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Claudio Mammini * Psicodinamica della comunicazione e condizione di addiction

Abstract

Questo articolo analizza la possibilità che il concetto di addiction possa essere estendibile alle
relazioni dotate di elevato valore di completamento del sé della persona.

Key words

Comunicazione;addiction; cognitivismo; psicoanalisi.

* Psicologo, Psicoanalista, ipnotista

Possiamo definire il fenomeno della dipendenza come un disturbo delle abitudini dove alcune condotte si trasformano
in comportamenti fenomenologicamente tendenti a sfuggire al controllo della persona.
Rotter osserva che si registra un fenomeno di spostamento di quello che definisce “locus of control” che pare trasferirsi
all’esterno del sé, sull’elemento da cui il soggetto inizia a dipendere. L’elemento viene ad acquisire una funzione
di controllo sul soggetto. Tendenzialmente qualsiasi cosa esterna può divenire “attrattore” del “locus of control” -
un oggetto, una droga, un farmaco, un’idea politica, un credo religioso, una persona; ciò permette di effettuare una
prima distinzione sulla base del meccanismo attraverso cui può venire indotta dipendenza: esiste un tipo di
dipendenza psichica o psicogena e fisica o fisiologica. Per fare un esempio, ecstasy, cannabis o cocaina sviluppano
solamente un tipo di dipendenza psichica mentre l’eroina o certi farmaci inducono anche una parallela dipendenza
fisica che genera il cosiddetto fenomeno dell’astinenza.
Per quanto riguarda le cause esiste una vasta letteratura secondo la quale l’uso di sostanze stupefacenti pare
ricollegabile ad un tentativo di autoguarigione posto in essere dal soggetto col fine illusorio di gestire, narcotizzare
o “curare” propri deficit psichici di carattere reale o presunto.
Il fenomeno di dipendenza propriamente detto si ha quando una persona raggiunge quella particolare condizione detta
di “addiction” in cui sviluppa una situazione di dedizione più o meno completa, comunque decisamente
importante nella sua vita, verso una sostanza, situazione, persona o quant’altro che il soggetto non riesce più a
controllare nella gestione dei tempi e delle situazioni.
In queste brevi note non ci occuperemo dei fenomeni di dipendenza a carattere fisico ma tenteremo di trattare la
psicodinamica del fenomeno di “addiction” che crea dipendenza psichica nella fattispecie della relazione terapeutica.
Fenomenologicamente la relazione interpersonale terapeuta – paziente replica una relazione di accudimento dove il
primo si prende carico dei disagi del secondo o, anche se non verbalmente ratificato, il fatto stesso che quest’ultimo si
rechi, prenda un appuntamento e paghi una parcella al primo sviluppa una condizione di aspettativa da un lato e
prestazione dall’altro che rimanda al rapporto diadico nutrice-nutrito.
La relazione diadica nutrice-nutrito rappresenta il prototipo di tutte le relazioni di dipendenza per la sua ineluttabilità,
esclusività con l’oggetto e totalità. La relazione di attaccamento all’oggetto “madre” rende evidente un dato che lo
psicoanalista Inglese J. Bowlby, partendo da una serie di osservazioni sul lavoro di A. Freud e Dorothy Burlingham,
rende noto nel suo libro “la separazione dalla madre”: se le persone, “non hanno fiducia nel fatto che le loro figure di
attaccamento siano accessibili e disposte a rispondere positivamente nel momento del bisogno; aggredendo e
dimostrando un eccesso di attaccamento adotteranno una strategia per restare in stretto contatto con loro allo scopo di
assicurarsi, nei limiti del possibile la loro disponibilità”. Questo tipo di persona svilupperà un attaccamento col
terapeuta di tipo “immaturo”. Unica forma mobilitabile da questo tipo di paziente poiché unico prototipo esperito
durante le esperienze precoci con una madre imprevedibile e incostante. Il terapeuta parallelamente mobilita una
dimensione maternalistico-paternalistico permissiva, probabilmente non giudicante ma sicuramente accudente. A questo
punto può svilupparsi il cosiddetto “colpo di fulmine terapeutico” (L. Cancrini.). Il soggetto cerca aiuto in una persona
da idealizzare secondo la sua modalità di attaccamento favorendo il bisogno di onnipotenza del terapeuta; questi accetta
ma a causa delle sue difficoltà legate alla gratificazione dell’essere idealizzato rimane invischiato nella relazione diadica

