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Capitolo 3

Una prima analisi della bilancia


commerciale

3.1 Introduzione
In questo capitolo introduciamo un approccio di equilibrio
parziale in cui l’analisi della bilancia dei pagamenti si riduce a quella
commerciale. L’assenza di flussi finanziari agevola alquanto lo studio
della relazione tra il tasso di cambio e le esportazioni nette. Nella
prima parte di questo capitolo prenderemo in esame l’approccio delle
elasticità. Secondo questa teoria il tasso di cambio è determinato solo
dai flussi valutari dovuti al solo commercio internazionale. Si tratta di
una visione oramai anacronistica, che trova scarso riscontro nella
realtà odierna se non in alcuni paesi in via di sviluppo che non offrono
alcuna attrattiva agli investimenti internazionali. In questa visione il
tasso di cambio è determinato dall’incontro tra la domanda di valuta,
da parte degli importatori, e l’offerta degli esportatori. La banca
centrale può svolgere un ruolo attivo su entrambi i lati del mercato se
vuole controllare il valore di equilibrio. Altrimenti sono gli operatori
privati che determinano l’andamento del cambio. Naturalmente la
domanda di valuta dipende dalle importazioni che, a loro volta, sono
funzione del reddito nazionale nonché della competitività. I vantaggi
comparati, come pure delle condizioni dei mercati di sbocco della
produzione nazionale, determinano le esportazioni e l’offerta di
valuta. In questa prospettiva l’approccio delle elasticità vuole definire
in modo rigoroso il legame che esiste tra tasso di cambio e bilancia
commerciale, tenendo ferma ogni altra variabile economica. In questo
capitolo, dopo aver descritto il funzionamento di questo semplice
mercato valutario, illustreremo le famose condizioni di Marshall-
Lerner, che escludono casi degeneri, in cui una svalutazione provoca
un ulteriore deprezzamento con una ripercussione a catena che genera
2 Una prima analisi della bilancia commerciale

un tipico equilibrio instabile. Tuttavia, diversi episodi hanno mostrato


come le condizioni sulle elasticità non sembrano essere rispettate, per
lo meno nel breve periodo. In qualche caso una svalutazione genera un
miglioramento nella bilancia commerciale solo dopo molti mesi, se
non anni. In questo ottica ci si è chiesti quando e quanto una
variazione dei prezzi interni o del tasso di cambio si rifletta nei
mercati di sbocco. Questo è il problema del pass-through, che
esplicita e quantifica i meccanismi di propagazione degli shock a
livello internazionale. Si tratta di comprendere se le fluttuazioni dei
tassi si riverberano sui prezzi dei beni nei diversi mercati di sbocco. In
tale ambito risulta essenziale analizzare le strategie di pricing adottate
dalle imprese multinazionali. La New Trade Theory fornisce degli
spunti interessanti al riguardo. Abbandonata la comoda ipotesi di
concorrenza perfetta, si può utilizzare un modello di concorrenza
monopolistica per vedere come molte imprese preferiscono realizzare
delle strategie di local currency pricing stability. Le aziende
mantengono stabile il prezzo di vendita nella valuta del mercato di
sbocco rendendo incompleto, se non nullo, il pass-through del tasso
di cambio e generando effetti inattesi nei meccanismi di trasmissioni
degli shock reali e nominali.

3.2 L’approccio delle elasticità


Abbiamo detto che il tasso di cambio può essere studiato
mediante un semplice modello di equilibrio parziale, che
rappresentiamo nella figura 3.1 ove sull’asse delle ascisse viene
indicata la valuta di riferimento nei mercati mondiali1. La curva di
domanda ha l’usuale inclinazione negativa ed è generata dagli
importatori, che hanno bisogno di valuta per comprare beni e servizi
nei mercati esteri. La richiesta di valuta è pari a 𝑃𝐵 M ovvero il prezzo
dei beni importati dal paese B per la quantità M2. Le importazioni
dipendono negativamente dal prezzo dei beni esteri espressi in moneta
nazionale (𝑆𝑃𝑀 ), per cui un aumento del tasso di cambio, ceteris
paribus, aumenta il prezzo dei beni importati riducendone la

1 Di solito dollari eccetto, ovviamente, gli USA.


2 Soltanto in questo capitolo il simbolo M rappresenta le importazioni. Nel seguito
sarà utilizzato per indicare lo stock di moneta, in quanto prenderemo in esame solo
le esportazioni nette.
Una prima analisi della bilancia commerciale 3

domanda. L’offerta di valuta è funzione della quantità esportata X


nonché dei prezzi interni P. Il valore delle esportazioni in valuta è pari
a (𝑃 𝑋 X)/S. Una svalutazione riduce il prezzo dei beni nazionali
venduti nei mercati esteri. L’effetto è duplice. Da una parte l’aumento
di S riduce il valore delle esportazioni. Dall’altra, i beni domestici
sono più competitivi nei mercati internazionali e questo può far
aumentare il volume delle esportazioni. In questo contesto la domanda
nei paesi esteri assume un ruolo decisivo. Se fosse completamente
rigida, la variazione del tasso di cambio non produce nessun effetto
sulla quantità delle esportazioni ed il loro valore in valuta è inferiore.
In questo caso l’offerta di valuta diminuisce all’aumentare di S e la
curva si flette all’indietro, come mostrato nella parte superiore della
figura 3.1.

S
B
S1 𝑃 𝑋 𝑋(𝑆)
𝑂
𝑆

S0
A D 𝑃𝐵 𝑀(𝑆)

valuta
Figura 3.1 Equilibri del tasso di cambio

Se, invece, la domanda all’estero è sufficientemente elastica


allora l’aumento della quantità esportata compensa la perdita di valore
e si genera una maggiore disponibilità di valuta. Si tratta del tratto
“normale” della funzione d’offerta ovvero quello con inclinazione
positiva. È però evidente che in questa situazione si possono generare
anche più di un equilibrio. Quello indicato dal punto A, con tasso di
cambio S0, è stabile. Una piccola perturbazione produce gli usuali
4 Una prima analisi della bilancia commerciale

aggiustamenti nelle quantità. Ad esempio, se S > S0 l’offerta di valuta


è maggiore della domanda e questo provoca un apprezzamento della
moneta nazionale che riporta l’equilibrio in A. Al contrario, l’altro
equilibrio indicato dal punto B è instabile perché un piccolo
deprezzamento produrrebbe un eccesso di domanda, che spinge per
un’ulteriore svalutazione innescando un processo senza fine. Se,
invece, S < S1 la dinamica porta il sistema verso l’equilibrio stabile. È
quindi fondamentale capire in quale situazione ci si trova, se il sistema
economico è caratterizzato da un equilibrio stabile o instabile ed è
evidente che ciò dipende proprio dalle elasticità.
Per definire le condizioni di stabilità introduciamo un modello
con due paesi e due beni. C’è perfetta specializzazione, per cui ogni
paese produce, a prezzi costanti, un bene che non è offerto dall’altro.
Vediamo allora qual è l’effetto di una variazione del tasso di cambio
sul commercio, tralasciando ogni altra variabile macroeconomica. In
particolare vogliamo studiare sotto quali condizioni un deprezzamento
del tasso di cambio provoca un miglioramento della bilancia
commerciale. Le esportazioni nette, in termini nominali, sono pari a:

𝑇𝐵 = 𝑃 𝑋 𝑋(𝑆) − 𝑆𝑃𝐵 𝑀(𝑆), (3.1)

ove 𝑃 𝑋 è il prezzo (esogeno) del bene esportato, 𝑃𝐵 è quello del bene


importato espresso in valuta estera, mentre S è il tasso di cambio
nominale. Nella (3.1) il Trade Balance è espresso in moneta
nazionale, ma può anche essere calcolato in termini reali:

𝑃𝑋 𝑆𝑃𝐵
𝑁𝑋 = 𝑋(𝑆) − 𝑀(𝑆), (3.2)
𝑃 𝑃

dove P è il prezzo (esogeno) del bene nazionale. Come vedremo in


seguito è possibile che i produttori di A applichino una
discriminazione di prezzo con 𝑃 ≠ 𝑃 𝑋 . Infine, la bilancia
commerciale può essere definita anche in valuta estera:

𝑃𝑋
̃ =
𝑇𝐵 𝑋(𝑆) − 𝑃𝐵 𝑀(𝑆) . (3.3)
𝑆
Una prima analisi della bilancia commerciale 5

Per l’ipotesi di prezzi costanti possiamo calcolare la variazione


della bilancia commerciale, in termini reali, in seguito ad una
variazione del tasso di cambio:

𝑑𝑁𝑋 𝑃 𝑋 𝜕𝑋 𝑃𝑀 𝑆𝑃𝐵 𝜕𝑀
= − 𝑀− =
𝑑𝑆 𝑃 𝜕𝑆 𝑃 𝑃 𝜕𝑆
𝑃𝐵 𝑃𝑋𝑋
= 𝑀 𝜂 − 1 + 𝜂𝑀 , (3.4)
𝑃 𝑆𝑃𝐵 𝑀 𝑋

dove le elasticità dell’offerta e della domanda sono rispettivamente:

𝜕𝑋 𝑆 𝜕𝑀 𝑆
𝜂𝑋 = , 𝜂𝑀 = .
𝜕𝑆 𝑋 𝜕𝑆 𝑀

È allora evidente che la (3.4) è positiva solo se il termine nella


parentesi quadra è anch’esso positivo ovvero:

𝑑𝑁𝑋 𝑃𝑋𝑋
> 0 ↔ 𝐵 𝜂𝑋 + 𝜂𝑀 > 1. (3.5)
𝑑𝑆 𝑆𝑃 𝑀

Una svalutazione comporta un miglioramento delle


esportazioni nette solo se la condizione nella (3.5) è soddisfatta3. Se la
bilancia commerciale è inizialmente in pareggio (𝑃 𝑋 𝑋 = 𝑆𝑃𝐵 𝑀) si
ricava la nota condizione di Marshall-Lerner: un deprezzamento del
tasso di cambio migliora la bilancia commerciale solo se la somma
dell’elasticità delle importazioni e delle esportazioni rispetto al
cambio è maggiore dell’unità. Naturalmente ci può essere uno
sbilanciamento tra export ed import. Dalla (3.4) si può vedere che una
condizione sufficiente per migliorare il commercio internazionale
quando il cambio si deprezza è 𝜂𝑀 > 1 . Il comportamento “perverso”
della bilancia commerciale avviene solo quando le importazioni
rispondono poco alla variazione del tasso di cambio. Se poi c’è un
deficit nelle partite correnti (𝑃 𝑋 𝑋 < 𝑆𝑃𝐵 𝑀) l’elasticità delle
esportazioni deve essere elevata per avere la relazione “normale” tra

3 Partendo delle definizioni di bilancia commerciale (1) e (3) si può trovare la (5)
nel caso in cui l’export netto è nullo, ma non in presenza di squilibri nelle partite
correnti.
6 Una prima analisi della bilancia commerciale

tasso di cambio ed export netto. Si può vedere il motivo di questa


condizione nella prima parte della (3.4). Il primo ed il terzo addendo
sono positivi, poiché la domanda del bene nazionale da parte dei non
residenti aumenta con il deprezzamento (X/S > 0), mentre quella del
bene estero diminuisce (M /S < 0)4. Questo è l’effetto quantità che
dipende dalla variazione del prezzo relativo aumenta la produzione nel
paese che è diventato competitivo. Al contrario, l’addendo intermedio
ha segno opposto. Ciò è dovuto al fatto che lo stock iniziale di beni
comprati all’estero diviene più caro per l’aumento del tasso di cambio.
Questo è l’effetto prezzo ed è negativo. Si può anche comprendere
perché un surplus di bilancia commerciale rende meno stringente la
condizione sulle elasticità. Se le importazioni non sono rilevanti, è
sufficiente che l’export netto reagisca in maniera meno che
proporzionale ad una variazione del tasso di cambio, proprio perché
l’effetto prezzo è pure piccolo. Invece, un forte deficit commerciale
richiede che la somma delle elasticità sia grande per verificare la
condizione (3.5), in quanto una data variazione del tasso di cambio
deve stimolare tanto l’export netto. Questo potrebbe essere la
situazione di un sistema economico come quello italiano, in cui le
materie prime incidono molto sui saldi commerciali. Una svalutazione
può migliorare il conto corrente solo se le esportazioni nazionali
ricevono un forte impulso, tale da compensare il maggiore costo della
bolletta energetica.
A questo punto possiamo anche chiederci quali siano le
conseguenze dell’abbandono dell’ipotesi, alquanto restrittiva, dei
prezzi fissi. Infatti, è lecito presumere che le tecnologie produttive
esibiscano dei rendimenti di scala alfine decrescenti generando le
usuali curve d’offerta. Quindi, all’aumentare delle quantità prodotte,
aumentano pure i costi marginali ed i prezzi dei beni. In questo caso la
condizione di Marshall Lerner diviene meno stringente, poiché la
maggior domanda di esportazioni provoca un aumento del prezzo del
bene venduto all’estero e, analogamente, la riduzione dell’import
riduce il prezzo del bene importato. Formalmente:

𝑑𝑁𝑋 𝑃 𝑋 𝑋 𝜕𝑃 𝑋 𝜕𝑋 𝑃𝐵 𝑆𝑃𝐵 𝑆𝑀 𝜕𝑃𝐵 𝜕𝑀


=( + ) − 𝑀−( + ) (3.6)
𝑑𝑆 𝑃 𝑃 𝜕𝑋 𝜕𝑆 𝑃 𝑃 𝑃 𝜕𝑀 𝜕𝑆

4 Tralasciamo il caso di una domanda perfettamente rigida.


Una prima analisi della bilancia commerciale 7

che è sempre maggiore della (3.4) nel caso di funzioni d’offerta


crescenti. In conclusione se la (3.4) o la (3.6) sono soddisfatte la
bilancia commerciale migliora in seguito ad un deprezzamento del
tasso di cambio. Tuttavia, talvolta il saldo delle partite correnti non è
migliorato subito, ma si è dovuto attendere un periodo di tempo, anche
piuttosto lungo, prima di vedere apparire i fenomeni attesi. In questi
casi si parla di curve a forma di J nel saldo della bilancia commerciale
(Magee, 1973, Rose e Yellen, 1989, Marwah e Klein 1996, Bahami-
Oskooee e Goswami, 2003) o addirittura a forma di S (Backus et al.,
1994, Senhadij, 1998). Vediamo due tra i casi più famosi. Il primo si
riferisce ad un regime di cambio fisso dell’era di Bretton Woods,
mentre il secondo è relativo al tasso di cambio flessibile adottato dagli
Stati Uniti durante gli anni ottanta.
Partiamo dalla svalutazione della sterlina inglese avvenuta nel
novembre del 1967, quando il rapporto di cambio passò da 2.8 a 2.4
dollari per sterlina. Ricordiamo che la moneta britannica aveva già
vissuto un periodo travagliato tre anni prima. Il motivo era dovuto ai
cattivi fondamentali. Il crescente disavanzo pubblico era voluto dal
governo laburista che, per fronteggiare la crisi valutaria, aveva
adottato una politica monetaria restrittiva e introdotto nuove imposte
sulle importazioni. Nel 1964 quei provvedimenti avevano convinto gli
speculatori dal desistere dal loro attacco ed il tasso di cambio era
rimasto stabile al livello deciso agli albori di Bretton Woods.
La situazione è ben diversa tre anni dopo. Proprio nei primi
mesi del 1967 si era registrato un forte disavanzo nelle partite visibili.
Ciò era dovuto ancora all’eccessiva spesa pubblica che aveva spinto la
domanda interna e l’import. Gli operatori erano oramai convinti che
fosse giunto il momento di rivedere la parità con il dollaro fissata nel
lontano 1950. I mercati finanziari americani e inglesi erano ben
integrati e fu facile prendere posizione contro la sterlina. Ad ogni
modo la decisione degli speculatori fu alquanto coraggiosa, perché gli
accordi di Bretton Woods prevedevano una revisione delle parità solo
in seguito a fatti straordinari e non c’erano stati in precedenza molti
casi simili. Tra le principali monete, il marco tedesco era stato
rivalutato del 5% nel 1961, ma la revisione fu giustificata dal fatto che
il tasso di cambio, stabilito alla fine degli anni ‘40, non era più
compatibile con l’eccezionale crescita dell’economia germanica
8 Una prima analisi della bilancia commerciale

avvenuta in quel decennio. Al contrario, le svalutazioni francesi del


1957 e 1958 erano dovute a gravi problemi interni ed esterni che
portarono alla nascita della quinta repubblica.

