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A LTA F O R MA ZI ON E A R TI S TI C A E M US I C A LE

B IENNIO ACCADEMICO DI SECONDO LIVELLO


IN DIREZIONE DI CORO E COMPOSIZIONE CORALE

TEORIA MODALE, TONI ECCLESIASTICI


E LA SONATA ALLA FINE DEL XVII SECOLO

STUDI DI GREGORY BARNETT


Approfondimento per il corso di
Modalità e canto gregoriano
M° Luca BASSETTO

Vittorio Castiglioni

Anno accademico 2013-2014


Teoria modale, toni ecclesiastici e la Sonata alla fine del XVII secolo

Studi di GREGORY BARNETT

Tra i compositori del tardo Seicento, Arcangelo Corelli si distingue per il suo ruolo nella
codificazione di uno stile di musica strumentale che molti compositori hanno coltivato a lungo dopo
la sua morte.
Più recentemente, gli storici della musica hanno accordato alle sonate e concerti di Corelli un
elemento di distinzione per l'arrivo della tonalità moderna nella musica europea, riconoscendo al
suo lavoro il ruolo di pietra miliare della pratica comune del periodo.
Eppure, se alla musica di Corelli e dei suoi contemporanei calza una definizione convenzionale del
sistema tonale maggiore/minore, si manifestano contemporaneamente anche diverse anomalie che
meritano una spiegazione. La cosiddetta incomplete key signatures nella musica di Corelli, per
esempio, illustra una prassi costante del XVII secolo e inizio del XVIII - anche nella musica di J.S.
Bach - che sfida i precetti del nostro sistema tonale .
L’Esempio 1 illustra un'altra anomalia della musica di Corelli; una eccentrica progressione tonale
che potrebbe colpire l'ascoltatore moderno:

Esempio 1

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Nel movimento finale della quarta sonata della sua Opus 1 (1681), Corelli aggiunge come finale una
cadenza sospesa alle misure 37-39 (cfr. es . 1b) alla cadenza autentica di misura 36, ponendo così
fine a quello che sembra essere un La minore con un accordo di Mi maggiore.
Né questa è una curiosità isolata nel XVII secolo: molti dei contemporanei di Corelli hanno
prodotto delle chiusure simili, creando quello che la moderna teoria tonale classificherebbe come
“composizioni in La minore che terminano alla dominante”.
Nella sonata (esempio 2) di Maurizio Cazzati "La Ghisigliera” dalla sua Opus 35 (1665), una
cadenza perfetta in La minore è seguita da un breve "finale" che conclude il pezzo con una cadenza
frigia su un accordo di (un moderno) Mi maggiore:

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Esempio 2

Questo studio presenta la sua logica dietro questi esempi, soprattutto in quei pezzi che sfidano le
norme del sistema maggiore/minore secondo le indicazioni di chiave e nell’esposizione delle
raccolte di tonalità all'interno delle quali i compositori e teorici del tardo Seicento hanno concepito
la loro musica.
Questa prima concezione comprende un nucleo di otto tonalità principali che si trovano nei trattati
di tutto il XVII secolo e da cui i maggiori compositori derivarono le ulteriori tonalità attraverso le
trasposizioni.
Una spiegazione di questo sistema deve iniziare con il riconoscimento di un ordinamento
persistente di finali e tonalità attraverso le collezioni di musica strumentale dalla seconda metà del
secolo .
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Poiché compositori e teorici - in mancanza di qualsiasi altra teoria – hanno continuato a spiegare la
loro pratica in termini di modalità, la teoria modale tradizionale del tempo fornisce informazioni
essenziali alla comprensione di queste tonalità di base e il loro particolare ordinamento.

Due stampe di sonate che usano una specifica denominazione modale, per il loro contenuto
costituiscono quindi il riferimento di questa ricerca: le Sonate da Chiesa di Giovanni Maria
Bononcini, Op. 6 (1672) e le Sonate di Giulio Cesare Arresti Op. 4 ( 1665).

Come vedremo, le idee di Bononcini e Arresti, come si evince in queste denominazioni modali, si
intersecano con una pratica diffusa tra i compositori di musica strumentale e attestano una
concezione pervasiva di organizzazione tonale alla fine del XVII secolo.

In breve, il mio scopo è quello di delineare il sistema tonale, come riconosciuto dai musicisti del
tardo Seicento e che fornisce un collegamento vitale tra la teoria e la pratica del periodo.
Prima di procedere alle sonate di Bononcini e Arresti , tuttavia, alcune osservazioni generali, sulla
terminologia serviranno come una utile guida nella successiva discussione.

Tonalità , tono salmodico e modo

I teorici del Seicento più spesso hanno invocato il termine tuono (o tono) per descrivere diversi
sistemi di organizzazione tonale. Al contrario, io uso tre termini in questo studio per fare
riferimento a uno o un altro significato di tuono: tonalità, tono salmodico e modo.
La tonalità, ad esempio quella di Mi o di Sol, descrive semplicemente un centro tonale, o finale, e
una collezione di piazzole correlate come indicato da una tonalità.
Esso coincide in gran parte con il nostro termine di tonalità, eccetto che la tonalità qui connota
un'idea più ampia: tono, usato da solo, implica le ventiquattro tonalità maggiori/minori, mentre la
tonalità significa un’organizzazione di toni e una procedura tonale non necessariamente riguardante
il sistema tonale moderno.

I toni salmodici comprendono una collezione di tonalità, cioè una serie di centri tonali con più
tonalità, che furono enumerate in più trattati per tutto il corso del secolo.
Sebbene conosciuti come “tuoni” fra i teorici del XVI secolo, i toni salmodici non sono modi: essi
ebbero origine in una specifica pratica musicale e non nella teoria come per i 12 modi; il loro
numero è 8 non 12 e inoltre non si conformano alle regole della modalità in uso nella polifonia,
come l’uso corretto di quarte o quinte giuste in ciascun modo.

