di un'unica situazione per-
durante tanto tempo quanto dura la sua "ostinata" ripetizione,
indifferentemente molto o poco numerosa) è riscattata dai mar-
gini ampi di libertà armonica e melodica che proprio la prevedi-
bile, inalterabile stabilità ritmica e periodica e tonale della parte
del basso consente alle altre parti (anche le più ardimentose licenze
contrappuntistiche non ne scardinano infatti l'orientazione tonale
276 lL TEATRO D'OPERA

e l'assetto metrico nitidamente percepibili in ogni punto e mo-


mento). Per di più un moto di danza, una coreica circolarità sot-
tende più d'uno dei bassi ostinati purcelliani, e ne legittimano cosl
ulteriormente l'insediamento tra i balli e i balletti delle "opere"
della restaurazione. (Il sopravvento del dramma per musica italiano,
e perciò dell'aria col "da capo", soppiantò - dieci anni dopo la
morte di Purcell- anche questo principio formale, portato da Purcell
a un grado non superabile di virtuosismo compositivo e suggesti-
vità rappresentativa. Anche di un'altra conquista purcelliana la sto-
ria dell'opera londinese sperperò l'eredità: quel «genio peculiare
dell'esprimere con energia le parole inglesi, con cui Purcell sapeva
commuovere le passioni nei cuori dei suoi ascoltatori •>, genio rico-
nosciutogli da un editore che, pubblicando postume le sue musi-
che vocali, le pose sotto il titolo eloquente di Orpheus Britannicus.)
Una serie di divieti e di pertinenze sovrintende all'uso scenico
della musica anche nel teatro spagnolo di metà Seicento. Ma più
che di precetti estetici, si tratta dell'applicazione simbolica di stili
di composizione diversi, ad opera soprattutto del grande dramma-
turgo Pedro Calder6n de la Barca. La nozione dell'opera in musica
deve essere giunta in Spagna soprattutto grazie agli architetti tea-
trali fiorentini Cosimo Lotti e Baccio del Bianco, attivi alla corte
madrilena, e grazie a Giulio Rospigliosi: rappresentanti, dunque,
di una fase preistituzionale, pre-" veneziana" dell'opera in musica.
Ma gli sforzi congiunti degli italiani e di Calder6n incontrarono
non poca resistenza. Baccio del Bianco riferisce nel 1652 di una
festa teatrale con musica (forse La fiera, el rayo y la piedra) orga-
nizzata da Calder6n, con macchine, sinfonie, canto, allegorie pla-
netarie e vulcaniche, intermedi ridicolosi, balli, eccetera:
Le musiche ha composte il signor D. Domingo Scherdo [?] toledano molto
virtuoso e desideroso di introdurre lo stile recitativo, però a poco a poco
perché non può entrar nel capo a questi signori che si possa parlar can-
tando, et egli spera con la pazienza pigliare le volontà e fargli piacere
quello che tanto biasimano senza averlo sentito né visto, e perciò monsi-
gnor nunzio Rospigliosi ha già composto una favola a posta per farla vedere
a Sua Maestà e a questi signori vertuosi.

(La novità degli spettacoli con musiche e macchine era tale in


Spagna, aggiunge il fiorentino, che gli toccò di far tutto lui, il car-
pentiere il fabbro il pittore l'ingegnere il sarto ... ) Fatto sta che la
MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA 277

Spagna del Seicento non produsse nessuna tradizione durevole di


teatro spagnolo in musica, né tampoco accettò l'importazione di
opere italiane.
L'esito quantitativamente assai modesto, se non proprio falli-
mentare, dei tentativi calderoniani di creare un teatro musicale spa-
gnolo fu preveduto dallo stesso Calderon: nel prologo della sua prima
opera intieramente cantata, La purpura de la rosa (1659-60; il sog-
getto è quello di Venere e Adone), la Tristezza obietta che la «colera
espafiola» - l'indole irritabile e intemperante della nazione - non
tollererà un'azione «toda musica». Fu facile profeta: La purpura
de la rosa fu la prima ma anche, prima di Celos aun del aire matan
(1660, mito di Cefalo e Procri), la penultima festa teatrale inte-
gralmente cantata alla corte di Spagna. Si trattò, peraltro, di opere
composte ed allestite con un palese intento dimostrativo, come una
mossa di spettacolare politica estera: esse celebravano, agli occhi
del mondo prima ancora che della sola corte spagnola, le nozze di
Luigi XIV con l'infanta di Spagna, Maria Teresa, a suggello della
pace dei Pirenei, ed aprirono dunque la ricca serie di grandi spet-
tacoli epitalamici che allietarono le scene operistiche di Firenze
(1661, dr. § 22), Parigi (1662, dr. § 25) e Vienna (1668, dr. §
24) nel decennio successivo. In Spagna, semmai, ebbe poi una
discreta fortuna - sempre grazie a Calderon, e sempre su temi mito-
logici - la forma mista di teatro recitato con inserti musicali, un
genere teatrale coltivato con assiduità sufficiente perché alla lunga
finisse per assumere il nome stesso di uno dei due soggiorni reali
dove esso si soleva praticare: la (villa di caccia della) Zarzuela, ter-
mine tuttora vigente per designare la variante spagnola dell'ope-
retta. Una delle conseguenze della effimera fortuna del teatro in
musica spagnolo è la desolante scarsità delle fonti musicali super-
stiti, anche per le zarzuelas mitologiche. Di Celos aun del aire matan,
musicato dal massimo compositore spagnolo del secolo, l'arpista
e cembalista di corte Juan Hidalgo, sopravvive la partitura mano-
scritta, ma della Purpura de la rosa originale s'è perduta ogni nota,
mentre ci è pervenuta la partitura della musica composta nel 1701
da Tomas de Torrejon y Velasco per una rappresentazione data
nella capitale spagnola delle Americhe, Lima del Perù. Di una terza
opera "spagnola" sopravvive la partitura: si tratta di El roba de
Proserpina, una «comedia armonica» (non di Calderon, sebbene di
evidente ispirazione calderoniana) prodotta e rappresentata alla
278 IL TEATRO D'OPERA

corte spagnola di Napoli nel 1678 con musica del napoletano Filippa
Coppola, che non poco dovette penare per adeguarsi a uno stile
di canto teatrale assai alieno (a Napoli nell'82 fu dato anche Celos
aun del aire matan, non si sa con quale musica né con quale suc-
cesso: anche in questa provincia del regno ispanico l'insediamento
d'una variante spagnola dell'opera in musica rimase senza conse-
guenze, tanto più in presenza d'un teatro d'opera ormai consoli-
dato sulla norma italiana). Insomma: due terzi delle tracce musi-
cali indirette di quell'intrapresa calderoniana bisogna andarle a cer-
care nella periferia (il Perù, Napoli) della periferia (la Spagna) del,
l'opera europea del Seicento. Quanto ai non molti lacerti di zar-
zuelas superstiti, li si rintracciano nei cancioneros manoscritti, rac-
colte di "arie" (o, per dirla alla spagnola, di tonos) a voce sola e
basso continuo destinate all'uso domestico.
La debolezza intrinseca e nel contempo la forte suggestione del
tentativo di Calder6n sta nella serie di divieti e prescrizioni che,
nelle due opere del 1659-60 come nelle zarzuelas di soggetto mito-
logico, regolano la distribuzione degli stili di canto tra i personaggi
d'un'azione drammatica. Per quel poco che le fonti superstiti con-
sentono di dire, tali regole sono di natura simbolica (e congruenti,
del resto, con l'uso spagnolo di distinguere fin nella denominazione
tra tonos humanos e divinos, arie profane e spirituali). Una voce
(o coro) fuori scena sta per la voce di Dio, origine e fonte di ogni
armonia. Lo stile recitativo d'impronta italiana è riserbato alle divi-
nità precristiane (lo stile per metà canoro, ossia "divino", e per
metà parlato, ossia "umano", denota la loro natura di prefigurazioni
imperfette della divinità cristiana). La soavità d'una melodia cela
perlopiù seduzioni diaboliche. Ai personaggi rustici e inferiori com-
petono le coplas, formule melodiche stereotipe che, ripetute quante
volte bastano, si prestano a consumare - narrativamente più che
recitativamente - lunghe porzioni di dialogo in quartine (in Celos
aun del aire matan una copia siffatta viene ripetuta una quindicina
di volte, e consecutivamente per tre scene, con un effetto di mec·
canica iterazione e di indifferenza all'elocuzione del testo che è
l'antitesi più radicale immaginabile al recitativo italiano: del resto
la sistematica organizzazione strofica del dialogo drammatico è uno
dei caratteri primari che distinguono la comedia nueva di Lope de
Vega e di Calder6n dal teatro poetico italiano, di regola intessuto
- come il recitativo operistico, di cui ~u il modello - appunto in
MUSICHE TEATRALI IN INGHILTERRA E IN SPAGNA 279

versi sciolti). Ai personaggi bassi sono pure delegate (o relegate)


le danze. Nelle zarzuelas intervengono anche altre combinazioni:
come là dove, nel Laurei de Apolo (1657 ca.), Apollo e Cupido si
rivolgono sì cantando (come compete alle divinità) ai personaggi
umani, ma colloquiano recitando tra di loro; oppure come quando,
nella Estatua de Prometeo (1670?), dall'espressione canora - divina
o grottesca - resta coerentemente escluso proprio il ruolo serio e
umanissimo del protagonista Prometeo.
Siffatta concezione attributiva e simbolica degli stili teatrali
di canto e di recitazione - antitetica alla concezione funzionale
(per il recitativo) ed espressiva (per l'aria) della musica teatrale
italiana - comporta di necessità una pluralità di forme che, se
parrà eclettismo sterile o insidioso a un'estetica fondata sul "valore"
dell'unitarietà stilistica, al drammaturgo spagnolo dovette invece
parere un potenziamento notevole delle facoltà rappresentative.
Tale concezione è la manifestazione, ideologicamente coerente
e sonoramente nitida, di una visione dell'armonia come emana-
zione divina che nelle varie specie di tonos humanos o divinos
si rifrange: una visione di ascendenza neoplatonica ed agostiniana
che pervade il teatro di Calder6n nobilitandolo e sublimandone,
anche sotto le spoglie dell'allegoria mitologica, il messaggio cri-
stiano. Una visione destinata a non avere séguito alcuno né in
Spagna né altrove in Europa, e che illumina però d'una luce aurea
ed estatica la natura fecondamente contraddittoria d'un secolo
"critico" come il Seicento.
LETTURE
N.B.: Le versioni dei testi in lingua tedesca (nn. 4 e 7) e inglese (n. 5) sono dell'autore. Dei
rimanenti testi, quella data in questo libro è la prima edizione moderna.
1 • UN BANCHETTO MUSICALE: FIRENZE I 608

Come già nel Quattro e nel Cinquecento (cfr. voll. III, § 24, e IV, Let-
tura n. 4), la musica fu anche nel Seicento ingrediente prestigioso dei più
memorabili banchetti di corte. Si riproduce qui (infliggendo qualche taglio
al sesquipedale menu) l'assetto del banchetto dato dal granduca di Toscana
il 19 ottobre 1608 nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio per lo spo-
salizio dell'erede al trono. La descrizione - ricavata da una fonte autorevo-
lissima, il trattato di banchetti Lo scalco prattico (Roma, 1627) dell'insigne
cuoco Vittorio Lancellotti da Camerino - è interessante a vario titolo. Come
nei banchetti ferraresi del secolo precedente (cfr. «Rivista italiana di musi-
cologia», X, 1975, p. 216 sgg.), gli intermezzi musicali tra una «portata»
e l'altra fungono da veri e propri entremets: momenti di sollievo e diverti-
mento dei sensi, cesure e al tempo stesso collegamenti tra le fasi successive
dell'evento conviviale. Ma alla esuberante congerie cinquecentesca di offerte
musicali diverse subentra qui un'organizzazione complessiva degli intermezzi
musicali, tutti omogenei tra loro e tutti convergenti sull'apoteosi del gran
«concerto» finale (più di 150 esecutori, a detta d'un testimone): su macchine
semoventi compaiono e scompaiono personaggi allegorici che rendono canoro
tributo agli sposi e alla dinastia. Più che farcito di episodi musicali e spetta-
colari, il banchetto è trasformato esso stesso in un grande spettacolo cerimo-
niale, di cui i convitati sono, oltre che spettatori, comparse: sulla stupefa-
zione (presto esaurita) prevale l'autorappresentazione. Semmai si ammirano
le prestazioni straordinarie, letteralmente ineffabili (cfr. § 10), dei cantanti,
nominati ad uno ad uno (Vittoria Archilei, Ippolita Recupito, Melchiorre
Palantrotti, Francesca e Settimia Caccini figlie di Giulio Romano: il fior fiore
del virtuosismo canoro di Roma e Firenze). Il canto virtuoso a voce sola è
prerogativa principesca, rarità privilegiata (cfr. § 3), e proprio come attri-
buto della supremazia fiorentina esso viene esibito in una mess'in scena che
ne garantisce la reclamizzazione d'alto rango. Un banchetto siffatto, invero,
è (come tutti i restanti festeggiamenti spettacolari di quelle nozze, di cui si
legge un resoconto critico in «Acta musicologica», LV, 1983, p. 89 sgg.: due
favolette in musica del Chiabrera; il giuoco del calcio a S. Croce; una veglia
da ballo a Palazzo Pitti; la favola pastorale Il giudizio di Paride - soggetto
prediletto per nozze, fino al Pomo d'oro viennese del 1668, cfr. § 24! - reci-
tata agli Uffizi con sei intermedi musicali; un balletto a cavallo in S. Croce;
il combattimento navale degli Argonauti sull'Arno; ... ) anche un messaggio
di potere e di sfarzo inviato al mondo intiero (o, più concretamente, alle altre
corti europee). Non a caso le informazioni più minute delle festività fioren-
tine e de~e macchine spettacolari messe in opera si leggono nel carteggio
284 LETTURE

che un ingegnere teatrale mantovano, mandato appositamente a Firenze dai


Gonzaga, intrattenne con la corte di Mantova (cfr. «Civiltà mantovana», XII,
1978, p. 14 sgg.), l'unica a tutt'allora in grado di competere vittoriosamente
con quella di Firenze nello splendore delle feste dinastiche.
Va peraltro detto che feste di questa specie, se volentieri sfoggiano le
ultimissime risorse delle arti sceniche e musicali, rispondono però a un codice
cerimoniale tenace e ripetitivo. Per esempio: il gran «concerto» (un concerto
nell'accezione ampia del termine, cfr. § 6) che conclude il banchetto nuziale
del 1608 si rifà alla tradizione illustre d'un famoso mottetto a 40 voci com-
posto dal mantovano Alessandro Striggio per un ricevimento mediceo nel
1561, offerto indi a Gugliehno Gonzaga in occasione delle sue nozze lo stesso
anno, e replicato in occasione di altre nozze ducali a Monaco di Baviera nel
1568 (cfr. «Early Music», VIII, 1980, p. 329 sgg.).
Va infine notato che né il cuoco Lancellotti né altre fonti menzionano
testi, soggetti, personificazioni degli episodi musicali del banchetto. In tutto
e per tutto si sa che tra i personaggi canori comparvero l'Aurora, Venere,
Amore, una ninfa, Apollo. L'indifferenza dei destinatari di fronte ai riferi-
menti iconografici e mitologici, la loro impermeabilità alle intenzioni allego-
riche degli autori dello spettacolo - una impermeabilità e indifferenza pro-
porzionali all'usura e vacuità d'un repertorio simbolico consunto - è un feno-
meno che incide massicciamente sulla cultura seicentesca, e che attende di
essere indagato e definito.

Banchetto fatto a Fiorenza nelle nozze dell'Altezza Serenissima


Cosimo II granduca di Toscana, con la Serenissima Maria Madda-
lena arciduchessa d'Austria a trentaquattro piatti, servito nella Sala
Reale del Palazzo Vecchio domenica a sera alli 19 ottobre 1608.

Fu apparecchiata la tavola reale a capo della sala, in forma di


mezza luna, con una scalinata e baldacchino di damasco bianco
sopra, con trine ricchissime d'oro, con una tovaglia di ormesino
bianco ricamata d'oro con diverse imprese bellissime, sopra la quale
furono poste le posate. In mezzo della tavola sedeva a mano diritta
la Sereniss. Sposa, poi la Sereniss. granduchessa, e a mano sinistra
il Sereniss. Sposo, dopo per ordine gl'illustriss. sig. cardinali del
Monte, Sforza, Farnese, Montalto e Este, il Sereniss. arciduca d' Au-
stria e (il) granduca Ferdinando, tutti da una parte. Seguitavano
poi intorno alla sala altre quindici tavole, sotto le quali prima furono
accomodati li frutti, per levare la confusione; sopra ciascuna tavola
era un palco, quali servirono all'ora della cena, per starvi diversi
sig. prencipi e cavalieri incogniti; sotto alli detti palchi era una bot-
tiglieria per ciascheduna tavola. La tavola reale fu servita a quat-
UN BANCHETTO MUSICALE: FIRENZE 1608 285

tro piatti, e }'altre quindici, due piatti per tavola, nelle quali erano
darne, che furono servite da' loro mariti e fratelli. A piedi della
sala incontro alla tavola reale era una bellissima credenza di bacili,
piatti imperiali, reali e mezzani, panattiere, tazze di più sorti, fatte
di zuccaro tanto al naturale che molti restarono aggabbati, né fu
mai visto cosa più bella.

Primo servizio freddo.

Pasticci in forma di rosoni, di vitella ... con sei palle intorno fatte di pasta
di marzapane, con tre gigli in faccia nella palla azzurra ...
Salami spaccati serviti con una corona imperiale sopra di pasta di
zuccaro ...
Pavoni con ale, code e collo alto di pasta di zuccaro ... ; il petto del pavone
lardato minutamente di lardelli di cucuzzata ...
Ova misside, a modo di una montagnuola ... con li tre gigli miniati d'oro,
tramezzati d'arme della Serenissima sposa fatte di pasta di pistacchiata
... con diverse imprese di casa d'Austria e Medici ...
Sommate, con sapore di visciole sopra ...
Bianco magnare di mezzo rilievo in forma di gigli ...
Galli d'India arrosto lardati di lardelli di cedro condito ...
Gelatina di mezzo rilievo, con galli d'India sotto a modo d'aquila reale ...
Gigli ripieni di conditi fatti di pasta di marzapane ...
Presciutti agghiacciati di zuccaro, serviti sopra sei busti di leone ...
Crostate di conditi, con cannelloni confetti sopra ...
Un carro dorato, tirato da quattro colombe bianche di pasta di zuccaro,
con un Cupido della medesima pasta con le redini in mano, carico di cedri
conditi. ..
Un altro carro tirato da due capponi bianchi di pasta di zuccaro ... carico
di marzapanetti.
Un altro carro tirato da due conigli bianchi con cocchiero carico di
pizzette di pistacchiata.
Un altro carro tirato da due pollancotte d'India bianche carico di
cucuzze di Genova grosse ...
Un leone, un cavallo con uomo armato sopra, un'aquila, un orso di
butirro ...
La regina di Francia fatta di pasta di zuccaro, a cavallo ...
Il re di Francia a cavallo in atto di guerreggiare ...

Dall'uno e l'altro capo della tavola reale vi era un arbore grande


fatto di zuccaro, con alcune gabbie pur di zuccaro, entrovi uccel-
lini vivi, che continuamente si sentivano cantare.
Armida in un carro con Rinaldo dormiente incatenato, tirato
da dqe draghi, tutto di zuccaro di gettito ...
286 LETTURE

Giove in un trono maestoso con un fulmine in mano ...


Clorinda languente con Tancredi appresso armato in atto di
volergli bagnare la testa, con l'acqua che aveva nel morione .. .
Plutone con una catena in mano con Proserpina in braccio .. .
Vi furono anco altri trionfi, fatti di pasta di zuccaro, quali sùbito
portato in tavola si levarono, acciò non impedissero la vista del
teatro ... [... ]

Primo servizio di cucina.

Capponi bolliti con zuppa sotto, coperti di fettoline di cardi, bocconi


d'animelle, fette di presciutto, salame grattato e cervellate ...
Animelle di vitella fritte, servite con fette di pane di Spagna ...
Pasticciotti podriti, di brasole di vitella, tartufoli, bocconi d'animelle,
grasso e medolla di vaccina ...
Ortolani arrosto, serviti con crostini di pane stati nella ghiotta, erbette
fritte intorno ...
Quaglie arrosto, servite con salsiccia fritta ...
Crostate di lazzarole, e fettoline di cucuzzata ...
Melangoli tagliati, con salviette sotto; bianco magnare ...

All'apparire di questo primo servizio usd in una nuvola da un


capo della tavola la Signora Vittoria, e in un'altra nuvola dall' al-
tro capo della tavola la Signora Ippolita, ambedue pomposamente
vestite, cantando singolarissimamente versi in lode della Serenis-
sima Sposa, trattenendosi cantando e passeggiando per un quarto
d'ora, sinché venne la seconda portata, che se ne ritornarono le
nuvole per la medesima strada ond'erano venute.

Secondo servizio.

Vitella bollita, servita con fiori di borragine siroppati...


Tortore arrosto, servite con fette di pane di Spagna ...
Piccioni ripieni tra carne e pelle di animelle, grasso di vaccina, medolla,
fettoline di tartufoli, salame grattato, rossi d'ova cotti in forno ...
Zuppe reali di petto e pelle di capponi, fette di provature fresche fritte
nel butirro, occhi e orecchie di capretto ...
Starne arrosto, servite con gigli di pasta di sfoglio ...
Pasticci all'inglese, di vitella, bocconi d'animelle, cervella di vitella,
medolla ...
Limoncelli tagliati, con zuccaro; gelatina, con lancette di petto di
cappone ...
UN BANCHETTO MUSICALE: FIRENZE I 608 287

Ali' arrivo di questo secondo servizio comparve in aria un carro


trionfale, sopra il quale era il Sig. Melchiorre basso di cappella di
Sua Santità, il quale veniva recitando in musica versi in lode delli
Serenissimi Sposi, trattenendosi cantando sino che fu portato il
terzo servizio, che allora il carro si ritirò.

Terzo servizio.
Starne bollite, coperte con una podritina di fettoline di cardi e di tartu-
fali, fette di sommata e di presciutto ...
Pagnotte ripiene di cotogni siroppati, ova misside, cedro condito e pistac-
chiata, cotte in forno ...
Fagiani arrosto affagianati, levati poi dalla carta, serviti in canestrelle
di pasta di marzapane ...
Pasticciotti sfogliati, di vitella, bocconi d'animelle, fette di presciutto,
pignoli, fettoline di tartufali, rossi d'uova e suo brodetto ...
Polpettoni reali tondi, grandi quanto era il fondo d'un piatto reale, di
vitella, animelle, medola ...
Torte fatte con amandole atturate in bianco, petto di cappone arrosto,
fegatelli di pollo arrosto ...
Olive in porcellana; uva pergolese, con salviette sotto ...

Nel portar che si fece di questo servizio, comparvero per la


medesima strada di dove vennero le prime nuvole, in un carro trion-
fale, le due figliuole del Sig. Giulio Romano, che di concerto can-
tavano con ogni isquisitezza; e mentre stavano ferme, comparvero
di nuovo le due Signore Vittoria e Ippolita, una da un capo della
tavola e l'altra dall'altro sopra carri trionfali, vestite superbissi-
mamente da ninfe; e gareggiando quando sole e quando di con-
certo, ultimamente tutte quattro in compagnia cantarono con tanta
soavità che non vi è lingua che lo passi esprimere, e in questa
maniera seguitarono sino che comparve l'altra portata, che tutti
li carri si ritirarono per la via di dove erano venuti.

Quarto servizio.
Teste di vitella senz'osso, servite con una zuppa imperiale sotto ...
Galli d'India arrosto, serviti con un festone intorno di pasta di mar-
zapane ...
Piccioni in addobbo fritti, serviti con fette di pane di Spagna ...
Rosoni di pasta di sfoglio, ripieni di cotognata ...
Vitella arrosto, servita con tartarette intorno di bianco magnare ...
Crostate di melappie, con fette di cucuzzata ...
288 LETTURE

All'apparire di questo servizio, in un attimo si vide sopra la


tavola ch'era a' piedi della sala, sopra la credenza di già accennata,
farsi un sfondato che rappresentava la gloria del Paradiso con lumi,
musici e instromenti, che riempiva la vista de' riguardanti; e mas-
sime essendo in tanto numero e in sl diversi abiti, come di angeli,
santi e sante, che pareva infinito; quali con suoni e canti, facendo
concerti vicendevolmente di musica e suoni in diverse maniere,
diedero occasione agl'astanti di persuadersi la gloria che ne' cieli
si gode esser grandissima, misurandola con la soave melodia che
da questa mortale sentivano; la quale con nuovi concerti musicali
continuò sempre, sino che fu finito il magnare.

Secondo servizio di credenza.


Salviette profumate a tutti ...
Torte bianche di bianco magnare.
Torte verde, di provature, ricotta, parmigiano grattato e sugo di bietole.
Pasticciotti di tartufoli, fettoline di cardi e prugnoli secchi ...
Pasticciotti di cotogni intieri ...
Parmigiano, marzolino, con salviette sotto.
Pere fiorentine, mele rose, melappie, cardi con sale e pepe ...
Bianco magnare fritto nel butirro, in fette ...
Olive, uva, castagne, con sale e pepe, finocchio ...
Frappe alla romana in bacili reali ...
Cotognate di Portogallo, cotognate di Bologna ...

Si diede al fine l'acqua alle mani, con stecchi e fiori regalati,


e levate le tovaglie fu dalli Serenissimi prencipi fatta una bellis-
sima barriera, quale finita il Serenissimo granduca Ferdinando
comandò che si lasciasse mettere a sacco dal popolo tutto quello
che stava in quella sala, ritirandosi insieme con li Serenissimi Sposi,
granduchessa ed altri Serenissimi e li sig. cardinali, con tutte le
dame, quali furono a servire la Serenissima Sposa, verso le stanze;
e nel passare per la galleria si trovò una grandissima tavola tutta
carica di confetture nobili e paste di Genova regalatissime, e in
tanta quantità che pare cosa impossibile il pigliarlo a descrivere,
delle quali furono tutte quelle dame splendidissimamente presen-
tate da Sua Altezza.
UN BALLETTO DI CORTE: TORINO 1620 289

