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La pienezza creativa nel silenzio:

l’oriente di Arvo Pärt


In Compositori by Lorenzo Pompeo20 febbraio 20171 Comment
Parlare oggi di Arvo Pärt significa parlare di un fenomeno musicale dalla vastissima portata
d’interesse che, allo stesso tempo, non ha trovato ancora un’ altrettanto vasta e compiuta
discussione teorica, la quale si riduce a pochi testi specifici e, principalmente, molte interviste
dove lo stesso Pärt spesso si trova in difficoltà a dare definizioni o spiegazioni. Nondimeno, Pärt
è così minuzioso nella ricerca compositiva che arrestarsi ad un giudizio di ineffabilità sia per quanto
riguarda le sue composizioni, sia per ciò che concerne loro possibili fonti musicali, teoriche o
filosofico – religiose sarebbe sbagliato ed estremamente fuorviante.
Il tentativo, dunque, di rintracciare influenze della cultura slavo – bizantina e, più specificatamente,
cristiana – ortodossa nella sua musica e nel suo stile tintinnabuli sarà vano se non sarà
accompagnato dall’opportuno apparato storico – critico. A tal scopo potrà tornare utile porre alcune
considerazioni preliminari: innanzitutto, le fonti musicali cui Pärt fa riferimento sono
essenzialmente radicate in Occidente, in primo luogo il canto gregoriano e la polifonia antica;
influssi della musica dell’est–Europa risultano molto limitati e tardi, ad esempio nel Kanon
Pokajanen. Ciò che invece è fondamentale analizzare è come la declinazione filosofica e religiosa
di questa tradizione si sia condensata nella sua musica al punto di diventare uno dei motivi portanti
dell’estetica dei tintinnabuli.
Senza prendere in considerazione questo contributo è impossibile approcciarsi ad un serio e
rigoroso tentativo di comprensione delle opere di Pärt; è lo stesso compositore estone ad affermare
che se la sua educazione musicale è stata occidentale, quella spirituale è stata orientale.

“Fuge”: la fecondità del deserto


La biografia di Arvo Pärt è nota: dopo anni di sperimentazione di tecniche d’avanguardia tratte
dalla dodecafonia conditi anche da un grande successo che trovò l’apice nel 1968 col Credo, si ritira
fino al 1976, insoddisfatto e inaridito dalla musica che aveva prodotto fino a quel momento e si
mette alla ricerca di una musica la cui essenza valichi il confine di una presunta contemporaneità
verso una dimensione eterna. Tuttavia, la valenza della fuga si svincola da una pura valutazione
sulla sua produzione musicale e si orienta verso un esito soteriologico, verso la ricerca della
salvezza dell’anima: purificarsi, potare se stesso del negativo “di più” che oltre alla sua musica
incatenava la sua stessa persona.
“Fuggi”, esattamente con questo scopo, fu il primo dei comandamenti impartiti, secondo i
racconti, da Cristo a Sant’Arsenio il Grande, monaco ed eremita vissuto tra quarto e quinto
secolo, alla sua richiesta di pace e salvezza poiché fuggire il mondo, fuggire dal mondo per
non soffocare nel suo caos e nel peccato è il primo passo, usando le parole di Sant’Agostino,
per “ritornare in sé stessi” e recuperare la “memoria di sé” che è “memoria di Dio”.
Primariamente è sicuramente fuggire “da” e fuggire “qualcosa”, come si è detto, e Pärt, oltre alla
volontà di allontanarsi dalla dodecafonia, si sente spinto alla fuga da una profonda coscienza della
sua condizione di peccatore. Molte sue composizioni, infatti, sono improntate ad una traduzione
sonora del senso del peccato e la sua espiazione ad opera della grazia dopo il pentimento e la
penitenza come il Miserere, ad esempio, tratto dal salmo 50 “il salmo del pentimento”, come
sottolinea egli stesso, oppure il Kanon Pokajanen, “canone di penitenza”.
Ancor più significativa è la trasposizione del significato del Peccato all’origine stessa delle
condizioni strutturali dello stile tintinnabuli, fondato su due linee distinte dove le voci della prima
sono melodie basate su frammenti di scale e le voci tintinnabuli che si formano con le note di una
triade, un’immagine che egli stesso esemplifica così: «Le mie melodie sono peccati, le
voci tintinnambuli il perdono dei peccati». Sicché non è casuale che si sia intravisto nella struttura
triadica della voce “oggettiva” dei tintinnabuli una dialettica tra le Persone della trinità tese a
“protezione” della soggettiva melodia dell’uomo che si distende nelle sue voci. Il modo in cui Pärt
intende il Peccato non dovrebbe essere molto distante da come lo descrive Pavel Florenskij, filosofo
russo vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900 (che non possiamo escludere affatto sia stato conosciuto e
apprezzato dal compositore estone), ossia come «momento del disordine, della decomposizione e
della rovina della vita spirituale. L’anima perde la propria unità sostanziale, la coscienza della
propria natura creatrice e si perde nella bufera caotica dei suoi stessi umori, cessando di esserne la
sostanza e l’essenza».