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I toni salmodici invece nacquero come tonalità, intesa come la messa in musica polifonica di toni
salmodici, che divennero sempre più prevalenti durante il XVII secolo, nelle funzioni celebrate dal
rito cattolico e in modo particolare nell’abbondante messa in musica di Vesperi.
Ricorrendo all’unica teoria disponibile che descriveva l’organizzazione tonale, molti teorici del
‘600 cercarono di descrivere i toni salmodici in termini modali. Dobbiamo quindi tenere bene a
mente la distinzione tra teoria modale e pratica salmodica quando consideriamo la pratica tonale di
questo periodo.
Il modo, in contrasto con i toni salmodici (conosciuti anche come tonalità di tono salmodico), fa
riferimento al sistema teoretico di 12 modi, o in modo più specifico, a qualsiasi di questi 12 modi,
come definito nella metà del XVI secolo da Glareano e più tardi da Zarlino.
Nella maggior parte dei casi in tutto questo studio, il termine modo si riferisce ad una designazione
di un pezzo attribuita da uno o l’altro dei teorici del periodo. I teorici della fine del XVII secolo
descrissero l’organizzazione tonale quasi esclusivamente in termini di teoria modale, ma il lettore
deve solo aprire un trattato del tardo ‘600 per sapere che i modi si presentavano con difficoltà.
Nel suo trattato del 1673 Musico prattico, il compositore e teorico Giovanni Maria Bononcini
introdusse l’argomento affermando che “l’insegnamento dei Tuoni o Modi, è una materia molto
difficile a causa della diversità di opinioni riguardo sia al loro numero sia al loro nome. Alcuni anni
più tardi nella sua Miscellanea musicale del 1689 il teorico Angelo Berardi, assecondò l’opinione
del Bononcini “non ci si dovrebbe meravigliare che questi modi siano stati chiamati diversamente e
che siano stati invertiti dal basso all’alto e viceversa”.
Mentre Bononcini e Berardi semplicemente esprimono cautela, Maurizio Cazzati, compositore e
maestro di cappella della chiesa bolognese di San Petronio, espose un reale dubbio. Scrivendo nel
1663 egli difende una delle sue composizioni contro critiche specifiche basate sul modo:

Molti autori hanno scritto sui modi e in particolare Zarlino, nella quarta parte del suo libro, capitolo
28 p. 320, dice espressamente che ce ne sono 12, anche Zacconi nel suo libro chiamato Pratica di
Musica libro 4, capitolo 12, p. 199, afferma che ci sono 12 modi. Pietro Pontio nel suo
Ragionamento Terzo p. 99 dice che ce ne sono solo 8. Angleria nella sua Regola di Contrapunto,
cap. 22, p. 8, ha la stessa opinione che ci sono solo 8 modi; ed egli dice che molti hanno scritto circa
la formazione e il riconoscimento dei modi, ma uno in modo confusamente diverso dall’altro; e per
questo motivo molti non riescono a capire in che modo possa essere una composizione, addirittura
quando la si vede, molto meno quando la si ascolta solamente (enfasi di Cazzati).

In breve, mentre nessuno di questi scrittori ispira molta fìducia nella utilità della teoria modale
durante l’ultima metà del XVII secolo, allo stesso modo compositori e teorici continuamente
ritornavano ai suoi dogmi quando discutevano della loro musica.

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Dobbiamo quindi valutare le prospettive dell’ultimo ‘600 sulla pratica tonale attraverso il
linguaggio teorico dei modi.
Fra i trattati dell’ultimo Seicento, il Musico prattico di bononcini (1673) e la Miscellanea musicale
(1689) e Il perché musicale (1693) contengono gli scritti più ampi sull’organizzazione dei toni.
Arresti, che usò designazioni modali per le sue Sonate Opus 4 e potrebbe aver inteso questi pezzi
come dimostrazioni di una corretta composizione modale, non pubblicò mai un trattato. Il suo unico
pronunciamento teorico è un attacco polemico sul trattamento incompetente del modo in un Kyrie
polifonico da parte di Maurizio Cazzati, la cui risposta a queste critiche è parzialmente citata sopra.
Come molta della teorizzazione del ‘600 riguardo i 12 modi, gli scritti sul modo di Bononcini e
Berardi sono strettamente analoghi o addirittura ripetono gli insegnamenti trovati ne Le istituzioni
armoniche di Zarlino del 1588.
Quel lavoro, a sua volta, fa appello alla teoria dei 12 modi di Heinrich Glareano Dodecachordon
del 1547. Le tavole 1a e 1b illustrano l’influenza continua dei 12 modi sui teorici dell’ultimo ‘600:
la Tavola 1a mostra ognuno dei dodici modi e la sua finale, come enumerato da Berardi; la Tavola
1b mostra la composizione di ogni modo in termini di specie di quarta e quinta (1a specie, 2a
specie, ecc.) come insegnato da Bononcini.

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Como i loro processori rinascimentali, Bononcini e Berardi identificarono le specie di quarta e
quinta perfetta e la particolare sistemazione di queste specie di intervallo con riguardo alla finale
modale come criteri definiti per ogni modo.
Nessuna discussione fino alla fine del XVII secolo riguardo la teoria modale modifica ciò che i
teorici avevano già codificato alla fine del Rinascimento. L’uso di tonalità, oltre al singolo bemolle
del cantus molli, un’importante componente della teoria del XVII secolo, fu articolato anche dai
teorici del Rinascimento come Zarlino.
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Nell’esempio 3 da Il perché musicale di Berardi, un cambiamento di tonalità provoca la
trasposizione di un singolo brano a vari livelli risultando anche in alcuni casi un cambiamento di
modo.