2. UN BALLETTO DI CORTE: TORINO 1620

Lo sposalizio di Cristina di Francia con l'erede al trono di Savoia Vitto-


rio Amedeo nel 1619 diede luogo a una serie di festeggiamenti di cui, seb-
bene frammentarie e disperse, restano abbondanti tracce letterarie e musi-
cali. Il loro principale artefice fu il marchese e poeta Ludovico d' Agliè, che
per le musiche si avvalse della collaborazione di Sigismondo d'India (cfr. §
3). A costoro è attribuibile con certezza il balletto del Po, della Stura e della
Dora dato in onore di Cristina prima della sua entrata pubblica in Torino,
nei primi giorni di carnevale del 1620 in una villa suburbana del cardinal
Maurizio di Savoia (descritto in M.-TH. BOUQUET, Storia del Teatro Regio
di Torino, I, Cassa di Risparmio di Torino, 1976, app. II); Carlo Emanuele
I in persona ebbe mano all'allestimento del torneo a cavallo combattuto il
18 febbraio 1620 in piazza Castello, Il giudizio di Flora; a corte fu dato invece
il balletto delle Accoglienze, invenzione probabile dell' Agliè. La lettura della
descrizione a stampa del balletto (riprodotta qui integralmente dall'esemplare
della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, dove pervenne forse grazie a un nobile
pesarese avido raccoglitore coevo di relazioni su feste e spettacoli, cfr. «Gior-
nale storico della letteratura italiana», XLI, 1903, pp. 42-77) è, sebben
tediosa, istruttiva. Più dei caratteri specifici dei balletti sabaudi (di cui tratta
egregiamente M. VIALE FERRERO, Feste delle Madame Reali di Savoia, Isti-
tuto Bancario San Paolo di Torino, 1965), mette conto di illustrare qui la
tipicità di certi ingredienti dello spettacolo torinese nel 1620, e dei suoi con-
gegni: una tipicità che lo apparenta a molti altri balletti e mascherate dati
nelle corti d'Italia (la fiorentina in primis) nei primi decenni del Seicento,
ma anche al bai/et de cour francese (francese era la destinataria di questo e
futura promotrice di tanti altri balletti sabaudi; intriso di francesismi è, come
l'aura culturale torinese, il testo stesso della descrizione: «trutte» per «trote»,
«piazza» per «posto a sedere», «allee •> per «viali •>, «aria» usato al maschile,
«cadanza» per «cadenza •>, «violoni» per «violini •>, eccetera) e al masque della
corte inglese sotto i primi Stuart. Si tratta, più che di un rapporto di reci-
proca influenza e derivazione di una profonda affinità funzionale, struttu-
rale e, alla fin fine, simbolica.
Nulla può illustrare tale affinità meglio del confronto sommario (v. pp.
290-2) tra questo balletto torinese e due balletti scenici suppergiù coevi, scelti
ad arbitrio tra le decine e decine che furono allestiti a Parigi e Londra: il
balletto reale della Délivrance de Renaud, dato a Parigi il 29 gennaio 1617
(testo di Estienne Durand riassunto e musiche di Gabriel Bataille, Pierre
Guédron e Antoine 13oesset edite in H. PRUNIÈREs, Le bai/et de cour en France
avant Benserade et Lully, Laurens, Paris 1914, appendice; scene e commento
in M. M. McGowAN, L'art du bai/et de cour en France 1581-1643, Éditions
du C.N.R.S., Paris 1963, cap. VI, e in M.-F. CHRISTOUT, Le bai/et de cour
au XVII' siècle, Minkoff, Genève 1587, tavv. 32-34, 142-145, 153-155), e
il masque principesco di Oberon, dato a Londra per il capodanno 1611 (testo
di Ben Jonson e scene e figurini di Inigo Jones riprodotti e commentati in
N
'-D
o

e"
Le accoglienze (Torino 1620) La dé!ivrance de Renaud (Parigi 1617) Oberon (Londra 1611) ...,:-::
...,
le Infante concertano un balletto il sedicenne Luigi XIII celebra con un balletto di corte I' as- corteo di entrata dei sovrani e degli
con le loro dame e invitano le dame sunzione del potere e la cessazione della reggenza della regina- ambasciatori di Spagna e di Venezia t:'1
"
della nobiltà cittadina madre e dei di lei consiglieri; sceglie personalmente il soggetto nella sala dei banchetti, pronta per lo
ostentazione delle toilettes delle tassesco del balletto: la liberazione di Rinaldo dagli incante- spettacolo (pifferi)
dame sul corso cittadino simi malèfici di Armida
banchetto ducale: gastronomia e la scena è allestita nella sala grande del Louvre
musica in forme più modeste che
a Firenze nel 1608 (cfr. lettura 1!);
la nobiltà non ammessa al ban-
chetto ducale passa il tempo
ballando
accesso alla sala di dame e cavalieri,
indi della famiglia regnante (suono
[ANTIMASQUE:]
di trombe)
sipario: il tempio della Gloria, il sipario: prospettiva di palazzo e un paesaggio arretrato sipario: rocce oscure, chiaro di luna
giardino delle Virtù, il Parnaso 'coRo INVISIBILE: invito alle gioie dell'amore (grande concerto un Satiro (suona il corno tre volte),
le Infante con 12 dame; la di 64 voci, 28 viole, 14 liuti) poi dieci Satiri che dialogano confu-
Fatica che combatte le fiere; i mutazione: montagna rocciosa, una grotta orridamente amena samente con movenze bizzarre, in-
Vizii neghittosi; le Virtù ope- fine il loro prefetto Sileno, che an-
rose; otro Poeti laureati e le Rinaldo [ = il duca di Luynes confidente del re] assopito; nuncia l' arnrn del Principe delle Fa-
nove Muse sopra di lui il Demone del fuoco[= il re che arde d'amore te Oberon [ = il sedicenne principe
per i sudditi fedeli e di sdegno per i nemici] e 12 Demoni Henry, primogenito di Giacomo I]
:\!ADRIGALE DEI.LA FATICA: esorta [=gentiluomini] lasciati da Armida a guardia di Rinaldo; si aprono le rocce: appare splendido il
alla virtù e bandisce i Vizii Rinaldo avanza verso il proscenio, il re discende alcuni gra- palazzo illuminato di Oberon
BALI.ETTO GROTTESCO DEJ VIZII FUG- dini al suono di 24 Spiriti (24 violini)
GIASCHI (tromboni e cornetti) due Silvani dormienti a guardia del
l ENTRÉE DI BALLETTO DI RINALDO COI DEl\lONI DEL Fuoco, palazzo: i Satiri li stuzzicano e
motteggiano (cantano un canone
DELL' ACQVA, DELL'ARIA burlesco), Sileno li interroga
ENTRÉE BIZZARRE E STRAVAGANTI DI SPIRITI E DEMONI CANZONE DEI SATIRI ALLA LUNA
BALLETTO DI 14 PERSONAGGI: Rinaldo e i 23 Demoni { BALLETTO GROTTESCO (BRANLE) DEI
i Demoni spariscono; entrano due Cavalieri corazzati all'an- ' SATIRI
tica (musica di trombe); per incantesimo di Arrnida la scena
si tramuta in un
giardino delizioso con tre fontane zampillanti
emerge nna Ninfa nurb. e-- ~c-~rmic!:H~ta.
AlR Dl::.LLA NINFA: intìma ai CavaHeri di lasciare Rinaldo ad
Armida
compaiono sei Mostri; due gufi-giureconsulti, due cani-
contadini, due scim.mie-damigclle; i Mostri attaccano i
Cavalieri
! ENTRÉE BUFFA/GRAVE DEI MOSTRI E DEI CAVALIERI
i Mostri fuggono e i Cavalieri scorgono Rinaldo
AIR. m RINALDO: canta la propria beatitudine amorosa
[?mmtÉE DEI CAVALIERI CON RINALDO]: i Cavalieri liberano
{
Rinaldo dalla sua dorata cattività
Annida accorre, assiste disperata alla desolazione dd giar-
dino incantato, convoca i propri Ministri demoniaci, tre
in forma di gamberi, due di tartaruga, due di lumache
AIR. m .AltMmA: redarguisce i Mostri
{ ENTRÉE DEI MOSTRI E LORO METAMORFOSI IN ORRIBILI VECCHIE [MASQUE:]
compare la Virtù Eroica, con terremoto: il gimdino d'Armida si tramuta in nuda ClltlfflltJ; entrtl al canto del gallo si apre il pa/auo: e:
2!
sergentino e cornucopia, attri- in scena, su un amel/o, un bosco folto; sullo sfondo, rovine antiche compare il Popolo delle Fate, che cir-
1:11
buti di imperio e ricchezza conda i Cavalieri [ = i 1) gentiluomini
nd bosco, Pietro l'Eremita che con la sua sapienza aveva masquers], che circond4no Oberon
•l"'
QUARTINE DELLA Vm:rù EROICA ordito la liberazione di Rinaldo, e 16 Soldati dell'esercito l"'
(musica di S. d'India, cfr. S il carro trionfale di Oberon trai- l'l
di Goffredo "1
3): esorta le Virtù ad assistere nato da orsi bianchi e guidato dai "1
Madama Reale nella sua venuta CORO DEI SOl.oAn DI GOFFREDO: alla ricera di Rinaldo Silvani avanza verso il proscenio o
DIALOGO CANTATO DELL'EREMITA COI SOLDATI: annuncio della (squilli di trionfo) t:l
~
{ BALIErrO DELLE VIRTÙ («sinfonia~
di «cento voci» e strumenti) { liberazione di Rinaldo CANZONE all'indirizzo di re Artù ('l

compare Apollo CORO [E BALI.ETIO?] DI GIUBILO (92 voci e più di 45 strumenti) [ = Giacomo I, seduto in sala] ,.o
disconi d'encoinio di un Silvano "1
MADRIGALE DI AJ'Ou..o: invita i l'l
Poeti a celebrare Cristina e di Sileno
>-j
BALIErrO DELLE MUSE E DEI PoETI CANZONE m DUE FATE (due ragazzini o
,.
{ («armonia drammatica e al suono di 10 liuti) ~

grave») { BALI.ETIO DELLE FATE MINORI: 10 2!


paggi o
compare la Gloria
MADRIGALE DELLA GLORIA: annun- °'
zia la mutazione scenica "'
o

lv
-,:,
....
N
~
N
Le accoglienze (Torino 1620) La délivrance de Renaud (Parigi 1617) Oberon (Londra 1611)
si apre il tempio della Gloria: com- scomparso il bosco mobile, appare il padiglione dorato di Gof- CANZONE APIENO CORO: esortazione al t""'
l'1
paiono su un arco trionfale l'Onore, fredo, con palme e trofei di vittoria ballo dei masquers -i
la Vittoria e la Fama -i
apoteosi di Goffredo [ = il re] e dei suoi Cavalieri [ = gli stessi { BALLETTO D'ENTRATA DEI MASQUERS: e:
gentiluomini che impersonavano all'inizio i Demoni] in Oberon e i Cavalieri ballano
MADRIGALE DELL'ONORE: esorta le l'1
"
splendido addobbo; a un segnale del re, sceso dal trono, CANZONE: incitamento a proseguire le
Infante ad accogliere degna- ha inizio il
mente Madama Reale danze dei masquers
{ GRANDE BALLETTO DELLE INFANTE GRANO BALLET TRIONFALE (violini) { BALLETTO GRANDE DEI MASQUERS: Obe-
CON LE LORO DAME (violini) indi il ron e i Cavalieri ballano a lungo
riverenza delle Infante a
Madama Reale («dolcissima CANZONE: esortazione ad aprire le
melodia» corale e strumentale) danze collettive
BRANDO BALLATO DALLA FAMIGLIA GRANDE BALLO COLLETTIVO REVELS (BALLI COLLETTIVI) DEI
{ REALE AL COMPLETO, E BALLO MASQUERS CON LE DAME DEL PUB·
COLLETTIVO (violini) BLICO: scesi dalla scena, il principe
Henry [ = Oberon] con la regina,
pubblicazione del cartello di gli altri masquers con altre dame
disfida per un torneo ballano una pavana, un coranto,
una gagliarda, un branle de Poitou
eccetera
a un segnale discreto del re appare
Phosphorus, la stella del mattino
CANZONE DI UN SILVANO: annunzia la
fine della notte e dei balli
Phosphorus esorta gli astanti a
ritirarsi
BALLETTO DI COMMIATO DEI MASQUERS
E DEI SATIRI
CANZONE A PIENO CORO: riverenze dei
! masquers all'indirizzo delle Loro
Maestà
i sovrani col loro séguito e gli amba-
sciatori si avviano verso il banchetto
imbandito
UN BALLETTO DI CORTE: TORINO 1620 293

A book o/ masques, a cura di T. J. B. Spencer e S. W. Wells, Cambridge


University Press, 1970; musiche superstiti di Alfonso Ferrabosco e Robert
Johnson in Four hundred songs and dances /rom the Stuart masque, a cura di
A. J. Sabol, Brown University Press, Providence, R. I., 1978, ad indicem
e appendice A).
Per tutti e tre questi balletti rappresentativi, pur tanto diversi, valgono
alcuni caratteri comuni. L'entrata degli spettatori nel luogo dello spettacolo
equivale all'entrata nel "tempo" della festa, nella dimensione ideale della
corte che si autorappresenta. Il sipario si apre su una visione suggestivamente
orrida (paesaggio rupestre, grotte, rocce), che una serie più o meno nutrita
di mutazioni sceniche modificherà via via fino alla apoteosi scenografica con-
clusiva. Pari pari, le prime azioni e i primi balletti sono di carattere spiccata-
mente grottesco, comicamente disarmonici (Vizi; Demoni nefasti; Satiri), con
sonorità "basse" (strumenti a fiato). Addirittura, nel masque giacobita que-
sto esordio burlesco o inquietante prima dell'apparizione dei masquers (Oberon
con il suo seguito) è sviluppato fino a formare un vero e proprio antimasque,
concepito come uno «spettacolo di stranezze», «un falso masque» che Ben
Jonson predispone ad arte per far meglio risaltare il masque propriamente
detto: di regola l' antimasque ha carattere comico e grottesco, è perlopiù reci-
tato senza canto, con danze bislacche, affidato ad attori di professione (non
ai nobili cortigiani dilettanti che impersonano i masquers). In tutti e tre i
casi, comunque, i personaggi e i ballerini più nobili prendono man mano il
sopravvento in scena: a un certo punto i protagonisti del balletto - le due
Infante, Luigi XIII, il principe Henry -, tutti presenti in scena fin dall'ini-
zio (nel masque soltanto dopo la conclusione dell'antimasque), danno luogo
alla danza principale del balletto. Indi loro stessi, scesi dalla scena sul piano
della platea al cospetto degli augusti spettatori, introducono il ballo collet-
tivo, che d'ogni balletto di corte costituisce il clou e il vero compimento.
In tutti e tre i casi il canto solistico ha una funzione ancillare: esorta i
ballerini e i cortigiani alla danza, e annunzia le apparizioni sceniche. In tutti
e tre i casi il balletto manifesta (in maniera visibile ed udibile) la vittoria
dell'Armonia sulla Disarmonia, della Virtù sul Vizio, della Regola sull' Arbi-
trio (cfr. P. WALLS, La musica della pace regale, in Mitologie. Convivenze di
musica e mitologia, a cura di G. Morelli, La Biennale, Venezia 1979). In tutti
e tre i casi questa vittoria culmina nel momento in cui il mondo reale della
corte (gli spettatori) e il mondo immaginario dei ballerini si sovrappongono
ed identificano: il ballo collettivo. In tutti e tre i casi si tratta della mess'in
scena d'una glorificazione encomiastica ed allegorica e simbolica del sovrano
e della dinastia regnante, una glorificazione che "costruisce" un'immagine
pubblica del sovrano come depositario e dispensatore dell'armonia (politica
ed interiore). La festa collettiva è surrogata in un rito cerimoniale afferma-
tivo; ogni carnevalesco travestimento trasgressivo è sublimato - secondo un
precetto tacito che vige per tutto il Seicento - nella protocollare celebrazione
d'un codice inalienabile, il codice dell'onore e della nobiltà del sangue e del
diritto divino. Minuziosissimamente descritti, i costumi dei ballerini sono
il segnale visivo di quell'etichetta cerimoniale.
294 LETTURE

Sarebbe però fuorviante fare d'ogni erba spettacolare uno storiografico


fascio e voler ravvisare nei balletti di corte, nelle mascherate, nei masques
del primo Seicento i prodromi o i primordi del teatro d'opera. Per quante
affinità possano riscontrarsi nel campo della scenotecnica o dello stile di canto
o delle fonti mitologiche, balletto di corte e dramma per musica sono generi
radicalmente diversi, incompatibili per funzione (cerimoniale versus rappre-
sentativa), per struttura temporale (tempo della festa vs tempo dell'azione),
per organizzazione spaziale (scena e platea comunicanti vs incomunicanti),
per ruolo relativo della musica (accessorio vs essenziale), per àmbito sociale
(corte vs città o Stato), per intento (allegoria o simbologia vs mozione e diver-
timento degli affetti). Vero è semmai, proprio all'opposto, che il teatro d'opera
soppianta i balletti di corte dovunque esso assuma forme istituzionali sta-
bili, mentre invece una tradizione tenace di balletti di corte può costituire
un ostacolo duraturo all'impianto del teatro d'opera. È il caso dell'Inghil-
terra (cfr. § 26); è il caso della corte sabauda, lungamente avida di balletti
e solo tardivamente ghiotta di opere in musica. A Torino, anche un letterato
avvertitissimo come Emanuele Tesauro (che nel suo trattato di poetica, il
capitale Cannocchiale aristotelico del 16 70, esalta i «figurati balletti, che con
la meraviglia degli apparati, con la stranezza degli abiti, con la vivezza degli
atti, col bizzarro metro de' passi, al dolce rimbombo di musicali strumenti»
alludono «ad alcun salutevole o politico documento», cioè insegnamento)
quando si accinge a scrivere una «tragedia musicale» - l'Alcesti o sia L'amor
sincero in 5 atti stampata adespota nel 1665 - vi lascia uno spazio pressoché
nullo alla rappresentazione musicale degli affetti (alle arie) e produce uno
spettacolo ibrido che sotto ogni aspetto denota la perplessa perifericità di
Torino rispetto al rigoglioso mercato operistico coevo.

Le accoglienze, balletto delle Serenissime Infante di Savoia, ad


onore di Madama di Francia, rappresentato li 30 di gennaio MDCXX.

Avendo il rigar dell'inverno impedito le fabbriche e gli appa-


rati che si apprestavano per la venuta di Madama, e stato insieme
necessario di prolungar la sua entrata solenne in questa città sin
al principio del seguente mese di marzo, ma intanto Madama desi-
derosa di esser con Sua Altezza e con le Serenissime Infanti, e di
passar i giorni di carnevale in Torino, si risolse d'entrarvi privata-
mente un giorno in maschera ed in leza, che fu li 14 del passato
gennaro accompagnata da Sua Altezza, dalle Serenissime Infanti,
dai principi, dalle dame della corte, e da buon numero di cavalieri
tutti immascherati ed in leza, con bizzarre e vaghissime invenzioni.
Non si potrebbe esprimere la consolazione delle Serenissime
UN BALLETTO DI CORTE: TORINO 1620 295

Altezze e di tutta la città, che all'inaspettata vista di lei precipito-


samente concorse, ma fra gli altri le Serenissime Infante risolsero
di onorare cosl felice e desiderato arrivo con tutti quei maggiori
segni di giubilo, d'osservanza e d'affetto che all'interno del cuore
potessero corrispondere. Concertarono perciò con le dame loro un
balletto, al quale sendo invitate tutte le dame della città, ciascuna
d'esse ornata a gara delle più ricche vesti e di preziose gemme tem-
pestata comparvero il giorno nelle carrozze all'usato corso della
strada di Po, dove ancora venne la nobiltà de' cavalieri della corte
conforme al costume e più del solito numerosa, e per la superbia
de' vestiti, per la quantità inestimabile delle gioie e per le varie
e pompose bardature de' feroci cavalli reguardevole.
Determinò Sua Altezza di ricevere Madama e le Infante Sere-
nissime nelle sue stanze, come più vicine al salone ove dovevasi
la festa rappresentare.
Onde a questo effetto fece ivi apprestare ali' avvantaggio una
lautissima cena, nella quale gareggiarono le trutte di mostruosa gran-
dezza, i tonni ed altre varie sorti di pesci del mare, con gli animali
della terra e con i volatili che sogliono comparire alle mense più
degne.
Fu il tutto presentato con graziosissimo ordine e con ornamenti
di fiori diversi, i quali, confondendo gli odori suoi con quelli del-
l'ambra e degli altri profumi in grandissima copia, spiravano soa-
vità incomparabile. A queste vivande successero frutti pellegrini
ed in questa stagione non aspettati. Indi le paste di zuccaro ed i
confetti con sottilissimo lavoro ed ingegnosamente rappresenta-
vano tutto ciò che di più vago, di più nuovo e di più grazioso si
ammira nella natura. Cresceva il diletto del gusto la soavità delle
musiche, che pascendo l'orecchio rendeano gli animi altrui d'in-
tiero contento appagati. Già s'erano in questo tempo ridotte le dame
della città e quasi tutta l'altra nobiltà nell'appartamento basso, e
vi si trattennero ballando sinché s'intese il fine della cena poco
avanti la mezzanotte. Allora dunque salendo in alto, andò ciascuna
a sedere nella destinata piazza, essendo il salone per tale comodità
compartito in questa maniera. Alzavasi verso tramontana una
grande scalinata di dieci gradi ammantata d'arazzi di Soria, alla
cui sommità si spiegava un piano dov'erano disposte le sedi di Loro
Altezze sotto un ricco baldacchino, e che poteva capire con esso
le dame di palazzo. Dagli angoli dell'istesso piano si stendeva a
296 LETTURE

ciascun fianco un lungo palio coperto di velluti e di broccati, che


terminava con una tela, la quale avendo per confine le nuvole bene
imitanti il naturale e dipinta a bellissimi paesaggi formava al tra-
verso nella parte opposta alla scalinata una gratissima prospettiva.
Sotto i palchi fu poi limitato lo spazio a' cavalieri sopra un'altra
scalinata, ed indi agli altri spettatori tra questa e le colonne che
sosteneano i medesimi palchi. Stando così ordinate le cose, e dopo
l'arrivo delle Serenissime Madama ed Infanta Margarita accom-
pagnate da Sua Altezza e da' Serenissimi prencipi, intimato col
suono delle trombe a ciascuno il silenzio, videsi d'un tratto spa-
rire a guisa di baleno e nascondersi fra le nuvole la tela, dando
in un punto a mirare tanti oggetti degni di meraviglia che molti
come instupiditi ne rimasero. lmpercioché si offerse prirnieramente
per dritto un monte alpestre ed arsiccio, se non se in quanto pen-
deva dalle sue rupi qualche ortica e qualche spina tra le moffe e
tra l' erbe rigide e scolorite, alla cui cima folgorava di vivissimi raggi
il Tempio della Gloria tutto di cristallo colonnato d'oro, e nel mezzo
trasparivano le Serenissime Infante Maria e Caterina con dodici
loro dame vestite da reine, come diremo poi. Alle falde di mezzo
la Fatica, quasi nuovo Ercole, maneggiava la clava atterrando leoni,
serpi, cinghiali ed altre fiere sparse; e poscia alle radici del mede-
simo monte veggevansi neghittosi e dormienti l'Amore, l'Ozio,
l'Oblio, la Pigrizia, il Sonno, la Gola, il Vizio ed il Piacere. A mano
destra verdeggiava poco men alto del monte un delizioso giardino
inteso per quello delle Virtù, ripieno di piante e di fiori con alcuni
leggiadri compartimenti d' allee distinte ed arricchite di pellegrini
vasi alle sponde, dove le medesime Virtù si mostravano in atto con-
tinuo di comporre ghirlande e d'intrecciar corone. A sinistra sor-
geva nel mezzo d'un folto bosco di lauri il Monte Parnaso col capo
rilevato quasi sino al cielo, donde pareva che Pegaso si spiccasse
al volo reggendosi sopra le zampe di dietro e fendendo le nuvole
con l'ali. lvi al mormorio d'un limpidissimo fonte sedevano otto
poeti facendo sembianza di scrivere fra le nove Muse pomposa-
mente addobbate e con gli stromenti alla mano, che dinotavano
le scienze e le arti liberali alle quali è ciascuna inclinata. Ma gli
animi intesi al vario aspetto di quelle macchine e di que' perso-
naggi furono tosto rapiti dall'armonia della Fatica, che cantò il
seguente madrigale:
UN BALLETTO DI CORTE: TORINO 1620 297

Chi del piacer tiranno


calca il sentier fiorito,
misero alfin tradito
cade in abisso di perpetuo danno.
Sol chi 'l monte sassoso
teco, sposa reale,
varca della Virtù, può i giorni e l'ore
trar più lunghe e felici e gloriosi
prender da tanto nume
lena al corso, aure al volo, ali alle piume.

Dopo il quale mentr' ella vibrava contra i suddetti Vizii la nodosa


clava, e li cacciò da quell'ameno soggiorno nel piano del salone,
dove comparvero in tonicelle verdi arabascate d'argento, portando
ciascuno il geroglifico attribuitogli dagli antichi, presero indilata-
mente a suonare i tromboni ed i cornetti un certo aria mozzo con
alcune artificiose lentezze, e quinci ancora a quella cadanza balla-
rono i Vizii il loro balletto, arrestandosi qualche volta come stor-
diti, e poscia ripigliando i passaggi in figure ad imitazione di quelli
che oppressi dal sonno vacillano e s'inciampano, ma con esattis-
sima misura e cosl a tempo che ne restò indelebilmente impressa
la memoria de' circostanti. Finito il balletto, e nascondendosi questi
nelle spelonche e nelle grotte incavate al piè del monte, ecco vicina
ad un fonte che nel giardino delle Virtù gettava dilettevoli zam-
pilli d'acqua e n'irrigava l'erbe ed i fiori vagamente comparire la
Virtù Eroica coronata di fiori ed in gonna di tocca d'oro guernita
di spessi lavori. Ondeggiavale un manto pur di simil tocca alle spalle
con lunghi pizze d'oro al lembo, e dalla cintura si dilatava sopra
la suddetta gonna un girello ricamato d'oro, armando la destra mano
d'un sergentina, e con la sinistra sostenendo il corno della copia
ripieno di frutti e di fiori, ed avanzatasi un passo cantò queste
parole:

lo, che dal ciel ne' sempiterni campi


sulle grand'ali d'oro il volo stendo
e cinta di corone alto risplendo
bella Virtù fra luminosi lampi,
figlia immortal di Giove il mondo or segno
d'orme celesti in questa augusta parte,
dove sposa real, figlia di Marte,
il Vizio atterra, il mio nemico indegno.
298 LETTURE

Già per montana via ella d'Onore


e della Gloria al tempio ardita sale,
e fatta lungo da pensier mortale
di mie pompe s'adorna il crine e 'l core.
Siate voi dunque scorta, alme sorelle,
della gran diva al peregrin cammino;
ecco com'ella con fatai destino
saetta in terra i cori, in ciel le stelle.

In questo le Virtù discesero nel piano in vesti sino a mezza gamba


di color verde fregiate ed arabascate d'oro e d'argento, con i coturni
argentati, e con le capillature lunghe intessute di fila d'oro, avendo
però ciascuna per le mani una insegna di pastume che la faceva
particolarmente conoscere; ed alla sinfonia di ben cento voci e d' al-
trettanti stromenti danzarono con incredibile agilità un balletto
assai lungo a capriuole ed a rivolte graziosissime, nel finir del quale
Apollo coronato di raggi, in manto ed in vestito rosso tempestato
di ricami d'oro pur ancor a raggi con la sua lira in mano fece dal
monte Parnaso sentir cantando le seguenti parole:

Voi che d'eburnea lira


dotti saettatori
con note lusinghiere
eternate d'eroi l'opre guerriere,
or che cinto d'allori
de' Franchi il giglio d'or fra voi s'ammira,
raddoppino il concento
sulle cetere d'or gli archi d'argento.

Soggiunsero allora con pieno coro le Muse, ed essendosi calati


intanto nel teatro i Poeti coronati d'oro a foglie di lauro, con lami-
nette d'oro scintillanti fra i capelli, in ongarina di color d'amaranto
con arabeschi d'argento pur a corone ed a tronconi di lauro aperta
innanzi e lunga sino alla metà della calza intiera bianca con tagli
larghi di passamano d'oro, ed in un manto di tocca d'oro profilato
intorno di alte punte o pizzi d'oro, fecero a quell'armonia dram-
matica e grave un gentilissimo balletto con insuperabile leggiadria
e disposizione. Quando furono ritirati i poeti, la Gloria con una
corona d'oro piena di preziosissime gemme in capo vestita di sot-
tana di tela d'argento con lavori d'oro intorno e d'un manto di
tocca d'oro trapuntato di fiori di seta con oro ed argento, e tenendo
UN BALLETTO DI CORTE: TORINO 1620 299

una tromba in mano, sciolse il canto dalla più alta parte del tem-
pio in queste parole:

Alme grandi e famose,


cui del mio ciel poggiar diede alle cime
opra e pensier sublime:
anime gloriose,
uscite, uscite ormai
a rimirar qual luce
qui de' gran gigli d'orla diva adduce.
Accoglietela voi: a tanto merto
veggasi il tempio della Gloria aperto.

Aprendosi pertanto il tempio della Gloria, videsi anca mancare


in uno istante a poco a poco una rupe nel mezzo del monte, ed
in quel luogo levarsi improvvisamente un arco trionfale dedicato
all'Onore, sopra il quale tra la Vittoria e la Fama sedeva il mede-
simo Onore coronato di fiori, in veste di tela d'oro col manto pur
di tocca d'oro lavorato a fiori al naturale, e col girello ricamato
d'oro, e scuotendo con la destra lo scettro cantò questo madrigale:

lte, voi che mercaste


per sentier de' sudori
della Gloria gli allori,
ad incontrar colei
che dee l' Alpi arricchir di semidei.
lte, mentre s'innalza alla gran diva
arco d'onor ch'eternamente viva.