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immatura (J. Bowlby, V. Guidano, G. Liotti). Così più il tempo passa più la relazione diviene “stagnante” in quanto il
paziente ha la sensazione che qualcuno si stia occupando di lui “nutrendolo” percui riduce la produzione ed il terapeuta,
sempre più soddisfatto di sè, reagisce parallelamente per sintonia col paziente. Bowlby sottolinea come a questo punto,
ad esempio, un tossicodipendente viva vere e proprie sensazioni abbandoniche e questo timore reale lo porta a non
proseguire la terapia. Abbandona per non essere abbandonato (ricadendo nella droga). Il terapeuta si sente tradito ed
oscilla tra due posizioni, o giudica inguaribile o inidoneo alla terapia il paziente o si sente incapace.
Gran parte dei fallimenti terapeutici con questi pazienti sono dovuti a problemi di questo tipo.
Il soggetto dipendente è spesso una persona che cerca nell’oggetto di dipendenza contenuti maturativi.
Se il Tranfert è definibile come “la ripetizione di prototipi infantili vissuti con un forte senso di attualità” (Lapanche e
Pontalis, Enciclopedia di Psicanalisi, 1981 La Terza edt.), la riattualizzazione di una dimensione di attaccamento al
terapeuta diventa necessaria per una relazione profonda. L’ipotesi della Bick consiste fondamentalmente
nell’immaginare una funzione interna di contenimento delle componenti del sé costituita da un oggetto esterno capace
di adempiere a tale funzione. Il lattante identifica tale oggetto primario nella propria pelle che inizia a fungere da
confine tra il sé ed il non-sé. Questa capacità permette di vivere l’introiezione dell’oggetto esterno che nel caso del
neonato è rappresentato dalla madre che nutre che inizia ad assolvere la funzione di contenimento delle disperse e
frammentate parti del sé. Questa “pelle psichica” capace di tenere insieme in modo coeso tali parti permette il costituirsi
di una futura e integrata identità.
“Fino a che le funzioni di contenimento non sono state introiettate non può costituirsi il concetto di uno spazio interno
al sé e ciò impedisce l’introiezione ossia la costruzione di un oggetto nello spazio interno” (E. Bick). Questo oggetto
interno che funge da “seconda pelle” tenendo insieme le varie componenti della personalità deriva dall’esperienza del
vivere il rapporto con una madre dotata di una soddisfacente funzione di Holding, Handing ed Objet Presenting
(Winnicott). Quando ciò non accade, per scarso o difficile maternage, il bambino e poi l’adulto è costretto a recuperare
altrove questa seconda pelle che gli permette coerenza ed unità del sé (J. Bowlby, V. Guidano, G. Liotti). L’oggetto che
fornisce tale funzione diventa l’elemento che può racchiudere l’immagine di sé ed è probabile che sia a questo punto
che si verifica un qualcosa di molto simile alla condizione di addiction. Una madre sufficientemente buona sa gestire
questa condizione contenendola in una normale dimensione di attaccamento e non in una dedizione completa limitante
l’autonomia del piccolo. Come rileva Malcom Pines (1983, p.80, la specularità nella terapia di gruppo), “la madre fonda
il suo comportamento nella certezza di essere riconosciuta e sulla certezza che il bambino riconosca sè stesso come
fonte di intenzionalità, di un Self. Ella riveste il bambino di gesti comunicativi dai quali prende origine una
protoconversazione tra madre e figlio”. Questi fenomeni di “rispecchiamento” permettono a ciascun individuo di
riconoscersi nell’altro sì da consentire la produzione della propria immagine sulla base delle relazioni altrui al proprio
interagire.
Su ciò si basa la matrice basica del sé (Foukles, 1967).
I fenomeni comunicativi di una madre sufficientemente buona consentono lo sviluppo di una identità di sé nel bambino.
“La madre crea il bambino ed il bambino crea la madre” (Thomas H. Ogden, 1985, p.13, on potential space,
International Journal of Psychoanalysis), ed una madre sufficientemente buona sviluppa la soggettività nel figlio
assolvendo i suoi compiti.
Soggettività significa capacità di differenziare tra soggetto pensante, oggetto pensato e pensiero (i tre termini costitutivi
del processo di simbolizzazione). Compito della madre è di permettere tale differenziazione riuscendo a non saturare
mai completamente il proprio desiderio attraverso il suo bambino e non saturare mai del tutto i bisogni del bambino: che
necessità avrebbe altrimenti il bambino di uscire dal proprio soddisfacimento narcisistico? Il simbolo nasce solo se c’è il
desiderio e il desiderio scaturisce dalla mancanza.
Da adulto, l’esigenza di una identità del sé pone l’individuo nella condizione di ricerca di una situazione di dipendenza
che gli permetta di non essere solo in compagnia di sé stesso, del sé reale, ovvero delle sue parti negative scisse
costituite dall’assenza di una “buona madre interna” con funzioni di contenimento e unificante. La ricerca di una
“buona madre interna” che consentirebbe di prendersi cura di sé e contrastare le proprie spinte autodistruttive e
masochistiche pone le condizioni per una esigenza primaria di sviluppo di parti interne. Donald Meltzer le chiama “parti
non nate” (seminario di Biella, 20/2/1993) sottolineando come tali parti “non nate” della personalità, in quanto scisse e
non proiettate sull’oggetto esterno, possono rimanere fissate in una specie di condizione fetale non avendo mai potuto
svilupparsi e “desiderino” una tale evoluzione.
Se l’oggetto dell’addiction non è una persona ma una cosa o un’idea diventa allora possibile ritrovare una dimensione
chiusa, completamente narcisistica, fanatica, totalizzante, priva del senso di realtà perché una droga, un farmaco,
un’idea politica o un credo religioso se agiti per compensazione divengono elementi di stabilità psichica. Il soggetto e
l’oggetto divengono un tutt’uno impedendo la simbolizzazione. Una droga per un drogato non si discute o meglio,
qualsiasi discussione diventa priva di potere modificante. Il drogato non può apprendere dall’esperienza.
Se l’oggetto dell’addiction è una persona diventa possibile instaurare il processo di simbolizzazione (ad es. se questa
persona è un terapeuta) permettendo ai bisogni inespressi del “bambino - interno all’adulto” di non saturarsi mai
completamente procedendo ad una maturazione delle “parti non nate” del sé. Il problema diventa la gradualità della
frustrazione. E’ difficile per il paziente permettere al terapeuta di aiutarlo a far rinascere e a far parlare le sue parti
immature perché rappresentano un bambino spaventato, solo, bisognoso di cure, amore, accoglienza che potrebbero