Il primo dei cinque brevi esempi dati da Berardi non porta nessuna indicazione o segnatura di
tonalità ed egli lo designa semplicemente come Modo 1 non trasposto (sulle sue corde naturali).
Nel secondo e terzo esempio, la stessa musica è trasposta rispettivamente giù di un tono intero e di

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una terza minore. Il loro modo è immutato; è semplicemente il 1° modo trasposto a diversi livelli di
tonalità. Gli ultimi due passaggi, ancora la stessa musica, mostrano la trasposizione di altri modi: 7°
modo giù di una quarta e 11° tono su di un tono intero.
Come si potrebbe immaginare, la trasposizione modale fu essenziale alla teoria che doveva
rispondere delle differenti segnature di tonalità trovate nella musica del XVII secolo, nulla sopra a
tre diesis o bemolli, in termini di modi.

La teoria modale e la tonalità della Sonata

La tavola 2 elenca il modo (tuono), la finale, la segnatura di tono e la trasposizione di ciascuna delle
12 sonate designate dal punto di vista del tono dell’Opus 6 di Bononcini nell’ordine in cui essi
appaiono sulla stampa.

Emergono due particolari in questa disposizione: appaiono solo sette dei dodici modi (in nessun
ordine specifico), e nove delle sonate usano segnature di tonalità di trasposizione. L’importanza di
entrambi i dettagli emerge nella discussione dei modi di Bononcini nel suo trattato Musico prattico
nel quale egli asserisce che i compositori del suo tempo usavano solo sette modi, gli stessi trovati
nelle sue sonate Opus 6.
Specificatamente insegnava che non solo certi modi dei 12 tradizionali erano caduti d’uso nella
pratica dell’ultimo ‘600, ma i sopravvissuti modi “praticabili” erano sufficienti perché alcuni di
loro, quando trasposti, potevano sostituire quelli non più in uso. La tavola 3 dà la finale, la
segnatura di tonalità e la trasposizione dei sette modi praticabili presentati nel trattato di Bononcini
e illustra la spiegazione di essi in termini teorici dodecacordali.

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L’ordine di questi modi (vedi la prima colonna, tuono) mostra che Bononcini seguiva la
numerazione tradizionale dei 12 modi, ma registrava i modi individuali in base alla sua
comprensione di come alcuni di essi ne sostituivano altri.

Egli descrive i sette modi come segue: modo 1 e 2 sopravvivono nella pratica contemporanea (il
modo 2 comunque è normalmente trasposto una quarta sopra), i modi 3 e 4 sono sostituiti dal 10
trasposto; i modi 5 e 6 sono sostituiti rispettivamente dal 11 e 12 trasposti, il modo 7 è sostituito dal
9 trasposto e infine il modo 8 non è trasposto.
Come può vedersi nelle Tavole 2 e 3, dunque, la teoria di Bononcini è coerente con la sua pratica; in
breve, la tavola 3, mostra il fondamento teorico per le sette tonalità che egli usò nelle sue sonate
Opus 6, che sono riassunte nella tavola 2.
Sebbene Bononcini dimostri la possibilità di trasporre i modi in vari livelli di tono nelle sue sonate,
i modi stessi riguardano la teoria dodecordale. Per Bononcini ogni finale più la sua segnatura di
tono rappresenta uno dei dodici modi o al suo tono originale o trasposto.
Potremmo paragonare le opinioni del contemporaneo di Bononcini, Giulio Cesare Arresti attraverso
l’Opus 4 di quest’ultimo, secondo le sopraccitate stampe che usano designazioni modali specifiche.
La tavola 4 elenca le designazioni modali (toni), le finali e segnature di tono delle 12 sonate Opus 4;
la tavola 4b mette in ordine i modi della teoria dodecordale tradizionale, quella insegnata da
Bononcini, come tonalità (solo finali e segnature di tono).
Un paragone tra queste due tavole rivela differenze considerevoli fra i sistemi dodecordali di Arresti
e Bononcini. Mentre sembrerebbe che Arresti intendesse presentare i modi 1-12 in ordine numerico
nelle sue sonate, questi 12 modi non corrispondono in nessun caso ai 12 di Bononcini. Nella teoria
di Bononcini, i 12 modi inalterati non hanno segnature di toni (usarne anche una è per indicarne una
trasposizione), ed essi formano 6 coppie di plagali-autentici con finali su Re, Mi, Fa, Sol, La e Do
(vedi tavola 1b). Le 12 sonate di Arresti (tavola 4), per contrasto, deviano dalla teoria di Bononcini
nei seguenti modi: (1) non sono indicate trasposizioni anche se molte sonate portano segnature di

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tono, (2) le sue paia di modi di modi consecutive non condividono una finale, e (8) non solo sette
ma tutti e dodici i modi sono usati.