A questo canto si mossero subito le Serenissime Infante con


le dodici dame dal tempio della Gloria, per incontrar Madama e
per condurla colà a godere con le altre sagge e valorose reine il pre-
mio dell'immortalità, e passando prima per la porta dell'arco trion-
fale si divisero poi sette per ogni lato del monte, conducendosi per
due strade oblique nel ballo, dove s'incontrarono di nuovo, ed a
coppia a coppia si misero in ordine. Fiammeggiava loro in capo
una corona contesta di fiori di talco con tremolanti di perle fine
tramezzati di grossissimi diamanti e di rubini, sventolandovi sopra
un gran mazzo d'aironi con penne di colori conferenti a quelli del-
1' abito. Era l'abito di tutte loro in ogni parte conforme, e d'inusi-
tata ricchezza, a cui però non punto inferiore si stimava la novità
300 LETTURE

della foggia aiutata poi anca dalla grazia del portamento. Perché
la veste di tela d'oro e d'argento riccia sopra riccia guernita di sei
giri o vie di ricamo largo più di due dita tutti di vernigli d'oro rile-
vati si serrava come un'armatura al busto ed allargava quindi le
falde, che radevano la terra, come pure la punta della manica aperta
con fodra di tela d'oro di colore incarnato, che tagliata a fogliami
sfuggendosi a guisa di palma era della medesima lunghezza. Risplen-
deva alle spalle il manto di lama fina d'argento, che cadendo e dila-
tandosi con bella pompa si raccoglieva indi per li cantoni alla cin-
tura ove si allacciava al girello alto due palmi e mezzo tutto rica-
mato di vernigli sopra il fondo di lama d'oro. Ma di vaghezza ammi-
rabile e di prezzo quasi inestimabile si partiva nel petto il collaro,
chiudendo nello spazio di mezzo una gran gioia, questa e quello
composti di diamanti e d'altre gemme in tanta quantità ed in qua-
lità tali che ne rimase superato il lume dei doppieri accesi intorno
al salone ed abbagliati gli occhi dei riguardanti. Cosl dunque avan-
zandosi oltre cominciarono al suono de' violoni con piacevole maestà
e con maestosa piacevolezza il loro balletto di quaranta figure bel-
lissime, formando dall'una all'altra per un'ora continua diversi pas-
saggi in corrente ed in gagliarda con tanta giustezza e cosl bene
a tempo, che pareva fatto per costume, e non ad arte. Terminando
finalmente il detto balletto vicino alla grande scalinata, dopo una
gran riverenza furono condotte da Sua Altezza e da' Sereniss. fra-
telli a sedere con le Sereniss. cognata e sorella, da' quali furono
ricevute con molta allegrezza, mentre tutti gli stromenti e tutte
le voci sentite prima separatamente accordandosi insieme fecero
una dolcissima melodia. Indi tacendo questi ripigliarono i violoni
soli un brando ballato dalle Sereniss. Altezze, ed altre danze di
favore per buono spazio a piacere di quelle dame e de' cavalieri,
ed in questo modo s'impose il fine a quella festa.
[A questo punto un araldo con trombe "pubblica" il cartello di disfida
al torneo del principe Filiberto sotto nome di Prencipe Fiammidoro.]
CONDIZIONE SOCIALE E INTELLETTUALE DEL MUSICISTA 301

3• CONDIZIONE SOCIALE E INTELLETTUALE DEL MUSICISTA:


ANTONIO MARIA ABBA TINI

Circa il 166 7, Antonio Maria Abbatini (Città di Castello 1609 ca. -


1679 ca.) indirizza un capitolo autobiografico a Sebastiano Baldini - lette-
rato, poeta, autore di testi di cantate burlesche musicate da Antonio Cesti,
Atto Melani, Alessandro Stradella, Marco Marazzoli eccetera, segretario della
Sapienza (l'università di Roma), era amico intimo della famiglia di papa Ales-
sandro VII Chigi - e gli chiede di intercedere presso il «padrone» (come egli
chiama, con scanzonata irriverenza, il pontefice) per procurargli non meglio
precisati favori. Per descrivere i patimenti della sua vita Abbatini vorrebbe
disporre, non a caso, dell'eloquenza del gesuita Luigi Albrizzi, predicatore
nel Palazzo Apostolico (v. 16). Invece, ahimè, la qualità letteraria dei «ver-
sacci» abbatineschi è pessima, oscura più d'un'allusione (p. es. quella a una
confutazione teorica contro un tedesco, v. 193 sgg.). Tuttavia risultano dal-
l'autobiografia del compositore alcune circostanze significative della sua vita
e, più in generale, della condizione dei musicisti di quell'epoca: la peregrina-
zione continua dall'una all'altra delle maggiori cappelle musicali romane, dal
Gesù (v. 80) al Laterano (v. 85), da Santa Maria Maggiore (v. 109 sgg.) a
San Luigi, chiesa nazionale dei francesi in Roma (v. 114 sgg.); la commis-
sione papale (v. 100 sgg.) di dare una veste musicale degna al testo degli inni
riveduto dal papa umanista Urbano VIII (l' Abbatini adattò i testi nuovi alla
musica degli inni del Palestrina: l'edizione, sontuosa, apparve ad Anversa
nel 1644, come s'è accennato al§ 12); l'attività incessante di Abbatini come
didatta, maestro di compositori e di cantanti propagatisi poi fin nel Sud-
america sull'onda delle missioni (v. 133 sgg.; cfr. § 10); la condizione sociale
ed economica mediocre in cui, rispetto a cantori e suonatori (vv. 163-168),
versa un maestro di cappella, costretto a vivere con le scarse rendite d'un
beneficio ecclesiastico (v. 10 sgg.) e una provvigione modesta della cappella
(v. 247 sgg.) e a cercar pensioni e sussidi (v. 25 sgg.) per potersi pagare il
lusso d'un vetturino una volta ogni tanto (v. 260 sgg.); la fama di teorico
che circonda l' Abbatini (v. 148 sgg.), sullo sfondo della decadenza degli studi
teorico-musicali nel XVII secolo (ai vv. 178-192 un lungo elenco di teorici
dei secoli xv e xvi), causa intrinseca del decaduto prestigio del maestro di
cappella (cfr. § 10); le accademie musicali (vv. 206-246) tenute in casa del-
!' Abbatini dal 1663 in poi, con canto di' madrigali (cfr. § 1), esecuzioni vocali
e strumentali al cembalo, dispute e lezioni teoriche (alcune si sono conser-
vate manoscritte e si leggono ora in G. C1LIBERTI, Antonio Maria Abbatini
e la musica del suo tempo, Regione Umbria, Perugia 1986, cap. IX). Nessun
accenno, invece, alla produzione di musica teatrale (cfr. § 22), che per l'Ab-
batini evidentemente dovette essere non più che uno dei tanti generici ser-
vizi prestati a «prenci diversi» (vv. 151-153). Il capitolo, riprodotto qui inte-
gralmente, sta tra le carte del Baldini alla Biblioteca Apostolica Vaticana (ms.
Chigi L. Vl.191).
302 LETTURE

Al Sig. Bastiano Baldini


Ho voluto più volte, o mio Baldini,
narrarvi appieno la mia condizione
e farvi anatomia de' miei destini,
già che sete all' orecchie del padrone,
5 e assai vi stima, come faccio anch'io
e fan gli uomini tutti, e con ragione,
perché voi sete dotto, giusto e pio,
a ciascun volentier fate servizio,
insomma sete appunto il caso mio.
10 Da Palazzo non cerco benefizio,
ché son trent'anni che io l'ho con cura,
benché io non dica mai il divino Offizio.
Non mi dà pan né vin come han natura
di render tutti gli altri benefizi,
15 ma sol danno m'apporta e mi procura.
Qua vi vorrebbe un altro Padre Albrizi
che descrivesse il danno che m'arreca,
il tormento che pato e i gran supplizi.
Lascio ch'ogni sostanza egli mi spreca,
20 ma più mi preme e più mi cruccia il petto
di non poter dir messa che alla greca.
D'esser in tutto privo io son costretto
d'ogni ben che suol dar la Dataria,
e tal boccone inghiotto a mio dispetto.
25 Io vi giuro, o Baldini, in fede mia
che l'altro giorno per disperazione
m'ebbi a buttar del tutto in sulla via.
Tentai ardito una certa pensione,
n'ebbi rescritto con grata risposta,
30 ma sentite qual fu la conclusione.
Sùbito a questo il Perobitum osta
con dir che, avendo io moglie, la dispensa
è necessario ch'abbia a tal proposta.
Come statua restai, pure il cor pensa
35 supplire a tutto che sarà mestiero,
purch'abbia il pan sicuro alla mia mensa.
CON D IZ IONE SOCIALE E I NT ELL ETTU AL E DEL MUSICISTA 303

M'informo della spesa ed (è pur vero)


vedo che m'impedisce il desir mio;
cosl resta deluso il mio {)ensiero.
40 Del fato, del destin perverso e rio
sino al ciel mi querelo e in un mi doglio,
ch'ogni speranza è già posta in oblio.
Qual pensate che sia il mio cordoglio
di non poter spuntare in vita mia
45 una piazza nemmen in Campidoglio?
Eppure ho faticato, e gelosia
ho dato ai primi di mia professione,
cercando sempre di sapere il quia.
Col vostro aiuto ho certa opinione
50 di poter conseguir quel ch'io vorrei,
perciò, vi prego, datemi attenzione.
Ora vi spiego tutti i pensier miei,
la nascita, la patria e quanto mai
nel corso di mia vita al mondo fei,
55 ch'informato di tutto quel ch'oprai
potiate a fronte aperta dimandare
al padron la quiete alli miei guai.
Scusatemi se ardito è il mio parlare,
perché se taccio il ver voi non saprete,
60 né potreste per me mai nulla oprare.
Or aprite l' orecchie ed intendete
che la mia patria è Città di Castello
e son degli Abbatin, come sapete.
A me comparte come a questo e quello
65 di nobil cittadino i privilegi
questa amabil città, Tiferno il bello,
ricca di palme, di corone e fregi,
d'uomini illustri in tutte le contrade:
che pur mie glorie son lor fatti egregi.
70 Nell'età mia più verde aprir le strade
alle scienze i Padri gesuiti,
alla musica attesi in ogni etade.
D'anni appunto quattordici gl'inviti
non ricusai di maestro di capella
75 della patria, con ottimi partiti.
304 LETTURE

In poco tempo in questa parte e in quella


si parlava di me con meraviglia,
ciascun Jasquino, il Pelestrin m'appella.
Corse la fama a Roma a tutta briglia,
80 fui chiamato al governo del Gesù;
giunto, a più d'un feci inarcar le ciglia.
Credete pur che mai tal cosa fu,
ch'un giovanetto sol di sedici anni
pervenisse a tal grado, anzi più sù,
85 perché successi al Cifra a San Giovanni,
capo e madre di tutte I' altre chiese,
dove mai non si va carco de' panni.
Per le molte fatiche alfin si rese
la mia natura fiacca e indebolita:
90 mezzo morto tornai al mio paese.
Dopo rifatto per fermarmi in vita,
Il m'accasai con Dorotea Giustini,
di bontà e nobiltà molto arricchita.
Mentre io mi stavo con quei cittadini
95 passando il tempo in cacce, suoni e canti,
in barriere, in tornei, giostre e festini,
son dal padron chiamato a Roma; oh quanti
di mia consorte e de' fratelli amati
furo i singulti, e dolorosi i pianti!
100 Giunto a Roma, il padron con modi grati
ch'in musica io disponga mi comanda
gl'inni dal grande Urbano accomodati.
A' miei dì non gustai meglio vivanda;
a casa ritornai con allegrezza,
105 dando al ciel grazie del ben che mi manda.
Per servir tal signor, ma con caldezza,
mi posi per ridurli al suon migliore,
come in un anno fei, con gran prestezza.
Poi sul Monte Esquilin, dove è Maggiore
110 la gran Madre di Dio, ebbi la cura
d'esser dell'armonie il direttore.
Per l'impiego continuo ebbi paura
d'intisichirmi, onde corsi a servire
di San Luigi le bramate mura.
CONDIZIONE SOCIALE E INTELLETTUALE DEL MUSICISTA 305

115 Qui il chiodo io fermo, perché si suol dire:


il papato de' maestri è San Luigi.
E qui penso di vivere e morire.
Non si canta qui mai nei tuoni frigi,
perché rissa non v'è, né mai fracasso,
120 ma sol nel !idio, come usa in Parigi.
Faccio qui punto, ed or qui fermo il passo,
ché stracco sono, e non mi è più permesso
passar più oltre, ché son troppo lasso.
Ma sol dirò che quarant'anni adesso
125 han terminato ch'io faccio il facchino,
e chi mi vole arrosto, e chi a lesso.
A undici anni ormai son già vicino
ch'io mi trovo al servizio de' Francesi,
altri venti servii sull'Esquilino.
130 In Lateran sette anni e pochi mesi,
due anni non complti al buon Gesù,
che son quaranta in tutto male spesi.
In tutti i detti impieghi ho fatto più
di cento allievi, e massime castrati:
135 per tutto il mondo son, fin nel Perù;
non v'è chiesa de' preti né de' frati,
in Roma, che di lor non sia ripiena;
in cappella papal sono i primati.
A cotal dir m'invigorisco, e lena
140 maggiormente ripiglio, o caro amico,
ché quanto ho detto è sol due terzi appena.
Ho stampato dieci opre; e a quel che dico
fate ben riflession, ché stupirete,
perché quanto mai fei or maledico.
145 De' denari non ebbi mai gran sete,
ché di rabbia sarei morto sicuro,
come voi stesso ancor concluderete.
Ai dubbi che mandati a Roma furo
da Napoli, Bologna e Portugallo
150 solo io risposi, io sol chiarii l'oscuro.
Mille volte ho servito, s'io non fallo,
prenci diversi in vari loro impacci,
e servo ancor, già che mi trovo in ballo.
306 LETTURE

Di quanto ho detto in questi miei versacci


155 non ebbi mai per regalo un quattrino,
ma sol de' miei teston furon gran spacci.
Altro ci vuol ch'il solo pane e vino,
che è la provision (né dico male)
delle cappelle appena, o mio Baldino!
160 La musica perfetta instrumentale
nasce da maestri, da voci e instrumenti;
questa d'ogn'altra musica più vale.
Gl'instrumentisti han boccon da lor denti
perché han due piazze in vita: una in Castello,
165 in Campidoglio l'altra, e stan contenti.
Poi de' cantori il nobile drappello
gode perpetuo nel papal Palazzo
un servigio che mai vidi il più bello.
Stupite al mio parlar, ch'io non son pazzo:
170 della musica son causa formale
i maestri, eppur non son dentro a tal mazzo.
Si può dir dunque zucca senza sale
chi prende a fare il maestro di cappella,
che ha il pane in vita sol nell'ospedale.
175 Dov'è quel tempo e quella età sl bella,
ch'in Italia si usavan le letture
della musica, e ciò non è novella?
Ne fa fede Bologna dove pure
era sl ricca piazza che il Pare(i)a
180 lasciò per lei di Spagna !'altre cure.
Stampò mentre in quel Studio egli leggea
di fresca età un nobile trattato,
e più stampato avria, se più vivea.
Cosl di tal scienza in ogni lato
185 s'avea la vera luce al ben comporre,
a nostra confusion: misero stato!
Oggi Guidon, Boezio ognuno aborre,
il Fogliani, il Zerlin, Aron, Franchino,
il Glarean, Guglielmo, il Ponzio, il Torre,
190 il Lusitan, Tigrin, Psello, il Bonini
ed ogn' altro, che mai non finiria,
se i scrittor tutti qui volessi porre.
CONDIZIONE SOCIALE E INTELLETTUALE DEL MUSICISTA 307

Dunque, o Baldin, che meraviglia fia


se, quando quel tedesco a sostenere
195 venne la conclusion d'ogni armonia,
nessun per dio mai si lasciò vedere
a fargli almen volgar l' opposizioni?
Solo io parlai per mera carestia,
perché in Germania pubbliche lezioni
200 son come in Portugallo, in Inghilterra,
che di comporre insegnan le ragioni.
A tal difesa vi fu un serra-serra
d'ogni altra profession d'uomini dotti:
stupito ritornò alla sua terra.
205 Ora vedete a che siamo ridotti!
Però un'accademia in casa mia
molt' anni sono apersi; e non vi scotti
se io mi dolgo con Vostra Signoria
che solo in tutta Roma sete stato
210 a non venirvi mai: che scortesia!
Benché nessun v'inviti, io v'ho pregato
ben mille volte e mille, sempre invano:
non so chi sia di noi più disgraziato.
Ho collera con voi, e a mano a mano
215 va crescendo la bile: ma qui taccio,
ché darei in pazzie come uomo insano.
Ritorno dunque a dirvi quel ch'io faccio
nell'accademia che di sopra ho detto,
per levar me d'imbroglio e voi d'impaccio.
220 Si comincia a cantar con gran diletto
al tavolin i persi madrigali,
che la ragion non dico per rispetto.
Poi segue il mio discorso, e prendo l'ali
per sollevarmi ai cieli armoniosi,
225 ma son d'Icaro a quelle appunto eguali.
Han ogni libertade i virtuosi
di contraddire a quanto ho ragionato,
benché a far questa parte stian ritrosi.
Ha però il Kirchem [!] sempre argumentato,
230 l'Orlandi pur del Carmin generale,
dubbi Dal Pan propone e Lelio amato.
308 LETTURE

Finita la question, che senza male


sempre succede per grazia del cielo,
si dà lode dovuta a chi più vale.
235 La verità si vede senza velo,
perché son quasi tutti in prima riga,
e il tutto ben si scorge sino a un pelo.
Poi al cembalo si va, e ciascun briga
si prende di mostrare il suo valore
240 col canto e 'l suon, che l'anima e 'l cor liga.
Il tempo tutto è prefisso in tre ore,
dalle ventuna sino a quel che resta,
né si termina mai senza stupore.
Sono cinque anni ch'io fo questa festa,
245 con qualche spesa (a dirla in confessione)
che più oltre a pensar l'animo desta.
Mi trovo in Roma sol la provisione
ch'ho dalla chiesa, né pure un baiocco,
come ho detto, ebbi mai dalle persone.
250 Per questo non fo imbroglio né lo stocco
per vivere da par mio come conviene,
né debito farò, ch'io non son sciocco,
perché certa porzion l'anno mi viene
che supplisce alla bocca quel che manca
255 e a tener buona casa e a vestir bene.
Questo è ben ver ch'il piè, la gamba e l'anca
m'impediscono in parte il camminare,
ma più l'età mi pesa e più mi stanca,
che converrammi alla patria tornare,
260 non essendo l'entrate mie abbastanza
da un sol cavai qui a farmi strascinare.
Oh ritornasse quella antica usanza,
ch'ancor io vorrei correr la mia lancia
per colpir la lettura ove la stanza
265 avete voi! E sebben questo è ciancia,
o per dir meglio grande impertinenza,
fa scusa quanto dissi e la mia pancia.
Quanto vi ho detto, ho detto in confidenza,
e perché so che non vi mancan modi
210 per consolarmi. E vi fo riverenza,
legato a voi con più di mille nodi.
CON SAPE V OLEZZA STORICA E CONSAPEVOLEZZA STILISTICA 309

4 • CONSAPEVOLEZZA STORICA E CONSAPEVOLEZZA STILISTICA:


HEINRICH ScHuTz

Heinrich Schiitz (cfr. § 17), maestro della cappella - e in quanto tale


vero e proprio funzionario - della corte di Dresda, sottopose all'attenzione
del proprio padrone, il duca Giovanni Giorgio I, un gran numero di memo-
riali e suppliche per il buon mantenimento della cappella (particolarmente
accorati sono i memoriali degli anni Trenta e Quaranta, che propongono solu-
zioni d'emergenza per garantirne la incerta sopravvivenza nelle gravi angu-
stie belliche ed economiche). Nel memoriale del 1651 (che accompagnò la
presentazione al duca dell'opera XII stampata di fresco) il sessantaseienne
Schiitz chiede di venir messo in congedo o quantomeno sollevato di buona
parte delle proprie mansioni di cappella. Per sostenere la propria supplica,
Schiitz adduce non solo le ragioni della volubilità della moda musicale (sarti
e musicisti vanno soggetti a obsolescenza rapida, dice), bensl anche quelle
della laboriosità ininterrotta d'un impegno artistico e istituzionale ormai lun-
ghissimo, che fin dalla prima giovinezza gli è costato grandi studi, grandi
sacrifici e grandi viaggi (per ragioni di convenienza, Schiitz omette però di
accennare ai ripetuti viaggi per Copenaghen, dove resse la cappella di corte
in tempo di guerra).
Una vera e propria autobiografia, dunque, dalla quale risultano: la for-
mazione umanistica prima ancora che musicale del giovane Schiitz; l'ap-
prendistato e la pubblicazione dei suoi madrigali in Venezia sotto Giovanni
Gabrieli (un musicista che, vissuto da giovane alla corte bavarese, intrat-
tenne poi sempre rapporti stretti con la Germania: ai tedeschi Fugger dedicò
le proprie opere, e divenne il caposcuola d'un folto gruppo di giovani musi-
cisti nordici, cfr. § 1); il gesto solenne di Gabrieli morente che per suo
ricordo gli lascia un suo anello (tramite il proprio confessore, quel frate
Taddeo da Venezia che nel 1615 dedicò postume al duca di Baviera le
gabrieliane Canzoni e sonate strumentali); l'altissima consapevolezza che
Schiitz ebbe del proprio ruolo e della propria collocazione storica; la serietà
del suo impegno istituzionale, sempre dedito a salvaguardare una certa qual
«gravità tedesca» (sono parole d'un altro suo memoriale) nell'esercizio della
cappella. In realtà, Schiitz - che propone di farsi coadiuvare da un castrato
impiegato nella cappella "italiana" del principe ereditario - si rende ben
conto della incombente italianizzazione e secolarizzazione dell'orientamento
musicale di corte.
Che egli, musicista profondamente esperto della musica italiana, non con-
divida le dilaganti applicazioni di comodo dello stile italiano alla moda - uno
stile senza dottrina (cfr. § 10)! -, appare con ogni evidenza dalla prefazione
all'opera XI (1648), quella Geistliche Chor-Music dove la polifonia vocale senza
basso continuo tocca un vertice assoluto di forza rappresentativa ed elocu-
tiva. La dichiarazione sagittariana è un documento emblematico della plura-
lità degli stili - stili di tradizione remota e stili moderni - e della loro coesi-
310 LETTURE

stenza nella prassi compositiva ed esecutiva seicentesca: senza farne il nome,


Schiitz allude proprio ai trattati che intorno alla questione della pluralità degli
stili andava allora redigendo e pubblicando sul Baltico l'italiano Marco Scacchi
(cfr. § 8).

[Memoriale al duca di Sassonia]

Colgo la circostanza dell'offerta umilissima di questa mia ope-


retta che appare ora sotto il nome dell'Altezza Vostra Serenissima
per accennare alle vicende della mia vita non poco travagliata dalla
giovinezza ad oggi, non senza pregare con profonda devozione
l' A. V. S. di volermi perdonare e di prestarvi all'occasione qualche
benevola attenzione. Venuto al mondo il giorno di san Burcardo
[14 ottobre] dell'anno 1585, non appena tredicenne ho lasciato la
casa dei miei genitori di beata memoria in WeiBenfels e da allora
ho sempre vissuto in paese straniero, educato dapprima per vari
anni - come puer cantor nella cappella di corte del landgravio Mau-
.rizio [d'Assia] a Kassel - nella musica e nell'apprendimento del
latino e delle altre lingue. E poiché sempre la volontà dei miei geni-
tori fu contraria all'idea che io della musica potessi un giorno fare
professione, una volta perduta la voce di soprano mi recai all'uni-
versità di Marburgo per proseguirvi gli studi intrapresi, scegliervi
una professione conveniente e ottenervi un rango onorevole. Ma
questi miei propositi (senza dubbio per volontà divina) furono ben
presto sconcertati: il landgravio Maurizio - che magari aveva notata
la mia inclinazione notevole per la musica durante il mio servizio
nella sua cappella -, di passaggio a Marburgo, mi fece proporre
una borsa di studio di 200 talleri annui affinché mi recassi senza
esitazioni in Italia alla scuola di un musico e compositore famoso
ma ormai già anziano, proposta che (come giovane voglioso di vedere
il mondo) accolsi di buon grado, partendo per Venezia - quasi con-
tro la volontà dei miei genitori - nell'anno 1609. Quando poi al
mio arrivo (e dopo aver un poco frequentato il mio maestro) mi
fui accorto dell'importanza e difficoltà dello studio della composi-
zione, e della scarsità della mia preparazione iniziale, ed ebbi per-
ciò incominciato a rammaricarmi di aver cosl precipitosamente diser-
tato gli studi universitari (nei quali pure avevo già fatto qualche
progresso), non potei tuttavia fare a meno di prendere le cose per
il loro verso e adempiere agli scopi per i quali ero venuto a Vene-
CONSAPEVOLEZZA STORICA E CONSAPEVOLEZZA STILISTICA 311

zia: sicché deposi del tutto gli altri studi e mi dedicai con la mas-
sima diligenza allo studio della musica. Nel quale coll'aiuto di Dio
ebbi tanto successo da poter pubblicare in Venezia (tre anni dopo
il mio arrivo, e un anno prima di lasciare l'Italia) la mia prima opera,
in lingua italiana (dedicata con ogni gratitudine al landgravio Mau-
rizio), ottenendone la lode particolare dei meglio musici di Vene-
zia. E dopo aver pubblicato questa mia prima operina fui esortato
e incoraggiato non soltanto dal mio precettore, Giovanni Gabrieli,
ma anche dal maestro di cappella [di S. Marco] e da altri musici
illustri a perseverare nello studio della musica, dove avrei raccolto
i più felici successi. Trattenutomi in Venezia un anno ancora (a
spese, questa volta, dei miei genitori) per perfezionare gli studi,
venne a morte il mio precettore: sul suo letto di morte, egli dispose
e ordinò al proprio confessore, un agostiniano, che mi venisse affi-
dato un certo suo anello a sua perenne memoria. Aveva dunque
avuto ragione il landgravio Maurizio di sostenere che chi avesse
voluto approfittare degli insegnamenti di quell'uomo di grandis-
simo talento non doveva esitare un minuto a portarsi alla sua scuola.
Rientrato dunque nel 1613 per la prima volta dall'Italia in Ger-
mania, divisai tra me e me di coltivare per qualche anno ancora
segretamente gli studi musicali - nei quali avevo posto ormai buone
fondamenta-, per produrmi poi al momento buono con qualche
opera davvero degna. Né mi mancarono stimoli e ammonimenti
assidui dei miei parenti a procurarmi in altri campi con le mie sia
pur modeste qualità merito e stima, e a considerare la musica come
un passatempo: come finalmente mi lasciai convincere a fare. Stavo
dunque per rimettere mano ai libri tanto a lungo trascurati quando
piacque a Dio onnipotente - che senza dubbio fin nel grembo di
mia madre m'aveva predestinato alla professione della musica -
di farmi chiamare a Dresda nel 1614 per il servizio del battesimo
del duca Augusto, oggi amministratore dell' arcicapitolo di Mag-
deburgo, e - dopo che ebbi data buona prova di me - di farmi
offrire in nome di V.A.S. la direzione della Vostra cappella. Al
che i miei genitori non vollero contrastare oltre la volontà divina,
ed io fui indotto ad accettare con devota gratitudine la condizione
onorifica che mi si offriva, determinato a sostenerla con il mas-
simo zelo. Quali siano poi stati dal 1615 (anno della mia nomina
al posto nel quale persevererò fintanto che a Dio e a V.A.S. pia-
cerà) ad oggi, per lo spazio di 35 anni e passa, i miei compiti di
312 LETTURE

poco valore ma di non poca fatica, è cosa di cui certamente V.A.S.


serberà in qualche modo il ricordo. E mi sia consentito di compia-
cermi della bontà e della grazia divina che per tanto tempo, accanto
ai miei privati studi ed alla pubblicazione di svariate opere di musica,
mi hanno concesso di servire devotamente a V.A.S. in occasione
di una moltitudine di solennità (visite imperiali, reali, elettorali
e principesche dentro e fuori gli stati di V.A.S.), di provvedere
all'educazione [musicale] dei figli amatissimi di V.A.S., di assistere
a tutti i loro battesimi, di prodigarmi continuamente fin dall'ini-
zio del mio direttorato per fare della cappella di corte di V.A.S.
la più famosa di Germania, e di averla fino ad oggi decorosamente
conservata. Grandemente desidererei di poter continuare a con-
durre la cappella di corte di V.A.S. come ho fatto finora. Ma non
soltanto per via del continuo studiare, viaggiare, scrivere che l' eser-
cizio della musica m'è costato fin da ragazzo (e che il peso della
mia professione e del mio impiego hanno reso indispensabili, seb-
bene io creda che ben pochi anche tra le persone più erudite se
ne rendano propriamente conto, giacché non v'è studio siffatto
nelle nostre università), bensl anche per via della mia età e dell'in-
debolimento della vista e delle forze corporali, non sono assoluta-
mente certo di poter più servire la cappella col debito decoro né
di mantenere in vecchiaia il buon nome meritato in gioventù: e
a parere dei medici dovrò ormai interrompere il continuo lavoro,
il continuo scrivere, il continuo meditare, se non voglio distrug-
gere la mia salute. Perciò veda la benevolenza di V.A.S. come io
sia stato inevitabilmente costretto ad esporle umilmente e devota-
mente quanto sopra, e la supplico - non soltanto per le ragioni
suddette, ma anche in considerazione del fatto che i diletti figli
di V.A.S. sono ormai tutti addestrati - a volermi graziosamente
collocare in una condizione più tranquilla, a esonerarmi dal servi-
zio regolare di cappella (affinché io possa dedicarmi a raccogliere,
completare e mandare a stampa per il mio buon nome le opere musi-
cali intraprese in gioventù), e a considerarmi (nel modo che più
piacerà all' A.V.S.) un provvigionario: nel qual caso beninteso accet-
terei di buon grado che l'A.V.S. volesse ridurre d'un poco la mia
retribuzione. Tuttavia, qualora l' A.V.S. non intendesse sottrarmi
alla cappella, o preferisse per ora (anziché assumere un altro mae·
stra di cappella) accontentarsi del modesto servizio che io, man·
candomi vieppit le forze, potrò prestare, mi consideri l'A.V.S,
CONSAPEVOLEZZA STORICA E CONSAPEVOLEZZA STILISTICA 313

disposto a prestare con riconoscenza ogni mia assistenza e a meri-


tare fino alla tomba il titolo di maestro di cappella di V.A.S. e della
sua Serenissima Casa, purché possa venirmi assegnata la collabo-
razione di una persona qualificata che alleggerisca i miei compiti,
assista quotidianamente i giovani musicisti assunti or ora nella cap-
pella di V.A.S., pratichi le esercitazioni d'uopo, sappia coordinare
la musica e battere il tempo: siccome altrimenti, calando ancora
le mie forze (se Iddio mi farà vivere ancora a lungo), potrebbe ben
capitarmi quel che è successo a un cantore anziano e non privo
di meriti d'una città assai rinomata, il quale qualche tempo fa mi
scrisse per lamentarsi che i senatori più giovani della città, poco
o nulla soddisfatti della sua maniera antiquata di scrivere musica
e volentieri disposti a liberarsi di lui, gli dissero in faccia che dopo
trent'anni né un sarto né un maestro di cappella non servono più
a nulla - ed è certamente vero che la moda del mondo tende a
saziarsi assai presto delle maniere e dei costumi all'antica, e a libe-
rarsene. E benché io non possa presumere lo stesso da parte di
veruno dei figlioli di V.A.S. (per grazia loro sempre benevoli meco),
potrebbe tuttavia accadermi con qualcuno dei nuovi musici che
- seppure a torto - propendono a prediligere le loro nuove maniere
di canto e a scartare le antiche.
E siccome [Giovanni] Andrea Bontempi [Angelini], l'eunuco ita-
liano del principe ereditario duca Giovanni Giorgio, a più riprese ha
lasciato intendere di essere stato fin da giovane addestrato nella
composizione ancor più che nel canto, e si è pure spontaneamente
offerto a prestar servizio e a dirigere la cappella - ogniqualvolta io lo
desiderassi - in mia vece, l'ho voluto riferire a V.A.S. a conclusione
di questo memoriale per chiedere il graziosissimo parere dell' A.V.S.
e per sapere se, col Vostro Serenissimo consenso, io possa accettare
l'offerta del suddetto Andrea Bontempi e lasciargli talvolta dirigere
la musica al posto mio. Cosa cui, per quel poco che io capisco,
l'A.V.S. farebbe bene ad assentire tanto più prestamente (quasi a
titolo di prova) in quanto il suddetto Bontempi per un siffatto ser-
vizio non desidera aumento alcuno della propria retribuzione né
modifica veruna del proprio ruolo e si accontenta del trattamento di
cui gode presso il Serenissimo principe ereditario. Questo giovane è
assai qualificato a svolgere un tal servizio; e ho avuto da Venezia
(dove ha soggiornato per otto anni incirca) informazioni favorevoli
intorno alle indubbie qualità da lui dimostrate quando in varie acca-
314 LETTURE

sioni di solennità celebrate in quella Serenissima egli sostitul il mae-


stro di cappella dirigendo pubblicamente nelle chiese; ed è oltre-
tutto persona discreta, di modi cortesi e concilianti. Prego perciò
l'A.V.S. di volermi informare della propria volontà, tanto più che
non vorrei usufruire continuamente dei buoni servigi di questa per-
sona senza averne informato preventivamente l'A.V.S. [... ]
Dresda, 14 gennaio 1651
Di V.A.S. servitore umilissimo e devotissimo
Heinrich Schiitz maestro di cappella

[Prefazione alla Geistliche Chor-Music]

Benevolo lettore.
È noto e risaputo come, venuto agli occhi e tra le mani di noi
tedeschi, lo stile di composizione concertato sopra il basso conti-
nuo proveniente dall'Italia tanto ci sia piaciuto da trovare più
seguaci di qualsiasi altro stile prima d'esso: ne danno copiosa testi-
monianza svariate opere musicali pubblicate e vendute dai nostri
librai musicali. Ora, non vorrò io certo biasimare siffatta propen-
sione: al contrario, in essa riconosco nella nostra stessa nazione
buon numero di ingegni abili e dotati a professare la musica, ai
quali non invidio le meritate lodi, e vi aggiungo di buon grado le
mie. Ma è d'altra parte fuor di dubbio - e lo sanno tutti i musici
educati a una buona scuola - che nel difficilissimo studio del con-
trappunto nessuno potrebbe intraprendere in buon ordine e trat-
tare convenientemente altro tipo di composizione, qualora prima
non si sia bastantemente esercitato nello stile senza basso conti-
nuo, e non si sia cosl ben fornito dei requisiti necessari d'una com-
posizione regolata - che (tra gli altri) sono: le disposizioni dei modi;
le fughe semplici, miste e inverse; il contrappunto doppio; le diver-
sità dei vari stili musicali; la condotta melodica delle singole voci;
la connessione dei soggetti; eccetera-, di cui scrivono diffusamente
gli eruditi teorici e vengono istruiti a viva voce gli studenti del
contrappunto in schola practica: senza dei quali per un composi-
tore esperto non si dà composizione veruna (anche quando essa
volesse parere un'armonia celestiale ad orecchie poco addestrate
alla musica), oppure non varrà più d'una noce vuota.
CONSAPEVOLEZZA STORICA E CONSAPEVOLEZZA STILISTICA 315

Mi sono perciò convinto a intraprendere un'operina senza basso


continuo come la presente, con la quale magari potessi rammen-
tare a molti, e specialmente ai giovani compositori tedeschi, che,
prima di avanzarsi verso lo stile concertante, schiaccino coi propri
denti questa dura noce, per cercarvi il dolce gheriglio e il giusto
fondamento d'un buon contrappunto, e vogliano fi sostenere il loro
primo cimento. D'altronde anche in Italia - retta e vera scuola
di ogni musica - allorquando nella mia giovinezza gettai le fonda-
menta di questa mia professione era d'uso che i principianti comin-
ciassero per elaborare e mandar fuori un'operetta, sacra o profana,
senza basso continuo: come probabilmente laggiù fanno ancor oggi.
E ho voluto annotare qui questo mio ricordo personale intorno
all'apprendimento della musica (e per l'accrescimento della fama
della nostra nazione) affinché ciascuno ne faccia il buon uso che
vorrà, e senza voler con ciò discreditare alcuno.
Ma non si può d'altra parte passare sotto silenzio che neanche
questo stile di musica da chiesa senza basso continuo (che perciò
mi sono compiaciuto di denominare Musica corale spirituale) è tutto
d'una sola specie. Infatti svariate di queste composizioni sono pro-
priamente intese a pieno coro - con le parti vocali raddoppiate dagli
strumenti-, ma altre sono invece concepite in maniera tale da dare
un effetto migliore se, anziché raddoppiare o triplicare le parti,
le si assegnano parte alle voci e parte agli strumenti: e daranno
buon effetto se le si eseguiranno con l'organo o addirittura a due
o tre cori (quando una composizione è di otto o dodici o più voci).
Di queste due diverse specie ne compaiono alcune in questa mia
operetta fatta per questa volta soltanto di poche voci: e in parti-
colare tra le ultime ve n'hanno alcune dove nelle parti strumentali
ho omesso di far stampare il testo (il musico competente saprà pro-
cedere analogamente, ove convenga, in talune delle composizioni
precedenti).
Con tutto ciò voglio tuttavia pubblicamente protestare e sup-
plicare che nessuno s'induca a intendere quanto ho detto come se
io volessi proporre e raccomandare questa o alcun'altra mia opera
a informazione e modello altrui (e anzi sarò il primo a riconoscerne
la pochezza). Al contrario, a esempio di tutti addito quegli autori
italiani canonizzati (per cosl dire) dall'opinione dei migliori com-
positori, e gli altri classicos auctores antichi e moderni, che con le
loro opere eccellenti e incomparabili risplendono di chiara luce nel-
316 LETTURE

l'uno e nell'altro stile agli occhi di coloro che vorranno assidua-


mente studiarle ed esaminarle e farsi guidare sulla retta via dello
studio del contrappunto. E inoltre alimento la non infondata spe-
ranza che un musico a me ben noto, assai versato nella teoria e
nella prassi, manderà presto in luce un trattato di queste cose, che
sarà di gran vantaggio ed utile particolarmente per noi tedeschi.
E farò quanto sta in me per sollecitarne il compimento, a tutto
beneficio degli studi musicali.
Infine: siccome a qualche organista potrà piacere di accompa-
gnare con discrezione e precisione questa mia opera (sebbene essa
sia a vero dire concepita senza basso continuo), costui non si dovrà
dispiacere di ridurla in intavolatura o in partitura: confido infatti
che non soltanto egli non rimpiangerà l'impegno e la fatica inve-
stiti in quest'operazione, bensl che questa specie di musica ne pro-
durrà tanto meglio l'effetto desiderato.
La grazia di Dio sia con tutti noi!
L'autore.