«Le mie melodie sono


peccati, le voci
tintinnambuli il perdono
dei peccati».
Questa risonanza del tema della caduta e della “disumanizzazione” operata dal peccato riporta alla
mente anche i personaggi di Dostoevskij e Tolstoj ed è un elemento fecondo della cultura ortodossa.
Il Peccato è una malattia dell’essere che necessita della cura che si trova rimettendosi sulla strada di
Dio, riaccendendo il contatto in vista di un infinito progresso spirituale in Lui, come sosteneva San
Gregorio di Nissa. Allora quella fuga non si caratterizza univocamente come fuga dal mondo e
tentativo di fuggire il peccato, ma anche come un “fuggire verso”, fuggire unificato verso l’unico
Uno.
La ricerca di quest’Uno è l’obiettivo verso cui Pärt si protende e che esplicitamente dichiara quando
sostiene che «il molto e il molteplice mi disturbano soltanto; devo cercare l’Uno. Cos’è questo Uno
e come posso trovare la strada che mi conduce a esso? Esistono molte manifestazioni di pienezza,
l’inutile decade». Se ci ponessimo domande sul luogo, la modalità, il linguaggio in cui porsi in
osservazione dell’Uno secondo Arvo Pärt, un’embrionale risposta potrebbe abbastanza
compiutamente essere trovata in un tratto tipico della sua musica: il silenzio.

“Tace”: le voci del silenzio


L’immediata conseguenza della fuga è l’incontro col silenzio e la sua pratica e “Taci” fu la
seconda esortazione che udì Arsenio, così come fu il secondo imperativo che Arvo Pärt udì
dentro di sé nel suo “deserto creativo”; tacere il caos delle seriali formule dodecafoniche e
ripulire l’orecchio dalla tradizione per ritrovare la spontaneità.
Trascorre anni a comporre melodie a una voce mentre osserva la natura e le montagne e, soprattutto,
mentre si dedica a leggere salmi, come se cercasse l’impronta sonora dell’Uno rivelato nella sua
creazione e nella sua parola, che diventa la materia da cui Pärt costruirà molto del suo edificio
sonoro. Cos’è questo silenzio? Non è assenza di suono, non è il silenzio della meditazione che trova
vuoto e incolore, né una statica dimensione di quiete e determinare il suo significato nella poetica
dei tintinnabuli è fondamentale.
Il silenzio che gli anacoreti e Pärt cercano nei loro deserti è un luogo. Contrariamente a quanto
si possa pensare, il silenzio degli asceti orientali, degli esicasti, non è il risultato di un movimento
ascendente verso il “cielo” ma piuttosto di una discesa in se stessi, verso il luogo dell’anima e del
corpo, che formano un’entità unita e trasfigurata, in cui trovare Dio. La via con cui il credente ha la
possibilità di avvicinarsi a Dio è la preghiera e qui, a leggere le parole di Arvo Pärt, si potrebbe
restare sorpresi perché sembrerebbe che lui invece si schernisca di fronte a una possibilità di
raggiungere questo stato più profondo attraverso essa: «Non so cosa sia la preghiera. Io non mi
rivolgo a nessuno in particolare. Voglio comunicare con un’entità che è anche divina». L’entità che
è anche divina è proprio il microcosmo dell’uomo, perché è nel cuore che cercano gli esicasti con la
nota “preghiera del cuore” il luogo dove l’uomo si scopre creatura a immagine e somiglianza del
Verbo divino, raggiunto faticosamente attraverso la preghiera infinita. Ma come si possono trovare
assonanze quando egli stesso sostiene di non sapere cosa sia la preghiera? Bisogna comprendere
cosa intenda realmente e per farlo bisogna chiarire che probabilmente si tratta di una provocazione
in cui Pärt fa riferimento ad una pratica che effettivamente, per lui, come “preghiera” non ha alcun
significato: la preghiera che si è soliti raffigurarsi in cui il credente si rivolge a Dio “parlandogli”
non è la preghiera che Pärt considera tale e che lo condurrà a quel silenzio-luogo dove incontrare
l’Uno. La preghiera è essenzialmente ascolto, disporsi all’ascolto del Dio vivente dentro
l’uomo che aiuta a discendere in quel sottosuolo di silenzio guidati dalla voce divina e a
resistere dall’ascoltare pensieri che allontanerebbero dalla ricerca. Questa discesa guidata
dall’ascolto dell’Uno che risuona nell’uomo interiore acquista un ruolo fondamentale
nei tintinnambuli perché questi pensieri che si desiste dall’ascoltare si esprimono in note, polifonie
complesse ma anche memorie della tradizione e diventano ostacoli verso la semplicità dell’unitario.
Si comprende cosa abbia mosso Pärt ad interessarsi alla monodia e cosa intenda quando dice di aver
scoperto che «basta suonare bene una sola nota»: la nota è l’elemento più semplice della musica e
deve essere espressa in tutta la sua sonorità, non si possono eseguire le note secondo il proprio gusto
ed è necessario dare a ciascuna ogni frammento della sua singolare vita musicale.

