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Stazio, Publio Papinio. - D. ricorda S.

già in
Cv(Convivio)IV XXV 6 come lo dolce poeta. Si sarebbe
tentati di pensare che così definendolo egli alludesse alle
Silvae. Ma del poeta egli ignorava proprio quest'opera,
che fra l'altro gli avrebbe evitato l'errore di fargli dire
(Pg XXI 89) che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
confondendolo cioè, sulle orme di s. Girolamo e di
Fulgenzio, col contemporaneo retore L. Stazio Ursulo
(v.) di Tolosa; ché in Silv. III 5 S. palesa chiaramente alla
moglie, restia a lasciare Roma, la sua origine napoletana,
celebrando le bellezze della sua terra. Di quello che
definisce dolce poeta e che tale avrebbe potuto esser
ritenuto solo grazie alle Silvae, D. mostra di conoscere a
fondo solo ciò che il Medioevo conosceva sicuramente, e
cioè la Tebaide e l'Achilleide; perciò poi del dolce poeta,
come vedremo, egli ricorda o i principali personaggi o
scene di pomposa o addirittura macabra magniloquenza,
come quella di Anfiarao, quella di Capaneo e quella di
Tideo e Melanippo. La denominazione deriva dunque,
com'è stato universalmente riconosciuto

S. evidentemente era considerato da D. uno dei maggiori


poeti latini, tant'è vero che negli ultimi canti del
Purgatorio, dove compare come anima purgante che ha
terminato l'espiazione nel girone degli avari e prodighi,
egli finisce per assumere la funzione di trapasso da
Virgilio a Beatrice, al punto che nel canto XXV gli si
affida l'arduo compito d'istruire D. sul problema della
formazione dell'anima e dei suoi rapporti col corpo. È
proprio Virgilio a invitare S. a sostituirsi a lui
nell'addottrinamento di D., quasi a sottolineare la
propria inferiorità, già manifestatasi col lapsus di aver
ritenuto S. espiante come avaro: ecco qui Stazio; e io lui
chiamo e prego / che sia or sanator de le tue piage (v.
29).

In Pg XXI è contenuta una biografia di S. che, per


ampiezza e precisione di notizie (salvo l'errore sulla città
natale), è un unicum nel poema, in cui di solito non ci si
attarda sui particolari biografici dei personaggi
incontrati: si determina l'età in cui il poeta fiorì,
localizzandola nel regno di Tito (mentre in XXII 83 si
accenna al principato del suo successore, quello
dell'effettiva fama di S., quando Domizian li
perseguette); si allude a sue vittorie in gare poetiche
(XXI 90); si enumerano i due poemi che D. conosceva,
aggiungendo anche la precisazione che l'Achilleide era
rimasta incompiuta (vv. 92-93). Anche il fatto che lì si
taccia delle Silvae conferma che D. ignorava
quest'opera. Per giunta il critico Padoan (art. cit. 348)
difende D. da chi lo accusava d'inesattezza per aver
affermato che l'Achilleide era rimasta incompiuta per la
morte dell'autore, e perciò conclude: " Quibus
respondendum est breviter et clare quod vere secundum
opus est completum, nec Dantes hoc negat: sed vult
dicere quod cecidit cum secunda salma, quia debebat
subire tertiam historiam, scilicet gesta Domitiani ". D. in
realtà sapeva che l'Achilleide era incompiuta e intendeva
dire proprio questo: e Gius. Billanovich (Lo scrittoio del
Petrarca, Roma 1947, 162) ha posto in rilievo una lettera
del Nelli al Petrarca che ci ha dato notizia di una difesa
che Forese Donati, proprio un personaggio che appare in
uno dei canti staziani, in Pg XXIII, nel girone successivo
a quello in cui S. ha scontato la sua pena, ha fatta
dell'incompiutezza dell'Achilleide.