Senza ricorso a un trattato di Arresti, noi siamo duramente pressati a scoprire il fondamento dietro
le tonalità delle sue 12 sonate. Tuttavia, il paragone fra le sue sonate e la teoria di Bononcini
sottolinea una somiglianza vitale fra di loro. Le rappresentazioni dei modi 1-8 di Arresti e la lista di
Bononcini dei sette modi praticabili contengono una serie di finali e segnature in chiave quasi
identici.
Se mettiamo da parte le diverse categorizzazioni modali di Arresti e Bononcini, le due liste di
tonalità (Arresti 1-8 e Bononcini 7) corrispondono strettamente, tranne per il consolidamento dei
modi 3 e 4 di Bononcini.
Neppure questa similarità fra le due teorie modali è casuale: numerose stampe di sonata e schemi
teorici usano la stessa serie di tonalità; cioè essi concordano su arrangiamenti identici o simili

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quando paragonati alle finali e alle segnature in chiave dei primi otto modi di Arresti e i praticabili
sette di Bononcini. La tavola 5 mostra le tonalità (finali e segnature di chiave) di sistemi ottonari in
cinque trattati che abbracciano il XVII secolo e la prima parte del XVIII secolo: “Cartella musicale”
di Adriano Banchieri (1614), “Li primi albori musicali” di Lorenzo Penna (1672), “Compendio
musicale” di Bartolomeo Bismantova (1677), “Il musico testore” di Zaccaria Tevo (1706) e un
trattato manoscritto anonimo della prima metà del XVIII secolo “Regole del contrappunto”.
Questi trattati, rappresentativi di quasi un secolo di sistemi a otto-modi, descrivono tutti la serie di
tonalità comuni ad Arresti e Bononcini. Solo la “Cartella musicale” di Banchieri, spiega il loro uso
nella salmodia; gli altri, quelli di Penna, Bismantova, Tevo e il teorico anonimo del XVIII secolo,
semplicemente definiscono queste otto tonalità come i modi (in qualche caso distinguendoli dal
sistema dei 12 modi), così contraddicendo sia la distinzione implicata di Banchieri fra i modi e i
toni dei salmi sia la nozione di Bononcini dei sette modi praticabili riconciliati con i tradizionali 12.
Spostandoci dai trattati alla musica vera e propria, elenco di seguito le tonalità di 5 stampe di sonate
nella tavola 6 nell’ordine in cui appare il contenuto.

Ho scelto queste collezioni di musica strumentale perché i loro pezzi individuali aderiscono allo
stesso arrangiamento di finali e segnature in chiave come fanno gli schemi ottonari dei trattati. Nel
mio studio riguardo la musica strumentale del tardo ‘600 inoltre, non ho trovato nessun altro
arrangiamento di tonalità paragonabile a quelle della tavola 6.
È chiaro quindi, che quando i compositori sceglievano di arrangiare le loro sonate in base a finali e
segnature di chiave, le organizzavano in modo conforme lungo linee identiche o simili a quelle delle
serie ottonarie nei trattati della tavola 6, le sonate di Arresti 1-8 (tavola 4) e i 7 modi praticabili di
Bononcini (tavola 3).
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Delle cinque stampe elencate nella tavola 6, solo 11 sonate di Tarquinio Merula come l’Opus 6 di
Bononcini e l’Opus 4 di Arresti, portano designazioni di “tuono” date dal compositore. Le altre
stampe, sebbene esse non usino tali designazioni modali, seguono comunque lo stesso piano di
finali e segnature in chiave nella disposizione delle sonate individuali.
Inoltre, queste stampe, prese nel loro intero, coprono una vasta gamma di generi strumentali per vari
tipi di ensemble: sonate per trio (Merula), sonate per ensemble da tre a nove suonatori (Gioseffo
Maria Placuzzi), sonate per solo violino con accompagnamento continuo (Pietro Degli Antonii),
duetti per violino e violoncello senza continuo (Giovanni Battista Degli Antoni) e danze per
violoncello senza accompagnamento (Domenico Galli).
Sebbene incompatibile con la teoria modale tradizionale sposata da Berardi e Bononcini, l’ordine
particolare di finali e segnature in chiave trovate nelle sonate Opus 4 di Arresti mette in evidenza
una pratica diffusa fra i contemporanei. A questo livello più ampio, l’accordo fra le otto tonalità di
quelle stampe che hanno otto pezzi, o i primi otto di quelle stampe che hanno otto pezzi, o i primi
otto di quelli che ne hanno dieci o dodici (come l’Opus 4 di Arresti), dimostra un intendimento
comune rappresentato in questa serie di finali e segnature in chiave.
Bononcini, per giudicare dalla sua formulazione di una serie simile di sette tonalità, deve essere
stato consapevole di questo sistema tonale, ma la sua connessione della teoria dodecacordale di
Glareano e Zarlino contraddice le disposizioni di ogni altra stampa. Nonostante l’autorità della
tradizione intellettuale che riporta, la teorizzazione di Bononcini dei 12 modi semplicemente non si
adatta alla pratica del suo tempo.

I toni ecclesiastici e le loro trasposizioni

Data la pratica dell’ultima metà del XVII secolo, allora, dovremo riconoscere la validità essenziale
dell’osservazione di Bononcini che solo sette modi erano in uso al suo tempo ma dobbiamo anche
essere in disaccordo con la sua spiegazione di essi in termini di teoria modale tradizionale. Lo
schema ottuplo di tonalità nelle varie stampe rivela un ricorrente principio organizzativo nella
musica del Seicento; non è, comunque, compatibile con la teoria modale. Bononcini, asserendo
un’equivalenza fra queste otto finali e segnature in chiave (ridotte a sette nel suo trattato) e i modi,
fa un passo grande e fuorviante: nessuna delle tonalità nella tavola 5 e 6 sono modali, trasporti o
altro; invece essi danno origine alla salmodia ecclesiastica.
Cioè, questo sistema di tonalità, spesso descritto come modi dai teorici e ampiamente usato dai
compositori per vari generi strumentali, sia secolari sia sacri, consiste di toni ecclesiastici che
davano origine all’accompagnamento di salmi sull’organo.