5 • MUSICA CELESTIALE E "TOPOI" POETICI: ODE IN MORTE DI HENRY


PURCELL

Nei suoi 36 anni di vita Henry Purcell accumula molti offici alla corte
inglese (compositore ordinario dei violini di corte, organista a Westminster
Abbey, cantore e organista della cappella reale, accordatore degli strumenti
del re); l'intensa attività teatrale ed editoriale e didattica fuori della corte
integra i magri salari reali, ma gli conquista anche la stima universale della
metropoli londinese. Muore nel 1695, la vigilia di santa Cecilia, una festa
che egli aveva tante volte sonoramente celebrato con le sue odi in lode della
musica (cfr. § 18). Il compianto dei letterati e dei musicisti è unanime: ci
è pervenuta una dozzina di componimenti poetici pubblicati in morte di Pur-
cell. Il musicista vi viene paragonato a Davide, ad Anfione, ad Orfeo (Orpheus
Britannicus è il titolo di due volumi postumi di sue musiche vocali), a Virgi-
lio, Tiziano, Michelangelo, artisti "divini" per eccellenza: lusinghiero è anche
l'accostamento ai nomi di due musicisti coevi come Corelli e Lully, nomi
in cui già prima del 1700 la coscienza artistica europea riassume la "clas-
sica" perfezione delle due tradizioni musicali dominanti, l'italiana e la fran-
cese (da ambedue Purcell aveva attinto con inventiva voracità, cfr. § 26).
Soprattutto, però, per piangere Purcell - come per qualsiasi altro soggetto
poetico di natura musicale - i poeti inglesi dispongono di un dovizioso arse-
nale di immagini che illustrano la potenza degli effetti musicali, un reperto·
rio di topoi che si è sedimentato per tutto il Cinque e il Seicento, e che cumula
MUSICA CELESTIALE E "TOPOI" POETICI 31i

concetti neoplatonici e cristiani (l'armonia delle sfere, l'accordo tra il macro


e il microcosmo, la funzione etica della musica, i cori angelici, le lodi musi-
cali della divinità eccetera).
Un concentrato succulento di siffatti temi e motivi e immagini lo dà l'ode
in morte di Purcell composta daJohn Dryden, il poeta suo amico e collabo-
ratore. Vi compaiono nella prima stanza le analogie ornitologiche con i suoni
del mondo naturale, nella seconda il mito pagano di Orfeo nell'aldilà, nella
terza l'idea cristiana dei cori celesti coniugata con l'immagine d'una scala
musicale calata dal cielo fin sulla terra, un gradus ad Parnassum cristianiz-
zato. Ma la musica di Purcell - che sopraffà i rivali come l'usignuolo il canto
d'ogni altro uccello - è davvero onnipotente, se essa non soltanto basterebbe
da sola ad accordare la disarmonia dell'inferno (e quindi a distruggerlo), ma
addirittura riesce ad ammaestrare il canto celestiale degli angeli. In altre parole:
consunti e trivializzati, ridotti a meri schemi poetici fungibili, i miti e i motivi
dell'armonia delle sfere, degli effetti etici della musica, della musica cele-
stiale valgono sempre meno per i significati propri che in essi si sono stratifi-
cati, sempre più come un giuoco poetico evocativo, paradossale magari, ma
al tempo stesso accorato e suggestivo. (Una traccia del percorso di questa
progressiva demitologizzazione e poeticizzazione del concetto di musica la
dà il bel libro di J. HoLLANDER, The untuning o/ the sky. Ideas o/ music in
English poetry, 1500-1700, Princeton University Press, 1961; ed. it.: La disar-
monia del cielo. Idee della musica nella poesia inglese, 1500-1700, Il Mulino,
Bologna, in corso di pubblicazione).
La musica di quest'ode in morte di Purcell - due contratenori, due flauti
a becco e basso continuo - è di John Blow, collega di Purcell nella cappella
reale e suo presunto maestro (di dieci anni più vecchio, gli sopravvisse fino
addentro al nuovo secolo). È un inno tenerissimo, ricolmo di voluttà canora,
di flebili dissonanze e di morbide efflorescenze melismatiche sulle parole più
intrise di emozione (« ... sin g... warbling ... heav' nly ... music ... godlike ... alas !.
.. harmony ... tuneful...Iament ... rejoice ... »; per converso, la scordatura infer-
nale, la «jarring sphere», è affidata a un solecismo armonico, crudamente
sillabato). L'arte musicale di Blow (Amphion Anglicus) è largamente assimi-
labile a quella di Purcell, anche se Blow non si accostò mai al teatro. Con
una eccezione, notevole. Il suo Venus and Adonis - intrattenimento scenico-
musicale rappresentato privatamente a corte circa il 1682, con un'amante
di Carlo II nel ruolo di Venere e la di lei figlioletta in quello di Cupido -
non ebbe maggior séguito di quanto non ne ebbe poi Dido and Aeneas di
Purcell: ma si trattò comunque (come nel caso di Dido) d'una vera e propria,
minuscola opera, dove le languidezze melodiche del recitativo di Blow ben
si attagliano all'erotismo acuto con cui sono effigiati i tragici amori di Venere
e Adone. (L'ouverture è in stile lulliano; il prologo contiene una allegra cri-
tica di Cupido all'infedeltà amorosa vigente a corte; nell'atto I, alla sedu-
zione di Venere - la sua voce maliarda è circonfusa dalla sonorità di un flauto
che la raddoppia insistentemente in terze - segue un divertissement di caccia-
tori che allettano Adone ai piaceri venatorii; nell'atto II si assiste alla lezione
che Venere impartisce a Cupido e agli amorini, che a suon di danza imparano
318 LETTURE

a sillabare, e al ballo delle Grazie, su un passacaglie ostinato; nell'atto III,


Venere assiste desolata - senza flauto! - alla morte di Adone ferito dal cin-
ghiale: il patetico dialogo è affidato a un recitativo assai emozionale, suggel-
lato dal compianto funebre degli amorini sul corpo di Adone.)

Mark how the lark and linnet sing,


with rivai notes
they strain their warbling throats,
to welcome in the Spring.
But in the dose of night,
when Philomel begins her heav'nly lay,
they cease their mutuai spite,
drink in her music with delight,
and list'ning and silent, and silent and list'ning, and list'ning and
[silent obey.

II

So ceas'd the rivai crew when Purcell carne,


they sung no more, or only sung his fame.
Struck dumb, they all admir'd the godlike man:
the godlike man
alas! too soon retir'd,
as he too late began.
We beg not hell our Orpheus to restore;
had he been there,
their sov'reign's fear
had sent him back before.
The pow'r of harmony too well they knew,
He long e'er this had tun'd their jarring sphere,
and left no hell below.

m
The heav'nly choir, who heard his notes from high,
let down the scale of music from the sky:
they handed him along,
and all the way he taught, and all the way they sung.
MUSICA CELESTIALE E "TOPOI" POETICI 319

Ye brethren of the lyre, and tuneful voice,


lament his lot, but at your own rejoice.
Now live secure and linger out your days,
the gods are pleas'd alone with Purcell's lays,
nor know to mend their choice.

Sentite come cantano l'allodola e il fanello,


come, per salutar la primavera,
affaticano di note rivali
le fauci gorgheggianti.
Ma sul far della notte,
quando Filomela intona la sua canzone celestiale,
essi, cessata la contesa,
attoniti e deliziati si beano di quella musica,
e ascoltando e tacendo, tacendo e ascoltando, ascoltando e tacendo le obbediscono.

II

Cosl depose il canto, all'arrivo di Purcell, lo stuolo dei rivali,


e se cantò, cantò in suo onore.
Ammutoliti, ammiravano in coro quell'uomo divino,
quell'uomo divino, ahimè,
arrivato troppo tardi,
troppo presto ripartito.
Non gl'inferi imploreremo di restituirci il nostro Orfeo:
fosse andato laggiù, sùbito l'avrebbe respinto,
per paura, il sovrano infernale.
Troppo bene conoscono essi la forza dell'armonia,
e sanno che, accordate quelle sfere discordi,
colui d'un sùbito avrebbe soppresso l'inferno.

m
I cori celesti, sentita dall'alto la sua voce,
calarono dal cielo la scala della musica,
e nella salita l'accompagnarono:
lungo il cammino egli li ammaestrava, lungo il cammino essi cantavano.
Voi confratelli dalle lire e dalle voci armoniose,
compiangete il suo destino, ma rallegratevi del vostro.
Vivete sicuri e trascorrete tranquilli i vostri giorni.
Soltanto dei canti di Purcell gioiscono gli dèi,
né saprebbero mai fare altra scelta.
320 LETTURE

6• L'ORGANIZZAZIONE IMPRESARIALE DEI TEATRI VENEZIANI:


CRISTOFORO I VANOVICH

Nel 1680 in Venezia sono attivi simultaneamente sette teatri dediti all'o-
pera in musica. La concorrenza - artistica e commerciale - è acuta; le leggi
di mercato si ripercuotono sulla politica dei prezzi d'ingresso non meno che
sui criteri di programmazione; da tre anni è aperto un teatro d'opera "povero",
il S. Angelo, che pratica prezzi accessibili al «popolo» oltre che ai «nobili
e mercanti»; da due anni i fratelli Grimani - nobiluomini dediti da lunga
data alle iniziative teatrali - hanno inaugurato il più grande e suntuoso dei
teatri d'opera, un vero e proprio teatro di lusso, il S. Giovanni Grisostomo,
dove - accompagnati da un'orchestra teatrale numerosa come mai prima d' al-
lora - compaiono in scena i migliori cantanti delle corti europee. Intanto,
nella sua villa di Piazzola sul Brenta, il procuratore Marco Contarini «con
eroica generosità e magnificenza» allestisce uno splendido teatro d'opera per
la villeggiatura: un teatro privato di corte in piena regola, proprio nel momento
della maggior espansione dei teatri impresariali cittadini. I duchi di Braun-
schweig - fornitori di milizie alla Serenissima - soggiornano lungamente in
Venezia e patrocinano compositori e cantanti d'opera. Per carnevale, altri
sovrani (i duchi di Modena e Mantova con particolare assiduità) frequen-
tano i teatri. Il «Mercure galant» di Parigi riferisce le impressioni teatrali
dei turisti di rango.
È in questo clima d'euforia teatrale che il canonico di S. Marco Cristo-
foro Ivanovich (un dalmata residente in Venezia dal 1657) dedica nel 1681
ai fratelli Grimani le Memorie teatrali di Venezia, un «trascorso isterico» (ossia
una cronistoria) sull'origine, le funzioni e l'organizzazione dei teatri d'opera
veneziani che - a meno di mezzo secolo dalla loro istituzione - ne sancisce
per la prima volta la storia ormai già illustre. Librettista in proprio, l'Ivano-
vich pare però interessato a descrivere più la configurazione impresariale dei
teatri e il loro significato ideologico e civile - frequenti i richiami all'impor-
tanza politica del teatro, strumento d'autorità e di controllo sociale - che
non la loro organizzazione artistica. I teatri sono un vanto repubblicano di
Venezia (che si considera legittima discendente della repubblica romana: un
tema che - ricondotto alle origini troiane di Roma - appare con frequenza
nei soggetti operistici veneziani dei primi decenni; cfr. § 21): ma in essi si
realizza altresl quel venezianissimo connubio di arte e negozio, profitto este-
tico e investimento finanziario che l'Ivanovich illustra partitamente (acqui-
sizione del capitale iniziale e entrate annuali garantite mediante assegnazione
ed affitto dei palchetti; spese fisse e spese di gestione per l'allestimento e
la rappresentazione dei drammi; entrate serali condizionate dal successo).
Oltre i capitoli riprodotti qui, le Memorie teatrali - che si concludono
con una tavola cronologica dei drammi per musica (poco meno di duecento)
rappresentati a Venezia tra il 1637 e il 1681 - trattano pure delle vicende
che condussero all'apertura del primo teatro nel 1637 (cap. V), della storia
dei teatri di Venezia prima del 1637 (VIII), delle procedure per l'assegna-
L'ORGANIZZAZIONE IMPRESARIALE DEI TEATRI VENEZIANI 321

zione dei palchi agli ambasciatori (problema diplomaticamente delicato! XI),


delle magistrature preposte ai teatri (XII), dell'utile che ne ricava il libretti-
sta (XVI), del gran teatro Contarini di Piazzola (XVII), dell'utilità della cro-
nologia degli spettacoli (XIX-XX).

Capitolo I: La Repubblica di Venezia imitando la grandezza della


romana rinnovò la magnificenza de' teatri.

Non vi fu mai alcuna repubblica nel mondo che meglio supe-


rasse tutte le altre repubbliche che quella di Roma, né alcun'altra
che meglio imitasse questa che la Repubblica di Venezia. [... ] E
infatti dalle ruine di quella trasse i suoi natali questa, succedendo
non meno al posto d'una gran repubblica che all'eredità di genio
a lei tutto uniforme nella magnificenza. [... ] Qui però non è mio
pensiero di formar istorie o panegirici in lode di Venezia, che da
sé stessa si loda. Solo per fiancheggiar il presente mio assunto delle
Memorie teatrali dirò di passaggio come il Tempo nella solita circo-
lazione delle cose umane vide trasportati dalle rive del Tevere a
quelle dell'Adria i giuochi teatrali, perché neanco in questo cedesse
Venezia a Roma l'antica.
Non v'è alcuno pratico dell'istoria che non confessi i tratteni-
menti carnovaleschi di Venezia al pari curiosi di quelli degli anti-
chi baccanali di Roma, per cui e allora e adesso se ne facea e si
fa pellegrino il mondo, per osservar le pompe.
Sono oggetti di sopraffina politica, da' quali dipende la felicità
del governo, l'abbondanza ed i giuochi, mediante i quali, usati a
misura dell'onesto, s'acquista il principe l'amore de' popoli, che
mai meglio si scordano del giogo che satollati o trattenuti ne' pia-
ceri. La plebe, quando non ha che da rodere, rode la fama del prin-
cipe, e quando non ha trattenimenti può coll'ozio facilmente dege-
nerare ne' disegni di pessime conseguenze.
322 LETTURE

Capitolo Il: Breve descrizione di Venezia e de' piacevoli trattenimenti


che godea prima che s'introducessero i teatri e che tuttavia gode in
tutte le quattro stagioni dell'anno ed in particolare in tempo di car-
novale.

[... ] La primavera. Talvolta nel principio di questa novella sta-


gione si gode qualche esercizio cavalleresco alla cavallerizza. È
situata questa vicino a' Mendicanti, capace per settanta e più cavalli,
[... ] mantenuta da un'accademia di patrizi.[ ... ] Gli altri passatempi
che succedono per l'ordinario sono di dame e cavalieri col piacere
della città, poiché dal principio di quaresima comincia il giuoco
del calcio, praticato da' soli gentiluomini nel luogo del bersaglio
a S. Bonaventura con molto concorso di nobiltà e d'altre persone.
[... ] Il secondo giorno poi di pasqua principiano i freschi, dove ogni
sera di festa dal Palazzo Pesaro sino al Ponte della Croce [... ] si
fa il corso di gondole piene di dame e cavalieri, di ministri de' prin-
cipi e d'altri forestieri che ivi concorrono.[ ... ] Arrivano per lo più
al fin di questa lieta stagione i trattenimenti dell' Ascensa, riguar-
devoli prima per la famosa comparsa del Bucintoro, [... ] seconda-
riamente per la fiera in Piazza di S. Marco, che dura giorni 15,
frequentata mattina e sera dal numero infinito di dame e cavalieri
e di maschere, allettato dalla pompa preziosa di merci che qui si
veggono esposte, particolarmente sul Listone, che sembrano un Perù
pendente, e per gli ori ed argenti e per le pietre di valore. In Piazza
s'aprono più casotti di figurine che ballano [=marionette e burat-
tini] per continuo trattenimento della plebe e de' forestieri.
L'estate. In questa calorosa estiva stagione continuano i fre-
schi nel solito corso. [... ] Spesso girano il Canale [Grande] barcheggi
armoniosi di bellissime serenate, che allettano con l'isquisitezza
delle voci un séguito d'infinite gondole. [ ... ] Ogni festa si fanno
le guerre de' pugni da' Castellani e Nicolotti, sopra diversi ponti,
tra' quali è famoso quello di S. Barnaba. [... ]
L'autunno. Benché sia solita questa temprata stagione di far
cittadine le ville, per la nobiltà e cittadinanza che in quelle si porta
per godere la campagna, ad ogni modo in Venezia s'apre qualche
teatro di comedia, trattenimento di sera assai curioso e piacevo-
le. [... ] Principiano le prove dell'opere in musica prima nelle case
L'ORGANIZZAZIONE IMPRESARIALE DEI TEATRI VENEZIANI 323

de' cavalieri protettori, o [co]interessati de' teatri, e poi sulle scene


con curiosità delle voci novelle, che poi si godono con genio in tempo
di pubblica comparsa ecc.
L'inverno. Ecco la stagione di quel carnovale che fa correre i
forestieri e rende in continuo moto i cittadini avvezzi a goderlo
ogni anno, doppo l'annua occupazione o negli affari politici o dome-
stici. Primi sono i teatri di musica a dar principio con una pompa
e splendore incredibile, punto non inferiore a quanto si pratica in
diversi luoghi dalla magnificenza de' principi, con questo solo diva-
rio che, dove questi lo fanno godere con generosità, in Venezia
è fatto negozio, e non può correre con quel decoro che corre nel-
l'occasioni in cui da' medemi principi si celebrano spesso le nascite
e gli sposalizi a maggior ostentamento della propria grandezza. Con-
tinua la recita de' drami sino all'ultimo giorno del carnovale, come
anco delle commedie, cosl che ogni sera v'è trattenimento di più
ore in più teatri con varietà di opere, che per allettar maggiormente
sogliono comparire due per [stagione in ciascun] teatro. [... ] Il giorno
di san Stefano 26 decembre principia il carnovale con le maschere,
quando non siano proibite con preciso proclama.

[Segue qui una lunga descrizione dei divertimenti di carnevale.]

Capitolo IV: De' teatri romani, e della differenza che v'è tra quelli
e questi di Venezia.

[... ] Vero è che in molti luoghi dell'Italia si vedono piantati teatri


superbissimi prima che si piantassero in Venezia; ma è anco vero
che non si rappresenta ne' medemi che all'occasioni segnalate o
di maritaggi o di nascite di principi, come in Parma, in Firenze
eccetera. Da che furono introdotti in Venezia, continuano le recite
publiche ogni carnovale, con cui esempio in molte parti dell'Eu-
ropa si pratica lo stesso. E per toccare la differenza che v'è tra
questi [teatri] e quelli che erano in Roma convien esaminare le cir-
costanze tutte.
[... ] La differenza [principale] dunque si è che ora i teatri sono
capaci di poco numero di persone, in riguardo agli antichi; di più,
che in vece di scalinate sono fabricati più ordini di palchetti, la
324 LETTURE

maggior parte a comodo de' nobili, mentre le dame vogliono stare


smascherate in quelli e godere tutta la libertà. Nel campo di mezzo
[ossia la platea] s'affittano di sera in sera scagni, senza distinzione
di persone, poiché l'uso delle maschere leva la necessità del rispetto
che s'usava a' senatori e alle matrone di Roma che comparivano
con maestà, volendo anca in questo Venezia, come nata libera, con-
servar a tutti la libertà. Non sono poi da paragonarsi le pompe,
poiché Roma profondeva gran tesori negli spettacoli, già annove-
rati tra le sue maggiori grandezze, e le loro machine erano le mara-
viglie del mondo. Se v'era figurato il precipizio di Fetonte, si facea
piombar dal carro qualche misero condannato fra gli applausi popo-
lari. Lo stesso si facea introducendosi Muzio Scevola che abbru-
ciasse la mano, e altre simili rappresentazioni, volendo assuefare
quel popolo alle stragi e agli orrori. Oggi però è introdotto il tea-
tro con la musica, per sollievo dell'animo e per una virtuosa ricrea-
zione, vedendosi comparire machine spiritose, suggerite dal drama,
che allettano molto fra le pompe di scene ed abiti, ch'appagano
al sommo la curiosità universale. Si sono perciò veduti elefanti al
naturale, cameli vivi, carri maestosissimi condotti dalle fiere, da'
cavalli, cavalli pure per aria, cavalli che ballano, machine super-
bissime figurate in aria, in terra, in mare con artifici stravaganti
e con applausibile invenzione, fino a fare scender dall'aria saloni
regi con tutti i personaggi e suonatori, illuminate di nottetempo,
e a farle risalire di nuovo con somma ammirazione, e mille altre
forme. [... ]

Capitolo VII: L'introduzione de' drami in musica ha levato il con-


corso [ossia l'affluenza di pubblico] alle comedie, ormai ridotte al
niente.

Prima che s'introducessero i drami in musica in Venezia, era


molto gradita la comedia. Le compagnie de' comici erano famosis-
sime, e il fine de' medemi era d'allettare con la virtù un concorso
nobile, che fuori di questi non avea altri trattenimenti teatrali. Le
0oro] fatiche riportavano e l'utile e l'onore.[. .. ] Ma questi [comici],
vedendo diminuirsi qui il concetto a' loro virtuosi impieghi da che
ha principiato la poesia vestita di musica di caminare col fasto
L'ORGANIZZAZIONE IMPRESARIALE DEI TEATRI VENEZIANI 325

sui teatri, schivano al più non posso l'esercizio in Venezia, dove


in mancanza del primiero nobile concorso non risulta loro quel
decoro e quell'utile che gli valeva d'allettamento allo studio e all' ap-
plicazione cosl dilettevole e proficua. Restano dunque a questa causa
essi comici esposti più alle perdite eh' a' guadagni per le spese che
necessariamente impiegano per mantenersi nel posto, e se i teatri
musicali non prenderanno qualche alterazione dal tempo, quelli delle
comedie anderanno deteriorando la condizione, con evidente peri-
colo [... ] di svanire. [... ]

Capitolo IX: Quanti teatri siano stati e sono al presente in Venezia


e il tempo della loro comparsa.

[Segue qui una storia sommaria dei dodici teatri d'opera attivi in con-
tinuità o a intermittenza tra il 1637 e il 1681 a Venezia: S. Cassiano,
aperto all'opera in musica nel 1637; S. Salvatore, 1661; SS. Giovanni
e Paolo, 1639; S. Moisè, 1640; Novissimo, 1641; SS. Apostoli, 1649;
S. Apollinare, 1651; Teatro ai Saloni, 1670; S. Samuele, 1656 (dedito
in realtà soltanto alle commedie); S. Angelo, 1677; S. Giovanni Griso-
stomo, 1678; teatro a Cannaregio, 1679.]

Capitolo X: L'uso d'affittar palchetti, e la ragione che acquista chi


li prende ad affitto.

Il più certo utile che ha ogni teatro consiste negli affitti de'
palchetti. Questi sono almeno in numero di cento, oltre le soffitte
compartite in più ordini, e non tutti hanno lo stesso prezzo, men-
tre questo si considera dall'ordine e dal numero, che migliora il
sito de' medemi. [... ] Sogliono dal principio che si vuol fabricare
un teatro praticarsi due capi d'utilità, il primo un regalo in denaro
per cadaun palchetto (e questo serve in gran parte alla spesa della
fabrica, e questa è stata la causa principale che si siano fabricati
più teatri con tanta facilità e prestezza), il secondo si conviene in
un affitto annuale, e si paga ogni volta che in quell'anno fa recitar
il teatro, non altrimenti venendo fatto questo pagamento in riguardo
della spesa che impiega il teatro e del comodo che riceve chi lo
tiene ad affitto. Il jus poi che acquista il possessore d'esso palchetto
326 LETTURE

si è di tenerlo per sua propria ragione, senza facoltà di cederlo ad


altri, di più d' adoprarlo per uso suo, e d'imprestarlo a benepla-
cito. [... ] Vi sono poi diversi palchetti posti al piano e nelle sof-
fitte, che per esser ne' siti incomodi ed inferiori non sono affittati
tutti dal principio, ma si vanno affittando di sera in sera o pure
d'anno in anno a disposizione libera del padrone del teatro mede-
mo, che procura di ricavar il più possibile a suo maggior beneficio.

Capitolo XIII: La spesa ch'è tenuto a fare il teatro.

Il teatro, prima di ricever utilità alcuna, ricerca molte spese,


che tutte riguardano la recita de' drami, senza la quale cesserebbe
assolutamente ogni suo interesse. La prima [spesa] dunque, e più
considerabile, si è quella della condotta d'uomini e di donne che
cantano, essendo ridotte le pretensioni all'eccesso (dove prima si
contentavano o di recitar a parte del guadagno, o d'un onesto rico-
noscimento). Si paga il mastro che mette in musica il drama, e segue
poi la spesa degli abiti, del far le mutazioni di scena, di fabricar
machine, di convenir col mastro de' balli, di riconoscer di sera in
sera gli operari ed i suonatori dell'orchestra, e di mantenere illu-
minato il teatro. [... ] Dal principio bastavano due voci isquisite,
poco numero d' arie per dilettare, poche mutazioni di scena per appa-
gare la curiosità; ora più si osserva una voce che non corrisponda
che molte delle migliori ch'abbia l'Europa. Si vorrebbe ch'ogni scena
del drama caminasse con la mutazione [di scena], e che !'inven-
zioni delle machine si andassero a ritrovare fuori del mondo. Que-
ste sono le cause per le quali cresce ogni anno più la spesa, ma non
cresce di già, anzi si diminuisce il pagamento alla porta, che pone
a rischio d'impossibilitar la continuazione, se non si dà regola
migliore alle cose correnti.

Capitolo XIV: L'utile che ricava il teatro che rappresenta drami in


musica.