Figura 3.2 Partite correnti in Gran Bretagna 1967-70


(Office for National Statistics)

In Gran Bretagna la situazione era ben diversa. Era evidente a


tutti che si trattava di un attacco speculativo dovuto ai cattivi
fondamentali dell’economia britannica. Inizialmente il governo tentò
una difesa ed il primo ministro Harold Wilson negò la possibilità di
una svalutazione. L’opposizione guidata da Edward Heath la chiese
per ben venti volte, ma il governo si rifiutò di prendere in
considerazione questa possibilità. Durante tutto il 1967 si registrò un
forte incremento delle vendite speculative sulla sterlina e la Bank of
England fu costretta ad accettare una forte perdita nelle sue riserve
valutarie, pari a quasi 200 milioni di sterline. La decisione di svalutare
di oltre il 14% fu presa il 18 novembre e giustificata da Wilson
perché: “Our decision to devalue attacks our problem at the root and
that is why the international monetary community have rallied
round...What it does mean is that we shall now be able to sell more
goods abroad on a competitive basis”. Fu anche stabilito di tagliare la
spesa pubblica, ma solo della metà di quanto suggerito dal Fondo
Monetario Internazionale. Nel breve periodo risultato non fu quello
Una prima analisi della bilancia commerciale 9

atteso. Come possiamo vedere dalla figura 3.1, l’effetto iniziale fu


solo quello di allargare il deficit dei beni. Da un saldo negativo di
circa 100 milioni di sterline si passa, alla fine del 1967, ad uno tre
volte superiore. Né la situazione migliorò di molto nell’anno
successivo. È vero che parte di questo incremento fu recuperato già
nei primi mesi del 1968, ma il deficit commerciale rimase ampio, e
superiore a quello pre-svalutazione, sino al primo trimestre del 1969.
Solo dalla primavera di quell’anno si vede un forte recupero di
competitività dei manufatti britannici nei mercati internazionali. Al
contrario l’export di servizi, che in Gran Bretagna è sempre stato
maggiore dell’import, trae giovamento della svalutazione già nella
seconda metà del 1968, ma più per il trend crescente delle esportazioni
delle partite invisibili, che per gli effetti di sostituzione, visto che pure
le importazioni dei servizi aumentano ad un tasso sostenuto. In
conclusione, in questo episodio la svalutazione impiegò quasi due anni
per eliminare il deficit di bilancia commerciale.
Passiamo ora ad esaminare un esempio di deprezzamento in
presenza di cambi flessibili. Si tratta di un avvenimento molto noto,
che riguarda la caduta di valore del dollaro iniziata nel secondo
trimestre del 1985. In questo caso la forte discesa, pari a circa il 20%
in un anno, non provocò subito un miglioramento delle partite correnti
né in termini assoluti né in percentuale del PIL. Krugman (1991)
mostra che alla fine gli effetti furono quelli attesi, ma con un ritardo
temporale decisamente lungo. Secondo le sue stime ci vollero sette
mesi per vedere invertire il trend delle importazioni e quasi dieci per
l’export. Inoltre i prezzi dei beni importati non rimasero costanti ma
aumentarono quasi della stessa percentuale del deprezzamento. Una
simulazione, basata sulle stime presentate da Krugman, rivela che una
svalutazione del 20% genera un miglioramento della bilancia
commerciale solo dopo due anni, che diviene veramente rilevante
(circa un punto e mezzo del PIL) dopo cinque (Hallwood e
MacDonald, 2000).
Dobbiamo dire che negli Stati Uniti la relazione tra tasso di
cambio e interscambio commerciale è complessa. Nella figura 3.2
riportiamo i flussi commerciali ed il tasso di cambio effettivo su base
trimestrale nella prima metà degli anni ottanta. I dati del commercio
estero sono espressi in miliardi di $ come indicato sull’asse verticale
posto a sinistra. Si può vedere come il saldo della bilancia
10 Una prima analisi della bilancia commerciale

commerciale sia stato sempre negativo nell’intervallo di tempo


considerato. Tuttavia nel 1981 il deficit era attorno ai 4 miliardi di
dollari in ogni trimestre per poi esplodere ad oltre 35 miliardi
nell’ultimo quarto del 1985. Il tasso di cambio effettivo è invece
riferito all’asse verticale posto sulla destra. Questo numero indice, che
pesa le principali valute sulla base dell’interscambio commerciale con
gli Stati Uniti, è calcolato dalla Federal Reserve con base pari a 100
nel gennaio del 1997. Un incremento di questo indicatore mostra un
apprezzamento del dollaro, così com’è avvenuto all’inizio del 1980,
quando il valore del dollaro è quasi raddoppiato portandosi da circa 36
ad oltre 68 alla fine del 1985. Possiamo vedere che, a fronte della
fortissima rivalutazione del dollaro, le importazioni sono rimaste
abbastanza stabili fino al 1983, quando hanno cominciato a crescere
vigorosamente per quasi due anni consecutivi. I tempi di reazione
sembrano essere alquanto dilatati, mentre le esportazioni non
sembrano essere molto influenzate dalle fluttuazioni del tasso di
cambio, soprattutto a partire dalla fine del 1982. È vero che
aumentano nell’ultima parte del grafico, così come erano inizialmente
diminuite quando il dollaro aveva cominciato ad apprezzarsi, ma
complessivamente le variazioni sembrano essere molto diverse da
quelle dell’import e del cambio.

Figura 3.2 Import/Export e tasso di cambio effettivo USA1980-86


(US Dept of Commerce, BEA, FED)
Una prima analisi della bilancia commerciale 11

Questi due casi sembrano gettare una luce poco favorevole


all’approccio in questione. Non a caso in letteratura è sempre stato
vivace il dibattito tra i cosiddetti pessimisti delle elasticità e gli
ottimisti. I primi ritengono che le funzioni di domanda dei beni
importati sono particolarmente rigide e quindi le elasticità delle
importazioni (e quindi dell’export) sono troppo piccole per poter
soddisfare le condizioni di Marshall-Lerner. Al contrario gli ottimisti
obiettano che ciò non può essere vero soprattutto nelle economie
maggiormente industrializzate (Dunaway, 1988, Gylfason e Radetzki,
1991). Secondo loro, un’economia matura con elevato PIL pro capite,
buon grado di apertura, consumi e struttura produttiva diversificati
dovrebbe reagire ad una variazione dei prezzi relativi a livello
internazionale. Gylfason (1987) mostra come questo è vero anche in
alcuni paesi in via di sviluppo, come la Turchia, il Pakistan e le
Filippine. Le stime econometriche indicano che la somma delle
elasticità stimate è maggiore dell’unità e quindi solo economie poco
sviluppate e che sono fortemente dipendenti dai beni prodotti
all’estero possono avere un peggioramento della bilancia commerciale
dopo un deprezzamento.
Tuttavia proprio alcuni casi eclatanti, come quelli visti in Gran
Bretagna e Stati Uniti, hanno spinto molti ricercatori ha trovare una
giustificazione a queste discrasie tra le stime econometriche e
l’andamento del commercio estero. In primo luogo, è stato osservato
che bisogna distinguere tra elasticità di breve e lungo periodo. Hooper
et al. (2000) trovano che la somma delle elasticità di lungo periodo è
pari a 1,8 negli Stati Uniti, ma scende a poco più di uno nel breve. Lo
stesso Krugman (1991) nota che la media delle elasticità di lungo dei
sei più noti modelli econometrici dell’economia americana è circa 2,
ma quella di breve non si discosta dall’unità. Nella survey di
Goldstein e Kahn (1985) le elasticità sino a 2 anni dei paesi
industrializzati sono sempre maggiori di uno, ma quelle di breve (sino
a sei mesi) sono spesso molto piccole. Anche Hooper e Marquez
(1995) confermano questi risultati mentre Reinhart (1995) nota che,
nei paesi in via di sviluppo, i valori sono spesso al di sotto della soglia
critica.
I motivi di queste discrasie sono diversi. In primo luogo queste
analisi econometriche trascurano le complesse interrelazioni tra
commercio internazionale, tassi di cambio, reddito e ricchezza ovvero
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tra tutte le variabili macroeconomiche di stock e flusso che sono


coinvolte nei processi di aggiustamento indotti da una modificazione
del tasso di cambio. Infatti, l’approccio delle elasticità assume che la
produzione, l’occupazione ed il reddito nazionale siano costanti.
Questa può essere un’ipotesi comoda per derivare la (3.4) o (3.6), ma
trascurarle nelle analisi empiriche può produrre stime distorte ed
inattendibili.
Inoltre non è detto che le variazioni del tasso di cambio si
riflettano pienamente nel prezzo dei beni importati, com’è stato negli
Stati Uniti. Durante la caduta del dollaro del 1986, i prezzi dell’import
erano saliti di quasi la stessa magnitudo del deprezzamento, mentre
quelli dell’export rimasero pressoché invariati, con la conseguenza
che il deficit commerciale americano continuò a salire anche in
quell’anno sia in termini assoluti che in percentuale del PIL. Nella
prossima sezione affrontiamo il problema della trasmissione delle
variazioni del tasso di cambio sui prezzi.

3.3 Il pass through del tasso di cambio

OMISSIS

In questo modo l’equazione da stimare diviene:


𝑀𝐴
𝑝𝑖,𝑡 = (1 − 𝛷)𝑠𝑡𝐴𝐵 + 𝛼𝑖 𝛳𝑖𝐴 + 𝛽𝑦𝑡𝐴 𝑖 = 1, … , 𝑛 (3.11)

che permette di analizzare l’effetto di trasmissione. Un caso limite è


dato da 𝛷 = 𝛼𝑖 = 𝛽 = 0 per cui non esiste potere di mercato e i
prezzi in A dei beni esteri si adeguano perfettamente alle variazioni
del tasso di cambio. La correlazione perfetta è rigettata dai dati. A
titolo di esempio riportiamo nella figura 3.3 l’indice del tasso di
cambio effettivo e dei prezzi dei beni importati dell’Italia nel periodo
1999-20105. Come possiamo vedere la correlazione è buona (0,69) ma
lungi dall’essere pari all’unità.