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In studi separati degli anni recenti che trattano questi toni ecclesiastici, conosciuti come tonalità di
salmi a tono, Joel Lester e Harold Powers hanno tracciato sentieri esposti in trattati francesi,
tedeschi e italiani dietro al Ragionamento di musica di Pietro Pontio (1588) e la Cartella musicale
di Adriano Banchieri (1614). Come nota Powers, Pontio dapprima dimostrò la distinzione fra i modi
e i toni salmodici, e Banchieri per primo ha sistemato schematicamente i toni salmodici come finali
e segnature in chiave, la forma nella quale furono trasmessi per tutto il XVII secolo. Le tonalità del
tono salmodico di Banchieri (i toni salmodici), secondo Powers, prendono le loro finali dall’ultima
nota di uno specifico tono salmodico “differentiae” e derivano le loro segnature in chiave da un
sistema di trasposizioni designate a ridurre la gamma di diverse note enumerate di ogni tono
salmodico.
In breve, i vari gruppi ottonari di tonalità, dei trattati del XVII secolo sono derivati non dalla teoria
modale ma piuttosto dalle pratiche salmodiche, come rende noto Powers. Quindi le otto tonalità che
permeano anche il repertorio strumentale furono per la prima volta spiegate da Banchieri nella
Cartella musicale come tonalità usate nella struttura polifonica dei toni salmodici.
Il gruppo di sette finali e le segnature in chiave di Bononcini dà origine a queste tonalità del tono
salmodico, non ai modi. La sua razionalizzazione a tal proposito in termini di teoria modale segue
l’esempio di un numero di teorici (incluso lo stesso Banchieri) che cercavano di riconciliare le
pratiche salmodiche e la teoria modale.
Nonostante le complessità della dettagliata teoria modale di Bononcini e della sua preistoria, la sua
collezione di sette tonalità sta al centro della pratica compositiva del Seicento.
In più, come sia Bononcini sia Berardi attestano, la trasposizione per mezzo di segnature di chiave
rappresenta una parte cruciale della pratica musicale a partire dall’ultima parte del XVII secolo.
Una dimostrazione particolarmente chiara sia del gruppo modale di tonalità, sia di trasposizioni di
questo gruppo ci viene data dai Versetti per tutti li tuoni di Giovanni Battista Degli Antonii, Op. 2
(1687) come riportato nella tavola 7a.

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Il titolo della stampa indica sia i tuoni naturali sia i trasposti fra i versetti; la tavola dei contenuti
specifica ulteriormente versioni senza trasposizione e trasposizioni complete (sia giù sia su) per
ognuna delle otto tonalità, tranne che per la quarta e per la settima che si manifestano solo nella
forma non trasposta. Gli otto tuoni di Degli Antonii, non trasposti, impiegano lo stesso gruppo di
tonalità di quelle negli schemi ottonari nei trattati di Banchieri, Penna e altri (vedi tavola 5); i lavori
strumentali di, per esempio, Merula e Placuzzi (tavola 6); i toni 1-8 di Arresti (tavola 4) e i sette
“modi” comunemente usati da Bononcini (tavola 3). Degli Antonii ulteriormente amplia queste otto
tonalità in un gruppo più grande di sedici attraverso trasposizioni in su e giù di un intero grado
(tavola 7b).
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Così la spiegazione di Bononcini di un gruppo fondamentale di tonalità e la sua espansione in un
sistema più completo per mezzo di segnature in chiave da trasposizione fornisce una parte di
estremo valore per la nostra comprensione della tonalità del ‘600.
Una cianografia per la pratica tonale del XVII secolo, le sue sonate Opus 6, aumentano i sette
“modi” praticabili, il gruppo principale di tonalità, ad un numero maggiore trasponendo diverse
delle sette originali a vari livelli di tono.
Ciò significa che le finali e le segnature in chiave di tutte le composizioni dovrebbero concordare o
con ciò che potrebbe essere considerato “primario” o gruppo principale di tonalità, i toni
ecclesiastici o il loro equivalente approssimativo nei sette “modi” comunemente usati da Bononcini,
o con la loro trasposizione.
Per esplorare l’applicabilità di queste tonalità primarie e le loro trasposizioni ad un campione più
ampio di stampe strumentali, ho combinato i modi praticabili di Bononcini e i gruppi ottonari di
toni ecclesiastici in un gruppo composito di tonalità che potrebbero essere provate a confronto di
una selezione rappresentativa del repertorio di sonata del tardo Seicento: le sonate di Bononcini,
Corelli e Giuseppe Torelli. Le tavole 8a attraverso la lista in 8c elencano le tonalità dell’Opus 6 di
Bononcini e quelle usate da Arcangelo Corelli e Giuseppe Torelli, arrangiate (o riarrangiate) nel
caso di Bononcini, secondo il composito gruppo di tonalità e le loro trasposizioni.
L’Opus 6 di Bononcini riarrangiata (tavola 8a) fornisce un utile punto di partenza, poiché sgancia la
sua pratica dalla sua stessa teoria.
Corelli e Torelli, due dei più famosi compositori di musica strumentale dell’ultimo Seicento,
potrebbero essere presi qui come modelli di pratica compositiva del periodo (tavole 8b e 8c).
Il gruppo composito e le tonalità alle quali le sue categorie si riferiscono, sono mostrate nelle tavole
8a-c sotto “tuono” e “tonalità primaria”. Da una parte, le categorie usate nel gruppo composito
seguono il piano di Bononcini che cambia i modi 3 e 4 in un’unica categoria; dall’altra, essi alterano
il suo schema sostituendo la tonalità D con due diesis per la sua tonalità D con un bemolle (lo
schema di Bononcini potrebbe essere paragonato con il mio facendo riferimento alla tavola 3). La
base per questa sostituzione sta nel precedente gruppo dell’Arresti e altri che usano la tonalità di Re
con uno o due diesis per rappresentare il settimo tuono. La tonalità di Re con due diesis appare
anche molto più frequentemente nella letteratura della sonata, mentre quella con un bemolle ha
luogo solo poco frequentemente nella pratica. I teorici spesso caratterizzavano l’ultima tonalità
(Re/un bemolle) con il nono tono, il “tonus peregrinus”, una designazione che ho adottato nelle
tavole 8 e 8b per un nono “tuono”. Arrangiando le finali e le segnature in chiave usate da questi
compositori secondo le tonalità primarie e le loro trasposizioni, le tavole 8a, attraverso 8c, spiegano
la maggioranza di tonalità di questo periodo, non solo quelle che concordano con le pratiche modali
in termini di segnatura di chiave, ma anche quelle che non concordano.

