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II.

Condizioni per la felicità dei performanti

Dire qualcosa è fare qualcosa, o meglio col dire o nel dire qualcosa noi facciamo qualcosa. Questo
argomento mette in discussione una vecchia assunzione filosofica secondo la quale dire qualcosa è sempre
asserire qualcosa.

Enunciati performatori o performativi hanno l’aspetto grammaticale delle “asserzioni”; ma quando li si


esamina più attentamente, si vede che non sono enunciati che potrebbero essere “veri” o “falsi”. Un
esempio è l’enunciato “sì” (prendo questa donna come mia legittima sposa). Nel dire queste parole noi
stiamo facendo qualcosa.

Concentriamo la nostra attenzione sulla questione delle “circostanze appropriate”. Scommettere non è
semplicemente pronunciare le parole “scommetto etc.”: qualcuno potrebbe benissimo farlo e tuttavia noi
potremmo non convenire che egli sia di fato riuscito a scommettere. Per convincerci dobbiamo, ad
esempio, annunciare la nostra scommessa dopo la fine della corsa. Oltre all’enunciazione delle parole del
performativo, molte altre cose devono essere corrette e funzionare bene se si deve dire che abbiamo
felicemente portato a compimento la nostra azione. Cosa siano queste cose lo si scopre classificando i tipi
di casi in cui qualcosa funziona male e l’atto è perciò almeno in una certa misura un insuccesso: l’enunciato
è allora infelice. Possiamo chiamare questa teoria delle cose che possono essere scorrette e funzionare
male teoria delle infelicità.

Esistono alcune cose necessarie per lo scorrevole e “felice” funzionamento di un performativo:

- (A.1) Deve esistere una procedura convenzionale accettata avente un certo effetto convenzionale,
procedura che deve includere l’atto di pronunciare certe parole da parte di certe persone in certe
circostanze;
- (A.2) le particolari persone e circostanze in un dato caso devono essere appropriate per il
richiamarsi alla particolare procedura cui ci si richiama;
- (B.1) la procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti sia correttamente che
- (B.2) completamente.
- (Γ.1) laddove la procedura sia destinata all’impiego da parte di persone aventi certi pensieri o
sentimenti, o all’inaugurazione di un certo comportamento consequenziale da parte di qualcuno
dei partecipanti, allora una persona che partecipa e quindi si richiama alla procedura deve di fatto
avere quei pensieri o sentimenti, e i partecipanti devono avere intenzione di comportarsi in tal
modo;
- (Γ.2) inoltre devono in seguito comportarsi effettivamente in tal modo.

Se noi trasgrediamo una di queste sei regole il nostro enunciato performativo sarà infelice.

Se noi infrangiamo qualcuna delle regole (delle A o delle B), l’atto in questione non è affatto eseguito con
successo, non riesce, non è compiuto. Mentre nei due casi Γ l’atto è compiuto, benchè il compierlo in simili
circostanze costituisca, ad esempio, un abuso ella procedura.

Si chiameranno quelle infelicità A1-B2, che sono tali che l’atto per la cui esecuzione e nella cui esecuzione
non è compiuto, con il nome di COLPI A VUOTO: e dall’altro lato quelle infelicità in cui l’atto è compiuto
ABUSI. Quando l’enunciato è un colpo a vuoto, la procedura cui abbiamo la pretesa di richiamarci non è
riconosciuta, o è male eseguita. Dall’altro lato, nei casi di Γ, noi parliamo del nostro atto infelice come di un
atto “ostentato” o “vacuo” piuttosto che “preteso” o “vuoto”, e come di un atto non completato o non
consumato, piuttosto che senza effetto. Inoltre senza effetto qui non significa “senza conseguenze, risultati,
effetti”.