Tre furono, a mio credere, gli oggetti che fecero introdurre i


teatri nel mondo, e sono appunto quei tre fini assegnati dal reto-
rico, cioè l'onesto, il giocondo e l'utile. E infatti qual trattenimento
L'ORGANIZZAZIONE IMPRESA RIA LE D El TEATRI V E N EZIA N I 327

può esser più onesto di quello che vien suggerito agli uomini
dalla stessa Virtù? [... ] Il giocondo poi non può esser maggiore
di quello che nasce dall'armonie insegnate sino dal moto delle
sfere: onde, aggiunte queste all'altre circostanze del teatro, lo
rendono in tre forme godibile, all'occhio per la pompa, all'orec-
chio per la musica, e all'ingegno per la poesia. [... ] L'utile, final-
mente, come necessario stromento a sostenere il concetto del tea-
tro con le spese toccate nell'antecedente capo e ad inanimire la
volontà all'operazioni virtuose, di cui l'interesse è un caro alletta-
mento. Diversi sono gli utili che si cavano dal teatro: il primo,
dei bollettini [ossia biglietti] che servono di passaporta ogni sera;
il secondo, degli scagni che s'affittano pure di sera in sera; il
terzo, la contribuzione convenuta per botteghini che servono di
rinfreschi. Tutti questi utili si fanno considerabili quando incon-
tra [buon successo] l'opera, la cui riuscita o buona o cattiva dipende
da mille accidenti per lo più originati da' giuochi stravaganti d'una
ridicola fortuna, che ordinariamente suole sposarsi col giudicio
del volgo. L'ultimo utile che si ricava è quello degli affitti de'
palchetti, che per esser in numero quasi di cento diviene conside-
rabile: e questo, o riesca o no il dramma, sempre è lo stesso,
né può mancare annualmente ogni volta che recita il teatro in
quel carnovale. L'utile poi che si cava dal teatro della comedia
consiste [unicamente] negli affitti de' palchetti, mentre ogni altro
utile è de' comici: a' quali è tenuto il padrone del teatro a far
un regalo di quello che si cava da essi palchetti.

Capitolo XV: Il prezzo che si è praticato dal principio e che ora si


pratica di dar alla porta del teatro.

Le spese del teatro sono più che certe; ma gli utili, derivando
(come s'è detto) dagli scherzi di fortuna, sono incerti. Pure il tea-
tro studia sempre più d'accrescer i suoi aggravii; ma l'utile della
porta, ch'è fondamento principale dell'interesse, invece di crescere
si va diminuendo, con evidente pregiudizio e pericolo di tralasciarsi
la continuazione di questo nobilissimo trattenimento. Il poco prezzo
lieva il modo alla spesa considerabile delle pompe, introduce più
facilmente il volgo ignorante e tumultuario, e fa perder il decoro
328 LETTURE

a quella virtù che comparisce non meno per diletto che per pro-
fitto. L'anno primo che comparl in Venezia il drama in musica (fu
del 163 7) si limitò come onesta contribuzione il pagamento di lire
quattro per bollettino [ossia biglietto] che serve di passaporta
nel teatro. Durò l'uso della medema inalterabile, nonostante qual
si sia fortuna sinistra incontrassero le recite, sino l'anno 1674, e
durerebbe ancora se Francesco Santurini quell'anno, col comodo
del teatro di S. Moisè preso ad affitto vantaggiosamente, con le
scene e materiali che servirono l'anno innanzi ad una generosità
accademica e con una mediocre compagnia de' cantanti, non vio-
lava l'integrità dell'uso suddetto, con un quarto di ducato [ossia
meno di due lire] alla porta. Questa novità vantaggiosa piacque
all'universale, ond'egli allettato dal profitto, venendogli contrastata
la continuazione del teatro di S. Moisè suddetto, pensò e gli sortl
di fabricar il teatro di S. Angelo, col beneficio del regalo di pal-
chetti, ed aprirlo col prezzo medemo alla porta l'anno 16 77 [... ].
Un calo eccedente la metà [nel prezzo del biglietto] allettò il con-
corso col pregiudicio de' teatri soliti a ricever le lire quattro sud-
dette, facendo che il famoso teatro di SS. Giovanni e Paolo si ridu-
cesse dopo quaranta anni di così decorosa contribuzione al sud-
detto quarto [di ducato] l'anno 1679, e coll'esempio di lui l'anno
1680 quelli di S. Salvatore e di S. Cassiano, non rimanendo altro
[teatro] al prezzo primiero che il novissimo di S. Giovanni Griso-
stomo, dove si vede impiegata tutta la magnificenza maggiore da'
[... ] fratelli Grimani.

Capitolo XVIII: Se sia di bene o di male l'introduzione de' teatri


nel mondo.

Se questo problema si proponesse in un'accademia, darebbe cer-


tamente a due grandi ingegni gran campo di sostenere il pro ed
il contra. [... ] Si concluderebbe alfine che il teatro è stato prima
e sarebbe ancora [oggi] di gran bene se si conservasse il decoro della
sua prima origine, se l'abuso non avesse luogo, e se i geni si tem-
prassero di miglior sentimento. Pure questo problema pare a me
più politico che accademico, e come tale da decidersi più dall'au-
torità di chi comanda che dalla penna di chi scrive.
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 329

7 • DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA: BARTHOLD fEIND

Nel Seicento italiano l'opera in musica non fu mai fatta oggetto di consi-
derazione critica né dagli uomini di cultura né da quelli di teatro (con le sole
eccezioni di due napoletani, il letterato Giuseppe Gaetano Salvadori e il com-
mediante e librettista Andrea Perruccio, che nei rispettivi trattati sopra la
Poetica toscana all'uso, 1691, e Dell'arte rappresentativa premeditata ed all'im-
provviso, 1699, dedicano alcune righe pertinenti alle esigenze specifiche del
teatro d'opera). In Francia invece, nel grand siècle dell'arte tragica e comica,
una critica teatrale avvertita e sperimentata intervenne assiduamente nel set-
tore del teatro in musica: ma lo fece quasi sempre con criteri esclusivamente
letterari e rigorosamente classicistici, donde una considerazione generalmente
negativa di quella stessa forma spettacolare che nella vita teatrale della corte
e della capitale godeva invece d'un prestigio altissimo. Anche i difensori del-
1' opera - accusata di ledere le leggi della verosimiglianza, del decoro, delle
unità aristoteliche di tempo, luogo e azione - controbattono con argomenti
letterari, e non rendono dunque mai vera giustizia alla struttura drammatur-
gicamente peculiare della tragédie lyrique (cfr. § 25). Questa stessa prospet-
tiva critica (con tutte le sue congenite incongruenze) mutuarono quegli intel-
lettuali italiani che a partire dagli anni intorno al 1700 intervennero sull'o-
pera (cfr. § 19, e voi. VI, Lettura n. 3).
In mancanza d'una tradizione letteraria illustre come l'italiana o la fran-
cese, ma in presenza d'una preoccupazione etico-religiosa tanto più acuta,
la Germania - che dall'Italia aveva importato il nuovo genere teatrale-musicale
(cfr. § 24) e dalla Francia la controversia su di esso - produsse una tradi-
zione critica cospicua sui problemi morali, estetici, drammaturgici dell'opera:
una tradizione che percorre con vigore tutta la critica letteraria e teatrale
tedesca dell'intiero Settecento (cfr. G. FLAHERTY, Opera in the development
of German criticai thought, Princeton University Press, 1978). Il librettista
amburghese Barthold Feind (16 78-1721) interviene con spirito scettico,
insieme divertito e acre, nella polemica protestante intorno alla liceità morale
dell'opera in musica, ma anche nelle controversie classicistiche dei francesi.
Nei suoi Gedanken von der Opera (1708) egli cita e smentisce a più riprese
il codice classicistico del famosissimo discorso Sur !es opéras del francese Saint-
Évremond (un saggio che, edito nel 1683 e poi frequentemente ristampato,
risale agli anni Settanta; lo si legge in italiano nelle sue Opere slegate, II, a
cura di L. De Nardis, Ateneo, Roma 1964, p. 294 sgg.). La sua esperienza
di uomo di teatro è diretta (Feind è l'autore dei più acclamati drammi per
musica di Reinhard Keiser, come Octavia, Lucretia e Masagniello furioso,
1705-06), la sua esperienza di spettatore è vastissima (egli mostra di cono-
scere bene, e di persona, i teatri d'Italia, di Francia e di Germania): tanto
più prammatica e disincantata è la sua precettistica di drammaturgo musi-
cale. L'ottica del Feind è in primis letteraria: ma della dottrina degli affetti
(cfr. § 9) - dell'importanza reciproca di temperamento, passione, azione dei
330 LETTURE

personaggi - egli dà un'interpretazione contemperata alle esigenze sceniche


ed istrioniche dell'opera. Più dei canoni aristotelici valgono per lui le con-
suetudini teatrali di ogni nazione. Centrale, come per i classicisti francesi,
è la questione della verosimiglianza: ma egli ne riconosce la natura intrinse-
camente convenzionale. La convenzione teatrale - quasi un patto tacitamente
stipulato tra l'autore e il suo pubblico, tra il palcoscenico e la platea (dr.
§ 23) - è un fattore dinamico, sottoposto a usura e rigenerazione, a revisioni
e innovazioni. In questo senso le sue Idee intorno all'opera sono un abbozzo
raro e precoce di drammaturgia del teatro d'opera, uno dei pochissimi legit-
timamente riferibili a un orizzonte ancora seicentesco.

Nessuno potrà tacciarmi di misantropia se dirò che un'opera


è quella cosa innaturale e quella splendida impostura in cui la poe-
sia e la musica (cantata e suonata) concorrono nella massima eccel-
lenza. Ciascuno sarà viceversa disposto ad accettare che si parli
qui soltanto delle opere migliori per qualità di musica, poesia, tea-
tro, attori e scene. Ogni nazione vanta in questo la preminenza
su ogni altra: gli italiani sopra i francesi, i francesi sopra gli ita-
liani, i tedeschi sopra i francesi (ma non sopra gli italiani) e i fran-
cesi sopra i tedeschi. La folie dei francesi è superiore a tutti nelle
cose innaturali, la stoltezza degli italiani nelle cose naturali e la
bizzarria dei tedeschi in quelle semplici: cosicché quelli trascen-
dono dall'orizzonte della sciocchezza e ne raggiungono i vertici mas-
simi, questi invece per debolezza non arrivano tanto lontano,
essendo privi di tanti beaux esprits. Ma i francesi hanno l'attenuante
di essere stati sedotti e traviati dagli italiani e dai tedeschi verso
una cosl pomposa debolezza, giacché le loro opere sono molto più
recenti di quelle italiane e tedesche, come basterebbe a dimostrare
- ove la cosa non fosse arcinota - il privilegio concesso dal pre-
sente re dei francesi alla Académie de musique (com'è chiamata
l'impresa operistica parigina). Prima del 1671 infatti, a mia cono-
scenza, in Francia non fu veduta opera alcuna; da allora, ne hanno
date un'ottantina, tutte di divinità pagane, miti greci, baldi cava-
lieri di Amadigi, balletti o altre cose d'invenzione, a maggior glo-
ria del loro monarca: e di preferenza lamentevolissime tragédies,
nelle quali essi (in quanto spiriti eroici) riescono benone. La vertu
dei loro virtuosi - per quel che ne ho visto e sentito io - è tanto
mediocre che si percepisce appena la differenza tra il canto ordi-
nario e il canto artistico: e in questo sono ~alto differenti dagli
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 331

italiani e dai (sia pur pochi) tedeschi presso i quali l'arte ha rag-
giunto vette incomparabili. [... ]
Da molte persone assennate ho sentito criticare severamente
- se non proprio rifiutare del tutto - le opere, perché in esse si
canta di continuo. Dice Saint-Évremond nel suo discorso Sur les
opéras: «Un'altra cosa nelle opere è talmente contro natura da ferire
la mia immaginazione: è il far cantare il dramma dall'inizio alla
fine, come se i personaggi che si rappresentano avessero ridicol-
mente convenuto di trattare in musica le questioni più minute o
più capitali della loro vita. Possiamo mai immaginarci che un
padrone chiami cantando il suo servitore, che cantando gli affidi
una commissione, che l'amico cantando si confidi con l'amico, che
in consiglio si deliberi cantando, che si esprimano cantando gli ordini
che si danno, e che si uccidano melodiosamente a colpi di spada
e giavellotto i soldati in combattimento?». A me pare che un fan-
ciullo il quale leggesse e vedesse per la prima volta un dramma per
musica darebbe sùbito un giudizio siffatto, ove lo si volesse per-
suadere che si tratta di cose vere e che il poeta abbia voluto dare
per veritiero (tramite gli attori) quello che invece è una finzione.
La verità, nei drammi, viene comunque rappresentata mediante
finzioni: altrimenti non sarebbe certo meno illecito recitare in versi
che cantare. Ci si limita a imitare in qualche modo la natura, e
a chi vuol vedere qualcosa di totalmente naturale offre quotidia-
namente rappresentazioni sempre nuove il gran palcoscenico del
mondo, non certo quello (assai più angusto) delle opere e delle com-
medie. Un dramma è per cosl dire soltanto un giuoco d'ombre,
nel quale si vede nitidamente qualcosa senza però toccare carne
né corpo; e se in pieno giorno si accendono centinaia di lampade
e lo spettatore sta all'opera al buio, chi vorrà convincerlo che gli
attori esigano che egli creda che è notte, quando il sole è ancora
all'orizzonte? Statue, fontane, cascate artificiali eccetera sono e
restano cose naturali anche se non hanno spiriti animati; ma non
s'è mai sentito dire che l'idea che ce ne facciamo sia stata pietrifi-
cata con loro. Il recitativo (di qualsiasi specie praticata nelle opere)
è molto nettamente distinto dalla melodia delle arie, dei canti e
delle canzoni ordinarie. Per chiedere, per raccontare, per ordinare,
per leggere vi sono in musica regole, note e armonie di volta in
volta diverse. Un punto e virgola, un punto fermo, un punto inter-
rogativo, un punto esclamativo, una virgola, un due punti hanno
332 LETTURE

ciascuno le proprie regole e cadenze, diverse come il fuoco dall'ac-


qua, e quando, cantando, un attore legge una lettera in un'opera
composta da un musicista squisito come Reinhard Keiser, si noterà
quasi un tertium quid tra cantare e parlare, che si addice ad ogni
recitativo (a meno che non lo si voglia accompagnare durante tutta
l'opera con un accompagnamento nutrito quanto quello delle arie,
secondo la moda bislacca praticata all'Aia, moda che non può non
arrecare fastidio per la mancanza di varietà e l'assordante, conti-
nuo stormire degli strumenti). So bene che di quando in quando
si compone un recitativo "arioso" o "obbligato", purché esso sia
stato versificato come arioso dal poeta stesso o comunque esprima
un affetto particolare, come una smania, un trasalimento d'animo
eccetera. Non credo neppure che alcuno vorrà ragionevolmente met-
tere in dubbio che nel canto si possa dare a un discorso dieci volte
più energia che non nella declamazione o nella semplice lingua par-
lata. Che cos'è infatti il canto se non un sostenere il discorso e
la voce con la massima forza ed energia? Ma un discorso sostenuto
non cessa per questo di essere un discorso (e sia pur recitato con
un altro tono), e non è affatto innaturale. [... ] Nella poesia dei
drammi musicali si sentono re, imperatori e imperatrici darsi del
"tu" tra di loro o coi messaggeri e i servitori, senza distinzioni
poetiche tra il "tu", il "lei", il "voi": è vero che in vita civili i
principi non si danno del "tu", ma è cosa consueta in poesia e nei
drammi, e dunque non innaturale. Cosl, non ci si intrattiene in
versi nella vita quotidiana (nessun padrone ordina in poesia al pro-
prio servitore di pulirgli le scarpe), eppure non ho mai sentito nes-
suno dei critici dell'opera lamentarsi di questo fatto. Ma se le opere
si dovessero scrivere in prosa,. esse non sareb~ero più opere, giac-
ché un'opera è un poema intessuto di molti dialoghi e posto in
musica secondo quanto prescrivono i versi, e non viceversa, sic-
come è il poeta a fornire al musicista mediante i versi il destro all'in-
venzione, e il musicista lo deve perciò seguire. [... ]
Né so d'altra parte se Saint-Évremond non si contraddica là
dove consiglia «di riprendere la moda delle commedie, dove facil-
mente si potrebbero inserire dei balli e delle musiche che non nuo-
cerebbero affatto alla rappresentazione. Vi si canterebbe un pro-
logo con piacevole accompagnamento musicale; negli intermedi il
canto animerebbe delle parole che vi figurerebbero come lo spi-
rito [ossia l'allegoria] di quel che sarebbe stato rappresentato. Finita
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 333

la recita, si canterebbe un epilogo, o qualche riflessione sulle grandi


qualità dell'opera rappresentata eccetera». Ma se è lecito cantare
prologo ed epilogo senza commettere peccato d'inverosimiglianza,
perché non allora tutto il dramma? Nel prologo e nell'epilogo com-
pare esattamente lo stesso tipo di dialoghi come nel dramma, vi
si impartiscono degli ordini, vi si discute dell'arrivo inopinato di
qualche favoleggiata divinità (come stanno a testimoniare tutti i
prologhi delle opere francesi). E se invece Saint-Évremond inten-
deva porre nel prologo invenzioni di qualche altra specie, ne avrei
veduto volentieri l'esempio. E comunque quest'opinione, che il
recitare cantando sia per forza innaturale, comporta conseguenze
tali che - ove egli le avesse tratte - gli avrebbero attirato le severe
censure dei suoi correligionari della clericheria papista: infatti,
quante preghiere e quanti modi di dire che vorrebbero essere decla-
mati non si sentono invece cantare nelle chiese? È talmente antica,
questa consuetudine, da non avere alcunché di innaturale. [... ]
Ma non è il caso di soffermarsi più a lungo su una critica tanto
futile. Ben maggiori sono i difetti che affliggono le opere, per quanto
concerne tanto i soggetti quanto gli attori, tanto la poesia quanto
il teatro e le sue macchine. Innanzitutto, tutta la gente ragione-
vole disapprova la rappresentazione di storie bibliche in teatro, e
la profanazione delle cose sacre sul palcoscenico delle più eminenti
e sfarzose vanità. Nessuno potrà contestarmi che, nella condizione
dei tempi presenti (in cui i costumi cristiani tanto divergono da
quelli pristini), molte eccellenti storie tratte dalla Bibbia potreb-
bero fornirci la materia migliore per i nostri spettacoli, per espel-
lerne i ceffi delle divinità pagane e sostituirli mediante l'introdu-
zione degli angeli o (come fece in Amburgo il dottor Poste! ai suoi
giorni) di numi tutelari. Ma invero, quand'anche si scelga un sog-
getto "indifferente" [non morale né immorale], si troverà pur sem-
pre qualche anima pia pronta ad adontarsi, a meno che la sua fede
non sia a sua volta "indifferente" al punto da assistere senza fastidio
alla vivida rappresentazione scenica delle faiblesses degli heroum
Scripturae. Si potrebbe sospettare che con ciò io voglia sminuire
i meriti e la reputazione di certuni che con ottime intenzioni hanno
prescelto simili soggetti biblici per farne dei drammi. Per fugare
un tal sospetto mi appello al parere ragionevolissimo di Saint-
Évremond: «Il teatro perde ogni attrattiva nella rappresentazione
delle cose sacre, e queste perdono molta della loro religiosa consi-
334 LETTURE

derazione sul palcoscenico». Ma egli va oltre, e dice che il passag-


gio del Mar Rosso, la mandibola d'asino di Sansone, Giosuè che
ferma il sole, eccetera, rappresentati in teatro non verrebbero prese
per storie vere: e che dunque si finirebbe ben presto per dubitare
della veridicità della Bibbia (ma quest'ultimo argomento non mi
pare affatto probante).
Gli italiani si attengono perlopiù, per amore della propria patria,
ai soggetti romani e greci, di cui sanno realizzare eccellentemente
il genio (come dimostrano i libretti dell'incomparabile Matteo
Noris). I francesi prediligono invece i miti ovidiani, e le storie inven-
tate a glorificazione del loro gran Luigi: ma in queste ultime essi
badano più alla qualità e alla distinzione degli individui che imper-
sonano i personaggi danzanti (spesso signori assai nobili) che non
al soggetto e al carattere di quel che gli attori dovrebbero rappre-
sentare - per non parlare poi delle inaudite adulazioni e allegorie
con cui alludono alle gesta mirabili del loro sovrano (come ne fan
fede tutti i loro balletti, prologhi, panegirici, eccetera), sebbene
non si possa negar loro un bel talento nell'invenzione e realizza-
zione dei prologhi, nei quali peraltro anche gli italiani (a differenza
dai tedeschi) eccellono. Ad Amburgo si prova forte disgusto per
i miti favolosi delle divinità pagane, e non saprei citare un solo
esempio di questa specie che abbia avuto buon esito; benché poi
io sia convinto che non si trovano in Amburgo venti persone in
grado di valutare adeguatamente la delicatezza o la virtù d'un'o-
pera, e di quelle venti persone spesso non ne vedo alcuna agli spet-
tacoli. A Venezia e Parigi hanno invece osservatori più scaltriti,
cosa che inanirnisce assai i poeti, tanto più che essi arrivano a pren-
dere fino a 400 talleri, e in Londra fino a 800 talleri e addirittura
fino a 200 ghinee (ossia più di 2 600 marchi amburghesi di moneta
pesante) per il loro libretto, giacché ogni seconda o terza rappre-
sentazione viene data a loro beneficio (e a prezzi d'entrata mag-
giorati).
Si prenda dunque il soggetto da dove si vuole, occorrerà in ogni
caso che i caratteri dei personaggi vengano ben differenziati l'un
dall'altro ed esaminati attentamente secondo il loro temperamento.
Per esempio: se si presenta un gran re, il più saggio monarca della
terra, occorrerà badare a che egli non creda a tutto quanto gli va
dicendo un messaggero burlone, e su di esso non fondi i propri
giudizi (non avrei difficoltà a citare esempi recentissimi, se lo
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 335

volessi). Un filosofo, un magnanimo, un innamorato, un disperato,


uno smanioso, un sospettoso, un geloso, un titubante eccetera dovrà
essere presentato secondo il proprio temperamento, e parlare a modo
suo (diversissimo da quello altrui): cosa che però richiede grande
capacità, siccome le varietà sono centinaia, anzi migliaia, variabili
a seconda dell'epoca, dei costumi, delle nazioni. [... ]
Oggidì non ha più corso l'osservanza dello spatium XXIV bora-
rum [ossia dell'unità di tempo]: non si sa neppure (e molti ci si
sono rotti sopra la testa) se Aristotele, prescrivendo una durata
di un giorno, pensasse a un giorno naturale di 24 ore o a un giorno
convenzionale di 12 ore. A tal proposito dice il celeberrimo tra-
gico francese Pierre Corneille: «Per conto mio trovo tanto scomodo
rinchiudere certi soggetti in un tempo cosl breve che non soltanto
gli accorderei le 24 ore intiere, ma farei anche uso della licenza
(concessa dal filosofo) di superarle di un poco, e andrei senza scru-
poli a 30 ore»; dopodiché fornisce esempi di come anche Euripide
ed Eschilo abbiano derogato su tal punto. Ma non occorre inco-
modare costoro: methodus è e resta comunque e sempre arbitraria,
e chiunque è libero, se crede, di riconoscere altrui una così grande
autorità. Vero è che nelle tragedie recitate, di cui parlano Aristo-
tile e Corneille, la libertà suol essere molto condizionata, e i greci
e i latini e perfino i tedeschi moderni si sono attenuti a queste regole:
ma nelle opere non ci si lascia volentieri imporre regole tanto strette.
Mi sono preso per il mio Masagniello furioso un arco di tempo di
6-7 giorni, né mi adonterò se un altro se ne prenderà 10. Certo,
rappresentare in scena in tre ore storie di sette o otto mesi, o di
altrettanti anni, sarebbe indizio di una troppo grande dabbenag-
gine, tanto irrispettosa di ogni verosimiglianza da parere perfino
a me sconveniente. Se si vede in scena alzarsi il sole, dopo un quarto
d'ora esso sarà a metà dell'orizzonte, donde avremo una giornata
di 30 minuti: e dunque sarà legittimo un soggetto che duri sei giorni.
Nel Masagniello, per evitare l'inverosimiglianza della partenza e
del ritorno di Don Pedro da Napoli a Venezia, ho inventato che
egli non sia mai partito da Napoli e abbia semplicemente simulato
il viaggio nei confronti di Don Velasco e Aloysia. [... ] Siccome in
quest'opera ho intessuto tre intrecci diversi assai aggrovigliati, non
è stato facile dipanarli senza qualche finzione, procurata però per-
lopiù mediante mutazione di scena. Infatti, se poco volentieri salto
dall'appartamento della scena terza alla sala della scena quarta alla
336 LETTURE

galleria della scena successiva, altrettanto poco volentieri introduco


in tre scene consecutive tre diverse vedute, a meno che non lo esiga
un'estrema necessità, o che non intervenga qualche stregoneria.
E comunque, cosl facendo, il poeta si creerà una pessima reputa-
zione presso gli operai addetti alle scene. Egli deve conoscere bene
il teatro: deve sapere quante volte in un'opera si possono cambiare
le quinte, quante alla volta se ne possono ritirare e quante far com-
parire, il tempo necessario agli operai onde evitare che gli spetta-
tori debbano aspettare a vuoto prima che compaia la prossima scena
(come càpita spesso ad Amburgo e Lipsia quando vi si rappresen-
tano opere nuove). Deve anche sapere di quali macchine sceniche
per glorie e divinità, di quali carri volanti dispone il teatro, e dove
sono sospesi, come è congegnato il pavimento del palco e che cosa
si può far comparire dal basso. Deve insomma ben conoscere tutte
le risorse del palcoscenico, per selezionare soggetti che si prestino
ad esservi rappresentati. Deve dunque da un unico soggetto trarre
opere di volta in volta diverse per il teatro di Braunschweig (il più
perfetto) o di Hannover (il più bello) o di Amburgo (il più vasto)
o di Lipsia (il più povero) o di Weillenfels.
Il miglior teatro d'Europa, il più vasto e il più agile dal punto
di vista dei congegni scenici, è certo l'incomparabile teatro reale
delle Tuileries di Parigi: non se ne potrebbe pensare uno più mae-
stoso e sfarzoso. Ma i signori francesi debbono lasciarne il merito
all'ingegno architettonico di un italiano, Gaspare Vigarani. Il più
artificioso è forse il Farnese di Parma, dove si può andare in gon-
dola tra anfiteatro e platea. Il più lungo è quello di Fano, il più
amabile quello di S. Angelo a Venezia, il più piccolo quello di S.
Cassiano, il più prezioso quello di S. Marco [ = S. Gio. Grisostomo?]
sempre a Venezia. Non ho veduto quello di Torino, e quelli di Roma
non sono più stati aperti dopo l'ultimo grande terremoto. Senza
essere dei maggiori, quello di Bruxelles, fatto erigere dal principe
elettore di Baviera, è dei più belli, e la platea è ben disposta, e
di grandissima altezza: le mutazioni sceniche vi vengono curate
quanto a Parigi, senza essere altrettanto magnifiche, ma in com-
penso tanto migliore è l'orchestra. Il teatro ordinario di Parigi,
presso il Palais-Royal, farebbe in confronto ad altri ben magra
figura, non fosse per la pompa e l'accuratezza delle scenografie che
fan dimenticare la mediocrità dell'architettura: assai sorprendenti
sono però i cori, dove compaiono a volte più di 30 donzelle splen-
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 337

didamente abbigliate, e un numero ancor maggiore di uomini. Vi


si possono vedere 16 spiriti che combattono tra le nuvole; senza
calar sipario, si assiste a mutazioni di scena istantanee; e d'ordina-
rio vi competono a vicenda 12, 16 o financo 20 ballerini. Non a
caso di balli e di cori consistono preponderantemente le opere che
vi si danno. Invece, anziché assistere alle imprese e alle vicende
amorose dei protagonisti, vi si vedono ad ogni scena soltanto ten-
dresses e douceurs, cosa affatto diversa dalle opere italiane e tede-
sche. Assai innaturale è poi che vi facciano comparire tanto spesso
divinità e personificazioni di fontane, alberi, colline e fiumi in figura
umana: che, per far vedere le proprie macchine, tirino giù dal cielo
per i piedi le divinità, a ogni atto, e che concludano i propri drammi
(siano essi tragedie recitate o cantate) in maniera sempre tanto lugu-
bre che non ne sopravvive spesso più d'uno o due sulla scena (cosa
che in Germania e in Italia si considererebbe ridicola). Oltretutto
le loro opere consistono perlopiù di soli recitativi; le arie sono magari
non più di tre o quattro, e quando le recitano allora tutto l'udito-
rio (che, all'infuori di qualche damigella, consiste perlopiù di soli
abbés) si mette a canterellarle, cosicché l'attrice finisce per fare suo
malgrado la figura del cantore luterano che intona il canto dei fedeli:
un siffatto comportamento pare a qualche tedesco cosa strana, e
offre il destro al dileggio. (Ma non capisco perché: paese che vai,
usanza che trovi.) Le loro glorie le fanno scendere tanto in fretta
dal soffitto della scena che si sarebbe indotti a credere che le nuvole
da loro caschino giù dal cielo; le imprese di guerra e gli assedii delle
città li trattano alla stregua di buffonate anziché di cose serie, tanto
più che i soldati, vestiti tutti principescamente, paiono più che altro
ottimi equilibristi e acrobati. E hanno fors'anche ragione di fare
una distinzione tra imprese belliche vere e proprie e imprese belli-
che teatrali, giacché spesso sul teatro riesce assurdo qualcosa che
in natura merita approvazione, e viceversa.
La buona organizzazione delle scene e delle sortite consiste prin-
cipalmente nel collegarle l'una all'altra senza sforzo, in maniera
che quasi non ci si avveda del passaggio dall'una all'altra. Non dun-
que far sl che lo spettatore abbia l'impressione che l'attore rientra
tra le quinte per la sola ragione che non ha più nulla da dire, bensl
fare in modo che egli renda palesi - tacitamente mediante l'azione
e il comportamento, oppure dichiarandoli esplicitamente - i motivi
della sua uscita in scena e del suo rientro. Per esempio: se si veri-
338 LETTURE