«Non so cosa sia la


preghiera. Io non mi
rivolgo a nessuno in
particolare. Voglio
comunicare con
un’entità che è anche
divina»
In questo silenzio la parola e, in particolare, la parola delle scritture di cui Pärt scandaglia la
dimensione sonora, acquistano tutta la loro dignità e si dispongono ad essere ascoltate nella loro
voce nascosta. Prova a raggiungere il silenzio-luogo e si immerge nelle parole perché la musica che
ne nasca diventi un’eco del Fiat della creazione, musicandone sillaba per sillaba con singole note,
donando importanza a tutti i singoli punti, virgole o accenti. Allo stesso tempo, mantiene la distanza
dal testo per non auto-ingannarsi, mentre è alla ricerca di un “salmodiare totalmente
oggettivo”, componendo musica aderente al testo, invece di coglierne la struttura profonda ed
estrarne la musica che si manifesta in essa.
L’unità che si ricompone nel silenzio del microcosmo, il luogo dove 1+1 dà come risultato 1
secondo Pärt, è quella tra il Sé e l’Altro che è Dio ma anche il prossimo e questo processo di
ricomposizione del complesso verso il semplice ha una precisa traduzione musicale, seppur molto
complessa da rintracciare nei singoli componimenti e nelle loro trame strutturali. Si intravede,
silenziosa, l’essenza di questa unità teologico–musicale nelle voci della melodia che si sviluppano
attorno ad una nota di riferimento procedendo per gradi congiunti, come se rappresentassero il
prossimo cui conferire altrettanta importanza di quanta sia stata accordata alla nota iniziale, in un
rapporto che Marcello La Matina, in un illuminante studio su Pärt, considererà di vera e
propria Xenodokhia, l’ospitalità dell’Altro “straniero” come relazione che permette l’identificazione
del Sé mediante l’Altro; oppure nella voce tintinnabuli, triadica eco del divino che segue e regola la
libera melodia e i suoi movimenti con molte meno note, senza tuttavia che nessuna delle due linee
perda indipendenza.
Le antinomie tra unità e molteplicità, staticità e dinamicità, oggettività e soggettività
costituiscono un’articolazione intrinseca alla logica della composizione e della Verità stessa e
così accade anche con Dio che, evidenzia Florenskij, dotato di unica sostanza ma allo stesso
tempo triipostatico, è “Triunità”, così come sembrerebbe evocare la voce tintinnabuli.
Una volta trovato il silenzio e la possibilità di cogliere l’Uno, ad Arvo Pärt resta solo da porsi nello
stato adatto per concedere a se stesso la possibilità creativa e realizzarla lungo la strada da lui
ricercata: una musica siffatta necessita della quiete.