Ora la distinzione fra i casi A e i casi B, nei colpi a vuoto. In entrambi i casi di A c’è il richiamo indebito a una
procedura -o perché non esiste, o perché la procedura non può essere applicata nel modo in cui si è tentato
di fare. Quindi le infelicità di questo tipo A possono essere definite Invocazioni indebite. Fra queste,
possiamo battezzare il secondo genere -in cui la procedura esiste ma non può essere applicata come si
pretende di fare- Applicazioni indebite. In contrapposizione ai casi A, il concetto dei casi B è che la
procedura è corretta, ma noi facciamo fiasco nell’esecuzione del rituale con conseguenze più o meno
disastrose: così i casi B contrapposti ai casi A, saranno definiti Esecuzioni improprie, contrapposte alle
Invocazioni indebite: il preteso atto è viziato da un difetto o da una lacuna nello svolgimento della
cerimonia. La classe B.1 è quella dei Difetti, la classe B.2 è QUELLA DELLE Lacune.

- Quanto è diffusa l’infelicità?

In relazione a certi atti che sono atti di pronunciare parole, l’infelicità è un male ereditario di tutti gli atti
che hanno il carattere generale del rituale o del cerimoniale, tutti gli atti convenzionali: non che di fatto
ogni rituale sia soggetto ad ogni fora di infelicità. Questo è chiaro per il semplice fatto che molti atti
convenzionali possono essere eseguiti in modi non verbali.

Il concetto di infelicità si applica ad enunciati che sono asserzioni? Finora si indicava l’infelicità come
caratteristica dell’enunciato performativo, il quale era definito attraverso la contrapposizione con la
asserzione ritenuta familiare. In filosofia si è rivolta molta attenzione ad asserzioni che, sebbene non
esattamente false, sono assurde. Un’asserzione che si riferisce a qualcosa che non esiste non è forse, non
tanto falsa, quanto nulla? E più consideriamo un’asserzione non come una frase, ma come un atto di
discorso, più stiamo studiando l’intera cosa come atto.

- Fino a che unto è completa questa classificazione?

Poiché nell’enunciare i nostri performativi stiamo eseguendo delle azioni, allora in quanto azioni, queste
saranno soggette a delle intere dimensioni di manchevolezza a cui sono soggette tutte le azioni ma che
sono distinte dall’infelicità. Le azioni in generale (non tutte) sono soggette, per esempio, ad essere
compiute sotto costrizione, o per caso. In molti casi del genere possiamo anche dire che l’atto era nullo.
Caratteristiche di questo genere sarebbero catalogate sotto il titolo circostanze attenuanti, oppure fattori
riducenti o abroganti la responsabilità dell’agente.

In quanto enunciati i nostri performativi ereditano anche certi altri tipi di malattie che colpiscono tutti gli
enunciati. Un enunciato performativo sarà, ad esempio, in un modo particolare vacuo o nullo se
pronunciato da un attore sul palcoscenico, o se inserito in una poesia. Ciò si applica in modo analogo ad
ogni e qualsiasi enunciato. In tali circostanze il linguaggio viene usato in modi parassitici del suo uso
normale -modi che rientrano nella teoria degli eziolamenti del linguaggio. I nostri enunciati performativi
devono essere intesi come proferiti in circostanze ordinarie.

VIII. Atti locutori, illocutori e perlocutori

Nell’intraprendere il progetto di trovare una lista di verbi performativi espliciti non sarebbe stato sempre
facile distinguere gli enunciati performativi dai constativi, e quindi considerare quanti sensi vi sono in cui
dire qualcosa è fare qualcosa, o nel dire qualcosa si fa qualcosa, e anche col dire qualcosa si fa qualcosa. Si
è allora cominciato a distinguere un intero gruppo di sensi di fare qualcosa che sono tutti compresi quando
diciamo che dire qualcosa è fare qualcosa -il che include emettere certi suoni, pronunciare certe parole in
una certa costruzione, e pronunciarle con un certo significato. Chiamo l’atto di dire qualcosa l’esecuzione di
un atto locutorio.

Esistono tre distinzioni tra l’atto fonetico, l’atto fatico, e l’atto retico. L’atto fonetico è l’atto di emettere
certi suoni. L’atto fatico è il pronunciare certi vocaboli o parole, cioè suoni di certi tipi. L’atto retico è
l’esecuzione dell’atto di usare questi vocaboli con un certo senso. Quindi <egli ha detto “il gatto è sul
cuscino”>, riferisce un atto fatico, mentre “egli ha detto che il gatto era sul cuscino” riferisce un atto retico.