fica una sommossa, se qualcuno cade svenuto, se un ragazzo fa ali' a-


more e sopravviene il padre, se due amanti litigano, eccetera, la
ragione la si trova nell'azione stessa. Ma se io faccio comparire una
persona sola o due o tre l'una dopo l'altra, e in ogni scena tratto
di qualcosa di particolare, che non ha nessun rapporto con quello
che precede e quello che segue, la cosa riesce disorientante e inge-
nua. Non posso negare d'essere incorso io stesso in quest'errore,
nella mia Octavia, mentre me ne sono guardato bene nelle altre.
Ma talvolta, lo si voglia o no, non se ne può fare a meno, un po'
per Da scarsità del]le risorse del teatro, un po' per guadagnare tempo:
soprattutto quando l'intrigo è triplice; e comunque le regole son
regole, e non leggi (tant'è vero che l'osservanza delle regole impe-
disce ad uno di essere pessimo poeta, ma non ne fa però ipso facto
uno eccellente). E mentre gli attori sono fuori di scena, i loro per-
sonaggi provvederanno alle loro faccende, e occorrerà che in qual-
che modo ne rendano conto quando rientrano in scena. [... ]
La fine del primo atto deve sfociare in uno scompiglio totale,
e i personaggi debbono essere cosl avviluppati nell'intrico che né
lo spettatore né il lettore possano indovinare l'intenzione del poeta.
E questa confusione deve non soltanto essere mantenuta per tutto
l'atto secondo, bensl proseguire fin all'ultimissima scena, affinché
l'attenzione dello spettatore resti ben all'erta. (Parlo beninteso di
quegli spettatori che vanno all'opera per via dell'opera, e non per
via della conversazione [ ... ].) [ ... ] Invece le cose funzionano male
se il lettore o spettatore può già prevedere la conclusione del
dramma e lo scopo del poeta dopo averne letto o visto il primo
o il second'atto: il che dipende dall'ignoranza o dalla carente appli-
cazione delle figure retoriche, giacché il buon oratore nasconde
comunque sempre quanto più possibile la propria arte e le proprie
figure.
Per quel che concerne l'inizio di un dramma musicale, va detto
che non sarà cosa di poco lustro se all'apertura del sipario si
vedranno riuniti in scena molti personaggi, che intonano un coro:
ma la cosa finisce per parere magrolina e spiacevole se se ne fa un' a-
bitudine e si attaccano tutte le opere coi cori, e dunque gli spetta-
tori sanno già prima dell'alzata di sipario che dovranno vedere 10
o 12 personaggi cantare un'aria d'insieme. [... ]
Nell'opera le arie, spirito e anima dello spettacolo, fungono quasi
da glosse del recitativo e rappresentano quanto di più grazioso e
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 339

artistico dà la poesia. Ho già detto altre volte che le arie si diffe-


renziano dal recitativo non soltanto per il loro metro poetico o per
i caratteri di stampa in grassetto, bensl che esse si debbono distin-
guere per una moralità, un'allegoria, una sentenza o una similitu-
dine (enunciate nell'antecedente e con le loro belle applicazioni
nel conseguente) che si riferiscano a quanto è stato detto nel reci-
tativo precedente o che impartiscano qualche insegnamento, qualche
informazione, qualche suggerimento. In difetto di questo, l'aria
dovrà consistere in una preghiera, ma d'un'espressione tenera e
ben distinta da quella del recitativo, o in un furore, o simili. Quanto
al numero di personaggi che la cantano, un'aria sarà semplice, o
duetto o terzetto o quartetto, e talvolta anche sestetto e via dicendo.
[... ] Il genere delle arie non ha altra regola che di evitare quanto
più possibile il verso alessandrino [ossia il verso tragico, l'equiva-
lente dell'endecasillabo italiano], per riguardo al cantante (per lo
stesso riguardo si eviterà una lunghezza eccessiva dell'aria: mai più
di otto versi). Ma per il resto, viene lasciato intieramente all'arbi-
trio del poeta di infilare due o tre o quattro versi tronchi o piani
di séguito, di mescolare trochei, anacreontici, dattili, anapesti ecce-
tera, di scriver l'aria col daccapo o senza, di far rimare tutti i versi
o soltanto alcuni, a suo completo beneplacito: e nessuno si lasci
dettar legge da nessuno. Comunque, per gli effetti furibondi si addi-
cono i versi dattilici e anacreontici, e agli effetti giocondi si atta-
gliano le parole sonore e scorrevoli, con molte vocali (soprattutto
a e o). [ ... ]
Il recitativo riescirà migli0re e più leggiadro se sarà in versi brevi,
giacché gli alessandrini [o gli endecasillabi] non soltanto sono labo-
riosi per il compositore, ma rendono fastidiosamente lunga l'opera.
[... ] Nel genere recitativo, poi, non occorre badare affatto alla dispo-
sizione delle rime, nel che eccellono gli italiani, che spesso fanno
i versi recitativi per metà abbondante non rimati. Ma nessuna
nazione al mondo è tanto accurata, dotata e abile nei recitativi
quanto i francesi, che con essi sopperiscono a tutto quanto difetta
nelle loro arie.
Vi sarebbe ancora molto da dire intorno allo stile delle opere.
Basterà ch'io dica che, come il discorso dev'essere l'interprete del
cuore e lasciar trasparire l'indole di chi parla, cosl tale indole dovrà
necessariamente esser disposta secondo il carattere del personag-
gio e influenzata dalla passione che lo agita. Un uomo superbo sarà
340 LETTURE

borioso, uno magnanimo generoso, uno esperto del mondo sobrio,


uno innamorato tenero e leggiadro, il racconto storico d'un mes-
saggero disteso, eccetera. Queste cose sono essenziali, e bastano
due o tre scene per dar l'idea del genio e della discrezione d'un
bravo poeta. E siccome in un'opera compaiono svariati personaggi
diversi per carattere e per passioni, e ciascuno di essi dovrà col
proprio carattere esprimere la propria volontà e le proprie azioni
secondo le leggi del decoro, questa è una delle ragioni prime che
fanno di un dramma il genere poetico più alto ma anche più diffi-
cile. [... ] Per rendersene conto occorre esaminare i soggetti e le
materie ordinarie dell'arte poetica. [... ] Se appare in scena un impe-
ratore o monarca, sta al poeta farlo parlare di volta in volta al plu-
rale majestatis (come si conviene quando dovrà impartir ordini)
oppure al singolare (come sarà invece più verosimile per una dichia-
razione d'amore, giacché nel gabinetto privato non occorre tenere
in tanto conto il rispetto di sé medesimi). Le dichiarazioni d'amore
si possono fare sia esplicitamente e direttamente, sia in forme fio-
rite di allusioni peregrine, iperboli, enigmi, a seconda del carat-
tere dei personaggi: quanto più tenere, fiorite e discrete, tanto
meglio (anche se il pubblico raramente apprezza simili finezze).
Quando convengono simultaneamente in scena molti personaggi,
vengono a taglio i cori e le entrées, in particolare in occasione di
annunci d'importanza, trionfi, vittorie, sacrifici, battaglie, magie,
esequie, banchetti di giubilo, eccetera. Le entrées di balletto hanno
lo scopo di simulare in scena mediante determinate figure e atteg-
giamenti corporei quelle azioni (buone o malvage) che sogliono
occorrere nella vita civile: le cerimonie sacrificali giudaiche, pagane
o orientali, le lamentazioni funebri, i comportamenti dei maestri
pedanti, la crapula dei banchetti, eccetera.
Queste considerazioni mi conducono a parlare del mimo, o del
comico. Per dir la verità, esso non pertiene affatto all'opera, e il
teatro viene prostituito dalla sua presenza, giacché pare che si voglia
con ogni determinazione spingere la gente a ridere, cosa disdice-
vole e contraria a un vero godimento: infatti, se qualcosa mi piace
me ne rallegro, ma certo non la derido, se è vero che si irride sol-
tanto ciò che si disprezza. Ad Amburgo si è radicata la consuetu-
dine che senza un arlecchino non si fa nessuna opera: sintomo di
un diffuso mauvais gout e cattivo esprit del pubblico. Quello che
presso la gente fine passa per volgare e ridicolo, vi trova la mas-
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 341

sima approvazione, come s'è visto l'anno scorso, in occasione di


quell'opera, Le carnaval de Venise, talmente assurda e ripiena di
sberleffi disgustevoli da parere una vera facchinata. Eppure il sog-
getto ha trovato tanto plauso da non si credere: perfino i garzoni
birrai vi andavano a spendere i propri soldi, dal che già si vede
che questo carnevale di Venezia amburghese non fu certo lo stesso
Carnaval de Venise rappresentato a Parigi nel 1699. Sono sempre
stato espressamente richiesto di inserire un comico nei miei drammi,
per piacere al pubblico, cosa che avrei lasciato di buon grado ai
cerretani vagabondi e agli arlecchini di fiera anziché doverla intro-
durre contro natura in un trattenimento tanto onesto e civile come
i drammi per musica. [... ] Se proprio non si può far a meno di inse-
rire un personaggio comico nei drammi, si farà bene ad affidargli
il ruolo di un satirico, che pungoli i vizi correnti.
Le restanti azioni dei personaggi sono dettate non tanto dalle
regole dell'arte oratoria, quanto semmai dalla natura della passione
che viene espressa, e dalla bravura dei virtuosi (nella quale eccel-
lono gli italiani). Il poeta deve conoscere per bene le qualità di cia-
scun virtuoso e riflettere su quale carattere gli convenga di più,
senza di che non sarà possibile esprimere convenientemente l'af-
fetto desiderato. Anzi, riesce assai tedioso il poeta che non dia all' at-
tore occasioni di sfoggiare la propria virtù, e si limiti a mettergli
in bocca semplici déclarations d'amour o altre passioni prive di movi-
mento e mutamento. [... ] Gli affetti di miglior effetto - che richie-
dono però un'arte e un'esperienza consumate - sono quelli che non
vengono manifestati parlando, quelli che traspaiono più da un com-
portamento eroico che non dal discorso, quelli che vengono agiti
più che enunciati: lo spettatore ne viene commosso tacitamente
e segretamente, senza l'intermediario delle parole. [... ] Comunque,
là dove mancano gli affetti, mancano anche le azioni, e là dove
latitano le azioni, si farà un gran gelo in teatro. Quanto più natu-
ralmente il poeta si immagina l'idea dell'oggetto e dell'affetto da
rappresentare, e quanto più precisamente egli riflette sul mouve-
ment d'esprit che tale affetto richiede, sulle circostanze in cui esso
si manifesta, oppure (ove non ve ne fossero) ne inventa di oppor-
tune, tanto meglio gli riuscirà [la rappresentazione del]l'affetto.
Perciò dissento dai tragediografi francesi - che in questo imitano
i greci e i latini - quando essi si limitano a riferire mediante rac-
conti e messaggi le azioni più importanti, cosicché l'azione princi-
342 LETTURE

pale concessa ali' attore si riduce a un racconto pieno di melanco-


nia (soprattutto se si tratta della morte di qualche personaggio):
e in questo - come in tante altre cose - divergono assai dagli inglesi.
A taluno di animo compassionevole pare crudele assistere in scena
alla pugnalazione d'un personaggio: eppure le strade e le piazze
sono sempre affollate per le più atroci esecuzioni capitali. E cosa
v'è di tanto spietato nel vedere come un personaggio (poniamo
Lucrezia) si trafigge e lascia cadere sulla propria sedia in scena?
Può darsi che la gente vile desideri che in casi simili, come sulle
scene arlecchinesche, si veda zampillare dalla bocca dell'ucciso un
fiume di rossissimo sangue che colori tutta la scena: tali naturalia
non sono certo di moda nell'opera, e si convengono tutt'al più al
teatro delle marionette. Ma d'altra parte il racconto non mi dà metà
dell'idea che mi dà la diretta rappresentazione dell'evento (a parte
il fatto che non sempre si è disposti a credere ai resoconti altrui),
e comunque i lunghi e molteplici racconti stanno bene nelle com-
medie recitate, mai e poi mai nelle opere, dqve né lo spettatore
avrebbe la pazienza di sentirseli cantare fino all'ultima sillaba, né
il cantante la forza di sostenerli. Nelle opere francesi la conclu-
sione del dramma comporta solitamente l'uccisione di una o più
persone: eppure credo proprio che il pubblico parigino sia non meno
delicato che nel resto del mondo. E invece cosa lercia impiccare
la gente in scena, o ficcarla in un forno acceso, o trasformarla in
orsi e mostri per farli bofonchiare e muggire anziché cantare: tutte
cose che contravvengono al decoro del teatro d'opera.
Mi rammento di aver sentito asserire che non si convenga di
far giacere a letto un personaggio: ma un conto è trovarsi a letto
per amorazzi, un altro è trovarcisi per riposo o malattia. [... ] So
però che l'uccisione di Lucrezia non avrebbe certo avuto lo stesso
effetto se, invece di presentarla in scena, la si fosse raccontata:
e si tratta dell'azione principalissima e del miglior affetto che quella
vicenda - che senza tale uccisione sarebbe monca - presenta per
il teatro. Il bravo poeta non sprecherà mai occasioni siffatte per
influire sull'affetto del pubblico. Nella caduta di Turno nella stessa
opera, lo spettatore viene tenuto a lungo sospeso tra il timore, il
desiderio e l'attenzione. Il poeta ottiene sempre il proprio effetto
se rappresenta con naturalezza l'affetto: e potrà dire di averlo rap-
presentato con naturalezza quando il lettore o lo spettatore ne sarà
commosso, quando la cosa gli parrà vera e susciterà in lui ira, ter-
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 343

rore, speranza, pietà o furore. E questo è quello che nell'arte poe-


tica si chiama divinum quid. [... ] Sir William Tempie, nel suo trat-
tato O/ Poetry, riferisce che sovente molti ascoltatori, a sentir reci-
tare le tragedie del rinomato tragediografo inglese Shakespeare,
si mettono ad urlare a gran gola e a piangere a dirotto. Nella Comé-
die di Parigi, quando Mme. Dancourt impersona la protagonista
di Andromaque [di Racine] o Médée [di Corneille], si vedono pian-
gere non soltanto le damigelle bensì anche i più galanti e charmants
eroi di guerra al ritorno dal fronte. [... ]
Per parlare ancora un po' delle scenografie: il poeta dimostrerà
scarso ingegno se si limiterà a inventare i soliti boschi, galleria,
gabinetti, sala, anticamera, giardino, strada eccetera, cose che si
vedono sempre in tutti i drammi. C'è chi va all'opera per via della
musica, chi per le scene, chi per i soggetti e le azioni drammati-
che, chi infine per le buffonerie o per i costumi, e tutti costoro
vogliono soddisfazione del prezzo che pagano. Un teatro si distin-
gue da un altro (e in particolare dalla commedia) anche mediante
le belle scenografie: un poeta farà bene a dimostrare anche qui la
propria esperienza, e gli converrà dunque avere qualche nozione
di architettura e meccanica. [... ] Il teatro di Amburgo è forse quello
che consente il maggior numero di mutazioni di scena, siccome
vi si possono cambiare le quinte 39 volte, e forse un centinaio di
volte i fondali. Ma è peccato che non vi si possa mostrare per
esempio una bella scena acquatica, o una tempesta di mare (che
vi riuscirebbe assai ridicola): cose che invece ai tempi del compianto
signor Gerhard Schott, fondatore del teatro, ebbero effetto asso-
lutamente sorprendente. Raffigurare una palude, un mattatoio, una
fornace, un letamaio è disdicevole, e indurrebbe gli spettatori a
ricorrere a fazzoletti, fiale di profumo, tabacchiere (a parte il fatto
che in realtà il loro naso è comunque già infastidito a sufficienza
per via del fumo delle lampade). Le carceri si prestano efficace-
mente a belle scenografie, ma esse sono ormai diventate tanto
comuni e frequenti che le si vede praticamente in ogni opera. Anche
nelle scenografie, più si tien dietro alla natura, e meglio riescono,
mentre invece fa un effetto mediocre e miserevole voler raffigurare
il ponte di Rialto con un ponte purchessia, o la porta Flaminia
mediante la Brocksbriicke di Amburgo. Il quondam Schott era accu-
ratissimo nella scenografia, e ne fanno testimonianza le sue scene
del Kalkberg di Luneburgo, del Campidoglio, del Tempio di Salo-
344 LETTURE

mane (che da solo valeva qualcosa come 15 000 talleri). È invece


cosa assai sconveniente dover chiudere il sipario ad ogni piè sospinto
durante un'opera, oppure assistere in un teatro dissestato a muta-
zioni di scena che riescono soltanto per metà. Nulla disgusta mag-
giormente lo spettatore, soprattutto in quelle scene in cui vi sia
un effetto di magia ed è dunque questione d'una frazione di
secondo: cose che francesi e italiani sanno effettuare con grande
maestria, e che nel teatro di Braunschweig sono regolate alla per-
fezione, e però neglette nel teatro di Amburgo. Scegliere per sog-
getto d'un'opera una vicenda che si svolge sempre in un palazzo
o in una città è senz'altro accettabile, ma non completamente rego-
lare e nient' affatto necessario. Una limitazione siffatta priverebbe
lo spettacolo di una parte del proprio lustro, e se il poeta fosse
sempre tanto rigoroso con sé medesimo si decurterebbero le opere
di tante belle scenografie che potrebbero invece attirare lo spetta-
tore, a pro del quale le si rappresenta. Certo, un poeta avvertito
eviterà di passare di botto dal cielo alla terra e viceversa, né riu-
scirebbe men ridicolo collocare una scena a Norimberga e la suc-
cessiva in Augusta, neanche si trattasse della commedia del dottor
Faust.
In Italia e Germania le opere si concludono perlopiù con un
coro, al quale partecipano tutti o quasi i personaggi. Lo scopo di
questa consuetudine è ottimo, perché essa fa grand'effetto e pro-
duce un gaudio collettivo che a giusto titolo di ricompensa accom-
pagna lo spettatore all'uscita del teatro. Ma nelle opere francesi
non si considera necessaria una siffatta conclusione (che necessa-
ria di per sé non è), e per conto mio non esiterei a farne a meno,
perché mi pare banale: tutti gli spettatori sanno già (anche senza
leggere il libretto) che quando rientrano in scena tutti i personaggi
e si mettono in fila a mezzaluna sul proscenio ci sarà il coro finale.
Comunque, nelle tragedie non si farà mai uso di questa consuetu-
dine, preferendo semmai (come suggeriscono le regole antiche)
lasciar perdere gran parte dei personaggi e chiudere l'azione con
la costernazione dei due o tre principali. Allo spettatore cui ciò
dispiacesse consiglio di risparmiare i soldi del biglietto fino alla
prossima commedia. [... ]
Per concludere dirò che, nonostante la spesa, la pompa e lo
sfarzo, nonostante la migliore delle musiche, nonostante le sceno-
grafie più splendide, un'opera riesce noiosa se la poesia è infelice.
DRAMMATURGIA DELL'OPERA IN MUSICA 345

È vero bensl che un compositore può mettere in musica qualsiasi


cosa, anche le peggiori freddure: ma l'esperienza sta a dimostrare
con qual piacere possa farlo il musicista, e se la cosa possa susci-
tare lo stesso effetto che producono in lui gli affetti forti. Mi resta
ancora da notare che l'opera è stata inventata per essere praticata
in uno Stato benestante, per il passatempo della gente voluttuosa
e oziosa, ma anche per esercitarvi le virtù di tanti artisti e intendi-
tori, e per essere guardata con occhi innocenti da spettatori inno-
centi, né più né meno che un fuoco d'artificio, un torneo, un caro-
sello o altre manifestazioni di giubilo collettivo: cosa, dunque, non
solamente indifferente dal punto di vista morale, bensl anche lecita.
Protestare contro di essa è tanto inutile quanto inane, e se dagli
incompetenti di poesia, musica e pittura essa viene annoverata tra
le follie indegne d'un cristiano, la cosa non mi tange: in morale
ho forse principii diversi dai loro e dovrei allora addentrarmi in
una lunga disputa con costoro. Metà del mondo, e vorrei dir quasi
la metà più accorta, la approva o quantomeno ne accetta di buon
grado l'esistenza come cosa né edificante né riprovevole. Tant'è:
i figli del mondo - come dicono le Sacre Scritture - sono più accorti
nei loro affari che non i figli della luce.
BIBLIOGRAFIA

N.B.: I numeri segulti da • si riferiscono ai paragrafi.

La storia della musica del Seicento si sussume, nella tradizione musicologica


tedesca ed anglosassone, sotto la categoria, assai elastica, dello stile "barocco":
R. HAAS, Die Musik des Barocks, Athenaion, Wildpark-Potsdam 1928; M.
F. BUKOFZER, Music in the baroque era/rom Monteverdi to Bach, W. W. Nor-
ton, New York 194 7, London 1948 (trad. it. La musica barocca, Rusconi,
Milano 1982); C. V. PALlSCA, Baroque music, Prentice-Hall, Englewood Cliffs,
N. J. 1968; W. BRAUN, Die Musik des 17. Jahrhunderts, Athenaion, Wiesba-
den 1981. Metodologicamente notevole è il saggio di G. STEFANI, Musica
barocca. Poetica e ideologia, Bompiani, Milano 1974. Un contributo recente
alla discussione sul "barocco" artistico è quello, sobrio nell'atteggiamento
critico e vasto nell'orizzonte, di A. BLUNT, Some uses and misuses of the terms
Baroque and Rococo as applied to architecture, Oxford University Press, Lon-
don 1973 (trad. it. in A. BLUNT - C. DE SETA, Architettura e città barocca,
Guida, Napoli 1978, pp. 11-45).

1-2 • Sussidio fondamentale allo studio del madrigale è E. VoGEL - A. EIN-


STEIN - F. LESURE - C. SARTORI, Bibliografia della musica italiana vocale pro-
fana pubblicata dal 1500 al 1700, Staderini-Minkoff, s.l. 1977: non soppianta
tuttavia la vecchia, esemplare Bibliothek der gedruckten weltlichen Vocalmu-
sik Italiens aus den Jahren 1500-1700 di E. VoGEL (la si consulti nella ristampa
G. Olms, Hildesheim 1962). Poco dice del madrigale seicentesco !'altrimenti
capitale A. EINSTEIN, The Italian madrigal, Princeton University Press, Prin-
ceton, N. J. 1949: per la comprensione dei suoi criteri artistici e teorici sono
utili la raccolta di saggi Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri,
Il Mulino, Bologna 1988, e (ben al di là dell'assunto indicato dal titolo) S.
ScHMALZRIEDT, Heinrich Schutz und andere zeitgenossische Musiker in der Lehre
Giovanni Gabrielis. Studien zu ihren Madrigalen, Hanssler, Neuhausen-
Stuttgart 1972; per i madrigalisti inglesi, J. KERMAN, The Elizabethan madri-
gal. A comparative study, American Musicologica! Society, New York 1962.
Da parte letteraria, lo studio più esauriente è U. ScHULz-BuscHHAUS, Das
Madrigal. Zur Stilgeschichte der italienischen Lyrik zwischen Renaissance und
Barock, Gehlen, Bad Homburg v. d. H. 1969, da integrare però con O.
BESOMI, Ricerche intorno alla «Lira» di G. B. Marino, Antenore, Padova 1969.
Alla ricca bibliografia mariniana si può accedere attraverso l'edizione, dav-
vero esemplare, dell'Adone curata da G. Pozzi, Mondadori, Milano 1976;
delle Rime, O. Besomi e A. Martini hanno avviato l'edizione critica, Panini,
Modena 1987 sgg. Un orientamento sulla poesia per musica si trova in
348 BIBLIOGRAFIA

L. BIANCONI, Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana, VI: Teatro,


musica, tradizione dei classici, a cura di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1986,
pp. 319-363.

3 • Per Adriana Basile, Leonora Baroni, i Caccini, vedi le "voci" del Dizio-
nario biografico degli italiani: ma per Giulio Caccini e il suo stile di canto,
anche gli studi di H. W. HITCHCOCK (Vocal ornamentation in Caccini's Nuove
musiche, in «The musical quarterly», LVI, 1970, pp. 389-404, e Caccini's
"other" Nuove musiche, in «Journal of the American musicological society»,
XXVII, 1974, pp. 438-460), che ha curato anche le edizioni delle Nuove musi-
che del 1602 e del 1614 (A-R Editions, Madison, Wi. 1970 e 1978), nonché
H. M. BROWN, The geography of Fiorentine monody, in «Early Music», IX,
1981, pp. 147-168. I cinque libri di musiche solistiche di Sigismondo d'In-
dia sono stati pubblicati (con commento) da]. J. Joyce nel vol. IX della serie
Musiche rinascimentali siciliane, dedicata finora in gran parte a musicisti sei-
centeschi (De Santis, Roma 1970-73; Olschki, Firenze 1978 sgg.). Per il
rapporto poesia/musica vedi S. LEOPOLD, Chiabrera und die Monodie: die Ent-
wicklung der Arie, in «Studi musicali», X, 1981, pp. 75-106. Le ricerche di
N. FORTUNE sulla monodia vocale sono compendiate nel cap. IV del vol. IV
di The new Oxford history of music, Oxford University Press, London 1968,
pp. 125-217 (trad. it. Storia della musica, IV, I, Feltrinelli, Milano 1969, pp.
135-232), interessante anche per l'analisi comparativa con la prassi mono-
dica inglese coeva (per il suo massimo esponente si veda la monografia di
D. PouLTON, fohn Dowland, Faber & Faber, London 1972, ed. rived. 1982,
da integrare col numero unico dowlandiano del «Journal of the Lute society
of America», X, 1977).

4 e 7 • Della copiosa bibliografia monteverdiana basti menzionare cinque


volumi apparsi recentemente in Italia: Atti del convegno di studi dedicato a
C. M., in « Rivista italiana di musicologia», II, 2, 196 7; C. M. e il suo tempo.
Relazioni e comunicazioni, s.ed., Verona 1969; C. M. Lettere, dediche e prefa-
zioni, a cura di D. de' Paoli, De Santis, Roma 1973 (edizione assai difet-
tosa); C. GALLICO, M. Poesia musicale, teatro e musica sacra, Einaudi, Torino
1979; P. FABBRI, Monteverdi, EDT, Torino 1985. Si leggono inoltre profit-
tevolmente: D. ARNOLD, M.,]. M. Dent, London 1963; The M. companion,
a cura di D. Arnold e N. Fortune, Faber & Faber, London 1968, ed. rived.
1985; la miscellanea C. M. Festschrift Reinhold Hammerstein zum 70. Geburts-
tag, a cura di L. Finscher, Laaber, Laaber 1986; il capitolo monteverdiano
in C. DAHLHAUS, Untersuchungen iiber die Entstehung der harmonischen Tona-
lita"t, Barenreiter, Kassel-Basel 1968, pp. 257-286; l'articolo di N. PlRROTTA,
Scelte poetiche di M., in «Nuova rivista musicale italiana», II, 1968, pp. 10-42,
226-254 (ora anche nelle sue Scelte poetiche di musicisti, Marsilio, Venezia
1987, pp. 81-146).

5 • Resta fondamentale l'indagine di R. ROMANO, Tra xvr e xvrr secolo. Una


crisi economica: 1619-1622, in «Rivista storica italiana», LXXIV, 1962, pp.
BIBLIOGRAFIA 349

480-531 (ora anche in R. RoMANO, L'Europa tra due crisi. XIV e XVII secolo,
Einaudi, Torino 1980, pp. 76-147). Ma vedi anche i contributi di storia
sociale, politica ed economica sul Seicento apparsi ripetutamente nella rivi-
sta <i Studi storici» (p. es. quelli dello stesso autore, IX, 1968; di R. VILLARI,
XII, 1971 e XVIII, 1977; di R. PECCHIOLI, XVII, 1976, con rinvio ad altra
bibliografia recente; di I. WALLERSTEIN, XIX, 1978), nonché R. VILLARI,
Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Laterza, Roma-Bari
1987. Per il contesto europeo, il volume Crisis in Europe, 1560-1660, a cura
di T. Aston, Routledge & Kegan Paul, London 1965 (trad. it.: Crisi in Europa,
1560-1660, Guida, Napoli 1968), rappresenta lo stadio del dibattito al 1965,
poi ripreso in The generai crisis o/ the seventeenth century, a cura di G. Parker
e L. M. Smith, Routledge & Kegan Paul, London 1978. Lo stesso concetto
di "crisi" del Seicento è riesaminato (anche polemicamente) in TH. K. RABB,
The struggle /or stability in early modem Europe, Oxford University Press,
New York 1975; J. DE VRIES, The economy o/ Europe in an age o/ crisis,
1600-1750, Cambridge University Press, Cambridge 1976; I. WALLERSTEIN,
Y a-t-il une crise du XVII' siècle?, in «Annales. Économies, sociétés, civilisa-
tions», XXXIV, 1979, pp. 126-144; ID., Mercantilism and the consolidation
o/ European world economy, 1600-1750, Academic Press, New York 1980
(trad. it. Il mercantilismo e il consolidamento dell'economia-mondo europea,
1600-1750, Il Mulino, Bologna 1982); V. G. KIERNAN, State and society
in Europe, 1550-1650, Blackwell, Oxford 1980. Per la storia della cultura
basti citare qui quattro saggi d'eccezione: M. FoucAULT, Les mots et /es cho-
ses, Gallimard, Paris 1966 (trad. it. Le parole e le cose. Un'archeologia delle
scienze umane, Rizzoli, Milano 1967); P. Rossi, !filosofi e le macchine (1400-
1700), Feltrinelli, Milano 1976; F. A. YATES, The Rosicrucian enlightenment,
Routledge & Kegan Paul, London 1972 (trad. it. L'illuminismo dei Rosa-
Croce. Uno stile di pensiero nell'Europa del Seicento, Einaudi, Torino 1976);
J. A. MARAVALL, La cultura del Barroco. Antilisis de una estructura hist6rica,
Ariel, S. Joan Despf 1975 (trad. it. La cultura del Barocco, Il Mulino, Bolo-
gna 1985).

6 •Perla storia del termine 'concerto' vedi la "voce" di E. REIMER (1973)


nello Handwiirterbuch der musikalischen Terminologie, F. Steiner, Wiesba-
den 1972 sgg.; L. SPITZER, Classica! and Christian ideas o/ world harmony,
Johns Hopkins Press, Baltimore, Md. 1963 (trad. it. L'armonia del mondo.
Storia semantica di un'idea, Il Mulino, Bologna 1967) ne tratteggia il conte-
sto ideologico e letterario più ampio (cap. v). Delle origini del concerto grosso
tratta O. ]ANDER, Concerto grosso instrumentation in Rome in the 1660's and
1670's, in «Journal of the American musicologica! society», XXI, 1968, pp.
168-180.