5 L’anno base è il 2005 in cui ambedue gli indici sono stati posti pari a 100.
Una prima analisi della bilancia commerciale 13

Figura 3.3 Prezzi dei beni importati e tasso di cambio effettivo


(OCSE, Economic Outlook Annex)

Se invece 𝛷 = 1 e 𝛽 = 0 il prezzo delle importazioni è fissato


nella valuta del consumatore, le condizioni macro di A non
modificano il mark up, che assorbe tutta la variazione indotta dal tasso
di cambio. Abbiamo un’assoluta mancanza di trasmissione ed i profitti
del produttore fungono da buffer. Anche questa situazione sembra
essere alquanto improbabile nella realtà ed, in effetti, ciò che interessa
nell’analisi del pass through è proprio il valore del parametro riferito
al tasso di cambio. Per 0 < 𝛷 < 1 siamo in una situazione intermedia
in cui il trasferimento è parziale. È evidente che questo è il caso più
probabile, anche se è fondamentale conoscere il valore di questo
parametro. Nella tabella 3.1 mostriamo alcune stime dell’elasticità del
pass through per alcuni paesi tratte proprio da Campa e Golberg
(2004). Si può vedere la notevole variabilità di risultati, anche se i
valori di breve (un trimestre) sono quasi sempre inferiori a quelli di
lungo (un anno) con l’eccezione di alcuni paesi come Austria, Canada
Svezia. Alcuni paesi, come gli Stati Uniti, mostrano un valore
decisamente elevato del parametro 𝛷 tale per cui un aumento del tasso
di cambio del 10% comporta nel breve periodo un incremento dei
prezzi dei beni importati del solo 2,3% e del 4,2% nel lungo.
14 Una prima analisi della bilancia commerciale

breve periodo lungo periodo


Australia 0.56*+ 0.67*+
Austria 0.21+ 0.10
Belgio 0.21+ 0.68
Canada 0.75*+ 0.65*+
Francia 0.53*+ 0.98*+
Germania 0.55*+ 0.80*
Giappone 0.43*+ 1.13*
Irlanda 0.16+ 0.06+
Italia 0.35*+ 0.35*+
Portogallo 0.63*+ 1.08*
Olanda 0.79*+ 0.84*+
Spagna 0.68*+ 0.93*
USA 0.23*+ 0.42*+

Tab. 3.1 Stime dell’elasticità del pass through in alcuni paesi Ocse
(Campa e Goldberg, 2004) */+ diverso da zero o uno al 5% di confidenza

Gli autori hanno pure rigettato l’ipotesi che 𝛷 = 0 negli USA,


per cui è confermato che la trasmissione c’è, ma è pari solo a 0,23,
ovvero molto debole soprattutto nei mesi successivi ad una variazione
del tasso di cambio. Insomma pare proprio che gli esportatori negli
Stati Uniti sono molto attenti a modificare i loro prezzi di vendita nel
mercato americano e preferiscono ridurre i loro profitti anziché cedere
quote di mercato. Oppure, qualora il dollaro si rafforzi molto, come
nella prima metà degli anni ’80, attuare addirittura delle restrizioni
alle esportazioni negli USA, come nel caso dei produttori di
automobili giapponesi. Tuttavia esiste lo stesso una certa
ripercussione, che però richiede del tempo per dispiegarsi pienamente
e questo può giustificare gli andamenti delle importazioni ed
esportazioni visti nella figura 3.2.
In Austria ed Irlanda la situazione è ancora più estrema: il
parametro 𝛷 è prossimo ad uno e non si può rigettare l’ipotesi di
assenza di trasmissione soprattutto nel lungo periodo. I produttori
esteri sembrano assorbire totalmente le fluttuazioni del tasso di
cambio. In Francia, Germania e Giappone vale l’opposto: una
svalutazione del 10% si riflette pienamente in un aumento di pari
entità nei prezzi dei beni importati. È anche evidente che in alcune
Una prima analisi della bilancia commerciale 15

nazioni, come Belgio, Francia e Giappone, le elasticità di lungo


periodo sono decisamente maggiori rispetto a quelle di breve. Ad
esempio, una svalutazione dello yen del 10% provoca, in media, un
aumento dei prezzi dei beni esteri del solo 4,3% nel trimestre
successivo, mentre si riflette pienamente nel giro di un anno. Questo
conferma come le condizioni di Marshall-Lerner sono per lo più
rispettate nel lungo periodo, generando i presupposti per una curva
forma di J nella bilancia commerciale.

Fig. 3.4 Pass through negli USA (Marazzi e Sheets, 2006)

I risultati appena esposti sono stati criticati da diversi punti di


vista. In primo luogo variano non solo da paese a paese, ma anche nel
tempo. Ad esempio, Marazzi e Sheets (2006) mostrano come il pass
through negli Stati Uniti è calato sostanzialmente a partire dagli anni
’80. La figura 3.4 riporta le loro stime e mostra come da valori medi
superiori a 0.5 negli anni ’80 si è passati a solo 0.2 nel nuovo
millennio. Inoltre, i dati nazionali possono nascondere situazioni
molto differenziate nei diversi settori produttivi. In primo luogo è
lecito pensare che alcuni fattori, come il grado di omogeneità dei
prodotti e la dimensione del mercato di sbocco, influenzano
l’elasticità. Anche la struttura del mercato è importante. È evidente
che più ci si avvicina alla concorrenza perfetta più rapida dovrebbe
essere la trasmissione degli impulsi nominali. Al contrario, il maggior
16 Una prima analisi della bilancia commerciale

potere di mercato si può riflettere sugli aggiustamenti dei margini di


profitto.

Francia Germ. Italia Grecia Portog. Spagna


Minerali e B 0.05 1.57 0.56 1.05 0.77
Prodotti petroliferi L 1.04 1.07 1.15 1.03 1.11
Prodotti B 0.09 0.33 0.44 0.10 0.25
chimici L 1.05 0.84 0.11 0.33 0.92
Macchinari e B 0.01 0.39 0.39 0.35 0.27 0.39
mezzi di trasporto L 1.08 1.07 0.90 0.31 0.70 0.72
Altri prodotti B 0.62 0.06 0.54 -0.15
industriali L 1.32 1.00 1.62 0.65
Tab. 3.2 Stime dell’elasticità del pass through settoriali in alcuni
paesi europei (Campa, Goldberg e Mìinguez, 2006)

Nella tabella 3.2 mostriamo le stime di breve e lungo periodo


riferite ad alcuni paesi europei nei principali settori industriali (Campa
et al., 2005). Possiamo vedere come i valori sono elevati solo nel
lungo periodo, anche se non mancano casi particolari come in Grecia e
Portogallo, che però sono i paesi industrialmente più arretrati. In
Germania l’effetto di breve periodo è pressoché nullo, mentre
nell’arco di un anno la variazione del tasso di cambio si riflette
pienamente nei prezzi dei beni importati. Tuttavia, altri studi, come
Olivei (2002), hanno mostrato come, negli Stati Uniti nel settore del
calzaturiero o della telefonia, l’elasticità è molto bassa (inferiore al
10%) anche nel lungo periodo. È allora essenziale cercare di
comprendere quali sono i motivi che spingono talvolta i produttori a
non modificare troppo i prezzi dei beni venduti all’estero.