- Per eseguire un atto fatico devo eseguire un atto fonetico, o nell’eseguire l’uno eseguo l’altro. Ma
non è vero l’inverso, perché se una scimmia emette un suono indistinguibile da “va” questo non è
tuttavia un atto fatico.
- Nella definizione dell’atto fatico sono state considerate in blocco due cose: il lessico e la
grammatica. Ma un’altra questione che si presenta è l’intonazione.
- L’atto fatico, come quello fonetico, è fondamentalmente mimabile, riproducibile. Si può mimare
non soltanto l’asserzione tra virgolette “ella ha de bei capelli”, ma anche il fatto più complesso che
egli l’ha detta in questo modo: “ella ha dei bei CAPELLI” (spallucce).

Ma l’atto retico è quello di cui riferiamo, nel caso delle asserzioni, dicendo “egli ha detto che il gatto era sul
cuscino”. Questo è il cosiddetto discorso indiretto. Se il senso o il riferimento non sono considerati chiari,
allora l’insieme o la parte in questione devono essere messi tra virgolette. <Egli ha detto che dovevo andare
dal “ministro”. Tuttavia non possiamo usare sempre “ha detto che” con facilità: se egli avesse usato il modo
imperativo, diremmo “ha detto di”, “ha consigliato di”, oppure useremmo locuzioni equivalenti come “ha
detto che dovevo”.

Il senso e il riferimento sono atti eseguiti nell’eseguire l’atto retico. È chiaro che possiamo eseguire un atto
fatico che non sia un atto retico, ma non viceversa. Infatti possiamo ripetere un’osservazione di qualcun
altro, oppure possiamo leggere una frase latina senza conoscere il significato delle parole.

Non importa sapere quando un fema o un rema sia lo stesso che un altro, nel senso del ‘tipo’. Ma è
importante ricordare che lo stesso fema può essere usato in diverse occasioni di enunciazione con un senso
e un riferimento diversi, e quindi essere un rema diverso. Quando femi diversi sono usati con lo stesso
senso e lo stesso riferimento potremmo parlare di atti reticamente equivalenti ma non dello stesso rema o
degli stessi atti retici.

Il fema è un’unità di linguaggio: il suo difetto è di essere un nonsenso -senza significato. Ma il rema è
un’unità di discorso; il suo difetto tipico è di essere vago o nullo o oscuro.

Sebbene questi problemi, questi non gettano alcuna luce sul problema della contrapposizione tra
l’enunciato performativo e quello constativo. Per esempio, sarebbe possibile, riguardo ad un enunciato “sta
per caricare”, rendere chiaro “ciò che stavamo dicendo” nel proferire l’enunciato e tuttavia non aver
affatto chiarito se nel proferire l’enunciato ho eseguito o meno l’atto di avvertire. Può essere chiaro ciò che
si intende con “sta per caricare” oppure con “chiudi la porta”, ma non essere chiaro se è inteso come
un’asserzione o un avvertimento, etc.

Eseguire un atto locutorio è in generale anche eseguire un atto illocutorio. Quindi nell’eseguire un atto
locutorio eseguiremo anche un atto come: fare una domanda o rispondere ad essa; fornire un’informazione
o un’assicurazione o un avvertimento; annunciare un verdetto o un’intenzione; pronunciare una condanna;
assegnare una nomina o fare un appello o una critica; compiere un’identificazione o dare una descrizione e
molti altri. Il problema è il numero di sensi diversi di un’espressione così vaga come “in che modo lo stiamo
usando”. Quando eseguiamo un atto locutorio, usiamo il linguaggio: ma in che modo?

Vi sono numerosissime funzioni del linguaggio o modi in cui lo usiamo, e fa una gran differenza in quale
modo e in quale senso lo stavamo “usando” in quell’occasione. Fra una grande differenza se stavamo
consigliando, o soltanto suggerendo, o ordinando, promettendo oppure annunciando un’intenzione vaga.
Questi problemi penetrano un po’ nella grammatica ma noi li dibattiamo in termini quali il decidere se certe
parole avevano la forza di una domanda oppure avrebbero dovuto essere prese come una valutazione e
così via.
Si è spiegato l’esecuzione di un atto come l’esecuzione di un atto illocutorio, cioè l’esecuzione di un atto nel
dire qualcosa in contrapposizione all’esecuzione di un atto di dire qualcosa: si chiama l’atto eseguito
illocuzione e si fa riferimento a una teoria delle forze illocutorie.