“Quiesce”: l’icona che risuona nella


musica
La quiete non fu un dono o un risultato, ma l’ultimo ordine impartito ad Arsenio, riportato con il
termine“Quiesce”, letteralmente “entra nella quiete”, similarmente alla condizione in cui si trovò
Arvo Pärt una volta riuscito a trovare il sentiero che lo conduceva alla semplicità dell’unitario. Non
si pensi ad una mistica quiete tutta spirituale, poiché la valenza della corporeità è fondamentale e lo
stesso Pärt, in un intervista a Jordi Savall riportata nel libro “Arvo Pärt allo specchio” curato da
Enzo Restagno, la descrive come “qualcosa” che va al di là dell’udito per raggiungere direttamente
il corpo. L’uomo, l’artista e il compositore si trovano ora nella quiete, ma ciò che bisogna
comprendere è come si concretizzi ora la possibilità dell’atto creativo e, a tal scopo, è utile porre un
parallelo con l’arte dell’icona che è non solo una peculiarità estetica del mondo ortodosso, ma una
sua fondamentale dimensione teologica.
Arvo Pärt è sicuramente un cultore delle icone, tant’è che spesso nei filmati se ne intravedono alle
sue spalle nella sua casa e non poter portarne con sé che una sola fu probabilmente tra i principali
dispiaceri che provò quando si trovò obbligato a fuggire verso Vienna dall’Estonia. Inoltre, il
legame con l’arte iconica è esplicitamente rivenuto dal suo biografo Paul Hillier che definì le
composizioni di Pärt come “sounding icons” e ancor più incisivamente da Alex Ross che in “Il
resto è rumore” sostiene che «in Pärt tutto è icona».
La pittura di icone nasce, prima di ogni cosa, dalla trasfigurazione del ruolo dell’artista che non è
più creatore e l’icona non è sua “opera”, ma per comprendere debitamente questo concetto bisogna
dimenticarsi di tutta l’estetica occidentale del bello e del genio che ebbe culmine nella “Critica del
Giudizio” di Kant. L’icona è una porta dove si incontrano lo sguardo di Dio e quello dell’uomo che
viene reso egli stesso icona, cosicché l’icona è il Santo, non una sua raffigurazione, ed è allo stesso
tempo l’artista, in unità da sempre esistente e infinita nella sua esistenza: lo sguardo non è più
quello fruitore verso l’opera, ma quello scambiato tra creatura e creatore nello spazio del silenzio.
Non contano artifici complessi o stilemi nuovi, anzi, essi sono quanto più vi sia di deleterio nella
composizione di icone che si fondano sull’infinita riproposizione di certi stilemi.

“in Pärt tutto è icona”


Alex Ross
Arvo Pärt sceglie di lasciarsi trasfigurare nel silenzio-luogo, non è più artista che può disporre
dei suoni come meglio crede e, invece di liberare un prodotto creativo, è chiamato ad
un’attività di “estrazione” dei suoni dal silenzio, che è la porta dove Dio, la musica e l’uomo
formano l’Uno: quello che nell’icona è lo sguardo di Dio che interseca quello umano,
nei tintinnabuli è la voce divina che risuona nel microcosmo sonoro dell’uomo fondendosi nel canto
che esso produce e, a tal fine, è essenziale la riduzione del materiale e la riproposizione di musica
prodotta ruotando attorno agli stilemi “ascoltati”, allo stesso modo del pittore di icone col
figurativo. La musica emerge dal silenzio e nel silenzio ritorna come se vi si estinguesse, come
accade ad esempio nel Cantus in memoria di Benjamin Britten, nel Magnificat e in gran parte delle
sue composizioni, trasfigurata dalla vocazione verso una “melodia infinita”. Si assiste, ancora
secondo La Matina, ad una sorta di “estroflessione del suono” che cerca di superare i confini dello
spazio e del tempo compositivo come la raffigurazione iconica nella sua “prospettiva
rovesciata”(come la definisce Florenskij): nell’icona la visione prospettica è rovesciata perché la
prospettiva di Dio è sempre, e in ogni luogo, così il suono di Part, nel suo tentativo di oggettivarsi,
cerca di estendersi oltre i confini dell’inizio e della fine del brano per risuonare eternamente in ogni
tempo e in tutto l’eterno silenzio-luogo, diventando esso stesso il tempo della creazione,
del Fiat ancora in atto.
Lorenzo Pompeo

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