3.4 Un modello di pricing to the market


La volatilità dei tassi di cambio è stata notevole sin dalla
caduta del regime di Bretton Woods. In questo contesto le imprese
multinazionali si sono trovate spesso di fronte al problema del rischio
valutario. Infatti, le fluttuazioni dei cambi possono essere ben
maggiori dei normali margini di profitto compromettendo così il
commercio internazionale. In questo contesto un approccio razionale
richiede di calcolare l’esposizione nei singoli mercati e provvedere a
Una prima analisi della bilancia commerciale 17

proteggersi dal rischio di cambio con operazioni di copertura mediante


derivati. Questa strategia comporta dei costi. Quelli espliciti sono
legate alle fees da pagare per opzioni o contratti futures, mentre quelli
impliciti riguardano le fonti di guadagno a cui si rinuncia in caso di
una variazione favorevole dei tassi. Inoltre si trascura il fatto che le
decisioni di prezzo sono prese in un contesto più ampio, all’interno di
un marketing mix che tiene conto pure di fattori quali il
comportamento del consumatore di fronte alla variabilità dei prezzi di
vendita. Questo può spiegare perché molte imprese preferiscono
assorbire le variazioni del tasso di cambio rinunciando anche a
maggiori profitti nel breve periodo. Questo comportamento, che porta
ad una certa stabilità dei prezzi a livello locale, può essere spiegato da
un semplice modello di pricing to the market. L’ipotesi di base è che i
mercati sono segmentati a livello geografico. Esiste un certo potere di
mercato poiché non si possono effettuare arbitraggi a livello
internazionale sfruttando le differenze di prezzo tra i diversi paesi. In
questo modo le imprese multinazionali possono adottare una
discriminazione di terzo grado e praticare prezzi differenti nei vari
paesi. Prendiamo in esame il comportamento di un’impresa localizzata
nel paese A che esporta il bene prodotto anche nel paese B. Poiché i
mercati sono segmentati il suo problema è quello di scegliere i prezzi
nel mercato domestico ed estero in modo da massimizzare il profitto:

max 𝑃 𝐴 𝑄 𝐴 (𝑃 𝐴 ) + 𝑆𝑃𝐵 𝑄 𝐵 (𝑃𝐵 ) − 𝐶𝑇 𝑄 (3.12)


𝑃 𝐴 ,𝑃𝐵

ove 𝑄 𝑖 (𝑃𝑖 ), i = A,B sono le funzioni di domanda nei due paesi e Q è la


quantità totale prodotta. Come noto le condizioni del primo ordine
affermano che i prezzi sono pari al costo marginale moltiplicato per
un fattore (mark up) che dipende dall’elasticità della domanda rispetto
al prezzo (in valore assoluto):

𝐴
𝜖𝐴
𝑃 = 𝑀𝐶 𝐴 , (3.13)
𝜖 −1
𝐵
𝜖
𝑆𝑃𝐵 = 𝑀𝐶 𝐵 . (3.14)
𝜖 −1
18 Una prima analisi della bilancia commerciale

Nella figura 3.3 abbiamo rappresentato una situazione


particolare, in cui la funzione di produzione presenta rendimenti di
scala costanti ed il costo medio e marginale coincidono, mentre la
domanda domestica (paese A) aumenta di più di quella estera (B) per
una diminuzione unitaria di prezzo. In questo caso il prezzo ed il
markup praticato nel mercato straniero, espresso in moneta locale, è
maggiore di quello interno. Ciò può essere dovuto a diversi fattori. Se
S > 1 è ovvio che un’unità di moneta estera compra più di un’unità di
moneta nazionale. Con S = 1 è rilevante l’elasticità della domanda. È
evidente che minore è l’elasticità maggiore è il mark up e viceversa.
Nel caso limite in cui 𝜖 𝐴 e 𝜖 𝐵 tendono ad infinito, i mercati sono
perfettamente concorrenziali ed i prezzi convergono al costo
marginale6. Si può anche capire l’importanza del comportamento dei
consumatori. Se la domanda è isoelastica7 in ambedue i mercati il
coefficiente di mark up è costante. A parità di costo marginale, il
prezzo, espresso nella medesima moneta, è fisso. In questo caso, il
pass through è completo ed un variazione del tasso di cambio deve
essere perfettamente compensata da una di 𝑃𝐵 di pari entità, ma di
segno opposto.

6 Si vede subito che ϵ /( ϵ -1) →1 per ϵ→∞, mentre diverge per ϵ→1.
7 La funzione di domanda è un’iperbole equilatera del tipo P = k/Q.
Una prima analisi della bilancia commerciale 19

𝑆𝑃𝐵

Mark up
𝑆𝑃𝐵

𝑃𝐴

𝐷𝐴
MC 𝐵
𝐷
𝐵 𝐴
𝑅𝑀 𝑅𝑀
𝑄𝐵 𝑄 𝐴
𝑄 𝐴 , 𝑄𝐵
Figura 3.5 Prezzi con discriminazione internazionale

Se la funzione di domanda non è isoelastica la situazione è più


interessante. Sappiamo che un aumento dell’elasticità riduce il mark
up. Il termine alla destra della (3.14) è inferiore e richiede una
diminuzione del prezzo praticato nel mercato estero. Anche la
variazione del tasso di cambio richiede una modificazione del prezzo
in B che dipende anche dell’elasticità della domanda. Come osserva
Krugman (1986) non si può dire molto in generale, ma se la domanda
è lineare, si può facilmente dimostrare come il pass through non può
essere mai troppo elevato. Ipotizziamo che la domanda nel paese
estero sia 𝑃𝐵 = α – β 𝑄 𝐵 . I profitti sono massimizzati se:

𝑀𝐶
𝐵
𝛼 𝑀𝐶 𝐵
𝛼 𝑀𝐶 𝐵 𝛼 + 𝑆
𝑃 = + , 𝑄 = − ,𝜖 = . (3.15)
2 2𝑆 2𝛽 2𝛽𝑆 𝑀𝐶
𝛼− 𝑆

Dall’ultima condizione si evince la relazione inversa tra tasso


di cambio ed elasticità. Nella figura 3.6 prendiamo in esame solo il
mercato estero. A differenza della figura precedente sia il prezzo sia il
20 Una prima analisi della bilancia commerciale

costo marginale sono espressi nella moneta del paese B. Per avere una
soluzione significativa l’intercetta deve essere sufficientemente grande
(𝛼 > 𝑀𝐶/𝑆) che implica 𝜖 𝐵 > 0.

𝑃𝐵

𝑄𝐵 Effetto prezzo

𝑀𝑄 𝐵
Effetto quantità
𝑃0𝐵 A
C B
𝑃1𝐵 K

𝑀𝐶
D
J I L 𝑆0
𝑀𝐶
G F H
𝑆1
𝑄0𝐵 , 𝑄1𝐵 𝑄𝐵
Figura 3.6 Strategia di prezzo nel mercato estero

Ipotizziamo un deprezzamento del tasso di cambio. Con


𝑆1 > 𝑆0 il costo marginale in valuta diminuisce individuando un nuovo
equilibrio che si realizza ad un prezzo più basso e domanda maggiore,
perché il bene è più conveniente. Quindi un aumento di S produce una
diminuzione del prezzo 𝑃𝐵 , come indicato anche dalla (3.15). Poiché
c’è pass through, ci si può chiedere se sia completo o meno, ovvero se
la variazione del tasso di cambio sia (in valore assoluto) pari a quella
di 𝑃𝐵 . Dalla (3.15) si ricava:

𝑀𝐶
𝐵
𝜕𝑃𝐵 𝑆 𝑆 1
𝜖𝑃𝑆 = =− >− , (3.16)
𝜕𝑆 𝑃 𝐵 𝑀𝐶 2
𝛼+ 𝑆
Una prima analisi della bilancia commerciale 21

per cui la variazione percentuale dei prezzi non potrà mai essere
maggiore della metà della variazione percentuale del tasso di cambio
ed il pass through è incompleto.
Tuttavia, un imprenditore razionale opterà per la modifica,
anche se parziale, dei prezzi nel mercato estero. Riconsideriamo la
figura 3.6. Se si mantenesse il vecchio prezzo il profitto aumenta per
la diminuzione del costo di produzione. L’area di profitto diviene
𝑃0𝐵 𝐴𝐹𝐺. Se, invece, si sceglie il nuovo prezzo 𝑃1𝐵 , la nuova area di
profitto è data da 𝑃1𝐵 𝐵𝐻𝐺. Abbiamo un incremento dovuto
all’ampliamento della base dei clienti (area D definita come effetto
quantità) ed una perdita per il minor prezzo riscosso dai precedenti
consumatori (area C, detta effetto prezzo). Poiché è ottimale diminuire
il prezzo ed aumentare la quantità è ovvio che 𝐷 > 𝐶 ed il profitto
aumenta in seguito alla svalutazione. De Grauwe (1997) mette in
discussione questo risultato prendendo spunto da un noto lavoro di
Mankiw (1985) sui costi del cambiamento dei listini. Quest’ultimo,
usando quest’approccio di ispirazione neokeynesiana, ha dimostrato
come la presenza di piccoli costi individuali produce una certa
vischiosità nei prezzi, tale da generare effetti reali in seguito a shock
nominali: un aumento dell’offerta nominale di moneta può far
crescere il prodotto anche in presenza di agenti razionali senza
asimmetrie informative. De Grauwe ipotizza che questi costi, pari a K,
pur non essendo di per sé molto grandi, possano impedire la
trasmissione di uno shock nominale a livello internazionale. Infatti,
l’impresa modifica il prezzo 𝑃𝐵 solo se D - C > K, altrimenti ritiene
preferibile mantenere il prezzo 𝑃0𝐵 e vedere incrementare i profitti per
un importo pari all’area JIFG. Inoltre, è fondamentale sapere se
questo cambiamento è transitorio o meno. Se è permanente, rinunciare
a modificare il prezzo può essere molto pericoloso, visto che la perdita
di profitto data dal valore attuale di tutti i guadagni correnti e futuri.
Solo se l’incremento di profitto è piccolo, ovvero:
𝑇
𝐷−𝐶
∑ < 𝐾, (3.17)
(1 + 𝑖)𝑖
𝑡=0

ove T è l’orizzonte temporale dell’impresa, allora non conviene


cambiare il listino. Il comportamento ottimale può essere diverso se si
22 Una prima analisi della bilancia commerciale

ritiene transitoria la variazione del cambio. Anzi, nel caso in cui si


reputi che nel periodo successivo il cambio ritorni al valore iniziale
𝑆0 , è preferibile mantenere il prezzo iniziale 𝑃0𝐵 quando:

𝐶−𝐸 𝐾
𝐷−𝐶+ <𝐾+ . (3.18)
1+𝑖 1+𝑖

dove E è l’area data da KBLI. Quando il management ritiene che la


variazione del cambio sia momentanea è molto più probabile che si
mantengano invariati i listini nel mercato estero. Come sottolineato
anche da Marston (1990) sono le aspettative che determinano
l’intensità del pass through. In questo prospettiva, l’ambiente in cui
operano le imprese è di fondamentale importanza. Se la willingness to
pay (α) è molto grande e le fluttuazioni del cambio sono ritenute
transitorie l’effetto di trasmissione sarà minimo, come si vede dalla
(3.16). Quando la segmentazione è elevata e si opera in concorrenza
monopolistica, ogni produttore si rivolge al suo gruppo di affezionati
clienti, la cui domanda è alquanto rigida. In questo caso il mark up e
può essere una componente importante del prezzo di vendita può
fungere da buffer per assorbire le fluttuazioni del costo di produzione
e del tasso di cambio. In questo caso il pass through è piccolo. Al
contrario, con elasticità incrociata significativa, ovvero buona
concorrenza tra produttori, i prezzi risentono maggiormente delle
modificazioni del tasso di cambio. Come detto, il contesto macro è
importante. Se siamo in un sistema economico stabile con trend ben
definiti e senza turbolenze, le variazioni del tasso di cambio possono
essere ritenute permanenti. Questo poteva esser il caso di alcuni
riallineamenti all’interno dello SME negli anni ’80. Al contrario, la
forte volatilità che si è riscontrata in altri contesti, pensiamo ad
esempio ai paesi sudamericani negli anni ’90, possono far propendere
per un movimento transitorio magari attorno ad un trend dettato da
alcune variabili fondamentali come il differenziale dei tassi
d’inflazione.
Resta infine da discutere il ruolo del tasso d’interesse. In una
situazione di rendimenti elevati, i guadagni futuri legati ad una
variazione ritenuta permanente possono essere poco significativi
rispetto al mantenimento del livello corrente del prezzo. Questo
poteva essere vero in certi periodi storici o per alcuni paesi in via di
Una prima analisi della bilancia commerciale 23

sviluppo, che devono pagare dei cospicui premi sul rischio paese.
L’evidenza empirica sembra confermare il ruolo del tasso d’interesse
in quanto, proprio durante gli anni ottanta, i flussi del commercio sono
stati caratterizzati da una minore reattività alle variazioni del tasso di
cambio (Hallwood e MacDonald, 2000).

3.5 Concorrenza monopolistica ed isteresi


Una delle ipotesi cardine dell’approccio descritto nella sezione
precedente riguarda la struttura del mercato. Le imprese operano in
una situazione di concorrenza monopolistica ed ognuna si rivolge ad
un proprio gruppo di clienti fidelizzati, che non sono molto propensi a
sostituire il prodotto preferito con altri. Ma è pur sempre possibile
introdurre nuovi prodotti, che possono catturare parte dei consumatori.
In sintesi c’è libertà di entrata ed uscita nel settore. L’analisi descritta
prima permette di comprendere i motivi della difficoltà della
trasmissione degli shock nominali a livello internazionale, ma solo nel
breve periodo. Invece, le analisi empiriche hanno spesso confermato
che gli effetti sono più pervasivi nel lungo periodo, quando nuovi
attori o nuovi articoli possono essere introdotti nel mercato. Ad
esempio, se la condizione (3.17) è verificata, il deprezzamento del
tasso di cambio non modifica prezzi e quantità, ma di certo fa
aumentare i profitti. Altre imprese potrebbero essere invogliate ad
entrare nel settore offrendo beni simili. In questo modo aumenta il
grado di concorrenza e variano i prezzi. Nel lungo periodo c’è un
effetto di pass through che non si verifica nel breve. Anche un
apprezzamento può avere esiti importanti se riduce il profitto
complessivo e alcune imprese escono dal mercato.
Consideriamo nel dettaglio questa situazione. Seguendo
l‘approccio di Baldwin (1988) ipotizziamo che la funzione di
domanda nel paese estero dipenda anche dal numero delle imprese
presenti nel mercato e che poniamo pari ad N:

𝛼
𝑃𝐵 = – 𝛽 𝑄𝐵 , (3.19)
𝑁

mentre i costi totali sono dati dalla somma di quelli fissi e di quelli
variabili, che dipendono linearmente dall’output:
24 Una prima analisi della bilancia commerciale

𝐶𝑇(. ) = 𝐹 + 𝑆𝐺 + 𝑐(𝑄 𝐴 + 𝑄 𝐵 ). (3.20)

Si tratta in sostanza del caso già discusso in precedenza.


L’unica differenza riguarda il costo fisso che si deve sostenere se si
opera nel mercato estero (B). Si tratta di due tipi di costi diversi a
seconda del luogo dove sono sostenuti e pagati. Il primo può essere
pensato come il costo di differenziazione del prodotto e può riguardare
strategie di versioning o di packaging. Questi sono indicati con F e
sono sostenuti dove si produce il bene (A). Gli altri costi fissi sono
relativi al mantenimento del marchio all’estero. Si può anche pensare
a spese per campagne pubblicitarie o promozionali locali, che si
pagano in B e sono influenzate dall’andamento del tasso di cambio.
Un apprezzamento della moneta di A riduce tali esborsi rendendo
meno gravosi questi oneri, mentre un deprezzamento agisce nella
direzione opposta. Tuttavia, essendo costi fissi, la loro presenza non
altera le decisioni ottimali dell’impresa, ma solo il profitto conseguito
all’estero8:

1 𝛼 𝑐 2 𝐹
𝛱𝐵 = ( − ) − − 𝐺, (3.21)
4𝛽 𝑁 𝑆 𝑆

che è qui espresso nella moneta di B. Un aumento del numero delle


imprese (N) riduce i ricavi nel mercato estero abbassando sia il prezzo
che la quantità venduta. Al contrario, una svalutazione ha un impatto
positivo poiché aumenta i margini e riduce la componente fissa F
pagata in A. Questo risultato è in linea con quanto rappresentato nella
figura 3.6. Possiamo però chiederci qual è l’effetto sul profitto estero
espresso in moneta nazionale. In questo caso la funzione del profitto è:

1 𝛼 2
𝛱𝐴𝐵 = 𝑆𝛱 𝐵 = ( 𝑆 − 𝑐) − 𝐹 − 𝑆𝐺. (3.22)
4𝛽𝑆 𝑁

Si può pensare che, se la svalutazione della moneta di A


aumenta il profitto ottenuto all’estero nella valuta B, a maggior

8Senza perdita di generalià possiamo ipotizzare che vi sia concorrenza perfetta nel
mercato domestico per cui 𝑃 𝐴 = 𝑐 ed il profitto è conseguito solo all’estero.
Una prima analisi della bilancia commerciale 25

ragione dovrebbe aumentare il profitto espresso proprio nella moneta


domestica. Questo è vero se non esistessero anche i costi fissi che si
pagano all’estero. L’incremento di profitto potrebbe non coprire il
maggior aggravio delle spese di mantenimento del brand ed il profitto
estero in moneta nazionale può addirittura scendere:

𝛼 2 𝑐 2
𝜕𝛱𝐴𝐵 (𝑁) − (𝑆)
= − 𝐺. (3.23)
𝜕𝑆 4𝛽

La derivata seconda rivela che la funzione è convessa nel


tasso di cambio. Ricordiamo che si esporta solo se il tasso di cambio è
superiore ad un valore minimo dato da 𝑆0 = (𝑐𝑁⁄𝛼), per cui il primo
addendo della (3.23) è positivo, ma potrebbe essere inferiore al valore
del costo fisso G. Studiamo allora nel dettaglio la funzione del profitto
(3.22) che può essere riscritta come:

𝛼2 𝑐2 𝛼𝑐
𝛱𝐴𝐵 (𝑆) =( − 𝐺) 𝑆 + − ( + 𝐹) (3.24)
4𝛽𝑁 2 4𝛽𝑆 2𝛽𝑁

il cui comportamento in funzione del tasso di cambio può essere


facilmente descritto. La funzione diverge positivamente per S → 0,
mentre nel caso in cui S → ∞ è fondamentale il segno della prima
parentesi. La funzione diverge negativamente se 𝛼 ⁄𝑁 < 2√𝛽𝐺 e
positivamente altrimenti. Il significato è chiaro: se i costi di
mantenimento del brand, pari a G, sono molto elevati allora la
funzione del profitto decresce all’aumentare del tasso di cambio.
Infatti, dalla (3.24) si ricava:

𝜕𝛱𝐴𝐵 𝛼2 𝑐2
< 0 ↔ 2 < 4𝛽𝐺 + 2 ,
𝜕𝑆 𝑁 𝑆

che è certamente soddisfatta per qualunque tasso di cambio se


4𝛽𝐺𝑁 2 > 𝛼 2 . Però dalla (3.22) sappiamo che il profitto è negativo in
corrispondenza di 𝑆0 per cui l’impresa non esporterà mai in questo
caso. Prendiamo ora in esame l’ipotesi 𝛼 2 > 4𝛽𝐺𝑁 2 . La funzione del
26 Una prima analisi della bilancia commerciale

profitto diverge positivamente per S → ∞, ha inclinazione negativa in


𝑆0 e minimo in corrispondenza di:

𝑐𝑁
𝑆1 = . (3.25)
√𝛼 2 − 4𝛽𝐺𝑁 2

Questa funzione è descritta nella figura 3.7 in cui si vede come


esiste un livello critico del tasso di cambi S oltre il quale conviene
esportare pari a:
𝛼𝑐 + 2𝐹𝛽 + 2√𝛽𝑁√𝑐 2 𝐺𝑁 + 𝐹(𝛼𝑐 + 𝐹𝛽𝑁)
𝑆=𝑁 . (3.26)
𝛼 2 − 4𝛽𝐺𝑁 2

𝐵
𝐴

S0 S1 S 𝑆
S

Fig. 3.7 Profitti esteri in moneta nazionale

Un aumento dei costi fissi F, del costo di produzione c e del


numero di imprese N aumenta inequivocabilmente il valore di questa
soglia critica spostando la curva a destra. Ceteris paribus, un
deprezzamento della moneta di A produce un miglioramento nei conti
dell’impresa esportatrice poiché siamo nel tratto crescente positivo.
Una prima analisi della bilancia commerciale 27

Inoltre la funzione non è lineare ma convessa, per cui alla fine i


profitti aumentano più che proporzionalmente rispetto al cambio. Si
potrebbe pensare che un cambio molto deprezzato sia ideale per
l’impresa esportatrice perché i ricavi sono elevati. Tuttavia questa può
essere una situazione molto pericolosa. Infatti, un potenziale
concorrente potrebbe esser invogliato ad entrare nello stesso mercato.
In concorrenza monopolistica c’è libertà di entrare ed uscita, poiché
non esistono sostanziali barriere all’ingresso. Ipotizziamo che la
tecnologia sia liberamente disponibile, non ci siano costi di versioning
e siano presenti un numero rilevante di imprese operanti all’estero. In
realtà è più ragionevole assumere che, all’inizio, i costi di
differenziazione siano maggiori per l’entrante, ma per semplicità
manteniamo l’ipotesi G = 0 per tutte le imprese. Se le domande sono
identiche (α è lo stesso per tutte le aziende) l’unica differenza
concerne i costi fissi pagati all’estero. Possiamo pensare che F = 0 per
l’incumbent, mentre è positivo per l’entrante. In effetti, esistono
sempre dei costi fissi non recuperabili, che devono essere sostenuti nel
momento dell’ingresso in un nuovo mercato. Si tratta di spese relative
a ricerche di mercato, pagamenti per permessi o autorizzazioni e per la
costruzione di una rete di vendita, distribuzione ed assistenza. Si tratta
di esborsi difficilmente recuperabili in quanto product o country
specific, per cui rientrano a pieno titolo tra i sunk cost. La funzione di
profitto dell’entrante è quella tratteggiata nella figura 3.7 con soglia
critica maggiore9. Se il tasso di cambio fluttua all’interno del range
[𝑆, 𝑆] l’incumbent rimane isolato nel suo segmento e può aggiustare
prezzo e quantità per massimizzare il proprio profitto. In questo caso
l’elasticità rispetto al tasso di cambio è data dalla:

𝑐
𝜕𝑃𝐵 𝑆 1
𝐵
𝜖𝑃𝑆 = 𝐵
=−𝛼𝑆 𝑐 >− .
𝜕𝑆 𝑃 2
𝑁+𝑆

Siamo in una situazione di mercato stabile perché nessuna


impresa entra o esce (N non varia) ed il pass through è incompleto. Il
range [𝑆, 𝑆] è definito come la no entry no exit band o hysteresis band,

9 Si può verificare immediatamente che entrambe le funzioni di profitto sono


definite per 𝑆 > 𝑆0 ed hanno medesimo punto di minimo 𝑆1 .
28 Una prima analisi della bilancia commerciale

poiché la struttura e stabile ed anche i prezzi sono molto vischiosi. Le


imprese non vogliono essere aggressive, perché alterare prezzi,
quantità e quote potrebbe portare all’entrata di nuovi attori con una
riduzione futura dei profitti. Ma cosa succede se il deprezzamento è
tale per cui S > 𝑆? In questo caso anche le nuove imprese possono
ottenere un profitto e, se ritengono la variazione permanente, aumenta
il grado di concorrenza. Se, invece, l’aumento di S è giudicato
temporaneo, i profitti iniziali sono presto compensati dalle perdite
successive. In questa ottica una nuova impresa dovrebbe essere molto
sicura della sostenibilità dell’operazione nel lungo periodo. Dixit
(1989) ha messo in evidenza come la volatilità sperimentata sin dal
crollo del regime di Bretton Woods abbia fatto aumentare l’incertezza
e la stabilità di alcuni mercati internazionali. Quando le fluttuazioni
sono ampie e difficilmente prevedibili un imprenditore avverso al
rischio preferisce adottare una strategia del tipo wait and see e
verificare che l’aumento sia permanente prima di cercare nuove
opportunità all’estero. Nell’ottica del nostro modello, S deve essere
maggiore di 𝑆̅ per un periodo sufficientemente lungo prima di vedere
aumentare il numero di imprese che operano nel mercato. Opportunità
di profitto temporaneo non fanno variare di molto né i prezzi nè i
flussi commerciali. Quindi non è solo il livello del tasso di cambio
corrente che determina il pattern degli scambi internazionali, ma
anche la sua isteresi. Solo se la svalutazione è ritenuta permanente gli
entranti si affacciano nel nuovo mercato. Se ciò avviene aumenta la
competizione, i profitti si riducono per la caduta dei prezzi e delle
quantità e le curve di profitto descritte nella figura 3.7 si spostano
verso il basso. Questo significa che la no entry no exit band tende ad
allargarsi. Con N maggiore il deprezzamento, che potrebbe spingere
ad un ulteriore entrata di imprese, deve essere ancora più grande. Al
contrario un apprezzamento (S < S) potrebbe costringere la nostra
impresa a chiudere le sue filiali estere ed a concentrarsi sul mercato
locale. L’uscita di questo competitor provoca una contrazione delle
curve di profitto delle imprese rimanenti e non è più sufficiente il
ritorno del tasso di cambio ai valori precedenti per spingere a ritornare
nel mercato straniero. Questo conferma una forte isteresi nelle
strutture produttive locali come nei flussi commerciali in presenza di
concorrenza monopolistica.
Una prima analisi della bilancia commerciale 29