I filosofi hanno trascurato questo studio per troppo tempo, discutendo tutti i problemi come problemi di
‘uso locutorio’ e di fatto la ‘fallacia descrittiva’ ha origine dallo scambiare un problema del primo genere
per un problema del secondo. Possiamo usare la parola con cui ci riferiamo al significato anche in
riferimento alla forza illocutoria. Ma si vuole distinguere la forza dal significato nel senso in cui il significato
è equivalente al senso e al riferimento.

Inoltre abbiamo un esempio dei diversi usi dell’espressione “usi del linguaggio” o “uso di una frase”, etc. -
uso è un termine ambiguo e vasto, proprio come il termine significato-. Possiamo chiarire “l’uso di una
frase”, nel senso dell’atto locutorio, senza tuttavia accennare al suo uso nel senso di un atto illocutorio.

Prima confrontiamo sia l’atto locutorio sia l’atto illocutorio con un terzo genere di atto ancora. C’è un
ulteriore senso in cui eseguire un atto locutorio, e in esso un atto illocutorio, può anche essere eseguire un
atto di un altro genere. Dire qualcosa produrrà spesso certi effetti sui sentimenti, i pensieri, o le azioni di chi
sente: e può essere fatto con lo scopo di produrre questi effetti; e possiamo allora dire che chi parla ha
eseguito un atto definibile con un termine che fa riferimento o solo indirettamente, o anche per nulla,
all’esecuzione dell’atto locutorio o illocutorio. Chiameremo quest’atto perlocutorio, ovvero una
perlocuzione.

Possiamo distinguere l’atto locutorio “egli ha detto che...” dall’atto illocutorio “egli ha sostenuto che…” e
dall’atto perlocutorio “egli mi ha convinto che…”.

Gli effetti consequenziali non comprendono un genere particolare di effetti consequenziali, quelli ottenuti,
per esempio, a titolo di impegni per chi parla come nel promettere, che rientrano nell’atto illocutorio.

- Prendiamo l’atto illocutorio e confrontiamolo con gli altri due. In filosofia c’è una costante tendenza
a elidere quest’atto in favore dell’uno o dell’altro degli altri due. Tuttavia esso è distinto da
entrambi. Parlare dell’”uso del linguaggio per sostenere una tesi o per avvertire” somiglia al parlare
dell’”uso del linguaggio per persuadere, provocare, allarmare”, tuttavia si può dire che il primo sia
convenzionale, nel senso che lo si potrebbe per lo meno rendere esplicito attraverso la formula
performativa. Così possiamo dire “io sostengo che” o “io ti avverto che” ma non possiamo dire “io
ti convinco che” o “io ti allarmo che”. Inoltre, possiamo chiarire del tutto se qualcuno ha sostenuto
una tesi o meno senza accennare alla questione se ha convinto qualcuno o no.
- L’espressione “uso del linguaggio” può riferirsi ad altre questioni ancora più disparate che gli atti
illocutori e perlocutori. Ad esempio, possiamo parlare dell’”uso del linguaggio” per qualcosa, ad
esempio per scherzare; e possiamo usare “in” in un modo diverso dall’ “in” illocutorio; o ancora
possiamo parlare di “un uso poetico del linguaggio” distinto dall’”uso del linguaggio in poesia”.
Questi riferimenti all’”uso del linguaggio” non hanno niente a che fare con l’atto illocutorio. Vi sono
eziolamenti, usi parassiti, etc., vari usi “non seri” e “non pienamente normali”. Le condizioni
normali di riferimento possono essere sospese.
- Inoltre, ci possono essere delle cose che “facciamo” in una qualche connessione col dire qualcosa
che non sembrano rientrare esattamente in nessuna di queste classi approssimativamente definite,
oppure in più di una; ma comunque al principio noi non avvertiamo così chiaramente che esse sono
tanto distanti dai tre atti come lo sarebbe lo scherzare o lo scrivere poesia. Per esempio, l’insinuare,
sembra comprendere una qualche convenzione, come nell’atto illocutorio; ma non possiamo dire
“io insinuo…”, e sembra che si tratti di un effetto ottenuto con abilità più che di un semplice atto.
Un altro esempio è manifestare un’emozione. Possiamo manifestare emozione nel o col proferire
un enunciato, come quando imprechiamo. Potremmo dire che usiamo l’imprecare per sfogarci.
L’atto illocutorio è un atto convenzionale: un atto computo in quanto conforme ad una
convenzione.
- Gli atti di tutti e tre i nostri generi, dal momento che costituiscono il compiere delle azioni,
richiedono che si tengano in debito contro tutti i mali cui sono esposte tutte le azioni. Dobbiamo
essere preparati a distinguere tra “l’atto di fare x”, cioè di riuscire a fare x, e “l’atto di tentare di
fare x”.