8-10 • Per la teoria musicale seicentesca ci si rivolga senz'altro alla collet-


tiva Geschichte der Musiktheorie, a cura dello Staatliches lnstitut fiir Musik-
forschung, Preussischer Kulturbesitz, Berlin, edita dalla Wissenschaftliche
350 BIBLIOGRAFIA

Buchgesellschaft, Darmstadt 1984 sgg. (in particolare i voli. X e XI). Si con-


sultino inoltre: la tavola rotonda National predilections in seventeenth-century
music theory, in «Journal of music theory», XVI, 1972, pp: 2- 71; i saggi di
D. P. W ALKER, Studies in musical science in the late renaissance, The W ar-
burg Institute - E. J. Brill, London-Leiden 1978; l'antologia critica La musica
nella rivoluzione scientifica del Seicento, a cura di P. Gozza, Il Mulino, Bolo-
gna 1989. Si segnalano inoltre alcuni studi monografici: C. V. PALlSCA, Marco
Scacchi's defense of modem music (1649), in Words and music: The scholar's
view [... ] in honor of A. Tillman Merritt, a cura di L. Berman, Harvard Uni-
versity, Cambridge, Ma. 1972, pp. 189-235; J. Mi.iLLER-BLATTAU, Die Kom-
positionslehre Heinrich Schiitzens in der Fassung seines Schiilers Christoph Bern-
hard, 2• ed., Biirenreiter, Kassel-Basel 1963; U. ScHARLAU, Athanasius Kir-
cher (1601-1680) als Musikschriftsteller. Ein Beitrag zur Musikanschauung des
Barock, Gorich & Wiershiiuser, Marburg 1969 (cfr. la recensione di G. STE-
FANI in «Nuova rivista musicale italiana», IV, 1970, pp. 945-950); W. SEI-
DEL, Descartes' Bemerkungen zur musikalischen Zeit, in «Archiv fiir Musik-
wissenschaft», XXVII, 1970, pp. 287-303 (del Breviario di musica di Car-
tesio esiste un'ed. it., a cura di L. Zanoncelli, Passigli, Firenze 1990);
M. DICKREITER, Der Musiktheoretiker ]ohannes Kepler, Francke, Bern-
Miinchen 1973 (dr. la recensione di G. MORELLI in «Rivista italiana di musi-
cologia», VIII, 1973, pp. 349-354); H. LuowrG, Marin Mersenne und seine
Musiklehre, Buchhandlung des Waisenhauses, Halle a.d.S. Berlin 1935.
I testi di Pietro Della Valle e Vincenzo Giustiniani sono editi in A. SOLERTI,
Le origini del melodramma. Testimonianze dei contemporanei, Bocca, Torino
1903.
Per il basso continuo e la sua precettistica, vedi F. T. ARNOLD, The art of
accompaniment /rom a thorough-bass as practised in the xvil'h and xvrrJ'h cen-
turies, Oxford University Press, Oxford 1931, e P. WrLLIAMS, Figured bass
accompaniment, Edinburgh University Press, Edinburgh 1970. (Il ms. 739
della Biblioteca Marciana di Venezia, datato 1664 ed edito da R. Barbie-
rato, Turris, Cremona 1988, è un falso ottocentesco.) Mancano studi appro-
fonditi sull'apprendimento musicale: per l'Italia, qualche cenno di raccoman-
dabile lettura si trova in G. MORELLI, Ragguagli dalla provincia pedagogica,
nel volume Il Conseroatorio di musica «Benedetto Marcello» di Venezia,
1876-1976, s.ed., Venezia 1977, pp. 181-189, in E. SuRIAN, L'esordio tea-
trale del giovane Gasparini. Alcune considerazioni sull'apprendimento e tiroci-
nio musicale nel Seicento, in Francesco Gasparini (1661-172 7). Atti del primo
convegno internazionale (Camaiore, 29 settembre - 1° ottobre 1978), a cura di
F. Della Seta e F. Piperno, Olschki, Firenze 1981, pp. 37-54, e nella tavola
rotonda sulle scuole di canto negli Atti del XIV congresso della Società inter-
nazionale di musicologia (Bologna 1987), II, a cura di A. Pompilio e altri, EDT,
Torino 1990, pp. 171-225. Esemplare l'indagine documentaria sull'istituzione
musico-pedagogica gesuitica di TH. D. CuLLEY, ]esuits and music, I: A study
of the musicians connected with the German College in Rome during the 17th
century and of their activities in Northern Europe, Jesuit Historical Institute,
Rome - St. Louis, Mo. 1970.
BIBLIOGRAFIA 351

11-13 • Dell'impiego ideologico della musica tratta, nel caso clamorosissimo


della Francia, il bel libro di uno storico: R. M. IsHERWOOD, Music in the service
o/ the king. France in the seventeenth century, Cornell University Press, Ithaca,
N. Y. - London 1973 (trad. it. La musica al servizio del re, Il Mulino, Bologna
1988). Alla Musica politica è dedicato l'omonimo saggio di V. ScHERUESS in
Festschri/t Georg von Dadelsen zum 60. Geburtstag, a cura di Th. Kohlhase e V.
Scherliess, Hanssler, Neuhausen-Stuttgart 1978, pp. 270-283. Più in generale,
ottimo lo studio già citato dello STEFANI (per l'Italia). Per le istituzioni musicali
nazionali e cittadine, basti qui rinviare alle "voci" rispettive in The new Grove
dictionary o/ music and musicians, Macmillan, London 1980.
Scarsissimi gli studi sull'editoria musicale: per l'Italia sono capitali C. SAR-
TORI, Dizionario degli editori musicali italiani, Olschki, Firenze 1958, O.
MiscHIATI, Indici, cataloghi e avvisi degli editori e librai musicali italiani dal
1591 al 1798, Olschki, Firenze 1984, e A. POMPILIO, Editoria musicale a Napoli
e in Italia nel Cinque-Seicento, in Musica e cultura a Napoli dal xv al XIX secolo,
a cura di L. Bianconi e R. Bossa, Olschki, Firenze 1983, pp. 79-102; per
l'Inghilterra, D. W. KRUMMEL, English music printing 1553-1700, The Biblio-
graphical Society, London 1975; per il contesto europeo, la tavola rotonda
su Produzione e distribuzione di musica nella società europea del XVI e XVII secolo,
in Atti del XIV congresso cit., I, pp. 233-336. .
Rari gli studi di storia sociale della musica: panoramico è H. RAYNOR, A socia!
history o/ music /rom the middle ages to Beethoven, Barrie & Jenkins, London
1972 (trad. it. Storia sociale della musica, Il Saggiatore, Milano 1990). Per
l'Inghilterra e la Francia meritano menzione D. C. PRICE, Patrons and musi-
cians o/ the English renaissance, Cambridge University Press, Cambridge 1981,
e i due volumi di M. BENOIT (Versailles et !es musiciens du roi. Étude institu-
tionnelle et sociale. 1661-1733, Picard, Paris 1971) e C. MASSIP (La vie des
musiciens de Paris au temps de Mazarin (1643-1661). Essai d'étude sociale, ibid.
1976) nella serie La vie musicale en France sous les rois Bourbons. Per l'Italia
abbondano i materiali (soprattutto in alcune riviste: «Note d'archivio per
la storia musicale», 1924-43, rist. R. Pàtron, Bologna, 1970-71; nuova se-
rie 1983-87, con supplementi, Fondazione Levi, Venezia; <i Rivista italia-
na di musicologia», Olschki, Firenze 1966 sgg.; «Studi musicali», Olschki,
Firenze 1972 sgg.), ma manca un lavoro di sintesi o alcunché di analogo al
pregevole F. HASKELL, Patrons and painters. A study in the relations between
Italian art and society in the age o/ the baroque, A. A. Knopf, New York 1963
(trad. it. Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arte e società italiana nell'età
barocca, Sansoni, Firenze 1966).

14 • Per la musica strumentale italiana è fondamentale C. SARTORI, Biblio-


grafia della musica strumentale italiana stampata in Italia fino al 1700, Olschki,
Firenze 1952 e 1968. Alla musica per tastiera è dedicata la serie editoriale
Corpus o/ early keyboard music (American Institute of Musicology, s.l. 1963
sgg.), promossa dall'autore di un'indagine monumentale: W. APEL, Geschichte
der Orge!- und Klaviermusik bis 1700, Barenreiter, Kassel-Basel 1967 (trad.
it. Storia della musica per organo e altri strumenti da tasto fino al 1700, San-
352 BIBLIOGRAFIA

soni, Firenze 1985. Lo stesso APEL ha dato una serie analoga di Studien iiber
die friihe Violinmusik, in «Archiv fiir Musikwissenschaft», XXX-XXXVIII,
1973-81. Per Frescobaldi, il rinnovamento degli studi è recentissimo: F.
HAMMOND, G. F., Harvard University Press, Cambridge, Ma. 1983; C. GAL-
LICO, G. F. L'affetto, l'ordito, le metamorfosi, Sansoni, Firenze 1986; G. F.
nel IV centenario della nascita, a cura di S. Durante e D. Fabris, Olschki,
Firenze 1986; Frescobaldi studies, a cura di A. Silbiger, Duke University Press,
Durham, N.C. 1987; importanti anche i commenti introduttivi ai volumi
dell'edizione critica delle opere frescobaldiane intrapresa dalla Società Ita-
liana di Musicologia nei Monumenti musicali italiani, Suvini Zerboni, Milano
1975 sgg. All'area dei tastieristi nordeuropei si può accedere tramite A. CuR-
TIS, Sweelinck's keyboard music. A study o/ English elements in seventeenth-
century Dutch composition, Oxford University Press, London 1972; ma lo
studio più stimolante su Sweelinck è quello di F. NosKE, Formaformans, in
«International review of the aesthetics and sociology of music», VII, 1976,
pp. 43-59. Per la musica strumentale d'insieme, si vedano in generale W.
S. NEWMAN, The sonata in the baroque era, University of North Carolina
Press, Chapel Hill, N.C. 1959 (rist. 1966), e in particolare E. SELFRIDGE-
FIELD, Venetian instrumentalmusic/rom Gabrieli to Vivaldi, Blackwell, Oxford
1975 (trad. it. La musica strumentale a Venezia da Gabrieli a Vivaldi, ERI,
Torino 1980).
Per la musica da ballo si vedano le "voci" del New Grave cit. e contributi
(peraltro di indirizzo assai vario) come TH. W ALKER, Ciaccona and passacaglia:
remarks on their origins and early history, in «Journal of the American musico-
logica! society», XXI, 1968, pp. 300-320; W. KmKENDALE, L'aria di Fiorenza
id est il Ballo del Gran Duca, Olschki, Firenze 1972; R. HuosoN, Passacaglia
and ciaccona, UMI Research Press, Ann Arbor, Mi. 1981, e Io., The alle-
mande, the balletto, and the tanz, Cambridge University Press, Cambridge
1986; J. W. HIIL, "O che nuovo miracolo!": a new hypothesis about the Aria di
Fiorenza, in In cantu et in sermone. For Nino Pirrotta on his 80th birthday, a cura
di F. Piperno e F. Della Seta, Olschki, Firenze 1989, pp. 283-322.

15-16 • Il titolo della Geschichte der katholischen Kirchenmusik, II, a cura


di K. G. Fellerer, Barenreiter, Kassel-Basel 1976, promette più di quanto
il volume non mantenga. Ottimo, invece, G. STEFANI, Musica e religione nel-
l'Italia barocca, Flaccovio, Palermo 1975 (cfr. la recensione di M. BARONI
in «Rivista italiana di musicologia», XII, 1977, pp. 330-339), rist. col titolo
Musica barocca II, Bompiani, Milano 1988. Un panorama della situazione
nell'Italia settentrionale: J. ROCHE, North Italian church music in the age o/
Monteverdi, Oxford University Press, Oxford 1984. Una selezione di opere
del Grandi è accessibile nella dissertazione di M. SEELKOPF, Das geistliche
Schaffen von Alessandro Grandi, Wiirzburg 1973. Dell'impiego della musica
strumentale nella liturgia tratta S. BoNTA, The uses o/ the sonata da chiesa,
in «Journal of the American musicologica! society», XXII, 1969, pp. 54-84.
La legislazione ecclesiastica sulla musica sacra è compendiata in F. RoMITA,
Ius musicae liturgicae. Dissertatio historico-iuridica, Marietti, Torino 1936. Per
BIBLIOGRAFIA 353

la musica sacra francese si vedano i capitoli rispettivi dell'ottimo J. R.


ANTHONY, French baroque music /rom Beaujoyeulx to Rameau, Batsford, Lon-
don 1973 (rist. 1978; trad. frc. La musique en France à l'époque baroque,
Flammarion, Paris 1981); per la musica organistica, G. MoRCHE, Muster und
Nachahmung. Eine Untersuchung der klassischen /ranzosischen Orgelmusik,
Francke, Bern-Miinchen 1979.
Per l'oratorio, italiano e no, cattolico e·protestante, i due volumi di H. E.
SMITHER, A history o/ the oratorio. The oratorio in the baroque era, Univer-
sity of North Carolina Press, Chapel Hill, N.C. 1977 (trad. it. del voi. I:
L'oratorio barocco. Italia, Vienna, Parigi, Jaca Book, Milano 1986), danno
un quadro assai aggiornato, completabile con i contributi più recenti sull'at-
tività oratoriale di centri come Bologna, Firenze, Perugia e Venezia, forniti
da C. VITALI (in «Rivista italiana di musicologia», XIV, 1979, pp. 128-154),
J. W. HIT.L (in «Acta musicologica», LI, 1979, pp. 108-136, 246-267, e LVIII,
1986, pp. 129-179), B. BRUMANA (in «Esercizi. Arte, musica, spettacolo»,
III, 1980, pp. 97-167), D. e E. ARNOLD, The oratorio in Venice, Royal Musi-
cal Association, London 1986. Su uno dei protagonisti si veda G. DixoN,
Carissimi, Oxford University Press, Oxford 1986. Una ricca antologia di ora-
torii storicamente importanti: Oratorios o/ the Italian baroque, a cura di H.
E. Smither, Laaber, LaaQer 1985 sgg.

17-18 • Fondamentale è la Geschichte der evangelischen Kirchenmusik, a cura


di F. Blume, Barenreiter, Kassel-Basel 1965 (che nell'edizione inglese, Prot-
estant church music. A history, Gollancz, London 1975, è aumentata tra l'al-
tro di un'ottima trattazione della musica anglicana, di W SHAW). Ai non
molti studi monografici su Purcell (i più importanti: J. A. WESTRUP, P., 7•
ed., J. M. Dent, London 1975; F. B. ZIMMERMANN, H. P. 1659-1695. His
li/e and time, Macmillan, London 1967, nonché, dello stesso autore, H. P.
1659-1695: an analytical catalogue o/ bis music, St. Martin's Press, New York
1963) si contrappone la bibliografia sagittariana, debordante. Mentre due
riviste («Acta sagittariana», Barenreiter, Kassel-Basel 1963 sgg., e «Schiitz-
J ahrbuch », ibid. 1979 sgg.) e una serie di volumi miscellanei (Sagittarius. Bei-
triige zur Er/orschung und Praxis alter und neuer Kirchenmusik, ibid., I, 1966
sgg.) garantiscono la diffusione di mercato e l'aggiornamento critico dell'im-
magine di Schiitz nel mondo protestante, restano fondamentali (insieme all'e-
dizione dei Gesammelte Brie/e und Schri/ten, a cura di E. H. Miiller, Bosse,
Regensburg 1931) le monografie di H. J. MosER, H. S. Sein Leben und Werk,
Barenreiter, Kassel 1936 (rist. 1954; trad. ingl. H. S. His li/e and work, Con-
cordia Publishing House, St. Louis, Mo. 1959), e di H. H. EGGEBRECHT,
H. S. Musicus poeticus, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1959. In ita-
liano si leggono: W OsTHOFF, H. S. L'incontro storico fra lingua tedesca e
poetica musicale italiana nel Seicento, Centro Tedesco di 'Studi Veneziani,
Venezia 1974; H. S. e il suo tempo. Atti del 1° convegno internazionale di
studi (Urbino, 29-31 luglio 1978), a cura di G. Rostirolla, Società Italiana
del Flauto Dolce, Roma 1981; F. CrvRA, H. S. saeculi sui musicus excellentis-
simus, Gribaudo, Torino 1986; e il saggio sagittariano contenuto in H. H.
EGGEBRECHT, Il senso della musica, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 181-210.
354 BIBLIOGRAFIA

Sulla cosiddetta "retorica musicale" (codificata soprattutto nei trattati del


Bernhard: cfr. J. MuLLER-BLATTAU cit.) si vedano la "voce" del New Grove
cit. e C. DAHLHAUS, Die /igurae superficiales in den Traktaten Christoph Bern-
hards, in Bericht uber den internationalen musikwissenschaftlichen Kongress Bam-
berg 1953, Barenreiter, Kassel-Basel 1954, pp. 135-138.

19-20 • Per la storia artistica e sociale dell'opera italiana in tutti i suoi aspetti
è fondamentale la Storia dell'opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pestelli,
6 voll., EDT, Torino 1987 sgg. Sussidio bibliografico capitale è C. SARTORI,
I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, 6 voli., Bertola & Locatelli,
Cuneo 1990 sgg. I testi delle favole pastorali fiorentine si leggono in A.
SOLERTI, Gli albori del melodramma, 3 voll., Sandron, Milano [1904]; una
selezione di e da libretti seicenteschi in A. DELLA CORTE, Drammi per musica
dal Rinuccini allo Zeno, 2 voll., UTET, Torino 1958. La serie Italian opera
1640-1770, a cura di H. M. Brown (Garland Publishing, New York 1977
sgg.), dà il facsimile di 24 partiture seicentesche (coi libretti); la serie Dram-
maturgia musicale veneta, a cura di G. Morelli, R. Strohm e Th. Walker
(Ricordi, Milano 1983 sgg.), ne aggiunge altre nove. I testi teorici di inizio
secolo si leggono in A. SOLERTI, Le origini del melodramma cit. (e ora anche
in una raccolta di fonti documentarie operistiche che copre l'intiero secolo
per Italia, Francia e Germania: Quellentexte zur Konzeption der europiiischen
Oper im 17. Jahrhundert, a cura di H. Becker, Barenreiter, Kassel 1981);
importante è il trattato adespoto Il Corago o vero Akune osservazioni per metter
bene in scena le composizioni drammatiche, a cura di P. Fabbri e A. Pompilio,
Olschki, Firenze 1983. I testi teorici della fine del secolo sono esaminati in
R. FREEMAN, Apostolo Zeno's re/orm o/ the libretto, in «Journal of the Amer-
ican musicologica! society», XXI, 1968, pp. 321-341, e nel suo Opera without
drama. Currents o/ change in Italian opera, 1675-1725, UMI Research Press,
Ann Arbor, Mi. 1981. Brillante è la trattazione dei problemi estetici ed arti-
stici delle origini dell'opera nel cap. VI di N. PIRROTTA, Li due Orfei. Da
Poliziano a Monteverdi, Einaudi, Torino 1975 (cfr. anche le sue Scelte poeti-
che di musicisti cit.). Per il contesto teatrale si veda S. CARANDINI, Teatro
e spettacolo nel Seicento, Laterza, Roma-Bari 1990.
Abbondano le ricerche sulla scenografia (pregevoli: P. BJURSTROM, Giacomo
Torelli and baroque stage design, Almqvist & Wiksell, Stockholm 1962; C.
MoLINARI, Le nozze degli dèi. Un saggio sul grande spettacolo italiano nel Sei-
cento, Bulzoni, Roma 1968; Illusione e pratica teatrale. Proposte per una let-
tura dello spazio scenico dagli intermedi fiorentini all'opera comica veneziana,
catalogo della mostra a cura di F. Mancini, M. T. Muraro e E. Povoledo,
Pozza, Vicenza 1975). V'è un ottimo panorama della librettistica seicente-
sca: P. FABBRI, Il secolo cantante, Il Mulino, Bologna 1990; manca invece
una trattazione complessiva soddisfacente della musica teatrale italiana della
prima metà del secolo. Per le opere Barberini-Rospigliosi: M. MURATA, Operas
/or the Papa/ Court 1631-1668, UMI Research Press, Ann Arbor, Mi. 1981;
di altri spettacoli romani con musica tratta la stessa autrice in <iEarly music
history», IV, 1984, pp. 101-134.
BIBLIOGRAFIA 355

21-23 • Le trattazioni di S. T. WoRSTHORNE, Venetian opera in the seven-


teenth century, Oxford University Press, Oxford 1954, e di N. MANGINI, I
teatri di Venezia, Mursia, Milano 1974, si possono integrare con gli spunti
interessanti (sebbene fortemente ideologizzati) del capitolo veneziano in L.
ZoRZI, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977,
e con i contributi multidisciplinari di Venezia e il melodramma nel Seicento,
a cura di M. T. Muraro, Olschki, Firenze 1976. Ma la monografia standard
sull'opera veneziana è ormai E. RosAND, Opera in seventeenth-century Venice.
The creation of a genre, University of California Press, Berkeley, Ca. 1991.
Dei modelli impresariali e dei condizionamenti produttivi trattano L.
BIANCONI - TH. W ALKER, Production, consumption and politica/ function o/
seventeenth-century opera, in «Early music history», IV, 1984, pp. 209-296:
un riassunto della stessa indagine, assieme a una tavola rotonda su Seventeenth-
century music drama (coordinata da P. Petrobelli) che esamina la questione
su scala europea, si legge in I.M.S. Report o/ the twelfth congress, Berkeley
1977, Barenreiter, Kassel 1981, pp. 680-711. Di parte più strettamente musi-
cale sono alcune ottime monografie su musicisti veneziani eminenti: W.
OsTHOFF, Das dramatische Spiz"twerk Claudio Monteverdis, Schneider, Tutzing
1960 (e dello stesso autore il saggio Maschera e musica, in « Nuova rivista
musicale italiana», I, 1967, pp. 16-44); J. GLOVER, Cavalli, Batsford, Lon-
don 1978; E. RosAND, Barbara Strozzi, virtuosissima cantatrice: the compo-
ser's voice, in «Journal of the American musicological society», XXXI, 1978,
pp. 241-281; R. BossARD, Giovanni Legrenzi: (<I/Giustino», Koerner, Baden-
Baden 1988. Per il contesto ideologico dell'Incoronazione di Poppea si legga
il saggio di I. FENLON e P. Mn.LER, The song of the soul: understanding "Pop-
pea ", Royal Musical Association, London 1991.
La diffusione dell'opera veneziana in Italia è illustrata in L. BIANCONI - Ttt.
WALKER, Dalla (<Finta pazza» alla (< Veremonda»: storie di Febiarmonici, in
«Rivista italiana di musicologia», X, 1975, pp. 379-454 (con aggiornamenti
in Drammaturgia musicale veneta cit., I). Della ricca bibliografia locale ed eru-
dita che tratta dell'istituzione di teatri d'opera in tante città italiane basti
menzionare qualche studio recente: P. BJURSTR0M, Feast and theatre in Queen
Christina's Rome, Nationalmuseum, Stockholm 1966; M.-TH. BOUQUET, Il
teatro di corte dalle origini al 1788. Storia del Teatro Regio di Torino, I, Cassa
di risparmio, Torino 1976; R. L. WEAVER - N. W. WEAVER, A chronology
of music in the Fiorentine theater, 1590-1750, Information Coordinators,
Detroit, Mi. 1978; L. BIANCONI, Funktionen des Opemtheaters in Neapel bis
1700 und die Rolle Alessandro Scarlattis, in Colloquium Alessandro Scarlatti,
Wiiriburg 1975, a cura di W. Osthoff eJ. Ruile-Dronke, Schneider, Tutzing
1979, pp. 13-111, 220-227; S. FRANcm, Drammaturgia romana, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma 1988; su Genova dr. il saggio di A. F. IvALDI
negli Atti del convegno senese dedicato ad Alessandro Stradella (in «Chi-
giana», XXXIX, 1982, pp. 447-574). Un esempio degli studi (sempre più
frequenti) che illustrano le vicissitudini di singoli drammi per musica rap-
presentati nei teatri di tutt'Italia: L. LINDGREN, I trionfi di Camilla, in «Studi
musicali», VI, 1977, pp. 89-159.
356 BIBLIOGRAFIA

Del lamento (operistico e da camera) trattano M. MURATA, The recitative solil-


oquy, in «Journal of the American musicological society>>, XXXII, 1979,
pp. 45-73, e E. RosAND, The descending tetrachord: an emblem o/ lament, in
«The musical quarterly», LXV, 1979, pp. 346-359. La produzione cantati-
stica (prevalentemente romana) è stata vagliata nella serie di studi The Welles-
ley edition cantata index series (a cura di O. Jander e altri), Wellesley College,
Wellesley, Ma. 1964 sgg.; alla riassuntiva trattazione di G. RosE, The Ita-
lian cantata o/ the baroque period, in Gattungen der Musik in Eim:eldarstellun-
gen. Gedenkschri/t Leo Schrade, I, Francke, Bern-Miinchen 1973, pp. 655-677,
si può aggiungere la lettura di saggi più recenti, come M. MURATA, Singing
about singing, or The power o/ music sixty years a/ter, in In cantu et in sermone
cit., pp. 363-382. Un'importante serie di facsimili: The Italian cantata in the
seventeenth century, Garland Publishing, New York 1985-86.

24-26 • L'accesso alla sterminata bibliografia sul teatro d'opera nei paesi tede-
schi (esclusa la corte viennese, per la quale si vedano: F. HADAMOWSKY,
Barocktheater am Wiener Kaiserhof, in «Jahrbuch der Gesellschaft fiir Wie-
ner Theaterforschung 1951/52», A. Sexl, Wien 1955, pp. 7-117; M. Drn-
TRICH, Goldene Vlies-Opern der Barockzeit. Ihre politische Bedeutung und ihr
Publikum, Òsterreichische Akademie der Wissenschaften, «Anzeiger der
phil.-hist. Klasse», CXI, 1974, pp. 469-512; H. SEIFERT, Die Operam Wie-
ner Kaiserhof im 17. Jahrhundert, Schneider, Tutzing 1985) si accede attra-
verso R. BROCKPAHLER, Handbuch zur Geschichte der Barockoper in Deut-
schland, Lechte, Emsdetten 1964 (da aggiornare coll'ampio panorama di R.
STROHM in Storia dell'opera italiana cit., II). Per l'opera amburghese (oltre
le annate III e V, 1978 e 1980, dello «Hamburger Jahrbuch fiir Musikwis-
senschaft») si veda, in generale, H. C. WoLFF, Die Barockoper in Hamburg
(1678-1738), 2 voll., Moseler, Wolfenbiittel 1957, e, in particolare, K. ZELM,
Die Opern Reinhard Keisers, Katzbichler, Miinchen-Salzburg 1975, e W.
BRAUN, Vom Remter zum Giinsemarkt. Aus der Friihgeschichte der alten Ham-
burger Oper (1677-1697), SVD, Saarbriicken 1987.
I già citati R. M. IsHERWOOD e J. R. ANTHONY trattano per esteso anche
dell'opera francese. In particolare si vedano poi: H. PRUNIÈRES, L'opéra ita-
lien en France avant Lulli, Champion, Paris 1913; C. GIRDLESTONE, La tragé-
die en musique (1673-1750) considérée camme genre littéraire, Droz, Genève-
Paris 1972; J. NEWMAN, Jean-Baptiste Lully and bis tragédies lyriques, UMI
Research Press, Ann Arbor, Mi. 1979; H. ScHNEIDER, Chronologisch-thema-
tisches Verzeichnis siimtlicher Werke von Jean-Baptiste Lully, Schneider, Tut-
zing 1981; Io., Die Rezeption der Opern Lullys im Frankreich des Ancien régi-
me, ibid. 1982; Jean-Baptiste Lully and the musico/ the French baroque: essays
in honoro/J. R. Anthony, a cura diJ. H. Heyer, Cambridge University Press,
Cambridge 1989; M. ARMELLINI, Le due "Armide" (Lully, 1686 - Gluck,
1777), Passigli, Firenze 1991. Sul conflitto stilistico Italia-Francia: G. MoR-
CHE, Corelli und Lully. Uber den Nationalstil, in Nuovi studi corelliani, a cura
di G. Giachin, Olschki, Firenze 1978, pp. 65-78.
Oltre La musique de scène de la troupe de Shakespeare, a cura di J. P. Cutts,
BIBLIOGRAFIA 357

Éditions du C.N.R.S., Paris 1959, per la musica teatrale in Inghilterra basti


rinviare ad un egregio aggiornamento sul masque dell'epoca Stuart (J. M.
WARD, in «Acta musicologica», LX, 1988, pp. 111-142), alla bibliografia
su Purcell (che si è arricchita di una monografia importante: C. PRICE, Henry
Puree!/ and the London stage, Cambridge University Press, Cambridge 1984),
nonché al fondamentale E. J. DENT, Foundations of English opera. A study
of musical drama in England during the seventeenth century, Cambridge Uni-
versity Press, Cambridge 1928, e a due studi recenti sul teatro della restau-
razione: E. HAuN, But hark! more harmony. The libretti of Restoration opera
in English, E~tern Michigan University Press, Ypsilanti, Mi. 1971, e C. A.
PRICE, Music in the Restoration theatre: with a catalogue of instrumental music
in the plays 1665-1713, UMI Research Press, Ann Arbor, Mi. 1979.
Della vasta ma dispersiva bibliografia sulla musica teatrale spagnola basti
menzionare alcune edizioni (criticamente e documentariamente illuminanti e
ricche di rinvii bibliografici ulteriori): J. VÉLEZ DE GUEVARA, Los celos hacen
estrellas, a cura diJ. E. Varey, N. D. Shergold eJ. Sage, Tamesis Book, Lon-
don 1970 (da integrare con le nuove fonti musicali segnalate nei «Cuader-
nos de teatro clasico», III, 1989, pp. 119-155); P. CALDERON DE LA BARCA,
La estatua de Prometeo, a cura di M. Rich Greer e L. K. Stein, Reichenber-
ger, Kassel 1986; ID. La purpura de la rosa, a cura di A. Cardona, D. W
Cruickshank e M. Cunningham (con la musica di T. Torrej6n y Velasco, Lima
1701), ibid. 1990; nonché il saggio di L. K. STEIN in «Acta musicologica»,
LXIII, 1991.
INDICE DEI NOMI