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indurre l’implicazione emotiva della dipendenza totale da un soggetto caldo e dotato di vita, quindi per sua natura
incontrollabile.
Un soggetto a differenza di un oggetto può essere perso perché può decidere di distanziarsi e allontanarsi
autonomamente quando vuole in maniera momentanea o definitiva …. così come una madre non sufficientemente
buona.
Questa condizione può portare al “colpo di fulmine terapeutico”.
La difficoltà a sopportare lo spazio terapeutico nella sua dimensione di intimità innesca il balletto dei limiti
interpersonali: il paziente si avvicina, entra in ansia e fugge, interrompe per riavvicinarsi cautamente dosando la
quantità di nutrimento affettivo che può recepire senza sentirsi soffocare per poi allontanarsi di nuovo. Il balletto può
terminare nella brusca interruzione proprio perché tra terapeuta e paziente la relazione va così bene che entrambi ne
sono gratificati, il primo nel suo narcisismo e il secondo nelle sue nascenti capacità di simbolizzazione che gli
permettono di pensare al “rischio” che sta correndo. Il terapeuta può essere perso. La possibilità di differenziare il
soggetto dall’oggetto rende possibile pensare sia a sé stesso, recuperando il senso di identità del sé, che alla relazione
con l’oggetto esterno. Questo secondo elemento sviluppa l’angoscia depressiva legata al pensiero della perdita
dell’oggetto amato che innesca il tentativo narcisistico illusorio di tornare ad un certo grado di stabilità e ad una relativa
libertà dall’angoscia e dal dolore che può produrre la brusca interruzione della terapia.
“L’organizzazione patologica funziona come difesa non solo contro la frammentazione e confusione ma anche contro il
dolore mentale e l’angoscia della posizione depressiva” (E. Bott Spillius).
Il terapeuta gioca una doppia partita, da un lato deve dosare la soddisfazione dei bisogni del paziente mentre dall’altro
non deve mai saturare il proprio desiderio di gratificazione narcisistica attraverso il paziente.
Se utilizziamo il termine dipendenza nel senso ampio di queste brevi note l’intensità del processo di idealizzazione del
terapeuta dipende dall’intensità della dipendenza dall’oggetto che integra narcisisticamente le funzioni dell’Io del
paziente. L’idealizzazione col terapeuta, di intensità maggiore o uguale a quella dell’oggetto di dipendenza, permette la
necessaria sostituzione.
Il cammino di crescita deve passare necessariamente dalla strada tracciata dal paziente, dalla dipendenza, anche totale,
all’indipendenza a patto che il terapeuta controlli costantemente soprattutto la propria gratificazione narcisistica.
Sentirsi gratificato dalla relazione equivarrebbe a rimandare lo stesso segnale percepito dal paziente in relazione con la
madre reale “non sufficientemente buona” quindi troppo pericolosamente autonoma. Il soggetto deve rischiare rendendo
“disponibili” ad una nuova crescita le proprie parti immature sostenendo la difficoltà del “pensare” e ri-simbolizzare un
rapporto di dipendenza. In queste situazioni l’attenzione del paziente a tutti i segnali vissuti durante il rapporto con la
madre reale diventa condizione per la sua sopravvivenza psichica e per la sopravvivenza della relazione terapeutica.
Mentre la condizione di addiction può permettere l’abbandono del vecchio oggetto di dipendenza per uno nuovo (il
terapeuta), l’appagamento narcisistico terapeutico può riaccendere mai sopiti timori abbandonici nel paziente tali da far
terminare il rapporto e ricadere nella vecchia dipendenza.

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