3.5 Conclusioni
In questo capitolo abbiamo esaminato la relazione che esiste
tra tasso di cambio, prezzi e flussi commerciali nei mercati
internazionali secondo l’approccio delle elasticità. L’idea
fondamentale è che il tasso di cambio è il “prezzo” di equilibrio
determinato dal flusso di valuta nel mercato dei cambi. Non a caso
quest’approccio è stato elaborato nella prima metà del secolo scorso,
quando i movimenti di capitali erano scarsi o limitati ai trasferimenti
in oro o in valute facilmente convertibili nel metallo prezioso. Inoltre
questi flussi erano legati a vendite di beni e raramente ad investimenti
all’estero. L’assenza di movimenti di capitali spiega l’attenzione al
solo commercio estero. In questa prospettiva le condizioni esplicitate
da Marshall (1923), Lerner (1944) e sintetizzate da Haberger (1949)
mostrano come il tasso di cambio si muove verso l’equilibrio a
seconda dell’eccesso di offerta o di domanda di una valuta. Sotto
queste condizioni il classico meccanismo di aggiustamento walrasiano
garantisce l’equilibrio del mercato. Friedman (1953) è andato
addirittura oltre, sostenendo che i tassi di cambio sono stabili sulla
base dei fondamentali e dell’azione della speculazione. Anche se nel
breve le condizioni di Marshall-Lerner non sono verificate, l’azione
degli speculatori, che conoscono i fondamentali, tende a stabilizzare il
cambio attorno al valore di equilibrio di lungo periodo. Per chiarire il
significato di questa affermazione ipotizziamo che l’economia sia
colpita da uno shock esogeno imprevisto, come un aumento inatteso
della massa monetaria del 5%. Se il deprezzamento istantaneo del
cambio è superiore a quello di equilibrio di lungo, poniamo del 12%,
gli speculatori comprano subito moneta nazionale perché sanno, sulla
base della teoria della parità dei poteri d’acquisto, che si dovrà poi
apprezzare del 7%. Ma questi acquisti smorzano la caduta iniziale del
valore della moneta nazionale, che non si svaluta del 12% ma di
meno. In sintesi siamo nella parte stabile del modello di domanda ed
offerta rappresentato nella figura 3.1. Un qualsiasi shock che colpisce
entrambi i lati del mercato porta ad una rettifica del tasso di cambio e
della quantità scambiata in un nuovo equilibrio stabile. Se il governo
decide di effettuare una politica fiscale espansiva, ad esempio
30 Una prima analisi della bilancia commerciale

tagliando l’imposizione fiscale, la domanda di beni e servizi aumenta


così come le importazioni. Ciò provoca un eccesso di domanda di
valuta, che richiede un deprezzamento per ottenere il nuovo equilibrio
di lungo periodo. In questa prospettiva le fluttuazioni sono giustificate
dalle variazioni dei fondamentali.
Le verifiche empiriche degli ultimi decenni hanno rivelato una
realtà decisamente diversa. Gli aggiustamenti sono ben lontani
dall’essere rapidi ed, anzi, i tassi di cambio reali sembrano essere
caratterizzati da trend ben definiti. Invece di una semplice relazione
lineare tra tasso di cambio e bilancia commerciale bisogna considerare
meccanismi di trasmissione più articolati e complessi. In primo luogo
sembrano alquanto probabili curve a forma di J in seguito ad un
deprezzamento, proprio perché le domande dei beni variano
gradualmente nel tempo e solo quando gli agenti economici
modificano i canali di approvvigionamento. In effetti, tali mutamenti
non sono quasi mai istantanei ed in letteratura si è anche voluto
distinguere quali sono i diversi aspetti del processo di trasmissione.
Magee (1973) ricorda che al principio, nel cosiddetto currency
contract period, vengono a scadenza i contratti stipulati prima della
variazione del tasso di cambio. Poiché gli ordini non possono essere
cancellati, se non dietro il pagamento di penali, si preferisce onorare
gli impegni presi in precedenza. È di fondamentale importanza la
stipula dei contratti, se i prezzi sono nella valuta del venditore od in
quella dell’importatore. Ad ogni modo, come si può vedere dalla (3.1)
o dalla (3.3), l’effetto immediato è quello di un peggioramento della
bilancia commerciale perché opera unicamente l’effetto prezzo
(negativo). Solo quando si possono modificare gli ordini si esplica
l’effetto quantità (positivo) e la bilancia commerciale gradualmente si
riporta in pareggio, per divenire alla fine positiva generando una curva
a forma di J. Altri autori hanno trovato una relazione diversa, nota
come curva ad S. In questo caso la bilancia commerciale è correlata
negativamente con i movimenti correnti e futuri del tasso di cambio,
ma positivamente con quelli passati (Backus et al., 1994, Senhadij,
1998). I diversi impulsi generano una relazione complessa, spesso
asimmetrica, tra tasso di cambio e saldo della bilancia commerciale,
per cui un svalutazione non attesa produce subito una caduta
dell’export netto, a cui farebbe seguito una ripresa, se la svalutazione
non generasse pure l’aspettativa di futuri ulteriori deprezzamenti.
Una prima analisi della bilancia commerciale 31

Un secondo aspetto che inficia la visione di Friedman è la


vischiosità dei prezzi a livello internazionale. Già Dornbusch (1987)
aveva notato come, durante il forte apprezzamento del dollaro nei
primi anni ottanta, i prezzi praticati all’estero aumentassero di meno di
quelli americani. Al contrario, i prezzi dei beni importati negli USA
diminuirono rispetto a quelli interni, ma con una magnitudo di gran
lunga inferiore a quella dettata dalla teoria della PPA. A questo
proposito Engel (1993) ha confrontato la variabilità dei prezzi relativi
dei paesi G7 dal 1973 al 1990 con il prezzo relativo dello stesso
prodotto in più nazioni. La sua conclusione è inequivocabile: la
varianza nei singoli paesi è quasi sempre inferiore a quella
internazionale con l’eccezione di alcuni beni primari e commodities
relative al settore energetico.
Il problema del pass through è stato analizzato dapprima da
Magee (1973) e ripreso successivamente da un ampia letteratura
(Bhagawati, 1991). Una giustificazione teorica alla debole
correlazione tra prezzi interni, esteri e tasso di cambio è stata fornita
dalla New Trade Theory, che mostra come le variazioni del tasso di
cambio si riverberano solo parzialmente nei diversi paesi a causa delle
particolari strategie di prezzo adottate dalle imprese multinazionali. In
un mercato in concorrenza monopolistica prezzi e quantità sono
abbastanza stabili, anche in presenza di forti shock esogeni. Con
alcune ipotesi particolare si è pure dimostrato come la variazione del
prezzo nel mercato estero non può essere mai superiore al 50% della
variazione del tasso di cambio. Inoltre, è fondamentale sapere se le
fluttuazioni del cambio sono permanenti o transitorie. Solo nel primo
caso ci sarà una trasmissione degli impulsi, sempre che i costi
connessi ai cambiamenti del listino non siano eccessivi. Altrimenti
l’impresa multinazionale utilizzerà il mark up per stabilizzare i prezzi
praticati all’estero rendendo nullo il pass through. Un ultimo aspetto
che abbiamo considerato riguarda il numero di imprese che operano
nel mercato. Basandoci su un semplice modello lineare, abbiamo
dimostrato che esiste una relazione crescente tra tasso di cambio e
profitto se l’impresa modifica prezzi e quantità. La presenza di profitti
potrebbe invogliare potenziali concorrenti, che però sono frenati dalla
presenza di costi specifici legati all’entrata nel nuovo mercato. Ma, se
il deprezzamento è sufficientemente ampio, le imprese multinazionali
romperanno gli indugi e stabiliranno una rete di vendita all’estero. Ciò
32 Una prima analisi della bilancia commerciale

dimostra che esiste un intervallo di tassi di cambio in cui le


fluttuazioni non cambiano la struttura di mercato, con prezzi e
quantità stabili. Solo se le fluttuazioni sono ampie e persistenti si può
modificare il grado di concorrenza ed il valore dei flussi commerciali
nei mercati internazionali.
Un limite di questa analisi è che non considera l’interazione
strategica tra incumbent e potenziali entranti. Infatti, il primo sa che
una variazione eccessiva del tasso di cambio può spingere l’entrata di
concorrenti e potrebbe mettere in atto delle azioni di ritorsione in
modo da rendere poco conveniente l’ingresso di nuovi competitors.
Come suggerito da Krugman (1986), un modello oligopolistico
potrebbe fornire degli spunti molto interessanti per comprendere la
relazione tra struttura di mercato e trasmissione degli impulsi
nominali. Si tratta però di un approccio di teoria dei giochi che esula
dagli scopi di questa sezione e, nonostante i significativi esempi e che
sembrano invalidare le condizioni di Marshall Lerner, continueremo
ad assumere che un aumento (riduzione) del tasso di cambio migliori
(peggiori) le partite correnti.
Una prima analisi della bilancia commerciale 33

Magee, 1973,
Rose e Yellen, 1989,
Marwah e Klein 1996,
Bahami-Oskooee
Goswami, 2003
Backus et al., 1994,
Senhadij, 1998).
Krugman (1986)
Krugman (1991)
Dunaway, 1988,
Gylfason e Radetzki, 1991).
Gylfason (1987)
Hooper et al. (2000)
Goldstein e Kahn (1985)
Hooper e Marquez (1995)
Reinhart (1995)
Campa e Goldberg (2004)
Marazzi e Sheets (2006)
Campa, Goldberg e Mìinguez, 2006
Campa et al., 2005).
Olivei (2002)
De Grauwe (1997)
Mankiw (1985)
Baldwin (1988)
Dixit (1989)
Marshall (1923),
Lerner (1944)
Haberger (1949)
Friedman (1953)
Magee (1973)
Backus et al., 1994,
Senhadij, 1998)
Dornbusch (1987)
Engel (1993)

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