Nel caso delle illocuzioni dobbiamo essere pronti a tracciare la distinzione necessaria tra:

a) L’atto di tentare o di tendere a eseguire un certo atto illocutorio, e


b) L’atto di riuscire a compiere con successo o consumare o portare a termine tale atto.

Questa distinzione è un luogo comune della teoria del nostro linguaggio relativo all’”azione” in generale.
Ma in precedenza l’attenzione è attirata sulla sua particolare importanza in connessione con i performativi:
è sempre possibile cercare di ringraziare o informare qualcuno ma fallire, perché egli non ascolta e così via.
Questa distinzione si presenterà anche per gli atti locutori, ma qui gli insuccessi non saranno infelicità, ma
piuttosto nell’articolare le parole, nell’esprimersi chiaramente, ecc.

- Dal momento che i nostri atti sono azioni, dobbiamo sempre ricordare la distinzione tra il produrre
effetti o conseguenze avendone l’intenzione o senza volere, ricordando che 1. quando chi parla
intende produrre un effetto, esso può non aver luogo, e che 2. quando egli intende non produrlo,
esso può aver luogo. Per far fronte alla complicazione 1. ci appelliamo alla distinzione tra tentativo
e successo; per far fronte alla complicazione 2. ci appelliamo ai normali dispositivi linguistici del
negare la responsabilità.
- Inoltre dobbiamo riconoscere che in quanto azioni esse possono essere cose che noi non abbiamo
precisamente fatto, nel senso che le abbiamo fatte sotto costrizione o in qualche altro modo del
genere.
- Rispondiamo all’obiezione riguardo ai nostri atti illocutori e perlocutori -vale a dire che la nozione di
atto non è chiara- con una teoria generale dell’azione. Abbiamo l’idea di un atto come di una cosa
fisica fissa che facciamo. Ma
a. L’atto illocutorio e persino l’atto locutorio comportano delle convenzioni: confrontateli con
l’atto di rendere omaggio. È un omaggio soltanto perché è convenzionale e viene reso soltanto
perché è convenzionale. Confrontate anche la distinzione tra calciare una parete e calciare un
goal.
b. L’atto perlocutorio include sempre delle conseguenze “col fare x stavo facendo y”:
introduciamo sempre una serie più o meno lunga di conseguenze, alcune delle quali possono
essere “non intenzionali”. Non c’è alcuna restrizione all’atto fisico minimo. Il fatto che noi
possiamo far rientrare una serie arbitrariamente lunga di quelle che potrebbero anche venir
chiamate le “conseguenze” è o dovrebbe essere un luogo comune fondamentale della teoria
del nostro linguaggio riguardo tutta l’azione in generale.

IX. Distinzione tra atti illocutori e perlocutori

Si sono avute alcune difficoltà nel stabilire se un qualche enunciato fosse performativo o meno, o in
ogni caso puramente performativo. È sembrato opportuno ritornare ai principi fondamentali e
considerare quanti sensi ci possono essere in cui dire qualcosa è fare qualcosa, o nel dire qualcosa
facciamo qualcosa, o persino col dire qualcosa facciamo qualcosa.