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La caratterizzazione di tonalità in queste tavole in base alle famiglie legate dalle trasposizioni è
basata non solo sugli esempi di “tuoni” trasposti di Bononcini (tavola 2), di Berardi (esempio 3) e di
Degli Antonii (tavola 7), ma anche nell’uso di tonalità collegate all’interno di una singola
composizione. I compositori regolarmente mettono i movimenti interni delle loro sonate in una
tonalità una quinta distante da quella dei movimenti di apertura e di chiusura. Mentre alcuni
effettuano questo cambiamento per i movimenti senza alterare la segnatura di chiave, altri marcano
la tonalità del movimento interno con una nuova segnatura. Torelli, per esempio, associa la
segnatura La/nessuna segnatura, Mi/un diesis, Mi/un diesis e Si/due diesis, La/due diesis e Mi/tre
diesis. Le prime due coppie di queste finali e segnature in chiave possono essere spiegate in termini
di tonalità maggiore/minore come La minore, Mi minore e Si minore, ma il terzo paio La maggiore
con solo due diesis e Mi maggiore con solo tre, resiste alla categorizzazione secondo il sistema
moderno di toni maggiori e minori.
Questo aspetto della pratica precedente esemplifica come allo stesso tempo i toni del XVII secolo
sembrano familiari ed estranei in base alla prospettiva moderna: le tonalità usate nell’ultima parte
del Seicento si accordano in larga misura con quelle usate nei secoli successivi, ma le idiosincrasie
apparenti della pratica precedente rivelano un sistema completamente in disaccordo con quella delle
tonalità maggiore-minore.

Due casi: la tonalità di Sol “plagale” e la tonalità di Mi “frigio”

Se le tavole dalla 8 attraverso la 8c chiarificano il sistema delle tonalità primarie rispetto alle
tonalità trasposte in vigore nel XVII secolo, esse non possono fare di più che classificare
provvisoriamente le tonalità trasposte perché gli schemi di trasposizione dei compositori non erano
necessariamente conformi.
Le tonalità di Sib per esempio, avevano segnature in chiave di uno o due bemolli, talvolta nella
pratica di un singolo compositore (vedi tavola 8c).
In modo simile lo schema di Degli Antonii delle tonalità trasposte mostrate nella tavola 7 rivela un
numero allarmante di anomalie quando le tonalità trasposte vengono paragonate con le loro
controparti non trasposte.
In breve, noi non possiamo essere sicuri della trasposizione o della categoria di tono salmodico per
alcune tonalità solo sulla base di una finale e segnature di chiave. Tonalità molto identiche di questo
periodo non necessariamente usano la stessa segnatura in chiave, e le trasposizioni erano talvolta
effettuate con ciò che per gli standard moderni sono segnature in chiave irregolari.

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Per stabilire ulteriormente le origini della tonalità del XVII secolo nei toni salmodici, comunque,
possiamo fare specifiche determinazioni dell’affinità di una composizione con uno o l’altro tono
salmodico sulla base di punti cadenzati e altri dettagli compositivi.
Le tonalità relative a due degli otto toni salmodici, il quarto e l’ottavo, offrono spiegazioni
particolarmente buone a questo proposito. Gli esempi 4 e 4b, con estratti dalla Cartella musicale
(1614) di Banchieri, presentano sia per la melodia cantata per toni 8 e 4 sia le linee guida di
Banchieri per comporre la musica polifonica su questi toni salmodici. Consideriamo per primo il
tono 8 (es. 4a); l’ultima nota della “differentia” principale del tono 8 è Sol e questa è presa da
Banchieri e altri come finale per arrangiamenti polifonici di quel tono salmodico. Un dettaglio
aggiuntivo di questa tonalità, una tonalità di Sol, deriva dal tono di recita (declamatorio) del tono 8
in Do.

Come visto nell’esempio 4a, Banchieri include Do insieme a Sol come corde principali del tono 8.
L’importanza di Do nel tono 8 rimanda alla sua tonalità di Sol derivata: due estratti in questa
tonalità di Sol dall’Opus 4, n° 8 di Arresti (1665), illustrano vari modi per dare importanza a Do,
che potrebbe essere fatto risalire al tono salmodico originale stesso (es. 5 e 6).