Se in Pg XXI abbiamo una precisa presentazione della


figura e dell'opera di S., nel c. XXII troviamo invece
sviluppato quel complesso di notizie che con la vera
biografia di S. non han da fare né punto né poco, e che
costituiscono il sorprendente di più introdotto da D.: la
notizia della sua prodigalità e quella della sua segreta
conversione al cristianesimo, suggeritagli, come la
stessa vocazione poetica, dalla lettura di Virgilio, e
particolarmente dall'egloga quarta. La critica si è
affaticata per scovare o intuire le fonti da cui D. può aver
tratto queste arbitrarie aggiunte alla reale bio-grafia del
poeta e, anche per la vanità dei suoi sforzi, ha finito per
inclinare verso l'opinione che D. (forse stimolato da
qualche spunto d'interpretazione allegorica di passi della
Tebaide o di leggende come quella narrata da Vincenzo
di Beauvais Spec. hist. XII 50, secondo cui Secundiano,
Marcelliano e Verriano si sarebbero convertiti alla fede
cristiana dopo aver letto la quarta egloga di Virgilio)
avrebbe favoleggiato per conto suo tutto ciò che riferisce
di S. in quel canto, perché, persuaso che egli era stato il
più cosciente e il più fervido degli ammiratori e imitatori
di Virgilio (fra l'altro la Tebaide consta di dodici libri
come l'Eneide), lo ha concepito ‛ ad maiorem Vergilii
gloriam ': Virgilio, il suo maestro di poesia, per giunta
coi vv. III 56-57 dell'Eneide lo avrebbe guarito dal
peccato della prodigalità e con l'egloga quarta gli
avrebbe dischiuso la via alla fede cristiana.
Ciò che colpisce è il fatto che S., se ha fatto in tempo a
guarire dal peccato della prodigalità, si mostra un
lapsus, un cristiano nascosto e timoroso, com'egli stesso
confessa (Pg XXII 90-91 ma per paura chiuso cristian
fu'mi, / lungamente mostrando paganesmo). Va bene che
D. ci fa sapere (Pg XXII 92-93) che proprio per questo S.
ha dovuto espiare anche nel girone degli accidiosi per
più di 400 anni per questa tepidezza; ma è indubbio che
secondo le idee e i sentimenti del Medioevo la sua
condotta lo poneva di fronte al pericolo della
dannazione. E forse proprio da questa impressione
nacque l'ulteriore leggenda che S. fosse stato vittima
della persecuzione domizianea. D. (e forse già le sue
fonti) si è dovuto arrendere di fronte al fatto che nella
Tebaide e nell'Achilleìde, salvo alcune interpretazioni
allegoriche escogitate con molta buona volontà, non era
possibile individuare alcun preciso orientamento
cristiano. E forse D. ha inteso dire che Dio ha voluto
premiare gli sforzi con cui S. aveva tentato di adombrare
nell'ultima parte della Tebaide le sue nuove credenze.
Ma a ogni modo D. ha tentato d'inquadrare lo spirito
dell'opera e della figura di S. nel senso di un progressivo
avveramento di ciò che di profetico era già contenuto
nell'opera di Virgilio, e ciò particolarmente in Pg XXI 82-
84, che precorre quanto dirà Giustiniano in Pd VI 92-93
e mostra insieme la visione provvidenziale di un
accostamento della poesia epica latina di saldo impianto
morale, nutrita di Virgilio, proprio al cristianesimo e
proprio nel momento in cui le armi romane, guidate da
un imperatore benefico, con la repressione della rivolta
giudaica compivano la vendetta... / de la vendetta del
peccato antico.

A parte questo, è stato già notato che S. godette nel


Medioevo d'invidiabile fama; Pierre Maurice, abate di
Cluny, lo cita fra i lumi della poesia e della filosofià, e
Nicola Clamanges lo chiama addirittura secondo
Virgilio.Per meglio intendere la funzione che D. gli
riserba nel poema, dobbiamo cominciare a ricordare i
luoghi del Convivio in cui già sono menzionati passi e
personaggi della Tebaide. Così in Cv III VIII 10 si legge:
Onde alcuno già si trasse li occhi, perché la vergogna
d'entro non paresse di fuori; sì come dice Stazio poeta
del tebano Edipo, quando dice che " con etterna notte
solvette lo suo dannato pudore ": cfr. Theb. I 47-48 "
merserat aeterna damnatum nocte pudorem / Oedipodes
". In Cv III XI 16, a proposito dell'uso di apostrofare
persone coi termini astratti indicanti i sentimenti da loro
ispirati, si legge: e sì come dice Stazio nel quinto del
Thebaidos [e si noti la denominazione del poema con
l'abituale genitivo delle soscrizioni iniziali, come
Metamorphoseos, designazione abituale del poema
ovidiano], quando Isifile dice ad Archimoro: " O
consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore
del mio servigio ": cfr. Theb. V 609-610 " o rerum et
patriae solamen ademptae / servitiique decus ". E
finalmente in Cv IV XXV 6-8 si legge un lungo
riferimento alla Tebaide (cfr. Theb. I 395 ss., 482 ss.,
527 ss.): un brano che, nella tendenza a scovare una
profonda simbologia morale in un episodio di poema
epico latino, richiama il luogo di Cv IV XXVIII 13-19, in
cui si analizza come allegoria della vita umana l'episodio
di Catone e Marzia nel libro II della Farsaglia lucanea.
Nell'ignoranza in cui ci troviamo delle fonti di D.
riguardo al cristianesimo di S., non riusciamo a valutare
quanto il poeta abbia tratto da leggende preesistenti e
quanto egli abbia architettato da sé, organizzando il caso
limite di una formazione poetica e spirituale modellata
da Virgilio nel più alto senso della tradizione latina, ma
che dal più fondo dell'intima esperienza virgiliana trae lo
slancio per assurgere alla rivelazione del verbo di Cristo,
trasfigurando in un senso nuovo i motivi etici popolanti
la nuova creazione epica. Sorge così il problema del
significato che S. assume nel poema come anima
redenta, giunta alla fine dell'espiazione, già pronta a
salire al cielo e perciò atta ad assolvere anche il compito
di addottrinare D. in un arduo punto della scienza
teologica, come avviene nel canto XXV. Ed ecco Pietro
sostenere che S. rappresenta la filosofia morale,
affiancando e integrando la filosofia razionale
rappresentata da Virgilio: non per niente sin dal
Convivio il suo poema era stato ricordato soprattutto
come prontuario di esempi morali.