Innanzitutto abbiamo distinto un gruppo di cose che facciamo nel dire qualcosa che definiamo atto
locutorio, che equivale a pronunciare una certa frase con un certo senso e riferimento. In secondo
luogo, abbiamo detto che eseguiamo anche degli atti illocutori quali informare, ordinare, avvertire,
impegnarsi a fare qualcosa, cioè enunciati che hanno una certa forza -convenzionale-. In terzo luogo
possiamo anche eseguire atti perlocutori ciò che otteniamo o riusciamo a fare col dire, come
convincere, persuadere, trattenere, sorprendere o ingannare. Abbiamo qui tre diversi sensi o
dimensioni dell’”uso di una frase” o dell’”uso del linguaggio”. Tutti questi tre generi di “azioni” sono
soggetti in quanto azioni, alle difficoltà e riserve riguardo al tentativo distinto di successo, all’essere
intenzionali e così via.

Dobbiamo distinguere l’atto illocutorio da quello perlocutorio: ad esempio dobbiamo distinguere “nel
dire quella cosa lo stavo avvertendo” da “col dire quella cosa l’ho convinto, o l’ho sorpreso, o l’ho fatto
smettere”.

È certo che il senso perlocutorio di “compiere un’azione” deve in qualche modo essere escluso in
quanto non pertinente rispetto al senso in cui un enunciato, se il proferirlo è “compiere un’azione”, è
un performativo. Infatti è chiaro che qualunque atto perlocutorio può essere portato a termine in
circostanze abbastanza particolari attraverso il proferimento di qualsiasi enunciato si voglia.

Dobbiamo tracciare quindi un limite tra l’azione che compiamo e le sue conseguenze. Ora, se l’azione
non è di quelle che consistono nel dire qualcosa ma è un’azione “fisica” non convenzionale, questa è
una faccenda complicata. Noi possiamo classificare, per gradi, una parte sempre maggiore di ciò che
inizialmente è incluso al “nostro atto” come in realtà semplici conseguenze.

- La terminologia ci offre un aiuto. Infatti con le azioni fisiche quasi sempre tendiamo a denominare
l’azione non in termini di ciò che qui chiamiamo atto fisico minimo, ma in termini che comprendono
una gamma maggiore o minore di ciò che si potrebbero chiamare le sue conseguenze naturali.
Non soltanto noi non usiamo la nozione di atto fisico minimo, ma non sembriamo disporre di una
classe di nomi che distingua gli atti fisici dalle conseguenze; laddove per ciò che riguarda gli atti di
dire qualcosa il repertorio dei nomi per gli atti B sembra designato a indicare una frattura in un
certo punto regolare tra l’atto -il nostro dire qualcosa- e le sue conseguenze -che di solito non sono
il dire qualcosa-.
- Sembra che traiamo un qualche aiuto dalla natura particolare degli atti di dire qualcosa: infatti nel
caso delle azioni fisiche persino l’azione fisica minima, che stiamo cercando di separare dalle
conseguenze, essendo un movimento del corpo è in pari materia almeno con molte delle sue
conseguenze immediate e naturali, mentre, in qualunque cosa possano consistere le conseguenze
immediate e naturali di un atto di dire qualcosa, non si tratta di ulteriori atti di dire qualcosa.

le conseguenze introdotte con la terminologia delle perlocuzioni non sono in realtà conseguenze delle
locuzioni? Nel cercare di separare tutte le conseguenze, non dovemmo risalire dritti oltre l’illocuzione fino
alla locuzione? Naturalmente si è ammesso che eseguire un atto illocutorio è necessariamente eseguire un
atto locutorio. Cosicché la separazione tra azioni fisiche e atti di dire qualcosa non è completa da tutti i
punti di vista. Ma sebbene questo sembra essere importante in certi contesti, non sembra impedirci di
tracciare un limite là dove ce ne serve uno, cioè tra il completamento dell’atto illocutorio e tutte le
conseguenze che ne seguono. E inoltre, dobbiamo rifiutare l’idea che l’atto illocutorio sia una conseguenza
dell’atto locutorio, e anche l’idea che ciò che viene introdotto dalla terminologia delle illocuzioni sia un
riferimento addizionale ad alcune delle conseguenze delle locuzioni.