ABBATESSA Giovan Battista, 108 BACH Johann Sebastian, 88, 134, 144,
ABBATINI Antonio Maria, 7, 54, 80, 94, 147, 158, 230
96, 215 BACON Francis, 32
AasBURGO Margherita d', infanta di BADOARO Giacomo, 202-3
Spagna, 243 BALLARD fam., 81, 88, 162
AccIAiuou Filippo, 214 BAN Joan Albert, 63
AcHILLINI Claudio, 29, 42 BANCHIERI Adriano, 108, 121
ADDISON Joseph, 273 BARBARINO Bartolomeo, detto Il
AGAZZARI Agostino, 10, 66, 115, 237 Pesarino, 10, 19
AGOSTINI Paolo, 54 BARBERINI fam., 8, 79, 83, 195, 215,
AGOSTINI Pier Simone, 55, 95 252
AGOSTINO Aurelio, v. SANT' AGOSTINO BARDI Giovanni Maria, conte di
ALBERT Heinrich, 241 Vernio, 136
ALESSANDRO VII, Fabio Chigi, papa, BARONI Leonora, 21
82, 91, 118, 216 BARTOU Daniello, 53
ALGAROTTI Francesco, 181 BARTOUNI Nicolò Enea, 202
ALLACCI Leone, 208 BASILE Adriana, 15-6, 21, 41, 60
ALLEGRI Gregorio, 56 BASILE Giovan Battista, 60, 108
ALTIERI fam., 217 BASSANI Giovan Battista, 86, 141
ANCINA Giovanni Giovenale, 130 BELLANDA Lodovico, 10
ANDREINI Virginia Ramponi, 15 BELLI Domenico, 187-8
ANERIO Giovan Francesco, 10, 116, BEMBO Pietro, 19
120, 136 BENEVOLI Orazio, 82
ANGEUNI BoNTEMPI Giovanni Andrea, BERARDI Angelo, 54-5
68, 143 BEREGAN Nicolò, 206
ANGUILLARA Giovan Andrea dell', BERNHARD Christoph, 55, 70, 153-4,
233-4 156
ANIMUCCIA Giovanni, 116, 130 BERNINI Giovan Lorenzo, 34, 98, 131,
ANTEGNATI Costanzo, 121 194, 216, 254
APOLLONI Giovan Filippo, 214, 226, BERTALI Antonio, 242-3
242 BERTI Giovan Pietro, 22
APROSIO Angelico, 111 BESARD Jean-Baptiste, 108
ARCADELT Jacques, 7, 52, 88 BIANCHI Giovan Battista, 14
ARcHILEI Vittoria, detta La Romanina, BIANCIARDI Francesco, 10, 67
21 BIANCO Baccio del, 132, 276
ARIOSTO Ludovico, 19{ 202, 233 BIBIENA Ferdinando Galli da, 213,218
ARISTOTELE, 181, 261 BICILU Giovanni, 54
ARrusI Giovan Maria, pseud. presunto BIRKEN Sigmund von, 239
Braccino Antonio, 27, 40, 54, 69 BISACCIONI Maiolino, 203
AUGUSTO II di SASSONIA, detto il BISSARI Pietro Paolo, 202
Forte, re di Polonia, 158 Bww John, 167, 170
AuRELI Aurelio, 202-3 BOCCACCIO Giovanni, 194
AVELLA Giovanni d', 65 BoDENSCHATZ Erhard, 144
360 INDICE DEI NOMI

Boi!.ssET Antoine de, 63 CANALE Floriano, 108


BOILEAU Nicolas, 259 CAPELLO fam., 196
BOLOGNINI Bernardo, 10 CAPRIOLI Carlo, 54
BoNINI Severo, 10, 228 CARAVAGGIO Michelangelo Merisi da,
BoNONCINI Giovanni, 213, 218, 236, 52
254 CARBONCHI Antonio, 108
BoNONCINI Giovan Maria, 7, 14, 86 CARDUCCI Alessandro, 243
BORROMEO Carlo, v. SAN CARLO CARISSIMI Giacomo, 54, 59, 62, 82-3,
BORROMEO 94-5, 139-40, 161, 226
BORROMEO Federico, 131 CARLINO Giovan Giacomo, 9
BORROMEO Vitaliano, 214 CARLO II d' ABSBURGO, re di Spagna,
BoRROMINI Francesco, 34, 132, 134 206
BossuET Jacques-Bénigne, 164 CARLO I STUART , re d'Inghilterra e
BosTEL Lucas von, 252 Scozia, 165, 270
BoTTRIGARI Ercole, 35 CARLO II STUART , re d'Inghilterra e
BovI Tomaso, 224 Scozia, 165-8, 270
BRACCINO Antonio, v. ARTUSI Giovan CARLO IX di VALOIS, re di Francia, 75
Maria, CARLO EMANULE I di SAVOIA, duca di
BRACCIOLINI Francesco, 19 Savoia, 16
BRACHROGGE Johann, 5 CAROSO Fabrizio, 107
BRANCIFORTE Girolamo, 27 CASONI Guido, 13-4
BRESSAND Friedrich Christian, 250 CAVALIERI Emilio de', 3, 27, 107,
BRIGNOLE SALE Anton Giulio, 111 135-6, 186-7, 237
BROGNONICO Orazio, 14 CAVALLI Francesco Caletti-Bruni, detto,
BRUNELLI Antonio, 228-9 39, 55, 89-90, 92, 96, 98, 126, 196,
BRUNETTI Domenico, 10 199, 200, 201-4, 208-14, 221, 230-2,
BRUNI Antonio, 234 245, 250, 253-4, 268
BuLL John, 76 CAZZATI Maurizio, 86
BuoNAMENTE Giovan Battista, 108 CECCHI Domenico, detto il Cortona, 79
BuRMEISTER Joachim, 70 CEPEDA Y AHUMADA Teresa, v. SANTA
BuRNACINI Giovanni, 241 TERESA D' AvILA
BuRNACINI Ludovico Ottavio, 244-5 CERDA Juan de la, 109
BusENELLO Giovan Francesco, 202-3 CERESINI Giovanni, 10
Bun Francesco, 252, 254 CERONE Pedro, propr. Cerone
BuxTEHUDE Dietrich, 148 Domenico Pietro, 64
BuzzoLENI Giovanni, 218 CERVANTES SAAVEDRA Miguel de, 110
BYRD William, 166-7 CESTI Antonio, 55, 91-2, 95, 201, 204,
213, 218, 242-5
CACCINI Francesca, detta La Cecchina, CHAMBONNIÈREsJacques Champion de,
20 77
CACCINI Giulio, detto Romano, 2, 17-8, CHARPENTIER Marc-Antoine, 60, 83,
20-1, 55, 57, 136, 176, 179, 187, 140, 160-1, 164
270 CHERICI Sebastiano, 142
CAIFABRI Giovan Battista, 81, 83 CHIABRERA Gabriello, 17-8, 20, 28,
CALDER0N DE LA BARCA Pedro, 216, 187-8, 192
276-9 CHIGI fam., 83, 92, 216
CAMBERT Robert, 255 CHIGI Flavio, 91
CAMPANELLA Tommaso, 61 CICOGNINI, Giacinto Andrea, 203-4,
CAMPEGGI Ridolfo, 187-8 211, 221
INDICE DEI NOMI 361

CICOGNINI Jacopo, 188, 202 DELLA ROVERE Vittoria, granduchessa


CLEMENTE IX, Giulio Rospigliosi, di Toscana, 186
papa, 94,132,191, 193-5, 215,217, DELLA VALLE Pietro, 51, 65, 73, 116-7
276 DEL TURCO Giovanni, 10, 27
CLEMENTE X, Emilio Bonaventura DENTICE Scipione, 10
Altieri, papa, 83 DE PUENTE Giuseppe, 10
CLEMSEE Christoph, 5 DESCARTES René, 33, 58, 62-3
CoLAIANNI Giuseppe, 10 DESPREZ Josquin, 54
CoLBERT Jean-Baptiste, 75, 93, 257 DE ToTIS Giuseppe, 216
Dr MrcHELI Antonino, 108
COLOMBI Giovan Bernardo, 10
DrRUTA Girolamo, 65
CoLOMBI Giuseppe, 86
DoNFRIED Johannes, 144
COLONNA fam., 83, 216 DONI Giovan Battista, 17, 61, 179,
COLONNA Filippo, 216 189, 191
COLONNA Giovan Ambrogio, 108 DowLAND John, 76
COLONNA Giovan Paolo, 86 DRAGHI Antonio, 243, 245
COLONNA Pompeo, 188 DRYDEN John, 268, 273
CoNTARINI Marco, 89 Du CAURROY Eustache, 162
COPPOLA Filippo, 278 DùBEN Andreas, 83
CORBETTA Francesco, 108 Du MoNT Henry, 66, 160-1, 163-4
CoRELLI Arcangelo, 87, 95-7 DuRFEY Thomas, 270
CoRNACCHIOLI Giacinto, 188
CoRNEILLE Pierre, 253, 258 EBERT Adam, 219
CoRRADI Giulio Cesare, 251 ELISABETTA I TuDoR, regina
CORSI Bernardo, 10 d'Inghilterra, 6, 33, 165, 167
CORSI CELANO Giuseppe, 5.4 ELMENHORST Heinrich, 251
CoRSINI Ottavio, 188 ENRICO IV di BORBONE, re di Francia,
CosIMo II de' MEDICI, granduca di 162, 253
Toscana, 40 ERRICO Scipione, 203
CossoNr Carlo Donato, 54, 86 ESCHILO, 188
COSTA Francesco Antonio, 227 EURIPIDE, 188, 259-60
CosTANTINI Fabio, 81
COSTANZO Fabrizio, 108 FASOLO Il, v. MANELLI Francesco, detto
CouPERIN François, 122 Il Fasolo
F ASOLO Giovan Battista, 121
CRESCIMBENI Giovan Mario, 180
FATTORINI Gabriele, 14
CRISTIANO IV di OLDENBURG, re di
FAUSTINI Giovanni, 199, 202, 208
Danimarca e di Norvegia, 5 F AUSTINI Marco, 199
CRISTINA VASA, regina di Svezia, 94- 5, FEDERICO V di WrTTELSBACH, elettore
214, 242 del Palatinato-Simmern e re di
CRISTINA di BORBONE, detta Madama Boemia, 33
Reale, duchessa di Savoia, 19 FEDERICO AUGUSTO I, duca di
CRIVELLI Arcangelo, 116 Sassonia, v. AUGUSTO II di
CROMWELL Oliver, 31 SASSONIA, detto il Forte, re di
CRUz Juana lnés de la, 133 Polonia
FEIND Barthold, 179, 252
DACH Simon, 241 FERDINANDO I de' MEDICI, granduca di
DAL PANE Domenico, 7 Toscana, 52
D'ANGLEBERT Jean-Henri, 77 FERDINANDO II de' MEDICI, granduca di
DA PONTE Lorenzo, 222 Toscana, 91, 186
362 INDICE DEI NOMI

FERDINANDO III d'.ABseURGo, imperatore GARSI Santino, 108


del Sacro Romano Impero, 23 GASTOLDI Giovan Giacomo, 5
FERDINANDO CARLO d' ABSBURGO, GAULTIER Denis, 77
arciduca del Tirolo, 91, 242 GERO ]han, 7
FERDINANDO CARLO GONZAGA-NEVERS, GESUALDO Carlo, principe di Venosa,
duca di Mantova e del Monferrato, 7-9, 19, 22, 24, 26-7, 30, 52, 57, 84,
219 88, 105, 155
FERRAR! Benedetto, detto della Tiorba, GHISUAGLIO Girolamo, 10
195-6, 201-2, 208-11, 241-2 GHIZZOLO Giovanni, 10
FERRI Giberto, 245 GIACOBBI Girolamo, 35, 187-8
FERRINI Giovan Battista, 57, 108 GIACOMO I STUART, re d'Inghilterra e
FILIPPINI Stefano, detto l'Argentina, Scozia, 33, 167, 270
127 GIACOMO II STUART, re d'Inghilterra
FII.IPPO III d' AesBURGO, re di Spagna, e Scozia, 95
109 GIAMBERTI Gioseffo, 108
FILIPPO IV d' AesBURGO, re di Spagna, GIBBONS Orlando, 166-7
52 GILLES Jean, 162
FIORILI.I Tiberio, detto Scaramuccia, GIOVANELLI Ruggero, 52
253 GIOVANNI GIORGIO I di WErnN,
FLEMING Paul, 240 principe elettore di Sassonia, 98, 149
FLUDD Robert, 33 GIOVANNI IV di BRAGANZA, re di
FOGGIA Francesco, 54, 86, 161 Portogallo, 32, 88
FoNTANELLI Alfonso, 10, 27 GIOVANNI Scipione, 108
FoNTEIIO, v. NIELSEN Hans, detto GIUSTINIAN fam., 196
Fonteiio GrusTINIANI -Vincenzo, 52, 69
FoscARINI Giovanni Paolo, 108 GwcK Christoph Willibald, 182, 266
FRANCESCO I d'EsTE, duca di Modena GOLDONI Carlo, 262
e Reggio, 219 GoNZAGA AeseuRGO Eleonora, 23, 243
FRANCESCO II d'EsTE, duca di Modena GoRETI1 Antonio, 88
e Reggio, 86, 142 GRABBE Johann, 5, 10
FRANCK Johann Wolfgang, 251-2 GRABU Louis, 273
FRANZONI Amante, 10 GRAMSCI Antonio, 205
FRESCOBAIDI Girolamo, 5, 6, 8, 10, 56, GRANATA Giovan Battista, 108
87-8, 101, 103-6, 108, 112, 122 GRANDI Alessandro, 97, 127-9, 152
FROBERGER]ohannJacob,56, 101,106 GRAZIANI Bonifacio; 54, 86
FuscoNI Giovan Battista, 202-3 GRILLO Angelo, 13-4, 39
Fux Johann Joseph, 117 GRIMANI fam.; 196
GuALTIERI Antonio, 10
GABRIELI Andrea, 36, 152, 155 GuARINI Battista, 10, 17-8, 25-6, 28,
GABRIELI Giovanni, 5, 36,149-50, 155 45-6, 191
GABRIELLI Domenico, 222 GUGLIELMO GoNZAGA, duca di
GAGLIANO Giovan Battista da, 132 Mantova e di Monferrato, 117
GAGLIANO Marco da, 10, 20, 55, 136, GUGLIELMO III d'ORANGE, re di
184, 188, 238 Gran Bretagna e Irlanda, 166, 168
GALILEI Galileo, 32, 40, 61 GusTAVO II ADOLFO VASA, re di
GALLI DA BIBIENA Ferdinando, v. Svezia, 226
BIBIENA Ferdinando Galli da HANDEL Georg Friedrich, 134, 182,
GANTEZ Annibal, 162 232, 236, 254
INDICE DEI NOMI 363

HALS Frans, 34 LANIER Nicholas, 270


HAMMERSCHMIDT Andreas, 240 LASSO Orlando di, 52, 56-7, 144, 162
HARDOUIN-MANSART Jules, 34 LAURENZI Filiberto, 210-1
HARSDORFFER Georg Philipp, 23 7, 251 LAWES Henry, 167
HAlkER Hans Leo, 6 LEBÈGUE Nicolas-Antoine, 77
HAlkER Jacob, 6 LE CERF DE LA VIÉVILLE]ean-Laurent,
HEINICHEN Johann David, 67 267
HELFER Charles d', 162 LEGRENZI Giovanni, 142, 206
HIDALGO Juan, 277 LEOPOLDO I d' ABSBURGO, imperatore
HUMFREY Pelham, 167 del Sacro Romano Impero, 91-2,
HUYGENS Christian, 61 243, 245-6
HuYGENS Constantijn, 66 LIBERATI Antimo, 68
LIBERTI Vincenzo, 10
IL VERSO Antonio, 10-1 LocKE Matthew, 167
INDIA Sigismondo d', 10-1, 16-22, 29, LOREDANO Giovan Francesco, 234
66, 105, 227 LOTTI Cosimo, 276
INNOCENZO X, Giovan Battista Lucm Francesco, 202, 204
LUIGI XIII di BORBONE, re di Francia,
Pamphili, papa, 252
74, 163, 226
INNOCENZO XI, Benedetto Odescalchi,
LUIGI XIV di BORBONE, re di Francia,
papa, 119, 215
74, 75, 77, 92-3, 95, 159-61, 165,
INNOCENZO XII, Antonio Pignatelli,
246,253,255, 259-60, 262, 265-7,
papa, 119
277
I VANOVICH Cristoforo, 179, 199 LUIGI XV di BORBONE, re di Francia,
162
]ASO Francisco de, v. SAN FRANCESCO LuLLY Jean-Baptiste, 75, 77, 81, 92-3,
SAVERIO 98, 112, 159, 163-5, 182, 251,
]ENKINS John, 165 254-67, 268, 274
]OHNSON Robert, 269 LuPACCHINO Bernardino, detto Il
JoNES Inigo, 270 Carnefresca, 7
JoNSON Ben, 270 LUTERO Martin, 145, 147, 155
LuzzASCHI Luzzasco, 7, 22
KAPsBERGER]ohannes Hieronymus, 10,
57, 108, 188, 228 MACCIONI Giovan Battista, 242
KAYSER Margaretha Susanna, 250 MACE Thomas, 166
KEISER Reinhard, 219, 248, 250-2 MACEDONIO Giovan Vincenzo, 10
KEPLERO Giovanni, propr. Kepler MACQUE Giovanni de, 7, 22, 135
Johannes, 61 MAGGI Carlo Maria, 214, 217
KIRCHER Athanasius, 55-8, 59, 62, 65, MAIER Michael, 34
140 MAIONE Ascanio, 10
KoLER Johann Martin, 251 MANCIA Luigi, 213
KoNIG Johann Ulrich von, 250 MANELLI Francesco, detto Il Fasolo,
KRIEGER Adam, 241 112, 195-6, 201-2, 208-9
KRIEGER Johann Philipp, 250 MARAzzou Marco, 95, 194,202,215,
KussER Johann Sigismund, 250 218
LA LANDE Michel-Richard de, 82, 160, MARCHETTI Tommaso, 108
162-4 MARENZIO Luca, 4-5, 7, 11-2, 22, 52,
LAMBARDI Francesco, 10 54, 57, 155
LANDI Stefano, 57, 187, 193 MARIA DE' MEDIO, regina di Francia, 21
364 INDICE DEI NOMI

MARIA CASIMIRA DE LA GRANGE MILroNI Pietro, 22, 108


o' ARQUIEN, regina di Polonia, 95 MINATO Nicolò, 199, 204, 245-6, 254
MARIA TERESA d' ABsBURGO, infanta di MiNGOTI1 Angelo, 250
Spagna, regina di Francia, 132, 253, MrnGoTI1 Pietro, 250
277 MoLIÈREJean-Baptiste Poquelin, detto,
MARIGLIANI Ercole, 188 78, 257-8
MARINO Giovan Battista, 10-6, 17-9, MoMIGNY Jérome-Joseph de, 231
24, 28, 44-5, 60, 98, 111, 202-3, MoNIGLIA Giovan Andrea, 213-4, 217
227, 238, 251 MoNTALTO Alessandro Peretti di,
MARLOWE Christopher, 239 cardinale, 21, 52
MARSOLO Pietro Maria, 10 MONTE Filippo de, 22, 52
MARTEU.O Pier Jacopo, 180 MoNTELLA Giovan Domenico, 10, 84
MARTINELLI Caterina, 23 MoNTESARDO Girolamo Melcarne da,
MARTINI Giovanni Battista, 61, 69, 117 108, 111
MASANIEU.O Tommaso Aniello MONTEVERDI Claudio, 7, 15, 18, 20-1,
d'Amalfi, detto, 32 22-8, 34-5, 38-47, 54-5, 57, 73, 86,
MASSAINO Tiburzio, 10 89-90, 98, 105, 112, 123-7, 128-9,
MATIHESONJohann,55,69,242,248 151, 154-5, 164,177,182,186,188,
MAUGARS André, 138, 154 197, 202-3, 208, 211, 226-30
MAURIZIO, landgravio d'Assia, 5 MONTEVERDI Giulio Cesare, 27, 188
MAZARINO Giulio, cardinale, 31,217, MONTI Giacomo, 86
252-3 MoRALES Crist6bal de, 54
MAZZAFERRATA Giovan Battista, 141 MoRLEY Thomas, 76
MAZZOCCHI Domenico, 7, 54, 140, 188 MOZART Wolfgang Amadeus, 182, 231
MAZZOCCHI Virgilio, 68, 82, 94, 117, MURATORI Ludovico Antonio, 180-1
188, 194
MEDICI Giovan Carlo de', 213 NANINO Bernardino, 54
MEDICI Mattias de', 208 NANNINI Remigio Fiorentino, 234
MEDICI GoNZAGA Caterina de', NEGRI Mare' Antonio, 10
duchessa di Mantova e del NENNA Pomponio, 7, 10-3, 22, 54
Monferrato, 23 NERI Filippo, v. SAN FILIPPO NERI
MEDINACELI Luigi de la Cerda, duca di, NIELSEN Hans, detto Fonteiio, 5
213 NIVERS Guillaume-Gabriel, 121
MELANI Alessandro, 54, 95, 142 NoLFI Vincenzo, 202
MELANI Atto, 132, 242, 253
MELANI Domenico, di Firenze, 98 OBIZZI Pio Enea degli, 195
MELANI Domenico, di Pistoia, 97 OFFENBACH Jacques, 190
MELANI Jacopo, 213 OMEROJ 202
MEIJ.I Domenico Maria, 10 ONATE lii.igo Vélez de Guevara y Taxis,
MEIJ.I Pier Paolo, 108 conte di, 212
MERSENNE Marin, 62-4, 80 OPITZ Martin, 238-41, 252
MERULA Tarquinio, 14 ORAZIO FLAcco Quinto, 260
METALLO Grammatio, 7 ORCHI Emanuele, 138
METASTASIO Pietro, pseud. di Trapassi ORLANDI Santi, 10, 188
Pietro Antonio Domenico OTTOBONI fam., 83
Bonaventura, 181-2, 222 OTTOBONI Pietro, 142
Mic~Eu Romano, 56 OTTONEIJ.I Giovan Domenico, 178
MICHIEL Pietro, 202 OVIDIO NASONE Publio, 19, 45, 191,
MILANUZZI Carlo, 14, 22, 108 233
INDICE DEI NOMI 365

PADBRUÉ Cornelis, 6 QUADRIO Francesco Saverio, 180


PALESTRINA Giovanni Pierluigi da, 52, QurNAULT Philippe, 258-9, 266
54, 56, 81, 88, 115-7, 120, 135, 144,
155 RAcrNE Jean, 258
PALLAVICINO Benedetto, 5 RADESCA Enrico, 10, 20
PALLAVICINO Carlo, 211, 251 RAMEAU Jean-Philippe, 69, 162, 263,
PAMPHILI Benedetto, 142 265-6
PAMPHILI fam., 83 RAsr Francesco, 19, 21, 41
PARISANI Giovan Francesco, 188 REMBRANDT Harmenszoon Van Rijn,
PAsQUINI Bernardo, 55, 95-7, 142,214, 34
216 REMIGIO FIORENTINO, v. NANNINI
PEccr Tommaso, 10, 27 Remigio Fiorentino
PEDERS0N Magnus, detto Petreo, 5 RENZI Anna, 210, 242
PERANDA Giuseppe, 142 REuss Heinrich Posthumus, conte di,
PÉREZ DE MoNTALBAN Juan, 215 147, 156
PERI]acopo,3,55, 136,176,179,184, RrcHELIEU Armand-Jean du Plessis,
188, 238 duca di, 252, 257
PERRAULT Charles, 258-61 RrcHTER Christian, 251
PERRIN Pierre, 161, 255 RrGHENZI Carlo, 214
PERSIANI Orazio, 202
RINALDI Cesare, 13-4
PESENTI Martino, 22
RrNUCCINI Ottavio, 17, 20, 29, 44-5,
PEsoRI Stefano, 108
136, 176, 179, 184, 187,192,225,
PETRARCA Francesco, 10, 18-9, 24, 39,
227-8, 234, 238
45
RrsT Johann, 241
PETREO, v. PEDERS0N Magnus
RoBERT Pierre, 160, 163
PHALÈSE Pierre, 5
RoccrA Dattilo, 10
PHILIPS Peter, 108
RoMANO Remigio, 22
PIAZZA Giovan Battista, 228-9
RoRE Cipriano de, 27, 39, 52
Pico Foriano, 108
RosA Salvatore, 96
PIETRO DA CORTONA, Pietro Berrettini,
RosPrGuosr Giulio, v. CLEMENTE IX
detto, 34
PisA Agostino, 63 Rossr Luigi, 54, 95, 194, 226, 252
PrsARRI Antonio, 86 Rossr Michelangelo, 7, 194
PisToccm Francesco Antonio, 79,219 Rossr Salomone, 10
PLATONE, 40 RossrNI Gioachino, 182
PLAYFORD John, 76 RuBENS Pieter Paul, 34, 98
PoLLAROLO Carlo Francesco, 219 Rusrou fam., 83
PONZIO Pietro, 69
PosSENTI Pellegrino, 227 SABBATINI Galeazzo, 14
PosTEL Christian Heinrich, 251 SABBATINI Nicola, 186
PoussrN Nicolas, 34, 60 SACRATI Francesco, 202-3, 208-9, 211
PRAETORIUS Michael, 36-7, 65, 145, SALICOLA Margherita~ 219
147, 155 SALVADOR! Andrea, 132, 188
PRiuu Giovanni, 10 SALVATERRA Giovan Maria, 131
PROVENZALE Francesco, 217 SALZILLI Crescenzio, 10
PuccrTELLI Virgilio, 235 SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE, 148,
PULITI Gabriello, 10 150-1
PuRCELL Henry, 76-7, 98, 112, 159, SAN CARLO BORROMEO, 131, 140
165, 168-71, 268-9, 273-6 SANCES Giovanni Felice, 227, 229, 245
366 INDICE DEI NOMI

SAN FILIPPO NERI, 130-1, 134, 136 STAMPIGLIA Silvio, 213


SAN FRANCESCO SAVERIO, 131 STEFFANI Agostino, 251
SAN GmoLAMo, 136 STIGLIANI Tommaso, 12-4
SAN LUCA, 139 STORACE Bernardo, 112
SANNAZARO Jacopo, 18 STRADELLA Alessandro, 36, 89, 95-6,
SANSEVERINO Benedetto, 108 142, 214, 218
SAN SIMEONE, 147 STRAVINSKIJ Igor, 9
SANT'AGOSTINO, 150-1 STRIGGIO Alessandro jr, 39, 186
SANTA TERESA D'ÀVILA, 131 STRIGGIO Alessandro sr, 52
SANT'lGNAZIO DI LOYOLA, 131 STROZZI Barbara, 203, 226
0
SANT IPPOLITO, 131 STROZZI Giulio, 15, 20, 42, 44-5, 188,
SANT'lsmoRo DI MADRID, 131 201, 203, 208, 212
SARTI Giovan Vincenzo, 54 STROZZI Gregorio, 112
SASSANO Matteo, 79 STRUNGK Nikolaus Adam, 249, 251
SAVIONI Mario, 54, 95 STUART Elisabetta, 33
SAVOIA Maurizio di, cardinale, 21 SWEELINCK]an Pieterszoon, 6, 66, 83,
SBARRA Francesco, 204, 243-5 100, 101-2, 108, 145
SCACCHI Marco, 53-5, 64
ScALETIA Orazio, 10 TALLIS Thomas, 166-7
SCARLATTI Alessandro, 7, 78, 95-6, TARTINI Giuseppe, 61
142, 182, 213, 26-8, 248 T Asso Bernardo, 29
ScHADAEUS Abraham, 144 TASSO Giovan Maria, 7
ScHEIDEMANN Heinrich, 83 TAsso Torquato, 10-1, 19, 28, 43, 45,
ScHEIDT Samuel, 83, 145-6 191, 202, 226
ScHEIN Johann Hermann, 146-7, TENAGLIA Antonio Francesco, 54
149-50, 152, 155 TESTI Fulvio, 21, 45, 219
ScHERDO [?] D. Domingo, 276 THEILE Johann, 251
ScHMELZER Andreas Anton, 245 TmABoscm Girolamo, 180
ScHMELZER Johann Heinrich, 243-5 ToLLIUS Jan, 6
ScHOTI Gerhard, 247-8 ToMKINS Thomas, 166-7
ScHURMANN Georg Caspar, 249 TORELLI Giacomo, 199, 202, 253-4
ScHi.iTz Heinrich, 6, 7, 10, 12, 43, 53, TORREJ0N Y VELASCO Tomas de, 277
55, 70, 98, 147-57, 158, 164, 238 TRABACI Giovan Maria, 100
ScHUYT Cornelis, 6, 14 TREGIAN Francis, 83
SCIALLA Alessandro, 10 TROMBETTI Agostino, 108
SEGNERI Paolo, 138 TRON fam., 196
SENECA Lucio Anneo, 188 TRONSARELLI Ottavio, 188
SEVIGNÉ Marie de Rabutin-Chantal,
marchesa di, 266 UBERTI Grazioso, 79-80, 93
SHAKESPEARE William, 239, 269, 273 UGOLINI Vincenzo, 52
SIEFERT Paul, 53, 83 URBANO VIII, Maffeo Barberini, papa,
SIGLER DE HUERTA Antonio, 215 32, 68, 81, 115, 127, 193-4, 252
SILVANI Marino, 86
SILVESTRIS Florido de, 81 VALENTINI Giovanni, 14
SOFOCLE, 188 VALENTINI Pier Francesco, 56
Sous Y RIBADENEIRA Antonio de, 216 VECCHI Orazio Tiberio, 5, 10
SORIANO Francesco, 116 VEGA CARPIO Lope Félix de, 110, 202,
SPAGNA Arcangelo, 142 278
SPERONI Sperone, 191 VELAZQUEZ Diego Rodrfguez de Silva
STADEN Sigmund Gottliòb, 237 y, 34
INDICE DEI NOMI 367

VÉLEZ DE GUEVARA Luis, 215 VoIGTLANDER Gabriel, 241


VENDRAMIN Paolo, 202 Voss lsaac, 63
VENTURA Domenico, 245
VENTURA Santo, 245 WAGNER Richard, 180-1
VERDONCK Cornelis, 6 WEBER Cari Maria von, 182
VEROVIO Simone, 87 WERT Giaches de, 22
VIADANA Ludovico da, 3, 36, 108, 144, WILLAERT Adrian, 39, 54
146, 149, 155 WoLFF Christian, 58
VICTORIA Tomas Luis de, 116 WREN Christopher, 34
VIGARANI Gaspare, 254
VIGNAU Francesco, 14 ZACCONI Lodovico, 64, 69
VILLIFRANCHI Giovanni, 19 ZAN MuzzINA, pseud. di Bocchini
VIRGILIO MARONE Publio, 202 Bartolomeo, 109
VITALI Filippo, 188, 202 ZANETTI Gasparo, 100-1, 108
VITALI Giovan Battista, 86 ZARLINO Gioseffo, 27, 39, 61, 64, 67,
VITToRI Loreto, 91, 95, 98, 184, 226 69
VITTORIO AMEDEO I di SAVOIA, duca di ZENO Apostolo, 181, 224
Savoia, 19 ZIANI Pietro Andrea, 203, 213, 243
Fotocomposizione LIV - Rivoli (TO)

Finito di stampare nell'aprile 1991


presso G. Canale & C. S.p.A. - Borgaro (TO)

Potrebbero piacerti anche