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Come osservato nell’esempio 5, Arresti include la designazione (ottavo tono) all’inizio di questo
pezzo, che appartiene alla sua stampa delle sonate ordinate secondo il “modo”. Il primo movimento
(es. 5), nonostante il lungo pedale su Re (batt. 19-24) prima della cadenza finale, gravita verso la
quarta corda Do, molte volte (cfr. batt. 3,8 e 10). Il secondo movimento (es. 6) mette nuovamente in
evidenza Do, facendo la sua cadenza centrale (segnata nella doppia battuta dopo 21) su quella corda
di scala.
Una simile propensione per enfatizzare la quarta corda nelle sonate in tonalità di Sol può essere
trovata anche dove non c’è un chiaro sistema di designazioni modali. Nel breve fugato che inizia
l’Opus 2 di Giovanni Battista Vitali n°11 (1667) (es. 7) le cadenze fatte dalle dichiarazioni finali del
soggetto sottolineano ripetutamente la prima (batt. 5,9 e 13) e la quarta (batt. 3,7 e 11) corda di
scala.
I due movimenti finali dell’Opus 5, n°3 (1683) di Giovanni Battista Bassani in modo simile trattano
Do come la più importante corda di scala dopo Sol (es. 8a e 8b). Nel Largo di Bassani (es 8a) le
cadenze iniziali e finali in Sol (batt. 1-3 e 6-8) sono entrambe preparate da una pronunciata enfasi su
Do.
Nel successivo movimento, segnato come “Allegro” (es. 8b), le sole cadenze armonicamente forti
avvengono su Sol (batt. 4 e batt. 16-17) e Do (batt. 8 e batt. 12-13). In tutti e tre questi esempi di
tonalità in Sol (es. 5-8), la caratteristica che segna la derivazione di questi pezzi dal tono 8 dei toni
salmodici similmente li distingue dalle composizioni che noi potremmo comodamente analizzare
come Sol maggiore.

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L’enfasi su Do come corda secondaria in questi pezzi di tonalità in Sol li identifica chiaramente
come discendenti tonali del tono 8 e come antenati di Sol maggiore.
La tonalità di Mi frigio che deriva dal tono 4, ancora di più della tonalità Sol del tono 8, offre
esempi che resistono all’analisi in termini di tonalità maggiore-minore. Nell’esempio 4b abbiamo
visto che lo schema di Banchieri per comporre polifonia sul tono 4 usa il Mi come finale, che è
preso dall’ultima nota della “differentia” di quel tono salmodico. Mentre Banchieri non specifica
nessuna corda principale per il tono 4, egli dà la finale Mi e la quarta corda sulla finale La come
punti di imitazione. L’enfasi sulla quarta corda presenta di nuovo una risposta al tono recitante del
tono salmodico, né maggiore né minore, invece rivela caratteristiche “frigie”: gli esempi 9 e 10
mostrano movimenti da due sonate che cominciano e finiscono in Mi, ma da una prospettiva
moderna sembrano come se fossero scritte in La a causa delle mezze cadenze “frigie” su Mi che
terminano questi pezzi. In ciò essi assomigliano agli esempi 1 e 2, che sarebbero ancora più
facilmente catalogati come composizioni in La minore, se non per l’emblematico finale “frigio” su
Mi che conclude ognuno di essi.

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In breve, tutti questi pezzi (es. 1, 2, 9 e 10) illustrano la tonalità derivata dal tono 4, che dobbiamo
riconoscere come distinta dalla successiva e più familiare Mi minore e La minore.
Mezzo secolo dopo il periodo di Banchieri, tali pezzi “frigi” presentarono un enigma al teorico e
compositore Bononcini, che tentò di nascondere le uniche caratteristiche della tonalità Mi frigia
miscelandola con il tono 3, una terza minore di tonalità La (vedi tavola 3). Sebbene egli
razionalizzò tutte le tonalità del tono salmodico (o toni ecclesiastici) in termini di categorie modali
di lunga data, il consolidamento dei toni 3 e 4 di Bononcini rivela una prospettiva chiaramente non
modale: dal momento che le relazioni armoniche dominanti stavano diventando le cause di un
centro tonale nella musica italiana, i pezzi frigi che finivano sul Mi, come avvicinato o da La o da
Fa, erano sentiti da Bononcini come tonalità di La che finivano sulle loro dominanti (e non come
distinte tonalità di Mi). La tonalità di Mi che Bononcini stesso usava, incluso un Fa diesis in chiave,
indicando che egli la interpretava solo come tonalità di La trasposta, piuttosto che una tonalità di Mi
separata.
Classificando ciò che egli pensava fossero due varianti simili di una tonalità di La sotto un’unica
categoria, egli offrì una soluzione piuttosto moderna. Ancora nel XVIII secolo i teorici
continuarono a dimostrare che teorie più nuove basate su due modi, maggiore e minore, che
equivalevano a una eccessiva semplificazione a causa di tonalità “frigie”. La distinzione tonale tra
una “frigia” e una minore in La in questi esempi sottolinea efficacemente sia le sottigliezze sia le
conseguenze critiche della tonalità del XVII secolo.