L’emissione dei suoni può essere una conseguenza fisica del movimento degli organi vocali, del respiro,
etc.: ma il pronunciare una parola non è una conseguenza dell’emettere un suono, fisica o di altro genere.
Per questo anche gli atti fatici e retici, non sono conseguenze degli atti fonetici. Ciò che introduciamo
davvero mediante l’uso della terminologia delle illocuzioni è un riferimento non alle conseguenze della
locuzione, ma alle convenzioni della forza illocutoria in relazione alle particolari circostanze dell’occasione
in cui viene proferito l’enunciato.
Possiamo avere delle speranze di isolare l’atto illocutorio da quello perlocutorio in quanto questo produce
delle conseguenze, e che non è esso stesso una conseguenza dell’atto locutorio. Ora però, l’atto illocutorio
in quanto distinto da quello perlocutorio è connesso con la produzione di effetti in determinati sensi:

1. A meno che non si ottenga un certo effetto, l’atto illocutorio non sarà eseguito facilmente, con
successo. Questo non equivale a dire che l’atto illocutorio consiste nell’ottenere un certo effetto.
Generalmente consiste nell’ottenere la comprensione del significato e della forza della locuzione.
Così l’esecuzione di un atto illocutorio include l’assicurarsi la ricezione.
2. L’atto illocutorio entra in vigore in certi modi, diversi dal produrre delle conseguenze nel senso di
provocare degli stati di cose nel modo “normale”, cioè cambiamenti nel corso naturale degli eventi.
3. Abbiamo detto che molti atti illocutori sollecitano per convenzione una risposta o un seguito. Così
un ordine sollecita la risposta dell’obbedienza e una promessa quella del suo mantenimento. La
risposta o il seguito possono essere a senso unico, o a due sensi: perciò possiamo distinguere tra
sostenere, ordinare, promettere, suggerire, chiedere di, e offrire, chiedere se e chiedere “sì o no?”.
Se questa risposta viene accordata ciò richiede un secondo atto da parte di chi parla.

Così abbiamo qui tre modi in cui gli atti illocutori sono legati agli effetti: assicurarsi la ricezione, entrare in
vigore, e sollecitare una risposta; e tutti questi sono distinti dalla produzione di effetti che è caratteristica
dell’atto perlocutorio.

L’atto perlocutorio può essere, o il raggiungimento di un obiettivo perlocutorio o la produzione di un


seguito perlocutorio. Così l’atto di avvertire può raggiungere il suo obiettivo perlocutorio di mettere all’erta
e avere anche il seguito perlocutorio di allarmare, e un’argomentazione contro un’opinione può non
riuscire a raggiungere il suo obiettivo. Ciò che è l’obiettivo perlocutorio di un’illocuzione può essere il
seguito di un’altra. Alcuni atti perlocutori consistono sempre nella produzione di un seguito, vale a dire
quelli in cui non c’è alcuna forza illocutoria.

È caratteristico degli atti perlocutori che la risposta ottenuta, o il seguito, possano essere ottenuti, con
mezzi non locutori: così l’intimidazione può essere ottenuta brandendo un bastone o puntando un fucile.
Persino nei casi del convincere, persuadere, far obbedire e far credere possiamo ottenere la risposta non
verbalmente.

Più importante è chiedersi se queste risposte e questi seguiti possano essere ottenuti on mezzi non
convenzionali. Possiamo certamente ottenere gli stessi seguiti perlocutori con mezzi non convenzionali o
anconvenzionali; così posso persuadere qualcuno facendo dondolare dolcemente un grosso bastone o
accennando gentilmente al fatto che i suoi anziani genitori sono ancora nel Terzo Reich. Rigorosamente
parlando, non si può avere un atto illocutorio a meno che i mezzi impiegati non siano convenzionali. Ma è
difficile dire dove cominciano e dove finiscono le convenzioni; perciò posso avvertire qualcuno agitando un
bastone o posso donargli qualcosa semplicemente mettendogliela in mano. Ma se io avverto qualcuno
agitando un bastone, allora il mio agitare il bastone è un avvertimento. Difficoltà si presentano anche
riguardo al dare un consenso tacito a un qualche accordo, al promettere tacitamente, o al votare per alzata
di mano. Molti atti illocutori non possono essere eseguiti se non dicendo qualcosa. Questo è vero
dell’asserire, dell’informare, del sostenere; è vero della gran maggioranza dei verdettivi e degli espositivi a
differenza di molti esercitivi e commissivi.

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