Invece L. Filomusi Guelfi (Nuovi studi su D., Città di


Castello 1911, 63-68) ha visto in S. il simbolo della
scienza soltanto speculativa, inferiore perciò a Matelda,
che simboleggia la scienza speculativa e pratica insieme
e che al suo primo apparire condanna al silenzio S., il
quale quindi fra l'altro appare una guida solo
supplementare e occasionale. Ma a ogni modo il fatto
stesso che sia Virgilio a invitare S. a sostituirlo
nell'addottrinare D. finisce per compiere il rapporto
ideale fra i due poeti quale si è configurato nei canti XXI-
XXII, mostrando il riconoscimento da parte di Virgilio
della maturazione che la sua poesia ha prodotto nello
spirito di S., sì che egli può sovrapporsi, come meglio
profondato di lui nei misteri della fede, alle sue abituali
spiegazioni, basate essenzialmente sui puri dettami della
filosofia aristotelica. Come anima cristiana, per giunta la
prima che si presenti a D. già monda e quindi
potenzialmente equiparabile alle anime del Paradiso, egli
è in grado d'iniziare D. ai problemi dell'iniziatica dottrina
dei più invidiosi veri. E a ogni modo il rapporto Virgilio-
S., che provoca l'intervento dottrinale del secondo nel
canto XXV, è stato sempre considerato la chiave per
spiegare la funzione di S. nei canti del poema in cui egli
appare. È stato notato, analizzando i canti XXI-XXII,
come l'incontro fra S. e Virgilio riproduca in fondo quello
fra Virgilio e D. nel proemio dell'Inferno, arrecando
conseguenze ugualmente benefiche e ugualmente estese
dalla lezione nel campo della poesia all'iniziazione alle
verità occulte di natura profetica. Per converso la poesia
di S. appare a D. così profondamente nutrita
dell'esempio di Virgilio da assurgere a valore di
exemplum sul piano morale e da adombrare quindi un
altro passo in avanti della più alta poesia latina verso la
conquista dei valori comunicati dalla fede (e in questo
senso, anche per D., S. finisce per assumere il valore
dell'altro Virgilio. A ogni modo da quando compare e
parla di sé nei canti XXI-XXII, S. non è mai dimenticato
sino alla fine della cantica; compare nuovamente in Pg
XXIII 8 lo vediamo avviarsi con Virgilio e D; con Forese
(vv. 131-133); ma anche in XXIV 8nel, c. XXV e in XXVII;
egli è presente insieme con Virgilio in XXVIII 145-146 e
con Matelda; in XXXII 29, dopo il lungo intervallo di
silenzio su lui determinato dalla sparizione di Virgilio e
dall'incontro con Beatrice, lo rivediamo seguire il carro
insieme con Matelda e con D.; in XXXIII 15 lo si ricorda
ancora come colui che era rimasto con D. Ma all'inizio
del Paradiso egli è già fuori scena, assunto per conto suo
fra le anime beate.

Risulta che D. ha sentito l'opera di S. proprio come il


vertice di quella lenta ascesa della spiritualità latina,
maturata dalla sua stessa missione d'inverare i voleri
della Provvidenza, verso l'intuizione delle verità
cristiane. Perciò si giustifica il suo aver fatto di S. un
cristiano nascosto, e l'averlo giudicato un secondo
Virgilio, un poeta σοφός. E si comprende come i poemi
staziani gli siano serviti come prontuario di exempla
morali e modello di agghiaccianti colpi di sonda
nell'umana perversione alla luce della superiore eticità
del messaggio cristiano.

 Alla luce di quanto letto, scrivete un testo argomentativo che abbia come tema Dante e Stazio,
ampliando le riflessioni critiche del testo analizzato con le vostre conoscenze sull’argomento.

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