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E tuttavia Bononcini talvolta riconosceva delle varietà di tonalità con terza minore che riflettono la
distinzione fra i toni 3 e 4.
In due dei suoi duetti che dimostrano i modi praticabili (es. 11a e 11b), Bononcini dà esempi di
“modo 10” che sostituisce i “modi 3 e 4”. Fedele al suo desiderio di fondere i toni 3 e 4
rappresentandoli con una tonalità di La, Bononcini scrisse lo stesso duetto due volte. Egli incluse
però una caratteristica che li distingue: nel secondo duetto (es. 11b) aggiunse una cadenza sul Mi,
l’emblematica frigia del 4 tono alla fine e la segnò come “cadenza finale del quarto tono”.
Il primo duetto (es. 11a) invece si conforma sul La minore con una cadenza sulla tonica, per usare
una terminologia moderna. Sorprendentemente, Corelli sembra aver marcato il finale della sua Opus
1 n°4 (es. 1) come una composizione di 4 tono nello stesso identico modo in cui Bononcini aveva
fatto con il suo duetto: il Presto di Corelli non contiene nulla che disturberebbe un’analisi in La
minore fino alle batt. 36-39 che, in modo enigmatico per le nostre orecchie, terminano questo
movimento finale della sonata con una cadenza frigia sul Mi.
Gli esempi delle composizioni dell’ultimo Seicento in tonalità di Sol e tonalità di Mi (es. 5-10)
dimostrano la relazione fra la pratica vera e propria e sia i toni salmodici della salmodia
ecclesiastica sia la teoria modale di Bononcini.
Essi spiegano il legame diretto fra le tonalità usate nella letteratura della sonata e i toni salmodici
che hanno origine dai salmi liturgici.
Senza la comprensione di tale relazione attestata dalla correlazione della letteratura teorica con la
pratica, noi non possiamo sperare di spiegare le proprietà tonali della musica del XVII secolo.
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Gli studi che assumono una vaga forma di modalità per avere effetto durante questo periodo e che
non basano le loro scoperte nei trattati del tempo fraintendono sia la teoria modale e la sua relazione
con la pratica musicale. Rimane da scoprire molto territorio affascinante nella correlazione della
pratica musicale con le idee teoriche: tracce di concezioni precedenti perdurarono dopo il XVII
secolo nella pratica e addirittura ancora di più nella teoria. Due citazioni saranno sufficienti per
riassumere le prospettive sulle tonalità nei primi anni del XVIII secolo. La prima, dal trattato di
Gasparini L’armonico pratico al cimbalo del 1708, descrive ciò che in modo inconfondibile è un
sistema di toni maggiori e minori, ma in termini modali. In più, nel suo consiglio al “tastierista” che
suona con la teoria modale (“La qualità e quantità de toni e loro formazione”), Gasparini indica
queste stesse caratteristiche “frigie” che io ho provato in questo studio:

È sufficiente affermare che qualsiasi composizione è formata o con la terza maggiore o minore, ciò
diventa immediatamente evidente nella lettura delle note. Nel caso della terza maggiore, cominciando
precisamente da quella nota sulla quale la composizione è costruita, si legge: ut, re, mi; nel caso di una
terza minore: re, mi, fa. Tralascio i modi terzo e quarto che devono essere letti mi, fa, sol (i modi
frigi), dal momento che ciò non è applicato rigorosamente dai compositori di oggi nella sua struttura
originale.

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La seconda citazione, da un teorico anonimo del XVIII secolo, azzarda un’arringa dei “modi”
ancora più superficiale:

Sui modi: suppongo che lo studente di musica già conosca i modi salmodici, di cui ne esistono otto, e che
su questi otto modi sono basati inni, salmi, antifone e introiti per cantare in chiesa… Nella nostra musica
moderna abbiamo modi che sono diversi dai modi salmodici sopracitati… Ma siccome questi ultimi modi
sono stati modificati e mischiati l’uno con l’altro ne ho annotati solo due: uno è autentico, l’altro plagale.
Quello autentico ha la terza maggiore, quello plagale ha la terza minore.

Le valutazioni di questi due teorici descrivono accuratamente sia il punto di vista sia la pratica del
loro tempo; nei loro trattati, la terminologia modale, per secoli l’unico mezzo per descrivere
l’organizzazione tonale in musica, è ancora utilizzata è ancora utilizzata per descrivere toni
maggiori e minori. Con questo in mente, potremmo capire il linguaggio dell’organizzazione tonale
dei teorici e riconoscere come la pratica dei compositori di sonate del tardo Seicento e la letteratura
teorica contemporaneamente con questa pratica si stanno rivelando in modo abbondante e
vicendevole. I risultati di questo studio dovrebbero quindi spronare ulteriori sforzi, non per scoprire
l’antica prova di tonalità maggiore/minore ma la contrario di capire il concetto di spazio tonale

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sostenuto dai musicisti del XVII secolo si sono prolungate a lungo su Corelli, per esempio, come
annunciatore dell’era tonale moderna, dando meno attenzione alla tradizione musico-teorica dalla
quale emerse il suo idioma tonale.
In breve dobbiamo focalizzare la nostra attenzione precisamente verso quelle caratteristiche della
musica del Seicento che sfidano i precetti della tonalità moderna.
Accertando il significato di tali caratteristiche attraverso uno studio della teoria più vicina a quella
musica, potremmo ricercare una prospettiva che i teorici del Seicento e i compositori portarono ai
loro lavori.
Possiamo allora apprezzare la musica di Corelli e dei suoi contemporanei, non solo come punto di
partenza nella storia della tonalità moderna, ma anche come eredità di una ricca tradizione musicale
e teorica.

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Abstract

Nell’ultima metà del XVII secolo, due compositori, Giovanni Maria Bononcini e Giulio Cesare
Arresti, pubblicarono delle raccolte di sonate arrangiate secondo criteri modali. Sebbene le loro
concezioni di un sistema modale, differiscono in modo evidente l’uno dall’altro e anche dalle altre
teorie modali del periodo, l’uso comune di Arresti e Bononcini di un particolare gruppo di otto
tonalità coincide con una diffusa pratica fra i compositori di sonate del Seicento che era anche
diffusamente attestato dai teorici. Nella loro musica, i compositori, estesero queste otto tonalità a
numeri maggiori, attraverso trasposizioni. Questa pratica riflette così una concezione a priori di un
sistema tonale basato su un gruppo centrale di tonalità più trasposizioni di quell’insieme.
Questo gruppo centrale deriva, non dai modi, ma dalle tonalità che producono gli otto toni
salmodici usati nelle funzioni cattoliche. Il significato di queste tonalità di toni salmodici altrimenti
conosciute non può essere sottovalutato: essi forniscono un legame cruciale fra la teoria modale del
XVII secolo e la pratica musicale di quel periodo; in più le caratteristiche particolari dei toni
salmodici stessi spiegano quelle trovate nelle tonalità del tardo Seicento.

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